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Una storia di magia, amore e crescita personale, che ci riporta alle atmosfere dei
romanzi di Jane Austen e di Diana Wynne Jones.
L’autrice
Fiore Manni (Roma, 1988) ha pubblicato con Rizzoli Jack Bennet e la chiave di tutte
le cose, Jack Bennet e il viaggiatore dai mille volti, Come le cicale e Amore, sesso e
altre cose così. È coautrice del graphic novel Mask’d, edito da Star Comics.
Fiore Manni
IL RE DELLE VOLPI
A Michele, l’amore della mia vita
Un giorno sarai grande abbastanza da ricominciare a leggere le favole.
C.S. Lewis
Prologo
Quando Marian si svegliò, quella mattina del 4 ottobre 1899, capì che la sua
data di scadenza era arrivata.
Aveva sempre saputo che sarebbe coincisa con il giorno del suo
compleanno. Non si trattava di uno insignificante come potevano essere
quelli dei nove o dei tredici anni: oggi Marian compiva diciotto anni e
sapeva cosa la aspettava. Dopotutto le sue sorelle ci erano già passate
entrambe, e sua madre, da due mesi a questa parte, non parlava d’altro. Non
c’era stato un singolo pasto, una singola passeggiata, una singola seduta di
ricamo o di lettura pomeridiana in cui la signora Crawford non avesse finito
per parlare – in maniera del tutto casuale o dirottando con prepotenza la
conversazione – di matrimonio.
All’inizio si era trattato solo di qualche accenno, come una battuta sui
ricami del corredo nuziale, ma ben presto la situazione le era sfuggita di
mano e aveva perso ogni filtro.
“La figlia minore dei Dewar ha ricevuto una proposta di matrimonio
proprio ieri l’altro. Non è elettrizzante, Marian cara?” le aveva sussurrato
impunemente tra finti singhiozzi durante il funerale del signor Stewart, il
loro vicino di casa, levando dal viso il fazzoletto e fissandola con occhi
perfettamente asciutti.
“Abbiamo ricevuto l’invito per le nozze della figlia minore dei Glover.
Se non sbaglio ha un anno meno di te, Marian cara, non è così?” le aveva
chiesto mentre imboccava la vecchia zia Crawford, lo sguardo
pericolosamente infervorato.
Marian rimaneva in silenzio, annuendo appena o abbozzando timidi
sorrisi.
Sia chiaro, non è che lei non avesse pensato al matrimonio. Insomma,
quale ragazza inglese di buona famiglia e con un po’ di sale in zucca non ci
aveva fantasticato almeno una volta durante la propria infanzia? I fiori,
l’abito bianco ricoperto di pizzi, ricami e merletti, il velo lungo quattro, o
meglio ancora, cinque metri, che avrebbe fatto inciampare i paggetti, le
damigelle e l’esercito di parenti e conoscenti durante il ricevimento…
Margaret ed Elizabeth, che secondo la signora Crawford erano
decisamente più assennate di Marian, avevano delle fantasticherie a
riguardo molto precise. All’età di otto e dieci anni avevano già pensato a
ogni dettaglio, compreso il numero di colombe bianche che sarebbe uscito
dalla torta nuziale al momento del taglio (rispettivamente cento e
centoventi, perché “crepi l’avarizia”). Quando arrivava il turno della piccola
Marian, di soli sei anni, di condividere i propri progetti per il giorno più
felice della sua vita, lei rimaneva penosamente in silenzio, non sapendo mai
cosa dire.
Dodici anni dopo la situazione era rimasta la stessa. Il fatto è che ogni
volta che ci pensava, un senso di vuoto e di inadeguatezza la assaliva, le
parole le fuggivano di bocca e una morsa le stringeva lo stomaco.
Sin da piccola le era stato ben chiaro che lei non era come Margaret e
non era come Elizabeth. Anzi, non poteva essere più diversa dalle sue
sorelle. Margaret ed Elizabeth sembravano risplendere di luce propria,
animate da un’eleganza innata, e ovunque andassero riuscivano sempre a
catturare l’attenzione dei giovani uomini presenti. Erano le più simpatiche,
le più chiacchierate, le più amate e sempre, sempre le più belle. Marian
invece era così… Marian. Pallida, gli occhi indecisi tra l’essere grigi o
azzurri, ma senza dubbio acquosi come se fossero sul punto di sciogliersi in
lacrime, i capelli color paglia e la totale incapacità di dire la parola giusta al
momento giusto. Si lasciava intimidire da tutto e da tutti, e la sua specialità
era piuttosto quella di rendersi invisibile al resto del mondo, e di trovare
sempre un luogo tranquillo dove potersi rifugiare a leggere.
Man mano che Marian cresceva, e che la pila di libri letti aumentava, si
rendeva sempre più conto che il lieto fine riservato alle protagoniste dei
suoi romanzi, che immancabilmente finivano per sposarsi per amore, era
invece negato alle sorelle Crawford.
L’incognita che la impensieriva di più, tra le mille insidie del
matrimonio, era sapere di dover condividere il resto della vita con un
estraneo, qualcuno scelto accuratamente dai suoi genitori, proprio come era
successo prima a Elizabeth e poi a Margaret.
Alle sue sorelle la questione non pesava affatto, anzi, avevano accettato
con gioia i partiti che la madre aveva selezionato tra una sfilza di
pretendenti facoltosi. Dai due matrimoni era già passato qualche anno, e
ogni volta che le sorelle andavano a trovare Marian non sembrava che il
tempo avesse fatto cambiare loro idea. Al contrario, sfoggiavano radiose i
regali con cui i loro ricchi mariti si prodigavano a comprarle. Mostravano
alla sorella gli abiti all’ultima moda, le spille di giada cinesi, i cappellini
ricchi di piume di uccelli esotici e i nastri di finissima seta intrecciati tra i
capelli. E poi ancora parasole, anelli, collane, profumi, fotografie, dolcetti
francesi, talmente tanta roba inutile che a Marian finiva sempre per girare la
testa. Non parlavano d’altro che dei viaggi che facevano, delle persone
importanti che incontravano, convinte entrambe di aver sposato lo scapolo
più influente della città. Finivano poi per discutere con le guance arrossate,
competitive fino all’osso. E mentre le acconciature si disfacevano e svariate
piume venivano perse dai cappellini, Marian rimaneva tranquilla a
sorseggiare il suo tè, cercando di riportare la pace. Si complimentava
sempre con entrambe, dicendo loro quanto erano state fortunate a trovare
due uomini così gentili, che si prendevano cura di loro e dei loro
innumerevoli e costosissimi bisogni. Le sorelle allora si calmavano e,
ritrovata l’intesa, dirottavano le loro attenzioni su di lei, punzecchiandola.
“Vedrai, Marian, quando ti sposerai anche tu!”
“Scoprirai quanto è bello essere sposata!”
“…e le soddisfazioni che si hanno quando si è la moglie di un uomo di
successo!”
“Potrai sfoggiare abiti bellissimi.”
“E poi, finalmente, potrai avere dei bambini. La tua vita allora sì che sarà
completa.”
Marian finiva per sprofondare nella poltrona, la tazzina di tè
abbandonata in grembo e lo sguardo perso nel vuoto.
“Non lo so… e se le cose non dovessero funzionare? E se il mio futuro
marito mi stesse antipatico? Se avesse l’alito pesante?” aveva provato a dire
una volta.
Margaret ed Elizabeth si erano scambiate uno sguardo sconcertato,
sollevando le sopracciglia perfette. Poi erano scoppiate a ridere all’unisono,
facendo piovere goccioline di tè sul tappeto.
“Be’, cara, non ci pensare, ricordati l’unica cosa fondamentale…”
“Esatto, Marian cara, l’unica cosa davvero importante!”
“Almeno sarai sposata!”
Quando le sorelle tornavano a casa dai rispettivi mariti, lasciavano come
testimonianza della loro visita qualche piuma colorata sul divano e il peso
di mille catastrofiche possibilità che pendevano sul futuro coniugale di
Marian.
Con loro due era tutto filato liscio, ma sapeva in cuor suo che quando
sarebbe toccato a lei, si sarebbe rivelato tutto un enorme, gigantesco,
disastro.
Marian stava ancora indugiando sotto le coperte, assillata da quella
consapevolezza, cercando il coraggio di sgusciare fuori dalle lenzuola e
affrontare quella giornata. Si sentiva alla stregua di un mollusco.
«Marian? Marian! Sei ancora a letto? Sveglia! Io e tuo padre stiamo già
facendo colazione, pigrona!» Il pugno della signora Crawford si abbatté
contro la porta, facendola tremare.
Marian sentì la madre bofonchiare qualcosa che assomigliava moltissimo
a un “avrà letto di nuovo tutta la notte”, poi i suoi passi pesanti si persero
lungo le scale.
Trovò la forza di alzarsi e si guardò con riluttanza allo specchio.
«Buon compleanno a me.»
Una pallida ragazza di diciotto anni le ricambiò l’occhiata poco
convinta.
Si pettinò con la spazzola d’argento, fissando i capelli in cima alla testa
con le forcine. Anche raccolti, apparivano flosci, tristi e spenti. Niente a che
vedere con quelli di Margaret ed Elizabeth, che sembravano avere una
cascata di fili d’oro rubati alla regina delle fate Titania in persona.
Cercò di sorridere con grazia al suo riflesso ma lasciò subito perdere,
vestendosi e lisciandosi la gonna grigia dell’abito. C’era poco da fare: non
aveva la bellezza appariscente delle sorelle, ed era inutile provare a essere
qualcosa che non era. La signora Crawford lo aveva capito molto prima di
lei e da tempo infatti aveva smesso di regalarle abiti dai colori sgargianti.
Margaret, Elizabeth e la signora Crawford si erano infatti trovate d’accordo
sul fatto che il blu e il rosa non le donavano molto, che il nero faceva
risaltare ancora di più il suo pallore spettrale, che il verde la faceva
sembrare un po’ troppo giallognola, che il bianco la faceva mimetizzare con
l’intonaco delle pareti e che il rosso fosse decisamente troppo audace per
lei.
Marian aveva quindi accettato i loro consigli e aveva optato per il grigio,
e si era trovata a suo agio.
Vestiti grigi per una ragazza grigia.
Si diede un’ultima occhiata allo specchio, poi raggiunse i genitori nella
sala da pranzo. La luce di quella fredda mattina di ottobre rischiarava la
stanza con tutta la sua malinconia. Una leggera pioggerellina picchiettava
contro i vetri delle finestre. Il tempo era coordinato al suo umore.
«Oh, finalmente!» brontolò la signora Crawford alzando per un attimo
gli occhi dal libro dei conti che aveva apparecchiato di fronte a sé.
«Buon compleanno, mia cara» le disse il padre, spuntando da dietro il
giornale e riservandole uno dei suoi rari sorrisi.
«Grazie, papà» gli rispose lei, avvicinandosi per farsi baciare la guancia
dai suoi baffoni impomatati.
«Tieni, Marian, questo è per te.»
Suo padre fece scivolare verso di lei un pacchetto. Aveva tutta l’aria di
essere un libro.
«Non conoscendo né il titolo, né l’autore, temevo che fosse una lettura
troppo impegnativa per una ragazza, ma il libraio mi ha assicurato che
molte lettrici lo hanno apprezzato. Se dovesse essere troppo… inopportuno
per una ragazza però devi promettermi di interrompere la lettura.»
Marian scartò con impazienza il regalo.
Suo padre le regalava spesso libri, per tenerla occupata e per farle
passare il tempo che in ogni caso avrebbe trascorso da sola, ma con
l’augurio che le storie e i pensieri che trovava tra le pagine non le
scuotessero troppo la mente.
«Oh, grazie, papà!» esclamò lei sinceramente commossa.
«Un altro libro?» sospirò la signora Crawford. «James, mio caro, sarebbe
stato più opportuno un vestito nuovo!»
Il signor Crawford si alzò, ripiegando il giornale e mettendoselo sotto
braccio.
«Mie care, buona giornata. Devo recarmi in tribunale.»
«Così presto? Cos’è accaduto? Qualcosa di grave?» chiese la signora
Crawford improvvisamente curiosa, rialzando il naso dai suoi conti. Era a
caccia di pettegolezzi.
«Giudicare e far rispettare le leggi per conto di sua maestà è sempre una
faccenda grave» le rispose solenne il marito.
La signora Crawford alzò gli occhi al cielo, visibilmente delusa per aver
perso l’occasione di poter raccontare qualche vicenda succulenta al tè
pomeridiano con le vicine.
«A questa sera.» Il signor Crawford si toccò con garbo il cappello e uscì.
Marian sperò con tutto il cuore che i conti tenessero la madre impegnata
per il resto della colazione. La signora Crawford, come se le avesse letto nel
pensiero, chiuse platealmente il libro dei conti, si levò dalla punta del naso i
piccoli occhiali e la guardò tronfia.
«Marian, mia cara. Diciotto anni. Che bellezza.»
Marian, non sapendo bene cosa rispondere, mormorò un “eh, sì” che
voleva risultare disinvolto, ma assomigliava terribilmente al “eh, sì, ci
siamo” di un condannato a morte davanti al boia.
La cameriera arrivò con dell’altro tè caldo e lo servì a Marian che,
imburrando con troppa foga il suo panino, rovesciò la zuccheriera. La
madre non disse niente, limitandosi a sospirare.
Quando furono di nuovo sole, si lisciò la gonna perfettamente stirata,
prima di iniziare a parlare. L’orologio a pendolo ticchettava e a Marian
sembrò che la sua ora fosse giunta.
«Credo che sia arrivato il momento di fare un certo discorso» esordì
fissando cautamente la figlia. «E credo anche che tu abbia già intuito
l’argomento di questo mio discorsetto.»
Marian continuò imperterrita a imburrare il panino già imburrato.
La signora Crawford si schiarì la gola e le rivolse un sorriso che voleva
essere smagliante, ma che risultò piuttosto tirato.
«Tuo padre e io abbiamo intenzione di farti conoscere un giovanotto
davvero promettente. È il terzogenito dei Lawrence e ha appena iniziato la
carriera da avvocato. Certo, come terzo figlio non erediterà la fortuna di
famiglia, ma avrà sicuramente un’ottima rendita annuale, senza contare poi
le sue entrate da avvocato. In più vi capirete alla perfezione, siete
terzogeniti entrambi, sapete già come vanno queste cose.»
Fece una pausa a effetto, trattenendo il respiro e aspettando una reazione
– una qualsiasi reazione – da parte della figlia.
Marian rimase in silenzio, il coltello pieno di burro fermo a mezz’aria.
La madre allora tornò alla carica: «Vedi, Marian cara, io e tuo padre
abbiamo fatto un po’ di conti, abbiamo ragionato a lungo e… be’, è inutile
illudersi, essendo tu la terza figlia non potrai godere di una gran dote. Non
dico che sia misera, no, certo che no, eppure sarà sicuramente modesta
rispetto a quella delle tue sorelle, ma va bene così. Insomma, ai Lawrence
va bene. Dopotutto tuo padre e il giudice Lawrence si conoscono da così
tanti anni! E la signora Lawrence è una donna deliziosa. Devi ringraziare
quel buon uomo di tuo padre, che ha reso l’idea di unire le nostre famiglie
così invitante! Al giudice va bene così, chiuderà un occhio sulla tua dote.
Ora non resta altro che farvi incontrare e poi iniziare con i preparativi.
Vedrai, tu e il giovane Lawrence andrete d’amore e d’accordo, sarete
perfetti insieme!».
Marian tenne ostinatamente gli occhi fissi sul pane, il coltello stretto in
pugno, le nocche diventate bianche.
La madre sbuffò.
«Marian, non dici niente? Non sei contenta? Non sei curiosa di
conoscerlo? Sapevo che aspettarmi riconoscenza ed entusiasmo da parte tua
era troppo, ma almeno un “grazie, mamma” penso di meritarmelo! Ho
organizzato il tutto in maniera così brillante e perfetta! Ti assicuro, cara
mia, che se avessi collaborato un pochino di più, aiutandomi in qualche
modo… non so, anche solo mostrandoti più socievole di un topolino
sorpreso dal gatto in dispensa, avrei forse potuto combinare qualcosa di
meglio, ma con quello che avevo ho ottenuto un risultato sorprendente!»
Marian sarebbe stata grata alla madre nella stessa misura se le avesse
legato un macigno al collo e l’avesse buttata nell’acqua alta.
La cameriera arrivò per sparecchiare la tavola. La signora Crawford
continuò a tenere sott’occhio la figlia, pronta a cogliere anche solo un
piccolo lampo di vita nei suoi occhi, il movimento di un sopracciglio o uno
spasmo all’angolo della bocca. Qualsiasi cosa.
Marian alzò la testa e, con uno sforzo sovraumano, sorrise.
«Grazie, mamma.»
La madre la studiò con lo stesso cipiglio di un ispettore di polizia. Poi
annuì, soddisfatta.
«Vedrai, mia cara. Andrà tutto bene. Il giovane Lawrence è un
giovanotto degno di stima e rispetto. Sarete molto felici insieme. Ora…» Si
alzò, portandosi al petto le carte e il libro dei conti. «Tra poco arriveranno le
tue sorelle. Ti porteranno a scegliere qualche vestito nuovo. Siamo stati
invitati nella villa di famiglia dei Lawrence tra un paio di settimane e vorrei
che ti mostrassi al meglio. Sarebbe bellissimo se l’invito venisse rinnovato
anche per Natale e per la vigilia di Capodanno… Pensa che meraviglia
iniziare il nuovo secolo al fianco del tuo futuro marito! Non sarebbe
eccitante?» La signora Crawford era già persa nelle sue fantasticherie.
Lanciò un’altra occhiata pensierosa alla figlia. «Compra anche qualcosa per
i capelli, già che ci sei, e per una volta non badiamo a spese: scegli ciò che
più ti piace. Dovrai essere radiosa, bellissima!»
Poi le rivolse il più affabile dei sorrisi e lasciò la sala da pranzo,
canticchiando soddisfatta. Tutto procedeva secondo i suoi piani.
Un cappellino nuovo avrebbe sicuramente salvato l’aspetto scialbo della
figlia.
3
Marian cercò di vedere il lato positivo della cosa: visto che era stata
costretta a uscire a fare compere “senza badare a spese”, avrebbe potuto
infilare, tra un cappellino e una sottoveste, anche qualche libro senza che
sua madre ci facesse caso.
Le sorelle la scortavano come due secondini, Margaret sottobraccio a
sinistra, Elizabeth a destra.
Durante tutto il tragitto fino a Trafalgar Square l’avevano sommersa di
domande.
Marian aveva cercato di spiegare che la madre non si era prodigata in
troppi dettagli riguardo il lieto annuncio, ma le sorelle non si erano lasciate
scoraggiare.
«Sapevo che la mamma era al lavoro! Che bellezza, Marian, tutte noi
sorelle maritate. Non ti sentirai più esclusa» cinguettò Margaret,
stringendola a sé.
«Che gioia, sorellina cara, non sarai più costretta a stare in quella
vecchia casa per sempre. Ne avrai una tutta tua, che potrai gestire a tuo
piacimento. Una bella casa di cui ti dovrai prendere cura, di cui sarai la
regina indiscussa!» Elizabeth le strinse l’altro braccio, sorridendole felice.
«Pensavo che…» provò a dire Marian.
«Cosa?» chiesero all’unisono le sorelle.
«Be’, pensavo che ci fosse anche altro nella vita.»
Margaret ed Elizabeth la guardarono senza capire.
«Altro? Che genere di altro?»
Marian alzò le spalle. «Altro oltre al matrimonio. Penso di essere ancora
troppo giovane per sposarmi, ho fatto e visto così poco!»
Le sorelle si scambiarono un’occhiata intenerita, poi risero e la
ricoprirono di baci.
«Non mi dire che sei spaventata!»
«Com’è dolce la nostra Marian! Non devi avere paura!»
«Marian cara, andrà tutto bene. Dopotutto avevo la tua età quando
mamma e papà mi hanno presentato il mio futuro marito, e tutto è filato una
meraviglia» la rassicurò Margaret.
Marian ricambiò i loro sorrisi, seguendole nel negozio di abbigliamento
con lo stesso brioso passo di un condannato a morte che sale sul patibolo.
Le sorelle Crawford tornarono verso casa a fine giornata, piene di pacchi
e pacchetti e con grandi novità da raccontare alla madre.
Mentre Margaret ed Elizabeth si perdevano in un’accurata descrizione di
tutti i cappellini e le borsette presenti in negozio, Marian nascose sotto al
cuscino del divano il suo acquisto extra. Se sua madre avesse notato il libro,
avrebbe sicuramente storto il naso. La signora Crawford era convita che
fosse proprio colpa di tutti quei romanzi se Marian aveva sempre la testa tra
le nuvole.
Riuscì a sopravvivere a un’intensa discussione su bustini con stecche di
balena e mutandoni, solo grazie al pacchetto nascosto sotto di lei,
fantasticando sugli intarsi dorati della copertina e immaginando il profumo
che avrebbero avuto le pagine nuove quando lo avrebbe finalmente
sfogliato quella sera.
«Ebbene, Marian, posso vedere cosa hai trovato alla fine?» La signora
Crawford le picchiettò un ginocchio, incoraggiandola.
Marian le porse i pacchi, lasciando alle sorelle il compito di illustrare gli
acquisti.
Sebbene la maggior parte dei colori le fossero vietati per le ragioni già
dette, quel giorno le sorelle avevano insistito nel farle prendere due abiti
azzurri, uno da giorno e uno da sera.
«Con questo colore non avrai più quell’aria malaticcia, Marian cara.
Certo, dovrai comunque metterti qualcosa sulle guance per avere un’aria un
po’ più sana…» disse Elizabeth poggiandole su una spalla l’abito dal taglio
severo.
«Dopotutto con i suoi bei occhi blu cosa c’è di meglio di un abito
azzurro?» trillò Margaret, incoraggiante.
«Potremmo raccoglierti i capelli… o potremmo arricciarli con il ferro!
Sono di un biondo così delicato.» Elizabeth glieli accarezzò dolcemente,
posandovi sopra una grandissima quantità di nastri e spille nuovi di zecca.
Marian si sentì all’improvviso tremendamente in colpa.
Doveva esserci qualcosa di sbagliato in lei, perché per quanto si
sforzasse, era del tutto incapace di apprezzare la felicità che le sorelle
provavano nei suoi confronti e gli sforzi con cui sua madre si era prodigata
per assicurarle la più felice delle felicità.
Cercò allora di fare del suo meglio, ringraziandole e dicendo loro quanto
fosse emozionata all’idea di incontrare il suo futuro marito. Una lacrima
traditrice le scivolò lungo la guancia, ma venne scambiata per emozione e
tutte le signore sorrisero soddisfatte.
Una volpe!
Marian non poteva credere alla sua fortuna. Non ne aveva mai vista una
dal vivo, così da vicino poi! Si guardò attorno, alla ricerca di qualcuno con
cui condividere il suo entusiasmo, quando si ricordò di essere sola. Proprio
in quel momento, quello stupido di Carl Lawrence si stava preparando
insieme agli altri per la caccia.
«Oh, accidenti!» esclamò desolata la ragazza andando dietro alla volpe e
addentrandosi nel bosco.
La trovò quasi subito, immobile e attenta tra gli arbusti. Dopo un attimo
di esitazione, l’animale mosse qualche passo incerto e Marian si rese conto
che aveva una zampa ferita. Se Carl e gli altri l’avessero sorpresa in quelle
condizioni, la signora Lawrence avrebbe sicuramente sfoggiato un nuovo
collo di pelliccia per Natale.
«Scappa, se non vuoi finire stecchita al collo di una vecchia arpia!»
sussurrò Marian, agitando le braccia e sbattendo forte i piedi, cercando di
metterla in fuga. Forse, se la volpe avesse corso abbastanza, avrebbe potuto
salvarsi nascondendosi nel folto del bosco…
«Che cosa?! Stecchita?» sbottò la volpe sbalordita. «Ma si può sapere
che problemi ha la gente di questo posto? Non posso fare un passo che
subito cercano tutti di farmi fuori!»
Marian strabuzzò gli occhi dalla sorpresa. Era completamente impazzita
o… la volpe le aveva parlato? No, non stava sognando, l’aveva appena fatto
con una vocina acuta e squillante, simile a quella di un ragazzino!
La volpe iniziò ad avvicinarsi, cauta.
Marian indietreggiò, in preda alla confusione, e inciampò in una radice
finendo a gambe all’aria.
«Accidenti, stai bene?» chiese la volpe preoccupata.
Marian si tirò su sui gomiti e la fissò sbalordita. Poi iniziò a guardarsi
nervosamente intorno, scrutando tra gli arbusti.
«Chi… chi c’è qui? Esci fuori! Non è divertente! Non sta bene prendere
in giro una signorina in questo modo e fare certi scherzi!»
«Cosa? Mi vedi benissimo, ci sono solo io qui!» esclamò la volpe con
voce squillante avvicinandosi ancora di più.
«Io… chi?»
«Io, Macbeth!» La volpe agitò curiosa la coda. «Stai bene?»
«F-fermo lì, spirito!» gemette Marian sempre più pallida.
Gli occhi dorati della volpe si illuminarono di sorpresa. «Come fai a
sapere che sono uno spirito?» chiese con meraviglia.
«Perché le volpi non parlano» spiegò Marian, tirandosi su a sedere.
«Ah sì? E se non parlano allora come fate a comunicare?»
Marian ci pensò un attimo su.
«In effetti non lo facciamo.»
La volpe sbuffò e agitò la soffice coda dalla punta bianca. «Ma certo. Voi
le cacciate, giusto? Il mio padrone me lo aveva raccontato… Anche se in
realtà pensavo che mi stesse prendendo in giro con una delle sue strambe e
contorte favole della buonanotte. Ho scoperto che era tragicamente vero
solo quando sono stato rincorso da un tizio con un forcone. Un’esperienza
davvero spaventosa.»
«Quale tizio?»
«Il proprietario delle galline che mi ero appena mangiato» rispose
affabile la volpe Macbeth. «Per fortuna non aveva un fucile! Il mio signore
mi ha raccontato un mucchio di cose a riguardo, so davvero tutto
sull’argomento! Da quando sono arrivato nel vostro mondo ho rischiato la
pelle un’infinità di volte. Non so perché, ma sembra che tutti abbiano una
voglia irrefrenabile di ammazzarmi! In più, mentre scappavo nel bosco, mi
sono ferito attraversando un cespuglio di rovi… Voglio tornare a casa mia al
più presto. Detesto l’Altrove!» piagnucolò la volpe, mettendosi a sedere
accanto a Marian.
«L’Altrove?»
«È il regno degli umani» sospirò. «E a quanto pare sono bloccato qui.»
Guardò Marian con gli occhi umidi e tirò su col naso sonoramente.
«Su su, non c’è bisogno di piangere» cercò di consolarlo lei. «Posso dare
un’occhiata alla tua ferita?» chiese garbatamente.
Macbeth annuì con aria desolata e le offrì la zampa.
Lei la esaminò con cura. Un taglio rosso e sanguinolento attraversava la
pelliccia scura con una diagonale perfetta.
Marian si frugò nella tasca della gonna sporca di terra e tirò fuori un
fazzoletto, che legò con cura attorno alla zampa ferita.
«Non è granché, ma per adesso direi che può andare. Forse riesco a
trovare qualcosa di più adatto dentro casa.»
La volpe osservò incuriosita la fasciatura.
«Pensi che dovrò prendere delle medicine? Oh, per favore, vorrei
davvero assaggiarne una! Il mio padrone dice che sono disgustose, ma
secondo me lo dice solo perché le vuole tutte per sé!»
Marian si mise a ridere. «Non penso che tu ne abbia bisogno, credo che
basterà pulire bene la ferita. Macbeth, giusto?»
«Macbeth, esatto. E tu sei?»
«Marian, Marian Crawford.»
«Marian. Maaarian. Marian, che bel nome!» esclamò la volpe
saggiandone il suono. Si mise poi a scodinzolare. «Ora che tu sai il mio
nome e io conosco il tuo, siamo amici, vero?» chiese speranzosa.
Marian si morse il labbro per non ridere della situazione. La paura e la
sorpresa erano piano piano svanite e solo ora iniziava a realizzare cosa
stava accadendo.
Stava conversando amabilmente con una volpe molto educata. Se Carl
Lawrence l’avesse vista in quel momento e le avesse dato della strega…
be’, non avrebbe avuto tutti i torti.
«Direi proprio di sì, Macbeth.»
«Che espressione buffa che hai!» fece allegro l’animale.
Marian scoppiò a ridere. «È che non avevo mai visto una volpe così da
vicino!»
“Parlante, poi!” pensò.
Macbeth poggiò la zampa fasciata a terra e sfilò avanti e indietro per lei,
pavoneggiandosi. Poi le saltò in grembo.
«Anche per me è la prima volta, non avevo mai visto un essere umano
così da vicino.» Allungò il muso fino a sfiorarle la punta del naso. «Siete
davvero buffi» concluse solenne.
«Buffi?»
«È perché non avete neanche un briciolo di magia nelle vene, il che vi
rende davvero un po’ bizzarri. Aspetta, lascia che mi spieghi meglio. La
mia gente avverte la magia come voi umani avvertite il caldo e il freddo. O
come riuscite a capire se una persona ha i capelli rossi o neri. Quindi, ai
miei occhi, tu che ne sei completamente sprovvista, è come se avessi un
braccio o una gamba sola. Adesso che ci faccio caso… anche il tuo odore è
parecchio bizzarro.»
Marian cercò di annusarsi.
«Oh, è inutile. Non penso che tu lo possa notare, sai? È sempre per via
dell’assenza di magia. Se non hai un naso fino come il mio non potrai mai
accorgertene.»
«Quindi tu vuoi dirmi, Macbeth, che sai usare la magia?» chiese Marian
ammirata.
Lui annuì compiaciuto.
«Certo che posso. O meglio, posso nel mio mondo. Qui non posso fare
alcunché, perché non sono ancora abbastanza potente.»
«Aspetta, aspetta. Cosa intendi quando dici il tuo mondo? E come puoi
usare la magia? Come sei finito qui?» lo interruppe Marian eccitata.
Passato lo stupore iniziale, ora moriva dalla voglia di riempirlo di
domande.
Aveva vissuto prigioniera della noia più assoluta per diciotto anni e
adesso le stava capitando qualcosa di così emozionante che non riusciva
neanche a comprendere, ma era decisa a non perdersi neanche il più piccolo
dettaglio.
«Va bene, vedo che hai un mucchio di domande da farmi…» ridacchiò
Macbeth divertito.
«E non so da dove partire.»
«Inizia dall’inizio» la incoraggiò lui.
Marian cercò di riorganizzare le idee.
«Il tuo mondo, Macbeth… Si tratta del mondo degli spiriti? E chi è il tuo
padrone?»
Macbeth cominciò a saltellarle attorno, nonostante la zampa ferita.
«Va bene, ti racconterò tutto. Ti parlerò del mio mondo, del mio signore
e del perché sono qui… Ma in cambio potresti accarezzarmi? Mi piace
quando il mio padrone mi accarezza la testa mentre ci raccontiamo le
storie!»
Marian convenne che fosse uno scambio più che equo, quindi fece
accomodare la volpe sul suo grembo e cominciò ad accarezzarle il pelo
fulvo.
Macbeth iniziò a raccontare la sua storia.
8
«Sono arrivato qui nell’Altrove tre giorni fa, quando sono dovuto fuggire
dal mio mondo.
È antico, sai? È vecchio come le montagne, come l’acqua dei fiumi.
Tanti umani gli hanno dedicato poesie, racconti, drammi teatrali… Il mio
padrone me li legge sempre e devo ammettere che siete riusciti a indovinare
tante cose usando solo la vostra fantasia. Voi conoscete già il nostro mondo,
così come conoscete noi. Lo sai, vero, come ci chiamate?»
«Il Piccolo Popolo…» sussurrò Marian.
Macbeth annuì, compiaciuto.
«Proprio così, anche se non ha senso chiamare noi Sidhe “piccoli”. In
quanto a magia siete voi i piccoli, vi potremmo schiacciare in qualsiasi
momento. Comunque, cosa stavo dicendo? Ah, giusto, la mia fuga da
Faerie. Sono dovuto fuggire per ordine del mio signore, il Re delle Volpi.
Lui è il nostro capo, il sovrano di tutte le volpi del mondo, non solo di
quelle magiche di Faerie. Anche quelle dell’Altrove, ovvero del tuo mondo,
gli obbediscono. Io sono il suo servitore più fedele, vivevo nel suo palazzo
insieme a lui e, se posso farti una confidenza, Marian, sono senza dubbio il
suo preferito. Se non fosse così, perché mai mi avrebbe affidato un compito
tanto importante?»
«Quale compito?» chiese Marian, che ascoltava rapita senza perdersi
nemmeno una parola.
Macbeth si fece molto serio. «Mi ha affidato il medaglione che porto al
collo. Mi ha ordinato di nascondermi qui da voi, per metterlo al sicuro.»
Le dita di Marian scivolarono lungo la collottola di Macbeth, scoprendo
tra il pelo fulvo una collanina d’oro.
“Ma certo” pensò eccitata, “ecco cos’era lo scintillio che avevo notato.
Non me l’ero sognato!”
«È molto importante?»
La collana aveva un pendente: un ciondolo semplice, dall’aria antica.
Sopra vi era inciso qualcosa, uno strano simbolo che Marian non riconobbe.
«Non ne ho idea, non l’avevo mai visto prima. Immagino di sì. Se il mio
signore mi ha ordinato di tenerlo qui al sicuro e di non parlarne con nessuno
penso che debba essere importante…»
Marian realizzò che Macbeth stava disubbidendo agli ordini del suo
padrone proprio in quel momento raccontandole tutto, ma evitò di farglielo
notare. Aveva bisogno di sentire il resto della storia.
«Perché sei dovuto fuggire dal palazzo?»
Macbeth si grattò pigramente un orecchio con la zampa posteriore.
«Veramente non ne ho idea. Stavo dormendo quando il mio padrone è
venuto a svegliarmi. Mi ha buttato giù dal letto in fretta e furia e mi ha
affidato il medaglione dicendo che dovevo andare, nascondermi, senza
spiegarmi alcun dettaglio. Prima che attraversassi il passaggio per venire
qui nell’Altrove, mi ha solo detto di aspettare fino a che non sarebbe venuto
lui a cercarmi, ma… diciamo che non è granché affidabile. È un tipo
piuttosto svampito a dir la verità. Quindi ho deciso che è meglio se torno a
Faerie immediatamente a controllare che sia tutto a posto, senza aspettare
che venga lui a recuperarmi qui.»
«Ma, Macbeth, sono passati solo tre giorni… Forse dovresti aspettarlo,
se ti ha detto così» cercò di farlo ragionare Marian, ma quello scosse con
forza la testa.
«Fidati, non lo conosci. E poi il tempo scorre in maniera differente nei
nostri mondi. Tre giorni nell’Altrove sono già abbastanza, devo tornare a
casa. Ho paura che si possa essere cacciato in qualche guaio. Uno di quelli
grossi, questa volta.»
«Devi essere molto affezionato a questo Re delle Volpi…» commentò
Marian.
Gli occhi di Macbeth si illuminarono, lustri di orgoglio. «Certo!»
esclamò. «È un padrone fantastico! Così buono, così generoso… è solo un
pelo eccentrico, ma dopotutto chi non lo è a modo suo? A quello poi ci si fa
presto l’abitudine.»
Macbeth si zittì di colpo e cambiò espressione, facendosi serio. Poi si
alzò, poggiandole le zampe anteriori sul petto e fissandola dritto negli
occhi.
«Marian, mi vedo davvero costretto a chiederti aiuto. Sei l’unica persona
gentile che ho incontrato qui nell’Altrove. Sei anche l’unica che non abbia
provato a uccidermi… Potresti aiutarmi a tornare a casa?»
«A casa? Intendi a Faerie?»
La volpe annuì, seria.
«Non solo fino a Faerie. Potresti aiutarmi a ricongiungermi con il mio
padrone? Devo tornare al palazzo del Re delle Volpi, ma si tratta di un
viaggio troppo difficile da intraprendere da solo. Per me potrebbe rivelarsi
davvero arduo, ma con te… sono sicuro che ce la caveremo benissimo
insieme. Sei la prima persona di buon cuore che conosco, qui nell’Altrove,
e qualcosa mi dice che è stato il destino a farci incontrare! Non credi anche
tu nei segni?»
Marian rimase un attimo a bocca aperta. Poi, quando fece per parlare,
Macbeth la zittì, posandole una zampa sulla bocca.
«Prima che tu possa dirmi di no, lasciami finire! Noi del Piccolo Popolo,
noi Sidhe, non facciamo mai niente per niente. Ti propongo perciò un patto:
aiutami a ricongiungermi con il mio signore, e in cambio il Re delle Volpi
esaudirà un tuo desiderio, qualunque esso sia.»
Poi si rimise seduto compìto, in attesa.
Marian rimase a fissarlo, immobile come una statua di sale. Non poteva
credere alle sue orecchie.
«Per favore, puoi ripetere quello che hai appena detto?» disse poi.
«Noi del Piccolo Popolo non facciamo mai niente per niente?»
«L’altra parte.»
«Il Re delle Volpi esaudirà un tuo desiderio, qualunque esso sia?»
«Precisamente quella parte!» esclamò Marian. Prese Macbeth in braccio
e si alzò in piedi, euforica. «È davvero così? Potrà davvero esaudire un mio
desiderio?»
«Ma certo!» disse Macbeth contagiato da tanto entusiasmo. «So che voi
umani andate matti per questa cosa di farvi esaudire i desideri, e noi di
Sidhe adoriamo ingannarvi, ma ti giuro solennemente, Marian, che sono
una volpe onestissima. E lo è anche il mio signore… il più delle volte.
Perciò puoi credermi e fidarti di me. Ho davvero bisogno del tuo
preziosissimo aiuto.»
Marian osservò attentamente gli occhi gialli della volpe che teneva
stretta a sé.
Per quanto sua madre si fosse impegnata a crescerla, cercando in tutti i
modi di farle apprezzare il buonsenso più di tutto, fece qualcosa di
assolutamente folle.
Decise di fidarsi.
E nel momento in cui prese la decisione fu come se tutte le sue
insicurezze e le sue paure si fossero dissolte. Il destino le stava offrendo
un’incredibile soluzione a tutti i suoi problemi. Non l’avrebbe sprecata per
niente al mondo.
Era tutto così perfetto che si sarebbe messa a ballare e a gridare dalla
felicità.
Lei aveva un desiderio, un desiderio così grande che solo il Re delle
Volpi avrebbe potuto esaudire.
«Va bene, Macbeth! Ti aiuterò a tornare dal tuo padrone. In cambio, lui
mi aiuterà a sbarazzarmi del mio stupido fidanzato.»
Era la sua via d’uscita, la sua unica occasione di felicità e non l’avrebbe
sprecata.
Macbeth le regalò un sorriso tutto denti: «Non penso proprio che il mio
padrone avrà problemi a far fuori un umano».
«Oh cielo, no, non deve ucciderlo!» inorridì Marian. «Dovrà solo
impedire il mio matrimonio… Non so, magari levando l’idea dalla testa dei
miei genitori, per esempio.»
«Intendi staccandogliela?»
«No, Macbeth, no! Sono i miei genitori, gli voglio bene. Nessuno dovrà
farsi male.»
La volpe sospirò delusa. «Va bene, va bene, ho capito… nessun morto.»
«Precisamente.»
«Anche se così il patto sarà meno interessante.»
«Bene, e adesso che si fa?» chiese impaziente Marian.
Macbeth, sovrappensiero, provò a leccarsi la zampa fasciata.
«Come prima cosa dobbiamo trovare del cibo. Non mangio da ieri e sto
morendo di fame. Davvero, Marian, potrei svenire da un momento all’altro!
A Faerie non abbiamo bisogno di nutrirci, abbiamo la magia per quello. Lo
facciamo più per diletto che per necessità, ma qui nell’Altrove è tutta
un’altra faccenda.»
Marian annuì diligente. «Benissimo, ti troverò da mangiare e ti porterò
anche qualcosa per pulire la ferita. Il tacchino freddo ti piace?»
Macbeth tirò su le orecchie e gli occhi si riempirono di bramosia. «Il
tacchino freddo suona benissimo!»
A Marian invece si strinse lo stomaco. Sapeva che il ricordo di quel
disastroso picnic non l’avrebbe abbandonata tanto facilmente. Forse,
avrebbe evitato il tacchino freddo per un po’.
«E poi?»
«E poi partiamo per Faerie» annunciò Macbeth raggiante.
Marian lo guardò spiazzata. «Ma così? Subito?»
«Certo, perché aspettare?»
Per qualche breve istante, Marian sentì che la vocina nella sua testa stava
cercando di prendere il comando per metterla in guardia sui rischi che
avrebbe corso e sull’assurdità di quella situazione. Ma fu, appunto,
questione di brevi istanti.
La mise a tacere con una scrollata di spalle e sentì i capelli drizzarsi sulla
nuca e le guance pizzicarle. Era forse il potere magico di Macbeth a
infonderle quel coraggio del tutto nuovo?
Le sembrava tutto un sogno. Un rocambolesco sogno in cui lei era
diventata Alice e si stava per tuffare nella tana del Bianconiglio alla
scoperta del Paese delle Meraviglie. Proprio lei, la barbosa e noiosa Marian
che non faceva mai niente, che ubbidiva e basta e che aspettava la sua data
di scadenza come un barattolo sullo scaffale di un emporio.
Era arrivato il suo momento. Se stava aspettando un segno per cambiare,
per decidersi finalmente a reagire e a prendere in mano la sua vita, cosa
poteva chiedere di più di una volpe parlante con una promessa tanto
invitante quale l’esaudimento del suo più grande desiderio?
Non era più disposta ad arrendersi all’idea di condurre una vita di
afflizione e rimpianti accanto a quello zotico di Carl Lawrence, non quando
le si presentava la possibilità di un futuro senza matrimonio, un futuro di
libertà, offerto su un piatto d’argento decisamente bizzarro e inaspettato.
Marian non aveva più dubbi. «Macbeth, nasconditi nel cespuglio di
biancospino e aspetta il mio ritorno. La caccia alla volpe sta per cominciare
e sarà un bel guaio se ti dovessero trovare a gironzolare qui. Devi rimanere
nascosto fino al mio arrivo.»
«Caccia alla volpe?» Macbeth nascose la coda tra le gambe e abbassò le
orecchie, spaventato. «Fa’ presto, ti prego. Non mi piace per niente questa
storia!»
«Ci metterò pochissimo» gli promise Marian.
E fu di parola. Corse a perdifiato nella villa, la gonna stretta tra le mani e
i mutandoni in bella vista, senza badare al fatto che qualcuno potesse
vederla così.
La nuova Marian aveva preso in mano la situazione.
Mentre si preparava per il misterioso viaggio che la attendeva, si sentiva
come sospesa in un sogno. Indossò la giacca da viaggio e il cappellino,
infilò nella borsetta un cambio di biancheria, uno scialle caldo e agguantò il
primo libro della pila sul comodino. Vecchie abitudini. Poi corse fino alla
dispensa, dove le cameriere l’accolsero con delle occhiate poco convinte,
ma non protestarono quando lei chiese gli avanzi di tacchino da portare via
in un panno e un po’ di mele. Recuperò anche una boccetta di fenolo e delle
bende nuove per la ferita di Macbeth, sempre eludendo gli sguardi curiosi
dei domestici.
La villa sembrava essersi svuotata. Tra il bridge e la caccia alla volpe,
erano tutti così impegnati nelle proprie attività che Marian si sentiva come
un fantasma che si aggirava silenzioso per i corridoi.
Proprio quando si stava precipitando fuori, però, sentì la voce di sua
madre risuonare alle sue spalle. Marian si nascose dietro una tenda. Aveva
funzionato una volta, avrebbe funzionato di nuovo.
«Ma dove si sarà cacciata quella benedetta ragazza?»
Marian trattenne il respiro e aspettò che i passi della madre si
allontanassero. Poi finalmente sgusciò fuori dal suo nascondiglio.
Mentre correva in giardino, il cuore che le batteva all’impazzata, era
abbastanza lucida da rendersi conto che stava per fare un’assoluta follia.
Sapeva che partendo avrebbe spezzato il cuore di sua madre… ma se fosse
rimasta, era certa che si sarebbe spezzato il suo.
Doveva pur salvarsi in qualche modo.
Appena giunse al limitare del bosco, Macbeth spuntò dal cespuglio di
biancospino e iniziò a saltellare contento.
«Avevo paura che non tornassi più!»
«Non potrei mai rimangiarmi la parola data» disse lei con un gran
sorriso.
Si addentrarono insieme tra gli alberi, allontanandosi dalla villa quanto
bastava per non essere visti. Marian tirò fuori dalla borsetta il tacchino che
aveva promesso a Macbeth e le bende per la medicazione. La volpe divorò
gli avanzi in un battibaleno e quando Marian cercò di medicarla, iniziò a
uggiolare.
«Un po’ di contegno, Macbeth!» ridacchiò lei mentre gli fasciava la
zampa con la benda nuova. «Ecco qui, finito. Hai visto? Tante storie per
niente.»
«Questa medicina puzza…» disse la volpe poco convinta mentre si
annusava la fasciatura nuova. «Forse il mio padrone non mentiva quando
diceva che le medicine fanno schifo…»
Marian imbracciò la borsetta da viaggio.
«Da che parte dobbiamo andare?» chiese, mentre veniva attraversata da
un brivido.
Non era paura, era qualcos’altro. Era emozione, come non l’aveva mai
provata.
Per la prima volta in diciotto anni, si sentiva viva.
Gli occhi di Macbeth si illuminarono, come se fossero d’oro liquido.
«Dobbiamo trovare il passaggio che ci porterà a Faerie.»
9
Quando arrivarono davanti a quello che un tempo era stato il palazzo del Re
delle Volpi, l’alba era ormai vicina e il cielo aveva iniziato a rischiararsi.
Marian aveva l’impressione di aver camminato per ore, ma sapeva di
non potersi fidare dello scorrere del tempo lì, a Faerie. Si sentiva sfinita e
avrebbe dato qualsiasi cosa in suo possesso per un letto. Sebbene la fame e
la sete non fossero un problema, proprio come le aveva spiegato Macbeth
all’inizio del suo viaggio, la stanchezza, invece, era una compagna che
amava ricordarle la sua presenza un po’ troppo spesso.
Aleister era rimasto a lungo a fissare i resti della sua dimora, immobile.
In apparenza sembrava calmo, ma dal modo in cui serrava la mascella,
Marian dedusse che doveva essere furioso.
«Mi dispiace per il vostro palazzo» gli disse.
Lui abbassò lo sguardo e annuì. Poi notò la borsa di Marian abbandonata
in mezzo alle macerie e l’espressione sul suo viso mutò repentinamente.
«Ti pregherei di non seminare le tue cianfrusaglie dell’Altrove in giro
per Faerie» disse in tono duro.
Marian riprese la borsetta che aveva dimenticato prima di partire grazie
alla piuma magica, pentendosi subito di essere stata gentile con lui.
«Veramente l’avevo scordata qui quando siamo venuti a salvarvi…»
sbottò lei offesa.
Aleister non la stava già più ascoltando, era tornato a osservare i resti
della sua dimora.
«Ha fatto un bel disastro…» commentò con voce piatta.
«Sapete chi è stato?» gli chiese Marian.
Lui non rispose. Si voltò con un sorriso tirato.
«Ho un’idea. Perché stanotte non dormiamo in mezzo ai boschi?»
propose.
«Oh, Aleister. No, ti prego! Non puoi semplicemente ricostruire il
palazzo con la magia?» lo pregò Macbeth appendendosi alla manica della
sua giacca.
«Direi che più che di un letto avete bisogno entrambi di un bel bagno.»
Aleister lanciò un’occhiata beffarda a Marian, che arrossì. Anche lei, come
Macbeth, aveva ancora gli abiti e i capelli incrostati di fango secco. Pensò
all’espressione disgustata che avrebbe avuto sua madre nel vederla così.
Chissà che cosa avrebbe detto vedendola con un bel paio di corna
gigantesche.
Aleister e Macbeth erano impegnati in una fitta trattativa. Il ragazzino
insisteva perché il Re delle Volpi si impegnasse subito a ricostruire
magicamente il palazzo, lui invece sembrava avere una certa urgenza ad
allontanarsi da lì.
Marian si chiese se fosse il momento giusto per avvertirlo di quello che
aveva visto quando aveva calpestato l’erba dello smarrimento. Doveva
parlargli di quella figura oscura?
Aleister annusò Macbeth, arricciando poi il naso disgustato.
«Devi lavarti, ragazzino. Non ti avvicinerai a delle lenzuola in queste
condizioni.»
«Ma con la tua magia potresti ricreare anche i bagni! Su, Aleister, ti
prego! Voglio dormire nel mio letto, per te sarà un gioco da ragazzi.»
Macbeth si voltò lacrimoso verso la sua compagna di avventure,
chiedendole soccorso.
«Marian, convincilo tu, ti prego!»
Anche Aleister si voltò curioso. Sembrava davvero in attesa che Marian
provasse in qualche modo a convincerlo.
Lei deglutì, in difficoltà. Aleister la guardava in quel modo così
impertinente e sfrontato, dritto negli occhi, senza alcun tipo di imbarazzo.
«Penso di aver visto qualcosa» esordì lei.
«Capita quando tieni gli occhi aperti» commentò lui.
«Sto cercando di mettervi in guardia» protestò lei.
«Parla, allora.»
«Poco dopo il nostro arrivo qui a Faerie, abbiamo calpestato l’erba dello
smarrimento…» Marian ignorò il verso divertito del re e continuò a
spiegare: «Mentre attraversavamo tutto il paese…».
«Mondo» la corresse Aleister. «Che c’è? I dettagli sono importanti, non
mi guardare così. Vai avanti, adesso.»
Marian sospirò, abbassando il capo sotto il peso delle corna ingombranti.
«Mentre attraversavamo tutto il mondo, ho scorto anche questo luogo…
All’inizio non mi ero resa conto che fosse il vostro palazzo, l’ho
riconosciuto solo quando io e Macbeth siamo arrivati qui. Mentre
viaggiavamo grazie all’erba dello smarrimento, proprio davanti alle macerie
ho visto qualcosa… o meglio, qualcuno.»
«Che aspetto aveva?» chiese Aleister improvvisamente interessato.
Marian scrollò le spalle. «Non l’ho visto bene, è durato un secondo. Era
una figura vestita di nero, aveva un viso molto pallido.»
Gli occhi di Aleister furono attraversati da un’ombra. Le labbra si
stirarono in quello che sembrava un sorriso amaro. «Non avevo dubbi.»
«Avete capito di chi si tratta?»
Lui annuì, pensieroso.
«Dovrete avere un po’ di pazienza, il vostro riposo dovrà aspettare»
disse poi. «Dobbiamo andarcene, non possiamo rimanere qui. Se ti
accontentassi, mio piccolo Macbeth, e mi mettessi a ricostruire il palazzo,
quel maledetto si accorgerebbe della mia presenza e potrebbe farmi visita.
Di nuovo. E io non ho voglia di incontrare nessuno al momento, tantomeno
lui.»
«Ma chi è? E che cosa vuole da voi?» insistette Marian.
«Qualcosa che non ho intenzione di fare» disse Aleister allegramente,
evitando per l’ennesima volta di fornire dettagli sulla situazione. «Su,
avanti, prendo qualcosa e poi ce ne andiamo.»
Il Re delle Volpi allungò una mano davanti a lui, tendendola verso le
macerie. I suoi occhi iniziarono a brillare, cambiando colore. Da verdi
diventarono gialli, come quelli di Macbeth. Marian sentì l’aria farsi calda
attorno a loro, poi la mano di Aleister venne avvolta da una luce dorata e le
guance le pizzicarono.
Le macerie iniziarono a muoversi, librandosi in aria leggere come piume.
Aleister alzò pigramente anche l’altra mano e quelle si divisero a metà. I
detriti ammucchiati su due lati rivelarono un’apertura nella base di pietra
annerita, al centro di quello che era stato il palazzo.
Marian si sporse appena per spiare oltre la spalla del Re delle Volpi.
Notò delle scale che scendevano in profondità, nel suolo.
I detriti continuarono ad ammassarsi con delicatezza uno sopra l’altro,
fino all’ultima pietra. Aleister allora abbassò le mani e si lisciò soddisfatto
il velluto della giacca.
«Aspettatemi qui» disse puntando l’indice contro Marian. «E tu vedi di
non sgattaiolare da nessuna parte. Fino a che avrai il mio medaglione al
collo, dovrai rimanere dove ti posso vedere, intesi?»
Lei sbuffò.
«Macbeth, tienila d’occhio» ordinò al ragazzino, poi si apprestò a
scendere le scale, sparendo nei sotterranei del palazzo. Ben presto il
rimbombo secco dei suoi passi si affievolì fino a sparire.
«Dove sta andando?» chiese Marian.
Macbeth si strinse nelle spalle, agitando la coda.
«Nel cuore del palazzo, immagino. È lì che si trovano le sue stanze.»
Marian e Macbeth attesero in silenzio, troppo stanchi per mettersi a fare
alcunché o per provare a fare luce in quella situazione ammantata di misteri.
Aleister riemerse poco dopo e Marian notò che si stava sistemando qualcosa
nelle tasche della giacca.
«Bene, ho fatto. Siamo pronti» annunciò allegro.
«Ma dove andiamo? Io sono stanco» si lamentò Macbeth senza riuscire a
trattenere uno sbadiglio.
Aleister gli scompigliò i capelli. «Un piccolo sforzo, ancora.»
«Avete preso ciò che vi occorreva?» chiese Marian, a cui non era
sfuggito quello strano scambio affettuoso tra re e servo.
Lui le sventolò sotto al naso un’enorme piuma dorata.
«La piuma del viaggiatore!» esclamò Marian riconoscendola. Anche se
rispetto a quella che aveva usato con Macbeth, questa era grande il triplo.
Aleister la guardò sospettoso. «Esatto. Ma come fa una dell’Altrove a
conoscerla?»
«Oh be’, l’abbiamo usata. È così che siamo arrivati al palazzo di Leah…
non è vero, Macbeth?» disse lei, senza accorgersi dei cenni nervosi che le
stava rivolgendo il ragazzino.
Marian capì troppo tardi di averli messi entrambi nei guai.
Aleister incrociò le braccia. «Ah sì? E ditemi un po’, dove l’avete
trovata? Si tratta di una magia di trasporto potente e costosa… difficile da
reperire per una giovane volpe e una ragazza dell’Altrove.»
Marian si morse il labbro e guardò di sottecchi Macbeth. Ora sembrava
essersi svegliato del tutto, ed era concentratissimo a fissarsi i lacci degli
stivaletti, le orecchie tirate all’indietro.
«Macbeth…?»
Il viso lentigginoso del ragazzino si era fatto pallido.
«Avanti, Macbeth, digli della fata» lo incoraggiò Marian.
Lui la guardò allarmato. «Ma, ma… si arrabbierà» sussurrò.
«Guardate che vi sento e sì, confermo che mi arrabbierò» disse Aleister.
Marian lo fulminò con lo sguardo e disse ad alta voce: «Sono sicura che
Aleister ti ascolterà e non ti sgriderà per ciò che hai fatto, perché eri in
difficoltà ed eri da solo… tutto per colpa sua».
Aleister alzò gli occhi al cielo. «Oh, ma sentila!»
Marian gli rivolse un sorriso smagliante, mentre poggiava entrambe le
mani sulle spalle del ragazzino, rassicurandolo.
«Vero, Aleister, che Macbeth non verrà punito in nessun modo?» disse
con voce dolce, mentre lo guardava minacciosa.
Il Re delle Volpi sbuffò, poi suo malgrado annuì. «Sì, Macbeth, è come
dice lei. Ora dimmi come avete recuperato la piuma.»
Finalmente il ragazzino si convinse a vuotare il sacco, raccontando per
filo e per segno come aveva ingannato la fata e di come erano riusciti a
fuggire.
Appena ebbe finito di raccontare Aleister esplose: «MACBETH, SEI
IMPAZZITO ?».
Lui si rifugiò dietro la gonna di Marian.
«Quante volte ti ho detto di non derubare le fate? Hai idea di quanto sia
pericoloso ciò che hai fatto?»
Marian fece un passo in avanti e picchiettò l’indice contro il petto del re,
puntandolo anche con le corna. «Avevate promesso di non sgridare
Macbeth.»
Il re le rivolse un’occhiataccia, contrariato, poi emise un suono che
assomigliava a un grugnito.
«Macbeth…» disse, cercando di sembrare calmo. «Ciò che hai fatto è
molto pericoloso.»
«Non avevo scelta, dovevamo trovarti e io e Marian ci eravamo persi!»
Aleister strinse le labbra.
«Avanti, è davvero così grave?» chiese Marian, cercando di stemperare
gli animi.
«Certo che è grave!» sbottò lui. Aveva promesso di non arrabbiarsi con
Macbeth, non con lei. «Possibile che sia io l’unico preoccupato qui? Ora
dovete solo sperare che quella fata sia troppo vecchia e rincitrullita per
mettersi davvero sulle vostre tracce. E pregate che non abbia niente di
vostro.»
Marian e Macbeth si scambiarono un’occhiata fugace.
«Forse potrebbe esserci un problema…»
«HA QUALCOSA DI VOSTRO ?» esclamò tragico Aleister.
«Mi ha strappato un pezzo di gonna» confessò Marian, cercando di
essere diplomatica.
«Non posso davvero crederci!» sbottò il Re delle Volpi. Si rivolse poi a
Marian, allargando le braccia: «Vedi? Problemi!».
Scosse la testa sconsolato, come se entrambi fossero senza speranza.
«Adesso muoviamoci, è davvero una pessima idea rimanere qui. Vi porterò
in un posto sicuro… Poi cercherò di capire come risolvere anche questo
pasticcio.»
«Non vi preoccupate per me» lo rimbeccò Marian. «Posso cavarm…»
«Ah, non penso proprio!» la interruppe Aleister con una risata di
scherno. «E comunque io mi preoccupo per il medaglione che hai ancora
appeso al collo. Dovresti ringraziare la mia magnanimità. Se sei ancora in
vita è solo perché sono così tanto caritatevole a lasciartelo indossare.»
«Siete anche incredibilmente modesto, vedo» borbottò Marian.
Aleister le sorrise. «Forse è la mia qualità migliore.» Afferrò Macbeth
per mano e se lo tirò vicino, poi fece lo stesso con Marian.
«Tenetevi forte a me, è tempo di andare.»
Macbeth si aggrappò al braccio del Re delle Volpi. Marian allungò la
mano ma la lasciò a mezz’aria, interdetta. Aleister gliela prese e se la passò
sotto al braccio.
«Devi tenerti stretta, altrimenti rischi di perderti durante il viaggio» le
disse con inaspettata gentilezza.
Marian, ritrovandosi a braccetto con lui, abbassò lo sguardo, le guance
che avvampavano.
«Dove andiamo?» chiese, cercando di sembrare disinvolta.
Aleister sorrise, poi soffiò sulla piuma dorata, facendola librare in volo.
«Nella mia tana!»
19
«Sapevo che avresti portato guai» bofonchiò Aleister. «Perché hanno tutti
così tanta voglia di distruggere la mia pace?»
Era sprofondato nella sedia e si stava massaggiando le tempie con le dita
ricoperte di anelli d’oro, il viso nascosto dai capelli rossi.
«Che cosa c’entro io con questa convocazione?» protestò Marian. «Non
so neanche di cosa si tratta!»
Aleister agitò una mano verso di lei, senza neanche guardarla. «Ti prego,
taci. Ho bisogno di pensare.» Poi si alzò di colpo, come se fosse stato punto
da qualcosa. Un enorme sorriso gli attraversava il viso e aveva l’aria di chi
è appena stato folgorato da un’idea geniale. «So cosa fare per tirarci fuori
da questo impiccio!»
«Cosa?» Macbeth lo guardò speranzoso.
Lui corse verso quella che Marian aveva ipotizzato fosse la sua stanza,
l’unica da cui le era stato ordinato di tenersi alla larga. «Macbeth, Marian,
prendete le vostre cose, dobbiamo scappare» annunciò allegramente, prima
di sparire dietro alla porta vermiglia.
«Cosa?!» dissero Marian e Macbeth all’unisono.
«È senza speranze… lo sta facendo di nuovo» sospirò poi il ragazzino.
Si accoccolò sulla sedia e si mise a giocare con la tazza che Aleister aveva
ignorato.
«Sta facendo di nuovo… cosa?» chiese Marian, che stava iniziando a
perdere seriamente la pazienza.
«Scappa» rispose Macbeth, stringendosi nelle spalle. «Lo fa sempre
quando le cose non vanno per il verso giusto. Ciò che Aleister ama di più al
mondo, dopo se stesso ovviamente, è quando tutto va esattamente come
desidera. Quando questo non succede… be’, scappa prima di essere
raggiunto dai problemi.»
«È un atteggiamento un po’ da codardi» commentò Marian. “Sbaglio o è
esattamente quello che hai fatto anche tu?” le disse la vocina nella sua testa.
Scosse le pesanti corna per scacciare quel pensiero.
«Credo che dovresti provare a parlargli, Marian» suggerì Macbeth.
«Forse se sei tu a farglielo notare… potrebbe funzionare! Aleister ti dà
ascolto, tu potresti riuscirci!»
Marian rise, scettica.
«Il Re delle Volpi che mi dà ascolto? Ma se da quando l’ho incontrato
non ha fatto altro che canzonarmi o ignorarmi. Guarda qua, poi» disse
indicandosi le corna. «Non ha ancora mosso un dito per liberarmi da questa
maledizione!»
«Ti assicuro che ti ascolterà. Secondo me, se lo prendi per il verso
giusto…»
«E cosa dovrei fare esattamente?» lo interruppe Marian.
«Innanzitutto devi riuscire a capire cos’è successo al palazzo. Devi
costringerlo a parlare. Chiaramente sta mentendo e omettendo dei dettagli
importanti. Devi anche convincerlo a presentarsi alla convocazione. Lui
pensa di cavarsela sempre, ma gli altri poi finiscono per offendersi… Devi
vedere cosa ha combinato la regina Titania quella volta in cui non si è
presentato alla festa per la sua nomina a Re delle Volpi…» Macbeth
rabbrividì e Marian pensò che forse non ci teneva molto a scoprirlo.
«Avanti, Marian! Devi provare» la scongiurò il ragazzino, sfoderando il suo
miglior sorriso.
Marian non era così convinta del suo ascendente su Aleister, ma decise
comunque di tentare. Si armò di coraggio e, dopo aver sbattuto le corna a
destra e a manca, bussò alla porta vermiglia.
Non sentendo risposta, la socchiuse leggermente.
«Aleister…» chiamò, sbattendo nuovamente le corna.
Lo sentì sospirare. «Marian, smettila di fare questo baccano ed entra.»
Lei non se lo fece ripetere due volte.
Le pareti della stanza erano ricoperte da librerie colme di volumi. Sul
pavimento c’erano vecchi tappeti e diverse cianfrusaglie disseminate in
giro. Marian calciò per sbaglio quello che aveva tutta l’aria di essere un
teschio umano, ma decise di non indagare e lo superò con un saltello,
facendo finta di niente. La camera del giovane re assomigliava
incredibilmente sia a una biblioteca che alla tana di un animale.
Aleister era steso su un letto sfatto, con una pila di cuscini tutti intorno.
Contemplava il soffitto con sguardo vacuo e aria abbattuta, le mani
intrecciate sul petto come una mummia.
«Come va?» chiese lei con cautela.
«Miseramente, direi» rispose asciutto.
Marian sapeva bene quale era il compito che le aveva affidato
Macbeth… ma non riusciva a concentrarsi e continuava a lanciare occhiate
fugaci agli scaffali carichi di libri che la circondavano. Il richiamo era
troppo forte. Che genere di storie si leggevano lì a Faerie? Avrebbe dato
qualsiasi cosa per poter affondare il naso in uno di quei volumi…
«Che c’è?» chiese lui, alzandosi appena sui gomiti, spiandola sospettoso.
«Macbeth ti ha costretta a venire a convincermi?»
Marian sorrise, più ai libri che a lui. «No, niente… è che mi sono resa
conto che qualcosa in comune alla fine lo abbiamo.» Allungò una mano e
sfiorò la costa di un volume dalla copertina color sangue.
«Fai attenzione con quelle corna. Si dà il caso che quella sia una copia
autografata da Byron in persona.»
Marian gli rivolse uno sguardo confuso.
«Conosci Byron?»
«Scherzi? È uno dei miei preferiti. Mi piace pensare che siamo molto
simili, in fondo.»
Marian allora prese il volume e lo sfogliò curiosa. C’era in effetti una
svolazzante dedica “al più squisito e magico degli amici” in inchiostro nero,
e uno “stampato a Londra” sul fondo della prima pagina.
«Non mi dirai che questi sono tutti libri dell’Altrove!» esclamò
incredula.
Aleister le rivolse un sorriso storto. «Mi piacciono le vostre storie.
Piuttosto, tu leggi?»
«Certo.»
«Allora fai come se fossi a casa tua. Attenta alle corna, però» sbuffò.
Tirò fuori dalle coperte un libro e si rimise a leggere.
Marian riconobbe subito il volume che il ragazzo teneva tra le mani.
«Ma quello è mio!»
«Mmm?» mugugnò Aleister, senza alzare lo sguardo dalle pagine.
«Il libro che stai leggendo! È mio, lo tenevo nella mia borsa da viaggio
e… aspetta un attimo! Tu hai frugato nel mio bagaglio!» sbottò.
«L’ho preso perché non l’ho mai letto. Sei ospite a casa mia, donarmi ciò
che voglio mi sembra il minimo» ribatté lui voltando pagina.
Marian sospirò esasperata. «Sei proprio impossibile, Aleister.»
«Me lo dicono spesso.»
Lei mise a posto il volume di Byron nella libreria e passò a scorrere
l’indice lungo le coste dei vari libri. Si fermò quando si trovò di fronte a
una stampa di Shakespeare, infilzata nella libreria da un pugnale che
attraversava la fronte del poeta.
«Quindi quanto dicevi di Shakespeare… era vero?»
«Intendi il fatto che gli ho suggerito gran parte delle sue storie?»
Marian annuì.
«Aveva bisogno di qualche incoraggiamento, di tanto in tanto… non era
particolarmente bravo con i nomi. Gli ho dato un aiutino.» Aleister rise,
scoprendo i canini appuntiti. «Diciamo che sono stato la sua musa
ispiratrice. Capita spesso che noi Sidhe mettiamo lo zampino nelle vostre
faccende mortali… ma è assai raro il contrario. Credo che tu stia creando un
precedente.» Aleister la stava di nuovo scrutando con un’aria incuriosita sul
viso e Marian si sentì a disagio sotto quello sguardo indagatore.
«Posso farti qualche domanda?» chiese, decisa a distogliere l’attenzione
del ragazzo da se stessa.
«Te lo concedo.»
Marian doveva aver superato un qualche tipo di esame, perché Aleister
sembrava essersi finalmente deciso a parlare. Non doveva rovinare
quell’occasione.
«Tu conosci l’identità di chi ho visto l’altra notte. È stata quella persona
a distruggere il tuo palazzo.»
Aleister sorrise enigmatico, gli occhi verdi che brillavano.
«Perché lo ha fatto?» gli chiese.
Il sorriso sparì dalle sue labbra e Marian temette di aver fatto la domanda
sbagliata…
Ma il Re delle Volpi iniziò a parlare: «È stato un avvertimento. Quello
che non ha ancora capito è che io non ho alcuna intenzione di immischiarmi
in faccende che non mi riguardano. Non sono tipo da cedere alle minacce e
me sto alla larga dai guai quando qualcuno mina la mia pace».
«Il suo comportamento però ha messo in pericolo qualcuno.»
«Chi?»
«La persona che ha distrutto il tuo palazzo» disse spazientita Marian.
«Ha messo in pericolo le tue volpi, quelle che vivevano nel palazzo insieme
a te, oltre a Macbeth. Non sono forse fuggite? Non mi sembra che la tua
attuale situazione si possa definire tranquilla. Se lo fosse davvero, non
avresti forse ricostruito il tuo palazzo invece che nasconderti?»
Marian fece un cenno alla stanza in cui si trovavano e Aleister sbuffò.
«I miei servitori… le mie volpi, staranno bene. Sanno cavarsela da sé.»
«Macbeth però aveva bisogno del tuo aiuto. E se ci fossero altri ad
averne bisogno?» incalzò lei.
Aleister scosse la testa, gli occhi nascosti dai ciuffi rossi.
«Nessuno ha bisogno di me.»
«Non mi sembra che sia così» disse Marian. «Sei stato… convocato,
anche se non so bene cosa questo comporti» continuò lei. «Quindi qualcuno
ha bisogno di te, suppongo.»
«Tu non ti arrendi mai, eh?» Aleister le rivolse un’occhiataccia. «Sono
stato convocato dal consiglio nobiliare di Faerie» confessò.
«E di cosa si tratta?» chiese Marian. Aleister si era finalmente deciso a
parlare e lei ne avrebbe approfittato per scoprire quante più cose possibili.
«È composto da un membro di ogni famiglia nobiliare di Faerie. Nove
membri per nove famiglie. Il consiglio si occupa di questioni più o meno
importanti di Faerie, sotto l’occhio vigile del re e della regina… ma siamo
noi a governare davvero.»
«Il re e la regina… intendi Oberon e Titania?» chiese Marian.
Aleister le rivolse un sorriso compiaciuto. «Qualcuno qui ha studiato.»
«Cosa pensi che vogliano da te?»
Lui fece una smorfia. «Oh, un mucchio di cose. Li sto evitando da troppo
tempo. Da quando sono stato investito della carica di re, credo di essermi
presentato al loro cospetto una sola volta.»
«Aspetta. Avevi detto che non sei ancora re, che il tuo predecessore è
ancora in vita» obiettò Marian.
«È una faccenda complicata» sospirò lui.
«Prova a renderla semplice, allora.»
Aleister si passò una mano ingioiellata tra i capelli. «Il mio predecessore
si è ritirato. C’è stata una cerimonia di investitura e tutto il resto, ma…» Gli
occhi di Aleister vennero attraversati da un’ombra. Il ragazzo scosse la
testa, cambiando discorso. «Comunque, immagino che mi vogliano
chiedere cosa sia capitato al mio palazzo. Non capita tutti i giorni che la
dimora del Re delle Volpi venga rasa al suolo. Una notizia del genere
viaggia in fretta.»
«Penso che dovresti andare» disse Marian. «Se ti hanno convocato,
avranno bisogno di te. Sei o non sei il Re delle Volpi, dopotutto?»
Aleister le sorrise.
«Te l’ho detto, è una faccenda complicata…»
Marian capì che era il suo modo cortese per dire “smettila di
chiedermelo”.
«Conosci l’identità di chi vi ha attaccato, giusto?»
Aleister sbuffò, ma sembrava felice di cambiare discorso. «Sì, ma non ti
dirò come si chiama. Non voglio pronunciare il suo nome.»
«Me lo vuoi scrivere allora? Forse in mezzo a questa baraonda riesco a
trovare qualcosa con cui…»
Aleister si allungò e la fermò, prendendole la mano. «Scritto potrebbe
essere persino più pericoloso» sussurrò. «Qui a Faerie i nomi sono potenti e
spesso fatali. Se non pronunciamo il suo nome, lui non potrà sentirci.»
Marian rabbrividì. Non seppe dire se per le parole di Aleister o per il
modo in cui le teneva stretta la mano.
Come se avesse in qualche modo intercettato i suoi pensieri, Aleister la
lasciò andare.
«A tal proposito… dimmi il tuo nome» disse in tono decisamente più
spensierato.
«Marian!» esclamò lei offesa. «Pensavo l’avessi capito.»
«Dimmi il tuo nome completo» insistette.
«Marian… Crawford» disse lei, con cautela.
Aleister le rivolse un sorriso sornione. «Hai un secondo nome che non
mi hai detto…»
La sua era un’affermazione più che una domanda.
«Macbeth mi ha spiegato che non devo rivelarlo a nessuno.»
Aleister sembrava vagamente impressionato. «Per una volta quella testa
dura ha detto una cosa giusta. È stato bravo a metterti in guardia. Mi
raccomando, tieniti stretto il tuo secondo nome, Marian Crawford, e mi
raccomando, non rivelarlo a nessuno. Se lo farai, la persona… o meglio, la
creatura fatata che lo conoscerà avrà il controllo totale della tua persona.»
Aleister si alzò dal letto e si stiracchiò. «Mi hai convinto, alla fine. Macbeth
ha fatto bene a mandarti.»
Si guardò in uno specchio incastrato nella libreria accanto al suo letto.
Dopo essersi sistemato i capelli, rivolse uno sguardo soddisfatto al suo
riflesso e si voltò verso la ragazza.
«Allora, vogliamo andare?» le chiese allegro.
«Andare? Dove?» Marian era confusa. Doveva ancora abituarsi a quei
repentini cambi d’umore.
Le labbra del Re delle Volpi si tesero in un ampio sorriso.
«A incontrare il consiglio delle famiglie nobili di Faerie, naturalmente.»
21
«Non credo che sia una buona idea» provò a dire Marian.
«Tranquilla, l’ho già fatto l’ultima volta che ho accompagnato Aleister.
Nessuno si accorgerà di noi.»
Marian procedeva con cautela dietro Macbeth. Dopo essere sgattaiolati
dentro una stanza incustodita, si erano infilati in un buco nel muro nascosto
da un pesante tendaggio, e adesso si stavano arrampicando lungo delle
impalcature di legno. Si trovavano nell’intercapedine del muro della sala in
cui era entrato Aleister, e Marian era certa che sarebbero finiti nei guai per
questo.
«Non hai paura dell’altezza, vero?» chiese Macbeth fermandosi di colpo.
Marian pensò che il ragazzino si fosse premurato di fare questa domanda
un po’ in ritardo.
«Me la cavo, non ti preoccupare» disse con il fiatone mentre si
aggrappava ai pioli di una scala di legno che iniziò a traballare in maniera
preoccupante sotto i suoi piedi. Marian cercò di arrampicarsi più in fretta.
Da quando Aleister l’aveva liberata dalle corna si sentiva più agile.
Macbeth si fermò, allungando le orecchie.
«Senti qualcosa?» gli chiese Marian.
Macbeth annuì. «Ci siamo quasi. Da adesso in poi dobbiamo fare
pianissimo» sussurrò.
Sopra le loro teste sbocciò uno spiraglio di luce, rischiarando la
penombra in cui si erano avventurati.
“Ci siamo” si disse Marian, facendo un ultimo sforzo.
Seguì Macbeth a carponi lungo una trave di legno massiccio. Era così
spessa e larga che ci stavano entrambi senza difficoltà.
Marian gattonò fino al bordo per sbirciare sotto e capì all’istante perché
Macbeth le avesse chiesto se aveva paura dell’altezza: si trovavano sulle
travi del soffitto della stanza dove si era radunato il consiglio nobiliare. Le
pareti erano bianche, ricoperte da disegni d’oro. Da dove si trovava, Marian
non riuscì a scorgere cosa ci fosse raffigurato, ma capì che i disegni erano in
costante movimento. Al centro esatto della stanza, proprio sotto di loro,
c’era un grande tavolo ovale bianco, con nove scranni dorati intorno.
Marian vide sette persone prendere posto, lasciandone due vuoti.
La ragazza individuò immediatamente Aleister: avrebbe riconosciuto
quei capelli rossi ovunque. Si era seduto in disparte dal resto del gruppo, in
mezzo ai due posti vacanti.
Marian e Macbeth avanzarono ancora lungo la trave, finché il ragazzino
si sporse e scivolò di sotto. Marian si mise entrambe le mani sulla bocca per
bloccare il grido di sorpresa che si stava lasciando sfuggire. Quando si
affacciò, vide Macbeth sorridente, a cavalcioni sull’enorme lampadario che
rischiarava la stanza con i suoi globi luminosi.
Marian lo raggiunse, calandosi con attenzione e attaccandosi forte alle
robuste catene d’oro che sostenevano il lampadario. In quella posizione
erano abbastanza in alto da passare inosservati, ma abbastanza vicini per
poter ascoltare tutto. Si allungò accanto a Macbeth, mentre sotto di loro
iniziava l’incontro.
«Dichiaro aperta la seduta.»
A parlare era stato un uomo calvo, con buffi baffi e barbetta
perfettamente appuntiti, neri come il carbone. Sulla testa pelata aveva due
corna da caprone ricurve. Anche da quella distanza, Marian poté notare le
sue orecchie a punta di una grandezza decisamente fuori dal normale.
Indossava un elaborato abito nero trapuntato d’oro. Fra tutti i presenti,
sembrava essere quello vestito in maniera più ricca e sfarzosa, superando
persino il Re delle Volpi.
L’uomo richiamò l’attenzione dei presenti battendo più volte un
martelletto sul tavolo e Aleister si mosse irrequieto sul suo seggio. Marian
era certa che stesse sbuffando o roteando gli occhi al cielo. O tutte le due
cose insieme.
«Abbiamo due assenti oggi, andrà segnato sull’ordine del giorno»
cominciò l’uomo con le corna da caprone. Tirò fuori da una cartella piuma e
calamaio e, con rapidi gesti svolazzanti, appuntò la notizia sull’enorme
registro che teneva aperto davanti a sé. Alzò poi lo sguardo, lasciandolo
scorrere tra tutti i presenti. Quando arrivò ad Aleister, esibì un sorriso tirato.
«Guardate un po’ chi abbiamo qui con noi quest’oggi. Be’, ditemi se
questa non è una sorpresa.» Spalancò le braccia e si alzò per rivolgere un
inchino beffardo ad Aleister, che sedeva scomposto sullo scranno al lato
opposto dell’ovale. «Il Re delle Volpi è qui e ci degna della sua presenza.»
Qualche risatina serpeggiò per la stanza, ma Aleister non sembrò
badarvi.
«Non mi avete dato possibilità di rifiutare» disse con un sorriso tirato.
«Da quando sei stato nominato re della tua famiglia, ti sei presentato qui
in sole… due occasioni» continuò l’uomo vestito di nero ignorandolo.
«Sono stato molto impegnato.»
«Due volte su settecentosettantasette.»
Aleister gli rivolse un sorriso sornione. «Tremendamente impegnato.»
«Ti vorrei rammentare che in quanto re hai dei doveri…»
«E io ti vorrei rammentare, Puck» lo interruppe Aleister, senza
mascherare un certo fastidio, «che non sono un re. Il mio predecessore è
ancora vivo, quindi non spetta a me venire qui con il resto delle famiglie
nobili di Faerie.»
“Puck! Il servitore di re Oberon e della regina Titania” pensò Marian. Si
ricordò anche di come Aleister gliene avesse parlato, quando si trovavano
nelle segrete della leannán shee.
«Il tuo predecessore si è ritirato e ti ha investito di questo titolo, giovane
Re delle Volpi, che tu lo voglia o no.»
A parlare era stata un’anziana alla destra di Puck. Aveva un monocolo
dalla montatura dorata appeso al naso corto, i capelli bianchissimi e due
enormi orecchie da gatto in testa. Sembrava fragilissima, come se un soffio
di vento troppo forte avrebbe potuto ridurla in polvere.
«Dovresti accettare ciò che sei, il titolo è tuo, devi smetterla con questi
capricci. Fossi stato uno dei miei piccoli, ti avrei dato una bella tirata
d’orecchie.»
Finita la sua ramanzina, Aleister le sorrise in maniera affascinante. Si
mise la mano destra sul petto e le fece un elegante inchino. «Madama
Catglic, Regina dei Gatti dell’Isola di Mann, capisco perfettamente ciò che
dite, ma vedete… sono molto affezionato alla mia libertà. Spero che
possiate capire.»
Puck stava per replicare, quando un omone si levò il tricorno dalla testa e
lo sbatté sul tavolo. Tutti si zittirono all’istante. Il cappello aveva scoperto
una cascata di ricci rossi come la barba. Indossava una giacca verde
brillante con una doppia fila di bottoni dorati.
«Basta sciocchezze, adesso. Dobbiamo parlare degli assenti. Non vi
sembra strano che manchino proprio loro due fra tutti? Proprio adesso? È
una brutta faccenda, bruttissima» tuonò, facendo schiantare di nuovo
l’enorme palmo della mano sul tavolo.
I nobili di Faerie iniziarono a bisbigliare tra loro concitatamente,
scambiandosi occhiate gravi.
«Sappiamo benissimo che i nani sono restii a lasciare le montagne e le
loro miniere» esordì Puck.
«Ah, quindi loro possono non presentarsi a una riunione ufficiale, mentre
io no?» commentò scocciato Aleister.
Puck si era alzato e, colorato da una preoccupante sfumatura rossa,
sembrava pronto a esplodere, quando la donna pallida come la morte seduta
alla sua sinistra si intromise.
«Smettetela» disse con voce fredda.
Puck tornò subito a sedere, strofinandosi le corna per il nervoso e
lanciando occhiate infastidite nella direzione di Aleister.
«L’osservazione di Quinn è corretta» continuò la donna. Si era alzata per
parlare e i capelli neri, come fili di fumo, la stavano avvolgendo. Indossava
guanti e un mantello da viaggio neri, sopra un lungo abito dello stesso verde
spento del sottobosco d’autunno. Marian si chiese se fosse anche lei una
leannán shee.
«La febbre dell’oro e dell’argento appesta la mente dei nani. Posso
quindi giustificare la loro assenza, come avrei giustificato quella di Aleister
se non si fosse presentato…» continuò «…ma l’assenza del capo degli
hobgoblin è grave. L’assenza del capo degli hobgoblin è pericolosa.»
Si rimise a sedere, silenziosa e fredda come l’alba d’inverno.
Nessuno proferì parola per un po’, ognuno perso nei propri pensieri.
Marian studiò i sette partecipanti, uno a uno. Riconobbe subito una fata.
Assomigliava così tanto a quella che aveva incontrato con Macbeth che non
ebbe dubbi. Sedeva tra l’anziana donna gatto e il gigante Quinn, curva sul
suo scranno e piena di rughe, simile a un albero contorto. Al lato opposto
del tavolo, seduta alla destra di Puck c’era la bellissima donna che aveva
parlato e, accanto a lei, un uomo dalla pelle blu notte, cosparsa da una
spruzzata di lentiggini argentate. Aveva i capelli scuri raccolti in
un’acconciatura elaborata ed elegante, come i suoi abiti dal taglio severo.
Sedeva dritto come un fuso, le punte delle lunghe dita giunte davanti a sé.
Osservava la scena con educata curiosità, e fu proprio lui a spezzare il
silenzio, parlando per primo.
«Aleister, Re delle Volpi, abbiamo bisogno di te per mettere insieme i
pezzi di questo mosaico rovinato. Sappiamo che hai subìto un attacco.»
«Dite davvero?» rispose Aleister con aria innocente, facendo finta di
cadere dalle nuvole.
«Oh, avanti, smettila! Sappiamo che il tuo palazzo è distrutto» sbottò
furente Puck, agitando la testa cornuta.
«Be’, se anche così fosse, io non mi trovavo in casa in quel momento»
replicò Aleister in tono vago.
«Ti pregherei di parlare chiaro. È dunque vero quanto si dice?» chiese di
nuovo l’uomo alla destra di Puck. Il suo viso era imperturbabile, ma la voce
tradiva tutta la sua preoccupazione.
«È così» rispose allora Aleister.
«È stato il Negromante?»
I membri del consiglio nobiliare di Faerie borbottarono di nuovo. Tra
loro serpeggiò un’ombra di paura e preoccupazione. Aleister annuì
lentamente.
«Perché?»
Il Re delle Volpi cambiò posizione, come se fosse scomodo. Per la prima
volta sembrava in difficoltà.
«È venuto da me…» iniziò, incerto.
«Cosa voleva?»
A Marian quello parve un interrogatorio bello e buono.
«Immagino ciò che, forse, anche il Re degli Hobgoblin auspica» rispose
evasivo Aleister con un sorriso beffardo.
«Avanti, parla chiaramente, ragazzo, non abbiamo tutto il giorno» tuonò
l’enorme Quinn.
La donna pallida gli mise una mano sul braccio, come a volerlo calmare.
Poi si rivolse al Re delle Volpi: «Racconta tutto dal principio».
Questa volta Aleister sembrò perdere tutta la sua spavalderia.
«Il Negromante è venuto da me. Mi ha chiesto di unirmi a lui e alla sua
causa. A quanto pare ha dei grandi progetti per Faerie.»
«Quali progetti?» lo interruppe l’anziana donna gatto.
Aleister scrollò le spalle. «Non ho chiesto, perché non ero interessato.
Mi ha detto che sarebbe stato generoso con gli amici e… be’, implacabile
con i nemici. Gli ho risposto che per me poteva fare quello che voleva, a
patto che mi lasciasse in pace. Io amo la mia tranquillità.»
«Oh, questo lo sappiamo tutti molto bene» borbottò Puck.
Aleister lo fulminò.
«È per questo che ha distrutto il tuo palazzo?» chiese la vecchia fata.
Aveva parlato con voce rauca e gracchiante.
«Credo che fosse un avvertimento. Nel dubbio, ho pensato che fosse una
buona idea nascondermi.»
Puck ridacchiò. «Be’, non così bene, dato che siamo riusciti a
convocarti.»
«Quando voglio farmi trovare lo rendo possibile» ribatté Aleister con il
suo miglior sorriso.
«Il Negromante… non ho mai pensato che potesse essere una minaccia»
disse la donna.
«Ha acquisito troppo potere. Troppi alleati. Se sta tramando qualcosa,
dovremmo indagare» aggiunse l’uomo al suo fianco in tono asciutto.
Ci furono diversi assensi e borbottii.
«Niente impedisce a voi banshee ed elfi di indagare» disse Quinn con un
ringhio. «Sempre che la cosa non vi rechi troppo disturbo.»
«Ovviamente indagheremo. Proteggere Faerie e la sua magia è sempre
stata la nostra priorità» ribatté asciutta la banshee, i capelli che avevano
iniziato a fluttuarle attorno.
Marian venne attraversata da un brivido. L’idea di trovarsi nella stessa
stanza con una banshee non la entusiasmava. Nell’Altrove erano
considerate ambasciatrici di morte. Quando ne si udiva il pianto o il
lamento, era già troppo tardi…
«Possiamo contare sulla tua lealtà?» chiese l’anziana donna gatto,
rivolgendosi ad Aleister.
Aleister sembrò sorpreso da quella domanda.
«Madama, non dovete dubitare della mia fedeltà nemmeno per un
istante» rispose lui in tono di enorme sorpresa.
«La vera domanda che dobbiamo però porci adesso è: che cosa vuole il
Negromante? Sappiamo che sta radunando la peggior feccia di Faerie, ma a
quale scopo?» disse Puck, scuotendo gravemente la testa.
I membri delle famiglie nobili di Faerie ammutolirono, scambiandosi
occhiate gravi. Scese un silenzio denso.
«Qualcosa dovrà pur volerlo, se si è rivolto al Re delle Volpi» disse la
banshee. Poggiò i gomiti sul tavolo, intrecciando le dita guantate di nero,
lanciando poi un’occhiata penetrante a tutti i presenti. «Pensate che
riceveremo anche noi una visita simile?»
«Ho sentito che ha il Leviatano dalla sua» commentò cupa la fata.
Il consiglio proruppe in borbottii preoccupati.
«Corbellerie!» urlò Quinn, battendo l’enorme pugno sul tavolo. «Se così
fosse, saremmo tutti nei guai.»
«Ha dalla sua il Re degli Hobgoblin, siamo già nei guai» disse perentorio
l’elfo.
I sette membri del Consiglio dei Nove iniziarono a discutere
animatamente, mentre Aleister continuava a fissare Puck all’altro capo del
tavolo, con un odioso sorriso stampato in faccia.
Marian lanciò a Macbeth un’occhiata preoccupata.
Quella figura ammantata di nero che aveva scorto, la persona di cui
Aleister si era rifiutato di dirle il nome… si trattava del Negromante?
«Qui non si vede proprio un accidente. Sempre a fare economia eh,
vecchio Puck?» brontolò all’improvviso Quinn. Schiaffò sul tavolo un
sacco di cuoio marrone a cui slacciò le corde. «Facciamo un po’ di luce in
più, o finirai per perdere la vista a furia di consultare il tuo registro con
questo buio. Via, piccoline, andate!»
Dalla borsa sciamarono tante piccole luci che si innalzarono nell’aria,
svolazzando accanto ai globi del lampadario e alle facce di Marian e
Macbeth nascosti a origliare.
A Marian per poco non prese un colpo quando si accorse che non si
trattava di lucciole ma di minuscoli spiritelli. Avevano le teste schiacciate e
allungate, un busto corto e gambe e braccia lunghissime. Sulla schiena
avevano ali da libellula e delle espressioni malvagie sui minuscoli volti.
Iniziarono subito ad appendersi ai capelli di Marian, tirandoglieli, e a fare
capriole sulla sua schiena.
La ragazza iniziò a sudare, cercando di resistere alla tentazione di
dimenarsi per scacciarli via. Gli spiritelli passarono a pizzicarle le guance e
a cercare di infilarsi nelle sue narici. Stava provando a nascondersi il viso
tra le mani, quando sentì Macbeth gemere. Allargò le dita per spiare in
direzione del ragazzino. Le minuscole creature dispettose gli stavano sedute
in testa e avevano iniziato a tirargli i capelli con grande gusto.
Il lampadario, immobile fino a quel momento, iniziò a oscillare.
Macbeth cercò di allontanare le creature con una manata, aizzandole ancora
di più. Offese, quelle tornarono all’attacco più inferocite di prima. Si
infilarono sotto la sua giacca, facendogli il solletico e mordendolo. Macbeth
schizzò in piedi e cominciò a colpirsi il busto nel tentativo di scacciarle.
Il lampadario dondolò ancora più forte e cigolò in maniera preoccupante.
«Macbeth, ti prego, cerca di resistere…» gli sussurrò Marian,
aggrappandosi alle pesanti catene.
Un istante dopo il lampadario si staccò.
Marian e Macbeth precipitarono nel vuoto, schiantandosi con un boato
sul tavolo del consiglio nobiliare di Faerie.
23
Marian mangiò arrabbiata la cena che si materializzò per magia nella sala
da pranzo del palazzo, e si buttò furiosa sul letto a baldacchino della sua
camera, nell’ala dedicata agli ospiti.
Lei e il Re delle Volpi non si erano rivolti la parola per l’intera serata e
per Macbeth fu tutto un gran correre avanti e indietro perché Aleister ci
teneva moltissimo a sapere se il cibo fosse di gradimento di Marian, e
Marian voleva ringraziare a tutti i costi Aleister che “davvero non avrebbe
dovuto prodigarsi in quella squisita ospitalità”. Il tutto in termini
cordialmente offesi.
Parecchie ore dopo aver dato la buonanotte a Macbeth e aver lanciato
un’occhiata stizzosa ad Aleister, impegnato a suonare con scarso successo
uno strumento simile a un liuto, Marian continuava a rigirarsi senza sosta
nel letto, sbuffando e calciando via le lenzuola, senza riuscire a prendere
sonno.
Non riusciva a impedirsi di ripensare al litigio con Aleister, recitando le
battute che si erano scambiati e pensando a tutte le risposte pungenti che
avrebbe voluto dargli, ma che non le erano venute in mente. Affondò il viso
nel cuscino, in preda a una cocente vergogna. Non si era mai sentita così
tanto sciocca in tutta la sua vita.
“Ci penserò io” gli aveva detto, con una sicurezza presuntuosa che
adesso si era volatilizzata. Non aveva la più pallida idea di come avrebbe
fatto a tenere fede alle sue parole.
Se anche quello che le aveva detto Macbeth era vero, che lei e
Feardorcha venivano entrambi dall’Altrove, lui aveva comunque qualcosa
che lei non aveva. La magia.
A Marian costava doverlo ammettere, ma Aleister aveva perfettamente
ragione. Non sarebbe stata in grado di fare niente contro il Negromante.
Niente.
Il ragazzo aveva ragione anche su un altro doloroso punto, ovvero gli
obblighi che lei aveva verso i suoi genitori. Quel litigio, però, l’aveva
mandata su tutte le furie e non poteva perdonare facilmente i toni villani di
Aleister.
Si tirò le coperte fin sopra alla testa, ripromettendosi di trovare una
soluzione l’indomani.
“Si sa che la notte porta consiglio” si disse speranzosa.
Il mattino seguente, però, constatò con sua grande delusione che non le era
venuta nessuna buona idea. L’unica differenza rispetto alla sera prima
erache l’irritazione nei confronti di Aleister era forse aumentata.
Dopo essersi rivestita in fretta e aver combattuto senza successo con i
suoi capelli, decidendo alla fine di tenerli sciolti, lasciò la sua stanza per
dirigersi nel salone principale, dove era sicura che avrebbe trovato
Macbeth. Era a metà del corridoio, quando vide il ragazzino venirle
incontro. Sembrava sollevato nel vederla.
«Non sei andata via!»
«Pensavi che me ne sarei andata via nel cuore della notte lasciandoti qui
dopo tutto quello che abbiamo passato insieme?»
Macbeth le rivolse un sorriso imbarazzato. «È che eri molto arrabbiata
quando sei andata a dormire. Pensavo… lascia stare. Piuttosto, sei sicura di
voler partire adesso? Aleister non ha ancora tenuto fede al patto, non ha
ancora realizzato il tuo desiderio…»
«Non penso che lo farà mai» borbottò lei.
«Non dire così! Penso invece che lo farà… prima o poi.»
Nemmeno Macbeth sembrava molto convinto.
«Sai una cosa?» cominciò Marian, irritata. «In fondo Aleister ha ragione
a dire che non può essere un re. È un disastro. È troppo capriccioso, egoista,
vanitoso per potersi preoccupare degli altri o accorgersi anche solo della
loro esistenza. E io ne sono la prova vivente. Avrebbe potuto rispettare il
patto subito, appena usciti dal palazzo della leannán shee. Invece no, sono
dovuta rimanergli appresso nella speranza che il suo umore cambiasse e
aspettare che gli venisse voglia di levarmi quelle maledette corna che mi
erano spuntate per colpa sua» sbottò furiosa.
«Secondo me deve solo imparare» provò a dire Macbeth con cautela,
cercando di difenderlo. «Se lo conosci bene, ti accorgi che in fondo… be’,
molto in fondo, ha un cuore buono. E poi che non è stato lui a decidere di
diventare re, qualcun altro ha fatto questa scelta per lui. Si è ritrovato
incastrato in questa posizione, mentre desiderava solo poter essere libero.»
La rabbia di Marian venne stemperata dai sensi di colpa. Forse aveva
sbagliato a esprimere un giudizio così duro. Forse, alla fine dei conti, lei e
Aleister non erano così diversi. Entrambi avevano subito le scelte degli altri
e avevano semplicemente risposto in maniera differente. Marian aveva
sempre detto di sì, incapace di tirare fuori la voce e di farsi ascoltare dalla
sua famiglia. Aleister invece aveva cercato di ritagliarsi una sua libertà,
scegliendo se stesso e lasciando indietro gli altri.
Per quanto Marian cercasse di essere arrabbiata con Aleister per come
avevano discusso la sera prima, adesso doveva ammettere che le dispiaceva.
Era dalla sera prima che cercava di soffocare un desiderio, ma ora non
poteva più ignorarlo. Voleva aiutare Aleister a trovare la sua strada. Voleva
fare qualcosa per lui, lo desiderava davvero con tutto il cuore… Ma Aleister
era così maledettamente cocciuto.
Marian non aveva mai sentito il suo cuore così pesante come in quel
momento.
In quell’istante apparve il Re delle Volpi. Passeggiava guardandosi
intorno con aria distratta e finse di scorgerli solo quando era ormai a pochi
passi da loro.
«Oh, buongiorno, Macbeth. Buongiorno, Marian.»
Sorrise calorosamente a entrambi con un po’ troppa enfasi.
«Buongiorno» disse Macbeth mentre Marian si limitava a rivolgergli
un’occhiata poco convinta.
«Potresti lasciarci un attimo soli, Macbeth?» chiese Aleister cordiale.
Il ragazzino sembrava restio a ubbidire. Continuava a guardarli
sospettoso.
«Su, su, avanti» gli disse Aleister, spingendolo gentilmente via. Fu solo
quando Marian gli fece un piccolo cenno con la testa che Macbeth accettò
di defilarsi.
«Hai una grande influenza su di lui» osservò il Re delle Volpi.
«Sei forse invidioso?»
«Geloso, più che altro.»
Marian rimase sorpresa da quella risposta.
Cadde un silenzio imbarazzato. Aleister pareva a disagio e trovare
qualcosa da dire divenne di vitale importanza e necessario.
«Il tuo nome…» mormorò, cincischiando con l’orlo della giacca, in
maniera distratta. «Marian. È un nome buffo a pensarci bene. È da un po’
che te lo volevo dire.»
«Trovi?» sbottò Marian. Se quelle erano delle scuse, stava partendo
decisamente male.
«Ha diversi significati, tra cui “afflitta”. Con un nome del genere, non mi
stupisco della piega che ha preso il tuo destino.»
Prenderla in giro per il suo nome non era decisamente l’approccio giusto
per fare pace. «Probabilmente mia madre lo ha scelto perché ha un bel
suono» tagliò corto Marian, irritata. «Comunque, ricordati che devi ancora
esaudire il mio desiderio. Potresti risolvere la faccenda ora, così non sarei
più “afflitta”.»
«Ah, già» disse lui, cadendo dalle nuvole.
Marian lo guardò sbigottita. Come poteva continuare a dimenticarsene?
Aleister se ne stava appoggiato pigramente contro una statua, impegnato
a passarsi una mano tra i capelli, sistemandoseli con cura. Risultava
arrogante anche quando dava inconsapevolmente sfoggio della sua bellezza
e di tutta quella perfezione. Marian si chiese come aveva potuto sentirsi in
colpa per aver litigato con quello stupido borioso.
«Vedrai, mi inventerò qualcosa.»
Rimasero di nuovo in silenzio, mentre l’irritazione di Marian cresceva
sempre di più.
«Sai, qui a Faerie i nomi sono davvero molto importanti» disse Aleister,
in tono vago.
Marian sospirò. Dove voleva andare a parare?
«E il tuo è sì buffo, ma anche… importante. E penso che ti si addica.»
Aleister le lanciò un’occhiatina, per vedere se era riuscito a catturare la sua
attenzione.
Marian si limitò a incrociare le braccia al petto. «“Afflitta”? Pensi che mi
si addica?» osservò in tono distaccato.
La risposta parve divertire il Re delle Volpi, perché un sorriso si allargò
sul suo bel viso. Non c’era però traccia di ironia.
«“Ribelle”, “amara”, “bellicosa”… “amata”» continuò.
Marian lo guardò incuriosita.
«È il tuo nome, Marian. Il suo significato» continuò lui. «Mi fa sorridere
perché non poteva esserci un nome più azzeccato per te.»
Marian distolse lo sguardo, ben decisa a non cedere alle moine del
ragazzo.
«E Aleister invece? Cosa significa?»
«“Difensore dell’umanità”.»
Marian e Aleister si guardarono e scoppiarono a ridere.
«Marian, stavo pensando che forse… forse dovresti restare. Almeno fino
a che non avrò trovato una soluzione. Vorresti?» chiese lui con dolcezza.
Marian non gli rispose, limitandosi a rivolgergli un’occhiata pungente. Il
ragazzo si scompigliò i capelli, sospirando.
«Mi arrendo. Ti devo le mie scuse» disse, alzando le mani.
Marian era sorpresa. Non pensava che avrebbe ceduto per primo e non
pensava che lo avrebbe fatto così facilmente.
«Per cosa?» chiese con innocenza. Aveva tutta l’intenzione di farlo
scusare per bene, senza tralasciare nessun dettaglio.
«Immagino per tutto» borbottò lui. «Avevo bisogno di sfogarmi e ho
cercato di farti arrabbiare in tutti i modi per poter litigare con qualcuno. È
stato molto scorretto da parte mia» ammise.
«Molto poco carino ed elegante per un re.»
«È così, e ti chiedo scusa.»
Marian lo studiò. Sembrava sincero nella sua mortificazione e per lei fu
sufficiente.
«Scuse accettate» dichiarò.
Il viso di Aleister si distese in un sorriso sollevato.
«Mi riempi il cuore di gioia!» esclamò.
E la strinse tra le braccia, facendole fare una piroetta in aria.
Marian arrossì. Il viso di Aleister così pericolosamente vicino al suo…
«Quest’espressione crucciata non ti dona granché, sei più bella quando
sorridi. Ma ora credo che dobbiamo metterci al lavoro, non trovi?»
annunciò allegro, posandola con delicatezza a terra.
«Cosa intendi?» chiese Marian, cercando di dissimulare l’emozione che
la stava sconquassando.
«Non mi hai consigliato tu stessa di avvertire il consiglio nobiliare di
Faerie? È un suggerimento piuttosto azzeccato, ed è proprio quello che
andremo a fare adesso.»
La prese per mano e iniziò a trascinarsela dietro per il palazzo,
canticchiando. Sembrava essere tornato di ottimo umore. «Posso farti una
domanda?» chiese poi.
«Certo. A patto che non sia impertinente.»
Lui rise e Marian sentì delle farfalle poco opportune svolazzarle nello
stomaco.
«Perché hai sempre avuto paura di dire quello che pensi?»
La domanda prese Marian in contropiede. D’istinto, cercò di lasciare la
presa dalla mano di Aleister, ma lui la strinse più forte, continuando a
camminare a testa alta e guardando davanti a sé.
Marian gli fu grata per non essersi messo a studiarla come al suo solito.
«Perché a nessuno è mai interessato ciò che avevo da dire» rispose,
stringendosi nelle spalle. Provò a dirlo cercando di sembrare allegra e
disinvolta… ma si rese conto che era umiliante dirlo così, ad alta voce.
Dirlo a lui, poi. Faceva quasi male.
«A me interessa quello che hai da dire» ribatté Aleister con voce
cristallina.
Fu in quel momento che si fermò e la guardò con attenzione, come se
riuscisse a vedere tutto di lei. Le strinse la mano più forte. «Davvero. E
trovo che tu abbia sempre delle cose molto interessanti da dire.»
Marian distolse lo sguardo dai suoi occhi verdi, a disagio. «Hai ragione
sul mio nome, dopotutto» balbettò, cercando di cambiare discorso. «Non
credo che la felicità mi appartenga.»
«Sciocchezze!» rise lui. «La felicità appartiene a tutti. Perché pensi una
sciocchezza simile?»
Marian scosse la testa, convinta della sua idea. «Non penso che la felicità
sia prevista per me, che faccia parte del mio destino. Dopotutto cosa ci si
può aspettare da una ragazza il cui nome significa “afflitta”?» cercò di
scherzare.
Aleister sospirò. «Marian, questa è una vera stupidaggine. Non vedi che
errore stai facendo? Ti stai soffermando su un dettaglio insignificante. Il tuo
nome vuole dire tante altre cose, ma tu ti sei fissata sull’unica negativa.
Invece di pensarti “afflitta”, ricordati che sei anche “bellicosa” o “ribelle”.
E ti posso assicurare che sei entrambe le cose. Sei una ragazza così
intelligente, eppure continui a dire cose tanto sciocche!» Aleister le rivolse
un’occhiata seria. «Perché sei sempre vittima degli eventi?»
«Cosa intendi?»
«Mi hai detto che hai sempre fatto tutto quello che ti veniva detto, senza
mai dire di no. Vorrei capirne il motivo. Perché non hai mai detto
chiaramente cosa volevi e cosa non volevi fare?»
Marian abbassò gli occhi, sentendosi colpevole.
«Non avevo scelta» mormorò.
«Una scelta c’è sempre» ribatté Aleister, con dolcezza.
«Non mi avrebbero ascoltata.»
«Io ti sto ascoltando.»
Marian alzò la testa e incontrò gli occhi di Aleister. Era vero. La stava
ascoltando davvero e lo stava facendo con una dolcezza quasi dolorosa,
senza prese in giro.
«Comunque sono venuto per dirti che lo farò» annunciò allegramente il
Re delle Volpi, distogliendo lo sguardo.
Quell’intimità che si era creata si spezzò, e Marian gli fu grata per aver
cambiato repentinamente discorso.
«Farai che cosa?»
«Diventerò re. Be’, tecnicamente lo sono già da un pezzo, ma hai capito»
rispose. «E farò il possibile per fermare Feardorcha.»
Marian non poteva credere alle sue orecchie.
«Hai pronunciato il suo nome!»
Aleister le riservò un sorriso soddisfatto. «Che sappia pure che sto
parlando di lui. Mi deve solo temere!»
«Io… sono senza parole, Aleister. Sono davvero fiera di te.»
Il ragazzo sorrise ancora. Che fosse gratitudine quella che Marian
leggeva nei suoi occhi? Non ne aveva idea, ma sapeva di non essersi mai
sentita tanto felice come adesso.
«Grazie, Marian» le disse, a voce bassa.
«Per cosa?»
«Per avermi sgridato. Penso che mi abbia fatto bene.»
Marian scoppiò a ridere e Macbeth sbucò all’improvviso, gettando le
braccia al collo di entrambi.
«Avete fatto pace? Ero così in pensiero! Per favore, non litigate più…»
Aleister gli scompigliò i capelli e si chinò per dargli un bacio in testa.
«Hai ragione, Macbeth. Che sovrano orribile che hai, sono stato un vero
villano…»
Macbeth lo guardò confuso, poi realizzò il significato delle sue parole, e
sul suo viso si allargò il più grande dei sorrisi.
«Oh, Aleister! Aleister!» disse ridendo e agitando la coda felice. «Lo
sapevo! Farai il re!»
«Calmiamoci adesso, tutti quanti. La felicità è meglio conservarla per
dopo. Abbiamo un compito importante da portare a termine ora: dobbiamo
avvertire la Madama dell’Isola di Mann, per cercare di anticipare
Feardorcha.»
«Come facciamo ad avvertirla?» chiese Marian.
«C’è un canale di comunicazione che usava il vecchio. Nessuno a parte
Madama Catglic ne è a conoscenza, quindi dovremmo riuscire a passare
inosservati.»
«Non potremmo chiedere aiuto al consiglio nobiliare per l’intera
faccenda?» propose Macbeth.
Aleister fece una smorfia. «No, non hanno idea dell’esistenza delle
parole e preferisco che continuino a rimanerne all’oscuro. Me ne occuperò
personalmente, è deciso. E poi non voglio che quell’idiota di Puck sappia
che mi sono lasciato rubare da sotto il naso qualcosa di così prezioso. Hai
idea di quanto mi tormenterebbe?»
Aleister ricominciò a sfrecciare per il palazzo, avanzando sicuro per i
corridoi illuminati dal sole del mattino fino alla sala del trono. Si avvicinò a
uno dei bracieri disposti agli angoli della grande stanza e con un semplice
gesto accese il fuoco con le sue fiamme magiche. Dal braciere si innalzò
un’enorme fiammata e Marian e Macbeth fecero un passo indietro.
«Il Re delle Volpi richiede udienza alla Regina dei Gatti dell’Isola di
Mann» annunciò Aleister a gran voce.
A vederlo così, splendente nella luce del mattino e del fuoco che gli
accendeva i capelli rossi e i decori oro della giacca, Marian si emozionò.
Sembrava un vero re.
Aleister si voltò verso di lei, un sorrisetto storto stampato in faccia.
«L’ho visto fare un paio di volte al vecchio» sussurrò.
Tra le fiamme, apparve il viso pieno di rughe della donna gatto.
«Madama, ossequi» disse Aleister allegramente, facendo un piccolo
inchino.
«Aleister? Sei proprio tu?»
La voce della regina dei gatti arrivava forte e chiara, così come arrivava
forte e chiaro il suo disappunto nel trovarsi di fronte Aleister. Si aspettava il
suo predecessore.
«In persona, Madama. Sono qui a portare buone e cattive nuove.
Innanzitutto, come avrete intuito, ha di fronte il nuovo Re delle Volpi.»
La donna esitò.
«Hai finalmente accettato il tuo destino?»
«Sì, è così. E poi perché il mio predecessore è morto.»
«Che cosa? Cos’è accaduto?» si allarmò l’anziana.
«Ha cercato fino all’ultimo di proteggere l’incantesimo segreto… la
parola custodita dalla famiglia delle volpi, battendosi valorosamente contro
Feardorcha.»
Catglic sembrò esitare. Il viso addolorato tremava tra le fiamme del
braciere.
«Non pensavo che il Negromante si sarebbe spinto a compiere una tale
barbarie» mormorò, non nascondendo una certa indignazione.
«Temo che siate in pericolo» affermò Aleister.
«Sciocchezze» ribatté lei. «Sono perfettamente in grado di difendermi
dal Negromante. Non vivo come un eremita in un castello sperduto e non
sono neanche così vecchia come lo era il tuo predecessore! Sono circondata
dal mio clan, ben protetta. Se Feardorcha vuole provare a sfidare questa
vecchietta, troverà pane per i suoi denti» rispose in un tono così deciso da
non ammettere repliche. «Aleister, se l’ora è così tarda, c’è solo una cosa da
fare… ti devo affidare un compito» disse poi la donna gatto, pensierosa.
«Sono al vostro servizio.»
«Dovresti fare visita ai nani.»
«I nani?» esclamò Aleister. Non sembrava contento della richiesta.
«I nani» confermò lei. «Come hai potuto vedere anche tu, non si sono
presentati al consiglio nobiliare. All’inizio ho immaginato che si trattasse
della loro solita pigrizia… ma adesso dobbiamo assicurarci che non si siano
uniti a Feardorcha. O peggio, che Feardorcha non si sia impossessato della
loro parola.»
«A tal proposito… Temo che si sia già impadronito di quella degli
hobgoblin.»
Aleister sfoderò l’arma con cui Feardorcha aveva provato a colpirlo. Il
pugnale dalla lama nera lanciò un bagliore tetro quando venne portato alla
luce del fuoco magico.
«Quella…» esclamò l’anziana, riconoscendo subito la fattura dell’arma.
«Sì. Feardorcha l’ha usata contro di me. Possiamo affermare senza dubbi
che siano alleati. Immagino che gli abbiano consegnato l’incantesimo senza
fare storie. Se siano o meno a conoscenza dell’uso che Feardorcha ne farà,
però, lo ignoro.»
«Non c’è tempo da perdere allora» rispose secca Madama Catglic.
«Dovrai partire oggi stesso. Fai del tuo meglio, giovane re.»
L’enorme testa tremolò per poi sparire inghiottita dalle fiamme.
Aleister rimase a fissare il braciere con una smorfia che gli segnava il
volto.
«Tutto bene?» chiese Marian preoccupata.
«Devo andare dai nani» esclamò desolato Aleister. Si buttò a sedere
scomposto sul trono.
Marian si rimangiò qualsiasi osservazione che aveva fatto in precedenza
sulla regalità appena acquisita da Aleister.
«Ed è una richiesta tanto grave?»
Il Re delle Volpi si stava massaggiando gli occhi con la mano,
sospirando.
«Lì la mia magia non funziona… o meglio, non funziona quella per
viaggiare. Non funzionano piume, portali e tutto ciò che di più comodo sia
mai stato inventato a Faerie. E questo perché i nani sono dei piccoli avari
paranoici. Hanno paura che qualcuno si possa intrufolare nelle loro terre per
derubarli, quindi l’unico modo per presentarsi al loro cospetto è quello di
bussare direttamente alla loro porta di casa e passare una miriade di
controlli. Posso arrivare fino all’ingresso del loro regno, ma da lì in poi
dovremo raggiungere il palazzo a piedi.»
«Ed è molto scomodo?» chiese Marian, che era sempre andata
dappertutto a piedi e non le sembrava un’impresa tanto faticosa da
affrontare.
«Terribilmente» confermò lui. «Ma non abbiamo scelta. Avanti, fate i
bagagli, dobbiamo partire» annunciò.
Marian e Macbeth si scambiarono un’occhiata poco convinta. Nessuno
di loro aveva dei bagagli da preparare. Marian non si ricordava nemmeno
più dove avesse abbandonato la sua borsetta.
«Credo che siamo entrambi pronti» disse.
Aleister rivolse loro un’occhiata rassegnata.
«Be’, allora non ci resta che metterci in viaggio.»
28
La luna era già alta nel cielo ma lì, nel palazzo dei nani scavato nella pietra,
l’oscurità era una coltre fitta, soffocante.
Le torce ai lati dell’imponente ponte si accesero una dopo l’altra, a mano
a mano che lui avanzava. I suoi passi riecheggiavano in un’eco che
sembrava non avere né un inizio, né una fine.
Entrare era stato facile, sfilare inosservato davanti alle guardie in alta
uniforme lo era stato ancora di più. Mentre le superava, aveva sfiorato
impunemente gli enormi martelli d’acciaio, con una deliziosa soddisfazione
nel sapere di poterlo fare senza essere visto.
Era stato tutto così semplice che adesso che si trovava al cospetto del re
del Regno dentro la Montagna, non ci poteva quasi credere.
«Feardorcha» ruggì re Ord. «Come osi mostrare la tua brutta faccia
qui?»
Il Negromante assunse un’espressione offesa.
«Dirmi una cosa del genere… non sei molto gentile. Eppure tutti non
fanno altro che lodare l’ospitalità dei nani.»
Il re fece roteare l’enorme martello sopra la testa, con un’agilità
portentosa. Nelle sue mani sembrava leggero come una piuma, ma
Feardorcha conosceva molto bene il reale peso dell’acciaio dei nani. La
mazza era alta quanto il suo proprietario, ed era massiccia quanto lo era il
re. Il bordo della testa aveva un intricato motivo di gemme incastonate.
«Avvicinati, allora, così potrò mostrartela meglio, dandoti il benvenuto
che meriti.»
Feardorcha sfoderò un ghigno divertito. Il re aveva il senso
dell’umorismo, cosa rara per un Sidhe e ancora più rara per un regnante.
Sapeva che sarebbe stato uno sciocco errore sottovalutarlo. Per questo
aveva preso delle precauzioni.
«Sono qui per proporti un affare. Tu hai qualcosa che mi interessa
enormemente… e io so come ripagarti.»
Il re proruppe in una risata che rimbombò spaventosa. Si trovavano
all’ingresso del palazzo reale, scavato nel cuore della montagna. Alle spalle
di Feardorcha si estendeva un intricato labirinto di ponti sospesi e gallerie.
Sebbene il re dei nani si fosse presentato da solo, il mago sapeva che ben
presto avrebbero avuto compagnia. Le guardie cittadine e quelle reali si
sarebbero risvegliate presto dall’incantesimo che aveva lanciato. Non
doveva indugiare, aveva poco tempo e voleva evitare inutili scontri.
«Che cosa potrebbe mai offrire il Negromante che susciti l’interesse del
Re dei Nani? Ho tanto oro e argento che le segrete del mio regno scoppiano,
e le mie miniere sono stracolme di gemme. Ne abbiamo così tante che
basteranno fino alla fine dei nostri giorni. Fino alla fine del mondo intero.»
Il silenzio del castello venne infranto da un convulso rumore dei passi. In
una manciata di secondi, Feardorcha venne accerchiato dalla guardia reale.
Il suo incantesimo era stato spezzato. I nani erano più resistenti di quanto
avesse previsto. Era stato un errore sciocco da parte sua sottovalutare quella
loro pellaccia spessa.
Il re ringhiò soddisfatto. Era circondato dai suoi miglior guerrieri,
adesso. Feardorcha avrebbe pagato per l’impudenza avuta nel presentarsi al
suo cospetto senza invito e per essersi introdotto nel suo regno di nascosto.
Eppure l’espressione del mago non cambiò. Anzi, sembrava divertito.
«Penso che dovresti richiamare le tue guardie, sarebbe più cortese
concedermi un discorsetto a tu per tu» lo avvertì. La sua voce risuonava
ferma, senza traccia di smarrimento o paura, sebbene avesse puntati contro
mazze ferrate e martelli da guerra.
Il re gli scoccò un’occhiata sprezzante. «Io non scendo a patti con i
mostri.»
«Molto bene. Penserò io ai tuoi soldati, allora» annunciò il mago e gli
occhi gli lampeggiarono di rosso.
In un battito di ciglia, Feardorcha si trasformò.
Si piegò su se stesso come se si stesse sciogliendo. Le vesti si
allargarono e si tramutarono in enormi zampe squamate ricoperte da lunghe
piume. I lucenti capelli neri si ritirarono, diventando pelo ispido. Il viso
attraente dalle guance scavate sparì. Dove prima c’era un uomo, adesso si
ergeva l’enorme bestia che terrorizzava gli incubi di Faerie.
«Ora sì che puoi darmi del mostro» ghignò la creatura.
Prima che il re potesse reagire, spiccò un balzo e atterrò sui soldati. Con
le enormi zampe artigliate li afferrò a manciate, scaraventandoli al di là del
parapetto del gigantesco ponte su cui si trovavano. Pur essendo una creatura
così massiccia, aveva una destrezza innaturale e schivava con facilità le
mazze ferrate e i martelli. Scagliò e schiacciò i soldati uno dopo l’altro,
finché non ne rimase in piedi nemmeno uno. Il rumore dei corpi spezzati e
delle ossa frantumate era straziante. I loro cadaveri erano sparsi lungo il
ponte, le ossa che perforavano le carni, gli elmi fracassati sotto al peso delle
sue zampe. Un lago di sangue sgorgava dai corpi, colando nelle viscere
della montagna, oltre il parapetto.
Il re fissava inorridito la scena. In pochi istanti, Feardorcha aveva
sterminato alcuni tra i suoi guerrieri più forti. Boccheggiante, teneva stretta
al petto la mazza.
«Bene, direi che adesso possiamo riprendere le nostre trattative»
gracchiò la bestia con voce roca.
L’orribile mostro si scrollò e il Re dei Nani sentì il pavimento tremare
sotto ai suoi piedi. Quando rialzò lo sguardo, Feardorcha era tornato come
prima, traboccante di fiducia.
«Come dicevo, ho qualcosa da offrirti che sono sicuro susciterà il tuo
interesse.»
Fu con enorme soddisfazione che sfoderò il suo asso dalla manica.
Allargò le braccia e, dall’oscurità delle pieghe delle sue vesti, apparve una
piccola figura tremante.
A re Ord bastò uno sguardo per realizzare di chi si trattava.
«Mia figlia…» gemette il re. «Come hai osato?» gridò, livido di rabbia.
La principessa cercava di tenere alto il viso barbuto, con fierezza.
«Non temete, padre» disse con voce rotta.
«Oh, tuo padre non dovrà temere niente, se mi consegnerà ciò per cui
sono venuto. Si tratta di un semplice scambio.»
Gli occhi del Negromante lampeggiarono, e un ghigno si allargò sul viso
pallido. Nei suoi lineamenti si poteva ancora scorgere la creatura in cui si
era tramutato pochi istanti prima.
«Non oseresti tanto» disse il re. «Mia figlia…»
«Oh… sfidami.»
Feardorcha, con un gesto pigro, sollevò da terra la principessa, facendola
galleggiare sopra il crepaccio che si estendeva sotto di loro, oltre il
parapetto. La principessa continuava a dibattersi, cercando invano di
liberarsi da quella morsa invisibile.
«Ti prego, fermati! Ti darò tutto quello che vuoi, ma non farle del male!»
Il grido disperato del Re dei Nani squarciò l’oscurità del regno che non
conosceva la luce del sole.
Il re lasciò cadere a terra il martello, che crepò l’elegante lastricato.
Anche lui cadde, in ginocchio.
«Saggia decisione» commentò Feardorcha con un sorriso conciliante.
«Dimmi che cosa vuoi. Ma ti prego, non farle del male. È la mia unica
figlia!» pregò il re.
Gli occhi azzurro ghiaccio di Feardorcha erano diventati rossi, fulgidi
come braci ardenti.
«Voglio la vostra parola. Dammela» ordinò.
Il re lo guardò confuso.
«La mia parola? Su cosa? Su cosa devo giurare?»
«Hai capito benissimo…» disse spazientito Feardorcha. «Voglio la
vostra parola, l’incantesimo che custodite voi nani da sempre, e che vi
tramandate di generazione in generazione.»
Il re gli rivolse un’occhiata scioccata. «E come fai a sapere della sua
esistenza?»
«Sono sempre stato molto curioso.»
«Ma se anche ti dessi la parola, cosa ci potresti mai fare? Non la puoi
udire… non la puoi pronunciare!»
«Non preoccuparti di simili dettagli. Dammela e basta.»
«Ti dico che non ha senso» provò a convincerlo il re.
Feardorcha spazientito strinse il pugno e la principessa precipitò di
qualche piede.
Il re e la principessa gridarono.
«Questo era un avvertimento.» Feardorcha allungò una pallida mano
verso il sovrano. «Dammi la parola, o tua figlia scoprirà con i suoi stessi
occhi quanto profondamente i vostri avi si sono spinti a scavare nelle
profondità della terra.»
Il re scosse la testa incoronata e calde lacrime caddero sul suo volto,
perdendosi nelle trecce della lunga barba.
«Va bene… va bene» sussurrò.
Ancora in ginocchio, si piegò su se stesso, portando entrambe le mani al
petto. Le sue labbra si mossero, come se stesse mormorando qualcosa. Poi
venne scosso da un profondo spasmo, che lo fece tremare.
Feardorcha osservava attentamente la scena, il braccio teso, la
principessa ancora sospesa nel vuoto.
Dal petto del re scaturì una sfera di luce, grande quanto un uovo di
gallina, che brillava tenue nell’oscurità.
Gli occhi di Feardorcha si fecero più grandi e brillarono di bramosia.
«Cosa… cosa vuoi farne?» chiese il Re dei Nani, mentre stringeva tra i
grandi palmi l’incantesimo segreto. La sconfitta era bruciante,
l’impossibilità di reagire lo aveva sopraffatto. Qualcosa che era stato così a
lungo custodito era stato sottratto così facilmente…
Il viso di Feardorcha si distese, perdendo traccia della feroce superbia. I
suoi lineamenti si addolcirono. «Io non sono cieco come voi. Ho la certezza
di vedere il male che si annida davanti a noi. Voi… voi tutti siete diventati
così ciechi che non riuscite più a scorgere i veri pericoli, a capire che i
nostri nemici ci stanno schiacciando. Ben presto soffocheremo, e quando ve
ne renderete conto sarà troppo tardi per porvi rimedio… Se non vorrete
salvare Faerie, lo farò io.» Fece una pausa e il suo sguardo vagò lontano,
oltre le pareti di roccia della galleria, ben oltre la montagna. «Perché questo
luogo mi è molto caro» sussurrò.
La principessa era ancora sospesa nel vuoto, quando Feardorcha allungò
il braccio verso il re.
La sfera luminosa, sentendo il nuovo padrone che la richiamava, scivolò
via dalla mano tremante di re Ord e volò verso la sua.
Quando si poggiò con grazia contro il palmo aperto, Feardorcha indugiò.
«Sarò io a proteggere Faerie» mormorò.
La afferrò, se la portò alla bocca e la ingoiò.
La parola custodita dai nani, tramandata di generazione in generazione
come il segreto più prezioso, sparì tra le labbra del mago. Re Ord rimase ad
assistere impotente mentre l’incantesimo della sua stirpe veniva inghiottito.
«Adesso tieni fede alla tua parola. Libera mia figlia» ringhiò feroce,
tirandosi su in piedi, appoggiandosi al martello da guerra.
Feardorcha alzò lo sguardo, come se si fosse ricordato solo in quel
momento del suo ostaggio sospeso sopra la voragine senza fondo.
«Ah, già. Il nostro accordo» sogghignò. «Vediamo se sei abbastanza
veloce.»
Con un gesto pigro, schioccò le dita. L’incantesimo che tratteneva la
principessa si spezzò, facendola precipitare nel vuoto. Re Ord gridò
disperato.
«Calma, calma, è tutto a posto» annunciò una voce allegra.
Feardorcha si sporse per scrutare l’oscurità sotto al ponte. Per la prima
volta sembrò preoccupato.
Quando vide la figlia fluttuare verso di lui, in salvo, il Re dei Nani
rimase a bocca aperta, incredulo.
La principessa era tra le braccia del Re delle Volpi, che atterrò con
eleganza di fronte a lui.
«Re Ord, credo di essermi appena imbattuto in vostra figlia» disse
Aleister, mentre faceva scendere incolume la principessa accanto al padre.
Il nano spostò lo sguardo incredulo dal giovane alla figlia.
«Che mi venga un colpo se non sei il Re delle Volpi!» farfugliò, mentre
la principessa gli gettava le braccia al collo.
Aleister si inchinò con grazia.
«Al vostro servizio, sire. Sono venuto per avvertirvi di Feardorcha, ma…
temo di essere arrivato in ritardo» concluse, guardando il mago.
«Buonasera, Aleister» salutò Feardorcha e Aleister riuscì a percepire un
certo nervosismo nella sua voce. «È strano trovarti qui. Devo ammettere
che mi hai sorpreso. Sei solo? Dov’è la tua allegra combriccola di
accompagnatori?»
Proprio in quell’istante, comparvero Marian e Macbeth. Avevano tutta
l’aria di aver corso a perdifiato fino a quel momento.
«Tu…» disse Marian ansante, piegata in due per lo sforzo, puntando il
dito contro Aleister «…tu hai le gambe troppo lunghe!»
Quando alzò il capo, riconobbe Feardorcha. Su quel ponte nero, immerso
nell’oscurità, non lo aveva visto. Adesso era anche abbastanza vicina per
scorgere i corpi straziati delle guardie ai suoi piedi. Venne percorsa da un
brivido e, istintivamente, fece due passi indietro, nascondendo Macbeth
dietro di sé.
Re Ord si era rialzato in piedi e aveva imbracciato di nuovo il suo
martello. Adesso che sua figlia era al sicuro, aveva tutta l’aria di chi è
intenzionato a dare battaglia, senza risparmiare colpi.
«Che tu sia maledetto, Negromante!» gridò. Roteando il possente
martello in preda a una furia cieca, superò Aleister con uno scatto e si
abbatté su Feardorcha.
«Assaggia i colpi di Tempesta d’acciaio!»
Feardorcha rise quando il martello lo attraversò.
Re Ord rimase spiazzato. Caricò un nuovo colpo e provò ancora, e
ancora, mentre le risate di Feardorcha si facevano sempre più forti. Il suo
corpo si era tramutato in fumo nero e il martello si limitava a passargli
attraverso.
«Temo che ci rincontreremo, Re delle Volpi» disse il mago rivolto ad
Aleister, mentre il viso pallido e spigoloso dagli occhi rossi si dissolveva
nell’oscurità.
«Temo anche io» mormorò Aleister.
Un vento innaturale si levò e il mago tramutatosi in fumo si disperse
nell’aria.
Stava fuggendo. Un’altra volta.
Il fumo nero guizzò accanto a Marian e Macbeth, ignorandoli.
Feardorcha sparì nell’oscurità della montagna.
29
Per tutto il resto del viaggio tra le gallerie delle miniere, Marian continuò a
ripensare alle parole di Aleister. Cercava di concentrarsi sulla mappa e sul
percorso da seguire, ma era inutile. Aver finalmente capito a che cosa
servivano le parole custodite dalle famiglie fondatrici e l’uso che
Feardorcha avrebbe potuto farne la ossessionava.
Aleister era tornato a riposare in un angolo del carrello, presto seguito da
Macbeth, che adesso gli dormiva addosso.
Marian si voltò a guardarli e si ritrovò a sorridere, intenerita. Per quanto
Macbeth avesse sempre parlato di Aleister come del suo padrone, vedendoli
insieme si era resa conto che la natura del loro rapporto era decisamente
diversa. Altro che signore e servitore. Sembravano fratelli.
Il sorriso che le era spuntato sulle labbra si sciolse presto. Se Feardorcha
fosse riuscito nel suo intento, cosa sarebbe accaduto? Non solo a loro, ma a
tutti gli abitanti di Faerie e dell’Altrove.
E soprattutto: perché Feardorcha voleva fare qualcosa del genere?
Non era stata in grado di darsi una risposta, ma avrebbe messo sotto
torchio Aleister, che adesso se ne stava lì a dormire beatamente, appena
avesse aperto gli occhi. Finalmente aveva notato un cambiamento
nell’atteggiamento scostante del Re delle Volpi: aveva iniziato a darle delle
spiegazioni di sua spontanea volontà, senza che lei lo dovesse costringere.
Lo osservò mentre dormiva, indugiando sul viso piegato di lato, la
guancia poggiata sulla fronte di Macbeth. Aveva le ciglia ridicolmente
lunghe, ed era bello come solo una creatura magica poteva essere.
Era un egocentrico senza speranza, un re giovane e viziato con
un’altissima opinione di sé, e Marian se ne stava innamorando.
Ormai lo sapeva troppo bene.
Le era stato chiaro sin dall’inizio, ma più andava avanti, più i suoi
sentimenti stavano sfuggendo al suo controllo. Sapeva bene che Aleister era
solo un superbo a cui piaceva essere compiaciuto e sapeva altrettanto bene
che lei sarebbe uscita da quella storia ferita e con il cuore spezzato.
Motivo per cui era più che mai decisa a fare il possibile per mettere a
tacere i sentimenti che provava per lui. Non li avrebbe mai confessati ad
anima viva, soprattutto non li avrebbe mai e poi mai confessati ad Aleister.
Se era vero quanto si diceva sul primo amore, che non si dimentica mai,
Marian avrebbe fatto invece qualsiasi cosa per impedirsi di consumarsi nel
suo ricordo, una volta tornata nell’Altrove. Aleister doveva stare alla larga
dal suo cuore.
Il carrello frenò bruscamente e Marian per poco non venne catapultata
fuori, mentre Aleister e Macbeth le rotolarono addosso.
«Aiuto!»
«Ma cosa acciden…»
Il Re delle Volpi si rialzò infastidito, massaggiandosi la fronte.
«Marian!» protestò. «Si può sapere che combini?»
Lei non gli prestò attenzione, troppo impegnata a soffiare con delicatezza
su una delle fiammelle magiche davanti a sé, per rischiarare la galleria.
«Credo che siamo arrivati» annunciò allegra, indicando davanti a loro. I
binari si fermavano di fronte a una parete di roccia.
«Il viaggio è durato poco come promesso» commentò Macbeth allegro.
«Ma adesso mi piacerebbe vedere la luce del sole. Non so voi, ma comincio
a sentire di avere una strana affinità con i pipistrelli…»
Marian si guardò intorno, cercando un’uscita di qualsiasi tipo. Davanti a
loro la strada era bloccata, e ai lati non sembravano esserci passaggi o porte.
Alzò la testa e cercò di aguzzare la vista. «Aleister, prova a illuminare
sopra di noi!»
Il Re delle Volpi non si fece pregare. Con un piccolo gesto dell’indice,
indicò alle fiammelle la direzione da seguire. I fuochi magici salirono
ubbidienti, schierandosi a cerchio e rivelando quella che sembrava una
botola.
Marian si chiese come avrebbero potuto raggiungerla, dato che si
trovava parecchi metri sopra le loro teste. Le gallerie dei nani erano
sorprendentemente spaziose, sia in larghezza che in altezza.
«Non ti preoccupare, ci penso io» disse Aleister.
Si voltò verso di lei e, piegandosi appena, se la caricò in spalla come un
sacco di patate.
«C-cosa stai facendo?!» protestò Marian diventando paonazza.
La teneva in un modo decisamente sconveniente e le sue mani erano in
punti che avrebbero fatto impallidire la signora Crawford.
Aleister sbuffò. «Smettila di agitarti, mi fai male con questi stivaletti
appuntiti!» Si chinò una seconda volta e prese anche Macbeth, tenendolo
sotto braccio come un giornale. «Pronti?» chiese poi.
«Per cosa?» borbottò Marian con un filo di voce, il viso rosso nascosto
tra le mani.
«Per questo.»
Aleister spiccò un balzo. Ma non era un salto normale, perché continuò a
salire, leggero come una piuma. Marian chiuse gli occhi e si aggrappò alla
sua schiena con tutte le forze. La botola si avvicinava a tutta velocità e
l’impatto era imminente. Si tenne aggrappata saldamente anche nel bel
mezzo dell’esplosione di luce attorno a lei. Quando il Re delle Volpi atterrò
con grazia, lei stava ancora stringendo con forza gli occhi.
«È andato tutto bene, visto?» le disse Aleister con dolcezza mentre la
posava a terra, cingendole la vita con un braccio.
Marian allora aprì un occhio, sospettosa, tenendosi ancora abbarbicata
alle spalle di lui.
«Non farlo mai più!» protestò.
Aleister scoppiò a ridere, facendo scendere anche Macbeth. «Non posso
prometterlo.»
Erano arrivati sull’Isola di Mann. O almeno, sull’Isola di Mann di
Faerie. Marian scorse un enorme palazzo bianco e oro all’orizzonte ed era
certa che quella dell’Altrove ne fosse sprovvista. Si trovavano in cima a una
scogliera. L’aria salmastra era umida e il tempo nuvoloso, ma fu comunque
una gioia respirare un po’ di aria fresca dopo aver passato tanto tempo
sottoterra.
«Bene, è il momento di andare a palazzo» disse Aleister, guardandosi
attorno, mentre una raffica di vento li colpì gonfiando la gonna di Marian
come una mongolfiera. «Mi sembra tutto tranquillo… siamo davvero
riusciti ad arrivare prima di lui.»
Aleister non aveva fatto in tempo a finire di parlare che sentì il filo di
una lama premergli contro la gola.
Marian e Macbeth trattennero il respiro.
Alle spalle di Aleister, si trovava un Sidhe molto alto, dalle spalle larghe,
in uniforme color argento. Teneva stretta tra le mani un’esile lancia, la cui
punta era poggiata sulla gola del giovane re. Aveva i capelli bianchi sciolti
lungo le spalle e le stesse orecchie da gatto che Marian aveva visto a
Madama Catglic. Il vento che ululava sulla scogliera aveva coperto i suoi
movimenti, riuscendo a cogliere Aleister alle spalle.
«Cosa ci fanno delle volpi all’Isola di Mann senza invito?»
Doveva trattarsi di un guardiano dell’isola.
«Chi ha detto che siamo senza invito? La tua padrona ci attende. E non
penso che sarebbe contenta, se venisse a sapere come trattate i vostri ospiti»
osservò Aleister, con uno sfrontato sorrisetto sulle labbra.
Lo sguardo attento del gatto si posò prima su Macbeth e poi su Marian.
Gli occhi gialli lampeggiarono come attraversati da una tempesta. «Ma tu
sei una dall’Altrove!» esclamò, disgustato. Abbassò l’arma e spintonò
Aleister verso di lei. «Non ti è permesso calpestare questo luogo sacro.
Tornatene da dove sei venuta, feccia» intimò.
Marian stava per rispondergli che non ne aveva la minima intenzione,
quando Aleister la precedette: «Sai cosa potrei farci con quella tua bella
linguaccia? Ho un paio di idee niente male…» sbottò.
Prima che la guardia potesse rispondere, le mani di Aleister presero
fuoco. Le fiamme magiche gli lambirono le braccia fino al gomito.
La guardia si mise sulla difensiva, puntandogli contro l’arma.
«Vogliamo saltare i convenevoli e passare direttamente al momento in
cui ci scorti cortesemente a palazzo… o preferisci che ti fonda tra le mani
quel delizioso stuzzicadenti?» lo minacciò Aleister, abbandonando il suo
tono cordiale.
La guardia gli rivolse un’occhiata sprezzante. «Quella lì non può
entrare» ringhiò in direzione di Marian.
«“Quella” è una mia preziosa ospite, e la tratterai con tutti i riguardi»
insistette Aleister, rivolgendogli lo stesso sguardo furioso. Le fiamme
magiche si facevano sempre più calde.
Per un po’ nessuno dei due si mosse né disse niente. Fu la guardia che
abbassò l’arma per prima.
«Seguitemi» disse a denti stretti.
Il gatto rivolse loro un’ultima occhiata sprezzante, poi gli diede le spalle
e iniziò a incamminarsi verso il castello, facendogli strada.
Aleister strinse le labbra, poi sgrullò le mani, spegnendo le fiamme. Fece
un piccolo cenno con la testa a Marian e Macbeth e si incamminò anche lui,
i capelli scompigliati dal forte vento che si era alzato dal mare.
Marian avanzava a fatica sul terreno umido e soffice. «Grazie per avermi
difesa» sussurrò.
«Non dirlo neanche.» Aleister scosse la testa, minimizzando. «Piuttosto,
hai avuto paura?» chiese.
«No» rispose lei. Ed era vero.
Notò un sorrisetto increspargli le labbra e sentì le gambe farsi molli.
Distolse in fretta lo sguardo, cercando di appigliarsi a ciò che si era
ripromessa prima, quando erano ancora sottoterra. Si concentrò per
reprimere lo sconvolgimento che quel piccolo sorriso le aveva creato, ma
era difficile.
«A ripensarci adesso, mi sento davvero uno stupido» iniziò Aleister, e
Marian gli fu grata, ancora una volta, per aver prontamente cambiato
discorso.
«Perché?»
Aleister scrollò le spalle. «Per essermi lasciato avvicinare da Feardorcha.
Ho pensato che fosse una persona interessante. Ha lusingato la mia vanità.
Non immaginavo che avesse intenzioni tanto pericolose…»
Marian lo rassicurò: «Non puoi colpevolizzarti in questo modo, Aleister.
Mi sembra di capire che sia stato sottovalutato da tutti, o sbaglio?».
Lui annuì, lo sguardo che correva lungo il paesaggio verde e ventoso
dell’Isola di Mann. «Già. Nessuno di noi se ne è curato più di tanto. Eppure
ha iniziato presto a far parlare di sé. Per i suoi poteri, per i suoi studi, per le
domande che faceva in giro… Ha continuato a crescere e a farsi potente
sotto il nostro naso. E noi non ci siamo accorti di niente…»
«Come pensi che abbia scoperto l’esistenza delle parole?»
Aleister si strinse nelle spalle. «Per quel poco che lo conosco, avrà
scovato qualche libro antico che ne faceva menzione. Poi avrà avvicinato il
capo degli hobgoblin. Forse glielo ha chiesto direttamente…»
«Quello che sto cercando di capire, però, è perché. Perché sta facendo
una cosa simile, a quale scopo?»
Aleister la guardò sorridendo. «Sei sempre la solita, Marian. Non passa
un momento in cui non ti fai delle domande. Deve essere stancante essere
te!»
«Mi piace tenermi impegnata» rispose lei con dignità.
Aleister si fece più serio. Rallentò un po’ il passo, in modo che la
distanza tra loro e il guardiano dell’Isola di Mann aumentasse. Macbeth,
che era rimasto indietro, li raggiunse.
«Girano delle voci sullo stregone» le disse.
«Che voci?»
«Che non sia di qui. Non è un Sidhe come noi.»
«L’ho raccontato a Marian. È una voce che ho sentito persino io» si
intromise il ragazzino.
«E come ha fatto ad arrivare qui a Faerie? Ha attraversato una delle
vostre porte come ho fatto io con Macbeth?»
«Gira voce che sia stato scambiato, quando era in fasce» spiegò in tono
grave.
«Cosa?» chiese Marian.
«È stato rapito da una fata.»
«Vuoi dire che…»
Lui annuì.
«Viene dall’Altrove. È un essere umano come te.»
Marian fu sconvolta da quella rivelazione.
«Ma non è possibile!» disse confusa. «Ho visto di cosa è capace. Si può
trasformare in quella bestia, ha dei poteri! Noi dell’Altrove non abbiamo un
briciolo di magia che ci scorre nelle vene, me lo ha spiegato Macbeth.
Come ha potuto farlo? Non ha senso!»
«È vero. Per questo l’ho trovato un tipo così interessante» ammise lui.
«Volevo scoprire se queste voci che circolavano su di lui fossero vere o
meno. Voi mortali siete davvero affascinanti… E trovarne uno che era
riuscito a integrarsi qui a Faerie, che era riuscito persino a diventare un
mago così potente… be’, dovevo vederlo con i miei occhi.»
Marian era più che mai confusa. Se Feardorcha era davvero un essere
umano come lei, il suo intento era ancora più incomprensibile. Perché
avrebbe dovuto far collassare i loro mondi uno sull’altro scatenando il caos?
«Avete ancora intenzione di chiacchierare a lungo voi due?» disse
sgarbata la guardia. Si era fermata adesso, lo sguardo rivolto al castello
davanti a loro.
«A quanto pare dicevi il vero, volpe. Eri atteso.»
Marian guardò oltre la guardia. Adesso erano abbastanza vicini al
palazzo da poter scorgere gli araldi esposti sui bastioni che ondeggiavano al
vento.
Una piccola delegazione stava venendo verso di loro. In testa, Marian
riconobbe Madama Catglic, la matriarca dei gatti dell’Isola di Mann.
La guardia strinse forte le labbra, quando l’anziana accolse Aleister a
braccia aperte.
«Re delle Volpi, la tua visita è un grande onore per noi» disse raggiante.
Aleister fece un piccolo inchino, subito imitato da Macbeth. Marian
sfoggiò la riverenza che sua madre le aveva insegnato per le occasioni
importanti.
«Madama, arriviamo dal regno sotterraneo dei nani. Sono rammaricato,
ma non porto buone notizie» esordì il Re delle Volpi.
Il sorriso dell’anziana si spense subito. Catglic si avvicinò ad Aleister e
si appoggiò al suo braccio. Sembrava improvvisamente più vecchia e stanca
di quanto non fosse apparsa all’inizio.
«Dobbiamo discutere subito. Dovete raccontarmi ogni cosa… voi tre.»
Fece un piccolo cenno in direzione di Marian e Macbeth. «Venite, entriamo
a palazzo. Non abbiamo tempo da perdere.»
Mentre si avviavano, Marian non riuscì a impedirsi di rivolgere alla
guardia che osservava furente un cortese sorriso di vittoria.
32
Il palazzo dei gatti dell’Isola di Mann era come Marian avrebbe descritto il
castello di una favola. Era elegante, immenso, e sprizzava ricchezza da ogni
architrave, cupola e torre.
Ogni centimetro del palazzo sembrava essere stato tirato a lucido.
Tantissimi Sidhe erano al lavoro: qualcuno strofinava le enormi vetrate, altri
sistemavano i tendaggi color glicine e altri ancora spolveravano le colonne
di marmo intarsiate d’oro dell’ingresso principale. Tutti avevano orecchie e
code da gatto, come la guardia che avevano incontrato al loro arrivo
sull’isola e Madama Catglic.
«Abbiamo interrotto qualcosa?» chiese perplesso Aleister, guardandosi
attorno.
«Siamo nel bel mezzo dei preparativi di una festa» spiegò Catglic,
indicando il fermento intorno a sé con un elegante gesto della mano.
«Una festa?» chiese Marian stupita.
«È una ricorrenza molto importante per noi. È la stagione degli
accoppiamenti per i eòin chameleon» rispose Catglic cordiale. «Vengono
qui una volta ogni cento anni, per la schiusa delle uova. Sono delle creature
affascinanti, molto antiche e ormai tristemente prossime all’estinzione.
Durante questa festa celebriamo l’amore, rendiamo grazie alla vita. È una
ricorrenza molto sentita qui sull’isola. Il Negromante pecca di tempismo»
aggiunse infastidita.
Le venne incontro un servitore, le braccia piene di scampoli di stoffa.
«Madama, scusi il disturbo. I nastri li preferite lilla o violetti?» chiese,
sventolando due fettucce dello stesso colore.
«Non adesso» disse asciutta l’anziana. Si girò verso quello che Marian
sospettò fosse il suo braccio destro, dato che la seguiva come un’ombra.
Anche lui era vestito di bianco, ma al contrario di Madama Catglic aveva i
capelli neri corvino, così come le orecchie e la coda, che spiccavano sugli
eleganti abiti candidi come macchie d’inchiostro. «Non voglio essere
disturbata mentre conferisco con i nostri ospiti. Sono stata chiara?»
Lui annuì e batté le mani, scacciando lo sciame di servitori che si era
formato dietro di loro.
Marian, Aleister e Macbeth seguirono l’anziana. L’interno del palazzo
era intricato quanto un labirinto, e a Marian sembrò passato un secolo
quando finalmente raggiunsero la sala in cui Catglic li fece accomodare.
Si trattava di uno studio, e Marian rimase sconvolta dalla somiglianza
con quello di suo padre a Londra. Rispetto all’aspetto fiabesco del resto del
castello, quella stanza sembrava incredibilmente ordinaria. Le librerie di
legno laccate di bianco che correvano lungo tutte le pareti erano stracolme
di libri; un’enorme scrivania, affiancata da comode poltroncine per gli
ospiti, si trovava al centro esatto della stanza, rivolgendo le spalle a una
grande finestra ad arco, alta fino al soffitto. Tutti i mobili, compreso
l’enorme tappeto che ricopriva per intero il pavimento, erano bianchi e i
tessili avevano quelle sfumature violette che Marian aveva intuito fosse il
colore rappresentativo dei gatti dell’isola.
Catglic girò attorno alla scrivania, lasciandosi cadere sull’enorme sedia
con un gemito stanco.
«Sono pronta ad ascoltare tutto» annunciò, massaggiandosi l’occhio
dietro al monocolo dorato.
Aleister non si sedette sulla poltroncina che l’anziana gli stava
indicando. Cominciò invece a camminare nervosamente avanti e indietro
per la stanza, tuffandosi in un acceso resoconto, molto dettagliato, ogni
tanto un po’ gonfiato e infiocchettato, di quello che era accaduto nel regno
dei nani.
Quando Aleister si fermò per riprendere fiato, Catglic rimase in silenzio,
le punte delle dita unite, meditabonda.
«Quindi Feardorcha adesso possiede tre incantesimi su quattro»
commentò infine in tono grave.
Il Re delle Volpi annuì. «Credo che sia arrivato il momento per noi di
giocare d’anticipo. O almeno di provarci.»
«Mi sembra una saggia idea. In che modo potremmo farlo, oltre al non
farci trovare impreparati quando cercherà di intrufolarsi qui nel castello?»
«Potreste non offrirgli la possibilità di farlo comodamente, per esempio.
Dovreste annullare la vostra festa» suggerì Aleister.
«Impossibile» ribatté aspramente l’anziana.
«Madama, voi non capite… Con tutta questa confusione, Feardorcha
potrebbe facilmente confondersi con la folla e attaccarvi in qualsiasi
momento, eludendo le vostre protezioni con estrema facilità.»
«Con tutto il rispetto per il tuo predecessore, Aleister, io ho parecchie
centinaia di anni in meno di quanti ne aveva lui. Sono vecchia, è vero, ma
sono ancora in grado di dare battaglia e di difendermi» rispose la regina
gatta piccata.
Aleister scosse la testa. «Mi sembra che non vogliate comprendere la
gravità della situazione.»
«Se davvero quello stregone ha intenzione di venire fin qui, gli daremo
battaglia» disse dignitosamente l’anziana, calzandosi meglio il monocolo
sulla punta del naso.
«Vi ucciderà.» Aleister sbatté i palmi delle mani sulla scrivania,
frustrato.
«In tal caso sono pronta a salutare la morte come una vecchia amica»
rispose Catglic con dolcezza.
Aleister sospirò, rivolgendo uno sguardo frustrato a Marian.
«Credete davvero che proverà a usare le parole?» chiese dopo un po’
l’anziana, rivolgendo un’occhiata penetrante a entrambi.
«Temo di sì» mormorò Marian.
«Ma come, mi chiedo? Le parole sono incantesimi che non possono
essere né pronunciati, né sentiti. Persino un custode come me non è in grado
di utilizzare la nostra parola. L’unica cosa che possiamo fare è proteggerla e
tramandarla. Custodirla, dentro di noi» ragionò l’anziana.
«Credo che il Negromante sia in possesso di un medium, di qualcosa che
possa veicolare l’incantesimo e permettergli di usarlo» rispose Aleister.
«Qualcosa come questo.»
Si voltò verso Marian e le fece cenno di avvicinarsi. Le sbottonò i primi
bottoni dell’abito e le sfiorò il collo, sfilando il gioiello da sotto il vestito.
«Usando un oggetto del genere» spiegò, mostrando il medaglione, «si
possono utilizzare le parole.»
Gli occhi di Catglic brillarono, accesi d’interesse. «Ingegnoso… Non ho
mai visto niente del genere» commentò mentre si sporgeva sulla scrivania,
per studiare attentamente il gioiello.
«Mi è stato donato dal mio predecessore, chiedendomi di custodirlo.
Immagino che originariamente ce ne fossero quattro, uno per ogni custode.
Questo è stato a lungo tramandato tra le volpi. Se la vostra famiglia ha
perso il suo medium, ecco spiegato come ha potuto metterci le mani sopra.
Sono convinto che Feardorcha sia in possesso di uno degli altri tre
medaglioni. Non avrebbe altrimenti senso impadronirsi degli incantesimi
senza poterli usare. All’inizio, quando ancora ero convinto che non ne
possedesse uno, avevo inviato il mio servitore nell’Altrove con il
medaglione. Così…»
«Così lui non avrebbe potuto prenderlo» intervenne Macbeth.
Aleister annuì, gravemente.
«Esatto. Appena Feardorcha ha cominciato a dimostrarsi interessato alla
parola di noi volpi ho pensato di dover far qualcosa. Ma è stato inutile. In
realtà non è mai stato interessato a questo medaglione… e adesso capisco
perché. Perché ne ha già uno.»
L’anziana rimase in silenzio, le labbra contratte in una smorfia
concentrata.
«Ma come ha fatto a scoprire della sua esistenza?» chiese poi, le punte
delle dita ancora unite.
«È stato scaltro. Credo che sia riuscito a mettere le mani su dei tomi
antichi. Ho provato a fare anche io delle ricerche, ma è stato un totale
fallimento. Neanche una nota, un appunto o un singolo accenno in nessun
libro su cui io abbia messo le mani.»
Catglic rimase in silenzio ad ascoltarlo, annuendo appena.
«Ora, sappiamo di cosa ha bisogno e abbiamo intuito cosa farà. Dimmi
quindi a cosa hai pensato per anticipare le sue mosse» commentò poi.
Aleister scrollò le spalle. «Non ho pensato ancora a nulla.»
«Gli incantesimi… possono essere utilizzati ovunque?» chiese Marian,
intromettendosi.
«Se intende usarli per abbattere le barriere che dividono i nostri due
mondi, ovviamente no. Esiste un solo luogo dove le parole possono essere
utilizzate» rispose l’anziana.
«E dove si trova?» insistette Marian. «Forse se riuscissimo a
raggiungerlo prima di lui…»
Catglic scosse la testa.
«Nessuno sa dove si trovi il cromlech originario» rispose con gravità.
«Cromlech?»
«È un antichissimo circolo di pietre. Il primo di Faerie. Lì i nostri
antenati hanno eretto la barriera che protegge e separa il nostro mondo da
quello umano» le spiegò Aleister.
«Dobbiamo scoprire dove si trova» suggerì impaziente Marian. «Solo
così potremo essere un passo avanti a Feardorcha.»
«Non è così semplice…» provò a dire Aleister, ma Catglic lo interruppe.
«La fanciulla dell’Altrove ha ragione. E penso di sapere dove cercare la
risposta giusta. Vi farò un grande onore… vi metterò a disposizione la
nostra biblioteca. È la più ricca di tutta Faerie, sono sicura che insieme
riuscirete a scoprire qualcosa riguardo all’ubicazione del cromlech. Adesso
andate, Craite vi condurrà in biblioteca, così potrete mettervi subito al
lavoro. Io invece sono attesa per i preparativi…»
Vennero così congedati. Mentre uscivano dall’ufficio di Madama Catglic
e la porta si richiudeva alle loro spalle, Aleister diede una piccola gomitata
a Marian.
«Sai essere piuttosto brillante quando ti applichi» commentò. «Davvero
un’ottima idea.»
Marian arrossì.
«Quindi adesso ci toccherà leggere un sacco di libri?» chiese Macbeth.
«Sì, non è elettrizzante?» esclamò Marian.
Macbeth le rivolse una smorfia scettica. «Se lo dici tu. A me i libri fanno
addormentare.»
Craite li aspettava poco distante dallo studio, tutto impettito.
«Ehilà» salutò Aleister, «credo che tu ci debba far strada fino alla
biblioteca.»
Gli occhi dorati dalla pupilla felina si spostarono a osservare Marian.
«Anche la ragazza umana?»
«Pacchetto completo» disse Aleister, mentre scrutava il suo riflesso nel
vetro di una finestra. «Avevo i capelli così in disordine e non mi avete
avvertito?»
Marian alzò gli occhi al cielo e Macbeth trattenne una risatina.
«Seguitemi» ordinò il gatto.
Marian prese Aleister per un braccio, ancora impegnato a sistemarsi i
capelli, e se lo trascinò dietro.
«Non ti preoccupare, sono sicura che riuscirai ad ammaliare tutti i libri
della biblioteca anche con i capelli spettinati» rise.
33
Marian e Aleister avevano attraversato il muro con la facilità con cui una
lama affonda nel burro.
«Visto?» disse il Re delle Volpi con un sorriso beffardo sulle labbra. «Sei
tutta intera. Avevi qualche dubbio?»
«Effettivamente la tua incrollabile autostima che sconfina in un
narcisismo autocompiaciuto avrebbe dovuto tranquillizzarmi» rispose lei.
Lui rise divertito alla sua battuta e le lasciò andare la mano.
Marian, imbarazzata, abbassò lo sguardo, stringendo forte la gonna per
rimpiazzare quella presa salda e rassicurante. Per un attimo si chiese se
l’intimità che si era creata tra loro in biblioteca fosse vera, o se si fosse
immaginata tutto. Magari vedeva nelle azioni e nelle parole di Aleister solo
quello che voleva vedere. Forse lui era solo diventato meno scorbutico e lei
stava tragicamente fraintendendo tutto…
Cercò di respirare a fondo, per calmare il suo cuore. Si era ripromessa di
seppellire profondamente quegli scomodi sentimenti, ma farlo si stava
rivelando sempre più difficile.
Quando si risvegliò dai suoi pensieri si rese conto di essere sola. Non
c’era traccia di Aleister, che sembrava essersi dissolto nel nulla.
Si trovava nell’ingresso di quello che aveva tutta l’aria di essere un
emporio. Ogni centimetro del negozio era occupato dagli oggetti più
bizzarri e stravaganti che avesse mai visto. Dal soffitto pendevano trecce di
strani frutti puzzolenti, ceste di ogni tipo, forma e dimensione, pellicce di
animali dai colori bislacchi, piume e zampe rinsecchite. Lungo le pareti
erano ammassati quadri, mobili, mensole affollate da ampolle e alambicchi
con pozioni e intrugli sgargianti, gabbie stracolme di animali brulicanti
dagli occhietti luminosi e dall’aria velenosa. Il pavimento era ingombro di
pile e pile di tomi antichi dalle copertine ammuffite. Il proprietario di quei
volumi di sicuro non era uno scrupoloso amante dei libri come il vecchio
librario dell’Isola di Mann. Marian cercò di aggirare gli ostacoli senza
inciamparci o farli crollare.
La testa rossa di Aleister fece capolino da dietro una vecchia pendola.
«Si può sapere com’è che rimani sempre indietro?» esclamò
allegramente.
«Si può sapere com’è che riesci sempre a seminarmi?» ribatté lei mentre
aggirava con circospezione una gabbia piena di orribili bestie pelose simili
a scorpioni sibilanti.
«Dove ci troviamo?» chiese Marian. «Questo posto è davvero lugubre.»
«Siamo nella bottega magica dell’Ognidove. Non si trova in nessun
luogo di Faerie, eppure si può raggiungere da qualsiasi parte… se si è in
possesso dell’incantesimo giusto» spiegò Aleister. «Il proprietario è una
creatura di nome Destino. Fato è il suo famiglio. Ha le sembianze di un
innocuo gatto a tre code, ma se posso darti un consiglio, è meglio non
provare ad accarezzarlo.»
«Niente carezze al felino, capito.»
«Destino è un mago potentissimo ed è un ladro altrettanto abile. Riesce a
trovare qualsiasi cosa di cui tu abbia bisogno…»
«…Ma vuole qualcosa in cambio» concluse Marian.
Aleister le rivolse un’occhiata impressionata. «Signorina Crawford, vedo
che abbiamo studiato.»
«Comincio a capire come funziona qui» sorrise lei. «Quindi? Cosa vuoi
chiedergli?»
«Sono sicuro che esiste una mappa del cromlech originario di Faerie…
da qualche parte» disse Aleister, mentre la aiutava a superare una cesta
colma di teste di fate rinsecchite.
«Come fai a esserne così sicuro?»
«Devi sapere che noi Sidhe abbiamo una grande passione per le mappe.
Chi avrebbe mai potuto resistere davanti alla creazione della più grande
mappa della storia?»
«Cosa pensi che vorrà in cambio Destino?» chiese Marian preoccupata.
Aveva un brutto presentimento.
«Non ne ho idea, ma stiamo per scoprirlo. Ricorda, un cuore pavido non
ha mai conquistato niente!»
Sbucarono da dietro una pila di tomi alta fino al soffitto, che sembrava
quasi sostenere la struttura della bottega, e si ritrovarono davanti a un
bancone di legno. Dietro, c’era un uomo… o almeno, a Marian così parve.
Avvicinandosi, notò una serie di dettagli che le fecero venire la pelle d’oca.
C’era qualcosa nel viso di Destino che non le sembrava… giusto. I singoli
tratti del viso erano piacevoli, ma era come se non appartenessero a quel
viso, come se il suo proprietario li avesse pescati da altre persone,
ricostruendo un’idea che aveva di un volto. Le labbra erano sottili, il naso
era piccolo e a punta, come le orecchie. Gli occhi erano nascosti dietro a
occhiali ovali dalle lenti nerissime. Indossava un elegante completo con una
giacca a doppio petto, in tinta con i capelli corti bianco latte, e tamburellava
impaziente la punta delle dita guantate di nero sul bancone del suo negozio.
Quello era l’unico punto sgombro e ordinato di tutto l’emporio. Alle sue
spalle, appollaiato su una mensola della parete, c’era un enorme gatto
arancione a tre code, dal muso schiacciato. Appena Marian e Aleister si
avvicinarono al bancone, quello aprì un occhio giallo dalla pupilla verticale,
spiandoli.
«Benvenuti nella bottega dell’Ognidove. Felice di rivederti, Aleister, Re
delle Volpi» disse il proprietario con una voce untuosa, voltandosi poi in
direzione di Marian. «Benvenuta, Marian Crawford, ragazza dell’Altrove.
Io sono Destino» si presentò.
Marian lo guardò sorpresa.
«Come fa a conoscere il mio nome?»
«Conosco l’identità di tutti i miei avventori. Ditemi, come posso esservi
utile?»
A Marian tornarono subito in mente le raccomandazioni che Macbeth le
aveva fatto sul potere dei nomi a Faerie. Destino non aveva pronunciato il
suo secondo nome, ma l’aveva comunque turbata.
«Siamo alla ricerca di qualcosa di molto raro, difficile da trovare» iniziò
Aleister.
«Sai come funziona. Tu chiedi, io trovo al giusto prezzo. Allora, di cosa
avete bisogno?»
«Vorrei la mappa del cromlech originario di Faerie» disse Aleister senza
girarci troppo intorno.
«Puoi essere più specifico?» chiese Destino. Adesso lo ascoltava
interessato.
«Quello su cui si reggono le barriere di Faerie» disse asciutto il Re delle
Volpi, indossando una maschera di indifferenza impenetrabile.
Il bottegaio sorrise. Aveva i denti affilati, troppo affilati, come quelli di
un animale.
«Pensavo che sarebbe arrivato prima l’altro» commentò. Quando notò la
smorfia di Aleister aggiunse: «Cosa c’è? Avete litigato? Eppure credevo
foste inseparabili».
«Compagnie sbagliate. Adesso frequento persone più interessanti»
replicò il Re delle Volpi con una scrollata di spalle.
Le lenti nere del bottegaio luccicarono in direzione di Marian.
«Vedo. Bello il tuo ciondolo» commentò, e lei si portò una mano alla
gola. Il medaglione era nascosto sotto al suo vestito, ma lo aveva comunque
scorto, proprio come aveva fatto Feardorcha.
Aleister sbuffò, infastidito. «Allora, hai la mappa sì o no? Non ho tempo
da perdere.»
Il bottegaio posò una mano sul bancone. Tra le sue dita brillò una luce
violacea e apparve un minuscolo quadratino di pergamena stropicciato,
ripiegato su se stesso più volte.
«Certo che ho la mappa. Eccola qui. Vediamo cosa sei pronto a darmi in
cambio.»
Marian fissava incredula il foglio stropicciato. Aleister aveva ragione!
Esisteva davvero una mappa e si trovava proprio lì, davanti a loro.
«Ne esistono altre copie?» chiese Marian.
Destino scosse lentamente la testa. «Questa è la sola e unica. L’ho
appena rubata per voi.»
Aleister e Marian si scambiarono uno sguardo fugace. Il Re delle Volpi
aveva assunto un’aria imperturbabile, ma Marian aveva imparato a
conoscerlo. Da come serrava la mascella capì che era teso.
«Sbaglio o adesso sei ufficialmente re?» chiese Destino, con noncuranza.
«Non ho ancora festeggiato come si deve, ma sì. Il mio predecessore è
morto» rispose cautamente Aleister.
«Condoglianze.»
«Avanti» tagliò corto il Re delle Volpi. «Perché non mi dici direttamente
il tuo prezzo senza girarci troppo intorno?»
Il sorriso aguzzo sul viso del bottegaio si allargò sempre di più, fino a
diventare una ferita mostruosa che gli apriva la faccia da un orecchio
all’altro. Marian fece un passo indietro, spaventata.
«Voglio la tua corona. Mi sembra un giusto prezzo per un oggetto così
prezioso, unico nel suo genere… proprio come il tuo titolo.»
«No, questo non puoi chiederlo!» esclamò Marian.
Aleister era pallido dalla rabbia. «Non oserai…» disse a denti stretti.
«L’ho appena fatto» ribatté Destino.
Marian si frappose tra i due, cercando di fare arretrare Aleister.
«Prendi qualcosa da me piuttosto!» disse a Destino, battendo i palmi
delle mani sul bancone.
«Marian, no» le sussurrò Aleister con dolcezza, cercando di calmarla.
«Questo sì che è interessante» commentò il bottegaio, rivolgendo tutte le
sue attenzioni su di lei. Anche il suo famiglio osservava la scena intrigato.
Si era sporto dalla sua postazione e fissava Marian con i suoi enormi occhi
gialli, le tre code che scodinzolavano sinuose come serpenti.
«Chiedimi ciò che vuoi» disse lei a testa alta.
«Marian, non puoi farlo. Te lo vieto» le sussurrò Aleister all’orecchio.
«Non è il tuo mondo, non è la tua gente… Perché dovresti sacrificarti in
questo modo?»
Marian scosse il capo, testarda. «Lo faccio perché è la cosa giusta da
fare. Se crollano le barriere di Faerie, crollerà anche il mio di mondo,
quindi sì, si tratta anche della mia di gente» disse con voce ferma. «E poi
non puoi rinunciare alla corona proprio adesso che finalmente l’hai
accettata con tutti i suoi oneri e doveri.» Si voltò a guardarlo con un sorriso
che cercò di far passare per spensierato. Sapeva che era la cosa più giusta da
fare. Voleva aiutare Aleister a trovare la sua strada, aiutarlo a diventare ciò
per cui era nato, e che già era, ma che ancora non riusciva a vedere. «Le
volpi hanno e avranno sempre bisogno di un re» gli disse. Poi si voltò verso
Destino, seria. «Sono pronta. Prendi ciò di cui hai bisogno in cambio della
mappa.»
Strinse gli occhi, chiedendosi a cosa avrebbe dovuto rinunciare. La fata
voleva il biondo dei suoi capelli o l’azzurro dei suoi occhi… avrebbe potuto
fare a meno di entrambi se fosse stato necessario.
Prima che Aleister potesse opporsi, fulmineo come un serpente velenoso,
Destino le afferrò la mano e la strinse con forza nella sua. «Davvero
generoso da parte tua. Molto bene, il patto è valido» disse, il viso ancora
squarciato da quel sorriso mostruoso. «Mi prenderò la tua libertà.»
Marian sgranò gli occhi. Per un attimo le sembrò che il suo cuore avesse
smesso di battere.
«Che cosa?» chiese incredula, come se ci fosse la possibilità di
fraintendere quelle terribili parole.
Destino sorrise malvagio. Le teneva ancora stretta la mano sinistra, per
suggellare il patto, quando Marian notò qualcosa. Al suo anulare era appena
apparso un anello sottile e dorato.
Una fede nuziale.
«Non… non capisco» balbettò confusa. «Che cosa significa?» chiese
ritraendo la mano.
«Che hai appena rinunciato alla tua preziosa libertà per comprare questa
mappa. Congratulazioni» le porse la pergamena ripiegata. «Devo ammettere
che la tua libertà è veramente deliziosa. Credo che me la gusterò a lungo.»
Destino si passò la lunga lingua da rettile sulle labbra deformate.
«Ma cosa vuol dire questo?» chiese Marian in preda al panico,
sventolandogli davanti la fede all’anulare. «Vuoi dire che adesso sono
sposata con Carl Lawrence?»
«Non conosco il fortunato giovanotto, ma penso che tu abbia capito
benissimo cosa succederà. Quell’anello è la prova del vincolo che ti attende,
da cui non potrai mai scappare, e della rinuncia a ciò che hai sempre
desiderato avere e che ora non potrai più ottenere. Nel tuo futuro c’è il
matrimonio, che tu lo voglia o no. Non avrai più diritto alla libertà che tanto
agognavi e che segretamente pensavi di meritare. Dille pure ciao ciao!»
A Marian girava la testa. Le sembrava di non avere più fiato, e tutto
assunse dei contorni indistinti. Tutto tranne la fede d’oro al suo dito. Quella
era chiara, nitida e reale. Era la catena che l’avrebbe resa schiava di un
uomo che non voleva per il resto dei suoi giorni.
«Marian!»
Sentì lontana la voce preoccupata di Aleister, e le sue mani che la
sorreggevano.
Lo sentì sbraitare contro Destino, sbattere il pugno sul bancone. Un nodo
doloroso le si strinse in petto, mentre veniva sopraffatta dalle lacrime.
Era stato tutto inutile. Tutto.
Arrivare lì a Faerie con Macbeth sperando che il suo desiderio venisse
esaudito, l’aver salvato Aleister, aver…
No, si disse. Non era stato inutile. Aveva ancora la possibilità di evitare
la collisione tra i loro due mondi. Se per salvare tutti avrebbe dovuto
rinunciare al suo futuro e alla sua libertà… be’, non aveva altra scelta. Lo
avrebbe fatto e avrebbe affrontato le conseguenze a testa alta.
«Sto bene» disse con voce roca, allontanandosi da Aleister.
Il Re delle Volpi la fissava con un’espressione indecifrabile. Sembrava
affranto.
Allungò una mano per strappare a Destino la mappa, ma il bottegaio non
la lasciò andare. La teneva ferma per un angolo con la punta del dito.
«L’hai presa piuttosto bene» commentò.
«Direi di sì. Ora posso avere ciò per cui ho pagato?» ribatté lei, gelida.
Lui alzò le mani in segno di resa.
Marian aprì la pergamena con cautela. La mappa era semplice: a destra
c’era un rozzo schizzo di sette pietre disposte in cerchio, a sinistra invece
c’era un intricato disegno fatto di lettere e simboli, molto simili a quelli che
Aleister aveva tracciato sul muro nel palazzo dei gatti per raggiungere la
bottega dell’Ognidove. Capì che più che la raffigurazione del cromlech, in
quella mappa fossero preziosi e necessari le lettere e i simboli intricati.
Erano quelle le coordinate per raggiungere il cromlech originario. Stringeva
tra le mani l’incantesimo che avrebbe permesso loro di raggiungere il cuore
di Faerie.
Marian si infilò la mappa in tasca, scoccando un’ultima occhiata furente
a Destino.
La porta dell’ingresso della bottega si aprì con un allegro scampanellio.
Quando riconobbe la figura nera che aveva appena fatto la sua comparsa
tra la merce accatastata nel negozio e che adesso avanzava a passo sicuro
verso di loro, Marian ebbe un tuffo al cuore.
«Non sai proprio selezionare la tua clientela, eh Destino?» commentò
Aleister con una smorfia. «Vedo che fai entrare cani e porci.»
Feardorcha indossava un pesante cappotto nero da viaggio, lungo fino ai
piedi. Il viso pallido e spigoloso era teso in un sorriso cordiale, gli occhi
azzurri brillavano accesi sotto i pesanti capelli neri. «Dovreste vedere le
vostre facce in questo momento» osservò con dolcezza.
«Non sono in vena» lo mise in guardia Aleister, furioso. Dalla punta
delle sue dita iniziarono a zampillare scintille di fuoco.
Feardorcha lo ignorò. «Vorrei poter dire che sono stupito di trovarvi qui,
ma mentirei. Siete esattamente dove mi aspettavo che foste» disse con occhi
rimasero freddi e vuoti, senza alcuna emozione.
«Le hai fatto del male?» ringhiò Aleister.
«A chi?» chiese facendo finta di non capire.
«Madama Catglic.»
Feardorcha rimase impassibile. «Lo sai, Aleister, che sono contro gli
inutili spargimenti di sangue… soprattutto quando di tratta di figure illustri
e importanti…» ribatté in tono vago. «Ma sembra che ogni volta non mi
lascino scelta.»
Marian si portò una mano alla bocca. «No…» gemette.
Non era possibile. Non riusciva a credere che Catglic fosse morta.
L’aveva vista solo poche ore prima. Un’ondata di nausea la investì. E
Macbeth? Macbeth era al sicuro?
Feardorcha aveva assassinato Catglic così come aveva assassinato il
predecessore di Aleister. Adesso, tutti e quattro gli incantesimi che
sorreggevano le barriere e le fondamenta di Faerie erano nelle sue mani.
«Come hai potuto?» esclamò Marian, incapace di trattenersi. «Sei un
mostro!»
«Oh, non sai quanto» ribatté Feardorcha, con un inquietante sorriso sulle
labbra.
«Come hai fatto a trovarci?» chiese brusco Aleister.
Il mago non rispose, mostrò semplicemente quello che stringeva tra le
dita. Era un minuscolo pezzetto di stoffa.
Marian lo riconobbe subito.
Era il pezzo di abito che la fata le aveva strappato.
«N-non è possibile…» balbettò incredula. «Come fai ad averlo tu?»
Feardorcha si rigirò tra le mani la stoffa azzurro chiaro, mentre rideva
sommessamente.
«È capitato per caso, sai? Non credo nel destino, Aleister lo sa bene…
Ma si è verificata una di quelle curiose e rare coincidenze da farti chiedere
se effettivamente ci sia o meno una forza più grande a muovere i tuoi passi»
commentò. «Quel giorno al mercato, quando ci siamo visti, poco dopo una
fata ha iniziato a raccontarmi una storia davvero interessante… di uno
strano incontro che aveva fatto e di come era stata ingannata da una volpe e
da un’umana…»
Marian fissò incredula prima la stoffa tra le mani di Feardorcha e poi
Aleister che, pallido, le restituì un’occhiata tesa.
«Grazie a questo posso trovarti» disse il mago, sventolando il tessuto.
«Ovunque tu vada a Faerie, grazie a questo minuscolo pezzo di stoffa
dell’Altrove, saprò sempre dove sei» spiegò, anticipando le domande della
ragazza.
«Gentiluomini, conoscete le regole» li interruppe Destino. «Questo è un
luogo neutrale. Tra queste mura non sono ammessi combattimenti o dispute
di alcun tipo.»
Il famiglio alle sue spalle iniziò a ringhiare sommessamente come
avvertimento. Le tre code scodinzolavano nervose.
«Ma certo, Destino» disse Feardorcha poggiandosi una mano sul petto
con aria innocente. «Non mi permetterei mai di alzare un solo dito nella tua
bottega.»
All’improvviso l’aria si fece densa, opprimente.
Marian si rese conto che stava accadendo qualcosa.
«Tu… sei il solito serpente bugiardo, Feardorcha» disse Aleister con
disprezzo. Poi strinse forte la mano a Marian. «Preparati, stanno per
succedere molte cose spiacevoli tutte insieme.»
Feardorcha sorrise beffardo. Gli occhi azzurri brillarono, diventando
presto rossi come carboni ardenti.
«Ho detto che io non avrei alzato un dito, non ho detto che gli hobgoblin
non lo avrebbero fatto.»
35
Marian si trovava a carponi nell’oscurità più assoluta. Non aveva mai visto
delle tenebre così fitte, nemmeno nelle notti senza luna.
Nella dimensione in cui si trovavano non c’era nulla. Solo buio.
Tutti i suoi sensi erano attutiti. Non c’era nulla da guardare in quella
distesa nera, non c’erano suoni, non c’erano odori. Era prigioniera di
un’oscurità totalizzante, che non lasciava scampo.
Sebbene non ci fosse luce, riusciva però a vedersi, come se fosse lei
stessa a brillare. A poca distanza, poteva scorgere perfettamente anche
Feardorcha.
Se ne stava seduto in disparte, le braccia appoggiate alle ginocchia. I
suoi vestiti e i capelli neri si mimetizzavano con l’ambiente, facendolo
apparire ancora più inquietante: una testa pallida dalle guance scavate che
galleggiava in quel mare nero.
«Dove siamo?» chiese Marian, tirandosi su a sedere. Nella caduta si era
fatta male, ma dissimulò. Non voleva mostrarsi debole davanti al
Negromante. Già il fatto di non avere un briciolo di magia in corpo la
metteva in una posizione di penoso svantaggio.
«Dovresti chiederlo al tuo amico.»
La voce era acuta, fredda come al solito, senza alcun tipo di emozione.
L’attenzione di Marian ricadde sulle sue mani. Sembravano pallidi ragni
irrequieti che emergevano dall’oscurità, spettrali. Continuava a stringere i
pugni, le vene sulle nocche che si gonfiavano e sgonfiavano quando fletteva
le dita. Sembrava piuttosto nervoso. Gli occhi azzurri, quasi bianchi,
incontrarono i suoi, e Marian si sentì scossa da un brivido.
«Adesso aspetteremo qui tranquilli l’arrivo di Aleister» le disse.
Lei strinse le labbra. «Perché dovrebbe mai tornare qui?»
Lui fece una smorfia infastidita e scosse la testa. «Ma per riprenderti, è
ovvio»
Marian si portò le ginocchia al petto. Rimase ferma, in silenzio per
quella che le parve un’infinità. Il cuore le stava per scoppiare nel petto per
l’ansia e l’agitazione.
«Perché non mi uccidi?» chiese, non riuscendo più a trattenersi. Sarebbe
stato facile, lì, in quella dimensione sospesa. Non avrebbe potuto ribellarsi,
non avrebbe potuto dare battaglia in nessun modo.
Gli occhi di ghiaccio del Negromante lampeggiarono nella sua direzione.
«Potrei prosciugare tutto il sangue che hai in corpo, sai? Mi basterebbe
schioccare le dita.» Un sorriso folle gli illuminò il viso, mentre alzava una
mano, mimando il gesto.
Marian impallidì, mentre una morsa le stringeva lo stomaco e la pelle le
si accapponava. Sapeva che diceva la verità.
Feardorcha riabbassò la mano, quasi annoiato dalla sua reazione
spaventata.
«Sei merce di scambio… per il momento mi servi viva» disse tetro.
«Quando Aleister arriverà per salvarti, gli chiederò la mappa in cambio
della tua libertà.»
Marian trattenne il fiato, cercando di dissimulare la sorpresa. Feardorcha
era convinto che fosse Aleister ad avere la mappa, non sapeva che era stata
lei a stipulare il contratto con Destino. Non sapeva che la mappa era lì con
loro, nella tasca del suo vestito!
C’era poi una certa dolorosa ironia in quella proposta di scambio per una
nuova effimera libertà. Si morse le labbra.
«A proposito, cosa gli ha chiesto Destino in cambio?» chiese
Feardorcha, una nota di curiosità nella voce.
«La… la sua corona» mentì Marian.
Il Negromante rise.
«Ne ero certo. Per questo l’ho lasciato andare avanti. Una volta che lui
avesse recuperato la mappa, mi sarebbe bastato rubarla a mia volta senza
dover pagare alcun prezzo in cambio…»
Marian tremò per la rabbia. Lei e Aleister avevano ingenuamente
pensato di essere un passo avanti a lui e invece il mago aveva previsto tutto.
Li aveva usati. Aveva sprecato la sua libertà, il suo futuro… per niente.
«Sei sicuro che Aleister verrà qui a cercarmi? È piuttosto pigro» disse a
denti stretti, incapace di tenere a freno la lingua.
Feardorcha le scoccò un’occhiata divertita.
«Andiamo… pensi davvero che ti lascerebbe indietro?»
«È abbastanza egoista per farlo» disse lei. Anche se non ci credeva
molto, sperò con tutto il cuore di avere ragione. L’Aleister che aveva
conosciuto al suo arrivo a Faerie non sarebbe mai tornato a prenderla… ma
adesso era tutto diverso. Era cambiato, e l’idea di metterlo in pericolo le era
insopportabile.
Rimasero in silenzio, immersi in quell’oscurità soffocante.
Quel nero assoluto era claustrofobico, e ben presto un senso di nausea
travolse Marian.
«Tu sei umano. Vieni dall’Altrove» boccheggiò, cercando di controllarsi,
asciugandosi la fronte imperlata di sudore. I capelli le si erano appiccicati in
faccia.
Feardorcha le rivolse un’occhiata feroce. Poi, la sua espressione mutò in
una smorfia sprezzante, gli occhi saettarono nella sua direzione.
«Te lo ha detto Aleister?» chiese freddamente.
«Girano parecchie storie su di te. Quindi è vero?»
«Nessuno ha mai avuto una tale impudenza di rivolgermi una domanda
simile.» I suoi occhi lampeggiarono, poi continuò freddamente: «Sì, sono
stato scambiato in fasce. Sono stato rapito da una fata».
Adesso che poteva osservarlo meglio a quella distanza ravvicinata,
Marian notò qualcosa nei suoi occhi che prima le era sfuggito. Sembravano
essere liquidi, le iridi parevano in continuo movimento, si scioglievano e si
ricomponevano, ancora e ancora, senza sosta. Quando Feardorcha sbatteva
le ciglia, l’incantesimo sembrava spezzarsi per poi ricominciare di nuovo.
“Deve essere stata la magia” si disse Marian. “La magia deve averlo
mutato in qualche modo, dopo tutti questi anni..
«Come osi fissarmi così?» le disse brusco. «Stai cercando qualche
traccia di umanità in me?»
Marian non si lasciò intimorire questa volta.
«È buffo, perché a guardarti bene in effetti non assomigli affatto a un
Sidhe» lo provocò. «Spogliato della tua magia, sei solo un uomo.»
Feardorcha fece una smorfia disgustata. «Non osare paragonarmi a
voi…»
Marian strinse le labbra, ma non si fermò: «Non faccio paragoni, dico
solo la verità. Fai parte anche tu del “voi” che disprezzi tanto, è inutile che
lo neghi. Sai cosa si dice nel mio mondo? Che l’ipocrita è il bugiardo più
pericoloso di tutti, perché non sa quando sta mentendo. Dovresti accettare la
realtà senza raccontarti delle menzogne, non trovi?».
Lui le rivolse un’occhiata piena di odio e veleno.
«Dimmi il tuo nome» continuò Marian.
«Lo conosci già.»
«Feardorcha? Non significa forse “Uomo oscuro”? Converrai con me
che non è il massimo dell’originalità come nome.»
«Cos’è, uno sciocco stratagemma per conoscere il mio vero nome?»
«Non sono una creatura magica, anche se mi dicessi il tuo nome
completo non saprei cosa farmene.»
Lui stiracchiò le labbra in un sorrisetto divertito.
«È da tantissimi anni che nessuno mi chiama in quel modo…»
Lei rimase paziente in attesa, continuando a sostenere il suo sguardo,
decisa a non cedere in quella prova di forza di nervi. Aveva appena perso la
sua libertà, tanto valeva andare ancora più in fondo.
«Thomas» disse lui. La voce era fredda, senza emozione. La osservava
con gli occhi privi di vita.
«Un nome piuttosto ordinario per qualcuno che desidera distruggere i
nostri mondi» commentò Marian.
«È quello che voi umani vi meritate.»
«Che noi ci meritiamo? Si può sapere cosa abbiamo fatto?»
«Io e te abbiamo molto in comune» disse il mago, ignorando le sue
domande. La stava osservando con grande attenzione.
«Credo di non avere la stessa tua inclinazione all’omicidio.»
Feardorcha si portò una mano al collo e sfilò da sotto gli abiti un
medaglione.
Marian sgranò gli occhi, incapace di nascondere la sorpresa. Era la copia
sputata di quello che aveva addosso lei. La pietra, però, era di un blu notte,
al contrario della sua, rosso sangue.
«Quando mi sei passata accanto, nella folla, quel giorno al mercato… mi
sono accorto immediatamente di cosa stavi indossando. Anche se lo celavi
sotto i vestiti, ho sentito il suo richiamo. Il mio medaglione ha iniziato a
vibrare, sentendo il tuo» le disse, con una strana risata. «È buffo, perché
sono sempre stato convinto che il mio fosse un pezzo unico… e invece ecco
un’altra mortale con il medesimo gioiello magico, uno dei tesori più
preziosi dei Sidhe. Dimmi se non è il destino che ci ha voluto unire…»
«Mi sembrava di ricordare che non credessi nel destino» ribatté Marian.
Lei non aveva percepito niente quel giorno, era troppo impegnata a
cercare Aleister in mezzo alla folla.
Feardorcha rise. «In effetti è così. Siamo noi stessi gli artefici del nostro
destino, non trovi?»
Marian toccò la fede che aveva al dito. «Sì. Sì, lo siamo» mormorò.
«Perché hai quel gioiello al collo?»
«Potrei farti la stessa domanda.»
Lui le rivolse un sorriso feroce, ma divertito. «Una fata… una vecchia e
sciocca fata si era affezionata a me. Da quando aveva assistito alla mia
nascita, si era come infatuata. Veniva sempre a spiarmi, a mano a mano che
crescevo. A un certo punto non poté più sopportare l’idea di vedermi stretto
tra le braccia della mia vera madre umana. Voleva avermi tutto per sé.
Aveva perso suo figlio e io sarei stato un sostituto perfetto. Così, decise di
rapirmi. Al mio posto lasciò un changeling e mi portò a Faerie con lei… Ma
ci fu un piccolo intoppo. Appena varcato il portale che collegava l’Altrove
con Faerie…»
«La magia nell’aria ha iniziato a farti sprofondare…» sussurrò Marian.
«…nella materia dei sogni» dissero all’unisono.
Feardorcha sorrise.
«Ma vedi, la fata aveva pensato a tutto. Sono stato sì rapito, ma sono
stato anche molto amato. Questo…» disse picchiettando l’indice bianco e
scheletrico sulla pietra «…lo aveva rubato per me, per permettermi di
rimanere qui a Faerie e sopravvivere alla magia, pur essendone tristemente
sprovvisto. Ma non è stato un problema che si è posto per troppo tempo. Ho
studiato, ho sopperito da solo alle mie mancanze… genetiche. È stato
proprio grazie agli studi che ho fatto, a quell’incredibile quantità di libri che
ho divorato che ho scoperto che il medaglione che la mia madre Sidhe mi
aveva donato era molto più di una sciocca reliquia che aveva trafugato in
qualche rudere. Era uno dei quattro medaglioni affidati ai quattro capostipiti
delle famiglie fondatrici di Faerie, gli unici medium per utilizzare
l’incantesimo più prezioso di questo mondo, l’unico che non si può né udire
né pronunciare. La parola… che incredibile fortuna. Questo medaglione, il
medium più prezioso e raro di tutta Faerie, in mano a Thomas, il bambino
umano, scambiato in culla da una fata alla disperata ricerca di un figlio.
Avevo il medaglione, dovevo solo trovare gli incantesimi, così da poter
realizzare il mio piano.»
«Perché lo fai? Perché vuoi distruggere le barriere che dividono Faerie
dall’Altrove? Così finirai per distruggerci tutti!» esclamò Marian.
«No, distruggerò solo il mondo umano, salvando Faerie» urlò
Feardorcha. Tornò poi a sorridere, cercando di ricomporsi, come se quello
scatto d’ira non fosse mai avvenuto. Sotto i capelli neri spettinati, gli occhi
brillavano feroci. Nel suo viso, contratto in una smorfia di rabbia, Marian
riusciva a scorgere sempre più la somiglianza con la sua forma bestiale.
«Troppo a lungo l’Altrove ci ha schiacciati. Troppo a lungo ci siamo
ridotti a essere vostri schiavi. Ci state rubando lo spazio, la terra… la nostra
stessa aria. Più vi espandete, voi, le vostre macchine e le vostre fabbriche…
e più noi dobbiamo farci da parte. L’intera Faerie ha iniziato a restringersi,
schiacciata dal vostro peso. Non ci state lasciando altra scelta» disse con
voce roca. «O voi, o noi. Re Oberon è un fantoccio, manovrato dal
consiglio nobiliare di Faerie. Se loro non vogliono alzare un dito per
proteggere Faerie e contrattaccare l’avanzata umana, be’, ci penserò io.»
«E Faerie non risentirà del crollo delle barriere? Come fai a esserne così
certo?»
Gli occhi di Feardorcha si accesero.
«Non farei mai niente che possa mettere in pericolo il mio mondo. Faerie
è nata per prima. Una volta che le barriere saranno crollate, schiaccerà
l’Altrove.»
«Ma l’Altrove è comunque casa tua. È da lì che vieni, come puoi pensare
di distruggerlo?»
«Non è casa mia!» gridò furente. Gli occhi emanavano bagliori, la
mascella era serrata. «Sai cos’è accaduto quando sono tornato in quella che
tu chiami “casa”? Quando ho provato a incontrare la mia vera madre?
Quando ho attraversato i confini tra i nostri mondi e sono tornato
nell’Altrove, mi sono presentato alla sua soglia. Ho trovato una vecchia
pazza con i capelli bianchi. Ho provato a dirle “Sono Thomas”, ma lei è
corsa a prendere l’attizzatoio dal fuoco e ha provato a trafiggermi» disse
con un ghigno divertito. «Continuava a ripetermi che il suo piccolo Thomas
era avvizzito… che era stato ucciso dalle fate e che io ero una creatura
malvagia, che dovevo morire… Queste sono state le parole d’amore che mi
ha rivolto mia madre.»
Marian per un po’ non rispose, provando una pena istintiva verso
Feardorcha. Sapeva che Aleister non avrebbe approvato, ma non poteva
impedirselo.
«Quanto tempo fa è successo?» chiese.
Feardorcha la guardò. Per un attimo parve smarrito, poi la solita
espressione glaciale gli indurì il viso.
«Trecento anni fa.»
Marian trattenne il respiro.
«Per questo… tu non potrai mai più tornare nell’Altrove» disse lei,
capendo solo in quel momento ogni cosa.
«Se mettessi piede nell’Altrove, i miei trecento anni mi crollerebbero
addosso, trasformandomi in polvere. Ma va bene così, non voglio tornare in
quel posto maledetto. È Faerie la mia unica casa.»
Adesso aveva capito perché Aleister aveva ordinato a Macbeth di
scappare nell’Altrove con il suo medaglione. Quando aveva intuito che
voleva mettere le mani sulle parole delle famiglie, doveva aver pensato che
Feardorcha avrebbe avuto bisogno del gioiello… senza però sapere che il
mago ne aveva già uno suo, fin da quando era bambino. Feardorcha non
avrebbe mai potuto cercarlo lì, a meno che non desiderasse diventare un
mucchietto d’ossa.
«Sei mai più tornato nell’Altrove?»
«Perché avrei dovuto? Non c’è niente lì per me. Non c’è mai stato
niente.»
Marian scattò in piedi, stringendo la mano attorno al suo medaglione.
«Invece ti sbagli! C’è così tanto da scoprire! Se solo ti avessero aiutato a
conoscere gli umani, sono sicura che avresti imparato ad apprezzarli.»
«Non ho alcun rispetto per chi distrugge e avvelena il proprio mondo. E
voi umani non avete alcun rispetto per la vita» disse lui con voce
monocorde.
«Non sono tutti così gli esseri umani» insistette Marian.
«Avete avuto la vostra possibilità, la vostra occasione. È tempo che le
cose si aggiustino, che i Sidhe tornino a essere gli unici padroni di questa
terra. Una volta che avrò abbattuto le barriere, Faerie si piomberà
sull’Altrove, divorando il mondo degli umani.» Anche il mago si alzò
lentamente in piedi, senza smettere di tenerla d’occhio. «Tutto allora si
sistemerà» mormorò.
Marian non sapeva cosa dire. Si sentiva così confusa, così perduta. Era
furiosa per quella situazione. Non riusciva a trovare le parole giuste per
spiegarsi. Se solo Thomas avesse provato ad ascoltarla! Sentiva la fede
bruciarle al dito, come una sconfitta.
«È così patetico vedere come il tuo cuore brami il suo…» le disse lui con
dolcezza.
Marian fece un passo indietro, guardandolo confusa.
«Non risponderò a questa provocazione…»
Feardorcha si voltò a osservare l’oscurità, un sorriso beffardo sulle
labbra. «È giunto, infine.»
L’oscurità accanto a Marian si squarciò, rivelando una ferita luminosa.
«Eccoti, finalmente» disse Aleister comparendo in mezzo alle tenebre.
«Ti ho cercato dappertutto.»
Marian prese al volo la mano che Aleister le porgeva.
«Ti ha fatto del male?» chiese il giovane re a bassa voce. Sorrideva, ma
Marian aveva imparato a leggere i suoi stati d’animo dietro a quelle
espressioni beffarde.
Era teso, preoccupato. Quella domanda la fece intenerire, e fu difficile
tenere a bada le emozioni.
«Non mi ha torto un capello.»
«Strano che tu ti sia comportato in maniera galante per una volta» disse
Aleister rivolgendosi al Negromante.
«Non credo lo farò più» rispose il mago con un piccolo inchino
insolente. Aprì il cappotto e dall’oscurità delle pieghe apparve Macbeth. Il
ragazzino cadde a terra, privo di sensi.
Marian lasciò la mano di Aleister e si gettò ai piedi di Feardorcha.
«Cosa gli hai fatto?» gridò, stringendo il ragazzino tra le braccia.
«L’ho solo addormentato, sta bene. Non la piantava di scalciare e
divincolarsi. Una bella scocciatura.»
«Capita quando rapisci qualcuno» commentò furente Aleister.
Feardorcha gli rivolse un sorriso feroce. «La ragazza e il tuo servitore in
cambio della mappa. Se me la consegnerai, vi lascerò andare senza farvi
male. Hai la mia parola.»
Marian si morse forte il labbro. Lei e Aleister si rivolsero un’occhiata
angosciata.
«Va bene, te la daremo, ma adesso libera Macbeth dal tuo incantesimo»
disse Marian.
«La ragazza è più ragionevole di te.»
Feardorcha le si chinò accanto. Passò una mano sul viso di Macbeth e il
ragazzino si svegliò di soprassalto, annaspando in cerca di aria, come se
avesse trattenuto il fiato fino a quel momento.
«Marian? Marian, Feardorcha è qui!» balbettò confuso, per poi
aggrapparsi a lei quando mise a fuoco il Negromante chino su di lui.
«Sssh, va tutto bene, sei al sicuro adesso» lo confortò lei.
Aleister fumava di rabbia, ancora sulla soglia dello squarcio che aveva
aperto. La luce calda che entrava dalle sue spalle, riversandosi in quella
dimensione fatta di nulla, non riusciva comunque a rischiarare il nero
assoluto in cui erano immersi.
«Ora, la mappa» sussurrò Feardorcha, allungando la mano verso
Aleister.
Marian strinse forte Macbeth che, guardandosi intorno spaesato, stava
cominciando a rendersi conto del brutto guaio in cui si trovavano tutti.
Marian si mise la mano in tasca e afferrò la mappa. La strinse forte,
mentre frustrazione e rabbia crescevano dentro di lei, facendole bollire il
sangue nelle vene. Aveva rinunciato alla sua libertà per quel pezzo di carta,
e adesso Feardorcha, anzi, Thomas, glielo voleva strappare con un orribile
ricatto.
Marian tese la mappa con uno sguardo carico d’odio.
«Ecco qui, Thomas. Goditela.»
Non avrebbe più ceduto alla paura o a quei titoli altisonanti che il
ragazzo si era scelto. Lo avrebbe trattato come meritava.
Feardorcha la fissò divertito. Non sembrava turbato da quella
provocazione. Afferrò la mappa, ma poco prima di lasciare la presa, Marian
sussurrò nell’orecchio a Macbeth una sola parola.
«Fiamme.»
Il ragazzino capì subito. Starnutì con tutta la sua forza sulla cartina,
facendole prendere fuoco.
Feardorcha allontanò istintivamente la mano appena le fiamme avvolsero
il foglio.
Marian scattò verso Aleister, con Macbeth ancora in braccio, e afferrò la
mappa con la mano libera. Il fuoco bruciava, ma non avrebbe lasciato la
presa. Preferiva vedere la mappa incenerirsi piuttosto che lasciarla a lui.
Feardorcha si sporse per provare ad afferrare Marian e la mappa, ma
Aleister investì il mago con un’ondata di fiamme, rallentandolo.
La ragazza si buttò nello squarcio della dimensione giusto in tempo,
prima che quello si richiudesse alle sue spalle.
Marian e Macbeth finirono tra le braccia di Aleister, dall’altra parte.
Erano in salvo. Per adesso.
37
Marian precipitò nel lago e venne inghiottita dal riflesso dell’isola che si
specchiava sulla superficie. Chiuse gli occhi e trattenne il fiato, ma invece
di andare a fondo come si sarebbe aspettata… riemerse.
Il sotto si era trasformato nel sopra, il cielo aveva preso il posto della
terra e lei, in qualche modo, era passata dall’altra parte dello specchio
d’acqua. Lo aveva attraversato, come fosse un portale.
Sbatté gli occhi confusa, con un lieve senso di vertigine dovuto a quel
cambio di prospettiva. Il paesaggio era diverso ora. Il lago in cui avrebbe
dovuto precipitare era una pozza d’acqua poco profonda. Davanti a lei c’era
il cromlech. Sopra la sua testa si alzava una cupola di luce a protezione di
quel luogo, un intricato groviglio di raggi che formavano una gabbia. Come
se fosse una barriera…
Marian capì dove si trovava. Era quello il vero cromlech, nascosto nel
riflesso dell’isola sul lago.
Nuotò fino alla riva e si issò. I sette enormi monoliti erano disposti in
cerchio, ma invece di trovarsi sull’isola sospesa, si ergevano su una terra
brulla.
Si avvicinò con cautela, affascinata. Le pietre sembravano emanare
energia. Allungò una mano, ne sfiorò una e si sentì pervadere da uno strano
formicolio che le fece tremare il braccio.
Che cosa doveva fare? Doveva avvertire Aleister? O era meglio lasciare
che Feardorcha fallisse, cercando di abbattere la barriera nel finto
cromlech?
E se avesse fatto del male ad Aleister mentre lui provava a fermarlo?
«Pensa, Marian, pensa» si disse.
Uno sciabordio d’acqua alle sue spalle la fece sobbalzare. D’istinto, si
nascose dietro al monolite.
Dalla pozza, uscì Feardorcha. Si mise subito in piedi, passandosi una
mano sulla fronte per scostare i capelli neri e scoprire il viso pallido
illuminato da un’espressione di incredulità e gioia.
«Ecco… ecco perché non funzionava!» sussurrò, mentre sulle labbra gli
si allargava un sorriso.
Si avvicinò lentamente, gli occhi rossi che perdevano colore, tornando
del loro azzurro ghiaccio originale. Ora sembrava più umano che mai.
Marian si portò alle labbra la mano bendata, cercando di non emettere un
fiato. Si schiacciò contro il monolite, sentendo i suoi passi farsi sempre più
vicini.
Dove era Aleister? Perché Feardorcha era arrivato lì da solo?
Marian si sentì mancare la terra sotto ai piedi. Gli era forse accaduto
qualcosa?
Feardorcha era al centro del cromlech, la ragazza sentiva il suo respiro
affannoso.
«Per Faerie…» mormorò. Abbassò il viso e baciò la pietra blu del suo
medaglione.
Il petto del mago aveva iniziato a brillare e Marian sapeva cosa stava per
succedere.
Il negromante avrebbe usato le parole rubate. Avrebbe fatto crollare le
barriere di Faerie.
Venne travolta da un’ondata di sconforto e terrore. Ma cosa poteva fare
per cercare di contrastarlo?
Feardorcha venne scosso da forti tremori. Si piegò su se stesso, mentre
vomitava le parole. Cadde in ginocchio, ansimando per lo sforzo. Lo
scontro con Aleister doveva averlo sfinito.
Gli incantesimi volteggiarono in aria davanti a lui, brillando tenui.
Fu allora che a Marian venne un’idea. Era una totale follia, ma cos’aveva
da perdere ormai? Si portò una mano al collo, toccando il medaglione
nascosto sotto ai vestiti. Poteva funzionare…
Non ci pensò troppo, agì e basta.
Uscì allo scoperto, il braccio teso verso le piccole e pallide sfere di luce.
Feardorcha sgranò gli occhi, incredulo. Quando si slanciò in avanti, nel
tentativo di fermarla, era ormai troppo tardi. Marian stringeva già tra le
mani una parola. Se la portò alle labbra e la ingoiò.
«Che cosa fai?» gridò lui.
Marian si sforzò di deglutire la sfera. Tra le mani le era sembrata
incorporea, ma adesso nella sua gola era fin troppo reale.
«Quello che andava fatto» ribatté senza fiato.
Si sentiva strana, come se avesse appena ingoiato la tazza di tè più calda
della sua vita. Sentiva il calore irradiarsi dal suo stomaco, in ondate
dolorose, per tutto il suo corpo. Provò una fitta al petto e alla pancia e si
piegò, appoggiandosi al monolite più vicino.
«Ora dovrò ucciderti per riprendermi la parola» ringhiò il Negromante,
mentre attirava a sé gli incantesimi rimasti. Gli occhi erano tornati rossi e
bruciavano folli di rabbia. Dallo squarcio sulla sua mano gocciolò nuovo
sangue fresco, che si tramutò ancora una volta nella spada dalla lama rossa.
Marian, ansante e ancora piegata in due per il dolore, cercò una via di
fuga.
A passi incerti tentò di scappare verso la pozza d’acqua, ma la mano di
Feardorcha calò su di lei, fermandola. Con una forza mostruosa la sollevò
in aria, spingendola contro un monolite del cromlech. L’impatto contro la
dura pietra le tolse il respiro. Cadde riversa a terra, nella polvere.
«Non osare toccarla!» gridò il Re delle Volpi.
Marian boccheggiò, guardando in direzione dell’ingresso della
dimensione segreta. Aleister era appena emerso dalla pozza, la spada
sguainata, i capelli bagnati appiccicati al viso e il braccio ferito.
«Che cosa le hai fatto?» abbaiò in direzione di Feardorcha. Sembrava
fuori di sé.
Feardorcha gli rivolse un’occhiata velenosa.
«Ha ingoiato una delle parole. Adesso dovrò sventrarla per
riprendermela.»
Aleister corse verso di lui come una furia. Le braccia gli presero fuoco
all’istante e lo colpì con tutta la sua forza, sbalzandolo al di là del cromlech.
Poi si chinò su di Marian. «Sei ferita?» chiese con apprensione Aleister,
cercando di sorreggerla.
«Non sono mai stata così felice di vederti» mormorò lei.
«Maledizione, Marian! Perché ti cacci sempre nei guai?»
«Se sono finita qui è solo per colpa tua!» protestò lei. Una nuova fitta al
petto la fece piegare su se stessa. Si sentiva le viscere in fiamme.
«Sì, ma ingoiare un incantesimo così potente! Cosa ti ha detto il
cervello? E come accidenti fai a essere ancora viva?»
Marian si portò una mano al collo e tirò fuori dal vestito il medaglione,
sorridendo.
«Più furba di una volpe» sogghignò Aleister.
Un istante dopo Feardorcha attraversò come una furia i monoliti,
avventandosi su di loro.
Aleister spinse lontano Marian, mentre il Negromante si scagliava su di
lui. Con un colpo deciso e fulmineo, gli trafisse il fianco con la lama di
sangue.
Sul viso di Aleister si dipinse un’espressione stupita che si deformò in
una smorfia di dolore.
«E adesso, Aleister, è giunta la tua fine.» Feardorcha lo fissava con i
grandi e lividi occhi rossi, la bocca piegata di traverso in un sorriso
meschino.
«Sono il Re delle Volpi. Se pensi che possa morire come un’insulsa
comparsa, ti sbagli di grosso. Sono il protagonista di questa storia» ribatté
Aleister stringendosi il fianco con una mano. Poi digrignò i denti per il
dolore e, con enorme sforzo, spinse via il Negromante, fendendogli il petto
con un colpo di spada.
Feardorcha gridò dal dolore e dalla rabbia. Mentre Aleister caricava un
nuovo colpo, la mano destra del mago si deformò, diventando enorme. La
pelle si riempì di squame e di piume, le unghie si allungarono in giganteschi
artigli neri.
Il Negromante colpì il Re delle Volpi in pieno viso, con il braccio
trasfigurato, sbalzandolo lontano.
«Aleister!» gridò Marian.
Il ragazzo rotolò nella polvere e rimase fermo, immobile.
Feardorcha era crollato a terra. La spada si sciolse nella sua mano, e una
gran quantità di sangue scrosciò sul terreno brullo. Si portò una mano sul
petto per controllare la ferita e guardò infastidito le mani macchiate di
sangue. Poi fece per alzarsi in piedi, ma ricadde subito in ginocchio.
«Digli pure addio con calma» gemette Feardorcha, con disprezzo, rivolto
a Marian. «Tu sarai la prossima.» E si portò entrambe le mani al petto,
cercando di fermare il sangue.
Marian scattò verso Aleister, dimenticando il dolore che provava, mentre
la paura si impadroniva di lei.
“Ti prego, fa’ che non sia morto, fa’ non sia morto.”
Si buttò a terra, scuotendolo.
«Aleister! Aleister, ti prego, apri gli occhi!» disse incapace di trattenere
le lacrime.
Era riverso a faccia in giù e quando Marian riuscì a girarlo si lasciò
scappare un gemito spaventato. Aleister era una maschera di sangue. Tre
squarci gli attraversavano il bellissimo volto, dove gli artigli di Feardorcha
erano affondati nella carne morbida.
Aleister tossì e Marian, che aveva trattenuto il fiato per tutto quel tempo,
ricominciò a respirare.
«Marian?» gemette lui, alzando una mano, cercandola.
Lei la afferrò e lo aiutò a tirarsi su, poggiandogli la testa in grembo.
«Quanto è brutta la ferita?» mormorò.
Marian si sporse a controllarla. Sotto di lui si era allargata una pozza di
sangue.
«Andrà tutto bene… adesso ti riporto a casa» balbettò lei, cercando di
sollevarlo.
Aleister gemette e si portò una mano al fianco.
«Lascia stare e ascoltami, piuttosto. Ho bisogno del tuo aiuto…»
mormorò.
«Tutto quello che vuoi… tutto» disse Marian, mentre lo stringeva tra le
braccia, le lacrime che le offuscavano la vista.
Aleister alzò la testa, cercando di avvicinarsi al viso di lei. «Non riesco a
vederti» si lamentò passandosi una mano sul viso.
Marian cercò di aiutarlo, usò la manica del vestito per ripulirgli il volto.
Gli occhi verdi di Aleister brillarono in mezzo ai graffi sanguinolenti.
«Devi fare una cosa per me…» parlava a fatica. «Dovrai pronunciare il
mio nome…»
«Aleister?» disse lei, confusa da quella richiesta.
Il Re delle Volpi scosse leggermente il capo e un sorriso stentato gli
spuntò sul viso stanco e ferito. «No, il mio vero nome… il mio nome
segreto…»
«Ma… quando uno dell’Altrove scopre il vero nome di un Sidhe finisce
per diventarne il padrone. Perché vuoi rivelarmelo?» chiese.
«Perché ho un piano. Appena lo pronuncerai, io sarò legato a te per
sempre e dovrò ubbidire a ogni tuo ordine. È l’unico modo che mi è rimasto
per fermare Feardorcha.»
«Che cosa stai dicendo, Aleister? Non capisco!»
«Io… io non ho più forze, Marian, per questo ho bisogno di te. Della tua
forza. Nel momento in cui saremo legati non potrò venire meno alle tue
richieste. Ma grazie a te, potrò usare di nuovo il mio potere, attingendo alla
magia che ci legherà per sempre.»
Marian si voltò per controllare Feardorcha alle loro spalle.
Era appoggiato contro un monolite, il viso smunto e pallido, gli occhi
cerchiati di nero. Si era portato entrambe le mani al petto e un leggero fumo
nero lo stava avvolgendo. Si stava curando.
«Quali sono i termini del nostro contratto?» chiese lei in fretta.
«Avrai potere di vita e di morte su di me. Avrai la mia vita, il mio potere,
persino la mia vera forma… tutto ti apparterrà. Saremo legati
indissolubilmente.»
«Riuscirai a fermare Feardorcha?»
Si guardarono negli occhi e lui annuì.
«Ma se pronuncio ad alta voce il tuo nome, lui non lo sentirà?»
«Sì, ma non ha importanza. Sarò già tuo.»
Aleister le prese il viso tra le mani sporche di sangue, facendola
abbassare verso di lui.
Le sussurrò all’orecchio il suo nome, il suo più grande tesoro.
Una catena magica si chiuse attorno ai loro polsi, unendoli
indissolubilmente, e poi sparì, come se fosse stata assorbita dalla loro pelle.
Marian si chinò per baciarlo. Le labbra di Aleister avevano il sapore
ferroso del sangue.
«Fallo adesso» gemette il Re delle Volpi. «Grida il mio vero nome… e
dammi l’ordine!»
«Sionnach òrga!» gridò Marian con tutto il fiato che aveva in gola.
«Ferma Feardorcha in ogni modo! Non lasciare che abbatta le barriere di
Faerie, proteggi i nostri mondi.»
Il corpo di Aleister iniziò a sussultare tra le sue braccia. La pelle sembrò
andargli a fuoco, iniziando a brillare sempre più forte. Marian dovette
schermarsi il viso per proteggersi da quella luce. Intanto, il corpo di Aleister
si trasformava…
Feardorcha si era fermato appena l’urlo di Marian aveva lacerato l’aria.
Sul viso aveva un’espressione atterrita, gli occhi rossi sgranati.
«Non credevo che saresti arrivato a questo pur di fermarmi» gridò.
Il corpo di Aleister si era alzato da terra, imprigionato tra le sue stesse
fiamme. Marian arretrò, cercando di proteggersi dal calore che sprigionava.
«Cosa sta succedendo? Cosa ti ho fatto?» gemette spaventata.
La gabbia di fuoco che avvolgeva il Re delle Volpi stava velocemente
aumentando le proprie dimensioni.
Feardorcha allargò le braccia, il viso folle dalla rabbia. Le squame e i
peli ispidi lo ricoprirono, e si trasformò nella sua forma bestiale.
Le fiamme che avvolgevano Aleister esplosero con un boato assordante,
ricoprendo con una pioggia di proiettili di fuoco la dimensione segreta del
cromlech. Marian cercò riparo rotolando dietro un monolite.
Quando la pioggia di fuoco cessò, alzò gli occhi e lo vide.
Il Re delle Volpi non era più un uomo, sebbene non lo fosse mai stato
davvero. Al posto del ragazzo, si ergeva ora un’enorme volpe, fatta di
fiamme, più grande anche della versione bestiale di Feardorcha.
La volpe saltò con eleganza su un monolite, studiando a debita distanza
il suo avversario.
Marian poteva avvertire il calore che emanavano le fiamme di Aleister
anche da dove si trovava.
«Sei dovuto ricorrere alla tua forma più pura per poter battere un
semplice essere umano. Non so se sentirmi lusingato, o se provare pena per
te» gorgogliò Feardorcha. Gli occhi ardevano, i peli ispidi gli si rizzarono
lungo la schiena mentre si metteva in posizione d’attacco.
La volpe di fuoco rimase immobile sul monolite. Poi girò il muso
fiammeggiante verso Marian.
Lei capì perché la stava guardando. Si stava assicurando che fosse
abbastanza distante da essere al sicuro.
«Vai, non pensare a me» sussurrò Marian.
La volpe, come se fosse riuscita a udirla anche da là, spiccò un balzo in
aria. Spalancò la bocca e cominciò a eruttare fiamme, che colpirono in
pieno la bestia nera.
Feardorcha sgrullò lo spesso manto ispido e, scartando di lato, usò uno
dei monoliti per proteggersi dalla cascata di fuoco. Si rovesciò a terra per
spegnere le fiamme e l’aria si impregnò del nauseabondo odore di pelliccia
bruciata.
La bestia nera attaccò Aleister su un fianco, cercando di coglierlo di
sorpresa.
Marian assisteva impotente allo scontro.
Aleister e Feardorcha erano un groviglio di corpi. Continuavano a
scontrarsi, con un clamore che faceva tremare la terra, soffiando e
ringhiando, le voci che rimbombavano come tuoni in una tempesta.
I corpi si abbattevano contro il cromlech e avrebbero continuato fino a
che non si sarebbero distrutti a vicenda. Se solo Marian avesse potuto
fermarli…
In quel momento, qualcosa brillò ai suoi piedi.
Era la spada di Aleister. Nella lotta doveva essere volata fin lì.
Le tornò subito in mente ciò che il ragazzo le aveva detto nella bottega di
Destino.
“L’arma giusta arriva all’eroe nel momento del bisogno” si disse.
Non ci pensò due volte e la afferrò.
Appena le dita si chiusero attorno all’elsa, il braccio iniziò a tremare,
attraversato da una scarica elettrica. Era successo lo stesso quando aveva
sfiorato il monolite. Dentro di lei stava scorrendo la magia. Non sapeva se
fosse merito della spada, dell’incantesimo che aveva ingoiato a forza, o del
medaglione che aveva al collo, non le importava. Non avrebbe sprecato
quell’occasione.
In quel momento, Aleister e Feardorcha atterrarono con uno schianto a
terra. La gigantesca volpe di fuoco arretrò, mentre la bestia nera partiva per
un ultimo disperato attacco.
Fu allora che Marian si tuffò in mezzo a loro. La lama della spada calò
sulla zampa tesa del Negromante, e quando si abbatté contro le scaglie di
serpente e le piume di corvo, mutò improvvisamente. Si trasformò in pura
luce.
Feardorcha proruppe in un grido mostruoso: la zampa era stata mozzata
e la spada esplose in un bagliore accecante.
Marian venne sbalzata via dall’onda d’urto del colpo, oltre il cromlech,
atterrando in mezzo alla polvere.
Per dei lunghissimi istanti non riuscì a vedere niente.
«Marian.»
Cercò di rimettersi in piedi, frastornata, l’elsa ancora stretta in mano. Le
orecchie le fischiavano, ma sentì che qualcuno la stava chiamando.
Sembrava la voce di Aleister.
«Marian!»
La luce finalmente si dissipò, e riuscì a mettere a fuoco il ragazzo che le
stava di fronte. La stava scuotendo per le spalle.
«Che mi venga un colpo se non avevo ragione. Hai visto? Te lo avevo
detto che era una spada magica! Sei stata magnifica, incredibilmente
eroica!» esclamò Aleister.
Marian, ancora un po’ stordita, gli rivolse un sorriso sollevato. «Era solo
capitata in mano all’eroe sbagliato, è per quello che non funzionava» lo
prese in giro.
Aleister era tornato normale, nella sua forma umana. Aveva ancora il
viso sporco di sangue, ma le ferite sembravano essersi richiuse. Poi, Marian
notò qualcosa di diverso.
«E queste?» esclamò meravigliata, afferrandogli le orecchie da volpe che
gli spuntavano tra i capelli.
«Sono troppo stanco per nasconderle» borbottò lui, cercando di assumere
un’espressione dignitosa.
«Stai bene?» chiese Marian, non riuscendo a impedirsi di lanciare
un’occhiata curiosa verso la sua coda.
«Sì, ed è tutto merito tuo. Se non avessimo stipulato il patto… me la
sarei vista davvero brutta. Ho attinto alla magia del nostro contratto e ora
sono come nuovo… o quasi» disse con una smorfia, sfiorandosi il viso.
Marian si aggrappò alla sua giacca.
«E Thomas?»
Entrambi si voltarono, alla ricerca del Negromante.
Era accanto alla pozza d’acqua, la via d’uscita da quella dimensione.
Stava a carponi, il viso imperlato di sudore, sfinito dallo sforzo. Il petto si
alzava e si riabbassava in fretta. Si teneva ben stretto il braccio mozzato,
cercando di contenere la perdita di sangue. Gli occhi erano cerchiati di nero
e si guardavano attorno folli, come quelli di un animale messo all’angolo.
Aleister gli si avvicinò lentamente.
Se fosse bastato uno sguardo per uccidere, Feardorcha lo avrebbe fatto.
Rivolse al Re delle Volpi un’occhiata di disprezzo.
«Che cosa aspetti? Avanti, finiscimi!» ringhiò, umiliato.
Il sangue continuava a scorrere dal suo braccio, macchiando la terra sotto
di sé.
Aleister gli rivolse uno sguardo pieno di pietà.
«Uccidimi!» gridò Thomas.
Il Re delle Volpi scosse piano la testa. «Avrei tutto il diritto di farlo,
ma… no. Non ti ucciderò, perché non sono né un giudice, né un boia. La
morte è una soluzione troppo semplice. Pagherai per i crimini che hai
commesso, ma non sarò io a occuparmene.»
Si inginocchiò davanti a lui. Gli strappò via il medaglione dalla pietra
blu e gli affondò una mano nel petto.
Feardorcha sgranò gli occhi, il fiato mozzato. Aleister ritrasse la mano, i
tre incantesimi che brillavano stretti nel suo pugno.
«Questi me li riprendo. Adesso vattene.»
Feardorcha, ancora senza fiato, fulminò Aleister con un’ultima occhiata
imperiosa, gli occhi che fiammeggiavano. Il suo viso iniziò a implodere, le
ossa ad accartocciarsi, l’intero corpo perse di consistenza. Con le sue ultime
forze, il Negromante si trasformò in una voluta di fumo e fuggì, tuffandosi
nella pozza d’acqua.
Aleister sospirò, sfinito, gli incantesimi ancora stretti in mano. Li portò
alle labbra e li ingoiò.
«Sei sicuro di volerlo lasciare andare via così? Dopo tutto quello che ha
fatto?» mormorò Marian, raggiungendolo.
«Oh, vedrai… appena uscirà da questa dimensione finirà nelle mani del
consiglio. Il Re dei Nani mi è sembrato entusiasta all’idea. Si dà il caso che
io gli abbia dato giusto qualche indicazione su come e dove trovarlo. Lo
prenderanno appena uscirà» disse Aleister con un ghigno soddisfatto.
«Ma quando lo hai fatto?»
Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Mentre studiavo l’incantesimo per il
portale. Te lo ricordi che sono un grandissimo mago, vero?»
«Subirà un processo?»
«Certo. Ha commesso troppi crimini…» Lo sguardo del Re delle Volpi si
perse per un attimo, e l’espressione sul suo viso si indurì. «In ogni caso, ci
penseranno loro. Direi che noi abbiamo già fatto fin troppo.»
Marian gli gettò le braccia al collo. «Sapevo che ce l’avresti fatta!»
«Attenta!» disse Aleister, perdendo l’equilibrio.
Entrambi finirono in acqua, riemergendo dall’altra parte, sulle sponde
del lago. Si guardarono, sfiniti ma raggianti, e iniziarono e ridere, senza
riuscire a smettere.
Dall’alto, sull’isola galleggiante, sentirono chiamare a gran voce i loro
nomi.
Era Macbeth.
«State bene? Ho visto Feardorcha uscire dall’acqua e ho avuto paura che
vi avesse uccisi!» esclamò. Poi sgranò gli occhi, quando vide le condizioni
del Re delle Volpi.
«Accidenti, Aleister, si può sapere cosa ti è successo alla faccia?»
Lui fece una smorfia, portandosi una mano al viso.
«È una lunga storia ricca di gesta eroiche che meritano di essere
raccontate nei dettagli. Ma ora troviamo un modo per farti scendere
dall’isola. Non so voi, ma io ho una gran voglia di tornare a casa.»
Marian lo aiutò a nuotare verso la riva. Quando finalmente toccarono il
fondo, iniziarono ad attraversare l’acqua a grandi falcate.
«Adesso che sono così sfigurato, sono sicuro che non mi vorrai più»
disse cupo Aleister mentre scrutava il viso ferito nel riflesso del lago.
«Sei sempre stato bello, Aleister, ma sappi che ti amo per le tue qualità,
non solo per il tuo aspetto» lo stuzzicò Marian.
«Qualità come la mia modestia?»
«Quella al primo posto!»
Aleister sorrise ancora «Sai, stavo pensando che, sempre se sei
d’accordo…» iniziò a dire per poi interrompersi, imbarazzato. Sembrava in
difficoltà, come se non sapesse da che parte cominciare il suo discorso.
Marian si fermò, l’acqua che le arrivava alla cintola.
«Che cosa, Aleister?»
«…Che potresti condividere con me la mia libertà. Sempre se vorrai,
insomma» farfugliò.
«Che cosa intendi?» chiese lei senza capire.
Aleister le prese la mano sinistra e goffamente le tolse la fede. Vi soffiò
sopra delle piccole fiamme dorate e l’anello si sciolse e si ricompose.
Adesso aveva tutta l’aria di essere un anello di fidanzamento.
«Intendo questo» iniziò a dire, imbarazzato, tenendolo a mezz’aria.
«Dato che adesso sarò legato per sempre a te e che tu hai ceduto la tua
libertà in maniera eroica per ottenere la mappa… credo che potremo
dividerci la mia di libertà… se accetterai di sposarmi.»
Un enorme sorriso si fece strada sul viso di Marian. Allungò la mano
sinistra e lui, in maniera un po’ impacciata, le infilò l’anello.
«Pensi che dovremo sposarci immediatamente?» gli chiese, ripensando
alle parole di Destino. «Perché vorrei godermi ancora un po’ di avventure
prima del matrimonio…»
Aleister scoppiò a ridere, scuotendo i capelli rossi. «I fidanzamenti qui a
Faerie durano secoli, abbiamo tutto il tempo che vorrai!»
«Allora mi sembra perfetto» disse lei deliziata.
In fin dei conti, se il matrimonio previsto nel suo futuro era con Aleister,
sarebbe riuscita a sopportarlo…
Il Re delle Volpi sgranò gli occhi dalla sorpresa, colto da una rivelazione.
«Cosa succede?» chiese Marian.
«Ho capito solo adesso! Marian, la profezia!»
«La profezia cosa?»
Aleister scoppiò a ridere, incredulo.
«La profezia parlava di noi due!» Le prese la mano sinistra, intrecciando
le dita con le sue. «“L’Altrove e Faerie diventeranno un tutt’uno”» recitò
raggiante.
Ricominciarono a ridere entrambi.
«Comunque ti avrei sposato anche se non ci fosse stata alcuna profezia e
se Destino non mi avesse costretta» disse Marian sorridendo ironica.
«Questo mi fa sentire meglio» rispose lui, visibilmente sollevato.
«Pensi che al nostro matrimonio sia possibile avere più di centoventi
colombe?» gli chiese Marian, improvvisamente seria.
«Ma di cosa stai parlando?»
«Niente, non ti preoccupare, solo competizione tra sorelle. Chissà che
faccia farà mia madre quando te la farò conoscere…»
Macbeth, che nel frattempo era saltellato tra le rovine del ponte fino a
raggiungere un’altezza da cui si sentiva sicuro, spiccò un balzo, tuffandosi
anche lui nel lago, spruzzando acqua da tutte le parti.
«Sono stato così in pensiero per voi!» esclamò, saltando al collo del Re
delle Volpi. «Finalmente ti sei deciso a non nascondere le orecchie e la
coda! Ora sì che ti riconosco.»
«Ahia, devi fare attenzione! Sono molto ferito» si lagnò Aleister, mentre
usciva dal lago.
«Marian rimarrà con noi a Faerie allora?» chiese Macbeth estasiato,
guardando l’anello al suo anulare.
«Ovviamente.»
Mentre Macbeth li tirava per i vestiti, ricoprendoli di domande, Marian e
Aleister non riuscivano a smettere di guardarsi, come se in quel momento
non esistesse altro al mondo, se non loro due.
«Rimarrai per sempre con me?»
«Sempre.»
Aleister scoppiò a ridere e si chinò per baciare Marian.
Sentirono Macbeth borbottare un “che schifo” alle loro spalle.
Guardando Aleister, Marian si chiese ancora una volta in quale razza di
guaio si era andata a cacciare. Ma non riuscì a impedirsi di sorridere.
Lo avrebbe scoperto molto presto.
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www.rizzoli.eu
Il re delle volpi
di Fiore Manni
Proprietà letteraria riservata
© 2023 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Testo di Fiore Manni
© 2023 Book on a Tree Limited
Una storia di Book on a Tree
www.bookonatree.com
Pubblicato per Rizzoli da Mondadori Libri S.p.A.
La citazione nel Capitolo 15 è tratta da William Shakespeare, Sonetti, a cura di A. Serpieri,
BURClassici, 2015
2018 Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788831813136
COPERTINA || ILLUSTRAZIONE DI FIORE MANNI | ART DIRECTOR: FRANCESCA LEONESCHI | GRAPHIC DESIGNER:
MAURO DE TOFFOL / THEWORLDOFDOT
Indice
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autrice
Frontespizio
Prologo
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