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Il libro

I l giorno del suo diciottesimo compleanno, Marian ha ben poco da festeggiare: la


madre l’ha promessa in sposa al detestabile Carl Lawrence, e a lei non resta che
ubbidire.
È proprio nella residenza di campagna del futuro marito che la ragazza incontra
una volpe nascosta in un cespuglio. Incredibile ma vero, la volpe le parla. Si chiama
Macbeth, e la fa una promessa: se Marian lo aiuterà a tornare a Faerie, il Re delle
Volpi in cambio esaudirà qualsiasi suo desiderio. Marian, che per tutta la vita non ha
fatto altro che subire le decisioni altrui, non ha dubbi. Questa è l’occasione che ha
sempre sognato per rivendicare la sua libertà!
Appena varcato il passaggio tra l’Altrove e il mondo di Faerie, però, scopre di
essersi cacciata in un mare di guai e che Aleister, il Re delle Volpi, non è esattamente
come se lo era immaginato. In compagnia del viziatissimo (ma affascinante) re,
Marian dovrà sfuggire a fate vendicative, introdursi nel labirinto sotterraneo dei nani,
difendersi da frotte di goblin e da mostri feroci. Ma soprattutto, per la prima volta,
dovrà imparare a far sentire la propria voce.

Una storia di magia, amore e crescita personale, che ci riporta alle atmosfere dei
romanzi di Jane Austen e di Diana Wynne Jones.
L’autrice

Fiore Manni (Roma, 1988) ha pubblicato con Rizzoli Jack Bennet e la chiave di tutte
le cose, Jack Bennet e il viaggiatore dai mille volti, Come le cicale e Amore, sesso e
altre cose così. È coautrice del graphic novel Mask’d, edito da Star Comics.
Fiore Manni

IL RE DELLE VOLPI
A Michele, l’amore della mia vita
Un giorno sarai grande abbastanza da ricominciare a leggere le favole.

C.S. Lewis
Prologo

Il bambino sgambettava contento, allungando le mani verso la madre. Lei


gli pizzicò le guance e gli accarezzò la testa su cui cominciavano a crescere
i primi capelli.
Qualcuno bussò alla porta di casa.
La donna diede al bambino un ultimo buffetto.
«Torno subito» sussurrò con dolcezza, poi uscì dalla stanza.
«Buongiorno» disse un attimo dopo, spalancando la porta di casa, sicura
di trovarsi davanti qualche vicino in visita. Con suo stupore, non trovò
nessuno.
Si affacciò per controllare meglio, ma non c’era alcun visitatore ad
attenderla.
Venne percorsa da un brivido e si fece il segno della croce. Fu solo
quando si chiuse l’uscio alle spalle che udì un rumore di passi felpati, come
se dei minuscoli piedi stessero correndo per tutta la casa. Poi, fu la volta
della risata. Una risata stridula, che non sembrava appartenere a un essere
umano, che le fece accapponare la pelle.
Corse nella stanza del bambino.
Spalancò la porta e, appena raggiunse la culla di legno, iniziò a gridare.
Quando i vicini finalmente accorsero, trovarono la donna a terra, le mani
tra i capelli, che singhiozzava disperata.
«Sono stati gli altri» gridava. «Sono stati loro a rapirlo!»
Qualcuno si fece coraggio e sbirciò nella culla.
Lì dove poco prima rideva un neonato in forze, giaceva un essere più
morto che vivo.
Sebbene conservasse in qualche modo la forma del bambino originale, la
faccia era avvizzita e il corpo era come prosciugato, quasi ridotto a uno
scheletro.
Le donne strillarono in preda all’orrore, gli uomini proposero di bruciare
la creatura. Venne chiamato il prete.
«Le fate» disse la donna mentre continuava a strapparsi i capelli dalla
testa. «Sono state le fate.»
1

Per Marian Crawford era giunto il momento di prendere marito.


Era la scelta più logica che l’etichetta e il buon senso potessero dettare,
data la sua età e la sua posizione: come ultima figlia del giudice Crawford,
non poteva rimanere nubile ancora a lungo, soprattutto non dopo il suo
debutto in società, avvenuto durante l’alta stagione dei suoi sedici anni, e
non dopo i fortunati matrimoni delle sue sorelle maggiori, Margaret ed
Elizabeth.
L’idea che Marian potesse un giorno rimanere zitella tormentava la
signora Crawford da moltissimo tempo. Era come un tarlo che aveva
iniziato a divorarle la mente e a corroderle i nervi. Tutto era cominciato
quando si era resa conto, durante una delle prime feste a cui avevano
partecipato i cinque Crawford al completo, che la più giovane delle sue
figliole preferiva mimetizzarsi con la carta da parati piuttosto che sperare in
un invito per un ballo, o procacciarsi lei stessa un cavaliere. Una volta in
carrozza sulla via del ritorno, mentre Margaret ed Elizabeth cicalecciavano
in preda all’eccitazione facendo a gara su chi avesse ricevuto più inviti, la
signora Crawford ebbe una rivelazione: Marian era inequivocabilmente
scialba e insipida, come una minestra con troppa acqua e poco sale. Fu in
quell’istante che capì che non aveva altra scelta, toccava a lei porre rimedio
a questa disgrazia, in qualche modo.
Non poteva di certo farsi rovinare i piani da sua figlia!
Oh no, certo che no! Sarebbe riuscita a coronare il suo sogno e avrebbe
fatto sposare anche l’ultima delle sue figlie, organizzando un buon
matrimonio, se non addirittura ottimo. Presto si sarebbe trovata attorniata da
un esercito di nipoti da viziare e con una vittoria schiacciante tra le mani da
sbattere in faccia alle sue amiche del circolo durante l’ora del tè.
2

Quando Marian si svegliò, quella mattina del 4 ottobre 1899, capì che la sua
data di scadenza era arrivata.
Aveva sempre saputo che sarebbe coincisa con il giorno del suo
compleanno. Non si trattava di uno insignificante come potevano essere
quelli dei nove o dei tredici anni: oggi Marian compiva diciotto anni e
sapeva cosa la aspettava. Dopotutto le sue sorelle ci erano già passate
entrambe, e sua madre, da due mesi a questa parte, non parlava d’altro. Non
c’era stato un singolo pasto, una singola passeggiata, una singola seduta di
ricamo o di lettura pomeridiana in cui la signora Crawford non avesse finito
per parlare – in maniera del tutto casuale o dirottando con prepotenza la
conversazione – di matrimonio.
All’inizio si era trattato solo di qualche accenno, come una battuta sui
ricami del corredo nuziale, ma ben presto la situazione le era sfuggita di
mano e aveva perso ogni filtro.
“La figlia minore dei Dewar ha ricevuto una proposta di matrimonio
proprio ieri l’altro. Non è elettrizzante, Marian cara?” le aveva sussurrato
impunemente tra finti singhiozzi durante il funerale del signor Stewart, il
loro vicino di casa, levando dal viso il fazzoletto e fissandola con occhi
perfettamente asciutti.
“Abbiamo ricevuto l’invito per le nozze della figlia minore dei Glover.
Se non sbaglio ha un anno meno di te, Marian cara, non è così?” le aveva
chiesto mentre imboccava la vecchia zia Crawford, lo sguardo
pericolosamente infervorato.
Marian rimaneva in silenzio, annuendo appena o abbozzando timidi
sorrisi.
Sia chiaro, non è che lei non avesse pensato al matrimonio. Insomma,
quale ragazza inglese di buona famiglia e con un po’ di sale in zucca non ci
aveva fantasticato almeno una volta durante la propria infanzia? I fiori,
l’abito bianco ricoperto di pizzi, ricami e merletti, il velo lungo quattro, o
meglio ancora, cinque metri, che avrebbe fatto inciampare i paggetti, le
damigelle e l’esercito di parenti e conoscenti durante il ricevimento…
Margaret ed Elizabeth, che secondo la signora Crawford erano
decisamente più assennate di Marian, avevano delle fantasticherie a
riguardo molto precise. All’età di otto e dieci anni avevano già pensato a
ogni dettaglio, compreso il numero di colombe bianche che sarebbe uscito
dalla torta nuziale al momento del taglio (rispettivamente cento e
centoventi, perché “crepi l’avarizia”). Quando arrivava il turno della piccola
Marian, di soli sei anni, di condividere i propri progetti per il giorno più
felice della sua vita, lei rimaneva penosamente in silenzio, non sapendo mai
cosa dire.
Dodici anni dopo la situazione era rimasta la stessa. Il fatto è che ogni
volta che ci pensava, un senso di vuoto e di inadeguatezza la assaliva, le
parole le fuggivano di bocca e una morsa le stringeva lo stomaco.
Sin da piccola le era stato ben chiaro che lei non era come Margaret e
non era come Elizabeth. Anzi, non poteva essere più diversa dalle sue
sorelle. Margaret ed Elizabeth sembravano risplendere di luce propria,
animate da un’eleganza innata, e ovunque andassero riuscivano sempre a
catturare l’attenzione dei giovani uomini presenti. Erano le più simpatiche,
le più chiacchierate, le più amate e sempre, sempre le più belle. Marian
invece era così… Marian. Pallida, gli occhi indecisi tra l’essere grigi o
azzurri, ma senza dubbio acquosi come se fossero sul punto di sciogliersi in
lacrime, i capelli color paglia e la totale incapacità di dire la parola giusta al
momento giusto. Si lasciava intimidire da tutto e da tutti, e la sua specialità
era piuttosto quella di rendersi invisibile al resto del mondo, e di trovare
sempre un luogo tranquillo dove potersi rifugiare a leggere.
Man mano che Marian cresceva, e che la pila di libri letti aumentava, si
rendeva sempre più conto che il lieto fine riservato alle protagoniste dei
suoi romanzi, che immancabilmente finivano per sposarsi per amore, era
invece negato alle sorelle Crawford.
L’incognita che la impensieriva di più, tra le mille insidie del
matrimonio, era sapere di dover condividere il resto della vita con un
estraneo, qualcuno scelto accuratamente dai suoi genitori, proprio come era
successo prima a Elizabeth e poi a Margaret.
Alle sue sorelle la questione non pesava affatto, anzi, avevano accettato
con gioia i partiti che la madre aveva selezionato tra una sfilza di
pretendenti facoltosi. Dai due matrimoni era già passato qualche anno, e
ogni volta che le sorelle andavano a trovare Marian non sembrava che il
tempo avesse fatto cambiare loro idea. Al contrario, sfoggiavano radiose i
regali con cui i loro ricchi mariti si prodigavano a comprarle. Mostravano
alla sorella gli abiti all’ultima moda, le spille di giada cinesi, i cappellini
ricchi di piume di uccelli esotici e i nastri di finissima seta intrecciati tra i
capelli. E poi ancora parasole, anelli, collane, profumi, fotografie, dolcetti
francesi, talmente tanta roba inutile che a Marian finiva sempre per girare la
testa. Non parlavano d’altro che dei viaggi che facevano, delle persone
importanti che incontravano, convinte entrambe di aver sposato lo scapolo
più influente della città. Finivano poi per discutere con le guance arrossate,
competitive fino all’osso. E mentre le acconciature si disfacevano e svariate
piume venivano perse dai cappellini, Marian rimaneva tranquilla a
sorseggiare il suo tè, cercando di riportare la pace. Si complimentava
sempre con entrambe, dicendo loro quanto erano state fortunate a trovare
due uomini così gentili, che si prendevano cura di loro e dei loro
innumerevoli e costosissimi bisogni. Le sorelle allora si calmavano e,
ritrovata l’intesa, dirottavano le loro attenzioni su di lei, punzecchiandola.
“Vedrai, Marian, quando ti sposerai anche tu!”
“Scoprirai quanto è bello essere sposata!”
“…e le soddisfazioni che si hanno quando si è la moglie di un uomo di
successo!”
“Potrai sfoggiare abiti bellissimi.”
“E poi, finalmente, potrai avere dei bambini. La tua vita allora sì che sarà
completa.”
Marian finiva per sprofondare nella poltrona, la tazzina di tè
abbandonata in grembo e lo sguardo perso nel vuoto.
“Non lo so… e se le cose non dovessero funzionare? E se il mio futuro
marito mi stesse antipatico? Se avesse l’alito pesante?” aveva provato a dire
una volta.
Margaret ed Elizabeth si erano scambiate uno sguardo sconcertato,
sollevando le sopracciglia perfette. Poi erano scoppiate a ridere all’unisono,
facendo piovere goccioline di tè sul tappeto.
“Be’, cara, non ci pensare, ricordati l’unica cosa fondamentale…”
“Esatto, Marian cara, l’unica cosa davvero importante!”
“Almeno sarai sposata!”
Quando le sorelle tornavano a casa dai rispettivi mariti, lasciavano come
testimonianza della loro visita qualche piuma colorata sul divano e il peso
di mille catastrofiche possibilità che pendevano sul futuro coniugale di
Marian.
Con loro due era tutto filato liscio, ma sapeva in cuor suo che quando
sarebbe toccato a lei, si sarebbe rivelato tutto un enorme, gigantesco,
disastro.
Marian stava ancora indugiando sotto le coperte, assillata da quella
consapevolezza, cercando il coraggio di sgusciare fuori dalle lenzuola e
affrontare quella giornata. Si sentiva alla stregua di un mollusco.
«Marian? Marian! Sei ancora a letto? Sveglia! Io e tuo padre stiamo già
facendo colazione, pigrona!» Il pugno della signora Crawford si abbatté
contro la porta, facendola tremare.
Marian sentì la madre bofonchiare qualcosa che assomigliava moltissimo
a un “avrà letto di nuovo tutta la notte”, poi i suoi passi pesanti si persero
lungo le scale.
Trovò la forza di alzarsi e si guardò con riluttanza allo specchio.
«Buon compleanno a me.»
Una pallida ragazza di diciotto anni le ricambiò l’occhiata poco
convinta.
Si pettinò con la spazzola d’argento, fissando i capelli in cima alla testa
con le forcine. Anche raccolti, apparivano flosci, tristi e spenti. Niente a che
vedere con quelli di Margaret ed Elizabeth, che sembravano avere una
cascata di fili d’oro rubati alla regina delle fate Titania in persona.
Cercò di sorridere con grazia al suo riflesso ma lasciò subito perdere,
vestendosi e lisciandosi la gonna grigia dell’abito. C’era poco da fare: non
aveva la bellezza appariscente delle sorelle, ed era inutile provare a essere
qualcosa che non era. La signora Crawford lo aveva capito molto prima di
lei e da tempo infatti aveva smesso di regalarle abiti dai colori sgargianti.
Margaret, Elizabeth e la signora Crawford si erano infatti trovate d’accordo
sul fatto che il blu e il rosa non le donavano molto, che il nero faceva
risaltare ancora di più il suo pallore spettrale, che il verde la faceva
sembrare un po’ troppo giallognola, che il bianco la faceva mimetizzare con
l’intonaco delle pareti e che il rosso fosse decisamente troppo audace per
lei.
Marian aveva quindi accettato i loro consigli e aveva optato per il grigio,
e si era trovata a suo agio.
Vestiti grigi per una ragazza grigia.
Si diede un’ultima occhiata allo specchio, poi raggiunse i genitori nella
sala da pranzo. La luce di quella fredda mattina di ottobre rischiarava la
stanza con tutta la sua malinconia. Una leggera pioggerellina picchiettava
contro i vetri delle finestre. Il tempo era coordinato al suo umore.
«Oh, finalmente!» brontolò la signora Crawford alzando per un attimo
gli occhi dal libro dei conti che aveva apparecchiato di fronte a sé.
«Buon compleanno, mia cara» le disse il padre, spuntando da dietro il
giornale e riservandole uno dei suoi rari sorrisi.
«Grazie, papà» gli rispose lei, avvicinandosi per farsi baciare la guancia
dai suoi baffoni impomatati.
«Tieni, Marian, questo è per te.»
Suo padre fece scivolare verso di lei un pacchetto. Aveva tutta l’aria di
essere un libro.
«Non conoscendo né il titolo, né l’autore, temevo che fosse una lettura
troppo impegnativa per una ragazza, ma il libraio mi ha assicurato che
molte lettrici lo hanno apprezzato. Se dovesse essere troppo… inopportuno
per una ragazza però devi promettermi di interrompere la lettura.»
Marian scartò con impazienza il regalo.
Suo padre le regalava spesso libri, per tenerla occupata e per farle
passare il tempo che in ogni caso avrebbe trascorso da sola, ma con
l’augurio che le storie e i pensieri che trovava tra le pagine non le
scuotessero troppo la mente.
«Oh, grazie, papà!» esclamò lei sinceramente commossa.
«Un altro libro?» sospirò la signora Crawford. «James, mio caro, sarebbe
stato più opportuno un vestito nuovo!»
Il signor Crawford si alzò, ripiegando il giornale e mettendoselo sotto
braccio.
«Mie care, buona giornata. Devo recarmi in tribunale.»
«Così presto? Cos’è accaduto? Qualcosa di grave?» chiese la signora
Crawford improvvisamente curiosa, rialzando il naso dai suoi conti. Era a
caccia di pettegolezzi.
«Giudicare e far rispettare le leggi per conto di sua maestà è sempre una
faccenda grave» le rispose solenne il marito.
La signora Crawford alzò gli occhi al cielo, visibilmente delusa per aver
perso l’occasione di poter raccontare qualche vicenda succulenta al tè
pomeridiano con le vicine.
«A questa sera.» Il signor Crawford si toccò con garbo il cappello e uscì.
Marian sperò con tutto il cuore che i conti tenessero la madre impegnata
per il resto della colazione. La signora Crawford, come se le avesse letto nel
pensiero, chiuse platealmente il libro dei conti, si levò dalla punta del naso i
piccoli occhiali e la guardò tronfia.
«Marian, mia cara. Diciotto anni. Che bellezza.»
Marian, non sapendo bene cosa rispondere, mormorò un “eh, sì” che
voleva risultare disinvolto, ma assomigliava terribilmente al “eh, sì, ci
siamo” di un condannato a morte davanti al boia.
La cameriera arrivò con dell’altro tè caldo e lo servì a Marian che,
imburrando con troppa foga il suo panino, rovesciò la zuccheriera. La
madre non disse niente, limitandosi a sospirare.
Quando furono di nuovo sole, si lisciò la gonna perfettamente stirata,
prima di iniziare a parlare. L’orologio a pendolo ticchettava e a Marian
sembrò che la sua ora fosse giunta.
«Credo che sia arrivato il momento di fare un certo discorso» esordì
fissando cautamente la figlia. «E credo anche che tu abbia già intuito
l’argomento di questo mio discorsetto.»
Marian continuò imperterrita a imburrare il panino già imburrato.
La signora Crawford si schiarì la gola e le rivolse un sorriso che voleva
essere smagliante, ma che risultò piuttosto tirato.
«Tuo padre e io abbiamo intenzione di farti conoscere un giovanotto
davvero promettente. È il terzogenito dei Lawrence e ha appena iniziato la
carriera da avvocato. Certo, come terzo figlio non erediterà la fortuna di
famiglia, ma avrà sicuramente un’ottima rendita annuale, senza contare poi
le sue entrate da avvocato. In più vi capirete alla perfezione, siete
terzogeniti entrambi, sapete già come vanno queste cose.»
Fece una pausa a effetto, trattenendo il respiro e aspettando una reazione
– una qualsiasi reazione – da parte della figlia.
Marian rimase in silenzio, il coltello pieno di burro fermo a mezz’aria.
La madre allora tornò alla carica: «Vedi, Marian cara, io e tuo padre
abbiamo fatto un po’ di conti, abbiamo ragionato a lungo e… be’, è inutile
illudersi, essendo tu la terza figlia non potrai godere di una gran dote. Non
dico che sia misera, no, certo che no, eppure sarà sicuramente modesta
rispetto a quella delle tue sorelle, ma va bene così. Insomma, ai Lawrence
va bene. Dopotutto tuo padre e il giudice Lawrence si conoscono da così
tanti anni! E la signora Lawrence è una donna deliziosa. Devi ringraziare
quel buon uomo di tuo padre, che ha reso l’idea di unire le nostre famiglie
così invitante! Al giudice va bene così, chiuderà un occhio sulla tua dote.
Ora non resta altro che farvi incontrare e poi iniziare con i preparativi.
Vedrai, tu e il giovane Lawrence andrete d’amore e d’accordo, sarete
perfetti insieme!».
Marian tenne ostinatamente gli occhi fissi sul pane, il coltello stretto in
pugno, le nocche diventate bianche.
La madre sbuffò.
«Marian, non dici niente? Non sei contenta? Non sei curiosa di
conoscerlo? Sapevo che aspettarmi riconoscenza ed entusiasmo da parte tua
era troppo, ma almeno un “grazie, mamma” penso di meritarmelo! Ho
organizzato il tutto in maniera così brillante e perfetta! Ti assicuro, cara
mia, che se avessi collaborato un pochino di più, aiutandomi in qualche
modo… non so, anche solo mostrandoti più socievole di un topolino
sorpreso dal gatto in dispensa, avrei forse potuto combinare qualcosa di
meglio, ma con quello che avevo ho ottenuto un risultato sorprendente!»
Marian sarebbe stata grata alla madre nella stessa misura se le avesse
legato un macigno al collo e l’avesse buttata nell’acqua alta.
La cameriera arrivò per sparecchiare la tavola. La signora Crawford
continuò a tenere sott’occhio la figlia, pronta a cogliere anche solo un
piccolo lampo di vita nei suoi occhi, il movimento di un sopracciglio o uno
spasmo all’angolo della bocca. Qualsiasi cosa.
Marian alzò la testa e, con uno sforzo sovraumano, sorrise.
«Grazie, mamma.»
La madre la studiò con lo stesso cipiglio di un ispettore di polizia. Poi
annuì, soddisfatta.
«Vedrai, mia cara. Andrà tutto bene. Il giovane Lawrence è un
giovanotto degno di stima e rispetto. Sarete molto felici insieme. Ora…» Si
alzò, portandosi al petto le carte e il libro dei conti. «Tra poco arriveranno le
tue sorelle. Ti porteranno a scegliere qualche vestito nuovo. Siamo stati
invitati nella villa di famiglia dei Lawrence tra un paio di settimane e vorrei
che ti mostrassi al meglio. Sarebbe bellissimo se l’invito venisse rinnovato
anche per Natale e per la vigilia di Capodanno… Pensa che meraviglia
iniziare il nuovo secolo al fianco del tuo futuro marito! Non sarebbe
eccitante?» La signora Crawford era già persa nelle sue fantasticherie.
Lanciò un’altra occhiata pensierosa alla figlia. «Compra anche qualcosa per
i capelli, già che ci sei, e per una volta non badiamo a spese: scegli ciò che
più ti piace. Dovrai essere radiosa, bellissima!»
Poi le rivolse il più affabile dei sorrisi e lasciò la sala da pranzo,
canticchiando soddisfatta. Tutto procedeva secondo i suoi piani.
Un cappellino nuovo avrebbe sicuramente salvato l’aspetto scialbo della
figlia.
3

Marian cercò di vedere il lato positivo della cosa: visto che era stata
costretta a uscire a fare compere “senza badare a spese”, avrebbe potuto
infilare, tra un cappellino e una sottoveste, anche qualche libro senza che
sua madre ci facesse caso.
Le sorelle la scortavano come due secondini, Margaret sottobraccio a
sinistra, Elizabeth a destra.
Durante tutto il tragitto fino a Trafalgar Square l’avevano sommersa di
domande.
Marian aveva cercato di spiegare che la madre non si era prodigata in
troppi dettagli riguardo il lieto annuncio, ma le sorelle non si erano lasciate
scoraggiare.
«Sapevo che la mamma era al lavoro! Che bellezza, Marian, tutte noi
sorelle maritate. Non ti sentirai più esclusa» cinguettò Margaret,
stringendola a sé.
«Che gioia, sorellina cara, non sarai più costretta a stare in quella
vecchia casa per sempre. Ne avrai una tutta tua, che potrai gestire a tuo
piacimento. Una bella casa di cui ti dovrai prendere cura, di cui sarai la
regina indiscussa!» Elizabeth le strinse l’altro braccio, sorridendole felice.
«Pensavo che…» provò a dire Marian.
«Cosa?» chiesero all’unisono le sorelle.
«Be’, pensavo che ci fosse anche altro nella vita.»
Margaret ed Elizabeth la guardarono senza capire.
«Altro? Che genere di altro?»
Marian alzò le spalle. «Altro oltre al matrimonio. Penso di essere ancora
troppo giovane per sposarmi, ho fatto e visto così poco!»
Le sorelle si scambiarono un’occhiata intenerita, poi risero e la
ricoprirono di baci.
«Non mi dire che sei spaventata!»
«Com’è dolce la nostra Marian! Non devi avere paura!»
«Marian cara, andrà tutto bene. Dopotutto avevo la tua età quando
mamma e papà mi hanno presentato il mio futuro marito, e tutto è filato una
meraviglia» la rassicurò Margaret.
Marian ricambiò i loro sorrisi, seguendole nel negozio di abbigliamento
con lo stesso brioso passo di un condannato a morte che sale sul patibolo.
Le sorelle Crawford tornarono verso casa a fine giornata, piene di pacchi
e pacchetti e con grandi novità da raccontare alla madre.
Mentre Margaret ed Elizabeth si perdevano in un’accurata descrizione di
tutti i cappellini e le borsette presenti in negozio, Marian nascose sotto al
cuscino del divano il suo acquisto extra. Se sua madre avesse notato il libro,
avrebbe sicuramente storto il naso. La signora Crawford era convita che
fosse proprio colpa di tutti quei romanzi se Marian aveva sempre la testa tra
le nuvole.
Riuscì a sopravvivere a un’intensa discussione su bustini con stecche di
balena e mutandoni, solo grazie al pacchetto nascosto sotto di lei,
fantasticando sugli intarsi dorati della copertina e immaginando il profumo
che avrebbero avuto le pagine nuove quando lo avrebbe finalmente
sfogliato quella sera.
«Ebbene, Marian, posso vedere cosa hai trovato alla fine?» La signora
Crawford le picchiettò un ginocchio, incoraggiandola.
Marian le porse i pacchi, lasciando alle sorelle il compito di illustrare gli
acquisti.
Sebbene la maggior parte dei colori le fossero vietati per le ragioni già
dette, quel giorno le sorelle avevano insistito nel farle prendere due abiti
azzurri, uno da giorno e uno da sera.
«Con questo colore non avrai più quell’aria malaticcia, Marian cara.
Certo, dovrai comunque metterti qualcosa sulle guance per avere un’aria un
po’ più sana…» disse Elizabeth poggiandole su una spalla l’abito dal taglio
severo.
«Dopotutto con i suoi bei occhi blu cosa c’è di meglio di un abito
azzurro?» trillò Margaret, incoraggiante.
«Potremmo raccoglierti i capelli… o potremmo arricciarli con il ferro!
Sono di un biondo così delicato.» Elizabeth glieli accarezzò dolcemente,
posandovi sopra una grandissima quantità di nastri e spille nuovi di zecca.
Marian si sentì all’improvviso tremendamente in colpa.
Doveva esserci qualcosa di sbagliato in lei, perché per quanto si
sforzasse, era del tutto incapace di apprezzare la felicità che le sorelle
provavano nei suoi confronti e gli sforzi con cui sua madre si era prodigata
per assicurarle la più felice delle felicità.
Cercò allora di fare del suo meglio, ringraziandole e dicendo loro quanto
fosse emozionata all’idea di incontrare il suo futuro marito. Una lacrima
traditrice le scivolò lungo la guancia, ma venne scambiata per emozione e
tutte le signore sorrisero soddisfatte.

Le giornate che precedettero la partenza passarono fin troppo velocemente.


Prima che tutto fosse pronto e impacchettato, trascorsero quasi due
settimane di febbrili e intensi preparativi, che costarono alla signora
Crawford molti attimi di panico, parecchi attacchi isterici e vari
mancamenti.
Marian stava salendo sulla carrozza, quando si voltò a osservare
Crawford House, chiedendosi se al suo ritorno le cose sarebbero cambiate.
Se lei stessa sarebbe stata diversa.
«Certo che cambierà tutto, sciocca» si disse a mezza voce, prendendo
poi posto accanto ai genitori sulla carrozza.
Del resto, era la verità: al suo ritorno sarebbe stata una ragazza fidanzata.
Presto, sarebbe stata una ragazza sposata.
La carrozza lasciò i tre Crawford alla stazione di King’s Cross, dove
Marian rischiò di finire inghiottita dalla ressa di pendolari che, con valigette
nere e cappotti scuri, affollavano la stazione come uno stormo di corvi
gracchianti.
Riuscirono a prendere il treno per un soffio e la signora Crawford allietò
i presenti con una serie di pettegolezzi che aveva conservato apposta per il
viaggio. Ogni tentativo di Marian di dedicarsi alla lettura venne sabotato
dalla madre, convinta che con i suoi succulenti racconti sarebbe riuscita a
strapparle almeno un “oh” stupito. Alla fine, però, dovette arrendersi
davanti al totale disinteresse della ragazza e si accasciò sul sedile, sconfitta.
«Marian, suvvia, metti via quell’affare. A leggere in treno ti guasterai la
vista!» borbottò offesa.
Marian obbedì senza fare storie e si limitò a fissare il paesaggio fuori dal
finestrino, riempiendosi gli occhi di piovosi prati e brughiere nebbiose.
Il treno arrivò in perfetto orario. Ad attenderli in stazione c’era la
carrozza dei Lawrence. Li aspettava ancora un lungo viaggio.
Marian cercò di dormire, ma quell’angusto abitacolo non era
propriamente comodo.
«Il giovane Lawrence ha una di quelle automobili che vanno tanto di
moda adesso… non poteva venirci a prendere con quella?» borbottò la
signora Crawford mentre cercava di sedersi più comodamente sulla pila di
cuscini che aveva requisito a tutti.
«La maledetta villa dei Lawrence doveva essere così dannatamente
lontana?» sbuffò irritato il signor Crawford, che cominciava anche lui a
dare segni di insofferenza.
Marian era troppo impegnata a tenere a bada una fastidiosa vocina
interiore per preoccuparsi del viaggio.
“E se fosse brutto?” aveva iniziato a chiedersi.
“Be’, potrei farci l’abitudine, suppongo” si era risposta con razionalità.
“E se fosse stupido?” continuò, fastidiosa, la vocina.
“Con un po’ di pazienza, potrei fare l’abitudine anche a questo.”
“E se fosse… cattivo?”
Marian si rese conto che non sarebbe mai riuscita a sopportarlo.
«Non importa che sia brutto o che abbia l’alito pesante. Ti prego, ti
prego… fa’ che non sia cattivo.»
«Cosa hai detto, cara?» le chiese il signor Crawford mentre cercava di
recuperare un cuscino dal tirannico monopolio della moglie.
Marian scosse la testa. «Niente, papà! Non dicevo niente.»
La carrozza si addentrò nella brughiera. Il pallido riflesso di Marian
sembrava ancora più abbattuto di lei e le rivolse un’occhiata scoraggiata.
“Con un po’ di fortuna potrei trovarmi sposata a un giovane cortese” si
disse, cercando di rincuorarsi da sola. Marian però non ricordava di avere
mai avuto un briciolo di fortuna in vita sua e non era granché fiduciosa che
lo avrebbe avuto ora.
Chiuse gli occhi con forza cercando di scacciare tutte le preoccupazioni
e pregò la sua buona stella, anche se non era sicura di averne una.
4

La villa dei Lawrence apparve come un miraggio all’orizzonte, in mezzo


alla nebbia ottobrina.
Era una costruzione imponente, che rivelava subito che i natali dei
Lawrence erano ben più illustri di quelli dei Crawford.
La signora Crawford cominciò a squittire deliziata, il signor Crawford a
imprecare: «Diamine, finalmente scenderemo da questo trabiccolo
infernale!».
Sui gradini della villa li attendevano una schiera di servitori in livrea e il
padrone di casa in persona, il giudice Lawrence.
«Crawford! Vecchio manigoldo! Vi aspettavamo per cena, ed eccovi qui.
Spaccate il minuto!»
Un signore paffuto, con il viso giocondo e le guance rosse, saltellò
allegramente giù dagli scalini.
«Alfred!» lo salutò il signor Crawford andandogli incontro a braccia
aperte.
I due giudici si abbracciarono, facendo scontrare le pance, colpendosi
vigorosamente le spalle, commentando il lungo e impervio viaggio.
«Un vero inferno, ma cosa non farebbe un genitore pur di vedere felice
un figlio?»
«Mio vecchio amico, è proprio così. Ma ti assicuro, il viaggio ne vale la
pena. Il Devonshire in questo periodo è un vero gioiellino. La villa, poi!
Aspettate di visitarla. Era della famiglia di mia moglie, sai? Niente eredi
maschi per fortuna mia, quindi dopo cinque generazioni di Phipps è passata
a noi Lawrence!»
Marian ammirò il palazzo che iniziava a tingersi di rosa con il sole del
tramonto.
La signora Crawford la superò, tutta un sorriso, tendendo la mano. «Mio
caro, caro signor Lawrence, grazie per il graditissimo invito.»
Il giudice gonfiò il petto e le fece un buffo baciamano, inchinandosi un
po’ troppo e facendo sparire il mento nel colletto inamidato della camicia.
Sembrava un enorme tacchino con un elegante completo, e Marian dovette
mordersi l’interno delle guance per reprimere una risatina.
«Signora Crawford, il viaggio non ha oscurato la vostra ineguagliabile
bellezza! Mi è capitato di vedere vostra figlia… Margaret, credo… O forse
era Elizabeth? A ogni modo: due gocce d’acqua! Due splendide gocce
d’acqua. Una figlia bellissima e una madre bellissima che potrebbe passare
per sua sorella.»
La signora Crawford sorrise lusingata.
Lo sguardo del padrone di casa si soffermò finalmente su Marian che,
rimasta in disparte, si stringeva la borsetta al petto come un inutile scudo.
«Ma chi abbiamo qui?» chiese l’uomo deliziato, guardandola con lo
stesso sguardo che si riserva a una volpe messa nell’angolo durante una
battuta di caccia, pronta a essere impallinata.
La signora Crawford si girò di scatto verso sua figlia, lanciandole
un’occhiata che voleva dire: “Sorridi, inchinati, sii graziosa, fai vedere
quanto sei degna di affetto e ammirazione”.
«Sono Marian, signore» si presentò.
«Mia cara, siete pallida, vi sentite bene?» L’uomo strinse con
apprensione la mano sottile di Marian tra le sue. «Il viaggio è stato
faticoso?»
«È proprio così! Il viaggio ha provato molto Marian. Non è abituata a
farne di tanto lunghi, dovete scusarla» intervenne la signora Crawford
afferrando la figlia per le spalle, come se dovesse caracollare a terra da un
momento all’altro e avesse bisogno del supporto materno.
Il giudice le offrì il suo corto braccio, facendole strada.
«Venite, mia cara, una buona tazza di tè vi rimetterà in sesto in un batter
d’occhio. Se aggiungiamo qualche goccia di brandy, poi, vi sentirete come
nuova.»
Appena varcata la soglia della villa, Marian guardò incantata l’enorme
lampadario di cristallo e il soffitto rosso sangue. Non aveva mai visto
un’abitazione tanto sfarzosa.
“Che perverso abuso di spazio” pensò di fronte alla miriade di dipinti
dalle elaborate cornici d’oro che affollavano ogni centimetro disponibile
delle pareti di ogni stanza. Era così distratta dall’arredamento che il giudice
Lawrence e sua madre dovettero ripeterle più di una volta che Carl
Lawrence, il caro, carissimo Carl, sarebbe rientrato solo l’indomani mattina
da una gita con i compagni di studio; Marian avrebbe avuto tutto il tempo
per riposarsi dal viaggio, riassumere un colorito umano e farsi bella per il
suo fidanzato.
Marian e i suoi bagagli vennero scortati fino alle sue stanze da un
domestico, raggiunti subito dopo da una febbrile signora Crawford che
insistette nell’acconciarle personalmente i capelli, mandando via la
cameriera. Scelse poi il vestito che avrebbe dovuto indossare per la cena e
le raccomandò di non parlare mai a sproposito e di ricordarsi sempre di
sorridere.
Durante la cena Marian rispettò tutte le raccomandazioni, o meglio, gli
ordini che le erano stati impartiti. Rise alle battute dei giudici (che avevano
un umorismo tutto loro, piuttosto contorto quando si trattava di morti ed
esecuzioni), parlò poco, misurando bene le parole – e i pensieri – quando
veniva interrogata. Rimase in silenzio senza mai parlare a sproposito,
sorridendo ogni volta che la minestra e la gallinella ripiena con contorno di
patate e castagne glielo permettevano.
Dopo cena, i suoi genitori e il loro ospite si spostarono in un salottino
più intimo, per discutere di fronte a un bicchierino. Marian sentì il signor
Lawrence definirla una ragazza “davvero graziosa e posata, una perfetta
terzogenita”.
«Perfetta per Carl, quei due andranno d’amore e d’accordo» continuò
gorgogliando felice nel suo brandy.
«Quei ragazzi sono perfetti per stare insieme, la mia signora ha un gran
talento nel formare le coppie. Ha un talento innato.»
«Un brindisi alla signora Crawford, allora!»
Mentre i bicchieri tintinnavano, Marian scorse la signora Crawford. Il
viso era illuminato da un sorriso di selvaggia soddisfazione.
Terminato il suo ruolo in quella recita, Marian era finalmente pronta a
fuggire nelle sue stanze. Trattenne il respiro durante tutto il tragitto. Solo
quando si chiuse la porta alle spalle e fu finalmente sola si permise di
scoppiare a piangere. Provava una grandissima pena per se stessa e si chiese
se qualcun altro si fosse mai sentito così solo e miserabile come si sentiva
lei in quel momento.
Si ripromise, però, che l’indomani non avrebbe versato neanche una
lacrima. Sciogliersi in singhiozzi in quel modo non l’avrebbe portata a
niente. Lo aveva imparato bene dai suoi libri: adesso la sua unica arma e
miglior difesa sarebbe stata la prontezza con cui avrebbe risposto alle
sorprese che il destino le avrebbe riservato.
Quello che però Marian ancora ignorava era che, proprio a partire
dall’indomani, il suo destino si sarebbe rivelato del tutto imprevedibile.
5

La mattina seguente, prima di scendere a colazione, Marian fece quello che


qualsiasi ragazza con un po’ di buonsenso avrebbe fatto: finì di piangere
tutte le lacrime che le erano rimaste e si preparò ad affrontare la giornata
che la aspettava.
Innanzitutto cercò di camuffare in qualche modo gli occhi arrossati dal
pianto. Aprì con circospezione il cofanetto di trucchi che Elizabeth e
Margaret le avevano procurato, provò le varie polveri e le terre conservate
nelle scatoline laccate, sbirciando poi il risultato finale allo specchio. Ora
sembrava una ragazza che aveva pianto troppo, ma piena di cipria. Tentò di
salvare il tutto raccogliendo con un nastro i capelli, che quella mattina
sembravano ancora più tristi e desolati di lei.
Mentre raggiungeva la sala della colazione, notò un enorme quadro che
troneggiava sopra le scale. Era un ritratto che raffigurava il giudice
Lawrence e consorte. La signora Lawrence era ben lungi dall’essere
deliziosa, come l’aveva descritta sua madre. Al contrario del corto marito
rubicondo, la donna era arcigna e spigolosa. Neanche le morbide pennellate
del pittore erano riuscite a donare a quel viso tagliente un po’ di dolcezza. Il
naso era dritto, gli zigomi alti e sporgenti. Persino gli occhi sembravano
affilati come lame e le mani della donna parevano gli artigli di un rapace,
carichi di gioielli.
Marian si sentì sollevata dall’assenza della futura suocera, rimasta a
Londra a causa di un leggero raffreddore. I signori Crawford si erano detti
terribilmente dispiaciuti; Marian invece, animata da un barlume di speranza,
si rese conto che forse non era così sfortunata come pensava.

Contro ogni sua previsione, sopravvisse alla colazione. Il giudice Lawrence


e suo padre erano troppo impegnati a organizzare la caccia alla volpe di
quel pomeriggio per badare a lei. Marian ignorò i calcetti e le occhiate della
signora Crawford, dedicando tutte le sue attenzioni al porridge nella sua
ciotola.
Finalmente il giudice Lawrence si alzò da tavola. «Ci raggiungeranno
anche i Walker e i Murray! L’ultima volta ci siamo divertiti così tanto! Sarà
una giornata eccezionale, vedrete. Eccezionale.» Si sfregò le mani
compiaciuto. «Carl ha uno stallone molto forte. Non è bravo come i suoi
fratelli maggiori, dopotutto Oliver e Harry sono due fuoriclasse, ma se la
cava piuttosto bene. Vedrete come riesce a farsi obbedire da quella bestia. È
un gran cavaliere.»
«Quando avremo il piacere di conoscere Carl?» chiese avida la signora
Crawford.
«Dovrebbe essere qui a momenti. Sapete, viaggia con l’ultimo modello
di automobile. Magari dopo il picnic potremmo far conoscere meglio i
ragazzi, cosa ne pensate? Troviamo uno chaperon per la deliziosa signorina
Marian e li lasciamo soli a fare un giro in automobile.»
Il giudice lanciò delle occhiatine compiaciute alla signora Crawford, che
distese le labbra, mostrando tutti i denti come un tasso affamato. «Che
incantevole idea. Davvero fantastica! Non ti sembra, Marian cara?»
Marian però era già sgattaiolata in giardino, lasciandosi alle spalle le
chiacchiere dei genitori, i preparativi del picnic e della caccia alla volpe, e il
luccichio negli occhi di sua madre all’idea del mucchio di sterline che il
giudice doveva aver speso per comprare a Carl quell’automobile.
Tirò un enorme respiro di sollievo. Già era difficile tenere a bada
l’esuberanza della signora Crawford, in una situazione del genere l’impresa
diventava titanica.
Mentre si inoltrava tra i cespugli coperti di brina e le siepi di un verde
brillante, Marian rimase piacevolmente colpita.
Doveva ammettere che i Lawrence avevano un ottimo gusto in quanto a
giardini. Loro, o i loro giardinieri.
I crisantemi coloravano il prato con cespugli bianchi e rossi, i gigli
crescevano candidi sotto le finestre della villa. Fra tutti i fiori presenti,
quelli dell’albero delle farfalle erano i suoi preferiti. Passò le mani tra i
minuscoli petali, sfiorando il lilla che sfumava diventando bianco.
Marian era così assorta nella contemplazione di quel giardino perfetto
che, quando l’automobile fece la sua entrata trionfale nel vialetto di accesso
alla villa, strombazzando e lasciando dietro di sé una scia di fumo grigio e
puzzolente, non vi badò.
Non si accorse nemmeno del giudice Lawrence che andò ad accogliere a
braccia tese il figlio appena arrivato, o di come i signori Crawford lo
salutarono calorosamente (Marian sarebbe morta di vergogna a vedere la
madre stringere il ragazzo in un abbraccio stritolante).
Non sentì i genitori chiamarla a gran voce e non vide sua madre
sbracciarsi istericamente mentre il ragazzo puntava verso di lei. Era troppo
presa dall’osservare i fiori.
Quando il giovane Lawrence tossicchiò alle sue spalle, per comunicarle
cortesemente la sua presenza, Marian non gli prestò la minima attenzione.
«La signorina Crawford, suppongo?» chiese lui sistemandosi il completo
sportivo all’ultima moda.
Marian si voltò, trovandosi di fronte il suo fidanzato.
Carl Lawrence era un ragazzo alto, dai capelli scuri ben pettinati
all’indietro. Marian era sicura che nemmeno una tempesta di vento avrebbe
potuto smuovere anche di un solo millimetro quel capolavoro finemente
impomatato. Cercò con apprensione nel viso del giovane i tratti rapaci della
madre ma, fortunatamente, nulla in lui era affilato. Le orecchie erano un po’
sporgenti e le guance arrossate. Aveva un’aria gentile e Marian decise che
valeva la pena fare uno sforzo. Prese coraggio e gli rivolse un timido
sorriso.
Carl Lawrence, visibilmente teso, le porse una mano sudaticcia,
aiutandola a rialzarsi dal prato.
Sfoggiando una studiatissima galanteria, si chinò per farle un baciamano,
rivolgendole poi un sorriso tirato, il tutto sotto lo sguardo attento dei
genitori che assistevano alla scena a distanza con il fiato sospeso.
«Avete voglia di passeggiare per il giardino?» domandò offrendole un
braccio.
Marian si voltò verso i Crawford e il giudice Lawrence, tutti e tre a
fissarli immobili come delle statue. Appena si accorsero di essere osservati
a loro volta, ricominciarono a parlare della caccia alla volpe, in un tono di
voce decisamente troppo alto ed entusiasta.
«Andiamo a controllare i cavalli, mio caro signor Crawford?»
«A che ora ci raggiungeranno i Walker?»
«E i Murray, mia cara, non scordiamoci i carissimi Murray! Arriveranno
tutti in tempo per il picnic!»
Si allontanarono giulivi verso le stalle, i giudici che roteavano in aria i
bastoni lucenti e la signora Crawford che continuava a spiare la figlia da
sopra la spalla.
Marian posò la mano sul braccio che Carl Lawrence le stava porgendo, e
i due iniziarono a passeggiare insieme.
Si sentiva impacciata e goffa, come se le stecche di balena del suo
corsetto avessero deciso di bloccarle ogni movimento e la gonna si fosse
ristretta, rendendole impossibile camminare con naturalezza. Si ritrovò
davanti a un terribile dilemma: cosa doveva farsene dell’altra mano, quella
che le pendeva ciondolando accanto al corpo?
La voce nasale di Carl Lawrence la salvò dai suoi pensieri.
«Abbiamo un programma piuttosto fitto oggi, o sbaglio? Un picnic e una
caccia alla volpe, se ho ben capito.»
«Sì. Vi piacciono… i picnic?» chiese Marian, sentendosi scomodamente
a disagio.
Che razza di domanda idiota gli aveva rivolto? Perché non gli aveva
chiesto qualcosa di più intelligente?
In quel momento il suo cervello era come un libro pieno di pagine
bianche. Fare conversazione con un giovanotto carino, che con grandissima
probabilità sarebbe diventato suo marito, non le riusciva affatto facile. La
domanda, però, sembrò fare inaspettatamente centro, e il ragazzo sembrò
ben lieto di rispondere.
«Molto, soprattutto se si ha l’opportunità di conoscere persone
interessanti.»
Carl piegò il viso verso di lei. Marian capì che adesso era il suo turno di
venire esaminata. Non riuscì però a sostenere lo sguardo del ragazzo e
guardò imbarazzata dall’altra parte.
«Che bellissima digitale avete!» disse con troppa enfasi.
Lui la guardò confuso. Marian sentì il viso andarle a fuoco.
«Questa qui» indicò imbarazzata, cercando di migliorare la sua
situazione, che si faceva sempre più penosa. «Fa parte della stessa famiglia
della bocca di leone. Si chiama digitale per via della sua forma. Ricorda un
ditale, vedete? Da piccola ero convinta che i suoi fiori fossero i cappellini
delle fate.» Si zittì poi di colpo, pentendosi di aver detto una tale
sciocchezza ad alta voce.
Carl Lawrence sembrava quasi colpito, o almeno così le parve. Non
riusciva a decifrarne l’espressione.
«Hai ingoiato un libro di botanica?»
Marian arrossì violentemente e per un po’ non riuscì a ribattere alcunché.
Il tono infastidito e piccato del ragazzo la mortificò.
Gli lasciò andare il braccio, come se scottasse. «Mi piace leggere» si
giustificò, imbarazzata.
Carl Lawrence, come se non fosse successo niente, le prese la mano e
gliela posò nuovamente sul braccio.
«Stavo solo scherzando. Avanti, signorina Crawford, raccontatemi
qualcos’altro su questa digitale.» Il tono questa volta era gentile, il che
confuse Marian ancora di più.
Ricominciarono a passeggiare, puntando verso il limitare del bosco. I
loro passi erano leggeri sull’erba, mentre il cuore di Marian si faceva
sempre più pesante.
«La digitale è una pianta che cresce e si dissemina spontaneamente, sia
in pieno sole sia in piena ombra…» iniziò a raccontare lei incerta «e non
necessita di molta acqua. La digitale contiene inoltre delle sostanze che
hanno un potente effetto sul cuore e viene utilizzata in medicina… ma se
viene assorbita in dosi eccessive può essere mortale.»
«È una pianta velenosa?» chiese Carl Lawrence colpito.
«Si potrebbe considerare come tale, credo.»
Lui si fermò, prendendole la mano tra le sue umidicce. «E voi, Marian?»
«Io cosa?» ribatté lei confusa.
Carl Lawrence si chinò leggermente verso di lei, ignorando
scandalosamente l’etichetta.
«Voi non siete una pianta velenosa, vero?» le sussurrò all’orecchio.
«Siete una creatura innocua, come… una margherita di prato. Dico bene?»
Marian sentì le guance ardere. Nessun uomo le aveva mai stretto le mani
o si era mai avvicinato in quel modo, ignorando il suo spazio personale.
«Immagino che siate una pianta che si sappia adattare e che possa
crescere alla luce… come al buio» continuò Carl, rivolgendole un sorriso
beffardo.
In quel momento, qualcosa si mosse nei cespugli di biancospino davanti
a loro, attirando l’attenzione di Marian. Lei alzò gli occhi e qualcuno, o
qualcosa, attraverso le foglie, sembrò ricambiare il suo sguardo. Possibile?
«Una pianta o un fiore, se vogliamo parlare per metafore, non deve per
forza essere bellissimo. L’importante, per la crescita di un… ehm, giardino,
è la sua capacità di adattamento. Siete d’accordo con me?» continuò il
ragazzo.
Marian però aveva smesso di ascoltarlo. Per un attimo le sembrò di
scorgere uno scintillio dorato in mezzo alle foglie. Sua madre le avrebbe
dato della sciocca, perché aveva il brutto vizio di correre troppo con la
fantasia, ma in lei si stava facendo strada una convinzione. Anzi, una
certezza: qualcuno la stava fissando con insistenza, nascosto nel
biancospino.
«Potremmo vivere le nostre vite, farci gli affari nostri, insomma, pur
condividendo lo stesso “giardino”, se capite cosa intendo… Marian? Ma mi
state ascoltando?»
Carl Lawrence la scosse per le spalle, infastidito dalla sua mancanza di
attenzione.
«Cosa c’è?» disse Marian trasalendo.
«Avete sentito almeno una parola di quello che ho detto?»
«Credo che ci sia qualcosa nel cespuglio» disse Marian senza troppi giri
di parole, ignorandolo di nuovo e ricominciando a scrutare il fogliame.
Carl Lawrence alzò un sopracciglio, scettico. «Che cosa?»
Marian gli indicò il punto in cui aveva visto il brillio dorato. «Proprio
lì.»
Lui alzò gli occhi al cielo. «Sarà qualche animale innocuo, Marian, non
siate sciocca. Non c’è motivo di avere timore. Probabilmente un gatto…
Vieni qui, micio micio, vieni fuori.»
Carl Lawrence si chinò verso il biancospino, scrutando nel fitto
fogliame. Anche Marian fece un passetto in avanti.
«Gatto, esci fuori, avanti!»
Il cespuglio si scosse all’improvviso e il giovane Lawrence, per la
sorpresa, finì a gambe all’aria, inciampando nei suoi stessi piedi.
Una raffica di vento li investì, facendo gonfiare la gonna di Marian come
una mongolfiera e riuscendo perfino a scompigliare i capelli perfettamente
impomatati del padrone di casa.
Il vento, alzatosi all’improvviso, si calmò come per magia e tutto attorno
a loro tornò immobile.
Carl Lawrence si rialzò in fretta, più rosso dei piccoli frutti che
punteggiavano il cespuglio. Si lisciò compulsivamente i capelli, lanciando
occhiate preoccupate alle proprie spalle, e si rivolse a Marian: «Sciocchina,
non abbiate timore. Sarà qualche fata alla ricerca del suo cappellino
perduto. Rientriamo, adesso, ne ho avuto abbastanza di botanica per oggi».
Le mise una mano sulla spalla e la spinse verso la villa, mostrandosi
calmo e sicuro. Ma per quanto provasse a nasconderlo, a Marian non sfuggì
il fastidio sul suo viso.
«Siamo dunque d’accordo?» le chiese lui.
«D’accordo su cosa?»
Marian continuava a sbirciare il biancospino alle sue spalle.
Forse lo scintillio dorato che aveva visto era solo un riflesso… come se
un raggio di sole avesse colpito qualcosa fatto d’oro…
Carl Lawrence sbuffò spazientito. «Ho detto che le piante, per crescere
rigogliose in un giardino, devono avere una grande capacità di
adattamento.»
Lei lo guardò confusa. «Immagino di sì?»
Carl sembrò sollevato. «Bene, sono felice che ci intendiamo.»
Si lisciò nervosamente la giacca perfettamente stirata e le fece un cenno
con il capo, salutandola.
Marian rimase interdetta a fissare la schiena del suo futuro marito mentre
rientrava in casa. Sembrava sollevato.
“Che cosa è appena successo?” si chiese confusa.
«Marian! Marian!»
Sua madre piombò su di lei con la stessa foga con cui un rapace si
avventa su un topolino.
«Com’è andata? Allora? Come ti sembra? Sei stata gentile?»
Marian non fece in tempo ad aprire bocca per risponderle che la madre
iniziò a trascinarsela dietro.
«Su, forza, non abbiamo tempo da perdere. Vatti a sistemare che sono
arrivati tutti!»
Mentre saliva gli scalini di pietra, Marian riuscì a voltarsi un’ultima
volta.
Di nuovo, le sembrò di scorgere qualcosa di dorato in mezzo al
biancospino che brillava segretamente sotto al freddo sole del mattino.
6

Il picnic fu un completo disastro.


Se Marian pensava che il primo incontro con Carl Lawrence fosse
andato male, non aveva idea di quello che sarebbe successo subito dopo.
I Walker e i Murray, con i rispettivi figli, vennero fatti accomodare nel
giardino della villa, dove li attendevano candide tovaglie bianche con
soffici cuscini e un banchetto di dodici portate mascherato da picnic.
Marian venne fatta sedere accanto a Carl che, per l’intera durata del
pranzo, la ignorò, troppo impegnato in una fitta conversazione con il
maggiore dei Walker riguardo l’imminente caccia alla volpe.
Ogni volta che il signor Lawrence riusciva ad attirare l’attenzione del
figlio, si metteva a fare dei gesti e dei cenni ripetuti verso Marian,
muovendo nervosamente i baffoni. Il ragazzo allora sbuffava, si girava
verso la futura sposa e le chiedeva con voce piatta se desiderasse dell’altro
tacchino, riempiendole il piatto senza aspettare una sua risposta.
La signora Crawford non era da meno. Appena incrociava lo sguardo
insofferente della figlia, spalancava gli occhi così tanto che Marian era
sicura che le sarebbero schizzati fuori dalle orbite, atterrando nell’insalata
di patate. Allora toccava a lei sospirare e chiedere a Carl se potesse
versargli ancora da bere, riempiendogli un bicchiere già troppo pieno.
Carl Lawrence, insieme al resto della sua specie, restava un gran mistero
per lei. Più osservava il ragazzo che le sedeva affianco, meno riusciva a
capire che genere di persona fosse. Non riusciva proprio a darsi una
risposta. All’inizio le era parso cortese, se non addirittura premuroso.
Dopotutto, non le aveva forse chiesto di parlare dei suoi interessi per
metterla a suo agio? Poi, però, c’era stata quella risposta brusca, mascherata
da scherzo, che l’aveva confusa.
E adesso che Carl la ignorava in modo così plateale, non c’era più traccia
di quella patinata gentilezza, e Marian si sentiva tornata invisibile,
un’insipida presenza tra il tacchino freddo e l’insalata di patate.
Provò una tale pena per se stessa che non riuscì a trattenere le lacrime un
minuto di più. Quelle traditrici fecero capolino, sfacciate, pizzicandole gli
angoli degli occhi.
«Scusatemi» borbottò prima di alzarsi e correre in casa in fretta e furia.
“Ti prego” si disse, mordendosi l’interno delle guance, “ti prego, non
piangere adesso. Cerca di resistere ancora qualche istante.”
Superò l’enorme atrio con i lampadari di cristallo e si infilò in uno dei
corridoi che si snodavano nelle viscere della villa, cercando un luogo in cui
rifugiarsi, come un animale ferito.
Entrò in una delle sale hobby del piano terra. Era riccamente decorata,
silenziosa, con un’enorme finestra che dava sul giardino. Marian si accostò
alle pesanti tende, nascosta alla vista altrui, ma capace di spiare tutti. Vide
Carl Lawrence e William Walker scattare in piedi dalla coperta del picnic
come due molle, probabilmente sollecitati dal giudice Lawrence perché
andassero a cercarla.
Marian poggiò le spalle alla parete, desiderando di poter diventare
davvero invisibile una volta per tutte. Si asciugò con forza le lacrime dal
viso.
Era stanca, sfinita da se stessa.
Odiava la sua debolezza.
Odiava la sua insopportabile fragilità.
Perché non aveva un carattere forte come quello di Margaret ed
Elizabeth? Perché non riusciva a lottare come loro per i suoi desideri? Non
ci era mai riuscita, nemmeno una volta in diciotto anni, e si odiava per
questo.
Il confortante silenzio che regnava nella villa venne spezzato dalla voce
nasale di Carl Lawrence. Marian la sentì prima come un’eco distante, poi si
fece tragicamente sempre più vicina.
«Marian? Marian, dove siete?»
D’impulso, Marian si nascose dietro le pesanti tende di velluto rosso. Il
giovane Lawrence sembrava sempre più vicino.
“Ti prego, vattene, ti prego, vattene” pregò mentalmente lei. Era
scappata per non piangere in pubblico e sarebbe morta di vergogna se Carl
l’avesse sorpresa mentre si nascondeva pateticamente dietro una tenda.
Ebbe un tuffo al cuore quando sentì la porta della sala aprirsi con uno
scricchiolio.
«Non è neanche qui. Ma dove diamine si sarà cacciata?»
«La giovane fortunata inizia subito a darti del filo da torcere, eh?»
Il suo fidanzato non era solo, c’era il giovane Walker con lui.
Carl Lawrence trattenne una risatina. «Già. Mio padre mi sta torturando
con questa storia del matrimonio. A quanto pare non ho scelta, è già tutto
deciso.»
Marian si portò entrambe le mani a coprire naso e bocca, per non fare il
minimo rumore.
«Ma perché è scappata dal picnic? Che cosa le è preso?»
«Bah, una cosa da femmine, probabilmente.»
Da uno spiraglio della tenda, Marian vide Carl lasciarsi cadere sul
divano. Stava giocherellando con una balestra, mirando alla testa di cervo
che troneggiava sopra al caminetto, sul lato opposto della sala.
«Pensi che soffra di isteria?» provò a indovinare l’amico.
«Non lo so, Will… Quella lì mi sembra tutta matta. È così… nervosa.
Farfuglia e sussurra… non parla in un tono di voce normale. Assomiglia a
qualche animale… Ah! Ecco, ora ci sono. Sai a cosa assomiglia?»
«No, a cosa?»
«A un topolino! Non ti sembra in tutto e per tutto un topolino di
campagna?»
La balestra scattò e il dardo fendette l’aria andando a segno con un
suono secco.
«Non saprei. Praticamente non ha aperto bocca al picnic. Però la trovo
graziosa.»
«Sai cosa mi ha detto stamattina? Senti qua. Eravamo in giardino, e ha
iniziato a blaterare di fiori e piante, una noia che non ti dico, non la finiva
più, e io ero là che pensavo: “Mi è capitata una so-tutto-io, posso farmela
pure andar bene, purché si dedichi alla casa e mi lasci in pace durante la
stagione della caccia”…»
Will si intromise con un sorriso cattivo.
«Se ho capito di che caccia parli, quella è sempre aperta!»
I due sghignazzarono come iene.
«E non hai sentito il meglio… A un certo punto se ne è uscita con una
storia da matta. Ti giuro che mi ha fatto venire i brividi!»
William Walker lo guardò interessato. «Cosa ti ha detto?»
Un secondo colpo partì dalla balestra, e Marian sobbalzò dalla sorpresa.
La risposta di Carl Lawrence non si fece attendere.
«Ha iniziato a dire che una pianta che abbiamo in giardino, Dio mi
fulmini se mi ricordo quale, è velenosa. Addirittura mortale! Avrò per
moglie una fissata con i veleni, ti immagini? Da brividi. Ma perché mio
padre fra tutte le figlie dei suoi amici ha dovuto rifilarmi una stramba così?»
Carl si rialzò con indolenza dal divano, per recuperare i dardi che si
erano conficcati tra gli occhi del cervo impagliato.
«Chissà cosa mi verserà nel tè per vendicarsi della mia prima
scappatella…»
«E chissà cosa dovrai fare tu per costringerla a farti entrare nel suo
letto!»
I ragazzi scoppiarono a ridere, trovando quelle battute irresistibili.
Marian si sentì sopraffatta dalla mortificazione, che si tramutò ben presto in
rabbia. Le sembrò che le guance le stessero andando a fuoco.
«E non è tutto! È successa un’altra cosa da far accapponare la pelle.»
Carl attraversò la sala a grandi passi, facendo roteare una delle frecce tra le
dita. «Quel manico di scopa della mia promessa sposa dice di aver visto
qualcosa di strano, in mezzo a un cespuglio… che la fissava!»
«Qualcosa? Tipo cosa?» chiese William Walker interessato.
L’amico sbuffò. «Ma che ne so, Will. Sarà stato un gatto. O forse un suo
simile, un insulso topolino di campagna! Fatto sta che mi ha pregato di
controllare. Ovviamente non c’era niente, ma dovevi vederla! Era tutta
rigida e bianca come un lenzuolo! Le donne leggono troppi romanzetti, te lo
dico io!»
«Quindi ha anche le visioni?»
«Non ne ho idea, ma facci caso: appassionata di piante e veleni, vede
cose che non esistono, sguardo che fa rabbrividire… insomma, mio padre
mi sta costringendo a sposare una strega.»
Carl si ributtò sul divano, la balestra tra le braccia, sospirando
rumorosamente.
«Almeno è ricca, no?»
Carl Lawrence si strinse nelle spalle, poco convinto.
«Non è proprio da buttar via. È perfino carina, se la guardi attentamente,
anche se è un po’ sciupata. Non ha la bellezza e il seno leggendario delle
sorelle, ma è comunque passabile. E poi stai sicuro che troverò un modo per
consolarmi.»
La porta, che i due ragazzi avevano lasciato accostata, si aprì con uno
schianto e il giudice Lawrence entrò come una furia. Carl nascose la
balestra dietro ai cuscini, scattando subito in piedi.
«L’AVETE TROVATA ?» ruggì l’uomo, paonazzo.
«Padre…»
«Signor Lawrence, no, ancora no…»
Il giudice attraversò la sala a grandi passi.
«Si può sapere che hai combinato, Carl? L’hai trattata male? L’hai fatta
piangere? Ho visto come le mettevi quel tacchino nel piatto! Una scimmia
sarebbe stata più galante.»
Marian lo vide agitare il dito accusatorio sotto al naso del figlio, che nel
frattempo aveva assunto una sgradevole sfumatura violacea.
«Ma no, padre…»
Il giudice gli afferrò l’orecchio sporgente e lo torse con forza. Il figlio
emise un gemito soffocato.
«Stammi bene a sentire, ragazzo. I Crawford sono dei miei carissimi
amici, e la signorina Marian è una delle ragazze più graziose che io abbia
mai avuto il piacere di incontrare. Non ti meriteresti una ragazza così
neanche in un milione di anni, brutto stupido che non sei altro. Se oserai
mettermi in imbarazzo con i Crawford e se proverai a fare qualche altro
sgarbo a quella deliziosa ragazza, ti giuro che non te la farò passare liscia.
Non c’è quell’arpia di tua madre a difenderti questa volta.»
«Ma, padre…»
Il giudice lo fulminò con un’occhiata che lo fece ammutolire all’istante.
«Se andrà storto qualcosa, se per qualche motivo il matrimonio dovesse
saltare, potrai dire addio alla tua rendita mensile, mio caro ragazzo! È ora
che tu metta la testa a posto. E se pensi che finanzierò i tuoi capricci da qui
fino a quando lascerò questa terra, be’, ti sbagli di grosso. Il matrimonio
non potrà che farti bene.»
L’indice paffuto dell’uomo fendette minaccioso l’aria sotto al naso del
figlio come una spada affilata. «Mi sono spiegato?» tuonò.
«Sì» bisbigliò Carl Lawrence, umiliato.
«Sì, cosa?» chiese ancora il giudice a denti stretti.
«Sissignore.»
Il giudice girò sui tacchi e lasciò la stanza, furibondo.
Carl rimase qualche momento in silenzio, stringendo forte i pugni.
William Walker invece era impegnatissimo a fissare il soffitto, a disagio.
«Andiamo, dai.» Diede all’amico una leggera pacca, ma Carl Lawrence
rimase immobile, ancora fumante di rabbia.
«È tutta colpa di quella strega!»
«Lasciala perdere, pensa piuttosto alla caccia di oggi. Ti potrai distrarre
un po’.»
Carl Lawrence si passò una mano tra i capelli impomatati.
Le parole di William Walker sembravano averlo convinto, e l’amico
sembrò sollevato.
Lasciarono insieme la stanza, ma fu solo quando il rumore dei loro passi
per il corridoio si spense che Marian scivolò fuori dal suo nascondiglio.
Corse verso il divano, afferrò un cuscino e se lo portò alle labbra.
Gridò, con tutto il fiato che aveva in gola.
Quel ragazzo, quel farabutto di Carl Lawrence, aveva detto più cattiverie
sul suo conto di quante ne avesse mai sentite in tutta la sua vita. Era furiosa
per quell’impertinenza. Lanciò il cuscino all’altro capo della stanza e
cominciò a camminare furiosamente avanti e indietro per la sala.
«Come osa!» sbottò furente. «Va in giro a dire che sono una pazza e una
strega… Eppure quando il biancospino si è mosso, se non ricordo male, è
lui che è rotolato a terra, tremolante e impaurito come un bambino!»
Le parole del suo futuro marito l’avevano ferita nel profondo.
Razionalmente sapeva di non dovergli dare peso, ma i giudizi velenosi di
Carl Lawrence bruciavano.
Le mani le tremavano, il respiro era affannoso e per la prima volta in vita
sua desiderava prendere a pugni qualcuno. Si sentiva così umiliata! Non
erano ancora sposati e lui già progettava di infilarsi nel letto di altre donne!
Se i suoi avessero insistito nel farle sposare quell’ignobile ragazzo, lei
avrebbe fatto qualsiasi cosa per vendicarsi delle offese subite.
Non l’avrebbe fatta passare liscia a Carl Lawrence, avrebbe…
“Cosa, Marian? Cosa potresti fare?” chiese l’odiosa vocina dentro di lei
che non stava mai zitta. “Chi vorresti prendere in giro, Marian? Sei la solita
sciocca, senza spina dorsale, che si lascia mettere i piedi in testa da tutti.”
Marian si morse le labbra, desolata.
La vocina aveva ragione.
Non sarebbe mai riuscita a ribellarsi a Carl Lawrence.
«Vorrei… che le cose fossero diverse. Vorrei essere diversa» sussurrò.
Le mani avevano smesso di tremarle, come se i suoi stessi nervi si
fossero arresi ancora prima di iniziare la lotta. Si asciugò le lacrime con un
gesto stizzito. Era tempo di rendersi di nuovo presentabile, inventarsi una
scusa per esser scappata e tornare dagli altri al picnic.
Stava raggiungendo il giardino, impegnata a escogitare una scusa
sufficientemente cortese, quando si ritrovò davanti la signora Crawford, il
viso paonazzo e furente che stonava con il delizioso abito da campagna
coordinato con il cappellino nuovo.
«Cosa stai combinando?» le sussurrò a labbra strette.
Marian non fece in tempo a ribattere che la madre la agguantò, decisa a
riportarla fuori.
«Di’ che ti stavi strozzando con un pezzo di tacchino e sorridi. Che
figura mi hai fatto fare!»
«Mi stavo davvero strozzando. Ho pensato che sputacchiare tacchino
davanti a tutti fosse sconveniente» mentì Marian.
Temette che la voce tremante potesse tradirla, ma riuscì a sostenere lo
sguardo della madre. Una piccola vittoria.
La signora Crawford si ritrovò, forse per la prima volta in tutta la sua
vita, senza parole.
«Mi sembra… sensato, mia cara.»
Marian sostenne lo sguardo inquisitore della donna che continuava a
guardarla sospettosa.
«Vogliamo andare?» Marian sfoderò il suo miglior sorriso.
Sua madre la seguì verso il picnic, continuando a rivolgerle fugaci
occhiatine di sottecchi.
Carl Lawrence e William Walker erano seduti insieme agli altri e il
giudice Lawrence sembrò sollevato quando le vide arrivare.
«Un pezzo di tacchino ha tentato di sabotare la nostra bella colazione.
L’ha quasi soffocata andandole di traverso!» disse trionfante la signora
Crawford mentre faceva sedere Marian ancora più vicina a Carl Lawrence.
«Avanti, Marian, avanti! Bevi ancora un po’ d’acqua.»
Dopo che la signora Crawford ebbe finito di raccontare come Marian
avesse sfidato la morte in solitaria per non disturbare nessuno dei presenti,
tutta la compagnia si prodigò in tardive pacche sulla schiena, in
complimenti sulla sua riservatezza ed educazione, dispensando consigli non
richiesti sulla deglutizione e la masticazione corretta.
Carl Lawrence la stava studiando in silenzio.
Marian fece grande attenzione a rivolgere a tutti i presenti grandi sorrisi
riconoscenti. A tutti, tranne che a lui.
Il sentimento di disprezzo che provava per il suo fidanzato continuava a
riemergere a ondate e riuscì a stento a tollerarne la vicinanza per il resto
della colazione.
Per la prima volta, sua madre le fu d’aiuto. La signora Crawford
annunciò allegra: «È arrivato il momento, mie care signore! Mentre i nostri
ragazzi escono a divertirsi, noi giocheremo a bridge».
«Oh, il bridge, che splendida idea!» dissero contente le altre.
«Non vedo l’ora» commentò Marian a denti stretti. Finalmente una scusa
per allontanarsi dalla causa della sua rabbia e umiliazione.

Mentre fremevano gli ultimi preparativi per la caccia alla volpe, la


compagnia femminile rientrò nella villa.
«Vi assicuro che l’ho vista con i miei stessi occhi! Ha indossato per il
brunch lo stesso vestito che aveva la sera prima… quella ragazza di certo
non ha dormito a casa sua, se capite cosa intendo…» stava dicendo allusiva
la signora Crawford, facendo esplodere tutte le signore in dei gridolini
scandalizzati.
Marian approfittò di quella confusione per sgattaiolare via, sfuggendo
dalle grinfie di sua madre.
Non appena giunse nel giardino sul retro della villa, si sentì subito più
leggera. Era in assoluto il luogo della villa che preferiva e neanche il
ricordo del primo incontro con Carl Lawrence, avvenuto proprio lì, glielo
avrebbe guastato.
Un fruscio improvviso catturò la sua attenzione.
Veniva dal biancospino. Marian si avvicinò con cautela, cercando di non
fare rumore.
Il cespuglio si mosse ancora e qualcosa di dorato scintillò tra le foglie.
Questa volta non ebbe dubbi, l’aveva visto chiaramente.
Un attimo dopo dai fiori bianchi sbucò una pelliccia fulva, che trotterellò
via verso il limitare del bosco.
Marian trattenne il fiato.
La volpe si fermò un attimo e si voltò a guardarla immobile. Poi,
zoppicando, s’immerse nel verde del bosco.
7

Una volpe!
Marian non poteva credere alla sua fortuna. Non ne aveva mai vista una
dal vivo, così da vicino poi! Si guardò attorno, alla ricerca di qualcuno con
cui condividere il suo entusiasmo, quando si ricordò di essere sola. Proprio
in quel momento, quello stupido di Carl Lawrence si stava preparando
insieme agli altri per la caccia.
«Oh, accidenti!» esclamò desolata la ragazza andando dietro alla volpe e
addentrandosi nel bosco.
La trovò quasi subito, immobile e attenta tra gli arbusti. Dopo un attimo
di esitazione, l’animale mosse qualche passo incerto e Marian si rese conto
che aveva una zampa ferita. Se Carl e gli altri l’avessero sorpresa in quelle
condizioni, la signora Lawrence avrebbe sicuramente sfoggiato un nuovo
collo di pelliccia per Natale.
«Scappa, se non vuoi finire stecchita al collo di una vecchia arpia!»
sussurrò Marian, agitando le braccia e sbattendo forte i piedi, cercando di
metterla in fuga. Forse, se la volpe avesse corso abbastanza, avrebbe potuto
salvarsi nascondendosi nel folto del bosco…
«Che cosa?! Stecchita?» sbottò la volpe sbalordita. «Ma si può sapere
che problemi ha la gente di questo posto? Non posso fare un passo che
subito cercano tutti di farmi fuori!»
Marian strabuzzò gli occhi dalla sorpresa. Era completamente impazzita
o… la volpe le aveva parlato? No, non stava sognando, l’aveva appena fatto
con una vocina acuta e squillante, simile a quella di un ragazzino!
La volpe iniziò ad avvicinarsi, cauta.
Marian indietreggiò, in preda alla confusione, e inciampò in una radice
finendo a gambe all’aria.
«Accidenti, stai bene?» chiese la volpe preoccupata.
Marian si tirò su sui gomiti e la fissò sbalordita. Poi iniziò a guardarsi
nervosamente intorno, scrutando tra gli arbusti.
«Chi… chi c’è qui? Esci fuori! Non è divertente! Non sta bene prendere
in giro una signorina in questo modo e fare certi scherzi!»
«Cosa? Mi vedi benissimo, ci sono solo io qui!» esclamò la volpe con
voce squillante avvicinandosi ancora di più.
«Io… chi?»
«Io, Macbeth!» La volpe agitò curiosa la coda. «Stai bene?»
«F-fermo lì, spirito!» gemette Marian sempre più pallida.
Gli occhi dorati della volpe si illuminarono di sorpresa. «Come fai a
sapere che sono uno spirito?» chiese con meraviglia.
«Perché le volpi non parlano» spiegò Marian, tirandosi su a sedere.
«Ah sì? E se non parlano allora come fate a comunicare?»
Marian ci pensò un attimo su.
«In effetti non lo facciamo.»
La volpe sbuffò e agitò la soffice coda dalla punta bianca. «Ma certo. Voi
le cacciate, giusto? Il mio padrone me lo aveva raccontato… Anche se in
realtà pensavo che mi stesse prendendo in giro con una delle sue strambe e
contorte favole della buonanotte. Ho scoperto che era tragicamente vero
solo quando sono stato rincorso da un tizio con un forcone. Un’esperienza
davvero spaventosa.»
«Quale tizio?»
«Il proprietario delle galline che mi ero appena mangiato» rispose
affabile la volpe Macbeth. «Per fortuna non aveva un fucile! Il mio signore
mi ha raccontato un mucchio di cose a riguardo, so davvero tutto
sull’argomento! Da quando sono arrivato nel vostro mondo ho rischiato la
pelle un’infinità di volte. Non so perché, ma sembra che tutti abbiano una
voglia irrefrenabile di ammazzarmi! In più, mentre scappavo nel bosco, mi
sono ferito attraversando un cespuglio di rovi… Voglio tornare a casa mia al
più presto. Detesto l’Altrove!» piagnucolò la volpe, mettendosi a sedere
accanto a Marian.
«L’Altrove?»
«È il regno degli umani» sospirò. «E a quanto pare sono bloccato qui.»
Guardò Marian con gli occhi umidi e tirò su col naso sonoramente.
«Su su, non c’è bisogno di piangere» cercò di consolarlo lei. «Posso dare
un’occhiata alla tua ferita?» chiese garbatamente.
Macbeth annuì con aria desolata e le offrì la zampa.
Lei la esaminò con cura. Un taglio rosso e sanguinolento attraversava la
pelliccia scura con una diagonale perfetta.
Marian si frugò nella tasca della gonna sporca di terra e tirò fuori un
fazzoletto, che legò con cura attorno alla zampa ferita.
«Non è granché, ma per adesso direi che può andare. Forse riesco a
trovare qualcosa di più adatto dentro casa.»
La volpe osservò incuriosita la fasciatura.
«Pensi che dovrò prendere delle medicine? Oh, per favore, vorrei
davvero assaggiarne una! Il mio padrone dice che sono disgustose, ma
secondo me lo dice solo perché le vuole tutte per sé!»
Marian si mise a ridere. «Non penso che tu ne abbia bisogno, credo che
basterà pulire bene la ferita. Macbeth, giusto?»
«Macbeth, esatto. E tu sei?»
«Marian, Marian Crawford.»
«Marian. Maaarian. Marian, che bel nome!» esclamò la volpe
saggiandone il suono. Si mise poi a scodinzolare. «Ora che tu sai il mio
nome e io conosco il tuo, siamo amici, vero?» chiese speranzosa.
Marian si morse il labbro per non ridere della situazione. La paura e la
sorpresa erano piano piano svanite e solo ora iniziava a realizzare cosa
stava accadendo.
Stava conversando amabilmente con una volpe molto educata. Se Carl
Lawrence l’avesse vista in quel momento e le avesse dato della strega…
be’, non avrebbe avuto tutti i torti.
«Direi proprio di sì, Macbeth.»
«Che espressione buffa che hai!» fece allegro l’animale.
Marian scoppiò a ridere. «È che non avevo mai visto una volpe così da
vicino!»
“Parlante, poi!” pensò.
Macbeth poggiò la zampa fasciata a terra e sfilò avanti e indietro per lei,
pavoneggiandosi. Poi le saltò in grembo.
«Anche per me è la prima volta, non avevo mai visto un essere umano
così da vicino.» Allungò il muso fino a sfiorarle la punta del naso. «Siete
davvero buffi» concluse solenne.
«Buffi?»
«È perché non avete neanche un briciolo di magia nelle vene, il che vi
rende davvero un po’ bizzarri. Aspetta, lascia che mi spieghi meglio. La
mia gente avverte la magia come voi umani avvertite il caldo e il freddo. O
come riuscite a capire se una persona ha i capelli rossi o neri. Quindi, ai
miei occhi, tu che ne sei completamente sprovvista, è come se avessi un
braccio o una gamba sola. Adesso che ci faccio caso… anche il tuo odore è
parecchio bizzarro.»
Marian cercò di annusarsi.
«Oh, è inutile. Non penso che tu lo possa notare, sai? È sempre per via
dell’assenza di magia. Se non hai un naso fino come il mio non potrai mai
accorgertene.»
«Quindi tu vuoi dirmi, Macbeth, che sai usare la magia?» chiese Marian
ammirata.
Lui annuì compiaciuto.
«Certo che posso. O meglio, posso nel mio mondo. Qui non posso fare
alcunché, perché non sono ancora abbastanza potente.»
«Aspetta, aspetta. Cosa intendi quando dici il tuo mondo? E come puoi
usare la magia? Come sei finito qui?» lo interruppe Marian eccitata.
Passato lo stupore iniziale, ora moriva dalla voglia di riempirlo di
domande.
Aveva vissuto prigioniera della noia più assoluta per diciotto anni e
adesso le stava capitando qualcosa di così emozionante che non riusciva
neanche a comprendere, ma era decisa a non perdersi neanche il più piccolo
dettaglio.
«Va bene, vedo che hai un mucchio di domande da farmi…» ridacchiò
Macbeth divertito.
«E non so da dove partire.»
«Inizia dall’inizio» la incoraggiò lui.
Marian cercò di riorganizzare le idee.
«Il tuo mondo, Macbeth… Si tratta del mondo degli spiriti? E chi è il tuo
padrone?»
Macbeth cominciò a saltellarle attorno, nonostante la zampa ferita.
«Va bene, ti racconterò tutto. Ti parlerò del mio mondo, del mio signore
e del perché sono qui… Ma in cambio potresti accarezzarmi? Mi piace
quando il mio padrone mi accarezza la testa mentre ci raccontiamo le
storie!»
Marian convenne che fosse uno scambio più che equo, quindi fece
accomodare la volpe sul suo grembo e cominciò ad accarezzarle il pelo
fulvo.
Macbeth iniziò a raccontare la sua storia.
8

«Sono arrivato qui nell’Altrove tre giorni fa, quando sono dovuto fuggire
dal mio mondo.
È antico, sai? È vecchio come le montagne, come l’acqua dei fiumi.
Tanti umani gli hanno dedicato poesie, racconti, drammi teatrali… Il mio
padrone me li legge sempre e devo ammettere che siete riusciti a indovinare
tante cose usando solo la vostra fantasia. Voi conoscete già il nostro mondo,
così come conoscete noi. Lo sai, vero, come ci chiamate?»
«Il Piccolo Popolo…» sussurrò Marian.
Macbeth annuì, compiaciuto.
«Proprio così, anche se non ha senso chiamare noi Sidhe “piccoli”. In
quanto a magia siete voi i piccoli, vi potremmo schiacciare in qualsiasi
momento. Comunque, cosa stavo dicendo? Ah, giusto, la mia fuga da
Faerie. Sono dovuto fuggire per ordine del mio signore, il Re delle Volpi.
Lui è il nostro capo, il sovrano di tutte le volpi del mondo, non solo di
quelle magiche di Faerie. Anche quelle dell’Altrove, ovvero del tuo mondo,
gli obbediscono. Io sono il suo servitore più fedele, vivevo nel suo palazzo
insieme a lui e, se posso farti una confidenza, Marian, sono senza dubbio il
suo preferito. Se non fosse così, perché mai mi avrebbe affidato un compito
tanto importante?»
«Quale compito?» chiese Marian, che ascoltava rapita senza perdersi
nemmeno una parola.
Macbeth si fece molto serio. «Mi ha affidato il medaglione che porto al
collo. Mi ha ordinato di nascondermi qui da voi, per metterlo al sicuro.»
Le dita di Marian scivolarono lungo la collottola di Macbeth, scoprendo
tra il pelo fulvo una collanina d’oro.
“Ma certo” pensò eccitata, “ecco cos’era lo scintillio che avevo notato.
Non me l’ero sognato!”
«È molto importante?»
La collana aveva un pendente: un ciondolo semplice, dall’aria antica.
Sopra vi era inciso qualcosa, uno strano simbolo che Marian non riconobbe.
«Non ne ho idea, non l’avevo mai visto prima. Immagino di sì. Se il mio
signore mi ha ordinato di tenerlo qui al sicuro e di non parlarne con nessuno
penso che debba essere importante…»
Marian realizzò che Macbeth stava disubbidendo agli ordini del suo
padrone proprio in quel momento raccontandole tutto, ma evitò di farglielo
notare. Aveva bisogno di sentire il resto della storia.
«Perché sei dovuto fuggire dal palazzo?»
Macbeth si grattò pigramente un orecchio con la zampa posteriore.
«Veramente non ne ho idea. Stavo dormendo quando il mio padrone è
venuto a svegliarmi. Mi ha buttato giù dal letto in fretta e furia e mi ha
affidato il medaglione dicendo che dovevo andare, nascondermi, senza
spiegarmi alcun dettaglio. Prima che attraversassi il passaggio per venire
qui nell’Altrove, mi ha solo detto di aspettare fino a che non sarebbe venuto
lui a cercarmi, ma… diciamo che non è granché affidabile. È un tipo
piuttosto svampito a dir la verità. Quindi ho deciso che è meglio se torno a
Faerie immediatamente a controllare che sia tutto a posto, senza aspettare
che venga lui a recuperarmi qui.»
«Ma, Macbeth, sono passati solo tre giorni… Forse dovresti aspettarlo,
se ti ha detto così» cercò di farlo ragionare Marian, ma quello scosse con
forza la testa.
«Fidati, non lo conosci. E poi il tempo scorre in maniera differente nei
nostri mondi. Tre giorni nell’Altrove sono già abbastanza, devo tornare a
casa. Ho paura che si possa essere cacciato in qualche guaio. Uno di quelli
grossi, questa volta.»
«Devi essere molto affezionato a questo Re delle Volpi…» commentò
Marian.
Gli occhi di Macbeth si illuminarono, lustri di orgoglio. «Certo!»
esclamò. «È un padrone fantastico! Così buono, così generoso… è solo un
pelo eccentrico, ma dopotutto chi non lo è a modo suo? A quello poi ci si fa
presto l’abitudine.»
Macbeth si zittì di colpo e cambiò espressione, facendosi serio. Poi si
alzò, poggiandole le zampe anteriori sul petto e fissandola dritto negli
occhi.
«Marian, mi vedo davvero costretto a chiederti aiuto. Sei l’unica persona
gentile che ho incontrato qui nell’Altrove. Sei anche l’unica che non abbia
provato a uccidermi… Potresti aiutarmi a tornare a casa?»
«A casa? Intendi a Faerie?»
La volpe annuì, seria.
«Non solo fino a Faerie. Potresti aiutarmi a ricongiungermi con il mio
padrone? Devo tornare al palazzo del Re delle Volpi, ma si tratta di un
viaggio troppo difficile da intraprendere da solo. Per me potrebbe rivelarsi
davvero arduo, ma con te… sono sicuro che ce la caveremo benissimo
insieme. Sei la prima persona di buon cuore che conosco, qui nell’Altrove,
e qualcosa mi dice che è stato il destino a farci incontrare! Non credi anche
tu nei segni?»
Marian rimase un attimo a bocca aperta. Poi, quando fece per parlare,
Macbeth la zittì, posandole una zampa sulla bocca.
«Prima che tu possa dirmi di no, lasciami finire! Noi del Piccolo Popolo,
noi Sidhe, non facciamo mai niente per niente. Ti propongo perciò un patto:
aiutami a ricongiungermi con il mio signore, e in cambio il Re delle Volpi
esaudirà un tuo desiderio, qualunque esso sia.»
Poi si rimise seduto compìto, in attesa.
Marian rimase a fissarlo, immobile come una statua di sale. Non poteva
credere alle sue orecchie.
«Per favore, puoi ripetere quello che hai appena detto?» disse poi.
«Noi del Piccolo Popolo non facciamo mai niente per niente?»
«L’altra parte.»
«Il Re delle Volpi esaudirà un tuo desiderio, qualunque esso sia?»
«Precisamente quella parte!» esclamò Marian. Prese Macbeth in braccio
e si alzò in piedi, euforica. «È davvero così? Potrà davvero esaudire un mio
desiderio?»
«Ma certo!» disse Macbeth contagiato da tanto entusiasmo. «So che voi
umani andate matti per questa cosa di farvi esaudire i desideri, e noi di
Sidhe adoriamo ingannarvi, ma ti giuro solennemente, Marian, che sono
una volpe onestissima. E lo è anche il mio signore… il più delle volte.
Perciò puoi credermi e fidarti di me. Ho davvero bisogno del tuo
preziosissimo aiuto.»
Marian osservò attentamente gli occhi gialli della volpe che teneva
stretta a sé.
Per quanto sua madre si fosse impegnata a crescerla, cercando in tutti i
modi di farle apprezzare il buonsenso più di tutto, fece qualcosa di
assolutamente folle.
Decise di fidarsi.
E nel momento in cui prese la decisione fu come se tutte le sue
insicurezze e le sue paure si fossero dissolte. Il destino le stava offrendo
un’incredibile soluzione a tutti i suoi problemi. Non l’avrebbe sprecata per
niente al mondo.
Era tutto così perfetto che si sarebbe messa a ballare e a gridare dalla
felicità.
Lei aveva un desiderio, un desiderio così grande che solo il Re delle
Volpi avrebbe potuto esaudire.
«Va bene, Macbeth! Ti aiuterò a tornare dal tuo padrone. In cambio, lui
mi aiuterà a sbarazzarmi del mio stupido fidanzato.»
Era la sua via d’uscita, la sua unica occasione di felicità e non l’avrebbe
sprecata.
Macbeth le regalò un sorriso tutto denti: «Non penso proprio che il mio
padrone avrà problemi a far fuori un umano».
«Oh cielo, no, non deve ucciderlo!» inorridì Marian. «Dovrà solo
impedire il mio matrimonio… Non so, magari levando l’idea dalla testa dei
miei genitori, per esempio.»
«Intendi staccandogliela?»
«No, Macbeth, no! Sono i miei genitori, gli voglio bene. Nessuno dovrà
farsi male.»
La volpe sospirò delusa. «Va bene, va bene, ho capito… nessun morto.»
«Precisamente.»
«Anche se così il patto sarà meno interessante.»
«Bene, e adesso che si fa?» chiese impaziente Marian.
Macbeth, sovrappensiero, provò a leccarsi la zampa fasciata.
«Come prima cosa dobbiamo trovare del cibo. Non mangio da ieri e sto
morendo di fame. Davvero, Marian, potrei svenire da un momento all’altro!
A Faerie non abbiamo bisogno di nutrirci, abbiamo la magia per quello. Lo
facciamo più per diletto che per necessità, ma qui nell’Altrove è tutta
un’altra faccenda.»
Marian annuì diligente. «Benissimo, ti troverò da mangiare e ti porterò
anche qualcosa per pulire la ferita. Il tacchino freddo ti piace?»
Macbeth tirò su le orecchie e gli occhi si riempirono di bramosia. «Il
tacchino freddo suona benissimo!»
A Marian invece si strinse lo stomaco. Sapeva che il ricordo di quel
disastroso picnic non l’avrebbe abbandonata tanto facilmente. Forse,
avrebbe evitato il tacchino freddo per un po’.
«E poi?»
«E poi partiamo per Faerie» annunciò Macbeth raggiante.
Marian lo guardò spiazzata. «Ma così? Subito?»
«Certo, perché aspettare?»
Per qualche breve istante, Marian sentì che la vocina nella sua testa stava
cercando di prendere il comando per metterla in guardia sui rischi che
avrebbe corso e sull’assurdità di quella situazione. Ma fu, appunto,
questione di brevi istanti.
La mise a tacere con una scrollata di spalle e sentì i capelli drizzarsi sulla
nuca e le guance pizzicarle. Era forse il potere magico di Macbeth a
infonderle quel coraggio del tutto nuovo?
Le sembrava tutto un sogno. Un rocambolesco sogno in cui lei era
diventata Alice e si stava per tuffare nella tana del Bianconiglio alla
scoperta del Paese delle Meraviglie. Proprio lei, la barbosa e noiosa Marian
che non faceva mai niente, che ubbidiva e basta e che aspettava la sua data
di scadenza come un barattolo sullo scaffale di un emporio.
Era arrivato il suo momento. Se stava aspettando un segno per cambiare,
per decidersi finalmente a reagire e a prendere in mano la sua vita, cosa
poteva chiedere di più di una volpe parlante con una promessa tanto
invitante quale l’esaudimento del suo più grande desiderio?
Non era più disposta ad arrendersi all’idea di condurre una vita di
afflizione e rimpianti accanto a quello zotico di Carl Lawrence, non quando
le si presentava la possibilità di un futuro senza matrimonio, un futuro di
libertà, offerto su un piatto d’argento decisamente bizzarro e inaspettato.
Marian non aveva più dubbi. «Macbeth, nasconditi nel cespuglio di
biancospino e aspetta il mio ritorno. La caccia alla volpe sta per cominciare
e sarà un bel guaio se ti dovessero trovare a gironzolare qui. Devi rimanere
nascosto fino al mio arrivo.»
«Caccia alla volpe?» Macbeth nascose la coda tra le gambe e abbassò le
orecchie, spaventato. «Fa’ presto, ti prego. Non mi piace per niente questa
storia!»
«Ci metterò pochissimo» gli promise Marian.
E fu di parola. Corse a perdifiato nella villa, la gonna stretta tra le mani e
i mutandoni in bella vista, senza badare al fatto che qualcuno potesse
vederla così.
La nuova Marian aveva preso in mano la situazione.
Mentre si preparava per il misterioso viaggio che la attendeva, si sentiva
come sospesa in un sogno. Indossò la giacca da viaggio e il cappellino,
infilò nella borsetta un cambio di biancheria, uno scialle caldo e agguantò il
primo libro della pila sul comodino. Vecchie abitudini. Poi corse fino alla
dispensa, dove le cameriere l’accolsero con delle occhiate poco convinte,
ma non protestarono quando lei chiese gli avanzi di tacchino da portare via
in un panno e un po’ di mele. Recuperò anche una boccetta di fenolo e delle
bende nuove per la ferita di Macbeth, sempre eludendo gli sguardi curiosi
dei domestici.
La villa sembrava essersi svuotata. Tra il bridge e la caccia alla volpe,
erano tutti così impegnati nelle proprie attività che Marian si sentiva come
un fantasma che si aggirava silenzioso per i corridoi.
Proprio quando si stava precipitando fuori, però, sentì la voce di sua
madre risuonare alle sue spalle. Marian si nascose dietro una tenda. Aveva
funzionato una volta, avrebbe funzionato di nuovo.
«Ma dove si sarà cacciata quella benedetta ragazza?»
Marian trattenne il respiro e aspettò che i passi della madre si
allontanassero. Poi finalmente sgusciò fuori dal suo nascondiglio.
Mentre correva in giardino, il cuore che le batteva all’impazzata, era
abbastanza lucida da rendersi conto che stava per fare un’assoluta follia.
Sapeva che partendo avrebbe spezzato il cuore di sua madre… ma se fosse
rimasta, era certa che si sarebbe spezzato il suo.
Doveva pur salvarsi in qualche modo.
Appena giunse al limitare del bosco, Macbeth spuntò dal cespuglio di
biancospino e iniziò a saltellare contento.
«Avevo paura che non tornassi più!»
«Non potrei mai rimangiarmi la parola data» disse lei con un gran
sorriso.
Si addentrarono insieme tra gli alberi, allontanandosi dalla villa quanto
bastava per non essere visti. Marian tirò fuori dalla borsetta il tacchino che
aveva promesso a Macbeth e le bende per la medicazione. La volpe divorò
gli avanzi in un battibaleno e quando Marian cercò di medicarla, iniziò a
uggiolare.
«Un po’ di contegno, Macbeth!» ridacchiò lei mentre gli fasciava la
zampa con la benda nuova. «Ecco qui, finito. Hai visto? Tante storie per
niente.»
«Questa medicina puzza…» disse la volpe poco convinta mentre si
annusava la fasciatura nuova. «Forse il mio padrone non mentiva quando
diceva che le medicine fanno schifo…»
Marian imbracciò la borsetta da viaggio.
«Da che parte dobbiamo andare?» chiese, mentre veniva attraversata da
un brivido.
Non era paura, era qualcos’altro. Era emozione, come non l’aveva mai
provata.
Per la prima volta in diciotto anni, si sentiva viva.
Gli occhi di Macbeth si illuminarono, come se fossero d’oro liquido.
«Dobbiamo trovare il passaggio che ci porterà a Faerie.»
9

Marian aveva esaminato la questione accuratamente ed era giunta a


un’unica conclusione: doveva essere impazzita.
Continuava a ripeterselo mentre arrancava dietro a Macbeth, le caviglie
doloranti, le calze infangate, i capelli scarruffati pieni di foglie e le guance
arrossate dal freddo umido del bosco.
Macbeth trotterellava concentrato davanti a lei, fermandosi di tanto in
tanto ad annusare l’aria o del muschio particolarmente interessante. La
zampa pareva fargli già meno male e Marian invidiava la sua agilità.
Il passaggio era così distante che, quando finalmente arrivarono, l’orlo
della gonna e gli stivaletti di Marian erano così infangati che avrebbero
fatto inorridire la signora Crawford.
Era un gelido ottobre, con l’incostanza seccante dell’autunno inglese. Da
quando erano partiti, aveva piovuto a singhiozzi e adesso Marian, mentre
affondava gli stivaletti nel fango, sentiva di avere un gran bisogno di una
tazza di tè. E di un bagno caldo. E magari anche di un letto morbido su cui
riposarsi.
«Siamo arrivati» annunciò Macbeth.
«Quindi è qui che si trova l’ingresso per Faerie?» chiese Marian
arricciando il naso. Si guardò attorno, senza notare niente di diverso o di
magico nel paesaggio umido e melmoso.
Si trovavano nel cuore della foresta e la vegetazione si era fatta ancora
più fitta, più verde, più rigogliosa. A tratti soffocante. Perfino le rocce che
spuntavano dalla terra erano ricoperte da un soffice tappeto verde. Marian
era sicura che anche su quel muschio crescesse altro muschio.
Macbeth le zampettò attorno, annusando l’aria. «Non ne sono sicuro»
ammise dubbioso.
«In che senso non ne sei sicuro?»
La volpe si sgrullò via l’acqua dalla pelliccia. «Be’, non mi ricordo
esattamente com’era il posto… Nell’Altrove queste pietre sembrano tutte
uguali.»
«Perché, a Faerie sono diverse?»
«Decisamente. Lì sono delle porte vere e proprie! Comunque penso che
sia il posto giusto. L’odore di magia è forte qui.» Alzò il muso in aria e
inspirò profondamente.
Marian sentì le guance pizzicarle e si emozionò. Erano sulla strada
giusta, adesso ne era certa anche lei.
«Pensavo che vi presentaste da noi tramite i cerchi» commentò,
continuando a guardarsi attorno in cerca di qualche indizio.
Macbeth la guardò incuriosito. «Cerchi?»
«I cerchi delle fate di cui parlano le storie! I cerchi magici di funghi e
pietre che si trovano nella brughiera, nelle radure e nei boschi. La mia
bambinaia mi ha sempre raccomandato di non attraversarli per non farmi
rapire dai folletti.»
«Aaah» fece la volpe scodinzolando. «Certo, anche quelli sono dei
passaggi, ma funzionano solo in una direzione. Sono delle porte più piccole,
per gli spiriti minori, tipo gli spriggan, i guardiani dei tesori delle colline, o
quelli che voi conoscete come folletti. Adorano tormentare voi dell’Altrove.
E di solito usano quelli che tu chiami “cerchi delle fate” per ingannarvi,
facendovi mettere un piede dentro. Vi fanno ballare per ore e ore, fino a che
non stramazzate al suolo sfiniti. Adesso che ci penso…» aggiunse con un
ghigno «amano anche farvi crescere corna e code. Ma non ti preoccupare»
aggiunse guardando l’espressione preoccupata della ragazza, «a te non
capiterà niente di tutto ciò. Basterà dire che sei sotto la protezione del Re
delle Volpi. Vedrai, ti gireranno tutti alla larga.»
Marian strinse la borsetta al petto e sperò in cuor suo che fosse proprio
così.
«Come facciamo a entrare?» chiese poi, studiando con attenzione le
pietre muschiose accanto a lei. «Non mi sembra che ci sia una porta da
queste parti, o sbaglio?»
La volpe la superò e iniziò la sua ispezione. Annusò le rocce in diversi
punti, tornando spesso sui suoi passi, infilando il naso nel muschio.
«Eccolo!» annunciò euforico. «Vieni, Marian, ho trovato l’entrata!» Con
un paio di agili balzi, completamente dimentico della zampa ferita, salì sulla
cima della roccia più alta, che superava Marian in altezza di quasi tre piedi.
«Devi salire qui su! Vieni!» la incalzò la volpe.
«Non credo di essere in grado» disse lei.
La pietra era così scivolosa per colpa della pioggia che sarebbe di sicuro
caduta e si sarebbe rotta l’osso del collo. Non una gran prospettiva.
«Devi riuscirci a tutti i costi! L’ingresso si trova proprio qua in cima. E
lo sai, sei la mia unica possibilità di poter tornare a Faerie e ritrovare il Re
delle Volpi!»
Marian fissò desolata la roccia. «Tutte a me le fortune» sospirò.
Si rimboccò le maniche e cominciò ad arrampicarsi, cercando degli
appigli abbastanza solidi da reggere il suo peso. Quando gli stivaletti
trovavano un appoggio, cercava di issarsi più che poteva facendo attenzione
a non toccare il muschio scivoloso. Strisciando sulla pancia in maniera poco
elegante e procurandosi più di un graffio, riuscì finalmente a guadagnare la
cima. Raggiunse Macbeth, ricoperta di terriccio umido ma raggiante di
soddisfazione.
«Ce l’ho fatta» mormorò incredula.
«Sapevo che ci saresti riuscita! Adesso dobbiamo solo tuffarci in questo
buco.»
Marian si mise in ginocchio sulla porzione di roccia più liscia e vide ciò
a cui Macbeth si riferiva. Davanti a lei, la pietra era completamente cava,
come un vecchio tronco in cui un tasso avesse scavato la tana.
«Dobbiamo scivolare qui dentro?» chiese lei alzando le sopracciglia.
La vista di quel buco nero, sudicio e umido, la fece rabbrividire. Se
anche fosse riuscita a passarci dentro, cosa avrebbe trovato dall’altra parte?
In più sembrava troppo stretto. Macbeth sarebbe entrato senza
problemi… ma lei, con quei vestiti ingombranti, sarebbe rimasta
sicuramente incastrata.
«Quanto è profonda la tana del Bianconiglio?» mormorò a mezza voce.
«Avanti, Marian! Se vuoi che il tuo desiderio più grande venga esaudito,
devi almeno provarci! Inizia a buttarci dentro la borsetta» suggerì la volpe.
Marian ubbidì. Si avvicinò al buco oscuro, si passò la valigetta sopra la
testa e la lasciò scivolare con un po’ di riluttanza oltre il bordo.
La borsetta cadde in quella cavità nera senza emettere un suono. Marian
tese l’orecchio, ma niente. Nessun tonfo. Non sembrava essere atterrata da
nessuna parte.
«È il tuo turno adesso» annunciò solenne Macbeth. «Vai prima tu, così se
rimani incastrata, ti potrò aiutare.»
Tutto il coraggio che aveva animato Marian fino a quel momento, che
l’aveva fatta scappare dalla villa dei Lawrence in un folle eccesso di
irragionevolezza, sembrava essersi dileguato in un istante. Che cosa ci
faceva nel fitto della foresta in compagnia di una volpe parlante? E perché
mai avrebbe dovuto saltare di proposito in un buco nero e senza fondo? Era
forse impazzita?
«S-sicuro? Non vuoi andare tu per primo?» provò a chiedere con un filo
di voce.
Macbeth la guardò perplesso, poi scoppiò in una risata fragorosa.
«Non mi dire che hai paura!»
Marian arrossì. «Ma no, non ho paura» mentì.
Per dimostrargli che si sbagliava infilò con cautela le gambe
direttamente nel buco, sedendosi sul bordo. Più lo guardava e più le
sembrava stretto.
Trattenne il respiro, per un attimo che le parve infinito.
Pensò a quello che si stava lasciando indietro. Ai progetti di sua madre,
alle aspettative che la sua famiglia aveva su quel matrimonio che si erano
così tanto prodigati a organizzare. Poi le tornò in mente la faccia di
quell’idiota di Carl Lawrence, e il modo in cui l’aveva umiliata e… la
rabbia le rimontò nel petto, infuocandolo. Si raddrizzò il cappellino in testa
con stizza.
«Sono pronta» disse a denti stretti.
Macbeth si issò su due zampe e, senza tante cerimonie, la spinse giù.
La foresta sparì all’istante e Marian si ritrovò circondata dal nero più
nero. Il buco che le era sembrato troppo stretto si era come deformato,
adattandosi magicamente al suo passaggio.
“Magia” riuscì a pensare mentre precipitava, mentre sentiva le guance
pizzicare e i capelli drizzarsi sulla nuca.
Strinse forte gli occhi, serrò i pugni e tese le gambe, preparandosi ad
atterrare da qualche parte. La gonna le si alzò tutt’attorno, come la corolla
di un fiore, mettendo in bella vista la sua biancheria e rallentando la sua
caduta nell’ignoto.
L’oscurità, così come era arrivata di colpo, totalizzante e fulminea, sparì.
Venne sostituita da una luce dolorosa.
Marian non si rese conto di essere caduta, lo realizzò solo quando sentì il
dolore irradiarsi dalle ginocchia e dai palmi delle mani. Era ruzzolata a terra
e ora si muoveva a fatica, come se il tempo si fosse messo a scorrere al
rallentatore.
Si sentiva intontita, ubriaca. Non riusciva a vedere quasi niente. Tutto
era sfocato, appannato. Anche l’aria che le arrivava al naso era strana,
profumata e inebriante. Marian si sentì sempre più stordita.
«Macbeth?» chiamò, in preda al panico, tendendo le mani in avanti. La
sua voce era ovattata, come se si trovasse sott’acqua.
«Sono qui, Marian, accanto a te. Ti senti bene? Guarda le tue mani,
poverina!»
Marian si voltò credendo di vedere la volpe, ma intuì solo una sagoma
scura davanti a lei.
Il senso di confusione aumentava sempre di più. All’improvviso, le
sembrò bizzarramente reale la possibilità di venir divorata da un fiore o di
essere assordata dal rosa del cielo al tramonto.
«Non riesco a vedere bene, non riesco a sentire! Cosa mi sta
accadendo?» chiese Marian spaventata.
«È colpa mia» sentì rispondere da Macbeth. «Non ci ho pensato, che
stupido! Faerie ha troppa magia per te che sei dell’Altrove. Devo trovare un
modo per dartene un po’ io prima che sia troppo tardi.»
Marian sentì qualcosa sfiorarle il viso e un peso sconosciuto al collo. Si
tastò e capì che Macbeth le aveva messo la collana con il pendente.
«Ecco. Adesso dovresti riuscire a respirare bene e a vedermi» le disse.
A Marian sembrò di risvegliarsi da un sogno. Era tornata a sentirsi
concreta e reale, e quell’angosciante sensazione di smarrimento era svanita.
Quando riuscì finalmente a mettere a fuoco, sobbalzò per la sorpresa.
«Macbeth?» chiese a bocca aperta.
«In persona.»
Davanti a lei non c’era più la volpe che aveva conosciuto e soccorso.
Al suo posto, le sorrideva un ragazzino dai capelli rossi e il viso
lentigginoso.
10

Marian fissava Macbeth incredula.


Aveva i tratti del viso selvatici, affilati come quelli di una volpe, dei
grandi occhi color ambra e doveva avere circa dieci anni. Indossava un
completo di velluto verde bosco, con i bordi riccamente decorati in oro.
«Ma… com’è possibile?» balbettò meravigliata mentre notava il polso
fasciato. La fasciatura era la stessa che aveva fatto alla zampa ferita della
volpe.
«Com’è possibile cosa?»
«Be’… il muso, il pelo… tu…»
Macbeth si toccò la punta del naso e scoppiò a ridere.
«Non ti aspetterai che rimanga con la pelliccia e che cammini a quattro
zampe anche qui a casa mia! Quella è la forma che noi volpi assumiamo
quando andiamo nell’Altrove.»
«Quindi in realtà sei un ragazzino? Come quelli del mio mondo?»
Macbeth assunse un’aria oltraggiata.
«Accidenti, Marian, pensi davvero che la complessità della mia persona
possa essere definita così? Mi pare un po’ troppo semplicistico. Come puoi
paragonarmi a un bambino dell’Altrove? Sono una volpe!»
«È che adesso non lo sembri più così tanto…» cercò di ribattere Marian.
«Scusa, non intendevo offenderti.»
Lui scosse la testa. «Nessuna offesa, Marian, non ti preoccupare. Il Re
delle Volpi dice sempre che occorre avere molta pazienza con quelli
dell’Altrove.»
Marian non lo stava più ascoltando. Qualcosa si era mosso proprio alle
spalle del ragazzino.
Allungò la mano incredula.
«Una coda!» esclamò, afferrandogliela.
«Capita a noi volpi di esserne in possesso.»
«E queste orecchie!» esclamò Marian, scostandogli i capelli e
afferrandogliele meravigliata. Erano ricoperte da una soffice pelliccia rossa,
in tinta con la coda che sfumava verso il nero proprio sulla punta. In effetti
Macbeth era molto lontano dal poter essere scambiato per un ragazzino
normale. Al di là di coda e orecchie, c’era qualcosa di strano e indefinibile
in lui.
«Mi fai il solletico» disse educatamente Macbeth arricciando il naso
appuntito e ricoperto di lentiggini.
«Oh, scusami, che maleducata!»
Marian lasciò subito la presa.
«Hai visto, Marian? Siamo a Faerie! Ero sicuro che ci saremmo riusciti»
esclamò a quel punto Macbeth, scoprendo i canini appuntiti in un sorriso
soddisfatto.
Marian allora si guardò attorno.
Si trovavano in una radura piena di fiori selvatici dai colori pastello.
Marian li osservò più da vicino, senza riuscire a riconoscerne nemmeno
uno. Anche gli alberi dalle foglie dorate a forma di goccia che circondavano
il prato li vedeva adesso per la prima volta.
L’aria era immobile. Non un alito di vento scompigliava le fronde. Il
cielo era tinto di rosa e rosso, simile a quello al tramonto nelle primavere e
nelle estati più calde del suo mondo.
Faerie non era come Marian si aspettava. Non che si fosse immaginata
chissà cosa, ma le sembrò tutto sommato un luogo piuttosto ordinario, ben
lontano da quello descritto nelle favole sul Piccolo Popolo con alberi color
lapislazzulo e fiori che cantavano come trombette.
Poi notò la porta.
Era fatta di pietra, e si ergeva solitaria in mezzo al campo fiorito. Non
era attaccata a un edificio, non c’erano i resti di un muro a incorniciarla.
Semplicemente, se ne stava lì, come se il palazzo di cui faceva parte si fosse
dissolto, lasciando quel gigantesco portone a testimonianza della sua
passata esistenza.
Era alta dieci piedi e larga sei. La cornice era decorata da bassorilievi ma
Marian non sarebbe stata in grado di dire cosa ci fosse scritto o quali figure
vi fossero rappresentate. Sulla cima troneggiava una guglia appuntita, con
due pinnacoli ai lati che chiudevano la cornice.
«È incredibile» sussurrò Marian. «Un momento fa ero lì, indecisa se
tuffarmi o meno nell’oscurità, e adesso sono qui. Non ricordo neanche di
aver attraversato questa porta… Non l’ho vista aprirsi e non l’ho vista
richiudersi.»
«Be’, questo perché eri troppo impegnata a perderti in un sogno a occhi
aperti.»
«Che cosa? Non capisco.» Marian si sentì di nuovo confusa.
«È quello che ti stava accadendo» cercò di spiegarle Macbeth. «Stavi
sprofondando nella materia di cui sono composti i sogni.»
Marian gli rivolse un’occhiata poco convinta e il ragazzino sospirò.
«Forse è un concetto troppo bizzarro per essere compreso da voi
dell’Altrove.»
Marian scosse la testa. In realtà quello che Macbeth stava cercando di
dirle non era così pazzo.
«In effetti… mi è sembrato di sprofondare e di non riuscire a respirare.
Un po’ come quando sogni di cadere e poi ti svegli e scopri di essere
rimasto prigioniero delle lenzuola.»
La sua mano scese e si toccò la gola. Le dita sfiorarono una sottile
catenella e poi un pendente tondo, dalla superficie consumata.
Il medaglione di Macbeth! Si era completamente dimenticata che glielo
aveva messo al collo.
«Ma questo…» Se lo rigirò tra le dita. La catenina d’oro era la più sottile
e fine che avesse mai visto. Brillava alla luce calda e sembrava fatta da
minuscole gocce d’oro. Notò solo adesso che il medaglione aveva
incastonata una vecchia pietra rosso sangue scheggiata in più punti. Sul
retro c’era uno strano simbolo inciso nell’oro.
«È merito suo se non sei sprofondata per sempre nella materia dei sogni.
Ha abbastanza magia per proteggerti» spiegò Macbeth rivolgendole
un’occhiata colpevole. «Avrei dovuto pensare prima che per te dell’Altrove
Faerie è troppo piena di magia. Persino l’aria può essere pericolosa per voi.
Non dico che sia mortale, no, questo no… è solo che non riuscite a
respirarla. Finite per ubriacarvene e per affondare nei vostri sogni fino a che
non riuscite più a svegliarvi.»
«Mi sembra decisamente mortale» osservò Marian con un filo di voce,
felice di essere scampata a una tale fine.
«Sì, credo che tu abbia ragione» convenne Macbeth. «In ogni caso il
medaglione ti fornirà magia a sufficienza per sopravvivere a Faerie. Penso
che sia meglio che ti metta in guardia su ciò che qui è pericoloso per uno
dell’Altrove.»
«Potrebbe essermi molto utile» convenne Marian. Prese la mano che
Macbeth le stava porgendo e si accomodò accanto a lui sul letto di fiori.
«Come prima cosa non provare mai, per nessun motivo, ad attraversare
questa porta da sola.»
«Cosa potrebbe accadere?» chiese lei.
«Se non pronunci correttamente l’incantesimo di uscita, ti perderesti
nell’altro mondo, quello delle anime dei morti. Non penso che sia un posto
piacevole dove andare. Una volta il Re delle Volpi ci è stato e non ha
granché gradito la gita.»
Marian si limitò ad annuire mentre un brivido le correva lungo la
schiena.
«E come mai ci è andato?»
«Ha detto che qui si annoiava» rispose Macbeth con un’alzata di spalle.
«Seconda cosa: non devi accettare doni. Nessun Sidhe regala niente per
niente. Se qualcuno ti fa un dono, vorrà qualcosa in cambio, ed è meglio
non essere mai in debito con nessuno qui, ne va della tua vita.»
Marian capì che doveva prestare massima attenzione ai consigli di
Macbeth, se voleva tornare a casa tutta intera.
«Terzo. Non dire mai dove sei diretta e da dove vieni. Se ti domandano:
“Da dove arrivi?”, tu rispondi sempre: “Da dietro di me”. E se ti chiedono:
“Dove sei diretta?”, tu rispondi semplicemente: “Davanti a me”. Usa la
logica, ma mi raccomando, non mentire mai. Le bugie a Faerie sono
pericolose. Piuttosto che mentire, meglio tacere.»
Marian cercava di memorizzare tutti i suoi consigli, sentendosi sempre
più insicura.
«A pensarci bene» proseguì lui, «è meglio non raccontare mai nemmeno
del tutto la verità. Anzi, meglio ometterla del tutto. Raccontare le cose come
stanno potrebbe rivelarsi altrettanto pericoloso che mentire.»
Marian gli stava per chiedere in che modo fosse possibile omettere del
tutto la verità senza mentire, quando Macbeth si schiarì la voce con fare
teatrale: «Adesso, la raccomandazione più importante: non rivelare mai il
tuo vero nome».
Marian corrugò le sopracciglia. «E perché?»
«Se uno spirito o una creatura di Faerie conosce il tuo vero nome, ti avrà
in pugno. Rivelare come ti chiami è pericolosissimo! Crea un contratto
magico indissolubile tra te e il Sidhe, da cui non potrai mai scappare.»
«Ma tu conosci il mio nome e io conosco il tuo» osservò Marian
confusa.
Macbeth scosse la testa con aria grave. «Infatti non dovevi rivelarmelo.
Marian Crawford è il tuo nome completo?»
«In realtà ho un secondo nome.»
«Allora tienitelo stretto e non me lo dire!» disse Macbeth precipitoso,
mettendo le mani avanti. «Non rivelarlo mai a nessuno! Se qui a Faerie ti
presenti solo come Marian, andrà benissimo.»
«Quindi il tuo vero nome non è Macbeth?»
«Certo che lo è, solo che non è il mio nome segreto. Tutti noi Sidhe ne
abbiamo uno e lo custodiamo gelosamente. E tieniti ben stretto il tuo. Non
c’è da fidarsi del popolo dei Sidhe.»
«Io di te mi sono fidata.»
«Si dà il caso che io sia una volpe molto onesta» replicò Macbeth.
Marian pensò rincuorata che solo i suoi genitori e le sue sorelle erano a
conoscenza di quel “Jane” segreto che stava tra Marian e Crawford. A meno
che sua madre non fosse arrivata a Faerie gridando per intero il suo nome ai
quattro venti, poteva considerarsi salva dalle grinfie di qualsiasi spirito e
creatura fatata.
Macbeth sbadigliò in maniera plateale, scoprendo i canini appuntiti da
volpe.
«Il sole sta calando, è meglio trovare un buon posto dove fermarci per la
notte. Ci metteremo sulle tracce del Re delle Volpi domani.»
Marian si guardò intorno. Oltre alla porta che si ergeva in mezzo alla
radura non vedeva costruzioni di alcun tipo.
«Conosci qualche locanda in zona? O una casa?» azzardò lei.
Macbeth scoppiò a ridere. «Mi fai davvero morire dal ridere!» Poi,
quando finalmente tornò serio, aggiunse: «Seguimi, cerchiamo un posto più
riparato».
E si incamminò verso il folto degli alberi dalle foglie d’oro. Il sole era
ormai scomparso oltre l’orizzonte, ma non faceva freddo. A Faerie
sembrava essere estate.
«Ecco il posto perfetto! Le campanule sono un letto sofficissimo»
esclamò Macbeth indicando dei fiori violetti. Marian si guardò attorno
perplessa. L’idea di dormire all’addiaccio in un mondo che non conosceva
non la convinceva molto.
«Stai tranquilla, non ci accadrà nulla di male!» la rassicurò lui. «Dai,
vieni che ho sonno…»
Macbeth si tuffò tra i fiori, preparandosi un giaciglio per la notte.
Non avendo alternative, Marian lo raggiunse, si levò il cappellino, piegò
con cura la giacca e usò la valigetta come un cuscino.
Macbeth le si raggomitolò accanto, strofinandosi gli occhi.
Una volta stesa, Marian si rese conto di quanto fosse stanca. Mentre il
respiro del ragazzino si faceva pesante e regolare, Marian sperò con tutto il
cuore di non essersi cacciata in un guaio peggiore del matrimonio.
“Chissà se Faerie e il mio mondo condividono lo stesso cielo” si chiese.
Di fronte alla vastità delle costellazioni che ricamavano il cielo notturno,
si sentì piccola e insignificante. Lei e i suoi problemi.
«Marian» si lamentò Macbeth nel sonno, «puoi pensare più piano? Non
riesco a sognare con tutto questo rumore.»
«Scusami» disse lei senza riuscire a trattenere un sorriso. Sentì il sonno
pizzicarle gli occhi. Per un po’ cercò di opporre resistenza, poi si arrese e si
addormentò, cullata dalle campanule.
11

Marian stava dormendo profondamente quando si svegliò di soprassalto.


Qualcuno le aveva sfilato in malo modo la borsetta da sotto la testa.
Si trovò di fronte due occhietti rossi che la scrutavano da sotto una
pelliccia ispida, sudicia e scura. Marian cacciò un urlo e arretrò,
scontrandosi contro Macbeth.
Il ragazzino si alzò su a sedere. «Cosa succede?» esclamò, le orecchie
tirate indietro.
Marian non fece in tempo a indicargli la creatura che quella scappò via a
gran velocità con la sua borsetta, sparendo tra le campanule. «Qualcosa…
quella cosa lì mi ha appena derubata!»
«Hai visto come era fatta?» chiese Macbeth. «Non riesco più a sentire il
suo odore, deve aver coperto le sue tracce con la magia.»
«Non so che cosa fosse… Era piccolo e peloso» mormorò Marian
recuperando quelli che ormai erano i suoi unici averi, la giacchetta e il
cappellino.
«Deve essere stato un lynno» borbottò il ragazzino. «È uno spiritello a
cui piace derubare i viandanti. Non lo fa solo con gli umani nell’Altrove, ha
questo brutto vizio anche con noi di Faerie. Come potrai ben immaginare i
lynno non stanno simpatici a nessuno.»
Marian annuì, demoralizzata.
«Non disperare, però! Non sono molte le borse umane qui a Faerie,
vedrai che la ritroviamo! Che cosa c’era dentro? Cose molto preziose?»
Lei cercò di ricordare che cosa aveva infilato nella borsa il giorno prima.
Le sembravano passati secoli da quando era andata via dalla villa.
«Niente di che in realtà. Un libro, della biancheria, uno scialle…»
Marian si appuntò il cappellino in testa, cercando di ricacciare indietro le
lacrime. Si sentiva ferita nell’orgoglio. Era la prima volta che la derubavano
e anche se non aveva perso niente di prezioso, era mortificata. Una strana
creatura, poco più grande di un gatto, era scappata con la sua borsa, e
adesso era in un mondo sconosciuto e possedeva solo quello che indossava.
Si sentiva così sciocca. Se solo fosse stata più accorta…
«C’è poco da fare ormai» sospirò. «Andiamo, Macbeth. Mettiamoci in
viaggio.»
Lui le prese la mano, dispiaciuto, e la condusse attraverso gli alberi dalle
foglie d’oro.
«È molto lontano il palazzo del Re delle Volpi?» gli chiese Marian dopo
che si erano lasciati alle spalle il campo di campanule per addentrarsi nel
fitto del bosco. Da lì non si riusciva più a scorgere l’enorme porta
d’ingresso per Faerie.
«Non troppo, giusto un paio di giorni. Credo che siamo sulla strada
giusta.»
«Credi?»
«Non ero mai uscito da palazzo da solo, ma sono abbastanza sicuro che
stiamo andando dalla parte giusta» le spiegò ottimista. «Vedrai, Marian, ti
piacerà! È bellissimo, tutto in pietra, pieno di verde! Dentro ci sono
un’infinità di tesori che il re ha collezionato nel tempo e…»
Macbeth si bloccò di colpo, irrigidendosi.
«Cosa c’è?»
Il ragazzino scattò, iniziando a correre come il vento e tuffandosi
nell’erba alta.
«Maledetto, ti ho visto! Vieni qui!»
«Macbeth!» strillò Marian correndogli dietro.
Sentì gridare. Non erano grida di dolore, sembravano più quelle di due
persone che stanno litigando.
Macbeth emerse dall’erba alta. Cercava di tenere la borsetta sopra la
testa, fuori dalla portata della bestia pelosa, che si aggrappava alle sue
braccia, soffiando infuriato come un gatto.
Marian raccolse da terra un ramo caduto, intenzionata a usarlo come
arma se fosse stato necessario. Corse verso l’erba alta e si ritrovò di fronte
un groviglio di braccia, gambe e peli.
«L’hai rubata, ti dico! Maledetto, mollala!»
«È mia, invece, lasciala, lasciala!»
Davanti a quella patetica baruffa, Marian perse ogni slancio combattivo.
«Oh, insomma, cosa succede qui? Smettetela subito di azzuffarvi!»
Abbandonò il bastone e cercò di dividerli. Si beccò un graffio in faccia,
ma riuscì con successo nel suo intento.
Macbeth aveva i capelli dritti in aria e ringhiava, mostrando i denti. Il
lynno in tutta risposta soffiava furiosamente, tenendosi stretto alla borsetta.
«Sono stato aggredito da questa vile volpe! Sono innocente!» gridò con
una vocina stridula.
«E tu le hai rubato la borsetta, maledetto lynno. Ridagliela!» Cercarono
di nuovo di azzuffarsi, ma Marian li teneva separati.
«Rubato, io? Non so di che parli!» La creatura sembrava offesa. Sgranò
gli enormi occhi rossi con un’aria innocente davvero poco credibile. «Io
sono un dukko. Non rubo, restituisco ciò che è stato sottratto ai viandanti in
cambio del giusto compenso.»
Si voltò verso Marian, inchinandosi con grazia e liberandosi dalla sua
presa. Poi fece un’agile giravolta e il suo aspetto mutò. Non c’era più
traccia degli occhi rossi e del pelo ispido. Era cresciuto anche in
dimensioni, eguagliando Macbeth in altezza. Aveva la pelle dello stesso
colore sudicio del pelo, con qualche sfumatura verdastra, come se fosse
nato dal sottobosco d’autunno. Sfoggiava delle enormi orecchie appuntite
proprio in cima alla testa e un gran naso porcino. Indossava un gilet
elegante sul cui bavero erano appuntate delle enormi spille e dei gioielli
brillanti.
«Lasciate che mi presenti. Sono il dukko Carlisle, al vostro servizio.
Riporto il maltolto ai viaggiatori, dietro compenso ovviamente.»
«Ovviamente» disse Macbeth a denti stretti.
Il dukko lo ignorò.
«In che modo posso aiutarvi, cari amici? Cosa vi è stato sottratto?»
Per un istante Marian e Macbeth lo fissarono senza parole, poi il
ragazzino tentò di saltargli addosso.
«La borsetta, e dovresti saperlo dato che sei stato tu a rubarla!»
Il dukko assunse un’aria profondamente offesa.
«Noi dukko non rubiamo, noi recuperiamo gli oggetti rubati, siamo
famosi per questo.»
«Ma a quanto pare prima li rubi e poi li rivendi a chi hai derubato!»
«Sono solo calunnie queste.»
«Ma se ti sei trasformato davanti ai nostri occhi!» gridò Macbeth
frustrato.
«Non avete nessuna prova o testimone di quello che dite. È la mia parola
contro la vostra.»
Il dukko sfoderò un sorriso poco convincente e Macbeth ricominciò a
ringhiare.
«Cosa posso darti per riavere indietro la mia borsa?» chiese scoraggiata
Marian cercando di tagliare corto.
Il dukko le rivolse un sorriso sudicio. «Mi piace il tuo cappellino.»
Marian si portò la mano allo spillone e ai nastri senza starci a pensare
troppo. Poteva farne a meno. «Se lo vuoi è tuo.»
Appena glielo tese il dukko lo afferrò avido. Se lo mise in testa, legando
i nastri sotto al mento flaccido.
«E poi…»
«Davvero osi accampare altre richieste?» sbuffò Macbeth.
Il dukko si avvicinò alla gonna di Marian e gliela tirò.
«Voglio questa. È bella e luccica tutta con la rugiada del mattino.»
Marian gli strappò via la mano dalla gonna, imbarazzata.
«È fuori discussione. Non posso darti il mio vestito, non ne ho altri.»
Non voleva neanche contemplare l’idea di presentarsi in mutandoni al
Re delle Volpi.
Il dukko si strinse la borsa al petto. «Temo che allora le nostre strade si
dividano qui.»
Marian si morse il labbro. Forse c’era qualcosa che poteva dargli…
«Aspetta» lo fermò.
Le era venuta un’idea.
«Ho qualcosa che potrebbe piacerti, ma ho bisogno della mia borsa.»
Il dukko gliela passò senza fare storie, incuriosito.
Marian la aprì, facendo attenzione a non mostrare il suo contenuto. Se il
dukko avesse messo gli occhi su qualcos’altro sarebbe stato un guaio.
Afferrò la sottogonna di cotone di ricambio che si era portata dietro e gliela
passò, imbarazzata. «Posso darti questa. È stata confezionata con un’ottima
stoffa, molto resistente.»
Il dukko non aspettò neanche che lei finisse di parlare e gliela strappò
dalle mani, estasiato.
«Mi piace, mi piace! Affare fatto. Tieniti pure la borsa. La prossima
volta fate attenzione ai lynno in agguato.»
Si mise la gonna in bocca, fece un’altra giravolta e tornò la creatura
pelosa piena di zampe. Senza salutare, si dileguò nell’erba alta.
Macbeth si grattò la testa, ancora scombussolato. «Non avevo idea che
facessero il doppio gioco. Sono sempre stato convinto che i lynno e i dukko
fossero due creature diverse… invece guarda un po’ che razza di furfanti
che sono.»
«Il fatto che sia stata una novità anche per te mi fa sentire meno
sprovveduta» disse Marian. L’incontro con quella creatura l’aveva turbata
più di quanto avesse voluto ammettere.
«Chissà che cos’altro ci aspetta…» si chiese Macbeth mentre si
rimetteva in cammino.
“Già, chissà?” chiese la vocina dentro Marian.
«Andiamo, abbiamo parecchia strada da fare.»
Marian si strinse al petto la borsetta e lo seguì, un po’ riluttante.
Aveva fatto bene ad ascoltare il suo istinto per la prima volta nella sua
vita… O si era solo cacciata in un guaio enorme?
Uscirono dalla macchia e si ritrovarono in una nuova radura. Il
paesaggio era così rigoglioso e colorato che Marian ritrovò un po’ di
coraggio.
Dopotutto non era accaduto niente di grave, aveva solo dovuto
rinunciare al cappellino e alla sua sottogonna.
«Quanto hai detto che dista il palazzo?» chiese, con la speranza di
sentire una risposta diversa da prima.
Macbeth le trotterellava accanto. Era tornato di ottimo umore. «Vedrai,
di questo passo entro domani sera saremo arrivati!»
A Marian sembrava di aver percorso almeno un paio di miglia, quando
imboccarono un sentiero ombreggiato, fiancheggiato da bizzarri alberi dalla
folta chioma e la corteccia color sangue.
Marian continuava a guardarsi attorno, in guardia. A Faerie c’erano
sicuramente creature più pericolose del lynno che l’aveva derubata. E se
fosse rimasta ferita, o peggio, uccisa? Nessuno nel suo mondo avrebbe mai
avuto sue notizie. Nessuno avrebbe saputo che fine avesse fatto.
E se lungo il cammino avessero incontrato chi aveva attaccato il palazzo
di Macbeth? Dopotutto il suo re lo aveva fatto fuggire in fretta e furia,
doveva trattarsi di qualcuno decisamente spaventoso.
Sapeva che non sarebbe stata in grado di proteggere il ragazzino in
nessun modo. In effetti non sarebbe stata in grado di difendere neanche se
stessa.
In quel momento fu investita da un terribile senso di impotenza.
Ma che cosa ci faceva lì a Faerie? Era lì per aiutare Macbeth? E in che
modo, dato che non era capace neanche di risolvere i suoi stessi guai? Era
del tutto inutile. Non avrebbe mai dovuto andarsene dalla villa dei
Lawrence. Nel suo mondo era un’incapace, cosa avrebbe mai potuto fare a
Faerie? Doveva tornare indietro, a casa, nell’Altrove, e accettare quella
triste e grigia vita che in realtà le si addiceva benissimo. Era stata una
sciocca a pensare di poter sfuggire al suo futuro.
Marian si fermò di colpo.
«Marian?» Macbeth si era voltato verso di lei. «Va tutto bene? Perché ti
sei fermata?»
«Io… io devo tornare indietro» disse lei con un filo di voce.
«Cosa succede? Hai dimenticato qualcosa?»
Marian scosse la testa.
Macbeth la guardò, le sopracciglia corrucciate, poi gli occhi si accesero.
Aveva capito.
«Intendi nell’Altrove?»
Macbeth parlava con voce controllata, ma Marian capì che stava
cercando di celare la delusione.
Lei annuì lentamente, vergognandosi.
Macbeth non disse niente. Tornò sui suoi passi, la prese per mano e si
incamminò per la strada da cui erano appena giunti.
«Ti accompagnerò fino alla grande porta. È troppo pericoloso lasciarti
andare da sola. Devo aiutarti con l’incantesimo per attraversarla.»
Marian si morse il labbro per non piangere di fronte al coraggio e alla
gentilezza di Macbeth.
Non solo gli stava facendo perdere del tempo prezioso, ma ora Macbeth
si sentiva anche responsabile per lei.
Marian aveva la vista offuscata dalle lacrime.
Quando Macbeth gridò, fu comunque troppo tardi. «Marian, attenta!»
Nel momento in cui il suo stivaletto affondò sul prato soffice, venne
investita da una raffica di vento potentissima. Successe tutto in un battito di
ciglia. Il ragazzino si aggrappò a lei e il paesaggio iniziò a cambiare a una
velocità incredibile.
Marian e Macbeth erano immobili, eppure intorno a loro tutto mutava a
una velocità disarmante, sfrecciando in ogni direzione.
Il prato dove si trovavano lasciò il posto a un terreno arido, che si
trasformò in un lago, e ancora in un mercato coloratissimo. Poi tutto
divenne indistinto, in un vortice di colori e forme, troppo veloci per essere
comprensibili. Marian cercò di parlare, ma il vento che era troppo forte
perché la sua voce potesse sovrastarlo. Lei e Macbeth rimasero stretti,
sperando che quella sorta di ciclone avesse presto fine.
Quando finalmente il mondo attorno a loro iniziò a rallentare, Marian
scorse qualcosa. Si trattò solo di un attimo, ma notò una figura ammantata
di nero, dal volto pallidissimo, che si ergeva di fronte a delle rovine. La
figura sembrò accorgersi di lei e allungò una mano, come a volerla
afferrare. A Marian balzò il cuore nel petto. Per fortuna il paesaggio cambiò
un’ultima volta e lei e Macbeth ruzzolarono a terra.
«Ma… cosa è successo?» balbettò Marian, mentre cercava di rimettersi
in piedi con fatica.
«Hai pestato l’erba dello smarrimento. Chi la calpesta perde
l’orientamento e… be’, finisce molto fuori strada. Questo ci costringerà a
vagare fino a che non ritroveremo la giusta via» gemette Macbeth ancora a
terra, la testa stretta tra le mani.
Marian si guardò intorno, incerta.
Si trovavano in un angolo di brughiera oscuro e desolato. Il paesaggio
era grigio, la terra scura, acquitrinosa. La vegetazione era rada, composta
per lo più da arbusti secchi, grigi.
Per un attimo le sembrò di vedere ancora quella mano pallida allungarsi
verso di lei e venne percorsa da un profondo brivido. Chi era quella figura
che aveva scorto in quel turbinio di luoghi?
«Ma dove ci troviamo?» mormorò.
Macbeth si guardò a sua volta attorno, esitante.
«Non ne ho la più pallida idea.»
12

Camminavano ormai da ore, sporchi di fango e intirizziti, quando Marian


ammise ad alta voce: «Ci siamo persi, ed è tutta colpa mia».
Macbeth tirò le orecchie all’indietro e scrollò le spalle.
«N-non ci siamo persi» disse, rabbrividendo per il vento freddo che si
era alzato. «Dobbiamo solo continuare a camminare verso nord.
L’importante è lasciare questo posto il prima possibile.»
Era pallido e in uno stato di grande agitazione. Aveva provato a
mascherare la paura, ma senza successo.
Marian sentì il gelo della brughiera penetrarle ancora più a fondo nelle
ossa.
«Avanti, andiamo» disse, quasi più a se stessa che a Macbeth.
Ben presto l’aria si fece più umida e una sottile nebbia li avvolse.
Procedevano incerti, lanciando in continuazione occhiate impaurite alle
proprie spalle.
Marian aveva un brutto presentimento, come se qualcosa attendesse
proprio loro, nascosto nella nebbia. E aveva il sospetto che anche Macbeth
sentisse la stessa cosa.
Macbeth annusò l’aria, le orecchie tirate indietro. Si guardò intorno,
spaesato. «Non mi piace qui, muoviamoci.»
Dopo qualche tentennamento, decise di puntare verso est e si incamminò
a passo svelto.
Con gli stivaletti che affondavano nel fango, ogni passo costava a
Marian sempre più fatica, e ben presto rimase indietro.
«Dobbiamo fare più in fretta» la spronò Macbeth, mentre la coda fulva si
agitava nella nebbia. Era sempre più pallido e preoccupato.
«Scusami, Mac…» cominciò a dire lei, ma venne bruscamente interrotta.
Qualcosa le aveva afferrato la caviglia, facendola inciampare. Le scappò un
gemito di sorpresa quando cadde a terra. Si ritrovò a carponi, le mani e le
ginocchia nel fango. Il piede era affondato fino alla caviglia in una pozza
melmosa.
«Marian!» gridò Macbeth.
«Va tutto bene, sono solo inciampata» disse lei, provando a tirarsi su.
Ancora una volta, però, qualcosa le strinse la caviglia facendola ricadere.
La presa si fece più forte e Marian venne trascinata dentro la pozza fetida
piena di muschio marcio. Provò ad aggrapparsi a qualcosa, affondò le mani
nel fango cercando un appiglio, ma fu inutile.
Qualcuno la stava inesorabilmente trascinando giù nell’acquitrino.
L’acqua gelida adesso le arrivava alla cintola.
Macbeth la raggiunse, scivolando nel fango. «Afferrami la mano!» gridò.
Marian cercò di allungarsi verso di lui, ma di nuovo venne trascinata più
a fondo. Annaspava nell’acqua melmosa, cercando disperatamente di
ancorarsi a qualcosa.
Macbeth tentò di prenderle le mani, ma quelle, impiastricciate di fango,
continuarono a sgusciare via.
Finalmente riuscì ad afferrarla saldamente per i polsi. Marian
boccheggiava spaventata, gemendo. La presa attorno alla sua gamba si
faceva sempre più forte, così come il dolore.
Macbeth, con uno sforzo enorme, la tirò fuori dalla pozza, crollando poi
nel fango. Fu allora che Marian vide il tentacolo verde e limaccioso che le
si stava arrotolando nuovamente attorno alla gamba, fin sotto al ginocchio.
«È un grindylow!» Macbeth era impallidito. «Dobbiamo fargli perdere la
presa o ti trascinerà di nuovo nella sua pozza e ti affogherà!»
Ricominciò a tirare la ragazza verso di sé con tutte le sue forze,
affondando nel fango fino alle ginocchia, ma la potenza con cui il mostro la
tratteneva e le stritolava la gamba era impressionante. Non aveva alcuna
intenzione di lasciare andare la sua preda.
Dalla pozza melmosa emerse la creatura acquatica. Era color fango,
viscida, ricoperta di alghe marce. Aveva grandi occhi bianchi ai lati della
testa che roteavano ciechi.
A Marian si chiuse la gola. Non riuscì neppure a gridare per l’orrore.
Il grindylow tirò ancora, e le mani di Marian sgusciarono via da quelle di
Macbeth.
«Nooo!» gridò lui disperato.
Il mostro aprì la bocca, rivelando due file di denti acuminati. Marian vi
puntellò contro i piedi, cercando di spingersi verso la terra ferma.
«Ti prego, fai qualcosa!» strillò disperata.
«Proteggiti il viso!» le urlò Macbeth, mentre cercava di liberarsi dalla
morsa del fango.
Marian obbedì e si riparò con un braccio.
Sentì Macbeth gridare, poi una fiammata la sovrastò.
Durò solo un istante, ma sentì chiaramente il calore del fuoco passarle
addosso, senza però bruciarla.
La potente fiammata dorata colpì in pieno il grindylow.
La bestia cacciò un grido lugubre. Marian aprì gli occhi e vide la carne
ferita del mostro che brillava rossa sulla pelle viscida. Il tentacolo lasciò la
presa, cercando rifugio nell’acqua melmosa.
Il grindylow scomparve nell’acquitrino e attorno a loro tutto tornò a farsi
silenzioso.
Marian si girò incredula verso Macbeth: ansante, aveva le mani protese
in avanti, con i palmi bene aperti.
Le sorrise debolmente, poi crollò in ginocchio, stremato.
«Macbeth!» esclamò Marian. Ancora prigioniera del pantano, lo
raggiunse carponi.
“Ti prego, fa’ che stia bene” pensò spaventata. Se gli fosse capitato
qualcosa non si sarebbe mai perdonata.
Gli cinse le spalle con un braccio e Macbeth si appoggiò a lei,
riconoscente.
«Come stai? Cos’erano quelle fiamme?» chiese.
Ma conosceva già la risposta. Era stato lui a creare il fuoco, salvandola.
Macbeth la guardò, il viso pallido sotto al fango. «Tu stai bene?» le
chiese.
«Non pensare a me! Tu, piuttosto, come ti senti?»
Macbeth scrollò le spalle, minimizzando. Marian notò che gli tremavano
le mani.
«Sono solo un po’ stanco. Ho usato la magia di noi volpi, le fiamme
magiche… Solo che sono ancora troppo piccolo per certi incantesimi.»
Marian lo guardò commossa.
«Mi hai salvato la vita» sussurrò.
Macbeth abbozzò un sorriso. «Avresti fatto lo stesso per me.»
Marian non riuscì più a trattenersi e scoppiò in singhiozzi.
«Marian! Perché piangi? Sei ferita?» chiese lui. Era completamente
ricoperto di fango, dalla testa ai piedi, esattamente come lei. Gli occhi
dorati brillavano sotto la sporcizia e la guardavano apprensivi.
Marian lo abbracciò stretto. «Scusami, Macbeth» disse tra le lacrime.
«Sono solo una stupida. Stupida e meschina.» Marian cercò di asciugarsi le
lacrime con le mani impiastricciate di fango. «Ho avuto paura, ho pensato
che fosse tutto… troppo, per me. Per questo volevo tornare a casa. Ma se lo
avessi fatto, ti avrei lasciato qui da solo. E tu sei così piccolo! Finora sei
stato tu a guidarmi e non il contrario, sono un disastro!» disse mentre le
lacrime continuavano a scorrere. «Perdonami, Macbeth, non succederà più.
Sappi che manterrò fede alla mia parola e rimarrò con te fino a quando
avrai bisogno del mio aiuto. Non mi rimangerò la promessa fatta, e non solo
perché voglio che il Re delle Volpi esaudisca il mio desiderio, ma perché
sono tua amica, e rimarrò al tuo fianco, proprio come hai fatto tu con me
adesso. Se sono viva è solo grazie a te!»
Gli occhi di Macbeth si illuminarono e le sue labbra non riuscirono a
trattenere un sorriso.
«Faerie può essere spaventosa anche per chi ci abita, non fartene una
colpa. Anche a me capita spesso di avere paura… è per questo che volevo
qualcuno che mi accompagnasse» le disse. La abbracciò stretta anche lui.
«So che non mi lascerai da solo» sussurrò.
13

Avevano camminato a passo spedito per tutta la notte, entrambi troppo


spaventati all’idea di fermarsi a riposare in quei luoghi così inquietanti.
Macbeth sapeva che in quelle terre abitavano creature ben più pericolose di
un grindylow e Marian era del tutto intenzionata a non scoprire a chi si
riferisse.
Si erano ormai lasciati alle spalle la brughiera desolata, ma non i loro
timori. Rallentarono il passo solo quando l’alba riportò un po’ di calore e
colore al paesaggio.
«Ma quanto è grande Faerie?» sospirò Marian, sentendosi persa. Aveva i
piedi in fiamme e la gamba che era stata stritolata dal tentacolo del
grindylow indolenzita.
«È grande, ma un tempo lo era decisamente di più» mormorò Macbeth.
«In che senso prima lo era di più?»
«Nel senso che si è rimpicciolita.»
Marian non aveva mai sentito di un luogo che si rimpicciolisce. Le
dimensioni dell’Inghilterra non erano mai cambiate da quando era nata.
«Faerie è antichissima. Molto più di voi e dell’Altrove. Quando voi
umani avete iniziato a spuntare come funghi, avete cominciato a crescere,
ad avere bisogno di spazio. Vi siete allargati sempre di più e avete finito per
stiracchiare la vostra realtà sopra di noi, restringendo la nostra.»
Marian aggrottò le sopracciglia. «Non mi è del tutto chiara la faccenda»
ammise.
«Neanche a me, a dirla tutta. Questo è quello che mi ha riferito il Re
delle Volpi.»
Marian si fermò di colpo, appoggiandosi contro il tronco di un albero
ricoperto di muschio.
«Mi arrendo, Macbeth, sono sfinita» gemette. Si lasciò scivolare a terra e
il ragazzino si sedette esausto accanto a lei.
«Il peggio è passato, possiamo fermarci a riposare adesso» la rassicurò.
«Abbiamo messo abbastanza distanza tra noi e quei fetidi acquitrini.»
«Ora sai dove ci troviamo?» chiese Marian speranzosa mentre si sfilava
gli stivaletti incrostati di fango. Se non avesse pestato quella maledetta erba
sarebbero già arrivati al palazzo del Re delle Volpi.
Macbeth scosse la testa mortificato. «Sento però che stiamo andando
nella direzione giusta. “Sempre verso nord, mio caro, è questa la strada per
il palazzo del Re delle Volpi”» disse imitando una voce profonda e
pomposa. «Il mio signore dice sempre così.»
«Adesso ci farebbero davvero comodo gli stivali delle sette leghe!»
sospirò Marian, massaggiandosi i piedi. Si era alzata la gonna fino alle
ginocchia, mettendo in bella vista i mutandoni, contravvenendo a qualsiasi
regola dell’etichetta che le era stata inculcata. Se la signora Crawford
l’avesse vista in quel momento probabilmente sarebbe svenuta sul colpo.
«Accidenti, farebbero comodo davvero! Ma come fai a conoscerli?»
domandò Macbeth. «Li avete anche voi nell’Altrove?»
«Oh, be’…» fece Marian presa di contropiede. «Vengono nominati in
molte favole, ma non credevo esistessero davvero.»
Macbeth sospirò.
«Esistono, ma sono rarissimi. Sarebbe stata una bella sorpresa, se li
avessi sfilati dalla tua borsetta.»
Macbeth si stese sull’erba accanto a Marian, e iniziò a scrostarsi il fango
dalla coda. Il sole era alto ormai, ma all’ombra delle fronde l’aria era
deliziosamente fresca.
«Sono pronto per dormire adesso» annunciò il ragazzino.
«Sei sicuro che non sia pericoloso mettersi a riposare qui?»
Ora che si erano fermati, Marian si era resa conto davvero di quanto
fosse sfinita e l’idea di un buon sonno era molto seducente.
«Ma certo» biascicò Macbeth sbadigliando, «cosa potrebbe mai
accaderci?»
«Qualche creatura potrebbe provare di nuovo a trascinarmi nella sua tana
per mangiarmi, o qualcun altro potrebbe provare ancora a derubarci…»
Macbeth la tirò per la manica della giacchetta per farla stendere accanto
a lui.
«Andrà tutto bene. Vieni, adesso dormiamo.»
Marian ubbidì e si stese sull’erba soffice.
All’inizio si sforzò di rimanere sveglia, ma si addormentò quasi subito,
con la borsetta stretta al petto, scivolando in un sogno confuso e agitato.
Il paesaggio attorno a lei cambiava in continuazione, freneticamente, in
un caleidoscopio di colori che sbocciavano e poi esplodevano. Prima si
trovava ai piedi di un’enorme montagna, poi dentro un lago in cui si
specchiava il cielo stellato. Adesso invece era davanti a delle rovine. C’era
una figura che si ergeva lì in mezzo, ammantata di nero. Marian l’aveva già
vista, ma dove? Non riuscì a scorgerne il viso, né a metterlo a fuoco. La
figura alzò un braccio verso di lei, come se volesse afferrarla e…
Marian venne svegliata all’improvviso da delle grida. Si alzò di
soprassalto, la borsetta ancora stretta al petto.
«Macbeth?» chiamò spaventata.
Il ragazzino era sparito, lasciando solo una vaga conca nell’erba dove
aveva dormito.
Sentì di nuovo gridare. Qualcuno stava discutendo animatamente, e quel
qualcuno era Macbeth.
Lo individuò subito. Si trovava sul sentiero che attraversava i campi di
fiori rosa e lilla, a pochi metri da lei, e non era solo. C’era una strana figura
con lui, vestita di stracci, che spingeva un carretto variopinto pieno di nastri
e sonagli.
«Macbeth, cosa succede?» chiese Marian preoccupata quando lo
raggiunse.
Il ragazzino sembrava sul piede di guerra.
«Sto cercando di convincere questa fata a venderci qualcosa per tornare
subito a palazzo» disse spazientito.
La creatura grugnì, scrollando la testa da cui pendevano dei radi capelli
color argento, sottili come ragnatele. «Io non voglio averci niente a che fare
con voi volpi. Oh no, proprio niente. Quel buono a nulla del vostro re porta
solo guai. Io non voglio averci a che fare con le volpi.»
«Questa… è una fata?» domandò Marian sottovoce, mentre osservava la
creatura ravanare tra le cianfrusaglie colorate nel carretto.
Era più bassa di lei, le arrivava alle spalle. La pelle era di un verde
muschioso molto scuro e aveva una grossa gobba sulla schiena, come se le
avessero arrotolato il resto del corpo e glielo avessero poggiato sulle spalle.
La testa era gigantesca, così come erano giganteschi gli occhi viola che
brillavano come ametiste.
«Certo, non ne hai mai vista una?» rispose Macbeth.
«Be’, no» ammise lei.
La creatura dalla pelle spessa e coriacea non aveva niente a che spartire
con quelle piccole e graziose apparizioni con ali da farfalla che si trovavano
nei libri illustrati. Gli autori di quei disegni erano andati decisamente fuori
strada.
«Dimmi, Macbeth… le fate possono essere pericolose?» chiese cauta.
La creatura fatata oggetto di quella discussione bisbigliata li stava ancora
deliberatamente ignorando, troppo impegnata a curarsi dei propri affari per
badare a loro due.
Macbeth sembrò soppesare le parole prima di risponderle. «Sotto diversi
punti di vista, ma non fanno del male se non hanno un buon motivo. Fanno
un sacco di dispetti a voi dell’Altrove, questo sì, e ogni tanto finiscono per
divorare un umano o due, ma sono più inclini a trovare degli accordi
vantaggiosi. Il problema è che noi volpi non andiamo molto d’accordo con
le fate» spiegò imbronciato. «Mi sa che devo cambiare approccio. Se le
minacce non hanno effetto, farò ricorso al senso di solidarietà tra Sidhe.»
Macbeth si piazzò davanti al carretto, ben deciso a impedire che la fata
potesse ignorarlo sfrontatamente e proseguire per la sua strada.
«Andiamo, mia gentile e buona fata» piagnucolò. «Te l’ho detto, mi
basta solo una piuma del viaggiatore. Anche una un po’ rovinata o mezza
usata andrà benissimo. Sono sicuro che ne hai in abbondanza lì, tra i tuoi
tesori.»
Marian lanciò un’occhiata al contenuto del carretto. Non sembravano
affatto tesori, anzi, aveva tutta l’aria di essere un mucchio di inutili rifiuti.
La fata grugnì, continuando a ravanare tra la sua immondizia. Tirò fuori
un uovo azzurro pieno di squame perlacee, lo rimirò tra le dita dalle lunghe
unghie ricurve, si leccò le labbra con la lingua violacea e lo ingollò intero,
con un verso soddisfatto.
«Non vorrai lasciare un tuo compagno in difficoltà!» sbottò indignato
Macbeth davanti a quell’ostinata mancanza di attenzione nei suoi riguardi.
La fata allora scoppiò a ridere, come un vecchio cane asmatico.
«Compagno? Tu e io non siamo compagni, oh no. Oh no, piccola volpe
con il potere del fuoco, non siamo compagni.» Detto questo, ricominciò a
spingere il suo carretto scartando Macbeth.
Lui lanciò un’occhiata rassegnata a Marian. Era a corto di idee.
«Forse allora potrebbe aiutare me» propose precipitosamente lei,
piazzandosi di nuovo davanti al carro.
La fata si arrestò e spalancò i suoi enormi occhi, stupefatta.
«Per tutti i goblin, gli hobgoblin, i bugbear e i thoul! Potessi perdere la
lingua se questa non è una dell’Altrove!» La fata sputò a terra, guardando
famelica la ragazza. «Cosa ci fai qui? In compagnia di una volpe, poi. Non
vorresti venire via con me, con la cara vecchia Fréamh, eh? Ti posso portare
nella mia bella casa e…»
«Ti pregherei di non provare a divorare l’ospite del Re delle Volpi.
Sarebbe molto disdicevole da parte tua. Non so come il mio signore
potrebbe reagire a un tale affronto» disse Macbeth gonfiando il petto
stizzito.
La fata gli lanciò un’occhiata risentita.
«Bada bene, volpe, non metterti tra la Fréamh e la sua preda.»
Macbeth si parò davanti a Marian, come a volerla difendere con i suoi
sessanta pollici d’altezza scarsi.
«È un’ospite del Re delle Volpi. Non puoi sfiorarle nemmeno un
capello.»
La fata sputò di nuovo a terra. «Maledetta tu, volpe, e maledetto quel
maledetto del tuo re! Ecco perché noi non li facciamo gli affari con voi, e
questo è tutto.»
«Quindi, mia cara fata» insistette Marian, bloccando la ruota del carretto
con lo stivaletto, «dovreste vendere a me quella…» Guardò Macbeth in
cerca di aiuto.
«Piuma del viaggiatore» le suggerì.
«…piuma del viaggiatore» concluse lei.
La fata le scoccò un’occhiata diffidente, come se sentisse puzza di un
raggiro nell’aria. «Fanciulla dell’Altrove, cosa ci puoi offrire?»
«Oh be’… io…» balbettò Marian presa di contropiede. Pensò al
contenuto della borsetta. Non le era rimasto molto da scambiare e aveva il
sospetto che la fata non fosse granché interessata al libro che si era portata
dietro.
Gli occhi acquosi della creatura puntarono il collo di Marian.
«E quel bel medaglione che hai lì? Potrei separarmi da una piuma del
viaggiatore per quello, oh sì.»
«È FUORI QUESTIONE !» intervenne Macbeth gridando. «Il medaglione
non le appartiene! Non può darti qualcosa che non è suo e tu non dovresti
neanche chiederglielo.»
La fata si ritrasse offesa e rivolse a Macbeth uno sguardo feroce.
«Quanto baccano che fate voi volpi. Ci sta bene, niente collana
luccicante, allora.» Tornò a osservare ingorda Marian. «Cosa potresti
offrirci, allora? Forse l’azzurro dei tuoi occhi, ragazza? O l’oro dei tuoi
capelli? Li vedo sotto a quel sudiciume.»
Marian si portò meccanicamente una mano alla testa, turbata.
«Forse potrei chiederti gli ultimi dieci anni della tua vita, o la tua
risata…»
«Che esagerazione, è un prezzo troppo salato per una misera piuma!»
esclamò il ragazzino spazientito rizzando la coda.
«Una misera piuma che però ti serve. Attento, o potrei decidere di
prendermi quelle deliziose orecchie, volpe» minacciò la creatura fatata
scoprendo una fila di denti gialli e sghembi.
Macbeth in risposta alzò il labbro superiore e soffiò.
«Ora smettila di intrometterti. Non sto facendo affari con te, ma con la
fanciulla dell’Altrove.»
Gli enormi occhi viola della fata, grandi quanto tazzine da tè, tornarono a
posarsi bramosi su Marian, e lei non riuscì a impedirsi di rabbrividire.
«Potresti offrirmi tutti i tuoi compleanni» propose la fata.
«I miei compleanni?»
«Sì, i tuoi ricordi e la vita di quelle giornate. Dal primo fino all’ultimo»
spiegò elettrizzata la creatura, mentre si leccava le labbra gonfie con la
viscida lingua. Mentre la fata era impegnata a fantasticare su quanto si
sarebbero potute rivelare dolci e deliziose quelle giornate rubate, Macbeth
sgattaiolò verso il carretto. Allungò una mano e iniziò a frugarci dentro,
facendo segno a Marian di continuare a distrarre la fata.
La ragazza non se lo fece ripetere due volte.
«Ma perché fermarsi solo ai compleanni? Perché non aggiungere anche
tutti i Natali o le feste di Pasqua e capodanno?» trillò Marian, mentre
Macbeth continuava a ravanare tra le cianfrusaglie, spargendo in giro
coriandoli e quelle che sembravano pelli di salamandre essiccate.
La creatura non si accorse di niente. «Che splendida, splendida idea! Ci
piace, ci piace tantissimo!» esclamò compiaciuta.
Con la coda dell’occhio, Marian notò che Macbeth rovistava tra pietre,
conchiglie e uova quando alzò vittorioso il pugno in aria.
«A-ah!» gridò il ragazzino.
Tra le dita stringeva una piuma dorata.
«Ehi, quella è mia!» strillò la fata.
Macbeth starnutì sul carretto e quello per magia prese fuoco.
«Il mio tesoro! Cosa hai fatto, stupida volpe?»
«Scappa, Marian!»
Macbeth la prese per mano e si misero a correre insieme attraverso il
campo di fiori.
Al loro passaggio, nuvole rosa di petali si libravano in aria. La fata, alle
prese con il fuoco magico della volpe, gridava furiosa alle loro spalle,
lanciando maledizioni.
«L’abbiamo appena derubata, vero?» chiese conferma Marian, senza
smettere di correre.
Le grida della fata la stavano incoraggiando a impegnarsi ad andare
ancora più veloce.
«Derubata è una parola grossa, diciamo che ho preso momentaneamente
in prestito una sua proprietà!» rispose allegro Macbeth.
«Hai dato fuoco al suo carretto!»
Marian aveva come l’impressione che si fossero appena cacciati in un
bel guaio. Di nuovo.
«Avevo bisogno di un diversivo!» Macbeth, sfrecciando come un
fulmine tra i fiori, le mostrò il suo bottino. In mano stringeva saldamente
una piuma.
Marian non aveva mai visto niente del genere. L’avrebbe scambiata per
una normalissima piuma d’uccello, se solo non fosse stata d’oro zecchino.
«Spero che vada tutto bene. Ho visto il mio padrone usarla una volta, e
credo di poterlo fare anche io.»
«Ladri! Fermatevi!» latrò una voce affilata e gracchiante dietro di loro.
La fata gli stava alle calcagna. Era straordinariamente veloce per avere le
gambe così corte. Li aveva quasi raggiunti.
«Maledetta ragazza, vieni qui!»
Con un balzo la fata afferrò la gonna di Marian. Rischiarono di ruzzolare
entrambe a terra, ma la ragazza riuscì a liberarsi con uno strattone. La stoffa
si squarciò e la fata finì a terra lunga distesa.
«Bella mossa!» gridò Macbeth euforico. «L’hai messa al tappeto!»
«Non l’ho fatto apposta» gemette lei. «Mi dispiace per il suo carretto,
signora fata!» le gridò.
«Il Re delle Volpi vi pagherà il giusto prezzo, non si preoccupi!»
aggiunse il ragazzino. «Vi siamo debitori!»
La fata agitò il pugno in aria, furiosa.
«Non mi sembra entusiasta» commentò desolata Marian.
Stavano ancora correndo a perdifiato, quando Macbeth aprì le mani
chiuse a coppa attorno alla piuma d’oro.
«Aggrappati saldamente a me, mi raccomando! Non lasciarmi andare per
nessun motivo!»
Marian gli poggiò entrambe le mani sulle spalle, stringendo con forza la
giacca di velluto.
«Portaci al palazzo del Re delle Volpi!» ordinò la volpe alla piuma. Poi
vi soffiò sopra, facendola librare in aria davanti a sé. Non aspettò che
svolazzasse troppo lontano e la riafferrò subito, evitando che finisse fuori
dalla sua portata.
Appena il ragazzino l’ebbe acchiappata, Marian si sentì trascinare in un
vortice, come se il suo corpo fosse stato strizzato e compresso per poi
essere allungato di nuovo, neanche fosse stata della pastafrolla sotto a un
mattarello.
Quando i suoi piedi toccarono di nuovo terra, cadde in ginocchio
stordita.
«Ci siamo riusciti!» gridò Macbeth euforico. «Marian, guarda, siamo a
ca…» La voce del ragazzino si incrinò e l’orrore si fece strada sul suo viso.
Si aggrappò spaventato a Marian.
«Cosa c’è, Macbeth? Cosa succede?» chiese lei.
Macbeth allungò il braccio, indicando davanti a sé con la mano che
tremava.
Quando Marian si voltò, ebbe un tuffo al cuore. Di fronte a lei non c’era
il palazzo del Re delle Volpi che Macbeth le aveva descritto, ma solo delle
macerie nere.
Le stesse che aveva visto in sogno.
14

Macbeth era rimasto pietrificato a osservare in silenzio quello che rimaneva


della sua casa.
Le rovine di quello che era stato il gigantesco palazzo in cui viveva
fumavano ancora, simili a un grosso mostro addormentato.
«Oh, Macbeth… mi dispiace così tanto.»
«Io… io credevo che avrei trovato tutti qui al mio ritorno… io
pensavo…» balbettò confuso il ragazzino mentre gli occhi gli si riempivano
di lacrime.
Marian lo abbracciò e lui iniziò a singhiozzare. Tra le sue braccia
sembrava farsi sempre più piccolo, e a lei si strinse il cuore.
«Quanti giorni pensi che siano passati da quando hai lasciato il palazzo
per venire nel mio mondo?» gli chiese, ricordandosi di come il tempo
scorresse in maniera diversa a Faerie.
«Sono passati almeno cinque giorni… Le macerie fumano ancora. Non
lo so… forse è successo da poco?»
Marian non aveva la più pallida idea di quanto tempo servisse a un
incendio per estinguersi, soprattutto a Faerie. Tutto in quel regno sembrava
avere regole proprie.
«Che cosa potrebbe essere accaduto?»
Macbeth si staccò dalla sua stretta e si stropicciò la faccia, rigata di
lacrime.
«Non lo so» disse mestamente.
«Ascoltami» gli disse Marian con dolcezza poggiandogli le mani sulle
spalle, «è importante che mi racconti nel dettaglio tutto ciò che ricordi. Mi
hai detto che il tuo signore ti ha svegliato in fretta e furia per farti fuggire,
affidandoti prima questo medaglione, giusto?» chiese, sfiorando il gioiello
che aveva appeso al collo. «Pensa se ci sono altre cose che ricordi di quella
notte.» Era certa che avrebbero trovato dei dettagli importanti, se avessero
ricostruito insieme i fatti.
Macbeth annuì e abbassò le orecchie mogio.
«Stavo dormendo, non so bene che ore fossero, ma la luna era già alta
nel cielo quando il re è venuto a svegliarmi. Era pallido, sembrava
angosciato. Non lo avevo mai visto così. Mi ha detto che dovevo
andarmene immediatamente da lì, che non dovevo farmi vedere da anima
viva qui a Faerie… e che avrei dovuto fare una cosa per lui. È successo
tutto così in fretta che non ho avuto tempo per fargli domande, per
chiedergli cosa stesse succedendo. Conoscendolo, anche se avessimo avuto
tutto il tempo del mondo, non penso che mi avrebbe raccontato comunque
alcunché. È fatto così. Abbiamo lasciato il palazzo usando un passaggio
segreto, sono sicuro che nessuno ci ha visto andare via. Mi ha
accompagnato fino a una delle grandi porte per l’Altrove. È a quel punto
che mi ha messo al collo il medaglione, ordinandomi di non mostrarlo a
nessuno e di nascondermi nel tuo mondo. Mi ha garantito che sarei stato al
sicuro lì. Ha detto: “Lì non lo potrà cercare o prendere”, ma non so a chi si
riferisse. Come sai, avrei dovuto aspettare il mio signore nell’Altrove.
Sarebbe venuto a cercarmi quando le acque si fossero calmate.»
«Sai perché ti ha chiesto di nascondere il medaglione?»
Macbeth scosse la testa.
« Non so cos’abbia di tanto speciale questo medaglione. Non l’avevo
mai visto prima di quel momento, nemmeno indossato da lui.» Si strinse
nelle spalle. «Ed è strano, perché il re ha un debole per tutte le cose
luccicanti…»
Marian pensò che dovesse essere di grande valore, se il Re delle Volpi
aveva cercato di nasconderlo nell’Altrove… Ma a chi si riferiva quando
aveva detto a Macbeth che in quel mondo non lo avrebbe potuto cercare o
prendere?
Marian non sapeva darsi una risposta, ma si rese conto di essere stata
sciocca a indossarlo in bella vista sopra al vestito. Si aprì il colletto
dell’abito e lo lasciò scivolare sulla pelle. «Se il tuo re aveva paura che
qualcuno lo potesse trovare, è meglio tenerlo nascosto d’ora in poi.»
Macbeth tirò indietro le orecchie preoccupato. «Accidenti, Marian… non
ci avevo pensato! Per fortuna che il dukko non te l’ha rubato!»
«Adesso che mi ci fai pensare anche quella fata lo aveva adocchiato.
Pensi che possa crearci dei problemi?»
«Intendi la fata a cui abbiamo rubato la piuma?»
«E incendiato il carretto» precisò Marian preoccupata.
«Potrei aver combinato un bel pasticcio, in effetti» ammise il ragazzino
con un filo di voce.
«Secondo te ha modo di rintracciarci ora che siamo arrivati fin qui?»
Macbeth scosse la testa. «Non penso. Le fate sono potenti, ma per
trovarci avrebbe bisogno di sapere il nostro nome, o…»
«O di avere qualcosa di nostro?» terminò per lui Marian con un filo di
voce.
«Esatto.» Macbeth la guardò preoccupato.
Lei gli mostrò la gonna strappata.
«Ha cercato di fermarmi… Mi ha afferrata per la gonna e… la stoffa si è
squarciata.»
Rimasero in silenzio, entrambi troppo preoccupati per dar voce a ciò che
temevano sarebbe potuto succedere.
«Forse si è solo strappata» disse Macbeth dopo un attimo, sforzandosi di
essere positivo. «Forse la fata non è riuscita a prenderne un pezzo.»
Trattenendo il fiato speranzosa, Marian cercò di ricomporre i lembi della
gonna ed ebbe un tuffo al cuore: mancava un pezzo.
Guardò Macbeth spaventata e lui ricambiò lo sguardo, carico d’ansia.
«Non è detto che ci venga a cercare, però. Dovrebbe impiegare un bel
po’ di magia per farlo, e mi sembrava piuttosto vecchia e acciaccata.
Potrebbe pensare che non valiamo tutta quella fatica…»
Marian venne presa dallo sconforto. La situazione si era fatta perfino più
difficile del previsto. Avevano vagato per mezza Faerie affrontando un
pericolo dopo l’altro solo per arrivare al palazzo del Re delle Volpi e
trovarlo distrutto. Come se non bastasse, con ogni probabilità ora avevano
anche alle calcagna una fata in cerca di vendetta. E non c’era nessun re a
cui chiedere aiuto e a cui fare esaudire i propri desideri.
Forse l’unica soluzione era quella di tornare nell’Altrove e di portare
Macbeth al sicuro, insieme al medaglione, lontano da Faerie. Si sarebbe
presa cura di lui fino a che non sarebbe invecchiata. L’idea di essere la
vecchia stramba del villaggio con una volpe da compagnia le strappò
perfino un mezzo sorriso. Poi il ricordo di Carl Lawrence e del
fidanzamento fece capolino e lo stomaco le si aggrovigliò di nuovo. Scacciò
via quel pensiero. Un problema alla volta.
«Avresti dovuto vederlo, Marian. Ti sarebbe piaciuto moltissimo»
sospirò Macbeth, sconsolato, di fronte alle rovine del palazzo.
Si avvicinarono cautamente, e Marian osservò i resti da vicino. Si chinò
a raccogliere un detrito tra le macerie fumanti e si rese conto con stupore
che non era caldo come si era aspettata. Al contrario, era ghiacciato.
«Toccala…» disse a Macbeth passandogli la pietra.
Il ragazzino tirò indietro la mano stupefatto quando scoprì che era
fredda.
«Come fanno i resti a fumare ancora, se sono ghiacciati?»
«Magia» sussurrò Macbeth.
Marian lo guardò senza capire.
«Devono esser state delle fiamme magiche, diverse dalle nostre. Il fuoco
magico delle volpi non ghiaccia le cose…»
«Pensi che il re abbia dato battaglia?»
«È possibile. Mi chiedo solo se stia bene…» gemette Macbeth.
Marian si guardò attorno, mentre sentiva lo stomaco stringersi ancora.
«Io… ho sognato questo posto» confessò.
Macbeth la fissò. «Cosa vuoi dire?»
«Quando ci siamo addormentati, prima di incontrare la fata, ho sognato
questo posto. Pensavo che si trattasse appunto solo di un sogno, di un luogo
immaginario… ma appena siamo arrivati qui, ho avuto l’impressione di
conoscerlo. Come se ci fossi già stata. Capisci?»
«Non ti seguo.»
«Ho avuto quell’impressione perché è esattamente così. Sono già stata
qui!» riprese lei. «Subito dopo che ho pestato l’erba dello smarrimento, il
paesaggio attorno a noi è cambiato e ci siamo ritrovati in tantissimi posti,
ricordi?»
Macbeth annuì.
«Ecco, io credo… anzi, adesso sono sicura, di aver visto questo luogo.
Ovviamente non potevo sapere che si trattava del palazzo del Re delle
Volpi, ma adesso non ho dubbi. Siamo stati qui, Macbeth, per una frazione
di secondo, prima di finire nella brughiera desolata» spiegò in preda
all’agitazione. «E non eravamo soli. C’era qualcuno, qualcuno che mi ha
vista mentre l’erba dello smarrimento ci trasportava via. Ha allungato un
braccio verso di me, come a volermi afferrare, mentre gli siamo sfrecciati
vicino.»
«Lo hai visto in viso?» chiese Macbeth.
Marian scosse la testa.
«È successo tutto troppo in fretta, ne ho scorto solo la sagoma. Ma dalla
stazza sembrava un uomo… Era pallido, vestito di nero. È tutto quello che
ricordo.»
Quel breve incontro l’aveva così scossa da sognarlo di nuovo quando
finalmente si era addormentata. Anche ora che ne parlava non riuscì a
impedirsi di rabbrividire.
«Pensi che sia stato lui a…» Macbeth non finì la frase, limitandosi a
indicare i resti di quella che un tempo era stata casa sua.
«Temo di sì» concluse Marian.
«Dobbiamo trovare il mio re, a ogni costo. È ancora vivo, ne sono certo»
disse Macbeth.
Fu allora che a Marian venne un’idea. «Potremmo usare la piuma!»
esclamò.
«Cosa?»
«Da quel che ho capito, tu dici un posto e la piuma ti ci porta se la riesci
ad acciuffare, giusto?» chiese eccitata.
«Sì, è così.»
«Allora non pensi che potremmo chiederle di portarci nel luogo in cui si
trova adesso il Re delle Volpi?»
Il viso di Macbeth si illuminò.
«Potrebbe funzionare!» sorrise. «Marian, sei un genio! Vediamo se la
piuma è ancora utilizzabile…»
Si infilò la mano in tasca. La piuma non era più d’oro come prima del
suo utilizzo. La base era ancora intatta, ma dalla metà in su, fino alla punta,
era annerita e spelacchiata, come se avesse preso fuoco.
«Forse ci potrebbe bastare» commentò Macbeth speranzoso. «Se il Re
delle Volpi è ancora vivo e se è abbastanza vicino… la piuma ci porterà da
lui!»
Marian pensò che c’erano un po’ troppi “se” nel loro piano, ma se
esisteva anche solo una possibilità su un milione di riuscirci tanto valeva
tentare.
«Avanti, Macbeth» lo spronò lei. Gli posò entrambe le mani sulle spalle,
pronta per quel nuovo viaggio nell’ignoto.
Macbeth alzò la piuma.
«Portaci dove si trova il Re delle Volpi» sussurrò, prima di soffiarci
sopra.
Quella svolazzò pigramente in aria davanti a loro e quando Macbeth la
afferrò, Marian trattenne il fiato.
Di nuovo si sentì tirare, comprimere e allungarsi. L’aria le vorticò
attorno, fino a quando non cadde a terra, sbattendo il viso contro la pietra
umida.
Si rialzò intontita, cercando di mettere a fuoco ciò che la circondava.
«Dove… siamo?»
Era un luogo buio, umido.
«Marian, stai bene?»
Sentì la mano di Macbeth stringere la sua nell’oscurità.
«Sto bene! Credi che abbia funzionato? Non riesco a vedere niente»
chiese lei ansiosa.
«Aspetta, ci penso io.»
Macbeth trafficò accanto a lei e poco dopo si accese un piccolo fuoco
rosso. Il ragazzino teneva una piccola fiammella sul palmo della mano.
Si trovavano in una grotta. Il soffitto sopra le loro teste era arioso e
sembrava essere stato scavato nella pietra. Alle loro spalle c’erano delle
sbarre sottili, finemente lavorate, mentre il resto dell’ambiente era celato
dall’oscurità.
«Siamo in una prigione» mormorò Marian.
«Macbeth?»
Marian e Macbeth sobbalzarono.
Dal fondo della cella qualcosa si mosse.
Marian fece un passo indietro, nascondendo la piccola volpe dietro di lei.
Dal buio emerse una figura.
«Che diavolo ci fai qui? E questa chi è?»
Macbeth emise un gemito strozzato e Marian capì immediatamente di
trovarsi al cospetto del Re delle Volpi.
15

«Aleister!» gridò Macbeth.


Il ragazzino corse verso il Re delle Volpi, travolgendolo. Gli saltò
addosso, gridando di felicità. «Sei vivo! Sei vivo! Lo sapevo che non potevi
essere morto!»
Marian rimase a osservare la scena in disparte.
«Cosa diavolo ci fai qui, Macbeth? Ti avevo detto di stare nascosto
nell’Altrove!»
«Lo so, ma ero troppo preoccupato per te. Marian mi ha aiutato a
trovarti. Ma, sappi, non è stato affatto facile arrivare fino a qui. Mi sono
successe un mucchio di cose… piuttosto orribili, a dire la verità! Prima
hanno provato a spararmi perché ho mangiato delle galline – si muore
davvero di fame nell’Altrove, proprio come mi avevi detto – poi c’è stata
l’erba dello smarrimento, e gli acquitrini! Sai che sono riuscito a produrre le
fiamme? Delle fiamme vere, non come le stupide scintille che facevo prima.
Non come le tue, ma quasi. Ah, ho anche incontrato una fata scorbutica…»
Tirò un attimo il fiato guardandosi intorno. «Ma dove siamo esattamente?
Perché ti trovi in questa grotta puzzolente?»
Marian sentì il re ridere sommessamente.
«Calma, una cosa per volta. Piuttosto dimmi: perché sei così sporco? Ti
sei di nuovo rotolato nel fango?»
La cella si illuminò all’improvviso. Il signore di Macbeth, con un
semplice gesto della mano, aveva creato delle fiammelle che fluttuavano
pigre nell’aria e che adesso rischiaravano quella che, senza ombra di
dubbio, era una prigione.
Marian fissò il Re delle Volpi, senza parole. Si era immaginata un
vecchio saggio e incartapecorito, con una lunga barba bianca, orecchie
pelose come quelle di Macbeth e una coda maestosa, ma… alla luce dei
piccoli fuochi, si trovò al cospetto di un giovane non tanto più vecchio di
lei. Sfoggiava una sgargiante giacca rossa, i cui ricami d’oro sembravano
risplendere al bagliore delle fiamme. A eccezione di quella giacca
eccentrica, il re era vestito in maniera semplice, con pantaloni e stivali
decisamente poco magici, non tanto diversi da quelli che si portavano
nell’Altrove. I capelli, dello stesso rosso selvatico di Macbeth, gli
arrivavano alle spalle e tra essi Marian scorse brillare un orecchino con un
gioiello color sangue. Aveva tutta l’aria di essere un enorme rubino.
Aleister scostò i ciuffi che gli coprivano la fronte, rivelando un viso
lungo e affilato, e guardò Marian a sua volta, perplesso. Lei abbassò lo
sguardo imbarazzata.
Gli occhi verdi del re la studiarono a fondo.
«Macbeth… perché questa ragazza ha il mio medaglione al collo?»
Marian trasalì, portandosi una mano al petto. Come aveva fatto a
vederlo? Lo teneva ben nascosto sotto al vestito!
«Perché altrimenti si sarebbe ubriacata con la materia dei sogni. Viene
dall’Altrove» gli spiegò il ragazzino.
Il re spalancò gli occhi. «Macbeth!» tuonò, per poi interrompersi quando
notò che lui si era fatto piccolo piccolo, tirando le orecchie indietro. Sospirò
e scosse la testa fulva. Poi, con grande stupore di Marian, si rivolse a lei:
«Sappiamo tutti e due chi sono io. La domanda è… chi sei tu?».
«Marian… vostra grazia» rispose lei. Non aveva idea di quale fosse il
modo più consono di rivolgersi a un sovrano di Faerie. Accennò, per
sicurezza, anche una piccola riverenza.
Lui la guardò alzando un sopracciglio, scettico.
«Cosa stai facendo?»
Marian si ritirò su goffamente.
«Oh be’, scusatemi, io…»
«La smetti di farfugliare? Non capisco niente di quello che dici…»
Marian arrossì, mortificata.
«Aleister!» lo interruppe Macbeth, appendendosi al suo braccio. «Perché
mi hai fatto scappare con il medaglione? Di cosa si tratta? Perché non mi
hai raccontato cosa stava succedendo?»
Il Re delle Volpi alzò gli occhi al cielo e sospirò.
«È una storia lunga. Diciamo che ho inavvertitamente offeso qualcuno di
molto potente e adesso ho bisogno di starmene un po’ in disparte, tutto qui.
E questo qualcuno non deve in alcun modo mettere le mani sul
medaglione» disse, puntando il dito contro Marian. «Per questo ti ho
mandato nell’Altrove e ti ho detto di tenerlo al sicuro. E quando ti ho
spiegato di tenerlo nascosto, non intendevo certo: “Mollalo alla prima
ragazza dell’Altrove che incontri”.»
Macbeth fece un sorriso affabile a trentadue denti. «Ma di Marian ci si
può fidare! Mi ha aiutato a ritrovarti. È onestissima, garantisco io per lei!»
«È per questo che il palazzo è stato distrutto? Cercavano il medaglione?»
chiese Marian, intromettendosi nel discorso.
Aleister si girò a guardarla. Sembrava sorpreso.
Marian non sapeva dire se fosse per la notizia o per l’audacia che aveva
dimostrato nel rivolgergli una domanda così diretta. Questa volta Marian si
impegnò a non abbassare lo sguardo.
«Ha distrutto il mio palazzo?»
Macbeth annuì con aria mesta. «È un cumulo di macerie.»
Il Re delle Volpi emise un grugnito, infastidito. «Questa è una bella
scocciatura. Mi costerà un bel po’ di magia tirarlo di nuovo su.» Sospirò
una seconda volta, platealmente, scostandosi di nuovo dal viso i pesanti
ciuffi. «Ma è una faccenda troppo complicata e adesso, in tutta sincerità,
non ho tempo o voglia di occuparmene.»
Marian era confusa. Non era esattamente la risposta che si aspettava.
«Non avete… tempo?»
Aleister le agitò una mano sotto al naso. Sembrava infastidito e annoiato.
«Già, non ho tempo da perdere con le vostre sciocchezze… Tutte le mie
attenzioni al momento sono per Leah.»
Marian e Macbeth si guardarono confusi.
«E chi è Leah?» chiesero in coro.
Aleister sospirò frustrato, come se gli avessero appena rivolto la
domanda più stupida del mondo.
«È la nostra ospite, nonché la creatura più affascinante e meravigliosa
che abbia mai benedetto tutti i mondi con la sua presenza. In questo
momento ci troviamo nel suo palazzo.»
Gli occhi del re vennero attraversati da una luce violacea e brillarono in
maniera inquietante, mentre sul viso aleggiava un sorriso forzato, come se
qualcuno gli stesse tendendo le guance per costringerlo ad apparire felice.
«Oh, oh» disse Macbeth guardando Marian preoccupato.
«Cosa succede?» chiese lei.
«Credo che il mio signore sia stato stregato» sussurrò funereo.
«Stregato, dici?»
«Sembra proprio di sì, guarda i suoi occhi! È vero che è sempre stato un
po’ strano… ma adesso lo è veramente troppo. E normalmente non
accetterebbe mai di stare rinchiuso in una cella così. È troppo viziato. Gli
piacciono i cuscini e i letti comodi. Inoltre mi sembra davvero un po’
troppo preso da questa Leah. Al mio signore le persone non piacciono un
granché.»
Marian notò che in effetti gli occhi del Re delle Volpi non erano più di
quel bel verde brillante e limpido.
«Non ci sono dubbi, è stato stregato» sentenziò Macbeth.
«E cosa facciamo adesso?» chiese Marian. Il Re delle Volpi avrebbe
dovuto aiutarli a uscire dai pasticci, ma ora la situazione si era
inaspettatamente ribaltata.
«Ottima domanda… Non ne ho la più pallida idea.»
Macbeth ricominciò a tirare il suo signore per la manica della giacca e a
tempestarlo di mille domande.
«Aleister, cos’è successo? Come sei finito qui? Hai mangiato o bevuto
qualcosa di strano?»
Lui si scrollò Macbeth di dosso, stizzito. «Dovevo trovare un riparo e
nascondermi, te l’ho detto, e lei mi ha invitato a rimanere. Adesso non mi
scocciate, devo farmi bello per Leah. Potrebbe tornare da un momento
all’altro.»
«Leah è la padrona di casa? Parlatemi di più di voi…» chiese Marian,
decisa a portare avanti l’interrogatorio iniziato da Macbeth.
Aleister sorrise beato, il bel viso illuminato di follia. «Leah… non è il
più bel nome che tu abbia mai udito? Senti come si scioglie sulla lingua?
Leah… Potrei parlarti di lei per ore. È la più squisita tra le creature fatate»
disse sognante.
In effetti il Re delle Volpi aveva cambiato atteggiamento in maniera così
repentina che i loro sospetti ebbero conferma. Lo sguardo beffardo era
sparito, lasciando posto a un sorriso vacuo. Sembrava ubriaco. Ubriaco
d’amore.
«Questa Leah è una fata?» chiese Marian.
Aleister storse il naso. «Ma certo che no! È una leannán shee, la più
meravigliosa fra tutte.»
Macbeth le rivolse uno sguardo preoccupato. «Siamo nei guai.»
«È una creatura molto pericolosa?» bisbigliò Marian.
Macbeth fece una smorfia. «Di solito ammalia i mortali per poi nutrirsi
di loro. Chi si innamora di lei finisce per avvizzire e morire. È molto strano
che il mio signore ne sia caduto vittima… Su una creatura come Aleister il
potere della leannán shee non dovrebbe avere effetto! Di sicuro è riuscita a
stregarlo con qualche inganno.»
«Ma perché lo avrebbe fatto?» chiese Marian. «Se è solita nutrirsi di
mortali, perché incantare il Re delle Volpi?»
Macbeth alzò le spalle. «Forse si annoiava. Qui a Faerie un sacco di cose
si fanno o succedono per noia.»
Aleister sospirò di nuovo, in maniera teatrale. Si accasciò contro le
sbarre della cella poggiandovi la fronte e iniziò a lamentarsi. «Perché non
mi permette di starle vicino? Vuole giocare con il mio povero cuore,
confinandomi quaggiù. Ma certo… potrei dedicarle qualche sonetto! Oh,
Leah, ascoltami!» gridò arrampicandosi alle sbarre della cella. «Amore è un
faro per sempre fisso che guarda alle tempeste e mai ne è scosso; è la stella
polare per ogni nave errante, ignota nel valore, anche se l’altezza ne sia
presa…»
Marian riconobbe subito le parole che il ragazzo stava recitando. «Ma
questo è Shakespeare!» esclamò.
Aleister, ancora aggrappato alle sbarre, grugnì. «Oh sì… Shakespeare»
disse con una smorfia, quasi sputando il nome del poeta. «Ho suggerito
parecchie storie a quell’ingrato, irriconoscente mortale. E pensi che mi
abbia mai ringraziato? Ovviamente no. Non mi ha nemmeno citato, neanche
una volta! Di chi è che parla poi in quella maledetta storia? Di Oberon e
Titania… Persino quell’inutile petulante hobgoblin di Puck ha una parte. Di
me non fa mai parola, eppure gli ho suggerito tutte le sue idee più
brillanti…» Gli occhi gli ripresero a brillare, animati dalla sinistra luce
violacea. «Oh, Leah, ascoltami, ti prego!» esclamò riprendendo a decantare
a pieni polmoni. «Che le mie parole d’amore giungano alle tue dolci
orecchie! L’amore non muta con le sue brevi ore e settimane, ma resiste fino
all’orlo del Giudizio. Se questo è errore e mi sia provato, io non ho mai
scritto, e nessuno ha mai amato!»
Marian guardò sbalordita Macbeth, realizzando solo in quel momento
che quel piccolo Macbeth lì poteva essere quel Macbeth là di Shakespeare.
«Questa poi!» mormorò incredula.
Il Re delle Volpi adesso allungava languido le braccia come a voler
afferrare e abbracciare l’aria.
«Oh, Leah, Leah! Ti prego! Odi il mio canto disperato!» piagnucolava.
Era così patetico che Marian e Macbeth distolsero lo sguardo
imbarazzati.
«Di solito non è così» si scusò Macbeth.
«Quando siamo arrivati però mi è sembrato più… normale» azzardò
Marian, sebbene gli fosse parso comunque abbastanza bizzarro e brusco.
«È troppo potente per essere totalmente soggiogato dall’incantesimo. Il
suo vero io ogni tanto riaffiora…» ragionò Macbeth. «Dobbiamo trovare un
modo per liberarlo e spezzare il sortilegio.»
«E come?»
Macbeth la guardò con un’espressione afflitta. «Temo che dovremo
convincere questa Leah a rinunciare a lui e a liberarlo. Dovrà essere lei a
farlo, perché tu non hai poteri e io non ne ho abbastanza per spezzare un
incantesimo del genere.»
«Si tratta di una magia molto forte?»
«Per quanto possa essere forte questa Leah è pur sempre una leannán
shee. Non può granché contro il Re delle Volpi… Per farti un esempio che
tu possa capire meglio, è come paragonare una sottile pioggerella a una
tempesta.»
Marian lanciò un’occhiata ad Aleister che si struggeva d’amore,
continuando la sua terribile pantomima appeso come un animale alle sbarre
della cella. Le scimmie che aveva visto allo zoo di Londra avevano più
dignità e decoro. Il Re delle Volpi in quel momento non aveva l’aria
particolarmente potente… o intelligente. Decise comunque di credere a
Macbeth sulla parola.
«Lo avrà stregato usando qualche trucchetto» continuò Macbeth. «Di
sicuro gli avrà fatto bere qualcosa con l’inganno. In uno scontro diretto non
ci sarebbe mai riuscita.»
«Quindi dovrà essere lei a spezzare il sortilegio, capisco. Ma come la
convinciamo?»
Gli occhi gialli di Macbeth brillarono furbi. «Ricordi cosa ti ho detto
delle creature di Faerie? Abbiamo un debole per gli scambi e gli accordi. Se
spezzerà l’incantesimo di Aleister, tu potresti offrirle qualcosa in cambio!»
«Ma certo!» disse Marian illuminandosi. «Come abbiamo fatto con il
dukko! Potrei provare a offrirle qualcosa che ho portato con me
dall’Altrove e…»
Marian si accorse solo in quel momento di essere a mani vuote.
«La mia borsa! Devo averla lasciata alle rovine del palazzo!» disse
sconfortata. «Senza quella non so proprio cosa potrei offrire alla leannán
shee…»
«Sono sicuro che troverai qualcosa di interessante lo stesso!» la rassicurò
Macbeth. «Le leannán shee visitano spesso l’Altrove perché sono
affascinate dalle storie di voi mortali. Di solito le loro prede predilette sono
scrittori e poeti. Li ispirano per poi nutrirsi delle loro opere. Non è che hai
qualche bella storia da offrirle?»
Marian stava per rispondergli, quando la terra sotto ai loro piedi iniziò a
tremare.
Qualcosa di enorme e di molto pesante si stava avvicinando.
«Leah?» chiamò Aleister speranzoso.
Davanti alla cella comparve una creatura gigantesca.
Aveva l’aspetto di un albero tozzo e nodoso. Al centro del tronco, in
mezzo alla corteccia, c’era un viso dalla bocca larga, con un naso rigonfio e
spugnoso e due piccoli occhi neri che brillavano alla luce delle fiamme del
Re delle Volpi.
«È uno spirito minore, un protettore dei boschi…» sussurrò Macbeth «…
credo che sia un servo della leannán shee. Stai tranquilla, l’importante è non
farlo arrabbiare.»
«N-non ne ho alcuna intenzione» balbettò lei.
«La mia amata mi vuole finalmente vedere?» mugolò Aleister
supplichevole, alzandosi in punta di piedi per cercare di vedere se Leah lo
attendesse nascosta dietro l’enorme albero.
«Sì, sì, aspetta» disse quello, agitando spazientito le fronde in cima alla
testa, mentre armeggiava con un enorme cerchio di ferro pieno di chiavi
delle dimensioni più disparate.
«E voi animaletti da dove spuntate?» sbottò la creatura con voce
profonda, quando puntò i suoi occhietti su Marian e Macbeth, che stavano
facendo del loro meglio per confondersi con la parete di roccia.
«Siamo arrivati in volo, leggeri come una piuma!» disse Macbeth con
innocenza.
L’enorme albero li guardò sospettoso, per un tempo infinitamente lungo.
«Sia così o non sia così, non mi importa. La mia signora vuole la volpe e
io le porto la volpe.»
Aprì la cella e spinse fuori un Aleister particolarmente entusiasta.
«Avete sentito tutti? Questa sì che è una bella notizia. Mi vuole!»
gongolò lui contento.
«Presto, Marian!» bisbigliò Macbeth, tirandosi dietro la ragazza e
sgattaiolando fuori dalla cella prima che le sbarre si potessero richiudere.
16

La leannán shee attendeva seduta su un elaborato trono d’argento. Marian e


Macbeth avevano seguito la creatura albero e Aleister lungo un’intricata
rete di gallerie e scale, fino a sbucare all’ingresso di un salone fatiscente, il
più grande che Marian avesse mai visto.
Superarono le gigantesche colonne all’ingresso, soffocate dalla
vegetazione. Una grande sezione del soffitto era crollata, scoprendo il cielo
stellato. La luna era alta nel cielo e Marian si chiese per quanto tempo
fossero rimasti nell’oscurità della cella. Ogni suo tentativo nel cercare di
comprendere lo scorrere del tempo a Faerie si era rivelato del tutto inutile.
Il pavimento della sala era allagato e qua e là vi galleggiavano ninfee.
«Leah!» gridò Aleister, sfoderando il suo sorriso più affascinante.
Superò l’enorme albero senziente e corse verso la sua amata.
La leannán shee sedeva come una regina sul suo scranno, la pelle che
riluceva come madreperla sotto ai raggi di luna. Le sue vesti erano così
sbiadite da aver perso ogni traccia del loro colore originario, i capelli le
svolazzavano attorno senza peso, quasi come se fluttuassero sott’acqua. Era
un’apparizione bellissima, quasi impalpabile.
«Aleister, caro… hai degli ospiti con te oggi?»
La sua voce era melliflua. Eppure Marian capì subito che dietro quel
viso perfetto si celava una mostruosità insidiosa, come la più bella delle
piante velenose.
«Siamo qui per chiederti di liberare il Re delle Volpi» disse la ragazza,
facendosi avanti.
La leannán shee scoppiò in una risata cristallina.
«Liberarlo? E perché mai dovrei rinunciare al mio nuovo passatempo
preferito? Vieni qui, mio caro. Prendi posto ai miei piedi.»
Aleister non se lo fece ripetere due volte. Marian e Macbeth cercarono di
trattenerlo.
«Aleister, cerca di collaborare!» disse Macbeth a denti stretti,
puntellandosi contro il petto del suo signore.
Anche Marian cercò di fermarlo, aggrappandosi al suo braccio.
Leah li stava osservando divertita, quando proruppe in un grido eccitato.
«Ma tu sei una mortale!» esclamò riferendosi a Marian. «Tutto ciò è
decisamente interessante. Cos’è dunque che vorresti da me?»
«Devi liberare il Re delle Volpi dal tuo incantesimo» disse lei imitando
l’unico tono autoritario che conosceva: quello prepotente della signora
Crawford.
La creatura fatata sorrise, osservandola divertita dall’alto del suo trono.
«Perché mai dovrei ascoltare la tua insolente richiesta e separarmi dal
mio nuovo giocattolo?»
«Perché sì» ribatté Marian.
«Bene… lasciami pensare…» disse Leah, senza smettere di sorridere. I
capelli neri si alzavano in spire attorno a lei, come serpenti. «No. Non
intendo farlo» dichiarò poi. Tornò a rivolgersi ad Aleister, spalancando le
braccia nella sua direzione: «Oh, mia piccola sciocca volpe, vieni qui dalla
tua padrona».
«Svegliati! Siete o non siete un re? Volete farvi comandare a bacchetta?»
lo incalzò Marian, trattenendolo per la giacca.
«Cerca di resisterle, Aleister!» lo pregò Macbeth.
Lui si immobilizzò. Per un istante i suoi occhi annebbiati persero
l’ombra viola che li attraversava e tornarono di un verde brillante.
«Che cos… Macbeth?» esclamò, guardando confuso il ragazzino.
La leannán shee schioccò le dita e il guizzo violaceo tornò,
impadronendosi di nuovo di lui. Aleister spinse via Marian e Macbeth,
facendoli ruzzolare a terra, e avanzò con le gambe rigide verso Leah,
inchinandosi al suo cospetto.
«Servo tuo, mia signora» boccheggiò.
Leah rivolse a Macbeth e a Marian un feroce sguardo di vittoria.
«Non ho alcuna intenzione di lasciarlo andare… e, come potete vedere
anche voi, neanche Aleister vuole separarsi dalla sua padrona.»
Allungò una mano verso il Re delle Volpi, che si lasciò accarezzare i
capelli come un gatto.
«Oh, ma insomma, ne ho abbastanza!» esplose Marian.
Si tirò su dall’acqua dove il ragazzo l’aveva spinta e assunse un’aria
oltraggiata. Non sarebbe rimasta lì ferma a guardare.
Mise da parte la vecchia Marian, quella che amava mimetizzarsi con la
carta da parati per passare inosservata, per permettere a quella nuova e
decisamente più agguerrita di prendere il sopravvento.
«Non ho fatto tutta questa strada per avere a che fare con un
bamboccione simile. I re dalle mie parti non si comportano in questo modo!
Un po’ di contegno, signor Aleister! E tu» disse puntando un dito
accusatorio verso la bellissima creatura, «vedi di liberarlo subito.»
La leannán shee passò le lunghe dita di perla tra i capelli rossi del re.
«Se lo lascio andare, cosa mi darai in cambio?»
La sua sarebbe potuta passare come una domanda innocente se solo
fosse riuscita a nascondere meglio quella smorfia affamata.
Marian capì che era il momento giusto. Doveva proporle qualcosa di
allettante, che potesse stuzzicare la sua brama. Doveva improvvisare, e in
fretta.
«Tu ami l’Altrove, giusto?» esordì Marian, cercando di prendere tempo.
«È così.» La leannán shee accarezzava il viso di Aleister, le lunghe
unghie color marmo che si avvicinavano pericolosamente agli occhi del Re
delle Volpi.
In quel momento, Marian fu colta da un colpo di genio.
«E ami le avventure… per questo continui a visitarlo.»
Il bellissimo viso della leannán shee si accese di interesse.
Marian capì di aver fatto centro. Aveva appena pronunciato le parole
magiche.
Leah spinse via Aleister, buttandolo giù dai gradini di pietra su cui si
ergeva il suo scranno, e facendolo finire dritto in acqua. «Ti ascolto» disse.
Marian lanciò un’occhiata ad Aleister, che era pateticamente riemerso
dall’acqua con un sorriso beato stampato in faccia.
«Mi raccomando, sii precisa quando formuli il patto. Non lasciarle
scappatoie» sussurrò Macbeth agitando nervosamente la coda.
Marian annuì, si schiarì la voce e si rivolse direttamente alla leannán
shee. Se avesse sbagliato qualcosa, probabilmente avrebbe passato il resto
dei suoi giorni a struggersi d’amore per Leah, facendo compagnia al Re
delle Volpi… eppure si sentiva stranamente calma e sicura di sé. Tenne la
testa alta e parlò: «Se libererai dalla schiavitù e dal tuo incantesimo
d’amore Aleister, conosciuto anche come il Re delle Volpi, io in cambio ti
donerò tutte le avventure che ho vissuto nell’Altrove…». Marian rivolse un
sorriso fugace al ragazzino, aggiungendo: «Tutte quelle che ho vissuto
prima del mio incontro con il giovane Macbeth qui presente. Sai, non vorrei
ritrovarmi qui senza sapere come ci sono arrivata».
Macbeth, che aveva trattenuto il fiato fino a quel momento, sembrò
sollevato.
«Accetto!» disse Leah, senza lasciare alcuna possibilità a Marian di
aggiungere altro.
La creatura fatata si alzò dal suo trono e scese gli scalini con piccoli
passi aggraziati, come se non avesse peso. Ogni suo movimento sembrava
un passo di danza.
«Ora, fanciulla dell’Altrove, preparati… Le tue avventure saranno mie.»
Posò le mani sul viso di Marian. Erano morbide come seta e fredde come il
marmo.
«Aspetta» disse Marian, indietreggiando di un passo.
«Che c’è?» le chiese contrariata Leah, allungando le mani verso di lei e
guardandola ingorda.
Marian indicò il Re delle Volpi, ancora seduto nell’acqua. Stava
strappando i petali di una ninfea, borbottando “m’ama non m’ama”.
«Prima liberalo dal tuo incantesimo.»
La leannán shee sorrise. Le bastò schioccare nuovamente le dita, e il Re
delle Volpi venne liberato. Gli occhi riacquistarono il loro colore originario.
Un fumo violaceo si alzò dal suo corpo, e il ragazzo se lo scrollò di dosso,
come fa un cane bagnato con l’acqua.
«Ma cosa diavolo…?» esclamò confuso mentre si rialzava. «Perché sono
tutto bagnato?»
Barcollò, ma Macbeth lo sorresse.
«Marian, ha funzionato!» esultò il ragazzino felice.
«Macbeth…» disse Aleister, come se si fosse ricordato solo in quel
momento della sua presenza. Alzò la testa di scatto, puntando un dito contro
Marian: «…e la ragazza dell’Altrove!».
Marian si concesse un sorriso fugace, poi le mani della leannán shee
calarono sul suo viso.
«Ora guarda solo me…» la richiamò lei, agganciando gli occhi ai suoi.
Da vicino erano così pallidi e sbiaditi da sembrare bianchi, ciechi. I capelli
della creatura le accarezzarono il viso, iniziando poi ad avvolgersi intorno a
entrambe.
Di nuovo, Marian sentì quelle mani fredde accarezzarle il viso. Quando
il volto perfetto della creatura fu troppo vicino al suo, chiuse gli occhi
rabbrividendo. Sentì le guance e gli occhi pizzicarle, il viso scaldarsi…
La leannán shee gridò contrariata. Si allontanò di colpo, spingendola via
con rabbia.
«Perché non funziona?» tuonò mentre si fissava i palmi delle mani.
«Perché non ho le tue avventure, qui tra le mie dita? Perché non esce niente
da te?»
Marian si strinse nelle spalle, con aria innocente.
«Immagino che per donarti le mie avventure io debba averne vissuta
almeno una. Ma si dà il caso che tu abbia davanti la persona più noiosa di
tutta l’Inghilterra.»
I lineamenti perfetti di Leah si sciolsero in una maschera grottesca di
odio.
«Hai osato ingannarmi!»
«Ti ho proposto una cosa che hai liberamente accettato» disse Marian
con aria innocente.
La leannán shee si librò in volo, i capelli e le vesti sbiadite che
svolazzavano come in preda a una tempesta. Pallida di rabbia, il viso era
distorto in una smorfia spaventosa.
«Che la cattiva sorte ti possa seguire notte e giorno, ragazza
dell’Altrove, maledetta imbrogliona. Pensi di aver avuto una grande
pensata, non è vero? Con quella testa piena di idee ingarbugliate che hai,
rimarrai incastrata negli arbusti appena uscirai dal mio castello!» gridò.
Marian, improvvisamente, venne colpita da una fitta alle tempie.
Si massaggiò, cercando di alleviare il dolore, e tra i capelli raccolti sentì
due bozzi doloranti ai lati del cranio. Sembravano bernoccoli.
Aleister si frappose tra lei e la leannán shee.
«Come hai osato incantarmi?» disse a denti stretti.
Leah gli sorrise, colpevole. Gli fluttuò accanto, accarezzandogli i capelli
rossi. «Mi sono sempre chiesta come sarebbe stato averti in ginocchio, a
pregare per me.»
Aleister le scacciò la mano in malo modo. Era furioso.
«Ringrazia che ora ho ben altro a cui pensare, invece di fartela pagare»
disse gelido. Si voltò verso Macbeth e poi Marian. «Voi due, seguitemi. Ce
ne andiamo.»
Il Re delle Volpi li superò, aprendo la strada. Macbeth trotterellò accanto
a Marian.
«Stai bene?» le sussurrò.
Lei si grattò la testa ancora dolorante. Le dita sfiorarono di nuovo i
bernoccoli. Sembravano essere cresciuti.
«Ho un po’ di mal di testa…»
Prima di lasciare l’enorme sala in rovina, Marian si voltò a guardare la
leannán shee un’ultima volta. La creatura era tornata a sedere sul suo
scranno argentato e sorrideva tronfia, fissandola a sua volta con una smorfia
soddisfatta sul viso.
La ragazza scacciò il senso di inquietudine che le stringeva lo stomaco,
poi affrettò il passo dietro al Re delle Volpi. Aveva tutta l’intenzione di
lasciarsi quel posto alle spalle il prima possibile.
Il palazzo era un vero e proprio labirinto, un continuo susseguirsi di sale
diroccate, rampe di scale di marmo invase dalla vegetazione e piante
rampicanti che si estendevano negli ambienti come delle vene. Corridoi e
camere erano parzialmente sommersi, invasi dalle ninfee.
Nonostante quel dedalo intricato, il re avanzava a passo sicuro, e Marian
non poté fare altro che fidarsi del suo senso dell’orientamento. Nel
frattempo il mal di testa si stava facendo sempre più forte.
«Ci siamo, finalmente» borbottò il Re delle Volpi. Scostò una fitta coltre
di rampicanti che avevano ricoperto una parete, rivelando una crepa nel
muro che li avrebbe condotti fuori dal palazzo della leannán shee.
Aleister andò per primo, seguito da Macbeth. Quando toccò a Marian
attraversare il passaggio, però, rimase incastrata, come se qualcosa che
aveva in testa si fosse impigliato.
«Ma cosa…» balbettò sorpresa, mentre i rampicanti la trattenevano,
facendole piegare il capo all’indietro. Per quanto si sforzasse, non riusciva a
muovere un passo.
Era incastrata.
«Aiuto!» esclamò, annaspando con le mani protese davanti a sé.
Aleister scoppiò in una risata.
«Ma guarda un po’… quello che ha detto Leah si è avverato» commentò,
sporgendosi sopra di lei con un sorrisetto sornione. Aveva tutta l’aria di
divertirsi un mondo.
Marian sentì le guance andarle a fuoco. «Non riesco a passare, sono
incastrata.»
«Oh be’… questo è quello che succede quando voi dell’Altrove pensate
di essere più furbi di noi Sidhe. Avanti, reggiti a me» disse facendole
poggiare le mani sulle sue spalle.
Marian ubbidì, aggrappandosi alla sua giacca, la testa ancora piegata
all’indietro.
Sentì il Re delle Volpi armeggiare sopra di lei. Quando finalmente fu
libera e riuscì a sollevare la testa, la sentì curiosamente più pesante di
quanto ricordasse.
«Mi sento… strana» disse, mentre seguiva il giovane re lasciandosi le
rovine del palazzo alle spalle.
Aleister rise di nuovo, coprendosi le labbra con la mano per cercare di
darsi un contegno.
Marian lo guardò senza capire, ma da come Macbeth la stava fissando
intuì che in effetti qualcosa non andava.
«Ho qualcosa di strano in faccia?» gli chiese tastandosi il viso. Il naso, la
bocca e tutto il resto sembravano essere al loro posto, eppure Macbeth
continuava a fissarla in quel modo.
Aleister evitò il suo sguardo, cercando di trattenere le risate.
«Oh, Marian…» disse il ragazzino con una smorfia «…tranquilla, vedrai
che troveremo un modo per levarle!»
Marian si rese conto solo in quel momento che Macbeth non stava
fissando il suo viso, bensì la sua testa. Sollevò entrambe le mani tremanti e
tastò quelli che sembravano essere dei rami duri e lisci come ossa.
Poco distante scorse un piccolo specchio d’acqua e vi si avvicinò con il
cuore in gola. Quando vide il suo riflesso nello stagno rimase senza fiato
per lo sgomento.
Ai lati della testa, le erano cresciute delle enormi corna da cervo.
17

Marian stava ancora gemendo in preda allo sconforto, quando Aleister la


superò sospirando. Un sospiro rumoroso e plateale.
«Macbeth, falla smettere. Sta diventando noiosa.»
Marian balzò in piedi come una molla. «Noiosa? Vorrei vedere come
reagireste voi al posto mio!»
Aleister roteò gli occhi al cielo. «Ti sono solo cresciute delle corna da
cervo, che sarà mai?»
Marian rimase così allibita dall’assurdità della risposta che non riuscì a
ribattere. Le sembrava impossibile che “corna da cervo” e “che sarà mai?”
potessero stare nella stessa frase.
Macbeth arrivò in suo aiuto, cercando di sussurrarle parole di conforto.
«Marian, vedrai che troviamo una soluzione, non ti preoccupare.»
«Grazie, Macbeth» gli rispose lei, lanciando un’occhiataccia ad Aleister,
che se ne stava impalato e a braccia conserte a sbuffare accanto a loro.
«Avete finito? Non so voi, ma io vorrei andarmene da qui in fretta.»
Marian era furente. Il Re delle Volpi non era affatto come se lo era
immaginato. Non c’era traccia di quella figura buona e gentile, addirittura
nobile, che Macbeth le aveva dipinto in tutti i suoi racconti. Era odioso
anche senza essere stato stregato e ogni secondo che passava sentiva di
detestarlo di più.
Si studiò ancora le corna nel riflesso dello stagno. Erano bianche e lisce,
dure come la pietra. Provò a tirarne una ma gemette per il dolore.
«Dove andiamo?» chiese con un sospiro.
«Dove andiamo io e Macbeth, vorrai dire…» la corresse Aleister.
Dovresti smettila di stuzzicarle, sai? Così ti farai solo venire un gran mal di
testa.»
Marian lo fissò incredula. «Avete intenzione di lasciarmi qui? Nel bel
mezzo del nulla?»
«Aleister, Marian davvero mi ha aiutat…» provò a dire Macbeth, ma lui
alzò una mano, facendolo tacere all’istante.
«Si può sapere cosa vi prende?» sbottò severo. «Tu» disse puntando un
indice accusatorio contro Macbeth, «tu hai deliberatamente disubbidito ai
miei ordini.»
«Ma io…» provò a giustificarsi il ragazzino, le orecchie da volpe tirate
indietro.
«Nessun “ma io”. Ti avevo mandato nell’Altrove per un motivo. Ti
avevo dato un compito ben preciso: proteggere il medaglione che ti avevo
affidato, e non lo hai fatto. Non solo mi hai disubbidito tornando qui a
Faerie senza aspettarmi, ma hai anche avuto la brillante idea di darlo a
un’umana, coinvolgendola in faccende che non la riguardano.»
Macbeth ammutolì.
«Ora, passiamo a te, piccola scocciatura su due gambe» disse il re
rivolgendosi a Marian.
«A me?»
«Sì, a te. Sappi che quello sguardo innocente e quegli occhioni
preoccupati non funzionano con me. Come hai potuto pensare che fosse una
buona idea venire qui a Faerie in gita a portarmi tutti i tuoi problemi?»
«Io… io non vi ho portato nessun problema!» ribatté Marian offesa.
«Ah, non ancora, ma lo farai, ne sono certo! Se non li hai già portati con
te, allora vuol dire che li causerai. Detesto le persone come te. I vostri
problemi mi guastano tutto il divertimento.» Il Re delle Volpi era un fiume
in piena ed era impossibile interromperlo per controbattere o difendersi
dalle sue accuse infondate. «Sentiamo… che cosa ci fai qui?» chiese infine.
Marian indicò Macbeth, decisa a spiegargli ogni cosa pur di strappargli
via dalla faccia quell’insopportabile sorrisetto storto.
«L’ho trovato nell’Altrove. Era ferito, solo e spaventato. Mi ha chiesto
aiuto perché voleva tornare a casa. Voleva tornare da voi.»
Aleister alzò le sopracciglia. «È così?» chiese al ragazzino.
Macbeth annuì. «Ho detto a Marian che se mi avesse aiutato, tu avresti
aiutato lei a…»
«Ah! Lo sapevo!» disse Aleister, interrompendolo. «Vedi? Lo sapevo
che saresti stata un problema! Tu vuoi qualcosa da me, ecco la verità… Be’,
dimmi se questa non è un’enorme seccatura!»
Marian assunse un cipiglio dignitoso.
«E quindi, Marian, ragazza dell’Altrove… cosa speravi di ottenere da
me? Cosa volevi chiedere al Re delle Volpi?» la incalzò lui, facendole un
inchino ironico.
«Macbeth ha detto che avreste potuto…»
«Potuto cosa? Avanti, sentiamo.» Aleister aveva tutta l’aria di divertirsi
un mondo nel prendersi gioco di lei.
«…realizzare un mio desiderio» disse Marian con un filo di voce.
Improvvisamente si sentiva una sciocca. Niente stava andando come
aveva pianificato o immaginato… E il Re delle Volpi, che lei pensava
sarebbe stato la sua salvezza, si era rivelato un insopportabile arrogante.
Aleister scoppiò in una risata sprezzante.
«Oh, ma certo! Un desiderio» disse con una smorfia. «Voi dell’Altrove
non pensate ad altro. Sempre a chiedere, sempre a desiderare. Pensate che
noi Sidhe siamo così facili da addomesticare che avete avuto la presunzione
di chiamarci “il buon popolo”. Siete convinti che basti un po’ di latte
lasciato sul davanzale delle finestre per ammansirci.» Le rivolse
un’occhiata sprezzante. «Perché mai dovremmo aiutarvi? L’arroganza
umana continua sempre a sorprendermi.»
Quell’attacco ingiustificato da parte del Re delle Volpi suscitò in Marian
un moto di indignazione. Se prima si era sentita mortificata e scoraggiata,
adesso era furiosa.
«Dovete realizzare il mio desiderio perché io ho rispettato la mia parola
e…»
«Mia cara, io non ho preso alcun accordo con te, non ti devo proprio un
bel niente!»
«Ma io ho scortato Macbeth fin qui!»
«E per questo ti ringrazio. Anche se avrebbe fatto meglio a rimanere
dov’era. Adesso, arrivederci.» Aleister fece un piccolo inchino, poi le diede
le spalle e si incamminò.
«Quindi mi lasciate qui?»
Aleister fece una smorfia infastidita. «Non dipingermi come il mostro
che non sono. Prima mi riprenderò il medaglione, e poi sì, ti lascerò qui.»
Marian e Macbeth iniziarono a protestare, contrariati.
«Stavo scherzando…» li fermò il Re delle Volpi ridacchiando. «Certo
che non avete alcun senso dell’umorismo. Ti riporterò prima nell’Altrove,
poi io e Macbeth ce ne andremo…»
«Ma dovete rispettare il patto e darmi ciò che mi è stato promesso!»
insistette Marian. Non poteva tornare a casa così, a mani vuote, non dopo
tutto quello che aveva passato. Sarebbe stata la peggiore delle sconfitte
ritrovarsi davanti la faccia tronfia di Carl Lawrence e dover cedere alle
nozze.
Il giovane re incrociò le braccia e la fissò, in attesa.
«Avanti. Di cosa si tratta?»
Lei esitò.
«Su, avanti!» la spronò lui, spazientito.
«Nonvogliosposarmi.»
«Cosa?» chiese il re.
Marian sospirò e ripeté, scandendo con forza ogni parola: «Non-voglio-
sposarmi».
Aleister alzò un sopracciglio e la guardò perplesso. «Sul serio? Sei
venuta fin qui a Faerie… solo per questo? Perché “non-ti-vuoi-sposare”?»
«Sì, per questo» confermò poi a denti stretti, mentre la faccia le andava a
fuoco.
Aleister aveva l’incredibile capacità di farla sentire stupida. Il tutto
peggiorava quando ripeteva sconcertato le sue parole, facendo suonare
tremendamente sciocco tutto ciò che diceva.
Il Re delle Volpi alzò le mani, in segno di resa. «Non voglio essere
messo in mezzo a una faccenda tanto insulsa e noiosa. Non ti vuoi sposare?
Usa la tua bella vocina e di’ “no, grazie”.»
«Non è così facile.»
«Sì che lo è» ribatté lui.
Marian allora esplose, incapace di contenere la frustrazione un solo
minuto di più.
«No che non lo è, invece! Voi non mi conoscete e non sapete niente della
mia situazione. Mi dovete un desiderio e mi aiuterete a realizzarlo senza
fare i capricci. Punto.»
Aleister emise un verso stizzito. «Non ti devo un bel niente.» Poi le
diede le spalle e si incamminò nella direzione opposta.
Davanti allo sguardo basito di Macbeth, che per tutto il tempo era
rimasto ad assistere a quella discussione senza sapere bene come
intervenire, Marian lo superò e gli si piazzò davanti, bloccandogli la strada.
«Voi non potete ignorarmi in questo modo!» sbottò, piegando la testa in
avanti e minacciandolo con le corna.
«Ah, no? Guardami mentre lo faccio allora…» disse Aleister mentre la
superava con un’ampia falcata, evitando con una mossa elegante il palco di
corna e ricominciando a camminare con passo baldanzoso, i capelli rossi al
vento e un sorriso soddisfatto sulle labbra.
Marian perse definitivamente la pazienza.
Si mise a rincorrerlo, furibonda. Perché tutti gli uomini che incontrava
finivano per farla arrabbiare in quel modo?
Di nuovo, gli bloccò la strada.
«Ho accompagnato Macbeth qui a Faerie. Per farlo sono scappata di
casa, mi sono infilata in un buco senza sapere se ne sarei uscita viva. Sono
stata derubata, mi sono persa, sono stata quasi affogata e una fata – che
aveva tutta l’aria di volermi mangiare – ha cercato di prendermi il colore
degli occhi o dei capelli. Come se non bastasse, mi sono cresciute delle
orribili corna sulla testa!»
Marian non aveva mai gridato così forte contro qualcuno. A pensarci
bene, non si era mai arrabbiata così tanto in tutta la sua vita… e la cosa la
stava facendo sentire straordinariamente bene.
«Oh, va bene… ma io…» Per la prima volta, Aleister sembrava in
difficoltà e lanciava occhiatine in direzione di Macbeth, che si teneva
prudentemente a debita distanza da entrambi.
«Non osate interrompermi. Non ho ancora finito» continuò Marian,
zittendolo. «Se non fosse per me, voi adesso sareste ancora schiavo di
quella maledetta creatura, quella Leah! Vi ho salvato io. Ho spezzato io il
vostro incantesimo grazie a una trovata brillante. Avete idea del pericolo a
cui mi sono esposta per tirarvi fuori da lì? Se adesso non state morendo
consumato dall’amore per quella perfida creatura, è solo grazie a me.
Quindi sì, credo di meritare di essere ascoltata senza essere presa in giro da
voi, sciocco viziato che non siete altro, e sì, dovete esaudire il mio
desiderio.»
Il Re delle Volpi era troppo stordito dalla ramanzina appena ricevuta per
trovare qualcosa di pungente con cui controbattere. Sembrava
incredibilmente a corto di parole.
«Penso che Marian abbia ragione» sussurrò Macbeth.
Aleister lo fulminò con lo sguardo.
«Ebbene?» disse Marian. Questa volta toccò a lei incrociare le braccia e
attendere.
Il Re delle Volpi strinse le labbra, assottigliando gli occhi. Detestava non
avere l’ultima parola e non lo nascondeva.
«E va bene…» borbottò.
«Va bene… cosa?» insistette Marian.
Aleister le rivolse un’occhiata offesa. «Va bene, accetterò la tua richiesta
come ringraziamento per aver scortato il mio prezioso servitore dall’Altrove
fino a Faerie. Contenta?»
Marian gli rivolse un sorriso soddisfatto. Per la prima volta aveva trovato
il coraggio di farsi ascoltare. E alla fine Aleister si era rivelato abbastanza
ragionevole.
Odioso e antipatico, ma ragionevole.
«Quando lo farete?» chiese Marian.
«Intendi esaudire il tuo desiderio?» Aleister fece finta di pensarci su, poi
alzò le spalle. «Quando ne avrò voglia… Ora ho cose più importanti a cui
pensare. Su, venite con me. Dite che il mio palazzo è stato distrutto… Se è
così voglio vederlo con i miei occhi.»
Marian stava per protestare di nuovo, ma si trattenne.
«Avanti, non siamo lontani, mettiamoci in marcia» ordinò il Re delle
Volpi.
Macbeth e Marian lo seguirono senza altre obiezioni. La luna era alta nel
cielo e Marian cominciava a sentirsi davvero stanca. In più quelle corna
pesavano terribilmente…
Attraversarono un campo di narcisi di vetro che emettevano dei tenui
tintinnii al loro passaggio.
«Va tutto bene, Marian?» le chiese Macbeth.
Lei annuì, poi lanciò un’occhiata in direzione del Re delle Volpi che
proseguiva davanti a loro, distanziandoli di diversi piedi.
«Secondo te quando lo farà?» chiese.
«Intendi esaudire il tuo desiderio? Ehm… Aleister è famoso per molte
cose…» spiegò Macbeth con cautela. «Per la sua potenza, per la sua
scaltrezza e per la sua audacia… ma decisamente non per la sua puntualità
nel rispettare gli impegni presi.»
«Perfetto» disse Marian, sconfortata.
I suoi guai non erano affatto finiti.
Forse erano appena cominciati.
18

Quando arrivarono davanti a quello che un tempo era stato il palazzo del Re
delle Volpi, l’alba era ormai vicina e il cielo aveva iniziato a rischiararsi.
Marian aveva l’impressione di aver camminato per ore, ma sapeva di
non potersi fidare dello scorrere del tempo lì, a Faerie. Si sentiva sfinita e
avrebbe dato qualsiasi cosa in suo possesso per un letto. Sebbene la fame e
la sete non fossero un problema, proprio come le aveva spiegato Macbeth
all’inizio del suo viaggio, la stanchezza, invece, era una compagna che
amava ricordarle la sua presenza un po’ troppo spesso.
Aleister era rimasto a lungo a fissare i resti della sua dimora, immobile.
In apparenza sembrava calmo, ma dal modo in cui serrava la mascella,
Marian dedusse che doveva essere furioso.
«Mi dispiace per il vostro palazzo» gli disse.
Lui abbassò lo sguardo e annuì. Poi notò la borsa di Marian abbandonata
in mezzo alle macerie e l’espressione sul suo viso mutò repentinamente.
«Ti pregherei di non seminare le tue cianfrusaglie dell’Altrove in giro
per Faerie» disse in tono duro.
Marian riprese la borsetta che aveva dimenticato prima di partire grazie
alla piuma magica, pentendosi subito di essere stata gentile con lui.
«Veramente l’avevo scordata qui quando siamo venuti a salvarvi…»
sbottò lei offesa.
Aleister non la stava già più ascoltando, era tornato a osservare i resti
della sua dimora.
«Ha fatto un bel disastro…» commentò con voce piatta.
«Sapete chi è stato?» gli chiese Marian.
Lui non rispose. Si voltò con un sorriso tirato.
«Ho un’idea. Perché stanotte non dormiamo in mezzo ai boschi?»
propose.
«Oh, Aleister. No, ti prego! Non puoi semplicemente ricostruire il
palazzo con la magia?» lo pregò Macbeth appendendosi alla manica della
sua giacca.
«Direi che più che di un letto avete bisogno entrambi di un bel bagno.»
Aleister lanciò un’occhiata beffarda a Marian, che arrossì. Anche lei, come
Macbeth, aveva ancora gli abiti e i capelli incrostati di fango secco. Pensò
all’espressione disgustata che avrebbe avuto sua madre nel vederla così.
Chissà che cosa avrebbe detto vedendola con un bel paio di corna
gigantesche.
Aleister e Macbeth erano impegnati in una fitta trattativa. Il ragazzino
insisteva perché il Re delle Volpi si impegnasse subito a ricostruire
magicamente il palazzo, lui invece sembrava avere una certa urgenza ad
allontanarsi da lì.
Marian si chiese se fosse il momento giusto per avvertirlo di quello che
aveva visto quando aveva calpestato l’erba dello smarrimento. Doveva
parlargli di quella figura oscura?
Aleister annusò Macbeth, arricciando poi il naso disgustato.
«Devi lavarti, ragazzino. Non ti avvicinerai a delle lenzuola in queste
condizioni.»
«Ma con la tua magia potresti ricreare anche i bagni! Su, Aleister, ti
prego! Voglio dormire nel mio letto, per te sarà un gioco da ragazzi.»
Macbeth si voltò lacrimoso verso la sua compagna di avventure,
chiedendole soccorso.
«Marian, convincilo tu, ti prego!»
Anche Aleister si voltò curioso. Sembrava davvero in attesa che Marian
provasse in qualche modo a convincerlo.
Lei deglutì, in difficoltà. Aleister la guardava in quel modo così
impertinente e sfrontato, dritto negli occhi, senza alcun tipo di imbarazzo.
«Penso di aver visto qualcosa» esordì lei.
«Capita quando tieni gli occhi aperti» commentò lui.
«Sto cercando di mettervi in guardia» protestò lei.
«Parla, allora.»
«Poco dopo il nostro arrivo qui a Faerie, abbiamo calpestato l’erba dello
smarrimento…» Marian ignorò il verso divertito del re e continuò a
spiegare: «Mentre attraversavamo tutto il paese…».
«Mondo» la corresse Aleister. «Che c’è? I dettagli sono importanti, non
mi guardare così. Vai avanti, adesso.»
Marian sospirò, abbassando il capo sotto il peso delle corna ingombranti.
«Mentre attraversavamo tutto il mondo, ho scorto anche questo luogo…
All’inizio non mi ero resa conto che fosse il vostro palazzo, l’ho
riconosciuto solo quando io e Macbeth siamo arrivati qui. Mentre
viaggiavamo grazie all’erba dello smarrimento, proprio davanti alle macerie
ho visto qualcosa… o meglio, qualcuno.»
«Che aspetto aveva?» chiese Aleister improvvisamente interessato.
Marian scrollò le spalle. «Non l’ho visto bene, è durato un secondo. Era
una figura vestita di nero, aveva un viso molto pallido.»
Gli occhi di Aleister furono attraversati da un’ombra. Le labbra si
stirarono in quello che sembrava un sorriso amaro. «Non avevo dubbi.»
«Avete capito di chi si tratta?»
Lui annuì, pensieroso.
«Dovrete avere un po’ di pazienza, il vostro riposo dovrà aspettare»
disse poi. «Dobbiamo andarcene, non possiamo rimanere qui. Se ti
accontentassi, mio piccolo Macbeth, e mi mettessi a ricostruire il palazzo,
quel maledetto si accorgerebbe della mia presenza e potrebbe farmi visita.
Di nuovo. E io non ho voglia di incontrare nessuno al momento, tantomeno
lui.»
«Ma chi è? E che cosa vuole da voi?» insistette Marian.
«Qualcosa che non ho intenzione di fare» disse Aleister allegramente,
evitando per l’ennesima volta di fornire dettagli sulla situazione. «Su,
avanti, prendo qualcosa e poi ce ne andiamo.»
Il Re delle Volpi allungò una mano davanti a lui, tendendola verso le
macerie. I suoi occhi iniziarono a brillare, cambiando colore. Da verdi
diventarono gialli, come quelli di Macbeth. Marian sentì l’aria farsi calda
attorno a loro, poi la mano di Aleister venne avvolta da una luce dorata e le
guance le pizzicarono.
Le macerie iniziarono a muoversi, librandosi in aria leggere come piume.
Aleister alzò pigramente anche l’altra mano e quelle si divisero a metà. I
detriti ammucchiati su due lati rivelarono un’apertura nella base di pietra
annerita, al centro di quello che era stato il palazzo.
Marian si sporse appena per spiare oltre la spalla del Re delle Volpi.
Notò delle scale che scendevano in profondità, nel suolo.
I detriti continuarono ad ammassarsi con delicatezza uno sopra l’altro,
fino all’ultima pietra. Aleister allora abbassò le mani e si lisciò soddisfatto
il velluto della giacca.
«Aspettatemi qui» disse puntando l’indice contro Marian. «E tu vedi di
non sgattaiolare da nessuna parte. Fino a che avrai il mio medaglione al
collo, dovrai rimanere dove ti posso vedere, intesi?»
Lei sbuffò.
«Macbeth, tienila d’occhio» ordinò al ragazzino, poi si apprestò a
scendere le scale, sparendo nei sotterranei del palazzo. Ben presto il
rimbombo secco dei suoi passi si affievolì fino a sparire.
«Dove sta andando?» chiese Marian.
Macbeth si strinse nelle spalle, agitando la coda.
«Nel cuore del palazzo, immagino. È lì che si trovano le sue stanze.»
Marian e Macbeth attesero in silenzio, troppo stanchi per mettersi a fare
alcunché o per provare a fare luce in quella situazione ammantata di misteri.
Aleister riemerse poco dopo e Marian notò che si stava sistemando qualcosa
nelle tasche della giacca.
«Bene, ho fatto. Siamo pronti» annunciò allegro.
«Ma dove andiamo? Io sono stanco» si lamentò Macbeth senza riuscire a
trattenere uno sbadiglio.
Aleister gli scompigliò i capelli. «Un piccolo sforzo, ancora.»
«Avete preso ciò che vi occorreva?» chiese Marian, a cui non era
sfuggito quello strano scambio affettuoso tra re e servo.
Lui le sventolò sotto al naso un’enorme piuma dorata.
«La piuma del viaggiatore!» esclamò Marian riconoscendola. Anche se
rispetto a quella che aveva usato con Macbeth, questa era grande il triplo.
Aleister la guardò sospettoso. «Esatto. Ma come fa una dell’Altrove a
conoscerla?»
«Oh be’, l’abbiamo usata. È così che siamo arrivati al palazzo di Leah…
non è vero, Macbeth?» disse lei, senza accorgersi dei cenni nervosi che le
stava rivolgendo il ragazzino.
Marian capì troppo tardi di averli messi entrambi nei guai.
Aleister incrociò le braccia. «Ah sì? E ditemi un po’, dove l’avete
trovata? Si tratta di una magia di trasporto potente e costosa… difficile da
reperire per una giovane volpe e una ragazza dell’Altrove.»
Marian si morse il labbro e guardò di sottecchi Macbeth. Ora sembrava
essersi svegliato del tutto, ed era concentratissimo a fissarsi i lacci degli
stivaletti, le orecchie tirate all’indietro.
«Macbeth…?»
Il viso lentigginoso del ragazzino si era fatto pallido.
«Avanti, Macbeth, digli della fata» lo incoraggiò Marian.
Lui la guardò allarmato. «Ma, ma… si arrabbierà» sussurrò.
«Guardate che vi sento e sì, confermo che mi arrabbierò» disse Aleister.
Marian lo fulminò con lo sguardo e disse ad alta voce: «Sono sicura che
Aleister ti ascolterà e non ti sgriderà per ciò che hai fatto, perché eri in
difficoltà ed eri da solo… tutto per colpa sua».
Aleister alzò gli occhi al cielo. «Oh, ma sentila!»
Marian gli rivolse un sorriso smagliante, mentre poggiava entrambe le
mani sulle spalle del ragazzino, rassicurandolo.
«Vero, Aleister, che Macbeth non verrà punito in nessun modo?» disse
con voce dolce, mentre lo guardava minacciosa.
Il Re delle Volpi sbuffò, poi suo malgrado annuì. «Sì, Macbeth, è come
dice lei. Ora dimmi come avete recuperato la piuma.»
Finalmente il ragazzino si convinse a vuotare il sacco, raccontando per
filo e per segno come aveva ingannato la fata e di come erano riusciti a
fuggire.
Appena ebbe finito di raccontare Aleister esplose: «MACBETH, SEI
IMPAZZITO ?».
Lui si rifugiò dietro la gonna di Marian.
«Quante volte ti ho detto di non derubare le fate? Hai idea di quanto sia
pericoloso ciò che hai fatto?»
Marian fece un passo in avanti e picchiettò l’indice contro il petto del re,
puntandolo anche con le corna. «Avevate promesso di non sgridare
Macbeth.»
Il re le rivolse un’occhiataccia, contrariato, poi emise un suono che
assomigliava a un grugnito.
«Macbeth…» disse, cercando di sembrare calmo. «Ciò che hai fatto è
molto pericoloso.»
«Non avevo scelta, dovevamo trovarti e io e Marian ci eravamo persi!»
Aleister strinse le labbra.
«Avanti, è davvero così grave?» chiese Marian, cercando di stemperare
gli animi.
«Certo che è grave!» sbottò lui. Aveva promesso di non arrabbiarsi con
Macbeth, non con lei. «Possibile che sia io l’unico preoccupato qui? Ora
dovete solo sperare che quella fata sia troppo vecchia e rincitrullita per
mettersi davvero sulle vostre tracce. E pregate che non abbia niente di
vostro.»
Marian e Macbeth si scambiarono un’occhiata fugace.
«Forse potrebbe esserci un problema…»
«HA QUALCOSA DI VOSTRO ?» esclamò tragico Aleister.
«Mi ha strappato un pezzo di gonna» confessò Marian, cercando di
essere diplomatica.
«Non posso davvero crederci!» sbottò il Re delle Volpi. Si rivolse poi a
Marian, allargando le braccia: «Vedi? Problemi!».
Scosse la testa sconsolato, come se entrambi fossero senza speranza.
«Adesso muoviamoci, è davvero una pessima idea rimanere qui. Vi porterò
in un posto sicuro… Poi cercherò di capire come risolvere anche questo
pasticcio.»
«Non vi preoccupate per me» lo rimbeccò Marian. «Posso cavarm…»
«Ah, non penso proprio!» la interruppe Aleister con una risata di
scherno. «E comunque io mi preoccupo per il medaglione che hai ancora
appeso al collo. Dovresti ringraziare la mia magnanimità. Se sei ancora in
vita è solo perché sono così tanto caritatevole a lasciartelo indossare.»
«Siete anche incredibilmente modesto, vedo» borbottò Marian.
Aleister le sorrise. «Forse è la mia qualità migliore.» Afferrò Macbeth
per mano e se lo tirò vicino, poi fece lo stesso con Marian.
«Tenetevi forte a me, è tempo di andare.»
Macbeth si aggrappò al braccio del Re delle Volpi. Marian allungò la
mano ma la lasciò a mezz’aria, interdetta. Aleister gliela prese e se la passò
sotto al braccio.
«Devi tenerti stretta, altrimenti rischi di perderti durante il viaggio» le
disse con inaspettata gentilezza.
Marian, ritrovandosi a braccetto con lui, abbassò lo sguardo, le guance
che avvampavano.
«Dove andiamo?» chiese, cercando di sembrare disinvolta.
Aleister sorrise, poi soffiò sulla piuma dorata, facendola librare in volo.
«Nella mia tana!»
19

«Avanti, mangia» ordinò il Re delle Volpi allungando a Marian una ciotola.


Alla luce del mattino, Aleister sembrava decisamente meno magico.
Anzi, lo si poteva quasi scambiare per un umano. Indossava una semplice
camicia bianca e sulle mani aveva una cascata di anelli d’oro.
Marian sbirciò il contenuto della ciotola. Sarebbe potuta passare per
della normale frutta tagliata a cubetti, se non fosse stata di un turchese
brillante.
«Non ho fame» disse Marian stringendosi nelle spalle.
«Posso mangiarla io, se vuoi» propose Macbeth, allungandosi sul tavolo
di legno.
Aleister fu lesto come un serpente e gli schiaffeggiò la mano prima che
lui potesse afferrare la ciotola.
«Ma Marian ha detto che non la vuole!» protestò il ragazzino, offeso.
Aleister alzò gli occhi al cielo. Come sempre in maniera spudorata,
senza provare a mascherare il suo fastidio.
Marian convenne con se stessa che fosse davvero la persona più
maleducata che avesse mai incontrato.
«Quante volte lo devo spiegare? Noi Sidhe non abbiamo bisogno di cibo.
Lo mangiamo per diletto, perché ci piace il gusto, perché ci annoiamo,
perché vogliamo provare cose nuove… Qui non rischieremmo mai di
morire di fame, neanche se rimanessimo a digiuno per anni. Siamo fatti di
magia, abbiamo bisogno solo dell’aria di Faerie per stare bene…» Fece un
cenno verso Marian. «Per lei il discorso è diverso. Qui a Faerie non sente i
morsi della fame come se fosse nell’Altrove, ma deve comunque sforzarsi
di mangiare qualcosa, o morirà. Gli esseri umani funzionano diversamente
da noi. Anche tu, Macbeth, quando sei andato dall’altra parte, hai provato
quello che loro sperimentano tutti i giorni, quella che gli umani chiamano
“fame”.»
Macbeth drizzò le orecchie e annuì con decisione. «Oh sì! E quelle
galline erano squisite!»
Il pensiero di Macbeth con le sembianze di volpe che azzannava una
gallina era abbastanza disgustoso, e Marian non riuscì a trattenere una
smorfia.
«È inutile che fai tanto la schizzinosa» disse Aleister. «Sono sicuro che
anche tu nell’Altrove ti ingozzi di volatili di ogni tipo.»
Marian arrossì al ricordo ancora vivido di quel maledetto picnic con Carl
Lawrence a base di tacchino freddo.
«Avanti» disse Aleister poggiando annoiato la guancia sul palmo della
mano. Le indicò con un cenno la ciotola. «Mangia.»
Marian si fece forza e la prese. «Non ci sono le posate» disse.
«Cosa?»
«Non ho posate, come posso mangiare?» chiese educatamente la
ragazza.
Aleister scoppiò a ridere.
«Usa le mani, no? Pensi di essere al cospetto del re d’Inghilterra?»
«Be’, voi siete pur sempre un re…» borbottò lei, mentre scrutava poco
convinta quella specie di frutta turchese.
Aleister scrollò le spalle. Sembrava infastidito. «No che non lo sono… o
almeno, non ancora. Il mio predecessore è ancora in vita e penso che lo sarà
ancora per lunghissimo tempo, quindi direi di smetterla con questi
convenevoli. E basta chiamarmi “re”. Sono Aleister e basta. E dammi del
tu.»
Marian lo fissò sorpresa. Aleister non era re? Se il suo predecessore era
ancora vivo, allora Aleister era un… principe? E perché Macbeth lo
chiamava sempre “Re delle Volpi”? Ma soprattutto: avrebbe dovuto
aspettare che Aleister diventasse re, perché esaudisse il suo desiderio?
Scosse piano la testa, incredula, e il peso delle corna le ricordò che c’era
anche quella faccenda da risolvere. Dormire con quegli affari in testa era
stato un incubo.
L’unica opzione che aveva al momento era di rimanere con il Re delle
Volpi. Che poi re non era. Come Macbeth le aveva detto, aveva ormai
capito che quel ragazzo era spaventosamente volubile: avrebbe aspettato
quando sarebbe stato abbastanza di buon umore, per ricordargli il loro patto.
Forse, preso nel momento giusto, sarebbe stato abbastanza magnanimo da
aiutarla anche a sbarazzarsi delle corna.
Avrebbe voluto rivolgergli mille domande, su chi fosse il vero re, sul
medaglione, sulla figura misteriosa che aveva visto tra le rovine del
palazzo, ma visto il suo caratteraccio tutt’altro che accondiscendente, decise
che era più saggio mettersi in bocca un pezzo di quella frutta colorata e non
sfidare l’umore del padrone di casa. D’altronde Aleister sembrava essere
allergico alle domande.
«Ma… è buonissima!» esclamò, mentre quella specie di frutto le si
scioglieva sulla punta della lingua. Solo in quel momento si rese
effettivamente conto della fame che aveva.
Aleister aveva ragione e la cosa la irritò.
Iniziò a mangiare voracemente, prendendo i cubetti turchesi con le mani.
Aveva quasi svuotato la ciotola, quando guardò Aleister atterrita.
«Che succede?» chiese lui annoiato.
Marian deglutì e scansò la ciotola. «È che… stavo ripensando alle
raccomandazioni che mi ha fatto Macbeth al mio arrivo. Mi chiedevo se
fosse sicuro o meno assaggiare cibi o bevande offerte qui a Faerie.»
«Macbeth ti ha fatto delle raccomandazioni?» chiese Aleister curioso.
«Certamente! Giusto l’essenziale per sopravvivere» rispose allegro il
ragazzino. «Come per esempio non rivelare mai il suo nome completo.»
«Ottimo suggerimento» concordò Aleister, scompigliandogli i capelli.
«Non è che ora che ho mangiato questa roba non potrò più tornare a
casa?» chiese Marian spaventata.
«Che faccia che hai, dovresti vederti!» la prese in giro Aleister. «Guarda
che ti ho solo offerto la colazione, non ti ho stregata in nessun modo… E
comunque hai avuto un’ottima intuizione. In effetti è più sicuro se accetti
solo il cibo che ti offriamo io e Macbeth. È meglio essere cauti.»
«Comunque anche nel mio mondo… nell’Altrove, c’è una storia simile»
disse Marian pensierosa.
«Che storia?» chiese Macbeth curioso.
«Un mito antico, di una donna che dopo aver assaggiato un frutto della
terra degli inferi è costretta a rimanervi.»
«Persefone» disse Aleister con noncuranza.
Marian gli rivolse un’occhiata incuriosita. «Conoscete il mito di…»
«Conosco tutte le vostre storie» disse lui sorridendo. «E comunque ti ho
detto di darmi del “tu”.»
Marian era più che mai determinata a non arrossire ogni volta che
Aleister le rivolgeva un commento sarcastico o insolente, ma la cosa si
stava rivelando difficile. Per fortuna Macbeth venne in suo aiuto.
«Il mio signore va matto per voi mortali. È per questo che nasconde le
sue orecchie, gli piace sembrare uno di v…»
Macbeth non riuscì a finire la frase che Aleister lo zittì mettendogli una
mano sulla bocca.
«Si può sapere perché stai sempre a chiacchierare?»
Questa volta toccò ad Aleister arrossire e Marian fu abbastanza clemente
da fare finta di niente e cambiare discorso.
«È… carino qui» disse.
«È più bella casa nostra» borbottò Macbeth divincolandosi dalla presa
del ragazzo. «Piuttosto, quand’è che potremo tornarci?» chiese,
allungandosi sul tavolo e mettendo su il broncio. A vederli seduti uno
accanto all’altro adesso Marian capiva da chi avesse preso Macbeth.
Si trovavano in quella che Aleister aveva chiamato la sua “tana”. Erano
arrivati la notte prima grazie alla piuma del viaggiatore e appena vi avevano
messo piede, un forte odore di muschio li aveva accolti. Le pareti
sembravano essere state scavate direttamente nella terra, ma era tutto
sommato un posto accogliente, pieno di cianfrusaglie e mobili e con
un’intricata rete di gallerie che avevano già fatto perdere Marian un paio di
volte. Il soffitto era abbastanza alto da permettere di passeggiare
comodamente, ma alcuni corridoi erano così stretti che Marian doveva
attraversarli mettendosi di profilo, per evitare di rimanere incastrata.
Muoversi in quello spazio così angusto con il suo palco di corna era
davvero complesso, e lei cominciava a non poterne più di quel peso sulla
testa.
Tuttavia, seppure munita di quella nuova scomoda appendice, Marian si
era svegliata di buon umore. Aveva dormito in un vero letto, si era potuta
scrostare di dosso il fango grazie a un bel bagno – fatto in uno strano stagno
che veniva usato come vasca – e al suo risveglio aveva persino trovato i
suoi vestiti puliti. Era convinta che dietro ci fosse lo zampino di Aleister,
ma il giovane sovrano aveva fatto finta di niente quando lei aveva provato a
indagare.
Dopo che Marian ebbe finito di mangiare, Aleister si stiracchiò e
sbadigliò rumorosamente.
«Direi che finalmente possiamo rilassarci un po’. Nessuno conosce la
mia tana, saremo al sicuro qui» disse soddisfatto, incrociando i piedi sopra
al tavolo.
«Al sicuro dalla fata? O da chi ha bruciato il palazzo?» lo incalzò
Marian, decisa a cavargli qualche informazione in più.
Aleister le rivolse un sorriso divertito. «Non ti arrendi mai, eh?» Scrollò
la testa e i pesanti ciuffi rossi gli coprirono gli occhi. «Direi da entrambi.»
«Continui a non rispondermi, Aleister» lo riprese anche Macbeth con
aria infelice. «Quando torneremo a casa? Pensi che gli altri saranno al
sicuro?»
«Gli altri?» intervenne Marian.
«Le altre volpi. Amleto, Ariel, Ofelia, Lear…» spiegò Macbeth.
«I miei servitori» aggiunse Aleister. «Sono tutti fuggiti da palazzo prima
dell’attacco. Stanno bene, Macbeth.»
«Ma perché siete stati attaccati?» insistette Marian.
Aleister le rivolse un sorriso beffardo. «Certo che ti piacciono davvero
un mondo le domande.»
Effettivamente non era da lei rivolgersi in maniera così sfrontata a
qualcuno, ma era altrettanto vero che niente prima d’ora l’aveva mai
interessata tanto.
«Cercavano il medaglione che ho dato a Marian, non è così?» chiese
Macbeth.
Aleister alzò di nuovo gli occhi al cielo. «Basta con tutte queste
domande, voi due! La giornata è appena iniziata e mi state già dando il
tormento. Vi basti sapere che chi ha distrutto il castello non ha modo di
sapere dove siamo… e riguardo alla fata, da quel che mi avete raccontato,
credo sia troppo vecchia e rincitrullita per volersi mettere sulle vostre
tracce.»
Marian e Macbeth si scambiarono un’occhiata colpevole.
«Ma non si sa mai, in effetti» decise Aleister. «Aspettatemi qui. Devo
andare a mettere qualche protezione in più al nascondiglio… Qualcosa che
tenga lontane le fate derubate…» borbottò infastidito. «Macbeth, preparami
un tè nel frattempo» ordinò prima di sparire dietro un’ampia porta verde
bosco, lasciandoli soli.
Macbeth si mise subito a trafficare vicino al caminetto che Marian aveva
scambiato per un buco nel muro terroso. Il fuoco iniziò presto a scoppiettare
e la stanza si scaldò. Dall’enorme finestra tonda dai vetri opachi come il
fondo di una bottiglia entrava una bellissima luce calda. Marian si chiese se
si trovassero sottoterra e se Aleister avesse usato la magia per potersi
godere la luce del sole.
Macbeth aveva appena poggiato sul tavolo una tazzina di porcellana,
quando una voce profonda parlò: «Si richiede udienza al Re delle Volpi».
Marian e Macbeth trasalirono e si guardarono intorno spaventati.
Erano soli nella stanza.
«È normale sentire le voci, qui a Faerie?» chiese Marian.
«Be’, no. Quando succede di solito è opera dei demoni.»
«Mi state ignorando?» insisté la voce. «Si tratta di una convocazione
ufficiale.»
«M-Macbeth…» balbettò Marian, realizzando finalmente da dove
arrivava la voce petulante. «Credo che il tè voglia parlare con Aleister.»
Il ragazzino assunse un’aria afflitta. «Oh, accidenti! Questo non gli
piacerà per niente.» Poi si affacciò sulla porcellana, sfoderando il migliore
dei sorrisi. A Marian sembrò più che altro una smorfia di dolore, ma era
meglio di niente.
«Identificarsi» ordinò il tè in tono perentorio.
«Sono Macbeth, servitore del Re delle Volpi.»
Il tè rimase in silenzio, contrariato.
«E dove si trova adesso?»
«Arriva subito, se ha un attimo di pazienza.»
A Marian sembrò sentire la tazzina sospirare irritata.
«Devi dirgli che non c’è tempo. È stato convocato e deve venire im-me-
dia-ta-men-te! Stiamo ricevendo notizie sconcertanti e dovrà essere
interrogato.»
Dopodiché il tè, che era diventato scuro e torbido, tornò a essere chiaro e
ambrato.
«Credo che la conversazione sia finita qui» commentò Marian.
Con un tempismo che aveva dell’incredibile, la testa rossa di Aleister
fece capolino dalla porta.
«Ho messo qualche protezione in più, dovremmo essere al sicuro.»
Guardò incuriosito Marian e Macbeth. «Si può sapere cos’è successo? Che
facce sono le vostre?»
«Aleister! Il tuo tè!» esclamò Marian alzandosi di scatto e sbattendo le
corna contro la finestra.
«Il mio tè cosa?» chiese lui divertito. Lo prese e lo sorseggiò.
«È freddo» commentò con una smorfia.
«Sei stato convocato» disse Macbeth con aria desolata.
Aleister strabuzzò gli occhi e sputacchiò il tè, come se fosse avvelenato.
Poi strinse le labbra, spostandosi i pesanti ciuffi da davanti agli occhi.
«Cosa significa?» osò chiedere Marian.
«Altri guai.»
20

«Sapevo che avresti portato guai» bofonchiò Aleister. «Perché hanno tutti
così tanta voglia di distruggere la mia pace?»
Era sprofondato nella sedia e si stava massaggiando le tempie con le dita
ricoperte di anelli d’oro, il viso nascosto dai capelli rossi.
«Che cosa c’entro io con questa convocazione?» protestò Marian. «Non
so neanche di cosa si tratta!»
Aleister agitò una mano verso di lei, senza neanche guardarla. «Ti prego,
taci. Ho bisogno di pensare.» Poi si alzò di colpo, come se fosse stato punto
da qualcosa. Un enorme sorriso gli attraversava il viso e aveva l’aria di chi
è appena stato folgorato da un’idea geniale. «So cosa fare per tirarci fuori
da questo impiccio!»
«Cosa?» Macbeth lo guardò speranzoso.
Lui corse verso quella che Marian aveva ipotizzato fosse la sua stanza,
l’unica da cui le era stato ordinato di tenersi alla larga. «Macbeth, Marian,
prendete le vostre cose, dobbiamo scappare» annunciò allegramente, prima
di sparire dietro alla porta vermiglia.
«Cosa?!» dissero Marian e Macbeth all’unisono.
«È senza speranze… lo sta facendo di nuovo» sospirò poi il ragazzino.
Si accoccolò sulla sedia e si mise a giocare con la tazza che Aleister aveva
ignorato.
«Sta facendo di nuovo… cosa?» chiese Marian, che stava iniziando a
perdere seriamente la pazienza.
«Scappa» rispose Macbeth, stringendosi nelle spalle. «Lo fa sempre
quando le cose non vanno per il verso giusto. Ciò che Aleister ama di più al
mondo, dopo se stesso ovviamente, è quando tutto va esattamente come
desidera. Quando questo non succede… be’, scappa prima di essere
raggiunto dai problemi.»
«È un atteggiamento un po’ da codardi» commentò Marian. “Sbaglio o è
esattamente quello che hai fatto anche tu?” le disse la vocina nella sua testa.
Scosse le pesanti corna per scacciare quel pensiero.
«Credo che dovresti provare a parlargli, Marian» suggerì Macbeth.
«Forse se sei tu a farglielo notare… potrebbe funzionare! Aleister ti dà
ascolto, tu potresti riuscirci!»
Marian rise, scettica.
«Il Re delle Volpi che mi dà ascolto? Ma se da quando l’ho incontrato
non ha fatto altro che canzonarmi o ignorarmi. Guarda qua, poi» disse
indicandosi le corna. «Non ha ancora mosso un dito per liberarmi da questa
maledizione!»
«Ti assicuro che ti ascolterà. Secondo me, se lo prendi per il verso
giusto…»
«E cosa dovrei fare esattamente?» lo interruppe Marian.
«Innanzitutto devi riuscire a capire cos’è successo al palazzo. Devi
costringerlo a parlare. Chiaramente sta mentendo e omettendo dei dettagli
importanti. Devi anche convincerlo a presentarsi alla convocazione. Lui
pensa di cavarsela sempre, ma gli altri poi finiscono per offendersi… Devi
vedere cosa ha combinato la regina Titania quella volta in cui non si è
presentato alla festa per la sua nomina a Re delle Volpi…» Macbeth
rabbrividì e Marian pensò che forse non ci teneva molto a scoprirlo.
«Avanti, Marian! Devi provare» la scongiurò il ragazzino, sfoderando il suo
miglior sorriso.
Marian non era così convinta del suo ascendente su Aleister, ma decise
comunque di tentare. Si armò di coraggio e, dopo aver sbattuto le corna a
destra e a manca, bussò alla porta vermiglia.
Non sentendo risposta, la socchiuse leggermente.
«Aleister…» chiamò, sbattendo nuovamente le corna.
Lo sentì sospirare. «Marian, smettila di fare questo baccano ed entra.»
Lei non se lo fece ripetere due volte.
Le pareti della stanza erano ricoperte da librerie colme di volumi. Sul
pavimento c’erano vecchi tappeti e diverse cianfrusaglie disseminate in
giro. Marian calciò per sbaglio quello che aveva tutta l’aria di essere un
teschio umano, ma decise di non indagare e lo superò con un saltello,
facendo finta di niente. La camera del giovane re assomigliava
incredibilmente sia a una biblioteca che alla tana di un animale.
Aleister era steso su un letto sfatto, con una pila di cuscini tutti intorno.
Contemplava il soffitto con sguardo vacuo e aria abbattuta, le mani
intrecciate sul petto come una mummia.
«Come va?» chiese lei con cautela.
«Miseramente, direi» rispose asciutto.
Marian sapeva bene quale era il compito che le aveva affidato
Macbeth… ma non riusciva a concentrarsi e continuava a lanciare occhiate
fugaci agli scaffali carichi di libri che la circondavano. Il richiamo era
troppo forte. Che genere di storie si leggevano lì a Faerie? Avrebbe dato
qualsiasi cosa per poter affondare il naso in uno di quei volumi…
«Che c’è?» chiese lui, alzandosi appena sui gomiti, spiandola sospettoso.
«Macbeth ti ha costretta a venire a convincermi?»
Marian sorrise, più ai libri che a lui. «No, niente… è che mi sono resa
conto che qualcosa in comune alla fine lo abbiamo.» Allungò una mano e
sfiorò la costa di un volume dalla copertina color sangue.
«Fai attenzione con quelle corna. Si dà il caso che quella sia una copia
autografata da Byron in persona.»
Marian gli rivolse uno sguardo confuso.
«Conosci Byron?»
«Scherzi? È uno dei miei preferiti. Mi piace pensare che siamo molto
simili, in fondo.»
Marian allora prese il volume e lo sfogliò curiosa. C’era in effetti una
svolazzante dedica “al più squisito e magico degli amici” in inchiostro nero,
e uno “stampato a Londra” sul fondo della prima pagina.
«Non mi dirai che questi sono tutti libri dell’Altrove!» esclamò
incredula.
Aleister le rivolse un sorriso storto. «Mi piacciono le vostre storie.
Piuttosto, tu leggi?»
«Certo.»
«Allora fai come se fossi a casa tua. Attenta alle corna, però» sbuffò.
Tirò fuori dalle coperte un libro e si rimise a leggere.
Marian riconobbe subito il volume che il ragazzo teneva tra le mani.
«Ma quello è mio!»
«Mmm?» mugugnò Aleister, senza alzare lo sguardo dalle pagine.
«Il libro che stai leggendo! È mio, lo tenevo nella mia borsa da viaggio
e… aspetta un attimo! Tu hai frugato nel mio bagaglio!» sbottò.
«L’ho preso perché non l’ho mai letto. Sei ospite a casa mia, donarmi ciò
che voglio mi sembra il minimo» ribatté lui voltando pagina.
Marian sospirò esasperata. «Sei proprio impossibile, Aleister.»
«Me lo dicono spesso.»
Lei mise a posto il volume di Byron nella libreria e passò a scorrere
l’indice lungo le coste dei vari libri. Si fermò quando si trovò di fronte a
una stampa di Shakespeare, infilzata nella libreria da un pugnale che
attraversava la fronte del poeta.
«Quindi quanto dicevi di Shakespeare… era vero?»
«Intendi il fatto che gli ho suggerito gran parte delle sue storie?»
Marian annuì.
«Aveva bisogno di qualche incoraggiamento, di tanto in tanto… non era
particolarmente bravo con i nomi. Gli ho dato un aiutino.» Aleister rise,
scoprendo i canini appuntiti. «Diciamo che sono stato la sua musa
ispiratrice. Capita spesso che noi Sidhe mettiamo lo zampino nelle vostre
faccende mortali… ma è assai raro il contrario. Credo che tu stia creando un
precedente.» Aleister la stava di nuovo scrutando con un’aria incuriosita sul
viso e Marian si sentì a disagio sotto quello sguardo indagatore.
«Posso farti qualche domanda?» chiese, decisa a distogliere l’attenzione
del ragazzo da se stessa.
«Te lo concedo.»
Marian doveva aver superato un qualche tipo di esame, perché Aleister
sembrava essersi finalmente deciso a parlare. Non doveva rovinare
quell’occasione.
«Tu conosci l’identità di chi ho visto l’altra notte. È stata quella persona
a distruggere il tuo palazzo.»
Aleister sorrise enigmatico, gli occhi verdi che brillavano.
«Perché lo ha fatto?» gli chiese.
Il sorriso sparì dalle sue labbra e Marian temette di aver fatto la domanda
sbagliata…
Ma il Re delle Volpi iniziò a parlare: «È stato un avvertimento. Quello
che non ha ancora capito è che io non ho alcuna intenzione di immischiarmi
in faccende che non mi riguardano. Non sono tipo da cedere alle minacce e
me sto alla larga dai guai quando qualcuno mina la mia pace».
«Il suo comportamento però ha messo in pericolo qualcuno.»
«Chi?»
«La persona che ha distrutto il tuo palazzo» disse spazientita Marian.
«Ha messo in pericolo le tue volpi, quelle che vivevano nel palazzo insieme
a te, oltre a Macbeth. Non sono forse fuggite? Non mi sembra che la tua
attuale situazione si possa definire tranquilla. Se lo fosse davvero, non
avresti forse ricostruito il tuo palazzo invece che nasconderti?»
Marian fece un cenno alla stanza in cui si trovavano e Aleister sbuffò.
«I miei servitori… le mie volpi, staranno bene. Sanno cavarsela da sé.»
«Macbeth però aveva bisogno del tuo aiuto. E se ci fossero altri ad
averne bisogno?» incalzò lei.
Aleister scosse la testa, gli occhi nascosti dai ciuffi rossi.
«Nessuno ha bisogno di me.»
«Non mi sembra che sia così» disse Marian. «Sei stato… convocato,
anche se non so bene cosa questo comporti» continuò lei. «Quindi qualcuno
ha bisogno di te, suppongo.»
«Tu non ti arrendi mai, eh?» Aleister le rivolse un’occhiataccia. «Sono
stato convocato dal consiglio nobiliare di Faerie» confessò.
«E di cosa si tratta?» chiese Marian. Aleister si era finalmente deciso a
parlare e lei ne avrebbe approfittato per scoprire quante più cose possibili.
«È composto da un membro di ogni famiglia nobiliare di Faerie. Nove
membri per nove famiglie. Il consiglio si occupa di questioni più o meno
importanti di Faerie, sotto l’occhio vigile del re e della regina… ma siamo
noi a governare davvero.»
«Il re e la regina… intendi Oberon e Titania?» chiese Marian.
Aleister le rivolse un sorriso compiaciuto. «Qualcuno qui ha studiato.»
«Cosa pensi che vogliano da te?»
Lui fece una smorfia. «Oh, un mucchio di cose. Li sto evitando da troppo
tempo. Da quando sono stato investito della carica di re, credo di essermi
presentato al loro cospetto una sola volta.»
«Aspetta. Avevi detto che non sei ancora re, che il tuo predecessore è
ancora in vita» obiettò Marian.
«È una faccenda complicata» sospirò lui.
«Prova a renderla semplice, allora.»
Aleister si passò una mano ingioiellata tra i capelli. «Il mio predecessore
si è ritirato. C’è stata una cerimonia di investitura e tutto il resto, ma…» Gli
occhi di Aleister vennero attraversati da un’ombra. Il ragazzo scosse la
testa, cambiando discorso. «Comunque, immagino che mi vogliano
chiedere cosa sia capitato al mio palazzo. Non capita tutti i giorni che la
dimora del Re delle Volpi venga rasa al suolo. Una notizia del genere
viaggia in fretta.»
«Penso che dovresti andare» disse Marian. «Se ti hanno convocato,
avranno bisogno di te. Sei o non sei il Re delle Volpi, dopotutto?»
Aleister le sorrise.
«Te l’ho detto, è una faccenda complicata…»
Marian capì che era il suo modo cortese per dire “smettila di
chiedermelo”.
«Conosci l’identità di chi vi ha attaccato, giusto?»
Aleister sbuffò, ma sembrava felice di cambiare discorso. «Sì, ma non ti
dirò come si chiama. Non voglio pronunciare il suo nome.»
«Me lo vuoi scrivere allora? Forse in mezzo a questa baraonda riesco a
trovare qualcosa con cui…»
Aleister si allungò e la fermò, prendendole la mano. «Scritto potrebbe
essere persino più pericoloso» sussurrò. «Qui a Faerie i nomi sono potenti e
spesso fatali. Se non pronunciamo il suo nome, lui non potrà sentirci.»
Marian rabbrividì. Non seppe dire se per le parole di Aleister o per il
modo in cui le teneva stretta la mano.
Come se avesse in qualche modo intercettato i suoi pensieri, Aleister la
lasciò andare.
«A tal proposito… dimmi il tuo nome» disse in tono decisamente più
spensierato.
«Marian!» esclamò lei offesa. «Pensavo l’avessi capito.»
«Dimmi il tuo nome completo» insistette.
«Marian… Crawford» disse lei, con cautela.
Aleister le rivolse un sorriso sornione. «Hai un secondo nome che non
mi hai detto…»
La sua era un’affermazione più che una domanda.
«Macbeth mi ha spiegato che non devo rivelarlo a nessuno.»
Aleister sembrava vagamente impressionato. «Per una volta quella testa
dura ha detto una cosa giusta. È stato bravo a metterti in guardia. Mi
raccomando, tieniti stretto il tuo secondo nome, Marian Crawford, e mi
raccomando, non rivelarlo a nessuno. Se lo farai, la persona… o meglio, la
creatura fatata che lo conoscerà avrà il controllo totale della tua persona.»
Aleister si alzò dal letto e si stiracchiò. «Mi hai convinto, alla fine. Macbeth
ha fatto bene a mandarti.»
Si guardò in uno specchio incastrato nella libreria accanto al suo letto.
Dopo essersi sistemato i capelli, rivolse uno sguardo soddisfatto al suo
riflesso e si voltò verso la ragazza.
«Allora, vogliamo andare?» le chiese allegro.
«Andare? Dove?» Marian era confusa. Doveva ancora abituarsi a quei
repentini cambi d’umore.
Le labbra del Re delle Volpi si tesero in un ampio sorriso.
«A incontrare il consiglio delle famiglie nobili di Faerie, naturalmente.»
21

Aleister stava frugando in un baule, disseminando giacche, abiti e stoffe per


tutta la stanza.
«Il consiglio delle famiglie nobili di Faerie è davvero barboso» stava
spiegando mentre annusava con circospezione una giacca di velluto verde e
argento.
«Una riunione tra tutti i rappresentanti della nobiltà di Faerie a me
sembra invece alquanto eccitante» commentò Marian.
Aleister si girò verso di lei, le braccia cariche di quelli che sembravano
mantelli.
«Decisamente no. Quelle vecchie cariatidi potrebbero uccidere uno
gnomo con i loro discorsi noiosi. E per inciso, gli gnomi sono gli esseri più
noiosi della storia. Tieni, prendi questo.»
Le porse un mantello azzurro. La stoffa era leggera ma calda,
morbidissima al tatto.
«Non posso accettare…» provò a protestare lei.
«Non te lo sto regalando, te lo sto solo dando in prestito, così non mi
farai fare brutta figura» disse Aleister.
Richiuse il baule con un tonfo secco e si mise a frugare tra una pila di
abiti, raccogliendo da terra una nuova giacca, anche questa riccamente
bordata d’oro. Annusò anche questa, poi la indossò.
«Come sto?» chiese a Marian, facendo una piroetta su se stesso.
«Azzimato come al solito.»
«Ottimo» disse di buon umore.
Uscì come una furia dalla stanza, chiamando Macbeth a gran voce.
Marian gli corse dietro, seguendolo fino al bagno.
Aleister iniziò a trafficare con le boccette e le ampolle che erano riposte
su uno scaffale accanto all’enorme pozza d’acqua chiara che fungeva da
vasca da bagno.
«Che succede?» chiese Macbeth facendo capolino dalla porta.
«Vieni, stiamo per partire» disse Aleister.
«Useremo la piuma del viaggiatore?» chiese Marian muovendosi con
grande cautela. La stanza era piuttosto ampia, ma lei ancora non aveva
ancora preso dimestichezza con le sue corna e c’erano troppe cose che
avrebbe potuto distruggere se avesse anche solo girato la testa in un modo
un po’ troppo brusco.
«Cosa? Certo che no! Hai idea di quanto costino? Se le usassi con questa
velocità finirei sul lastrico. Useremo la vasca da bagno» spiegò, indicando
la pozza alle sue spalle.
«Ha detto “vasca da bagno”?» chiese Marian, per avere conferma di aver
sentito bene.
Macbeth annuì, impegnato ad allacciarsi gli alamari d’oro del suo
mantello da viaggio. Pulito e in ghingheri stava davvero bene.
Marian lanciò un’occhiata furtiva al proprio riflesso. I capelli lisci le
penzolavano tristemente attorno alle corna bianche. Almeno il bellissimo
mantello che le aveva procurato Aleister mascherava i suoi abiti
dell’Altrove, che avevano visto giorni migliori. La gonna era ancora
strappata lì dove la fata l’aveva afferrata, mettendo parzialmente in mostra
la sottana.
Aleister sembrò notarlo. Senza dire niente, le picchiettò con gentilezza
su una spalla e il suo vestito iniziò a cambiare sotto ai suoi occhi. Il modello
era rimasto lo stesso, ma la stoffa adesso era più elegante, senza pieghe,
macchie e… senza più traccia dello strappo.
«Molto meglio» disse soddisfatto il Re delle Volpi, sistemandosi i capelli
dietro le orecchie e aggiustandosi i ciuffi a lato del viso con studiata
precisione.
Macbeth aveva detto che la cosa che Aleister amava di più al mondo era
se stesso, ma Marian avrebbe obiettato: i suoi capelli erano al primo posto.
«Pronti?» chiese il ragazzo quando finalmente fu soddisfatto del suo
aspetto.
«Sissignore» disse contento Macbeth. Se prima si era dimostrato
preoccupato per il messaggio arrivato con la tazza di tè, adesso sembrava
fin troppo contento all’idea di tuffarsi, letteralmente, in una nuova
avventura.
«Molto bene.»
Aleister si mise di fronte alla pozza e spalancò le braccia. Marian lo sentì
mormorare delle parole che non riuscì a cogliere. Sul pelo dell’acqua
comparvero dei simboli, seguiti da alcune lettere, che iniziarono a
muoversi, collegandosi tra loro come raggi della ruota di un carro.
La pozza, calma e placida fino a quel momento, si fece torbida, iniziando
ben presto a vorticare ferocemente.
«Prima le signore» disse allegro Aleister.
Marian gli rivolse un’occhiata perplessa, ma lui la ignorò
deliberatamente, sospingendola verso l’acqua agitata.
«Su, Marian, avanti. Non eri tu quella che diceva che dovevo andare a
tutti i costi? Cosa fai, ti tiri indietro?»
La ragazza piantò gli stivaletti sul bordo della pozza. «Io… io non sono
brava a nuotare.»
Aleister scoppiò a ridere.
«Ma non devi nuotare! Vieni, ti aiuto io.» La prese sottobraccio e si
immerse nell’acqua. Quando il giorno prima Marian aveva usato la vasca, il
fondo era di pietra liscia, adesso invece i suoi piedi seguivano Aleister
lungo quelli che sembravano essere degli scalini.
L’acqua le arrivava già alla gola quando Aleister le suggerì di trattenere
il fiato.
Marian prese un bel respiro l’attimo prima di immergersi
completamente. Teneva gli occhi ben chiusi, aggrappata al braccio del re, e
continuava a percorrere gli scalini, scendendo sempre più in basso.
«Marian, sembra quasi che tu sia sul punto di soffocare. Va tutto bene,
puoi aprire gli occhi adesso.»
La voce di Aleister le arrivò forte e chiara.
Marian aprì con cautela un occhio. Non si trovavano sott’acqua. Anzi,
non erano neanche bagnati.
«Hai visto? È stato facile» disse Macbeth alle sue spalle.
Marian si guardò dietro stupefatta. Avevano attraversato un enorme
specchio, la cui superficie si increspava dolcemente come quella di un lago.
Marian allungò un braccio per sfiorarlo. Le sue dita vi affondarono
dentro, producendo gli stessi cerchi concentrici di quando si lancia una
pietra nell’acqua.
«Incredibile» sussurrò.
«È così che ci spostiamo il più delle volte qui a Faerie. Usiamo dei
portali, proprio come questo che hai appena attraversato» spiegò Aleister,
prendendola di nuovo a braccetto e continuando a scendere gli scalini di
marmo bianco.
«Per fortuna quando ieri ho usato la vasca da bagno non sono finita da
nessuna parte» borbottò Marian.
«Ti immagini? Sarebbe stato alquanto disdicevole!» la prese in giro il
ragazzo.
Lei arrossì fino alla punta dei capelli e Aleister rise più forte.
«Per essere usato il portale va attivato. E ovviamente per farlo serve la
magia. Più sei potente e più è facile.»
«Quindi non tutti lo possono fare?»
«Direi di no, solo qualcuno straordinariamente potente come me può
riuscirci.»
«…qualcuno che è anche straordinariamente modesto» sussurrò Marian.
La discesa continuò e Marian e Aleister avanzarono l’una accanto
all’altro, mentre Macbeth li seguiva trotterellando. La scalinata, di marmo
bianco, si ergeva al centro di una magnifica sala dalle dimensioni
mastodontiche. Le pareti erano ricoperte da vetrate colorate, su cui
sembravano sbocciare fiori in continuo movimento.
Sembrava quasi di trovarsi all’interno di una cattedrale dell’Altrove, solo
immensamente più grande. Le scale erano così alte e così spaventosamente
prive di corrimano che le gambe di Marian tremavano come gelatina.
«Non ti sporgere» le disse Aleister tenendola forte per il braccio.
L’altezza non sembrava preoccuparlo. Continuava a scendere le scale
impettito, elegantissimo nella sua giacca rossa e oro, e Marian dovette
ammettere che, effettivamente, aveva un portamento regale.
«Sembra un vero edificio» commentò Marian.
«Perché lo è.»
«Da quando sono arrivata a Faerie l’unico palazzo che ho visto è stato
quello della leannán shee, ed era comunque piuttosto diroccato. Non so
perché, ma mi ero fatta l’idea che Faerie fosse quasi solo campagna e
luoghi selvaggi.»
«Mi stai chiedendo se abbiamo delle città come Londra?»
Aleister rise davanti alla sorpresa di lei.
«Cosa c’è? Ti sembra strano che io conosca Londra? La visito spesso. E
comunque, sì, certo che abbiamo delle città, adesso ci troviamo proprio
nella capitale. Potrei portarti a fare un giro, dato che siamo già qui, sarebbe
un grande onore per una dell’Altrove. Sono parecchi anni che un mortale
non vi mette piede. Di solito avete la tendenza a fermarvi ubriachi attorno ai
passaggi che collegano i nostri due mondi. Comunque è un peccato, perché
Faerie non è più splendente e ricca come un tempo… Avresti dovuto
vederla prima, sono sicuro che ne saresti rimasta conquistata.»
«Come mai non è più come un tempo? Cosa è successo?»
«Certo che sei davvero un pozzo inesauribile di domande!» Aleister le
lanciò un’occhiata divertita, poi riprese: «È colpa di voi umani. Crescete e
vi allargate. Più vi evolvete, voi e la vostra tecnologia, e più Faerie si fa
piccola, restringendosi sempre di più. I nostri mondi coesistono da migliaia
di anni, ma ultimamente vi siete fatti più prepotenti».
Marian non seppe cosa rispondere. Aleister non sembrava arrabbiato
mentre parlava… solo amareggiato. Triste, forse.
«Mi dispiace, non immaginavo che…»
Lui scosse i pesanti capelli, lo sguardo immobile fisso davanti a sé.
«Siamo così tanto più vecchi di voi, eppure spesso, troppo spesso, ve ne
dimenticate. Siete così giovani e così avidi. Viviamo in bilico, con i nostri
mondi sovrapposti, ma la cosa non sembra fermarvi dal pensare che tutto vi
appartenga.»
«Sovrapposti?»
Aleister interruppe la sua discesa per un attimo e intrecciò le dita con
quelle di Marian.
«Vedi? In questo modo. Siamo sovrapposti, l’uno sull’altro e
profondamente legati. Con il passare del tempo, voi avete smesso di
riconoscere gli ingressi per Faerie, avete dimenticato la magia…» Le lasciò
andare la mano, ricominciando a camminare. «Forse è un bene, dopotutto.
Siete diventati troppo pericolosi.»
«Non ne avevo idea» mormorò Marian, seguendolo lungo gli scalini.
Aleister aspettò che lo affiancasse di nuovo, per poi prenderla ancora
sottobraccio.
La stava scrutando. Ancora. Quelle occhiate che il Re delle Volpi le
rivolgeva sempre più spesso cominciavano a snervarla. Le sembrava di
essere sempre sotto esame. Pregò che quelle maledette scale terminassero,
in modo da potersi separare da lui per un po’.
«Chissà cosa vuole il consiglio nobiliare da te?» chiese Macbeth, mentre
scendeva i gradini due alla volta per raggiungerli.
Aleister sbuffò, scrollando la testa, infastidito. «Oh, immagino che
vogliano chiedermi diverse cose a cui darò un’unica risposta: no,
ovviamente. Questo colloquio porterà solo guai, ne sono certo. Quei
vecchiacci e le loro regole… L’intera faccenda si concluderà con qualche
sciocco comando mascherato da gentile richiesta.»
«Possono costringerti a fare qualcosa che non vuoi?»
«Ci devono solo provare» borbottò Aleister.
Alla fine della scalinata li attendeva un ingresso che si affacciava, come
una bocca gigantesca, su un lunghissimo corridoio con un tappeto rosso
come lingua al centro. Le pareti erano di quarzo rosa e il pavimento di
marmo nero. Tutto trasudava magnificenza e opulenza.
Aleister lasciò il braccio di Marian e aumentò il passo, superando
l’ingresso con ampie falcate. Marian e Macbeth procedevano dietro a lui,
più timorosi.
«Aleister, sovrano delle volpi!» esclamarono a gran voce due guardie.
Indossavano un farsetto blu notte con dei ricami di stelle e costellazioni che
sembravano in movimento, stretti in un’armatura argentata.
Macbeth sobbalzò per la sorpresa ma Aleister continuò a puntare dritto,
ignorandoli.
«Sembrano umani» sussurrò Marian meravigliata. Più scrutava le due
figure da sopra la spalla e più le sembravano simili a lei.
«“Sembrano” è la parola più corretta. Noi Sidhe non siamo tutti uguali.
Ciò che ci differenzia da voi dell’Altrove è la magia. Non dimenticarlo»
spiegò Aleister con aria assente. Era troppo impegnato a scrutare un
gruppetto di persone davanti a loro che discutevano animatamente vicino a
una gigantesca porta d’oro.
Si fermò bruscamente, prendendo Marian per le spalle.
«Avanti, vieni qui. Non puoi mica presentarti così» disse. Le afferrò
saldamente le corna con entrambe le mani.
«Ma c-cosa…?» protestò lei, cercando di mantenere l’equilibrio.
«Respira forte» la interruppe lui, prima di tirare.
Le corna le si staccarono dalla testa senza alcuna difficoltà,
frantumandosi in una finissima polvere bianca brillante che il ragazzo soffiò
via nell’aria. Marian si sentì improvvisamente più leggera.
«Fatto» disse. «Va meglio adesso?»
«Tu… tu potevi liberarmi dalle corna in qualsiasi momento?»
boccheggiò lei incredula.
«Certo, per un mago come me spezzare una maledizione simile è un
gioco da ragazzi.»
«Allora perché non lo hai fatto prima?»
«Be’, non ne avevo voglia» disse con un’alzata di spalle.
Marian sentì la rabbia montarle dentro. «Sei davvero impossibile! E
pensare che io mi sono fatta in quattro per aiutarti! Sei l’essere più egoista e
arrogante che io abbia mai conosciuto» strillò.
«Sì, sì, va bene. Sono tutte queste cose qui…» replicò Aleister distratto
mentre teneva d’occhio il gruppetto che iniziava a entrare alla spicciolata
nella sala con la porta d’oro. «Aspettatemi qui. Tutti e due» disse poi,
lanciando a Marian un’occhiata severa. «Ricordati che hai al collo qualcosa
di importante. Vedi di non attirare l’attenzione, intesi?»
Si ravviò i capelli con un gesto irrequieto e li lasciò soli.
Appena la pesante porta d’oro si richiuse alle sue spalle, lo stomaco di
Marian si annodò.
«Pensi che andrà tutto bene?» chiese agitata.
«Credo proprio di sì, ma per esserne certi dobbiamo fare una cosa.
Seguimi.» Macbeth iniziò a tirarla per la manica, dirigendosi a passo svelto
verso la sala dove si sarebbe svolto il consiglio nobiliare.
«Macbeth, ma dove vuoi andare? Aleister ha detto di non muoverci da
qui» protestò debolmente lei, che voleva ubbidire, ma che era anche in
preda alla curiosità. Dopotutto quando mai le sarebbe ricapitato di mettere
piede in un luogo così?
Macbeth le rivolse un gran sorriso, scoprendo i canini appuntiti.
«Andiamo a spiare il consiglio nobiliare di Faerie!»
22

«Non credo che sia una buona idea» provò a dire Marian.
«Tranquilla, l’ho già fatto l’ultima volta che ho accompagnato Aleister.
Nessuno si accorgerà di noi.»
Marian procedeva con cautela dietro Macbeth. Dopo essere sgattaiolati
dentro una stanza incustodita, si erano infilati in un buco nel muro nascosto
da un pesante tendaggio, e adesso si stavano arrampicando lungo delle
impalcature di legno. Si trovavano nell’intercapedine del muro della sala in
cui era entrato Aleister, e Marian era certa che sarebbero finiti nei guai per
questo.
«Non hai paura dell’altezza, vero?» chiese Macbeth fermandosi di colpo.
Marian pensò che il ragazzino si fosse premurato di fare questa domanda
un po’ in ritardo.
«Me la cavo, non ti preoccupare» disse con il fiatone mentre si
aggrappava ai pioli di una scala di legno che iniziò a traballare in maniera
preoccupante sotto i suoi piedi. Marian cercò di arrampicarsi più in fretta.
Da quando Aleister l’aveva liberata dalle corna si sentiva più agile.
Macbeth si fermò, allungando le orecchie.
«Senti qualcosa?» gli chiese Marian.
Macbeth annuì. «Ci siamo quasi. Da adesso in poi dobbiamo fare
pianissimo» sussurrò.
Sopra le loro teste sbocciò uno spiraglio di luce, rischiarando la
penombra in cui si erano avventurati.
“Ci siamo” si disse Marian, facendo un ultimo sforzo.
Seguì Macbeth a carponi lungo una trave di legno massiccio. Era così
spessa e larga che ci stavano entrambi senza difficoltà.
Marian gattonò fino al bordo per sbirciare sotto e capì all’istante perché
Macbeth le avesse chiesto se aveva paura dell’altezza: si trovavano sulle
travi del soffitto della stanza dove si era radunato il consiglio nobiliare. Le
pareti erano bianche, ricoperte da disegni d’oro. Da dove si trovava, Marian
non riuscì a scorgere cosa ci fosse raffigurato, ma capì che i disegni erano in
costante movimento. Al centro esatto della stanza, proprio sotto di loro,
c’era un grande tavolo ovale bianco, con nove scranni dorati intorno.
Marian vide sette persone prendere posto, lasciandone due vuoti.
La ragazza individuò immediatamente Aleister: avrebbe riconosciuto
quei capelli rossi ovunque. Si era seduto in disparte dal resto del gruppo, in
mezzo ai due posti vacanti.
Marian e Macbeth avanzarono ancora lungo la trave, finché il ragazzino
si sporse e scivolò di sotto. Marian si mise entrambe le mani sulla bocca per
bloccare il grido di sorpresa che si stava lasciando sfuggire. Quando si
affacciò, vide Macbeth sorridente, a cavalcioni sull’enorme lampadario che
rischiarava la stanza con i suoi globi luminosi.
Marian lo raggiunse, calandosi con attenzione e attaccandosi forte alle
robuste catene d’oro che sostenevano il lampadario. In quella posizione
erano abbastanza in alto da passare inosservati, ma abbastanza vicini per
poter ascoltare tutto. Si allungò accanto a Macbeth, mentre sotto di loro
iniziava l’incontro.
«Dichiaro aperta la seduta.»
A parlare era stato un uomo calvo, con buffi baffi e barbetta
perfettamente appuntiti, neri come il carbone. Sulla testa pelata aveva due
corna da caprone ricurve. Anche da quella distanza, Marian poté notare le
sue orecchie a punta di una grandezza decisamente fuori dal normale.
Indossava un elaborato abito nero trapuntato d’oro. Fra tutti i presenti,
sembrava essere quello vestito in maniera più ricca e sfarzosa, superando
persino il Re delle Volpi.
L’uomo richiamò l’attenzione dei presenti battendo più volte un
martelletto sul tavolo e Aleister si mosse irrequieto sul suo seggio. Marian
era certa che stesse sbuffando o roteando gli occhi al cielo. O tutte le due
cose insieme.
«Abbiamo due assenti oggi, andrà segnato sull’ordine del giorno»
cominciò l’uomo con le corna da caprone. Tirò fuori da una cartella piuma e
calamaio e, con rapidi gesti svolazzanti, appuntò la notizia sull’enorme
registro che teneva aperto davanti a sé. Alzò poi lo sguardo, lasciandolo
scorrere tra tutti i presenti. Quando arrivò ad Aleister, esibì un sorriso tirato.
«Guardate un po’ chi abbiamo qui con noi quest’oggi. Be’, ditemi se
questa non è una sorpresa.» Spalancò le braccia e si alzò per rivolgere un
inchino beffardo ad Aleister, che sedeva scomposto sullo scranno al lato
opposto dell’ovale. «Il Re delle Volpi è qui e ci degna della sua presenza.»
Qualche risatina serpeggiò per la stanza, ma Aleister non sembrò
badarvi.
«Non mi avete dato possibilità di rifiutare» disse con un sorriso tirato.
«Da quando sei stato nominato re della tua famiglia, ti sei presentato qui
in sole… due occasioni» continuò l’uomo vestito di nero ignorandolo.
«Sono stato molto impegnato.»
«Due volte su settecentosettantasette.»
Aleister gli rivolse un sorriso sornione. «Tremendamente impegnato.»
«Ti vorrei rammentare che in quanto re hai dei doveri…»
«E io ti vorrei rammentare, Puck» lo interruppe Aleister, senza
mascherare un certo fastidio, «che non sono un re. Il mio predecessore è
ancora vivo, quindi non spetta a me venire qui con il resto delle famiglie
nobili di Faerie.»
“Puck! Il servitore di re Oberon e della regina Titania” pensò Marian. Si
ricordò anche di come Aleister gliene avesse parlato, quando si trovavano
nelle segrete della leannán shee.
«Il tuo predecessore si è ritirato e ti ha investito di questo titolo, giovane
Re delle Volpi, che tu lo voglia o no.»
A parlare era stata un’anziana alla destra di Puck. Aveva un monocolo
dalla montatura dorata appeso al naso corto, i capelli bianchissimi e due
enormi orecchie da gatto in testa. Sembrava fragilissima, come se un soffio
di vento troppo forte avrebbe potuto ridurla in polvere.
«Dovresti accettare ciò che sei, il titolo è tuo, devi smetterla con questi
capricci. Fossi stato uno dei miei piccoli, ti avrei dato una bella tirata
d’orecchie.»
Finita la sua ramanzina, Aleister le sorrise in maniera affascinante. Si
mise la mano destra sul petto e le fece un elegante inchino. «Madama
Catglic, Regina dei Gatti dell’Isola di Mann, capisco perfettamente ciò che
dite, ma vedete… sono molto affezionato alla mia libertà. Spero che
possiate capire.»
Puck stava per replicare, quando un omone si levò il tricorno dalla testa e
lo sbatté sul tavolo. Tutti si zittirono all’istante. Il cappello aveva scoperto
una cascata di ricci rossi come la barba. Indossava una giacca verde
brillante con una doppia fila di bottoni dorati.
«Basta sciocchezze, adesso. Dobbiamo parlare degli assenti. Non vi
sembra strano che manchino proprio loro due fra tutti? Proprio adesso? È
una brutta faccenda, bruttissima» tuonò, facendo schiantare di nuovo
l’enorme palmo della mano sul tavolo.
I nobili di Faerie iniziarono a bisbigliare tra loro concitatamente,
scambiandosi occhiate gravi.
«Sappiamo benissimo che i nani sono restii a lasciare le montagne e le
loro miniere» esordì Puck.
«Ah, quindi loro possono non presentarsi a una riunione ufficiale, mentre
io no?» commentò scocciato Aleister.
Puck si era alzato e, colorato da una preoccupante sfumatura rossa,
sembrava pronto a esplodere, quando la donna pallida come la morte seduta
alla sua sinistra si intromise.
«Smettetela» disse con voce fredda.
Puck tornò subito a sedere, strofinandosi le corna per il nervoso e
lanciando occhiate infastidite nella direzione di Aleister.
«L’osservazione di Quinn è corretta» continuò la donna. Si era alzata per
parlare e i capelli neri, come fili di fumo, la stavano avvolgendo. Indossava
guanti e un mantello da viaggio neri, sopra un lungo abito dello stesso verde
spento del sottobosco d’autunno. Marian si chiese se fosse anche lei una
leannán shee.
«La febbre dell’oro e dell’argento appesta la mente dei nani. Posso
quindi giustificare la loro assenza, come avrei giustificato quella di Aleister
se non si fosse presentato…» continuò «…ma l’assenza del capo degli
hobgoblin è grave. L’assenza del capo degli hobgoblin è pericolosa.»
Si rimise a sedere, silenziosa e fredda come l’alba d’inverno.
Nessuno proferì parola per un po’, ognuno perso nei propri pensieri.
Marian studiò i sette partecipanti, uno a uno. Riconobbe subito una fata.
Assomigliava così tanto a quella che aveva incontrato con Macbeth che non
ebbe dubbi. Sedeva tra l’anziana donna gatto e il gigante Quinn, curva sul
suo scranno e piena di rughe, simile a un albero contorto. Al lato opposto
del tavolo, seduta alla destra di Puck c’era la bellissima donna che aveva
parlato e, accanto a lei, un uomo dalla pelle blu notte, cosparsa da una
spruzzata di lentiggini argentate. Aveva i capelli scuri raccolti in
un’acconciatura elaborata ed elegante, come i suoi abiti dal taglio severo.
Sedeva dritto come un fuso, le punte delle lunghe dita giunte davanti a sé.
Osservava la scena con educata curiosità, e fu proprio lui a spezzare il
silenzio, parlando per primo.
«Aleister, Re delle Volpi, abbiamo bisogno di te per mettere insieme i
pezzi di questo mosaico rovinato. Sappiamo che hai subìto un attacco.»
«Dite davvero?» rispose Aleister con aria innocente, facendo finta di
cadere dalle nuvole.
«Oh, avanti, smettila! Sappiamo che il tuo palazzo è distrutto» sbottò
furente Puck, agitando la testa cornuta.
«Be’, se anche così fosse, io non mi trovavo in casa in quel momento»
replicò Aleister in tono vago.
«Ti pregherei di parlare chiaro. È dunque vero quanto si dice?» chiese di
nuovo l’uomo alla destra di Puck. Il suo viso era imperturbabile, ma la voce
tradiva tutta la sua preoccupazione.
«È così» rispose allora Aleister.
«È stato il Negromante?»
I membri del consiglio nobiliare di Faerie borbottarono di nuovo. Tra
loro serpeggiò un’ombra di paura e preoccupazione. Aleister annuì
lentamente.
«Perché?»
Il Re delle Volpi cambiò posizione, come se fosse scomodo. Per la prima
volta sembrava in difficoltà.
«È venuto da me…» iniziò, incerto.
«Cosa voleva?»
A Marian quello parve un interrogatorio bello e buono.
«Immagino ciò che, forse, anche il Re degli Hobgoblin auspica» rispose
evasivo Aleister con un sorriso beffardo.
«Avanti, parla chiaramente, ragazzo, non abbiamo tutto il giorno» tuonò
l’enorme Quinn.
La donna pallida gli mise una mano sul braccio, come a volerlo calmare.
Poi si rivolse al Re delle Volpi: «Racconta tutto dal principio».
Questa volta Aleister sembrò perdere tutta la sua spavalderia.
«Il Negromante è venuto da me. Mi ha chiesto di unirmi a lui e alla sua
causa. A quanto pare ha dei grandi progetti per Faerie.»
«Quali progetti?» lo interruppe l’anziana donna gatto.
Aleister scrollò le spalle. «Non ho chiesto, perché non ero interessato.
Mi ha detto che sarebbe stato generoso con gli amici e… be’, implacabile
con i nemici. Gli ho risposto che per me poteva fare quello che voleva, a
patto che mi lasciasse in pace. Io amo la mia tranquillità.»
«Oh, questo lo sappiamo tutti molto bene» borbottò Puck.
Aleister lo fulminò.
«È per questo che ha distrutto il tuo palazzo?» chiese la vecchia fata.
Aveva parlato con voce rauca e gracchiante.
«Credo che fosse un avvertimento. Nel dubbio, ho pensato che fosse una
buona idea nascondermi.»
Puck ridacchiò. «Be’, non così bene, dato che siamo riusciti a
convocarti.»
«Quando voglio farmi trovare lo rendo possibile» ribatté Aleister con il
suo miglior sorriso.
«Il Negromante… non ho mai pensato che potesse essere una minaccia»
disse la donna.
«Ha acquisito troppo potere. Troppi alleati. Se sta tramando qualcosa,
dovremmo indagare» aggiunse l’uomo al suo fianco in tono asciutto.
Ci furono diversi assensi e borbottii.
«Niente impedisce a voi banshee ed elfi di indagare» disse Quinn con un
ringhio. «Sempre che la cosa non vi rechi troppo disturbo.»
«Ovviamente indagheremo. Proteggere Faerie e la sua magia è sempre
stata la nostra priorità» ribatté asciutta la banshee, i capelli che avevano
iniziato a fluttuarle attorno.
Marian venne attraversata da un brivido. L’idea di trovarsi nella stessa
stanza con una banshee non la entusiasmava. Nell’Altrove erano
considerate ambasciatrici di morte. Quando ne si udiva il pianto o il
lamento, era già troppo tardi…
«Possiamo contare sulla tua lealtà?» chiese l’anziana donna gatto,
rivolgendosi ad Aleister.
Aleister sembrò sorpreso da quella domanda.
«Madama, non dovete dubitare della mia fedeltà nemmeno per un
istante» rispose lui in tono di enorme sorpresa.
«La vera domanda che dobbiamo però porci adesso è: che cosa vuole il
Negromante? Sappiamo che sta radunando la peggior feccia di Faerie, ma a
quale scopo?» disse Puck, scuotendo gravemente la testa.
I membri delle famiglie nobili di Faerie ammutolirono, scambiandosi
occhiate gravi. Scese un silenzio denso.
«Qualcosa dovrà pur volerlo, se si è rivolto al Re delle Volpi» disse la
banshee. Poggiò i gomiti sul tavolo, intrecciando le dita guantate di nero,
lanciando poi un’occhiata penetrante a tutti i presenti. «Pensate che
riceveremo anche noi una visita simile?»
«Ho sentito che ha il Leviatano dalla sua» commentò cupa la fata.
Il consiglio proruppe in borbottii preoccupati.
«Corbellerie!» urlò Quinn, battendo l’enorme pugno sul tavolo. «Se così
fosse, saremmo tutti nei guai.»
«Ha dalla sua il Re degli Hobgoblin, siamo già nei guai» disse perentorio
l’elfo.
I sette membri del Consiglio dei Nove iniziarono a discutere
animatamente, mentre Aleister continuava a fissare Puck all’altro capo del
tavolo, con un odioso sorriso stampato in faccia.
Marian lanciò a Macbeth un’occhiata preoccupata.
Quella figura ammantata di nero che aveva scorto, la persona di cui
Aleister si era rifiutato di dirle il nome… si trattava del Negromante?
«Qui non si vede proprio un accidente. Sempre a fare economia eh,
vecchio Puck?» brontolò all’improvviso Quinn. Schiaffò sul tavolo un
sacco di cuoio marrone a cui slacciò le corde. «Facciamo un po’ di luce in
più, o finirai per perdere la vista a furia di consultare il tuo registro con
questo buio. Via, piccoline, andate!»
Dalla borsa sciamarono tante piccole luci che si innalzarono nell’aria,
svolazzando accanto ai globi del lampadario e alle facce di Marian e
Macbeth nascosti a origliare.
A Marian per poco non prese un colpo quando si accorse che non si
trattava di lucciole ma di minuscoli spiritelli. Avevano le teste schiacciate e
allungate, un busto corto e gambe e braccia lunghissime. Sulla schiena
avevano ali da libellula e delle espressioni malvagie sui minuscoli volti.
Iniziarono subito ad appendersi ai capelli di Marian, tirandoglieli, e a fare
capriole sulla sua schiena.
La ragazza iniziò a sudare, cercando di resistere alla tentazione di
dimenarsi per scacciarli via. Gli spiritelli passarono a pizzicarle le guance e
a cercare di infilarsi nelle sue narici. Stava provando a nascondersi il viso
tra le mani, quando sentì Macbeth gemere. Allargò le dita per spiare in
direzione del ragazzino. Le minuscole creature dispettose gli stavano sedute
in testa e avevano iniziato a tirargli i capelli con grande gusto.
Il lampadario, immobile fino a quel momento, iniziò a oscillare.
Macbeth cercò di allontanare le creature con una manata, aizzandole ancora
di più. Offese, quelle tornarono all’attacco più inferocite di prima. Si
infilarono sotto la sua giacca, facendogli il solletico e mordendolo. Macbeth
schizzò in piedi e cominciò a colpirsi il busto nel tentativo di scacciarle.
Il lampadario dondolò ancora più forte e cigolò in maniera preoccupante.
«Macbeth, ti prego, cerca di resistere…» gli sussurrò Marian,
aggrappandosi alle pesanti catene.
Un istante dopo il lampadario si staccò.
Marian e Macbeth precipitarono nel vuoto, schiantandosi con un boato
sul tavolo del consiglio nobiliare di Faerie.
23

L’inaspettato atterraggio di Marian e Macbeth, oltre al fragore dello


schianto del lampadario, portò un notevole scompiglio tra i membri delle
nobili famiglie di Faerie.
«Spie del Negromante!» gridò Puck, sputacchiando in mezzo al
polverone.
«Ci penso io!» Quinn balzò in piedi come una furia, rovesciando lo
scranno a terra e allungando le enormi mani verso Marian e Macbeth,
ancora storditi dalla caduta.
«Fermo, non li toccare!» tuonò Aleister, alzandosi di scatto.
I membri del consiglio ammutolirono all’istante.
«Li conosci, Re delle Volpi?» sibilò poi la banshee. I capelli fluttuavano
furiosamente in aria e gli occhi le erano diventati completamente neri.
«Sono miei servitori» disse Aleister a denti stretti.
Sotto lo sguardo vigile dei Sidhe più potenti di Faerie, il Re delle Volpi
si alzò dal suo scranno con una certa flemma. Si spazzolò via la polvere
dalla giacca con un gesto elegante e aiutò Marian a scendere dal tavolo,
liberandola dai resti del lampadario, afferrandola sotto le braccia come i
bambini. Fece la stessa cosa con Macbeth, sussurrandogli un calmo ma
furioso: «Io e te faremo i conti dopo». Con un pigro gesto della mano, fece
poi tornare il lampadario al suo posto. Persino i calcinacci e la polvere
caduti dal soffitto scomparvero.
Le creature dispettose, che si erano disperse nel momento della caduta,
sciamarono al sicuro dentro il sacco di Quinn.
«Chiedo scusa per il comportamento oltraggioso dei miei servitori. A
quanto pare non sono particolarmente bravo a farmi rispettare» disse
Aleister.
Sembrava calmo, ma Marian intercettò per sbaglio il suo sguardo,
pentendosi subito di averlo fatto. Gli occhi del Re delle Volpi emanavano
fuoco e fulmini.
Sentendosi terribilmente a disagio, la ragazza cercò comunque di
sfoderare il suo sorriso migliore mentre l’intero consiglio scrutava lei e
Macbeth.
Il viso di Puck, contratto nello sforzo di studiarla, si sciolse dalla
sorpresa. «Ma… ma è una dell’Altrove!» balbettò indignato.
«Cosa?» ruggì Quinn.
«La ragazza! È un’umana!» continuò Puck accalorato, puntando un
lungo dito ossuto contro Marian.
Lei arretrò, e Aleister si mise al suo fianco, stringendole la spalla. La
fulminò con uno sguardo che voleva dire “stai zitta, non fiatare, lascia
parlare me” e sorrise conciliante al suo pubblico infuriato.
«Prima che possiate arrivare alle conclusioni sbagliate, lasciate che vi
spieghi. È la mia protetta…»
Puck stava tremando di rabbia, il viso paonazzo.
«Come hai osato, portare qui… nel luogo più sacro di Faerie, una
creatura simile?» disse sputacchiando. Quinn, accanto a lui, si ritrasse per
evitarne la traiettoria.
«Questo è troppo perfino per te, Aleister» commentò la banshee.
Aleister le rivolse un sorriso compiaciuto. Sembrava fin troppo
soddisfatto dall’aver provocato quell’indignazione generale.
«Ne ho abbastanza!» gridò Puck, sbattendo il suo martelletto sul tavolo
in preda a una furia cieca. «Ti bandisco per l’eternità da questo consiglio!»
«Non vedevo l’ora» disse sarcastico Aleister.
La donna gatto, rimasta seduta sul suo seggio per tutto quel tempo, scattò
in piedi scandalizzata. «Non hai il potere di fare una cosa simile» disse
soffiando verso Puck.
Marian rimase colpita da come l’anziana stesse prendendo le parti di
Aleister, difendendolo a spada tratta.
«Quella delle volpi è una delle quattro famiglie fondatrici del regno. Se
c’è qualcuno che merita davvero un posto in questo consiglio magico è
proprio quel giovanotto» disse, allungando una mano bianca verso Aleister.
«Tu, piuttosto» continuò sprezzante verso Puck, che stava dimostrando
come la sua faccia potesse contare innumerevoli sfumature di rosso e viola,
«se sei qui è perché sei stato bravo a scegliere le orecchie a cui sussurrare i
tuoi velenosi consigli. Non sei nato per occupare uno di questi seggi…
Ricordati che sei solo un ospite.»
La donna gatto si aggiustò il monocolo d’oro, si lisciò la coda
prendendosela in grembo e si sedette di nuovo.
«Dovremmo fare queste riunioni più spesso. Si rivelano più interessanti
del previsto» commentò la banshee divertita.
«La seduta quindi è sciolta?» chiese l’elfo alzando un sopracciglio e
rinfoderando la lunga spada che aveva prontamente estratto poco prima.
Puck annuì, offeso. Batté un paio di volte il martelletto sul tavolo e si
chinò a prendere la cartella piena di documenti e pergamene in cui infilò in
malo modo il suo registro. Poi si affrettò verso la porta senza salutare
nessuno. Si fermò solo quando raggiunse Aleister, per rivolgergli la più
spregevole delle occhiate.
«Non potrai contare sulle amicizie giuste per sempre.»
Gli occhi di Aleister brillarono divertiti. «Potrei dirti la stessa cosa» gli
rispose allegro.
Puck arricciò il viso, oltraggiato, poi tirò dritto, spalancando le porte
dorate.
La seduta era ufficialmente sciolta.
L’enorme Quinn si avvicinò a Marian. A vederlo in piedi faceva ancora
più paura. Si era calcato il tricorno in testa e si era chinato a osservare la
ragazza con grande interesse.
«Sicuro che non si tratti di una spia del Negromante?» chiese sospettoso.
Aleister scoppiò a ridere e gli diede delle sonore pacche sulle spalle. O
almeno ci provò, dato che gli arrivava a malapena al petto.
«Chi, Marian? Puoi fidarti, Quinn. È l’essere umano più innocuo che tu
possa incontrare. Lasciate che vi presenti. Marian, questo è Quinn, Capo dei
Leprecauni di Faerie. Quinn, questa è Marian Crawford, una ragazza molto
gentile che ha aiutato il mio servitore Macbeth quando si è trovato in
difficoltà nell’Altrove. Al momento è con me perché le ho promesso un
desiderio.»
Il viso di Quinn si illuminò e le labbra si tirarono in un sorriso sghembo.
«Un desiderio, eh? La prossima volta, ragazzina, aiuta un leprecauno. Un
mucchio d’oro è più utile di qualche sciocco desiderio» le disse strizzando
un occhio.
L’enorme omone si tolse il tricorno dalla testa e le fece un inchino,
scoprendo i ricci rossi. Accanto a Marian sembrava un gigante. La ragazza
gli arrivava a stento all’ombelico.
«Nelle nostre storie avete un’altra… misura» mormorò stupita Marian.
Quinn si portò le mani sull’enorme stomaco e rise forte. Era una risata
così fragorosa che si voltarono tutti a guardarlo incuriositi.
«È normale. Tutti noi di Faerie abbiamo un altro aspetto quando
oltrepassiamo i confini e veniamo nell’Altrove.» Mise un braccio attorno al
collo di Aleister. «Dovresti vedere lui come diventa soffice e carino!»
Quinn si sganasciò dalle risate mentre Aleister, scarmigliato, cercava di
divincolarsi dalla sua presa.
«Grazie, Quinn» disse a denti stretti. «Ci vediamo presto.»
Marian si morse l’interno delle guance per non ridere.
Mentre Quinn si allontanava, facendo tremare con i suoi passi il
pavimento sotto ai loro piedi, si avvicinarono a Marian e Macbeth prima la
banshee, poi l’elfo e infine la fata, che fece un cenno con il capo ad
Aleister.
«Brutta faccenda il Negromante» brontolò con voce fangosa.
«Dobbiamo tenerlo d’occhio. Ci porterà un mucchio di guai, me lo sento
nelle mie vecchie viscere.»
«Lo abbiamo sottovalutato. Tutti noi lo abbiamo sottovalutato» disse la
banshee. Sbirciò in direzione di Marian, e la ragazza sentì i capelli sulla
nuca drizzarsi.
«Potrebbe avere a che fare con quella profezia…» continuò la fata,
pensierosa.
«Quale tra le mille?» domandò l’elfo sospirando.
La fata cercò di ricordare. Si concentrò, chiudendo gli occhi, e il
faccione grinzoso assunse una brutta tonalità di grigio. «Non la ricordo
precisamente… ma diceva qualcosa come: “Nel giorno dei morti, quando i
confini dei mondi si assottigliano, l’Altrove e Faerie diventeranno un
tutt’uno”.»
Un’ombra si abbatté su di loro.
«Non vorrà mica…» sussurrò la banshee portandosi le lunghissime dita a
coprirsi la bocca.
«Pensate che c’entrino le sue origini in qualche modo? Avete visto
quanta strada ha fatto in soli trecento anni… Dobbiamo controllarlo, porgli
dei limiti prima che sia troppo tardi» disse l’elfo con voce asciutta.
Tutti annuirono, con espressioni contrite.
Aleister continuava a osservarli con il suo solito sorrisetto storto
stampato in faccia, come se fosse completamente immune a qualsiasi tipo di
preoccupazione. Quell’espressione beffarda mandava ai matti Marian.
«E così faremo. Adesso a casa, bambini. Sono tempi difficili e dobbiamo
sorvegliare le nostre famiglie. Ci rincontreremo presto» disse gravemente
l’anziana donna gatto. Con un gesto della mano incartapecorita, evocò un
lungo bastone bianco e oro, con cui si aiutò a camminare. Marian si augurò
che la donna per andarsene da lì non dovesse percorrere quell’enorme
scalinata che aveva affrontato al suo arrivo.
La banshee si accomiatò con un cenno del capo. Poi si piegò su se stessa
trasformandosi in una voluta di fumo grigio e svolazzò via dalla sala.
L’elfo fece un piccolo inchino verso la donna gatto, ignorando
deliberatamente Aleister che le stava accanto e, dritto come un fuso, la
sottile spada che scintillava appesa al fianco, uscì anche lui dalla sala.
«Brutta faccenda questa profezia» gracchiò la fata. Si avviò claudicante
verso l’uscita, seguita dall’anziana donna gatto, quando Aleister raggiunse
quest’ultima.
«Madama, devo parlarvi» le disse, mortalmente serio.
Marian non lo aveva mai visto con un’espressione simile.
Gli occhi gialli dell’anziana lo scrutarono a fondo, come se riuscisse a
leggere qualcosa dentro di lui.
«Vieni con me» disse, annuendo gravemente. «Abbiamo molto di cui
discutere.»
Aleister fece cenno a Marian e Macbeth di seguirli.
Appena lasciarono la sala, l’enorme doppia porta dorata si chiuse alle
loro spalle. L’anziana donna gatto proseguì lungo il corridoio e li condusse
in una stanza nascosta, in cui si stiparono tutti e quattro. A Marian sembrò
l’equivalente di un ripostiglio per le scope.
Aleister schioccò un dito e la stanza si riempì di piccole fiammelle
fluttuanti che rischiararono l’ambiente.
Marian scorse un gran mucchio di cianfrusaglie ammassate lungo le
pareti. Sì, si trattava decisamente di un ripostiglio.
L’anziana agitò con grazia il bastone sopra le orecchie e invitò con
gentilezza Aleister, Marian e Macbeth a farsi ancora più vicini al centro
della minuscola stanza, mentre sulle loro teste si formava un reticolo di luce
dorata. Una gabbia.
«È una precauzione» disse scrutando Marian da dietro il monocolo con
occhi attenti. «Solo chi si trova qui dentro potrà sentire ciò che abbiamo da
dirci.»
Alla luce delle fiammelle Aleister sembrava un po’ pallido e Marian
sentì lo stomaco attorcigliarsi. Era il Negromante di cui tutti parlavano a
preoccuparlo? Eppure si era dimostrato così beffardo davanti alla
distruzione del suo palazzo.
«Noto con piacere che hai finalmente deciso di deporre quella maschera
da sbruffone che hai tenuto durante la riunione» lo imbeccò la donna.
Aleister le rivolse un sorriso mesto. «Credo di sì.»
«Molto bene. Avanti, dimmi ciò che ti preoccupa.»
Aleister sembrò esitare. Guardò Marian e lei cercò di incoraggiarlo con
lo sguardo.
«Si tratta del Negromante. Non ho detto tutta la verità, prima.»
La donna gatto sorrise sorniona.
«Lo sospettavo.»
«In effetti non mi ha rivelato quali fossero i suoi piani… Ma voleva
qualcosa da me e io mi sono rifiutato di dargliela. Per questo sono scappato,
per questo mi sono nascosto.»
«Cosa ha osato chiederti di così importante da metterti addirittura in
fuga?» L’espressione dell’anziana era cambiata. Adesso sembrava tesa
anche lei, come se sentisse il peso del pericolo gravarle sulle spalle.
Aleister stirò le labbra in un sorriso contrito. Poi prese fiato, per cercare
la forza che gli serviva per pronunciare ciò che doveva rivelare.
«Mi ha chiesto la mia… parola, quella custodita dalla famiglia delle
volpi» disse.
La donna sgranò gli occhi. Marian vide la pupilla dietro al monocolo
farsi piccola come uno spillo.
«Questa… questa è una richiesta molto pericolosa…» sussurrò
spaventata.
«Temo che verrà a porvi la medesima richiesta, ma con ben altri modi»
disse grave Aleister.
Lei annuì, posandogli una mano sul braccio come a volerlo rassicurare o
a cercare lei stessa conforto da quel contatto.
«Ma la vera domanda adesso è… come ha fatto a scoprirlo? L’esistenza
delle parole è segreta. Solo i capostipiti delle quattro famiglie fondatrici ne
sono a conoscenza. È un segreto così antico che persino il consiglio
nobiliare ne è all’oscuro…»
Aleister scosse la testa.
«Non ne ho idea. Temo che sia come è stato detto durante la riunione…
Lo abbiamo sottovalutato per troppo tempo. Troppo a lungo gli abbiamo
permesso di stare tra noi, di imparare da noi, di studiarci…»
«E la tua parola?» chiese la donna riassestandosi il monocolo con mano
tremante, le orecchie da gatto tirate indietro. «Non gliela avrai consegnata,
spero. È al sicuro?»
«Madama, sarei morto piuttosto. Non l’avrei mai consegnata» esclamò
Aleister offeso. «Il punto comunque è che non la possiedo. Il Negromante
non mi ha creduto quando gliel’ho detto. Ha pensato che mentissi.»
«Il tuo predecessore…» osservò l’anziana, capendo.
Aleister annuì.
«Ho solo il titolo di re, la parola non mi è ancora stata tramandata. La
custodisce ancora lui.»
«È al sicuro?»
Aleister si fece cupo e pensieroso. Marian provò pena per lui. Avrebbe
voluto poterlo aiutare in qualche modo, ma anche adesso, come in tutta la
sua vita nell’Altrove, sentiva di essere solo una spettatrice inerme.
«Sì, ma potrebbe essere trovato. Io… io non pensavo che il Negromante
potesse essere una minaccia. Pensavo che l’attacco al palazzo fosse una
stupida ripicca… ma l’assenza del Re degli Hobgoblin è sospetta. Troppo
sospetta, soprattutto adesso, dopo quanto è accaduto. Si sta facendo degli
alleati potenti, e lo sta facendo alla luce del sole. Inizia a preoccuparmi. Ho
fatto anche io lo stesso errore di tutti gli altri: l’ho sottovalutato e ora vorrei
porre rimedio. Se sta pianificando qualcosa, bisogna fermarlo prima che sia
troppo tardi.»
Ammetterlo ad alta voce gli fece uno strano effetto. Abbassò lo sguardo
a terra, la mascella contratta.
Qualcosa scattò in Marian, che allungò una mano verso quella di
Aleister. Lui, senza nemmeno voltarsi a guardarla, gliela strinse con
gentilezza, tenendola nascosta dietro la schiena.
La mano del Re delle Volpi era grande, calda, dalla presa salda. Marian
voleva stringergliela per dargli coraggio, ma adesso era lei che si sentiva
confortata.
Ripensò alla mano umidiccia e molle di Carl Lawrence e di come si era
sentita imbarazzata quando gliela aveva stretta. Adesso, tenere le dita
intrecciate a quelle di Aleister le sembrava la cosa più normale del mondo.
«Se ha chiesto la parola, credo che abbia un solo obiettivo» ragionò la
donna anziana. I suoi occhi si erano velati, come se stesse cercando di
guardare più in là di quello che aveva davanti in quel preciso istante.
«Pensate che c’entri in qualche modo ciò che ha detto la fata?» si
intromise timidamente Marian.
Aleister e la donna si voltarono a guardarla, entrambi sovrappensiero.
«Mi ero quasi dimenticata di te, piccola di umano. Vorresti dirmi il tuo
bel nome?» chiese la donna, appoggiandosi al suo bastone e sorridendo
cordiale.
Aleister lasciò andare la mano di Marian come se scottasse, incrociando
le braccia sul petto. Marian, imbarazzata, nascose anche lei la sua dietro la
schiena.
«Marian. Marian Crawford… Madama» disse, accennando la riverenza
che aveva imparato a fare per le situazioni ufficiali a corte.
«Bene, giovane Marian Crawford, io sono Catglic, matriarca e Regina
dei Gatti dell’Isola di Mann. Se stai parlando è perché Aleister lo ritiene
opportuno, giusto?» chiese rivolgendo un’occhiata severa al troppo giovane
Re delle Volpi.
Lui si schiarì la voce imbarazzato. «Lo ritengo, invero» rispose
cerimonioso. Poi scoccò un’occhiataccia a Marian. Forse invece non lo
riteneva per niente.
«Dicevi, dunque, giovane?»
«Quella profezia di cui ha parlato la fata… Mi siete sembrati tutti
abbastanza allarmati quando l’avete sentita.»
«Lo siamo perché è in effetti piuttosto calzante con la situazione. Anche
le tempistiche coincidono in maniera sconcertante. Sembra che tutto quadri
un po’ troppo» osservò Catglic con aria grave.
«Ma una cosa può essere presa per un’altra. Succede spesso quando ci si
fissa con le profezie: ognuno cerca di leggerci ciò che vuole, piegandole
secondo i propri desideri» disse scettico Aleister. «Faerie è piena di
profezie, e il più delle volte non si rivelano mai essere ciò che appaiono
all’inizio.»
«Ma, in un modo o nell’altro, si avverano sempre» commentò affabile
Catglic.
Marian capì cosa intendevano.
«Penso che potrebbe essere un’idea molto saggia andare a fare visita al
tuo predecessore e assicurarti che tutto vada bene. So che si sta godendo i
suoi ultimi giorni in solitudine, ma è meglio essere prudenti. Se vuoi
rimanere nascosto ancora per un po’, potresti farlo nel suo palazzo, tra le
montagne.»
Aleister annuì. Ora sì che sembrava pallido.
La donna gatto batté il bastone a terra tre volte e l’incantesimo della
gabbia si spezzò, iniziando a sgretolarsi.
«Ci rivedremo, dunque» disse, rivolgendosi ad Aleister ma guardando
Marian negli occhi.
«Partirò immediatamente» fece Aleister.
«Mi raccomando. Appena ti sarai assicurato che è tutto in ordine trova
un modo per avvertirmi.»
Scoccò un’ultima occhiata in direzione di Marian, mentre apriva la porta
verso l’esterno, illuminando lo stanzino. «Dovresti portarli con te.
Soprattutto lei.»
Aleister rivolse uno sguardo curioso verso Marian. Sembrava divertito.
«Adesso andate. Non c’è tempo da perdere» disse la donna.
Aleister si portò la mano al petto e la salutò con un inchino. Marian le
rivolse di nuovo una riverenza e venne imitata goffamente da Macbeth che,
in silenzio, aveva assistito a tutto capendo ben poco.
Mentre lasciavano la stanza, Marian strinse i pugni.
Sentiva ancora il calore della mano di Aleister nella sua.
24

«So che vorresti farmi mille domande, ma dovrai attendere. Non è né il


momento, né il luogo giusto. Dobbiamo andarcene immediatamente da qui.
Prima ci mettiamo in viaggio e meglio è.»
Aleister procedeva ad ampie falcate lungo il tappeto rosso dell’elegante
corridoio, seguito da Macbeth e da Marian che, pur di poter correre più
agilmente dietro alle sue gambe lunghe, aveva sollevato la gonna del
vestito, scoprendo gli stinchi.
La ragazza lo affiancò, agguerrita. Non gli avrebbe permesso di svicolare
di nuovo, questa volta era determinata a farlo parlare.
«Potrei iniziare con le domande più innocue della lista e tu potresti
rispondere a una o due, cosa ne pensi? Ho già la prima pronta: dove
siamo?»
Le sembrava una domanda sufficientemente innocente da meritare una
risposta.
Aleister alzò gli occhi al cielo, tanto per cambiare.
«Ci troviamo nel parlamento di Faerie, nella sua capitale.»
«Avete una capitale? Avete un parlamento?» chiese Marian stupita,
mentre Macbeth le saltellava alle spalle faticando a tenere il passo.
«Pensi che sia una prerogativa umana? Avevamo una capitale quando
voi inglesi andavate a caccia con arco e frecce.»
«E come si chiama?»
«La nostra capitale? Faerie, ovviamente.»
Marian lo guardò come se stesse scherzando. «La capitale di Faerie è
Faerie?»
Aleister fece una smorfia. «Ammetto che non siamo stati molto creativi
con il nome, ma c’è una spiegazione. Faerie, il mondo magico così come lo
conosci, è nato proprio qui. Questa Faerie, la città, bada bene, è la Faerie
originale che poi nel corso dei secoli è cresciuta sempre di più. Ha allungato
le sue radici, diventando piano piano una grande terra. Tutto è iniziato da
qui. Prova a pensare a Faerie come a un corpo… be’, adesso ti trovi al
centro del suo cuore pulsante.»
«Ha senso» disse Marian.
«Ti ringrazio» rispose beffardo lui.
«Quindi adesso cosa si fa?» attaccò Macbeth, affiancando Aleister
dall’altro lato e agitando la folta coda.
«Cosa state provando a fare voi due? Volete mettermi alle strette?»
«Esatto!» esclamarono Marian e Macbeth all’unisono.
«Da questa parte, con me.»
Lasciatosi il corridoio alle spalle, attraversarono una serie di sale con
lucidi pavimenti di legno scuro e soffitti incantati, in cui enormi sfere dorate
si muovevano su un letto di stelle simili a pianeti. Sbucarono in un nuovo
corridoio, con due file di statue di marmo che si ergevano ai lati. Marian le
guardò incuriosita. Quella che svettava rispetto alle altre raffigurava un
gigantesco leprecauno. Riconobbe anche qualche banshee e un paio di fate.
«Chi rappresentano queste statue?» chiese Marian.
«Gente importante. La maggior parte morta da tempo» rispose Aleister.
Ne sorpassarono una dall’aria decisamente familiare e Marian si bloccò
di colpo. «E questa?»
Aleister sbuffò. Marian non seppe dire se era scocciato per la domanda o
perché l’aveva costretto a fermarsi.
«È il mio predecessore da giovane.»
Vedendo Aleister accanto alla statua, con le braccia incrociate, Marian
rimase colpita dalla somiglianza. Se non fosse stato per le orecchie e la
coda che ad Aleister mancavano e che invece la statua sfoggiava, sarebbero
stati due gocce d’acqua.
«Andiamo adesso, non abbiamo tempo per fare una visita guidata»
sbottò lui, ricominciando a camminare a passo svelto.
«Perché nascondi le orecchie e la coda?» lo incalzò lei.
«Perché sì.»
Marian notò che era leggermente arrossito.
Aleister percorse un nuovo lunghissimo corridoio, imboccando poi una
larga rampa di scale che si apriva a ventaglio. Erano arrivati all’entrata
principale, che scoppiava di vita. Marian vide una gran quantità di creature
magiche che non aveva mai visto. I Sidhe erano tanti e tutti diversi tra loro,
come aveva imparato dal Consiglio dei Nove. Passò accanto a loro un
enorme leprecauno, vennero poi superati da diversi elfi dalla pelle rossa e
dai capelli bianchi acconciati in intricate pettinature e Marian ne fissò
affascinata gli abiti tintinnanti ricoperti di gemme.
C’era così tanto da vedere e da osservare che a Marian dispiacque avere
solo due occhi. Come era stata sciocca a credere che Faerie fosse solo un
insieme di distese di fiori e lande selvagge. Faerie era piena di vita.
«Stai attenta a chi fissi, Marian. Non tutte le creature amano essere
ammirate» la mise in guardia Aleister.
Marian puntò gli occhi sugli scalini.
«Mi sembra che invece tu non abbia problemi… A te piace farti
ammirare» lo punzecchiò.
«Sarebbe un gran peccato se non lo facessero» ammise lui sorridendo.
Marian venne colta all’improvviso da un’ondata di imbarazzo nel
ricordare la naturalezza con cui aveva allungato la mano verso il giovane re
e l’assoluta indifferenza con cui lui l’aveva stretta. Aleister adesso
sembrava tornato come sempre: di buon umore e pronto a rispondere in
tono sarcastico a tutti. Non sembrava provare un briciolo di disagio nel
rivolgersi a lei, quindi o per lui quel gesto non aveva significato nulla… o
era l’essere più sfacciato di tutti i mondi.
Marian temeva che fossero vere entrambe le cose.
«Ora, ascoltatemi molto bene voi due ficcanaso» disse il Re delle Volpi
interrompendo i suoi pensieri e rivolgendosi a lei e Macbeth, «perché
adesso parlerò e poi lo rifarò solo molto più avanti, quando saremo al sicuro
da occhi e da orecchie indiscrete. Avete sentito cos’ha detto Madama
Catglic?»
Marian e Macbeth annuirono.
«Molto bene. Ho riconosciuto i miei errori, e non ho alcuna intenzione di
ripeterli. È vero, proprio come hanno fatto gli altri, anche io ho preso
questa… questione sotto gamba. Ciò accade quando si ha la presunzione di
sapere giudicare le persone. Ammetto che avevo trovato quell’individuo
piuttosto interessante… Il suo fascino ha colpito anche me. Quindi quando
è giunto tra noi, facendosi strada qui a Faerie, sgomitando per ritagliarsi il
suo posto nel mondo, non me ne sono preoccupato. Non ho previsto la
minaccia che sarebbe poi diventato. Del resto come avrei potuto? Ma mi ero
sbagliato, e ora è meglio andare a controllare che tutto sia in ordine, proprio
come ha suggerito Catglic.»
«Sei preoccupato?» chiese Marian.
Aleister sorrise, scuotendo la testa. «Io non sono mai preoccupato,
Marian. Adesso venite con me, dobbiamo trovare un punto per poter
viaggiare fino alla nostra destinazione.»
«Non possiamo riattraversare quell’enorme portale da cui siamo
venuti?» chiese Macbeth, anticipando la domanda di Marian.
«Scherzi? Il portale del parlamento registra ogni arrivo e ogni partenza.
Non voglio far scoprire a tutti dove siamo diretti. Il luogo dove dobbiamo
andare è privato, la sua posizione va protetta con tutti gli accorgimenti del
caso. Motivo per cui dobbiamo essere cauti e trovare un passaggio sicuro»
spiegò Aleister con pazienza. «Questo per caso risponde a qualche altra tua
domanda?» chiese con un sorriso beffardo rivolgendosi a Marian.
Lei, rossa in volto, stava per rispondere quando il ragazzo schizzò fuori
dall’ingresso del parlamento. «Seguitemi, mi è venuta un’idea. So chi
potrebbe aiutarci.»
Aleister si tuffò nel mare colorato di creature Sidhe che affollavano la
strada. Macbeth cercò la mano di Marian e gliela strinse forte. «Così non ci
perdiamo» disse.
La ragazza gliela strinse di rimando, seguendo poi la testa rossa di
Aleister in mezzo alla folla.
Se Marian aveva pensato che l’ingresso del parlamento fosse affollato,
non era pronta per ciò che c’era fuori. L’enorme piazza che si ritrovò
davanti era un’esplosione di suoni, di forme, di esseri e creature fatate di
ogni tipo, colore e dimensione. Doveva trattarsi di qualche tipo di mercato,
perché oltre alla folla di Sidhe, c’era un gran numero di bancarelle e
carretti, spaventosamente simili a quello che trascinava la fata che Macbeth
aveva derubato. D’istinto, Marian strinse il ragazzino più vicino a sé.
Aleister attraversò la piazza con destrezza, tuffandosi rapido nella ressa.
Appena faceva un passo, sembrava quasi che la folla di Sidhe si aprisse per
lasciarlo passare. Marian era certa che fosse colpa, o forse merito, di quel
suo portamento regale. Aleister aveva la capacità di ammaliare chiunque
con i suoi occhi verdi e il bel viso con le labbra sempre arricciate da un
sorriso. Marian e Macbeth arrancavano a fatica dietro di lui, facendo
attenzione a schivare i carretti e a non finire a terra spintonati o, peggio,
schiacciati, da qualche leprecauno troppo esuberante.
«Code di lucertola! Code di lucertola freschissime!»
Qualcuno agitò davanti a Marian un mazzolino di code di un verde
brillante. Lei si ritrasse schivandole appena in tempo.
«Non vuoi nemmeno un po’ di ali di pipistrello?» chiese delusa la fata
rugosa, scuotendo il mucchietto di ali come un ventaglio.
Marian allungò il passo, stringendo la mano di Macbeth. Si affrettò a
raggiungere il Re delle Volpi, che intravide procedere spedito davanti a
loro. Non aveva intenzione di perderlo in mezzo alla folla. Lo aveva quasi
raggiunto, quando una fata con un cilindro nero tutto ammaccato in testa le
si piazzò davanti, bloccandole la strada.
«Occhi di neonato dell’Altrove, contro il malocchio!»
Le mostrò il vassoio pieno di boccette e ampolle che teneva tra le mani
nodose e curve. Qualcosa di bianco e tondo galleggiava nell’acqua putrida.
«Non saranno veri occhi, mi auguro! Eh, Aleister?» gridò Marian per
richiamare l’attenzione del Re delle Volpi. Ma quando alzò lo sguardo,
quello era sparito.
Lei e Macbeth si fermarono in mezzo alla folla.
«Lo vedi?» chiese preoccupato il ragazzino.
Marian si alzò in punta di piedi, cercando di sovrastare le fate e gli
avventori che brulicavano nel mercato. Non riuscì a scorgere i capelli rossi
di Aleister da nessuna parte. Il ragazzo sembrava essersi smaterializzato.
Mentre il panico cresceva dentro di lei, si ordinò di rimanere calma. La
mano le andò automaticamente alla gola a tastare il medaglione. Era ancora
lì, al sicuro sotto ai vestiti.
«Non ti preoccupare, Macbeth. Adesso lo ritroviamo» disse al ragazzino,
cercando di suonare tranquilla. Ma la voce le uscì forse un po’ troppo
stridula.
Ricominciarono a camminare, senza una vera direzione, guardandosi
freneticamente attorno.
Ancora una volta una fata le si parò davanti con il suo carretto,
bloccandole la strada.
«Una pozione, fanciulla? Per far cadere ai tuoi piedi il tuo innamorato? È
piena di potere delle leannán shee.»
Marian boccheggiò e il cuore le schizzò in gola.
La creatura aveva delle rade ciocche di capelli bianchi che le
penzolavano dal cranio, e le sventolava sotto al naso una boccetta rosa che
aveva appena sfoderato dalla manica della veste logora. Non aveva
riconosciuto Marian, ma lei invece aveva capito subito chi aveva di fronte.
Era la stessa fata che Macbeth aveva derubato.
Marian nascose il ragazzino dietro di sé, in preda al panico.
«Non penso che ne abbia bisogno, graziosa com’è» disse sorridendo un
ragazzo Sidhe sbucato accanto alla fata. Aveva il viso pallido, spigoloso, ma
bello. I capelli neri gli ricadevano pesanti sugli occhi. Furono quelli a
colpire maggiormente Marian. Sotto le folte ciglia scure, gli occhi erano di
un azzurro così chiaro da sembrare quasi bianchi.
Marian gli rivolse un timido sorriso, grata non per il complimento, ma
per aver distolto l’attenzione da lei. Infatti la fata attaccò bottone con il
ragazzo, intenzionata a vendergli un elisir che aveva tutta l’aria di essere
fango in bottiglia, e Marian ne approfittò per scappare in mezzo alla folla,
trascinandosi dietro Macbeth.
Superarono banchetti colorati pieni di chincaglieria di ogni tipo, di frutta
fluttuante e di stoffe che gracchiavano come uccelli se qualcuno ci passava
troppo vicino.
Marian sentiva ormai il panico montarle dentro, quando Aleister
comparve davanti a loro, come per magia.
Sembrava contrariato.
«Vi ho detto di seguirmi, cosa vi siete messi in testa voi due? Non è
tempo di fare compere. E se fossi in voi, mi terrei alla larga dalle fate. Più
invecchiano, più diventano rincitrullite, ma vi assicuro che hanno una
memoria straordinaria quando si tratta di ricordarsi la faccia di chi le ha
derubate.»
«Veramente…» cercò di ribattere Macbeth mentre Aleister sospingeva
entrambi lontano dal cuore del mercato.
«Sei tu che ci hai seminato in mezzo alla folla. Ti abbiamo perso di
vista!» protestò Marian.
«Sì, sì, certo. Come sono stato sconsiderato, accidenti a me. Chiedo
umilmente scusa» disse con una smorfia. «Adesso però seguitemi e vedete
di non perdervi!»
Si infilarono in un vicolo decisamente più tranquillo rispetto alla piazza,
ma altrettanto colorato. Le casette e i palazzi della viuzza sembravano
schiacciati, come se ogni volta che fosse spuntata una nuova costruzione le
altre avessero dovuto stringersi tra loro per farle posto.
«Una bella differenza rispetto a Londra» commentò Marian
sinceramente ammirata.
«In effetti è diventata un po’ troppo grigia e nera per i miei gusti» disse
Aleister arricciando il naso.
«L’hai visitata di recente?»
«Sì, e a ogni visita sembra peggiorare. Soprattutto l’aria. Colpa di tutte
quelle vostre fabbriche.»
I tacchi degli stivali di Aleister risuonavano allegri sul ciottolato della
stradina, seguiti dai passetti ticchettanti di Macbeth e Marian.
«Ha sempre avuto il brutto vizio di seminare i suoi compagni?» borbottò
Marian mentre lei e Macbeth si sforzavano per stargli dietro.
«In effetti fa sempre così quando ha altro per la testa» disse Macbeth, «il
che accade piuttosto spesso. Non vedo l’ora di avere anche io le gambe
lunghe come le sue per non dover più faticare così a stargli dietro…»
Dato che erano soli nel vicolo, Marian cercò di approfittare del momento
giusto per mettere sotto torchio Aleister e farsi raccontare qualcosa in più.
«Quindi… conoscevi questo Negromante?» domandò a bruciapelo.
Aleister sospirò esasperato. Non si aspettava che la ragazza ripartisse
subito all’attacco.
«Te l’ho detto. Sì, lo conoscevo e mi sono sbagliato sul suo conto… Ha
lusingato la mia vanità e me l’ha fatta sotto al naso. Non che mi importi più
di tanto comunque, dopotutto non sono fatti miei. Se ha voglia di mettersi
nei guai, che faccia pure. Non sono una persona altruista e non ci tengo a
esserlo. Semplicemente non voglio essere disturbato.»
«Non è molto carino da parte tua» osservò Marian.
Aleister alzò le spalle. «Forse non mi hai sentito. L’unica cosa di cui mi
importa è il mio benessere e la mia persona. Gli altri possono decidere di
fare quello che vogliono. Per quanto mi riguarda, possono anche bruciare il
mondo. Se mi lasciano in pace, hanno il mio benestare.»
«Come puoi non interessartene?»
«Semplicemente non lo faccio»
«E se questo Negromante stesse davvero tramando qualcosa? Hai detto
che le parole custodite dalle quattro famiglie più antiche di Faerie sono
importanti, giusto?»
«La signorina Milledomande è partita di nuovo all’attacco, vedo…»
Marian lo ignorò. «Servono a qualcosa di pericoloso, vero?»
Aleister per la prima volta la guardò serio in volto. «Sì» ammise.
«E non sei preoccupato?»
Il Re delle Volpi scrollò le spalle, ricominciando a camminare. «Non
sono io che devo preoccuparmi di queste cose.»
«Ma se non lo fai tu, che sei il Re delle Volpi, chi lo farà?»
«Qualcun altro con un cuore più altruista del mio» rispose secco.
«Magari potremmo chiedere aiuto al Padre di Tutte le Cose?» suggerì
Macbeth.
«Al Padre di cosa?» chiese Marian.
Aleister fece una smorfia, arricciando il naso. «Ah, non ci penso
neanche. Quel ragazzino e quella sua sciarpa devono stare lontani dai miei
affari.» Aleister strinse le labbra e assottigliò gli occhi. Con
quell’espressione sembrava davvero una volpe. «Adesso basta
chiacchierare, siamo arrivati.»
Si era fermato davanti a un muro spoglio e, prima che Marian o Macbeth
potessero fargli altre domande, allungò un dito e iniziò a scrivere nell’aria.
Si materializzarono dei simboli e dei disegni dorati, che vennero assorbiti
dal muro. Lungo i mattoni, comparvero alcune linee sottili che, unendosi,
formarono un disegno.
«Una porta?» disse Marian, sbirciando da sopra la spalla di Aleister.
«Stai a vedere» rispose lui, contento di poterla impressionare.
Sul muro era comparso il disegno di una porta, con tanto di pomello,
cornice e cardini. Aleister allungò la mano e, come se fosse la cosa più
naturale del mondo, afferrò il pomello disegnato, che divenne reale a
contatto con le sue dita. La porta si aprì sbuffando un po’ di polvere che il
Re delle Volpi si scrollò via con un gesto elegante.
«Venite» disse prima di sparire nell’oscurità oltre la soglia disegnata.
Macbeth lo seguì senza fare domande. Marian avrebbe voluto farne
ancora tante, ma aveva capito ormai che era impossibile ottenere risposte
dal Re delle Volpi. Se volevi sapere qualcosa, dovevi semplicemente
aspettare che a lui venisse voglia di raccontarla.
Seguì Aleister e Macbeth nell’oscurità, sbucando in una sala dalla luce
soffusa e l’aria fumosa. Era un locale angusto, sporco, occupato da qualche
rozzo tavolo di legno, delle sedie che si tenevano insieme per miracolo e
diversi calici sporchi ammassati uno sull’altro.
«Ci siamo» annunciò allegro Aleister, poggiando il gomito sul lungo
bancone.
«Aspetti qualcuno?» chiese Marian.
Aleister la guardò, confuso. «Siamo qui per parlare con questo
gentiluomo. Buonasera, Zakvad. Tutto bene?»
Adesso fu il turno di Marian di apparire confusa. «Ma con chi stai
parlando? Non c’è nessuno.»
«Il Re delle Volpi in persona! Era da un pezzo che non ti vedevo
bazzicare per la capitale. Cosa posso servire a te e ai tuoi amici?» disse una
vocina roca da dietro il bancone.
Marian si sporse e scorse un goblin seduto su uno sgabello. Era verde,
con grandi orecchie a punta ed enormi occhi gialli. Era vestito di tutto punto
con un completo elegante, con tanto di cravatta di seta annodata sotto al
mento rugoso. Stava asciugando dei bicchieri sporchi con uno straccio
ancora più sudicio.
«Per tutti i folletti, guarda un po’ chi abbiamo qui! È la prima volta che
qualcuno dell’Altrove mette piede qui nel mio locale. Bene, bene… due
volpi e una ragazza dell’Altrove. Sembra quasi l’inizio di una storiella.»
«Avanti, non ho tempo da perdere. Ho bisogno del tuo portale non
tracciato» disse Aleister diretto.
Il goblin gli rivolse un’occhiata stupefatta.
«Non capisco di cosa tu stia parlando! Io non ho nessun portale non
tracciato. Un po’ di whisky fatato per la ragazza?» Il goblin si sporse e le
allungò un bicchiere e un’enorme bottiglia piena di liquido scuro.
«Certo, e io sono un troll di montagna! Avanti, portaci sul retro.»
«Come troll di montagna saresti molto affascinante, Re delle Volpi.»
Aleister si sporse e afferrò il goblin per il bavero della giacca, alzandolo
di peso dal suo sgabello.
«Avanti, Marian, Macbeth, venite. Zakvad ha appena detto che ci aiuterà
volentieri. Non è vero?»
«Sicuro» mormorò la creatura, mentre cercava di divincolarsi.
Quando Aleister si decise finalmente a posarla a terra, quella si sistemò
il completo stropicciato, offeso.
«Che c’è, mai visto un goblin prima d’ora?» sbottò poi in direzione di
Marian, che continuava a fissarlo a bocca aperta.
«No, in effetti» ammise lei.
Il goblin si passò una mano sulla testa pelata e le rivolse un sorriso
compiaciuto. «Allora, dolcezza, guarda quanto vuoi!»
«Muoviti, e non essere disgustoso» sbuffò Aleister.
Il goblin mise su il broncio e li portò sul retro del locale. Toccò un
mattone sbeccato nella parete e la credenza piena di bottiglie si spostò,
rivelando una stanza nascosta.
L’ambiente era ancora più buio, stretto e sudicio del locale. Di fronte a
loro era appeso un enorme specchio, alto da terra fino al soffitto, che
riempiva l’intera parete.
«Dove siete diretti?» chiese il goblin.
«Avanti a noi» disse serafico Aleister.
Il goblin gli rivolse un’occhiata scettica. «Sul serio? Usi questi trucchetti
con me?»
«Se non vuoi risposte sciocche, impegnati a porre domande più
intelligenti, mio caro amico.»
«Pensavo che dopo tutto questo tempo avessi imparato che sono un
goblin leale. Non ti fidi più di me?»
«È proprio perché ti conosco che non mi fido. Sei il peggior
doppiogiochista di tutta Faerie.»
Il goblin guardò Aleister a bocca aperta. «Io? Doppiogiochista?» Si
ritrasse offeso. «Queste sono accuse pesanti!»
Aleister lo ignorò.
«Giusto per essere ancora più prudenti: se solo proverai a raccontare di
noi a qualcuno, la tua lingua si accartoccerà e ti impedirà di proferire parola
per il resto dei tuoi giorni.»
Gli occhi di Aleister brillarono, attraversati da un bagliore dorato, e il
goblin si ritrasse con un brivido, come se sentisse il peso palpabile
dell’incantesimo che Aleister gli aveva appena lanciato.
«Ah, voi volpi» borbottò offeso. «Non vi fidate mai di noi goblin…»
«Non solo noi volpi. Direi qualsiasi creatura con un briciolo di cervello.»
«Meglio così» sospirò il goblin rivolgendosi ad Aleister e indicandogli lo
specchio. «Neanche io mi fido di me stesso. Allora… ecco il portale non
tracciato che non possiedo. Immagino che tu abbia qualche guaio.»
«Niente che un po’ di oro non possa risolvere.» Aleister prese un
sacchetto tintinnante dall’interno della giacca e glielo lanciò.
Zakvad lo fece sparire appena lo ebbe afferrato. «È sempre un piacere
tirarti fuori dai guai.»
Fece un cenno di saluto a Marian e a Macbeth e poi sparì, richiudendosi
la porta con la credenza alle spalle, lasciandoli soli nella stanza segreta.
Aleister rimase per un po’ a fissare in silenzio il proprio riflesso nello
specchio. Non c’era più traccia dei suoi modi risoluti e beffardi. Adesso
sembrava sopraffatto dall’angoscia e Marian non capì il perché di quel
cambiamento così improvviso.
Anche Macbeth lo fissava in silenzio, sulle spine.
«Aleister» disse piano la ragazza, «va tutto bene?»
Il Re delle Volpi non si voltò, ma la fissò attraverso il riflesso nello
specchio.
«Sì» disse. «Sì, va tutto bene. Tenetevi pronti.»
In silenzio, Aleister lanciò l’incantesimo, con espressione concentrata.
Il vetro dello specchio vibrò e si increspò come la superficie del mare.
«Ci siamo.»
Si voltò verso Marian e Macbeth, porgendo a entrambi la mano. Marian
gliela strinse e trattenne il fiato, poi attraversò lo specchio.
25

Marian riaprì gli occhi, respirando a pieni polmoni.


Si guardò intorno, disorientata. Da quando era a Faerie quel senso di
spaesamento era diventato un compagno di viaggio costante.
Si trovavano in una veranda lastricata color pesca, incorniciata da ampi
archi di pietra gialla, che si affacciava su uno strapiombo. Sotto, tra la
nebbia fitta, si scorgeva un bosco folto e scuro da cui spuntavano le cime
degli alberi più alti. L’aria era impregnata di odore di terra bagnata… ma
c’era qualcos’altro. Qualcosa che Marian inizialmente non riconobbe.
Poi una folata di vento portò con sé un sentore di cenere. Di fuoco.
«Sentite anche voi odore di bruciato?»
Aleister, che le aveva lasciato la mano appena erano giunti a
destinazione, si era fatto avanti, teso. Fissava il grande arco lavorato alla
fine della terrazza che si apriva su un altro ambiente. Marian si sporse oltre
la sua spalla, ma non vide nulla.
Macbeth annusò l’aria e abbassò immediatamente le orecchie,
spaventato. «Non mi piace, Aleister. Non mi piace affatto. Non possiamo
tornare a casa?» mugolò
«Cosa succede?» chiese Marian, che cominciava ad agitarsi.
Aleister rimase in silenzio, i muscoli della mascella che si contraevano.
«È qui» ringhiò all’improvviso, facendo sobbalzare Macbeth dalla
sorpresa.
Marian sgranò gli occhi, spaventata.
L’individuo di cui avevano parlato al consiglio nobiliare e che aveva
impensierito le famiglie più potenti di Faerie si trovava lì, con loro.
«Intendi il Negromante?»
Aleister annuì.
«Rimanete sempre dietro di me e non fate sciocchezze. Se vi dico di
scappare, voi scappate, chiaro?»
Marian e Macbeth annuirono. Procedettero lungo un percorso che
Aleister sembrava conoscere a menadito. Attraversarono un arco dopo
l’altro, a passo spedito. Ovunque, la vita si era fatta strada nella pietra. In
mezzo agli archi che collegavano le diverse stanze erano cresciuti arbusti,
cespugli e veri e propri alberi, che si erano ritagliati il loro spazio
nell’architettura del palazzo, nella roccia.
Attraversarono un chiostro che aveva al centro un gruppo di alberi
intrecciati tra loro. Marian calpestò l’enorme mosaico sul pavimento,
raffigurante delle volpi e delle fiamme, e fu certa, da come brillavano i
tasselli, che fossero d’oro e rubini.
L’odore di bruciato si fece a un tratto più forte. Macbeth e Marian si
scambiarono un’occhiata angosciata.
«Cosa sta bruciando, Aleister?» chiese Marian.
«Il vecchio avrà dato battaglia» rispose cupo lui, entrando in un
gigantesco salone, sul cui fondo troneggiava uno scranno oro e rosso.
Fu allora che Marian lo vide. Si portò una mano alla bocca, per trattenere
il gemito d’orrore che le fuggì dalle labbra.
Al centro della sala c’era un mostro. Era una bestia gigantesca, più
grande di qualsiasi animale che Marian avesse mai visto nel suo mondo,
completamente ricoperta da una folta pelliccia di ispidi peli neri. Il muso
terrificante era allungato come quello di un lupo, e gli occhi di un rosso
sanguigno brillavano in maniera innaturale.
Stava a quattro zampe, e giganteggiava sopra a un corpo, steso inerme a
terra. Guardando meglio, Marian vide con orrore che le zampe anteriori,
ricoperte di piume corvine e scaglie di serpente sulle dita artigliate,
tenevano ben fermo a terra un anziano, dai capelli e dalle orecchie candide.
Erano orecchie da volpe, proprio come quelle di Macbeth. Sotto le vesti
bianche lacerate e macchiate di sangue, Marian scorse una coda bianca.
Capì immediatamente chi era la figura a terra.
Il predecessore di Aleister.
«Feardorcha!» gridò Aleister. «Non ti hanno insegnato che presentarti
nelle case altrui senza invito è da maleducati?»
Marian vide i suoi occhi mandare bagliori di fuoco. Non lo aveva mai
visto così furioso.
La creatura alzò il capo dalla sua preda e rivolse a loro il suo sguardo di
sangue. Istintivamente, Marian nascose Macbeth dietro di sé.
«Aleister» disse la creatura. Sembrava piacevolmente colpita. Quasi
divertita. «Non pensavo che ti saresti unito a noi.» La sua voce era roca e
profonda, gracchiava e raschiava.
«Ammetto che non ne avevo granché voglia… Ma se mi distruggi il
palazzo e maltratti il mio predecessore, non posso fare a meno di
infastidirmi» disse calmo Aleister, mentre le sue mani si accendevano,
ricoprendosi di fiamme dorate. «Leva subito quelle zampe dal vecchio.»
Feardorcha lo ignorò, spostando la sua attenzione alla preda sotto di sé.
«Sono stato sciocco a non crederti quella volta. Dopotutto, dicevi la
verità… Non avevi tu la parola che cercavo. Ma, come puoi vedere, ho
rimediato.»
L’anziano Re delle Volpi ebbe un sussulto. Dal suo petto si alzò una sfera
luminosa. Era bianca e riluceva di un bagliore tenue. Sembrava morbida,
come una sfera liquida.
L’enorme bestia spalancò le fauci, rivelando una fila di denti affilati, e la
ingoiò in un sol boccone.
«Feardorcha» gridò Aleister, scagliandogli addosso una fiammata.
La creatura la schivò con un balzo agile, del tutto imprevedibile data la
sua stazza. Si attaccò al soffitto, simile a una gigantesca lucertola, e
camminò lentamente fin sopra le loro teste.
«Non avercela con me, Aleister. Anzi, dovresti essermi riconoscente! Se
adesso sei ufficialmente re è solo per merito mio.»
«Lo hai ucciso» disse Aleister ringhiando. Fece un passo indietro,
assicurandosi di avere Marian e Macbeth al sicuro dietro di sé.
Feardorcha spostò gli occhi malvagi verso la figura a terra.
«Era già malmesso prima, non ho fatto niente di che… gli ho giusto dato
il colpo di grazia.» Con un balzo si staccò dal muro e atterrò sul pavimento
con un fragore cupo, facendolo tremare. «Non verrò più a disturbarti. Ho
avuto ciò che cercavo. Non devi vedermi come un nemico, Aleister, ma
come un amico. Voglio che diventiamo alleati. Per scusarmi, porterò il tuo
palazzo all’antico fasto.»
«Grazie, ma so ricostruirmelo da solo. Non voglio niente da te.»
Feardorcha gli rivolse un sorriso tutto denti. «È così bello avere gli amici
in debito, ma è ancora più bello quando sono i tuoi nemici a doverti
qualcosa.»
«Io non ti devo un bel niente» sbottò Aleister.
La creatura fissò Marian e i suoi occhi brillarono d’interesse. «Ma
pensa…» gorgogliò Feardorcha. «Ci rivediamo!» disse a Marian,
continuando a sorridere orribilmente.
«Vi conoscete?» chiese Aleister sbigottito.
Marian stava per rispondergli che non aveva mai visto prima quella
creatura mostruosa, quando la bestia iniziò a sgrullarsi, simile a un cane con
la pelliccia bagnata. I peli irsuti e le piume si sciolsero come la cera di una
candela, trasformandosi in vesti. Il muso si ritirò, facendo sparire ogni
traccia animale, mutando in un viso pallido e spigoloso.
«Ci rivediamo» disse l’uomo vestito di nero davanti a loro.
Marian lo riconobbe immediatamente.
«Il ragazzo al mercato» disse portandosi le mani alla bocca, sorpresa.
«Come fai a conoscerlo?» chiese Aleister, confuso.
Feardorcha, il vero Feardorcha, sorrise amabilmente a Marian, facendole
un piccolo inchino.
«E non era la prima volta che ci incontravamo… o sbaglio? Credo di
averti vista di sfuggita, mentre viaggiavi.»
Marian venne percorsa da un brivido. Si ricordava benissimo quando
aveva scorto quello stesso viso pallido che stava guardando in quel
momento, mentre viaggiava vittima dell’erba dello smarrimento.
Feardorcha si rivolse ad Aleister. «So di ripetermi, ma sarebbe davvero
bello averti tra le mie fila.»
«Neanche morto» rispose con un grande sorriso il Re delle Volpi.
«Sapevo che avresti risposto così.»
Veloce come il morso di un serpente, Feardorcha attaccò. Con un gesto
fulmineo della mano, Aleister alzò una barriera dorata, fermando la
traiettoria del pugnale che il Negromante gli aveva scagliato contro.
L’arma cadde a terra, tintinnando. Aleister si chinò a prenderla,
rigirandosela tra le mani. Era d’argento scuro, con una lama di vetro nera.
«Devo dedurre che gli hobgoblin sono dalla tua, visto che stai usando le
loro armi.»
Feardorcha rise. La sua risata era cristallina, tutto il contrario della voce
roca di poco prima. Occhi azzurro ghiaccio sotto ciglia scure e lunghe,
zigomi alti e pronunciati, folti capelli neri e labbra distese in un sorriso
amabile: il Negromante era bello in quella forma umana tanto quanto era
mostruoso in quella di bestia.
Lui e Aleister si sorridevano, chiacchierando come vecchi amici, pronti a
scagliarsi colpi mortali appena uno dei due avesse abbassato la guardia.
«Non ho dovuto neanche insistere. Si sono uniti a me immediatamente»
disse Feardorcha.
La figura a terra gemette.
«Aleister! È ancora vivo!» disse Marian. Istintivamente si sporse per
correre in suo soccorso, ma Aleister la tenne ferma con un braccio. Non
l’avrebbe lasciata avanzare di un solo centimetro con Feardorcha ancora lì.
«Certo che è vivo» disse il Negromante come se fosse la cosa più ovvia
del mondo. «Ho un grande rispetto per le famiglie nobili di Faerie. Ho solo
preso ciò di cui avevo bisogno… Certo, ho dovuto insistere, perché è un
vecchia volpe testarda, ma sono contro gli inutili spargimenti di sangue.»
Feardorcha continuava a scrutare Marian. Lei abbassò lo sguardo, a
disagio.
«Perdonami» le disse, vedendola in difficoltà. «So che non si dovrebbero
fissare le ragazze… È che all’inizio non lo avevo notato, ma…» sorrise
ancora, piegando la testa di lato «…tu sei dell’Altrove.»
A Marian si mozzò il fiato in gola quando lo sguardo del Negromante si
spostò sul suo collo. Dovette combattere contro l’impulso di toccare il
medaglione.
«Non osare rivolgerle la parola!» ringhiò il Re delle Volpi.
Un muro di fiamme proruppe dalle mani di Aleister e si frappose tra loro
e Feardorcha.
Il Negromante si schermò il viso con le vesti. Poi, in un’improvvisa
esplosione di piume nere, iniziò ad accartocciarsi su se stesso al suono di
una risata cupa, fino a sparire del tutto.
Aleister corse subito verso l’anziano steso a terra, seguito da Marian e
Macbeth. Prese la mano incartapecorita del Re delle Volpi tra le sue e lo
aiutò a sollevarsi, appoggiandogli il capo contro il suo petto.
«Vecchio… dove ti ha ferito?»
Il predecessore di Aleister sembrava ancora più anziano della Regina dei
Gatti. Aveva il viso segnato da rughe profonde, i capelli candidi lunghi fino
alla cintola e la coda, abbandonata sul pavimento, anch’essa completamente
bianca. Il petto si alzava e abbassava accompagnato da un rantolo. Eppure,
sebbene ferito e spezzato, aveva un’aria regale.
«Ha preso la parola, Aleister… Devi recuperarla prima che faccia
qualche sciocchezza» disse a fatica il vecchio re.
«Al diavolo la parola! Piuttosto, se provi a morire, ti uccido!» lo
minacciò il ragazzo.
La vecchia volpe rise piano, poi venne sconquassata dalla tosse e
Aleister la strinse più forte a sé.
«Eri preparato a questo. È da tempo ormai che ti ho nominato re,
Aleister. La mia ora era già giunta, prima dell’arrivo di Feardorcha… Sei
pronto e lo sai.»
Aleister abbassò lo sguardo, mortificato. «Ti ho già detto molte volte che
non posso essere io il nuovo capo delle volpi. Non posso essere qualcosa
che non sono. Dovevate scegliere qualcun altro» gli sussurrò.
La vecchia volpe alzò una mano e gli fece una piccola carezza sul viso.
«Tu credi di non essere qualcosa che sei sempre stato, Aleister. Devi solo
aprire gli occhi e vederti per quello che sei davvero, come faccio io. Adesso
per me è tempo di andare. Abbi cura di te.»
La volpe chiuse gli occhi ed esalò il suo ultimo respiro.
Aleister rimase in silenzio, con il vecchio ancora stretto al petto. Marian
cercò di trattenere le lacrime, mentre Macbeth singhiozzava rumorosamente
accanto a lei.
Aleister, il Re delle Volpi, stese con delicatezza il corpo del suo
predecessore. Gli accarezzò il capo, poi gli sistemò le braccia sul petto.
Dalle dita della vecchia volpe iniziarono a scaturire delle scintille, che
crebbero fino a diventare delle fiamme dorate che avvolsero completamente
il corpo.
In un battito di ciglia, il vecchio Re delle Volpi era scomparso. Di lui
rimase solo una piccola fiammella d’oro che si spense poco dopo tra le
mani di Aleister.
26

Aleister se ne era andato.


Marian lo stava cercando ormai da ore nel palazzo vuoto, senza
successo.
Quando il suo predecessore era scomparso tra le fiamme, il Re delle
Volpi, senza proferire parola, aveva semplicemente girato i tacchi e se n’era
andato, lasciando soli e confusi Marian e Macbeth.
La ragazza si affacciò sull’ennesimo ballatoio vuoto sospirando.
“Nessuna traccia di Aleister, neanche qui” si disse, in pena. Aveva
percorso l’intero palazzo avanti e indietro, scoprendo una gran quantità di
stanze piene di statue, arazzi e mosaici, tutti raffiguranti scene di quella che
immaginava fosse la storia della famiglia delle volpi. Ma di Aleister non
c’era ombra. Si era volatilizzato nel nulla.
«Ma dove si è cacciato?» sussurrò a mezza voce. I suoi passi
riecheggiavano tra gli alti soffitti del palazzo, ed erano l’unico suono che si
poteva udire in quel luogo, dove il silenzio era assoluto. Delle piante
gigantesche si erano arrampicate lungo le pareti del ballatoio, ricoprendo le
colonne e foderando il soffitto con le loro foglie scure e con i frutti dorati.
Marian si ritrovò per l’ennesima volta al punto di partenza e tornò
sconsolata nella stanza dove si erano scontrati con Feardorcha. Macbeth la
aspettava seduto sui gradini della pedana di pietra su cui si ergeva il trono
d’oro massiccio con la seduta rosso sangue del Re delle Volpi.
«Stai bene?» chiese al ragazzino, mettendogli un braccio attorno alle
spalle.
Macbeth si era sempre mostrato più spavaldo di quanto non fosse
davvero, imitando in tutto e per tutto Aleister… Ma adesso, a vederlo
seduto con le ginocchia strette al petto, sembrava solo ciò che era. Un
bambino.
Lui annuì piano, le orecchie tirate indietro.
«È la prima volta che vedevi qualcuno andarsene?» chiese Marian
cercando di avere più tatto possibile.
Macbeth scosse la testa. «Non è per quello che sono preoccupato.»
«E per cosa, allora? Hai paura che Fear… che lui possa tornare?» Si
trattenne dal pronunciare ad alta voce quel nome. Ricordava bene
l’avvertimento che le aveva fatto il Re delle Volpi e non aveva alcuna
voglia di far sapere al Negromante che stavano parlando di lui.
«No… non credo che tornerà. Sai, non avevo capito che fosse stato lui a
distruggere casa mia. L’ho visto spesso insieme ad Aleister, ma non avevo
capito chi fosse in realtà» disse, funereo. «Sono preoccupato per Aleister.»
Marian non disse niente, pur condividendo lo stesso cruccio del
ragazzino. Si strinse anche lei le ginocchia al petto e sospirò.
«Macbeth, posso farti una domanda?»
Il ragazzino si tirò su, più composto. «Certo.»
«Quando ci siamo conosciuti, mi hai presentato Aleister come il Re delle
Volpi… Lui invece sosteneva di non esserlo. Potresti spiegarmi meglio
come stanno le cose?»
Macbeth sospirò. «Il vecchio Re delle Volpi, il suo predecessore… be’,
lui si è ritirato e ha designato Aleister come suo erede. Il titolo è passato
formalmente a lui, ma Aleister ha sempre protestato. Ha anche provato a
rifiutarlo.»
«E lo può fare?»
«Ovviamente no. Le cariche non passano sempre da padre a figlio qui a
Faerie. Tra le volpi viene scelto l’individuo più meritevole e viene
designato come nuovo re. Una volta che vieni scelto, non puoi rifiutarti, il
titolo è tuo fino al giorno della tua morte. È un patto magico. Aleister ha
continuato a protestare e a svicolare in tutti i modi, purtroppo, però, non c’è
niente che possa fare. È sempre stato destinato a questo.»
Qualcosa si strinse nel petto di Marian, in una morsa dolorosa. Trasse un
lungo, lento sospiro.
«Quindi Aleister è diventato re contro la sua volontà?»
Macbeth annuì con aria mesta.
«Sì, e non è stato facile. Dovevi vederlo quando lo ha scoperto. Non l’ho
mai visto così furioso. È fuggito e per un sacco di tempo nessuno di noi lo
ha visto. Aleister è allergico alle responsabilità e ai problemi che ne
derivano, ormai lo avrai capito anche tu.»
«Aleister era molto affezionato al vecchio re?» chiese Marian, in
pensiero.
Macbeth si strinse nelle spalle. «Immagino di sì, anche se litigavano
spesso. Non sono mai andati d’accordo. Il vecchio re ha sempre preteso
tanto da lui. Puoi immaginare anche da sola com’è andata. Aleister ha un
carattere un po’ difficile…»
“Difficile è un eufemismo” pensò Marian, che non aveva mai conosciuto
una persona più impossibile di lui.
«Aleister è molto volubile, gli piace considerarsi libero, senza alcun tipo
di legame. Credo che sia per questo che detesta con tutto se stesso il titolo
che gli è stato assegnato. Odia essere vincolato a qualsiasi cosa… o
persona.»
«Be’, qualcosa in comune lo abbiamo» sussurrò Marian. «Oltre
all’amore per i libri.»
«Dopo la cerimonia ufficiale per la sua investitura… le cose sono
precipitate. È diventato ancora più scostante. Era sempre in viaggio, a fare
avanti e indietro con l’Altrove. Diceva che si annoiava troppo a stare
qui…» Macbeth si rabbuiò. «Temo che sia stato in quel periodo che ha fatto
l’errore di avvicinare Feardorcha. Mi aveva detto che gli sembrava una
persona interessante.»
Marian sentì il cuore sprofondarle. Rimasero entrambi in silenzio, seduti
l’una accanto all’altro sugli scalini di pietra. Le costava molto ammetterlo
ma, forse, aveva giudicato il Re delle Volpi troppo severamente. Anche
Aleister, proprio come lei, sembrava incastrato in un futuro che non voleva,
un futuro che qualcun altro aveva scelto per lui.
La stretta al petto si fece più forte. Doveva trovarlo, doveva parlargli…
«Quindi adesso cosa possiamo fare?» chiese Marian.
Si sentiva irrequieta. Aveva l’impressione che stessero perdendo del
tempo prezioso a starsene lì con le mani in mano. Avrebbero dovuto
avvertire Madama Catglic? Non era stata forse proprio la donna gatto a
chiedere ad Aleister di indagare? Adesso che Feardorcha aveva rubato la
parola, l’incantesimo segreto protetto dalle volpi, cosa ne avrebbe fatto?
Come l’avrebbe utilizzata? Quali erano i suoi piani?
Marian aveva troppe domande che le ronzavano in testa e il solo che
avrebbe potuto dare delle risposte era Aleister.
«Immagino che dobbiamo aspettare di capire cosa vuole fare Aleister. È
lui il re» disse Macbeth piano, distogliendo lo sguardo.
«Molto bene» esclamò Marian. «Allora non resta che capire dove si è
cacciato e parlargli. Abbiamo già setacciato il palazzo… Pensa bene,
Macbeth, ci sono dei posti in cui non abbiamo guardato? Aleister potrebbe
avere qualche nascondiglio segreto?»
«Questo è il luogo segreto in cui si trasferiscono le volpi durante la loro
ora del tramonto, lo conosco molto poco. Ho accompagnato qui Aleister
giusto un paio di volte» spiegò Macbeth. Poi, però, il suo viso si illuminò.
«Forse so dove potrebbe essersi nascosto!»
Prese Marian per mano e la condusse al piano superiore del palazzo.
Imboccarono un lungo corridoio con una sfilza di porte su entrambi i lati e
il ragazzino si fermò.
«Dovrebbe essere qui, da qualche parte» disse, guardandosi intorno poco
convinto.
«Cosa stiamo cercando?» Marian era decisa ad aiutarlo.
Macbeth appoggiò le mani sulla pietra liscia accanto alla cornice della
prima porta e si avvicinò ad annusare.
«Dovrebbe esserci un ingresso segreto da queste parti… solo che non mi
ricordo dove. Ho visto una volta Aleister scappare da qui dopo che aveva
fatto infuriare il Re delle Volpi.» Si voltò verso Marian con un ghigno. «Gli
aveva tinto la coda e le orecchie di blu!»
«A proposito di orecchie e coda… come mai Aleister non le mostra
come fanno tutte le volpi? Le ha anche lui, vero?»
«Oh, certo che le ha!» disse Macbeth concentrato mentre picchiettava sui
mattoncini tra una porta e l’altra. «Solo che le nasconde con la magia. Ha
un’ossessione per voi dell’Altrove. Credo che sia per questo che sia rimasto
affascinato dal Negromante…»
«Perché? Cosa c’entra?»
«Si vocifera che venga dall’Altrove e che in realtà sia un umano» rispose
Macbeth distratto, mentre ascoltava una pietra suonare come vuota.
«Eccola, ci siamo, Marian!»
Mentre Macbeth apriva il passaggio segreto, Marian non si era ancora
ripresa dalla rivelazione sulle origini di Feardorcha.
«Ma non è possibile… lui usa la magia…»
Macbeth si infilò nel corridoio stretto che il passaggio segreto aveva
appena rivelato, senza ascoltarla.
«Eccolo, c’è Aleister!» esclamò in preda alla gioia.
Marian seguì a fatica il ragazzino nel corridoio strettissimo. Era così
angusto che entrambe le spalle sfioravano le pareti. Di sicuro per riuscire a
passarci Aleister doveva essersi messo di traverso.
Quando finalmente uscirono dal corridoio, si ritrovarono in una terrazza
segreta. Era un luogo incantevole, e non c’era da chiedersi come mai il Re
delle Volpi lo avesse scelto come rifugio. Era più piccola rispetto alle altre,
più intima, e si affacciava sulla gola della montagna dove il palazzo era
stato costruito. In una nicchia c’era la statua di una creatura alata,
completamente ricoperta di edera e di fiori.
Aleister era appoggiato con la schiena contro l’arco della terrazza, una
gamba a ciondoloni nel vuoto e lo sguardo fisso sulla cascata che
precipitava contro la roccia. Il sole stava tramontando, tingendo di rosa
l’aria. I capelli di Aleister brillavano, come se stessero andando a fuoco.
«È bellissimo qui» disse Marian, avvicinandosi.
Aleister prese una foglia di edera dal davanzale e la ridusse a pezzettini.
«Non è male» sospirò imbronciato.
«Non ho mai visto niente di così incantevole!» esclamò lei, cercando di
sembrare entusiasta.
«Credo che tu abbia visto ben poco» grugnì lui.
Marian non rispose alla sua provocazione. Aleister adesso era arrabbiato.
Doveva sentirsi triste, confuso, e aveva sicuramente bisogno di tutto il
conforto e la pazienza che lei gli poteva dare.
«Mi dispiace per la tua perdita, Aleister.»
Lui si strinse nelle spalle.
«La vecchiaia è sì un difetto imperdonabile, ma dopotutto il mio
predecessore non aveva colpe. Era troppo anziano. Avrà abbassato la
guardia.»
Marian non si scoraggiò «Fear…»
«Non pronunciare il suo nome» la interruppe brusco Aleister, senza
neanche guardarla.
Marian si morse le labbra. Macbeth si teneva a debita distanza. Di sicuro
aveva già imparato a sue spese cosa voleva dire ritrovarsi nelle vicinanze
del Re delle Volpi quando era di cattivo umore.
«Intendevo dire il Negromante. Io… mi dispiace, Aleister. Io non avevo
idea di chi fosse quando mi ha parlato al mercato.»
«Sei ancora soddisfatta delle tue scelte?» le chiese sarcastico.
«Cosa intendi?»
Lui le rivolse un’occhiata infastidita. «Di essere venuta qui a Faerie ed
esserti immischiata in questo pasticcio.»
«Allora realizza il mio desiderio e rimandami a casa» rispose lei stizzita.
Aleister continuava a strappare foglie e a ridurle in minuscoli pezzetti,
cercando di mascherare il suo malcontento.
«Non sei la mia padrona, non osare darmi ordini» sbottò.
Marian cercò di calmarsi per poter tornare a discutere con toni più miti.
«Potevi comunque dirmi che qualcuno aveva attaccato bottone con te. Ti
avevo detto che era pericoloso» borbottò offeso.
«Ero appena stata fermata dalla fata a cui avevamo rubato la piuma. È
successo tutto così velocemente e…» provò a giustificarsi Marian.
«Senti» la interruppe lui infastidito, «non importa, non perdiamo tempo a
discutere.»
Ripiombarono in un silenzio penoso.
«Immagino che il fatto che il Negromante abbia rubato la… parola sia
molto grave» esordì Marian dopo un po’.
Aleister poggiò la testa contro la colonna e sospirò rumorosamente.
«Immagino che non mi lascerai in pace fino a che non ti avrò spiegato
tutto.»
Marian si morse la lingua. Avrebbe voluto rispondergli che se lui si fosse
degnato per una volta a essere chiaro, lei non sarebbe stata costretta a
riempirlo di domande di continuo, ma si trattenne dal farlo.
«La parola è un incantesimo antichissimo, forse il più antico di Faerie.
Regge tutto il mondo insieme» spiegò lui svogliatamente.
«In che senso regge il mondo?»
«È quello che fa. Le quattro parole insieme, questi quattro incanti, sono
la base su cui Faerie esiste. Ovviamente non si tratta di un incantesimo
qualunque. La parola è la forma di magia più antica e potente che sia mai
esistita. È un incantesimo che si deve già possedere, perché non lo si può né
pronunciare né udire.» Aleister si voltò verso di lei, guardandola per la
prima volta negli occhi. «Per usarlo serve quel medaglione che hai tu.»
Allungò una mano e le posò un dito sul vestito, proprio all’altezza del
pendente che teneva nascosto sotto la stoffa.
Marian non si ritrasse, troppo scioccata dalla notizia che le aveva appena
dato per preoccuparsi del fatto che un ragazzo l’avesse toccata in quel modo
così inappropriato.
«Mi stai dicendo che per tutto questo tempo ho tenuto appesa al collo
una cosa tanto preziosa?» chiese incredula.
Aleister sorrise. Non era il suo solito sorriso beffardo e truffaldino, ma
era comunque un sorriso e a Marian sembrò un passo avanti.
«È la mia idea più geniale, se ci pensi. Nessuno potrebbe mai sospettare
che il cimelio più antico e prezioso delle volpi sia nelle mani di una
dell’Altrove.»
«Tu… sei un vero incosciente.»
«Pensavo che fosse una buona idea, sai? Intendo dire darlo a Macbeth e
poi farlo scappare nell’Altrove. Lui… il Negromante non lo avrebbe potuto
prendere lì.» Aleister si rabbuiò. Si voltò di nuovo verso la cascata e il suo
sguardo si perse nel vuoto. «Pensavo che avrei risolto la situazione in
questo modo… Ma mi sono sbagliato. Dopotutto quando io e il Negromante
ci siamo trovati faccia a faccia, non me lo ha chiesto. Non ne ha fatto
proprio parola. Credevo che avrebbe smosso mari e monti per metterci
sopra le mani, ma non è stato così. Hai visto anche tu come ha preso la
parola… Chiaramente deve avere un medaglione tutto suo» ragionò,
rivolgendosi più a se stesso che a Marian.
«Ma a cosa serve l’incantesimo che vi ha sottratto?»
Marian si era appoggiata al cornicione poco distante da lui.
«Be’, è l’incantesimo che regge Faerie. Non so cosa potrebbe farci… ma
chiaramente ha in mente qualcosa» disse Aleister giocherellando con il
bordo della giacca.
«Allora? Adesso cosa facciamo?»
Aleister la guardò con un sopracciglio alzato.
«Facciamo?» ripeté scettico.
Marian si alzò come una molla. «Oh, avanti! Dobbiamo avvertire il
consiglio, giusto? Non devi dire loro quello che è appena accaduto?»
Aleister la guardò con freddezza. «Non farò niente del genere. In effetti,
adesso che mi ci fai pensare, credo che non farò proprio un bel niente.»
Scese dal davanzale, ignorando Marian e superando Macbeth che si
stava dando un gran da fare a mimetizzarsi con il muro pur di non
incrociare il suo sguardo.
Marian non poteva credere alle sue orecchie. Aleister non avrebbe
fatto… niente?
«Feardorcha è venuto qui, ti ha affrontato, ha ucciso il tuo
predecessore!» protestò lei, seguendolo lungo il corridoio stretto.
Aleister sbucò dall’altra parte, continuando a darle ostinatamente le
spalle.
«Lo hai sentito, no? Ha detto che non verrà mai più a disturbarmi» disse
secco.
«Non puoi dire sul serio» sbottò Marian. «Come puoi credergli dopo
quello che ha fatto? Feardorcha è malvagio e deve essere fermato. Devi fare
qualcosa!»
Aleister si fermò. Tornò sui suoi passi, fronteggiandola.
«Certo che ti piace proprio quel nome, eh? Dovresti pronunciarlo ancora
un po’, così magari torna a trovarti» le disse caustico.
Marian arretrò di un passo, ferita. «Ti ho già detto che non sapevo che
fosse lui… se lo avessi saputo, di certo non…»
«Non mi interessa. Ora, se mi vuoi scusare» disse Aleister con un sorriso
tirato, cercando di sorpassarla.
«Aleister!» lo chiamò Marian, quando lui la superò. «Non fare così, non
puoi chiuderti in te stesso.»
«Io non mi sto chiudendo in me stesso» disse il ragazzo, continuando a
camminare. «Me ne sto semplicemente andando per non essere costretto a
sentire le tue sciocchezze.»
Marian gli si parò davanti, poggiandogli le mani sul petto, decisa a
fermarlo e a farsi ascoltare.
«E invece sì, lo stai facendo e non va bene!» esclamò.
«Ah no?» fece lui, glaciale. La guardava altezzoso, dall’alto in basso.
«Non puoi chiudere la porta al mondo e lasciare fuori tutti. Hai delle
persone che si preoccupano per te. Hai dei sudditi di cui prenderti cura.
Aleister, sei un re… Non puoi continuare a interessarti solo di te stesso»
disse Marian, sentendo le guance andarle a fuoco e le mani che iniziavano a
tremare.
«E cosa mi dici di te?»
«Io non mi tiro indietro davanti alle responsabilità» rispose Marian
accalorandosi.
«Davvero? Non sei forse scappata da casa perché non ti volevi sposare?
Che fine hanno fatto le tue responsabilità verso i tuoi genitori e il tuo
fidanzato?»
«Quello è diverso» ribatté lei, punta sul vivo.
«A me sembra la stessa cosa. L’unica differenza tra noi due, mia cara
Marian, è che io mi sono sempre messo al primo posto, tu invece all’ultimo.
Hai sempre avuto paura di tutto, hai sempre fatto solo quello che ti hanno
detto gli altri» la canzonò lui senza pietà.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Ti interessa solo di te stesso!» lo accusò Marian con voce rotta.
«Ed è così sbagliato?» esclamò Aleister infuriato.
Marian strinse i pugni e pestò forte un piede a terra.
«Sei davvero impossibile, Aleister! Sei l’essere più egoista, egocentrico
e presuntuoso che io abbia mai conosciuto!»
«E tu la più pusillanime. Stai tirando fuori un po’ di carattere forse
adesso per la prima volta nella tua vita» le gridò Aleister, scuotendo la
chioma rossa.
«Questo perché mi fai infuriare» disse lei mentre lacrime di rabbia le
rigavano le guance. Avrebbe di gran lunga preferito gridargli addosso senza
versarne neanche una, ma le fu impossibile trattenerle anche solo per un
secondo di più.
Aleister fece un passo indietro, massaggiandosi in mezzo agli occhi con
una mano.
«Senti, Marian… detesto arrabbiarmi, ma tu mi stai facendo davvero
perdere la pazienza» disse con un’aria così stanca e patetica che la fece
andare ancora più sulle furie.
«Non ne dubito. Dopotutto scappi da tutto ciò che non ti piace.»
«Anche tu lo hai fatto» la accusò lui senza pietà.
Marian si indignò. «Mi volevano costringere a sposare uno stupido
borioso, non osare metterci sullo stesso piano. Io non ho mai avuto la
possibilità di scegliere. Non mi puoi giudicare, perché tu hai sempre avuto
tutta la libertà del mondo, cosa che io non mi sono sognata. Tu non puoi
capire.»
«Io non mi tiro indietro» borbottò Aleister.
«Ah, no? Sbaglio, o lo hai appena fatto? Adesso che Feardorcha ha
rubato la parola al tuo predecessore, uccidendolo, cosa pensi che accadrà,
Aleister? Non puoi rintanarti nel tuo nascondiglio sperando che le cose si
sistemino da sole.»
«Non è un mio problema. Io non sono alla ricerca della vendetta. Ho
imparato nel corso degli anni che porta solo ulteriore spargimento di
sangue» ribatté ostinato Aleister.
«Bene. Sai una cosa? Ci penserò io allora» dichiarò Marian.
«Cosa?» disse Aleister scoppiandole a ridere in faccia. «Vorresti
vendicarti?»
«Se tu non hai intenzione di proteggere le tue volpi, tutti i Sidhe e il
regno di Faerie da Feardorcha allora lo farò io» continuò lei mentre sentiva
ardere le guance. «Fermerò io Feardorcha, qualsiasi cosa abbia intenzione
di fare.»
«Tu? Ma se non hai un briciolo di magia in corpo!»
«Un modo lo troverò. Non avrò magia nelle vene, ma ho più sale in
zucca di te.»
Aleister incrociò le braccia e sorrise divertito. «Be’, voglio proprio
vedere cosa farai quando ti ritroverai davanti al Negromante. Potresti
combatterlo a suon di ricami e acquarelli. Non sono forse le cose che fate
voi ragazze dell’Altrove? Oppure potresti sbattere le tue lunghe ciglia e
conquistarlo con quegli occhioni blu pieni di lacrime» disse sarcastico.
«Non osare!» ringhiò lei a denti stretti. «Quelle sono le cose che mi
costringono a fare. Se solo avessi potuto studiare come un uomo, a
quest’ora sarei già un avvocato o un medico» sbottò.
Aleister aggrottò le sopracciglia, stupito.
«Davvero non potete studiare?»
«Non cambiare discorso, io sto ancora litigando con te» lo rimproverò
lei, asciugandosi con forza gli occhi umidi di lacrime.
Si guardarono in silenzio, ribollendo entrambi di rabbia.
Macbeth li aveva raggiunti, ma camminava in punta di piedi, assistendo
alla scena da debita distanza.
«Tutto… bene?» chiese cauto.
«A meraviglia» gridarono all’unisono i due, furenti.
«Naturalmente Macbeth verrà con me» annunciò Marian, raggiungendo
il ragazzino e mettendogli un braccio attorno alle spalle. «Starei troppo in
pensiero all’idea di lasciarlo solo con te.»
Aleister guardò il suo servitore offeso, come se lo avesse appena tradito.
«Con me è perfettamente al sicuro!» ribatté oltraggiato dall’affermazione
della ragazza.
Marian gli rivolse un sorriso sprezzante. «Vorrei ricordarti che sei stato
tu a spedirlo nell’Altrove senza istruzioni, senza cibo e senza protezione! Se
non lo avessi trovato io, sarebbe potuto finire…» Marian guardò angosciata
Macbeth e gli posò entrambe le mani sulle orecchie, coprendogliele «…
impallinato durante la caccia alla volpe.»
Il Re delle Volpi continuava a volgere lo sguardo da lei a Macbeth,
incredulo, pallido di rabbia.
«Bene, allora è qui che le nostre strade si dividono» sibilò. «Me ne
compiaccio» aggiunse, spinto da un orgoglio incrollabile.
«Esatto. Io e Macbeth partiremo domani mattina» annunciò Marian,
stringendo la presa sulle spalle del ragazzino. «Dopo aver riposato.
Possiamo considerarci ancora tuoi ospiti?»
«Ovviamente» rispose a denti stretti il Re delle Volpi senza un minimo di
tentennamento.
«Bene» disse Marian.
«Bene» disse Aleister.
Si rivolsero le spalle e si separarono.
27

Marian mangiò arrabbiata la cena che si materializzò per magia nella sala
da pranzo del palazzo, e si buttò furiosa sul letto a baldacchino della sua
camera, nell’ala dedicata agli ospiti.
Lei e il Re delle Volpi non si erano rivolti la parola per l’intera serata e
per Macbeth fu tutto un gran correre avanti e indietro perché Aleister ci
teneva moltissimo a sapere se il cibo fosse di gradimento di Marian, e
Marian voleva ringraziare a tutti i costi Aleister che “davvero non avrebbe
dovuto prodigarsi in quella squisita ospitalità”. Il tutto in termini
cordialmente offesi.
Parecchie ore dopo aver dato la buonanotte a Macbeth e aver lanciato
un’occhiata stizzosa ad Aleister, impegnato a suonare con scarso successo
uno strumento simile a un liuto, Marian continuava a rigirarsi senza sosta
nel letto, sbuffando e calciando via le lenzuola, senza riuscire a prendere
sonno.
Non riusciva a impedirsi di ripensare al litigio con Aleister, recitando le
battute che si erano scambiati e pensando a tutte le risposte pungenti che
avrebbe voluto dargli, ma che non le erano venute in mente. Affondò il viso
nel cuscino, in preda a una cocente vergogna. Non si era mai sentita così
tanto sciocca in tutta la sua vita.
“Ci penserò io” gli aveva detto, con una sicurezza presuntuosa che
adesso si era volatilizzata. Non aveva la più pallida idea di come avrebbe
fatto a tenere fede alle sue parole.
Se anche quello che le aveva detto Macbeth era vero, che lei e
Feardorcha venivano entrambi dall’Altrove, lui aveva comunque qualcosa
che lei non aveva. La magia.
A Marian costava doverlo ammettere, ma Aleister aveva perfettamente
ragione. Non sarebbe stata in grado di fare niente contro il Negromante.
Niente.
Il ragazzo aveva ragione anche su un altro doloroso punto, ovvero gli
obblighi che lei aveva verso i suoi genitori. Quel litigio, però, l’aveva
mandata su tutte le furie e non poteva perdonare facilmente i toni villani di
Aleister.
Si tirò le coperte fin sopra alla testa, ripromettendosi di trovare una
soluzione l’indomani.
“Si sa che la notte porta consiglio” si disse speranzosa.

Il mattino seguente, però, constatò con sua grande delusione che non le era
venuta nessuna buona idea. L’unica differenza rispetto alla sera prima
erache l’irritazione nei confronti di Aleister era forse aumentata.
Dopo essersi rivestita in fretta e aver combattuto senza successo con i
suoi capelli, decidendo alla fine di tenerli sciolti, lasciò la sua stanza per
dirigersi nel salone principale, dove era sicura che avrebbe trovato
Macbeth. Era a metà del corridoio, quando vide il ragazzino venirle
incontro. Sembrava sollevato nel vederla.
«Non sei andata via!»
«Pensavi che me ne sarei andata via nel cuore della notte lasciandoti qui
dopo tutto quello che abbiamo passato insieme?»
Macbeth le rivolse un sorriso imbarazzato. «È che eri molto arrabbiata
quando sei andata a dormire. Pensavo… lascia stare. Piuttosto, sei sicura di
voler partire adesso? Aleister non ha ancora tenuto fede al patto, non ha
ancora realizzato il tuo desiderio…»
«Non penso che lo farà mai» borbottò lei.
«Non dire così! Penso invece che lo farà… prima o poi.»
Nemmeno Macbeth sembrava molto convinto.
«Sai una cosa?» cominciò Marian, irritata. «In fondo Aleister ha ragione
a dire che non può essere un re. È un disastro. È troppo capriccioso, egoista,
vanitoso per potersi preoccupare degli altri o accorgersi anche solo della
loro esistenza. E io ne sono la prova vivente. Avrebbe potuto rispettare il
patto subito, appena usciti dal palazzo della leannán shee. Invece no, sono
dovuta rimanergli appresso nella speranza che il suo umore cambiasse e
aspettare che gli venisse voglia di levarmi quelle maledette corna che mi
erano spuntate per colpa sua» sbottò furiosa.
«Secondo me deve solo imparare» provò a dire Macbeth con cautela,
cercando di difenderlo. «Se lo conosci bene, ti accorgi che in fondo… be’,
molto in fondo, ha un cuore buono. E poi che non è stato lui a decidere di
diventare re, qualcun altro ha fatto questa scelta per lui. Si è ritrovato
incastrato in questa posizione, mentre desiderava solo poter essere libero.»
La rabbia di Marian venne stemperata dai sensi di colpa. Forse aveva
sbagliato a esprimere un giudizio così duro. Forse, alla fine dei conti, lei e
Aleister non erano così diversi. Entrambi avevano subito le scelte degli altri
e avevano semplicemente risposto in maniera differente. Marian aveva
sempre detto di sì, incapace di tirare fuori la voce e di farsi ascoltare dalla
sua famiglia. Aleister invece aveva cercato di ritagliarsi una sua libertà,
scegliendo se stesso e lasciando indietro gli altri.
Per quanto Marian cercasse di essere arrabbiata con Aleister per come
avevano discusso la sera prima, adesso doveva ammettere che le dispiaceva.
Era dalla sera prima che cercava di soffocare un desiderio, ma ora non
poteva più ignorarlo. Voleva aiutare Aleister a trovare la sua strada. Voleva
fare qualcosa per lui, lo desiderava davvero con tutto il cuore… Ma Aleister
era così maledettamente cocciuto.
Marian non aveva mai sentito il suo cuore così pesante come in quel
momento.
In quell’istante apparve il Re delle Volpi. Passeggiava guardandosi
intorno con aria distratta e finse di scorgerli solo quando era ormai a pochi
passi da loro.
«Oh, buongiorno, Macbeth. Buongiorno, Marian.»
Sorrise calorosamente a entrambi con un po’ troppa enfasi.
«Buongiorno» disse Macbeth mentre Marian si limitava a rivolgergli
un’occhiata poco convinta.
«Potresti lasciarci un attimo soli, Macbeth?» chiese Aleister cordiale.
Il ragazzino sembrava restio a ubbidire. Continuava a guardarli
sospettoso.
«Su, su, avanti» gli disse Aleister, spingendolo gentilmente via. Fu solo
quando Marian gli fece un piccolo cenno con la testa che Macbeth accettò
di defilarsi.
«Hai una grande influenza su di lui» osservò il Re delle Volpi.
«Sei forse invidioso?»
«Geloso, più che altro.»
Marian rimase sorpresa da quella risposta.
Cadde un silenzio imbarazzato. Aleister pareva a disagio e trovare
qualcosa da dire divenne di vitale importanza e necessario.
«Il tuo nome…» mormorò, cincischiando con l’orlo della giacca, in
maniera distratta. «Marian. È un nome buffo a pensarci bene. È da un po’
che te lo volevo dire.»
«Trovi?» sbottò Marian. Se quelle erano delle scuse, stava partendo
decisamente male.
«Ha diversi significati, tra cui “afflitta”. Con un nome del genere, non mi
stupisco della piega che ha preso il tuo destino.»
Prenderla in giro per il suo nome non era decisamente l’approccio giusto
per fare pace. «Probabilmente mia madre lo ha scelto perché ha un bel
suono» tagliò corto Marian, irritata. «Comunque, ricordati che devi ancora
esaudire il mio desiderio. Potresti risolvere la faccenda ora, così non sarei
più “afflitta”.»
«Ah, già» disse lui, cadendo dalle nuvole.
Marian lo guardò sbigottita. Come poteva continuare a dimenticarsene?
Aleister se ne stava appoggiato pigramente contro una statua, impegnato
a passarsi una mano tra i capelli, sistemandoseli con cura. Risultava
arrogante anche quando dava inconsapevolmente sfoggio della sua bellezza
e di tutta quella perfezione. Marian si chiese come aveva potuto sentirsi in
colpa per aver litigato con quello stupido borioso.
«Vedrai, mi inventerò qualcosa.»
Rimasero di nuovo in silenzio, mentre l’irritazione di Marian cresceva
sempre di più.
«Sai, qui a Faerie i nomi sono davvero molto importanti» disse Aleister,
in tono vago.
Marian sospirò. Dove voleva andare a parare?
«E il tuo è sì buffo, ma anche… importante. E penso che ti si addica.»
Aleister le lanciò un’occhiatina, per vedere se era riuscito a catturare la sua
attenzione.
Marian si limitò a incrociare le braccia al petto. «“Afflitta”? Pensi che mi
si addica?» osservò in tono distaccato.
La risposta parve divertire il Re delle Volpi, perché un sorriso si allargò
sul suo bel viso. Non c’era però traccia di ironia.
«“Ribelle”, “amara”, “bellicosa”… “amata”» continuò.
Marian lo guardò incuriosita.
«È il tuo nome, Marian. Il suo significato» continuò lui. «Mi fa sorridere
perché non poteva esserci un nome più azzeccato per te.»
Marian distolse lo sguardo, ben decisa a non cedere alle moine del
ragazzo.
«E Aleister invece? Cosa significa?»
«“Difensore dell’umanità”.»
Marian e Aleister si guardarono e scoppiarono a ridere.
«Marian, stavo pensando che forse… forse dovresti restare. Almeno fino
a che non avrò trovato una soluzione. Vorresti?» chiese lui con dolcezza.
Marian non gli rispose, limitandosi a rivolgergli un’occhiata pungente. Il
ragazzo si scompigliò i capelli, sospirando.
«Mi arrendo. Ti devo le mie scuse» disse, alzando le mani.
Marian era sorpresa. Non pensava che avrebbe ceduto per primo e non
pensava che lo avrebbe fatto così facilmente.
«Per cosa?» chiese con innocenza. Aveva tutta l’intenzione di farlo
scusare per bene, senza tralasciare nessun dettaglio.
«Immagino per tutto» borbottò lui. «Avevo bisogno di sfogarmi e ho
cercato di farti arrabbiare in tutti i modi per poter litigare con qualcuno. È
stato molto scorretto da parte mia» ammise.
«Molto poco carino ed elegante per un re.»
«È così, e ti chiedo scusa.»
Marian lo studiò. Sembrava sincero nella sua mortificazione e per lei fu
sufficiente.
«Scuse accettate» dichiarò.
Il viso di Aleister si distese in un sorriso sollevato.
«Mi riempi il cuore di gioia!» esclamò.
E la strinse tra le braccia, facendole fare una piroetta in aria.
Marian arrossì. Il viso di Aleister così pericolosamente vicino al suo…
«Quest’espressione crucciata non ti dona granché, sei più bella quando
sorridi. Ma ora credo che dobbiamo metterci al lavoro, non trovi?»
annunciò allegro, posandola con delicatezza a terra.
«Cosa intendi?» chiese Marian, cercando di dissimulare l’emozione che
la stava sconquassando.
«Non mi hai consigliato tu stessa di avvertire il consiglio nobiliare di
Faerie? È un suggerimento piuttosto azzeccato, ed è proprio quello che
andremo a fare adesso.»
La prese per mano e iniziò a trascinarsela dietro per il palazzo,
canticchiando. Sembrava essere tornato di ottimo umore. «Posso farti una
domanda?» chiese poi.
«Certo. A patto che non sia impertinente.»
Lui rise e Marian sentì delle farfalle poco opportune svolazzarle nello
stomaco.
«Perché hai sempre avuto paura di dire quello che pensi?»
La domanda prese Marian in contropiede. D’istinto, cercò di lasciare la
presa dalla mano di Aleister, ma lui la strinse più forte, continuando a
camminare a testa alta e guardando davanti a sé.
Marian gli fu grata per non essersi messo a studiarla come al suo solito.
«Perché a nessuno è mai interessato ciò che avevo da dire» rispose,
stringendosi nelle spalle. Provò a dirlo cercando di sembrare allegra e
disinvolta… ma si rese conto che era umiliante dirlo così, ad alta voce.
Dirlo a lui, poi. Faceva quasi male.
«A me interessa quello che hai da dire» ribatté Aleister con voce
cristallina.
Fu in quel momento che si fermò e la guardò con attenzione, come se
riuscisse a vedere tutto di lei. Le strinse la mano più forte. «Davvero. E
trovo che tu abbia sempre delle cose molto interessanti da dire.»
Marian distolse lo sguardo dai suoi occhi verdi, a disagio. «Hai ragione
sul mio nome, dopotutto» balbettò, cercando di cambiare discorso. «Non
credo che la felicità mi appartenga.»
«Sciocchezze!» rise lui. «La felicità appartiene a tutti. Perché pensi una
sciocchezza simile?»
Marian scosse la testa, convinta della sua idea. «Non penso che la felicità
sia prevista per me, che faccia parte del mio destino. Dopotutto cosa ci si
può aspettare da una ragazza il cui nome significa “afflitta”?» cercò di
scherzare.
Aleister sospirò. «Marian, questa è una vera stupidaggine. Non vedi che
errore stai facendo? Ti stai soffermando su un dettaglio insignificante. Il tuo
nome vuole dire tante altre cose, ma tu ti sei fissata sull’unica negativa.
Invece di pensarti “afflitta”, ricordati che sei anche “bellicosa” o “ribelle”.
E ti posso assicurare che sei entrambe le cose. Sei una ragazza così
intelligente, eppure continui a dire cose tanto sciocche!» Aleister le rivolse
un’occhiata seria. «Perché sei sempre vittima degli eventi?»
«Cosa intendi?»
«Mi hai detto che hai sempre fatto tutto quello che ti veniva detto, senza
mai dire di no. Vorrei capirne il motivo. Perché non hai mai detto
chiaramente cosa volevi e cosa non volevi fare?»
Marian abbassò gli occhi, sentendosi colpevole.
«Non avevo scelta» mormorò.
«Una scelta c’è sempre» ribatté Aleister, con dolcezza.
«Non mi avrebbero ascoltata.»
«Io ti sto ascoltando.»
Marian alzò la testa e incontrò gli occhi di Aleister. Era vero. La stava
ascoltando davvero e lo stava facendo con una dolcezza quasi dolorosa,
senza prese in giro.
«Comunque sono venuto per dirti che lo farò» annunciò allegramente il
Re delle Volpi, distogliendo lo sguardo.
Quell’intimità che si era creata si spezzò, e Marian gli fu grata per aver
cambiato repentinamente discorso.
«Farai che cosa?»
«Diventerò re. Be’, tecnicamente lo sono già da un pezzo, ma hai capito»
rispose. «E farò il possibile per fermare Feardorcha.»
Marian non poteva credere alle sue orecchie.
«Hai pronunciato il suo nome!»
Aleister le riservò un sorriso soddisfatto. «Che sappia pure che sto
parlando di lui. Mi deve solo temere!»
«Io… sono senza parole, Aleister. Sono davvero fiera di te.»
Il ragazzo sorrise ancora. Che fosse gratitudine quella che Marian
leggeva nei suoi occhi? Non ne aveva idea, ma sapeva di non essersi mai
sentita tanto felice come adesso.
«Grazie, Marian» le disse, a voce bassa.
«Per cosa?»
«Per avermi sgridato. Penso che mi abbia fatto bene.»
Marian scoppiò a ridere e Macbeth sbucò all’improvviso, gettando le
braccia al collo di entrambi.
«Avete fatto pace? Ero così in pensiero! Per favore, non litigate più…»
Aleister gli scompigliò i capelli e si chinò per dargli un bacio in testa.
«Hai ragione, Macbeth. Che sovrano orribile che hai, sono stato un vero
villano…»
Macbeth lo guardò confuso, poi realizzò il significato delle sue parole, e
sul suo viso si allargò il più grande dei sorrisi.
«Oh, Aleister! Aleister!» disse ridendo e agitando la coda felice. «Lo
sapevo! Farai il re!»
«Calmiamoci adesso, tutti quanti. La felicità è meglio conservarla per
dopo. Abbiamo un compito importante da portare a termine ora: dobbiamo
avvertire la Madama dell’Isola di Mann, per cercare di anticipare
Feardorcha.»
«Come facciamo ad avvertirla?» chiese Marian.
«C’è un canale di comunicazione che usava il vecchio. Nessuno a parte
Madama Catglic ne è a conoscenza, quindi dovremmo riuscire a passare
inosservati.»
«Non potremmo chiedere aiuto al consiglio nobiliare per l’intera
faccenda?» propose Macbeth.
Aleister fece una smorfia. «No, non hanno idea dell’esistenza delle
parole e preferisco che continuino a rimanerne all’oscuro. Me ne occuperò
personalmente, è deciso. E poi non voglio che quell’idiota di Puck sappia
che mi sono lasciato rubare da sotto il naso qualcosa di così prezioso. Hai
idea di quanto mi tormenterebbe?»
Aleister ricominciò a sfrecciare per il palazzo, avanzando sicuro per i
corridoi illuminati dal sole del mattino fino alla sala del trono. Si avvicinò a
uno dei bracieri disposti agli angoli della grande stanza e con un semplice
gesto accese il fuoco con le sue fiamme magiche. Dal braciere si innalzò
un’enorme fiammata e Marian e Macbeth fecero un passo indietro.
«Il Re delle Volpi richiede udienza alla Regina dei Gatti dell’Isola di
Mann» annunciò Aleister a gran voce.
A vederlo così, splendente nella luce del mattino e del fuoco che gli
accendeva i capelli rossi e i decori oro della giacca, Marian si emozionò.
Sembrava un vero re.
Aleister si voltò verso di lei, un sorrisetto storto stampato in faccia.
«L’ho visto fare un paio di volte al vecchio» sussurrò.
Tra le fiamme, apparve il viso pieno di rughe della donna gatto.
«Madama, ossequi» disse Aleister allegramente, facendo un piccolo
inchino.
«Aleister? Sei proprio tu?»
La voce della regina dei gatti arrivava forte e chiara, così come arrivava
forte e chiaro il suo disappunto nel trovarsi di fronte Aleister. Si aspettava il
suo predecessore.
«In persona, Madama. Sono qui a portare buone e cattive nuove.
Innanzitutto, come avrete intuito, ha di fronte il nuovo Re delle Volpi.»
La donna esitò.
«Hai finalmente accettato il tuo destino?»
«Sì, è così. E poi perché il mio predecessore è morto.»
«Che cosa? Cos’è accaduto?» si allarmò l’anziana.
«Ha cercato fino all’ultimo di proteggere l’incantesimo segreto… la
parola custodita dalla famiglia delle volpi, battendosi valorosamente contro
Feardorcha.»
Catglic sembrò esitare. Il viso addolorato tremava tra le fiamme del
braciere.
«Non pensavo che il Negromante si sarebbe spinto a compiere una tale
barbarie» mormorò, non nascondendo una certa indignazione.
«Temo che siate in pericolo» affermò Aleister.
«Sciocchezze» ribatté lei. «Sono perfettamente in grado di difendermi
dal Negromante. Non vivo come un eremita in un castello sperduto e non
sono neanche così vecchia come lo era il tuo predecessore! Sono circondata
dal mio clan, ben protetta. Se Feardorcha vuole provare a sfidare questa
vecchietta, troverà pane per i suoi denti» rispose in un tono così deciso da
non ammettere repliche. «Aleister, se l’ora è così tarda, c’è solo una cosa da
fare… ti devo affidare un compito» disse poi la donna gatto, pensierosa.
«Sono al vostro servizio.»
«Dovresti fare visita ai nani.»
«I nani?» esclamò Aleister. Non sembrava contento della richiesta.
«I nani» confermò lei. «Come hai potuto vedere anche tu, non si sono
presentati al consiglio nobiliare. All’inizio ho immaginato che si trattasse
della loro solita pigrizia… ma adesso dobbiamo assicurarci che non si siano
uniti a Feardorcha. O peggio, che Feardorcha non si sia impossessato della
loro parola.»
«A tal proposito… Temo che si sia già impadronito di quella degli
hobgoblin.»
Aleister sfoderò l’arma con cui Feardorcha aveva provato a colpirlo. Il
pugnale dalla lama nera lanciò un bagliore tetro quando venne portato alla
luce del fuoco magico.
«Quella…» esclamò l’anziana, riconoscendo subito la fattura dell’arma.
«Sì. Feardorcha l’ha usata contro di me. Possiamo affermare senza dubbi
che siano alleati. Immagino che gli abbiano consegnato l’incantesimo senza
fare storie. Se siano o meno a conoscenza dell’uso che Feardorcha ne farà,
però, lo ignoro.»
«Non c’è tempo da perdere allora» rispose secca Madama Catglic.
«Dovrai partire oggi stesso. Fai del tuo meglio, giovane re.»
L’enorme testa tremolò per poi sparire inghiottita dalle fiamme.
Aleister rimase a fissare il braciere con una smorfia che gli segnava il
volto.
«Tutto bene?» chiese Marian preoccupata.
«Devo andare dai nani» esclamò desolato Aleister. Si buttò a sedere
scomposto sul trono.
Marian si rimangiò qualsiasi osservazione che aveva fatto in precedenza
sulla regalità appena acquisita da Aleister.
«Ed è una richiesta tanto grave?»
Il Re delle Volpi si stava massaggiando gli occhi con la mano,
sospirando.
«Lì la mia magia non funziona… o meglio, non funziona quella per
viaggiare. Non funzionano piume, portali e tutto ciò che di più comodo sia
mai stato inventato a Faerie. E questo perché i nani sono dei piccoli avari
paranoici. Hanno paura che qualcuno si possa intrufolare nelle loro terre per
derubarli, quindi l’unico modo per presentarsi al loro cospetto è quello di
bussare direttamente alla loro porta di casa e passare una miriade di
controlli. Posso arrivare fino all’ingresso del loro regno, ma da lì in poi
dovremo raggiungere il palazzo a piedi.»
«Ed è molto scomodo?» chiese Marian, che era sempre andata
dappertutto a piedi e non le sembrava un’impresa tanto faticosa da
affrontare.
«Terribilmente» confermò lui. «Ma non abbiamo scelta. Avanti, fate i
bagagli, dobbiamo partire» annunciò.
Marian e Macbeth si scambiarono un’occhiata poco convinta. Nessuno
di loro aveva dei bagagli da preparare. Marian non si ricordava nemmeno
più dove avesse abbandonato la sua borsetta.
«Credo che siamo entrambi pronti» disse.
Aleister rivolse loro un’occhiata rassegnata.
«Be’, allora non ci resta che metterci in viaggio.»
28

La luna era già alta nel cielo ma lì, nel palazzo dei nani scavato nella pietra,
l’oscurità era una coltre fitta, soffocante.
Le torce ai lati dell’imponente ponte si accesero una dopo l’altra, a mano
a mano che lui avanzava. I suoi passi riecheggiavano in un’eco che
sembrava non avere né un inizio, né una fine.
Entrare era stato facile, sfilare inosservato davanti alle guardie in alta
uniforme lo era stato ancora di più. Mentre le superava, aveva sfiorato
impunemente gli enormi martelli d’acciaio, con una deliziosa soddisfazione
nel sapere di poterlo fare senza essere visto.
Era stato tutto così semplice che adesso che si trovava al cospetto del re
del Regno dentro la Montagna, non ci poteva quasi credere.
«Feardorcha» ruggì re Ord. «Come osi mostrare la tua brutta faccia
qui?»
Il Negromante assunse un’espressione offesa.
«Dirmi una cosa del genere… non sei molto gentile. Eppure tutti non
fanno altro che lodare l’ospitalità dei nani.»
Il re fece roteare l’enorme martello sopra la testa, con un’agilità
portentosa. Nelle sue mani sembrava leggero come una piuma, ma
Feardorcha conosceva molto bene il reale peso dell’acciaio dei nani. La
mazza era alta quanto il suo proprietario, ed era massiccia quanto lo era il
re. Il bordo della testa aveva un intricato motivo di gemme incastonate.
«Avvicinati, allora, così potrò mostrartela meglio, dandoti il benvenuto
che meriti.»
Feardorcha sfoderò un ghigno divertito. Il re aveva il senso
dell’umorismo, cosa rara per un Sidhe e ancora più rara per un regnante.
Sapeva che sarebbe stato uno sciocco errore sottovalutarlo. Per questo
aveva preso delle precauzioni.
«Sono qui per proporti un affare. Tu hai qualcosa che mi interessa
enormemente… e io so come ripagarti.»
Il re proruppe in una risata che rimbombò spaventosa. Si trovavano
all’ingresso del palazzo reale, scavato nel cuore della montagna. Alle spalle
di Feardorcha si estendeva un intricato labirinto di ponti sospesi e gallerie.
Sebbene il re dei nani si fosse presentato da solo, il mago sapeva che ben
presto avrebbero avuto compagnia. Le guardie cittadine e quelle reali si
sarebbero risvegliate presto dall’incantesimo che aveva lanciato. Non
doveva indugiare, aveva poco tempo e voleva evitare inutili scontri.
«Che cosa potrebbe mai offrire il Negromante che susciti l’interesse del
Re dei Nani? Ho tanto oro e argento che le segrete del mio regno scoppiano,
e le mie miniere sono stracolme di gemme. Ne abbiamo così tante che
basteranno fino alla fine dei nostri giorni. Fino alla fine del mondo intero.»
Il silenzio del castello venne infranto da un convulso rumore dei passi. In
una manciata di secondi, Feardorcha venne accerchiato dalla guardia reale.
Il suo incantesimo era stato spezzato. I nani erano più resistenti di quanto
avesse previsto. Era stato un errore sciocco da parte sua sottovalutare quella
loro pellaccia spessa.
Il re ringhiò soddisfatto. Era circondato dai suoi miglior guerrieri,
adesso. Feardorcha avrebbe pagato per l’impudenza avuta nel presentarsi al
suo cospetto senza invito e per essersi introdotto nel suo regno di nascosto.
Eppure l’espressione del mago non cambiò. Anzi, sembrava divertito.
«Penso che dovresti richiamare le tue guardie, sarebbe più cortese
concedermi un discorsetto a tu per tu» lo avvertì. La sua voce risuonava
ferma, senza traccia di smarrimento o paura, sebbene avesse puntati contro
mazze ferrate e martelli da guerra.
Il re gli scoccò un’occhiata sprezzante. «Io non scendo a patti con i
mostri.»
«Molto bene. Penserò io ai tuoi soldati, allora» annunciò il mago e gli
occhi gli lampeggiarono di rosso.
In un battito di ciglia, Feardorcha si trasformò.
Si piegò su se stesso come se si stesse sciogliendo. Le vesti si
allargarono e si tramutarono in enormi zampe squamate ricoperte da lunghe
piume. I lucenti capelli neri si ritirarono, diventando pelo ispido. Il viso
attraente dalle guance scavate sparì. Dove prima c’era un uomo, adesso si
ergeva l’enorme bestia che terrorizzava gli incubi di Faerie.
«Ora sì che puoi darmi del mostro» ghignò la creatura.
Prima che il re potesse reagire, spiccò un balzo e atterrò sui soldati. Con
le enormi zampe artigliate li afferrò a manciate, scaraventandoli al di là del
parapetto del gigantesco ponte su cui si trovavano. Pur essendo una creatura
così massiccia, aveva una destrezza innaturale e schivava con facilità le
mazze ferrate e i martelli. Scagliò e schiacciò i soldati uno dopo l’altro,
finché non ne rimase in piedi nemmeno uno. Il rumore dei corpi spezzati e
delle ossa frantumate era straziante. I loro cadaveri erano sparsi lungo il
ponte, le ossa che perforavano le carni, gli elmi fracassati sotto al peso delle
sue zampe. Un lago di sangue sgorgava dai corpi, colando nelle viscere
della montagna, oltre il parapetto.
Il re fissava inorridito la scena. In pochi istanti, Feardorcha aveva
sterminato alcuni tra i suoi guerrieri più forti. Boccheggiante, teneva stretta
al petto la mazza.
«Bene, direi che adesso possiamo riprendere le nostre trattative»
gracchiò la bestia con voce roca.
L’orribile mostro si scrollò e il Re dei Nani sentì il pavimento tremare
sotto ai suoi piedi. Quando rialzò lo sguardo, Feardorcha era tornato come
prima, traboccante di fiducia.
«Come dicevo, ho qualcosa da offrirti che sono sicuro susciterà il tuo
interesse.»
Fu con enorme soddisfazione che sfoderò il suo asso dalla manica.
Allargò le braccia e, dall’oscurità delle pieghe delle sue vesti, apparve una
piccola figura tremante.
A re Ord bastò uno sguardo per realizzare di chi si trattava.
«Mia figlia…» gemette il re. «Come hai osato?» gridò, livido di rabbia.
La principessa cercava di tenere alto il viso barbuto, con fierezza.
«Non temete, padre» disse con voce rotta.
«Oh, tuo padre non dovrà temere niente, se mi consegnerà ciò per cui
sono venuto. Si tratta di un semplice scambio.»
Gli occhi del Negromante lampeggiarono, e un ghigno si allargò sul viso
pallido. Nei suoi lineamenti si poteva ancora scorgere la creatura in cui si
era tramutato pochi istanti prima.
«Non oseresti tanto» disse il re. «Mia figlia…»
«Oh… sfidami.»
Feardorcha, con un gesto pigro, sollevò da terra la principessa, facendola
galleggiare sopra il crepaccio che si estendeva sotto di loro, oltre il
parapetto. La principessa continuava a dibattersi, cercando invano di
liberarsi da quella morsa invisibile.
«Ti prego, fermati! Ti darò tutto quello che vuoi, ma non farle del male!»
Il grido disperato del Re dei Nani squarciò l’oscurità del regno che non
conosceva la luce del sole.
Il re lasciò cadere a terra il martello, che crepò l’elegante lastricato.
Anche lui cadde, in ginocchio.
«Saggia decisione» commentò Feardorcha con un sorriso conciliante.
«Dimmi che cosa vuoi. Ma ti prego, non farle del male. È la mia unica
figlia!» pregò il re.
Gli occhi azzurro ghiaccio di Feardorcha erano diventati rossi, fulgidi
come braci ardenti.
«Voglio la vostra parola. Dammela» ordinò.
Il re lo guardò confuso.
«La mia parola? Su cosa? Su cosa devo giurare?»
«Hai capito benissimo…» disse spazientito Feardorcha. «Voglio la
vostra parola, l’incantesimo che custodite voi nani da sempre, e che vi
tramandate di generazione in generazione.»
Il re gli rivolse un’occhiata scioccata. «E come fai a sapere della sua
esistenza?»
«Sono sempre stato molto curioso.»
«Ma se anche ti dessi la parola, cosa ci potresti mai fare? Non la puoi
udire… non la puoi pronunciare!»
«Non preoccuparti di simili dettagli. Dammela e basta.»
«Ti dico che non ha senso» provò a convincerlo il re.
Feardorcha spazientito strinse il pugno e la principessa precipitò di
qualche piede.
Il re e la principessa gridarono.
«Questo era un avvertimento.» Feardorcha allungò una pallida mano
verso il sovrano. «Dammi la parola, o tua figlia scoprirà con i suoi stessi
occhi quanto profondamente i vostri avi si sono spinti a scavare nelle
profondità della terra.»
Il re scosse la testa incoronata e calde lacrime caddero sul suo volto,
perdendosi nelle trecce della lunga barba.
«Va bene… va bene» sussurrò.
Ancora in ginocchio, si piegò su se stesso, portando entrambe le mani al
petto. Le sue labbra si mossero, come se stesse mormorando qualcosa. Poi
venne scosso da un profondo spasmo, che lo fece tremare.
Feardorcha osservava attentamente la scena, il braccio teso, la
principessa ancora sospesa nel vuoto.
Dal petto del re scaturì una sfera di luce, grande quanto un uovo di
gallina, che brillava tenue nell’oscurità.
Gli occhi di Feardorcha si fecero più grandi e brillarono di bramosia.
«Cosa… cosa vuoi farne?» chiese il Re dei Nani, mentre stringeva tra i
grandi palmi l’incantesimo segreto. La sconfitta era bruciante,
l’impossibilità di reagire lo aveva sopraffatto. Qualcosa che era stato così a
lungo custodito era stato sottratto così facilmente…
Il viso di Feardorcha si distese, perdendo traccia della feroce superbia. I
suoi lineamenti si addolcirono. «Io non sono cieco come voi. Ho la certezza
di vedere il male che si annida davanti a noi. Voi… voi tutti siete diventati
così ciechi che non riuscite più a scorgere i veri pericoli, a capire che i
nostri nemici ci stanno schiacciando. Ben presto soffocheremo, e quando ve
ne renderete conto sarà troppo tardi per porvi rimedio… Se non vorrete
salvare Faerie, lo farò io.» Fece una pausa e il suo sguardo vagò lontano,
oltre le pareti di roccia della galleria, ben oltre la montagna. «Perché questo
luogo mi è molto caro» sussurrò.
La principessa era ancora sospesa nel vuoto, quando Feardorcha allungò
il braccio verso il re.
La sfera luminosa, sentendo il nuovo padrone che la richiamava, scivolò
via dalla mano tremante di re Ord e volò verso la sua.
Quando si poggiò con grazia contro il palmo aperto, Feardorcha indugiò.
«Sarò io a proteggere Faerie» mormorò.
La afferrò, se la portò alla bocca e la ingoiò.
La parola custodita dai nani, tramandata di generazione in generazione
come il segreto più prezioso, sparì tra le labbra del mago. Re Ord rimase ad
assistere impotente mentre l’incantesimo della sua stirpe veniva inghiottito.
«Adesso tieni fede alla tua parola. Libera mia figlia» ringhiò feroce,
tirandosi su in piedi, appoggiandosi al martello da guerra.
Feardorcha alzò lo sguardo, come se si fosse ricordato solo in quel
momento del suo ostaggio sospeso sopra la voragine senza fondo.
«Ah, già. Il nostro accordo» sogghignò. «Vediamo se sei abbastanza
veloce.»
Con un gesto pigro, schioccò le dita. L’incantesimo che tratteneva la
principessa si spezzò, facendola precipitare nel vuoto. Re Ord gridò
disperato.
«Calma, calma, è tutto a posto» annunciò una voce allegra.
Feardorcha si sporse per scrutare l’oscurità sotto al ponte. Per la prima
volta sembrò preoccupato.
Quando vide la figlia fluttuare verso di lui, in salvo, il Re dei Nani
rimase a bocca aperta, incredulo.
La principessa era tra le braccia del Re delle Volpi, che atterrò con
eleganza di fronte a lui.
«Re Ord, credo di essermi appena imbattuto in vostra figlia» disse
Aleister, mentre faceva scendere incolume la principessa accanto al padre.
Il nano spostò lo sguardo incredulo dal giovane alla figlia.
«Che mi venga un colpo se non sei il Re delle Volpi!» farfugliò, mentre
la principessa gli gettava le braccia al collo.
Aleister si inchinò con grazia.
«Al vostro servizio, sire. Sono venuto per avvertirvi di Feardorcha, ma…
temo di essere arrivato in ritardo» concluse, guardando il mago.
«Buonasera, Aleister» salutò Feardorcha e Aleister riuscì a percepire un
certo nervosismo nella sua voce. «È strano trovarti qui. Devo ammettere
che mi hai sorpreso. Sei solo? Dov’è la tua allegra combriccola di
accompagnatori?»
Proprio in quell’istante, comparvero Marian e Macbeth. Avevano tutta
l’aria di aver corso a perdifiato fino a quel momento.
«Tu…» disse Marian ansante, piegata in due per lo sforzo, puntando il
dito contro Aleister «…tu hai le gambe troppo lunghe!»
Quando alzò il capo, riconobbe Feardorcha. Su quel ponte nero, immerso
nell’oscurità, non lo aveva visto. Adesso era anche abbastanza vicina per
scorgere i corpi straziati delle guardie ai suoi piedi. Venne percorsa da un
brivido e, istintivamente, fece due passi indietro, nascondendo Macbeth
dietro di sé.
Re Ord si era rialzato in piedi e aveva imbracciato di nuovo il suo
martello. Adesso che sua figlia era al sicuro, aveva tutta l’aria di chi è
intenzionato a dare battaglia, senza risparmiare colpi.
«Che tu sia maledetto, Negromante!» gridò. Roteando il possente
martello in preda a una furia cieca, superò Aleister con uno scatto e si
abbatté su Feardorcha.
«Assaggia i colpi di Tempesta d’acciaio!»
Feardorcha rise quando il martello lo attraversò.
Re Ord rimase spiazzato. Caricò un nuovo colpo e provò ancora, e
ancora, mentre le risate di Feardorcha si facevano sempre più forti. Il suo
corpo si era tramutato in fumo nero e il martello si limitava a passargli
attraverso.
«Temo che ci rincontreremo, Re delle Volpi» disse il mago rivolto ad
Aleister, mentre il viso pallido e spigoloso dagli occhi rossi si dissolveva
nell’oscurità.
«Temo anche io» mormorò Aleister.
Un vento innaturale si levò e il mago tramutatosi in fumo si disperse
nell’aria.
Stava fuggendo. Un’altra volta.
Il fumo nero guizzò accanto a Marian e Macbeth, ignorandoli.
Feardorcha sparì nell’oscurità della montagna.
29

Feardorcha si era dissolto nell’oscurità, sparendo tra le gallerie e la


ragnatela di ponti sospesi del regno.
Re Ord osservava sconfitto i corpi dei suoi uomini.
«Una tale aggressione… proprio nella mia dimora. È imperdonabile»
disse digrignando i denti. Aveva stretto con tale forza la presa attorno al
manico del martello che le nocche erano diventate bianche.
«Non eravate pronti a uno scontro simile. Non potevate fare altrimenti
davanti alla sua magia» cercò di consolarlo Aleister.
Re Ord abbassò il capo e scosse lentamente la testa. «Per questo voi
maghi non siete i benvenuti qui. Nessuno in grado di procurare un dolore
simile dovrebbe entrare nel mio regno.»
Aleister non disse niente. Lasciò che la principessa consolasse l’orgoglio
ferito del padre e andò verso Marian e Macbeth, ancora fermi sul ponte
dove si era consumata la battaglia.
«State bene?»
Marian annuì. Teneva stretto a sé Macbeth, la testa affondata nel suo
vestito per nascondergli la vista straziante dei soldati uccisi.
«Chiudete gli occhi, non è un bello spettacolo» le disse Aleister.
Sollevò entrambe le mani verso di loro, facendo alzare un vento gentile
che li avvolse. Marian tenne gli occhi chiusi mentre Aleister li aiutava ad
attraversare il ponte. Li riaprì solo quando sentì la mano del Re delle Volpi
stringerle con gentilezza una spalla.
«Posso guardare adesso?» chiese Macbeth.
«Fai il bravo e non ti girare verso il ponte» disse Aleister, ma il
ragazzino aveva già lanciato occhiate curiose in quella direzione. Il Re delle
Volpi lo prese per la collottola e lo scrollò con forza. «Cosa ti ho detto? Sei
troppo piccolo per certe cose!»
«Siamo arrivati troppo tardi» mormorò Marian.
Aleister le rivolse un’occhiata triste.
«Io… non credevo che arrivasse a tanto» continuò la ragazza a bassa
voce.
«I nani non sono dei maghi, sono dei guerrieri. È stato uno scontro
impari. Uno scontro vigliacco» confermò Aleister.
Marian stava per posargli una mano sulla spalla, quando il ragazzo si
voltò verso il Re dei Nani, mettendo su il suo miglior sorriso. «Per fortuna,
però, siamo giunti in tempo per salvare la principessa! Se non fosse stato
per i miei poteri straordinari, chissà che cosa le sarebbe potuto accadere!»
dichiarò, avanzando a braccia aperte verso re e figlia, pronto a prendersi i
complimenti che era convinto di meritarsi.
«La sua solita modestia…» commentò Marian a mezza voce.
Aleister fece un elegante inchino a re Ord. «Temo che dovremo
rimetterci immediatamente in viaggio, se vogliamo anche solo provare a
battere il Negromante sul tempo.»
«Di nuovo» aggiunse Macbeth con amarezza.
Aleister gli rivolse un’occhiataccia.
«Dove dovete andare?» chiese il Re dei Nani, mentre si appoggiava
all’enorme martello.
«Dobbiamo dirigerci verso l’Isola di Mann, dalla matriarca Catglic. È di
vitale importanza arrivare prima di Feardorcha. Potete aiutarci? In nome
della vecchia amicizia e alleanza tra volpi e nani» chiese Aleister, ben lungi
dal dimenticare le buone maniere.
Re Ord assunse un’espressione contrita. «Penso che sia meglio per voi…
be’, sì, insomma, è meglio se ve ne andate da qui e…» farfugliò.
La principessa, senza tante cerimonie, mollò un calcio al padre, mirando
allo stinco. Il re guaì, preso alla sprovvista. La principessa scosse i lunghi
capelli e la folta barba, furiosa.
«Padre, avanti! Mi hanno salvato la vita. Dagli le indicazioni per la
scorciatoia fino al castello senza inventarti scuse. Devi smetterla di pensare
che tutti vogliano derubarci.»
«Be’, ma le nostre miniere…»
«Non credo che loro abbiano alcun interesse per le nostre miniere» lo
interruppe la figlia. «Digli della scorciatoia, coraggio. Se sono ancora qui, è
solo merito del Re delle Volpi.»
«C’è una scorciatoia?» chiese Macbeth come se avesse appena ricevuto
la più bella notizia del mondo.
Avevano camminato nell’oscurità del regno dei nani per un tempo
interminabile e l’idea di dover fare tutta la strada al contrario non
entusiasmava nessuno.
Ord si massaggiò lo stinco, offeso.
La principessa lo ignorò. «Ovvio. Per evitare qualsiasi tipo di ruberia,
nell’antichità i nani hanno incantato l’intero regno, vietando qualsiasi tipo
di magia che permettesse ai Sidhe di viaggiare, di materializzarsi e di
spostarsi. Sono stati banditi persino i portali. Quel tipo di magia qui non
funziona.»
«I ladri, sapete… si fanno sempre più scaltri» commentò cupo il re.
«Questa non tanto brillante intuizione dei miei avi ha reso il regno sì più
sicuro, ma decisamente più scomodo da visitare. Non abbiamo mai ospiti»
commentò imbronciata la principessa.
Aleister ascoltava con un enorme sorriso stampato in faccia. Marian,
però, che ormai aveva imparato a conoscerlo, poteva notare tutti quei
piccoli gesti nervosi che rivelavano una certa impazienza: il modo in cui si
ravviava i capelli all’indietro, la punta dello stivale che batteva a terra e i
piccoli spasmi dello zigomo.
Aleister aveva fretta, ma doveva ottenere ciò che desiderava e non si
sarebbe arreso finché non ci fosse riuscito.
«Penso che vostra figlia abbia ragione, sire» disse il Re delle Volpi,
stringendo il nano per le spalle, amichevolmente. «Costringere i vostri
pochi ospiti a intraprendere un cammino così lungo per venirvi a trovare,
facendogli attraversare le vostre terre… be’, non fa onore alla rinomata
ospitalità dei nani. Vi assicuro che la strada dall’ingresso del regno fino a
qui, al vostro castello, è davvero lunga» osservò.
«Davvero molto» assicurò Marian, che aveva una gran voglia di lanciare
in aria i suoi stivaletti e proseguire il resto del viaggio scalza.
«Quando sarò regina tutto cambierà» annunciò la principessa, mentre il
padre rimaneva in silenzio, riluttante. «Venite con me, penso di potervi
aiutare.»
Sfilò il padre da sotto il braccio di Aleister e vi si appese lei, prendendo
il giovane Re delle Volpi a braccetto, arrivandogli a malapena a metà del
petto.
Marian strinse le labbra, contrariata.
«Per come stanno le cose, se Feardorcha vuole raggiungere l’Isola di
Mann dovrà prima ripercorrere al contrario la strada che ha fatto per
arrivare qui al castello» spiegò la principessa dei nani. «Una volta giunto
fuori dal regno, potrà raggiungere l’isola dei gatti con qualsiasi magia che
gli permetterà di viaggiare. Immagino che sceglierà un portale. Ma con la
mia scorciatoia, riuscirete ad arrivare prima di Feardorcha, ve lo assicuro!»
«Ma, mia cara, sei proprio sicura…» provò a protestare il padre.
La principessa lo fulminò con un’occhiata, e lui si limitò a fare strada nel
palazzo.
«Principessa, siete la nostra salvezza» sospirò di sollievo Aleister,
scuotendo la chioma rossa con la sua solita sicurezza ammaliante.
Marian sbuffò dietro di lui.
La figlia di Ord li fece entrare nel castello dentro la montagna. Marian
osservò curiosa l’architettura del luogo, dimenticandosi per un attimo di
tenere d’occhio Aleister che camminava claudicante con la principessa
appesa al braccio.
Era decisamente più grezzo e spigoloso rispetto al palazzo del
predecessore di Aleister e allo sfarzo magico del ministero dove si era
tenuto il consiglio delle famiglie nobili di Faerie. Le forme erano massicce
e squadrate, scavate con maestria nel cuore della montagna. Le finestre
erano poche, dato che non c’era luce da far entrare, ma ogni spazio era
occupato da enormi statue, e le superfici di porte, mura e soffitti erano
ricoperte da decori e bassorilievi.
Lungo la loro passeggiata all’interno del palazzo si imbatterono in
diverse guardie ancora addormentate, caracollate a terra sotto l’incantesimo
di Feardorcha, le armi abbandonate a terra.
La principessa strattonò Aleister, cercando di attirare la sua attenzione.
«Venite con me, vi porterò nella sala progetti.»
Si fermarono solo quando giunsero di fronte a un’enorme porta
squadrata, con delle rune incise lungo tutta la cornice di pietra.
Dato che non c’erano guardie o servitori svegli nei paraggi, la
principessa scoccò un’occhiata al padre, che si prodigò ad aprire
personalmente l’enorme portone, grugnendo per la fatica.
La principessa entrò per prima, facendo strada.
Era una stanza angusta, zeppa di fogli di carta e pergamene arrotolate e
infilate dentro gli scaffali che costeggiavano le quattro pareti. L’odore della
carta fu una boccata d’aria fresca per Marian, rispetto a quella umida e
terrosa che si respirava nelle gallerie del regno.
«Vediamo…» disse la principessa mentre si accarezzava la barba bionda,
scrutando pensierosa uno scaffale. «Credo di avere qualcosa che fa al caso
vostro.»
«Mia figlia è un vero genio quando si parla di gallerie e mappe!» disse
orgoglioso il re fermo sulla soglia a guardarla che si arrampicava per
frugare tra i rotoli ingialliti.
«Eccola qui!» annunciò la principessa.
«Ha catalogato tutte le nostre mappe» continuò con orgoglio re Ord.
La principessa scese con il bottino stretto in mano. Srotolò la mappa e la
poggiò sul tavolo di marmo al centro della stanza, sbeccato in più punti ma
di un bellissimo tono che dava sull’azzurro.
Aleister, Marian e Macbeth si sporsero per studiare l’intricato disegno.
«Qui trovate indicate tutte le gallerie che collegano il nostro regno ai
luoghi più importanti di Faerie» spiegò soddisfatta la principessa.
Aleister aggrottò le sopracciglia, perdendo per un attimo la sua elegante
posa.
«Ehi, sbaglio o questa galleria sbuca proprio sotto il mio palazzo?»
Re Ord cambiò prontamente discorso. «Avanti, prendetela.» Ripiegò la
mappa e la agitò sotto al naso del Re delle Volpi. «Mia figlia vi
accompagnerà alle miniere. Potrete partire da lì. È una strada sicura e
riuscirete senza dubbio ad arrivare prima del Negromante.»
Aleister si morse la lingua e lasciò correre. Afferrò la mappa e rivolse
un’occhiata poco convinta al Re dei Nani.
«Dovreste davvero rivedere questa vostra politica sui trasporti,
seriamente… Non è per niente comoda» insistette Macbeth.
Aleister e Marian salutarono il re con un inchino, poi seguirono la
principessa lungo una stretta scala a chiocciola.
«Ancora scale» gemette Marian. «Avete un’insana passione per le scale
qui a Faerie…»
Sentì Aleister sghignazzare accanto a lei.
Dopo aver sceso quella che a Marian parve un’infinita quantità di
gradini, arrivarono in un ambiente più umido e terroso di tutti gli altri.
Delle fiaccole appese alle pareti illuminavano l’ingresso delle miniere.
C’erano diversi binari con altrettanti carrelli di metallo scuro che si
snodavano davanti a loro, inghiottiti dalle gallerie nere.
«Seguite la mappa, non potrete sbagliare» disse la principessa. «Potete
prendere uno di questi carrelli e lasciarlo una volta arrivati a destinazione.
Sono incantati e torneranno indietro da soli. Conoscono la strada di casa.
Mi raccomando, seguite il percorso: sempre dritti, al primo bivio a destra,
poi sinistra, sinistra, destra, sinistra e poi ancora destra. Ancora dritti, e di
nuovo tre volte a destra, due a sinistra e poi destra, sinistra, sinistra e
destra.»
«Credo di essermi perso al primo bivio» ammise Aleister.
Poi si inchinò e fece alla principessa un elegante baciamano. Lei squittì
deliziata, Marian roteò gli occhi al cielo.
«Vi siamo debitori, principessa. Non so come avremmo fatto altrimenti.»
«Aleister, muoviti» lo chiamò Marian infastidita.
Lei e Macbeth entrarono nel carrello sulla destra. Appena furono tutti e
tre a bordo, il carrello iniziò la sua corsa, animato dalla magia.
«Fate buon viaggio!»
«Arrivederci, principessa!» salutò Aleister, i capelli al vento.
La figlia di re Ord si fece sempre più piccola alle loro spalle, mentre si
immergevano nell’oscurità della galleria davanti a loro.
30

Appena il carrello si tuffò nella galleria, Macbeth, Aleister e Marian


vennero inghiottiti dall’oscurità. L’aria era densa e umida, e il vento gelido
sferzava i loro visi, mentre procedevano lungo le rotaie acquistando sempre
più velocità.
Le torce appese alle pareti della galleria principale si erano fatte via via
più rade fino a sparire del tutto.
«Avremmo bisogno di un po’ di luce se vogliamo leggere la mappa»
commentò Marian, non riuscendo più a distinguersi le mani.
«Basta chiedere.»
Aleister schioccò pigramente le dita e tante piccole fiammelle calde e
dorate comparvero attorno a loro, illuminando il carrello che avanzava
sferragliando per i binari della miniera.
«Molto meglio» dichiarò Marian. Srotolò con cura la mappa, tenendola
stretta. Se le fosse sfuggita dalle mani, si sarebbero ritrovati in un bel guaio.
«Cos’aveva detto la principessa riguardo la strada da prendere?» chiese
mentre scrutava l’intricato disegno del labirinto di gallerie. Non aveva mai
visto niente di tanto complesso. Individuò il punto da cui erano partiti, ma
sarebbe stato un bel problema riuscire a raccapezzarsi.
«Qualcosa tipo sinistra, dritto e poi destra e di nuovo a sinistra?» tentò
Aleister, stringendosi nelle spalle.
«Non aveva detto destra?» obiettò Macbeth.
Marian abbassò di scatto la mappa, non credendo alle sue orecchie.
«Aleister! Pensavo che avessi ascoltato le indicazioni» disse sconcertata.
Il Re delle Volpi sbuffò. «Oh, avanti, Marian, non iniziare già a
sgridarmi. Dopotutto abbiamo la mappa, cosa potrà mai andare storto? Ci
basterà seguirla.»
Soddisfatto della sua risposta, si sistemò sul fondo del carrello,
mettendosi seduto comodo in un angolo, le braccia incrociate. Infine,
sbadigliò in un modo decisamente poco elegante. «Svegliatemi quando
arriviamo.»
Il carrello continuò a sfrecciare con un’andatura costante, ignorando la
confusione che regnava tra i suoi passeggeri.
«Basta seguire la mappa!» sbuffò Marian facendogli il verso. Tornò a
studiare il disegno, cercando di seguire il percorso con il dito: «Vediamo,
siamo partiti da qui…».
Macbeth si alzò per sbirciare anche lui. «Stiamo andando nella direzione
giusta?» chiese, poco convinto.
«Per adesso credo di sì. Ho come l’impressione che stiamo scendendo»
osservò Marian, mentre sentiva l’aria farsi sempre più fredda.
«Già, senti che gelo» borbottò Macbeth mentre si stringeva nella sua
giacchetta verde.
Il carrello, per la prima volta da quando era partito, iniziò piano piano a
perdere velocità.
«Che succede?» chiese Macbeth preoccupato.
Marian strinse la mappa al petto e si affacciò per controllare. Il carrello
iniziò a frenare con una pioggia di scintille, facendo un gran clamore, fino
ad arrestarsi completamente.
«Cos’è tutto questo baccano?» si lamentò Aleister dal fondo del carrello.
Marian scrutò nell’oscurità davanti a loro. Si trovavano di fronte a un
ampio arco scavato nella roccia, che si affacciava su due gallerie. Anche il
binario sotto di loro si biforcava.
«Siamo arrivati al nostro primo bivio» commentò Marian. Poi abbassò lo
sguardo sul carrello, che si era arrestato in piena autonomia. «Tu sai da che
parte dobbiamo andare?» provò a chiedergli, piena di speranza. Il carrello
ovviamente rimase muto e immobile. Marian, scoraggiata, tornò a studiare
la mappa.
«Adesso che si fa?» chiese Macbeth impaziente.
«Un momento…» disse lei mentre seguiva con il dito la strada che
avevano appena percorso.
Alle sue spalle Aleister sbuffò platealmente, come se il fatto di essersi
persi già all’inizio del loro viaggio lo stesse infastidendo. «Dai qua.» E sfilò
dalle mani di Marian la mappa.
«C’ero quasi!» protestò lei.
«Non ti preoccupare, adesso ci penso io. È normale per una dell’Altrove
non riuscire a decifrare un artefatto di Faerie» disse lui conciliante, mentre
srotolava la mappa.
«Guarda che ci stavo riuscendo» ribatté offesa Marian.
«Lo so, lo so. Ma qui c’è bisogno di grande abilità…»
«La stai tenendo al contrario.»
Aleister strinse le labbra e capovolse la mappa con dignità.
«Non si capisce niente» borbottò poco dopo, rigirandosela tra le mani.
«Questa roba non ha senso.»
«Allora, avete capito dove dobbiamo andare sì o no?» chiese spazientito
Macbeth. «A destra o sinistra?»
Aleister rivolse un’occhiata penosa a entrambi. «Non ne ho la più pallida
idea.» E porse sconfitto la mappa a Marian.
Lei, con le labbra increspate da un piccolo sorriso di vittoria, l’afferrò e
ricominciò a studiare l’intricato disegno delle gallerie sotterranee,
ritrovando il punto che aveva individuato prima che Aleister gliela
strappasse di mano. Rimase in silenzio a lungo, concentrata, ignorando i
continui e impazienti “Allora?” e “Hai capito dove siamo?” del Re delle
Volpi che continuava a cercare di sbirciare la mappa da sopra la spalla.
«Riesci davvero a leggere quella roba o stai solo facendo finta?» chiese
scettico.
«Ci sono!» esclamò poi trionfante. «Ho capito dove siamo e che strada
dobbiamo prendere.»
«Davvero? Ma come hai fatto? È impossibile» borbottò il ragazzo,
prendendole la pergamena dalle mani.
«Impossibile che io sia più brava di te a fare qualcosa, è questo che
pensi?» lo stuzzicò Marian. «E comunque guarda che la stai tenendo di
nuovo al contrario.»
Aleister le ripassò il foglio stropicciato, offeso.
Marian trattenne a stento un risolino e ordinò al carrello di andare a
destra.
Quello, ubbidiente, si avviò sferragliando verso la galleria indicatagli.
«Bene, Marian, finalmente ti sei dimostrata utile a qualcosa» la prese in
giro il Re delle Volpi.
Lei si sforzò di non rispondere, concedendogli quel punto. Non voleva
dargli la soddisfazione di averla offesa con quel commento.
«Sei appena stata promossa. Da adesso in poi ti considererò la mente del
gruppo» continuò lui sardonico.
«Sì, è vero, sono piuttosto intelligente» sbuffò Marian, fallendo
nell’impresa che si era ripromessa. «Se ben ricordi, sono stata io a salvarti
la pelle nel palazzo della leannán shee…»
«Ma certo, ti stavo solo prendendo un po’ in giro!»
«Detesto quando le persone mi sottovalutano» ribadì lei infastidita.
«Ricordami di non farlo, allora» disse Aleister con un gran sorriso. I
rubini che gli pendevano dalle orecchie brillavano illuminati delle
fiammelle, così come gli occhi, che adesso la scrutavano accesi da una
nuova curiosità.
«Piuttosto, sei sempre così malizioso con tutti?» lo incalzò lei,
infastidita. Cercò di suonare indifferente, come se il suo fosse un commento
buttato lì a caso, ma appena si sentì pronunciare quelle parole si rese conto
di non aver ottenuto l’effetto desiderato.
«Cosa intendi?»
«Con la principessa… eri tutto una moina. Sinistra!» gridò al carrello,
che sterzò con forza alla nuova biforcazione, riacquistando velocità.
«Non capisco di cosa parli. Sono solo stato lusinghiero con i reali del
regno dei nani. Dopotutto devo pur mantenere i rapporti con le altre
famiglie nobiliari. Sappi, Marian, che sono un individuo provvisto di
buonsenso» rispose lui con affabilità, scuotendo i capelli rossi con la sua
solita mossa ben collaudata.
«Davvero…» commentò Marian scettica, chiedendosi quante volte si
fosse esercitato davanti allo specchio prima di indovinare la giusta
angolazione con cui inclinare la testa per risultare il più affascinante
possibile.
«Forse non lo sai, ma si tratta di una dote piuttosto rara per un Sidhe.»
Marian rimase in silenzio, imbronciata.
«Comunque la principessa aveva una barba bellissima» osservò poi,
sincera nell’esprimere quel commento.
Aleister scoppiò a ridere.
«Cosa c’è di così divertente?» chiese Marian, sentendosi le guance
pizzicare.
Aleister alzò le sopracciglia e le rivolse un’occhiata pungente, poi il viso
si distese in un sorriso. «Non sarai per caso gelosa?»
Marian aprì la bocca per controbattere, poi la richiuse, spiazzata.
«Neanche in un milione di anni» rispose nel tono più calmo possibile.
«Devo anche confessarti una cosa, Marian. Negli ultimi anni… Be’…
come potrai immaginare, ho cominciato un po’ ad annoiarmi.» Appoggiò
un dito sulla mappa, abbassandola appena, cercando gli occhi di lei. «Mi
costa un po’ ammetterlo…» continuò «…ma sei piuttosto interessante per
essere una dell’Altrove. In tua compagnia non ci si annoia mai.»
Lei sentì di nuovo quella ormai familiare morsa allo stomaco. «È forse
un complimento?» chiese cauta.
Aleister rise. «Forse.»
Marian si chiese se Aleister fosse sincero e se non fosse uno dei suoi
soliti scherzi. C’era qualcosa nei suoi occhi che le fece capire che il Re
delle Volpi avrebbe voluto forse dire di più, ma qualcosa lo tratteneva.
Per un po’ di tempo non si scambiarono più parola. Marian si limitò a
dare ordini al carrello, continuando a seguire la mappa, mentre Aleister
rimase in silenzio accanto a lei. Quando si sporse a sbirciare il percorso, le
loro spalle si sfiorarono e Marian arrossì. Cercò di nasconderlo come
meglio poteva, affondando il naso nella mappa. Quel piccolo e innocuo
contatto fisico l’aveva scombussolata più di qualsiasi complimento.
«Quanto tempo ci metteremo ad arrivare all’Isola di Mann?» chiese
Macbeth, infilandosi in mezzo a loro due, spezzando quel silenzio
imbarazzato e quel contatto che a Marian stava facendo aggrovigliare lo
stomaco.
«Sicuramente impiegheremo meno tempo di quanto ne impiegherà
Feardorcha per uscire dal regno dei nani. Guarda come fila questo carrello»
disse allegro Aleister.
Marian continuò a ordinare i comandi alla loro vettura, un po’ più
rilassata.
«Ma perché sta facendo tutto questo? Non riesco a capire. Perché sta
rubando le parole delle famiglie? A cosa gli servono?» domandò.
Il sorriso di Aleister gli morì sulle labbra. «Sinceramente? Non ne ho la
più pallida idea, ma posso provare a chiederglielo la prossima volta che lo
incontro» commentò.
Poi si coprì la bocca con la mano, perso tra i suoi pensieri.
All’improvviso, sgranò gli occhi, che brillarono come illuminati da un’idea.
«Aleister?» chiese Marian.
«Che io sia dannato se quella vecchia fata non aveva ragione!» esclamò
il Re delle Volpi, la bocca aperta dalla sorpresa. «Penso che proverà a
sfruttare la profezia a suo vantaggio. Ricordate la profezia di cui ha
parlato?»
«Accennava a qualcosa che sarebbe accaduto durante il giorno dei morti,
giusto? L’Altrove e Faerie diventeranno un tutt’uno» cercò di ricordare
Marian.
Aleister annuì, gli occhi che brillavano di eccitazione. «Esatto! Da
quando è stata pronunciata per la prima volta sono passati centinaia, se non
migliaia, di giorni dei morti, senza che accadesse mai niente… Ma è
proprio questo il bello delle profezie: non sappiamo mai se si rivolgono
effettivamente a noi… Possiamo però sempre fare in modo che lo
facciano.»
«E come?»
«Piegando gli eventi affinché questo succeda, per fare in modo che la
profezia parli di noi, ed è quello che credo stia facendo Feardorcha.»
«Ma cosa spera di ottenere?» chiese Marian. «In che modo Faerie e
l’Altrove diventeranno un tutt’uno?»
Aleister rispose senza esitazioni: «Farà collassare i nostri mondi, l’uno
sull’altro».
«Che cosa?» gridarono Marian e Macbeth all’unisono.
«Come fai a esserne così certo?» chiese ancora la ragazza, sconvolta.
«Perché è a questo che servono le parole che ha rubato. Non ve l’ho
ancora detto, ma… il motivo per cui sono così in pochi a conoscerne
l’esistenza è che si tratta dei quattro incantesimi che proteggono le barriere
di Faerie. Sono la base del nostro mondo. Lo tengono in piedi e, allo stesso
tempo, tengono le nostre due dimensioni separate, distinte l’una dall’altra.
Vengono tramandate dalle famiglie fondatrici di Faerie, di capo in capo. È
un segreto che abbiamo sempre custodito con grande attenzione.» Fece una
pausa e distolse lo sguardo, visibilmente preoccupato. «Se Feardorcha
riuscirà a impadronirsi di tutte e quattro, sarà in grado di fare avverare la
profezia. Durante la festa dei morti accade un fatto straordinario, credo che
ne sia al corrente anche tu, Marian, perché i suoi effetti si ripercuotono
anche nell’Altrove. Il velo tra il mondo dei vivi e quello dei morti si fa più
sottile. Io credo che Feardorcha approfitterà della festa dei morti per far
crollare la barriera che divide il mondo degli umani da Faerie. Se ci pensi è
il momento perfetto… i confini di tutti i nostri mondi saranno così sottili
che eliminarli sarà un gioco da ragazzi.»
Tutti e tre si rivolsero un’occhiata atterrita.
«La profezia così ha improvvisamente senso» sussurrò Marian.
Aleister la guardò preoccupato.
«Ma una volta che le barriere saranno crollate cosa succederà?» chiese
Macbeth.
«Non ne ho idea» rispose Aleister, tetro.
«Sinistra!» gridò Marian al carrello. «Ma facendolo durante il giorno dei
morti, oltre a fondere l’Altrove con Faerie non rischia di abbattere anche le
barriere del mondo dei morti? È in questi giorni che il velo che divide i
mondi si fa più sottile, giusto?»
«È così, infatti. C’è questa possibilità. Nel caso dovesse accadere… be’,
il mondo che conosciamo potrebbe diventare un luogo decisamente lugubre.
Non so tu, Marian, ma non impazzisco all’idea di vedere cadaveri
andarsene a spasso mentre si decompongono.»
Marian rabbrividì al solo pensiero, mentre il viso lentigginoso di
Macbeth si faceva pallido.
«Ma perché sei convinto che sia questo il piano di Feardorcha?»
insistette lei.
«Distruggere le barriere che dividono i nostri due mondi?»
«Esatto. Perché farlo? A che scopo?»
«Questo ancora non lo so» commentò Aleister. «Ma sono sicuro che
siano queste le sue intenzioni.»
31

Per tutto il resto del viaggio tra le gallerie delle miniere, Marian continuò a
ripensare alle parole di Aleister. Cercava di concentrarsi sulla mappa e sul
percorso da seguire, ma era inutile. Aver finalmente capito a che cosa
servivano le parole custodite dalle famiglie fondatrici e l’uso che
Feardorcha avrebbe potuto farne la ossessionava.
Aleister era tornato a riposare in un angolo del carrello, presto seguito da
Macbeth, che adesso gli dormiva addosso.
Marian si voltò a guardarli e si ritrovò a sorridere, intenerita. Per quanto
Macbeth avesse sempre parlato di Aleister come del suo padrone, vedendoli
insieme si era resa conto che la natura del loro rapporto era decisamente
diversa. Altro che signore e servitore. Sembravano fratelli.
Il sorriso che le era spuntato sulle labbra si sciolse presto. Se Feardorcha
fosse riuscito nel suo intento, cosa sarebbe accaduto? Non solo a loro, ma a
tutti gli abitanti di Faerie e dell’Altrove.
E soprattutto: perché Feardorcha voleva fare qualcosa del genere?
Non era stata in grado di darsi una risposta, ma avrebbe messo sotto
torchio Aleister, che adesso se ne stava lì a dormire beatamente, appena
avesse aperto gli occhi. Finalmente aveva notato un cambiamento
nell’atteggiamento scostante del Re delle Volpi: aveva iniziato a darle delle
spiegazioni di sua spontanea volontà, senza che lei lo dovesse costringere.
Lo osservò mentre dormiva, indugiando sul viso piegato di lato, la
guancia poggiata sulla fronte di Macbeth. Aveva le ciglia ridicolmente
lunghe, ed era bello come solo una creatura magica poteva essere.
Era un egocentrico senza speranza, un re giovane e viziato con
un’altissima opinione di sé, e Marian se ne stava innamorando.
Ormai lo sapeva troppo bene.
Le era stato chiaro sin dall’inizio, ma più andava avanti, più i suoi
sentimenti stavano sfuggendo al suo controllo. Sapeva bene che Aleister era
solo un superbo a cui piaceva essere compiaciuto e sapeva altrettanto bene
che lei sarebbe uscita da quella storia ferita e con il cuore spezzato.
Motivo per cui era più che mai decisa a fare il possibile per mettere a
tacere i sentimenti che provava per lui. Non li avrebbe mai confessati ad
anima viva, soprattutto non li avrebbe mai e poi mai confessati ad Aleister.
Se era vero quanto si diceva sul primo amore, che non si dimentica mai,
Marian avrebbe fatto invece qualsiasi cosa per impedirsi di consumarsi nel
suo ricordo, una volta tornata nell’Altrove. Aleister doveva stare alla larga
dal suo cuore.
Il carrello frenò bruscamente e Marian per poco non venne catapultata
fuori, mentre Aleister e Macbeth le rotolarono addosso.
«Aiuto!»
«Ma cosa acciden…»
Il Re delle Volpi si rialzò infastidito, massaggiandosi la fronte.
«Marian!» protestò. «Si può sapere che combini?»
Lei non gli prestò attenzione, troppo impegnata a soffiare con delicatezza
su una delle fiammelle magiche davanti a sé, per rischiarare la galleria.
«Credo che siamo arrivati» annunciò allegra, indicando davanti a loro. I
binari si fermavano di fronte a una parete di roccia.
«Il viaggio è durato poco come promesso» commentò Macbeth allegro.
«Ma adesso mi piacerebbe vedere la luce del sole. Non so voi, ma comincio
a sentire di avere una strana affinità con i pipistrelli…»
Marian si guardò intorno, cercando un’uscita di qualsiasi tipo. Davanti a
loro la strada era bloccata, e ai lati non sembravano esserci passaggi o porte.
Alzò la testa e cercò di aguzzare la vista. «Aleister, prova a illuminare
sopra di noi!»
Il Re delle Volpi non si fece pregare. Con un piccolo gesto dell’indice,
indicò alle fiammelle la direzione da seguire. I fuochi magici salirono
ubbidienti, schierandosi a cerchio e rivelando quella che sembrava una
botola.
Marian si chiese come avrebbero potuto raggiungerla, dato che si
trovava parecchi metri sopra le loro teste. Le gallerie dei nani erano
sorprendentemente spaziose, sia in larghezza che in altezza.
«Non ti preoccupare, ci penso io» disse Aleister.
Si voltò verso di lei e, piegandosi appena, se la caricò in spalla come un
sacco di patate.
«C-cosa stai facendo?!» protestò Marian diventando paonazza.
La teneva in un modo decisamente sconveniente e le sue mani erano in
punti che avrebbero fatto impallidire la signora Crawford.
Aleister sbuffò. «Smettila di agitarti, mi fai male con questi stivaletti
appuntiti!» Si chinò una seconda volta e prese anche Macbeth, tenendolo
sotto braccio come un giornale. «Pronti?» chiese poi.
«Per cosa?» borbottò Marian con un filo di voce, il viso rosso nascosto
tra le mani.
«Per questo.»
Aleister spiccò un balzo. Ma non era un salto normale, perché continuò a
salire, leggero come una piuma. Marian chiuse gli occhi e si aggrappò alla
sua schiena con tutte le forze. La botola si avvicinava a tutta velocità e
l’impatto era imminente. Si tenne aggrappata saldamente anche nel bel
mezzo dell’esplosione di luce attorno a lei. Quando il Re delle Volpi atterrò
con grazia, lei stava ancora stringendo con forza gli occhi.
«È andato tutto bene, visto?» le disse Aleister con dolcezza mentre la
posava a terra, cingendole la vita con un braccio.
Marian allora aprì un occhio, sospettosa, tenendosi ancora abbarbicata
alle spalle di lui.
«Non farlo mai più!» protestò.
Aleister scoppiò a ridere, facendo scendere anche Macbeth. «Non posso
prometterlo.»
Erano arrivati sull’Isola di Mann. O almeno, sull’Isola di Mann di
Faerie. Marian scorse un enorme palazzo bianco e oro all’orizzonte ed era
certa che quella dell’Altrove ne fosse sprovvista. Si trovavano in cima a una
scogliera. L’aria salmastra era umida e il tempo nuvoloso, ma fu comunque
una gioia respirare un po’ di aria fresca dopo aver passato tanto tempo
sottoterra.
«Bene, è il momento di andare a palazzo» disse Aleister, guardandosi
attorno, mentre una raffica di vento li colpì gonfiando la gonna di Marian
come una mongolfiera. «Mi sembra tutto tranquillo… siamo davvero
riusciti ad arrivare prima di lui.»
Aleister non aveva fatto in tempo a finire di parlare che sentì il filo di
una lama premergli contro la gola.
Marian e Macbeth trattennero il respiro.
Alle spalle di Aleister, si trovava un Sidhe molto alto, dalle spalle larghe,
in uniforme color argento. Teneva stretta tra le mani un’esile lancia, la cui
punta era poggiata sulla gola del giovane re. Aveva i capelli bianchi sciolti
lungo le spalle e le stesse orecchie da gatto che Marian aveva visto a
Madama Catglic. Il vento che ululava sulla scogliera aveva coperto i suoi
movimenti, riuscendo a cogliere Aleister alle spalle.
«Cosa ci fanno delle volpi all’Isola di Mann senza invito?»
Doveva trattarsi di un guardiano dell’isola.
«Chi ha detto che siamo senza invito? La tua padrona ci attende. E non
penso che sarebbe contenta, se venisse a sapere come trattate i vostri ospiti»
osservò Aleister, con uno sfrontato sorrisetto sulle labbra.
Lo sguardo attento del gatto si posò prima su Macbeth e poi su Marian.
Gli occhi gialli lampeggiarono come attraversati da una tempesta. «Ma tu
sei una dall’Altrove!» esclamò, disgustato. Abbassò l’arma e spintonò
Aleister verso di lei. «Non ti è permesso calpestare questo luogo sacro.
Tornatene da dove sei venuta, feccia» intimò.
Marian stava per rispondergli che non ne aveva la minima intenzione,
quando Aleister la precedette: «Sai cosa potrei farci con quella tua bella
linguaccia? Ho un paio di idee niente male…» sbottò.
Prima che la guardia potesse rispondere, le mani di Aleister presero
fuoco. Le fiamme magiche gli lambirono le braccia fino al gomito.
La guardia si mise sulla difensiva, puntandogli contro l’arma.
«Vogliamo saltare i convenevoli e passare direttamente al momento in
cui ci scorti cortesemente a palazzo… o preferisci che ti fonda tra le mani
quel delizioso stuzzicadenti?» lo minacciò Aleister, abbandonando il suo
tono cordiale.
La guardia gli rivolse un’occhiata sprezzante. «Quella lì non può
entrare» ringhiò in direzione di Marian.
«“Quella” è una mia preziosa ospite, e la tratterai con tutti i riguardi»
insistette Aleister, rivolgendogli lo stesso sguardo furioso. Le fiamme
magiche si facevano sempre più calde.
Per un po’ nessuno dei due si mosse né disse niente. Fu la guardia che
abbassò l’arma per prima.
«Seguitemi» disse a denti stretti.
Il gatto rivolse loro un’ultima occhiata sprezzante, poi gli diede le spalle
e iniziò a incamminarsi verso il castello, facendogli strada.
Aleister strinse le labbra, poi sgrullò le mani, spegnendo le fiamme. Fece
un piccolo cenno con la testa a Marian e Macbeth e si incamminò anche lui,
i capelli scompigliati dal forte vento che si era alzato dal mare.
Marian avanzava a fatica sul terreno umido e soffice. «Grazie per avermi
difesa» sussurrò.
«Non dirlo neanche.» Aleister scosse la testa, minimizzando. «Piuttosto,
hai avuto paura?» chiese.
«No» rispose lei. Ed era vero.
Notò un sorrisetto increspargli le labbra e sentì le gambe farsi molli.
Distolse in fretta lo sguardo, cercando di appigliarsi a ciò che si era
ripromessa prima, quando erano ancora sottoterra. Si concentrò per
reprimere lo sconvolgimento che quel piccolo sorriso le aveva creato, ma
era difficile.
«A ripensarci adesso, mi sento davvero uno stupido» iniziò Aleister, e
Marian gli fu grata, ancora una volta, per aver prontamente cambiato
discorso.
«Perché?»
Aleister scrollò le spalle. «Per essermi lasciato avvicinare da Feardorcha.
Ho pensato che fosse una persona interessante. Ha lusingato la mia vanità.
Non immaginavo che avesse intenzioni tanto pericolose…»
Marian lo rassicurò: «Non puoi colpevolizzarti in questo modo, Aleister.
Mi sembra di capire che sia stato sottovalutato da tutti, o sbaglio?».
Lui annuì, lo sguardo che correva lungo il paesaggio verde e ventoso
dell’Isola di Mann. «Già. Nessuno di noi se ne è curato più di tanto. Eppure
ha iniziato presto a far parlare di sé. Per i suoi poteri, per i suoi studi, per le
domande che faceva in giro… Ha continuato a crescere e a farsi potente
sotto il nostro naso. E noi non ci siamo accorti di niente…»
«Come pensi che abbia scoperto l’esistenza delle parole?»
Aleister si strinse nelle spalle. «Per quel poco che lo conosco, avrà
scovato qualche libro antico che ne faceva menzione. Poi avrà avvicinato il
capo degli hobgoblin. Forse glielo ha chiesto direttamente…»
«Quello che sto cercando di capire, però, è perché. Perché sta facendo
una cosa simile, a quale scopo?»
Aleister la guardò sorridendo. «Sei sempre la solita, Marian. Non passa
un momento in cui non ti fai delle domande. Deve essere stancante essere
te!»
«Mi piace tenermi impegnata» rispose lei con dignità.
Aleister si fece più serio. Rallentò un po’ il passo, in modo che la
distanza tra loro e il guardiano dell’Isola di Mann aumentasse. Macbeth,
che era rimasto indietro, li raggiunse.
«Girano delle voci sullo stregone» le disse.
«Che voci?»
«Che non sia di qui. Non è un Sidhe come noi.»
«L’ho raccontato a Marian. È una voce che ho sentito persino io» si
intromise il ragazzino.
«E come ha fatto ad arrivare qui a Faerie? Ha attraversato una delle
vostre porte come ho fatto io con Macbeth?»
«Gira voce che sia stato scambiato, quando era in fasce» spiegò in tono
grave.
«Cosa?» chiese Marian.
«È stato rapito da una fata.»
«Vuoi dire che…»
Lui annuì.
«Viene dall’Altrove. È un essere umano come te.»
Marian fu sconvolta da quella rivelazione.
«Ma non è possibile!» disse confusa. «Ho visto di cosa è capace. Si può
trasformare in quella bestia, ha dei poteri! Noi dell’Altrove non abbiamo un
briciolo di magia che ci scorre nelle vene, me lo ha spiegato Macbeth.
Come ha potuto farlo? Non ha senso!»
«È vero. Per questo l’ho trovato un tipo così interessante» ammise lui.
«Volevo scoprire se queste voci che circolavano su di lui fossero vere o
meno. Voi mortali siete davvero affascinanti… E trovarne uno che era
riuscito a integrarsi qui a Faerie, che era riuscito persino a diventare un
mago così potente… be’, dovevo vederlo con i miei occhi.»
Marian era più che mai confusa. Se Feardorcha era davvero un essere
umano come lei, il suo intento era ancora più incomprensibile. Perché
avrebbe dovuto far collassare i loro mondi uno sull’altro scatenando il caos?
«Avete ancora intenzione di chiacchierare a lungo voi due?» disse
sgarbata la guardia. Si era fermata adesso, lo sguardo rivolto al castello
davanti a loro.
«A quanto pare dicevi il vero, volpe. Eri atteso.»
Marian guardò oltre la guardia. Adesso erano abbastanza vicini al
palazzo da poter scorgere gli araldi esposti sui bastioni che ondeggiavano al
vento.
Una piccola delegazione stava venendo verso di loro. In testa, Marian
riconobbe Madama Catglic, la matriarca dei gatti dell’Isola di Mann.
La guardia strinse forte le labbra, quando l’anziana accolse Aleister a
braccia aperte.
«Re delle Volpi, la tua visita è un grande onore per noi» disse raggiante.
Aleister fece un piccolo inchino, subito imitato da Macbeth. Marian
sfoggiò la riverenza che sua madre le aveva insegnato per le occasioni
importanti.
«Madama, arriviamo dal regno sotterraneo dei nani. Sono rammaricato,
ma non porto buone notizie» esordì il Re delle Volpi.
Il sorriso dell’anziana si spense subito. Catglic si avvicinò ad Aleister e
si appoggiò al suo braccio. Sembrava improvvisamente più vecchia e stanca
di quanto non fosse apparsa all’inizio.
«Dobbiamo discutere subito. Dovete raccontarmi ogni cosa… voi tre.»
Fece un piccolo cenno in direzione di Marian e Macbeth. «Venite, entriamo
a palazzo. Non abbiamo tempo da perdere.»
Mentre si avviavano, Marian non riuscì a impedirsi di rivolgere alla
guardia che osservava furente un cortese sorriso di vittoria.
32

Il palazzo dei gatti dell’Isola di Mann era come Marian avrebbe descritto il
castello di una favola. Era elegante, immenso, e sprizzava ricchezza da ogni
architrave, cupola e torre.
Ogni centimetro del palazzo sembrava essere stato tirato a lucido.
Tantissimi Sidhe erano al lavoro: qualcuno strofinava le enormi vetrate, altri
sistemavano i tendaggi color glicine e altri ancora spolveravano le colonne
di marmo intarsiate d’oro dell’ingresso principale. Tutti avevano orecchie e
code da gatto, come la guardia che avevano incontrato al loro arrivo
sull’isola e Madama Catglic.
«Abbiamo interrotto qualcosa?» chiese perplesso Aleister, guardandosi
attorno.
«Siamo nel bel mezzo dei preparativi di una festa» spiegò Catglic,
indicando il fermento intorno a sé con un elegante gesto della mano.
«Una festa?» chiese Marian stupita.
«È una ricorrenza molto importante per noi. È la stagione degli
accoppiamenti per i eòin chameleon» rispose Catglic cordiale. «Vengono
qui una volta ogni cento anni, per la schiusa delle uova. Sono delle creature
affascinanti, molto antiche e ormai tristemente prossime all’estinzione.
Durante questa festa celebriamo l’amore, rendiamo grazie alla vita. È una
ricorrenza molto sentita qui sull’isola. Il Negromante pecca di tempismo»
aggiunse infastidita.
Le venne incontro un servitore, le braccia piene di scampoli di stoffa.
«Madama, scusi il disturbo. I nastri li preferite lilla o violetti?» chiese,
sventolando due fettucce dello stesso colore.
«Non adesso» disse asciutta l’anziana. Si girò verso quello che Marian
sospettò fosse il suo braccio destro, dato che la seguiva come un’ombra.
Anche lui era vestito di bianco, ma al contrario di Madama Catglic aveva i
capelli neri corvino, così come le orecchie e la coda, che spiccavano sugli
eleganti abiti candidi come macchie d’inchiostro. «Non voglio essere
disturbata mentre conferisco con i nostri ospiti. Sono stata chiara?»
Lui annuì e batté le mani, scacciando lo sciame di servitori che si era
formato dietro di loro.
Marian, Aleister e Macbeth seguirono l’anziana. L’interno del palazzo
era intricato quanto un labirinto, e a Marian sembrò passato un secolo
quando finalmente raggiunsero la sala in cui Catglic li fece accomodare.
Si trattava di uno studio, e Marian rimase sconvolta dalla somiglianza
con quello di suo padre a Londra. Rispetto all’aspetto fiabesco del resto del
castello, quella stanza sembrava incredibilmente ordinaria. Le librerie di
legno laccate di bianco che correvano lungo tutte le pareti erano stracolme
di libri; un’enorme scrivania, affiancata da comode poltroncine per gli
ospiti, si trovava al centro esatto della stanza, rivolgendo le spalle a una
grande finestra ad arco, alta fino al soffitto. Tutti i mobili, compreso
l’enorme tappeto che ricopriva per intero il pavimento, erano bianchi e i
tessili avevano quelle sfumature violette che Marian aveva intuito fosse il
colore rappresentativo dei gatti dell’isola.
Catglic girò attorno alla scrivania, lasciandosi cadere sull’enorme sedia
con un gemito stanco.
«Sono pronta ad ascoltare tutto» annunciò, massaggiandosi l’occhio
dietro al monocolo dorato.
Aleister non si sedette sulla poltroncina che l’anziana gli stava
indicando. Cominciò invece a camminare nervosamente avanti e indietro
per la stanza, tuffandosi in un acceso resoconto, molto dettagliato, ogni
tanto un po’ gonfiato e infiocchettato, di quello che era accaduto nel regno
dei nani.
Quando Aleister si fermò per riprendere fiato, Catglic rimase in silenzio,
le punte delle dita unite, meditabonda.
«Quindi Feardorcha adesso possiede tre incantesimi su quattro»
commentò infine in tono grave.
Il Re delle Volpi annuì. «Credo che sia arrivato il momento per noi di
giocare d’anticipo. O almeno di provarci.»
«Mi sembra una saggia idea. In che modo potremmo farlo, oltre al non
farci trovare impreparati quando cercherà di intrufolarsi qui nel castello?»
«Potreste non offrirgli la possibilità di farlo comodamente, per esempio.
Dovreste annullare la vostra festa» suggerì Aleister.
«Impossibile» ribatté aspramente l’anziana.
«Madama, voi non capite… Con tutta questa confusione, Feardorcha
potrebbe facilmente confondersi con la folla e attaccarvi in qualsiasi
momento, eludendo le vostre protezioni con estrema facilità.»
«Con tutto il rispetto per il tuo predecessore, Aleister, io ho parecchie
centinaia di anni in meno di quanti ne aveva lui. Sono vecchia, è vero, ma
sono ancora in grado di dare battaglia e di difendermi» rispose la regina
gatta piccata.
Aleister scosse la testa. «Mi sembra che non vogliate comprendere la
gravità della situazione.»
«Se davvero quello stregone ha intenzione di venire fin qui, gli daremo
battaglia» disse dignitosamente l’anziana, calzandosi meglio il monocolo
sulla punta del naso.
«Vi ucciderà.» Aleister sbatté i palmi delle mani sulla scrivania,
frustrato.
«In tal caso sono pronta a salutare la morte come una vecchia amica»
rispose Catglic con dolcezza.
Aleister sospirò, rivolgendo uno sguardo frustrato a Marian.
«Credete davvero che proverà a usare le parole?» chiese dopo un po’
l’anziana, rivolgendo un’occhiata penetrante a entrambi.
«Temo di sì» mormorò Marian.
«Ma come, mi chiedo? Le parole sono incantesimi che non possono
essere né pronunciati, né sentiti. Persino un custode come me non è in grado
di utilizzare la nostra parola. L’unica cosa che possiamo fare è proteggerla e
tramandarla. Custodirla, dentro di noi» ragionò l’anziana.
«Credo che il Negromante sia in possesso di un medium, di qualcosa che
possa veicolare l’incantesimo e permettergli di usarlo» rispose Aleister.
«Qualcosa come questo.»
Si voltò verso Marian e le fece cenno di avvicinarsi. Le sbottonò i primi
bottoni dell’abito e le sfiorò il collo, sfilando il gioiello da sotto il vestito.
«Usando un oggetto del genere» spiegò, mostrando il medaglione, «si
possono utilizzare le parole.»
Gli occhi di Catglic brillarono, accesi d’interesse. «Ingegnoso… Non ho
mai visto niente del genere» commentò mentre si sporgeva sulla scrivania,
per studiare attentamente il gioiello.
«Mi è stato donato dal mio predecessore, chiedendomi di custodirlo.
Immagino che originariamente ce ne fossero quattro, uno per ogni custode.
Questo è stato a lungo tramandato tra le volpi. Se la vostra famiglia ha
perso il suo medium, ecco spiegato come ha potuto metterci le mani sopra.
Sono convinto che Feardorcha sia in possesso di uno degli altri tre
medaglioni. Non avrebbe altrimenti senso impadronirsi degli incantesimi
senza poterli usare. All’inizio, quando ancora ero convinto che non ne
possedesse uno, avevo inviato il mio servitore nell’Altrove con il
medaglione. Così…»
«Così lui non avrebbe potuto prenderlo» intervenne Macbeth.
Aleister annuì, gravemente.
«Esatto. Appena Feardorcha ha cominciato a dimostrarsi interessato alla
parola di noi volpi ho pensato di dover far qualcosa. Ma è stato inutile. In
realtà non è mai stato interessato a questo medaglione… e adesso capisco
perché. Perché ne ha già uno.»
L’anziana rimase in silenzio, le labbra contratte in una smorfia
concentrata.
«Ma come ha fatto a scoprire della sua esistenza?» chiese poi, le punte
delle dita ancora unite.
«È stato scaltro. Credo che sia riuscito a mettere le mani su dei tomi
antichi. Ho provato a fare anche io delle ricerche, ma è stato un totale
fallimento. Neanche una nota, un appunto o un singolo accenno in nessun
libro su cui io abbia messo le mani.»
Catglic rimase in silenzio ad ascoltarlo, annuendo appena.
«Ora, sappiamo di cosa ha bisogno e abbiamo intuito cosa farà. Dimmi
quindi a cosa hai pensato per anticipare le sue mosse» commentò poi.
Aleister scrollò le spalle. «Non ho pensato ancora a nulla.»
«Gli incantesimi… possono essere utilizzati ovunque?» chiese Marian,
intromettendosi.
«Se intende usarli per abbattere le barriere che dividono i nostri due
mondi, ovviamente no. Esiste un solo luogo dove le parole possono essere
utilizzate» rispose l’anziana.
«E dove si trova?» insistette Marian. «Forse se riuscissimo a
raggiungerlo prima di lui…»
Catglic scosse la testa.
«Nessuno sa dove si trovi il cromlech originario» rispose con gravità.
«Cromlech?»
«È un antichissimo circolo di pietre. Il primo di Faerie. Lì i nostri
antenati hanno eretto la barriera che protegge e separa il nostro mondo da
quello umano» le spiegò Aleister.
«Dobbiamo scoprire dove si trova» suggerì impaziente Marian. «Solo
così potremo essere un passo avanti a Feardorcha.»
«Non è così semplice…» provò a dire Aleister, ma Catglic lo interruppe.
«La fanciulla dell’Altrove ha ragione. E penso di sapere dove cercare la
risposta giusta. Vi farò un grande onore… vi metterò a disposizione la
nostra biblioteca. È la più ricca di tutta Faerie, sono sicura che insieme
riuscirete a scoprire qualcosa riguardo all’ubicazione del cromlech. Adesso
andate, Craite vi condurrà in biblioteca, così potrete mettervi subito al
lavoro. Io invece sono attesa per i preparativi…»
Vennero così congedati. Mentre uscivano dall’ufficio di Madama Catglic
e la porta si richiudeva alle loro spalle, Aleister diede una piccola gomitata
a Marian.
«Sai essere piuttosto brillante quando ti applichi» commentò. «Davvero
un’ottima idea.»
Marian arrossì.
«Quindi adesso ci toccherà leggere un sacco di libri?» chiese Macbeth.
«Sì, non è elettrizzante?» esclamò Marian.
Macbeth le rivolse una smorfia scettica. «Se lo dici tu. A me i libri fanno
addormentare.»
Craite li aspettava poco distante dallo studio, tutto impettito.
«Ehilà» salutò Aleister, «credo che tu ci debba far strada fino alla
biblioteca.»
Gli occhi dorati dalla pupilla felina si spostarono a osservare Marian.
«Anche la ragazza umana?»
«Pacchetto completo» disse Aleister, mentre scrutava il suo riflesso nel
vetro di una finestra. «Avevo i capelli così in disordine e non mi avete
avvertito?»
Marian alzò gli occhi al cielo e Macbeth trattenne una risatina.
«Seguitemi» ordinò il gatto.
Marian prese Aleister per un braccio, ancora impegnato a sistemarsi i
capelli, e se lo trascinò dietro.
«Non ti preoccupare, sono sicura che riuscirai ad ammaliare tutti i libri
della biblioteca anche con i capelli spettinati» rise.
33

La biblioteca era il luogo più affascinante e mozzafiato che Marian avesse


mai visto in vita sua.
Era così grande e così piena di libri che per poco non si commosse.
Composta da sei enormi saloni, era completamente tappezzata da librerie
che si estendevano fino al soffitto. Tutti gli ambienti erano luminosi e ariosi
grazie alle enormi finestre, e l’odore di carta e magia che vi si respirava era
il più delizioso che Marian avesse mai avuto il piacere di annusare.
«Aleister, ti rendi conto?» continuava a ripetere, saltando di scaffale in
scaffale, afferrando un prezioso volume dopo l’altro. «Guarda quanti libri!»
Aleister aveva una smorfia affranta dipinta in viso.
«Già. Quanti» disse scoraggiato. «Ci metteremo anni prima di riuscire a
trovare qualcosa. Nel frattempo Feardorcha avrà già fatto fuori tutti.»
«Come dici?» chiese Marian distratta, mentre sfogliava avida le pagine
di un enorme tomo dalla copertina blu notte.
Aleister le rivolse un sorrisetto divertito. «Ho detto che non ti ho mai
vista così entusiasta. Arrabbiata sì. Spaventata anche… ma così contenta
mai.»
Marian fece una smorfia imbarazzata. «È che… mi piacciono molto i
libri» disse.
Aleister le si avvicinò e abbassò il tomo che stava usando come scudo,
scoprendole il viso.
«Allora qualcosa in comune lo abbiamo» commentò divertito.
Marian fece un passo indietro, sbattendo con la schiena contro la libreria
alle sue spalle, sentendosi improvvisamente in imbarazzo e a disagio per
quel repentino cambio di atmosfera. Aleister sembrò non rendersene conto.
«Ma sono tantissimi! Mi spiegate come faremo?» brontolò Macbeth. Li
aveva appena raggiunti e ora indicava scoraggiato le pile di libri.
«Oh be’, è semplice» disse Aleister con un’alzata di spalle. Sfilò un
volume dallo scaffale dietro a Marian e lo sfogliò distrattamente.
«Direi di dividerci gli argomenti. Iniziamo con il depennare dalla nostra
lista di interesse i libri… di cucina, per esempio. Non credo che la posizione
del cromlech si trovi in una ricetta per il decotto perfetto di salamandre»
disse con un ghigno mentre mostrava la pagina con tanto di illustrazioni su
come sventrare gli sfortunati animaletti.
«La fai facile tu…» protestò Macbeth.
«Ehm, ehm.»
«Non so se ti sei degnato di guardarti intorno, ma qui ci saranno un
milione di libri!»
«Ehm, ehm» fece di nuovo una vocina flebile.
«Hai ragione, Macbeth. Aleister, non so se potremo mai farcela» sospirò
scoraggiata Marian.
«Ehm, ehm» fece per la terza volta la vocina, meno flebilmente.
Tutti e tre si voltarono.
Davanti a loro c’era un anziano uomo gatto. Era così vecchio che al suo
confronto la Catglic sembrava una ragazzina. Tutto ricurvo, aveva degli
occhiali spessi poggiati in bilico sul naso aquilino e una barba bianca
talmente folta e lunga che la portava avvolta attorno alla vita come una
cintura.
«E voi chi siete?» chiese Aleister sorpreso.
«Sono il bibliotecario» rispose il vecchio con un sussurro. «E penso che
potrei esservi d’aiuto.»
I tre si scambiarono un’occhiata, dubbiosi.
«Non è che se si sforza troppo ci lascia le penne?» bisbigliò Macbeth.
Aleister come risposta gli diede una gomitata.
«Grazie, signore. In effetti abbiamo davvero bisogno di aiuto» replicò
Marian con un sorriso che sperava fosse abbastanza cordiale.
«Basta che mi diciate cosa state cercando…» disse lui, quando si accorse
che Marian lo guardava speranzosa. «Conosco a menadito tutti i titoli
presenti in questa biblioteca.»
L’anzianissimo bibliotecario fece dietrofront, e iniziò a incamminarsi,
lento come mai, verso la sua postazione, che si trovava all’ingresso della
biblioteca.
«Dici che si offende se lo sollevo e lo porto in braccio fino a
destinazione?» chiese serio Aleister.
Fu il turno di Marian di dargli una gomitata.
Quando il bibliotecario riuscì finalmente a prendere posto dietro la sua
scrivania, Marian tirò un sospiro di sollievo.
Aprì con fatica l’enorme libro che aveva di fronte, con le piccole mani
incartapecorite.
«Ebbene, cosa state cercando?» chiese pomposo, sbirciandoli da dietro i
suoi occhiali.
«Qualsiasi informazione sul primo cromlech di Faerie. Il cromlech
originario» dichiarò Marian.
«Cromlech. Cromlech?» ripeté il vecchio, mentre affondava il viso nel
suo registro, sfogliando una pagina dietro l’altra.
«Sì. Avete presente? Cerchi di pietra, molto antichi, molto magici…»
disse Aleister.
Marian gli pestò un piede e lui le rivolse un’occhiata offesa.
«Direi che potete ignorare tutta la sezione 1-A, 13-B, 8-G e 22-H» disse
il bibliotecario pensieroso.
Macbeth cercò di sbirciare il registro. La grafia era illeggibile, sembrava
un susseguirsi di ragni e millepiedi impegnati in un’intensa battaglia.
«Perché abbiamo rispettivamente: ricette, studi sui rituali di
accoppiamento di animali magici, rimedi casalinghi contro fatture ordinarie
e…» il bibliotecario si chinò per decifrare la sua stessa scrittura
arzigogolata «…botanica. Piante e fiori di Faerie e molti tomi di grandi
studiosi e ricercatori che si sono spinti fino nel selvaggio Altrove.»
«Questo è già qualcosa. Grazie di cuore» disse Marian.
Aleister propose di dividersi. Per diverse ore, lavorarono in silenzio,
ognuno alla sezione di biblioteca che gli era stata affidata. Poi Macbeth si
addormentò ben presto, nel suo fortino formato da pile di libri. Marian
invece continuava a passare rapita da un libro all’altro, instancabile,
rimpiangendo solo di non avere più tempo da dedicare alla storia di Faerie.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter leggere ogni singolo libro con
calma… ma neanche se avesse vissuto cento anni ci sarebbe riuscita. Per la
prima volta si ritrovò a invidiare Aleister. Lui e la sua longevità di Sidhe.
Lo spiò da sopra la spalla. Se ne stava tranquillo a leggere concentrato,
seduto per terra e attorniato da pile e pile di libri, la schiena poggiata contro
l’enorme finestra che si affacciava sulla piazza colorata dove fervevano i
preparativi per la festa. Sembrava essere di poco più grande di lei, ma
Marian era sicura che avesse almeno duecento anni.
Tornò a immergersi nella lettura della grande guerra dei goblin che aveva
quasi raso al suolo la città di Faerie quando si accorse di una musica
lontana. Proveniva dalla festa.
«Sembra che si stiano divertendo.»
Alzò lo sguardo e vide che Aleister stava osservando la piazza sotto di
loro.
Era piena di persone, colori, nastri e musica. Sembravano tutti così felici,
così pieni di vita… e Feardorcha avrebbe potuto spazzare via tutto questo
da un momento all’altro.
Marian venne attraversata da un brivido. «Credo che una festa sia
davvero pericolosa… con tutto quello che sta succedendo… Non mi sembra
che la signora dei gatti abbia capito davvero il pericolo in cui si trova»
mormorò.
Aleister chiuse di scatto il libro che aveva tra le mani, poggiandolo sulla
pila degli scarti e prendendone uno nuovo.
«Sono d’accordo con te. Ma Catglic è famosa per essere molto testarda.
Anche se ci fossimo impegnati non saremmo riusciti a farle cambiare idea.
Credimi.»
Marian tornò a leggere, scoraggiata.
«Senti…» fece Aleister, scostandosi il ciuffo da davanti agli occhi, per
poterla guardare meglio. «Se è vero che il mondo rischia di finire da un
momento all’altro, penso che dovremmo divertirci un po’…»
Le sfilò il tomo dalle mani e la prese gentilmente per la vita. «Cosa ne
dici se lasciamo per un attimo da parte le nostre ricerche e ci godiamo i
festeggiamenti?»
«Feardorcha potrebbe arrivare da un momento all’altro, Aleister»
protestò Marian.
Il ragazzo aveva ancora le mani strette attorno alla sua vita e lei cercò di
parlare come se niente fosse.
«Oh, avanti. Non fare la guastafeste. Un ballo non ci ucciderà» insistette
imbronciato il Re delle Volpi.
«Ma lo farà lui.»
«Solo un ballo!»
Le afferrò una mano e se la posò su una spalla, le prese l’altra e la tenne
stretta in vita, iniziando a seguire la musica che arrivava dalla piazza.
Marian cercò di seguirlo, impacciata, finendo per pestargli i piedi un
paio di volte.
«Pensavo che una signorina di buona famiglia come te sapesse ballare»
la prese in giro Aleister.
Marian sentì le guance diventarle incandescenti. «Infatti so ballare»
borbottò.
Lui rise, continuando a seguire la musica.
«Posso farti una domanda?»
«Lo stai già facendo.»
La risata cristallina di Aleister invase la biblioteca e Marian sentì una
stretta al cuore.
«Perché parli sempre in questo tono di voce così sommesso? Cosa c’è,
non sei abituata a dire ciò che pensi ad alta voce?»
Marian rimase spiazzata da quelle parole. «In effetti è così» ammise.
Il dolore che sentiva al petto aumentò, simile a un enorme nodo
all’altezza del cuore.
«E perché?»
Marian si strinse nelle spalle. «Non credo che a nessuno interessi ciò che
ho da dire» tagliò corto.
«Che sciocchezza!» esclamò Aleister con una smorfia.
«No, davvero» riprese lei. «Ci sono due tipi di persone al mondo. Quelle
che non devono sforzarsi per farsi notare, per farsi ricordare, perché sono
naturalmente luminose e speciali. E quelle come me, grigie come un vestito
lavato troppe volte. Passiamo inosservate, ci mimetizziamo con lo sfondo
della vita. A nessuno interessa ciò che abbiamo da dire.»
Aleister la guardò intenerito.
«A me interessa sempre ciò che hai da dire.»
Marian aprì la bocca, come a voler replicare, ma non ci riuscì. La sola
cosa che riuscì a produrre fu un mesto sorriso.
Continuarono a ballare, in silenzio. Mentre stringeva la mano di Aleister,
si sentiva prossima alle lacrime, anche se non sapeva perché. Si sentiva così
vicina a lui, come mai prima d’ora. Le sembrava che qualcuno la stesse
vedendo per la prima volta in tutta la sua vita.
Se avesse potuto scegliere di custodire un unico ricordo per sempre, se
avesse potuto scegliere di vivere un singolo momento per il resto della sua
vita, avrebbe scelto quel preciso istante. Loro due, in quella sconfinata
biblioteca, e il mondo lontano. La sua mano in quella di Aleister e lui che la
guardava come se non ci fosse stato altro al mondo da guardare.
Il ragazzo si fermò di colpo, sgranando gli occhi verdi. Fissò Marian
come fulminato da un’idea e la strinse per le spalle, facendole balzare il
cuore in gola.
«Come accidenti ho fatto a non pensarci prima?»
«P-pensare a c-cosa?» balbettò lei stupita.
«So a chi possiamo chiedere informazioni sul cromlech, senza dover
continuare a frugare in ogni singolo libro!»
«Sei sicuro?» chiese Marian.
«Sicurissimo. E ti dirò di più, se qualcuno avesse mai segnato la
posizione di quei maledetti sassi su una mappa… be’, io so chi potrebbe
averla! Seguimi, abbiamo già perso fin troppo tempo qui.»
Aleister attraversò a grandi passi le sale della biblioteca tenendola stretta
per la mano.
«E Macbeth? Lo lasciamo qui?» chiese Marian mentre superarono il
ragazzino addormentato in mezzo alle pile di libri.
«È meglio se ci aspetta qui. Dove stiamo andando è troppo pericoloso
per lui» spiegò Aleister.
«Ma non per me?»
«Tu sei abbastanza grande da badare a te stessa» rispose, e Marian si
chiese se dovesse preoccuparsi o sentirsi lusingata.
«Preparati, Marian. Stiamo per fare qualcosa di molto pericoloso»
dichiarò il Re delle Volpi.
«Che cosa?!» esclamò lei fermandosi di colpo.
«Avanti, muoviamoci, non abbiamo tempo da perdere» sbuffò lui,
ricominciando a camminare in fretta.
«Ti costa troppa fatica spiegarmi cosa sta succedendo?» protestò Marian.
«Ti costa troppa fatica fidarti di me per una volta senza riempirmi di
domande?» esclamò Aleister esasperato.
Usciti dalla biblioteca, Aleister svoltò subito a sinistra, scrutando il
corridoio vuoto. Dovevano trovarsi tutti alla festa.
Il Re delle Volpi rallentò il passo, mentre ispezionava con attenzione il
muro tinto di violetto. Poi si fermò di colpo e Marian gli andò addosso.
«Ehi…» protestò lei, ma Aleister non la stava ascoltando.
Le lasciò andare la mano e iniziò a saggiare l’intonaco, tamburellando la
superficie con la punta delle dita.
«Si può sapere cosa stai facendo?» chiese curiosa.
«Puoi smetterla di agitarti tanto? Non ti accadrà niente» le disse.
«Veramente, quando stavo con Macbeth so…»
«Sei con me, e tanto basta» tagliò corto lui.
Aleister fece un passo indietro, finendo di nuovo addosso a Marian.
«Potresti lasciarmi un po’ di spazio?» chiese con gentilezza.
Lei arretrò di un paio di passi. «Sei impossibile» borbottò.
Aleister posò entrambe le mani sul muro e, con una fiammata, bruciò
l’intera parete.
Così come erano nate, le fiamme si estinsero in un battito di ciglia.
L’intonaco non si era annerito, e adesso vi campeggiavano sopra delle
lettere di uno strano alfabeto e dei simboli che sembravano continuare ad
ardere.
«Sta’ a vedere» disse soddisfatto Aleister.
Gli bastò un solo schiocco delle dita, e le lettere iniziarono a muoversi,
rincorrendosi lungo la parete, come se avessero una volontà propria. Ben
presto, le scie lasciate sull’intonaco assunsero dei contorni familiari, e
Marian riuscì finalmente a riconoscere la forma intricata che si stava
delineando davanti ai suoi occhi.
«Un… portale?»
Aleister annuì soddisfatto.
«È un ingresso. Vieni, stiamo per incontrare un mio vecchio e
decisamente pericoloso amico. Sto per portarti nell’Ognidove.»
La prese di nuovo per mano e, insieme, attraversarono il muro.
34

Marian e Aleister avevano attraversato il muro con la facilità con cui una
lama affonda nel burro.
«Visto?» disse il Re delle Volpi con un sorriso beffardo sulle labbra. «Sei
tutta intera. Avevi qualche dubbio?»
«Effettivamente la tua incrollabile autostima che sconfina in un
narcisismo autocompiaciuto avrebbe dovuto tranquillizzarmi» rispose lei.
Lui rise divertito alla sua battuta e le lasciò andare la mano.
Marian, imbarazzata, abbassò lo sguardo, stringendo forte la gonna per
rimpiazzare quella presa salda e rassicurante. Per un attimo si chiese se
l’intimità che si era creata tra loro in biblioteca fosse vera, o se si fosse
immaginata tutto. Magari vedeva nelle azioni e nelle parole di Aleister solo
quello che voleva vedere. Forse lui era solo diventato meno scorbutico e lei
stava tragicamente fraintendendo tutto…
Cercò di respirare a fondo, per calmare il suo cuore. Si era ripromessa di
seppellire profondamente quegli scomodi sentimenti, ma farlo si stava
rivelando sempre più difficile.
Quando si risvegliò dai suoi pensieri si rese conto di essere sola. Non
c’era traccia di Aleister, che sembrava essersi dissolto nel nulla.
Si trovava nell’ingresso di quello che aveva tutta l’aria di essere un
emporio. Ogni centimetro del negozio era occupato dagli oggetti più
bizzarri e stravaganti che avesse mai visto. Dal soffitto pendevano trecce di
strani frutti puzzolenti, ceste di ogni tipo, forma e dimensione, pellicce di
animali dai colori bislacchi, piume e zampe rinsecchite. Lungo le pareti
erano ammassati quadri, mobili, mensole affollate da ampolle e alambicchi
con pozioni e intrugli sgargianti, gabbie stracolme di animali brulicanti
dagli occhietti luminosi e dall’aria velenosa. Il pavimento era ingombro di
pile e pile di tomi antichi dalle copertine ammuffite. Il proprietario di quei
volumi di sicuro non era uno scrupoloso amante dei libri come il vecchio
librario dell’Isola di Mann. Marian cercò di aggirare gli ostacoli senza
inciamparci o farli crollare.
La testa rossa di Aleister fece capolino da dietro una vecchia pendola.
«Si può sapere com’è che rimani sempre indietro?» esclamò
allegramente.
«Si può sapere com’è che riesci sempre a seminarmi?» ribatté lei mentre
aggirava con circospezione una gabbia piena di orribili bestie pelose simili
a scorpioni sibilanti.
«Dove ci troviamo?» chiese Marian. «Questo posto è davvero lugubre.»
«Siamo nella bottega magica dell’Ognidove. Non si trova in nessun
luogo di Faerie, eppure si può raggiungere da qualsiasi parte… se si è in
possesso dell’incantesimo giusto» spiegò Aleister. «Il proprietario è una
creatura di nome Destino. Fato è il suo famiglio. Ha le sembianze di un
innocuo gatto a tre code, ma se posso darti un consiglio, è meglio non
provare ad accarezzarlo.»
«Niente carezze al felino, capito.»
«Destino è un mago potentissimo ed è un ladro altrettanto abile. Riesce a
trovare qualsiasi cosa di cui tu abbia bisogno…»
«…Ma vuole qualcosa in cambio» concluse Marian.
Aleister le rivolse un’occhiata impressionata. «Signorina Crawford, vedo
che abbiamo studiato.»
«Comincio a capire come funziona qui» sorrise lei. «Quindi? Cosa vuoi
chiedergli?»
«Sono sicuro che esiste una mappa del cromlech originario di Faerie…
da qualche parte» disse Aleister, mentre la aiutava a superare una cesta
colma di teste di fate rinsecchite.
«Come fai a esserne così sicuro?»
«Devi sapere che noi Sidhe abbiamo una grande passione per le mappe.
Chi avrebbe mai potuto resistere davanti alla creazione della più grande
mappa della storia?»
«Cosa pensi che vorrà in cambio Destino?» chiese Marian preoccupata.
Aveva un brutto presentimento.
«Non ne ho idea, ma stiamo per scoprirlo. Ricorda, un cuore pavido non
ha mai conquistato niente!»
Sbucarono da dietro una pila di tomi alta fino al soffitto, che sembrava
quasi sostenere la struttura della bottega, e si ritrovarono davanti a un
bancone di legno. Dietro, c’era un uomo… o almeno, a Marian così parve.
Avvicinandosi, notò una serie di dettagli che le fecero venire la pelle d’oca.
C’era qualcosa nel viso di Destino che non le sembrava… giusto. I singoli
tratti del viso erano piacevoli, ma era come se non appartenessero a quel
viso, come se il suo proprietario li avesse pescati da altre persone,
ricostruendo un’idea che aveva di un volto. Le labbra erano sottili, il naso
era piccolo e a punta, come le orecchie. Gli occhi erano nascosti dietro a
occhiali ovali dalle lenti nerissime. Indossava un elegante completo con una
giacca a doppio petto, in tinta con i capelli corti bianco latte, e tamburellava
impaziente la punta delle dita guantate di nero sul bancone del suo negozio.
Quello era l’unico punto sgombro e ordinato di tutto l’emporio. Alle sue
spalle, appollaiato su una mensola della parete, c’era un enorme gatto
arancione a tre code, dal muso schiacciato. Appena Marian e Aleister si
avvicinarono al bancone, quello aprì un occhio giallo dalla pupilla verticale,
spiandoli.
«Benvenuti nella bottega dell’Ognidove. Felice di rivederti, Aleister, Re
delle Volpi» disse il proprietario con una voce untuosa, voltandosi poi in
direzione di Marian. «Benvenuta, Marian Crawford, ragazza dell’Altrove.
Io sono Destino» si presentò.
Marian lo guardò sorpresa.
«Come fa a conoscere il mio nome?»
«Conosco l’identità di tutti i miei avventori. Ditemi, come posso esservi
utile?»
A Marian tornarono subito in mente le raccomandazioni che Macbeth le
aveva fatto sul potere dei nomi a Faerie. Destino non aveva pronunciato il
suo secondo nome, ma l’aveva comunque turbata.
«Siamo alla ricerca di qualcosa di molto raro, difficile da trovare» iniziò
Aleister.
«Sai come funziona. Tu chiedi, io trovo al giusto prezzo. Allora, di cosa
avete bisogno?»
«Vorrei la mappa del cromlech originario di Faerie» disse Aleister senza
girarci troppo intorno.
«Puoi essere più specifico?» chiese Destino. Adesso lo ascoltava
interessato.
«Quello su cui si reggono le barriere di Faerie» disse asciutto il Re delle
Volpi, indossando una maschera di indifferenza impenetrabile.
Il bottegaio sorrise. Aveva i denti affilati, troppo affilati, come quelli di
un animale.
«Pensavo che sarebbe arrivato prima l’altro» commentò. Quando notò la
smorfia di Aleister aggiunse: «Cosa c’è? Avete litigato? Eppure credevo
foste inseparabili».
«Compagnie sbagliate. Adesso frequento persone più interessanti»
replicò il Re delle Volpi con una scrollata di spalle.
Le lenti nere del bottegaio luccicarono in direzione di Marian.
«Vedo. Bello il tuo ciondolo» commentò, e lei si portò una mano alla
gola. Il medaglione era nascosto sotto al suo vestito, ma lo aveva comunque
scorto, proprio come aveva fatto Feardorcha.
Aleister sbuffò, infastidito. «Allora, hai la mappa sì o no? Non ho tempo
da perdere.»
Il bottegaio posò una mano sul bancone. Tra le sue dita brillò una luce
violacea e apparve un minuscolo quadratino di pergamena stropicciato,
ripiegato su se stesso più volte.
«Certo che ho la mappa. Eccola qui. Vediamo cosa sei pronto a darmi in
cambio.»
Marian fissava incredula il foglio stropicciato. Aleister aveva ragione!
Esisteva davvero una mappa e si trovava proprio lì, davanti a loro.
«Ne esistono altre copie?» chiese Marian.
Destino scosse lentamente la testa. «Questa è la sola e unica. L’ho
appena rubata per voi.»
Aleister e Marian si scambiarono uno sguardo fugace. Il Re delle Volpi
aveva assunto un’aria imperturbabile, ma Marian aveva imparato a
conoscerlo. Da come serrava la mascella capì che era teso.
«Sbaglio o adesso sei ufficialmente re?» chiese Destino, con noncuranza.
«Non ho ancora festeggiato come si deve, ma sì. Il mio predecessore è
morto» rispose cautamente Aleister.
«Condoglianze.»
«Avanti» tagliò corto il Re delle Volpi. «Perché non mi dici direttamente
il tuo prezzo senza girarci troppo intorno?»
Il sorriso aguzzo sul viso del bottegaio si allargò sempre di più, fino a
diventare una ferita mostruosa che gli apriva la faccia da un orecchio
all’altro. Marian fece un passo indietro, spaventata.
«Voglio la tua corona. Mi sembra un giusto prezzo per un oggetto così
prezioso, unico nel suo genere… proprio come il tuo titolo.»
«No, questo non puoi chiederlo!» esclamò Marian.
Aleister era pallido dalla rabbia. «Non oserai…» disse a denti stretti.
«L’ho appena fatto» ribatté Destino.
Marian si frappose tra i due, cercando di fare arretrare Aleister.
«Prendi qualcosa da me piuttosto!» disse a Destino, battendo i palmi
delle mani sul bancone.
«Marian, no» le sussurrò Aleister con dolcezza, cercando di calmarla.
«Questo sì che è interessante» commentò il bottegaio, rivolgendo tutte le
sue attenzioni su di lei. Anche il suo famiglio osservava la scena intrigato.
Si era sporto dalla sua postazione e fissava Marian con i suoi enormi occhi
gialli, le tre code che scodinzolavano sinuose come serpenti.
«Chiedimi ciò che vuoi» disse lei a testa alta.
«Marian, non puoi farlo. Te lo vieto» le sussurrò Aleister all’orecchio.
«Non è il tuo mondo, non è la tua gente… Perché dovresti sacrificarti in
questo modo?»
Marian scosse il capo, testarda. «Lo faccio perché è la cosa giusta da
fare. Se crollano le barriere di Faerie, crollerà anche il mio di mondo,
quindi sì, si tratta anche della mia di gente» disse con voce ferma. «E poi
non puoi rinunciare alla corona proprio adesso che finalmente l’hai
accettata con tutti i suoi oneri e doveri.» Si voltò a guardarlo con un sorriso
che cercò di far passare per spensierato. Sapeva che era la cosa più giusta da
fare. Voleva aiutare Aleister a trovare la sua strada, aiutarlo a diventare ciò
per cui era nato, e che già era, ma che ancora non riusciva a vedere. «Le
volpi hanno e avranno sempre bisogno di un re» gli disse. Poi si voltò verso
Destino, seria. «Sono pronta. Prendi ciò di cui hai bisogno in cambio della
mappa.»
Strinse gli occhi, chiedendosi a cosa avrebbe dovuto rinunciare. La fata
voleva il biondo dei suoi capelli o l’azzurro dei suoi occhi… avrebbe potuto
fare a meno di entrambi se fosse stato necessario.
Prima che Aleister potesse opporsi, fulmineo come un serpente velenoso,
Destino le afferrò la mano e la strinse con forza nella sua. «Davvero
generoso da parte tua. Molto bene, il patto è valido» disse, il viso ancora
squarciato da quel sorriso mostruoso. «Mi prenderò la tua libertà.»
Marian sgranò gli occhi. Per un attimo le sembrò che il suo cuore avesse
smesso di battere.
«Che cosa?» chiese incredula, come se ci fosse la possibilità di
fraintendere quelle terribili parole.
Destino sorrise malvagio. Le teneva ancora stretta la mano sinistra, per
suggellare il patto, quando Marian notò qualcosa. Al suo anulare era appena
apparso un anello sottile e dorato.
Una fede nuziale.
«Non… non capisco» balbettò confusa. «Che cosa significa?» chiese
ritraendo la mano.
«Che hai appena rinunciato alla tua preziosa libertà per comprare questa
mappa. Congratulazioni» le porse la pergamena ripiegata. «Devo ammettere
che la tua libertà è veramente deliziosa. Credo che me la gusterò a lungo.»
Destino si passò la lunga lingua da rettile sulle labbra deformate.
«Ma cosa vuol dire questo?» chiese Marian in preda al panico,
sventolandogli davanti la fede all’anulare. «Vuoi dire che adesso sono
sposata con Carl Lawrence?»
«Non conosco il fortunato giovanotto, ma penso che tu abbia capito
benissimo cosa succederà. Quell’anello è la prova del vincolo che ti attende,
da cui non potrai mai scappare, e della rinuncia a ciò che hai sempre
desiderato avere e che ora non potrai più ottenere. Nel tuo futuro c’è il
matrimonio, che tu lo voglia o no. Non avrai più diritto alla libertà che tanto
agognavi e che segretamente pensavi di meritare. Dille pure ciao ciao!»
A Marian girava la testa. Le sembrava di non avere più fiato, e tutto
assunse dei contorni indistinti. Tutto tranne la fede d’oro al suo dito. Quella
era chiara, nitida e reale. Era la catena che l’avrebbe resa schiava di un
uomo che non voleva per il resto dei suoi giorni.
«Marian!»
Sentì lontana la voce preoccupata di Aleister, e le sue mani che la
sorreggevano.
Lo sentì sbraitare contro Destino, sbattere il pugno sul bancone. Un nodo
doloroso le si strinse in petto, mentre veniva sopraffatta dalle lacrime.
Era stato tutto inutile. Tutto.
Arrivare lì a Faerie con Macbeth sperando che il suo desiderio venisse
esaudito, l’aver salvato Aleister, aver…
No, si disse. Non era stato inutile. Aveva ancora la possibilità di evitare
la collisione tra i loro due mondi. Se per salvare tutti avrebbe dovuto
rinunciare al suo futuro e alla sua libertà… be’, non aveva altra scelta. Lo
avrebbe fatto e avrebbe affrontato le conseguenze a testa alta.
«Sto bene» disse con voce roca, allontanandosi da Aleister.
Il Re delle Volpi la fissava con un’espressione indecifrabile. Sembrava
affranto.
Allungò una mano per strappare a Destino la mappa, ma il bottegaio non
la lasciò andare. La teneva ferma per un angolo con la punta del dito.
«L’hai presa piuttosto bene» commentò.
«Direi di sì. Ora posso avere ciò per cui ho pagato?» ribatté lei, gelida.
Lui alzò le mani in segno di resa.
Marian aprì la pergamena con cautela. La mappa era semplice: a destra
c’era un rozzo schizzo di sette pietre disposte in cerchio, a sinistra invece
c’era un intricato disegno fatto di lettere e simboli, molto simili a quelli che
Aleister aveva tracciato sul muro nel palazzo dei gatti per raggiungere la
bottega dell’Ognidove. Capì che più che la raffigurazione del cromlech, in
quella mappa fossero preziosi e necessari le lettere e i simboli intricati.
Erano quelle le coordinate per raggiungere il cromlech originario. Stringeva
tra le mani l’incantesimo che avrebbe permesso loro di raggiungere il cuore
di Faerie.
Marian si infilò la mappa in tasca, scoccando un’ultima occhiata furente
a Destino.
La porta dell’ingresso della bottega si aprì con un allegro scampanellio.
Quando riconobbe la figura nera che aveva appena fatto la sua comparsa
tra la merce accatastata nel negozio e che adesso avanzava a passo sicuro
verso di loro, Marian ebbe un tuffo al cuore.
«Non sai proprio selezionare la tua clientela, eh Destino?» commentò
Aleister con una smorfia. «Vedo che fai entrare cani e porci.»
Feardorcha indossava un pesante cappotto nero da viaggio, lungo fino ai
piedi. Il viso pallido e spigoloso era teso in un sorriso cordiale, gli occhi
azzurri brillavano accesi sotto i pesanti capelli neri. «Dovreste vedere le
vostre facce in questo momento» osservò con dolcezza.
«Non sono in vena» lo mise in guardia Aleister, furioso. Dalla punta
delle sue dita iniziarono a zampillare scintille di fuoco.
Feardorcha lo ignorò. «Vorrei poter dire che sono stupito di trovarvi qui,
ma mentirei. Siete esattamente dove mi aspettavo che foste» disse con occhi
rimasero freddi e vuoti, senza alcuna emozione.
«Le hai fatto del male?» ringhiò Aleister.
«A chi?» chiese facendo finta di non capire.
«Madama Catglic.»
Feardorcha rimase impassibile. «Lo sai, Aleister, che sono contro gli
inutili spargimenti di sangue… soprattutto quando di tratta di figure illustri
e importanti…» ribatté in tono vago. «Ma sembra che ogni volta non mi
lascino scelta.»
Marian si portò una mano alla bocca. «No…» gemette.
Non era possibile. Non riusciva a credere che Catglic fosse morta.
L’aveva vista solo poche ore prima. Un’ondata di nausea la investì. E
Macbeth? Macbeth era al sicuro?
Feardorcha aveva assassinato Catglic così come aveva assassinato il
predecessore di Aleister. Adesso, tutti e quattro gli incantesimi che
sorreggevano le barriere e le fondamenta di Faerie erano nelle sue mani.
«Come hai potuto?» esclamò Marian, incapace di trattenersi. «Sei un
mostro!»
«Oh, non sai quanto» ribatté Feardorcha, con un inquietante sorriso sulle
labbra.
«Come hai fatto a trovarci?» chiese brusco Aleister.
Il mago non rispose, mostrò semplicemente quello che stringeva tra le
dita. Era un minuscolo pezzetto di stoffa.
Marian lo riconobbe subito.
Era il pezzo di abito che la fata le aveva strappato.
«N-non è possibile…» balbettò incredula. «Come fai ad averlo tu?»
Feardorcha si rigirò tra le mani la stoffa azzurro chiaro, mentre rideva
sommessamente.
«È capitato per caso, sai? Non credo nel destino, Aleister lo sa bene…
Ma si è verificata una di quelle curiose e rare coincidenze da farti chiedere
se effettivamente ci sia o meno una forza più grande a muovere i tuoi passi»
commentò. «Quel giorno al mercato, quando ci siamo visti, poco dopo una
fata ha iniziato a raccontarmi una storia davvero interessante… di uno
strano incontro che aveva fatto e di come era stata ingannata da una volpe e
da un’umana…»
Marian fissò incredula prima la stoffa tra le mani di Feardorcha e poi
Aleister che, pallido, le restituì un’occhiata tesa.
«Grazie a questo posso trovarti» disse il mago, sventolando il tessuto.
«Ovunque tu vada a Faerie, grazie a questo minuscolo pezzo di stoffa
dell’Altrove, saprò sempre dove sei» spiegò, anticipando le domande della
ragazza.
«Gentiluomini, conoscete le regole» li interruppe Destino. «Questo è un
luogo neutrale. Tra queste mura non sono ammessi combattimenti o dispute
di alcun tipo.»
Il famiglio alle sue spalle iniziò a ringhiare sommessamente come
avvertimento. Le tre code scodinzolavano nervose.
«Ma certo, Destino» disse Feardorcha poggiandosi una mano sul petto
con aria innocente. «Non mi permetterei mai di alzare un solo dito nella tua
bottega.»
All’improvviso l’aria si fece densa, opprimente.
Marian si rese conto che stava accadendo qualcosa.
«Tu… sei il solito serpente bugiardo, Feardorcha» disse Aleister con
disprezzo. Poi strinse forte la mano a Marian. «Preparati, stanno per
succedere molte cose spiacevoli tutte insieme.»
Feardorcha sorrise beffardo. Gli occhi azzurri brillarono, diventando
presto rossi come carboni ardenti.
«Ho detto che io non avrei alzato un dito, non ho detto che gli hobgoblin
non lo avrebbero fatto.»
35

Le ombre proiettate dagli oggetti accatastati e dai mobili che affollavano la


bottega si deformarono. Si restrinsero per allargarsi sempre di più. Si
formarono presto dei gorghi che iniziarono a vomitare braccia, gambe e
infine dei corpi bitorzoluti e deformi.
A Marian bastò un’occhiata per capire di trovarsi di fronte agli
hobgoblin. Avevano la pelle tesa sui teschi calvi e lunghe orecchie a punta.
Gli occhi erano completamente neri, i nasi arcuati. Stavano uscendo a frotte
dai portali creati da Feardorcha, che adesso se ne stava a debita distanza,
tronfio dall’altro lato della bottega, con un sorriso beffardo stampato in
faccia e gli occhi accesi da quel rosso che li faceva somigliare a braci
ardenti.
«Aleister, cosa facciamo?» sussurrò Marian aggrappandosi alla manica
della sua giacca.
«Sto pensando, sto pensando!»
«Fallo più in fretta!»
Aveva tutta l’intenzione di frapporre quanta più distanza possibile tra
loro e le creature ma, arretrando, lei e Aleister avevano sbattuto contro il
bancone. Sopra le loro teste, il famiglio aveva iniziato a ringhiare.
Il Re delle Volpi si allungò alla sua destra, estraendo a caso una spada da
quello che aveva tutta l’aria di essere un portaombrelli.
«Cosa pensi di fare con quella?» chiese Marian.
«Infilzare un paio di hobgoblin se osano avvicinarsi troppo. Se siamo
fortunati potrebbe rivelarsi una spada magica» disse ottimista. «Hai
presente quelle che arrivano all’eroe nel momento del bisogno? Be’,
guardami, sono decisamente un eroe e questo è decisamente il momento del
bisogno.»
Gli hobgoblin avevano invaso la bottega di Ognidove, brulicando gli uni
sugli altri come insetti.
«Ne avete molte, qui a Faerie?» chiese Marian speranzosa.
«Un mucchio» confermò il Re delle Volpi, sguainando l’arma e
mettendosi in posizione di difesa. «Però non sono bravo a pensare quando
sono sotto pressione. Mi sembrava di aver capito che quello fosse compito
tuo… Io combatto i cattivoni, tu inventi brillanti piani per tirarci fuori dai
guai.»
«Mi sembra giusto» concordò Marian, riflettendo. «Sono troppi per
poterli affrontare, direi che non ci resta che scappare!»
«Per adesso il tuo piano mi piace. Va’ avanti.»
Gli hobgoblin avevano iniziato ad avvicinarsi, arrampicandosi nel
labirinto intricato di merce, accerchiando non solo Aleister e Marian, ma
anche Destino e il suo famiglio.
Feardorcha li osservava divertito mentre bloccavano l’unica via di fuga.
Erano in trappola e per di più in netto svantaggio.
Marian si sentì sprofondare, ma la sua mente lavorava spedita. Dopotutto
avevano la magia di Aleister dalla loro, potevano ancora uscire vivi da quel
pasticcio.
«Pensi di riuscire a creare una di quelle tue porte per scappare?» gli
chiese.
Aleister si guardò fugacemente attorno, poi annuì.
Feardorcha aveva allargato le braccia con aria amichevole.
«Vi propongo qualcosa che potrebbe risparmiare a tutti una gran fatica:
datemi la mappa senza troppe storie e vi lascerò andare» disse in un tono
amabile.
Stava sorridendo, ma gli occhi erano fissi, morti. «Aleister, non sono un
tuo nemico. Non lo sono mai stato. Ti rispetto, e non vorrei mai che ti
accadesse qualcosa…»
Un hobgoblin guercio soffiò in direzione di Marian, scoprendo una fila
di denti marci ricoperti di saliva nera. Lei si ritrasse e si buttò sul
portaombrelli. Aveva bisogno di un’arma, qualsiasi tipo di arma. Non
c’erano altre spade… ma trovò una mazza da cricket.
“L’arma arriva all’eroe nel momento del bisogno” si disse. Di sicuro
aveva più familiarità con questa che con una spada.
«Molto caritatevole da parte tua» ribatté canzonatorio Aleister. «Hai
davvero un cuore magnanimo per essere un signore oscuro.»
Gli hobgoblin soffiavano, in attesa di un ordine di Feardorcha per partire
all’attacco.
Il sorriso del mago si spense sul viso spigoloso. «Non ho mai desiderato
questo» disse.
«Intendi che non era nei tuoi piani uccidere un sacco di innocenti pur di
raggiungere i tuoi obiettivi?» rispose Aleister con una smorfia, la spada
sguainata davanti a sé. «Non so perché ma proprio non riesco a crederti…»
La maschera di calma e accondiscendenza era scomparsa dal viso di
Feardorcha. Ora aveva la mandibola serrata, le narici allargate e gli occhi
mandavano lampi rossi. Era furioso.
Si rivolse alle creature smaniose che lo circondavano. «Portatemi la
mappa» ordinò.
Gli hobgoblin si mossero insieme, come uno sciame controllato da
un’unica mente.
«Seguimi!» gridò Aleister, agguantando Marian.
Nel momento in cui le creature attaccarono, il famiglio di Destino si
trasformò. Crebbe a dismisura, divenendo un’enorme creatura dagli artigli
arcuati. Atterrò sul bancone distruggendolo, tra una pioggia di schegge. La
bocca si spalancò e iniziò ad artigliare le creature come se fossero mosche,
straziando i corpi con le fauci enormi, mentre le tre code frustavano e
facevano a pezzi tutto ciò che incontravano.
Una testa rotolò ai piedi di Marian e lei la saltò disgustata.
«Ecco perché ti avevo detto di non accarezzarlo. Diventa così» gridò
Aleister mentre correvano nel labirinto dalla bottega, cercando di seminare i
loro inseguitori.
Gli hobgoblin si arrampicavano lungo le pareti e gli scaffali come dei
ragni troppo cresciuti. Sembravano essere dappertutto.
Gli scaffali iniziarono prima a oscillare e poi a crollare gli uni sugli altri,
con degli schianti che fecero schizzare via gli oggetti che contenevano,
riducendoli in frammenti, riempiendo l’aria di schegge di legno e alzando
una spessa coltre di polvere. Il mostruoso famiglio di Destino continuava a
fare man bassa di corpi, scaraventando i resti delle sue prede contro le
pareti, con degli schianti umidi, rivoltanti.
Marian e Aleister si trovarono circondati. La via di fuga era sbarrata. Si
misero schiena contro schiena, pronti a dar battaglia.
«Questo potrebbe essere un buon momento per usare le tue fiamme»
suggerì Marian. Tremava da capo a piedi, stringendo forte la mazza da
cricket. La agitò davanti a sé, cercando di essere minacciosa, mentre gli
hobgoblin avanzavano. Tutt’attorno era un coro di grida orribili e strazianti.
«Stai scherzando, vero?» grugnì Aleister. «Hai per caso altro da
scambiare con Destino? Perché sinceramente non penso che possiamo
permetterci di fare danni qui dentro» disse cupo. «Chi rompe paga.»
Gli hobgoblin attaccarono all’improvviso. Erano armati di spade corte,
nere, della stessa fattura del pugnale con cui Feardorcha aveva provato a
colpire Aleister nel palazzo. Il Re delle Volpi li affrontò, parando i colpi
rapido e trapassando le creature da parte a parte.
Una creatura cercò di avventarsi su Marian, ma lei scartò, tuffandosi
sotto un tavolo. Aleister si voltò appena in tempo per infilzarla con la spada.
«Rimani lì» gridò mentre sfilava la lama dal petto dell’hobgoblin,
spruzzando sangue nero da tutte le parti. Marian annuì, con tutta
l’intenzione di ascoltare il suo suggerimento.
Aleister era uno spadaccino provetto, parava i colpi con un’agilità e una
naturalezza innata, come se non gli costasse alcuna fatica. Se non fosse
stata così spaventata, quell’ulteriore sfoggio di abilità l’avrebbe infastidita,
ma adesso era grata dell’ennesima prova dell’odiosa perfezione di Aleister.
Dal suo nascondiglio, Marian si accorse di un hobgoblin alle spalle del
ragazzo. Era in cima a quello che sembrava un vecchio armadio, pronto ad
attaccarlo dall’alto.
Marian non ci pensò due volte e schizzò fuori, centrando la testa della
creatura con la mazza da cricket. Il colpo lo fece schiantare contro una
vetrina piena di ampolle. L’intera parete di mobili e cianfrusaglie dondolò,
iniziando poi inesorabilmente a franare con un effetto domino,
coinvolgendo tutti i mobili carichi di merci alle loro spalle. Il passaggio
dietro di loro si chiuse con un boato assordante, schiacciando gli hobgoblin
sotto i detriti.
Aleister e Marian vennero investiti da un enorme polverone.
«Tecnicamente non è colpa mia!» disse lei tra un colpo di tosse e l’altro.
«Molto brava» commentò Aleister. «Non ho mai visto nessuno usare una
mazza in questo modo.»
«Si chiama cricket, ti devi aggiornare sugli sport dell’Altrove.»
Marian si voltò di scatto, colpendo sul naso un’altra creatura prima che
potesse caricare Aleister alle spalle.
«Sai, adesso sarebbe davvero un buon momento per creare quel
passaggio di cui avevamo parlato!» gridò Marian mentre faceva roteare la
mazza, colpendo tutto ciò che le capitava sotto tiro.
Aleister la prese per il colletto dell’abito e se la trascinò dietro,
allontanandola dallo scontro.
Si tuffarono in un nuovo passaggio creatosi con la caduta del muro di
mobili e cianfrusaglie. Sopra alle loro teste volò un pezzo di hobgoblin,
accompagnato dal verso terrificante del famiglio di Destino. Tutt’attorno
rimbombavano i passi forsennati delle creature e le loro grida rauche.
«Ho bisogno di trovare una parete abbastanza grande per effettuare
l’incantesimo» disse Aleister, guardandosi freneticamente attorno.
Gli hobgoblin avrebbero potuto trovarli in ogni momento, non avevano
tempo da perdere. Erano ovunque e non ci avrebbero impiegato molto ad
accorgersi di quello spiraglio in cui si erano rifugiati.
Si guardarono intorno, sconfortati. Non c’era spazio a sufficienza da
nessuna parte.
Poi a Marian venne un’idea. «Il pavimento! Puoi farlo qui sul
pavimento?»
Per puro caso erano finiti in un punto abbastanza sgombro. Il viso di
Aleister si illuminò.
Senza perdere tempo lanciò l’incantesimo. I simboli e le lettere che
Marian aveva ormai imparato a conoscere brillarono sotto i loro piedi,
creando una botola tonda nel pavimento di pietra.
In quell’istante, gli hobgoblin spuntarono da sopra le pile di oggetti
accatastati che li circondavano.
Aleister mise la spada nel fodero e se lo legò in vita.
«Ma cosa stai facendo?» protestò Marian.
«Ho bisogno di entrambe le mani libere» disse lui. Poi la prese in braccio
e, prima che la ragazza potesse protestare, si tuffò nel portale che aveva
appena evocato.
La bottega di Ognidove sparì e Marian e Aleister atterrarono sul tetto di
un carretto, sfondandolo. Si ritrovarono in mezzo a della strana frutta
marrone che puzzava di cavolo.
A Marian mancò il fiato, sia per il fetore sia per il colpo.
«Stai bene?» chiese Aleister tutto scarmigliato. Aveva della poltiglia
sanguinolenta spiaccicata nei capelli.
Marian ebbe un tuffo al cuore, ma poi si rese conto che era solo la polpa
di quei misteriosi frutti.
«Sto bene…» gemette. Era ammaccata, ma in fin dei conti era tutta
intera. Per fortuna Aleister la stava ancora tenendo in braccio. In qualche
modo aveva attutito una brutta caduta.
«Sei ferita!» gridò Aleister.
Marian si guardò il petto. Una macchia scura si stava allargando sulla
stoffa.
«È solo questa maledetta frutta!»
Aleister sembrò decisamente sollevato. «Vieni, usciamo di qui» disse,
aiutandola a scendere dal carretto. Si scrollarono i resti di frutta di dosso.
«Ma… siamo già stati qui!» esclamò Marian riconoscendo la piazza di
Faerie. Il mercato doveva essersi concluso, perché adesso era semideserta,
fatta eccezione per qualche carretto chiuso, come quello che avevano
appena distrutto.
Aleister sbuffò, spostandosi un ciuffo da sopra gli occhi.
«È il primo posto che mi è venuto in mente.»
Qualcosa precipitò dall’alto, atterrando sui resti del carretto con uno
schianto improvviso e facendo a pezzi quel poco che era rimasto intatto. Il
portale che aveva evocato Aleister era ancora aperto, pochi piedi più in alto,
e gli hobgoblin lo stavano attraversando a frotte.
«Presto, Aleister, abbiamo bisogno di un nuovo portale!» esclamò
Marian con una certa urgenza.
Aleister la prese per mano e ricominciò a correre. Si diresse verso un
edificio, evocando con la mano libera un nuovo passaggio. Mentre le lettere
iniziavano a infiammarsi lungo l’intonaco, alle loro spalle apparve anche
Feardorcha. Imperturbabile, aveva attraversato il passaggio, planando con
eleganza sulle macerie del carro.
«Vieni!» disse Aleister, tirandosi Marian dietro mentre attraversavano
l’incantesimo fiammante.
Lei strinse gli occhi e li riaprì solo quando atterrò in una pozza d’acqua
bassa, che le lambiva le caviglie. Si trovavano in un palazzo diroccato, con
il soffitto crollato…
Marian lo riconobbe subito.
«È il palazzo della leannán shee!» esclamò.
«Piccola vendetta» sorrise Aleister. «Ho pensato che Leah avrebbe
potuto apprezzare la visita di un’orda di hobgoblin.»
I versi mostruosi dei loro inseguitori riecheggiavano alle loro spalle,
mentre attraversavano anche loro il nuovo portale. Le creature stavano di
nuovo alle loro calcagna. Come una macchia d’olio si riversarono
nell’enorme salone in rovina del palazzo, brulicando gli uni sugli altri
all’inseguimento del Re delle Volpi.
«Non ci danno il tempo di chiuderci il portale alle spalle…» disse
Marian senza fiato.
«Lascia fare a me!»
Aleister ricominciò a correre verso il fondo dell’enorme sala fatiscente.
Agitò la mano e sul muro di fronte a loro comparve, in fiamme, un’altra
porta.
«Sta’ giù!» gridò Aleister, facendo abbassare la testa a Marian.
Lei sentì qualcosa passarle vicino alle orecchie a grande velocità. Nel
muro davanti a lei, dove Aleister stava già facendo bruciare l’incantesimo
per un nuovo passaggio, si conficcò un pugnale nero.
Aleister aprì la nuova porta e insieme la attraversarono.
Sbucarono in quello che Marian pensò essere uno dei corridoi del
palazzo dell’Isola di Mann, ma Aleister non le diede tempo di respirare. La
spinse dentro un nuovo portale, e ruzzolarono lungo una duna di sabbia
rossa.
A Marian girava la testa. Tossì, mentre Aleister si tirava faticosamente in
piedi.
«Stai bene?» le chiese con il fiatone, mentre la aiutava a rialzarsi.
Sulla sabbia aveva già iniziato a bruciare un nuovo incantesimo e Marian
vi precipitò dentro. Questa volta atterrò su una pila di cuscini. Si trovavano
all’interno di una sala con un enorme lampadario di diamanti sospeso sopra
le loro teste.
«Andiamo, presto!»
Aleister la prese per mano e ricominciò a correre. Sopra di loro, gli
hobgoblin iniziavano a spuntare. Colpirono l’enorme lampadario, che si
schiantò a terra.
Aleister e Marian riuscirono a evitare la pioggia di diamanti, tuffandosi
in un ennesimo portale.
Si trovarono a correre sui tavoli di una locanda, calciando piatti e
rovesciando boccali. Un enorme leprecauno cercò di agguantarli, ma
Aleister gli rovesciò della birra addosso. Si tuffarono dentro un caminetto
acceso, dove si stava creando un nuovo passaggio.
Atterrarono ansanti in una spiaggia con enormi conchiglie.
Marian si voltò, il viso arrossato dalla fatica.
Niente da fare.
Per quando Aleister si impegnasse a creare più portali, a cambiare
destinazione, Feardorcha non veniva distratto, né rallentato. Ineluttabile,
stava dietro di loro, un passo sempre più vicino.
«Aleister… un ultimo sforzo» lo incoraggiò.
Dovevano essere più veloci, per seminarlo e avere il tempo di chiudersi
il portale alle spalle…
Il Re delle Volpi sbuffò, poi con uno scatto si tirò su e prese Marian
ancora una volta per mano, attraversando il nuovo passaggio che aveva
creato.
L’ultimo portale li trasportò in mezzo a delle cascate. Marian, senza
ormai più fiato, arrancava dietro ad Aleister, cercando di non scivolare sulla
pietra bagnata.
«Ora una piccola trappola per levarcelo definitivamente di torno» disse il
Re delle Volpi a denti stretti.
Sembrava esausto anche lui.
Marian sentì una presenza alle loro spalle. Si voltò, giusto in tempo per
vedere il Negromante allungare una mano pallida verso di loro. Un nuovo
incantesimo bruciò lungo la parete di pietra appena accanto a loro, giusto in
tempo, e Marian e Aleister vi si tuffarono dentro, seguiti da Feardorcha.
Erano finiti in una dimensione oscura. Tutto attorno a loro era nero.
Appena Feardorcha vi entrò, Aleister tornò sui suoi passi con un balzo,
schizzando verso l’uscita nel momento esatto in cui il portale aveva iniziato
a richiudersi.
Lui e Marian si trovavano sulla soglia quando Feardorcha afferrò la
ragazza per un polso.
Successe tutto in un attimo.
Marian venne stretta tra le braccia del Negromante e cadde in quella
trappola che il Re delle Volpi aveva preparato per lui.
Non emise un suono, tanta era la sorpresa. Cercò di allungare una mano
verso Aleister ma fu inutile.
Il viso del Re delle Volpi impallidì, gli occhi sgranati dall’orrore.
Il portale si richiuse e Marian e Feardorcha vennero inghiottiti
dall’oscurità.
36

Marian si trovava a carponi nell’oscurità più assoluta. Non aveva mai visto
delle tenebre così fitte, nemmeno nelle notti senza luna.
Nella dimensione in cui si trovavano non c’era nulla. Solo buio.
Tutti i suoi sensi erano attutiti. Non c’era nulla da guardare in quella
distesa nera, non c’erano suoni, non c’erano odori. Era prigioniera di
un’oscurità totalizzante, che non lasciava scampo.
Sebbene non ci fosse luce, riusciva però a vedersi, come se fosse lei
stessa a brillare. A poca distanza, poteva scorgere perfettamente anche
Feardorcha.
Se ne stava seduto in disparte, le braccia appoggiate alle ginocchia. I
suoi vestiti e i capelli neri si mimetizzavano con l’ambiente, facendolo
apparire ancora più inquietante: una testa pallida dalle guance scavate che
galleggiava in quel mare nero.
«Dove siamo?» chiese Marian, tirandosi su a sedere. Nella caduta si era
fatta male, ma dissimulò. Non voleva mostrarsi debole davanti al
Negromante. Già il fatto di non avere un briciolo di magia in corpo la
metteva in una posizione di penoso svantaggio.
«Dovresti chiederlo al tuo amico.»
La voce era acuta, fredda come al solito, senza alcun tipo di emozione.
L’attenzione di Marian ricadde sulle sue mani. Sembravano pallidi ragni
irrequieti che emergevano dall’oscurità, spettrali. Continuava a stringere i
pugni, le vene sulle nocche che si gonfiavano e sgonfiavano quando fletteva
le dita. Sembrava piuttosto nervoso. Gli occhi azzurri, quasi bianchi,
incontrarono i suoi, e Marian si sentì scossa da un brivido.
«Adesso aspetteremo qui tranquilli l’arrivo di Aleister» le disse.
Lei strinse le labbra. «Perché dovrebbe mai tornare qui?»
Lui fece una smorfia infastidita e scosse la testa. «Ma per riprenderti, è
ovvio»
Marian si portò le ginocchia al petto. Rimase ferma, in silenzio per
quella che le parve un’infinità. Il cuore le stava per scoppiare nel petto per
l’ansia e l’agitazione.
«Perché non mi uccidi?» chiese, non riuscendo più a trattenersi. Sarebbe
stato facile, lì, in quella dimensione sospesa. Non avrebbe potuto ribellarsi,
non avrebbe potuto dare battaglia in nessun modo.
Gli occhi di ghiaccio del Negromante lampeggiarono nella sua direzione.
«Potrei prosciugare tutto il sangue che hai in corpo, sai? Mi basterebbe
schioccare le dita.» Un sorriso folle gli illuminò il viso, mentre alzava una
mano, mimando il gesto.
Marian impallidì, mentre una morsa le stringeva lo stomaco e la pelle le
si accapponava. Sapeva che diceva la verità.
Feardorcha riabbassò la mano, quasi annoiato dalla sua reazione
spaventata.
«Sei merce di scambio… per il momento mi servi viva» disse tetro.
«Quando Aleister arriverà per salvarti, gli chiederò la mappa in cambio
della tua libertà.»
Marian trattenne il fiato, cercando di dissimulare la sorpresa. Feardorcha
era convinto che fosse Aleister ad avere la mappa, non sapeva che era stata
lei a stipulare il contratto con Destino. Non sapeva che la mappa era lì con
loro, nella tasca del suo vestito!
C’era poi una certa dolorosa ironia in quella proposta di scambio per una
nuova effimera libertà. Si morse le labbra.
«A proposito, cosa gli ha chiesto Destino in cambio?» chiese
Feardorcha, una nota di curiosità nella voce.
«La… la sua corona» mentì Marian.
Il Negromante rise.
«Ne ero certo. Per questo l’ho lasciato andare avanti. Una volta che lui
avesse recuperato la mappa, mi sarebbe bastato rubarla a mia volta senza
dover pagare alcun prezzo in cambio…»
Marian tremò per la rabbia. Lei e Aleister avevano ingenuamente
pensato di essere un passo avanti a lui e invece il mago aveva previsto tutto.
Li aveva usati. Aveva sprecato la sua libertà, il suo futuro… per niente.
«Sei sicuro che Aleister verrà qui a cercarmi? È piuttosto pigro» disse a
denti stretti, incapace di tenere a freno la lingua.
Feardorcha le scoccò un’occhiata divertita.
«Andiamo… pensi davvero che ti lascerebbe indietro?»
«È abbastanza egoista per farlo» disse lei. Anche se non ci credeva
molto, sperò con tutto il cuore di avere ragione. L’Aleister che aveva
conosciuto al suo arrivo a Faerie non sarebbe mai tornato a prenderla… ma
adesso era tutto diverso. Era cambiato, e l’idea di metterlo in pericolo le era
insopportabile.
Rimasero in silenzio, immersi in quell’oscurità soffocante.
Quel nero assoluto era claustrofobico, e ben presto un senso di nausea
travolse Marian.
«Tu sei umano. Vieni dall’Altrove» boccheggiò, cercando di controllarsi,
asciugandosi la fronte imperlata di sudore. I capelli le si erano appiccicati in
faccia.
Feardorcha le rivolse un’occhiata feroce. Poi, la sua espressione mutò in
una smorfia sprezzante, gli occhi saettarono nella sua direzione.
«Te lo ha detto Aleister?» chiese freddamente.
«Girano parecchie storie su di te. Quindi è vero?»
«Nessuno ha mai avuto una tale impudenza di rivolgermi una domanda
simile.» I suoi occhi lampeggiarono, poi continuò freddamente: «Sì, sono
stato scambiato in fasce. Sono stato rapito da una fata».
Adesso che poteva osservarlo meglio a quella distanza ravvicinata,
Marian notò qualcosa nei suoi occhi che prima le era sfuggito. Sembravano
essere liquidi, le iridi parevano in continuo movimento, si scioglievano e si
ricomponevano, ancora e ancora, senza sosta. Quando Feardorcha sbatteva
le ciglia, l’incantesimo sembrava spezzarsi per poi ricominciare di nuovo.
“Deve essere stata la magia” si disse Marian. “La magia deve averlo
mutato in qualche modo, dopo tutti questi anni..
«Come osi fissarmi così?» le disse brusco. «Stai cercando qualche
traccia di umanità in me?»
Marian non si lasciò intimorire questa volta.
«È buffo, perché a guardarti bene in effetti non assomigli affatto a un
Sidhe» lo provocò. «Spogliato della tua magia, sei solo un uomo.»
Feardorcha fece una smorfia disgustata. «Non osare paragonarmi a
voi…»
Marian strinse le labbra, ma non si fermò: «Non faccio paragoni, dico
solo la verità. Fai parte anche tu del “voi” che disprezzi tanto, è inutile che
lo neghi. Sai cosa si dice nel mio mondo? Che l’ipocrita è il bugiardo più
pericoloso di tutti, perché non sa quando sta mentendo. Dovresti accettare la
realtà senza raccontarti delle menzogne, non trovi?».
Lui le rivolse un’occhiata piena di odio e veleno.
«Dimmi il tuo nome» continuò Marian.
«Lo conosci già.»
«Feardorcha? Non significa forse “Uomo oscuro”? Converrai con me
che non è il massimo dell’originalità come nome.»
«Cos’è, uno sciocco stratagemma per conoscere il mio vero nome?»
«Non sono una creatura magica, anche se mi dicessi il tuo nome
completo non saprei cosa farmene.»
Lui stiracchiò le labbra in un sorrisetto divertito.
«È da tantissimi anni che nessuno mi chiama in quel modo…»
Lei rimase paziente in attesa, continuando a sostenere il suo sguardo,
decisa a non cedere in quella prova di forza di nervi. Aveva appena perso la
sua libertà, tanto valeva andare ancora più in fondo.
«Thomas» disse lui. La voce era fredda, senza emozione. La osservava
con gli occhi privi di vita.
«Un nome piuttosto ordinario per qualcuno che desidera distruggere i
nostri mondi» commentò Marian.
«È quello che voi umani vi meritate.»
«Che noi ci meritiamo? Si può sapere cosa abbiamo fatto?»
«Io e te abbiamo molto in comune» disse il mago, ignorando le sue
domande. La stava osservando con grande attenzione.
«Credo di non avere la stessa tua inclinazione all’omicidio.»
Feardorcha si portò una mano al collo e sfilò da sotto gli abiti un
medaglione.
Marian sgranò gli occhi, incapace di nascondere la sorpresa. Era la copia
sputata di quello che aveva addosso lei. La pietra, però, era di un blu notte,
al contrario della sua, rosso sangue.
«Quando mi sei passata accanto, nella folla, quel giorno al mercato… mi
sono accorto immediatamente di cosa stavi indossando. Anche se lo celavi
sotto i vestiti, ho sentito il suo richiamo. Il mio medaglione ha iniziato a
vibrare, sentendo il tuo» le disse, con una strana risata. «È buffo, perché
sono sempre stato convinto che il mio fosse un pezzo unico… e invece ecco
un’altra mortale con il medesimo gioiello magico, uno dei tesori più
preziosi dei Sidhe. Dimmi se non è il destino che ci ha voluto unire…»
«Mi sembrava di ricordare che non credessi nel destino» ribatté Marian.
Lei non aveva percepito niente quel giorno, era troppo impegnata a
cercare Aleister in mezzo alla folla.
Feardorcha rise. «In effetti è così. Siamo noi stessi gli artefici del nostro
destino, non trovi?»
Marian toccò la fede che aveva al dito. «Sì. Sì, lo siamo» mormorò.
«Perché hai quel gioiello al collo?»
«Potrei farti la stessa domanda.»
Lui le rivolse un sorriso feroce, ma divertito. «Una fata… una vecchia e
sciocca fata si era affezionata a me. Da quando aveva assistito alla mia
nascita, si era come infatuata. Veniva sempre a spiarmi, a mano a mano che
crescevo. A un certo punto non poté più sopportare l’idea di vedermi stretto
tra le braccia della mia vera madre umana. Voleva avermi tutto per sé.
Aveva perso suo figlio e io sarei stato un sostituto perfetto. Così, decise di
rapirmi. Al mio posto lasciò un changeling e mi portò a Faerie con lei… Ma
ci fu un piccolo intoppo. Appena varcato il portale che collegava l’Altrove
con Faerie…»
«La magia nell’aria ha iniziato a farti sprofondare…» sussurrò Marian.
«…nella materia dei sogni» dissero all’unisono.
Feardorcha sorrise.
«Ma vedi, la fata aveva pensato a tutto. Sono stato sì rapito, ma sono
stato anche molto amato. Questo…» disse picchiettando l’indice bianco e
scheletrico sulla pietra «…lo aveva rubato per me, per permettermi di
rimanere qui a Faerie e sopravvivere alla magia, pur essendone tristemente
sprovvisto. Ma non è stato un problema che si è posto per troppo tempo. Ho
studiato, ho sopperito da solo alle mie mancanze… genetiche. È stato
proprio grazie agli studi che ho fatto, a quell’incredibile quantità di libri che
ho divorato che ho scoperto che il medaglione che la mia madre Sidhe mi
aveva donato era molto più di una sciocca reliquia che aveva trafugato in
qualche rudere. Era uno dei quattro medaglioni affidati ai quattro capostipiti
delle famiglie fondatrici di Faerie, gli unici medium per utilizzare
l’incantesimo più prezioso di questo mondo, l’unico che non si può né udire
né pronunciare. La parola… che incredibile fortuna. Questo medaglione, il
medium più prezioso e raro di tutta Faerie, in mano a Thomas, il bambino
umano, scambiato in culla da una fata alla disperata ricerca di un figlio.
Avevo il medaglione, dovevo solo trovare gli incantesimi, così da poter
realizzare il mio piano.»
«Perché lo fai? Perché vuoi distruggere le barriere che dividono Faerie
dall’Altrove? Così finirai per distruggerci tutti!» esclamò Marian.
«No, distruggerò solo il mondo umano, salvando Faerie» urlò
Feardorcha. Tornò poi a sorridere, cercando di ricomporsi, come se quello
scatto d’ira non fosse mai avvenuto. Sotto i capelli neri spettinati, gli occhi
brillavano feroci. Nel suo viso, contratto in una smorfia di rabbia, Marian
riusciva a scorgere sempre più la somiglianza con la sua forma bestiale.
«Troppo a lungo l’Altrove ci ha schiacciati. Troppo a lungo ci siamo
ridotti a essere vostri schiavi. Ci state rubando lo spazio, la terra… la nostra
stessa aria. Più vi espandete, voi, le vostre macchine e le vostre fabbriche…
e più noi dobbiamo farci da parte. L’intera Faerie ha iniziato a restringersi,
schiacciata dal vostro peso. Non ci state lasciando altra scelta» disse con
voce roca. «O voi, o noi. Re Oberon è un fantoccio, manovrato dal
consiglio nobiliare di Faerie. Se loro non vogliono alzare un dito per
proteggere Faerie e contrattaccare l’avanzata umana, be’, ci penserò io.»
«E Faerie non risentirà del crollo delle barriere? Come fai a esserne così
certo?»
Gli occhi di Feardorcha si accesero.
«Non farei mai niente che possa mettere in pericolo il mio mondo. Faerie
è nata per prima. Una volta che le barriere saranno crollate, schiaccerà
l’Altrove.»
«Ma l’Altrove è comunque casa tua. È da lì che vieni, come puoi pensare
di distruggerlo?»
«Non è casa mia!» gridò furente. Gli occhi emanavano bagliori, la
mascella era serrata. «Sai cos’è accaduto quando sono tornato in quella che
tu chiami “casa”? Quando ho provato a incontrare la mia vera madre?
Quando ho attraversato i confini tra i nostri mondi e sono tornato
nell’Altrove, mi sono presentato alla sua soglia. Ho trovato una vecchia
pazza con i capelli bianchi. Ho provato a dirle “Sono Thomas”, ma lei è
corsa a prendere l’attizzatoio dal fuoco e ha provato a trafiggermi» disse
con un ghigno divertito. «Continuava a ripetermi che il suo piccolo Thomas
era avvizzito… che era stato ucciso dalle fate e che io ero una creatura
malvagia, che dovevo morire… Queste sono state le parole d’amore che mi
ha rivolto mia madre.»
Marian per un po’ non rispose, provando una pena istintiva verso
Feardorcha. Sapeva che Aleister non avrebbe approvato, ma non poteva
impedirselo.
«Quanto tempo fa è successo?» chiese.
Feardorcha la guardò. Per un attimo parve smarrito, poi la solita
espressione glaciale gli indurì il viso.
«Trecento anni fa.»
Marian trattenne il respiro.
«Per questo… tu non potrai mai più tornare nell’Altrove» disse lei,
capendo solo in quel momento ogni cosa.
«Se mettessi piede nell’Altrove, i miei trecento anni mi crollerebbero
addosso, trasformandomi in polvere. Ma va bene così, non voglio tornare in
quel posto maledetto. È Faerie la mia unica casa.»
Adesso aveva capito perché Aleister aveva ordinato a Macbeth di
scappare nell’Altrove con il suo medaglione. Quando aveva intuito che
voleva mettere le mani sulle parole delle famiglie, doveva aver pensato che
Feardorcha avrebbe avuto bisogno del gioiello… senza però sapere che il
mago ne aveva già uno suo, fin da quando era bambino. Feardorcha non
avrebbe mai potuto cercarlo lì, a meno che non desiderasse diventare un
mucchietto d’ossa.
«Sei mai più tornato nell’Altrove?»
«Perché avrei dovuto? Non c’è niente lì per me. Non c’è mai stato
niente.»
Marian scattò in piedi, stringendo la mano attorno al suo medaglione.
«Invece ti sbagli! C’è così tanto da scoprire! Se solo ti avessero aiutato a
conoscere gli umani, sono sicura che avresti imparato ad apprezzarli.»
«Non ho alcun rispetto per chi distrugge e avvelena il proprio mondo. E
voi umani non avete alcun rispetto per la vita» disse lui con voce
monocorde.
«Non sono tutti così gli esseri umani» insistette Marian.
«Avete avuto la vostra possibilità, la vostra occasione. È tempo che le
cose si aggiustino, che i Sidhe tornino a essere gli unici padroni di questa
terra. Una volta che avrò abbattuto le barriere, Faerie si piomberà
sull’Altrove, divorando il mondo degli umani.» Anche il mago si alzò
lentamente in piedi, senza smettere di tenerla d’occhio. «Tutto allora si
sistemerà» mormorò.
Marian non sapeva cosa dire. Si sentiva così confusa, così perduta. Era
furiosa per quella situazione. Non riusciva a trovare le parole giuste per
spiegarsi. Se solo Thomas avesse provato ad ascoltarla! Sentiva la fede
bruciarle al dito, come una sconfitta.
«È così patetico vedere come il tuo cuore brami il suo…» le disse lui con
dolcezza.
Marian fece un passo indietro, guardandolo confusa.
«Non risponderò a questa provocazione…»
Feardorcha si voltò a osservare l’oscurità, un sorriso beffardo sulle
labbra. «È giunto, infine.»
L’oscurità accanto a Marian si squarciò, rivelando una ferita luminosa.
«Eccoti, finalmente» disse Aleister comparendo in mezzo alle tenebre.
«Ti ho cercato dappertutto.»
Marian prese al volo la mano che Aleister le porgeva.
«Ti ha fatto del male?» chiese il giovane re a bassa voce. Sorrideva, ma
Marian aveva imparato a leggere i suoi stati d’animo dietro a quelle
espressioni beffarde.
Era teso, preoccupato. Quella domanda la fece intenerire, e fu difficile
tenere a bada le emozioni.
«Non mi ha torto un capello.»
«Strano che tu ti sia comportato in maniera galante per una volta» disse
Aleister rivolgendosi al Negromante.
«Non credo lo farò più» rispose il mago con un piccolo inchino
insolente. Aprì il cappotto e dall’oscurità delle pieghe apparve Macbeth. Il
ragazzino cadde a terra, privo di sensi.
Marian lasciò la mano di Aleister e si gettò ai piedi di Feardorcha.
«Cosa gli hai fatto?» gridò, stringendo il ragazzino tra le braccia.
«L’ho solo addormentato, sta bene. Non la piantava di scalciare e
divincolarsi. Una bella scocciatura.»
«Capita quando rapisci qualcuno» commentò furente Aleister.
Feardorcha gli rivolse un sorriso feroce. «La ragazza e il tuo servitore in
cambio della mappa. Se me la consegnerai, vi lascerò andare senza farvi
male. Hai la mia parola.»
Marian si morse forte il labbro. Lei e Aleister si rivolsero un’occhiata
angosciata.
«Va bene, te la daremo, ma adesso libera Macbeth dal tuo incantesimo»
disse Marian.
«La ragazza è più ragionevole di te.»
Feardorcha le si chinò accanto. Passò una mano sul viso di Macbeth e il
ragazzino si svegliò di soprassalto, annaspando in cerca di aria, come se
avesse trattenuto il fiato fino a quel momento.
«Marian? Marian, Feardorcha è qui!» balbettò confuso, per poi
aggrapparsi a lei quando mise a fuoco il Negromante chino su di lui.
«Sssh, va tutto bene, sei al sicuro adesso» lo confortò lei.
Aleister fumava di rabbia, ancora sulla soglia dello squarcio che aveva
aperto. La luce calda che entrava dalle sue spalle, riversandosi in quella
dimensione fatta di nulla, non riusciva comunque a rischiarare il nero
assoluto in cui erano immersi.
«Ora, la mappa» sussurrò Feardorcha, allungando la mano verso
Aleister.
Marian strinse forte Macbeth che, guardandosi intorno spaesato, stava
cominciando a rendersi conto del brutto guaio in cui si trovavano tutti.
Marian si mise la mano in tasca e afferrò la mappa. La strinse forte,
mentre frustrazione e rabbia crescevano dentro di lei, facendole bollire il
sangue nelle vene. Aveva rinunciato alla sua libertà per quel pezzo di carta,
e adesso Feardorcha, anzi, Thomas, glielo voleva strappare con un orribile
ricatto.
Marian tese la mappa con uno sguardo carico d’odio.
«Ecco qui, Thomas. Goditela.»
Non avrebbe più ceduto alla paura o a quei titoli altisonanti che il
ragazzo si era scelto. Lo avrebbe trattato come meritava.
Feardorcha la fissò divertito. Non sembrava turbato da quella
provocazione. Afferrò la mappa, ma poco prima di lasciare la presa, Marian
sussurrò nell’orecchio a Macbeth una sola parola.
«Fiamme.»
Il ragazzino capì subito. Starnutì con tutta la sua forza sulla cartina,
facendole prendere fuoco.
Feardorcha allontanò istintivamente la mano appena le fiamme avvolsero
il foglio.
Marian scattò verso Aleister, con Macbeth ancora in braccio, e afferrò la
mappa con la mano libera. Il fuoco bruciava, ma non avrebbe lasciato la
presa. Preferiva vedere la mappa incenerirsi piuttosto che lasciarla a lui.
Feardorcha si sporse per provare ad afferrare Marian e la mappa, ma
Aleister investì il mago con un’ondata di fiamme, rallentandolo.
La ragazza si buttò nello squarcio della dimensione giusto in tempo,
prima che quello si richiudesse alle sue spalle.
Marian e Macbeth finirono tra le braccia di Aleister, dall’altra parte.
Erano in salvo. Per adesso.
37

«La mappa!» gridò Marian, sottraendosi all’abbraccio di Aleister. Lo


squarcio sulla dimensione oscura dove avevano lasciato Feardorcha si era
appena richiuso, dietro di loro. Gettò a terra la pergamena e la calpestò con
lo stivaletto, spegnendo le fiamme.
«Dovresti preoccuparti della tua mano, piuttosto» la rimproverò Aleister,
afferrandogliela e scuotendo la testa. Sembrava estremamente agitato. «La
mappa può aspettare.»
Marian fece una smorfia mentre il Re delle Volpi le controllava il palmo.
Le faceva male, ma non poteva fare altro che sopportare in silenzio.
«Credo che rimarrà la cicatrice» borbottò Aleister.
Marian si guardò la mano. La pelle del palmo si era sciolta, lasciando
scoperta la carne viva. La scarica di adrenalina che l’aveva attraversata
durante la fuga stava scemando e il dolore cominciava a farsi sempre più
pungente.
«Va tutto bene» mormorò, ritraendola.
Il ragazzo la fulminò con lo sguardo e, senza dire una parola, si levò la
giacca.
«Ma… cosa combini?» chiese Marian imbarazzata, mentre lui la gettava
a terra.
«Cerco qualcosa con cui bendarti.»
Aleister si portò una mano all’altezza della spalla e strappò la manica
della sua camicia.
«È così bella, è un peccato» provò a protestare lei.
«Non essere sciocca» le interruppe. «E poi ne ho un baule pieno,»
Ruppe la stoffa in strisce sottili, che usò come fasciatura. Marian lo
lasciò fare senza troppe storie. Per distrarsi dal dolore si guardò intorno.
Si trovavano sulla riva di un ruscello, all’ombra di un’enorme quercia.
Dopo essere rimasta così tanto in mezzo all’oscurità, si sentiva sollevata di
trovarsi all’aria aperta. Macbeth le teneva stretta la mano buona, assistendo
con apprensione all’operazione di bendaggio.
«Ti fa molto male?» chiese esitante.
Marian scosse la testa. «Pizzica solo un po’» mentì.
Aleister sbuffò in maniera plateale, infastidito. «Non potevi pensare a
qualcos’altro? Afferrare con le mani un fuoco magico creato apposta per
bruciare non mi sembra il più brillante dei piani.»
«Non volevo che Feardorcha mettesse le mani sulla mappa… È la prima
cosa che mi è venuta in mente» protestò lei.
«È stato scioccamente coraggioso da parte tua… ma temo che tu ti sia
fatta male per niente» mormorò dispiaciuto.
Marian lo fissò senza capire e Aleister sospirò. «Lui ha toccato la mappa,
l’ho visto con i miei occhi» spiegò. «Di sicuro troverà un modo per crearne
una copia con la magia. Anche se non l’ha vista bene, potrà usare la
memoria della sua mano.»
«La memoria… di cosa?»
«La memoria della sua mano» sbuffò lui, agitandole le dita davanti al
viso. «Grazie alla magia, potrà ricreare la mappa, perché ha avuto un
contatto, capisci? Copiare qualcosa attingendo dalla memoria di uno dei
sensi è una magia davvero complessa, avanzata, ma lui…»
Marian si sentì mancare la terra sotto ai piedi. «Non… non è vero»
gemette.
Non ci poteva credere. Di nuovo, Feardorcha era riuscito nel suo intento
senza alcuna fatica e loro avevano fallito.
Sentì gli occhi bruciarle dalle lacrime e chinò la testa. Aleister aveva
finito di fasciarle la mano.
«Quando tutto sarà finito, dobbiamo trovare qualcuno che ti medichi sul
serio.»
Marian alzò la testa, incrociando il suo sguardo.
«Quando tutto sarà finito?»
«Sì, quando avremo fermato Feardorcha.»
Marian lo guardò incredula. Ma di cosa stava parlando? Non avevano
più alcuna possibilità di farcela.
«Aleister, ma come potremmo fermarlo? La nostra mappa è in cenere,
mentre lui riuscirà a crearne una copia, lo hai appena detto tu!»
«È così» ammise lui.
«Per caso riusciresti a replicarla?» chiese mordendosi un labbro.
Aleister scosse lentamente la testa.
«Non l’ho mai toccata. Non posso copiare qualcosa di cui non ho alcun
tipo di memoria…»
«E allora? Come pensi che potremmo fermare Feardorcha?» lo
interruppe Marian.
Strinse forte i pugni, pentendosi subito di averlo fatto quando venne
attraversata da una dolorosa fitta alla mano.
«Non ci serve alcuna copia» replicò lui. Si chinò a terra a raccogliere ciò
che rimaneva della mappa. Metà della pergamena era stata divorata dalle
fiamme, i bordi anneriti si erano arricciati. «Si dà il caso che la fortuna sia
dalla nostra parte. Guarda! Si è bruciata solo la parte con il disegno del
cromlech. Quella con l’incantesimo che serve per raggiungerlo è ancora
tutta intera!»
Marian e Macbeth lo guardarono a bocca aperta mentre lui sventolava
davanti alle loro facce la mappa bruciacchiata.
«E tu che pensavi di non avere un briciolo di fortuna» aggiunse
prendendo in giro Marian.
Lei afferrò quel che restava della pergamena, ancora incredula, mentre il
cuore le batteva sempre più forte.
«Ce la possiamo ancora fare… possiamo ancora fermarlo!» sussurrò.
Si sentì invadere da un fiotto di speranza che la riscaldò. Avevano ancora
una possibilità. Potevano ancora impedire la distruzione della barriera tra
Faerie e l’Altrove.
Raccontò allora ad Aleister e a Macbeth tutto ciò che Feardorcha le
aveva detto mentre erano prigionieri dell’oscurità.
Aleister, che non aveva la pazienza di stare ad ascoltare gli altri, la
interruppe più di una volta. «Quindi è tutto vero…» commentò. «Ho sempre
avuto dei sospetti a riguardo.»
«Giravano troppe voci a riguardo, doveva esserci un fondo di verità. Lo
sapevo perfino io!» esclamò Macbeth.
«E perché non glielo hai mai chiesto?» domandò Marian.
Aleister fece una smorfia offesa. «Non so tu, ma io non sono solito
andare dalla gente a chiedergli se sono stati scambiati dalle fate in culla.»
«Avevi avuto un’ottima intuizione a mandare Macbeth nell’Altrove»
continuò Marian. «In effetti Feardorcha mi ha rivelato che non può più
andarci. Se lo facesse, i suoi trecento anni gli ricadrebbero sulle spalle in
una volta sola. Qui a Faerie riesce a contrastarli grazie alla magia, ma
nell’Altrove…»
«Nell’Altrove è un morto che cammina» finì per lei Aleister.
«Non avrebbe potuto cercare il medaglione lì. Era il posto più sicuro»
confermò Marian. «Sfortunatamente Thomas ne ha uno identico al collo e il
nostro non gli serve. È per questo che è riuscito a sopravvivere così tanti
anni qui a Faerie» spiegò Marian.
«Thomas? Che c’è, siete intimi adesso?» commentò il Re delle Volpi con
una smorfia.
«Aleister…» sospirò Marian, alzando gli occhi al cielo. «Non ho
intenzione di usare quello sciocco nome che si è scelto. Non gli darò quella
soddisfazione. Lo chiamerò e lo tratterò come mio pari, come uno
dell’Altrove.»
Aleister non riuscì a reprimere un sorrisetto sardonico. «Mi piace questa
nuova Marian. Ha la giusta dose di impertinenza e sfacciataggine…»
«Comunque ormai ha abbastanza magia da non essere più dipendente dal
medaglione come me. Lo userà come medium per sfruttare le parole
rubate» disse lei, mentre arrossiva lusingata.
«Allora proviamo a fermarlo a tutti i costi?» propose Macbeth agitando
la folta coda.
«Ovviamente.» Aleister raccolse da terra la giacca di velluto rossa e la
spolverò prima di infilarla.
Marian fece un passo in avanti e si schiarì la voce. Stava per proporgli
qualcosa che non gli sarebbe piaciuto.
«Aleister, credo che dovremmo separarci. Io farò da esca da qualche
parte, mentre tu e Macbeth andrete a sorvegliare e proteggere il cromlech.»
Aleister la guardò confuso. «Di cosa accidenti stai parlando?»
Lei respirò a fondo prima di parlare di nuovo. «Stiamo sottovalutando un
particolare importante. Thomas ha ancora il pezzo di stoffa della mia gonna.
Anche senza replicare la mappa potrà comunque identificarci e raggiungerci
senza difficoltà. Se farò da esca, potremo cercare di sviarlo e avremo più
possibilità di fermarl…»
«Oh no, non se ne parla proprio» la interruppe il ragazzo scuotendo la
testa. «Feardorcha ti sarà anche sembrato amabile e avrete fatto una
piacevole chiacchierata, ma ti ricordo che non si fa scrupoli ad ammazzare
la gente pur di raggiungere i suoi scopi. E vorrei evitare di perderti…»
«Perdermi?» chiese lei.
«Averti sulla coscienza» chiarì lui prontamente.
«E quindi cosa proponi?» chiese Macbeth.
«Lo affrontiamo. Giochiamo a carte scoperte. Arriviamo prima di lui e lo
facciamo fuori» disse con una scrollata di spalle.
«Tu e la tua spada magica?» lo incalzò scettica Marian.
Aleister diede un’amichevole pacca al fodero della spada. «Proprio
così.»
«Quanto pensi che ti farà pagare Destino per quella?» chiese Macbeth
preoccupato.
«Di sicuro un prezzo troppo alto. Ma l’ho presa in prestito per una giusta
causa! Dopotutto se affronterò Feardorcha salverò anche il suo di collo…»
«Pensi che ti sarà davvero d’aiuto?» insistette il ragazzino ancora poco
convinto.
«Ma certo. Vedrai, è sicuramente una spada magica. Se lo è davvero, le
probabilità di successo della nostra missione aumentano
esponenzialmente!»
«A me sembra una spada normalissima» borbottò Macbeth.
«E per adesso quante sono?» chiese Marian tesa.
«Le possibilità di sconfiggere Feardorcha e di salvare Faerie e l’Altrove
nel delicatissimo momento in cui i confini di tutti i mondi diventano
pericolosamente sottili?»
La ragazza annuì.
«Piuttosto alte. Credo di essere un tantino più forte di lui. E nel caso non
lo fossi… be’, stiamo per scoprirlo. Ora, Marian, mostrami
quell’incantesimo, sembra piuttosto complicato e devo studiarlo per bene.»
Marian gli consegnò la mappa.
Aleister la studiò, concentrato.
«È il portale più complesso che abbia mai visto» disse poi. Si scompigliò
i capelli, con un gesto frustrato.
L’euforia per avere scoperto che l’incantesimo era ancora integro si stava
affievolendo e Marian cominciò a sentirsi come svuotata. Fece ruotare
l’anello attorno all’anulare. Aveva scambiato la sua libertà per ottenere la
mappa, ma Feardorcha sarebbe riuscito comunque a raggiungerli e tutto per
colpa di quel minuscolo pezzetto di stoffa…
«Cos’hai?» le chiese Aleister, lanciandole un’occhiata sospettosa da
sopra la pergamena.
«Sarà tutta colpa mia se Feardorcha ci raggiungerà al cromlech» ammise
lei.
Lui aggrottò le sopracciglia. «Stai ancora pensando a quel pezzo di
gonna?»
Lei annuì, troppo mortificata per rispondere. I suoi occhi caddero
sull’anello d’oro alla sua mano sinistra. Anche lo sguardo di Aleister si
spostò sull’anello.
«Non ti ho ancora ringraziato per quello che hai fatto» sussurrò il Re
delle Volpi.
Lei si strinse nelle spalle.
«No, davvero, Marian. Sacrificarti in questo modo… per me.»
Marian scosse la testa, imbarazzata. «Volevo contribuire anche io alla
salvezza dei due mondi. Non avendo magia, ho fatto quello che mi riesce
meglio da quando sono qui a Faerie: barattare una cosa per un’altra.»
Aleister sembrava preoccupato e non aveva più voglia di nasconderlo
scherzando.
«Sei sicuro di non volermi usare come esca?» provò a insistere Marian
un’ultima volta, ma lui scosse la testa. Quell’opzione era fuori questione.
«Te l’ho detto, che tu lo voglia o no dovrai rimanere dove ti posso tenere
d’occhio. Sei una tipa a cui piace infilarsi in un sacco di guai… E
comunque usarti come esca sarebbe inutile» riprese. «Feardorcha capirebbe
al volo il nostro piano, e ci raggiungerebbe in ogni caso. Se solo non avesse
messo le sue luride mani su questa dannata mappa, sì che avremmo avuto
un vero vantaggio…» brontolò, andandosi a sedere contro il tronco
dell’albero, per studiare la pergamena con attenzione.
«Andate a farvi un giro» ordinò poco dopo a Marian e Macbeth, che
continuavano a sbirciarlo con ansia.
I due si allontanarono un po’ e presero a camminare nervosamente avanti
e indietro. Ogni tanto Aleister alzava l’indice e scriveva qualcosa nell’aria.
Apparivano allora dei simboli, bruciavano per qualche secondo e poi
sparivano.
Marian lo spiava di nascosto, mentre l’ansia le montava dentro. Quanto
tempo avevano? Feardorcha era già riuscito a liberarsi dalla dimensione
oscura? Aveva già creato una copia della mappa?
Adesso Aleister sembrava essere alle prese con un segno particolarmente
ostico. Continuava ad agitare l’indice in aria, cercando la giusta sequenza di
movimenti per ricrearlo.
«Stavo pensando…» disse Macbeth a Marian, mentre raccoglieva
qualche sasso da lanciare in acqua per distrarsi «…che potresti rimanere qui
a Faerie, una volta che le cose si saranno sistemate.» Lo disse con tono
vago, rivolgendole un’occhiata speranzosa.
Rimanere a Faerie? Era un pensiero che non aveva sfiorato la mente di
Marian neppure per un istante. Aveva sempre dato per scontato che sarebbe
tornata nell’Altrove, dopo che Aleister avesse esaudito il suo desiderio. Si
toccò l’anello al dito, facendolo roteare.
«Mi piacerebbe moltissimo poter rimanere qui con te, Macbeth… con te
e Aleister, ma devo tornare a casa. Sai cosa mi aspetta» mormorò.
«È tutta colpa di Destino…»
Marian scosse la testa. «Va bene così. Se questo è il futuro che mi
aspetta, lo affronterò sapendo che ho fatto la mia parte per aiutare le
persone a cui voglio bene.»
Il viso di Macbeth si rabbuiò. Nessuno dei due aggiunse altro, gli animi
troppo turbati di fronte a quell’inevitabile ingiustizia.
«Verrò a trovarti io, allora» borbottò alla fine il ragazzino.
Lei gli baciò i capelli rossi e le sue orecchie soffici le fecero il solletico
sulle guance.
«Pensi che potrai scegliere almeno chi sposare? Destino è stato piuttosto
vago sul vostro scambio.»
«Ha detto che dovrò sposarmi e basta…» Marian si strinse nelle spalle.
«E non potrò evitarlo in nessun modo.»
«Ma forse potresti sposare qualcuno che ami!» osservò il ragazzino.
«I miei genitori hanno altri piani per me» disse Marian con amarezza. Le
sembrò quasi di scorgere il viso di Carl Lawrence nell’acqua. Afferrò una
grossa pietra e la gettò dentro, facendo increspare la superficie.
All’improvviso le venne un dubbio. Alzò la mano sinistra davanti a sé,
l’anello che brillava sotto al sole. Di solito all’interno delle fedi veniva
inciso il nome del coniuge… Non è che forse anche nella sua…
«Non abbiamo molto tempo, Aleister» gemette allora Macbeth
rivolgendosi al Re delle Volpi.
«Sto cercando di fare del mio meglio, qui!» rispose lui aspro,
rivolgendogli uno sguardo di fuoco.
Marian abbassò nuovamente la mano e andò a sedersi accanto a lui. Non
poteva essergli di alcun aiuto, ma Aleister sembrò distendersi un poco
quando lei lo raggiunse.
«A che punto sei?» provò a chiedergli.
Lui si strinse nelle spalle, agitando di nuovo il dito per aria. «A buon
punto… ma temo che Thomas farà prima di noi.»
«Ma hai detto che ricreare una copia della mappa è una magia molto
complessa…»
«È così. Ma lui è molto bravo in questo genere di cose. Più bravo di me,
in effetti» ammise a fatica.
«Perché lo pensi?»
«Be’, io ho sempre avuto la magia. Fa parte di me dalla nascita, non mi
sono mai dovuto sforzare di affinarla. Era lì e basta, che ne avessi bisogno o
no. Feardorcha invece l’ha dovuta fare sua. È come se avesse dovuto
imparare a respirare sott’acqua. Ha studiato e si è applicato come io non ho
mai fatto. Credo che in quanto a tecnica mi sia superiore.»
«E in quanto a forza?» insistette Marian.
Lui le rivolse un sorriso. Era il suo solito sorriso storto, beffardo, e
Marian sentì la speranza montarle dentro.
«Comunque penso di aver capito! Venite, non resta che provare»
annunciò.
Si lasciarono alle spalle il fiume silenzioso e la grande quercia,
inoltrandosi in una radura dall’erba rada.
«Dove ci troviamo?» chiese Marian curiosa.
«Venivo qui quando ero piccolo, con mia madre» spiegò Aleister,
scrutando il terreno attorno, come se stesse cercando il posto giusto.
Marian stava già aprendo la bocca per chiedergli di più, quando lui le
poggiò distrattamente un dito sulle labbra. «Guai a te. Conserva le domande
per dopo, ora ho bisogno di concentrarmi.»
Aleister chiuse gli occhi e si voltò, dando loro le spalle.
Alzò le mani davanti a sé e iniziò a scrivere i simboli nell’aria. Questi
presero forma, bruciando davanti a lui. Iniziarono a volteggiare, per poi
posarsi sul terreno. Una volta terminati i simboli, fu il turno delle griglie e
dei cerchi, che il Re delle Volpi creò con ampi gesti. Le forme si fusero
insieme, andando a replicare sulla terra la stessa formula disegnata sul
pezzo di mappa superstite.
Gli ingarbugliati simboli e i cerchi adesso bruciavano dolcemente, in
attesa che Aleister aprisse il portale.
«Be’, ammetto che è stato piuttosto difficile, ma direi che ci siamo. Da
questa parte, forza.»
Il Re delle Volpi fece strada a Marian e Macbeth fino al centro esatto
dell’incantesimo. «Attenti alle fiamme.»
I due superarono i cerchi sovrapposti e i caratteri infuocati con un agile
saltello.
«Venite qua, vicini a me» ordinò Aleister.
Mise un braccio attorno alle spalle di entrambi, stringendoli. In quel
momento, le fiamme dorate scoppiarono attorno a loro. La formula si
incendiò, innalzandosi fino al cielo in una colonna di fuoco.
38

Il calore era insopportabile. Macbeth nascose il viso contro la giacca di


Aleister, e Marian si coprì il suo con la mano fasciata.
«Durerà solo un attimo.»
La voce di Aleister venne sovrastata dallo strepitio assordante delle
fiamme. Il Re delle Volpi se ne stava tranquillo, dritto come un fuso, i
capelli che gli svolazzavano attorno al viso, di un rosso brillante.
La colonna di fuoco si spense all’improvviso e l’aria si raffreddò
all’istante. Macbeth tossì, agitando la coda.
«State bene? Vestiti o pelliccia bruciacchiati? Non vi sono andati a fuoco
i capelli, vero?» chiese allegro Aleister.
Macbeth si portò preoccupato entrambe le mani alla testa. «Ce li ho
ancora?»
«Certo che sì, non lo stare ad ascoltare» lo rassicurò Marian.
Il paesaggio attorno a loro era mutato. Il portale li aveva condotti sulla
riva di un grande lago. L’aria lì era strana, diversa dagli altri luoghi che
Marian aveva visitato a Faerie. Sembrava più… spessa.
Il sole non era nella posizione in cui si trovava pochi istanti fa, quando
stavano ancora accanto al ruscello e alla quercia. Come era possibile? Il
cielo adesso era tinto di rosa, ma Marian non sapeva dire se per il
crepuscolo o per l’alba.
«Aleister… dove siamo?»
Il ragazzo scrollò la testa, dando un’occhiata in giro.
«Nel cuore di Faerie, credo. Non pensavo che esistesse davvero. Forse
siamo le prime persone a metterci piede da migliaia di anni…»
La pace e il torpore che si respiravano erano totalizzanti. Marian non era
mai stata contenta quanto in quel momento di indossare il medaglione di
Aleister. Senza, era certa che le sensazioni che aveva provato al suo arrivo a
Faerie non sarebbero state che un lieve malessere in confronto a quello che
avrebbe potuto provare lì, sulle rive del lago. Pur essendo protetta dal
medaglione, si sentiva leggermente stordita.
Anche per lei che ne era priva era evidente l’incredibile concentrazione
di magia che regnava in quel luogo. Poteva avvertirla ovunque. Era
nell’aria, densa come melassa, era nell’acqua immobile davanti a loro,
era…
Fu allora che notò l’isola.
Fluttuava nell’aria, a parecchi piedi dal centro dello specchio d’acqua
immobile.
Marian la fissò meravigliata. Lì in cima si ergeva il cromlech. Era
proprio come nel disegno della mappa: sette pallidi monoliti di pietra
disposti ordinatamente in circolo. Le punte sembravano esser state smussate
dalle intemperie e dal vento. Forse erano vecchie quanto la Terra stessa.
Marian capì subito che la magia che si avvertiva nell’aria veniva da lì. Il
cromlech ne era il fulcro.
«Che c’è? Mai visto un circolo di pietre magiche che svolazza?» scherzò
Aleister con un sorrisetto storto.
L’isola con il cromlech era collegata alla terraferma da due ponti, uno
per ogni lato, creando un effetto ottico impressionante grazie all’acqua
immobile del lago: sembrava che ci fossero due isole con due cromlech, una
sospesa in aria e un’altra subito sotto, nel riflesso del lago. Una copia
perfetta.
«Non c’è traccia di Feardorcha» constatò Macbeth. «Forse sta ancora
cercando di riprodurre la mappa.» Il ragazzino si guardava nervosamente
attorno, la coda che si muoveva irrequieta. «Cosa facciamo adesso,
Aleister?»
Il Re delle Volpi si incamminò a passo sicuro verso il ponte più vicino.
«Andiamo a proteggere il cromlech.»
«E come pensi di arrivarci?» insistette Macbeth, andandogli dietro.
Aleister gli indicò i ponti che collegavano l’isola sospesa alla terra
ferma.
«Quei cosi non sembrano molto stabili…» borbottò il ragazzino. «Hanno
tutta l’aria di poter crollare da un momento all’altro!»
«Non ha tutti i torti» si intromise Marian.
«Oh, avanti! Cosa saranno mai dei ponti pericolanti vecchi di qualche
secolo, quando stiamo per affrontare un mago umano che vuole fare
schiantare Faerie sull’Altrove per annientarlo?»
Marian e Macbeth si scambiarono un’occhiata rassegnata. «Va bene,
andiamo» dissero all’unisono.
I ponti erano massicci, larghi diversi piedi, pavimentati con larghissime
pietre chiare e con spessi corrimani.
Aleister fu il primo a mettervi piede sopra, saggiandone la solidità.
«Venite, pusillanimi. Non lasciatevi ingannare dall’aspetto…»
Macbeth lo seguì poco convinto. Marian fece ben attenzione a seguire
scrupolosamente i passi di Aleister, calpestando le pietre negli stessi punti
dove era appena passato lui.
Improvvisamente, però, il ponte iniziò a tremarle sotto ai piedi, prima
sommessamente, poi sempre più forte. Un rombo squarciò il silenzio di quel
luogo segreto e i tre vennero investiti da una violenta folata di vento.
«Cosa sta succedendo?» gridò Marian, cercando di proteggersi il viso. I
capelli le frustavano le guance.
Sopra le loro teste, il cielo iniziò a deformarsi. Le nuvole imprigionate in
quel crepuscolo perpetuo si tinsero di nero e iniziarono a volteggiare,
concentrandosi in un vortice. Da esse scaturì un fulmine, accompagnato da
un boato, che colpì la riva poco distante da dove erano arrivati con il
portale.
«È qui» disse Aleister, cercando di sovrastare l’urlo del vento.
Feardorcha era arrivato.
Che avesse usato una copia della mappa o il lembo dell’abito di Marian,
ormai non aveva più importanza. Chino a terra, un ginocchio poggiato al
suolo, era giunto al cromlech. Si rialzò lentamente, avvolto nel lungo
cappotto nero con il colletto appuntito, il viso pallido sotto i capelli
spettinati dalla tempesta, e gli occhi, quasi bianchi, che lampeggiavano.
«Eccoci tutti qui alla fine» disse, allargando le braccia verso di loro.
«Possiamo definirla una resa dei conti?» disse Aleister.
Feardorcha si strinse nelle spalle. «Se ci tieni… perché no? Non avevo
alcuna intenzione di farvi del male, soprattutto a te, Aleister. Ti ho sempre
detto che ti ammiro, e Faerie ha bisogno di persone come te… Ma se ti
metterai in mezzo, sappi che non mi tirerò indietro.» Poi si rivolse verso
Marian, con un ampio sorriso: «Non trovate che sia un po’ ironico il fato?
Non uno, ma ben due esseri umani che si trovano a calpestare questo luogo
sacro… il luogo dove è nata tutta la magia che ha creato l’universo».
Aleister poggiò una mano sull’elsa della spada che teneva appesa al
fianco.
«Be’, a questo possiamo porre rimedio: iniziamo facendo scendere il
numero di umani a uno… Spero che non ti offenda, ma scelgo di salvare
Marian.»
Feardorcha gli rivolse uno sguardo feroce. «Sei uno sciocco, Aleister.
Non capisci che sto facendo tutto questo per salvare Faerie? Non dovresti
fermarmi, dovremmo essere alleati. Lo sai che dovresti stare qui al mio
fianco!»
«Distruggere l’Altrove non mi sembra un piano accettabile.»
Il Negromante scosse la testa, frustrato. «Perché mostrare pietà per chi
non la prova per noi? Pensi che sia giusto rimanere fermi ad aspettare che ci
annientino? Il progresso degli umani non si fermerà, anzi, il contrario!
Peggiorerà e basta… Ci stanno schiacciando, Aleister» urlò, tremante di
rabbia.
«Non è questa la soluzione, non lo capisci?» gridò Aleister di rimando.
«Thomas, loro non lo sanno!» intervenne Marian correndo lungo il
ponte, verso la riva.
Il Re delle Volpi si allungò per fermarla, ma lei svicolò.
Il viso pallido di Feardorcha si girò verso di lei. Gli occhi di ghiaccio
lampeggiarono furiosi.
«Che cosa non sanno?»
«Le persone nell’Altrove non sanno cosa sta accadendo qui a Faerie, non
sono consapevoli di quello che stanno facendo al vostro mondo… Ma
possiamo trovare un modo per impedirlo» disse Marian. Era scesa dal ponte
e si trovava a pochi metri dal mago.
Feardorcha scoppiò a ridere. La sua era una risata bassa, pericolosa.
«Pensi che se lo sapessero cambierebbe qualcosa? Tu dovresti conoscere
la loro vera natura… Gli umani sono vigliacchi, egoisti. Anche messi di
fronte alla verità, non si farebbero scrupoli: sceglierebbero se stessi,
condannandoci a morire soffocati, gli uni sugli altri. Non permetterò che
distruggano il nostro mondo. Non gli permetterò di ucciderci.»
«Le tue ragioni sono giuste, Thomas, e le comprendo… ma sono sicura
che esistano altri modi» provò a dire Marian, avvicinandosi con cautela.
«Cerchiamo di trovare una soluzione, insieme. Collaboriamo per salvare
Faerie.»
Alle sue spalle, Aleister e Macbeth la osservavano agitati avvicinarsi al
Negromante. Aleister strinse la presa attorno all’elsa della spada, facendo
impallidire le nocche della mano.
Feardorcha rivolse alla ragazza un’occhiata piena di compassione. «Hai
visto, Aleister? Persino lei capisce le mie ragioni. Ma è vittima di
un’inguaribile ingenuità a cui dovremo porre rimedio…» Si voltò verso il
Re delle Volpi, una nuova smorfia sardonica che gli deformava il viso
spigoloso. «Questo è l’unico modo. Ho cercato, ho studiato… Ma non resta
altro da fare. Sono sicuro che conoscerai la profezia.»
«“Nel giorno dei morti, quando i confini dei mondi si assottigliano,
l’Altrove e Faerie diventeranno un tutt’uno”» mormorò Marian.
Gli occhi di Feardorcha brillarono accesi da una luce di follia.
«Quando l’ho scoperto è come se tutti i tasselli fossero tornati al loro
posto. Avevo appena saputo dell’esistenza delle parole custodite dalle
famiglie fondatrici e il loro scopo… Pensai che fosse un segno. E poi?
Sapete cos’altro è venuto fuori? Che il medaglione che ho sempre avuto al
collo è uno dei cimeli più importanti di tutta Faerie. Uno dei quattro che
permettono l’utilizzo dell’incantesimo che non può essere pronunciato né
udito. Era perfetto. Era un segno.»
«Per essere uno che non crede nel destino vedi un po’ troppi segni»
commentò Aleister.
«Che cos’altro potrebbero essere, allora?» chiese brusco Feardorcha.
«Coincidenze» rispose tagliente il Re delle Volpi.
Il Negromante scosse la testa. Il suo sguardo si spostò sul cromlech in
cima all’isola.
«Conosci la profezia, non c’è nulla che potrai fare per impedire che si
compia.»
«Magari non si riferisce a questo giorno dei morti. Ne sono passati
parecchi senza che accadesse nulla, sono sicuro che potremo superare la
giornata senza intoppi se ci impegniamo…» suggerì Aleister.
Feardorcha lo fulminò con lo sguardo. La mascella era contratta, gli
occhi vennero attraversati da un’ombra rossa. «Ho sperato fino all’ultimo di
averti come alleato… Ma se non sei con me, sei contro di me.»
«Cerchiamo di ammazzarci come gente civile, almeno» propose il Re
delle Volpi.
Il mago sembrò soppesare l’offerta. «Mi sembra una soluzione onesta.»
Il cielo sereno del crepuscolo venne squarciato da un fulmine, che si
abbatté sul ponte. Le nubi nere, che si erano diradate all’arrivo del mago, si
ammassarono nuovamente e il vento iniziò a levarsi.
Marian era caduta a terra, sbalzata via dall’esplosione quando il fulmine
aveva colpito la pietra. Provò a tirarsi su, ma venne investita da una raffica
che le tolse il fiato. I capelli le sferzavano il viso e una pioggia ghiacciata
iniziò a precipitare dal cielo, divenuto nero come la notte.
Feardorcha era ancora lì davanti a lei, avvolto dal suo manto di oscurità
che stava calando sul cromlech e sul lago.
«Marian, vieni qui!»
La voce di Aleister le sembrò giungere da lontano. Si voltò e lo vide
allungarsi verso di lei, insieme a Macbeth.
«Presto! Afferra la mia mano.»
La base del ponte che lo collegava alla riva era crollata colpita dal
fulmine, ma con il giusto slancio sarebbe riuscita a salire.
Il vento si faceva sempre più forte. Marian corse lungo la riva e spiccò
un balzo. Allungò le mani e Aleister e Macbeth la afferrarono, aiutandola a
issarsi sul ponte.
Aleister, i capelli bagnati incollati al viso, le sorrise.
«Molto nobile da parte tua provare a farlo ragionare, ma la prossima
volta evitiamo, va bene?»
«Valeva la pena fare un tentativo» sospirò Marian scoraggiata.
Un nuovo fulmine si abbatté sul ponte, poco distante da loro.
«La mia è una magia di fuoco e noi volpi non andiamo molto d’accordo
con l’acqua…» disse Aleister con una smorfia infastidita. «Per questo il
vigliacco ha scatenato una tempesta!»
«Che cosa facciamo?» chiese Macbeth, zuppo.
«Cerchiamo di tenerlo il più lontano possibile dal cromlech» borbottò
Aleister.
Si alzò in piedi, mentre la pioggia e il vento si abbattevano contro di lui.
Allargò le braccia e chiuse gli occhi.
La terra cominciò a tremare e si spaccò seguendo la riva del lago. Dalla
faglia che circondava lo specchio d’acqua, si alzò un enorme muro di
fiamme, nascondendo alla vista il Negromante. Il lago, l’isola sospesa e il
cromlech vennero avvolti da una nube di vapore prodotta dal violento
scontro tra fiamme e pioggia. Una scarica di fulmini colpì il lago, facendo
ribollire l’acqua. Dietro al muro di fuoco, Feardorcha continuava ad
alimentare la tempesta.
Le fiamme magiche continuavano a bruciare, innalzandosi sempre più
alte nel cielo, scontrandosi con le nubi. L’impatto fu così forte che Marian e
Macbeth vennero sbalzati contro il parapetto del ponte. Persino Aleister,
investito dalla raffica, fu costretto ad arretrare, mentre l’aria veniva spaccata
dall’assordante rombo di un tuono.
La pioggia cessò all’improvviso, la superficie del lago tornò calma.
L’unico suono che si poteva udire ora era lo strepitio delle fiamme.
Il Re delle Volpi si voltò verso Marian e Macbeth.
«State bene?»
I due si rimisero in piedi, zuppi.
«Tutto bene» disse Macbeth mentre si strizzava la coda.
Aleister allungò la mano verso Marian cercando la sua. Quando la trovò,
le loro dita si intrecciarono.
«Le tue fiamme non mi terranno lontano.» La voce di Feardorcha
risuonò forte e chiara, come se si fosse trovato accanto a loro.
Aleister fece segno a Marian e a Macbeth di proseguire lungo il ponte,
verso l’isola sospesa.
«Be’, se vuoi avvicinarti, ho una spada pronta ad accoglierti!» lo
provocò il Re delle Volpi correndo insieme ai suoi compagni.
Arrivarono in cima al cromlech. L’isola era più grande di quanto
sembrasse vista dal basso e i sette monoliti ancora più massicci e imponenti.
Da lì sopra potevano scorgere tutto il lago e l’anello di fuoco che lo
circondava.
Marian individuò subito il punto in cui si trovava Feardorcha. Lo poteva
scorgere, al di là delle fiamme. Una presenza scura che deformava le lingue
dorate.
«Davvero? Una spada?»
«Una spada magica» disse tronfio Aleister, sguainandola.
«Povero me, come farò?» lo canzonò Feardorcha.
E un attimo dopo apparve tra le fiamme. Le attraversò senza bruciarsi.
Aleister rimase interdetto.
«Ma come fa a…» bisbigliò Macbeth.
Il mago si picchiettò la tempia con un dito pallido, gli occhi dello stesso
rosso delle braci.
«Aspetta, mi è venuta un’idea.» Unì i palmi delle mani davanti a sé e
venne circondato da un reticolo di fulmini. Quando le separò, davanti a lui
apparve un libro.
«Oh no…» gemette Aleister.
«Cosa succede?» chiese Marian preoccupata.
Feardorcha tese il braccio destro sopra al libro. Sulla mano brillava il
sangue fresco di una ferita che gli attraversava il palmo in una diagonale. Il
sangue scorse sulla copertina del tomo.
«Ha appena evocato il suo grimorio, il suo libro magico…» sussurrò
Macbeth inorridendo.
Il libro si aprì e le pagine iniziarono a scorrere, sempre più veloci,
macchiate dal sangue che colava lento dalla mano di Feardorcha.
«Ti sei davvero spinto così in basso da usare la magia del sangue?» gridò
Aleister.
«Pensavi che mi chiamassero “negromante” per caso? Continuare a
sottovalutarmi, Re delle Volpi, sarà la tua rovina.»
Le pagine del libro si arrestarono e Feardorcha allargò le mani,
abbracciando con un gesto lo specchio d’acqua.
Il lago iniziò a ribollire. Qualcosa si agitava sotto il pelo dell’acqua…
Una mano emerse e si aggrappò alla riva. La carne era stata fatta a
brandelli, lembi di pelle penzolavano tra le dita come un vestito strappato.
«Ma quelli…» Marian non riuscì ad aggiungere altro. Si portò una mano
alla bocca inorridita.
«Sì, sono cadaveri» mormorò Aleister.
39

I corpi continuavano a emergere dall’acqua. Si accalcavano gli uni sugli


altri, un ammasso di carne morta che si agitava cieca e sorda. Le ossa
spuntavano dalla pelle lacerata e in putrefazione.
Il Negromante li osservava, il viso contorto in una selvaggia smorfia di
trionfo.
«Avrei usato gli hobgoblin, ma quelle creature sono troppo stupide per
poter arrivare fino a qui. Mi sono dovuto arrangiare.»
Marian e Macbeth osservavano la scena atterriti.
«Cosa facciamo adesso? Cosa facciamo?» mugolò il ragazzino in preda
al panico.
Aleister rivolse un’occhiata disgustata ai corpi che il lago continuava a
vomitare. Avevano iniziato a strisciare verso l’isola.
«Potremmo far crollare l’altro ponte intanto, giusto per rendergli le cose
più difficili» propose Marian.
Aleister le rivolse un’occhiata raggiante. «Questa mi sembra una
splendida idea.»
Corse verso il ciglio del ponte e poggiò la mano sulle pietre che lo
collegavano all’isola. I cadaveri stavano già strisciando verso di loro. I
corpi martoriati disseminavano ossa, brandelli di pelle e viscere mentre i
teschi fracassati li fissavano con le orbite vuote.
Aleister fece fluire la magia dalla punta delle dita e in un istante la malta
che teneva insieme le pietre del ponte si polverizzò. La struttura crollò nel
fiume, schiacciando i cadaveri che stavano sorgendo dalle acque.
Feardorcha, ancora sulla riva, fece sparire il grimorio tra le pieghe del
suo lungo cappotto e si incamminò con calma. Fece un passo verso la
superficie del lago e il suo piede, invece di affondare, si posò sulla testa di
un cadavere. Continuò la traversata verso l’isola sospesa, usando i corpi
galleggianti come appoggio.
«Adesso basta giocare e nascondersi» sibilò. Aprì il palmo e dallo
squarcio sanguinante sgorgò un nuovo fiotto di sangue. Sembrò indurirsi
all’istante, acquistando la forma di un’arma. Ora stringeva in pugno una
lama vermiglia, lucente, creata con il suo stesso sangue.
I corpi sotto i suoi piedi iniziarono a moltiplicarsi, impilandosi l’uno
sull’altro, sollevandolo verso l’isola fluttuante.
«Arriva…» sussurrò Aleister, sfoderando la spada. Si voltò verso Marian
e Macbeth, il viso teso. «State indietro, voi due, nascondetevi dietro le
pietre.»
«Ma come facciamo con quello?» chiese Marian gettando un’occhiata al
ponte traballante che il Negromante aveva colpito con i suoi fulmini. I corpi
continuavano a moltiplicarsi e minacciavano di raggiungere l’isola.
«Possiamo occuparcene noi» esclamò Macbeth risoluto, prendendo la
mano della ragazza.
«Ci conto, allora» annuì Aleister prima di voltarsi, pronto a fronteggiare
Feardorcha.
Dalle sue mani avevano iniziato a scaturire delle scintille dorate. Il Re
delle Volpi inspirò a fondo, calmandosi, mentre il vento gli scompigliava i
capelli e dal basso arrivavano i versi mostruosi dei morti. Stava
risvegliando la magia dentro di sé. Per la prima volta nella sua lunghissima
vita, era certo che ne avrebbe avuto bisogno fino all’ultima goccia. La sentì
imperversare dentro di lui, corrergli nelle vene, montare come una
tempesta.
Marian lo guardò con il cuore in gola. Aleister aveva iniziato a
risplendere. Adesso non erano solo le sue mani a brillare… traboccava
magia, come se il suo corpo non riuscisse più a trattenerla.
«Andrà tutto bene» disse Macbeth, stringendo forte la mano di Marian.
«Farà qualsiasi cosa per difenderci.»
La ragazza gli rivolse uno sguardo spaventato. «Sì, ma chi proteggerà
lui?» mormorò.
Un verso raccapricciante li fece sussultare. I cadaveri erano giunti. Si
erano arrampicati gli uni sugli altri, scalando la pila di corpi che il lago
generava senza sosta. Le acque nere e torbide continuavano a ribollire,
avvelenate dalla magia del sangue di Feardorcha. Avevano raggiunto il
fianco dell’isola e adesso solo Marian e Macbeth potevano tenerli a bada
mentre Aleister affrontava il mago.
Il ragazzino tese le mani e dalle dita proruppe una breve, seppur intensa,
fiammata. I primi cadaveri rantolarono mentre prendevano fuoco e si
disfacevano. I teschi rotolarono giù dalle spalle, la carne ancora attaccata
alle ossa bruciò all’istante, le ossa si frantumarono. Ma i primi corpi della
fila furono ben presto sostituiti da nuovi cadaveri.
«Non ho niente con cui difendermi!» gemette Marian, guardandosi
attorno. Ai suoi piedi era rotolato un braccio scheletrico. Era bianco e
lucido, privo di carne o muscoli.
Marian trattenne il respiro e raccolse il braccio da terra, impugnandolo
come una mazza.
Una nuova orda di cadaveri arrivò strisciando, a sostituire quella appena
abbattuta dal fuoco di Macbeth.
«Dobbiamo riuscire a far crollare anche questo ponte, solo così potremo
rallentarli!» gridò Marian. «Sono troppi per poterli contrastare.»
Aveva iniziato a colpire i morti viventi usando il braccio e calciando
oltre il bordo i corpi putrefatti, ma ogni volta che ne fermava uno, quello
veniva sostituito da altri due.
Il lato destro dell’isola era quello più scoperto. Il ponte colpito dal primo
fulmine di Feardorcha era ancora quasi del tutto integro e i corpi erano
riusciti a salirci senza difficoltà.
«Vieni, Marian!» gridò Macbeth. Arretrò dal ponte, tornando sull’isola.
Poggiò entrambe le mani a terra e chiuse gli occhi, il viso teso in
un’espressione sofferente. Dalle sue dita proruppero delle fiamme scure,
che invece di innalzarsi in alto, come il cerchio protettivo di Aleister,
entrarono nella profondità della terra. «Attenta!» disse a Marian facendole
segno di farsi da parte. Aveva la fronte imperlata di sudore, le braccia
tremavano per lo sforzo.
La terra, dapprima immobile e silenziosa, iniziò a tremare con un rombo
cupo. Il ponte traballò, poi si inclinò su un lato, ma sembrò resistere alla
scossa. I corpi striscianti che lo stavano attraversando si andarono ad
ammassare contro il parapetto.
«Non cade…» mormorò Marian spaventata.
Un attimo dopo, il peso dei cadaveri contro il parapetto ruppe il precario
equilibrio su cui si reggeva e il ponte crollò in acqua alzando spruzzi fin
sopra all’isola galleggiante.
Marian si voltò verso Macbeth entusiasta. Il ragazzino le sorrise, poi
crollò a terra.
«Macbeth!» gridò la ragazza, inginocchiandoglisi accanto.
Lui cercò di rimettersi in piedi, pallido, con lo sguardo annebbiato. «Sto
bene, mi devo solo riposare.»
Marian lo prese tra le braccia e lo portò al riparo dietro uno dei monoliti
centrali del cromlech.
«Rimaniamo qui fino a che non ti sentirai meglio» disse, facendolo
sedere con la schiena contro la roccia.
Il ragazzino non si mosse. Era svenuto.
Marian si morse il labbro, indecisa sul da farsi. L’altro lato dell’isola
sembrava libero dai morti. Feardorcha doveva aver concentrato le sue
energie per arrivare da Aleister.
“Aleister” pensò, mentre il cuore iniziava a martellarle nel petto. Si
affacciò oltre la roccia e lo vide.
Stava calando un colpo contro Feardorcha, la mascella serrata per lo
sforzo. Il clangore delle spade le fece accapponare la pelle.
La lama rossa del negromante brillava di luce propria. Sembrava un
fiotto di sangue denso che schizzava in ogni direzione in un attacco serrato.
Aleister parò un colpo della lama dell’avversario facendola correre fino alla
guardia. Il viso del Re delle Volpi adesso era a una spanna da quello del
Negromante.
Feardorcha sorrise. Aleister guardò in basso appena in tempo per vedere
la lama di sangue tornare liquida e passare la guardia dell’elsa, diretta verso
la sua mano.
Saltò all’indietro, cercando di disimpegnarsi, ma Feardorcha proseguì
con il suo contrattacco, tempestandolo di colpi.
Il Re delle Volpi continuò ad arretrare, muovendosi veloce, parando con
eleganza i colpi. La spada di sangue lo aveva preso in contropiede, ma ora
sapeva cosa aspettarsi dal suo avversario. Era calmo, al contrario di
Feardorcha che stava diventando sempre più impaziente.
Il Negromante diresse un fendente alla testa di Aleister, che però si
lasciò cadere e rotolò di lato. Si rialzò e si allungò cercando affondare la
lama nel fianco di Feardorcha, che si mise agilmente fuori dalla sua portata,
scartando di lato.
Gli occhi del mago si infiammarono e, stringendo il pugno davanti a sé,
fece piovere dei cadaveri dal cielo. Quelli si schiantarono al suolo con uno
schiocco di ossa rotte e di suoni umidi di carne e viscere che esplodono. I
morti cercarono di rimettersi in piedi, strisciando verso Aleister. Lo
afferrarono, nel tentativo di immobilizzarlo in un abbraccio mostruoso.
Marian gemette, piena di orrore, coprendosi la bocca con le mani.
Il Re delle Volpi non si scompose. Rivolse un’occhiata rabbiosa al suo
avversario, prima di iniziare a bruciare. Il fuoco lo avvolse, carbonizzando i
morti che rantolarono via tra le fiamme. Allungò la mano sinistra verso il
mago e gli puntò l’indice contro, ancora immerso nelle fiamme.
«Vediamo di toglierti questo giocattolino» disse a denti stretti.
Il cappotto di Feardorcha prese fuoco. Il Negromante si passò una mano
sul petto, convinto di poter spegnere le fiamme, ma quelle continuarono a
bruciare.
Aleister, approfittando della distrazione dell’avversario, scattò in avanti
e affondò la lama nella stoffa scura.
Feardorcha sparì, lasciando che il cappotto si afflosciasse, trafitto dalla
spada. La stoffa prese a sgorgare sangue, come una ferita aperta.
«Ecco fatto» disse Aleister, sfilando la lama. Il cappotto cadde a terra, in
una pozza vermiglia. Con la punta dello stivale lo scostò, rivelando il
grimorio che continuava a sanguinare come un corpo ferito.
Immediatamente l’acqua smise di ribollire. I corpi sparirono, affondando
nelle profondità del lago. I resti di carne e ossa che avevano raggiunto
l’isola si ridussero in polvere.
Feardorcha ricomparve, gli occhi fiammeggianti, il viso pallido che
tremava di rabbia. «Pensi di avermi sconfitto?»
Le fiamme che avvolgevano il corpo di Aleister cominciarono a
diradarsi.
«Non ancora, ma sto per farlo.»
Si tuffò di nuovo contro il Negromante con uno scatto veloce, la spada
che baluginava alla luce delle fiamme morenti. Lo tempestò di fendenti
eleganti e precisi, uno dietro l’altro.
Feardorcha sembrò, per la prima volta, in difficoltà. Continuava a parare
i colpi con la lama di sangue, ma i suoi movimenti erano sempre più lenti,
sempre più in ritardo.
Marian trattenne il respiro. Il Re delle Volpi stava per avere la meglio,
poi… fece un errore.
Aleister incrociò lo sguardo della ragazza e si distrasse.
Feardorcha ne approfittò. Calò con forza un fendente con due mani,
mirando al collo. Aleister ebbe la prontezza di alzare la spada, riuscendo in
parte a parare il colpo. La lama di sangue si fece liquida, superò quella del
Re delle Volpi e affondò nella spalla. Aleister assecondò il movimento per
non farla penetrare oltre e cadde all’indietro sbattendo contro uno dei
monoliti. Provò a rialzarsi, ma crollò di nuovo a terra, stordito dal dolore.
Marian gridò e corse verso di lui, uscendo allo scoperto e abbandonando
Macbeth e il suo nascondiglio.
Aleister sollevò il viso verso Feardorcha.
«Stai giù» intimò il Negromante prima di portarsi una mano alla gola e
tirare fuori dalle vesti il medaglione con la pietra blu. «Finiamola qui,
Aleister. Io vinco e tu torni a fare quello che ti riesce meglio: scappare»
disse sprezzante. Strinse la presa attorno al gioiello e si diresse verso il
centro del cromlech.
«Sei ferito!» sussurrò Marian ad Aleister, guardando il punto in cui era
affondata la spada di sangue di Feardorcha, mentre lo aiutava a rimettersi in
piedi.
Il ragazzo era pallido ma le sorrise. «È solo un graffio.» Si toccò il
braccio, ma quando ritrasse la mano scoprì che era sporca di sangue. «Va
bene, forse è un po’ più di un graffio, ma ti assicuro che sto bene. Tu,
piuttosto, come stai? Macbeth?»
Marian scosse la testa.
«Stiamo entrambi bene… Aleister, basta, basta così. Basta fare il re
coraggioso, possiamo andarcene se vuoi» gli disse angosciata. Guardò verso
Feardorcha. Si era seduto al centro del cromlech, il viso nascosto dai
capelli, bisbigliava qualcosa.
«Non mi importa più se l’Altrove verrà distrutto. Non voglio che tu
muoia» lo pregò.
Aleister le sorrise, scuotendo la testa. «Se scappassi adesso, che figura
farei? Proprio con te poi, che hai rinunciato al tuo futuro per salvarci tutti.»
Marian sentì le lacrime scorrerle sul viso. «Oh, al diavolo, Aleister. Al
diavolo tutti. Non posso sopportare l’idea di perderti!»
Il sorriso di lui si fece più grande. «Sai, mi sono sempre chiesto perché la
vita fosse considerata così bella. In tutti questi anni ho cercato di capirlo…
Ho letto poesie e libri di entrambi i mondi, ho ascoltato canzoni… Ho
cercato così a lungo di comprendere cosa fosse questa bellezza per cui tutti
si struggevano così tanto, senza mai riuscirci davvero… Poi sei arrivata tu e
all’improvviso tutto mi è sembrato chiaro.»
«T-tu stai vaneggiando» balbettò Marian.
«Sto cercando di dirti che ti amo, cercando anche di essere romantico per
quanto la situazione lo permetta. Smettila di interrompermi e apprezza il
tentativo!»
«Se mi stai prendendo in giro, Aleister, se questo è uno dei tuoi soliti
scherzi, giuro che ti uccido.»
«Mai stato così serio in vita mia.»
Marian si alzò in punta di piedi e lo baciò. Lui le avvolse il braccio
buono attorno alla vita e la strinse forte.
Quando si staccarono, Aleister le rivolse la più tenera delle occhiate,
sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Sei la persona più incredibile che io abbia mai conosciuto e il fatto che
tu sia così inconsapevole della tua forza, di quello che sei, di quello che
vali… be’, mi fa arrabbiare. Vorrei che tu riuscissi a vederti come ti vedo io,
almeno per una volta.»
Marian si commosse, sentendo quelle parole. Sapeva che Aleister stava
dicendo la verità. Lui era l’unico che fosse mai riuscito a vederla davvero
per quello che era, per quello che poteva fare.
«Ho sempre pensato la stessa cosa di te, è per questo che non avrei mai
potuto permettere che tu rinunciassi alla tua corona… non adesso che
finalmente hai trovato la tua strada.»
Aleister la guardava raggiante e Marian si chiese se il suo cuore fosse
abbastanza grande da contenere tutto l’amore che provava per quel ragazzo
sciocco e viziato.
«Sono sicuro che grazie a questo bacio, riuscirò a vincere» disse Aleister
con un sorriso sardonico sulle labbra.
«Non metterti a fare l’eroe adesso.»
«È nella mia affascinante natura esserlo.» Lanciò un’occhiata
preoccupata in direzione di Feardorcha.
Il Negromante si era rialzato in piedi e si guardava attorno smarrito, il
medaglione stretto in pugno.
Stava succedendo qualcosa.
Aleister, con uno sforzo, agguantò Marian, prendendola in braccio.
«Cosa fai?» strillò lei colta alla sprovvista.
«È per il tuo bene, quindi ricordati di non odiarmi.»
Senza che lei potesse replicare, la lanciò via, facendola volare oltre le
sponde dell’isola fluttuante, verso le acque fredde del lago.
40

Marian precipitò nel lago e venne inghiottita dal riflesso dell’isola che si
specchiava sulla superficie. Chiuse gli occhi e trattenne il fiato, ma invece
di andare a fondo come si sarebbe aspettata… riemerse.
Il sotto si era trasformato nel sopra, il cielo aveva preso il posto della
terra e lei, in qualche modo, era passata dall’altra parte dello specchio
d’acqua. Lo aveva attraversato, come fosse un portale.
Sbatté gli occhi confusa, con un lieve senso di vertigine dovuto a quel
cambio di prospettiva. Il paesaggio era diverso ora. Il lago in cui avrebbe
dovuto precipitare era una pozza d’acqua poco profonda. Davanti a lei c’era
il cromlech. Sopra la sua testa si alzava una cupola di luce a protezione di
quel luogo, un intricato groviglio di raggi che formavano una gabbia. Come
se fosse una barriera…
Marian capì dove si trovava. Era quello il vero cromlech, nascosto nel
riflesso dell’isola sul lago.
Nuotò fino alla riva e si issò. I sette enormi monoliti erano disposti in
cerchio, ma invece di trovarsi sull’isola sospesa, si ergevano su una terra
brulla.
Si avvicinò con cautela, affascinata. Le pietre sembravano emanare
energia. Allungò una mano, ne sfiorò una e si sentì pervadere da uno strano
formicolio che le fece tremare il braccio.
Che cosa doveva fare? Doveva avvertire Aleister? O era meglio lasciare
che Feardorcha fallisse, cercando di abbattere la barriera nel finto
cromlech?
E se avesse fatto del male ad Aleister mentre lui provava a fermarlo?
«Pensa, Marian, pensa» si disse.
Uno sciabordio d’acqua alle sue spalle la fece sobbalzare. D’istinto, si
nascose dietro al monolite.
Dalla pozza, uscì Feardorcha. Si mise subito in piedi, passandosi una
mano sulla fronte per scostare i capelli neri e scoprire il viso pallido
illuminato da un’espressione di incredulità e gioia.
«Ecco… ecco perché non funzionava!» sussurrò, mentre sulle labbra gli
si allargava un sorriso.
Si avvicinò lentamente, gli occhi rossi che perdevano colore, tornando
del loro azzurro ghiaccio originale. Ora sembrava più umano che mai.
Marian si portò alle labbra la mano bendata, cercando di non emettere un
fiato. Si schiacciò contro il monolite, sentendo i suoi passi farsi sempre più
vicini.
Dove era Aleister? Perché Feardorcha era arrivato lì da solo?
Marian si sentì mancare la terra sotto ai piedi. Gli era forse accaduto
qualcosa?
Feardorcha era al centro del cromlech, la ragazza sentiva il suo respiro
affannoso.
«Per Faerie…» mormorò. Abbassò il viso e baciò la pietra blu del suo
medaglione.
Il petto del mago aveva iniziato a brillare e Marian sapeva cosa stava per
succedere.
Il negromante avrebbe usato le parole rubate. Avrebbe fatto crollare le
barriere di Faerie.
Venne travolta da un’ondata di sconforto e terrore. Ma cosa poteva fare
per cercare di contrastarlo?
Feardorcha venne scosso da forti tremori. Si piegò su se stesso, mentre
vomitava le parole. Cadde in ginocchio, ansimando per lo sforzo. Lo
scontro con Aleister doveva averlo sfinito.
Gli incantesimi volteggiarono in aria davanti a lui, brillando tenui.
Fu allora che a Marian venne un’idea. Era una totale follia, ma cos’aveva
da perdere ormai? Si portò una mano al collo, toccando il medaglione
nascosto sotto ai vestiti. Poteva funzionare…
Non ci pensò troppo, agì e basta.
Uscì allo scoperto, il braccio teso verso le piccole e pallide sfere di luce.
Feardorcha sgranò gli occhi, incredulo. Quando si slanciò in avanti, nel
tentativo di fermarla, era ormai troppo tardi. Marian stringeva già tra le
mani una parola. Se la portò alle labbra e la ingoiò.
«Che cosa fai?» gridò lui.
Marian si sforzò di deglutire la sfera. Tra le mani le era sembrata
incorporea, ma adesso nella sua gola era fin troppo reale.
«Quello che andava fatto» ribatté senza fiato.
Si sentiva strana, come se avesse appena ingoiato la tazza di tè più calda
della sua vita. Sentiva il calore irradiarsi dal suo stomaco, in ondate
dolorose, per tutto il suo corpo. Provò una fitta al petto e alla pancia e si
piegò, appoggiandosi al monolite più vicino.
«Ora dovrò ucciderti per riprendermi la parola» ringhiò il Negromante,
mentre attirava a sé gli incantesimi rimasti. Gli occhi erano tornati rossi e
bruciavano folli di rabbia. Dallo squarcio sulla sua mano gocciolò nuovo
sangue fresco, che si tramutò ancora una volta nella spada dalla lama rossa.
Marian, ansante e ancora piegata in due per il dolore, cercò una via di
fuga.
A passi incerti tentò di scappare verso la pozza d’acqua, ma la mano di
Feardorcha calò su di lei, fermandola. Con una forza mostruosa la sollevò
in aria, spingendola contro un monolite del cromlech. L’impatto contro la
dura pietra le tolse il respiro. Cadde riversa a terra, nella polvere.
«Non osare toccarla!» gridò il Re delle Volpi.
Marian boccheggiò, guardando in direzione dell’ingresso della
dimensione segreta. Aleister era appena emerso dalla pozza, la spada
sguainata, i capelli bagnati appiccicati al viso e il braccio ferito.
«Che cosa le hai fatto?» abbaiò in direzione di Feardorcha. Sembrava
fuori di sé.
Feardorcha gli rivolse un’occhiata velenosa.
«Ha ingoiato una delle parole. Adesso dovrò sventrarla per
riprendermela.»
Aleister corse verso di lui come una furia. Le braccia gli presero fuoco
all’istante e lo colpì con tutta la sua forza, sbalzandolo al di là del cromlech.
Poi si chinò su di Marian. «Sei ferita?» chiese con apprensione Aleister,
cercando di sorreggerla.
«Non sono mai stata così felice di vederti» mormorò lei.
«Maledizione, Marian! Perché ti cacci sempre nei guai?»
«Se sono finita qui è solo per colpa tua!» protestò lei. Una nuova fitta al
petto la fece piegare su se stessa. Si sentiva le viscere in fiamme.
«Sì, ma ingoiare un incantesimo così potente! Cosa ti ha detto il
cervello? E come accidenti fai a essere ancora viva?»
Marian si portò una mano al collo e tirò fuori dal vestito il medaglione,
sorridendo.
«Più furba di una volpe» sogghignò Aleister.
Un istante dopo Feardorcha attraversò come una furia i monoliti,
avventandosi su di loro.
Aleister spinse lontano Marian, mentre il Negromante si scagliava su di
lui. Con un colpo deciso e fulmineo, gli trafisse il fianco con la lama di
sangue.
Sul viso di Aleister si dipinse un’espressione stupita che si deformò in
una smorfia di dolore.
«E adesso, Aleister, è giunta la tua fine.» Feardorcha lo fissava con i
grandi e lividi occhi rossi, la bocca piegata di traverso in un sorriso
meschino.
«Sono il Re delle Volpi. Se pensi che possa morire come un’insulsa
comparsa, ti sbagli di grosso. Sono il protagonista di questa storia» ribatté
Aleister stringendosi il fianco con una mano. Poi digrignò i denti per il
dolore e, con enorme sforzo, spinse via il Negromante, fendendogli il petto
con un colpo di spada.
Feardorcha gridò dal dolore e dalla rabbia. Mentre Aleister caricava un
nuovo colpo, la mano destra del mago si deformò, diventando enorme. La
pelle si riempì di squame e di piume, le unghie si allungarono in giganteschi
artigli neri.
Il Negromante colpì il Re delle Volpi in pieno viso, con il braccio
trasfigurato, sbalzandolo lontano.
«Aleister!» gridò Marian.
Il ragazzo rotolò nella polvere e rimase fermo, immobile.
Feardorcha era crollato a terra. La spada si sciolse nella sua mano, e una
gran quantità di sangue scrosciò sul terreno brullo. Si portò una mano sul
petto per controllare la ferita e guardò infastidito le mani macchiate di
sangue. Poi fece per alzarsi in piedi, ma ricadde subito in ginocchio.
«Digli pure addio con calma» gemette Feardorcha, con disprezzo, rivolto
a Marian. «Tu sarai la prossima.» E si portò entrambe le mani al petto,
cercando di fermare il sangue.
Marian scattò verso Aleister, dimenticando il dolore che provava, mentre
la paura si impadroniva di lei.
“Ti prego, fa’ che non sia morto, fa’ non sia morto.”
Si buttò a terra, scuotendolo.
«Aleister! Aleister, ti prego, apri gli occhi!» disse incapace di trattenere
le lacrime.
Era riverso a faccia in giù e quando Marian riuscì a girarlo si lasciò
scappare un gemito spaventato. Aleister era una maschera di sangue. Tre
squarci gli attraversavano il bellissimo volto, dove gli artigli di Feardorcha
erano affondati nella carne morbida.
Aleister tossì e Marian, che aveva trattenuto il fiato per tutto quel tempo,
ricominciò a respirare.
«Marian?» gemette lui, alzando una mano, cercandola.
Lei la afferrò e lo aiutò a tirarsi su, poggiandogli la testa in grembo.
«Quanto è brutta la ferita?» mormorò.
Marian si sporse a controllarla. Sotto di lui si era allargata una pozza di
sangue.
«Andrà tutto bene… adesso ti riporto a casa» balbettò lei, cercando di
sollevarlo.
Aleister gemette e si portò una mano al fianco.
«Lascia stare e ascoltami, piuttosto. Ho bisogno del tuo aiuto…»
mormorò.
«Tutto quello che vuoi… tutto» disse Marian, mentre lo stringeva tra le
braccia, le lacrime che le offuscavano la vista.
Aleister alzò la testa, cercando di avvicinarsi al viso di lei. «Non riesco a
vederti» si lamentò passandosi una mano sul viso.
Marian cercò di aiutarlo, usò la manica del vestito per ripulirgli il volto.
Gli occhi verdi di Aleister brillarono in mezzo ai graffi sanguinolenti.
«Devi fare una cosa per me…» parlava a fatica. «Dovrai pronunciare il
mio nome…»
«Aleister?» disse lei, confusa da quella richiesta.
Il Re delle Volpi scosse leggermente il capo e un sorriso stentato gli
spuntò sul viso stanco e ferito. «No, il mio vero nome… il mio nome
segreto…»
«Ma… quando uno dell’Altrove scopre il vero nome di un Sidhe finisce
per diventarne il padrone. Perché vuoi rivelarmelo?» chiese.
«Perché ho un piano. Appena lo pronuncerai, io sarò legato a te per
sempre e dovrò ubbidire a ogni tuo ordine. È l’unico modo che mi è rimasto
per fermare Feardorcha.»
«Che cosa stai dicendo, Aleister? Non capisco!»
«Io… io non ho più forze, Marian, per questo ho bisogno di te. Della tua
forza. Nel momento in cui saremo legati non potrò venire meno alle tue
richieste. Ma grazie a te, potrò usare di nuovo il mio potere, attingendo alla
magia che ci legherà per sempre.»
Marian si voltò per controllare Feardorcha alle loro spalle.
Era appoggiato contro un monolite, il viso smunto e pallido, gli occhi
cerchiati di nero. Si era portato entrambe le mani al petto e un leggero fumo
nero lo stava avvolgendo. Si stava curando.
«Quali sono i termini del nostro contratto?» chiese lei in fretta.
«Avrai potere di vita e di morte su di me. Avrai la mia vita, il mio potere,
persino la mia vera forma… tutto ti apparterrà. Saremo legati
indissolubilmente.»
«Riuscirai a fermare Feardorcha?»
Si guardarono negli occhi e lui annuì.
«Ma se pronuncio ad alta voce il tuo nome, lui non lo sentirà?»
«Sì, ma non ha importanza. Sarò già tuo.»
Aleister le prese il viso tra le mani sporche di sangue, facendola
abbassare verso di lui.
Le sussurrò all’orecchio il suo nome, il suo più grande tesoro.
Una catena magica si chiuse attorno ai loro polsi, unendoli
indissolubilmente, e poi sparì, come se fosse stata assorbita dalla loro pelle.
Marian si chinò per baciarlo. Le labbra di Aleister avevano il sapore
ferroso del sangue.
«Fallo adesso» gemette il Re delle Volpi. «Grida il mio vero nome… e
dammi l’ordine!»
«Sionnach òrga!» gridò Marian con tutto il fiato che aveva in gola.
«Ferma Feardorcha in ogni modo! Non lasciare che abbatta le barriere di
Faerie, proteggi i nostri mondi.»
Il corpo di Aleister iniziò a sussultare tra le sue braccia. La pelle sembrò
andargli a fuoco, iniziando a brillare sempre più forte. Marian dovette
schermarsi il viso per proteggersi da quella luce. Intanto, il corpo di Aleister
si trasformava…
Feardorcha si era fermato appena l’urlo di Marian aveva lacerato l’aria.
Sul viso aveva un’espressione atterrita, gli occhi rossi sgranati.
«Non credevo che saresti arrivato a questo pur di fermarmi» gridò.
Il corpo di Aleister si era alzato da terra, imprigionato tra le sue stesse
fiamme. Marian arretrò, cercando di proteggersi dal calore che sprigionava.
«Cosa sta succedendo? Cosa ti ho fatto?» gemette spaventata.
La gabbia di fuoco che avvolgeva il Re delle Volpi stava velocemente
aumentando le proprie dimensioni.
Feardorcha allargò le braccia, il viso folle dalla rabbia. Le squame e i
peli ispidi lo ricoprirono, e si trasformò nella sua forma bestiale.
Le fiamme che avvolgevano Aleister esplosero con un boato assordante,
ricoprendo con una pioggia di proiettili di fuoco la dimensione segreta del
cromlech. Marian cercò riparo rotolando dietro un monolite.
Quando la pioggia di fuoco cessò, alzò gli occhi e lo vide.
Il Re delle Volpi non era più un uomo, sebbene non lo fosse mai stato
davvero. Al posto del ragazzo, si ergeva ora un’enorme volpe, fatta di
fiamme, più grande anche della versione bestiale di Feardorcha.
La volpe saltò con eleganza su un monolite, studiando a debita distanza
il suo avversario.
Marian poteva avvertire il calore che emanavano le fiamme di Aleister
anche da dove si trovava.
«Sei dovuto ricorrere alla tua forma più pura per poter battere un
semplice essere umano. Non so se sentirmi lusingato, o se provare pena per
te» gorgogliò Feardorcha. Gli occhi ardevano, i peli ispidi gli si rizzarono
lungo la schiena mentre si metteva in posizione d’attacco.
La volpe di fuoco rimase immobile sul monolite. Poi girò il muso
fiammeggiante verso Marian.
Lei capì perché la stava guardando. Si stava assicurando che fosse
abbastanza distante da essere al sicuro.
«Vai, non pensare a me» sussurrò Marian.
La volpe, come se fosse riuscita a udirla anche da là, spiccò un balzo in
aria. Spalancò la bocca e cominciò a eruttare fiamme, che colpirono in
pieno la bestia nera.
Feardorcha sgrullò lo spesso manto ispido e, scartando di lato, usò uno
dei monoliti per proteggersi dalla cascata di fuoco. Si rovesciò a terra per
spegnere le fiamme e l’aria si impregnò del nauseabondo odore di pelliccia
bruciata.
La bestia nera attaccò Aleister su un fianco, cercando di coglierlo di
sorpresa.
Marian assisteva impotente allo scontro.
Aleister e Feardorcha erano un groviglio di corpi. Continuavano a
scontrarsi, con un clamore che faceva tremare la terra, soffiando e
ringhiando, le voci che rimbombavano come tuoni in una tempesta.
I corpi si abbattevano contro il cromlech e avrebbero continuato fino a
che non si sarebbero distrutti a vicenda. Se solo Marian avesse potuto
fermarli…
In quel momento, qualcosa brillò ai suoi piedi.
Era la spada di Aleister. Nella lotta doveva essere volata fin lì.
Le tornò subito in mente ciò che il ragazzo le aveva detto nella bottega di
Destino.
“L’arma giusta arriva all’eroe nel momento del bisogno” si disse.
Non ci pensò due volte e la afferrò.
Appena le dita si chiusero attorno all’elsa, il braccio iniziò a tremare,
attraversato da una scarica elettrica. Era successo lo stesso quando aveva
sfiorato il monolite. Dentro di lei stava scorrendo la magia. Non sapeva se
fosse merito della spada, dell’incantesimo che aveva ingoiato a forza, o del
medaglione che aveva al collo, non le importava. Non avrebbe sprecato
quell’occasione.
In quel momento, Aleister e Feardorcha atterrarono con uno schianto a
terra. La gigantesca volpe di fuoco arretrò, mentre la bestia nera partiva per
un ultimo disperato attacco.
Fu allora che Marian si tuffò in mezzo a loro. La lama della spada calò
sulla zampa tesa del Negromante, e quando si abbatté contro le scaglie di
serpente e le piume di corvo, mutò improvvisamente. Si trasformò in pura
luce.
Feardorcha proruppe in un grido mostruoso: la zampa era stata mozzata
e la spada esplose in un bagliore accecante.
Marian venne sbalzata via dall’onda d’urto del colpo, oltre il cromlech,
atterrando in mezzo alla polvere.
Per dei lunghissimi istanti non riuscì a vedere niente.
«Marian.»
Cercò di rimettersi in piedi, frastornata, l’elsa ancora stretta in mano. Le
orecchie le fischiavano, ma sentì che qualcuno la stava chiamando.
Sembrava la voce di Aleister.
«Marian!»
La luce finalmente si dissipò, e riuscì a mettere a fuoco il ragazzo che le
stava di fronte. La stava scuotendo per le spalle.
«Che mi venga un colpo se non avevo ragione. Hai visto? Te lo avevo
detto che era una spada magica! Sei stata magnifica, incredibilmente
eroica!» esclamò Aleister.
Marian, ancora un po’ stordita, gli rivolse un sorriso sollevato. «Era solo
capitata in mano all’eroe sbagliato, è per quello che non funzionava» lo
prese in giro.
Aleister era tornato normale, nella sua forma umana. Aveva ancora il
viso sporco di sangue, ma le ferite sembravano essersi richiuse. Poi, Marian
notò qualcosa di diverso.
«E queste?» esclamò meravigliata, afferrandogli le orecchie da volpe che
gli spuntavano tra i capelli.
«Sono troppo stanco per nasconderle» borbottò lui, cercando di assumere
un’espressione dignitosa.
«Stai bene?» chiese Marian, non riuscendo a impedirsi di lanciare
un’occhiata curiosa verso la sua coda.
«Sì, ed è tutto merito tuo. Se non avessimo stipulato il patto… me la
sarei vista davvero brutta. Ho attinto alla magia del nostro contratto e ora
sono come nuovo… o quasi» disse con una smorfia, sfiorandosi il viso.
Marian si aggrappò alla sua giacca.
«E Thomas?»
Entrambi si voltarono, alla ricerca del Negromante.
Era accanto alla pozza d’acqua, la via d’uscita da quella dimensione.
Stava a carponi, il viso imperlato di sudore, sfinito dallo sforzo. Il petto si
alzava e si riabbassava in fretta. Si teneva ben stretto il braccio mozzato,
cercando di contenere la perdita di sangue. Gli occhi erano cerchiati di nero
e si guardavano attorno folli, come quelli di un animale messo all’angolo.
Aleister gli si avvicinò lentamente.
Se fosse bastato uno sguardo per uccidere, Feardorcha lo avrebbe fatto.
Rivolse al Re delle Volpi un’occhiata di disprezzo.
«Che cosa aspetti? Avanti, finiscimi!» ringhiò, umiliato.
Il sangue continuava a scorrere dal suo braccio, macchiando la terra sotto
di sé.
Aleister gli rivolse uno sguardo pieno di pietà.
«Uccidimi!» gridò Thomas.
Il Re delle Volpi scosse piano la testa. «Avrei tutto il diritto di farlo,
ma… no. Non ti ucciderò, perché non sono né un giudice, né un boia. La
morte è una soluzione troppo semplice. Pagherai per i crimini che hai
commesso, ma non sarò io a occuparmene.»
Si inginocchiò davanti a lui. Gli strappò via il medaglione dalla pietra
blu e gli affondò una mano nel petto.
Feardorcha sgranò gli occhi, il fiato mozzato. Aleister ritrasse la mano, i
tre incantesimi che brillavano stretti nel suo pugno.
«Questi me li riprendo. Adesso vattene.»
Feardorcha, ancora senza fiato, fulminò Aleister con un’ultima occhiata
imperiosa, gli occhi che fiammeggiavano. Il suo viso iniziò a implodere, le
ossa ad accartocciarsi, l’intero corpo perse di consistenza. Con le sue ultime
forze, il Negromante si trasformò in una voluta di fumo e fuggì, tuffandosi
nella pozza d’acqua.
Aleister sospirò, sfinito, gli incantesimi ancora stretti in mano. Li portò
alle labbra e li ingoiò.
«Sei sicuro di volerlo lasciare andare via così? Dopo tutto quello che ha
fatto?» mormorò Marian, raggiungendolo.
«Oh, vedrai… appena uscirà da questa dimensione finirà nelle mani del
consiglio. Il Re dei Nani mi è sembrato entusiasta all’idea. Si dà il caso che
io gli abbia dato giusto qualche indicazione su come e dove trovarlo. Lo
prenderanno appena uscirà» disse Aleister con un ghigno soddisfatto.
«Ma quando lo hai fatto?»
Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Mentre studiavo l’incantesimo per il
portale. Te lo ricordi che sono un grandissimo mago, vero?»
«Subirà un processo?»
«Certo. Ha commesso troppi crimini…» Lo sguardo del Re delle Volpi si
perse per un attimo, e l’espressione sul suo viso si indurì. «In ogni caso, ci
penseranno loro. Direi che noi abbiamo già fatto fin troppo.»
Marian gli gettò le braccia al collo. «Sapevo che ce l’avresti fatta!»
«Attenta!» disse Aleister, perdendo l’equilibrio.
Entrambi finirono in acqua, riemergendo dall’altra parte, sulle sponde
del lago. Si guardarono, sfiniti ma raggianti, e iniziarono e ridere, senza
riuscire a smettere.
Dall’alto, sull’isola galleggiante, sentirono chiamare a gran voce i loro
nomi.
Era Macbeth.
«State bene? Ho visto Feardorcha uscire dall’acqua e ho avuto paura che
vi avesse uccisi!» esclamò. Poi sgranò gli occhi, quando vide le condizioni
del Re delle Volpi.
«Accidenti, Aleister, si può sapere cosa ti è successo alla faccia?»
Lui fece una smorfia, portandosi una mano al viso.
«È una lunga storia ricca di gesta eroiche che meritano di essere
raccontate nei dettagli. Ma ora troviamo un modo per farti scendere
dall’isola. Non so voi, ma io ho una gran voglia di tornare a casa.»
Marian lo aiutò a nuotare verso la riva. Quando finalmente toccarono il
fondo, iniziarono ad attraversare l’acqua a grandi falcate.
«Adesso che sono così sfigurato, sono sicuro che non mi vorrai più»
disse cupo Aleister mentre scrutava il viso ferito nel riflesso del lago.
«Sei sempre stato bello, Aleister, ma sappi che ti amo per le tue qualità,
non solo per il tuo aspetto» lo stuzzicò Marian.
«Qualità come la mia modestia?»
«Quella al primo posto!»
Aleister sorrise ancora «Sai, stavo pensando che, sempre se sei
d’accordo…» iniziò a dire per poi interrompersi, imbarazzato. Sembrava in
difficoltà, come se non sapesse da che parte cominciare il suo discorso.
Marian si fermò, l’acqua che le arrivava alla cintola.
«Che cosa, Aleister?»
«…Che potresti condividere con me la mia libertà. Sempre se vorrai,
insomma» farfugliò.
«Che cosa intendi?» chiese lei senza capire.
Aleister le prese la mano sinistra e goffamente le tolse la fede. Vi soffiò
sopra delle piccole fiamme dorate e l’anello si sciolse e si ricompose.
Adesso aveva tutta l’aria di essere un anello di fidanzamento.
«Intendo questo» iniziò a dire, imbarazzato, tenendolo a mezz’aria.
«Dato che adesso sarò legato per sempre a te e che tu hai ceduto la tua
libertà in maniera eroica per ottenere la mappa… credo che potremo
dividerci la mia di libertà… se accetterai di sposarmi.»
Un enorme sorriso si fece strada sul viso di Marian. Allungò la mano
sinistra e lui, in maniera un po’ impacciata, le infilò l’anello.
«Pensi che dovremo sposarci immediatamente?» gli chiese, ripensando
alle parole di Destino. «Perché vorrei godermi ancora un po’ di avventure
prima del matrimonio…»
Aleister scoppiò a ridere, scuotendo i capelli rossi. «I fidanzamenti qui a
Faerie durano secoli, abbiamo tutto il tempo che vorrai!»
«Allora mi sembra perfetto» disse lei deliziata.
In fin dei conti, se il matrimonio previsto nel suo futuro era con Aleister,
sarebbe riuscita a sopportarlo…
Il Re delle Volpi sgranò gli occhi dalla sorpresa, colto da una rivelazione.
«Cosa succede?» chiese Marian.
«Ho capito solo adesso! Marian, la profezia!»
«La profezia cosa?»
Aleister scoppiò a ridere, incredulo.
«La profezia parlava di noi due!» Le prese la mano sinistra, intrecciando
le dita con le sue. «“L’Altrove e Faerie diventeranno un tutt’uno”» recitò
raggiante.
Ricominciarono a ridere entrambi.
«Comunque ti avrei sposato anche se non ci fosse stata alcuna profezia e
se Destino non mi avesse costretta» disse Marian sorridendo ironica.
«Questo mi fa sentire meglio» rispose lui, visibilmente sollevato.
«Pensi che al nostro matrimonio sia possibile avere più di centoventi
colombe?» gli chiese Marian, improvvisamente seria.
«Ma di cosa stai parlando?»
«Niente, non ti preoccupare, solo competizione tra sorelle. Chissà che
faccia farà mia madre quando te la farò conoscere…»
Macbeth, che nel frattempo era saltellato tra le rovine del ponte fino a
raggiungere un’altezza da cui si sentiva sicuro, spiccò un balzo, tuffandosi
anche lui nel lago, spruzzando acqua da tutte le parti.
«Sono stato così in pensiero per voi!» esclamò, saltando al collo del Re
delle Volpi. «Finalmente ti sei deciso a non nascondere le orecchie e la
coda! Ora sì che ti riconosco.»
«Ahia, devi fare attenzione! Sono molto ferito» si lagnò Aleister, mentre
usciva dal lago.
«Marian rimarrà con noi a Faerie allora?» chiese Macbeth estasiato,
guardando l’anello al suo anulare.
«Ovviamente.»
Mentre Macbeth li tirava per i vestiti, ricoprendoli di domande, Marian e
Aleister non riuscivano a smettere di guardarsi, come se in quel momento
non esistesse altro al mondo, se non loro due.
«Rimarrai per sempre con me?»
«Sempre.»
Aleister scoppiò a ridere e si chinò per baciare Marian.
Sentirono Macbeth borbottare un “che schifo” alle loro spalle.
Guardando Aleister, Marian si chiese ancora una volta in quale razza di
guaio si era andata a cacciare. Ma non riuscì a impedirsi di sorridere.
Lo avrebbe scoperto molto presto.
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Il re delle volpi
di Fiore Manni
Proprietà letteraria riservata
© 2023 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Testo di Fiore Manni
© 2023 Book on a Tree Limited
Una storia di Book on a Tree
www.bookonatree.com
Pubblicato per Rizzoli da Mondadori Libri S.p.A.
La citazione nel Capitolo 15 è tratta da William Shakespeare, Sonetti, a cura di A. Serpieri,
BURClassici, 2015
2018 Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788831813136

COPERTINA || ILLUSTRAZIONE DI FIORE MANNI | ART DIRECTOR: FRANCESCA LEONESCHI | GRAPHIC DESIGNER:
MAURO DE TOFFOL / THEWORLDOFDOT
Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autrice
Frontespizio
Prologo
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
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20
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