Sei sulla pagina 1di 275

Frances Hodgson Burnett

Il giardino
segreto
Copertina: © Shutterstock / Fona
Capitolo uno

Quando Mary Lennox giunse nella grande pro-


prietà di Misselthwaite per viverci con suo zio, tut-
ti la trovarono veramente poco simpatica. Ed era
anche vero. Il suo corpicino magrissimo, i capelli
più gialli che biondi e l’espressione stizzosa del
suo visino smunto non facevano certamente di lei
una bella bambina.
La sua carnagione era gialla quasi come i
capelli, perché era nata in India ed era sempre
stata piuttosto gracile. Suo padre aveva occupato
un posto importante nel corpo diplomatico ingle-
se e, oltre a essere stato molto indaffarato, non
aveva mai goduto di un’ottima salute; sua madre,
una signora molto bella, si era occupata solo di
feste e di ricevimenti, e di divertirsi in mezzo a
gente allegra. Forse per questo non aveva mai
desiderato di avere una bambina, tanto che,
quando Mary nacque, l’affidò subito a una balia
indiana col preciso incarico di tenerla il più lonta-
no possibile da lei. Così Mary era rimasta costan-
temente “alla larga”, fin da quando, ancora in
4 IL GIARDINO SEGRETO

fasce, altro non era che una delicata e noiosa


creaturina.
La piccina non ricordava di aver mai visto altri
volti intorno a sé, se non quelli della sua balia e
degli altri servi indiani; questi l’obbedivano in
tutto e assecondavano ogni suo capriccio, perché
sapevano che la padrona sarebbe andata su tutte
le furie se l’avesse sentita piangere. Così, a sei
anni, la bimba era già una piccola tiranna. Per
insegnarle a leggere e a scrivere avevano preso
una signorina inglese, che non era rimasta più di
tre mesi; tuttavia, delle istitutrici che avevano
avuto a che fare con lei, era quella che aveva resi-
stito di più. E se non fosse stato che Mary aveva
veramente deciso di imparare a leggere, sarebbe
cresciuta anche ignorante.
Mary aveva nove anni, quando, in un mattino
caldo e afoso, svegliandosi più che mai di malu-
more, non vide vicino al suo lettino la sua balia,
ma una nuova cameriera.
«Che cosa fai qui?» strillò subito. «Va’ via, tu, e
mandami la balia.»
La donna la guardò spaventata, e riuscì a mala-
pena a balbettare che la balia non poteva venire:
e quando Mary, come una piccola furia inviperita,
la prese a pugni e a calci, non reagì neppure: si
limitò a guardarla ancora più spaventata e a ripe-
terle che la balia non poteva proprio venire dalla
signorina.
C’era un’atmosfera misteriosa nella casa, quel-
CAPITOLO UNO 5

la mattina: tutto procedeva diversamente dal soli-


to. Molti dei servi indiani mancavano, e quei
pochi che ancora si aggiravano nelle stanze ave-
vano un’espressione di terrore sui volti pallidi.
Nessuno diceva niente alla piccina, e la balia non
veniva. Praticamente Mary fu lasciata sola duran-
te tutta la mattinata. Gironzolò un po’ per il giardi-
no, poi cominciò a giocare da sola all’ombra di un
albero, vicino alla veranda: giocò a costruire aiuo-
le e cominciò a piantare fiori su tanti piccoli muc-
chietti di terra. E intanto s’inquietava sempre di
più e borbottava tra sé e sé tutte le insolenze con
cui avrebbe apostrofato la balia al suo ritorno. E
stava per urlare dalla stizza, quando udì sua
madre uscire dalla veranda e parlare con qualcu-
no a bassa voce. Guardò verso di loro e riconob-
be nel giovane alto e biondo che stava con sua
madre un ufficiale appena giunto dall’Inghilterra.
Lo guardò un momento, ma subito s’incantò a fis-
sare il bel volto di sua madre, come faceva sem-
pre le rare volte che aveva il piacere di incontrar-
la. Com’era giovane, bella e piena di grazia, coi
suoi capelli biondi, il nasino all’insù e gli occhi
grandi e ridenti; e che begli abiti che indossava,
così vaporosi e tutti guarniti di pizzi! Anche quella
mattina era molto elegante, ma i suoi occhi non
ridevano, anzi fissavano l’ufficiale con un’espres-
sione di sgomento e di paura.
«È una cosa tanto grave, dunque?» chiedeva
ansiosa.
6 IL GIARDINO SEGRETO

«Più che grave, signora Lennox!» rispose lui


con un tremito nella voce. «Avreste dovuto partire
due settimane fa.»
La mamma di Mary si tormentava nervosa-
mente le mani.
«Lo so, purtroppo, che avrei dovuto andarme-
ne di qui!» rispose con la voce rotta dal pianto. «E
pensare che sono rimasta solo per quella stupida
festa! Sono stata una sciocca!»
Un lugubre lamento giunse improvviso e dispe-
rato dalle capanne dei servi, e la signora s’afferrò
al braccio dell’ufficiale, mentre Mary cominciò a
tremare dalla testa ai piedi.
Intanto il lamento si faceva sempre più insi-
stente.
«Che cos’è? Che cos’è?» chiese la signora Len-
nox.
«Dev’essere morto qualcuno» rispose l’ufficia-
le. «Non mi avevate detto che uno dei vostri servi
era malato?»
«Non lo so, non ricordo! Venite con me, pre-
sto!» E scappò in casa piangendo.
Accaddero poi cose terribili, e finalmente il
mistero di quella mattina fu svelato anche a Mary.
Era scoppiato il colera tra gli indigeni, e la gente
moriva come mosche. La balia era stata colpita
dal male durante la notte, e ora i servi ne annun-
ziavano la morte col loro triste lamento. Non
passò un giorno che altri tre servi morirono, e
quelli ancora sani fuggirono in preda al terrore. In
CAPITOLO UNO 7

tutte le ville dei dintorni c’era qualcuno che stava


per morire.
In mezzo alla confusione dell’indomani, Mary,
dimenticata da tutti, si rifugiò nella sua cameretta.
Nessuno la cercò, nessuno si preoccupò di lei, e
intanto accadevano cose sempre più strane, che
la piccina non riusciva a capire. Così, un poco
piangeva e un poco dormiva, e quando era sve-
glia gli strani rumori che venivano dall’esterno
l’atterrivano. Alla fine s’azzardò ad arrivare fino
alla sala da pranzo: non c’era anima viva. La tavo-
la era ancora apparecchiata e c’era anche del
cibo sui piatti, come se i commensali avessero
avuto qualche improvvisa ragione per interrom-
pere il loro pranzo.
Mary aveva fame e sete; mangiò della frutta e
qualche biscotto e vuotò un bicchiere. Ritornò
allora in camera sua, sempre più atterrita dagli
urli che uscivano dalle capanne degli indiani; si
buttò sul letto e cadde in un sonno profondo, che
durò ininterrotto per parecchie ore.
Al suo risveglio rimase sdraiata a guardare il
soffitto. La casa era immersa nel più profondo
silenzio: non si sentiva più né un lamento né il
rumore di un passo. Mary pensò che il colera
era finalmente passato e con esso ogni dispia-
cere. Ora avrebbe avuto un’altra balia, che
forse conosceva tante belle favole nuove; quel-
le vecchie ormai l’annoiavano. Non versò una
lacrima per la morte della sua balia: non era
8 IL GIARDINO SEGRETO

una bambina affettuosa e non si preoccupava


granché delle persone che la circondavano.
L’idea del colera e tutto quel trambusto l’ave-
vano sconvolta; ma ora, più che altro, si stizzi-
va che nessuno si fosse ricordato che c’era
anche lei al mondo. In quel tragico momento
ciascuno si era preoccupato solo di sé stesso e
della propria salvezza. Ora però tutto era pas-
sato, e certamente qualcuno sarebbe venuto a
vedere se aveva bisogno di qualcosa.
Invece Mary non vide nessuno, e rimase
sdraiata, mentre la casa si faceva sempre più
silenziosa. D’un tratto, però, udì un fruscio sulla
stuoia, e scorse un serpentello che strisciava
verso di lei, guardandola coi suoi occhietti luci-
di. Non si spaventò, sapeva che non era perico-
loso. E poi era preoccupato solo di uscire da
quella stanza: infatti in un momento sparì sotto
la porta.
“Che strano” pensò Mary. “Sembra che in casa
non ci siano altri che io e il serpentello.”
Poco dopo udì dei passi in giardino e poi sulla
veranda, e voci basse di uomini che parlavano tra
loro. Nessuno andò a riceverli, ed essi sembrava-
no aprire gli usci e guardare nelle camere senza
alcun rispetto.
«Che disgrazia!» sentì dire. «Era una signora
così giovane e bella! Chissà che ne è stato della
bambina? Almeno, ho sentito dire che ci fosse
anche una bambina, ma nessuno l’ha mai vista.»
CAPITOLO UNO 9

Pochi minuti dopo la porta della cameretta di


Mary si aprì.
L’uomo che entrò per primo, un ufficiale che
Mary aveva visto qualche volta parlare con suo
padre, trovò la bimba in piedi in mezzo alla stan-
za. Era proprio bruttina in quel momento, pallida,
spettinata e più stizzita del solito. L’ufficiale aveva
il viso scuro e l’aria abbattuta; quando la vide,
fece addirittura un salto e sgranò gli occhi.
«Barney!» gridò al suo compagno. «C’è una
bimba qui, sola, in un posto come questo! Mio
Dio! Chi può essere?»
«Sono Mary Lennox» rispose la piccola orgo-
gliosamente e pensò che quell’uomo era un
maleducato a chiamare “un posto come questo”
la bella villa di suo padre. «Mi sono addormentata
quando tutti avevano il colera, e mi sono sveglia-
ta solo ora.»
«È la bimba che non si vedeva mai!» esclamò
l’ufficiale. «Si sono dimenticati di lei!»
«Perché mi hanno dimenticata?» domandò Ma-
ry, battendo i piedi. «Perché non viene nessuno?»
Il giovane che si chiamava Barney la guardò
con gli occhi tristi, e a Mary sembrò quasi che si
sforzasse di trattenere le lacrime.
«Povera creatura!» disse. «Non c’è più nessuno
che possa venire.»
Fu in questo modo strano e improvviso che
Mary venne a sapere di non avere più né mamma
né papà: erano morti di colera il giorno prima, e i
10 IL GIARDINO SEGRETO

pochi servi, scampati alla terribile malattia, erano


fuggiti senza ricordarsi della padroncina.
Per questo la casa era così silenziosa! Nella
grande villa erano rimasti proprio solo lei e il ser-
pentello strisciante sulla stuoia.
Capitolo due

Mary aveva guardato volentieri sua madre da lon-


tano, e le era sempre apparsa bella come una
fata, ma l’aveva conosciuta così poco che non
aveva imparato ad amarla; non poteva quindi rim-
piangerla ora che non c’era più. Da quella bambi-
na egoista che era, in un momento così triste
della sua vita non pensò che a sé stessa, come del
resto aveva sempre fatto. Se fosse stata più gran-
dicella si sarebbe senz’altro preoccupata di esse-
re rimasta così sola al mondo, ma siccome non
aveva che nove anni e qualcuno si era sempre
occupato di lei, pensò che così sarebbe stato
anche in avvenire. L’unico suo desiderio era di
avere sempre intorno a sé persone gentili e dispo-
ste a soddisfare ogni suo capriccio, come aveva-
no fatto la balia e gli altri servi indiani.
La prima a ospitare la piccola orfana fu la fami-
glia di un pastore protestante inglese. Ma in quel-
la casa, troppo modesta per lei, Mary non avrebbe
proprio voluto restare. Il pastore era povero e
aveva cinque figli, tutti press’a poco della stessa
12 IL GIARDINO SEGRETO

età, vestiti miseramente e che si bisticciavano di


continuo per il possesso di qualche giocattolo.
Mary fu tanto sgarbata con loro che dopo un paio
di giorni nessuno voleva più giocare con lei.
Inoltre le avevano dato un soprannome che la
rendeva furiosa ogni qualvolta lo sentiva pronun-
ciare.
Era stato Basil a inventarlo, un ragazzetto con
due occhi azzurri e impertinenti e il naso all’insù,
che non era per niente simpatico a Mary. Una
volta, mentre stava giocando tutta sola all’ombra
di un albero, e costruiva mucchietti di terra e sen-
tierini, come quel giorno che era scoppiato il cole-
ra, Basil le si avvicinò e si fermò a guardarla. Si era
tanto interessato al suo gioco che azzardò persino
un suggerimento.
«Perché» le chiese «non ci costruisci in mezzo
una collinetta con dei sassi?»
«Va’ via! Lasciami stare!» strillò Mary.
Dapprima Basil s’arrabbiò, ma poi cominciò a
girarle intorno, ridendo, facendo smorfie e can-
tando:

«Signorina Musolungo
come cresce il tuo giardino?
Sei tu nata sotto un fungo,
o nei pressi del camino?»

E continuò a ripetere la canzoncina, finché an-


che gli altri bambini udirono e si misero a ridere e
CAPITOLO DUE 13

a cantare con lui. E più quelli cantavano, più Mary


s’indispettiva. Ma non ci fu nulla da fare, e finché
la bimba rimase con loro fu chiamata con quel
soprannome.
«Alla fine della settimana ti manderanno al tuo
Paese» le disse Basil un giorno. «E noi siamo con-
tenti.»
«Anch’io!» replicò Mary. «Ma qual è il mio Pae-
se?»
«Non sai qual è il tuo Paese?!» domandò Basil
con tutto il disprezzo dei suoi sette anni. «Ma è
l’Inghilterra! Là ci vive nostra nonna e anche
nostra sorella Mabel, che dall’anno scorso è anda-
ta ad abitare da lei. Ma tu non vai da tua nonna,
non ce l’hai, vai da tuo zio, il signor Craven.»
«Non so niente di lui» sbuffò Mary.
«Lo so» rispose Basil. «Voi bambine non sape-
te mai niente. Ho sentito mio padre e mia madre
parlare di lui. Abita in campagna, in una vecchia e
grande casa. È brutto e gobbo. Nessuno lo va a
trovare, e lui non vuole vedere nessuno. Deve es-
sere poco simpatico!»
«Non è vero!» gridò Mary, e scappò via, tap-
pandosi gli orecchi per non sentire più nulla.
Mary ripensò più tardi alle parole di Basil, e a
lungo. E quando la signora Crawford, la mamma
di Basil, le annunziò che entro pochi giorni sareb-
be partita alla volta dell’Inghilterra, dove suo zio
l’aspettava, Mary rimase così dura e indifferente
che la povera signora non seppe che cosa pensa-
14 IL GIARDINO SEGRETO

re. Fecero di tutto per essere gentili con lei, ma


senza risultato. Mary voltò la faccia quando la
signora Crawford fece per baciarla, e s’irrigidì
quando il signor Crawford le diede un buffetto sul-
la guancia.
Per il lungo viaggio in mare Mary fu affidata alla
moglie di un ufficiale, che conduceva in Inghil-
terra i suoi ragazzi per metterli in collegio. Aveva
già il suo da fare per tenere a bada i suoi due
discoletti, così che, giunta a Londra, fu ben felice
di consegnare la bimba alla governante che il
signor Craven aveva mandato a incontrarla.
La signora Medlock, la governante, era una
donna robusta, col viso rosso e gli occhi neri e
vivi. Indossava un abito viola, un mantello di seta
nera con la frangia lucida, e un cappellino nero
guarnito di fiori di velluto viola, che si muovevano
a ogni cenno del suo capo.
A Mary non era piaciuta per niente; ma, certo,
non c’era da stupirsi se non provava simpatia per
qualcuno. D’altronde la signora Medlock non l’a-
veva accolta con eccessivo garbo.
«Mio Dio, che cosina da niente!» aveva escla-
mato nel vederla. «E dicono che sua madre fosse
una bellezza.»
«Può darsi che migliori crescendo» aveva ri-
sposto la moglie dell’ufficiale. «I bambini cambia-
no molto, e se non fosse così pallida e avesse
un’espressione più dolce, non sarebbe poi così
brutta.»
CAPITOLO DUE 15

«Dovrà cambiare un bel po’! Ma a Misselth-


waite non c’è nulla di buono per i bambini, ve
l’assicuro io!»
Credevano che Mary non sentisse, perché se
ne stava appartata e guardava la gente e le vettu-
re che passavano per la strada. Ma la piccola
aveva udito benissimo, e ora era curiosa di cono-
scere suo zio e la casa dove viveva, e cercava di
figurarsi l’uno e l’altra. Ma che cos’era poi un
gobbo? Lei non ne aveva mai veduti; non ce n’e-
rano in India.
Da quando viveva con persone estranee e non
aveva più una balia, aveva cominciato a sentirsi
sola e a pensare cose nuove per lei. Si domanda-
va come mai gli altri bambini sembravano appar-
tenere veramente ai loro genitori, mentre lei,
anche quando i suoi erano in vita, pareva proprio
la bimba di nessuno. Non le era mai mancato
nulla, è vero, né servitori né cibo né abiti, ma nes-
suno le aveva voluto bene. Non capiva che tutto
ciò era avvenuto perché era una bambina scon-
trosa e antipatica.
Certo la signora Medlock le sembrò la persona
più sgradevole che avesse mai conosciuta, con
quel suo viso rosso e volgare e quel buffo cappel-
lino. E il giorno dopo, quando andarono alla sta-
zione per proseguire verso la campagna, Mary
camminò a testa alta e il più lontano possibile da
lei, perché non voleva che la credessero sua figlia.
Ma la governante pareva non preoccuparsi
16 IL GIARDINO SEGRETO

granché di Mary e dei suoi pensieri; del resto, non


pareva tipo da procurarsi noie per i bambini. Era
venuta a Londra di malavoglia, perché proprio in
quel giorno sua nipote andava a nozze, ma aveva
un ottimo posto nella casa del signor Craven e ci
teneva proprio a non perderlo, contraddicendo
scioccamente il suo padrone. E poi non avrebbe
mai osato farlo!
«Il capitano Lennox e sua moglie sono morti di
colera» aveva detto il signor Craven con la sua
voce asciutta e fredda. «Il capitano Lennox era il
fratello di mia moglie, e io sono il tutore della loro
figlia. La bambina verrà a vivere qui. Dovete anda-
re a Londra a prenderla.»
E la signora Medlock aveva fatto i bagagli ed
era partita.
Ora, mentre il treno correva verso la sua nuova
casa, Mary se ne stava tutta rannicchiata in un
angolo, immobile e immusonita.
Non aveva niente da leggere o da guardare, e
teneva le mani abbandonate in grembo. Il suo
vestitino nero, i suoi capelli lunghi e lisci che usci-
vano da un cappellino di crespo, pure nero, la
facevano apparire più pallida che mai.
“È la bambina più viziata e scontrosa che abbia
mai visto” pensò la signora Medlock. Era la prima
volta che vedeva una bimba starsene così tran-
quilla, senza far nulla. Alla fine si stancò di guar-
darla, e con la sua voce forte e aspra prese a dire:
«È bene che voi sappiate qualcosa della casa
CAPITOLO DUE 17

dove abiterete d’ora in poi. Conoscete vostro zio?»


«No.»
«I vostri genitori non ve ne hanno parlato?»
«No» rispose Mary, corrugando la fronte; e que-
sto perché d’improvviso si era resa conto che i
suoi genitori non le avevano mai parlato di nulla.
«Strano» borbottò la signora Medlock, posando
lo sguardo su quel visino smunto e inespressivo.
Rimase in silenzio per qualche minuto, poi riprese:
«A ogni modo dovete sapere almeno qualcosa;
è mio dovere prepararvi. Andate in una casa
diversa dalle altre.»
Mary non ribatté parola, e la signora Medlock si
rabbuiò in viso a tanta indifferenza. Tuttavia pro-
seguì:
«Veramente è grande e bella, a modo suo, ma
è molto triste. Il signor Craven, però, ne è orgo-
glioso. La casa ha seicento anni e sorge in mezzo
alla brughiera. È composta di un centinaio di stan-
ze, ma molte sono chiuse a chiave. Ci sono gran-
di quadri e bellissimi mobili antichi, e molti ogget-
ti di valore. Intorno alla casa, poi, c’è un parco
immenso e giardini e alberi coi rami ripiegati fino
a terra.» Si fermò a prendere fiato e quindi con-
cluse: «E poi non c’è altro.»
Mary, suo malgrado, aveva preso ad ascoltarla;
ed era tutto così diverso da quello che le era stato
abituale in India, che l’attraeva molto, come ogni
novità. Ma finse di non interessarsene (era il suo
peggior difetto) e continuò a stare zitta.
18 IL GIARDINO SEGRETO

«Dunque» chiese la signora Medlock, «che ne


pensate?»
«Nulla» rispose. «Non so nulla.»
La governante scoppiò a ridere:
«Non vi interessa? Sembrate già vecchia, alla
vostra età!»
«Che importa se mi interessa o no?» rispose
Mary.
«Non avete torto» replicò la signora Medlock.
«Non importa a nessuno. Per quale ragione vi
fanno venire a Misselthwaite, proprio non capi-
sco, a meno che sia la soluzione più semplice. È
certo che lui non si occuperà di voi; lui non si cura
di nessuno.»
E s’interruppe di colpo, come per un improvvi-
so pensiero.
«È gobbo» proseguì poi, «e ne ha sempre sof-
ferto. Da giovane viveva appartato, e non ha godu-
to della sua ricchezza e della sua bella casa, fin-
ché non ha preso moglie.»
Di colpo Mary sollevò gli occhi verso di lei, seb-
bene si fosse proposta di non mostrare alcun inte-
ressamento. Non aveva mai supposto che un
gobbo potesse sposarsi, e questa era veramente
una sorpresa. La signora Medlock s’accorse del
suo sbalordimento, e poiché le piaceva parlare
prese ardire e continuò. Del resto, era un modo
per far passare il tempo.
«La sua sposa era bella e dolce, ed egli avreb-
be fatto qualunque sacrificio pur di accontentarla.
CAPITOLO DUE 19

Nessuno avrebbe creduto possibile un tal matri-


monio, ma ella lo sposò, e non certo per i suoi
quattrini, come la gente maligna aveva mormora-
to. Quando morì…»
«È morta?!» la interruppe Mary involontaria-
mente, dimenticando del tutto la sua voluta indif-
ferenza. E pensò subito a una fiaba francese che
conosceva, alla storia di Richetto dal ciuffo, che
narrava di un povero gobbo e di una bella princi-
pessa, e di colpo provò molta pena per suo zio.
«Sì, è morta, e da quel giorno il padrone è
diventato ancora più strano. Non vuol vedere nes-
suno, e gran parte del suo tempo lo trascorre viag-
giando. Quando torna a casa, si chiude nel suo
appartamento e permette solo a Pitcher, il suo
maggiordomo, di vederlo. Lui lo conosce fin da
quando era ragazzo e sa come comportarsi col
padrone.»
Pareva una fiaba, ma una di quelle fiabe che
rattristano invece di divertire. Una casa di cento
stanze, quasi tutte chiuse a chiave, una casa in
mezzo alla brughiera (che cos’era poi una bru-
ghiera?), un padrone gobbo che si chiudeva nel
suo appartamento: tutte cose che mettevano
paura solo a pensarci. Mary serrò le labbra e volse
lo sguardo al finestrino; le sembrò naturale che
fuori piovesse a dirotto e l’acqua battesse, scro-
sciante e senza tregua, contro il vetro. Se fosse
stata ancora viva la bella moglie di suo zio, tutto
sarebbe stato diverso; forse era stata sempre alle-
20 IL GIARDINO SEGRETO

gra e sorridente come la sua mamma, e forse


aveva indossato abiti belli e vaporosi, tutti guarni-
ti di pizzi. Ma anche lei non c’era più.
«Non aspettatevi di vederlo, perché difficilmen-
te vi riuscirà» riprese la signora Medlock. «E non
sperate che qualcuno vi tenga compagnia. Do-
vrete accontentarvi di giocare da sola. Vi sarà det-
to in quali stanze potrete entrare e in quali no. Il
parco, comunque, è grande. Soprattutto, cercate
di non curiosare dove non è permesso. Potreste
avere dei guai con vostro zio.»
«Non lo farò» ribatté Mary stizzita. E d’improv-
viso suo zio non le sembrò più un uomo degno di
compassione, ma una persona molto antipatica,
che ben si meritava tutte le disgrazie che gli erano
capitate.
Volse di nuovo il viso verso il finestrino, sferza-
to dall’acqua, e spinse più che poté lo sguardo in
mezzo al grigiore della pioggia, che pareva non
dovesse più cessare.
A poco a poco vide sempre più grigio e buio,
finché si addormentò.
Capitolo tre

Dormì a lungo, e come riaprì gli occhi vide che la


signora Medlock teneva in grembo un cestino da
viaggio, comprato probabilmente in una delle sta-
zioni precedenti. Dentro c’erano carne fredda,
pane e burro e una bottiglia di tè caldo.
Fuori pioveva sempre a dirotto; s’era fatto buio,
ormai, e il capotreno aveva acceso la luce nello
scompartimento. La signora Medlock mangiò
molto e di buona voglia, e poi s’addormentò.
Mary continuò per qualche minuto a guardarla,
e divertita da quel suo cappellino che ora le cade-
va tutto da una parte, finché s’addormentò di
nuovo nel suo cantuccio, cullata dal movimento
del treno e dallo scroscio monotono della pioggia.
Era notte quando uno scossone la destò.
«Avete fatto un bel sonno!» le disse la signora
Medlock. «Ma ora basta; siamo arrivate, e la car-
rozza aspetta fuori della stazione.»
Mary si alzò, tutta insonnolita, mentre la signo-
ra Medlock radunava i bagagli. La bambina non
pensò neppure di aiutarla, perché in India era
22 IL GIARDINO SEGRETO

stata abituata a essere servita in tutto. Era natura-


le, dunque, che anche ora qualcuno si affaticasse
per lei.
Scesa dal treno, si trovò in una piccola stazion-
cina semideserta.
Il capostazione s’avvicinò premurosamente
alla signora Medlock e le parlò con uno strano
accento, che più tardi Mary scoprì essere quello
della provincia.
«Bentornata!» esclamò. «E la piccina che do-
vevate portare con voi?»
«Eccola lì!» rispose la signora Medlock, accen-
nando col capo a Mary. «Come sta vostra moglie?»
«Meglio, grazie. La carrozza vi aspetta.»
Fuori della stazione, vicino al marciapiede, era
ferma una bella vettura chiusa, e davanti allo
sportello un elegante domestico, col mantello e il
cappello di tela cerata reso ancor più lucido dalla
pioggia, le attendeva.
Come salirono, il domestico chiuse lo sportello
e montò a cassetta. La vettura partì, e Mary si
trovò comodamente seduta sopra un morbido
sedile. Ma non aveva più voglia di dormire: desi-
derava guardare fuori dal finestrino e vedere qual-
cosa della strada che stavano percorrendo.
Non era una bambina timida e non aveva
paura, ma non sapeva proprio che cosa poteva
accaderle in una casa situata in mezzo a una bru-
ghiera, nella quale quasi tutte le stanze erano
chiuse a chiave.
CAPITOLO TRE 23

«Che cos’è una brughiera?» domandò d’un


tratto alla signora Medlock.
«Guardate fuori, e fra dieci minuti lo saprete»
rispose la donna. «Ci sono sette chilometri da per-
correre attraverso la brughiera prima di arrivare a
casa. Non potrete vedere molto perché è buio, ma
da quel poco ve ne farete un’idea.»
Mary non chiese più nulla e rimase tranquilla al
suo posto, con gli occhi fissi al finestrino. I lam-
pioni della vettura gettavano un debole chiarore
sul cammino, e a tratti Mary poteva cogliere qual-
che particolare del paesaggio circostante. Da
quando avevano lasciato la stazione, avevano già
attraversato un piccolo villaggio, e Mary aveva
intravisto alcune casette bianche e le luci di un’o-
steria e di alcune bottegucce. Avevano poi passa-
to una chiesa e la vicina casa del parroco; poi
campagna aperta, e due file interminabili di albe-
ri e siepi per un lungo tratto di strada.
Finalmente i cavalli rallentarono il trotto, come
se procedessero in salita, e al momento pareva
che non ci fossero più né alberi né siepi. In realtà
c’era buio pesto a tutti e due i lati della strada, e
Mary si avvicinò di più al finestrino, fino ad appog-
giare la fronte sul vetro. D’un tratto la vettura
diede uno scossone.
«Eccoci in mezzo alla brughiera, signorina!»
esclamò la signora Medlock.
Alla luce giallognola dei lampioni, Mary vide
una strada brulla e sassosa, che sembrava taglia-
24 IL GIARDINO SEGRETO

ta fuori dai cespugli e arbusti di ogni genere; ma


non vide di più, sebbene aguzzasse gli occhi, per-
ché là dove non giungeva la luce dei lampioni si
stendeva la più fitta e impenetrabile oscurità.
Intanto s’era levato un forte vento che soffiava
con un rumore sordo e strano.
«Ma questo non è il rumore del mare?» do-
mandò la bimba, rivolta alla sua compagna di
viaggio.
«No, non è il mare» fu la risposta, «e non è
campagna né montagna, ma solo chilometri e
chilometri di terra incolta, su cui non crescono
che eriche e ginestre, e dove non possono vivere
che pecore e cavallini selvatici.»
«Sembra proprio il mare. Fa lo stesso rumore.»
«È il vento che soffia in mezzo ai cespugli» le
spiegò la signora Medlock. «Per me questo è un
posto troppo selvaggio e monotono, ma a molti
piace, soprattutto quando l’erica è in fiore.»
Intanto la carrozza proseguiva la sua corsa nel
buio della notte lungo una strada ora in salita ora
in discesa, attraverso piccoli ponti, sotto i quali
rumoreggiava l’acqua dei ruscelli.
A Mary sembrò che il viaggio non dovesse fini-
re più, e che quella squallida brughiera non fosse
che uno sterminato oceano scuro e agitato, attra-
versato dalla sola striscia di terra della strada.
“Non mi piace per nulla” concluse tra sé, ser-
rando ancor di più le labbra.
I cavalli salivano di nuovo quando Mary vide
CAPITOLO TRE 25

finalmente un lume in lontananza. Allorché pure


la signora Medlock lo notò, tirò un sospiro di sol-
lievo.
«Oh, che piacere mi fa vederlo!» esclamò. «È il
lume della portineria; arrivando, troveremo alme-
no una tazza di tè.»
Ma ci volle ancora un bel pezzetto perché,
oltrepassato il cancello, dovettero percorrere un
lungo viale di quasi tre chilometri, fiancheggiato
da alberi maestosi che, in alto, incrociavano i loro
rami quasi a formare un’ampia e scura volta.
Al termine del viale c’era un largo spiazzo, e la
vettura si fermò davanti a una casa enorme, ma
piuttosto bassa. A Mary parve del tutto buia, ma,
una volta scesa dalla carrozza, s’accorse che da
una finestra d’angolo filtrava una debole luce.
La grande porta d’entrata era di legno massic-
cio, e su di essa erano conficcati grossi chiodi di
ferro e lunghe sbarre. Il vasto atrio, malamente
rischiarato, con grandi quadri appesi ai muri e nu-
merose armature allineate lungo le pareti, ispirò a
Mary un certo sgomento. Ferma in mezzo a quel-
la vasta sala, la piccina si sentì più sola e sperdu-
ta che mai.
Un vecchietto, vestito accuratamente, compar-
ve dietro al domestico che aveva aperto la porta.
«Accompagnatela in camera sua» disse alla
governante. «Lui non desidera vederla. Domattina
riparte per Londra.»
«Va bene, signor Pitcher» rispose la signora
26 IL GIARDINO SEGRETO

Medlock. «Purché io sappia che cosa desidera da


me.»
«Desidera che non lo disturbiate, signora Med-
lock. Non vuole né sentire né vedere nessuno.»
Subito Mary fu condotta nella sua camera,
dove era stato acceso il fuoco e apparecchiata la
tavola. Ma, prima di giungervi, dovette salire uno
scalone, percorrere un lungo corridoio, poi una
scaletta e infine altri due corridoi.
Appena entrate in camera, la signora Medlock
disse senza tanti complimenti:
«Eccovi qui! Questa e la stanza vicina sono
destinate a voi; le altre non vi devono interessare.
Intesi?»
Fu così che la signorina Mary fece il suo ingres-
so nella casa dello zio; e certamente non era mai
stata tanto di cattivo umore in tutta la sua vita.
Capitolo quattro

L’indomani mattina Mary, al suo risveglio, scorse


una ragazza inginocchiata davanti al camino che
raccoglieva la cenere prima di riaccendere il
fuoco. La osservò per qualche minuto, poi volse
lo sguardo in giro per la stanza. Non aveva mai
visto nulla di simile, e la trovò strana e triste.
Le pareti erano coperte da una tappezzeria di
damasco, che raffigurava scene di caccia. Sotto
gli alberi c’erano uomini e donne lussuosamente
vestiti, alcuni cacciatori, cani e cavalli; in lonta-
nanza s’intravedeva il cornicione merlato della
torre di un castello. A Mary sembrò quasi di tro-
varsi in mezzo a loro.
Si volse verso la finestra e vide un grande tratto
di terreno scosceso senza un albero, simile a uno
sterminato e squallido mare rossastro.
«Cos’è quello?» domandò, indicando la fine-
stra.
Martha, la cameriera, si rizzò in piedi e a sua
volta chiese:
«Quello là fuori?»
28 IL GIARDINO SEGRETO

«Sì.»
«È la brughiera» rispose con un sorriso. «Vi
piace?»
«No, per niente.»
«Perché non ci avete ancora fatto l’abitudine»
replicò Martha, tornando presso il camino. «Forse
vi sembra troppo grande e nuda, ma finirà per pia-
cervi.»
«A voi piace?»
«Certo» rispose Martha, continuando il suo la-
voro. «Mi piace, e non la trovo troppo nuda. Anzi,
è coperta di erbe che mandano un buon odore. In
primavera, poi, e in estate, quando fioriscono l’e-
rica e la ginestra, è una meraviglia. L’aria è fresca,
e c’è un buon profumo di miele tutt’intorno, e ron-
zano le api, e le allodole cantano così dolcemen-
te! Non mi piacerebbe proprio vivere lontano
dalla brughiera.»
Mary l’ascoltava piena di stupore. Com’era dif-
ferente quella ragazza dai servi indiani! Quelli
erano sottomessi e non facevano che inchini; non
si sarebbero mai permessi di discorrere coi loro
padroni da pari a pari. A quelli si davano ordini, e
basta. Mary non aveva mai detto né “per favore”
né “grazie”. Anzi, quando era in collera, aveva an-
che preso a schiaffi la balia. Pensò che Martha,
malgrado la sua aria buona e tranquilla, non si sa-
rebbe lasciata schiaffeggiare senza reagire, e tan-
to più da una bambina come lei.
«Siete una strana cameriera» disse sdegnosa.
CAPITOLO QUATTRO 29

Martha smise di pulire e la guardò ridendo e


per nulla offesa.
«Eh, lo so! Se ci fosse una vera padrona in que-
sta casa, non potrei essere che una semplice
sguattera e non avrei mai potuto salire ai piani
superiori. Sono troppo ignorante e parlo quasi
solo dialetto. Ma questa è una strana casa: sono la
signora Medlock e il signor Pitcher che comanda-
no. Quanto al signor Craven, lui non vuole essere
seccato, quando c’è; ma è quasi sempre via. La
signora Medlock mi ha dato questo posto perché
è una buona donna. Però me l’ha detto, che non
avrebbe mai potuto farlo, se questa fosse stata
uguale a tutte le altre case signorili.»
«Siete la mia cameriera?» domandò Mary, col
suo solito tono imperioso.
«Sono la cameriera della signora Medlock,
come lei è del signor Craven» fu la decisa risposta
della ragazza. «Comunque, mi ha assegnato la
pulizia di queste stanze, e posso aiutarvi. Non
credo, però, che avrete molto bisogno di me.»
«E chi mi vestirà?»
Martha fece un balzo e la guardò stupita.
«Che volete dire? Non sapete vestirvi da sola?»
«No» rispose la bimba, sdegnosa. «Non l’ho
mai fatto in vita mia. Era la balia che mi vestiva.»
«È tempo che impariate, allora!» replicò Mar-
tha, non rendendosi conto della sua impertinenza.
«Alla vostra età vi farà bene badare un poco a voi
stessa. Mia madre dice sempre che è un miraco-
30 IL GIARDINO SEGRETO

lo se i bambini dei signori non crescono stupidi:


sempre lavati, vestiti e portati a spasso come cuc-
cioli.»
Mary balzò a sedere, infuriata.
«Voi non sapete niente dell’India! Non sapete
niente di niente!»
E d’un tratto si sentì così sola e lontana da tutto
ciò che le era stato familiare, che ricadde di colpo
sui cuscini, scoppiando in un pianto dirotto. Sin-
ghiozzava così disperatamente che la buona Mar-
tha, un poco spaventata e molto inquieta, s’avvi-
cinò al letto e si chinò su di lei.
«Non piangete, signorina, non piangete così.
Non volevo darvi un dispiacere. Avete ragione: io
non capisco proprio niente.»
Il tono cordiale e confortante delle sue parole
ottenne un buon effetto su Mary. E la bambina a
poco a poco si calmò e smise di piangere. Martha
si rasserenò.
«È ora che vi alziate, signorina. Vi porterò la co-
lazione nella stanza vicina, come mi ha ordinato
la signora Medlock. Sarà la vostra camera, d’ora
innanzi. Se vi alzate, vi aiuto a vestirvi. Certo, se il
vestito si abbottona dietro non potrete sbrigarvela
da sola.»
Finalmente Mary si decise ad alzarsi. L’abito
che Martha tolse per lei dall’armadio non era
quello che aveva indossato il giorno prima.
«Quello non è il mio vestito» disse la bambina.
«Il mio è nero.» E diede un’occhiata all’abito bian-
CAPITOLO QUATTRO 31

co e alla mantellina pure bianca che Martha tene-


va in mano. «Ma questo è più carino.»
«Ve l’ha comprato la signora Medlock a Londra.
È stato il signor Craven a ordinarglielo. Le ha
detto: “Non voglio veder girare una bambina vesti-
ta di nero, come un’anima in pena. Renderebbe
ancora più triste questa casa. Vestitela di bianco.”
Mia madre ha detto che ha capito perché il padro-
ne ha voluto così. Mia madre capisce sempre
tante cose.»
«Non mi piace la roba nera» disse Mary.
Nel vestirla Martha rimase molto meravigliata;
tante volte aveva aiutato i fratellini e le sorelline a
vestirsi, ma non aveva mai visto una bambina farsi
servire così tranquillamente, come se non avesse
né mani né piedi.
«Nemmeno le scarpe vi mettete da sola?» do-
mandò Martha, quando vide tenderle un piede.
«Me le metteva la balia» rispose Mary. «In India
si usa così.»
Mary, dunque, era sempre stata trattata come
una bambola. Prima, però, di essere pronta per la
colazione, cominciò a capire che nella nuova
dimora avrebbe finito per imparare molte cose del
tutto nuove per lei, come mettersi calze e scarpe e
raccogliere gli oggetti che lasciava cadere.
Se Martha fosse stata una cameriera finita,
avrebbe saputo che era compito suo vestire e pet-
tinare la padroncina, infilarle le scarpe e tenere in
ordine tutte le sue cose. Ma lei non era altro che
32 IL GIARDINO SEGRETO

una contadinella cresciuta in una povera casa di


campagna, in mezzo a una nidiata di fratelli e sorel-
le, dove ognuno, di necessità, doveva imparare
presto a badare a sé stesso per essere il meno pos-
sibile di peso al resto della famiglia. E se Mary fosse
stata una bambina facile al riso, come tante altre, si
sarebbe divertita alla semplice grossolanità del suo
linguaggio, ma, per il momento, si limitava solo a
stupirsi della sua impertinenza. Tuttavia, a poco a
poco, la cordialità di Martha la conquistò, e comin-
ciò anche a interessarsi a quel che diceva.
«Eh, dovreste vedere la mia famiglia!» raccon-
tava Martha. «Siamo in dodici, sapete, e mio pa-
dre guadagna molto poco. La mamma deve far
miracoli per dar da mangiare a tutti. Ma i ragazzi
giocano e saltano tutto il giorno per la brughiera,
e la mamma dice che vivono d’aria e di erba
come i cavallini. Il nostro Dickon, che ha dodici
anni, dice di avere un cavallino tutto suo.»
«Dove l’ha trovato?»
«Nella brughiera, quando era ancora piccolo;
ha cominciato a portargli qualche tozzo di pane, a
strappare qualche ciuffo d’erba per lui, e ora sono
diventati amici. È buono Dickon, e tutti, anche le
bestie, gli vogliono bene.»
Mary non aveva mai avuto una bestiola tutta
per sé, e le sarebbe piaciuto possederne una. Per
questo Dickon cominciava a piacerle, ed era un
buon segno, dal momento che finora non aveva
pensato che a sé stessa. Quando passò nella stan-
CAPITOLO QUATTRO 33

za accanto, non la trovò molto diversa da quella in


cui aveva dormito. Non era certo adatta per una
bambina, con tutti quei quadri vecchi e scuri alle
pareti e quelle enormi sedie di legno.
Sul tavolo, al centro della stanza, era preparata
un’ottima colazione, ma Mary non aveva quasi
mai appetito, e quando Martha le porse il primo
piatto, fece una smorfia di disgusto.
«Non ne ho voglia!» disse.
«Non volete la zuppa d’orzo?» esclamò Martha
incredula.
«No.»
«Ma è buona, sapete! Metteteci un po’ di zuc-
chero e assaggiatela.»
«Non ne ho voglia!» insistette Mary.
«Non vorrete che la butti via! È un peccato!»
disse Martha. «Se ci fossero i ragazzi, in cinque
minuti non ce ne sarebbe più.»
«E perché?»
«Perché? Ma perché non hanno mai lo stoma-
co pieno! Sono sempre affamati come lupi.»
«Io non so che cosa sia patire la fame» disse
Mary con indifferenza.
«Vi farebbe bene provare!» esclamò Martha
indignata. «Non ho pazienza con la gente che fa
tante smorfie a tavola. Mio Dio, se fossero qui
Dickon e Phil e Jane!»
«Perché non la portate a loro?»
«Non è roba mia» replicò Martha. «E poi non è
il mio giorno di libertà, oggi. Vado a casa una volta
34 IL GIARDINO SEGRETO

al mese, e in quel giorno faccio io le faccende di


casa, perché la mamma si riposi un poco.»
Mary mangiò una fettina di pane e marmellata
e bevve una tazza di tè.
«E ora copritevi bene e andate in giardino a gio-
care» le consigliò Martha. «Vi farà venire un po’
d’appetito.»
Mary andò alla finestra e vide dei bei viali e dei
grandi alberi, ma tutto le appariva grigio e triste.
«Che cosa vado a fare in giardino in un giorno
come questo?»
«Ma se non uscite, che cosa farete qui tutta
sola?»
Mary si guardò attorno. Non c’era niente da
fare. A tutto aveva pensato la signora Medlock, ma
non a comprarle dei giocattoli; e allora era meglio
dare un’occhiata al giardino.
«Chi verrà con me?» domandò.
Martha restò allibita.
«Andrete da sola; dovete imparare a giocare da
sola come fanno tutti i bambini che non hanno né
fratelli né sorelle. Dickon va spesso da solo nella
brughiera, e ci rimane per ore e ore. Ecco perché
fa amicizia coi cavallini. C’è anche una pecora
che lo riconosce, e poi molti uccellini beccano le
briciole di pane dalle sue mani. Per quanto ci sia
poco da mangiare, lui riesce sempre a tenere da
parte qualcosa per le sue bestiole.»
E fu proprio questo secondo accenno a Dickon
che decise Mary a uscire, sebbene non ne avesse
CAPITOLO QUATTRO 35

molta voglia. Fuori ci sarebbero stati uccellini da


guardare, se non pecore o cavallini. Forse erano
diversi da quelli indiani, e si sarebbe divertita a
osservarli.
Martha le fece indossare il cappotto e il cappel-
lo, le fece infilare un paio di alti stivaletti e le
mostrò la strada.
«Di là ci sono i giardini» le disse, indicandole un
cancello seminascosto fra alti cespugli. «D’estate
ci sono dei fiori stupendi, ma ora non ce ne sono.»
E dopo un attimo di esitazione soggiunse:
«La porta di uno dei giardini, però, è chiusa a
chiave. Non c’è più entrato nessuno da dieci anni.»
«Perché?» domandò Mary, a dispetto della sua
ostentata indifferenza. E pensò che un’altra porta
chiusa a chiave s’aggiungeva alle molte di cui le
aveva parlato la signora Medlock.
«È stato il signor Craven a chiuderla, dopo che
è morta la signora: era il giardino che lei preferiva.
Egli allora non ha più voluto che alcuno vi entras-
se. Ha chiuso la porta, ha fatto un buco nella terra
e vi ha sotterrato la chiave. La signora Medlock mi
chiama: devo scappare, ora.»
Rimasta sola, Mary uscì e s’avviò verso il can-
cello che Martha le aveva indicato. Ma non poteva
fare a meno di pensare a quel giardino chiuso da
dieci anni. Chissà in quale stato si trovava, e se
c’era ancora qualche fiore. Oltrepassato il cancel-
lo, si trovò in un grande giardino con vasti prati,
alberi e aiuole bordate di semprevivi tagliati in
36 IL GIARDINO SEGRETO

forme strane, e un grande stagno con una fontana


nel centro.
Ma nelle aiuole non c’erano fiori, e la fontana
non zampillava. Certamente quello non era il giar-
dino chiuso. Ma com’era possibile chiudere un
giardino?
Era assorta in tali pensieri, quando s’accorse
che al termine del sentiero che stava percorrendo
c’era un lungo muro tutto coperto d’edera.
Quando vi giunse, vide nel mezzo una porta aper-
ta. Anche quello, evidentemente, non era il giar-
dino chiuso.
Entrò e si trovò in un orto cinto di alti muri, e nel
muro di fronte scorse un’altra porta, al di là della
quale s’intravedevano cespugli e sentieri che
separavano grandi aiuole rettangolari, piene di
verdure invernali. La bambina si rese conto allora
che quello era il primo di una serie di orti cintati.
Lungo i muri si allineavano gli alberi da frutta, e
alcune zone del terreno erano coperte da inve-
triate. Nell’insieme quel luogo le sembrò brutto e
squallido. “Forse sarà migliore d’estate” pensò.
In quel momento, dalla porta che metteva in
comunicazione i due orti entrò un vecchio con
una vanga sulle spalle. Parve stupito di vedere
Mary, e si toccò il berretto. Sembrava di cattivo
umore e per nulla soddisfatto di quell’incontro.
Mary, dal canto suo, non dimostrò certo maggior
piacere.
«Che cos’è questo?» chiese.
CAPITOLO QUATTRO 37

«Un orto.»
«E quello?» chiese di nuovo Mary, indicando la
porta da cui il vecchio era entrato.
«Un altro orto» rispose questi asciutto. «E ce
n’è un altro ancora, e poi un frutteto.»
«Posso andarci?» domandò Mary.
«Se volete, ma non c’è nulla da vedere.»
Mary non rispose. Passò per la seconda porta, e
trovò un altro orto cintato, con altre verdure e
altre invetriate. Ma in uno dei muri c’era una
porta, e questa volta chiusa. Che fosse la porta del
giardino abbandonato da dieci anni?
Poiché non era affatto timida, anzi piuttosto
capricciosa e testarda, s’avvicinò a quella porta e
girò la maniglia. E, a dispetto del suo desiderio di
scoprire la porta misteriosa, quella si aprì facil-
mente, svelando agli occhi della bimba numerosi
filari di alberi da frutta spogli e ancora chiusi nel
loro sonno invernale. Anche il frutteto era circon-
dato da alti muri, ma, sebbene Mary guardasse
attentamente, non scoprì nessun’altra porta.
Eppure il muro esterno continuava, e pareva che
ci fosse un altro giardino al di là del frutteto: si
vedevano infatti cime di alberi.
Anzi, osservando meglio, Mary scorse, su uno
dei rami più alti, un uccellino col petto coperto di
piume rosse, che, d’un tratto, cominciò a cinguet-
tare, come se l’avesse vista e volesse richiamare
la sua attenzione.
Mary si fermò ad ascoltarlo, e quel suo canto
38 IL GIARDINO SEGRETO

allegro ebbe il potere di rasserenarla un poco.


Anche una bimba scontrosa può essere triste,
quando una grande casa quasi disabitata, una
sterminata e squallida brughiera e tanti giardini
privi di fiori le fanno sentire ancora di più la soli-
tudine. E sebbene Mary continuasse a essere la
“signorina Musolungo” di sempre, pure il canto
del pettirosso riuscì a illuminare di uno stanco
sorriso quel suo povero visino desolato. Continuò
ad ascoltarlo, finché l’uccellino se ne volò via.
Mary lo seguì col pensiero, e le piacque immagi-
nare che vivesse nel giardino segreto.
L’idea di quel giardino non l’abbandonava un
momento, forse perché non aveva altro di più
interessante cui pensare. Ma era proprio curiosa
di vederlo. Perché suo zio aveva sotterrato la chia-
ve? Perché proprio lui che aveva voluto tanto bene
alla moglie ora odiava il suo giardino? Pensò se
avrebbe avuto mai l’occasione di conoscere suo
zio; ma era sicura che non le sarebbe piaciuto.
L’avrebbe solo fissato in silenzio, malgrado il desi-
derio di chiedergli una spiegazione di quella stra-
na faccenda.
«Nessuno mi vuole bene e io non voglio bene a
nessuno» sentenziò. «Non sarò mai come i figli
della signora Crawford, che non facevano altro
che parlare e ridere e giocare tutto il giorno.»
Ripensò all’uccellino dal petto rosso e all’albe-
ro sulla cui cima l’aveva veduto, e si fermò d’un
tratto come per un improvviso pensiero.
CAPITOLO QUATTRO 39

“Sono sicura che quell’albero è nel giardino


chiuso” pensò. “Ho visto i muri, e non c’era nes-
suna porta.”
Tornò nel primo orto, e vi trovò il vecchio che
vangava. Stette un poco a osservarlo; poi, visto che
non le badava, si decise a rivolgergli la parola.
«Sono stata in tutti gli orti» disse.
«Nessuno ve lo proibiva» rispose lui brusco.
«Sono entrata anche nel frutteto.»
«Non c’è nessun cane che morde.»
«Ma l’ultimo giardino è senza porta.»
«Quale giardino?» domandò il vecchio con lo
stesso tono di voce, interrompendo per un attimo
il suo lavoro.
«Quello al di là del muro» rispose Mary. «Ho
visto la cima degli alberi. Su un ramo c’era un
uccellino col petto rosso che cinguettava.»
A queste parole il vecchio sorrise debolmente,
e il suo volto triste e rugoso si trasformò. Mary ne
fu stupita, e costatò quanto un sorriso possa
mutare l’espressione di un volto, rendendolo
molto più simpatico. Non ci aveva mai pensato
prima. E il suo stupore aumentò quando sentì il
vecchio fi-schiare sottovoce, con una dolcezza
inaspettata.
Un attimo dopo qualcosa frusciò per l’aria, e il
piccolo pettirosso, volando verso di loro, si posò
delicatamente sulla terra smossa, vicino ai piedi
del giardiniere.
«Eccoti qui!» mormorò il vecchio, e continuò
40 IL GIARDINO SEGRETO

poi a parlare con l’uccellino, come fosse una per-


sona:
«Dove sei stato ieri, birbantello? Non ti ho visto
in tutto il giorno. Ti cerchi già una compagna, così
presto?»
Il pettirosso piegò il capino da un lato, e lo
guardò coi suoi occhietti vivi e lucenti come
gocce di rugiada. Non pareva per nulla intimidito;
anzi, saltellava qua e là sulla terra, in cerca di
semi e di insetti. Per la prima volta Mary provò
della tenerezza nel vedere quel batuffolo di
piume, pieno di grazia e di vivacità.
«Viene sempre quando lo chiamate?» domandò.
«Certo! Lo conosco da quando è nato: aveva il
nido nell’altro giardino, e la prima volta che è volato
sin qui era troppo debole per tornare subito indietro.
S’è fermato qualche giorno e abbiamo fatto amici-
zia. Quando è tornato di là, il nido era vuoto; era
rimasto solo, e allora è venuto di nuovo da me.»
«Che uccello è?» chiese Mary.
«Non lo conoscete? È un pettirosso; sono uc-
cellini allegri e simpatici. Vi restano fedeli come
cagnolini, se sapete come fare. Guardatelo ora
come saltella tutto impettito. Ha capito che parlia-
mo di lui.» E il vecchio giardiniere lo ammirava
affettuoso e fiero a un tempo. «È vanitoso, gli
piace che si parli di lui; ed è anche curioso: viene
sempre a vedere che cosa sto seminando. Co-
nosce tutto quello che il padrone non sa. È il capo
giardiniere, lui.»
CAPITOLO QUATTRO 41

Il pettirosso continuava a saltellare qua e là, e


ogni tanto smetteva di beccare per guardarli. A
Mary sembrò che guardasse soltanto lei, e sentì
nel cuore qualcosa che ancora non capiva.
«E dove sarà il resto della nidiata?» chiese.
«Chi lo sa? I genitori li buttano fuori dal nido
perché imparino a volare, e quelli in poco tempo
si disperdono. Questo si è sentito solo.»
Mary s’avvicinò all’uccellino e prese a fissarlo
attentamente.
«Anch’io sono sola» disse.
Capì improvvisamente che per questo, a volte,
si sentiva tanto triste e cattiva; e lo scoprì solo allo-
ra, davanti a quel pettirosso che la osservava incu-
riosito.
Il giardiniere si tirò indietro il berretto, e comin-
ciò a guardarla con un certo interesse.
«Siete la bambina che è venuta dall’India?» do-
mandò alla fine.
Mary accennò di sì col capo.
«Capisco che vi sentiate sola, e lo sarete sem-
pre di più.»
E riprese a vangare la bella terra scura con mo-
vimenti sicuri e regolari, mentre il pettirosso gli
teneva dietro, saltellando e beccando senza posa.
«Come vi chiamate?» chiese Mary.
«Ben Weatherstaff» rispose il vecchio, e poi
aggiunse, con una smorfia di amarezza: «Anch’io
sono solo: è lui il mio unico amico» e indicò il pet-
tirosso.
42 IL GIARDINO SEGRETO

«Io, invece, non ho proprio nessuno. Non ho


mai avuto un amico» mormorò Mary. «La balia
non mi voleva bene, e non ho mai giocato con
nessuno.»
I contadini di quella regione sono tutta gente
schietta e amano dire la verità, e il vecchio disse
con franchezza:
«Allora ci assomigliamo un poco: siamo taglia-
ti fuori dallo stesso tronco. Tutt’e due non siamo
belli né simpatici, e forse abbiamo anche lo stes-
so brutto carattere.»
Questo si chiamava parlar chiaro, e in verità
nessuno dei servi indiani aveva mai osato parlare
così. Per la prima volta Mary fu indotta a conside-
rare la propria persona. Era davvero tanto brutta,
e aveva anche lei la faccia scura come Ben prima
che venisse il pettirosso? E com’era il suo carat-
tere?
Ma un trillo improvviso e argentino la distrasse
dai suoi pensieri. Si voltò e vide che il pettirosso si
era posato sopra il ramo di un melo vicino, e
aveva ripreso a cantare. Il vecchio rise di gusto.
«Che cosa vuole?» chiese Mary.
«Vuole fare amicizia con voi. A quanto pare gli
siete simpatica.»
«Davvero?!» esclamò Mary; e s’avvicinò piano
all’albero, guardando in su.
«Vuoi diventarmi amico?» disse, parlando all’uc-
cellino; e il tono della sua voce era così dolce e
gentile, che questa volta fu Ben a stupirsene.
CAPITOLO QUATTRO 43

«Dunque, quando volete, sapete anche voi par-


lare come una bambina, e non come una vecchia
inacidita. Ora assomigliate a Dickon, che parla
con tutte le bestiole della brughiera.»
«Conoscete Dickon?» domandò Mary, voltan-
dosi di scatto.
«Tutti lo conoscono: è sempre in giro. Sono
sicuro che anche le eriche e le more lo conosco-
no, e persino le volpi e le allodole non fuggono
dinanzi a lui.»
Mary avrebbe voluto chiedere di più: Dickon la
incuriosiva quanto il giardino segreto. Ma in quel
momento il pettirosso smise di cantare, aprì le ali
e volò via. La visita era finita, ed egli aveva altro da
fare.
«È volato di là del muro!» esclamò Mary. «Ora
è nel frutteto. Ha passato anche l’altro muro. È
entrato nel giardino che non ha porte!»
«È là che vive» spiegò Ben. «E vi è anche nato.
Forse l’aspetta, tra i vecchi rosai, qualche bella
madamina, col petto rosso come il suo.»
«Nei rosai! Ci sono dei rosai là dentro?»
«C’erano, dieci anni fa» borbottò il vecchio,
raccogliendo la vanga.
«Mi piacerebbe vederli» replicò Mary. «Dov’è la
porta? Ci deve pur essere una porta.»
Ben si rabbuiò in viso e la guardò con la stessa
espressione scortese che aveva al momento del
loro incontro.
«C’era dieci anni fa, ma ora non c’è più.»
44 IL GIARDINO SEGRETO

«Eppure ci deve essere!» insistette Mary.


«Nessuno sa dov’è, e nessuno deve cercarla. E
voi non fate la curiosa, e non ficcate il naso in
cose che non vi riguardano. Su, andate a giocare,
ora. Io non ho più tempo da perdere con voi.»
E, detto questo, rimise la vanga sulla spalla e se
ne andò, senza guardarla né salutarla.
Capitolo cinque

Dapprima i giorni trascorsero tutti uguali e mo-


notoni per Mary. Ogni mattina, svegliandosi,
vedeva Martha inginocchiata davanti al camino
ad attizzare il fuoco, poi faceva colazione nella
stanza accanto, e dopo la colazione si metteva
alla finestra a guardare la brughiera, che si esten-
deva a perdita d’occhio. Dopo un po’ si decideva
a uscire, dal momento che in casa non aveva pro-
prio niente da fare. Non si rendeva conto che
questo le giovava moltissimo, e che, camminan-
do svelta, oppure correndo lungo i viali e i sentie-
ri del giardino, le si rianimava il sangue e tutto il
suo fisico s’irrobustiva. Correva per scaldarsi, ma
odiava il vento che sferzava il viso e le fischiava
negli orecchi. Senza che lei lo sapesse, però, l’a-
ria fresca e sana le dilatava i polmoni, dava un po’
di colore alle sue pallide gote e un po’ di vivacità
ai suoi occhi.
Dopo alcuni giorni trascorsi interamente all’aria
libera, si svegliò una mattina con un insolito appe-
tito e, per la prima volta, vuotò la tazza di zuppa
46 IL GIARDINO SEGRETO

d’orzo in un batter d’occhio e senza smorfie.


«Era buona, stamattina?» domandò Martha.
«Oggi mi piace» rispose Mary, quasi più stupita
di Martha.
«È l’aria della brughiera che vi dà appetito. E
siete fortunata, perché il mangiare non vi manca.
Noi eravamo in dodici, sempre affamati e con
poco o niente da mettere sotto i denti. Continuate
a giocare in giardino e vedrete che presto mette-
rete un po’ di carne addosso, e non sarete più
tanto gialla.»
«Non ho niente con cui giocare» replicò Mary.
«Niente?!» esclamò Martha. «I nostri ragazzi
giocano coi sassi e coi pezzetti di legno. Corrono,
gridano, e osservano tutto.»
Mary non gridava, ma si guardava attorno; non
aveva altro da fare, mentre passeggiava di conti-
nuo nei giardini e lungo i viali.
Qualche volta cercava Ben, il vecchio contadi-
no, ma gli pareva sempre troppo occupato o
scuro in viso. Una volta, poi, che si era avviata
verso di lui, Ben se n’era andato con la sua vanga,
quasi l’avesse fatto di proposito.
La sua meta preferita era il lungo viale che fian-
cheggiava il muro di cinta degli orti. Sul muro s’ar-
rampicava l’edera, e per un buon tratto era ben
tagliata e regolata. Sull’ultima parte del muro,
invece, cresceva in un disordinato groviglio, come
se da anni fosse stata trascurata.
Quando Mary fece questa scoperta, erano tra-
CAPITOLO CINQUE 47

scorsi alcuni giorni dal suo colloquio col vecchio


Ben. Si era appunto fermata a osservare un lungo
ramo d’edera che, staccandosi, dondolava al
vento, quando qualcosa di rosso balenò per l’a-
ria, subito seguito da un gaio cinguettio. E là, in
cima al muro, si posò il pettirosso di Ben, e
cominciò a guardarla, piegando il capino da un
lato.
«Oh, sei tu, sei tu?» esclamò la bimba, e non le
sembrò affatto strano quel suo parlare a un uccel-
lino, come se lui potesse risponderle.
E infatti il pettirosso rispose, a modo suo, s’in-
tende, cinguettando e saltellando in cima al
muro. Ma se pure non si esprimeva a parole, a
Mary parve che dicesse: “Buon giorno! Non sono
belli il vento e il sole? Non è tutto bello qui? Vieni,
su, vieni! Cantiamo e saltiamo!”
Mary sorrise e, correndo lungo il muro, seguì il
pettirosso che a voli brevi s’allontanava. Povera
piccola Mary! Con quel sorriso appena accennato
sulle labbra pareva quasi bella!
«Vengo! Vengo!» gridava, continuando a seguir-
lo. Alla fine cinguettò anche lei, e tentò persino di
fischiare senza sapere come si faceva. E l’uccelli-
no le rispondeva con trilli acuti e gioiosi, finché,
d’un tratto, aprì le ali e volò dritto in cima a un
albero, dove si posò a riprendere il suo canto.
Mary si ricordò della prima volta che l’aveva
visto. Anche allora l’uccellino era sulla cima di un
albero e lei si trovava nel frutteto. Ora, invece, era
48 IL GIARDINO SEGRETO

fuori, sul viale, ma il muro e l’albero erano certa-


mente gli stessi.
“È il giardino senza porta” disse fra sé “dove
vive il pettirosso. Come vorrei entrarci!”
Ripercorse il viale fino alla porta del primo orto,
attraversò di corsa i due orti, entrò nel frutteto, e
di là dal muro riconobbe l’albero, sulla cui cima
l’uccellino stava terminando il suo canto e comin-
ciava a pulirsi le piume col becco.
“È quel giardino” ripeté. “Ne sono sicura, ora.”
Esaminò il muro, ma anche questa volta non
trovò nessuna porta.
Ritornò sui suoi passi, fino al lungo muro ester-
no ricoperto di edera; lo percorse in tutta la sua
lunghezza, fece il giro dell’altra parte, ma non tro-
vò la porta che cercava.
«È strano davvero» mormorò. «Ben ha ragione.
Eppure una porta ci deve essere stata, se dieci
anni fa lo zio ne ha seppellito la chiave.»
La cosa la interessava a tal punto che cominciò
anche a essere soddisfatta della sua nuova dimo-
ra. In India il caldo la rendeva apatica e indolente,
ma a Misselthwaite il vento freddo della brughie-
ra spazzava via, a una a una, le ragnatele che
ancora legavano il suo cervellino, destandone l’in-
telligenza.
Rimase fuori quasi tutto il pomeriggio, e la sera
a cena aveva molto appetito, ma era anche molto
stanca e insonnolita. Si sentiva bene però, e le
chiacchiere di Martha non l’infastidivano più.
CAPITOLO CINQUE 49

Anzi, quando ebbe finito, si sedette comodamen-


te sul tappeto davanti al camino e decise di rivol-
gerle una domanda.
«Perché il signor Craven odia quel giardino?»
Quella sera aveva pregato Martha di rimanere
con lei, e Martha non aveva rifiutato. Era ancora
una ragazza e, abituata alla sua casetta piena di
fratelli e sorelle, non si sentiva a suo agio con il
resto della servitù, poiché il domestico e le due
cameriere si burlavano del suo dialetto e la guar-
davano con aria sprezzante. A Martha piaceva
chiacchierare, e quella bimba venuta dall’India,
dove era vissuta in mezzo a servi neri, la incurio-
siva.
Così, senza che le venisse chiesto, si sedette
anche lei sul tappeto.
«Ancora ci pensate?» domandò. «Lo immagi-
navo; a me in principio succedeva lo stesso.»
«Perché lo odia?» insistette Mary.
«Sentite il vento come urla intorno alla casa»
disse Martha, tirandosi un piede sotto, per star più
comoda. «Stanotte non si sta in piedi nella bru-
ghiera.»
Mary rimase in ascolto, e si rese presto conto
che quella specie di cupo ruggito, simile alla col-
lera furiosa di un gigante che volesse abbattere
porte e finestre, era il vento. E provò piacere di
sentirsi al riparo nel dolce tepore di una stanza
ben riscaldata.
«Ma perché lo odia?» ripeté testarda; voleva a
50 IL GIARDINO SEGRETO

tutti i costi che Martha le rivelasse quello che


sapeva.
E Martha finalmente rispose:
«Badate che la signora Medlock non vuole che
se ne parli; del giardino e di molte altre cose di
questa casa. È un ordine del signor Craven; dice
che i suoi dispiaceri sono affar suo. Se non fosse
stato per quel giardino, tutto sarebbe diverso qua
dentro. L’aveva fatto costruire la signora Craven,
quando erano sposati da poco; vi trascorrevano
insieme lunghe ore, leggendo e parlando, e colti-
vando loro stessi i fiori. Nessuno poteva entrare,
nemmeno il giardiniere, la porta era sempre chiu-
sa a chiave. La signora era giovane, quasi una
bambina, e aveva una predilezione per un vec-
chio albero con un grosso ramo piegato fino a
terra. Aveva fatto arrampicare delle rose su quel
ramo, e spesso ci andava a sedere. Ma un brutto
giorno il ramo si spezzò, e la povera signora,
cadendo, si fece tanto male che il giorno dopo
morì. I dottori credettero che egli impazzisse dal
dolore. Ecco perché odia tanto quel giardino e
non permette a nessuno di parlarne, e tanto me-
no di entrarvi.»
Mary fu colpita dalla dolorosa vicenda, e rimase
a lungo pensierosa, guardando il fuoco e ascoltan-
do il sibilo incessante del vento. E intanto una cosa
buona nasceva in lei: la quarta, in verità, da quan-
do era arrivata a Misselthwaite. Le era parso di
comprendere il linguaggio, tutto trilli e gorgheggi,
CAPITOLO CINQUE 51

di un pettirosso; aveva fatto lunghe corse in giardi-


no per scaldarsi; aveva mangiato con appetito per
la prima volta in vita sua; e ora sentiva pietà per
qualcuno: stava decisamente migliorando.
Nell’ascoltare il vento avvertì anche un altro
suono. Dapprima le riuscì difficile individuarlo,
perché a intervalli si confondeva con il rumore
del vento. Era un rumore strano: pareva il pianto
di un bimbo. È vero che il vento, a volte, produce
suoni molto simili a un lamento, ma quel suono
non veniva dall’esterno. E ben presto Mary fu
certa che proveniva dall’interno della casa: lonta-
no, forse, ma in casa.
«Non sentite qualcuno piangere?» domandò ri-
volta a Martha.
Martha rimase imbarazzata. «No» rispose. «È il
vento. Spesso pare il lamento di qualcuno che si
sia perduto nella brughiera.»
«Ma ascoltate meglio» insistette Mary. «Viene
dal fondo di uno dei grandi corridoi.»
In quel momento dovette aprirsi una porta a
pianterreno, perché una forte corrente penetrò
nel corridoio e la porta della stanza si spalancò.
Martha e Mary balzarono in piedi, mentre la can-
dela si spense. E quel pianto, prima attutito, si udì
più chiaro e distinto.
«Ve l’ho detto!» esclamò Mary. «C’è un bambi-
no che piange!»
Martha corse alla porta e la chiuse a chiave, ma
nel frattempo si udì un’altra porta sbattere nel cor-
52 IL GIARDINO SEGRETO

ridoio, e di colpo ci fu un gran silenzio. Anche il


vento si era un poco calmato.
«Era il vento» ripeté Martha ostinata. «O forse
era Betty, la sguattera: è tutto il giorno che si
lamenta per il mal di denti.»
Martha nascondeva a fatica l’imbarazzo, e Mary
si convinse che non diceva la verità.
Capitolo sei

L’indomani pioveva a dirotto. Quando Mary andò


come al solito alla finestra, la brughiera scompari-
va quasi nella nebbia. Uscire era impossibile.
«Che cosa fate a casa vostra in giornate come
questa?» domandò a Martha.
«Cerchiamo di non darci noia a vicenda» rispo-
se la ragazza. «Allora sì ci accorgiamo di essere in
tanti! La mamma è una donna molto paziente, ma
in giorni come questo s’innervosisce anche lei. I
più grandi vanno a giocare nella stalla. Dickon,
invece, non ha paura dell’acqua: esce ugualmen-
te, come se ci fosse il sole; dice che anche nei gior-
ni di pioggia ci sono tante cose da vedere. Un gior-
no ha trovato una volpe piccina in una tana allaga-
ta; la madre e gli altri fratellini erano già morti
annegati. Dickon ha infilato la bestiola sotto la
camicia, per scaldarla, e l’ha portata a casa. Un’al-
tra volta ha trovato un corvo sfinito dal freddo; ha
portato a casa anche quello e l’ha addomesticato.
Si chiama Carbone, perché è tanto nero, e lo
segue dappertutto.»
54 IL GIARDINO SEGRETO

Mary ormai ascoltava volentieri Martha; anzi,


prendeva tanto interesse alle sue storie che non
avrebbe mai voluto lasciarla andare via. Martha le
parlava della sua casetta nella brughiera, dove
quattordici persone vivevano in quattro piccole
stanze, felici anche nella povertà, anche se più
volte non avevano abbastanza da nutrirsi. Com’e-
rano diverse le fiabe della sua balia indiana! Mary
pensava a quei dodici bimbi sempre allegri e
rumorosi come una nidiata di cuccioli, ma senti-
va simpatia soprattutto per Dickon e per la
mamma di Martha. Se Martha le riferiva qualcosa
che la mamma aveva detto, erano sempre cose
belle da ascoltare.
«Se avessi anch’io una volpe o un corvo per
giocare!» disse Mary. «Ma non ho niente.»
Martha la guardò perplessa.
«Non sapete lavorare a maglia?» domandò.
«No.»
«E cucire?»
«No.»
«Leggere?»
«Sì.»
«E allora perché non leggete qualcosa? C’è
sempre da imparare!»
«Non ho libri; li ho lasciati in India.»
«È un peccato! Ma se la signora Medlock vi lascia
andare in biblioteca, ne troverete più di mille.»
Mary non chiese dov’era la biblioteca, perché
le era improvvisamente venuta l’idea di cercarse-
CAPITOLO SEI 55

la da sé. La signora Medlock non l’impauriva, tan-


to più che non si muoveva quasi mai dal suo salot-
tino al pianterreno. Anche i domestici s’incontra-
vano assai raramente in quella strana casa. Infatti,
quando il padrone era assente, preferivano star-
sene tutto il giorno nella grande cucina, piena di
oggetti lucenti in ottone e peltro, a consumare i
loro abbondanti pasti; o nella sala accanto a loro
destinata a ridere e scherzare, soprattutto quando
anche la signora Medlock era fuori.
Quella mattina, dopo che Martha se ne fu anda-
ta, Mary rimase ancora un po’ alla finestra. L’idea
della biblioteca continuava a frullarle nel cervelli-
no. Veramente la sua curiosità era eccitata, più
che da mille libri, dalle cento stanze chiuse a chia-
ve. Ma erano cento davvero? E tutte chiuse a chia-
ve? Giacché non poteva uscire, decise di contarne
almeno le porte. Nessuno le aveva mai insegnato
a chiedere il permesso prima di fare qualcosa,
così non ritenne necessario domandare alla signo-
ra Medlock se poteva fare un giro per la casa.
Aprì la porta e uscì nel corridoio, percorrendo-
lo fino in fondo. Si accorse che altri corridoi si
staccavano da quello, e da questi numerose sca-
lette portavano ad altri corridoi ancora. E c’erano
tante porte, una vicina all’altra, e grandi quadri
appesi alle pareti: paesaggi strani o figure di uomi-
ni e signore, con stupendi abiti di seta e velluto.
Una galleria, poi, aveva le pareti interamente rico-
perte di ritratti.
56 IL GIARDINO SEGRETO

La percorse lentamente in tutta la sua lunghez-


za, fissando quei visi immobili che pareva la se-
guissero con lo sguardo, come a chiederle: “Che
fai tu qui? Chi sei?” Molti erano ritratti di bambine
vestite di pesanti abiti di raso, lunghi fino ai piedi;
altri di maschietti con le maniche a sbuffo, i colletti
di pizzo e i capelli lunghi e ricciuti.
Mary si fermava a osservarli e si domandava
quali potevano essere stati i loro nomi, e dov’era-
no andati, e perché erano vestiti a quel modo.
C’era anche una bimba, con il vestito di broccato
verde, che teneva sulla manina un pappagallo; le
assomigliava un poco, così magra e pallida.
«Dove sei ora?» chiese Mary ad alta voce. «Oh,
vorrei tanto che tu fossi qui con me!»
Che strana mattina fu quella! Mentre girovagava
su e giù per scale e scalette, attraverso stretti pas-
saggi e vasti corridoi, le pareva di essere sola in
quell’immensa casa e che tutti quei corridoi non
fossero mai stati percorsi prima di lei. E perché
tante stanze? Se le avevano costruite, qualcuno
doveva averle abitate; e ora tutte erano deserte.
Solo quando fu al secondo piano le venne in
mente di toccare le porte. Erano tutte chiuse,
come aveva detto la signora Medlock; ma alla
fine, nel girare una maniglia, Mary sentì che que-
sta cedeva sotto la pressione della sua mano. Ne
fu quasi spaventata e, tremando per l’emozione,
spinse la pesante porta. Si trovò in una grande
camera da letto con le pareti adorne di arazzi e
CAPITOLO SEI 57

mobili intarsiati come ne aveva veduti anche in


India. L’ampia finestra dava sulla brughiera, e
sopra il camino la stessa bimba pallida di prima
pareva fissarla più che mai dalla sua cornice
dorata.
“Forse dormiva qui” pensò. “Chissà perché mi
guarda così?”
Dopo quella aprì parecchie altre porte e visitò
tutte le stanze nelle quali poté entrare. In tutte c’e-
rano quadri enormi e vecchi arazzi, mobili di ogni
stile e strani soprammobili. In un salotto con le
pareti interamente rivestite di velluto ricamato
c’era un armadietto contenente un centinaio di
piccoli elefanti d’avorio. Ce n’erano di tutte le di-
mensioni, e alcuni portavano sul dorso il guidato-
re, altri un palanchino. E i più grossi erano seguiti
da minuscoli elefantini, quasi a formare una fami-
glia. Mary, che tanti elefanti veri aveva visti in In-
dia, si divertì a toglierli dall’armadietto e a metter-
li in fila sul pavimento. Ma presto si stancò e li ri-
mise a posto.
Durante il suo vagabondaggio Mary non aveva
incontrato persona viva e un profondo silenzio l’a-
veva accompagnata ovunque. Ma in un salotto un
lieve fruscio la fece trasalire. Si guardò attorno, e i
suoi occhi si posarono su un grande sofà dal
quale pareva provenisse quel rumore. Sul sofà vi
era un cuscino di velluto, e da un buco nel vellu-
to faceva capolino un musino con due occhietti
spaventati.
58 IL GIARDINO SEGRETO

Mary s’avvicinò piano piano e vide che un topo-


lino grigio, rosicchiato il cuscino, vi aveva stabilito
la sua dimora: era una mammina con sei piccini
che dormivano vicino a lei. Se non c’era nessuno
nelle cento stanze, c’erano almeno sette topolini,
che parevano soddisfatti di tanta solitudine.
“Se fossi sicura di non spaventarli, li porterei via
con me” disse fra sé.
Ma ormai aveva gironzolato abbastanza e co-
minciava a sentirsi stanca; decise, quindi, di torna-
re indietro. Sbagliò strada e fu costretta a salire e a
scendere più volte prima di infilare il corridoio giu-
sto; alla fine si ritrovò sul suo piano, sebbene piut-
tosto lontana dalla sua camera. Si fermò al termine
di uno stretto corridoio tappezzato di stoffa.
“Dove sono?” si domandò. “Ho forse sbagliato
ancora strada? Che silenzio!”
Ma proprio mentre pensava così avvertì un
suono... Era il piagnucolare di un bambino, che
giungeva sino a lei attutito dallo spessore dei muri.
“È più vicino di ieri sera” pensò Mary, mentre il
cuore le batteva forte forte. “Ed è proprio un bam-
bino che piange!”
Per caso appoggiò una mano al muro, e s’ac-
corse con stupore che in quel punto la tappezze-
ria celava una porta, che si schiuse, svelando ai
suoi occhi un altro tratto di corridoio, nel quale
stava passando la signora Medlock con un grosso
mazzo di chiavi in mano e un’espressione contra-
riata in viso.
CAPITOLO SEI 59

«Che cosa fate qui?» chiese, prendendo Mary


per un braccio. «Cosa vi avevo detto?»
«Ho sbagliato strada» si scusò Mary. «Mi ero fer-
mata un attimo qui, perché ho udito qualcuno
piangere.»
In quel momento sentì proprio di odiare la
governante.
«Voi non avete udito niente» replicò la gover-
nante. «Tornate in camera vostra, se non volete
passare dei guai.»
E prese la bimba per un braccio, trascinandola
con poco garbo per altri due corridoi fino in ca-
mera sua.
«E ora» disse, «rimanete qui, altrimenti sarò co-
stretta a chiudervi a chiave. Sarebbe meglio che il
padrone vi prendesse una governante, come ave-
va deciso a suo tempo. Ci vuole una persona che
vi sorvegli! Io ho altro da fare!»
E uscì sbattendo la porta. Mary allora andò a
sedersi sul tappeto davanti al camino, pallida di
rabbia, ripetendo tra sé: “Eppure ho sentito pian-
gere! Ne sono sicura!”
L’aveva sentito due volte, e un momento o l’al-
tro avrebbe scoperto chi era.
In tutti i modi quella era stata una mattina inte-
ressante; le pareva di aver fatto un lungo viaggio
alla scoperta di molte cose nuove.
Aveva giocato con gli elefanti d’avorio e aveva
visto una famigliola di topi, alloggiata in un cusci-
no di velluto.
Capitolo sette

Due giorni dopo Mary, destandosi, balzò a sedere


sul letto e gridò a Martha:
«Guardate! Guardate la brughiera!»
La bufera era cessata; durante la notte il vento
aveva spazzato le nuvole e la nebbia, e aveva ces-
sato di soffiare. Sopra la brughiera s’incurvava un
cielo di un azzurro cupo, come Mary mai aveva
visto. In India il cielo era sempre pallido e sfocato;
questo, invece, scintillava limpido come la super-
ficie di un lago profondo. Qua e là vagavano pic-
cole nubi candide e soffici come la neve. E la bru-
ghiera pareva riflettere tutto quell’azzurro fino a
perdere il suo abituale colore rossastro.
«Già!» esclamò Martha. «La burrasca è passa-
ta; fa spesso così. Se ne va di notte, come se non
ci fosse mai stata, come se non intendesse più
tornare. È perché sta arrivando la primavera: è
ancora lontana, ma già si annuncia.»
«Pensavo che in Inghilterra piovesse sempre e
fosse sempre grigio il cielo» disse Mary.
«Macché!» replicò Martha, mentre ripuliva il
CAPITOLO SETTE 61

camino. «Questo è il Paese più soleggiato del


mondo... Quando c’è il sole. Ve l’avevo detto che
la brughiera vi sarebbe piaciuta. Aspettate ancora
un po’, e vedrete fiorire le ginestre color dell’oro e
l’erica, tutta campanule porporine; allora verran-
no le farfalle e le api, e le allodole canteranno
tutta la loro gioia di vivere. Vi verrà voglia di alzar-
vi col sole e rimanere fuori tutto il giorno, come fa
Dickon.»
«Ci potrò mai andare, nella brughiera?» chiese
Mary col faccino serio e gli occhi persi in quell’az-
zurro così nuovo per lei.
«Chi lo sa? Mi pare che non abbiate mai usato
le gambe, da quando siete nata. Ci sono più di
cinque chilometri per arrivare a casa mia.»
«Mi piacerebbe vedere la vostra casa.»
Martha la guardò incuriosita, prima di riprende-
re la pulizia del camino. Pensava che quel visino
pallido e triste era certo meno dispettoso della
prima mattina, e in quel momento le ricordava
quello della sua Susan, quando desiderava molto
qualche cosa.
«Ne parlerò con la mamma» rispose. «Lei trova
sempre il modo di sistemare tutto. Oggi è la mia
giornata di libertà: sono contenta di andare a casa.
La signora Medlock ha molta stima della mamma;
chissà che non si lasci convincere da lei.»
«Mi piace vostra madre» dichiarò Mary. «Anche
se non la conosco.»
«Lo credo!» esclamò Martha, fregandosi il naso
62 IL GIARDINO SEGRETO

come per riflettere. «È una donna così buona e


attiva e pulita che tutti le vogliono bene, anche se
non la conoscono. Quando torno a casa, faccio
salti di gioia nella brughiera.»
«Anche Dickon mi piace» continuò Mary, «e
non l’ho mai visto.»
«Vi ho pur detto che anche gli uccellini, i coni-
gli, le pecore, i cavallini e le volpi gli vogliono
bene! Piuttosto, chissà cosa penserebbe Dickon
di voi?»
«Non gli piacerei» rispose Mary, col tono freddo
e duro di sempre. «Non piaccio a nessuno.»
Martha la guardò.
«E a voi stessa piacete?» domandò con schiet-
ta sincerità.
«Niente affatto!» rispose la bimba. «Però, non ci
avevo mai pensato.»
Martha scoppiò a ridere.
«Una volta la mamma l’ha chiesto anche a me»
disse. «Stava facendo il bucato, e io ero di cattivo
umore e parlavo male della gente; lei allora si
voltò verso di me e mi domandò: “Diavoletto
impertinente! Dici che questa non ti piace e quel-
la non ti piace... E tu, ti piaci?” Mi venne da ridere,
e così ritrovai il mio buon umore.»
Appena servita la colazione a Mary, Martha se
ne andò tutta allegra. Doveva percorrere cinque
chilometri per arrivare a casa, e là avrebbe dovu-
to fare il bucato e il pane: eppure era felice.
Mary, all’idea che Martha non ci sarebbe stata
CAPITOLO SETTE 63

per tutto il giorno, si sentì più sola che mai.


Scappò in giardino, e per prima cosa si mise a cor-
rere intorno allo stagno: dopo aver fatto dieci giri,
tutti di corsa, si sentì meglio. Il sole aveva quasi
trasformato il giardino, e Mary, camminando a
naso in su, si perdeva a guardare il cielo azzurro e
le bianche nuvolette. Andò nel primo orto e vi
trovò il vecchio Ben al lavoro con altri due giardi-
nieri. Il bel tempo pareva aver trasformato anche
lui, tanto che per primo le rivolse la parola.
«La primavera è alle porte» disse. «Non ne sen-
tite il profumo?»
Mary aspirò profondamente.
«Sento un buon odore di fresco e umido»
disse.
«È l’odore della terra arata» replicò Ben conti-
nuando a zappare, «è pronta per la semina, ora,
ed è contenta anche lei. D’inverno, invece, è tri-
ste, perché non ha nulla da fare. Nelle aiuole qual-
cosa sta muovendosi sotto, nel buio; fra non
molto, col tepore del sole, vedrete spuntare tante
piccole piantine verdi.»
«E cosa saranno?»
«Crocus, e bucaneve, e narcisi selvatici. Non li
avete mai visti?»
«No. In India faceva molto caldo, e quando pio-
veva tutto si copriva d’erba in una sola notte»
rispose Mary.
«Questi non crescono in una notte» replicò
Ben. «Bisogna aspettare. Vedrete: dapprima usci-
64 IL GIARDINO SEGRETO

rà una puntina verde, poi s’allungherà un po’, e


infine si apriranno le prime foglioline.»
Mary lo ascoltava attenta. D’un tratto un battito
d’ali le fece alzare lo sguardo verso il cielo, e subi-
to dopo il piccolo pettirosso si posò a terra e
cominciò a saltellare allegro e vispo così vicino ai
suoi piedi, che Mary domandò a Ben:
«Credete che mi riconosca?»
«Riconoscervi?!» esclamò Ben, quasi indigna-
to. «Certo! Conosce tutto, lui! E poiché non ha mai
visto una bambina qui, cerca in tutti i modi di sco-
prire chi siete. Non si può nascondere nulla a lui.»
«Anche nel giardino dove vive il pettirosso stan-
no spuntando le piantine?»
«Quale giardino?» brontolò Ben, rabbuiandosi
in viso.
«Quello dei vecchi rosai» rispose Mary. Non
poteva fare a meno di parlarne, tanta era la sua
curiosità. «Sono morti tutti i fiori, o qualcuno
spunterà questa estate? E ci saranno ancora le
rose?»
«Domandatelo a lui» disse Ben, indicando il
pettirosso. «È il solo a saperlo. Da dieci anni non
c’è entrato che lui.»
Mary s’allontanò lentamente, pensando. Aveva
preso ad amare quel giardino, come già voleva
bene al pettirosso, a Dickon e alla mamma di
Martha, e anche a Martha. Era molto per lei, che
non aveva mai voluto bene a nessuno.
Come al solito andò a passeggiare sul grande
CAPITOLO SETTE 65

viale lungo il muro coperto d’edera, al di là del


quale vedeva le cime degli alberi; e nel tornare in
giù per la seconda volta, udì il pettirosso cinguet-
tare poco lontano, in mezzo a un’aiuola. Mary
capì che l’aveva seguita, e ne fu sorpresa e com-
mossa a un tempo.
«Oh, tu mi riconosci!» esclamò. «È vero, dun-
que! Come sei grazioso!»
Mentre la bimba gli parlava, l’uccellino le sal-
tellava intorno, cinguettando; pareva che proprio
le volesse rispondere. E intanto gonfiava il suo
minuscolo petto rosso, liscio al pari della seta,
come a mostrarle che realmente la capiva e che
non aveva nulla da invidiare agli uomini. E quan-
do l’uccellino le permise di avvicinarsi fin quasi a
toccarlo, Mary pareva un’altra bimba: si curvò a
terra e gli parlò, e tentò persino di rifare il suo
verso. Era tanto felice che quasi le mancava il
respiro, e il pettirosso, dal canto suo, pareva sicu-
ro che per nulla al mondo ella gli avrebbe fatto
male o paura.
Nell’aiuola non c’erano fiori, ma solo alcuni
arbusti che crescevano disordinatamente. Alle
radici di questi l’uccellino beccava senza posa,
alla ricerca di qualche verme. A un certo punto si
fermò su un mucchietto di terra; probabilmente
l’aveva fatto un cane nel cercare una talpa, e poi
se n’era andato lasciando la terra smossa e una
grossa buca nel mezzo. Mary, che non perdeva di
vista il pettirosso, notò un oggetto seminascosto
66 IL GIARDINO SEGRETO

fra la terra. Dapprima le parve un anello di ottone


o di ferro, ma quando poté chinarsi a raccoglierlo,
poiché l’uccellino era volato su un cespuglio vici-
no, scoprì che si trattava di una vecchia chiave
arrugginita.
Mary si rialzò, stringendo la chiave con dita tre-
manti.
“Forse è quella del giardino” mormorò fra sé,
“ed è rimasta per dieci anni nascosta in questo
buco.”
Capitolo otto

Mary rimase a lungo a osservare la chiave, giran-


dola e rigirandola fra le mani, mentre la sua testo-
lina era tutto un fermento di idee nuove. Come vi
ho detto, la bimba non era stata educata a chie-
dere permesso o consiglio ad alcuno; così, la
prima cosa che le passò per la mente fu che, se
quella era veramente la chiave del giardino chiu-
so, e se lei riusciva a scoprirne la porta, sarebbe
forse potuta entrare a vedere che cosa c’era al di
là del muro, e se i rosai erano ancora vivi. Il fatto
che quel giardino fosse rimasto chiuso così a
lungo eccitava la sua fantasia, che si sbizzarriva in
mille supposizioni, facendole credere che in quel
luogo dovevano essere avvenute molte strane
cose durante quei dieci anni. Vi sarebbe potuta
entrare ogni giorno a suo piacimento, e, chiuden-
do la porta alle sue spalle, avrebbe potuto giocare
indisturbata. Nessuno, infatti, avrebbe potuto sco-
prirla, non immaginando che lei aveva ritrovato
quella chiave da tutti creduta seppellita sotto
terra, chissà dove.
68 IL GIARDINO SEGRETO

Mise la chiave in tasca e riprese a passeggiare


in su e in giù lungo il muro. Non c’era nessuno
tranne lei sul viale, così che poté, con tutta tran-
quillità, esaminare il muro, o meglio l’edera che lo
ricopriva. L’edera era il maggior ostacolo; per
quanto Mary aguzzasse la vista, non le riusciva di
scorgere altro che le sue foglie verdi e lucide, fit-
tamente aggrovigliate le une sulle altre. La cosa
l’irritava e non poco: non poteva fare a meno di
guardare la cima di quegli alberi così vicini e al
tempo stesso tanto lontani. Forse la porta era a
due passi da lei, eppure non riusciva a scoprirla.
Alla fine si stancò e rientrò in casa, decisa a por-
tare sempre la chiave con sé ogni volta che usci-
va in giardino, in modo da averla a portata di
mano al momento opportuno.
La signora Medlock aveva permesso a Martha
di dormire a casa sua, ma l’indomani mattina la
ragazza era già al lavoro, più rossa in viso e più
allegra che mai.
«Mi sono alzata alle quattro» disse Mary. «È
bella la brughiera a quell’ora! Al levar del sole gli
uccelli cominciano a cantare e i conigli a correre
qua e là fra i cespugli... Lungo la strada un uomo
mi ha presa sul suo carro, e mi sono divertita
molto.»
Aveva mille cose da raccontare dopo quella
giornata trascorsa a casa. Sua madre era stata
contenta di vederla; avevano fatto il bucato e il
pane, e persino le ciambelle per i ragazzi.
CAPITOLO OTTO 69

«Le ho levate dal forno quando sono rientrati, e


la casa profumava tutta del buon odore del pane
e dei dolci, ed era piena di grida gioiose. Dickon
ha detto che pareva la casa di un re!»
Alla sera si erano seduti tutti intorno al fuoco, e
mentre aiutava la mamma a rammendare calzini
e camiciole, aveva parlato a lungo della bambina
venuta dall’India, dove era stata sempre servita,
tanto che non sapeva nemmeno mettersi le calze
da sé.
«Dovevate vedere come mi ascoltavano!» e-
sclamò Martha. «Volevano sapere tutto dell’India
e del viaggio per mare, ma non sono riuscita ad
accontentarli.»
Mary rifletté un momento.
«In questo mese vi racconterò tante altre cose»
disse infine. «Così potrete parlare loro degli ele-
fanti e dei cammelli, e degli ufficiali che vanno a
caccia di tigri.»
«Davvero?» gridò Martha felice. «Impazziranno
dalla gioia, come quando è venuto in paese il
circo con le bestie feroci.»
«Ma vederle in un circo è diverso che vederle
libere nelle foreste» replicò Mary. «Io non sono
mai stata in un circo... E vostra madre e Dickon
cosa hanno detto di me?»
«Dickon aveva gli occhi fuori dalla testa dalla
curiosità» rispose Martha. «Alla mamma, invece,
dispiace che voi siate sempre tanto sola. “Ma il
tuo padrone” mi ha chiesto “non le ha preso una
70 IL GIARDINO SEGRETO

governante?” “No” ho risposto io. “La signora


Medlock dice che lo farà quando si ricorderà; ma
forse ci penserà soltanto fra due o tre anni.”»
«Non voglio governanti!» ribatté subito Mary.
«La mamma dice che dovreste cominciare a
studiare, alla vostra età, e avere anche qualcuno
che vi sorvegli. Poi ha soggiunto: “Pensa un po’,
Martha, come ti sentiresti tu, sola in una casa tan-
to grande e senza la mamma vicina. Cerca di star-
le accanto più che puoi e di distrarla con qualche
storia.”»
«Ma voi lo fate già» disse Mary, «e mi piace sen-
tirvi parlare.»
Martha uscì dalla stanza e rientrò subito dopo
nascondendo qualcosa sotto il grembiule.
«Vi ho portato un regalo!» gridò tutta contenta.
«Un regalo?!» esclamò Mary sorpresa. Come
poteva ricevere un regalo da una casa di quattor-
dici persone prive a volte anche delle cose più
indispensabili?
«È passato un venditore ambulante da casa
nostra, col suo carretto colmo di mille cose. La
mamma, però, era senza soldi e non poteva com-
prare niente. Ma quando quello stava per andar-
sene, Lizabeth si è accorta che aveva delle belle
corde per saltare e lo ha gridato forte. La mamma
allora ha chiamato indietro l’uomo del carretto e
gli ha chiesto: “Dite un po’, buon uomo, quanto
costano quelle corde?” “Due soldi” ha risposto
quello. E la mamma si è rivolta a me, dicendo:
CAPITOLO OTTO 71

“Martha, tu mi hai portato il salario e sei stata


brava: io ne spenderò due soldi per comprare una
corda a quella povera bimba tanto sola.”»
E nel dir questo, Martha le mostrò una bella
corda nuova con i manici di legno turchino. Mary,
che non aveva mai visto una corda per saltare, la
osservò incuriosita.
«A cosa serve?»
«Come!» esclamò Martha. «In India avete visto
elefanti e cammelli e non avete mai visto una cor-
da per saltare? Ecco a cosa serve: guardate me!»
Corse in mezzo alla stanza e, tenendo un mani-
co in ogni mano, cominciò a saltare e saltare,
mentre Mary la guardava; anche i ritratti alle pare-
ti parevano fissarla, sbalorditi dall’audacia di quel-
la contadinella che si permetteva di fare una cosa
simile davanti ai loro volti austeri. Ma Martha non
si preoccupava di loro; s’accorgeva solo della lieta
sorpresa di Mary, e continuò a saltare contando
fino a cento.
«Quando avevo dodici anni» disse fermandosi,
«saltavo di più: arrivavo anche a cinquecento, ma
allora ero meno grassa, e più in esercizio.»
Mary non stava in sé dalla gioia.
«Mi piace» disse. «Vostra madre è stata molto
gentile. Credete che riuscirò a imparare?»
«Provate!» le rispose Martha, porgendole la cor-
da. «In principio non arriverete fino a cento, ma
col tempo diventerete più brava di me. E poi la
mamma ha detto che, se salterete la corda in giar-
72 IL GIARDINO SEGRETO

dino, all’aria pura, aumenterete di statura e vi si


rinforzeranno i muscoli delle gambe e delle brac-
cia.»
Naturalmente, ai primi salti, le gambette di Mary
si dimostrarono molto deboli, ma il nuovo gioco le
piaceva tanto che non avrebbe mai smesso.
«Ora mettetevi il cappotto e andate in giardino»
le suggerì Martha. «La mamma ha detto che dove-
te andare fuori con ogni tempo, purché siate ben
coperta.»
Mary era già sulla porta, quando si fermò come
per un improvviso pensiero.
«Martha... Quei soldi veramente erano vostri. Vi
ringrazio» disse, piuttosto imbarazzata poiché non
era abituata a ringraziare e ad accorgersi di quel-
lo che gli altri facevano per lei. «Grazie» disse
ancora, e le tese la mano, non sapendo che altro
fare.
Martha gliela strinse appena, ancora più imba-
razzata di lei; poi si mise a ridere.
«Siete una strana bambina; sembrate già vec-
chia!» esclamò. «La mia Lizabeth mi avrebbe da-
to più semplicemente un bacio.»
Mary s’irrigidì.
«Volete che vi dia un bacio?»
«No davvero! Dovevate darmelo spontanea-
mente; ma voi siete diversa dalle altre bambine.
Non importa, andate a saltare in giardino!»
Mary ci rimase un po’ male, e uscì pensando
che Martha era piuttosto strana a volte; però, se in
CAPITOLO OTTO 73

principio non le era piaciuta affatto, ora comin-


ciava quasi a volerle bene.
Quella corda, poi, era una cosa meravigliosa, e
Mary non si era mai divertita tanto. Saltava e con-
tava, contava e saltava, finché le guance le diven-
tarono rosse rosse. C’era un bel sole, e un’arietta
fresca le ventilava sul viso, portandole il profumo
della terra arata di fresco. Sempre saltando, Mary
fece il giro della fontana e andò su e giù per i viali.
Alla fine entrò nel primo orto, dove Ben, zappan-
do, parlava col pettirosso che come al solito gli
saltellava attorno. Il vecchio la guardò stupito.
«In fede mia!» esclamò. «Vedo che, in fondo,
siete proprio una bambina, e avete anche del san-
gue nelle vene, e non latte acido. Avete un bel
colore in viso, questa mattina, e vi assicuro che
non mi sarei mai aspettato di vedervi così.»
«È la prima volta» disse Mary «che salto la cor-
da. Non arrivo a più di venti.»
«Continuate; è già molto per una bambina cre-
sciuta in mezzo ai servi. Vedete come vi guarda?»
disse, accennando al pettirosso. «Ieri vi ha segui-
ta, anche oggi lo farà; vuol sapere a che cosa
serve quella corda che avete nelle mani. Non ne
ha mai vista una prima d’ora. Ehi!» disse, rivolto al
pettirosso. «Un giorno o l’altro finirai male con la
tua curiosità!»
Mary fece il giro degli orti e, sempre saltando,
entrò anche nel frutteto, fermandosi solo di quan-
do in quando. Alla fine andò sul suo viale preferi-
74 IL GIARDINO SEGRETO

to, e decise di percorrerlo tutto di seguito. A metà


strada, però, dovette fermarsi, perché le mancava
il respiro. Ma era contenta ugualmente: aveva già
fatto trenta salti di seguito. Alzò gli occhi e vide il
pettirosso che si dondolava su un lungo ramo d’e-
dera. L’aveva seguita, e ora la salutava col suo
allegro cinguettio. Fece due o tre salti verso di lui,
e solo allora s’accorse di aver qualcosa di pesan-
te in tasca.
«Ieri mi hai aiutato a scoprire la chiave» disse
sorridendo all’uccellino. «Oggi dovresti indicarmi
la porta. Ma forse non sai dov’è.»
Il pettirosso volò in cima al muro e cominciò a
cantare assai dolcemente e a gonfiare le piume
per farsi notare.
Mary, che in India aveva spesso sentito parlare
di magia dalla sua balia, ritenne che solo per effet-
to di magia poté avvenire quanto avvenne subito
dopo.
Un soffio di vento più forte dei precedenti scos-
se le cime degli alberi e sollevò i rami dell’edera.
Mary, che s’era avvicinata al muro per vedere
meglio il pettirosso, ne afferrò svelta un fascio,
perché non tornasse di nuovo indietro. Aveva
intravisto qualcosa che i rami le avevano prima
celato... Era la maniglia di una porta!
Subito la bambina affondò le mani nelle foglie:
l’edera era molto folta, ma quasi tutta distaccata
dal muro. Le batteva il cuore e le mani le trema-
vano per l’emozione, e anche il pettirosso cin-
CAPITOLO OTTO 75

guettava e saltellava, piegando il capino ora da


una parte ora dall’altra, come se anch’esso parte-
cipasse all’eccitazione della sua nuova amichetta.
Che cos’era quella superficie quadrata, tutta di
ferro, sulla quale le sue dita avevano trovato un
buco? Era la serratura della porta rimasta chiusa
per dieci anni! Levò la chiave di tasca e l’infilò
nella toppa. Era la sua! Dovette usare tutt’e due le
mani per girarla, ma, alla fine, ci riuscì.
Respirò di sollievo e guardò se per caso soprag-
giungeva qualcuno lungo il viale; ma non vide
nessuno. Tirò un altro respiro e, tenendo scostata
l’edera con una mano, con l’altra spinse la porta,
che adagio adagio si aprì.
Scivolò dentro. Richiuse la porta e rimase ap-
poggiata per guardarsi attorno, col respiro affan-
noso, sorpresa e felice: finalmente si trovava
all’interno del giardino segreto!
Capitolo nove

Era il luogo più bello e misterioso che si potesse


immaginare! Gli alti muri che lo circondavano
erano coperti dai rami spogli delle rose rampican-
ti, così fitti che s’intrecciavano l’uno con l’altro.
Mary capì che erano rose perché ne aveva viste
tante in India.
L’erba aveva perso con l’inverno il suo bel verde
lucente, e qua e là, sul terreno, si vedevano cespu-
gli che, se non erano morti, dovevano essere pure
rosai. Altre rose erano cresciute tanto da essere
quasi simili a piccoli alberelli. C’erano poi molti
alberi, e anche su questi le rose rampicanti aveva-
no appoggiato i loro fitti rami, che spesso ricadeva-
no verso terra, quasi a formare un leggero ondeg-
giante sipario. Molti rami di rose, poi, i più lunghi,
parevano essersi dati la mano per unirsi a ponte da
un albero all’altro. Non c’erano foglie su di essi, e
Mary non poteva sapere se erano vivi o morti.
Quel loro intrecciarsi fino a formare un bruno
tortuoso mantello gettato su ogni cosa, sui muri e
sugli alberi, persino sull’erba, dove molti rami
CAPITOLO NOVE 77

erano caduti, dava al giardino un aspetto pieno di


mistero. Mary l’aveva immaginato diverso da
qualsiasi altro giardino che non fosse stato abban-
donato per tanti lunghi anni, ma il reale aspetto di
quel luogo superava ogni immaginazione.
«Che silenzio!» mormorò sottovoce. «Che pace!»
Anche il pettirosso, posato sul suo albero pre-
ferito, se ne stava tranquillo, senza cantare, senza
nemmeno battere le ali, e guardava Mary.
«Non c’è da meravigliarsi di tanto silenzio»
riprese. «Da dieci anni sono la prima a parlare qui
dentro.»
Finalmente si allontanò dalla porta, camminan-
do in punta di piedi, come se temesse di sveglia-
re qualcuno; e fu contenta che l’erba attutisse il
rumore dei suoi passi. Arrivò sotto uno dei bruni
archi che i rami di rose formavano tra un albero e
l’altro, e si fermò a osservarli. «Forse sono tutti
morti» disse. «Forse non è altro che un giardino
morto. Ma vorrei tanto che non lo fosse!»
Ben, forse, con una semplice occhiata alla cor-
teccia degli alberi, avrebbe capito se erano vivi o
morti, ma a Mary non riusciva di scorgere altro
che tronchi e rami secchi, senza l’ombra di una
gemma.
Intanto, però, era entrata nel giardino segreto, e
poteva entrarci tutte le volte che lo desiderava; le
pareva di avere scoperto un meraviglioso mondo
tutto suo.
Il sole splendeva, e il cielo pareva ancora più
78 IL GIARDINO SEGRETO

azzurro e limpido che sulla brughiera. Il pettirosso


era sceso dall’albero e la seguiva saltellando sul-
l’erba o svolazzando da un cespuglio all’altro.
Cinguettava senza posa, come volesse indicarle
tutto quello che c’era da vedere. In quello strano
silenzio Mary ebbe l’impressione di essere mille
miglia lontano dal resto del mondo; eppure non si
sentiva sola. L’unico suo desiderio era di sapere
se, a primavera, qualcuno di quei rosai sarebbe
tornato a fiorire. Se tutti, poi, fossero rinati, quale
spettacolo sarebbero state quelle migliaia di rose
in fiore!
Teneva sempre in mano la sua corda, e dopo
aver camminato per un po’ pensò che avrebbe
percorso, saltando, tutto il giardino, fermandosi
solo di tanto in tanto a osservare meglio. Qua e là
dovevano esserci stati dei sentieri, e negli angoli
c’erano delle nicchie formate da sempreverdi che
ombreggiavano alcuni sedili di pietra e grandi vasi
di fiori, coperti di muschio.
Si fermò vicino alla seconda nicchia: lì doveva
esserci stata un’aiuola, e le parve di veder spunta-
re qualcosa dalla terra bruna: erano alcune punti-
ne di un verde pallido. Mary si chinò a osservarle
e mormorò:
«Sono le foglioline nuove, e potrebbero essere
crocus o bucaneve o narcisi selvatici.» Si chinò
ancor di più, respirando il buon odore della terra
umida.
«Forse ce ne saranno delle altre» disse. «Farò il
CAPITOLO NOVE 79

giro del giardino per cercarle.»


E riprese lentamente il suo cammino, con gli
occhi fissi a terra.
Così scoprì in mezzo all’erba un’infinità di pic-
cole puntine verdi, specialmente là dove si vede-
vano i segni delle vecchie aiuole.
«Non è un giardino morto!» esclamò quasi
commossa. «Se pure sono morte le rose, ci sono
altre piante vive.»
La bimba s’accorse che in certi punti l’erba cre-
sceva tanto vicina alle piantine che queste pare-
vano non avere spazio sufficiente per respirare. Si
guardò attorno e scorse un pezzo di legno secco
e appuntito: lo usò a mo’ di zappa, per smuovere
la terra e togliere le erbacce intorno alle nuove
piantine.
«Ora sì che possono crescere bene!» esclamò,
dopo aver ripulito le prime. «Farò questo lavoro
per tutte. Se oggi non mi riesce di finire, tornerò
domani.»
La nuova occupazione la divertiva e la riscalda-
va, tanto che prima si tolse il cappotto, poi il cap-
pello; e quasi senza volerlo sorrideva all’erba e
alle nuove piantine.
Anche il pettirosso era indaffarato, felice che
qualcuno finalmente lavorasse in quel giardino.
Quando Ben smuoveva la terra, ne uscivano per
lui tante buone cose; e ora quella bimbetta tanto
piccina faceva la stessa cosa nel suo giardino.
Mary lavorò alacremente, e quando si ricordò
80 IL GIARDINO SEGRETO

che doveva rientrare per il pranzo era già in ritar-


do; mettendosi cappotto e cappello e raccoglien-
do la sua corda, si meravigliò lei stessa di aver
lavorato per due o tre ore senza accorgersene. Ma
era felice, e le pareva che anche le decine e deci-
ne di piantine finalmente liberate da tante noiose
erbacce gioissero con lei.
«Tornerò nel pomeriggio» disse, rivolta agli al-
beri e ai rosai del suo nuovo regno.
Poi riaprì la pesante porta, la richiuse con cura,
badando di nasconderla bene con l’edera, e giun-
se di corsa a casa con le guance così rosse, gli
occhi che le brillavano e tanto appetito che
Martha ne rimase sorpresa.
«Due fette di carne e due porzioni di pasticcio di
riso!» esclamò. «La mamma sarà contenta quando
le dirò che il gioco della corda vi fa tanto bene.»
Mary si ricordò di aver trovato, mentre zappava,
una piccola radice bianca simile a una cipolla; l’a-
veva rimessa a posto e ricoperta ancora di terra,
ripromettendosi di chiedere a Martha che cosa
poteva essere.
«Martha, che cosa sono quelle radici bianche
che sembrano cipolline?» le chiese infatti.
«Sono bulbi» rispose Martha. «In primavera da
ogni bulbo spunta un fiore. I più piccoli sono quel-
li dei bucaneve e dei crocus, poi ci sono quelli dei
narcisi e delle giunchiglie, e dai più grossi nasco-
no i gigli bianchi e rossi. Come sono belli! Dickon
ne ha piantati molti nel nostro giardinetto.»
CAPITOLO NOVE 81

«Dickon li conosce tutti?» domandò Mary con


una nuova idea per la testa.
«Dickon fa nascere i fiori anche dai muri. La
mamma dice che li fa nascere con la voce.»
«E vivono a lungo i bulbi? Vivono degli anni,
anche se nessuno li cura?» chiese Mary ansiosa.
«Sono fiori che crescono da sé; ecco perché
anche la povera gente li può coltivare. Se non li
toccate, molti lavorano sotto terra tutta una vita,
mettendo nuove foglioline ogni anno. In un prato,
in mezzo al bosco, i bucaneve crescono a migliaia
quand’è primavera; e nessuno ricorda quando
furono piantati.»
«Vorrei che fosse già primavera» disse Mary.
«Sono curiosa di conoscere tutti i fiori che nasco-
no in Inghilterra.»
Nel frattempo aveva terminato di pranzare, e si
era seduta, come al solito, sul tappeto davanti al
camino.
«Mi piacerebbe avere una zappa» disse.
«Che ne fareste di una zappa?» chiese Martha
ridendo. «Volete zappare, ora? Dirò anche questo
alla mamma.»
Mary guardava il fuoco e rifletteva. Doveva
stare molto attenta, se voleva conservare il suo
grande segreto. Non credeva di fare del male, ma
se suo zio l’avesse scoperta sarebbe certamente
montato in collera, si sarebbe procurato una
nuova serratura, avrebbe fatto chiudere la porta
del giardino; e questa volta per sempre.
82 IL GIARDINO SEGRETO

«Questo è un posto così grande e così vuoto»


continuò Mary, come se parlasse fra sé. «La casa,
il parco, gli orti. Sembra quasi disabitato. In India
non ho mai fatto nulla di particolare, ma c’era più
gente: i servi, i soldati che passavano, e qualche
volta la banda che suonava; e poi la balia mi rac-
contava tante storie. Qui non ho nessuno con cui
parlare, tranne voi e Ben. Ma voi avete da lavora-
re, e Ben spesso non ha voglia di parlare con me.
Pensavo che, se avessi una zappa, potrei zappare
come lui, e farmi anche un giardinetto, se Ben mi
desse i semi.»
«Dite davvero?» esclamò Martha. «È proprio
quello che pensava la mamma. “C’è tanta terra
laggiù” ha detto. “Perché non gliene danno un
pezzetto per seminare qualcosa, magari solo un
po’ di prezzemolo e di insalata? Sono sicura che la
bimba si divertirebbe.”»
«Ha detto così?» domandò Mary. «Quante cose
capisce vostra madre! E quanto costerà una
zappa, non tanto grande, adatta per me?»
«In paese ho visto, nella vetrina di un negozio,
una zappa, un badile e un rastrello legati insieme;
costavano solo due scellini. Sono piccoli, ma cre-
do ci si possa lavorare bene.»
«I denari li ho; dall’India ho portato cinque scel-
lini, e la signora Medlock mi dà uno scellino alla
settimana da spendere come voglio. È un ordine
dello zio.»
«Allora siete ricca!» disse Martha. «Potete com-
CAPITOLO NOVE 83

prarvi tutto quel che volete. Noi paghiamo trenta


soldi di fitto per la nostra casetta, e mio padre
deve sudare per guadagnarli. Ora mi viene un’i-
dea...»
«Quale?» domandò Mary impaziente.
«In quel negozio che vi dicevo vendono anche
dei sacchettini di semi da fiori a un soldo ciascu-
no; Dickon sa quali sono i più belli e come si col-
tivano. Lui va spesso in paese, solo per il piacere
di fare una passeggiata. Sapete scrivere in stam-
patello?»
«So scrivere» rispose Mary.
«Il guaio è che Dickon legge solo lo stampatel-
lo. Gli si potrebbe scrivere una lettera, dicendogli
di andare in paese a comprare gli arnesi e anche
i semi.»
«Come siete buona e gentile!» gridò Mary fuori
di sé dalla gioia. «Vedrete che riuscirò a scrivere in
stampatello: chiederò carta, penna e calamaio al-
la signora Medlock.»
«Ho anch’io tutto l’occorrente» disse Martha.
«Qualche volta, la domenica, provo a scrivere alla
mamma. Vado subito a prenderli.»
E scappò via, lasciando Mary che batteva le
mani per la contentezza.
“Se avrò una zappa” pensava frattanto, “potrò
smuovere meglio la terra e togliere tutte le erbac-
ce; e coi semi farò nascere tanti fiori, così quello
non sarà più un giardino morto.”
Non uscì nel pomeriggio, perché Martha non
84 IL GIARDINO SEGRETO

poté aiutarla subito: prima dovette sparecchiare


la tavola e portar via i piatti, poi fu trattenuta in
cucina dalla signora Medlock. Quando finalmente
fu libera, non fu un’impresa facile scrivere a
Dickon. Mary non aveva imparato molto dalle
varie istitutrici che aveva avuto in India e che non
avevano resistito a lungo ai suoi capricci. Tuttavia,
dopo i primi disastrosi tentativi riuscì a scrivere in
stampatello; ed ecco quello che ne uscì sotto la
dettatura di Martha:

CARO DICKON,
SPERO CHE QUESTA MIA VI TROVI TUTTI
BENE. LA SIGNORINA MARY HA MOLTI SOLDI E TI
PREGA DI ANDARE IN PAESE A COMPRARLE GLI
ARNESI DA GIARDINO CHE ABBIAMO VISTI IN
QUEL NEGOZIO, E DEI SEMI DI FIORI; CHE SIANO
I PIÙ BELLI E I PIÙ SEMPLICI DA COLTIVARE, PER-
CHÉ NON L’HA MAI FATTO PRIMA E IN INDIA ERA
TUTTO DIVERSO. SALUTAMI LA MAMMA E TUTTI
GLI ALTRI. LA PROSSIMA VOLTA CHE TORNO A
CASA HO TANTE ALTRE COSE DA RACCONTARVI:
LA SIGNORINA MI HA PARLATO ANCORA DEI
CAMMELLI E DEGLI ELEFANTI, E DEI SIGNORI
CHE VANNO A CACCIA DI LEONI E TIGRI.
TUA SORELLA MARTHA

«Metteremo i soldi nella busta e la consegnere-


mo al ragazzo del fornaio, che è amico di Dickon.»
«E come farò ad avere quello che Dickon mi
CAPITOLO NOVE 85

comprerà?» domandò Mary.


«Ve li porterà lui stesso. Gli piace venire qui.»
«Davvero?» esclamò Mary. «Allora lo conosce-
rò! Non credevo che un giorno sarei riuscita a co-
noscere Dickon.»
«Lo desideravate veramente?» chiese Martha,
quasi incredula.
«Certo! Non ho mai visto un ragazzo che è
amico delle volpi e dei corvi.»
«A proposito!» esclamò Martha, come per un
improvviso pensiero. «Dimenticavo di dirvi che ho
parlato con la mamma e mi ha promesso che
chiederà lei stessa alla signora Medlock di lasciar-
vi venire un giorno a casa nostra.»
Pareva che le cose che desiderava di più si fos-
sero date tutte appuntamento per quel giorno.
Attraversare la brughiera, e andare in quella
casetta lontana con dodici bambini... Le sembra-
va di sognare!
«Credete che la signora Medlock mi darà il per-
messo?» chiese ansiosa.
«Credo di sì. Conosce mia madre e sa che è
una donna pulita e ordinata.»
«Allora potrò conoscere anche vostra madre,
non solo Dickon» disse Mary. «Mi pare diversa dal-
le madri che ho conosciute in India.»
La straordinaria avventura di quel mattino e
l’emozione del pomeriggio avevano finito per
stancare Mary. Martha rimase con lei, ma se ne
stettero a lungo tranquille senza parlare.
86 IL GIARDINO SEGRETO

La ragazza la lasciò solo pochi minuti per scen-


dere in cucina a prendere una tazza di tè; quando
tornò, Mary le chiese:
«Ha ancora mal di denti la sguattera?»
«Perché me lo domandate?» replicò Martha
con l’aria piuttosto spaventata.
«Perché, mentre vi aspettavo, sono uscita in
corridoio per vedere se arrivavate, e ho udito
qualcuno piangere in lontananza, come quella
sera. Oggi non c’è il vento.»
«Non andate a curiosare nei corridoi, vi prego!»
disse Martha molto agitata. «Guai se vi scoprisse il
padrone!»
«Non stavo curiosando» rispose calma Mary.
«Stavo solo aspettando voi, e così ho sentito. È la
terza volta.»
«Mio Dio! La signora Medlock sta suonando.
Devo andare!» e Martha scappò via
«È la casa più strana del mondo» commentò
Mary, mentre, sempre seduta sul tappeto, appog-
giava la testa al bracciolo di una poltrona. E in
quella posizione s’addormentò; merito, senza
dubbio, dell’aria fresca, del lavoro in giardino e
della corda da saltare.
Capitolo dieci

Il sole continuò a splendere per una settimana sul


giardino segreto. Il giardino segreto! Così l’aveva
chiamato Mary; quel nome le piaceva, ma le pia-
ceva ancora di più la sensazione strana che pro-
vava quando, chiusa entro quelle vecchie mura,
sapeva che nessuno avrebbe potuto scoprirla. Le
pareva di essere fuori dal mondo, e di vivere in
uno di quei luoghi incantati di cui si parla solo
nelle fiabe. In quelle fiabe dove le persone dor-
mono anche cento anni in giardini meravigliosi
come il suo. Mary però non aveva nessuna inten-
zione di dormire, anzi s’andava sempre più sve-
gliando ogni giorno che passava. Ora le piaceva
moltissimo stare all’aria aperta e non odiava più il
vento; poteva correre più svelta e più a lungo, ed
era arrivata persino a fare cento salti con la corda.
Le piantine, poi, potevano finalmente respirare,
dopo che lei le aveva liberate dall’erba che le
soffocava, e crescevano rapidamente, mentre il
sole le riscaldava e la pioggia le bagnava meglio.
Mary era una personcina strana, ma decisa; ora
88 IL GIARDINO SEGRETO

che aveva trovato qualcosa d’interessante da fare,


ci s’impegnava anima e corpo. Strappava erbac-
ce, senza fermarsi un attimo, e invece di stancar-
si si divertiva sempre più. E ogni giorno scopriva
nuove puntine verdi; parevano spuntare dapper-
tutto, e moltiplicarsi, anche, col passare del tem-
po. Si ricordò del prato “dove i bucaneve cresco-
no a migliaia”, moltiplicandosi da sé; forse anche
i bulbi del suo giardino, abbandonati durante quei
dieci anni, erano diventati più di mille. Ma quanto
tempo doveva passare prima che li potesse vede-
re tutti in fiore? A volte smetteva di lavorare per
dare un’occhiata in giro, e cercava di immaginar-
si come sarebbe apparso il giardino in primavera
se tutte quelle rose e quei fiori fossero rifioriti.
In quella settimana di sole s’era fatta anche più
amica del vecchio Ben. Lo colse più volte di sor-
presa, capitandogli accanto quando meno se l’a-
spettava. Di fatto, cercava di avvicinarsi il più
silenziosamente possibile, perché temeva sem-
pre che egli, vedendola, si mettesse la zappa in
spalla e se ne andasse via senza guardarla.
Dal canto suo Ben cominciava a sentire sim-
patia per la piccola Mary; l’evidente desiderio
che la bimba mostrava di parlare con lui lo lusin-
gava, e inoltre Mary si era fatta più gentile. Nei
primi tempi lo aveva trattato come avrebbe trat-
tato un servo indiano, senza sapere che un vec-
chio e rude contadino non era abituato a fare
inchini al padrone e a ricevere solo ordini.
CAPITOLO DIECI 89

«Siete come il pettirosso» le disse Ben una


mattina, quando, alzato lo sguardo, se la trovò
accanto. «Non so mai quando arrivate, né da che
parte.»
«Ora lui è mio amico» disse Mary.
«Lo credo!» borbottò il vecchio Ben. «Non
avete notato che spesso fa la ruota come un tac-
chino? È pieno di boria.»
Raramente Ben chiacchierava, e il più delle
volte rispondeva solo a monosillabi, ma quella
mattina era più ciarliero del solito. Si rizzò, appog-
giando sulla vanga uno dei suoi scarponi chioda-
ti, e la guardò con interesse.
«Quanto tempo è che siete qui?»
«Circa un mese» rispose la bimba.
«Fate onore al paese: siete un poco più grassa e
meno gialla. Sembravate un piccolo corvo spen-
nacchiato la prima volta che siete capitata qui. Non
avevo mai visto una bambina con gli occhi più ine-
spressivi e la faccia più rabbiosa della vostra.»
Mary, che non era mai stata vanitosa, non si
offese.
«Lo so che sto ingrassando» replicò. «Le calze
prima mi facevano le pieghe sulle gambe e ora
invece mi tirano. Ecco il pettirosso, Ben.»
Era venuto, infatti, e sembrava più carino che
mai: muoveva le ali e la coda, piegava il capino da
un lato e faceva un’infinità di graziose mossette,
come se volesse farsi ammirare da Ben. Ma il vec-
chio, questa volta, gli fece la voce grossa.
90 IL GIARDINO SEGRETO

«Ah, sei qui, ora!» disse. «Vieni da me quando


non hai altro di meglio da fare. Lo so, lo so che
queste due settimane le hai passate a farti bello
per qualche pettirossa!»
«Oh, guardatelo!» esclamò Mary.
Il pettirosso faceva proprio di tutto per farsi
notare: saltellò sempre più vicino a Ben, guardan-
dolo con insistenza; infine volò su un cespuglio lì
accanto e gli cantò la sua bella canzone.
«Credi di conquistarmi facendo così?» conti-
nuò Ben, facendo delle smorfie per non mettersi
a ridere. «Credi proprio che non ti si possa resi-
stere?»
Il pettirosso aprì le ali (Mary quasi non credeva
ai suoi occhi) e volò sul manico della vanga di
Ben, che s’illuminò in viso e rimase immobile,
trattenendo persino il respiro per non spaventarlo.
«Hai vinto, eh?» disse a bassa voce. «Ci sai pro-
prio fare!»
E seguitò a stare fermo, finché l’uccellino volò
via. Ben rimase ancora qualche minuto con gli
occhi fissi al manico della vanga; poi riprese il suo
lavoro senza dire più nulla.
Continuava, però, a sorridere fra sé, e Mary si
fece ardita e gli chiese:
«Avete un giardino vostro?»
«No. Abito laggiù, nella portineria.»
«E se lo aveste» insistette Mary, «che cosa ci
piantereste?»
«Cavoli, patate e cipolle.»
CAPITOLO DIECI 91

«E se voleste piantare dei fiori, quali scegliere-


ste?»
«Ogni fiore, purché abbia profumo, ma soprat-
tutto rose.»
Il viso di Mary s’illuminò.
«Vi piacciono le rose?»
Ben, prima di rispondere, si chinò a strappare
un’erbaccia e la buttò via.
«Certo! Me le ha fatte piacere la padrona che
avevo un tempo. Ne ho piantate tante nel suo giar-
dino, e lei le curava e le amava come fossero
bambini o pettirossi. Una volta l’ho vista che
baciava una rosa. Ma questo era dieci anni fa.»
«Dov’è ora?»
«In cielo» rispose il buon uomo, corrugando la
fronte.
«E delle rose che ne è stato?» insistette Mary.
«Sono state abbandonate.»
«E sono morte? Muoiono i rosai, quando nes-
suno li cura? E quando sono senza foglie, e secchi
e neri, come si può capire se sono vivi o morti?»
«Aspettate la primavera, e quando il sole li scal-
derà, e al sole seguirà la pioggia, allora lo vedrete.»
«Ma come, come?» chiese Mary, dimentica dei
suoi propositi di prudenza.
«Vedrete che sui rami, soprattutto dopo la piog-
gia, spunteranno tanti piccoli bottoncini: è il
primo segno di vita.» Ma s’interruppe di colpo e la
guardò incuriosito: «Ma perché vi interessano
tanto le rose, oggi?»
92 IL GIARDINO SEGRETO

Mary arrossì e fu imbarazzata nel rispondere.


«Voglio... voglio far finta di possedere un giardi-
no» balbettò. «Non ho niente da fare, qui, e nes-
suno con cui giocare.»
«Questo è vero» rispose Ben. E lo disse come
se sinceramente gli dispiacesse per lei. Mary, che
non si era mai rattristata per nessuno, quasi se ne
meravigliò.
Ma ora il mondo le pareva bello, ora che pote-
va entrare nel giardino segreto e giocarvi indistur-
bata.
Rimase ancora una decina di minuti con Ben e
gli fece tutte le domande che poté; lui le rispose
sempre nel suo modo rude, ma per nulla di catti-
vo umore. Parlò ancora delle rose, e Mary ne
approfittò per fargli un’ultima domanda.
«Ma i rosai di quel giardino non siete più anda-
to a vederli?» chiese.
Ben mutò espressione di colpo:
«Badate, eh! Non tante domande! Siete la bam-
bina più curiosa che io abbia mai incontrata.
Andate a giocare, ora, e basta discorsi per oggi.»
Mary capì che non le conveniva più insistere.
Se ne andò a saltare la corda lungo il viale ester-
no, e intanto pensava a Ben. Strano a dirsi, ma
cominciava a volere bene anche a Ben, malgrado
la sua ruvidezza. Le piaceva ascoltarlo, soprattut-
to quando parlava di piante e di fiori: certo se ne
intendeva molto.
Su un lato esterno del giardino segreto c’era un
CAPITOLO DIECI 93

viale di lauri che terminava in un cancelletto, e


questo dava su un bosco. Mary lo percorse, sal-
tando, fino in fondo, e stava pensando di entrare
nel bosco per vedere se c’erano conigli, quando
udì un suono curioso e volle scoprire da dove
veniva.
Una strana scena si presentò al suo sguardo,
facendole quasi trattenere il respiro per la sorpre-
sa. Un ragazzo era seduto sotto un albero, con la
schiena appoggiata al tronco, e suonava un pic-
colo flauto di legno. Aveva un’aria buffa, col naso
all’insù, le guance tonde e rosse come papaveri, e
due grandi occhi azzurri quali mai Mary aveva
visto. Poteva avere dodici anni, e il suo vestito era
misero, ma molto pulito. Dal ramo più basso del-
l’albero uno scoiattolo lo osservava, e da un
cespuglio vicino spuntava la testa di un fagiano; di
fronte a lui c’erano due conigli che soffiavano di
continuo dai loro nasini tremuli. Pareva che tutti
rimanessero lì, come incantati, ad ascoltare il
dolce richiamo del suo flauto.
Quando vide Mary, alzò una mano e disse a
voce bassissima: «Non vi muovete, altrimenti
scappano.»
Mary rimase immobile; il ragazzo smise di suo-
nare e cominciò ad alzarsi così piano che pareva
non si muovesse affatto; alla fine si rizzò in piedi,
e allora lo scoiattolo scomparve tra i rami, il fagia-
no nel cespuglio, e i conigli saltellarono via.
«Sono Dickon» disse il ragazzo, «e voi siete la
94 IL GIARDINO SEGRETO

signorina Mary; vi ho riconosciuta.»


Mary l’aveva subito immaginato: chi poteva
essere, se non Dickon, che incantava così i conigli
e i fagiani come gli indiani incantano i serpenti?
«Mi sono alzato piano» spiegò, «perché, se
avessi fatto un movimento brusco, si sarebbero
spaventati. Bisogna sempre muoversi adagio e
parlare sottovoce, quando ci sono delle bestie sel-
vatiche intorno.»
E le parlò come se l’avesse conosciuta da sem-
pre. Mary, invece, rimase un poco intimidita.
«Hai avuto la lettera di Martha?» chiese infine.
«Per questo sono venuto» rispose il ragazzo,
accennando di sì con la testa ricciuta e racco-
gliendo degli arnesi ai piedi dell’albero.
«Ho comprato un badile, una zappa, una forca
e un rastrello. E questi sono i semi; la donna del
negozio mi ha dato un pacchetto di papaveri bian-
chi e uno di speronelle in più.»
«Me li vuoi mostrare?» chiese Mary.
La bimba avrebbe voluto parlare con la stessa
felicità e semplicità con cui parlava Dickon. Era
chiaro che gli era subito piaciuta, e non si preoc-
cupava minimamente di vedere se anche lui pia-
ceva a Mary, sebbene non fosse che un contadi-
nello vestito di abiti rattoppati, coi capelli color
carota e la faccia tonda e buffa. Quando Mary gli
si avvicinò di più, notò che profumava tutto di
erica e di erba. E guardando ancora quei suoi
grandi occhi azzurri si sentì rinfrancare.
CAPITOLO DIECI 95

«Sediamoci su questo tronco» disse, «e guar-


diamo i semi.»
Quando si furono seduti, Dickon tirò fuori dalla
tasca del suo cappottino un pacchetto legato con
una cordicella; lo slegò, e dentro c’erano altri pac-
chettini, ciascuno con la figura di un fiore sopra.
«Questa è reseda e questi sono papaveri»
disse. «La reseda ha un buon profumo, e tutti e
due crescono bene in qualunque terreno.»
Ma subito s’interruppe e alzò la sua faccia rossa
e ridente.
«Dov’è quel pettirosso che ci chiama?»
Il cinguettio veniva da un fitto cespuglio, pieno
di bacche rosse, e Mary lo riconobbe.
«Sta chiamando proprio noi?» domandò.
«Certo!» rispose Dickon. «Chiama qualcuno
che conosce. È come se dicesse: “Eccomi qui!
Guardatemi! Anch’io voglio parlare.” È in quel ce-
spuglio. Di chi è?»
«È di Ben Weatherstaff, ma credo che ormai
riconosca anche me» rispose Mary.
«Sicuro che vi riconosce» esclamò Dickon. «E vi
vuole anche bene. Mi dirà tutto di voi in un minuto.»
S’avvicinò piano piano al cespuglio, e zufolan-
do rifece il verso del pettirosso. L’uccellino lo stet-
te ad ascoltare alcuni istanti, e poi rispose con un
cinguettio.
«Sì che è vostro amico!» confermò Dickon ri-
dendo.
«Lo credi davvero? E come lo sai?»
96 IL GIARDINO SEGRETO

«Non si lascerebbe avvicinare se non lo fosse»


rispose il ragazzo. «Gli uccelli fanno raramente
amicizia con gli uomini, ma quando diventano
loro amici sono fedelissimi.»
Il pettirosso, intanto, svolazzava allegro da un
cespuglio all’altro.
«Ma tu capisci quello che dicono gli uccelli?»
chiese Mary.
Dickon rise felice e rispose:
«Credo di sì, e vale lo stesso per loro. Sono
quasi sempre nella brughiera, li vedo uscire dal-
l’uovo e via via imparare a volare e a cantare. Mi
pare di essere uno di loro; davvero, mi sembra di
essere un uccello, o una volpe, o un coniglio, o
uno scoiattolo, e non so perché.»
Sempre ridendo, tornò a sedersi sul tronco e
continuò a parlare dei semi. Le disse come dove-
va seminarli e coltivarli e bagnarli, e le descrisse
anche i fiori che ne sarebbero nati.
«A proposito» disse Dickon a un tratto, «posso
seminarveli io. Dov’è il vostro pezzetto di giardino?»
Mary si sentì venir meno: a questo proprio non
aveva pensato. Presa alla sprovvista, non seppe
cosa rispondere, e divenne rossa rossa in viso.
«Ma l’avete un giardino? O forse non ve l’hanno
voluto dare?» chiese ancora Dickon, che si era ac-
corto del suo imbarazzo.
Mary alzò gli occhi su di lui e disse lentamente:
«Non ti conosco ancora bene, ma sai tenere un
segreto, se te lo dico? È un gran segreto; non so
CAPITOLO DIECI 97

che cosa farei, se lo scoprissero: credo che ne


morirei.»
Dickon la guardò sorpreso e si passò una mano
fra i capelli, come per riflettere; alla fine rispose
con molta schiettezza:
«Ne ho già tanti di segreti da mantenere; se
non sapessi tacere agli altri ragazzi dove sono i
nidi degli uccelli e le tane delle volpi e di tutte le
bestiole selvatiche, non ce ne sarebbe più di una
in tutta la brughiera. Fidatevi di me.»
Mary involontariamente lo prese per una
manica.
«Ho rubato un giardino» disse affannosamente.
«Non è mio, ma non è più di nessuno. Nessuno lo
vuole, nessuno lo cura, nessuno ci va! Forse è già
tutto morto: ma non m’importa! Non m’importa!
Nessuno ha il diritto di portarmelo via, ora che io
l’ho scoperto e lo curo.»
Era divenuta ancora più rossa, finché non le
riuscì più di controllarsi e scoppiò a piangere,
nascondendo il viso tra le mani. Povera piccola
Mary!
Dickon spalancò gli occhi, pieni di sorpresa e di
simpatia.
«Non avevo niente da fare, prima» concluse
Mary, desolata. «Non avevo nulla di veramente
mio. E ora non voglio rinunciare al mio giardino.»
«Dove si trova?» chiese Dickon a bassa voce.
Mary si alzò dal tronco con gli occhi ancora
pieni di lacrime, ma più ostinata e decisa che mai.
98 IL GIARDINO SEGRETO

«Vieni con me, e te lo mostrerò» disse.


E lo condusse per il viale dei lauri fino al muro
tutto coperto d’edera. Dickon la seguiva tranquillo
e quasi impietosito; gli pareva di essere condotto
a vedere il nido di qualche uccello sconosciuto.
Quando Mary si fermò davanti a un punto del
muro, e, scostando la cortina d’edera, gli mostrò
la porta, il ragazzo rimase stupefatto.
«Eccolo!» esclamò Mary orgogliosa, appena
furono entrati. «Questo è il giardino segreto, e io
sono la sola a desiderare che rifiorisca.»
Dickon si guardò attorno, attonito e senza parole.
«Che meraviglia!» sussurrò alla fine. «Sembra
di vivere in un sogno!»
Capitolo undici

Dickon rimase immobile qualche minuto; infine si


mosse, camminando ancora più adagio di quanto
non avesse fatto Mary la prima volta che era
entrata fra quelle vecchie mura. Pareva volesse
abbracciare tutto con un solo sguardo: gli alberi
spogli, coperti dalle rose rampicanti, il fitto grovi-
glio di rami sui muri, le nicchie di sempreverdi coi
loro sedili di pietra e i vasi da fiori.
«Non avrei mai pensato di poterlo vedere!»
mormorò.
«Ne avevi sentito parlare?» chiese Mary, parlan-
do a voce alta.
«Parliamo piano» le suggerì Dickon, «altrimenti
fuori possono sentirci.»
«Hai ragione!» disse Mary spaventata, metten-
dosi una mano sulla bocca. «Ne avevi sentito par-
lare?» ripeté poi più piano.
«Sì. È stata Martha a dirmi che c’era un giardino
dove nessuno era più entrato da dieci anni.» E gira-
va i suoi grandi occhi attorno, sorridente e felice.
«Chissà quanti nidi ci saranno in primavera!»
100 IL GIARDINO SEGRETO

aggiunse dopo un po’. «Questo è il posto più sicu-


ro, e tutti quei rami intrecciati sembrano fatti ap-
posta per accogliere nidi. Mi meraviglio che tutti
gli uccelli della brughiera non si siano ancora rifu-
giati qui.»
Mary lo prese di nuovo per la manica.
«Fioriranno le rose?» mormorò. «Riesci a capi-
re se sono ancora tutte vive?»
«Non tutte! Guardate qui!» e si avvicinò a un
albero tirando fuori di tasca un coltello da giardi-
niere. «Ci sono molti rami morti da tagliare» disse,
«e c’è molto legno vecchio. Questo, però, è del-
l’anno scorso» e toccò un rametto meno scuro e
meno secco degli altri.
Mary lo toccò pure con molta delicatezza,
quasi temesse di sciuparlo.
«È proprio vivo?»
«Vivo come voi e me!» esclamò Dickon sorri-
dendo.
«Oh, come sono felice!» mormorò Mary. «Vor-
rei che fossero tutti vivi! Vieni, andiamo a vedere
gli altri.»
Ansimava per l’eccitazione, e Dickon non le era
da meno. Andarono di albero in albero, di cespu-
glio in cespuglio, e Dickon, col suo coltello, le
andava mostrando cose nuove e meravigliose.
«Lo hanno abbandonato» disse, «e le piante più
deboli perciò sono morte; ma le più forti hanno
continuato a crescere, rinforzandosi sempre più.
Guardate questo!» disse, tirando in giù un grosso
CAPITOLO UNDICI 101

ramo secco. «Si potrebbe crederlo morto, e inve-


ce non lo è, almeno alla radice. Ora vedremo.»
S’inginocchiò a terra, e intaccò la corteccia
quasi alla radice.
«Ve l’avevo detto! È ancora verde dentro.»
Mary, anche lei inginocchiata, guardava atten-
tamente, e Dickon, intanto, continuava:
«Quando il legno è verdognolo e umido come
questo, vuol dire che è vivo; se invece è scuro
anche dentro e si rompe facilmente, allora è mor-
to. Questa radice è ancora viva, e se noi tagliamo
tutto il legno secco e zappiamo la terra, ci sarà
una cascata di rose questa estate» concluse, guar-
dando in alto verso i rami che pendevano sul loro
capo.
Dickon correva da un rosaio all’altro; abile e
forte, tagliava ora questo ora quel rametto, rico-
noscendo a prima vista quelli vivi dagli altri ormai
morti. Presto anche Mary imparò a riconoscerli, e
gioiva ogni qualvolta scopriva un ramo ancora
verde. Gli arnesi furono subito utili: Dickon zappa-
va e insegnava a Mary come usare la forca e il
rastrello.
Mentre lavoravano di buona lena intorno a uno
dei grossi rosai, Dickon vide qualcosa che lo fece
esclamare di sorpresa:
«Ehi! Questo chi l’ha fatto?» e indicò uno dei
punti dove Mary aveva strappato l’erba attorno al-
le piantine nuove.
«L’ho fatto io!» disse Mary.
102 IL GIARDINO SEGRETO

«Davvero? Credevo che non sapeste fare nulla


in giardino!»
«È vero!» rispose Mary. «Ma quelle piantine era-
no così piccole che pareva non riuscissero a respi-
rare con tutta quell’erbaccia intorno. Così l’ho
strappata. Però non so nemmeno che fiori siano.»
Dickon si chinò a osservarle col più aperto dei
suoi sorrisi.
«Siete stata brava come un giardiniere. Così
cresceranno bene e in fretta. Sono crocus e buca-
neve, e questi sono narcisi.» Passava da un’aiuola
all’altra. «Vedrete che meraviglia quando saranno
tutti fioriti. Avete fatto un buon lavoro, per una
bambina così piccola.»
«Ma ora sto ingrassando e mi sto irrobustendo.
Prima ero sempre stanca, ma di zappare non mi
stanco mai. Mi piace l’odore della terra smossa.»
«È il più buon odore che ci sia; ma ancora più
buono è quello delle piantine giovani dopo che è
piovuto. Quasi sempre, quando piove, vado nella
brughiera, e mi distendo sotto un cespuglio a sen-
tir cadere le gocce sull’erica e ad annusare come
un coniglio.»
«E non ti prendi mai un raffreddore?» domandò
Mary, piena di stupore; non aveva mai visto un
ragazzo così buffo e così simpatico al tempo stesso.
«Io no!» rispose ridendo. «Non ho mai avuto un
raffreddore da che sono nato. Sono sempre anda-
to nella brughiera, con ogni tempo, proprio come
un coniglio. La mamma dice che ho respirato
CAPITOLO UNDICI 103

tanta aria pura, per i miei dodici anni, che non mi


prenderò più nulla. Sono forte come un ramo di
biancospino.»
Intanto non smetteva un attimo di lavorare, e
Mary lo seguiva aiutandolo con la forca e col
rastrello.
«Ce n’è di lavoro da fare!» esclamò tutto felice.
«Tornerai ad aiutarmi?» lo pregò Mary. «Anch’io,
vedi, posso lavorare, e farò tutto quello che mi dirai:
zapperò e strapperò l’erba. Tornerai, dunque?»
«Verrò tutti i giorni, se vorrete, col sole e con la
pioggia» promise Dickon. «È meraviglioso starse-
ne chiusi qua dentro a far rinascere un giardino.»
«Se tornerai» continuò Mary, «e se il giardino
tornerà vivo, io... io non so che cosa farò» conclu-
se, non sapendo cosa veramente potesse fare per
un ragazzo come Dickon.
«Ve lo dirò io che cosa farete» la interruppe lui
ridendo. «Ingrasserete ancora, e vi verrà un appe-
tito da lupo; e imparerete a parlare col pettirosso.
Vedrete come ci divertiremo!» Poi si guardò attor-
no con aria pensierosa. «Ma non lo puliremo trop-
po questo giardino, sarà più bello se rimarrà un
poco selvatico come ora.»
«Hai ragione» disse Mary. «Se lo riordinassimo
troppo, perderebbe la sua aria di mistero; e que-
sto mi dispiacerebbe.»
Dickon, intanto, si grattava in testa, come se ci
fosse qualcosa che non riusciva a capire.
«È strano» disse, «ma mi sembra che qualcun
104 IL GIARDINO SEGRETO

altro, oltre il pettirosso, sia entrato qui in questi


dieci anni.»
«Ma la porta era chiusa, e la chiave sotterrata.»
«È vero! Eppure questi rami sono stati tagliati
molto più tardi» disse, esaminando un grosso
ramo di rosaio.
«Ma come avranno fatto?» si domandò Mary.
«Già! Come avranno fatto, se la porta era chiu-
sa e la chiave sotterrata...»
Mary sentì che, per tutta la vita, non avrebbe
mai dimenticato quella mattina, in cui il giardino
segreto pareva avesse cominciato a rinascere.
Dickon, intanto, dopo aver radunato tutti i rami
secchi in un bel mucchio, aveva cominciato con
lena a zappare la terra per accogliere i semi che
Mary, inginocchiata vicino a lui, teneva pronti in
mano.
«Dickon» disse la bambina a un tratto, «sei pro-
prio simpatico come diceva Martha, e mi piaci.
Sei la quinta persona, e non credevo proprio che
un giorno avrei voluto bene a cinque persone.»
Dickon si sedette sui tacchi, come faceva
Martha quando puliva il camino; con quei suoi
occhi azzurri e le guance rosse e il nasino all’insù
veniva proprio voglia di abbracciarlo, tanto era
simpatico.
«Soltanto cinque?» replicò. «E chi sono le altre
quattro?»
«Tua madre e Martha» rispose Mary, contando
sulle dita, «il pettirosso e Ben.»
CAPITOLO UNDICI 105

Dickon rise così di gusto che dovette tapparsi la


bocca con una mano.
«Lo so che mi trovate buffo» disse, «ma anche
voi siete la più strana bambina che io abbia mai
conosciuta.»
Mary, allora, s’azzardò a chiedergli una cosa
che non si era mai sognata di chiedere a nessuno
prima di quel momento.
«E io ti piaccio?»
«Certo!» rispose Dickon di cuore. «Mi siete
molto simpatica, e piacete anche al pettirosso.»
«Allora siete già in due!» esclamò Mary felice.
E ripresero a lavorare più alacremente di pri-
ma, senza accorgersi che il tempo passava.
Quando Mary sentì battere mezzogiorno, fu
sorpresa e spiacente che fosse già venuta per lei
l’ora di pranzo.
«Devo andare a casa» disse triste. «Anche tu,
vero?»
Dickon si mise a ridere.
«Il mio pranzo lo porto con me» disse. «La
mamma me lo mette in tasca.» E da un tovagliolo
bianco e blu, ordinario ma pulito, tirò fuori due
fette di pane con qualcosa nel mezzo.
«Di solito è pane solo» disse, «ma oggi c’è an-
che una bella fetta di pancetta.»
Mary lo trovò un po’ misero come pasto, ma
Dickon non pareva preoccuparsene tanto.
«Andate a mangiare, ora» le suggerì. «Io finirò
prima di voi e potrò lavorare ancora. Chiamerò il
106 IL GIARDINO SEGRETO

pettirosso» aggiunse, sedendosi in terra appoggia-


to a un albero, «e gli darò il grasso da beccare: ne
è così ghiotto!»
Mary non si decideva ad andarsene; temeva
quasi che Dickon non fosse altro che un folletto
del bosco, che poteva sparire prima del suo ritor-
no. S’incamminò verso la porta, ma, a metà stra-
da, si fermò e tornò indietro.
«Qualunque cosa accada, non lo dirai a nessu-
no, vero?» domandò ansiosa.
Dickon stava già masticando il primo boccone,
ma trovò ugualmente il modo di sorridere.
«Se voi foste un tordo e m’aveste mostrato il
vostro nido, credete che lo direi a qualcuno? No
certo! State tranquilla, dunque.»
E Mary capì che doveva credergli.
Capitolo dodici

Mary fece una tal corsa che arrivò in camera sua


senza fiato e tutta spettinata. Martha la stava
aspettando, e il pranzo era già pronto in tavola.
«È tardi» disse Martha. «Dove siete stata?»
«Ho visto Dickon! Ho visto Dickon!» gridò Mary.
«Lo sapevo che sarebbe venuto. Vi è piaciuto?»
«Trovo... trovo che sia bello!» esclamò Mary,
decisa.
Martha rimase sbalordita, ma anche molto
compiaciuta.
«È il più buon ragazzo che ci sia, ma bello, pro-
prio non direi. Ha il naso all’insù.»
«A me piace all’insù» disse Mary.
«Gli occhi, poi, hanno un bel colore, ma sono
troppo tondi.»
«Mi piacciono tondi» insistette Mary, «e sono
del colore del cielo.»
«La mamma dice che gli sono venuti di quel
colore a furia di guardare in alto. Ma ha la bocca
troppo grande.»
«Mi piace la bocca grande» protestò ancora
108 IL GIARDINO SEGRETO

Mary. «Vorrei averla io una bocca grande come la


sua.»
Martha scoppiò a ridere.
«Sarebbe ancora più buffa sul vostro faccino»
disse. «Lo sapevo, però, che Dickon vi sarebbe
piaciuto. E siete contenta degli arnesi e dei semi?»
«Come sapete che me li ha portati?» domandò
Mary.
«Ero sicura di lui. Avrebbe fatto il giro della pro-
vincia pur di trovarli.»
Mary temette che Martha le facesse delle do-
mande imbarazzanti, ma per fortuna ciò non av-
venne. Tremò un poco quando, chiedendole dove
avrebbe seminato i fiori, Martha aggiunse:
«Con chi ne avete parlato?»
«Con nessuno ancora.»
«Bene! Non chiedete niente al capo-giardinie-
re, il signor Roach; si dà un sacco di arie e potreb-
be fare il difficile.»
«Non l’ho mai visto. Conosco solo Ben e qual-
che altro giardiniere.»
«Se fossi voi, lo chiederei a Ben» le suggerì
Martha. «Non è così cattivo come sembra. Il pa-
drone, poi, gli lascia fare quello che vuole, perché
ha conosciuto la signora, e riusciva sempre a farla
ridere. Forse lui vi troverà un angolino fuori
mano.»
«E se è proprio fuori mano e nessuno lo vuole,
non dispiacerà a nessuno se lo prendo io?» do-
mandò Mary ansiosa.
CAPITOLO DODICI 109

«Non ce n’è ragione» rispose Martha. «Non fate


niente di male.»
Mary mangiò più in fretta che poté, e stava per
correre in camera a riprendere il cappotto, quan-
do Martha la fermò.
«Ho qualcosa da dirvi» disse. «Ma volevo prima
lasciarvi finire di pranzare. È tornato il signor Cra-
ven e credo voglia vedervi.»
Mary impallidì.
«Ma perché, perché?» chiese. «Non ha voluto
nemmeno vedermi quando sono arrivata: lo ha
detto il signor Pitcher.»
«Lo so» replicò Martha, «ma dice la signora
Medlock che è perché mia mamma lo ha incon-
trato in paese e lo ha fermato per parlargli di voi.
Era la prima volta che parlava con lui, ma la signo-
ra era venuta due o tre volte a casa nostra, e la
mamma si è fatta forte di questo per fermarlo.
Non so cosa gli abbia detto, ma vuol vedervi per-
ché domani riparte.»
«Va via domani!» gridò Mary. «Come sono con-
tenta!»
«E starà via molto, forse fino all’inverno prossi-
mo; va all’estero, come al solito.»
«Sono proprio contenta!» ripeté Mary. Se suo
zio stava via tanti mesi, c’era tutto il tempo di
veder rinascere il giardino segreto. Se poi lui se ne
accorgeva e lo faceva chiudere di nuovo, avrebbe
avuto almeno quella soddisfazione. «E quando lo
dovrò vedere?»
110 IL GIARDINO SEGRETO

In quel mentre si aprì la porta e apparve la


signora Medlock: indossava il suo abito più bello e
al collo aveva una spilla col ritratto del marito,
morto anni addietro, che metteva solo nelle gran-
di occasioni. Sembrava inquieta e nervosa.
«Come siete spettinata!» disse. «Presto, Martha,
aiutatela a prepararsi. Il padrone l’aspetta nel suo
studio.»
Mary divenne pallida e, col cuore che le batte-
va forte forte, tornò a essere la bimba dura e si-
lenziosa di sempre. Senza dire una parola seguì
Martha in camera e si lasciò vestire e pettinare.
Poi, continuando a tacere, seguì la signora Med-
lock nel corridoio. Del resto, che cosa avrebbe po-
tuto dire? Non poteva rifiutare di vedere suo zio,
anche se era sicura che non si sarebbero piaciuti
reciprocamente.
Fu condotta in una parte della casa che non
conosceva. Alla fine la signora Medlock bussò a
una porta, e quando una voce rispose: “Avanti!”
entrarono insieme. Un uomo era seduto in poltro-
na, davanti al fuoco, e la governante gli disse:
«Ecco la signorina Mary, signore.»
«Potete andare, signora Medlock» disse il
signor Craven. «Vi chiamerò io per condurla via.»
Quando la governante uscì dalla stanza, Mary
rimase ferma in attesa, piccola e magra, stringen-
dosi le mani. S’accorse che lo zio non era proprio
gobbo, aveva soltanto le spalle un po’ alte e curve.
Si volse verso di lei e le disse:
CAPITOLO DODICI 111

«Vieni qui.»
Mary s’avvicinò. Non era brutto, anzi il suo viso
avrebbe anche potuto essere bello, se non fosse
stato tanto corrucciato. La guardò inquieto e sec-
cato, come se non sapesse nemmeno che cosa
dirle.
«Stai bene?»
«Sì.»
«Ti trattano bene?»
«Sì.»
Lo zio si passò una mano sulla fronte.
«Sei molto magra» disse.
«Sto ingrassando ora» ribatté Mary dura dura.
Che viso infelice aveva! Pareva che quei suoi oc-
chi neri e spenti non la vedessero neppure, e il
suo pensiero faticasse a interessarsi di lei.
«Ti ho dimenticata» disse. «Ma come potevo ri-
cordarmi di te? Volevo mandarti una balia o una
istitutrice, ma l’ho scordato.»
«Vi prego...» prese a dire Mary, ma un nodo in
gola la interruppe.
«Cosa volevi dire?»
«Sono troppo grande per una balia» disse Mary,
«e, per ora, non mandatemi un’istitutrice, vi
prego.»
Egli la guardò stupito.
«È quello che ha detto anche quella donna»
mormorò distratto.
Allora Mary ritrovò un po’ di coraggio.
«È la madre di Martha?» domandò timidamente.
112 IL GIARDINO SEGRETO

«Credo di sì.»
«Lei conosce i bambini» disse Mary. «Ne ha
dodici.»
Lo zio sembrò risvegliarsi dal suo torpore.
«Cosa vuoi fare?»
«Giocare in giardino» rispose Mary, sperando
che la voce non le tremasse. «In India non lo face-
vo mai; ma qui ho appetito e mi sto rinforzando.»
Egli l’osservava attentamente, ora.
«Lo ha detto anche quella donna, la signora
Sowerby, così credo che si chiami» ripeté, «che ti
avrebbe fatto bene, e che è meglio che ti irrobu-
stisca prima di metterti a studiare con una istitu-
trice.»
«Mi sento più forte quando gioco all’aperto e
viene il vento dalla brughiera.»
«E dove giochi?» chiese suo zio.
«Dappertutto» rispose Mary. «La mamma di
Martha mi ha mandato una corda, e io corro e sal-
to, e guardo se spunta qualcosa dalla terra. Non
faccio del male.»
«E non essere così spaventata!» disse lo zio
quasi irritato. «Che male vuoi fare, così piccina?
Fai pure quello che vuoi.»
Mary si portò una mano alla gola, come per
ricacciare un singhiozzo che stava per uscire, e
s’avvicinò d’un passo.
«Me lo permettete?» domandò tremante.
«Certo! Ma non aver paura! Sono il tuo tutore,
un povero tutore che non può darti né tempo né
CAPITOLO DODICI 113

cure. Sono malato e infelice, e non me ne intendo


di bambini. Ma voglio che tu stia bene e che non
ti manchi nulla. La signora Medlock si occuperà di
te. Ti ho mandata a chiamare perché la signora
Sowerby mi ha detto che dovevo vederti. Sua fi-
glia le aveva parlato di te. Veramente ha avuto del
coraggio a fermarmi, ma mi ha detto che... che la
signora Craven era stata sempre gentile con lei.»
Pareva che gli fosse penoso nominare la moglie.
«È una brava donna. Ora che ti ho visto, ho capito
che aveva ragione lei. Devi stare molto all’aria
aperta, correre e giocare. Il posto è grande e puoi
divertirti quanto vuoi. Non desideri altro?» le
domandò alla fine, come se lo colpisse una nuova
idea. «Vuoi dei giocattoli, dei libri o qualche bam-
bola?»
«Potrei avere... un pezzetto di terra?»
Lo chiese senza rendersi conto di quanto stra-
na e insolita per una bimba potesse apparire quel-
la richiesta. Lo zio, infatti, la guardò stupito.
«Della terra? Cosa vuoi farne?» chiese.
«Seminare dei fiori, curarli e vederli crescere e
fiorire» balbettò Mary.
La sorpresa di suo zio aumentò, e si passò una
mano sulla fronte.
«Ti piacciono tanto i fiori?»
«In India non ne avevo» rispose Mary. «Faceva
troppo caldo e io ero spesso malata e sempre
stanca. Qualche volta mi divertivo a fare aiuole
nella sabbia, ma qui è diverso...»
114 IL GIARDINO SEGRETO

«Un pezzo di terra» disse egli fra sé, alzandosi


e camminando per la stanza a passi lenti.
Mary ebbe l’impressione di avergli ricordato
qualcosa o qualcuno.
Quando, fermandosi, le rivolse ancora la paro-
la, una luce nuova brillava nei suoi occhi.
«Puoi avere tutta la terra che vuoi» le disse. «Tu
mi ricordi qualcuno che amava la terra e tutti i
fiori. Cercati un pezzetto di terra che ti piaccia e
coltivalo come meglio credi. Ma ora devi andare,
sono stanco» e suonò il campanello. «Arrivederci,
piccola. Io starò via tutta l’estate.»
La signora Medlock arrivò tanto in fretta che
doveva essere rimasta tutto il tempo fuori nel cor-
ridoio.
«Signora Medlock» le disse lo zio, «ho veduto la
bimba e ho capito che cosa intendeva dire la
signora Sowerby. È troppo delicata ancora per
mettersi a studiare. Datele dei cibi semplici, ma
sani. E lasciatela correre quanto vuole in giardino,
e non statele troppo dietro: ha bisogno di molta
aria e molta libertà. La signora Sowerby può veni-
re a trovarla di quando in quando, e la bimba, se
vuole, può andare qualche volta da lei.»
La signora Medlock aveva l’aria contenta; evi-
dentemente le faceva piacere sentire che non
doveva badare troppo a Mary, che in fondo le era
di peso. Oltre a ciò voleva molto bene alla madre
di Martha.
«Grazie, signore» disse. «Susan Sowerby e io
CAPITOLO DODICI 115

siamo state compagne di scuola. È una donna


buona e sensibile, e se ne intende di bambini: i
suoi dodici figli sono sempre in ordine e scoppia-
no di salute. La signorina Mary ha tutto da impa-
rare da loro.»
«Va bene, va bene» rispose il signor Craven.
«Ma ora conducete via la signorina e mandatemi
Pitcher.»
Come la governante la lasciò in fondo al suo
corridoio, Mary scappò di corsa in camera sua,
dove trovò Martha che l’aspettava impaziente.
«Avrò il mio giardino, dove voglio!» gridò la
bimba, esultante. «Non avrò un’istitutrice, per ora,
e vostra madre può venire a trovarmi, e io andrò a
trovare lei. Mi ha detto che posso fare quello che
voglio!»
«È stato molto gentile, allora.»
«È un uomo proprio buono; peccato che abbia
quell’aria tanto triste.»
Mary scese in giardino, ma non sperava più di
trovare Dickon: aveva fatto tardi con la visita dello
zio. Infatti, quando spinse la porta nascosta fra l’e-
dera, scorse gli arnesi radunati sotto un albero, ma
di Dickon nessuna traccia. Il giardino segreto era di
nuovo deserto; solo il pettirosso la guardava come
sempre dalla cima del suo albero preferito.
«Non c’è più!» mormorò sconsolata. «Non sarà
stato davvero un folletto del bosco?»
Qualcosa di bianco, però, pendeva da un ramo
d’un rosaio: era un pezzetto di carta, anzi un
116 IL GIARDINO SEGRETO

pezzo della lettera che Martha le aveva dettato per


Dickon. Era infilato su una lunga spina del ramo, e
subito Mary capì che doveva trattarsi di un mes-
saggio di Dickon.
Sopra ci vide un disegno e alcune lettere mal
scritte. Dopo averlo osservato un po’, Mary capì
che il disegno rappresentava un uccellino nel
suo nido, e le lettere a stampatello dicevano:
TORNERÒ.
Capitolo tredici

Mary prese il messaggio di Dickon e, appena


giunta a casa, lo mostrò a Martha.
«Ehi! Non credevo che il nostro Dickon fosse
tanto bravo!» esclamò la ragazza con una punta di
orgoglio. «Questo è il disegno di un tordo nel suo
nido.»
Allora Mary capì il vero significato del messag-
gio di Dickon: le prometteva una volta ancora di
mantenere il segreto, e le diceva, nel modo più
simpatico e gentile, che poteva essere sicura co-
me un tordo nel suo nido.
La bambina sperò di rivederlo subito l’indoma-
ni, e con questa speranza s’addormentò felice.
Ma non si devono mai fare i conti senza l’oste,
e nel caso di Mary l’oste fu il tempo. Durante la
notte, infatti, cominciò a piovere a dirotto. Lo
scrosciare della pioggia contro i vetri e il sibilare
del vento intorno alla casa e giù per il camino la
svegliarono di soprassalto: balzò a sedere sul letto
e si sentì triste e contrariata quanto mai.
«Pare che questo tempaccio sia venuto solo per
118 IL GIARDINO SEGRETO

far dispetto a me!» esclamò, ricadendo sul cusci-


no e affondandovi la testa per non udire più. In
quel momento odiò il vento e la pioggia, che, oltre
a deludere la sua speranza di tornare con Dickon
nel giardino, le impedivano di addormentarsi.
«Sembra proprio il lamento di qualcuno che si
sia perduto nella brughiera» mormorò fra sé.
Rimase sveglia per più di un’ora, girandosi e
rigirandosi nel letto; d’un tratto un suono ben
diverso la fece di nuovo balzare a sedere per stare
in ascolto.
«Questo non è il vento» sussurrò. «È quel pian-
to che ho già udito altre volte.»
La porta della sua camera era socchiusa, e il
suono veniva dal corridoio. Stette alcuni minuti
ancora ad ascoltare, e ne fu certa: quello era il
pianto capriccioso di un bambino.
Doveva a tutti i costi scoprire chi era. La cosa le
pareva ancora più strana del giardino segreto e
della chiave sotterrata, e la forte curiosità le diede
anche coraggio. Quasi senza rendersene conto si
trovò ritta in piedi vicino al letto.
«Ora vado a vedere» disse con decisione. «Tutti
sono a letto, e della signora Medlock proprio non
me ne importa!»
Prese la candela dal comodino e con molta
cautela uscì dalla porta. Il lungo corridoio era
completamente buio, ma l’eccitazione non le per-
metteva di aver paura.
Si ricordava benissimo la strada per giungere a
CAPITOLO TREDICI 119

quella porta nascosta dalla tappezzeria, dalla


quale era uscita la signora Medlock la mattina del
suo lungo giro per la casa. S’avviò verso quel trat-
to di corridoio, col cuore che le batteva forte forte,
guidata solo dalla fioca luce della candela e da
quel pianto lontano. A volte si fermava per ricor-
dare meglio la strada, ma riprendeva quasi subito
più sicura di prima; ecco la svolta giusta, a sini-
stra, poi su per due scalini, poi a destra, ed ecco
la porta tappezzata. Mary l’aprì e la richiuse dol-
cemente, e si trovò in un altro corridoio. Il pianto
si era fatto più vicino e più distinto. A sinistra,
qualche passo più avanti, c’era una porta e di
sotto filtrava una debole striscia di luce: di lì cer-
tamente usciva il pianto. Mary s’avvicinò, girò la
maniglia ed entrò.
Si trovò in una grande stanza, arredata con
mobili antichi. Nel camino ardeva ancora un po’
di fuoco, e sul comodino era acceso un lumino da
notte. Al centro, in un grande letto sormontato da
un baldacchino di damasco, c’era un bambino
che piangeva accoratamente. A Mary sembrava di
sognare. Aveva un visino magro e delicato, palli-
dissimo, sul quale spiccavano due occhi troppo
grandi per lui; i capelli gli ricadevano sulla fronte
in pesanti riccioli, facendolo sembrare ancora più
magro. Doveva essere stato ammalato, ma in quel
momento piangeva più per stizza o per noia che
per vera sofferenza.
Mary, ferma presso la porta con la candela in
120 IL GIARDINO SEGRETO

mano, tratteneva il respiro. Poi avanzò di qualche


passo, e il lume della sua candela attirò l’attenzio-
ne del ragazzo, che girò la testa verso di lei e la
guardò, spalancando i suoi occhioni per lo spa-
vento
«Chi sei?» sussurrò. «Sei un fantasma?»
«No, certo!» rispose Mary, forse più spaventata
di lui. «E tu chi sei?»
La guardò a lungo, senza rispondere, e Mary
non poté fare a meno di notare quei suoi grandi
occhi grigi, ombrati da lunghe ciglia nere.
«Mi chiamo Colin» disse il bambino infine.
«Colin e poi?»
«Colin Craven; e tu chi sei?»
«Mary Lennox. Il signor Craven è mio zio.»
«È mio padre!»
«Tuo padre!» esclamò Mary. «Nessuno mi ha
detto che aveva un figlio. Perché?»
«Vieni più vicino» disse il bimbo con un’e-
spressione sempre più ansiosa.
Mary s’avvicinò e il bimbo allungò una mano
per toccarla.
«Sei proprio viva?» chiese. «A volte faccio dei
sogni così veri... Forse anche tu sei un sogno?»
Mary gli fece sentire un lembo della sua vesta-
glia di flanella, e disse:
«Senti com’è morbida e calda questa stoffa! Se
vuoi, ti do un pizzicotto, così ti convinci che sono
viva.»
«Da dove vieni?»
CAPITOLO TREDICI 121

«Dalla mia camera; c’era tanto vento che non


riuscivo a dormire. Allora ho sentito piangere, e
ho voluto vedere chi era. Perché piangevi?»
«Perché anch’io non potevo dormire, e poi mi
faceva male la testa. Ripetimi il tuo nome.»
«Mary Lennox. Non ti hanno mai parlato di me?»
Colin, tenendo sempre fra le dita un lembo
della vestaglia di Mary, cominciava a credere alla
realtà della cosa.
«No» rispose. «Non avrebbero mai osato.»
«Perché?»
«Perché non avrei mai voluto che tu mi vedes-
si... Non voglio mai vedere né parlare con nessu-
no.»
«Ma perché?» chiese Mary sempre più stupita.
«Perché sono sempre ammalato, e devo stare a
letto. E poi mio padre non permette a nessuno di
parlare di me, nemmeno ai domestici. Se dovessi
rimanere in vita, non sarei che un povero gobbo
come lui; ma presto morirò.»
«Che strana casa è questa!» non poté fare a
meno di osservare Mary. «È tutta un mistero: vi
sono camere e giardini chiusi. Sei rinchiuso qui
dentro anche tu?»
«No. Rimango in questa camera perché non mi
va di uscire: mi stanco troppo.»
«E tuo padre viene qualche volta a trovarti?» si
azzardò a chiedere Mary.
«Raramente, e di solito quando dormo. Non
vuole vedermi.»
122 IL GIARDINO SEGRETO

«Ma perché?»
Un’ombra di tristezza passò sul viso di Colin.
«Perché la mamma è morta, quando sono nato
io. Lui crede che non lo sappia, ma l’ho sentito
dire dai domestici: quasi mi odia.»
«E odia anche il giardino, perché lei è morta»
disse Mary come parlando a sé stessa.
«Quale giardino?» domandò Colin.
«Un giardino che le piaceva» balbettò Mary.
«Ma tu sei sempre qui?»
«Quasi sempre. Una volta mi hanno portato al
mare, ma non ci sono voluto stare perché la gente
mi guardava. Tempo fa mi facevano portare un
busto di ferro per farmi stare dritto; ma un famo-
so dottore, venuto apposta da Londra per visitar-
mi ha detto che non serviva a niente. Anzi mi ha
ordinato di toglierlo subito e vivere all’aria aperta.
L’aria però non mi piace; preferisco starmene in
questa stanza.»
«Anche a me, in principio, non piaceva stare al-
l’aperto...» disse Mary. «Ma perché mi guardi così?»
«Perché ho ancora l’impressione di sognare a
occhi aperti, e che tu non sia che un fantasma.»
«Siamo svegli tutti e due» replicò Mary, e giran-
do lo sguardo a osservare quella camera in pe-
nombra, soggiunse: «Però sembra quasi un so-
gno davvero: noi due soli qui a parlare, nel mezzo
della notte, mentre tutta la casa dorme.»
«Non voglio che sia solo un sogno» protestò
Colin.
CAPITOLO TREDICI 123

«Se non ti piace esser veduto» continuò Mary,


«vuoi che vada via anch’io?»
«No! No!» disse Colin, trattenendola per la
vestaglia. «Se te ne vai, penserò proprio che tu sia
un fantasma. Ti prego, se sei viva, siediti qui, vici-
no a me, e parlami di te.»
Mary posò la candela sul comodino e si sedet-
te su un alto sgabello, presso il letto. Anche lei
desiderava restare: quella strana camera e quel
ragazzo ancora più strano l’interessavano.
«Che cosa vuoi che ti dica?» chiese.
Colin volle sapere da quanto tempo era arriva-
ta a Misselthwaite e dove era stata prima; su quale
corridoio si trovava la sua camera e che cosa fa-
ceva, e se la brughiera non piaceva nemmeno a
lei. Mary rispose a tutte queste domande e a
molte altre ancora, mentre Colin, disteso sul letto,
l’ascoltava attento. La fece parlare a lungo del-
l’India e del suo viaggio per mare. C’erano molte
cose che Colin non sapeva: forse perché era stato
sempre ammalato. Però sapeva leggere, e infatti
non faceva che leggere e guardare le illustrazioni
dei bellissimi libri che gli regalava suo padre,
insieme con altri meravigliosi giocattoli. Ma nien-
te di tutto ciò riusciva veramente a divertirlo e a
interessarlo.
Colin ora si lasciava cullare dalla voce di Mary,
tanto che, più volte, la bimba credette che si fosse
addormentato; ma, d’un tratto, le fece ancora una
domanda:
124 IL GIARDINO SEGRETO

«Quanti anni hai?»


«Dieci come te» rispose Mary sbadatamente.
«Come lo sai?» chiese Colin sorpreso.
«Quando tu sei nato, il giardino è stato chiuso e
la chiave sotterrata.»
Colin s’alzò a sedere, appoggiandosi sui gomiti:
«Quale giardino è stato chiuso?» chiese, men-
tre il suo interesse andava ridestandosi. «Dove
hanno sotterrato la chiave? E chi è stato?»
«È il giardino che tuo padre odia» rispose Mary,
un po’ inquieta. «Ha chiuso la porta e sotterrato la
chiave, ma nessuno sa dove.»
«Ma che giardino è?» insistette Colin.
«Da dieci anni non vi è entrato nessuno» rispo-
se Mary cauta.
Ma ogni cautela era inutile; ormai l’idea di quel
giardino aveva risvegliato l’interesse e la curiosità
di Colin, che, come lei, non aveva nulla a cui pen-
sare. E cominciò a tempestarla di domande.
Dov’era quel giardino? Non ne aveva mai cer-
cato la porta? Perché non ne aveva chiesto ai giar-
dinieri?
«Non ne vogliono parlare» spiegò Mary. «Credo
che abbiano avuto l’ordine di tacere.»
«Io li farei parlare» affermò Colin.
«Davvero?!» Mary cominciava ad aver paura.
Se Colin fosse riuscito ad avere delle spiegazioni,
chissà cosa poteva capitare.
«Tutti devono accontentarmi, te l’ho detto; se
vivrò, sarò io il padrone, e loro lo sanno.»
CAPITOLO TREDICI 125

Mary non si rendeva conto di essere anche lei


viziata, tuttavia si era accorta che quel ragazzo lo
era senza alcun dubbio. Si sentiva padrone del
mondo, ed era proprio strano, soprattutto quando
parlava di morire con tanta freddezza.
«Pensi proprio che morirai?» chiese, un po’ per
curiosità e un po’ per sviarlo dall’idea del giardino.
«Certo» rispose lui con la solita indifferenza.
«Da quando ho l’uso della ragione non sento dire
altro. Prima credevano che non capissi perché
ero troppo piccino, ora credono che non li stia a
sentire. Il dottore è cugino di mio padre; è molto
povero, e se io muoio erediterà tutto lui. Per que-
sto anche lui non desidera che io viva un pezzo.»
«Ma tu vuoi vivere, vero?»
«No» rispose Colin seccato e indifferente, «ma
non voglio neanche morire. Quando mi sento ma-
le, ci penso, e allora piango.»
«Ti ho sentito piangere tre volte» disse Mary,
«ma non sapevo che eri tu. Piangevi per questo?»
«Forse sì» rispose lui, «ma parliamo d’altro,
parliamo del giardino. Lo vorresti vedere?»
«Sì.»
«Anch’io. Credo di non aver mai avuto un desi-
derio, ma ora voglio proprio vedere quel giardino.
Voglio che trovino la chiave e aprano la porta. Mi
farò condurre sin là sul mio carrozzino, e intanto
prenderò un po’ d’aria. E tu verrai con me.»
Quell’idea lo entusiasmava sempre più, facen-
dogli brillare gli occhi di una luce nuova.
126 IL GIARDINO SEGRETO

Mary cominciava a disperarsi: era la rovina!


Dickon non sarebbe più venuto, e lei non avrebbe
più potuto sentirsi sicura nel suo giardino come
un tordo nel suo nido.
«No, no, non farlo!» lo supplicò.
Colin la guardava stupefatto.
«Perché? Non vuoi vederlo anche tu?»
«Sì, certo» rispose Mary con un nodo alla gola,
«ma se apriranno di nuovo la porta, non sarà più
un segreto.»
«Un segreto? Cosa vuoi dire?» chiese Colin.
E Mary gli spiegò, parlando tutto d’un fiato:
«Vedi, se non diciamo niente, forse la troviamo
noi la porta nascosta; e se ci entriamo noi soli,
senza farci vedere da nessuno, possiamo dire che
il giardino è solo nostro, e sentirci al sicuro come
tordi nel loro nido, e giocare ogni giorno e zappa-
re e seminare fiori, e così farlo rinascere. Perché,
se nessuno lo cura, morirà. Potranno vivere i
bulbi, ma le rose...»
«Cosa sono i bulbi?» la interruppe Colin.
«I bulbi dei fiori; ora stanno lavorando sotto ter-
ra, hanno appena cominciato a metter fuori le
prime foglioline, ma in primavera sbocceranno i
fiori: narcisi e gigli e bucaneve.»
«Com’è la primavera?» chiese il bimbo. «Dalla
mia camera non la posso vedere.»
«In primavera c’è tanto sole, e poi piove, e poi
torna il sole ancora, e spuntano le prime foglie. E
se il giardino rimane un segreto tra noi due,
CAPITOLO TREDICI 127

potremmo entrarci a vedere crescere i fiori e


sbocciare le rose. Capisci come sarebbe più
bello?»
Colin ricadde sul guanciale, mentre una strana
espressione gli si dipingeva sul viso.
«Non ho mai avuto segreti» disse, «e mi piace-
rebbe averne uno.»
«Se non parli con nessuno del giardino» conti-
nuò Mary, «forse potrei scoprire io in che modo
entrarci. E allora, se il dottore ti permette di usci-
re sul tuo carrozzino, e se tu puoi sempre ottene-
re quello che vuoi, potremmo trovare un ragazzo
per spingerti, e il giardino rimarrebbe proprio sol-
tanto un nostro segreto.»
«Mi piacerebbe» disse Colin, con gli occhi persi
dietro chissà quale fantasia. «E l’aria non mi da-
rebbe fastidio in un giardino segreto.»
Mary respirò di sollievo e si sentì più sicura; l’i-
dea di avere un segreto pareva attirare Colin. Pen-
sò che, giunta a quel punto, le conveniva conti-
nuare a parlargli del giardino per aumentare il suo
interesse e il suo desiderio di avere tutta per sé
una tale meraviglia.
«Ora ti dirò come deve essere, dopo dieci anni
di chiusura» riprese Mary, e gli disse che le rose
dovevano essersi arrampicate su tutti gli alberi, fra
i rami dei quali gli uccellini dovevano aver fatto in
pace il loro nido. E quando gli parlò del pettirosso
e di Ben Weatherstaff, ebbe tante e poi tante cose
da raccontare che le passò ogni paura.
128 IL GIARDINO SEGRETO

Colin si divertì alla storia del pettirosso e ac-


cennò persino un sorriso, che lo fece sembrare
meno bruttino.
«Non sapevo che fossero così gli uccelli» disse,
«ma a vivere in una camera non si vede mai nien-
te. Tu, invece, conosci molte cose. Sembra quasi
che tu sia già entrata in quel giardino.»
Mary cominciò a tremare; e fu felice di accor-
gersi che Colin non si aspettava nessuna risposta.
«Voglio farti vedere una cosa» proseguì Colin.
«Vedi quella tenda rosa sopra il camino?»
Mary non l’aveva notata prima, e, nel guardar-
la, s’accorse che doveva coprire un quadro.
«Sì, la vedo.»
«C’è un cordone vicino. Prova a tirarlo.»
Mary s’alzò, sorpresa, e andò a tirare il cordo-
ne; la tenda, scorrendo, scoprì il ritratto di una
giovane e bella signora. Aveva i capelli biondi
legati con un nastro azzurro, e i suoi occhi grigi,
vivaci e ridenti, erano identici a quelli tanto tristi di
Colin, ed erano allo stesso modo ingranditi dalle
folte ciglia nere.
«È mia madre» spiegò Colin con un nodo alla
gola. «A volte mi pare di odiarla.»
«Ma perché?» chiese Mary.
«Perché è morta. Se fosse rimasta al mondo, io
non sarei malato, e forse potrei diventar grande e
non mi farebbe tanto male la schiena. E mio padre
mi guarderebbe più volentieri. Tira la tenda.»
Mary obbedì e tornò presso il letto.
CAPITOLO TREDICI 129

«È più bella di te» disse, «ma ha i tuoi stessi


occhi, almeno la stessa forma e lo stesso colore.
Perché il suo ritratto è coperto?»
«Sono stato io a farlo coprire. Quel suo sorriso
e quello sguardo fisso su di me mi davano noia,
soprattutto quando stavo male. E poi è mio, e non
voglio che nessuno lo veda.»
Rimasero qualche minuto in silenzio, poi Mary
chiese:
«Che cosa farà la signora Medlock, quando sa-
prà che sono stata qui?»
«Farà quello che le dirò di fare; e io le ordinerò
di lasciarti venire qui tutti i giorni.»
«Verrò tutte le volte che potrò, ma» e Mary eb-
be un attimo di esitazione, «devo cercare la porta
del giardino.»
«Certo, e mi racconterai ogni cosa. Sai, voglio
che anche tu rimanga un segreto, almeno finché
non ti scopriranno. Posso sempre mandare via
l’infermiera e dirle che desidero restar solo. Cono-
sci Martha?»
«Certo, è lei che mi serve.»
«Questa notte è lei che dorme nella stanza ac-
canto. L’infermiera è andata da sua sorella, e
quando va via incarica sempre Martha di badare a
me. Lei ti dirà quando voglio vederti.»
Solo allora Mary capì l’espressione smarrita di
Martha quando le aveva chiesto di chi era quel
pianto lontano.
«Sono rimasta qui molto tempo» disse Mary.
130 IL GIARDINO SEGRETO

«Vuoi che vada via, ora? Hai sonno?»


«Vorrei addormentarmi prima che tu mi lasci
solo» disse Colin, quasi timidamente.
«Chiudi gli occhi» gli suggerì Mary, «e io ti acca-
rezzerò la mano e ti canterò qualcosa sottovoce,
come faceva con me la mia balia indiana.»
Così fece, e, avvicinandosi ancor di più al suo
letto, cominciò ad accarezzargli la mano, cantan-
do una dolce ninnananna indiana, mentre il cuore
le si apriva a un nuovo sentimento di tenerezza
per quel povero bimbo tanto infelice.
Piano piano Colin s’addormentò, con le lunghe
ciglia nere abbassate sulle guance. Mary, allora,
s’alzò, prese la sua candela e uscì senza far ru-
more.
Capitolo quattordici

L’indomani mattina la brughiera era avvolta nella


nebbia, e la pioggia continuava a cadere senza
tregua. Uscire era impossibile.
Martha era molto indaffarata e Mary non poté
parlare, ma le chiese di stare un poco con lei nel
pomeriggio. Martha infatti tornò col suo lavoro a
maglia, e si sedettero come al solito presso il ca-
mino.
«Che cosa avete oggi?» domandò Martha. «Sem-
brate impaziente di raccontarmi qualcosa.»
«È vero. Ho scoperto chi piangeva.»
Martha lasciò cadere il lavoro e la guardò sba-
lordita.
«Non è possibile!» esclamò.
«Stanotte ho sentito ancora piangere» continuò
Mary, «mi sono alzata per scoprire chi era e ho
trovato Colin.»
Martha impallidì per la paura.
«Oh, signorina Mary, non dovevate farlo!» e-
sclamò quasi piangendo. «Ora passerò dei guai,
anche se non sono stata io a dirvelo. Perderò il
132 IL GIARDINO SEGRETO

posto, e la mamma che cosa farà?»


«Non perderete il posto; Colin era tanto con-
tento, e abbiamo parlato per più di un’ora.»
«Era contento? Ne siete sicura?» chiese Mar-
tha. «Non potete immaginare com’è quando s’ar-
rabbia per qualcosa. Si mette a strillare come un
bambino piccino, solo per spaventarci.»
«Non era arrabbiato; gli ho chiesto se dovevo
andarmene, ma lui mi ha fatto sedere presso il
suo letto. Mi ha fatto molte domande, e io gli ho
parlato dell’India, del pettirosso e dei giardini. Mi
ha anche mostrato il ritratto di sua madre. Poi
l’ho fatto addormentare, cantandogli una ninna-
nanna.»
Martha non riusciva a trattenere lo stupore.
«Non posso credervi!» esclamò. «Siete entrata
nella gabbia del leone! Se fosse stato del solito
umore, avrebbe strillato fino a svegliare tutta la
casa. Non vuole essere visto da nessun estraneo.»
«E invece mi ha permesso di stare con lui, e mi
guardava, e anch’io lo guardavo.»
«Non so che fare!» esclamò Martha preoccupa-
tissima. «Se la signora Medlock lo viene a sapere,
crederà che io abbia disobbedito ai suoi ordini e
mi rimanderà a casa.»
«Ma Colin non dirà nulla, per ora; deve rimane-
re un segreto tra noi» la rassicurò Mary. «E poi
dice che tutti devono fare quello che vuole lui.»
«Questo è vero, purtroppo; è un ragazzo pro-
prio cattivo!» sospirò Martha, asciugandosi gli
CAPITOLO QUATTORDICI 133

occhi col grembiule.


«La signora Medlock non ne saprà niente.
Colin, poi, vuole che io vada da lui ogni giorno, e
voi verrete a chiamarmi.»
«Io?! Ma perderò il posto, questo è certo!»
«State tranquilla che non vi manderanno via;
del resto, lo sapete bene che non potete disobbe-
dirgli.»
«E dite che con voi è stato gentile? Allora l’ave-
te stregato!» esclamò Martha.
«Pensate che sia magia? In India ne ho sentito
parlare, ma non la so fare. Sono semplicemente
entrata in camera sua, e mi sono quasi spaventa-
ta nel vederlo. Poi lui si è girato e mi ha guardata.
Dapprima ha pensato che io fossi un fantasma, e
la stessa cosa ho pensato io di lui. Che strano tro-
varsi faccia a faccia, in piena notte, senza cono-
scersi! Ma abbiamo subito cominciato a parlare, e
quando gli ho chiesto se dovevo andarmene lui
ha insistito perché rimanessi.»
«È la fine del mondo!» disse Martha.
«Ma che cos’ha?» domandò Mary.
«Nessuno lo sa di preciso. Quando lui è nato, il
signor Craven era quasi impazzito perché la
signora era morta, come vi ho detto. Non voleva
nemmeno vedere suo figlio, e sbraitava che piut-
tosto di vederlo crescere gobbo come lui avrebbe
preferito che morisse.»
«Ma Colin non mi sembra gobbo» osservò
Mary.
134 IL GIARDINO SEGRETO

«Non lo è ancora» riprese Martha, «ma è stato


male allevato. La mamma dice che in questa casa
nessuno ha avuto giudizio con quel bambino. Per
paura che gli s’incurvasse la schiena lo hanno
sempre tenuto a letto. Gli hanno anche messo
addosso un busto rigido per farlo star dritto, ma gli
faceva troppo male. Quando è venuto un dottoro-
ne da Londra a vederlo, ha ordinato subito di
toglierglielo, e ha anche rimproverato l’altro dot-
tore, con bei modi, s’intende. Ha detto: “Troppe
medicine e troppi vizi!”»
«Dev’essere stato troppo viziato» disse Mary.
«È un bambino cattivo! Non voglio dire che non
sia stato anche ammalato: ha avuto tosse e raf-
freddori, e poi una fortissima febbre reumatica e
anche il tifo. Eh, la signora Medlock si è proprio
spaventata quella volta! Colin era in delirio, e lei
stava dicendo all’infermiera, credendo che lui
non sentisse: “Questa volta morirà, e sarà meglio
per lui e per tutti” quando s’accorse che Colin
aveva gli occhi aperti e la stava fissando. Egli la
guardò a lungo, poi disse: “Datemi da bere e
smettete di chiacchierare.”»
«Credete che morirà?» chiese Mary.
«La mamma dice che se continua a stare a
letto a leggere e a prendere una medicina dopo
l’altra, senza mai respirare un po’ d’aria pura, s’in-
debolirà sempre più e finirà col morire.»
Mary rimase a lungo a fissare il fuoco, poi disse:
«Penso che farebbe bene anche a lui andare in
CAPITOLO QUATTORDICI 135

giardino, come ha fatto bene a me.»


«Certo, ma non ne ha mai voglia. Una volta che
l’hanno portato in giardino sul suo carrozzino, fino
ai rosai che crescono intorno alla fontana, s’è
messo a urlare che gli dava noia il profumo; poi è
passato un giardiniere nuovo, che non conosceva
gli ordini, e l’ha guardato incuriosito. Allora Colin
ha urlato ancora più forte che quell’uomo l’aveva
guardato perché era gobbo, e l’hanno dovuto ri-
portare in casa. Poi ha pianto tutta la notte e il
giorno dopo aveva la febbre alta.»
«Se sarà cattivo anche con me, non ci andrò
più» dichiarò Mary.
«Se vi chiamerà, dovrete andarci; è bene che lo
sappiate subito.»
Nel frattempo era suonato un campanello, e
Martha si era subito alzata in piedi.
«Dev’essere l’infermiera. Dovrò andare da lui;
speriamo che sia di buon umore.»
Martha uscì; ma dopo dieci minuti era già di
ritorno, più sorpresa che mai.
«Ve l’ho detto che l’avete stregato!» esclamò.
«È disteso sul sofà coi suoi libri. Ha permesso
all’infermiera di rimanere fuori fino alle sei, e
quando lei è uscita mi ha detto: “Voglio che Mary
venga subito da me, e ricordate di non dirlo a nes-
suno. Presto, andate!”»
Mary era contenta che l’avesse chiamata; sa-
rebbe stata molto più felice di rivedere Dickon,
ma in quel momento anche Colin la interessava.
136 IL GIARDINO SEGRETO

Nel camino era acceso un bel fuoco, e di gior-


no la camera appariva molto più bella: con tanti
tappeti e quadri e mobili e libri, era calda e acco-
gliente, malgrado il cielo grigio e la pioggia. Anche
Colin pareva un quadro: era avvolto in una bella
vestaglia di velluto e appoggiava la testa su un
grosso cuscino.
«Vieni avanti» disse, quando udì schiudersi la
porta. «Ho pensato a te tutta la mattina.»
«Anch’io» rispose Mary. «Ma sapessi come è
spaventata Martha! Dice che la signora Medlock
penserà che sia stata lei a parlarmi di te, e la man-
derà via.»
Colin corrugò la fronte.
«Va’ a chiamarla: è nella stanza vicina.»
Martha entrò tremando, e Colin la guardava
con la faccia scura.
«Dovete fare quello che voglio, sì o no?» chiese.
«Certo, signorino» balbettò Martha.
«E la Medlock non deve anche lei obbedire ai
miei ordini?»
«Sì signorino, come tutti noi.»
«E allora, se sono io a dirvi di condurre qui la
signorina Mary, perché la Medlock dovrebbe man-
darvi via?»
«Vi prego, signorino, fate che non mi mandi
via!» supplicò Martha.
«Manderò via lei, se oserà dire una mezza paro-
la! E sono sicuro che non ne avrebbe piacere»
concluse il piccolo Craven imperiosamente.
CAPITOLO QUATTORDICI 137

«Grazie, signorino» disse Martha, facendo un


inchino. «Farò sempre il mio dovere.»
«È quello che voglio» disse Colin con aria sem-
pre più decisa. «A voi penserò io. E ora andate.»
Quando la porta si richiuse alle spalle di
Martha, Mary stava fissando Colin come se il suo
modo di fare le avesse ricordato qualcosa.
«Perché mi guardi così?» chiese il ragazzo.
«Che cosa pensi?»
«Sto pensando due cose.»
«Siediti e dimmele.»
«Una volta, in India» cominciò Mary, sedendosi
sullo stesso sgabello della sera precedente, «vidi
un ragazzo che era un principe: era tutto coperto di
rubini, smeraldi e brillanti, e parlava ai suoi servi
come tu hai parlato con Martha. Tutti dovevano
obbedire, e subito; altrimenti li faceva uccidere.»
«Poi parleremo di quel principe; ora devi dirmi
la seconda cosa.»
«Pensavo che sei molto diverso da Dickon.»
«Che strano nome!» osservò Colin. «Chi è
Dickon?»
Mary pensò che poteva dirglielo; in fondo, par-
lando di Dickon non occorreva nominare il giardi-
no. E poi aveva proprio voglia di parlare di lui: sa-
rebbe stato un po’ come averlo vicino.
«È il fratello di Martha» spiegò. «Ha dodici anni
e sa addomesticare volpi, scoiattoli e uccelli co-
me gli indiani incantano i serpenti. Quando suo-
na il flauto, gli animali si fermano ad ascoltarlo.»
138 IL GIARDINO SEGRETO

Colin allungò una mano verso una pila di libri,


che stava su una tavola vicino a lui, e disse:
«Qui c’è un incantatore di serpenti. Vieni a ve-
derlo» e le mostrò una bella illustrazione. «Anche
Dickon fa così?»
«Suona il flauto e le bestie lo stanno a sentire»
spiegò Mary, «ma non la chiama magia. Dice che,
trascorrendo ore e ore nella brughiera, ha impa-
rato a conoscere le abitudini di tutti gli animali. A
volte gli par d’essere anche lui uno scoiattolo o un
uccellino. Quando ha chiamato il pettirosso, pare-
va che quello capisse e gli rispondesse.»
Colin si appoggiò al suo cuscino, rosso in viso e
con gli occhi sempre più spalancati.
«Parlami ancora di lui» disse.
«Conosce ogni angolo della brughiera» conti-
nuò Mary. «I nidi degli uccelli e le tane di tutti gli
animali, ma non lo dice agli altri ragazzi, perché
non vadano a spaventarli.»
«Ma come può piacergli la brughiera» disse
Colin. «Un posto così grande, spoglio e triste!»
«E invece è un posto meraviglioso!» protestò
Mary. «Ci sono migliaia di fiori, e tante piccole be-
stiole, sempre indaffarate a costruirsi il nido o a
cercarsi una tana più sicura, mentre le api ronza-
no di fiore in fiore in cerca di nettare. Sono loro i
padroni della brughiera!»
«Come sai tutte queste cose?»
«Veramente non ci sono mai stata» rispose
Mary, «l’ho soltanto attraversata in carrozza, e di
CAPITOLO QUATTORDICI 139

notte, e anche a me era parsa molto brutta. Ma


Martha e Dickon me ne hanno parlato a lungo.
Dickon poi, quando racconta, ti dà proprio l’im-
pressione di trovarti in mezzo all’erica in fiore, col
suo profumo di miele e i suoi cespugli tutti pieni
di api e di farfalle.»
«Se si è ammalati non si vede nulla!» esclamò
Colin, come colpito da un’idea nuova, ma ancora
vaga.
«È naturale: sei sempre chiuso in questa
camera!»
«Ma non posso andare nella brughiera» disse
Colin, quasi risentito.
Mary rimase un attimo in silenzio, poi s’azzardò
a dire:
«Qualche volta, però, potresti andarci.»
«Io nella brughiera? Ma se devo morire!»
«E come lo sai?» rispose Mary seccamente.
Quei suoi continui accenni alla morte non le pia-
cevano affatto; e Colin non le faceva neppure pe-
na, perché aveva l’impressione che quasi ci pro-
vasse gusto a parlare di una cosa tanto triste.
«L’ho sempre sentito dire. Continuano a ripe-
terlo tra loro, sottovoce, credendo che io non ca-
pisca. E poi credo anche che lo desiderino.»
Mary cominciava a indispettirsi, ma si morse le
labbra e disse:
«Se fossi al posto tuo, non vorrei morire proprio
perché gli altri lo desiderano. Ma chi lo desidera?»
«I domestici, e naturalmente anche il dottor
140 IL GIARDINO SEGRETO

Craven, perché vuole diventare ricco, ereditando


la proprietà di mio padre. Non lo confesserebbe
mai, ma lo vedo che è contento quando io sto
male. E credo che lo desideri anche mio padre.»
«Tuo padre? Questo non può essere vero!»
esclamò Mary.
Colin la osservò stupito, e s’abbandonò poi sul
cuscino con un’espressione pensierosa sul viso.
Seguì un lungo silenzio, durante il quale tutt’e
due, forse, pensavano cose più grandi di loro.
Alla fine Mary disse:
«Mi è simpatico quel dottore di Londra perché
ti ha fatto togliere il busto. Anche lui ha detto che
devi morire?»
«No.»
«Che cosa ha detto?»
«Lui non ha parlato sottovoce» rispose Colin.
«Forse si è accorto che tutto quel bisbigliare intor-
no a me mi dà sui nervi. E una cosa l’ha detta pro-
prio a voce alta, me la ricordo benissimo: “Questo
ragazzo vivrà, se lo convincerete a desiderare di
vivere. È l’unico mezzo” ha aggiunto, e sembrava
quasi in collera.»
«Io lo so chi ti farebbe venire la voglia di vive-
re» disse Mary, pensando che in un modo o nel-
l’altro quella situazione andava risolta. «È Dickon.
Lui parla sempre di cose vive, mai di malattie o di
morte. Guarda sempre in cielo per seguire il volo
degli uccelli o in terra per veder crescere i fiori.
Ha due grandi occhi azzurri, sorride sempre, e ha
CAPITOLO QUATTORDICI 141

le guance rosse come ciliegie.»


Mary accostò il suo sgabello al sofà con un’e-
spressione più serena, e proseguì: «Non parliamo
di morire; non mi piace. Parliamo di Dickon, e
guardiamo i tuoi libri.»
La bimba non avrebbe potuto proporre una
cosa migliore. Parlare di Dickon voleva dire parlare
della casetta in mezzo alla brughiera e delle quat-
tordici persone che ci vivevano felici; di quei dodi-
ci bambini che parevano campare d’aria e di erba
come cavallini selvatici; della madre di Dickon e
della corda da saltare, del sole e della pioggia e
delle piantine che spuntano. E Mary parlava e par-
lava, mentre Colin l’ascoltava sempre più attento;
poi cominciarono anche a ridere di niente, proprio
come fanno tutti i bimbi di questo mondo, e risero
e fecero tanto baccano che nessuno avrebbe rico-
nosciuto in Mary la bambina dura e scontrosa che
era a volte, e in Colin il bambino ammalato che
credeva di dover morire presto.
Si divertirono tanto che non s’accorsero nemme-
no del tempo che passava, e parlarono anche di
Ben e del pettirosso, mentre Colin, dimenticandosi
della sua schiena debole, si era messo a sedere.
A un tratto, però, il bimbo si fece serio e disse:
«Lo sai che c’è una cosa alla quale non abbia-
mo mai pensato? Noi siamo cugini.»
E una simile dimenticanza li divertì tanto, che
scoppiarono di nuovo a ridere più forte di prima.
Ma sul più bello la porta si aprì ed entrò il dottore
142 IL GIARDINO SEGRETO

seguito dalla fedele signora Medlock.


Il dottore si fermò di colpo, urtando contro la
signora Medlock, che per poco non cadde, e che
ripeteva con gli occhi fuori dalla testa:
«Mio Dio! Mio Dio!»
«Che significa questo?» chiese il dottor Craven,
avanzando al centro della stanza.
Fu allora che Mary ripensò al principino india-
no. Come se la sorpresa del dottore e lo spavento
della signora Medlock non lo preoccupassero af-
fatto, Colin rispose:
«Questa è mia cugina Mary. Le ho detto io di
venire, perché mi è simpatica. E dovrà venire tutte
le volte che la chiamerò.»
Il dottor Craven diede un’occhiata di rimprove-
ro alla povera signora Medlock, che rispose con
voce tremante:
«Io non ne sapevo nulla, ve l’assicuro! E nessu-
no dei domestici avrebbe osato parlare: gli ordini
sono precisi.»
«Nessuno ha parlato» la interruppe Colin. «Ma-
ry mi ha sentito piangere e mi ha scoperto da sé.
Sono contento che sia venuta. Medlock, non dite
sciocchezze!»
Mary s’accorse che il dottor Craven non appari-
va soddisfatto di tutta la faccenda, ma che, al
tempo stesso, non osava contraddire il suo picco-
lo paziente.
Gli tastò il polso e disse:
«Ragazzo mio, ti sei agitato troppo, e questo, te
CAPITOLO QUATTORDICI 143

l’ho ripetuto tante volte, ti fa solo male.»


«Mi farebbe più male se Mary andasse via» ri-
spose Colin con gli occhi che brillavano. «Sto
meglio, ed è tutto merito suo. Dite all’infermiera
di portare qui anche la cena di Mary; mangeremo
insieme.»
«Si vede che sta meglio» osservò la governan-
te, «però, ora che ci penso, lo si vedeva anche
questa mattina.»
«È naturale!» esclamò Colin. «Mary è venuta da
me questa notte, è stata qui tanto tempo a parla-
re e mi ha anche cantato la ninnananna per farmi
addormentare. Per questo stamattina stavo già
meglio, e ho chiesto subito la colazione. E ora
voglio la cena. Avvertite l’infermiera, Medlock.»
Il dottore non si fermò molto; disse poche paro-
le all’infermiera e fece molte raccomandazioni a
Colin: di non parlare troppo, di non dimenticarsi
che era ammalato, di non stancarsi e di non fare
tante altre cose che a Mary parvero un’infinità.
Colin lo ascoltava piuttosto irritato, e alla fine
disse:
«E invece voglio proprio dimenticare tutto ciò,
e anche questo lo devo a Mary. Perciò desidero la
sua compagnia.»
Il dottore se ne andò malcontento, dando un’ul-
tima occhiata a quella bambina bruttina e insignifi-
cante che pure era riuscita a tanto; il ragazzo, in
effetti, stava meglio...
«Vogliono sempre che mangi anche se non ho
144 IL GIARDINO SEGRETO

voglia» disse Colin, quando l’infermiera entrò por-


tando la cena. «Ma oggi, se mangi tu, mangio
anch’io. Che buone queste ciambelle! E ora par-
lami dei principi indiani.»
Capitolo quindici

Dopo una settimana di pioggia incessante tornò


finalmente il sereno, e il sole asciugò di nuovo la
terra. Benché non avesse potuto vedere né
Dickon né il giardino segreto, Mary si era divertita
ugualmente e le giornate non le erano sembrate
lunghe. Aveva trascorso ore e ore con Colin, par-
landogli dell’India, di Dickon e della sua famiglia,
e di quanto sapeva a proposito di piante e di fiori.
Di tanto in tanto leggevano i bei libri di Colin, alter-
nandosi alla lettura a voce alta. Quando Colin era
di buon umore e si divertiva non sembrava nep-
pure ammalato, se non fosse stato per quel suo
visino pallido e quel suo stare sempre sdraiato sul
sofà.
«Siete stata una bella impertinente ad andare
in giro per la casa, di notte, per appagare la vostra
curiosità» aveva detto a Mary la signora Medlock,
«ma, grazie a Dio, tutto si è risolto nel migliore dei
modi. Da quando voi venite a trovarlo, sta molto
meglio e non ha più avuto quelle sue terribili crisi
di nervi. L’infermiera voleva andarsene, perché
146 IL GIARDINO SEGRETO

non ne poteva più, ma ora che voi l’aiutate a


distrarlo credo che si fermerà.»
Durante quelle lunghe chiacchierate, però, Ma-
ry era stata molto guardinga a proposito del giar-
dino segreto. Voleva, prima, essere ben sicura di
potersi fidare del cuginetto, e lo interrogava su
tante cose, ma così, senza parere, per capire se
era un ragazzo capace di mantenere un segreto.
Era molto diverso da Dickon, ma l’idea di un giar-
dino noto a loro soltanto doveva per forza interes-
sarlo, e questa era già una buona cosa. Sarebbe
stato possibile un giorno condurre Colin nel giar-
dino segreto, senza che nessuno li scoprisse? For-
se, respirando tanta aria pura, conoscendo Dickon
e il pettirosso e occupandosi di fiori, avrebbe pen-
sato meno alla morte e a tante cose tristi. Mary
stessa, guardandosi nello specchio, si era accorta
di essere molto diversa dalla bimba magra e palli-
da che era arrivata dall’India, e anche Martha l’a-
veva notato.
«L’aria della brughiera vi ha fatto proprio
bene!» aveva esclamato. «Ora non siete più tanto
gialla, e anche i vostri capelli sono diventati più
morbidi. Vi siete fatta quasi carina da quando
avete preso un po’ di colore.»
Se il giardino e l’aria aperta avevano fatto bene
a lei, sarebbe migliorato anche Colin; purtroppo,
però, persisteva nel non volere vedere gente e
forse non avrebbe gradito neppure la compagnia
di Dickon.
CAPITOLO QUINDICI 147

«Perché ti dà fastidio avere gente attorno?» gli


chiese un giorno.
«Non ho mai potuto soffrire l’idea di essere
guardato, fin da quando ero piccolo» rispose.
«Quella volta che mi hanno portato al mare, sulla
spiaggia tutti mi guardavano perché ero sempre
sdraiato sul mio carrozzino. Alcune signore, poi, si
fermavano incuriosite e parlavano a bassa voce
con l’infermiera, e io capivo che le chiedevano
che cosa avevo e se sarei morto presto. Un giorno
una signora mi ha fatto una carezza compatendo-
mi e ripetendo: “Poverino, poverino.” Io allora ho
perso la pazienza e le ho dato un morso alla ma-
no. Ha lanciato un urlo, ed è scappata via, spa-
ventata.»
«Ti avrà preso per un cane rabbioso» osservò
Mary.
«Non me ne importa» rispose Colin.
«E perché non hai morso anche me, l’altra
notte?» chiese Mary, ridendo.
«Ti avevo scambiata per un fantasma, e i fanta-
smi non si possono mordere.»
«E ti dispiacerebbe se un ragazzo ti vedesse?»
Colin si adagiò sul cuscino, meditando.
«Un ragazzo solo potrei sopportare» disse poi
lentamente, «quello che conosce tutte le bestie:
Dickon.»
«Sono sicura che ti piacerà» disse Mary.
«Lo sopporterei come sopporterei gli uccelli e
le altre bestie» riprese Colin. «E Dickon, sono sicu-
148 IL GIARDINO SEGRETO

ro, riuscirà a incantare anche me.»


Si mise a ridere, e rise anche Mary. Per Dickon
non c’era da preoccuparsi: poteva benissimo farlo
venire.
Quella prima mattina di bel tempo Mary si sve-
gliò molto presto, e vedendo che il sole, entrando
dalle imposte, disegnava lunghe strisce sul pavi-
mento, saltò giù dal letto e corse a spalancare la
finestra. Un’ondata di aria fresca e profumata
invase la camera; pareva che durante la notte
fosse passato un mago per la brughiera, a trasfor-
marla in quell’incantevole panorama che ora si
offriva ai suoi occhi. Gli uccelli, a uno a uno, pre-
sero a cantare, e in breve si levò al cielo un con-
certo di trilli, di cinguettii e di gorgheggi. Mary si
sporse dalla finestra e allungò le mani sotto la
carezza del sole.
«Com’è caldo!» esclamò. «Chissà come saran-
no cresciute le mie piantine! E i bulbi avranno la-
vorato sotto terra!» E si sporse più che poté, respi-
rando avidamente quell’aria fragrante del buon
odore della terra umida.
“Deve essere molto presto” disse fra sé. “Non si
vede nessuno in giro, nemmeno gli stallieri che
sono i primi ad alzarsi. Ma io non posso aspettare:
voglio scendere subito in giardino!”
Aveva ormai imparato a vestirsi da sola, e in
cinque minuti fu pronta. Scese al pianterreno a
piedi scalzi, per non disturbare; e quando fu da-
vanti a una porticina di servizio che poteva aprire
CAPITOLO QUINDICI 149

da sola, s’infilò le scarpe, aprì l’uscio, lo richiuse,


e in un balzo si trovò fuori, al dolce tepore del
sole, in mezzo all’erba fresca e verde, tra gli albe-
ri, sui cui rami gli uccellini cantavano e cinguetta-
vano. Batté le mani per la gioia e levò gli occhi al
cielo, che era di un azzurro intenso, qua e là inter-
rotto da qualche nuvoletta rosa e inondato della
luce limpida e trasparente della primavera. Le
venne voglia di cantare, e invidiò i tordi e i petti-
rossi e le allodole che potevano farlo tanto bene.
“Tutto è cambiato” osservò. “Ora l’erba è di un
verde vivo, e dappertutto le piante sono cresciute,
e le gemme si sono trasformate in foglie. Dickon
verrà senz’altro, oggi.»
Quella abbondante e benefica pioggia aveva
fatto miracoli ovunque, ma soprattutto nelle aiuo-
le, che verdeggiavano tutte del verde tenero delle
prime foglie, tra le quali occhieggiava qua e là
qualche bocciolo di fiore. Sei mesi prima Mary
non avrebbe notato questo ridestarsi della natura,
ma ora nulla le sfuggiva.
Quando giunse alla porta nascosta dietro l’ede-
ra fu sorpresa da uno strano suono: alzò gli occhi
e scorse, appollaiato in cima al muro, un corvo
che gracchiava e la fissava coi suoi occhietti neri
come le piume. Non le era mai capitato di vedere
un corvo così da vicino, e quella vista non le pia-
ceva affatto. Un istante dopo l’uccello aprì le ali e
volò dentro il giardino. Appena fu entrata, Mary lo
vide appollaiato sul ramo di un melo, senza la
150 IL GIARDINO SEGRETO

minima intenzione di andarsene. Ai piedi dell’al-


bero c’era una bestiola rossiccia con una grossa
coda, e tutt’e due guardavano Dickon che, ingi-
nocchiato sull’erba, lavorava febbrilmente.
«Oh, Dickon, Dickon!» esclamò Mary, raggiun-
gendolo di corsa. «Come sei venuto presto! Il sole
s’è levato da poco!»
Dickon s’alzò, ridendo con quei suoi occhi che
parevano due pezzetti di cielo, e le rispose: «E io
mi sono levato prima di lui! Ma come potevo stare
a letto! Il mondo sembra un altro stamattina.
Ascoltate che cinguettii, che ronzii! Gli uccelli pre-
parano il nido fra i rami, e i fiori profumano tutta
l’aria. Quando s’è levato il sole, la brughiera pare-
va impazzita di gioia, ed ero pazzo anch’io, e face-
vo capriole tra l’erica, cantando e gridando. Sono
venuto subito qui, perché sapevo che il giardino
mi aspettava.»
«Oh, Dickon!» esclamò Mary tutta contenta.
«Sono tanto felice che quasi mi manca il respiro!»
Mentre Dickon parlava, il corvo era venuto a
posarsi sulla sua spalla, e la volpe si era accovac-
ciata ai suoi piedi.
«Questa è la mia volpe» spiegò a Mary, acca-
rezzando la testa dell’animale. «Si chiama Rossa;
e questo è il mio corvo, si chiama Carbone. Mi
hanno seguito attraverso la brughiera, ed erano feli-
ci anche loro.»
Le due bestiole non mostravano di aver timore
di Mary, e quando Dickon si mosse Carbone con-
CAPITOLO QUINDICI 151

tinuò a stare sulla spalla del ragazzo, e Rossa lo


seguiva come un cagnolino.
«Vedete come sono cresciute tutte le piantine!»
esclamò Dickon. «Guardate qui!»
E tutt’e due si chinarono vicino a un gruppo di
crocus già fioriti; Mary, poi, li baciò più volte come
fossero creature vive.
Dickon la guardava sorpreso e divertito.
Poi fecero tutto il giro del giardino, correndo, e
scoprirono nuove meraviglie, e a ogni scoperta
gridavano di gioia. Dickon andava mostrando a
Mary tutti i rami di rose, ancora vivi, che si erano
coperti di gemme, e le mille e mille piantine che
avevano fatto capolino dalla terra scura. Si china-
vano a fiutare la terra umida e profumata, e ride-
vano e lavoravano felici, finché anche Mary fu
rossa e spettinata come Dickon.
E a tutte quelle meraviglie, che facevano del
giardino segreto un incanto, se ne aggiunse un’al-
tra. S’udì un battito d’ali, e una piccola forma
bruna sfrecciò tra gli alberi e si tuffò in un cespu-
glio: era il pettirosso e teneva nel becco una lunga
paglia. Dickon si fermò di colpo, e fece cenno a
Mary di tacere.
«Non muovetevi!» bisbigliò. «È il pettirosso di
Ben che si sta costruendo il nido. Bisogna stare
attenti a non spaventarlo, altrimenti scappa.»
Piano piano si sedettero sull’erba e rimasero
immobili.
«Fingiamo di non guardarlo» proseguì Dickon a
152 IL GIARDINO SEGRETO

bassa voce. «Se lo disturbiamo ora, non sarà più


nostro amico. Quando gli uccelli fanno il nido,
diventano più timidi e sospettosi. Rimaniamo
fermi come fossimo erba o cespugli; poi, quando
si sarà abituato a noi, fischierò dolcemente, così
capirà che non vogliamo fargli del male.»
Mary non sapeva proprio come fare per sem-
brare un cespuglio, ma Dickon aveva parlato se-
riamente, come se per lui fosse la cosa più natu-
rale di questo mondo; infatti se ne stava vera-
mente immobile come una statua, e ogni volta
che parlava Mary si meravigliava quasi di sentirlo.
«Tutti gli uccelli fanno il nido in primavera»
disse, «e credo che sia sempre stato così da quan-
do c’è il mondo. Ognuno di loro ha il suo metodo,
e noi non dobbiamo immischiarci, per non corre-
re il rischio di perdere degli amici. E il pettirosso è
nostro amico!»
«Se continui a parlarne, sono costretta a guar-
darlo» osservò Mary più sottovoce che poté. «Par-
liamo d’altro; ho una novità da raccontarti. Lo sai
chi è Colin?»
Dickon la guardò sorpreso.
«E tu, che cosa ne sai?» chiese, dandole del tu
e dimenticando da quel momento il rispetto do-
vuto alla “signorina Mary”.
«L’ho visto, e sono andata da lui ogni giorno. È
lui che vuole vedermi; dice che, parlando con me,
si dimentica di essere malato e di dover morire.»
Dickon tirò un gran sospiro di sollievo.
CAPITOLO QUINDICI 153

«Sono proprio contento!» esclamò. «Sapevo


che non dovevo nominarlo mai, e non mi piace
tener nascoste le cose.»
«Allora non ti piace nemmeno tenere segreto il
giardino?»
«Di quello non parlerò mai con nessuno, nean-
che con la mamma» rispose Dickon. «Le ho det-
to: “Mamma, ho un segreto da tenere, ma non è
una cosa cattiva, sai; è come tener nascosto dove
un uccello ha fatto il nido. Non ti dispiace, vero?”»
«E lei cosa ha risposto?» chiese Mary.
«Mi ha dato un buffetto sulla guancia, e ha det-
to: “No, ragazzo mio, ormai ti conosco.”»
«E di Colin cosa sai?»
«Tutti sanno che il signor Craven ha un bambi-
no e sanno anche che non vuole che se ne parli.
Dispiace a tutti per il padrone, soprattutto perché
la signora Craven era tanto buona e bella, e si
volevano molto bene. La signora Medlock si fer-
ma sempre a casa nostra, quando va al villaggio,
e ne parla liberamente, perché sa che si può fida-
re di noi. Ma come hai potuto avvicinarlo? Martha
era tanto preoccupata l’altro giorno, perché l’ave-
vi sentito piangere e le facevi tante domande, e lei
non sapeva cosa rispondere.»
Allora Mary gli raccontò di quella notte di bufe-
ra, in cui non era riuscita a dormire, e di quel
pianto lontano che l’aveva guidata lungo i corri-
doi, mentre, con una candela in mano, cercava di
scoprire chi fosse; e del suo ingresso in quella
154 IL GIARDINO SEGRETO

camera riccamente arredata, dove, in un gran


letto, giaceva Colin col visino di cera e i suoi gran-
di occhi grigi spalancati per la sorpresa.
Dickon scosse la testa e la interruppe:
«Sua madre aveva gli stessi occhi, dicono, ma
sorrideva sempre. Sembra che il padre vada a
trovarlo solo quando dorme per non vedere que-
gli occhi che gli ricordano troppo la povera si-
gnora.»
«Ma tu credi che il signor Craven desideri che
suo figlio muoia?»
«Questo no, non è possibile. Ha solo troppa
paura che diventi gobbo come lui.»
«Anche Colin ne ha una tal paura che vuol sta-
re sempre sdraiato. Dice che se un giorno si sen-
tirà spuntare la gobba, si metterà a gridare finché
gli scoppierà il cuore.»
«Non dovrebbe stare sempre sdraiato a pensa-
re a certe cose» osservò Dickon. «Sfido che la sua
salute non può migliorare!»
Di quando in quando Dickon si chinava ad ac-
carezzare la volpe sul dorso, ma d’un tratto ritirò
la mano e rimase a lungo pensieroso; alla fine
alzò il capo e si guardò attorno, dicendo:
«La prima volta che siamo entrati qui il giardi-
no era tutto grigio; guarda ora che differenza!»
Mary diede un’occhiata in giro, trattenendo il
fiato.
«Certo! È come se un verde tappeto avesse ri-
coperto ogni cosa, persino i muri.»
CAPITOLO QUINDICI 155

«E diventerà sempre più verde. Sai a che cosa


sto pensando?»
«A Colin, forse?»
«Sì. Pensavo che, invece di preoccuparsi tanto
della sua gobba, dovrebbe venire qui a veder cre-
scere i fiori e sbocciare le rose; sono sicuro che gli
farebbe bene. Cerca di convincerlo a uscire sul
suo carrozzino.»
«Anch’io ci ho pensato spesso, e ne ho anche
parlato con lui» disse Mary. «Bisogna vedere se sa
tenere un segreto e se è possibile condurlo sin qui
senza che nessuno se ne accorga. Potresti spin-
gerlo tu il carrozzino. Anche il dottore ha detto
che ha bisogno di respirare aria pura, e se lui desi-
dera uscire, nemmeno la signora Medlock oserà
contraddirlo; anzi, sarà contenta che esca con
noi. Ai giardinieri, poi, potrebbe dare ordine di
tenersi alla larga, e così non saremmo scoperti.»
Dickon continuava ad accarezzare la volpe.
«Sono sicuro che gli farebbe bene» disse, «e
non penserebbe più di morire. Veder sbocciare i
fiori di primavera è una meraviglia, e al signorino
gioverebbe più di qualunque medicina.»
«A star sempre a letto così rinchiuso in quella
stanza» riprese Mary, «è diventato un bambino
strano. Ha letto molte cose nei libri, ma non sa
niente altro e non ha mai visto niente; odia i giar-
dini e i giardinieri, però vuole che gli parli di que-
sto giardino, perché è un segreto. Io non gli ho
detto molto, ma lui desidera già vederlo.»
156 IL GIARDINO SEGRETO

«Vedrai che riusciremo a portarlo qui, ne sono


sicuro» disse il ragazzo. «Spingerò io il suo car-
rozzino. Hai visto come hanno lavorato intanto il
pettirosso e la sua compagna? Guardalo là, sul ra-
mo; pare che non sappia dove mettere quel filo di
paglia che ha nel becco.»
Dickon fischiò e il pettirosso si voltò a guardar-
lo, senza aprire il becco. Il ragazzo, allora, gli parlò
con voce amica:
«Mettilo dove vuoi e non sbaglierai. Ma spiccia-
ti, perché non c’è tempo da perdere!»
«Mi diverto a sentirti parlare col pettirosso» dis-
se Mary ridendo. «Anche Ben gli parlava, e certe
volte lo rimproverava, ma lui non s’intimidiva af-
fatto; anzi, continuava a saltellare e beccare con
aria sempre più birichina.»
«Continua pure a fare il tuo nido» riprese a dire
Dickon al pettirosso, «non ti disturberemo. Anche
noi, vedi, stiamo costruendoci un nido, ma tu non
lo dirai a nessuno, vero?»
Il pettirosso non rispose col solito cinguettio,
perché aveva il becco occupato, ma mosse il
capino come per dire di no, come per promettere
che mai e per nessuna ragione avrebbe svelato il
loro segreto.
Capitolo sedici

Lavorarono molto, e quel giorno Mary rientrò in


casa più tardi del solito; aveva tanta premura di
ritornare al lavoro che solo all’ultimo momento si
ricordò di Colin.
«Dite a Colin che per ora non posso andare da
lui» disse a Martha, «ho troppo da fare col giardino.»
Martha quasi si spaventò.
«Per carità, signorina» disse, «se gli dico una
cosa simile andrà certamente su tutte le furie.»
«Non posso andare da lui, Dickon mi aspetta»
rispose Mary, che non aveva nessuna paura di
Colin e non intendeva certo privarsi di un diverti-
mento per far piacere a lui. E scappò via.
Il pomeriggio fu ancora più bello e divertente del
mattino; prima di sera tutte le erbacce erano spari-
te, e gran parte dei rosai e degli alberi erano stati
potati. Dickon s’era portato la sua vanga e insegna-
va a Mary l’uso dei vari arnesi da lavoro. Già comin-
ciavano a essere visibili gli effetti di tanta fatica, e
presto il giardino sarebbe tutto rifiorito, pur mante-
nendo sempre il suo aspetto selvaggio e misterioso.
158 IL GIARDINO SEGRETO

«Vedrai!» diceva Dickon, zappando senza tre-


gua. «Fra non molto fioriranno i meli e i peschi e i
ciliegi, e in terra ci sarà un tappeto di fiori.»
La volpe e il corvo non li lasciavano un momen-
to; il pettirosso e la sua compagna andavano e veni-
vano dal nido sempre più indaffarati. Qualche volta
il corvo volava sulla cima dell’albero più alto, per
ritornare quasi subito a ripetere il suo rauco verso
sulla spalla di Dickon, che parlava con lui come se
fosse stato una creatura umana.
Quando si sedettero sotto un albero per ripo-
sarsi, Dickon levò di tasca il flauto e cominciò a
suonare la sua dolce nenia, e due scoiattoli appar-
vero in cima al muro per ascoltarlo.
Il sole era ormai al tramonto quando si separa-
rono.
«A domani!» disse Dickon.
«A domani» ripeté Mary, e aggiunse: «Dickon,
continua pure a darmi del tu; ormai siamo vecchi
amici.»
Mary filò via di corsa: era impaziente di rac-
contare a Colin della volpe e del corvo, e dei fiori
che erano sbocciati in giardino. Chissà come l’a-
vrebbe ascoltata volentieri! Ma restò di stucco
quando vide Martha che l’aspettava in camera sua
con la faccia scura, quasi stravolta.
«Cos’è successo?» domandò. «Cos’ha detto
Colin?»
«Era meglio se ci andavate» rispose Martha.
«Aveste visto che scena! Ho avuto il mio da fare a
CAPITOLO SEDICI 159

tenerlo calmo, ma lui non faceva che guardare


l’orologio.»
Mary strinse le labbra, indispettita. Che Colin
ostacolasse il suo più bel divertimento non le gar-
bava affatto. Non sapeva che un bambino amma-
lato è spesso nervoso e irritabile, e sebbene lei
stessa fosse capricciosa e insopportabile quando
era malata, ora non era disposta a riconoscere a
Colin lo stesso diritto.
Quando entrò nella sua stanza lo trovò a letto,
tutto rannicchiato sotto le coperte. Sentendola
entrare, non si voltò neppure a guardarla. Come
inizio non era certo buono!
«Perché non ti sei alzato?» gli chiese sgarbata-
mente.
«M’ero alzato stamattina, perché speravo che
tu venissi» rispose Colin senza voltarsi, «ma nel
pomeriggio ho voluto tornare a letto. Mi faceva
male la schiena, mi faceva male la testa, ed ero
molto stanco. Perché non ti sei fatta vedere?»
«Dovevo lavorare in giardino con Dickon.»
«Ah sì? Ebbene, proibirò a quel ragazzo di veni-
re qui, se tu stai con lui invece di farmi compa-
gnia» disse Colin, guardandola con occhi cattivi.
A queste parole Mary andò in collera, e senza
alzare la voce, ma fredda e dura, gli rispose:
«Se mandi via Dickon, non verrò più da te.»
«Se ti farò chiamare, dovrai venir qui.»
«Non ci verrò» replicò Mary.
«Ti farò portare qui per forza.»
160 IL GIARDINO SEGRETO

«Va bene, signor principe! Potranno portarmi qui


per forza, ma non potranno costringermi a parlare,
se non vorrò aprir bocca! Stringerò i denti e non ti
rivolgerò una parola; non ti guarderò neppure.»
Facevano proprio una bella coppia! Se fossero
stati monelli di strada si sarebbero picchiati di
santa ragione; non potendolo fare, s’insultavano a
parole.
«Sei un’egoista!» gridò Colin.
«E tu non lo sei, forse?» ribatté Mary. «Solo gli
egoisti si comportano come te. Egoista! Egoista!»
«Sempre meno del tuo caro Dickon, che ti
tiene tutto il giorno a giocare in giardino mentre io
sono solo. Lui sì che è un egoista!»
Gli occhi di Mary lanciavano lampi.
«È il ragazzo più caro che sia mai esistito!»
gridò. «È un angelo.»
«Bell’angelo! Non è che un contadino!» replicò
Colin con un sorrido beffardo.
«È cento volte migliore di un principe pieno di
boria e di prepotenza!»
Mary stava prendendo il sopravvento, perché
era la prima volta che Colin si sentiva contrastato,
e questo, senza che lui lo sapesse, gli faceva be-
ne. Umiliato, il bimbo appoggiò il viso sul cuscino
e chiuse gli occhi, mentre due grosse lacrime gli
rigavano le pallide guance.
«Sono meno egoista di te» disse con voce fio-
ca, «perché tu sei sana e puoi andare dove vuoi,
mentre io sono ammalato. Ora mi crescerà la
CAPITOLO SEDICI 161

gobba, e poi morirò, e saranno tutti contenti.»


«Non è vero!» ribatté Mary duramente.
Colin riaprì gli occhi, sdegnato per l’imperti-
nenza di Mary, ma al tempo stesso un po’ conso-
lato.
«No?!» gridò. «E invece è vero! Lo dicono tutti,
e anche tu lo sai.»
«Non ci credo!» replicò Mary. «Lo dici solo per
impietosire gli altri; ne sembri quasi compiaciuto.
Sei troppo cattivo, e le erbe cattive non muoiono!»
Colin balzò a sedere sul letto, dimenticando
che la schiena gli doleva.
«Vattene!» urlò, tirandole contro il guanciale
che, per la sua poca forza, cadde molto prima di
raggiungere il bersaglio.
«Me ne vado» rispose Mary, pallida di rabbia,
«e non tornerò mai più.» E prima di arrivare alla
porta si voltò per dirgli ancora: «Volevo raccontar-
ti tante belle cose: di Dickon, della sua volpe e del
corvo, ma ormai non ti dirò più niente.»
E uscì sdegnosamente, sbattendo la porta. Nel
corridoio incontrò l’infermiera, che certo aveva
udito tutto, e rideva divertita, premendosi il fazzo-
letto sulla bocca. Era una bella ragazzona prospero-
sa, che senza dubbio avrebbe preferito non avere
sempre a che fare con gli ammalati, e tanto meno
con un bambino capriccioso come Colin; infatti con
mille scuse chiedeva sovente qualche permesso,
affidando Colin a Martha o alla signora Medlock.
«Che cosa avete da ridere?» le chiese Mary.
162 IL GIARDINO SEGRETO

«Rido di voi due» rispose l’altra senza compli-


menti. «È un bene per quel bambino viziato aver
da bisticciare con qualcuno che gli assomiglia; se
avesse avuto una sorella, forse non sarebbe cre-
sciuto tanto capriccioso.»
«Credete che morirà?»
«Non lo so» rispose l’infermiera. «Il suo male di-
pende in gran parte dai capricci e dall’isterismo.»
«Che cos’è l’isterismo?»
«Lo vedrete da voi se dopo questa scenata gli
verrà un’altra delle sue crisi. Ma almeno questa
volta una ragione ce l’avrà!»
Mary tornò in camera sua di umore nero. Prima
di andare da Colin aveva pensato con gioia di rac-
contargli la verità sul giardino segreto, ma ora
come poteva fidarsi di lui? Non gli avrebbe detto
più niente né del giardino, né di Dickon; che rima-
nesse pure chiuso in quella camera, senza respi-
rare mai aria pura, che morisse anche, se gli faceva
piacere. Peggio per lui!
Martha l’aspettava; era ancora turbata, ma
aveva un’espressione di viva curiosità. Sul tavolo
c’era una cassetta di legno scoperchiata, al cui
interno stavano alcuni pacchi ben legati.
«Ve li manda il signor Craven» spiegò la ragaz-
za. «Devono esserci dei libri in quei pacchi.»
Mary si ricordò che suo zio le aveva chiesto se
desiderava bambole, libri o altro; certo che se in
quei pacchi ci fossero state delle bambole non
avrebbe proprio saputo che farsene. Ma nella cas-
CAPITOLO SEDICI 163

setta c’erano molti bei libri illustrati come quelli di


Colin (due parlavano di fiori e di giardini, due o tre
di giochi di società), una magnifica cartella da
scrittoio con il suo monogramma in oro, una
penna pure d’oro e un bel calamaio.
La lieta sorpresa cancellò del tutto il suo malu-
more; non credeva che suo zio avrebbe pensato a
lei, e il suo cuoricino arido cominciò a provare un
po’ di tenerezza e di riconoscenza.
«So scrivere abbastanza bene» disse, «e per
prima cosa gli scriverò una bella lettera per rin-
graziarlo.»
Se non avesse litigato con Colin, sarebbe subi-
to corsa da lui per mostrargli i regali che aveva
ricevuto, e insieme avrebbero sfogliato i bei volu-
mi o provato a fare uno di quei giochi; si sarebbe-
ro certo divertiti, e Colin non avrebbe più pensato
a morire, e l’avrebbe smessa di toccarsi la schie-
na per vedere se gli spuntava la gobba. Questa fis-
sazione era nata in lui perché aveva sentito talvol-
ta la signora Medlock sussurrare all’infermiera
che il padrone era diventato gobbo quand’era pic-
cino; da allora non faceva che pensarci, e solo da
questa segreta paura nascevano le sue terribili
crisi. L’aveva confessato solo a Mary, e ora la
bimba cominciava a provare rimorso delle sue
cattive parole.
«Ci pensa di più quando sta male o quando è di
cattivo umore» disse fra sé, «e oggi era di cattivo
umore. Forse ci ha pensato tutto il pomeriggio.» E
164 IL GIARDINO SEGRETO

rimase a lungo in silenzio con gli occhi fissi al pa-


vimento. «Gli ho detto che non sarei tornata; ma
se mi chiama, credo che ci andrò. Forse mi but-
terà ancora il cuscino, ma ci andrò ugualmente.
Povero Colin!»
Capitolo diciassette

Quella mattina Mary si era alzata presto e aveva


lavorato tanto nel giardino, quindi dopo cena fu
ben contenta di andarsene a letto.
Prima di addormentarsi pensò a Colin, e decise
di andare da lui l’indomani mattina, dopo colazione.
Dormiva da parecchie ore, e la notte doveva
essere alta, quando fu destata da rumori così stra-
ni che saltò giù dal letto in un momento. Che cosa
mai poteva essere? Ma capì subito di che cosa si
trattava; le porte venivano sbattute, si udivano
passi frettolosi nei corridoi, e urli e strilli da far ac-
capponare la pelle.
«Dev’essere Colin» disse fra sé, «ha una delle
sue crisi isteriche.»
Nell’udire quegli urli e quei singhiozzi disperati
Mary comprese perché tutti cercavano di asse-
condarlo; a lei non rimase che tapparsi le orec-
chie.
«È insopportabile! Insopportabile!» ripeteva.
Come farlo smettere? Pensò che avrebbe potu-
to andarci lei... Ma poche ore prima l’aveva man-
166 IL GIARDINO SEGRETO

data via, e nel rivederla si sarebbe forse maggior-


mente inquietato.
Intanto quegli strilli incessanti la infastidivano
talmente che le veniva voglia di mettersi a urlare
più forte di lui. Alla fine non ne poté più e batté i
piedi gridando: «Bisogna che la smetta! Qualcuno
ci deve riuscire, picchiandolo magari!»
In quel mentre la porta si aprì ed entrò l’infer-
miera. Era pallida, sconvolta, e non aveva certo
voglia di ridere.
«È una delle sue solite crisi!» esclamò. «Ma
questa volta non so più cosa fare. Venite voi, da
brava: forse riuscirete a calmarlo. Ha tanta simpa-
tia per voi.»
«Mi ha mandata via in malo modo, non voglio!»
rispose Mary, battendo ancora i piedi per la stizza.
«Avete ragione» replicò l’infermiera, contenta
di trovare Mary in quello stato d’animo. «Andate
da lui e rimproveratelo; forse la smetterà.»
Mary finì per trovare buffo che i “grandi” si spa-
ventassero così e ricorressero a lei per calmare i
capricci di un bambino, e questo la decise ad anda-
re. Volò per i corridoi, e più quegli strilli si facevano
vicini e forti, più il suo furore cresceva. Aprì la porta
con una spinta e andò dritta al letto, gridando:
«Smettila! Smettila! Ti fai odiare da tutti. Vorrei
che ti lasciassero solo a strillare fino a morirne; e
io ne sarei proprio contenta!»
A una bambina affettuosa e gentile non sareb-
bero mai venute in mente simili parole, ma forse
CAPITOLO DICIASSETTE 167

erano quelle che ci volevano per un bambino iste-


rico che nessuno aveva mai osato contrastare.
Colin era sdraiato con la faccia contro il cusci-
no, e ora picchiava i pugni sul guanciale, ora lo
mordeva. Nell’udire quella vocetta furiosa si voltò
di scatto; era rosso e gonfio in viso, ansimava e
singhiozzava. Mary non ne ebbe compassione, e
proseguì imperterrita:
«Se strilli ancora, mi metto a strillare più forte di
te, finché sarai tu ad avere paura.»
L’urlo che Colin stava per lanciare gli rimase
strozzato in gola per la sorpresa; ma continuava a
singhiozzare, e fra un singhiozzo e l’altro andava
ripetendo:
«Non po...osso smetter…rla! Non po...osso!»
«Sì che puoi!» gridò Mary. «Tu non stai male, sei
solo un isterico! Un isterico, e basta!»
«Mi sento crescere la gobba» gemeva Colin, «la
sento proprio, e quando sarà spuntata tutta mo-
rirò.»
«Non è vero!» replicò Mary. «Non c’è nessuna
gobba sulla tua brutta schiena. È tutta paura e
niente altro. Fammi vedere. Infermiera, venite a
voltarlo.»
L’infermiera, la signora Medlock e Martha s’era-
no rannicchiate vicino alla porta e la guardavano
esterrefatte e impaurite. L’infermiera, sentendosi
chiamare, s’avvicinò tremando come una foglia.
«Purché mi lasci fare» disse piano. Ma Colin
l’udì e gridò tra i singhiozzi:
168 IL GIARDINO SEGRETO

«Sì, sì, voltatemi! Voglio che veda anche lei!»


Mary si chinò su quella povera schiena magra,
e prese a esaminarla con l’aria grave e solenne di
un dottore, e con un’espressione tale d’importan-
za, che l’infermiera si voltò per nascondere un
sorriso. Seguì un minuto di silenzio: Colin tratte-
neva il respiro e Mary continuava la sua visita,
sempre col viso duro e la fronte aggrottata. Alla
fine disse:
«La gobba non c’è, neanche grande come la
capocchia di uno spillo! Si vedono le ossa, e sono
queste che senti, perché sei magro. Si vedevano
anche a me prima che diventassi più grassa. Ma la
gobba non c’è, e se ne parlerai ancora ti riderò in
faccia.»
Quelle parole ebbero un effetto portentoso su
Colin. Se avesse incontrato prima qualcuno cui
confidare i suoi segreti terrori, se avesse avuto altri
bambini intorno a sé, invece di rimanere chiuso in
quella immensa casa, in mezzo a persone ignoran-
ti e stanche di sopportarlo, si sarebbe presto accor-
to che il suo male non era altro che il frutto della sua
fantasia. Per giorni, mesi e anni non aveva avuto
che quell’unico pensiero a colmare la noia e il
vuoto della sua infanzia. Ora l’insistenza e la fer-
mezza di Mary l’avevano quasi indotto a crederle.
«Non sapevo che temesse la gobba» disse l’in-
fermiera. «È debole e denutrito perché non si alza
dal letto e non mangia. Ma che la gobba non ce
l’ha, questo potevo dirglielo anch’io.»
CAPITOLO DICIASSETTE 169

«Davvero?» chiese Colin, ancora scosso dai sin-


ghiozzi.
«Certo, signorino!»
«Hai visto!» esclamò Mary, esultante e, chissà
perché, commossa.
Colin si voltò a guardarla, singhiozzando sem-
pre più piano, finché non rimasero che due gros-
se lacrime a inumidire quei suoi occhioni tristi.
«Credete che potrò diventare grande?» doman-
dò all’infermiera con un tono stranamente gentile.
E l’infermiera, che non doveva essere facile al-
la tenerezza, non seppe che ripetere le parole
dello specialista venuto da Londra.
«Lo diventerete, se farete quello che vi si con-
siglierà di fare e se andrete in giardino a respirare
dell’aria pura.»
La crisi era passata. Colin, ora, si sentiva debole
e stanco, e forse anche più buono. La sua mano si
sporse verso quella di Mary e così fu fatta la pace.
«Uscirò con te, Mary» disse poi, «a prendere
dell’aria e...» Si fermò in tempo prima di dire “a
cercare il giardino segreto” e continuò: «A gioca-
re con Dickon, la volpe e il corvo.»
L’infermiera rifece il letto e preparò una buona
tazza di brodo, per tutti e due. La signora Medlock
e Martha se n’erano già andate, e ora che tutto era
a posto ed era tornata la calma, anche l’infermie-
ra dava segni d’impazienza. Sbadigliava e conti-
nuava a guardare Mary, che s’era seduta sullo sga-
bello vicino al letto di Colin.
170 IL GIARDINO SEGRETO

«Andate a dormire» le disse piano, «fra poco il


signorino si addormenterà, e potrò anch’io ripo-
sare.»
«Vuoi che ti canti la ninnananna come l’altra
notte?» sussurrò Mary all’orecchio di Colin.
«Oh, sì!» rispose lui. «È così dolce che mi farà
dormire.»
«Andate pure, resterò io con lui» disse Mary
all’infermiera che, fingendo di esitare, mormorò:
«Va bene, ma se non si addormenta entro
mezz’ora, chiamatemi» e se ne andò.
Colin prese di nuovo la mano di Mary, e disse:
«Mi sono fermato in tempo! Ora, però, non mi
sento di parlare, ho sonno; ma tu avevi tante cose
da dirmi! Credi... credi che riuscirai a entrare nel
giardino segreto?»
Mary guardò quel povero visino stanco e quegli
occhi ancora gonfi per il pianto, e si commosse.
«Credo di sì» rispose, «ma ora devi dormire, ti
dirò tutto domani.»
La mano di Colin tremava.
«Oh, Mary, Mary, se potremo entrarci, sono
sicuro che guarirò e vivrò e diventerò grande.
Perché, invece di cantare, non mi racconti ancora
come ti immagini che sia il giardino?»
«Sì, ma chiudi gli occhi.»
Colin obbedì, e Mary cominciò a parlare, lenta-
mente e a bassa voce.
«Il giardino è stato lasciato così a lungo in abban-
dono che ora sarà diventato come un gran cespu-
CAPITOLO DICIASSETTE 171

glio. I rosai si saranno allungati, arrampicandosi su


tutto, sugli alberi e sui muri. Alcuni saranno morti,
ma moltissimi saranno ancora vivi, e quest’estate
formeranno tante cascate di rose. Ora saranno già
spuntati i narcisi, i bucaneve, i gigli e i crocus, e
presto fioriranno. Forse... forse...»
Il tono della sua voce si abbassava fino a non
essere più che un dolce sussurro.
«Forse qualcuno sarà già fiorito. Le prime
foglioline si saranno già aperte, e un manto verde
si sarà disteso sopra ogni cosa. Verranno gli uccel-
li a fare i nidi, e forse... forse il pettirosso ha già
trovato la sua compagna, e staranno facendo il
nido...»
Colin s’era addormentato.
Capitolo diciotto

L’indomani mattina Mary si svegliò più tardi.


Martha, nel servirle la colazione, le riferì che Colin
era calmo, ma che non stava bene e aveva la feb-
bre, come sempre accadeva dopo quelle crisi.
«Vi prega di andare da lui appena potete» conti-
nuò Martha. «Pregare! È la prima volta in vita sua
che pronuncia questa parola! È strano come si sia
affezionato a voi. E dire che l’avete trattato proprio ma-
le ieri sera; nessun altro avrebbe osato dirgli quello
che voi gli avete detto. Eh, povero ragazzo! L’hanno
viziato troppo. La mamma dice che due cose
soprattutto fanno male ai bambini: essere accon-
tentati in tutto, o in niente; e non si sa quale sia la
peggiore. Ma anche voi eravate in collera: che fac-
cia avevate! Ma ci andrete, non è vero, signorina?»
«Prima andrò da Dickon» rispose Mary, «no,
prima andrò da Colin e gli dirò... So io quello che
gli dirò!»
Colin era a letto, più pallido del solito e con gli
occhi infossati, e quando vide Mary vestita per
uscire rimase deluso.
CAPITOLO DICIOTTO 173

«Grazie di essere venuta» disse. «Sono stanco,


e mi sento tutto indolenzito. Dove stai andando?»
Mary si chinò sul letto e bisbigliò:
«Vado da Dickon, ma torno presto: è per il no-
stro giardino.»
Colin s’illuminò in viso e prese anche un po’ di
colore.
«Davvero? L’ho sognato, questa notte; mi trova-
vo in un luogo tutto verde, pieno di piante e di
fiori, e gli uccellini cantavano sui rami. Ci penserò
finché non tornerai.»
Cinque minuti dopo Mary era già nel giardino
con Dickon, che si era portato, oltre alla volpe e al
corvo, anche due scoiattoli addomesticati.
«Stamattina sono venuto col cavallino» disse,
«e ho portato in tasca Noce e Guscio.»
Nel sentire i loro nomi, i due scoiattoli gli salta-
rono sulle spalle, uno a destra e uno a sinistra.
Quando si sedettero sull’erba con tutte quelle
bestiole intorno, Mary pensò che le sarebbe stato
difficile staccarsi da tante delizie, ma, mentre rac-
contava a Dickon gli avvenimenti di quella notte,
notò che il ragazzo andava sempre più rabbuian-
dosi in viso. Possibile che si rattristasse tanto per
la sorte di un ragazzo che non conosceva?
«Guarda! Gli uccelli volano e cinguettano e si
chiamano da un albero all’altro. È sempre così in
primavera: nascono le prime foglie, e l’aria si
riempie tutta di buoni odori. Quel povero ragazzo,
invece, non vede mai nulla e pensa sempre a
174 IL GIARDINO SEGRETO

tante brutte cose che lo fanno piangere. Bisogna


portarlo qui, perché goda di tutte queste meravi-
glie e respiri aria pura e prenda un po’ di sole; e
non bisogna perdere tempo!»
Anche questa volta, come sempre nei momen-
ti di maggiore emozione, Dickon aveva parlato in
dialetto; ora però Mary non solo lo capiva, ma
provava anche a imitarlo, facendolo ridere diver-
tito.
«Hai ragione! Non perdiamo tempo!» disse.
«Sai che cosa voglio fare? Gli ho tanto parlato di te
che desidera conoscerti e vedere le tue bestiole.
Oggi gli chiederò se ti permette di venire a trovar-
lo. E quando poi ci saranno più foglie e più fiori lo
condurremo fuori: tu spingerai il carrozzino, e
insieme gli faremo vedere tante belle cose.»
«Prova a parlargli qualche volta in dialetto» le
consigliò Dickon, «lo farai ridere: una buona risa-
ta è migliore di qualunque medicina.»
Il giardino diventava ogni giorno più bello;
pareva che di notte passasse una fata a far rina-
scere ogni pianta, ogni cespuglio, ogni fiore con
leggeri tocchi della sua bacchetta magica. Era tri-
ste per Mary doversene andare, ora che Noce le si
era seduto in grembo e Guscio la guardava con
sempre minore diffidenza. Alla fine però si decise.
Quando fu di nuovo presso il letto di Colin, que-
sti cominciò ad annusare l’aria come faceva
Dickon.
«Profumi tutta di fresco e di fiori» le disse alle-
CAPITOLO DICIOTTO 175

gro. «Sei andata in giardino?»


«Sì, sono stata seduta sull’erba con Dickon, Gu-
scio e Noce e le altre bestiole. Quello che ho ad-
dosso è il profumo della terra e della primavera»
gli rispose Mary, parlando in dialetto.
«Ma che fai?» le chiese Colin meravigliato. «Non
ti ho mai sentito parlare in questo modo.»
«È dialetto: l’ho imparato da Martha e Dickon.
Non ti piace?»
«Oh, sì! Ma è buffo!» esclamò Colin, scoppian-
do a ridere.
Risero di nuovo entrambi, e risero così di gusto
che la signora Medlock, dopo aver aperto l’uscio
per entrare, lo richiuse subito, senza nemmeno
farsi vedere, e rimase nel corridoio ad ascoltare.
«Chi l’avrebbe mai immaginato!» esclamò poi
sbalordita.
Quante cose c’erano da raccontare! Colin non
si stancava di fare domande: voleva sapere tutto
di Dickon e delle sue bestiole, e specialmente del
cavallino, che Mary era andata a vedere. Era un
cavallino magro e irsuto, con una lunga criniera
ricciuta e due occhi vivacissimi; vivendo nella
brughiera non poteva certo essere ben pasciuto,
ma era forte e i muscoli delle sue gambe pareva-
no d’acciaio. Nel vedere Dickon, gli si era avvici-
nato nitrendo e aveva appoggiato la testa sulla sua
spalla; il ragazzo gli aveva parlato all’orecchio, e
Saetta, questo era il nome del cavallo, gli aveva
risposto a modo suo con gioiosi nitriti. Poi si era
176 IL GIARDINO SEGRETO

lasciato accarezzare sul collo anche da Mary.


«Ma capisce davvero quando Dickon gli parla?»
chiese Colin.
«Pare di sì» rispose Mary. «Dickon dice che
quando si è veramente amici di un cavallo non è
difficile farsi capire.»
Colin rimase a lungo silenzioso, con gli occhi fissi
nel vuoto, come assillato da un unico pensiero.
«Anch’io vorrei essere amico di qualcuno»
disse, «ma finora me ne è mancata l’occasione; e
inoltre non mi è mai piaciuto nessuno.»
«Nemmeno io?» domandò Mary.
«Tu sì» rispose Colin, «è strano, ma mi sei mol-
to simpatica.»
«Un giorno Ben mi ha detto che gli assomiglio,
che ho un brutto carattere come lui. E mi pare
che tu sia come noi. Però penso che migliorerai
se continuerai a provare amicizia per me, perché
anch’io sono meno cattiva da quando conosco
Dickon e il pettirosso.»
«Anche tu sentivi di odiare tutte le persone?»
chiese Colin.
«Certo, e avrei detestato anche te, se ti avessi
incontrato prima di Dickon e del pettirosso.»
Colin le prese una mano.
«Mary» disse, «mi dispiace di averti detto che
volevo mandar via Dickon. Ma ti ho quasi odiata
quel giorno che hai detto che è un angelo; ma
forse... forse lo è davvero.»
«Be’, sono stata una sciocca a dirti così» am-
CAPITOLO DICIOTTO 177

mise Mary, «perché proprio non è bello come un


angelo: ha la faccia paffuta e la bocca troppo
grande, è vestito male, e poi parla in dialetto; tut-
tavia, se un angelo venisse a vivere nella brughie-
ra, credo che conoscerebbe tutte le piante e i fiori
e sarebbe amico di tutte le bestie, proprio come
Dickon.»
«Sai, Mary» aggiunse Colin, «ora credo che lo
vedrei volentieri.»
«Sono contenta che tu dica così, perché...» Era
giunto ormai il momento di parlargliene, e Colin
s’accorse che c’era qualcosa di nuovo per l’aria.
«Perché, perché?» ripeté ansioso.
«Posso fidarmi di te?» chiese Mary emoziona-
tissima, avvicinandosi ancor di più a Colin.
«Sì, certo.»
«Bene, domani mattina Dickon viene a trovarti
con le sue bestiole.»
«Davvero?!» esclamò Colin, felice come mai
era stato.
«Ma non è tutto» riprese Mary con aria solenne.
«Ho scoperto la porta del giardino: era nascosta
sotto una cortina di rami d’edera.»
Se Colin fosse stato un ragazzo sano e robusto
avrebbe fatto salti di gioia; ma debole e stanco
com’era, si limitò a sgranare ancor più i suoi oc-
chioni e a mormorare, quasi singhiozzando:
«Oh, Mary! Lo potrò vedere? E ci potrò entrare?
E vivrò fino a quel meraviglioso momento?»
«Certo che vivrai, e lo vedrai anche!» replicò
178 IL GIARDINO SEGRETO

Mary. «Non dire sciocchezze!»


E con la sua semplicità e ingenuità di bambina
sana e finalmente serena lo persuase a non fare
più cattivi pensieri, e riuscì anche a farlo sorride-
re. In pochi minuti gli descrisse di nuovo il giardi-
no, come già altre volte aveva fatto, e Colin l’a-
scoltò affascinato, dimenticando del tutto i suoi
mali.
«Così me l’immaginavo» disse infine. «Ma sem-
bra proprio che tu l’abbia già visto; te l’ho detto
anche l’altra volta.»
Mary ebbe un attimo di esitazione, poi si deci-
se a dire la verità.
«L’ho già visto, infatti» disse, «sono ormai molte
settimane che ci vado, ma non ho mai osato dir-
telo, perché... perché non ero sicura di potermi
fidare di te.»
Capitolo diciannove

Naturalmente, dopo la crisi della notte, era stato


chiamato il dottor Craven. Lo avevano fatto venire
ogni volta che Colin aveva avuto un attacco, e ogni
volta aveva trovato il ragazzo sdraiato nel suo letto,
pallido, sfinito e ancora scosso dai singhiozzi.
Quelle visite erano proprio un supplizio anche per il
dottore; quel giorno, essendo occupatissimo in mat-
tinata, si recò a Misselthwaite nel pomeriggio.
«Come sta?» chiese subito alla signora Med-
lock. «Se continuerà ad avere queste crisi d’isteri-
smo, un giorno o l’altro gli scoppierà un’arteria.»
«Quando lo vedrete, oggi» rispose la governan-
te, «non crederete ai vostri occhi. Quella ragazzi-
na, certamente non più affabile di lui, lo ha stre-
gato. Come abbia fatto, Dio solo lo sa. Parla poco,
eppure questa notte ha osato fare quello che nes-
suno di noi avrebbe neppure osato pensare. È
corsa da lui come un gattino arrabbiato e, batten-
do i piedi, gli ha ordinato di smetterla. Colin non
ha più fiatato. E oggi poi! Ma vedrete, vedrete coi
vostri occhi, dottore!»
180 IL GIARDINO SEGRETO

La scena che si presentò agli occhi del dottor


Craven quando entrò nella camera di Colin fu
davvero sbalorditiva. Colin, in vestaglia, era sedu-
to sul sofà, e chiacchierava e rideva con Mary,
mentre insieme sfogliavano un libro illustrato che
trattava di giardinaggio. Mary, poi, così colorita e
sorridente com’era in quel momento, non si pote-
va proprio dire brutta.
«Come sono belli questi fiori azzurri dallo stelo
tanto lungo» osservava Colin. «Si chiamano del-
phinium?»
«Dickon li chiama speronelle» spiegò Mary.
«Molte sono già fiorite.»
Appena videro il dottore, tacquero: Mary s’irri-
gidì, e Colin si mostrò piuttosto seccato.
«Mi dispiace che tu non sia stato bene questa
notte, Colin» disse il dottore nervosamente.
«Ora sto meglio, molto meglio» rispose Colin,
assumendo la sua aria da principino. «Anzi, se
sarà bel tempo, uscirò in carrozzino a prendere
un po’ d’aria buona.»
Il dottor Craven gli toccò il polso e lo guardò
sorpreso.
«Bisogna che sia una giornata veramente
calda, e devi anche badare di non stancarti trop-
po» disse.
«L’aria non mi stancherà» rispose il principino,
che in altre occasioni aveva urlato che non voleva
uscire perché era sicuro di prendersi un raffred-
dore tanto forte che l’avrebbe ucciso.
CAPITOLO DICIANNOVE 181

«Credevo che non ti piacesse uscire!»


«Da solo no» rispose Colin, «ma mia cugina
uscirà con me.»
«E anche l’infermiera, vero?» suggerì il dottore.
«Quella non la voglio» rispose il bimbo con
un’aria che a Mary ricordò ancora di più il piccolo
principe indiano, coperto di diamanti, perle e
smeraldi, che impartiva ordini agli schiavi ingi-
nocchiati ai suoi piedi. «Mia cugina sa come
curarmi, e io mi sento meglio quando sono con
lei; è lei che mi ha calmato questa notte. E poi ci
sarà un ragazzo che conosciamo a spingere il car-
rozzino.»
Il dottor Craven si allarmò. Doveva evitare che
Colin incorresse in qualche serio pericolo.
«È necessario che sia un ragazzo robusto» dis-
se, «e io desidero sapere qualcosa di lui. Chi è?»
«È Dickon» rispose Mary, convinta che anche il
dottore lo conoscesse. E non aveva torto; infatti il
dottore si rasserenò e sorrise.
«Se è Dickon» disse, «sono tranquillo. È forte
come un cavallino ed è anche un bravo ragazzo.»
«È il ragazzo più buono e più fidato di tutta la
provincia!» esclamò Mary, raggiante.
«D’accordo» disse il dottore, «se proprio lo de-
sideri, non ti farà certo male uscire un po’. Hai
preso la tua pastiglia di bromuro, stanotte?»
«No, non l’ho voluta» rispose Colin, «Mary mi ha
parlato del giardino e della primavera, e così mi
sono addormentato senza bisogno del calmante.»
182 IL GIARDINO SEGRETO

«È stata brava» osservò il dottore, guardando di


sottecchi Mary che continuava a tenere gli occhi
fissi a terra. «Vedo che stai meglio, ma bada che
un’altra volta devi ricordare che...»
«Non voglio ricordarmene!» l’interruppe Colin
con prepotenza. «È proprio quando sono solo che
mi vengono dolori dappertutto; allora penso a
tante cose brutte e strillo, strillo di paura. Avrei
bisogno di un dottore che mi aiutasse a dimenti-
care, non a ricordare che sono malato! Con mia
cugina dimentico tutto, per questo sto meglio!»
Non era mai accaduto che il dottor Craven si
fermasse così poco al capezzale del suo piccolo
paziente. Quel giorno se ne andò quasi subito,
senza ordinare nuove medicine e senza fare trop-
pe raccomandazioni. Ma prima di lasciare la casa
si fermò un momento in biblioteca, dove lo aspet-
tava la signora Medlock.
«Allora, dottore» disse la governante, «l’avreste
mai immaginato?»
«È cambiato molto, e in meglio, non c’è che
dire» rispose il dottor Craven.
«Credo che Susan Sowerby abbia ragione» con-
tinuò la signora Medlock. «L’ultima volta che sono
passata da lei mi ha detto: “Quella bambina non
sarà né bella né buona, ma è pur sempre una
bambina, e i ragazzi devono stare tra loro.” Non
trovate anche voi che abbia ragione?»
«Certo» rispose il dottore. «Quella Sowerby è
una donna molto saggia.»
CAPITOLO DICIANNOVE 183

Colin dormì profondamente tutta la notte, e al


mattino, svegliandosi, si sentì così sereno e felice
che sorrise senza saperlo: si stirò le gambe e le
braccia, come per sciogliersi definitivamente
dagli invisibili legami che gli avevano irrigidito il
corpo sino ad allora. Il dottor Craven avrebbe
detto che finalmente i suoi nervi si erano rilassati.
Infatti, invece di rimanere sdraiato a fissare nel
vuoto, lasciandosi vincere dalla solita apatia,
Colin ripensò subito a quanto aveva progettato
con Mary il giorno prima, e ripensò a Dickon e alle
sue bestiole. Non erano passati dieci minuti che si
sentì correre lungo il corridoio, e subito dopo
entrò Mary, portandosi dietro un’ondata d’aria fre-
sca e profumata.
«Sei già stata fuori, vero?» chiese Colin. «Hai
addosso un buon odore d’erba!»
La bimba era tutta spettinata, rossa e affannata
per la corsa.
«Che meraviglia!» esclamò. «È arrivata la pri-
mavera! È qui! Lo ha detto anche Dickon, e io non
avevo mai visto uno spettacolo così bello!»
«Davvero? Apri la finestra!» gridò Colin, col
cuore che gli batteva forte forte per l’emozione,
malgrado non avesse un’idea chiara di che cosa
fosse in realtà la primavera.
Mary non se lo fece ripetere due volte; spa-
lancò i vetri, e la camera fu invasa dall’aria tiepida
e profumata della primavera, dal sole, dal canto
degli uccelli.
184 IL GIARDINO SEGRETO

«Questa è aria buona!» disse. «Distenditi bene


e respirane più che puoi. Dickon fa così quando si
sdraia in terra nella brughiera. Dice che sente l’a-
ria penetrargli nelle vene a dargli forza, energia e
il desiderio di vivere per sempre!»
«Di vivere per sempre!» ripeté Colin trasognato,
e mentre continuava a respirare forte gli pareva
già di sentirsi meglio.
Mary si era seduta sull’orlo del letto, e prose-
guiva:
«Dovunque spunta qualcosa; molti fiori sono
già sbocciati, e l’erba non è mai stata così verde.
Gli uccellini hanno premura di finire i loro nidi
prima che sia tardi, e molti bisticciano anche fra
loro per trovare il posto migliore fra i rami. Tutti i
rosai sono vivi, e sui sentieri e ai piedi degli alberi
sono fiorite le primule; sono nati anche i fiori che
abbiamo seminato noi. Dickon, poi, ha portato la
volpe, il corvo, gli scoiattoli e anche un agnellino
appena nato.»
Si fermò per riprendere fiato. Quell’agnellino
Dickon l’aveva trovato tre giorni prima nella bru-
ghiera. Non era il primo che trovava e già sapeva
come fare. Lo aveva portato a casa, avvolto nella
sua giacca, e lo aveva messo subito vicino al
fuoco, nutrendolo con latte caldo. Quella mattina
Dickon l’aveva portato in braccio per tutto il cam-
mino, e si era messo una boccetta di latte in tasca
insieme a uno scoiattolo. Mary, seduta sotto un
albero, si era tenuta in grembo quella creaturina
CAPITOLO DICIANNOVE 185

morbida e calda, e una tenerezza tutta nuova le


aveva gonfiato il cuore, lasciandola quasi senza
parole.
Stava raccontando tutto ciò a Colin, che l’a-
scoltava rapito, quando entrò l’infermiera, che
guardò la finestra aperta. Quante volte si era sen-
tita venir meno dal caldo in quella stanza, perché
Colin non voleva assolutamente che si aprissero i
vetri nel timore di prendersi un raffreddore!
«Non avete freddo, signorino?» domandò.
«No» fu la risposta. «Respiro aria buona e mi
sento già più forte. Mi alzerò a fare colazione, e
mia cugina mi terrà compagnia.»
L’infermiera se ne andò a ordinare le due cola-
zioni, reprimendo a mala pena un sorriso. In cuci-
na tutti erano ansiosi di conoscere da lei le ultime
novità, e in quei giorni non facevano che parlare
del loro poco simpatico padroncino.
«Quella bambina è proprio quel che ci vuole
per lui!» aveva detto la cuoca.
I domestici cominciavano a essere stanchi di
quel piccolo capriccioso tiranno, e il maggiordo-
mo, padre di una numerosa famiglia, aveva più
volte decretato che un buon frustino gli avrebbe
fatto passare i capricci.
Quando la colazione fu servita, Colin annunciò
all’infermiera, con molto sussiego:
«Un ragazzo, una volpe, un corvo, due scoiat-
toli e un agnellino verranno stamattina a trovarmi.
Appena si presenteranno, fateli passare subito.»
186 IL GIARDINO SEGRETO

L’infermiera tossicchiò per nascondere lo sba-


lordimento.
«Sì, signorino» riuscì a balbettare.
«Anzi, incaricate Martha di accompagnarli da
me. Il ragazzo è suo fratello Dickon, ed è un in-
cantatore di bestie.»
«Spero che le bestie non morderanno.»
«Non temete» rispose Colin. «Le bestie degli
incantatori non mordono mai.»
«Pensate che in India» aggiunse Mary «gli incan-
tatori si mettono le teste dei serpenti in bocca.»
«Santo cielo!» esclamò l’infermiera, scappan-
do via inorridita.
Mangiarono tutti e due di gusto quella mattina,
con la stanza piena d’aria e di sole.
«Ingrasserai anche tu come me» diceva Mary a
Colin. «In India non volevo mangiare, ma qui mi è
venuto molto appetito.»
«Anch’io ne ho questa mattina; comincia a far-
mi bene l’aria» disse Colin. «Quando credi che
verrà Dickon?»
«Non tarderà molto, vedrai» gli rispose Mary.
In quel preciso istante si udirono rumori nuovi
per quella casa sempre silenziosa: si udì il gracchia-
re di un corvo e un debole belato. Subito dopo i pe-
santi scarponi di Dickon echeggiarono lungo i corri-
doi, quantunque il ragazzo si sforzasse di cammi-
nare in punta di piedi. Più Dickon si avvicinava e più
Mary e Colin trattenevano il respiro per l’emozione.
Finalmente la porta si aprì, e Martha fece
CAPITOLO DICIANNOVE 187

capolino, annunciando timidamente:


«Signorino, Dickon è qui con tutte le sue bestie.»
Dickon entrò col suo più bel sorriso, tenendo l’a-
gnellino tra le braccia, mentre la volpe gli trotterel-
lava a fianco; Carbone si era rifugiato sulla sua spal-
la sinistra, mentre il musino e le zampette di Guscio
e di Noce gli sbucavano dalle due tasche.
Colin si alzò a sedere e rimase immobile, coi
suoi occhioni grigi spalancati, sopraffatto dallo
stupore e dalla gioia. La verità era che, per quan-
to Mary gli avesse parlato più volte di Dickon, non
avrebbe mai potuto immaginarselo così come gli
si presentava ora, affettuosamente circondato
dalle sue bestiole che parevano quasi formare
una cosa sola con lui. E continuò a fissarlo senza
dire nulla, come se le parole non fossero neces-
sarie in un momento come quello.
Dickon, da parte sua, non si mostrò per niente
intimidito né imbarazzato; era abituato a certi lun-
ghi silenzi, soprattutto con gli animali, che, di soli-
to, lo studiavano a lungo prima di fare amicizia
con lui. S’avvicinò a Colin e gli depose sulle ginoc-
chia l’agnellino, che cominciò subito a fiutare il
velluto morbido della sua vestaglia, e a strofinare
il muso contro le pieghe del tessuto. A questo pun-
to era impossibile tacere.
«Che cosa fa? Che cosa vuole?» domandò Colin.
«Cerca da mangiare» rispose Dickon, sempre
sorridendo.
«Ve l’ho portato qui un po’ affamato perché pen-
188 IL GIARDINO SEGRETO

savo che vi sarebbe piaciuto vederlo mangiare.» E


così dicendo prese di tasca una bottiglietta di latte.
«Vieni, piccino» continuò, girando delicatamente la
testa dell’agnello verso di sé, «ecco quello che cer-
chi: vedrai che ti piacerà più del velluto.» E gli mise
tra le labbra la tettarella di gomma, che l’agnello
prese a succhiare avidamente, finché non s’addor-
mentò.
Il ghiaccio era rotto, e in breve le domande co-
minciarono a fioccare senza posa. Dickon aveva
una risposta per tutte. Raccontò come aveva trova-
to l’agnello nella brughiera tre giorni prima, all’al-
ba. Stava inseguendo con lo sguardo un’allodola
che volava sempre più alta nel cielo, finché non fu
più che una piccola macchia nell’azzurro.
«Perso di vista l’uccello» continuò Dickon, «sta-
vo per riprendere la mia strada quando udii un de-
bole belato tra i cespugli. Capii subito che doveva
trattarsi di un agnellino affamato, e che, se era tanto
affamato, doveva aver perso la madre. Cominciai
allora a cercarlo, ma non fu facile scoprirlo. Alla fine
vidi qualcosa di bianco spuntare fra il verde d’un
cespuglio, e lo trovai, lì, mezzo morto di fame e di
freddo.»
Mentre Dickon parlava, Carbone volava fuori e
dentro la finestra, gracchiando; i due scoiattoli si
erano rifugiati sull’albero più vicino e si rincorreva-
no da un ramo all’altro, mentre la volpe s’era acco-
vacciata ai piedi di Dickon, seduto a sua volta sul
tappeto.
CAPITOLO DICIANNOVE 189

Poi presero a sfogliare i libri illustrati, e Dickon


conosceva tutti i nomi dei fiori, e poteva dire an-
che quali sarebbero fioriti nel loro giardino.
«Non sapevo che questo si chiamasse aquile-
gia» osservò. «Noi lo chiamiamo colombina; ce ne
sono tanti nel giardino, e quando fioriranno sem-
breranno un’aiuola di farfalle bianche e azzurre.»
«E io li vedrò! Li vedrò!» gridava Colin.
«Sicuro» esclamò Mary tutta seria. «E presto.»
Capitolo venti

Dovettero invece aspettare più di una settimana;


dapprima ci furono giorni troppo freddi e ventosi,
poi Colin si buscò un raffreddore, due cose che in
altri momenti lo avrebbero reso nervoso e insop-
portabile. Mary rimase quasi sempre con lui, e
Dickon venne ogni giorno, anche solo per pochi
minuti, a riferire quanto accadeva nella brughiera,
sui bordi dei sentieri, fra i cespugli, sulle rive dei
ruscelli. Quante cose nuove per Colin, e che
meraviglia sentir parlare di lontre e di tassi, di topi,
di uccelli e delle loro tane e dei loro nidi da un
ragazzo come Dickon, che ne conosceva tutte le
abitudini e sapeva persino renderseli amici! Era
come scoprire, tutto d’un tratto, un meraviglioso
mondo fino ad allora sconosciuto.
Tuttavia, la cosa che destava maggior interesse
e preoccupazione era il piano da stabilire per con-
durre Colin nel giardino senza che nessuno se ne
avvedesse. Dovevano arrivare inosservati fino al
viale fiancheggiato dal muro coperto d’edera. Col
passare dei giorni Colin era sempre più affascina-
CAPITOLO VENTI 191

to dal mistero e dalla segretezza che circondava


quella loro impresa. Tutti gli altri, la signora
Medlock, i domestici e i giardinieri, non dovevano
sospettare nulla; doveva bastare loro sapere che
Colin intendeva uscire con Mary e Dickon solo
perché gli erano simpatici e non gli dispiaceva
affatto che lo guardassero.
Avevano già stabilito il complicato giro che
avrebbero fatto nel parco, prima di dirigersi verso
la loro meta; quel vagabondare, apparentemente
senza scopo, sarebbe apparso più che naturale e
non avrebbe certo indotto nessuno a seguirli. Si
trattava insomma di un vero e proprio piano di
battaglia, preparato e studiato in tutti i suoi parti-
colari.
Naturalmente i domestici e persino i cocchieri
e i giardinieri non facevano che commentare tutto
il giorno le ultime straordinarie novità riguardanti
il padroncino. Il signor Roach, poi, il capo-giardi-
niere, rimase senza fiato quando gli riferirono che
doveva recarsi nell’appartamento di Colin, al
quale pochissimi avevano accesso, perché il
signorino desiderava parlargli.
“Che cosa succede?” diceva fra sé stupito, men-
tre si metteva l’uniforme di riguardo. “Sua Altezza
Reale manda a chiamare un uomo che non cono-
sce!”
Il signor Roach era assai curioso di conoscere
quel ragazzo, sul quale circolavano le più assurde
voci; ne parlavano, infatti, come di un mostriciat-
192 IL GIARDINO SEGRETO

tolo con la gobba, le gambe troppo deboli per reg-


gerlo, lo sguardo cattivo, e per di più afflitto da vio-
lente crisi di nervi che una volta o l’altra l’avreb-
bero ridotto in fin di vita.
«Le cose stanno cambiando in questa casa, si-
gnor Roach» disse la governante, facendogli stra-
da lungo i numerosi corridoi.
«Speriamo che cambino in meglio, signora
Medlock.»
«Non potevano certo peggiorare» continuò la
governante. «Ora, grazie a Dio, il compito di noi
tutti è molto facilitato. Non stupitevi di trovarvi in
un serraglio e non in una camera da letto: c’è
Dickon con tutte le sue bestie, e a quanto pare si
trova più a suo agio di me e di voi.»
Nominare Dickon produceva sempre il solito
effetto: anche il signor Roach, infatti, sorrise.
«Dickon si troverebbe a suo agio tanto in una
reggia come in una squallida casupola» disse, «e
non perché sia sfacciato, ma solo perché è un
ragazzo semplice e simpatico.»
Per fortuna il signor Roach era stato prevenuto,
altrimenti al suo ingresso nella camera del
padroncino la sorpresa avrebbe potuto metterlo
ancor più in imbarazzo. Il suo arrivo, infatti, fu
salutato dal gracchiare di un corvo, che, appol-
laiato sulla spalliera di un’enorme sedia intagliata,
pareva sentirsi proprio a casa sua.
Comunque, il capo-giardiniere non poté evitar
di fare, poco dignitosamente, un salto indietro.
CAPITOLO VENTI 193

Il principino non era né a letto né sul sofà, ma


seduto in poltrona; accanto a lui un agnellino pren-
deva il latte dalla bottiglietta che Dickon gli porgeva,
e muoveva la coda in segno di soddisfazione. Su
una spalla del ragazzo uno scoiattolo rosicchiava
tranquillamente una noce, e la bimba venuta
dall’India, seduta su uno sgabello, si godeva la
scena.
«Ecco il signor Roach, signorino» annunciò la
governante.
Colin osservò il capo-giardiniere dalla testa ai
piedi, proprio come un principino avrebbe squa-
drato l’ultimo dei suoi sudditi; poi disse:
«Ah, siete voi Roach? Bene! Devo darvi degli
ordini importantissimi.»
«Sono a vostra disposizione, signorino» rispose
il signor Roach, temendo di dover abbattere tutte
le querce del parco, o di dover mutare la disposi-
zione degli orti.
«Nel pomeriggio uscirò col carrozzino» spiegò
Colin, «e se l’aria fresca non mi disturberà troppo,
uscirò poi tutti i giorni. Quando sarò fuori, nessu-
no dei giardinieri dovrà farsi trovare in giro, e
tanto meno lungo il gran viale che costeggia il
muro coperto d’edera; nessuno, intesi? Uscirò alle
due, e vi farò avvisare quando rientrerò.»
«Benissimo, signorino» rispose il signor Roach,
contento in cuor suo che si trattasse solo di questo.
«Mary» chiese Colin sottovoce, «come si dice
in India quando non occorre aggiungere altro e si
194 IL GIARDINO SEGRETO

desidera congedare una persona?»


«Ora potete ritirarvi» gli sussurrò Mary in un
orecchio.
Il principino fece un cenno con la mano, dicen-
do: «Potete ritirarvi, Roach; e non dimenticate gli
ordini.»
E il corvo gracchiò rauco, come per salutare a
sua volta.
«Benissimo, signorino, grazie» e il capo-giardi-
niere se ne andò, seguito dalla signora Medlock.
Nel corridoio non si trattenne più e scoppiò in
una risata.
«Santo cielo!» esclamò. «Non ha niente da invi-
diare a un principino di sangue reale.»
«Eh, sì, avete ragione» disse la governante. «Ci
considera tutti come schiavi; crede che siamo al
mondo solo per servirlo.»
«Se vivrà, può darsi che cambi.»
«Sì, cambierà. Ci penserà quella bimba, se
resterà qui, a insegnargli che il mondo non è tutto
a sua disposizione!»
Colin, intanto, si era sdraiato di nuovo sul sofà
con la testa appoggiata al cuscino, e Mary gli si era
seduta accanto. Dickon, invece, era tornato in
giardino, portandosi dietro tutte le sue bestiole.
Colin si era fatto taciturno, e anche durante il
pranzo lasciò cadere solo qualche parola; ogni
tanto volgeva i suoi grandi occhi alla finestra e
s’incantava a fissare il cielo.
«Che hai, Colin?» gli chiese Mary. «Quando pensi
CAPITOLO VENTI 195

a qualcosa gli occhi ti diventano ancora più grandi.»


«Non posso fare a meno d’immaginarmi come
sarà.»
«Il giardino?»
«No, la primavera; non l’ho mai vista. Sono usci-
to di rado, sai, e quelle poche volte non mi sono
mai guardato intorno: non ci pensavo nemmeno.»
«Anch’io non l’avevo mai vista, perché non c’è
primavera in India» disse Mary.
Colin, chiuso in sé stesso e relegato fra le quat-
tro pareti della sua stanza, non sapeva niente di
più di quello che aveva letto nei libri.
«L’altra mattina» continuò, «quando sei entrata
di corsa gridando: “È arrivata la primavera!”, ho
avuto una strana visione. Mi sembrava di vedere
una lunga processione di persone, di bimbi, di
strane creature del bosco, tutte inghirlandate di
fiori, che facevano da corteo alla primavera, dan-
zando e cantando felici. Forse perché c’è una
bella illustrazione su un mio libro che rappresen-
ta una scena simile.»
«Sei uno strano ragazzo» disse Mary, «ma non
hai torto. Credo che se i fiori e le foglie e i cespu-
gli e gli uccelli potessero, per effetto di magia,
unirsi in corteo e danzare e cantare, l’arrivo della
primavera non sarebbe molto diverso da come tu
l’hai immaginato.»
E a questa idea risero entrambi di gusto.
Subito dopo il pranzo, l’infermiera aiutò Colin a
vestirsi, e notò con piacere che il ragazzo non se
196 IL GIARDINO SEGRETO

ne stava rigido come un pezzo di legno, ma si aiu-


tava più che poteva, continuando a discorrere e a
ridere con Mary.
«È una giornata buona» disse l’infermiera al dot-
tore che era passato a prendere notizie. «È tanto di
buon umore che si sente persino più forte.»
«Passerò prima di sera a vederlo, quando sarà
rientrato» disse il dottore. «M’interessa sapere co-
me si sentirà dopo questa prima passeggiata. Però
preferirei che l’accompagnaste anche voi.»
«Se avete intenzione di ordinarmelo, non starò
un minuto di più in questa casa» replicò l’infer-
miera con risolutezza.
«Non volevo costringervi» rispose il dottore un
poco nervoso. «Facciamo la prova con Dickon, da-
to che di quel contadinello ci si può fidare.»
Davanti all’ingresso di casa Dickon e il carrozzi-
no aspettavano già. Un domestico robusto portò
Colin giù per le scale e lo adagiò con molta caute-
la sul carrozzino, aggiustando poi i cuscini e le
coperte. Come si vide sistemato, Colin alzò una
mano e disse, rivolto al domestico e all’infermiera:
«Potete ritirarvi.»
Quelli scomparvero in un baleno, e appena in
casa scoppiarono in una sonora risata.
Dickon cominciò a spingere lentamente il car-
rozzino; Mary gli camminava al fianco, e Colin si
lasciò andare sui cuscini con lo sguardo perduto
in quel cielo azzurro e altissimo, punteggiato qua
e là di bianche nuvolette che, muovendosi, assu-
CAPITOLO VENTI 197

mevano le forme più strane. Una leggera brezza


gli alitava sul viso, portando con sé il profumo ora
delicato ora forte della brughiera. Colin respirava
profondamente, sgranando sempre di più gli oc-
chi, come se con quelli volesse anche udire, oltre
che vedere.
«Che strani rumori!» esclamò. «Quanti trilli e
cinguettii, quanti ronzii! E che cos’è questo profu-
mo?»
«È la ginestra che comincia a fiorire» rispose
Dickon. «I cespugli sono già tutti coperti di api.»
Non incontrarono anima viva: giardinieri e gar-
zoni erano scomparsi. Tuttavia fecero ugualmente
il lungo giro progettato, per quel senso di avven-
tura che l’idea di far perdere le proprie tracce
poteva dare a tutta la faccenda. Quando final-
mente giunsero all’inizio del lungo muro coperto
d’edera, una strana eccitazione s’impadronì di lo-
ro, e, senza rendersene conto, cominciarono a par-
lare a bassa voce.
«È qui che camminavo, cercando la porta» sus-
surrò Mary.
«Davvero?» esclamò Colin, scrutando il muro e
l’edera.
«Ma qui non c’è nessuna porta.»
«Lo pensavo anch’io» disse Mary.
Proseguirono ancora per qualche metro in
silenzio; poi Mary continuò:
«Al di là di questo tratto di muro c’è l’orto dove
lavora Ben.» E qualche passo più avanti aggiunse:
198 IL GIARDINO SEGRETO

«E sotto quel cespuglio il pettirosso mi ha mostra-


to la chiave nella terra smossa.»
«Dove? Dove?» chiese Colin, rizzandosi a sede-
re e spalancando gli occhi che, per riflesso del
cielo, da grigi erano diventati azzurri.
Dickon fermò il carrozzino e Mary, avvicinando-
si all’edera, aggiunse: «E in questo punto mi sono
fermata a parlare col pettirosso, che era volato in
cima al muro.» Nel frattempo aveva afferrato un
grosso fascio di rami d’edera. «Questi sono i rami
d’edera che il vento ha staccato dal muro. Qui c’è
la maniglia, e qui c’è la porta... Presto, Dickon,
spingilo dentro!»
Con una sola magnifica spinta il carrozzino
oltrepassò la porta. Colin si era di nuovo appog-
giato ai cuscini, coprendosi gli occhi con le
mani, troppo emozionato per poter guardare.
Solo quando la porta si richiuse alle loro spalle e
il carrozzino si fermò osò riaprirli, e cominciò a
guardarsi intorno estasiato e ammutolito da uno
spettacolo così meraviglioso. Sui muri, sugli
alberi e sui cespugli, in terra, dappertutto pareva
fosse stato gettato un manto di verde tenero, sul
quale qua e là spiccavano l’oro e la porpora, il
bianco e l’azzurro dei fiori, mentre gli alberi da
frutta parevano nuvole di rosa e di bianco; ovun-
que, poi, fruscii d’ali, cinguettii e ronzii, e profu-
mi, profumi. Il tepore del sole gli accarezzava il
viso, e Dickon e Mary lo guardavano sorpresi,
tanto sembrava loro trasformato con quel poco
CAPITOLO VENTI 199

di roseo che piano piano si era diffuso sul suo


viso.
«Guarirò! Guarirò!» gridò infine Colin. «Mary,
Dickon! Io... io vivrò, vivrò per sempre!»
Capitolo ventuno

Quel pomeriggio era splendido: la natura pareva


essersi vestita a festa solo per far contento Colin,
e la primavera pareva essersi preoccupata di ren-
dere bello solamente quel pezzetto di terra.
Dickon interrompeva di tanto in tanto il suo
lavoro per levare al cielo i suoi occhioni pieni di
stupore.
«È meraviglioso!» diceva. «In dodici anni di vita
ne ho trascorse tante di ore all’aperto, ma un gior-
no bello come questo non l’avevo mai visto.»
«È meraviglioso davvero!» ripeteva Mary.
Avevano fermato il carrozzino di Colin sotto un
prugno tutto fiorito e carico di api ronzanti: un
candido baldacchino preparato per il re delle fate.
Più in là erano allineati ciliegi e meli coi loro boc-
cioli rosa e bianchi, che già cominciavano ad
aprirsi; tra l’intrico dei rami in fiore s’intravedeva-
no lembi di cielo.
Mary e Dickon continuavano a lavorare alacre-
mente, mentre Colin li stava a guardare; tuttavia
non aveva tempo d’annoiarsi con tutte quelle
CAPITOLO VENTUNO 201

cose che gli altri due gli portavano da vedere: boc-


cioli di fiori ancora chiusi o appena sbocciati,
rametti con le prime tenere foglioline, una penna
di picchio caduta dal nido sull’erba, e persino un
guscio d’uovo già vuoto.
Poi Dickon spinse lentamente il carrozzino in
giro, perché Colin potesse ammirare tutte le me-
raviglie del giardino, che pareva loro uno splendi-
do regno incantato.
«Chissà se riuscirò a vedere il pettirosso?» chie-
se Colin.
«Fra pochi giorni lo vedrete» disse Dickon.
«Appena nasceranno i piccoli avrà tanto da fare
da perderne la testa. Lo vedremo volare avanti e
indietro dal nido, portando dei vermi grossi quasi
quanto lui, e sarà tanta l’impazienza di quei pic-
coli becchi spalancati che il povero pettirosso non
saprà in quale di loro mettere il primo verme. La
mamma dice che quando pensa con quanta fati-
ca un uccellino nutre i suoi piccoli, le par d’esse-
re una signora che non ha niente da fare. “Chissà
come sudano quelle piccole creature” dice sem-
pre, “anche se noi non lo vediamo.”»
L’idea che pure un uccellino potesse sudare li
fece tanto ridere che dovettero tapparsi la bocca
con una mano, per non essere uditi al di là del
muro. Già durante i preparativi avevano racco-
mandato a Colin di parlare sempre a bassa voce,
e il bimbo era stato affascinato da quest’altra nota
di mistero; ma come si poteva soffocare sempre il
202 IL GIARDINO SEGRETO

riso in mezzo a cose tanto divertenti?


Dickon aveva spinto il carrozzino sotto il bal-
dacchino fiorito e poi si era seduto sull’erba per
suonare il flauto, quando Colin vide qualcosa che
prima non aveva notato.
«Deve essere molto vecchio quell’albero, vero?»
chiese.
Mary e Dickon guardarono a loro volta verso
l’albero indicato.
«Sì» rispose Dickon, dopo un attimo di silenzio.
«I rami sono tutti neri e senza foglie; deve esse-
re proprio morto.»
«Sì» ripeté Dickon, «ma quando tutte le rose
che si sono arrampicate sul suo tronco e sui suoi
rami saranno fiorite, nessuno s’accorgerà che è
morto; anzi, sarà più bello degli altri.»
Mary continuava a tacere, guardando l’albero.
«Quel grosso ramo deve essersi spezzato» con-
tinuò Colin, «ma chissà quando?»
«Molto tempo fa, certo» rispose Dickon, taglian-
do corto. «Oh, sta arrivando il pettirosso col pasto
per la sua compagna!» esclamò poi con un sospiro
di sollievo e appoggiando una mano sul braccio di
Colin.
Colin si voltò appena in tempo per veder scom-
parire il pettirosso in un folto cespuglio con un
verme nel becco; dopodiché ricadde sui cuscini
sorridendo.
«Porterà la merenda alla sua compagna. An-
ch’io farei volentieri merenda» disse.
CAPITOLO VENTUNO 203

Ogni imbarazzo era passato.


«È stato un mago buono a mandare il pettiros-
so» disse più tardi Mary a Dickon. «Ne sono certa.»
Perché tanto lei quanto Dickon avevano temu-
to che Colin volesse sapere qualcosa di più di
quell’albero, il cui ramo più grosso si era spezzato
dieci anni prima.
«Dobbiamo far finta di niente» disse Dickon,
grattandosi la testa con aria perplessa. «Non deve
sapere, povero ragazzo, come si è rotto quel
ramo.»
«Se dovesse parlarne ancora» aggiunse Mary,
«cerchiamo di rispondergli con naturalezza.» Ma
non poté fare a meno di rattristarsi nel dare un’ul-
tima occhiata al grande albero morto.
«La signora Craven era giovane e bella» riprese
a dire Dickon con un’espressione più serena. «La
mamma dice che dal cielo senz’altro protegge il
suo Colin, perché le mamme non abbandonano
mai i loro figli, anche quando non sono più di que-
sta terra. Forse è stata lei a suggerirci l’idea di por-
tare Colin nel giardino.»
Ma Mary, che continuava a credere nella ma-
gia, pensò piuttosto che tutto quanto era accadu-
to di meraviglioso in quegli ultimi tempi era dovu-
to alla presenza di Dickon; anche l’arrivo del pet-
tirosso al momento più opportuno, quando aveva
fatto quella domanda così pericolosa. Secondo
lei, era magia anche la trasformazione avvenuta
in Colin in un solo pomeriggio; chi, infatti, avreb-
204 IL GIARDINO SEGRETO

be riconosciuto in lui il ragazzo isterico che mor-


deva il cuscino urlando come un forsennato? Il
suo viso aveva preso un delicato colorito, e pare-
va finalmente fatto di carne, e non d’avorio o di
cera.
Vedere il pettirosso passare e ripassare col cibo
per la sua compagna ricordò a Colin che doveva
essere l’ora della merenda.
«Va’ a dire a uno dei domestici di portare la me-
renda in un cestino fino al viale dei rododendri»
disse a Mary. «Poi tu e Dickon la porterete qui.»
L’idea era buona e venne accettata di buon
grado. E quando il tovagliolo fu steso sull’erba col
tè caldo e il pane imburrato e i biscotti, fecero una
deliziosa merenda; gli uccellini volavano fino a
loro per beccare le briciole. Noce e Guscio erano
scappati sull’albero più vicino con un biscotto cia-
scuno, e Carbone si era portato via un pezzetto di
pane imburrato e, dopo averlo bene esaminato,
l’aveva ingoiato in un solo boccone.
Il pomeriggio volgeva ormai alla fine; il sole,
avvicinandosi al tramonto, diventava di fuoco; le
api non ronzavano più e gli uccelli si erano quasi
tutti ritirati nei loro nidi.
Dickon e Mary erano seduti sull’erba, e Colin,
appoggiato ai cuscini, appariva tranquillo e roseo
per la prima volta, forse, in vita sua.
«Vorrei che non finisse mai questo pomeriggio»
disse, «ma tornerò domani, e dopodomani, e il
giorno dopo ancora, e sempre!»
CAPITOLO VENTUNO 205

«Così prenderai tanta aria buona, non è vero?»


disse Mary.
«È il mio solo desiderio» rispose Colin. «Ora
che ho conosciuto la primavera, voglio conoscere
anche l’estate. Vedrò crescere tutti i fiori del giar-
dino, e intanto crescerò anch’io.»
«Certo» aggiunse Dickon, «e presto anche voi
camminerete e zapperete come noi.»
Colin arrossì di colpo.
«Camminare!» esclamò. «Zappare! E come po-
trò?»
Dickon rimase imbarazzato; né lui né Mary,
infatti, avevano mai chiesto a Colin in che condi-
zioni fossero le sue gambe.
«Naturalmente!» disse poi deciso. «Avete pure
le gambe come noi!»
Mary tremò a tanta franchezza, finché non udì
la risposta di Colin.
«Non sono malate» disse il bimbo, «ma sono
magre e deboli, e mi tremano tanto che non mi
arrischio ad alzarmi in piedi.»
Mary e Dickon tirarono un sospiro di sollievo.
«Vedete?» continuò Dickon rassicurato. «Quan-
do non avrete più paura, non vi sarà difficile cam-
minare, e questo avverrà molto presto.»
«Davvero?» replicò Colin, e per un po’ rimasero
tutti e tre in silenzio.
Era l’ora in cui ogni essere vivente e ogni cosa
s’acquieta, preparandosi al riposo notturno. I
ragazzi cominciavano a sentire la stanchezza di
206 IL GIARDINO SEGRETO

quel giorno pieno di eccitazione, e anche le


bestiole di Dickon avevano finito di gironzolare
per il giardino e s’erano radunate intorno a loro. Il
corvo si era appollaiato sul ramo più basso e più
vicino, e, ritto su una zampa sola, abbassava di
tanto in tanto le palpebre, quasi stesse per addor-
mentarsi.
D’un tratto la voce di Colin si levò a rompere
l’incanto di quel silenzio.
«Chi è quell’uomo?» chiese spaventato.
«Che uomo?!» gridarono in coro Mary e Dickon,
balzando in piedi ancor più allarmati di lui.
«Lassù! Guardate» rispose il ragazzo, indican-
do un lato del muro di cinta.
In cima al muro c’era Ben Weatherstaff, e li
guardava indignato mostrando i pugni a Mary.
«Se foste mia figlia» si mise a gridare, «vi piglie-
rei a scapaccioni!»
E nel dir così montò sull’ultimo piolo della
scala, di cui si era servito per raggiungere la cima
del muro, quasi volesse saltare nel giardino e met-
tere in pratica la sua minaccia; ma poiché Mary
avanzò di qualche passo verso di lui, rimase lassù
continuando ad agitare i pugni.
«Già, non mi siete mai piaciuta» gridò ancora,
«e non avrei mai dovuto fidarmi di voi. Una pic-
cola strega con una faccia da latte acido, sempre
pronta a far domande e a ficcare il naso in cose
che non la riguardano. Non so proprio come
abbiamo potuto diventare amici, se non fosse
CAPITOLO VENTUNO 207

stato per quel birbante del pettirosso…»


«Ben» l’interruppe Mary, ritrovando la voce, «è
stato il pettirosso a indicarmi la via!»
Ben era fuori di sé dallo sdegno.
«E siete anche cattiva al punto di gettare la
colpa sul povero pettirosso!» replicò. «Ma si può
sapere» la sua furia cedeva ormai di fronte alla
più viva curiosità, «si può sapere come avete
potuto entrare?»
«È stato il pettirosso a indicarmi la via» protestò
Mary, ostinata. «L’avrà fatto senza volerlo. Però,
finché rimanete lassù a mostrarmi i pugni, non vi
dico più niente.»
Ma prima ancora che Mary smettesse di parla-
re, Ben aveva già cessato di minacciarla, lascian-
do cadere i pugni, come se qualcosa d’inverosi-
mile l’avesse colpito.
Al torrente di rimproveri che il contadino aveva
riversato su Mary, Colin si era rizzato a sedere sui
cuscini, guardandolo incantato; poi, ripresosi
dallo stupore, aveva ordinato imperiosamente a
Dickon:
«Presto! Spingimi fin laggiù e fermami proprio
sotto di lui.»
Ed ecco cosa aveva veduto Ben: un carrozzino
pieno di cuscini e di coperte, sul quale era ada-
giato un fanciullo dall’aria regale, che lo guardava
con due grandi occhi severi e alzava alteramente
verso di lui una manina bianca. Quando si fermò
sotto il suo naso, Ben rimase a bocca aperta.
208 IL GIARDINO SEGRETO

«Sapete chi sono?» chiese Colin.


Ben rimase impietrito, e coi suoi occhi arrossa-
ti fissava Colin come se fosse uno spettro, senza
avere il coraggio o la forza di aprir bocca.
«Sapete chi sono? Rispondete!»
Ben si passò la mano ruvida e nodosa sugli
occhi e sulla fronte e finalmente riuscì a dire con
la voce che gli tremava:
«Sì, ora lo so, ora che vedo gli occhi di vostra ma-
dre. Come siete venuto qui? Siete il povero stor-
pio!»
Colin, rosso scarlatto, si rizzò a sedere di scat-
to, dimenticandosi di avere male alla schiena.
«Non sono storpio!» gridò, mentre Mary, anco-
ra più infuriata di lui, gli faceva eco:
«Non lo è! E non ha neppure la gobba; ci ho
guardato io!»
Ben si passò di nuovo la mano sulla fronte, fis-
sandoli sbalordito; e gli tremavano la mano e la
bocca e la voce. Non era che un povero vecchio
ignorante e privo di delicatezza, e ripeteva solo
quello che aveva udito dire da altri.
«Non siete gobbo?» chiese con la sua voce
rauca.
«No!» gridò Colin.
«E non avete le gambe storte?»
Questo oltrepassava ogni limite. Nessuno l’ave-
va accusato di avere le gambe storte, e la sempli-
ce e schietta supposizione di Ben era più di quan-
to potesse sopportare il fiero temperamento di
CAPITOLO VENTUNO 209

Colin, che ritrovò di colpo la sua spenta energia in


uno sforzo improvviso e disperato.
«Vieni qui!» gridò a Dickon, buttando via le
coperte. «Vieni qui subito!»
Dickon lo raggiunse di corsa, mentre Mary, pal-
lidissima, tratteneva il respiro.
«Ci riesce! Ci riesce!» balbettava tra sé emozio-
nata.
Ci fu ancora un breve rimestio, poi le coperte
caddero a terra, e Colin, appoggiandosi al braccio
di Dickon, mosse le sue povere gambette magre e
posò i piedi sull’erba. Un attimo dopo era in piedi,
altissimo e dritto come una freccia, con la testa
fieramente eretta e con gli occhi stranamente
lucenti.
«Guardatemi!» gridò a Ben. «Guardatemi, dun-
que!»
«È dritto come me!» esclamò Dickon. «È un
ragazzo come tutti gli altri!»
Il povero Ben non poteva più trattenere l’emo-
zione: divenne prima pallido, poi rosso, mentre
due grosse lacrime gli rigavano il volto e gli cade-
vano sulle mani giunte.
«Quante storie racconta la gente!» esclamò in-
fine. «Siete magro come uno stecco e pallido
come un fantasma, ma non avete né la gobba né
le gambe storte. Diventerete un bel giovane. Dio vi
benedica!»
Dickon teneva sempre Colin saldamente per
un braccio, ma questi non aveva ancora vacilla-
210 IL GIARDINO SEGRETO

to una sola volta. Stava sempre dritto e sicuro,


fissando Ben in volto.
«Quando mio padre è via, sono io il vostro
padrone, e dovete obbedirmi! Questo giardino è
mio; guai a voi se oserete parlarne. Scendete dal-
la scala e venite sul viale grande; la signorina Mary
vi verrà incontro e vi condurrà qui. Desidero par-
larvi. Veramente non vi volevamo, ma ormai ave-
te scoperto il nostro segreto.»
Ben, con gli occhi ancora gonfi di lacrime, non
si decideva a togliere lo sguardo dal padroncino.
«Sì, sì, figliolo!» mormorava. Infine, riavutosi
dallo stupore, si toccò il cappello dicendo: «Sì,
signorino, subito» e scomparve.
Capitolo ventidue

Quando il vecchio contadino scomparve alla loro


vista, Colin disse a Mary:
«Vagli incontro.» E Mary corse subito verso la
porta.
Dickon, intanto, teneva d’occhio Colin, che con
le guance rosse e gli occhi accesi stava sempre
ben saldo sulle gambe.
«So stare in piedi» disse con orgoglio.
«Ve l’avevo detto!» rispose Dickon. «Dovevate
solo perdere la paura, e così è stato.»
«Non ho più paura» ripeté Colin; poi, ricordan-
dosi le parole di Mary, chiese: «È una magia che
hai fatto con me?»
Dickon sorrise con simpatia.
«La magia è in voi» rispose. «È la stessa magia
che fa crescere questi fiori» aggiunse, indicando
con la punta del suo scarpone un gruppo di crocus.
«È vero» disse Colin, guardando i fiori, «e non
c’è magia più grande.» Poi, tenendosi più dritto
che mai, continuò: «Voglio aspettare quell’uomo
in piedi, magari appoggiandomi a quell’albero.
212 IL GIARDINO SEGRETO

Quando sarò stanco potrò sedermi, non prima.


Prendi una coperta, per favore.»
E s’avviò verso l’albero indicato, appoggiandosi
al braccio di Dickon, ma sempre meno incerto.
Quando fu presso il tronco, non se ne servì nep-
pure per sostegno, preferendo reggersi in piedi da
solo.
Vide entrare il vecchio Ben dalla porta insieme
a Mary, la quale faceva gli scongiuri perché Colin
riuscisse a stare in piedi il più a lungo possibile e
gli apparisse bello e forte. Colin fissò Ben con gli
occhi più scuri e imperiosi che mai.
«Guardatemi!» ordinò. «Guardatemi dalla testa
ai piedi. Sono forse gobbo? E sono storte le mie
gambe?»
Ben, che cominciava finalmente a riaversi dal-
l’emozione, rispose con voce naturale:
«Nient’affatto! Ma perché allora vi nascondeva-
te, lasciando credere alla gente di essere storpio e
mezzo scemo?»
«Mezzo scemo!» esclamò Colin. «E chi mai di-
ceva una cosa del genere?»
«Quasi tutti» rispose Ben. «Sapete, il mondo è
pieno di asini che non sanno ragliare che bugie.
Perché, dunque, ve ne stavate così rinchiuso?»
«Perché credevano che morissi da un momen-
to all’altro. Ma ora so che non morirò!» disse Colin
con inaspettata violenza.
«Voi, morire!» esclamò Ben. «Con tutto il corag-
gio che avete! Quando vi ho visto mettere le gam-
CAPITOLO VENTIDUE 213

be in terra tanto in fretta, l’ho capito subito che


non eravate proprio malato come dicevano. Ma
ora, padroncino, sedetevi, e datemi pure i vostri
ordini.»
C’era in quel vecchio contadino uno strano
miscuglio di tenerezza e di pronta comprensione.
Mary gli aveva fatto molte raccomandazioni, men-
tre percorrevano insieme il viale; doveva ricorda-
re soprattutto che, se Colin stava meglio, lo dove-
va al giardino, e che per nessuna ragione biso-
gnava parlargli della gobba o di morte.
Il principino accondiscese a sedersi.
«Quali sono le vostre mansioni, Ben?» doman-
dò con voce un po’ addolcita.
«Nessuna in particolare; faccio tutto quello che
mi ordinano di fare» rispose il contadino. «Ormai
sono vecchio, e mi tengono per bontà, perché lei
mi voleva bene.»
«Lei?»
«Sì, vostra madre.»
«Mia madre» ripeté piano Colin. «E questo era
il suo giardino, vero?» chiese, guardandosi in giro.
«Sì, era il suo; e quanto le piaceva venire qui!»
«Ora è diventato mio, mi piace e ci verrò tutti i
giorni» disse Colin. «Ma nessuno deve saperlo:
questo è un ordine. Mia cugina e Dickon hanno
lavorato molto per farlo rivivere; ora verrete anche
voi qualche volta ad aiutarli, ma non dovete dirlo
a nessuno, e nemmeno farvi vedere quando
entrate.»
214 IL GIARDINO SEGRETO

Ben accennò un sorriso, poi disse:


«Sono già venuto, e nessuno mi ha visto.»
«Come? Quando?» chiese Colin.
«L’ultima volta è stato circa due anni fa» rispo-
se Ben.
«Ma la porta è chiusa da dieci anni!» protestò
Colin.
«È vero. Ma io non sono entrato dalla porta:
passavo al di sopra del muro. Purtroppo da due
anni ho i reumatismi nelle gambe.»
«Allora li avete potati voi i rosai!» esclamò
Dickon. «Non capivo chi potesse averlo fatto.»
«Le piacevano tanto» disse Ben piano, «ed era
tanto graziosa e gentile, povera signora! Una volta
mi disse ridendo: “Se un giorno mi ammalo o
vado via, abbiate cura voi delle mie rose.”
Quando se n’è andata per sempre, ci hanno proi-
bito di entrare qui; ma io sono venuto ugualmen-
te, scavalcando ogni anno quel muro, finché i reu-
matismi non mi hanno irrigidito le gambe. Perché
lei l’ordine me lo aveva dato per prima.»
«Ora capisco perché il giardino si è mantenuto
così bene» commentò Dickon.
«Sono contento che l’abbiate fatto» disse Colin,
«e ora vedo che sapete anche tenere un segreto.»
«State tranquillo, signorino» rispose Ben. «E poi
per un uomo vecchio e pieno di dolori come me
è più comodo entrare dalla porta.»
Colin, seduto sotto l’albero, scorse, appoggiata
al tronco, la zappetta di Mary: allungò una mano
CAPITOLO VENTIDUE 215

per prenderla e prese a grattare la terra, dapprima


molto fiaccamente e poi con sempre maggior
vigore, finché riuscì a smuoverne un poco.
Mary lo guardava estasiata e Dickon era senza
fiato; quanto a Ben, pareva dovesse commuover-
si ancora da un momento all’altro.
Colin continuava imperterrito; alla fine si rivol-
se esultante verso Dickon, parlandogli in dialetto:
«Sei stato tu a dirmi che avrei presto cammina-
to come te, e anche zappato; ma pensavo che lo
dicessi per farmi piacere. Oggi è il primo giorno
che cammino, e ora eccomi qui a zappare!»
Ben aveva ormai gli occhi lucidi, e solo dopo
aver inghiottito un paio di volte riuscì a dire:
«Siete un ragazzo pieno di senno e di buona vo-
lontà. Vi piacerebbe piantare qualcosa? Una rosa,
per esempio?»
«Sì! Presto, andate a prenderla!» esclamò Colin
felice.
Più in fretta di così Ben non poteva cammina-
re: pareva che gli fossero passati di colpo i reu-
matismi. Dickon prese la sua zappa e fece una
buca più larga e più profonda di quella scavata
dalle manine bianche e delicate dell’apprendista
zappatore. Mary, intanto, era corsa a prendere un
annaffiatoio.
Quando Dickon ebbe finito, Colin continuò a
rivoltare per un po’ la terra soffice, e volgendo gli
occhi al cielo, con un’espressione radiosa, disse:
«Vorrei farlo prima... prima che tramonti il sole.»
216 IL GIARDINO SEGRETO

Mary sperò che per quella sera il sole s’attar-


dasse qualche minuto di più sull’orizzonte, e tale
era la sua speranza che quel desiderio le parve
avverarsi come per magia. Ben, intanto, aveva
portato la piantina di rose e, inginocchiato presso
la buca, l’aveva tolta dal vaso porgendola a Colin:
«Ecco, figliolo, mettetela voi nella terra, come
fa un re quando si reca in un posto nuovo.»
Colin, rosso e tremante, posò la piantina nella
buca continuando a tenerla mentre Ben rassoda-
va la terra intorno alle radici. Mary, inginocchiata,
seguiva ogni movimento, e la stessa cosa faceva-
no il corvo, che era volato fino ai loro piedi, e i due
scoiattoli, che dal ramo più basso parevano com-
mentare la scena coi loro allegri squittii.
«È piantata!» esclamò Colin. «E il sole è ancora
all’orizzonte. Aiutami, Dickon, voglio vederlo tra-
montare in piedi. Anche questa è magia!»
Dickon l’aiutò, e, fosse magia o altro, Colin
trovò una tale energia che il sole, scomparendo
dietro l’orizzonte, lo lasciò ritto in piedi, e sorri-
dente.
Capitolo ventitré

Quando tornarono a casa, trovarono il dottor


Craven che li attendeva da più di un’ora, e aveva
deciso di mandare qualcuno a cercarli sui viali del
giardino. Guardò Colin con aria severa.
«Non dovevi restar fuori tanto» disse, «bada di
non stancarti troppo.»
«Non mi sono stancato» replicò Colin. «Mi ha
fatto bene. E domani uscirò anche di mattina.»
«Temo che non sia prudente» ribatté il dottor
Craven. «Sarò costretto a proibirtelo.»
«Sarà meglio per voi non proibirmelo» rispose
Colin testardo, «tanto uscirò lo stesso.»
Uno dei peggiori difetti di Colin era proprio il
modo sgarbato e imperioso che aveva di impartir
ordini a tutti. Era vissuto come in un’isola deserta,
della quale era stato il re incontrastato e incontra-
stabile. Mary, a dire il vero, era cresciuta un po’
come lui; solo da quando viveva a Misselthwaite
si era accorta che certi suoi modi potevano ren-
derla assai antipatica, e aveva cercato di correg-
gersi. E ora, notando le stesse abitudini in Colin,
218 IL GIARDINO SEGRETO

voleva migliorare anche lui. Non sapendo da


quale parte cominciare, appena uscito il dottore
cominciò a fissarlo con insistenza, così che Colin
finì per chiederle:
«Che cos’hai?»
«Pensavo che il dottor Craven mi fa pena.»
«Anche a me» rispose Colin calmo, ma con una
punta di soddisfazione. «Ora che sto meglio, avrà
perso le speranze di ereditare la proprietà di mio
padre.»
«Questo è vero» replicò Mary, «ma mi fa pena
anche perché ha dovuto sopportare per dieci anni
un bambino capriccioso e sgarbato come te. Io
non avrei resistito tanto.»
«Sono sgarbato?» chiese Colin senza offendersi.
«Se tu fossi stato suo figlio e lui un padre di quel-
li che picchiano, ti avrebbe schiaffeggiato ben
bene.»
«Ma non oserebbe!»
«Già! Non oserebbe...» ripeté Mary; e aggiunse
con molta schiettezza: «Nessuno ha mai osato con-
traddirti perché non ti credevano altro che una po-
vera creatura destinata a morire.»
«Ma ora sono cambiato» replicò Colin deciso,
«e non voglio più essere considerato un povero
bambino malato. Oggi sono stato in piedi!»
«Sei stato sempre accontentato in tutto, per que-
sto sei diventato così strambo» continuò Mary sen-
za scomporsi.
«Sono anche strambo?» chiese Colin, corru-
CAPITOLO VENTITRÉ 219

gando la fronte.
«Certo! Ma non arrabbiarti, perché anch’io so-
no stramba, e anche Ben. Però lo sono meno da
quando ho scoperto il giardino e voglio bene a
qualcuno.»
«Non voglio più essere strambo» replicò Colin,
deciso; era un ragazzo orgoglioso e ogni osserva-
zione lo urtava. Rimase qualche istante soprap-
pensiero, ma a poco a poco il suo viso si tra-
sformò, illuminandosi di un dolce sorriso.
«Se andrò tutti i giorni in giardino cambierò, ve-
drai» concluse. «C’è della magia lì, e di quella
buona, ne sono sicuro.»
«Hai ragione, Colin. Lo credo anch’io.»
Da quel giorno presero a parlare di magia ogni
volta che si riferivano a qualche meraviglioso
cambiamento del loro giardino. E mille cose
avvennero nei mesi successivi, a confermare la
loro ingenua supposizione. Chi non ha mai posse-
duto un giardino non lo può capire, e chi ha la for-
tuna di possederlo saprà che non basterebbe un
libro intero a descriverne le meraviglie. Dapprima
sembrava che le verdi piantine non finissero mai
di spuntare ovunque, sull’erba, nelle aiuole, persi-
no nelle crepe dei muri. Poi vennero le gemme, e
a una a una si aprirono, svelando agli occhi stupi-
ti di Colin gli splendidi colori della tavolozza in
tutte le loro sfumature: dagli azzurri ai blu, dai
gialli ai rossi ai violetti. Nei suoi anni felici il giar-
dino si era letteralmente coperto di profumate
220 IL GIARDINO SEGRETO

corolle; in ogni angolo, in ogni buco, ovunque ci


fosse un tratto di terra fertile, la mamma di Colin
aveva fatto piantare fiori. E Ben aveva persino
tolto la calcina che teneva uniti i mattoni del muro
e l’aveva sostituita con della terra, per piantarvi
ogni specie di rampicanti. Iris e gigli bianchi cre-
scevano dappertutto, e i verdi pergolati si mac-
chiavano del blu e del bianco dei delphinium,
delle colombine e delle campanelle.
«Le piacevano tanto i fiori» diceva Ben, «ma
soprattutto quelli che puntano lo stelo dritto al cie-
lo, quasi a sfidarlo.»
Anche tutti i fiori seminati da Mary e da Dickon
erano sbocciati. E i delicati papaveri di ogni colo-
re ondeggiavano al vento, gareggiando coi fiori
che da anni vivevano nel giardino e che parevano
quasi meravigliarsi dei nuovi vicini. E le rose? Oh,
le rose erano un miracolo di bellezza! Sbocciava-
no sui rami, sempre rivolte alla carezza del sole,
s’abbarbicavano sui tronchi, coprivano i muri, e
fiorivano ovunque in lunghe ghirlande profumate.
E al loro profumo s’univa quello di tutti gli altri
fiori, rendendo deliziosa l’aria del giardino.
Colin vedeva e osservava tutto. Ormai trascor-
reva quasi l’intera giornata in giardino, purché
non piovesse; ma anche le giornate grigie gli pia-
cevano, perché, diceva, anche se non c’è il sole i
fiori sbocciano ugualmente. E poi poteva osserva-
re un’infinità di insetti girare indaffarati qua e là,
talvolta portando leggere pagliuzze o piume o
CAPITOLO VENTITRÉ 221

semi, talvolta arrampicandosi sui fili d’erba, quasi


fossero alberi dalla cui cima esplorare il paesag-
gio circostante. Un mattino si era incantato a os-
servare il lavoro di una talpa che scavava una gal-
leria con le sue zampette. E le abitudini delle for-
miche, delle api, dei ranocchi e degli uccelli sve-
lavano al suo sguardo un nuovo mondo tutto da
esplorare, che Dickon andava allargando, raccon-
tandogli delle volpi e dei tassi, degli scoiattoli,
delle trote e dei sorci d’acqua, dei castori e di tutti
gli animali che conosceva.
E questa non era che metà della magia: Colin,
infatti, riteneva di essere stato l’oggetto di un
benefico incantesimo, perché subito il primo gior-
no aveva potuto alzarsi.
«Il mondo è pieno di magia» disse un giorno a
Mary con molta saggezza, «solo che la gente non
se ne accorge e non sa servirsene. Forse l’unica
cosa da fare è dire sempre cose belle, perché pos-
sano accadere. Voglio fare la prova.»
L’indomani mattina, appena giunti nel giardino,
Colin mandò a chiamare Ben. Il vecchio contadino
arrivò subito e trovò il principino in piedi sotto un
albero con un meraviglioso sorriso sulle labbra.
«Buongiorno, Ben» disse. «Venite qui con
Dickon e la signorina, perché devo dirvi una cosa
molto importante.»
«Va bene, signorino» rispose Ben, toccandosi il
berretto.
Bisogna ricordare che in gioventù Ben aveva
222 IL GIARDINO SEGRETO

navigato molti anni, e così aveva mantenuto molti


atteggiamenti da marinaio.
«Voglio fare un esperimento scientifico» spiegò
Colin. «Quando sarò grande farò scoperte impor-
tanti, ma ho deciso di cominciare sin d’ora.»
«Certo, certo, signorino» disse pronto Ben, pur
non avendo ben compreso che cosa intendesse il
padroncino.
Anche Mary era rimasta di stucco alla rivelazio-
ne di Colin, e si rese conto che il cuginetto aveva
letto assai più libri di lei e sapeva anche parlare
molto bene. Quando le puntava in viso i suoi oc-
chi grigi, le metteva quasi soggezione e la persua-
deva quasi senza parole. In quel momento, poi,
aveva un’aria proprio seria e pareva sul punto di
iniziare un discorso da persona grande.
E in effetti incominciò a dire:
«Voglio fare delle scoperte scientifiche sulla
magia. La magia è una gran cosa, ma quasi nes-
suno la conosce. Se ne parla in vecchi libri e la si
pratica ancora in India, dove ci sono i fachiri.
Credo che Dickon se ne serva per addomesticare
gli animali, ma lo fa senza rendersene conto. Se
non fosse stato un incantatore di animali non gli
avrei mai permesso di avvicinarmi. Credo che un
po’ di magia sia dappertutto, solo che non siamo
in grado di piegarla al nostro volere come faccia-
mo con l’elettricità o i cavalli o il vapore.»
«Sicuro, sicuro, signorino» esclamò Ben, che
appariva quasi stordito da quel discorso tanto
CAPITOLO VENTITRÉ 223

lungo e difficile per lui.


«Quando il giardino venne scoperto da Mary,
sembrava del tutto morto» proseguì il giovanissimo
oratore. «Poi qualcosa ha cominciato a crescere
ovunque ci fosse un po’ di terra fertile. Dove il gior-
no prima non c’era niente, il giorno dopo erano
spuntate, come per incanto, tante piantine verdi.
Non le avevo mai viste, e questo mi ha incuriosito;
i grandi scienziati sono sempre curiosi, e io voglio
diventare un grande scienziato. Allora mi sono
chiesto: “Che cosa sarà?”, e non sapendone il
nome l’ho chiamata magia. Non ho mai visto nep-
pure sorgere il sole, ma da quello che mi hanno
detto Mary e Dickon deve trattarsi pure di magia. E
ogni volta che, qui nel giardino, ho guardato il cielo
attraverso i rami degli alberi, mi sono sentito il cuo-
re gonfio di gioia, senza sapere il perché. Dovun-
que c’è magia: negli uomini e nelle cose, in ogni
albero, in ogni foglia e fiore, nei nidi degli uccelli,
nelle tane dei tassi, delle volpi o degli scoiattoli. Ed
è per effetto di magia che, non appena sono giun-
to qui, mi sono alzato in piedi; e ora so che vivrò e
diventerò grande. Non voglio che questa magia se
ne vada da me, perché ora il mio più grande desi-
derio è di diventare sempre più forte. Non so anco-
ra bene come fare, ma credo che se ogni mattino,
ogni sera e più volte durante il giorno ripeterò fra
me: “Voglio star bene! Voglio essere forte e robusto
come Dickon!”, la magia riuscirà. Ma anche voi
tutti dovete aiutarmi. Questo sarà il mio esperi-
224 IL GIARDINO SEGRETO

mento. Mi aiuterete anche voi, Ben?»


«Certo, certo, signorino» rispose il povero Ben
sempre più sbalordito.
«Fate come vi dico, ve ne prego» proseguì Co-
lin, «così potrò vedere se l’esperimento riesce. Del
resto, per imparare qualcosa a memoria non con-
tinuiamo forse a ripeterla e ripeterla finché non ci
rimane in mente per sempre? Lo stesso avviene
con la magia; se si ha la costanza di “chiamare”
una cosa che ci sta a cuore, prima o poi prende a
far parte di noi.»
«Una volta ho udito un ufficiale raccontare alla
mamma che i fachiri ripetono le stesse parole
migliaia e migliaia di volte» dichiarò Mary.
Dickon aveva ascoltato quella specie di confe-
renza con gli occhi spalancati per la curiosità e
l’interesse. Teneva Noce e Guscio sulle spalle, e in
grembo un coniglio bianco dalle lunghe orecchie,
che continuava distrattamente ad accarezzare.
«Credi che l’esperimento riuscirà?» gli chiese
Colin.
«Ne sono sicuro» rispose Dickon col suo sorri-
so più bello. «Riuscirà come il sole riesce a far
spuntare le piante dai semi. Possiamo cominciare
subito, non vi pare?»
Mary e Colin ne furono entusiasti. Colin, poi,
eccitato dal ricordo di storie di fachiri e d’incan-
tesimi lette sui libri, propose agli altri di sedersi
in circolo sotto l’albero fiorito a mo’ di baldac-
chino.
CAPITOLO VENTITRÉ 225

«Sarà come ritrovarsi in un tempio» osservò.


«Io, poi, sono piuttosto stanco di stare in piedi.»
«Non cominciate a dire che siete stanco!» escla-
mò Dickon. «Rovinerete l’incantesimo.»
«Hai ragione» disse Colin. «Non devo dimenti-
care il mio esperimento.»
Dopo di che si sedettero con solennità, e il
povero Ben non fiatò perché si trattava di aiutare
il padroncino. Mary era addirittura in estasi.
Dickon teneva sempre il coniglio fra le braccia, e
certo doveva aver fatto qualche segnale misterio-
so, perché anche tutte le altre bestiole vennero a
far parte di quella strana assemblea.
«Anche gli animali, vedete, vogliono aiutarci»
osservò Colin che, con la testa eretta, gli occhi
radiosi, il viso in piena luce, e una posa da gran
sacerdote, pareva quasi bello.
«Ora cominciamo» dichiarò. «Mary, dobbiamo
anche dondolarci avanti e indietro come fanno i
monaci musulmani durante i loro riti?»
«Io veramente non posso, coi miei reumatismi»
balbettò Ben.
«La magia ve li farà passare» replicò Colin con
l’aria sempre più austera, «e allora potremo an-
che dondolarci. Per ora canteremo.»
«Signorino» brontolò Ben, «io è meglio che non
canti. L’unica volta che ho tentato di farlo, duran-
te la messa cantata, mi hanno buttato fuori dalla
chiesa.»
La cosa, per quanto buffa, non li fece ridere:
226 IL GIARDINO SEGRETO

erano troppo compresi della serietà del rito. Colin,


poi, pareva in estasi.
«Il sole splende» cominciò a canticchiare piano
con gli occhi persi nel vuoto, «splende il sole: que-
sta è la magia. Le radici si muovono e spuntano i
fiori: questa è magia. Esser vivi è magia, ed è magia
diventar forti. La magia è in me, è in voi, è anche
nella schiena di Ben. Magia, magia, vieni e aiutaci!»
Colin ripeté le parole infinite volte. Mary lo
ascoltava incantata, e trovò la cosa bella e strana,
tanto che avrebbe desiderato che l’incanto di quel
momento non cessasse mai. Ben, cullato dalla
dolcezza di quella voce e dal ronzio delle api fra i
cespugli, sonnecchiava beato. Dickon teneva
sempre fra le braccia il coniglio, che nel frattem-
po si era addormentato, e con una mano acca-
rezzava il dorso dell’agnellino, mentre il corvo si
era appisolato sulla sua spalla. Alla fine Colin s’in-
terruppe e dichiarò:
«E ora facciamo il giro del giardino.»
Ben, che aveva ormai piegato la testa sul petto,
la sollevò di scatto.
«Voi avete dormito!» lo fulminò il principino.
«Nemmeno per sogno!» borbottò Ben, non del
tutto sveglio. «Avete fatto un bel discorso.»
«Non siete a letto, Ben» gli fece osservare Colin.
«Lo so, lo so, signorino» replicò il vecchio, al-
zandosi. «Ho sentito tutto, credetemi. Avete detto
che anche nella mia schiena c’è la magia... Ve-
ramente il dottore li chiama reumatismi.»
CAPITOLO VENTITRÉ 227

«Quella è magia sbagliata» osservò Colin con


sussiego. «Guarirete. E ora vi permetto di andare,
ma tornate domani.»
«Vorrei vedervi camminare» brontolò Ben. Era
un vecchio contadino ostinato e non aveva tanta
fiducia nella magia, perciò aveva già deciso, se
Colin non gli avesse permesso di restare, di spia-
re dalla cima del muro gli avvenimenti successivi.
Ma il principino non fece obiezioni, e allora si
mossero tutti insieme lentamente, come in pro-
cessione. In testa camminava Colin, fra Dickon e
Mary, dietro veniva Ben seguito da tutte le bestie.
Procedevano con solennità, fermandosi di tanto
in tanto perché Colin si riposasse un poco. Egli si
teneva sempre al braccio di Dickon, ma spesso si
staccava per fare qualche passo da solo, fiero
della sua prodezza. Ben, intanto, non lo perdeva
d’occhio. E a ogni passo Colin andava ripetendo:
«Voglio diventar forte! Voglio diventar forte! Magia,
aiutami!»
Pareva veramente che a ogni passo acquistas-
se nuove energie. Si fermarono anche sotto uno
dei pergolati, e Colin si riposò sul sedile di pietra;
ma non si dette per vinto finché non ebbe com-
piuto tutto il giro del giardino.
«Ce l’ho fatta!» gridò. «La magia è riuscita! Ec-
co la mia prima scoperta scientifica.»
«E cosa dirà il dottor Craven?» domandò Mary.
«Non dirà nulla» rispose Colin, «perché non sa-
prà nulla. Questo sarà il nostro più grande segre-
228 IL GIARDINO SEGRETO

to: nessuno dovrà sapere niente finché non sarò


tanto forte da camminare e correre come gli altri
ragazzi. Tutti i giorni verrò qui e tornerò a casa nel
carrozzino; non voglio che la gente chiacchieri e
non voglio che mio padre ne venga a conoscenza
prima che l’esperimento sia perfettamente riusci-
to. Così, quando tornerà, andrò io nel suo studio e
gli dirò: “Eccomi qui, papà. Vedi, sono un ragazzo
normale, sto bene e diventerò un uomo: ci sono
riuscito con un esperimento scientifico.”»
«Non crederà ai suoi occhi!» esclamò Mary.
Colin era raggiante; sicuro ormai di guarire,
senza saperlo, aveva vinto metà della sua batta-
glia. Il timore, infatti, che suo padre non volesse
vederlo solo perché lo credeva un bimbo defor-
me e malato aveva contribuito in gran parte a get-
tarlo nella più nera disperazione.
«E quando sarò guarito del tutto» dichiarò,
«prima di diventare uno scienziato, farò l’atleta.»
«Vi farò fare pugilato» disse Ben, «e diventere-
te il campione più quotato d’Inghilterra, e forse
del mondo.»
«Non siate irriverente, Ben» replicò Colin. «Non
sarò mai un pugile, ma un grande scienziato.»
«Chiedo scusa, signorino» rispose Ben mortifi-
cato, ma al tempo stesso felice di costatare che il
padroncino andava acquistando sempre maggior
forza e vitalità.
Capitolo ventiquattro

Dickon non lavorava soltanto nel giardino segreto.


Attorno alla sua casetta, nella brughiera, c’era un
pezzetto di terra circondato da un basso muretto.
Di mattina presto, nel tardo pomeriggio e quando
non andava da Mary e Colin, Dickon vi coltivava i
cavoli e le patate, le carote, le rape e l’insalata per
sua madre. Zappava e seminava attorniato dalle
sue bestiole e dai fratelli, ai quali aveva insegnato
presto ad aiutarlo; ogni tanto fischiettava qualche
canzoncina, ma più volentieri parlava.
«È proprio bello l’orto di Dickon!» diceva sua
madre. «Le sue patate e i suoi cavoli, poi, sono i
più buoni e i più grossi di tutto il paese.»
Quando aveva un minuto di tempo libero, spe-
cialmente la sera dopo cena, la madre di Dickon
raggiungeva il figlio nell’orto e si sedeva sul muret-
to a discorrere con lui: era la sua ora preferita.
Nell’orto non c’erano solo verdure; ogni tanto
Dickon comprava qualche soldo di semi di fiori e
li seminava tra i cespugli di ribes e persino tra i
cavoli. Così tra tutto quel verde spiccavano in file
230 IL GIARDINO SEGRETO

ordinate i delicati colori delle viole e della reseda,


di cui il ragazzo conservava i semi per l’anno
dopo. Ma la cosa più graziosa era il muretto;
Dickon infatti aveva seminato nelle fessure felci,
ciclamini e rampicanti, che, crescendo rigogliosi,
avevano in parte nascosto la dura pietra.
«Per far crescere bene le piantine» diceva
Dickon alla mamma, «bisogna volere loro bene.
Sono come le bestie e come noi: hanno fame e
sete, e bisogna ricordarsene. Se morissero, mi
sembrerebbe di essere stato senza cuore e di
averle trattate troppo male.»
Era durante queste ore di serenità che la signo-
ra Sowerby veniva a conoscenza di quanto avve-
niva a Misselthwaite. Dapprima Dickon le aveva
detto solo che il signorino Colin era finalmente
uscito in compagnia di Mary; ma non passò molto
tempo che Dickon, ricevuto il permesso da Colin,
le svelò per intero il grande segreto. «Della mam-
ma ci si può fidare» aveva detto.
Una sera infatti le raccontò tutta la storia in ogni
minimo particolare, dal ritrovamento della chiave
con l’aiuto del pettirosso, alla scoperta di Mary del
giardino che pareva morto, al grande segreto con-
fidato prima a lui e poi a Colin, all’ingresso di
Colin nel loro meraviglioso regno e infine all’ap-
parizione di Ben in cima al muro e al primo mira-
coloso sforzo di Colin. La mamma ascoltava stu-
pita e commossa. Alla fine disse:
«È stata una fortuna che quella bimba sia venu-
CAPITOLO VENTIQUATTRO 231

ta ad abitare a Misselthwaite; una fortuna per lei e


per Colin. Pensare che lo credevano storpio e
mezzo scemo! E che cosa dicono gli altri, ora che
sta bene e non strilla più?»
«Non capiscono più niente» rispose Dickon.
«Prima era sempre pallido come la cera, ora,
invece, diventa ogni giorno più colorito. Però ogni
tanto strilla ancora: lo fa apposta, naturalmente»
concluse ridendo.
«Ma perché, in nome di Dio?»
«Perché non vuole che sospettino quello che
sta accadendo. Se poi lo venisse a sapere il dotto-
re, scriverebbe subito al signor Craven. E Colin
vuole essere il primo a dirlo a suo padre. Con la
magia si sta irrobustendo sempre più le gambe, e
quando sarà guarito del tutto andrà lui stesso
nello studio del padre a farsi vedere. Per questo è
meglio che per ora lui e Mary facciano ancora un
po’ di storie.»
Anche la mamma rideva ormai di gusto.
«Chissà come si divertono!» esclamò. «Non c’è
niente che piaccia tanto ai ragazzi quanto recitare
la commedia. E che fanno, Dickon?»
Dickon smise di seminare, si sedette sui tacchi
e le raccontò tutto, strizzando gli occhi con aria
furba:
«Colin si fa portare in braccio fino al pianterre-
no da un domestico e strilla se quello non lo tiene
coi dovuti modi. E finché c’è qualche estraneo
intorno, cerca di fare la faccia più triste che può e
232 IL GIARDINO SEGRETO

tiene la testa bassa e piange se non gli sistemano


bene le coperte. Mary, poi, si china spesso su di
lui e gli dice: “Poverino, ti senti male, vero? Sei
molto debole, lo vedo.” Ma fanno fatica a tratte-
nersi dal ridere. Quando si trovano al sicuro nel
giardino, allora scoppiano a ridere e nascondono
la faccia nei cuscini per non essere uditi al di
fuori.»
«Il riso è tanta salute» dichiarò la signora So-
werby, «e fa certamente meglio delle medicine.»
«E ingrassano anche, li vedessi, e hanno sem-
pre un formidabile appetito; solo che Colin non
può chiedere cibo in più, perché altrimenti nessu-
no lo crederebbe ammalato. Mary gli darebbe la
sua parte, ma lui non vuole, perché dice che
devono ingrassare insieme.»
A quest’ultima rivelazione la mamma di Dickon
scoppiò in una sonora risata e, buttando indietro
la testa, rise fino alle lacrime.
«Li aiuteremo noi, Dickon» disse infine. «Tutte
le volte che andrai a Misselthwaite ti darò un sec-
chiello di latte fresco e qualche focaccia con l’u-
va, come quelle che faccio per voi. Così i pasti di
casa potranno bastare.»
«Oh, mamma, sei meravigliosa!» esclamò
Dickon. «Tu riesci sempre ad accomodare le
cose! Ieri non sapevano proprio come cavarsela:
non volevano chiedere da mangiare e avevano
una fame da lupi.»
«Quei due ragazzi stanno tornando in salute,
CAPITOLO VENTIQUATTRO 233

per forza hanno sempre tanto appetito» concluse


la mamma di Dickon, sorridendo.
E aveva ragione quella buona e cara mamma,
specialmente quando diceva che “recitare la
commedia” doveva essere il maggior divertimen-
to di Mary e di Colin. I due ragazzi, infatti, non si
erano mai divertiti tanto. L’idea di dover sfuggire a
ogni sospetto l’avevano suggerita inconsciamente
l’infermiera prima, e lo stesso dottore poi.
«Vedo che avete appetito, signorino» disse un
giorno l’infermiera. «Non mangiavate quasi nulla
prima, e quel poco non vi piaceva mai.»
«Ora invece mi piace» replicò Colin; ma lo
sguardo sorpreso dell’infermiera gli ricordò di
aver prudenza. Perciò si affrettò ad aggiungere:
«Almeno, c’è qualcosa che ora mi piace; dev’es-
sere l’aria buona del giardino.»
«Può darsi» rispose l’infermiera continuando a
osservarlo. «Comunque, bisogna che ne parli col
dottor Craven.»
«Come ti guardava!» osservò Mary non appena
furono soli. «Pareva che avesse dei sospetti.»
«Non ne deve avere» ribatté Colin. «Nessuno
deve sapere niente!»
Anche il dottore, l’indomani mattina, lo guardò
perplesso e lo tempestò di domande piuttosto
imbarazzanti.
«Mi dicono che rimani molto tempo in giardi-
no; dove vai?» gli chiese.
«Nessuno deve saperlo» rispose Colin con
234 IL GIARDINO SEGRETO

molto sussiego, «vado dove mi pare. Ho dato ordi-


ne ai giardinieri che non si facciano trovare in
giro; sapete bene che non voglio essere veduto.»
«Comunque, male non ti fa, perché effettiva-
mente ti trovo meglio. L’infermiera poi mi dice
che hai anche più appetito.»
«Forse...» disse Colin con un’improvvisa ispira-
zione «è un appetito falso.»
«Non credo, perché mangiare ti fa bene; sei
ingrassato e hai anche un po’ di colore.»
«Forse sono gonfio e ho la febbre» replicò Colin
con aria triste e stanca. «La gente che sta per
morire fa spesso degli strani cambiamenti.»
Il dottore scosse la testa, e prendendogli il
polso aggiunse:
«Febbre non ne hai e quella che hai messo
addosso è carne sana. Se continui così non parle-
remo più di morire. Tuo padre sarà felice di que-
sto tuo miglioramento.»
«Non voglio che lo sappia!» proruppe Colin con
violenza. «Se poi peggiorassi, ci rimarrebbe trop-
po male, e potrei peggiorare anche stanotte;
potrebbe venirmi la febbre. Anzi, me la sento già
addosso. Non voglio che scriviate a mio padre,
non voglio! Voi mi fate arrabbiare, eppure sapete
che mi fa male. Mi sento già scottare! Non voglio
che si scriva o si parli di me, non voglio che mi si
guardi!»
«Buono, buono, Colin!» lo calmò il dottor Cra-
ven. «Nessuno gli scriverà senza il tuo permesso,
CAPITOLO VENTIQUATTRO 235

ma non te la prendere così. Sarebbe un peccato


che tu perdessi quello che hai guadagnato.»
«Il ragazzo sta notevolmente meglio» disse poi
il dottore all’infermiera. «Il suo miglioramento è
quasi miracoloso. Sta di fatto che ora fa sponta-
neamente quello che prima non si riusciva a otte-
nere nemmeno con le suppliche. Tuttavia s’in-
quieta ancora per un nonnulla: non bisogna irri-
tarlo. Non parlategli di scrivere al padre, per ora.»
Mary e Colin, naturalmente, s’allarmarono, e da
quel momento decisero di recitare la commedia.
«Finirà che dovrò farmi venire ancora una
crisi!» disse Colin desolato. «Ma non ne ho voglia,
non so nemmeno se ci riuscirei. Non mi viene più
il nodo in gola, e ora penso solo a cose piacevoli.
Ma se insistono sullo scrivere a mio padre, qual-
cosa dovrò pur fare.»
Decise, quindi, di mangiare meno: ma com’era
possibile, col formidabile appetito che aveva ogni
mattina, resistere alla buona colazione di pane,
burro, uova e marmellata che trovava sempre ser-
vita in tavola? Mary ormai faceva colazione con
lui, e tutte le mattine Colin la guardava desolato e
finiva col dire:
«Per stamattina potremmo mangiare tutto, sem-
mai manderemo indietro qualcosa a pranzo o a
cena.»
Ma non trovavano mai nessuna pietanza alla
quale poter rinunciare senza eccessivo sacrificio,
e i piatti, che tornavano tutti vuoti in cucina, desta-
236 IL GIARDINO SEGRETO

vano i più disparati commenti fra la servitù.


«Vorrei» aveva detto una volta Colin «che le
fette di prosciutto fossero meno sottili, e che ci
mandassero più di una focaccia a testa.»
«Questa è una porzione sufficiente per uno che
sta per morire» aveva approvato Mary, «e non per
te. Anch’io mangerei per tre quando l’aria fresca e
profumata della brughiera entra dalla finestra.»
La mattina che Dickon, dopo due ore di lavoro
nel giardino, corse dietro un cespuglio di rose e
ritornò con due secchielli, uno pieno di latte fre-
sco e l’altro di schiacciate con l’uva passa, così
ben avvolte da essere ancora calde, fu un vero
scoppio di gioiosa sorpresa. Che pensiero gentile
aveva avuto la mamma di Dickon! Com’erano
buone le schiacciate! E che buon latte!
«La tua mamma è piena di magia come te,
Dickon» affermò Colin. «Non dice e non fa se non
cose buone e gentili. Dille che le siamo grati,
Dickon, molto grati.» E poiché a volte si compiace-
va di pronunciare frasi da persona grande, aggiun-
se: «Dille che è stata di una generosità senza pari,
e che la nostra gratitudine non avrà fine.»
Ma dimenticò subito il suo sussiego, e mangiò
di gusto la sua parte di schiacciate e bevve il latte
dal secchio, come un qualsiasi ragazzo sano e
affamato che da due ore si trova all’aria aperta
con una colazione non troppo abbondante nello
stomaco.
Quella prima merenda in giardino diede l’avvio
CAPITOLO VENTIQUATTRO 237

a molte altre sempre più ghiotte. Però i ragazzi


ebbero il buon senso di capire che la mamma di
Dickon, con una famiglia numerosa come la sua,
non poteva certo continuare a sfamare altre due
bocche; così decisero di dare dei soldi a Dickon
per fare le provviste.
Dickon poi scoprì che nel bosco vicino, dove
Mary l’aveva incontrato la prima volta, c’era una
profonda buca, nella quale poterono facilmente
costruire un piccolo forno di pietre per cuocervi
uova e patate. Uova e patate, mangiate ben calde
col burro fresco e il sale, erano un pasto da prin-
cipi.
Ogni mattina Colin ripeteva la sua magica can-
tilena sotto l’albero di prugne, che, caduti ormai
tutti i fiori, si era trasformato in un baldacchino
verde. Poi faceva il giro del giardino, per conti-
nuare a esercitare le gambe, e lo ripeteva più
volte durante il giorno, via via che la sua forza
aumentava. E più si sentiva forte e più cresceva la
sua fiducia nella magia.
«Ieri, andando in paese per delle commissioni»
disse un giorno Dickon, «ho incontrato Bob Ha-
worth. È il giovane più forte di tutto il paese: salta
molto alto e ti lancia il martello più lontano di
qualsiasi altro atleta. Mi conosce da quando sono
al mondo, così l’ho fermato per fargli qualche
domanda. Pensavo a te, Colin. Oh, scusate! Vi
dispiace se vi do del tu?»
«No, no, Dickon, anzi, volevo dirtelo io. Dimmi,
238 IL GIARDINO SEGRETO

piuttosto: che cosa hai chiesto a quell’atleta?»


«Gli ho chiesto: “Ditemi un po’, Bob: avete fatto
degli esercizi speciali per diventare tanto forte? E
un ragazzo indebolito da una lunga malattia po-
trebbe irrobustirsi, facendo della ginnastica?” “Ma
certo” mi ha risposto, “ho fatto molta ginnastica; e
la ginnastica fa bene e irrobustisce tutti quelli che
la praticano.” Allora l’ho pregato di mostrarmi
qualcuno di quegli esercizi, e li ho ripetuti davan-
ti a lui tante volte finché non li ho imparati a
memoria.»
«Vuoi mostrarmeli?» chiese Colin tutto entusia-
smato.
«Subito!» rispose Dickon alzandosi. «Però Bob
dice che bisogna fare attenzione all’inizio, per non
stancarsi troppo; potrebbe farti male invece che
bene.»
«Farò attenzione!» replicò Colin. «Ma presto,
fammi vedere! Dickon, sei il ragazzo più... fanta-
stico del mondo!»
Dickon gli mostrò alcuni semplici movimenti
per esercitare i muscoli delle gambe e delle brac-
cia, e Colin cominciò subito a ripeterli, dapprima
con precauzione, poi con sempre maggior sicu-
rezza. E da allora li ripeté ogni giorno con Dickon
e Mary, dopo la recita delle parole magiche. Col
passare dei giorni quegli esercizi li stancarono
sempre meno, ma aumentarono ancora di più il
loro appetito, e se non ci fossero state le provviste
di Dickon sarebbe stato un affare serio.
CAPITOLO VENTIQUATTRO 239

Intanto la signora Medlock, l’infermiera e il


dottor Craven non sapevano più che cosa pen-
sare nel vederli rimandare in cucina i piatti
quasi intatti.
«Non mangiano più!» diceva l’infermiera deso-
lata. «Se vanno avanti così, finiranno col morire di
fame, e guardate le loro facce!»
«Non ne posso più!» aveva detto la governante.
«Quei due diavoletti mi faranno impazzire. Un
giorno mangiano da scoppiare, e il giorno dopo
niente! La cuoca non sa più che cosa preparare
per loro, e si dispera nel vederli rifiutare a volte le
pietanze più squisite.»
Naturalmente venne chiamato il dottore; que-
sti si mostrò piuttosto preoccupato quando l’in-
fermiera gli indicò il vassoio della colazione rima-
sto intatto. Ma si preoccupò ancora di più quan-
do, seduto accanto al sofà di Colin, prese a esa-
minarlo.
Aveva dovuto andare a Londra per affari e per-
ciò erano due settimane che non lo vedeva. Tutti
sanno che i ragazzi, quando si rimettono davvero,
fanno presto a trasformarsi. E Colin aveva preso
un bel colorito roseo, i suoi occhi si erano fatti
vivaci e le sue guance si erano riempite, mentre i
capelli erano diventati morbidi e le labbra rosse
come corallo. Non lo si riconosceva quasi più, e il
dottore lo osservava perplesso.
«Mi dispiace davvero di sentire che non mangi
più» gli disse. «Ti eri ripreso tanto bene, e ti era
240 IL GIARDINO SEGRETO

venuto anche un così sano appetito.»


«Ve l’avevo detto che era un appetito falso» ri-
spose Colin.
Mary, seduta come al solito sul suo sgabello,
fece sentire un suono così strano e soffocato che
il dottore si voltò verso di lei e le chiese:
«Che cosa ti succede?»
«Non so, era qualcosa tra uno starnuto e un
colpo di tosse» rispose la bimba seria seria, «ma
mi si è fermato in gola.»
«Per poco non scoppiavo» disse più tardi a
Colin. «Pensavo alle patate e ai biscotti di stamat-
tina. Ti eri riempito tanto la bocca con l’ultima
patata che quasi non ti riusciva d’inghiottire!»
«Vi risulta che quei ragazzi possano procurarsi
del cibo di nascosto?» chiese il dottore alla signo-
ra Medlock.
«No di certo!» rispose la governante. «A
meno che non lo trovino sotto terra o in cima
agli alberi; stanno in giardino tutto il giorno e
nessuno li vede mai. E se volessero qualcosa di
diverso da mangiare non avrebbero che da
chiederlo!»
«Comunque» replicò il dottor Craven, «fin-
ché saltare i pasti li fa stare così bene, non è il
caso di preoccuparsi. Quel ragazzo è diventato
un altro.»
«Anche la bimba; da quando è più grassa e
colorita, e ha preso quell’appetito così sano, è
diventata persino carina. Prima era sempre seria
CAPITOLO VENTIQUATTRO 241

e malinconica, e ora lei e il signorino ridono


spesso come matti. Dicono che il riso fa buon
sangue…»
«Nel caso loro è più che evidente» concluse il
dottore. «Lasciamoli ridere dunque!»
Capitolo venticinque

Il giardino segreto continuava a fiorire, svelando


ogni giorno nuovi miracoli. Nel suo nido la petti-
rossa covava le uova, tenendole al caldo sotto le
ali spiegate. Dapprima la piccola coppia si era
mostrata piuttosto agitata e sospettosa, tanto che
neppure Dickon s’era azzardato ad avvicinarsi al
cespuglio; ma a poco a poco i due uccellini si
erano convinti che nessuno, in quel giardino,
avrebbe fatto loro del male, e che i ragazzi aveva-
no compreso la meravigliosa, tenera e solenne
bellezza di quello che stava loro accadendo. Sa-
rebbe stata per loro la fine del mondo, se un solo
uovo fosse stato rubato o si fosse rotto; il felice
incanto di quella loro dolce primavera sarebbe
irrimediabilmente svanito.
Ben presto il pettirosso non ebbe più paura
della vicinanza di Dickon; considerava il ragazzo
una sorta di pettirosso anche lui, dal momento
che si esprimeva nel suo stesso linguaggio: un
pettirosso senza piume e senza becco, però.
Dickon non faceva mai un gesto sospetto o peri-
CAPITOLO VENTICINQUE 243

coloso al suo riguardo, e la sua presenza non lo


disturbava. Invece doveva stare ancora in guardia
con gli altri due. Soprattutto il ragazzo era strano:
pareva non sapesse ancora muoversi e veniva in
giardino su una cosa a quattro ruote, tutto avvolto
in scialli e coperte, e quando si alzava pareva
temesse di cadere da un momento all’altro. Il pet-
tirosso lo osservava, nascosto tra le foglie d’un
cespuglio, e quando tornava al nido riferiva ogni
cosa alla sua compagna. Quella, però, si spaven-
tava talmente che il pettirosso decise di non par-
largliene più, temendo che le uova ne soffrissero.
Un giorno, finalmente, il ragazzo cominciò a
camminare da solo, dapprima stentatamente, poi
con maggiore agilità, e il pettirosso ne ebbe gran-
de sollievo. Si ricordò allora che anche lui, quan-
do i suoi genitori gli avevano insegnato a volare,
aveva cominciato con voli brevi e incerti; conclu-
se quindi che quel ragazzo stava imparando a
volare, cioè (sbadato!) a camminare. Lo riferì alla
pettirossa e la tranquillizzò del tutto. Essa parve
convincersi, e s’azzardò persino a sporgere il capi-
no dal nido per osservare quello strano bambino;
si meravigliò che, pur così alto, fosse ancora tanto
debole, e pensò orgogliosa che i suoi piccini sa-
rebbero stati molto più svegli e precoci.
Ma un altro fatto impensieriva il povero petti-
rosso, preoccupato della sicurezza della sua futu-
ra famigliola, ed erano gli strani movimenti che
quei tre ragazzi andavano ripetendo a intervalli
244 IL GIARDINO SEGRETO

durante il giorno. Si mettevano sotto un albero e


muovevano le gambe, le braccia e la testa in un
modo che non era né camminare, né correre, né
stare seduti. L’uccellino non sapeva come spiega-
re questo fatto alla sua compagna; poteva solo
rassicurarla, perché, se anche il ragazzo che capi-
va il loro linguaggio partecipava a quello strano
gioco, voleva dire che le uova non correvano nes-
sun pericolo. D’altra parte, che cosa poteva sape-
re un pettirosso degli esercizi di ginnastica che
irrobustiscono i muscoli atrofizzati?
Quando, infine, anche quello strano ragazzo
camminò, corse e zappò come gli altri due, la pet-
tirossa si sentì del tutto tranquilla sulla sorte del
nido; anzi, si era tanto abituata ad avere compa-
gnia, che nei giorni di pioggia quasi quasi si an-
noiava.
Ma la stessa cosa non accadeva a Mary e a
Colin, i quali trovavano sempre il modo di passa-
re allegramente il tempo, anche quando la piog-
gia non permetteva loro di uscire. L’unica cosa
che seccava Colin era di dover star sempre sedu-
to o sdraiato sul sofà per continuare a recitare la
sua commedia di bambino ammalato.
Una mattina che pioveva a dirotto, confidò a
Mary:
«Sai, ora che sono diventato un bambino nor-
male non riesco più a stare fermo. Quando mi
sveglio mi viene voglia di saltar fuori dal letto e
correre a spalancare la finestra. Ma t’immagini
CAPITOLO VENTICINQUE 245

che cosa succederebbe, se lo facessi?»


«La signora Medlock e l’infermiera» rispose Ma-
ry ridendo «si precipiterebbero qui e, credendoti
impazzito, manderebbero a chiamare il dottore.»
Anche Colin rideva, pensando alla scena; poi
aggiunse:
«Vorrei che mio padre tornasse per comunicargli
la grande novità; continuo a pensarci. Così non può
durare; non mi riesce più di fingere, e poi sono trop-
po cambiato. Com’è noiosa questa pioggia!»
Fu allora che Mary ebbe un’idea.
«Sai quante stanze ci sono in questa casa?» gli
chiese.
«Non saprei dire: mille?»
«Mille no, ma più di cento, e quasi tutte chiuse.
Un giorno che pioveva ho fatto il giro della casa e
sono entrata in tutte le stanze aperte. Nessuno lo
sa; solo che al ritorno mi sono persa e, passando
per il tuo corridoio, la signora Medlock mi ha sco-
perta. Quel giorno ti ho sentito piangere per la
seconda volta.»
Colin balzò a sedere, incuriosito.
«Cento stanze chiuse!» esclamò. «È come il
giardino segreto. Perché non andiamo a vederle?
Tu potresti spingere il carrozzino, e nessuno ci
seguirebbe.»
«È proprio quello che pensavo» replicò Mary.
«Ci sono delle gallerie così lunghe e larghe che
potresti correre e fare i tuoi esercizi di ginnastica.
C’è anche un salottino con un armadietto pieno di
246 IL GIARDINO SEGRETO

elefantini d’avorio, e tante altre stanze.»


«Suona il campanello» disse Colin, e all’infer-
miera subito accorsa ordinò: «Fate venire il car-
rozzino. La signorina Mary e io faremo un giro per
la casa. John mi spingerà fino alla galleria dei qua-
dri, poi ci lascerà soli finché lo chiamerò di
nuovo.»
Da quella mattina la pioggia non li spaventò
più. Il domestico, secondo gli ordini, li accompa-
gnò fino alla galleria, e quando i suoi passi si per-
dettero giù per le scale, Colin saltò fuori dal car-
rozzino e annunciò:
«Ora correrò su e giù per sgranchirmi le
gambe, e poi farò gli esercizi.»
E così fece, infatti; poi esaminarono i ritratti, e
si fermarono davanti alla bimba vestita di verde
che teneva un pappagallo sul dito.
«Devono essere tutti miei lontani parenti.
Quella bambina col pappagallo deve essere una
mia pro-pro-pro-zia. Ti assomiglia, quasi; non
come sei ora, però, ma come eri prima. Ora sei
più grassa e hai un bell’aspetto.»
«Anche tu» replicò Mary, e risero tutti e due.
Si divertirono un po’ con gli elefanti d’avorio;
ritrovarono il salottino rosa col cuscino del sofà
rosicchiato dai topi, ma i topi se n’erano andati. E
visitarono altre stanze, molte più che non avesse
vedute Mary nel suo primo viaggio. Scoprirono
nuovi corridoi e nuove scale, e videro tanti bei
quadri antichi e strani mobili; e tra tutte quelle
CAPITOLO VENTICINQUE 247

cose nuove e nel silenzio di quella parte disabita-


ta della casa parve loro di vivere una straordinaria
avventura.
«Sono contento di essere venuto» disse Colin.
«Non sapevo di vivere in una casa tanto grande e
bella; mi piace. Verremo qui tutte le volte che pio-
verà; e forse scopriremo ancora molte altre cose.»
Quella mattina venne loro un tale appetito che,
ritornati nella camera di Colin per il pranzo, non si
sentirono di rifiutare nulla dei piatti appetitosi che
erano stati preparati per loro.
E l’infermiera, riportando il vassoio in cucina, lo
sbatté sul tavolo per far notare alla cuoca che era
vuoto.
«Questa è la casa dei misteri» disse, «e quei
ragazzi sono il mistero più grande.»
«Se il signorino va avanti così» osservò John, il
domestico, che pure era giovane e forte, «fra un
mese peserà il doppio, e io non me la sentirò più
di trasportarlo su e giù per le scale.»
Fin dal giorno prima Mary aveva notato un
cambiamento nella camera di Colin: il ritratto di
sua madre era scoperto. Ma non osava fare com-
menti nel timore di urtare la sensibilità del cugi-
netto. Tuttavia non poteva fare a meno di fissarlo,
finché Colin se ne accorse e le disse:
«Ti meravigli di vedere il ritratto di mia madre
scoperto? Sono stato io a tirare la tenda, e ora lo
terrò sempre così.»
«Perché?» domandò Mary.
248 IL GIARDINO SEGRETO

«Perché non mi dispiace più di vederla sorride-


re. Due notti fa, mi sono svegliato che la camera
era rischiarata dalla luce della luna e aveva un
aspetto nuovo e misterioso. Un raggio, poi, anda-
va proprio a battere sulla tenda; qualcosa mi ha
spinto ad alzarmi e a tirarla. E sono rimasto là, in
piedi, a guardare mia madre, e quel suo sorriso
mi ha fatto pensare che fosse contenta di vedermi
muovere come un ragazzo normale. Le ho sorriso
anch’io, e ho deciso di non coprirla più.»
«Le assomigli molto, ora» osservò Mary, «sem-
bri lei vestita da ragazzo.»
Questa osservazione colpì Colin e lo fece rima-
nere a lungo pensieroso.
«Se le assomigliassi davvero, mio padre mi vor-
rebbe bene» disse infine.
«Lo desideri tanto?»
«Mi ha sempre addolorato il fatto che mio
padre non venisse mai a trovarmi. Se mi volesse
bene, potrei parlargli della magia. E certo divente-
rebbe meno triste!»
Capitolo ventisei

La loro fiducia nella magia era ormai incrollabile;


e Colin, dopo il rito del mattino, ne parlava a lungo
e con aria molto seria.
«Lo faccio» diceva «perché quando diventerò
un grande scienziato dovrò tenere delle impor-
tanti conferenze sulle mie scoperte: è meglio
quindi che mi abitui. Ora le mie conferenze sono
brevi, perché sono giovane e poi Ben s’addor-
menterebbe, credendo di trovarsi in chiesa.»
Ma quando Colin parlava, ritto sotto l’albero,
Ben lo divorava con gli occhi. Più che la confe-
renza lo interessavano le sue gambe, che si face-
vano sempre più forti e più dritte. La testa eretta,
le guance piene e colorite, e quei suoi occhi, ora
tanto luminosi, che erano sempre più uguali a
quelli che il fedele Ben non poteva dimenticare.
Un giorno che lo fissava più incantato del soli-
to, Colin gli chiese:
«A che cosa pensate, Ben?»
«Pensavo che dovete essere aumentato più di
due chili questa settimana. Avete fatto due spalle!
250 IL GIARDINO SEGRETO

Vorrei proprio mettervi sulla bilancia.»


«È la magia, e le buone provviste di Dickon.
Vedete che l’esperimento scientifico è riuscito!»
Quella mattina Dickon arrivò in ritardo per la
conferenza, rosso in viso per la corsa e con gli
occhi più ridenti che mai. Si misero subito al lavo-
ro. La pioggia degli ultimi giorni aveva fatto bene
alle piante e ai fiori, ma aveva anche fatto cresce-
re molta erbaccia, che andava strappata finché era
tenera. Colin lavorava ormai con molta energia, e
spesso riprendeva il suo discorso, lavorando.
«La magia riesce se ci mettiamo tutta la nostra
buona volontà» diceva quel mattino. «Credo che
scriverò un libro sulla magia: voglio pensarci sin
d’ora.»
Dopo queste brevi parole rimase a lungo silen-
zioso; poi, interrompendo il lavoro, si rizzò in piedi
come colpito da un improvviso pensiero. Pareva
più alto, e un’espressione di intima gioia lo rende-
va ancora più bello.
«Mary! Dickon!» gridò, allargando le braccia.
«Guardatemi! Vi ricordate il primo giorno che
sono venuto qui?»
«Certo!» rispose Dickon, fissandolo intensa-
mente con quei suoi occhioni vivi e penetranti.
Anche Mary lo guardava e taceva.
«Ci pensavo in questo momento» continuò
Colin, «e ho dovuto smettere di lavorare per con-
vincermi che è tutto vero. Ed è vero! Sto bene! Sto
bene!»
CAPITOLO VENTISEI 251

L’aveva sperato, l’aveva sentito, l’aveva credu-


to, ma solo in quel momento aveva provato l’im-
provvisa, intensa gioia di sentirsi vivo e sano, e
non aveva potuto fare a meno di parteciparla ai
suoi amici.
«Vivrò! Vivrò!» esclamò di nuovo. «E scoprirò
mille altre cose! Conoscerò il mondo e tutte le
bestie, come Dickon. Mi sento bene, e mi viene
voglia di cantare qualcosa in ringraziamento.»
Ben, che lavorava presso un rosaio, si voltò a
guardarlo.
«Perché non cantate l’inno di lode a Dio?» gli
suggerì.
«E com’è?» domandò Colin che non lo cono-
sceva.
«Dickon lo conosce di certo» replicò Ben.
«Lo cantano in chiesa» spiegò Dickon con un
sorriso, «ma la mamma dice che anche le allodole
lo cantano, quando, al mattino, si levano in volo.»
«Allora dev’essere bello» disse Colin. «Cantalo,
Dickon: mi piacerebbe impararlo.»
Dickon era un ragazzo semplice, ma spesso
comprendeva meglio di Colin stesso i suoi stati
d’animo, per una sorta d’istinto naturale. Si alzò,
togliendosi il berretto, e disse:
«Dobbiamo alzarci in piedi e toglierci il berret-
to. Anche voi, Ben.»
Colin si tolse il berretto e il sole brillò sui suoi
capelli bruni; Ben si era alzato in piedi col berret-
to in mano e li guardava contrariato, come se non
252 IL GIARDINO SEGRETO

capisse bene perché doveva comportarsi come


fosse in chiesa.
E Dickon cominciò a cantare con voce chiara e
forte:
«Lodate il Signore, perché da Lui scende ogni
benedizione; lodatelo voi, creature della terra,
lodatelo voi, Santi Spiriti del Cielo. Gloria al Padre,
al Figlio, allo Spirito Santo, Amen.»
Mentre Dickon cantava, Ben osservava Colin: il
ragazzo appariva calmo e pieno di ammirazione.
«È un bel canto» disse Colin alla fine, «e mi
piace. Dice proprio quello che io avevo in mente.
Cantalo ancora, Dickon; noi canteremo con te:
sarà il mio inno.»
E nel bel mezzo di quel giardino si levò un coro
dapprima incerto, poi sempre più sicuro e intona-
to, e vigoroso quando Ben, schiarita la gola con
un colpo di tosse, unì anche la sua forte voce alle
vocette limpide dei ragazzi. Quando arrivarono
all’Amen, Mary s’accorse che gli occhi del vec-
chio contadino erano gonfi di lacrime, come la
prima volta che aveva visto Colin.
«Non mi ero mai accorto che questo inno fosse
così bello» borbottò Ben, guardando il padroncino.
Ma Colin si era voltato verso la porta, con un’e-
spressione di allarmata sorpresa.
«Chi sta arrivando?» chiese. «Chi è?»
Alle ultime note del coro, dalla porta nascosta
fra l’edera era entrata una donna e si era ferma-
ta a guardarli e ad ascoltarli. L’edera le faceva da
CAPITOLO VENTISEI 253

sfondo e il sole, calando tra i rami, ne illumina-


va il volto fresco e sorridente e il mantello tur-
chino: pareva un’immagine uscita da un libro di
fiabe. Aveva degli occhi buoni, che parevano
abbracciare tutto con uno sguardo: i ragazzi e
Ben, le bestiole e i fiori in boccio. Era apparsa
all’improvviso, ma non pareva per nulla un’in-
trusa.
«È la mamma!» gridò Dickon con gli occhi che
gli brillavano, e le corse incontro.
Anche Mary e Colin mossero verso di lei, col
cuore che batteva forte forte.
«È la mamma!» ripeté Dickon, quando stava
ormai per raggiungerla. «Sapevo che desiderava-
te vederla, e le ho detto io dov’era la porta.»
Ormai i ragazzi le erano intorno, e Colin le ten-
deva la mano con una sorta di timidezza altera,
mentre la guardava estasiato.
«Anche quand’ero malato» disse, «desideravo
conoscervi, voi e Dickon e il giardino segreto. È
stata la prima cosa che ho desiderato in vita mia.»
La vista di quel visino alzato verso di lei com-
mosse la buona mamma di Dickon; le si velarono
gli occhi di pianto e solo con voce tremante riuscì
a dire:
«Figliolo caro! Figliolo caro!» non pensando
nemmeno di dire “signorino Colin”, ma rivolgen-
dosi a lui con la stessa affettuosa espressione che
avrebbe usata se qualcosa l’avesse commossa sul
viso del suo Dickon.
254 IL GIARDINO SEGRETO

«Siete sorpresa di trovarmi così bene?» chiese


Colin.
«Certo che lo sono!» esclamò la donna, met-
tendogli le mani sulle spalle. «Ma mi sorprende
ancora di più la somiglianza con tua madre.»
«Credete che mio padre mi vorrà bene?» do-
mandò il bimbo, un po’ impacciato.
«Ma certamente, figliolo! Deve proprio tornare
il tuo papà. Deve tornare!»
«Susan» disse Ben, avvicinandosi, «avete visto le
sue gambe? Due mesi fa parevano stecchi, e dice-
vano anche che erano deformi; guardatele ora!»
«Fra non molto saranno due belle gambe robu-
ste» affermò Susan Sowerby sorridendo. «Che
continui a giocare e lavorare in giardino e a man-
giare con appetito, e diventeranno le più belle
gambe di tutta la regione.»
Poi si rivolse a Mary e la guardò con un sorriso
materno.
«E tu, piccola» le disse, «ti sei fatta forte quasi
come la mia Lizabeth. Anche tu devi assomigliare
a tua madre; la signora Medlock mi ha detto che
era tanto bella! Sarai una rosa quando crescerai;
Dio ti benedica!»
Mary non aveva fatto molto caso al cambia-
mento del suo viso; si era sentita solo molto diver-
sa. Ma ricordando con quanto piacere aveva
ammirato il bel viso di sua madre, ora era lusin-
gata che qualcuno le dicesse che un giorno sareb-
be stata come lei.
CAPITOLO VENTISEI 255

Susan Sowerby dovette fare il giro del giardino,


ascoltando tutta la storia e osservando le piante
tornate vive. Mary e Colin le camminavano al fian-
co, affascinati dall’affettuosa serenità che emanava
dal suo viso. Dickon e le bestie la seguivano, e il
corvo volò sulla sua spalla a gracchiarle nell’orec-
chio come faceva con Dickon. Quando poi le par-
larono dei pettirossi e dei loro piccini, si commos-
se come solo una mamma può commuoversi.
«Per gli uccelli imparare a volare è come per i
bimbi imparare a camminare» disse, «ma guai se
i miei avessero le ali!»
Vedendo che era tanto buona e comprensiva,
alla fine i ragazzi le confidarono anche il loro
esperimento sulla magia.
«Credete alla magia?» le chiese Colin, dopo aver-
le raccontato dei fachiri indiani. «Io spero di sì.»
«Certo, figliolo!» gli rispose. «Ma non la cono-
scevo con quel nome. Chi fa crescere i fiori e ora
fa crescere anche te sano e robusto è il buon Dio.
Devi credere in Lui. È per Lui che cantavate quan-
do sono entrata.»
«Ero così felice di sentirmi bene» esclamò Co-
lin, «di poter camminare e lavorare come Mary e
Dickon, che mi era venuta improvvisamente vo-
glia di cantare.»
«E il buon Dio vi stava ad ascoltare, mentre
cantavate l’inno di lode.»
La mamma di Dickon aveva portato una cesta
piena di cose appetitose, e quando i ragazzi co-
256 IL GIARDINO SEGRETO

minciarono a sentire gli stimoli della fame si


sedette con loro sull’erba e li guardò compiaciuta
divorare tutto in un batter d’occhio. Erano allegri
come passerotti e ridevano di niente. La signora
Sowerby, poi, raccontò alcune storielle in dialetto,
e rise con loro quando le riferirono delle peripezie
di Colin per continuare a sembrare debole e
malato.
«Vedete» osservò Colin, «non possiamo fare a
meno di ridere quando siamo insieme. Finiranno
col sentirci di là dal muro.»
«Ogni tanto» intervenne Mary, «penso a quello
che succederà quando Colin avrà una faccia da
luna piena. Ora non ce l’ha, ma se continua a
ingrassare così presto non riuscirà a ingannare più
nessuno.»
«Coraggio, figlioli» disse la signora Sowerby,
«questa storia finirà presto. Il signor Craven tor-
nerà a casa.»
«Lo credete davvero?» chiese Colin.
«Certo! Scommetto che ci pensi anche di notte
al momento in cui t’incontrerai con tuo padre.
Vuoi essere tu il primo a dirglielo, vero?»
«Sì» rispose Colin. «Ma non so ancora come
farò. Forse gli andrò incontro di corsa: così tutto
sarà più semplice.»
Poi parlarono anche della visita che Mary e
Colin avrebbero fatta alla sua casetta, e decisero
di andarci in carrozza, di pranzare all’aperto e di
rimanerci fino a sera tarda.
CAPITOLO VENTISEI 257

Era ormai giunta l’ora di tornare a casa. Ma


Colin, prima di rimettersi nel carrozzino, s’avvi-
cinò alla mamma di Dickon, la guardò con affetto
misto ad ammirazione, e infine, prendendola per
il mantello, le disse:
«Voi siete proprio come... vi desideravo. Vorrei
che foste anche la mia mamma, e non soltanto la
mamma di Dickon.»
Susan Sowerby non riuscì più a trattenere le
lacrime, e chinandosi su di lui se lo strinse al pet-
to, come se fosse stato davvero uno dei suoi figli.
«Caro! Caro!» esclamò. «Ma anche la tua mam-
ma è qui con te, sai. Sono sicura che non ti abban-
dona un momento. E presto tornerà anche tuo
padre.»
Capitolo ventisette

Se pensiamo cose belle, se ci interessiamo di


coloro che ci stanno vicini con simpatia e affetto,
la nostra vita diventa una cosa meravigliosa.
Finché Mary aveva nutrito antipatia e disinte-
resse per tutti e per tutto, era rimasta una bambi-
na gracile, pallida e annoiata. Tuttavia le circo-
stanze le furono favorevoli, senza che se ne ren-
desse conto, svegliando in lei il lato buono del suo
carattere.
E quando riprese a interessarsi del pettirosso e
di Ben, di Martha e della casetta nella brughiera,
del giardino segreto che rinasceva giorno per gior-
no, di Dickon e delle sue bestiole, non le restò più
tempo per fare pensieri tristi.
Finché Colin, chiuso nella sua camera, era vis-
suto solo di paura e di odio per le persone che lo
circondavano, e non aveva pensato ad altro che
alla sua inesistente gobba e alla morte, era rima-
sto soltanto un povero bambino isterico e capric-
cioso, che non conosceva il calore del sole e lo
splendore della primavera, e non sapeva che
CAPITOLO VENTISETTE 259

avrebbe potuto stare bene e camminare. Ma


quando i nuovi lieti pensieri cominciarono a cac-
ciare i vecchi pensieri tristi, il sangue rifluì nelle
sue vene, facendolo rinascere a nuova vita.
Quello che il bimbo, nella sua ingenuità, chiama-
va un esperimento magico, non aveva in realtà
nulla di magico: cose ben più meravigliose posso-
no accadere a chi ha il buon senso di non lasciar-
si mai prendere dallo sconforto, e sa sostituire i
pensieri tristi con altri lieti e coraggiosi.
Mentre il giardino segreto rifioriva, e i due ra-
gazzi rifiorivano con lui, un uomo, che da dieci
anni aveva la mente sconvolta da pensieri cupi e
angosciosi, percorreva sconsolato i magnifici fior-
di della Norvegia, e più tardi le vallate e i monti
della Svizzera. Non era un uomo coraggioso, e
non aveva mai tentato di vincere la sua dispera-
zione. Sulle rive dei laghi, sui pendii dei monti
coperti di migliaia di genzianelle in fiore, non
aveva dimenticato un solo momento la dolorosa
sventura che da dieci lunghi anni gli gonfiava il
cuore di amarezza. Mai un raggio di luce aveva
rischiarato le tenebre del suo animo, e aveva tra-
scurato la sua casa e i suoi doveri. Durante i suoi
viaggi non faceva amicizia con nessuno, e tutti,
d’altra parte, lo schivavano, perché la sua espres-
sione cupa lo faceva credere un pazzo o un col-
pevole tormentato dai rimorsi.
Dal giorno del suo incontro con la nipotina Ma-
ry aveva viaggiato molto; aveva percorso i Paesi
260 IL GIARDINO SEGRETO

più belli d’Europa, scegliendo i luoghi più quieti,


senza fermarsi in nessuno di essi più di tre o quat-
tro giorni. Ma nessuna bellezza era riuscita a far
tornare la pace nel suo animo tormentato.
Finché un giorno, vagando attraverso una delle
più belle vallate del Tirolo, indifferente all’incanto
del panorama ma stanco del lungo cammino,
s’era sdraiato sulla sponda di un ruscello canoro,
alle cui limpide acque gli uccellini venivano a spe-
gnere la sete. All’infuori di quel gorgoglio allegro,
tutto era silenzio.
E il signor Craven, con lo sguardo perso nella
mobile corrente, sentì una gran pace scendergli
nell’animo, e per un attimo ritrovò sé stesso e la
forza di guardarsi attorno. S’accorse, allora, che
un folto ciuffo di nontiscordardimé cresceva tanto
vicino all’acqua che le foglie più basse erano tutte
bagnate. Nell’osservare il delizioso colore azzurro
di quelle piccole corolle, ripensò alla gioia con
cui, in altri tempi, aveva contemplato i fiori, e non
si rese conto che quel semplice pensiero aveva
un poco rischiarato il grigiore del suo animo.
Quella quiete fuori e dentro di sé gli fece perdere
la nozione del tempo, e quando si mosse gli parve
di svegliarsi da un lungo sonno ristoratore.
Alzandosi in piedi e sentendosi più leggero, mor-
morò fra sé:
“Che cosa succede? Mi sento... mi sento vivo!”
Non dimenticò più quell’improvvisa sensazio-
ne di pace, e solo dopo qualche mese seppe che
CAPITOLO VENTISETTE 261

in quello stesso giorno Colin, entrato per la prima


volta nel giardino segreto, aveva esclamato:
«Vivrò, vivrò per sempre!»
Quella strana calma rimase in lui fino a sera
tarda, e la notte dormì sereno e tranquillo, come
da anni ormai non gli accadeva. Ma non durò a
lungo, e l’indomani era piombato di nuovo nel più
nero sconforto. Lasciò quella vallata e riprese i
suoi viaggi; tuttavia, strano a dirsi, di tanto in tanto
tornavano momenti in cui il pesante fardello che
gravava sul suo animo s’alleggeriva, e la vita tor-
nava a rifluire in lui. Piano piano, senza sapere il
perché, anche lui, come il giardino, tornava vivo.
Giunto l’autunno, si recò sul lago di Como, e là
trascorse giorni incantevoli. Passava le sue gior-
nate in barca, oppure passeggiava sulle colline
finché si sentiva stanco. Così dormiva meglio e
non era più terrorizzato da paurosi incubi.
“Forse ora sto meglio” pensava.
Ma non si rinvigoriva solo il suo corpo; i mo-
menti di pace, che si ripetevano ormai più fre-
quenti, avevano rinforzato anche il suo spirito.
Ogni tanto pensava di tornare a casa, ma il
ricordo delle sue fugaci visite al figlio addormen-
tato e l’angoscia che gli procurava la vista di quel
visino pallido e di quegli occhioni chiusi, velati
dalle ciglia nerissime, lo facevano rabbrividire, in-
ducendolo a rimandare il suo ritorno.
Una sera, dopo una passeggiata più lunga del
solito, tornò che era ormai notte; la luna splendeva
262 IL GIARDINO SEGRETO

alta nel cielo, illuminandogli il cammino e segnan-


do i contorni delle cose con la sua fredda luce.
Non volle rinunciare a godere ancora la quiete
di quella splendida notte, e invece di rientrare
nella villa dove abitava andò su un terrazzo del
giardino, che sporgeva sul lago, e là, seduto sul
sedile di pietra, si lasciò vincere dalla dolcezza di
quel silenzio, finché si addormentò.
Durante il sonno, fece un sogno così vivo e
reale che gli rimase scolpito nella memoria.
Respirava il profumo delle ultime rose e ascol-
tava il lieve mormorio delle onde che venivano a
battere contro il terrazzo, quando gli parve di
udire una voce dolce e chiara ma lontana, che lo
chiamava.
«Archie! Archie! Archie!»
E nel sogno balzò in piedi più lieto che sorpre-
so, tanto viva e naturale gli era parsa la voce.
«Lilias! Lilias!» gridò. «Dove sei, Lilias?»
«Nel giardino» rispose la voce, «nel giardino!»
A quel punto il sogno finì, ma il signor Craven
non si svegliò; continuò a dormire calmo e tran-
quillo per tutta la notte. Si destò a giorno fatto, e si
ritrovò accanto il domestico italiano che, eviden-
temente, aveva aspettato paziente il suo risveglio,
abituato ad accettare senza scomporsi le stranez-
ze di quel padrone forestiero, che già altre volte
aveva passato la notte in giardino o in barca.
Appena il padrone aprì gli occhi, il domestico
gli porse un vassoio con alcune lettere. Il signor
CAPITOLO VENTISETTE 263

Craven ritirò la posta, ma non l’aprì subito; la stra-


na pace della notte era rimasta in lui, e a quella
s’aggiungeva ora il presentimento di cose miglio-
ri. Ripensò al sogno, e ripeté fra sé:
“Nel giardino! Ma la porta è chiusa e la chiave
l’ho sotterrata io!”
Diede un’occhiata alle lettere che aveva in
mano, e notò che la prima veniva dall’Inghilterra,
e precisamente dal suo paese. Dalle poche righe
dell’indirizzo capì che si trattava di una scrittura di
donna, a lui però sconosciuta. L’aprì distrattamen-
te, ma l’interesse crebbe fin dalle prime parole. La
lettera diceva:

Egregio Signore,
sono Susan Sowerby; alcuni mesi fa mi sono
permessa di fermarvi per parlarvi della signorina
Mary. E ora oso scrivervi. Signore, se fossi in voi
tornerei a casa. Credo che ne rimarrete contento
e, vogliate perdonare l’ardire, credo che anche la
povera signora ve lo chiederebbe, se fosse qui.
Sono la vostra serva devota

Susan Sowerby

Il signor Craven lesse e rilesse molte volte quel-


la breve lettera prima di rimetterla nella busta, e
di nuovo il suo pensiero ritornò al sogno.
«Sì» disse poi. «Tornerò a Misselthwaite; anzi,
partirò subito.»
264 IL GIARDINO SEGRETO

E rientrò nella villa per ordinare al suo mag-


giordomo di preparare i bagagli.
Durante il viaggio in treno ripensò più volte, suo
malgrado, a Colin, ed egli stesso se ne meravigliò:
da quando il bimbo era nato, infatti, non aveva
cercato altro che di dimenticarlo. Ora, invece, il
suo triste passato gli tornava alla mente, e soprat-
tutto la sua disperazione quando la moglie era
morta, lasciando in vita una povera creatura
debole e indifesa. Dapprima non aveva voluto
nemmeno vedere suo figlio, ma poi aveva ceduto
alle insistenze di coloro che lo supplicavano di
conoscere il bambino prima che morisse.
Tuttavia, tra la meraviglia generale, Colin era rima-
sto in vita, tanto gracile, però, che cominciarono a
temere che sarebbe cresciuto deforme.
Non era stato di proposito un cattivo padre, ma
non era stato nemmeno un vero padre. Non aveva
fatto mancare niente al figlio, né le cure dei medi-
ci, né l’assistenza di un’infermiera, né libri, né gio-
cattoli, ma aveva cercato di pensare il meno possi-
bile a lui, rinchiudendosi sempre più in sé stesso.
Dopo il primo anno di assenza, tornando a
Misselthwaite, il bimbo aveva alzato verso di lui il
suo visino triste e indifferente, guardandolo con
quegli occhioni grigi tanto simili e al tempo stesso
tanto diversi dagli occhi ridenti che aveva adora-
to; non aveva resistito a quella vista e s’era sbian-
cato in viso per l’emozione. Da allora non aveva
mai voluto vedere Colin se non addormentato, e
CAPITOLO VENTISETTE 265

tutto quello che sapeva di lui era che cresceva


gracile, capriccioso e isterico, e che l’unico modo
per calmarlo durante le sue crisi di nervi era di
assecondarlo in tutto.
Ricordi assai poco piacevoli; ma, mentre il
treno proseguiva la sua corsa, il signor Craven si
accorse di pensarci ora in modo diverso.
“Forse ho sbagliato in tutti questi anni” disse fra
sé. “E dieci anni sono lunghi! Può anche darsi che
sia troppo tardi, ormai. Che cosa ho fatto!”
Lo torturava il pensiero che Susan Sowerby gli
avesse scritto solo perché, da buona mamma, si
era resa conto che il bimbo era irrimediabilmente
ammalato. E se non fosse stato per quella strana e
improvvisa calma che era scesa nel suo animo, la
sua disperazione avrebbe superato ogni limite. Ma
con la calma gli erano tornati anche il coraggio e la
speranza, e un raggio di luce aveva rischiarato,
seppure debolmente, le tenebre del suo animo.
“Forse quella donna pensa che io ora posso far-
gli del bene” pensò. “Passerò da lei prima di arri-
vare a casa.”
Ma quando, nell’attraversare la brughiera,
fermò la carrozza davanti alla casetta di Susan
Sowerby, sette o otto ragazzetti gli si fecero incon-
tro, accennando alcuni impacciati inchini, e gli
dissero in coro che la mamma era andata quella
mattina ad aiutare una donna che aveva avuto un
bambino.
«Ma c’è Dickon a Misselthwaite» aggiunsero.
266 IL GIARDINO SEGRETO

«Ci va spesso a lavorare in giardino.»


Il signor Craven guardò quei bimbi robusti e
quei visini rossi e paffuti, e pensò che erano il
ritratto della salute. Sorrise loro, e, tolta di tasca
una bella moneta d’oro, la diede a Lizabeth, che
pareva la maggiore, raccomandandole di fare le
parti uguali. E le grida gioiose dei bimbi salutaro-
no la sua partenza.
La corsa attraverso l’ultimo tratto di brughiera
gli sembrò incantevole, quel giorno, e per la
prima volta dopo tanto tempo si sentì inconscia-
mente felice di tornare a casa. Sempre, anche l’ul-
tima volta, ne era ripartito rabbrividendo al pen-
siero di quelle stanze chiuse e di quel bimbo
sdraiato in quel grande letto, troppo austero per
lui. Era mai possibile che ora lo trovasse cambia-
to in meglio, e che potesse avvicinarlo senza sof-
frire? Intanto la voce chiara e dolce del sogno
pareva ripetergli: «Nel giardino! Nel giardino!»
“Vedrò di ritrovare la chiave” pensò. “E aprirò
la porta; non so perché, ma lo farò.”
Al suo arrivo i domestici, nel riceverlo con la
solita cerimoniosa deferenza, notarono in lui un
miglioramento.
Il signor Craven non si rinchiuse subito nelle
sue stanze, ma si recò in biblioteca e mandò a
chiamare la signora Medlock.
La governante arrivò, preoccupata e curiosa al
tempo stesso.
«Come sta il signorino?» le chiese il padrone.
CAPITOLO VENTISETTE 267

«Il signorino...» rispose esitando la donna, «il


signorino direi che è molto cambiato.»
«Sta peggio?»
«Ecco, vedete» cercava di spiegare la governan-
te, rossa e imbarazzata, «né il dottor Craven, né l’in-
fermiera, né io riusciamo più a capirci niente.»
«Perché?»
«Perché, a dir la verità, il signorino potrebbe star
meglio, come potrebbe anche essere peggiorato.
Ha uno stranissimo appetito, e il suo modo di
fare...»
«È ancora più strano?» l’interruppe il signor
Craven, corrugando la fronte.
«Sì, è più strano se lo confrontiamo con quello
che aveva prima. Prima non voleva mai mangiare,
poi si è messo a mangiare moltissimo, e ora rifiu-
ta di nuovo ogni cibo. Sapete poi che non voleva
mai essere portato fuori; abbiamo tentato con
ogni mezzo per persuaderlo, ma ogni volta era
una scenata. Il dottor Craven, allora, ci ha consi-
gliato di non forzarlo più. Tempo fa, però, senza
che nessuno gli dicesse niente, dopo una delle
sue solite crisi, ha chiesto improvvisamente di u-
scire con la signorina Mary e con Dickon, il figlio
di Susan Sowerby. Da allora esce ogni giorno, e
sta fuori dalla mattina alla sera. Ha tanta simpatia
per la signorina e per Dickon e le sue bestiole!»
«Ma com’è il suo aspetto?»
«Se mangiasse più regolarmente direi che è
ingrassato, ma temo che sia solo gonfio. Quando è
268 IL GIARDINO SEGRETO

solo con la signorina ride spesso, mentre prima non


rideva mai. Il dottor Craven, se permettete, verrà a
parlarvene lui stesso; è molto preoccupato.»
«E dov’è ora mio figlio?»
«In giardino, signore, come al solito; non so
dove precisamente, perché nessuno può girare in
giardino quando c’è lui. Non vuole essere visto!»
Ma il signor Craven non l’ascoltava più; e men-
tre la governante si congedava gli martellavano
nel cervello le parole: «In giardino! In giardino!»
Dovette fare uno sforzo per ritornare in sé, e
appena si fu ripreso uscì dalla stanza e s’avviò
verso il parco. Raggiunse la fontana, che zampil-
lava allegra, circondata dai più bei fiori dell’au-
tunno, attraversò il prato e svoltò nel lungo viale
fiancheggiato dal muro coperto d’edera. Proce-
deva a passi lenti, tenendo gli occhi fissi a terra, e
si ritrovò così, come attirato da una forza miste-
riosa e irresistibile, in luoghi che da anni aveva
abbandonato. Sapeva esattamente dove si trova-
va la porta, malgrado la pesante cortina d’edera,
ma non si ricordava più il punto dove aveva sot-
terrato la chiave.
Si fermò per pensarci meglio, guardandosi
intorno come in cerca di un suggerimento, ma,
tutt’a un tratto, si scosse e rimase in ascolto, cre-
dendo di sognare.
La porta era ben celata dall’edera, la chiave era
sotterrata fra i cespugli, nessuno da dieci lunghi
anni era entrato nel giardino, eppure dentro si
CAPITOLO VENTISETTE 269

udivano dei rumori. Pareva che qualcuno corres-


se fra gli alberi. Si udiva il rumore di passi veloci,
al quale s’univano risatine a stento soffocate: risa-
te di bimbi, invano represse, che di tanto in tanto
riempivano l’aria. Stava forse sognando? O la sua
ragione si confondeva, facendogli udire suoni ine-
sistenti? Era questo, forse, che aveva voluto dire la
voce lontana?
Un momento dopo, quelle risate risuonarono
più chiare e distinte, i passi si fecero sempre più
veloci e più vicini. La porta si spalancò e ne uscì
di corsa un ragazzo che, non aspettandosi di tro-
vare qualcuno fuori, gli venne a cadere fra le
braccia.
Il signor Craven le aveva allargate in tempo per
evitargli una caduta, e quando riuscì a vederlo
meglio rimase senza fiato per la sorpresa.
Era un ragazzo, alto e vivace, rosso in viso e
ancora ansimante per la corsa. Si era tirato indie-
tro i capelli dalla fronte e lo guardava con due
magnifici occhi grigi, ridenti e orlati di lunghe ci-
glia nere. E furono proprio quegli occhi che tolse-
ro il respiro al signor Craven.
«Chi... Cosa... Chi?» balbettò.
Non era quello che Colin aveva sperato e pro-
gettato. Tuttavia, balzare fuori dal giardino vincito-
re della corsa era quasi meglio. Mary, che era u-
scita pochi istanti dopo, ebbe l’impressione che
Colin cercasse di apparire ancora più alto.
«Papà» disse. «Sono Colin. Non ci credi? Non ci
270 IL GIARDINO SEGRETO

credo quasi nemmeno io. Sono Colin.»


Ma suo padre non riuscì che a ripetere affan-
nosamente:
«In giardino! In giardino!»
«Sì!» esclamò Colin. «È stato il giardino, e Mary
e Dickon e le sue bestiole e la magia. Nessuno lo
sa. Abbiamo mantenuto il segreto per te. Sto bene
e sono riuscito a battere Mary nella corsa. Diven-
terò un’atleta.»
E lo disse tutto d’un fiato, sorridente e col viso
colorito da ragazzo sano; nel vederlo così suo
padre tremava di gioia incredula.
Colin appoggiò una mano sul braccio del padre
e gli chiese:
«Non sei contento, papà? Ora vivrò, sai, vivrò
per sempre!»
Finalmente il signor Craven si scosse, appog-
giando le mani sulle spalle del figlio, ma non riu-
sciva ancora a ritrovare la voce.
«Conducimi nel giardino» disse infine. «E rac-
contami tutto.»
E così entrarono. Il giardino era un incanto di
colori, dal giallo dorato dell’autunno al porpora, al
violetto, al blu, al rosso scarlatto. Qua e là gli ulti-
mi gigli bianchi e rossi spiccavano sul verde spen-
to delle aiuole, e il signor Craven ricordò che i
primi erano stati piantati in modo che fiorissero
proprio in quella tarda stagione. Le ultime rose si
stavano sfogliando sui pochi rami ancora in fiore,
e il sole brillava nelle foglie ingiallite, facendo del
CAPITOLO VENTISETTE 271

giardino un misterioso tempio dorato.


Anche il padre di Colin rimase silenzioso, come
avevano fatto i ragazzi entrandovi per la prima
volta.
«Pensavo che fosse morto» mormorò infine,
guardandosi intorno.
«Anche Mary lo ha creduto, ma poi è rinato»
disse Colin.
Si sedettero sotto l’albero preferito, tutti tranne
Colin, che volle restare in piedi mentre racconta-
va la storia.
E fu la storia più strana che Archibald Craven
avesse mai udito in vita sua, resa ancora più sin-
golare dal modo fanciullesco con cui era narrata.
Mistero e magia e animali selvatici, il primo
incontro notturno, il giungere della primavera,
l’orgoglio ferito che aveva tirato fuori per sfidare
l’incredulità di Ben. E poi la sincera amicizia che
li legava, e la commedia da recitare per non tradi-
re il loro grande segreto. Il povero signor Craven,
stordito e felice, rise fino alle lacrime, ma più
spesso gli si velarono gli occhi di pianto per la
commozione.
«E ora» concluse Colin, «non occorre più man-
tenere il segreto. Sarà un miracolo se non sver-
ranno di paura nel vedermi, ma in carrozzino
ormai non ci vado più. Torno a piedi con te, papà,
fino a casa.»
Il lavoro allontanava raramente Ben dal suo orto,
ma quel giorno l’uomo trovò una scusa per portare
272 IL GIARDINO SEGRETO

la verdura in cucina, e fece di tutto per farsi offrire


un bicchiere di birra dalla signora Medlock. Voleva
essere presente alla drammatica scena.
Dalla finestra che stava sul cortile si vedeva
anche un tratto del prato. La governante, sapendo
che Ben veniva dal parco, sperò che avesse
incontrato il padrone, o meglio che avesse assisti-
to all’incontro del signor Craven con suo figlio.
«Li avete visti, Ben?» domandò curiosa.
Ben allontanò il bicchiere dalla bocca e si
passò il dorso della mano sulle labbra.
«Certo che li ho visti!» rispose, ammiccando
con aria furba.
«Tutti e due?»
«Tutti e due» rispose Ben. «Grazie! Un altro bic-
chiere lo berrei volentieri.»
«Erano insieme?» insistette la signora Medlock,
versandogli la birra con la mano che le tremava.
«Insieme» rispose Ben, vuotando metà del bic-
chiere.
«Dov’era il signorino? Che aspetto aveva? Che
cosa si sono detti?»
«Non ho potuto sentirli dalla cima del muro
dove mi trovavo. Ma vi dirò che sono successe
cose straordinarie, qui, che ancora voi di casa non
conoscete. Ma presto saprete tutto.»
E non erano passati due minuti che Ben indicò
con il bicchiere vuoto il tratto di prato che si vede-
va dalla finestra.
«Guardate chi sta arrivando» disse.
CAPITOLO VENTISETTE 273

Quando la signora Medlock si voltò per guarda-


re, alzò le braccia al cielo con un tal grido che tutti
i domestici accorsero in cucina per vedere che
cosa stava accadendo. Guardarono dalla finestra
e rimasero attoniti con gli occhi fuori della testa.
Il padrone stava attraversando il prato con
un’espressione in volto che molti di loro non ave-
vano mai conosciuto, e al suo fianco camminava
a testa alta, sicuro e diritto, un ragazzo dagli splen-
didi occhi ridenti: il signorino Colin!
Indice

Capitolo uno 3
Capitolo due 11
Capitolo tre 21
Capitolo quattro 27
Capitolo cinque 45
Capitolo sei 53
Capitolo sette 60
Capitolo otto 67
Capitolo nove 76
Capitolo dieci 87
Capitolo undici 99
Capitolo dodici 107
Capitolo tredici 117
Capitolo quattordici 131
Capitolo quindici 145
Capitolo sedici 157
Capitolo diciassette 165
Capitolo diciotto 172
Capitolo diciannove 179
Capitolo venti 190
Capitolo ventuno 200
Capitolo ventidue 211
Capitolo ventitré 217
Capitolo ventiquattro 229
Capitolo venticinque 242
Capitolo ventisei 249
Capitolo ventisette 258

Potrebbero piacerti anche