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Il libro

Rush è il classico bello e dannato. Vive in una villa


sulla spiaggia, guida macchine di lusso, è la star di
Rosemary beach. Tutti i ragazzi vorrebbero essere
lui e tutte le ragazze vorrebbero stare con lui.
Finché un giorno arriva Blaire, con il suo pick-up
tutto ammaccato e una pistola sotto il sedile. È
bellissima ma è la sua sorellastra, rimasta sola al
mondo e costretta a chiedere aiuto al loro padre
che l’ha abbandonata anni fa. Rush sa che deve
starle lontano anche se è stupenda, anche se ha
bisogno di lui, anche se non ha mai desiderato
nessuna così tanto…
L’autrice

Abbi Glines: le piacerebbe passare i weekend su


yatch di lusso, a sciare oppure a fare surf. E invece
li passa sotto le coperte, con un Mac, e usa la sua
fervida immaginazione nei romanzi che scrive.
Abbi Glines
INSUPERABILE
Traduzione di Manuela Carozzi
Insuperabile

A Natasha Tomic, che mi è sempre stata vicina e mi


ha fatto sorridere, che ha dato ascolto alle mie pre-
occupazioni e si è gustata più di un bicchiere di vino
rosso in mia compagnia. Da blogger affezionata, in
quest’ultimo anno sei diventata una vera amica.
Prologo

Dicono che non c’è nulla di più innocente del


cuore dei bambini. Dicono che i bambini non
possono odiare, perché non sono davvero in
grado di comprendere un sentimento come
l’odio. I bambini perdonano e dimenticano
in fretta.
Sì, dicono un sacco di stronzate del
genere, perché così dormono meglio la notte.
Perché così possono farsi qualche bel quad-
retto con frasi rassicuranti da appendere alle
pareti di casa e guardare compiaciuti.
Io conosco un’altra storia, però. I bambini
amano come nessun altro. I bambini sono
capaci di amare con un’intensità unica, e su
questo non ho dubbi. Lo so per certo, perché
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l’ho vissuto sulla mia pelle. A dieci anni


sapevo cosa fosse l’odio e cosa fosse l’amore.
Emozioni totalizzanti, entrambe. Capaci di
cambiarti la vita. E di accecarti
completamente.
Ripensandoci ora, avrei voluto che qual-
cuno se ne accorgesse, quando mia madre
lavorava per instillare il seme dell’odio in me
e mia sorella. Se ci fosse stato qualcuno a sal-
varci dalle bugie e dall’amarezza che
mettevano radici dentro di noi, perché lei
voleva così, forse le cose sarebbero andate
diversamente. Per tutti.
Io non avrei mai fatto scelte così stupide.
Che una ragazzina fosse costretta a prendersi
cura, da sola, della madre malata… non
sarebbe stata colpa mia. Che accanto alla
tomba, quella ragazzina piangesse disperata,
convinta di aver perso l’unica persona al
mondo che la amava… non sarebbe stata
colpa mia. Che un uomo si autodistruggesse,
trasformando la propria vita in un involucro
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vuoto con mille crepe… nemmeno questo


sarebbe stato per colpa mia.
Ma nessuno mi ha salvato.
Nessuno ha salvato me o mia sorella.
Noi credevamo a quelle menzogne.
Entrambi ci aggrappavamo al nostro odio.
Ma soltanto io ho distrutto la vita di una
ragazza innocente.
Dicono che si raccoglie ciò che si semina.
Stronzata, anche questa. Perché io, per i miei
peccati, a quest’ora dovrei bruciare
all’inferno… Non dovrei avere il privilegio di
svegliarmi ogni mattina con una bellissima
donna fra le braccia, una donna che mi ama
incondizionatamente. Non dovrei avere il
privilegio di tenere in braccio mio figlio e
conoscere una gioia tanto pura.
Invece è così.
Perché, alla fine, qualcuno mi ha salvato.
Non me lo meritavo: diamine, mia sorella ne
aveva bisogno molto più di me. Lei non
aveva agito spinta dall’odio, non aveva
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manipolato il destino di un’altra famiglia


fregandosene delle conseguenze. Lei è
ancora preda del rancore che le è stato
instillato da bambina, mentre io me ne sono
liberato. Ed è stato merito di una ragazza…
Anzi, no: non è una semplice ragazza. Lei
è un angelo. Il mio angelo. Un angelo bellis-
simo, forte, orgoglioso e fedele, che è
apparso nella mia vita a bordo di un pick-up,
con una pistola in mano.
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Questa non è la classica storia d’amore.


Troppo incasinata per essere una fiaba. Ma
quando sei figlio del leggendario batterista di
uno dei gruppi rock più amati al mondo,
certi casini li dai per scontati. Siamo famosi
per i disastri, noi. Se poi alla ricetta si aggi-
unge una madre viziata ed egoista, il
risultato non è particolarmente piacevole…
I punti di questa storia da cui potrei
cominciare sono tanti. La mia camera da
letto, per esempio, dove stringevo mia sorella
che piangeva per le parole crudeli di nostra
madre. O la soglia di casa, dove lei guardava
mio padre che veniva a prendermi per il
weekend, sapendo che per due giorni
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sarebbe rimasta sola come un cane.


Entrambe le cose accadevano spesso, e mi
segnavano l’anima. Detestavo vederla
piangere, eppure ci ero quasi abituato.
Eravamo figli della stessa madre, ma di
due padri diversi. Il mio era una star della
musica, uno che ogni due settimane e nei
mesi estivi mi catapultava nel suo mondo
fatto di sesso, droga e rock and roll. Non si
dimenticava mai di me. Non accampava mai
scuse. C’era sempre. Pur con tutti i suoi
difetti, Dean Finlay era sempre passato a
prendermi. Magari ubriaco, certo, però si
presentava.
Il padre di Nan non veniva mai. Quando
io non c’ero, lei era sola e, per quanto mi pia-
cesse stare con mio padre, non sopportavo il
pensiero che lei avesse bisogno di me. Per
Nan ero come un genitore surrogato. Ero io
l’unico su cui poteva contare, e quella cons-
apevolezza mi aveva fatto crescere in fretta.
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Quando chiedevo a Dean se potevamo


portarla con noi, lui scuoteva la testa con aria
dispiaciuta. “Non posso, Rush. Lo farei
volentieri, ma tua madre non me lo
permette.”
Non aggiungeva mai altro. Io sapevo solt-
anto che, se mia madre aveva detto no, allora
non c’erano possibilità. Perciò Nan restava
sola… Avrei tanto voluto odiare qualcuno per
questo, ma odiare mia madre era difficile.
Lei era la mamma, io solo un bambino.
Quindi trovai un bersaglio alternativo
contro cui riversare tutto quell’odio, il risen-
timento e l’ingiustizia della vita di Nan.
L’uomo che non andava a trovarla. L’uomo
che era sangue del suo sangue, ma non le
voleva abbastanza bene da mandarle almeno
un biglietto d’auguri il giorno del suo com-
pleanno. Perché lui aveva la sua famiglia.
Un’altra famiglia. Una volta Nan era anche
andata a vederla.
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Era stata lei a costringere la mamma a


portarla da lui. Voleva parlargli. Guardarlo in
faccia. Era convinta che, così facendo, lui le
avrebbe finalmente voluto bene. Dentro di
sé, probabilmente sospettava che nostra
madre non l’avesse mai informato di avere
una figlia. Si era raccontata da sola la stori-
ella che quel padre misterioso l’avrebbe
riconosciuta, accolta a braccia aperte, sal-
vata, coperta dell’affetto di cui andava dis-
peratamente in cerca.
Casa sua era più piccola della nostra.
Molto più piccola. Distava sette ore di mac-
china e si trovava in un paesino sperduto
dell’Alabama. Nan l’aveva definita “perfetta”.
La mamma “patetica”. Non era stata la casa a
perseguitare Nan, comunque. Non la bassa
staccionata bianca che mi aveva descritto nei
minimi dettagli, né il canestro in giardino né
le biciclette appoggiate alla serranda del
garage.
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Era stata la ragazza che aveva aperto la


porta, con quei lunghi capelli biondi, quasi
bianchi. Le era sembrata una principessa,
tranne per il fatto che portava un paio di
scarpe da tennis sporche di fango. Nan non
aveva mai avuto un paio di scarpe sportive,
figuriamoci incrostate di terra. La ragazza le
aveva sorriso e, per un istante, lei ne era
rimasta incantata. Poi aveva intravisto le
fotografie alle pareti: scatti che immorta-
lavano quella stessa ragazza insieme a
un’altra, identica. E un uomo che le teneva
entrambe per mano. Sorrideva, rideva.
Era il loro padre.
Quella che aveva davanti era una delle due
figlie a cui quell’uomo voleva bene. Era
risultato evidente, persino ai giovani occhi di
Nan, che in quelle foto suo padre era felice.
Non sentiva la mancanza della bambina di
cui si era dimenticato, quella della cui
esistenza – sua madre glielo ripeteva di con-
tinuo – era perfettamente al corrente.
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Tutte le cose a cui per anni si era rifiutata


di credere la convinsero di colpo: la mamma
le aveva sempre detto la verità. Suo padre
non l’aveva voluta perché aveva la propria
vita: due figlie bellissime, angeliche, e una
moglie identica a loro.
Quelle fotografie alle pareti tormentarono
Nan per anni. E ancora una volta io avevo
desiderato di poter odiare mia madre per
averla portata in quella casa. Almeno, finché
Nan aveva creduto alla storiella che si era
raccontata da sola era stata un po’ più felice.
Quel giorno segnò la fine della sua inno-
cenza. E la nascita del mio odio nei confronti
di suo padre e della sua seconda famiglia.
Quelle due avevano strappato alla mia
sorellina la vita che si meritava, un padre che
avrebbe dovuto amarla. E non avevano più
diritti di lei su quel padre. La donna con cui
era sposato sfruttava la propria bellezza e le
figlie per tenerlo lontano da Nan. Per questo
li odiavo tutti e quattro.
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Alla fine, tutto quell’odio mi spinse ad


agire, ma la storia ebbe davvero inizio la sera
in cui Blaire Wynn entrò in casa mia con
un’espressione nervosa sul viso di un angelo.
Il mio incubo peggiore…
Avevo detto a Nan che quella sera non
volevo gente per casa, invece lei aveva
invitato tutti lo stesso. “No” era una risposta
inammissibile per la mia sorellina. E così mi
ero stravaccato sul divano, avevo allungato le
gambe e mi ero messo a bere birra. Dovevo
restare per essere sicuro che la situazione
non degenerasse: gli amici di Nan erano più
piccoli dei miei e a volte diventavano un
filino rumorosi. Io però sopportavo, pur di
vederla contenta. Il fatto che la mamma se la
fosse svignata a Parigi con il suo nuovo
marito, il padre immancabilmente assente di
Nan, non aveva certo contribuito al suo
buonumore negli ultimi tempi. Perché, per
una volta nella vita, mia madre non poteva
pensare a qualcuno di diverso da se stessa?
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«Rush, lei è Blaire. Credo che sia roba tua.


L’ho trovata qui fuori, mi sembrava un po’
persa.» La voce di Grant fece irruzione tra i
miei pensieri. Alzai lo sguardo sul mio fratel-
lastro e poi sulla ragazza che gli stava
accanto. Io quella faccia l’avevo già vista…
Era passato molto tempo, ma l’avevo già
vista.
Merda.
Era una delle due. Non sapevo come si
chiamassero, ma mi ricordavo che erano in
due. E quella era… Blaire. Guardai di sbieco
in direzione di Nan e la vidi poco distante da
noi, con una smorfia in viso. Le cose si
sarebbero messe male. Grant non aveva
capito chi aveva accanto?!
«Tu dici?» chiesi scervellandomi per tro-
vare un modo di andarmene da lì, e in fretta.
Ancora pochi minuti e Nan sarebbe esplosa.
Osservai con attenzione la ragazza che era
stata per gran parte della vita di mia sorella
una fonte di dolore. Era stupenda. Aveva il
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viso a forma di cuore, illuminato da due


grandi occhi azzurri sotto le ciglia naturali
più lunghe che avessi mai visto. Setosi boc-
coli biondo platino sfioravano due tette vera-
mente notevoli messe in risalto da una can-
ottiera aderente. Però… Sì, doveva
andarsene. «Carina, ma giovane. Non direi
che è roba mia.»
Lei trasalì. Se non fosse che la stavo letter-
almente radiografando, non me ne sarei
accorto. Aveva un’espressione smarrita che
non mi tornava: era entrata in casa sapendo
di essere in territorio nemico, quindi perché
quello sguardo innocente?
«Invece sì, visto che il suo paparino se l’è
svignata a Parigi con mammina e ci resterà
per settimane. Comunque, se proprio non te
ne vuoi occupare tu, io sarei felice di offrirle
una stanza a casa mia. Ovviamente se pro-
mette di lasciare la sua arma letale in
macchina.»
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Grant si stava divertendo. Che coglione!


Sapeva chi era quella, lo sapeva benissimo.
Nan era sconvolta, e lui ci godeva. Avrebbe
fatto qualsiasi cosa pur di farla incazzare.
«Perfetto, quindi non è roba mia» risposi,
sperando che la ragazza afferrasse il concetto
e girasse i tacchi.
Grant si schiarì la voce. «Stai scherzando,
vero?»
Bevvi un sorso di birra, poi lo guardai
dritto negli occhi. Non ero dell’umore giusto
né per le scenate sue né per quelle di Nan.
Quel comportamento era troppo persino per
lui, e quella tizia doveva andarsene.
Lei, dal canto suo, sembrava pronta a dar-
sela a gambe. La situazione non era quella
che si aspettava. Ma come, aveva davvero
pensato che il suo caro e vecchio paparino
sarebbe stato lì ad aspettarla? Cazzata
colossale. Loro avevano vissuto insieme per
quattordici anni, e a me ne erano bastati tre
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di conoscenza per sapere che era un pezzo di


merda.
«Stasera ho la casa piena di ospiti e il mio
letto è già al completo» la informai, poi tor-
nai a guardare mio fratello. «Credo che sia
meglio mandarla a cercarsi un albergo,
finché non riesco a contattare il suo
paparino.»
Blaire allungò la mano per prendere la
valigia che Grant le stava portando. «Ha
ragione. È meglio se me ne vado. Venire qui
è stata una pessima idea» disse con voce non
del tutto ferma. Grant non mollò la presa
facilmente, tanto che lei dovette strattonare
forte per afferrare la maniglia. Aveva gli
occhi pieni di lacrime, e provai una fitta di
rimorso. C’era qualcosa che non sapevo? Si
era davvero aspettata che l’avremmo accolta
a braccia aperte?
Corse verso l’uscita. Quando passò dav-
anti a Nan, non mi sfuggì l’aria di trionfo sul
viso di mia sorella.
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«Già te ne vai?» le chiese, ma Blaire non


rispose.
«Sei uno stronzo senza cuore, lo sai?»
ringhiò Grant, accanto a me.
Non ero in vena di dargli retta. Nel frat-
tempo, Nan venne verso di noi con un sor-
riso compiaciuto. La scenetta le era piaciuta,
e io capivo anche perché: Blaire era il prome-
moria vivente di tutto ciò che lei si era persa
crescendo.
«È esattamente come me la ricordavo.
Scialba e banale» mormorò, sorniona, but-
tandosi accanto a me sul divano.
Grant sbuffò. «Non si capisce se sei più
perfida o cieca. Potrai anche odiarla, ma devi
ammettere che è uno schianto.»
«Non ti ci mettere anche tu, per piacere»
lo misi in guardia. Al momento Nan poteva
anche apparire soddisfatta, ma io sapevo
che, se ci avesse rimuginato troppo, alla fine
sarebbe crollata.
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«Se non le corri dietro tu, lo faccio io. E


mi porto a casa il suo bel culetto. Non è
quella che pensi, le ho parlato. Non sa niente
di niente. È stato quel coglione di tuo padre a
dirle di venire qui. Nessuno può fingere così
bene» spiegò Grant guardando Nan in
cagnesco.
«Papà non le avrebbe mai detto di venire
a casa di Rush. Si è presentata qui perché è
una scroccona, ha fiutato l’odore dei soldi.
Hai visto com’era vestita?» Nan fece una
smorfia di disgusto.
Grant soffocò una risata. «Certo che ho
visto com’era vestita. Altrimenti perché avrei
tanta voglia di portarmela a casa, secondo
te?! È bella da far paura, Nan. Non me ne
frega un cazzo di quello che dici. Quella
ragazza non ha colpe, non sa dove sbattere la
testa e per giunta è una strafiga.»
Grant si girò e andò verso la porta. La
stava inseguendo, e io non potevo permetter-
glielo; si lasciava abbindolare troppo
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facilmente. Ero d’accordo con lui sull’aspetto


fisico di Blaire, ma in pratica stava pensando
con l’uccello.
«Fermati, ci vado io» dissi, alzandomi.
«Che cosa?!» esclamò Nan in tono
inorridito.
Grant si fece da parte e mi lasciò passare.
Aveva ragione: dovevo scoprire se era tutta
una messinscena o se era davvero stato quel
cretino di suo padre a dirle di venire da noi.
Senza contare che, uscendo, avrei potuto
osservarla per bene in assenza di spettatori.
2

Quando aprii la porta di casa e uscii in


giardino, lei si stava incamminando verso un
vecchio pick-up malmesso. Mi fermai un
istante, chiedendomi se fosse arrivata da sola
o se magari l’avesse accompagnata qualcuno.
Grant non aveva fatto accenno alla presenza
di altre persone. Strizzai gli occhi per vedere
se, nel buio dell’abitacolo, riuscivo a indi-
viduare la sagoma di qualcuno, ma ero
ancora troppo lontano.
Blaire aprì di scatto la portiera dal lato
autista e poi si fermò per inspirare a fondo:
una scena ai limiti del teatrale. O che, per lo
meno, lo sarebbe stata se avesse saputo di
essere osservata.
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Be’, forse era così. In fondo non sapevo


niente di lei, soltanto che suo padre era un
parassita del cazzo. Si era preso quello che
Nan e mia madre avevano da dargli, però
non aveva mai contraccambiato le loro
dimostrazioni d’affetto o di amore. Era un
uomo freddo, gliel’avevo visto negli occhi.
Non gliene fregava niente. Non gliene
fregava niente di Nan né di quella stupida di
mia madre: le stava usando entrambe.
Blaire era bellissima, e su quello non c’era
dubbio. Però era anche stata cresciuta da
quell’uomo, quindi poteva essere una mani-
polatrice professionista, che usava il suo
aspetto per ottenere ciò che voleva fregan-
dosene di chi calpestava strada facendo.
Scesi i gradini di casa e mi avvicinai al
pick-up. Lei se ne stava ancora seduta lì, e io
volevo che sparisse prima che Grant uscisse e
cadesse in pieno nella trappola. Se la sarebbe
portata a casa, e lei l’avrebbe usato fino a
stancarsene. Non stavo proteggendo soltanto
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mia sorella, ma anche mio fratello: Grant era


un bersaglio facile.
Si voltò, e i nostri sguardi si incontrarono
prima che potesse lanciare un urlo di
spavento. Aveva gli occhi bordati di rosso,
come se avesse pianto veramente. Nessuno
poteva vederla, quindi c’era una minima pos-
sibilità che la sua reazione non fosse parte di
un’elaborata trappola.
Aspettai che facesse qualcosa oltre che
guardarmi come se fossi io l’estraneo,
quando invece era lei a trovarsi sulla mia
proprietà. Neanche mi avesse letto nella
mente, tornò a puntare lo sguardo sul
volante e girò la chiave nel cruscotto.
Niente.
I suoi tentativi di far partire quel car-
rozzone cominciarono a farsi frenetici, ma,
dal rumore che avevo sentito, già sapevo che
nel serbatoio non era rimasta una sola goccia
di carburante. Forse era disperata. Ma
ancora non mi fidavo.
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Vederla che tirava pugni al volante per la


frustrazione era uno spettacolo divertente: a
cosa serviva, se da vera idiota non si era fer-
mata a fare rifornimento?
Alla fine aprì la portiera e mi guardò. Se
non era innocente come sembrava, allora
aveva davanti a sé una carriera da attrice.
«Problemi?» le chiesi.
Dalla faccia che aveva sapevo che non vol-
eva ammettere di essere restata a piedi.
Ricordai di nuovo a me stesso che quella era
la figlia di Abe Wynn, quella che lui aveva
cresciuto, quella per cui aveva abbandonato
Nan tutti quegli anni. Non avrei provato
compassione.
«Sono rimasta a secco» disse infine, con
un filo di voce.
Che casino! Se le avessi permesso di rien-
trare in casa, avrei dovuto vedermela con
Nan. Se non l’avessi fatto, a lei ci avrebbe
pensato Grant, che quasi sicuramente
avrebbe abboccato all’amo.
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«Quanti anni hai?» le chiesi. Avrei già


dovuto saperlo, ma in realtà mi pareva più
giovane. Quegli occhioni e l’espressione
spaventata la facevano sembrare una
ragazzina… L’unico segno che fosse mag-
giorenne era il modo in cui riempiva quella
canottiera e quei jeans.
«Diciannove» rispose.
«Davvero?» le domandai, non sapendo se
crederle.
«Sì, davvero.» Quella faccia scocciata era
proprio carina. No, cazzo. Non volevo
pensare che fosse carina. Sarebbe stata una
pessima complicazione di cui non avevo per
niente bisogno.
«Scusa, è solo che sembri più piccola»
commentai con un sorrisetto. Feci scorrere lo
sguardo lungo il suo corpo. Non mi
interessava farle capire che di me si poteva
fidare: no, non poteva. E mai avrebbe potuto.
«Anzi, no. Mi rimangio quello che ho detto…
Ogni centimetro del tuo corpo conferma che
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hai diciannove anni. Mi ha ingannato quel


faccino così giovane e fresco. Non ti
trucchi?»
Non si offese, ma corrugò la fronte. Non
era l’effetto che avrei desiderato. «Ho finito
la benzina. In tasca ho venti dollari. Mio
padre se l’è svignata e mi ha mollata qui
dopo aver promesso che mi avrebbe aiutata a
rimettermi in piedi. E fidati che lui era
l’ultima, ma proprio l’ultima persona a cui
avrei voluto rivolgermi. No, non mi trucco.
Ho problemi più gravi che sforzarmi di sem-
brare carina. E adesso, tanto per sapere,
chiami la polizia o il carro attrezzi? Se posso
scegliere, preferisco la polizia.»
Mi aveva appena suggerito di chiamare la
polizia? E quello che avevo sentito nella sua
voce era disprezzo per il paparino? A me era
sembrato proprio di sì. Forse quell’uomo non
era stato il padre modello che Nan si era
immaginata dopo quella breve visita in casa
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loro, da bambina. E Abe era sull’elenco per-


sonale degli stronzi di quella ragazza.
«Non mi piace tuo padre, ma dal modo in
cui ne parli ho capito che non piace nem-
meno a te» dissi lasciando uno spiraglio
all’idea che Blaire fosse l’ennesima vittima
sulla traiettoria di Abe Wynn. Aveva abban-
donato Nan, ed ero arciconvinto che si fosse
comportato allo stesso modo anche con
quest’altra figlia. Stavo per fare qualcosa di
cui mi sarei pentito…
«Stasera c’è una stanza vuota. Lo resterà
finché mia madre non torna. Quando lei va
in vacanza, non voglio avere intorno la sua
domestica, Henrietta. La faccio venire solt-
anto una volta la settimana. Puoi usare cam-
era sua, nel sottoscala. È piccola, ma un letto
c’è.»
Per poco non pensai che, per quello
sguardo sollevato e incredulo, valesse la pena
affrontare Nan. Anche se ero piuttosto sicuro
che lei e Blaire avessero in comune qualche
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problema da abbandono paterno, sapevo che


Nan non l’avrebbe mai accettata. Era decisa
a odiare qualcuno, e Blaire poteva essere il
bersaglio ideale.
«L’unica mia altra opzione è il pick-up. E
posso assicurarti che quello che mi stai
offrendo è molto meglio, grazie» mi rispose,
tesa.
‘Fanculo. Avevo davvero pensato di lasciar
dormire quella ragazza in macchina?
Avrebbe potuto essere pericoloso. «Dove hai
messo la valigia?» le domandai con la voglia
di liquidare quella storia al più presto e par-
lare con Nan.
Blaire chiuse il pick-up e andò sul retro a
recuperarla. Per quel corpo esile, sollevarla e
tirarla giù dal cassone sarebbe stata una fat-
ica improba. Mi avvicinai da dietro e la presi
io.
Lei si girò, e la sua espressione allibita mi
fece sorridere.
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«Posso portartela io. Non sono così


stronzo!»
«Gra-grazie» balbettò mentre i suoi
occhioni innocenti si incollavano ai miei.
Cavolo, che ciglia lunghe! Non mi capitava
spesso di vedere ragazze senza trucco. La
bellezza acqua e sapone di Blaire era stupefa-
cente… Avrei dovuto ricordare più volte a me
stesso che quella ragazza non rappresentava
nient’altro che guai. Quello, e anche che
dovevo tenere le distanze. Forse avrei dovuto
lasciarle portare la valigia, così mi avrebbe
giudicato uno stronzo e si sarebbe tenuta alla
larga.
«Ah, meno male che l’hai fermata. Ti
stavo dando cinque minuti, poi sarei venuto
qui a vedere se l’avevi fatta scappare a gambe
levate» disse Grant, svegliandomi
dall’inspiegabile trance in cui ero caduto.
«Dorme nella stanza di Henrietta finché
non riesco a mettermi in contatto con suo
padre e a inventarmi qualcosa» gli risposi
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mettendogli la valigia in mano. «To’, portala


in camera sua. C’è qualcuno che mi aspetta.»
Non mi voltai a guardarla, né incontrai lo
sguardo di Grant. Dovevo prendere le dis-
tanze, così come dovevo parlare con Nan.
Non sarebbe stata felice, ma io non avrei mai
permesso che quella ragazza dormisse in
macchina. Avrebbe dato nell’occhio: era bel-
lissima e completamente incapace di pren-
dersi cura di se stessa. Maledizione! Perché
avevo riportato Abe Wynn nella nostra vita?
Era lui l’origine di tutto quel casino!
Nan era ferma sulla porta, con le braccia
incrociate al petto, e mi guardava. Era
incazzata, perfetto. Se fosse rimasta così,
almeno non si sarebbe messa a piangere, una
reazione che non tolleravo bene. Sin da
quando era piccola, ero stato io l’unico a con-
solarla. Appena lei versava una lacrima, io
cercavo subito di aggiustare le cose.
«Perché quella è ancora qui?» sbottò,
guardando dietro di me prima che facessi in
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tempo a chiudere la porta e nasconderle il


fatto che Grant mi stesse seguendo in com-
pagnia di Blaire.
«Dobbiamo parlare.» La presi per il brac-
cio e la trascinai via dall’ingresso, verso le
scale di casa. «Di sopra. Se hai intenzione di
strillare, sappi che io non voglio dare
spettacolo» dissi stando bene attento a utiliz-
zare il mio tono di voce più serio.
Nan corrugò la fronte e salì i gradini pest-
ando i piedi, come se avesse avuto cinque
anni.
La seguii, nella speranza che ci saremmo
allontanati dalla porta prima che si aprisse.
Non tirai il fiato finché non fu entrata nella
camera da letto che usava quando quella era
la nostra casa estiva. Prima che io diventassi
adulto e prendessi ciò che mi spettava.
«Stai credendo alle sue stronzate, vero?
Grant ti ha convinto. Lo sapevo! Sapevo che
avrei dovuto seguirlo là fuori. Che gran testa
di cazzo. Lo fa solo per darmi sui nervi!»
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sbraitò prima ancora che riuscissi ad aprire


bocca.
«Starà in quel cazzo di stanzino nel sotto-
scala, non la faccio mica venire qui sopra! E
poi si ferma soltanto finché non riesco a bec-
care Abe e a decidere cosa fare. Ha finito la
benzina e non ha soldi per pagarsi un
albergo. Te la vuoi prendere con qualcuno?
Bene, allora prenditela con quello stronzo di
Abe!»
Non era mia intenzione alzare la voce, ma
più pensavo a quel tizio, scappato a Parigi
pur sapendo che sua figlia stava venendo qui
con un pick-up scassato e zero soldi in tasca,
più perdevo il controllo.
Sarebbe potuto succederle di tutto. Era
troppo fragile, troppo bisognosa.
«Tu la trovi bella. Ho visto come la guardi,
non sono mica scema. Perciò fine della
storia» disse Nan, mettendo il broncio.
«Vederla mi ferisce, Rush. E lo sai. Lei l’ha
avuto per sedici anni, ora tocca a me!»
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Scossi la testa, incredulo. Pensava davvero


di avere Abe, adesso? Era seria? Quello era
andato a Parigi a fare la bella vita con i soldi
di mia madre e lei pensava di aver vinto?
«Nan, quel tizio è un fallito. Okay, Blaire ha
avuto il suo culo in casa per sedici anni, ma
non credo abbia significato qualcosa. Le ha
detto di venire qui illudendola che l’avrebbe
aiutata, e non ha pensato un secondo al fatto
che sia una povera ragazzina con gli occhi
grandi e tristi di cui chiunque potrebbe
approfittarsi…» Smisi di parlare, perché
stavo già dicendo troppo.
gli occhi sguardo. «Cristo santo. Non te la
scopare! Hai capito? Non te la scopare.
Quella se ne va via appena puoi buttarla
fuori. Non la voglio qui.»
Parlare con mia sorella era come parlare
con un muro. Così testarda… Basta, non ci
stavo più: poteva darmi tutti gli ordini del
mondo, ma quella casa era di mia proprietà.
Così come l’appartamento in cui viveva lei e
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tutto il resto della sua vita. Ero io il capo,


non lei.
«Torna alla tua festa e ai tuoi amici. Io me
ne vado a letto. Lasciami gestire la situazione
come va gestita, okay?» Mi voltai e puntai
verso la porta.
«Però te la scoperai, vero?» mi chiese Nan
da dietro le spalle.
Doveva piantarla di usare quella parola in
riferimento a Blaire, perché, maledizione,
l’unico risultato era farmi pensare a quella
cascata di capelli biondo platino sul mio cus-
cino e ai suoi grandi occhi che mi guar-
davano mentre godeva. Non le risposi.
Non mi sarei scopato Blaire Wynn, mi
sarei tenuto il più possibile alla larga. Ma lei
non mi avrebbe dato ordini: ero libero di
decidere.
3

Al piano di sotto, la musica suonava a tutto


volume, ma sapevo che in camera mia non
l’avrei sentita. Non ero dell’umore giusto
prima che saltasse fuori Blaire Wynn, e
adesso lo ero ancora meno.
«Eccoti qui» cinguettò una voce fem-
minile, e quando mi girai vidi una delle
amiche con cui Nan andava a ballare che
veniva verso di me.
Aveva la gonna così corta che quasi le
usciva il sedere da sotto… L’unico motivo per
cui l’avevo notata: difficile restare indiffer-
enti a un culo in bella mostra.
Però non mi ricordavo come si chiamava.
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«Ti sei persa?» le chiesi, infastidito che


fosse salita. La mia regola era tenere le feste
lontane dal mio spazio personale.
Lei buttò il petto in fuori e si mordicchiò il
labbro inferiore, poi mi guardò battendo le
ciglia. Molto lunghe, molto finte, niente a che
vedere con quelle di Blaire.
‘Fanculo, perché stavo pensando a Blaire?
«Sono esattamente dove volevo essere.
Con te» mi rispose con un sussurro sensuale,
poi mi spinse le tette contro al petto e
abbassò una mano per chiudermela a coppa
sull’uccello. «Ho sentito dire quanto sei
bravo con le ragazze… Ho saputo che le fai
urlare, non una ma più volte…» aggiunse
stringendo piano la presa. «Fammi venire,
Rush.»
Le afferrai una ciocca di capelli. Non
erano dello stesso biondo di quello di…
No. Basta, lo stavo facendo ancora! Con-
frontavo quella ragazza con Blaire. Era un
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problema che dovevo iniziare a tenere sotto


controllo. «Supplicami» dissi.
«Ti supplico, Rush» obbedì subito lei,
sfregandomi e portando in vita un punto del
mio corpo che fino a un secondo prima era
del tutto disinteressato. «Ti supplico, voglio
che mi scopi.»
Era brava. Sembrava quasi una pornostar.
«Solo sesso, cara. Nient’altro. E solo per
stanotte» le dissi. Mi accertavo sempre che
conoscessero le regole del gioco: non ci
sarebbe stata una replica, a meno che non si
fossero rivelate davvero eccezionali.
«Mmh, mi ricorderò quello che hai
appena detto» rispose facendomi
l’occhiolino, come se non mi credesse affatto.
O a letto era una maga, oppure era una
povera illusa. Mi capitava molto raramente
di concedere il bis. «Dov’è camera tua?» mi
chiese prima di baciarmi il petto.
«Non ti porto in camera mia» le dissi dan-
dole una spintarella sulla schiena per farla
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entrare nella camera degli ospiti che usavo


per il sesso. Non c’era bisogno che le ragazze
entrassero nella mia stanza: quelli erano i
miei spazi personali, non mi andava di asso-
ciarli a ricordi con sconosciute.
«Uh, signorino impaziente!» ridacchiò
sfilandosi la gonna e passandosi la lingua
sulle labbra. «Vedrai come sono brava a suc-
chiare, una professionista!»
Mi tolsi la maglietta e andai a sedermi sul
letto. «Dimostramelo» le risposi.

Un profumo femminile mi aggredì le narici.


Aprii e richiusi le palpebre alla luce del sole,
maledicendo chiunque la sera prima non si
fosse ricordato di tirare le tende. Mi girai sul
fianco, e il corpo nudo accanto al mio emise
un suono. Si era fermata tutta la notte,
merda! Odiavo quelle che non se ne
andavano, erano le più appiccicose. Quelle
che pensavano che fosse stata più di una
semplice scopata. Credeva davvero che
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essersi messa in ginocchio e avermelo suc-


chiato allo sfinimento senza nemmeno dirmi
come si chiamava le avesse fatto guadagnare
punti?
Mi alzai, trovai i jeans e me li misi. La
ragazza sbadigliò, e io decisi che avrei rinun-
ciato a rivestirmi completamente pur di svig-
narmela finché ero in tempo. Non
vedendomi, avrebbe afferrato il messaggio.
Aprii la porta lentamente, uscii in corridoio e
imboccai le scale. Se fossi andato in camera
mia, sarebbe salita a bussare; era meglio
scendere in spiaggia a farsi una bella corsetta
mattutina. Prima, però, mi serviva un caffè.
Me ne feci al volo una tazza e poi puntai
verso la portafinestra che dava all’esterno. La
vidi subito. I suoi capelli biondi, lunghi e
setosi, fluttuavano al vento mentre osservava
l’oceano in piedi sulla mia veranda. Che bello
spettacolo! Adoravo quella vista, metteva
serenità. Chissà a cosa stava pensando… Era
preoccupata che Abe non fosse tornato?
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Avrebbe davvero cercato il modo di


andarsene, oppure era una parassita come il
padre?
Dopo una notte di sesso con un’amica di
mia sorella senza nome, mi chiesi come
sarebbe stato avvicinarsi a Blaire. Lei non si
sarebbe buttata su di me, né tanto meno
inginocchiata per succhiarmelo soltanto per-
ché glielo chiedevo. Come mai mi sentivo
attratto da quella innocenza? Era una fac-
cenda complicata… E io le complicazioni le
schivavo. Allo stesso tempo, non riuscivo a
ignorarla. Non quel mattino. Avevo voglia di
rivedere il suo viso e scoprire se quello
sguardo sincero ci fosse ancora. Era arrabbi-
ata perché dormiva nel sottoscala? Adesso
mi avrebbe aggredito?
«Un paesaggio che non stanca mai» dissi,
facendola girare di soprassalto.
L’avevo spaventata. Cominciai a ridere
quando mi accorsi del suo sguardo che mi
scendeva lungo il petto e si fermava sui miei
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addominali. Ma cosa…? Mi stava squad-


rando! Forse allora non era così innocente.
La sola idea mi inacidì lo stomaco.
«Ti stai godendo lo spettacolo?» chiesi,
mascherando la delusione con l’ironia. Lei
batté in fretta le ciglia come per riprendersi
da un sogno e sollevò lo sguardo su di me.
Non mi piaceva per niente l’idea che volesse
saltarmi addosso, non volevo che fosse come
tutte le altre. Il perché non lo sapevo, era così
e basta.
«Continua pure, non volevo inter-
romperti. Me lo stavo godendo anch’io…»
aggiunsi, incapace di dissimulare il fastidio
nella mia voce. Bevvi un sorso di caffè. Lei
diventò rossa come un peperone e mi diede
le spalle, tornando a osservare la distesa
d’acqua. Perché il semplice fatto che si stesse
vergognando di essere stata beccata mi
rendeva così felice? Cazzo. Non riuscii a fare
a meno di ridere per il sollievo.
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«Eccoti qui… Stamattina mi sei mancato,


a letto.» Riconobbi la voce della sera prima.
Merda! Avevo perso tempo e quella mi aveva
subito trovato. Blaire si girò per guardarmi,
poi i suoi occhi si posarono sulla ragazza che
nel frattempo si era incollata a me. Meglio:
avrebbe visto che pezzo di stronzo ero capace
di essere. Era quello che volevo. Vedendo
quella scena, si sarebbe tenuta alla larga.
Nonostante i buoni propositi, il lampo
d’interesse negli occhi di Blaire quando
l’altra mi fece scorrere le unghie sul petto mi
diede delle sensazioni che avrei preferito non
riconoscere.
«È ora di andare» dissi all’amica di Nan
togliendomi la sua mano di dosso e indic-
ando la porta di casa.
«Cosa?! Ehi!» esclamò lei, stupita come se
la notte prima non le avessi spiegato tutto
chiaramente.
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«Hai avuto quello per cui sei venuta,


tesoro, ovvero il sottoscritto infilato tra le tue
gambe. Fatto, finito» le ricordai.
«Ma tu stai scherzando!» ribatté, minac-
ciosa. Forse non mi aveva creduto… Peggio
per lei. Scossi la testa, deluso dalla mia
stessa stupidità, e bevvi un altro sorso di
caffè. Chissà quando avrei imparato che
quelle conquiste con pernottamento incluso
significavano sempre guai.
«Non puoi fare così. La scorsa notte è
stato stupendo, e lo sai anche tu!» piagnu-
colò, tentando di prendermi il braccio. Mi
liberai: non ero più il suo Rush, quello da
supplicare. Il giochino era finito. Certo, era
stato divertente, e lei aveva senz’altro perso il
conto delle volte che era venuta. Io, invece,
avevo trovato tutto piuttosto mediocre.
«Quando sei venuta da me supplicandomi
e togliendoti i vestiti, ieri sera, io ti ho
avvisato subito che sarebbe stata solo una
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notte di sesso. Niente di più» dissi, scocciato


di doverglielo anche solo ricordare.
Non la guardai nemmeno: sorseggiavo il
mio caffè tenendo gli occhi fissi sull’oceano,
come se se ne fosse già andata. Infine se ne
andò davvero, pestando i piedi per fare la
scena.
Lo sguardo inorridito sul viso di Blaire mi
fece riprendere velocemente dallo sbaglio
commesso quella notte.
«Allora, hai dormito bene?» Si stava
sicuramente stretti in quello stanzino. Senza
contare che, con le scale sopra e il rumore
della festa, prendere sonno doveva essere
stato un incubo. Con quella domanda le
stavo offrendo l’occasione di lamentarsi. Di
uscire allo scoperto.
«Lo fai spesso?» mi chiese lei con
un’espressione infastidita sul viso. Era ador-
abile… maledizione.
«Cosa? Chiedere alla gente se ha dormito
bene?» Non avrei permesso a quel faccino di
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colpirmi. Appena fossi riuscito a parlare con


Abe, lei se ne sarebbe andata. Era un prob-
lema suo, non mio. E il fatto che mi piacesse
guardare sua figlia era un motivo più che suf-
ficiente per mandarla via alla velocità della
luce.
«Fare sesso con una donna e poi buttarla
via come se fosse spazzatura» fu la sua ris-
posta. Sgranò gli occhi, come scioccata dalle
parole appena uscite dalla sua stessa bocca.
Mi veniva da ridere. Con lei era difficile
mantenere la concentrazione. Posai la tazza
di caffè e andai a mettermi sulla sdraio che
avevo accanto. Il piano migliore sarebbe
stato quello di farmi odiare: se ci fossi rius-
cito, mantenere le distanze sarebbe stato
semplice. «Ma tu ficchi sempre il naso nelle
cose che non ti riguardano?»
Nei suoi occhi, invece della rabbia che mi
sarei aspettato, vidi balenare il rimorso.
Stava succedendo davvero? Ero proprio uno
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stronzo. Non doveva dispiacersi per avermi


rimproverato certi miei comportamenti.
«No, di solito no. Scusami» rispose con un
mezzo sorriso di scuse prima di tornare di
corsa in casa.
Cosa…? Si era appena scusata con il sotto-
scritto? Ma da che pianeta veniva quella
ragazza? Le donne non si comportavano così.
Nessuno le aveva insegnato a non abbassare
la testa di fronte ai bulli?
Mi alzai e mi voltai per guardarla: stava
raccogliendo bottiglie vuote e avanzi di ogni
genere della sera prima. Il disordine mi dava
fastidio, ma quando Nan voleva fare festa
cercavo di chiudere un occhio.
«Lascia stare, domani viene Henrietta» le
dissi. Non mi andava di vederla pulire.
Lei buttò le bottiglie raccolte nella
spazzatura e alzò gli occhi su di me. «Volevo
solo dare una mano.»
Avrei telefonato a suo padre quel mattino
stesso: dovevo levarmela di torno. In attesa
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di quel momento, l’imperativo era quello di


farsi odiare. «Guarda che la donna delle
pulizie ce l’ho già. E non ho intenzione di
assumerne un’altra, se è quello a cui stai
pensando.»
Il suono sgarbato della mia stessa voce mi
fece quasi venire i brividi, ma mi sforzai di
mantenere sul viso un’espressione di annoi-
ato distacco perfezionata molto tempo
prima. In quel momento non riuscivo a
guardarla.
«No, quello lo so. Stavo soltanto cercando
di rendermi utile. Ieri sera mi hai permesso
di dormire in casa tua.» Aveva parlato in
tono dolce e supplichevole, come se avesse
un gran bisogno che le credessi. Merda.
Dovevamo stabilire delle regole di base
prima che rovinassi tutto.
«Appunto. Dobbiamo parlarne.»
«Certo» sussurrò. Cavolo, ma perché di
nuovo quell’aria sconfitta? Non avevo mica
preso a calci il suo cucciolo!
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«A me tuo padre non piace. È un paras-


sita. Mia madre ha il vizio di trovarsi sempre
tipi come lui, è un’esperta. Però credo che tu
te ne sia già accorta, no? Ed è questo che mi
incuriosisce: perché sei venuta a chiedere
aiuto a lui, se sai com’è fatto?» Doveva rac-
contarmi qualcosa di vero. Oppure dovevo
coglierla io in flagrante. Non avrei potuto
tenermela in casa troppo a lungo… Quelle
gambe lunghissime e quegli occhioni azzurri
mi stavano facendo impazzire.
«Mia madre è morta da poco. Aveva un
tumore. Tre anni di cure. L’unica nostra pro-
prietà era la casa che ci aveva lasciato mia
nonna, ma ho dovuto venderla, mobili com-
presi, per saldare le spese mediche. Non
vedo mio padre da quando ci ha piantate,
cinque anni fa, ma è l’unico parente che mi è
rimasto. Non ho nessun altro a cui chiedere
aiuto. Mi serve un posto dove stare finché
non trovo un lavoro e metto da parte qualche
soldo, poi cercherò un buco tutto mio, non
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voglio fermarmi a lungo. Lo sapevo che mio


padre non mi voleva.» Si interruppe e fece
una risata, del tutto insincera. Grondava
dolore, un dolore che mi torse le budella.
«Ma non mi sarei mai aspettata che se ne
sarebbe andato prima ancora di vedermi
arrivare.»
Porca puttana.
Avrei ucciso Abe Wynn…
Quel bastardo aveva abbandonato sua
figlia mentre lei si prendeva cura di sua
madre malata?
Quale mostro infame sarebbe stato capace
di una cosa del genere? Non potevo buttare
fuori Blaire, però potevo rendere la vita di
Abe un inferno.
Lo stronzo l’avrebbe pagata cara.
«Mi dispiace per tua madre» riuscii a dire,
con il sangue che mi ribolliva nelle vene.
«Deve essere stata dura. Hai detto che è stata
malata per tre anni, quindi da quando tu ne
avevi sedici?»
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Una bambina. Lui l’aveva abbandonata, e


lei era soltanto una ragazzina.
Blaire annuì in silenzio e mi scrutò con
circospezione.
«E così hai in programma di trovarti un
lavoro e un posto dove stare» dissi per
ricordare a me stesso che quello era il suo
piano. Okay, avrei potuto aiutarla finché non
ci fosse riuscita. Qualcuno doveva pur farlo,
cazzo! Era completamente sola. «La stanza
nel sottoscala è tua per un mese. Dovrebbe
bastarti per trovare un lavoretto e procurarti
i soldi per affittare qualcosa. Non siamo
molto lontani da Destin, e lì vivere costa
meno. Se i nostri genitori tornano prima, mi
aspetto che tuo padre sia in grado di darti
una mano.»
Sospirò di sollievo e rilassò le spalle.
«Grazie.»
Non riuscivo a guardarla. Mi veniva voglia
di uccidere Abe a mani nude…
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In quel momento ero incapace di con-


centrarmi su Nan e sul suo bisogno di avere
un padre: la persona che lei voleva era in
realtà un bastardo.
Un bastardo che avrebbe pagato per quel
casino.
«Adesso ho delle cose da fare. In bocca al
lupo per il lavoro» le dissi prima di
andarmene.
C’era una telefonata che non potevo
rimandare.
4

Aspettai che il telefono facesse tre squilli, poi


riattaccai e digitai un’altra volta il numero.
Avrei continuato a chiamare mia madre
finché non avesse risposto. Non le conveniva
scherzare con me, altrimenti le avrei tagliato
i fondi e annullato le carte di credito. Allora
sì che mi avrebbe cercato…
«Dico sul serio, Rush, è davvero neces-
sario tempestarmi di telefonate? Se non ti
rispondo, lascia un messaggio e vedrai che ti
richiamo quando mi è più comodo.»
«A me non frega un cazzo della tua
comodità. Voglio parlare con quello stronzo
che ti sei sposata. Adesso.»
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La mamma sbuffò nel microfono. «Scord-


ati che io stia a sentire mio figlio che si
rivolge così a me o a mio marito. Potrai
richiamare quando sarai pronto a parlare
con rispetto e…»
«Signore aiutami… Mamma, se non mi
passi quell’uomo, il tuo telefono e le tue carte
di credito smetteranno di funzionare nel giro
di dieci minuti. Non prendermi per il culo,
okay?»
A quella minaccia, lei si zittì. L’unica ris-
posta fu un profondo respiro.
«Ora, mamma» le intimai.
Sentii dei sussurri soffocati, poi Abe che si
schiariva la gola. «Pronto» disse, come se
non ignorasse il fatto di aver abbandonato
sua figlia.
«Cerca di capire una cosa. Il capo di tutto
sono io. I soldi, mia madre, tutto. È tutto
mio. Se ti metti contro di me, sei finito. Ti ho
portato qui perché voglio bene a mia sorella,
ma stai dimostrando di non meritartela. E
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adesso spiegami perché hai detto all’altra tua


figlia di venire a casa mia per poi scappare
oltreoceano!»
Abe fece una pausa, e io lo sentii inspirare
profondamente. «Me n’ero dimenticato.»
Che coglione! «Ora è qui e ha bisogno del
tuo aiuto. Tu e mia madre dovete prendere il
primo volo e riportare qui i vostri culi.»
«Non la vedo da cinque anni. Io non… non
saprei che cosa dirle. Ormai è adulta, può
fare come le pare. Non avrei dovuto consigli-
arle di venire a casa tua, ma qualcosa dovevo
dire. Stava implorando il mio aiuto. Se non la
vuoi lì, allora mandala via. È una ragazza in
gamba, ha una pistola e sopravvivrà. Anzi, lei
è già una sopravvissuta.»
È già una sopravvissuta. L’aveva detto
veramente? Sul serio? La testa cominciò a
pulsarmi, e dovetti massaggiarmi le tempie
con le dita per trovare un po’ di sollievo. «Tu
stai scherzando» riuscii a commentare,
nonostante lo shock totale. «Ha appena
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perso sua madre, grandissimo pezzo di


merda! È allo sbaraglio più completo. Ma
l’hai vista? È troppo indifesa per andarsene
in giro così, da sola. Non puoi venirmi a dire
che è una sopravvissuta, perché la ragazza
che si è presentata sulla porta di casa mia ieri
sera era assolutamente a pezzi.»
Il sussulto che percepii nel fiato di Abe fu
l’unico segnale a dirmi che di sua figlia gli
importava qualcosa. «Non posso aiutarla.
Non posso nemmeno aiutare me stesso.»
Fine. Si stava rifiutando di tornare a casa
e intervenire in qualche modo.
Lasciava Blaire nelle mie mani: potevo
aiutarla o sbatterla fuori, come mi pareva. A
lui non importava. Non ero nemmeno in
grado di articolare una risposta… Riattaccai
e lasciai cadere il telefono sul divano, poi mi
misi a guardare fuori dalla finestra che avevo
di fronte.
Nan odiava quella ragazza quasi da una
vita intera. L’aveva invidiata. Incolpata. E
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per cosa? Per avere un padre peggiore della


madre che aveva lei?
Nessuno aveva bussato alla porta che con-
duceva all’ultimo piano, il mio regno. La sen-
tii aprirsi, poi udii dei passi. C’era solo una
persona che poteva arrivare fin lì senza pre-
occuparsi nemmeno di avvisare.
«Sono andato a farle benzina» annunciò
Grant appena posò piede sull’ultimo gradino.
«Offro io.»
Non girai lo sguardo sul ragazzo che per
me era come un fratello. Un tempo, durante
il breve matrimonio dei nostri genitori,
eravamo stati fratellastri. In quel momento
della mia vita avevo avuto bisogno di qual-
cuno su cui fare affidamento, e Grant era
stato quel qualcuno. Tra noi era nato un forte
legame.
«Hai intenzione di tenerla nel sottoscala,
come quel tizio, Harry Potter?» mi chiese
Grant atterrando sul divano di fronte al mio.
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«Lì è più al sicuro» gli risposi, lancian-


dogli uno sguardo obliquo. «Lontana da
me.»
Grant ridacchiò e sollevò i piedi per
appoggiarli sul pouf che aveva davanti.
«Sapevo che non avresti saputo ignorare
tanta bellezza… Per non parlare di quell’aria
innocente e di quegli occhioni sinceri… Una
vera tentazione.»
«Stalle alla larga» gli dissi. Per lei, Grant
non sarebbe stato meglio di me. Eravamo
tutti e due disastri ambulanti, e quella
ragazza aveva bisogno di sicurezza. Cosa che
noi non potevamo darle.
Grant mi fece l’occhiolino e piegò la testa
all’indietro per fissare il soffitto. «Calmati, io
non la tocco. È di quelle che si ammirano da
lontano. Però non posso prometterti di non
fare neanche quello, sappilo… Perché,
cavolo, è bella da morire.»
«Sua madre è morta» dissi, ancora inca-
pace di credere che Abe non avesse fatto
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niente pur essendo perfettamente al corrente


della malattia di quella donna.
Grant buttò i piedi a terra e si sporse in
avanti per guardarmi, appoggiando i gomiti
sulle ginocchia. La sua espressione preoccu-
pata non fece che ricordarmi quanto sapesse
essere tenero. Non potevo permettergli di
sbagliare e ferire Blaire; non l’avrebbe fatto
apposta, ma alla fine l’avrebbe fatto.
«Morta? Intendi di recente?»
Annuii. «Sì. È sola. È venuta qui perché
Abe le aveva detto che l’avrebbe aiutata a
rimettersi in piedi, invece se l’è svignata.»
Grant emise un sibilo rabbioso tra i denti.
«Brutto figlio di puttana.»
Ero d’accordo. Al cento per cento.
«Gli hai parlato?»
Prima di discutere con Abe, lui non mi
piaceva, mi disgustava. Ora invece lo odiavo
proprio. Odiavo il fatto di essere stato io a
portarlo lì. Di aver permesso che quell’essere
freddo ed egoista entrasse nella mia famiglia.
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Ero io l’unico colpevole. «Dice che non può


aiutarla» risposi. Il disprezzo nella mia voce
suonava forte e chiaro.
«Però la aiuterai tu, giusto?» chiese
Grant.
Avrei voluto gridargli che non erano prob-
lemi miei. Che non avevo chiesto io quello
schifo. Invece, in un certo senso l’avevo fatto
quando avevo portato quell’uomo nella mia
casa. «Farò in modo che trovi un lavoro tran-
quillo e ben pagato. Quando avrà messo da
parte abbastanza per permettersi un posto
tutto suo, farò il possibile per aiutarla a tro-
vare qualcosa di accessibile.»
Grant sospirò di sollievo. «Bene. Cioè,
immaginavo che avresti fatto così, però è
bello sentirtelo dire.» Lui era l’unico ad
aspettarsi che facessi la cosa giusta: tutti gli
altri mi vedevano come il figlio viziato di una
leggenda del rock. Grant andava oltre, da
sempre. Il desiderio di non deluderlo era
stato uno dei motivi per cui avevo fatto
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qualcosa della mia vita. Non ero diventato


quello che il mondo si sarebbe aspettato, o
quello che molti pensavano che fossi: avevo
compiuto il mio percorso perché qualcuno
aveva creduto in me.
«Il posto migliore per lei è il club»
dichiarai, prendendo il telefono. Ero iscritto
al Kerrington Country Club, fulcro della cit-
tadina turistica in cui vivevo, Rosemary
Beach. Un lavoro lì significava ambiente
sicuro e paga discreta.
«Non chiamare Woods, è un coglione.
Appena la vedrà, il suo obiettivo sarà quello
di portarsela a letto a ogni costo» mi suggerì
Grant.
L’idea che Woods Kerrington, il figlio del
proprietario del club, potesse anche solo
sfiorare Blaire mi faceva venire la pelle d’oca.
Era un ragazzo simpatico, e noi due eravamo
amici da una vita, ma le donne gli piacevano
fin troppo: le teneva per una sola notte e poi
le buttava via. Non lo giudicavo, anch’io mi
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comportavo esattamente così, però non gli


avrei permesso di farlo con Blaire. «Non la
toccherà, ci penserò io» dissi prima di tele-
fonare alla responsabile del personale del
club.

Blaire aveva già trovato il club e Darla le


aveva già dato il posto. Non potei fare a
meno di sorridere: forse era più tosta di
come sembrava. Ma la punta di orgoglio che
provai per lei mi fece improvvisamente per-
dere il buonumore: perché ridevo come un
idiota per il solo fatto che Blaire Wynn si
fosse aggiudicata un lavoro? E allora? Aveva
diciannove anni, non dieci. E io non dovevo
provare niente nei suoi confronti. Per me,
non era nient’altro che una perfetta estranea.
Una cazzo di estranea che avevo disprezzato
per gran parte della mia vita.
Presi il telefono e chiamai Anya. Era
sempre disponibile e se ne andava puntual-
mente dopo che avevamo finito. Non si
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fermava a dormire, ed era l’unico motivo per


cui continuavo a invitarla. Quello, più il
miglior sesso orale del mondo e ottimi piatti
di cucina italiana.
Mi avrebbe aiutato a dimenticare Blaire,
che quella sera, tornata a casa, mi avrebbe
visto con lei. Non che le servissero prome-
moria sul fatto di dovermi stare alla larga:
già la terrorizzavo. L’unico istante in cui
avevo riconosciuto un briciolo d’interesse nei
suoi occhi era stato quel mattino, quando si
era girata e aveva notato che la stavo osser-
vando. Le era piaciuto, e molto, guardarmi
senza maglietta addosso. Il problema era che
io c’ero proprio andato matto.
Mmh, sì… Avrei chiamato Anya. Una
scopata senza impegni con una bella mora
era esattamente quello che mi serviva.
5

Mi aveva guardato, cazzo.


Era stato fin troppo semplice chiudere gli
occhi e affondare dentro Anya visualizzando
davanti a me la faccia di Blaire che mi guar-
dava con le labbra dischiuse e le guance
arrossate… I respiri ansimanti che faceva a
ogni mia spinta. Alla fine ero venuto in
maniera così violenta che mi era servito
qualche minuto per riprendermi.
Poi non ero stato capace di guardare Anya
negli occhi, mi ero sentito un idiota. Non mi
scopavo una donna pensando a un’altra. Era
sbagliato. Però mi ero accorto della presenza
di Blaire, e tutto il mio corpo si era acceso
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quando il calore del suo sguardo mi aveva


trovato.
Nel momento in cui avevo girato la testa
abbastanza da poterla guardare a mia volta,
la porta della dispensa si stava già chiudendo
alle sue spalle. Se n’era andata, ma saperla lì
me l’aveva fatto diventare duro come non
mai. Perché mi faceva quell’effetto?
La prima cosa che avevo notato quel mat-
tino, entrando in cucina, era quanto tutto
fosse pulito e in ordine. Io avevo lasciato un
casino; dopo aver rispedito Anya a casa sua
con un buffetto sulla guancia e un grazie,
avevo chiuso la porta ed ero corso in camera
mia per poi mettermi a camminare in tondo,
imprecando.
Dunque… Dunque Blaire aveva pulito.
Perché si prendeva tanto disturbo? Le avevo
già detto che non ce n’era bisogno.
Decisi di prepararmi un caffè, sbattendo
nel frattempo sportelli a destra e a sinistra.
Non sopportavo che Blaire avesse pulito il
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macello lasciato da me e Anya. Non sop-


portavo che l’avesse fatto dopo avermi visto
mentre me la scopavo. E, più di ogni altra
cosa, non sopportavo che m’importasse.
«Si può sapere chi ti ha pisciato nei cer-
eali?» La voce di Grant mi spaventò, tanto
che mi versai il caffè bollente sulla mano.
«Cazzo! Piantala di cogliermi alle spalle!»
ringhiai.
«Guarda che ho bussato, prima di entrare.
Che problemi hai?» Come prevedibile, Grant
era rimasto indifferente alla mia aggressione
verbale e adesso mi stava oltrepassando per
prepararsi a sua volta un caffè.
«Per colpa tua mi sono ustionato la mano,
testa di cazzo» dissi, ancora arrabbiato per
essere stato così assorto nei miei pensieri da
non averlo nemmeno sentito entrare.
«Ancora niente caffeina, vero? Bevi, bevi
che ti fa bene. Ti stai comportando come un
cretino. Pensavo che, dopo una notte
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trascorsa con Anya e il suo talento orale, ti


avrei trovato molto più allegro.»
Misi la mano sotto il getto d’acqua fredda
del lavandino, nel tentativo di dare sollievo
alla pelle scottata. «Mi sono appena svegli-
ato. E poi tu come fai a sapere che la scorsa
notte Anya era qui?»
Grant si sedette con un balzo sul bancone
e bevve un sorso dalla sua tazza. Io mi asciu-
gai la mano con uno strofinaccio e aspettai di
sentire la sua risposta.
«Ieri sera mi ha chiamato lei. Voleva
sapere chi è la ragazza che vive a casa tua…»
Fece spallucce e bevve un altro sorso.
Non ero sicuro che quella notizia mi
facesse piacere. Anya come faceva a sapere di
Blaire? Io non le avevo detto niente.
«Piantala con quell’espressione confusa. È
fastidiosa» disse Grant, gesticolando con la
tazza nella mia direzione. Rideva sotto i
baffi. «Ha notato Blaire l’altra sera, mentre
era qui. A quanto pare, voi due ve la stavate
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spassando in veranda, ma a un certo punto


Anya l’ha vista comparire dietro le tue spalle.
Era curiosa di sapere perché poi fosse svan-
ita nel sottoscala…» aggiunse, smorzando la
voce.
Ero sicuro che avesse altro da raccon-
tarmi, perciò restai in attesa.
Vedendo che non proseguiva, lo fulminai
con lo sguardo.
Lui sghignazzò, poi si strinse nelle spalle.
«E va bene. Volevo evitarti la parte in cui tu
guardavi Blaire e iniziavi a sbatterti Anya
come un pazzo. Lei si è accorta che ti è scat-
tato qualcosa, bello mio. Mi dispiace, ma a
quanto pare non sei tanto bravo a nascond-
ere le emozioni!» Il sorriso gli si allargò sulle
labbra. «La miglior scopata della sua vita,
comunque. Be’, certo, non ha mai provato
me…»
Avrei dovuto mandarle un mazzo di fiori,
o qualcosa del genere. Merda! Aveva capito
che era stata Blaire a farmi esplodere. Ero
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ancora più coglione di quanto avrei mai


immaginato.
«Stiamo parlando di Anya, lo sai che non
le interessa. Lo fa per il sesso e basta, proprio
come te. Però ti suggerisco di darti una bella
regolata, e in fretta: se Blaire comincia a
interessarti, devi darci un taglio. Adesso. Lei
non appartiene al genere Anya, e lo sai.
Senza contare che non puoi nemmeno sfior-
arla, altrimenti, quando salterà fuori tutto, ti
odierà. Suo padre, tua sorella… Pensaci. È
territorio proibito, e lo sai benissimo.»
Aveva ragione. Non mi sarei mai potuto
avvicinare a Blaire: presto sarei diventato il
suo nemico, e lei mi avrebbe odiato quanto io
avevo odiato lei nel corso degli anni. Con la
differenza che aveva un motivo per farlo, e
che io mi meritavo il suo odio. «Sì, lo so» ris-
posi, detestando il sapore di quelle parole
sulla lingua. Il sapore della verità.
«Devo tornare al lavoro. Sono passato
giusto per informarti della mia telefonata
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notturna con Anya» mi disse Grant saltando


giù dal bancone e andando a mettere la sua
tazza nel lavandino.
«Grazie.»
Mi diede una pacca sulla spalla. «Sono qui
apposta. Per tenere il tuo stupido culo sulla
retta via» scherzò prima di voltarsi e andare
via.
Rimasi ad attendere finché non sentii la
porta richiudersi, poi andai a farmi una doc-
cia. Mi aspettava una lunga giornata… Per
prima cosa, avrei dovuto inviare un mazzo di
fiori e un biglietto di scuse ad Anya; sarebbe
stata la fine dei nostri incontri senza
impegno. Non potevo farle una cosa del
genere, nemmeno se mi avesse detto che per
lei non c’erano problemi.
Quando scesi dalle scale, lavato e vestito,
trovai Nan che mi aspettava. Sapeva che in
quella casa c’era anche Blaire, ed era
incazzata da morire. Si era raccolta i lunghi
capelli rossi in una coda laterale che le
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ricadeva sulla pelle nuda della spalla sinistra.


La gonnellina bianca da tennis che aveva
addosso era fatta per essere portata insieme
a una polo coordinata, ma per lei sarebbe
stato troppo noioso, perciò aveva ordinato
una canottiera che chiamava in un modo
strano. L’avevo presa in giro intere
settimane.
«È ancora qui» disse, in tono scocciato.
«No, è al lavoro» replicai, sapendo che
non era la risposta a quello che intendeva lei.
«Lavoro? Mi vuoi dire che è al lavoro?!
Ma tu hai voglia di scherzare!» Il tono di
voce di mia sorella passò dallo scocciato
all’isterico. Era abituataad averla sempre
vinta con me. Ero l’unico al mondo disposto
a smuovere le montagne pur di renderla
felice, ma quella volta… quella volta era
diverso. Non avrei fatto del male a una per-
sona innocente solo per darle soddisfazione.
C’erano dei limiti, e stavo giusto per imporne
uno.
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«Per niente» risposi oltrepassandola e


andando in salotto, dove la sera prima ero
sicuro di aver lasciato il portafogli prima di
spogliarmi in veranda.
«E perché lavora? Perché è ancora qui?
Hai chiamato la mamma?»
Non ci arrivava. Avrei dovuto dirle che
quella volta non mi sarei arreso. Che non
l’avrebbe avuta vinta. Non avrei buttato fuori
Blaire, non per lei… e per nessun altro, acci-
denti! Quella ragazza aveva bisogno di aiuto.
«Ha trovato un posto, le servono i soldi per
rimettersi in piedi. Sua madre è morta, Nan.
Ha dovuto seppellirla da sola, ti rendi conto?
Sola come un cane. Adesso il padre che vi
accomuna è a Parigi con tua madre, a godersi
la vita. Perciò sappi che io non la butto fuori.
È colpa mia.»
Nan mi venne incontro a passo furioso e
mi strinse forte il braccio. «Colpa tua? Come
fa a essere colpa tua, Rush? Lei per noi non è
nessuno, nessuno! Sua madre è morta?
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Okay, chissenefrega. Sua madre ha rovinato


la mia vita, perciò peggio per lei. Ma tu non
c’entri niente. Smettila di voler salvare il
mondo intero, Rush.»
Quella donna senza cuore era opera mia.
Un’altra delle mie colpe. Nan era stata una
bambina trascurata, e io mi ero fatto in quat-
tro per tentare di rimediare, invece avevo
creato un’adulta insensibile e vendicativa…
Ero pronto a fare di tutto per cambiare le
cose, ma non sapevo da che parte iniziare.
La guardai sperando di non rivedere la
bambina che una volta volevo salvare. Così
sarebbe stato un po’ più facile. Invece vidi la
mia sorellina minore, quella che avrei
sempre amato sia nel bene sia nel male. Lei
era la mia famiglia.
«È tutta colpa mia. I problemi di Blaire e i
tuoi sono tutti colpa mia» dissi strattonando
il braccio per liberarmi dalla presa. Afferrai il
portafogli dal tavolino del salotto e puntai
verso la porta di casa: dovevo allontanarmi
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da mia sorella, non mi stava facendo bene


all’umore.
«Dov’è che lavora?»
Mi fermai. Sapevo che prima o poi
l’avrebbe scoperto da sola, però non volevo
essere io a dirglielo. A Blaire serviva un po’
di tempo per inserirsi prima di avere mia
sorella sul collo. Quando fosse successo,
avrei pensato a come comportarmi. «Non lo
so» mentii. «Vai a trovare le tue amiche. Vai
a giocare a tennis, a fare shopping, a fare
qualsiasi cosa ti renda felice. Dimentica che
Blaire è qui: lei è un problema mio, non tuo.
Fidati, lascia fare a me.»
Aprii la porta e me ne andai prima che
potesse controbattere. Per me la conver-
sazione era finita, avevo un bel po’ di casini
da sistemare.
6

Un messaggio da parte di Anya mi informò


che le due dozzine di rose rosa non sarebbero
state necessarie. Tutto lì, nient’altro. Era la
fine delle nostre scopate occasionali, me ne
rendevo conto. Sentii scemare il senso di
colpa nei suoi confronti mentre rimettevo il
cellulare in tasca e continuavo a correre.
Facevo spesso jogging quando avevo
bisogno di riflettere o di schiarirmi le idee. E
anche quando la sera prima avevo bevuto un
po’ troppo. Adesso dovevo correre per non
essere in casa quando Blaire fosse tornata
dal lavoro: non volevo affrontarla, non
volevo sentire la sua voce. Dovevo tenere le
distanze e basta.
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Si meritava il mio aiuto, però la cosa finiva


lì. Non volevo conoscerla, né tantomeno
diventare suo amico. Il giorno che se ne fosse
andata, sarei riuscito a respirare come
prima. Magari sarei anche andato a trovare
mio padre… Avrei cambiato aria e mi sarei
goduto un po’ la vita.
Peccato che il destino avesse intenzione di
farsi beffe del sottoscritto.
Rallentai la corsa e, con gli occhi che si
adattavano al buio, riconobbi subito la
sagoma di Blaire profilata dal chiarore della
luna. Merda.
Non mi aveva visto… per il momento. Fis-
sava l’oceano. Il vento le spostava i capelli
dal viso e glieli faceva danzare intorno alle
spalle. La luna li rendeva d’argento.
Si girò, ci guardammo dritti negli occhi.
No…
Avrei dovuto salutarla con un cenno e
continuare a correre verso casa. Restare in
silenzio. Via, per la mia strada. Le
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permettevo di vivere da me, okay, ma questo


non significava doverle parlare per forza. E
invece sentivo che non avrei resistito, cazzo!
Mi fermai di fronte a lei e la vidi con-
centrarsi sul mio torso nudo, sentendomi
all’improvviso felice di non indossare la
maglietta; avrei dovuto fregarmene se lei lo
stava fissando come una che avrebbe tanto
voluto dargli una leccata, ma…No, no! Non
voleva leccarmi il petto. Da dove cavolo mi
era venuta un’idea del genere? Quella mi
stava facendo impazzire. Dovevo togliermi i
suoi occhi di dosso, e alla svelta.
«Sei tornata» le dissi rompendo il silenzio
e risvegliandola dai suoi pensieri.
«Sì, ho appena staccato dal lavoro» ris-
pose portando lo sguardo dal mio petto al
viso.
«Allora hai trovato un lavoro?» le chiesi,
ansioso che continuasse a concentrarsi sulla
mia faccia.
«Sì, ieri.»
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«Dove?» Conoscevo già la risposta, ma


volevo sapere come era andata. Cosa faceva,
se le piaceva. Alt… Era truccata? Santo cielo,
si era messa il mascara. Allora quelle ciglia
potevano diventare ancora più lunghe!
«Al Kerrington Country Club» rispose.
Non riuscivo a smettere di fissarle gli
occhi. Erano favolosi anche senza trucco, ma
con quel velo di mascara erano addirittura
irreali. Le feci scivolare una mano sotto al
mento, alzandole la testa per guardarla
meglio. «Ti sei messa il mascara» dissi per
spiegare il mio strano gesto.
«Sì» fece lei spostando la testa per liber-
arsi dalla mia presa. Lasciai cadere la mano.
Non avrei dovuto toccarla, aveva fatto bene a
scansarsi. Non ne avevo il diritto.
«Così sì che dimostri un po’ di più la tua
età…» aggiunsi facendo un passo indietro e
guardandole la divisa da lavoro.
La conoscevo bene: nel corso degli anni,
mi ero portato a letto più addette ai cart di
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quante volessi ammettere. Erano il motivo


per cui, da adolescente, avevo iniziato a
giocare a golf. Quando loro, più grandi di me
di qualche anno, scoprivano chi era mio
padre, si dimostravano sempre molto
interessate a farmi fare un giro, in tutti i
sensi.
«Guidi il cart con le bibite al campo da
golf» dichiarai alzando gli occhi per
guardarla. Sapevo già tutto, ma vederla con
la divisa addosso mi faceva sorridere. La
portava molto bene.
«E tu come fai a saperlo?»
«L’abbigliamento. Pantaloncini aderenti
bianchi e polo azzurra. È la loro divisa. Li
stai stendendo tutti, vero?» La mia, più che
una domanda, era un’affermazione.
Lei fece spallucce, poi si mise ben dritta
sulla schiena e indietreggiò di un passo.
Sentiva che doveva tenere le distanze. Brava
ragazza… Forse era più tosta di quanto
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immaginassi. «Sarai felice di sapere che me


ne andrò da qui tra meno di un mese.»
Sì, avrei dovuto. Avrei dovuto sentirmi
sollevato di avere un problema in meno. E
invece no. Ero contento che lei fosse con me,
contento di sapere che potevo tenerla al
sicuro e magari compensare tutto il male che
le avevo già fatto. Incapace di fermarmi, mi
avvicinai di un passo. «Probabilmente sì,
dovrei esserlo. Felice, intendo. Felicissimo.
Invece non lo sono. No, Blaire.»
Abbassai la testa finché la mia bocca non
fu a un solo respiro di distanza dalla sua.
«Mi dici tu perché?» le chiesi sottovoce
prima di inalare il suo dolce profumo di
pulito. Era lo stesso che aveva anche in
mezzo alle gambe? Era altrettanto dolce e
fresca, là sotto? Sulla pelle mi affiorò un
sudore che non era quello della corsa, e indi-
etreggiai. Stavo uscendo dai binari. «Stai alla
larga da me, Blaire. Dico sul serio, è meglio
se tieni le distanze. L’altra notte…» Cazzo,
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stavo davvero per parlarne con lei? Dovevo


dimenticare quella scena. «Io non faccio che
pensare all’altra notte. So che mi stavi guard-
ando, e questa cosa mi fa impazzire. Quindi
va’ via, stammi lontana. Anch’io mi sto
impegnando per fare lo stesso» dissi in un
tono brusco rivolto più a me stesso che a lei.
Però non potevo spiegarglielo, così mi girai
di scatto e corsi via. Dovevo andarmene.
Una volta al sicuro in camera mia, mi
affacciai alla finestra e guardai di sotto, in
spiaggia. Blaire non si era mossa, ma ora non
guardava più le onde, guardava la casa. A
cosa stava pensando? L’avevo spaventata a
morte? Oppure stava aspettando che cambi-
assi idea e tornassi indietro? Appoggiai il
palmo della mano contro la vetrata e rimasi a
osservarla: mi sembrò un’eternità, eppure
non abbastanza, prima che tornasse dentro.
Quella notte la sognai per la prima volta.
Vivide immagini di lei sotto di me; le gambe
avvinghiate intorno al mio corpo e la testa
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rovesciata all’indietro mentre le procuravo


un piacere che raggiungevamo insieme.
Sì, ero decisamente fottuto.
7

«Rush!» mi chiamò Jace, seduto su uno sga-


bello del bar, appena entrai nel club. Quelle
serate non erano il mio genere di pas-
satempo, ma, dopo aver ricevuto tre mes-
saggi da tre persone diverse con l’annuncio
che ci sarebbero stati tutti, avevo deciso che
un po’ di distrazione non mi avrebbe fatto
male.
«È arrivato Finlay» annunciò qualcun
altro. Mi avvicinai al bancone e Jace mi
allungò subito uno shot; era il migliore
amico di Woods Kerrington, un bravo
ragazzo. Certo non potevamo definirci amici
intimi, visto che l’unico individuo con cui
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avessi un rapporto stretto era Grant. L’unico


di cui mi fidavo.
«Bevi, bevi!» mi disse, con il sorriso sulle
labbra. La bionda che gli stava appollaiata al
braccio aveva una faccia già vista, ma in
fondo Rosemary Beach era una cittadina
molto piccola… C’erano buone possibilità
che, in passato, me la fossi già fatta.
«Ehi, Rush» mi salutò lei con un sorris-
etto malizioso, e in quel momento capii che
sì, la conoscevo. Ma non mi ricordavo come
si chiamava.
Le feci un cenno e trangugiai la tequila.
Non ero uno da shot, ma se volevo sop-
portare quel posto mi sarebbe servito un po’
di aiuto.
«Ti sei perso?» chiese Grant, ridacchi-
ando, mentre si avvicinava.
Sorrisi. «Probabilmente sì. E tu?»
Si guardò dietro le spalle. «Io no, sono qui
per Nan.»
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Preoccupato, seguii il suo sguardo e vidi


Nan mezza nuda, che barcollava e rideva
sguaiata mentre un tizio che non conoscevo
le si strusciava addosso. «Ma che cazzo fa?»
«Fermo. Lui le piace, escono insieme. È
solo che da un po’ di tempo tua sorella
esagera con l’alcol. Sono passato apposta per
tenere d’occhio le cose, e infatti l’ho trovata
in questo stato. Controlliamola restando in
disparte: se interveniamo prima del tempo,
quella se ne va via insieme al coglione e noi
ci ritroviamo fra le mani un casino che non
finisce più.»
Aveva ragione. Nan era una donna adulta,
io non ero suo padre e dovevo lasciarla libera
di compiere i propri sbagli. Spianarle sempre
la strada era faticoso, e per di più non le
faceva bene. «Hai chiesto in giro di lui?»
Grant mi mise in mano una birra.
«Sediamoci e stiamo a vedere. Secondo me è
un tipo a posto. Charles Kellar, nipote del
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vecchio Morrison. Frequenta Harvard,


questa settimana è qui dai nonni.»
Almeno era suo coetaneo. Bevvi un sorso
di birra e guardai Nan che se lo trascinava in
pista lanciando via le scarpe a punta coi tac-
chi alti. Be’, almeno così le sue caviglie erano
al sicuro.
«Non sta prendendo bene la storia di
Blaire, vero?» fece Grant.
Io scrollai le spalle. Avrei voluto fregar-
mene della reazione di Nan: doveva crescere
e rendersi conto di non essere l’unica per-
sona sulla faccia della terra. Però non potevo,
cazzo. «No, ma deve imparare ad accettarla.
Non è che me la porto a letto, le sto soltanto
offrendo un posto dove stare» risposi.
«Però vuoi farlo. Portartela a letto,
intendo» disse Grant con un sorriso.
«Taci» ringhiai, lanciandogli uno sguardo
di avvertimento.
«A me sì che piacerebbe, Rush, e non sai
quanto! Anzi no, preciso meglio: non voglio
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portarmela a letto, voglio scoparmi quel suo


corpo da urlo fino a farlo svenire. Quella tipa
è…»
Ero sceso dallo sgabello e gli ero andato a
pochi centimetri dalla faccia con una velocità
che nemmeno a me pareva vera. «Non ti per-
mettere!» gridai. Feci un respiro profondo
per cercare di trattenere la rabbia che mi
ribolliva dentro. «Stalle alla larga. Mi hai
capito? Alla larga.»
Grant non indietreggiò né annuì per la
paura. Anzi, mi rise in faccia. «Cristo santo,
ti ha proprio conquistato…» mormorò
scuotendo la testa.
A quella frase, mi voltai dalla frustrazione.
Non sapeva nemmeno cosa stava dicendo.
Non mi piaceva sentire certi discorsi su una
persona dolce e indifesa come Blaire.
«Rush! Non pensavo che saresti venuto,
stasera!» biascicò Nan barcollando verso di
noi. Per mantenere l’equilibrio dovette affer-
rare lo sgabello che aveva di fronte. «Conosci
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già Charles? O no? Non ricordo!» esclamò


mettendosi faticosamente a sedere.
«No, non ancora» risposi, felice dell’inter-
ruzione benché si trattasse di mia sorella
ubriaca.
«Charles Kellar» si presentò il suo accom-
pagnatore, tendendomi la mano. «Tu sei
Rush… Finlay?» Quando pronunciò il mio
cognome lo fece in tono quasi riverente, spa-
lancando gli occhi. Era un fan di mio padre,
sicuro.
Annuii e bevvi un sorso di birra, ignor-
ando la sua mano tesa. Non gliel’avrei
stretta, conoscevo quelli come lui: aveva
scoperto il legame di Nan con gli Slacker
Demon ed era riuscito a entrare nelle sue
grazie. Stupido, da parte sua, non capire di
essere solo uno fra tanti. Io avevo assistito
allo stesso teatrino molte altre volte, e anche
Nan, se non fosse stata ubriaca, avrebbe
fiutato puzza di bruciato all’istante.
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«È un grande fan di Dean» disse mia


sorella, alzando gli occhi al cielo. «Lo so, lo
so. Mi sta usando per conoscere te, e io sto
usando lui perché scopa da Dio» dichiarò a
voce un po’ troppo alta.
Non feci in tempo ad aprire bocca che
Grant si era già alzato dal suo sgabello.
«Presa!» disse, afferrando mia sorella. Io gli
feci un cenno di approvazione e poi guardai
Kellar dritto negli occhi. Nan cercò di ribel-
larsi, ma Grant fece leva sui suoi modi gentili
per tenerla buona mentre la accompagnava
verso l’uscita.
«Non vado molto d’accordo con gli stronzi
che sfruttano mia sorella, quindi fai un
favore a te stesso e gira al largo, okay? I tuoi
nonni mi stanno simpatici, ma non me ne
fotte un cazzo di chi sono. Lascia stare la mia
famiglia, ci siamo capiti?» Avevo parlato a
voce bassa, in tono freddo; Kellar aveva
subito annuito, con gli occhi sbarrati. Pestai
con forza il bicchiere di birra sul bancone, mi
93/488

alzai e seguii la stessa strada che poco prima


avevano preso Grant e mia sorella.
Quando raggiunsi il parcheggio, la sua
macchina non c’era già più. L’avrebbe riac-
compagnata a casa, non avevo bisogno di
chiamarlo per esserne sicuro. Mi diressi
verso la mia auto e decisi di rientrare: a
quell’ora non correvo più pericoli, Blaire era
sicuramente già a letto. Non l’avrei
incrociata.
Il sollievo che provai nel vedere quel rot-
tame del suo pick-up parcheggiato al sicuro
nel vialetto di casa mia fu una sensazione
che, in quel momento, ebbi il coraggio di
riconoscere. Sì, stavo cominciando a divent-
are protettivo in maniera ossessiva, ma del
resto ero fatto così. Mia madre mi aveva
imposto il ruolo del “responsabile” quando
ero solo un bambino, e ormai ce l’avevo nel
sangue. Non potevo farci niente, era sem-
plicemente troppo tardi.
94/488

Con un po’ di fortuna da entrambe le


parti, Blaire stava già dormendo.
8

Erano passati due giorni dall’ultima volta che


avevo visto Blaire. Evitarla non era stato
semplice, avevo dovuto lottare ogni mattina
contro l’istinto impellente di scendere al
piano di sotto per vederla. Però non era
quello il motivo per cui, quel giorno, avrei
infranto le regole, o almeno era quello che
ripetevo a me stesso.
Grant si era presentato a casa mia,
ubriaco, insieme a una delle ragazze che fre-
quentava di solito: non sapevo se si
sarebbero alzati presto, ma non volevo che
Blaire li incontrasse in cucina. Anzi, a dirla
tutta non volevo che si facesse strane idee nel
caso in cui avesse visto solo la ragazza; mi
96/488

aveva già fatto capire molto chiaramente


cosa ne pensava della mia vita sessuale. La
cosa giusta sarebbe stata lasciarle credere
che l’accompagnatrice di Grant fosse l’ennes-
ima delle mie conquiste… invece stavo
scendendo al piano di sotto. Incapace di
trattenermi.
«Scusa, ma tu sei appena uscita dalla dis-
pensa?» stava chiedendo l’amica di Grant,
perplessa, a Blaire. Accelerai il passo per rag-
giungere subito quella dannata cucina e far
tacere l’intrusa. Blaire non era tenuta a
risponderle.
«Sì. E tu sei appena uscita dal letto di
Rush?» la sentii ribattere. La sua voce mor-
bida si era avvolta intorno alle parole,
facendo sembrare la domanda del tutto inno-
cente. Rallentai, sorpreso da quella risposta
che sapeva un po’ di difesa del territorio.
«No. Non che non mi infilerei nel suo
letto, se solo mi lasciasse entrare, ma tu non
dirlo a Grant!» La ragazza fece una breve
97/488

pausa. «Ma sì, non importa. Probabilmente


lo sa già.»
Mi fermai sulla porta e scrutai la cucina in
cerca di Blaire. La vidi in piedi, dall’altro lato
dell’isola. L’amica di Grant era in mezzo a
noi, nascondendomi alla sua vista.
«E così sei appena uscita dal letto di
Grant?» riprese Blaire. Mi sforzai di non sor-
ridere: la confusione nel suo tono di voce era
un vero conforto.
«Sì. O per lo meno dal suo vecchio letto.»
«Dal suo vecchio letto?»
Morivo dalla voglia di restare ad ascoltare
fino a che punto si sarebbe spinta con le sue
domande. Era interessata, e io ci stavo
godendo un mondo. Però non avrei dovuto,
cazzo…
La ragazza si spostò e lo sguardo di Blaire
finì dritto su di me. Beccato, conversazione
finita! Era ora di risolvere quello che stava
iniziando a diventare un problema. Io che
tenevo a bada il mio interesse nei confronti
98/488

di Blaire era un conto, ma lei che provava


interesse per me era un altro. Non sapeva
niente, non potevo permetterle di avvi-
cinarsi… Nemmeno un po’. Avrebbe finito
per odiarmi e io non avevo bisogno di sapere
cosa si provava a ricevere, da parte sua,
qualsiasi cosa che non fosse totale mancanza
d’interesse.
«Prego, Blaire, fai finta che io non ci sia.
Continua a fare il terzo grado all’ospite di
Grant. Sono sicuro che a lui non dispi-
acerebbe» esordii appoggiando la schiena
contro lo stipite della porta come per met-
termi comodo.
Blaire sgranò gli occhi, poi chinò la testa e
fece cadere le briciole che aveva sulle mani
nel bidone della spazzatura. Ero felice di
vedere che stava mangiando.
«Buongiorno, Rush! Grazie per averci las-
ciato dormire qui, ieri notte. Grant aveva
bevuto veramente troppo per guidare fino a
casa sua» disse l’altra ragazza.
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«Grant sa che, se gli serve, una stanza ce


l’ha» le risposi senza nemmeno guardarla in
faccia. Tenendo lo sguardo fisso su Blaire, mi
mossi per raggiungere l’isola.
«Be’… Allora… Io me ne tornerei di
sopra.» Quella continuava a parlare, ma io la
ignoravo. Non la vedevo neppure ed ero
felice che se ne volesse andare. Quando sen-
tii i suoi passi scomparire lungo il corridoio,
ridussi le distanze tra me e Blaire.
«La gattina curiosa ci ha lasciato lo
zampino, mia dolce Blaire?» le chiesi, goden-
doci un mondo nel notare il rosa acceso che
le era comparso sulle guance. «Pensavi fosse
un’altra delle mie conquiste, eh? Stavi cer-
cando di capire se aveva passato la notte nel
mio letto?» Dio mio, quanto avrei voluto toc-
carla. Cambiava continuamente posizione
dal nervosismo, ma per un dannato minuto,
uno solo, avrei voluto sentirla vicino. «Non
sono affari tuoi con chi dormo. Non abbiamo
già affrontato l’argomento?» Doveva essere
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arrabbiata con me. Non doveva guardarmi


con quegli occhi grandi e indifesi. Incapace
di tenere giù le mani, le presi una ciocca di
capelli e me la rigirai sul dito. La loro con-
sistenza setosa mi diede un brivido… Mi
stavo avvicinando troppo. Era sbagliato, e
anche pericoloso. «Tu non vuoi conoscermi.
Forse ora sei convinta di sì, ma ti sbagli.
Sono pronto a giurarlo.»
Se l’avesse capito, sarebbe stato tutto
molto più facile. Invece non aveva l’aria di
volersene andare, anzi, mi fissava come se ci
fosse dell’altro. Altro, oltre che un coglione
arrogante. Come cazzo faceva a vedere al di
là della persona che io volevo mostrarle? In
teoria avrebbe dovuto sentirsi anche lei di
fronte al moccioso viziato che ero agli occhi
del mondo intero.
«Non sei quella che pensavo. Avrei
preferito di sì, sarebbe stato tutto più facile»
mormorai, rendendomi conto troppo tardi di
aver parlato ad alta voce. Le lasciai andare i
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capelli, feci un passo indietro e uscii dalla


cucina. Dovevo starle lontano, ma come
potevo riuscirci, con lei dentro casa?!

Mi ci erano volute ore per prendere sonno, e


ora mi svegliava lo squillo del cellulare.
Rotolai su me stesso, lo presi dal comodino e
aprii a fatica le palpebre alla luce dello
schermo. Era Will, il mio cuginetto. No,
merda, non un’altra volta…
«Che c’è?» ringhiai nel microfono mentre
dentro di me immaginavo già il motivo della
telefonata. Era di nuovo scappato di casa e
stava venendo da me, oppure era già qui
fuori e voleva entrare. La sorella di mia
madre era una stronza fuori di testa. Capivo
perfettamente quel ragazzino, però non
poteva continuare a scappare. Soprattutto
per venire da me!
«Sono qua fuori» annunciò.
«Cazzo, Will. Cos’è successo stavolta?» gli
chiesi buttando indietro le coperte e
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mettendomi a cercare una felpa tra quelle


che avevo lasciato in giro.
«Quella mi manda al campo estivo. Tutta
estate, cavolo. In Irlanda!»
Capito. La zia voleva un’estate libera dal
fardello della maternità, perciò si stava pre-
parando a spedirlo all’estero. Per Will
sarebbe stata probabilmente una delle estati
più divertenti della sua vita. Un’estate senza
quella donna!
Chiusi la chiamata, posai il cellulare e
scesi le scale per andare all’ingresso.
Quando aprii, mi venne un colpo nel
vedere mio cugino con in mano una borsa,
come se stesse per trasferirsi. Avevo già cres-
ciuto una bambina, non ero disposto a
ricominciare tutto da capo.
«Domani mattina torni a casa. Vedrai che
l’Irlanda ti piacerà da matti. Stasera puoi
stare in camera di Grant, dormi lì» brontolai
mentre chiudevo la porta alle sue spalle.
«Ma se nemmeno parlo irlandese…»
103/488

Come cazzo era arrivato fino alle superi-


ori, quello? «Guarda che parlano inglese, idi-
ota!» gli dissi tirandogli uno schiaffetto sulla
nuca. «Sono stanco morto, mi hai svegliato
tu. Adesso mettiti a dormire e non rompere,
okay?»
Lui annuì e fece una faccia tristissima,
come se avessi appena decretato la fine del
mondo; io ignorai il suo muso lungo e lo
seguii su per le scale. Non era la prima volta:
Will correva sempre da me, se ero nei
paraggi. A sua madre piaceva venire a Rose-
mary Beach d’estate, ed erano quelli i periodi
in cui ci vedevamo più spesso.
«Tu sei mai stato in Irlanda?» mi chiese
davanti alla porta della stanza in cui avrebbe
passato la notte.
«Certo, paese stupendo. E ora a letto!» Me
ne andai in camera mia.
Il giorno dopo sarebbe tornato a casa, ma
prima avrei dovuto chiamare Grant per
chiedergli di passare a prenderlo. Se l’avessi
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accompagnato io, avrei subito litigato con


mia zia e alla fine me lo sarei ripreso.
Sì, Grant sarebbe venuto. Mi aveva fatto
questo favore altre volte.
9

Sentii sbattere la porta di camera mia. Mi


misi a sedere nel letto, strofinando gli occhi e
cercando di schermarli dalla luce del sole.
«Riportato a casa» annunciò Grant.
«Grazie» bofonchiai. La sera prima gli
avevo mandato un messaggio per chiedergli
se gli andava di riaccompagnare Will a casa
sua prima di andare al lavoro.
«Quel ragazzino è una peste: ha tentato di
portarsi dietro Blaire!» esclamò ridendo.
Al suono di quel nome, abbassai la mano e
lo guardai. «È ancora qui?» chiesi.
Grant fece un cenno in direzione delle
finestre. «Là fuori, con indosso un bel bikini.
Se non ti dispiace, io me ne starei qui ad
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ammirare lo spettacolo. Anche perché mi


devi un favore, ho riportato Will a casa e me
la sono vista con quella strega malefica.»
Mi infilai la felpa e corsi a guardare.
Oltre il mio giardino si estendevano chilo-
metri di spiaggia deserta. Lì, Blaire se ne
stava sdraiata con gli occhi chiusi e il viso
inclinato verso il sole. Mmh… Grant sarebbe
subito filato al lavoro, altroché! Non l’avrei
mai lasciato libero di godersi quello
spettacolo tutto il santo giorno.
«Si scotterà» disse sottovoce. Quando
staccai gli occhi da Blaire per guardarlo, mi
accorsi che la stava osservando con la mia
stessa venerazione. ‘Fanculo!
«Non guardare» gli ordinai, allontanan-
domi dalla finestra.
Grant scoppiò in una risata. «E tu che
cosa vorresti dire con “non guardare”?»
Volevo dire di staccare quei cazzo di occhi
da lei, punto. «È solo che… Insomma, ti
ricordi chi è oppure no? Presto ci odierà, poi
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se ne andrà. Quindi non guardare.» Non


sapevo bene cosa stessi dicendo, ma di sicuro
volevo che spostasse lo sguardo altrove. Era
mezza nuda, e la sua pelle levigata era vis-
ibile a chiunque. Non mi andava.
«Non odierà noi due, odierà soltanto te. E
Nan. E suo padre. Io però non ho fatto
niente» disse Grant.
Sentii le mie mani che, lungo i fianchi, si
stringevano in pugni; chiusi gli occhi e
inspirai a fondo. Lo stava facendo apposta.
Voleva vedere se ero interessato. Il suo scopo
era farmi incazzare. «Non avevi del lavoro da
sbrigare?» gli chiesi con calma.
Grant tornò a guardare dalla finestra e
fece spallucce. «Ricordati che lavoro per mio
padre, bello. Sono io il capo, in caso d’emer-
genza posso andarmene. E poi stasera non
dovevamo festeggiare il compleanno di
Nan?»
Voleva tormentarmi. Mi misi a rovistare
in un cassetto e trovai un costume da bagno.
108/488

Sarei sceso in spiaggia. Forse Blaire non si


era messa la crema solare e si sarebbe scot-
tata. Le avrebbe fatto malissimo.
«Vai a farti una nuotata?» mi chiese Grant
per prendermi in giro.
Non mi voltai a guardarlo. «Vai a lavor-
are, Grant. La festa di Nan è questa sera.» Mi
ero dimenticato che le avevo organizzato un
party di compleanno… Blaire mi stava
facendo dimenticare tutto.
«Scherzi con il fuoco, caro mio. Con delle
fiamme gigantesche, che ti divoreranno!
Avresti dovuto lasciarla a me. Non andrà a
finire bene…» mi gridò dietro a voce
abbastanza alta perché potessi sentirlo anche
in fondo alle scale.
«Non sai di cosa stai parlando! Non la toc-
cherà nessuno, e presto se ne andrà!» gli
urlai dietro.
Sentii la sua risata scemare mentre usciva
dalla mia stanza. Aveva ragione: quello era
fuoco, e a quanto pareva non riuscivo a
109/488

starne alla larga. Continuavo ad avvicinarmi


sempre di più, sempre di più, consapevole
che, se non fossi stato attento, mi sarei
bruciato.
Non pensai a quello che stavo facendo. Mi
ero cambiato e stavo andando a vedere come
stava. «Ti prego, dimmi che ti sei messa la
crema solare» le dissi.
Lei annuì e si sedette sul piccolo
asciugamano che stava usando. Aveva un
corpo che faceva a dir poco perdere la
concentrazione.
«Bene. Non sopporterei di vedere quella
pelle liscia e vellutata diventare rossa e
incandescente» replicai senza nemmeno
accorgermene.
«Ah, sì… Sì, ne ho messa un po’ prima di
uscire.»
Avrei dovuto distogliere lo sguardo, dav-
vero, ma in quel momento mi sembrava
impossibile. Il seno le traboccava dal cos-
tume… Se fosse stata un’altra, non mi sarei
110/488

fatto troppi problemi ad abbassare la stoffa


per scoprire un capezzolo. E a quel punto
avrei…
No!
Merda, merda! Dovevo concentrarmi su
qualcos’altro.
«Oggi non lavori?»
«Giorno libero.»
«Come sta andando?»
A quella domanda non rispose subito.
Rimasi a guardarla mentre mi fissava. Non
stava molto attenta alle parole che dicevo,
più che altro mi analizzava il viso. Mi
piaceva. Troppo.
«Scusa, dicevi?» chiese, arrossendo
leggermente.
«Come sta andando al lavoro.» Non ero
riuscito a nascondere un tono divertito.
Lei allora si mise a sedere più dritta, cer-
cando di sembrare più distaccata. «Bene, mi
piace.»
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I ragazzi che senza dubbio ci provavano


con lei e le lasciavano delle mance stellari mi
davano sui nervi. «Ci scommetto.»
«In che senso, scusa?»
Lasciai scorrere lo sguardo giù per tutto il
suo corpo, lentamente. «Sei perfettamente
consapevole del tuo aspetto, Blaire. Per non
parlare poi di quel sorriso dolce… I golfisti
saranno generosi.»
Non si arrabbiò, né mi rispose con una
frecciatina. Anzi, sembrava sorpresa!
Guardai l’oceano, pur di non guardare lei. Mi
distraeva. Concentrarsi su Blaire era come
perdere l’orientamento. Ripensare al motivo
per cui si trovava lì e ricordare che avevo
contribuito in prima persona ai suoi dolori
avrebbe dovuto rendere tutto più semplice,
invece lei mi faceva dimenticare ogni cosa.
Un suo battito di ciglia bastava ad
annientarmi.
Com’ero stato stupido… Chiedere ad Abe
il motivo per cui avesse deciso di
112/488

abbandonare la famiglia con cui aveva con-


vissuto sedici anni per andare da una figlia
ignorata ancora più a lungo avrebbe avuto
senso. Però non l’avevo fatto. Ero stato sem-
plicemente felice di vederlo comparire. Pec-
cato che il coglione si fosse lasciato alle
spalle una famiglia distrutta, una ragazzina
obbligata a prendersi cura da sola della
madre malata.
«Da quanto tempo è morta tua madre?»
All’improvviso sentivo il bisogno di sapere da
quando stesse lottando da sola. Non che
ormai potessi farci niente, però volevo
sapere.
«Trentasei giorni fa» sussurrò.
Cazzo, era passato poco più di un mese
appena… Non aveva nemmeno avuto il
tempo di elaborare il lutto. «Tuo padre
sapeva che era malata?» domandai. Ero
pronto a ucciderlo. Qualcuno doveva farla
pagare a quel bastardo che distruggeva tutto
ciò che toccava.
113/488

«Sì, lo sapeva. Il giorno in cui mia madre


se n’è andata l’ho anche chiamato, ma lui
non ha risposto. Gli ho lasciato un
messaggio.»
Non avevo mai, mai odiato nessuno come
in quel momento odiavo Abe Wynn. «Lo
odi?» le chiesi. Avrebbe dovuto. Per la
miseria, io lo odiavo già abbastanza per
entrambi! Quando gli avrei fracassato la fac-
cia, l’avrei fatto per lei. Per sua madre. E non
ero sicuro che sarei stato capace di fermarmi.
«Qualche volta.»
Non mi aspettavo di sentire la verità:
ammettere di odiare il proprio padre non
doveva essere facile. Incapace di trattenermi,
le presi il mignolo con il mio. Non potevo
prenderle la mano, sarebbe stato troppo, un
gesto intimo. Però qualcosa dovevo fare.
Aveva bisogno di sapere di non essere sola.
Ero l’ultima persona al mondo che meritava
di starle vicino, ma l’avrei fatto comunque:
114/488

dovevo soltanto trovare il modo di riuscirci e


risolvere il disastro che avevo combinato.
«Stasera c’è una festa. È il compleanno di
mia sorella Nan, le organizzo sempre qual-
cosa. Magari l’ambiente non ti farà
impazzire, ma se ti fa piacere, ritieniti
invitata.»
«Hai una sorella?»
Pensavo lo sapesse già, ma quando ripen-
sai alla sera in cui era arrivata mi resi conto
che Nan aveva tenuto le distanze e che le due
in realtà non si erano parlate. «Già» risposi.
«Grant mi aveva detto che eri figlio
unico» disse, scrutandomi con attenzione.
Grant le aveva parlato di me. Non c’era
bisogno che spiegassi niente. Io volevo pro-
teggerla dalla verità. Staccai la mano. «Grant
non ha il diritto di venirti a raccontare gli
affari miei. Indipendentemente da quanto
voglia infilarsi nelle tue mutande» sbottai
prima di voltarmi e tornare verso casa. Per-
ché me l’ero presa? Maledizione.
10

Nan aveva ingaggiato un organizzatore di


eventi. In cima alle scale, osservavo la
squadra di decoratori portare in casa
montagne su montagne di rose bianche.
Cos’era, un matrimonio? Ma cosa diavolo si
era messa in testa quella?!
«Non voglio nemmeno sapere quanto ti
costerà questa festa. To’» mi disse Grant rag-
giungendomi da dietro e mettendomi in
mano un bicchiere di quello che all’olfatto
pareva bourbon. «Bevilo, ne avrai bisogno.»
Mandai giù un lungo sorso e lasciai che il
liquido vellutato mi foderasse la gola, ma
non bastò a rendere più tollerabile il pen-
siero che presto avrei avuto a che fare con
116/488

tutti gli amici di Nan. Di solito, quando


teneva delle feste da me, mettevo un limite al
numero massimo di invitati; quella sera
invece no, e cominciavo a pentirmene:
c’erano buone probabilità che avrei avuto in
casa l’intera popolazione di Rosemary Beach.
«La principessa ha ordinato delle rose, a
quanto vedo» osservò Grant, divertito,
appoggiandosi al corrimano per esaminare
l’andirivieni sottostante.
«Si direbbe proprio di sì.» Ce l’avevo
ancora con lui per aver parlato di me con
Blaire. Sapevo che non le avrebbe mai detto
niente che non avrebbe dovuto, però mi dava
fastidio lo stesso.
«Hai invitato Blaire?» mi chiese, cercando
di sembrare disinvolto.
«Credevi che l’avrei tenuta nascosta tutta
sera nel sottoscala?» Ci avevo pensato, in
effetti. Invitarla a quella cavolo di festa signi-
ficava doverla guardare da vicino: i ragazzi le
sarebbero saltati addosso e le ragazze si
117/488

sarebbero dimostrate perfide. Le serviva pro-


tezione da entrambi.
«Be’, in realtà non sapevo. È la festa di
Nan…» mi ricordò, come se ne avessi avuto
bisogno.
«In casa mia» ribattei, lanciandogli uno
sguardo di fuoco.
Grant soffocò una risata e scosse la testa.
«Caspita, non avrei mai pensato di vederti
mettere qualcuno davanti a Nan…»
«Piantala. Sto solo cercando di essere gen-
tile, nient’altro.»
Grant sollevò un sopracciglio, ben
sapendo che mi avrebbe innervosito.
«Davvero?»
Pestai con violenza il bicchiere sul corrim-
ano e tornai in camera mia. Non ero in vena
di continuare ad assistere a quello
spettacolo, né di ascoltare Grant. Sarebbe
stata una lunga, lunga nottata…
118/488

A giudicare dal risultato finale dei decor-


atori, si sarebbe potuto dire che Nan fosse
figlia di qualche testa coronata. Vagavo da
una stanza all’altra tenendo sempre d’occhio
la cucina e, quando ci riuscivo, anche la
porta della dispensa. Quel giorno non avevo
ancora visto Blaire, ma sapevo che era in
casa. Per molto tempo dopo averla lasciata
sulla spiaggia avevo continuato a osservarla
mentre prendeva il sole. Mentre nuotava fra
le onde e poi faceva una passeggiata. Persino
mentre leggeva un libro!
Quando alla fine aveva raccolto
l’asciugamano per dirigersi verso casa, avevo
abbandonato la mia comoda postazione – sul
divano, rivolto verso le vetrate – e mi ero
preparato per la serata. Volevo essere
presente nel momento in cui fosse uscita
dalla sua stanza.
La festa cominciava a riempirsi di gente e
il volume della musica a crescere, eppure, di
Blaire, ancora nessuna traccia. Forse aveva
119/488

paura di buttarsi in quella mischia? Era


meglio se la lasciavo tranquilla, al riparo
nella sua stanza? Oppure dovevo andare a
prenderla?
«Tengo d’occhio io la porta della dispensa.
Tu è meglio se vai a tirar giù un surfista
decerebrato dalla ringhiera prima che cada e
finisca all’altro mondo» mi sussurrò Grant
all’orecchio spingendomi in direzione del
terrazzo.
Studenti universitari sbronzi. Che idioti!
Uscii e vidi che Jace stava già trascinando
dentro il tizio. «Andiamo, su. Vai a farti un
bel caffè» gli disse con disprezzo, tirandogli
una forte pacca sulla schiena.
«Lo conosci?» gli chiesi.
«No, ma non mi andava di veder morire
nessuno questa sera» mi rispose prima di
bersi un sorso di birra.
«Grazie…»
Nel frattempo arrivò Anya, che si
avvinghiò alla vita di Jace e mi fece un
120/488

sorriso. Dunque aveva voltato pagina, buon


per lei.
«Anya» dissi, salutandola con un cenno.
«Rush» rispose lei, provocante.
«E io Jace!» dichiarò lui a gran voce, sov-
rastando i suoni di sottofondo. «Per quanto
sia una grande amante dell’ironia e
dell’imbarazzo, penso che ora noi due
andremo a farci una passeggiata in spiaggia»
propose conducendo la sua accompagnatrice
verso le scale che davano direttamente sulla
sabbia.
Tornai dentro e mi incamminai verso la
cucina. Avrei tirato fuori Blaire da quel mal-
edetto sottoscala: non poteva starsene
rinchiusa tutta la sera.
«Guarda che è già uscita» mi annunciò
Grant. «Adesso è nell’ingresso, con Woods.»
«Woods?»
«Sì, bello. Con Kerrington. Gioca a golf da
mattina a sera e l’ha sicuramente notata sin
121/488

dal primo momento. Avresti dovuto


immaginartelo.»
Mi feci largo tra la gente che mi stava dav-
anti e puntai dritto verso l’ingresso.
Il sorriso timido di Blaire, che teneva lo
sguardo alzato su Woods mentre lui le faceva
strada verso il salotto, mi bloccò completa-
mente. Qualcuno mi stava parlando, ma non
riuscivo a capire cosa mi stesse dicendo:
tutta la mia attenzione era rivolta al rossore
sulle guance di lei. La mano di Woods le toc-
cava la schiena con fare protettivo,
innervosendomi. Quanto bene lo conosceva?
C’era qualcosa di cui non mi ero accorto? A
un certo punto, Blaire gli parlò, e lui smise di
guardarla. Si era voltato. Poi le si avvicinò
ancora di più, e la mia irritazione si tras-
formò in vera e propria incazzatura.
In quell’istante Blaire spostò lo sguardo, e
i nostri occhi si incontrarono. I suoi erano
spalancati, quasi non si fosse aspettata di
vedermi in quella che di fatto era casa mia.
122/488

La vidi allontanarsi da Woods e dirgli in


fretta qualcosa mentre allungava le distanze.
Lui sembrava divertito, pronto a rispondere
qualunque cosa per farla restare.
Sapevo molto bene che genere di ragazzo
fosse Woods, perché era esattamente come
me. Non gli avrei permesso di toccare Blaire:
la vedeva come una preda? Bene, ma l’avrei
ammazzato pur di impedirgli di usarla.
La sola idea che Blaire potesse combinare
qualcosa con Woods mi faceva accapponare
la pelle…
In quel momento scattai. Come una molla,
senza riflettere. E non me ne fregava proprio
un cazzo se mia sorella poteva vedermi.
«In una come te non può esserci niente di
sgradito. Nemmeno Rush può essere così
cieco, cavolo!» le stava dicendo Woods, tent-
ando di riavvicinarsi a lei, che invece
indietreggiava.
«Blaire, vieni qui» dissi prendendola per
il braccio e tirandomela contro. Woods
123/488

doveva capire che lei stava con me. Io la pro-


teggevo, e lui faceva meglio a guardare
altrove. «Non pensavo che stasera saresti
venuta» le sussurrai all’orecchio. Se avessi
saputo prima che si sarebbe presentata così,
bella da far venire l’acquolina in bocca, avrei
piantonato la porta della sua stanza.
«Scusami. Pensavo di aver capito che
potevo venire…» mormorò, diventando tutta
rossa. Non volevo metterla in imbarazzo, mi
aveva frainteso.
«Non mi aspettavo di vederti arrivare
vestita così» le spiegai senza staccare gli
occhi da Woods. Non avevo intenzione di
farlo di fronte a lei, ma, se lui mi avesse pro-
vocato, avrei reagito. Quel vestitino rosso le
stringeva le curve in un modo che avrebbe
dovuto essere vietato dalla legge… Non c’era
uno specchio, in quel cavolo di sottoscala?
Bah, non me lo ricordavo.
A un tratto, Blaire si liberò dalla mia presa
con uno strattone e se ne andò in cucina.
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«Ma che cazzo ti è preso, Rush?» fece


Woods, guardandomi male e correndole
dietro.
«Lei non si tocca» lo misi in guardia bloc-
candogli il passaggio. «Stalle lontano, hai
capito?»
Più Woods mi fissava, più i suoi occhi si
accendevano di rabbia. «Cos’è, adesso hai
deciso di reclamarla? Far lavorare al club i
membri della tua famiglia è squallido
persino per te, Rush.»
Avanzai di un passo. «Stanne fuori, e stai
alla larga da lei. È il tuo unico avvertimento»
intimai, prima di andare a cercare Blaire.
In corridoio incrociai Grant. «Ci è rimasta
male, pensaci tu» mi disse lanciandomi uno
sguardo infastidito e oltrepassandomi per
tornare alla festa.
Perché c’era rimasta male? Che cosa avevo
fatto, a parte impedire a Woods di approfit-
tarsi di lei? Ignorai due ospiti strada facendo
e scossi la testa di fronte a Nan, che stava
125/488

cercando di raggiungermi. No, non in quel


momento.
«Stai andando da lei?» mi sibilò, rabbiosa.
«Tu vai a goderti la tua festa da mille e
una notte, sorellina.» Aprii la porta della dis-
pensa e me la chiusi dietro le spalle, a chiave.
Non volevo essere seguito.
Non bussai, sapevo che Blaire non mi
avrebbe aperto. Entrai direttamente e rimasi
immobile a fissarla mentre cercava di abbas-
sare la cerniera del vestito. Quando mi vide,
lasciò cadere le mani lungo i fianchi e fece un
passo indietro, inciampando nel materasso e
ritrovandosi seduta. Non c’era molto spazio
per muoversi, lì dentro. Non era giusto, come
faceva a vivere in così pochi metri? Chiusi la
porta.
«E tu come fai a conoscere Woods?» le
domandai. La rabbia che grondava dalla mia
voce era del tutto involontaria.
126/488

«Suo padre è il proprietario del country


club. Lui gioca a golf, io gli servo da bere»
rispose, nervosa.
Sapevo già tutto, ma volevo accertarmi
che quello fosse l’unico motivo per cui si con-
oscevano. Non avrei sopportato di sapere che
lo frequentava. Che frequentava chiunque
altro. «E perché ti sei messa quel vestito?»
m’informai, osservando l’indumento che
avrebbe sicuramente avuto un ruolo da prot-
agonista nelle mie fantasie notturne su di lei.
Blaire si rialzò di scatto e il suo sguardo,
da nervoso, diventò furibondo. «Perché me
l’aveva comprato mia madre, ma poi quella
sera mi hanno dato buca e io non ho più
avuto occasione di metterlo. Oggi tu mi hai
invitata e io volevo essere all’altezza. Ho
indossato la cosa più bella che avevo, ma mi
scuso se vi è sembrata ridicola. Anzi, sai cosa
ti dico? Che non me ne frega un cazzo. Tu e
quei deficienti dei tuoi amici snob avete tutti
un gran bisogno di ripigliarvi.» Mi spintonò
127/488

con la mano, come per allontanarmi. Non mi


mossi di un millimetro, però ci aveva messo
della forza.
Non mi aveva capito, proprio per niente.
Figurarsi, pensava di non essere all’altezza!
Era talmente perfetta da fare male. Strinsi
forte le palpebre per cercare di non
guardarla: dovevo andarmene da lì. Quella
stanza era troppo piccola, e il profumo di
Blaire troppo buono…
«’Fanculo!» esclamai prima di affondare
le dita tra i suoi capelli e coprirle le labbra
con le mie. Dovevo assaggiarla, non riuscivo
a controllarmi. Eravamo soli, eravamo
troppo vicini e lei aveva l’odore del paradiso.
Pensavo che mi avrebbe respinto, invece si
sciolse piuttosto facilmente. Presi tutto
quello che potevo mentre lei era ancora
troppo sbalordita per tirarmi uno schiaffo.
La sua bocca si muoveva sotto la mia, e io le
leccai il morbido rigonfiamento del labbro
inferiore. «È da quando sei entrata in casa
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mia che muoio dalla voglia di assaggiare


questa bocca carnosa» le dissi prima di assa-
porarla ancora. Feci scivolare la lingua tra le
sue labbra, e lei le aprì per me. Ogni angolo
che trovavo era più dolce del miele caldo…
Avrei potuto ubriacarmi, con quel sapore.
Le sue piccole mani si aggrapparono alle
mie spalle e strinsero. Volevo di più, volevo
lei. Blaire capì, e la sua lingua cominciò a
muoversi contro la mia. Poi mi morse il lab-
bro inferiore… Oh, no.
La sollevai per la vita e la misi sul letto,
coprendo il suo corpo con il mio. Di più,
volevo di più. Più Blaire, più del suo odore,
più del suo sapore, più di quei suoni che
emetteva. Di più e basta, cazzo.
Quando le premetti fra le gambe aperte la
mia palese erezione, lei gemette e rovesciò la
testa all’indietro. Il mio battito cardiaco
accelerò all’istante: stavo perdendo il con-
trollo. Di più…
129/488

«Bella, troppo bella» le sussurrai contro la


bocca, rendendomi conto di essere sul punto
di esplodere. Non sarei riuscito a tratten-
ermi. Ma lei era troppo perfetta, troppo dolce
per una cosa così. Mi staccai di colpo, scesi
dal letto e la guardai. Il vestito rosso le era
finito sopra alla vita, e potevo vederle le
mutandine rosa, più scure nel punto in cui si
era bagnata… Quello spettacolo mi fece
ribollire il sangue nelle vene. «Porca put-
tana…» imprecai, tirando un pugno al muro
per costringermi a non toccarla. Spalancai la
porta: avevo bisogno di respirare aria fresca,
che non fosse satura dell’odore di Blaire. Il
suo profumo mi aveva travolto. Dovevo
scappare.
Era troppo, troppo. In testa continuavano
a rimbombarmi due sole parole: “di più”. Mi
ricordavano quanto anche lei fosse stata dis-
posta a farsi assaggiare. Toccare. E, per
l’amor del cielo, mi ricordavano quanto fosse
stata bagnata. Corsi fuori dalla dispensa e
130/488

andai dritto verso la porta d’ingresso. Aria


fresca, aria senza Blaire. ‘Fanculo, la volevo.
Volevo di più, molto di più.
11

Non avevo chiuso occhio per tutta la notte.


Avevo camminato per chilometri sulla
spiaggia buia e poi, tornato in camera mia,
avanti e indietro senza sosta sul pavimento.
Nemmeno una doccia fredda era servita.
Ogni volta che chiudevo gli occhi, vedevo
quegli slip rosa e sentivo i gemiti di Blaire.
Dovevo togliermela dalla testa…
E dovevo farmi qualcuna. Dal giorno dello
spiacevole episodio con Anya ero rimasto in
astinenza totale, e non era da me.
Quella sera mi sarei sfogato.
Tenere lontana Blaire era l’unico modo
per non ferirla: ancora poco tempo e avrebbe
scoperto tutto, finendo per odiarmi.
132/488

Agguantai il cellulare e passai in rassegna


i numeri in rubrica finché ne trovai uno che
potesse garantirmi un po’ di divertimento
senza impegno. Quella ragazza mi sarebbe
costata una cena e un po’ di carinerie, ma era
dalla volta in cui era venuta a una festa di
Nan che cercava di attirare in tutti i modi la
mia attenzione. Avevo memorizzato il suo
numero e le avevo promesso che prima o poi
l’avrei cercata.
Fissato l’appuntamento per la serata, mi
preparai a trascorrere la giornata con Nan.
Quel giorno ci saremmo fatti una partita a
golf, come da sua richiesta: era un regalo di
compleanno.
Speravo che non avremmo incrociato
Blaire, ma, in caso contrario, mi ritenevo suf-
ficientemente in grado di ordinare qualcosa
da bere comportandomi in maniera normale.
Sarei stato attento a non respirare in sua
presenza, quello sì. E non avrei pensato alle
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sue mutandine. Ecco, mi serviva un’altra


doccia fredda…

Quando arrivai al circolo, con dieci minuti di


ritardo, trovai Nan in piedi con le braccia
incrociate sul petto e la faccia scura. «Scusa,
sono in ritardo» le dissi prima di stamparle
un bacio sulla guancia per ammorbidirla un
po’.
Mi diede uno spintone con la spalla. «Non
è per questo che sono arrabbiata, anche io
sono arrivata adesso» rispose, alzando lo
sguardo al cielo. «Perché ho dovuto sapere
da Bailey e non da te che stasera uscite
insieme?!» mi chiese, indispettita.
Perché quella sera sarebbe servita a togli-
ermi Blaire dalla testa, nient’altro. «Non
sapevo che ti interessasse chi ho intenzione
di portarmi a letto!» replicai, facendole
l’occhiolino, mentre prendevo la sacca dalla
Range Rover e la passavo al caddy che nel
frattempo era corso ad accogliermi.
134/488

«Rush, sei serio?»


«Quando mi ha dato il suo numero,
sapeva a cosa andava incontro. Se però la
vuoi chiamare per rivelarle i miei piani, fai
pure! Se mi desse buca già da ora sarebbe
molto meglio, perché potrei subito trovare
una sostituta…»
Nan scosse il capo e sospirò. «Sei
tremendo.»
«Tu mi adori» le dissi, poi la presi per
mano e la condussi verso il cart. «Ho voglia
di guidare, e non mi serve che mi portino le
mazze. Io ti vado bene oppure pensi che ci
serva un caddy?» le chiesi.
Lei si accomodò con fare regale sul lato
passeggero e scrollò le spalle. «Se sei dis-
posto a prendermi le mazze e a pulirle, allora
fai pure.»
«La diva…» mormorai mentre allungavo
al caddy una banconota da cento dollari per
la sua disponibilità. Mi misi alla guida e
partii verso la prima buca.
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«Principessa, Rush. Io sono una prin-


cipessa» mi corresse Nan.
«No, sorellina, ti sbagli. Sei una diva vizi-
ata, e sposare un reale sarebbe l’unica
ragione per cui potrebbero accusarti di
essere una principessa!» dissi per prenderla
in giro.
Nan mi tirò una sberla sul braccio e scop-
piò a ridere. Ecco la sorella con cui mi
piaceva avere a che fare. La sorella che era
anche mia amica, quella con cui potevo
essere me stesso, quella che non pretendeva
da me cose che non potevo darle. «Bailey è
molto simpatica. Suo padre è cardiochirurgo,
e lei ora sta disegnando una sua linea
d’abbigliamento. Secondo me potrebbe
piacerti, se solo le concedessi più di una sola
notte nel tuo letto.»
Parcheggiai il cart e scesi. «Non starà nel
mio letto, sai che lì non porto mai nessuno.
Sul divano, magari, o sul tavolo della cucina.
Uh, stasera potrei provare con la lavatrice!
136/488

Dopo che avrò scoperto dov’è, però. Tu hai


mai lavato niente in casa mia?» Stavo cer-
cando di cambiare argomento. Non volevo
sentir parlare di Bailey e farmi venire sensi
di colpa per il fatto che quella sera avrei
sostanzialmente usato il suo corpo.
«Sei pazzesco!» Nan si avvicinò al tee di
partenza e attese che le passassi io la mazza.
Allora faceva sul serio… Giocare le piaceva,
ma non aveva la minima idea di quale mazza
usare in base al tiro.
«Sono arrapato, e Bailey ha un bel paio di
tette» dissi.
Nan mi guardò male. «La avvertirò che sei
un porco. Deve saperlo.»
Le porsi il suo driver e le feci un sorris-
etto. «Lo sa, sorellina. Lo sa. Altrimenti non
mi avrebbe lasciato il suo numero!»
Liquidò le mie chiacchiere con un gesto
della mano e prese la mazza. Io mi girai per
afferrarne una a mia volta, ma venni dis-
tratto da un cart che veniva nella nostra
137/488

direzione. Ecco spuntare la chioma bionda di


Blaire… Mi stava guardando. Merda! Sapevo
che ci sarebbero state buone possibilità
d’incontrarla, ma speravo che parlare delle
cose che avevo intenzione di fare con Bailey
quella sera mi avrebbe calmato.
Distolsi lo sguardo: non mi sarei lasciato
influenzare. Sarei riuscito a ignorarla: avrei
preso da bere e mi sarei comportato come in
presenza di una qualunque ragazza del cart.
Con Blaire c’era una collega, Bethy. Par-
lava e intanto guardava Nan. Rabbrividii
all’idea di quello che potesse sapere e raccon-
tare a Blaire… Non ero sicuro di quanto
fossero in confidenza, di certo non troppo:
Bethy non c’entrava nulla con Blaire.
Lei l’innocenza l’aveva persa da un bel po’
di tempo.
«Tu vuoi scherzare. È stata assunta da
Woods?!» sibilò Nan. Guardai mia sorella e
vidi che anche lei aveva notato il cart delle
bibite in avvicinamento.
138/488

«Piantala» la avvertii, andandole


abbastanza vicino da poterla controllare nel
caso in cui ce ne fosse stato bisogno.
«Posso portarvi qualcosa da bere?» La
dolce voce di Blaire mi mandò i brividi lungo
la schiena.
«Almeno si sa comportare» commentò
Nan. Era ingiusta e dovevo fermarla, ma, se
l’avessi fatto, Blaire mi avrebbe visto come
un ragazzo gentile. E io non lo ero, doveva
capirlo.
«Per me una Corona. Con una fetta di
lime, grazie» dissi.
Lo sguardo di Blaire si proiettò sul mio,
ma io mi girai subito verso Nan. «Prenditi
qualcosa da bere. Fa caldo» le consigliai.
Nan era contenta che stessi ignorando
Blaire come se fosse stata una perfetta scon-
osciuta. «Dell’acqua frizzante. Però
asciugala, per favore, perché odio prendere
in mano la bottiglia quando è tutta bagnata»
ordinò.
139/488

Bethy si mosse prima che potesse farlo


Blaire. Interessante… Sembrava quasi che la
stesse proteggendo. «È un po’ che non ti si
vede qui» disse a mia sorella mentre le
asciugava la bottiglia con un tovagliolo.
«Probabilmente perché, invece di lavor-
are, eri troppo occupata ad aprire le gambe
dietro tutti i cespugli del green» fu la ris-
posta di Nan.
Percepii la tensione emanata dal corpo di
Blaire mentre mi stappava la Corona. Teneva
le gambe perfettamente dritte e la schiena
rigida come una tavola di legno.
«Adesso basta, Nan» dissi sperando di
tamponare la situazione in attesa che le
ragazze se ne andassero.
Blaire mi porse la birra, e in quel
momento non potei ignorarla. Lei badava a
tutto tranne che a me, ma, per una frazione
di secondo, provai il desiderio irresistibile
che mi notasse. Che mi guardasse. Sollevò lo
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sguardo, incontrò il mio e… colpito e


affondato.
«Grazie» dissi facendole scivolare una
banconota in tasca. Era una scusa per toc-
carla e per nascondere a Nan quanti soldi le
stessi dando.
Mi allontanai e presi mia sorella sotto-
braccio; era ora di allontanarla dalle ragazze.
«Vieni, vediamo se sei ancora capace di
stracciarmi!» dissi per sdrammatizzare.
Lei accettò la distrazione. «Sei finito» rib-
atté, allontanandosi dalle due.
Sentii Bethy sussurrare qualcosa a Blaire
e, quando mi voltai per guardarla un’ultima
volta, scoprii che anche lei mi stava fissando.
Non riuscii a trattenere un sorriso, era inev-
itabile quando la guardavo. Finalmente le
staccai gli occhi di dosso e tornai a chiacchi-
erare con Nan, che nel frattempo aveva da
ridire sul driver che le avevo passato.
Quando giocavo a golf mi piaceva avere
sempre qualcosa di fresco da bere, ma quel
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giorno, cosa mai successa, pregai di non


incrociare mai più il cart delle bibite.
12

Bailey era una bomba, nessuno avrebbe


potuto dire il contrario. Portava bene il suo
costoso vestitino aderente, e quei tacchi le
slanciavano le gambe in maniera pazzesca.
Aveva passato gran parte della serata a pre-
mersi contro di me e a fare promesse con gli
occhi. Quando poi mi aveva lasciato infilare
una mano sotto al vestito, così che potessi
giocarle fra le gambe, avevo avuto la con-
ferma che fosse perfettamente consapevole
del motivo per cui l’avevo chiamata.
Nan mi aveva fatto preoccupare con quei
commenti sul fatto che la sua amica fosse
una brava ragazza che meritava più di una
semplice botta e via. Sì, era simpatica
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davvero. Mi piaceva, e sarebbe stata perfetta


per un ragazzo in cerca di quel genere di
qualità. Per me, no. A me interessava solt-
anto togliermi dalla testa Blaire Wynn.
Mentre aprivo la porta di casa, Bailey si
avvinghiò a me con le gambe e cominciò a
baciarmi e mordicchiarmi il collo. Blaire
sarebbe tornata presto, ma non avrei
comunque portato Bailey in camera mia.
Guardai l’orologio: avevo circa trenta minuti.
Avrei cominciato lì, poi ci saremmo spostati
in qualche angolino buio e appartato della
spiaggia. Blaire non ci avrebbe visti, e io non
avrei pensato alla sua vicinanza.
«Hai fretta?» le chiesi quando la porta si
aprì.
Lei mi sorrise e arricciò le labbra. «Forse.
Non ti immagini nemmeno da quant’è che
sogno di averti, Rush Finlay…» rispose
mettendosi una mano dietro la schiena e
abbassando completamente la cerniera del
vestito, che cadde a terra. Mi ritrovai davanti
144/488

un seno nudo taglia quarta abbondante,


dotato di grossi capezzoli bruni. «Vorrei la
tua bocca su di me» disse buttando il petto in
fuori e reggendosi le pesanti tette con le
mani. Mentre entrava in casa camminando
all’indietro, si solleticava i capezzoli con le
lunghe unghie perfettamente laccate di
rosso. «Sono venuta un sacco di volte imma-
ginando te che mi succhiavi i capezzoli e
scivolavi sempre più forte dentro di me»
dichiarò in un sussurro sensuale.
Ancora non ero eccitato, ma l’interessante
quadretto che mi stava facendo immaginare
iniziava a rendermi molto partecipe. La presi
per la vita e mi imposi di guardarla negli
occhi. Dovevo ricordare con chi ero: quella
non era Blaire, ma Bailey.
«Ti andrebbe se lo facessi?» le chiesi
prendendola in braccio e portandomi i suoi
capezzoli all’altezza della faccia mentre mi
cingeva la vita con le gambe. Feci saettare la
lingua all’infuori e le solleticai un capezzolo
145/488

con il piercing, consapevole che quella sera la


mia bocca avrebbe fatto felice una donna.
«Dio mio, sì! Succhialo» gridò.
Mentre obbedivo, mi godevo l’abbondanza
del suo seno nella mano. Aprivo spesso gli
occhi per ricordare a me stesso con chi ero:
non volevo più fantasticare come avevo fatto
con Anya. Se stavo per scopare con Bailey,
mi sarei scopato Bailey e Bailey soltanto.
Punto.
Cominciò a sfregarsi contro al mio petto.
Era molto eccitante… Sarebbe venuta presto,
e più volte anche. Era quello di cui avevo
bisogno, più e più volte. La buttai sul divano,
le alzai il vestito sopra la vita e le affondai la
faccia nella scollatura, mentre lei gridava il
mio nome.
Non aveva lo stesso odore dolce di Blaire.
I versi che faceva non erano altrettanto ten-
eri e sensuali. Merda!
Basta, basta. Le divaricai le gambe e le
infilai una mano negli slip. Li guardai: erano
146/488

neri, non rosa. Erano di pizzo, non di raso.


Non c’entravano niente con quelli di Blaire,
quella non era lei.
Le feci scivolare le dita dentro, trovandola
già molto bagnata. Era pronta, più che
pronta. L’avremmo fatto fino allo sfinimento.
«Sì, Rush, bravo. Più forte, succhia più
forte!» mi gridò.
Doveva tacere. Sentire la sua voce non mi
aiutava, cazzo.
«Ooh, sì, toccami, ti prego» supplicò.
«Ssst!» le dissi, evitando di avvicinarmi
alla sua bocca. Per me, le bocche erano
sempre un problema: potevano essere state
ovunque, e io non mi fidavo. Baciavo rara-
mente. E poi i versi che faceva non andavano
bene, gridava troppo, era troppo… troppo…
Sentii una porta sbattere e rimasi di sasso.
Merda. Mi staccai da lei alla velocità della
luce. «Copriti, abbassa il vestito» le ordinai,
precipitandomi fuori dalla stanza per fer-
mare Blaire prima che potesse vedere
147/488

qualcosa. Quando pensai all’odore di Bailey


sulle mie dita, me le infilai in tasca.
«Chiunque fosse, è corso via» disse Bailey
da dietro le mie spalle, e io mi bloccai.
No, cavolo, no. Non ancora. Non ora.
Porca puttana!
«Chi era?» chiese.
«Rivestiti, ti accompagno a casa» le dissi
prima di andare in bagno a lavarmi le mani.
Blaire se n’era andata via. Perché correndo?
L’altra volta era entrata nella sua stanza, ora
invece era scappata sbattendo la porta.
Era colpa del bacio. Io non baciavo, ma
con Blaire l’avevo fatto, rovinando tutto.
Sapevo che la sua bocca era dolce e pulita.
L’avevo desiderata. E avrei voluto di più.
Sempre di più con lei, sempre di più.
Invece non potevo.
Quando uscii dal bagno, andai subito
verso la porta di casa; la spalancai e ci rimasi
malissimo quando vidi che il pick-up di
Blaire non c’era più: era tornata e adesso era
148/488

andata via di nuovo. Aveva lavorato tutto il


giorno sotto a un sole cocente, era sicura-
mente esausta e affamata. Doveva rientrare e
mangiare qualcosa; aveva di certo voglia di
farsi una doccia. E invece dov’era andata? A
fare cosa, un giro a vuoto? Non aveva nem-
meno il cellulare! Gliene avrei comprato uno
io. Le serviva, per la miseria.
«Come mai è venuta qui? Hai prenotato
due donne per sbaglio?» mi chiese Bailey in
tono tagliente. L’avevo offesa, ma non potevo
continuare con lei pensando che Blaire ci
aveva visti. Non lo sopportavo.
«No. Andiamocene» risposi. Non le
dovevo nessuna spiegazione.
«Non m’importa, so che sarà una cosa di
una notte soltanto. So benissimo come fun-
ziona con Rush Finlay. Però io questa notte
la voglio» dichiarò Bailey, raggiungendomi e
tirandomi per la maglietta. «Ho bisogno di
essere scopata. Dove e come vuoi tu.»
149/488

Fantastico. Ora l’avevo fatta eccitare e lib-


erarmi di lei sarebbe stato ancora più diffi-
cile. «Senti, quella ragazza…» Mi interruppi.
Cosa stavo per dirle? Volevo usarla proprio
per togliermi quella ragazza dalla testa e
invece non facevo altro che pensare a lei!
«È… è speciale. Devo andare a vedere come
sta e riportarla qui. Vive da me e quello che
ha visto… non se lo merita.»
Bailey indietreggiò di un passo. Sentii i
suoi tacchi battere sul pavimento di marmo.
«Hai una storia?» mi domandò, incredula.
Scossi la testa. «No, non ho niente con
nessuno. Ma lei è…» Mi interruppi. ‘Fanculo,
non avevo tempo da perdere. «Ora devo riac-
compagnarti a casa e trovarla, oppure
chiamare qualcuno che venga a prenderti.
Non ho tempo per le spiegazioni.»
Bailey girò sui tacchi e puntò verso la
porta. «Bene, Finlay. Ma non richiamarmi
mai più. È finita. Hai avuto una possibilità,
adesso basta.»
150/488

Era la miglior notizia di tutta la giornata.

Riportai Bailey a casa e poi girai per tutto il


paese, ma di Blaire non c’era traccia. Tornai
di corsa a casa, sperando di trovarla lì. Era
quasi mezzanotte, e io a un passo dal
chiamare la polizia. Poteva esserle successo
qualcosa, forse qualcuno la stava trattenendo
contro la sua volontà, oppure… No. Mi stavo
lasciando prendere dal panico. L’avevo ferita.
Sentivo un nodo allo stomaco… Doveva
capire che tra noi non era possibile. Quel
bacio era stato l’inizio e la fine, basta, non
avrei permesso che accadesse altro.
Rientrato, vidi che il suo pick-up ancora
non c’era. Misi la macchina in garage e corsi
dentro. L’avrei aspettata per quindici minuti
esatti, dopodiché avrei chiamato i rinforzi.
Una telefonata e, nel giro di dieci minuti,
avrei avuto una squadra di persone pronte a
cercarla. Non poteva scappare via così, era
151/488

troppo pericoloso per lei. Persino a Rose-


mary Beach.
Vidi due fari che illuminavano il viottolo e
finalmente tirai il sospiro di sollievo che
stavo trattenendo. Era tornata a casa. Per
aprirle aspettai che fosse scesa dal pick-up e
arrivata sull’uscio: non le avrei lasciato la
possibilità di sfuggirmi.
La vidi in piedi di fronte a me. Mi guardò
dietro le gambe, come se si aspettasse di
vedere qualcosa.
«Dove sei stata?»
«Cosa te ne importa?» Non mi sembrava
arrabbiata. Confusa, piuttosto.
Ridussi la già breve distanza che ci sep-
arava. «Mi stavo preoccupando.» Ero stato
sincero, doveva sapere che mi aveva
impensierito.
«Trovo veramente difficile crederti. Prima
eri troppo occupato a goderti la compagnia
per accorgerti di qualsiasi cosa.» Il disprezzo
nella sua voce mi arrivò forte e chiaro.
152/488

«Sei arrivata prima del previsto. Non


volevo che ci vedessi» dissi, pur consapevole
del brutto effetto di quelle parole. Non avevo
scuse, anche se avrei tanto voluto.
Strisciò un piede a terra e sospirò. «Sono
rientrata al solito orario di tutte le sere. Sai
cosa penso? Che invece tu volessi proprio
farti trovare. Il motivo non lo so. Io per te
non provo niente, mi serve solo un posto
dove dormire ancora per qualche giorno.
Uscirò dalla tua casa e dalla tua vita molto,
molto presto.»
Maledetta. Mi stava facendo provare delle
emozioni. E non potevo, non con lei. Chiusi
gli occhi, imprecai in silenzio e cercai di
darmi una calmata. «Ci sono cose di me che
non sai. Non sono uno di quei ragazzini che
puoi comandare a bacchetta. Ho i miei prob-
lemi. Tanti. Troppi, per una come te. Mi
aspettavo una persona molto diversa, consid-
erato che ho già visto com’è tuo padre.
Invece tu… Tu sei tutto ciò da cui uno come
153/488

me dovrebbe stare alla larga. Perché non


sono la persona giusta.»
Rise. Rideva, cazzo! Io le parlavo con sin-
cerità e lei mi rideva in faccia.
«Sul serio? Non riesci a inventarti di
meglio? L’unica cosa che ti ho chiesto è stata
un tetto sopra la testa. Non mi aspettavo di
piacerti, mai pensata una cosa del genere.
Sono consapevole che io e te facciamo parte
di due categorie diverse. Io non sarò mai al
tuo livello, non ho il giusto pedigree. Io
metto vestiti rossi da due soldi e sono partic-
olarmente legata a un certo paio di scarpe
argentate perché erano quelle indossate da
mia madre il giorno delle sue nozze. Non mi
servono capi firmati. A te invece sì, Rush.»
Basta.
Mi aveva provocato.
La presi, la tirai in casa e la spinsi con la
schiena contro il muro. Intrappolare il suo
corpo con il mio dava una bella sensazione,
faceva fremere tutti i miei muscoli
154/488

dall’eccitazione, una reazione che non avrei


dovuto provare. «Io non sono come mi vedi,
mettitelo bene in testa. Non posso toccarti.
Vorrei farlo, vorrei farlo così tanto che mi
scoppia il cervello solo a pensarci, cazzo. Ma
non posso. Non voglio rovinarti. Tu sei… Tu
sei perfetta. Pura. E alla fine non me lo per-
doneresti mai.»
E ora, che ridesse pure di me. Le sue lab-
bra avevano formato un piccolo cerchio di
stupore che le rendeva ancora più appetibili.
«E se fossi io a voler essere toccata da te?
Forse non sono così pura. Forse sono già…
corrotta.»
Adesso ero io a voler ridere. Non si
rendeva conto che sapevo perfettamente che
tipo di ragazza fosse? Le carezzai il viso, per-
ché avevo troppo bisogno di entrare in cont-
atto con lei. «Sono stato con un sacco di
ragazze, Blaire. Ma fidati: non ne ho mai
trovata una perfetta come te. L’innocenza
che hai negli occhi mi chiama, grida… Avrei
155/488

voglia di strapparti di dosso ogni centimetro


di stoffa, Blaire. Voglia di prenderti. Ma non
posso, perché sono uno stronzo bastardo. E
non posso toccarti.»
«Okay» rispose, quasi sollevata. Era
spaventata all’idea che volessi di più? «Però
possiamo essere amici? Non voglio essere
odiata da te. Vorrei dell’amicizia» aggiunse
con voce supplicante.
Amico? Pensava che potessi essere suo
amico? Chiusi gli occhi per non vederle più la
faccia. Per non perdermi nei suoi occhi.
Offrirle la mia amicizia non era un’impresa
che ero certo di poter compiere, ma allo
stesso tempo sapevo di non poterle dire di
no: ormai quella ragazza mi era entrata den-
tro, ed ero fregato. Riaprii le palpebre e
guardai quel suo viso splendido da spezzare
il cuore. «Sarò tuo amico. Ce la metterò
tutta, ma proprio tutta, per riuscirci, ma
dovrò stare attento. Non posso avvicinarmi
troppo a te… Tu mi fai desiderare cose che
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non posso avere. Non puoi capire come ci si


sente a tenere quel tuo corpicino esile sotto il
mio.» Abbassai la voce e mi chinai per sus-
surrarle all’orecchio: «E il sapore che hai,
poi… Dà dipendenza. Me lo sogno di notte.
Ci fantastico sopra. So che saresti altrettanto
buona anche… in altri posti».
Il suo respiro mi faceva il solletico. Come
facevo a essere suo amico? Era troppo
invitante.
«Non possiamo, cazzo. Non possiamo.
Amici, mia dolce Blaire. Soltanto amici» sus-
surrai, poi mi allontanai per raggiungere le
scale. Spazio, ci serviva spazio. Se non ne
avessi trovato, avrei finito per toccarla.
Raggiunte le scale, il pensiero che lei
avrebbe dormito proprio sotto a quei gradini
mi fece male. Più tempo passava, più mi pre-
occupavo per lei. Ma come potevo tenermela
vicino? Quello spazio era la sua salvezza.
«Non voglio che resti in quel sottoscala
schifoso. Mi fa rabbia solo pensarci. Ma non
157/488

posso farti salire qui, non sarei mai capace di


mantenere le distanze… Ho bisogno che tu te
ne stia segregata al sicuro, lontano da me» le
spiegai senza il coraggio di guardare indi-
etro, anche se volevo vedere se mi stesse
credendo.
Vedere lei, un’ultima volta.
Avere… di più.
Invece no.
Macinai di corsa il resto delle scale e salii
in camera mia, sbattendo la porta e chi-
udendomi dentro. Dovevo starle alla larga.
13

Quel mattino, Grant mi aspettava in palestra


molto presto. Ancora non avevamo steso un
piano di allenamenti estivi, ma, visto che
l’ossessione per Blaire non mi faceva
dormire bene, gli avevo proposto di incon-
trarci prima che andasse al lavoro.
Lei era ancora in camera sua quando
imboccai il vialetto di casa; era appena l’alba
e io dovevo buttare fuori tutta quell’energia
repressa. Se non ci fosse stato del sesso,
allora avrei sfiancato il mio corpo con l’aiuto
dei pesi, e forse sarei riuscito a riposare a
dovere.
Grant mi aspettava fuori da una palestra
del centro, non da quella del club, perché
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secondo lui era da femminucce. A suo dire,


gli “uomini veri” si allenavano in “palestre
vere”.
«Era ora» brontolò quando lo raggiunsi.
«Zitto, che non è nemmeno sorto il sole!»
risposi.
Grant si limitò a sorridermi e a bere un
sorso d’acqua dalla bottiglia che aveva con
sé.
«Hai assunto liquidi?»
«No, ho bisogno di un caffè. Ce l’hanno, in
questo posto?»
Grant scoppiò a ridere. «Veramente
sarebbe una palestra, non Starbucks. To’»
disse lanciandomi una bottiglietta che teneva
in borsa. «Adesso ti serve dell’acqua. Il caffè
più tardi.»
«Non mi piacciono i tuoi gusti in fatto di
palestre» lo informai.
«Oh, piantala di fare la principessa.»
Ci allenammo per oltre due ore prima che
mi venisse concessa un po’ di caffeina.
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Lezione imparata per il futuro: mai uscire di


casa senza aver prima ingerito la dose
quotidiana.
«Stasera festa?» mi chiese Grant quando
lasciammo la palestra.
«Dove?»
«Da te. Poca gente soltanto. Tu hai
bisogno di distrarti dalla tua coinquilina, e a
me serve un pretesto per convincere
quell’amica di Nan – com’è che si chiama?
Ah, sì, Bailey – a infilarsi nel mio letto.»
Trasalii. «Non ci riuscirai con una festa a
casa mia. Bailey ieri sera era da me… e non è
andata a finire bene.»
Grant si bloccò all’istante. «Che cosa?! È
finita con un niente di fatto? Pensavo fosse
una botta sicura. Ero convito che ti sarebbe
saltata addosso!»
«Blaire ci ha visti prima che la situazione
si facesse davvero calda, ed è andato tutto a
puttane. Ho riaccompagnato Bailey a casa.»
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Grant emise un lungo fischio. «Dunque


Blaire ti ha beccato e tu hai mandato via una
donna…» commentò scuotendo la testa.
«Bello mio, qui ci serve una festa. Ci servono
un po’ di ragazze. Non dico Bailey, visto che
già ci hai provato, ma gente nuova. Nan ha
un sacco di amiche, e tu devi toglierti dalla
testa “Blaire nel Paese delle Meraviglie”. Non
può succedere, e tu lo sai.»
Annuii. Aveva ragione, non poteva suc-
cedere. «Vero. Okay, invita chi vuoi.»

Gli invitati erano pochi: la capacità di Grant


di organizzare qualcosa di intimo si era
dimostrata notevole. Tenevo gli occhi puntati
verso la porta, in attesa che Blaire tornasse a
casa; non si aspettava di trovare ospiti ed era
sicuramente stanca dalla sera prima. Avevo
intenzione di tenere basso il volume della
musica e impedire la sosta degli invitati sulle
scale, così sarebbe riuscita a dormire. Sicura-
mente qualcuno si sarebbe presentato molto
162/488

tardi, e i decibel avrebbero potuto aumentare


parecchio.
No, no. Non sarei stato capace di starle
lontano. Pessima idea. Lei doveva rimanere
sotto le scale, lì era al sicuro e poteva
riposare. L’avrei garantito io.
«Rush!» mi chiamò Grant dal terrazzo.
Prima di vedere cosa volesse, lanciai un
ultimo sguardo alla porta d’ingresso; non
potevo assentarmi troppo a lungo, dovevo
aspettare Blaire.
«Che c’è?» gli chiesi, mentre lui se ne
stava seduto su una poltrona del salotto con
in braccio una nuova ragazza. Con la bot-
tiglia di birra che aveva in mano, indicò Mal-
com Henry. Da quando era arrivato a Rose-
mary Beach non l’avevo ancora visto; i suoi
genitori vivevano a Seattle e, dalle ultime
notizie che mi erano arrivate, lui frequentava
Princeton.
«Malcom non riesce a trovare i biglietti
per il concerto che gli Slacker Demon
163/488

faranno a Seattle il mese prossimo» mi disse,


sorridendo.
In genere non mi procuravo biglietti per le
date dei tour di mio padre, però Malcom era
amico d’infanzia di Grant. Un tempo era in
confidenza anche con Tripp Montgomery, il
quale a sua volta era amico mio, nonostante
fosse scappato un paio di anni prima senza
farsi mai più rivedere.
«Farò una telefonata» promisi, e il sorriso
di Grant si allargò.
«Prova a dirlo in giro e ti spacco la faccia»
fu l’avvertimento scherzoso di Grant a Mal-
com. «Lui non elargisce biglietti a nessuno.
Lo fa per me, quindi non combinare
cazzate.»
Quella sera Grant si era già fatto un bicch-
ierino di troppo; quando succedeva,
diventava molto allegro e generoso, il che
implicava, per me, essere coinvolto nelle sue
iniziative di beneficenza. Scossi la testa e tor-
nai dentro.
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«Ehi, Woods» disse qualcuno. Smisi di


camminare e mi voltai. Cosa diavolo ci faceva
lì Kerrington? Io non l’avevo invitato e, se
avesse voluto farlo Grant, sicuramente mi
avrebbe avvisato: sapeva che in quel periodo
Woods non mi andava molto a genio.
Raggiunsi a passo deciso la finestra e,
quando guardai fuori, vidi il pick-up di Blaire
parcheggiato verso la fine del vialetto. Mi
infastidii, pensando che non avrebbero
dovuto bloccarle il passaggio e che io avrei
dovuto tenerle un posto libero più vicino
all’entrata.
Era arrivata. E c’era anche Woods, cazzo.
Ignorai gli invitati, dimenticai Woods e
puntai dritto alla dispensa. Blaire era lì den-
tro. Si stava cambiando? Era stata lei a
invitare Woods? Cosa cavolo avrei potuto
dire, in quel caso? Noi ormai eravamo solt-
anto… amici. Merda. Amici del cazzo. Non
suonava neppure possibile.
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Fermo nella dispensa, la vidi uscire dalla


sua stanza come se stesse per andarsene…
Forse a incontrare Woods.
«Rush. C’è qualcosa che non va?» mi
chiese, sembrandomi sincera.
Aspettai un attimo prima di risponderle.
Non volevo spaventarla né sembrarle
aggressivo. «C’è qui Woods» dissi infine, con
tutta la calma di cui ero capace.
«Ehm, sì! Per quanto ne so è un tuo
amico…»
Per quanto ne sapevo io, lui le stava dando
la caccia. «No, non è venuto per me. È ven-
uto per qualcun altro…»
L’espressione di Blaire passò da confusa a
infastidita; incrociò le braccia sotto al petto,
la mossa peggiore se non voleva farmi cadere
gli occhi proprio lì. «Forse sì. Per te è un
problema se i tuoi amici si interessano a
me?»
«Non è all’altezza. È un coglione sfigato.
Non dovrebbe neanche venirti vicino» dissi
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senza pensare. L’idea che potesse fare qual-


cosa con lei mi faceva ribollire il sangue nelle
vene.
Blaire sembrò riflettere sul mio com-
mento. Cavolo, com’era carina con
quell’espressione…
«Non sono interessata a Woods in quel
senso. Lui è il mio capo e forse un potenziale
amico. Tutto qui.»
Non sapevo come reagire a quelle parole.
Non potevo mica ordinarle di starsene nel
sottoscala!
«Non riesco a dormire se c’è gente che
sale e scende continuamente le scale. Resto
sveglia. E così, invece di stare seduta nel mio
sgabuzzino a chiedermi chi ti starai
scopando questa volta, al piano di sopra, ho
pensato che avrei potuto fare due chiacchiere
con Woods sulla spiaggia. Parlare un po’. Ho
bisogno di nuovi amici.»
Figlio di puttana. «Non voglio che tu vada
là fuori a parlare con Woods» risposi. Avrei
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voluto dirle che non mi sarei mai e poi mai


portato nessuna di sopra per scopare. Lei mi
aveva rovinato, in un certo senso, e tutto con
un semplice bacio.
«E forse io non voglio che tu scopi con
un’altra, invece lo farai» fu la sua replica.
L’espressione fiera che aveva sul viso mi
faceva venire voglia di ridere e, allo stesso
tempo, di baciarla fino a farla cadere
svenuta.
Mi stava mettendo a dura prova. Ancora
tanto così e avrei dimenticato il motivo per
cui cedere sarebbe stata una pessima idea…
Mi avvicinai, e lei indietreggiò finché non
fummo di nuovo in quel minuscolo stanzino,
al sicuro da Woods Kerrington. Avrei voluto
tenerla lì. «Stasera non voglio scoparmi nes-
suna» dissi, senza riuscire a nascondere
un’aria divertita, perché in fondo era una
bugia. «Anzi, fammi spiegare meglio. Non
voglio scoparmi nessuna fuori da questa
stanza. Resta qui e parla con me. Anch’io ti
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parlerò. Un amico come Woods non ti


serve.»
Mi allontanò senza troppa forza. «Tu non
mi hai mai parlato, Rush. Mi basta fare la
domanda sbagliata, e tu te ne vai via tutto
incazzato.»
Eppure aveva detto che eravamo amici. Se
ce ne fosse stato bisogno, mi sarei giocato
quella carta tutta la notte. «Non ora. Siamo
amici. Io ti parlerò e non me ne andrò. Però
ti prego, rimani qui con me.»
Si guardò intorno e corrugò la fronte.
«Qui non ci si può neanche girare…» mi
disse tenendomi i palmi delle mani appog-
giati al petto. Poteva sentirmi il cuore, che
del resto batteva così forte da rimbombarmi
nelle orecchie.
«Possiamo sederci sul letto. Non ci toc-
cheremo, parleremo e basta. Come due veri
amici.» Qualsiasi cosa pur di tenerla lì,
lontana da Woods.
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Si rilassò e si mise seduta sul letto, stac-


cando le mani. Mi venne subito voglia di
riafferrarle e tenermele vicine.
«E allora eccoci qui, parliamo» disse indi-
etreggiando sul materasso e incrociando le
gambe.
Anche io mi sedetti, appoggiando la schi-
ena all’altra parete. Non eravamo distanti,
ma era il massimo che quello stanzino
potesse concedere. «Non riesco a credere di
aver appena supplicato una donna di sedersi
a… parlare.»
«E di cosa parliamo?» mi chiese, scrutan-
domi. Dall’espressione che stava facendo,
doveva aver paura di vedermi scattare da un
momento all’altro.
«Parliamo di come diavolo è possibile che,
a diciannove anni, tu sia ancora vergine»
dissi prima di interrompermi. Era semplice-
mente troppo bella per essere così innocente.
Non aveva senso.
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Si irrigidì. «E chi te l’ha detto, scusa?»


fece, indispettita.
Avevo capito che era vergine la prima
volta che l’avevo sorpresa a guardarmi. Quel
rossore sulle guance era stato l’unica prova
di cui avevo avuto bisogno: era una ragazza
limpida, innocente. «So riconoscere una ver-
gine, quando ne bacio una» risposi.
Non si irrigidì, anzi scrollò le spalle come
se non fosse chissà quale argomento. Invece
per me lo era, eccome! Non conoscevo nes-
suna vergine diciannovenne stupenda come
lei.
«Ero innamorata di un ragazzo che si
chiamava Cain. È stato il mio primo fidan-
zato, il mio primo bacio… la prima volta che
ho… Insomma, che ho limonato con qual-
cuno, per quanto innocuo possa essere stato.
Lui diceva di amarmi, diceva che ero l’unica.
Poi mia madre si è ammalata. Io non avevo
più tempo per gli appuntamenti e per pas-
sare i fine settimana insieme a lui, che invece
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aveva bisogno di uscire. E aveva anche


bisogno di costruire quel genere di relazione
con qualcun’altra. E così l’ho lasciato
andare… Dopo Cain, non ho più avuto tempo
di frequentare nessun altro.»
Ma cosa cavolo…? Amava quel tizio, e lui
l’aveva lasciata? «Non ti è stato vicino
mentre tua madre era malata?»
Si irrigidì e si mise a giocherellare con le
mani. «Eravamo piccoli. Lui non mi amava
veramente, lui pensava di amarmi. Tutto
qui.» Lo stava difendendo, Cristo santo!
Quello si meritava un bel calcio nel culo.
«Sei ancora piccola» le dissi, più che altro
per ricordarlo a me stesso.
«Ho diciannove anni, Rush. Per tre mi
sono presa cura di mia madre e l’ho sepolta
senza un briciolo di aiuto da parte di mio
padre. La maggior parte del tempo mi sento
come se di anni ne avessi quaranta, fidati.»
La stanchezza nella sua voce mi fece male al
cuore. Avevo voglia di spaccare la faccia a un
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tizio che nemmeno conoscevo quando invece


era tutta colpa mia… Mi si torsero le budella,
e in quel momento mi resi conto che anche io
avevo contribuito al suo dolore.
Le presi la mano, perché avevo bisogno di
toccarla in qualche modo. «Non avresti
dovuto pensarci da sola.»
All’inizio non disse nulla. I segni che
aveva in fronte si distesero prima che soll-
evasse gli occhi dalla mia mano sulla sua e
me li posasse sul viso. «Hai un lavoro?» mi
chiese.
Risi. Stava cambiando argomento per fare
in modo che fossi io l’interrogato. Mossa
astuta… Le strinsi la mano. «Pensi che tutti
debbano per forza avere un lavoro, una volta
finito il college?» le domandai a mia volta
per prenderla un po’ in giro.
Mi rispose con un’alzata di spalle. Era un
sì, lo capivo. Non era abituata a stili di vita
come il mio.
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«Quando ho finito il college, grazie a mio


padre avevo già un conto in banca
abbastanza consistente da permettermi di
vivere il resto della vita senza dover lavorare.
Ma dopo qualche settimana passata a far
festa e nient’altro mi sono reso conto che
avevo bisogno di una vita. E così ho cominci-
ato a investire in Borsa, scoprendo di cav-
armela molto bene. I numeri mi sono sempre
piaciuti. Sono anche sostenitore di Habitat
for Humanity, un’associazione che costruisce
case per chi non può permettersele, e un paio
di volte l’anno parto per collaborare con loro
anche dal lato pratico. D’estate invece mollo
tutto e vengo qui a rilassarmi.»
Non avrei voluto dirle la verità – o per lo
meno non tutta – invece l’avevo fatto. Mi era
uscita di bocca. Blaire era riuscita a farmi
sentire a mio agio, cosa che con le donne non
mi succedeva mai: ero sempre all’erta per
scoprire i loro secondi fini. Invece lei non ne
aveva.
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«La faccia sbalordita che hai fatto un po’


mi offende!» esclamai. Scherzavo, ma in
fondo era la verità. Non mi andava di essere
considerato un moccioso viziato, sebbene
fosse stata proprio l’immagine di me che
avevo cercato di darle sin dal primo giorno
che si era presentata a casa mia.
«È che non mi aspettavo una risposta
così» disse infine.
Dovevo prendere le distanze. Sentivo di
nuovo il suo odore, porca miseria… Troppo
buono. Arretrai verso il mio lato del letto:
fine del contatto fisico.
«Quanti anni hai?» mi chiese.
Mi sorprendeva che già non lo sapesse; in
fondo le sarebbe bastato cercarmi su Google.
«Troppi per essere qui in questa stanza
insieme a te e decisamente troppi per i pen-
sieri che faccio su di te» risposi.
«Ti ricordo che di anni ne ho diciannove,
anzi venti fra sei mesi. Non sono una bam-
bina.» Non mi sembrava per nulla turbata
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dal fatto che avessi ammesso di fantasticare


su di lei…
«Certo che no, mia dolce Blaire, non sei
una bambina. Ma io di anni ne ho ventiquat-
tro e mi sono già bruciato. Non ho avuto una
vita normale, quindi sono pieno di casini. Te
l’ho già detto, ci sono cose di me che non sai.
Cedere e toccarti sarebbe sbagliato da parte
mia.» Avevo bisogno che capisse. Uno dei
due doveva ricordare il motivo per cui non
potevo metterle le mani addosso.
«Secondo me ti sottovaluti. Io vedo che in
te c’è qualcosa di speciale…» Quelle parole
diedero fuoco al dolore che covavo nel petto.
Non mi conosceva, non veramente. Però,
cavolo, faceva bene sentirle dire che vedeva
altro oltre al figlio di una rockstar.
«Tu non vedi il vero me. Non sai quello
che ho fatto.» E quando l’avesse visto,
momenti come quello non sarebbero stati
nient’altro che ricordi dal sapore dolceamaro
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che mi avrebbero perseguitato per il resto


della vita.
«Forse» disse, sporgendosi verso di me
«Ma quel poco che ho visto non mi dispiace
per niente. Sto cominciando a pensare che
forse, dietro questa facciata, c’è dell’altro…»
Eh, no, adesso doveva indietreggiare.
Quell’odore, quegli occhi…
Feci per dire qualcosa, ma mi interruppi.
Non sapevo bene come rispondere, se non
dicendole che avrei voluto strapparle tutti i
vestiti di dosso e farle gridare il mio nome a
ripetizione.
Vide qualcosa che le fece spalancare gli
occhi. Si avvicinò. «Cos’hai in bocca?»
domandò con un pizzico di meraviglia nella
voce.
Quella sera avevo il piercing alla lingua.
Non sempre mettevo qualcosa di visibile,
perché ormai ero diventato un po’ troppo
grande per i piercing, o almeno così mi sem-
brava. Alle donne però piaceva. Aprii la
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bocca e cacciai fuori la lingua per sottopormi


all’ispezione di Miss Curiosità, che da parte
sua aveva già inclinato la testa per guardarmi
in bocca. Se non l’avessi conosciuta, mi
sarebbe sembrata sul punto di saltarmi in
braccio per vedere meglio.
«Fa male?» mi chiese in un sussurro,
avvicinandosi un altro po’. Ma cosa…?! Se
non si fosse allontanata, si sarebbe fatta
un’opinione personale del mio piercing sen-
tendoselo scorrere sul collo.
Me lo rimisi in bocca e feci di no solo con
la testa per paura che potesse decidere di
toccarlo e farmi perdere il controllo.
«E i tatuaggi che hai sulla schiena? Cosa
rappresentano?» mi chiese indietreggiando
un po’. Avevo ancora il suo odore addosso e
inspiravo più spesso del necessario solo per
incamerarlo dentro di me. Patetico!
Concentrati su qualcos’altro. Rispondi a
queste cazzo di domande e piantala di
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pensare alla sua pelle. E al suo sapore.


Tatuaggi… Vuole sapere dei tuoi tatuaggi.
«In basso ho un’aquila con le ali aperte.
Poi ho il simbolo degli Slacker Demon.
Quando avevo diciassette anni mio padre mi
ha portato a un concerto a Los Angeles e mi
ha accompagnato dal tatuatore per la prima
volta; desiderava ammirare il simbolo della
sua band impresso sul mio corpo. Tutti i
membri del gruppo possiedono questo stesso
tatuaggio nello stesso identico posto, proprio
dietro la spalla sinistra. Quella sera papà era
strafatto, ma resta comunque un bel ricordo.
Crescendo non abbiamo mai avuto molto
tempo da trascorrere insieme, ma ogni volta
che lo vedevo mi faceva aggiungere un
tatuaggio o un piercing» spiegai.
I suoi occhi mi saettarono sul petto. Oh,
no, stava studiando i capezzoli… Doccia
fredda. Mi serviva una lunga, lunghissima
doccia fredda. O forse calda, con un po’ di
olio da massaggi e la mia mano. Dio solo
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sapeva quanto quel profumo e la vista della


scollatura di lei bastassero a mandarmi in
orbita.
«Lì niente piercing, dolce Blaire. Gli altri
che ho sono alle orecchie. Ho messo un freno
a questa storia quando ho compiuto dician-
nove anni.» Doveva subito togliermi gli occhi
dal petto, immediatamente!
Aveva l’aria infelice, oppure preoccupata.
Che cosa avevo detto? Oh, merda, non avevo
raccontato ad alta voce i miei progetti sotto
la doccia, vero?!
«Cosa ho detto per farti fare quella faccina
preoccupata?» le domandai toccandole il
mento per alzarle il viso e guardarla negli
occhi.
«Quando mi hai baciata, l’altra sera, non
mi sono accorta del piercing…» Era quello
che la preoccupava? Mi avrebbe fatto morire.
Stavo raggiungendo il limite.
«Perché non lo portavo» dissi, avvicinan-
domi. Il suo odore mi teneva in pugno.
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«Quando… Sì, insomma, quando baci una


ragazza, lei lo sente?»
Porca puttana. L’idea di darle una lezione
era una tentazione fortissima. Voleva
scoprire cosa si provava, e io, ovviamente,
volevo mostrarglielo. «Blaire, ti prego,
dimmi che me ne devo andare» la supplicai.
Era l’unico modo per non baciarla. «L’avresti
sentito, Blaire, sì. L’avresti sentito ovunque
avessi voluto baciarti. E ti sarebbe piaciuto»
le sussurrai all’orecchio, poi le stampai un
bacio sulla spalla e inspirai a fondo. Troppo
buono…
«Pensi che… Pensi che mi bacerai
ancora?» Mi chiese mentre io le facevo scor-
rere il naso su per il collo e sprofondavo nel
suo profumo. Era una droga.
«Vorrei. Anzi lo voglio, da morire, ma sto
cercando di fare il bravo» ammisi.
«E allora potresti non fare il bravo almeno
il tempo di un bacio?» Teneva le gambe
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premute contro le mie. Ancora un centimetro


e l’avrei avuta in braccio.
«Come sei dolce, Blaire. Troppo dolce.»
Non ce la facevo più. Le sfioravo con le lab-
bra un morbido centimetro di pelle dopo
l’altro, lottando per non toccarla. Era una
ragazza innocente, troppo per me. Quello che
stavamo per fare era sbagliato.
Le assaggiai la pelle con la punta della lin-
gua, e in quell’attimo sentii pulsare l’uccello.
Com’era buona… Dappertutto. Le tracciai
una scia di baci su per il collo e, raggiunte le
labbra, mi fermai. Le volevo. Volevo lei. Di
più, sempre di più. Ma lei era mia… amica.
L’avevo fatta soffrire, e lei nemmeno lo
sapeva. Dovevo fermarmi.
«Blaire, io non sono un ragazzo
romantico. Non sono uno di quelli tutto baci
e coccole. Per me è il sesso che conta. A te
serve un tipo dolce, affettuoso… Non io. Non
uno a cui piace scopare. Tu non sei fatta per
quelli come me. Mi sono sempre preso tutto
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quello di cui avevo voglia, ma stavolta no, sei


troppo dolce. E io devo fermarmi» dissi, più
a me stesso che a lei. Non dovevo dimenti-
care quanto fosse al di fuori della mia
portata.
La sentii rabbrividire. Mi alzai di scatto,
correndo verso la porta. Non le avrei fatto
una cosa simile, non potevo.
«Non posso più restare a parlare. Non
stasera. Non chiuso qui da solo con te.» Con
quella frase, me ne andai prima di perdermi
insieme a lei. Non avrei mai potuto avere
Blaire.
14

Sfrecciai accanto alle poche persone assem-


brate in cucina e andai dritto verso la porta
d’ingresso. Avevo bisogno di uscire e darmi
una calmata. Aria fresca, e nessuno che
potesse vedermi perdere il controllo. Dire di
no a Blaire mi aveva quasi ucciso. Respingere
quelle belle labbra vogliose… Santo cielo,
nessun uomo al mondo avrebbe dovuto
essere sottoposto a una tortura del genere!
«Hai voglia di parlarne?» mi chiese Grant
mentre la porta dietro di me si chiudeva.
«Ho bisogno di stare un po’ da solo» ris-
posi. Afferrai la ringhiera della veranda e
tenni gli occhi puntati sul vialetto pieno
d’auto.
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«Non resisterai a lungo. Ormai ti ha


preso» mi disse, venendomi accanto. Non
avrebbe rispettato la mia richiesta di restare
solo con i miei pensieri, avrei dovuto
immaginarmelo.
«Non le farò del male.»
Grant sospirò e si girò per appoggiarsi con
la schiena contro la ringhiera e guardarmi in
faccia con le braccia incrociate sul petto.
«Per quanto sia dolce, Blaire non mi preoc-
cupa. Mi preoccupi più tu» confessò.
«Ce la faccio.»
«No che non ce la fai. Tieni a posto le
mani quando invece l’hanno capito tutti, da
come ti guarda, che lei te le lascerebbe
mettere ovunque. Non ti ho mai, e dico mai,
visto respingere una ragazza con l’aspetto di
Blaire, e questo significa che… che provi
qualcosa per lei. Ecco perché sei tu quello
che mi preoccupa. Lei verrà a sapere di suo
padre, verrà a sapere di Nan, e quando
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succederà se la darà a gambe. Vi odierà tutti.


Non voglio vederti star male…»
«Lo so» risposi. Lo sapevo benissimo,
cazzo. Ed era proprio la ragione per cui non
la portavo di peso in camera mia per chi-
udercela dentro. Blaire era territorio
proibito.
«Adesso è fuori, sul retro con Woods»
disse Grant.
Mi misi dritto sulla schiena, lasciai la
presa sulla ringhiera e mi girai verso la porta.
«Come fai a saperlo?»
«L’ho vista che usciva mentre seguivo te.»
Nemmeno Woods doveva avvicinarsi a lei,
non gliel’avrei permesso. L’avrebbe ferita.
L’avrebbe usata, e nessuno poteva usare
Blaire. Nessuno, mai. Ci avrei pensato io.
«Devo andare da lei. L’ho offesa» annunciai,
dirigendomi verso la porta.
«Dài, Woods non è un bastardo. Sa che
Blaire è una brava ragazza, perciò smettila di
comportarti così.»
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Strinsi la presa sulla maniglia della porta e


feci un respiro profondo. «Non dirmi cosa
devo fare, Grant.»
Lui emise una breve risata. «Mai, fratello.
Mai.»
Spalancai di colpo la porta ed entrai con
l’intenzione di trovare Blaire e rispedire
Woods a casa.
«Eeeehi, Rush!» mi salutò una sguaiata
voce femminile. Quando abbassai lo sguardo
vidi, appesa al mio braccio, una delle amiche
di Nan e non mi pareva di ricordarne il
nome.
«No» dissi semplicemente, continuando a
camminare. Lei non mollò la presa: continuò
a ridacchiare e a parlare delle sue mutandine
bagnate.
Una volta certe stronzate mi arrapavano,
invece adesso l’odore di Blaire e il pensiero
dei suoi occhioni mentre mi avvicinava per
potermi studiare la lingua facevano sembrare
tutto il resto tristemente squallido.
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«Sono Babs, non ti ricordi? Alle superiori


venivo a dormire a casa di tua sorella» disse
strusciandosi contro di me.
«Okay, tanto piacere» risposi cercando di
liberarmi.
In quel momento entrammo in cucina, e
io incrociai lo sguardo con quello di Blaire.
Era sola. Senza Woods. E mi stava guard-
ando. Con… Babs, o chi cavolo fosse quella,
appesa al mio braccio.
Merda!
«Ma l’hai detto tu…» si lamentò la
ragazza. Io non avevo la minima idea di cosa
dovessi averle detto. Mi baciò il braccio.
Maledizione… «Se vuoi mi tolgo le
mutandine qui, subito» continuò, imperter-
rita. Barcollava sui tacchi, e ora mi stava
aggrappata ancora più forte.
«Babs, ti ho già detto di no. Non sono
interessato» ripetei ad alta voce, tenendo gli
occhi puntati su quelli di Blaire. Volevo che
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mi sentisse. Non era quella la ragazza che


desideravo.
«Sarà eccitante, vedrai» mi promise, poi
scoppiò a ridere. Non aveva niente di
seducente.
«No, sarà fastidioso. Sei ubriaca e il modo
in cui ridi mi sta facendo venire il mal di
testa» risposi senza smettere di fissare
Blaire. Doveva credermi.
Abbassò lo sguardo e si voltò per tornare
nella dispensa. Bene. Lì era al sicuro, e aveva
bisogno di dormire.
«Ehi, quella ti vuole rubare la spesa!» sus-
surrò ad alta voce Babs.
Riuscii a vedere il viso di Blaire colorarsi
di rosso intenso, e mi staccai Babs di dosso
lasciando che barcollasse per ritrovare l’equi-
librio. «Vive qui, può prendere quello che le
pare» annunciai a tutti coloro che avrebbero
potuto metterla in imbarazzo in qualsiasi
modo.
Gli occhi di Blaire tornarono sui miei.
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«Quella vive qui?» fece Babs.


Il dolore negli occhi di Blaire fu una fitta
bruciante al petto. Non potevo sopportarlo.
«No, ti sta dicendo una bugia» intervenne
Blaire. «Sono l’ospite indesiderata che vive
nel suo sottoscala. Volevo delle cose, ma lui
continua a dirmi no.»
‘Fanculo.
Si sbatté la porta alle spalle. Avrei voluto
seguirla, ma sapevo che da quello stanzino
non ci sarebbe stata via d’uscita: non sarei
mai stato capace di tenere le mani e la bocca
lontane dal suo corpo.
Woods entrò in cucina e puntò gli occhi su
di me. «Tu non te la meriti» dichiarò con
freddezza.
«E tu nemmeno» ribattei, poi mi voltai e
imboccai le scale. Dovevo andarmene da
quella gente.
In corridoio incontrai Grant.
«Fai in modo che Woods se ne vada. E se
Blaire esce dalla sua stanza, vienimi a
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cercare» dissi senza neppure fermarmi a


guardarlo. A quel punto me ne andai in cam-
era mia, così avrei potuto ricordare a me
stesso, per l’ennesima volta, il motivo per cui
non potevo toccare Blaire.

Potresti non fare il bravo almeno il tempo di


un bacio? Quelle parole mi avevano tenuto
sveglio tutta la notte. Come fossi stato capace
di uscire da quello stanzino restava un mis-
tero anche per me. Basta, dovevo chiudere la
questione. Non potevo più lasciare che si
avvicinasse, lei non sapeva la verità. Dovevo
proteggerla. Quello che provavo per lei era
già troppo pericoloso.
Per quanto volessi dirle di Nan, in realtà
non potevo. Mi avrebbe odiato, e io ormai
ero troppo coinvolto. Non sarei riuscito a
vivere con l’odio di Blaire, almeno non così
presto. Girai la testa per guardare la porta
chiusa della dispensa. La sera prima i suoi
commenti sul fatto di essere l’ospite
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indesiderata mi avevano dato fastidio. Avrei


cambiato le cose. Forse non ero ancora
pronto per farla salire al piano di sopra, però
le avrei dato da mangiare. Non sapevo bene
cosa prendesse per colazione, ma dato che
quel giorno si sarebbe svegliata tardi, avrei
avuto tutto il tempo di prepararle qualcosa.
La porta della dispensa si aprì dietro di
me e, quando voltai di nuovo la testa, vidi
Blaire che mi fissava con un’espressione sor-
presa sul viso. La sera prima non era andata
a finire bene, ma quel mattino avrei
rimediato.
«Buongiorno. Oggi non vai al lavoro,
vero?»
Lei non si mosse e mi rivolse un sorriso
forzato. «C’è un buon odorino.»
«Prendi due piatti e vedrai. La mia pan-
cetta è la fine del mondo.» L’avrei addolcita.
Sapevo che era ancora arrabbiata con me
perché la sera prima me n’ero andato, ma
cavolo, l’avevo fatto per lei, non per me!
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«Ho già fatto colazione, però grazie.» Si


mordicchiò il labbro inferiore guardando la
pancetta con enorme interesse. Troppo. Cosa
stava succedendo? Quand’è che aveva
mangiato? Io ero sveglio da due ore, e lei non
era uscita dallo stanzino.
Misi giù la forchetta che stavo usando e
lasciai perdere la pancetta per concentrarmi
su Blaire. «Ma come fai ad avere già
mangiato? Ti sei appena alzata!» La osservai
attentamente, nel caso decidesse di non
dirmi tutta la verità. Se era perché non vol-
eva mangiare di fronte a me o fisse femminili
del genere, avrebbe dovuto cambiare idea.
«Tengo burro di arachidi e pane in cam-
era. Ne ho mangiato un po’ prima di uscire.»
Che cosa aveva appena detto?! «E perché
queste scorte in camera, scusa?»
Si mordicchiò ancora il dito per un attimo,
poi sospirò. «Non è la mia cucina. Tengo le
mie cose nella stanza dove sto.»
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Teneva le sue cose nella stanza dove


stava? Fermi un attimo… Cosa?! «Quindi da
quando sei qui non fai che mangiare pane e
burro di arachidi? Nient’altro? Hai fatto la
scorta, te la sei portata in camera e fine della
tua alimentazione?» Nello stomaco mi si era
formato uno di quei nodi che non provavo
più dall’infanzia. Se mi avesse risposto che sì,
non aveva fatto altro che mangiare sandwich
al burro d’arachidi, sarei uscito di testa. Le
avevo forse fatto pensare di non poter
mangiare il mio cibo? Merda!
Annuì lentamente, con occhi che si fecero
ancora più grandi del solito. Ero un coglione.
No… peggio di un coglione.
Picchiai la mano contro al bancone della
cucina e cercai di concentrarmi sulla pan-
cetta per non perdere il controllo.
Era colpa mia. Tutta colpa mia, porca put-
tana. Lei non si era mai lamentata, diver-
samente da quello che avrebbe potuto fare
qualsiasi altra donna. E mangiava panini al
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burro d’arachidi ogni santo giorno. Provavo


male al petto, non si poteva andare avanti
così. Ci avevo provato, ma non avrei più cer-
cato di mantenere le distanze.
«Prendi la tua roba e vai al piano di sopra.
Scegliti la stanza che vuoi sul lato sinistro del
corridoio. E butta quel cavolo di burro di
arachidi, puoi mangiare ciò che ti pare in
cucina» le dissi.
Lei rimase paralizzata sul posto. Perché
non mi stava a sentire?
«Se vuoi rimanere qui, Blaire, muovi il
culo e sali. Adesso. Poi torna giù e prendi
qualcosa dal mio frigorifero, sotto i miei fot-
tutissimi occhi» ringhiai. La mia reazione la
irrigidì ulteriormente. Dovevo calmarmi;
non volevo spaventarla, solo trasferirla al
piano di sopra! E farle mangiare un po’ di
pancetta.
«Perché vuoi che mi trasferisca su,
scusa?» mi chiese, cauta.
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Prima di guardarla, spostai l’ultimo pezzo


di pancetta dalla padella alla carta da cucina.
Vederla mi faceva male. Sapere di averla
trattata in quel modo e che lei aveva
accettato tutto senza lamentarsi mi rendeva
difficile persino respirare. «Perché sì. Non ce
la faccio più ad andare a letto la sera sapendo
che dormi nel mio sottoscala. E ora ho
persino in testa l’immagine di te che mangi
tutta sola un misero panino. Scusa, ma
proprio non ce la faccio.» Ecco, l’avevo detto.
Quella volta non protestò. Si girò e tornò
in dispensa. Io rimasi in piedi ad aspettarla
finché non la vidi tornare con la valigia in
una mano e un vasetto di burro di arachidi
con del pane nell’altra. Posò il cibo sul
bancone senza guardarmi e imboccò il
corridoio.
Io mi stavo concentrando per non pren-
dere il vasetto di burro e scaraventarlo con-
tro al muro. Morivo dalla voglia di colpire
qualcosa. Il dolore che avevo dentro stava
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salendo a galla, e avevo bisogno di rompere


un oggetto qualsiasi per sfogare la rabbia.
Rabbia rivolta completamente verso me
stesso per essere un coglione egocentrico. Mi
ero preoccupato così tanto di non toccarla
che l’avevo dimenticata sotto altri punti di
vista. Viveva a pane e burro di arachidi,
maledizione!
«Non c’è bisogno che mi trasferisca al
piano superiore. A me quella stanzetta
piace.» La tenue voce di Blaire fece irruzione
tra i miei pensieri, costringendomi a
stringere il bancone ancora più forte di
prima. L’avevo trattata male. Avevo trascur-
ato i suoi bisogni. L’unico mio desiderio era
stato toccarla, annusarla e stringerla, invece
l’avevo delusa. Non sarei stato in grado di
perdonarmi per quello che le avevo fatto.
«Tu prendi una delle stanze che ho detto
io. Il tuo posto è di sopra, non nel sottoscala.
Lo è sempre stato» dissi senza guardarla.
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«Almeno potresti dirmi in quale stanza


andare? Mi sento a disagio a dover scegliere.
Non è casa mia.»
La stavo spaventando, un’altra delle cose
che non si meritava. Lasciai la presa sul
bancone e la guardai: sembrava pronta a
schizzare di nuovo nel sottoscala da un
momento all’altro.
«Le stanze sulla sinistra sono tutte per gli
ospiti. Ce ne sono tre. Penso che la vista
dall’ultima in fondo sia la migliore, si affac-
cia direttamente sull’oceano. Ma la stanza al
centro è tutta bianca, con qualche dettaglio
rosa chiaro. Mi fa pensare a te. Perciò sei lib-
era di scegliere quella che preferisci, basta
che poi torni qui a mangiare.»
«Ma io non ho fame. Ho appena
mangiato…»
«Se mi dici ancora che hai mangiato quel
cazzo di burro di arachidi, giuro che lo
prendo e lo faccio volare fuori dalla fines-
tra.» Solo il pensiero mi faceva impazzire.
198/488

Inspirai a fondo e mi concentrai per sem-


brare calmo. «Per favore, Blaire. Torna qui a
mangiare qualcosa, fallo per me.»
Lei annuì e salì le scale. Avrei dovuto por-
tarle la valigia, ma sapevo che in quel
momento non mi avrebbe voluto vicino.
Doveva farlo da sola. Io mi ero appena com-
portato come un pazzo… Lavai la padella che
avevo usato per cuocere la pancetta e la rim-
isi a posto; nel frattempo, Blaire non era
ancora tornata. Presi un grosso piatto dalla
credenza, lo riempii di uova e pancetta e mi
sedetti a tavola. Avrebbe potuto mangiare
dal mio piatto.
Eccola. Alzai lo sguardo su di lei, che mi
ricambiò. «Allora? Hai scelto una stanza?»
Lei fece di sì con la testa e si mise in piedi
dall’altro lato del tavolo. «Sì, suppongo di sì.
Quella con la vista mozzafiato è tutta… verde
e azzurra?»
«Sì, è quella.» Non riuscii a trattenere un
sorriso. Ero contento che avesse scelto
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proprio la stanza che immaginavo. Anche se


era quella più vicina alla mia.
«E per te va bene se dormo lì? È molto
bella. Se fosse casa mia, non la cederei mai!»
Si stava ancora assicurando che non cambi-
assi idea, rispedendola nel sottoscala.
Le rivolsi un sorriso rassicurante. «Ancora
non hai visto dove sto io…» Avevo detto
“ancora”. Avrei ceduto… Io non portavo
donne nella mia stanza. Era il mio spazio.
Eppure sentivo di voler vedere Blaire lì den-
tro, con le mie cose.
«Dormi anche tu su quel piano?»
«No, camera mia occupa tutto l’attico»
spiegai.
«Cioè tutte quelle finestre? È un’unica
stanza gigante?»
Impossibile non notare il tono di merav-
iglia nella sua voce. L’avrei portata a vederla
prima che fosse tutto finito.
«Esatto.» Mangiai un pezzo di pancetta,
sforzandomi nello stesso tempo di
200/488

controllare i pensieri riguardo a Blaire in


camera mia che mi turbinavano in testa. No,
non sarebbe stata una buona idea. «Hai già
messo via le tue cose?» le chiesi, cercando di
pensare ad altro. Andava bene tutto.
«No, prima di svuotare la valigia volevo
parlarne con te. Forse è meglio che lasci tutto
così com’è, perché entro la fine di questa set-
timana sarò pronta per andarmene. Ho rac-
colto ottime mance e ho messo da parte prat-
icamente tutto.»
No. Non poteva andarsene via da sola.
Non sarebbe stato sicuro. Pensava di dover-
sene andare a causa mia…
Quel coglione di suo padre non aveva
nemmeno chiamato per sapere come stava.
Non aveva nessuno, ed era così vulnerabile…
Le serviva qualcuno che la proteggesse.
No, non si sarebbe mossa da casa mia. Non
avrei sopportato il pensiero che qualcuno
potesse farle male. Rimasi concentrato sulla
vista della spiaggia, sperando che mi
201/488

calmasse, ma il panico all’idea dei pericoli


che avrebbe corso vivendo da sola era troppo
forte. «Blaire, ti puoi fermare qui tutto il
tempo che vuoi.»
Non disse niente. Le spostai la sedia
accanto alla mia.
«Dài, siediti qui vicino a me e mangia un
po’ di pancetta.» Lo fece con lentezza, e io le
allungai il mio piatto. «Mangia» le dissi.
Scelse una fetta e le diede un morso. Fece
sfarfallare gli occhi, e le ciglia le svolazzarono
sugli zigomi. Un gesto sexy da morire,
davvero.
Spinsi di nuovo il piatto verso di lei. «Dài,
mangiane un’altra.» Mi sorrise come se
trovasse la situazione divertente, e il nodo di
dolore dentro di me si allentò. Potevo tenerla
con me, fare in modo che non volesse
andarsene mai più. «Programmi per oggi?»
le chiesi.
«Boh! Ancora non so. Pensavo di andare a
cercarmi un appartamento.»
202/488

«Adesso basta ripetere che te ne vuoi


andare. Non ti lascio uscire da qui finché non
tornano i nostri genitori. Devi parlare con
tuo padre prima di andare a vivere per conto
tuo, non è una passeggiata. Sei troppo
giovane, potrebbe essere pericoloso.»
Rise, producendo un suono dolce e
musicale che sentivo troppo di rado. «Non
sono troppo giovane! Ancora con questa
storia dell’età? Guarda che ho diciannove
anni. Sono adulta. Posso vivere da sola senza
problemi. E poi so colpire un bersaglio in
movimento molto meglio di tanti poliziotti.
Sono una fuoriclasse della pistola, sai? Basta
con tutte queste ramanzine sul “pericolo” e
sul “troppo giovane”.»
L’idea di Blaire con una pistola mi
eccitava e terrorizzava al tempo stesso. Per
quanto sexy potesse essere, avevo paura che
potesse farsi male. «Hai davvero una
pistola?»
Sorrise e annuì.
203/488

«Pensavo che Grant stesse solo scherz-


ando! A volte fa battute penose.»
«Invece no. Gli ho davvero puntato contro
la pistola quando mi ha spaventata, la prima
sera che sono arrivata qui.»
Adesso sì che mi veniva da ridere. «Mi
sarebbe piaciuto un mondo assistere alla
scena!»
Lei si limitò a sorridere a testa bassa. Non
mi guardava, e mi resi conto che la prima
sera in casa mia non doveva rappresentare
per lei un ricordo piacevole.
«Non voglio che resti qui soltanto perché
sei piccola. Lo so che sai badare a te stessa, o
che almeno credi di saperlo fare. Voglio che
resti qui perché… Perché mi piace averti con
me. Non te ne andare. Aspetta che tuo padre
torni. Mi sembra di aver capito che avete un
gran bisogno di incontrarvi. Dopo che vi
sarete visti, deciderai cosa fare. Per il
momento, che ne dici di andare su a disfare
la valigia? Pensa a quanti soldi puoi
204/488

risparmiare vivendo qui. Quando te ne


andrai, avrai in banca un bel gruzzoletto.»
Avevo appena detto molto più di quanto
avrei voluto. Ma dovevo convincerla a
restare.
«D’accordo. Se lo pensi veramente, allora
ti ringrazio.»
La mia testa cominciò a elaborare strane
visioni di lei nuda nel mio letto. Non
potevano diventare realtà, dovevo ricordare
che c’era Nan. E cosa lei significasse per
Blaire. Avrebbe finito per odiarmi…
«Lo penso veramente, sì. Ma questo signi-
fica anche che la storia dell’amicizia fra noi
due continua a essere valida a tutti gli
effetti» dichiarai.
«Affare fatto.» Non era la risposta che
avrei voluto sentire. Una parte di me sperava
di essere supplicata come era successo la
sera prima, perché in quel momento ero
debole e avrei ceduto. Scacciai dalla mente
ogni ombra di pensiero erotico relativo a
205/488

Blaire: non potevo avere certe fantasie, altri-


menti sarei impazzito. «Un’altra cosa: d’ora
in poi tu mangi quello che trovi in questa
cucina.»
Fece di no con la testa.
«Blaire, non se ne parla nemmeno. Sono
serio: tu-mangerai-il-mio-cibo.»
Lei si alzò in piedi e mi guardò dritto negli
occhi. «No! Farò la mia spesa e mangerò le
mie cose. Io non sono… Non sono come mio
padre.»
Merda. Era di nuovo colpa mia. Mi alzai
anche io per ricambiare il suo sguardo
deciso. «Pensi che ormai non l’abbia capito?
Hai dormito in un cazzo di ripostiglio senza
lamentarti mai. Pulisci ogni volta che passo.
Non tocchi cibo non tuo. Certo che non sei
come tuo padre! Sta di fatto che sei ospite in
casa mia, perciò io voglio che mangi anche
nella mia cucina e ti comporti come se fossi a
casa tua.»
206/488

La postura rigida di Blaire si ammorbidì


un po’. «Okay. Metterò la mia spesa nel tuo
frigorifero e la mangerò qui. Così va bene?»
No che non andava bene. Doveva mangi-
are il mio cibo! «Se le uniche cose che hai
intenzione di comprare sono pane e burro di
arachidi, allora no. Voglio che mangi come si
deve.»
Tentò di fare no con la testa, allora io le
presi una mano.
«Blaire, sapere che mangi mi renderebbe
felice. Henrietta fa la spesa una volta la setti-
mana e abbonda sempre, perché sa che quasi
sempre organizzo feste. Il cibo non manca
mai. Ti prego.»
Si mordicchiò il labbro inferiore, ma non
prima di lasciarsi sfuggire una risatina.
Cavolo, com’era carina.
«Stai ridendo di me?» le chiesi, con la
voglia di sorridere a mia volta.
«Sì. Un pochino.»
«Significa che mangerai il mio cibo?»
207/488

Sospirò, ma senza smettere di sorridere.


«Soltanto se mi permetti di darti la mia
quota ogni settimana.»
Feci di no con la testa. Lei si liberò dalla
mia presa e se ne andò. Che donna testarda!
«Dove vai?»
«Sono stanca di discutere. Mangerò il tuo
cibo se mi lascerai pagare la mia parte. È
l’unico compromesso a cui posso scendere.
Prendere o lasciare.»
Brontolai, ma avrei dovuto accettare per
forza. «E va bene! Allora pagami.»
Mi guardò. «Vado a disfare la valigia. Poi
mi farò un bagno in quella vasca enorme e
poi non so. Fino a stasera non ho niente da
fare.»
Attenzione…
«Perché, stasera con chi esci?» le chiesi,
con un brutto presentimento.
«Con Bethy.»
«Con Bethy? Quella che si fa Jace?»
Quella notizia non mi piaceva per niente:
208/488

Bethy era un concentrato di guai. Si sarebbe


ubriacata, dimenticandosi completamente
della sua amica. Pensai ai ragazzi che
avrebbero potuto darle fastidio…. No, senza
di me non ci sarebbe andata. Qualcuno
doveva proteggere quel culetto da urlo.
«Errore. Quella che Jace si faceva. Adesso
lei è rinsavita e ha voltato pagina. Questa
sera usciamo a divertirci, andiamo in un loc-
ale di musica country. Vedrai che troveremo
qualche bel cowboy semplice, onesto e diver-
tente.» Mi diede le spalle e corse su per le
scale.
Quella conversazione non era ancora
finita.
15

Lei era al piano di sopra. Proprio accanto alla


porta che dava su camera mia. E si stava
facendo il bagno… Merda.
Dovevo uscire. Mettere un po’ di distanza
tra noi due sarebbe stato importante, quel
giorno. La mattinata in sua compagnia era
stata piacevole. Non avrei più potuto tenerla
così lontana da trascurare i suoi bisogni
primari: avrebbe mangiato il mio cibo, mal-
edizione. Avrebbe dormito in un bel letto e
fatto il bagno in una grande vasca. Basta
trattarla come una cazzo di serva.
Al peso che prima sentivo sulle spalle si
sostituì la paura di non riuscire a starle
lontano. Sapere che avrebbe dormito là
210/488

dentro e che l’avrei guardata mangiare


regolarmente, per essere sicuro che si
nutrisse a dovere… Come sarei riuscito a
starle lontano?
Grant. Dovevo parlare con Grant. Lui mi
avrebbe ricordato perché non potevo averla.
Perché non potevo prenderla tra le mie brac-
cia e stringerla. Dopo un ultimo sguardo in
cima alla scala, mi diressi verso la porta.
Prendere una boccata d’aria fresca e parlare
con una persona razionale mi avrebbe fatto
bene.
Salii a bordo della Range Rover e composi
il numero di telefono di mia madre.
Sarebbero tornati a casa nel giro di poco. Il
mio tempo stava per scadere: Blaire avrebbe
saputo e io l’avrei persa. Però avrei fatto di
tutto per assicurarmi che stesse bene. Non le
avrei permesso di andarsene via e basta. Se
fosse stato necessario, avrei persino puntato
una pistola contro Abe per farlo correre
dietro a sua figlia… Stupido coglione.
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«Rush» disse mia madre dopo il terzo


squillo.
«Quando tornate a casa?» chiesi. Non ero
in vena di convenevoli.
«Non so, non ne abbiamo ancora parlato»
fu la sua risposta. Il suo tono scocciato non
mi sorprendeva: sapeva benissimo che, se
avessi voluto, avrei potuto obbligarla a
tornare.
«Fammi parlare con Abe.»
Mia madre sospirò con aria teatrale. «Per-
ché, Rush? Vuoi sgridarlo perché non è con
sua figlia adulta, che ormai potrebbe anche
badare a se stessa?»
Strinsi forte il volante e inspirai profonda-
mente, più volte, ricordando a me stesso che
insultare la propria madre non era sim-
patico. In fondo si stava solo mostrando per
come era, ovvero una perfetta egoista. «Carte
di credito, case, auto… È tutto mio, mamma»
preferii ricordarle.
212/488

Lei fece un verso che mi fece pensare a un


sibilo.
«Ciao, Rush.» Era la voce di Abe.
«Lavora al club. Dice che presto si
trasferirà e andrà a vivere in un posto tutto
suo» gli dissi. Si sarebbe subito preoccupato
al pensiero di sua figlia che viveva da sola.
«Bene. Sapevo che sarebbe riuscita a
rimettersi in piedi» fu la sua risposta.
Sterzai di colpo e parcheggiai la Range
Rover a bordo strada. Il sangue mi pulsava
nelle orecchie, la vista si annebbiava. Brutto
pezzo di merda schifoso… Avevo sentito
bene? «Tu non ti meriti nemmeno di respir-
are l’aria che respiri, figlio di puttana»
ringhiai nel microfono.
Silenzio.
«Lei è innocente. Troppo innocente,
troppo ingenua. E poi è bella. Di una bellezza
accecante. Da far girare la testa, da far
svenire. Te ne rendi conto? Tua figlia non ha
nessuno. Nessuno! Ed è vulnerabile. Sola e
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ferita. Qualsiasi stronzo potrebbe approfit-


tarsi di lei. Non te ne frega niente?» Res-
piravo affannosamente. Le nocche mi divent-
arono bianche nei punti in cui stringevano il
volante per cercare di controllare la rabbia.
«Lei ha te» furono le sue uniche parole.
«Me? Lei ha me? Ma che cazzo dici? E
pensare che mi conosci. Sono il figlio di Dean
Finlay. Quindi? Quindi non certo uno che
può proteggerla. Sono lo stronzo senza cuore
che le ha tolto il padre quando aveva più
bisogno di lui. Ecco chi sono!» Me. Diceva
che Blaire aveva me. Come se fossi degno di
una responsabilità del genere. Non le voleva
bene? Un padre aveva una figlia come Blaire
e non voleva proteggerla?
«Me ne sarei andato anche senza la tua
visita, Rush. Non potevo rimanere. Sono
anni che non ha più bisogno di me, e non ne
ha nemmeno adesso. Non sono io quello che
le serve. Invece tu, forse… tu forse sì.»
214/488

Davvero stava pensando di dire cose


sensate? Ma come cazzo faceva?
«Starà bene. Starà molto meglio senza di
me. Ciao, Rush» mi disse con una gravità che
non gli avevo mai sentito. Il telefono suonò
libero.
Aveva riattaccato.
Rimasi fermo a fissare la strada che avevo
davanti. Non avrebbe fatto niente per Blaire,
l’avrebbe davvero lasciata allo sbaraglio. E
aveva una piccola speranza che l’aiutassi io.
Punto.
Sarebbe stata bene, questo l’avrei
garantito io. Anzi, non bene, benissimo: non
avrei permesso a nessuno di farle del male.
L’avrei protetta. Non aveva un padre che la
tenesse al sicuro, però aveva me. Non era
sola. Non più.
Aveva me.
Mi era passata la voglia di parlare con
Grant. Volevo starmene per i fatti miei,
pensare, programmare. Blaire era nelle mie
215/488

mani, e dovevo essere sicuro di non


deluderla un’altra volta. Meritava molto,
molto di più.

Tornai a casa ore dopo, con una nuova


determinazione. Sarei stato amico di Blaire.
Il suo migliore amico. Il migliore amico che
avesse mai avuto, cazzo. Nessuno l’avrebbe
toccata né ferita. Non voleva che mi pren-
dessi cura di lei, non voleva che le spianassi
la strada, perciò avrei dovuto agire con dis-
crezione. Farle pensare che fosse lei ad avere
il controllo.
Aprii la porta con il sorriso che mi
spuntava sulle labbra. Sapere che in casa
c’era lei mi faceva sentire in pace con il
mondo. Finché… finché non la vidi pronta a
uscire, vestita come un sogno erotico
diventato realtà.
Cristo santo, perché si era messa così?!
Minigonna di jeans con stivali. Stivali da
cowboy… Signore, abbi pietà di me.
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«Caspita» mormorai, chiudendomi la porta


dietro le spalle. Stava per uscire vestita così.
Andava a ballare… con Bethy. Merda.
«Quindi… quindi ti vesti così per andare in
discoteca?» le chiesi cercando di non lasciar
trapelare il panico.
«Non vado in discoteca, vado in un bar a
sentire musica country. Tutt’altra cosa» ris-
pose, rivolgendomi un sorriso nervoso.
In un bar. Stava andando in un bar.
Vestita così.
Mi passai una mano tra i capelli e cercai di
ricordare a me stesso che voleva che fossimo
amici. Amici che non davano in escandes-
cenze chiedendo all’altro di cambiarsi prima
di uscire di casa. «Posso venire? Non sono
mai stato in un posto così» chiesi.
Blaire spalancò gli occhi. «E ci vorresti
venire con noi?»
Le feci una radiografia con lo sguardo. Eh
sì, ci tenevo molto… «Esatto.»
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Scrollò le spalle. «Se proprio ci tieni…


Però dobbiamo uscire fra dieci minuti per
passare a prendere Bethy.»
Mi avrebbe lasciato fare. Nessuna prot-
esta, grazie a Dio. «Posso essere pronto fra
cinque» le promisi schizzando su per le scale.
Mi sarebbe bastato un attimo per tornare
giù. Blaire, bella come un angelo in stivali da
cowboy, in un bar pieno di ubriaconi?
Neanche per idea. Almeno non senza di me,
pronto a rimettere tutti al loro posto.
Se proprio dovevo andare in un locale
country, l’avrei fatto con il look del figlio di
Dean Finlay. Non era il genere di posti che
mi piaceva, benché gli stivali di Blaire
fossero decisamente nella lista delle cose che
prerivo in assoluto. Ogni pretesto era buono,
pur di poterla guardare con quelli addosso.
Presi una maglietta degli Slacker Demon e
me la misi insieme a un paio di jeans. Infilai
l’anello che portavo di solito sul pollice, mi
lavai i denti, spruzzai un po’ di deodorante e
218/488

mi guardai allo specchio. Mancava qualcosa.


Scelsi un orecchino e lo infilai nel lobo. Feci
una linguaccia e sorrisi, ricordando
l’interesse di Blaire per il mio piercing.
L’altra sera, per guardarlo, mi era quasi
salita in braccio. Se ci avesse provato anche
quella sera, forse l’avrei lasciata libera di
strisciarmi addosso come e dove voleva…
Scossi la testa per liberarmi di certi pensieri
che avrebbero prodotto soltanto guai e corsi
verso le scale. Non ci avevo messo dieci
minuti, però mancava poco.
Scendendo, incrociai lo sguardo di Blaire.
Mi stava studiando. Quando mi guardava
come fossi una specie di tentazione, il mio
battito cardiaco andava a mille. Dio solo
sapeva quante volte avevo pensato di assag-
giarla… In tanti, tanti modi. L’idea che anche
lei potesse fare qualche pensierino su di me
mi eccitava più del dovuto, strizzato in quei
jeans aderenti.
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Nell’istante in cui i suoi occhi raggiunsero


il mio viso, tirai fuori la lingua in modo che
potesse vedere il piercing. Lo sguardo le si
infiammò, e per poco a me non scappò un
gemito di piacere. Mmh, le cose che avrei
potuto farle con quel pezzetto d’argento…
«Ho pensato che se la meta è un postaccio
grezzo, con clienti in stivali e cappelli da
cowboy, dovevo restare fedele alle mie radici.
E le mie radici sono nel rock and roll: non
posso fingere di trovarmi bene altrove»
spiegai.
Rise. «Questa sera sembrerai un pesce
fuor d’acqua come me alle tue feste. Ci sarà
da divertirsi! Adesso però andiamo, progenie
di rockstar!» disse, allegra, prima di dirigersi
verso la porta.
La precedetti, aprendola per lei. Un altro
gesto che avrei dovuto fare sin dall’inizio.
«Visto che c’è anche la tua amica, non pensi
che sarebbe meglio prendere una delle mie
macchine? Staremo più comodi che sul tuo
220/488

pick-up» proposi. La volevo seduta davanti,


accanto a me. Vicino a me. Così avrei potuto
guardarle le gambe… e gli stivali. Non mi
andava di stare stipato su un macinino
insieme a Bethy.
Girò la testa per guardarmi. «Però se
prendiamo il mio pick-up daremo meno
nell’occhio.»
Mi sfilai di tasca il piccolo telecomando
che apriva la porta del garage in cui tenevo la
Range Rover. Blaire si sporse per guardarla.
«Wow, che spettacolo!» commentò.
«Vuol dire che possiamo prendere questa?
Non muoio dalla voglia di dividere il sedile
con Bethy. A quella piace toccare senza
chiedere il permesso.» Con me non l’aveva
mai fatto, però avevo sentito un po’ di stori-
elle sul suo conto.
«Eh, già, è tremenda. Le piace flirtare,
vero?» commentò sorridendo.
«“Flirtare” è un gentile eufemismo, direi.»
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«E va bene. Se proprio insisti, possiamo


prendere il tuo superbolide…» disse con
un’alzata di spalle.
Evvai. Adesso dovevo soltanto convincerla
a salire davanti prima che si mettesse sui
sedili posteriori. Puntai verso la Range Rover
facendole cenno di seguirmi.
Le aprii la portiera anteriore, lei si fermò e
mi guardò. «Apri sempre la portiera alle tue
amiche?»
Io non aprivo mai la portiera alle donne,
altrimenti le aspettative lievitavano. Con
Blaire, invece, volevo farlo. Volevo che si
sentisse coccolata, anche se sapevo che era
pericoloso… «No!» le risposi onestamente
prima di andarmene sul mio lato. Non
dovevo fare il galante. Non dovevo trattarla
come se potesse esserci di più.
Saltai a bordo. E ora che cosa le avrei
detto? Non lo sapevo.
«Mi dispiace. Non volevo essere maledu-
cata» si scusò, interrompendo il silenzio.
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La stavo mettendo in imbarazzo e dovevo


fare progressi, se speravo di far funzionare le
cose. «Hai ragione tu. È che non ho amiche
femmine, perciò non sono bravo a decidere
cos’è giusto e cosa non è giusto fare in quei
casi.»
«Quindi apri la portiera alle ragazze con
cui esci? È un gesto molto galante, tua madre
ha fatto un buon lavoro con te.» Mi sembrò
quasi gelosa… Ma no, non aveva senso.
«A dire il vero… no. Non lo faccio. È che
tu sembri il genere di ragazza che si merita
queste attenzioni. In quel momento mi è
parsa la cosa giusta da fare. Però capisco
cosa vuoi dire: se dobbiamo essere amici,
devo tracciare un confine e rispettarlo.»
Sollevò gli angoli della bocca in un sorriso.
«Grazie per avermi aperto la portiera. Sei
stato gentile.»
Mi limitai a fare spallucce. Non ero sicuro
di poter dire qualcosa senza rischiare di sem-
brare un idiota.
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«Dobbiamo passare a prendere Bethy al


campo da golf. Ha detto che si faceva trovare
negli uffici dietro il circolo. Oggi aveva il
turno, perciò si cambiava direttamente lì»
spiegò Blaire.
Uscii dal vialetto e puntai verso il club.
Blaire e Bethy mi sembravano due persone
completamente diverse. Come facevano ad
andare d’accordo? Mi pareva strano. «Com’è
che voi due siete diventate amiche?»
«Un giorno abbiamo lavorato fianco a
fianco. Penso che a entrambe servisse
un’amica. Bethy è divertente, uno spirito
libero. Tutto quello che non sono io.»
Non riuscii a trattenere una risata. «Lo
dici come se fosse una cosa negativa. Ma è
meglio non essere come Bethy, fidati di me.»
Non cercò di controbattere. Per lo meno
sapeva che Bethy non era una persona da
imitare. Vedendo che non aggiungeva altro,
mi concentrai sulla strada evitando di
224/488

fissarle le gambe che aveva appena accaval-


lato, facendo risalire la gonna sulle cosce.
Un gran bel paio di gambe, niente da
ridire. E poi quel poco sole preso in spiaggia
le aveva illuminato la pelle. Il pensiero di
averle avvinghiate intorno al mio corpo mi
fece tremare: tenni gli occhi sulla strada e,
quando cambiò posizione, non li spostai. Le
stava muovendo… Maledizione.
Quando parcheggiai di fronte agli uffici,
lei aprì la portiera all’istante e saltò giù.
Merda. Aveva intenzione di spostarsi per far
salire davanti Bethy? Io non volevo averla
vicino!
Blaire era quasi arrivata sulla porta
quando questa si aprì, lasciando uscire
Bethy, vestita d’assalto. Pantaloncini di pelle
rossa? Faceva sul serio?
«E tu che cosa ci fai su una delle macchine
di Rush?» chiese, fissando prima la Range
Rover e poi di nuovo Blaire.
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«Viene anche lui. Ha voglia di vedere


come sono questi locali…» le rispose Blaire,
guardandomi.
«La sua presenza ridurrà drasticamente le
tue possibilità di rimorchiare, ti avviso» rib-
atté l’altra scendendo le scale. Poi si fermò a
osservarla. «O forse no. Stai benissimo. Cioè,
avevo notato subito che eri una bella ragazza,
ma vestita così sei una vera bomba. Voglio
anch’io dei veri stivali da cowgirl! Dove li hai
presi?»
Sagge parole. Con quel look era incred-
ibile, cazzo. Non conoscevo bene Bethy, ma
mi piaceva il fatto che non fosse troppo invi-
diosa per ammettere che Blaire era
splendida.
«Grazie! Gli stivali sono un regalo di mia
madre, a Natale di due anni fa. Erano suoi.
Mi sono piaciuti dal primo momento in cui li
ha comprati, solo che poi… si è… ammalata,
e li ha dati a me.»
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Mi si strinse il petto. Non sapevo che


fossero di sua madre, cavolo… Avevo pensato
a farle cose sconce con quelli addosso, e
invece erano un ricordo… Mi sentivo un
cretino.
«Tua madre si è ammalata?» chiese
Bethy. A quanto pareva, non si erano confid-
ate molto. Oppure ero l’unico a cui Blaire
avesse parlato di sua mamma?
«Sì, ma è una lunga storia. Su, andiamo a
trovarci qualche cowboy!» esclamò Blaire,
evitando di rispondere alla domanda. Voleva
trovarsi un cowboy… Merda, mi mancava il
fiato al solo pensiero. Avrebbe trovato
uomini a destra e sinistra: le sarebbero sal-
tati addosso in un secondo. Però non potevo
metterle i bastoni fra le ruote, altrimenti non
mi avrebbe più permesso di seguirla.
Trovare un modo per starle vicino e
guardarla senza darle fastidio sarebbe stato
rischioso. E difficile da morire, poi. Avrei
staccato le braccia a chiunque l’avesse
227/488

toccata. Non potevo promettere che mi sarei


trattenuto, se qualcuno le avesse anche solo
sfiorato il sedere. Anzi, sarebbe stata
battaglia aperta.
Bethy saltellò verso la Range Rover e mi
sorrise come se sapesse il mio segreto, poi
oltrepassò la portiera del sedile passeggero
per aprire quella posteriore. «Ti lascio stare
davanti perché ho come la vaga sensazione
che il guidatore ti voglia lì» disse a Blaire las-
ciando ricadere i capelli sul viso e facendomi
l’occhiolino.
Uh-uh. Quella ragazza non era così male,
dopotutto.
Blaire tornò sul sedile accanto al mio e mi
sorrise. «Andiamo, il country ci aspetta!»
esclamò con uno scintillio negli occhi.
16

«Rush Finlay che va in un locale country.


Mamma mia, chi ci avrebbe mai pensato?»
disse Bethy in un tono che faceva capire
come fosse perfettamente al corrente del
motivo per cui ero lì.
«Sì, assurdo» concordai. «Da che parte
andiamo, Bethy?» le chiesi per distrarla. Non
volevo che esagerasse con le battutine e che
mettesse Blaire in imbarazzo.
«Vai verso la statale dell’Alabama. Il posto
è a circa cinquanta chilometri da qui.»
Immaginavo che sarebbe stato distante:
impossibile trovare un locale country e alla
buona a Rosemary Beach e dintorni.
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Bethy raccontò quello che era successo al


lavoro quel giorno e che Blaire si era persa.
In sostanza, un po’ di tragedie fra ragazze dei
cart. A quanto pareva, una di loro aveva un
debole per Jimmy, un cameriere nel ristor-
ante del club, e si era arrabbiata con un’altra
perché ci stava provando con lui. Non solo: il
ragazzo era molto ambito anche fra le iscritte
non più giovanissime del club. Peccato che
stessero tutte perdendo tempo: Jimmy prefe-
riva gli uomini. Però non lo sapeva quasi
nessuno, perché lui ci teneva alle profumate
mance elargite dalle sue attempate fan.
Blaire trovava la vicenda divertente, e a
me piaceva sentirla ridere. Abbassai persino
la musica per concentrarmi su quello che
diceva a Bethy. Ogni tanto cercava di coin-
volgere anche me, ma per lo più stava a sen-
tire Bethy che parlava.
Accostammo di fronte a un locale che mi
era già noto. Avrei dovuto immaginarlo,
quando Bethy mi aveva chiesto di dirigermi
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verso la statale dell’Alabama. Quello non era


un bar qualunque, bensì un posto molto
famoso che attirava campagnoli assetati di
birra da tutte le città del circondario.
Blaire aprì la portiera prima che potessi
farlo io; decisi di allentare un po’ la presa e
lasciarla divertire, almeno nei limiti di
quanto ero capace. Camminai accanto alle
ragazze mentre Bethy raccontava del bar e
del perché fosse famoso. Aprii la porta a
entrambe e le lasciai entrare per prime.
Blaire sgranò gli occhi di fronte a quello
spettacolo. Bethy spiegò che la band avrebbe
cominciato a suonare di lì a poco, e il sorriso
di Blaire si allargò ancora di più. Non mi
guardai intorno. Sapevo che qualcuno la
stava senz’altro squadrando, e non ero sicuro
di poterlo sopportare. Rimasi concentrato su
di lei. A un certo punto, Bethy tirò in ballo gli
shot di tequila. Pessima idea…
Mi misi dietro a Blaire e le posai una
mano sulla schiena. Magari non se ne
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sarebbe accorta, ma era un segnale di pos-


sesso, e quei coglioni dovevano capire subito
che con lei c’ero io. Indirizzai le ragazze
verso due divanetti appartati rispetto alla
pista da ballo. La musica era così alta che mi
impediva di sentire la voce di Blaire, tanto
delicata.
Si infilò sul divanetto e io feci in modo di
rimanere in piedi accanto a lei, così che
Bethy avrebbe dovuto sedersi di fronte
all’amica oppure spingere via me. Lei capì la
mia mossa e mi lanciò uno sguardo torvo:
voleva che quella sera Blaire potesse andare
a caccia di cowboy.
Non le avrei spianato la strada. Se anche
fosse stata quella l’intenzione di Blaire, non
ero sicuro di poterle fisicamente consentire
di metterla in pratica senza fracassare la
testa di qualche imbecille.
«Cosa ti va di bere?» chiesi a Blaire, par-
landole all’orecchio per essere sicuro che mi
sentisse. E per poterla annusare.
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«Non saprei» rispose, guardando subito


Bethy. «Bethy, cosa bevo?»
Lei, stupita, scoppiò a ridere. «Mai bevuto
prima?!»
No, mai bevuto prima. Non le bastava
guardarla in faccia per capirlo?!
«Io non ho ancora l’età per comprare
alcolici. Tu?» le chiese timidamente.
Ero davvero felice di esserci. Pensare a
quella situazione senza me a proteggerla mi
dava la nausea.
«Oddio, ne vedremo delle belle… Sì, io ho
ventun anni, o per lo meno così dice la mia
carta d’identità.» rispose Bethy, guardando
me. «Falla uscire, la porto al bar.»
Ma col cavolo. Fissai Blaire, ignorando
Bethy. «Non hai mai bevuto alcolici?»
domandai, conoscendo già la risposta.
«Ehm… no. Ma stasera voglio rimediare!»
dichiarò, decisa. Troppo carina.
«Allora è meglio se ci vai piano. Se non sei
abituata, di sicuro non reggi bene l’alcol»
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spiegai, girandomi per prendere per il brac-


cio una cameriera che ci stava passando
accanto. Prima, Blaire doveva mangiare.
«Scusa, ci serve un menu.»
«Perché ordini da mangiare? Siamo qui
per bere e ballare con i cowboy. Non per
ingozzarci!» disse Bethy con rabbia.
Poteva andarsene a quel paese: non le
avrei permesso di fare del male a Blaire.
Senza le dovute precauzioni, l’alcol poteva
avere brutti effetti. Se Bethy aveva inten-
zione di mettersi contro di me, allora
eravamo nei guai. «È la prima volta che beve.
Prima deve mangiare qualcosa, altrimenti
sarà piegata in due a vomitarsi l’anima nel
giro di un paio d’ore.»
Bethy mi liquidò con un gesto della mano,
come se stessi parlando cinese. «Come vuoi,
papà Rush. Io vado a prendermi da bere e
porto qualcosa anche a lei. Perciò sbrigati a
rimpinzarla.»
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La cameriera era tornata con il menu


prima che Bethy avesse finito di parlare. Lo
presi e lo aprii davanti a Blaire. «Scegli. Las-
cia perdere quello che dice la diva delle
sbronze, tu prima devi mangiare qualcosa.»
Annuì, d’accordo con me. Nemmeno a lei
piaceva l’idea di vomitare. Almeno era
prudente… Meno male. Quanto a Bethy, iniz-
iava a non piacermi l’idea che diventassero
troppo amiche.
«Le patatine al formaggio non sembrano
male» disse, quasi sottovoce.
Non avrei perso tempo. Bethy era andata
a prendere da bere e io volevo nutrire Blaire
al più presto. L’avrei guardata mangiare,
anche. Mi rendevo conto che era un po’ da
malati, però quella storia dei panini al burro
d’arachidi continuava a tormentarmi.
«Eccoti qui, in un locale di musica coun-
try. È come te l’aspettavi? Perché, sarò
onesto, a me questa musica fa schifo» le dissi
appoggiandomi allo schienale e guardandola
235/488

negli occhi. Mi ero accorto solo da poco della


musica country; ero stato più interessato a
far mangiare Blaire.
Scrollò le spalle e si guardò intorno.
«Sono appena arrivata, ancora non ho
bevuto né ballato. Ti farò sapere più tardi!»
Voleva scendere in pista? Fantastico.
«Vuoi ballare?»
«Sì, voglio ballare. Ma prima mi serve
un’iniezione di coraggio e qualcuno che mi
inviti.»
«Pensavo di averlo appena fatto.» Volevo
essere io il ragazzo che lei avrebbe stretto
durante una di quelle ballate lente. Non un
cowboy sbronzo.
Blaire si sporse in avanti e appoggiò i
gomiti al tavolo, poi posò il mento sulle mani
e mi guardò. «Credi che sia una buona
idea?»
Non avevo bisogno di chiederle perché ne
dubitava. Lo sapevamo tutti e due cosa suc-
cedeva quando ci toccavamo o ci
236/488

avvicinavamo troppo. Io perdevo il controllo,


lei voleva un amico. Da me, niente di più.
Era intelligente. «Probabilmente no.»
Annuì.
La cameriera ci fece scivolare davanti le
patatine al formaggio insieme a un bel bicch-
iere d’acqua fresca. Blaire ne prese subito
una e la addentò.
Non riuscii a fare a meno di sorridere.
«Meglio dei panini al burro di arachidi,
vero?» chiesi. Sorrise e fece di sì con la testa,
prendendone un’altra. Io non sarei mai rius-
cito a mangiare: era troppo affascinante.
Nel frattempo tornò Bethy. «Ho pensato
che dovevamo cominciare con qualcosa di
soft. Vodka al limone! È dolce, buonissima.»
Aveva preso degli shot, merda. Cos’aveva
contro la birra? Le ragazze si buttavano
sempre su quegli intrugli dolciastri e alla fine
si sbronzavano alla velocità della luce.
«Prima mangia qualche altra patatina» dissi
per incoraggiare Blaire.
237/488

Lei non protestò. Mandò giù un altro paio


di patatine e poi prese un bicchierino di
vodka. «Okay, sono pronta!» annunciò a
Bethy sorridendo. Sollevarono gli shot
insieme e se li portarono alle labbra; Blaire
svuotò il bicchiere rovesciando la testa
all’indietro. Le sarebbe piaciuto. E io non
sapevo come avrei reagito a una Blaire
ubriaca.
«Mangia!» le dissi quando incrociai il suo
sguardo sopra al bicchiere.
Lei premette le labbra e poi lasciò
esplodere una risata. Ora stava ridendo di
me. Un solo shot del cazzo, e già stava
ridendo!
«Al bar ho conosciuto dei ragazzi. Ti ho
indicato e hanno detto di averci notate
appena siamo entrate… Pronta per fare
nuove amicizie?»
Mi avvicinai di più a Blaire, lottando con-
tro l’impulso di tenerla al suo posto. Voleva
andare. Eravamo lì perché si divertisse.
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Blaire annuì e alzò gli occhi su di me.


«Falla passare, Rush. Però puoi scaldarci i
sedili, se dovessimo decidere di tornare»
disse Bethy, di nuovo irritata da me.
Non volevo farlo. Lì con me era al sicuro.
Riuscivo a sentire il suo dolce profumo,
quello che avrebbe sentito anche quel cogli-
one che la stava aspettando. Che odio, cazzo!
Blaire aveva gli occhi speranzosi, e lo
vedevo che era emozionata. Non potevo fren-
arla, aveva tanto da recuperare. A malin-
cuore, scivolai giù dal divanetto e la lasciai
uscire.
«Stai attenta. Se hai bisogno di me, sono
qui» le sussurrai all’orecchio mentre mi pas-
sava accanto. Annuì e si girò per guardarmi
quasi come se potesse cambiare idea. L’avrei
portata fuori da quel posto in un attimo: una
parola, e io sarei scattato.
«Vieni, Blaire. È arrivato il momento di
sfruttarti per bere gratis e fare conoscenze.
Sei la spalla più sexy che abbia mai avuto, ci
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divertiremo. Però non dire che hai dician-


nove anni! Tu ne hai ventuno, okay?» la
avvisò Bethy.
Tornai a sedermi, da solo e con i pugni
serrati.
«Okay» rispose Blaire.
Non potevo guardarla mentre andava da
quelli. Non sarei mai riuscito a stare buono.
Non guardare, non guardare…
Oh, cavolo, sì che avrei guardato. Stavo
per girarmi, quando a un tratto una bionda
venne da me e si sedette sul divanetto di
fronte. «Tu qui non c’entri proprio niente»
disse con un accento del Sud più pronunciato
del normale.
Tornai a adocchiare Blaire. Stava sor-
ridendo a un tizio coi ricci. ‘Fanculo. Però era
felice… Lui non le stava mettendo le mani
addosso, lei sembrava contenta e io dovevo
lasciarla fare. Se poi non avessi dovuto riac-
compagnarle a casa, mi sarei ubriacato, e la
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situazione sarebbe stata più semplice da


sopportare.
«Sta con te?» mi chiese la sconosciuta,
accavallando la gamba per poi farla don-
dolare accanto a me.
La guardai. «No. Lei è… Siamo amici»
spiegai.
La bionda si sporse in avanti e mi offrì
una vista generosa sulle sue grosse tette, che
sicuramente le erano costate parecchio.
Io ero per le pari opportunità, quindi
anche quelle finte non mi creavano problemi.
Due belle tette erano due belle tette. E le sue
rientravano nella definizione.
«Quella è pazza a correre da uno così
quando avrebbe un ragazzo bello come te
seduto qui ad aspettarla» mi disse, avvicin-
andosi con la gamba.
Guardai ancora Blaire, che adesso stava
parlando con l’altro. Ora con il riccio c’era
Bethy, e sembrava che a lei stesse bene.
Okay, dovevo smettere di fissarla. «Non è
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mai stata in un locale notturno. Sta un po’


esplorando la situazione» spiegai alla
bionda, tornando a rivolgerle la mia
attenzione.
Lei sollevò la gamba per appoggiare il
piede sul sedile accanto al mio. Quando
abbassai gli occhi, le vidi chiaramente sotto
la gonna. Mutandine rosse, niente male.
Le feci scivolare un dito lungo la coscia,
poi le tirai giù la gonna per impedirle di sfog-
giare la mercanzia davanti a me e davanti a
tutto il resto del locale… ma soprattutto dav-
anti a Blaire.
«Forse è meglio se chiudi le gambe» le
dissi con un sorriso che voleva rendere meno
pesante il rifiuto.
Lei rise e si alzò per venire a sedersi
accanto a me. «Forse se mi siedo qui tu la
smetti di fissare la tua amica, che secondo
me si sta proprio divertendo. E se poi apro le
gambe, lo vediamo soltanto io e te» ribatté,
242/488

piegandosi ancora in avanti per mostrare le


tette.
Se fossi stato capace di farmi venire voglia
di svagarmi con quei giocattoloni che mi
stava sbattendo in faccia, forse non sarei
stato così nervoso. Invece il fatto di non
poter più avere Blaire sotto gli occhi mi stava
facendo incazzare. «Senti, sei una gran bella
ragazza, e su questo non ci sono dubbi. Io
però sono qui per controllare che alla mia
amica non succeda niente, okay? Lo faccio
per lei» la informai, mentre il mio sguardo
trovava Blaire che si dirigeva verso la pista
da ballo insieme al ragazzo con cui aveva chi-
acchierato. Ecco, ora sulla sua schiena c’era
la mano di quel tizio, non la mia. La gelosia
faceva male. Era la prima volta che la
provavo, però, accidenti, quando ti prende la
senti eccome. Non hai dubbi su cosa sia.
«Vedi, sta ballando. Non ti considera
neanche un po’» disse la bionda, premendosi
243/488

contro di me e facendomi scivolare una


mano su per la coscia.
La fermai prima che me la mettesse sul
pacco. Anche se non volevo farmela, sapevo
che l’uccello avrebbe reagito a quelle atten-
zioni, dando l’impressione sbagliata. Le rim-
isi la mano sulle sue ginocchia.
«Ti ha proprio stregato, eh?
Accipicchia…»
La bionda guardò Blaire e fece spallucce.
«La carne fresca piace a tutti. Però prima o
poi invecchia. Non resterà così bella e inno-
cente per sempre.»
Non aveva capito un bel niente, proprio
come succedeva con gran parte delle donne
come lei. Non capivano che un uomo potesse
desiderare qualcuno non solo per l’aspetto
fisico. Che non era sempre il sesso lo scopo
principale. Che a volte c’era di più. Di più…
«Posso farti dimenticare che esiste»
proseguì, avvicinando la sua bocca alla mia.
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«Ehi, ehi!» esclamai, prendendole la testa


per fermarla. Io non baciavo. Soprattutto
non baciavo bocche che erano state su tanti
uccelli da perdere il conto. «Stai al tuo posto,
carina. Scusa, ma hai ragione: lei mi ha
proprio stregato. Potrà anche non volermi in
quel senso, ma ha tutta la mia attenzione.»
La bionda fece un broncio con le labbra
che la rese ridicola, poi mi strofinò la gamba
contro il fianco. Non era una che si
arrendeva facilmente. «Solo un bacio. Solo
un bacio come si deve» disse, avvicinandosi
di nuovo.
Questa volta fui costretto a respingerla
con forza. «Non bacio bocche che hanno
sicuramente succhiato uccelli diversi dal
mio» puntualizzai, brusco, sapendo che una
frase così l’avrebbe fermata.
Lei rimase di sasso; le sopracciglia le
schizzarono verso l’alto. «Cioè te la fai solo
con le vergini?»
245/488

Risi e scossi la testa. «No, intendevo che


non bacio. Scopare sì, baciare no» misi bene
in chiaro.
La donna indietreggiò e mi guardò. «Sul
serio? E alle ragazze sta bene?»
Stavo per rispondere quando mi accorsi
che il ragazzo con cui prima stava parlando
Blaire era rimasto da solo. Oh, cazzo, dov’era
finita? «Spostati» ordinai alla tizia, respin-
gendola per poter uscire dal divanetto. «Lev-
ati di torno, subito!»
Lei indietreggiò senza esitare. Mi guardò
in cagnesco, ma io non avevo tempo per le
spiegazioni. Blaire era scomparsa e io non
l’avevo vista andarsene. Avrei dovuto tenerla
d’occhio, invece non ne ero stato capace.
Dovevo trovarla. Il suo compagno di ballo
andò verso la porta d’ingresso, ma una
ragazza si avvicinò e lo interruppe. Con lui
me la sarei vista più tardi, se ce ne fosse stato
bisogno. Ora dovevo scoprire se Blaire era
uscita.
17

Il cuore mi batteva così forte che, quando la


vidi in piedi fuori dal locale, con la schiena
appoggiata alla parete, quasi mi tremarono le
ginocchia dal sollievo. C’era. E stava bene.
«Blaire?» la chiamai.
Teneva le braccia incrociate sul petto, in
posizione difensiva. Non sapevo cosa fosse
successo là dentro, ma se quel bifolco
sedicente cowboy non era stato al suo posto
io gli avrei tagliato le braccia.
«Sì» rispose esitante. Qualcosa non
andava. Era diversa dal solito.
«Non riuscivo a trovarti. Come mai sei qui
fuori? Non è sicuro.»
247/488

«Tutto a posto. Torna pure dentro e con-


tinua a limonare al nostro tavolo.» Era
gelosa… Però mi faceva piacere. Mi dava una
sensazione di calore in tutto il corpo,
sbagliata ma irrefrenabile. Ero contento che
fosse gelosa, sebbene non avesse ragione di
esserlo.
«Perché sei qui fuori?» chiesi, avvicinan-
domi lentamente di un altro passo.
«Perché mi va» dichiarò, lanciandomi uno
sguardo pieno di rabbia.
«Ma la festa è dentro. Non era quello che
volevi? Un bar con musica dal vivo, alcol e
uomini rudi? Qui fuori ti perdi tutto il bello.»
Cercavo di sdrammatizzare, ma l’espressione
di lei mi diceva chiaramente che non ci stavo
riuscendo. Era davvero incazzata. E tutto
perché pensava che me la stessi facendo con
la bionda, sul divanetto?
«Lasciami in pace, Rush» ribatté, acida.
Ce l’aveva con me, ma io non avevo fatto
248/488

niente: era lei quella che ballava con il


sedicente cowboy.
Avanzai di un altro passo. Era buio, non la
vedevo distintamente. «No. Voglio sapere
cos’è successo.»
Era arrabbiata, e facevo davvero fatica a
credere che fosse solo colpa della bionda
vicino a me. Doveva esserci dell’altro.
A un tratto Blaire mi posò entrambe le
mani sul petto e mi spinse via. «Vuoi sapere
che cosa è successo? Sei successo TU, Rush.»
Aveva quasi urlato. Si girò e se ne andò via.
Ma che cavolo…?
La afferrai prima che potesse allontanarsi
troppo. Non avrei lasciato perdere. Era inca-
volata, e non aveva senso. Okay, mi aveva
visto con una, ma tutta quella rabbia? Fino a
qualche minuto prima stava ballando con un
ragazzo! Era cambiato tutto anche per lei?
Non ero più soltanto io? Perché, se voleva di
più, non sarei stato in grado di dirle di no.
Proprio per niente. «Che cosa significa,
249/488

Blaire?» le chiesi, tirandomela contro al


petto.
Si dimenò tra le mie braccia, emettendo
mugugni di ribellione. «Lasciami andare.
Adesso» ordinò.
Figurarsi. «Non finché non mi dici qual è
il tuo problema» replicai. Cercò di divincol-
arsi con più forza, ma non era un problema
tenerla stretta. Non volevo farle male, però
dovevo capire cosa c’era che non andava. O
era colpa mia, oppure era colpa di quel tizio
nel locale.
«Non mi piace vederti con altre donne. E
non sopporto che un altro mi tocchi il sedere.
Sai perché? Perché vorrei che fossi tu a farlo.
Vorrei che fossi tu quello che ha voglia di
toccarmi. Ma per te non è così, e io lo devo
accettare. Quindi ora, per piacere, lasciami
andare!»
Non me l’aspettavo. Approfittò del mio
stupore per liberarsi dalla presa e lanciarsi in
250/488

una corsa sfrenata. Dove voleva andare, al


buio, da sola?
Voleva che la toccassi… lì. Merda, ero
fregato. Non potevo resistere, dovevo farlo.
Se avessi voluto risparmiare un po’ di soffer-
enza a tutti e due, mi sarei girato e sarei tor-
nato dentro, invece ero troppo debole. La
volevo, così disperatamente da essere pronto
a sistemare le cose. Rinnegare se stessi era
un conto, ma rinnegare Blaire un altro.
Non ci pensai. Non ne ebbi il tempo, agii
d’istinto e basta.
Le corsi dietro.
Una volta arrivato abbastanza vicino alla
Range Rover, pigiai il telecomando per
aprire le portiere. L’avrei toccata, quella sera
stessa. Subito. In quel preciso momento,
cazzo. Ed era la cosa più stupida che potessi
fare, sia per me sia per lei. Però non me ne
fregava più niente: mi sarei preso quello che
volevo. Quello che lei voleva.
251/488

«Sali, altrimenti ti faccio salire io» le


ordinai.
Lei sgranò gli occhi per lo sgomento, e salì
subito sul sedile posteriore. Nel farlo, si era
piegata con il sedere all’insù, e a me era ven-
uta un’erezione istantanea. Dio mio, perché
la volevo così tanto? Non dovevo. Blaire era
proprio la persona che non potevo avere.
Non sapeva niente di Nan, niente di suo
padre e di me. Quella cosa mi avrebbe dis-
trutto… O forse no? Forse no. Forse mi
avrebbe ascoltato. Avrebbe capito.
Salii dietro con lei.
«Che cosa stai facendo?» chiese.
Non risposi, perché in realtà non lo
sapevo bene nemmeno io. La spinsi contro il
sedile e la baciai sulla bocca. L’innocenza che
emanava dava dipendenza. Era pura, non
soltanto nel corpo, ma anche nella mente.
Non covava rancore, non cercava vendetta.
Si fidava di me, e io ero il più grande idiota
del mondo.
252/488

La presi per i fianchi in modo da potermi


stendere tra le sue gambe. Mi serviva quel
contatto, quel calore. Lei non si oppose e si
spostò subito di conseguenza. Sentivo il
bisogno di reclamarla, completamente. Però
era sbagliato, c’erano troppe cose tra noi…
Cose che non avrebbe mai perdonato. Mai
capito. Cercai, come un fanatico, l’orlo della
sua maglietta.
«Toglila» dissi mentre gliela sollevavo
sopra la testa e la buttavo sul sedile anteri-
ore. Una pelle vellutata, perfetta, spuntava
dal reggiseno di pizzo. Dovevo vedere tutto,
assaporare ogni centimetro. «Togliti tutto,
Blaire.» Raggiunsi il gancetto del reggiseno e
lo aprii in un attimo, poi le feci scivolare le
spalline lungo le braccia. Era stupenda,
proprio come immaginavo. Però vedere quei
turgidi capezzoli rosa sullo sfondo di una
pelle di porcellana mi fece capire che non
sarei stato capace di tornare indietro. «È per
questo che cercavo di tenermi alla larga,
253/488

Blaire. Non riesco più a trattenermi, non a


questo punto.»
Quando si riceve un pezzo di paradiso,
non lo si può dimenticare. Il mio respiro si
fece concitato nel momento in cui la tirai a
me per abbassare la testa e prendere in bocca
uno di quei capezzoli. Lo succhiai come
avevo sognato di fare già tante volte.
Blaire mi prese per le spalle e gridò il mio
nome, facendo svanire qualsiasi genere di
controllo pensassi di esercitare su me stesso
in quel momento. Lasciai che il capezzolo mi
saltasse fuori dalla bocca per poter estrarre
la lingua e mostrare a Blaire il piercing
d’argento che l’aveva tanto incuriosita. «Sai
di caramella. Le ragazze non dovrebbero
sapere così di buono, può essere pericoloso»
dissi prima di farle scorrere il naso lungo il
collo e inspirare a fondo. «Anche il tuo odore
è pazzesco.»
Niente avrebbe mai eguagliato il profumo
di Blaire. Niente. Aveva la bocca leggermente
254/488

dischiusa e, mentre le prendevo il seno a


piene mani, emetteva piccoli sospiri affan-
nati. Quella bocca, quelle labbra. Non potevo
togliermeli dalla testa. Avevo sempre avuto
problemi a baciare, ma con Blaire era l’unica
cosa che mi veniva in mente. Sapeva di dolce
e di pulito. Le baciavo le labbra e sapevo che
erano soltanto mie.
Le solleticai i capezzoli, e lei gemette con-
tro la mia bocca. Si infilò, con le sue piccole
mani, sotto la mia maglietta, dove iniziò a
esplorare gli addominali. Li toccò a lungo,
facendomi sorridere: alla mia ragazza
piaceva la tartaruga. Se era quello che voleva,
l’avrei lasciata andare in avanscoperta dove e
come voleva.
Mi sfilai la T-shirt tirandomela sopra la
testa con una mano e la buttai da parte, poi
ricominciai a baciare quelle labbra carnose.
Sentirle contro le mie era una sensazione
davvero incredibile.
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Inarcò la schiena, passandomi i capezzoli


sul petto nudo, e mi lasciò senza fiato. Che
sensazione pazzesca… Era stato un gesto
semplice, ma stupendo, perché si trattava di
Blaire. Tutto con lei sembrava nuovo. Volevo
assaporare al massimo ogni dettaglio, aff-
ondare in ogni gemito e in ogni grido che
sfuggiva alle sue labbra.
La presi tra le braccia e premetti il suo
corpo contro il mio; lei mi premette con dol-
cezza le unghie sulla schiena ed emise un
verso eccitato.
«Dolce Blaire…» dissi, liberandole la
bocca il tempo necessario per catturarle il
labbro inferiore e succhiarlo. Mi piaceva
quella pienezza: avrei potuto dedicare ore
soltanto a quelle labbra. Lei però si agitava
sotto di me e stava divaricando ancora di più
le gambe. Era vogliosa. Forse non sapeva
nemmeno di cosa, ma io sì.
Volevo fare con calma e dedicarle mille
attenzioni, ma sentivo che il suo corpicino
256/488

così sexy si stava facendo impaziente sotto di


me. Le toccai un ginocchio, e quel gesto
bastò a farla prima trasalire e poi immobiliz-
zare. Lasciai scorrere la mano su per la cos-
cia con lentezza, dandole il tempo di fer-
marmi se non avesse voluto.
Lei aprì le gambe completamente, come
per invitarmi, e il suo odore mi investì.
Buono, troppo buono. Inspirai a fondo, poi,
con un dito, percorsi l’orlo delle sue
mutandine.
Blaire si contrasse ed emise un lieve
gemito. Come avrei fatto a trattenermi? Era
troppo. Troppo buono il suo odore, troppo
sensuali i suoni che uscivano dalla sua bocca.
«Tranquilla… Voglio solamente vedere se
anche qui sotto è bello come tutto il resto» le
dissi, e lei tremò fra le mie braccia. Non vol-
eva che mi fermassi. Quel tremore e quella
scintilla inquieta negli occhi mi stavano
dicendo tutto, non avevo bisogno di sapere
altro. La guardai intensamente e, con il dito,
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superai il confine degli slip. Eccola, la carne


bagnata che mi stava aspettando.
«Rush» disse in un sussurro disperato,
stringendomi forte le spalle.
«Ssst, va tutto bene.»
Ma era vero? Era fradicia, cazzo, e il suo
odore così inebriante. Tutta la macchina
sapeva di eccitazione. Ancora tanto così e
sarei venuto nei jeans… assurdo. Non mi
aveva nemmeno toccato!
Affondai la testa nel suo collo e cercai di
ritrovare l’odore della sua pelle, per ripren-
dere almeno un po’ di autocontrollo. Sentirla
così eccitata mi avrebbe ucciso.
«È troppo, cazzo» mormorai.
Quando le carezzai le pieghe bagnate, lei
si contrasse sotto di me e gridò il mio nome.
Merda, merda! Avevo il fiatone. Avanzai con
un dito e scivolai in quel passaggio stretto e
caldo che mi stava chiamando. Fu come se il
suo corpo si stringesse, attirandomi dentro
di sé.
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«Cazzo, Blaire… Così calda, bagnata… Mi


fai morire! E poi sei così stretta…» Le mie
parole suonavano fuori controllo quanto lo
ero io. Non poteva esistere una sensazione
così incredibile.
«Rush, ti prego» mi supplicò. «Ho
bisogno…» Non finì la frase, perché era così
innocente da non sapere nemmeno di cosa
avesse bisogno. Aveva me, cazzo. Completa-
mente. Non potevo lasciarla, non adesso. Ero
in trappola.
Le diedi un bacio sul mento, e lei si inarcò
contro di me rovesciando la testa all’indietro.
«Lo so di cos’hai bisogno. È solo che non so
se sono in grado di resistere a guardarti
mentre te lo do. Mi hai portato al limite,
Blaire. Ce la sto mettendo tutta per fare il
bravo, so che non posso perdere il controllo
sul sedile di una cazzo di macchina.»
Lei fece di no con la testa, decisa. «Ti
prego, non fare il bravo. Ti prego!»
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No, cazzo. «Piantala, Blaire, altrimenti


esplodo. Adesso a te ci penso io, ma quando
ti entrerò dentro per la prima volta non sarai
sdraiata sui sedili di un’auto. Sarai nel mio
letto.» Non l’avrei presa sui sedili posteriori
di una macchina. Lei era troppo preziosa per
una cosa del genere.
Spostai la mano e le strofinai delicata-
mente il pollice sul clitoride, cominciando a
entrare e uscire da quella parte vogliosa del
suo corpo. Lei iniziò ad affondare le unghie e
a pronunciare il mio nome tra un respiro
affannato e l’altro. Tutto quel supplicare mi
avrebbe annientato. Non riuscivo a pensare a
nient’altro se non a come sarebbe stato spro-
fondare dentro quel paradiso e sentirla
implorare… Porca puttana, stavo per venire.
«Ci sei, mia dolce Blaire. Adesso vieni.
Fammi sentire che vieni sulla mia mano,
voglio guardarti.» Non sapevo nemmeno se
capisse quello che le stavo chiedendo, però
non riuscivo a stare in silenzio.
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«Ruuuuuush!» Gridò il mio nome e


cominciò a cavalcarmi la mano, tremando e
contorcendosi. Mi stava aggrappata come se
avesse paura di precipitare e io la tenni forte
mentre ripeteva il mio nome. Esplosi, pie-
gando la testa per inalare il suo profumo
mentre anch’io iniziavo a tremare, incapace
di credere a quello che era appena successo.
«Aaah, sì… Brava… Così. Sei bellissima»
le dissi mentre mi lasciavo travolgere da
onde di piacere. Cominciò ad allentare la
presa su di me, mentre alle labbra le affi-
orava un sorriso languido. Tolsi la mano che
ancora le tenevo tra le gambe e mi godetti il
suo odore prima di infilarmi il dito in bocca.
Un sapore ancora migliore di quello che
mi sarei aspettato. Possibile?
Blaire batté le ciglia e finalmente riaprì gli
occhi per guardarmi.
Riconobbi senza il minimo dubbio il
momento esatto in cui capì il motivo per cui
tenevo un dito in bocca. Alla sua espressione
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sbalordita seguì un rossore sulle guance.


Aveva appena gridato il mio nome ed era
esplosa sotto di me, ma vedermi succhiare il
dito la imbarazzava!
«Avevo ragione. Lì dentro sei dolce come
in tutto il resto del corpo» le dissi, solo per
vedere se quegli occhi potevano diventare
ancora più grandi.
Lei li chiuse e strinse forte le palpebre,
non riusciva a guardarmi.
Scoppiai a ridere. Era semplicemente per-
fetta. «Su, su, dolce Blaire! Ti sei appena
scatenata sulla mia mano, e ci sono anche
alcuni graffi sulla schiena che lo provano,
quindi non fare la timida! Anche perché ti
assicuro che ti ritroverai nuda nel mio letto,
prima di domattina…» E dicevo sul serio. La
volevo nel mio letto. Se poi le cose si fossero
messe anche meglio di così, non l’avrei più
lasciata uscire.
Mi lanciò un’occhiata intensa e l’interesse
nei suoi occhi mi costrinse a soffocare un
262/488

gemito. Non avrei fatto altro su quella mac-


china. Lei valeva molto di più, e io volevo
darle il meglio del meglio, sesso compreso.
«Ora ti rivesto e poi vado a cercare Bethy.
Vediamo se le serve ancora un passaggio o se
per caso ha trovato un cowboy che la riac-
compagni a casa» dissi.
Lei si stiracchiò come un gatto, e io strinsi
i pugni per non agguantarla e reclamare di
nuovo la sua bocca. «Okay» rispose.
«Se ora non fossi duro come la pietra mi
piacerebbe stare qui a godermi quello
sguardo languido e assonnato che hai negli
occhi. Mi piace pensare che sono stato io. Ma
sappi che non mi basta…» le sussurrai
all’orecchio.
Lei si irrigidì, poi si rilassò di nuovo con-
tro di me. Cavolo, dovevo assolutamente
rimetterle addosso i vestiti. E in fretta.
18

Recuperai il reggiseno e mi concentrai:


dovevo rivestirla. Prima di infilarle la
maglietta, le diedi un bacio sulla spalla. Mi
aveva lasciato fare senza protestare, e l’uomo
delle caverne che viveva dentro di me si stava
battendo i pugni sul petto. Mi piaceva da
morire prendermi cura di lei; il fatto che me
lo permettesse, poi, non faceva che elettriz-
zarmi ancora di più.
«Preferisco che tu rimanga qui mentre io
vado a cercare Bethy. Quell’espressione
compiaciuta che hai in faccia è sexy da
morire, non vorrei trovarmi in mezzo a una
rissa» le dissi dopo averla rivestita tutta.
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«Sono venuta qui con Bethy perché stavo


cercando di convincerla a non farsi ragazzi a
caso che l’avrebbero considerata solo un bel
giocattolo. Poi tu sei venuto con noi e adesso
eccomi qui, sul sedile posteriore della tua
macchina. Sento di doverle una spie-
gazione…» mi rispose con aria preoccupata.
Avevo pensato che fosse Bethy quella
intenzionata a portarla sulla cattiva strada,
invece era stata Blaire a offrire aiuto all’altra.
Interessante: la mia dolce Blaire stava cer-
cando di salvare il mondo da sola. Nessuno
aveva mai salvato lei, non prima di adesso.
Era ora, accidenti, che qualcuno le facesse
capire quanto fosse speciale.
Mi guardava nervosa. Forse pensava di
aver appena fatto quello che voleva impedire
di fare a Bethy? Ma no, di sicuro capiva che
la situazione era diversa.
«In pratica hai fatto tu quello che hai
detto a lei di non fare… È questo che
intendi?» chiesi salendole sopra e facendole
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scivolare una mano tra i capelli. «Perché


adesso che ho provato, non ti voglio condi-
videre con nessuno. Non è un capriccio.
Potrei già essere diventato dipendente…»
Quello che avevamo fatto noi non c’entrava
niente con le “attività” da cui Blaire voleva
dissuadere Bethy. Io non l’avrei mai toccata,
se non fossi stato sicuro di volerla rivendi-
care come mia. Nessun altro avrebbe potuto
toccarla.
Mi piegai per baciare quella bocca che
adoravo tanto. Assaporare il suo labbro
inferiore con la punta della lingua era
diventato uno dei miei passatempi preferiti…
Lei tremava ogni volta che lo facevo, e il
sapore era sempre delizioso.
«Mmh, sì. Tu resti qui. Vado a prendere
Bethy, così vi parlate» le sussurrai a fior di
labbra.
Lei annuì, ma non aggiunse altro.
Mi allontanai dal suo calore e aprii la por-
tiera per scendere. Dovevo trovare Bethy e
266/488

tornare a casa. Volevo Blaire in camera mia,


nel mio letto. Volevo più di quello che c’era
appena stato. Potevo rimediare al passato,
aggiustare tutto. L’avrei fatto per lei. Dovevo,
non potevo perderla.
Rientrato nel locale, mi guardai intorno e
trovai Bethy con un tizio. Stava bevendo uno
shot di qualcosa che non sembrava un
liquore tipico da femmine. Fantastico… No,
nessuna ragazza sbronza avrebbe intralciato
i miei piani. Blaire non poteva aggiustare
quello che non andava da anni. Eppure, una
volta Bethy era diversa. Me la ricordo, da
ragazzina. Forse l’avevo vista insieme a
Tripp. Probabilmente erano amici, ma poi lui
era scappato e, quando avevo rivisto lei,
l’avevo trovata sotto al figlio di un grande
proprietario d’immobili sulla costa del golfo.
Da allora, non aveva smesso di farsi rampolli
viziati.
Posò lo sguardo su di me, e io le feci cenno
di raggiungermi fuori. Mi girai e uscii.
267/488

Guardai in direzione della Range Rover per


assicurarmi che Blaire fosse ancora lì, al
sicuro.
«Siete spariti, voi due» sentii dire da
Bethy, con voce biascicante e un sorrisone
sul viso. Mi ero girato e la vedevo barcollare
verso di me. Inciampò: dovetti afferrarla
prima che cadesse per terra a faccia in giù.
«Oops!» ridacchiò, abbandonandosi tra le
mie braccia. «Non sento più le gambe!»
esclamò, ridendo come una matta.
Non avrei potuto lasciarla lì. «Eh, sì, ora
dovrò riportare a casa anche te» le dissi,
rimettendola dritta.
«Che cosa?! No no no no. Io voglio restare
ancora un po’» annunciò, facendo oscillare
l’indice a destra e a sinistra. «Blaire deve
vedere il cowboy, deve venire a vedere gli
altri cowboy che ho trovato. Le piaceranno
un sacco!»
Mi irrigidii e la tirai verso l’auto. «Blaire
non è più interessata ai cowboy, capito? Ha
268/488

chiuso con i ragazzi, torna a casa con me»


risposi con rabbia.
Bethy si fermò e ondeggiò perico-
losamente, poi, dopo aver afferrato il con-
cetto, mi guardò con due occhi così. «Vive in
casa tua. Volevi dire che torna a casa con te
in camera sua o che torna a casa con te in
camera tua?»
«Camera mia. E adesso muoviti» dissi
cercando di farla camminare da sola.
«Oh, merda…» fece lei, tentando di sus-
surrare ma uscendosene di fatto con un
grido. «Tu… Rush, cazzo, non puoi fartela.
Lei non è… Ecco, io credo che sia vergine.»
Praticamente poteva averla sentita l’intero
parcheggio.
«Stai zitta, Bethy» ringhiai, aprendole la
portiera per farla salire il prima possibile.
«Lei vuole tornare a casa con me, ma prima
vorrebbe parlarti.» Non era così che avrei
voluto trascorrere il viaggio di ritorno a
Rosemary Beach. Speravo di poter parlare
269/488

con Blaire, invece mi dovevo sorbire una


Bethy ubriaca che parlava di verginità…
Merda.
«Ma guardati. Imboscata con il più figo di
tutta Rosemary nella sua Range Rover. E io
che pensavo volessi un cowboy!» disse a
Blaire.
«Sali, Bethy, prima di finire col sedere per
terra» le ordinai. Se solo se ne fosse stata
zitta!
«Io non voglio andare via. Mi piaceva
Earl… O si chiamava Kevin? No, fermi un
attimo, e che fine ha fatto Nash?! L’ho
perso… credo» mormorò arrampicandosi sui
sedili.
«Earl? Kevin? E chi sono?» chiese Blaire.
Bethy cercò di aggrapparsi a un poggia-
testa, poi si lasciò cadere sul sedile finendo
quasi addosso a Blaire. «Earl è sposato. Ha
detto di no, ma era una balla, ne sono sicura.
Quelli sposati hanno sempre un odore
particolare.»
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Chiusi la portiera e feci il giro per prelev-


are Blaire dal sedile posteriore: lei veniva
davanti con me. Le aprii la portiera e le tesi
la mano. «Non sforzarti di capire ciò che
dice. L’ho trovata al bancone del bar che
finiva un giro di sei bicchierini di tequila
offerti da Earl, quello sposato. È completa-
mente fuori.» Volevo evitare che Blaire
potesse offendersi per i discorsi di Bethy.
Blaire fece scivolare la sua mano nella mia
e io gliela strinsi per rassicurarla.
«Stasera non hai bisogno di spiegarle
niente. Tanto domani non se lo ricorderebbe
comunque.» Ci teneva a chiarire con la sua
amica, ma lei si era comportata come
sempre, solo, senza rampolli viziati.
Aiutai Blaire a scendere, poi la tirai a me
chiudendo la portiera e lasciando Bethy a
bordo da sola. «Vorrei un altro assaggio di
queste labbra dolci, ma mi devo trattenere.
Dobbiamo riportarla a casa prima che si
metta a vomitare.» Non volevo che la sua
271/488

presenza rovinasse quanto era appena suc-


cesso tra noi.
Blaire annuì, guardandomi con i suoi
occhioni fiduciosi. Non l’avrei mai delusa,
mai.
«Quello che ho detto prima… lo penso
davvero. Stasera ti voglio nel mio letto» le
ricordai, nel caso se ne fosse dimenticata.
Annuì ancora. Le feci scivolare una mano
sulle reni e la invitai a salire sul sedile
accanto al mio. Non avrei più finto che
fossimo solo amici. Noi non eravamo amici,
non lo eravamo mai stati. C’era di più. Con
Blaire, era sempre di più.
«’Fanculo l’amicizia» le dissi prendendola
per la vita e sollevandola per metterla a
sedere. Il sedile era alto, e io volevo una
scusa per toccarla. Andai al posto di guida e
vederla sorridere mi scaldò il cuore. «E quel
sorriso? A cosa è dovuto?» le chiesi, sper-
ando di essere io la risposta.
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Lei fece spallucce e si morse il labbro


inferiore. «“‘Fanculo l’amicizia” mi ha fatto
ridere.»
Risi anch’io. L’avevo messa di buonu-
more! Perché mi sentivo come se avessi
appena risolto il problema della fame nel
mondo?
«Io so una cosa che tu non sai. Sì, sì, sì. La
so, la so!» cominciò a biascicare Bethy, nel
tono cantilenante tipico degli ubriachi.
Non volevo che ci distraesse. Che rov-
inasse tutto. Era la mia serata con Blaire, e la
volevo. Perché non collassava e basta?
Blaire si spostò sul sedile per guardare
l’amica.
«Io so una cosa che tu non sai. Sì, sì, sì. La
so, la so!» ripeté l’altra ad alta voce.
«Sì, l’ho capito» le rispose Blaire.
«Un grosso segreto. Un segreto enorme…
e io lo so. Non dovrei, ma è così. So una cosa
che tu non sai. Che tu non sai. Che tu non
sai…» continuò Bethy.
273/488

Sapeva un segreto. Lo stomaco mi si


attorcigliò: io avevo dei segreti. Erano i miei
che conosceva? Sapeva quello che Blaire non
sapeva? Come potevo avere Blaire, se Bethy
le diceva tutto prima di me? «Piantala,
Bethy» la avvertii.
Blaire si girò di scatto verso di me. L’avevo
spaventata, ma il mio scopo era soltanto far
tacere quell’altra: non volevo sentire i segreti
di cui era al corrente. Misi una mano sulla
sua. Sentivo di doverla rassicurare, ma in
quel momento non riuscivo a guardarla. Il
panico che covavo in gola stava prendendo il
sopravvento.
Behty non poteva sapere. O forse sì? Nes-
suno sapeva. Nan aveva parlato con qual-
cuno? Merda, quella cosa non poteva dif-
fondersi. Dovevo intervenire. Blaire aveva
bisogno di me e io non potevo perderla.
«Non mi sono mai divertita così tanto. Mi
piacciono i cowboy… Sono troppo sim-
patici.» Ecco che Bethy ricominciava a
274/488

blaterare. «Ti saresti dovuta guardare


intorno di più, Blaire. Avresti fatto meglio.
Farsi Rush è una pessima idea, perché c’è
pur sempre Nan.»
Porca puttana ladra.
Sapeva qualcosa. No! Non poteva. Non la
verità. Tolsi la mano da quella di Blaire per
stringere il volante. Avevo bisogno di
pensare, e scaraventare quell’ubriacona giù
dalla macchina non era possibile. Blaire non
me l’avrebbe mai perdonata.
«Nan non è tua sorella?» mi chiese. La
confusione nella sua voce mi fece rabbrivi-
dire: voleva avere conferma del rapporto che
c’era tra me e Nan.
Se solo avesse saputo la verità… Non
l’avrei mai avuta, non sarebbe nemmeno
stata lì.
Mi limitai a far sì con la testa. Non potevo
aggiungere altro, avevo la gola chiusa.
275/488

«E allora che cosa voleva dire Bethy? Per-


ché dovrebbe importarle qualcosa, se noi due
dormissimo insieme?»
Come dovevo risponderle? Io non sapevo
cosa sapesse Bethy di preciso, però non
potevo dire a Blaire la verità. Non avevo
ancora pensato a come sistemare il passato,
a come far sì che Blaire non mi lasciasse una
volta scoperto tutto.
Avrebbe continuato a farmi domande.
Dovevo fermarla, non potevo confessarle
tutto. Non in quel momento.
«Nan è la mia sorella minore. Non
voglio… Non posso parlare di lei con te.»
Blaire si era irrigidita. Ora, a bordo, la
tensione si tagliava col coltello. Doveva
esserci una via d’uscita: Blaire si fidava di
me, e io la sua fiducia la volevo. Volevo mer-
itarmela. Bethy non poteva sapere, era
impossibile, Nan non aveva mai detto niente
a nessuno. Era un segreto che teneva stretto,
e io stavo esagerando.
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All’improvviso, Bethy cominciò a russare


forte. Blaire teneva lo sguardo fisso sulla
strada. Nessuno dei due diceva niente. Io
pregavo che quella non si svegliasse e
ricominciasse a parlare… Con lei così, collas-
sata sul sedile posteriore, i miei segreti erano
più al sicuro.
Era come se la distanza tra me e Blaire
crescesse ogni secondo di più, non lo sop-
portavo. La volevo di nuovo tra le mie brac-
cia. Volevo sentirla gridare il mio nome. Non
mi piaceva quel muro tra noi.
Quando arrivai agli uffici del club, non
chiesi a Blaire se fosse lì che dovevamo las-
ciare Bethy. Non potevo dirle nulla. Ero ter-
rorizzato al pensiero che sapesse… che fosse
rimasta seduta a riflettere, arrivando infine
alla verità.
Scossi Bethy il minimo indispensabile per
svegliarla e aiutarla a scendere dall’auto. Lei
cominciò a borbottare che suo padre
l’avrebbe ammazzata e che preferiva dormire
277/488

in ufficio. Io non avevo molti dubbi sul fatto


che, il giorno dopo, sua zia Darla l’avrebbe
presa a calci nel sedere, ma in fondo non era
un problema mio. Le pescai la chiave della
porta dalla borsetta, aprii la serratura e la
portai dentro.
Per fortuna vicino all’entrata c’era un
grosso divano in pelle. Bethy puzzava di
tequila da due soldi, e non volevo essere io a
reggerla quando avesse cominciato a vomit-
are. La lasciai lì. «Giù, mettiti qui» le dissi.
Afferrai il cestino della spazzatura più vicino
e glielo misi vicino alla testa. «Vomita qui
dentro. Se sporchi il pavimento, domani
Darla s’incazzerà ancora di più.»
Bethy fece un grugnito e si girò di lato.
Feci per andarmene, ma, appena aprii la
porta, la voce di Bethy mi fermò.
«Io non le dirò del padre di Nan. Però
devi farlo tu.» Mi sembrò triste quando il suo
sguardo velato incontrò il mio. Sapeva chi
fosse il padre di mia sorella. Merda…
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«Lo farò, quando sarà il momento»


risposi.
«Non aspettare troppo» fu il suo ultimo
consiglio prima di chiudere gli occhi. La
bocca le si aprì, e ricominciò a russare
debolmente.
Richiusi la porta alle mie spalle. Aveva
ragione: dovevo sistemare le cose prima che
fosse troppo tardi.
19

«Guarda che adesso camera tua è di sopra»


le ricordai quando, entrati in casa, la vidi
dirigersi verso la cucina. Non ci eravamo più
parlati. A quel punto non sapevo cosa dirle e
nemmeno come rivolgermi a lei.
Si interruppe, si voltò e puntò verso le
scale. Non potevo lasciarla andare così.
«Ho cercato di starti lontano» aggiunsi.
Lei si fermò e si girò per guardarmi. Il
dolore nei suoi occhi era troppo. Non volevo
farla soffrire, eppure sapevo che le avrei
aperto una grossa crepa nel cuore. Mi
odiavo. Odiavo chi ero e cosa rappresentavo.
«Quella prima sera ho subito cercato di
sbarazzarmi di te. E non perché non mi
280/488

piacessi.» Risi con amarezza di quella verità.


«Ma perché lo sapevo. Sapevo che mi saresti
entrata dentro e che io non sarei più stato
capace di starti lontano. Forse in quel
momento ti ho persino odiata un po’, perché
hai subito raggiunto la parte debole di me.»
Avevo capito immediatamente che
portava guai. Che mi avrebbe spezzato. Ma
non che mi avrebbe avuto completamente in
pugno…
«E cosa c’è di male, scusa, se io ti piac-
cio?» mi chiese con una lacrima che le scin-
tillava nell’angolo dell’occhio. Merda, non
sopportavo di vedere che non capiva e non
poterle spiegare niente.
«C’è che non sai tutto, e io non posso
dirtelo. Non posso raccontarti i segreti di
Nan, sono suoi e basta. Io le voglio bene,
Blaire. Le voglio bene e la proteggo da tutta
la vita. È la mia sorellina. È il mio dovere. Se
adesso ti voglio come non ho mai voluto
niente, non posso comunque raccontarti cose
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che riguardano unicamente lei.» Se solo


avesse potuto accettare quella come risposta
e darmi del tempo… Tutte le cose che avevo
fatto andavano riaggiustate. Doveva esserci
un modo di rimediare agli sbagli.
«Posso capirlo, okay. Non avrei dovuto
chiedere, scusami» disse con un filo di voce.
Era sincera. Si stava scusando, cazzo! Scus-
ando con me. «Buonanotte, Rush» aggiunse
prima di andarsene e lasciarmi lì.
Non la trattenni. Mi stava dicendo che era
giusto se avevo i miei segreti, ma che non
potevo avere anche lei. Come avrei fatto?
L’avevo tenuta tra le mie braccia. Avevo visto
di cosa era capace il suo sorriso e come i suoi
sguardi decidessero il mio umore. Era
diventata per me una specie di sole, e io
avevo iniziato a ruotarle intorno. Era il mio
centro.
Eppure ero il motivo per cui aveva vissuto
l’inferno. Avevo fornito a suo padre un posto
dove scappare. L’avevo colto in un momento
282/488

di debolezza, quando aveva bisogno di stare


con sua figlia e sua moglie. Gli avevo offerto
un’alternativa. Un’altra vita da vivere,
un’altra figlia da rivendicare e un’altra
famiglia a cui appartenere.
E lui aveva lasciato Blaire. Tutta sola. Se
solo avessi riflettuto su chi era la persona a
cui stavo portando via quell’uomo… Invece
no, non me n’era importato. Avevo soltanto
voluto dare a Nan quello che lei desiderava
disperatamente. Senza pensare a nessun
altro. Solo a Nan, solo a lei, sempre.
Prima, forse. Ora non più.
Non potevo ignorare la verità. La felicità e
la sicurezza di Blaire significavano troppo
per me. Proteggere Nan non era più la mia
priorità numero uno: Blaire stava prendendo
il suo posto, era entrata nella mia vita e
l’aveva cambiata completamente. Avrei
dovuto odiarla per questo, ma non potevo.
Non l’avrei mai fatto, era impossibile.
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Salii le scale e mi fermai di fronte alla


porta della sua nuova stanza. Quella sera
l’avrei preferita nel mio letto, ma dormire
sarebbe stato più semplice sapendo che
poteva riposare nel comfort assoluto. La mia
unica compagnia, quella notte, sarebbe stato
il senso di colpa.

Il suono di un telefono che squillava fece


irruzione nel conforto del buio, costringen-
domi ad aprire gli occhi e allungare una
mano verso la fonte molesta. Ovviamente il
cellulare doveva mettersi a suonare proprio
quando mi ero appena addormentato. Affer-
randolo, notai il sole che filtrava attraverso le
tapparelle e capii che doveva essere più tardi
di quanto pensassi.
«Pronto» ringhiai nel microfono.
«Stavi ancora dormendo?» L’irritante
voce di Woods non contribuì a tirarmi su di
morale.
284/488

«Cosa vuoi?» Non erano fatti suoi se io


dormivo ancora.
«Si tratta di tua sorella» disse.
Mi misi a sedere nel letto e sfregai via il
sonno dagli occhi. Non ero dell’umore giusto
per alzarmi e aver subito a che fare con i
problemi di Nan, avevo già i miei. «Cosa?» lo
aggredii.
«Se si rivolge a Blaire o a qualsiasi altro
dei miei impiegati in maniera irrispettosa, io
le revoco la tessera d’iscrizione. Forse a te
non interesserà se è una mocciosa viziata,
ma quando il suo veleno causa una scenata e
mette in imbarazzo la cameriera migliore che
abbia avuto da mesi in sala da pranzo, allora
c’è un problema.»
Blaire? Che cosa? «Cosa stai dicendo?
Nan ha fatto qualcosa a Blaire? O a uno dei
tuoi impiegati? Non capisco…»
«Blaire è una mia impiegata. L’ho pro-
mossa alla sala da pranzo la settimana
scorsa. Quella stronza di tua sorella le ha
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dato della “gentaglia di serie zeta” e mi ha


chiesto di licenziarla oggi stesso. Davanti a
tutti.» Il tono di voce di Woods si stava
alzando. Era arrabbiato, ma neanche lonta-
namente vicino al livello che stavo per raggi-
ungere io. «Capisco che di Blaire non
t’importi. È ovvio, lo si capisce dal fatto che
la fai dormire in quel cavolo di sottoscala.
Però lei è speciale, lavora sodo e tutti le
vogliono bene. Non permetterò a Nan di
farle del male, hai capito?»
Non mi piaceva il fatto che Woods defin-
isse Blaire “speciale”. Lo sapevo benissimo
anche da solo, e lui doveva girare al largo. E
poi perché l’aveva tolta dai campi? Per tener-
sela vicino? Era quello il motivo? Per quanto
mi confortasse l’idea che Blaire non dovesse
più sopportare tutto quel caldo, quel
sospetto su Woods mi faceva imbestialire. E
Nan, poi. Aveva oltrepassato il limite, cazzo!
Avrei dovuto parlarle. Inoltre non mi andava
che si rivolgesse così a Blaire, che la
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insultasse con certe parole… Assurdo.


L’ennesimo problema che dovevo risolvere,
ma anche l’ennesimo problema sorto per
colpa mia.
«Ho chiesto se hai capito.» La voce di
Woods mi ricordò che non gli avevo risposto.
Se non fossi stato così arrabbiato per il trat-
tamento ricevuto da Blaire, avrei ricordato io
a lui con chi stava parlando. Per una volta,
però, gli avrei concesso di prendersela con
me, perché aveva ragione. Era colpa mia. Ero
stato io a permettere a mia sorella di tras-
formarsi in un mostro.
«Non sta più nel sottoscala, l’ho fatta
trasferire in una delle stanze da letto. E par-
lerò con Nan» dissi, poi capii che dovevo
trasmettere anche un altro messaggio.
«Blaire è mia. Non toccarla, altrimenti ti
ammazzo. Intesi?»
Woods rise, ma senza allegria. «Certo.
Come vuoi, Finlay. Le tue minacce non mi
spaventano. L’unico motivo per cui non
287/488

tocco Blaire è che lei non mi vuole, ed è


abbastanza ovvio chi preferirebbe, perciò
calmati. È stata tua sin dall’inizio, anche se,
poco ma sicuro, non te la meriti.» E con ciò
chiuse la comunicazione.
Woods pensava che Blaire volesse me. Dio
mio, quanto speravo avesse ragione… Mi
alzai e telefonai a Nan.
«Pronto?» fece lei, in tono scocciato.
«Dove sei?» le chiesi mentre andavo in
bagno.
«Al club. Ho una partita di tennis tra dieci
minuti.»
Io ce ne avrei messi trenta per farmi la
doccia e ingerire un po’ di caffè. «A casa mia
tra mezz’ora» ordinai, riattaccando subito
per non darle il tempo di controbattere.
Sapeva che non doveva farmi incazzare, e io
non avevo dubbi che avesse già capito benis-
simo di cosa stavamo parlando.
Avrei fatto in modo che lasciasse in pace
Blaire. A lei, invece, avrei comprato un
288/488

cellulare. Le serviva, altrimenti come facevo


a sapere che stava bene, se non sapevo nem-
meno dov’era?
E poi le avrei cucinato qualcosa. L’avrei
osservata mentre mangiava. Sentivo il
bisogno di nutrirla… di rimediare a tutte le
stronzate che avevo fatto.
Ah, e quella sera non avrebbe dovuto
dormire nella sua nuova stanza. La volevo
nella mia.
20

Ero sul terrazzo quando sentii la voce di Nan


in casa. «Dove sei?» aveva gridato. Non era
felice di essere lì. Bene: non lo sarebbe stata
nemmeno alla fine del mio discorsetto.
Tornai dentro e la vidi arrivare con una
gonnellina da tennis addosso e un’aria
incazzata sul viso. Mi aspettavo di trovarla
un po’ alterata, ma non sopportavo che si
ritenesse in diritto di esserlo. Dopo il modo
in cui aveva trattato Blaire, era davvero con-
vinta che non le avrei detto niente?
«Mi hai rovinato i programmi. Farai
meglio ad avere un buon motivo» sbottò,
acida.
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Posai la mia tazza di caffè sul tavolino più


vicino e alzai gli occhi per guardarla. «Las-
ciami mettere in chiaro una cosa, perché a te
serve una rinfrescata. A meno che tu non
abbia intenzione di trovarti un lavoro e
pagarti da sola le tue stronzate, sappi che io
ho diritto di parola su come ti comporti. Ti
ho sempre lasciato fare quello che volevi,
perché ti voglio bene. So che vivere con la
mamma non è stato facile, però non…» Mi
interruppi per fare un passo verso di lei e
guardarla dritto negli occhi, così poteva
capire che parlavo sul serio. «… non ti per-
metterò di far del male a Blaire. Mai. Lei a te
non ha fatto niente. Tu la incolpi di averti
portato via quel surrogato di padre che ti rit-
rovi, ma lei è vittima di quell’individuo
quanto lo sei tu. Quindi non osare mai più a
rivolgerti a lei come hai fatto oggi. Nan, io lo
giuro, ti voglio bene, ma ti impedirò di farla
soffrire. Non mettermi alla prova.»
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Sbalordita, Nan spalancò gli occhi, nei


quali già luccicavano le lacrime false che ero
abituato a vedermi riversare addosso. «Stai
scegliendo lei al posto mio. Allora… Allora te
la scopi? È così, vero? Quella puttanella!»
Le andai di fronte con uno scatto così rap-
ido che la feci barcollare all’indietro. La
afferrai per un braccio, impedendole di
cadere e tirandola su. «Non ti azzardare.
Giuro su Dio, Nan, che tu mi stai facendo
perdere la pazienza. Pensa, prima di
parlare!»
Lei tirò su con il naso e lasciò colare sul
viso le lacrime che era in grado di far scor-
rere a comando, come all’apertura di un
rubinetto. Detestavo farla piangere, e sentivo
che si stava formando quel senso di nausea
tipico di tutte le volte in cui qualcuno, me
compreso, la feriva. «Io… Io sono tua sorella.
Come puoi farmi questo? Io ero… Lo sai che
cosa ha fatto? Chi è? L’ha tenuto lontano da
me! Mio padre, Rush. Io ho vissuto la vita
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che ho vissuto perché non avevo lui.» Ora


singhiozzava e scuoteva la testa, allibita al
pensiero che potessi aver dimenticato tutto.
Non avrebbe mai visto la realtà per quella
che era. Nan era decisa a incolpare, a odiare
qualcuno, ma si rifiutava di detestare la per-
sona che se lo meritava più di tutte. «Blaire
era una bambina. Non ti ha fatto niente. Non
è colpa sua se l’hanno messa al mondo. Non
aveva idea che tu esistessi, perché non lo
capisci? Perché non ti rendi conto di che per-
sona gentile, onesta, generosa e volenterosa
sia tua sorella? Nessuno potrebbe odiarla! È
perfetta, cazzo!»
«Non…» Mi puntò un dito contro, con
l’orrore dipinto sul viso. «Non chiamarla
mia sorella!» gridò come un’isterica.
Sospirai e mi sedetti sul divano, dove mi
presi la testa fra le mani. Nan era così test-
arda… «Nan, siete figlie dello stesso padre.
Tu, perciò, sei sua sorella» le ricordai.
293/488

«No. Non m’importa. Non m’importa


niente, io la odio. È una manipolatrice, una
falsa. Usa il sesso per controllarti.»
Scattai in piedi come una molla. «Non me
la sono fatta, perciò taci! Piantala di accus-
arla di cazzate di cui non sai un bel niente.
Blaire non è una puttana. È vergine, Nan.
Vergine. E vuoi sapere perché? Perché ha
passato l’adolescenza a prendersi cura di sua
madre malata mentre si occupava della casa
e andava a scuola. Non ha avuto il tempo di
essere una ragazzina normale, di fare le cose
normali che tutti abbiamo fatto. È stata
abbandonata da suo padre per te, quindi, se
qui c’è qualcuno che deve odiare qualcun
altro, allora è lei che dovrebbe odiare te.»
Nan si mise ben dritta sulla schiena. Ora
le lacrime si erano asciugate, rendendomi il
compito più facile. Io ero l’unica persona che
aveva al mondo, e ne ero consapevole. Non
volevo farle credere che l’avessi abban-
donata. Lei sarebbe sempre stata la mia
294/488

sorellina, ma ormai era adulta ed era ora che


iniziasse a comportarsi come tale. «E anche
te. Dovrebbe odiare anche te» concluse Nan,
poi si voltò e imboccò la porta. Io non cercai
di fermarla, ero troppo stanco per soppor-
tarla oltre. Confidavo nel fatto che, per il
momento, avrebbe lasciato in pace Blaire.

Avevo trascorso il resto della giornata a cer-


care di levarmi dalla testa le parole di Nan.
Mi ero concentrato sull’acquisto di un cellu-
lare per Blaire e poi di tutto il necessario per
prepararle qualcosa di buono da mangiare,
qualcosa che la colpisse e la convincesse a
rivolgermi la parola. Magari a perdonarmi
per la mia reazione della sera prima.
Sapevo che non avrebbe mai accettato un
cellulare da parte mia, perciò le avevo lasci-
ato un biglietto facendole credere che fosse
da parte del padre. Mi dava sui nervi l’idea di
far fare bella figura a quell’idiota del cazzo,
295/488

ma Blaire doveva accettare il telefono, per


permettermi di proteggerla.
Guardai l’orologio. A quell’ora doveva
essere sicuramente salita sul pick-up. Presi il
telefono e composi il suo numero, che mi ero
già salvato in rubrica.
«Pronto?» disse piano. Si sentiva che era
confusa. Non aveva letto il biglietto?
«Vedo che hai trovato il telefono. Ti
piace?»
«Sì, bellissimo. Ma perché mio padre
vuole che lo tenga?» chiese. Ecco il motivo
della sua confusione: era sorpresa che il bas-
tardo avesse fatto una cosa del genere per lei.
Non era scema.
«Per sicurezza. Tutte le ragazze hanno
bisogno del cellulare, specialmente quelle
che guidano macchine più vecchie di loro.
Potresti ritrovarti in panne da un momento
all’altro.»
«Ho la pistola» dichiarò, decisa.
296/488

«Hai ragione, saputella, ma con la pistola


non puoi rimorchiare la macchina!»
Vediamo cosa avrebbe risposto a quello.
«Torni a casa?» le chiesi. Non avevo pensato
che potesse avere altri programmi, mentre
mi concentravo sulla cenetta e sul mio piano
di seduzione.
«Sì, se per te va bene. Se però devi stare
solo, mi trovo qualcos’altro da fare» fu la sua
risposta. Ancora non c’era arrivata. Pensava
che volessi tenerla alla larga. Che al mondo
potesse esistere qualcosa che mi sarebbe
piaciuto di più che starle vicino.
«No, voglio che vieni. Ho cucinato» dissi.
Tacque, e io avvertii un debole respiro di
stupore. «Ehi, grazie! Allora fra pochi minuti
sono lì.»
«A presto» la salutai, terminando la
chiamata prima che mi facesse ridere di pura
gioia. Stava tornando a casa. La mia. Per pas-
sare la serata insieme a me. Stavo
297/488

sistemando le cose, stavo trovando un modo


per fargliele capire. Non potevo perderla.
Tornai a occuparmi del cibo; non mi cap-
itava spesso di cucinare per gli altri, di solito
lo facevo soltanto per me stesso se avevo
davvero voglia di qualcosa di particolare.
Poter cucinare per Blaire era diverso: stavo
già gustando ogni minuto.
Non era una ragazza abituata a essere coc-
colata e viziata, cosa che trovavo un vero pec-
cato. Era proprio il genere di donna che mer-
itava attenzioni. Aprii il frigorifero, presi una
Corona e la stappai, poi misi una fettina di
lime sul bordo. Era un’aggiunta che piaceva
alla maggior parte delle ragazze che cono-
scevo; in realtà non ero sicuro che a Blaire
piacesse la birra, però le stavo preparando
una cena messicana e la Corona era
d’obbligo.
Farcii le tortillas con formaggio, pollo e
un mix di verdure, poi le adagiai sulla
padella bollente.
298/488

«Che profumino!» La voce di Blaire aveva


fatto irruzione tra i miei pensieri.
Girai la testa e la vidi con indosso la sev-
era divisa del club. I lunghi capelli biondi
erano raccolti in una rigida coda di cavallo
ma, sulle labbra, stava per spuntarle un sor-
riso. Mi aveva sorpreso mentre canticchiavo
una delle ultime canzoni di mio padre.
«E sentirai che sapore» promisi, poi mi
asciugai le mani con uno strofinaccio e presi
la Corona che le avevo preparato. «Tieni,
bevi. Le enchiladas sono quasi pronte. Devo
ancora girare le quesadillas, manca qualche
minuto, ma tra poco possiamo metterci a
tavola.»
Prese la birra e se la portò lentamente alle
labbra. Era la sua prima volta, si vedeva. Non
la sputò, ed era già un buon segno.
«Spero che ti piaccia la cucina messicana»
dissi tirando fuori dal forno le enchiladas. In
realtà, la cosa che speravo era che fossero
buone; ne era passato di tempo dall’ultima
299/488

volta che le avevo fatte. Avevo persino


dovuto cercare qualche informazione su
Google, per essere sicuro della ricetta.
«La adoro!» rispose, ancora sorridendo.
«E devo ammettere che sono particolar-
mente colpita… Sai cucinare!»
Bene. Quella sera fare colpo era proprio il
mio scopo. Convincerla di non essere un
coglione. Alzai lo sguardo su di lei e le feci
l’occhiolino. «Ho una serie di talenti con cui
potrei farti uscire di testa.»
La vidi arrossire e trangugiare un secondo
sorso di Corona, più abbondante del primo.
«Vacci piano, signorina. Prima devi
mangiare qualcosa. Quando ti ho detto
“bevi”, non intendevo “scolatela tutta”.» Non
volevo che si ubriacasse o che stesse male.
Lei annuì e si asciugò una goccia di birra che
le era rimasta sulle labbra.
La prima cosa che mi venne in mente fu
leccarla via al posto suo. Chissà come
sarebbe stato liscio e carnoso il suo labbro
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inferiore sotto la mia lingua… No, dovevo


distogliere lo sguardo, altrimenti avrei fatto
bruciare tutto, cazzo.
Avevo già preparato i tacos e i burritos,
perciò trasferii le quesadillas sullo stesso
piatto dove avevo messo le altre. Non
saremmo mai riusciti a finire tutto. Io avevo
dato il massimo, ma in realtà non conoscevo
bene i suoi gusti e speravo che si sarebbe
goduta il pasto. Il mio bisogno di vederla
mangiare iniziava a somigliare a una
dipendenza.
«Il resto è già in tavola. Prendi una
Corona dal frigo anche per me e seguimi» le
dissi, andando verso il tavolo con il piatto in
mano. Avevo apparecchiato fuori; all’inizio
l’idea non mi era piaciuta molto, perché una
volta Blaire mi aveva visto lì con un’altra e
non volevo che ci ripensasse. Poi però avevo
deciso che le onde e la brezza del golfo
avrebbero reso l’atmosfera più intima.
Speravo soltanto che, mentre eravamo lì
301/488

fuori, davanti agli occhi non avesse me che


scopavo con un’altra. «Accomodati, ti servo
io.»
Lei annuì e si sedette sulla sedia più vicina
alla porta. Le leggevo la sorpresa negli occhi,
ed ero felice di vedere che non si fosse
aspettata niente di quello che stava suc-
cedendo. Doveva pensare a noi due e a nes-
sun altro. Il mio passato era quello soltanto:
passato. E poi, se avesse saputo a chi stavo
pensando quella notte in veranda con Anya…
La servii e mi sedetti di fronte a lei, poi mi
chinai per poterla avvicinare, perché mi
stava facendo impazzire. «Posso portarti
qualcos’altro da bere?» le chiesi, in cerca di
una scusa per annusarle il collo.
Fece di no con la testa.
Con uno sforzo, andai a sedermi dall’altra
parte del tavolo. Mi servii e la guardai. «Se ti
fa schifo, non me lo dire. Il mio ego non rius-
cirebbe a sopportarlo!»
302/488

Appena addentò l’enchilada, la scintilla


che le accese gli occhi mi disse che avevo
fatto centro. Mi veniva quasi voglia di can-
tare dalla gioia! Non avevo mandato tutto
all’aria. «È squisito, ma non posso dire di
non essere sbalordita…» commentò.
Decisi di provare in prima persona. Sor-
ridendo, cominciai a mangiare e la guardai
mentre si rilassava, beveva un altro po’ e
dava un altro morso all’enchilada. Ogni volta
che lo faceva, io dovevo lottare contro me
stesso per vincere la voglia di fermarmi a
osservarla. Stava semplicemente mangiando,
cazzo. Perché ero così ossessionato? Doveva
essere colpa del burro d’arachidi. Non mi
sarebbe passata tanto in fretta…
Mangiammo in silenzio. Non volevo inter-
romperla, mi sembrava che si stesse diver-
tendo. Quando si appoggiò allo schienale e
bevve un altro sorso dalla bottiglia per poi
posarla, capii che aveva finito.
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«Mi dispiace per come ti ha trattata Nan,


oggi» le dissi. Non bastava. Era mia sorella a
doverle delle scuse, ma non c’era niente che
potessi fare per costringerla a fargliele
personalmente.
«E tu come fai a saperlo?» replicò lei,
oscillando nervosamente sulla sedia.
«Woods mi ha telefonato. Mi ha avvertito
che la prossima volta che Nan si comporterà
in modo così sgarbato con il personale le
chiederanno di andarsene» dissi. Non sop-
portavo di dipingerlo come un eroe, ma era
la verità, e non avrei aggiunto bugie a quelle
che già c’erano tra noi due.
Blaire annuì. Non mi sembrò particolar-
mente colpita, buon segno. Non mi andava
che, se c’era di mezzo Woods, provasse
qualsiasi genere di sentimento.
«Non avrebbe dovuto rivolgersi a te in
quel modo. Le ho fatto un discorso e mi ha
promesso che non succederà più. Se però
così non fosse, e magari vi trovate altrove, tu
304/488

devi comunque venire a dirmelo» aggiunsi,


mentendo solo in parte. Nan non mi aveva
promesso niente, ma i miei avvertimenti
erano bastati, ne ero sicuro.
Negli occhi di Blaire vidi balenare la delu-
sione. Si alzò in piedi. «Grazie. Apprezzo il
gesto. Molto gentile da parte tua. Ti pro-
metto che se Nan sarà ancora maleducata nei
miei confronti, non andrò a spifferare tutto a
Woods. È che per puro caso ha visto la scena
in diretta.» Prese la bottiglia. «Una cena del-
iziosa. Perfetta dopo una lunga giornata di
lavoro. Grazie tante.» Non mi guardò mentre
si girava per correre in casa.
Merda. Che cosa avevo detto di male? Mi
alzai e la seguii. No, quella serata non
sarebbe finita così. Blaire doveva smetterla
di mandarmi fuori binario in quella maniera.
Avevo cucinato per scusarmi del mio stupido
comportamento della sera prima, e perché
volevo fare qualcosa per lei. Farla stare bene.
305/488

Stava lavando il suo piatto nel lavandino,


e vedere la sua postura affranta mi fece male.
«Blaire» dissi, intrappolandola da dietro
contro il piano della cucina. Il suo profumo
mi andò alla testa, e dovetti chiudere gli
occhi per combattere le vertigini. Com’era
buono… «Non l’ho fatto per scusarmi del
comportamento di Nan. L’ho fatto per scus-
armi del mio comportamento. Mi dispiace
per ieri sera. Sono rimasto sveglio tutta la
notte a rimpiangere che tu non fossi lì con
me. A pentirmi di averti respinto. Ma io fac-
cio così con le persone, Blaire. È il mio mec-
canismo di difesa. Però con te non voglio più
usarlo.» Non sapevo come altro
spiegarglielo.
Indietreggiò verso di me, e io interpretai
quel gesto come un via libera.
Le scostai i capelli dalla spalla e le diedi
un bacio sulla pelle calda e vellutata. «Ti
prego, perdonami. Dammi un’altra possibil-
ità, Blaire. Io lo voglio. Voglio te.»
306/488

Lei emise un profondo respiro, poi si girò


per guardarmi in faccia. Vidi le sue braccia
salire e chiudersi intorno al mio collo. Quei
bellissimi occhi azzurri si piantarono sui
miei. «Ti perdono, ma a una condizione»
disse piano.
«Okay…» Avrei accettato di tutto.
«Stanotte voglio stare con te. Basta flir-
tare. Basta aspettare.»
Non si trattava di quello che mi aspettavo,
ma la mia risposta era sì. Lo volevo. «Puoi
contarci» le risposi prima di tirarla a me e
perdermi nel nostro contatto. Ormai
c’eravamo. Dopo quello che stava per suc-
cedere, Blaire sarebbe stata mia e, se fosse
stato necessario, per lei sarei saltato nelle
fiamme dell’inferno.
21

Baciare non era mai stato il mio forte. Lo


facevo di rado, ma sapere quanto fosse pura
e straordinariamente buona la bocca di
Blaire mi diede alla testa nell’attimo in cui le
nostre labbra si toccarono. Non ne avevo mai
abbastanza.
Le racchiusi il viso tra le mani e la divorai.
Il cervello mi gridava di rallentare per non
spaventarla e per non bruciare le tappe, ma
io proprio non riuscivo a farlo capire alla
bocca. La Corona sulla lingua di lei, mentre
la carezzavo con la mia, non faceva che
aumentare il desiderio. Il sapore di birra e
lime su Blaire sembrava qualcosa di
308/488

malizioso… Quando sentì il mio piercing, mi


tirò i capelli della nuca ed emise un gemito.
Eh, no, dovevo rallentare. Non potevo
prenderla contro al lavandino, le servivano
un letto e molti preliminari. Non volevo farle
male, quello mai. Mi staccai dalle sue labbra
per una frazione di secondo: mi piaceva quel
respiro caldo sul viso. «Andiamo su, ti faccio
vedere camera mia.» Mi venne da sorriderle.
«E il mio letto» aggiunsi.
Lei annuì, e a me non servì altro. Le las-
ciai il viso e le presi la mano. L’avrei portata
di sopra. Quando si trattava di Blaire, non
c’erano regole. Lei era a un livello superiore,
oltre qualsiasi principio avessi mai avuto
quando si trattava di donne. Io la volevo e
basta.
Tirandola verso di me per il desiderio di
assaporare ancora quelle labbra, la condussi
su per le scale. Lanciandole un’occhiata una
volta arrivati al secondo piano, mi accorsi
che aveva le guance rosse, e a quel punto fu
309/488

impensabile resistere. Un assaggio soltanto,


dissi a me stesso, poi la premetti contro la
parete più vicina e le mordicchiai il labbro
inferiore prima di leccarlo e reclamare di
nuovo la sua bocca.
Si lasciò subito andare, ed ero pratica-
mente sicuro che avremmo potuto farlo
anche lì. Avrei potuto inginocchiarmi e
baciarla fra le gambe fino a farle gridare il
mio nome… No, no. L’avremmo fatto nel mio
letto.
Mi staccai e feci un respiro profondo per
cercare di calmarmi. «Ancora una rampa di
scale» dissi, più a me stesso che a lei. Poi le
presi la mano e le feci strada fino alla porta
che dava su camera mia. La chiudevo sempre
a chiave, perché mi piaceva pensare che fosse
un ambiente esclusivamente mio, al quale
nessuno aveva accesso.
Tolsi la chiave dalla tasca, la feci girare
nella toppa e la porta si aprì. Feci cenno a
Blaire di entrare. Il desiderio di vederla in
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camera mia, in mezzo alle mie cose, pronti a


condividere tutto era quasi potente quanto il
desiderio di vederla sul mio letto. Nuda.
Quando raggiunse l’ultimo gradino, si
fermò e trasalì. La vista dell’oceano attra-
verso le pareti finestrate era la caratteristica
di quella stanza che mi aveva fatto innamor-
are da bambino.
«Questo panorama è il motivo per cui ho
convinto mia madre a comprare la casa.
Anche se avevo solo dieci anni, sapevo che
questa stanza aveva qualcosa di speciale» le
dissi prendendola fra le braccia. Ero felice
che anche lei potesse vederlo. E che anche lei
ne fosse colpita.
«È incredibile» commentò con voce piena
di stupore. Sì, lo era. Ma avere lei con me
rendeva tutto ancora più straordinario.
«Quel giorno telefonai a mio padre e gli
dissi che avevamo trovato la casa in cui vol-
evamo vivere. Lui fece un bonifico a mia
madre e lei la comprò. La posizione le
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piaceva tantissimo, infatti abbiamo trascorso


qui tutte le estati. Lei ha casa sua ad Atlanta,
ma preferisce stare qui.»
«Io non me ne andrei mai» disse.
Sorridendo, le baciai la morbida pelle
dietro l’orecchio e poi sussurrai: «Ah, ma
non hai ancora visto la casa in montagna, e
neanche l’appartamento a Manhattan».
Sarebbe successo. Volevo portarla anche là.
Non avevo mai sopportato di dover condi-
videre vita e spazi personali con altre per-
sone, né l’avevo mai fatto. Con Blaire, invece,
non vedevo l’ora che facesse parte del mio
mondo. Anche se potevo soltanto stringerla,
quella sera la volevo lì.
La feci girare verso l’enorme letto matri-
moniale che occupava quasi tutta la parete
destra. «E quello è il mio letto» le dissi pren-
dendola per i fianchi e avvicinandomi al mat-
erasso. La sentii irrigidirsi. Era nervosa. Par-
larne semplicemente e stare davvero lì in
camera mia, di fronte al letto, erano due cose
312/488

diverse. La desideravo più di quanto desider-


assi continuare a respirare, ma non l’avrei
forzata. «Blaire, anche se adesso ci sdraiamo
a chiacchierare, o ci baciamo e basta, a me va
bene. Volevo soltanto farti salire. Averti
vicina.»
Si voltò per guardarmi. «Tu non dici sul
serio. Ti ho visto in azione, Rush Finlay: tu
non porti le ragazze in camera solo per fare
una chiacchierata!» Il suo tentativo di pren-
dermi in giro non riuscì. La voce tradiva
troppa insicurezza, un’insicurezza che mi
colpì. Era venuta lì pensando di essere solo
l’ennesima ragazza che mi scopavo e poi
rispedivo a casa? Merda… Come facevo a
farle capire che con lei c’era dell’altro? Molto
altro. Lei era di più.
«Io qui non ci porto nessuna ragazza,
Blaire.»
«La prima sera che sono venuta qui hai
detto che il tuo letto era al completo» mi
ricordò, corrugando la fronte come se mi
313/488

avesse colto in flagrante. Accidenti, com’era


carina.
«Be’, sì, perché ci dormivo io. Non mi
porto ragazze in camera, non voglio che il
mio letto venga contaminato da sesso inutile.
Ci tengo a questo posto» le risposi, con
onestà. Invece lei era lì: non capiva che cosa
voleva dire?
«Il mattino dopo c’era ancora una
ragazza. L’hai lasciata dormire e poi lei è
venuta a cercarti in mutande» disse a gola
stretta.
Che pazza! Non aveva la minima idea di
quello che mi aveva fatto. Sentendo il
bisogno di toccarla, le feci scivolare una
mano sotto la maglietta e le carezzai la pelle
vellutata. Rabbrividì appena, facendomi sor-
ridere. «La prima stanza a destra è stata la
camera di Grant finché i nostri genitori non
hanno divorziato. Adesso la uso come…
garçonnière. È lì che porto le ragazze. Non
qui. Qui mai. Sei tu la prima… Aspetta! Una
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volta la settimana faccio venire Henrietta a


pulire, ma ti giuro che fra noi non c’è
niente!» le spiegai con un sorriso.
«Baciami, ti prego» mi disse, poi mi
strinse le spalle e si sollevò per premere la
bocca contro la mia senza aspettare che
reagissi.
Era stata probabilmente la cosa più dolce
che avessi mai sentito. Baciami, ti prego.
Quella ragazza mi avrebbe rovinato, cazzo.
Volevo che mi appartenesse, che il suo corpo
conoscesse soltanto il mio. Completamente.
La spinsi all’indietro facendola sdraiare
sul materasso e le aprii le gambe per poterm-
ici infilare in mezzo senza interrompere il
bacio più dolce che avessi mai ricevuto. Lei si
aggrappò alla mia maglietta, con i piccoli
pugni formati dalle sue mani, come se
volesse strapparmela di dosso. Se la mia
ragazza voleva tenermi le mani sul petto, le
avrei subito semplificato la vita.
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Mi staccai il tempo sufficiente per sfilarmi


la maglietta dalla testa, poi tornai in cerca
della sua bocca. Avrei potuto baciarla per
ore… Dovevo aggrapparmi alle coperte per
impedirmi di strapparle i vestiti di dosso
mentre mi esplorava. Ogni volta che mi toc-
cava, le sue mani si facevano più audaci e
vogliose. Aveva cominciato facendomele
scorrere su per le braccia, dandomi la
sensazione di una piuma sulla pelle, ma ora
le usava per percorrermi il petto come se non
ne avesse mai abbastanza. Quando mi sfregò
i capezzoli con i pollici, fui davvero sul punto
di scoppiare.
Anche io volevo toccare i suoi capezzoli
rosa, piccoli e turgidi. Mi staccai dalle sue
labbra e iniziai a sbottonarle la camicetta,
aprendola completamente. Non potevo per-
dere tempo a togliergliela, dovevo sentirla
dentro la mia bocca e dovevo sentirla in
fretta. Quando le abbassai il reggiseno, sal-
tarono fuori due tette piene e invitanti.
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Iniziai a sfamarmi come se fossi digiuno da


una vita: le leccai i capezzoli solo per sentirla
gemere, poi li succhiai con forza. Si inarcò
contro il mio corpo.
Non era ancora pronta, e io tremai e mi
impegnai per riprendere fiato quando la sen-
tii gridare di piacere per il fatto di avere la
mia erezione premuta contro le sue parti
intime. Dovevano essere gonfie e calde…
Volevo assaggiarle. Il sapore che mi aveva
lasciato sul dito era stato delizioso. Le abbas-
sai la cerniera della gonna e gliela tirai giù
insieme agli slip, il tutto senza smettere di
guardarla in faccia. Se si fosse irrigidita,
avrei dovuto rallentare. Non volevo spavent-
arla. La sua bocca si aprì: ansimava e ricam-
biava il mio sguardo. La fiducia assoluta che
le lessi negli occhi fu il colpo di grazia:
dovevo spogliarla completamente.
Le feci segno con il dito di rialzarsi per
mettersi seduta. Lei obbedì all’istante e io le
tolsi subito la camicetta e il reggiseno,
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facendo sì che il suo corpo, quel suo corpo


bello da far male, restasse nudo. Era tutta
mia. Tutto ciò che vedevo lo era. Nessun
uomo l’aveva mai toccato… né visto. Cazzo.
La squadrai, e l’emozione mi travolse.
«Averti nuda nel mio letto è ancora più bello
di quanto avrei mai potuto pensare… E fidati
che ci ho pensato. Parecchio.»
Il suo sguardo si accese, e io sorrisi fra me.
A Blaire piaceva quando le parlavo. I compli-
menti le servivano, e non c’era da stupirsi,
vista la sua insicurezza. Quello che stavamo
facendo era nuovo per lei. Avrei fatto in
modo che capisse quanto assurdamente per-
fetta fosse… Tornai a sdraiarmi su di lei e le
premetti la mia erezione pulsante contro le
parti intime ormai nude.
«Sì! Così, ti prego» gridò, aggrappandosi
alla mia schiena. Era pronta, potevo fare di
più. Sarebbe andata nel panico quando
avesse capito dove stavo per mettere la
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bocca… Avevo bisogno che fosse calda e


vogliosa, se dovevamo continuare.
Scesi sul suo corpo e le baciai la pancia
piatta, poi andai più giù sul rilievo quasi
glabro e dall’odore incredibile. Alzai gli occhi
sui suoi e, senza riabbassarli, estrassi la lin-
gua per poi passarle il piercing direttamente
sul clitoride, molto gonfio. Il grido che lanciò
mi fece pulsare l’uccello: aveva inarcato il
corpo e stringeva le coperte con forza.
«Dio, come sei dolce» le sussurrai contro
la pelle. Quel sapore mi avrebbe reso
dipendente. Era troppo buono, porca
miseria.
«Sì, Rush, ti prego» mi supplicò.
Smisi di leccarla. «Ti prego cosa? Dimmi
cos’è che vuoi.» Fece di no con la testa. Stava
stringendo forte le palpebre, come se si
stesse sforzando di prendere fiato. «Voglio
sentirtelo dire, Blaire.» Volevo che quelle
parole maliziose le uscissero dalla bocca.
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Non avrei dovuto forzarla, ma cavolo, lo


volevo da morire.
«Ti prego, leccami ancora» disse con un
singhiozzo disperato.
Accidenti, era ancora meglio di quanto mi
sarei aspettato. Non sapevo se, una volta
sprofondato dentro il suo corpo, sarei rius-
cito a durare più di un secondo. Cominciai a
passarle la lingua in mezzo alle pieghe della
carne, provando un piacere assoluto. Se solo
si fosse resa conto del potere che aveva… Le
avrei dato qualsiasi cosa. Poteva chiedermi
di stare in ginocchio fra le sue gambe con un
solo broncio di quelle labbra carnose. Mi
aveva drogato.
Blaire tremò e gridò il mio nome tenen-
domi la testa contro il corpo, come se avessi
voluto andarmene. Una volta raggiunto il
piacere, quando non aveva più bisogno di
me, presi la bustina con il preservativo che
tenevo sul comodino e la strappai. Stava
riaprendo gli occhi. Avrei voluto che si
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godesse in pace quel momento di estasi, ma


non potevo aspettare: dovevo entrarle den-
tro. Ed essere ancora nel nirvana
dell’orgasmo le avrebbe fatto sentire meno
dolore.
«Mi sono messo il preservativo, non ce la
faccio più» la supplicai. Dio mio, non volevo
farle male, ma avevo troppa voglia di penet-
rarla fino in fondo. Incontrai la barriera che
mi aspettavo di trovare e mi fermai; Blaire
capì e si irrigidì sotto di me. «Ci siamo.
Adesso faccio in fretta, ma quando sono den-
tro non mi muovo, così ti puoi abituare a
me.»
Cingendole la vita con le braccia, chiusi gli
occhi, perché non avevo il coraggio di
guardarla in faccia. Autocontrollo: mi serviva
una poderosa dose di autocontrollo. Volevo
entrarle dentro completamente. Con un
colpo, ruppi quella parete sottile e affondai
in un calore vellutato che non avevo mai sen-
tito. Avevo l’uccello stretto in una morsa che
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non mi faceva respirare. Presi fiato e non mi


mossi: doveva abituarsi ad avermi dentro di
sé. Però provavo una voglia tremenda di
muovermi, di riempirla tutta.
«Okay. Sto bene» mi sussurrò.
Mi costrinsi a riaprire gli occhi e la
guardai, perché dovevo essere sicuro che non
me lo stesse dicendo solo per tranquilliz-
zarmi. Non potevo farle altro male. «Sei
sicura, piccola? Perché io sto morendo dalla
voglia di muovermi.»
Annuì e io continuai a guardarle il viso
mentre indietreggiavo e poi spingevo dentro
di lei.
«Ti fa male?» chiesi, facendo appello a
ogni briciolo delle mie forze per rimanere
fermo e aspettare.
«No. Mi piace» disse, con lo sguardo
eccitato.
Non ero sicuro di poterle credere, ma
cominciai a muovermi. Dovevo farlo, per
forza. Me lo stava ordinando l’uccello, che
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non sentiva ragioni. Blaire lanciò un gemito


e il cuore andò a sbattermi contro la gabbia
toracica. Cristo santo, le stava piacendo.
«Ti piace?» le chiesi.
«Sì, Rush, mi piace tanto.»
Grazie al cielo! Stava bene. Non avevo più
bisogno di trattenermi. Rovesciai la testa
all’indietro e, iniziando a muovermi fra le
sue gambe, emisi un verso di piacere che mi
era salito dal centro del petto. Facevo avanti
e indietro da quel passaggio stretto che mi
attirava come se smaniasse dalla voglia di
avermi.
Blaire sollevò il bacino e mi prese le brac-
cia, venendo incontro alle mie spinte. Chi le
aveva insegnato a fare così?
«Oh, sì! Dio, sei incredibile. Così stretta.
Blaire, sei così stretta!» Volevo incoraggiarla.
Doveva sapere quanto pazzesco fosse quello
che stavamo facendo.
Sollevò le gambe e me le premette forte
contro ai fianchi, divaricandole ancora di più
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per me. Il mio corpo si inabissò nel suo


calore, e cominciai a tremare. Stavo per
venire, avevo raggiunto il limite. Più di tanto
non era umanamente possibile resistere.
«Tu ci sei, piccola?» le chiesi. Volevo che
venisse insieme a me.
«Credo di sì» disse, ansimando, mentre
stringeva la presa sulle mie braccia.
Non sarei venuto senza di lei, malediz-
ione. Volevo che provasse quella sensazione
con me. Abbassai la mano e le sfregai il pol-
lice contro il clitoride; già sensibile, al mio
tocco si gonfiò.
«Proprio lì, sì! Continua!» gridò
nell’istante in cui il suo corpo esplose sotto al
mio.
Non sapevo bene cosa avessi gridato, ma
dal petto mi era uscito un ruggito mentre la
sensazione più epica della mia vita mi aveva
scosso il corpo, mandandomi in un luogo di
cui non conoscevo nemmeno l’esistenza.
22

Ero appena svenuto?


Merda.
Era stato… era stato… No, non c’erano
parole per descrivere com’era stato. Mi
trovavo ancora sdraiato sopra Blaire, e prob-
abilmente la stavo soffocando, anche se lei
continuava a tenermi le braccia strette
intorno al corpo. Non cercava di
respingermi.
Non volevo uscire. Stare dentro di lei era
come sentirsi a casa. Però le avevo tolto la
verginità e, a un certo punto, avevo perso la
testa.
Mi allontanai, ma lei strinse la presa.
Nemmeno immaginava il piacere che mi
325/488

stava dando. Era bello sapere che mi volesse


vicino.
«Torno subito. Adesso devo prendermi
cura di te» le dissi prima di baciarla con dol-
cezza e alzarmi per andare in bagno.
Non persi tempo a rivestirmi, tanto ormai
mi aveva visto. Presi un asciugamano e feci
scendere dal rubinetto dell’acqua piacevol-
mente calda con cui lo inzuppai. Avrebbe
avuto bisogno di una ripulita e, per quanta
voglia avessi di ricominciare da capo, le
sarebbe servito un po’ di tempo.
Tornai in camera e lo sguardo di Blaire si
fermò sul mio, poi scese sotto la vita. Sgranò
gli occhi e arrossì.
«Su, ora non fare la timida» dissi per
prenderla in giro. Le toccai il ginocchio e cer-
cai di farglielo spostare. Non collaborava.
«Apri le gambe» le sussurrai, cercando di
nuovo di fargliele divaricare. «Non troppo»
aggiunsi. Mi serviva solo un po’ di spazio di
manovra.
326/488

Il rivoletto di sangue sulle sue pieghe ros-


ate fece ruggire di piacere la belva dentro di
me. Era mia. L’avevo fatto io. Nessuno era
stato lì prima di me. Era un ragionamento
perverso, ma non potevo farci niente. L’idea
che chiunque all’infuori di me potesse toc-
carla mi faceva impazzire.
«Fa male?» le chiesi, ripulendo l’area con
tutta la delicatezza di cui ero capace. Avevo
voglia di baciarla lì e farla stare meglio, ma
non ero sicuro che fosse già pronta.
Quando fu di nuovo perfetta come l’avevo
trovata, smisi di pulirla e buttai
l’asciugamano nel cestino della spazzatura.
Era arrivato il momento di abbracciarla
forte, di crogiolarmi all’idea che fosse mia.
Mi sdraiai accanto a lei e la presi fra le
braccia.
«Non pensavo che fossi così dolce, Rush»
disse Blaire, inspirando l’odore del mio collo
con il suo nasino delicato.
327/488

«Infatti non lo sono. Soltanto con te,


Blaire. Tu sei la mia eccezione.» Mai furono
dette parole più sincere. Blaire era la mia
unica eccezione, e lo sarebbe sempre stata.
Tirai le coperte sopra a entrambi e poi mi
infilai la sua testa sotto al mento. Lei doveva
riposare e io dovevo stringerla, dovevo
nutrire la belva possessiva che aveva risvegli-
ato in me con la certezza di tenerla al sicuro.
Bastò qualche minuto per sentire il suo
respiro rallentare e le braccia sciogliersi
intorno al mio corpo. Era esausta; aveva
lavorato tutto il giorno, e poi… questo. Con il
sorriso sulle labbra, chiusi gli occhi e inspirai
il suo profumo. La paura, in fondo alla mia
mente, che mi avrebbe lasciato una volta
scoperta la verità arrivò a minacciare di rov-
inare quel momento, ma io la respinsi. Mi
avrebbe amato. L’avrei fatta innamorare di
me. Poi… poi mi avrebbe dato ascolto e
infine mi avrebbe perdonato. Doveva farlo.
328/488

Mi svegliai accanto a un corpo nudo, mor-


bido e splendido ancora rannicchiato contro
il mio. Il sole filtrava attraverso le tapparelle.
A me non importava che ora fosse, ma a lei
sicuramente sì. Avrei voluto tenerla lì con
me, ma non era questione di cosa volessi io.
Era questione di Blaire, e a lei non sarebbe
piaciuto far tardi al lavoro; il suo senso di
responsabilità non gliel’avrebbe concesso.
Tenerla fra le mie braccia mentre dormiva
era fantastico, ma dovevo svegliarla.
Feci un respiro profondo e lasciai che il
suo profumo mi riempisse la testa. In un
attimo, il ricordo di quell’altro odore risve-
gliò completamente il mio uccello già in
semierezione. Non volevo farle del male,
però potevo viziare la sua tenera carne e sazi-
are il mio appetito…
Scesi sul suo corpo, presi uno dei suoi
adorabili piedini e le premetti un bacio
sull’incavo. Non si mosse. Ridacchiando, le
tracciai una scia di baci su fino al polpaccio e
329/488

poi di nuovo giù, fermandomi ad assaporarle


la pelle a ogni manciata.
Iniziò a stiracchiarsi. All’inizio solo legger-
mente, ma mi accorsi benissimo dell’istante
in cui si svegliò. I movimenti lenti e armonici
si interruppero di colpo, e i suoi occhi si spa-
lancarono. Non smisi di baciarle la gamba,
sorridendo alla vista della sua faccia
assonnata.
«Buongiorno… Cominciavo a doman-
darmi quanto ancora avrei dovuto baciarti
prima di svegliarti. Non che mi dispiacesse
l’idea di salire più su, ma poi avremmo
sicuramente fatto sesso all’ennesima potenza
e invece tu hai soltanto… venti minuti esatti
per andare al lavoro.»
Lei saltò a sedere così in fretta che dovetti
lasciarla andare. Come immaginavo, non vol-
eva presentarsi in ritardo.
«Hai ancora tempo. Mentre ti vesti pre-
paro qualcosa da mangiare» aggiunsi. Avrei
330/488

voluto far colazione tra le sue gambe, ma in


quel momento io venivo in secondo piano.
«Grazie, ma non ce n’è bisogno. Compro
qualcosa quando arrivo là» disse arrossendo
mentre prendeva il lenzuolo per coprirsi il
seno nudo. La donna passionale della sera
prima era sparita, lasciando al suo posto una
ragazza nervosa e insicura. Avevo fatto qual-
cosa di male?
«No, dai, mangia qui. Per favore» le dissi
guardandola da vicino.
Un luccichio negli occhi mi disse che
aveva bisogno di sentirselo dire. Le servivano
conferme? «Va bene. Però prima devo torn-
are in camera mia a fare la doccia.» Ancora
nervosa.
Volevo che restasse da me, che usasse le
mie cose, ma… cazzo. «In questo caso non
saprei cosa dire, perché vorrei che ti lavassi
qui, ma allo stesso tempo credo che non sarei
in grado di resistere all’idea di averti tutta
nuda e insaponata nella mia doccia.
331/488

Finirebbe che verrei a farti compagnia…»


ammisi.
«È una prospettiva allettante, ma arriverei
tardi al lavoro» disse con un sorrisetto.
«Hai ragione. Meglio se vai in camera
tua.» Si guardò intorno in cerca dei vestiti
che si era tolta. Mi sarebbe piaciuto che
indossasse qualcosa di mio… Quando fosse
uscita da camera mia con l’aspetto di un
angelo arruffato, avrei voluto vederle sulla
pelle la mia maglietta. «Mettiti questa. Hen-
rietta viene oggi, chiedo a lei di lavare e stir-
are i tuoi vestiti» le dissi prendendo la T-
shirt che avevo io la sera prima e
lanciandogliela.
Non protestò. E io non riuscii a distogliere
lo sguardo quando lei se la infilò dalla testa,
lasciando andare il lenzuolo solo quando fu
sicura che non potessi vederle le tette. Prob-
abilmente il fatto che qualche ora prima le
avessi succhiate e leccate come un
332/488

indemoniato non contava… Quel mattino se


le copriva. Okay.
«Ora alzati. Voglio vederti» le dissi.
Volevo ammirarla. Sarebbe stata un’imma-
gine che avrei tenuto impressa nella mente
per il resto della vita.
Si alzò, e la maglietta le arrivò ai fianchi.
Sapere che, sotto, era completamente nuda e
che non ci avrei messo molto a prenderla e a
farle divaricare le gambe mi faceva venire
voglia di rivedere i programmi della
giornata.
«Non potresti chiamare e darti malata?»
le chiesi, guardandola speranzosa.
«Ma non sono malata!» ribatté lei, cor-
rugando le sopracciglia.
«Sicura? Perché mi sa che io invece ho la
febbre» scherzai facendo il giro intorno al
letto e prendendola fra le braccia. «Questa
notte è stato bellissimo» le dissi premendole
il naso contro i capelli.
333/488

Lei mi abbracciò la vita e strinse forte.


«Dài, oggi devo proprio lavorare, mi
aspettano!»
Era fatta così. Ed era una delle tante cose
di lei che mi avevano attratto. Non diceva
bugie, non se ne fregava delle responsabilità.
La lasciai andare e mi allontanai di un passo.
«Lo so, lo so. Allora muoviti, Blaire. Muovi
quel bel culetto giù per le scale e preparati.
Se continui a restare qui, con addosso solo la
mia maglietta, non posso garantire che avrò
la forza di lasciarti andare.»
Un sorriso le si aprì sul viso. Si precipitò
giù per le scale lasciando dietro di sé l’eco di
una risata, e io non riuscii a fare altro se non
restare lì come un ebete ad ammirarla.
Feci una doccia e mi vestii di corsa, poi
telefonai a Jace. Non mi andava di chiedere a
Blaire che orari avrebbe fatto, però volevo un
pretesto per essere al club. Non ci andavo
mai, a meno che fosse Nan a volermi incon-
trare lì per fare una partita di golf o per cena.
334/488

«Pronto?» disse Jace, sorpreso che lo


stessi chiamando.
«Ehi, ciao. Oggi andate a giocare a golf?»
«Certo. Giochiamo a golf tutti i giorni, lo
sai.»
«Vengo anch’io» dissi.
«Vieni a giocare a golf? Tu?» Era
scioccato.
Non vedevo cosa ci fosse da stupirsi. Ci
era già capitato di giocare insieme. E ogni
tanto facevo una partita anche con Nan e
Grant. «Sì, perché?»
Sentii Jace sghignazzare. «Scusa, scusa. È
che saranno secoli che non giochi con noi.
Come mai oggi sì? Di solito devono trascin-
arti Nan o Grant.»
Non avrei risposto a quella domanda, non
doveva farsi un’idea sbagliata di Blaire.
Avrebbero dovuto vedermi con lei, così avrei
fatto capire che era territorio vietato. «Sem-
plice voglia di golf» risposi.
335/488

«D’accordo. Ci vediamo alle undici e


mezza. Woods stamattina ha una riunione
con suo padre, quindi iniziamo presto.»
Non persi tempo a specificare che, per la
gente normale, “presto” significava le sei o le
sette del mattino, non le undici e mezza…
«Grazie. A dopo!»
Corsi giù dalle scale per vedere se Blaire
se ne fosse già andata. Non poteva aver avuto
il tempo di vestirsi e di mangiare, non se si
era fatta la doccia. Aprii la porta in fondo alla
mia scala e guardai a destra. La porta della
sua stanza era aperta. Lei non c’era. Luci
spente.
Scesi i gradini due alla volta, con la sper-
anza di poterle dare un ultimo bacio di
arrivederci, e la trovai in piedi davanti al
bancone della cucina con una ciotola di cer-
eali in mano e il cucchiaio sollevato
all’altezza della bocca. Stava mangiando,
ottimo.
336/488

«Continua, continua pure» le dissi oltrepas-


sandola e andando verso la caraffa del caffè
per non esasperarla. Mi sembrava che avesse
i nervi a fior di pelle. «Oggi lavori in sala?» le
chiesi.
Lei fece di no con la testa e deglutì.
«Hanno bisogno di me sul campo» disse.
Sorrisi, dandole le spalle. Allora l’avrei
vista! Oh, quanto mi piaceva il golf… Notai il
suo cellulare posato sul mobile e lo presi. Se
lo stava già dimenticando.
«Ti fa… Ehm, stai bene?» m’informai, poi
le feci scivolare una mano verso il basso per
racchiudergliela sulle parti intime. Ero pre-
occupato che quel giorno potesse provare
fastidio. Doveva lavorare sotto il sole, non
volevo che stesse male.
Lei arrossì e chinò la testa. «Sto bene»
sussurrò.
«Se restassi qui, ti farei stare ancora
meglio.»
337/488

Il suo respiro accelerò. «Non posso. Devo


andare al lavoro» disse sollevando lo
sguardo per incontrare il mio.
Le infilai il cellulare nella tasca dei pan-
taloncini; volevo che lo tenesse sempre con
sé. «Non mi piace pensare che magari tu ti
senti poco bene e io non posso farci niente»
le dissi, carezzandole dolcemente la stoffa
degli short.
«Devo scappare. Ho dovuto rinunciare
alla doccia, il che è terribile, lo so, ma dovevo
scegliere tra quella e mangiare. Non volevo
che poi tu… Insomma, ho preferito mangi-
are, così saresti stato contento» spiegò.
Non si era fatta la doccia. Fantastico… Le
affondai la testa nella curva del collo e
inspirai profondamente. «Cazzo, Blaire, sono
felicissimo che avrai addosso il mio odore
per tutto il giorno» confessai. Sapere che non
aveva lavato via le mie tracce fece ruggire la
mia belva interiore. Okay, stavo perdendo
ufficialmente la testa.
338/488

«Devo andare» ribadì, indietreggiando di


un passo. Mi fece un cenno e corse via.
Soltanto quando sentii la porta chiudersi
mi resi conto di non aver ricevuto il mio
bacio. Mi aveva distratto con la storia che mi
portava ancora su di sé in tutte le parti del
corpo. Il sorriso ebete che mi ritrovavo in
faccia cominciava a indolenzirmi i muscoli…
Era una vita che non sorridevo così, ma
quella ragazza continuava a darmi motivi per
farlo.
23

«Oggi di nuovo sul cart? Per quanto mi piac-


cia averti in sala, se ci sei tu giocare è molto
più divertente!» disse Woods a Blaire dopo
averla vista parcheggiare il cart vicino alla
prima buca.
Avrei messo le cose in chiaro all’istante,
porca miseria. «Alla larga, Woods. Sei troppo
vicino al limite» lo avvertii andando verso di
loro.
Blaire si voltò con un’espressione di
stupore sul viso. Non si aspettava di vedermi.
Eh, sì, per lei non sarebbe stato facile sbaraz-
zarsi di me!
340/488

«Ah, allora è lei il motivo per cui oggi


all’improvviso hai deciso di giocare con
noi?» chiese Woods, scocciato.
Non mi interessava rispondergli, tutta la
mia attenzione era concentrata su Blaire:
l’attaccatura dei capelli era tutta sudata, e si
capiva che stava morendo dal caldo. Se mi
avesse detto che stava anche solo un po’
male, Woods avrebbe dovuto lasciarla torn-
are a casa; me la sarei messa in spalla e poi
avrei iniziato a correre, se fosse stato neces-
sario. Le feci scivolare una mano intorno alla
vita e la tirai verso di me con fare possessivo,
poi chinai la testa per sussurrarle
all’orecchio: «Tutto bene?».
«Sì, sto bene» mi assicurò.
Le baciai l’orecchio, ma ancora non ero
pronto a lasciarla andare. «Neanche un po’
di fastidio? Lo senti che sono stato dentro di
te?»
Non volevo che provasse dolore, ma allo
stesso tempo mi piaceva l’idea che sapesse
341/488

dove ero stato. Che ricordasse la mia


presenza.
Annuì e si sciolse contro di me. Alla pic-
cola Blaire piacevano i discorsetti espliciti, e
non me lo sarei dimenticato.
«Bene. Mi piace sapere che senti dove
sono stato…»
«Sapevo che sarebbe successo» commentò
Woods, incazzato.
«Nan lo sa?» chiese Jace, e Thad, uno dei
migliori amici suoi e di Woods, gli diede di
gomito come per dirgli di stare zitto.
«Non sono affari suoi. Né tuoi» ribattei,
lanciando a Jace un’occhiata di fuoco.
Doveva dar retta a Thad e starsene zitto. A
Nan ci avrei pensato io. Non sapevano un
cazzo.
«Sono venuto qui per giocare a golf. Non
c’è bisogno di toccare l’argomento. Blaire,
perché non distribuisci le ordinazioni e pro-
cedi verso la prossima buca?» intervenne
Woods.
342/488

Non mi andava che giocasse al capo autor-


itario. E poi sapevo che lo stava facendo
apposta. Quel coglione faceva meglio a stare
attento, altrimenti mi sarei presentato in
ufficio da suo padre alla velocità della luce.
Erano i soldi dei Finlay a mandare avanti la
baracca.
Non l’avrei fatto di fronte a Blaire, perché
si sarebbe arrabbiata, ma a Woods serviva
una messa in riga.
Blaire si liberò dalla mia presa e andò a
prendere le ordinazioni; mi passò una
Corona senza chiedermi cosa volessi, poi
porse a Woods la sua birra e lui le fece
scivolare tra le mani una cazzo di banconota
da cento dollari. Lei si irrigidì, mi guardò di
sbieco e se la infilò subito in tasca. Non mi
sarei incavolato perché la pagava bene.
Poteva permetterselo, e lei se lo meritava
perché si faceva il culo per lui. Bastardo.
La raggiunsi e le misi in tasca a mia volta
non una ma due banconote da cento, poi le
343/488

diedi un bacio sulle labbra. Stavo rivendic-


ando ciò che era mio, e avrebbero fatto tutti
bene a metterselo in testa. Le feci l’occhi-
olino e mi incamminai verso il caddy. Non
avrei guardato Woods finché Blaire non se
ne fosse andata, perché mi sarebbe bastato
un suo sorrisetto ironico per spaccargli il
naso.
Quando tornai a guardare in direzione di
Blaire, la vidi che si allontanava a bordo del
cart. Presi il cellulare e le inviai un
messaggio.

SCUSAMI PER WOODS.

Aveva fatto lo stronzo, e io ero preoccup-


ato che lei se la fosse presa. Era il suo capo,
ma Blaire doveva sapere che non sarebbe
ricapitato.

TT OK. È IL MIO CAPO, PAZIENZA.


344/488

Era abituata a quel comportamento da


parte sua? Sì, io e Woods dovevamo fare un
bel discorsetto. Subito.
«E quindi, tu e Blaire… Non l’avrei mai
detto» commentò Jace, sorridendo come un
idiota.
Woods fece una risata amara, e io mi parai
di fronte a lui.
«C’è qualcosa che mi devi dire, Woods? Se
è così, ti conviene farlo subito, perché giuro
su Dio che qualcosa da dire a te io ce l’ho.»
La rabbia negli occhi di lui non mi sorp-
rese. Non gli piaceva quando gli ricordavo
che con me non attaccava, non mi lasciavo
intimidire. Scosse la testa e spostò lo sguardo
nella direzione in cui il cart di Blaire era
scomparso, oltre la collina. «Lei è troppo
brava per te, merita molto di più. Pensavo ci
fosse almeno la remota possibilità che avessi
abbastanza cuore da non toccarla… Se solo
mi avesse dato un’occasione, le avrei fatto
vedere io come dovrebbe essere trattata.
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Invece tu…» Mi puntò l’indice contro il petto.


«… tu, Finlay, fai un cenno con il tuo dito da
figlio di rockstar e le vedi correre tutte ai tuoi
piedi. Poi le butti via, senza nemmeno
pensarci. Blaire non ha abbastanza esperi-
enza di vita per queste cose, Rush. Lei non è
così forte, cazzo!» Aveva l’espressione di uno
pronto a tirarmi un pugno in faccia.
L’unico motivo per cui gli permettevo di
starsene lì in piedi a sbraitarmi contro era
che non capiva. Pensava che la stessi usando.
Voleva proteggerla. Non avrebbe dovuto,
perché non gli avrei mai permesso di avvi-
cinarsi troppo, però apprezzavo il fatto che
vedesse le stesse cose che vedevo io: Blaire
era preziosa. Lo allontanai il necessario per
levarmelo dalla faccia. «Pensi davvero che
l’avrei toccata, se non avessi già capito certe
cose? Pensi che avrei minacciato mia sorella
per una donna qualsiasi? No. Per me Blaire
non è una fra tante. È quella giusta. La
donna giusta per me.»
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Pronunciare quelle parole ad alta voce


non scioccò soltanto tutti i presenti, ma ter-
rorizzò a morte anche me. Lei era quella
giusta.
Non avrei più voluto nessun’altra.
Mai più.
Blaire, soltanto.
«Porca troia…» sussurrò Jace, dietro di
me. «Rush Finlay non ha appena detto
quello che credo abbia detto, vero?»
Lo sguardo arrabbiato di Woods si dis-
solse lentamente. Man mano che le mie
parole gli entravano in zucca, vedevo
incredulità e rassegnazione scorrergli sul
viso. «Merda» disse infine.
Indietreggiai e feci spallucce. «L’hai detto
tu stesso. Solo su una cosa ti sbagliavi: lei
non è speciale. Lei è perfetta, cazzo.» Mi
girai per andarmene, ma poi mi fermai e lo
guardai deciso. «Ed è mia» aggiunsi a voce
abbastanza alta da farmi sentire da tutti.
Lanciai uno sguardo torvo agli altri due, che
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mi stavano fissando come se avessi perso la


testa. «Mia. Blaire è mia» ribadii.
«Alla faccia!» commentò Thad. «Forse
avrei dovuto dedicare più attenzione a questa
nuova ragazza. Ha messo il guinzaglio al più
grande dongiovanni che conoscessi! Caz-
zarola, sono proprio rimasto senza parole…»
Quella volta fu Jace a dare di gomito a
Thad. «Taci» sibilò.
«E adesso dedichiamoci al golf» dissi
prendendo il mio driver e incamminandomi
verso il tee.

Pranzai sul tardi con Grant, poi tornai a casa


a farmi una doccia e pensare ai programmi
con Blaire per quella sera. Anche se il sesso
era piuttosto in alto nella mia lista delle pri-
orità, sapevo che per lei era meglio fare tutto
con calma. Avevo voglia di chiacchierare.
C’erano un sacco di informazioni che non
avevo, sul suo conto… e le volevo scoprire
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tutte. Volevo mettermi seduto e stare ad


ascoltarla mentre mi parlava. Di tante cose.
Avrei potuto portarla fuori, ma ero troppo
geloso. Non ero ancora pronto a dividerla
con gli altri, volevo tutte le sue attenzioni per
me. Non mi sarebbe piaciuto scoprire, per
esempio, che qualcuno la stava guardando.
Dovevamo essere noi due, in quella casa, da
soli. Insieme.
Poi, ovviamente, avrei voluto coprirla di
baci dalla testa ai piedi e finire di nuovo in
quel paradiso che aveva tra le gambe. Prima,
però, il dialogo. Non volevo che la nostra
fosse una storia di solo sesso: per la prima
volta in vita mia, provavo il desiderio di
essere avvicinato. Non volevo tenere Blaire a
distanza; doveva amarmi. Per poter soprav-
vivere a quell’uragano, lei doveva amarmi.
Come sarei riuscito a farla innamorare di me
proprio non lo sapevo, ma imparare a cono-
scerla mi avrebbe aiutato. Leccargliela non
sarebbe stato il lasciapassare per il suo
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cuore… Dovevo ricordare a me stesso che la


dipendenza dal suo sapore non poteva pren-
dere il sopravvento. L’amavo? Non ero mai
stato innamorato. Volevo bene a mio padre,
a Nan e a Grant, ma non avevo mai provato
sentimenti profondi per altre persone.
Avrei scelto lei anziché uno di loro?
Sì.
Sarei morto pur di proteggerla?
Be’, sì, accidenti.
Avrei potuto continuare a vivere, se mi
avesse lasciato?
No. Una cosa del genere mi avrebbe fatto
a pezzi.
Era amore? Mi sembrava molto più forte
di una cosa semplice come l’amore.
Qualcuno bussò alla porta, facendo
irruzione tra i miei pensieri. Oh, merda, non
era Grant. Era Nan! In quel momento non
mi andava di affrontarla. Andai alla porta
con molta calma, mentre lei bussava sempre
più forte.
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Quando aprii, mi trovai di fronte al viso di


mia sorella, rigato di lacrime. Non poteva
entrare in camera mia: non gliel’avevo mai
vietato esplicitamente, ma era sottinteso.
Uscii io nel corridoio e mi richiusi la porta
alle spalle.
Nan mi indicò la stanza in cui dormiva
Blaire… o meglio, dove teneva le sue cose. Da
quel momento in avanti avrebbe dormito con
me.
«Allora è vero! Quella sta qui dentro. Sei
stato tu a permetterle di trasferirsi di sopra?
Te la scopi anche? È di questo che stiamo
parlando? Non è nemmeno interessante,
Rush. Potresti avere tutte le ragazze che vuoi,
mentre lei è solo un faccino carino come
tanti. Perché non sei riuscito a trattenerti?
Cos’è, il tuo uccello che comanda? Non può
essere così brava a letto!»
«Piantala!» gridai, prima che aggiungesse
altro. Stava per farmi sbroccare. Non ero
contento che avesse pianto, ma con Nan non
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sapevi mai se le sue fossero autentiche lac-


rime oppure no. In quel momento non
l’avevo vista piangere, quindi non potevo
dirlo con certezza. Non volevo farla arrabbi-
are, ma solo avere la possibilità di essere
felice. Per una volta, nella mia cazzo di vita,
volevo poter decidere per me stesso. Non per
lei.
«Non urlare con me!» A quella frase gli
occhi le si riempirono di lacrime senz’altro
vere, che iniziarono a scivolarle lungo le
guance. Okay, forse era sconvolta sul serio.
Non mi capitava spesso di alzare la voce con
lei; di solito non mi faceva andare fuori di
testa fino a quel punto. «Da quando…» Tirò
su con il naso. «Da quando è arrivata lei, tu
non fai altro che urlare con me. Sempre. E io
non…» emise un singhiozzo «non posso sop-
portarlo. Hai voltato le spalle a me per lei!»
Non era colpa di Blaire. Perché Nan non
se ne rendeva conto? Era un circolo vizioso.
Le tesi le braccia e la strinsi forte. La
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ragazzina di cui mi ero preso cura per tutta la


vita mi stava guardando con due occhioni
gonfi. Io ero tutto ciò che aveva. «Scusa se ho
alzato la voce» le dissi, e lei singhiozzò
ancora più forte contro il mio petto.
«È che… che… non capisco» mormorò.
Dire a Nan che ero innamorato di Blaire
non sarebbe stata la mossa giusta. Tanto per
cominciare, non l’avevo dichiarato nemmeno
alla diretta interessata, che in effetti avrebbe
avuto la precedenza. Poi, se l’avessi fatto,
Nan avrebbe dato fuori di matto. Era capace
di trasformarsi da relitto pietoso a tornado
implacabile nel giro di pochi secondi, e avevo
avuto modo di esserne testimone più volte.
«Non è questione di sesso. Ho già cercato di
dirti che Blaire non ha colpe, che anche lei ha
subito un torto. Non sei l’unica vittima. Non
dovresti odiare una persona che ha sofferto
come hai sofferto tu. Però non posso sce-
gliere te al posto suo, non questa volta.
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Questa volta mi stai chiedendo troppo, e io


non rinuncerò a lei.»
Nan ammutolì tra le mie braccia. Volevo
sperare che mi stesse ascoltando, che stessi
facendo breccia nel suo cuore, ma conoscevo
mia sorella. Così sarebbe stato troppo facile.
Le sarebbe servito molto di più per convin-
cersi a cancellare un odio covato per gran
parte della vita. «Perché non puoi darle un
po’ di soldi e mandarla via?» mi chiese sotto-
voce, liberandosi dalla mia stretta e incro-
ciando le braccia al petto, sulla difensiva.
«Perché non posso lasciarla andare. Lei…
Lei mi rende felice, Nan.» Ecco, l’avevo
ammesso.
Gli occhi di Nan fecero saettare la rabbia
che sapevo l’avrebbe infiammata se, anche
solo per un minuto, avesse pensato che per
Blaire provavo qualcosa di più forte che per
lei. Per quanto assurdo fosse, Nan pre-
tendeva di essere la mia numero uno per
tutta la vita: non si era mai fermata a
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pensare cosa sarebbe successo se, un giorno,


mi fossi innamorato. Aveva un bisogno così
disperato di essere al primo posto per qual-
cuno da aver deciso di puntare tutto su di me
me. «Perché è brava a scopare?» fece, acida.
Chiusi forte le palpebre e feci un respiro
profondo. Mantenere la calma era import-
ante. Perdere le staffe con Nan non sarebbe
servito a niente. Quando riaprii gli occhi, li
puntai dritti in quelli di mia sorella. «Nan,
non dirlo più. Blaire per me non è una
scopata, mettitelo bene in testa. Non mi sta
controllando con il sesso. Lei è ben altro.»
Mia sorella si irrigidì e girò la testa per
incenerire con lo sguardo la porta della
stanza di Blaire. «Nemmeno la conosci. Vi
siete appena incontrati, eppure vuoi scegliere
lei al posto mio!» sbottò.
«Sì che la conosco. Ormai sono settimane
che viviamo sotto lo stesso tetto. Non sono
stato capace di non guardarla, e così l’ho
fatto. L’ho guardata, le ho parlato. L’ho
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conosciuta. Lei è… Dio mio, Nan, è ciò che


mi rende felice! Non riesci ad accettarlo?
Basta con tutto questo rancore nei suoi
confronti!»
Lei non mi guardò e non rispose. Per il
momento la battaglia era finita, ma sapevo di
non aver vinto. Non aveva ancora capito.
Restammo in piedi in silenzio per qualche
istante, mentre io aspettavo che dicesse qual-
cosa. Qualsiasi cosa stesse progettando di
fare, andava gestita con cura. Nan aveva la
capacità di rovinarmi: avrebbe potuto rac-
contare tutto a Blaire, e io l’avrei persa. Non
poteva succedere.
«Stasera vorrei invitare qui degli amici»
annunciò a un tratto, riportando lo sguardo
su di me.
Bene, stava per impormi una delle sue
feste. Tipico di Nan. Aveva bisogno di sapere
che, fino a un certo punto, ero ancora pronto
ad accontentarla. «Okay» risposi senza farle
storie. Avrei portato Blaire in camera mia,
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dove saremmo stati alla larga dalla folla e dal


rumore.
Nan fece di sì con la testa, poi si girò e se
ne andò. Fine. Per il momento.
24

Anche se non mi andava, avevo detto a Nan


che poteva organizzare la sua festa. Avrei
dovuto aspettarmelo che, senza il sottoscritto
a metterle un freno, lei si sarebbe fatta pren-
dere la mano. Quella sera non avrei bevuto:
il mio scopo era trascorrere la notte con
Blaire. I ragazzi avevano capito che era pro-
prietà privata, ma le ragazze non avevano
ancora accettato il fatto che io non fossi più
disponibile. Scossi la testa di fronte
all’ennesima amica di Nan che veniva a offri-
rsi di prendermelo in bocca davanti a tutti…
Lo sguardo di Grant incontrò il mio tra la
folla: era stravaccato sul divano, con in brac-
cio una ragazza a cui avevo detto di no poco
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prima. Alzò gli occhi al cielo e mandò giù un


sorso di birra. Gli avevo chiesto di venire a
monitorare la situazione per quella sera, per-
ché non volevo intoppi, e lui aveva accettato
a patto di poter occupare una delle stanze al
piano di sopra, nel caso qualche invitata gli
avesse acceso la fantasia.
Poteva fare quello che gli pareva, purché
nessuno desse fastidio a me e a Blaire. Feci
un cenno con la testa in direzione della
ragazza che avevo appena spedito via: se
Grant aveva voglia di un po’ di sesso avven-
turoso e senza complicazioni, quella era
sicuramente un’ottima scelta.
Sollevò le sopracciglia in segno d’interesse
e la guardò zampettare via verso il soggiorno.
Sarei salito e avrei aspettato Blaire in camera
sua; ormai doveva arrivare a momenti.
«Sali?» mi chiese Nan quando mi vide.
Annuii. «Sì. C’è Grant, se hai bisogno.»
«E lei? Anche lei resta su?» disse, fingen-
dosi disinteressata.
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«Blaire starà con me. Buonanotte, Nan.


Goditi la tua festa.»
Girò i tacchi e procedette a passo deciso
verso la cucina. Io mi voltai per guardare
Grant, e lui si limitò a scuotere la testa.
Sapeva che Nan mi stava facendo un sacco di
storie per via di Blaire, e io capivo che non
fosse d’accordo con il fatto di tenerla
all’oscuro di tutto. Secondo lui dovevo
vuotare il sacco prima che la cosa andasse
troppo in là.
Peccato che fosse già tardi.

La stanza di Blaire era carica del suo odore.


Non accesi le luci, perché al buio vedevo
meglio il chiaro di luna sul golfo. Seduto sul
bordo del letto, inspirai per cercare di
placare la fame di lei che avevo dentro.
Sarebbe arrivata da un momento all’altro,
ma cominciavo a essere impaziente. Se avessi
pensato di poterla convincere a smettere di
lavorare e lasciare che fossi io a prendermi
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cura di lei, l’avrei fatto subito, ma sapevo che


non avrebbe mai ceduto. Anzi, si sarebbe
incavolata. Avevo dovuto mentirle anche solo
per convincerla ad accettare un cellulare!
Non solo, s’intestardiva ancora a volermi
pagare la spesa che consumava, ma io avrei
trovato un modo per rimborsarla. Quella
testarda non voleva niente da me, niente se
non il mio corpo… Sorrisi a quel pensiero.
No, accettava volentieri anche la lingua. Le
piaceva particolarmente, e il modo in cui lo
sguardo le brillava d’impazienza quando
vedeva il piercing era troppo sexy.
Sentii dei passi e, girandomi, vidi Blaire
che entrava in stanza. Si portò entrambe le
mani alla bocca per soffocare un urlo di
spavento, che però si spense nell’esatto
momento in cui si accorse che ero io. Mi alzai
e le andai incontro: non potevo aspettare un
altro secondo senza toccarla.
«Ehi» dissi.
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«Ehi» ripeté lei, poi fece una smorfia.


«Che cosa ci fai qui?»
E dove altro avrei dovuto stare?
«Aspettavo te. Pensavo si capisse.»
Chinò la testa per nascondere il sorriso
compiaciuto che riuscii comunque a vederle
sulle labbra. «Sì, si capisce. Ma hai ospiti.»
Mi ero già dimenticato della loro
presenza. Tutta la mia attenzione era rivolta
a lei e a lei soltanto. «Non sono ospiti miei.
Fidati, preferirei avere la casa vuota» le
assicurai racchiudendole la guancia in una
mano. «Sali da me, per favore.»
Buttò la borsa sul letto, poi fece scivolare
la mano nella mia. «Fammi strada.»
La lasciai arrivare all’ultimo gradino, poi
la presi fra le braccia e premetti le mie labbra
contro le sue. Era tutto il giorno che pensavo
al buon sapore che aveva e a quanto mi pia-
cesse la sensazione della sua lingua contro la
mia.
362/488

Intrecciò le mani dietro al mio collo e ris-


pose al bacio con passione. Sentivo che il suo
desiderio era forte quanto il mio, e sapevo
anche di dovermi fermare al più presto se
quella sera volevo fare conversazione.
Mi staccai. «Parlare. Prima dobbiamo par-
lare. Voglio vederti sorridere, sentire il suono
delle tue risate. Voglio sapere qual era il tuo
cartone animato preferito quando eri piccola,
chi ti ha fatto piangere a scuola e quale boy
band c’era sui poster di camera tua. E poi ti
voglio di nuovo nuda nel mio letto» le dissi.
Sorrise e andò verso il divano ad angolo.
Nella mente mi passarono una serie di
immagini in cui lei si sdraiava senza niente
addosso e, per riprendermi, dovetti darmi
una scossa. Non sono quelli i programmi,
Rush.
«Hai sete?» chiesi aprendo il frigorifero
che tenevo in camera mia.
«Va benissimo un po’ di acqua fresca,
grazie.»
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Mentre le riempivo il bicchiere pensavo a


tutte le cose che avrei voluto domandarle.
Non a quanto fosse sexy prima dell’orgasmo.
«“I Rugrats” erano il mio cartone animato
preferito. Ken Norris mi faceva piangere
almeno una volta la settimana, ma poi ha
fatto piangere anche Valerie, io sono
impazzita e l’ho picchiato. La mia mossa
preferita, nonché quella più efficace, era il
calcio nelle palle a tradimento. Infine, mi
dispiace ammetterlo, sulle pareti di camera
mia c’erano i Backstreet Boys.»
Le porsi il bicchiere e mi sedetti accanto a
lei sul divano. «Chi è Valerie?» chiesi. Non
mi aveva mai parlato delle sue amiche, e io
avevo dedotto che non ne avesse molte per
via del problema di sua madre.
La sentii irrigidirsi, cosa che accese ancora
di più il mio interesse. Questa Valerie l’aveva
fatta soffrire?
«Valerie era la mia sorella gemella. È
morta in un incidente d’auto, cinque anni fa.
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Guidava mio padre. Due settimane dopo è


uscito dalla nostra vita e non è mai più tor-
nato. Mia madre diceva che dovevamo per-
donarlo, perché non riusciva a convivere con
quello che era successo. Io le ho sempre
voluto credere. Anche quando lui non è ven-
uto al funerale della mamma, ho voluto cre-
dere che fosse perché non ce la faceva.
L’avevo perdonato. Non l’avevo odiato, non
mi ero lasciata prendere dalla rabbia o dal
rancore. Poi però sono venuta qui e… Lo sai.
Mia madre si sbagliava.»
Cristo santo. Mi venne un conato di
vomito. Appoggiai la schiena al divano e
presi Blaire tra le braccia, desideroso di
stringerla e consolarla. Di dirle che avrei
fatto qualunque cosa pur di aiutarla a stare
meglio. Ad aggiustare le cose. Per cambiare il
passato, sarei stato pronto a scendere
all’inferno. Però non potevo farlo… E così
dissi l’unica cosa che potevo dire: «Non
sapevo che avessi una gemella».
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Era una bugia. Lo sapevo, ma era stato fin


troppo facile dimenticare che la ragazza su
cui avevo qualche informazione fosse la
stessa di cui mi ero follemente innamorato.
Quella che aveva pagato le conseguenze delle
mie azioni.
«Eravamo identiche. Non potevi dis-
tinguerci, così a scuola e con i ragazzi ci
siamo divertite un sacco. Soltanto Cain
capiva chi era una e chi l’altra.»
Le feci scivolare una mano fra i capelli e
giocherellai con le sue ciocche di seta. «Come
si sono conosciuti i tuoi genitori?» Volevo
sentir raccontare tutto da lei. C’erano un
sacco di cose che temevo di non sapere,
troppe bugie a cui avevo creduto.
«È stata una di quelle cose tipo amore a
prima vista. Mia madre era andata in visita
da una cugina ad Atlanta. Mio padre aveva
appena rotto con lei e una sera si era
presentato a casa sua, ma non l’aveva
trovata. Stando ai racconti di mia madre, sua
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cugina doveva essere una tipa un po’ selvag-


gia! Insomma, mio padre arrivò, trovò solo
mia madre e restò folgorato. Non posso
dargli torto, lei era stupenda: aveva i capelli
del mio stesso colore e due enormi occhi
verdi che sembravano gemme. E poi era
divertente, bastava starle vicino per sentirsi
bene. Non si perdeva mai d’animo, sorrideva
sempre. L’unica volta che l’ho vista piangere
è stato quando le hanno detto di Valerie…
Quel giorno si è buttata per terra e ha pianto
a dirotto. Mi sarei spaventata, se anch’io non
mi fossi sentita come lei. È stato come se mi
avessero strappato via una parte di me
stessa.» Blaire si interruppe e io la sentii
trattenere il fiato. Non potevo nemmeno
immaginare di perdere Nan o Grant. E
invece lei aveva perso la sua gemella. Poi suo
padre. Poi la madre. Avevo il cuore stritolato
dal dolore.
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Me la strinsi contro. «Mi dispiace tanto,


Blaire. Non ne avevo idea.» Lei alzò la testa
verso di me e mi baciò con rabbia.
Era in cerca di conforto, e quello era
l’unico modo che conosceva per ottenerlo da
me. Volevo che sapesse di potersi rifugiare
tra le mie braccia, e che io l’avrei stretta ogni
volta che ne avesse avuto bisogno. Però non
potevo dirglielo, non ancora.
«Volevo bene a mia sorella e a mia madre.
Sarà così per sempre, ma ora sto meglio per-
ché penso che loro due sono insieme. Pos-
sono contare l’una sull’altra» disse ritraen-
dosi dal bacio. Stava cercando di attutire il
colpo. Le aveva perse lei, ma stava cercando
di consolare me.
«E tu? Su chi puoi contare?» le domandai,
provando l’emozione più grande che avessi
mai provato in vita mia.
«Su me stessa. L’ho scoperto tre anni fa,
quando mia madre si è ammalata: finché
avessi contato solo su di me, senza
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dimenticare chi fossi, sarei sempre stata


bene.»
Non riuscivo a respirare. ‘Fanculo, nem-
meno meritavo di farlo.
Era così forte, accidenti. Aveva affrontato
l’inferno, eppure trovava ancora motivi per
sorridere. Pensava di non aver bisogno di
nessuno, ma io bisogno di lei ne avevo, e Dio
solo sapeva quanto.
Io non ero forte come lei. Io non me la
meritavo. Però non ero un bravo ragazzo,
non avrei mai fatto la cosa giusta, cioè inter-
rompere tutto: non sarei stato fisicamente in
grado di guardarla andarsene via. Venni
colto dal panico e dalla disperazione.
«Ho bisogno di te. Adesso. Lasciati amare
qui, ti prego» la implorai. Ero pronto a sup-
plicare. Non era giusto. Aveva bisogno di
qualcuno che le desse ascolto e la tenesse fra
le braccia, e invece eccomi lì a implorare che
fosse lei a prendersi cura di me.
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Si sfilò la maglietta e prese la mia; alzai le


braccia e lasciai che me la togliesse dalla
testa. Mi piaceva quando mi spogliava. Le
misi una mano dietro la schiena e le slacciai
il reggiseno, buttandolo da una parte. Le
presi i seni fra le mani e lasciai che me le
riempissero completamente.
«Sei bella, Blaire. Incredibilmente bella»
le dissi. «E anche se non me lo merito, voglio
sprofondare dentro di te. Non ce la faccio ad
aspettare, voglio starti più vicino possibile.»
Blaire si allontanò, facendo sobbalzare il
petto. Mi venne l’acquolina in bocca, e quasi
mi prudevano i palmi della mani dalla voglia
di stringerle le tette. Di racchiudere ancora
quella carne soda e di velluto. Iniziò a togli-
ersi le scarpe. Lo sguardo mi cadde sulle sue
mani, che ora stavano trafficando con il bot-
tone dei pantaloncini. Si stava spogliando
per me… Non aveva più vergogna di
mostrarmi il suo corpo, come quella mattina.
Non avrei dovuto supplicarla di restare nuda.
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Si divincolò e sgusciò fuori dagli short,


mentre io ero sicuro di avere praticamente il
fiatone per l’emozione.
«Spogliati» mi ordinò, abbassando gli
occhi sulla mia evidente erezione.
Ossignore, dov’era finita la mia dolce
Blaire? Non protestai. In piedi, lasciai cadere
i jeans a terra, poi la presi e la tirai su di me
sedendomi sul divano. «Mettiti a cavalcioni»
le dissi.
Obbedì. Aveva le cosce divaricate, e
l’odore della sua eccitazione mi arrivò alle
narici. Avevo voglia di assaggiarla, ma per
quello avrei dovuto aspettare.
«Adesso» riuscii a dire, con l’emozione
che mi stringeva la gola «scendi piano su di
me.»
Mi tenni la base del pene per posizionarlo
in modo che lei potesse affondare senza dif-
ficoltà. Non ero sicuro che fosse una buona
posizione per quella che in fondo era solt-
anto la sua seconda volta, però volevo
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provare. Si aggrappò alle mie spalle con


entrambe le mani.
«Piano, piccola. Vacci piano, potrebbe
farti male.»
Annuì proprio nell’istante in cui con la
punta le sfiorai il sesso. Gliela sfregai contro,
facendola tremare quando arrivai al
clitoride.
«Ci siamo. Ti stai bagnando tutta. Dio
mio, che voglia di assaggiarti…» Sapevo che
le piaceva quando le dicevo cosa pensavo.
Adoravo quella libertà di dirle certe cose
senza la paura di spaventarla.
Ci guardammo negli occhi, e lei si spostò
finché non fui di nuovo puntato nella
direzione giusta. Vidi i denti, bianchi e per-
fetti, mordere dolcemente il labbro inferiore,
poi la sentii scendere con forza su di me.
Lanciò un grido che riecheggiò in tutta la
stanza, e io tolsi la mano in modo che
potesse prendermi fino in fondo.
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«Oh, cazzo» imprecai mentre il suo sesso


mi stringeva con quella potenza folle che la
sera prima mi aveva fatto impazzire. Adesso
era persino più intenso, se possibile. Era più
calda e, Cristo santo, bagnata. Come un vel-
luto morbido che mi intrappolava per ucci-
dermi di piacere.
Quando ero sul punto di chiederle se
stesse bene, fui raggiunto dalla sua bocca e
sentii la sua lingua intrecciarsi con trasporto
alla mia. Il suo sapore. Dio mio, il suo sapore
era favoloso… Le racchiusi il viso tra le mani
e le divorai la bocca. La mia lingua e il mio
uccello erano sepolti contemporaneamente
dentro l’incredibile corpo di Blaire, e io
dovetti trattenermi per non cedere alla voglia
di prenderla e sbattermela come un assatan-
ato. Lei rovesciò la testa all’indietro e mi
strinse più forte le spalle, poi cominciò a
cavalcarmi come se non ne avesse mai
abbastanza. La paura che potesse sentire
dolore svanì quando notai l’espressione di
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pura gioia sul suo viso mentre saltava su di


me con colpi veloci e potenti. Mi cadde lo
sguardo sul suo seno, che ballonzolava ogni
volta che lei si sollevava e poi ricadeva.
«Oh, Blaire… Sì, porca puttana, così!»
ringhiai, incapace di credere a quello che
stava succedendo.
Le afferrai la vita e quasi persi la testa.
Volevo viziarla con dolcezza, ma, allo stesso
tempo, scoparla, scoparmi il suo corpo
nell’abbandono più totale. Era la cosa più
eccitante e sconvolgente che avessi mai
vissuto.
«Cazzo, Blaire… Cristo santo! Sì, piccola,
così… scopami.» Le parole mi uscivano dalla
bocca senza che potessi fermarle. «Sei tutta
stretta, mi fai morire. Dovrebbero metterti
fuori legge… Porca puttana, Blaire, eccoci…
Dài, così… più forte, più forte, cazzo…» Poi
me ne resi conto di colpo. Era la prima volta
che lo facevo senza il preservativo. Ero sano,
avevo appena fatto gli esami di controllo. Lo
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mettevo sempre, ma… Mi strinse, e non rius-


cii più a preoccuparmi. Dio mio, volevo che
con lei fosse così. Che non ci fossero barriere
a dividerci.
I movimenti di Blaire cambiarono, comin-
ciò a ondeggiare e a ruotare su di me. Con la
bocca cercai, affamato, i suoi capezzoli, e li
succhiai mentre continuavano a bal-
lonzolarmi di fronte. «Sto per venire»
gemette, muovendosi più forte.
«Sì, piccola, vieni.»
Un attimo dopo gridò il mio nome, inar-
candosi contro di me con il corpo che
tremava. Le esplosi dentro, cingendole la vita
con le braccia per non rischiare di precipitare
dalla Terra senza di lei. Il suo nome mi
scivolò tra le labbra più di una volta. Anche il
mio corpo tremò mentre mi sforzavo di res-
pirare. Ero venuto, lasciando la mia
impronta anche dentro di lei. E il cavernicolo
che era in me ruggì d’orgoglio: mia, mia,
mia.
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Blaire continuava a serrarmi nella sua


morsa, con il corpo scosso dagli spasmi. Ogni
volta che mi stringeva, io lanciavo un urlo.
Era come se continuassi a venire, una volta
dopo l’altra. Non c’era soluzione di
continuità.
Finalmente il suo corpo iniziò a rilassarsi
e a liberare il mio uccello da quel vortice di
nirvana in cui era stato risucchiato. Mi allac-
ciò le mani dietro la nuca e si abbandonò su
di me, completamente esausta.
«Mai. Mai in tutta la mia vita» riuscii a
dire, in debito di ossigeno. «È stato… Dio,
Blaire, non ho parole!»
Non riuscivo a smettere di toccarla.
Carezzandole la schiena e prendendole i glu-
tei fra le mani, lasciai che il mio corpo si
godesse quel dolce “dopo”.
«Credo che l’aggettivo gusto sia “epico”»
mi aiutò. Una risata le gorgogliò su dal petto,
e lei si allontanò per potermi guardare in
faccia.
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«Il sesso più epico mai esistito nella storia


dell’umanità!» le assicurai. «Sono rovinato.
Lo sai, vero? Mi hai rovinato.»
Si dimenò sulle mie cosce. Ero sempre
dentro di lei, non ancora pronto ad andar-
mene. Il fatto che il mio uccello fosse anche
solo in grado di muoversi dopo una sessione
del genere mi sorprendeva. «Mmh, no, penso
che potresti funzionare ancora» disse
facendomi un sorrisetto malizioso.
«Dio mio, se fai così tra poco sarò di
nuovo duro e pronto a ricominciare. Adesso
però devo pulirti.»
Lei mi fissò con un’emozione in cui avevo
paura anche solo di sperare, poi mi tracciò i
contorni del labbro inferiore con un polpas-
trello. «Stavolta non ho sanguinato, vedrai.
Ormai sono a posto» disse, imbarazzata.
Mi presi il suo dito in bocca e lo succhiai.
Sapevo di doverglielo dire. Non si era ancora
resa conto di aver fatto sesso senza preser-
vativo. Non mi andava di rovinare quel
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momento, però doveva sapere che ero sano.


Se anche non prendeva la pillola, le probabil-
ità che avessimo appena concepito un
bambino non erano poi così alte… Alla mag-
gior parte delle coppie servivano almeno un
paio di mesi di tentativi. Un piccolo incid-
ente non sarebbe bastato. «Non avevo il pre-
servativo. Però sono sanissimo. Lo metto
sempre e faccio regolarmente gli esami del
sangue» le comunicai, calmo.
Lei non si mosse né parlò.
Cazzo. «Scusami. Ti sei spogliata e il
cervello mi è andato in blackout… Però ti
giuro che sono sano come un pesce.»
«No, va tutto bene. Ti credo. Non è venuto
in mente neanche a me» rispose, con
un’espressione ancora scioccata sul viso.
La abbracciai. «Bene, perché è stato
incredibilmente bello. Non l’avevo mai fatto
senza. Sapere che ero dentro di te, pelle con-
tro pelle, mi ha fatto impazzire. Eri
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stupenda… Tutta calda, bagnata… E poi così


stretta…»
Si sfregò contro di me e, laggiù, mi risve-
gliai completamente. Che sensazioni sapeva
darmi. «Mmh…» mormorò.
Ne volevo ancora. Come prima, lì. Però…
«Blaire, tu prendi precauzioni, vero?»
Fece no con la testa. Che stupido, certo
che no. Non ne aveva motivo, però avremmo
dovuto provvedere: ora che avevo scoperto la
sensazione che dava, non c’era ritorno.
A malincuore, la sollevai per uscire dal
suo corpo. «Allora non possiamo più rifarlo
così. Però guarda qui, me l’hai fatto venire
duro di nuovo!» Le sfregai un dito sul clitor-
ide gonfio. Anche lei era di nuovo pronta.
«Eccitante…» le sussurrai guardando quella
piccola protuberanza pulsare contro al mio
pollice. Buttò la testa all’indietro e gemette.
Dovevo averla di nuovo, quella volta mi sarei
tolto in tempo. Avrei… Oh, cazzo, dovevo
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entrarle dentro e basta. «Blaire, facciamoci


la doccia insieme» le proposi.
«Okay.»
Si lasciò guidare nel bagno di camera sua.
Appena entrati accesi il riscaldamento a
pavimento, così che non avesse freddo
posando i piedi nudi sulle piastrelle di
marmo. Attivai i soffioni e l’opzione doccia di
vapore, mi voltai e la presi per mano. «Entra
nella doccia. Abbiamo appena fatto il miglior
sesso di tutta la mia vita, ma adesso ci
andremo piano. Faremo con calma e io mi
occuperò di te…» le dissi facendola entrare
nell’ampia cabina dove l’acqua ci investì da
sopra la testa e dai due bocchettoni su cias-
cun lato. Chiusi bene la porta per non disper-
dere il vapore.
Blaire si guardava intorno sbalordita.
«Non sapevo che ci fossero docce così grandi
e così complicate. Arriva acqua da tutte le
parti! E questo cos’è, vapore?»
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Sorrisi e la feci sedere sulla spaziosa panca


di legno all’interno della doccia. «Aggrappati
alle mie spalle» le dissi prima di abbassarmi,
prenderle una gamba e sollevargliela per
posarla sulla panca. Era completamente
esposta, e io non dissi più nulla. Mi riempii
le mani di sapone liquido e le strofinai per
creare una nuvola di schiuma da farle scor-
rere sull’interno coscia.
«Rush!» esclamò, senza fiato, stringen-
domi forte le spalle e sporgendosi di più
verso di me.
Le lavai il mio seme dalle cosce, nei punti
in cui le era colato fuori rendendogliele
appiccicose. Sollevai la testa e la guardai in
faccia mentre carezzavo le sue morbide
pieghe. Non volevo darle fastidio, soltanto
pulirla. Chiuse dolcemente le palpebre,
gemette e si sfregò contro la mia mano. La
mia intenzione era di lavarla, prima di riaff-
ondarle dentro, ma se avesse continuato così
non sarei stato in grado di trattenermi.
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«Ti piace?» le chiesi. Lei si limitò ad


annuire e rovesciò leggermente la testa
all’indietro. L’acqua le aveva inzuppato i
capelli e le scivolava sul viso. Le tracciai un
sentiero di baci sulla fronte e giù per le
guance, senza smettere di lavarla. «Ti fa
male?» le sussurrai all’orecchio.
Rabbrividì. «Sì, ma mi piace. Mi piace
sapere che mi fa male perché tu…» fece una
pausa «mi hai scopata» concluse in un
sussurro.
«Blaire, piccola, adesso però devo rifarlo.
Non avresti dovuto dire quella parolina, io
non riesco più a fare il bravo e a coccolarti.»
Il tono di voce con cui avevo parlato tradiva
quanto fossi vicino a prenderla e farla pie-
gare in avanti.
Aprì gli occhi, e il calore che emanava il
suo sguardo mi bruciò. «Ti va di prendermi
contro al muro?» chiese, ansimante.
«Come vuoi tu, dolce Blaire.»
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Raccolsi dell’acqua con le mani e la usai


per sciacquarle il sapone tra le gambe.
Quando fu pronta, la afferrai e la spinsi con-
tro la parete, poi però mi fermai: ora
l’avremmo fatto lentamente, con dolcezza.
Aveva detto che le piaceva, okay, ma il giorno
dopo sarebbe stata dolorante; dovevo essere
delicato.
«Non metto il preservativo. Non posso,
devo sentirti. Però ti giuro che esco prima» le
dissi.
«Okay. Però ti prego, Rush, mettimelo
dentro» mi supplicò.
Persi il controllo.
25

Riaprendo gli occhi alla luce abbagliante del


sole, battei le palpebre rendendomi conto di
non aver chiuso tapparelle, la sera prima. Poi
il profumo di Blaire mi salì alle narici, e io mi
girai rotolando in un letto vuoto. Merda, non
c’era più.
Era andata al lavoro e io non mi ero sve-
gliato, cavolo. Avrei voluto darle il bacio del
buongiorno… Si era ricordata di fare col-
azione? Dispiaciuto, lanciai via le coperte e
mi misi a sedere. Blaire aveva un lavoro,
dovevo accettarlo. Anche se non mi piaceva
per niente. Non mi andava che lavorasse così
tanto, soprattutto dopo averla stancata per
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buona parte della notte… Avevamo dormito


davvero poco.
Quel giorno sarebbe stata stanchissima.
Una volta tornata dal club, l’avrei sfamata, le
avrei fatto un massaggio e anche il bagno.
Quella sera avrei rimediato al fatto di esser-
mela scopata come un ossesso per quasi tutta
la notte. Saremmo andati a letto presto,
avrebbe avuto il riposo che meritava. Sì, per
una notte sarei potuto restare in astinenza…
Leccandogliela, però. C’era un limite
all’autocontrollo.
Decisi di non farmi la doccia; avevo la
possibilità di sentire l’odore di Blaire sulla
pelle e non volevo rinunciarvi, non ancora.
Volevo, per tutto il giorno, un promemoria
della fortuna che mi era capitata.
Quando scesi al piano di sotto per recu-
perare qualcosa da mangiare, ormai era
quasi mezzogiorno. Suonarono alla porta,
poi qualcuno bussò con impazienza. «Rush!
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Aprimi! Ho le mani occupate!» Era la voce di


Nan.
Merda.
Aprii e mi trovai di fronte mia sorella, con
i capelli arrotolati intorno a enormi bigodini
e diversi sacchetti in mano, tra cui uno con la
scritta “Marc Jacobs”. Cosa diavolo…?
«Nan, perché sei sulla porta di casa mia
con tutti quei sacchetti? E poi, l’ultima volta
che ho controllato, non mi sembrava che ci
fosse un negozio di Marc Jacobs, né di…»
lessi gli altri loghi «Burberry, Chanel o Saks,
a Rosemary Beach. Da dove arrivava tutta
questa roba?»
Nan posò le borse e mi guardò come se
fossi io quello fuori di testa. «Da Manhattan.
Comprata quando ci sono stata, il mese
scorso. Ho due vestiti di Marc Jacobs di cui
non sono molto sicura… E poi le scarpe…
Quelle sono un’altra storia. Imbarazzo della
scelta all’ennesima potenza. Ho bisogno di
sapere cos’hai intenzione di metterti tu, e poi
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mi serve il bagno in camera di mamma per lo


stylist che viene a farmi trucco e capelli. Qui
c’è più spazio che a casa mia. E così poi pos-
siamo usare una macchina sola» rispose,
come se le cose che aveva detto avessero un
senso.
Non avevo idea di cosa pensasse che stessi
per fare, ma se non c’era di mezzo Blaire
nuda, allora non mi interessava. «Di cosa
stai parlando?» le chiesi, pentendomi di non
aver buttato giù almeno una tazza di caffè
prima che Nan si presentasse con i suoi dis-
corsi deliranti.
Restò paralizzata a metà scala e si voltò
per guardarmi con un’espressione che
annunciava scenate imminenti. Cazzo!
«Questa sera, Rush. Te ne sei dimenticato?
Davvero?» La voce le era salita di un’ottava,
ed ero sicuro che fosse sull’orlo di una crisi
di nervi.
Oh, merda, mi serviva del caffè.
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«Dio mio, te ne sei dimenticato! Sei tal-


mente concentrato su di lei da non ricordarti
una cosa così importante per me!» Ormai
stava gridando.
Chiusi gli occhi e mi massaggiai le tempie,
nella speranza di non rimediare un mal di
testa. Volevo soltanto bere un caffè e pro-
grammare la serata insieme a Blaire, non
tutto quel casino! «Nan, mi sono appena sve-
gliato. Piantala di urlare, per favore» dissi.
«Piantarla di urlare? Secondo te io posso
piantarla di urlare quando mio fratello si è
dimenticato che stasera ho il ballo delle
debuttanti?! Ci penso da quando ho cinque
anni, e tu lo sai! Sai cosa significa per me
questa serata! Ma tu te lo sei di-men-ti-ca-
to!»
Porca puttana. Non mi andava di accom-
pagnare mia sorella a un ballo dove un
gruppo di femmine viziate e agghindate a
festa non facevano altro che cercare di sur-
classarsi la vicenda. Blaire non era un
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ingrediente di quella ricetta, e a me


interessava soltanto stare con lei.
«Non ci vuoi andareee…» disse Nan, piag-
nucolando. Sembrava una bambina.
«Me n’ero scordato, scusami. Però sono
mesi che non ne parli, e lo sai che non sono
fatto per certe cose.»
Nan gettò a terra la borsa che teneva in
mano.
Fantastico. Eravamo prossimi a una
piazzata colossale che implicava capi di vesti-
ario dal costo esorbitante, costo a carico del
sottoscritto. Blaire si faceva il culo al lavoro,
giorno dopo giorno, e mia sorella comprava
coi miei soldi scarpe che costavano più di
quanto Blaire potesse guadagnare in due set-
timane al club. Era ingiusto, cazzo. Non sop-
portavo di non poter dare a Blaire tutto
quello che desiderava.
«Stai dicendo che non mi accompagni,
Rush? Guarda che io un padre che venga con
me non ce l’ho. E sei il mio unico fratello. Il
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mio accompagnatore deve essere un membro


della famiglia che sia anche membro del
club. Non ho nessun altro, soltanto te.» Non
gridava più. Sembrava ferita. Era la
ragazzina smarrita che aveva bisogno del suo
fratellone per salvare la situazione.
«Certo che ti accompagno, Nan. Me n’ero
dimenticato e basta. E poi tu ti sei messa a
sbraitare prima che mi fossi fatto la mia dose
di caffeina» dissi senza guardarla per non
leggerle la tristezza negli occhi.
Tirò su con il naso e annuì, tesa. «Okay,
grazie» disse, poi si chinò per riprendere la
borsa che aveva buttato a terra. «Dopo che ti
sarai bevuto il caffè e sarai diventato meno
crudele, potresti per favore portare su gli
altri sacchetti?» chiese, riprendendo a salire
le scale.
Non le serviva una risposta, sapeva che
l’avrei fatto. Andai in cucina. Avevo bisogno
di dominare la rabbia: presentarmi a
quell’evento di cattivo umore non sarebbe
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stato giusto nei confronti di Nan. Era una


sera soltanto, a Blaire avrei spiegato tutto. E
lei avrebbe capito, perché… era Blaire. Non si
aspettava niente da me. Non pretendeva
nulla. Era la prima persona, in vita mia, che
mi voleva per quello che ero e basta, non per
ottenere favori.
Mi si strinse il petto: al mio ritorno a casa,
l’avrei trovata già addormentata. La volevo
nel mio letto, non mi andava che andasse a
dormire nell’altra stanza. Non avrei dormito
senza di lei.
Mi versai il caffè e lo tracannai tutto.
Riempii di nuovo la tazza e tornai
nell’ingresso per raccogliere le cianfrusaglie
che mia sorella aveva lasciato in giro.
Quando stavo per salire, la vidi che scendeva
le scale.
«Conosci la combinazione della cassaforte
della mamma? Voglio mettermi il ciondolo di
zaffiro che si è comprata da Tiffany, quel
Natale…»
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«Te la apro io.» Non le avrei suggerito di


telefonare a nostra madre, perché c’erano
buone probabilità che lei avrebbe detto di no,
mandando su tutte le furie Nan e quindi
costringendomi a rimediare.
Sorrise.
«Grazie! Indosserò uno di quei Marc
Jacobs, e il ciondolo si abbinerebbe alla per-
fezione. Mi pare che la mamma avesse com-
prato anche un paio di orecchini abbinati…
oppure li aveva presi a noleggio?» Sventolò
una mano come se non fosse importante.
«Non importa, il ciondolo starà benissimo
con i pendenti di diamante.»
La lasciai blaterare sui gioielli, portai i
sacchetti in camera della mamma e li lasciai
sul letto. Quanto a me, avevo diversi
smoking, mi sarei semplicemente limitato a
sceglierne uno, fine. Quello che indossavo io
non contava. Prima però dovevo parlarne
con Blaire, farle sapere dove sarei stato
quella sera.
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Scoprii che avrebbe lavorato. Alle mie tele-


fonate aveva riposto subito la segreteria,
segno che il suo telefono era scarico o
spento. Non sorprendeva, se si considerava
l’importanza che Blaire attribuiva all’uso del
cellulare. Avevo chiamato il club e mi ero
fatto passare Woods, il quale mi aveva
informato che Blaire era occupata. Erano
molto impegnati con i preparativi per la
serata. Dopodiché mi aveva spiegato che
anche lei sarebbe stata di turno, avverten-
domi che, se Nan le avesse detto una sola
parola di troppo, avrebbe dovuto farla
scortare fuori. Infine aveva riattaccato.
Coglione.
Stavamo per arrivare al club, io in
smoking e Nan al mio braccio, vestita come
una principessa. Pensare al fatto che quella
sera Blaire avrebbe servito gli invitati mentre
io me ne sarei andato in giro agghindato in
un modo che sottolineava le nostre differ-
enze mi torturava il cervello. Odiavo quella
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situazione. Volevo vedere Blaire indossare


qualcosa che le avevo comprato spendendo
una cifra assurda, raggiante per l’emozione.
Volevo che il mondo intero sapesse che lei
era mia. Che stava con me. Quella serata
però era per mia sorella. Se solo fossi riuscito
a impormi, non sarei più stato in quella
situazione; Blaire non avrebbe mai più fatto
la cameriera durante un evento in cui io ero
l’invitato. Sarebbe stata al mio fianco. Il
posto che le spettava, accidenti!
«Ricordati quello che ho detto su Blaire.
Non parlarle, a meno che tu non abbia inten-
zione di dirle qualcosa di carino. Altrimenti
Woods ti farà accompagnare fuori, e io lo
aiuterò. Ci siamo intesi? Guarda, Nan, che
faccio sul serio.»
Lei annuì, rigida. «Non le dirò una parola,
lo giuro. Ora, per favore, puoi smetterla di
comportarti come se tutto ruotasse intorno a
lei, e lasciare che io mi goda la mia serata?
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Non hai detto nemmeno una parola su come


sto…»
Era bellissima, come sempre, del resto.
Nan aveva una bellezza elegante, appar-
iscente, impossibile da nascondere. «Sei
splendida, nessuna reggerà il confronto» le
assicurai.
Mi fece un sorriso raggiante e io mi sentii
in colpa per non averle detto niente prima.
Avevo dedicato tutta la mia attenzione a
Blaire, dimenticandomi di lei. Invece doveva
essere Nan al centro, almeno per qualche
ora. «Grazie» disse, sorridendo come la prin-
cipessa che sapeva di essere.
«Su, andiamo» feci, porgendole il braccio.
Raggiungemmo l’entrata, dove un uomo in
smoking ci sorrise e annuì. Annunciò i nostri
nomi e noi entrammo nel salone; in un
secondo avevamo tutti gli occhi puntati
addosso. Quello era il momento di Nan. Vol-
eva spazzare via tutte le altre sin dal suo
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ingresso, e ce la stava facendo. Non ne


dubitavo.
Quando mia sorella vide una delle sue
amiche, mi strinse il braccio e s’incamminò
per raggiungerla. Se solo il mio dovere fosse
finito lì… No, mi aspettavano altre tre ore a
quel modo.
«Le hai parlato?» mi chiese Woods, fer-
mandosi accanto a me.
Annuii. «Sarà ineccepibile. Se dice una
parola fuori posto, ti aiuterò ad accompag-
narla fuori. E lo sa.»
Woods si guardò intorno e fece di sì con la
testa. Sembrò allontanarsi, ma poi si fermò a
sistemarsi i gemelli della camicia e mi
guardò. «Spero che tu sappia cosa stai
facendo» aggiunse semplicemente prima di
andare a salutare alcuni iscritti più anziani
non lontani da noi. Quella sera era il padrone
di casa, non stava con nessuno.
Non mi lasciai spaventare dalle sue
parole. Ce l’aveva su a morte perché Blaire
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aveva scelto me, ma i suoi commenti non mi


avrebbero toccato. Dovevo preparami a
vedere Blaire lavorare. A servire quegli imbe-
cilli snob e le loro figlie viziate.
Raggiunsi la parete in fondo alla stanza e
pregai di non essere costretto a far conver-
sazione con troppa gente. Tanti si fermavano
a salutarmi, e io rispondevo con un cenno e
un sorriso forzato. Quando controllai il cellu-
lare, davanti avevo ancora due ore e quar-
antacinque minuti.
Poi la vidi. Entrò nel salone con un vas-
soio di coppe di champagne e un sorriso sul
viso, e per me fu come se la sua presenza
avesse illuminato tutto. I membri del club la
ignoravano, prendendosi da bere, oppure
sorridevano a loro volta. Mi accorsi che la
maggior parte dei golfisti più anziani aveva
voglia di parlarle; fra loro era molto amata,
non c’era dubbio. Persino le mogli le rivol-
gevano sorrisi calorosi.
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Una volta fatto il giro di tutta la stanza, se


ne andò, e io mi sentii perso. Non mi aveva
visto, né mi era sembrato che mi avesse cer-
cato. Dentro di me avevo sperato che scru-
tasse la folla per individuarmi, invece non
era stato così. Nemmeno per sbaglio. Non
voleva vedermi? Pensava che io non volessi
vedere lei? Cavolo… Non sapeva che ero lì?
Si sarebbe stupita, vedendomi con Nan?
Woods non le aveva detto che ci sarei stato?
Prima che potessi agitarmi troppo, Blaire
tornò in sala con un vassoio di martini. Altro
giro. Quando si voltò e incrociò lo sguardo
con il mio, mi sentii come se l’aria che avevo
in corpo mi avesse di colpo abbandonato.
L’accenno di un sorriso le increspò le labbra,
e io dovetti reprimere l’impulso di prenderle
quel cavolo di vassoio e tirarlo addosso alla
gente che si sporgeva per prendere da bere.
Feci un sorriso forzato, poi qualcuno le
rivolse la parola e lei gli diede retta. Lasciò la
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stanza senza più guardare nella mia


direzione.
«Rush» mi chiamò Nan. Mi stava facendo
segno di avvicinarmi; era con i coniugi
Drummond e la loro figlia, Paris, una sua ex
compagna di collegio. Ero sicuro che, una
volta in cui era stata a casa mia, avevamo
limonato un po’, ma non mi ricordavo se
avessimo anche fatto sesso. All’epoca doveva
avere sui diciassette anni, e a me non andava
di avere guai con la legge.
Mia sorella mi prese per il braccio e mi
presentò di nuovo a gente che avevo già con-
osciuto. Annuii e rimasi ad ascoltare le due
ragazze che chiacchieravano della loro
ultima vacanza sugli sci. A un tratto sentii
Nan irrigidirsi al mio fianco e mi girai verso
la porta con la consapevolezza che dovesse
essere entrata Blaire. Bethy le stava par-
lando, ma lei non lavorava. Era vestita eleg-
ante. Confuso, guardai Jace che si
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allontanava da un gruppetto di ospiti e la


raggiungeva.
Jace si era portato Bethy come accompag-
natrice ufficiale.
Non me lo sarei aspettato… Di solito non
perdeva occasione per ribadire che lei era
soltanto un passatempo. Il sorriso sul viso di
Blaire non mi sorprese: non era mai gelosa,
sapeva condividere la gioia degli altri. Bethy
era lì come ospite perché Jace l’aveva invit-
ata, invece lei stava servendo, con me bello
tranquillo in smoking.
Stava pensando che non volevo present-
arla in pubblico come qualcosa più di un
divertimento? Mi si chiuse lo stomaco.
Doveva sapere la verità. Blaire non guardava
mai nella mia direzione, ma sentiva che la
stavo fissando. La sua postura rigida mi
diceva che mi stava ignorando di proposito…
Merda!
Stava fraintendendo. Non ero andato lì
per scelta, ma per accompagnare mia sorella.
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Non volevo sminuirla, ma solo proteggerla


da Nan, cosa che però avrei smesso di fare,
se il risultato era farla soffrire.
«Dico bene, Rush?» fece Nan in tono un
po’ troppo squillante. Era incazzata. Non vol-
eva che guardassi Blaire, non lo sopportava.
Ero lì con lei, come mi aveva chiesto.
Indossava più o meno l’equivalente di
diecimila dollari fra vestiti e accessori, tutti
sponsorizzati da me, senza contare il cion-
dolo di nostra madre. E nonostante tutto
aveva intenzione di controllare chi guardavo
e con chi parlavo?! Eh, no, cazzo. Proprio no.
«Scusa un attimo» dissi, intenzionato ad
andarmene, ma lei mi piantò le unghie nel
braccio.
«Stavo dicendo che la mamma e Abe
dovrebbero tornare presto da Parigi. Non
possono rimanere in luna di miele per
sempre!» esclamò con un finto sorriso.
Io non avevo nessuna voglia di riaverli a
casa. «Spero di no» commentai, e lei affondò
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le unghie ancora più in profondità. A quel


punto mi liberai da quella stretta assassina.
Nan rise e mi diede uno schiaffetto sul
braccio. «Fa sempre lo scorbutico a certi
eventi. Lo smoking non è il suo forte.»
«È il figlio di una rockstar. Dubito che una
simile condizione richieda spesso l’uso dello
smoking» osservò il signor Drummond in
tono divertito.
Non persi tempo a fargli notare che quella
rockstar avrebbe potuto comprare lui e la sua
aziendina almeno cento volte. Non mi
andava di sprecare il fiato. «No, non ho molti
motivi per metterlo.»
«Cosa sta dicendo Laney a quella cameri-
era? Sembra quasi che stia per…» Paris si
coprì la bocca con la mano, e io mi girai per
vedere cosa stava succedendo.
Blaire era in piedi, al centro del salone,
con la divisa cosparsa di lumache, mentre il
vassoio su cui le stava offrendo precipitava
fragorosamente a terra. «Ooh! E poi
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guardate com’è maldestra… Woods dovrebbe


essere più esigente con il personale» stava
commentando Laney ad alta voce.
Nan mi prese per il braccio, ma io la scac-
ciai e corsi da Blaire. Quella stronza di Laney
l’avrebbe pagata cara.
«Spostati» ringhiai spintonando Laney
per poter passare e raggiungere Blaire. La
presi per la vita e la guardai. «Stai bene?» le
chiesi, controllando che non si fosse fatta
anche male, oltre che sporcata; era coperta di
un intingolo untuoso. Annuì, ma mi accorsi
che aveva gli occhi lucidi. Okay, ero pronto a
fare un massacro. Nessuno poteva permet-
tersi di toccarla, nessuno! Non ero in condiz-
ione di girarmi per guardare Laney, altri-
menti le avrei fatto male. «Non osare più
avvicinarti né a lei né a me, intesi?» le dissi
però, con un tono di voce calmo e minaccioso
rivolto a lei e a chiunque altro fra i presenti si
azzardasse anche solo a pensare che fosse
lecito importunare Blaire.
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«Perché ce l’hai con me, scusa? È lei


quella imbranata. Si è rovesciata addosso
tutto il vassoio!» esclamò Laney con voce
stridula e irritante. Dio mio, quanto era
stronza.
«Se dici solo un’altra parola sospenderò
tutte le donazioni a questo club finché non ti
butteranno fuori. Per sempre» la avvertii.
«Ma io sono amica di Nan, Rush. L’amica
più cara che ha. Non potresti farmi una cosa
del genere, non per una… una… cameriera.»
Laney era scioccata, ma stavo per darle io
qualcosa che la scioccasse veramente.
«Giuro che lo faccio» dissi, fulminandola
con lo sguardo per farle capire che non
doveva azzardarsi. Mi voltai verso Blaire.
«Tu vieni con me.»
Girandomi, vidi che Bethy sembrava
pronta a tirare un cazzotto a Laney di fronte
a tutti. «Ci penso io a lei. Va tutto bene,
torna pure da Jace.» Poi, di nuovo a Blaire:
«Attenta alle lumache, sono scivolose».
404/488

Dovevo portarla via da lì, al sicuro.


L’avevano ferita. Io, per l’ennesima volta,
non l’avevo protetta. Avrei dovuto present-
armi lì con lei al mio fianco, invece avevo
mandato tutto a quel paese. Era colpa mia, la
deludevo sempre.
Quando uscimmo dalla sala da ballo per
entrare nel corridoio buio che portava verso
la cucina e gli uffici, Blaire si liberò dalla mia
presa e si allontanò; incrociò le braccia al
petto, mettendosi in posizione difensiva. Era
arrabbiata. Avevo permesso io che tutto ciò
accadesse.
«Blaire, mi dispiace. Non mi aspettavo
una scena del genere. Non sapevo neanche
che fra voi due ci fossero dei problemi. Ne
parlerò con Nan, perché ho come la
sensazione che lei c’entri qualcosa…»
«Pel di carota mi odia perché Woods si è
mostrato interessato a me. Nan non c’entra
niente, e tu neanche.»
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Non aveva senso. Perché Laney ce l’aveva


con Woods?
«Woods ci prova ancora con te?» Blaire
spalancò gli occhi, girò sui tacchi e fece per
andarsene, ma io la presi per il braccio.
Avevo detto la frase sbagliata. Maledetta
gelosia… Dovevo tenerla un po’ più a freno.
«Blaire, aspetta. Scusami, non avrei dovuto
chiedertelo. Non è quello che conta, adesso.
Volevo soltanto assicurarmi che stessi bene e
aiutarti a pulirti.» Sembrava che la stessi
supplicando e, in un certo senso, era proprio
così.
Sospirò e incurvò le spalle. «Sto bene.
Devo andare in cucina e scoprire se ho
ancora un lavoro. Stamattina Woods mi
aveva avvertita che, se qualcosa fosse andato
storto, sarebbe stata colpa mia. Quindi in
questo momento ho problemi un tantino più
seri della tua gelosia. Del tutto ridicola, fra
l’altro, visto che prima dello spiacevole incid-
ente hai fatto di tutto per ignorarmi. Rush, o
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mi conosci, oppure non mi conosci. Scegli tu


in che squadra stare.» Si liberò la mano e
tornò a dirigersi verso la cucina. Era arrabbi-
ata perché l’avevo ignorata? Avevo studiato
ogni sua singola mossa, maledizione.
«Stavi lavorando! Che cosa ti aspettavi
che facessi?» Si fermò, e io ne approfittai per
difendere le mie azioni. «Ho preso atto del
fatto che avresti dato a Nan un motivo per
attaccarti. Ti stavo proteggendo.»
Quel commento la deluse. «Hai ragione,
Rush. Se tu mi avessi ignorato, Nan non
avrebbe potuto attaccarmi. In fondo sono
soltanto la ragazza che ti sei scopato le
ultime due sere. Considerata la tua solita
routine, niente di speciale, in fondo. Sono
una delle tante.» E poi corse via.
Rimasi lì in piedi, confuso. Il suono di
porte che sbattevano riecheggiava lungo il
corridoio. Era offesa. Avevo fatto quello che
pensavo si aspettasse da me, e invece l’avevo
ferita.
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Pensava davvero di essere solo una delle


tante che mi portavo a letto? Dio mio, come
faceva a non capire cosa significava lei per
me? Ero così ossessionato che avrebbe
potuto influenzare qualsiasi mia decisione.
Cosa cavolo si aspettava? La amavo, cazzo!
26

Nan uscì dalla sala da ballo a passo di carica.


Quando mi vide da solo, la furia che, ne ero
certo, ribolliva sotto la superficie esplose in
tutta la sua forza. «Come hai potuto farmi
questo? Era la mia serata! Ti avevo chiesto di
ignorarla per una sera soltanto, e tu non ci
sei riuscito. Nemmeno per un’ora!»
«Smettila» le dissi, con una mano alzata
di fronte a lei. Non ero pronto per certe
scenate, dovevo trovare Blaire.
«Non dirmi di smetterla. Tu là dentro mi
hai umiliata. Hai minacciato la mia amica,
un membro di questo club, perché una
cameriera è stata imbranata!»
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Feci un passo verso di lei. «È stata Laney a


rovesciarle addosso il vassoio, e tu lo sai.
Paris l’ha visto, Bethy l’ha visto. Perciò non
dirmi che non è vero.»
Prima che potessi aggiungere altro, venni
interrotto da un rumore di passi. Mi girai e
vidi Blaire, ancora ricoperta da quello schifo,
con l’aria di una che voleva solo sparire sot-
toterra. Corse verso la porta che dava
sull’esterno.
«Blaire, aspetta!» le gridai. Dovevo
parlarle.
«Lasciala andare, Rush» mi chiese Nan.
«Non posso» risposi, e partii
all’inseguimento.
La porta si era chiusa alle sue spalle, ma io
l’aprii con uno spintone e la seguii
all’esterno.
«Blaire, aspetta. Ti prego. Parliamo» la
supplicai.
Si fermò e io la raggiunsi. Mi stava dando
una possibilità.
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«Mi dispiace, ma hai torto. Là dentro non


ti ho ignorata. Puoi chiedere a chi ti pare.
Non ti ho mai staccato gli occhi di dosso. Se
qualcuno aveva dubbi su cosa provavo per te,
il fatto che io non sia stato stato capace di
guardare altrove mentre giravi per la sala
dovrebbe averli cancellati tutti.» Dovevo fare
attenzione alle parole, non potevo mandare
tutto all’aria. Dovevo farle capire quello che
provavo. «Poi ho visto la faccia che hai fatto
quando hai visto Bethy insieme a Jace. Den-
tro di me si è rotto qualcosa. Non potevo
indovinare esattamente cosa stavi pensando,
ma sapevo che ti stavi rendendo conto di
quanto tutto questo fosse sbagliato. Tu non
avresti mai dovuto essere lì a servire. Avresti
dovuto essere al mio fianco. Io ti volevo
accanto a me. Ero talmente teso all’idea che
da un momento all’altro qualcuno avrebbe
potuto fare la mossa sbagliata nei tuoi con-
fronti che per poco non mi dimenticavo di
respirare.»
411/488

Notai che teneva i pugni serrati lungo i


fianchi. Non sopportavo di vederla così… Le
carezzai una mano con il dito.
«Se riesci a perdonarmi, ti prometto che
non ricapiterà. Voglio bene a Nan, ma sono
stanco di accontentarla in tutto e per tutto. È
mia sorella e ha dei problemi da risolvere, le
ho detto che ti avrei raccontato tutto. Ci sono
cose che devi sapere… Ho paura che, quando
te le dirò, tu ti allontanerai da me senza
neanche guardarti indietro. Una paura folle.
Non so bene cosa sia quello che c’è fra noi,
ma sappi che, dal primo momento in cui ti
ho messo gli occhi addosso, ho capito che mi
avresti cambiato la vita. E per questo mi hai
terrorizzato. Ma più ti guardavo, più mi coin-
volgevi. Non ti ero mai abbastanza vicino.»
«Okay» disse semplicemente.
Cioè? «Okay?» le feci eco.
Annuì. «Sì, okay. Se vuoi davvero che io
resti con te, al punto da essere disposto a
raccontarmi tutto, allora va bene.»
412/488

Sulle labbra mi spuntò un sorriso. Cavolo,


ci riusciva sempre. «Io ho appena messo a
nudo la mia anima, e tu mi dici “okay”?»
«Hai detto quello che avevo bisogno di
sentire. Ormai sono fregata, puoi fare di me
ciò che vuoi. Cosa farai?»
Provai un sollievo che quasi mi fece cedere
le ginocchia. Dovevo mantenere la calma,
non potevo spaventarla con la forza di quello
che provavo. Cavolo, spaventava anche me.
«Pensavo che un po’ di sesso alla sedicesima
buca, vicino al laghetto, non sarebbe male…»
Blaire inclinò la testa di lato e fece quella
che ci stava pensando su seriamente.
«Mmh… Il problema è che dovrei andare a
cambiarmi e lavorare in cucina per il resto
della serata.»
Non era la risposta che avrei voluto.
«Merda.»
Si avvicinò e mi diede un bacio sulla guan-
cia. «Devi stare accanto a tua sorella, per
ora.»
413/488

Non sarei sopravvissuto a quella serata.


«Riesco soltanto a pensare a quando sono
stato dentro di te. A quando avevo il tuo
corpo premuto contro il mio e ti sentivo
emettere tutti quei gemiti eccitanti…»
Nello sguardo le si accese una scintilla di
desiderio che le dilatò le pupille.
Decisi di continuare a parlare, visto che le
piaceva. «Se fossi capace di staccarmi da te
senza problemi, in un attimo ti porterei in
uno sgabuzzino, ti sbatterei contro il muro e
ti farei urlare in cinque minuti. Ma tu non sei
una da sveltina, tu causi dipendenza…»
Non mi aveva tolto le mani dalle spalle.
Strinse la presa, con il respiro che le
accelerava.
«Vatti a cambiare. Io resto qui, così non
cado in tentazione. Poi ti riaccompagno in
cucina» le dissi.
Fece un respiro profondo, poi indietreggiò
di un passo e andò a cambiarsi.
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L’impulso di seguirla e fare l’amore con lei


prima di lasciarla tornare al lavoro era diffi-
cile da ignorare, ma lei voleva fare il suo
dovere. Ci teneva. E io volevo dimostrarle
che quello che era importante per lei lo era
anche per me.
Quando tornò, indossava una divisa pulita
da cart e aveva il sorriso sulle labbra.
«Sicura di non voler venire con me alla
sedicesima buca? Giuro che farò in fretta: il
tempo di leccartela finché non vieni…»
Blaire sussultò ed emise un sospiro esit-
ante. «Rush, non dirlo. Non posso! Devo
rimettermi al lavoro e non voglio che Jimmy
venga a chiedermi perché sono un fascio di
nervi.»
Sorridendo, le presi la mano e intrecciai le
dita con le sue. «Ti sei pulita bene» le dissi,
per punzecchiarla.
Lei ridacchiò. «Sono sicura che adesso ho
anche un profumo migliore!»
415/488

La tirai contro di me e le annusai il collo.


«Il tuo profumo è sempre straordinario,
dolce Blaire.»
Si abbandonò alla mia presa e, tenendola
sottobraccio, tornai nell’edificio, verso la
porta della cucina.
«Sto per baciarti, ti avverto. So che stai
lavorando, ma in questo preciso momento
non mi interessa. Ho bisogno di sentire il tuo
sapore.» Mi chinai per premere le mie labbra
contro le sue. Le leccai il labbro inferiore, lo
presi in bocca e succhiai, poi lo lasciai andare
con un ultimo bacetto sconsolato.
Blaire mi rivolse un altro sorriso e poi mi
lasciò lì, in piedi, senza di lei.

Stare al gioco e arrivare a fine serata era


stato un inferno. Però ce l’avevo fatta, e Nan
mi sembrava felice. Durante il tragitto di
ritorno a casa, mi aveva parlato con entusi-
asmo di una spedizione di shopping che
aveva intenzione di fare con Paris. Aveva
416/488

anche chiesto se di recente avessi sentito la


mamma.
Quando se n’era andata, avevo tirato un
sospiro di sollievo ed ero entrato in casa.
Blaire sarebbe tornata presto, e io non avrei
rinunciato a farle quel massaggio. Ne aveva
bisogno, era fuori da tutto il giorno.
Attraversai la cucina per raggiungere le
scale, ma mi fermai all’istante appena vidi
sul bancone una bottiglia di birra e un bicch-
iere di vino vuoti. In quel momento mi sentii
come se il mondo avesse smesso di girare e
io mi stessi muovendo al rallentatore verso il
bicchiere.
C’erano tracce di un rossetto rosso che mi
era familiare e che mi rivoltò lo stomaco. No,
cazzo. Non ancora. No! Quella notte mi ser-
viva. Non era pronta, dovevo programmare
tutto. Merda!
Mi precipitai sulle scale e salii due gradini
alla volta: dovevo vedere coi miei occhi.
Attraversai il corridoio e mi accorsi che la
417/488

porta della stanza di mia madre era chiusa.


Erano lì dentro, lo sapevo. In genere quella
porta restava aperta, e io non l’avevo toccata.
Rivederli mi spaventava. Mi spaventava
l’idea che potessero distruggere tutto quanto.
Le avrebbero raccontato ogni cosa, per poi
allontanarla da me…
No.
Dio, no, ti prego.
No, no, no.

La aspettai per ore. Per quante non lo


sapevo, avevo perso il conto. Sapevo solo che
era tardi. Mi ero seduto sul pavimento fuori
dalla porta di camera mia, con lo sguardo
fisso in avanti. Con il bisogno di vederla e
stringerla e sapere che fosse lì con me. Che
non se ne fosse andata.
Al rumore della porta d’ingresso che si
apriva, il mio battito cardiaco accelerò furi-
osamente. Blaire era a casa. Quindi
c’eravamo, forse. Al capolinea. No, no, no!
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Non l’avrei permesso. Mi sarei fatto amare,


mi sarei fatto perdonare.

Quando arrivò sull’ultimo gradino e mi vide,


io rimasi seduto a guardarla. La mia dolce
Blaire… Si era presentata e mi aveva rubato
un pezzo di cuore senza nemmeno aprire
bocca. Poi mi aveva consumato. Aveva preso
tutto quello che c’era da prendere, e io ero
stato ben contento di lasciarglielo fare.
Si mosse per raggiungermi, e io mi alzai
per andarle incontro. «Ho bisogno di te. Devi
salire da me. Adesso.» Sembrò sorpresa dalla
disperazione che trapelava dalla mia voce,
ma non protestò.
Le presi la mano e la tirai verso la mia
porta: dovevo sbrigarmi e metterla al sicuro
lì dentro. Lontano da loro. Chiusi a chiave e,
guardandola in faccia, la premetti contro il
muro.
Feci scorrere le mani lungo il suo corpo,
memorizzandone ogni curva. Non bastava, i
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vestiti dovevano sparire. Afferrai la cam-


icetta che indossava e gliela aprii strappan-
dola: non c’era tempo per slacciare i bottoni.
Rimase a bocca aperta, e io gliela coprii con
la mia; con la lingua, penetrai il suo dolce
calore una, due, mille volte, e nel frattempo
le sbottonai freneticamente gli short per poi
farli scivolare a terra. Era nuda. La mia
Blaire, la mia perfetta, dolce Blaire. Mentre
gemevo contro la sua bocca, sapevo che mi
serviva di più. Non mi avrebbe lasciato, non
poteva lasciarmi. La feci sdraiare sui gradini
e le tolsi le scarpe, poi le sfilai pantaloncini e
slip. Completamente nuda. Uno spettacolo
solo mio e di nessun altro, mai.
Mi misi in ginocchio, le aprii le cosce e feci
scorrere la lingua a più riprese per solleticare
il clitoride già gonfio e pronto per me. Blaire
gridò il mio nome e si appoggiò all’indietro
sui gomiti. Le sue gambe si divaricarono
ancora di più quando la penetrai con la lin-
gua, prima di tornare a passarla lungo le
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morbide pieghe esterne. Il mio nome era


diventato un mantra sulle sue labbra. Mi
misi a baciarle l’interno coscia e lei tremò,
vogliosa.
«Mio. È tutto mio.» Alzai la testa e la
guardai. «Blaire, tutto questo è mio.» Lo era
sul serio.
Rabbrividì quando infilai un dito nel suo
sesso.
«Dimmi che è tutto mio» le chiesi.
Lei annuì, mentre il mio dito entrava
ancora più in profondità.
«È tutto tuo, Rush. È tutto tuo. Però ti
prego, adesso scopami» disse, ansimando.
Sì! Ecco la mia ragazza. Era mia. Doveva
saperlo. Tutto quello che avevo davanti era
mio. Mi alzai, sfilai alla svelta i pantaloni del
pigiama e li buttai da una parte. «Stasera
niente preservativo. Lo tirerò fuori prima.
Ho troppo bisogno di sentirti sulla pelle.»
Non avrei mai più messo barriere tra di
noi. Non volevo niente che ci separasse. La
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presi per i fianchi, la spostai verso l’alto


mentre mi abbassavo su di lei e appoggiavo
la punta del pene dove più desideravo
andare. Non potevo penetrarla di colpo, se
era indolenzita. E poi doveva essere stanca
morta… Però la volevo. Entrai lentamente.
«Ti fa male?» le chiesi, tenendomi
sospeso sopra di lei.
«No, mi piace» rispose con un sospiro.
Avrei finito per farle male. Mi fermai e mi
ritrassi. «Queste scale sono troppo dure per
te. Vieni qui.» Era troppo fragile, quella sera,
per essere premuta contro il legno del
pavimento.
«Puoi farmi un favore?» le chiesi, in piedi
accanto al mio letto, tempestandole il naso e
le palpebre di baci.
«Sì» rispose.
La rimisi a terra senza però lasciarla
andare, nonostante i suoi piedi avessero già
toccato il pavimento. «Piegati in avanti e
appoggia il petto contro il materasso. Mettiti
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le mani sopra la testa e resta con il sedere


per aria.»
Mi ero già immaginato con lei in quella
posizione, nelle mie fantasie. Non mi fece
domande, né si oppose. Si piegò e basta.
Sapere che voleva compiacermi non fece che
aumentare la mia frenesia. Lei era quella
giusta per me, e doveva saperlo.
Lasciai scorrere una mano su quel sedere
liscio e rotondo che mi stava offrendo con
tanta disponibilità. «Hai il culo più perfetto
che abbia mai visto» dissi mentre glielo
carezzavo. Le presi saldamente i fianchi, le
feci allargare di più le gambe e la penetrai
tirandola verso di me.
«Rush!».
«Sono entrato tantissimo» mormorai,
sovraeccitato. Meglio di quanto avessi imma-
ginato. Perché con lei era tutto meglio, era
tutto di più.
Il suo grido di piacere mi incoraggiò a
spingere più forte. Qualsiasi profondità non
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era abbastanza, avrei voluto vivere là dentro.


Sepolto dentro di lei. Le sue pareti strette mi
stavano risucchiando ancora una volta,
facendomi tremare le ginocchia. Mi mancava
poco. Le feci scivolare una mano tra le
gambe e le toccai il clitoride. «Dio mio, sei
bagnata fradicia.»
Non servì altro. Blaire si inarcò contro di
me con violenza, gridando il mio nome. Ci
volle tutto l’autocontrollo di cui ero capace
per uscire e venirle sul culo. Sarei voluto
restare dentro.
Mi sfogai gridando, mentre l’uccello mi
pulsava tra le mani e riversava il suo liquido
su quella pelle liscia. Vedermi in quella pos-
izione mi fece sentire come se avessi appena
lasciato un marchio su di lei, un marchio vis-
ibile. Me, spalmato su tutta la sua pelle.
«Dio mio, se solo sapessi quanto è incred-
ibile il tuo culo in questo momento» le
sussurrai.
424/488

Ricadde sul letto, incapace di reggersi


oltre. Piegò la testa di lato per guardarmi.
«Perché?»
Non aveva capito dove ero venuto.
«Diciamo soltanto che devo darti una
ripulita.»
Scoppiò a ridere e seppellì il viso tra le
coperte.
Adoravo la sua risata. E adoravo anche
starmene lì in piedi a guardarle il fondoschi-
ena cosparso del mio sperma. Le due cose
insieme erano piuttosto notevoli.
Ora doveva dormire, non potevo lasciarla
lì in quello stato solo perché ero un uomo
delle caverne. Andai in bagno, presi un
asciugamano bagnato e tornai in camera.
Vedevo che mi seguiva con lo sguardo e
non mi sfuggì quel sorrisetto soddisfatto e
assonnato. Ero stato io a farglielo spuntare
sulle labbra. Non sapevo se il giorno dopo
fosse di turno oppure no, ma non avrebbe
lavorato. Dovevo parlarle, doveva sapere.
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Suo padre era tornato: era arrivato il


momento di affrontare la situazione e lottare
per lei.
Le ripulii i glutei. «Ecco qui, tutta pulita.
Mettiti pure sotto le coperte, torno fra un
attimo» le dissi, ma lei non si mosse. Le
andai accanto e la guardai in viso: crollata
dal sonno. Sorrisi al pensiero che si fosse
addormentata mentre la pulivo… Un’altra
soddisfazione per il cavernicolo dentro di
me.
La presi in braccio e le misi la testa sul
cuscino, poi la coprii con cura e le diedi un
bacio sulla testa. «Aggiusterò tutto. Giuro
che ce la farò. Io ti amo abbastanza da risolv-
ere questa situazione, ma devi amarmi
abbastanza anche tu. Ti prego, Blaire.
Amami abbastanza» la supplicai.
Non si mosse. Il ritmo lento del suo
respiro proseguiva imperturbabile, ma den-
tro di me speravo che mi avesse sentito
426/488

anche nel sonno. E che il giorno dopo se lo


sarebbe ricordato.
27

Non ero riuscito a dormire. Ero rimasto


sdraiato lì per ore a guardare Blaire
addormentata fra le mie braccia. Si era ran-
nicchiata contro di me, aggrappandosi come
se fossi la sua unica fonte di calore. La paura
che non avrei potuto mai più rivivere un
momento così era concreta, tangibile. Per
quanto non volessi credere che mi avrebbe
lasciato, ero consapevole del rischio di
perderla.
Come avrei fatto a sopravvivere?
Me la tirai vicino e la strinsi più forte. Se
solo avessi potuto prenderla e scappare via…
Non metterla mai al corrente di
quell’orrenda verità…
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Perché dovevo farle sempre male, quando


l’unica cosa che desideravo era proteggerla?
«Ti amo» le sussurrai fra i capelli.
Sarebbe dovuto bastare per entrambi.
Guardai il sole sorgere e il mattino farsi
sempre più luminoso; Blaire aveva bisogno
di riposare, probabilmente non si sarebbe
svegliata prima di mezzogiorno. Ne avrei
approfittato per parlare con mia madre e con
Abe: dovevano sapere cosa provavo per lei.
Era diventata la mia priorità numero uno,
doveva essere chiaro a tutti.
Chiusi gli occhi, inspirai il suo profumo e
sprofondai nella sensazione di averla tra le
mie braccia. Com’era fiduciosa… Feci viol-
enza a me stesso per scendere dal letto, las-
ciandola sola sotto le coperte. Ero pronto ad
andare di sotto e affrontare la verità.
Quell’orrenda, sordida verità che le avrebbe
fatto male. Non c’era niente che potessi fare
se non sperare di bastarle per aiutarla a
guarire.
429/488

Mi infilai i vestiti e andai verso le scale,


ma poi mi fermai per girarmi un’ultima volta
a guardare Blaire che dormiva nel mio letto.
Ora era rannicchiata tra le coperte, con i
capelli biondi che formavano un ventaglio
sul mio cuscino. Da bambino mi ero
domandato tante volte se gli angeli
esistessero davvero e, a dieci anni, avevo
deciso di no. Stronzate: ora sapevo che mi
sbagliavo.
Blaire era il mio angelo.

Abe era in piedi in cucina; sorseggiava del


caffè e guardava fuori dalla finestra. Ecco
l’uomo che aveva abbandonato la mia
Blaire… L’aveva lasciata sola a seppellire la
madre e a capire cosa fare della sua vita.
Lo odiavo.
Lui Blaire non se la meritava.
Si girò, incontrò il mio sguardo. La bocca
gli si contrasse. Bevve un altro sorso di caffè,
poi si voltò a guardare di nuovo fuori dalla
430/488

finestra. Era abituato al mio disprezzo, ma


non aveva idea di quanto fosse cresciuto
dall’ultima volta che ci eravamo visti. Avevo
voglia di staccargli le braccia dal corpo;
anche solo vederlo bastava per farmi
imbestialire.
«Hai intenzione di chiedere di lei?»
ringhiai.
Fece spallucce. «È qui, suppongo.» Non
gli interessava. Lui “supponeva” e basta.
«Che cazzo di problemi hai avuto per
diventare così insensibile?» chiesi, con l’odio
che mi grondava dalla voce.
«Ho provato un dolore che non potresti
mai capire, ragazzo» rispose. Gli tremava la
voce.
«È rimasta sola a seppellire la madre,
brutto figlio di puttana. E tu lo sapevi!»
Non rispose.
«È così innocente… ed è sola» ripresi. Se
avesse continuato a non dire una parola su di
lei, sarei uscito di testa.
431/488

«Ma non lo è più, vero? Innocente e sola,


intendo.»
Il mio tasso di rabbia salì alle stelle. Partii
all’attacco, e lui si girò appena in tempo per-
ché potessi agguantarlo e spingerlo contro il
muro. «Schifoso pezzo di merda! Non
azzardarti mai, e dico mai più, a insinuare
anche solo per un secondo che Blaire possa
essere qualcos’altro se non innocente. Io ti
ammazzo! Non me ne frega nient, lo faccio!»
Stavo gridando.
Abe aveva fatto cadere la tazza del caffè,
che era andata in frantumi sul pavimento,
ma non mi lasciai distrarre. Non aveva
l’espressione di uno a cui importasse quello
che stavo dicendo. C’era un vuoto, dentro
quell’uomo, che mi sfuggiva completamente.
Era come se… non avesse un’anima. «Hai
dormito con lei?» mi chiese con calma.
Lo sbattei di nuovo contro il muro,
abbastanza forte da far tremare le pareti e
432/488

cadere qualche piatto che andò a unirsi agli


altri cocci sul pavimento. «Taci!» gli urlai.
«Rush!» La voce isterica di mia madre si
insinuò nel mio ciclone di rabbia.
«Non sono affari tuoi, mamma» dissi
senza staccare gli occhi dall’uomo che ero
pronto a uccidere con le mie mani.
«A quanto pare non è più nemmeno sola»
fece Abe.
Deglutii per inghiottire l’angoscia che mi
dilaniava il petto. «No, non lo è. E mai lo
sarà. Io per lei ci sarò sempre, la terrò al
sicuro, me ne prenderò cura. Lei mi avrà
sempre.»
«Chi? Cosa stai dicendo, Rush? Lascia
stare Abe!» Mia madre era al mio fianco, mi
tirava il braccio.
Blaire sarebbe scesa da un momento
all’altro. Non potevo ammazzarle il padre,
non se non mi avesse chiesto lei di farlo. In
quel caso, Abe era un uomo morto. Lo lasciai
andare e indietreggiai. «Attento a come parli
433/488

di lei. L’unica cosa che voglio è vederti sof-


frire» lo avvertii.
«Rush, basta!» Mia madre mi piantò le
unghie nel braccio, ma io mi liberai con uno
strattone.
«E non toccarmi nemmeno tu. Hai voluto
che questo pezzo di merda entrasse nella
nostra vita. Gli hai permesso di abbandon-
arla» dissi, puntandole il dito contro.
Lo shock di mia madre si trasformò in
confusione quando si guardò intorno e vide i
cocci per terra. «Che disastro. Vai in salotto,
prima che qualcuno si tagli. Devi darmi una
spiegazione per questo tuo comportamento»
disse, uscendo dalla cucina e aspettandosi
che noi la seguissimo.
La guardai andarsene, poi guardai Abe.
«Niente di quello che puoi farmi tu
sarebbe paragonabile al dolore che ho
provato» mi disse, poi si voltò e andò dietro
a mia madre.
434/488

Come era possibile che quell’uomo avesse


cresciuto una persona come Blaire? Non
riuscivo a capire in che modo la ragazza che
dormiva di sopra, nel mio letto, potesse
essere frutto di quell’essere. Nan, ancora
ancora, ma Blaire no.
Dovevo fare un discorso a quei due. Era il
motivo per cui mi ero alzato con Blaire
ancora sotto le coperte. Entrai in salotto e
mia madre mi fissò a bocca aperta. A quanto
pareva, Abe le aveva detto qualcosa.
«Tu… Tu… No, non ci posso credere,
Rush. So che hai un problema con il sesso
facile, ma a un certo punto di devi dare un
limite. Quella ragazza ha usato il suo corpo
per manipolarti.»
Scossi la testa e andai verso di lei a passo
deciso. Ero stanco di sentirli parlare spro-
posito di Blaire: chiunque avesse insistito a
farlo l’avrebbe pagata.
Abe si mise in mezzo, però rivolto verso
mia madre. «Attenta a quel che dici, Blaire è
435/488

mia figlia.» Il tono di minaccia nella sua voce


mi stupì. Non compensava certo le altre
cazzate, però l’aveva difesa.
«Non ci posso credere, Rush. Ma che cosa
avevi in testa? Ti rendi conto di chi è lei? Del
significato che ha per questa famiglia?»
riprese mia madre in tono sconvolto, come
se avessi appena commesso un delitto.
Incolpava Blaire di una situazione che non
aveva creato lei. Quanto era folle quel ragio-
namento che, a quanto pareva, convinceva
così tanto la mia famiglia?
«Non puoi incolpare lei. Non era nem-
meno nata. Tu non hai idea di cosa ha
dovuto passare, di cosa lui le ha fatto pas-
sare» dissi indicando Abe. Perché io lo
sapevo, e non me lo sarei mai dimenticato.
«Ora non fare il paladino della giustizia,
per favore. Sei stato tu ad andarlo a cercare.
Perciò, qualsiasi cosa lui le abbia fatto pas-
sare, ricordati che sei stato tu a iniziare! E
poi te la porti pure a letto?! Rush, ti prego.
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Cosa ti è passato per la testa, santo cielo! Sei


come tuo padre.» A mia madre piaceva un
mondo accusarmi di essere come Dean,
quando ce l’aveva con me. Io invece ero con-
tento di non essere per niente come lei.
«Ricordati chi è il proprietario di questa
casa, mamma» le feci presente.
«Ma lo senti? Si rivolta contro di me per
una ragazza che ha appena conosciuto! Abe,
devi fare qualcosa.»
«È casa sua, Georgie. Non posso obbl-
igarlo a fare niente. Avrei dovuto
aspettarmelo. Lei è molto simile a sua
madre…»
Quella frase mi colpì. Che cosa intendeva?
«E questo cosa vorrebbe dire, scusa?!»
esplose mia madre, ovviamente già al cor-
rente della risposta, altrimenti non sarebbe
stata sul punto di staccargli la testa.
«Ne abbiamo già parlato altre volte. Il
motivo per cui ti avevo lasciato per lei era
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quel suo… fascino irresistibile. Era come se


non riuscissi a staccarmi da lei…»
«Lo so, lo so. E non voglio più sentirtelo
dire. Tanto la volevi che mi hai piantata
incinta, con le partecipazioni del matrimonio
pronte da spedire» lo interruppe mia madre.
«Tesoro, calmati. Io amo te. Stavo solt-
anto spiegando che Blaire ha lo stesso
carisma di sua madre, è impossibile non sen-
tirsi attratti da lei. Non se ne rende minima-
mente conto, proprio come sua madre. Non
può farci niente» disse Abe.
Lo guardai terrorizzato. Pensava davvero
che fosse quello il motivo? Ne era proprio
convinto? Io non ero innamorato di un cazzo
di “carisma”, ma di ben altro. Non lo vedeva?
Allora era cieco, quel bastardo.
«Basta! Quella donna mi lascerà mai in
pace? Dovrà rovinarmi la vita per sempre?
Non c’è più, santo cielo. Ho riavuto l’uomo
che amavo, nostra figlia ha finalmente suo
padre, e ora anche questo? Tu che vai a letto
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con… quella?!» Mia madre stava per avere


una crisi isterica, ma io non avevo tempo da
perdere con le sue scenate. Io dovevo preoc-
cuparmi soltanto di Blaire.
«Ancora una parola contro di lei e ti
sbatto fuori» la avvisai, per l’ultima volta.
Non doveva permettersi di mancare di
rispetto a Blaire, in nessun modo.
«Georgie, amore mio, calmati, ti prego.
Blaire è una brava ragazza. Il fatto che stia
qui non è la fine del mondo, le serve un posto
dove vivere. Te l’ho già spiegato. So che odi
Rebecca, ma era la tua migliore amica. Lo
siete state sin dall’infanzia. Anzi, finché non
sono arrivato io a rovinare tutto, voi eravate
come sorelle… Lei è sua figlia, abbi compas-
sione.» Il ragionamento che Abe stava pro-
ponendo a mia madre non poteva funzion-
are. Quella era un’egocentrica totale come
mia sorella.
«NO! Zitti voi, tutti quanti!» La voce di
Blaire fu un coltello dritto nel cuore.
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No, Dio mio, no. Non doveva venirlo a


sapere così. «Blaire.» Andai verso di lei, ma
mi respinse alzando le mani. L’espressione
che le vidi sul viso mentre guardava alle mie
spalle mi gelò il sangue nelle vene.
«Tu» disse, puntando il dito contro suo
padre. «Tu permetti a questa gente di dire
bugie su mia madre!» gridò. Avevo temuto
che sarebbe rimasta sconvolta, ma la fred-
dezza totale e irraggiungibile che aveva negli
occhi faceva paura.
«Blaire, lascia che ti spieghi…» fece per
rispondere lui.
«TACI!» urlò, interrompendolo. «Mia
sorella, l’altra mia metà, è morta. È morta,
papà! In macchina, mentre veniva al super-
mercato con TE. È stato come se mi avessero
tolto l’anima e l’avessero strappata in due.
Perderla è stato insopportabile. Ho visto la
mamma disperarsi, urlare e piangere per lei,
poi ho visto mio padre andarsene. Per non
tornare più. Mentre sua figlia e sua moglie
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cercavano di rimettere insieme i pezzi del


loro mondo senza Valerie. Poi la mamma si
ammala. Io ti chiamo, ma tu non rispondi. E
così mi cerco un lavoro dopo la scuola e
comincio a pagare le sue spese mediche. Non
faccio nient’altro che prendermi cura di lei e
studiare. A parte l’ultimo anno, quando sta
così male che devo lasciare la scuola. Rinun-
cio al diploma. Perché l’unica persona sulla
faccia della terra che mi vuole bene sta
morendo e io non posso fare altro che stare a
guardarla, impotente. Le ho tenuto la mano
fino all’ultimo respiro. Ho organizzato il suo
funerale. Ho guardato la sua bara che veniva
calata sottoterra. E tu… tu non hai mai
chiamato. Mai. Neanche una volta. Poi ho
dovuto vendere la casa che la nonna ci aveva
lasciato, per pagare i debiti delle spese medi-
che.» Si interruppe, scossa da un singhiozzo.
Le lacrime avevano iniziato a rigarle il viso, e
il mio cuore scoppiò.
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Io tutte quelle cose non le sapevo. Me le


aveva accennate solo in parte. La abbracciai,
spinto dalla necessità di stringerla, ma lei
iniziò a divincolarsi e a lottare contro di me
come se avesse perso la testa.
«Non toccarmi!» sbraitò, e io fui costretto
a lasciarla andare per evitare che potesse
farsi male. «E adesso devo starmene qui a
sentirvi sparlare di mia madre, che era una
santa. Avete capito? Lei era una santa! Voi,
invece, siete tutti bugiardi. Se c’è qualcuno
colpevole delle stronzate che vi stanno
uscendo dalla bocca, è proprio quest’uomo.»
Indicò suo padre.
Mi ero illuso di pensare che mi avrebbe
ascoltato, che mi avrebbe lasciato spiegare.
Sentire quelle cose aveva sconvolto tutto il
suo mondo. Io non le avevo detto niente, non
avevo voluto vedere il dolore dentro ai suoi
occhi, non avrei saputo come farlo sparire.
Però avevo permesso quella situazione, ed
era stato ancora peggio.
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«È lui il bugiardo. Non vale nemmeno un


tacco delle mie scarpe. Se Nan è sua figlia. Se
tu eri incinta…» Parlando, Blaire si era
rivolta a suo padre, ma a quel punto tacque e
si girò verso mia madre.
Fu la prima volta che la guardò realmente.
E ricordò. Barcollò all’indietro, e a me venne
voglia di correre da lei per abbracciarla, ma
non lo feci. Voleva cavarsela da sola, senza il
mio aiuto.
«Chi sei?» chiese a mia madre, che la fis-
sava con uno sguardo turbato.
«Attenta a come rispondi» la misi in
guardia io, mettendomi subito dietro a Blaire
nel caso avesse avuto bisogno di me.
Mia madre guardò Abe, poi di nuovo
Blaire. «Tu sai chi sono, Blaire. Ci siamo già
incontrate.»
«Tu sei venuta a casa mia… Tu… Tu hai
fatto piangere mia madre.»
La mia alzò gli occhi al cielo, e io mi
irrigidii.
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«Ultimo avvertimento, mamma» ringhiai.


«Nan voleva conoscere suo padre. E così
l’ho portata da lui. Ha potuto vedere la sua
bella famigliola con le gemelline bionde di
cui andava pazzo e la loro altrettanto perfetta
mammina. Ero stanca di raccontare a mia
figlia che lei un padre non ce l’aveva, ho
preferito mostrarle che cosa il suo papà
aveva scelto al suo posto. Così almeno ha
smesso di pensare a lui per un bel pezzo.»
Mi accorsi che a Blaire stavano cedendo le
ginocchia, e che respirava a fatica. Oh,
merda. Le sarebbe venuto un attacco di
panico.
«Blaire, ti prego, adesso guardami» la
implorai, ma lei non mi ascoltò. Teneva lo
sguardo fisso a terra, mentre il significato di
quella scoperta la raggiungeva poco alla
volta. Odiavo assistere a uno spettacolo del
genere, avevo voglia di cacciarli fuori tutti
per poter stringere Blaire finché ogni cosa
non fosse tornata a posto. Ma in fondo
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sapevo che non era necessario. Ormai la ver-


ità era venuta a galla e lei aveva bisogno delle
sue risposte.
Fu Abe a parlare. «Ero fidanzato con
Georgianna. Lei era incinta di Nan e tua
madre è venuta a trovarla. Non avevo mai
conosciuto una come lei: mi è entrata dentro,
non ero capace di starle lontano. Georgianna
non si era ancora del tutto ripresa dalla
storia con Dean e Rush andava ancora a tro-
vare suo padre una settimana sì e una no.
Ero certo che, se solo Dean avesse detto di
volere una famiglia, Georgie sarebbe subito
corsa da lui. Non ero nemmeno tanto sicuro
che Nan fosse mia. Tua madre era una
ragazza per bene e divertente, se ne fregava
delle rockstar e sapeva farmi ridere. Le feci la
corte, ma lei mi ignorò. Poi le dissi una
bugia: le raccontai che il figlio che Georgie
aspettava era di Dean. Lei provò compas-
sione per me e in qualche modo la convinsi a
scappare, buttando al vento un’amicizia su
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cui aveva contato per tutta la vita.» Quando


Abe ebbe finito, mi resi conto che fino a quel
momento non l’avevo mai sentito fare un
discorso così lungo.
Blaire si coprì le orecchie e chiuse forte le
palpebre. «Basta, non voglio più ascoltare.
Voglio soltanto le mie cose. Voglio andar-
mene!» singhiozzò, lacerandomi l’anima.
«Piccola, parlami. Ti prego» la supplicai
toccandole le braccia. Avevo un bisogno dis-
perato di contatto.
Si allontanò, ma senza degnarmi di
un’occhiata «Non posso guardarti, non
voglio parlarti. Rivoglio soltanto le mie cose.
Me ne torno a casa.»
No, no, no. Non potevo perderla. Non mi
avrebbe lasciato, io la amavo! Mi aveva
preso. Doveva lottare per noi due, ne avevo
bisogno…
«Blaire, tesoro, non c’è più una casa»
disse Abe. Sapevo che l’aveva fatto per
ricordarle che non aveva un posto dove
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andare, però mi venne lo stesso voglia di


sfondargli la faccia con un pugno. Non aveva
bisogno di sentirselo ripetere, in quel
momento.
Lei lo fulminò con lo sguardo. «Per me
“casa” è la tomba di mia madre. È lì che
voglio andare. Sono rimasta a sentire tutti
voi che la dipingevate come la persona che
non era. Una come lei non poteva neanche
pensare quello di cui la state accusando!
Rimani qui con la tua famiglia, Abe: sono
sicura che ti amerà quanto la prima. Cerca
però di non uccidere nessuno, almeno qui»
disse, con la voce carica di disprezzo.
Ci voltò le spalle e corse su per le scale.
Rimasi a fissarla e, per un attimo, pensai che
avrei potuto chiuderla a chiave in camera
mia costringendola a stare con me. Ad ascol-
tarmi. A quel punto mi avrebbe perdonato?
Potevo farle una cosa del genere?
«È instabile e pericolosa» sibilò mia
madre.
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La raggiunsi e, per la prima volta nella


mia vita, mi parai davanti a lei con fare min-
accioso. «Il mondo le è appena stato strapp-
ato dalle mani. Tutto quello che credeva di
sapere. Quindi, per una volta nella vita, non
fare la stronza egoista e chiudi quella cazzo
di bocca, perché giuro che sono pronto a but-
tarvi fuori tutti e due, così dovrete pensarci
da soli a come tirare a campare.»
Non avevo voglia di aspettare la sua ris-
posta, perché sapevo che mi avrebbe fatto
passare il segno. Dovevo cercare di parlare a
Blaire senza suo padre e mia madre di
mezzo. Mi fermai sulla porta di camera sua e
la vidi mentre stipava alla rinfusa i vestiti
nella valigia con la quale era arrivata solo
qualche settimana prima.
«Non puoi lasciarmi» le dissi cercando di
controllare l’emozione che mi aveva creato
un nodo in gola.
«Invece è proprio quello che sto facendo»
rispose.
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L’apatia del suo tono di voce mi stava


uccidendo. Quella non era la mia Blaire. Non
avrei permesso a quella bugia di portarmela
via. La mia Blaire non era così spenta e
fredda dentro.
«Blaire, non mi hai lasciato il tempo di
spiegare. Ti avrei raccontato tutto oggi
stesso. Invece ieri sera sono tornati
all’improvviso e io sono andato nel panico.
Volevo prima dirlo a te.» Dicevo cose senza
senso e lei se ne stava andando, ma non
sapevo come accidenti convincerla a restare.
Tirai un pugno contro lo stipite della porta e
cercai di riprendere lucidità. Dovevo dire la
cosa giusta. «Non era così che dovevi scopri-
rlo, non in questo modo, Dio mio!» No, stavo
per esplodere. Il panico e la paura mi bloc-
cavano i pensieri.
«Non posso rimanere qui. Non posso
vederti. Tu rappresenti il dolore e il tradi-
mento non solo mio, ma anche di mia madre.
Quello che c’è stato fra noi è finito. Morto
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nell’esatto istante in cui ho sceso le scale e ho


scoperto che il mondo che conoscevo era solo
una grande bugia.»
Era stata lapidaria. Come potevo con-
trobattere, se si rifiutava di dare un’altra
chance a noi due? Sarebbe mai stata capace
di guardarmi in maniera diversa, un giorno?
Non potevo vivere in un mondo così. Un
mondo senza Blaire.
28

Sforzandomi di continuare in qualche modo


a respirare nonostante tutto quel dolore, mi
girai e la seguii. Non mi voleva. Non voleva
quella vita. Però non potevo lasciarla
andare… E dove, poi? Dove avrebbe
dormito? Chi avrebbe controllato che mangi-
asse? Chi l’avrebbe stretta mentre piangeva?
Aveva bisogno di me, e Dio solo sapeva
quanto io ne avevo di lei.
Raggiunse l’ultimo gradino, si sfilò il cel-
lulare dalla tasca e lo mise davanti agli occhi
di Abe. «Prendilo. Non lo voglio» gli gridò.
«E perché dovrei prendere il tuo telefono,
scusa?» fece lui.
«Perché da te non voglio niente!»
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«Non sono stato io a dartelo.»


«Prendi il telefono, Blaire. Se te ne vuoi
andare, non posso tenerti qui con la forza.
Però ti prego, portati il telefono.» Ero pronto
a supplicarla in ginocchio. Doveva prendere
quel maledetto cellulare, le serviva!
Lo posò sull’ultimo gradino delle scale.
«Non posso» disse, e capii che non l’avrei
convinta nemmeno quella volta. Non rius-
civo a combinare niente, ero inutile, cazzo! Il
mondo le era appena crollato addosso e io
ero un essere inutile.
«Sei proprio uguale a lei» le disse mia
madre, da dietro le spalle.
«Spero solo di diventare almeno la metà
della donna che era lei» fu la sua risposta,
determinata.
Se ne andò.
Dovevo fare qualcosa.
Scesi le scale senza staccare gli occhi
dall’ingresso: non potevo starmene lì e las-
ciare che se ne andasse via. «Dove potrebbe
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essere diretta?» chiesi ad Abe, pur sapendolo


già
«Tornerà in Alabama, l’unica altra casa
che conosce. Là ha degli amici, la
ospiteranno.»
Sentii la voce di Nan: un urlo che
proveniva dall’esterno. Mi si fermò il cuore.
Era successo qualcosa a Blaire? Mi precipitai
fuori dalla porta di casa, preceduto da Abe e
mia madre.
«Blaire! Abbassa quella pistola! Nan, non
ti muovere. Sa sparare meglio di tanti
uomini» ordinò Abe con voce ferma.
Cristo santo, Blaire stava puntando una
pistola contro Nan. Cosa le aveva detto mia
sorella?
«Che cosa ci fa con quella cosa in mano?
Come fa ad averla?!» chiese mia madre.
«Ha il porto d’armi e sa quello che fa, per-
ciò mantieni la calma» le rispose Abe,
infastidito.
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Blaire obbedì al padre e abbassò la pistola.


«Ora salgo su questa macchina ed esco dalle
vostre vite. Per sempre. Basta che non diciate
più una parola su mia madre. Non starò più
ad ascoltarvi» disse lanciando uno sguardo
di fuoco a Nan. Montò sul pick-up e andò via
senza guardarsi indietro.
«Quella è fuori di testa, cazzo!» esclamò
Nan girandosi verso di noi.
Io non potevo starmene lì a sentire i loro
commenti. Blaire mi stava lasciando, e non
avrei permesso che se ne andasse via da sola.
Poteva succederle di tutto. Tornai in casa e
corsi in camera mia.
Sull’ultimo gradino venni investito dal suo
odore e dovetti fermarmi, digrignando i
denti dal dolore. Solo due ore prima ero stato
in quel letto, con lei fra le mie braccia.
Lo raggiunsi, mi sedetti e presi il cuscino
su cui aveva dormito. Me lo misi in faccia:
sapeva proprio di lei… Mi sfuggì un
singhiozzo. Feci di tutto per trattenermi, ma
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era inutile: l’avevo persa, la mia Blaire.


Avevo perso la mia Blaire.
No, no. Non l’avrei accettato.
Mi alzai e, con la massima cura, rimisi il
cuscino al suo posto. L’avrei seguita. Mi ser-
vivano dei vestiti e il portafogli. L’avrei
trovata, aveva bisogno di me. In questo
momento non mi voleva, ma una volta
superato il trauma avrebbe cambiato idea.
Avrei potuto stringerla e consolarla. Tenerla
forte mentre piangeva. E poi avrei trascorso
il resto della vita a fare la cosa giusta. A ren-
derla felice, anzi strafelice, maledizione!
Scesi le scale con la borsa da viaggio in
mano mentre, nell’ingresso, mia madre, mia
sorella e Abe discutevano – ne ero sicuro –
di Blaire e di quello che era appena successo.
Non sarei stato ad ascoltarli, me ne stavo
andando.
«Dove vai?» mi chiese mia madre.
«Mi ha puntato una pistola alla testa,
Rush! Non te ne importa? Avrebbe potuto
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uccidermi!» Nan aveva già capito dove ero


diretto.
Mi fermai e guardai prima mia madre.
«Vado a prendere Blaire.» Poi mi rivolsi a
mia sorella: «Un giorno imparerai a chiudere
quella cazzo di bocca. Stavolta hai detto la
cosa sbagliata alla persona sbagliata, e hai
imparato una lezione. La prossima volta,
prima di sputare veleno, pensaci su due
volte». Spalancai la porta.
«E se non vorrà tornare con te? Lei ci
odia, Rush» disse mia madre, irritata anche
solo all’idea di riavere Blaire per casa.
«Se non vorrà tornare con me, allora toc-
cherà a voi andarvene. Non ho intenzione di
vivere in casa mia insieme alle persone che
hanno distrutto il suo mondo. Decidete già
da adesso dove volete andare, perché quando
torno non voglio trovarvi qui.» E sbattei la
porta.
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Le otto ore di macchina verso Summit, in


Alabama, sarebbero state più semplici se non
fossi stato sulle tracce di Blaire cercando allo
stesso tempo di non farmi vedere. Nascond-
ere una Range Rover nera su delle strade di
campagna non era uno scherzo; ero stato
costretto a perderla di vista più volte di
quante avrei voluto, ma era stato l’unico
modo per seguirla. Mi stavo lasciando guid-
are dal GPS, e per fortuna sembrava che
anche Blaire stesse seguendo lo stesso itiner-
ario suggerito.
Entrato in paese notai un cartello a cui
serviva una bella rinfrescata, con la scritta
comunque leggibile BENVENUTI A SUMMIT,
ALABAMA. Le avevo lasciato dieci minuti
buoni di vantaggio, altrimenti mi avrebbe
scoperto. Passai il primo semaforo. Stando a
Google, dovevano essercene solo tre in tutto.
Al successivo vidi un cartello che indicava il
cimitero, e lì svoltai; il parcheggio era
deserto, c’erano solo il pick-up di Blaire e un
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altro. Parcheggiai un po’ più avanti, dove non


avrebbe potuto vedermi.
Era andata a trovare sua madre. E sua
sorella. Il mio cuore si era mai spezzato così
per qualcun altro? Sì, avevo odiato il modo in
cui avevano trascurato Nan, ma per il suo
dolore avevo mai provato quel genere di
emozione? L’idea che Blaire dovesse sop-
portare tutto da sola era impensabile.
Doveva ascoltarmi, per forza.
Quando vidi che il suo pick-up azzurro
iniziava a muoversi, aspettai che rientrasse
in carreggiata prima di ricominciare a
seguirlo a distanza di sicurezza. Svoltò a
destra al primo semaforo e poi parcheggiò
davanti a un motel. L’unico nel raggio di
chilometri e chilometri, non ne avevo dub-
bio. Non ero per niente felice di una sistem-
azione del genere, ma almeno non avrei
dovuto fare quello che avevo intenzione di
fare in casa di qualche sconosciuto. Nel
motel avremmo avuto la nostra privacy.
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Mentre lei entrava per chiedere una


stanza, io parcheggiai e rimasi in attesa. Non
sapevo bene cosa avrei detto, o se magari
l’avrei semplicemente supplicata. Però
dovevo agire, punto. Blaire uscì dalla recep-
tion e, in quell’istante, i suoi occhi incon-
trarono i miei. Vacillò, sospirò. Era stupita
che l’avessi seguita. Proprio non aveva capito
quanto ero pazzo di lei?
Sentii una portiera sbattere nel momento
in cui lei si incamminò verso di me. Girò la
testa e corrugò la fronte alla vista del ragazzo
appena sceso dal proprio pick-up, lo stesso
parcheggiato fuori dal cimitero. Non ser-
vivano presentazioni, quello era sicuramente
Cain. E il fare possessivo con cui la osservava
mi diceva che una volta poteva aver avuto
qualche diritto su Blaire. L’importante,
adesso, era che capisse che quei diritti erano
solo un pallido ricordo.
«Spero proprio che tu questo tizio lo con-
osca, perché ti ha seguita fin qui dal cimitero.
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L’ho notato che ci guardava a bordo strada,


ma non ho detto niente» la avvisò Cain accel-
erando il passo per mettersi di fronte a lei.
«Lo conosco» rispose Blaire, senza
fermarsi.
«È lui il motivo per cui sei tornata qui di
corsa?»
«No.» E poi, rivolgendosi a me senza avvi-
cinarsi ulteriormente: «Perché sei qui?».
«Tu sei qui» fu tutto quello che dissi.
«Non posso, Rush.»
Sì che poteva. Sarei riuscito a farglielo
capire. Feci un passo verso di lei. «Parliamo.
Ti prego, Blaire. Ci sono talmente tante cose
che ti devo spiegare…»
Fece di no e indietreggiò. «No. Non
posso.»
Avevo tanta voglia di spaccare la testa a
Cain. «Potresti lasciarci soli un minuto?»
Lui incrociò le braccia sul petto e si frap-
pose fra me e lei. «Non credo proprio. A
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quanto pare, Blaire non ha voglia di parlarti.


Io non la obbligherò, e tu nemmeno.»
Avevo già iniziato ad andargli vicino
quando Blaire gli sbucò da dietro. «Tutto a
posto, Cain. Lui è il mio fratellastro, Rush
Finlay. Sa già chi sei tu. Vuole parlare, e par-
leremo. Puoi andare ora, andrà tutto bene»
gli disse, voltando la testa, prima di aprire la
stanza 4A.
Mi aveva appena definito “suo fratel-
lastro”? Ma cosa cavolo…?
«Fratellastro? Aspetta un attimo… Rush
Finlay? Il figlio di Dean Finlay? Cazzo, B! Sei
imparentata con una star del rock!» esclamò
Cain guardandomi a bocca aperta.
Proprio quello di cui avevo bisogno, un
fan così sfegatato degli Slacker Demon da
conoscere il nome del figlio del batterista.
«Vai via, Cain» ribadì Blaire, seria, poi
entrò in camera.
29

Prima di voltarsi, Blaire raggiunse l’angolo


più remoto della camera. «Parla. E sbrigati.
Poi te ne devi andare.»
«Io ti amo.» Avrei già dovuto dirglielo. Il
giorno prima. Anzi, avrei dovuto farlo
nell’esatto momento in cui me ne ero reso
conto, invece non era stato così.
Iniziò a scuotere la testa. Non mi avrebbe
ascoltato, sarei stato costretto a implorarla.
E va bene, avrei lottato abbastanza per
entrambi.
«So che all’apparenza quello che ho fatto
ti sembra in contrasto con quello che ho
appena detto, ma se solo mi lasciassi
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spiegare… Dio mio, non riesco a vederti sof-


frire così tanto!» la supplicai.
«Non c’è niente che puoi dire per
riaggiustare le cose. Era mia madre, Rush.
L’unico ricordo bello di tutta la mia vita. Il
centro di ogni ricordo d’infanzia felice. Tu,
invece…» Si interruppe e chiuse gli occhi.
«Tu… e loro… l’avete infangata. Tutti quanti.
Le bugie disgustose che avete pronunciato
come se fossero la verità!»
Odiavo me stesso. Odiavo quelle bugie.
Odiavo mia madre e Abe.
«Mi dispiace che tu abbia scoperto tutto
così. Volevo dirtelo. All’inizio pensavo che
saresti stata soltanto l’ennesimo motivo di
dolore per Nan. Che l’avresti fatta soffrire. Il
problema era che… mi affascinavi. Lo
ammetto, all’inizio mi ha colpito il tuo
aspetto fisico, perché sei stupenda. Mi hai
lasciato senza fiato, e ti odiavo per questo.
Non volevo provare attrazione per te, invece
era così. Già la prima sera ti volevo avere
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vicina… E per riuscirci inventavo delle scuse.


Poi… Poi ho imparato a conoscerti. La tua
risata mi ipnotizzava. Era il suono più bello
che avessi mai sentito. Ed eri anche così
onesta, determinata. Non ti lamentavi, non ti
piangevi mai addosso. Prendevi quello che la
vita ti dava e ti impegnavi per cambiarlo.
Non ero abituato a vedere la gente compor-
tarsi così. Ogni volta che ti guardavo, ogni
volta che ti stavo vicino, mi innamoravo un
po’ di più…»
Feci un passo verso di lei, che però alzò
entrambe le mani come per tenermi alla
larga. Dovevo continuare a parlare. Avevo
bisogno che mi credesse.
«Poi quella sera, nel locale country…
Dopo quella sera non ho avuto più scampo.
Forse non te ne sei accorta, ma io ero in trap-
pola. Perso, senza speranze. Dovevo rimedi-
are a così tante cose. Da quando eri arrivata
ti avevo fatto passare l’inferno, e odiavo me
stesso per averlo fatto. Volevo darti il
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mondo. Ma sapevo… Sapevo chi eri. E


quando ci pensavo veramente, mi tiravo
indietro. Come facevo a lasciarmi coin-
volgere fino a quel punto da una ragazza che
era la principale causa di dolore per mia
sorella?»
Blaire si coprì le orecchie. «No. Non starò
ad ascoltarti. Vattene, Rush. Vattene
subito!» urlò.
«Il giorno in cui mia madre è tornata a
casa dall’ospedale con lei, io avevo solo tre
anni, ma ricordo tutto benissimo. Era così
piccola… Ricordo di essermi preoccupato che
potesse succederle qualcosa. Mia madre
piangeva molto, e lo stesso anche Nan. Sono
cresciuto in fretta. Quando lei ha compiuto
tre anni, io già le facevo tutto: le preparavo la
colazione e le rimboccavo le coperte la sera.
Nostra madre si era sposata, e a quel punto
era già nato Grant. Non c’è mai stato un min-
imo di stabilità. Io non vedevo l’ora che mio
padre venisse a prendermi, perché almeno
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per qualche giorno non avrei dovuto


assumermi la responsabilità di Nan. Avrei
fatto una pausa. Poi mia sorella ha cominci-
ato a chiedermi perché io avevo un papà e lei
no…» Avevo bisogno che Blaire capisse per-
ché avevo fatto quello che avevo fatto. Era
stato sbagliato, ma doveva capirlo.
«Basta!» gridò, spostandosi ancora più
lontano da me lungo la parete.
«Blaire, tu mi devi ascoltare. È l’unico
modo per farti capire» la implorai. Il
singhiozzo che mi salì in gola mi ruppe la
voce, ma non mi sarei fermato. Doveva
starmi a sentire. «Nostra madre le diceva che
lei non aveva un papà perché era speciale.
Ma la cosa non funzionò per molto, così mi
feci avanti e le chiesi di dirmi chi fosse vera-
mente il padre di Nan. Avrei voluto che fosse
il mio. Sapevo che lui l’avrebbe portata in
tanti bei posti. Lei invece mi disse che il
padre di Nan aveva un’altra famiglia: altre
due bambine che amava più di Nan. Voleva
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loro, ma non la mia sorellina. Certo, a volte


Nan mi faceva venire voglia di strozzarla, ma
in fondo le volevo un bene dell’anima. Finché
non arrivò il giorno in cui mia madre la portò
a vedere la famiglia che suo padre aveva
scelto. Pianse per mesi.»
Tacqui, e Blaire sprofondò sul letto. Era la
resa: mi avrebbe ascoltato. Forse c’era un
briciolo di speranza.
«Odiavo quelle ragazzine. Odiavo la
famiglia che il padre di Nan aveva scelto al
posto suo. Ho giurato che mi sarei vendicato.
Nan ripeteva sempre che forse, un giorno,
suo padre sarebbe tornato a trovarla.
Sperava che lui volesse vederla. Io ho dovuto
fingere di assecondare quei sogni per anni…
Compiuti i diciannove anni, sono andato a
cercarlo. Sapevo il suo nome. L’ho trovato,
gli ho lasciato una fotografia di Nan con il
nostro indirizzo sul retro. Gli ho detto che
aveva un’altra figlia speciale e che lei desid-
erava solo incontrarlo. Parlargli.»
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Capii che lei si era messa a fare i conti.


Aveva perso sua sorella meno di un anno
prima di quando io avevo rintracciato Abe.
Però ero all’oscuro di tutto… Dio mio, non ne
avevo idea! Avevo cercato di aiutare mia
sorella, non di distruggere la vita di Blaire.
Non la conoscevo ancora.
«L’ho fatto perché amavo mia sorella. Non
avevo idea di quello che stava passando
l’altra famiglia, e sinceramente non me ne
importava. Il mio unico pensiero era Nan.
Voi eravate i nemici. Ma poi tu sei entrata in
casa mia… e hai completamente stravolto il
mio mondo. Avevo sempre giurato che non
mi sarei mai sentito in colpa per aver dis-
trutto quella famiglia. Dopotutto, loro
avevano distrutto quella di Nan. Ma ogni
momento che passavo con te, il senso di
colpa cominciava a divorarmi. Vedere i tuoi
occhi mentre mi raccontavi di tua sorella e di
tua madre… Dio mio, Blaire, ti giuro che
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quella sera mi hai stracciato l’anima in due.


Non mi passerà mai.»
Mi avvicinai, e lei non si ritrasse.
«Ti giuro che, per quanto bene voglia a
mia sorella, se potessi tornare indietro nel
tempo e cambiare le cose, lo farei. Non sarei
mai dovuto andare da tuo padre. Mai. Mi
dispiace, Blaire. Mi dispiace da morire,
cazzo!» Avevo la vista offuscata dalle lac-
rime. Dovevo fare in modo che capisse.
«Non posso dire che ti perdono» mi disse.
Lasciai libero sfogo a quel singhiozzo che
avevo disperatamente cercato di trattenere e
feci cadere la testa sulle sue ginocchia. Non
contava nulla. Nulla. Non più. L’amavo total-
mente, ma non ero stato capace di guadag-
narmi lo stesso sentimento da parte sua. E
senza quello, non l’avrei mai riavuta. Avevo
perso. Come avrei vissuto, ora che sapevo
cos’era la vita insieme a Blaire? «Non devi
amarmi. Però non mi lasciare» dissi las-
ciando che i singhiozzi mi scuotessero il
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corpo mentre affondavo il viso contro la sua


gamba. Mi ero mai sentito così a pezzi? No. E
nemmeno sarebbe ricapitato. Non c’era
niente di paragonabile alla consapevolezza di
aver sfiorato il paradiso e averlo poi perso.
«Rush.» La sua voce mi sembrò
commossa.
Sollevai la testa. Lei si alzò in piedi e
cominciò a sbottonarsi la maglietta. Restai
seduto lì, con la paura di muovermi, mentre
si spogliava lentamente togliendosi ogni cosa
con cura e determinazione. Non capivo, ma
avevo paura a parlare. Se stava cambiando
idea, non volevo rovinare tutto.
Quando fu completamente nuda, venne
verso di me e mise le ginocchia da una parte
e dall’altra rispetto alle mie cosce. Le afferrai
la vita e sprofondai il viso contro la sua pan-
cia. Tremavo, sentendola così vicino, ma non
sapevo cosa significasse. Non osavo pensare
che mi avesse perdonato, aveva appena detto
che non poteva amarmi.
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«Che cosa stai facendo, Blaire?» le chiesi,


finalmente.
Mi afferrò la maglietta e la tirò. Io alzai le
braccia per permetterle di sfilarmela dalla
testa e poi la vidi scendere su di me. Mi prese
la testa e mi baciò. Quel sapore dolce, capace
di dare dipendenza, quel sapore che era
l’essenza di Blaire mi riempì totalmente, così
le affondai le mani tra i capelli e la tirai a me.
Avevo paura che potesse cambiare idea. Non
doveva amarmi per forza, ma volevo che,
almeno, permettesse a me di amarla a quel
modo. Me lo sarei fatto bastare.
«Sei sicura?» le chiesi mentre si stro-
finava contro la mia erezione. Annuì in
silenzio.
La sollevai e la deposi sul letto, poi le sfilai
scarpe e slip. Quando anch’io rimasi nudo,
mi tenni sospeso sopra di lei e la guardai. Mi
toglieva il fiato.
«Sei la donna più bella che abbia mai
visto. Dentro e fuori» le dissi, quindi le
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baciai ogni centimetro del viso, per poi pren-


dere in bocca il suo labbro inferiore.
Blaire sollevò il bacino e aprì le gambe,
ma io non ero ancora pronto. Volevo pren-
dermi del tempo, assaporarla. Lei era nata
per essere assaporata e viziata, e l’avrei fatto
io. Anche se non mi amava, avrei potuto farlo
abbastanza per entrambi.
Le feci scorrere le mani lungo il corpo,
memorizzandone ogni singola parte. Non
volevo credere che quello fosse un addio.
Non pensavo che Blaire avrebbe scritto la
parola fine così. Però la paura c’era, e lei non
mi bastava mai. «Ti amo troppo» le dissi
abbassando la testa per baciarle il ventre.
Divaricò ancora di più le gambe. La
guardai negli occhi, sapendo che quella volta
avrei dovuto chiederglielo. Non stava pro-
mettendo un futuro a noi due.
«Devo mettermi il preservativo?» dissi,
risalendo lungo il suo corpo.
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Annuì, e io sentii ciò che restava del mio


cuore infrangersi ulteriormente. Stava
mettendo una barriera tra i nostri corpi.
Presi i jeans e tolsi il preservativo dal porta-
fogli, lo aprii e me lo infilai. Sentivo gli occhi
di Blaire su di me, e anche le mie parti intime
pulsarono sotto quell’attenzione.
Le feci scorrere le mani sull’interno della
coscia; nessuno era stato lì, tranne me. Nes-
suno l’aveva toccata, tranne me. «Tutto
questo sarà mio per sempre» dissi, con la
voglia che su di lei restasse il segno perman-
ente della mia presenza.
Mi abbassai finché, con il membro eretto,
non sfiorai il suo sesso. «Non è mai stato così
bello. Niente lo è mai stato» dichiarai prima
di scivolarle dentro con un unico colpo
deciso. Lei si avvinghiò con le gambe alla mia
schiena e lanciò un grido. Il mio cuore flagel-
lato batteva all’impazzata nel petto: ero a
casa. Blaire era la mia casa. Non mi ero reso
conto di quanto fossi solo finché lei non era
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entrata nella mia vita. Volevo guardarla negli


occhi e fare l’amore con lei. Perché quello
non era sesso, quello era la prova di come lei
mi possedesse totalmente.
Tirò le gambe più su sulla mia schiena e
mi strinse le braccia intorno al collo.
«Ti amerò per sempre. Nessuno reggerà
mai il confronto. Io sono tuo, Blaire. Il mio
cuore e la mia anima sono tuoi» le dissi
mentre mi muovevo dentro di lei. Le sfiorai
le labbra con un bacio. «Soltanto tu» le
promisi. Sarebbe sempre stata soltanto lei.
Ormai era la mia vita.
I nostri occhi si fissarono intensamente, e
lei emise un gemito. Durante l’orgasmo mi
strinse forte, mandandomi in estasi un
attimo dopo di lei. Quando, lentamente, il
piacere si dissolse, la guardai. E seppi la ver-
ità. I suoi occhi mi stavano confermando
quello che più avevo temuto: quello era stato
il suo addio.
«Non farlo, Blaire» la implorai.
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«Addio, Rush» sussurrò.


Mi rifiutavo di accettarlo. Non potevo per-
metterglielo. «No. Non puoi fare una cosa
del genere proprio a noi due.»
Allentò la presa delle gambe intorno al
mio corpo, lasciò ricadere anche le mani
lungo i fianchi e girò il viso dall’altra parte.
«Non ho potuto dare l’ultimo saluto né a mia
sorella né a mia madre. Addii che non ho mai
ricevuto. Questo, almeno, volevo prender-
melo. Questo addio fra noi due, senza bugie
di mezzo.» Il gelo nella sua voce mi squarciò
in due.
Afferrai le lenzuola e strinsi i pugni. «No.
No, ti prego» la supplicai.
Lei continuò a non guardarmi, sdraiata
inerte sotto il mio corpo. Come potevo com-
battere per qualcuno che non mi voleva? Per
qualcuno che, anzi, mi odiava? Non avevo
possibilità. Avevo fatto tutto quello che
sapevo fare, ma lei non mi voleva. Non in
quel momento.
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Uscii dal suo corpo e presi i vestiti. Buttai


il preservativo e, come un automa, iniziai a
rivestirmi. Voleva che me ne andassi. E
quello che dovevo fare era precisamente
uscire da quella stanza e lasciarla. Ma come
cazzo facevo?
Una volta vestito, mi girai per osservarla.
Si era messa a sedere, con le ginocchia alzate
contro il mento per nascondere la nudità.
«Non posso costringerti a perdonarmi. E
nemmeno merito il tuo perdono. Non posso
cambiare il passato, posso solo darti quello
che vuoi. E se quello che vuoi è questo,
Blaire, allora io me ne vado. Mi uccide, ma lo
farò.» Avrei fatto l’unica cosa che era in mio
potere: darle ciò che desiderava.
«Addio, Rush» ripeté, distogliendo lo
sguardo.
In quella stanza ci avrei lasciato il cuore.
L’anima, anche. Erano suoi. Io, senza di lei,
ero vuoto. Non sarei più stato lo stesso.
Blaire Wynn mi aveva cambiato… Mi aveva
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dimostrato che ero capace di amare con una


potenza divoratrice senza ricevere niente in
cambio. Non avrei mai più amato. Lei
sarebbe rimasta l’unica, quella giusta per me.
Lanciato un ultimo sguardo alla donna
che amavo, mi voltai e lasciai la stanza, chi-
udendomi la porta dietro le spalle. Quando
uscii fuori, nella notte, lasciai libero sfogo al
resto delle mie lacrime.
Amare chi non meriti non è semplice. Fa
un male cane. Ma non c’era un solo
momento passato con Blaire di cui mi sarei
mai pentito.
Ringraziamenti

Quando ho scritto Irraggiungibile, non mi


sarei mai immaginata che avrebbe dato
inizio a una serie di così grande successo.
Tornare indietro a rivisitare gli esordi della
storia di Rush e Blaire è stato un grande
piacere, e ce l’ho messa tutta per regalare ai
lettori nuove scene e momenti prima inediti.
Avere l’opportunità di entrare nella testa di
Rush è stato fantastico e spero di aver fatto
cosa gradita a tutte le sue ammiratrici.
Devo innanzitutto ringraziare la mia
agente, Jane Dystel, che definire eccezionale
sarebbe riduttivo. Firmare con lei è stata una
delle cose più intelligenti che abbia mai fatto
in tutta la mia vita. Grazie, Jane, per avermi
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aiutato a navigare le acque del mondo


dell’editoria. Sei proprio una tosta.
Grazie anche alla fantastica Jhanteigh
Kupihea. Non avrei potuto chiedere redat-
trice migliore. È sempre ottimista e si
impegna per trarre il massimo da ciò che
scrivo. Grazie, Jhanteigh, per aver reso così
gratificante la mia nuova vita con l’editore
Atria. Ovviamente non posso dimenticare il
resto del team: Judith Curr per aver dato una
chance a me e ai miei libri, Ariele Fredman e
Valerie Vennix per essere sempre riuscite a
individuare strategie di marketing valide
quanto loro stesse.
Un altro grazie agli amici che mi ascoltano
e mi capiscono come nessun altro sa fare:
Colleen Hoover, Jamie McGuire e Tammara
Webber. Voi tre mi avete prestato ascolto e
fornito sostegno più di chiunque altro cono-
sca. Grazie di tutto.
Trovavo fondamentale, in questo libro,
restituire il “giusto” ritratto di Rush, perciò
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avere due lettrici “beta” che lo adorassero e


che conoscessero bene il personaggio è stato
molto importante: Autumn Hull non ha mai
smesso di incoraggiarmi mentre portavo in
vita la sua storia e Natasha Tomic è l’ide-
atrice del riferimento alla “scena del burro di
arachidi”, motivo per cui mi sono sentita
come se conoscesse Rush bene quanto me.
Grazie, ragazze, per il vostro sostegno.
Sempre!

Dulcis in fundo: la mia famiglia. Senza il loro


appoggio, non sarei stata qui. Mio marito
Keith, sempre attento che io abbia il mio
caffè e che ai bambini non manchi nulla
quando ho bisogno di rinchiudermi e con-
centrarmi per rispettare una scadenza. I miei
tre ragazzi sono davvero comprensivi, anche
se, quando poi riemergo dalla mia tana di
scrittura, si aspettano il cento per cento della
mia attenzione, ottenendola, anche. Grazie ai
miei genitori, che non hanno mai smesso di
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sostenermi, nemmeno quando ho deciso di


scrivere cose un po’ piccanti. Agli amici, che
non mi odiano benché a volte la scrittura mi
imponga di trascurarli per settimane intere.
Sono il mio gruppo di sostegno per eccel-
lenza, a cui voglio un bene incredibile.
Grazie, infine, ai miei lettori: non mi sarei
mai aspettata di averne così tanti. Grazie per
aver scelto i miei libri, per averli apprezzati e
per aver parlato di loro con altre persone. C’è
poco da dire: senza di voi non sarei qui.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e
non può essere copiato, riprodotto, trasferito, dis-
tribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o
utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è
stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e
alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto
esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi
distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo
così come l’alterazione delle informazioni elettroniche
sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti
dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e
penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/
1941 e successive modifiche.
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Originally published by Atria Books, a division of Simon
& Schuster, Inc.
All rights reserved, including the right to reproduce this
book or portions thereof in any form whatsoever
© 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale: Rush too far
Ebook ISBN 9788852065545

COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER:


FRANCESCO BOTTI | FOTO © ASIA IMAGES/GETTY IMAGES
I ROMANZI DI ABBI GLINES NELLE
EDIZIONI MONDADORI
IRRAGGIUNGIBILE
Rush Finlay ha ventiquattro anni, è sexy e arrogante, e nes-
suno riesce a dirgli di no. Blaire Wynn ha solo diciannove
anni, è splendida, innocente e off limits: è figlia del nuovo
patrigno di Rush. Quando Blaire, alla morte della madre,
lascia la sua fattoria in Alabama e si trasferisce in Florida
dal padre che non vede ormai da anni, trova ad attenderla
solo Rush, il fratellastro fascinoso e inaffidabile, con cui
dovrà trascorrere l'estate. Blaire non è preparata a quel
mondo pieno di lusso e tentazioni, e soprattutto a quella
potente attrazione, impossibile da contenere, che la trascina
verso Rush... Perché la felicità sembra sempre così irraggi-
ungibile? >
IRRESISTIBILE
Cosa fai se non puoi fidarti di qualcuno, ma quel qualcuno ti
manca come l'aria? Un segreto terribile ha distrutto il
mondo di Blaire. Ma lei non riesce a smettere di amare
Rush, nonostante sappia che non potrà mai perdonarlo: le
ha nascosto un'oscura verità, e brucia ancora. L'unica pos-
sibilità di salvezza è ricominciare, tornare alla vecchia vita
nel suo rassicurante villaggio, a fianco del grande amico di
sempre, Cain, e guardare avanti. Eppure le strade di Blaire e
Rush tornano a scontrarsi e sfiorarsi, come prima, più di
prima. Lei cerca di nascondersi, di sottrarsi, di mentire, ma
sono i loro corpi e i loro cuori a dominare su tutto... perché
non si può resistere all'irresistibile. >
INDIMENTICABILE
Rush è ancora più follemente innamorato di Blaire, da
quando lei sta per diventare sua moglie e la madre di suo
figlio. E il loro desiderio si fa sempre più incontenibile. Ma
Nan, sorella di Rush e gelosissima di lui, sembra far di tutto
per accentrare l'attenzione su di sé ed escludere la sua
rivale. Blaire scopre, nel frattempo, un segreto a lungo
celato e si sente forse pronta a perdonare suo padre. In
questo momento della sua vita ha solo bisogno di famiglia,
sicurezza, amore. Ma diventare adulti affievolisce la pas-
sione o la fa divampare più forte di prima? E dirsi "per
sempre" basta a non perdersi? >

http://autori.librimondadori.it/abbi-glines
Indice

Il libro
L’autrice
Frontespizio
Insuperabile
Prologo
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
487/488
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
Ringraziamenti
I romanzi di Abbi Glines nelle edizioni Mondadori
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