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IL LIBRO

È il 1898 e Camille Brontee, sfuggita al grigiore di Liverpool e della sua


vita, sbarca a New York per andare incontro a un matrimonio combinato.
Peccato che il promesso sposo, il “bastardo americano”, come subito lo
soprannomina lei, non si presenti all’appuntamento. Per Miss Brontee inizia
così l’avventura nel Nuovo Mondo, dove tutto è possibile, dove persino una
donna può entrare a far parte di un universo tutto maschile come quello della
redazione di un giornale, il Daily, e vivere una travolgente storia d’amore.
Ma con chi? Con l’impacciato erede di un impero finanziario, Ken Benton,
che la rispetta e la venera come una vestale, o con l’arrogante Frank Raleigh,
spregiudicato editore del Daily, la cui sola vicinanza scatena in lei una guerra
continua tra il cuore e la mente? Dovrà attendere gli ultimi sgoccioli del XIX
secolo per scoprirlo...
Nel suo consueto stile brillante e arguto, Viviana Giorgi ci racconta
un’appassionata quanto tormentata storia d’amore. Sullo sfondo, tra realtà e
finzione: una New York moderna e vibrante, il mondo dell’editoria e della
finanza, i capricci della high society, i conflitti sociali e le prime
rivendicazioni femminili. Ma non solo. C’è un altro personaggio che sgomita
e spinge lungo tutto il romanzo per emergere: è il Novecento, il nuovo secolo,
con le sue promesse e le sue speranze. Per Camille, il secolo dell’amore.
L'AUTRICE
Ex giornalista, milanese, amante dei bassotti e dei gatti rossi, Viviana
Giorgi scrive per lo più commedie romantiche contemporanee, più speziate
che sfumate, con eroine decise, ma un po’ imbranate e non certo sofisticate,
ed eroi gloriosamente da sballo. Tra una romantic comedy e l’altra, ogni tanto
si lascia tentare anche dal lato più sorridente e vivace del romance storico,
suo primo indimenticato amore. Il lieto fine per Viviana Giorgi? Obbligatorio
e altamente glicemico, sia che la sua eroina vesta in jeans o in stile impero.
Perché, come ripete spesso: se si deve sognare, meglio farlo alla grande, no?
Un amore di fine secolo
Viviana Giorgi
Un amore di fine secolo
Viviana Giorgi

© Bookrepublic srl 2014


via degli Olivetani 12 – 20123 Milano, Italia
www.emmabooks.com – info@emmabooks.com

ISBN EPUB 9788868930042

Questo testo è diventato un ebook nel mese di maggio 2014

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Dedico questo romanzo al genere romance,
scoperto troppo tardi nella mia vita, fonte continua di sorrisi
e grandi sospiri, meglio di un Prozac, ma senza effetti collaterali.
E lo dedico anche alle amiche scrittrici
che hanno creduto in me molto prima di me:
Mariangela Camocardi, Maria Teresa Casella e Ornella Albanese.
1

10 ottobre 1898, New York


E ora, cosa faccio?
Seduta su una panchina in una fredda sala d’attesa, Camille Brontee
rifletteva mesta sul suo futuro. Non che fosse una sala d’attesa qualunque.
Era, per essere precisi, quella del Molo 60 del porto di New York, sul North
River, dove da qualche ora si pavoneggiava il Teutonic, grande e lussuoso
transatlantico della compagnia di navigazione White Star.
Camille non aveva viaggiato nel lusso della prima classe, eppure la sua
minuscola cabina di seconda le era parsa una porta magica aperta sul mondo
e sulla libertà.
Aveva lasciato l’Inghilterra per seguire il suo sogno di indipendenza; aveva
abbandonato una nazione che sembrava sorda alle sue ambizioni e una vita
piatta e insoddisfacente che avrebbe avuto il suo massimo momento di gloria
nel matrimonio con un pedante e volgare commerciante di cotone di New
Castle, tale Thompson, cui il suo patrigno l’aveva promessa.
Promessa? No, venduta.
E ora quel sogno, che in modo inevitabile aveva assunto i connotati di un
certo William Cartrite, sembrava essere svanito nel nulla di quel grande Paese
dove la gente parlava la sua stessa lingua ma in modo quasi incomprensibile.
*
Quando Mr Cartrite, uomo di bell’aspetto e dall’eloquio forbito, le aveva
dichiarato il suo amore e proposto di raggiungerlo in America, Camille aveva
accettato senza neppure dedicare alla questione un secondo ragionamento,
come troppo spesso faceva. Aveva rotto ogni legame con ciò che rimaneva
della sua famiglia, il patrigno e le sue due figlie, venduto ogni suo gioiello e
affrontato un viaggio per mare lungo e pericoloso che l’avrebbe alla fine
condotta a Boston. Lì, a sentire Cartrite, si sarebbero immediatamente sposati
e avrebbero vissuto felici in un elegante palazzo di Beacon Hill.
D’altronde, Camille era fatta così. Agiva d’istinto, lasciando al domani la
possibilità di valutare le conseguenze dei gesti compiuti oggi.
Tuttavia, durante quell’estenuante viaggio per mare, aveva avuto molto
tempo per riflettere e per rendersi conto di aver cambiato idea su Mr Cartrite.
Certo, sarebbe stato molto imbarazzante, ma una volta giunta a destinazione
lo avrebbe guardato dritto negli occhi, senza titubanze, e gli avrebbe detto che
non intendeva più sposarlo.
Invece di un marito, Camille era decisa a conquistare l’America.
Senza che un uomo si sentisse in diritto e in dovere di dirle cosa fare e
come farlo.
Aveva letto che nel Nuovo Mondo chiunque, anche una donna, poteva
avere una seconda opportunità. E Camille l’avrebbe colta, quell’opportunità.
E poi l’avrebbe coltivata amorevolmente con la fatica e il lavoro. Con la
determinazione che le era propria.
Ma una volta arrivata a Ellis Island, salutata la grande signora bianca che
dava il benvenuto ai poveri e ai ricchi che si riversavano nel Nuovo Mondo,
osservati con sgomento gli immigranti in coda per ottenere un visto, con le
loro poche cose chiuse in miseri fagotti, si era guardata attorno e non aveva
trovato nessuno ad attenderla.
Dannazione!
Non che ciò l’avesse spaventata.
Al contrario.
Le aveva semmai permesso di tirare un sospiro di sollievo ed evitare di
fornire una sgradevole spiegazione, se non delle scuse, a Mr Cartrite.
Ma era preoccupata, inutile nasconderlo. Perché il fatto che lui non fosse lì
ad accoglierla con la sorella, come aveva promesso nella sua ultima lettera, la
portava dritta dritta a fronteggiare altri tipi di difficoltà. Difficoltà concrete,
molto concrete, relative al dove e al come avrebbe passato i prossimi giorni e
le prossime notti con un borsellino quasi vuoto.
Furente con se stessa per aver creduto alle parole di un uomo con tanta
faciloneria, Ah, mai più in vita mia!, non sapendo cosa fare o dove andare, si
era mestamente afflosciata su una panchina della sala d’attesa, il visto
d’ingresso stretto in mano, in preda a un tale sconforto che alla fine si era
ritrovata a sperare di veder comparire all’improvviso Mr Cartrite.
Un paio d’ore più tardi, anche quella speranza si era spenta, e Cartrite
aveva ricevuto il titolo onorario di “bastardo americano”.
E ora, cosa faccio?
Seduta su una scomoda panca di legno in una triste sala d’attesa, una
valigia e un piccolo baule a testimoniare il suo passato, Camille cercava una
motivazione valida per non lasciarsi morire in quel posto gelido. Era così
afflitta che, da qualche parte in fondo al cuore, provò persino un moto di
nostalgia per le sue sorelle minori, sorellastre per la verità. Be’, avrebbe
scritto per informarle che andava tutto bene, non avrebbe certo dato loro la
soddisfazione di sapere che, a pochi minuti dallo sbarco, si trovava già in
guai seri. Quelle due! In fondo era anche stata colpa loro se si trovava in
quella spiacevole situazione. Colpa loro e della loro mania di trovarle a tutti i
costi un marito! Forse per liberarsi di lei? Se non avessero instillato nel loro
caro padre l’idea di darla in moglie a quel rospo di Thompson, avrebbe
potuto rimanere in Inghilterra e magari trovare il modo per lasciare Liverpool
e, chissà, stabilirsi un giorno a Londra.
Ma ora era troppo tardi. Era in America, dannazione: sola, disperata e con
una lunga fila di punti interrogativi davanti a sé.
Camille si strinse il capo tra le mani e con fare melodrammatico emise un
lungo sospiro.
Nei romanzi le eroine abbandonate si lasciano morire, perché io non
dovrei farlo?
Forse le acque del fiume Hudson sarebbero state più caritatevoli con lei di
quel… bastardo, traditore americano. Ma il fatto era che lei, di morire, non ne
aveva la minima voglia. E tra poco più di due mesi sarebbe stato Natale,
dannazione!, il Natale del 1898, il penultimo del secolo. E lei, il nuovo
secolo, aveva tutte le intenzioni di viverlo.
Dopo due ore d’attesa, una scintilla tornò ad accendere la speranza. Durante
il viaggio aveva stretto amicizia con i Campbell, un’anziana coppia di New
York che più di una volta l’aveva invitata a cenare in prima classe. La
signora, in particolare, si era raccomandata di andare a farle visita nel caso,
dopo le nozze con Cartrite, si fosse trovata a passare per New York.
Rivolgendo una silenziosa preghiera al cielo, Camille frugò nella reticella
che portava al polso sperando di ritrovare il biglietto da visita di Mr
Campbell. Con un sospiro di sollievo, quasi fosse il tagliando vincente di una
lotteria, lo toccò, lo strinse fra le dita, lo tirò fuori e infine lo guardò,
riconoscente.
18, Washington Square North.
Sentendosi più tranquilla, analizzò la situazione e decise il da farsi.
Avrebbe preso una carrozza sino a Washington Square e si sarebbe
presentata alla porta dei Campbell per chiedere aiuto. E poi, trovato un
impiego, si sarebbe sdebitata per la loro gentilezza.
Lavorando di fantasia su come in futuro avrebbe potuto dimostrare ai
Campbell la sua riconoscenza e a Mr Cartrite il suo disprezzo, si diresse
verso una grande finestra e sbirciò da lì New York, ma il suo sguardo non
andò oltre la fila di carrozze pubbliche in attesa.
Una carrozza era quanto le serviva.
Raddrizzò le spalle, alzò il mento e asciugò le lacrime che le bagnavano il
viso.
Da sola era arrivata in America. Da sola in America sarebbe sopravvissuta.
Si guardò attorno, alla ricerca di un facchino per il baule e la valigia. Vide
due uomini dall’altra parte della sala d’aspetto: dal modo in cui erano vestiti
dedusse che uno, il più anziano, dovesse essere un signore, l’altro, il più
giovane, con quella giacca sdrucita di pelle, senza cravatta e con quel buffo
cappello a tesa larga, un facchino.
Si alzò in piedi e ostentando sicurezza disse: «Scusate…»
I due uomini continuarono la loro conversazione.
«Signor facchino…» fece a voce più alta.
I due si girarono perplessi e a un suo cenno le si avvicinarono.
Il più anziano si tolse il cappello a cilindro, il più giovane si toccò appena
la falda in segno di saluto e disse: «Sì, Miss?»
Un modo troppo diretto e così poco britannico di rivolgersi a una signora.
Camille lo guardò con una certa insofferenza. E dal basso verso l’alto,
perché era almeno di una spanna più alto di lei. E aveva spalle tanto larghe da
sembrare eccessive persino per un… facchino.
Sostenendo il suo sguardo, di un blu più profondo dell’oceano, sollevò il
mento come una principessa offesa e disse: «Desidero che il mio bagaglio sia
caricato su una di quelle carrozze, potete farlo, buon uomo?»
Il buon uomo si esibì in un’espressione sorpresa, poi in un largo sorriso che
mostrò denti bianchissimi, due labbra tanto sensuali da apparire indecenti e
una deliziosa fossetta sul mento squadrato, ombreggiato di barba.
Come poteva un facchino avere un sorriso tanto sfacciato e seducente?
L’uomo più anziano bofonchiò qualcosa, in puro inglese dell’Oxfordshire.
Quello più giovane gli assestò una gomitata nel costato.
«Certo Miss, provvedo subito» rispose quest’ultimo, l’espressione del viso
di colpo sottomessa, caricandosi senza molta fatica il baule sulle spalle. Pur
celato dalla pesante giacca di pelle, quel movimento rivelò una notevole e
ben sviluppata massa di muscoli.
«Oh!» fu l’unico suono che uscì dalla bocca di Camille davanti a
quell’esibizione di forza virile, seguito da un silenzioso Oh! Oh! quando i
suoi pensieri raggiunsero lidi pericolosi.
Un rossore improvviso le si diffuse sul volto mentre quel moderno Atlante,
del tutto a suo agio sotto il peso del baule, si permetteva persino di rivolgerle
la parola e di squadrarla dall’alto al basso, e poi dal basso all’alto, con un
sorrisino sarcastico e irriverente sulle labbra.
«Così va bene, Miss?»
«Oh!» Questa volta l’Oh esprimeva un inconfondibile, aristocratico,
britannico sdegno.
L’uomo più anziano si prese carico della valigia.
«No, sir, non posso permetterlo» cercò di protestare Camille.
Ma il sir le rivolse uno sguardo altero. «Vi prego, signorina, permettetemi.»
Camille seguì i due uomini fuori dalla sala d’aspetto fino a una carrozza in
sosta. Che quella non fosse una carrozza pubblica le fu subito chiaro dalla
sofisticata eleganza che risplendeva in ogni particolare.
Dopo aver affidato il baule al cocchiere in attesa, il facchino le si avvicinò e
disse: «Il mio padrone, Mr Raleigh, è onorato di mettervi a disposizione la
sua carrozza, Miss. Quale indirizzo devo riferire?»
Camille cercò di evitare quello sguardo irridente, ma sorrise riconoscente
all’uomo più anziano. «18, Washington Square North.»
Un sorriso magnifico e pericoloso divampò sul viso di quello sfacciato, e il
cuore di Camille mancò un battito. No, due. Un uomo non aveva il diritto di
essere tanto attraente, che fosse un principe reale o un semplice… servitore,
non facchino. Imbarazzata, si girò verso Mr Raleigh e con un piccolo inchino
disse: «Grazie, signore, per il vostro aiuto».
L’uomo fece per protestare, ma un’altra gomitata lo raggiunse nel costato
sotto gli occhi sbigottiti di Camille. Sì, era esattamente come le avevano
detto. L’America era senza dubbio la patria della democrazia se un servitore
poteva permettersi un tale comportamento!
L’uomo più giovane, quello sfacciato, aprì lo sportello della carrozza,
abbassò il predellino e le porse la mano – priva di guanto! – per aiutarla a
salire, fissandola per giunta con il più malandrino dei sorrisi.
Ostentando una dignità offesa, Camille accettò l’aiuto di quell’insolente e
montò in carrozza. E quando questa si mosse, non poté fare a meno di
affacciarsi al finestrino per dargli un’ultima sbirciatina, credendo che lui se
ne fosse già andato.
Che ingenua! Lo sfacciato era ancora lì, e con un sorrisino divertito sulle
labbra, per giunta! Avvampando, cercò di nascondersi in fretta dietro alla
tendina per sottrarsi a quegli occhi blu che la fissavano golosi, quasi lei fosse
un bignè al cioccolato. L’impudente si portò persino la punta delle dita alle
labbra e, con un altro sorriso irresistibile, le mandò un bacio.
Oh!
Se quella era l’America, sarebbe tornata a casa subito.
O no?
2

13 ottobre, Washington Square, New York


«Miss Brontee, il vostro tè.»
Camille non aveva mai visto una donna con la pelle così nera. E tanto
felicemente grassa. Gloriosamente grassa.
Né aveva mai sentito una donna parlare in modo tanto buffo.
Aprì gli occhi. «Buongiorno, Sally.»
«Buongiorno, Missy. La padrona ha detto di prepararvi, che dovete andare
con lei a fare delle spese. E copritevi bene, oggi c’è un ventaccio.»
Tre giorni prima, quando era arrivata in Washington Square in cerca di
aiuto, Camille si era confidata con Mrs Campbell. Le aveva spiegato i motivi
per cui era fuggita dall’Inghilterra dopo la morte di sua madre e di come
avesse visto in William Cartrite un’ancora di salvezza. Aveva anche
ammesso di essere stata una sciocca ad accettare la sua proposta e, quando
Mrs Campbell si era offerta di farlo rintracciare, l’aveva pregata di non farlo:
in fondo era un bene che non si fosse presentato all’appuntamento, aveva
evitato a entrambi di commettere una grande sciocchezza. Gli avrebbe scritto
una lettera per dirgli il fatto suo e poi avrebbe chiuso in modo definitivo quel
capitolo della sua vita.
Ma ora, cosa avrebbe potuto fare per vivere?
Mrs Campbell, che aveva visto brillare in Camille la scintilla del coraggio e
dell’indipendenza, cosa che apprezzava in una giovane donna più delle buone
maniere e della bellezza, le aveva stretto la mano nella sua con gentilezza e le
aveva detto: «Per il momento aspetterai il Natale con noi, poi troveremo una
soluzione ai tuoi problemi».
«Lavorerò» aveva ribattuto Camille, alquanto determinata.
Mrs Campbell l’aveva guardata senza celare l’approvazione. «Vedremo,
ragazza mia, vedremo. Certo che è stata un gran fortuna che tu abbia
incontrato il nostro amico Raleigh al porto. Dimmi, che impressione ti ha
fatto?»
«Mi è parso un signore molto distinto, generoso e discreto, con un forte
accento dell’Oxfordshire, cosa che mi ha sorpreso non poco. Gli invierò un
biglietto per ringraziarlo della sua cortesia e poi troverò il modo di sdebitarmi
anche con lui.»
Mrs Campbell aveva sollevato un sopracciglio.
Quella sera, e poi quella notte, e la notte successiva, e quella dopo ancora,
Camille non aveva certo pensato a William Cartrite (se non per qualche
istante e con intenti omicidi) e neppure a come sarebbe sopravvissuta in
quella strana e lontana terra chiamata America. Perché ogni qualvolta cercava
di concentrarsi sul suo futuro, il ricordo di un paio di occhi tanto blu da
sembrare quasi neri la induceva a fantasie inconfessabili. Per non dire di quel
sorriso, ironico e irriverente, e di quelle labbra che se si fossero posate sulle
sue non solo non le avrebbe respinte, ma le avrebbe incoraggiate a esplorare
ogni angolo del suo corpo.
Che innocente non sarebbe più stato.
Una situazione assurda, sconveniente, deplorevole.
Per quale arcana ragione le sue preoccupazioni si scioglievano come neve
al sole al solo pensiero di quel signor nessuno?
Che fosse tutta colpa della democrazia?
*
Quella mattina, la terza dal suo arrivo a New York, volò via in un attimo,
tra i negozi della Quinta Avenue e da Macy’s, i famosi grandi magazzini che
a Camille parvero a dir poco stupefacenti. Così come i palazzi, le vie
lunghissime e ampie, piene di traffico e affollate di gente. Le giovani donne
di New York, poi, camminavano per strada a testa alta e sembravano…
diverse, indaffarate e sicure. Indipendenti.
Sarebbe mai riuscita a diventare una di loro?
Era partita da Liverpool con la prospettiva di sposare Cartrite – il bastardo
americano – e di avere magari dei figli. Ora, dopo soli tre giorni nel nuovo
continente, voleva molto di più. Voleva una vita. Migliore, più intensa ed
emozionante. Voleva presentarsi al mondo a testa alta.
Piacere, mondo, mi chiamo Camille Brontee e sono…
Già, chi era Camille Brontee? Solo una povera immigrata che presto
avrebbe dovuto trovare un modo per sopravvivere.
Guardò Agnes Campbell che le sedeva accanto in carrozza. Avrebbe voluto
abbracciarla per quanto stava facendo per lei. Per il suo affetto, per la fiducia,
per la sua infinita pazienza. E perché la ospitava in quella splendida casa,
elegante e discreta, con quel piccolo, delizioso giardino sul retro. Con la luce
elettrica e il… telefono.
Che meravigliosa invenzione il telefono!
Ogni volta che l’apparecchio dei Campbell trillava, Camille trasaliva per la
sorpresa e la gioia. Mr Campbell le aveva spiegato che attraverso la
compagnia telefonica avrebbero potuto senza difficoltà rintracciare William
Cartrite, se lei avesse voluto.
Davvero?
Che diabolica novità il telefono!
E poi, non era curioso che il suo inventore si chiamasse proprio Bell,
campanello? Non che ciò lo rendesse più simpatico a Mr Campbell, che, a
dirla tutta, considerava Alexander Graham Bell uno squalo (aveva usato
esattamente quella parola).
«Uno squalo?» gli aveva chiesto Camille, sorpresa.
«Come definireste un uomo che soffia da sotto il naso brevetto, gloria e
guadagni al vero inventore? La scoperta è dell’italiano Meucci, non sua! Ma
sarà Bell a intascarsi una montagna di quattrini, mia cara, perché ho
l’impressione che nessuno riuscirà più a fare a meno di questo diabolico
aggeggio.»
Di certo, pensava Camille ogni volta che transitava davanti al telefono di
casa Cambell, anche Mr Raleigh doveva possederne uno, magari pure due. E,
forse, era proprio quel suo servitore così inusuale a rispondere alle telefonate:
chissà se la voce di quello sfacciato le sarebbe parsa tanto vellutata e
seducente anche attraverso un filo?
*
Rientrando dalla loro mattinata di compere, le due donne trovarono Mr
Campbell ad attenderle.
«Signore, vedo che la vostra passeggiata si è rivelata alquanto produttiva»
disse ironico, studiando l’indecoroso numero di scatole di ogni forma e
dimensione in bilico sulle braccia di due valletti.
Mrs Campbell sorrise e lo baciò con un affetto che commosse Camille. Per
quanto fossero avanti negli anni, il loro amore profumava di fresco come
quello di due sposini.
«Non produttiva quanto avrei sperato, marito mio» rispose Agnes con un
sospiro.
L’uomo rivolse un’occhiata significativa alla pila degli acquisti, scosse la
testa e si rivolse con cortesia alla loro ospite.
«E voi, Miss Brontee, cosa pensate della nostra città? Sempre che mia
moglie vi abbia permesso di vedere altro, oltre alle vetrine delle modiste.»
Camille gli rivolse un gran sorriso. «Oh, Mr Cambell, sono rimasta senza
fiato. È una città meravigliosa, eccitante. Così moderna e viva.»
«Già, ma che vento stamane! Ho rischiato di perdere il mio nuovo
cappellino.»
«Definirlo cappellino, mia cara, è decisamente riduttivo. È un miracolo che
tu riesca a passare dalle porte con quell’affare in testa!»
Mrs Campbell fissò il marito con aria di sfida, ottenendo in cambio un altro
sorriso.
«In ogni caso, belle signore» riprese Mr Campbell, «spero vi faccia piacere
sapere che questa sera saremo ospiti di Mr Raleigh al Metropolitan, per la
prima di… Possibile che le opere abbiano tutte degli impronunciabili titoli
italiani?»
«Oh, Mr Campbell, vuoi forse dire Traviata?»
«Moglie mia, se non avessi te… farei volentieri a meno di andare all’Opera
e passerei la serata al circolo! Ma farò un’eccezione in onore di Miss
Brontee…» concluse inchinandosi in modo galante alla giovane donna.
Camille lo guardò stupefatta. «Perdonatemi, signore, non capisco.»
«Anche voi fareste forse volentieri a meno di questa… Tra-eccetera, Miss
Brontee?»
«Tra-viata, amor mio» puntualizzò sua moglie.
Camille era stupita e un poco imbarazzata. «No, io… Mr Raleigh ha forse
invitato anche me?»
Il cuore di Camille batteva forte. All’Opera! Quante volte aveva sognato di
andarci? Guardò interrogativa i suoi anfitrioni.
«Sei nostra ospite, no?» disse Mrs Campbell come se non ci fosse altro da
aggiungere.
«E finiremo la serata da Del Monico. Fosse per me ci andrei direttamente,
saltando la prima parte del programma. Una buona bistecca e del buon vino è
quanto ci vuole con questo vento. Vedrete, prima o poi vi abituerete al vento
di New York, Miss Brontee.»
Camille guardò preoccupata Mrs Campbell, ma non certo a causa del vento.
«Del Monico?» chiese con occhi grandi di sorpresa.
«È il ristorante più alla moda di New York, non è facile trovare posto, ma
non per Frank Raleigh...» spiegò Mrs Campbell alzando in modo
significativo un sopracciglio.
«Ricordatevi di prendere la bistecca, ragazza mia» l’ammonì Mr Campbell.
«Giuseppe Verdi...» riuscì soltanto a dire Camille.
«Chi è questo Giuseppe Verdi?»
Guardando il marito con commiserazione, Mrs Campbell prese sotto
braccio la giovane amica, le intimò di andare in camera sua a riposarsi, poi
chiamò a gran voce: «Marie! Mr Broley!»
I due domestici si materializzarono subito alle sue spalle.
***
Agnes Campbell diede le istruzioni necessarie, poi raggiunse il marito che,
come ogni giorno prima di pranzo, si era chiuso in biblioteca con una copia
del Daily. Senza dire una parola, si sedette di fronte a lui in attesa che si
accorgesse della sua presenza. Ci avrebbe messo come sempre cinque
secondi a farlo, in fondo era un uomo alquanto abitudinario.
Cinque, quattro, tre, due, uno…
«Mia cara, a cosa devo il piacere della tua compagnia?» disse Mr Campbell
abbassando il giornale quanto bastava per guardare la moglie.
«Volevo chiederti… Non ti dispiace se Camille rimarrà un po’ con noi,
vero?»
«Dispiacermi? Al contrario, ne sono felice. È una giovane non solo bella ed
educata, ma anche molto sveglia e intelligente. Un po’ di gioventù in casa
non può che farci bene e, inoltre, sono convinto che ti faccia piacere avere
una complice per le tue razzie ai negozi.» Detto ciò, con un sorriso si
reimmerse nella lettura.
«La tua approvazione mi rallegra, perché, in effetti, come complice si è
rivelata preziosa questa mattina. Mi ha dato ottimi consigli.»
Timothy reputò ogni risposta inutile e il giornale non si spostò di un
millimetro.
Agnes non si diede per sconfitta.
«Ho l’impressione che l’invito al Metropolitan di quel furfante di Frank
non sia casuale. Lo sapevi che il giorno dell’arrivo di Camille lui e la nostra
ospite si sono incontrati al porto?»
Mr Campbell le diede un’altra sbirciatina, aggrottando in modo
interrogativo la fronte. «E…»
«Ecco… non vorrei che il nostro amico Frank pensasse a Camille in un
certo modo, non so se mi spiego» rispose Agnes agitandosi sulla poltrona,
come faceva sempre quando era inquieta. «Quella poverina ha già sofferto
così tanto! Anche se, a dirla tutta, non mi è parsa troppo afflitta per
l’appuntamento mancato con Mr. Cartrite. Certo, ora si trova lontana da casa,
sola e senza denaro. Un bel guaio davvero, ma ciononostante, credo che il
peggio sia passato.»
Mr Campbell depose il giornale e, fissando la moglie con interesse, disse:
«Per fortuna ha avuto il buonsenso di venire a cercarci. Ciò che ancora non
capisco è perché abbia lasciato l’Inghilterra in modo tanto precipitoso e poco
sensato».
Mrs Campbell scosse il capo e sospirò. «Dopo la morte della madre, un
paio di anni fa, si è trovata a vivere con il patrigno e le sue due figlie.»
«Non mi sembra un dramma, in tutta onestà.»
Agnes rifilò un’occhiataccia al marito, poi riprese il suo racconto. «Questo
tale, questo Williamson, sposato dalla madre di Camille in seconde nozze, era
un uomo troppo autoritario e severo perché Camille potesse andarci
d’accordo. Il classico tipo inflessibile, sai, dalle vedute alquanto ristrette.»
«E questo te l’ha detto Camille?»
«No di certo, lei non l’avrebbe mai fatto! L’ho dedotto io dai suoi
racconti.»
«E cos’altro hai dedotto, mia cara?»
«Che la poverina non è mai stata felice in quella famiglia, forse anche a
causa dell’invidia delle due sorellastre, di certo meno belle e meno
intelligenti di lei.»
«Un’altra deduzione, mia cara?»
Agnes gli puntò un dito contro. «Pensa quello che vuoi, ma sappi che
Camille era disposta persino a lavorare pur di non rimanere ancora sotto quel
tetto!»
Mr Campbell sorrise. «Dal tuo racconto, pare proprio che la storia di Miss
Brontee riecheggi quella di Cenerentola. Nonostante il Principe Azzurro non
sia ancora comparso in scena, ho già un’idea precisa sull’identità della fatina
buona…»
«Di che stai parlando, Timothy? Fiabe, fate… Ti sei fatto forse un goccetto
stamattina?»
«Non ancora, ma forse tra un po’ ne sentirò il bisogno. Continua a
raccontare, ti prego.»
«Dopo la morte della madre, il patrigno, volendosi forse liberare di lei, la
promise in sposa a un suo socio in affari, un tipo di mezza età che Camille
detestava. Dopo un anno e mezzo di rinvii e di scuse, era ormai condannata a
quel matrimonio infelice.»
«Ma non rassegnata, a quanto pare. Perché qui entra in scena quel Cartrite,
l’uomo misterioso che Camille avrebbe sposato se si fosse presentato
all’appuntamento, vero, mia cara?»
Agnes fece un cenno con la mano, come a voler cancellare Mr Cartrite
dalla faccia della terra. «Quel maiale! Che vigliacco a lasciarla così, senza
neppure un biglietto d’addio, dopo che Camille aveva abbandonato ogni cosa
e attraversato l’oceano per lui!»
Mr Campbell alzò le spalle con filosofica rassegnazione. «Non tutti i mali
vengono per nuocere, mia cara. Non è ciò che ripeti sempre?»
«Parole sante, marito mio, parole sante.»
Mr Campbell scosse la testa, sorrise e si rituffò tra le pagine del Daily.
***
All’Opera? Sarebbe andata all’Opera! Quante volte, nei suoi venticinque
anni di vita, Camille aveva sognato di poter sedersi in un palco e assistere a
un melodramma? E quella sera, fra tutte le opere, avrebbe visto proprio la sua
preferita: Traviata! Si mise a volteggiare, felice e spensierata, eccitata come
mai in vita sua. Era vero, allora, che in America i sogni diventavano realtà!
Volteggiò sino a quando l’orribile consapevolezza di non avere un abito
adatto all’occasione le smorzò ogni entusiasmo. Non poteva certo permettersi
di spendere i pochi denari che le erano rimasti per un fatuo, inutile, bellissimo
abito da sera.
No. Non sarebbe andata all’Opera.
Camminò su e giù per la stanza, ma, pur sforzando le meningi, non le venne
nessuna brillante idea su dove avrebbe potuto trovare un abito da sera. Certo
non nel guardaroba di Mrs Campbell, che era una spanna più bassa di lei e
almeno un’altra più larga di lei.
Si sedette alla piccola scrivania cercando di aggrapparsi alla ragione:
nessuno la obbligava ad andare all’Opera proprio quella sera, avrebbe avuto
sicuramente un’altra occasione.
Con un sospiro rassegnato guardò fuori dalla finestra: gli alberi di
Washington Park erano un inno all’autunno, le foglie un trionfo di colori che
riscaldava il cuore. Di fronte all’Arco, due donne camminavano a passo
veloce, le gonne attaccate alle gambe a causa del vento forte. Un distinto
signore inseguiva il cappello che una folata gli aveva strappato dal capo.
Scene di una città che già amava.
Invece di pensare all’Opera, avrebbe fatto meglio a ringraziare il cielo per
la generosità dei Campbell e concentrarsi sul suo futuro.
Una lista, ci voleva una lista. Prese foglio e penna e vi scrisse in alto
PRIORITÀ, che certo non prevedevano un abito da sera.
Cercare un lavoro.
Scrivere alle mie sorelle sorellastre.
La lista, una delle tante che era solita compilare, si fermò al punto due
perché in quel momento Mrs Campbell fece irruzione nella sua stanza,
seguita da Marie e da un valletto carico di pacchi.
Camille, che non era sciocca, comprese subito cosa contenessero quelle
meravigliose confezioni rosa. E cercò di protestare, di dire che non voleva,
che non poteva. Ma con due avversarie come Mrs Campbell e Marie la sua
battaglia fu persa in uno schiocco di dita, e senza molto rammarico. Dalle
confezioni uscì come dal cappello di un prestigiatore un meraviglioso abito
da sera. Rosso come un fuoco di seta.
Credendosi Cenerentola, Camille sorrise e chiese: «Mrs Campbell, dove
nascondete la bacchetta magica?»
«Com’è che tutti oggi mi parlano di fate?»
Schioccando un bacio sulla fronte della sua giovane amica, Agnes
Campbell sperò di essere davvero una fatina buona e pensò con una punta di
malizia a Frank Raleigh.
3

13 ottobre, The Metropolitan House, Broadway


Quando quella sera Frank Raleigh vide Camille Brontee entrare nel palco al
seguito dei Campbell, si sentì stordito, come quella volta da ragazzino,
quando Henry Jones lo aveva colpito con un cazzotto al mento. Stordito e
perso, non tanto dalla bellezza della giovane donna alla quale ormai non
poteva più fare a meno di pensare, ma dal potere del destino.
Frank Raleigh era solito affidare le sue decisioni all’istinto e alla ragione in
egual misura, e a perseguirle con tenacia. Eppure, in quella particolare
circostanza, le sue emozioni avevano avuto di certo la meglio sulla
razionalità. Un solo giorno… no, meno. Una decina di minuti in compagnia
di lei era stata sufficiente a convincerlo che quell’incontro era stato voluto dal
destino. Quando poi aveva saputo che Miss Brontee sarebbe stata ospite dei
suoi amici e vicini di casa Timothy e Agnes Campbell, be’, la cosa gli era
apparsa addirittura un segno dal cielo.
Non appena quella sera la rivide, il suo convincimento raggiunse livelli di
preoccupante e testarda sconsideratezza.
Se durante il loro primo incontro a colpirlo erano stati il coraggio e la
determinazione della giovane, quella sera ebbero notevole influenza anche
l’abito di satin carminio che metteva in splendida mostra il corpo slanciato e
femminile, i morbidi, lucenti capelli castani che le ricadevano in onde
delicate sulla fronte e sulla nuca, i grandi occhi appena allungati, di un caldo
color nocciola e infine le labbra piene e ben disegnate, capaci con un sorriso
di riscaldare il cuore di un uomo per tutta la vita.
Un solo sguardo a Miss Brontee, e Mr Raleigh si ritrovò a scivolare col
cuore in subbuglio lungo il periglioso baratro di un desiderio che non era solo
fisico e che con prepotenza chiedeva di essere soddisfatto.
Terrorizzato dal tenore dei suoi pensieri e dalla morsa che gli serrava la
gola, si chinò a sfiorare con labbra tremanti la mano guantata di
un’esterrefatta Camille, senza mai staccare gli occhi dai suoi.
***
Non che il cuore di Camille battesse con meno insistenza. Al contrario.
Batteva con tanto fragore contro il petto da non permetterle quasi di sentire la
voce di Mr Campbell.
«Miss Brontee, ho il piacere di presentarvi il nostro amico e vicino di casa,
nonché pessimo giocatore di carte, Frank Raleigh. Ma forse voi già vi
conoscete?»
Il servitore di Mr Raleigh è Mr Raleigh? Oh cielo! Certo che ci
conosciamo, pensò Camille, mentre il suo volto andava in fiamme e le sue
pupille si dilatavano per lo stupore.
Come si era permesso di farsi beffe di lei, quell’impostore? Di una donna
sola e sperduta nel Nuovo Mondo? La sua mente continuava a rimuginare
con fare melodrammatico. Cosa che non le impedì di lasciarsi baciare la
mano una seconda volta dall’impostore e di esprimere la propria sorpresa con
un «Oh!» e uno strano balzo all’indietro, che prima suscitò in Mr Raleigh un
palese divertimento e poi rese necessarie delle spiegazioni.
«Davvero avevi scambiato Ralph per Raleigh e viceversa?» chiese Agnes a
Camille, scoppiando a ridere dopo aver ascoltato tutta la storia dalla voce
dell’amico. «Ora capisco perché lo hai descritto come un anziano
aristocratico dell’Oxfordshire!»
A quella notizia, Raleigh scoppiò in una fragorosa risata.
Camille prima lo fulminò con lo sguardo, poi, suo malgrado, cominciò a
ridere anche lei.
«A onor del vero, Agnes, un po’ di colpa ce l’ho anch’io. Non solo il mio
abbigliamento non era… formale, ma devo anche ammettere di essermi
divertito a confondere Miss Brontee» aggiunse Raleigh.
Mentre Agnes e suo marito ancora ridevano dell’accaduto, Raleigh si
avvicinò a Camille e le catturò di nuovo la mano, tenendogliela stretta come
se non volesse più lasciargliela.
«Siete stato oltremodo sleale, Mr Raleigh!» bisbigliò lei, cercando senza
successo di riprendersi la mano e di distogliere lo sguardo da quegli occhi blu
che le sorridevano in modo troppo sfacciato.
«Saprò farmi perdonare, Miss Brontee, vedrete» le sussurrò lui, il tono di
voce morbido come una carezza.
Lei socchiuse gli occhi e scosse la testa, quasi con quel semplice gesto
volesse negare il piccolo terremoto che quell’uomo stava scatenandole
dentro. Poi, fingendosi in collera e riuscendo con un piccolo sforzo a tornare
padrona della propria mano, replicò: «Non vi perdonerò mai per avermi fatto
fare la figura della sciocca, Mr Raleigh!»
«È stato molto divertente, in effetti…» sussurrò lui, sporgendosi verso di lei
come volesse rivelarle un segreto.
Camille si portò il ventaglio davanti al viso, cercando di reprimere un
risolino, o quantomeno di nasconderlo. Poi, sporgendosi a sua volta verso di
lui e chiudendo di scatto il ventaglio, bisbigliò: «Anche il vostro
maggiordomo deve aver pensato che sono una sciocca».
«Ralph? Lui non pensa, a meno che non gli venga ordinato di farlo»
sghignazzò. «È davvero un vostro connazionale, sapete?»
«Ah! L’avete detto con uno certo compiacimento, Mr Raleigh…» lo
ammonì lei pur continuando a sorridere.
«Questa è una nazione libera, Miss Brontee, possiamo ironizzare persino
sui maggiordomi di Sua Maestà...»
Lei gli rivolse un’occhiata divertita, poi le luci si spensero e il buio mise
fine alla conversazione.
Mrs Campbell, con espressione gongolante, si sedette di fianco a Camille, a
dire il vero molto più interessata al battibecco che aveva appena seguito che
non allo spettacolo che stava per andare in scena.
*
Da anni Camille desiderava andare all’Opera e ora, mentre sedeva in un
elegante palco di proscenio al Metropolitan Opera House a New York, di
Violetta e Armando non le importava più nulla; e neppure della musica di
Verdi, né di Sofia Scalchi, soprano tra i più famosi al mondo che
gorgheggiava sul palcoscenico.
Per la verità, l’unica cosa a cui riusciva a pensare era lui. A Mr Frank
Raleigh, che solo tre giorni prima aveva scambiato per un facchino e poi per
un servitore, e che aveva etichettato con l’epiteto di insolente. Anche se, a
ben pensarci, la sfrontata era lei, visto che non faceva altro che domandarsi
come sarebbe stato essere stretta dalle sue braccia e baciata da quelle labbra
che non riusciva a togliersi dalla mente… E l’elenco dei quesiti non si
fermava lì.
Perché se al loro primo incontro lui si era fatto beffe di lei, quella sera
l’aveva fatta sentire una regina. Dopo la loro conversazione in punta di
fioretto, il suo sguardo non aveva mai cessato di accarezzarla, le sue parole di
rivolgerle promesse segrete, e le sue labbra… oh, alle sue labbra era bastato
sorridere perché lei si sentisse inondata di baci.
Non che lei si fosse sottratta a quel dolce corteggiamento. Gli aveva
restituito ogni bacio, ogni promessa e ogni carezza con piccoli cenni del
capo, con il movimento improvviso delle ciglia, con lievi tremiti del corpo,
con il piegarsi delle labbra in un sorriso o in una muta richiesta, con un
improvviso rossore del viso. Camille Brontee era una giovane donna
impulsiva, ma mai, quanto quella sera, aveva tratto piacere nel giocare col
fuoco.
E ora era sulle spine.
Eccitata come mai in vita sua.
Seduto alle sue spalle, lui l’avvolgeva in modo possessivo con il suo calore,
mentre i suoi occhi indugiavano su di lei lasciandole una scia bollente sulla
nuca, sul collo, sulle spalle, lungo la schiena, sin nel profondo della
scollatura. Si sentiva nuda sotto quegli occhi e, a dirla tutta, non le spiaceva.
Pur senza vederli, sentiva la loro carezza indiscreta sulla pelle.
L’istinto la portò quasi ad alzarsi, a sottrarsi a quello sguardo, ma se fosse
fuggita era certa che lui l’avrebbe seguita. E poi?
Sul palcoscenico Alfredo alzò un bicchiere. Libiamo nei lieti calici, intonò.
Anche Alfredo stava invitandola ad agire in modo scandaloso?
E se fosse diventata anche lei una donna di facili costumi?
Camille guardò di sottecchi i signori Campbell e la musica esplose nel
famoso brindisi. Intorno a lei, il pubblico tratteneva il respiro, emozionato e
rapito.
Un brivido anticipatore le attraversò le viscere.
***
Frank Raleigh sedeva alle spalle di Camille e, come ipnotizzato, faceva
correre con lentezza gli occhi su quanto la sua vantaggiosa posizione gli
offriva. Capelli di seta, una nuca da accarezzare, spalle tonde e perfette, una
schiena elegante e sinuosa avvolta in un abito che, nella sua mente, Camille
avrebbe dovuto indossare solo per lui e poi togliersi, solo per lui. Ma era sul
collo di Camille che il desiderio di Frank Raleigh si era soffermato durante il
primo atto di Traviata: così delicato e bianco, un’irresistibile tentazione per le
sue labbra.
Il valzer finì, l’atto finì, il sipario si chiuse. E, per una frazione di secondo,
il teatro fu avvolto da un buio morbido come il velluto. Fu in quel momento
di totale, invitante oscurità, che Frank Raleigh agì con l’istinto aggressivo del
predatore che era. Calò le labbra sul collo di Camille e ne assaporò senza
delicatezza la morbidezza e il profumo, lasciandole un segno rosso e umido
di desiderio sulla pelle.
Nel buio del teatro risuonò un esterrefatto e alquanto sgomento «Oh!»
E quando dai globi di cristallo la luce riapparve tremula a illuminare la
grande platea, Frank Raleigh sorrise fra sé, soddisfatto del suo gesto
sconsiderato e poco signorile. Perché, nell’espressione di Camille, che ora lo
fronteggiava rossa in viso, furiosa e intimorita, aveva percepito la luce
inconfondibile del piacere.
«Non osate mai più fare una cosa del genere» sibilò lei a labbra strette,
mentre con la stola di seta tentava di celare il marchio che le labbra di
Raleigh le avevano impresso sulla pelle.
«Al contrario, oserò ancora» sussurrò lui, piegandosi appena appena verso
di lei mentre applaudendo fingeva entusiasmo per gli artisti. «E non
immaginate neppure quanto vi piacerà.»
Oh!
*
La serata si concluse nel modo più appropriato da Del Monico.
Appropriato…
A non tener conto di come, tra un boccone e l’altro, tra un racconto e una
risata, Frank Raleigh non riuscisse a staccare gli occhi da Camille. Quasi sul
volto e sul corpo di lei avesse voluto cercare una ragione per il suo malessere,
per quella dannata sensazione di inadeguatezza che provava quando le
sorrideva, per il timore inusuale di sbagliare una parola o un gesto. Così
come, poco prima, aveva sbagliato a baciarla sul collo in quel modo folle e
piratesco.
A baciarla?
Era stato forse un bacio quello? No. Era stata pura follia, tanto intima e
imperdonabile che più tardi, seduto nel suo studio, un bicchiere ormai vuoto
in mano, Frank Raleigh continuava a porsi lo stesso interrogativo. E a non
darsi risposta.
Cosa diavolo mi è successo stasera?
Con la sua aria da cerbiatto impaurito, Miss Bronte era una preda troppo
facile per un cacciatore esperto come lui. Ma anche una terribile tentazione.
Da cui tenersi alla larga.
Ora non gli restava che riparare al suo comportamento, farsi coraggio e
chiederle scusa. E poi... sfuggirle come la peste ed evitare che i loro sguardi
rimanessero incatenati per più di un istante.
Che follia avrebbe mai potuto compiere, si chiese versandosi un altro
whiskey, se ancora una volta in fondo a quei bellissimi occhi color nocciola
avesse scorto lo stesso pericoloso ardore che infiammava i suoi?
4

16 ottobre, Washington Square


Un tardo pomeriggio di qualche giorno dopo, Frank Raleigh si fece
coraggio e attraversò Washington Square, coprendo in un paio di minuti la
distanza che separava la sua residenza da quella dei Campbell.
Contravvenendo alle sue abitudini, che non prevedevano alcun tipo di routine
quotidiana, sempre alla stessa ora rifece lo stesso percorso nei giorni
successivi, rifiutando con decisione l’invito a cena che gli veniva rivolto con
puntualità. Si fermava invece con le signore a conversare per una mezz’ora e
poi a bere un bicchiere di porto con Mr Campbell.
Durante quelle visite Raleigh si comportava in modo a dir poco singolare,
dedicandosi non tanto al corteggiamento di Miss Brontee, quanto alla lettura
del Daily, il quotidiano di sua proprietà.
Tutto era iniziato per caso quel primo pomeriggio, quando si era recato al
18 di Washington Square con l’intenzione di scusarsi con Camille e forse con
la segreta speranza di poter continuare quanto, in modo tanto sfacciato, aveva
iniziato in quel palco del Metropolitan.
Con suo grande disappunto, però, aveva trovato Miss Brontee in compagnia
di Agnes Campbell intenta a commentare con esplosiva ironia la rubrica
Donne nel nuovo secolo tenuta sul suo giornale da Miss Lilith, al secolo tale
Charles Furley. Erano soprattutto le risposte di Miss Lilith ai quesiti delle
lettrici a suscitare l’ilarità di Camille.
«Ma questa Miss Lilith in che mondo vive?» gli aveva chiesto a bruciapelo,
guardandolo con occhi fiammeggianti, facendolo quasi vergognare di aver
pubblicato tali scempiaggini.
Lui non aveva risposto.
«Non ha mai sentito parlare di emancipazione femminile? Non ha mai letto
John Stuart Mill? Come potete permettere, Mr Raleigh, che le vostre lettrici
vengano trattate con tale irritante condiscendenza e presunzione da una
donnicciola arrogante? O forse… da un uomo?» aveva aggiunto lanciandogli
uno sguardo divertito.
Sulle prime Raleigh se l’era presa, tanto da non riuscire a trovare una
risposta abbastanza tagliente da far abbassare la cresta a quel diavolo di
ragazza. Tuttavia, prima con irritazione quindi con curiosità crescente, era
rimasto ad ascoltare le opinioni delle due signore. Presto aveva compreso non
solo che Miss Brontee aveva ragione, ma anche che era dotata di un acuto
spirito d’osservazione, di idee innovative e di una devastante ironia.
Tanto che una domanda gli sorse spontanea: una donna non sarebbe forse
stata molto più adatta di un vecchio giornalista mezzo alcolizzato a scrivere
per il pubblico femminile?
***
20 ottobre, Washington Square
Quel pomeriggio i Campbell avevano un impegno irrinunciabile, almeno
secondo Agnes, così si erano recati al loro appuntamento lasciando per la
prima volta Camille da sola in casa da quando era arrivata a New York.
Lei li aveva accompagnati alla porta dicendo loro che avrebbe passato il
pomeriggio e la serata in biblioteca davanti al camino, con una tazza di tè e
un libro.
Mentiva, naturalmente.
Perché già sapeva che quell’uomo, quell’irritante uomo di nome Frank
Raleigh, alle sei del pomeriggio in punto si sarebbe presentato alla porta
senza invito, con in mano una copia del Daily e in tasca una penna e quel suo
dannato taccuino su cui prendeva incessantemente appunti.
Stanca del Raleigh gentleman, annoiata dalla sua seriosa rispettabilità,
Camille anelava di ritrovare l’uomo che l’aveva sorpresa, emozionata,
eccitata con la sua passione, l’uomo che l’aveva baciata a tradimento sul
collo lasciandole un segno che ancora scottava. L’uomo dai profondi occhi
blu e dal sorriso devastante cui pensava di continuo e poco castamente. Per
riaverlo, quel pomeriggio era pronta a tutto, anche a strappargli quell’odioso
taccuino dalle mani e a gettarlo nel fuoco.
Davanti allo specchio sciolse i capelli castani e scosse la frangetta che le
incorniciava lo sguardo. Si pizzicò le guance per renderle più rosee e,
spiandosi di sottecchi, provò alcune espressioni tra innocenza e sensualità che
l’avrebbero aiutata a far scordare a Mr Raleigh il suo noioso giornale. Batté le
lunghe ciglia, poi con civetteria le abbassò in un atteggiamento virginale e
remissivo, non privo di malizia. Si leccò impercettibilmente il labbro
superiore e si esibì in un sorriso imbronciato che, in teoria, avrebbe dovuto
piegare al suo volere ogni uomo dotato di legittimi desideri maschili.
Indossò quindi il suo abito bluette che, pur nella sua estrema semplicità,
metteva in risalto tutti i particolari che sarebbero serviti a riportare Mr
Raleigh sulla buona strada. O meglio, sulla cattiva strada. Particolari che lui
non avrebbe potuto evitare di notare. Come la vita sottile, il seno ben
proporzionato che occhieggiava dalla scollatura profonda, i fianchi stretti ma
ben disegnati e il derrière armonioso che il taglio sapiente della gonna
sottolineava a puntino.
Anche la sua altezza, sebbene di poco superiore alla media, si sarebbe
rivelata una qualità particolarmente vantaggiosa quando fosse venuto il
momento di farsi baciare da Raleigh. O di baciarlo.
Sì, con un piccolo aiuto quel pomeriggio Frank Raleigh sarebbe ritornato a
seguire la sua più intima natura, a essere il libertino che in fondo era. Lei non
doveva far altro che provocarlo. E poi respingerlo, naturalmente.
Soddisfatta del suo piano, Camille scese in biblioteca e attese.
Tuttavia le cose, inutile dirlo, seguirono come spesso accade un corso
imprevedibile. Perché, quando Mr Raleigh fece la sua apparizione, bello
come sempre ed elegante come non sempre era, quando le si avvicinò e le
prese la mano nella sua per sfiorargliela con le labbra, facendole correre un
brivido per la schiena, quando le spiegò il motivo per cui le sere precedenti si
era comportato in modo che forse le era apparso curioso («Effettivamente»
aveva commentato Camille speranzosa), lei si sentì all’improvviso delusa e
incredula, se non furiosa.
Perché, all’improvviso, invece di prenderla fra le braccia e baciarla fino a
stordirla, le aveva detto: «Miss Brontee, voglio offrirvi un lavoro».
Un lavoro?
Di tutte le possibili stranezze, stramberie, stravaganze ed eccentricità di
quel nuovo mondo, quella era la più bizzarra. A una signorina di buona
famiglia un gentiluomo non poteva offrire un lavoro. Poteva invitarla a
passeggio, o a teatro, o persino al ristorante, ma offrirle un lavoro!
E che tipo di impiego avrebbe mai potuto proporle?
Sconveniente, forse?
Il mondo le crollò addosso.
Ogni sogno impertinente al fianco di Mr Raleigh svanì.
Ogni vagheggiata avventura scandalosa e moderna sfumò.
Eppure…
«Un lavoro?» chiese guardandolo fisso negli occhi, mentre ogni mossa
civettuola studiata davanti allo specchio lasciava il posto a un’espressione
concentrata e seria. Perché, al di là di ogni considerazione su quanto fosse
opportuno che Mr Raleigh le offrisse un impiego, un impiego era esattamente
ciò di cui lei aveva bisogno.
«Se accetterete, domattina verso le nove una carrozza verrà a prendervi e vi
porterà al Daily.»
«Mi state offrendo un lavoro al Daily?» chiese lei sempre più stupefatta.
«È quello che ho appena detto, Miss Brontee. Ora, perdonatemi, ma devo
lasciarvi.»
«Lasciarmi?» rispose Camille con eccessiva spontaneità e malcelato
stupore. Possibile che non riuscisse mai a controllarsi? «Non vi siete fermato
che pochi minuti, di solito rimanete almeno mezz’ora.»
Lui non rispose e si inchinò leggermente per congedarsi. E sorrise, come se
fosse felice. Fece un passo verso la porta, ma lei gli si parò davanti.
***
«Miss Brontee… cosa diamine state facendo?»
«Perché state… scappando?» lo incalzò Camille.
«Miss Brontee, non sto scappando. Semplicemente è inappropriato che io
mi fermi qui con voi questa sera. Se non ve ne foste accorta, siamo soli.»
Perché ti sei sciolta i capelli? Per farmi uscire di senno?
Camille fece spallucce. «Mi sembrava che aveste una certa predilezione per
tutto ciò che è inappropriato, Mr Raleigh. Avete rischiato di farmi precipitare
in uno scandalo al Metropolitan.»
Scostò i capelli e gli mostrò il segno che, seppur sbadito, risaltava ancora
sulla pelle bianchissima del collo.
Quel gesto, per la verità innocente e non calcolato, scatenò in Raleigh una
risposta fisica non prevista, quasi lei gli si fosse offerta in un gesto di intima
sottomissione. Inutilmente respirò a fondo, una, due, tre volte, per allontanare
quella pericolosa sensazione di potere. L’unica cosa da fare, prima di
commettere un’altra sciocchezza di cui certo non si sarebbe pentito, era
andarsene.
Subito.
«Miss Brontee… Camille» disse con voce distaccata e sicura, «vi domando
scusa per il mio comportamento di quella sera. Sono stato senza dubbio un
irresponsabile.» E, con un cenno di commiato, si diresse senza altri indugi
alla porta.
«Eppure» insistette lei seguendolo d’appresso, «sembravate deciso a
proseguire lungo quello stesso irresponsabile sentiero. Mi avete anche
assicurato che avreste ancora osato e che mi sarebbe piaciuto. Avete dunque
perso il vostro coraggio, Mr Raleigh?»
Quello era parlar chiaro!
Lui si immobilizzò, poi si girò con lentezza calcolata. Strabiliato da tanto
ardire.
«Miss Brontee, non provocatemi, ve lo chiedo con cortesia.»
Strinse i pugni e serrò la mascella mentre lo sguardo si posava sul sorriso
compiaciuto di lei.
«Non intendo provocarvi, ma desidero che mi spieghiate un tale
cambiamento nei miei confronti.»
Raleigh alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. In quel momento non
poteva certo rivelarle i motivi per cui invece di prenderla e rovesciarla sul
divano, strapparle i vestiti di dosso e farle conoscere ogni delizia e ogni
tormento dell’amore fisico, le sarebbe stato debitamente alla larga. Quindi
disse, secco: «Sarebbe improprio avere una liaison con una mia dipendente».
Poi si girò di nuovo e riprese a camminare.
Più veloce di lui, Camille lo superò e si appoggiò alla porta impedendogli
di andarsene.
«Non ho ancora accettato la vostra offerta, non sono ancora una vostra
dipendente.»
La frase le sfuggì di bocca come una freccia dall’arco di Cupido e trafisse il
cuore di Frank Raleigh che, per non vacillare, si eresse in tutta la sua altezza
e rivolse a Miss Brontee uno sguardo scettico.
«Camille, non vorrete sfidarmi, spero… Sarebbe una mossa molto sciocca e
imprudente.»
«Davvero?» rispose lei, rimanendo immobile, per nulla intimidita.
***
Non si mosse neppure quando lui, sorridendo malizioso, le si avvicinò
minaccioso, né quando fu raggiunta dal profumo della sua acqua di colonia,
né dal calore del suo respiro. Non si mosse neppure quando vide i suoi occhi
diventare due fessure scure di desiderio.
Si sentiva minacciata dalla vigorosa sensualità che Raleigh emanava in quel
momento. Ma non poteva scappare, non dopo averlo provocato tanto
apertamente.
Un altro passo e i loro corpi si sarebbero toccati.
Camille trattenne il respiro.
Con lentezza, lui alzò le braccia e appoggiò le mani ai lati delle sue spalle,
imprigionandola tra sé e la porta.
«Mi state porgendo una mela come Eva ad Adamo, Camille? Mi state
invitando a compiere ciò che contro ogni mio sano istinto mi sforzo di
considerare proibito? Mi state sfidando in un gioco in cui io solo potrei
vincere, ragazzina?»
Non poteva tirarsi indietro, ora. Ricordandogli che non era ancora una sua
dipendente, si era offerta a lui su un piatto d’argento. Come poteva essere
stata tanto incosciente? Deglutì e chiuse gli occhi prima di parlare,
respingendo il folle impulso che sentiva crescere dentro di sé e che la
spingeva a buttargli le braccia al collo.
«Non sono una ragazzina, Mr Raleigh, sono una donna di venticinque anni.
E no, non era mia intenzione provocarvi, né sfidarvi in un gioco in cui siete
sicuramente più abile di me.»
Lui la fissò con un sorriso di scherno e le si avvicinò ulteriormente, sino a
quando i loro corpi non si toccarono.
Camille sentì le ginocchia cedere e il cuore accelerare.
«Vogliamo provare a giocare, Camille? La vostra logica mi ha convinto ad
accantonare i miei principi: è vero, non siete ancora una mia dipendente,
dopotutto.»
Lei cercò invano di scivolare via, ma si ritrovò inchiodata contro il battente,
senza via di scampo.
«Non siate ridicolo!» mormorò allora, fissandolo con occhi fiammeggianti.
Raleigh scoppiò a riderle in faccia. «Lasciarvi? Non ancora, Camille. Sono
curioso di capire che tipo di giocatrice siete: prudente o aggressiva?»
Quelle parole la provocarono, le fecero abbandonare ogni residuo di
prudenza, la fecero cadere in trappola. Quelle parole, e il calore sensuale che
emanava da Raleigh. E così, da sciagurata, lei agì. Lasciando basito il suo
arrogante avversario.
Invece di tentare un’altra fuga, Camille attaccò, sicura e sprezzante come
una regina nera contro un pedone bianco.
Si alzò sulle punte dei piedi, fissò Raleigh dritto negli occhi, gli appoggiò le
mani sul petto e, in un ultimo guizzo di follia, gli accarezzò le labbra con le
sue.
Sorpreso, Raleigh emise un gemito, di smarrimento più che di passione. E
rimase immobile, col cuore che batteva con forza contro il petto di Camille.
Non che lei avesse una grande esperienza in materia, ma in quella
circostanza fu come se Casanova in persona le avesse dato lezioni private.
Per qualche istante mantenne la bocca socchiusa su quella di Raleigh… Poi
incominciò a mordicchiargli delicatamente le labbra... E infine, come se tutto
ciò non fosse già sufficiente a fargli perdere ogni controllo, con la punta della
lingua gli solleticò la bocca.
E la bomba esplose.
Il desiderio si impose sulla ragione.
La passione sulla prudenza.
***
Si persero l’uno nella bocca dell’altra, le mani di lei tra i capelli di lui,
quelle di lui lungo la schiena di lei. La stringeva a sé con forza. La voleva,
subito. Nel salotto immacolato di Mrs Campbell.
«Camille» mormorò Raleigh senza interrompere il bacio. «Camille» ripeté
pochi secondi dopo, scendendo con le labbra verso il collo e salendo con le
mani verso il seno che già tante volte aveva toccato e baciato nel segreto dei
suoi sogni. «Camille» disse un’ultima volta, cercando di insinuarle un
ginocchio fra le gambe.
Troppo impegnata ad abbandonarsi a ogni sconosciuta sensazione a cui lui
la stava iniziando, Camille si affidò con fiducia a Raleigh, senza riflettere
sulle possibili conseguenze di quella passione imprevista e dirompente. Non
era facile pensare a mente fredda mentre quell’uomo, quell’uomo….
«Raleigh…» mormorò, mentre lui la accarezzava con tanta maestria dove
non avrebbe dovuto. «Frank» mormorò poi, mentre lui già si dava da fare con
l’allacciatura del suo vestito.
«Ti voglio» rispose Raleigh senza staccare le labbra dalle sue. «Non hai
neppure una pallida idea di quanto io ti desideri: tanto da perdere il sonno di
notte e, a quanto pare, il senno di giorno.»
Un gemito strozzato uscì dalla gola di Camille quando lui si inginocchiò
davanti a lei, non certo per dichiararsi ma per darsi da fare con le sue
gonne…
Oh!
Nessuno le aveva mai sollevato le gonne, non almeno da quando aveva
compiuto dieci anni.
Camille sottolineò quel gesto sconsiderato con un gemito di puro
smarrimento che Raleigh scambiò per incoraggiamento. Infatti si rialzò come
se fosse stato morso da una tarantola e subito riprese a baciarla, mentre le
mani non smettevano di esplorare ciò che di solito le gonne celavano.
Sto per essere sedotta, si disse Camille, come se stesse assistendo a quella
scena da un palco di proscenio. Non che prima non ci avesse pensato o avesse
fatto un solo gesto per respingere l’attacco esplicito di Raleigh. Si era
concessa alle sue mani e alle sue labbra come se da quelle dipendesse la sua
vita.
Ma prima era prima, e ora era ora.
E ora, per quanto difficile e doloroso sarebbe stato respingerlo, non gli
avrebbe permesso di sedurla. Perché non era così che aveva sognato la sua
prima volta.
E perché, per quanto desiderasse sentire quelle labbra e quelle mani sul suo
corpo, non voleva, ancora una volta, affidare la propria vita ai capricci e alla
volontà di un uomo.
Mr Cartrite, in fondo, le aveva impartito una lezione difficile da
dimenticare.
Così, quando Frank cercò di sollevarla tra le braccia per continuare più
comodamente sul divano quanto all’inizio di quel pomeriggio si era
ripromesso di non fare, lei lo respinse, con decisione.
«Credo che abbiate equivocato le mie intenzioni, Mr Raleigh» disse,
rifilandogli uno spintone piuttosto deciso e liberandosi di lui.
***
Per il povero Raleigh fu come se il pugno di Henry Jones lo avesse
raggiunto di nuovo, questa volta ben sotto la cintura.
«Stai scherzando vero, Camille?» sbottò con l’espressione di un bimbo cui
avessero dato, e subito dopo portato via, un enorme gelato.
«No, Mr Raleigh. Al contrario, sono serissima. Pensavate che non sapessi
giocare, invece ho giocato e ho vinto.»
Lui la fissava allibito, incredulo, la bocca aperta come un pesce che ha
appena abboccato all’amo.
«Dio, Mr Raleigh, non fate quella faccia, per favore. Siete quasi comico!»
disse Camille infierendo sull’orgoglio ferito di lui e cercando saggiamente di
allontanarsi.
Lui non glielo permise. L’afferrò invece per un braccio e la fece ruotare
sinché i loro occhi non si incontrarono di nuovo. E a quel punto, lo sguardo di
Frank Raleigh non era sbigottito ma pieno di collera.
«Ci sono delle regole da seguire, nel gioco come nella vita, Camille. Regole
che non si possono ignorare, a meno di non essere dei bari.»
«Avete ragione, Mr Raleigh. Ci sono delle regole, ed è proprio per questo
motivo che dovete andarvene. Subito» rispose lei senza abbassare lo sguardo.
Lui inarcò un sopracciglio, poi l’attirò a sé e le sollevò spazientito il mento.
«Se temi che qualcuno ci possa scoprire, possiamo andare a casa mia, là
nessuno ci disturberà.»
Lei si irrigidì a quella proposta, tanto che lui indebolì la presa intorno al
braccio. Dio, come gli era venuto in mente di invitarla a casa sua come una
sgualdrina qualsiasi?
«Venire a casa vostra, Mr Raleigh? Avete un’opinione così bassa di me,
dunque? Lasciatemi il braccio, piuttosto. E, per il bene di entrambi,
andatevene.»
«Camille…»
Lei lo guardò male.
Lui la lasciò. Non riusciva a capire il motivo per cui all’improvviso avesse
cambiato tanto drasticamente atteggiamento. Dal comportamento disinibito e
provocante che aveva tenuto, si era convinto che non fosse una donna priva
di esperienza. Eppure, ora sembrava spaventata.
«Se ti ho mancato di rispetto è perché ero certo che volessimo entrambi la
stessa cosa.»
Lei scosse la testa. «La verità è che non volevo spingermi tanto in là,
desideravo solo sapere cosa avrei provato baciandovi. Ammetto di essere
stata una sciocca, di avere sbagliato. Ma ora vi prego di andarvene.»
Lui la fissò impietrito. «Baciandomi? Mi sembra che siamo andati ben oltre
il bacio, Camille. Mi hai illuso e poi mi hai gettato addosso una secchiata
d’acqua gelata, come si fa con i cani in calore. Sarebbe molto più onesto da
parte tua riconoscere che volevi divertirti alle mie spalle, forse punirmi per
averti lasciato quello sciagurato segno sul collo.»
La vide portare la mano dove il segno rosso lasciato dalle sue labbra
spiccava ancora sull’incarnato tenero.
«Non dite sciocchezze» rispose Camille avvampando.
Lui sorrise, sornione. «È il tuo comportamento a farmelo credere»
mormorò.
Le si avvicinò di nuovo, mentre il sorriso lasciava il posto a un’espressione
più pericolosa.
Lei si ritrasse, un passo, poi un altro, sino a quando la sua fuga non terminò
contro una parete. Lui allora le circondò dolcemente il viso fra le mani,
obbligandola a guardarlo negli occhi.
«Mr Raleigh, vi prego» mormorò Camille con labbra tremanti.
Lui strinse gli occhi, come se la stesse studiando. «Di cosa hai paura,
Camille?»
Lei distolse lo sguardo e non rispose, e allora Raleigh comprese.
«Mio Dio» mormorò. «Guardami, Camille!»
«Mr Raleigh, se siete un gentiluomo, andatevene» disse lei fissando con
ostinazione un punto indistinto alla sua destra.
«Non sono un gentiluomo, Camille, non l’hai ancora capito?» Poi la prese
tra le braccia e, dopo una piccola resistenza, la sentì abbandonarsi a lui,
aderire perfettamente al suo corpo. Gemette e, inspirando con voluttà il
profumo dei suoi capelli, mormorò: «Ora ho capito, Camille. Hai avuto paura
perché sarebbe stata la prima volta, vero?»
Sulle prime lei non rispose e il suo corpo tremò appena prima di irrigidirsi
ulteriormente.
«Signore, credo davvero che questa conversazione debba concludersi qui.»
Frank Raleigh però non era un uomo facile da convincere.
***
Aveva resistito al Raleigh seduttore e non era stato facile. Avrebbe saputo
resistere al Raleigh tenero e sensibile che con tanta dolcezza ora la stringeva
a sé e la confortava?
Doveva mandarlo via. Subito.
«Voglio essere il primo, Camille» sussurrò lui accarezzandole il lobo
dell’orecchio con le labbra.
Un’onda di calore la investì. Un’onda? Forse un’intera marea.
«Saprò aspettarti» continuò con dolcezza, con una calma che la fece
rabbrividire.
Col fiato bloccato in gola, si finse spazientita, anche se in realtà stava per
sciogliersi davanti a lui, per buttarsi tra le sue braccia e supplicarlo di
aspettarla.
Raleigh doveva andarsene prima che l’ultimo alito di orgoglio la
abbandonasse.
Si liberò dal suo abbraccio e a passi decisi raggiunse la porta e la spalancò.
Poi tirò il cordone e un campanello risuonò in lontananza. Poco dopo il
maggiordomo comparve, discreto.
«Mr Broley, per cortesia, potete accompagnare Mr Raleigh all’ingresso?»
***
Raleigh sembrava titubante a lasciarsi sbattere fuori di casa come un ospite
indesiderato o un pretendente fastidioso. Avrebbe voluto sedere davanti al
fuoco con la mano di Camille fra le sue, in silenzio, in armonia, ma non gli
rimaneva altro che uscire da quella maledetta porta.
Si girò un’ultima volta e disse: «Ricordatevi, Miss Brontee, domattina alle
nove una carrozza vi aspetterà per portarvi al Daily».
Poi, senza aspettare risposta, con un piccolo cenno del capo si congedò.
Che io sia dannato! pensò uscendo da casa Campbell.
Fuori, Washington Square era bellissima, l’Arco bianco e imponente
brillava alla luce della luna come un gioiello.
Ma Raleigh non lo notò neppure mentre tornava a passo veloce verso casa,
rimuginando sulla conclusione di quello sventurato pomeriggio.
Come diavolo si era ficcato in quel pasticcio?
A ripensarci bene, non era stato lui a ficcarcisi dentro! Era stata quella
diabolica donna di nome Agnes Campbell a spedircelo!
Il pomeriggio successivo la serata all’Opera, quando aveva trovato Camille
e Mrs Campbell a ridere del suo giornale, aveva compreso che Miss Bronte
non era solo una donna bella e coraggiosa, ma anche intelligente e spiritosa.
E quando a tu per tu aveva espresso a Mrs Campbell la propria ammirazione
per le idee e il brio della sua giovane ospite, quella temibile e irrefrenabile
donna gli aveva suggerito la brillante idea di assumere Camille al Daily.
Suggerito! Lo aveva convinto in modo subdolo, semmai. Se l’avesse assunta
al Daily, gli aveva detto, Camille avrebbe risposto alle lettere delle lettrici in
modo moderno, assennato e ironico e portato una ventata di novità al
giornale, cosa che avrebbe avuto riflessi positivi anche sulle vendite. Le
scelte delle donne diventavano di giorno in giorno più pressanti, anche
riguardo alle piccole spese. E un giornale non era forse una piccola spesa
quotidiana?
Certo, affidare la rubrica Donne nel nuovo secolo a Miss Brontee sarebbe
stata una scommessa, ma la logica di Mrs Campbell, doveva ammetterlo, gli
era parsa inattaccabile. Anche se...
Con una gran voglia di bere entrò in casa e si diresse senza indugio alla
bottiglia di whiskey che teneva pronta per ogni evenienza nel suo studio, ne
versò un dito in un bicchiere e cominciò a misurare a lunghi passi la stanza,
tirato in volto come chi non è felice. Perché, se Camille avesse accettato la
sua offerta, sarebbe diventata per lui più intoccabile di una vestale. Avrebbe
dovuto rinunciare a lei o infrangere per la prima volta un principio che negli
anni si era rivelato inattaccabile: mai e poi mai e ancora mai posare gli occhi
sulle donne che lavoravano per lui.
Sì, se Miss Brontee avesse accettato la sua offerta, avrebbe dovuto evitarla
come la peste anche se il desiderio e lo struggimento per lei avessero finito
per consumarlo come una candela.
5

21 ottobre, Daily Building


Per darsi un’aria professionale e seria, quella mattina Camille si era vestita
con un completo grigio privo di fronzoli che, paradossalmente, metteva in
risalto la sua femminilità. Portava anche un cappellino di velluto nero, molto
semplice e di foggia maschile, gli stivaletti più comodi che possedeva - chissà
perché era convinta che in una redazione si dovesse camminare molto - e un
mantello nero bordato di pelliccia che l’avrebbe riparata dal freddo.
E forse da Frank Raleigh.
Quando Miss Brontee fece il suo ingresso in redazione, al quattordicesimo
piano del Daily Building in Park Row, per un istante fu come se il mondo si
fosse fermato a osservarla. Era troppo graziosa e giovane perché ciò non
accadesse. Una ventata di innocenza in un ambiente esclusivamente maschile
segnato dal cinismo dell’esperienza.
Un agnello in mezzo ai lupi.
E per quanto famelici, i lupi non ci misero molto a capire di chi
quell’agnello fosse la preda esclusiva.
Del capobranco.
In pochi secondi il silenzio si trasformò in un boato.
Mr Raleigh doveva aver perso la testa se portava la sua ultima conquista in
redazione.
I sorrisini ammiccanti, le battutine ironiche e le illazioni più sconce
rimbalzarono di bocca in bocca mentre Camille, ostentando indifferenza, si
muoveva a testa alta nell’aria densa di fumo, decisa come mai prima a
dimostrare la propria determinazione.
Seguendo un fattorino raggiunse una scrivania dove un uomo di mezza età
fumava nervoso un sigaro, spargendo cenere sui molti fogli sparsi davanti a
lui. Come si accorse di lei, alzò la testa e ringhiò un saluto frettoloso.
Camille azzardò un titubante «Buongiorno, Mr… Furley?»
Senza alzarsi, ma degnando Camille di un’occhiata che la perforò, Charles
Furley rispose: «Alla buonora!» Poi prese dalla scrivania alcuni oggetti e,
senza aggiungere altro, se ne andò, all’apparenza soddisfatto di lasciare ad
altre mani quell’ingrato compito. Così poco virile e dignitoso.
Camille rimase per qualche istante in piedi, perplessa e senza sapere cosa
fare. Poi una fatina buona arrivò a salvarla.
«Miss Brontee» le disse la giovane donna con un sorriso sincero, «sono
Manny, segretaria di redazione. Seguitemi, vi farò visitare la sede e vi
presenterò Mr Corman, il direttore, e le poche persone che qui dentro vale la
pena di conoscere. Poi, se vorrete, vi porterò un pessimo caffè e comincerete
a lavorare.»
Camille diede un’occhiata infelice alla scrivania ricoperta di fogli e seguì
Manny nel suo giro di perlustrazione.
Di Frank Raleigh, neppure l’ombra.
*
Dieci ore più tardi
Fuori era ormai buio. Camille ammirava quasi ipnotizzata i grattacieli di
Park Row e i numerosi cantieri che annunciavano la costruzione di altri
palazzi. Il senso di vertigine era prepotente, ma valeva la bellezza dello
spettacolo. Aveva sentito parlare dei grattacieli, ma non credeva che l’uomo
avrebbe mai avuto l’ardire di spingersi così in alto.
A guardare in giù le gambe le tremavano.
Anche a pensare a Frank Raleigh le gambe le tremavano. Il cuore
sussultava e il suo corpo fremeva al ricordo di come neanche ventiquattro ore
prima lui l’aveva toccata. Di come l’aveva baciata. Di come le aveva chiesto
di essere il primo, senza giri di parole, ma con una tenerezza nello sguardo,
una venerazione e un desiderio tali da farle perdere per qualche istante la
ragione.
Come poteva essere stata così sciocca?
Frank Raleigh non si sarebbe mai innamorato di lei. Bramava il suo corpo
forse, voleva possederla, essere il primo, apporre il suo sigillo su di lei come
fosse una sua proprietà. Ma amarla?
Frank Raleigh era un uomo e gli uomini, senza distinzioni, erano esseri
capaci di esprimersi solo attraverso la forza e il possesso. O l’inganno, come
Cartrite.
Non c’era da stupirsi che il mondo fosse un tale disastro!
Eppure…
Si accarezzò il collo dove ancora sentiva la bocca di Raleigh arroventarle la
pelle ed esitò, chiedendosi come sarebbe stato darsi a lui, anima e,
soprattutto, corpo.
La risposta fu un lungo, impertinente brivido.
Con un gran respiro allontanò certe fantasie pericolose.
Per quanto la riguardava, Frank Raleigh poteva andarsene al diavolo.
Doveva pensare a se stessa per sopravvivere in quella terra straniera.
Sola.
Quella mattina, dopo aver incontrato il direttore del giornale, si era messa
subito al lavoro insieme a Manny. Per prima cosa avevano riordinato la
scrivania e suddiviso in vari gruppi le lettere delle lettrici, poi, tra lo stupore
generale e il brusio che ne era seguito, aveva chiesto una macchina da
scrivere. Quando una fiammante, preziosa, magica Underwood No 2 era
comparsa sulla sua scrivania, si era messa al lavoro senza altri indugi.
Non aveva rivelato né a Mrs Campbell né a Mr Raleigh quanto amasse
scrivere. A macchina, soprattutto. Sentire il ticchettio dei tasti, ammirare le
lettere eleganti che, una dopo l’altra, rimanevano impresse sul foglio candido
era fonte per lei di una gioia quasi fisica. Di una sottile esaltazione.
Scrivere era la passione segreta che coltivava sin da bambina. Scriveva
storie di donne, per lo più, immaginando che la loro vita fosse la sua.
Immaginando amori e tradimenti, pene e gioie, avventure straordinarie o
piccole peripezie quotidiane.
Per quel motivo non aveva avuto grandi difficoltà a svolgere fin da subito il
lavoro che le era stato richiesto. In un tempo ragionevolmente breve aveva
risposto con ironia a cinque lettere e scritto una brillante presentazione di se
stessa per le lettrici. Aveva raccontato chi era, come quel grande Paese
l’avesse generosamente accolta, quali fossero i suoi sogni e i suoi obiettivi.
Aveva descritto una donna come tante altre, ma che aveva avuto il coraggio
di osare, di cambiare vita. Anche se ancora non sapeva quale direzione quella
sua incerta vita avrebbe preso.
A Mr Corman quel breve articolo di presentazione era piaciuto molto.
Aveva corretto qua e là qualche termine – troppo britannico, l’aveva definito
– ma era rimasto stupito dall’ironia e dallo stile di Camille. E poi, e non era
cosa da poco per un burbero come lui, aveva riso delle risposte briose che lei
aveva dato alle lettrici, approvandole pienamente.
«Se andrete avanti così» le aveva detto con un sorriso paterno, «questo
periodo di prova finirà presto, e la rubrica sarà vostra.»
6

31 ottobre, New York


Nei dieci giorni che seguirono, Camille si recò ogni mattina in Park Row
armata di entusiasmo per il nuovo lavoro e della speranza di incontrare il suo
editore di cui, a quanto pareva, si erano perse le tracce.
Per quanto tentasse di continuo di toglierselo dalla testa, non poteva
smettere di chiedersi per quale incomprensibile motivo, dopo averla baciata e
aver tentato di sedurla, quell’uomo detestabile avesse deciso di ignorarla.
Forse non la riteneva abbastanza bella o intelligente per lui?
Forse si era infuriato per essere stato prima provocato e poi respinto e ora
riteneva inutile perdere altro tempo con lei, una insulsa vergine?
Camille odiava quella parola, vergine. Non voleva essere una vergine. Non
nel Nuovo Mondo, comunque.
Passava dall’avvilimento più melodrammatico e straziante alla rabbia più
feroce e vendicativa. Dall’ipotesi di cadere ai piedi di Raleigh implorando
che la baciasse un’ultima volta a quella più allettante di schiaffeggiarlo in
pubblico e di lasciarlo esterrefatto ad ammirare il suo ancheggiante derrière
mentre con grande dignità se ne andava.
Il ricordo dei baci che si erano scambiati e che avevano infiammato
entrambi della stessa passione non faceva però che aumentare il
disorientamento del suo povero cuore.
Maledizione a quando ti ho incontrato, Frank Raleigh! ripeteva allora,
come una formula magica contro i suoi tormenti.
***
Nei dieci giorni che seguirono nessuno incontrò o vide da lontano Frank
Raleigh.
Qualcuno diceva che fosse partito per l’Australia, qualcun altro sosteneva
che fosse nella sua casa agli Hamptons in compagnia della sua nuova amante
o tra i ghiacci dell’Alaska in cerca di oro. Ma i più scommettevano che fosse
chiuso in casa a smaltire gli effetti di una colossale sbornia presa a causa di
un amore impossibile.
Nessuna di queste notizie era vera, se non, in minima parte, l’ultima.
Mr Raleigh la sera del 20 ottobre si era effettivamente sbronzato a causa di
una donna. Ma non era stato il rifiuto di Camille alle sue avance ad averlo
indotto ad affogare nell’alcol la sua coscienza, ma la forza che lo spingeva
verso di lei riducendolo in un pietoso, inusuale stato di fastidioso
struggimento.
Frank Raleigh era esperto nel tenere a bada i propri sentimenti, ma non lo
era affatto quando si trattava di imbavagliare il desiderio. E ora, dentro di lui,
sentimenti e desiderio lottavano per emergere per la prima volta insieme.
La bramosia lo portava a desiderare quella giovane donna totalmente, senza
condivisioni, senza sconti. Dal primo minuto in cui aveva posato gli occhi su
di lei non solo aveva pensato a ogni modo possibile per darle una pratica
dimostrazione del suo ardore, ma aveva anche iniziato a vagheggiare di
temibili, anzi terrorizzanti, momenti di domestica e tenera intimità, gli stessi
che, fino a quel giorno, gli erano parsi come una prova dell’insana
propensione dell’uomo a farsi del male.
Frank Raleigh, per la prima volta in vita sua, stava sprofondando nella nera
palude dell’autocommiserazione.
Sospirava persino e se la prendeva con qualsiasi cosa gli capitasse a tiro,
sotto lo sguardo imperturbabile del suo britannico maggiordomo.
Pensando di togliersi Camille dalla testa, Raleigh aveva cercato rifugio al
New York Athletic Club di cui era fra i soci più attivi e membro della
squadra di canottaggio che, da lì a due anni, avrebbe partecipato alle
Olimpiadi di Parigi.
Ma neppure in quella specie di monastero per uomini ricchi e viziati,
annoiati dalla vita o in fuga da qualche scandalo o da una moglie in cerca di
vendetta, Frank Raleigh aveva trovato sollievo alle sue pene e alla rabbia.
Il suo disagio si manifestava soprattutto di notte, quando, vittima della sua
stessa fantasia, pensava a come avrebbe potuto trascorrere quelle ore in modo
assai più piacevole e stimolante.
Insieme a Camille.
Così come se ne era andato, il 31 ottobre Raleigh ricomparve in
Washington Square con un occhio nero per la troppa boxe e le mani gonfie
per il troppo vogare, il desiderio per Miss Brontee ben lungi dall’essere
domato.
Forse sarebbe stato più semplice per lui se avesse pensato di poter coronare
il suo sogno d’amore in modo tradizionale. Ma, pur avendo ormai trentotto
anni, denaro, prestigio e una fortuna invidiabile, non credeva che un uomo e
una donna potessero amarsi oltre i loro egoismi. Da bambino aveva sofferto
la presenza di un padre frustrato e manesco e si era convinto che fosse stato il
matrimonio a renderlo tale. Non che quel vecchio bastardo gli avesse mai
fatto pena, al contrario. Lo aveva odiato e ancora lo odiava con tutte le sue
forze per il male che aveva fatto alla sua famiglia. Ma ancor di più lo odiava
perché, in cuor suo, temeva di assomigliargli. Ipotesi che lo induceva a
fuggire continuamente da qualsiasi relazione che avesse un senso anche fuori
dalla camera da letto.
E così, in apparenza indifferente al suo tumultuoso stato d’animo, Raleigh
tornò alla sua frenetica vita newyorkese, fiducioso che i suoi ultimi
investimenti, che aveva gettato nei nuovi quartieri residenziali dell’Upper
East Side come sul tavolo verde, avrebbero agito come un antidoto alle sue
pene.
Sfogliando con fare svogliato alcuni documenti, quel giorno osservava
dalla finestra del suo studio l’andirivieni in Washington Square, sperando di
scorgere tra le persone che si affrettavano in strada la figura snella di Miss
Brontee. L’orologio sulla mensola del camino aveva appena suonato le
cinque, Camille avrebbe dovuto ormai essere di ritorno dal lavoro. Era a lei
che tornava continuamente il suo pensiero. Alla donna che desiderava e che
lavorava per lui.
Come diavolo aveva potuto permetterlo?
Finì di firmare alcune carte, diede un paio di istruzioni ad Adam Laurel, il
suo segretario, e si dedicò quindi ai biglietti di invito che si erano accumulati
in quei giorni. Li scartò tutti, compreso quello per l’abituale festa di
Halloween dei Benton che si sarebbe svolta quella sera e alla quale comunque
non aveva intenzione di partecipare. Poi aprì il Daily e, incurante delle notizie
più importanti, cercò febbrilmente la rubrica curata da Camille. Quando la
trovò non riuscì neppure a leggerne il titolo. Con il respiro corto, come se
avesse preso un cazzotto nello stomaco, mormorò qualcosa che suonò
come…
«Strega!» O così almeno sembrò di capire al fedele Adam.
Raleigh appallottolò il giornale e senza altri indugi si apprestò ad
attraversare Washington Square.
***
Per Camille il 29 ottobre era cominciato come una giornata dura. Ed era
terminato con una vittoria.
Infastiditi che una donna avesse invaso il loro campo di gioco e indispettiti
dai complimenti che Mr Corman le rivolgeva di continuo, quella mattina i
suoi colleghi non avevano lasciato passare occasione per tormentarla:
frecciatine, frasi allusive gettate là e non concluse, commenti sulla sua
persona, doppi sensi sui motivi che le avevano spalancato le porte del Daily.
Stuart Canningham, reporter investigativo di cronaca nera, si era seduto sulla
sua scrivania e, esibendo la miglior espressione da maschio dominatore, le
aveva fatto una proposta dove i doppi sensi erano più numerosi delle
congiunzioni.
Poco dopo, qualcuno aveva avuto l’idea infantile di far cadere un grosso e
peloso ragno sulla sua macchina da scrivere. La povera bestia era rimasta
immobile, una macchia nera sul foglio bianco, anche quando Camille, senza
scomporsi, l’aveva avvolta nel suo fazzoletto e deposta sul davanzale della
finestra.
I lupi non avevano avuto lo spettacolo per cui avevano pagato.
Lei sì.
Le loro facce sbigottite erano valse l’orrore di stringere fra le dita quel coso
peloso.
Camille era comprensibilmente scoraggiata. La vita di redazione, almeno in
quella redazione, era molto diversa da come se l’era immaginata.
«È come vivere in una caserma, ultima fra le reclute» aveva detto a Manny
che, senza nascondere lo sdegno nei confronti dei signori giornalisti, l’aveva
esortata a reagire.
No, Camille non si sarebbe fatta intimidire, avrebbe resistito, combattuto e
difeso il suo lavoro con le unghie e con i denti. Avrebbe lottato per la sua
nuova vita. E non solo perché non avrebbe potuto permettersene un’altra.
Perché quella vita le piaceva.
Quando, poco dopo, Robert Donegan, un giovane reporter che tutti
sapevano essere invaghito di Manny, aveva chiesto senza alcuna cortesia alla
segretaria di portargli una tazza di caffè, quasi che l’uso di quel tono
imperioso potesse farlo crescere nella stima dei suoi colleghi più anziani,
Manny lo aveva prima guardato con sorpresa, poi gli aveva deliberatamente
risposto di andare a prenderselo da solo. Lui allora l’aveva chiamata strega e
tutti l’avevano guardata come se davvero lo fosse. Ed erano scoppiati a
ridere.
Seppure con un’attrice diversa, alla fine il loro spettacolo lo avevano avuto.
Il direttore, invece di prendersela con quei lupi assetati di sangue, aveva
convocato Manny nel suo ufficio e, dopo averle ricordato che portare il caffè
ai redattori faceva parte dei suoi compiti, l’aveva biasimata ufficialmente per
il suo comportamento irrispettoso.
Irrispettoso?
Camille, l’orecchio teso dietro la porta, non aveva più potuto controllarsi.
«Non è giusto, Mr Corman, non è Manny ad aver mancato di rispetto a
qualcuno!» aveva detto entrando non invitata in direzione.
Il direttore l’aveva zittita bruscamente, pregandola di non immischiarsi e di
non provocare, con il suo atteggiamento aggressivo, chi lavorava lì dentro da
molto più tempo di lei.
Con un Oh! sdegnato Camille se n’era andata, sbattendo la porta, per
riaffacciarsi subito dopo per la proverbiale ultima parola: «Comunque, non è
giusto lo stesso!»
Quel piccolo episodio di ribellione della piccola Manny aveva assunto agli
occhi di Camille lo status di un atto eroico contro il clima da caserma del
Daily. Per questo sentiva di dover fare qualcosa per dimostrarle tutta la sua
solidarietà.
Aveva fissato con una smorfia di disgusto gli articoli che aveva preparato
per il numero del 31 ottobre, riguardanti due temi fondamentali per la vita di
ogni donna: la nuova tonalità di blu in voga quell’autunno e la ricetta di una
torta per la festa di Halloween.
Insomma, un vero strazio!
L’intera pagina, dopo l’atto eroico di Manny, le pareva come un insulto
all’intelligenza femminile. Così aveva tagliato qua e là gli articoli già pronti e
ricavato lo spazio necessario per un altro pezzo.
Il lupo aveva chiamato strega Manny? Peggio per lui!
Il suo articolo avrebbe parlato male dei lupi e bene delle streghe. Quale
giorno, in fondo, sarebbe stato più adatto di Halloween per affrontare un tale
argomento?
La mia amica Manny – aveva iniziato a scrivere Camille – è una strega.
Anch’io sono una strega. E voi, gentili signore, lo siete?
I tasti della sua Underwood No 2 avevano smesso di ticchettare dopo quel
punto interrogativo. Camille si era alzata, aveva ordinato a Manny di seguirla
e, con fogli e matite in mano, si era diretta con passo deciso dal direttore.
Con un mormorio, i lupi della redazione l’avevano seguita con lo sguardo,
curiosi.
«Voglio scendere in campo oggi, Mr Corman. Voglio uscire in strada e fare
qualche intervista» aveva annunciato come se tutto fosse ormai stabilito.
«Su che e a chi?» aveva chiesto un rassegnato Corman.
«Sui lupi. Alle streghe» aveva risposto Camille in modo sibillino, prima di
correre via seguita da Manny.
Insieme erano uscite nell’aria fredda e ventosa di New York, si erano
guardate negli occhi e, scoppiando a ridere, si erano messe a saltare come due
bambine felici sotto gli occhi di Mr Roesveg, il fotografo più donnaiolo del
Daily.
«Buongiorno belle signore, posso chiedervi dove andate?»
«A intervistare delle streghe» aveva risposto Camille, rossa in volto e col
fiatone.
«E se venissi con voi?»
L’ipotesi di fotografare delle vere streghe non gli dispiaceva affatto. E così
le aveva seguite, catturando delle splendide immagini, la migliore delle quali
ritraeva una sorridente Camille con un grande cappello nero da strega in testa
e una scopa in mano, sullo sfondo, l’edificio del Daily.
Nonostante le vivaci proteste di lei – non oserete, non potete, vi supplico –
il mattino seguente Mr Corman aveva scelto proprio quella fotografia per
accompagnare l’articolo di Miss Brontee.
«Questa fotografia» aveva aggiunto Roesveg, «accrescerà la fama di Miss
Brontee anche fra i nostri lettori maschi. Quale uomo sano di mente non
sarebbe curioso di sapere cosa passa per una così graziosa testolina?»
«No, non potete!» aveva urlato Camille scuotendo offesa la graziosa
testolina.
«Mi sembra un’ottima idea Roesveg» aveva risposto Mr Corman.
La decisione era stata presa.
***
Fu proprio quella fotografia, scattata da Roesveg a Park Row, a togliere il
fiato a Frank Raleigh quel pomeriggio del 31 ottobre. A costringerlo a
infrangere ogni sua stupida regola e a correre da chi l’aveva stregato. Ma in
fondo, non era forse Halloween?
Impaziente, attraversò Washington Square e suonò il campanello del
numero 18.
«Mr Raleigh» lo salutò Broley ossequioso. «I signori e la signorina sono
già in viaggio per il ricevimento dei signori Benton a Brooklyn Heights.»
7

Quella stessa sera, Benton House, Brooklyn Heights


«Non sono mai stata a una festa per Halloween» disse Camille mentre
percorrevano in carrozza la Broadway.
«Vedrai allora che sorpresa!» rispose Mrs Campbell stringendole con
affetto la mano. «Per quanto sulle prime ti parrà di essere finita nel bel mezzo
di una sagra di campagna, la festa sarà sontuosa: saranno serviti cibi raffinati
e champagne più che mele caramellate e punch, e gli abiti degli ospiti,
nonostante il loro aspetto semplice, proverranno dalle migliori sartorie di
Manhattan.»
«Come quello che mi avete imprestato per questa sera? Non potrò mai
ringraziarvi abbastanza per la vostra generosità, è delizioso…»
«Tu sei deliziosa, bambina mia, e Marie è stata davvero brava a sistemarlo
per te. Non sei d’accordo, Timothy?»
«Come dici, cara?»
«L’abito di Camille…»
«Ha qualcosa che non va?»
Agnes alzò gli occhi al cielo. Poi, rivolgendosi di nuovo a Camille,
continuò: «Per dare un tocco campagnolo alla serata, la festa si terrà nei
vecchi fienili e si balleranno quadriglie, gallop e polke, non valzer».
«E purtroppo» intervenne Mr Campbell, «anche quest’anno non
mancheranno i giochi di società e almeno una paio di attrazioni da luna
park.»
«E a mezzanotte» continuò Agnes, «una vera fattucchiera giungerà sulla
sua scopa per predirci il futuro. Questa è una sorpresa che si ripete da anni.»
«Una fattucchiera? Di quelle che leggono la mano?» chiese Camille
spalancando gli occhi, sorpresa.
«Certo, e pure i tarocchi. Anche l’alta società vuole conoscere il proprio
destino!»
Camille sorrise, pensando che a lei sarebbe bastato sapere dove diavolo
fosse finito Frank Raleigh.
Quasi le avesse letto nella mente, Mrs Campbell aggiunse: «Chissà se quel
filibustiere di Frank si degnerà di intervenire, quest’anno. Deve solo sperare
di non capitarmi a tiro, il manigoldo!»
«Che può mai aver fatto Frank di così terribile da suscitare la tua ira, mia
cara?» chiese Mr Campbell, con ingenuità.
«Ah!» rispose la moglie. «Tu sei un uomo, non puoi capire.»
A quel punto Mr Campbell inarcò un sopracciglio pronto a ribattere, ma
subito la sua attenzione fu catturata da qualcosa di più interessante.
«Guardate, Camille, stiamo transitando sul Brooklyn Bridge. Sapete che è il
ponte più lungo del mondo, 1.825 metri, per la precisione?»
Illuminato da molti lampioni a gas e percorso da una fila ininterrotta di
carrozze pubbliche e private, di uomini a cavallo e di pedoni, il grande ponte
di metallo se ne stava quieto, sospeso a quaranta metri sopra l’East River.
Cercando di cogliere ogni particolare di quell’affascinante spettacolo,
Camille si mise a tormentare Mr Campbell di domande riguardanti la
realizzazione di quel capolavoro.
«Un capolavoro, Camille, avete detto bene! Sembra incredibile che siano
riusciti a costruirlo, vero? Ingegneria moderna, mia cara, ingegneria
moderna.» E poi ridacchiando, rivolto alla moglie, aggiunse: «Tu sei solo una
donna, mia cara, non puoi capire!»
Appena al di là del ponte, la vita caotica e frastornante di Manhattan lasciò
il posto all’atmosfera più rilassata di Brooklyn, uno dei tre borroughs che
formavano la Grande New York. Lungo le vie alberate degli Heights si
susseguivano graziose costruzioni, le facciate in mattoni rossi, le finestre
ornate di marmo bianco e decorate per Halloween con zucche e ghirlande di
fiori autunnali. I lampioni bagnavano di luce morbida la strada e facevano
brillare come tizzoni ardenti le foglie rosseggianti sui rami.
L’abitazione dei Benton aveva ben poco in comune con le altre case del
posto. Era una magione imponente, circondata da un grande parco ed
edificata in uno stile ibrido che ricordava vagamente quello Tudor.
«Ringraziando il cielo» sussurrò Mrs Campbell a Camille, «mio marito è
molto ricco. Ma, in confronto a Benton, è poco più di un pezzente. »
Mr Campbell rispose a quell’osservazione bofonchiando qualcosa.
«Pensa che, qualche anno fa» continuò Agnes, «Jack Benton ha
praticamente finanziato la costruzione della tramvia che oggi unisce
Brooklyn a Wall Street. Sua moglie Josephine e sua figlia Jenny sono due
tesori, e Ken, il figlio maggiore, è un uomo serio e in gamba. Con tutti i soldi
che erediterà dal padre potrebbe vivere di rendita e trascorrere nell’ozio le sue
giornate, invece è ambizioso e vuole dimostrare al mondo il proprio valore.»
«Bravo ragazzo quel Ken» aggiunse Mr Campbell con un sorriso.
«Ma eccoci arrivati…»
La carrozza transitò, ma non si fermò, davanti all’opulento edificio in stile
Tudor e proseguì lungo una strada alberata sino a una grande corte dove si
ergevano granai e fienili, la cornice ideale per la festa di fine ottobre.
«Prima di essere banchieri, i Benton erano semplici contadini e, malgrado
le loro ricchezze, ancora oggi coltivano le loro terre» spiegò Mr Campbell
mentre smontavano dalla carrozza.
In tutta la sua vita, Camille non aveva mai visto nulla del genere. Tutto le
pareva eccessivo e affascinante, come ogni cosa in quella folle nazione.
«È bellissimo! E quante decorazioni! E c’è persino un’orchestra! E
guardate che spiedo!» diceva guardandosi intorno a bocca aperta.
In ogni angolo zucche intagliate sorridevano con i loro sorrisi di fuoco e,
nonostante tutta la proprietà fosse dotata di corrente elettrica, l’unica
illuminazione proveniva da una miriade di torce e lanterne.
Camille notò su un lato della corte due baracconi da fiera per il tiro al
bersaglio; davanti al primo alcuni signori armati di fucili mettevano alla
prova la loro mira, mentre, raggruppate intorno al secondo carro, delle
signore lanciavano con successo gridolini impazienti e senza successo grosse
palle di stracci verso pile di lattine che si rifiutavano di cadere.
«Ecco ciò di cui parlavo, baracconi!» fece Mr Campbell risvegliandola
dallo stato di meraviglia e di stupore in cui era precipitata.
«Oh, è davvero incredibile: pensate che potrò scrivere di questa serata, sul
Daily? È talmente… straordinaria!»
Mr Campbell guardò la giovane amica con simpatia. «Mi sembrerebbe
un’ottima idea, ma prima dovrete parlarne con Mr Benton. È un tipo molto
diffidente…»
All’ingresso dell’edificio più grande i Campbell e Camille furono ricevuti
dai padroni di casa. Dopo gli abbracci e le inevitabili frasi di benvenuto,
l’attenzione della signora Benton si spostò sulla giovane ospite che, per forza
d’abitudine, si era esibita in una piccola riverenza, come avrebbe fatto in una
simile circostanza in Inghilterra.
Mrs Benton ne fu oltremodo impressionata. Come ogni signora dell’alta
società americana, aveva una vera passione per tutto ciò che appariva
britannico e aristocratico, e l’inchino di Camille, per quanto solo accennato,
l’aveva deliziata.
Jack Benton, un uomo dal fisico asciutto e dallo sguardo acuminato, baciò
la mano di Camille e poi la fissò con interesse. «Io vi ho già vista, Miss
Brontee.»
«Davvero? Non credo di avervi mai incontrato prima, signore. Di certo me
ne ricorderei.»
«Eppure…»
«Di certo ti sarebbe piaciuto avere già incontrato la nostra giovane e
graziosa amica, mio caro, ma Miss Brontee è da poco nel nostro Paese, viene
dall’Inghilterra, sai» intervenne Mrs Benton come se con ciò ogni cosa fosse
stata spiegata. Quindi prese Camille sotto braccio e sotto la sua protezione.
«Su, mia cara, venite che vi presento agli altri ospiti, a quelli più giovani,
almeno. Se trovassi mio figlio, vi affiderei a lui. Di certo starà parlando di
affari con qualcuno. Non pensa che al lavoro quel ragazzo, una vera noia. Ah,
eccolo là, in compagnia del giovane Svenson. Ken! Ken, tesoro!»
***
Ken si girò, vide sua madre che gli faceva cenno con la mano e poi vide
Camille. E sorrise chiedendosi chi fosse quella giovane donna che non aveva
mai incontrato prima. Forse un’altra sciocca ereditiera con cui sua madre
voleva accasarlo? A ripensarci, anche se lo fosse stata, non gliene sarebbe
importato molto.
Mentre le altre giovani donne gli erano apparse fastidiosamente artefatte
vestite da ingenue contadinelle, con acconciature troppo elaborate e gioielli
troppo vistosi, quella creatura snella ed elegante appariva fin troppo attraente
e genuina nel suo semplice e accollato abito bianco e azzurro. I capelli, poi, li
portava sciolti sulle spalle, trattenuti sul capo da un nastro da cui solo qualche
ciocca sfuggiva ribelle. E che dire di quegli occhi nocciola? Ken non riuscì a
staccarsene neppure mentre le baciava la mano, del tutto incurante di quanto
sua madre stava dicendo. Quando poi la giovane donna, un’inglese, a quanto
aveva capito, gli sorrise con labbra piene e invitanti, la bocca dello stomaco
gli si strinse in un nodo improvviso.
Era un uomo serio, Ken Benton, ma era pur sempre un uomo.
«Vuoi introdurre Miss Brontee ai tuoi amici, Ken? Ken…»
«Oh, certo» disse questi come risvegliandosi da un sogno e, offrendo il
braccio a Camille, si diresse con lei verso un gruppo di giovani che sedevano
in cerchio su dei sacchi di juta, rustici all’apparenza, ma morbidissimi nella
sostanza essendo imbottiti non di paglia ma di piume. Alla loro destra, sopra
una tenda di velluto nero, campeggiava la scritta L’antro della strega.
***
Dopo aver appreso dal maggiordomo dei Campbell che Camille sarebbe
stata presente all’assurdo rituale organizzato dai Benton per Halloween,
Frank Raleigh montò a cavallo senza neppure cambiarsi: gli abiti che portava
sarebbero andati benissimo sia per attraversare una prateria del Wyoming sia
per lo strampalato ricevimento dei Benton. Certo, se li avesse indossati per un
impegno d’affari o una cena da Del Monico le stesse persone che avrebbe
incontrato di lì a poco l’avrebbero guardato con disprezzo, e non solo con
quell’atteggiamento di diffidenza che alcuni non riuscivano a dissimulare
quando lo salutavano.
Le sue origini modeste non erano mai state fonte di imbarazzo per lui, tanto
meno di vergogna. Di stimolo, semmai Nei momenti più difficili lo avevano
spinto a perseverare, a dimostrare al mondo come l’intelligenza e la voglia di
emergere fossero, in un uomo, doti assai più importanti e temibili di una
nascita blasonata.
Soprattutto in America.
Spronando il cavallo, come fosse inseguito da un’intera tribù di pellerossa
tornata sul sentiero di guerra, in meno di mezz’ora avrebbe raggiunto
l’opulenta e vistosa magione dei Benton.
Solo per incontrare Camille.
Non le avrebbe chiesto nulla. Non avrebbe preteso nulla.
Un bacio, forse? O una carezza? Forse un sospiro o un fremito fugace.
No, non le avrebbe chiesto nulla, non ne aveva alcun diritto; ma avrebbe
preso senza tentennamenti e rimorsi quanto lei gli avrebbe dato.
Mezz’ora più tardi, affidò il cavallo a un valletto e raggiunse la festa in
modo discreto, col timore di incontrare all’improvviso Camille e di non
sapere cosa dirle.
Dopo essere rimasto lontano da lei per ben dieci giorni, ogni frase gli
suonava ridicola, scontata, impersonale. Oppure troppo calda, drammatica,
esasperata. Dopo l’intimità che avevano condiviso, non voleva perdersi in
banalità, far passare minuti preziosi parlando del tempo o di come fosse
grandiosa quella stupida festa; ma neppure spaventarla con l’energia di una
passione che lui stesso temeva di non riuscire a controllare.
Non era una delle sue solite amanti, Camille.
Era una dannata vergine di venticinque anni. Senza esperienza, ma con una
pericolosa propensione a cedere alla passione.
La musica giunse alle sue orecchie, l’aroma che si sprigionava della griglia
alle sue narici, il caleidoscopio colorato degli abiti delle signore ai suoi occhi.
Ormai si trovava all’ingresso del granaio principale.
Camille, dove sei?
Salutò con rispetto la padrona di casa e altri invitati. Rispose in modo
scherzoso a chi gli chiedeva con malizia dove fosse sparito in quegli ultimi
giorni, strinse molte mani maschili, baciò alcune mani femminili, tra cui
quelle di due sue ex amanti. Poi si inchinò a Mrs Campbell, il cui sguardo fu
più eloquente di mille parole. Gli occhi di Raleigh seguirono quelli
dell’anziana amica. E trovarono Camille.
***
Guardandosi intorno, Camille non riusciva a credere di essere nella Grande
New York! Magari in Irlanda, o in uno di quei grandi stati del West
dell’America, ma non nella città più moderna del mondo! Una piccola
orchestra suonava ballate di origine celtica invitando gli ospiti alla danza, ma,
per quanto avesse voglia di ballare, lei sedeva composta accanto a Jenny, la
sorella di Ken.
Sedeva e taceva, non volendo apparire invadente o fuori luogo. Temeva
inoltre che il suo spiccato accento del nord potesse essere deriso dai presenti
che si atteggiavano, almeno per quel che riguardava la pronuncia, ad
aristocratici britannici. E poi, cosa ne sapeva lei di country club, di
Vanderbilt, di crociere a Newport e di corse di cavalli a Saratoga? La verità
era che, per quanto si sforzasse, si sentiva un pesce fuor d’acqua in mezzo
agli amici di Benton, così diversa da quelle giovani donne un po’ arroganti,
così sicure di sé e del loro fortunato stato sociale. Anche vestite da semplici
contadinelle, sembravano le future padrone del mondo.
Dopo pochi minuti, l’attenzione che sulle prime il suo arrivo nel gruppo
aveva suscitato sembrò scemare, se non per qualche domanda di cortesia che
le veniva rivolta e per lo sguardo di Ken Benton che non la lasciava mai.
Poi qualcosa successe e Camille si ritrovò a essere l’involontaria
protagonista della festa.
Mr Benton li raggiunse. I giovani rispettosamente si alzarono e tacquero in
attesa che il padrone di casa parlasse.
Guardava Camille.
«Ho capito chi siete, Miss Brontee. La vostra fotografia sul Daily non vi
rende giustizia, di persona siete ancora più graziosa.»
Mr Roesveg aveva visto giusto, dopotutto. Pubblicare la sua fotografia era
stata una mossa azzeccata se anche un uomo impegnato come Mr Benton si
era accorto di lei. Non che a Camille la cosa facesse particolare piacere. Al
contrario, la imbarazzava.
Nel gruppo degli invitati si levarono dei mormorii: Il Daily? Ma chi? Cosa
ha detto Mr Benton?
Camille si sentì avvampare ma rimase quieta, gli occhi acuti di Benton
puntati su di lei.
«Grazie signore per il complimento» rispose con una calma che la sorprese,
«ma devo rivelarvi che la pubblicazione di quella fotografia non è stata una
mia idea: mi è stata imposta dal direttore del giornale.»
I bisbigli continuarono: Direttore del giornale? Quale fotografia? Una
donna nella redazione del Daily?
«Un’ottima idea, oserei definirla. E vorrei anche farvi i miei complimenti,
Miss Brontee, per il vostro scandaloso articolo sulle streghe…»
Che articolo? Che articolo?
«Scandaloso, Mr Benton? Proprio non direi» rispose Camille con troppa
veemenza.
«Papà, stai mettendo in imbarazzo la nostra ospite…» si inserì Ken con
prontezza.
«Nient’affatto, figliolo. Sto complimentandomi con Miss Brontee per aver
scritto un articolo provocatorio sì, ma ironico e divertente. Non è facile
trovare una giovane donna armata di spirito e di coraggio.»
Intorno a loro il silenzio si era fatto pesante.
«Siete riuscita a dipingere noi uomini come dei mostri, dei tiranni, persino
degli stupidi, ma con grande garbo e fantasia, signorina.»
Camille sorrise, fingendosi divertita. Cosa che non era affatto.
«Stupidi? Tiranni? Addirittura mostri! Signore, quanto avete letto è il frutto
della mia inchiesta, non della mia fantasia. È l’opinione delle signore che ho
intervistato, in modo del tutto innocente e non programmato. Il risultato di
tali interviste ha stupito anche me, credete. In Inghilterra poche donne
avrebbero risposto con tanta libertà alla mia domanda. E confesso che, anche
per questo motivo, amo il vostro Paese.»
«Che domanda avete posto, Miss Brontee? Dite, non fateci morire dalla
curiosità» pregò Jenny sgranando gli occhi e prendendole la mano.
Prima di rispondere, Camille si guardò intorno: tutti pendevano dalle sue
labbra tranne Mr Benton padre che la fissava col suo sguardo appuntito e Mr
Benton figlio che la fissava ammaliato.
«Mi era stato assegnato l’incarico di scrivere della festa di Halloween, così,
invece di limitarmi a dare qualche consiglio domestico su ricette e addobbi,
sono andata da Macy’s e ho chiesto ad alcune clienti di rispondere a una
semplice domanda.»
«Quale domanda, Miss Brontee?» domandarono all’unisono tutte le signore
presenti pendendo dalle sue labbra.
Molti occhi la stavano ora seguendo con estremo interesse e in assoluto
silenzio. Camille deglutì, a disagio. Poi rovistò in se stessa sino a quando non
trovò un briciolo di coraggio e di sfacciataggine. E rispose.
«Ho chiesto loro come avrebbero usato i loro poteri se, durante la notte di
Halloween, si fossero trasformate in streghe.»
Un brusio si alzò. Alcuni signori borbottarono qualcosa, nervosi. Mr
Benton sorrise soddisfatto. A Camille sembrò impossibile che tutta
l’attenzione fosse concentrata su di lei. Un brivido di eccitazione la
attraversò.
«E loro cosa hanno risposto? Non teneteci sulle spine, Miss Brontee!» la
incitò Jenny.
«Hanno raccontato di come, se avessero avuto i poteri di una strega,
avrebbero cercato di esaudire i loro desideri e i loro sogni, Miss Benton. Il
motivo per cui vostro padre giudica scandaloso l’articolo è che i desideri di
tutte le signore intervistate non terminavano con il classico lieto fine tra le
braccia del Principe Azzurro, ma con una fuga dal Principe Azzurro e dal suo
castello.»
Un Oh! generale si levò intorno a lei.
«Spiegatevi meglio, Miss Brontee» disse una voce maschile.
Camille si girò cercando il suo interlocutore e lo individuò: era un giovane
di cui si era già scordata il nome. Gli sorrise.
«Ritengo che con le loro risposte tutte le signore intervistate abbiano
implicitamente ammesso di desiderare anche altro dalla vita, non solo un
marito e una famiglia. Ci sono cose che alle donne non è ammesso fare...»
«Ci mancherebbe altro, Miss Brontee!»
Molti signori accompagnarono l’uscita di Mr Benton con una risata.
«…ma che sarebbero in grado di fare come e forse meglio di voi signori»
concluse Camille con un gran sorriso.
E la battaglia si scatenò.
Femmine contro maschi. Maschi contro femmine.
Sotto gli occhi sognanti di Ken Benton e di quelli rapaci di suo padre,
Camille rimase a bocca aperta a seguire quell’arroventato scambio di
opinioni, sentendosi quasi mortificata per averlo alimentato.
Poi Jenny, la più infervorata tra le signore, tacitò tutti e chiese: «E cosa
fareste voi, Camille, se poteste trasformarvi in una strega?»
Per un istante lei pensò a come volentieri avrebbe fatto soffrire Frank
Raleigh, lentamente, infliggendogli ogni tipo di tormento. Ma accantonò
quell’invitante pensiero.
«Sposterei la mia rubrica dalle ultime alle prime pagine del Daily, Miss
Benton. Anzi, vorrei che il direttore me ne affidasse almeno due, di pagine.
Poi farei assumere altre giornaliste per formare una redazione femminile. È
praticamente impossibile lavorare con dei colleghi maschi!» concluse con
una faccia così buffa che suscitò la risata delle signore presenti.
«Come vi invidio, Miss Brontee» disse una giovane donna.
«Anch’io vi invidio!» fece un’altra.
«Quanto mi piacerebbe lavorare con voi, la mia vita è così noiosa!»
concluse Jenny.
Mr Benton scoppiò a ridere e disse: «Jenny, il giorno in cui ti vedrò
lavorare nevicherà rosso».
Mentre la figlia cercava di protestare, il padre le diede un bacio sulla fronte.
La conversazione tornò ad animarsi e presto alle giovani donne presenti si
unirono signore più in là con gli anni, tutte ugualmente battagliere e divertite
all’idea di trasformarsi, anche solo per una notte, in streghe. Ogni risposta si
faceva più audace. A ognuna i signori si sentivano un po’ più a disagio.
C’era un tale bisogno di libertà, una tale sete di indipendenza, anche nei
desideri più frivoli di quelle fortunate e ricche signore, che la stessa Camille
se ne meravigliò. Forse mai prima una festa dei Benton era stata tanto
animata.
Mr Benton sembrava, più che meravigliato, divertito.
«Parlando a nome di tutta la popolazione maschile di questo Paese, mi
auguro che non entriate mai in politica, signorina» concluse fissando Camille
con ammirazione.
«Come potrei mai, signore, se alle donne, anche nel vostro democratico
Paese, non è neppure permesso di votare?»
Seguì un silenzio pesante, d’attesa, finché Mr Benton non sospirò e con un
sorriso sarcastico rispose: «Touché, Miss Brontee. In ogni caso, sono certo
che il mio amico Frank Raleigh presto vi farà dono della terza pagina.
Neanche lui saprà resistervi».
Al solo udire il nome di Raleigh, Camille sentì il sangue correre veloce
nelle vene e il volto andare in fiamme.
Benton la fissò con occhi ancora più affilati.
Che si fosse accorto del suo turbamento?
Poi, rivolto al figlio, proseguì: «Ken, perché non accompagni…» Fece una
pausa, poi riprese. «…Miss Brontee al tavolo dei rinfreschi? Credo si sia
meritata una coppa di champagne.»
Camille tirò un sospiro di sollievo. «Vi confesso, Mr Benton, che per
qualche istante ho temuto che mi voleste mettere alla porta.»
«Davvero? Una ragazza col senso dell’umorismo! Non abbiate timore, la
nostra casa sarà sempre aperta per voi, Miss Brontee. Sei d’accordo, Ken?»
Mentre Ken non riusciva neppure ad aprir bocca, Camille, con una
sfacciataggine di cui non si credeva capace, disse: «Se è così, Mr Benton, mi
concedereste il permesso e l’onore di scrivere la cronaca di questa magnifica
serata?»
L’uomo la scrutò, gli occhi affilati e intelligenti che brillavano.
Camille trattenne il fiato.
«Forse, Miss Brontee, la vostra ambizione andrebbe sprecata in politica.
Credo che sareste più indicata a lavorare nel mondo degli affari. Grossi affari.
Dovreste venirmi a trovare a Wall Street. La vostra abilità nel riuscire a trarre
vantaggio da ogni situazione con tanta naturalezza è stupefacente.» Fece una
pausa, sospirò e guardò in cielo, come a dire: Dove andremo a finire?
Camille continuava a fissarlo.
«Posso dunque sperare in un sì, Mr Benton?»
L’uomo scosse la testa, poi si concesse un lungo respiro.
«La mia risposta è sì, signorina. Per la prima volta in vita mia concederò a
un giornalista di scrivere della mia famiglia. E, se non fosse già abbastanza,
vi metterò anche a disposizione le fotografie che verranno prese questa sera.
Ma…»
«Ma…» gli fece eco Camille.
«…prima di andare in stampa, dovrete sottoporre ogni parola che scriverete
a mio figlio Ken, d’accordo?»
«Io sono più che d’accordo, Mr Benton!» disse Camille cercando di
contenere invano la gioia.
«Qualcosa mi dice che anche Ken lo sia» replicò Benton guardando
divertito il figlio. «Ma ora scusatemi, i doveri di un padrone di casa sono
tirannici. Vi affido al mio erede.»
Ken lasciò che il padre si allontanasse, sbuffò e poi disse: «Odio qua-ando
mi-i chiama così. V-venite, allontaniamoci da que-questa confusione». La
prese per un braccio e la portò in un angolo più tranquillo del granaio.
Lei gli sorrise. Fino a quel momento non si era accorta della sua balbuzie.
«Allora, mi aiuterete, Mr Benton?»
«Non chie-e-do di meglio, Miss Brontee. So-o-no certo che scriverete un
ottimo articolo, ma, per assicurarmi che parlerete b-bene del figlio del p-a-
padrone di casa, comincerò col farvi girare un po’ la testa, in mo-o-do da
apparirvi più affascinante. Vi andrebbe una co-coppa di champagne?»
«Probabilmente un bicchiere di limonata sarebbe meglio, signore,
considerati i vostri propositi.»
Prese il braccio che lui le offriva e insieme raggiunsero uno dei numerosi
tavoli traboccanti di rinfreschi.
Benton chiese due coppe di champagne e gliene porse una.
«Cin cin, Ca-amille. Alla no-ostra futura amicizia!»
«Cin cin, Ken. All’amicizia!»
Bevve qualche sorso di champagne, consapevole che gli occhi di Ken non
avevano abbandonato le sue labbra neppure per un attimo.
Ripresero quindi a gironzolare, fra contadini e contadine che non avevano
mai toccato un forcone o un aratro. Scambiarono due parole con i Campbell.
Ken le presentò alcuni amici. Spiluccarono dei deliziosi antipasti e alla fine si
ritrovarono davanti all’Antro della strega.
«Cosa si nasconde dietro quella tenda nera?» chiese Camille, curiosa.
«Ma-a-gia nera, mistero, pa-a-ura!» rispose lui esibendosi in un’espressione
scherzosa che avrebbe dovuto essere terrorizzante.
«Non burlatevi di me, signore…»
«Non mi bu-u-rlo affatto di v-voi. Mi auguro s-s-olo che, se sarete
abbastanza spaventata, non la-a-scerete il mio bra-braccio per tutta la serata.»
La stava corteggiando. In modo dolce e gentile. Ingenuo quasi. Non
come…
Portandosi una mano sul collo, ricordò in che modo un altro uomo l’aveva
corteggiata, solo pochi giorni prima.
«Siete molto galante, Mr Benton…»
«Ken. Qui non siamo fo-formali come nel vostro Paese, Camille. Po-posso
chiamarvi Camille, vero?»
Raleigh non aveva mai pronunciato la parola posso in sua presenza. Non le
aveva chiesto il permesso di baciarla, né di succhiarle la delicata pelle del
collo sino a farla quasi sanguinare, né di toccarla dove un gentiluomo non
avrebbe dovuto, né di dirle frasi che ancora adesso le infiammavano il corpo
e la mente e le facevano tremare le gambe. E infine, non le aveva neppure
mai chiesto se potesse chiamarla Camille. L’aveva baciata, succhiata, toccata
e chiamata per nome, dando per scontato che lei non gli avrebbe detto di no.
Invece di maledirlo per la sua arroganza e di scacciarlo come un ospite
sgradito dai suoi pensieri, Camille chiuse un istante gli occhi e immaginò le
sue labbra su di lei. Su una qualsiasi parte di lei. Su più di una, per la verità,
mentre l’illuso Ken Benton, ancora in attesa di una risposta, la fissava con
una punta di preoccupazione nello sguardo.
«Camille, posso chiamarvi Camille?» ripeté.
«Certo Ken» rispose lei con un piccolo sussulto. «Camille andrà benissimo.
Ma ora raccontatemi della strega…»
«Vi piacerebbe conoscere il vostro futuro?» le chiese senza un solo
balbettio.
«Il mio futuro? La strega è forse in grado di…»
Non riuscì a concludere la frase perché in quel momento vide Frank
Raleigh camminare… no, non camminare, marciare verso di lei attraverso la
folla degli invitati.
Forse aveva bevuto troppo champagne? Scosse la testa, come per schiarirsi
le idee.
No, non se lo era immaginato! Era lui, in carne e ossa. Determinato e
terribilmente attraente. E stava per raggiungerla.
In uno stato di completa confusione, Camille non trovò altra soluzione che
una rapida ritirata. Appoggiò un braccio a quello di Ken e lo fissò come se il
suo futuro dipendesse da lui. Non poteva incontrare Frank, non lì e in quel
momento! Si sarebbe certo accorto che il cuore le batteva troppo forte e
avrebbe anche compreso perché.
«Vorreste accompagnarmi al baraccone del tiro a segno, Ken, per favore?»
«D-d-avvero vi pia-piacerebbe sparare?» chiese lui sorpreso.
«Oh, non sapete quanto.»
8

Nel rivedere Camille dopo dieci tormentati giorni, Raleigh si sentì fremere
di desiderio, di sollievo, di gratitudine.
Di gelosia.
Era seduta con Jenny Benton insieme ad altre giovani donne, mentre alcuni
gentiluomini facevano corona intorno a loro. Erano gli eredi, per lo più
scapoli, delle famiglie più ricche e in vista di New York, di quella invidiata e
potente aristocrazia del denaro di cui lui stesso, pur non desiderandolo,
faceva ormai parte.
Perché tutti fissavano Camille?
In piedi, davanti a lei, i due Benton, padre e figlio. La guardavano con
ammirazione, Ken come ne fosse ammaliato.
Gli venne voglia di raggiungerlo in quattro falcate, di prenderlo per il collo
e di spaccargli quella faccia da bravo ragazzo. Di fargli capire che Camille
era sua.
Anche se non lo era affatto.
Chiuse gli occhi e cercò almeno una ragione per resistere a quell’allettante
prospettiva. Non gliene venne in mente nessuna.
Forse non è neppure la prima volta che si incontrano. Forse in questi dieci
giorni Ken l’ha corteggiata…
Rimase immobile, in preda a un secondo, ingiustificato attacco di gelosia,
mentre i suoi occhi inghiottivano Camille con voracità, assaporandone ogni
più piccolo particolare. L’incavo del collo, le mani posate in grembo, il suo
abito da contadinella, più seducente che virginale, i lunghi capelli sciolti sulle
spalle, la vivacità del suo sguardo. Sorrideva, Camille, ma era a disagio.
Probabilmente per colpa di quello sciacallo del vecchio Benton che la stava
provocando, forse mettendola alla prova.
E tu, Ken, te ne stai lì tranquillo a guardare mentre tuo padre la massacra?
Che razza di uomo sei?
Stava per correre in suo aiuto, quando tutti, compreso lo sciacallo,
scoppiarono a ridere. Subito dopo, mentre altri ospiti, incuriositi, si univano
al gruppo, vide Ken e Camille dirigersi al tavolo dei rinfreschi. Ken le teneva
il braccio con fare possessivo e lei rideva delle sue battute.
Quell’assurda pantomima doveva terminare subito. Stava già marciando in
direzione della coppia felice, quando gli occhi di Camille incontrarono i suoi
e divennero duri come l’acciaio.
Poche parole bisbigliate all’orecchio di Ken e i due avevano già cambiato
direzione. Al loro posto si era materializzato Mr Benton, lo sciacallo.
Maledizione.
«Frank, ho piacere di vedervi. Ormai non contavo più sulla vostra
presenza.»
«Anch’io Benton, e mi scuso per il ritardo. Sono rientrato in città solo
questa sera. Ho fatto di tutto per poter intervenire alla vostra festa.»
Ipocrita che sono.
«Affari vi hanno condotto fuori città?»
«Sì, ma privati.»
Dopo qualche altra necessaria formalità – nessuno dei due era uomo da
dare troppa importanza alle convenzioni sociali – il vecchio Benton andò
dritto al punto. «Ho conosciuto Miss Brontee. Deliziosa. E intelligente in
modo preoccupante, per essere una femmina.» Così dicendo lo scrutava, con
attenzione.
«Già, ne sono convinto anch’io» rispose Raleigh, laconico.
«Mi ha strappato l’autorizzazione a scrivere la cronaca della festa per il
vostro giornale…»
Raleigh lo guardò sorpreso, reprimendo uno scoppio di ilarità.
«…e non è tutto. Le ho promesso pure alcune fotografie della serata. Non è
incredibile?»
Frank sorrise all’idea che Camille avesse già conquistato anche quel
vecchio marpione.
«No, Benton, non c’è nulla di incredibile quando si tratta di Miss Brontee.»
Con un saluto formale e il cuore in subbuglio, si congedò.
Doveva trovare Camille.
***
Ken la prese per mano e fendendo la folla degli ospiti la condusse verso
un’uscita laterale del granaio. Si ritrovarono all’aperto, in una sera limpida e
fredda, illuminata dalla luna piena.
«Notte ideale per Halloween» mormorò Camille guardando il cielo e
rabbrividendo.
Mentre si stringeva lo scialle intorno alle spalle pensò che avrebbe
sopportato anche il gelo delle Highlands piuttosto di ritrovarsi faccia a faccia
con Raleigh. Doveva rimanere lontana dal suo campo gravitazionale fino al
termine della festa.
Guardò le stelle. «Vi interessate di astronomia, Ken?» chiese.
«Non mo-olto, a essere sincero. Voi s-sì, Camille? Di solito le signore si
interessano di as-strologia, non di astronomia.»
«Non credo nell’astrologia, Mr Benton. Solo nel destino, o meglio, nel
caso.»
«E cosa, in particolare, vi a-a-ttira nello studio degli astri?»
Lei si fermò e lo guardò. «Vi interessa veramente?»
«Uh uh.»
«Sono sempre stata affascinata dalla teoria dei campi gravitazionali. È così
interessante capire i motivi per cui due corpi celesti si attraggono, senza
potersi opporre al loro destino, senza potersi liberare dell’influenza che
esercitano l’uno sull’altro. Il caso li fa avvicinare e loro rimangono incatenati
da una forza misteriosa. A volte, addirittura, collidono.»
«Come i me-eteoriti con la Terra, intendete?»
No, come la sottoscritta con Frank Raleigh.
Si sentiva attratta da Raleigh da una forza incontrollabile, tanto che, se
l’orgoglio e la buona educazione non glielo avessero impedito, non avrebbe
perso un altro minuto e sarebbe corsa a cercarlo. E il gentile Ken Benton
sarebbe rimasto lì solo, a pensare ai meteoriti.
«Esatto, Ken. Non avete mai pensato che anche la vita degli uomini
potrebbe essere governata da campi gravitazionali?»
Lui la fissò sorpreso. «Lo credete dav-vero possibile, Camille?»
«Sì.»
«Io no, non lo cre-e-do affatto. È l’uomo che decide in quale campo g-
gravitazionale orbitare. O con chi c-collidere.»
«Siete dunque tanto pragmatico, Ken, da non credere che la sorte o il caso,
se preferite chiamarlo così, possa indirizzare le nostre scelte?»
«Sì, sono estremamente pragmatico, Miss Brontee, e spero che un giorno
apprezzerete questo lato del mio carattere.» Quella volta, nessun balbettio era
uscito dalla sua bocca.
Giunti al baraccone del tiro a segno, Camille si guardò intorno. A parte i
due addetti, non c’era nessuno: forse Raleigh non l’aveva neppure
riconosciuta e si era mescolato agli altri ospiti. Tirò un sospiro di sollievo.
Il bersaglio, arretrato di una decina di metri rispetto alla linea di tiro, era
costituito da una piccola zucca all’interno della quale brillava una fiamma,
mentre i fucili erano dei veri Winchester caricati con proiettili speciali.
«Sono cu-urioso di vedervi all’opera, Camille.»
«Non so neppure da che parte iniziare, ma non vedo l’ora di provare, Ken.»
Ogni sfida la entusiasmava.
«So-ono certo che riuscirete a co-olpire quel bersaglio con la stessa abilità
con cui riuscite a co-olpire il c-c-uore degli uomini.»
Lei lo guardò sorpresa. Sapeva che non avrebbe dovuto incoraggiarlo, ma
non riuscì a trattenersi.
«Mr Benton…»
«Ken…»
«…Ken. Devo interpretare le vostre parole come un complimento?»
«Ebbene sì, voleva esserlo, a-anche se goffo e banale. Perdonatemi.»
Lei gli sorrise. «Al contrario. L’ho apprezzato molto.»
Camille prese il fucile che lui le stava offrendo. Era più leggero di quanto si
aspettasse. Lui le mostrò come impugnarlo e come mirare. Le sue braccia la
circondarono e lei respirò il profumo pulito di Ken Benton, sperando che le
regalasse un brivido o un’emozione, non solo la fragranza di una colonia
costosa.
Non sentì nulla.
Si mise in posizione, prese la mira e attese finché il suo respiro non si
calmò, come le aveva raccomandato lui. Poi sparò i due colpi a disposizione.
***
Eccoli, davanti al baraccone del tiro a segno. Ken era forse impazzito?
Voleva davvero permettere a Camille di sparare? E se si fosse ferita? A
Raleigh parve che quel rammollito la stesse abbracciando e si ritrovò
all’improvviso a correre.
***
La zucca rimase intatta.
Ciononostante, qualcuno, dietro di lei, applaudì.
Non ebbe bisogno di girarsi per capire di chi si trattasse.
Ken, invece, si voltò. Fissò il nuovo venuto e disse, come tra sé e sé, ma a
voce abbastanza alta per essere udito: «Raleigh! Ma che pia-a-cere!»
A nessuno sfuggì il suo tono sarcastico.
Frank si avvicinò e Camille sentì la temperatura salire. Dentro di lei, su di
lei. Intorno a lei. Sentì il cuore battere più forte e il respiro farsi corto.
A causa di un uomo.
No, non di un uomo. Di Frank Raleigh.
Indossava la stessa vecchia giacca di pelle che portava al porto il giorno del
loro primo incontro. Come quel giorno, avrebbe voluto allungare una mano
per sentire se la pelle di quella giacca fosse davvero morbida come appariva.
Già, una scusa pietosa. Avrebbe voluto passare le sue dita sotto la giacca,
senza fretta, sulle spalle, sul petto, sulle braccia di Raleigh per continuare poi
la sua esplorazione in altre direzioni.
Camille soppresse un risolino e si sentì avvampare. Come poteva solo
pensare a certe cose?
Fingendo indifferenza gli sorrise quando lui chinò il capo per salutare.
«Miss Brontee…»
«Vi conoscete?» fece Benton, subito allarmato.
«Se ti fosse sfuggito, Ken, la signorina lavora nella redazione del Daily,
quindi… per me.»
Pronunciò quelle due brevi parole in modo tanto possessivo da irritare
Camille.
«Non che in redazione ci onoriate spesso della vostra presenza, Mr
Raleigh!» si intromise lei in tono sarcastico, tanto che lo vide trattenere il
respiro e irrigidirsi.
Gli sguardi si inseguirono per alcuni istanti in un silenzio carico di
tensione. Fu Raleigh a romperlo per primo.
«Non appena i miei affari me lo permetteranno, Miss Brontee, rimedierò a
questa mia mancanza e mi vedrete in redazione anche più spesso di quanto
vorrete.»
Lo sguardo di lui fu come uno schiaffo.
«D’altronde, sono certo che Mr Corman abbia provveduto al vostro
inserimento come io non avrei saputo fare.»
«Su ciò siamo d’accordo» rispose Camille, secca, alzando il mento e
raddrizzando le spalle.
***
Frank si irrigidì di nuovo. Come darle torto? In fondo l’aveva abbandonata
a se stessa, una giovane donna sola in un covo di animali.
Era stato un codardo.
«Imma-a-gino che t-utti i tuoi redattori ti stiano u-ugualmente a cuore, vero
Frank?» lo incalzò Benton, più alterato che ironico.
«Ken…» lo supplicò quasi Camille.
«Ken?» ripeté Raleigh chiaramente irritato dal tono intimo della voce di lei.
Benton lo sfidò con lo sguardo, forte di quella piccola vittoria.
Incuranti della presenza di Miss Brontee, i due uomini continuarono a
studiarsi, occhi negli occhi, il capo leggermente in avanti, forse pronti a
prendersi a cornate come due cervi in calore o a beccarsi come due galletti
nell’aia, del tutto consapevoli di desiderare la stessa cosa.
***
Per quanto, forse, avrebbe dovuto ritenersi lusingata dallo spettacolo che si
stava svolgendo sotto i suoi occhi, Camille non poteva permettere che quei
due scriteriati si esibissero a causa sua in uno squallido spettacolo. Erano
talmente presi da quello stupido sfoggio di virilità da essersi praticamente
dimenticati di lei.
Scorse un gruppo di invitati avvicinarsi lentamente ai due baracconi.
Doveva agire in fretta.
Cercò di richiamare su di sé l’attenzione proponendo di rientrare alla festa.
«Mr Benton, non mi avevate promesso dello champagne?» fece con
leggerezza. «Vogliamo andare?»
Nessuna risposta.
Provò in modo più diretto.
«Signori, mi state mettendo in imbarazzo.»
Niente.
«Due gentiluomini non si dovrebbero comportare in questo modo. Mr
Benton, Mr Raleigh, vi prego…»
I due gentiluomini non la degnarono di uno sguardo.
Dio che caldo faceva!
Camille sentì crescere ulteriormente la tensione intorno a sé e temette che
quella ridicola situazione stesse per sfuggire a tutti di mano.
Agire. Doveva agire. Così, senza pensare, strappò quasi il fucile dalle mani
di Benton, si posizionò, mirò al bersaglio e tirò il grilletto.
BOOM!
La zucca volò via in mille pezzi.
I due uomini si voltarono all’unisono verso di lei, a bocca aperta.
«Vi ringrazio per avermi concesso la vostra attenzione, signori!»
Come diavolo ci sarò riuscita?
«Avete distrutto la z-zucca!» disse Benton, sorpreso, quasi intimidito.
«Già» commentò lei, «è evidente.»
«Miss Brontee è una donna dalle molte doti e a quanto pare è anche
pericolosa» aggiunse Raleigh con un sorriso che la colpì alla testa, al cuore e
anche più in basso.
Dannazione a te, Frank Raleigh.
Camille raddrizzò le spalle e il capo, in aria di sfida. «Pericolosa, dite, Mr
Raleigh? Più che altro, sono una donna che ha fame e sete. Quindi, signori,
col vostro permesso…»
Così dicendo, con un movimento secco consegnò il fucile a Benton, fece
una piccola, ironica riverenza e si incamminò con decisione verso il granaio
che ospitava il banchetto.
Benton e Raleigh fecero per seguirla, ma lei si girò di scatto, bloccandoli
come fossero due bambini disubbidienti: prima con lo sguardo, poi
sollevando l’indice della mano destra, infine con poche, scandite parole.
«Non. Fatelo. Vi prego. Non ho bisogno che nessuno di voi due mi mostri
la strada, o che mi porti da bere o del cibo. Sono in grado di fare tutto ciò da
sola.»
I due uomini, immobili e, almeno in quel momento, solidali fra loro,
rimasero a fissarla interdetti mentre rientrava di gran fretta alla festa, lo
scialle bianco ondeggiante sulle spalle come le ali di una farfalla notturna.
*
La festa proseguì tra danze, cibi squisiti e giochi. Ogni momento fu
immortalato da un fotografo, così come ogni abito, ogni risata, ogni sguardo.
Avrebbe avuto immagini splendide per accompagnare la cronaca di quella
serata!
Fissando nella mente quanto si stava svolgendo intorno a lei, Camille evitò
per tutta la sera di avvicinarsi a Raleigh, rimanendo per lo più in compagnia
dei Campbell e di Jenny Benton, che l’aveva ormai elevata al ruolo di suo
faro personale.
Man mano che si avvicinava la mezzanotte, l’ora in cui sarebbe comparsa
la cartomante con i suoi tarocchi e forse – sosteneva qualcuno – anche con
una sfera di cristallo e pozioni magiche, l’atmosfera si fece più gaia.
Camille danzò una quadriglia pur senza conoscerne bene la complessa
coreografia, una polka con Ken Benton e una mazurca con un giovane di
nome Mark. Per tutto il tempo, gli occhi di Raleigh non la lasciarono.
Quando arrivò il momento del Bacio di Halloween, il gioco più atteso della
serata, alcune signorine invitarono Raleigh a farsi avanti, civettando senza
ritegno.
«Su, Frank, sei vecchio ormai. Tocca a te quest’anno.»
Alzando le braccia in segno di sconfitta, Raleigh si arrese subito al volere
delle signore.
A Camille la cosa apparve alquanto sospetta.
Il gruppo degli ospiti più giovani si strinse subito intorno a lui. Insieme a
Ken Benton, anche Camille prese posizione nel cerchio. Non sapeva nulla di
quel gioco, ma fin dall’inizio non le piacque.
Le piacque ancor meno quando Raleigh, colpendola con il suo intenso
sguardo blu, le inviò un tacito messaggio.
Fuggi pure, sembravano dirle quegli occhi, tanto sei già mia.
Uno scherzo della sua immaginazione, certo, ma così suadente che a quel
pensiero le ginocchia cedettero e una nuvola calda, che aveva il profumo
intenso di Frank Raleigh, l’avvolse. Nervosa, cominciò a farsi vento con una
mano, poi con entrambe.
Invano.
La bocca di Frank Raleigh le sorrise vittoriosa mentre gli occhi blu la
trafiggevano di nuovo, divertiti e maliziosi.
Dio che caldo faceva! Possibile che lo sentisse solo lei?
Un cameriere le passò alle spalle con un vassoio colmo di piccoli bicchieri
ghiacciati. Pensando a una limonata fresca, Camille ne prese uno e ne ingollò
il contenuto con avidità.
Non era limonata.
Era un liquore forte, dalla consistenza del velluto e che sapeva di… acqua.
Le scivolò lungo la gola accarezzandola, dandole una sicurezza mendace.
Quando la testa cominciò a girarle, per sostenersi infilò il braccio sotto quello
di Ken Benton. Che la guardò speranzoso.
Il Bacio di Halloween ebbe inizio. Tra incitamenti e sfottò, Raleigh fu
prima bendato, quindi condotto al centro di un cerchio dove qualcuno aveva
già scritto con gessi colorati le lettere dell’alfabeto a caratteri giganteschi.
La piccola folla gli si strinse intorno e trattenne il fiato quando un giovane
armato di cronometro esclamò: «Pronto, Raleigh? Meno tre, due uno... via!
Incamminati verso il patibolo!»
Il patibolo?
Saranno stati anche democratici, gli americani, ma dovevano avere uno
strano senso dell’umorismo.
Raleigh, fingendo una smorfia di terrore, prese a vagare, le braccia protese
in avanti, andando a sbattere contro gli astanti che commentavano ogni passo
con risate e Ohhh e Ahhh.
Camille continuava a non capire.
«Bravo, avanti così!»
«Attento, ormai il tuo destino è segnato!»
«Fatti coraggio!»
«Continua a camminare, mancano venti secondi!»
Risate.
Come un attore consumato Raleigh aveva assunto un’espressione contrita,
preoccupata per la sciagura incombente.
«Cerca di non fermarti su una J» gli urlò Jenny tra le risa generali.
«Sarebbe davvero così terribile, Jenny?» chiese lui muovendosi come un
ubriaco sopra le lettere colorate.
«Cosa dovrebbe essere terribile?» chiese Camille a Jenny, ma questa
rispose soltanto: «Aspettate e vedrete! Molte signore farebbero la firma per
essere le prescelte dal destino».
Inquietante.
E poi…
Tutti trattennero il fiato quando Frank si fermò per caso davanti a Camille.
Con un Oh! preoccupato, Miss Brontee si esibì in un piccolo salto
all’indietro, mentre il cameriere transitava di nuovo alle sue spalle. Senza
pensarci su troppo, si girò e afferrò al volo un altro bicchierino di quella
cosa.
«Camille, non dovreste bere vodka come fosse acqua» cercò di metterla in
guardia Ken.
Troppo tardi.
«Vodka? È così che si chiama? Non sa di molto, ma è buona!»
«È un liquore che mio padre compra da certi immigrati ru-ussi, e che vi fa-
a-rà ubriacare se non starete attenta.»
«Mr Benton, non preoccupatevi. Non mi sono mai ubriacata in tutta la mia
luuuunga vita.»
Perché la mia lingua non funziona come dovrebbe?
Lui le rivolse uno sguardo preoccupato, ma poi la tensione si sciolse
quando Camille gli sorrise.
Il giovane col cronometro scandì gli ultimi secondi - «Quattro, tre…» -
mentre Raleigh rimaneva immobile davanti a lei, quasi riuscisse a vederla da
sotto la benda. Il piede destro poggiava sulla lettera G, il sinistro su una C.
«…due, uno, stop!»
Frank spostò il piede destro e lo pose al fianco del sinistro. Sopra la C.
«È una O» disse qualcuno.
«No, è una G» fece un altro.
È una C, come fate a non vederla, siete tutti ubriachi? pensò Camille.
Che gioco stupido era mai quello? Aggrappandosi ancora più saldamente a
Ken, fu colta da un sospetto.
«È una C» sentenziò infine qualcuno con prosopopea, e ogni dubbio fu
messo a tacere.
Camille sentì le ginocchia cedere sotto il peso di quella C. C, come
Camille. Non sapeva come Raleigh ci fosse riuscito, ma era certa che avesse
imbrogliato. Forse quella benda non era poi così stretta...
«Una C, Frank, sei contento?»
Camille continuava a non capire.
«Entro la fine del prossimo anno, una Miss C ti metterà un anello al dito e
una catena al collo, Raleigh» disse qualcuno ridendo.
«Poveretta!» fece una voce femminile seguita da altre risate.
Mentre le battute di spirito e gli incitamenti a Raleigh proseguivano,
Camille chiese a Jenny: «Adesso cosa succede?»
«Dovrà baciare le signore il cui nome inizia con la C.»
«Tutte?»
«No, solo le nubili.»
«Oh! E per quale motivo?»
«Solo baciandole potrà capire chi è la donna che gli ha riservato il destino,
ma, affinché l’incantesimo si avveri, non dovrà rivelarne il nome a nessuno.»
«Mi sembra un gioco alquanto cretino» disse Camille rinfrancata dalla
vodka.
«Sarà» ribatté Jenny, «ma Paul Remington l’anno scorso ha baciato Susan
Perkins e ora sono marito e moglie. E così è successo a John e Pam.»
A Camille sembrò di soffocare. Incominciò a tossire e si guardò intorno in
cerca di una via di fuga.
Tra le risa generali, un giovane chiese: «Te la senti, Raleigh, di baciare
tutte queste belle signore o vuoi che ti dia una mano?»
Poi qualcuno ordinò in modo solenne: «Tutte le Miss C facciano un passo
avanti».
Non ci penso neppure!
«Charlotte!»
«Claire!»
«Claudette!»
La caccia alle Miss C continuava con zelo fra applausi e risate.
«Christine!»
Raleigh si era tolto la benda dagli occhi e si inchinava a ogni candidata,
sorridendo galante, come sorpreso da tanta fortuna. Per un attimo diede le
spalle a Camille che, sussurrate delle scuse a Ken, ne approfittò per darsela a
gambe.
Non perché quel dannato liquore le stesse facendo girare la testa e piegare
le ginocchia o perché si sentisse ancora soffocare. Ma per il semplice motivo
che se Frank Raleigh l’avesse baciata sarebbe stato chiaro a tutti ciò che lui
già sapeva. Ciò che lei già sapeva.
Ciò che gli altri non dovevano sapere.
«Camille!» sentì infine.
Ma lei era già lontana, rintanata nell’Antro della strega. Appena finito
quello stupido gioco, scampato il pericolo, sarebbe riemersa dal suo
nascondiglio e tornata alla festa.
L’Antro della strega non era che un passaggio collegato a un ingresso
laterale del granaio e separato dal resto dell’ambiente da una pesante tenda di
velluto nero.
Per rendere il tutto più magico, sulle pareti e negli angoli erano stati
sistemati dei drappi neri e alcune decorazioni in tono: pipistrelli ed enormi
ragni di cartapesta, alambicchi, un improbabile libro di magia, un finto
calderone contenente una poltiglia verdastra e una vecchia scopa pronta
all’uso, nel caso la strega volesse prendere il volo, pensò Camille.
Si sedette con un gran sospiro al tavolo e prese una carta dal mazzo di
tarocchi, ma non la girò.
Che senso aveva voler conoscere il proprio destino prima che accadesse?
Eppure, non le sarebbe dispiaciuto sapere cosa stesse facendo Raleigh in quel
momento.
Perché la testa le girava così? E perché aveva tanta voglia di ridere?
Le giunsero le voci degli invitati, ancora presi da quello stupido gioco.
Camille tese l’orecchio.
***
Quando Raleigh si girò, Camille era già sparita e Ken Benton lo fissava con
aria vittoriosa.
Aveva accettato di partecipare a quello stupido gioco e barato in modo
spudorato per dimostrare a Camille… Che cosa? Se avesse voluto
semplicemente baciarla, non avrebbe avuto bisogno di quella messa in scena.
Avrebbe trovato l’occasione per farlo e in modo molto più discreto. E
appassionato.
Doveva esserci dell’altro.
Forse aveva partecipato per gioire dell’espressione delusa di Ken Benton
quando Camille si fosse persa nelle sue braccia. O forse per spiegare senza
giri di parole a quei damerini, così ridicoli nelle loro fasulle camicie da
contadini, che chiunque avesse messo gli occhi su Camille avrebbe dovuto
poi vedersela con lui e con i suoi pugni. Voleva che fosse chiaro a tutti,
soprattutto a Benton, che Miss Brontee non era terra di conquista.
Si concentrò sulle altre Miss C. Tutte belle, tutte desiderabili. Lo colse la
voglia di baciarle come nessuna di loro era stata mai baciata, una piccola
ritorsione nei confronti di Camille. Che era fuggita via come una codarda.
***
Camille non rimase seduta a lungo. Ben presto si alzò e si mise a spiare ciò
che succedeva là fuori. Nascosta dietro la tenda, osservò Raleigh avvicinarsi
a Charlotte.
Giovanissima, lo guardava con occhi dolci, chiari come il cielo. Tremava
leggermente, forse pensando a come avrebbero reagito i suoi premurosi
genitori se avessero saputo che stava per essere baciata dal lupo cattivo.
Raleigh le diede un bacio sulla guancia e subito si ritrasse.
Un bacio innocente toccò pure a Claire e a Christine, ma quando fu la volta
di Claudette, la temperatura sembrò alzarsi di colpo e il silenzio si fece
innaturale.
«Claudette, anche voi? Cosa dirà il vostro fidanzato?» chiese Raleigh
camuffando l’evidente disagio con un tono scherzoso.
Camille trattenne il fiato. Claudette era bellissima e sembrava che ci fosse
qualcosa fra lei e Raleigh…
«Come sempre non dirà niente!» rispose lei mostrando un sorriso
smagliante.
Tutti risero. Compreso il fidanzato.
Claudette Neville, oltre che sfacciata, era un’abile civetta e non faceva
nulla per nasconderlo. Quando Raleigh le posò le labbra sulla guancia, lei
girò il viso di scatto e le loro bocche si incontrarono.
***
Dannazione! pensò Raleigh staccandosi da Claudette come se fosse stato
punto da una vespa. Si chinò a baciarle la mano sorridendo a beneficio dei
presenti e con un solo sguardo lei gli promise il paradiso in terra. E con un
solo sguardo lui le rispose no.
«Allora, Raleigh, hai già scelto la fortunata da impalmare?» chiese
qualcuno.
«Volete sapere troppo, amici miei! Se ve ne rivelassi il nome, l’incantesimo
si spezzerebbe e addio fiori d’arancio!» rispose Raleigh sotto lo sguardo
sognante di Charlotte, Christine e Claire e quello malizioso e divertito di
Claudette. Poi si girò su se stesso come se stesse cercando qualcuno, e non
con intenti pacifici a giudicare dall’espressione del viso.
***
Col cuore che batteva impazzito, Camille lasciò ricadere all’improvviso la
tenda, terrorizzata al pensiero che lui si fosse accorto di lei.
Un hic.
E poi un altro, e un altro ancora.
Cercando rifugio nell’angolo più buio dell’antro, si fece piccola piccola,
mentre l’orchestra riprendeva a suonare. Se fosse rimasta nascosta lì dentro,
forse la musica avrebbe coperto quell’orribile singhiozzo e Raleigh non
l’avrebbe trovata.
Ma come resistere alla tentazione di scostare la tenda e dare un’altra
sbirciatina fuori?
Tornò alla tenda, allungò il collo e…
Ooops!
Raleigh era a pochi metri da lei e stava guardando con un sorriso
indisponente nella sua direzione.
La cosa si metteva male. Le venne la tentazione di fuggire, ma le gambe
sembravano non risponderle. E quell’odioso singhiozzo, poi! Che, dopotutto,
fosse davvero ubriaca?
Col cuore in tumulto, mise di nuovo il naso fuori dalla tenda.
Quell’uomo insopportabile era ancora lì! Perché non se ne andava?
E perché ora si stava dirigendo a passo di marcia verso l’Antro della strega
con quel preoccupante cipiglio sul volto?
Cielo! Devo uscire di qui.
Poi l’alcol che le circolava nel sangue le infuse coraggio. E, invece di
fuggire, decise di prendere il toro, ovvero Raleigh, per le corna. Strappò un
drappo da una parete e si diresse veloce verso il calderone contenente quella
strana poltiglia verde.
***
Diavolo! Doveva trovare Camille, la codarda gli doveva un bacio.
Dopo averla cercata in ogni angolo della grande sala e del cortile esterno,
era tornato sui suoi passi. Qualcosa non tornava. Non poteva essersi dissolta
nel nulla, neppure nella notte di Halloween.
Già, la notte di Halloween. Si ricordò di aver visto qualcosa muoversi
dietro a una tenda.
Un sorriso gli illuminò il volto.
Camille dev’essere sempre rimasta nascosta lì. Se solo avessi allungato un
braccio, l’avrei presa. E poi avrei potuto…
Con ben impresso nella mente ciò che avrebbe potuto farle, a lunghi passi
Frank Raleigh tornò indietro. Scostò la tenda ed entrò. L’ambiente piccolo e
poco illuminato ospitava un tavolo e due sedie. Ingobbita su una di queste,
una donna avvolta in un mantello di stracci stava disponendo i tarocchi
davanti a sé.
Frank Raleigh alzò un sopracciglio, sorrise ed entrò.
***
Eccolo. Era quasi contenta che fosse arrivato, che l’avesse scoperta. Colpa,
o forse merito, di quel liquido che andava giù come l’acqua, ma che bruciava
come il fuoco, se all’improvviso si sentiva tanto coraggiosa.
Forse poi non così coraggiosa. Il modo in cui lui la stava fissando la
induceva a pensare che avesse delle spiacevoli intenzioni nei suoi riguardi.
Che Raleigh fosse un cacciatore di streghe e volesse bruciarla?
Un brivido l’avvolse in una calda spirale.
Rimanendo muta, gli fece cenno di sedersi.
Hic!
***
Frank si sedette e nella luce fioca cercò di studiare il viso della donna. Una
cappa nera – per la verità assai simile ai drappi che pendevano dalle pareti –
la copriva dalla testa ai piedi, ricadendole in parte sul viso.
Gli sarebbe bastato strapparle di dosso quello straccio per smascherarla.
Non ancora. Desiderava centellinare la sua vittoria.
«Vorrei sapere cosa mi riserva il futuro, strega. Vorreste illuminarmi?»
Si sporse verso di lei e sentì un odore familiare. Di… vodka?
La strega prese il mazzo di carte e, del tutto a caso, ne distese dieci in
un’unica fila.
«Non sono una strega, sono una cartomante» disse in tono oltraggiato. Poi
le scappò un altro sonoro hic.
«Per me siete una strega» rispose lui scoppiando a ridere. Poi le guardò le
mani. Quelle di Camille erano delicate e belle. Quelle della donna che gli
stava di fronte erano... verdi?
«Non riderei troppo, se fossi in voi!» lo rimbeccò lei con voce minacciosa.
«Vorreste forse spaventarmi?»
La strega emise un humpf e senza rispondere estrasse dal mazzo altre carte.
Ora che i suoi occhi si erano abituati alla penombra, Raleigh si accorse che
anche quel poco che riusciva a scorgere del viso di lei appariva decisamente
verdastro.
«Girate cinque carte» intimò la strega con voce cavernosa.
Raleigh faticò a rimanere serio.
Alla prima carta, lei scosse la testa. Alla seconda emise un sospiro. Dalla
terza alla quinta cominciò a muoversi scompostamente sulla sedia, come se
una maledizione terribile stesse per rovesciarsi su di lui. O forse su tutto il
mondo.
«Dunque? Dite, strega, è davvero tanto spaventoso il mio futuro?» chiese
Raleigh fingendosi terrorizzato.
Con voce roca lei cominciò a parlare.
Lui sollevò entrambe le sopracciglia, sorpreso. Non solo Camille aveva la
pelle verde, ma era pure ubriaca. Di vodka. Era stato forse Ken a farla bere?
Al solo pensiero, strinse i pugni e serrò la mascella, pensando al piacere che
avrebbe provato a tirargli un cazzotto sul naso.
«Vedo una donna…»
«Anch’io la vedrei, se potessi definirvi tale.»
«Tacete, maschio arrogante e crapulone, e ascoltate! Hic!»
Batté con forza la mano sul tavolo.
Lui non riuscì a sopprimere un risolino. Arrogante e crapulone! Camille
era... divertente.
«Vedo una donna…»
«Una sola?»
«Tacete, vi ho detto!»
«Vedo una giovane donna...» riprese.
Alla luce rossastra della lanterna, il sorriso di Raleigh assunse un che di
diabolico.
«Pronta a darsi a voi…»
«Questa profezia comincia a piacermi, strega.»
«Ma, ma...» ripeté Camille con enfasi puntandogli contro un indice
verdastro, «non lo farà sino a quando non sarà sicura delle vostre intenzioni!
E lo sarà quando le darete un pegno del vostro amore!»
Forse per rendere più convincente quella sua fantasiosa asserzione, o forse
a causa della vodka che le circolava allegra nelle vene, prese in mano una
carta qualsiasi, per combinazione proprio quella raffigurante gli Amanti, e
gliela sventolò sotto il naso.
«Non mi piacciono i pegni, non mi piace sentirmi in trappola, neppure per
una donna» si lamentò lui.
«Eppure le carte dicono in modo chiaro che sarete pronto a offrirle il pegno
che lei vi chiederà.»
Gli sventolò sotto il naso un’altra carta a caso: l’Eremita.
Lui sbuffò. «E quale sarebbe questo pegno?»
«Dimenticarvi di lei.»
«Che diavolo!» sbottò lui. «Una giovane donna è pronta a infilarsi nel mio
letto e io dovrei dimenticarmi di lei? Che senso avrebbe? Siete proprio sicura
di saper leggere le carte, strega?»
«Come osate, maschio…»
«…arrogante e crapulone. L’avete già detto» la interruppe lui.
«Ma» proseguì Camille puntando ancora il dito verdastro contro di lui, «c’è
una seconda condizione. Se questa notte un raggio di luna si poserà sulle
labbra della donna che desiderate, e in quel preciso momento voi la bacerete,
lei sarà vostra. Per sempre. È il Mago» disse battendo l’indice sul Carro, «a
predirlo.»
«Ne siete proprio sicura?»
Raleigh si sporse attraverso il tavolo, incerto se smascherarla subito o
divertirsi ancora un po’. Di solito le donne ubriache erano una lagna unica,
Camille invece era effervescente, per non dire comica!
«Il vostro scetticismo mi offende. Ora dovreste andarvene, altri attendono
di conoscere il loro destino. Hic!»
«Un raggio di luna.»
«Esattamente.»
«Sulle sue labbra.»
«Ho già parlato, e in modo esplicito. Ora via, sciò.» E nel dire ciò raccolse
la scopa che aveva deposto ai suoi piedi e lo minacciò.
Raleigh scoppiò a ridere di nuovo e aggiunse: «Quando lo racconteremo ai
nostri figli, non ci crederanno!»
Si fissarono per qualche istante sbigottiti, i volti all’improvviso seri, il
respiro bloccato in gola.
Ai nostri figli.
Che diavolo gli era passato per la testa? Lui non voleva figli. Né tantomeno
una moglie che gli desse il tormento.
«Vado, vado, vecchia megera, e seguirò i vostri consigli, contateci» disse
col cuore che batteva e una fastidiosa sensazione che gli serpeggiava in
corpo.
Uscì dal granaio a passi lunghi e veloci, in cerca di un po’ d’aria fresca che
gli schiarisse le idee. Quando alzò gli occhi e vide i raggi della luna brillare
nel buio, le parole pronunciate dalla strega lo fecero quasi vacillare.
Se questa notte un raggio di luna si poserà sulle labbra della donna che
desiderate, e in quel preciso momento voi la bacerete, lei sarà vostra.
Sorrise.
Il pensiero che la bislacca profezia di Camille avrebbe potuto realizzarsi
proprio quella notte gli donò un brivido di eccitazione, se non addirittura di
speranza.
Perché no, in fondo? La notte era ancora lunga.
***
Circa un’ora più tardi, Mrs Campbell e Miss Brontee salirono in carrozza
pronte a rientrare in Washington Square.
«Mio marito ci raggiungerà subito, cara. Dimmi, ti sei divertita?»
«Non sapete quanto, signora. Ma sono talmente stanca che temo di crollare
addormentata sulla via del ritorno.»
«E che male c’è, mia cara? Io adoro schiacciare un pisolino cullata dal
movimento della carrozza.»
Sedute una di fronte all’altra, le due donne spartirono una coperta e
appoggiarono il capo sul soffice poggiatesta. Quando, poco dopo, Mr
Campbell e Mr Raleigh salirono in carrozza, le trovarono entrambe
addormentate. Ben presto anche Mr Campbell cedette alle lusinghe di
Morfeo.
Accanto a Camille, Raleigh sorrise e le sfiorò con dita leggere il volto, in
attesa che un raggio di luna attraversasse il buio della notte per posarsi su
quelle labbra morbide e desiderabili.
Moody, il suo cavallo, trotterellava leggero dietro di loro.
9

1 novembre, Washington Square


La mattina seguente, Camille aprì gli occhi alle sette e trenta, dopo appena
quattro ore di sonno. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di rimanersene a letto a
dormire e soprattutto a smaltire… come l’aveva chiamata Ken? Vodka?
Un’invenzione diabolica, la vodka. Creata probabilmente dagli uomini
perché le donne si comportassero come delle vere idiote.
Nonostante la tentazione di rimanere a letto, doveva alzarsi e recarsi al
Daily per scrivere l’articolo sulla festa dei Benton. Non poteva rivelarsi
debole o privilegiata se voleva che i lupi della redazione non la sbranassero.
Raccolse i capelli sulla nuca in uno chignon molto semplice e lasciò che la
frangetta le ricadesse sulla fronte in ciocche disordinate; poi indossò una
camicia bianca di cotone, il colletto inamidato chiuso da un fiocco di velluto
nero, e un completo color pavone ormai vecchio di un paio d’anni ma ancora
dignitoso, dalla gonna dritta e dal giacchino stretto in vita. Completò la sua
mise con un semplicissimo cappellino di velluto nero e un mantello dello
stesso colore che l’avrebbero riparata dal freddo del mattino.
In realtà, quel giorno il vento si era dimenticato di New York e Manhattan
era baciata dal sole. L’aria sapeva di mare e alcuni gabbiani strillavano
volteggiando sopra le teste dei cittadini indaffarati.
Camille si lasciò avvolgere con gioia dal tepore mentre si incamminava
verso la fermata del tramvai sulla Broadway. Sarebbe scesa all’altezza del
City Hall e avrebbe proseguito a piedi attraverso i giardini del Municipio fino
a Park Row. Camminare lungo le strade di New York era eccitante!
Liverpool era così tetra, grigia, opprimente, ma New York! Non era una
meraviglia?
All’improvviso si sentiva felice, sicura, determinata, e anche gli spiacevoli
effetti della vodka sembrarono dissolversi nell’aria frizzante.
Quando lo racconteremo ai nostri figli.
Perché quella dannata frase continuava a tornarle in mente?
Alle nove precise bussava alla porta di Mr Corman. Un quarto d’ora più
tardi sedeva davanti alla macchina da scrivere, pronta a battere sui tasti il suo
primo pezzo di cronaca mondana.
A mezzogiorno Mr Corman la chiamò a gran voce dal suo ufficio.
«Camille, c’è Ken Benton al telefono. Per te.»
Per te, fatto cadere in fondo alla frase, significava disappunto ma anche
sorpresa.
Un brusio si levò dalla redazione.
Mentre Camille si dirigeva con passo incerto verso l’ufficio di Corman,
Manny le corse accanto.
«Quel Ken Benton?» bisbigliò con espressione incredula.
«Già, devo sottoporgli l’articolo per l’approvazione. Una condizione che mi
ha imposto suo padre.»
«Evviva la libertà di stampa!»
«Non ho intenzione di cambiare una sola virgola, Manny. Forse una o due»
aggiunse ridendo.
Appena entrò in direzione, Corman disse: «Non sono il tuo segretario,
Camille! Gradirei che non ti facessi chiamare in redazione dai tuoi
spasimanti».
Camille lo fissò sorpresa. «Non è un mio spasimante, signore. La telefonata
riguarda il pezzo che ho scritto sulla festa di ieri sera.»
Corman alzò un sopracciglio e bofonchiò: «Va bene, allora. Ma non
perderti in chiacchiere inutili».
Corse al telefono col cuore che batteva forte per l’emozione. Sarebbe stata
la prima telefonata della sua vita. Non era meraviglioso essere una
giornalista?
Prese la cornetta e avvicinò il viso al microfono.
Le uniche parole che Corman poté ascoltare di quella conversazione furono
quelle pronunciate da Camille.
«Buongiorno, Mr Benton.»
«Sì, l’ho già scritto.»
«Tra mezz’ora?»
«Dove?»
«Manderete una carrozza qui al Daily? Grazie, siete molto gentile.»
«Mr Benton, vi rendete conto che non posso venire da sola, vero?»
«Bene, porterò una mia collega.»
«Grazie, Mr Benton.»
Camille riagganciò, felice. Se il direttore non fosse stato lì a fissarla con
aria divertita, si sarebbe messa a ballare per la stanza. Si schiarì la voce e
disse: «Devo uscire, Mr Corman».
«Lo so. Mr Benton manderà una carrozza a prenderti e lo incontrerai da
qualche parte. Per salvaguardare la tua reputazione porterai Manny con te,
cosa che un giornalista uomo non avrebbe dovuto fare. Ciò significa che non
sarà Manny a prepararmi il caffè dopo colazione e che, per questa ragione,
sarò costretto a bere un caffè pessimo che mi rovinerà l’intero pomeriggio.
Ora sparisci, e ritorna con delle belle fotografie.»
«Volete leggere il pezzo sulla festa adesso, Mr Corman?»
«No, più tardi. Vai.»
«Mr Corman…»
«Sei ancora qui?»
«Se posso permettermi…»
«Non puoi.»
Si permise lo stesso.
«Perché non fate installare un telefono anche in redazione? Potrebbe essere
molto utile.»
Mr Corman sembrò valutare seriamente l’ipotesi, poi abbaiò: «Sparisci!»
Manny aspettava Camille dietro la porta della direzione, chiaramente
agitata.
«Si va a Wall Street, amica mia!»
«Si va? Anche… io?»
«Devi difendere il mio onore.»
«Con le unghie e con i denti. Ma… dove?»
«Alla banca di Benton.»
*
La carrozza si fermò davanti all’ingresso, sul lato opposto del Wall Street
Journal. Camille proprio quella mattina ne aveva sfogliato una copia senza
capirci granché, per la verità, se non la precaria situazione delle sue finanze.
Se non fosse stata assunta al Daily si sarebbe trovata presto in mezzo ai guai,
forse anche in mezzo a una strada.
Di fronte alla banca un giovane uomo, che si presentò come Charles
Pendleton, assistente di Mr Benton, le aiutò a smontare dalla carrozza.
Quando Camille gli presentò Manny come la responsabile della segreteria del
Daily, questi rimase molto impressionato, probabilmente più dalla stessa
Manny che dall’incarico che ricopriva.
Entrarono in un ampio atrio tutto marmi e ottoni lucenti, nel centro del
quale campeggiava la statua a figura intera di un uomo
«Mr Rowan Benton» spiegò Pendleton, rispettoso. «Il nonno di Mr Ken.»
Salirono in ascensore al terzo piano e finalmente, dopo aver attraversato un
secondo atrio e un lungo corridoio, raggiunsero l’ufficio di Ken Benton: una
suite, per la verità, più che un semplice ufficio.
Ken attendeva le sue ospiti in piedi, davanti a un’imponente scrivania in
ciliegio. Sembrava impaziente, quasi nervoso. Accolse le due signore con un
sorriso e un cordiale benvenuto e le invitò ad accomodarsi prima di prendere
posto a sua volta.
Seguirono alcune frasi di circostanza che Camille interruppe forse troppo
bruscamente, consegnandogli il dattiloscritto.
«Attendo con ansia il vostro giudizio, signore.»
Lui parve rilassarsi e sorrise. Poi, prima di immergersi nella lettura, pregò
Mr Pendleton di far portare un rinfresco per le signore. Che si guardarono
perplesse.
Il rinfresco arrivò pochi minuti dopo servito da quattro camerieri in livrea e
occupò per intero il grande tavolo della sala riunioni adiacente.
«Temevate che morissimo di fame nell’attesa Mr Benton?» chiese Camille
divertita, vedendo sfilare tutto quel ben di Dio.
Lui si agitò un poco dietro la scrivania e la guardò sorpreso. «No, Miss
Brontee, la sola cosa che temo è pranzare da so-olo. Lo detesto, per la verità.»
Aveva cominciato a balbettare.
In quel momento Ken Benton, con tutti i suoi milioni, il suo ufficio
lussuoso e il suo potere, le fece tenerezza. Senza accorgersene, rispose in un
sussurro: «Sarà un piacere pranzare insieme a voi, Mr Benton».
«Davvero, Camille?»
«Davvero.»
***
Ken Benton si sentì avvampare e, per nascondere l’emozione, abbassò il
volto e si immerse nella lettura conscio che gli occhi di Camille non lo
avevano mai lasciato. E non lo lasciarono sino a quando non ebbe terminato
di leggere.
«Mi sembra un ottimo articolo, Miss Brontee, scorrevole e divertente. La
mia famiglia ne esce molto bene. Non ho nulla da ridire, siete proprio brava.»
Lei lasciò andare a un sospiro di sollievo, anche se a Ken parve di cogliere
una piega malinconica nel suo sguardo. Avrebbe voluto chiederle della sua
famiglia, del suo passato, del perché fosse entrata nella redazione del Daily o,
meglio, nella tana di Raleigh. Soprattutto quello, le avrebbe chiesto, se solo
avesse osato.
«C’è solo una parte dell’articolo che non mi convince» aggiunse invece con
decisione, senza il minimo accenno di balbuzie.
«Pensavo vi fosse piaciuto. Desiderate apportare delle correzioni?»
«Forse. C’è un particolare di cui vorrei discutere con voi. Venite,
parliamone a quattr’occhi.»
Camille si alzò dalla poltroncina che occupava e seguì Ken in un angolo
dell’ufficio, palesemente sulle spine.
Lui chiuse gli occhi e si lasciò inondare dal profumo di lei e per un istante
si dimenticò di tutto. Se solo avesse potuto…
«Mr Benton, state bene?»
La domanda di Camille lo riportò bruscamente alla realtà. Sentendosi un
cretino, tornò all’espressione seria e professionale di sempre e si schiarì
persino la voce, quasi dovesse iniziare un lungo discorso.
«Sì, dunque… Volevo dirvi che quando descrivete il gioco del bacio, mi
sembra che la vostra ironia sia… eccessiva.»
«Dite davvero? Forse la mia ironia è palpabile perché non credo a certe
sciocchezze e reputo che farsi baciare in quel modo intimo in pubblico sia
mortificante per una giovane donna.»
Gli occhi di lui non la lasciavano.
«In un qualsiasi altro periodo dell’anno vi avrei dato ragione, Camille, ma a
Halloween è consentito. Le famiglie delle ragazze erano presenti, e un gioco
è un gioco. E poi, non siete forse fuggita prima che toccasse a voi? Come
potete giudicare quanto intimo sia stato quel bacio?»
Camille non rispose.
«Pe-perché siete fuggita?» insistette lui.
Lei alzò lo sguardo e Ken si sentì sprofondare in quegli occhi nocciola.
«Lavoro per Mr Raleigh. Mi è parso davvero fuori luogo farmi baciare da
lui» rispose sincera.
«Capisco. In ogni caso, sono mo-molto conten-to che no-on lo abbiate ba-
baciato.»
Camille lo fissò interrogativa.
«Se aveste visto la sua faccia quando si è accorto che eravate sparita…»
«In tutta onestà, non mi interessa la reazione di Mr Raleigh.»
«Davvero?» rispose ironico, mentre una fitta di gelosia gli mordeva lo
stomaco.
«Credo sia meglio cambiare argomento, Mr Benton.»
Pur di starle vicino, avrebbe parlato anche di merletti e profumi.
***
Camille cercò di scacciare l’imbarazzo che le scottava il viso raddrizzando
la schiena e assumendo un atteggiamento professionale.
«Apporterò gli opportuni cambiamenti all’articolo, se lo desiderate. Ora,
Mr Benton, vorreste aiutarmi con le fotografie? Non credo di essere in grado
di dare un nome a ogni volto.»
«Lo sarete presto, Camille. Sa-arà un p-piacere per me far sì che veniate
invitata a ogni evento mondano.»
«Vi ringrazio, ma non mi occupo di cronaca mondana, d’abitudine. Ci sono
altri redattori per questo, Mr Benton.»
«Ken. Ieri sera ero Ken, per voi.»
«Ken.»
Perché era così difficile chiamarlo per nome?
Quando giunse l’ora di tornare in redazione, Benton si offrì di
riaccompagnare le due signore al Daily.
«Non avete cose più importanti da fare?» gli chiese Camille, sorpresa.
Lui le sorrise come un bambino felice e scosse la testa.
Una volta in strada, le porse il braccio e le mostrò il Federal Hall, dove nel
1789 fu proclamato Presidente George Washington. Ma, per quanto
interessata alla storia, Camille era più impaziente di conoscere il presente.
«Ken, è in quell’edificio che si tengono le contrattazioni di Borsa?» chiese
indicando un imponente palazzo.
«Camille, voi non finite di stupirmi! Ora vorreste interessarvi anche di
finanza? No, la Borsa si trova in quell’altro palazzo. Laggiù, vedete?» le
rispose avvicinando leggermente il capo a quello di lei.
«E… si può assistere agli scambi?»
«Intendete se voi potete assistere? Non è un luogo per si-ignore... ma v-
vedrò cosa si può fare.»
«Veramente fareste questo per me?»
Si erano fermati e lui per un istante l’aveva guardata come a volerle dire:
Farei ogni cosa per voi, se solo me lo permetteste. Invece disse: «Potrei
tentare, se mi conce-concedeste di-di accompa-pa-pagnarvi a Central P-P-
Park per una passeggiata, domani. Con mia sorella come chaperon, è logico».
«Mr Benton, questo è un ricatto bello e buono.»
«Lo so.»
«Dovrei chiedere il permesso a Mr Campbell» mentì lei.
«Questa sera stessa chiamerò per chiederglielo.»
Le sorrise speranzoso. Ripresero a camminare.
«E il Federal Hall cosa ospita, oggi?»
«Oro, Miss Brontee. Buona parte delle riserve del nostro Paese.»
Lei lo fissò con gli occhi che brillavano e domandavano una sola cosa.
Lui scosse la testa e le sorrise.
«Mi spiace deludervi, Camille, ma lì temo proprio che non vi farebbero
entrare.»
***
Nel primo pomeriggio Frank Raleigh si presentò con una scusa improbabile
alla porta dei Campbell, e Broley gli rispose imperturbabile che la signorina,
come tutti i giorni, era uscita alle otto e trenta per recarsi in redazione.
La notizia, inutile negarlo, sulle prime sorprese Raleigh. Poi lo infastidì.
Se da un lato non poteva che ammirare il senso del dovere e la
determinazione di Camille, dall’altro lo irritava il fatto di non averla trovata
occupata in più ameni e inutili passatempi femminili o addirittura a oziare
ancora a letto. Proprio quella era l’immagine che la sua fantasia preferiva:
Camille tra le lenzuola, sonnecchiante e possibilmente nuda, che lo implorava
di raggiungerla.
Ipotesi a dir poco improbabile.
Pensare di portarsi a letto una sua dipendente era una follia. Era contro le
regole. E il buonsenso.
E se la licenziassi?
Già, forse era quella la soluzione più semplice e immediata. Ci rimuginò
sopra per un po’, poi decise che in ogni caso doveva vederla quel giorno
stesso, il che significava recarsi al Daily con una scusa plausibile.
Una scusa! Da quando l’editore aveva bisogno di una scusa per girare
indisturbato per il suo giornale?
Così, dopo circa un’ora, un po’ irritato e un po’ speranzoso, mise piede
nell’imponente atrio del Daily nello stesso istante in cui una carrozza si
fermava davanti all’ingresso.
Raleigh vide smontare un uomo che conosceva molto bene e poi la figura
sottile di una donna comparire nell’arco della portiera aperta. Incredulo, si
avvicinò a una delle vetrate che si affacciavano su Park Row.
Che diavolo…?
Non si era sbagliato.
L’uomo appena sceso dalla carrozza era proprio Ken Benton, e la donna
che lui stava aiutando a smontare con tanta sollecitudine era… Camille.
Frank rimase immobile e privo di parole, come un monello che guarda con
invidia un ricco rampollo leccare un enorme gelato.
Il suo gelato.
Per la seconda volta in meno di ventiquattr’ore gli venne voglia di colpire
sul naso Ken Benton.
Benton nel frattempo aveva accompagnato Camille e la segretaria di
redazione all’ingresso, si era congedato da loro e, a Dio piacendo, stava
risalendo in carrozza.
Frank fissò non visto le due donne che, in un vortice di stoffe colorate,
parole indistinte e risolini, rientravano nel foyer attraverso la porta girevole.
Un paio di passi ancora e avrebbe potuto fermarle. E riprendersi il suo gelato.
Leccarlo come e quanto voleva.
Forse.
Sgomento e leggermente eccitato da quel pensiero ingordo, rimase invece
immobile, mentre le due signore, conversando animatamente, si dirigevano
verso l’ascensore e vi sparivano all’interno.
Che Camille, dopotutto, fosse veramente una strega?
*
Era al tredicesimo piano del numero 10 di Park Row che Raleigh si
occupava dei suoi affari. In pochi anni, tutta l’America avrebbe avuto
bisogno di nuove strade, ferrovie, palazzi, elettricità e telefoni, oltre che di
giornali, ed era proprio in quei settori che Raleigh aveva investito i suoi
capitali. Partito dal nulla, arrivato dal nord del Paese con nulla, aveva presto
raggiunto potere e denaro giocando pulito, sostenuto dalla fortuna e
dall’incoscienza di chi sa scommettere forte.
Non era una persona avida, Frank Raleigh. Non aveva sete di prestigio o
ambizioni di potere. Ciò che lo spingeva erano le sfide continue con se stesso
e gli altri; il suo premio era solo il sapore della vittoria.
Dell’aristocrazia di quella folle città se ne infischiava, ma era fiero, lui,
figlio di un ex tipografo, di essere entrato a testa alta tra le sue invidiate fila.
Impiegava i suoi guadagni reinvestendoli e concedendosi una vita privilegiata
ma non opulenta. Una vita che era giunta ormai a una necessaria quanto
imprevedibile svolta.
Quando Mr Laurel quel sabato pomeriggio vide arrivare il suo principale
dopo dieci giorni di assenza, comprese subito che non sarebbe stato saggio
contraddirlo.
«Desidero vedere prima Mr Corman, poi Johnson. Ora» disse Raleigh
senza perdere tempo in saluti o frasi di circostanza.
Mr Laurel, silenzioso ed efficiente, si preparò a un pomeriggio difficile.
*
Nigel Corman e Frank Raleigh si conoscevano da anni. Corman, che aveva
trascorso la vita nelle redazioni dei principali quotidiani della costa orientale,
era stato per Raleigh prima un consigliere, poi un amico, quindi una figura
paterna cui confidare insicurezze e progetti. La loro amicizia era tanto
profonda che la conversazione andò dritta al punto senza inutili preamboli.
«Cosa ne pensate di Miss Brontee, Nigel?»
Seduto dall’altra parte della scrivania, Corman sospirò.
«Se non fosse una donna – condizione scomoda nel nostro mestiere –
avrebbe le potenzialità per diventare un ottimo giornalista. Da quando è
arrivata, e sono solo una decina di giorni, le lettere delle lettrici sono
triplicate e gli strilloni affermano che molte signore comprano il giornale
chiedendo se c’è un articolo di Miss Brontee.»
«Quindi pensate di confermarle l’impiego?»
«Se anche voi siete d’accordo, sì.»
Di’ che non sei d’accordo. Abbi il coraggio di farla licenziare…
«Lascio a voi decidere, Nigel.»
Vigliacco!
«Bene, allora è deciso. Miss Brontee resta. A proposito» continuò Corman
schiarendosi la voce, «vorrei sottoporvi due proposte di Camille.»
Raleigh lo guardò stupito. «Due proposte, dite? E di che genere?»
Corman sorrise fra sé.
«Due rubriche. Una dedicata alle Donne della Grande New York, un’altra
sulla letteratura femminile. Che ne pensate?»
«Penso che Miss Brontee dovrebbe avere la modestia di imparare le basi
del lavoro prima di lanciare proposte strampalate!»
Era confuso e seccato: più lavoro si fosse accollata Camille, meno tempo
avrebbe avuto per lui.
Corman rimase stupito da quella reazione.
«A me, sinceramente, non sembrano strampalate, Frank!»
«Come se Miss Brontee fosse in grado di svolgere tutto questo lavoro da
sola…»
«In effetti, pensavo di affiancarle Manny, visto che fra loro non ci sono
stati problemi.»
«Problemi?» Raleigh scattò in piedi, allarmato.
«Se proprio volete saperlo, i gentiluomini della redazione non hanno reso a
Miss Brontee la vita facile in questi suoi primi giorni di lavoro.»
Il viso di Raleigh si indurì. «Le hanno mancato di rispetto?»
«Qualche battuta, qualche burla. Niente di veramente pesante. La ragazza si
è difesa con le unghie e con i denti e ora la situazione è migliorata. Oserei
dire che sia quasi riuscita a ottenere il rispetto dei suoi colleghi.»
«Perché non mi avete parlato prima di questa situazione? Sarei intervenuto
personalmente.»
«Vorrei ricordarvi che è da dieci giorni, per la precisione da quando
Camille ha fatto il suo ingresso al Daily, che non ci onorate di una vostra
visita. E, a dirla tutta, temo che non si tratti di una coincidenza.»
«Cosa volete dire, Nigel?»
«Miss Brontee arriva e voi sparite! I pettegolezzi a proposito non sono
mancati.»
La furia esplose in Raleigh, che batté con forza un pugno sulla scrivania.
«Come si sono permessi, quegli avanzi di galera, di malignare su Miss
Brontee?»
Il ripiano vacillò sotto un altro colpo. Raleigh aveva una voglia matta di
salire in redazione e sistemare la questione a modo suo.
«Frank, ragazzo mio, non è prendendo a pugni un paio di redattori che
aiuterete Miss Brontee a superare le sue difficoltà. Una giornalista giovane e
graziosa… È inevitabile che certe voci prendano piede, e non solo all’interno
della redazione. La prima cosa che tutti penseranno vedendovi insieme è che
siate amanti. Non importa che Camille abbia dimostrato di avere stoffa. La
gente vedrà in lei solo l’ultima conquista di Frank Raleigh.»
«Anche voi lo pensate?»
«Penso solo che sarebbe meglio che rivolgeste altrove le vostre attenzioni,
almeno per un po’ di tempo.»
Ci mancava solo la reputazione di Miss Brontee da difendere, adesso!
Come avrebbe potuto starle accanto fingendo un’indifferenza che non
provava?
Sentì la situazione sfuggirgli di mano e salire sino alla gola e poi stringere,
stringere, stringere...
«Un uomo come voi può solo sposare una ragazza come Camille. Oppure
rovinarla, Frank.»
Certo Corman sapeva come tirare colpi bassi.
Pensieroso, Raleigh si mise a misurare l’ufficio in lungo e in largo.
«Terrò conto del vostro consiglio, Nigel, ma nel frattempo fate capire a
quegli animali che non sopporterò che manchino ancora di rispetto a Miss
Brontee.»
«Non vi preoccupate, Frank, veglierò su di lei, sempre che quella donna me
lo permetta!»
Mr Corman era già alla porta quando Raleigh lo richiamò.
«Nigel, chiedete a Miss Brontee di raggiungermi tra mezz’ora con l’articolo
e le fotografie del ricevimento di ieri sera, per favore.»
Corman lo fissò, interrogativo.
«E desidero che venga sola, non con Manny incollata alle gonne.»
Corman alzò un sopracciglio e disse: «Frank, ragazzo mio. Mi piace quella
ragazza. Ve lo ripeterò con altre parole, nel caso non aveste ancora capito:
non ho tenuto a bada gli innocui lupacchiotti del quattordicesimo piano solo
per darla in pasto al feroce capobranco del tredicesimo. Mi sono spiegato?»
Frank Raleigh guardò Corman sparire dietro la porta, alzò gli occhi al cielo
e si preparò a trascorrere la mezz’ora più lunga della sua vita.
***
Camille non aveva mai messo piede al tredicesimo piano. Quando Bill,
l’addetto all’ascensore, aprì le porte e si esibì in un «Tredicesimo, Miss
Brontee», si ritrovò in un territorio sconosciuto.
Avanzò incerta nell’atrio ormai deserto, il rumore dei suoi passi attutito da
spessi tappeti. L’ambiente era elegante ma più discreto e accogliente di quello
dell’ufficio di Benton.
Non sapendo quale direzione prendere, si avviò lungo un corridoio
cercando sulle porte il nome di Raleigh.
«Signorina?»
Si girò. Era Mr Laurel, in procinto di andarsene a casa.
«Buonasera, cerco l’ufficio di Mr Raleigh.»
«Seguitemi, Miss Brontee, vi ci condurrò io.»
Più si avvicinavano, più il cuore di Camille batteva forte.
Non c’erano molte probabilità che Raleigh volesse discutere del suo
impiego al Daily, ma ce ne erano moltissime che volesse tormentarla
parlando di quanto successo la notte precedente.
Già, com’era potuto accadere?
Dal battibecco tra Raleigh e Benton sino alla messa in scena svoltasi
nell’Antro della strega, era stato come vivere in un incubo di cui, peraltro,
Camille non ricordava bene la fine. Tutta colpa di quei dei due... o tre?...
bicchierini di vodka buttati giù come acqua fresca.
Ma si ricordava benissimo delle parole che Raleigh le aveva sussurrato
prima di andarsene: Quando lo racconteremo ai nostri figli.
Parole prive di senso e azzardate, che le erano rimaste impresse a fuoco
nella mente.
Ormai prossima all’ufficio di lui, fu colpita da un altro ricordo, un fulmine
a ciel sereno. Non sapeva come né perché, ma a un certo punto, durante il
viaggio di ritorno verso Washington Square, si era risvegliata dal suo torpore
e aveva trovato Raleigh seduto al suo fianco che le sorrideva in modo strano.
«Voi? Cosa ci fate qui?» gli aveva chiesto.
Poi doveva essersi riaddormentata, mentre la distanza fra i loro corpi si era
ridotta col passare dei minuti e l’aumentare del russare dei Campbell.
Come aveva potuto rammentarsene solo ora? Ricordava il calore del corpo
di Raleigh avvolgerla e il profumo della sua colonia inebriarla. Insonnolita e
un po’ brilla, e soprattutto scomoda, aveva posato il capo sulla sua spalla
prima di ripiombare in un sonno agitato.
Sì, ora ricordava tutto in modo più chiaro.
Rammentava come lui le avesse appoggiato le labbra sulla fronte e come,
sul Brooklyn Bridge, le avesse mormorato qualcosa sulla luna e su una
profezia che ora non riusciva a rammentare. Ricordava anche come,
immediatamente dopo quella storia della profezia, lui l’avesse baciata. Un
tenero, delicato bacio sulla bocca, il cui solo pensiero le fece correre più
veloce il sangue nelle vene.
A pensarci meglio, quel bacio non era stato né tenero né delicato, e le mani
di Raleigh… Perché all’improvviso stava pensando alle sue mani?
Cielo, aveva bisogno di un po’ aria.
Forse era ancora in tempo per scappare.
Oppure per svenire.
O per fingere un provvidenziale attacco di tosse e uscire come il vento da
quel luogo.
Ma non fece nulla se non rimanere impietrita davanti alla porta del proprio
editore.
Laurel bussò, poi annunciò con solennità, cedendole il passo: «Miss
Brontee, signore».
Con l’articolo e le fotografie in mano, e il cuore che sembrava stesse per
saltarle fuori dal petto, Camille entrò per la prima volta nel sancta sanctorum
di Frank Raleigh.
L’ufficio era spazioso, arredato con mobili essenziali, eleganti, e tappeti
persiani dalle tinte chiare che ricoprivano per intero il pavimento.
Raleigh era in piedi nei pressi della scrivania con un altro uomo. Nessuna
emozione trasparì dai suoi occhi quando la vide. Nessun sorriso si disegnò
sulle sue labbra. Nessun tremore scosse le sue mani. In quel momento, di
fronte ai suoi impiegati, appariva più freddo del ghiaccio.
Che si fosse già dimenticato di come l’aveva baciata la notte prima?
«Buon pomeriggio, Miss Brontee. Permettetemi di presentarvi Mr Johnson,
il nostro responsabile amministrativo. Sarà lui a consegnarvi lo stipendio ogni
settimana e a occuparsi di eventuali problemi contabili.»
La sua voce uscì precisa, formale.
Mr Johnson piegò leggermente il capo e disse: «Vi aspetto lunedì nel mio
ufficio, per sistemare le pratiche dell’assunzione, Miss Brontee».
Poi, senza neppure attendere una sua risposta, salutò e se ne andò, seguito
da Laurel.
L’espressione di Camille passò dallo sbigottimento più assoluto alla gioia
quando comprese di aver ottenuto il lavoro.
«Grazie» disse a Raleigh, guardandolo negli occhi con riconoscenza. «Non
immaginate neppure cosa significhi questo per me.»
A disagio, lui si sedette alla scrivania. Lei rimase in piedi.
«Non è me che dovete ringraziare, ma Corman e soprattutto voi stessa.»
Il volto di lui si ammorbidì in un sorriso che per un attimo regalò a Camille
una gioia inattesa. Poi, così come era venuto, quel sorriso svanì e
l’espressione di Raleigh tornò dura, distante.
«Avete fatto un buon lavoro, Miss Brontee. Il direttore è soddisfatto di voi.
Devo ammettere di esserlo anch’io, adesso.»
«Davvero? Prima non avevate fiducia nelle mie capacità, dunque?»
«Niente del genere. Pensavo in tutta onestà che dopo un paio di giorni
sareste fuggita orripilata da questa gabbia di pazzi, e invece, a quanto mi è
stato detto, avete combattuto e vinto le vostre battaglie.»
Lei respirò a fondo, nel tentativo di placare il cuore e nascondere l’ansia.
«Devo ancora vincere la guerra, Mr Raleigh.»
«Non ho dubbi che vi riuscirete, Miss Brontee.»
Lo stesso uomo che la notte precedente, in carrozza, l’aveva baciata e
accarezzata in quel momento le stava dimostrando una cortese indifferenza.
Camille si sentì gelare.
***
Frank la invitò a sedersi di fronte a lui. Voleva qualcosa di solido e
concreto fra loro, come il ripiano della scrivania.
Vi appoggiò i gomiti, incrociò le dita e fissò Camille pensieroso, quasi
dovesse prendere una decisione importante.
Lei gli sorrise, imbarazzata.
Dio come sei bella, Camille. Perché mai ho dato retta ad Agnes? Che idea
folle è stata assumerti al giornale! Se non l’avessi fatto ora potrei
comportarmi con te da uomo e non come il tuo capo.
Nella mente di Raleigh fecero capolino tutte le cose che, da uomo, avrebbe
voluto farle. Prima di tutto avrebbe scavalcato la scrivania per raggiungerla...
girarci intorno avrebbe richiesto troppo tempo... Poi avrebbe usato quella
stessa scrivania per…
Scacciò quella visione che non lo avrebbe portato a nulla se non a rodersi
ancora di più. Altre immagini, altre riflessioni e sensazioni presero a vorticare
in lui come le figure colorate di un caleidoscopio. Ipotesi, intenzioni,
soluzioni. Obiettivi. Si sforzava di essere razionale in un campo in cui la
razionalità non aveva voce; e più si sforzava di esserlo, più gli era chiaro che
Nigel Corman aveva, come sempre, ragione.
Per lo stesso bene di Camille, doveva considerarla territorio proibito,
evitando così pettegolezzi, cattiverie e sorrisini d’intesa. Non poteva
permettere che le malelingue, in società sempre floride e ben pasciute, si
scatenassero contro di lei e la considerassero una donna capace di saltare in
molti letti pur di ottenere ciò che voleva.
Camille non era così.
Non aveva fatto nulla per ottenere il posto al Daily, se non comportarsi con
disarmante onestà. Ma la gente non avrebbe capito, non vi avrebbe creduto.
Poteva già sentire mormorii beffardi levarsi nei salotti e nei caffè della città.
A Raleigh non basta avere un’amante in ogni quartiere di New York, deve
averne una a disposizione anche in Park Row, per ogni evenienza!
E ancora...
Non è forse sconveniente per una giovane donna stare tutto il giorno in
redazione gomito a gomito con tanti uomini?
No, non aveva scelta. Doveva ascoltare il saggio consiglio di Corman.
Un’idea gli passò per la mente, un’idea che avrebbe risolto ogni problema
se non avesse profumato di fiori d’arancio e non fosse stata semplicemente
folle.
«Mr Raleigh?» fece Camille, sorpresa dal lungo silenzio e dall’espressione
assente del suo editore.
La voce della giovane lo riportò alla realtà. Era talmente scosso dal tenore
dei suoi pensieri da non sapere, per una volta nella vita, cosa dire. Cosa fare.
Si sentiva fragile, vulnerabile.
E stupido.
Trasse un lungo sospiro e il volto assunse di nuovo un’aria dura, spigolosa.
«Perdonatemi, Miss Bronte, ho molti pensieri per la mente. Data l’amicizia
che mi lega ai Benton...» Che ipocrita sono! «...desidero controllare
personalmente il vostro articolo e il materiale fotografico, se non vi spiace.»
Lei gli porse il tutto e disse: «Una copia dell’articolo è già in tipografia con
l’approvazione di Mr Corman, ma siamo ancora in tempo per dei
cambiamenti, se li riterrete necessari».
Per quanto si sforzasse di mantenere le distanze, per un istante Raleigh
cedette alla tenerezza. Perché negli occhi di quella giovane coraggiosa vide
speranza, entusiasmo e gioia, così come il timore della delusione e del
fallimento. Vide soprattutto tanta innocenza e troppa fiducia.
Si meritava, lui, la fiducia di Camille?
Cosa avrebbe dato in quel momento per abbracciarla, per farle capire
quanto fosse preso da lei! Eppure, non poteva neanche sfiorarle una mano, o i
suoi buoni propositi si sarebbero volatilizzati in un soffio.
Con la gola chiusa, scacciò quei pensieri e cercò di concentrarsi sulle
fotografie.
In quella in cima alla pila i volti di Ken e Jenny Benton gli sorrisero. Con
una fitta di gelosia pensò a Ken, a come la sera precedente aveva abbracciato
Camille mentre le insegnava a impugnare il fucile, a come un paio di ore
prima le aveva baciato la mano, proprio lì, appena fuori dal Daily.
Si rese conto, forse per la prima volta in vita sua, di essere geloso. Di Ken
Benton. Della sua dannata festa. Della balbuzie che lo faceva apparire molto
più indifeso di quanto non fosse. Della sua nobiltà d’animo. Di quella sua aria
da eterno ragazzo. In realtà era un uomo in gamba, intelligente e onesto. E
dannatamente ricco. Perché Camille non avrebbe dovuto cadergli ai piedi
quando lui stesso era pronto a consegnargliela su un piatto d’argento?
***
Camille non pensava certo a Benton, in quel momento. Era solo impaziente
di conoscere il giudizio di Raleigh sul suo articolo.
Ma quanto ci metteva a leggerlo?
Finalmente lo vide sollevare la testa dal foglio e trattenne il fiato,
trepidante.
«Molto bene, Camille.»
«Molto bene… in che senso?»
«Nel senso che è un buon articolo. Ironico, spiritoso, ma rispettoso» rispose
Raleigh finendo di controllare le immagini. Una lo ritraeva con Claudette.
«Volete forse mettermi nei guai con Sandford, il fidanzato di Miss Neville,
Camille?» Sorrideva, segno che non era seccato ma divertito. «Potevate
scegliere una vostra fotografia, invece della mia. I lettori avrebbero
apprezzato di più.»
Con un gesto della mano lei si sbarazzò di quel complimento.
«Pensate davvero che sia un buon articolo? Non ho mai scritto nulla del
genere, prima.»
«Sì, lo penso sinceramente. E devo ringraziarvi perché per la prima volta il
Daily ha la possibilità di scrivere di un evento che è sempre rimasto fuori
dalle cronache mondane. Agendo d’impulso, avete conquistato anche Jack
Benton, non solo suo figlio Ken, Miss Brontee.»
Solo a sentire il nome di Ken, Camille arrossì. «Cosa volete dire, Mr
Raleigh?»
Lui prese tempo prima di rispondere e lei ebbe l’impressione che stesse
cercando di dominarsi.
«Vi ho visti, poche ore fa, in strada.»
«Cosa avete visto, di grazia?» lo rimbeccò lei, senza nascondere
l’irritazione.
«Avanti, Miss Brontee… Quello che tutti hanno di certo notato.»
«E cioè niente» ribatté lei, secca.
Rimasero silenziosi per qualche secondo, studiandosi.
«Perché non ve ne tornate a casa?» disse poi lui. «Presumo siate stanca
dopo la levataccia di questa mattina. Andate, su! Vi auguro una buona
serata.» E senza più degnarla di uno sguardo si rituffò nel suo lavoro.
Avrebbe dovuto sentirsi sollevata del fatto che lui non avesse accennato a
quanto successo fra loro la notte precedente. Del fatto che si fosse
dimenticato di quel loro assurdo incontro nell’Antro della strega, della
profezia, del bacio rubato e del raggio di luna. Ma non lo era. Era stupefatta,
indignata semmai, arrabbiata che lui fingesse che nulla fosse accaduto. Forse
voleva farle credere di non averla riconosciuta dietro quel drappo nero e
quell’intruglio verde?
Quando lo racconteremo ai nostri figli non ci crederanno! le aveva detto, e
lei, smarrita e sgomenta, dalla notte prima non aveva che pensato e ripensato
a quelle parole e ai mille significati che nascondevano.
E ora la congedava così? Senza una parola, senza delle scuse, senza una
risata liberatoria che cancellasse il loro reciproco imbarazzo?
Con un secco «Molto bene, signore!» si alzò come una furia.
Lui fece finta di nulla.
Come una furia raccolse dalla scrivania l’articolo e le fotografie.
Lui continuò a leggere.
Come una furia girò sui tacchi e si diresse alla porta.
«Miss Brontee?» disse lui.
Lei si girò.
Come una furia lo fronteggiò.
Che volesse dirle qualcosa, dopotutto?
«Siete sporca di verde, qua, sulla fronte.»
Istintivamente lei si passò il palmo sul viso, come per pulirsi, e lui le sorrise
ironico. Poi ripiombò nella sua lettura.
Ora era certa che la sera precedente l’avesse riconosciuta e che si fosse
appena beffato di lei.
Con un Ohhh! esasperato corse fuori dall’ufficio di Raleigh, riattraversò
l’atrio e i corridoi e poi si precipitò su per le scale fino al quattordicesimo
piano, dove sarebbe stata al sicuro, insieme ai lupi.
Controllò nel piccolo specchio che portava nella reticella di non avere
macchie verdi sulla fronte, anche se già sapeva di non averne. Quindi,
indossato il mantello, come una delle già citate furie, lasciò il Daily
scoraggiando con epiteti poco gentili e occhi fiammeggianti chiunque si
ponesse sul suo cammino.
Vedendola in tale stato, Mr Corman sorrise amaro, sicuro che il suo amico
Frank Raleigh avesse fatto la cosa giusta.
10

Un paio di settimane dopo, 17 novembre, Washington Square


Quella mattina Camille si era svegliata più presto del solito, e non per caso:
un inconsueto chiarore penetrava dalle finestre e un silenzio ovattato
sembrava aver inghiottito il mondo.
In preda a una gioiosa eccitazione era corsa alla finestra. Proprio come
aveva immaginato! Grossi fiocchi di neve brillavano alla luce dei lampioni e
donavano a Washington Square un’immobilità magica. Aprì i vetri per
respirare il profumo della prima nevicata dell’anno.
Che magnifica sensazione!
L’arco dedicato a Washington risplendeva immerso nel candore, mentre i
fiocchi disegnavano merletti sui rami spogli degli alberi.
Presa da tanto incanto, si infilò un paio di stivaletti, la vestaglia, il mantello
e uscì in strada. Dovevano essere passate da poco le sei del mattino e dalle
finestre dei palazzi circostanti cominciava a filtrare la debole luce delle
lampade.
Camille si sentì padrona della piazza.
Nella neve disegnò arabeschi, corse e saltellò e infine scrisse il proprio
nome a grandi lettere. E senza neppure accorgersi si ritrovò di fronte al
palazzo dove abitava Raleigh.
Un caso?
No. Attrazione, semmai, forza gravitazionale, orbita inevitabile.
Sola, in quel bianco assoluto, ansante e rossa in volto, rimase a fissare le
finestre del primo piano chiedendosi in quale camera dormisse.
Sempre che non stesse trascorrendo la notte nel letto di un’amante.
Per quanto infastidita da quell’idea, sentì nascere dentro di sé quel fuoco
indomabile che sempre divampava quando pensava a lui, un fuoco che presto
si sarebbe trasformato in un incendio se non lo avesse fermato. Un fuoco che
ardeva…
Non era facile definire dove.
Era un dove ogni volta diverso: poteva essere la gola, che sembrava
chiudersi non appena Raleigh compariva in lontananza; o il cuore, che
reagiva in modo bizzarro alla sua vicinanza diventando all’improvviso
impetuoso o fermandosi a sorpresa; o ancora lo stomaco, che da un momento
all’altro si riempiva, più che di delicate farfalle, di una mandria di bisonti
infuriati; o la mente, che si perdeva in una spessa nebbia; o il ventre. Era lì
che il fuoco divampava più libero e pericoloso, spingendosi vieppiù in basso.
Camille non era una bambina e, sebbene fosse cresciuta in una famiglia
dalle convinzioni piuttosto ristrette, sapeva molto bene cosa significasse quel
fuoco.
Se dentro di lei avesse sentito bruciare una sola fiammella per Ken Benton,
che non perdeva occasione di corteggiarla, sarebbe stata ben felice di
alimentarla e farla crescere con devozione prima e con passione poi.
Ma la fiamma che la stava consumando era solo per Frank Raleigh.
Che per lei non provava nulla.
Nelle ultime due settimane il suo comportamento era stato chiaro. Ogni
volta che si erano incontrati l’aveva evitata come un’appestata. Quando lei
aveva domandato a Mr Laurel di fissarle un appuntamento, con un formale
biglietto lo stesso Laurel le aveva suggerito di risolvere il problema con Mr
Corman. Quando infine si erano incrociati a una soirée, lui si era inchinato in
un freddo gesto di saluto e poco dopo, con una scusa, se ne era andato.
Non era solo indifferenza quella che Frank Raleigh provava per lei. C’era
di più.
Colui che con un solo bacio aveva saputo accendere in lei il fuoco
sconosciuto della passione forse la detestava?
Camille offrì il viso ai fiocchi di neve ed espresse un desiderio, le labbra
leggermente tremanti, gli occhi chiusi come in una preghiera. La sensazione
che qualcuno la stesse osservando e l’assurda speranza di veder comparire al
suo fianco Raleigh le regalarono un fremito. Un lungo, eccitante fremito che
si spense subito in quell’universo gelato.
Detestava sentirsi così. Confusa e sola. Alla mercé di qualcuno che la
evitava mentre lei… Stupida che era! Non c’era un battito del suo cuore che
non fosse per lui!
Doveva smetterla di pensare a Raleigh, in quel preciso momento.
Tirando su con il naso, borbottando parole confuse e poco lusinghiere nei
confronti di quell’asino del suo editore, Camille fece una palla di neve, la
rigirò un po’ tra le mani e infine la scagliò con tutta la sua forza contro la
casa di lui. Poi ne gettò un’altra e ancora una, finché non fu esausta e
soddisfatta di quella sua piccola, infantile vendetta.
Con aria di vittoria, il fiato corto per lo sforzo, le mani ormai ghiacciate
posate in gesto di sfida sui fianchi, rimase a fissare con ostilità la porta di
ingresso, in attesa che qualcosa accadesse.
E qualcosa accadde.
***
Frank Raleigh si era coricato da non più di tre ore. Aveva passato buona
parte della notte giocando a poker, cosa insolita per lui che non amava le
carte, ma ormai anche un tavolo verde era un modo accettabile per evitare di
imbattersi in Camille a un dannato evento mondano. Per evitare di cedere alla
tentazione di gettare al diavolo i buoni e onorevoli propositi che lo tenevano
alla larga da lei.
Per la verità, non aveva dovuto faticare molto per girarle al largo.
Soprattutto al giornale, dove ormai Camille si faceva vedere solo di rado.
Sembrava infatti che ultimamente la signorina preferisse trascorrere le sue
giornate lontana dalla redazione, impegnata a intervistare qualcuno o a fare
ricerche sul campo per le sue dannate inchieste.
A Raleigh non piaceva affatto la piega avventurosa che aveva preso il
lavoro della sua unica redattrice e aveva preteso da Corman che nelle sue
incursioni giornalistiche Miss Brontee fosse sempre accompagnata da Manny
e da un altro impiegato.
Fosse stato per lui, Camille non sarebbe andata da nessuna parte.
Era sempre stato un deciso sostenitore dei diritti civili e politici delle
donne, ma da qualche tempo, a causa dei suoi ingarbugliati e possessivi
sentimenti per Miss Brontee, le sue convinzioni avevano subito non poche
oscillazioni.
Ogni giorno si diceva che avrebbe dovuto convocarla nel suo ufficio e
spiegarle che era solo per difendere la sua reputazione se la evitava, ma era
certo che un solo sguardo interrogativo di Camille, o un sorriso o un gesto di
impazienza, avrebbero mandato al diavolo ogni suo ferreo e onorevole
proposito di rimanerle lontano.
Per indorarle la pillola, ogni tanto si complimentava con lei in pubblico:
l’intervista a Gertrude Vanderbilt Whitney, le aveva detto un pomeriggio
incrociandola in redazione, gli era piaciuta molto. Lei gli aveva sorriso e quel
sorriso ironico era suonato come un: Va’ al diavolo, imbecille.
Ed era così che in effetti si sentiva, imbecille e meschino.
Dopo la pubblicazione dell’intervista alla Whitney, molte signore dell’alta
società avevano incluso Miss Brontee nella lista degli ospiti di riguardo e
informato Raleigh, tra un sorriso e una moina, che avrebbero molto, molto
gradito essere intervistate dalla sua redattrice. Sua, poi!
Miss Brontee però non si era piegata a quel sottile ricatto e aveva
selezionato i nomi delle candidate con ferreo rigore, depennando senza
problemi anche alcuni fra quelli che lui si era permesso di suggerirle.
In fondo, che potere aveva lui, semplice editore e proprietario unico del
Daily, di imporre le proprie decisioni all’ultima arrivata?
A quanto pareva, nessuno.
Ma cosa poteva farci? Tutto sommato adorava quell’innocente e ingenuo
vento di ribellione che soffiava intorno a Camille. Quindi, non solo aveva
lasciato correre, ma sorprendendo se stesso alla fine aveva approvato le
ragioni di Miss Brontee.
Anche Frank Raleigh, quel mattino del 17 novembre, era stato destato dal
magico bagliore che emanava da Washington Square.
La prima neve.
Una gioia innocente e un richiamo cui non riusciva a resistere sin da
quando era bambino. Indossato il mantello, decise di scendere in strada
quando, passando davanti alla finestra, vide una figura femminile alquanto
familiare.
Chi altri, se non Camille?
Che diavolo ci faceva quella pazza, alle sei del mattino, sotto una tale
nevicata? Ed era forse una palla di neve quella che la scriteriata si passava di
mano in mano?
Col cuore in gola e il desiderio di stringerla fra le braccia, seguì ogni sua
mossa mentre caricava il braccio come un giocatore di baseball e con forza
scagliava la palla contro casa sua. E non con intenti giocosi. Una, due, tre,
quattro volte.
Era forse davvero impazzita?
Raleigh si sporse dalla finestra per chiamarla, ma si trattenne quando sentì
il catenaccio del portone scorrere e la voce di Ralph urlare: «Via di qui,
monello!»
Corse allora giù dalle scale a piedi nudi e uscì in strada dove il suo
maggiordomo, armato di fucile, ancora imprecava contro monelli e
vagabondi.
Sentendolo arrivare, il domestico si ricompose e, con la flemma che gli era
solita, disse: «Ben alzato, signore. Mi permetto di farvi notare che sta
nevicando e che i vostri piedi sono sconvenientemente scalzi».
«Già» rispose Raleigh, laconico. Ma non era ai sui piedi che stava
pensando.
***
Più tardi, quello stesso giorno, Daily Building
Quando alle nove di quella mattina Camille giunse in redazione, aveva già
smesso di nevicare e la neve stava ormai cominciando a sciogliersi sui
marciapiedi. Dopo essersi affacciata all’ufficio di Mr Corman, un’abitudine
che il direttore le aveva imposto, si sedette alla scrivania, ripensando divertita
a quanto successo poco prima.
Certo, prendere a palle di neve la casa di Raleigh era stato un modo
infantile di sfogare la collera, ma proprio non era riuscita a resistere. E ora si
sentiva molto meglio.
«Buongiorno, boss, oggi a cosa ci dedichiamo?»
L’arrivo di Manny fu preceduto dalla sua voce allegra e dal profumo che
usciva dalle due tazze di caffè che teneva in mano.
«Ciao, Manny. Credo che oggi ce ne staremo tranquille a lavorare in
redazione. Le lettere…»
Camille guardò con aria derelitta le decine e decine di buste in attesa di
essere aperte. Rispondere alle lettrici non era tra i suoi compiti preferiti, ma
lo faceva con passione perché era grazie a loro, in fondo, se era stata assunta
al Daily.
«Devi chiamare Mr Benton» le ricordò Manny.
«E va bene, oggi lo chiamerò per chiedergli quando ci accompagnerà a
visitare la Borsa… insieme a Mr Pendleton, naturalmente» aggiunse
lanciando un’occhiata divertita alla ragazza.
Per non alimentare illusioni in Ken, Camille nelle ultime due settimane
aveva rifiutato i suoi inviti e quando una sera lo aveva casualmente incontrato
a casa di conoscenti dei Campbell, lo aveva evitato provocando in lui un tale
attacco di balbuzie da farla sentire più in colpa che a disagio.
Ed era così che ancora si sentiva.
Si alzò e raggiunse il telefono che Mr Corman, dopo molto brontolare,
aveva fatto installare in redazione seguendo il suo suggerimento. Quando
passò di fianco alla scrivania di Canningham, l’uomo fischiò in segno di
apprezzamento. Camille gli rivolse un sorriso sarcastico.
«Un abito nuovo? Devo dire che mette in risalto la vostra bellezza, da ogni
prospettiva.» E per sottolineare il suo apprezzamento, la inondò del fumo del
suo onnipresente sigaro provocando l’ilarità degli altri colleghi presenti.
Camille, senza scomporsi, alzò gli occhi al cielo e fece una piroetta su se
stessa. Poi si diresse al telefono, ancheggiando più del dovuto, la gonna
scarlatta che danzava a ogni passo come una fiamma vivace.
Aveva festeggiato il suo secondo stipendio con quella spesa folle, un abito
rosso alla moda che esaltava la sua figura slanciata e armoniosa, la
carnagione chiara e i capelli scuri, e che rispecchiava con fedeltà il rosso
naturale delle sue labbra. Non passava certo inosservata con quell’abito
addosso.
Con gli occhi di Manny e di tutta la redazione fissi su di lei, attese che
Benton venisse all’apparecchio.
«Buongiorno, Miss Bro-ontee.»
«Buongiorno, Mr Benton…»
Infiammando di nuovo le speranze del giovane banchiere, pur cercando di
non incoraggiarlo, accettò quando lui le chiese di poterla accompagnare la
sera successiva alla cena dei Whitney, cui erano entrambi invitati.
«Così ci accorderemo per la nostra visita in Borsa» aveva aggiunto lui,
senza mai balbettare.
«Un altro piccolo ricatto, Mr Benton?»
«Un accordo d’affari, Miss Brontee.»
***
Frank Raleigh quel giorno arrivò in Park Row solo nel primo pomeriggio.
Era un uomo d’affari, dopotutto, pieno di impegni e di decisioni da prendere.
Non che avesse seguito con la debita attenzione le riunioni cui aveva
partecipato quella mattina… No, gli era stato impossibile, dal momento che
la sua mente era alle prese con ben altro: l’immagine di Miss Brontee intenta
a scatenare una vera e propria offensiva contro casa sua.
A colpi di palle di neve.
Che fosse in collera con lui, dopo la notte di Halloween, era evidente. Il
motivo di quella collera non lo era affatto. Raleigh, infatti, non osava neppure
sperare che fosse una conseguenza dell’indifferenza che lui le dimostrava.
Che era costretto a dimostrarle.
Sedendosi alla scrivania, trovò una fila ordinata di documenti che
richiedevano la sua attenzione. Ne firmò alcuni, diede istruzioni per altri e poi
si apprestò a valutare il promemoria settimanale di Corman.
Fece scorrere velocemente le proposte dei vari redattori finché non giunse a
quelle di Miss Brontee.
1) Moda: Gonne appena sotto il ginocchio? Una moda rivoluzionaria
attende le donne del nuovo secolo.
Sarebbe stato un sicuro estimatore di quella nuova tendenza, ma
onestamente non la credeva possibile. Scrisse comunque una A di fianco al
titolo. A significava approvato.
2) Cucina: La torta al cioccolato di Sally vi regalerà attimi di gioia.
Sally non era una domestica dei Campbell? Sì, e Camille l’aveva
intervistata mentre insieme impastavano un dolce. Probabilmente era la prima
donna di colore a essere intervistata da un quotidiano di New York.
Originale. Un’altra A.
3) Nuove letture: The Storm, di Kate Chopin.
Raleigh non sapeva che diavolo fosse, ma lo approvò ugualmente. A.
Quindi scorse velocemente l’ultima parte delle proposte di Miss Brontee,
passandosi preoccupato una mano fra i capelli. Quando credeva di poter
scrivere tutta quella roba? Di notte? Già, invece di stare tra le sue braccia
avrebbe battuto per ore sulla sua macchina da scrivere.
Sollevò gli occhi dal foglio e si chiese quanto sarebbe stato disposto a
pagare per vederla all’opera, per starle vicino mentre le parole riempivano i
fogli bianchi e i suoi occhi si riempivano di lei.
Tanto.
Troppo.
Sospirando, tornò alle proposte.
4) Interviste:
Nelly Blye, giornalista. A.
Elizabeth Alice Austen, fotografa. A.
Rose Dragonfly (nom de plume), prostituta.
Frank dovette leggere tre volte la parola prostituta prima di essere certo che
la vista non lo avesse ingannato.
Ma che diavolo? È forse uno scherzo?
Incredulo, Frank Raleigh non usò neppure l’interfono per ordinare a Daisy,
la sua giovane segretaria, di chiamare Miss Brontee e Mr Corman. La chiamò
invece urlando, come un selvaggio.
Fu così che la poverina si spaventò e addirittura scoppiò in lacrime mentre
correva su per le scale al quattordicesimo piano.
***
Quella giornata non aveva regalato a Camille altre emozioni, almeno fino
alla visita del piccolo Peter Donaghue.
Lo incontrava ogni giorno nelle affollate vicinanze del Municipio. Se ne
stava lì, il pacco di giornali in mano, dandosi un gran da fare per vendere ai
passanti una copia del Daily. Urlava le ultime notizie a gran voce e con quel
tocco di teatralità che induceva molti a fermarsi. Era uno strillone, uno dei
tanti ragazzini con gli occhi grandi e lo stomaco vuoto che davano una mano
alla famiglia guadagnando mezzo centesimo di dollaro a copia venduta. In
una giornata di lavoro Peter non arrivava a tirar su trenta centesimi.
«Io vi conosco, miss, siete quella della fotografia, Miss Brontee!» le aveva
detto sgranando gli occhi quando lei si gli si era avvicinata la prima volta.
«Sono proprio io. Sei un ottimo osservatore, ragazzo» gli aveva risposto
sorridendogli. «E tu chi sei?»
«Peter, Peter Donoghue, miss.»
«Piacere di fare la tua conoscenza, Peter. E dimmi, sai anche leggerli i
giornali, o li vendi soltanto?»
Lui aveva raddrizzato la schiena. «Non so leggere proprio tutto tutto… Ma
so guardare le fotografie e contare i soldi. Sapete, miss, spesso le signore mi
chiedono se ci sono vostri articoli sul giornale e, se rispondo di sì, me ne
comprano una copia.»
«Davvero?»
Camille era incredula ma affascinata da quella scoperta, mentre il ragazzino
sembrava più interessato alla pasta che lei stava sbocconcellando. Scorgendo
la fame nei suoi occhi, sentì un nodo stringerle la gola.
«Peter, per caso ti andrebbe una pasta?» gli aveva chiesto dopo un istante.
«Non ce la faccio a mangiarne un’altra!»
Il ragazzino era diventato prima rosso, poi aveva fatto sì con la testa.
L’indomani mattina Camille, avvicinandosi al Municipio, aveva sentito la
voce del ragazzo strillare: «Comprate il Daily, il giornale di Miss Camille
Brontee».
Quando si era fermata a salutarlo, gli aveva detto con un gran sorriso:
«Ciao Peter. Anche se sono molto lusingata, ti devo confessare che il Daily
non è mio».
Il ragazzino aveva risposto senza tentennare che secondo lui lo era. Poi
aveva accettato con entusiasmo la ciambella che Camille gli porgeva.
«Ti andrebbe di passare da me al giornale, dopo il lavoro? Un ragazzino
sveglio come te potrebbe anche diventare giornalista, da grande, se solo
imparasse a scrivere…»
Da quel giorno Peter Donoghue non era mancato un solo pomeriggio alle
lezioni di Camille.
Così, quando quel 17 novembre lo vide comparire in redazione in lacrime e
prima del solito, gli corse incontro.
«Cosa è successo, Peter?»
Il bambino tirò su col naso, poi si asciugò le lacrime e rispose: «La mamma
ha un braccio rotto, una ferita sulla testa ed è stata licenziata. Ora è a casa
disperata e piange dicendo che moriremo tutti di fame».
Pur non avendo capito molto di quel racconto, Camille strinse Peter in un
abbraccio cercando di calmarlo prima di chiedergli altre spiegazioni. Si
preparava a farlo quando Daisy, una delle segretarie del tredicesimo piano,
giunse di corsa sbraitando che Mr Raleigh voleva vederla, subito. A Camille
parve che la giovane avesse pianto.
Che diavolo vorrà da me quel… quel…?
Mostro? Essere abominevole? Maschio traditore? Libertino da strapazzo?
Per descrivere il suo editore non aveva che l’imbarazzo della scelta.
«Tornerò prestissimo, Peter, te lo prometto» disse al bambino
asciugandogli le lacrime. «E insieme cercheremo di aiutare la tua mamma.»
Poi si diresse verso l’ascensore, dove Mr Corman la stava già aspettando.
«Sapete a cosa dobbiamo questa convocazione, direttore?» gli chiese.
«Forse» fu la risposta evasiva.
*
Non appena Corman e Camille varcarono la soglia del suo ufficio, Raleigh
li aggredì senza neppure dar loro il tempo di salutare.
«Cos’è questa storia della prostituta?»
Si era alzato in piedi e avanzando verso di lei la fissava minaccioso.
Se crede di intimorirmi con la sua altezza e la sua arroganza, si sbaglia!
«Non è una storia, Mr Raleigh. È un’intervista.»
«Non mi provocate, Camille.»
«Non è mia intenzione provocarvi. Ho ritenuto che intervistare una
prostituta fosse più interessante che scrivere degli ultimi capricci di
un’ereditiera.»
Lui la guardò senza nascondere la propria incredulità.
«L’avete già intervistata, dunque?»
Lei fece cenno di sì.
«Sono sempre più sbalordito dal vostro spirito di iniziativa, Miss Brontee.»
«Frank, lasciate che vi spieghi…» cercò di inserirsi Corman.
Raleigh non gli rispose, ma con un solo sguardo lo incenerì. Poi si rivolse
di nuovo a Camille.
«E dove, se è lecito chiedere, avete intervistato questa Rose Dragonfly? In
un bordello?»
Camille alzò gli occhi al cielo e sbuffò, come se quella conversazione
cominciasse a stancarla. Voleva tornare da Peter il prima possibile.
«Forse l’avrei anche intervistata in un bordello se avessi saputo dove
trovarne uno. Non ho pensato di chiedere informazioni a voi, che sicuramente
sarete un esperto in materia» replicò senza riuscire a tenere a freno la lingua.
Raleigh avvampò, poi la guardò minaccioso, le mani strette a pugno, come
se stesse per saltarle al collo da un momento all’altro.
«Frank, calmatevi» disse Corman mettendosi fra i due.
Gli occhi di Frank scattarono su di lui, colmi d’ira.
«Calmarmi, Nigel? Non vi avevo forse chiesto di controllarla? Di non
permetterle di mettersi nei guai? E voi l’avete lasciata andare là fuori!»
Gesticolò verso le finestre. «A parlare con una prostituta?»
«Cosa?» sbottò Camille mettendosi a sua volta fra Corman e Raleigh e
fissando quest’ultimo con aria oltraggiata. «Avete incaricato Mr Corman di
tenermi al guinzaglio? So badare a me stessa, Mr Raleigh! O forse temete che
una tale intervista sia troppo spregiudicata per il vostro giornale?»
Per quanto la sua piccola scenata fosse stata piuttosto rumorosa, pareva che
i due uomini, che nel frattempo avevano ripreso a discutere animatamente,
non l’avessero neppure sentita. Non era degna della loro attenzione, di
esprimere un’opinione sull’argomento, forse?
Dopo avere, senza fortuna, tentato di richiamare ancora una volta il loro
interesse, infuriata si diresse verso la porta, la aprì e la richiuse, sbattendola
con gran fragore.
I due uomini smisero di discutere e la fissarono, entrambi a bocca aperta.
«Miss Brontee» mormorò Raleigh sbigottito. «Siete forse impazzita?»
Dominando la furia, Camille si sedette sul divano del grande ufficio, come
una regina di fronte ai suoi sudditi. Incrociò le braccia sul petto e li guardò,
pronta a esplodere.
Dopo un attimo di silenzio assoluto, disse: «Grazie, signori, per avermi
concesso la vostra attenzione».
I due uomini si accomodarono di fronte a lei. Corman divertito, Raleigh
furente.
«Non tirate troppo la corda, Camille. Voglio vedere quell’intervista, subito,
e sapere in quale luogo l’avete raccolta.»
«Ve la mostrerò oggi stesso, ma prima siate così magnanimo da lasciarmi
spiegare.»
A nessuno sfuggì il tono ironico di quella richiesta.
«Non credo ci sia nulla di male a parlare con una prostituta. Non vorrete
dirmi che voi, signori, non l’avete mai fatto?»
Corman scoppiò a ridere.
«È una cosa completamente diversa» borbottò invece Raleigh.
«Su ciò non ci sono dubbi, signore.»
Altra risata di Corman e occhiataccia di Raleigh.
«Ho incontrato Miss Dragonfly in una modisteria della Quinta Avenue.
Avevo visto un bellissimo cappellino con… Ma questo non è importante.
Mentre provavo alcuni modelli, la commessa mi ha indicato una signora bella
ed elegante e sussurrato con aria complice che era una prostituta. Pensava,
probabilmente, che mi sarei scandalizzata.»
«Voi scandalizzarvi? Improbabile» fece Raleigh, sarcastico.
«Devo ammettere di essermi subito incuriosita: era la prima volta che ne
incontravo una, dopotutto. Per caso abbiamo cominciato a parlare. Mi ha
chiesto se un cappellino le donava, io le ho dato il mio parere e ho chiesto la
sua opinione sul mio, che lei, peraltro, ha approvato in pieno.»
«Non vedo l’ora di vedervelo in testa» la interruppe Raleigh ironico,
alzando gli occhi al cielo e rimediando una smorfia da Camille. Che sbuffò e
riprese il suo racconto.
«E così, un’ora dopo, ci siamo sedute in un caffè e… l’ho intervistata. Non
le ho chiesto particolari sordidi sulla sua esistenza e neppure il nome dei suoi
clienti, se vi preoccupate di questo, Mr Raleigh» puntualizzò, sottintendendo
che fra i nomi potesse esserci anche il suo. «Ma solo i motivi che l’hanno
portata a fare ciò che fa. Mi ha lasciato il suo indirizzo e mi ha pregato di
informarla se e quando sarebbe stata pubblicata l’intervista. Tutto qui.»
«Tutto qui?» sbraitò Raleigh ricominciando a scaldarsi.
«No, veramente ci sarebbe anche un’altra cosa. Rose, la chiamo Rose ma è
ovvio che il suo nome sia un altro, mi ha proposto di aiutarla a scrivere la sua
biografia. Ha già buttato giù una decina di capitoli, pare, e vorrebbe un mio
giudizio.»
A Raleigh qualcosa andò di traverso e incominciò a tossire. Corman a
ridere sotto i baffi.
«Ho accettato, naturalmente.» E con questa spiegazione il problema le
sembrò risolto. Illusa.
Raleigh, ancora rosso in volto, respirò profondamente, poi disse a Corman
che se lo avesse ancora sentito ridere l’avrebbe licenziato in tronco. Quindi si
rivolse a Camille.
«E non avete pensato, Miss Brontee, che mostrarvi in una caffetteria
insieme a una prostituta, probabilmente ben nota in società, avrebbe nuociuto
alla vostra reputazione? Così come revisionare materiale di certo
pornografico e compromettente?»
«No, Mr Raleigh, francamente non l’ho pensato e mi stupisco della vostra
pruderie. Ma forse siete uno di quegli individui convinti che ci siano due pesi
e due misure per giudicare uomini e donne, e che una prostituta sia più
disprezzabile dei suoi clienti?»
***
I due uomini la fissavano con stupore. Le loro bocche spalancate lo
dimostravano.
Dove le prenderà mai certe idee sovversive? Che Camille sia anche una
suffragetta? si chiese Raleigh preoccupato, mentre la suffragetta si alzava in
piedi e diceva, decisa: «E ora, signori, dovrei chiedervi di scusarmi perché ho
un impegno».
Solo ora si era accorto del nuovo vestito di lei e di come le disegnasse il
corpo in modo voluttuoso. Il sangue cominciò a corrergli più veloce nelle
vene.
Non dovrebbe indossare certi abiti in redazione!
Anche se non voleva ammetterlo, era geloso dello sguardo di ogni uomo.
Si riscosse da quei pensieri gretti – sembrava che ultimamente la
meschinità fosse quasi un’abitudine per lui – per chiedere in tono ironico: «Ci
dovete lasciare per un’altra intervista? Non oso chiedervi chi sia il fortunato
mortale…»
«Un uomo, Mr Raleigh. Voglio continuare a danneggiare pubblicamente la
mia reputazione. Mi diverte molto farlo.»
«Voi non andrete da nessuna parte, non prima di aver risolto questa
questione» sbraitò Frank.
«Davvero, signore, devo andare…»
«Zitta! Non andrete da nessuna parte finché non avrò finito con voi.»
«Oh!»
Un Oh molto indignato.
Camille guardò Mr Corman in una tacita preghiera d’aiuto e quando questi
si alzò, lei lo imitò.
Raleigh le puntò contro un indice. «Se tenete al vostro posto, sedetevi
subito.»
Ecco, ora era certo che Camille lo avrebbe davvero odiato.
Fissandolo con stupore ubbidì, questa volta con un Oh scandalizzato.
«Sarà meglio che torni in redazione» fece Corman fissando Raleigh con un
sopracciglio alzato, poi se ne andò.
Erano soli, nel suo grande ufficio, seduti uno di fronte all’altra. Lei si
tormentava le mani nervosa, lui la fissava immobile, i gomiti appoggiati sulle
gambe, le mani incrociate sotto il mento, ancora scosso per l’alterco che
avevano appena avuto.
Dio, che stupido era stato a lasciarsi andare alla collera! Non era così che
sarebbe riuscito a proteggerla. Perché, se non poteva averla, almeno avrebbe
fatto di tutto per tenerla sotto la sua ala protettrice, come un pulcino indifeso.
Per la verità, più che un pulcino indifeso in quel momento gli parve una
gatta pronta a graffiare.
Quando si decise a parlare, la sua voce uscì controllata e bassa.
«Camille, state prendendo questa storia del giornalismo troppo
seriamente…»
La lingua di lei scattò come una lama acuminata.
«Dal momento che mi pagate per farlo, dovreste esserne soddisfatto.»
Già.
Frank scosse la testa, irritato dalla logica inattaccabile di lei, poi si alzò e si
sedette al suo fianco, abbastanza da poterne respirare il calore e il profumo.
Per un istante temette che se ne andasse, ma invece rimase ferma, le mani
in grembo, lo sguardo basso.
«Voi non potete capire, Mr Raleigh…»
«Cosa, di grazia?»
«Cosa questo lavoro significhi per me…»
Lui deglutì, cercando di non rispondere in modo affrettato, cercando di
assorbire ogni più piccolo particolare di lei. Le mani sottili, la nuca bianca
disegnata da alcuni riccioli sfuggiti allo chignon, il profilo perfetto, le lunghe
ciglia, il seno armonioso che si muoveva al ritmo del respiro accelerato.
Sospirando, si passò la mano fra i capelli e distolse lo sguardo prima che gli
saltassero in testa delle pessime idee.
«In effetti, non riesco a capire cosa significhi per voi. Non è che un lavoro,
in fondo. Spiegatemelo, vi prego, Miss Brontee.»
Con lentezza Camille si girò verso di lui, gli occhi che brillavano. «Ecco…
significa tutto.»
Quella risposta secca, essenziale e completa al tempo stesso, lo colpì come
uno schiaffo, perché ne conosceva l’intimo significato. Tutto. Voleva dire
affermazione, rispetto, considerazione, indipendenza, tutto opposto al nulla.
Anche per lui era stato così tanto tempo prima. Eppure, se solo lei glielo
avesse permesso, lui avrebbe potuto darle tutto ciò che voleva. Ecco, un altro
pensiero meschino da aggiungere a una lunga serie.
Camille si alzò in piedi di scatto e gli rivolse uno sguardo che era insieme
una preghiera.
«Mr Raleigh, devo davvero andare. Devo aiutare una persona che è in
difficoltà, gliel’ho promesso.»
«Un uomo?»
«Un bambino.»
Lui la fissò per qualche istante chiedendosi perché con quella donna fosse
sempre tutto tanto complicato, poi disse: «Adoro aiutare i bambini, Camille».
«Davvero?» rispose lei con espressione incredula.
«Non mi fate perdere la pazienza. Su, andiamo.»
11

Pomeriggio dello stesso giorno, Lower East Side


Corsero su per le scale sino in redazione, dove trovarono Peter Donoghue
in lacrime, seduto per terra contro la scrivania di Camille. Sulle prime il
bambino si spaventò alla vista di Raleigh, ma poi Frank si conquistò la sua
fiducia e riuscì a farsi raccontare ogni cosa.
A quel punto non perse tempo.
Per prima cosa fece recapitare al suo medico personale un biglietto in cui lo
pregava di raggiungerlo appena possibile al 47 di Suffolk Street, a casa dei
Donoghue. Poi chiamò una carrozza che li accompagnò sino a Delancey
Street.
«Ci tengo ai miei cavalli, alla mia borsa e soprattutto al mio collo» disse
loro il conducente rifiutandosi di proseguire oltre, ma accettando con
entusiasmo una lauta mancia per rimanere lì ad aspettarli.
Si trovavano nel Lower East Side, in uno dei quartieri più poveri e
degradati della Grande New York, come veniva chiamata da quando i
borroughs del Bronx, di Queens, di Richmond e Brooklyn si erano uniti a
Manhattan.
Peter, tanto affascinato da Raleigh da non avergli mai tolto gli occhi di
dosso, li condusse all’ingresso di un edificio fatiscente davanti al quale
stazionavano alcuni uomini che parlavano una lingua sconosciuta a Camille.
Gli sguardi che le lanciarono indussero Raleigh a esibire, come per caso, un
oggetto che portava infilato nella cintura dei calzoni.
«Era un revolver quello? Andate in giro armato?» bisbigliò lei mentre
salivano tre piani di scale malconce.
«Solo quando è necessario.»
La stanza dove vivevano i Donoghue era pulita e ordinata. C’erano un
tavolo, quattro sedie, un armadio, una dispensa, una stufa e due soli letti per
tutta la famiglia.
Johanna Donoghue non doveva avere più di trent’anni, ma appariva più
vecchia di dieci, nonostante i vivaci occhi verdi e i capelli rossi e ricci,
identici a quelli di Peter. La poveretta giaceva dolorante a letto con il braccio
sinistro gonfio e immobile e la fronte tumefatta e ferita.
Quando vide entrare suo figlio con due sconosciuti si allarmò, ma le parole
di Peter e i sorrisi rassicuranti di Camille e Raleigh la placarono subito.
«Miss Brontee, mio figlio mi ha raccontato quello che state facendo per
lui…»
Raleigh guardò Camille con aria interrogativa, ma lei non si curò di
rispondergli perché già stava controllando la ferita di Johanna.
In quello stesso momento arrivò il medico.
Dopo un attento controllo, con l’aiuto di Camille ricucì la ferita sulla fronte
della donna e le immobilizzò il braccio che, sentenziò, di sicuro era rotto.
«Nulla di grave, signora, ma avete bisogno di riposo e di immobilità
assoluta. Domani passerò a vedere come state.»
Guardandolo con riconoscenza, Johanna Donoghue mormorò: «Non posso
pagarvi, dottore…»
«Di questo non dovete preoccuparvi» le disse il medico.
Johanna si girò verso Camille in cerca di una spiegazione, ma lei si limitò a
rassicurarla con un sorriso.
Quando il dottore se ne fu andato, con discrezione Frank diede del denaro a
Peter pregandolo di andare a comprare delle provviste. Poi si avvicinò alla
madre.
«Vostro figlio è un gran venditore di giornali, signora, un bravo ragazzo.»
Lei sorrise e rispose: «Sì, è vero, sono orgogliosa di lui».
«Volete raccontarci cosa vi è successo, Mrs Donaghue?»
La donna scosse la testa e sul suo viso apparve l’ombra della paura.
«Chi vi ha ridotta così?» insistette Raleigh.
«Johanna, fidatevi di noi, vogliamo aiutarvi» intervenne Camille.
«Voi non conoscete quell’uomo… È un mostro!» disse infine mentre il viso
le si rigava di lacrime.
Poi emise un sospiro, si asciugò gli occhi con la mano buona e cominciò a
parlare. Aveva un forte accento irlandese.
«Non so da dove cominciare...»
«Dall’inizio andrebbe bene, Johanna» la incoraggiò Raleigh.
«Da circa un mese lavoro alla camiceria Kendall, sulla Prima Strada. Ho
sempre fatto il mio lavoro onestamente per pochi centesimi al giorno, senza
mai tirarmi indietro o lamentarmi, nonostante quel posto sia infestato dai topi
e il lavoro sia massacrante. Nonostante Kowalski.»
Camille e Raleigh rimasero in silenzio, invitandola a continuare.
«Stamane mi sono recata al lavoro, come sempre. Sembrava una giornata
tranquilla, finché Kowalski, il caposquadra, non mi ha ordinato di seguirlo
nel suo ufficio. Tutte le operaie sanno cosa succede in quell’ufficio e così gli
ho detto che avevo da fare e mi sono rifiutata di ubbidire. Lui mi ha costretta
a seguirlo, poi ha chiuso la porta a chiave e ha cercato di mettermi le mani
addosso.»
Camille guardò Raleigh spaventata, chiedendogli silenziosamente se quelle
cose potessero davvero succedere.
«Naturalmente non gli ho permesso di fare i suoi schifosi comodi con me.
Mi sono ribellata e l’ho minacciato con le forbici che uso per tagliare le
pezze. Ma ci vuole altro per intimidire quell’animale! È scoppiato a ridermi
in faccia, mi ha tolto di mano le forbici e mi ha spinta con forza contro la
parete. È in quel momento che ho perso l’equilibrio e sono caduta: ho
sbattuto la testa contro l’angolo dello scrittoio e il braccio si è piegato sotto di
me. Credo anche di aver perso i sensi per qualche istante. Sulle prime
Kowalski ha creduto che fingessi, poi si è reso conto di quanto era successo:
mi ha sollevata di peso e mi ha ordinato di andarmene e di non tornare più,
minacciando di denunciarmi alla polizia se non fossi stata zitta.»
«Voi dovreste denunciarlo! Quale motivo avrebbe lui di farlo?» urlò
Camille con veemenza.
«Per averlo assalito e minacciato con le forbici, così ha detto. Ha un cugino
poliziotto. A chi pensate crederebbero, Miss Brontee?»
«Ma… non è giusto! Non potreste rivolgervi al padrone della fabbrica, a
quel Mr Kendall?» insistette Camille sempre più indignata.
«Altre operaie si sono rivolte a lui e sono state tutte licenziate! È uno che
non vuole grane, quello!»
Un lampo di rabbia attraversò lo sguardo di Camille.
«Ora mi ritrovo con un braccio rotto, senza lavoro e con tre figli da nutrire.
Per fortuna il mio Peter ogni giorno porta a casa qualcosa!»
«Non vi preoccupate per il denaro, Johanna» disse Raleigh.
«Non voglio la vostra carità, signore.»
«Non è carità. Mi ripagherete con il vostro lavoro, quando starete meglio.»
La donna lo guardò come se non avesse compreso. «Vorreste offrirmi
anche un impiego, forse?»
«Vedrò di trovarvi qualcosa. Ma per il momento, cercate di guarire in
fretta.»
«Chi siete, signore, per essere così generoso?»
«Sono il capo di vostro figlio.»
«Il capo degli strilloni?»
«In un certo senso» rispose Raleigh con un sorriso che arrivò dritto dritto al
cuore di Camille.
***
La carrozza li attendeva all’angolo con Delancey Street. Raleigh aiutò
Camille a salire, mormorò qualcosa al conducente e montò a sua volta.
«Camille…» mormorò.
Lei si girò con lentezza, gli occhi colmi di pianto e ira.
«Non pensavo che anche qui, nel vostro nuovo mondo, potessero accadere
certe cose!»
Raleigh le prese una mano tra le sue.
Lei continuò. «Avete visto dove abitano i Donoghue? Non è giusto!»
«Lo so, non è giusto, ma è così» rispose lui senza mai lasciarle la mano.
«Ho sbagliato a permettervi di venire. Ora siete sconvolta» aggiunse
scuotendo la testa.
Si portò la mano di Camille alle labbra e gliela baciò, con tenerezza.
«Mr Raleigh, smettetela di proteggermi, non sono una bambina, né una
sciocca» disse lei irrigidendosi e cercando con poco successo di liberare la
mano.
«Voi non avete il potere di combattere contro la realtà!» ribatté lui
esasperato, pentendosi nello stesso momento di avere pronunciato quelle
parole.
Era sempre un errore sfidare Miss Brontee. E difatti...
«Perché no? Io posso combattere, anzi devo farlo prima che quell’uomo
odioso faccia del male ad altre donne.»
«Voi non farete niente, mi sono spiegato? »
Lei rimase zitta, gli occhi, due fessure scure incollate al nulla.
A Raleigh la cosa non piacque.
«Camille, qualsiasi cosa vi stia frullando per la testa, non pensateci
neppure. Parlerò io con il proprietario della fabbrica affinché prenda dei
provvedimenti.»
«Quando?» domandò lei girandosi di scatto verso Frank, come se da ciò
dipendesse la sua stessa vita.
Lui alzò gli occhi al cielo. «Camille! Non lo so, ma non dovreste
preoccuparvene. Sono cose da uomini. Lasciate che me la sbrighi io!»
Deglutì e la guardò severo prima di riprendere a parlare in tono più dolce.
«Non è colpa vostra né mia se il mondo è crudele. Voi oggi avete fatto
molto, avete ascoltato un ragazzino a cui nessuno avrebbe dato retta e lo
avete aiutato.»
Le teneva ancora le mani strette nelle sue e l’accarezzava con quei suoi
occhi così blu da sembrare neri, capaci di promettere il mondo intero. E il
paradiso.
«Se non fosse stato per voi, non avrei potuto fare nulla, Mr Raleigh»
mormorò lei distogliendo lo sguardo e arrossendo leggermente.
«Al contrario, Camille. Se non fosse stato per voi, io non avrei potuto fare
nulla.»
Le lacrime ripresero a scenderle sul viso. Questa volta erano lacrime di
rabbia. Singhiozzava senza cercare di nascondersi. Lui le asciugò gli occhi
con il fazzoletto, poi, dopo un attimo di incertezza, la strinse tra le braccia e
cominciò a cullarla, come se il mondo fosse quella carrozza e il tempo non
contasse più.
Giunsero a Park Row ancora abbracciati.
«Siamo al Daily» le sussurrò Raleigh baciandole la fronte.
Lei assentì, ancora scossa dai singhiozzi. Quando lui le porse la mano per
aiutarla a scendere, lei gliela strinse, aggrappandosi forse per un ultimo
istante al suo calore e alla sua forza.
«Camille» ripeté Frank, sperando di riuscire a dire molto di più, ma non
aggiunse altro.
Insieme entrarono nell’edificio e insieme presero l’ascensore. Lui scese al
tredicesimo piano, lei al quattordicesimo.
***
La redazione era deserta, solo Mr Corman si attardava come sempre alla
sua scrivania. Camille gli raccontò ogni cosa, senza celare la rabbia.
«Non è giusto!» proruppe alla fine battendo un piede per terra. «Non
credete che il Daily abbia il dovere di denunciare la cosa?»
«Se dovessimo parlare di ogni ingiustizia, dovremmo stampare un giornale
di mille pagine, Camille!»
«Così dovrei starmene buona e… tacere?»
L’uomo la fissò serio, puntandole l’indice contro. «Qualsiasi cosa tu abbia
in mente è un no. Ci siamo intesi?»
Lei non rispose e, scura in volto, andò alla scrivania per terminare il suo
lavoro, mentre il viso angosciato di Johanna, la cattiveria di Kowalski, il
faccino in lacrime di Peter e il revolver di Raleigh si rincorrevano nella sua
mente senza darle tregua.
Chiuse gli occhi cercando di scacciare quelle immagini, smaniosa di sentire
ancora le braccia di Frank stringerla, il suo respiro accarezzarle il viso.
Voleva che lui la confortasse, che cancellasse con i suoi baci ogni angoscia e
timore. Che cancellasse, almeno per quella sera, la sua solitudine.
Alla fine, sospirando, indossò il cappellino, i guanti e il mantello per
andarsene a casa, ma senza neppure sapere come, si ritrovò al tredicesimo
piano.
***
Appena la scorse, Raleigh si alzò dalla scrivania e le andò incontro con
lentezza, per imprimere dentro di sé ogni sfumatura, ogni particolare di quella
visione. Sapeva che per tutta la vita avrebbe ricordato Camille come gli
appariva in quel momento: gli occhi spaventati e lucidi di pianto, le labbra
tremanti, le ciocche di capelli sfuggite allo chignon che le incorniciavano il
viso, le mani abbandonate lungo i fianchi, in un atteggiamento di totale
abbandono.
Forse non era che un’illusione.
Si fermò a un palmo da lei senza il coraggio di sfiorarla e rimase per
qualche istante perso nei suoi occhi, il cuore che batteva impazzito e le parole
che non riuscivano a superare il nodo che gli serrava la gola.
Fu Camille a rompere per prima quel silenzio.
«Sono venuta perché io…»
Lui smise di respirare.
«…ho bisogno di voi. »
La tensione che lo immobilizzava si sciolse in un lungo brivido al suono di
quelle parole. La prese tra le braccia e cominciò a cospargerle il capo di mille
baci delicati e di parole tenere.
«Shh, ora sei con me, Camille, al sicuro. Non permetterò che qualcuno ti
faccia del male, mai. Te lo prometto.»
***
Camille si strinse a lui come a una sorgente di vita, sentì il calore di
Raleigh avvolgerla, lenire lentamente il suo dolore e sopire la sua collera. Si
affidò corpo e anima a quelle braccia forti e calde, si abbeverò alla cascata di
piccoli baci che lui stava rovesciandole dolcemente sul capo. Si strinse ancor
di più a lui, gli passò le dita tra i capelli scuri e lo guardò, stupita e devastata
dall’attrazione che sentiva crescere in lei. In loro.
Attrazione pura, assoluta, travolgente.
Emise un sospiro e gli offrì con spontaneità – e in verità senza pensare alle
conseguenze – le labbra dischiuse.
«Camille, non devi…» mormorò Raleigh esitante.
Ma lei lo attirò con decisione a sé e nel fare ciò si abbandonò a un piccolo,
disperato gemito.
Un invito cui lui non seppe resistere.
La chiave girò nella toppa.
***
«Camille…» mormorò di nuovo Raleigh sospingendola verso la parete.
Questa volta la sua voce, roca ed esigente, tremava in accordo a ogni fibra
del suo corpo. La sua bocca era bramosia pura e dietro le palpebre socchiuse i
suoi occhi tradivano un disperato bisogno di possesso. La tenerezza che lo
aveva invaso pochi istanti prima era svanita, travolta dalla passione.
Camille era andata da lui in cerca di conforto, ma non era conforto che lui
le avrebbe dato.
Cercò mille motivi per resistere, ma in quel momento il desiderio che
provava era molto più convincente della sua ragione.
Non posso farlo, si disse in un ultimo, disperato tentativo di fermarsi.
Troppo tardi.
Le sue labbra si erano già posate avide su quelle di Camille, che si era
concessa senza alcuna resistenza alla furia e all’urgenza del suo ardore. Era
come se lui stesse dissetandosi al pozzo della sua bocca, come se attraverso la
violenza di quel bacio stesse cancellando il passato e offrendo speranza al
loro futuro.
La sollevò fra le braccia per deporla sul divano e fu certo che questa volta
lei non si sarebbe tirata indietro, come era successo quel pomeriggio a casa
dei Campbell.
La sommerse di frasi prive di senso e colme di desiderio, la inondò di baci:
dalle tempie le sue labbra si spinsero oltre l’incavo del collo, e neppure il
pizzo dell’abito le fermò quando presero a succhiare la pelle bianca del seno
ancora imprigionato nella stoffa.
Camille emise un gemito di puro piacere.
Non c’era nulla che accendesse in Raleigh la passione quanto il dare
piacere a una donna, e il fuoco che in quel momento vide bruciare negli occhi
di lei lo indusse a continuare la sua perfetta opera di seduzione.
«Ti voglio» le mormorò sulle labbra, mentre le mani già scivolavano sotto
le gonne.
Camille lo guardò tremante, offrendosi senza tentennamenti al tocco delle
sue dita.
«Sei sicura di volerlo anche tu?»
«Sì» mormorò lei, senza incertezza.
Con un gemito disperato si impossessò di nuovo delle labbra di lei e,
mentre si dava da fare con i lacci e i mille bottoncini che quell’abito
sembrava avere, lei lo interruppe.
«Aspetta, Frank.»
Gli prese il viso fra le mani, lo guardò con occhi infiammati e accostò la
bocca al suo orecchio.
Raleigh si coricò sopra di lei ed emise un gemito.
«Voglio che tu mi faccia una promessa» sussurrò.
Lui ruotò il volto, sino a quando le loro bocche non si incontrarono di
nuovo.
«Una promessa, Camille? Ora?»
Camille mormorò sulle sue labbra un sì che lo percorse come una scarica
elettrica. Gemette, ormai al limite della sopportazione.
«Promettimi» continuò Camille inarcandosi contro di lui e gemendo a sua
volta, «che mi insegnerai ad amare e che non cercherai di proteggermi dalla
tua passione. Non chiedo che essere tua e non pretendo nulla in cambio.»
Brevi frasi che avrebbero indotto un altro uomo a liberarsi in fretta di tutti
gli strati di stoffa che lo separavano dall’oggetto del suo desiderio, ma che in
Raleigh provocarono il panico.
Perché lei non lo stava guardando con gli occhi di una donna perduta, ma
con quelli di una donna innamorata, pronta a offrirsi per amore, non solo per
piacere. Una donna che lui, con il suo scellerato ed egoistico comportamento,
stava per trasformare in una delle tante che la gente avrebbe indicato con
sprezzo come una delle sue amanti.
Le parole di Nigel Corman gli si riversarono addosso come una doccia
gelata: Un uomo come voi può solo sposare una ragazza come Camille.
Oppure rovinarla.
Corman aveva ragione. Lui l’avrebbe rovinata. Stava già per farlo, no?
Si passò una mano sul viso, cercando di cancellare con quel gesto
l’espressione atterrita e mortificata che vi albergava. Non avrebbe dovuto
permettere che accadesse, avrebbe dovuto starle lontano, ammirarla come una
vestale di Venere.
Intoccabile.
Vietata.
In quel momento Frank Raleigh fuggì dal paradiso per precipitare tra le
fiamme dell’inferno.
«Non posso, Camille» disse alzandosi.
«Non puoi?»
Frank Raleigh chiuse gli occhi e rovistò in fondo alla sua coscienza in cerca
di una spiegazione che l’avrebbe portata a odiarlo per sempre e, con l’aiuto
del cielo, a dimenticarlo.
***
Il mondo parve piombarle addosso.
«Non puoi?» ripeté, fissandolo sgomenta, mentre la fiamma del desiderio
che ancora ardeva in lei si trasformava nel fuoco vivo della mortificazione.
Si sedette, senza neppure cercare di ricomporsi. Non riusciva a smettere di
fissarlo, pallida e sbigottita, cercando una ragione per quel crudele rifiuto, gli
occhi prossimi al pianto, le labbra ancora gonfie di desiderio.
«Camille, mi spiace» mormorò lui.
«Ti spiace?»
Di nuovo rispose ripetendo incredula le parole di lui, la gola serrata nel
patetico tentativo di respirare e il corpo immobilizzato dall’umiliazione.
Ancora non capiva.
Sentì la voce di Raleigh farsi dura, distaccata.
«Camille, è stato un errore, un attimo di debolezza. Non vi voglio come
amante.»
Per quanto ancora avvilita, sentì un moto di collera vibrare in lei, liberarla
dai lacci che la immobilizzavano. Gli aveva proposto cose di cui
probabilmente si sarebbe vergognata e pentita per tutta la vita, e lui… l’aveva
rifiutata.
«Meritate un uomo migliore, non uno come me. Non ho da offrirvi che
qualche incontro occasionale su uno squallido sofà» aggiunse indicando il
divano con gesto stizzito.
Camille non riuscì a trattenere oltre la furia che stava montando in lei.
Alzandosi di scatto, esclamò: «Ho forse chiesto o preteso qualcosa, io?
Amore eterno? Il matrimonio e cinque figli? Vi ho chiesto solo di diventare la
vostra amante, di trattarmi nello stesso modo in cui trattate tutte le altre! E
non è stato facile umiliarmi sino a quel punto, credetemi.»
«No, suppongo di no» rispose lui pacato, gelido.
Entrambi tacquero per qualche istante.
«Questa mattina vi ho visto in Washington Square mentre… bombardavate
di palle di neve la mia casa» disse poi Raleigh con tono incerto.
A quella notizia gli occhi di Camille si chiusero in due fessure per nulla
benevole. Fece un passo verso di lui.
«E siete rimasto lì a guardarmi, senza fare niente se non ridere di me? La
prossima volta tirerò delle pietre contro le vostre finestre, sperando che una
raggiunga la vostra testa!»
«Avete già dato prova di avere un’ottima mira dai Benton, alla festa di
Halloween. Non dubito che ci riuscireste» rispose divertito.
«Che uomo siete, Frank Raleigh? Ogni volta che credo di avervi capito, mi
smentite.»
Lui si appoggiò allo schienale del divano, lo sguardo perso nel nulla.
«Non so rispondervi, Camille. So solo che non sono l’uomo che fa per voi.
Temo che abbiate confuso le mie attenzioni con qualcosa di diverso. Non c’è
romanticismo in me, ve lo posso assicurare, solo un primitivo desiderio di
possedere una donna che ancora non è stata mia. Per una notte, per una
settimana forse. Una volta soddisfatto, vi lascerei comunque. Le mie relazioni
durano poco perché mi annoiano. No, non fate per me.»
Camille respirò a fondo prima di riuscire a trovare il fiato per rispondere.
«Vi avevo solo chiesto di insegnarmi ad amare...» disse con testardaggine,
non certo come ultima arma di seduzione.
Lui scoppiò in una risata, ma le sue labbra avevano una piega amara.
«No, Camille. Non desidero insegnarvi nulla. Voglio solo comportarmi da
uomo d’onore con voi, non come un libertino.»
«E se io vi pregassi di non farlo?»
Lui scosse la testa, deciso. «Tengo a voi, al vostro futuro e alla vostra
reputazione, una reputazione che cadrebbe in pezzi se qualcuno in questo
momento ci scoprisse insieme.»
Camille lo fissò con aria di sfida. «Siete un bugiardo. Se quella che sentite
per me è solo una debole attrazione fisica, perché mai mi avreste baciato con
tanto struggimento mentre rientravamo in carrozza dalla festa dei Benton?»
Se pur lo era, Raleigh non si dimostrò sorpreso.
«Perché anche in quel momento vi desideravo, ma ahimè non potevo
prendermi delle libertà meno che innocenti, dal momento che non eravamo
soli in quella carrozza…»
«Bugiardo. Avete atteso che un raggio di luna si posasse sulle mie labbra
prima di baciarmi, quasi credeste a quella stupida profezia che io stessa avevo
inventato.»
Lui sorrise. «Voi? E io che credevo fosse stata una fattucchiera!»
Gli occhi di Camille lo perforarono.
«Ditemi, allora, se non vi importa di me, perché siete tanto geloso di Mr
Benton?»
«Io geloso di Benton?» Raleigh scoppiò ancora a ridere. «Vi sbagliate,
Camille. Lo trovo perfetto per voi, tanto da incoraggiarvi io stesso a
frequentarlo.»
«Siete un bugiardo, Mr Raleigh» sbottò lei girandosi di spalle, quasi non
volesse più avere la sua immagine davanti agli occhi.
L’ardore e la passione che le aveva appena dimostrato non potevano essere
così banalmente cancellati dalle menzogne. Perché la trattava così?
***
Raleigh avrebbe voluto tirarsi un cazzotto per quanto aveva appena detto,
anche se le sue intenzioni erano oneste. In fondo, non voleva che proteggerla.
Da se stesso.
«Non sono un bugiardo, Camille, e mi spiace di essere stato tanto rude, ma
questa è la verità.»
«La verità, dite? Ricordate quella sera al Metropolitan? Dite: il segno che
mi avete lasciato è reale o falso?» chiese mostrandogli il collo candido.
Raleigh vacillò. Come avrebbe potuto scordare? Gli parve di sentire ancora
il sapore della pelle di lei sulle labbra e per un istante meditò di mandare al
diavolo ogni proposito, di rovesciarla su quel divano e di farle tutte quelle
cose a cui non riusciva a smettere di pensare.
Con un profondo sospiro, quasi che la sua pazienza fosse arrivata al limite,
mormorò: «Reale, e me ne rammarico ancora. Ecco un altro buon motivo per
starmi lontano, Miss Brontee. Mordo. Da oggi in poi, consideratemi il lupo
cattivo, o un uomo pericoloso, come quel Dracula…»
«Forse siete meno pericoloso di quanto non vogliate apparire» mormorò lei
fra i denti. Poi, come se fosse colta da un’urgenza improvvisa, si sedette su
una poltrona e prese a sistemarsi i capelli. «È perché lavoro al Daily che mi
respingete?» chiese armeggiando con una forcina.
Certo che quella donna era difficile da dissuadere!
«Soprattutto per quello. Ne abbiamo già parlato, Camille.»
Se solo avesse potuto accarezzarle i capelli per ripagarsi della sofferenza
che provava in quel momento!
«Quando è così, vi prego d’ora in poi di starmi il più possibile lontano
anche qui al giornale, sempre che mi permettiate di continuare a lavorare per
voi.»
Sebbene celati dal velo del cappellino, gli occhi di Camille mandavano
saette.
«Licenziarvi, Miss Brontee? Sarei uno sciocco a rinunciare al mio redattore
più promettente, anche se preferirei che occupaste il vostro tempo in
occupazioni più femminili. Proprio non riesco a mandar giù questa vostra
abnegazione al lavoro...»
Ecco un buon argomento per distrarla, pensò. Il lavoro.
E infatti Camille lo fissò come se l’avesse appena schiaffeggiata.
«Il ricamo non fa per me, signore, e poi, se non lo aveste ancora compreso,
ho bisogno di lavorare per vivere. Non ho denaro e non posso approfittare
oltre dell’ospitalità dei signori Campbell. Cos’altro vorreste che facessi? La
dama di compagnia, l’istitutrice, la mantenuta, forse? Mi avete donato un
lavoro bellissimo, dovrei rinunciarvi adesso? E in nome di cosa? Dite di non
capire la mia abnegazione al lavoro, in realtà voi non capite nulla di me, Mr
Raleigh.»
Se gli avesse tirato una frustata in pieno viso, gli avrebbe fatto meno male.
In gran fretta, Camille indossò il mantello e si diresse alla porta.
Lui la seguì. «Vi accompagno…»
Lei lo fermò con un cenno della mano. «Non provateci neppure...»
«Miss Brontee, quanto successo prima fra noi…»
«Me lo sono già scordato, Mr Raleigh. Fareste meglio a fare lo stesso.»
***
Senza voltarsi, bruciando di collera e umiliazione, Camille si diresse verso
le scale a passi veloci, sperando che nessuno la scorgesse. Essere creduta
l’amante di Mr Raleigh senza esserlo sarebbe stata una beffa insopportabile.
12

21 novembre, New York


Raleigh non aveva più incontrato Camille da quel tumultuoso pomeriggio,
quando troppe cose che non dovevano accadere erano successe. Ogni giorno,
entrando nel suo ufficio, evitava di posare lo sguardo sul divano dove lei gli
si era offerta e dove lui, come un gentiluomo… no, come un imbecille,
l’aveva rifiutata. Non che la consapevolezza di questo comportamento
virtuoso lenisse i suoi tormenti. Al contrario.
Quando era in vena di metafore e incline più del solito al melodramma e
alla commiserazione, Raleigh pensava a Miss Brontee come all’onda
devastante di un mare in burrasca e a se stesso come allo sventurato naufrago
in balia dei flutti. Quando non era in vena di metafore, si chiedeva
semplicemente perché non potesse reagire alla sensualità di Camille con la
stessa sottigliezza di un toro nell’arena. E qui, di solito, si ritrovava di nuovo
invischiato nella pretestuosa rete delle similitudini.
Io non sono un gentiluomo… continuava a ripetersi.
Eppure, era stato lui a rifiutarla, non viceversa.
Mai, prima d’allora, aveva mortificato il proprio desiderio. Che, infatti, da
quel pomeriggio non gli dava tregua. Lo tormentava con dispettose
improvvisate, riportandogli alla memoria i baci, le carezze, le parole
infiammate che lui e Camille si erano scambiati.
Su quel dannato divano.
Anche lo sguardo incredulo, umiliato e gelido che gli aveva lanciato prima
di lasciarlo era sempre lì, davanti ai suoi occhi.
Era certo che a Camille il suo rifiuto non fosse sembrato un atto né eroico
né cavalleresco, semplicemente perché non ne aveva compreso le ragioni.
Come biasimarla se a lui stesso tali ragioni cominciavano ad apparire idiote?
Moriva dalla voglia di vederla. Doveva vederla.
Cercò una scusa per farlo, e subito la trovò.
Avrebbe anche potuto fare a meno di un pretesto, dopotutto era una sua
redattrice, ma una scusa era necessaria per proteggere la reputazione di Miss
Brontee dal resto del mondo.
Alle cinque del pomeriggio Raleigh chiamò all’interfono Miss Daisy che,
come di consueto, saltò sulla sedia e cominciò ad agitarsi.
«Salite in redazione e informate Miss Brontee che desidero vederla appena
possibile. No, ditele di scendere subito, per cortesia» si corresse.
La sorpresa e il disappunto della segretaria dovettero raggiungere livelli
preoccupanti quando poco dopo scoprì che quella mattina Miss Brontee non
si era recata al lavoro.
Pessima notizia.
«Ebbene?» fece lui, in modo per nulla rassicurante quando lei rimise piede
nell’ufficio.
«Miss Brontee non è venuta al lavoro, stamane, signore. Manny dice che
non si sentiva bene.»
Detto ciò, fece appena in tempo a richiudere la porta dietro di sé, prima di
sentire il possente pugno del padrone abbattersi violento sulla scrivania. Un
istante dopo, mentre ancora stentava a respirare, lo vide lasciare l’ufficio e
dirigersi a passi veloci su per le scale.
Quando in redazione videro comparire l’editore nero come Giove Pluvio, il
pensiero di ogni reporter andò alle proprie possibili negligenze e un generale
respiro di sollievo si levò quando Raleigh si precipitò senza bussare
nell’ufficio del direttore. Nel silenzio, tutti poterono ascoltare questa breve
conversazione.
Raleigh: «Dov’è Miss Brontee?»
Corman, ironico: «Buonasera anche a voi, Raleigh.»
Ancora Corman: «A casa, per quel che ne so. Perché non dovrebbe? Ha
telefonato che non si sentiva bene.»
Raleigh: «Qualcosa mi dice che non è così.»
***
Raleigh aveva ragione.
La storia di Mrs Donaghue l’aveva talmente impressionata che Camille
aveva deciso di indagare. E non da dietro una scrivania.
Con indosso abiti da lavoro chiesti in prestito a Johanna e un pezzo di pane
e una mela chiusi in un fazzoletto, si era messa in fila con altre donne al
cancello della camiceria alle sei di mattina, per chiedere un impiego a
giornata. E con altre donne era stata fatta entrare e messa subito all’opera.
Le impiegate a giornata non erano fortunate come le operaie addette ai
macchinari. A loro venivano affidate tutte le mansioni più umili e faticose:
trasportare le pesanti pezze di cotone dal magazzino alla sala taglio, spazzare
i pavimenti ricoperti di brandelli e fili di stoffa, oliare i macchinari, portare
acqua alle operaie che sedevano per ore alle macchine respirando un’aria
densa di un pulviscolo malsano, abbassare e alzare le pesanti leve delle
presse, pulire le latrine.
Le condizioni di lavoro a cui le operaie si sottoponevano per dodici ore di
fila, con solo un breve intervallo per mangiare e usufruire di un gabinetto
privo di acqua corrente, le erano sembrate non solo sfibranti, ma anche
mortificanti. Come Johanna, quelle poverette erano destinate da una sorte
avversa a invecchiare precocemente, se non ad ammalarsi e morire.
Doveva fare qualcosa per aiutarle e l’unico piano che aveva elaborato era
scrivere un articolo su quell’inferno. Avrebbe raccontato non solo della
durezza inumana di quel lavoro, ma anche di come Kowalski, incontrandola,
l’avesse squadrata dall’alto in basso e avesse mormorato con un sorriso
malizioso: «Bene bene bene, cosa abbiamo qui, una nuova bambina!» Di
come l’avesse afferrata per un braccio mentre lei caracollava sotto una
pesante pezza di stoffa e avesse biascicato: «Sta’ bene a sentire! Ricorda il
mio nome. Kowalski. Sono il tuo padrone assoluto: obbedisci e lavorerai. Fai
la ritrosa e ti ritroverai in mezzo allo sterco dei cavalli. Hai capito?»
Quel pomeriggio, tornando verso Washington Square piena di sdegno,
Camille stava già dando forma a un articolo che avrebbe fatto scalpore.
***
Alle cinque e mezza Raleigh batteva con insolita veemenza al portone dei
Campbell e un minuto più tardi entrava in biblioteca ancora col pastrano
addosso, inseguito da Broley che voleva toglierglielo a tutti i costi.
Vedendo la sua espressione preoccupata, Mr Campbell scattò in piedi.
«Cosa è successo, Frank?»
«Perdonate le mie cattive maniere, Timothy. Camille è in casa?»
«No, Frank, credevamo fosse al Daily. Cielo santissimo, le è forse successo
qualcosa?» rispose Mrs Campbell scattando in piedi a sua volta.
Camminando su e giù come un leone in gabbia, Raleigh li ragguagliò sui
fatti, o almeno su quanto supponeva fosse successo.
«Non potrei mai perdonarmelo se le fosse successo qualcosa» disse Agnes
impallidendo. «In fondo sono stata io a spingerti ad assumerla al Daily.» E a
spingerla verso di te, aggiunse tra sé e sé.
«Camille ci ha parlato spesso di Peter e di sua madre, ma chi poteva
supporre che avrebbe avuto il coraggio di prendere un’iniziativa del genere, e
da sola!» le fece eco Mr Campbell.
«Le avevo assicurato che ci avrei pensato io a risolvere la questione con
Kendall» aggiunse Raleigh con un gesto esasperato. «Perché quella ragazza
deve essere così cocciuta e combattiva?»
Si sentiva divorato dai sensi di colpa: avrebbe dovuto fare di più per
proteggerla, come tenerla chiusa a doppia mandata nella sua camera da letto.
«Vado a cercarla, non posso più aspettare. E quando la trovo…»
Girò sui tacchi e ritornò nell’ingresso, seguito a passo di marcia dai
Campbell e da Broley, sul punto di licenziarsi perché ormai non sapeva più
quando avrebbe potuto far servire la cena.
In quel momento la confusione raggiunse il picco più elevato. Mr Campbell
indossò il mantello per seguire Frank nella sua spedizione, Mrs Campbell si
precipitò al telefono per chiamare la polizia, Raleigh alzò gli occhi al cielo,
aprì la porta e fece per andarsene proprio nello stesso momento in cui
Camille stava per tirare il cordone del campanello di casa, tanto che per poco
non le andò a sbattere contro.
Per un istante tutti tacquero, poi si scatenò la bagarre.
***
«Mr Raleigh!»
«Camille!»
«Mr Campbell, Mrs Campbell! Cosa è successo?» Lo sguardo di Camille
vagava spaventato cercando una risposta.
«Cosa è successo? Siamo noi a chiederlo a te. Stai bene, mia cara?» le
chiese Agnes con viva preoccupazione. «Hai un aspetto… orribile, piccina.
Su, entra, fatti vedere.»
A Frank, invece, Camille pareva bellissima. Taceva e la guardava
ringraziando Dio che gliel’avesse restituita sana e salva.
«Sì, credo proprio di avere un aspetto orribile» rispose guardando di
sottecchi Raleigh, «ma sto benissimo. Perché siete così preoccupati? Se solo
avessi saputo che eravate a casa, Mrs Campbell, e non fuori come credevo, vi
avrei avvisati del mio ritardo.»
Raleigh le si piazzò davanti con aria minacciosa. «Forse siamo tutti
preoccupati perché nessuno di noi aveva la più pallida idea di dove foste
finita? Perché avete mentito in modo deliberato sia ad Agnes che a Corman,
Camille?» le chiese senza sforzarsi di nascondere la collera.
«Io… non volevo che vi deste pensiero per me» disse fronteggiandolo con
aria di sfida.
«Molto generoso da parte vostra» la rimbeccò lui ironico, mentre con
interesse crescente seguiva la curiosa e silenziosa lotta che si stava svolgendo
tra Broley e Miss Brontee.
Il maggiordomo sembrava determinato a liberarla del mantello, mentre lei
se lo teneva stretto al petto cercando di difenderlo dagli attacchi del
domestico.
Raleigh si avvicinò alla coppia di contendenti con fare deciso.
«Broley, grazie, aiuterò io la signorina» disse, e quello, con aria un po’
offesa, indietreggiò.
Camille prima cercò di allontanare Frank, poi sbuffando si rassegnò a
quella piccola prepotenza, irrigidendosi mentre le mani di lui le aprivano il
gancio del mantello e glielo facevano scivolare ai piedi.
Con un’occhiataccia e un Ah! accusatorio, Raleigh la fulminò. Poi,
girandosi verso i Campbell, disse: «È esattamente come sospettavo».
Un Oooh! si levò dai presenti, Mr Broley compreso.
Camille indossava abiti talmente logori e modesti che neppure a una
sguattera sarebbe stato permesso di portarli in quella casa.
Cercando di fermare l’ondata di domande che stava per investirla, alzò
entrambe le mani e con aria per nulla intimorita disse: «Vi spiegherò tutto,
ma lasciate che prima vada a lavarmi e a cambiarmi, ne sento veramente la
necessità».
Raleigh, però, non aveva nessuna intenzione di lasciarla andare. Voleva la
conferma ai suoi sospetti.
«Siete stata alla fabbrica di Kendall, vero, a lavorare come giornaliera?»
«Cosa?» fecero all’unisono i Campbell.
«Hai lavorato in fabbrica? Per tutto il giorno?» domandò Agnes
stemperando una punta di ammirazione nell’orrore di quelle parole. «Ha
lavorato tutto il giorno in fabbrica» spiegò poi al marito, quando la ragazza
assentì silenziosamente, nel caso non avesse capito.
Camille non cercò di spiegare, disse solo: «Sì, è vero, come migliaia di
altre donne ho lavorato in fabbrica tutto il giorno. Non ci vedo niente di
male».
«Certo che no, Camille, ma avete avuto un bel coraggio!» disse Mr
Campbell. «Anche se non riesco a trovare una sola motivazione ragionevole
per cui abbiate fatto una cosa tanto strana.»
«Altro che coraggio! Siete stata un’incosciente» sbottò Raleigh, senza
nascondere la collera.
Lei ricambiò il suo sguardo infuriato con un sorriso. Si sentiva calma e
sicura di sé, dopotutto. E Frank Raleigh non aveva alcun diritto di giudicarla.
«Forse, ma ora sono un’incosciente molto sporca e sfinita» rispose. «Non
vedo l’ora di farmi un bagno. Perdonatemi per non avervi informato delle mie
intenzioni, signori Campbell. Buonanotte.»
«Ti mando in camera la cena. E fai bruciare quegli abiti, cara» aggiunse
Agnes.
Camille stava già salendo i primi scalini, quando si girò per sorridere a
Agnes, ma vide che Frank Raleigh la fissava. Non riuscì a comprendere se
nei suoi occhi ci fosse rabbia, desiderio, amore, odio o indifferenza. Sentì
solo la testa girare e le gambe piegarsi.
Che fosse la sola presenza di lui a provocarle quella curiosa sensazione di
leggerezza? Ora vedeva la stanza vorticare intorno a lei in modo davvero
bizzarro, come fosse ubriaca, come se avesse di nuovo bevuto quella
diabolica cosa che chiamavano vodka.
Sarebbe ruzzolata giù dalle scale come un sacco di patate, non aveva più
dubbi al riguardo, se in un istante Raleigh non fosse corso da lei.
Mentre il resto del mondo pareva cristallizzarsi, Frank la raggiunse e la
sollevò fra le braccia, bello e forte come un eroe greco, o come un principe
delle fiabe o un cavaliere di Re Artù.
«Camille, per l’amor del cielo! State bene?» le chiese tenendola stretta a sé
con troppa forza.
Oh! Stava benissimo fra le sue braccia.
«Sì, non so cosa mi sia capitato, mi spiace...»
«Sta bene» urlò lui rivolgendosi ai Campbell. «Probabilmente si è trattato
solo di un mancamento dovuto alla fatica. Ora la porto in camera sua.»
Mrs Campbell disse qualcosa riguardo a Sally e a un bagno, ma né Camille
né Raleigh capirono di cosa stesse parlando.
Camille invece sorrise, sistemandosi come una gatta in braccio al padrone,
pronta a fare le fusa se lui l’avesse carezzata, se dalle sue labbra fosse uscito
il suono dolce di una parola gentile. Non sapeva se fosse colpa della
stanchezza, ma certo in quel momento avrebbe fatto di tutto per un suo bacio.
Qualcosa di molto meno romantico proruppe invece dalla bocca di Raleigh
che, a quanto pareva, non aveva alcuna intenzione di baciarla.
«Che diavolo hai in quella testa?» le chiese, la preoccupazione ormai
trasformata in collera.
Lei sospirò e chiuse gli occhi.
«Credevo voleste baciarmi, invece mi volete solo licenziare per non essere
venuta al lavoro. Non siete affatto gentile» disse appoggiando languida la
testa sulla sua spalla. E poi aggiunse: «Uhmm! Che buon profumo avete,
Frank! Mentre io devo essere puzzolente come le latrine che mi hanno fatto
pulire. Forse è per questo che non volete baciarmi? Non posso darvi torto, in
fondo…»
Lui aveva alzato gli occhi al cielo nel tentativo di nascondere i propri
pensieri, che prevedevano un’immediata uscita di scena dei signori Campbell,
un bacio da togliere a entrambi il fiato e altro che è facile immaginare. Fece
per risponderle, e non in modo gentile, ma si trattenne perché Camille,
comoda e calda com’era tra le sue forti braccia, già si era abbandonata al
sonno.
***
22 novembre, New York
Il mattino seguente Camille si svegliò di buon’ora con una fame da lupo. In
fondo, il giorno prima si era ammazzata di lavoro fisico e l’ultima volta che
aveva mangiato era stato a pranzo: una mela e un pezzo di pane. La sera, poi,
il sapone e il sonno si erano rivelati il nutrimento più gradito.
Dopo essersi preparata, scese a colazione. Era euforica, soddisfatta, con una
gran voglia di mettersi alla macchina da scrivere e raccontare al mondo la sua
avventura. Anche se non era una bella avventura.
Trovò i Campbell già alle prese con caffè e giornali. Agnes aveva di fronte
a sé il Daily e stava divorando, con le uova strapazzate, l’intervista di Miss
Brontee a Rose Dragonfly, la prostituta.
«Camille!» fece Mr Campbell sorpreso di vederla in piedi tanto presto.
«Come state, mia cara?»
«Benissimo, signore, vi ringrazio.»
Agnes ripiegò il giornale. «Non vorrai andare al lavoro stamane, mi
auguro!»
«Invece devo andare. Se non lo facessi gli altri redattori penserebbero che
godo di privilegi particolari perché sono una donna.»
«Raleigh è stato chiaro: non vuole che tu vada al giornale, oggi. È lui il tuo
capo, in fondo!» aggiunse Mr Campbell.
«Dopo questa tua acuta osservazione, amor mio, neanche un terremoto
potrebbe tenerla in Washington Square!» lo rimbeccò Agnes.
«In ogni caso, a Raleigh non piacerà!»
«Mr Raleigh vi ha detto forse qualcosa?» chiese Camille in ansia.
«Si è solo raccomandato di tenerti a casa, dopo il mancamento di ieri sera»
rispose Campbell.
«Mancamento? Quale mancamento?» chiese lei.
Poi si ricordò di come fosse stata lì lì per cadere, di come Raleigh l’avesse
presa in braccio e portata su per le scale, e di come quel gesto l’avesse fatta
sentire bene. Era certa di avergli appoggiato la testa sulle spalle e di aver
mormorato qualcosa di molto sciocco, improprio e compromettente. Ma
cosa?
A quel pensiero arrossì un poco e cercò di giustificarsi. «Sono soltanto
affamata e un po’ stanca.»
«Allora smettila di parlare, cara, e mangia» ribatté Agnes.
Camille non si fece pregare e mangiò di gusto. Quando ebbe terminato si
scusò ancora con i suoi ospiti per averli tenuti all’oscuro delle sue intenzioni.
«Sei una donna adulta, che lavora e si mantiene: come potremmo non
fidarci ciecamente delle tue decisioni?» la interruppe Mrs Campbell.
«Non eravate preoccupati, dunque?»
«Eccome se lo eravamo, anche perché Frank sembrava impazzito» rispose
Agnes alzando gli occhi al cielo. Poi, indicando l’articolo sul Daily, continuò:
«Questa intervista non passerà inosservata, mia cara…»
E Mr Campbell: «Questa Rose... mi spiegate dove l’avete incontrata,
Camille?»
«Perché questa domanda, marito mio?» chiese la moglie, trafiggendolo con
lo sguardo.
*
Come ogni giorno, prima di raggiungere la redazione Camille si fermò a
parlare qualche minuto con Peter.
«La mamma sta meglio, Miss Brontee» le disse il ragazzino sorridendo.
«Grazie a voi e a Mr Raleigh.»
«Sono molto felice di sentirlo, e il merito è tuo, hai agito con molto senno.
Hai per caso bisogno di qualcosa, di un po’ di denaro, forse?»
«Ci ha già pensato Mr Raleigh» rispose Peter arrossendo un poco.
Camille lo guardò, sorpresa. «Quando?»
«Stamattina è passato di qui. Mi ha detto di non preoccuparmi, che ci
penserà lui alla mamma e a me, e mi ha chiesto anche se mi piacerebbe
andare a scuola.»
Camille sentì l’emozione serrarle la gola. Che Frank Raleigh non fosse così
cinico, dopotutto?
«E tu cos’hai risposto?»
«Che mi piacerebbe molto, ma che devo lavorare.»
«Di certo è d’accordo con te, ma sono sicura che troverà un modo per
aiutarti.» Gli porse il cartoccio con il dolce che ogni giorno comprava per lui
e fece per andarsene.
«Miss Brontee» la fermò Peter. «Oggi è già il secondo pacco di giornali che
vendo. Sembra che tutti siano molto interessati al vostro articolo.»
Lei lo fissò incredula.
«State a vedere.» Il ragazzino si schiarì la voce e strillò: «La scandalosa
intervista di Miss Brontee a una prostituta dei quartieri alti, comprate il Daily,
il Daily, gente!»
A sentirlo pronunciare la parola prostituta Camille si irrigidì: cosa poteva
saperne un bambino di certe cose? Non si interrogarono allo stesso modo
alcuni passanti, che subito, incuriositi, gli si avvicinarono. Camille rimase
sbalordita mentre Peter vendeva copie su copie, gentile e disponibile con i
clienti. Quel ragazzino ci sapeva fare davvero. Gli mormorò bravo e lui
sembrò raddrizzarsi, crescere persino, fiero come un guerriero vittorioso. Poi
tornò a essere solo un bambino e le sorrise felice.
Per tutto il giorno quel sorriso avrebbe scaldato il cuore di Camille.
*
Sarà una buona giornata, pensò entrando con passo deciso in redazione.
«La prossima volta che fai un’altra bravata come questa, che prendi delle
iniziative senza consultarmi, sei fuori!» sbraitò Mr Corman che la stava
aspettando camminando tra le scrivanie come un leone in gabbia.
Forse sarebbe stata solo una giornata discreta.
«Voglio quel dannato articolo entro le due del pomeriggio, per l’edizione di
domani» continuò il direttore, sempre sbraitando. «Non fare nomi e cognomi,
ma che si capisca bene di chi e di cosa stai parlando. Se il pezzo sarà buono,
avrai l’onore della prima pagina, altrimenti l’onta pubblica del cestino della
carta straccia.»
Incredula a quella notizia - la prima pagina! - Camille mormorò un sì
signore grondante riconoscenza e corse alla scrivania mentre i suoi colleghi,
invece di darle il benvenuto con le solite battutacce, si complimentavano con
lei. Qualcuno le offrì persino un sigaro.
«Brava, Camille!»
«Sei una ragazza coraggiosa.»
«Una vera giornalista d’assalto!»
No, a ripensarci sarebbe stata una buona giornata. Un’ottima giornata.
Perché il suo articolo non sarebbe finito tra le cartacce.
La ragione per cui tutti erano già al corrente dei fatti, gliela spiegò poco
dopo Manny.
«È stato Raleigh, sua signoria in persona, a raccontare ogni particolare a
Corman, poi Corman ci ha informato della tua bravata, così l’ha chiamata.
Per quanto entrambi avessero un’aria piuttosto severa, non saprei dire chi fra
i due fosse più gonfio d’orgoglio.»
Istintivamente Camille si portò le mani al viso, quasi a nascondere il
groviglio di sentimenti che provava in quel momento.
«Credevo mi avrebbero licenziata, invece…»
Manny l’abbracciò, poi, esibendosi in una smorfia buffa, si diresse verso
l’ufficio di Corman che la stava chiamando a gran voce.
Camille si buttò a capofitto nel lavoro. L’articolo cominciò a fluire subito,
così come lo aveva già immaginato: il diario ora dopo ora di un’umiliante e
faticosa giornata in fabbrica, i racconti delle sue compagne occasionali, il
motivo – Johanna – che l’aveva condotta in quel posto orrendo.
Una volta terminato, trasse un lungo sospiro e si stiracchiò appena, estrasse
l’ultimo foglio dal rullo e si alzò in piedi. Sistemò in buon ordine le quattro
pagine che aveva riempito e si avviò verso l’ufficio del direttore. Erano le due
precise.
«Avete finito, Camille?» le chiese Hurley.
«È venuto bene?» domandò un altro.
Per la prima volta non c’era sarcasmo in quelle voci. Per la prima volta la
consideravano una di loro.
Immersa nei suoi pensieri, neppure si accorse che qualcun altro la stava
osservando già da un po’.
***
Frank Raleigh tolse i piedi dalla scrivania dove si era sistemato – o forse
sarebbe meglio dire appostato – in attesa che Camille terminasse di scrivere.
Era rimasto lì, incurante degli sguardi perplessi dei redattori, fingendo di
studiare dei documenti che per tutto quel tempo erano rimasti a testa in giù
nelle sue mani. Non aveva mai distolto lo sguardo da lei.
Aveva notato che Miss Brontee usava la macchina da scrivere con una certa
disinvoltura, anche se non con la destrezza di una dattilografa, e che batteva
sui tasti con solo tre dita, in modo buffo. La testa si inclinava a destra quando
rileggeva, e sovente scostava dal viso una ciocca di capelli ribelli. Quando
qualcosa non la soddisfaceva, con veemenza cancellava il periodo
incriminato. Poi riprendeva a scrivere, più determinata e concentrata di
prima.
Chi sei, Camille?
Sebbene Agnes gli avesse raccontato qualcosa del suo passato – la sua fuga
dall’Inghilterra, il matrimonio programmato con quell’individuo di Boston –
in realtà quella giovane donna rimaneva per lui un mistero: ciò che invece
sapeva, e fin troppo bene, era quanto fosse cocciuta, intelligente e
desiderabile e che, se in quel momento fossero stati soli, l’avrebbe stretta con
devozione e tenerezza, felice di poterla tenere anche solo qualche minuto fra
le braccia.
Per quanto Frank Raleigh fosse molto fiero del coraggio di Camille, non
poteva levarsi dalla testa che se quel bruto di Kowalski si fosse accorto delle
sue intenzioni, la piccola avventura di Miss Brontee avrebbe potuto avere un
esito molto più drammatico.
Camille, intanto, aveva estratto l’ultimo foglio dal rullo. Si era alzata e ora
si stava avvicinando a lui. Era chiaro che non lo avesse ancora notato.
Quando gli passò accanto, lui la chiamò. «Miss Brontee, prego» le disse,
allungando la mano destra per farsi consegnare il dattiloscritto.
«Mr Raleigh, mi avete spaventata.»
Era leggermente sussultata al suono inatteso della sua voce, poi, senza
apparente ragione, era arrossita. L’articolo, comunque, era rimasto
saldamente nelle sue mani.
«Sto aspettando, Camille.» La mano di Raleigh era sempre tesa.
Un po’ titubante, lei glielo consegnò.
«Mr Raleigh» disse.
Lui alzò lo sguardo.
«Non ho ancora avuto l’occasione per ringraziarvi. Se non fosse stato per la
vostra prontezza, sarei ruzzolata giù dalle scale, ieri sera.»
Per tutta risposta, lui fece un cenno con la mano, come se il suo gesto non
fosse stato poi tanto eroico.
«E temo di aver detto delle sciocchezze mentre mi portavate su per le scale.
La stanchezza è peggio della vodka, a quanto sembra.» Aveva abbassato lo
sguardo, all’improvviso timida, in un atteggiamento civettuolo che non le era
abituale.
«Va bene, va bene, ma ora lasciatemi leggere» tagliò corto lui, dimostrando
così di non aver sentito una sola parola.
***
Infastidita per l’indifferenza di Raleigh, Camille si abbandonò a un sonoro
sospiro che lui non degnò di considerazione, quindi, con fare polemico,
spostò in modo rumoroso una sedia e vi si sedette.
Anche questa volta senza alcun risultato.
Raleigh era assorto nella lettura del suo articolo.
Completamente assorto.
Perché, ora, aveva quell’espressione seria sul volto?
Cominciò a sentirsi nervosa e ad agitarsi sulla sedia. Desiderava non solo
che lui la guardasse come Lancillotto aveva guardato Ginevra a Camelot, ma
voleva che l’apprezzasse anche per il suo lavoro. Era una giornalista,
dopotutto, e lui era il suo editore. Era forse pretendere troppo?
Forse lo era, dal momento che l’espressione di Raleigh adesso si era fatta
furente.
Camille chiuse gli occhi, pregando che il suo articolo non finisse tra la carta
straccia. Quando li riaprì, Raleigh aveva terminato di leggere e stava per
abbattere con singolare violenza e notevole fragore il pugno destro sul ripiano
della scrivania.
Buumm!
Per lo spavento, Camille fece un piccolo salto sulla sedia. Gli altri redattori
sollevarono gli occhi dal loro lavoro.
No, non ha proprio apprezzato il mio articolo.
«Dunque?» chiese, pur conoscendo già la risposta, gli occhi tondi, attenti,
pieni di aspettativa.
Raleigh si alzò in piedi con tale slancio da rovesciare la sedia, il volto
tirato, la mascella tesa, i pugni stretti. Tutta la redazione lo stava fissando,
ammutolita.
Che voglia addirittura prendermi a pugni?
«Mr Raleigh, mi sembra che la vostra reazione sia davvero eccessiva.
Pensavo fosse un buon articolo...»
«Seguitemi, Camille.» Era un ordine.
Camille guardò i suoi colleghi in cerca di una spiegazione, poi, senza
averne avuta una, seguì Raleigh nell’ufficio di Corman.
Il direttore sedeva alla scrivania, con un grande punto interrogativo sul
volto.
Raleigh dava le spalle alla porta. Non appena sentì i passi di Camille, ruotò
su se stesso e disse: «Io lo uccido».
Camille lo fissò sbalordita, Corman lo stesso.
«Uccidete chi, Mr Raleigh?» domandò lei.
Che non sia stato il mio articolo, dopotutto, a farlo infuriare in quel modo?
«Frank, di che diavolo state parlando?» aggiunse Corman, alzandosi in
piedi quasi volesse impedire quel crimine sul nascere.
Raleigh si avvicinò a Camille, la prese per un braccio, lo sguardo sempre
più incollerito, e chiese: «Cosa vi ha fatto quel bastardo? Vi ha forse messo le
mani addosso?»
Lei stava per chiedere a Raleigh di spiegarsi meglio, quando fu colta da
un’illuminazione.
«Oh! State forse parlando di Kowalski?»
«Chi sarebbe questo Kowalski?» fece Corman che cominciava ad avere
difficoltà a seguire quel teatrino.
Raleigh gli porse l’articolo. Corman lo prese e cominciò a leggere.
«No! Mi ha solo afferrata in malo modo per un braccio, esattamente come
state facendo voi in questo momento, Mr Raleigh» rispose Camille.
***
Tre paia di occhi si posarono sul pugno di Raleigh stretto come una morsa
intorno al polso di Camille.
«Non è la stessa cosa» si difese lui lasciando subito la presa.
Miss Brontee sollevò un sopracciglio. «Lo credete davvero?»
«Potete pensare ciò che vi garba. In ogni caso, quell’animale non la passerà
liscia.»
«Che intenzioni avete?» chiese lei preoccupata. «Di minacciarlo, forse? Mr
Raleigh, quello è un uomo violento, pericoloso.»
«Vi assicuro che io lo sono molto più di lui.»
«Non penserete di comportarvi come un… un selvaggio» tentò di replicare
Camille, ma Raleigh la interruppe, agitandole un dito minaccioso sotto il
naso.
«Miss Brontee, se ancora una volta agirete di testa vostra mi comporterò
davvero come un selvaggio.»
In quel momento un fattorino bussò alla porta ed entrò. Rendendosi conto
che c’era aria di tempesta, si spicciò a riferire il suo messaggio: «Miss
Brontee, in portineria una certa Miss Jenny Benton e una Miss Claudette
qualcosa chiedono di voi».
Raleigh alzò gli occhi al cielo. Che ci facevano Jenny e Claudette al Daily?
Soprattutto cosa ci faceva Claudette? Si alzò di scatto.
«Devo andare. Non ho tempo da perdere con le vostre amiche.»
«Solo Jenny è mia amica, almeno un po’» protestò Camille.
«Comunque sia» disse Frank rivolto al fattorino, «riferite loro che non ci
sono, che sono morto, che sono partito per l’Antartide!»
«Veramente hanno chiesto di me, Mr Raleigh» ribatté Miss Brontee
alzando un sopracciglio, divertita.
«È vero» si inserì il fattorino.
Raleigh gli rifilò uno sguardo minaccioso. Quello fece un passo indietro.
«Volete scommettere che chiederanno anche di me?» Prima di lasciare
l’ufficio di Corman guardò Camille e disse: «Riguardo all’articolo, non
finisce qui, Miss Brontee».
Lei pregò il fattorino di far accomodare le signorine in redazione e corse
dietro a Raleigh. Lo raggiunse che già stava imboccando le scale per scendere
al tredicesimo piano.
«Aspettate.»
Lui si girò, sulle spine.
«Vi siete infuriato per il comportamento di quell’uomo…»
«Di quell’animale» precisò lui.
«…ma ancora non mi avete detto se il mio articolo è buono.»
«Non è quello il punto, Miss Brontee.»
«Rispondete, Mr Raleigh. È buono?»
Lui sospirò rassegnato. «È un ottimo pezzo, Camille. Ciò non toglie che
sarà anche l’ultimo del genere che scriverete. Almeno sul mio giornale.»
«Vorreste che mi occupassi solo di moda e pettegolezzi?»
«Mi sembra che scriviate di tutto, tranne che di moda e pettegolezzi.
Comunque, non è questo il momento di discuterne. Ne riparleremo…»
«Quando non correrete più il rischio di incontrare Claudette?»
Lui la fissò sorpreso. «Vedo che avete già afferrato la situazione. Ora, se
permettete…» E si rimise a scendere le scale.
Camille si sporse dalla balaustra e senza riflettere chiese: «È la vostra
amante?»
Lo vide immobilizzarsi e girarsi verso di lei con studiata lentezza.
Una maschera di granito. Una furente maschera di granito.
Con un sorriso sfacciato, lei girò sui tacchi e se ne andò.
***
Quando Jenny e Claudette fecero il loro ingresso, il concitato mondo della
redazione sembrò immobilizzarsi sul proprio asse. Qualcuno dei redattori
rimase a bocca aperta, qualcun altro si alzò di scatto, forse per ammirare in
tutto il loro splendore due delle signorine più conosciute dell’aristocrazia
newyorkese. Forse fu per questo che Mr Farrell, responsabile delle cronache
mondane al Daily, andò loro incontro come fosse un vecchio amico,
ricevendo in cambio un sorriso interrogativo.
Cinguettando allegre, le due giovani donne seguirono Camille nel salottino
attiguo alla redazione e senza perdersi in convenevoli affrontarono
l’argomento che stava loro a cuore.
«Dovete raccontarci tutto!» esordì Jenny sgranando gli occhi.
Camille guardò entrambe con aria interrogativa, chiedendosi se si stessero
riferendo alla sua giornata in fabbrica o a quanto successo sul divano di Frank
Raleigh pochi giorni prima. Poi comprese.
«Oh, parlate forse all’intervista a Miss Dragonfly?»
Entrambe fecero sì con la testa, tutte occhi e orecchi.
«Avete letto l’articolo?»
Altri sì con la testa.
«Se lo avete letto, che altro c’è da dire?»
«Era bistrata? Si esprimeva in modo volgare? Ha fatto il nome dei suoi
clienti abituali? Potreste presentarcela?» chiese Jenny, avida di conoscere
ogni minimo particolare.
«Nient’affatto, mia cara: nulla, né nel comportamento né
nell’abbigliamento della signora in questione, mi avrebbe potuto far
sospettare quale fosse la sua professione. Mi è parsa una donna bella ed
elegante, e alquanto intelligente.» Poi, vedendo l’espressione sbigottita di
Miss Benton, aggiunse: «Mi sembrate quasi delusa, Jenny…»
«Delusa? Eccitata semmai. Ah! Quanto vi invidio, Camille, siete così…
moderna, libera ed emancipata! Capisco perché mio fratello…» Si interruppe
bruscamente.
«Vostro fratello cosa?» chiese Camille.
Jenny e Claudette si scambiarono uno sguardo complice.
«Su, Camille, vi sarete resa conto che Ken ha un debole per voi, no?» disse
Claudette con un sorriso malizioso.
«E domani vi condurrà a visitare la Borsa!» aggiunse Jenny, come se ciò
spiegasse tutto.
«Di certo il posto più romantico dove portare la donna dei propri sogni»
ribatté Camille, ironica.
«Be’, di sicuro non quanto il ricevimento che si terrà al roof garden
dell’Astoria sabato prossimo. Verrete, vero, Camille? E… sapete per caso se
anche Frank Raleigh sarà presente?» chiese Claudette con leggerezza.
Camille le sorrise, col desiderio di strozzarla.
«Non sono la segretaria di Mr Raleigh, Miss Neville. Perché non lo
chiedete a lui direttamente? Quando ha saputo della vostra presenza al Daily
mi ha pregato di accompagnarvi nel suo ufficio prima che lasciaste l’edificio»
sussurrò con un risolino vendicativo sulle labbra.
Una malcelata espressione di vittoria si stampò sul bel viso di Claudette.
«Vogliamo andare, dunque?» fece decisa Camille, quasi fosse troppo
impegnata per perdere altro tempo in simili quisquilie.
***
Dalla festa di Halloween dei Benton, Claudette non perdeva occasione per
dare il tormento a Raleigh. Insisteva perché si incontrassero e lo sorprendeva
con dei veri e propri agguati, come quello che era ancora in pieno
svolgimento al Daily.
Dal primo attacco, un paio di settimane prima a casa sua, Raleigh si era
difeso costringendola a risalire sulla carrozza pubblica che l’attendeva poco
distante da Washington Square; da quello in corso, rifugiandosi appena in
tempo oltre l’invalicabile bastione del suo ufficio.
Lì sarebbe stato al sicuro.
Lontano da tutte quelle donne.
Era consapevole di cosa Claudette volesse da lui (come non esserlo?),
anche se non riusciva a capirne il motivo. Se era solo di un amante che aveva
bisogno, perché non affidare il compito al suo promesso sposo? Forse, nella
mente distorta di Claudette, sarebbe stato troppo semplice, facile e privo di
rischi. Nessun incendio da appiccare, nessuna sfida da vincere.
Che quella donna viziata e capricciosa si prendesse pure tutti gli amanti che
voleva, lui non era disponibile. Non aveva bisogno di Claudette Neville per
divertirsi, poteva scegliere fra donne meno pericolose e complicate.
Passò mentalmente in rassegna le sue ultime amanti e si rese conto che da
più di un mese non ne frequentava nessuna.
Un mese.
Non era mai stato tanto a lungo senza una donna.
Un mese, trenta giorni.
Da quando, cioè, Miss Brontee era sbarcata a New York.
Da quando aveva posato gli occhi su di lei, una vergine, la sua virilità era
rimasta intrappolata.
Doveva tornare al più presto alle vecchie e appaganti abitudini e lasciare
che il desiderio per Camille si stemperasse tra le gambe di altre signore.
Più amanti avrebbe avuto, più in fretta avrebbe ritrovato il suo solido
equilibrio.
Frank Raleigh si ridestò da quegli sgradevoli pensieri a causa del cicaleccio
proveniente dal corridoio. Con un sonoro dannazione, tolse i piedi dalla
scrivania e scattò in piedi un istante prima che Camille, Jenny e Claudette
facessero irruzione nel suo ufficio, seguite dalla sua segretaria, quasi in preda
a una crisi isterica.
Valutando l’assoluta mancanza di vie di fuga, Raleigh ingoiò amaro e si
rassegnò ad arrendersi all’inevitabile, meditando atroci vendette nei confronti
di Miss Brontee.
L’unica responsabile di quell’assedio.
La stratega di quell’attacco.
Mentre scambiava le prime parole di cortesia con le due indesiderate ospiti
e sguardi minacciosi con Camille, gli venne in mente che non sarebbe stato
male infliggerle subito una piccola lezione.
La piccola insolente moriva dalla voglia di sapere se lui e Claudette erano
amanti? Al diavolo! Avrebbe flirtato con Claudette, e che Miss Brontee
pensasse ciò che voleva.
***
Le tre signore si sistemarono sul divano mentre Raleigh offriva loro dello
sherry con modi affabili e salottieri.
La cosa non piacque a Camille. Sembrava che Frank l’avesse presa
dannatamente bene per uno che era fuggito a gambe levate solo a sentir
pronunciare il nome di Claudette Neville.
Sotto sotto, invidiava le donne capaci di civettare, di far moine ed essere
sempre al centro dell’universo maschile. In quei pochi minuti che rimasero
nell’ufficio di Raleigh – che curiosamente col trascorrere del tempo sembrava
sempre meno infastidito da quella visita – Claudette dispiegò il suo
fornitissimo armamento: sorrisi, moine, parole lasciate a metà, ma soprattutto
sguardi. Erano gli occhi di lei a parlare, più della sua bocca, dalla quale,
peraltro, non erano uscite frasi indimenticabili; inviavano messaggi
inequivocabili al mio caro Frank, del tipo: prendimi, prendimi, prendimi. E il
mio caro Frank sembrava pascersi di quegli sguardi traboccanti di intime
promesse.
Forse, dopotutto, non era stata una grande idea servire Raleigh su un piatto
d’argento a Claudette.
Per quanto fosse difficile ammetterlo, Camille era gelosa di quella
smorfiosa. Invidiosa del suo corpo provocante capace di esprimersi in un
linguaggio esplicito e sensuale. Dei suoi gridolini di ammirazione. Del
rossore che sembrava diffondersi a comando sul viso. Delle sue ciglia in
perenne movimento. Già dopo pochi minuti, non ne poteva più di quella
manfrina, di quella compagnia, di Raleigh.
Pensò alla maniera più semplice per andarsene. Nessuna scusa sarebbe stata
più efficace del suo lavoro: aveva da fare, lei, non poteva permettersi di
sprecare il suo tempo cercando di rubare gli uomini alle altre!
Quali uomini? Quali altre?
Raleigh non era suo. L’aveva rifiutata non più tardi di cinque giorni prima,
proprio lì, nel suo ufficio. Le aveva mostrato la porta del paradiso e poi
gliel’aveva sbattuta in faccia.
Eppure, per quanto mortificata e avvilita, Camille non aveva creduto a una
sola delle parole che lui le aveva detto per respingerla. Aveva creduto solo ai
suoi occhi che l’avevano accarezzata con ardore, con venerazione e passione.
Poteva dire ciò che voleva, Frank Raleigh, flirtare con Claudette e con tutte le
donne del mondo, ma era lei che voleva.
«Camille, state ascoltando?» le chiese Jenny riportandola alla realtà.
«Per la verità non proprio, stavo pensando che ho del lavoro da finire»
rispose sentendo gli occhi di Frank Raleigh bruciare su di lei.
Evitando di incrociare il suo sguardo, si alzò con fare deciso, come una che
non ha tempo da perdere in sciocchezze.
«Vi prego di scusarmi. Devo assolutamente tornare in redazione, o il
direttore mi riprenderà» disse rivolta a Jenny e Claudette. «Mr Raleigh…»
La sua ritirata strategica non funzionò.
«Miss Brontee, abbiate la bontà di aspettarmi cinque minuti mentre
accompagno le signore all’uscita. Dovrei discutere alcune faccende con voi»
fece lui, formale.
Agli ordini.
Claudette nascose il proprio disappunto dietro il più angelico dei sorrisi.
«Camille» intervenne Jenny con il solito entusiasmo, «vi dispiacerebbe se
domani venissi anch’io con voi? Ho sempre avuto il desiderio di visitare la
Borsa!»
«Voi, Jenny?» domandò Raleigh alquanto dubbioso. Quindi, rivolto a
Camille: «Borsa, nel senso di Wall Street?»
«In quel senso.»
«Ma non c’era un articolo su Wall Street tra le proposte che mi avete
sottoposto!»
«Mi spiace, Mr Raleigh, ma non credevo che Mr Benton sarebbe stato così
solerte a organizzare la visita. Non vorrei perdere quest’occasione…» E poi,
rivolta a Jenny: «Sarò felice se ci accompagnerete».
«E all’Astoria sabato sera? Ci sarete, Camille?» chiese Claudette, come se
la sua presenza fosse indispensabile.
«Sì, Miss Brontee verrà» rispose Raleigh al suo posto.
Ah sì?
«E voi, Frank, verrete?» insistette Miss Neville con fare casuale.
«Con tutti i soldi che mi costa quella cena, non potrei mancare.»
***
Quando tornò nel suo ufficio dopo aver accompagnato Jenny e Claudette
all’ascensore, Raleigh trovò Camille in piedi vicino alla finestra, lo sguardo
fisso all’East River.
A cosa stai pensando, Camille?
Avrebbe pagato, e non poco, per conoscere i suoi pensieri. Per conoscere
ogni cosa di lei, a dire il vero.
Nonostante il ricordo di quanto successo pochi giorni prima si innalzasse
fra loro come un muro, trovarsi ancora una volta lì dentro solo con lei gli
provocò un leggero malessere, un brivido improvviso. Eppure, era stato
proprio lui a erigere quel muro, terrorizzato alla sola idea di provare per lei
qualcosa di più di una semplice e innocua attrazione fisica. Terrorizzato di
cedere all’illusione di poterla, un giorno, rendere felice.
Miss Brontee si meritava di più.
Allungò una mano, mosso dal desiderio di sfiorarle i capelli un’ultima
volta, ma subito la lasciò ricadere lungo il fianco e chiuse gli occhi, quasi
volesse imprimere per sempre quel momento nella memoria.
Se solo…
La figura snella ed elegante di Camille si stagliava contro il bagliore dorato
del sole ormai basso sull’orizzonte. Gli ultimi raggi la accarezzavano e
rimbalzavano dalla camicetta bianca come da una sorgente di luce.
Immersa nei suoi pensieri, non si era probabilmente accorta della presenza
di lui. Infatti, quando Frank decise di interrompere l’incanto di quel momento
palesandosi in modo spiccio, «Miss Brontee, prego», sussultò e, girandosi
verso di lui, lo guardò smarrita.
«Accomodatevi.»
Docile, lei ubbidì.
Si sedettero uno di fronte all’altro, la scrivania in mezzo a loro. Camille
continuava a tacere, ma lo guardava con una tale intensità da farlo sentire a
disagio.
«Ho tre cose da dirvi, Miss Brontee» incominciò lui con fare sbrigativo.
«La prima è che avreste dovuto chiedere a me di accompagnarvi a Wall
Street, lo avrei fatto volentieri.»
Nulla trasparì dal volto di Camille.
«La seconda è che sabato sera, come avrete compreso, mi accompagnerete
al ricevimento all’Astoria. Ho bisogno di un buon articolo per l’edizione di
lunedì, quindi non avrete che la domenica mattina per scriverlo. Pensate di
farcela?»
Ancora nessuna reazione.
«La terza è la più importante, per cui ascoltatemi bene perché non la
ripeterò: comportatevi da incosciente un’altra volta, così come avete fatto
ieri, e non lavorerete più per questo giornale. Sarete immediatamente
licenziata. D’ora in poi pretenderò di sapere esattamente dove siete e con chi
siete in ogni istante che trascorrete lavorando per me. Spero di essere stato
chiaro.»
E la reazione, che Raleigh aveva sentito nascere secondo dopo secondo,
arrivò.
«Ma signore!» proruppe Camille con veemenza. «Come potete pretendere
una cosa del genere solo da me? Gli altri redattori godono di libertà assoluta e
della vostra totale fiducia!»
«Se non ve ne foste accorta, gli altri redattori sono uomini adulti, mentre
voi siete solo una… femmina» rispose Raleigh, e senza sforzarsi di celare la
collera.
*
Camille scattò in piedi, indignata. «Solo una femmina? Mi spiace di avere
questo insormontabile limite, signore!»
Un limite per cui Raleigh ogni giorno ringraziava il cielo. La fissò,
spazientito da quell’inutile battibecco.
«Sedetevi, non ho ancora terminato.»
«Ascolterò in piedi.»
«Come volete.»
Puntandole contro l’indice, scattò in piedi anche lui.
«Non voglio ripetermi né tornare sull’argomento, chiaro? Niente più colpi
di testa. E, già che ci siamo, non crediate di potervi divertire alle mie spalle
come avete appena fatto: credevo di avervi chiesto di tenere alla larga Jenny e
Claudette, e voi me le avete portate in ufficio! L’avete trovato divertente?»
Lei sbuffò in modo provocatorio e si mise a battere rumorosamente il piede
per terra.
«Se avete finito con le vostre prediche…» disse spazientita.
«Prediche? Se un altro dipendente avesse definito i miei ordini prediche, a
questo punto sarebbe già in strada a cercare un altro lavoro! E ora state ferma
con quel piede e risedetevi, è un ordine!» urlò.
Lei lo guardò stizzita. Strinse le labbra e serrò i pugni, infine si risedette.
Per la seconda volta in pochi minuti a Raleigh parve di sentire la parola
schiavista aleggiare sino a lui.
Troneggiando sopra di lei, alto, robusto e molto minaccioso, aggiunse: «Il
pezzo sulla Borsa... lo voglio per dopodomani, quindi appena terminata la
vostra visita tornerete in redazione per scriverlo. Non vi pago per andare a
passeggio con i vostri spasimanti».
Pur infuriata, Camille non reagì a quelle parole. Guardando fisso davanti a
sé, disse solo: «Sarà fatto».
«Ottimo.»
Raleigh si sedette di nuovo alla scrivania e subito si mise a controllare con
ostentazione alcune carte.
Non che lo stesse facendo veramente.
Cercava solo una scusa per non guardarla negli occhi e confessarle che era
geloso di Benton. Aveva già fatto ricorso a tutto il suo autocontrollo per
trattarla come un dipendente qualsiasi e allontanare dalla mente pensieri e
parole di gran lunga meno professionali.
Alzò lo sguardo e incontrò il sorriso di Camille. Seduta di fronte a lui, i
gomiti appoggiati alla scrivania, il viso fra le mani, lo osservava con fare
malizioso. Divertito.
«Ebbene?» fece Raleigh fingendosi seccato.
«Spasimanti, avete detto?»
Lui alzò gli occhi al cielo. «Non avevate del lavoro urgente da fare, Miss
Brontee?»
Con un sorriso ironico, Camille si alzò. «In effetti è così, Mr Raleigh.
Sempre che i miei spasimanti me ne lascino il tempo!»
E così dicendo, ancheggiando più del dovuto, se ne andò.
13

23 novembre, Broad Street


Ken Benton mantenne la sua parola e, quella mattina, Camille fece il suo
ingresso nel palazzo del New York Stock Exchange in Broad Street, il tempio
della finanza del Nuovo Mondo.
Con Manny e Jenny, forse più eccitate di lei, fu fra le prime signore a
essere ammesse nell’edificio e a seguire tutte le fasi delle contrattazioni dalla
balconata del primo piano, quasi fosse a teatro.
Mr Rosvoeg, fotografo del Daily, immortalò l’evento e catturò col suo
obiettivo una sorridente Camille nel gesto di suonare il gong che dava inizio
alle compravendite. Fu lo stesso Mr Eames, il presidente della Borsa, a
concederle l’onore.
Gong!!!
Al rimbombo di quel suono, seguì un silenzio quasi tangibile e quindi si
scatenò il caos. Nel salone sottostante venditori e compratori si misero in
moto all’unisono: urlavano, si sbracciavano, comunicavano con segni
incomprensibili. Il tutto accompagnato dall’incessante trillare dei telefoni –
Camille non ne aveva mai visti tanti in un unico luogo – e dal ticchettio
frenetico dei telegrafi che tenevano in contatto New York e Londra. Quel
manicomio, le disse Ken Benton, non sarebbe terminato che alle tre del
pomeriggio.
Ciò che subito le parve chiaro era che quello non era un mondo di donne. A
parte le tre ospiti in balconata, non ce n’era neppure una. Ed era di questo e
non di vendite e acquisti che avrebbe scritto Camille nell’articolo che già
cominciava a formarsi nella sua testa. Voleva raccontare il New York Stock
Exchange attraverso gli occhi di una donna e immaginare se mai e quando
una donna avrebbe potuto entrare a far parte di quell’universo maschile.
Ken Benton la presentò ad alcuni uomini influenti, come i due J.P. Morgan,
padre e figlio, proprietari con Mr Rothschild della più importante banca
d’America.
«Siete qui per un articolo, Miss Brontee, o per investire i vostri capitali?» le
chiese galante il vecchio Morgan, dimostrando così di sapere esattamente chi
lei fosse.
«Per un articolo, signore» rispose Camille con un sorriso. «Temo che i miei
capitali siano troppo esigui per poter accedere a questo mercato.»
«Se è così, fareste meglio ad affidarli alla mia banca e non a quella di
Benton» scherzò Morgan agitando il grosso sigaro cubano.
«Mr Morgan» si affrettò a chiedergli Camille, «pensate che sarebbe
possibile per una donna lavorare in Borsa, giù nel salone?»
Lui scoppiò a riderle in faccia.
Una risposta sintetica ma piuttosto eloquente, che le ispirò il tema e il titolo
del suo articolo su Wall Street: Un mercato senza donne che mercato è?
*
«Mi piacerebbe sapere che fine ha fatto Manny» chiese Camille a Ken, un
po’ preoccupata. La visita al NYSE era ormai terminata e loro si trovavano
già all’esterno del palazzo, in Broad Street.
«Ho chiesto a Pendleton di riaccompagnarla al Daily» rispose lui, facendo
segno a un vetturino di fermarsi.
Camille lo fissò sbalordita. «Ken, perché l’avete fatto?»
«Desideravo passare qualche minuto solo con voi. Non temete, non vi
importunerò.»
Imbarazzata, Camille salì in carrozza e Ken si accomodò di fronte a lei.
«Desideravo parlarvi del vostro a-articolo, qu-quello uscito oggi sul Daily,
Camille.»
«Il resoconto della mia giornata in fabbrica o quello sui cappellini alla
moda?»
«Quello sui ca-appellini, naturale! L’ho trovato d-delizioso!»
«Ne sono certa!» disse Camille flirtando un pochino con lui. «Avanti, Ken,
non tenetemi sulle spine. Ditemi cosa ne pensate!»
Il volto di Benton si fece serio e lei, lanciando una rapida occhiata al cielo,
si preparò ad ascoltare un’altra predica.
«L-l’ho letto e l’ho apprezzato, Camille. P-per quanto debba ammettere che
siate stata co-coraggiosa a fare ciò che avete fatto, mi chi-chiedo come
Raleigh ve l’abbia permesso.»
Sorridendogli, lei si sporse in avanti, come per rivelargli un segreto. «Di
fatto, Mr Raleigh non me l’ha permesso, perché non ne era al corrente.»
«Io ne sarei stato al corrente e ve lo avrei impedito» rispose lui, serio.
Abbandonandosi di nuovo contro lo schienale, Camille scosse la testa.
«Anche voi, dunque, non avete fiducia in me?»
«È de-degli uomini che-che non mi fido, no-o-on di voi. Se quell’uomo,
quel s-s-sorvegliante di cui parlate, vi a-a-avesse fatto del male?»
«So difendermi, Mr Benton.»
«Siete una donna.»
Camille si lasciò andare a un gesto di insofferenza. Non ne poteva più di
uomini che la trattavano con condiscendenza.
«L’ho fatto solo nella speranza che il mio articolo potesse contribuire a
migliorare la situazione di chi lavora in quell’inferno.»
«Condivido le vostre ragioni, Camille, tanto che presto mi schiererò
pubblicamente a favore di una proposta di legge per migliorare la sicurezza
nelle fabbriche. È una questione che mi sta a cuore» disse senza balbettare.
«Lo farete davvero, Ken?»
«Sì, anche se la cosa non mi renderà molto popolare presso i miei colleghi
industriali.»
«Avete forse ambizioni politiche, Mr Benton?»
«Cos’è, un’intervista, Miss Brontee?»
«Non ancora, ma potrebbe diventarlo.»
«Sono onorato del vostro interesse professionale, ma preferirei che mi
concedeste la vostra amicizia… e il vostro affetto, Cam.»
«Oh, Ken, vi prego…»
Lui arrossì, poi cambiò discorso in modo frettoloso, ricominciando a
balbettare.
«Vi f-farebbe piacere visitare una delle nostre fabbriche nel Jersey? È un
cotonificio, all’avanguardia s-sotto molti punti di vista. Sono sicuro che vi p-
potrebbe interessare.»
«Per un articolo?»
«Solo se lo riterrete opportuno. Per re-endermi int-teressante ai vostri
occhi, in realtà. Vorrei mostrarvi come s-sono riuscito a trasformare una
vecchia fabbrica in un moderno stabilimento. V-verrete?»
Glielo chiese con la speranza disegnata sul viso.
E lei gli disse sì.
*
«Vi è stato recapitato un pacco, Miss Brontee» disse Broley quella sera,
aprendole la porta di casa.
«Un pacco? Davvero?» rispose Camille, stupita e curiosa.
«È nella vostra camera.»
«E Mrs Campbell?»
«In biblioteca, con il signore.»
Camille passò come sempre a salutare i suoi ospiti, che lei considerava
ormai non più come semplici benefattori, ma come una famiglia. Raccontò in
breve la sua avventura in Borsa, e Mr Campbell fu d’accordo con il suo
giudizio.
«Avete ragione, mia cara, non è che un mercato. Ma molto redditizio se
sapete scegliere tra le merci.»
Camille mise un altro ceppo nel camino e rimase qualche attimo a fissare le
fiamme. Una visione cui era abituata ma che sempre la affascinava.
«Non vai a vedere cosa c’è in quel pacco? Te l’ha inviato Frank!» disse
Agnes.
«Mr Raleigh?» Di colpo una grande urgenza la colse. «E cosa mai potrebbe
essere?»
«Dal nome di Madame Renard impresso sulla scatola, penso che si tratti di
un abito.»
«Un abito? E perché mai Mr Raleigh…» La frase le morì in gola. Si diresse
quasi correndo alla porta, poi si voltò e con un gran sorriso chiese: «Voi non
siete curiosa, Mrs Campbell? Non venite?»
«Speravo che me lo avresti chiesto, bambina mia!»
Una grande scatola rosa le fissava dalla panca ai piedi del letto; al suo
fianco, un altro pacco più piccolo attendeva di essere aperto.
Camille e Agnes non persero altro tempo e in pochi istanti carte, nastri e
fiocchi volarono in giro per la stanza. Nella scatola più grande c’era un
biglietto. Camille lo lesse a voce alta.
Camille, mi sono permesso di ordinare per voi l’abito che, se sarà di vostro
gradimento, potrete indossare al ricevimento dell’Astoria. Consideratelo
come un investimento.
Frank Raleigh.
Camille guardò interrogativa Mrs Campbell.
«Un investimento?»
«Non sarebbe stato un dono appropriato se non fosse stato un investimento
per il giornale. Raleigh ha bisogno di te all’Astoria e sa che una mise come
questa tu non te la saresti potuta permettere.»
«Credete davvero che sia così, che dovrei accettarlo?»
«Eccome! E senza pensarci una seconda volta. È talmente bello! Svelta,
provalo.»
Camille estrasse dalla scatola l’abito più elegante che avesse mai visto in
vita sua, tanto meno indosso a sé.
«Oh!» mormorò.
«Oh!» le fece eco Mrs Campbell.
Era un abito di taffetà di seta del colore del sole, cangiante in mille
sfumature calde e dorate. La sua ricchezza non stava tanto nella forma,
semplice e lineare, ma nei preziosi ricami che dal corpetto scendevano lungo
la gonna. Aderiva alla figura sino ai fianchi per poi aprirsi verso il fondo,
sostenuto da un svariato numero di sottogonne di tulle. Completavano la mise
dei lunghi guanti e delle scarpine di raso del medesimo colore, uno splendido
ventaglio avorio e una sottile stola di chiffon ricamata come il corpetto.
Camille era senza parole.
«Che aspetti, mia cara? Su su» disse Mrs Campbell precipitandosi a
chiamare la sua cameriera personale.
Non appena vide l’abito, Marie si lanciò in una serie di esclamazioni en
français alquanto enfatiche.
In pochi istanti Camille si liberò del completo che indossava, trattenne il
respiro sinché Marie, con diabolica determinazione, non ebbe terminato di
stringerle il corsetto e, alla fine, si fece scivolare addosso le merveilleux
cadeau de Monsieur Raleigh.
«Charmante!» disse Marie.
«Deliziosa!» convenne Mrs Campbell.
Camille, davanti allo specchio, fece un giro su stessa e vide la gonna
ruotare intorno a lei.
«È magnifico» disse, «ma… c’è qualcosa che non mi convince.»
«Je suis d’accord» fece Marie.
«Già» commentò Mrs Campbell.
Ciò che non convinceva Camille, e che davvero stonava con il resto
dell’abito, era la scollatura.
Che non esisteva.
Era un vestito più accollato di quelli che indossava durante il giorno.
«Forse vanno di moda gli abiti girocollo, per la sera?» domandò perplessa.
«No di certo, mademoiselle. Al contrario si usano abiti che definirei a dir
poco scandaleux.»
«Già» ripeté Agnes.
«E quelle manichine corte sono pure fuori moda, e per nulla in sintonia con
il resto!» aggiunse Marie.
«Già.»
«Eppure, la sartoria di Madame Renard è quella più à la page di tutta
Manhattan» insistette la cameriera. «C’est drôle. È come se monsieur non
volesse che gli altri signori ammirassero le grazie di mademoiselle.»
«Oh» fece Camille, riflettendo per la prima volta su quell’ipotesi e
sedendosi di peso sul letto, scura in volto. «Se è così, se crede di potermi
ordinare cosa indossare e impormi le sue scelte puritane, Mr Raleigh il suo
bellissimo e costoso abito se lo può anche riprendere. Come si permette, quel
despota, di dirmi cosa posso e non posso indossare?»
Nella camera era sceso un silenzio pesante. Camille pensava, seduta sul
letto, Mrs Campbell si mordeva le unghie camminando avanti e indietro e
Marie gesticolava come se stesse minacciando qualcuno.
«E se…» mormorò Camille.
«E se…?» fecero le altre due donne all’unisono, pendendo dalle sue labbra.
14

26 novembre, due giorni dopo la festa del Ringraziamento, Daily


Building
Quella mattina Camille si recò in redazione come se fosse un giorno
qualsiasi. Cosa che non era, per il semplice motivo che dodici ore dopo
sarebbe entrata al braccio di Frank Raleigh nel prestigioso Hotel Astoria,
tempio dell’alta società newyorkese.
Sempre che lui le avesse offerto il braccio.
Il dubbio era legittimo dal momento che durante gli ultimi giorni il boss –
come aveva incominciato a chiamarlo imitando il piccolo Peter e irritando
non poco Raleigh – non aveva perso occasione per ricordarle in modo poco
galante, per non dire acido, che l’unico motivo per cui l’aveva invitata al
ricevimento era professionale.
Così le ripeté anche quella mattina, quando lo incontrò davanti agli
ascensori nella hall del Daily.
«Buongiorno, Mr Raleigh.»
«Miss Bronte…» disse lui portandosi una mano al cappello ma senza
scomodarsi a toglierselo. «Siete pronta per l’impegno di questa sera? Ancora
una volta vorrei ricordarvi che interverrete come giornalista, non come
ospite.»
«Davvero? E io che pensavo di andare al ballo di Cenerentola e di
incontrare il mio Principe Azzurro…» sbuffò lei.
Raleigh la guardò infastidito. Quella donna riusciva sempre a spiazzarlo. E
in quanto al Principe Azzurro, a chi diavolo si riferiva?
«Non vorrei che vi illudeste di passare la serata danzando o facendo la
smorfiosa con la metà degli scapoli della città.»
«Non mi illudo, boss!»
«Vi ho già pregato di non chiamarmi boss!»
«Scusatemi, boss!»
«Non mi provocate, Miss Brontee, non vi conviene!»
Dov’è finito il dannato ascensore? pensò Camille fissando la freccia
dell’indicatore. La cabina era ancora ferma al settimo piano.
Raleigh si schiarì la voce. «Questa sera indosserete l’abito che vi ho fatto
recapitare?»
Camille alzò gli occhi al soffitto. «Credevo fosse chiaro che lo avrei
indossato, dal momento che vi ho inviato un biglietto per ringraziarvi. E poi,
visto che non ne possiedo un altro…» Si pentì subito di aver pronunciato
quelle ultime parole.
«Se non ricordo male, possedete anche un abito rosso… Rosso come le
fiamme dell’inferno…» aggiunse lui in un bisbiglio.
Camille si irrigidì e avvampando rispose: «Ricordate bene, Mr Raleigh. In
ogni caso, indosserò il vostro».
«Vi dona?»
***
Raleigh non riuscì a evitare quella sciocca domanda, la cui risposta era
scontata. Era evidente che quel maledetto abito l’avrebbe fatta apparire
ancora più bella e desiderabile. Appena Madame Renard glielo aveva
mostrato, aveva capito che era fatto per lei, per far risplendere il suo viso ed
esaltare ogni più tenera curva del suo corpo.
Che lui non riusciva a togliersi di mente.
«Giudicherete voi stesso» rispose Camille con un sorrisino malizioso che lo
spiazzò.
Lui, per la verità, in quel particolare momento più che desiderare di
vederglielo indosso fantasticava sul modo migliore per sfilarglielo, sino a che
non avesse formato una polla dorata intorno ai suoi deliziosi piedi. E poi…
Una reazione fisica imbarazzante lo fece sussultare.
Ho davvero bisogno di una donna prima che Camille mi faccia uscire di
senno.
Riprese a guardare il soffitto senza dire un’altra parola. Quel dannato
ascensore, intanto, si era fermato al quinto piano.
Fu Camille a rompere il silenzio.
«Come avete trascorso il giorno del Ringraziamento, Mr Raleigh?»
«Sono uscito in barca» rispose secco.
Lo guardò fingendo di essere sorpresa. «Avete trascorso tutto il giorno in
mare?»
«Infatti.»
«Strano» rispose lei, alzando un sopracciglio inquisitore.
«E perché sarebbe strano, Miss Brontee?» disse lui alzando a suo volta il
sopracciglio, ma in modo minaccioso.
«Perché l’altroieri pomeriggio, dopo il pranzo a casa Campbell, che avete
snobbato nonostante foste stato invitato, sono andata a far visita ai Donoghue.
E lì mi è stato detto che avete pranzato con loro, a quanto pare.»
Lui scosse la testa e si abbandonò a una piccola risata nervosa. «Potreste
passare alla cronaca nera, siete un’ottima investigatrice, Miss Brontee.
Comunque» aggiunse, «poi sono uscito in barca.»
Lei gli sorrise e un calore improvviso lo invase.
«Scommetto che siete andata sola in quel quartiere malfamato…»
«Non ho visto banditi in giro, né incontrato ladri o assassini.»
«Come riuscirò a farvi capire che in questo mondo non potete fare tutto ciò
che vi frulla in testa, Camille?»
«Dovete proprio ricominciare con questa storia?»
«Sarebbe del tutto inutile, considerata la vostra cocciutaggine!»
«Se solo mi aveste chiesto di venire con voi a trovare i Donoghue, non sarei
stata costretta ad andarci da sola!» ribatté lei, con un tono di voce troppo alto
e pieno di rancore.
Il cuore di Raleigh mancò un battito. Avrebbe voluto sbattere la testa contro
il muro per la sua imbecillità.
Entrambi ora guardavano fisso davanti a sé. L’ascensore era arrivato al
piano e le porte si erano aperte con un drin.
«Mi spiegate come diavolo avrei potuto immaginare che sareste andata a
trovare Peter?»
«Mr Raleigh, Miss Brontee, buongiorno» fece Bill, il ragazzo addetto alla
manovra.
Nessuno dei due gli rispose. Raleigh la invitò a montare, ma Camille
rimase immobile, l’aria indecisa di chi vorrebbe parlare ma non osa.
Un campanello risuonò nel silenzio e Bill chiese timidamente: «Mr
Raleigh, salite…?»
«Vai pure, Bill.»
Le porte si richiusero e l’ascensore ricominciò a salire.
«Cosa c’è Camille?» chiese spazientito.
Lei lo guardò inquieta, tormentandosi le dita.
«Allora?» la incoraggiò lui.
«Siete stato voi, vero?»
«È molto probabile, ma non posso rispondervi con sicurezza sino a quando
non mi direte a fare cosa» rispose ironico.
Gli occhi di Raleigh la scrutavano, intensi, infiammati.
«A far rimuovere Kowalski dal suo impiego!»
«Che diavolo c’entra quell’animale di Kowalski ora?»
«Johanna pensava che fosse stato merito del mio articolo, ma io so che siete
stato voi a farlo allontanare dal reparto.»
Raleigh parve a disagio.
«Sì, ho dato una mano al destino, lo ammetto.»
«Come ci siete riuscito, Frank?»
Sentirsi chiamare per nome, con confidenza e familiarità, gli procurò un
brivido di piacere. Perché non lo chiamava sempre così?
«Il proprietario di un giornale, Miss Brontee, sa sempre come ottenere dei
piccoli… favori.»
Nello sguardo di Camille colse un lampo di ammirazione che lo colmò di
una gioia semplice, quasi infantile. Fece un passo verso di lei e allungò una
mano, come per sfiorarle il viso, ma la abbassò subito ricordandosi che non
erano su un’isola deserta, ma nei pressi dell’affollato atrio del Daily.
«Avete parlato dunque con Mr Kendall?» chiese Camille.
«Non solo.»
«Non solo?» ripeté allarmata. «Significa ciò che credo?»
«Sì, Camille, ho anche parlato con quell’animale e vi assicuro che sono
stato molto, molto convincente.»
Un’altra volta il drin dell’ascensore. Tre persone ne uscirono e Bill guardò
Raleigh e Miss Brontee speranzoso. Con un sospiro di sollievo – certo i ricchi
e i giornalisti erano gente strana! – li osservò entrare. Poi richiuse le porte e
azionò il motore.
In silenzio l’ascensore giunse al tredicesimo piano, dove Raleigh scese
senza lasciare il tempo a Camille di dire qualcosa, qualsiasi cosa.
Buongiorno, magari o, meglio ancora: Sei il mio eroe! O forse: Va’ al
diavolo!
Miss Brontee rimase invece a bocca aperta a fissare con espressione
vagamente idiota il suo editore che si allontanava, mentre l’ascensore
riprendeva a salire.
*
Quella stessa sera, Washington Square
Alle otto Raleigh suonò puntuale alla porta dei Campbell. Per quanto già
pronta da alcuni minuti, Camille lo aspettava sul pianerottolo del primo
piano.
«Dovete fare un ingresso trionfale» le aveva spiegato Marie, «dare il tempo
a Mr Raleigh di ammirarvi mentre scendete le scale. Non dimenticate di
sorridergli, ma senza esagerare, come se fosse una concessione.»
Dopo tutte quelle strampalate raccomandazioni, Camille sperava solo di
non ruzzolare in modo miserevole sino all’ingresso.
Cielo, perché i Campbell erano dovuti partire per Boston proprio quel
giorno? Se ci fossero stati anche loro a incoraggiarla…
Sussultò quando sentì suonare alla porta d’ingresso e la voce di Broley dire
che avrebbe avvisato subito la signorina.
Io sono la signorina.
Il panico stava impossessandosi di lei.
Non è un appuntamento, non è un appuntamento...
Dietro di lei Marie le stava sistemando il piccolo strascico e ravviando i
capelli raccolti in uno chignon molto semplice impreziosito dai boccioli di
rose che Raleigh le aveva fatto recapitare nel pomeriggio.
Come se il loro fosse un appuntamento.
In quel momento avrebbe voluto essere solo una sciocca ragazza
innamorata, non una reporter, e che Raleigh fosse solo un uomo, non il suo
editore. Trasse un profondo respiro, strinse la mano a Marie come per
chiederle sostegno e si avvicinò alla scala.
Poi cominciò a scendere.
***
Quando la vide, un raggio di sole nel buio della sua esistenza, Frank
Raleigh credette di non riuscire a rimanere impassibile, a fingere
un’indifferenza che non provava. Avrebbe voluto correrle incontro, prenderla
fra le braccia e portarla dove nessuno li avrebbe disturbati. Dove le avrebbe
fatto conoscere la passione. Dove sarebbe stata sua. Al diavolo il
ricevimento. Al diavolo tutto e tutti.
Si sentiva in balia di uno struggimento sconosciuto, un’onda anomala che
lo attraversava pericolosa e contro cui gli era impossibile lottare.
Come attratto da una forza invisibile, si avvicinò alla scala che Camille
stava apprestandosi a scendere. Cercando di calmare il battito impazzito del
cuore, si nutrì della visione di lei: dei suoi piedi sottili che a ogni scalino
facevano capolino dall’orlo ricamato dell’abito, delle gambe, ben modellate
sotto la gonna, dei fianchi armoniosi, della vita sottile, della rotondità del
seno, evidente benché coperta dal mantello. Ora capiva di essere stato un
pazzo ad accettare i consigli di quella donna, Madame Renard. Avrebbe
dovuto scegliere quell’altro abito, quello grigio e molto meno appariscente,
che avrebbe reso la vista di Miss Brontee meno letale per lui e per ogni uomo
che quella sera le avesse posato gli occhi addosso. Se non altro, pensò, le
modifiche apportate alla scollatura esagerata del modello originale avrebbero
in parte riparato Miss Brontee da sguardi e pensieri concupiscenti e offensivi.
Già. Se un altro uomo avesse posato gli occhi su Camille, sarebbe stato
capace di ingoiare la propria gelosia o avrebbe finito, ancora una volta, per
dare spettacolo?
Camille era ormai a metà scala. Alcuni riccioli le ricadevano morbidi ai lati
del viso e Raleigh desiderò ardentemente allungare una mano per sfiorarli.
Gli venne anche un’insana bramosia di accarezzarle la bocca, così piena e
invitante - se solo Broley non fosse rimasto tra i piedi! - e di annullarsi in
quegli occhi che gli promettevano il paradiso.
E, a quel punto, l’universo intero avrebbe anche potuto andarsene al
diavolo.
Impegnato in tali fantasie, Raleigh dovette subire qualche preoccupante
trasformazione fisica. Forse impallidì o forse il suo viso si fece di fiamma,
perché Camille, appena gli fu abbastanza vicina per vederlo meglio, esclamò:
«Vi sentite forse male, Mr Raleigh?»
Il paradiso sognato da Frank si trasformò in purgatorio e poi in inferno.
Sussultò, si schiarì la voce e si affrettò a rispondere: «Al contrario, Miss
Brontee, mi sento benissimo».
Non si sentiva bene affatto. Si sentiva stupido, debole e vulnerabile. Perché,
se solo un attimo prima aveva dovuto respingere con forza l’irresistibile
tentazione di provare al mondo intero (o forse solo a Broley) che Camille era
sua, ora sapeva che avrebbe dovuto ancora una volta rinunciare a lei.
***
Camille raggiunse l’ultimo scalino e sussultò alla vista di Raleigh in abito
da sera. Inutile dire che il suo abito era di taglio impeccabile, la camicia
immacolata e la cravatta annodata alla perfezione. Il mantello nero foderato
di seta bianca, gettato così, con noncuranza sulle spalle, dava poi alla sua
figura un tocco di misteriosa eleganza. Con una certa irritazione si rese conto
che lo stava guardando come fosse un dannato principe azzurro: alto e bello e
forte, ma soprattutto giusto e generoso. Che avesse pure occhi blu come il
cielo dopo il tramonto era un particolare che la infastidiva ancor di più.
Raleigh si chinò galante a baciarle le dita guantate senza mai distogliere lo
sguardo dal suo. Poi, con distacco, disse: «Miss Brontee, vedo con piacere
che siete puntuale. Non posso che ammirare la vostra professionalità. In
quella vostra piccola pochette vi siete ricordata di mettere il necessario per
prendere qualche appunto?»
Non proprio la frase romantica che Camille aveva sognato. Il Principe
Azzurro se ne era già andato.
Alzando gli occhi al cielo rispose: «Lezione numero uno: un giornalista non
si deve separare mai dal suo taccuino».
Né dal suo lapis. Che Camille gli avrebbe volentieri ficcato in un occhio.
***
Mentre la aiutava a montare in carrozza, Raleigh fu certo che quella serata
si sarebbe rivelata un vero supplizio: se erano bastati il profumo delicato di
Camille e la fugace visione del suo candido collo a farlo vacillare, come
avrebbe potuto rimanerle vicino nascondendole il misero stato in cui lei lo
aveva già condannato? Come sarebbe riuscito a non commettere qualche
sciocchezza, come quella di mandare immediatamente al diavolo tutto e tutti
e di condurla non al ricevimento, ma nel lussuoso e discreto appartamento
che manteneva al Waldorf? Offrirle champagne e ostriche, fragole e mousse
au chocolat prima di mostrarle la sua vera natura?
C’era un unico particolare che non tornava. Miss Brontee non era come le
altre donne che aveva sedotto nella sua lussuosa suite.
Era di gran lunga peggio.
Non si limitava infatti a farsi desiderare, a suscitargli continui turbamenti,
ma meritava ciò che lui non poteva darle. Un amore che fosse suggellato non
solo dall’attrazione fisica ma da una promessa eterna.
Sì, Miss Brontee non era come le altre.
La carrozza si incamminò lungo la Quinta Avenue e in pochi minuti giunse
in prossimità dell’Astoria.
Sedevano uno di fronte all’altra, in silenzio. Lei guardava fuori dal
finestrino, verso la luce intensa che proveniva dall’hotel.
Raleigh guardava lei.
Quando la carrozza rallentò mettendosi in coda alle altre vetture dirette al
ricevimento, Camille era ormai impaziente come una bambina. E come una
bambina curiosa cominciò a tempestarlo di domande.
«Mr Raleigh, mi sono chiesta più volte perché ci siano due hotel uno di
fianco all’altro, il Waldorf e l’Astoria. Quale dei due è l’Astoria?»
«Quello più alto e nuovo, essendo stato costruito solo l’anno scorso. Forse
è ancora più lussuoso del Waldorf, ma a mio avviso è meno elegante.
Personalmente preferisco il Waldorf, dove la cucina è anche migliore.»
«Chi è il proprietario dell’Astoria?»
«L’ha fatto costruire John Jacob Astor IV, un multimilionario decisamente
eclettico, ma è un altro multimilionario, George Boldt, a gestirlo, come il
Waldorf, del resto.»
«È Astor che ha partecipato con un suo esercito personale alla guerra
ispano-americana, vero? Ho letto sul Times di questa guerra, l’avete vinta!»
«Sì, abbiamo vinto, ma a quale prezzo? L’America, per ottenere Cuba, ha
pagato in ogni caso agli spagnoli una cifra considerevole. Gli stessi risultati li
avremmo potuti ottenere senza l’impiego delle armi, per via diplomatica.»
Camille lo guardò incuriosita, incitandolo a continuare. Raleigh la fissò
incredulo: stava davvero parlando di guerra e politica con una donna? Con la
donna con cui avrebbe volentieri fatto di tutto, tranne che perdere tempo in
inutili conversazioni?
«Vi prego, continuate.»
«Vi interessa veramente?»
Lei assentì. Lo fissava quasi con venerazione. Lui prese un gran respiro e
continuò.
«Una guerra lampo, dieci settimane da luglio a settembre, durante la quale i
giornali hanno raddoppiato se non triplicato la tiratura. In confidenza, ho il
dubbio che alcuni miei concorrenti, come Mr Hearst e Mr Pulitzer, abbiano in
qualche modo forzato l’opinione pubblica a favore del partito della guerra.
Credo che il Daily sia stato il solo giornale di questa città ad appoggiare il
Presidente McKinley e a proclamarsi contrario al conflitto.»
«State insinuando che forse a qualcuno questa guerra è servita per
raggiungere altri scopi?»
«Siete davvero tanto ingenua da non pensarlo, Miss Brontee?» Guardò
fuori dal finestrino, poi aggiunse: «Ecco, stiamo per arrivare».
Camille non sembrava ancora soddisfatta.
«Il Daily ha inviato qualcuno a Cuba?»
«Camille, stiamo andando a uno degli eventi mondani più importanti
dell’anno che, incidentalmente, mi costerà qualche migliaio di dollari in
beneficenza, e voi volete discutere della guerra? Siete davvero… strana.»
Lei lo guardò offesa. «Desidero solo sapere qualcosa di più, Mr Raleigh. I
giornalisti sono famosi per essere curiosi, e questa sera, come mi avete detto
più volte, mi trovo qui solo in veste di reporter.»
Lui la fissò a bocca aperta. Aveva imparato un’altra cosa di Camille: non
era facile dissuaderla.
«Allora, chi dei miei onorevoli colleghi avete spedito a Cuba?»
«Non vi arrendete mai, vero?»
Lei scosse la testa e sorrise. Lui sospirò e si appoggiò allo schienale, come
se fosse stato messo con le spalle al muro.
«Frank Raleigh» disse.
«Come?»
«Già.»
«Voi siete stato il corrispondente di guerra del Daily?»
L’espressione ammirata di Camille gli donò un imprevisto momento di
gioia. Pura, sincera.
«Non pensiate che sia stato un atto eroico, il mio. Ero semplicemente la
persona più adatta a quell’incarico: abbastanza giovane, con una certa
esperienza e senza una moglie o dei figli da lasciare, nel caso... Ma ecco,
siamo arrivati.»
La carrozza era ormai ferma e un valletto in livrea si preparava ad aprir loro
la portiera. Raleigh si sporse per prepararsi a scendere, ma Camille lo fermò
appoggiandogli una mano sul braccio.
«Mr Raleigh…»
A quel lieve contatto, un brivido lo attraversò e forse saettò anche in
Camille, che reagì togliendo la mano di scatto, quasi si fosse bruciata.
Gesto del tutto inutile, perché Frank, con un movimento repentino, le
imprigionò con fermezza le dita fra le sue. A quel tocco, una seconda scossa,
più violenta e disastrosa, seguì la prima e provocò danni assai più seri in
entrambi. Al cuore, soprattutto.
«Prego, Miss Brontee, cosa volevate chiedermi?»
Lei non disse nulla, ma continuò a fissarlo con le labbra appena aperte, gli
occhi spaventati e interrogativi.
Poi il valletto aprì la portiera e lei sussultò leggermente, come sorpresa. Il
suo sguardo mutò e si fece più distaccato.
«Ecco… Mr Raleigh, mi piacerebbe intervistarvi» disse con molta serietà.
Lui la fissò perplesso, poi scoppiò a ridere.
«Sinceramente speravo in un altro genere di proposta. In ogni caso, la mia
risposta è no, a meno che non mi concediate il primo valzer della serata.» E
nel dire ciò si portò la mano di Camille alle labbra, gli occhi puntati in quelli
di lei.
«Pensavo non mi fosse permesso danzare…» disse lei divertita, fingendo
stupore.
Le labbra di Raleigh si piegarono in un sorriso malizioso. «Non vi è
permesso danzare con gli altri. Con me vi è permesso» disse, poi smontò con
un movimento armonioso e, come un perfetto gentiluomo, la aiutò a scendere
dalla carrozza e la scortò verso l’atrio rumoroso e sfavillante di luci e specchi
dell’Astoria.
***
Camille rimase a bocca aperta. Non aveva mai visto tanto sfarzo in vita sua.
Nel mezzo del grande foyer l’acqua zampillava da una fontana creando
merletti di diamante che si rincorrevano da uno specchio all’altro. Sulla
sinistra, dietro il grande banco della reception, una decina di concierge si
davano da fare con i clienti. Sulla destra alcuni ospiti dell’hotel sedevano su
morbidi divani di velluto rosso conversando allegramente, senza staccare gli
occhi dal flusso incessante degli invitati al grande ricevimento che si sarebbe
tenuto nell’attico.
Camille si sentì insicura e fuori luogo in quell’ambiente sfarzoso e
opulento, dove presto avrebbe incontrato gli uomini più ricchi e potenti di
quel nuovo mondo che non cessava di affascinarla. Per farsi forza si strinse al
braccio di Raleigh.
«Va tutto bene, Camille» mormorò lui chinandosi appena.
E ancora una volta le sorrise, e ancora una volta lei si sentì persa in quel
sorriso.
Seguendo il piccolo corteo degli invitati, presero uno dei numerosi
ascensori sino all’ultimo piano. Quando le porte si aprirono su un secondo
foyer, per pochi minuti le loro strade si separarono: Camille seguì il flusso
delle dame a destra, Frank quello dei gentiluomini a sinistra, verso i rispettivi
guardaroba.
Con la coda dell’occhio scorse in un angolo Mr Roesveg, appostato in
modo strategico per immortalare con la sua macchina fotografica l’arrivo e le
toilette degli ospiti. Lei gli sorrise e subito dopo sparì dietro la tenda della
powder room.
Le powder rooms, dove le signore si recavano con il pretesto di incipriarsi
il naso, erano una folgorante espressione dell’universo e delle abilità
femminili. Non solo fungevano da guardaroba, ma erano anche il luogo
deputato alla risoluzione di ogni femminile tragedia. In caso di tragedie
tangibili, uno strappo all’orlo dell’abito, una macchia, un’acconciatura
miseramente crollata, una schiera di abili guardarobiere veniva in aiuto delle
sfortunate signore, risolvendo in pochi minuti il problema con grande
efficienza. In caso di tragedie dell’anima, o ancor più del cuore, era di solito
un’amica o una parente a correre in soccorso della poverina in lacrime.
Ma c’era altro.
Non appena vi mise piede, Camille comprese che era in quella stanza, piena
di specchi, divanetti e pouf, quasi le signore vi dovessero trascorrere delle
ore, che si formavano strategie e alleanze. E da come Claudette e la sua amica
Christine la stavano fissando, capì che un’alleanza era già stata firmata.
Contro di lei.
Nel suo articolo – pensò Camille – la powder room sarebbe stata
ribattezzata la power room, la stanza del potere femminile.
Sorrise e salutò educatamente.
Claudette e Christine ricambiarono il saluto, garrule e gelide allo stesso
tempo.
Camille pensò di scrivere nel suo articolo qualcosa di poco gentile su
Claudette e sul suo appariscente e scollatissimo abito viola, su quelle ridicole
piume che portava infilate in testa come fossero un cacatua, sui troppi
brillanti che luccicavano intorno al suo collo. Ma l’arrivo gioioso e alquanto
chiassoso di Miss Benton le fece abbandonare, almeno per il momento, ogni
proposito bellicoso.
«Camille» urlò Jenny, «non vedevo l’ora di incontrarvi!» E, prendendola
per il braccio, seguita da una guardarobiera che voleva alleggerire entrambe
del peso del mantello, cominciò a elencare i gentiluomini che già le avevano
chiesto un ballo.
«Prevedo che la vostra serata sarà piuttosto intensa!» la interruppe Camille
ridendo.
La guardarobiera, una donna di colore di una certa età, battendo un piede e
alzando un sopracciglio, le fissò con intenzione finché entrambe non si
liberarono del mantello.
Lo sguardo preoccupato che Claudette le lanciò di sottecchi confermò a
Camille che Madame Renard aveva fatto un ottimo lavoro. Effettivamente…
Si guardò allo specchio e, in quel luogo dal lusso ovattato, in quel tempio
votato al dio denaro, quasi non si riconobbe.
Chi era quella sconosciuta bella e provocante? Era davvero lei, Camille
Brontee da Liverpool?
Con un sorriso compiaciuto pensò a come Raleigh avrebbe reagito alle
modifiche apportate all’abito che lui le aveva donato. O meglio, a quella
piccola beffa.
Madame Renard aveva fatto davvero uno splendido lavoro. La scollatura
era molto più bassa e maliziosa di quanto la stessa Camille avesse suggerito e
copriva a malapena le morbide curve del seno. Lasciava inoltre scoperte le
spalle e la schiena, accarezzate appena dall’eterea stola di chiffon che
accompagnava l’abito.
«Farete una strage di cuori stasera, miss» le disse la guardarobiera.
«È vero, Camille, siete bellissima» aggiunse Jenny, il cui abito blu notte era
splendido seppure eccessivamente ornato. «Il mio povero fratello comincerà a
balbettare appena vi vedrà.»
«Jenny…»
«Lo so, lo so. Ma forse un giorno… Pensate che bello, potremmo diventare
sorelle.»
Camille non resistette davanti a tanta ingenuità e la abbracciò.
«In ogni caso, vi vorrò sempre bene come a una sorella.»
«Anch’io, Camille!»
«Signorine, signorine, prego, i signori attendono! Su, andate a divertirvi!»
disse la guardarobiera con piglio severo spingendole verso l’uscita. Poi,
bonariamente, sorrise loro.
Claudette, invece, fissava con un sorriso per nulla benevolo le due giovani
donne che lasciavano la powder room. Indifferente al fatto che anche il suo
fidanzato sarebbe stato nell’atrio ad attenderla, sperava di riuscire a rovinare
l’entrata in scena di Camille perché, nel modo indecente e tenero in cui
Raleigh guardava quella donna, non c’era solo il desiderio di possederla
fisicamente, c’era molto di più. Qualcosa che rendeva ancor più corrosiva
l’umiliazione di essere stata rifiutata da quel bastardo.
15

Lo individuò ancor prima di uscire dalla powder room. Come calamitati, gli
occhi di Camille si posarono sull’imponente figura di Raleigh, sui suoi
capelli scuri che dolcemente sfioravano il colletto della camicia immacolata.
Le dava le spalle mentre parlava con un uomo di mezza età di un argomento
che sembrava appassionare entrambi. Donne? Politica? Per quanto
interessante, Raleigh se ne sarebbe subito scordato non appena l’avesse vista.
Con quell’abito indosso.
E se le avesse fatto una scenata?
«Pronta?» chiese a Jenny prendendo un gran respiro.
«Prontissima!» rispose questa, trascinando di fatto Camille.
Sulle prime non si rese conto che molti sguardi si erano posati su di lei. Che
Ken Benton stava lottando con se stesso per non correrle incontro. Che
all’improvviso un sinistro silenzio era caduto nella stanza. Per la verità non si
accorse di nulla se non di Raleigh che con lentezza esasperante ruotava su se
stesso. Ancora mezzo giro, una frazione di secondo, e i loro sguardi si
sarebbero incrociati…
Et voilà.
Ora non c’era più modo di sfuggirgli, la stava fissando. Un lampo di
magnesio rischiarò la sala, per altro già sfavillante di luci, e Mr Roesveg poté
immortalare il proprio editore mentre fissava attonito la sorprendente
scollatura di Miss Brontee.
Camille era sicura che Agnes avrebbe apprezzato quello scatto.
Raleigh sgranò gli occhi e spalancò la bocca finché non ne scaturì una a
sorpresa e peraltro muta. La mascella gli cadde un poco verso il basso,
facendolo assomigliare per qualche istante a un tonno appena pescato.
Camille assaporò quell’attimo come una piccola vittoria, resa ancora più
gloriosa dal fatto che Ken si stava dirigendo verso di lei più velocemente di
Raleigh.
Se uno dei due non avesse rallentato, avrebbero finito per scontrarsi
frontalmente, con esiti imbarazzanti. O meglio, comici.
***
Lo sconcerto, per Frank Raleigh, arrivò subito dopo e si manifestò con il
cambiamento della forma delle labbra, che da una a passarono a formare una
u. Cercava di spiegarsi come mai l’abito che aveva scelto per Camille
apparisse così diverso. A parte il colore, naturalmente, e la lunghezza della
gonna. O Madame Renard era una perfetta cretina o nel frattempo era
successo qualcosa di inspiegabile.
Non c’era cosa al mondo che per Raleigh non potesse avere una
spiegazione. E la sua razionalità in quel momento gli suggeriva che quella
trasformazione, che si concentrava particolarmente sul corpetto dell’abito di
Miss Brontee, non potesse essere casuale. In altre parole, era stato preso
bellamente in giro! Da Camille, naturalmente, su cui sembravano puntati gli
occhi di tutti i maschi presenti. E non c’era da stupirsene, visto che era quasi
nuda.
Gli occhi di Raleigh si strinsero in due fessure minacciose.
Per battere sul tempo Ken che si stava avvicinando veloce, allungò il passo,
ma all’improvviso un’ombra viola gli bloccò la strada.
Claudette.
«Miss Neville!» mormorò Raleigh, e non in un saluto di benvenuto.
«Frank, aspettavate forse me? Trovo così eccitante fare il mio ingresso al
ricevimento con voi. Potrei anche ricompensarvi… sapete come, vero?»
«No, non aspettavo voi, Claudette. Fareste meglio a raggiungere il vostro
fidanzato, invece, ed evitare di rendervi ridicola, almeno per una volta»
rispose lui a denti stretti.
Lei sorrise in modo malizioso e si sventagliò come se lui le stesse
rivolgendo il più galante dei complimenti.
«Frank, volete davvero liberarvi di me? Eppure, quella notte, non sembrava
vi dispiacessero le mie attenzioni» rispose chiudendo il ventaglio con un
colpo secco.
Per l’ennesima volta Raleigh maledisse la propria stupidità di maschio.
«Forse vi siete scordata che quella notte vi ho anche respinta, Miss Neville.»
Miss Neville si concesse un sospiro civettuolo. «E ricordo anche quanto vi
sia costato. Eravate tutto rosso in volto e decisamente… avete capito, no?
Siete stato uno stupido a non afferrare l’occasione al balzo, Frank.»
«Al contrario, non ho mai avuto tanto buon senso in vita mia.»
Claudette sorrise a solo vantaggio dei presenti, poi, civettando senza
ritegno, lo prese sottobraccio e si strinse in modo provocante a lui. In una
stanza piena di gente. Col suo fidanzato a pochi metri. E con i fotografi di
almeno tre giornali pronti a scattare!
Un altro lampo al magnesio, un’altra fotografia.
Raleigh imprecò fra sé e con un diavolo per capello guardò verso Camille.
Come se già non ne avesse avuto abbastanza della farsa che Miss Brontee
aveva messo in scena, vide Ken che si chinava a baciarle la mano, come un
perfetto gentiluomo, quale lui non sarebbe mai stato.
Incurante di quanto quella piccola vipera di Miss Neville stava
sussurrandogli, Raleigh continuò a seguire ogni respiro di Camille. Con
sollievo si accorse che sembrava essersi già stancata del perfetto gentiluomo e
che si stava accomiatando da lui con una frase gentile che Raleigh, in quel
momento di dissesto emotivo, interpretò così: Vi raggiungerò nel vostro
appartamento, Ken, a mezzanotte in punto.
Istintivamente le mani gli si strinsero a pugno, pronte a colpire il naso di
Ken o di chiunque gli fosse transitato troppo vicino.
Lasciato Benton al suo destino, Camille sembrava ora intenzionata a…
raggiungerlo? Sì, si stava dirigendo verso di lui, con un’espressione angelica
sul volto ma con un luccichio diabolico e vittorioso in fondo agli occhi.
Non certo di voler stare al gioco di lei, Raleigh si irrigidì, pronto a passare
dalla difesa all’attacco.
«Perdonate il ritardo, Mr Raleigh, ma sono certa che già sappiate cosa
succede quando una donna e uno specchio si imbattono l’una nell’altro»
disse, tutta frivolezza e gorgheggi. «Ora sono pronta.»
Non che Raleigh non se ne fosse accorto...
Poi, rivolgendosi a Miss Neville, continuò: «Perdonatemi Claudette se mi
intrometto, ma Mr Raleigh deve presentarmi ad alcune persone. Sapete, per il
giornale…» aggiunse alzando gli occhi al cielo, quasi fosse una condannata
ai lavori forzati.
Quindi squadrò Raleigh con intensità.
Perché mi fissa in questo modo? pensò lui, e rimase così, senza sapere bene
cosa fare, ammaliato dalla sua bellezza e stupito dalle sue parole.
«Mr Raleigh?» insistette lei.
Quando Camille gli rifilò con mossa veloce ed elegante una gomitata nel
costato, Raleigh finalmente si risvegliò dal suo torpore. «Ehm, già, scordavo.
Mrs Boldt ci attende, Miss Brontee. Venite, Claudette, vi affido al vostro
fidanzato» bofonchiò sentendosi un emerito imbecille.
E così fece, in preda a una collera crescente. Con al braccio Camille e
Claudette raggiunse quello sprovveduto di Michael Sandford, seguito da
occhi invidiosi e avidi di pettegolezzi, poi, con la sola Camille al fianco, la
serata gli apparve all’improvviso meno catastrofica.
«Suppongo che vi aspettiate un formale ringraziamento per avermi salvato
da Claudette. A cosa si deve tanto altruismo? Siete forse gelosa, Miss
Brontee?» le chiese mentre facevano il loro ingresso nel salone principale.
Altre fiammate di magnesio, altri scatti, altri mormorii.
«Non sarei gelosa di voi neppure se foste l’ultimo uomo sulla Terra»
sussurrò lei, sorridendogli a denti stretti.
«Bugiarda.»
«Illuso.»
«Volete scommettere?»
Lei si fermò di colpo e lo guardò sorpresa. «Per quale assurda ragione
ritenete che dovrei essere gelosa di voi, Mr Raleigh?»
«Perché, liberandomi da Claudette, il vostro intento era solo quello di
eliminare dal campo una possibile rivale…»
«Quanta sicurezza! Per non dire sicumera…» mormorò Camille.
Lui sorrise. «Lo ammetto. Sono così sicuro di me da scommettere, Miss
Brontee, che ora della fine della serata sarete di nuovo divorata dalla
gelosia.»
«Signore!» protestò lei, stando al gioco. «Fareste meglio a scommettere il
contrario!»
«Il contrario, dite, Miss Brontee? E cioè?»
«Prima della fine della serata sarete voi a essere tormentato dalla gelosia.»
Come se già non lo fossi...
«Siete buffa, Miss Brontee, sapete? Io geloso di voi?» Scoppiò a ridere per
nasconderle l’imbarazzo e la sua risata contagiò Camille, che rovesciò il capo
all’indietro e si abbandonò all’ilarità, quasi si stesse concedendo a un amante.
A quella vista Frank vacillò, ormai certo che avrebbe perso quell’assurda
scommessa.
«Dunque, Mr Raleigh, accettate?»
«Non solo accetto, Miss Brontee, ma mi comporterò da gentiluomo
permettendovi di scegliere la penitenza.»
Lei aggrottò le sopracciglia, fingendo di riflettere. Poi gli puntò un indice
contro e disse: «Se sarete voi a perdere, mi concederete l’intervista che vi ho
chiesto».
«E… in caso contrario?»
«Non perderò, Mr Raleigh.»
«Nondimeno, una posta è necessaria.»
«Proponetene una voi, allora» disse civettando apertamente.
In una frazione di secondo la mente di Raleigh si affollò di penitenze
improponibili, nessuna delle quali prevedeva l’uso di vestiti. Con dispiacere
le accantonò tutte consolandosi con una proposta più accettabile.
«Dopo il ricevimento mi concederete il piacere di accompagnarvi in
carrozza lungo i viali di Central Park. La notte è bellissima e non fredda e…
Sapete cosa si dice, vero?»
Camille scosse la testa.
«Si dice che porti fortuna passeggiare nel parco con la luna piena» mentì
con fare innocente.
***
«Davvero? È la prima volta che lo sento dire» ribatté Camille, ironica.
Lui le sorrise promettendole il paradiso e Camille fu certa che a breve
sarebbe precipitata tra le viscere dell’inferno.
Sola in carrozza con Raleigh, e per di più con la luna piena a rendere
magica quella notte? Sarebbe stato più sicuro seguire il diavolo tra le fiamme.
Che non le erano mai parse tanto allettanti.
Aprì il ventaglio di scatto e lo fece ondeggiare davanti al viso senza mai
distogliere gli occhi da quelli di Raleigh, come se stesse valutando la sua
proposta. Poi, con un altro colpo secco, lo richiuse.
«Dal momento che sono certa di vincere, accetterò la scommessa, Mr
Raleigh. In effetti, non vedo l’ora di inter…»
«E io di rapirvi a questa gente e mostrarvi alcuni incantevoli scorci del
nostro parco» la interruppe lui con aria angelica.
Le labbra di Camille si curvarono in un sorriso divertito.
«Risolveremo la questione più tardi, Mr Raleigh! Ora è meglio che mi dia
da fare: il mio editore non gradirebbe vedermi – come ha detto? – fare la
smorfiosa con metà degli scapoli di New York. Penso che includesse anche
voi. Quindi, se volete scusarmi…»
«Touché» rispose Raleigh, divertito. Poi, facendosi all’improvviso serio, le
prese una mano tra le sue. «Il vostro editore è un imbecille. Non dategli retta,
Miss Brontee.»
Camille sentì il sorriso svanire, le ginocchia cedere e la pelle incendiarsi al
tocco di lui. Quando le fiamme si irradiarono anche al ventre e al volto, fu
assalita dal desiderio di fuggire. Solo che non riusciva a muovere un solo
dito.
Per qualche istante Raleigh fu padrone di vagare con lo sguardo su di lei,
sulle sue labbra socchiuse e umide e sul seno che si alzava e abbassava al
ritmo accelerato del respiro.
Camille vacillò sotto il peso di quello sguardo. Le voci intorno a lei
tacquero e i colori si spensero, tutti, tranne il blu degli occhi di Raleigh che
inondò ogni cosa. Sentì le dita di lui stringersi intorno al suo polso e poi
afferrarle il cuore, quasi ne avesse il diritto, quasi lei fosse sua.
Sua.
Con un respiro profondo tornò alla realtà. «Vi prego, ci stanno osservando»
mormorò, ma la sua voce uscì tremante. E per nulla convinta.
***
Tanta innocente sensualità mise a tacere il lato più nobile di Raleigh e
sprigionò quello più aggressivo. Ebbro del potere che in quel momento era
certo di esercitare su di lei, reagì a quella supplica con uno sguardo vittorioso
e un respiro profondo, carico di desiderio. Oh, per la verità se ne sarebbe
infischiato volentieri dei molti occhi che li stavano fissando, se solo Miss
Brontee l’avesse incoraggiato almeno un po’. O forse anche se non l’avesse
fatto, perché ormai era sul punto di trascinarla fuori da quella sala e da quella
città con il solo scopo di farle conoscere il vero Frank Raleigh e le molte cose
che il vero Frank Raleigh sarebbe stato felice di mostrarle…
E chissà, forse non avrebbe più opposto indugi a quel suo piano se il
provvidenziale avvicinarsi di un valletto con un vassoio carico di coppe di
champagne non lo avesse costretto a tornare a più civili comportamenti.
Indeciso se ringraziare il cameriere o se prenderlo per il collo, con un
perfetto baciamano Raleigh liberò il polso di Miss Brontee, poi prese dal
vassoio due coppe ghiacciate e gliene porse una.
Entrambi ricominciarono a respirare.
Come se nulla fosse accaduto.
«Temo di non poter rimanere con voi per tutta la serata, signore. Il mio
editore probabilmente mi licenzierebbe se lo facessi.»
«Avrebbe anche un’altra ragione per licenziarvi, signorina.»
Camille batté le ciglia, bevve un altro sorso di champagne, poi lo fissò con
meraviglia. «Quale, se mi è concesso chiedere?»
Dio che bastardo era stato! Stupido, arrogante bastardo.
Non aveva resistito alla tentazione di corteggiarla come un uomo delle
caverne di fronte a tutta New York, di trasformarla in fuoco vivo nelle sue
mani, solo per dimostrarle che avrebbe potuto prenderla anche in quel
momento, se solo lo avesse voluto.
E la colpa di chi era? Ma di Miss Brontee, e di chi, sennò?, che aveva il
potere di incendiarlo come una torcia, e di irritarlo, e di fargli tremare le
ginocchia e battere il cuore all’impazzata. Per non parlare di quel vestito che
si era messa, di quella stupida scommessa che gli aveva strappato e della
gelosia che lo stava divorando.
Si portò il bicchiere alle labbra e ancora una volta fece correre lo sguardo
su Camille con calcolata lentezza, ormai certo che nonostante tutto quella
sera il Raleigh mascalzone avrebbe avuto la meglio sul Raleigh gentiluomo.
Non farle del male, bastardo, urlò una voce dentro di lui.
Con un’alzata di spalle lui la tacitò.
«Per quale ragione» chiese Camille una seconda volta, «il mio editore non
avrebbe tutti i torti a licenziarmi?»
«Forse perché indossate un abito molto diverso da quello che lui vi aveva
chiesto di indossare?»
«Ve ne siete accorto, dunque!»
«Mi credete cieco? O stupido?»
Camille sorrise. Quindi, aprendo con un solo e plateale gesto il ventaglio,
scoppiò a ridere e con passo deciso si diresse verso la patronessa del
ricevimento, Mrs Louise Kehrer Boldt.
Incredulo per non avere avuto l’ultima parola, Raleigh la guardò
allontanarsi, fasciata in quel dannato abito che per tutta la sera avrebbe
attirato l’attenzione di ogni maschio presente.
Ancora una volta il bel viso di Raleigh fu il campo su cui espressioni e
sentimenti opposti si diedero battaglia: lo sconcerto ebbe la meglio sullo
stupore, ma fu l’umano desiderio di rivalsa – per quanto tenera e dolce fosse
– a conquistare la vittoria.
*
Nei minuti che seguirono, non la perse mai di vista, soprattutto quando il
suo acerrimo rivale, William R. Hearst, dopo esserle stato presentato, si mise
a discorrere con lei con la stessa espressione di un falco pronto a colpire una
colomba. Raleigh stava già per muoversi nella loro direzione, quando con la
coda dell’occhio scorse i due fratelli Benton avvicinarsi: Jenny tutta
sorridente, Ken come un bull terrier pronto ad azzuffarsi.
D’istinto strinse i pugni e serrò la mascella.
«Jenny, Ken, piacere di vedervi» disse quando lo raggiunsero.
«Frank! Perché quella faccia scura?» chiese la giovane Benton, senza peli
sulla lingua.
Ken seguì con una certa platealità la direzione dello sguardo di Raleigh.
«Già, sorellina. Sembra proprio che Frank stia sulle spine per qualcosa. O
forse sarebbe meglio dire per qualcuno?»
«Benton, non sono dell’umore» ribatté Raleigh, e non con simpatia.
Il fatto era che non aveva alcuna intenzione di starlo ad ascoltare.
Immaginava cosa gli avrebbe detto, e non gli piaceva. Non voleva che
l’integerrimo Mr Benton gli ricordasse chi, fra loro due, fosse l’uomo più
adatto a Camille, quello che avrebbe potuto offrirle un futuro felice, sicuro e
dannatamente noioso.
No, quella sera si sentiva scorrere nelle vene il sangue del libertino, non
quello del gentiluomo, e non avrebbe permesso né a Benton né alla sua
noiosa coscienza di allontanarlo da Camille.
*
Alla cena sontuosa seguirono i discorsi di Mrs Boldt e del dottor Ramsey
che avrebbe diretto il nuovo ospedale pediatrico nel Bronx, per la cui
costruzione quella sera si raccoglievano i fondi. Nessuno parlò di denaro, ma
dall’espressione raggiante di Mrs Boldt e dalle sue parole di ringraziamento,
Raleigh dedusse che la cifra raccolta dovesse aver già superato quella
necessaria per iniziare i lavori.
Con la coda dell’occhio, non smise mai di osservare Camille, impegnata a
conversare con diversi ospiti, e immaginò che, in modo garbato, stesse
raccogliendo opinioni e commenti per il suo articolo. Sorrise, orgoglioso di
lei, orgoglioso di come, in poche settimane, fosse riuscita a farsi accettare in
redazione e in una società spesso crudele e intransigente.
Alla fine, con sua immensa gioia, la cena e i discorsi terminarono e le
signore si affrettarono alle toilette per incipriarsi il naso, mentre ai signori
vennero serviti i liquori.
Poi, venne annunciata l’apertura delle danze e tutti si diressero nel salone
dove si sarebbe tenuto il ballo.
Quando Raleigh la rivide, Camille si trovava nei pressi di una delle grandi
finestre che conducevano al famoso jardin d’hiver dell’Astoria in compagnia
di un gruppo di giovani ospiti, tra i quali Jenny e Ken: conversava, scherzava,
rideva anche, ma gli bastò uno sguardo per essere certo che aspettasse solo
lui.
Temendo che Ken la invitasse per il primo ballo, accelerò il passo,
schivando le coppie che già si muovevano verso il centro della sala.
In poche falcate le fu vicino, in tempo per vedere Jenny e il giovane
Stapleton allontanarsi verso la pista da ballo, seguiti da Ken e Charlotte.
Salutò con un cenno del capo le due coppie, ma evitò di sventolare sotto gli
occhi di Benton lo stendardo del vincitore. Non aveva dubbi che lui l’avesse
invitata e che Camille gli avesse detto di no.
***
Per un tempo che le parve infinito, Camille temette che Raleigh si fosse
scordato del loro valzer, ma, all’improvviso, sentì il suo sguardo
accarezzarla: alzò gli occhi e lo vide avvicinarsi tra le coppie che andavano
formandosi. Una visione che le tolse, con il respiro, ogni sicurezza.
Nessun suono le uscì dalle labbra, se non un gemito soffocato e un po’
buffo, quando lui le catturò la mano.
Raleigh si inchinò appena, poi, con un gesto possessivo che la fece
vacillare, le sfiorò con le labbra il palmo della mano prima di aprire il carnet
de danse che lei portava allacciato al polso sinistro.
Il primo rigo era in bianco.
Un sorriso sfacciato gli illuminò lo sguardo.
«Temevo ve ne foste dimenticata, Camille.»
«Come avrei potuto?» rispose lei in un sussurro che si infilò nel cuore di
Raleigh insieme all’ennesima freccia di Cupido.
Senza sapere come, si ritrovarono al centro della sala, gli occhi negli occhi,
soli in mezzo a decine di altre coppie. Raleigh le cinse la vita con dita leggere
eppure forti, determinate, calde, e le strinse la mano destra nella sua. E
quando lei gli posò la sinistra sulla spalla e i loro corpi si sfiorarono, Camille
lo sentì tremare.
Il valzer iniziò al suono sottile di un violino. Dolce, romantico, struggente.
Raleigh strinse a sé Camille più di quanto non avrebbe dovuto, forse
sperando che quell’intimità potesse durare per sempre. Camille si abbandonò
a lui e al ritmo del suo cuore, ogni respiro di lui un bacio segreto che le si
posava sul viso.
Ballarono nutrendosi degli sguardi e del tocco delle mani dell’altro.
Ballarono interrogandosi silenziosamente sul loro domani, chiedendosi se
mai il futuro avrebbe potuto essere come quel valzer, dolce e tanto inebriante
da far girare la testa.
Poi il valzer terminò.
***
Il secondo valzer Camille lo danzò con Benton. E pure il quinto. Al termine
di questo si sentiva sfinita e oltremodo accaldata.
«Venite» le disse Ken prendendo al volo due coppe di champagne e
porgendogliene una. «Andiamo qualche minuto in veranda, a respirare una
boccata d’aria fresca.»
Il piccolo alterco con Raleigh e il fatto di aver passato quasi metà della
serata in compagnia di Camille lo avevano reso più sicuro di sé, tanto da non
aver quasi mai ceduto alle balbuzie.
«È champagne, questo, Ken? Volete farmi ubriacare, forse? È la terza
coppa che mi costringete a bere. Devo pensare male di voi?»
Una domanda retorica e scherzosa, alla quale fu tentato di rispondere
seriamente: Non sono Raleigh, Camille. Invece disse: «Non ci si ubriaca per
qualche coppa di champagne, Camille, con la vodka, invece, sì».
«Come vi permettete, signore, di ricordarmi un episodio di cui mi vergogno
ancora?» rispose lei, fingendosi offesa e colpendolo sul braccio con il
ventaglio in un gesto lieve, privo di malizia. Che lui, invece, interpretò come
un gesto intimo, affettuoso, che gli regalò una disperata speranza.
«Mi assumo tutte le responsabilità, per la vodka e per lo champagne che vi
farò bere stasera.» E per il resto della nostra vita, avrebbe voluto aggiungere.
«Basta champagne, Ken. Sareste invece così cortese da andare a prendermi
una limonata? Vi aspetterò fuori.»
***
Passando attraverso una delle molte portefinestre del salone, Camille si
ritrovò nel giardino d’inverno che correva come una cornice intorno al
diciassettesimo piano dell’Astoria. L’aria era fresca e profumava di terra
bagnata e agrumi. Si avvolse nello scialle di chiffon e si guardò intorno: si
trattava di un vero e proprio giardino, illuminato da lampioncini orientali e
fitto di vegetazione. Seguì il sentiero che portava al parapetto, attirata dalla
brezza proveniente da una delle vetrate socchiuse. Senza accorgersi di chi la
stava seguendo, raggiunse un punto da cui avrebbe potuto ammirare il lungo
nastro della Quinta Avenue, che pulsava di vita e luci anche di notte.
Già…
Un brivido, morbido come una carezza, la colse di sorpresa mentre la
mente tornava a Raleigh. All’intimità che li aveva uniti quella sera. Alla
scommessa che era stata tanto pazza da accettare: cosa sarebbe successo se
fosse stato Raleigh a vincere?
O se lei gli avesse concesso la vittoria? Una passeggiata in carrozza nel
parco, sola con lui, non valeva forse quel piccolo, innocente sotterfugio?
Innocente? Non proprio.
Un malizioso sotterfugio, semmai, del quale forse si sarebbe pentita.
I passi di Benton risuonarono alle sue spalle e nel girarsi per accoglierlo udì
provenire da un angolo alla sua destra un fruscio di seta, seguito dal risolino
alticcio di una donna. E quando vide un riflesso viola baluginare tra le ombre
e qualcosa di candido come un papillon bianco sfavillare tra le foglie, seppe
che quella serata non sarebbe stata poi tanto perfetta e che la scommessa con
il suo editore era davvero persa.
Certo non poteva esserne sicura, ma la gelosia che l’aveva trafitta maligna
non cessava di sussurrarle due brevi parole: è lui. Dopo le tacite promesse
che quella sera si erano scambiati, dopo gli sguardi carichi di desiderio e di
anticipazione, poteva essere veramente Frank Raleigh l’uomo nascosto in
quell’angolo con Miss Neville?
Un altro risolino. Questa volta lo sentì anche Benton, che forse riconobbe
sul viso di Camille i segni aspri della delusione.
«Camille» disse Ken, quasi volesse proteggerla.
Senza pensare, lei fece allora qualcosa di stupido, di molto stupido: gli
chiese di baciarla. Non per ripicca, non per vendetta, ma solo perché sperava
con tutto il cuore di trovare in quel bacio una tranquilla soluzione al suo
problema. Un problema che si chiamava Frank Raleigh.
***
«Volete che vi baci?» le chiese Benton senza nascondere il proprio stupore.
«Tacete e fatelo, Ken.»
«Non vi dirò di no, Camille, vi desidero troppo per non approfittare della
situazione.»
Le cinse la vita e l’attirò a sé. Lei chiuse gli occhi, ma sul suo viso Ken non
scorse il desiderio, né tantomeno un comprensibile turbamento. Vide invece i
segni di una battaglia interiore. Vide incertezza. Vide speranza.
Non passione.
Camille lo stava semplicemente mettendo alla prova, se non addirittura
usandolo per ripagare Raleigh della sua indifferenza e per quello che forse
stava combinando con Claudette Neville a pochi passi da loro.
Ciononostante, non si tirò indietro e posò le labbra su quelle di lei con
delicatezza. Non aveva nulla da perdere, in fondo, e forse quel bacio avrebbe
risvegliato in lei un riverbero di passione.
Camille rimase immobile.
Lui la strinse a sé con maggiore determinazione e aprì le labbra,
spingendola a fare altrettanto.
Ciò che Ken stava cercando di darle con tanto trasporto era un bacio vero e
appassionato, capace di toglierle il respiro e la ragione. Un bacio cui
aggrapparsi come a uno scoglio.
Ma, per quanto perfetto fosse quel bacio, Camille non vi si aggrappò: il suo
respiro rimase costante, il battito non accelerò e nessun fremito la scosse. La
passione non la sfiorò neppure.
Così come era iniziato, il bacio si interruppe. Ken allontanò la bocca da
quella di lei, la liberò del suo abbraccio e la guardò con occhi ormai ciechi
alla speranza.
«Non ha funzionato, vero?» le chiese in un soffio.
Ma non era che una domanda retorica, a cui lei non rispose se non con uno
sguardo avvilito.
Allora la prese per mano e in silenzio la ricondusse nella sala da ballo.
Furioso con se stesso, per non essere stato capace di arrivare al cuore di
Camille neppure attraverso l’intimità sublime di un bacio. Furioso con
Raleigh, che la faceva soffrire. Furioso con Camille, per avergli negato
un’ultima, illusoria speranza.
Rimase a osservarla mentre, nonostante tutto, ancora cercava Frank con lo
sguardo, sul volto la speranza che l’uomo insieme a Claudette non fosse lui.
Ken le prese una mano fra le sue.
«Camille, permettetemi di riaccompagnarvi a casa» mormorò.
Lei rimase immobile, negli occhi ancora la speranza di essersi sbagliata.
«Sono venuta con Mr Ra…» rispose, bloccandosi a metà della frase, lo
sguardo fisso alla veranda.
In quel momento, da due porte differenti, erano comparsi Claudette, le
piume dell’acconciatura un po’ sbilenche e una foglia infilata tra i capelli, e...
Raleigh.
Scuro in volto, marciava a lunghi passi verso Camille.
E forse fu a causa del suo passo deciso e dell’aria di tempesta che si portava
dietro che lei non si accorse dell’altro uomo che stava emergendo da una
terza porta della veranda. Benton, invece, lo notò.
«Non era Frank insieme a Claudette, Camille, sono quasi sicuro che ci
fosse Philip Kauf con lei in veranda. Eccolo» aggiunse indicandoglielo con
un cenno del capo allo scopo di consolarla.
La speranza che all’istante le illuminò il volto lo colpì come una pugnalata.
Che gli attraversò il cuore e gli bloccò il respiro.
***
Senza neppure degnare Benton di uno sguardo, Raleigh prese Camille per
un braccio e con un sorriso forzato sulle labbra disse: «Ora saluteremo nel
modo più veloce possibile e ce ne andremo».
Lei lo guardò sbalordita. «Non capisco, che cosa credete di fare, Frank?»
«Quello che ho detto. Andare via da questo posto. Conoscendovi, avrete
raccolto sufficiente materiale per tre articoli, non per uno solo. Quindi…»
Camille raddrizzò la schiena e alzò il mento. «E… e se io non volessi
andarmene?»
«Preferireste fosse Benton a riaccompagnarvi a casa?»
«Non dovrebbe fare altro che chiedermelo, e sarei felice di farlo» si inserì
Ken con aria per nulla pacifica.
Frank si irrigidì e Camille sentì le sue dita stringersi intorno al braccio.
Perché si comportava in quel modo… primitivo? Era forse geloso?
Possibile che l’avesse vista baciare Ken? In fondo era proprio dalla veranda
che Raleigh era ricomparso. Ma se non era lui l’uomo in compagnia di
Claudette, cosa ci faceva lì fuori?
I pensieri di Camille si rincorrevano disordinati mentre Raleigh muoveva
un primo passo verso l’uscita del salone.
Benton gli si piazzò davanti e Frank si abbandonò a un gesto di irritazione.
«Non provarci neppure, Ken» sussurrò. «Domani, se vorrai, potrai
prendermi a pugni, sfidarmi a duello, persino. Ma non adesso. Levati dai
piedi, hai fatto già abbastanza danni per stasera.»
Per tutta risposta, Ken fece un altro passo verso di lui, sempre più scuro in
volto.
«Tu levati di mezzo» disse.
Molti ospiti li stavano ormai osservando.
Camille si pose in mezzo a loro sorridendo, fingendo che fosse tutto uno
scherzo. Li prese entrambi sotto braccio e si diresse con loro al tavolo dei
rinfreschi, lontano da occhi e orecchi indiscreti. Sempre sorridendo, sempre
fingendosi allegra e spensierata, prese da un vassoio due bicchieri colmi di
champagne.
«Bevete, signori, forse diventerete più ragionevoli» disse, porgendone uno
a testa. Poi, guardando Ken con occhi imploranti, aggiunse: «Va tutto bene. È
meglio che adesso ve ne andiate, per piacere».
«Non va affatto bene» ribatté lui, testardo.
Lei fece un gesto spazientito. Si sentiva in colpa con Benton e furiosa con
Raleigh.
«Invece va tutto bene. Andate, Ken, vi supplico. Invitate una ragazza a
ballare o trovate qualcuno con cui conversare, come se nulla fosse successo.
Vi prego.»
Non voleva una scenata. Non voleva essere la causa di un alterco inutile.
Raleigh fissava Benton senza nascondere la propria collera, pronto a
esplodere alla prima provocazione.
«E voi, Mr Raleigh, comportatevi per una volta come un uomo
ragionevole» lo implorò Camille, prima di dargli il braccio e di buttarsi con
lui nella giostra finale dei saluti.
Dieci minuti più tardi risalivano in carrozza.
16

La stessa notte, Central Park


Sedevano silenziosi, uno di fronte all’altro, scossi solo dal movimento della
carrozza. Camille guardava fuori dal finestrino, Raleigh fissava Camille, e
non con le migliori intenzioni.
Come un uomo tradito.
Una sensazione insolita per lui, dolorosa più che fastidiosa. E del tutto
imprevista.
Superato lo stupore suscitato dall’abito, che l’aveva lasciato senza fiato e
con desideri inconfessabili, sulle prime gli era sembrato di volare al suo
fianco. Con sconsiderata ingenuità si era abbandonato fiducioso a emozioni
imprudenti che avevano indebolito quella muraglia di cinismo che con tanta
pazienza aveva eretto a protezione di se stesso.
Ed era stato magnifico.
Finché Ken Benton non si era messo di mezzo.
Maledizione a lui!
L’onesto Benton aveva stretto Camille tra le braccia e l’aveva baciata come
il più esperto dei seduttori, mentre lui, notorio libertino, era rimasto a
guardare nascosto in un angolo buio come il più timido dei pavidi, rigido
come uno stoccafisso, incapace di respirare o di parlare.
Di agire.
Invece di prendere Benton per il collo e farlo volare lontano da Camille, era
rimasto a guardare mentre il bastardo la stringeva, la accarezzava, la baciava,
le sussurrava all’orecchio frasi che avrebbe voluto volentieri fargli ingoiare
insieme ai denti.
Maledizione a lui!
Non si era certo comportato da codardo, Frank Raleigh, in quell’occasione.
Perché, se era rimasto nell’ombra, i pugni stretti e la bocca cucita, umiliato
più che offeso, era stato solo per Miss Brontee. Per concederle la possibilità
di scegliere.
Ken.
Un uomo migliore di lui.
La carrozza avanzava con andatura pigra lungo la Quinta Avenue. Ancora
qualche minuto e sarebbe arrivata all’angolo con Central Park. Raleigh
fissava Camille, Camille fissava il buio oltre il finestrino.
Pagherei qualsiasi cosa per conoscere ciò che le passa per la mente.
In fondo, a ripensarci bene, avrebbe dovuto essere felice di aver assistito a
quel patetico tentativo di seduzione da parte di Benton. Da come erano andate
le cose era evidente che, per quanto avesse provato ad accendere in lei il
fuoco della passione, e non c’erano dubbi che il bastardo ci avesse provato,
neppure una scintilla aveva infiammato Camille. Un risolino di pura
soddisfazione sfuggì a Raleigh.
Camille lo guardò.
«Non mi sembra ci sia granché di divertente» disse. «Vi siete comportato in
modo indegno, come uno schiavista. Lavoro per voi, non sono una vostra
proprietà. Portarmi via quasi di peso, come ne aveste il diritto!»
«Questa poi!» fece lui incredulo, battendo le mani e alzando gli occhi al
cielo. «Io mi sarei comportato in modo indegno? Credevo che nel torto foste
voi! »
«Io, nel torto? Come vi permettete di giudicarmi? Di intromettervi nella
mia vita?»
Lui si sporse in avanti, impaziente, gli occhi due fessure temibili sotto le
palpebre socchiuse.
D’istinto Camille si appoggiò allo schienale, come se cercasse una via di
fuga.
«Forse non ricordate bene, Miss Brontee. Siete stata voi più di una volta a
chiedermi di intromettermi nella vostra vita, e con argomenti che mi è stato
difficile ignorare. Ho cercato in tutti i modi di dissuadervi, ma ho fallito, a
quanto pare. E ora pretendereste che me ne stessi zitto?»
Camille stava per replicare, ma la carrozza si fermò e la voce del cocchiere
li raggiunse.
«Siamo all’angolo con Central Park, signore, cosa devo fare?»
Raleigh, con uno sguardo, girò la domanda a Camille.
«Ditegli di entrare nel parco, ho perso la scommessa» rispose lei, inquieta.
Un sorriso malandrino si disegnò sul volto di Raleigh.
«Entrate nel parco, Bob, e continuate a girare sino a nuovo ordine» disse
sporgendosi dal finestrino.
«Bene, signore…»
«Bob non spettegolerà con la servitù dei Campbell?» chiese Camille
pensando solo allora alle conseguenze di quella passeggiata notturna.
«Sicuramente. Ma sapete una cosa? Non me ne importa nulla.» E con un
balzo felino si spostò sul sedile di fronte, accanto a Camille. «Ora ditemi
perché affermate di aver perso la scommessa. Sono curioso.»
«Prima sarebbe meglio che tornaste al vostro posto.»
«Questo è il mio posto.»
«Allora mi sposterò io.»
Fece per alzarsi, ma lui la prese per la vita e la fece ricadere sul sedile senza
molti complimenti. Atterrò sbilenca, con una buffa espressione di sorpresa
sul viso e un Oh! indignato.
Lui scoppiò a ridere, poi tornò serio, troppo.
«Avanti, spiegatemi cosa diavolo è successo in quella dannata veranda.»
«Mi date la vostra parola che vi comporterete da gentiluomo?» rispose lei
cercando di ritrovare una posizione meno sbilenca e più dignitosa.
«Io non sono un gentiluomo, la mia parola non ha alcun valore.»
Lei lo guardò di sottecchi. «Allora?»
«E sia, vi do la mia parola, anche se…»
«Anche se?»
«Potreste chiedermi di rimangiarla.»
***
Una risposta sibillina che non piacque a Camille e che fece suonare intorno
a lei mille campanelli d’allarme. Come avrebbe potuto contare sulla propria
forza di volontà se non desiderava altro che lui la baciasse?
Si appoggiò allo schienale e guardò il soffitto della carrozza, come se vi
potesse trovare una soluzione ai suoi interrogativi. La vicinanza di Raleigh
non la aiutava certo a concentrarsi e la faceva sentire vulnerabile e sensibile
dove non avrebbe dovuto esserlo.
«Non è facile spiegare cosa sia successo questa sera…» mormorò.
«Provateci, vi prego.»
Si era girato verso di lei, l’espressione tesa, gli occhi scuri come la notte
nella fievole luce della carrozza.
Camille sorrise di tanta serietà e con dolcezza gli scostò una ciocca di
capelli dalla fronte. Lo sentì fremere sotto le sue dita e mormorare
un’imprecazione, o forse una supplica di cui non afferrò appieno il
significato. Ritrasse comunque la mano, quasi si fosse bruciata.
«Volete proprio che mi umili e chi vi spieghi i motivi per cui ho perso la
scommessa, Frank?»
«Adoro quando mi chiamate Frank…»
«Non vi basta sapere che questa sera mi avete fatto ingelosire?»
«Non mi basta, Camille. I patti vanno rispettati.»
«E va bene!» mormorò lei, poi fece un ultimo, inutile tentativo di
allontanarsi da Raleigh, nonostante ormai non avesse più spazio dove
spostarsi. Era bloccata tra la parete della carrozza e il corpo di lui. «Per tutta
la sera vi ho osservato danzare e scherzare con altre donne senza provare la
minima gelosia.»
Lui la guardò incuriosito.
«Ero certa che evitandomi cercaste di proteggermi dai pettegolezzi,
soprattutto dopo il vostro battibecco con Benton…»
«Quale dei molti?» fece lui, ironico.
«Difficile rispondere, in ogni caso…»
«Discutevamo di gelosia, non tergiversate. Allora, perché avete perso la
scommessa?»
«Dunque, è successo sulla veranda…» iniziò.
«Prima o dopo che Ken vi baciasse?»
Camille si irrigidì e lo fissò con tanto d’occhi.
«Voi… avete visto?»
«Ero in prima fila, pronto a godermi lo spettacolo!»
«La vostra ironia è fuori luogo…»
«Forse. Ma la verità è che vi ho seguito in veranda per mettere fine al
corteggiamento di Benton e per portarvi via da quel noioso ricevimento. La
gelosia mi stava uccidendo, lo ammetto…»
«Ah! La vostra ammissione vi costerà un’intervista.»
«Ancora una volta, non tergiversate, Camille.»
«Non tergiverso affatto. Voi avete perso la scommessa, non io.»
Gli occhi di Miss Brontee scintillarono nell’oscurità e le sue labbra si
piegarono in un sorriso divertito.
Lui le prese un polso e glielo strinse, forse per indurla a continuare il
racconto. Poi le catturò anche l’altro. Camille non si ribellò a quella sensuale
prigionia. Al contrario. Si concesse docile a lui con la speranza che quel
contatto la rassicurasse. Invece, non fece altro che accrescere il suo stato di
agitazione.
Abbassò lo sguardo sul pomo d’Adamo di Raleigh e si ritrovò a fantasticare
su come l’avrebbe volentieri preso fra le labbra e accarezzato con la punta
della lingua. Scosse leggermente la testa, forse per negare a se stessa di avere
avuto una tale fantasia. Poi, con un respiro profondo, ricominciò a parlare.
«Quando Ken mi ha raggiunta, ho sentito del trambusto alle mie spalle.
Girandomi, ho riconosciuto, nascosta tra rami e foglie, Miss Neville, o
meglio… ho riconosciuto le sue piume e il suo abito viola. Era con un uomo,
e non stava discutendo del tempo. In breve» concluse abbassando per un
istante gli occhi, «ho creduto che quell’uomo foste voi.»
L’espressione stupefatta di Raleigh la rassicurò sulla sua sincerità.
«Io? Con Claudette? Come vi è venuta un’idea tanto balzana?»
«Siete un uomo e Claudette non fa altro che civettare con voi…»
«Ah Camille, Camille, perché avete così poca fiducia in me?»
«Poca fiducia? Come potrei fidarmi di voi se non so neppure dove mi state
portando nel bel mezzo della notte?» mormorò cercando senza successo di
liberarsi dalla sua presa.
«Che importanza può avere la nostra meta quando ci siamo lasciati alle
spalle il resto del mondo?» sussurrò lui con un sorriso ironico, per nulla
rassicurante.
«Ciò dovrebbe tranquillizzarmi?»
«Certo! Su, continuate a raccontare, sono impaziente.»
Con un lungo sospiro, Camille proseguì.
«Dopo essermi accorta della presenza di Claudette e del suo amico, ho
chiesto a Benton di baciarmi.»
«Cosa avete fatto?» sbottò lui, incredulo. «Non è stato Ken a prendere
l’iniziativa?»
«Un gentiluomo come lui? Nient’affatto!» Il tono di Camille era
leggermente offeso.
«Volete dire che la cosa non vi avrebbe sorpresa se fossi stato io a baciarvi,
dato che io non sono un gentiluomo?»
«Non è affatto ciò che intendevo» rispose Camille fingendosi annoiata da
quella osservazione, ma in realtà in fiamme al solo ricordo dei baci di
Raleigh. «Trovate così scandaloso che una signora chieda di essere baciata?»
«Se la signora in questione siete voi e l’uomo non sono io, trovo la cosa
semplicemente criminale.»
Lei si concesse un risolino.
Sempre tenendole i polsi stretti tra le mani, con decisione Raleigh l’attirò a
sé. Ormai non li separava che una spanna. Il loro respiro si mescolava,
fondendosi al calore dei loro corpi.
Camille rovesciò appena la testa all’indietro, poi, mentre le labbra di
Raleigh stavano già per accarezzarla, mormorò: «Sì, ho preso io l’iniziativa,
ebbene?»
Lui le portò le braccia dietro la schiena, eliminando così ogni barriera tra
loro.
Lei non riuscì a trattenere un gemito.
«E come è stato?»
«Cosa?»
«Il bacio di Benton.»
Un po’ per civetteria, un po’ perché a disagio, Camille abbassò gli occhi.
«È stato… bello. Ken bacia molto bene…»
Era la verità, anche se quel bacio non le aveva dato neppure l’emozione che
le suscitava un solo sguardo di Raleigh.
«Bello? Ora vi mostrerò la differenza tra un bacio bello e un bacio vero.»
«L’avete già fatto, non ricordate?»
«Fin troppo bene, ma credo comunque che sia il caso di rinfrescarvi la
memoria» le mormorò sulle labbra.
Poi, con un sospiro, le liberò i polsi, la strinse a sé e senza mai lasciare i
suoi occhi finalmente la baciò. Senza delicatezza, solo con un disperato,
primitivo desiderio di possesso.
Sei solo mia, strillava quel bacio, lo sarai per sempre.
Non che Camille non fosse d’accordo, almeno a giudicare da come si
abbandonò a lui.
Si lasciò invadere, divorare dalle sue labbra di velluto e accarezzare dalla
sua lingua senza mai respingere la passione e negare il desiderio. Senza dire,
e neppure osare pensare, un solo no.
Voleva tutto da lui. Voleva essere sua. Voleva che lui fosse suo. Per sempre
o forse per un solo minuto, ma senza paure, senza rimorsi. Si lasciò guidare
da Raleigh e gli offrì tutta se stessa sino al momento in cui lui interruppe il
bacio ed entrambi rimasero senza fiato, affogando l’uno negli occhi dell’altra.
«Ora hai capito la differenza, Camille?»
Ah se l’aveva capita! Era senza fiato, senza volontà, senza ieri e senza
domani. Viveva solo per quel momento, per un altro bacio di Raleigh, per
un’altra carezza.
Non le fu necessario rispondere. Lui le sorrise e le posò le labbra sulla
fronte, con tenerezza più che con passione.
«Mio Dio, Camille, come ho fatto a vivere così a lungo senza di te?»
Le coprì il volto di piccoli baci e poi scese lungo il collo, giù, sino alla
scollatura dell’abito. Le mani di lui precedevano le labbra, sgombrando la
strada da ogni inutile intralcio.
«Frank» mormorò Camille, ma non con lo scopo di fermarlo.
Per avere di più.
***
Raleigh chiuse gli occhi inalando con avidità il profumo di lei, certo che da
lì a pochi secondi avrebbe mandato al diavolo ogni onorevole tentativo di
comportarsi da gentiluomo.
Passandole un braccio sotto le ginocchia, la fece sdraiare sul sedile della
carrozza, quindi le si inginocchiò accanto senza mai staccare le labbra dalla
sua pelle. Lui, che era sempre stato più attento a prendere che non a dare, in
quel momento pensava solo al piacere di Camille. La stava amando con la
bocca e con le mani, il suo desiderio ripagato solo dai gemiti di lei, dalla sua
espressione perduta, da quei sussurri che gli chiedevano di più.
Di più le avrebbe dato.
Armeggiò con l’allacciatura dell’abito, le abbassò il corpetto.
Per un istante si limitò a divorarla con gli occhi, ad ammirare la pienezza e
l’armonia di quel corpo che bramava più del paradiso, così indifeso nelle sue
mani, così fiducioso. Prese nella sua la bocca di Camille, mentre le
accarezzava i seni come fossero un tesoro delicato e prezioso.
Quando lei gemette di piacere, le carezze si fecero più decise e le labbra si
posarono esigenti sulla pelle invitante, suggendo e tormentando, finché lei
non gemette di nuovo e sollevando i fianchi lo implorò senza parole di farla
sua.
Di sedurla.
Lui scostò con impazienza molti strati di stoffa e biancheria e, mentre
ancora le sue labbra non erano sazie di lei, la sua mano si insinuò sotto le
gonne e cominciò a muoversi leggera verso l’alto…
Camille rabbrividì e lanciò un gemito sottile che rimbalzò tra le pareti della
carrozza, come un fuoco d’artificio impazzito. Invocò il suo nome e si inarcò
mentre la mano di Raleigh arrivava senza altri indugi a sfiorarla dove lei era
pronta ad accoglierlo.
***
Voleva le labbra e le mani di Raleigh sul suo corpo, voleva sentire la pelle
di lui contro la sua, la sua carne dentro di lei.
«Amami, Frank, adesso» gli disse, ormai libera da ogni timore.
Lui le divorò le labbra strappandole il respiro, le sue carezze e i suoi baci
petrolio gettato su un fuoco già vivo.
Camille era impaziente.
«Frank, voglio fare l’amore con te, adesso» mormorò senza staccare le
labbra dalle sue.
Fu lui a interrompere il bacio.
«Non ancora, Camille, non ancora» rispose, il viso tirato, come se qualcosa
lo turbasse. Le prese una mano, se la portò alla guancia e con venerazione le
sussurrò: «Ti desidero come il naufrago desidera la spiaggia, Camille, come
l’assetato l’acqua di un ruscello. Probabilmente ancora di più».
A quelle parole, un’onda liquida e dolcissima le attraversò il ventre. Con il
cuore gonfio d’amore e di desiderio gli accarezzò i capelli e fremendo di
anticipazione si abbandonò ancora una volta a lui, pronta a essere sua, a
diventare la sua amante. Anche se, a dire il vero, era certa che ci dovesse
essere un ma rimasto impigliato tra le labbra di Raleigh.
Il cuore di Camille prese a battere ancora più forte.
***
Combattendo contro la feroce tentazione che lo incitava a farla sua in
quello stesso istante, Raleigh vide Camille concedersi a lui, anima e corpo;
rimase ai suoi piedi abbagliato dalla sua bellezza, stregato dal suo viso che
risplendeva di passione. Al solo pensiero di prenderla, emise un rantolo che li
fece sussultare entrambi.
Per qualche istante, il mondo si immobilizzò dentro quella carrozza. E
l’aria da bollente si fece tiepida e poi fredda.
Perché, quando alla fine Raleigh si mosse, non fu per accarezzarla, per
baciarla e amarla con passione, ma per rincantucciarsi come un animale ferito
di fianco a lei, in preda all’acuto dolore fisico che il desiderio gli procurava.
«Frank» sussurrò Camille raddrizzandosi, la voce incerta nel respiro ancora
affannato, mentre lui le prendeva una mano e se la portava alle labbra, la
tensione non sopita del desiderio una lama che gli martoriava la carne e il
cuore. «Frank» ripeté, il tono della voce interrogativo più che passionale.
Per quanto non espressa, quella era la domanda che Raleigh temeva e che si
poneva lui stesso: Cosa diavolo stai aspettando a sedurla?
Non erano forse lì, in una carrozza a Central Park, in piena notte, solo per
quello?
Certo, se Camille non fosse stata vergine non avrebbe avuto alcun
tentennamento a rovesciarla di nuovo sul sedile e continuare ciò che aveva
iniziato con tanto ardore, ma Camille era vergine, anche se, a quanto pareva,
desiderosa di non esserlo più.
Teneva a lei, santiddio, era pazzo di lei. Come avrebbe potuto trattarla
come con una delle donne disinibite con cui amava divertirsi?
«Camille, mi spiace, ma non posso» disse, cercando di distogliere lo
sguardo dal seno ancora scoperto.
La vide irrigidirsi.
«Non puoi?» gli chiese, il tono della voce incredulo.
Lui scosse la testa, in cerca delle parole adatte per spiegarsi. Sempre che
tali parole esistessero.
«Io… io non posso, Camille. Lo so, sono un gran bastardo, ma anch’io, per
quanto possa sembrarti strano, ho una morale, delle regole.»
Senza dire altro, lei sfilò la mano da quelle di lui e lo fissò, attonita, il
respiro ancora corto, le labbra leggermente tremanti.
Raleigh cercò di leggere in quello sguardo. Vide gli occhi di lei passare
dalla sorpresa a qualcosa di ancora indefinito, che assomigliava molto alla
delusione se non alla rabbia.
«Inoltre» continuò, cercando di nascondere il tormento che provava, «come
potrei farti conoscere l’amore sul sedile di una carrozza? Quando succederà,
quando finalmente faremo l’amore, voglio avere tutta la notte davanti a noi,
voglio che sia indimenticabile, Camille, per te, per me. E soprattutto non
voglio Bob a un metro da noi» scherzò indicando la direzione in cui sedeva il
cocchiere.
Quanto le aveva detto era la pura verità.
Non la completa verità.
Lei rimase ancora per qualche istante a fissarlo, poi annuì e sistemandosi il
corpetto si girò di spalle, chiedendogli di riallacciarle l’abito. Lui si mise
subito al lavoro, combattendo contro il desiderio di strapparglielo
definitivamente di dosso.
«Non è detto che sarai tu a farmi conoscere l’amore, Frank.»
Le parole, più taglienti di una lama, ci misero un po’ a transitare sino al suo
cervello e, quando vi arrivarono, lo trafissero senza pietà. Il respirò gli morì
in gola, come un grido soffocato.
«Non capisco cosa tu voglia dire, Camille» disse dopo qualche istante, la
voce incerta.
Al contrario di lui, lei non ebbe bisogno di pensare prima di rispondere.
«Sei tanto arrogante da non capire, Frank? Ero pronta a darmi a te, ma tu
sei fuggito. Dopo avermi illusa, mi hai respinta per la seconda volta, cosa a
cui nessuno crederebbe se solo potessi raccontarlo. Ora, sai dirmi una sola
ragione per la quale dovresti essere tu il primo? Per avere un’altra occasione
di respingermi?»
Raleigh si irrigidì, toccato nel profondo. Camille aveva ragione, era
fuggito. Di nuovo.
Forse avrebbe dovuto mostrarle chi era veramente, sedurla e affrontare
dopo le conseguenze.
Come è nella mia natura.
Con foga le sue mani presero a slacciarle l’abito.
«Cosa stai facendo, ora?» disse lei sorpresa, ruotando di scatto il capo verso
di lui.
«Ti sto spogliando, non è evidente? Se ci tieni così tanto, ti posso
dimostrare subito che anche io sono pronto per te. Posso esibirmi nella
migliore imitazione di me stesso, ovvero del libertino privo di scrupoli che
sono sempre stato.»
«Frank, tu non sei così.»
Se era in quel modo odioso che l’avrebbe allontanata da sé, si sarebbe
spinto sino all’orlo del precipizio, sperando poi di non caderci dentro.
«Vuoi scommettere, Camille?»
***
Non rispose ma chinò la testa, ferita nel suo amor proprio e nelle sue
speranze. Non era così che voleva essere amata. Non con tutto quel rancore
che pesava su di loro.
Sentì il respiro caldo di Raleigh solleticarle la nuca, poi le sue morbide
labbra mordicchiarle la pelle, così sensibile a quel delizioso invito. Il
desiderio che ancora bruciava in lei la spingeva a offrirsi, il suo orgoglio a
ritrarsi.
Fu l’orgoglio a vincere.
«Smettetela, Mr Raleigh» disse senza quasi rendersene conto. Parole
immerse nel gelo, che avrebbe voluto rimangiarsi subito.
«Mr Raleigh? Sono tornato a essere Mr Raleigh, ora?» esclamò lui, la voce
più stupita che offesa.
Camille lo sentì irrigidirsi, quindi scostarsi da lei. Dopo alcuni istanti in cui
il mondo parve rallentare, le mani di Raleigh ripresero con lentezza ad
armeggiare intorno ai piccoli ganci dell’abito, richiudendoli uno dopo l’altro.
«Ammetto di essere più esperto a spogliare una signora che non ad aiutarla
a rivestirsi» disse in tono sarcastico.
«Già, non ne dubito» rispose lei, nello stesso tono.
Per qualche minuto tacquero, cullati dal dondolio della carrozza e dal suono
ritmico delle ruote sul selciato, fingendo una compostezza che il battito
impazzito dei loro cuori negava.
Camille fu la prima a rompere quel silenzio imbarazzato. Perché, per
quanto potesse essere umiliante chiedere, doveva sapere. E chiese, senza
affidarsi a inutili giri di parole.
«Perché non avete voluto fare l’amore con me? Forse non mi desiderate?»
Raleigh scoppiò a ridere. Una risata nervosa, grottesca.
«Ti desidero tanto da aver partecipato a questa inutile serata per starti
vicino, per stringerti in un valzer, per poter soltanto sederti accanto su questa
dannata carrozza. Per respirare il profumo della tua pelle.»
Camille lo guardò stupefatta. «Intendete dire che avete avuto bisogno di
una messa in scena per trascorrere una sera con me?»
«La messa in scena non era certo a tuo vantaggio. Mi avrebbe permesso di
tacitare la mia coscienza. So di non essere l’uomo per te, Camille.»
«Ah! Ora vi arrogate persino il diritto di decidere quale uomo sia per me!»
«Conosco la vita, e tu no.»
«Davvero? Allora spiegatemi per quale motivo, se mi desiderate e siete per
vostra stessa ammissione geloso…» insistette lei, proseguendo testarda il
proprio ragionamento, «mi avete respinta. Un comportamento, il vostro, o
molto cavalleresco o molto stupido, Mr Raleigh.»
Tacque per qualche istante, in attesa di una risposta che non arrivò. Sentiva
gli occhi di lui penetrarla, il suo respiro infiammarle la pelle come mille baci
proibiti.
«Non rispondete? Lo farò io per voi. Non volevate correre il rischio di
provare qualcosa, qualsiasi cosa. Per questo mi avete respinta» disse, sicura
di aver colto nel segno.
Camille vide il volto di lui irrigidirsi, le mani stringersi a pugno.
«Stavo per perdere la testa. E tu con me. Ho solo cercato di comportarmi
con onore, dannazione! Possibile che tu non capisca?»
Camille infierì ancora, il tono della voce sarcastico.
«Se io fossi stata Claudette, o un’altra delle vostre amanti, non avreste
avuto alcuna remora, né tantomeno timore. Dovrei forse sentirmi lusingata
per il trattamento di favore che mi avete riservato, Mr Raleigh?»
***
Raleigh sentì l’aria abbandonargli i polmoni, come se lei lo avesse colpito
nel costato con una mazza.
«Puoi credere quello che vuoi» rispose lasciandole libere le mani, come se
di colpo scottassero.
Per qualche istante solo il battito dei loro cuori ruppe il silenzio. Poi
Camille mormorò, fredda: «Riaccompagnatemi a casa, sono stanca».
Senza una sola parola, lui si sporse dal finestrino e ordinò al cocchiere di
tornare in Washington Square, poi si sistemò sul sedile di fronte a quello
occupato da Camille e per tutto il tragitto rimase in silenzio a guardarla,
dandosi del vigliacco.
Perché, come Miss Brontee con la sua solita, irritante arguzia aveva
osservato, era davvero fuggito da lei, come un codardo. Aveva avuto una
dannata paura. Di lei, di se stesso, di un futuro che sembrava all’improvviso
troppo vicino, troppo perfetto.
Un valletto, rimasto in piedi ad attendere il ritorno di Miss Brontee, aprì il
portone non appena la carrozza si fermò davanti a casa Campbell. Raleigh
aiutò Camille a smontare, poi si congedò con un formale baciamano e, in un
silenzio doloroso, la guardò svanire come una nuvola dorata oltre il portone.
Quindi lasciò andare la carrozza e coprì la breve distanza che lo separava da
casa come una statua di sale, ogni passo un pesante fardello verso la sua
abituale, rassicurante solitudine.
***
Camille corse invece in camera sua, dove si spogliò lottando col desiderio
di fare a pezzi l’abito che aveva prima indossato, poi quasi tolto per lui. Si
preparò per la notte, ma non si coricò subito, era troppo in collera per farlo.
Si avvicinò alla finestra e fissò distratta la piazza deserta, gli alberi ormai
spogli appena mossi dal vento, il grande Arco di marmo, immacolato e
sereno nella notte. Non sapeva che ore fossero, ma sapeva che non sarebbe
riuscita a dormire. Si gettò sul letto e fece di tutto per non piangere. Senza
riuscirci.
17

26 novembre, Washington Square


Di ritorno da Boston, i Campbell avevano portato a Camille notizie di Mr
William Cartrite, del bastardo americano, insomma. Di loro iniziativa
avevano preso informazioni e scoperto che, effettivamente, Mr Cartrite era un
uomo benestante e rispettato dalla comunità, come aveva affermato di essere.
Erano anche venuti a sapere che, tre giorni prima del previsto incontro a New
York con Camille, era stato investito da una carrozza davanti a Faneuil Hall
ed era finito all’ospedale con numerose ossa rotte e un trauma cranico. Il
poveretto, insomma, non aveva altre colpe nei confronti di Miss Brontee se
non quella di essere stato la vittima distratta di un brutto incidente e di essere
rimasto incosciente per quasi tre settimane.
Ad apprendere tali notizie, Camille si sentì in colpa nei confronti di Cartrite
e decise che gli avrebbe scritto presto per rassicurarlo – sempre che lui fosse
preoccupato – che lei stava bene. Avrebbe anche approfittato dell’occasione
per ricordargli che ormai le loro vite avevano preso strade diverse.
Se, come affermava spesso Mrs Campbell, non tutti i guai vengono per
nuocere, la sfortuna di Mr Cartrite si era rivelata in effetti un bene per Miss
Brontee, perché il povero bastardo americano non sarebbe mai stato l’uomo
giusto per lei.
Nessun uomo lo sarebbe mai stato, se non Frank Raleigh. Nonostante i suoi
molti difetti. Nonostante le sue continue sparizioni. Nonostante i troppi
interrogativi che pendevano ancora sulla sua esistenza.
Quella domenica mattina Camille si preparò a scrivere l’articolo sul
ricevimento all’Astoria con lo stesso entusiasmo che avrebbe manifestato se
fosse stata condannata all’ergastolo sull’Isola del Diavolo. Ogni parola, ogni
frase, ogni particolare di cui raccontava era fonte di un continuo tormento
perché le riportava alla memoria quanto era capitato dopo il ricevimento, su
quella dannata carrozza in Central Park.
Una volta terminato l’articolo, tolse il foglio dal rullo della macchina da
scrivere con un gesto rabbioso, forse nella speranza che quel piccolo atto
simbolico potesse liberarla nello stesso modo del ricordo di Raleigh.
Difficile. Anzi impossibile.
Era sulle spine perché sapeva che lui sarebbe partito quel giorno stesso per
Philadelphia e che, per almeno una settimana, non l’avrebbe rivisto. E se una
volta tornato l’avesse ignorata? Se l’avesse persino licenziata per togliersela
di torno?
Certi uomini facevano presto a trovare una soluzione disinvolta ai problemi
della loro esistenza. Ma una donna? Cosa avrebbe fatto lei se fosse stata
licenziata?
In preda a pensieri più neri della pece, Camille sobbalzò sulla sedia al lieve
bussare di Broley alla porta del piccolo studio che usava da qualche tempo
per lavorare.
«Mr Raleigh chiede di vedervi, Miss Brontee.»
Parli del diavolo…
Frank entrò nello studio come un uragano.
«Ho bisogno di parlarvi, Camille…»
I suoi occhi le parvero impazienti e più scuri del solito, forse carichi di
collera o di altre poco pacifiche intenzioni.
«Accomodatevi, Mr Raleigh» fece lei con una flemma invidiabile. Poi si
rivolse a Broley chiedendogli di avvisare i signori Campbell dell’arrivo
dell’ospite.
Alzando con fare plateale gli occhi al cielo, Raleigh attese che il
maggiordomo se ne andasse, poi si precipitò da Camille che non si era ancora
mossa dalla scrivania.
«Siete venuto a controllare di persona l’articolo sul ricevimento di ieri sera?
Ecco, prendete…» gli disse porgendogli alcuni fogli.
Lui alzò di nuovo gli occhi al cielo, spazientito.
«L’unica ragione per cui sono venuto è che, come già sapete, sono costretto
a partire per lavoro fra un’ora circa, anche se è l’ultima cosa che vorrei fare»
disse prendendole una mano fra le sue.
Camille sorrise prima di ribattere con aria serafica: «Mi avete già informata
della vostra partenza, signore. Sono consapevole del fatto che siete un uomo
d’affari molto impegnato…» E con uno strattone liberò la mano dalla presa di
Raleigh.
A quel gesto, lui sbuffò.
«Non starò via che una settimana.»
Lei lo guardò fingendo un genuino stupore.
«Non sono che una vostra dipendente, Mr Raleigh, non mi dovete alcuna
spiegazione.»
In quel momento lui si riprese la mano di Camille. Anzi, le mani.
Stringendole i polsi senza alcuna delicatezza, la costrinse ad alzarsi.
«Non fare così, maledizione! Non credo di meritarmi il tuo sarcasmo. O
devo dedurre che quanto è successo fra noi ieri notte non abbia alcun
significato per te?»
«Alcun significato? Non è facile dimenticare di essere stata rifiutata…» gli
rispose lei senza nascondere la propria collera.
«Rifiutata, dici? Forse. Ma se l’ho fatto, se non ho ceduto al mio stesso
desiderio, è stato solo per proteggerti. Da me stesso» aggiunse Raleigh con
rabbia, stringendola a sé.
«Prego?» ribatté lei, ironica.
«Mi appartieni, Camille, che tu lo voglia o no» aggiunse lui, un attimo
prima che i passi di Agnes risuonassero nel corridoio costringendolo ad
allontanarsi.
«Illuso, non appartengo a nessuno!» sibilò lei e, raggiungendo la porta nello
stesso istante in cui Mrs Campbell ne superava la soglia, aggiunse: «Devo
ancora terminare il mio lavoro, Mr Raleigh, certo mi comprenderete e
scuserete. Vi auguro buon viaggio».
«Bene, bene, bene» esclamò Agnes entrando, con l’espressione di un gatto
goloso. «Problemi col personale, caro Frank?»
«Già» fece lui senza riuscire a nascondere la collera. Poi, dopo un forzato
scambio di formalità, con un baciamano alquanto rigido e delle scuse
affrettate si congedò.
«Bene, bene, bene» ripeté Mrs Campbell con un sorriso soddisfatto, mentre
osservava Raleigh andarsene come una furia.
*
Nei giorni successivi
Pur furibonda e più incline del solito all’insofferenza, Camille cercò di
proseguire la sua esistenza come se in quella dannata carrozza non fosse
successo nulla.
Trascorreva le giornate in redazione o con Manny in giro per New York, in
cerca di spunti per un articolo o per una nuova intervista.
La sua modesta fama, nel rude mondo del giornalismo, aveva fatto un
piccolo balzo in avanti grazie al suo articolo sul ricevimento benefico di Mrs
Boldt all’Astoria.
La signora le aveva inviato un biglietto per ringraziarla dell’ottimo
reportage e per invitarla a partecipare alle riunioni del club femminile che si
tenevano d’abitudine in una lussuosa sala del vicino hotel Waldorf, pure di
proprietà del marito.
Era stato in occasione della prima di quelle riunioni che Camille si era
accorta che le donne emancipate di New York erano di norma sposate a
milionari.
Tutto sommato, non poteva certo dire di avere una vita noiosa, Camille
Brontee, e di questo poteva solo ringraziare se stessa.
E Frank Raleigh.
Una vita a cui in un battito di ciglia si era abituata e a cui non voleva più
rinunciare.
Forse dovrei lasciare il Daily e trovare un impiego presso un altro
quotidiano o una rivista femminile, continuava a ripetersi.
Non era un’ingenua. Era del tutto consapevole che, lavorando per lui,
sarebbe stato difficile, se non impossibile, sottrarsi al desiderio di Raleigh.
No, al proprio desiderio e ai ricordi che l’avrebbero tormentata in ogni
istante del giorno e della notte.
Ormai era tardi per rimediare. Frank le aveva saccheggiato l’anima e si era
impossessato del suo corpo. Come un ladro.
*
6 dicembre, Daily Building
Se c’era un periodo che Camille adorava, quello era il Natale. E New York,
certo molto più di Liverpool, si preparava alle festività di fine anno con
grande entusiasmo, vestendosi a festa: ghirlande, rami di abete, mele rosse,
nastri e bastoncini di cannella ornavano i portoni e le finestre di case e uffici
e profumavano e rallegravano la città. Le vetrine dei negozi, riccamente
decorate, invitavano la gente agli acquisti, e dappertutto campeggiava
benevolo lo sguardo del Santa Claus disegnato da Thomas Nast. La matita del
famoso illustratore, nonché proprietario del settimanale Nast’s Weekly, aveva
creato un Papà Natale alquanto in carne che subito aveva preso il posto del
più severo e spirituale San Nicola nel cuore degli americani.
Come ogni mattina, recandosi al lavoro incontrò davanti alla Town Hall
Peter, che si dava un gran da fare per vendere qualche copia del Daily. Il
ragazzino aveva promesso di rimanere saldo al suo posto a vendere i giornali
di Mr Raleigh sino al giorno in cui avesse iniziato ad andare a scuola, cosa
che sarebbe successa all’inizio del nuovo anno.
A vederlo, così serio e impegnato, Camille sentì il cuore gonfiarsi di
commozione e pensò che Peter, e con lui l’esercito dei newsboys, cui anche il
Daily, come tutti i quotidiani, doveva molto, si meritasse un piccolo
riconoscimento. Una festa di Natale, magari, che li ripagasse almeno in parte
delle fatiche e dei sacrifici, della fame e del gelo che ogni giorno
affrontavano per vendere giornali che non erano neppure in grado di leggere.
Così, con la festa per gli strilloni che prendeva vita nella sua testa, Camille
raggiunse il Daily. E non appena mise piede nella porta girevole, si accorse
che Raleigh era tornato a New York.
Forse perché gli addetti al banco della reception sembravano più
indaffarati. Forse perché più fattorini del solito entravano e uscivano dal
palazzo. Forse perché tre noti uomini d’affari avevano preso l’ascensore con
lei e l’avevano cortesemente salutata prima di scendere al tredicesimo piano.
Camille sorrise. Sì, Raleigh era tornato e, prima o poi – più prima che poi,
secondo i suoi piani – lo avrebbe rivisto.
Il fatto era che moriva dalla voglia di rivederlo. Dopo il loro breve incontro
in casa Campbell, quello in cui lei si era comportata come la regina del Polo
Nord e Raleigh come un innamorato tradito, non aveva fatto altro che pensare
a lui, nel bene e nel male. Alle sue parole, al fatto che lui le avesse detto che
lei ormai gli apparteneva.
Gli appartengo davvero? continuava a chiedersi senza comprendere
appieno cosa lui avesse voluto dirle.
Certo, non poteva presentarsi nel suo ufficio e chiederglielo in modo
diretto, e neppure irrompere con una scusa qualsiasi, fingendo che tra loro
nulla fosse successo. Per rivederlo, e quel giorno stesso, doveva trovare una
ragione legata al lavoro, ma credibile, come per esempio…
L’intervista!
Quella sì era una buona idea.
In fondo erano entrambi usciti sconfitti dalla scommessa stretta al
ricevimento all’Astoria, e ora anche lui doveva pagare il suo pegno. Lei
l’aveva già fatto, quella notte a Central Park. Eccome se l’aveva fatto, con
tutto ciò che ne era seguito. Raleigh no, doveva ancora saldare il conto.
Quella mattina Camille non aveva raccolto i capelli nel solito chignon, ma
li aveva legati con un fiocco di velluto nero e, per puro caso, aveva scelto
l’abito che indossava il giorno in cui Raleigh si era recato in visita dai
Campbell per offrirle un posto in redazione.
Sembrava che da quel giorno fosse trascorso un secolo e invece non erano
passati che due mesi. I mesi più eccitanti della sua vita.
«Signori, buongiorno» esclamò passando tra le scrivanie dei suoi colleghi.
«’giorno Camille» risposero quelli in coro, sollevando come sempre il capo
dal loro lavoro, giusto il tempo per darle una sbirciatina e commentare il suo
aspetto con una esclamazione o un sorrisino di approvazione.
«Quando avrete finito di civettare con tutti i maschi di questa redazione,
Miss Brontee, avrei bisogno di voi» brontolò Corman, in piedi sulla soglia
del suo ufficio.
«Arrivo subito e non stavo civettando, signore» rispose Camille fingendosi
offesa. Depose le sue cose sulla scrivania e si affrettò verso l’ufficio del
direttore.
Ne uscì dieci minuti dopo con un foglio pieno di appunti: col Natale alle
porte, avrebbe dovuto occuparsi dei soliti articoli sulle festività.
«Non voglio nulla di estroso o radicale, Miss Brontee» si era raccomandato
Mr Corman. Lei gli aveva sorriso, angelica, e lui aveva subito compreso che
c’era dell’altro. «Parlate Camille, cosa vi frulla in mente?»
«Pensavo che… si potrebbe addobbare un grande albero di Natale nell’atrio
e organizzare una festa per gli strilloni. Con tanti dolci e un regalino per ogni
ragazzo. Che ne dite?»
Il volto di Corman si era subito illuminato, per tornare scuro subito dopo.
Dopotutto aveva una nomea di burbero da difendere.
Con uno sbuffo di fumo aveva replicato: «Ne parlerò all’editore».
«Lo farete oggi stesso, vero, Mr Corman?»
Poi, con un gran sorriso, Camille fece per andarsene.
«Ricordati che questa sera hai l’inaugurazione al Metropolitan Museum!»
le urlò dietro.
«Lo so, lo so. Ci sarà anche il sindaco Van Wyck! Quante volte me l’avete
già ricordato, direttore?»
*
Camille era sulle spine.
Pur sforzandosi di concentrarsi sull’articolo cui stava lavorando, non
poteva evitare di alzare la testa ogni qualvolta le giungeva all’orecchio il drin
di un ascensore che si fermava al piano. Allungava allora il collo, nella
speranza, sempre delusa, di vedere Frank entrare in redazione.
A metà pomeriggio, Raleigh non si era ancora visto. Doveva essere rimasto
tutto il giorno nascosto dietro la robusta e invalicabile porta del suo ufficio.
Invalicabile? Per tutti, forse, ma non per lei.
Doveva scegliere. Ritirarsi o attaccare.
Decise di attaccare.
Così, armata di ombrello, cappellino, guanti e mantello, scese a passo di
marcia al tredicesimo piano, dove proseguì senza rallentare fino all’ufficio di
Raleigh. Una volta lì, del tutto incurante dei segnali preoccupati di Daisy,
abbassò la maniglia della porta ed entrò. Con lo stesso impeto, per la verità
un po’ eccessivo, di un soldato che carica il nemico.
***
Raleigh aveva avuto una giornata difficile, con molti appuntamenti e molte
decisioni da prendere. Era stanco, aveva il viso tirato a causa del lavoro e di
molte notti insonni.
In quei sette giorni trascorsi per affari a Philadelphia con James Elverson,
editore dell’Inquirer, aveva rivissuto ogni istante trascorso con Camille, da
quella mattina al porto sino al loro ultimo incontro a casa dei Campbell.
Non si stupiva della collera di lei. Anzi, la comprendeva. In fondo l’aveva
illusa. Ingannata. Rifiutata e umiliata per pura vigliaccheria. Per l’opprimente
timore di rimanere intrappolato in una rete di emozioni più potenti dello
stesso piacere fisico.
Ma se davvero ne era così spaventato, perché continuava a pensare a lei
come a un nuovo inizio?
La risposta, per quanto ovvia, sembrava stentare a farsi strada nella sua
mente.
Alle cinque del pomeriggio, Raleigh sedeva ancora nel suo ufficio in
compagnia di Mr Laurel, cercando di sistemare almeno i suoi affari, visto che
non riusciva a mettere ordine nella sua vita. Per tutta la giornata non aveva
sognato che di incontrare Camille, di sfiorarla, se non altro con gli occhi. Ma
aveva esitato.
Temendo di scorgere sul suo volto il disprezzo che sapeva di meritarsi, non
si era deciso né a salire in redazione né a convocarla nel suo ufficio.
Dopo una tale faticosa giornata, infestata da interrogativi e insicurezze, da
ricordi amari e sensi di colpa affioranti, Raleigh sentì il cuore mancare un
battito quando lei entrò nel suo ufficio marciando a testa alta, gli occhi
minacciosi e la mascella tesa, brandendo l’ombrello come una spada.
Scattò in piedi come un soldato colto in fallo da un superiore, e lo stesso
fece il suo segretario.
«Miss Brontee…»
«Mr Raleigh… Dovrei parlarvi, se permettete.»
«Prego, accomodatevi. »
Scorse una preoccupante espressione di vittoria illuminare il viso di
Camille mentre si sedeva di fronte a lui dall’altra parte della scrivania.
«Mr Raleigh…»
La voce di lei lo attraversò come un brivido caldo e inatteso che rese più
acuto il desiderio di rimanere solo con lei e di liberarsi di Laurel.
Subito.
Cercando di mantenere il tono di sempre, autorevole e distaccato, si
riaccomodò alla scrivania e disse: «Potete andare, Adam, è già tardi,
continueremo domani».
L’uomo si alzò e, con un piccolo inchino, si congedò.
Raleigh sorrise dentro di sé, felice di essere rimasto infine solo con
Camille, ma nulla trasparì dal suo viso. Tenendo gli occhi fisi su un
documento, aggiunse: «Vi ascolto, Miss Brontee».
Poi non resistette oltre e alzò lo sguardo su di lei. Un errore colossale, dal
momento che nello stesso istante sentì il cuore balzargli nel petto. Era così
bella e desiderabile e, in quel momento, aveva sul volto quell’espressione
fiera e indipendente che lui adorava.
«Desidero ringraziarvi per aver accettato la mia proposta, Mr Raleigh…»
incominciò.
«Non capisco di cosa parliate» rispose lui con un lampo di incertezza negli
occhi.
Di che proposta parlava quella donna, una proposta che forse riguardava
loro due?
«Come, non capite? Mi riferisco alla festa di Natale per gli strilloni!»
«Ah, quella!» esclamò Raleigh. «Per la verità, Miss Brontee, non ho ancora
deciso al riguardo.»
In realtà mentiva. C’erano donne che pretendevano diamanti. Camille,
stravagante come sempre, chiedeva solo una festa di Natale per gli strilloni, e
lui, a costo di abbattere un abete con le proprie mani, gliel’avrebbe data.
Lei sorrise, come un gatto che sta per divorare un topolino.
«Non dubito che deciderete di fare la cosa giusta, Mr Raleigh. Inoltre»
proseguì prima che lui potesse interromperla, «mi permetto di ricordarvi che
ancora mi dovete un’intervista. Era il vostro pegno, nel caso aveste perso la
scommessa.»
Fissandola ancora una volta come se non capisse, Raleigh replicò: «Io non
ho perso la scommessa. Voi l’avete persa».
«Vi sbagliate. Entrambi abbiamo perso, per nostra stessa ammissione.
L’unica differenza è che io ho già pagato la mia penitenza a Central Park, se
vi ricordate. Voi no.»
«Avete un singolare concetto di cosa sia una penitenza…»
Il viso di Camille andò in fiamme. Ciononostante, non abbassò lo sguardo.
«Fingerò di non aver compreso la vostra indelicata allusione. Fatemi sapere
tramite Daisy quando vi sarà più comodo ricevermi.»
Raleigh sentì una fitta al cuore, come una pugnalata. Pur non aspettandosi
che Camille gli buttasse le braccia al collo o lo invitasse nel suo letto, non
riusciva a sopportare di essere trattato da lei in modo tanto distaccato e
freddo.
Fece per alzarsi, poi cambiò idea e rimase seduto a fissarla sbigottito, in
preda a sentimenti sconosciuti, sinché Daisy non si affacciò alla porta per
annunciare che il suo prossimo appuntamento, Mr Sheraton, era arrivato.
«Ditegli di attendere due minuti» la pregò Raleigh, poi si rivolse a Camille
che ancora era lì, immobile, provocante, in attesa di una risposta. Emise un
lungo sospiro e si passò una mano tra i capelli. «Davvero siete intenzionata a
intervistarmi?»
«Sì.»
«A nessuno ho mai concesso di farlo.»
«In tal caso avrò l’onore di essere la prima.»
«E vorreste per caso anche… pubblicare l’intervista?»
«Perché sprecare il nostro tempo, sennò?»
«Allora aspettatemi qui, Camille, vi concederò l’intervista non appena avrò
terminato con Sheraton.»
«Mi spiace, non stasera, ho un impegno.»
«Permettetemi allora di venire a farvi visita più tardi, nel modo più
appropriato. Agnes troverà una scusa per lasciarci qualche minuto da soli e
potremo parlare. Capire…»
«Non vi sono bastati otto giorni per capire?» fece Camille ironica. «E poi
questa sera non sarò in casa, Mr Raleigh. Andrò al Metropolitan Museum per
la presentazione della nuova raccolta egizia. Per il giornale.»
«Ma allora… vi accompagnerò io, in quanto sostenitore del museo sono
ovviamente tra gli invitati. Non avevo alcuna intenzione di andarci, ma mi
libererò in tempo.»
«Vi ringrazio, signore, ma ho già un cavaliere.»
«Benton?»
Camille alzò gli occhi al cielo. «Non sono fatti vostri.»
«E invece lo sono!» sbottò lui. Poi, abbassando la voce, proseguì passando
a modi molto più intimi: «Manda Benton al diavolo, Camille, manda al
diavolo l’intero Metropolitan, tutta questa maledetta città. Manda al diavolo il
giornale. Non hai bisogno di nessuno e il Daily può fare a meno di te…
almeno per questa sera».
«È il mio lavoro, voi me lo avete dato e ora vorreste togliermelo?»
«Ti prego, Camille. Invierò qualcun altro al tuo posto...»
Lei scosse la testa.
«Ho bisogno di te. Ti voglio, Camille, e non solo per una notte, su una
dannata carrozza...»
Come diavolo gli erano uscite di bocca quelle parole? E soprattutto, erano
sincere?
Lei si alzò di scatto e fece per lasciare la stanza, ma lui fu più veloce e le
sbarrò il passo.
«Questa sera, ti prego, resta con me» mormorò.
«Lo dite come fosse un ordine.»
«Non lo è. È una preghiera.»
«Devo andare.»
«Puoi ancora cambiare idea.»
«Non posso.»
«Ti prego...»
Camille sentì la gola chiudersi e gli occhi gonfiarsi di lacrime. Prima di
lasciare la stanza scosse il capo e disse: «L’intervista, non dimenticatevene,
me la dovete».
18

6 dicembre, Washington Square


Come un gentiluomo Ken la lasciò davanti al portone con un lieve
baciamano alle dita guantate, sul viso l’espressione insicura di chi avrebbe
voluto osare di più.
«Buonanotte, Ken.»
«Buonanotte, Camille, io…»
«Voi?»
«Niente, buonanotte.»
Con un sorriso Camille lo lasciò ed entrò in casa.
Era stata una serata emozionante, memorabile. La nuova raccolta egizia,
proveniente soprattutto da donazioni private e dalle spedizioni dell’Egypt
Exploration Found, quella sera aveva richiamato al Metropolitan Museum of
Arts la New York che contava, dollari soprattutto. Le famiglie
dell’aristocrazia, dai Morgan ai Vanderbilt, dagli Hearst ai Carnegie, erano
tutte presenti.
Ken, fra i più promettenti delfini di quella casta esclusiva e intoccabile, si
era rivelato un cavaliere perfetto. Discreto e galante al tempo stesso, non solo
le aveva lasciato la libertà di svolgere il suo lavoro, ma addirittura le aveva
dato una mano, presentandola alle personalità più influenti che ancora non
conosceva.
Verso mezzanotte, dopo aver riempito un taccuino intero di notizie e
interviste, compresa quella al sindaco Van Wyck, dopo aver ammirato le
piccole sculture e gli oggetti provenienti dagli scavi di Deir el-Bahari e dopo
aver bevuto troppo champagne, Camille lo aveva supplicato di
riaccompagnarla a casa. E lui, senza protestare, l’aveva accontentata.
«I signori Campbell sono ancora in piedi?» chiese ora a un domestico
varcando la porta di casa.
«No, signorina. Si sono appena ritirati nelle loro stanze. Mr Raleigh ha
passato la sera con loro e se ne è andato pochi minuti fa.»
Camille per poco non inciampò per la sorpresa. Recuperando alla bell’e
meglio l’equilibrio, si esibì in un sorriso forzato e salì in camera sua quasi di
corsa.
Raleigh, dunque, era davvero venuto a cercarla e, a quanto pareva, aveva
passato la serata con i Campbell. Pensava forse che l’avrebbe trovata in casa,
in trepida attesa, tutta languori?
Tirando un sospiro di sollievo per non averlo incontrato sul portone, perché
certo Ken e Frank non si sarebbero salutati con una pacca sulle spalle, accolse
con gioia la quiete della sua camera e incominciò a spogliarsi. Non era
semplice, senza l’aiuto di una cameriera, togliersi quell’abito di dosso,
un’altra follia color del cielo che si era concessa per motivi di lavoro. Così,
armata di pazienza, incominciò a contorcersi sinché non riuscì a liberarsi da
quella trappola da sera.
Con un sospiro di sollievo, sentì l’abito scivolarle lungo i fianchi, sino a
formare una corona azzurro pallido intorno ai suoi piedi. Si slacciò il bustino,
si sfilò le calze, poi si ritirò nell’adiacente sala da bagno.
***
Approfittando di un momento di distrazione del domestico di guardia al
portone, dopo essere uscito da casa dei Campbell Raleigh vi era subito
rientrato, si era impossessato di una rosa rossa da una composizione nell’atrio
ed era scivolato come un ladro su per le scale, sino alla camera di Camille,
con il timore di imbattersi in qualche servitore.
Intrufolarsi in casa dei Campbell nella notte! Non sapeva perché avesse
commesso una tale follia. Aveva agito d’istinto, forse solo per lasciarle sul
cuscino, con quella rosa rossa, un segno tangibile della sua passione. O forse
perché ancora sentiva la gelosia divorarlo e con quel fiore voleva ricordare a
Miss Brontee che, nonostante la sua pretesa indipendenza, lei gli apparteneva.
Ma, una volta immerso nella penombra della camera, si era perduto in quel
piccolo universo che profumava di Camille, che parlava di Camille: i libri
sullo scaffale, il ritratto incorniciato di una donna che le assomigliava molto,
sua madre, certo, la boccetta del profumo, un quadernetto di appunti (Dio!
possibile pensasse al lavoro anche in camera da letto?). Delle lettere, la sua
spazzola, la scatolina d’avorio della polvere di riso.
Si era attardato per nutrire la sua fame di Camille, poi lei era tornata e lui
era stato costretto a nascondersi, come un ladruncolo affamato in una
pasticceria.
Starsene immobile a pochi metri da lei, mentre si spogliava sinuosa e
provocante come una delle sirene di Ulisse, si era rivelata una tortura crudele
e dolce a un tempo. Aveva dovuto lottare con se stesso per non uscire
dall’ombra, prenderla fra le braccia e poi farle tutte quelle cose cui non
smetteva mai di pensare, di giorno come di notte. Sempre che lei non si fosse
messa a urlare terrorizzata svegliando tutta la casa.
Ora che Camille si era ritirata nella sala da bagno, doveva uscire da quella
stanza prima che lei lo scoprisse. Prima che i signori Campbell lo scoprissero.
Prima che Sally lo scoprisse. E allora sì, con Sally di mezzo, sarebbero stati
guai seri.
Cercando di non fare scricchiolare le assi del pavimento, si diresse verso la
finestra della piccola anticamera da dove avrebbe potuto scivolare nel cortile
interno senza grande sforzo.
***
Camille uscì dalla stanza da bagno e come ogni notte prima di dormire
andò alla finestra che si apriva su Washington Square con la speranza di
scorgere Raleigh mentre rientrava a casa. Come ogni notte, con un sospiro se
ne allontanò delusa per infilarsi nel letto che l’aspettava fragrante di lavanda
e morbido di piume. Vi montò con un piccolo balzo, come faceva da
bambina, felice che quella lunga giornata fosse terminata, la testa leggera per
il troppo champagne bevuto, il cuore che batteva ancora forte per colpa del
pensiero di Raleigh, di cui peraltro sentiva curiosamente il profumo nell’aria.
Solo a pensare a lui, la temperatura si faceva incandescente, le ginocchia le
si piegavano e il ventre cominciava a brontolare chiedendo di essere saziato.
Dev’essere colpa dello champagne, pensò sistemandosi il cuscino sotto la
testa e liberandosi delle coperte di cui in quel momento non aveva certo
bisogno. Poi, in pochi secondi, crollò addormentata e cominciò a sognare di
Frank. Che la stringeva, che la baciava, che le faceva cose che poteva a
malapena immaginare.
***
Il ritorno improvviso di Camille in camera non aveva permesso a Raleigh
di fuggire. Per forza di cose, se ne stava ancora lì, acquattato contro una
parete, la mente più stropicciata della sua cravatta, la rosa rossa stretta fra le
mani.
Dio santissimo! Si era intrufolato nella camera di Camille per lasciarle
quella stupida rosa sul cuscino e la teneva ancora stretta in mano! Incrociò
con lo sguardo la sua stessa immagine che lo fissava da uno specchio e quasi
non si riconobbe: quel patetico imbecille era proprio lui?
Doveva mettere un freno a quella follia al più presto. Doveva prima di tutto
sgattaiolare via di lì come un ladro, poi trovare una soluzione per togliersela
dalla testa.
Addormentata come una bambina, i capelli sciolti sulle spalle, la bocca
socchiusa, vulnerabile e fiduciosa, sembrava ormai sprofondata nel sonno,
tanto che, a quanto pareva, stava già sognando. Qualcosa di bello, visto che
sorrideva.
Guardandola, Raleigh fu colto da un sentimento di innocente intimità, da
una gioia perfetta e, invece di darsela a gambe, le si avvicinò, disegnando con
lo sguardo la morbida linea del corpo, mortificato in una camicia da notte
troppo accollata.
Nel silenzio assoluto, ascoltò il respiro quieto di Camille e il battito
forsennato del suo cuore che sembrava ripetere: Per sempre, per sempre, per
sempre.
Per e sempre, due parole che nel lessico di Raleigh di solito non stavano
mai vicine.
Per quanto fosse conscio della follia che stava per compiere, osò di più. Le
accarezzò i capelli che, morbidi tra le dita, gli regalarono un piccolo brivido
e, chino su di lei, inalò con voluttà il suo profumo. Le sfiorò con le labbra
l’angolo della bocca, tanto che lei fece un buffo movimento, come se
qualcosa le avesse fatto il solletico. La baciò di nuovo e questa volta lei cercò
di allontanarlo con un gesto della mano, forse scambiandolo per un capello
ribelle o una piuma del cuscino. Lo fece un’ultima volta aspettandosi che
Camille si ritraesse o almeno protestasse, ma lei invece si umettò le labbra,
quasi volesse riconoscere dal sapore cosa l’avesse toccata.
Raleigh rimase talmente sorpreso dalla reazione accondiscendente di lei che
si sentì quasi spinto a perseverare.
Si sedette sul letto e, con il cuore che batteva forsennato contro il petto, le
diede un altro bacio.
Camille sorrise, come se avesse appena fatto un sogno bellissimo.
Raleigh, intanto, si stava già calando dalla grondaia, preda di fastidiosi
sensi di colpa e, nello stesso tempo, di una felicità perfetta.
19

8 dicembre, pomeriggio, Hotel Waldorf, New York


«E naturalmente rimane aperta la questione del voto alle donne, di cui ci
parlerà nella prossima riunione Miss Janine Preston.»
Dichiarando chiusa la prima parte dell’incontro mensile del club Donne per
il Nuovo Secolo, Mrs Boldt aprì la seconda, dedicata a nutrire, più che la
mente, lo stomaco.
Camille si guardò intorno, ammirata e un po’ perplessa. Da una parte era
lodevole la serietà degli argomenti trattati, dall’altra era strabiliante come
quell’esclusiva platea femminile inneggiante al suffragio, riunita in una
lussuosa sala del Waldorf, potesse passare con tale disinvoltura alle sue più
consone e frivole attività mondane.
Un po’ a disagio, si avvicinò a Mrs Boldt che ancora intratteneva l’ospite
del giorno, Charlotte Perkins Gilman, autrice di Women and Economics,
trattato in cui sosteneva l’indipendenza economica delle donne come tappa
fondamentale verso l’emancipazione.
«Miss Brontee, sono felice che siate insieme a noi, quest’oggi… Posso
presentarvi Mrs Perkins Gilman?»
La donna fu contenta di fare la conoscenza di una giornalista e accettò di
rispondere ad alcune domande che Camille contava di inserire in un articolo
dedicato all’emancipazione femminile: non sarebbe stato facile farlo accettare
a Mr Corman, che considerava quelle tematiche poco popolari, ma sapeva
che ci sarebbe riuscita.
Non conosceva molte delle signore presenti e si stupì non poco quando si
rese conto che molte invece desideravano intrattenersi con lei.
«Miss Brontee, alla prossima riunione mi piacerebbe molto che ci
raccontaste del vostro lavoro. Siete l’unica del gruppo a lavorare, in fondo…»
disse la signora Boldt.
La guardò sbalordita. «Credete che il mio lavoro possa interessare
veramente a qualcuno?»
«Ma certo! Trovo che sia molto importante quello che state facendo.»
Davvero?
«A proposito, Miss Brontee» si intromise una certa Mrs Simmons, «ho
visto il proprietario del vostro giornale, Mr Raleigh, entrare al Waldorf
proprio un’oretta fa. Sembrava andare di fretta.»
Tutte si misero a ridere, tranne Camille, che non comprese.
Il suo sguardo sperduto indusse la Simmons a spiegarsi meglio.
«Tutti sanno che Mr Raleigh possiede una suite, qui al Waldorf…»
Camille continuava a non capire.
«Non solo lui, se è per quello» aggiunse Mrs Connors lanciando
un’occhiata significativa a Mrs Boldt che, assentendo vivacemente,
commentò: «Suvvia, signore, Miss Brontee è troppo ingenua…»
Sentì un nodo chiuderle la gola.
«In effetti, non capisco…»
«Provate a sforzarvi, Miss Brontee.»
A dire il vero, Camille temeva di aver capito, e fin troppo bene.
«Intendete forse dire che le suite sono utilizzate per incontri… galanti?»
«Se vi piace definirli così…» ribatté la Simmons ridacchiando.
«Non essere volgare, Terèse, la rampognò la Boldt, poi spiegò: «In realtà
sono spesso utilizzate per ospitare incontri, per lo più d’affari. Ma è indubbio
che possano servire anche a scopi più… privati.»
«E voi credete che Mr Raleigh…» chiese Camille timidamente.
«Che non sia un santo è noto» intervenne la Simmons alzando le spalle e
congedando l’argomento con un gesto spazientito della mano.
Pur non volendo riconoscerlo, Camille era in preda al panico. Non poteva
credere che Raleigh fosse al Waldorf con un’amante. Che volesse forse
sfogare il proprio ardore con donne più disponibili di lei? Dopo quello che
era successo nella sua camera da letto solo due giorni prima? Oh, sapeva
benissimo cosa era successo nella sua camera da letto, perché, la mattina
seguente, guardando quella rosa rossa sul suo comodino e ripensando a quel
sogno tanto realistico da farla ancora tremare dalla testa ai piedi e dai piedi
alla testa... Frank Raleigh che la baciava e la accarezzava dolcemente, chino
su di lei un po’ brilla e addormentata... non aveva faticato a ricostruire
l’accaduto. E invece di infuriarsi con lui per essersi intrufolato come un ladro
nella sua intimità, aveva preso quella dannata rosa rossa e l’aveva messa a
seccare tra le pagine a lei tanto care dei sonetti d’amore di William
Shakespeare.
Stupida, stupida, stupida!
E come era stata ricambiata per quel gesto romantico e devoto? A dire il
vero non sapeva esattamente come, ma se era vero ciò che quelle donne le
avevano appena detto, quella rosa avrebbe fatto una brutta fine, e Raleigh con
lei!
Altro che sonetti di Shakespeare.
Si rese conto di essere infuriata. Ma, con tutti quegli occhi addosso, non
poteva permettersi di smettere di sorridere.
Se le supposizioni della Simmons erano esatte, con chi si stava trastullando
Frank in quel momento nel suo appartamento al Waldorf?
Si guardò intorno e notò con disappunto che Claudette Neville non era
presente.
Una fitta di gelosia la trapassò, come una staffilata.
Per un istante pensò di appostarsi nel foyer, con la speranza di veder
comparire Raleigh. Di coglierlo sul fatto.
Poi cambiò idea e si convinse che ciò che le era appena stato rivelato forse
non era che uno squallido pettegolezzo. Per certo, se Raleigh in quel
momento si trovava al Waldorf, aveva i suoi buoni motivi di… lavoro. Sì,
doveva essere proprio così. Forse.
Se solo avesse saputo a quale piano si trovava la suite di Raleigh…
E se lo avesse chiesto a un concierge?
Neanche a pensarci.
Chi era lei per irrompere nella vita intima di Frank? Non era legato a lei da
nessun impegno, quindi aveva il diritto di fare ciò che più gli garbava con chi
più gli garbava.
Aveva il diritto di spezzarle il cuore. Un’occupazione in cui sembrava
davvero eccellere.
Camille si guardò intorno in cerca di una via di fuga: doveva uscire di lì,
togliersi Raleigh dalla mente prima che fosse troppo tardi.
Con la scusa di un’improvvisa emicrania, tutta sorrisi e cortesia salutò Mrs
Boldt e le altre signore, poi si diresse verso gli ascensori.
«Scende, miss?» le chiese il ragazzo del lift.
Solo per un istante le venne la tentazione di chiedergli della suite di
Raleigh, ma poi disse: «Sì, grazie, scendo».
Uscì dal Waldorf a passo di marcia e nel buio del tardo pomeriggio si
incamminò verso sud, lungo la Quinta Avenue, tra una folla di pedoni e di
vetture in paziente attesa dei clienti o dei padroni. Scartò l’ipotesi di prendere
una carrozza o il tramvai: voleva camminare nel freddo della sera per
scacciare dalla mente l’immagine odiosa di Raleigh in un letto d’albergo
insieme a un’altra donna. Mentre le faceva cose cui non riusciva neppure a
pensare.
Cose che a lei non aveva fatto.
Allungò il passo.
E fu a quel punto che per puro caso la vide.
Claudette Neville, furibonda e agitata, che usciva da una porta secondaria
del Waldorf.
La matematica non è un’opinione. E Camille non ci mise molto a risolvere
un’equazione così poco complessa.
***
Raleigh sedeva sul letto della sua lussuosa suite all’ultimo piano del
Waldorf. Aveva la camicia aperta sul petto, i pantaloni slacciati, i capelli
arruffati, l’espressione di un uomo infelice.
Arrabbiato.
Con Miss Brontee che sembrava essersi accampata nella sua mente e non
gli dava più pace.
Due giorni prima era giunto persino a intrufolarsi nella sua camera da letto,
non certo per sedurla ma per lasciarle una stupida rosa rossa sul comodino; e
poi era rimasto lì, come un ladro, a guardarla dormire. Stregato. Perso in lei.
Una condizione non solo miserevole ma umiliante.
Da quella notte non faceva che pensare a come uscire da quello stato, a
come trovare una soluzione definitiva al suo problema. E, per quanto
continuasse a rimuginarci su, solo due ipotesi gli erano sembrate possibili.
La prima. Stare alla larga da Camille come se fosse una belva pericolosa,
cambiare strada non appena la scorgeva da lontano, non pensare mai alla sua
bocca, né ai suoi occhi, né ai baci che si erano scambiati.
Una soluzione, questa, che già aveva funzionato con altre donne, ma che
certo, con Miss Brontee, avrebbe richiesto un grosso sforzo di volontà. Un
enorme sforzo di volontà. Un impossibile sforzo di volontà.
La seconda. Gli era uscita dalle labbra due sere prima, quando Camille si
era presentata con aria bellicosa nel suo ufficio. E gli era uscita dalle labbra
senza che nessuno gli avesse puntato una pistola alla tempia.
Fare le cose in modo appropriato e sposarla.
Sposare Miss Brontee.
Come diavolo avrebbe fatto, visto che non era certo il tipo da rimanere
fedele a una donna per tutta la vita?
A essere onesti, non era neppure il tipo d’uomo capace di tradire sua
moglie e poi guardarla negli occhi come se nulla fosse successo, come molti
facevano. In fondo le sue relazioni passate erano durate pochi mesi o pochi
giorni, ma in quel periodo lui era sempre rimasto fedele alle sue amanti, le
aveva rispettate. Per un tempo breve, è vero, ma non le aveva mai tradite.
C’era anche una terza ipotesi, a ben pensarci, più empirica che teorica:
tornare alle vecchie abitudini prima di prendere in considerazione l’ipotesi
modi appropriati. Così, tanto per vedere che effetto faceva.
Quel pomeriggio stava rimuginando proprio su quell’ultima possibilità,
quando sulla porta del Daily si era imbattuto in Claudette Neville. Sola.
Una stupefacente coincidenza.
Voleva fare visita a Camille, gli aveva detto, una scusa ben poco plausibile.
«Miss Brontee non è in redazione oggi, è a quella dannata riunione di
suffragette al Waldorf» le aveva risposto infastidito, come sempre faceva
quando parlava di ciò che la allontanava dal suo controllo.
«Oh, che sbadata! Anch’io avrei dovuto andarci!»
Lui l’aveva fissata senza nascondere un ironico stupore.
«Voi?»
«Già, e sono in ritardo. Non vi dispiacerebbe accompagnarmi, vero?» aveva
continuato sorridendogli maliziosa.
Così era cominciata quella patetica storia, su una carrozza pubblica…
…ed era finita nel suo appartamento al Waldorf con un… niente di fatto.
Perché, non appena lei gli aveva buttato le braccia al collo, l’ipotesi numero
tre si era subito afflosciata e, con Camille nel cuore e nella mente e un senso
di commiserazione crescente, lui aveva detto di no.
«Mi dispiace, Claudette, non posso farlo.»
Incredula, lei aveva proseguito nella sua opera di seduzione, ma quando
con gesto deciso Raleigh l’aveva respinta, era diventata una furia.
«Non sono mai stata tanto umiliata in vita mia, maledetto eunuco» gli
aveva urlato gettandogli addosso una graziosa statuina in avorio di René
Lalique, che lui, con notevole gesto atletico, era riuscito a prendere al volo.
Ancora più arrabbiata per quello smacco ulteriore, se n’era andata
sbattendo la porta. Lui non aveva reagito all’insulto, ma era rimasto immobile
a fissare in silenzio il soffitto riccamente decorato stringendo nel pugno la
statuina di Lalique.
Maledetto eunuco! gli aveva detto quella pazza.
Non che Raleigh si considerasse tale. Aveva aperto la porta di quella suite
con l’intenzione di mettersi alla prova, forse di liberarsi di un’ossessione, ma
non appena varcata la soglia aveva compreso di aver sbagliato tutto. Perché
non era di una donna che aveva bisogno. Aveva bisogno di Camille.
Acuminata come un punteruolo, la mortificazione lo aggredì di nuovo la
sera successiva quando, non avendo trovato Camille in redazione, perché la
signorina era fuori a fare chissà che, ingoiò un altro po’ di orgoglio e bussò di
nuovo al portone dei Campbell.
Con un sospiro e un’alzata di spalle – come a dire: Svegliati, ragazzo mio!
– Agnes gli riferì che era andata con Ken Benton all’Olympia Theatre.
«C’è la prima della commedia di J. M. Barrie, The Professor’s Love Story,
con il grande Edward Smith Willard. Con loro c’è anche Jenny» aggiunse,
vedendo il volto di Raleigh contrarsi in un’espressione di collera.
E difatti era arrabbiato.
Con Camille, che sembrava prendersi gioco di lui ogni giorno di più, ma
soprattutto con se stesso.
Per non essere stato capace di accettare il fatto di essersi innamorato di lei
quando avrebbe dovuto farlo. Già, quando?
Per aver preteso che il suo desiderio fosse solo una mera questione fisica.
Per essersi comportato come un codardo.
Per aver cercato di togliersela dalla mente portandosi a letto una donna che
non desiderava.
E, infine, per essere rimasto a guardare mentre quel guastafeste di Benton
tentava in tutti i modi di portargliela via.
Tutte considerazioni che lo spinsero lungo il ripido precipizio
dell’autocommiserazione.
Non soddisfatto, la domenica mattina si recò alla funzione della Chiesa
della Grazia – da quando non entrava in una chiesa? – con il solo scopo di
incontrarla. E quando al termine di un sermone che non finiva più la fermò
per salutarla, lei rispose al suo baciamano con occhi carichi di disprezzo e
delusione.
Pur non riuscendo a comprendere cosa avesse indotto in lei un tale
atteggiamento, Raleigh sentì in fondo al cuore di meritarselo.
L’autocommiserazione lo investì di nuovo.
Certo ormai che Ken avesse vinto e lui perso, come sempre accadeva
quando si trattava di persone e sentimenti e non di semplici affari, decise che
da quel giorno avrebbe evitato ogni contatto non professionale con Camille.
Avrebbe lasciato che fosse Ken Benton ad avere il cuore di Miss Brontee,
se così il destino aveva ormai deciso.
Già: da quando credeva nel destino?
***
Quanto a Ken, il buono, tenero, testardo Ken, non aveva ancora rinunciato
a Camille. Anzi.
Il lunedì precedente alla festa di Santa Lucia, seduto nel suo ufficio in Wall
Street, non riusciva a togliersela di mente: il suo splendido sorriso, la sua
pelle bianca e morbida che avrebbe voluto accarezzare anche in quel
momento. Pensava soprattutto al bacio che si erano scambiati sulla terrazza
dell’Astoria e a come l’avrebbe baciata di nuovo se solo se ne fosse
presentata l’occasione.
Non che volesse sedurla, non era certo un libertino. Voleva solo avere la
possibilità, un giorno, di chiederle di sposarlo. Prima che lo facesse Raleigh.
E dal momento che gli era giunta voce che in quei giorni Frank aveva lasciato
New York per affari, con un sorriso malandrino pensò anche che avrebbe
potuto approfittarne e accompagnare Camille nel Jersey a visitare lo
stabilimento modello di cui le aveva parlato più volte con orgoglio.
Già, perché no?
Trattandosi di un viaggio piuttosto lungo, sarebbe stato necessario fermarsi
per la notte a Perth Amboy, in quel grazioso alberghetto affacciato
sull’oceano. Certo, Jenny sarebbe andata con loro, ma forse il panorama
romantico che si godeva dalla terrazza della locanda, una passeggiata sulla
spiaggia al tramonto e una cena a lume di candela gli avrebbero dato una
mano a conquistare almeno un angolo del cuore di Camille. E magari il
coraggio di dichiararsi.
Controllò la sua agenda. Il weekend successivo sarebbe stato ideale.
*
17 dicembre, costa del New Jersey
«Quando mi avete chiesto di visitare la vostra fabbrica nel New Jersey, mai
avrei pensato che l’avremmo raggiunta per mare, Ken!» esclamò Camille, il
viso sorridente e arrossato dal vento.
«È il modo più veloce e meno faticoso in una bella giornata come questa.
Vedrete, ci divertiremo.»
«Voglio stare al timone!» si intromise Jenny.
«Non credo che il capitano Rosenberg te lo permetterà, sorellina.»
La Flying Jenny, più che uno yacht, era una piccola nave lussuosa e
tecnologica. I suoi interni non avevano nulla a che invidiare a quelli di una
dimora fastosa e le numerose cabine erano dotate più che di cuccette di letti
spaziosi e morbidi.
Ken Benton, al contrario di Frank Raleigh, non amava andare per mare, ma
aveva immaginato che quella piccola crociera, nonché lo yacht di famiglia,
avrebbero impressionato in modo favorevole Camille.
E non si era sbagliato.
Aveva anche immaginato che, durante la navigazione, avrebbe avuto
l’attenzione di Miss Brontee tutta per sé, che avrebbe potuto sorseggiare
champagne e ammirare la costa del New Jersey con lei, magari tenendole
languidamente la mano.
E qui si era sbagliato. Perché Camille, una volta a bordo, si mise in mente
di trascorrere quelle ore nella cabina di comando ad apprendere tutto quanto
poteva su carte e strumenti nautici.
***
Dopo qualche ora di navigazione, giunsero in vista del villaggio di Perth
Amboy, sospeso tra il mare e le colline.
«Sembra la Cornovaglia» esclamò Camille.
«Un tempo era solo un villaggio di pescatori, ma ora, dietro quelle alture,
c’è una città industriale» le spiegò Ken.
L’aria profumava di salsedine e di legna bruciata e il luogo era incantevole.
Raggiunta la terra ferma su una lancia, montarono su una carrozza che già
li stava attendendo per portarli al cotonificio, un complesso in mattoni rossi
circondato da un vasto ed accogliente giardino. Più che una fabbrica, a
Camille il luogo ricordò un piccolo villaggio ben curato.
«La trasformazione del vecchio opificio in un moderno stabilimento è il
risultato di un sogno e di molti studi» le aveva spiegato con orgoglio Ken.
«Non a caso, l’ho ribattezzato con un po’ di presunzione Utopia.»
Al termine della visita, mentre Jenny infreddolita raggiungeva subito la
locanda, Ken e Camille si attardarono per una breve passeggiata lungo la
spiaggia. Il tempo era peggiorato e un vento freddo soffiava contro di loro.
Ken, per proteggere Camille dall’aria gelida, le circondò le spalle con un
braccio, stringendola leggermente a sé. Non un vero abbraccio. Un sostegno,
semmai, cui lei si abbandonò volentieri.
«Vorrei conoscere i vostri pensieri. Pagherei per sapere cosa provate in
questo momento.»
La frase gli era uscita come un sussurro, intima, troppo. Camille lo guardò.
Se solo sentissi qualcosa per te, Ken… Se solo potessi dimenticarmi di
Raleigh!
Pur sentendo una lacrima scivolarle sul viso gli sorrise, sperando che quel
sorriso non lo ingannasse.
«Sto pensando solo che ho freddo e fame, Ken. Avete voglia di fare una
corsa?»
E così si misero a correre e, rossi in volto, giunsero finalmente alla locanda
dove, seduti al tepore di un camino e di una tazza di tè, Ken Benton pensò di
non essere mai stato tanto felice e Camille di non essere mai stata tanto sola.
20

22 dicembre, pomeriggio, New York


La festa di Santa Lucia era venuta e se n’era andata, distribuendo neve sulle
strade e dolci ai bambini più fortunati.
A Raleigh non importava di Santa Lucia, della neve, dei dolci. Non gli
importava di molto, a dire il vero.
Per non pensare alla sua vita privata che molti invidiavano, ma che a lui
sembrava sterile e sprecata, si era buttato a capofitto negli affari, soprattutto
in imprese che lo portavano spesso lontano da New York, in luoghi dove non
rischiava di incontrare Miss Brontee.
Oh, tutte le mattine si alzava con la speranza di vederla, nonostante il
disprezzo nei suoi occhi lo colpisse ogni volta come una freccia avvelenata.
L’atteggiamento ostile di Camille durava da troppi giorni, ormai, e ancora
non ne aveva compreso il motivo. Quando, in più di un’occasione, aveva
tentato di affrontare l’argomento, lei gli aveva semplicemente girato le spalle
e se n’era andata, lasciandolo lì come un imbecille. Un modo di fare che non
avrebbe tollerato da nessun altro mortale, maschio o femmina che fosse, ma
che continuava a permettere a lei…
Dio, davanti a quella donna si sentiva perso, ogni sua sicurezza svanita,
volata via con i suoi sogni.
A causa della neve caduta in quegli ultimi giorni, tutto il traffico ferroviario
della costa nord orientale aveva subito pesanti ritardi, e anche il Pittsburgh-
New York City di quel pomeriggio non fu da meno. Raleigh, ormai al limite
della pazienza a causa di quel viaggio estenuante, tirò un sospiro di sollievo
quando infine il treno si fermò al binario 18 della Grand Central Station.
Saltò giù dal vagone, al volo comprò da uno strillone una copia del Daily e,
con la speranza di trovare Camille ancora in redazione, prese una vettura
pubblica per raggiungere al più presto Park Row. Mentre la carrozza
proseguiva con insopportabile lentezza nel traffico, si mise a sfogliare il
giornale finché, a pagina nove, il mondo sembrò fermarsi e il sangue farsi di
ghiaccio.
Raleigh fissava la fotografia di un Ken Benton sorridente senza riuscire a
capire cosa esattamente una fotografia di Ken Benton, per giunta ben riuscita,
ci facesse a pagina nove del suo giornale. Era come paralizzato, congelato,
immobilizzato. L’articolo, firmato da Miss Camille Brontee − e da chi altri,
sennò? − era uno squallido panegirico sul rampollo della famosa dinastia.
Una lode sperticata a quel campione della moderna finanza. Una
dichiarazione d’amore nei confronti di quel pioniere dell’imprenditoria
illuminata.
Il sangue di Raleigh da gelato si fece bollente.
Dopo circa venti minuti entrava come un tornado in redazione, alzando con
i lembi svolazzanti del suo mantello fogli e carte e con la sua espressione
infuriata occhi perplessi e timorosi.
***
Seduta placida alla sua scrivania, anche Camille sollevò lo sguardo
interrompendo per un istante il suo lavoro. Quando incontrò quello infuriato
di Frank, prima si atteggiò a dama oltraggiata, poi si rituffò sulla macchina da
scrivere, nonostante già sapesse che la tumultuosa improvvisata in redazione
dell’editore riguardava proprio lei.
Un generale sospiro di sollievo echeggiò quando Raleigh si infilò
nell’ufficio del direttore.
Un sospiro di timorosa attesa seguì subito dopo, quando Corman si sporse
dalla porta.
Un brusio di scampato pericolo si diffuse infine quando il direttore
pronunciò il nome di Miss Brontee.
«Camille, puoi venire per favore?»
Lei corrugò la fronte, alzò gli occhi al cielo, mormorò qualcosa che
nessuno udì, ma che tutti furono certi essere un’imprecazione, poi si diresse
con calma verso l’ufficio di Corman. Davanti alla porta trasse un gran
respiro, bussò e senza attendere risposta, entrò.
All’apparenza per nulla intimidita.
In silenzio fissò a testa alta prima Corman, poi Raleigh.
«Buon pomeriggio Miss Brontee» fece quest’ultimo, gelido.
Corman fissò per un istante Raleigh, scosse la testa, poi in silenzio lasciò la
stanza.
Camille rimase in attesa, zitta, rigida, impassibile. L’immagine di Claudette
che usciva da un ingresso laterale del Waldorf stampata a fuoco nella mente.
Fissò Raleigh, quasi volesse sfidarlo.
«Desidero ricordarvi» iniziò lui in tono distaccato, «che non permetto a
nessuno di usare il mio giornale per scopi personali, per accrescere il
prestigio e la popolarità di parenti o conoscenti. Lo reputo un comportamento
scorretto e non professionale.»
Camille inclinò il capo, sforzandosi di comprendere cosa Raleigh le avesse
appena detto; quindi, senza nascondere la propria perplessità, disse: «Mi
compiaccio della vostra integrità, signore».
«Davvero?»
Con un Ah! sarcastico e un movimento secco e veloce, Raleigh batté il
giornale arrotolato sul palmo della mano.
Lei fece un piccolo salto, sorpresa da tanta veemenza, ma rimase zitta,
l’espressione nel suo sguardo sempre più attonita.
Appoggiato alla scrivania, gli occhi inchiodati a quelli di Camille, Raleigh
riprese a parlare scegliendo con molta cura le parole, senza preoccuparsi della
loro sgradevolezza.
«Per propri conoscenti intendo anche gli amanti.»
Lei rimase immobile davanti a lui, l’espressione del viso sempre più
avvolta nella nebbia.
«Mr Raleigh, è evidente che voi sopravvalutiate la mia intelligenza. Non
capisco di cosa stiate parlando, né perché ne stiate parlando proprio a me»
ribatté senza abbassare lo sguardo né arretrare di un solo passo.
«Davvero non capite?»
Lo sguardo di Camille si fece da interrogativo a furente.
«Davvero, non capisco che accidenti vogliate da me, ancora.»
Con un sorriso sarcastico sulle labbra, Raleigh prese a incalzarla senza
pietà, con la foga di un pubblico accusatore durante un interrogatorio.
«Ancora, dite? Questo non l’avete scritto forse voi, Miss Brontee?»
Con una mossa improvvisa e molto teatrale, srotolò il giornale. Dalla
pagina del Daily, Ken Benton sorrideva a Camille.
«Ora capite, Miss Brontee?»
Camille osservò la foto senza tradire alcuna emozione, poi alzò lo sguardo
su Raleigh.
«No, continuo a non capire. Se state insinuando che Mr Benton e io… Che
io abbia scritto quest’articolo per favorire in qualsiasi modo l’attività di
Ken…»
«Ken! Lo chiamate Ken! Come se foste intimi. E non ho dubbi che lo siate,
dal momento che avete trascorso due giorni da soli nel New Jersey. Davvero
molto, molto romantico!»
***
Si avvicinò a lei, tanto che i loro corpi quasi si toccarono. Camille alzò
entrambe le mani, forse per difendersi, ma non indietreggiò.
«Se anche così fosse, non sarebbero fatti vostri, signore.»
Gli occhi le si riempirono di lacrime e qualcuna rotolò sfrontata sulle
guance.
Lui accarezzò con lo sguardo il volto bagnato di Camille, lottando con se
stesso per non baciarlo, e il suo atteggiamento da sarcastico si fece di colpo
serio.
«È una questione di principio, Miss Brontee, non personale.»
«Se è così, dovreste scusarvi per le vostre illazioni e ragionare, se ancora
siete in grado di farlo.»
«Mi state forse dando dell’imbecille, Miss Brontee?»
Le si avvicinò ancora un poco, attratto da lei più che furioso con lei. Pur
senza muovere un passo, Camille arretrò, sfidando le leggi della gravità.
«No, Mr Raleigh. Vi sto semplicemente domandando come un uomo
influente, stimato e potente come Mr Benton... Ken» aggiunse in modo
provocatorio, «potrebbe avvantaggiarsi dalla pubblicazione di un mio articolo
sul vostro giornale.»
«Siete un’ingenua, Camille, o una calcolatrice? In tutta sincerità, non l’ho
ancora capito. Ken non ha nulla da guadagnarci se non forse in popolarità.
Ma voi?»
«Io?» La domanda la colse palesemente di sorpresa. «Io?» ripeté, gli occhi
sgranati per lo stupore. Questa volta fece un passo indietro e cadde in modo
sgraziato su una delle due poltroncine davanti alla scrivania di Corman.
«Oh!»
Nonostante la sorpresa di essere finita quasi a gambe all’aria, Miss Brontee
non si scompose più di tanto e, inconsapevole di apparire più buffa che
temibile, ribatté, tutta uno sdegno: «Io non ci guadagno un bel niente, se non
l’aver scritto un buon pezzo. Come potete solo pensare che io scelga di
scrivere un articolo per pura convenienza personale? E poi, in questo
particolare caso, che vantaggio potrei mai ottenerne?»
«Devo ritenervi di nuovo tanto ingenua da non comprenderlo da sola?»
Con entrambe le mani Raleigh si appoggiò ai braccioli della poltroncina,
abbracciando di fatto Camille. Il viso a un palmo dal suo, gli occhi fissi sulle
labbra di lei, ancora con quel desiderio di baciarla che lo tormentava.
«Mr Raleigh!» sbottò lei acida, facendolo trasalire. «La sola cosa che
comprendo è che mi state insultando senza averne alcuna ragione e autorità.
Toglietevi di mezzo, prima che entri qualcuno e tragga conclusioni
sbagliate.»
«Nessuno oserà mettere dentro il naso, a meno che non sia io a volerlo.
Questo è il mio giornale, ve lo siete forse scordato?»
«Difficile scordarlo, signore, dal momento che continuate a
rammentarmelo.»
Fece per alzarsi, ma lui non glielo permise. Rimase invece a fissarla, preda
del suo desiderio, della sua collera e della sua meschinità.
***
«Non siate testardo, Frank» bisbigliò Camille, temendo che in redazione
potessero udire le loro voci.
Non le piaceva come la stava guardando e non le piaceva l’effetto della sua
vicinanza. Per quanto furibonda, non poteva rimanere indifferente al calore
che sentiva diffondersi in lei, al soffio leggero del respiro di lui sulle sue
labbra.
Un soffio che si sarebbe presto trasformato in qualcosa di molto più
concreto se non fosse riuscita ad alzarsi subito da quella sedia.
Appoggiò decisa le mani sulle spalle di Raleigh e cercò di respingerlo.
L’unica cosa che ottenne fu un altro sorriso sarcastico.
Si sentiva impotente, confusa dai ricordi che si rincorrevano nella mente.
Lei e Frank su una carrozza in Central Park. Lei, Frank e una rosa rossa nella
sua camera da letto.
Frank e Claudette in una suite al Waldorf.
«Visto che non avete nulla da dire, lo farò io per voi, Camille» disse
Raleigh allontanandosi da lei all’improvviso.
Lei emise un sospiro di sollievo.
«Grazie a quest’articolo avete conquistato la stima e la simpatia di tutta la
famiglia Benton, non solo di quell’illuso di Ken…»
«Non è un illuso!»
«Oh, lo è, lo è. Se Ken è convinto di potervi avere, lo è.»
«Questa poi!»
Camille scattò in piedi, pronta ad andarsene, ma le successive parole di
Raleigh la fermarono.
«Lo ammetto, siete stata abile. Da aspirante fidanzata siete diventata la
probabile prescelta dell’erede. Tanto di cappello, non c’è che dire.»
Si voltò strabiliata, rifiutandosi di accettare il significato di quelle
affermazioni.
L’aveva offesa, nel modo più crudele e vigliacco che un uomo potesse
usare. Dandole dell’opportunista se non della sgualdrina.
Le parole le uscirono dalla bocca come proiettili. «Da quale pulpito, Mr
Raleigh!»
L’irritazione si trasformò in collera, la collera in furia. Senza riflettere,
Camille fece un passo verso di lui, verso il suo sorriso sarcastico e i suoi
occhi arroganti, neri come un cielo senza stelle.
Fece un altro passo, e ancora un altro.
E poi… lo colpì.
Con tutta la sua rabbia, con tutta la sua delusione, con tutto il suo rancore.
Diede uno schiaffo a Raleigh e uno schiaffo alla speranza. All’amore. Alla
felicità, forse.
Altre lacrime le rotolarono sul viso.
Frank cercò di sottrarsi al colpo, poi si immobilizzò, sul volto lo stupore per
la reazione di Camille e l’ombra di un senso di colpa imprevisto.
Allungò una mano, ma lei si allontanò di scatto, come per proteggersi, e lui
con un lungo sospiro lasciò ricadere il braccio lungo il fianco.
«Credi forse che potrei solo pensare di colpirti, Camille?»
«Perché, non lo avete forse già fatto, Mr Raleigh? E con molta più violenza
di quanto non riusciate a immaginare. Mi avete colpita alle spalle un venerdì
di un paio di settimane fa, al Waldorf; e lo avete rifatto ora, con una crudeltà
che non merito.»
Senza un’altra parola Camille uscì dall’ufficio di Corman, raggiunse la sua
scrivania e, con gesti automatici, infilò un foglio nel rullo della macchina da
scrivere. Doveva finire l’articolo e poi occuparsi dell’organizzazione della
festa per gli strilloni: pensare al rinfresco, controllare gli addobbi e preparare
le buste contenti il premio in denaro che Raleigh aveva proposto di dare a
ognuno di loro. E con il piccolo Peter, che stava per raggiungerla, doveva
terminare di addobbare l’albero.
Nonostante desiderasse fuggire il più lontano possibile da Frank Raleigh,
sarebbe rimasta al suo posto. Seduta alla sua scrivania. Fino alla fine di quel
maledetto giorno.
Poi non avrebbe mai più rimesso piede al Daily.
***
Tutti gli occhi, in redazione, seguirono le mosse di Camille, chiedendosi
cosa fosse successo tra la loro collega − come ormai era da tutti considerata −
e quel tipaccio dell’editore.
Quando Raleigh uscì dall’ufficio di Corman, gli occhi si puntarono su di
lui.
«Allora?» disse inviperito. «Vi pago forse per starvene lì a far niente?»
Un leggero brusio si levò e poco per volta l’abituale attività della redazione
riprese. Colto dalla sgradevole sensazione di essere un completo imbecille,
Raleigh guardò Camille che aveva ripreso a lavorare come se niente fosse
successo. Come se lui non l’avesse offesa. Come se non le avesse spezzato il
cuore, mentre le parole venerdì e Waldorf continuavano a rimbombargli nella
testa.
Claudette, il Waldorf e quelle sedicenti suffragette traboccanti denaro e
pettegolezzi davano finalmente un senso alla rabbia di Camille.
Con la gola stretta in un nodo che non si sarebbe mai più sciolto, la guardò
un’ultima volta. Poi chiamò Corman e con lui si diresse verso gli ascensori.
***
«Miss Brontee, così va bene, è ben dritta?»
Non era stato semplice issare Peter sino alla cima dell’abete, ma con l’aiuto
del portiere, di due inservienti, di alcune corde e di due scale, alla fine Peter
era riuscito nel non facile compito di sistemare la stella cometa.
Camille si allontanò di qualche passo, l’espressione assorta nello sforzo di
giudicare l’operato del ragazzino.
«È perfetta, Peter!» commentò applaudendo.
«Sì, sei stato davvero molto bravo» aggiunse una voce alle sue spalle.
Camille si voltò e vide Raleigh sorridere al bambino che, saltato a terra, già
stava correndo verso di lui.
«Domani sarà una bellissima festa, Mr Raleigh. Vero, Miss Brontee?»
«Sì, lo sarà, Peter.»
Doveva dirgli che lei non ci sarebbe stata. Subito.
«Peter, non so se domani potrò venire alla festa…» gli sussurrò in modo
che nessun altro potesse sentire.
Gli occhi del piccolo la fissarono preoccupati.
«Ma, Miss Brontee…»
«Shhh, deve rimanere un segreto fra me e te, Peter. Anche se io non ci sarò,
dovrai rimanere sempre al fianco di Mr Raleigh perché avrà bisogno di un
aiutante in gamba. Me lo prometti?»
«Sì, miss» rispose il bambino asciugandosi una lacrima.
«Bravo, conto su di te. Verrò a trovarti, Peter, non mi dimenticherò mai di
te.»
«Sì, Miss Brontee» ripeté il ragazzino tirando su col naso.
«Ora va’ a casa che è tardi.»
Lo baciò sulla fronte e, sotto lo sguardo di Raleigh, ritornò verso gli
ascensori.
Aveva un’ultima cosa da fare.
*
«Sei sicura, Camille? È proprio quello che vuoi?»
«No, Mr Corman, non è ciò che voglio, ma è ciò che devo fare.»
«Vedrai, col tempo le cose si sistemeranno…»
Lei fece segno di no con il capo, alzando una mano per fermarlo.
«Come vuoi tu» disse sospirando il direttore del Daily. «Ti farò avere delle
lettere di referenze, anche se non ne hai bisogno. Ma devi promettermi che
continuerai con il giornalismo, hai troppa stoffa per abbandonare il campo.»
Camille sorrise, senza gioia.
«Forse chiederò un appuntamento a Mr Hearst, gli sono stata presentata a
un ricevimento, sembrava mi conoscesse già e che gli fossi simpatica.»
«Ah! Sarà difficile da digerire per Raleigh, detesta Hearst.»
Lei fece un gesto di insofferenza, come se non le importasse un fico secco
delle reazioni di Frank Raleigh.
«Quando potrò avere il mio ultimo stipendio, Mr Corman? Ne ho
particolarmente bisogno adesso.»
«Non ti preoccupare per quello. Domani, quando verrai alla festa per gli
strilloni, lo troverai pronto.»
«Non verrò, Mr Corman» rispose lei con occhi velati.
«Non verrai? È stata una tua idea, tu l’hai organizzata: Peter e gli altri
ragazzi ci rimarranno male…»
«Io sarò molto più triste di loro, vi assicuro. Ma non posso venire. Vi
prego, fatemi recapitare lo stipendio dai Campbell, domani stesso.»
«Non vuoi spiegarmi cosa è successo fra te e Raleigh?»
Camille scosse la testa. Poi corse da Corman e lo abbracciò, andandosene
di corsa prima di scoppiare a piangere.
Dopo qualche minuto usciva dalla porta girevole del Daily Building.
21

Lo stesso giorno, nel tardo pomeriggio


Quando alla fine di quella lunga giornata scese dal tramvai, il vento gelato
e la neve la schiaffeggiarono facendola rabbrividire. Cercando di proteggersi
il volto e di ricacciare le lacrime, Camille si diresse a testa china verso
Washington Square. Non aveva tempo per recriminazioni o ripensamenti.
Doveva concentrarsi unicamente sul suo futuro.
Domani stesso chiederò un appuntamento al direttore del Journal… Ma per
quanto facesse progetti, per quanto si ripromettesse di non rimanere inerte
davanti a un destino che sembrava di colpo esserle diventato ostile, non
riusciva a pensare che a Raleigh e al modo vergognoso in cui l’aveva trattata.
Lui, che non si era fatto problemi a incontrare Claudette Neville in una suite
del Waldorf, e non certo per discutere d’affari, si era permesso di criticarla, di
trattarla come una sgualdrina.
Una puttana che si vende al miglior offerente. Lei.
Dopo quanto era successo fra loro.
Dopo ciò che lui le aveva detto.
Fatto.
Dopo quello che lei gli aveva detto.
E lasciato fare.
Dopo essersi umiliata e offerta a lui anima e corpo, lui era finito tra le
braccia di Miss Claudette Neville.
«Vattene al diavolo, Frank!» mormorò entrando in casa.
Broley la fissò perplesso, poi la informò che a causa del cattivo tempo i
Campbell avrebbero trascorso la notte a Southampton e che sarebbero
rientrati a New York solo l’indomani.
*
Rimase come intorpidita a fissare il fuoco danzare nel camino della
biblioteca, cominciò a leggere un libro, piluccò qualcosa, alla fine si ritirò
presto in camera sua, permettendo così alla servitù di andarsene a riposare o
di prendere la serata libera.
Ma dopo essersi preparata per la notte, si coricò per rialzarsi quasi subito.
Prese a muoversi in su e in giù per la camera da letto, senza posa. Si sedette
alla scrivania, si rialzò. Riprese a camminare. Guardò Washington Square
dalla finestra con un brivido nel cuore. Si risedette alla scrivania. Prese carta
e penna e stilò e stracciò molte liste.
- trovare un nuovo lavoro.
- trovare un nuovo alloggio.
Perché, anche se con la morte nel cuore, l’indomani avrebbe dovuto
lasciare i Campbell e Washington Square: non poteva ogni giorno rischiare di
incontrare Frank Raleigh appena messo piede fuori di casa. Sarebbe stato
troppo doloroso.
Sì, avrebbe trovato un posto dove andare a vivere. Forse un pensionato,
forse un albergo. I Campbell avevano fatto così tanto per lei, ma ora era
venuto il momento di ringraziarli e di contare solo sulle proprie forze.
Eppure…
Questi ragionamenti, per quanto sensati, non bastavano a superare
l’angoscia che sentiva crescerle dentro, mescolarsi alla collera, alla rabbia
profonda per essere stata trattata in modo tanto meschino da Raleigh.
Oh, certo! Si era licenziata dal Daily, ma quella piccola dimostrazione di
orgoglio non le bastava.
Voleva che lui ritirasse le sue odiose illazioni. Che si mettesse in ginocchio
e le chiedesse perdono. Che si rendesse conto di essersi comportato come un
essere meschino e spregevole.
Non voleva spiegazioni, voleva solo delle scuse.
Senza riflettere, indossò un paio di stivaletti e il mantello e nel silenzio di
una casa ormai addormentata scese in cucina. Sapeva dove Broley teneva la
chiave dell’ingresso di servizio. La prese, uscì di casa e dal retro percorse il
viottolo laterale che conduceva in Washington Square.
***
Da quando era rientrato a casa, Frank Raleigh non aveva messo il naso
fuori dal suo studio. Senza giri di parole, aveva spiegato a Ralph, il suo
irreprensibile maggiordomo, che non voleva nessuno tra i piedi, nessun ospite
imprevisto, nessun domestico. Quindi lo aveva gentilmente pregato di
lasciargli la cena e un paio di bottiglie di cognac nel suo studio e poi di…
sparire.
Cosa che l’uomo aveva prontamente fatto.
Fu forse per questo che, essendo il resto della servitù in libera uscita e lo
stesso Ralph ormai sprofondato in un sonno pesante, nessuno sentì il
campanello della porta d’ingresso suonare con insistenza.
Neppure Raleigh, sulle prime, lo udì.
Cominciò a rendersi conto che qualcosa o qualcuno lo stava importunando,
per giunta mentre era intento a versarsi un ennesimo bicchiere di Dudognon,
quando al fastidioso trillare si aggiunse un furibondo bussare alla porta.
Guardò la pendola: le dieci di sera.
Dove diavolo è Ralph?
A dormire, probabilmente, o fuori a cercare compagnia femminile, visto
che gli ho dato la serata libera.
Compagnia femminile! Per un po’ lui l’avrebbe accuratamente evitata.
Col bicchiere in mano si diresse verso l’atrio.
Per quanto avesse bevuto, non era ubriaco; per la verità non era neppure del
tutto sobrio, ma quei continui colpi alla porta stavano cominciando a
procurargli un’irritazione profonda e un inizio di emicrania.
«Vengo, vengo! Smettetela con questo fracasso, o ve la farò pagare!» urlò.
Il visitatore dovette sentire quella minaccia perché all’improvviso tutto fu
silenzio.
Dio, ti ringrazio!
Con un grugnito poco ospitale Raleigh aprì il portone.
Nessuno.
Si trovò di fronte l’abituale visione di Washington Square imbiancata dalla
neve che continuava a cadere copiosa. Scosse la testa, come per schiarirsi le
idee, poi si sporse oltre la soglia. Guardò a destra: verso la Broadway vide un
uomo fermo nei pressi di una panchina, troppo lontano per essere stato lui ad
aver bussato. Guardò quindi a sinistra, in direzione della Quinta Avenue. Lì
una figura minuta avvolta in un mantello scuro si muoveva veloce, quasi
stesse fuggendo.
Di certo il rompiscatole che lo aveva infastidito.
Pensò di lasciarlo andare, ma qualcosa di familiare – forse il modo di
camminare, forse il mantello che indossava – lo indusse a uscire di casa in
maniche di camicia e a rincorrerlo.
«Ehi! aspetta!» urlò, mentre quello cominciava a correre.
Incuriosito da quell’atteggiamento, Raleigh si mise a inseguirlo imprecando
contro tutto il mondo e, in pochi secondi, lo raggiunse, lo agguantò per un
braccio, lo fece ruotare su se stesso e, infine, con modi bruschi, gli scostò il
cappuccio dal volto.
«Che mi venga un colpo! Camille, tu?!» esclamò più sorpreso che se si
fosse trovato davanti la Regina Vittoria.
«Non è forse evidente?» rispose lei acida, cercando di liberarsi e ottenendo
l’effetto opposto.
«Sarà anche evidente, ma non lo è affatto il motivo che ti ha condotto da
me, a quest’ora e per di più sola» fece lui, secco, quasi sgarbato.
«Niente, non è più importante. Ho sbagliato, non dovevo venire. Ora
lasciatemi andare, per piacere.»
***
La sicurezza e l’aggressività che l’avevano sostenuta sino a quel momento
sembravano essersi volatilizzate nel vento freddo che spazzava la piazza. O
forse si erano sciolte al tocco delle mani calde di Raleigh sulle sue braccia. O
alla vista dei suoi occhi che la fissavano incolleriti o della sua bocca
dannatamente vicina.
«Al contrario, Camille. Hai fatto benissimo a venire. Non chiedo di meglio
che parlarti.»
E senza aggiungere altro, tenendola ben stretta per il braccio, cominciò a
trascinarla verso casa, sordo alle sue proteste.
«Dannazione, mi fate male! Dite quello che dovete e lasciatemi andare!»
urlò lei tra un’imprecazione e l’altra.
«Parleremo una volta dentro, non voglio prendermi una polmonite per i tuoi
capricci, Miss Brontee… Non ti dispiace se continuo a darti del tu, vero?»
Le parole di Raleigh la raggiunsero ironiche, mescolate a un forte odore di
cognac. Un’improvvisa sensazione di pericolo la investì.
«Non mi interessa se mi date del tu o del voi…»
«Ci mancherebbe altro, dopo ciò che c’è stato fra noi!»
«Siete ubriaco!» mormorò stizzita, mentre lui senza troppi complimenti la
spingeva attraverso l’uscio di casa.
«Non quanto vorrei, Miss Brontee. Non quanto vorrei.»
Camille sulle prime si sentì a disagio. Aver dato retta all’orgoglio e non al
buonsenso era stato un errore imperdonabile. Si trovava di notte a casa di un
uomo arrabbiato e alterato dall’alcol, sola e, per di più, con poco o niente
indosso. Cosa diavolo le era venuto in mente?
Sentì Raleigh chiudere alle loro spalle la porta d’ingresso e un piacevole
tepore accarezzarla. La situazione le parve subito meno drammatica.
Lo sapeva, aveva agito d’impulso guidata dalla rabbia ma, accidenti!, era
una donna ormai e avrebbe saputo tener testa alla boria di Raleigh. Non
aveva paura di lui.
Inalando il buon profumo di agrumi e cannella che sembrava riempire
l’aria, si guardò attorno ed ebbe la curiosa sensazione di sentirsi a proprio
agio fra quelle mura. L’atrio ben illuminato, con pareti color crema e mobili
sobri e raffinati, annunciava che quella era l’abitazione di un uomo riservato
e di buon gusto. Nulla era fuori posto, nulla era eccessivamente alla moda o
sfarzoso.
«Nel mio studio il camino è acceso. Ho bisogno di scaldarmi, Camille,
togliti il mantello che è fradicio e seguimi. Anche tu hai bisogno di scaldarti»
disse Raleigh rimanendole distante.
Lei mormorò di non aver freddo ma, riluttante, lo seguì.
Arredato con gusto prettamente maschile, severo ed essenziale, lo studio
profumava di legna, di cognac e della colonia di Frank. Camille ne respirò
avidamente la fragranza, poi il suo sguardo abbracciò tutto l’ambiente,
soffermandosi con curiosità sulla grande scrivania ricoperta di carte e registri,
sulle pareti cariche di libri e, infine, su una vecchia poltrona e su un divano in
pelle dall’aria comoda e consumata sistemati di fronte al camino acceso.
Ancora una volta, si sentì a suo agio.
Inebriata dall’emozione, chiuse gli occhi e strinse la pesante cappa al petto
quasi volesse proteggersi.
Un brivido la percorse. Forse di freddo. Forse di eccitazione. Forse perché
era finita come una stupida nella tana del lupo.
Le mani appoggiate alla mensola del camino, Raleigh pareva ipnotizzato
dalle fiamme che danzavano senza sosta davanti a lui. Tacque per qualche
istante poi, senza smettere di fissare il fuoco, chiese: «Perché hai bussato e
poi sei fuggita, Camille?»
«Non sono fuggita!» protestò lei. «È che…» Indugiò incerta. «Credevo che
in casa non ci fosse nessuno.»
Lui sollevò un sopracciglio. «La verità, Camille.»
Una scusa, aveva bisogno di una scusa. Si guardò intorno. «Volevo solo
pregarvi di partecipare alla festa degli strilloni, domani. La vostra presenza è
molto importante per loro» disse con voce sicura, augurandosi che lui
credesse a quel pretesto patetico.
Con uno movimento improvviso, Raleigh ruotò verso di lei.
«Bugiarda» le disse. «La ragione è un’altra.»
Immobile vicino alla porta, Camille non aveva ancora deciso se andarsene
o rimanere, se scaricargli addosso la rabbia e il dolore che provava o se
tenerseli dentro. Quando lui si avvicinò e allungò una mano verso di lei,
arretrò di scatto.
«Non toccatemi, per favore.»
Lui alzò entrambe le braccia, in un tipico gesto di resa. «Non voglio
toccarti, Camille. Vorrei solo che ti avvicinassi al fuoco e ti togliessi quel
mantello fradicio di dosso, stai tremando di freddo.»
Lei scosse la testa. «Avete parlato con Corman, questa sera?» chiese,
curiosa di sapere se Raleigh fosse stato informato delle sue dimissioni.
«No, non l’ho neppure visto. Avrei dovuto? C’è qualcosa che dovrei
sapere, Camille?»
«No, niente» rispose lei senza guardarlo negli occhi.
Dov’erano finiti il coraggio e lo sdegno che l’avevano condotta da lui?
Poco convinto, Raleigh si versò dell’altro cognac e si sistemò sul divano,
senza toglierle gli occhi di dosso.
«È meglio che me ne vada, ora…»
«Non ancora. Bevi, prima. Il cognac fa miracoli contro il freddo e la
solitudine.» Ingollò il contenuto del bicchiere in un sorso.
Camille sentì la collera, sua preziosa alleata, fremere di nuovo in lei.
«Voi soffrite di solitudine, Mr Raleigh?» chiese con occhi carichi di
sarcasmo. «Perché non mi sembrate affatto il tipo capace di rinunciare alla
compagnia. Soprattutto a quella femminile.»
Lui la fissò perplesso, poi si alzò e si versò dell’altro liquore. Quando parlò,
i suoi occhi erano due fessure nere, la sua voce era bassa, distorta
dall’irritazione e dall’alcol. «Cosa intendi dire, Camille?»
«Non lo capite da solo?» Si concesse un risolino ironico, poi gli scoccò
un’occhiata piena di risentimento e aggiunse: «È inutile che io mi disturbi a
spiegarvelo, siete troppo ubriaco, Frank».
Fece per infilare la porta, ma la voce di Raleigh la raggiunse,
all’improvviso ferma, decisa.
«Smetti di fare la bambina e avvicinati al fuoco prima di buscarti un
malanno. Allora, vuoi spiegarmi perché questa sera sei venuta a cercarmi?
Potrei anche illudermi, sai?»
«Illudervi? E di cosa? Qualsiasi speranza alimenti la vostra fantasia, posso
assicurarvi che rimarrà tale.»
«Vuoi scommettere, Camille?»
«Scommettere, ancora? Avete una gran faccia tosta, Mr Raleigh!»
Pur consapevole che non avrebbe dovuto farlo, spinta da una sciocca
spavalderia, gli si avvicinò e, come il guanto in una sfida, gli lanciò un
sarcastico «Non ci penso neppure!», proprio sotto il naso.
***
Quasi avesse previsto quel gesto, Raleigh scoppiò a ridere e in tutta risposta
lasciò correre su di lei uno sguardo compiaciuto e possessivo. Era sempre
stato bravo a cogliere le sfumature del linguaggio del corpo, soprattutto se il
corpo era quello di una signora, e anche questa volta sapeva di non essersi
sbagliato. Sì, gli occhi nocciola di Camille gli stavano inviando segnali di
guerra, ma le sue labbra lo invitavano a più interessanti occupazioni. Miss
Brontee, per quanto cercasse di nasconderglielo, desiderava la stessa cosa che
voleva lui.
«Non c’è niente da ridere» fece lei, offesa.
La fissava con la medesima intensità con cui una tigre si prepara ad
aggredire la preda, le belle labbra piegate in un sorriso affamato.
Camille fece un passo indietro. Poi un altro ancora.
«Dimmi cosa ti turba, Miss Brontee, la mia vicinanza o la tua insicurezza?»
«Non sono turbata né insicura. Infastidita dal vostro comportamento
arrogante, semmai. Speravo vi sareste comportato da gentiluomo, tanto per
cambiare.»
«Quante volte ti ho ripetuto che non sono un gentiluomo? Dovresti
essertene accorta ormai.»
Versò del cognac in un altro bicchiere. Lei rimase in silenzio, visibilmente
turbata.
«Perché sei venuta, Camille?» domandò Raleigh in un sussurro vellutato,
sensuale, scivolando leggero verso di lei con il bicchiere in mano.
Camille avvampò ma non parlò. Prese invece il bicchiere che lui le
porgeva, tremando un poco. Le loro dita si sfiorarono, i loro occhi si fusero e
il sangue pulsò troppo veloce nelle vene di entrambi.
Gli occhi di Raleigh, in quel momento neri come una notte senza luna, la
stavano esplorando senza ritegno. Dalle labbra, dove si erano soffermati
troppo a lungo, erano scesi lentamente verso il basso, impossessandosi di
ogni piccolo particolare di lei come se fosse il bottino della battaglia che
Raleigh si preparava a vincere.
«Se vuoi andartene, questo è il momento» mormorò.
Poi sorrise e fece un altro passo verso di lei.
***
Non le piaceva come la fissava. O forse le piaceva troppo perché, pur
sapendo che sarebbe stato molto più saggio andarsene, non prese neppure in
considerazione le parole di Raleigh e rimase. Per farsi coraggio ingollò un
sorso di liquore che, dopo averle accarezzato le labbra e la gola, scese a
scaldarle ogni fibra del corpo. Giù, sempre più giù, bruciava dentro di lei in
modo indecente.
Lui sorrise di nuovo, e fu come se il mondo si fosse fermato.
«Camille, dimmi la verità. Perché sei venuta stasera?»
Avrebbe potuto continuare a mentire. Inventare una, cento ragioni che
sarebbero state plausibili. Ma non avrebbe avuto alcun senso. Così prese un
gran respiro e disse: «Sono qui perché esigo che vi scusiate per le menzogne
orrende che oggi avete detto e pensato sul mio conto».
Lui la squadrò fingendo sorpresa.
«Esigi le mie scuse? E per cosa, Camille? Per aver pensato quello che tutti
hanno immaginato leggendo il tuo articolo?»
Gli occhi di lei prima si fecero tondi di curiosità e sorpresa, poi si strinsero
guardinghi.
«Immaginato cosa, di grazia?»
«Che Camille Brontee e Ken Benton sono amanti. Che la tua intervista a
Benton non è stata che una mossa ben studiata per accaparrarti un uomo ricco
e potente, per informare il mondo che lui è già tuo. Per mettere Ken alle
strette e costringerlo a dichiararsi.»
«Voi, voi… non sapete cosa dite!» sbottò Camille sdegnata, non riuscendo
a controllarsi. «Siete arrogante e insensibile, nessuno ha immaginato tante
menzogne se non voi! Perché siete meschino e… ottuso!»
Alla parola ottuso Raleigh scoppiò di nuovo a ridere.
Lei fece per allontanarsi, ma con una mossa veloce, seppur delicata, lui la
spinse sul divano dove lei cadde senza molta grazia. Lo fissò strabiliata,
mentre lui le si sedeva vicino, troppo.
«Pensi che sia ottuso, dunque? Forse hai ragione, Camille, ma non in
questo caso. A essere del tutto sincero, non posso che approvare la tua
determinazione: aver scelto Benton, e con lui un futuro tranquillo, di giorno
come di notte, dimostra saggezza. Brava.»
Così dicendo, si era messo ad applaudire, sarcastico, e aveva avvicinato il
viso a quello di Camille, tanto che il suo respiro, profumato di cognac e di
desiderio, le accarezzò la pelle in un lungo, sensuale bacio.
«Quindi… non avrai le mie scuse, Miss Brontee. Ma, forse, avrai altro da
me, questa notte.»
Camille lo fissò ancora più incredula, disorientata.
«Questo è davvero troppo!» sbottò. «Siete fuori di voi stasera, pieno di
alcol, oltre che di boria. Da voi non desidero altro che scuse. È chiaro? E in
quanto alle vostre illazioni, non solo non ho intenzione alcuna di
accaparrarmi Mr Benton, ma non ho neppure un amante, come già dovreste
sapere.»
Un velo d’insicurezza attraversò lo sguardo di Raleigh. La mascella si
contrasse, il suo atteggiamento spavaldo in quel momento sembrò dissolversi.
Camille, esibendo un sorriso appuntito, non si lasciò sfuggire l’occasione
per colpire di nuovo.
«Come forse ricorderete, avrei potuto diventare la vostra amante, ma non
mi avete concesso questo onore, Mr Raleigh…»
Di nuovo l’ombra del dubbio gli oscurò il volto, per dissolversi subito dopo
in un’espressione divertita.
«Ricordo benissimo, Camille, e posso rimediare a questa offesa anche ora.»
«Non sono certo venuta per questo. Sono venuta solo per le vostre scuse.»
Lui la guardò come fosse un’illusa. «No, non mi scuserò, Camille.»
«Allora non ha senso che io mi trattenga oltre.»
Così dicendo si alzò e si diresse velocemente alla porta, ma lui fu più lesto
e le sbarrò il passo.
«Non sono io ad averti chiesto di venire: non ti ha insegnato nessuno che
recarsi di notte in casa di un uomo è poco saggio, oltre che sconveniente?»
«Quanto avete bevuto, Frank, una bottiglia di cognac o forse due?» chiese,
calma.
«Ho bevuto tanto da non ricordare quanto ho bevuto, Camille.»
«Se è così, dovreste andarvene a dormire, smetterla di comportarvi come un
mentecatto e lasciarmi passare! Devo forse supplicarvi?» aggiunse sarcastica.
In silenzio, Raleigh scosse la testa, all’improvviso serio.
«Desidero che tu rimanga con me questa notte.»
«Perché possiate continuare a insultarmi?»
Esasperata, con una spinta cercò di allontanarlo dalla porta, cosa che
suscitò in lui un altro scoppio di ilarità. Per quanto brillo, era molto più forte
di lei ed entrambi lo sapevano. Stizzita, Camille si guardò intorno cercando
un’altra via d’uscita.
«Fatemi passare» ripeté, picchiando un piede per terra, come se con ciò
potesse intimorirlo.
Di nuovo, lui si mise a ridere.
Poi, tutto accadde molto in fretta.
Frank la prese con decisione per le spalle e la fece girare su se stessa,
imprigionandola tra il suo corpo e la parete, mentre il mantello di Camille,
forse per caso, forse per un gioco di prestigio, scivolava a terra con grande
sorpresa di entrambi.
«Già pronta per il letto, Miss Brontee?» chiese lui sorridendo sornione e
accarezzandola attraverso la seta sottile.
Il volto in fiamme, Camille trattenne il respiro cercando di sottrarsi alle
piacevoli sensazioni che il tocco leggero delle dita di Raleigh le stava
donando. Aveva bussato alla sua porta per pretendere delle scuse e ora, pur
essendo certa che lui l’avrebbe lasciata andare se glielo avesse chiesto, non
voleva altro che le sue labbra si posassero su di lei sino a stordirla. Come
quella notte in carrozza.
Cielo! In quella stanza mancava l’aria e il caldo era davvero insopportabile.
Si rese conto di tremare e di non essere la sola a farlo. Caduta la maschera
da predatore che con arroganza aveva indossato tutta la sera, ora Raleigh la
guardava incerto, come in attesa di un segno.
Un segno che non tardò ad arrivare.
***
Raleigh lo scorse negli occhi colmi di desiderio di Camille, nelle sue labbra
tremanti, nella sensualità con cui si stava offrendo a lui.
Scacciò la tensione accumulata con un respiro, le sfiorò il viso e le labbra
con le nocche delle dita e in un sussurro continuò: «Stanotte voglio darti ciò
che in un momento di follia o di onestà o di puro terrore non ti ho dato quella
notte a Central Park. Qualcosa che da quando ti ho conosciuta non ho più
dato a nessuna, Camille. Ho trascorso la mia vita passando piacevolmente da
un letto all’altro, ma ora non desidero che te».
Lei lo guardò confusa.
«E il tuo incontro con Miss Neville al Waldorf, allora?»
Dunque, lei sapeva. Appoggiò la fronte a quella di Camille mentre il suo
cuore cominciava a correre di nuovo, come impazzito.
«Sai perché mi trovavo con Claudette al Waldorf?»
«No, e non voglio saperlo, Frank» mentì lei in modo così poco convincente
che Raleigh proseguì indisturbato nella sua opera di seduzione: le catturò i
polsi e glieli portò ai lati del corpo prima di abbandonarsi completamente
contro di lei.
La sentì fremere contro di sé e fremette a sua volta, mentre le labbra
tracciavano sul suo volto una scia di piccoli baci e di parole appena
sussurrate.
«Camille… Non mi importa di quella donna, tanto che quel pomeriggio
non sono neppure riuscito a toccarla! Claudette doveva essere solo il mezzo
per toglierti dalla mia mente, o far sì che tu, e solo tu, ci rimanessi per
sempre!»
«Bugiardo…» mormorò lei senza convinzione, mentre i baci prendevano il
posto delle parole.
***
Un altro gemito, un altro brivido di piacere lungo la schiena, e parlare
divenne per entrambi impossibile. Il battito dei loro cuori accelerò e le
ginocchia cedettero sotto il peso della passione. Quasi volesse avere una
prova concreta della realtà, Camille sentì l’urgenza di toccare il corpo di
Raleigh, di sentirlo vivere e pulsare al contatto delle sue mani. Cercò di
liberarsi, ma le sue braccia rimasero inchiodate alla parete, strette nei pugni di
Frank. Più tentava di liberarsi, più lui glielo impediva, rinvigorendo con
quella piccola violenza il fuoco di un desiderio che ormai nessuno dei due
sarebbe riuscito a spegnere. Scosse di un piacere sconosciuto li pervasero,
gemiti e sospiri sgorgarono dalla loro gola.
Quando alla fine lui le lasciò le mani, Camille saziò senza indugi la sua
impazienza: gli accarezzò le ampie spalle e le braccia forti, poi gli sfiorò le
labbra e infine tuffò le dita nei suoi capelli attirandolo a sé come se volesse
fondersi in lui. Con fiducia, si concesse a sua volta al tocco delicato e
possessivo delle sue mani che con sapienza precedevano le labbra lungo la
linea del collo, aprendo bottoni e slacciando nodi, indicando alla bocca la via
da seguire per assaporare la dolcezza della sua pelle nuda.
Era il paradiso. O forse l’inferno.
Era il piacere di cui aveva sognato.
O forse era l’amore.
Sentire il corpo di Frank Raleigh premere contro il suo ventre, le sue mani
esplorarla senza pudore e il suo respiro caldo e profumato inondarla in un
bacio infinito fu come ricominciare a vivere, come imparare a vivere.
A ondate successive la passione la travolse e quando infine il gemito di
Raleigh divenne quasi un’invocazione, ogni freno, ogni residuo pudore, ogni
paura e insicurezza si dissolsero in lei. Era ormai sua, corpo, anima, passato e
futuro. Come sempre lo era stata.
Ancora una volta affidò le labbra alla bocca di Raleigh, pronta a riceverlo, a
lasciarsi esplorare, a esplorare a sua volta. Fu un bacio che li lasciò entrambi
tremanti, prede di una passione primitiva e incontenibile.
Un altro sospiro di piacere, un altro gemito. Di lui. Di lei.
Come una cortigiana esperta, cosa che non era, Camille stava portando al
limite il desiderio di Raleigh, assecondando ogni suo gesto con piccoli
movimenti provocanti e sensuali, inclinando la testa perché lui potesse
seguire con le labbra la linea del collo, inarcandosi, offrendo il bacino e il
seno a un contatto più intimo.
Comprese di essere lei, vergine e inesperta, a guidarlo in quel gioco di
seduzione: sentì il sapore del potere infiammarla e accrescere all’infinito il
suo desiderio.
Più che un bacio, quella che seguì fu una zuffa appassionata in cui entrambi
lottarono per catturare la bocca dell’altro, per assaporarne ogni angolo e ogni
morbida curva. Non c’era romanticismo in quel bacio, ma solo una passione
materiale e infuocata, a lungo trattenuta e finalmente liberata da ogni vincolo.
Forse a uno spettatore esterno quell’assalto reciproco sarebbe parso persino
comico da tanto risultò energico, ma certo non lo fu per Camille e Frank che,
spinti dalla furia del loro ardore, avrebbero consumato la loro prima notte
d’amore in piedi contro quella parete se Raleigh non avesse ritrovato un
briciolo di lucidità.
«Non così in fretta, Camille, voglio di più per la nostra prima volta»
mormorò staccandosi da lei e lasciandole ricadere sui fianchi il velo sottile
della camicia da notte.
La sollevò senza fatica, in un movimento virile e possessivo che la fece
sentire in paradiso. Che la fece gemere, sorridere, sognare e tremare di gioia e
di attesa. Gli passò le braccia intorno al collo senza mai staccare le labbra
dalle sue, quasi fossero per lei l’unica fonte di vita.
Quando lui la portò oltre la soglia della camera da letto, Camille non
pensava più a nulla se non a essere sua. Trattenne il fiato quando la depose
sul letto e al debole bagliore delle fiamme che ardevano nel camino rimase
ipnotizzata a guardarlo, la bella bocca ancora umida di baci, il respiro rotto
dall’emozione, le mani tremanti di desiderio.
«Non ho mai desiderato una donna quanto desidero te…» le confessò in un
sussurro, senza toccarla, quasi temesse di rovinare quel momento con un
gesto o una parola sbagliati.
Lei gemette e sollevandosi sui gomiti mormorò come una preghiera:
«Allora non farmi più aspettare. Vieni».
Gli occhi di Raleigh risposero a quell’invito facendosi ancora più scuri e
carichi di desiderio. Le sue dita scivolarono leggere sotto la seta sottile e
tremarono leggermente mentre si posavano sui capezzoli turgidi di Camille e
poi scendevano verso l’addome con piccole carezze delicate.
«Frank» mormorò lei inarcandosi istintivamente al tocco delle sue mani,
offrendosi senza timore a lui e alla sua esperienza.
Lasciò che la liberasse della camicia da notte e rimase a guardarlo
affascinata e sorpresa mentre faceva lo stesso con i suoi abiti. Quando lui si
coricò al suo fianco, un brivido di anticipazione la percorse.
«Camille, da quando ti ho conosciuta non ho desiderato che te. Mi credi? Ti
voglio, per sempre.»
Fu come se il respiro le si fosse fermato in gola. Rimase ancora a osservarlo
per qualche secondo, sconvolta dal significato di quelle parole. Inebriata dal
suo calore e dal profumo della sua pelle.
Ti voglio. Per sempre, le aveva detto.
Era quello che voleva veramente dalla vita? Rimanere al fianco di Raleigh
per sempre?
Scacciò quel pensiero e lasciò lo sguardo indugiare senza imbarazzo sulle
spalle larghe e sui fianchi sottili di Frank, sui muscoli ben delineati delle
braccia e delle gambe. Dopo una piccola esitazione, fece correre gli occhi
anche sulle parti più segrete di lui, più con curiosità che con malizia. Poi
allungò una mano e cominciò ad accarezzarlo.
«Camille» implorò lui, lasciandosi andare a un lungo gemito.
Sdraiata al suo fianco, lei gli accarezzava il corpo con piccoli tocchi delle
dita e delle labbra. Scendeva veloce, troppo veloce, guidata più dall’istinto
che dall’esperienza, desiderosa di esplorare, assaporare…
«Cielo! Fermati!» mormorò lui con un gemito.
Camille sorrise e, sentendo vibrare in sé un potere sconosciuto, percorse il
cammino inverso, dal ventre sino alla bocca, sinché si ritrovò sopra di lui, per
la prima volta pelle contro pelle. Per un istante il mondo sembrò fermarsi, poi
come in un’esplosione la loro passione divampò al ritmo dei loro cuori
impazziti.
Lo guardava come se fosse lui a infonderle la vita, a nutrirla e a darle il
respiro. Lo guardava come se senza di lui non potesse più vivere.
***
Nessuna donna l’aveva mai guardato così.
Ancora una volta Raleigh si sentì sopraffatto dall’emozione.
«Camille» mormorò stringendola a sé.
Scorse una lacrima di gioia scivolarle lungo la guancia. Gliela asciugò, con
lentezza, con riverenza, stregato dall’intensità di quel momento.
«Sei ancora sicura di volerlo?» le chiese guardandola negli occhi con
tenerezza e passione.
Lei assentì con un semplice battito di ciglia, poi aggiunse: «Dimmi cosa
devo fare, Frank».
«Puoi fare tutto quello che vuoi, Miss Brontee, tranne che intervistarmi»
scherzò.
Poi, prendendola con decisione per le spalle, la fece ruotare sulla schiena e
si distese sopra di lei.
Istintivamente lei aprì le gambe e a lui sembrò di essere a casa, in un
rifugio sicuro. Con un bacio infinito e dolce scivolò con le labbra lungo il
collo e le spalle di Camille e, quando cominciò a succhiarle un capezzolo e
lei si inarcò, fece correre la mano nel punto più sensibile e la penetrò
delicatamente per prepararla a quanto di lì a poco sarebbe seguito.
I suoi occhi non la lasciavano: era stregato, eccitato dal piacere che vedeva
disegnarsi e crescere sul volto di lei, dall’espressione rapita e a tratti
meravigliata dei suoi occhi, dalla sua bocca gonfia di baci da cui uscivano
gemiti che non avrebbe mai più scordato. E quando lei cominciò a rispondere
con istintiva voluttà alle sue mani, quando la sentì cedere alle prime onde del
piacere, con un solo, profondo movimento scivolò in lei temendo, certo più di
lei, la pena che le avrebbe causato.
***
Camille si inarcò sotto di lui e, forse per soffocare l’urlo che le salì alla
gola improvviso, serrò le labbra e ne lasciò uscire soltanto un sottile lamento.
«Mi spiace, mi spiace, amore mio» mormorò Frank immobilizzandosi
dentro di lei.
Lei lo fissò confusa, preda dell’uragano che ancora non si era placato nelle
sue viscere: il dolore, così acuto e immediato, era svanito per lasciare
risuonare nel suo ventre solo l’eco del piacere appena vissuto, assoluto e
devastante.
«Stai bene?» le chiese ancora preoccupato.
Camille gli sorrise e sollevando appena il capo gli mormorò sulle labbra:
«Non ero pronta a questo, Frank. Non parlo del dolore che ho già
dimenticato, ma del piacere che ho provato e di cui d’ora in poi non potrò più
fare a meno».
«Se è solo di quello che ti preoccupi» le rispose lui tra un bacio e l’altro, «ti
darò quanto piacere vorrai, ogni giorno, ogni notte, sempre. Da questo
momento amarti sarà lo scopo della mia vita, non dovrai far altro che
chiedere. Sarai mia, per sempre.»
Si chinò a baciarla e Camille lo sentì vibrare, come una corda troppo tesa.
Così cominciò a ondeggiare sotto di lui, pronta ad assecondare il suo
desiderio; gli strinse i fianchi con le gambe e il collo con le braccia e si donò
a lui.
Frank si impossessò della sua bocca come fosse la vita stessa, come volesse
assaporare ogni stilla della loro unione. Senza mai abbandonare i suoi occhi,
cominciò a spingere più a fondo.
«Guardami Camille, adesso non lasciarmi» la supplicò con occhi liquidi di
passione.
E mentre lei con un lungo gemito si inarcava e sussultava in preda a nuove
onde di piacere, lui si abbandonò alla sublime gioia di possederla e di
colmarla con il suo seme.
Poi, ancora ansante e sconvolto, col profumo del loro piacere nelle narici e
il sapore della pelle di Camille sulle labbra, mormorò una sola parola:
«Sposami».
22

La stessa notte
Sposami...
Non la più romantica o formale delle proposte, ma di certo la più semplice,
definitiva, efficace e diretta, quella che meglio si addiceva a lui e alla quale
lei rispose di getto.
«Sì!»
Poi, ciò che le parole non dissero furono gli occhi a esprimere. Passato e
presente. Presente e futuro.
Il volto ancora in fiamme, Camille sentì subentrare al desiderio una gioia
completa, altrettanto devastante e sublime. Si addormentò sul petto di Raleigh
e si risvegliò cullata dalle sue braccia. Fece l’amore con lui ancora e ancora,
ogni volta esplorando piaceri sconosciuti, ogni volta raggiungendo un
appagamento meraviglioso che le serrava la gola e le riempiva gli occhi di
lacrime.
Camille e Frank.
Frank e Camille.
In quell’ansimo di tempo, la perfezione.
A letto bevvero champagne e mangiarono cioccolata, si amarono e
giocarono, risero e si commossero. E quando la notte toccò le ore più
profonde, parlarono.
«Raccontami della tua vita passata, dell’Inghilterra. Voglio sapere ogni
cosa di te…»
«Tutto tutto? Non è poi così interessante, amore mio. Ho vissuto da
privilegiata, almeno sino alla morte di mio padre. Ero l’unica figlia di una
famiglia le cui nobili origini si erano da un pezzo esaurite nei debiti.
Particolari poco significativi per una bambina che cresceva felice, adorata dai
suoi genitori. Vivevamo in campagna, nel nord dell’Inghilterra, in un’ala di
quella che era stata la dimora di famiglia per circa trecento anni. Un bel
giardino incolto e una grande libreria erano tutto il mio mondo. Quando mio
padre morì avevo tredici anni, abbastanza per comprendere che
all’improvviso il mio mondo e la mia vita stavano per tingersi di nero, come
il fumo che copriva l’orribile città, Liverpool, in cui mia madre e io
dovemmo trasferirci.»
Frank la attirò ancora di più a sé e domandò: «Poi cosa successe?»
Distesa sul letto abbracciata a lui, sopraffatta da una felicità tanto intensa da
essere dolorosa e ormai indifferente alle avversità del passato, Camille
continuò a raccontare di sé fino al giorno in cui aveva incontrato per caso il
bastardo americano e di come avesse visto in lui la soluzione di tutti suoi
problemi.
«Avrei potuto essere la signora Cartrite, a questo punto, se il destino non
avesse deciso altrimenti.»
«Sono certo che, se anche lo avessi sposato, prima o poi le nostre vite si
sarebbero incrociate.»
«Davvero lo pensi? Non ti avrei mai creduto così romantico, Mr Raleigh!»
«Oh, lo sono eccome!»
Frank continuava a fissarla, un sorriso stampato sulle labbra, gli occhi
lucidi di amore.
«Il resto della storia lo conosci. Una volta arrivata in America ho incontrato
te e la mia vita è ricominciata ed è diventata bellissima. Come in una fiaba ho
avuto il mio lieto fine.»
«Il nostro lieto fine, Miss Brontee.»
Le baciò la fronte con tenerezza e le sorrise, e a lei parve che in quel sorriso
splendesse l’alba della sua nuova esistenza.
Accarezzandogli il viso con piccoli baci, disse: «Parlami di te, adesso,
Frank. Non so nulla della tua famiglia, non so nulla di te».
«È la famosa giornalista o la mia promessa sposa a chiedermelo?»
«La tua promessa sposa. Come giornalista ho fallito, non mi hai mai
concesso l’intervista che mi dovevi…»
«Se è così, temo di non potermi rifiutare.»
Rotolò su se stesso, incrociò le braccia sotto la testa, lo sguardo rivolto al
soffitto, e cominciò a raccontare. Camille si strinse a lui come alla sua stessa
vita.
«A ripensare alle mie origini, mi viene da domandarmi cosa ci faccia io
oggi a New York, uomo ricco e di discreto successo…»
«Di grande successo, oserei dire» lo interruppe lei, posandogli con dolcezza
il viso sul petto. Sentì il cuore di Raleigh battere in modo tumultuoso e il suo
respiro farsi irregolare. Che fossero i ricordi a procurargli quello stato di
agitazione? In silenzio, attese che lui riprendesse il racconto.
«Sono nato in questa città. Mio padre era un tipografo, mia madre una
maestra. Una famiglia tranquilla, come tante, la cui vita fu interrotta dalla
guerra civile.»
«Tuo padre ha combattuto con l’Unione?»
«Sì. Partì per la guerra per seguire i suoi ideali» sospirò. «E tornò da
quell’inferno debole, disilluso e amareggiato. Al posto delle speranze d’un
tempo, nel cuore aveva una mappa e il sogno dell’oro.»
Camille lo guardò sorpresa.
«Hai mai sentito una cosa più stupida della corsa all’oro, Camille? Gli unici
a essersi arricchiti sono stati i commercianti di whiskey, di donne e di
attrezzi. Convinto di trovare la sua personale El Dorado, mio padre vendette
la tipografia e partì verso l’Ovest, con una moglie e tre figli piccoli al seguito.
Non arrivammo mai nell’Oregon. Il nostro viaggio si concluse prima del
tempo in Michigan.»
«È uno stato del Nord con un grande lago, vero?»
«Sì, al confine con il Canada. In effetti, qualcuno là qualche pepita l’ha
trovata, ma certo non dove cercava mio padre. Quando quel folle si rese
conto di avere fallito e di avere trascinato la sua famiglia in un’avventura
sconsiderata, vendette ogni cosa e sperperò i pochi soldi che gli erano rimasti
nell’acquisto di una fattoria: da ex tipografo e cercatore d’oro fallito divenne
così, dall’oggi al domani, un contadino incompetente e frustrato. Finì dalla
padella nella brace per la seconda volta.»
Il fiume del passato aveva ormai rotto gli argini e scorreva impetuoso e
rapido nelle parole di Frank Raleigh. Camille lo ascoltava stringendosi a lui,
le dita intrecciate con forza alle sue, il respiro corto per l’emozione, gli occhi
spesso velati di lacrime.
La storia dei Raleigh non differiva da quella di molti altri sfortunati
pionieri. Dopo un primo periodo sostenuto più dall’entusiasmo che dai
successi, le cose avevano cominciato a girare solo per il verso sbagliato. La
madre, sempre più insofferente a un’esistenza cui non era preparata, cercava
nell’educazione dei figli l’unica ragione di vita, mentre il padre non perdeva
occasione per fare ricadere le colpe dei suoi fallimenti sulla famiglia.
«La nostra vita era guidata solo dalle scelte sbagliate e dall’incompetenza
di mio padre, dai suoi rancori e sensi di colpa. Non mi vergogno di dire che
lo odiavo. Quando mia madre morì, decisi che non appena fossi stato grande
abbastanza me ne sarei andato. E così feci.»
Camille gli accarezzò le labbra con le sue.
«Non devi parlarne, Frank, se ti addolora.»
«Mi addolora solo il fatto di aver abbandonato i miei due fratelli minori
nelle mani di un pazzo! Non mi perdonerò mai per questo, mai! Ma se non
fossi partito, sarebbe finita male, Camille, forse lo avrei ammazzato. Gli avrei
fatto pagare ogni sua azione malvagia, la morte di mia madre, le frustate ai
figli che costringeva a lavorare come schiavi. Proprio lui, che aveva
combattuto contro la schiavitù.»
Camille rimase immobile, silenziosa, mentre gli occhi di Raleigh si
velavano di lacrime e le sue mani tremavano visibilmente.
«Me ne sono andato per non ammazzarlo. Se i miei fratelli non mi avessero
trattenuto, una sera… lo avrei fatto.»
«Ma non l’hai fatto.»
«Ci sono andato molto vicino, però.»
Pur rimanendo in silenzio, Camille lo incitò a proseguire, con la speranza
che il peso della memoria si facesse in lui più leggero a ogni parola.
«Quella sera, tornando a casa dal lavoro nei campi, trovai mio padre
impegnato a bruciare qualcosa nel cortile della fattoria. Mi avvicinai al falò
per vedere cosa stesse distruggendo con tanto zelo. In mezzo alle fiamme vidi
dei libri. I miei libri. Quelli che mi aveva lasciato mia madre, il solo ricordo
che avevo di lei, e quelli che mi ero comprato con i pochi soldi guadagnati
col lavoro. I miei libri, la mia unica porta verso il resto del mondo e la
libertà.»
Camille vide il dolore riaffiorare sul volto di Frank e d’istinto, con una
carezza, cercò di spazzarlo via.
«I tuoi libri? Che ragione poteva avere per bruciarli?»
«Sembrava odiare ogni singola parola stampata: libri, giornali, persino la
Bibbia in chiesa. Forse perché ogni pagina scritta gli ricordava il suo vecchio
mestiere di tipografo, un mestiere che avrebbe concesso alla sua famiglia di
vivere decentemente se lui non l’avesse rinnegato per le sue chimere.»
Sospirò e Camille gli strinse una mano, se la portò alle labbra e con
tenerezza la baciò.
«Mi ricordo ancora le parole che mi disse mentre buttava l’ultimo libro nel
fuoco che, per colmo di ironia, era Grandi Speranze di Dickens: I libri non ti
serviranno ad allevare buone vacche o a tagliare il raccolto, ma solo a
infarcirti il cervello di frottole e sogni! Dannazione! L’immagine è ancora
talmente vivida nella mia mente che mi sembra di sentire la voce astiosa di
mio padre, di vedere le pagine accartocciarsi e prendere fuoco, le mie mani
frugare inutilmente tra i tizzoni ardenti per salvarle.»
Camille rabbrividì notando per la prima volta le cicatrici che gli segnavano
le braccia.
Con lo sguardo gli chiese se quelli fossero i segni lasciati dal fuoco. Con lo
sguardo lui rispose di sì. Commossa, si chinò a baciargli le cicatrici, con
delicatezza, con venerazione, quasi volesse con quel semplice gesto
cancellarle per sempre dalla pelle e dalla memoria di Raleigh.
Lui la strinse a sé con le lacrime agli occhi, esprimendo forse così la sua
riconoscenza per quell’amore che il cielo gli aveva donato.
«Con i miei libri, anche i miei sogni sembravano essere finiti in cenere. E
così, appena compiuti i diciassette anni, all’alba di una mattina di giugno
radunai le mie cose, salutai i miei due fratelli e me ne andai senza neppure
scrivere una riga a mio padre, lasciandogli solo il denaro per il cavallo che
avevo preso. Non volevo avere né debiti né legami con lui.»
Per quasi un’ora, Camille ascoltò Frank Raleigh con emozione crescente,
trepidando al racconto di tante avventure, gioendo dei suoi successi e
soffrendo dei suoi dolori. Venne a sapere di come, dopo mesi di cammino,
fosse giunto a New York, uno dei tanti disperati in cerca di un futuro
qualsiasi. Di come, con tenacia, passione e molta fortuna, anno dopo anno,
fosse diventato il Frank Raleigh che oggi tutti conoscevano, temevano e
rispettavano. Di come, per tutti quegli anni, non avesse smesso mai di
pensare e di scrivere ai suoi fratelli. E di inviare loro denaro da quando la
buona sorte gli aveva arriso.
Per quanto nulla di sbagliato avesse fatto andandosene alla ricerca di una
vita migliore, il senso di colpa per essere fuggito alle sue responsabilità e per
aver abbandonato a un destino di miseria i suoi fratelli minori non lo aveva
abbandonato mai del tutto. Era una ferita che gli tormentava ancora la
coscienza, che a volte lo destava di notte, lasciandolo ansante e in preda ai
rimorsi. Solo impegnandosi in imprese che molti ritenevano folli riusciva a
scordare. Come remare sulle acque in burrasca dell’oceano, imbarcarsi su un
pallone areostatico o sfidare i boxeur di strada nelle vie più malfamate del
Lower Est Side.
Quanto a suo padre, non lo aveva ancora perdonato, ma l’idea di poterlo
perdere senza rivederlo lo ossessionava. Pur sapendo cosa avrebbe dovuto
fare, ricacciava la decisione in fondo all’anima e si ostinava a non ascoltare il
suo cuore, seguendo invece i consigli che gli arrivavano dal cervello e dal
fegato.
Poi, le aveva detto, un giorno, sull’Hudson River, aveva conosciuto una
donna, una tale Camille, e qualcosa, qualcosa di inatteso e inebriante, era
successo: il suo cuore aveva ricominciato a parlargli.
Non che lo avesse capito subito.
Non che lo avesse accettato subito.
Ma certo lo aveva sentito. Urlava dentro di lui, a gran voce, con veemenza
e disperazione. Chiedeva di tornare libero.
E nonostante fosse un cuore amareggiato e incollerito, da quel momento
non aveva più smesso di ascoltarlo.
***
La mattina stava arrivando. Veloce, troppo.
Raggomitolata contro il suo petto, il respiro confuso in quello di lui,
Camille rimase in silenzio per qualche istante, poi gli disse quello che lui già
sapeva: «Devi tornare a casa, Frank, nel Michigan, dalla tua famiglia. Se mi
vorrai al tuo fianco, verrò con te».
Lui la guardò con tenerezza e si rese conto di amare ogni particolare del
volto di quella donna, del suo corpo, della sua anima.
«Affronteresti un viaggio tanto duro per me?»
«Affronterei ogni cosa con te...»
«Anche questo?» le rispose lui sorridendo con malizia, mentre la girava a
pancia sotto con un solo, deciso movimento e iniziava a tempestarle la
schiena di piccoli baci.
«Soprattutto questo, se prosegue in modo tanto delizioso… Hai fatto di me
una donna perduta, Frank Raleigh, e in una sola notte» sospirò Camille,
girando il capo perché lui la baciasse sulla bocca.
«Non sai che è il sogno di ogni uomo avere una donna perduta come
moglie?»
Lei cercò di rispondere, ma le fu impossibile, perché la bocca di Raleigh si
era ormai impossessata della sua.
23

23 dicembre, mattina
«È ora che vada» disse Camille stiracchiandosi.
La notte era volata via, lasciandoli assonnati e caldi l’uno dell’altra.
Felici.
«Non sono neanche le sette» rispose Raleigh, impedendole di alzarsi.
«Vuoi che Ralph ci scopra insieme nel tuo letto? Credo che al poveretto
verrebbe un colpo apoplettico.»
«Ah no! Questo non potrei permetterlo! È un maggiordomo insostituibile.
Anche se ancora non ho ben capito cosa faccia tutto il giorno, oltre a seguirmi
come un fantasma.»
Scoppiarono a ridere, come fosse un’abitudine di sempre. Poi lui si fece
serio.
«Vorrei che il tempo si fermasse in questo istante.»
Camille lo baciò sulla punta del naso.
«Sei sempre così romantico, la mattina?»
«Oh sì. Mattina, sera. Notte, soprattutto.»
Gli diede un altro bacio sul naso e di nuovo fece per alzarsi. Lui glielo
impedì.
«Non voglio che tu te ne vada, Camille. Non ancora.»
Lei lo guardò mortificata. «Non riuscirai a corrompermi, Frank, devo
proprio andare.»
Di nuovo, non le permise di alzarsi dal letto.
«Frank!» supplicò lei in tono scherzoso.
Coprendole il volto di piccoli baci, lui sussurrò: «Voglio svegliarmi ogni
mattina e rimanere a guardarti mentre dormi serena nel nostro letto. E poi
svegliarti e fare l’amore con te prima di iniziare ogni giornata. Voglio alzarmi
e sapere che sarai qui ad aspettarmi al mio ritorno».
«Ancora a letto?» fece lei, maliziosa.
«Non chiederei di meglio.»
«Neanch’io» rispose ironica Camille, stiracchiandosi di nuovo, «ma
dovresti parlare prima col mio direttore e ottenere un permesso speciale, cosa
che non dovrebbe esserti difficile visto che sei il suo capo. Non credo che Mr
Corman sarebbe d’accordo se scrivessi i miei articoli sdraiata nel tuo letto e
non in redazione. Non vorrai per caso farmi licenziare, vero?»
Fece per alzarsi, ma Raleigh di nuovo glielo impedì: le immobilizzò i polsi
e scivolando sopra di lei ricominciò a baciarle il volto e a mordicchiarle le
labbra, con un solo, chiaro scopo in mente.
«Frank!» sussurrò lei, cercando con poca convinzione di scacciarlo, mentre
lui continuava le sue manovre di seduzione.
«Era questo che intendevo prima…»
«Frank, devo andare, oh cielo! Così non ci riuscirò mai…»
«Non ti preoccupare del vecchio Corman, Camille, non sarà un problema»
mormorò Raleigh ridacchiando, mentre con le labbra seguiva la linea del
collo di lei e scendeva verso i seni. «L’editore, semmai» continuò fra un
bacio e l’altro, «potrebbe avere a che ridire sulla tua devozione al lavoro.»
«Davvero, e perché mai quel tipaccio dovrebbe lamentarsi per il mio
attaccamento al lavoro?» chiese lei ridacchiando e cercando senza molta
convinzione di liberarsi dalla sua presa.
Emise un gemito, poi un altro ancora mentre Raleigh le prendeva fra le
labbra un capezzolo e con la mano si spingeva molto più in basso. Non
sembrava intenzionato a risponderle.
«Allora, Frank?» mormorò. «Perché l’editore potrebbe avere da ridire sulla
mia devozione al lavoro?»
«Che importanza può avere, in questo momento, Camille?»
Riprese a toccarla, a baciarla, a mordicchiarla.
Camille si irrigidì e gli fermò la mano. «È importante per me, Frank.»
Lui si appoggiò a un gomito per guardarla, sorpreso che lei non avesse
ancora capito.
«Perché l’editore ti vuole solo per sé, non ha intenzione di dividerti con
nessuno, men che meno con una redazione piena di uomini» rispose senza
darle altre spiegazioni. Poi ritornò con entusiasmo alla sua precedente
occupazione.
Camille sentì la gola chiudersi, il respiro farsi difficile.
Il suo nuovo mondo, quello meraviglioso che aveva scoperto e condiviso
con Frank quella notte, stava per crollare sotto il peso di quelle parole?
«Frank, non parli sul serio, vero?»
Lui forse non sentì o non volle sentire, in ogni caso non le rispose. Prese
invece a dedicarsi con furore all’altro capezzolo, prima di scivolare
all’improvviso e con troppa decisione dentro di lei.
Oh!
Camille si irrigidì in preda a una totale confusione, mentale e fisica: il
corpo e la ragione sembravano troppo intenti a combattere tra loro, la mente
concentrata sul significato delle ultime parole di Raleigh, il corpo sul piacere
che lui le stava dando.
«Frank» sospirò offrendosi alle spinte di lui, «stai scherzando, vero?»
Lui non rispose, le catturò le labbra e la baciò sino a stordirla.
Non le piaceva ciò che le stava facendo, o forse le piaceva troppo. Era così
intenso e devastante da toglierle la facoltà di pensare e di reagire.
Invece di cadere preda del suo ardore, avrebbe voluto chiedergli cosa
avesse voluto dire con l’editore ti vuole solo per sé. Ma era così difficile
sottrarsi al piacere in cui lui la stava trascinando, che permise al corpo di
vincere sulla mente.
Senza guardarla negli occhi, Raleigh aveva cominciato a muoversi dentro
di lei con colpi profondi e ravvicinati, immobilizzandole i polsi con una mano
mentre con l’altra la accarezzava senza delicatezza.
«Frank, ti prego…» mormorò Camille, senza capire se stava pregandolo di
fermarsi o di continuare per sempre ad amarla in quel modo devastante.
Si lasciò condurre in un gioco rude e impetuoso, un atto di forza più che di
tenerezza, fatto di imposizioni più che di scelte. Un gioco intenso e
incandescente, improvviso, sconvolgente, che li condusse insieme a
raggiungere il massimo del piacere: Camille con un gemito soffocato,
arrendevole, sorpreso, Raleigh con l’urlo selvaggio e primitivo del vincitore.
Solo allora, spenta la fiamma di quella repentina e violenta passione,
Camille si rese conto di aver concesso a Frank Raleigh di dominarla. E di
essere pronta a permetterglielo di nuovo se solo lui l’avesse voluto.
Una sensazione di profondo disagio la investì.
Per un istante pensò di fuggire, il più antico sistema di difesa della donna.
Ma fuggire da Raleigh non era quello che voleva. Non ancora, almeno.
***
Mentre indugiava sopra di lei, Frank sentiva il cuore di Camille battere
troppo veloce contro il suo petto e il respiro irregolare di lei accarezzargli il
volto. Le teneva ancora stretti i polsi con la spiacevole sensazione che, se
glieli avesse lasciati, lei se ne sarebbe andata.
Idiota, stupido bastardo, mormorò una voce nella sua testa.
Invece di continuare a comportarsi come un uomo delle caverne, doveva
scusarsi con lei per la sua rudezza e capire che diavolo gli fosse passato per la
mente a prenderla in quel modo. No, non era necessario. Lo aveva già
compreso. Voleva Camille solo per sé e quello era stato un modo brutale di
dimostrarglielo.
«Mi spiace» sussurrò.
Lei non rispose.
Raleigh si sollevò quel tanto che bastava a guardarla negli occhi.
«Per un istante ho temuto di perderti e... mi sono comportato come un
bast… come non avrei dovuto.»
Camille fece per liberarsi, ma lui non glielo permise. Continuava a
rimanerle sopra. Gli occhi fissi nei suoi.
«Ti ho spaventata?» la incalzò.
Lei indugiò, abbassò gli occhi, si mosse appena, indecisa su cosa
rispondere.
«Sì, ti ho spaventata» concluse lui.
«Un po’» ammise. «È stato… diverso e inaspettato.»
«Anche per me.»
«No, Frank. Non ti credo.»
«Spiegati meglio.»
«È difficile parlare di certe cose…»
«Non deve esserlo fra noi. Dimmi cos’hai provato, ti prego.»
«Prima lasciami.» Le mancava il fiato.
Raleigh la baciò con dolcezza, poi le liberò i polsi e rotolò sul fianco. Le
prese una mano e se la portò alle labbra.
«Mi sento dannatamente in colpa, Camille.»
Lei scosse la testa, come se lui non capisse.
«Camille… Non avrei dovuto. Non so che diavolo mi sia preso...»
«Shhh» fece lei abbracciandolo. «Non voglio ingannarti, Frank, non devi
sentirti in colpa: è piaciuto moltissimo anche a me, e credo che tu te ne sia
accorto...»
«Allora… non mi consideri un mostro?» chiese lui con un gran sorriso.
«No, Frank. Mi sono sottomessa ai tuoi desideri e li ho accettati come
fossero miei.»
«È così che deve essere, Camille» continuò lui scherzando.
Lei prima rise, poi scosse la testa.
«Il punto è che temo di potermi abituare all’idea di affidare ogni secondo
della mia vita a te, Frank, come è appena successo…»
«Allora temi di sposarti, poiché è quanto avviene di norma nel matrimonio.
La moglie si affida al marito. Il marito si prende cura della moglie. Che male
c’è in questo?»
Aveva usato di proposito un tono leggero, quasi scherzoso, perché quella
conversazione incominciava a non piacergli affatto. Si passò una mano tra i
capelli, preoccupato di avere rovinato tutto, prima ancora che fosse
cominciato.
«Non voglio tenerti in catene, Camille, se è quello che temi. Voglio solo
avere cura di te e dei nostri figli, se saremo tanto fortunati da averne.»
Lei gli sorrise e gli accarezzò il volto. «Certo che ne avremo… ma ora devo
proprio andare.» Si alzò e indossò di nuovo la camicia da notte. Era strappata
sul davanti.
«Sembra che io abbia combinato un bel guaio con la tua camicia. Oggi
stesso andrò dalla Renard a ordinartene altre. Anzi, a ripensarci meglio non lo
farò, così non dovrò perdere tempo a sfilartele» disse lui rimanendo disteso
sul letto a guardarla mentre lei cercava inutilmente di abbottonarsi.
Scherzando, sperava di alleggerire la tensione che percepiva fra loro.
«Signor Raleigh, voi non pensate proprio ad altro!»
«È difficile pensare ad altro, Camille, dopo questa notte.»
Rimasero qualche istante in silenzio, poi lei gli chiese: «Ti piacerebbe
davvero avere dei figli?»
«Non immagini quanto. Non immagini quanti. Li vizierei e farei tutto ciò
che mio padre…»
Ma non concluse la frase.
Senza rispondere allo sguardo interrogativo di Camille, aggiunse: «Perché
non andiamo agli Hamptons? Noi due, soli. Potremmo partire questa mattina
e sposarci dal giudice Harris a Southampton nel primo pomeriggio».
Lei si avvicinò e gli baciò il naso.
«Mi piacerebbe, ma oggi pomeriggio c’è la festa degli strilloni, non
ricordi?»
Lui assentì pensieroso.
«Domani, allora.»
«Ho un’intervista e almeno due articoli da scrivere.»
Era la verità, anche se essendosi licenziata in realtà non avrebbe avuto
alcun obbligo da rispettare.
Lui la guardò stupito. «Il Daily è dunque più importante di noi due? Credi
che io non abbia impegni? Ho degli affari in corso che mi costerebbe
parecchio denaro rinviare. Ma non ci penserei due volte a farlo, se potessi
anticipare le nozze di un solo minuto.»
Camille si sedette sul letto e si chinò a baciarlo.
«Non tenermi il broncio, Frank. Dopodomani, allora. È deciso.»
«Dopodomani sarà Natale. Non so se ci si può sposare a Natale…» Un
ingiustificabile senso di panico cominciò a crescere in lui. «…in ogni caso,
pregherò il giudice Harris di sposarci lo stesso. Lo conosco da tanti anni, è
una brava persona, ci accontenterà. Mi sposerai, Camille, non hai cambiato
idea, vero?»
«Sì, Mr Raleigh, ti sposerò. Fuggirò con te come in un romanzo
d’appendice e ti sposerò.»
«Ti amo, Camille. Non l’ho mai detto a nessun’altra prima.»
«Anch’io non l’ho mai detto a nessuno, Frank Raleigh. Ti amo. Ti amo. Ti
amo. È magnifico ripeterlo, mi fa sentire libera e felice come non sono mai
stata. Ti amo, Frank.»
Lui la strinse a sé e, baciandola ancora con passione, chiese: «Ti
piacerebbe, per la luna di miele, fare una crociera ai Caraibi, sul mio yacht?
Sono isole meravigliose, dove brilla sempre il sole, con palme, spiagge più
bianche della neve, un mare turchese e trasparente...»
Lei lo guardò con occhi sognanti. «E… pirati?»
Lui scoppiò a ridere. «Pirati? Nessuna paura, amor mio, sono tutti amici
miei. Io stesso sono un pirata.»
Camille lo abbracciò. «Comincio a crederlo anch’io, Frank. È un’avventura
bellissima e pericolosa quella che mi stai proponendo, non un semplice
matrimonio.»
«Il nostro matrimonio sarà sino all’ultimo giorno un’avventura bellissima
ed emozionante, durante la quale non farò altro che viziarti in modo
vergognoso.»
Raleigh si sorprese delle proprie parole. Non aveva mai pensato al
matrimonio come a un’avventura meravigliosa, in realtà non aveva mai
pensato al matrimonio. Ma in una notte tutto era cambiato.
«Adoro essere viziata. Mi massaggerai la schiena ogni volta che te lo
chiederò?»
«Non solo la schiena» fece lui incominciando ad accarezzarle le spalle.
«E dirai di sì anche alle mie richieste più balzane?»
«Farò di più. Ti prometto che per tutta la vita tu non dovrai mai annoiarti.»
«Annoiarmi, con te? Mai, Mr Raleigh. Forse» aggiunse guardandolo di
sottecchi, «quando sarai diventato vecchio, noioso e brontolone. Ma allora ci
sarà sempre il lavoro al giornale a tenermi occupata.»
Per un istante l’espressione di Raleigh si fece vuota, poi divenne dura.
«Cosa c’è, Frank?» gli chiese lei allarmata mentre lui le prendeva le mani e
gliele stringeva con troppa forza.
«Pensavo di essere stato chiaro, Camille. Non ti permetterò di lavorare
dopo il matrimonio. Mi spiace, ma sarà così.»
«Permetterò, hai detto permetterò, Frank?» Inalò a bocca aperta, come se
all’improvviso le mancasse l’aria. «Non capisco. Credevo che scherzassi,
prima.»
«Ero serissimo, Camille. Non voglio che tu lavori.»
«Perché? Non ne comprendo il motivo.»
La verità era che non voleva dividere sua moglie con uno stupido giornale.
Voleva ogni briciola della passione e dell’entusiasmo di quella donna solo
per sé. Invece rispose: «Saresti sempre in giro e io vivrei tutto il giorno con il
timore che possa accaderti qualcosa. Guarda cosa hai combinato quel giorno
alla fabbrica di Kendall!»
«Non ho combinato niente, io. Ho solo indagato.»
«E io dovrei stare in pena pregando che non ti venga il capriccio di
indagare su qualcosa di rischioso? No, Camille. Un marito ha il dovere e il
diritto di scegliere cosa sia meglio per sua moglie. Non farò come quello
scellerato di mio padre con mia madre, avrò cura di te e ti proteggerò.»
Lei scosse il capo, con aria incredula e avvilita.
«Dimmi che è una burla, Frank!»
«Non lo è» fece lui, serio. «Non posso permettere che tu lavori al giornale,
mi spiace. E, inoltre, sarai impegnata dal mattino alla sera con una tale
quantità di obblighi sociali e mondani che neppure immagini. Inviti, feste,
comitati, beneficenza» continuò, dandosi silenziosamente dell’ipocrita. «Non
hai idea di quanto sia attiva e coinvolgente l’alta società newyorkese!»
Le prese una mano fra le sue e se la portò alle labbra. Lei si sottrasse alla
presa e si alzò di scatto dal letto. Lui rimase a fissarla, preda di un crescente
senso di disagio che gli immobilizzava il corpo.
«Non ho alcun interesse a partecipare a feste e comitati, Frank.»
«Non ti obbligherò certo a farlo, se non vorrai. Forse potresti scrivere a
casa, magari un romanzo a puntate per il Daily! Sei talmente brava...»
C’era un tale entusiasmo nelle parole di Raleigh che la sua voce risuonò
eccessiva, fasulla.
***
Camille gli rivolse uno sguardo preoccupato.
Stava accadendo davvero?
Dopo le parole d’amore, dopo la passione, dopo l’intimità che avevano
condiviso. Dopo le lacrime e la gioia.
Dopo la perfezione di quella notte.
Stava accadendo davvero?
Era questo lo stesso uomo che poco prima aveva pianto stretto a lei? Che
l’aveva amata con venerazione?
«Forse non hai capito, Frank. Io voglio lavorare in redazione, non a casa.»
Lui la guardò con il sorriso indisponente del potere. «Non alla redazione
del Daily, Camille.»
«Perché non al Daily, Frank?»
«Perché ti ho appena licenziata. E con ciò il problema è superato.»
Oh!
Licenziata! Da lui.
Il mondo sembrò fermarsi. Poi si rimise a girare, ma nel verso sbagliato.
Camille lo fissò incredula, disperata, delusa.
Arrabbiata.
Ma fu capace di inghiottire la propria ira. Mostrò calma e dignità e,
dirigendosi con lentezza verso la porta, ribatté: «Non esiste solo il Daily,
Frank. Andrò da Hearst. O da un altro editore. Troverò un posto in un altro
giornale».
«E credi che io te lo permetterò? Credi che permetterò a mia moglie di
lavorare per un mio concorrente? Sarebbe davvero umiliante, Camille.
Diventerei lo zimbello di questa città.»
«Non temere, Frank, nessuno riderà alle tue spalle» disse, l’espressione più
fredda e determinata che Frank le avesse mai visto sul viso.
«Perché?» chiese lui.
«Perché non ti sposerò.» Poi, girandosi appena verso di lui, la mano già
sulla maniglia della porta, aggiunse: «Affinché tu lo sappia, Frank, le mie
dimissioni, dovute a insormontabili incomprensioni con l’editore, sono da ieri
pomeriggio nelle mani di Mr Corman. In altre parole, non sei stato tu a
cacciarmi, me ne sono andata io».
Quindi, con un movimento secco, spalancò la porta e senza più guardarlo in
volto uscì dalla stanza.
***
Se n’era andata. Gli aveva detto di no. Aveva preferito l’indipendenza a
una vita con lui. A una vita piena d’amore e di passione. A una vita
privilegiata.
Nessuna donna l’avrebbe fatto.
Nessuna, ma non Camille.
Eppure non gli aveva appena detto di amarlo? E per ben tre volte. Ti amo, ti
amo, ti amo, aveva ripetuto. Ma non erano state che parole. Stupide, insulse
parole che non sarebbe mai più riuscito a togliersi dalla testa.
Immobile, in balia degli ultimi complicati minuti della sua esistenza, Frank
Raleigh fissava la porta dietro cui era appena sparita. Possibile che non
riuscisse a muoversi, ad alzarsi, a inseguirla? Quale uomo lasciava che la
donna della sua vita se ne andasse così, senza neppure cercare di fermarla?
Forse un uomo che non si riteneva degno di lei? Un uomo con una coscienza?
Oppure semplicemente un vigliacco?
Al diavolo! Non pensare a nulla! Agisci, invece.
Si infilò in fretta e furia i primi vestiti che gli capitarono a tiro e si precipitò
in strada. Sulla neve ancora vergine vide le orme lasciate da Camille dirette
verso l’ingresso di servizio di casa Campbell. Le seguì, pur sapendo che non
avrebbe potuto presentarsi a quell’ora in una casa rispettabile, vestito in quel
modo, poi. Corse per raggiungerla, ma fece solo in tempo a vedere il
portoncino sbattere dietro di lei.
Sbam!
Fu come se gliel’avesse dato in faccia.
Ritornò sui suoi passi pensando febbrilmente a come far cambiare idea alla
sua… come doveva chiamarla? Amante fu l’unico termine che gli sembrò
appropriato.
Le avrebbe fatto recapitare un biglietto da Ralph.
Un biglietto? Da Ralph? Come se volesse invitarla a un tè? No. Di sicuro
lei lo avrebbe fatto a pezzi – il biglietto, non Ralph – senza neppure degnarsi
di leggerlo.
E se l’avesse chiamata al telefono?
Alle sette del mattino?
No. Si sarebbe presentato alla porta a un’ora più civile, magari con un
mazzo di rose. Pensò a dove quel mazzo di rose sarebbe finito: probabilmente
sulla sua testa.
Niente rose. Ci voleva qualcosa di più definitivo, come un… anello.
Perché non ci aveva pensato prima? Sì, sarebbe tornato da Miss Brontee
con un anello di fidanzamento in mano. Si sarebbe inginocchiato davanti a lei
e le avrebbe chiesto di perdonarlo e di sposarlo. Nel modo più appropriato.
Come ogni donna amata si meritava.
A che ora apriva Tiffany sulla Broadway? Alle dieci, probabilmente. E alle
dieci sarebbe entrato per comprare l’anello con il solitario più puro e
splendente della loro famosa collezione. Nessuna donna sapeva dire di no a
un brillante. Neanche Camille.
O forse sì?
***
Rientrando in casa dalla porta di servizio, Camille non badò all’espressione
sorpresa di Sally, di Mr Broley e degli altri domestici che già si aggiravano
per casa. A testa alta pronunciò un «Buongiorno» che non dava adito a
nessuna possibilità di replica. Poi sparì in camera sua.
Quando Sally la raggiunse portandole una tazza di tè e del pane imburrato,
Camille la abbracciò con le lacrime agli occhi e le chiese di aiutarla a
preparare i bagagli. Poi si sedette alla scrivania e con il cuore spezzato scrisse
un’accorata lettera di commiato ai Campbell. Nonostante gli sforzi per
trattenerle, molte lacrime caddero, lasciando sul foglio macchie di inchiostro
e di rimpianto.
Il cuore non smetteva di batterle in gola e il viso era ancora bagnato mentre,
circa un’ora più tardi, osservava un valletto sistemare i suoi bagagli sulla
carrozza che l’avrebbe portata lontana da Washington Square e dalle persone
che amava. Sally le teneva una mano e piangeva con lei.
«Dite ai signori Campbell che verrò a trovarli domani pomeriggio, Sally.
Che non stiano in pena per me. Sto bene.»
«Non è vero, siete infelice, Miss Camille, e per colpa di chi so io» ribatté la
donna fissando l’altro lato della piazza con aria minacciosa, come se volesse
prendere il responsabile per il collo e dargli una bella lezione. «Se lui verrà a
cercarvi, so io cosa devo fare.»
Camille le sorrise. «Ma non dovrete dirgli dove sono andata, mi
raccomando, Sally.»
«Come potrei se non lo sapete neppure voi dove andrete a vivere, bambina
mia!»
La donna scosse la testa, disapprovando dentro di sé la decisione di
Camille, poi l’abbracciò un’ultima volta.
«Fate attenzione. Questo è un mondo balordo.»
«Starò attenta, Sally. Lo prometto.»
Camille montò, il valletto chiuse la portiera e la carrozza partì.
24

Quella stessa mattina


Sulle prime, lasciando casa Campbell, Camille pensò di prendere alloggio
in una pensione dignitosa e dal prezzo abbordabile in Green Street. Poi,
mentre la carrozza lasciava Washington Square, le tornò all’improvviso in
mente Carolyne Sutton, la cortigiana che aveva intervistato per il Daily.
Quasi fosse la fata di Cenerentola, o un angelo custode.
Col cuore in tumulto, frugò nella borsa sino a quando non estrasse il
biglietto da visita che la donna le aveva lasciato.
Miss Carolyne Sutton, 75, Cinquantunesima Strada West, New York.
Senza riflettere, ma con la speranza nel cuore, diede l’indirizzo al vetturino.
Per quanto sorpresa, Carolyne l’accolse con simpatia, senza chiedere e
senza cercare spiegazioni e, da donna pratica qual era, dopo una breve
riflessione le propose un affare: l’avrebbe ospitata in un piccolo
appartamento, omaggio di uno dei suoi amanti, se Camille avesse accettato di
revisionare la sua biografia.
Quando Miss Sutton le offrì la mano per suggellare quel patto, Camille
gliela strinse con entusiasmo, poi, emozionata per quella dimostrazione di
solidarietà femminile – perché era di quello che si trattava – le buttò le
braccia al collo con una tale riconoscenza che l’altra non riuscì a ricacciare le
lacrime.
*
La nuova residenza di Camille si trovava in Amster Yard, un angolo
signorile, non appariscente e molto britannico, fatto di poche, discrete
palazzine erette una ventina d’anni prima intorno a un giardino comune.
L’appartamento si affacciava su un angolo tranquillo del giardino e, per
quanto piccolo, godeva come le altre costruzioni di tutte le più moderne
comodità, compresa l’elettricità e l’acqua corrente. Camille, fra quelle mura e
quel mobilio leggero e dai colori chiari, si sentì subito a proprio agio. A casa.
La mattina stessa del suo arrivo, animata da nuovo entusiasmo, sistemò con
orgoglio la sua splendente Underwood No 2, comprata a rate con i suoi
guadagni, sullo scrittoio del piccolo salotto al pianterreno, di fronte all’ampia
finestra che si apriva sul giardino.
Il luogo ideale per una macchina da scrivere.
***
Nel frattempo, mentre Camille suonava alla porta di Carolyn Sutton, Frank
Raleigh raggiungeva il 259 di Broadway e venti minuti dopo ne usciva con
un astuccio avvolto nella celebre carta verde-acqua della premiata ditta
Tiffany & Co.
Non che fosse convinto che presentarsi con un solitario tanto splendente
avrebbe potuto far cambiare idea a Camille, ma in fondo in fondo sperava che
le avrebbe fatto almeno riconsiderare la sua proposta. Al di là del costo
esorbitante, di cui Miss Brontee non si sarebbe certo curata, l’anello era il
simbolo del suo amore e del suo impegno, della sua devozione e del suo
rispetto per lei. Era un atto formale, insomma, che Camille avrebbe in ogni
caso apprezzato. Non era da escludere, poi, che lei si fosse già dimenticata e
pentita del piccolo litigio che avevano avuto solo poche ore prima. Forse, per
quanto incline alla testardaggine, aveva anche compreso le sue ragioni e le
aveva accettate. Lui stesso, in fondo, era arrivato a più miti consigli ed era
pronto a fare a Camille delle generose concessioni. Che ogni giorno si recasse
in redazione, però, era proprio fuori questione.
Essendosi convinto della bontà delle sue riflessioni, Frank Raleigh rimase
senza parole quando Broley, dopo avergli con grande flemma aperto la porta,
gli comunicò che Miss Brontee non era in casa.
E rimase ancor più basito quando, alla sua domanda, «Sapete a che ora
rientrerà?», il maggiordomo rispose con impeccabile aplomb: «Temo che
Miss Brontee non rientrerà affatto, signore. Ha portato con sé le sue cose. E
la macchina da scrivere».
Se Broley l’avesse colpito con una mazza da baseball proprio in mezzo agli
occhi, non avrebbe potuto fargli più male di così.
***
24 dicembre 1898, sera della Vigilia
Non era stato facile lasciarsi tutto alle spalle per la seconda volta,
soprattutto quando pareva che la felicità fosse lì, a portata di mano, e che le
sorridesse con gli occhi blu di Frank Raleigh.
Seduta di fianco ai Campbell in uno dei primi banchi della Chiesa della
Grazia, Camille sentiva solo in lontananza i canti e le preghiere dei fedeli che
annunciavano il Natale. Per la verità, a stento si rendeva conto che fosse
Natale. Agnes Campbell, di tanto in tanto, le prendeva la mano e gliela
stringeva, in una tacita offerta di comprensione, mentre Mr Campbell,
cercando di non farsi accorgere, di sottecchi la guardava preoccupato.
L’unica cosa di cui si preoccupava Camille, però, era di trovarsi
all’improvviso di fronte Frank Raleigh, che non aveva più visto dalla mattina
precedente, quando se n’era andata dalla sua camera da letto sbattendo la
porta.
Salutandosi con calore e scambiandosi gli auguri, i fedeli si incamminarono
verso l’uscita, mentre ancora nella chiesa echeggiavano gli inni conclusivi.
Camille conosceva molti dei presenti e ricambiava le felicitazioni ostentando
serenità e gaiezza.
Ma il suo cuore, che dal giorno precedente batteva con rancore e
disperazione per Frank Raleigh, non era né sereno né gaio.
Non sarebbe stato sempre così, ne era certa, ma per il momento la sua vita
sembrava oscillare tra il ricordo di ogni singolo istante che aveva passato tra
le sue braccia e le immagini sfocate di un futuro che non sarebbe mai
arrivato.
Cercando di concentrarsi sulle parole di Agnes che cantava le lodi dello
splendido Christmas pudding che li attendeva a casa, Camille procedeva
lungo la navata centrale sospinta da una forza sconosciuta. Poi un’altra forza,
quella profonda di una voce maschile, la fece quasi inciampare e finire per
terra.
«Miss Brontee…»
Le gambe vacillarono, il cuore accelerò e la vista si fece nebulosa. Camille
si girò verso la voce e la nebbia davanti ai suoi occhi si dissolse quando
comparve...
«Ken! Che bella sorpresa!» esclamò con un sorriso forzato.
Che ci faceva Ken lì?
«Signori Campbell» fece l’uomo con un cenno del capo. «Buon Natale!»
«Buon Natale a voi, Ken. Come mai non siete a Brooklyn con la vostra
famiglia?» chiese Agnes.
Camille lo vide avvampare nonostante in quel momento si trovassero in un
cono d’ombra.
«Desideravo portarvi i miei auguri di persona e, considerate le circostanze,
invitare Miss Brontee a trascorrere il Natale con la mia famiglia.»
«Accetterai l’invito di Ken, vero cara?» si inserì Agnes senza dare alla
giovane la possibilità di rifiutare.
Camille si chiese a quali circostanze Benton si riferisse, poi frugò nella
mente per trovare una scusa per rifiutare l’invito.
«Mi spiace, Ken, domani devo lavorare.»
«A Natale, Camille? Neppure mio padre lavora il giorno di Natale!»
Non aveva balbettato e la guardava con una tale speranza negli occhi che
lei si sentì una traditrice.
«Non credo sia il caso che io passi il Natale con la vostra famiglia»
sussurrò, abbassando gli occhi.
«Su Camille» si inserì Agnes, «ci rifletterai sulla strada di casa. Ken, voi
venite a casa con noi, vero? C’è un ottimo pudding che ci attende.»
«Sarà un piacere» rispose Benton prendendo sottobraccio Camille.
Mr Campbell alzò un sopracciglio e guardò in modo interrogativo la
moglie.
*
Dopo aver bevuto il tradizionale egg nog e mangiato il pudding, dopo i
doni e gli auguri Camille decise che fosse tempo di congedarsi.
«Speravo che sareste rimasta ancora un po’ con noi, almeno fino al giorno
del vostro matrimonio» le disse in tono scherzoso Timothy Campbell.
«Non avrei chiesto di meglio, Mr Campbell. Ma…»
Lui la fermò con un cenno della mano.
«Comprendo le vostre esigenze di indipendenza, mia cara, anche se non le
approvo del tutto. Sappiate comunque che questa casa rimarrà sempre aperta
per voi, come i nostri cuori.»
«Oh, Mr Campbell!» fece Camille commossa, gettandogli le braccia al
collo. Poi, tra un singhiozzo e l’altro, abbracciò Agnes e quindi, senza avere
la forza di pronunciare un’altra parola, uscì da quella casa.
***
Ken Benton la aiutò a salire in carrozza e, durante il breve tragitto, rimase
in silenzio, senza intromettersi nel pianto che lei non riusciva a frenare.
Eppure, ogni tanto, come per farle comprendere che lui era lì solo per lei, le
baciava la mano con delicatezza, se non con devozione.
Come avrebbe voluto stringerla fra le braccia! Consolarla! Cancellare con
un bacio l’angoscia e la tristezza che vedeva nei suoi occhi! Gli era giunta
voce – da Pendleton, che a sua volta l’aveva sentita da Manny – che Miss
Brontee aveva lasciato la redazione del Daily. Colpa di quel bastardo di
Raleigh, c’era da scommetterci! Se solo avesse potuto mettergli le mani
addosso… Che piacere avrebbe provato a spaccargli la faccia! Anche se,
doveva ammetterlo, il rischio che fosse la sua faccia ad avere la peggio era
molto, molto alto.
Dopo pochi minuti la carrozza si fermò davanti al cancello di Amster Yard.
Ken aiutò Camille a smontare e l’accompagnò alla porta di casa.
«Verrò a prendervi verso le undici di domattina.»
«Non so, Ken…»
«Io sarò qui alle undici. Poi voi deciderete cosa fare.»
«Non voglio darvi delle false speranze, non voglio che crediate…»
«Shhh, Camille. Non mi illuderò, se è questo che temete, né vi chiederò
alcunché. Pensate a me come a un amico affezionato.»
Le prese le chiavi di mano e aprì la porta per lei. Frank Raleigh avrebbe
trovato una scusa valida per seguirla all’interno. Al contrario Ken Benton si
comportò da perfetto gentiluomo e rimase sulla soglia.
«Non vi chiederò perché abbiate lasciato il vostro lavoro, Camille, temo già
di saperlo.»
Un guizzo di irritazione passò negli occhi di lei.
«Qualsiasi cosa ci sia stata fra voi e Raleigh, ho la speranza che sia finita»
la incalzò.
«In ogni caso, non vi riguarda, Ken.»
Lui rimase a fissarla, come se volesse ribattere qualcosa, ma se ne stette in
silenzio, negli occhi un bagliore di speranza.
«Ora è meglio che andiate. Buon Natale, Ken.»
«Buon Natale a voi, Camille. Ricordate, domattina alle undici.»
«No Ken, non verrò. Mi spiace, ma non posso.»
«Capisco… Non vi biasimo, in fondo. Trascorrere un intero giorno con la
mia famiglia spaventerebbe chiunque» scherzò.
Poi si chinò a sfiorarle la mano con le labbra e attese che la porta si
richiudesse dietro di lei.
Sebbene Camille avesse rifiutato il suo invito, si concesse un largo sorriso.
Se lo poteva permettere, con Frank Raleigh fuori dai piedi.
***
Dopo essersi preparata per la notte, Camille si sedette alla scrivania e
cominciò a ispezionare la posta che le era stata recapitata a casa Campbell e
che Broley le aveva consegnato. Cercava, in particolare, una busta bianca con
le iniziali FR, ma non la trovò. Trovò invece la lettera di Mr Corman
contenente l’assegno con l’ultimo stipendio – cinquanta dollari, molti più di
quanti le spettassero secondo i suoi calcoli – e un biglietto con i particolari
riguardanti la festa degli strilloni.
Mancavate solo voi, mia cara. La felicità che ho visto brillare sui volti di
quei ragazzini mi ha ricompensato delle tante ingiustizie di cui ogni giorno il
nostro mestiere ci rende testimoni. Raleigh si è comportato come mai avrei
creduto: non solo ha raddoppiato la somma di denaro destinata ai ragazzi,
ma si è fermato a lungo a parlare con ognuno di loro. Peter gli è stato per
tutto il tempo attaccato alle costole. Chi l’avrebbe mai detto, Camille? Credo
che abbiate avuto un’influenza molto positiva su Frank, che lo abbiate
aiutato a combattere almeno in parte i fantasmi che lo perseguitano. Non so
cosa sia successo fra voi due, ma spero che ogni incomprensione possa un
giorno essere superata.
Vi sembrerà strano detto da un vecchio brontolone come me, ma già mi
mancate, Camille. Terrò la vostra scrivania pronta per quando tornerete.
Perché, che voi lo crediate o no, ritornerete.
Intanto, mandatemi spesso vostre notizie, è un ordine!
Buon Natale, bambina mia
Nigel Corman
Camille scoppiò a piangere.
25

14 febbraio 1899, New York


Da circa due mesi Raleigh non le parlava, se si escludevano i piccoli cenni
di saluto, i formali Buonasera Miss Brontee che aveva pronunciato con la
gola chiusa dall’emozione le rare volte che si erano incontrati. Sembrava
infatti che Camille frequentasse di rado gli avvenimenti mondani, mentre lui,
con l’unica speranza di incontrarla, accettava ogni invito. In quei fugaci
incontri, lei aveva risposto con freddezza al suo saluto, con un distacco che
gli aveva provocato un dolore fisico acuto e persistente.
Come la sua vita fosse passata in uno schiocco di dita dal paradiso
all’inferno non riusciva ancora a comprenderlo. Per quale motivo proprio
Miss Brontee rappresentasse il paradiso gli era ancora più oscuro. Non
sembrava certo un angelo, quella donna, al contrario. Solo il pensare a lei gli
suscitava impulsi molto terreni, per nulla paradisiaci ed eterei.
Mai, in vita sua, si era sentito così ferito, insicuro, arrabbiato. Sorpreso.
Mai.
Da quando, la notte di Natale, nascosto in un angolo di Washington Square
come un ladro o un mendicante, aveva visto Camille salire sulla carrozza di
Ken Benton, il suo senno se ne era volato altrove lasciandolo preda di
sentimenti estremi quali amore, risentimento, nostalgia, vendetta, desiderio,
passione. Rabbia. Quando la mente e il corpo sfuggivano al suo controllo, si
agitavano in lui sino a trovare un bersaglio comune: Camille Brontee.
Camille Brontee…
***
Il 14 febbraio 1899 fu uno dei giorni più freddi del secolo sulla costa
orientale, ma la temperatura polare non impedì a Camille di uscire di buonora
per andare al lavoro.
Non volendo lavorare per Hearst o Pulitzer, affinché la sua non apparisse
una ripicca nei confronti di Raleigh, subito dopo Natale si era rivolta a
Edward W. Bok, scrittore, magnate ed editore di Philadelphia che, senza
esitare, l’aveva assunta nella redazione di New York del Women Home
Journal. Essendo una rivista femminile, da principio Camille aveva creduto
di doversi occupare di moda e cucina, ma presto si era resa conto che, a parte
alcuni occasionali articoli di moda o costume, il suo nuovo lavoro l’avrebbe
portata a scrivere di argomenti di stretta attualità e a intervistare uomini e
donne che nel nuovo secolo avrebbero lasciato il segno.
Terminato il lavoro, Camille rientrava in Amster Yard, dove l’attendevano
il suo nuovo compagno, Red, un rissoso gatto rosso che si era installato senza
invito a casa sua, e la revisione del manoscritto di Carolyne Sutton. Di tanto
in tanto, quando ormai era sceso il buio, Carolyne andava a trovarla. Non
voleva compromettere il buon nome di Miss Brontee frequentandola in un
luogo pubblico o accogliendola a casa sua – Una casa fin troppo conosciuta,
le aveva detto – ma brevi e discrete visite all’appartamento di Amster Yard se
le concedeva con piacere. Anche perché Camille era l’unica amica che avesse
avuto da quando gli uomini avevano cominciato a guardarla in un certo
modo, molti anni prima.
In quelle rare occasioni le due donne sedevano davanti al camino con una
tazza di tè e una scatola di cioccolato belga, lavoravano al manoscritto e
conversavano amabilmente come vecchie amiche.
Carolyne sapeva.
Tutto.
Sapeva di come Benton corteggiasse con ottusa perseveranza Camille e di
come Raleigh si fosse in apparenza ritirato dalla contesa.
Certo, Miss Sutton vedeva la vita a modo suo e la sua filosofia prevedeva
che una donna si concedesse senza tentennamenti al miglior offerente. Ma lei
era lei, e Camille era Camille. Se avesse dovuto scegliere per se stessa,
avrebbe accettato come una benedizione la corte di Ken Benton, insieme a
tutti i soldi e alla posizione sociale. Ma trattandosi di Camille, Benton non
sarebbe bastato.
Al fianco di Ken, Camille si sarebbe spenta poco per volta, mentre vicino a
Frank Raleigh avrebbe continuato ad ardere per tutta la vita. La luce che le
brillava negli occhi e il tremolio della sua voce quando parlava di
quell’affascinante filibustiere la dicevano lunga sui suoi sentimenti. Camille
poteva anche negarlo al mondo e a se stessa, ma amava Raleigh e presto
sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe dovuto piegarsi alla forza di quel
sentimento.
Perché non dare una mano al destino, magari la notte di San Valentino?
Perché non aiutare due innamorati a coronare il loro sogno d’amore?
Carolyne sorrise e si preparò ad agire.
***
Non appena a casa, Camille si sciolse i capelli e si spogliò degli abiti
eleganti indossati quel pomeriggio per presenziare all’inaugurazione di un
nuovo reparto di Macy’s. Ma fu solo quando si liberò del corsetto che trasse
un lungo, soddisfatto sospiro di sollievo. Si era lasciata convincere da
Carolyne a farsi confezionare uno di quei busti alla moda che non
permettevano alle donne neppure di respirare e, nonostante fosse certa che
dopo quel pomeriggio non lo avrebbe indossato mai più, decise di prendere
spunto dalla sua esperienza personale e di scrivere un articolo contro quegli
arnesi di tortura. Essere alla moda era piacevole, ma perdere la salute a causa
dei suoi assurdi dettami era stupido, se non criminale!
Buttò l’indumento in un angolo, si lavò e indossò una lunga veste da
camera di velluto rosso abbottonata sul davanti. Di certo Carolyne, che le
avrebbe fatto visita quella sera stessa, l’avrebbe scusata, comprendendo il suo
desiderio di libertà dopo un’intera giornata imprigionata in quella… gabbia!
Non è strana la vita? Carolyne, per lavorare, si toglie il busto, io invece lo
devo indossare!
Quel pensiero, che un tempo probabilmente l’avrebbe scandalizzata, la fece
sorridere.
Da un paio di giorni Ken non si faceva né vedere né sentire, né aveva
inviato biglietti o fiori o dolci, come ormai aveva preso l’abitudine di fare
nonostante lei continuasse a scoraggiarlo: non voleva illuderlo e neanche
alimentare certi pettegolezzi che cominciavano a fiorire intorno a loro.
Povero Ken! Era stata così categorica e poco incoraggiante nel dirgli, come
era già successo a Natale, che quella sera – la sera di San Valentino – non si
sarebbero visti. Se avesse accettato il suo invito lui avrebbe frainteso e forse
persino tentato di dichiararsi o di baciarla. E lei avrebbe dovuto rifiutarlo
ancora una volta.
Non voleva fargli del male.
Meglio rimanere a casa, da sola… anzi con Carolyne.
E il gatto.
*
Alle nove di sera qualcuno bussò e con un «Eccomi» affrettato, sicura di
trovarsi di fronte Carolyne, Camille aprì la porta di casa.
«Carolyne, siete come sempre puntua…»
La frase le morì in gola. Davanti a lei c’era un Ken Benton sorridente,
armato di un mazzo di rose rosse.
«Ken! Che diavolo ci fate qui?»
«Questo!» rispose lui entrando senza essere invitato, gettando i fiori per
terra e prendendo Camille tra le braccia, mentre con un calcio ben assestato
riusciva pure a chiudere la porta.
Annaspando in cerca di ossigeno e cercando di liberarsi da braccia e labbra
tentacolari, Camille riuscì finalmente a esclamare: «Che cosa vi prende? Siete
forse impazzito, Mr Benton?»
Non una gran frase, ma comunque efficace, visto che lui la lasciò subito
andare.
«Sono solo stanco di aspettare, di comportarmi da gentiluomo, Camille. La
mia correttezza non è servita a molto, a quanto pare» rispose lui ironico,
come di solito non era.
«E questi modi da libertino credete vi saranno utili? Vi assicuro che
serviranno solo a farvi cacciare. Andatevene immediatamente, Ken.»
Invece di ubbidirle, lui scoppiò a ridere. Fu allora che Camille comprese
che l’irreprensibile e dolce Ken era ubriaco, e fu allora che la sua collera si
trasformò in tenerezza. Lui, che non eccedeva mai, aveva forse bevuto per
trovare il coraggio di dichiararsi?
«C’è una carrozza che vi attende?»
«A cosa mi servirebbe? Tanto passerò la notte qui. Mi lascerete passare la
notte con voi, vero, mia adorata?» Poi, di fronte all’aria severa di Camille,
biascicò: «Mi sono fatto lasciare lontano da qui da una carrozza pubblica, per
non compromettervi».
Lei alzò gli occhi al cielo. Anche la possibilità di chiamare il vetturino per
riportarlo a casa era svanita.
«Avanti, seguitemi in salotto, Ken. Ma non tentate di abbracciarmi di
nuovo. È chiaro?»
«Io voglio abbracciarvi, Camille.»
«State zitto e venite con me.»
Lo accompagnò sino al divano, dove lui si sedette pesantemente
scoppiando a ridere.
«Mi dareste un bacio?» chiese guardandola come un cucciolo adorante. «In
fondo è San Valentino, e io vi amo!» aggiunse con enfasi.
Cielo! Possibile che stesse succedendo proprio a lei! Per fortuna tra breve
sarebbe arrivata Carolyne e le avrebbe dato una mano a far tornare Ken in sé.
«Non vi darò un bacio, Mr Benton, ma un caffè nero e forte. State qui,
buono buono, mentre io vado a prepararlo.»
Camille fece per alzarsi.
«Non lasciatemi, vi prego!»
Aggrappandosi a lei in modo maldestro, senza volerlo le aveva aperto la
veste da camera sulla sottoveste trasparente.
«Oh!» disse lei.
«Oh!» ripeté lui, sorridendo felice come un bambino a Natale.
Per quanto sbronzo, fu lesto a posare gli occhi e le mani dove non avrebbe
dovuto.
«Ken! Che diavolo…»
«Perdonatemi, ma da tanto desideravo farlo…»
Camille gli prese le mani e faticò non poco a togliersele di dosso. Appena
ebbe ripreso fiato, disse: «Vado a cercare una vettura per farvi ricondurre
immediatamente a casa».
«No, ti supplico» rispose lui inginocchiandosi con gesto plateale ai suoi
piedi. «Voglio rimanere con te. Sei così bella e morbida, e poi è San
Valentino, la nostra festa!»
Come un bambino davanti al giocattolo da tempo sognato, allungò la mano
per toccarla di nuovo.
Camille si spostò di lato, facendogli mancare la presa e, invece di
arrabbiarsi, scoppiò a ridere.
Al contrario di Raleigh, Ken ubriaco non era pericoloso, ma solo buffo. E
imbarazzante.
Tutta quella situazione era ridicola, per la verità, ma non lo sarebbe più
stata quando Ken si fosse risvegliato dal suo torpore alcolico per rendersi
conto con orrore di essersi comportato come un imbecille. E, per quanto
quella sera si fosse preso con lei delle (innocenti) libertà, Camille non voleva
che si sentisse umiliato.
«Spero solo che quando tornerai sobrio» mormorò accarezzandogli una
guancia, «non ricorderai nulla.»
Lo guardò: era ancora chino davanti a lei, in atteggiamento di riverente
attesa e in stato di totale confusione. Gli diede un bacio gentile sulla fronte,
poi lo aiutò a sdraiarsi sul divano, permettendogli di appoggiare il capo sul
suo grembo. Gli accarezzò i capelli sino a quando non si abbandonò a un
sonno agitato. Allora cominciò a sussurrargli parole di conforto, come a un
bimbo tormentato da un brutto sogno, senza sapere che in realtà in quel
momento i sogni di Ken Benton erano tutto fuorché innocenti.
Rimase così, nella penombra della stanza, ad accarezzare la fronte di un
uomo cui voleva bene ma che non amava. A cercare di capire perché non
riuscisse ad amarlo. A cercare le parole con cui gli avrebbe spezzato il cuore.
Poi, all’improvviso, qualcosa di molto strano e imprevedibile accadde: una
finestra del salotto fu presa di mira da un misterioso assalitore.
Con un sussulto, Camille alzò lo sguardo e, sorda alle proteste di un Ken
addormentato, corse a sincerarsi dell’accaduto. Trovò il vetro intatto ma
cosparso di neve: qualcuno aveva davvero preso a palle di neve la sua
finestra?
Forse un monello?
No. Il cuore le diceva che era stato un uomo adulto a farlo, un uomo che lei
conosceva sin troppo bene. Scrutando nel buio del giardino, vide l’ombra del
colpevole dileguarsi oltre la siepe.
Raleigh!
Ma cosa ci faceva appostato di fronte a casa sua? Perché era tornato?
Perché proprio quella sera? Forse perché era la sera di San Valentino?
Un russare leggero le ricordò di non essere sola. Si girò verso Ken e
mormorò con stizza: «Dannazione anche a te! Perché non riesci a farti
amare?»
***
Frank Raleigh non poteva credere a quanto stava accadendo a qualche
metro da lui. Impietrito, col cuore che gli usciva dal petto e il gelo che gli
penetrava nelle ossa, se ne stava lì a bocca aperta, testimone di una scena cui
mai si sarebbe aspettato di assistere. Soprattutto quella sera, dopo che
Camille gli aveva mandato un biglietto chiedendogli di recarsi da lei alle
nove precise.
«Una signora velata che non ha voluto entrare in casa vi invia questo
biglietto» gli aveva detto Ralph durante la cena.
Lui aveva aperto la busta e dopo aver letto si era precipitato fuori dalla
porta di ingresso, ma non aveva visto nessuno. Poi, con lentezza, era ritornato
alla sua cena solitaria.
Quella era la grafia di Camille, ne era certo.
Lei voleva vederlo, proprio la sera di San Valentino? Non gli importava per
quale motivo volesse farlo. Sarebbe corso da lei, a qualsiasi costo.
Lei mi vuole.
La sola idea di incontrarla lo aveva reso euforico, tanto da aver sorriso
come uno stupido di fronte a un perplesso Ralph.
Mille ipotesi, mille propositi, mille domande e risposte gli avevano
affollato la mente; mille pensieri dolci, mille desideri proibiti.
Tossendo leggermente, aveva spostato il piatto quasi intonso, bevuto un
sorso di vino e annunciato a Ralph che sarebbe uscito.
«Devo farvi preparare la carrozza, signore?»
«No, andrò a piedi, è una bella serata, grazie.»
«Mi permetto di farvi notare che la temperatura è rigidissima, signore, e
che c’è un forte vento.»
«Mi coprirò bene, Ralph. Metterò anche la sciarpa, se vi fa piacere.»
Poi si era alzato e sorridendo era corso in camera sua a prendere l’astuccio
di Tiffany.
Pochi minuti dopo, quel prezioso solitario sembrava pesargli in tasca come
un macigno.
Era stato quasi sul punto di suonare alla porta dell’appartamento di Camille
in Amster Yard, quando, impietrito dal freddo e dallo stupore, si era trovato
ad assistere a una scena che mai avrebbe voluto vedere. Subito aveva
indietreggiato, ma ad andarsene non ce l’aveva proprio fatta. Così, sbigottito
e frustrato, era rimasto a guardare, come se dietro quella finestra velata da
tende sottili si fosse aperto un palcoscenico e non il salotto di lei, come se su
quel palcoscenico avesse luogo una farsa e non la vita vera.
Ken Benton stava baciando Camille, e non come un fratello. E ora le aveva
aperto la veste da camera e le accarezzava il seno, incurante che lei gli avesse
scostato la mano. E non era ancora finita: cosa ci faceva quel pagliaccio in
ginocchio di fronte a lei?
Una era la sola e ovvia risposta a quella questione: le stava chiedendo di
sposarlo, che altro? E lei sembrava aver acconsentito. Anche se non si erano
scambiati niente di simile a un bacio appassionato, lei gli aveva sfiorato la
fronte con le labbra e poi, una volta sul divano, gli aveva preso il capo in
grembo e lo aveva accarezzato con tenerezza sussurrandogli parole… dolci?
Parole che a me non ha mai detto e mai dirà.
Perché diavolo Camille gli aveva chiesto di andare a trovarla se già
attendeva la visita di Ken?
Un brivido gelido, che fosse dovuto al vento o alla sua disperazione non
aveva importanza, gli corse lungo la schiena. Socchiuse gli occhi e si
appoggiò al tronco di un albero, nudo e freddo come la sua anima. Che
stupido era stato a crederle, a cadere nel suo perfido incanto! Camille l’aveva
invitato con il solo scopo di farlo assistere a uno spettacolo crudele, per
umiliarlo, sbattergli in faccia quanto poco significasse per lei. Per dirgli che
aveva fatto la sua scelta definitiva.
Ken.
Alla fine, il damerino aveva vinto. Lui, la sua balbuzie e la sua banca gli
avevano portato via l’unica donna che avesse mai amato. E di questo non lo
biasimava, incolpava solo se stesso.
Raleigh scosse la testa, come per svegliarsi. Aveva freddo. Voleva bere.
Scappare. Voleva entrare in casa e riempire di botte Benton.
Invece, come colto da un raptus infantile, si chinò e prese una manciata di
neve, ne fece una palla e la scagliò con forza contro una delle finestre di
Camille. Poi ne fece un’altra, e un’altra ancora.
Credeva di essere la sola, Miss Brontee, a poter prendere a palle di neve le
finestre altrui?
***
I giorni seguenti
Solo Carolyne Sutton aveva compreso cosa fosse successo quella sera di
San Valentino. Era stata lei stessa, dopotutto, a ordire la trama di quel
pasticcio. Dopo essersi resa conto del guaio commesso, aveva scritto a Frank
Raleigh un biglietto, chiedendogli un incontro. Non aveva specificato il suo
nome, ma si era solo firmata “La donna che vi ha invitato la sera di San
Valentino”.
Convinto che a scrivergli fosse Camille, Raleigh aveva stracciato il
biglietto e non si era presentato all’appuntamento.
Era stato puntuale, invece, ad altri incontri.
Per uno scherzo del fato, qualche giorno dopo il 14 febbraio la stessa
Carolyne aveva visto Raleigh trastullarsi con Geneviève Mercury nel
salottino di prova di una modisteria. Sulle prime aveva pensato di riferire la
cosa a Camille, poi aveva deciso di tenersi stretto quel segreto, illudendosi
che il destino avesse già scelto per la sua giovane amica e che Benton fosse
quindi l’uomo giusto per lei. Miss Sutton si era ormai convinta che, per
l’affascinante Mr Raleigh, con i suoi capelli neri e i suoi occhi blu, col suo
fare spregiudicato e anticonformista, Camille non fosse stata che un capriccio
passionale e fugace.
***
Era vero.
Con il solo scopo di togliersi dalla testa e dal cuore Camille Brontee, Frank
Raleigh aveva cominciato a frequentare Geneviève Mercury, giovane e ricca
vedova con la quale aveva già allegramente condiviso il letto ai tempi in cui il
di lei marito era ancora su questa terra. Una donna non complicata, libera e
priva di inibizioni, in grado di godere della propria indipendenza come e
quanto un uomo. Una medicina, per chi come Raleigh voleva gettarsi le pene
d’amore alle spalle.
Sempre, come lui le aveva spiegato in modo spiccio, che lei non volesse
trasformare i loro rendez-vous in incontri meno fisici e più sentimentali.
Non ci vollero molte settimane perché i due uscissero dalla clandestinità e
fossero accettati in società come una coppia, per quanto irregolare e
chiacchierata fosse quella coppia.
***
Camille non riusciva a comprendere come fosse potuto succedere. La sera
di San Valentino – proprio quella, di tutte le sere possibili! – Raleigh era
tornato da lei mentre un Ken Bennett inconsapevole, ingombrante e ubriaco
aveva pensato bene di offrire uno spettacolo indegno.
Il giorno dopo, aveva avuto la tentazione di scrivergli o di incontrarlo per
spiegargli che con Ken Benton non c’era mai stato nulla, che quello che
aveva visto non era che un colossale equivoco. Ma un dubbio legittimo e un
orgoglio dispettoso gliel’avevano impedito.
Era proprio sicura che a colpire la finestra fosse stato Frank? Certo, a
farglielo credere c’era il precedente di Washington Square in cui la medesima
situazione si era svolta a ruoli inversi. Ma se invece fosse stato un monello a
prendere di mira la sua finestra? Solo l’idea di essere il bersaglio dei suoi
lazzi, oltre che delle sue palle di neve, la fece desistere dalle sue intenzioni.
Poteva andarsene anche al diavolo, per quanto la riguardava.
Confortata dalla propria collera, Camille decise che Raleigh non meritava
alcuna spiegazione.
*
15 marzo, atelier di Madame Renard
A ogni alba era seguito un tramonto, a ogni giorno una notte, e più di un
mese era passato da quel 14 febbraio. Ken Benton, tornato l’uomo affidabile
di sempre, aveva ripreso il suo corteggiamento appropriato, mentre Frank
Raleigh si mostrava in società al fianco della Mercury. Non che Camille li
avesse mai visti di persona, no, ringraziando il cielo! Ciononostante,
particolari maliziosi su quella scandalosa unione giungevano di tanto in tanto
al suo orecchio.
«È una donna molto bella e ricca, anche se non più giovanissima» avevano
detto due anziane matrone nella toilette di Sherry’s, ristorante à la page che a
pranzo si popolava di ricche signore.
Camille aveva sperato che fossero solo pettegolezzi, ma in fondo al cuore
era certa che non lo fossero. Così, pur avendo rinunciato a lui per motivi che
a volte le parevano più folli dell’idea stessa di sposarlo, non riusciva a
smettere di pensare a Frank e di pensarlo accanto a Geneviève Mercury.
Fu Johanna Donaghue, la madre di Peter, a confermarle per caso e senza
alcuna malizia l’autenticità delle voci sulla nuova, felice coppia del bel
mondo newyorkese.
Quella mattina Camille andò a trovarla nell’atelier di Madame Renard dove
ormai, grazie all’interessamento di Frank Raleigh, Johanna lavorava come
aiuto sarta. Quando entrò nel negozio, una sorta di bomboniera rosa pastello
che era un inno alla frivolezza, la stessa Madame Renard le corse incontro
con un sorriso smagliante e speranzoso.
Non potendosi permettere alcun acquisto in quel tempio dell’eleganza,
dopo gli inevitabili convenevoli Camille assunse un atteggiamento
professionale e disse: «Madame, se avete cinque minuti a disposizione, vorrei
porvi qualche domanda sulle prossime tendenze della moda. Per il Women
Home Magazine, sapete».
Soddisfatta alla sola prospettiva di essere citata dalla rivista femminile più
venduta nel Paese, Madame Renard gonfiò il petto prosperoso e incominciò a
parlare di tessuti e modelli.
«I rigati, Miss Brontee. Vedrete che spettacolo!»
Camille pensò a certe matrone di sua conoscenza a passeggio sulla Quinta
Avenue con indosso abiti dalle righe ampie e colorate come piume di
pappagallo e represse un risolino.
Sii professionale, si disse.
«Posso inviare un fotografo per prendere qualche immagine, Madame?»
Il petto della Renard si gonfiò ancor di più.
«Mais naturellement, ma chérie.»
Sistemata quella faccenda, Camille chiese con un respiro di sollievo di
poter parlare con Johanna Donaghue.
«La conoscete, Miss Brontee? È una brava donna e un’ottima sarta.»
«Sì, la conosco, e tengo molto a lei e alla sua famiglia.»
Madame Renard alzò un sopracciglio. «Non siete la sola, chérie» mormorò,
ma non aggiunse altro.
Appena la vide entrare nel laboratorio, Johanna si alzò e le corse incontro.
«Miss Brontee!»
Le due donne si abbracciarono sotto lo sguardo incuriosito delle altre
lavoranti.
«Perché non offri un tè a Miss Brontee, Johanna?» si inserì la Renard.
«Un tè? È proprio quel che mi ci vuole» esclamò Camille seguendo
Johanna nella piccola cucina sul retro.
La donna le raccontò dei primi successi di Peter a scuola e del lavoro al
Daily, al sabato e alla domenica. «Gli hanno dato una bellissima divisa rossa
da fattorino, di cui va molto orgoglioso. Non potrò mai ringraziare
abbastanza Mr Raleigh per avermi fatto avere questo posto e Mrs Mercury
per avermi fatto passare da semplice lavorante ad aiuto sarta!»
Solo a sentire pronunciare il nome di quella donna, Camille si irrigidì. Il
cuore sembrava volerle uscire dal petto da tanto si era messo a correre.
«Mrs Mercury, dite?»
Johanna le si avvicinò.
«Sì, sapete, la nuova fidanzata di Mr Raleigh. È un’ottima cliente e ha
insistito con Madame affinché mi affidasse la confezione dei suoi abiti. Credo
l’abbia fatto solo per compiacere Mr Raleigh.»
La tazza che Camille teneva in mano cominciò a tremare pericolosamente e
il tè a schizzare sulla tovaglia. Come se di colpo fosse fatta di spine, la rimise
sul piattino e si strinse le mani in grembo, l’espressione del viso che tradiva
l’amor proprio trafitto.
Dunque è vero! Frank si consola con un’altra donna, pubblicamente.
Avrebbe voluto alzarsi e urlare la sua rabbia al mondo, ma si sforzò di
sorridere. Johanna la stava scrutando fino in fondo all’anima.
«Non lo sapevate, dunque, Miss Brontee?»
Camille fece cenno di no. Poi si alzò di scatto e riuscì a malapena a
sussurrare: «Scusatemi, Johanna, devo andare. Date un bacio a Peter per
conto mio».
Uscì dall’atelier come una furia, investendo una cliente e facendo cadere
un’intera scatola di guanti di capretto bianco.
«Perdonate» esclamò senza rallentare l’andatura.
«Non è niente» rispose quella squadrandola perplessa. «Chi era quella
folle?» chiese poi a Madame Renard.
«Miss Camille Brontee, una giornalista» spiegò la modista, come se ciò ne
giustificasse la follia.
«Ah, dunque quella è la famosa Miss Brontee?»
Poi, senza comprare né guardare alcun articolo, Geneviève Mercury se ne
uscì in fretta e furia dal negozio, con gran disappunto di Madame Renard.
*
Camille era sconvolta. Non avrebbe dovuto esserlo, ma lo era. Finché non
era stata che un’ipotesi era riuscita a sopportarlo. Ma ora, certa della
relazione di Frank con quella donna, l’idea la faceva impazzire. Di rabbia, di
gelosia, di rimpianto. Tremava, piangeva, borbottava. Il tutto nell’affollato
tratto che dalla Quarta Avenue portava in Union Square.
Come si era permesso di tradirla? Un’osservazione assurda. Frank Raleigh
non poteva tradirla semplicemente perché non erano uniti da nessun legame.
Non erano fidanzati. Promessi. Sposati. Non erano niente di niente se non
amanti. Ex amanti, per la verità. Non erano niente di niente perché quella
sera, a casa di Raleigh, dopo aver fatto l’amore per tutta la notte e aver
accettato la sua proposta di matrimonio, in un momento di follia lei gli aveva
detto di no. Un no deciso, protervo, stupido. Poteva ancora vedere
l’espressione attonita di Frank mentre cercava una ragione a quel repentino
voltafaccia. A quel tradimento.
Perché di questo si era trattato. Di un tradimento: non nei confronti di
Frank Raleigh, ma di se stessa.
No, non aveva nulla da recriminare, la colpa era solo sua. E di quell’insulsa
questione di principio che si era frapposta fra loro, che li aveva separati per
sempre.
«Senza di lui non so cosa farmene della mia libertà! E neanche del lavoro!»
sbottò talmente forte che alcuni passanti si girarono a guardarla.
26

Festa di San Patrizio


Arrivò anche venerdì 17 marzo, giorno in cui gli irlandesi di New York
festeggiano San Patrizio con una grande parata. Poiché la giornata era tiepida
e primaverile, Jenny l’aveva convinta ad accompagnarla a Central Park per
un giro in bicicletta prima dell’inizio della sfilata che, per nessuna ragione,
Camille intendeva perdere. Non solo era curiosa di vedere la marea verde
degli irlandesi avanzare festante lungo la Quinta Avenue, ma era decisa a
scriverne per il suo giornale.
Abbigliate con ampi pantaloni alla araba e giacchino stretto in vita, un
berretto da monello calato sulla testa come la moda imponeva alla nuova
donna sportiva, le cicliste percorsero in lungo e in largo il parco, fermandosi
ogni tanto per buttare agli scoiattoli noci e pane secco. Un paio di sfacciati,
addirittura, si arrampicarono sulla panchina dove le due giovani donne si
erano sedute a riposarsi al sole.
«Non sono adorabili?» chiese Jenny con un gran sospiro guardando i due
animaletti divorare una noce. «Almeno possono vivere come vogliono, senza
un padre e una madre che tarpa loro le ali!»
«A parte il fatto che gli scoiattoli non hanno le ali, sai quante donne
vorrebbero la vita che hai tu, Jenny?»
«Non lo so quante donne la vorrebbero, e non mi interessa. So solo che non
la voglio io!»
Camille sorrise all’amica, poi, alzandosi in piedi e sollevando la bicicletta
da terra, disse: «Ora andiamo, altrimenti non facciamo in tempo per la
parata.»
Le due amiche ripresero a pedalare e poco dopo giunsero in vista del
Cleopatra’s Needle, l’obelisco egiziano che da una ventina d’anni
campeggiava nel parco all’altezza del Metropolitan Museum. Una coppia,
che in quel momento dava loro le spalle, era ferma ad ammirare i geroglifici
incisi alla base del monumento. Camille non ci mise più di un secondo a
riconoscere nell’uomo Frank Raleigh.
La donna, alta e appariscente, teneva il braccio di lui con fierezza e una
certa sfacciataggine, quasi volesse sfidare il mondo a criticarla.
Camille, sotto sotto, l’ammirò per la sua spavalderia.
A testa alta, l’enorme cappello ondeggiante sul capo, la giacca aderente
bordata di volpe a disegnarle la figura voluttuosa, stringeva Raleigh a sé
come un trofeo. Lui le sussurrò qualcosa all’orecchio e lei si abbandonò a una
risata argentina, il capo riverso all’indietro, il fianco appoggiato a quello di
lui.
Se prima l’aveva ammirata, in quel momento Camille la odiò.
Dannazione!
A Cleopatra, a Jenny, al dio Anubi, persino!
Non voleva incontrare Raleigh! Non con quella donna al braccio!
Camille si sentì perduta e all’improvviso l’unica soluzione alle sue
preoccupazioni le parve una fuga repentina.
«Cam, è Frank, andiamo a salutarlo. Nessuno mi ha ancora presentato la
sua amante e muoio di curiosità» sentì dire alla voce di Jenny, ma era un
suono lontano, come se la vista di Frank con quella donna l’avesse
catapultata in uno spazio parallelo.
Camille non era neppure riuscita a emettere un solo suono, che Jenny aveva
già aumentato l’andatura e stava attirando l’attenzione della coppia.
«Raleigh! È così che si abbandonano gli amici? Dove eravate finito? Non
vi vedo da…»
Frank si girò verso di loro. Un movimento lento, preoccupato.
Istintivamente Camille mise i piedi a terra per frenare. Per girare la
bicicletta e fuggire. Ma l’inerzia seguì le sue leggi e lei cadde, in modo goffo.
Sgraziato. Comico persino.
Di fronte a Frank Raleigh.
E alla sua amante.
Pregò di morire. Forse solo di svenire. Pregò che nessuno si accorgesse di
lei, che la terra la inghiottisse. Che Anubi uscisse dall’obelisco e la
conducesse dritta dritta agli inferi. Che l’aspide di Cleopatra la togliesse da
quell’imbarazzante situazione.
Ma, naturalmente, non andò così.
Quando rialzò il viso dalla polvere, Raleigh stava correndo verso di lei,
chiamando il suo nome.
«Camille! Per l’amor di Dio, ti sei fatta male?»
«Sto bene, non mi sono fatta nulla» disse tentando di rialzarsi, mentre
Frank, già inginocchiato al suo fianco, la ispezionava in cerca di ferite.
Anche Jenny si era materializzata in un istante, mentre Geneviève Mercury
si avvicinava con lentezza, lo sguardo fisso su di lei.
Camille si alzò, vacillò un pochino, poi ritrovò il suo equilibrio.
A parte qualche graffio, l’unica ferita che aveva subito era all’orgoglio.
Geneviève la guardò e non le sorrise. Strinse invece gli occhi e fece
oscillare lo sguardo da Frank a Camille, da Camille a Frank. Il viso prima si
irrigidì, poi assunse un’espressione di cui forse solo Camille afferrò il
significato: Ti ho riconosciuto, carina! Non me lo porterai via, provaci e
dovrai fare i conti con me.
Ma Mrs Mercury era un’esperta nell’arte della finzione. Così, aprì il volto
in un sorriso cordiale e chiese: «Dove vi ho già vista… Miss… Qual è il
vostro nome, cara?»
«Miss Brontee» rispose lei, secca.
«La giornalista?» ribatté l’altra sollevando le sopracciglia, come se i suoi
sospetti fossero ormai una certezza.
«Sì signora, sono proprio io. Ora vi prego di scusarci, è meglio che
torniamo, Jenny. La parata.»
Raleigh, che aveva seguito quello scambio di battute con trepidazione,
intervenne.
«Nient’affatto, dovete prima andare a farvi visitare da un medico. Avete
battuto la testa…»
Ora si preoccupa per me?
«Di ciò non dovreste crucciarvi, signore: non mi avete sempre detto che ho
la testa dura come il legno? Vi auguro una buona giornata, Mr Raleigh.
Signora…»
Camille si chinò per raccogliere la bicicletta, ma Frank la precedette. Per un
istante le loro dita si sfiorarono e per lei fu come se l’avesse stretta fra le
braccia con lo stesso ardore di quando... Al diavolo! Evitò di guardarlo, per
timore di scorgere nei suoi occhi blu la medesima sensazione di panico e di
eccitazione che bruciava impietosa nei suoi.
Non ce ne fu neppure il tempo, per la verità, perché in quel momento si
sentirono delle urla e fu chiaro che qualcosa di grave stava accadendo.
La parola fuoco vibrò minacciosa nell’aria.
Alcuni uomini in evidente stato di agitazione correvano nella loro
direzione.
Frank ne bloccò uno. «Cosa sta succedendo?»
«Il Windsor è avvolto dalle fiamme. Ci sono persone imprigionate là
dentro…» L’uomo riprese a correre e il resto delle sue parole si spense
nell’aria.
Il Windsor sorgeva proprio al centro della Quinta Avenue ed era uno degli
hotel più rinomati e lussuosi di Manhattan; molte famiglie dell’alta società
avevano scelto uno dei suoi sfarzosi appartamenti come residenza di città.
«Un incendio! I Warton non vivono forse al Windsor?» urlò Jenny con il
volto terreo dallo spavento.
Frank assentì. Poi, senza troppe cerimonie, le tolse di mano la bicicletta.
«Devo andare a vedere cosa sta succedendo, Jenny. Con quale mezzo siete
venuta a Manhattan?»
«In carrozza. Il cocchiere mi aspetta all’ingresso sud del parco.»
«Allora correte da lui e tornatevene a Brooklyn, e portate Camille con voi.
Subito! E tu, Gene, va’ a casa, l’incendio è molto più a sud della 65ma, non
avrai problemi.»
«Non vorrai lasciarmi sola adesso, Frank!» rispose lei con fare oltraggiato.
Ma Raleigh non si preoccupò neppure di risponderle. Inforcò la bicicletta e
pedalò a tutta velocità verso l’uscita più vicina, quella del Metropolitan
Museum.
Imprecando, Geneviève si diresse nella stessa direzione, Camille e Jenny
verso il grande cancello al lato sud del parco. Quando vi arrivarono, la
carrozza dei Benton era lì ad attenderle. Jenny montò, Camille no.
«Che aspetti, Cam, sali!»
«No, Jenny, devo andare a vedere cosa sta succedendo al Windsor, vai a
casa.»
«Può essere pericoloso… Camille, torna indietro!»
Ma Camille Brontee era già montata in sella e stava pedalando veloce verso
la Quinta Avenue.
*
Se l’inferno esiste, dev’essere questo, pensò Camille.
All’inizio a investirla furono le urla e le voci, poi l’odore acre del fumo e il
calore, come un presagio di morte.
Di fronte al Windsor, ormai avvolto dalle fiamme, la Quinta Avenue
brulicava di mezzi di soccorso, di pompieri, alcuni vestiti con l’uniforme di
gala indossata per la parata, di infermieri e poliziotti, mentre la folla di
curiosi mescolata alla marea verde degli irlandesi sembrava crescere di
secondo in secondo.
In mezzo a quella confusione i superstiti di quel rogo orrendo piangevano a
dirotto, cercavano i loro cari, raccontavano del loro miracoloso salvataggio e,
benché fossero ormai fuori pericolo, non riuscivano a darsi pace.
Le urla si susseguivano incessanti e terribili, accrescendo il manto di panico
e dolore che in poche ore aveva coperto quell’angolo di mondo.
Catene di mani trasportavano secchi d’acqua nell’inutile tentativo di
spegnere un muro di fuoco che neppure gli idranti sembravano riuscire a
indebolire.
Camille abbandonò la bicicletta in un angolo e si fece largo attraverso la
folla e il cordone della sicurezza sino a un gruppo di giornalisti che sostava
davanti al lato est del palazzo.
«Miss Brontee, non è uno spettacolo per voi» le disse un cronista del
Journal.
Lei non gli rispose, ma seguì lo sguardo allucinato dei suoi colleghi. Tutti
guardavano in alto.
Fu allora che li vide.
Uomini e donne affacciati alle finestre che gridavano, invocando un aiuto
che già sapevano non sarebbe arrivato. Infatti, non solo le scale portate sul
posto dai pompieri erano ferme ai piani più bassi dove altre persone, più
facilmente raggiungibili, aspettavano di essere salvate, ma la rete delle scale
di sicurezza era impraticabile perché arroventata dalle fiamme.
Alcuni di quei disperati riuscirono a salvarsi lanciandosi dalle finestre nelle
grosse reti tese dai pompieri a quello scopo. Altri, ormai raggiunti dal fuoco,
saltarono nel vuoto sfracellandosi al suolo.
Camille non riusciva più a respirare, e non certo per il fumo che inondava
l’aria. Era lo strazio a pesarle come un macigno sull’anima.
Trovò il modo di dare una mano, prima occupandosi dei bambini tratti in
salvo, poi unendosi alla lunga catena umana che trasportava secchi d’acqua e
di sabbia. Si prodigò sino all’ultimo, sino a quando qualcuno non la prese da
parte e le ordinò con voce decisa di scappare, che presto quella prigione di
fuoco sarebbe crollata.
Fu allora che, per la prima volta da quando era arrivata, si chiese dove fosse
finito Frank Raleigh.
Sentì brividi di terrore correrle lungo la schiena e poi invaderle il cuore.
E se gli fosse successo qualcosa? Conoscendo il suo carattere impetuoso,
era improbabile che fosse rimasto lì a guardare mentre il rogo avanzava.
Così, invece di andarsene come le era stato ordinato, prese a cercarlo tra la
folla che retrocedeva sempre più, sospinta dalle fiamme e dal calore
implacabile.
Dove diavolo era finito Raleigh?
Nei pressi di ciò che rimaneva dell’ingresso del Windsor sostavano ormai
solo alcuni pompieri e due reporter armati di macchina fotografica. Sui loro
volti un’espressione angosciata annunciava morte. Forse loro sapevano
qualcosa. Col cuore come impazzito, Camille corse in quella direzione.
«Avete visto Frank Raleigh?» chiese.
I due si guardarono prima di rispondere.
«Andate a casa, Miss Brontee.»
«Avete visto Frank Raleigh?» ripeté lei alzando la voce.
I due si guardarono ancora.
«Certo che l’abbiamo visto. L’abbiamo visto entrare lì dentro trenta secondi
fa. Da quando è scoppiato l’incendio non ha fatto altro che entrare e uscire da
quel rogo. Ha salvato molte persone, si è comportato da eroe…» disse uno
dei due.
Camille sentì il sangue farsi di ghiaccio.
«Trenta secondi? Non dovrebbe essere già fuori?» chiese scrutando tra le
fiamme.
«Andate a casa, Miss Brontee.»
«Non senza Raleigh.»
«Miss Brontee… trenta secondi sono un’infinità in quell’inferno. Non
dovreste farvi illusioni.»
Camille scosse il capo e replicò con rabbia: «Trenta secondi non sono
niente per lui!»
«Che mi prenda un colpo! Forse avete ragione, Miss Brontee, guardate!»
urlò l’altro reporter indicando una finestra del primo piano.
Con un fagotto sulle spalle, in precario equilibrio sul davanzale, Frank
Raleigh stava strillando a pieni polmoni per richiamare l’attenzione.
In un battibaleno i pompieri furono sotto di lui con la rete di salvataggio,
pronti a sostenere il peso di Raleigh e di qualsiasi cosa fosse avvolta in quel
fagotto.
Camille li raggiunse correndo, dimenticandosi persino di respirare, gli
occhi fissi su Frank, nel cuore una preghiera ininterrotta.
Raleigh si mantenne in equilibrio sul davanzale minacciato dalle fiamme
sino a quando la rete non fu ben tesa, poi senza indugi gettò il fagotto dalla
finestra e si buttò a sua volta.
Con orrore, Camille lo vide precipitare e poi rimbalzare sulle corde, come
privo di vita.
«Frank!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola. «Frank» urlò di nuovo,
gettandosi quasi su di lui, mentre un applauso spontaneo si levava dalla folla.
***
Non sapeva come, ma era riuscito a salvare quell’ultima vita.
La vita di una bambina.
Non appena aveva sentito quella voce sottile invocare aiuto, si era gettato di
nuovo tra le fiamme. La piccola, nascosta in un angolo dell’ingresso,
piangeva disperata. L’aveva avvolta in un tappeto, presa tra le braccia e
portata in salvo su per le scale un paio di secondi prima che il crollo del
soffitto potesse impedirglielo. Come ci fosse riuscito era un mistero anche
per lui: che gli angeli, dopotutto, esistessero davvero?
Quando, dopo essere saltato dalla finestra, aveva riaperto gli occhi, la voce
di Camille era stata come un balsamo per la sua anima e i suoi occhi nocciola,
che lo fissavano dietro un velo di lacrime, come il vento dirompente della
speranza.
«Camille? Sei davvero tu?» mormorò col sorriso sulle labbra, mentre lei si
chinava a baciargli la fronte nera di fumo.
«Come sono finito dall’inferno al paradiso?»
*
L’infermiera sul carro ospedale gli medicò le escoriazioni e le lievi ustioni
che aveva riportato alle braccia e alle mani, raccomandandogli di stare a
riposo per almeno un paio di giorni.
«Siete un uomo fortunato, Mr Raleigh. Uscire da quell’inferno indenne è
stato un vero miracolo.»
«L’opera di un angelo, probabilmente» commentò lui, pensando alla
piccola tratta in salvo.
Nel frattempo, Camille era riuscita a trovare una carrozza e, dopo averlo
aiutato a salirvi, diede al conducente il proprio indirizzo.
Si tennero per mano per tutto il tragitto, attoniti, sfiniti, consumati dalla
rabbia e dal dolore, sicuri che per tutta la vita non avrebbero mai dimenticato
l’incubo vissuto quel giorno, le decine di persone morte nel rogo del
Windsor, le urla, i pianti, l’orrendo odore di carne bruciata.
Esausto, quella sera Raleigh lasciò che Camille si prendesse cura di lui
come di un bambino, e come un bambino si addormentò.
La mattina dopo si svegliò all’alba e la trovò al suo fianco, come doveva
essere, ora e sempre. Dormiva stretta a lui, il respiro tiepido che si mescolava
al suo, i capelli sciolti sulle spalle, le labbra morbide e invitanti.
Dio! Amava quella donna, e aveva bisogno di lei come dell’aria che
respirava, più dell’aria che respirava.
«Amore mio» le mormorò sulle labbra.
Camille si mosse lentamente, socchiuse gli occhi e sorrise.
«Mi piace sentirtelo dire. Amore mio… Sì, mi piace.»
«Ti ho svegliata…»
«Non è facile dormire quando mi stai accanto, mi pare uno spreco di
tempo» mormorò lei con un sospiro.
Ancora chino su di lei, Raleigh le rivolse un lungo sguardo carico di
desiderio prima di stringerla a sé con forza, sopraffatto dall’emozione che
quel contatto gli provocava. La baciò di nuovo, all’inizio con dolcezza, poi
con foga crescente, quasi che con quel bacio potesse cancellare ogni ferita,
subita o inferta, ogni errore, ogni delusione.
Attraverso quel bacio gli parve di ricominciare a vivere.
Senza mai staccare le labbra dalle sue, scivolò sopra di lei e senza indugi la
penetrò chinandosi poi sul suo seno per suggerne ogni dolcezza.
Camille emise un gemito, poi un altro e un altro ancora.
«Frank…» supplicò.
«Vuoi che smetta?» bofonchiò lui senza smettere.
La risposta di Camille fu molto chiara: si inarcò per lui e gli cinse i fianchi
con le gambe per accoglierlo più profondamente in sé, affidandosi a lui,
corpo, cuore, anima.
Sostenendosi sulle braccia per potersi specchiare negli occhi di lei, Raleigh
la amò come fosse l’ultima volta, o forse la prima, sino a quando i loro respiri
non si fusero in una meravigliosa promessa.
***
Nei giorni successivi si contarono circa novanta fra morti e dispersi
nell’incendio del Windsor; alcuni corpi vennero ritrovati, altri non lo furono
mai. Le macerie vennero caricate su carri e portate via, i mattoni intatti
furono recuperati e utilizzati per costruire nuovi palazzi. La Quinta Avenue,
annerita dal fumo e dal dolore, per alcuni giorni assunse l’aspetto di un
infinito corteo funebre.
Non fu mai indicato il nome di un colpevole. E neppure ne venne mai
compresa l’origine: se fosse stata dolosa o dovuta alla scelleratezza umana
non si seppe mai.
Camille Brontee investigò sull’incidente fino a consumare se stessa e in più
di un articolo accusò di colpevolezza e negligenza il proprietario del
Windsor, Elbridge Garry, per non aver dotato il suo lussuoso hotel delle
necessarie misure di sicurezza.
In un pezzo scritto su invito di Corman per il Daily e pubblicato due giorni
dopo il rogo, Camille raccontò le gesta eroiche di un uomo comune. Non ci
fu bisogno di scrivere il suo nome, perché tutta la città sapeva chi fosse
quell’uomo. La foto di Raleigh pronto a saltare nel vuoto con quel fagotto
umano sulle spalle fece il giro del mondo. Il fagotto umano si chiamava
Sarah, aveva sette anni e grazie a Raleigh avrebbe avuto una vita.
***
Il giorno seguente, Raleigh si recò da Geneviève per comunicarle che era
finita. Sulle prime lei lo accolse come un eroe, poi il suo atteggiamento mutò:
si calò nei panni della donna abbandonata.
Un’interpretazione perfetta, davvero drammatica.
Maledicendosi per essersi cacciato in quel pasticcio, Raleigh rimase calmo,
evitando di cedere alle provocazioni di lei.
«Non ti ho mai giurato amore eterno, Gene, non ti ho mai neppure detto di
amarti. Mi sembra di essere stato chiaro fin dall’inizio.»
«E da quando ciò sarebbe un problema? Possiamo continuare a divertirci
insieme…»
Raleigh scosse la testa. «No, Gene. Fra l’altro, ho l’impressione che non ti
dovrebbe essere difficile trovare qualcuno che ti consoli.»
«Mi stai accusando di averti tradito?»
«E come potrei, dal momento che fra noi non ci sono mai state promesse?
Potrei accusarti di esserti concessa con molta disinvoltura ad altri, ma ti
assicuro che non me ne importa un fico secco.»
«E se aspettassi un bambino? Non ti assumeresti le tue responsabilità?»
piagnucolò lei gettandosi sul letto languida, una mano sugli occhi.
Raleigh scosse la testa. «Se tu fossi incinta, il bambino non sarebbe mio,
visto che ho usato sempre precauzioni, come tu ben sai. Non tentare di
incastrarmi, Gene, potresti pentirtene.»
Di scatto la donna si alzò dal letto, come una vipera pronta a mordere.
«Non vorrei un figlio da te neppure se partorire fosse come avere un
orgasmo infinito!» sibilò.
«Meglio così, allora» ribatté Frank dirigendosi a lunghi passi verso la porta.
«Non osare andartene, bastardo!» urlò lei.
Lui aprì la porta.
«È per quella giornalista, vero? Per quella puttanella in bicicletta che mi
lasci? Me la pagherai, te lo giuro.»
«Non minacciarmi, Geneviève, non ti conviene.»
*
Non che gli importasse delle minacce di Geneviève. Il tempo e un paio di
nuovi amanti avrebbero smorzato la sua rabbia. Dopo essere scampato alla
morte tra le fiamme del Windsor, nulla avrebbe potuto intimidirlo, perché il
suo cuore era carico di gratitudine: per aver salvato le vite di molti e, prima
fra tutte, quella della piccola Sarah. E per aver ritrovato, pur in quelle
tragiche circostanze, l’amore di Camille.
Non cessava di fare piani sul loro futuro, perdendosi nei pensieri con un
insolito sorriso sulle labbra, immaginando il momento in cui le avrebbe
chiesto di sposarlo. Di nuovo.
Per ogni evenienza, o per scaramanzia, ogni mattina portava con sé l’anello
di Tiffany, deciso però a non commettere lo stesso errore fatto in passato.
Questa volta avrebbe messo da parte l’impazienza e lasciato a Camille il
tempo necessario per decidere della sua vita. Confidando che il fare l’amore
con tanta frequenza e ardore, e per di più senza quei provvedimenti che
avevano evitato alle sue precedenti amanti gravidanze scomode, avrebbe
accelerato i tempi delle nozze.
*
30 marzo, Daily Building
Quella mattina Adam Laurel entrò come un tornado nell’ufficio del suo
capo. Raleigh non fu affatto contento di vederlo: l’espressione tesa del suo
segretario personale annunciava guai.
«Che succede?» gli chiese brusco, rischiando di rovesciare il suo caffè.
«Buongiorno anche a voi, signore» rispose Laurel con fare ironico
porgendogli una busta. «Ho ritenuto che potesse essere urgente, viene dal
Michigan.»
«Dal Michigan?»
Non era Natale, e neppure il suo compleanno, perché mai quella lettera?
Probabilmente mio padre e i miei fratelli hanno bisogno di altri soldi.
Possibile che a fine marzo abbiano già esaurito la loro rendita annuale?
Con frenesia e un crescente senso di disagio, lo stesso che provava sempre
quando c’era di mezzo la sua famiglia, prese la busta e l’aprì, poi incominciò
a leggere.
Il volto si fece terreo, le mani iniziarono a tremare. La gola si strinse in un
nodo di collera, pietà e sofferenza.
Suo padre, diceva la lettera senza molte spiegazioni, stava per morire.
Detestava quel vecchio bastardo, eppure quella notizia lo colpì come una
bastonata in pieno petto.
Devo riflettere, continuava a ripetersi, ma l’unico pensiero che gli tornava e
ritornava in mente era che doveva rivederlo a ogni costo prima che se ne
andasse.
Per ridare una speranza a se stesso e alla sua famiglia.
Al suo futuro.
E Camille?
Come poteva chiederle di sposarlo e subito dopo partire per il Michigan?
Si accorse che Mr Laurel lo fissava in modo interrogativo. «Brutte notizie,
signore?»
«Sì, Adam. Mi scrivono che mio padre è grave.»
«Mi spiace. Pensate di partire?»
Raleigh attese qualche secondo prima di rispondere. Poi disse: «Sì, devo
farlo. Vi pregherei di provvedere al viaggio, al più presto».
«Lo farò oggi stesso, signore. Penserò a tutto io.» Poi, con un cenno di
saluto, si congedò.
Raleigh si abbandonò alla spalliera della poltrona, attonito, incapace di
reagire, schiacciato da rimpianti che negli ultimi vent’anni aveva sempre
negato di provare.
Perché proprio adesso?
Si portò la tazza di caffè alle labbra, senza riuscire a bere, senza riuscire a
staccare la mente dal passato...
Era il giorno del funerale di sua madre. Stava in piedi di fronte alla fossa
con suo padre e i suoi fratelli, tutti col vestito buono e una pala in mano. Il
padre urlava loro di spicciarsi a ricoprire la bara perché dovevano tornare a
lavorare nei campi.
In preda a un furore profondo, Frank lo aveva guardato con l’odio che un
ragazzino non avrebbe dovuto provare, incolpandolo silenziosamente della
morte della madre. E con l’ultimo colpo di pala gli aveva urlato che era un
assassino. Più tardi, a casa, era stato ripagato con venti cinghiate.
I ricordi si rovesciavano su di lui, dolorosi e ossessivi. Doveva respingerli.
In quel momento voleva solo pensare a Camille. A cosa le avrebbe detto.
Dannazione!
Il Michigan in quel momento gli parve essere all’altro capo del mondo.
Quanto tempo avrebbe dovuto rimanere lontano da lei? Uno, due, tre mesi?
Come in un gesto scaramantico, si assicurò che l’anello fosse sempre lì,
nella sua tasca e, quando sfiorò l’astuccio, gli parve che bruciasse.
Più ci pensava, più gli era chiara la necessità di rimandare il momento in
cui avrebbe chiesto per la seconda volta a Camille di sposarlo.
E se durante il viaggio gli fosse capitato qualcosa? Se avesse dovuto
fermarsi nel Michigan più del previsto?
Se fosse morto?
Chi si sarebbe preso cura di lei, allora? Doveva provvedere a lei subito. Poi
sarebbe partito più sereno.
Le avrebbe scritto tutti i giorni e al suo ritorno l’avrebbe implorata di
sposarlo. Sì, era quello che avrebbe fatto, che andava fatto.
Le labbra piegate in una linea amara, scosse la testa pensando a come il
destino – che fosse maledetto! – si fosse beffato di lui un’altra volta. Da
giorni non pensava ad altro che a inginocchiarsi davanti a Camille, infilarle
quell’anello al dito e chiederle di sposarlo. Ora la sua unica certezza era che
l’avrebbe resa sua erede universale.
***
Quella sera Camille comprese che qualcosa non andava appena Raleigh
varcò la soglia dell’appartamento in Amster Yard.
«Devo partire» le disse senza preamboli.
Un senso di panico la invase.
Non posso perderlo. Non ora.
«Devi partire per sempre?» chiese sorridendogli, con un tono volutamente
scherzoso e un groppo in gola.
«No, non per sempre» rispose lui senza sorridere. «Ma forse starò via mesi.
Proprio ora che noi… Mi spiace, Camille, devo farlo.»
Lei lo prese per mano e lo condusse nel piccolo salotto dove ogni sera si
sedevano a parlare. Solo la luce rossastra proveniente dal camino illuminava
la stanza, dando al viso di Raleigh un riflesso ancor più tormentato.
«Mio padre sta male, Camille. Ho bisogno di rivederlo un’ultima volta. Ho
bisogno di perdonarlo e di perdonarmi.»
E lei comprese, non si lamentò. Si sentì solo trafiggere dalla paura, ben più
pericolosa e infida di un viaggio nel Michigan.
In silenzio, si strinse a lui, gli occhi chiusi e un sorriso amaro sulle labbra.
Onde meravigliose di tenerezza, amore, struggimento e gioia cominciarono a
rincorrersi dentro di lei, mescolandosi all’angoscia che già le divorava
l’anima.
Raleigh le prese il volto fra le mani e la baciò, un bacio profondo, disperato
e assoluto, pervaso da un ardore esigente ed egoista. Un simbolo sbiadito di
un amore che, ancora una volta, entrambi avrebbero dovuto rinchiudere in
una crepa del cuore.
Camille rimase immobile, pronta a concedergli ciò di cui aveva bisogno.
Con il corpo, con la mente, con il cuore soprattutto.
***
Lui prese a spogliarla con urgenza, solo il necessario a possederla. Abbassò
il corpetto dell’abito liberandole il seno, le alzò le gonne, poi scoprì se stesso.
Il suo desiderio era come la lama di un coltello che gli trafiggeva il corpo e
l’anima.
Sollevò Camille fra le braccia e la adagiò sul tappeto di fronte al camino
prima di inginocchiarsi di fronte a lei.
Combattendo contro l’istinto e il desiderio di possederla subito, la amò con
le labbra e con le mani finché non la sentì gemere di piacere. Solo allora,
sollevandole il bacino, scivolò in lei stringendo tra le labbra la pelle delicata
alla base del collo in un gesto possessivo e primordiale, gemendo a ogni
spinta, come se stesse soffrendo.
La prese senza delicatezza, avido, veloce, rapace. E quando la sentì
dissolversi nel piacere e invocare il suo nome, lasciò fluire il suo seme in lei,
e con il suo seme tutto se stesso.
*
L’alba li colse all’improvviso, interrompendo l’immobilità magica di quella
notte.
Avvolti in una coperta, ancora stesi di fronte al camino, si preparavano al
giorno che arrivava sapendo che, come sempre, presto avrebbero dovuto
separarsi. Frank le accarezzava i capelli sciolti, le spalle e il seno scoperto,
come se non riuscisse a staccare le sue mani dalla pelle di lei.
«Prima di partire c’è qualcosa che vorrei spiegarti, Camille…» le sussurrò
sulle labbra.
«Qualcosa che riguarda la tua famiglia?»
Lui scosse il capo, si mise seduto e sospirò.
«No, riguarda noi. E Geneviève.»
«Non ti ho mai chiesto nulla di quella donna, Frank.»
«Ciononostante, io devo spiegarti.»
Camille fece un piccolo cenno d’assenso e lui cominciò a parlare.
«La sera di San Valentino…»
«Più di due mesi fa. Che importanza può mai avere adesso?» lo interruppe
lei.
«Un’enorme importanza. Quella sera ero corso da te carico di speranze e
me ne sono andato a pezzi, sicuro che tu avessi accettato la proposta di
matrimonio di Ken Benton.»
«Perché proprio quella sera, Frank?»
«Non riuscivo più a starti lontano, volevo chiederti perdono per essermi
comportato come un imbecille arrogante» spiegò evitando di menzionare la
lettera che aveva ricevuto. Se, come alla fine aveva cominciato a credere, era
stata Carolyne Sutton a scrivergliela, e a fin di bene, non voleva mettere la
donna in cattiva luce con Camille. «Arrivando ad Amster Yard ho visto Ken
entrare nel tuo appartamento e inginocchiarsi davanti a te. Sono rimasto
impietrito a osservarvi mentre lo baciavi sulla fronte, mentre gli tenevi la
testa in grembo e lo accarezzavi, con una dolcezza che mi ha lacerato il
cuore.»
Camille alzò gli occhi al cielo.
«Hai visto quello che tu volevi vedere, Frank. Sei corso a conclusioni
errate. Ken era ubriaco e del tutto innocuo e io mi stavo solo prendendo cura
di lui, come di un fratello.»
«Innocuo, dici?» La sua voce uscì tagliente, sarcastica. «Non mi è sembrato
poi così innocuo, gli avrei volentieri tagliato le mani, al bastardo! Ma
ammetto di aver frainteso. Ero ferito, arrabbiato.»
Camille si sedette e con gesti bruschi si avvolse uno scialle intorno al
corpo, quasi volesse proteggersi da lui.
«Perché hai aspettato tanto, perché non sei venuto da me prima, Frank? Se
invece di buttarti tra le braccia di un’altra donna mi avessi chiesto una
spiegazione… Se avessi fatto una scenata o ti fossi infuriato! Invece hai
preferito ignorarmi, considerarmi una minaccia per la tua tranquilla
esistenza.»
«Ignorarti? Non ti ricordi che sono stato io a chiederti di sposarmi e tu a
rifiutarmi?»
«Ma tu non hai tentato di fermarmi, mi hai permesso di andarmene via col
mio orgoglio, senza battere ciglio.»
A quel punto, non c’era modo di mettere un freno alle domande e alle
risposte, anche a quelle più scomode. Lui le prese il volto tra le mani e la
costrinse a guardarlo negli occhi.
«Quella mattina, nel mio letto, dopo che mi hai gelato il cuore dicendomi
che non mi avresti più sposato, ti ho rincorsa sino a casa dei Campbell, giusto
in tempo perché tu mi sbattessi letteralmente la porta in faccia. E quando
sono tornato a cercarti qualche ora più tardi, tu Camille, non io, te ne eri
andata per sempre, lasciandoti il passato alle spalle. Scomparsa da Wahington
Square e dalla mia vita in uno schiocco di dita. Quella mattina hai ucciso ogni
mia speranza.»
Quando Raleigh riprese a parlare, la sua voce uscì rotta dalla commozione.
«Benché ormai non abbia più importanza, voglio che tu sappia che ti ho
cercata disperatamente, Camille. Ogni giorno, ogni notte. Pur evitando di
incontrarti per non ferirti, ho sempre saputo dove eri e cosa facevi. Che folle
sono stato, e che ingenuo! Credendolo migliore di me, ho permesso a Ken di
insinuarsi fra di noi, ogni giorno un po’ di più. La mia ragione sperava che ti
innamorassi di lui, il mio cuore batteva solo perché tu tornassi da me.»
Camille lo guardava sbigottita, scuotendo la testa.
«Dopo la sera di San Valentino ho perso ogni speranza. Mi sono consolato
con Geneviève solo per non commettere altre sciocchezze, per lasciarti libera,
per cercare di allontanarti dalla mia vita.»
«E ci sei riuscito?»
«Neanche per un attimo. Neanche per un dannato attimo.»
*
31 marzo
Il primo treno per Rochester partiva il giorno successivo e Raleigh, dopo
aver sistemato i suoi affari e chiamato l’avvocato per la faccenda del
testamento, fu felice di poter tornare da Camille: voleva trascorrere ogni
minuto con lei prima di lasciarla per un periodo che già gli appariva infinito,
voleva imprimersi nella mente ogni più piccolo particolare di lei e
conservarlo nel cuore come un antidoto contro le avversità che avrebbe
incontrato lungo il viaggio: il colore dei sui capelli e dei suoi occhi, quelle
pagliuzze d’oro nelle sue iridi che le illuminavano lo sguardo, il suo profumo,
la curva dei fianchi e del seno, la sua voce, la morbidezza delle sue labbra.
Si amarono ancora, si addormentarono abbracciati, parlarono delle loro vite
passate, ma non fecero progetti per il futuro, temendo di sfidare ancora una
volta il destino: nelle ultime due settimane si era dimostrato talmente
generoso con loro che stuzzicarlo sarebbe stato un inutile azzardo.
«Ora parto sereno, con la speranza nel cuore e un nuovo significato per il
mio futuro» le disse baciandole la fronte e stringendola a sé.
«Di quale speranza parli, Mr Raleigh?»
«Parlo di amore, famiglia, bambini, molti bambini. Di gioia e tristezza. Di
tenerezza e passione. Di comprensione e rispetto. Di noi due insieme. Parlo
della nostra vita.»
Camille non riusciva a ricacciare le lacrime.
Lui le prese le mani e gliele strinse, infondendole coraggio.
«Mi stai chiedendo ancora una volta…» Emise un lungo sospiro prima di
riuscire a terminare la frase. «...di sposarti, Frank?»
«No, piccola mia. Non te lo sto chiedendo.»
«Oh! No? No nel senso che non vuoi più sposarmi?» chiese come una
bambina cui avessero appena detto che Babbo Natale non era mai esistito.
Lui le sorrise e mentre le parlava cominciò a ricoprirle il volto di baci.
«Ti sposerò non appena ritornerò, se tu lo vorrai ancora. Ma non voglio
legarti a me adesso. Sarei un egoista e un irresponsabile se lo facessi. Nei
prossimi mesi sarai tu a scegliere se aspettarmi o proseguire senza di me la
tua vita; a decidere se sono davvero io l’uomo che vuoi al tuo fianco per
sempre.»
«E chi potrei volere, se non te? Sei l’unico uomo che io abbia mai amato,
Frank, e che mai amerò.»
27

Giugno, New York


Raleigh se n’era andato da quasi un mese.
Il giorno della partenza Camille lo aveva accompagnato alla Grand Station.
Il treno, nuovo e lucente, era uno degli ultimi gioielli della Water Level
Route, la linea ferroviaria creata da Cornelius Vanderbilt che univa New
York e Boston agli stati del Nordovest, lungo il percorso del fiume Husdon e
dei Grandi Laghi. Sulla pensilina, davanti a quel vagone che presto lo
avrebbe portato lontano, con un solo sguardo si erano scambiati mille
struggenti promesse.
Prima dell’ultimo abbraccio, Raleigh le aveva aperto con delicatezza il
palmo della mano sinistra, se lo era portato alle labbra e poi vi aveva
appoggiato una busta chiusa e l’astuccio di Tiffany.
«Leggi questa lettera quando sarò partito e conserva per me quest’anello.
Prima che il nuovo secolo inizi, tornerò da te e finalmente te lo metterò al
dito.»
Infischiandosene della folla che li circondava l’aveva poi stretta con
passione, quasi volesse imprimere nella memoria ogni più piccolo particolare
di lei. Poi si era girato di scatto ed era salito in carrozza senza un’altra parola.
«Frank…» l’aveva chiamato Camille, ma lui non si era voltato. Se l’avesse
fatto non sarebbe più riuscito a partire.
Al fischio del capostazione, il treno si era mosso con fare allegro,
sbuffando e canticchiando la sua ritmata melodia. Camille non lo aveva perso
di vista sino all’ultimo, una mano appena sollevata in un addio straziante,
l’altra stretta intorno alla busta e all’astuccio di Tiffany. Poi era scoppiata a
piangere.
Solo quella sera, nella solitudine della sua camera da letto, aveva avuto il
coraggio di leggere la lettera di Raleigh.
Amore mio, non è una lettera d’amore questa, anche se l’ho scritta e ho
agito solo per amore.
Nel caso io non dovessi più tornare, sappi che ti ho nominata mia erede.
Ho lasciato le istruzioni necessarie all’avvocato Dinsell. Ti puoi rivolgere a
lui per qualsiasi cosa: ciò che è mio da questo momento è anche tuo.
Nonostante il mio passato, ciò che ho sempre desiderato è una famiglia
vera, piena d’amore e gioia, come quella da cui provengo non è mai stata.
Per questa ragione, anche se non oso sperare in tanta grazia, prego ogni
giorno affinché io possa ritrovarti tra qualche mese in attesa del nostro
primo bambino. Niente mi riempirebbe di orgoglio e di felicità quanto
diventare padre.
Ho informato l’avvocato della possibilità di una tua gravidanza e gli ho
lasciato istruzioni precise affinché, in questo caso, il bambino sia dichiarato
mio figlio. Anche se io non dovessi mai più tornare.
Ti amo, Camille.
Ti amerò sempre.
Aspettami.
Tuo Frank
Camille ripiegò con cura il foglio, lo infilò nella busta e scoppiò di nuovo a
piangere.
*
Furono tre gli eventi che nell’estate del 1899 influenzarono la vita di
Camille Brontee.
Il primo evento, di natura mondana, riguardava la voce che si era diffusa
sulle condizioni di salute di Geneviève Mercury. Non che la signora stesse
davvero male, se non per quelle nausee fastidiose che l’assalivano a ogni ora
del giorno, soprattutto quando si trovava in pubblico. Eh sì, pur non
ammettendolo apertamente, la signora sembrava essere incinta. Nessuno ebbe
a interrogarsi sul padre del bambino, sulla cui identità tutti erano concordi.
Il secondo evento, a metà luglio, fu l’arrivo di una lettera di Raleigh che,
essendo ormai partito da quasi due mesi, non aveva la minima idea delle
manovre della sua ex amante.
Il terzo evento fu lo sciopero degli strilloni, di quell’armata di ragazzini
affamati e sfruttati che si era messa a combattere un’impossibile guerra
contro due magnati della stampa. Scoppiò come una bomba a fine luglio
coinvolgendo tutti i boroughs della Grande New York.
*
Erano giorni ormai che Camille piangeva di rabbia e di dolore,
maledicendo il destino. Non che avesse mai pensato che Frank Raleigh e
Geneviève Mercury avessero passato le notti a leggere poesie o a guardarsi
negli occhi, ma in ogni caso – ripeteva come una litania – non doveva
capitare a lei. Non quando lui era lontano più di mille miglia. Non quando il
destino sembrava aver finalmente sorriso al loro amore.
Raleigh, accidenti a lui, non era soltanto il padre di quel bambino non
ancora nato.
Era anche il suo promesso sposo. Soprattutto il suo promesso sposo.
In fondo lei aveva ogni diritto di chiamarlo così, anche se quel solitario
brillava all’interno di un elegante astuccio verde acqua e non al suo dito.
Dove mai avrebbe brillato.
Perché, con un erede in arrivo, Raleigh si sarebbe sentito in dovere di fare
la cosa giusta, di sposare la donna che lo aveva reso padre. Si ricordava bene
con quanta gioia ed eccitazione aveva parlato di avere dei figli! Niente mi
riempirebbe di orgoglio e di felicità come diventare padre, le aveva scritto.
Dannazione! Come era potuto accadere? C’erano mezzi per evitare una
gravidanza non desiderata, dopotutto, e Raleigh non era certo uno
sprovveduto, anche se, a pensarci bene… Neanche con lei quello sciagurato
aveva preso delle precauzioni! Tenendosi il capo tra le mani, Camille pensò
con orrore a cosa sarebbe successo se anche lei fosse rimasta incinta…
La sola idea le provocò un accesso di tosse che la costrinse a sedersi. La
tosse la fece pensare a Margherita Gautier, la signora delle Camelie, una
donna perduta e innamorata, pronta a sacrificarsi per amore. Come si sentiva
lei stessa in quel momento.
Non era triste e ironico che, tra tutti i melodrammi possibili, in quella notte
lontana Raleigh l’avesse invitata ad assistere proprio a Traviata? Si accarezzò
il punto alla base del collo dove le sue labbra avevano impresso il marchio
della sua passione con tanta arroganza. Cielo, bastava il ricordo per mandarla
in fiamme.
«Maledetto idiota!» gridò alla volta di Raleigh e della sua lettera che
giaceva a pezzi per terra.
Col cuore che batteva, la raccolse, la ricompose alla meglio e si gettò con
una certa drammaticità sul divano.
Mia adorata, amore mio…
«Ah! A quanto pare non sono l’unico amore tuo…»
Dopo un viaggio di quasi un mese sono arrivato a Jackson in tempo per
vedere mio padre ancora in vita. È stato un sollievo per me poterlo
riabbracciare, perdonare…
Camille piegò le gambe sotto di sé, tirò su col naso e si immerse nelle
parole di Raleigh.
*
Mentre la pancia di Geneviève continuava a crescere inesorabile – persino
in modo eccessivo, notò qualcuno – da una settimana lo sciopero degli
strilloni, dei newsboys come venivano chiamati, aveva bloccato le vendite dei
giornali. Tra i quotidiani della Grande New York solo il Daily e il Times
erano venduti agli angoli delle strade, in quanto già da tempo avevano
accettato dagli scioperanti le richieste che avevano alimentato la rivolta.
Non avevano tutti i torti quei poveri ragazzini, costretti dagli editori a
comprare i giornali a pacchi di 100 pezzi, per la bella cifra di 60 centesimi,
senza avere neppure la possibilità di restituire le copie invendute. Con il costo
dei giornali a un penny, se andava bene riuscivano a malapena a portare a
casa qualche centesimo. Altrimenti, ci rimettevano di tasca loro.
La situazione si era fatta incandescente soprattutto a causa
dell’intransigenza del World e del Journal, di proprietà rispettivamente dei
signori Pulitzer e Hearst, che, a nessun costo, sembravano voler cedere alle
richieste dei loro strilloni.
Dopo due settimane di lotta, lo sciopero si era concluso con una parziale
(ed epocale) vittoria dei newsboys. Ma fu al termine della prima settimana
che Miss Brontee ebbe nella vicenda un piccolo ruolo.
*
Dalla partenza di Raleigh, Camille aveva evitato gli inviti e le attenzioni di
Ken Benton, in particolar modo da quando la continua esibizione della pancia
di Mrs Mercury aveva infranto ogni sogno che implicasse la presenza di
Frank Raleigh al suo fianco.
Con Raleigh in esilio forzato da New York e dal suo cuore, sarebbe forse
stato facile per Camille appoggiarsi a Ken, prendere la mano che lui non
aveva mai smesso di porgerle. Ma volendogli bene, seppur come a un
fratello, non aveva ritenuto giusto illuderlo, né umiliarlo trattandolo come una
scelta di ripiego. Così, pur rammaricandosene, aveva continuato a rispondere
ai suoi numerosi inviti con altrettanti, decisi no.
Poi lo sciopero degli strilloni era scoppiato e il leader dei piccoli ribelli,
soprannominato Kid Blink, aveva ordinato con maniere decise a Peter
Donoghue di procurargli un incontro con Miss Brontee, la famosa giornalista.
«Ti vanti di esserle amico, no? È il momento di dimostrarlo, voglio
parlarle» gli aveva detto guardandolo dall’alto in basso.
«Cosa vuoi da Miss Brontee?» aveva chiesto Peter, pronto a difendere
Camille anche con i pugni.
«Niente di complicato, solo che porti un nostro messaggio a quel farabutto
di Hearst.»
Non che per Camille incontrare di persona Mr Hearst fosse facile,
soprattutto in quei giorni tormentati, ma certo Ken Benton, amico personale
del proprietario del Journal, avrebbe potuto mettere una buona parola per lei.
Fu così che, per aiutare quell’esercito di diecimila piccoli e coraggiosi ribelli,
Camille infranse il suo proposito di rimanere lontana da Ken e gli scrisse per
chiedergli un colloquio. Quello stesso giorno fu ricevuta da Benton nel suo
ufficio di Wall Street.
Seduto alla scrivania, le braccia conserte, lo sguardo determinato, la voce
tanto sicura da essere quasi irriconoscibile, Ken ascoltò la richiesta di
Camille, poi disse: «Voglio un’ultima possibilità Cam».
Lei lo guardò incredula. Non c’era bisogno che le spiegasse di che
possibilità si trattasse.
«Ken, non sarebbe onesto da parte mia…»
«Dovete riflettere bene, Cam, prima di rispondermi. Ditemi di no, e quei
bastardelli degli strilloni non avranno il mio aiuto. Rispondete di sì e oggi
stesso vi accompagnerò da Hearst.»
«È un ricatto, Ken, e poi non sono bastardelli. Sono ragazzini, più
sfortunati di voi e di me.»
«Lo so. Allora?»
Camille sospirò. Doveva aiutare quei poveretti e le loro famiglie.
«Cosa dovrei fare per accontentarvi?»
«Verrete invitata da mia sorella Jenny per un periodo di vacanza nella
nostra casa a Newport, e naturalmente accetterete. Non sarà un grande
sacrificio, dopotutto. Il luogo è magnifico e frequentato dalla migliore
società. Potreste persino trovare argomenti per il vostro lavoro, interviste,
eventi da raccontare…»
«E voi, Ken?» Lo guardò sarcastica. «Scommetto che ci raggiungerete...»
«Nient’affatto. Viaggeremo insieme sulla Flying Jenny; la partenza è
prevista fra qualche giorno.»
Camille scosse la testa, come se lui le avesse chiesto l’impossibile.
«E per quanto tempo dovrei rimanere ospite della vostra famiglia?»
«Finché lo vorrò io.»
«E il mio lavoro? Come mi giustificherò con l’editore?»
«Ci penserò io.»
«Dev’essere comodo fare il bello e il cattivo tempo solo perché si è ricchi e
potenti» aggiunse lei in tono amaro.
«Non mi sono mai lamentato della mia posizione e dei miei privilegi. Non
li rinnegherò certo adesso.»
Lo sguardo di Camille si fece tagliente.
«Perché oggi non balbettate, Ken?»
«Non balbetto mai quando conduco una transazione d’affari. Dal momento
che sono più bravo a trattare gli affari che le vicende personali, sto
affrontando la questione come fosse una trattativa finanziaria.»
Camille si alzò in piedi di scatto. Era sbalordita, scandalizzata.
«Vi preferivo balbuziente, Ken, eravate più umano. Quello che mi
proponete è inaccettabile. Dovreste vergognarvi.» Dirigendosi a lunghi passi
verso la porta, aggiunse: «Riuscirò a vedere Hearst anche senza il vostro
aiuto».
«Aspettate!»
Lei lo fissò stupita. Non lo aveva mai visto tanto determinato.
«Mi date degli ordini, adesso?»
Lui non rispose, ma le si avvicinò. Troppo.
Dov’è finito il Ken che conoscevo?
I suoi occhi scuri sembravano più belli e profondi del solito. La sua
mascella più dura, più virile. La sua pelle profumava di costosa colonia e il
suo alito di fragole.
I ricchi adoravano le fragole.
Perché ora mi accorgo di cose che in lui non avevo mai notato prima?
«Riflettete sui lati positivi della cosa, Camille.»
Lei alzò il mento in atto di sfida.
«Lati positivi? Non vedo lati positivi nel vendersi.»
Lui sorrise e scosse leggermente il capo.
«Vendersi, che parola inappropriata! Ma se volete chiamare così il nostro
accordo…» Poi, dopo un istante in cui non le tolse gli occhi di dosso,
aggiunse: «C’è un altro aspetto che dovreste tener presente. Se verrete con
me a Newport non sarete costretta ad assistere alle pietose esibizioni di
Geneviève Mercury e della sua pancia. E soprattutto non sarete a New York
quando l’eroico Raleigh, rientrando dal suo viaggio, scoprirà con orgoglio di
essere diventato padre. O pensate di riuscire a sopportare questa umiliazione,
Camille?»
Lei sbiancò.
«Cosa ne sapete voi, Ken? Come vi permettete?»
«Le voci girano. Geneviève con poca discrezione vi sta screditando, giorno
dopo giorno. Accenna a una vostra relazione con Raleigh, vi descrive come
un’arrampicatrice sociale, insinua che sareste pronta a fare di suo figlio un
bimbo illegittimo. Tra poco la notizia arriverà anche alla stampa. Potrei
scommetterci.»
«Non capisco, Ken» mormorò tremante. «È una calunnia!»
«Certo che è una calunnia. Ma se Raleigh non la sposerà, tutti si
schiereranno dalla parte della povera madre abbandonata, non dalla vostra.»
Camille nascose il viso fra le mani, disperata, e la luce della vittoria
illuminò lo sguardo di Ken Benton.
«Se verrete con me a Newport, i pettegolezzi cadranno e quando Raleigh
rientrerà a New York sarà libero di fare la cosa che riterrà più giusta. Anche
tornare da voi.»
Lo sguardo di lei tornò di scatto a Benton.
«E voi, Ken, cosa pensate di ottenere da questa odiosa situazione?»
Un sorriso cinico gli si disegnò sul volto.
«Non vi è forse chiaro, Camille? Non sono riuscito ad avervi
comportandomi come un gentiluomo, forse vi conquisterò agendo come un
dannato bastardo. Il tipo d’uomo che a quanto pare preferite. Allora, accettate
la mia offerta?»
Due ore dopo sedevano entrambi nell’ufficio dell’editore del Journal e
Camille consegnava a William Randolph Hearst la lettera che lei stessa aveva
scritto per conto di Kid Blink e degli altri strilloni in sciopero.
Non era indecente che quei ragazzini vendessero parole e non sapessero
neppure scriverle?
***
20 agosto, New York
Quel pomeriggio Raleigh scese dal treno alla Grand Station con la
fastidiosa sensazione di essere in ritardo. Un ritardo incolmabile.
Pur avendo scritto a Camille molte lettere, non aveva mai ricevuto risposta.
Lì per lì la cosa non lo aveva preoccupato più di tanto, dal momento che
spesso la posta proveniente da New York veniva spedita nell’omonimo
villaggio di Jackson, Wyoming, se non andava addirittura perduta; ma ormai
era sicuro che Camille non gli avesse mai scritto di proposito perché, in quei
quattro mesi passati a Jackson, Michigan, Raleigh aveva ricevuto con
regolarità le lettere del suo segretario e di Nigel Corman. Nell’ultima, datata
fine luglio, Corman lo informava dell’andamento del Daily, ma anche di un
pettegolezzo che girava in città e che riguardava una presunta gravidanza di
Geneviève Mercury.
Sulle prime Frank aveva dato poco peso alla notizia, certo di non avere
alcuna relazione con le condizioni della sua ex amante, ma pochi minuti dopo
la realtà lo aveva colpito come un fulmine, per le conseguenze che la notizia
avrebbe avuto sull’opinione pubblica e soprattutto su Camille. Se non fosse
corso subito ai ripari, quell’imbroglio avrebbe rischiato di mandare a picco la
sua felicità, proprio quando era lì, a portata di mano.
Appena sceso dal treno, sentì la voce di Adam chiamarlo.
«Mr Raleigh! Mi spiace per vostro padre, signore.»
«Grazie Adam, è stato un sollievo per me poterlo rivedere prima che se ne
andasse per sempre.»
Raleigh pensò a come suo padre gli avesse stretto la mano prima di morire
e alle lacrime che gli avevano bagnato il volto mentre gli chiedeva perdono.
A come lui stesso avesse pianto a dirotto sulla spalla di quel vecchio
irriconoscibile e gli avesse chiesto a sua volta di perdonarlo.
«Avete fatto buon viaggio, signore?» chiese Adam riportando Raleigh al
presente.
«Pessimo, a dire la verità. Ma dite… Avete le informazioni che vi ho
chiesto?»
«Certo, signore.»
«Cosa state aspettando? Su, parlate!»
*
In carrozza Raleigh si teneva la testa fra le mani e scuotendola di tanto in
tanto ripeteva: Non è possibile, non è possibile, non è possibile.
La situazione era molto, molto, molto più grave di quanto avesse supposto.
Geneviève alludeva a lui pubblicamente come al padre del suo bambino e
Camille aveva lasciato la città.
Peggio di così non poteva andare.
New York, che un tempo lo aveva ammaliato con la sua luce, gli sembrò il
luogo più opprimente e buio al mondo. Il luogo dove i suoi sogni e la sua
felicità si sarebbero per sempre infranti. Ma prima che ciò accadesse, doveva
riprendere in mano la sua vita e, soprattutto, ritrovare Camille e ridare un
senso al futuro di entrambi.
Dal momento che con ogni probabilità i Campbell si erano trasferiti come
ogni anno agli Hamptons per l’estate, l’unica persona che poteva dargli
immediatamente informazioni sui piani di Camille era la sua amica Carolyne.
La carrozza si fermò davanti all’abitazione di Miss Sutton e Raleigh tirò un
sospiro di sollievo quando scoprì che, in effetti, la donna era una delle poche
persone che sembravano essere in città quel 20 di agosto. Per la verità, a
quanto Adam gli aveva riferito, anche Geneviève era rimasta tutta l’estate a
Manhattan, ma Raleigh non voleva neppure immaginare perché.
Carolyne lo accolse senza mostrare stupore.
«Spero che perdonerete questa mia visita non annunciata, ma avrei delle
questioni da porvi.»
Poco dopo sedevano uno di fronte all’altra nella vasta terrazza
dell’appartamento, all’ombra di un piccolo pergolato di gelsomino, un
bicchiere di limonata fresca in mano. Raleigh fissava la donna sbigottito.
«Mi spiace, Mr Raleigh, ma la situazione è questa.»
«Io non posso essere il padre, ne sono certo.»
«Ne siete proprio certo?»
«Sì.»
Un sorriso malizioso prese forma sulle labbra di Carolyne.
«Se voi non potete essere padre, può Geneviève essere madre? È questa la
domanda che dovreste farvi.»
Raleigh si immobilizzò per un istante, come colpito da una folgorazione, o
forse da una speranza.
«Cosa intendete dire, Miss Sutton?»
«Si potrebbe pensare che il padre sia un altro uomo…»
«Sì, è quanto ritengo io stesso…»
«…e, a quanto ho sentito dire, la signora in questione non ha mai affermato
di essere in stato interessante, ha solo sottinteso di esserlo. Insomma, non lo
ha mai dichiarato apertamente.»
«Come spiegate allora il suo stato, il suo ventre ingrossato?»
Miss Sutton prese un cuscino e se lo mise sull’addome.
«Le donne possono essere delle grandi attrici, caro Frank.»
Il viso di Raleigh si illuminò.
«Voi ritenete possibile che questa brutta storia non sia altro che una
messinscena?»
«Se conosco le donne, certe donne, credo sia addirittura probabile.»
Raleigh la fissava attonito. Carolyne gli sorrise, forse riflettendo sulla
ingenuità degli uomini. Poi riprese la sua spiegazione.
«Fingendosi incinta è riuscita ad allontanare Camille da New York e presto,
non appena saprà che siete in città, cercherà di ingannarvi, recitando il ruolo
della povera donna sedotta. Vi farà sentire in colpa, vi costringerà ad
assumervi le vostre responsabilità!»
«Ma in che modo, se io sono certo di non essere il responsabile della sua
gravidanza?»
«Vi convincerà che lo siete. In fondo il mondo è pieno di bimbi nati da un
incidente.»
«Se, come sostenete, non fosse incinta, prima o poi me ne accorgerei, non
credete?»
«Oh, caro Frank, quanto poco conoscete le donne, certe donne! Per prima
cosa vi negherebbe ogni contatto intimo, in modo che non potreste vederla en
deshabillé, quindi, dopo le nozze riparatrici, un breve viaggio, magari una
visita a un parente o a un’amica, la condurrebbe in una località lontana da
occhi indiscreti e pettegolezzi. E lì, in quel luogo sperduto, la poverina
perderebbe la sua creatura per poi tornare da voi in lacrime, a cercare amore e
consolazione.»
Raleigh si alzò in piedi, arrivò al muretto della terrazza e fissò senza
vederla la città che cominciava ad accendersi nella sera.
Con le braccia incrociate dietro la schiena, il volto scuro, si girò verso
Carolyne.
«Se avevate tali sospetti, perché non avete messo in guardia Camille?»
chiese in tono risentito.
La donna lo raggiunse e lo fissò dritto negli occhi.
«Oh, quanto siete ingenuo, non gliel’ho detto per almeno una mezza
dozzina di ragioni.»
«Non riesco a vederne alcuna» disse lui, il tono della voce vibrante di
risentimento.
«Davvero non ci riuscite? Ditemi: cosa sarebbe successo se io avessi dato
una tale illusione a Camille?»
«Mmm… forse avrei potuto chiederle di avere fiducia in me, di non credere
a tutte quelle frottole» rispose sarcastico.
«Ah! Altre parole, altro bla bla bla. E in cambio di cosa? Se avessi instillato
in Camille il dubbio, le avrei solo fatto del male e non sarebbe cambiato
niente. Se ci pensate bene, quale possibilità aveva Camille di smascherare la
Mercury? Nessuna. E poi non voleva in alcun modo influenzare la vostra
decisione facendosi trovare a New York al vostro ritorno.»
«Volete dire che Camille è partita con Benton per darmi la possibilità di
scegliere?»
«Già, di scegliere fra lei e il bambino. Non ci eravate ancora arrivato?
Inoltre, se ancora vi chiedete perché ho taciuto i miei sospetti a Camille,
ditemi: come avrei potuto essere certa che la Mercury stesse fingendo? Sta a
voi scoprire ora se davvero quella donna porta in grembo un bambino e se
quel bambino è vostro.»
Per qualche minuto Raleigh rimase in silenzio, forse per assorbire meglio le
parole di Miss Sutton. Poi, senza staccare gli occhi dalle mille luci che
cominciavano a illuminare un’altra notte di New York, disse: «Se quanto dite
è vero, devo ammettere di non conoscere affatto le donne».
«Non siete il primo, caro Raleigh. E neppure l’ultimo.»
Poi Raleigh venne informato da Carolyne sui dettagli della partenza di
Camille e sui metodi usati da Ken per spingerla a un tale passo. Sulle prime
pensò di raggiungerla a Newport dove senza complimenti avrebbe preso per
il collo Benton e lo avrebbe affogato nell’oceano. Poi la verità lo colpì come
uno schiaffo e ancora una volta si rese conto che Ken Benton si era
comportato da gentiluomo, sebbene a suo esclusivo vantaggio. Perché, ormai
ne era certo, era stato anche per difendere Camille dalle conseguenze della
gravidanza di Geneviève, dai pettegolezzi e dalle malelingue se l’aveva
portata lontano da New York. Quella vipera di Geneviève non avrebbe esitato
a farla passare per la strega cattiva. E a chi avrebbe creduto la gente? A una
madre disperata o a una giornalista intraprendente che frequentava le riunioni
delle suffragette?
Prima che Raleigh se ne andasse, Carolyne gli porse l’astuccio di Tiffany
che Camille le aveva chiesto di restituirgli.
Mettendolo ancora una volta in tasca, Raleigh disse con determinazione:
«Glielo vedrete presto al dito, Miss Sutton, potete contarci».
«Quel giorno sarà un giorno felice anche per me.»
*
Risalendo in carrozza, Raleigh sospirò. Il mondo si ostinava a ruotare nel
verso sbagliato! L’avrebbe fermato e fatto girare nella giusta direzione.
Presto.
Decise che, dopo aver fatto un salto al giornale, si sarebbe occupato di
Geneviève. Si sarebbe accertato delle sue condizioni e poi avrebbe agito di
conseguenza. Sì, le avrebbe fatto una bella improvvisata.
Non aveva ancora messo piede nell’atrio del Daily che Peter, nella sua
fiammante divisa rossa da fattorino, gli corse incontro e, indifferente a ogni
regola, gli si buttò letteralmente tra le braccia.
«Mr Raleigh, Mr Raleigh!»
Di fronte agli sguardi stupiti dei presenti, Frank lo prese in braccio e lo
strinse forte.
«Sei proprio tu in questa divisa fiammante? Il Peter Donoghue che
conosco? Sei cresciuto, Peter, sei quasi un uomo.»
Il ragazzino arrossì di gioia.
«Certo signore, sono io. Ormai sono diventato un fattorino» fece il piccolo,
pieno d’orgoglio. «Lavoro qui durante le vacanze scolastiche.»
«Bravo! A nome del Daily, ti ringrazio per il tuo contributo al successo di
questo giornale.»
«Grazie, signore.»
Molti si fermarono a salutare Raleigh che lentamente, stringendo mani,
sorridendo e spendendo una parola per tutti, raggiungeva gli ascensori.
Anche il ragazzo del lift lo salutò con calore.
«Al tredicesimo, signore?»
«No, portami al quattordicesimo.» Dio, aveva voglia di rivedere la sua
redazione, respirarne il profumo, o meglio l’odore, dal momento che Miss
Brontee se ne era andata da un pezzo e i suoi redattori certo non
profumavano. Sentire il ticchettio delle macchine da scrivere, le voci dei
giornalisti, le urla di Corman…
«Mr Raleigh» fece Peter riportandolo alla realtà. «Stavo per dimenticarmi
di una cosa molto importante che mia madre mi ha detto di dirvi non appena
foste tornato.»
L’ascensore si fermò e Raleigh ne scese, seguito dal piccolo Donoghue. Ad
aspettarlo trovò Corman.
«Frank, sono felice di vedervi.»
I due uomini si abbracciarono e si diressero in redazione con Peter e la sua
divisa rossa alle costole.
«Mr Raleigh.» Il ragazzino gli tirò di nuovo la manica per attirare la sua
attenzione. «È importante!»
«Non puoi aspettare, Peter?» gli chiese Corman severo.
Peter fece finta di niente e continuò a tirare la manica di Raleigh fino a
quando non ebbe la sua totale attenzione.
«Vi devo parlare, signore, in privato.»
«Quando è così…»
Raleigh alzò le mani in segno di resa, poi lo seguì, orgoglioso della
perseveranza del ragazzino. Si sedette a una scrivania e Peter si sistemò
davanti a lui, guardandolo negli occhi.
«La mamma mi ha detto di dirvi che vi deve parlare, con urgenza.» Raleigh
lo fissò perplesso. «Di Miss Camille» aggiunse.
Quel nome fu sufficiente a far scattare Raleigh in piedi. «Dove trovo la
mamma, a quest’ora?»
«Ancora al lavoro, da Madame Renard. Non rientra mai prima delle otto.»
«Bene, visto che si tratta di una questione della massima importanza…»
Peter a quelle parole crebbe di qualche centimetro. «…la raggiungerò
immediatamente. E in quanto a te, giovanotto, vorrei che facessi qualcosa per
me.» Prese cinquanta centesimi di tasca e glieli porse. «Andando a casa,
fermati dal pasticcere sulla Terza Strada e compra la torta che preferisci, hai
capito bene?»
Peter lo guardò con occhi sbalorditi.
«Una torta? Non è un giorno di festa!»
«Potrebbe diventarlo. E ora vai, ci vediamo domani, qui al lavoro.
Puntuale, mi raccomando, che avrò bisogno di te.»
Il ragazzino prese la moneta, gli sorrise e con un «Sissignore» scappò via
felice.
«Lo viziate troppo, Frank…»
Raleigh guardò Corman con simpatia. «Non abbastanza, Nigel. Ho molte
speranze per quel ragazzo. Il destino gli ha dato una possibilità…»
«Il destino o voi, Frank?»
Raleigh sorrise. «Che differenza fa? Ma ora, mio caro amico, devo
scappare. Ho qualcosa di urgente da fare. Di lavoro parleremo domattina.»
«Quel demonietto deve avervi detto qualcosa di molto importante…»
«Prego Iddio che sia così, Nigel.»
28

Lo stesso giorno, nel tardo pomeriggio


Il campanello tintinnò quando Raleigh entrò nell’atelier di Madame
Renard.
«Mi spiace, signore, stiamo chiudendo… Oh, ma siete voi, Mr Raleigh, che
piacere vedervi! Siete dunque rientrato dal vostro viaggio?»
Come diavolo può sapere questa donna del mio viaggio?
Madame Renard uscì lesta da dietro un manichino mezzo spoglio e gli andò
incontro, sorridente.
«Il piacere è mio, Madame e… sì, a quanto pare sono proprio tornato. Ho
visto in vetrina una bellissima stola di visone, vorreste per cortesia
confezionarmela?»
«Un regalo per una fortunata signora?»
Raleigh rispose con un sorriso, cercando di contenere l’irritazione.
«Desiderate che sia recapitata a Madame Mercury?»
Il sopracciglio di Raleigh scattò in alto per la sorpresa, poi si trasformò in
un sopracciglio irritato.
«Non servirà» la zittì Raleigh.
«Forse, mentre attendete, gradireste un rinfresco?»
«No, grazie, ma se fosse possibile mi piacerebbe salutare Johanna
Donoghue.»
«Johanna?» Nessuna spiegazione seguì, quindi Madame continuò: «Bien
sur, Monsieur Raleigh. Vado subito a chiamarla. Prego, seguitemi nel
salottino di prova, lì potrete parlare con la Donoghue senza che nessuno vi
disturbi».
*
Raleigh camminava nervoso su e giù fra manichini e stoffe, cappellini e
nastri quando Johanna arrivò quasi di corsa.
«Mr Raleigh, Dio vi benedica! Pensavo non sareste più tornato dal vostro
viaggio. E io volevo, dovevo, parlarvi» esclamò affannata stropicciandosi le
mani.
«Calmatevi, Johanna, e venite a sedervi accanto a me.»
Una volta sistemati su un divanetto, Raleigh la incoraggiò a continuare.
«Dunque…»
«È per quello che ho visto… che ho visto per caso, sia ben chiaro. Non
stavo spiando.»
«Non ho dubbi sulla vostra onestà, Johanna.»
La voce della donna si abbassò di un paio di toni.
«Vedete quel paravento?» disse indicando un separé di raso color avorio.
«Ebbene?»
«Circa una settimana fa me ne stavo tranquilla lì dietro a sistemare degli
abiti per una cliente quando nel salottino è entrata Mrs Mercury seguita da
Madame Renard. Madame voleva chiamare una commessa per aiutare la
signora a spogliarsi per la prova, ma lei ha urlato di no, che non voleva
nessuno fra i piedi, che avrebbe fatto da sola. Sembrava molto infastidita,
nervosa, tanto che ho preferito rimanermene nascosta. Quella donna a volte
può essere sgradevole…»
«Già» rispose Raleigh laconico, mentre il cuore cominciava a battergli
all’impazzata.
«Madame le ha sbottonato l’abito, poi la Mercury le ha detto di andarsene e
quando è rimasta sola si è sfilata il vestito e, senza sapere della mia presenza,
ha cominciato la prova degli abiti nuovi che aveva ordinato a causa… be’,
sapete, della gravidanza.»
Il cuore di Raleigh correva così velocemente che ogni battito era come un
colpo nel petto.
«Per farla breve, quando mi sono sporta dal separé per palesare la mia
presenza – non volevo fare la figura della spiona – ho visto che la pancia
della signora…»
Raleigh trattenne il respiro.
«…non c’era. Voglio dire, il suo addome era più piatto del mio, una volta
tolto il cuscino che portava legato in vita.»
Raleigh le prese un braccio e glielo strinse, forse con troppa veemenza.
«Volete dire, Johanna, che Geneviève non è incinta?»
«Se lo è, voi non potete essere il padre, perché il suo addome è ancora
piatto come quello di una bambina.»
Johanna si permise un sospiro liberatorio, come se finalmente si fosse tolta
un peso dallo stomaco.
«Mr Raleigh, non sono fatti miei, ma quella donna sta cercando di
incastrarvi! Tutta New York le ha creduto quando ha messo in giro la voce
che voi siete il padre di suo figlio, un figlio che non esiste neppure. Se
sapeste quanti pettegolezzi abbiamo sentito fra queste mura!»
«Non li voglio conoscere, Johanna. Voglio solo andare da quella strega e
dirle il fatto suo, una volta per sempre.»
«Credo che dobbiate proprio farlo. Se penso alla povera Miss Brontee! Per
fortuna ha lasciato New York prima che i pettegolezzi potessero
distruggerla.»
Già.
«Camille non ha nulla a che vedere con questa brutta storia, Johanna.»
«Ma di certo non ne sarà contenta, se posso permettermi.»
«Io invece sono contento, felice anzi, perché grazie a voi le cose si
risolveranno per il meglio. Ora scappo, Johanna. Sappiate che vi sarò
debitore per tutta la vita.»
«Per così poco, Mr Raleigh? Ho fatto solo ciò che ritenevo giusto.»
Sorprendendola, Raleigh la abbracciò e le schioccò un bacio sulla fronte.
Poi si alzò per raggiungere la porta, ma prima di uscire si girò e disse:
«Un’ultima cosa, Johanna: vi piacciono le stole di visone?»
*
Quando, quella stessa sera, lasciò l’abitazione di Geneviève Mercury,
Frank Raleigh si sentiva un altro uomo. Nell’aria tiepida di agosto respirava
appieno la sua libertà.
Smascherare Geneviève era stato più facile del previsto. Crudele forse, ma
molto, molto piacevole.
La donna era un’attrice nata: quando, sordo alle proteste della servitù,
Raleigh aveva fatto irruzione nella sua camera da letto, solo un bagliore nei
suoi bellissimi occhi verdi aveva tradito la sorpresa di vederlo. Poi la paura.
Gli si era gettata subito fra le braccia, ma lui con decisione l’aveva
allontanata, guardata e soppesata - testa-piedi, piedi-testa – e alla fine aveva
sorriso, trionfante: Geneviève indossava un négligé di pizzo trasparente che
rivelava appieno la sua abituale figura sottile e armoniosa. Che non era certo
quella dolce e appesantita di una donna incinta.
«Ho sentito che aspetti un figlio da me» le aveva detto senza tergiversare.
In un primo momento lei aveva preteso che fosse tutto vero poi,
strofinandosi a lui, abbracciandolo, implorandolo con la voce e con il corpo,
aveva giurato tra rivoli di lacrime di aver diffuso quella voce solo perché
disperata.
Rendendosi conto dello sguardo gelido di Raleigh, dalla disperazione era
presto passata alla collera.
«Dovevo fartela pagare: non ho mai permesso a nessuno di lasciarmi e tu
l’avevi fatto…» E, subito dopo, al disprezzo. «Non vali niente, Frank, né
come uomo né come amante. Nel periodo in cui ci siamo frequentati ho avuto
altri uomini, e tutti migliori di te. In ogni senso.»
Lui aveva ricambiato il suo astio squadrandola con sufficienza.
«Sono contento di sentirtelo dire, mia cara, perché in questo caso usciremo
entrambi con estrema soddisfazione da questa storia.»
Il suo viso era diventato terreo quando Raleigh, lo sguardo più duro della
roccia, con mossa improvvisa si era alzato dalla poltrona in cui sedeva e le
aveva imprigionato i polsi in una stretta possente.
«Voglio che questa commedia di pessimo gusto finisca, Gene, in questo
esatto momento. Voglio che torni a esibire il tuo elegante vitino da vespa e
che urli al mondo intero che non aspetti nessun bambino. Fatto ciò, voglio
che tu sparisca per un po’ da New York, è chiaro? Vattene a Saratoga o ad
Atlantic City con uno dei tuoi amanti!»
Lei assentì con la testa, impaurita. Respirava a fatica.
«Voglio inoltre che domani all’una precisa tu vada a pranzare al Waldorf.
Un’ora più tardi lascerai l’hotel dall’ingresso posteriore, è chiaro?»
Fece sì di nuovo. Poi balbettò: «Da sola?»
Lui fece un sorriso sarcastico.
«No, ci andrai con un uomo, naturalmente, possibilmente dai capelli chiari.
Sono certo che troverai un cortese accompagnatore, magari lo stesso che oggi
ha dimenticato i suoi guanti nella tua camera da letto» disse, accennando col
capo al tavolino della toilette. «O hai il coraggio di pretendere che quei guanti
di pessimo gusto siano miei, come il tuo bambino?»
Lei cercò invano di liberarsi, poi lo fissò con odio.
«E se non facessi ciò che mi chiedi?»
«Te ne pentiresti amaramente. Domani all’una, al Waldorf, ricordati.
Altrimenti, sarà peggio per te.»
L’ultimo suono che Raleigh udì uscendo dalla camera di Geneviève fu un
fragoroso rumore di cristalli infranti che andò a mischiarsi all’eco della sua
risata.
Due giorni dopo il Daily pubblicava sulla pagina mondana una foto di Mrs
Geneviève Mercury. La signora stava lasciando il Waldorf alla chetichella in
compagnia di un misterioso accompagnatore dai folti capelli biondi. Nella
didascalia si rimarcavano l’eleganza della Mercury e il fatto che, con quella
invidiabile linea, la signora non poteva certo essere in dolce attesa, come
qualche disinformato pettegolo aveva di recente insinuato.
***
Nel frattempo, a Newport
Alla fine di agosto, gli alberi già si preparavano ad accogliere i toni più
caldi dell’autunno, ma i cespugli fioriti nello splendido giardino a picco sulla
scogliera sembravano opporsi, con i loro colori sgargianti, alla prossima fine
dell’estate.
Quel pomeriggio, le acque dell’oceano apparivano calme e i gabbiani
volteggiavano nel cielo sereno lanciando il loro stridulo richiamo. Lo
spettacolo che Camille godeva dalla sua finestra toglieva davvero il respiro,
ma lei sembrava neppure vederlo. Vedeva grattacieli, invece, strade affollate,
caffè, negozi e teatri. Vedeva i palazzi di Park Row e l’arco di Washington
Square. Nei suoi pensieri Camille vedeva e sentiva pulsare New York.
Dove avrebbe voluto essere.
Dovuto essere.
Non era ironico che proprio ora che cominciava a considerare quella
meravigliosa città casa sua non avrebbe più potuto viverci?
Gli ultimi ospiti giunti da New York a Newport avevano raccontato che la
pancia di Geneviève Mercury era ancora più vistosa e che la donna aveva en
passant affermato di essere rimasta in città nonostante il caldo, per accogliere
Raleigh al suo ritorno.
Già, per dargli la buona notizia.
No, vivere a New York era ormai fuori discussione.
Sarebbe andata a lavorare a Philadelphia, dove il suo editore, Mr Bok, le
aveva proposto un ruolo di responsabilità nella redazione del Women Home
Journal. Allontanandosi anche materialmente da Raleigh e da ogni ricordo
che la legava a lui, con il tempo lo avrebbe dimenticato. Forse non proprio
dimenticato…
Sentì bussare alla porta.
«Posso entrare, Cam? State lavorando?»
Ken.
Camille non sapeva come o perché accadesse, ma Ken Benton aveva il
dono di arrivare nei momenti in cui lei aveva più bisogno di conforto, di una
spalla cui appoggiarsi. Ogni volta si sentiva un mostro ad accettare il suo
sostegno, ma quanto le facevano bene la sua quieta e solida presenza, le sue
parole semplici e risolutive!
«No, non stavo lavorando. A dire il vero non sono riuscita a buttare giù una
sola riga in tutto il pomeriggio…»
«Mr Bok aspetta al più presto la vostra intervista a Richard Morris Hunt…»
Non solo la comprendeva, ma la appoggiava, rispettando ogni sua
decisione, dandole spesso ottimi consigli sul suo lavoro.
«Avete ragione, Ken, devo terminarla al più presto. Mr Hunt è stato così
cortese a illustrarmi i suoi nuovi progetti d’architettura… Perdonatemi,
avevate bisogno di qualcosa?»
Le si era avvicinato e la stava scrutando con intensità e preoccupazione.
«A-avete p-pianto, Cam?»
Aveva pianto?
Ormai era così abituale per lei piangere che non si era neppure accorta di
averlo fatto. Alzò gli occhi verso di lui e Ken sorrise. Un sorriso aperto,
capace di infondere coraggio e serenità. Con le nocche di una mano calda e
rassicurante le asciugò le lacrime e lei, invece di allontanarlo, rimase
immobile.
Rimase immobile anche quando le labbra di lui cominciarono ad
avvicinarsi troppo alle sue.
Non devo permettergli di baciarmi, non devo illuderlo!
Eppure, in quel momento, essere baciata era proprio quanto desiderava.
Forse, se le avesse dato un bacio magico come quelli delle favole, i
sentimenti che provava per lui sarebbero diventati più… più… più…?
Le labbra di Benton si erano ormai posate sulle sue.
«Ken…» mormorò lei, sperando di trovare la forza di respingerlo.
«Shh, Camille, shh…»
L’aveva colta in un momento di debolezza e se ne stava approfittando.
Eppure non le importava. Si sarebbe lasciata baciare, stringere, toccare.
Tutto, pur di non sentirsi tanto sola e persa.
Sentì la mano sinistra di Ken alla base della schiena, ferma e autoritaria,
mentre la destra, delicata sul mento, le sollevava il viso.
Sentì il calore di Ken mescolarsi al suo, il suo respiro fresco sulle labbra, il
suo costoso profumo nelle narici. E appena i loro corpi si toccarono, sentì
anche la sua erezione.
Si irrigidì. Lui la strinse a sé con ancora più decisione.
«Non ti chiedo che un bacio, Camille…» le sussurrò. «Non puoi temere
nulla da un semplice, innocente bacio.»
Così, per la seconda volta nella sua vita, Ken Benton la baciò.
Le sue labbra si schiusero e Camille si lasciò invadere da Ken, dalla sua
passione, dal suo desiderio, dalla sua dolcezza, e rispose a quel tenero assalto
con determinazione più che con genuino trasporto. Avrebbe pagato perché
quel bacio le scivolasse dentro e la facesse fremere di passione, bruciare,
ardere… almeno un poco. Avrebbe pagato per una sola scintilla.
Ken di certo confuse l’impegno di Camille col desiderio e fece ciò che
molti uomini innamorati ed eccitati avrebbero fatto in quella promettente
situazione. Le chiese di più. Pretese di più. La schiacciò contro la parete
mentre le sue mani carezzavano esigenti i seni, i fianchi, le natiche, mentre il
suo desiderio premeva contro di lei.
Quando lei distolse il viso, le labbra di Ken proseguirono il loro cammino
lungo il collo e le spalle di lei, lasciando una scia di baci e di frasi
appassionate. Non che non le piacesse. Ken si stava rivelando un amante
caldo e generoso. Ma non era lui l’uomo che voleva, maledizione!
L’uomo che lei voleva non era più suo. Lo era stato per un breve periodo
mentre erano lontani l’uno dall’altra, separati da mille miglia, forse più. Lo
era stato fino a quando la notizia che lui avrebbe avuto un figlio da un’altra
donna non l’aveva colpita come una stilettata nel petto. Esattamente
all’altezza del cuore.
Mentre la bocca di Ken scendeva verso la scollatura, Camille si chiese se
Raleigh avesse già saputo delle condizioni di Geneviève. Se fosse già tornato
a New York. Da quella donna. Perché Raleigh non avrebbe mai rinunciato a
suo figlio. Avrebbe sacrificato il loro amore, sposato una donna che non
amava, per comportarsi nel modo più onorevole.
Raleigh era un uomo d’onore.
Per nulla conscio dei pensieri di Camille, Benton proseguiva indisturbato e
con successo la sua opera di seduzione, ma fu costretto a fermarsi quando lei,
tornando alla realtà, si accorse che le mani di Ken cominciavano a spogliarla.
«Ken, per l’amor del cielo, smettila!»
Lui si fermò, sorpreso e amareggiato da quella richiesta, ma continuò a
tenerla fra le braccia, immobilizzandola tra il proprio corpo e la parete, quasi
volesse fermare quell’attimo per sempre. Non gli importava un dannato
accidente di essersi approfittato della situazione se poteva stringere Camille
solo un momento di più.
Lei gli sorrise, mettendogli le mani sul petto e cercando di allontanarlo.
«Il tuo concetto di bacio mi sembra alquanto ampio, Ken…»
Ridacchiando, lui le accarezzò le labbra con le sue. «In effetti, sono stato
un vero mascalzone, ma ne sono felice. È da tanto che desideravo stringerti in
questo modo, dalla festa all’Astoria, ricordi?»
«Sì, Ken, ricordo.» Ma più ancora ricordava quanto fosse successo dopo la
festa, con Raleigh. «Lasciami ora, potrebbe entrare qualcuno…»
A quelle parole, il sorriso di lui si spense, le labbra tremarono leggermente
e gli occhi si chiusero, e a Camille parve che stesse pregando o cercando il
coraggio che non aveva.
«Cosa c’è, Ken?» gli chiese in un sussurro.
Lui non rispose, ma le rivolse a sua volta una domanda.
La domanda.
«V-vuoi spo-sposarmi, Ca-a-mille? Ti renderò f-f-felice se mi con-
concederai il te-tempo per farlo.»
Glielo chiese e subito si staccò da lei dandole le spalle, come se di colpo si
fosse vergognato di quella sua balbuzie, come se ne fosse stato intimamente
umiliato. Come se avesse osato troppo.
«Come potresti mai accetta-tare la pro-o-po-s-sta da un uo-o-mo che che
nell’intimita-à baal-bet-t-ta?»
Forse fu per quel suo sfogo sincero, per l’amarezza che sentì in quelle
parole e la tenerezza che provò per lui in quel momento che Camille, senza
pensare alle conseguenze di quelle due semplici lettere, rispose...
«Sì.»
***
Raleigh giunse a Newport via mare lo stesso giorno in cui Camille e Ken si
imbarcavano sulla Flying Jenny per fare ritorno a New York. Fu il vecchio
Benton in persona a dargli la notizia, con un sorriso tagliente sulle labbra.
«Caro Raleigh, arrivi tardi. Mio figlio e la sua fidanzata, Miss Brontee,
sono ripartiti questa mattina per New York. Spero che vorrai comunque
rimanere nostro ospite per qualche giorno…»
Senza sapere come, Raleigh rimase calmo, ringraziò cortesemente e rifiutò
l’invito, poi tornò sul suo yacht e ordinò ai suoi marinai di fare rotta verso il
Maine, o forse ancora più a nord. In ogni caso, il più possibile lontano da
New York.
29

Ottobre-novembre 1899, tra New York e Philadelphia


All’inizio di ottobre Camille si era trasferita a Philadelphia, per lavorare al
Women Home Journal. Ringraziando il cielo, passava più di dieci ore al
giorno in redazione o fuori per lavoro: più era impegnata, meno la sua mente
vagava con risentimento tra Raleigh e il suo futuro sposo.
Ken.
Non che si fosse pentita di avergli detto di sì.
Ogni giorno di più si dimostrava l’uomo affidabile e affettuoso che Camille
aveva imparato ad apprezzare e a conoscere, l’uomo con cui amava parlare e
trascorrere il suo tempo, che le dava fiducia, che la incitava a credere in se
stessa e nel suo lavoro e che sosteneva ogni sua idea e ambizione. Anche se
folle come guidare l’automobile.
***
Ken era l’uomo che, nonostante i suoi mille impegni, ogni sabato prendeva
il treno da New York e impiegava ore per raggiungerla a Philadelphia.
L’uomo che la ricopriva di piccoli doni – anche se lei gli aveva detto che
non ne avrebbe mai accettato di costosi prima del matrimonio - e che mai, da
quel giorno in cui l’aveva chiesta in sposa, aveva osato pretendere da lei più
di un bacio.
E non solo perché era un gentiluomo, un gentiluomo per la verità alquanto
frustrato, la vera ragione era un’altra: Ken temeva più del diavolo di essere
respinto. Non solo, era certo che forzare Camille all’intimità prima del
matrimonio sarebbe stato un errore fatale. Non era tanto sciocco da pensare
che un semplice sì potesse assicurargli l’amore di Miss Brontee, ma un
certificato ufficiale gli avrebbe dato la possibilità, giorno dopo giorno, di
viverle accanto, di conquistarla, di dimostrarle tutto il suo amore, di viziarla,
di renderla felice. Di farsi amare, forse. Col tempo. Se solo avessero potuto
condividere l’intimità di una coppia sposata, pensava Ken, i loro problemi si
sarebbero dissolti: Camille era una donna passionale e lui avrebbe soddisfatto
ogni suo desiderio colmandola con il proprio ardore.
Non ne vedeva l’ora, per la verità.
Ogni sabato, quando arrivava speranzoso a Philadelphia, le chiedeva delle
nozze.
«Hai scelto la data, Camille?»
Ogni sabato lei gli rispondeva evasiva.
Lui assentiva, stringeva i pugni e sorrideva.
Come un imbecille.
Perché non la costringo a sposarmi? Perché non mi scrollo di dosso questa
zuccherosa patina da gentiluomo?
Un altro motivo per cui Ken avrebbe voluto affrettare le nozze era il temuto
ritorno di Frank Raleigh a New York.
Non aveva dubbi che le continue assenze di Raleigh avessero a che fare con
la notizia delle prossime nozze di Miss Brontee con il ricco banchiere Ken
Benton, come amavano definirlo i giornali. Lasciando la città, Raleigh si era
ritirato in modo discreto dalla competizione, dimostrando carattere e rispetto
per la decisione di Camille. Ken gli era così grato di questo suo onorevole
comportamento che, se non avessero entrambi voluto la stessa donna, sarebbe
stato fiero di definirsi suo amico.
Non che la fuga di Raleigh da New York gli avesse reso le cose più
semplici con la sua promessa sposa.
La prima volta che aveva temuto che il fidanzamento fosse in serio pericolo
era stato a inizio settembre, quando Camille aveva scoperto che la gravidanza
di Geneviève Mercury era scoppiata come una bolla di sapone. E che, di
conseguenza, nessun impegno verso quella donna pesava ormai su Frank
Raleigh.
La notizia li aveva raggiunti come un macigno al termine di una cena a casa
Benton. Mentre prendevano il caffè in salotto, un ospite aveva commentato la
notizia riguardante Geneviève e a Ken non era sfuggita l’espressione smarrita
che si era disegnata sul viso di Camille.
Peggio di una coltellata nel cuore, per lui.
Camille lo aveva fissato con una sola domanda negli occhi: Come è potuto
accadere, Ken? Quindi era rimasta a fissarlo sbigottita, come se lo accusasse
di sapere, come se lui stesso fosse l’artefice di quell’imbroglio. In
quell’istante aveva compreso quanto poco profonde fossero le fondamenta su
cui poggiavano le sue speranze di felicità e aveva temuto di averla persa. Già
la immaginava, le gonne strette tra le mani, il viso segnato dalle lacrime,
precipitarsi da Raleigh.
Ma non era andata così.
Camille era rimasta al suo posto, riservata e silenziosa. Attonita. Più tardi,
mentre la riaccompagnava in Amster Yard con la sua nuova automobile, una
delle prime Winton a circolare in città, attraverso il tessuto sottile dei guanti
aveva percepito il gelo della pelle di Camille. E del suo cuore.
Ma nulla era successo. Niente era finito. Lei era partita per Philadelphia e il
loro fidanzamento aveva resistito a quel primo attacco.
***
Dal momento in cui aveva saputo che la gravidanza di Geneviève si era
afflosciata come un palloncino, Camille aveva atteso con trepidazione che
Raleigh si facesse vivo con lei, in qualsiasi modo. Certo, il fatto che in quei
mesi lei si fosse trasferita a Philadelphia e lui fosse stato sempre in viaggio
per affari non era stato d’aiuto, ma era del tutto improbabile che Frank non
fosse riuscito a rintracciare il suo nuovo indirizzo. Bastava che chiedesse ai
Campbell, a Corman o a Miss Sutton.
Nonostante Carolyne le avesse assicurato di essere più che certa del
contrario, Camille credeva che lui non volesse più avere nulla a che fare con
lei.
«Vuole solo dimenticarmi e chiudere questo fastidioso capitolo della sua
vita.»
«Allora è per questo motivo che è venuto sino a Newport! Per
dimenticarvi!» le aveva risposto ironica Carolyne.
«Deve aver cambiato idea, perché a Newport non è mai arrivato. Non lo
vedo dal giorno della sua partenza per il Michigan» aveva risposto lei mesta,
dilaniata dai sensi di colpa e dalle incertezze.
Frank doveva essere furioso con lei che, invece di aspettarlo come gli aveva
promesso, era partita per Newport insieme a Ken, in apparenza a fare la bella
vita. Ma cosa avrebbe preteso: che rimanesse a New York a sopportare gli
insulti di Geneviève e a guardare la sua pancia crescere? Che accettasse senza
reagire i pettegolezzi che l’avrebbero distrutta? Che si mettesse di mezzo fra
lui e il suo bambino?
Come avrebbe potuto allora immaginare che si trattava solo di una
macchinazione ordita da quella vipera?
Camille non faceva che pensare a come i fatti fossero precipitati, uno sopra
l’altro, uno dietro l’altro, in una frana incontrollabile.
Mi sono sentita tradita, derisa da te, Frank. Da te e dal tuo maledetto
anello di fidanzamento! Ken mi ha consolata, mi ha dato il suo affetto e mi
ha protetta da chi non parlava d’altro che del tuo figlio illegittimo!
Si sfogava così, piangendo e imprecando contro il destino.
In fondo, a pensarci bene, la sua storia con Raleigh era stata fin dall’inizio
un continuo pasticcio, un incontrarsi e lasciarsi, un trovarsi e perdersi, un po’
come accadeva in quelle pochade francesi, con tutte quelle porte che si
aprono e si chiudono sui personaggi e sulle loro vite, tra equivoci e malintesi
che non si sbrogliano se non alla fine dell’opera.
Ma non ci sarebbe stato lieto fine per loro due.
La stabile presenza di Ken al suo fianco, del buono e affidabile Ken verso
cui si sentiva sempre più in colpa, non ne era forse la prova?
Eppure, commedia o realtà che fosse, il tarlo che Raleigh non l’avesse più
cercata per non intromettersi nella sua vita continuava a roderle la coscienza.
Quante volte Raleigh le aveva ripetuto che Benton sarebbe stato l’uomo
ideale per lei? Il marito perfetto che lui non avrebbe mai potuto essere?
Oh, in quanto a questo non c’era dubbio che Raleigh avesse ragione. Ken
era un sogno d’uomo. Perfetto.
Troppo.
«Ken è convinto di potervi fare felice, vedrete, ci riuscirà» le aveva detto
Carolyne una sera.
Camille era rimasta zitta, la gola chiusa dallo sconforto.
Carolyne aveva scosso la testa e l’aveva stretta in un abbraccio affettuoso.
Il secondo attacco al fidanzamento di Ken con Camille sarebbe stato molto
più duro, e sarebbe arrivato circa due mesi dopo, con il ritorno di Frank
Raleigh in città.
***
25 novembre 1899, New York
«Questa sera vestiti elegante, Cam. Verrò a prenderti alle sette» le disse
Ken quel pomeriggio mentre salivano sulla Winton dopo aver pranzato
insieme da Sherry’s.
«Molto elegante? Cosa hai in mente, Ken?»
«Voglio farti una sorpresa.»
«Se è così, ubbidirò solo se mi farai guidare» disse lei, un sorriso
smagliante sulle labbra.
Oh, non gli sarebbe dispiaciuto baciarla davanti a tutti e poi permetterle di
guidare sin fuori città, fino a una locanda discreta dove avrebbero trascorso la
notte e finalmente fatto l’amore.
Ma già sapeva che non sarebbe andata così. Con un sospiro, disse soltanto:
«Vorresti guidare in pieno centro, Cam? Con questo viavai di carrozze, carri
e tramvai?»
«Lo chiedi come se fossi completamente pazza. Sì, in centro, Ken, in
mezzo al traffico! Temi che non ne sia all’altezza?»
Lui scosse la testa, dicendo qualcosa sulle donne alla guida, ma poi le
permise di prendere i comandi e si sedette con pazienza al suo fianco.
«Se superi le dieci miglia, ti faccio smettere subito!»
Camille sbuffò, alzò gli occhi al cielo e, scoppiando a ridere, partì
accelerando allegramente.
***
Un attimo prima, Frank Raleigh entrava da Sherry’s con un gruppo di
uomini d’affari di Cleveland.
«Era una donna alla guida?» aveva chiesto uno di questi, più scandalizzato
che stupefatto.
«Già! Adesso conducono l’auto, anche. Tra un po’ pretenderanno di votare.
Dove andremo a finire?» aveva aggiunto un tipo tarchiato.
«Non so» aveva risposto Raleigh, «ma devo ammettere che la vista di
quella donna al volante mi ha dato i brividi.»
Tutti erano scoppiati a ridere, equivocando le sue parole. Raleigh aveva
allora preceduto i suoi ospiti nella hall del ristorante, parlando e scherzando
con loro, ma profondamente a disagio. Perché, per un istante almeno, era
stato sicuro che quella donna alla guida della Winton fosse Camille. Un
pensiero ridicolo, assurdo, perché Miss Brontee si era trasferita a Philadelphia
dove passava i suoi fine settimana in compagnia di Ken Benton. Come
diavolo avrebbe potuto essere ai comandi di un’auto in pieno centro a
Manhattan? No, quella donna non era certo Camille! Era stata la sua
ossessione per lei ad averglielo fatto credere.
***
Miss Brontee superò spesso e volentieri le venti miglia, ma Ken non la
fermò. Per la verità, non fece altro che guardarla. Adorava quando Camille
era felice, e al volante della Winton lo era.
Gliene regalerò una a Natale, sempre che impari a guidare con prudenza,
pensava mentre l’accompagnava sino alla porta di casa senza insistere per
entrare, nonostante morisse dal desiderio di farlo. Ormai non pensava ad altro
che a rimanere solo con lei. Che a fare l’amore con lei. Che a stringerla tra le
braccia e dimostrarle la sua devozione.
Col solo scopo di poterle stare più vicino, da Brooklyn Heights si era
trasferito in uno dei nuovi palazzi dell’Upper East Side di proprietà della sua
famiglia, e un pomeriggio, per farle una sorpresa, l’aveva portata a visitarlo.
«Allora, cosa ne dici?» le aveva chiesto col cuore che batteva forte. «Ti
piacerebbe vivere qui, una volta sposati?»
Lei gli aveva regalato un sorriso forzato prima di rispondere che avrebbe
amato qualsiasi soluzione lui avesse scelto per loro. Quella risposta, che ad
altri sarebbe parsa sottomessa e affettuosa, era stata come una bastonata per
Ken.
«Potrai decidere di fare tutte le modifiche che riterrai opportune, cambiare
tutto il mobilio. O addirittura scegliere per noi un altro palazzo. Praticamente
possediamo metà del quartiere» aveva insistito lui sperando di suscitare in lei
un po’ di entusiasmo.
«Andrà bene questo, così com’è, Ken» aveva risposto lei senza alcuna
emozione.
Lui aveva sentito qualcosa spezzarsi dentro.
***
Già prima di aprire l’armadio Camille sapeva che non avrebbe avuto che
una sola scelta, essendo rimasta la maggior parte del suo guardaroba a
Philadelphia. Prese l’abito e se lo drappeggiò sul corpo. Oh! Quel colore così
sfacciato le donava. Chissà se Ken, con i suoi gusti sobri e signorili, lo
avrebbe apprezzato?
Il suo abito di seta rossa.
Non lo aveva più indossato da quella malaugurata sera al Metropolitan
Opera House.
Chiuse gli occhi e fu di nuovo là, in quel palco di proscenio, con Raleigh.
Poteva sentire ancora il suo respiro caldo sfiorarle la pelle mentre la
stringeva in quell’abbraccio rubato, mentre le sue labbra umide si posavano
all’improvviso sul collo e si chiudevano su di lei senza pietà.
Al ricordo di quel contatto primitivo e passionale, il sangue prese a correrle
più veloce nelle vene e le ginocchia cedettero.
Con un suono strozzato, Camille si lasciò cadere sul letto, l’abito rosso
ancora stretto al seno.
Se lo avesse indossato, per tutta la sera non avrebbe pensato che a Raleigh,
e questo Ken non se lo meritava di certo. Ma non aveva altra scelta: era
l’unica mise da sera che aveva e non poteva certo permettersi di comprarne
una nuova, senza contare che non ce ne sarebbe stato neppure il tempo.
Sospirando, appese il vestito allo stipite della porta e rimase a fissarlo, la
mente e il corpo in subbuglio, in attesa che Marie arrivasse per aiutarla a
prepararsi per la serata.
***
Piuttosto che recarsi all’Opera, Raleigh si sarebbe fatto prendere a cazzotti
da uno scaricatore di porto, uno di quelli che di notte combattevano a pugni
nudi facendosi massacrare o massacrando, e solo per portare a casa un paio di
dollari.
Ma doveva farlo, era una questione d’affari, e gli affari ormai erano il
centro della sua esistenza.
Trattava i suoi interessi come se giocasse d’azzardo e, di recente, azzardava
parecchio. Gettava i suoi soldi in imprese rischiose, scriteriate, come fossero
fiches su un tavolo verde, affidandosi un po’ al suo intuito e molto alla
fortuna. Rischiava con signorile incoscienza perché, se fosse rimasto senza
quattrini, non gli sarebbe importato un accidente, visto che non aveva più
nessuno con cui condividere la sua ricchezza. Aveva provveduto al benessere
materiale dei suoi fratelli. Aveva donato un capitale in beneficenza.
La sua coscienza era a posto.
In quanto a Camille, che nonostante tutto era ancora la sua unica erede,
sposando Ken avrebbe sposato anche la sua banca.
Rischiare lo aiutava a non pensare. Individuato un affare, puntava forte e
faceva sempre l’en plein, tanto che ormai a Wall Street gli avevano affibbiato
il nomignolo di Giocatore, come l’Aleksej Ivanovič di Dostoevskij. Raleigh
ci rideva sopra, e continuava a scommettere. Pur sapendo che l’unica posta
che avrebbe voluto disperatamente vincere, Camille, non era più in palio.
***
«Siete bellissima. Mr Benton non avrà occhi che per voi!»
Camille schioccò un bacio sulla guancia di Marie e si rimirò allo specchio.
Subito lo sguardo cadde dove le labbra di Raleigh si erano posate, dove
sentiva ancora la pelle bruciare, e un brivido incandescente la attraversò
facendola vacillare.
Possibile che il tempo non avesse ancora chiuso le sue ferite, che il ricordo
di Raleigh fosse ancora così dolorosamente vivo in ogni sua cellula, in ogni
suo pensiero?
Il matrimonio con Ken mi guarirà, si disse senza convinzione, mentre il
campanello di casa l’avvertiva dell’arrivo del suo fidanzato.
***
Quando Ken la vide, una nuvola seducente e desiderabile di taffetà
carminio, cominciò a balbettare, arrossendo e maledicendo quella sua piccola
infermità. Poi lei gli sorrise e il mondo gli sembrò un paradiso.
Una volta in carrozza, non le tolse gli occhi di dosso.
«Sei così be-bella, Camille, non posso credere di essere ta-tanto fortunato.»
«Non voglio che mi ripeti quanto sono bella, Ken!» gli rispose in tono
scherzoso, civettando apertamente.
«Che sei intelligente?»
«No no.»
«Che sei sp-spiritosa?»
«Questo complimento va già meglio. Ma non è quello che vorrei sentire da
te. Brumm brumm» disse, fingendo di essere ai comandi di un’auto.
Ken si mise a ridere. «Non te lo dirò mai che sei brava a guidare, Camille.
Per poco oggi pomeriggio non ci hai ucciso!»
«Allora non ti sposerò!»
«Non dirlo neppure per scherzo, Camille.»
Non appena terminò di pronunciare quelle parole, con tono così serio e
autoritario, si pentì subito di averlo fatto. Vide il volto di Camille passare
dalla sorpresa alla collera e poi assumere quell’aria di sfida che lo rendeva
nervoso, insicuro. Dannazione! Non era una novità che Camille odiasse
essere messa alle strette! Possibile che non riuscisse a controllarsi? Se per una
sciocchezza come quella l’avesse perduta…
Proprio in quell’istante la carrozza si fermò sulla Broadway e lui,
prendendole la mano, disse: «Mi dispiace, Camille, non volevo essere
brusco».
«Non importa, Ken. Niente deve rovinare questa serata. Dove mi hai
portata?»
«Guarda tu stessa» le disse, scostando la tendina del finestrino.
Vedendo il Metropolitan Opera House, Camille si sentì mancare.
«All’Opera, mi hai portato all’Opera, Ken?» chiese cercando di apparire
entusiasta.
Lui assentì, sorridente, ignaro dei pensieri della fidanzata e dell’angoscia e
della frustrazione che stavano montando in lei.
«Ma tu odi l’opera, Ken, me l’hai detto più di una volta!»
«Ma tu la ami, Cam. E questa sera sarà Antonio Scotti a interpretare Don
Giovanni.»
«Assisteremo a Don Giovanni di Mozart, Ken? È una delle mie opere
preferite.»
«Infatti è solo per amor tuo se sopporterò stoicamente questa tortura!»
***
Camille sorrideva, fingendo di essere grata e felice per quella sorpresa. Ma
non era né felice né grata. Era preoccupata e in ansia, in attesa di essere
travolta e sommersa dal mare in burrasca dei ricordi.
Prima l’abito rosso.
Ora il Metropolitan.
Come avrebbe potuto ascoltare una sola nota del capolavoro di Mozart,
applaudire un virtuosismo di Scotti, ammirare una messa in scena ricca ed
elaborata, se per tutta la sera il suo pensiero sarebbe corso a Frank Raleigh?
Dannazione, Ken! Perché proprio qui?
Non posso entrare in questo teatro, non con questo abito addosso.
I signori Benton li attendevano nel palco di famiglia. Camille soffocò il
panico e sorrise comprendendo subito che quella piccola sorpresa significava
una sola cosa: Ken intendeva ufficializzare la loro relazione di fronte
all’intera società newyorkese e spingerla così, più in fretta di quanto lei non
volesse, verso il matrimonio. Si accorse che molti binocoli dalla platea e dai
palchi erano puntati su di loro.
Un brivido le corse per la schiena. Era la prima volta che si sentiva tanto a
disagio da quando aveva accettato di sposare Ken.
«Siete bellissima, Camille... ravissante... in rosso» fece Mr Benton, lo
sguardo perforante come quello di una fiera.
«Grazie, Mr Benton» rispose lei con una piccola e molto britannica
riverenza, ringraziando il Signore che Ken non assomigliasse affatto al padre.
«Nostro figlio è fortunato, darling. Ha trovato una donna bella e
intelligente.»
Pur rivolgendosi alla moglie, non aveva cessato di fissare Camille. Che
avesse colto il suo imbarazzo?
«E io non potrei essere più felice della sua scelta, darling.»
Con un sorriso sincero Mrs Benton abbracciò Camille, facendola arrossire.
Non per il complimento ricevuto, ma perché all’improvviso si sentiva
indegna di quell’affetto.
Disonesta. Con Ken e con i suoi genitori. Ma soprattutto con se stessa.
Voleva urlare. Voleva scappare.
Rimase immobile.
Un valletto entrò portando una bottiglia di champagne. Ghiacciato,
invitante. Camille ne trangugiò una coppa, poi un’altra. Se si fosse ubriacata
forse non avrebbe pensato a Raleigh e non si sarebbe sentita tanto colpevole.
È a Ken che dovrei pensare. È Ken che dovrei sforzarmi di amare.
I due uomini presero posto dietro alle signore mentre Camille sorrideva alle
parole di Mrs Benton senza coglierne il significato.
Non devo guardare, non posso guardare.
Ma il suo sguardo correva di continuo al palco di Raleigh. Dove lui l’aveva
baciata e per pochi secondi posseduta. Un altro palco di proscenio, al di là
della platea, esattamente speculare a quello dei Benton.
Vuoto, grazie a Dio.
Lui non è neppure a New York, come potrebbe essere qui, stasera?
Mrs Benton, armata di un grazioso binocolo, stava passando in rassegna il
pubblico presente, commentando con bonarietà ogni amicizia, salutando con
la mano, mandando sorrisi e piccoli baci ad amici e parenti, rendendo
partecipe Camille delle sue scoperte. Richiamando su di loro, come se ce ne
fosse stato bisogno, l’attenzione di tutti i presenti.
Anche Camille salutò alcuni conoscenti e mandò un bacio a Jenny, ospite
nel palco della sua amica Charlotte.
Nel frattempo padre e figlio non partecipavano a quel rituale mondano.
Parlavano di lavoro. Discutevano, in verità.
Se sposerò Ken, sarà questa la vita che mi aspetta? Rimanere in vetrina
mentre lui litiga col padre di lavoro? Sorridere, salutare, fingere di essere
felice?
All’idea di tante, troppe serate come quella, il disagio in lei si trasformò in
panico. Complici forse lo champagne, l’abito rosso e il palco vuoto di
Raleigh, si alzò in piedi mentre le luci cominciavano ad abbassarsi.
«Cosa c’è mia cara?» le chiese Mrs Benton.
«Non mi sento bene, devo uscire un momento a prendere una boccata
d’aria. Vi prego di scusarmi.»
Un altro brivido la scosse, poi un altro ancora, più violento e sconvolgente.
Una sensazione.
Non è possibile.
Una certezza.
Non è possibile.
Ancora tremante, fissò un punto preciso al di là della platea.
Lui era lì. In piedi nel suo palco, la fissava come se in tutto il Metropolitan
non ci fossero che loro due.
Fu come se qualcuno le avesse strappato l’aria dai polmoni e il cuore dal
petto. Ogni rumore si smorzò, ogni luce si spense, ogni movimento si quietò.
Il mondo intero per un istante si fermò. Poi riprese a girare, troppo in fretta.
L’aria le riempì di nuovo i polmoni e il suo cuore ricominciò a battere.
«Scusatemi, devo proprio uscire» ripeté tremando, mentre il direttore
d’orchestra faceva il suo ingresso e il pubblico cominciava ad applaudire.
Ken fece per seguirla.
Nella sala il buio divenne di velluto.
Lei si girò di scatto e lo fermò.
«Non c’è bisogno che mi accompagni, Ken, devo solo andare alla toilette,
magari a bere un po’ d’acqua. Ti prego, rimani, non puoi perdere l’ouverture.
È sublime.»
Doveva stare sola.
Le prime note risuonarono nel teatro.
Ken si immobilizzò, sul volto un’espressione di pura angoscia.
Camille uscì dal palco.
Il sipario si aprì.
30

Lui era lì.


Come avrebbe potuto vivere a New York insieme a Ken se la sola presenza
di Raleigh la gettava nel panico?
E se si fosse sbagliata? Se avesse soltanto creduto di vederlo?
La situazione sarebbe stata ancora più grave.
Appoggiata alla parete della galleria che fiancheggiava gli ingressi ai
palchi, Camille cercava di riflettere, ma sembrava aver perso ogni facoltà
intellettiva.
Voleva correre da lui.
Voleva scappare con lui.
Voleva toccarlo, abbracciarlo, stringerlo a sé, sentire il suo profumo e le
sue mani sulla pelle. Implorarlo di non lasciarla mai più.
Voleva schiaffeggiarlo. Urlargli il proprio disprezzo per essere rimasto
immobile a guardare mentre Ken la rapiva a lui.
Voleva baciarlo.
Voleva essere baciata.
Voleva essere sua.
Per sempre.
Devo raggiungere la toilette prima che Ken mi trovi in questo stato.
Si mosse a passo spedito, ma nella direzione opposta. Non che non se ne
fosse accorta, ma non poteva farci niente, preda com’era di una forza
sconosciuta che la stava spingendo verso… Era fin troppo chiaro dove la
stesse spingendo.
Camille accelerò l’andatura e, giunta al punto in cui la galleria piegava
verso l’altra ala del teatro, si immobilizzò, tormentata da mille dubbi.
Cosa sto facendo? Devo tornare da Ken, subito.
Fece dietrofront, ma un valletto in livrea comparve alle sue spalle.
«Avete bisogno di aiuto, madam?»
Lei sussultò, spaventata. Si girò verso l’uomo e fece per rispondere, ma
qualcuno la precedette.
«Grazie… John. Vi chiamate John, vero? La signora è con me.»
Camille rimase immobile, non osando girarsi verso l’uomo che aveva
appena parlato. D’altronde, non aveva bisogno di voltarsi per sapere chi
fosse.
«Sì, Mr Raleigh» fece il valletto.
«Riaccompagnerò io la signora al suo palco, John.»
Camille vide alcune monete transitare dalla mano di Raleigh a quella
dell’inserviente. Poi sentì le dita di Raleigh stringersi intorno al suo braccio e
trascinarla via con fermezza. Una presa decisa, forte, persino dolorosa. Che
non ammetteva ribellioni o repliche.
Camille emise un suono soffocato, ma non si oppose a quella prepotenza
nell’eventualità che John li stesse ancora osservando.
«Dove mi stai portando, Frank? Vuoi far scoppiare uno scandalo?» sibilò
furiosa.
Con Ken ogni cosa filava via serena e prevedibile, con Raleigh... Ah! Era
ricomparso nella sua vita da pochi minuti e già si trovava in un mare di guai.
Invece di risponderle, lui le rivolse uno sguardo duro, senza mai smettere di
camminare. Giunto all’ingresso del foyer, aprì una porticina laterale e la
varcò, trascinandosi dietro Camille.
Si ritrovarono in un bugigattolo illuminato solo dalla luce proveniente dalla
Broadway.
«È qui che porti le tue amanti tra una romanza e un do di petto, Frank?»
chiese lei in tono sarcastico.
«Non ci provare, Camille, non sono in vena di ironia. Sono furente, se lo
vuoi sapere!»
«Ed è per questo motivo che vuoi a tutti i costi coinvolgermi in uno
scandalo? Cosa vuoi da me? Punirmi? E per quale colpa, di grazia?»
Lui scosse la testa, gli occhi neri di rabbia.
Con uno strattone Camille si liberò della mano di Raleigh, poi lo sfidò con
lo sguardo scintillante di collera. Solo pochi minuti prima aveva immaginato
le sue mani accarezzarla e le sue labbra divorarla senza pietà. Adesso era
furibonda.
Con se stessa.
Perché, invece di combattere l’attrazione che la spingeva da lui, era corsa a
cercarlo. Perché continuava a desiderare che lui la stringesse tra le braccia e
la stordisse col suo ardore. Perché non era indignata e offesa dalla sua
arroganza, ma pronta a concedersi a lui, anima e corpo.
Appoggiato con indolenza alla porta, quasi ad assicurarsi che non potesse
scappare, Raleigh la fissava affamato, lo sguardo puntato su quelle zone del
corpo che un gentiluomo non avrebbe dovuto fissare con tanta spudoratezza;
le labbra socchiuse, pronte a catturare ciò che bramavano. Erano le stesse
labbra che l’avevano baciata, amata e accarezzata, che le avevano aperto i
cancelli del paradiso in terra.
O forse dell’inferno.
Camille prese a sventagliarsi con furore.
Passò da un piede all’altro, nervosa, irrequieta.
Alzò gli occhi al cielo e imprecò in silenzio.
Chiuse con un gesto secco il ventaglio e lo riaprì.
Tutto per non guardarlo negli occhi.
Tutto per non guardargli la bocca.
Immobile, lui non smetteva la sua silenziosa esplorazione.
«Sei nervosa, Camille? Hai paura che il tuo fidanzato venga a cercarti?»
«Per favore, lascia stare Ken!» disse sollevando gli occhi al cielo,
spazientita.
Cercò di raggiungere la porta, ma il corpo di Raleigh glielo impedì.
Sembrava essere ovunque: grande, forte, potente. Prepotente.
Desiderabile.
Non pensarci neppure! Devi soltanto varcare quella porta e tornare da
Ken.
Già, Ken.
Perché non pensava mai a Ken nello stesso modo in cui pensava a Frank?
Perché quando lui la sfiorava non sentiva nulla? Non un brivido, né
un’emozione. Eppure, era Ken che le dava sicurezza, stabilità. Era lui che
aveva scelto. Era da lui che doveva tornare.
Lasciandosi andare a un piccolo gesto di stizza, le mani strette a pugno,
Camille si allontanò da Raleigh.
«Riesci sempre a rovinare tutto, Frank!» sibilò.
«Lo so.»
«A sconvolgere le mie certezze.»
«Lo so.»
«Lasciami andare, per l’amor di Dio. Ken sarà preoccupato, forse in
collera.»
«Non credi di dovermi delle spiegazioni, prima?»
«Io?» Lo fissò incredula. «Non credi di dovermi tu delle spiegazioni?»
Lui rimase immobile, a guardia della porta e della vita di Camille.
«Spostati, Frank!» implorò, disperata. Non voleva far del male a Ken, non
se lo meritava.
«No, non te ne andrai prima di avermi spiegato per quale ragione, non
appena mi hai visto, sei fuggita dal tuo fidanzato per venire a cercare me.»
«Non è vero!» protestò lei senza la minima convinzione. «Non sono
fuggita, avevo solo bisogno di aria, non mi sentivo bene.».
«Mi credi un idiota, Camille?» disse sollevando un sopracciglio.
«Vuoi la verità, Frank? Eccola. Nuda e cruda. Non sono fuggita. Volevo
solo evitare che tu mi vedessi e che Ken si accorgesse del mio turbamento»
ammise senza tentennamenti.
«Non vederti? Non vederti! Ah! Come avrei potuto non vederti? Ho
percepito la tua presenza non appena ho messo piede in quel dannato palco,
Camille, appena ho scorto uno sfavillio di seta rossa dal lato opposto della
sala. Il cuore mi si è fermato, e per un istante sono stato preso dal panico, ho
pensato di soffocare. Giura che non è stato lo stesso per te e sarai libera di
andartene. Per sempre.»
Come poteva giurare il falso? Come poteva fingere di non essere sconvolta,
se non addirittura terrorizzata? Trasse un respiro profondo e…
«Io… io te lo giu… Io ti giuro che…»
Non finì la frase, non ci riuscì. Così, per nascondergli la propria sconfitta, si
girò di scatto, arrabbiata e fragile, gli occhi due pozze di lacrime.
«Perché lo hai fatto, Camille? Perché hai scelto lui?»
Lo sentì avvicinarsi. Un passo, un altro e poi un altro ancora, sino a quando
il suo respiro non le accarezzò la nuca come la più dolce delle promesse, e lei
non riuscì a trattenere un gemito.
«Cosa pretendevi che facessi? Che mi mettessi tra te e la donna che stava
per darti un figlio? Fra te e il tuo erede?»
«Era tutta una menzogna, Camille!»
«Io non potevo immaginarlo, Frank!» urlò quasi, girandosi di nuovo verso
di lui, sforzandosi di credere di non aver avuto altra scelta se non quella di
legarsi a Ken.
Raleigh non tentò di nasconderle il proprio risentimento.
«Sai perché non mi ci è voluto che un giorno per smascherare l’inganno di
Geneviève? Perché avevo fede nel nostro amore, mi dicevo che non era
possibile che il destino si fosse accanito ancora una volta contro di noi.»
«Dovrei forse sentirmi in colpa per non avere creduto al nostro amore,
Frank? Non mi sono mai sentita in colpa, se non con la mia coscienza. Ho
convissuto quasi tre mesi con il figlio immaginario di Geneviève sentendomi
un mostro perché non pensavo che al modo di allontanarlo da suo padre. Ma
non potevo farlo, Frank. Non potevo. Quando Ken mi ha offerto la sua mano,
l’ho accettata, è vero, mi ci sono aggrappata. Lui mi ha trascinato fuori dalla
melma in cui Geneviève mi aveva gettato, dai pettegolezzi, dalla cattiveria. E
anche se non lo amo, lo sposerò. Glielo devo.»
«Non lo farai, Camille! Non te lo permetterò!» urlò lui.
Lei scosse il capo, demoralizzata, poi proseguì, incurante dello sfogo di
Raleigh.
«Come puoi accusarmi di non aver avuto fiducia nel nostro amore, quando
tu non ti sei neppure preoccupato di scrivermi, di spiegarmi cosa fosse
accaduto?»
Raleigh emise un lungo sospiro, quasi con quel semplice gesto potesse
liberarsi dalla morsa che gli stringeva il cuore.
«Tu eri a Newport con lui, Camille! Non appena l’ho saputo, mi sono
imbarcato per raggiungerti, per darti di persona la notizia, per chiederti di
sposarmi. Certo, ero terrorizzato dai pettegolezzi che potevano esserti arrivati
all’orecchio, ma avevo fiducia nel tuo amore, nella tua forza di carattere. Non
crederà mai a una tale assurdità, mi ripetevo. Sono arrivato a Newport con la
speranza nel cuore, ma tu te ne eri già andata. Fidanzata, con Ken. Al vecchio
Benton brillavano gli occhi mentre mi dava la buona notizia. Bastardo!»
Camille sentì altre lacrime pungerle gli occhi. Lacrime di rabbia. Non
voleva trascorrere la sua vita preda del rimpianto, non doveva credergli.
«Se davvero è andata come dici, perché non mi hai raggiunta a New York?
Perché non hai cercato di fermarmi, di spiegarmi? Perché in tutti questi mesi
non sei tornato da me? Pensi che io possa crederti, ora?»
«Temevo che tu lo amassi, Camille; ti sono rimasto lontano solo perché non
volevo compromettere la tua serenità, il tuo futuro.»
«Molto generoso da parte tua, Frank. Allora neppure ora dovrebbe esserti
difficile farti da parte e lasciarmi tornare da lui.»
«No, non ti lascerò andare, perché ora so che con lui non sarai mai felice.
Mi è bastato incrociare il tuo sguardo per capire che sei ancora mia. Tu ami
me, Camille, nulla è cambiato fra noi.»
Fece un passo verso di lei, con quello sguardo negli occhi, quello che le
faceva piegare le ginocchia e mancare il fiato.
«Non è vero» disse lei sollevando il mento in gesto di sfida.
«Dal momento che sei tanto ostinata, forse questo ti convincerà…»
Fece un altro passo e lei seppe di essere persa.
«Ti prego, non farlo…» mormorò senza convinzione.
Ormai le era così vicino che il calore del suo corpo l’avvolgeva in un
abbraccio intimo, sensuale.
«Non farlo» implorò ancora.
Sentì un languore pericoloso divamparle nel ventre e poi chiederle con
prepotenza di essere colmato. Sentì la mano destra di Raleigh cingerle la vita,
la sinistra sollevarle il viso. Sentì il suo respiro caldo e profumato
accarezzarle le labbra.
«Dimmelo, Camille. Dimmi che quest’abito l’hai indossato solo per me, per
ricordare quella notte…»
Gli occhi di Raleigh scintillavano come tizzoni ardenti mentre i loro corpi
aderivano l’uno all’altro, mentre i loro cuori si fondevano in un unico battito.
«No, non è vero» mormorò Camille cercando di respingerlo, le mani
tremanti appoggiate sul suo petto.
«Bugiarda.»
Come avrebbe potuto respingerlo quando lui era tutto ciò che desiderava?
Che aveva sempre desiderato?
Chiuse gli occhi e lasciò che lui la trasportasse dove il tempo e la ragione
non avrebbero più avuto alcun senso.
Gli cinse il collo, gli passò le mani tra i capelli, gli accarezzò il petto e le
spalle, come per assicurarsi che fosse davvero lì, tra le sua braccia, carne e
sangue, calore e passione. Permise a Raleigh di prenderle la bocca in modo
brutale, assoluto. Si sciolse in quel bacio, assaporando la morbidezza e
l’intimità di quel contatto, lasciandosi invadere e invadendo, concedendosi ed
esigendo.
Consapevole che quel momento era il frutto di una follia, smise di pensare
a Ken e si affidò a Frank. Alla sua bocca di velluto e alle sue mani infuocate
che le abbassavano il corpetto dell’abito.
Gemendo, lo attirò a sé e si concesse senza pudori al piacere che lui le stava
dando, inatteso e devastante. E senza combattere si abbandonò alla passione
quando la bocca di Raleigh si impadronì di nuovo della sua.
«Ti voglio, Camille. Voglio che tu sia mia. Ora. Sempre.»
La risposta di lei fu solo un gemito soffocato.
La sollevò e la adagiò sul ripiano polveroso di un tavolo colmo di vecchi
programmi di scena.
Gli occhi persi in quelli ardenti di Raleigh, il cuore in gola, il desiderio che
pulsava in ogni fibra, Camille si offrì a lui senza tentennamenti.
La seta frusciò quando Frank le sollevò le gonne con impazienza e frusciò
di nuovo quando si chinò a baciarle la pelle candida del ventre.
«Camille» mormorò mentre si liberava degli indumenti che li separavano e
rimaneva immobile davanti a lei, la sua virilità esposta e fremente, il sangue
che correva troppo veloce nelle vene di entrambi.
Non riuscendo a sopportare oltre l’attesa, lei gemette. Fece per toccarlo, ma
lui le scostò la mano.
«Non tanto in fretta. Cingimi i fianchi con le gambe, così» la guidò.
Era stupita, spaventata, eccitata, attratta dalle sue richieste, pronta a
soddisfare ogni suo desiderio perché lui in quel momento era il suo solo
universo. Fece come le aveva ordinato, senza provare alcun imbarazzo per il
modo in cui si stava donando a lui, per il modo in cui lo sguardo indecente ed
eccitato di Raleigh l’avvolgeva.
Per la cruda sensualità che stillava dai loro due corpi mentre le note di
Mozart inondavano il Metropolitan.
Mentre il suo fidanzato, seduto in un palco, era in pena per lei.
Raleigh era Don Giovanni.
Lei?
Traviata.
Con l’incoscienza che sgorga dalla passione scacciò l’immagine di Ken
dalla sua mente e rovesciò il capo all’indietro, pronta a darsi a lui.
«Sei così bella, Camille, e questa tua arrendevolezza mi fa impazzire.»
L’accarezzò fra le gambe. Lei gemette e si mosse contro il palmo aperto
della sua mano, accrescendo con quel gesto istintivo il desiderio di entrambi.
Era eccitante tormentarlo con il movimento dei fianchi, scorgere nei suoi
occhi scuri come la notte la passione che lo stava logorando.
Camille coprì con la sua la mano che la stava accarezzando, fermandola.
Non voleva che lui la toccasse. Voleva di più.
Fu solo un debole fiato, roco e tremulo, quello che esalò mentre cercava di
respingere l’urgenza di soddisfare subito il proprio desiderio. Gli scostò la
mano.
«Prendimi Frank, subito» implorò.
***
A quelle parole, lui emise un suono basso e ferino che gli imporporò il viso.
E tutta la rabbia e il rancore che aveva provato negli ultimi mesi riemersero in
lui. All’improvviso Camille era al fianco di Ken. Tra le sue braccia. Nel suo
letto. E lo implorava di prenderla.
Prendimi Ken. Subito.
Sentì il dubbio esplodere in lui senza controllo e divenire pensiero,
domande.
Lui l’aveva mai posseduta? La sua bocca e le sue mani le avevano mai dato
piacere?
Pur conscio della sua inutile arroganza, chiese: «Sei stata con lui,
Camille?»
Anche l’aria, a quelle parole, sembrò farsi di ghiaccio. Non solo il volto di
lei.
«È solo questo che ti importa, Frank? È solo una questione di possesso?»
sibilò. «Quando è così…»
Cercò di allontanarlo.
Raleigh sostenne lo sguardo di Camille senza ribattere, ma, appena percepì
in lei l’intenzione di respingerlo, in un lampo le passò le mani sotto il bacino
e, senza delicatezza, con un colpo secco la penetrò.
Camille cercò di nuovo di respingerlo, mentre lui cominciava a muoversi
con forza, più possessivo ed esigente a ogni spinta. Ancora e ancora, gli occhi
bassi per la vergogna.
Sapeva di non aver alcun diritto su di lei, sapeva che avrebbe dovuto uscire
dal suo grembo, supplicarla di perdonare quel suo atto primitivo e prepotente,
quella sua domanda offensiva. Di perdonare la sua insensata gelosia. La sua
odiosa violenza.
Ma non lo fece.
Quando trovò il coraggio di sollevare le palpebre, prima lo sguardo ferito di
Camille gli perforò l’anima, poi la sua mano gli colpì il volto, con tutta la
forza del disprezzo.
Fu allora che si immobilizzò, cercando nei meandri del suo orgoglio
calpestato la forza di separarsi da lei. Fece un tentativo, ma il suo corpo si
rifiutò di obbedirgli. Voleva rimanere dentro di lei. Stava bene dentro di lei.
Ci provò di nuovo e si sorprese quando, invece di respingerlo, Camille lo
trattenne e cominciò a ondeggiare intorno a lui. Lo fissava sfidandolo, quasi
volesse ripagarlo della sua brutalità o prendersi per l’ultima volta il piacere
che mai più un altro uomo le avrebbe dato.
«Non muoverti, rimani immobile» gli ordinò.
Lui ubbidì. Rimase immobile, senza parole e senza fiato mentre lei lo usava
come un oggetto di piacere.
«Non ti muovere» andava ripetendogli Camille, senza perdere il contatto
con i suoi occhi. Non c’era debolezza in lei in quel momento.
«Camille» implorò lui.
«Non. Ti. Muovere.»
Non sarebbe riuscito a rimanere impassibile a lungo, per quanto paradisiaca
fosse quella tortura.
«Camille» mormorò di nuovo, aggrappato ai suoi fianchi come alla
salvezza. La guardava gemere, in preda a un godimento che non aveva mai
sentito tanto forte in lei, in attesa che il suo volto divenisse quello
meraviglioso di una donna sommersa dal piacere.
E quando ciò accadde, Raleigh perse il controllo.
Camille rovesciò il capo offrendogli la gola mentre lui cominciava ad
affondare con più forza dentro di lei, a divorarle con ardore la pelle delicata
del collo.
Raleigh perse la ragione, se ancora ne conservava, e non si fermò finché
non la sentì tremare e gemere ancora, finché, scosso da un piacere quasi
doloroso, venne dentro di lei ripetendo come un folle: «Mia, mia, mia».
***
Camille giaceva ansante su quel tavolo polveroso, il corpetto abbassato, le
gonne rosse a formare un alone vermiglio intorno ai suoi fianchi, la sua
intimità ancora unita a quella di Raleigh. Entrambi paghi di piacere. Ma non
felici.
Fu lei a parlare per prima, a rompere il silenzio che si stava abbattendo su
di loro come una scure.
«Devo andare» disse brusca.
Lui le immobilizzò le braccia, impedendole di muoversi.
«Cosa accadrà adesso, Camille?» chiese, conoscendo già la risposta.
«Farò ciò che devo: tornerò da Ken, pregando che non si accorga che la sua
fidanzata si è appena concessa a un altro uomo come una sgualdrina.»
Lo sguardo di Raleigh si riempì di collera.
«Tu non sei una sgualdrina» sibilò puntandole l’indice contro, «e io non
sono un altro uomo, ricordalo!»
«Purtroppo lo sei diventato, Frank» rispose lei con voce mesta. «Ora
spostati, devo rivestirmi.»
Questa volta lui obbedì.
Con gesti frenetici Camille cominciò a ricomporsi. L’abito era uno straccio,
l’acconciatura un disastro. La sua bocca, poi! Era talmente gonfia! E il
collo…
Toccò il punto dove Raleigh aveva stretto la sua pelle tra le labbra, dove
aveva impresso il segno del tradimento sulla sua carne mentre la inondava col
suo seme. Un piccolo segno rosso, in rilievo come una lettera scarlatta.
Pensò a Ken, al dolore che avrebbe provato quando se ne fosse accorto, e
vacillò.
Raleigh fu veloce a sostenerla, a stringerla di nuovo a sé.
«L’hai fatto di nuovo, Frank. Come riuscirò a giustificarlo?» mormorò
Camille, indicando il segno violaceo sul collo.
«Non devi giustificare niente. Non devi tornare da lui. Quel segno è la
prova che sei mia.»
Non scherzava.
Con un moto di stizza, Camille si liberò dal suo abbraccio e si diresse come
una furia alla porta, ma lui la fermò.
«Dobbiamo parlare. Ti prego. Domani…»
Lei lo fissò con rassegnazione.
«E di cosa vorresti parlare, Frank? Forse vorresti chiedermi se sono stata
con Ken? Perché è questo il nocciolo della questione, vero? Tutto ciò che ti
interessa sapere. Se sono andata a letto con Ken. Se Ken ha messo le mani su
qualcosa che credi ti appartenga.»
Mosse un passo verso di lui, frustrata, arrabbiata.
«È stato Ken a proteggermi da un mondo che mi stava cadendo addosso, e
ora gli appartengo. Nella mia vita non c’è più posto per te, non c’è più posto
per noi.»
***
In piedi davanti a lei, Frank non riusciva a emettere suono, se non quello
sempre più elaborato del suo respiro. Il suo volto esprimeva una sola
emozione: uno sconforto devastante e profondo.
Quando lei gli passò accanto per andarsene, non tentò di fermarla. Rimase a
fissarla pietrificato, incapace di respirare, madido di un sudore gelato.
Camille lo amava, ne era certo, ma era altrettanto certo che non sarebbe mai
stata sua. E di questo doveva ringraziare solo se stesso, la sua arroganza e la
sua superbia. Ma soprattutto doveva ringraziare quell’odioso, innato senso
dell’onore che l’aveva costretto a consegnarla a Ken. Quella sensazione
fastidiosa e potente di intima inadeguatezza, quel suo eterno timore di non
essere capace di amare, di rendere felice gli altri. Invece di seguirla a New
York, da Newport era fuggito nel Maine, convinto ancora una volta dai suoi
sensi di colpa che Ken sarebbe stato l’uomo giusto per lei; e così facendo
aveva condannato Camille all’infelicità. Invece di andare a riprenderla,
invece di lottare per lei, era rimasto a guardare mentre scivolava via dalla sua
vita. Come un dannato vigliacco.
La sua esistenza era una ben misera cosa, pensò. Infilò la mano in tasca e la
richiuse intorno all’astuccio di Tiffany, dal quale ormai non si separava più.
Si appoggiò alla porta e strinse il pugno, tanto forte che quel piccolo,
prezioso scrigno gli cedette tra le dita.
Dal palcoscenico l’aria di Ottavio, Ma qual mai s’offre, oh dei, lo
raggiunse, inattesa e sublime, e gli parve una triste metafora della sua vita.
***
Dopo essersi fermata a sistemarsi i capelli e l’abito alla toilette, Camille
ritornò al palco dei Benton.
Trovò Ken sulla porta ad attenderla, nervoso, il volto tirato.
«Ero preoccupato, sono venuto a cercarti, non ti ho trovata… Dove sei
stata?» bisbigliò.
«Alla toilette, Ken…»
Dannazione, non voleva mentirgli! Ma cosa poteva dirgli? Forse: Per forza
non mi hai trovata, mi stavo concedendo a Raleigh come mai mi darò a te!
Invece ripeté: «Ero alla toilette, Ken, mi sono sentita male, forse a causa
dello champagne ghiacciato».
Lui la fissò, poco convinto. Lei distolse lo sguardo pregando il cielo che la
luce fioca del retropalco nascondesse i segni inequivocabili che la passione di
Raleigh aveva impresso sul suo corpo e nella sua anima.
«Vorrei tornare a casa» aggiunse, sentendo addosso gli occhi indagatori di
Mr Benton. Il vecchio era infatti comparso – naturale! – per controllare cosa
stesse succedendo tra il figlio e la futura nuora.
Che padre premuroso!
Con rabbia Camille si chiese se Mr Benton avesse mai detto a suo figlio
della visita di Raleigh a Newport. Le venne la tentazione di chiederglielo, in
quel preciso momento, mentre lui continuava a osservarla senza discrezione.
Ma, se lo avesse fatto, sarebbe stato come ammettere di essersi incontrata
segretamente con Frank. No. Almeno per il momento si sarebbe tenuta quel
dubbio per sé. Per non ferire Ken.
«Voglio andare a casa. Non mi sento ancora bene» disse raddrizzando la
testa e le spalle.
Non che fosse proprio una menzogna. Ma certo non era neppure la verità.
Uscirono dal teatro mentre il sipario si chiudeva sul primo atto. Camille
camminava veloce, a testa china, per timore di ritrovarsi all’improvviso
faccia a faccia con Raleigh. Per timore che fra lui e Ken potesse scoppiare
una scenata, o essere pronunciata una sola parola di troppo.
Quando alla fine montò in carrozza, tirò un sospiro di sollievo, nonostante
si sentisse così colpevole nei confronti di Ken da evitare di guardarlo in
faccia: non tanto per averlo tradito, quanto per avergli mentito con tanta
spudorata disinvoltura.
Era mortificata, non pentita.
Ken non si meritava le bugie che gli aveva e gli avrebbe detto, i pensieri
proibiti che avrebbe avuto ogni giorno della sua vita per un altro uomo.
Era troppo buono.
Lui l’abbracciò e l’attirò a sé, baciandola con tenerezza sulla fronte.
Tipico di Ken!
Perché non faceva mai qualcosa di sbagliato? Qualcosa che lo rendesse più
desiderabile e meno…
Meno… meno… qualsiasi cosa, dannazione! Ken era troppo tutto:
affettuoso, premuroso, affidabile. Perfetto. L’uomo ideale con cui trascorrere
il resto della propria vita.
Una lanterna che ogni giorno le avrebbe illuminato il cammino, rendendolo
più sicuro e piano.
Raleigh non era una lanterna, dannazione!
Era fuoco, era calor bianco.
Pericoloso, dirompente, possessivo come le fiamme dell’inferno. Eppure,
quando lui la guardava, quando la sfiorava, sapeva di appartenergli e sentiva
ogni incertezza sciogliersi dentro di lei, come zucchero nel tè bollente.
Ma non era Raleigh l’uomo che aveva scelto.
Era Ken.
Che in quel momento la guardava preoccupato, con mille quesiti negli
occhi adoranti.
«Mi spiace di avere rovinato questa meravigliosa serata…» mormorò,
rompendo quel silenzio invadente e osando per la prima volta incrociare i
suoi occhi.
Oh, altro che rovinata! L’aveva massacrata, quella meravigliosa serata.
«Non importa, Cam, non importa, ti porterò al Metropolitan ogni volta che
vorrai.»
Avrebbe preferito una scenata invece di quel mansueto Non importa. Ma
così era fatto Ken. Così era fatto l’uomo che sarebbe presto diventato suo
marito.
***
Non essendo uno stupido, Ken Benton non ci aveva messo molto a capire
che il ritorno in città di Frank Raleigh e il balzano comportamento di Camille
al Metropolitan fossero collegati. Ciò che ancora non sapeva era come lo
fossero. Per quanto tormentato da mille dubbi e sospetti, aveva deciso di non
chiedere nulla a Camille, ma di spingerla con perseveranza verso le nozze.
Per nessuna ragione avrebbe rinunciato a lei. Avrebbe pazientato, finto di non
accorgersi dei suoi turbamenti ed evitato ogni imprudente discorso che
avrebbe potuto condurli alla parola fine.
Così, mentre la carrozza proseguiva verso Amster Yard, con un tono che
non ammetteva repliche, disse: «Prima di Natale voglio rendere ufficiale il
nostro fidanzamento, Cam, e decidere la data delle nozze».
Lei si irrigidì e non rispose. Rimase immobile, lo sguardo fisso davanti a sé
e il gelo della colpa nel cuore, sino a quando non arrivarono a destinazione e
Ken l’accompagnò alla porta. Forse, se si fosse comportato come un
seduttore e non come un gentiluomo…
«Posso entrare?»
«Certo» rispose lei, sorpresa da quella sua insolita richiesta.
Non appena la porta si fu richiusa dietro di loro, senza dire una parola la
sollevò tra le braccia e la portò nella piccola camera da letto, con una sola
cosa in mente.
Ma non accadde nulla.
Bastò uno sguardo stupito e offeso di Camille per chiudere la questione.
Sentendosi gelare, Ken il gentiluomo ricacciò il proprio desiderio in un
angolo del cuore, ma non se ne andò. Si addormentò sullo stesso letto di lei,
avvolto nella stessa coperta, come un fratello.
Quando il mattino li colse stretti in un casto abbraccio, lui la baciò di nuovo
sperando di risvegliare in lei una fiammella di passione. In cambio ricevette
solo un pallido sorriso e la promessa di un caffè.
Era così folle e innamorato che il solo vederla intenta al semplice e intimo
gesto di preparargli un caffè lo rese euforico. Tentò un’altra pallida avance,
ma lei lo respinse con un bacio talmente casto da farlo impallidire.
«Ora vai, Ken, prima che qualcuno ti veda uscire di qui» disse con il sorriso
che si concede a un amico.
«E se anche fosse? Siamo fidanzati, dannazione, e mi sono comportato
come un gentiluomo per tutta la notte, Camille!» sbottò lui, frustrato.
«Ma se qualcuno ti vedesse uscire di qui ora, penserebbe di certo il
contrario, Mr Benton!»
E lui ubbidì, flagellato dai dubbi, imprecando ancora una volta per essersi
comportato come un dannato gentiluomo. Ubbidì, consolandosi che quella
stessa mattina Camille sarebbe ripartita per Philadelphia e che quanto
successo la sera precedente sarebbe stato di certo dimenticato in pochi giorni.
Non sempre era bene battere il ferro finché era caldo.
Si incamminò verso casa, nel freddo del mattino, infelice e pensieroso
nonostante avesse passato una notte intera con la donna che amava.
Come un fratello.
Lungo la strada incontrò un conoscente, un tale Errol Stuyvesant, che
proprio a quell’ora rientrava a casa da una nottata di bisbocce. L’uomo gli
sorrise complice, chiedendogli con una gomitata se la signora ne valesse la
pena. Se Stuyvesant non fosse stato palesemente ubriaco, Ken non avrebbe
esitato a tirargli un pugno sul naso.
31

27 novembre 1899, New York Athletic Club


Il giorno dopo, per un capriccio del destino, Stuyvesant incontrò Raleigh
nello spogliatoio del New York Athletic Club.
«Frank» gli disse, «indovina un po’ chi ho visto ieri all’alba, dalle parti di
Amster Yard, tornarsene a casa dopo una notte passata in dolce compagnia?»
Solo a sentire pronunciare quelle due parole, Amster e Yard, il cuore di
Raleigh accelerò.
«Chi?» chiese con trepidazione.
«Il virtuoso Ken Benton! Ho sentito dire che è fidanzato con quella tua
giornalista. E non è da quelle parti che vive lei?»
Non contento, Stuyvesant si esibì in un gesto piuttosto eloquente, mentre lo
sguardo di Raleigh diventava di ghiaccio.
Che diavolo ci faceva Ken all’alba vicino alla casa di Camille? L’unica
possibile risposta non gli piacque affatto.
Stuyvesant, pensando che l’argomento interessasse Raleigh e divertisse i
presenti, proseguì con un’ultima, infelice annotazione: «Anch’io sarei tornato
a casa soddisfatto se avessi avuto a disposizione quel bocconcino per tutta la
notte!»
A quel punto, non solo lo sguardo, ma anche il sangue di Raleigh si fece di
ghiaccio, per poi diventare all’improvviso metallo incandescente.
Stuyvesant fu raggiunto dal primo cazzotto tra lo stupore generale. A quel
primo colpo, preciso e potente, ne seguirono parecchi altri. Tirati da Frank,
dall’ormai infuriato - e come non capirlo? – Mr Stuyvesant e da tutti coloro
che, uno dopo l’altro, videro quella rissa come l’occasione per sfogare nel
modo più primitivo e fisico le proprie maschili tensioni.
Alla fine, tra mobilio fatto a pezzi e vestiti ridotti in brandelli, i signori
fecero pace e, chi con un occhio nero, chi con un labbro spaccato,
terminarono la giornata bevendo whiskey, fumando sigari e parlando – male -
di donne. E chi più di tutti gli altri bevve, fumò e parlò fu Frank Raleigh,
incredulo che colei che riteneva essere sua si fosse concessa a un altro la sera
stessa in cui si erano amati. E poco contava che l’altro fosse il legittimo
fidanzato della signora in questione.
***
1 dicembre 1899, Wall Street, New York
Seduto alla scrivania nel suo ufficio, Ken Benton lesse della zuffa scoppiata
al New York Athletic Club sulle pagine del Journal. Non che disponesse di
una sfera di cristallo, ma la sua indubbia logica, nonché il fatto di aver
incontrato il giorno precedente la rissa Stuyvesant non lontano da casa di
Camille e che il nome di Raleigh fosse fra quelli citati dal giornale, gli
permise di arrivare in fretta alla conclusione che in qualche modo Miss
Brontee fosse stata la miccia di quel tafferuglio. Dopo un paio di minuti, si
era già fatto un’idea abbastanza precisa di come le cose si fossero svolte.
L’unica domanda cui ancora non era riuscito a dare risposta non era tanto
se Raleigh e Camille si fossero incontrati, perché ormai ne era certo, ma dove
e quando. Neanche Ken, con tutte le sue virtù, era alieno alla gelosia. E la
gelosia, si sa, è capace tanto di offuscare quanto di illuminare in un battito di
ciglia la mente umana.
E fu infatti così, in un battito di ciglia, che la mente di Ken Benton si
illuminò.
Gli tornarono in mente le lacrime versate da Camille mentre in carrozza
rientravano dal Metropolitan. Il suo disagio, il suo malore, probabilmente
fasullo. La sua fuga dal palco e la lunga assenza. Un atto intero.
Man mano che camminava nervoso su e giù per l’ufficio, l’ipotesi che
qualcosa fra Camille e Raleigh fosse accaduto proprio al Metropolitan
cominciava ad apparirgli reale. Troppo.
Sentendosi gelare l’anima, Ken ripensò alla notte trascorsa a casa di lei,
quando si erano addormentati sul letto, caldi l’uno del tepore dell’altra.
E dannatamente casti.
Come gli era sembrata fragile Camille quella notte! L’aveva tenuta stretta a
sé, ascoltando la musica dolce del suo respiro, cercando di darle conforto con
la sua presenza. Consolandola per aver commesso forse il più grave errore
della sua vita. Per aver scelto di sposare un uomo che non amava.
Per aver accettato di diventare sua moglie.
***
15 dicembre 1899, Philadelphia
Camille accartocciò l’ennesimo foglio su cui aveva cominciato a scrivere la
lettera più difficile della sua vita.
Mio carissimo Ken.
Mio incredibile, generoso, perfetto Ken!
Nessun’altra parola le era uscita dalla penna.
Non poteva certo scrivere qualche logora frase su un foglio macchiato di
lacrime per dirgli che si era soltanto illusa di poterlo amare per tutta la vita!
Perché non riesco ad amarti, Ken? continuava a ripetere a se stessa, come
una litania dolorosa.
A essere onesti, se non fosse stato per la certezza che sposandolo lo
avrebbe reso infelice, gli avrebbe detto di sì. Con tutto il cuore. Rifiutandolo,
non pensava alla propria felicità, ma a quella di lui. Perché Ken Benton si
meritava più dell’affetto sincero dalla donna con cui avrebbe condiviso la
vita; si meritava di essere ricambiato del suo stesso amore, generoso e cieco.
Quell’amore che Camille non aveva mai provato per lui.
Perché non riesco ad amarti, Ken?
Perché amava Frank Raleigh, ecco perché. Un perché semplice, inevitabile
e assurdo.
Per quanto facesse di tutto per scacciare Raleigh dai suoi pensieri,
continuava a rivivere ogni istante del loro ultimo incontro al Metropolitan: i
baci, la passione feroce, le parole crudeli che si erano scambiati. La violenza
del loro amore. L’angoscia che l’aveva assalita.
Dopo.
Adducendo come scusa i molti impegni di lavoro, per tre settimane Camille
non era tornata a New York, né aveva permesso a Ken di raggiungerla a
Philadelphia. Non che volesse evitarlo. Voleva solo capire, standogli lontana,
se una scintilla dell’affetto che provava per lui potesse ravvivarsi sino a
trasformarsi almeno in una timida fiammella.
Lui le aveva scritto.
Lei gli aveva risposto.
E la scintilla si era quasi spenta.
***
22 dicembre 1899, pomeriggio, Grand Central Station
Camille tornò a New York per trascorre le feste di fine anno con i
Campbell a Southampton. Con i Campbell e con Ken, se non avesse trovato il
coraggio di lasciarlo prima.
Non appena il treno si fermò sulla banchina della Grand Central, dal
finestrino lo scorse andarle incontro, premuroso e sorridente.
Preoccupato.
«Ken, ti avevo detto che non era necessario che venissi a prendermi! Sei
sommerso di impegni!» gli disse a disagio, mentre lui le porgeva la mano per
aiutarla a smontare.
«L’unico mio impegno sei tu, Cam, non riuscivo a pe-pensare che al
momento in cui ti-ti avrei rivista. Sono pa-passate quasi tre settimane
dall’ultima volta…» le disse, scrutandole l’anima con quei suoi occhi scuri e
profondi.
Poi le sfiorò la mano con le labbra, come se in quella stazione affollata non
ci fossero che loro due.
Temendo forse che quelle smancerie proseguissero ancora a lungo, il
facchino, in attesa dietro di loro, si schiarì la voce e chiese: «Dove andiamo,
signore?»
Ken sorrise e sospirò. «Seguiteci, prego.»
«Avrei voluto tanto potergli rispondere: A casa di Mr e Mrs Benton…»
mormorò chinandosi verso Camille, guardandola speranzoso in cerca di un
segno di incoraggiamento. Che non arrivò.
Appena fuori, la Winton Phaeton di Ken li attendeva.
«Ti andrebbe di guidare, Cam?»
«No Ken, sono troppo stanca. Ho bisogno di andare a casa e più tardi vorrei
fare visita ai Campbell.»
«Non stasera, Cam.»
Un ordine. Secco. Deciso.
Camille lo fissò strabiliata.
«Dove vanno i bagagli in questo… affare, signore?» chiese il facchino
aggirandosi intorno all’auto.
Mentre i due uomini si occupavano di sistemare le valigie nel bagagliaio
dell’affare, Camille prese posto sul morbido sedile imbottito, ancora stupita
dalla reazione aggressiva e decisa di Ken.
Non le piaceva che qualcuno le desse ordini. Soprattutto se a farlo era il suo
fidanzato.
«Perché non posso andare dai Campbell stasera?»
Essendo l’abitacolo riparato dal solo tettuccio e privo di finestrini e portiere
ai lati, l’aria era gelata e le parole di Camille uscirono tremule, in uno sbuffo
di vapore ghiacciato. O forse era lei a tremare, e non per il freddo.
Ken prese una coperta di pelliccia e gliela posò sulle gambe. Poi si diede da
fare con le leve dei comandi e l’auto partì a balzelloni, scoppiettando lungo la
Quarta Avenue. Camille ancora attendeva una spiegazione, ma lui sembrava
troppo intento alla guida per darle retta.
«Ken» insistette, «posso conoscerne il motivo?»
Lui alzò gli occhi al cielo prima di darle una risposta che non ammetteva
repliche.
«Dal momento che domani partirai per gli Hamptons, mio padre desidera
che, almeno stasera, la famiglia sia riunita. Tu compresa. Ti fermerai a
Brooklyn per la notte, visto che è probabile che nevichi e che le strade
diventino impraticabili.»
Sotto la coperta le mani di Camille si strinsero a pugno. Odiava sentirsi
manovrata, odiava gli ordini.
Solo due potevano essere le vere ragioni per quell’invito perentorio: la
prima era che Ken volesse obbligarla a stabilire una data per il matrimonio e
magari darle l’anello che fino a quel momento lei aveva rifiutato di prendere.
La seconda, che quella notte volesse tenerla lontana da Raleigh.
«Potevi almeno chiedermelo, Ken!» protestò.
Per qualche istante lui pretese di essere troppo impegnato nella guida per
replicare. Poi lo fece in modo secco.
«È stato deciso solo questa mattina, Camille. D’altronde, non pensavo che
la cosa potesse dispiacerti…»
«Infatti, non mi dispiace, ma…»
«Allora siamo d’accordo. Ti darò un paio d’ore per prepararti, passeremo
dai Campbell per salutarli e poi partiremo per Brooklyn Heights prima che
faccia buio.»
Le aveva parlato come a uno dei suoi numerosi impiegati, le aveva dato un
altro ordine secco. Senza mai balbettare.
Camille lo fissò incredula.
«Da quando mi comandi a bacchetta, Ken?»
Lui batté con forza il palmo della mano sul sedile, facendola sussultare.
«Da quando mi sono stancato di aspettare, Camille!»
«E se io non volessi venire a Brooklyn Heights?»
«I miei ti aspettano, e tu verrai.»
Camille non ribatté a quell’ordine perentorio, ma lo sguardo che gli lanciò
fu più chiaro di mille parole.
Si tirò la coperta sin sotto il mento e si chiuse in se stessa meditando di
scendere dall’auto in corsa, cosa che per fortuna non fece. Decise invece che
quella sera avrebbe affrontato la famiglia di Ken, Ken e soprattutto se stessa.
Era umiliata non tanto dai modi di lui, quanto dall’essersi dimostrata debole,
dal non aver avuto il coraggio di affrontare la verità quando un semplice no
avrebbe causato a Ken meno dolore.
***
In un certo senso Camille aveva ragione a pensare che il suo promesso
sposo fosse cambiato. Per il timore di perderla, aveva infatti cominciato ad
agire più con la testa che con il cuore, che di conseguenza si era assai
indurito.
A peggiorare ulteriormente la situazione fu la sorpresa che Ken si trovò
davanti non appena lui e Camille misero piede nel salotto dei Campbell quel
tardo pomeriggio.
Perché, ad accoglierli, non trovò solo i padroni di casa.
Seduto insieme a loro c’era Frank Raleigh, all’apparenza del tutto a suo
agio mentre accarezzava Red, il gatto rosso di Camille che con gioia Agnes
aveva adottato.
Un caso? No di certo, pensò Ken. Un’azione predeterminata di Raleigh per
instillare in Camille il dubbio. Per riprendersela, come fosse un suo diritto.
Come fosse sua.
Solo l’abilità di Timothy Campbell e la prontezza di spirito di Agnes
evitarono che i due uomini si saltassero al collo ancor prima di salutarsi.
***
Non che Frank fosse preparato a quell’incontro, per la verità non ne sapeva
nulla. Ma poiché la vita gli aveva insegnato a nascondere dietro un sorriso
ironico ogni disagio, nessuno si accorse di quanto il suo cuore avesse di colpo
accelerato i battiti nel trovarsi di fronte Miss Brontee.
Mentre Red saltava a terra per andare ad accogliere i nuovi arrivati, Raleigh
si alzò in piedi e, pur senza mai smettere di controllare Benton, che sembrava
sul punto di strozzarlo, non riuscì più a distogliere gli occhi da Camille.
Si nutrì con avidità di ogni piccolo particolare di lei, per riassaporarlo nei
suoi sogni nel caso le loro strade non si fossero più incrociate dopo quelle
ipocrite nozze.
Era ancora più bella e radiosa di quanto ricordasse.
La donna che aveva posseduto solo poche settimane prima e che ora Ken
avrebbe sposato.
L’ipotesi che Camille, dopo quella follia al Metropolitan, attendesse un
figlio, suo figlio, lo aggredì all’improvviso come la più risolutrice delle
speranze.
Se solo avesse potuto agire, invece di rimanere a guardare come un
vigliacco! Perché era certo che, nonostante le buone intenzioni di Ken,
Camille stesse per rinchiudersi di propria volontà nella gabbia che il vecchio
Benton avrebbe alzato intorno a lei. Avrebbe cercato di controllarla, come
faceva con tutti e tutto, e non era affatto certo che Ken sarebbe riuscito a
proteggerla e a offrirle la vita che lei desiderava.
La vita che io avrei dovuto darle.
Ma ormai era troppo tardi, anche solo per pensare.
***
Nel salotto dei Campbell la conversazione languiva. I sorrisi erano fasulli,
la tensione alle stelle.
In piedi, di fianco al camino, Ken assisteva in silenzio alla pantomima che
si stava svolgendo intorno a lui. Indifferente a ogni regola di galateo, seguiva
gli sguardi che si incrociavano come ponti invisibili. A cominciare da quello
che univa Raleigh a Camille. Erano occhi talmente impudichi, quelli di
Raleigh, così carichi d’amore, di desiderio e di passione pura e
incontaminata, che Ken si sentì meschino e invadente. Sopraffatto dai dubbi,
si chiese se mai, pur amando Camille con passione e devozione, sarebbe stato
capace di guardarla in modo tanto assoluto e devastante e se lei gli avrebbe
mai rivolto uno sguardo febbricitante e appassionato come quello che stava
regalando a Frank.
Perché, nonostante lei cercasse di non guardarlo e di conversare con tutti
ma non con lui, non appena i suoi occhi si specchiavano in quelli di Raleigh
vi si fondevano come metallo rovente, implorando pietà.
Ken seguiva con trepidazione crescente quell’intimo dialogo di sguardi.
Furtivi, fluidi e pure assassini, perché uccisero in lui anche l’ultima delle
speranze.
***
«È stato crudele, Agnes» disse Mr Campbell quando i loro ospiti se ne
furono andati.
«Molto crudele, marito mio, ma necessario. Sono bastati pochi minuti per
evitare a tre persone di soffrire per tutta la vita. O almeno così spero.»
«Anche a Ken sarà risparmiato il penare? Forse Frank e Camille troveranno
la felicità insieme. Ma lui? Come farà a superare una tale delusione, quel
povero ragazzo?»
«La supererà, Timothy, la supererà. Presto o tardi troverà una giovane
donna che ricambierà il suo amore e saprà riaccendere in lui la passione.»
«Come è successo a me appena ti ho vista, mia cara.»
«Come è successo a noi, Timothy. Siamo stati così fortunati…»
«Già… In ogni caso, prego il Signore che questa tua ardita manovra da
paraninfa non si riveli un errore.»
«Al contrario. È stata la cosa giusta da fare. Noi donne certe cose le
sentiamo.»
«Riesci per caso a sentire anche cosa succederà questa sera a casa
Benton?»
«Non proprio. Ma di sicuro non sarà una serata piacevole, per nessuno.»
«Questo lo sentivo anch’io, nonostante sia un povero maschio.»
«Ringraziando il cielo, non tanto povero, amore mio.»
***
Qualche ora dopo, Brooklyn Heights
Dopo un’ora di viaggio sotto la neve, Ken e Camille furono accolti con
trepidazione da tutta la famiglia Benton, quasi fossero reduci da una
pericolosa spedizione nel selvaggio West. Jenny subito sequestrò Camille,
investendola con i suoi numerosi problemi amorosi ed esistenziali, molti dei
quali conseguenza diretta degli inflessibili divieti paterni.
Attraversando gli enormi corridoi di quel palazzo pomposo ed eccessivo,
Camille si sentì sollevata. Non solo perché ormai era certa che fra quelle
mura opprimenti non avrebbe mai vissuto, ma perché era riuscita a
nascondere a Ken il biglietto che Raleigh le aveva passato quando le aveva
baciato la mano per salutarla.
Lì per lì avrebbe voluto stracciarlo in mille pezzi e buttarglielo in faccia,
ma era rimasta impassibile per evitare a Ken un’ulteriore umiliazione. Tutto
si meritava, ma non di essere ancora una volta ferito dalle parole arroganti e
odiose dell’amante della sua fidanzata. Ex fidanzata, per la verità.
«Ecco la tua camera, spero ti piaccia» le disse Jenny quando entrarono
nell’appartamento che le era stato destinato.
«Scherzi? Sembra una reggia» rispose Camille guardandosi intorno.
Poi, col pretesto di voler riposare un poco prima di cena, riuscì a mandare
via l’amica e a rimanere qualche minuto da sola.
Doveva parlare a Ken e dirgli della sua decisione.
Avvicinandosi al camino acceso estrasse dal guanto il foglietto clandestino
che Raleigh le aveva messo in mano. Sulle prime pensò di gettarlo nel fuoco:
non voleva che Frank influenzasse la sua decisione in alcun modo. Poi il
battito impazzito del cuore e la follia che sempre la investiva quando c’era di
mezzo quell’uomo la costrinsero ad aprire quel pezzo di carta spiegazzato e a
leggerlo.
Camille,
Ripensaci. Sei ancora in tempo. Se non sei innamorata di Ken, non
sposarlo. Non solo perché è un brav’uomo e non si merita una moglie che
non lo ama, ma perché il vecchio Benton te la farebbe pagare rinchiudendoti
in quella sua orrenda gabbia dorata.
Ti amo e ti amerò per sempre.
F. R.
Accidenti a lui! Credeva forse, con quelle parole, di aiutarla? La sua
decisione l’aveva già presa da sola in coscienza, a dispetto di Raleigh, del suo
amore e dei suoi consigli.
Qualcuno bussò e d’istinto Camille gettò il pezzo di carta nel camino: con
sollievo lo vide svanire tra le fiamme.
«Avanti!» disse cercando di cancellare dalla mente le parole di Frank.
La porta si aprì e Ken entrò, scuro in volto.
«Ken…»
In due falcate la raggiunse, la prese tra le braccia e la strinse come se
volesse metterla in salvo da ogni pericolo. Camille sentì dei piccoli singhiozzi
soffocati e poi delle lacrime scivolarle sul viso, ma non fu certa che fossero le
sue.
«Potrai mai perdonarmi, Ken?»
Lui scosse la testa. «Non lo so, Camille. Ma so che non devi giustificarti»
le disse.
Lei lo guardò sorpresa.
«Non voglio giustificarmi, voglio solo spiegarti.»
Lui le sfiorò le labbra con le dita, accompagnando quel gesto delicato con
un Shhh e un sorriso.
«Oh, Ken!» mormorò lei, il viso rigato di lacrime, questa volta per certo
sue.
Si sedettero sul divanetto di fronte al fuoco e lei gli appoggiò la testa sulla
spalla, un gesto ormai abituale che le dava conforto.
«Ken» disse mentre grosse lacrime le scivolavano ormai senza sosta lungo
il viso, «non ti amo come meriti di essere amato. Ho cercato, ho pregato di
amarti. Con tutto il mio cuore e le mie forze. Ma non ci sono riuscita.»
«Non pretendo il tuo amore, Camille, mi basterebbero il tuo affetto e il tuo
rispetto. Col tempo, poi, con l’intimità forse, potresti imparare ad amarmi.»
Lei gli accarezzò il viso, commossa dall’amore che quella proposta
nascondeva. «Non chiedermi di ingannarti, Ken, di fingere di essere quella
che non sono.»
«Non m’importa se tu non mi ami, Cam.»
Lei scosse la testa, addolorata.
«Ken, ti deve importare.»
Si staccò da lui, gli prese le mani fra le sue e gliele baciò, poi se le portò al
viso e chiuse gli occhi per imprimere nella memoria ogni particolare di quel
momento doloroso e struggente.
E alla fine riuscì a dirlo.
«Non posso sposarti.»
Scoppiò a piangere, come una bambina, e stranamente la situazione si
rovesciò e fu lui a consolare lei.
«Non piangere, Camille, non devi piangere per me.»
«Piango per me, Ken, perché l’uomo migliore al mondo mi ama e io non
sono capace di ricambiarlo. Piango perché non potrò più ascoltare le sue
parole, ridere con lui, stringergli le mani, abbracciarlo. Piango perché
quell’uomo mi mancherà ogni minuto, ogni giorno della mia vita.»
«Ti mancherà un-un amico, Camille. È-è così che mi hai se-sempre
considerato, un-un amico affettuoso e de-devoto. Mentre io… ho se-sempre
pensato a te con una pa-passione che non ho mai potuto dimostrarti. Ogni
giorno ho sognato il momento in cui sa-saresti stata mia, completamente mia,
un momento che non arriverà mai.»
Altre lacrime gli rotolarono sul volto, grosse, invadenti.
«Ken, non piangere, per favore...»
«È pietoso-so un uomo che piange, lo so. Un uo-uomo che-che piange e
bal-betta, poi, non è neppure un uomo.»
«Oh Ken, adoro quando balbetti e sono convinta che un uomo che piange
dimostri forza, non debolezza. Se non la smetti subito potresti addirittura
farmi tornare sulla mia decisione e indurmi così a rovinarti la vita.»
Gli asciugò il viso con il palmo delle mani e gli baciò la fronte.
«È per lui, vero, per Releigh? Se tu non lo a-amassi, forse potresti impa-a-
rare ad amare me, giorno dopo giorno, Camille. Avrei pazienza, ti aspetterei.»
Lei scosse il capo, in modo quasi impercettibile.
«È troppo tardi, Ken, e non voglio pensare a lui adesso. Voglio andare
avanti con la mia vita.»
«Co-cosa farai?»
«Passerò le festività con i Campbell agli Hamptons, come previsto. Poi nel
nuovo anno mi trasferirò a Philadelphia.»
«Per sta-argli lontana?»
«Ken!» sbottò. «Non lo so. Non so cosa farò. Sono confusa, incerta, sola. E
ho tanta paura.»
«Non rima-arrai sola a-a lungo, Camille…»
Lei lo guardò con aria interrogativa, ma non ebbe il tempo di fare domande.
Qualcuno bussò alla porta e una giovane cameriera entrò.
«Scusate» disse imbarazzata, vedendoli seduti vicini, abbracciati.
«Entrate, prego» rispose Camille. «Mr Benton stava per andarsene.»
Già. Dalla mia vita.
Per sempre.
32

31 dicembre 1899, mattina, Southampton


Camille procedeva a testa china sulla spiaggia battuta dal forte maestrale, i
capelli scompigliati, le gonne incollate alle gambe, le braccia incrociate sul
petto a difendersi dal freddo. Dopo giorni di un tempo grigio e triste, tra le
nuvole si era aperto uno squarcio e, solo per un attimo, il sole le aveva
scaldato il cuore. Poi se ne era andato via di nuovo e nell’aria era tornato
l’odore di neve.
Avrebbe nevicato l’ultimo giorno dell’anno.
Del secolo.
Una data che passava con eccitazione di bocca in bocca. Tutti i quotidiani
facevano a gara per raccontare il secolo che se ne andava e anticipare le
meraviglie di quello che stava per cominciare: sarebbe stato il secolo delle
scoperte scientifiche, delle macchine volanti, delle immagini che si
muovevano su un grosso lenzuolo bianco. Di una società più giusta, più bella
e più sana. Almeno così si scriveva.
Le grandi città si preparavano ad accogliere il nuovo secolo con tutti gli
onori concessi a un eroe della patria. New York, in particolare, era pronta a
illuminare il cielo con lo spettacolo pirotecnico più straordinario che si fosse
mai visto. E con musica e parate nelle strade.
Chissà se Frank vedrà i fuochi d’artificio? Chissà se guardandoli stringerà
a sé una donna, passandole un braccio intorno alla vita, in un gesto intimo e
protettivo?
Camille avrebbe voluto essere quella donna.
Era solo il pensiero di Frank a spingerla verso il secolo che stava per
nascere. Di tutto il resto, per la verità, non le importava un dannato accidente.
Si sentiva come l’oceano che spumeggiava irrequieto davanti a lei e che,
come lei, sembrava non avere pace. Non appena un’onda riusciva ad
approdare sul bagnasciuga, era costretta a tornarsene indietro, a riattraversare
l’oceano in direzione opposta. Senza pace, senza fine. Non era un po’ ciò che
succedeva a lei e a Frank?
Ogni volta che si ritrovavano, una forza impietosa li separava di nuovo, lei
da un lato, lui dall’altro di quel tumultuoso oceano che era la vita. Forse,
dopotutto, avrebbe dovuto imitare quell’onda, riattraversare l’Atlantico e
tornare in Inghilterra, come il suo patrigno e le sue sorellastre, nelle lettere
che si erano scambiati, le avevano ripetutamente chiesto.
No, non le sarebbe mai stato possibile tornare indietro. La sua vita era lì
ormai, in quel nuovo e meraviglioso mondo.
Non aveva più avuto notizie di Raleigh da quando si erano rivisti a casa dei
Campbell prima di Natale, anche perché, il giorno dopo, era partita insieme ai
suoi adorabili anfitrioni per Southampton. Durante il viaggio aveva
comunicato loro che il fidanzamento con Ken era terminato. Finito. Per
sempre.
«Mi spiace» aveva commentato Agnes abbracciandola con affetto. «Ken è
un bravo giovane e di certo ti ama. Ma non sono mai stata convinta che fosse
l’uomo giusto per te.»
«Già» aveva aggiunto Mr Campbell guardando la moglie con severità,
come se tutto quel pasticcio fosse opera sua.
Agnes, indifferente a quel rimprovero silenzioso, non aveva sentito la
necessità di specificare chi fosse l’uomo giusto per Camille.
Nella natura gloriosa e selvaggia degli Hamptons, dove le case dei ricchi
newyorkesi si elevavano opulente tra le dune di sabbia, i giorni di Camille
erano trascorsi in compagnia di Agnes fra gli addobbi da preparare, le cene e
i brindisi cui partecipare, i doni da confezionare e i giochi e gli
intrattenimenti musicali da organizzare per la tradizionale, grande festa
dell’ultimo dell’anno che i Campbell avrebbero dato a Heather House. E, per
quanto la ragione le suggerisse di continuo che stare il più possibile lontana
da Raleigh fosse la cosa giusta da fare, ogni volta che Broley compariva per
annunciare l’arrivo di un nuovo ospite, il suo cuore mancava un battito, per
poi riprendere a correre più veloce di prima, in preda a una profonda
delusione.
***
31 dicembre 1899, primo pomeriggio, sede del Daily
Ancora un’ora e se ne sarebbe andato a casa. Solo.
Ormai il Daily Building era deserto. Restavano i portieri, il suo segretario e
il piccolo Peter.
Non che Raleigh avesse voglia di tornarsene in Washington Square. A casa
si sarebbe giusto fermato il tempo necessario per cambiarsi d’abito. Poi
avrebbe deciso se accettare uno dei molti inviti ricevuti per la serata o
attendere l’inizio del nuovo secolo al club, in compagnia di una bottiglia di
cognac. Festeggiare il capodanno dai Campbell, agli Hamptons, era fuori
discussione: non avrebbe sopportato un solo istante la vicinanza di Camille e
Ken, pronti ad annunciare al mondo le loro nozze.
Camille…
Ancora una volta con lei aveva sbagliato tutto. Tutto! Invece di assumersi la
responsabilità per gli infiniti equivoci che li avevano separati e pregarla in
ginocchio di perdonarlo, l’aveva sedotta in uno magazzino polveroso del
Metropolitan. Invece di sussurrarle parole d’amore, l’aveva interrogata come
un amante ottuso e geloso. E, come se ciò non fosse già stato abbastanza, le
aveva scritto quell’odioso biglietto attraverso il quale aveva cercato di
insinuare in lei il dubbio: Camille, sei ancora in tempo. Se non sei
innamorata di Ken, non sposarlo… Quasi avesse il diritto di darle dei
consigli. Chi era lui per dare dei consigli a chicchessia? Men che meno a
Camille.
Con un sospiro, si alzò dalla scrivania, deciso a lasciare l’ufficio, ma in
quel momento l’interfono suonò. Era la portineria.
Raleigh ascoltò in silenzio, poi disse: «Fatelo salire».
Sentì un’assurda speranza battere alla porta del cuore.
***
Peter sedeva fuori dall’ufficio di Mr Raleigh con la sua bella divisa rossa e
un libro fra le mani in attesa di poter essere utile al capo. Dopo tanta
inattività, la sua dedizione fu finalmente ricompensata.
Un uomo elegante era appena uscito dall’ascensore e si stava dirigendo
verso l’ufficio del boss. Peter saltò in piedi e gli andò incontro.
«Posso aiutarvi, signore?» domandò con atteggiamento quasi minaccioso.
L’uomo gli sorrise bonario.
«Sono qui per vedere Mr Raleigh, Peter.»
Il ragazzino lo guardò sorpreso.
«Sapete il mio nome, signore?»
«Miss Brontee mi ha parlato molto di te. Ti ho riconosciuto dalla sua
descrizione.»
Il viso di Peter si illuminò. «Miss Brontee? E come sta, signore, bene? È
ancora a Philadelphia?»
«No, è tornata a New York. E credo proprio che la rivedrai presto.»
«Come fate a saperlo?» chiese il piccolo speranzoso.
«Sono qui per questo.»
«Allora dovete essere un mago!»
«Un mago? Se lo fossi Camille non metterebbe più piede in questo edificio,
Peter, te lo posso assicurare…»
Il ragazzino stava per porgli l’ennesima domanda, quando la porta
dell’ufficio di Raleigh si aprì.
«Benton, non posso dire che sia un piacere vederti, comunque accomodati»
tuonò il boss.
«Io sono qui, Mr Raleigh, nel caso abbiate bisogno di me» disse Peter
speranzoso.
«Grazie Peter, ci conto.»
Sorrise al ragazzino e chiuse la porta.
***
«Allora, Ken, cosa vuoi?»
«Per prima cosa, voglio darti questo…»
Raleigh rimase a fissare allibito il pugno destro di Ken che si avvicinava
pericolosamente fino a intercettare il suo zigomo destro. Non un colpo
micidiale, per la verità. Benton non era, come lui, esperto nell’arte nobile
della boxe. Ma certo era un cazzotto ben assestato.
«Che diavolo ti prende?» disse, sorpreso, cercando di riconquistare
l’equilibrio e mettendosi in posizione di guardia.
Ken si stava massaggiando la mano destra, dolorante più dello zigomo di
Frank.
«Cosa mi prende? Maledizione, non ci arrivi?»
«Dovrei? Sarà meglio che versi qualcosa da bere a tutti e due, prima che ci
azzuffiamo come due ragazzini.»
«Sì, sarà meglio.»
Frank versò due generose dosi di cognac e offrì un bicchiere all’altro, senza
mai perderlo d’occhio. Poi lo invitò a sedersi e fece altrettanto.
«Ora, Benton, se hai finito di imitare Gentleman Jim, puoi spiegarmi che
diavolo ti ha preso?»
Ken bevve un sorso di cognac e si abbandonò a un sorriso amaro.
«Era da tanto che sognavo di prenderti a pugni. Non posso negarti che il
farlo mi abbia dato una certa soddisfazione.»
Raleigh si massaggiò lo zigomo.
«Ok, adesso l’hai fatto e sei soddisfatto. Ma mi piacerebbe anche sapere
perché.»
«Perché? Perché parto, Frank. Domani prendo il piroscafo per l’Inghilterra
dove rimarrò per almeno un anno. Da tempo stiamo lavorando per aprire una
filiale a Londra e ho pensato che questo è il momento più propizio per andare
a controllare a che punto sono i lavori.»
Entrambi ingollarono in un sol colpo il liquore. Raleigh raddoppiò la dose
mentre la sua mente sembrava essere al centro di un ciclone. Cosa significa
questo viaggio? Non attese oltre per chiedere ciò che lo stava tormentando.
«Camille verrà con te?»
Ken scoppiò a ridere, in modo scomposto, triste.
«Se partisse con me, non mi sarei disturbato a farti visita. Il fatto è…»
Raleigh poteva sentire il proprio cuore rimbalzare contro il petto. Cercò di
parlare, ma dalla bocca non uscì alcun suono.
«Il fatto è» riprese Ken, «che Camille mi ha lasciato. Non ci sposeremo
più.»
Raleigh non respirava, non parlava, non si muoveva. Con fatica cercava di
comprendere il significato di quelle parole.
Camille non si sarebbe sposata, non avrebbe trascorso la vita al fianco di
Ken Benton.
«Per cui» continuò Ken in apparenza tranquillo, «se vuoi raggiungerla
prima di sera agli Hamptons, sarà bene che ti muovi. Sta cominciando a
nevicare.»
Raleigh rimase immobile. La bocca aperta, in cerca di ossigeno.
Credevo di averla persa, per sempre…
«Frank! Devi partire! Ora. Subito! La strada potrebbe diventare
impraticabile fra qualche ora» urlò quasi Benton, tentando di scuoterlo da
quel torpore.
E fu in quel momento che Raleigh fece ciò che mai, mai in vita sua,
avrebbe pensato di fare. Si alzò e abbracciò Ken Benton.
«Grazie, amico mio. Grazie» mormorò cercando di liberarsi del groppo alla
gola che gli rendeva difficile persino respirare.
Imbarazzato e sorpreso, Ken gli batté una mano sulle spalle, poi lo
allontanò da sé sogghignando.
«Non c’è di che, Frank, ma non esagerare con le effusioni, perché in realtà
più che di abbracciarti avrei una gran voglia di tirarti ancora un paio di
pugni!»
«Fai pure, se ti fa sentire meglio. Ho l’impressione di meritarmeli» disse
Raleigh alzando le braccia, pronto a prenderle.
Ken gli sfiorò appena il naso con un buffetto, poi si girò per andarsene, ma
arrivato alla porta si voltò e disse: «Se verrò a sapere che non è felice, tornerò
dall’Inghilterra e ti ucciderò. È chiaro?»
«Non succederà, Ken. Non succederà.»
*
«Siete sicuro» chiese per l’ennesima volta Ralph, «che una carrozza non
sarebbe più idonea a un tale viaggio, signore?»
E per l’ennesima volta Raleigh gli rispose: «Con questo tempaccio, l’unica
possibilità di arrivare per mezzanotte agli Hamptons è in sella a un cavallo
ferrato a dovere».
«Ma il frac, signore… In questo modo non potrete portarlo con voi.»
«Sono certo che i Campbell mi accetteranno anche senza frac, Ralph.»
In quel momento il vero problema per Frank non erano i Campbell e
neppure il frac. Era Camille.
Come lo avrebbe accolto? Cosa gli avrebbe detto, fatto, una volta che se lo
fosse trovato davanti?
Raleigh scacciò la visione di lei che lo respingeva e disse al maggiordomo:
«Ti auguro buon anno, vecchio mio».
Sorpreso da una tale poco britannica confidenza, Ralph rispose con un
inchino. «Buon anno a voi, signore. E, per quanto mi sembri difficile con
questo tempo, vi auguro pure di fare buon viaggio.»
Alle quattro del pomeriggio Frank Raleigh, vestito più come un mandriano
del Midwest che un milionario di New York, saltò in sella al suo fido Moody
diretto a est, verso Southampton, Contea di Suffolk. Davanti a sé aveva
almeno quattro ore di cammino, forse di più, perché, con quel tempaccio,
perdersi non era un’eventualità così remota. In ogni caso, sarebbe riuscito ad
arrivare a Heather House prima di mezzanotte, in tempo per augurare a
Camille un felice anno nuovo e per metterle al dito l’anello che non si era mai
tolto di tasca.
E fare in modo che lei non se lo togliesse più.
***
31 dicembre 1899, sera, Heather House
Alle sette di sera il salone di Heather House era già gremito di ospiti. La
casa, ancora priva di corrente elettrica, era illuminata da centinaia di candele
e di lumi a olio che rendevano l’atmosfera particolarmente calda e romantica.
La piccola orchestra locale aveva già cominciato a suonare musiche popolari
e lo champagne scorreva a fiumi. Camille, al fianco dei Campbell nel grande
atrio, accoglieva gli ospiti, e gli ospiti degli ospiti, provenienti dalle altre
magioni del vicinato.
«Nevica ancora che è una dannazione!» sbottò l’anziano giudice Harris
portando con sé un’ondata di fiocchi gelati. «Se non smette, ci dovrete
ospitare tutti per la notte, caro Timothy.»
«Potrebbe essere un’ottima idea per cominciare in allegria il nuovo secolo,
giudice. Ben arrivato» rispose Mr Campbell stringendo con vigore la mano
all’amico.
In poco tempo i due piani di Heather House si riempirono di gente. Altro
personale era stato ingaggiato per l’occasione e Sally, con un elegante abito
di seta nera, si dava da fare come un sergente maggiore per coordinare il
lavoro di quel piccolo esercito. Piatti carichi di prelibatezze passavano tra gli
ospiti, ma erano soprattutto i bicchieri a fermarsi fra le loro mani.
Dopo cena si diede il via alle danze, ai giochi e ai primi sonnellini di chi,
come il giudice Harris, aveva alzato troppo il gomito.
Camille approfittò di un momento di pausa dell’orchestra per ritirarsi in
camera sua e levarsi dalla faccia quel sorriso tirato e fasullo dietro cui se ne
stava barricata da tutta la sera. Più che sorridere avrebbe voluto piangere.
Si lasciò cadere sul letto e nella penombra osservò se stessa riflessa nel
grande specchio sul comò. Indossava l’abito giallo-oro che Raleigh le aveva
donato in occasione della festa all’Astoria, l’abito che poi le aveva sfilato con
notevole destrezza all’interno di una carrozza, sotto il cielo stellato di Central
Park… Più che la volta celeste, Camille di quella passeggiata ricordava altri,
più intimi particolari: le labbra di Raleigh che la baciavano, le sue mani che
la toccavano. Ricordava anche in modo fin troppo vivido e doloroso il suo
freddo rifiuto, quando lei gli aveva chiesto di farle conoscere l’amore.
Camille non avrebbe mai capito Raleigh sino in fondo. Non era lo
spregiudicato e affascinante avventuriero che tutti credevano, ma un uomo
ben più complesso e tormentato. Un uomo che, a dispetto delle apparenze,
metteva l’onore davanti a tutto.
Se gli avessi dato più fiducia, se non avessi creduto alle menzogne di
Geneviève. Se avessi atteso il suo ritorno dal Michigan, invece di voltargli le
spalle e andarmene con Ken.
Se, se, se. Troppi se le stringevano il cuore.
Eppure, il biglietto che le aveva fatto scivolare in mano alimentava in lei la
speranza che ancora non tutto fosse perduto.
Lui la amava e l’avrebbe amata per sempre. Almeno così aveva scritto.
Allora, perché non veniva a cercarla?
Perché mai dovrebbe, visto che mi crede promessa a un altro?
Camille chiuse gli occhi e una lacrima le scivolò lungo la guancia.
Nello stesso istante in cui risollevò le palpebre, si accorse che qualcosa era
mutato.
La luce.
La luce era diversa.
La stanza si era fatta all’improvviso più chiara e un raggio argenteo,
zigzagando attraverso il buio, le stava accarezzando il volto e il cuore.
Colta da un’insensata eccitazione, Camille si alzò dal letto e si precipitò
alla finestra: la neve aveva smesso di cadere e il mondo brillava sotto i raggi
della luna e di un’infinità di stelle, come un gioiello tempestato di diamanti.
Diamanti, in cielo e in terra. Luminosi come una promessa.
Camille trattenne il fiato e cominciò a sperare.
***
Erano quasi le dieci di sera. Ciò significava che ormai era in viaggio da sei
ore e che probabilmente si era perso.
Eppure non si trovava nel mezzo di una prateria del Michigan, ma a poche
miglia da New York, a poche miglia dal progresso. Grazie al chiarore che si
rifletteva dalla neve, poteva intravedere il sentiero su cui si muoveva, ma
certo non poteva dire se fosse quello giusto.
Anche Moody, il suo fidato cavallo, cominciava a essere stanco e nervoso.
Si chinò sul collo della bestia e gli accarezzò la criniera bagnata
mormorando parole di conforto nelle lunghe orecchie. «Tra poco, bello mio,
avrai biada e un posto caldo per passare la notte.»
Forse.
Era stato un pazzo a partire con quel tempaccio. Ora era in guai seri.
Se fosse morto, Camille lo avrebbe pianto? Sciocchi e commiserevoli
pensieri gli corsero per la mente. Brutto segno, segno che stava per cedere
alla stanchezza e al timore di non farcela.
Doveva reagire.
Si fermò ad ascoltare i rumori della notte.
Il mare era vicino e rumoreggiava alla sua destra, quindi si stava muovendo
nella direzione giusta, anche se non poteva dire quante miglia avesse
percorso né quante ne rimanessero.
Da tempo non passava vicino a un’abitazione, non vedeva brillare luci o
sentiva l’odore del fumo che usciva dai camini.
Ma proseguì ugualmente, avanzando con fatica e poco successo. E quando,
ormai disperato, cominciava a pensare di accamparsi per la notte, qualcosa di
strano accadde. La luce mutò all’improvviso.
Alzò gli occhi e vide la luna, piena, tonda, materna, che lo proteggeva e lo
riscaldava con i suoi raggi argentei. Si accorse che aveva smesso di nevicare
e che le stelle erano tornate a splendere, indicandogli il cammino. L’orizzonte
si accese delle luci di un villaggio.
Se fosse stato il villaggio che lui credeva essere, con l’aiuto della luna in
meno di un’ora sarebbe arrivato a destinazione.
33

Un’ora alla fine del XIX secolo


Camille aveva danzato, scherzato, conversato amabilmente, si era sforzata
di ascoltare, di raccontare. Di rispondere alle mille domande che le venivano
poste, soprattutto sulla scandalosa biografia che aveva firmato con una
misteriosa signora di facili costumi. Ma per quanto desiderasse essere
disponibile e socievole, il suo sguardo fuggiva di continuo verso le grandi
finestre del salone: mossa da una speranza mai sopita, ogni tanto correva a
fissare il vialetto di ingresso di Heather House, illuminato dalle lanterne del
portico e dalle torce accese lungo il sentiero. La luna spruzzava il mondo
d’argento e sembrava sorridere.
E la mezzanotte si avvicinava.
***
Quando riconobbe le prime abitazioni del villaggio di Southampton,
Raleigh scoppiò a ridere. Una risata di gioia cui seguì il desiderio di spronare
il povero Moody al galoppo sul sentiero ricoperto di neve e ghiaccio verso
Heather House.
Idea folle e insensata dopo quasi otto ore di un viaggio sfiancante.
Cercò di smorzare il proprio entusiasmo e soprattutto il desiderio di
stringere fra le braccia Camille.
Ancora poco, pensava, e sarò da lei.
***
«Cinque minuti e brinderemo al 1900!» annunciò il giudice Harris, lo
sguardo fisso al prezioso orologio da taschino che stringeva in pugno.
Mentre l’orchestra intonava un valzer, i camerieri predisponevano bottiglie
di champagne e coppe di cristallo per il brindisi di mezzanotte. L’eccitazione
continuava a crescere, le voci si facevano più acute e i visi più rossi per
l’alcol e l’emozione.
Quella era una fine d’anno speciale, dopotutto, e le speranze e i timori per il
futuro di ognuno sembravano affiorare in quei pochi minuti che precedevano
l’arrivo del nuovo secolo.
Tenendosi per mano, gli ospiti si disposero a cerchio, pronti a intonare le
dolci note di Auld Lang Syne, I bei tempi andati, come voleva un’antica
tradizione britannica diffusasi anche nel Nuovo Mondo.
Le spalle all’ingresso del salone, come gli altri emozionata e incerta per il
domani, Camille prese posto tra i Campbell.
«Sarà un fantastico secolo il 1900, Camille, e tu lo percorrerai a testa alta,
mia cara» le disse Agnes sorridendole.
«Due minuti, signori, due minuti!» urlò il giudice Harris.
Le voci si alzarono festose, per poi morire di nuovo. Il grande cerchio era
ora immobile, in silenziosa attesa.
Anche i camerieri avevano interrotto il loro lavoro e l’orchestra taceva.
«Trenta secondi al nuovo secolo!»
«Venti secondi!»
Camille all’improvviso sentì la testa girarle e il cuore battere impetuoso
contro il petto: Mr Campbell, alla sua destra, aveva lasciato che un’altra
mano, più forte e più grande, stringesse la sua.
Non capiva di chi fosse quella mano, perché Agnes sorridesse, perché tutti,
in quel cerchio festoso, la guardassero. O meglio, lo capiva perfettamente ma
temeva che se si fosse girata, se avesse guardato l’uomo che aveva preso il
posto di Mr Campbell nel cerchio, quel sogno si sarebbe interrotto.
«Cinque secondi al nuovo secolo!» sentenziò il giudice Harris.
«Quattro, tre, due, uno! Buon anno!» esclamarono tutti, all’unisono.
L’orchestra intonò le prime battute di Auld Lang Syne e gli ospiti
incominciarono a cantare.
Camille si girò con lentezza infinita verso l’uomo che stringeva con forza e
dolcezza e speranza la sua mano. L’uomo che la stava guardando sorridente,
felice come un ragazzino. Era fradicio e aveva gli occhi lucidi.
E cantava.
Camille non disse nulla e si unì al coro, mentre lacrime di gioia le
scivolavano sul viso.
***
Quando la musica terminò il cerchio non si ruppe subito. Tutti rimasero
immobili a osservare la scena che si svolgeva davanti a loro. Frank Raleigh, il
solito anticonformista, gocciolante e vestito come un mandriano, se ne stava
in ginocchio davanti a Miss Brontee con in mano un solitario dalle notevoli
dimensioni. Nessuno ebbe dubbi su cosa le stesse chiedendo.
Miss Brontee lo fissava a bocca aperta, gli occhi tondi di sorpresa, il petto
che si alzava e si abbassava troppo in fretta, il volto pallido.
«Allora, Miss Brontee, dite di sì a quel poveretto prima che si prenda una
polmonite!» esclamò burbera un’anziana signora, rompendo la tensione di
quel momento.
Tutti scoppiarono a ridere.
«Sì, Miss Brontee, ditegli di sì. Almeno metterà la testa a posto!»
«Ti prego, Camille, dimmi di sì» implorò Frank in un sussurro.
Camille deglutì, si guardò intorno come per chiedere consiglio ai presenti,
incontrò lo sguardo di Agnes e di Mr Campbell, che insieme assentirono. Poi
guardò Raleigh e semplicemente rispose: «Sì!»
La sala esplose in una girandola di congratulazioni, poi altro champagne fu
stappato e i brindisi al nuovo secolo e ai promessi sposi si rincorsero.
Mr Raleigh, indifferente al centinaio di persone che li stava fissando, si era
intanto rialzato e tenendo Miss Brontee stretta tra le braccia le mormorava
parole che tutti i presenti avrebbero voluto udire ma che giunsero solo al
cuore di Camille.
***
«Frank, non vorrai per caso prenderti un malanno prima di sposarti, vero?»
gli chiese Agnes interrompendo quell’abbraccio appassionato.
Lui sospirò un «Certo che non voglio» e, sorridendo come un bambino
felice o un adulto imbecille, corse a cambiarsi.
Intanto Camille fluttuava come una piuma dalle congratulazioni affettuose
ai consigli pratici delle signore già maritate. Di cosa tutte quelle donne le
stessero parlando in realtà non sapeva. Sorrideva e annuiva, sostenuta
dall’emozione del momento e dalla gioia infinita che sentiva nel cuore, non
certo dalle membra ormai prive di ogni forza.
Stava forse vivendo in un sogno?
No, era molto meglio di un sogno.
Era la realtà.
Era la vita, la loro vita, sua e di Frank. Per loro il XX secolo era cominciato
come un fuoco d’artificio, esplosivo e magnifico, imprevedibile e colorato.
Una girandola di felicità che non si sarebbe mai spenta.
Con la coda dell’occhio scorse Raleigh tornare nel salone e quasi ci rimase
male quando, invece di andare subito da lei, lo vide dirigersi a passo spedito
verso il giudice Harris.
Seguì ogni espressione del viso, ogni movimento del corpo, cercando di
capire che accidenti avesse da discutere con l’anziano magistrato. Entrambi
gli uomini ogni tanto la fissavano, per poi tornare incuranti di lei al loro fitto
dialogo.
Col cuore in gola, rosa dalla curiosità, Camille si avvicinò e quando fu
abbastanza vicina per sentire le loro parole, colse una frase di Frank di cui in
quel momento non riuscì o non volle comprendere il significato.
«Suvvia, Vostro Onore, pensateci meglio: avete l’autorità per farlo e
passerete alla storia anche per questo.»
Forse perché Raleigh lo aveva lusingato, forse perché non aveva altri meriti
per essere ricordato dai posteri, il giudice Harris sospirò, pronunciò qualche
parola incomprensibile e si diresse a lunghi passi verso il palco dell’orchestra
scuotendo la testa. A un suo cenno i musicisti smisero di suonare e le coppie
di danzare e il giudice si girò bonario verso gli ospiti che già pendevano dalle
sue labbra.
Il nuovo secolo era appena nato, eppure sembrava già straordinario.
«Per far cosa ha l’autorità il giudice Harris, Frank?» chiese Camille col
cuore in gola.
«Tra poco lo capirai, vieni con me, amor mio.»
«E voglio sapere un’altra cosa…»
«Importante?»
«Già. Perché hai un occhio nero?»
Lui sorrise portandosi le mani di lei alle labbra. «Te lo dirò, ma non adesso.
Niente deve rovinare questo momento.»
Insieme si avvicinarono a Harris.
«Amici!» esclamò questi.
Un brusio si levò dalla sala, gli ospiti incominciarono ad avvicinarsi e a
fare cerchio intorno a Frank e Camille. Il giudice riprese a parlare.
«Basandomi su questi primi minuti, penso che il XX secolo non sarà
noioso.»
Qualcuno commentò, altri si guardarono in cerca di una spiegazione,
qualcun altro rise. Harris proseguì.
«Ancora una volta il nostro caro amico Frank Raleigh ha dimostrato di
essere un uomo audace e anticonformista. Pur non potendo asserire che non
rispetti le regole, sono sempre più convinto che le interpreti a modo suo…»
Tutti risero.
«Cosa ha combinato questa volta?» chiese qualcuno da dietro.
«Pazienza, signori, pazienza!» rispose il giudice.
Altre risa, altri mormorii.
Camille guardò con aria interrogativa il suo fidanzato... Oh, come le
piaceva pronunciare dentro di sé quella parola!
Per tutta risposta lui le sorrise.
Il giudice Harris riprese. «Per giungere al punto…»
Camille smise di respirare.
«Raleigh mi ha chiesto di celebrare adesso il suo matrimonio con Miss
Brontee. Sempre che Miss Brontee non si rifiuti, cosa che non mi
sorprenderebbe affatto…»
Camille si guardò intorno, confusa. La gente rideva alla battuta del giudice,
in attesa che lei parlasse.
«Camille» la incoraggiò Agnes, che si era materializzata al suo fianco,
«devi dire al vecchio Harris che intenzioni hai…»
«Quali intenzioni?»
La confusione aumentava dentro di lei. Non capiva perché tutti la
guardassero. Le ginocchia le giocarono un brutto scherzo e si piegarono di
colpo sotto il peso della sorpresa; sarebbe caduta se Raleigh non fosse stato
veloce a sorreggerla.
«Si tratta solo di questo, Camille: vuoi sposarmi, adesso?» le sussurrò
stringendola a sé.
La voce di Frank la raggiunse, morbida come il velluto, mentre i suoi occhi
continuavano a implorarla. Il contatto con le sue braccia forti e sicure le fece
correre brividi dispettosi lungo il corpo e risvegliò desideri che non avrebbero
potuto essere soddisfatti subito a meno che lei non avesse risposto...
Guardò Frank, poi il giudice, poi ancora Frank, e alla fine disse, ancora una
volta, «Sì».
Col piglio che lo aveva reso famoso, il giudice Harris prese a organizzare
quella singolare cerimonia. Prima che si potesse procedere, infatti, c’erano
testimoni da scegliere, un documento ufficiale da redigere, un anello da
trovare. Per l’anello si decise di usare il solitario che Raleigh aveva appena
infilato al dito di Camille. Come testimoni si scelsero Mr e Mrs Campbell e,
in quanto al documento, il giudice Harris si ritirò nella biblioteca per
redigerlo in santa pace, con un buon sigaro in una mano e un bicchiere di
whiskey nell’altra.
Intanto la sposa era stata accompagnata nella sua camera da Agnes e Sally,
mentre lo sposo, dopo essersi rifocillato e dopo aver controllato che il suo
cavallo fosse stato adeguatamente accudito, aveva cominciato a percorrere
con frenesia il perimetro del salone, tra pacche sulle spalle, strette di mano e
numerosi brindisi alla sua perduta libertà. Al terzo giro, rifiutò il bicchiere
che gli veniva offerto: se non avesse smesso di bere subito, sarebbe arrivato
ubriaco alla cerimonia e, ciò che era peggio, alla sua prima notte di nozze.
***
Al piano superiore, intanto, mentre Sally puntava delle rose bianche
recuperate dagli addobbi della festa sull’abito e nei capelli di Camille, Agnes
mormorava: «Non ti sposerai in bianco, bambina mia, ma sarai la sposa più
bella del XX secolo!»
«E sicuramente sarete anche la prima» si intromise Sally. «Gli uomini! Non
capisco cosa aspettasse a proporsi quel Raleigh!»
Quando una delle cameriere bussò alla porta per comunicare che giù tutto
era pronto, Camille, al fianco delle sue due improvvisate damigelle d’onore e
con un piccolo bouquet di rose bianche in mano, scese lo scalone sotto gli
occhi degli invitati che attendevano nell’atrio.
Un Oh! generale si levò e Raleigh, rimasto nel salone insieme a Campbell e
al giudice, sentì il cuore mancare un battito.
Eccola, sta arrivando. Camille, che credevo persa per sempre, sta
scendendo quelle scale per me. Per diventare mia moglie.
L’orchestrina attaccò con qualche problema d’intonazione la classica
Marcia Nuziale di Mendelsshon e gli ospiti presero posto dietro Raleigh.
Dopo un paio di minuti Camille fece il suo ingresso al braccio di Mr
Campbell e si incamminò lungo il salone di Heather House con la stessa
emozione che avrebbe provato se avesse percorso la navata centrale della
cattedrale di Canterbury. Le mani le tremavano, il cuore batteva troppo forte,
la gola era talmente secca che temeva di non riuscire più a respirare, ma
quando Mr Campbell la diede a Raleigh, ogni timore svanì. Come fossero
soli, si alzò sulla punta dei piedi e gli accarezzò le labbra con le sue.
«Ti amo» gli sussurrò, lasciando che lui la abbracciasse e le riempisse il
viso di teneri e appassionati baci.
Lo slancio di Raleigh fu tanto ardente che il giudice Harris credette
necessario intervenire. Dopo aver tossito imbarazzato, suscitò uno scoppio di
ilarità nei presenti esclamando: «Miei cari ragazzi, vorrei farvi notare che
questa parte di solito viene dopo la cerimonia, non prima».
Poi, finalmente, il matrimonio ebbe inizio. Fu una cerimonia allegra e
breve, giusto i minuti necessari per formulare le domande di rito e leggere
agli sposi i reciproci diritti e doveri. Harris stava già per dichiararli marito e
moglie, quando Frank lo interruppe.
Il giudice sollevò gli occhi al cielo ed esclamò: «Questo è il matrimonio più
folle che io abbia mai celebrato nella mia lunga carriera e che certo mai
celebrerò. Dimmi, benedetto uomo, qual è il problema adesso? E sii breve,
che ci troviamo nel XX secolo da ben due ore, il che vuol dire che questo
vecchio dovrebbe già essere a letto da un pezzo!»
Camille guardava Raleigh incuriosita.
Anche gli ospiti lo fissavano incuriositi.
Agnes, preoccupata.
«Sarò molto breve, giudice Harris. Ma è necessario, prima che Camille
acconsenta a sposarmi, che io le dica qualcosa.»
«Accomodati, Raleigh, ma sii breve, altrimenti ti mando in gattabuia per
oltraggio alla corte!»
Tutti scoppiarono a ridere.
«E non scherzo affatto» aggiunse il giudice sorridendo.
Frank si girò verso Camille, le prese le mani e gliele baciò. Poi le parlò, a
voce bassa in modo che nessuno potesse sentirlo a parte lei. E il giudice.
«Voglio farti sapere, Camille, prima che tu acconsenta a diventare mia
moglie, che in nessun caso ti permetterò di continuare a lavorare come
giornalista…»
Camille prima si irrigidì poi, guardandolo negli occhi con un ardore che lo
commosse, gli mise l’indice sulle labbra e lo interruppe.
«Shh, Frank, taci, per carità.»
Lui tacque, sorpreso da quelle parole.
«Già una volta abbiamo rischiato di perderci per delle stupide questioni di
principio. Non posso vivere senza di te. Devo respirare l’aria che anche tu
respiri. Camminare dove cammini tu…»
«Soprattutto dormire dove dormo io» le suggerì lui all’orecchio.
Lei ridacchiò. «Sì, soprattutto quello. Ti amo troppo, Frank, e sono disposta
a lasciare il lavoro, se ciò ti renderà felice.»
«Davvero?»
«Sì.»
Lui la guardò con un tale carico d’amore che anche il giudice Harris, che
non si era perso una sola battuta di quel dialogo, sentì le lacrime pungergli gli
occhi.
«Se vorrai smettere di lavorare, sarai libera di farlo. Ma non era
esattamente questo ciò che volevo chiederti.»
«Allora, Frank, chiediglielo in fretta, per favore» si intromise Harris.
«Quel che stavo cercando di spiegarti è che non ti permetterò mai più di
lavorare per… la concorrenza. Mi farai la cortesia di tornare al Daily, dove
tutti ti aspettano. E non credere che godrai di favoritismi perché sei la moglie
del capo!»
Camille rimase a fissarlo con la bocca spalancata, mentre lui rideva di lei.
«Frank Raleigh! Ti sei preso un’altra volta gioco di me!» esclamò alla fine
fingendosi oltraggiata.
«E non sai con quanto gusto!»
«Frank Raleigh, io… io...»
«Tu… tu, ragazza mia» le fece eco Harris, «dovresti toglierci dalle ambasce
e rivelare a tutti noi se vuoi prendere questo uomo come tuo sposo bla bla
bla… oppure no. Stiamo aspettando.»
«Sì, lo voglio» esclamò Camille.
Harris alzò un sopracciglio girandosi verso Raleigh.
«E tu, benedetto uomo, vuoi farmi la cortesia di dire “sì, lo voglio”, portarti
via questa donna e permettere a tutti noi di andare a dormire?»
«Sì, lo voglio.»
«Che Dio sia ringraziato. Mettile l’anello, allora, e poi baciala.»
Frank non si fece pregare.
I presenti cominciarono ad applaudire, in attesa di un altro brindisi e del
simbolico taglio di una torta nuziale che non c’era.
Campbell si avvicinò al giudice Harris e gli porse la mano.
«Grazie, amico mio, grazie. Lo so che quanto avete fatto non è
propriamente regolare…»
«Ma noi faremo in modo che lo diventi. Se questo XX secolo sarà frenetico
e imprevedibile come lo sono state le sue prime due ore» rispose Harris
stringendogli la mano, «credo che mi ritirerò dalla professione e passerò le
mie giornate a pescare!»
Quindi, fingendo di essere al limite della sopportazione, separò gli sposi di
nuovo abbracciati e alla presenza loro e dei testimoni convalidò il documento
che aveva poco prima redatto.
Su questo si leggeva:
Mr Frank Raleigh e Miss Camille Brontee si sono ufficialmente uniti in
matrimonio davanti a me, Giudice Bartholomew Harris, e a due testimoni, i
signori Timothy Campbell e Agnes Smythe Campbell, il Primo Gennaio
Millenovecento, alle ore due antimeridiane, nella località di Southampton,
Contea di Suffolk, Stato di New York.
Controllata l’esattezza dell’ora e apposte in calce le generalità degli sposi e
le firme dei presenti, il giudice Harris rimise nel taschino del panciotto il suo
Vacheron & Costantin e sorrise bonario agli sposi.
***
Poco più tardi, i signori Raleigh raggiunsero la dépendance di Heather
House, un delizioso piccolo cottage sulla spiaggia, che una lungimirante
Agnes aveva fatto preparare per loro, correndo, ridendo e tirandosi manciate
di neve fresca, come ragazzini.
Una volta giunti alla porta, la loro gaiezza scivolò nella consapevolezza che
la loro nuova vita stava per iniziare e, con un semplice sguardo, si fecero
promesse, si scambiarono voti, si giurarono amore, rispetto e fedeltà.
«Entriamo, amore mio» disse alla fine Raleigh con la voce strozzata
dall’emozione.
La baciò con delicatezza sulle labbra prima di sollevarla tra le braccia e
attraversare con lei la soglia della loro nuova vita.
Da Heather House si levarono allora evviva e brindisi, auguri e
congratulazioni e, a causa del troppo champagne circolato, qualche
incitamento di dubbio gusto. La gioia per quel matrimonio inatteso e
improvviso aveva contagiato tutti e diffuso la fallace illusione che, dopo un
tale prologo, quel secolo avrebbe portato al mondo solo progresso e felicità.
«Oh Frank, che imbarazzo! Li hai sentiti? Erano tutti quanti sul portico ad
attendere che tu mi portassi in braccio oltre la soglia» disse Camille
ridacchiando mentre lui la appoggiava con delicatezza sul letto.
«Li ho sentiti eccome! Mi spiace deluderli, ma lo spettacolo termina qui. La
prima notte di nozze ci attende, Mrs Raleigh.»
Le accarezzò con tenerezza il viso. Lei gli prese la mano e gliela baciò con
labbra tremanti.
«Come potrei non saperlo, Mr Raleigh?»
Con occhi ardenti di desiderio, Frank si chinò a baciarle l’angolo della
bocca, un piccolo gesto che la fece fremere di piacere. Le si sedette a fianco,
osservando la stanza che li ospitava.
«Se ci fossimo sposati a New York avremmo organizzato un grande
ricevimento di nozze al Waldorf, poi ci saremmo chiusi nel mio appartamento
per una settimana…»
«E saremmo stati più felici di così?»
«No, credo sia impossibile essere più felici di così. Tuttavia, avrei dovuto
essere meno egoista e offrirti una cerimonia più tradizionale e sfarzosa, come
quelle che piacciono tanto a voi donne» disse scherzando, mentre
incominciava a sfilarle un guanto.
Lei scosse la testa. «Questa notte mi hai reso felice come mai avrei pensato
di poter essere, Frank. Ero convinta di averti perso per sempre e invece… sei
tornato da me affrontando un viaggio difficile e credo molto pericoloso.»
«Non potevo più aspettare, Camille. Anch’io ero sicuro di averti persa per
sempre. Ero disperato. Poi Ken…»
L’altro guanto di Camille volò via.
«Ken? Cosa c’entra Ken?» chiese lei, allarmata. «È lui che ti ha ridotto
l’occhio in questo stato?»
Raleigh fece una smorfia e le sfilò il mantello.
«Già, ma solo perché non ho reagito. Come avrei potuto? È venuto al
giornale e mi ha detto che fra voi era finita. Non so se io l’avrei fatto al suo
posto...»
Lacrime di commozione apparvero negli occhi di Camille.
«Ha fatto davvero questo?»
«Già. E solo per amor tuo. Col fastidioso risultato che dovrò essergli
riconoscente per tutta la vita.»
«Povero Ken… »
«Non vorrai parlare di lui tutta la notte, vero?»
«No, ma vorrei che fosse felice.»
«Anch’io, e glielo auguro con tutto il cuore. Partirà per l’Inghilterra oggi
stesso.»
«Per l’Inghilterra?»
«Già, per lavoro, dice.»
«Parte per causa mia…»
«Vedrai, col tempo riuscirà a farsene una ragione, a dimenticarti e a
perdonarmi.»
Rimasero per qualche istante in silenzio, cullati dal rumore del mare e dal
battito dei loro cuori.
Bevvero una coppa di champagne, poi si baciarono. Risero, e si baciarono
di nuovo, sinché non ci fu altro spazio che per il desiderio.
Sul letto, ben sagomate, erano state sistemate la migliore camicia da notte
di Camille e una semplice camicia di lino da uomo, probabilmente
appartenente a Mr Campbell.
«Credi che ci serviranno?» chiese Frank indicando gli indumenti con un
cenno del capo.
«Ci serviranno per cosa?» rispose Camille fingendo di non aver capito.
«Oh, per quella cosa che faremo questa notte. La cosa che sogno da mesi, a
occhi aperti e chiusi.»
Camille si girò di spalle, un gesto lento e sensuale, un invito a dare e a
prendere piacere.
Lui cominciò a slacciarle i ganci dell’abito.
Uno, via.
Due, tre, via.
«Di quali sogni parli, Frank?» chiese, il respiro all’improvviso affrettato, la
voce roca.
Quattro, cinque, sei, via.
«Di sogni proibiti, Camille, insieme a te» disse, trascinandola contro il suo
petto e coprendole i seni con mani avide e calde. Le posò le labbra
nell’incavo del collo, succhiando con delicatezza la pelle candida.
Con un piccolo lamento lei si inarcò e lui continuò a spogliarla, con fretta e
determinazione. Come se la pazienza si fosse all’improvviso esaurita.
«Dimmi dei sogni, Frank!»
«Sogno cose proibite e terribilmente eccitanti...» mormorò lui con voce
roca e sensuale mentre le tormentava il lobo dell’orecchio con la lingua.
Il vestito di Camille cadde a terra.
«Cose che un uomo fa con l’amante e non con la moglie?»
Lui le sciolse i capelli, poi cominciò a baciarle la schiena, vertebra dopo
vertebra, mentre la sottoveste scivolava lungo i fianchi.
«Cose che un uomo e una donna fanno quando sono pazzi uno dell’altra.»
«E tu, Frank, le farai con me stanotte? »
Il modo provocante in cui sussurrò il suo nome, una via di mezzo tra un
gemito e un sospiro, lo mandò oltre il limite. Emise un suono sordo,
primitivo, possessivo che sconvolse Camille. Ancora di spalle, si inginocchiò
sul letto davanti a lui, il bacino leggermente ruotato all’indietro, il viso girato
di profilo, come per invitarlo a unirsi a lei. E rimase così, immobile e
tremante ad aspettarlo, finché non lo sentì premere contro di lei e scivolare
infine in lei.
Si amarono, come amanti e come sposi, con frenesia e con tenero
abbandono. E quando l’alba del nuovo secolo bussò al mondo e alla loro vita,
insieme l’accolsero col cuore colmo di gratitudine e di gioia.
Si vestirono alla bell’e meglio e avvolti in un’unica coperta andarono in
riva al mare dove attesero il mattino abbracciati.
«Ti amo, Camille. Credo di averti amata dal primo momento in cui ti ho
vista» mormorò Frank sulle sue labbra.
«Se ti riferisci al nostro incontro al porto… L’avevo capito da come mi
guardavi, in modo del tutto sconveniente, che avevi un certo debole per me»
gli rispose lei sorridendo, il viso illuminato dalla prima luce del sole.
«E tu, allora? Non riuscivi a togliermi gli occhi di dosso! Quando ho capito
che mi avevi scambiato per il servitore di Ralph ho pensato di divertirmi alla
tue spalle…»
«Mi hai invitata con i Campbell al Metropolitan…»
«Un piccolo scherzo innocente che ci ha portati fin qui, Camille.»
«Sembra passato un secolo da quel giorno…»
«E in fondo lo è.»
«Credo che questo sarà un grande secolo» fece Camille guardando con
occhi colmi d’amore suo marito.
Lui le sorrise, la baciò con tenerezza e rispose: «In ogni caso sarà il nostro
secolo, Camille. Nostro, fino alla fine».
Altri titoli Emma Books
Il LIBRO
Sì, è stata tutta colpa di un gatto rosso. Il mio. La bestia scappa dalla
finestra a mezzanotte, e io mi butto in strada per recuperarlo, sexy come un
sacco di patate, e incontro... l’ uomo dei miei sogni, una specie di Marlboro
Man che smonta non da cavallo, ma da una fiammante BMW.
In altre parole, il mio nuovo vicino di casa. Lui mi fissa perplesso e
incuriosito e il colpo mi arriva subito, preciso, bang bang, dritto al cuore,
come nella vecchia canzone dell’Equipe ‘84. Nick, si chiama Nick.
Io Nora. Non può essere un caso, mi dico, e mi butto in questa storia, a
testa bassa, senza sospettare in che pasticci mi ficcherò. Perché è ovvio che
nella nostra storia si infilino altre persone, e tutte con qualcosa da dire o fare.
Viola, un’adorabile bimba di otto mesi; Tommaso, il prof, egocentrico,
bastardo seduttore cui l’ho giurata; un’orda di adorabili femmine folli che
altro non sono che le mie amiche del cuore; Camilla, la disinibita, e un
piccolo esercito di suocere, madri, padri, tate e… una nonna diabolica. E,
come se non bastasse, c’è un romanzo rosa che aspetta di essere tradotto, uno
strano borgo in piena Milano dove la gente sembra diversa e un po’ pazza e,
ahimé, c’è anche lei, Gabrielle, la stronza. Senza contare il gatto rosso.

Fra noi è stato come dice lui: tutto e subito. Appassionato, assoluto,
prepotente. Intenso. Siamo precipitati uno nella vita dell’altra come due
particelle subatomiche sparate da un acceleratore di protoni. Non abbiamo
avuto scelta, non abbiamo potuto evitarci. La natura, o forse il caso, o forse
una sconosciuta forza elettromagnetica, ha scelto per noi.
Non siamo amici. Non siamo fidanzati. Non siamo amanti. Non siamo
niente se non vicini di casa. Eppure…
L’AUTRICE
Viviana Giorgi (aka Georgette Grig, lo pseudonimo con cui scrive romanzi
storici) vive a Milano, dove lavora come giornalista freelance da molti anni,
soprattutto nel campo dello spettacolo. Da qualche anno si è imbattuta nel
romance ed è stato amore a prima vista. Dalla lettura alla scrittura il passo è
stato molto breve, forse troppo. Bang Bang, Tutta colpa di un gatto rosso è il
suo primo romanzo contemporaneo, dove si parla molto di romance e si vive
come in un romance, ma in chiave decisamente ironica.
IL LIBRO
«Siccome sono una che fa un sacco di cazzate, ho pensato di raccontarvele
in queste pagine per evitarvi di rifarle, o perlomeno di contenere i danni. Le
cazzate, per esempio, io le ho fatte su Facebook: incidenti diplomatici da
ribaltare un Tir, amicizie secolari distrutte in un tag, ma anche notifiche che
intasano la posta elettronica peggio di un procione caduto nel water e altre
bannazioni. Per non parlare dell’amore. ♥ (Di cui invece vi parlerò
moltissimo).
Come se non bastasse, io sono una che non legge mai e poi mai le
istruzioni. Anche se dovessi montare, chessò, un intero aliscafo, lo farei senza
dare nemmeno una sbirciata al manuale di montaggio. Poi, se invece
dell’aliscafo viene fuori uno schifo, pazienza.
Il pericolo (e anche il ridicolo) è il mio mestiere.
Eccovi quindi, dalla vostra Gina di fiducia (li avete letti, Cinquanta
sbavature di Gigio e Cinquanta smagliature di Gina?) Facebook per
romantiche, che è un po’ un romanzo e un po’ un manuale, insomma un
indispensabile libretto di distruzioni per gli utenti di Facebook e/o
dell’amore.»
L'AUTRICE
Rossella Calabrò ha sempre osservato gli animali con grande interesse e
grandissimo amore. Siccome anche gli esemplari maschi del genere umano
non le sono mai dispiaciuti, ha potuto notare, forte della frequentazione dei
quadrupedi e di numerosissime letture di etologia e zoologia, che gli uomini e
gli opossum sono identici. Non nell’aspetto solitamente, ma nell’animo. Son
paraculidi, insomma. La dimostrazione? Nell’ebook Perché le donne sposano
gli opossum?.
Autrice e blogger che fa dell’ironia la sua fede, Rossella Calabrò ha
pubblicato alcuni libri sulla figura delle matrigne – che sono pur sempre delle
bestie strane – tra cui Di matrigna ce n’è una sola per Sonzogno). Ha da anni
un seguitissimo blog, “Il Blog delle Matrigne” su Vanityfair.it e una rubrica
fissa, l’Identitic, sulla rivista Glamour, dove racconta gli uomini visti dalle
donne. Ha pubblicato per Sperling & Kupfer i best-seller Cinquanta
sbavature di Gigio (tradotto in Spagna, Francia, Repubblica Ceca,
Portogallo), Cinquanta smagliature di Gina, e Il tasto G.
Ora ci dedica il suo ebook “Facebook per romantiche”, per chi, nella rete e
nell’amore, non legge mai le istruzioni.
Il LIBRO
Chi è veramente Rudolf? Cosa desidera e pensa l’erede al trono degli
Asburgo, figlio dell’inquieta Sissi? Chi si nasconde dietro l’ammirato e
nevrotico principe che non asseconda i rituali vuoti dell’aristocrazia e
respinge l’etichetta meschina di corte? Che rifiuta l’assolutismo della
tradizione monarchica? E si abbandona ad avventure galanti come antidoto
alla solitudine? Finché non incontra la giovane Mary, l’unica che penetrando
il suo fragile isolamento accetterà di essere sua complice....
La misteriosa e tragica morte di Rudolf e della sua amante Mary Vetsera è
una vicenda che ancora affascina e pone mille interrogativi. Partendo dalla
storia documentata e dal mondo reale, Batsceba Hardy approda all’universo
del possibile, regalandoci un’indagine sull’anima, sull’amore ma anche sul
potere.
Una vicenda di passioni in cui l’immaginazione dell’autrice si spinge a una
soluzione fino a ora mai prospettata.
L’AUTRICE
Batsceba Hardy è un’artista dell’irrealtà, che vive e vivrà nella rete
(www.batscebahardy.com), dove si rende già visibile con la sua performance
continua: scrivere storie con immagini e raccontare visioni con parole. Tutto
il resto è wittgensteinianamente superfluo, compreso il suo background
segreto. Risiede momentaneamente a Berlino di cui insegue i cieli fra le
nuvole, ma potrebbe trovarsi in qualsiasi altro luogo. Ama lasciare traccia di
sé nei bar in cui trova ispirazione. Ama contemplarsi nelle finestre delle case.
Ama svelarsi di notte alla presenza di nessuno.

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