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Traduzioni di
Silvia Lalìa e
Claudia Verpelli
INTERNO GIALLO
MONDADORI
Scan e Rielaborazione
di Purroso
ISBN 88-04-37567-1
MAGICLAND
INTRODUZIONE
I reali genitori si accorsero ben presto che qualcosa doveva essere andato
storto, perché il principe riuscì a fare qualche passo senza cadere solo
quando aveva ormai tre anni; non riusciva a prendere in mano niente
senza farselo sfuggire più volte e, quel che è peggio, le persone se lo
trovavano fra i piedi, tanto che faceva sempre inciampare il
maggiordomo reale, in particolare quando il pover’uomo stava per
servire il vino migliore.
Mai nessuno comunque perdeva la pazienza, perché il principe
possedeva tutti i doni che gli avevano concesso le altre fate. Aveva un
carattere solare, capiva al volo quello che gli dicevano, era ubbidiente,
intelligente, dolce… in una parola delizioso, a parte quella sua terribile
goffaggine.
Non deve quindi sorprendere se i genitori felici l’avessero chiamato
Principe Delizioso perché tale era agli occhi di tutti. Perfino quando
mandava in pezzi gli oggetti su cui metteva le mani, tutti lo trovavano
assolutamente delizioso.
Va da sé che fu interpellata la fata Pastrocchia a cui la regina chiese
cortesemente – è necessario essere sempre molto cortesi con le fate perché
alcune di loro hanno un pessimo carattere – cosa mai fosse andato storto.
Pastrocchia diventò tutta rossa e disse: — Mmm… dunque… credo di
aver tenuto in mano la bacchetta per il verso sbagliato.
— Ma allora, mia cara — disse la regina Ermentrude suadente — non
potreste prendere in mano la bacchetta per il verso giusto e provare di
nuovo?
— Sarei felice di poterlo fare — disse Pastrocchia. — Ma è contro le
regole magiche cercare di annullare il proprio incantesimo…
naturalmente se è stato fatto in buona fede.
— Se non lo farete — disse la regina — ci metterete in una situazione
terribile.
— Se lo facessi — ribatté Pastrocchia — sarei espulsa dall’Ordine delle
Fate. — Non c’è bisogno di dire che le sue parole posero fine alla
discussione.
La casa dei McCall era una grande costruzione bianca a pianta irregolare
che occupava quasi un acro di terreno lungo il confine settentrionale del
Sinnissippi Park. Il parco prendeva il nome dagli indiani aborigeni di
quella zona e sotto una macchia di aceri giganteschi nell’area recintata a
sudovest, erano disseminati alcuni tumuli funerari. Da un capo all’altro, il
parco misurava più di quaranta acri, quasi tutti coperti da boschi, salvo i
campi di baseball e i parchi gioco. Il parco era delimitato a sud dal Rock
River, a ovest dal Cimitero di Riverside e a nord e a est dalla zona
residenziale di Woodlawn. Il Sinnissippi Park era un’ampia riserva, piena
di sentieri stretti e serpentini, fitta di pini soffocati dal sottobosco e di
ombrose macchie di aceri, olmi e querce. Una cresta rocciosa correva
lungo quasi tutta la zona sud e dominava il Rock River.
Jack aveva avuto il permesso di andare nel parco da solo dopo la quarta
elementare, fino ad allora aveva avuto l’ordine di non oltrepassare i
cespugli che delimitavano il giardino sul retro della casa. Qualche volta
suo padre lo portava con sé a fare una passeggiata, e di tanto in tanto un
giro in bicicletta a cui, qualche rara volta, partecipava sua madre che non
veniva spesso perché era occupata a badare ad Abby. Ma suo padre
lavorava nella tipografia e di solito tornava a casa che era già buio, così il
parco era restato a lungo una zona inesplorata che sussurrava tentatrice
alla giovane mente di Jack parlandogli di avventure e di mistero.
A volte, quando la tentazione era troppo forte, Jack implorava che gli
permettessero di andare nel parco da solo. Appena qualche passo, appena
un minuto, diceva e univa il pollice e l’indice per far vedere quanto fosse
insignificante quello che chiedeva. La risposta di sua madre era sempre la
stessa: doveva restare nel giardino sul retro della casa.
Ma a volte succedono cose imprevedibili e durante l’estate prima
dell’inizio dell’anno scolastico in cui frequentò la seconda classe, a Jack
capitò di andare nel parco da solo nonostante il divieto dei suoi genitori.
Tutto accadde a causa di Pick.
In un caldo pomeriggio di luglio, Jack stava giocando nel cassone della
sabbia con i suoi camioncini e le sue macchinine, quando sentì Sam – Sam
era il cane di casa, un bastardino con il corpo a forma di barilotto — che
uggiolava e abbaiava dietro i cespugli come se avesse scovato un puma,
tanto che alla fine Jack si decise ad abbandonare le sue piste di sabbia e ad
avvicinarsi alla siepe divisoria per vedere cosa stesse succedendo. Quando
arrivò alla recinzione, si rese conto che non riusciva a vedere nulla perché
Sam stava dietro il tronco di un pino oltre i cespugli. Lo chiamò, ma il
cane non si mosse. Jack restò lì per qualche minuto continuando a lanciare
occhiate verso le finestre di casa. Nessun segno di sua madre. Mordendosi
il labbro con espressione testarda e determinata, Jack fece qualche passo
nella zona proibita.
Mentre si faceva strada fra i cespugli, troppo preoccupato per quello che
aveva alle spalle, inciampò e batté la testa contro un ramo. Sentì un dolore
acuto ma si rialzò subito in piedi e riprese ad avanzare.
Sam stava saltando intorno al tronco del pino e andava avanti e indietro
tutto eccitato. Intorno al pino cera un ammasso di arbusti e un pezzo di
stoffa attaccato ai rovi. Quando arrivò più vicino, Jack si rese conto che
quel pezzo di stoffa era in realtà un pupazzo e quando si avvicinò ancora
di più, vide che il pupazzo si muoveva.
— Non stare lì fermo! — gli gridò il pupazzo con una vocina rabbiosa.
— Richiamalo!
Jack afferrò il cane per il collare. Sam cercava di liberarsi dalla presa per
tornare alla sua preda, tanto che alla fine Jack fu costretto a dargli una
sculacciata e il cane si allontanò di corsa tra i cespugli. Allora Jack si
accucciò accanto al pino con gli occhi fissi sul pupazzo parlante. Era un
ometto piccolo con la barba rossastra, camicia e calzoni verdi, stivali e
cintura neri e un berretto fatto di aghi di pino intrecciati.
Jack ridacchiò. — Perché sei così piccolo?
— Perché sono così piccolo?! — gli fece eco quello mentre cercava
disperatamente di liberarsi dai rovi. — E perché tu sei così grande? Ma
non sai proprio nulla?
— Sei vero?
— Certo che sono vero! Sono un elfo!
Jack piegò la testa da un lato. — Come quelli delle favole?
L’elfo diventò più rosso della sua barba — No, non come nelle favole! Da
quando in qua le favole dicono la verità sugli elfi? Immagino che secondo
te gli elfi sono solo dei simpatici abitanti dei boschi che passano la vita a
far capriole al chiaro di luna, non è vero? Be’, non è affatto così. Noi
lavoriamo.
Jack si chinò per vedere meglio. — Che lavoro fate?
— Facciamo di tutto! — Sembrava che all’elfo stesse per venire un colpo
apoplettico.
— Sei proprio buffo — disse Jack accovacciandosi sui calcagni — Come
ti chiami?
— Pick. Mi chiamo Pick — borbottò l’elfo continuando a contorcersi per
liberarsi. — E tu?
— Jack. Jack Andrew McCall.
— Be’ stammi a sentire, Jack Andrew McCall, pensi di potermi aiutare a
venir fuori da questi rovi? Prima di tutto è colpa tua se mi trovo qui…
quello è il tuo cane, no? Be’ il tuo cane stava curiosando dove io lavoravo
e non l’ho sentito. Si è messo ad abbaiare così forte che ho avuto paura e
sono rimasto impigliato qua in mezzo, allora lui ha cominciato ad
annusarmi e a sbavarmi addosso e io mi sono ingarbugliato sempre di
più! — Pick fece un profondo sospiro per calmarsi. — Allora, mi vuoi
aiutare sì o no?
— Certo — rispose Jack di buon grado.
Allungò la mano e Pick gridò: — Sta’ attento con quelle manone, potresti
schiacciarmi! Non sei un tipo maldestro, vero? E nemmeno uno di quei
ragazzini che vanno in giro a calpestare formiche, spero.
Jack sapeva maneggiare bene le mani e in men che non si dica riuscì a
liberare l’elfo dai rovi senza grossi danni per nessuno dei due. Mise Pick
a terra e si sedette. Pick si spolverò i vestiti borbottando qualcosa che
Jack non riuscì a intendere.
— Vivi nel parco? — domandò Jack.
Pick alzò di nuovo gli occhi con espressione irritata e col berretto di
traverso. — Certo che vivo nel parco! Dove altro potrei fare il mio
lavoro? — Puntò un dito verso Jack. — Sai cosa faccio io, Jack Andrew
McCall? Mi prendo cura del parco! Di tutto il parco, da solo! È una
grossa responsabilità per un elfo!
Jack restò colpito. — E come fai?
Pick si aggiustò il berretto. — Sai cos’è la magia?
Jack si grattò il polso dove l’aveva punto un moscerino. — È quella cosa
che ha trasformato Cenerentola in una principessa — rispose dubbioso.
— Per la barba di Noè, raccontano ancora queste vecchie fandonie? Ma
quando si decideranno a dire le cose come stanno? Continuano a parlare
di quelle storie ridicole di matrigne cattive, aspiranti principesse e
scarpette di cristallo perse a corte… come se una scarpetta di cristallo
potesse durare più di cinque minuti su una pista da ballo! — Mentre
parlava continuava a saltare su e giù tanto che Jack si tirò indietro. —
Vorrei dirgli io un paio di cosette sulle vere favole! — proruppe. —
Potrei raccontargli certe storie che gli farebbero rizzare i capelli!
Si fermò di colpo accorgendosi dell’espressione costernata di Jack. —
Oh, non ti preoccupare! — sbuffò. — Questo è un argomento che mi fa
sempre saltare i nervi. Allora, Jack Andrew, parliamo del mio lavoro. Devi
sapere che la magia è in tutte le cose, nella quercia più grande e nel più
piccolo filo d’erba, nelle formiche e negli elefanti. Ma ci deve essere un
certo equilibrio, altrimenti sono guai. È proprio di questo che si occupano
gli elfi. Però non siamo molti e così ci concentriamo dove la magia è più
forte ed è più probabile che succedano pasticci… per esempio in questo
parco.
— Fece un gesto con la mano. — In questo parco ci sono forze magiche
che ci danno molto da fare.
Jack seguì il movimento della mano dell’elfo e annuì. — È davvero
molto grande.
— Troppo grande per la maggior parte degli elfi e te lo dimostrerò! —
esclamò Pick. — Vuoi vedere quanto è grande?
Jack fece cenno di sì e contemporaneamente scosse la testa per dire di
no. Lanciò un’occhiata preoccupata alle sue spalle pensando di nuovo a
sua madre. — Non ho il permesso di andare nel parco — spiegò. — Anzi,
non mi sarei dovuto nemmeno allontanare dal mio giardino.
— Oh — disse Pick piano. Si grattò la barba rossa e poi batté le mani. —
Be’ un pizzico di magia risolverà la questione e ti eviterà qualsiasi
problema. Ecco, prendimi in mano e tirami su. Piano, ragazzo! Ecco,
così! Fammi sistemare… apri la mano col palmo all’insù. Non ti
muovere, adesso chiudi gli occhi. Su, su, chiudi gli occhi, non aver
paura. Chiudi gli occhi e pensa al parco. Riesci a vederlo? Allora,
osserva…
Jack sentì qualcosa di caldo e sciropposo che gli scorreva lungo il corpo
a partire dagli occhi fino alla punta dei piedi. Sentì Pick che si muoveva.
D’improvviso si accorse di stare volando più in alto degli alberi e dei
pali del telefono, al di sopra della grande distesa verde del Sinnissippi
Park. Volava a cavalcioni di un grosso uccello dalle piume bianche e
marrone con due immense ali. Pick stava dietro di lui e, con sua grande
meraviglia, avevano tutti e due le stesse dimensioni. Jack batté gli occhi
incredulo, poi gridò di gioia. L’uccello scese lentamente verso terra,
planando di qui e di là per seguire la corrente del vento, ma il movimento
non dava fastidio a Jack, anzi, gli sembrava che niente potesse farlo cadere
da dove stava appollaiato.
— È così che mi sposto da un punto all’altro del parco — sentì Pick che
diceva e la sua voce gli giungeva chiara nonostante il vento. — Mi porta
Daniel… è un barbagianni molto bravo. Ci conosciamo da un bel po’ di
tempo. Se dovessi andare a piedi, mi ci vorrebbero settimane per
spostarmi da una parte all’altra e non riuscirei a combinare nulla!
— Mi piace! — gridava felice Jack ridendo e Pick rideva con lui.
Volarono in groppa a Daniel per ore - o almeno così sembrò a Jack – dal
Cimitero di Riverside lungo il versante est del massiccio roccioso fino alle
case di Woodlawn e ritorno. Jack osservava tutto con occhi spalancati
pieni di meraviglia: scoiattoli grigi e marroni, uccelli di tutte le specie e di
tutti i colori, topi di campagna, opossum e perfino un tasso. In un
boschetto lungo la riva del fiume intravide un cerbiatto con la sua mamma,
snelli e delicati, che si muovevano quasi invisibili contro il verde degli
alberi. C’erano vecchi pini grigi con i rami coperti di aghi intrecciati a
formare un’armatura che proteggeva il tronco segreto, querce e olmi
torreggianti che spuntavano dalla terra come tante lance possenti; profonde
cavità e gole in cui si raccoglievano foglie secche e ombre, ruscelli e
specchi d’acqua coperti di foglie di ninfee e pullulanti di ranocchie e
minuscoli pesci sfreccianti.
Ma c’era ben più di questo per un bambino pieno di immaginazione.
Dietro ogni vecchio tronco abbattuto c’erano castelli e fortini; c’erano
binari ferroviari su cui correvano locomotive a vapore che attraversavano
antichi ponti di legno nei punti in cui i corsi d’acqua erano troppo larghi
per rischiare il guado; c’erano covi di pirati e miniere piene di tesori; poni
selvatici che correvano più veloci del vento e coguari dal pelo morbido
come seta. Ovunque una storia diversa, un diverso racconto, il sogno di
un’avventura che aspettava di essere vissuta.
E c’era la magia.
— Laggiù, Jack Andrew, vedi? — gridò Pick mentre superavano
velocemente sulla sinistra il ponte di pietra che univa la spaccatura di
roccia in fondo alla quale scorreva il Rock River. — Guarda bene,
ragazzo!
Jack guardò e vide una forma scura e frastagliata che stava aggrappata
sotto l’arcata del ponte, appiattita contro la pietra e quasi invisibile
dall’alto.
— Quello è Wartag, il troll! — disse Pick. — Da queste parti sotto quasi
tutti i ponti c’è un troll, ma Wartag è quello che mi dà più da fare. Se c’è
qualche possibilità di portare scompiglio, lui trova il modo di farlo e così
finisce che la maggior parte del mio lavoro devo dedicarla a disfare il
suo!
Daniel si abbassò fino a sfiorare il ponte e Jack vide Wartag che
indietreggiava furtivo per nascondersi nell’ombra senza però riuscirci del
tutto: un corpo deforme coperto da chiazze di peli neri e gli occhi rossi e
maligni che risplendevano come catarifrangenti di bicicletta.
Daniel lanciò un grido acuto e Wartag si ritrasse.
— A Wartag non piacciono molto i barbagianni! — disse Pick e poi urlò
qualche dispetto al troll prima che Daniel si rialzasse in volo.
Sorvolarono una zona del parco che non avevano ancora visto, un bosco
fitto a est dell’area centrale dove la luce del sole non riusciva a penetrare e
dove tutto era avvolto nell’ombra. Daniel li condusse dentro l’oscurità,
una specie di foschia grigia immersa nel silenzio e nell’odore di legno
marcito. Pick indicò qualcosa davanti a loro e Jack seguì con lo sguardo la
direzione del suo dito. Laggiù c’era l’albero più grosso e ispido che avesse
mai visto, un mostro dagli arti contorti e la corteccia piena di crepe e
bitorzoli che sembrava pronto ad afferrare qualunque cosa passasse lì
vicino. Intorno all’albero non cresceva nulla, né altri alberi, né cespugli,
né erba.
— Che cos’è? — chiese Jack.
Pick gli lanciò un’occhiata reticente. — Quella, mio giovane Jack
Andrew, è la prigione… eterna si spera… del drago Desperado. Che ne
dici?
Jack era annichilito. — Un vero drago?
— Vero come me e te… e posso aggiungere, molto pericoloso. Troppo
pericoloso per essere lasciato libero, ma al medesimo tempo troppo
potente per poter essere distrutto. Non possiamo liberarci di tutto ciò che
ci mette paura o che ci preoccupa, ci sono cose che siamo costretti a
sopportare… come i draghi e i troll, per esempio. I troll, naturalmente,
non sono cattivi come i draghi… i troll combinano guai quando nessuno li
controlla, ma i draghi fanno veramente danno. Sono molto potenti. Jack
Andrew. Figurati che solo il loro fiato può appestare l’aria per miglia e
miglia e le impronte delle loro zampe avvelenano i campi! Certi draghi
sono peggiori di altri, naturalmente, e Desperado è uno di questi.
S’interruppe e guardò Jack battendo gli occhi. — Tutti i draghi procurano
guai, ma Desperado è il peggiore. Ogni tanto riesce a liberarsi e allora ne
succedono di tutti i colori. Per fortuna non accade spesso, ma quando
succede qualcuno lo deve rimettere sotto chiave. — Schiacciò un occhio
con espressione enigmatica. — E per fare questo ci vuole una magia
molto speciale.
Daniel puntò in alto e li portò lontano dalle ombre e dalla foschia grigia.
I raggi del sole colpirono gli occhi di Jack abbagliandolo.
— Jackie!
Gli sembrò che sua madre lo chiamasse. Batté le palpebre.
— Jackie dove sei?
Era proprio sua madre. Batté di nuovo le palpebre e si ritrovò a sedere
sotto il pino con una mano tesa a palmo insù. La mano era vuota e Pick
era scomparso.
Jack ebbe un attimo di esitazione, poi sentì sua madre che lo chiamava di
nuovo e si affrettò verso i cespugli che delimitavano il giardino di casa.
Arrivò troppo tardi per non essere sorpreso da sua madre che dapprima si
allarmò per il bernoccolo che aveva in fronte e poi si arrabbiò quando si
rese conto di quello che era successo. Gli mise un cerotto e lo spedì in
camera sua.
Durante il pranzo Jack parlò di Pick ai suoi genitori che lo ascoltarono
cortesi lanciandosi di quando in quando un’occhiata, poi gli dissero che
andava tutto bene, che la sua era una bellissima storia, ma che qualche
volta succedeva che una botta in testa facesse credere vere cose che in
realtà non erano accadute affatto. Quando Jack insistette nel dire che non
si era inventato nulla e che era tutto vero, i suoi genitori sorrisero di nuovo
e gli dissero che era una bella cosa che lui avesse tanta fantasia. Per
quanto facesse, Jack non riuscì a convincerli che parlava sul serio e alla
fine, dopo una settimana di paziente ascolto, una mattina sua madre si
sedette in cucina davanti a una tazza di latte e biscotti e gli disse che ormai
ne aveva abbastanza.
— Tutti i bambini hanno amici immaginari. Jack — gli disse. — Fa parte
del processo di crescita. Un amico immaginario è qualcuno a cui i
bambini possono parlare dei loro problemi quando nessun altro gli dà
ascolto, qualcuno a cui possono confidare i segreti che non vogliono dire
a nessun altro. Certe volte gli amici immaginari riescono perfino ad
aiutare un bambino a superare un periodo difficile. Pick è il tuo amico
immaginario, Jack, ma tu devi renderti conto che un amico come Pick
appartiene solo a te e a nessun altro, e così deve restare.
Jack cercò Pick per tutta l’estate e anche in autunno, ma non lo trovò più.
Quando suo padre lo portava nel parco, Jack cercava Wartag sotto il ponte
di pietra, ma non trovò mai nemmeno lui. Scrutava il cielo per vedere
Daniel, ma non riuscì mai a vedere nessun uccello che fosse più grande di
un pettirosso. E quando convinse suo padre a inoltrarsi nella parte più folta
del bosco - una fatica che fece dire a suo padre parole che non usava
spesso - non c’era alcun segno dell’albero che teneva prigioniero
Desperado.
A un certo punto Jack rinunciò a cercare. La scuola e i suoi amici
assorbirono tutta la sua attenzione, passò il giorno del Ringraziamento e
arrivò Natale. Quell’anno ricevette in regalo una bicicletta a due ruote e un
trenino elettrico. Di tanto in tanto gli venivano in mente Pick, Daniel,
Wartag e Desperado, ma piano piano il ricordo cominciò a offuscarsi.
Dimenticò molti particolari della sua avventura estiva nel parco e quello
che era accaduto prese i contorni delle favole che Pick detestava tanto.
Ben presto Jack aveva smesso del tutto di almanaccare sull’argomento e
non ci aveva pensato più fino a quel giorno.
Nella sua capanna fatta di paglia, fango e sassi di fiume levigati, retta
dalla parete di roccia della collina, Flax è tormentato da un incubo: una
muta di segugi guaisce e quelle creature spettrali sono tutte molto più
grandi e agili di lui. Al risveglio Flax sente ancora il loro fiato caldo sul
collo e si rende conto che malgrado il sogno sia finito, li sente ancora.
Adesso non latrano più così forte, ma il cuore gli batte ancora
all’impazzata, tanto che lo sente scoppiare nel petto e premere per uscire.
Dopo un’eternità, o forse due, non sente altro che qualche breve latrato
eccitato. Flax sprofonda nel suo giaciglio, mentre l’aria della notte viene
rotta da un altro suono. Limpido e acuto come le stelle d’inverno e come
loro senza tempo, quel suono è senza dubbio un grido di morte. Flax
trattiene il respiro come se quel grido sia il suo. Ma per quanto trattenga il
respiro, non c’è ormai più niente che le sue orecchie tese possano sentire.
La notte e il mondo sembrano congelati. Flax è sdraiato, gli occhi
spalancati, e non sa perché abbia così disperatamente voglia di piangere.
La luna calante divenne una falce sottile poi crebbe di nuovo. L’unicorno
cresceva ogni giorno di pari passo e in modo altrettanto percettibile. Oltre
ai cardi che gli avevano dato il nome, l’unicorno aveva scoperto altri tipi
di cibo e andava matto per le mele. Quando nel sicuro della notte Flax lo
portava fuori a giocare, Cardellino mostrava un’energia inesauribile e una
freccia scoccata da un arco non era più veloce di lui quando galoppava su
un prato. Nessuna freccia scoccata dalla mano di un uomo, nondimeno,
avrebbe potuto virare all’improvviso come faceva Cardellino per tornare
al fianco di Flax… per poi allontanarsi di nuovo, alzando gli zoccoli verso
la luna, scalciando e impennandosi per il puro piacere di muoversi, e
volteggiando come una foglia al vento.
Flax non era affatto così veloce, ma si univa al gioco con entusiasmo e
dopo dividevano insieme un sonno profondo e senza sogni sul letto di
felci. Cardellino perse la peluria vellutata da puledro e ben presto la sua
criniera si trasformò in una frangia che crebbe ritta fino a una spanna
prima di ricadergli ordinatamente sul collo.
Il corno gli spuntò dalla pelle, riflettendo nelle sue spire madreperlacee
tutti i colori dell’arcobaleno. Flax gli grattava il corno alla base con le dita
e con ciuffi d’erba secca e Cardellino gli dimostrava la sua gratitudine
accarezzandolo con la lingua.
Lady Lowise stava ferma al centro di una stanza circondata da file e file
di gabbiette di vimini; un uccello cantava appassionatamente appollaiato
sul suo dito indice che Lowise teneva sollevato davanti a sé. Il canarino
corteggiava la sua padrona con trilli e cinguettii, oscillando e battendo le
ali. La destinataria dello spettacolo era incantata dal canarino tanto quanto
lui lo era da lei. Aveva lunghi capelli neri come le piume sul capo del
canarino, per il resto interamente giallo, e avevano entrambi gli occhi scuri
e luminosi, ma quelli di Lowise erano molto più grandi e incorniciati da un
viso a forma di cuore.
Dalle gabbie, altri maschi cantavano facendo da contrappunto o
completando il canto del suo preferito. Flax allungò la testa, in ascolto, e
sentì le femmine dei canarini richiamare con minor impeto i loro
compagni o i loro piccoli.
— Adorano i semi del cardo! — sorrise Lowise radiosa. — E per voi
Flax trova sempre i più grandi e i più dolci, miei tesori. Hai portato la
lanugine fresca?
Flax restò perplesso. Quando Lowise aveva detto “lanugine”, lui aveva
pensato alla lana di pecora, e a un compito che detestava, e non riusciva a
collegarla in alcun modo agli uccellini. Infine si figurò il fiore di cardo
prima che le sue spine secche venissero usate per cardare, e imparò il vero
nome della sua peluria leggera. Flax scosse la testa. Le spine erano ancora
verdi e tenere, ornate di fiori violetti. Nessun seme matura così presto.
— Me ne porterai appena possibile?
Flax capì la domanda dall’espressione del suo viso e annuì solennemente.
— Allora adesso, per i semi di cardo che mi hai portato, ti spetta un
sacco di avena e magari anche un pezzetto di formaggio e… — Lowise
ritornò a guardare il canarino che aveva in mano e lo accarezzò con una
foglia di tarassaco. — E un pezzetto di salsiccia! La vuoi una salsiccia,
Flax? Seguimi nelle cucine e ti darò la tua ricompensa.
Ripose il canarino in una gabbia vuota e l’uccellino cominciò a
svolazzare sconsolato da un trespolo all’altro. — Non ti affliggere,
tesorino, torno subito. Canta per le altre tue mogli mentre sono via.
Flax prese la sua ricompensa e rimase sbalordito quando vide che aveva
ricevuto veramente la salsiccia promessa. La cuoca aveva concesso a
Lowise solo una salsiccia piccolina, una di quelle con l’impasto semplice,
che la muffa aveva leggermente irrancidito durante la stagionatura, ma era
molto più di quanto Flax era abituato a ricevere.
Si incamminò verso il cancello col suo carico, insieme a Lowise che
chiacchierava al suo fianco. Flax ascoltava le sue parole sui pregi dei
diversi semi così come ascoltava il canto degli uccelli, sapeva che non
doveva dare risposte, altrimenti avrebbe dovuto prestarle più attenzione.
Ma le chiacchiere della fanciulla coprivano altri rumori, e furono i piedi
di Flax, non le sue orecchie, ad avvisarlo che un gruppo di cavalli stava
risalendo la strada verso il maniero. Un attimo dopo nel cortile c era una
baraonda di cavalli, uomini, polvere, vessilli e cani da caccia che
annunciavano il ritorno del duca Lothair da corte.
Erano passati anni e anni dall’ultima volta che aveva prescelto Ylowfort.
Lothair vi risiedeva di rado, malgrado il suo nome fosse molto invocato al
maniero perché un giovane ha più possibilità di divertirsi a corte che non
sepolto nella sua dimora di campagna. Flax non era interessato all’evento,
l’unica cosa a cui pensava era di passare accanto alla calca di uomini e
cavalli e precipitarsi a casa prima che i cani del duca lo annusassero. Il
duca non lo avrebbe degnato della sua attenzione, ma i suoi segugi sì. Flax
prese verso sinistra, lontano dalle stalle dove si sarebbero diretti i cavalli e
i cani.
Sentì qualcosa sfiorargli il polpaccio destro e fiutarlo. Si voltò e vide un
cane lupo che perdeva bava dalla bocca proprio come nel suo incubo,
come se la sua paura l’avesse fatto materializzare. Il cane lo annusò ancora
per fiutare le tracce di un odore che Flax sapeva benissimo — come se
l’avesse impresso a fuoco nella mente — non essere né il suo, né della
salsiccia.
Terrorizzato, si immobilizzo, la testa bassa, le braccia alzate, la pelle
accapponata. Animale addestrato per la caccia, il cane lupo non aveva il
minimo interesse per un pezzo di salsiccia. Le sue narici stavano fiutando
ancora l’odore della preda. Odore di unicorno. Odore di Cardellino.
Così come sapeva richiamare i conigli e gli scoiattoli e far germogliare
presto i semi, Flax a volte riusciva anche a far dimenticare agli animali di
averlo visto. Era utile quando incontrava inaspettatamente un toro al
pascolo, o quando preferiva passare inosservato accanto a un cane del
villaggio legato alla catena e, a volte, riusciva perfino a evitare gli stessi
abitanti.
Ma con questo cane da caccia la cosa era diversa. Era spaventoso, era
l’incarnazione di tutte le paure di Flax, dei suoi incubi e dei suoi ricordi -
al punto da annullargli la mente e impedirgli di reagire con una delle sue
piccole magie. Era già tanto se Flax riusciva a stare fermo, pur sapendo
benissimo che al minimo movimento il cane sarebbe partito all’attacco.
Flax lo capiva da come teneva la coda, dalle orecchie abbassate e dallo
sguardo giallo e fisso, non aveva bisogno di sentire il suo ringhio soffocato
per sapere cosa sarebbe successo appena si fosse mosso.
Quando Lowise lo vide immobilizzarsi pallido come uno straccio mentre
il sudore gli colava dal viso, seguì lo sguardo di Flax, vide la ragione del
suo comportamento e restò senza parole.
— Resta fermo immobile, Flax. Non ti farà del male. — Lowise pensava
di afferrare il cane per il collare, ma fu intimorita dalle sue dimensioni e
ritrasse la mano. — Non preoccuparti — disse con minor sicurezza.
Flax capì che Lowise cercava di rassicurarlo e avvertì una certa tensione
nel tono della sua voce. La fanciulla era a disagio, ma pensava che un po’
di pazienza sarebbe bastato a salvarlo. Flax non aveva modo di spiegarle
perché il segugio ce l’aveva con lui, qual era il vero pericolo. Cominciò a
tremare.
— Vado a cercare qualcuno che lo richiami, Flax. Non muoverti. Non
correre. Stai fermo immobile…
Flax si sentiva addosso il fiato caldo del segugio. Calcolò la distanza che
lo separava dal cancello, sapendo che l’odore della sua paura e l’odore
dell’unicorno avrebbero spinto il cane ad attaccare indipendentemente da
quello che lui avrebbe fatto. E improvvisamente scattò e il segugio gli fu
alle calcagna.
Flax era veloce, ma dopo tre falcate il cane gli era addosso, e lo azzannò
a un polpaccio. Flax si scagliò in avanti, contro il muretto di pietre del
pozzo. Non lottò per difendersi dalla morsa del cane e se gridava per il
dolore o per la paura, il suo grido era coperto dal ringhio di vittoria del
segugio.
Stremati dalla stanchezza del viaggio, i cavalli si agitarono per la
confusione. Lothair saltò giù dal suo cavallo imbizzarrito, che tirava con
furia selvaggia le redini e si precipitò verso Flax mentre il suo destriero
cercava di scappare. Una ragazza cominciò a strillare e quel suono stridulo
lo infastidì al tal punto che il giovane duca avrebbe voluto girarsi per darle
uno schiaffo e zittirla. Un palafreniere dette una frustata al segugio che si
rifiutò di cedere la preda.
Lothair avanzò a grandi passi, afferrò il segugio per il collare e lo
allontanò da Flax. Il cane s’impennò sulle zampe posteriori. Era alto quasi
come il duca che alla fine ebbe la meglio e con un ordine secco lo fece
allontanare.
Ancora ansimante, Lothair si chinò per valutare il danno.
Flax teneva gli occhi serrati, le sopracciglia ravvicinate fin quasi a
confondersi. Si ritrasse al tocco di Lothair e cominciò a tremare
violentemente.
Lothair serrò le labbra e afferrò Flax per la tunica.
— È finita! Quella bestia ti ha solo fatto cadere, ti sei fatto poco o niente.
Avrebbe potuto azzannarti alla gola… mai scappare da un cane da
caccia!
— Sollevò in piedi il ragazzo e attese che riacquistasse la forza delle
proprie gambe. Flax vacillò, si portò una mano alla testa e non emise alcun
suono.
Il duca riprese fiato ed ebbe così il tempo di dare un’occhiata al ragazzo.
Sporco, lacero e impaurito a morte. Non indossava livrea, doveva essere
del villaggio, non era uno dei suoi servitori… ma aveva bisogno di cure.
Perdeva sangue da una ferita alla tempia e le sue dita non riuscivano a
fermarlo. Lothair usò il mantello per asciugarlo.
Si voltò per chiedere erbe medicinali e bendaggi, col pensiero già rivolto
al suo cane… si rovina un segugio se lo si lascia cacciare prede a due
zampe. Era un’abitudine peggiore della caccia alle pecore.
Quando vide che la presa e l’attenzione si erano allentate, Flax si liberò e
corse via come se avesse il demonio alle calcagna.
Il cane lupo l’avrebbe inseguito, se il duca non lo avesse anticipato con
un ordine secco costringendolo a obbedire. Il segugio seguì la scena con
un guaito sconsolato, mentre Flax scompariva tra gli alberi.
Una volta giunto in salvo nella foresta, Flax avrebbe potuto smettere di
correre o quando non aveva più sentito il cane dargli la caccia, oppure
quando gli era passata un po’ di paura. Invece non volle rallentare, per
nessuna ragione. Aveva i polmoni in fiamme, il dolore alla testa era
accecante, ma non vi fece la minima attenzione. Quando infine si fermò
vacillante sulla soglia della capanna, senza più fiato, le gambe
continuarono a muoversi inutilmente mentre lui si accasciava a terra nel
buio.
Per fortuna cadde sul letto di felci di Cardellino. L’unicorno, che al suo
arrivo precipitoso si era rintanato nell’angolo più lontano, si ritrasse ancor
di più, spaventato, e infine lo accolse con un nitrito incerto.
Flax non rispose. Il suo respiro affannoso lentamente si calmò fino a
ritornare quasi impercettibile, ma lui non se ne accorse. Stava disteso
prono, col viso affondato nelle felci, e un rivolo di sangue formava una
piccola pozza accanto alla testa.
L’unicorno si avvicinò con molta cautela, dilatando le narici. Sfiorò con
il muso argentato la spalla di Flax, tentando di svegliarlo come era solito
fare alle prime luci del giorno o al levar della luna. L’odore del sangue lo
spaventò, ma vinse la curiosità. Cardellino annusò la ferita, poi la leccò,
lavando via il sangue salato. Flax non si mosse e la ferita continuò a
sanguinare.
Cardellino lanciò un nitrito disperato. Il sangue sgorgava, la pelle smorta
diventava ogni momento più fredda e il suo respiro sempre più debole. Le
orecchie appuntite dell’unicorno riuscivano a sentire bene il suo cuore
battere a singhiozzo, come un cavallo stremato che incespica spesso.
Cardellino tremava. Era guidato dall’istinto, ma non sapeva altro.
Dolcemente, come per immergerlo in una goccia di rugiada, sfiorò con la
sottile punta del corno la ferita di Flax. Il corno, leggermente conficcato
nella pelle del ragazzo, si macchiò di cremisi. Improvvisamente divenne
color salmone… un bagliore interno trasformava i colori.
L’unicorno nitrì per il dolore man mano che i colori mutavano, un
lamento che soltanto lui poteva sentire… ma non interruppe il contatto. Si
accovacciò sulle felci accanto a Flax, il collo piegato per premere il corno
contro la ferita. In questo modo la posizione era migliore… il corno
iridescente si era allungato e le spirali si erano fatte più profonde. La luce
che aleggiava intorno divenne bianca, crema e poi giallo lucciola…
dapprima flebile e tremolante, poi intensa e luminosa. Dopo un po’
cominciò ad attenuarsi nuovamente.
L’unico suono oltre il fruscio delle felci e i loro due respiri confusi, era
quello del vento notturno che faceva da contrappunto muovendosi tra le
fronde dei salici. Se uno dei cani del maniero stava ululando, per una volta
la notte non ne portava con sé il suono. Il rumore del vento seguiva il
movimento della luce e presto non si sentì altro che il respiro regolare dei
polmoni di Flax che si gonfiavano e si sgonfiavano, insieme al profumo di
fiori emanato dall’unicorno.
La vegetazione era matura, sia nella foresta che nei campi cintati del
maniero. Il raccolto procedeva. Flax non si allontanava mai da casa:
durante il giorno stava attento a non incontrare nessuno e di notte lui e
Cardellino non si avventuravano mai troppo lontano dalla loro capanna.
Fece anche lui il suo raccolto che nessuna mano dell’uomo aveva
seminato, all’erta al minimo suono, al minimo odore, e portava Cardellino
a pascolare solo quando la luna era tramontata o nascosta dalle nuvole,
altrimenti Flax tagliava il foraggio e lo portava a casa. Cardellino accettò
le nuove restrizioni di buon animo, ma con molta perplessità.
Le foglie di quercia diventarono scarlatte e le bacche rosse della rosa
canina erano ormai mature. Il gelo ricoprì le nespole che Flax raccolse per
farle seccare e conservarle per l’inverno. Le foglie caddero dagli alberi,
tranne quelle delle querce e Flax stava attento a non fare scricchiolare
quelle secche adagiate per terra, cercando di muoversi il più
silenziosamente possibile.
Cadde la neve. Era più facile vedere di notte, ma era anche più
pericoloso. L’impronte degli zoccoli dell’unicorno erano diverse da quelle
di un cervo o di una pecora… e Flax poteva non essere il solo a saperlo,
perciò seguiva Cardellino e man mano che procedeva spazzava via le sue
impronte con un rametto di pino che usava come scopa.
A inverno inoltrato, quando le notti si fecero più fredde e il vento
infuriava gelido, Flax lasciava che Cardellino cavalcasse libero, perché
potesse fare tutto il movimento di cui avevano bisogno il suo corpo e il
suo animo irrequieto… certo che nessuno, oltre a loro e al vento, sarebbe
uscito con un tempo simile. Le loro tracce le cancellava il vento, e intorno
alla capanna ci pensava Flax.
Flax s’ingegnò per dissimulare il fumo prodotto dal fuocherello che si
concedeva di accendere nel focolare. Gli accorgimenti funzionavano con
gli abitanti del villaggio, che fino a Beltane non erano mai del tutto certi di
dove Flax fosse vissuto durante l’inverno… ma c’era un’altra persona che
non poteva essere tratta in inganno così facilmente.
Tre volte Lowise aveva cavalcato il suo palafreno pomellato oltre il
villaggio fino alla capanna deserta, era smontata di sella e aveva pregato
Flax di venire fuori… finché le parole e la voce non le erano venute a
mancare. Che la capanna sembrasse vuota come un nido d’uccelli migrati
non la dissuadeva minimamente. Che non avesse mai visto Flax di
persona, e che non lo avesse visto fin dal giorno in cui era scappato via
sanguinante dal cortile del maniero, non le aveva impedito di tornare.
Flax sapeva perché Lowise lo stava cercando così disperatamente… i
suoi uccellini canterini erano costretti a cibarsi di farina e grano macinato,
ma pur sapendolo, non si sarebbe mai convinto ad affrontare di nuovo il
maniero. Aveva imparato a dominare la sua paura, ma la causa di quella
paura esisteva ancora e Flax non poteva rischiare la vita di Cardellino. E
sapeva che prima o poi sarebbe successo.
A Candlemas, agli inizi di febbraio, quando gli uccelli canterini danno
inizio al corteggiamento, Lowise tornò per la quarta volta. Chiamò Flax,
poi gridò il suo nome e infine lanciò qualcosa contro la porta e corse via al
galoppo sulla neve. Flax non si preoccupò di vedere cosa fosse, lo sapeva
già, senza bisogno di vederlo. L’uccellino preferito di Lowise giaceva
morto sulla neve, le piume ancora brillanti ricoprivano il suo corpicino
denutrito. Flax comprese il suo dolore e la sua pena e si rendeva conto che
anche tutti gli altri suoi uccellini sarebbero morti.
Flax aveva sperato di poter aspettare la fine dell’inverno, quando i nuovi
germogli sarebbero spuntati tra l’erba secca… ma qualcosa nell’impeto del
vento gli diceva il contrario. Lui e Cardellino dovevano andarsene… e al
più presto.
Lothair afferrò il ciottolo bianco dalle mani della sua promessa sposa,
non tanto per un interesse verso l’oggetto, quanto piuttosto per scoprire
cos’è che trovava più interessante che conversare con lui davanti al
caminetto acceso.
— Lowise? Dove l’hai trovato?
Dal suo sguardo era evidente quanto poco desiderio lei avesse di parlare
con lui, ma Lothair era troppo irritato per desistere.
— Appena fuori dal villaggio — rispose Lowise di malavoglia, tra
l’infastidito e l’indifferente. Dubitava che Lothair sapesse dove si
trovava la capanna di Flax, ma era sicura che avrebbe avuto di che
obiettare se avesse saputo che si era recata là. Il duca aveva da obiettare
su tutto quello che la sua sposa promessa era, diceva o faceva. La sola
vista del duca la mandava su tutte le furie, specialmente da quando lui
aveva deciso che voleva conoscerla meglio e passare più tempo in sua
compagnia.
Lothair si allontanò dal caminetto e mandò a chiamare il suo capocaccia.
Il ciottolo bianco venne sottoposto all’esame dell’esperto.
— Allora?
— Feci di unicorno, mio signore. Fresche. Noti come il bianco non si ha
ancora preso i riflessi rosati.
— Sì… l’avevo immaginato! Avevo sentito dire che Gerard ne aveva
preso uno sulle sue terre la scorsa estate, ma credevo che fosse una delle
sue solite vanterie. Non avrei mai pensato di scoprire un altro esemplare
nei dintorni. — Il duca alzò lo sguardo verso la testa imbalsamata appesa
sulla porta d’ingresso. — Sono creature così solitarie… e non ne sono
state più viste dai tempi di mio padre. Un unicorno! — La voce di
Lothair tremava per l’eccitazione.
— Posso preparare subito una battuta di caccia, mio signore? Per
Beltane, diciamo?
— Una battuta di caccia, certo, ma sfidiamo la fortuna intanto che siamo
in tempo. Manca ancora troppo a Bel tane! È stato un inverno
deprimente… abbiamo tutti bisogno di un po’ di movimento, anche i
cani.
— Allora farò in modo di procurarmi l’esca, mio signore.
L’attenzione di Lothair era già altrove. — Non ce n’è bisogno, Raimund.
Lady Lowise andrà benissimo! Una preda così nobile merita un’esca più
nobile della figlia di un contadino comprata per denaro.
Quella stessa mattina, Lowise era stata informata dal suo promesso sposo
che avrebbe assistito alla caccia all’unicorno in qualità di esca… perché
questo era ciò che lui desiderava. In quel momento, Lowise si rese conto
chiaramente di quale sarebbe stata la sua vita oltre agli impegni della casa
e le gravidanze.
Questa rivelazione la sconvolse a tal punto che decise di non
acconsentire a sposarlo, cosa che Lothair non avrebbe mai immaginato lei
potesse fare. Lowise era rimasta chiusa nella sua stanza per tutto il giorno,
quindi il duca non sapeva della ribellione che stava covando nel suo
cuore… questa volta non ne aveva fatta parola con nessuno. Quella sera
Lowise non cenò nel salone. Mentre l’idromele e il vino scorrevano a
fiumi, lei era distesa sotto il copriletto di velluto, interamente vestita con i
suoi abiti più caldi — un po’ di calore in più avrebbe dato credito alla sua
scusa di avere la febbre, se mai qualcuno ne avesse dubitato.
E quando Lothair venne accompagnato a lume di candela nella sua
stanza ebbro di vino, covando il sogno di un trofeo che pochi a corte
Avevano anche solo la speranza di intravedere una sola volta nella vita,
Lowise era per strada, sotto la luce delle stelle. Aveva preferito non
rischiare d’incontrare uno stalliere e comunque non aveva mai sellato un
cavallo da sola, perciò era a piedi… ma libera. Per il momento, la sua
gioia era più grande di qualsiasi paura del buio e ripagava qualunque
morso del freddo.
Lowise non aveva nessuna meta, nessun progetto e niente cibo, a parte
un pezzo di pane che aveva portato via dalla sua stanza insieme a una
fiaschetta di vino. Quando arrivò al villaggio era senza fiato, aveva i piedi
zuppi e gelati e cominciava ad avere il sospetto che ci fosse una bella
differenza tra un romanzo cavalleresco e la realtà. Passò accanto alle
sagome scure delle capanne dei contadini, col timore di essere scoperta,
ma quando si lasciò alle spalle l’ultima, indugiò guardando con desiderio
la fessura luminosa che filtrava dalla finestra chiusa. Davanti a lei non
brillava nessun fuoco di benvenuto, ma solo il freddo bagliore della luce
delle stelle riflesso sulla neve.
Lowise proseguì a testa alta. Ritornare significava diventare la moglie di
Lothair, obbedire ai suoi ordini, portare in grembo i suoi figli fino a
morirne. Cos’era un po’ di freddo in confronto a tutto questo?
C’era un’altra capanna, laggiù dove la strada del villaggio si trasformava
in un sentierino di neve battuta. Lowise rimase stupita nel vedere impronte
di zoccoli. Chi, oltre a lei, poteva essere andato a cavallo a casa di Flax?
Chiunque fosse, ci era andato dopo di lei, perché la neve era caduta dopo
che lei era stata là.
Le tracce si fermavano davanti alla porta della capanna di Flax, ma
Lowise esitò un istante prima di entrare. Davanti a lei un sentiero portava
verso gli alberi dove lo strato di neve intatta non era molto spesso ed era
cosparso di sassi e di rami caduti. Lo seguì e presto uscì dal bosco in un
campo d’avena coperto di neve, che Lowise costeggiò per inoltrarsi ancora
fra gli alberi. Laggiù, pensava, poteva esserci una strada, comunque
sarebbe stato più facile camminare dove gli alberi avevano impedito alla
neve di ammassarsi.
Mentre si avvicinava al margine del bosco, un fremito tra i rami la fece
sussultare. Non appena il cuore cessò di batterle frenetico, vide che il
bagliore non era quello delle torce accese per cercarla, e nemmeno della
luce fatata, quindi non correva pericoli. La luce si muoveva e Lowise la
seguì con i piedi e con gli occhi. Un animale bianco, forse un cervo,
rifletteva la luce delle stelle e della neve sul suo mantello. Era snello e
bellissimo, e quella visione la spinse ad avvicinarsi.
Lowise lo seguì di albero in albero, scivolando sulle lastre di ghiaccio e
inciampando tra i rami caduti, cercando di non fare il minimo rumore. La
luce si faceva vicina, sempre più vicina, mano a mano che lei si
avvicinava.
A un tratto la perse di vista. Lowise si fermò di colpo, poi si guardò
intorno piangendo senza sapere il perché. Avrebbe dovuto vedere
l’animale allontanarsi. Come aveva potuto abbandonarla all’improvviso e
in silenzio? Lowise si appoggiò a un masso per non scivolare. La roccia si
mosse sotto la sua mano, si sollevò e si piegò verso di lei. Lowise lanciò
un grido.
Sarebbe fuggita, ma le gambe non obbedivano al suo comando. Pensava
di svenire, o di morire di paura, poi si rese conto, sbalordita, che quello
che stava guardando era il viso familiare di Flax e che lui era terrorizzato
quasi quanto lei! Lowise si aggrappò al ragazzo per non cadere, ma Flax
non era nelle condizioni adatte per sostenerla e barcollò come un albero in
mezzo alla tempesta, finché non caddero entrambi.
Lowise cominciò come al solito a investirlo di domande e come al solito
Flax non dava nessuna risposta. Quando Lowise si azzittì, ormai senza
fiato, una civetta bianca col muso a cuore, volò sopra di loro e fece
un’ultima domanda.
Come per risponderle, un cumulo di neve si sollevò sulle lunghe zampe,
allungò il collo e scrollò la criniera argentata intorno al corno d’avorio.
Diamanti di brina scintillarono sotto le stelle.
— Oh…! — esclamò Lowise a bocca aperta, paralizzata dalla
meraviglia. Dopodiché non ci furono altre domande, e lei proseguì con
loro.
La scomparsa di lady Lowise venne scoperta solo nella tarda mattinata
del giorno seguente - le cose sarebbero andate diversamente se si fosse
trattato del giorno previsto per la battuta di caccia - ma le zie pensarono
che volesse semplicemente evitare la tessitura e Lothair che volesse evitare
di incontrarlo. Passò molto tempo prima che qualcuno cominciasse
veramente a cercarla e altro ancora, prima che venisse stabilito che non si
trovava in nessuna parte del maniero. Il suo palafreno si trovava ancora al
caldo nelle stalle. Nessuno suggerì la teoria che lady Lowise potesse
essersi allontanata a piedi nella neve.
Raimund il cacciatore era uscito presto in cerca di una conferma della
presenza nei dintorni della favolosa preda. Non aveva ancora trovato
tracce fresche e la sua ricerca affannosa lo tenne impegnato per tutto il
giorno. Era passato da tempo il tramonto quando fece ritorno al maniero,
deluso e preoccupato per come avrebbe reagito il suo padrone. La ricerca
all’interno del maniero si era appena conclusa senza che si giungesse alla
scoperta di qualche traccia di lady Lowise, proprio come lui non aveva
trovato traccia dell’unicorno.
Nel salone ci fu fermento per tutta la notte. Solo al mattino a Raimund
venne in mente di aver notato tracce diverse da quelle del suo cavallo
appena oltre il villaggio, mentre si avvicinava alla zona dove si credeva
vivesse l’unicorno. Le impronte potevano appartenere a chiunque, ma
Lothair volle che gli venissero mostrate, e fu presto fatto.
I due uomini entrarono nella capanna di Flax. Era vuota, ma non da
molto, questo era evidente. Lothair ne rimase sorpreso, essendosi quasi
dimenticato dell’esistenza del ragazzo. Ma restò ancor più sbalordito
quando scovarono un ciottolo bianco sotto il letto di felci e scoprirono
l’impronta di uno zoccolo nella brace del caminetto.
— Lo teneva qui con sé… come una mucca?
— Così sembrerebbe, mio signore. — Il cacciatore non aveva mai sentito
niente di simile, ma la sua mente accettò quello che vedevano i suoi
occhi.
Lothair aggrottò la fronte pensieroso. — È scappata con lui, con quel
verme disgustoso!
L’opinione comune, in ogni modo, era che lady Lowise fosse stata rapita
da Flax… il marmocchio della strega, capace di qualunque malvagità.
Venne subito organizzata una ricerca. Ma una volta superato il campo
d’avena, gli uomini si diressero nella direzione opposta.
Nelle storie che i menestrelli cantano con voce melodiosa, una fanciulla
poteva avventurarsi nella foresta quale compagna casta e pura di un
qualche cavalleresco innamorato accusato ingiustamente, cibarsi di
nocciole, selvaggina e canzoni avvolta in una tunica di tessuto grezzo,
dormire coraggiosamente sulla terra nuda e fredda con la spada sguainata
al suo fianco. Lowise aveva sempre creduto ciecamente a queste storie e
malgrado Flax non fosse cavaliere e non avesse spada, entrò in quella loro
avventura con tutto il cuore. Non si preoccupava se la sua veste si bagnava
in mezzo alla neve, se si imbrattava di fango, strappata dai rovi mentre
procedevano seguendo l’unicorno ora dopo ora. Divideva felice con Flax
il pasto frugale di zuppa di piselli e tè di scorodonia. Quando il ragazzo si
distese per dormire al riparo delle fronde di un abete, Lowise fece
altrettanto, e si preparò a prender sonno.
Gli aghi secchi dell’abete da principio le sembrarono un materasso
soffice, ma non poterono mascherare a lungo la gelida durezza del terreno.
Lowise si girava e rigirava di continuo senza riuscire a prendere sonno,
confortata dal pensiero dei menestrelli che avrebbero intonato melodiosi il
suo nome. Sentiva gli aghi che la pungevano attraverso il mantello e il
vestito e si girò su un fianco per evitarli. Il freddo la stava torturando,
nonostante gli abiti di lana perciò si rannicchiò, le ginocchia al petto e le
braccia come cuscino. Così stava più calda e le guance erano al riparo
dalle punture degli aghi. Chiuse gli occhi.
Il grido di una civetta. Lowise scattò in piedi come una molla, il cuore in
tumulto, incapace di sentire altro suono oltre quello del sangue che le
pulsava forte nelle orecchie. Il fuoco si era spento, la foresta era nera come
una borsa di velluto, piena di rumori indecifrabili e paurosi. Lowise si
accovacciò sotto l’abete, tremante di stanchezza. Era così sfinita da
dimenticarsi della paura, ma quando infine tornò a sdraiarsi sul tappeto di
aghi, il terreno le sembrò più freddo e duro che mai e, dimenticandosi dei
menestrelli e delle coraggiose fanciulle, scoppiò a piangere.
Fin da quando era molto piccola e invocava sconsolata la sua mamma
morta, le lacrime non avevano mai mancato di aiutare lady Lowise a
ottenere quello che desiderava. Ma in quel momento, stanca e affamata,
infreddolita e spaventata, si rese conto che non sortivano alcun effetto.
Flax sembrava aver trovato subito il sonno che lei stava invano cercando, e
non c’era nessun altro che potesse sentirla.
Lowise sentì un respiro caldo dietro la nuca. Un lupo, pensò. Pronta a
essere divorata e troppo terrorizzata per mettersi a gridare, restò immobile
in attesa delle zanne. Invece un muso fresco e morbido le sfiorò le guance,
i peli le pizzicarono il naso e un alito profumato di fiori si confuse col suo.
Lowise aprì gli occhi. L’unicorno si inginocchiò accanto a lei, lucente
nell’oscurità. Aveva un piccolo ciuffo di aghi impigliati alla base del corno
e Lowise glieli tolse con dita incerte. La creatura sospirò, piegò le zampe e
si distese con delicatezza tra Lowise e Flax. Lowise adagiò la guancia
contro il suo fianco, che era più morbido del suo cuscino di satin al
maniero, e finalmente si addormentò.
Il duca non aveva sospettato neanche per un istante che Flax potesse aver
rapito Lowise con la forza. Lothair non conosceva il carattere di Flax, ma
aveva avuto modo di osservare quello della sua fidanzata durante il corso
dell’inverno e non appena era stata accertata la sua scomparsa Aveva
pensato che fosse fuggita per fargli un dispetto. Il fatto che Lowise se ne
fosse andata col ragazzo delle erbe significava che non sarebbe tornata se
avesse saltato un pasto o le fossero venute le vesciche ai piedi.
Cosa aveva fatto per scatenare in lei questa reazione doveva ancora
capirlo… bastava una sua parola o un gesto per contrariarla, Lothair
l’aveva notato. Ma che bel matrimonio di convenienza gli aveva preparato
suo padre!
A voler essere sinceri, suo padre non avrebbe mai desiderato né
immaginato la sua attuale umiliazione. Lowise era ancora una neonata
quando il negoziato aveva avuto inizio, e cominciava appena a muovere i
primi passi quando il contratto di fidanzamento era stato firmato ed era
stata portata in quella che sarebbe diventata la sua casa. Era stato suo padre
a organizzare l’unione dei loro beni, assicurando così un futuro d’oro al
suo erede. Poi era morto, ignaro di quello che sarebbe successo.
Le grida e le urla degli uomini impegnati nella ricerca innervosivano il
duca. Ma per cercare una fanciulla non potevano frustare i cespugli come
facevano per un cervo ed erano ore e ore che non vedevano più impronte
sul terreno, né d’uomo né di unicorno. Neppure l’occhio addestrato di
Raimund aveva individuato qualche traccia.
Gli uomini si erano sparpagliati a ventaglio, ma quando scese il
crepuscolo, non erano avanzati più di una lega. Decisero di ritornare al
maniero e riprendere le ricerche all’alba.
Lothair accettò l’idea senza esprimere le sue perplessità. Malgrado il
freddo che aveva sofferto per tutto il giorno, toccò appena il vino e
masticò silenziosamente il cibo che i servitori gli presentarono nel piatto. I
suoi uomini associarono a quel malumore la preoccupazione per la sua
fidanzata e si mantennero a debita distanza, lasciando il duca immerso nei
suoi pensieri, solo in mezzo alle loro chiacchiere.
Lowise lo aveva disonorato pubblicamente, quasi come se l’avesse
abbandonato davanti all’altare. Nessuno lo sospettava ancora, ma quando
alla fine della ricerca avrebbero trovato Lowise col suo contadino, la
spiacevole verità sarebbe venuta a galla. Lothair sentiva in cuor suo di
rifiutare quella conclusione. Non sarebbe servita a niente e a nessuno, men
che meno a lui.
Trascinata a casa come una criminale e rimessa al posto che doveva
occupare, Lowise non l’avrebbe mai perdonato, e il duca lo sapeva. Era
molto meglio se metteva a tacere le cose a modo suo, così avrebbe salvato
il suo onore e non avrebbe oltraggiato pubblicamente quello di Lowise.
Lowise era molto giovane e impulsiva e poteva essersi già pentita di quella
partenza precipitosa. Perché punirla più del necessario, quando lei avrebbe
potuto essere felice di tornare a casa, se lui si fosse preoccupato di
risparmiarle l’umiliazione? Poteva sforzarsi di essere gentile con lei e
sperare che, così facendo, si sarebbero lasciati alle spalle quell’atto
avventato.
E poi c’era l’unicorno. Una folla di persone avrebbe potuto spaventarlo e
farlo scappare fuori i confini del regno, oppure qualcun altro avrebbe
potuto centrare il colpo al suo posto e rivendicare il trofeo che Lothair
pensava già suo. Senza il suo seguito a interferire, avrebbe potuto portare a
casa la testa dell’unicorno e la sua fidanzata fuggitiva.
Il duca si fece preparare di nascosto delle provviste. Il cavallo su cui
caricò le bisacce non era il suo veloce destriero, ma un cavallo da battaglia
a riposo, temprato e avvezzo agli stenti dei viaggi invernali, che non si
infastidiva per le lance appuntite legate ai fianchi.
Il giorno seguente non incontrò nessuna difficoltà a separarsi dal resto
della folla impegnata nella battuta di caccia. A mezzogiorno prese un’altra
strada, senza essere notato, e scelse come direzione quella che nessun altro
aveva ancora tentato.
La notte seguente non trovarono alcun riparo. Flax cercò il punto più in
piano che riuscì a trovare, si seppellì nell’erica e aiutò Lowise a fare
altrettanto. Non c’era nessun posto sicuro dove poter accendere un fuoco,
perciò masticarono lentamente qualche ribes secco, dividendoli con
l’unicorno, e si prepararono a dormire ancora affamati.
Flax si sdraiò sul fianco di Cardellino, preoccupato più per la fanciulla
che per sé. Alla fine l’eterno monologo di Lowise si trasformò in un
mormorio che si perse nella criniera di Cardellino scompigliata dal vento.
Lowise quella notte sognò la madre morta… e sognò che aveva un figlio.
Lei avrebbe disperatamente voluto disfarsi di quel fagotto per liberarsi le
mani e abbracciare sua madre che credeva morta… ma non poteva. Aveva
le braccia cariche del bambino che pesava troppo per le sue poche forze e
diventava sempre più pesante. Eppure lei non riusciva a metterlo giù,
anche se aveva la schiena piegata da quel peso. Il bambino aveva il volto
di Lothair e quando Lowise cercò di farlo smettere di piangere, il neonato
l’azzannò con denti aguzzi come quelli di una volpe. Terrorizzata, cercò di
liberarsene, ma il bambino le si aggrappò. Sua madre non c’era più, come
sempre era stato, e Lowise era rimasta sola con un bambino mostruoso che
la stava uccidendo. Stava morendo, stava diventando incorporea tanto che
riusciva a vedere attraverso la carne che il bambino aveva addentato.
Lowise si svegliò singhiozzando, aggrappandosi disperata a Flax,
all’erica e all’unicorno.
— No! Non voglio sposarlo! Altrimenti morirò… lo so, lo so!
Infine soffocò le sue lacrime nel collo di Cardellino. Flax raccolse
qualche rametto d’erica e li attorcigliò insieme sotto lo sguardo incuriosito
di Lowise. Quando la ricoprì con quella coltre, Lowise la trovò calda e
morbida come la migliore delle coperte del maniero, ed era certa di stare
ancora sognando. L’avvolgeva proprio come una coperta, e questo era
impossibile. Lowise era confusa, perché perfino lei si rendeva conto che
quello che Flax aveva fatto non poteva dipendere solo dalla sua
conoscenza dei boschi.
— Come… come hai fatto?
Flax era altrettanto confuso, come se Lowise gli avesse chiesto come
faceva a respirare. Quella domanda era chiara nella mente di Lowise
quanto sulle sue labbra e Flax sapeva di averla capita bene… ma era
incapace di dare una risposta. Non sarebbe servito a nulla un cenno della
testa, niente avrebbe potuto esserle d’aiuto per capire. Flax porse a Lowise
l’ultimo sorso della sua fiaschetta di vino e la invitò a riprendere sonno.
Quando Cardellino si avviò, Lothair lo seguì insieme agli altri senza dire
una parola, salvo insistere perché Flax prendesse un pezzo del pane e della
carne secca che il duca aveva aggiunto alla loro scorta di provviste. Flax,
masticando qualche nocciola appassita che aveva rubato a uno scoiattolo,
accettò con un po’ di diffidenza.
Se Lothair avesse fatto domande sulla loro destinazione, non avrebbe
ricevuto risposta. Avrebbe potuto proporre di tornare a Ylowfort, offrire la
sua protezione a Flax e all’unicorno… ma sapeva benissimo che non era
l’unicorno a essere guidato, e che per lui era un privilegio poterlo seguire.
Si sentì stranamente a proprio agio con Flax, e anche se la conversazione
non andava mai oltre una parola da parte sua e a un cenno da quella di
Flax, tra loro era nata una specie di amicizia.
I rapporti tra il duca e Lowise erano più distaccati, improntati a una
cortesia formale, ma il duca era contento di poter dividere con lei almeno
quella, e non insistette mai per farla parlare.
La foresta si diradò e cominciarono ad aprirsi distese di prati coperti di
nuova erba che spuntava fra gli steli di quella vecchia. Fragili fiori rosa
crescevano numerosi sul margine del bosco. Lowise ne colse a manciate e
li attorcigliò fra la criniera di Cardellino e fra i capelli neri.
Vennero accolti con acqua calda per lavarsi, brande su cui riposare, un
pasto che gli fece ricordare di avere una pancia. Poi idromele dolce,
leggermente affumicato sulla lingua e infiammato in gola.
La bevanda era confortante, così come lo erano i modi gentili del loro
ospite. Per non parlare della cagna parlante e di un pasto la cui
preparazione doveva essere iniziata molte ore prima che la cagna scoprisse
il loro arrivo… e i diversi generi che prendevano forma a uno schioccare
di dita del loro ospite, fecero tacere perfino la lingua instancabile di lady
Lowise. Non aveva bisogno di rivelare che era un mago, come fece quando
gli chiese i loro nomi e disse che il suo era Corlinn.
Flax, nervoso per la compagnia e sospettoso verso la cagna - anche se
aveva un aspetto pacifico - si era spostato vicino all’ampio davanzale della
finestra subito dopo aver finito il pasto. Cardellino si era accovacciato ai
suoi piedi offrendogli la criniera come diversivo per passare il tempo. Le
dita impegnate, la testa china, Flax non faceva nessuno sforzo per seguire
la conversazione che si svolgeva a tavola. Sapeva che Lowise stava
raccontando la storia del loro viaggio e dal momento che quella storia
l’aveva vissuta, il suo racconto non lo interessava.
La sua attenzione era rivolta invece alla stanza. Cerano tante mensole
appese alle pareti bianche, e che miscellanea di oggetti… erbe medicinali
piantate nei vasi o conservate nei barattoli, pezzi di vetro colorato, ossa,
vecchi nidi d’uccelli. Sia sulle mensole che impilati per terra c’erano libri
in gran quantità. Flax sapeva cos’era un libro, anche se non ne aveva mai
toccato uno e men che meno letto. I libri erano preziosi… il prete del
villaggio ne possedeva due, e le loro copertine erano chiuse da sottili lacci
d’argento.
Flax non riusciva a capire perché Cardellino li avesse condotti in un
posto simile… certamente non per trovare un riparo, visto che ne avevano
avuto bisogno quando il tempo era peggiore, né per il cibo perché, anche
se erano affamati, non stavano certo morendo di fame. Ogni volta che si
erano accampati, Flax aveva avvertito l’urgenza di Cardellino di
proseguire, di rimettersi in cammino. Ora quella sensazione era svanita.
L’unicorno sembrava a suo agio, ma Flax era deluso.
Il viaggio era finito? Il mago sembrava gentile e forse quello era un
posto sicuro dove lasciare che l’unicorno vivesse la sua vita. Flax aveva
sentito parlare dei maghi nelle fiabe e sapeva che gli unicorni
appartenevano a quel mondo, molto di più che non al villaggio di
Ylowfort.
Non voleva lasciare Cardellino… ma Flax non nutriva nessuna speranza
di essere invitato anche lui a restare. Era molto triste, ma doveva essere
felice di aver portato in salvo l’unicorno. C’era un libro appoggiato sul
davanzale di fianco a lui. Flax lo sollevò con timidezza per vedere la
copertina.
Il fuoco si stava spegnendo. Nel silenzio freddo della notte si udì ancora
quel richiamo, un grido prolungato e ossessivo che provocò uno strano
turbamento nei cuori del Mercante, del Dottore e dell’Architetto. La
vecchia emise una risata roca, una risata che sembrava il rumore di
un’onda che si ritiri portando di nuovo con sé verso il mare i ciottoli della
spiaggia.
All’improvviso il Mercante gettò alcuni pezzi di legno sui tizzoni,
provocando un nugolo di scintille. — Un racconto da bambini — disse ad
alta voce fingendo uno sbadiglio. — Comunque è servito a far sembrare
più breve la notte.
— Davvero — disse il Dottore rabbrividendo nel suo giaccone di pelle di
pecora. — Mi è parso un racconto piuttosto sciocco che non ci ha
spiegato nulla di voi. E mi ha fatto perdere un’ora di sonno prezioso.
L’Architetto non aprì bocca.
La vecchia non parlò più. Restò immobile e sorridente fino a che tutti e
tre gli uomini non si ritirarono e si addormentarono profondamente, fino a
che il fuoco non si ridusse a un cumulo di brace ardente. Solo allora si alzò
lentamente in piedi, zoppicò fino ai carboni e sollevò le braccia. Dalle
braci si alzò una spirale di fumo che l’avvolse e fluì verso le stelle dalle
punte delle sue dita. Lei restò in attesa. Poi, quando dalle paludi echeggiò
di nuovo il richiamo, sospirò con espressione soddisfatta e trionfante e
svanì diventando tutt’uno con i suoni, l’oscurità e il fumo che si alzava dal
fuoco…
Brown Michael raggiunse Firbolg Glen in una fredda alba grigia, dopo
una notte passata a dormire avvolto nelle coperte che odoravano di cane.
Si avvicinò circospetto, avanzando fra l’erica e le pietre del pendio e
cercando di guardare dall’alto la gola ripida e rocciosa. L’aria sembrava
chiara e si vedevano ancora alcuni rami rinsecchiti e scoloriti come mani
di scheletro. Il puzzo del drago che aveva ucciso nell’autunno precedente
era scomparso, inghiottito dalla terra. Ciò nonostante, Michael continuò a
scendere cauto verso il fondo della valletta dove gli alberi caduti e
bruciati, le rocce macchiate intorno alla sorgente ghiacciata segnavano
ancora il luogo della sua battaglia. Le ossa del drago non c’erano più,
disfatte ancor più rapidamente degli artigli e dei denti che Anne aveva
conservato.
Sul fondo notò chiazze fresche di veleno che deturpavano le rocce,
quelle orribili macchie vermiglie e verdi. Sugli alberi caduti i segni recenti
di artigli dimostravano che il drago era stato lì. Altro veleno macchiava il
terreno davanti alla grotta e qualche osso dilaniato da poco spuntava dalle
pozze di liquido fetido.
All’interno della grotta altre tracce, perché il drago aveva iniziato ad
accumulare qualsiasi cosa gli sembrasse appetibile: il cranio sanguinolento
di una pecora, il giunto arrugginito di un carro, un paio di sassi verdi
levigati del letto di un torrente. Un mantello ricamato d’oro, tutto
macchiato, e una sacca da sella stracciata che conteneva un calice di vetro
e alcuni pezzi d’argento gli dissero che al drago andava imputata almeno
la scomparsa di un mercante viaggiatore. Nel fondo della grotta, il drago
aveva scavato con gli artigli nella catasta di oggetti accumulati dal suo
predecessore alla ricerca di qualcosa di interessante.
Così facendo, aveva portato in superficie qualcosa che - quando capì di
cosa si trattava — a Michael fece gelare il sangue nelle vene.
Non era rimasto quasi nulla, solo un pezzo non più grande della sua
mano. Erano bastati quei pochi mesi per ridurre la cosa in polvere, ma
osservandola bene nella semioscurità della grotta, Michael riuscì a
distinguere che si trattava del frammento di un guscio d’uovo.
Non appena Sendra e Alav, sgusciati fuori del portone, si ritrovarono nei
giardini, le giumente li superarono al galoppo saltando lo steccato e,
raggiunto l’argine, si gettarono nel laghetto. Sendra si augurò che non
spaventassero le carpe che rappresentavano una gradita variante al
pollame, ora che i daini erano tutti morti.
— Hanno visto altre tempeste e non dovrebbero essere così impaurite —
disse Alav con una punta di irritazione nella voce. Adesso avrebbero
dovuto sudare sette camicie per radunarle. Allungò a sua sorella una delle
funi che portava arrotolate a tracolla. — Be’, vediamo se io riesco ad
avvicinarmi a Farlandra — che era la sua cavalla — o se tu riesci a
prendere Manarda — che era di Sendra. — Può darsi che le altre le
seguano.
Si divisero e cominciarono a gridare a gran voce nell’oscurità
incombente: — Farlandra! Manarda! Borisa! Sheela! Shanna! Lorna! —
Le giumente nitrirono, ma non a loro, pensò Sendra sorpresa.
Quella coppia non era stata un’eccezione. La maggior parte delle persone
o non gli rivolgeva la parola o gli urlava di andarsene.
Non gli fu di aiuto nemmeno il fatto che tutti i mezzi che incontrava
andassero verso nord.
A mezzogiorno aveva già ricevuto una mezza dozzina di rifiuti e non
mangiava da ventiquattr’ore. Stava pensando se non fosse il caso di
abbandonare la strada per andare a cacciare qualcosa, quando in
lontananza vide un edificio e accelerò il passo.
Dopo un momento vide un altro edificio, poi un altro ancora… un
villaggio!
Quindici minuti più tardi stava in mezzo a una piazza selciata e si
guardava intorno affascinato.
Dalla piazza si diramavano strade in varie direzioni: nord, sud ed est. Lui
era arrivato da nord e a sud c’era Sardiron delle Acque, ma dove portava la
strada che andava verso est? Da quella parte si vedeva una catena di
montagne che apparivano meno alte di quelle di casa sua, ma sicuramente
dipendeva dal fatto che erano molto distanti. Perché mai qualcuno poteva
aver voglia di andare fra quelle montagne?
Anche la piazza lo stupiva. Non aveva mai visto un selciato prima
d’allora, l’unica pavimentazione al villaggio dove viveva era quella
d’ardesia della fucina. Qui invece quel grande cerchio — almeno un
centinaio di piedi di diametro - era completamente selciato. Chissà quanto
lavoro c’era voluto!
Al centro della piazza c’era una fontana. Che meraviglia! Si domandò
come avessero fatto a far schizzare l’acqua verso l’alto. Era una magia? E
se lo era, sarebbe stato prudente bere quell’acqua?
Intorno alla piazza case e botteghe. Le case, se non altrettanto
prodigiose, erano piuttosto insolite. Naturalmente erano costruite in legno,
ma l’estremità di ogni trave era intagliata in forme fantastiche: fiori, foglie
di felce, facce. Riconobbe immediatamente la fucina dalle aperture nelle
pareti e dalla forgia incandescente, e il fornaio dall’aroma allettante e dalla
vetrina ricolma di pani e focacce, ma altre botteghe lo lasciarono
perplesso. La più grande, attigua a una specie di tettoia, aveva un’insegna
senza diciture che mostrava solo l’immagine di un albero di pino
circondato dalle fiamme.
Incuriosito fece qualche passo in direzione dello strano edificio.
Dallo steccato che recintava la tettoia spuntò la testa di un animale
sconosciuto. A quella vista qualcosa scattò nella mente di Wuller.
Un cavallo! La tettoia era una stalla e l’edificio doveva essere una
locanda!
Wuller non aveva mai visto un cavallo, una stalla o una locanda prima di
allora, ma non ebbe alcun dubbio: la locanda significava cibo e un posto
dove dormire. S’incamminò deciso verso l’entrata.
Alla vista del ragazzotto di campagna, il proprietario del Pino Ardente
batté gli occhi. Il ragazzo dimostrava quindici anni e in genere i bifolchi
del nord non facevano allontanare i loro figli da casa fino ai diciotto anni,
quindi quello doveva essere scappato o era orfano.
Di norma sia gli orfani che i fuggiaschi non hanno molti soldi. — Che
cosa vuoi? — domandò il locandiere.
Colto di sorpresa, Wuller si voltò verso l’uomo grassoccio in grembiule.
— Ehm… mangiare, per prima cosa — disse.
— Hai soldi per pagare?
In vita sua Wuller non aveva mai usato denaro perché dalle sue parti si
usava lo scambio in natura. Tuttavia, suo zio Regran aveva insistito
perché gli venissero consegnate le poche monete che rappresentavano la
proprietà comune del villaggio.
Wuller s’infilò la mano in tasca e le tirò fuori… un pezzo più grosso e tre
più piccoli, di ferro.
Il proprietario sbuffò. — Maledetti bifolchi! Con questi ti posso dare un
cantuccio di pane e un posto nella stalla… per qualsiasi altra cosa ci
vogliono monete di rame.
Ricordi confusi di antiche storie… — Potrei lavorare — disse Wuller.
— Non ho bisogno d’aiuto, grazie — disse il locandiere. — Prendi il
pane, bevi l’acqua alla fontana e domani mattina te ne vai all’alba.
Wuller annuì, incerto su cosa dire. — Grazie — gli sembrò più di quanto
l’uomo meritasse.
Poi si ricordò della sua missione. — Oh, un momento! — esclamò e tirò
fuori lo schizzo. — Sto cercando qualcuno. L’avete mai vista?
Il locandiere prese il disegno e lo osservò alzandolo alla luce.
— Carina — osservò. — Bel ritratto, anche. Mai vista prima… almeno,
non è passata di qui quest’anno. — Gli restituì il disegno. — Che è
successo, ragazzo… la tua bella è scappata?
— No — rispose Wuller improvvisamente restio a dare spiegazioni. — È
una lunga storia.
— Bene — disse il locandiere voltandosi dall’altra parte. — Comunque
non mi interessa.
La mattina dopo Wuller se ne andò diretto a sud, non prima però di aver
ascoltato le chiacchiere nella sala comune della locanda e aver fatto
qualche domanda senza dare nell’occhio.
Venne a sapere che ormai era nel territorio delle Baronie di Sardiron, e
che la locanda del Pino Ardente era quella più vicina al confine, sulla
strada che portava a Srigmor. Durante la primavera e l’estate, i mercanti si
dirigevano a nord per portare ai srigmoriti sale, spezie e attrezzi da lavoro
e alla fine dell’estate e in autunno tornavano a Sardiron con lana, pellicce
e ambra.
A est c’erano i Passi che i viaggiatori potevano attraversare per superare
le montagne e arrivare alla Valle di Tazmor, il favoloso regno alla cui
esistenza Wuller non aveva mai creduto del tutto.
Dove si trovava di magia ce n’era ben poca, fatta eccezione per i soliti
erboristi e qualche strega e stregone piuttosto primitivi. Ma a sole quindici
leghe verso sud c’era Sardiron delle Acque dove abitava un gran numero
di maghi.
Nessuno degli avventori della locanda aveva riconosciuto la fanciulla del
ritratto o gli aveva dato qualche consiglio utile a rintracciarla.
Capì anche che un pezzo di pane stantio non era sufficiente a fermare il
gorgoglio allo stomaco o a calmare il morso della fame, ma non poteva
comprare niente altro, a meno che non si fosse procurato un po’ di
denaro… vero denaro di rame, d’argento o addirittura d’oro, non le
monete di ferro che usavano i bifolchi.
Si allontanò dal villaggio sospirando e decise di cacciare uno scoiattolo o
due, impresa più difficile, ora che si trovava in una zona abitata.
Guardò oltre gli alberi che fiancheggiavano la strada e vide quella che gli
sembrò una vasta radura. Sospirò di nuovo: gli scoiattoli preferivano il
folto degli alberi!
Frugò di qua e di là della strada, ma non riuscì a individuare nessuna
traccia di selvaggina. Quando sbucò nella “radura” si rese conto del suo
errore.
Non era una radura, lì finiva la foresta.
Davanti a lui c’era la campagna aperta, una distesa che Wuller non aveva
mai né visto né immaginato. Fino all’orizzonte si stendevano colline
ondulate coperte di campi appena arati e d’erba verde, e disseminate di
fattorie e fienili. La strada tracciava una curva lunga e morbida attraverso
il paesaggio non più nascosto dalla foresta.
Le colline erano punteggiate di alberi… piante ombrose accanto alle case
e macchie di alberi da frutto, file di alberi bassi a segnare i confini fra le
fattorie… ma gran parte dei terreni erano campi privi di alberi, come le
montagne dove pascolavano le pecore nei dintorni del suo villaggio.
Non avrebbe trovato scoiattoli, di questo era certo.
Ma mentre Wuller arrivava a questa conclusione, uno scoiattolo saltò
fuori dal suo nascondiglio e sfrecciò attraverso la strada. Wuller sorrise:
dove c’era uno scoiattolo, sicuramente ce ne erano altri.
Due ore più tardi bussava alla porta di una fattoria con un coniglio
appena spellato in mano.
In cambio di mezzo coniglio e della sua pelliccia, gli fu permesso di
cucinarlo sul focolare della cucina e di sedere a tavola a chiacchierare con
la padrona di casa, mentre due gatti e tre marmocchi giocavano sul
pavimento. L’acqua del pozzo accompagnò il pasto.
Rinfrancato, Wuller riprese il cammino verso sud.
Dopo poco attraversò un villaggio piuttosto vasto che a lui sembrò
enormemente grande e rumoroso, ma si rendeva conto che non poteva
trattarsi di nessun luogo di cui aveva sentito parlare, perché si trovava
ancora molto a nord di Sardiron delle Acque. A est, sulla cima di una
collina, sorgeva una grande struttura di pietra che incombeva sulla città e
sulla strada.
Con un brivido, Wuller capì che doveva essere un castello.
Poiché non aveva denaro, il ragazzo attraversò di buon passo l’abitato
senza fermarsi.
Un’ora dopo s’imbatté in un altro villaggio, e dopo ancora un’ora in un
altro e poi ancora in un altro, ma questi tre non avevano castelli. C’erano
locande, però Wuller non aveva soldi.
Al tramonto si ritrovò nei dintorni di un’altra cittadina. Come per il
villaggio del Pino Ardente e per quello con il castello, anche da lì si
dipartivano tre strade, ma diversamente dagli altri casi, le loro direzioni
non erano nord, sud ed est, ma nord, sud e nordest così che le strade
formavano il disegno di un forchettone.
Sulla piazza principale si aprivano almeno tre locande! Wuller era senza
fiato.
Stanco e affamato com’era, non si limitò a restare senza fiato, ma entrò
in tutte e tre le locande e domandò se poteva lavorare in cambio di un letto
e di qualcosa da mangiare.
Il proprietario della Spada Spezzata rispose di no, anche se in modo
gentile; quello del Paiolo d’Oro lo cacciò via, al Cigno Azzurro, invece, la
figlia del locandiere s’impietosì e gli fece pulire la stalla in cambio di pane
e formaggio e un po’ di birra, e gli permise di rosicchiare le ossa lasciate
dagli avventori dopo il pasto.
Poi gli trovò anche un letto dove passare la notte… il suo.
Wuller si sistemò sulla sedia davanti alla fanciulla, ancora stupito per la
propria incredibile fortuna e per la sua bellezza. Né lo schizzo a
carboncino di Illuré, né l’immagine apparsa nell’oracolo le avevano reso
giustizia.
— Salve — disse. — Mi chiamo Wuller figlio di Wulran.
La fanciulla alzò gli occhi dal piatto e lo fissò senza parlare. Il viso era
indubbiamente quello che Wuller aveva visto nell’oracolo di Kirna, quello
che Illuré aveva disegnato, con gli scintillanti occhi verdi e i morbidi
riccioli castano scuro. Gli faceva una strana impressione vederla davanti a
lui come persona in carne e ossa - una macchiolina di unto sul mento -
invece che come semplice immagine.
Nonostante la macchiolina di unto, era più bella dal vivo.
— È tanto che ti cerco — disse Wuller.
Lei riabbassò gli occhi sul piatto dove restava ancora qualche patatina
fritta. Wuller fissò le patatine ricordandosi di quanta fame aveva, poi
rialzò lo sguardo.
— Sono venuto da Srigmor per cercarti. Mi hanno mandato gli anziani del
villaggio. — Tirò fuori il disegno e lo srotolò. — Vedi?
La fanciulla alzò la testa, si mise una patatina in bocca e cominciò a
masticare. Batté le palpebre, mise giù la forchetta e prese in mano il
disegno.
Lo fissò per un momento, poi guardò Wuller. — L’hai fatto ora? —
domandò. — È piuttosto buono.
— No — rispose Wuller. — L’ha disegnato Illuré sei notti fa.
— Sei notti fa io ero a casa mia a Aldagmor — replicò la ragazza
sospettosa.
— Lo so — disse Wuller. — Voglio dire, non lo sapevo, ma so che Illuré
non ti ha mai visto… voglio dire… realmente visto.
— Allora come… va bene, chi è questa Illuré? Come l’ha disegnato? Non
conosco nessuno con questo nome, che io ricordi.
— Non l’hai mai conosciuta. È mia zia e sta a Srigmor. Ha fatto questo
disegno perché era l’artista migliore fra tutti coloro che hanno visto il tuo
viso nell’oracolo.
— Quale oracolo?
— L’oracolo della famiglia di Kirna.
— Chi è Kirna?
— È una degli anziani del villaggio. Durante la Grande Guerra la sua
famiglia prese a uno stregone questo oracolo che poi è stato tramandato di
padre in figlio, e quando è arrivato il drago…
— Che drago? Uno di… voglio dire, che drago?
— Il drago che tiene prigioniero il mio villaggio.
La fanciulla lo fissò per un momento poi sospirò. — Credo che sarà
meglio se cominci dal principio e mi spieghi tutto per bene.
Wuller annuì, fece un profondo respiro, e cominciò a raccontare.
Descrisse il drago e come un giorno fosse arrivato senza preavviso. Le
raccontò come aveva ucciso Adar il fabbro e del suo ultimatum al
villaggio. Le spiegò della riunione nella casa di Kirna e di come l’oracolo
si fosse frantumato dopo aver mostrato il suo volto.
— Mi hanno mandato a cercarti — concluse — ed eccomi qui. E dire che
pensavo di dover ingaggiare qualche mago per riuscire a trovarti… solo
che non ho un soldo… e invece, per un colpo di vera fortuna ti ho
trovato!
— Non hai un soldo?
— No.
— Non c’è nessuno nel tuo villaggio che abbia soldi?
— Non più — rispose Wuller, leggermente preoccupato per la piega che
stava prendendo la conversazione.
Considerò cosa avrebbe potuto fare se lei si fosse dimostrata riluttante ad
aiutare il villaggio. Per quanto fosse piccolo per la sua età, era comunque
più alto e forte di lei e se si fosse arrivati al peggio, l’avrebbe rapita e
l’avrebbe portata a casa con la forza.
Sperò di non dover arrivare a tanto. — Vuoi aiutarci? — le domandò.
Lei guardò il ritratto che teneva ancora in mano.
— Be’ — ammise — il tuo oracolo non era del tutto insensato. Qualcosa
sui draghi la so, perché la mia famiglia… be’ mio padre è un cacciatore
di draghi. Questa è l’attività della mia famiglia da molto tempo ed è per
questo che, quando vengo qui, mi fermo in questa locanda, l’Uovo del
Drago. Adesso sono qui in città per vendere il sangue dell’ultimo drago
ucciso da mio padre agli stregoni locali che lo usano per i loro
incantesimi. Anche qualcuno dei miei zii dà la caccia ai draghi quando
causano guai. Ma di norma — aggrottò le sopracciglia — di norma, non
lavoriamo gratis. Il drago di cui mi hai parlato non somiglia a quelli di
cui ho sentito parlare, perciò la mia famiglia non centra… voglio dire,
non è uno di quelli a cui abbiamo insegnato a parlare. Almeno, non
credo.
Wuller insistette disperato: — Potremmo pagarti con pecore e lana.
La fanciulla fece un gesto di noncuranza. — Come potrei portare le
pecore da Srigmor ad Aldagmor? E anche se sopravvivessero al viaggio,
mi converrebbe sempre comprarle nel villaggio dove vivo. Lo stesso
discorso vale per la lana. Non ne abbiamo tanta quanto voi del nord, ma ne
abbiamo a sufficienza.
— Ma se non vieni — disse Wuller — il mio villaggio morirà. Anche se
il drago non ci mangia, moriremo di fame quando le pecore saranno
finite.
Lei sospirò. — Lo so — disse. Si guardò intorno come se sperasse che
qualcuno le potesse suggerire una soluzione, ma nessuno stava ad
ascoltare.
— Bene — disse — penso che dovrei venire.
Wuller non poté contenersi e un sorriso gli illuminò il viso.
— Ma la cosa non mi piace affatto — aggiunse lei.
Quando la fanciulla si rese conto che Wuller non solo era povero, ma non
aveva letteralmente nemmeno un soldo, gli pagò da mangiare e gli permise
di passare la notte nella sua stanza alla locanda. Wuller dormì sul
pavimento e lei sul letto, e il ragazzo non osò proporre niente di diverso né
con le parole né con le azioni.
Soprattutto perché si era accorto che sotto la tunica lei portava una corta
daga. L’impugnatura era consunta a dimostrazione che veniva usata spesso
e non era solo per bella mostra.
Al mattino fecero colazione e la fanciulla dette alla locandiera un
messaggio per suo padre perché qualcuno diretto ad Aldagmor glielo
portasse, radunò le sue cose e restò impaziente sulla porta ad aspettare che
Wuller finisse di mangiare e sistemasse la sacca.
Fatto questo, i due s’incamminarono fianco a fianco lungo le strade in
discesa verso la porta della città. Durante la notte era caduta molta pioggia
e i ciottoli erano ancora bagnati e sdrucciolevoli così furono costretti a
camminare lentamente.
Wuller vedeva Sardiron delle Acque per la prima volta alla luce del
giorno ed era troppo occupato a stupirsi degli strani edifici in pietra scura,
delle numerose fontane, dell’ampiezza del fiume e delle cascate che
scintillavano nel sole del mattino, per fare attenzione alla sua bella
compagna.
Quando furono fuori delle mura, però, il suo sguardo era sempre più
spesso attratto verso di lei. Seldis era davvero bella. Non aveva mai visto
nessuna fanciulla o donna come lei.
Immaginò che fosse maggiore di lui di uno o due anni. Il suo volto era
troppo perfetto per avere più di diciotto anni, pensò, ma la fanciulla aveva
un comportamento e una sicurezza che Wuller aveva raramente visto in
chiunque, di qualsiasi età.
Anche se la sera prima la sua bellezza gli era parsa evidente, pure
l’aveva colpito meno… forse per colpa della penombra, pensò. Si dice che
il lume di candela nasconda i difetti, non potrebbe dunque nascondere
anche la perfezione?
Quando il suono delle cascate non si sentì più e le torri del castello si
andarono rimpicciolendo alle loro spalle, Wuller ebbe il coraggio di
rivolgerle la parola per la prima volta dopo aver lasciato la locanda.
— Vieni da Aldagmor? — le domandò e subito si maledisse per una tale
banalità. Da quale altro posto poteva venire una che si chiamava Seldis
di Aldagmor?
Lei annuì.
— Vieni spesso qui?
Lei lo guardò stupita. — Qui?! — esclamò indicando con un gesto la
strada fangosa e le fattorie circostanti. — Non sono mai stata qui prima
d’ora!
— Volevo dire a Sardiron.
— Aldagmor fa parte di Sardiron — replicò la fanciulla. — Anzi, il nostro
barone è vicepresidente del consiglio.
— Volevo dire in città, a Sardiron delle Acque — spiegò Wuller sull’orlo
della disperazione.
— Oh! Allora perché dici qui? Sono ore che abbiamo lasciato la città. —
La sua era un’esagerazione, ma Wuller non gliela fece rilevare. — Vengo
in città circa due volte all’anno, di solito in primavera e in autunno. In
famiglia sono l’unica di cui possono fare a meno, perché sono donna e
non sono abbastanza forte per svolgere la maggior parte dei lavori… a
casa. Così vengo qui per vendere il sangue, la pelle e le scaglie di drago e
ordinare le provviste che ci servono.
Wuller non cercò di approfondire l’argomento, ma era preoccupato.
L’oracolo aveva detto che Seldis poteva liberare il villaggio dal drago e
Seldis stessa sembrava fiduciosa delle sue capacità, ma Wuller era
preoccupato lo stesso.
Si ricordò le parole di Alasha sulle vergini che sacrificano se stesse, e
spostò la sacca da una spalla all’altra un po’ a disagio. Seldis si sarebbe
sacrificata al drago?
A prima vista l’idea appariva sciocca perché la fanciulla non sembrava
proprio votata al suicidio. D’altra parte aveva accettato di fare il viaggio,
decisione che non poteva certo considerarsi egoista. Il problema era:
quanto era altruista la fanciulla?
Wuller le lanciò un’occhiata. Lei camminava tranquilla a lunghi passi e
seguiva con lo sguardo un’aquila che in lontananza volava in cerchio nel
vento. Non era proprio l’immagine di chi avesse l’intenzione di gettarsi
nelle fauci di un drago per il bene altrui.
Wuller scosse la testa. No, si disse, non era questo che aveva intenzione di
fare.
Però aveva un pensiero fisso: poteva darsi invece che fosse proprio questo
che intendeva l’oracolo.
Passarono la notte al Pino Ardente, nel villaggio di Laskros e, sdraiato sul
pavimento della stanza con gli occhi fissi al soffitto, Wuller si domandava
se stesse facendo la cosa giusta a portare Seldis al villaggio.
Perché mai lei doveva rischiare di andare lassù?
Perché mai lui doveva rischiare di tornarci?
Non sarebbe stato meglio per tutti e due se avessero dimenticato il drago
e il villaggio, e se ne fossero andati da qualche altra parte insieme… a
Aldagmor, per esempio? Wuller avrebbe potuto corteggiarla, anche se
non aveva soldi, nessuna prospettiva ed era senza famiglia…
La famiglia, era questo il punto dolente. La sua famiglia lo stava
aspettando a casa e aveva fiducia in lui. Non poteva abbandonarli al loro
destino senza fare nemmeno un tentativo. Ma come?! Aveva avuto la
grande fortuna di trovare quasi per magia quel che cercava e adesso stava
pensando di rinunciare?
No, doveva tornare a casa, portare con sé Seldis e fare tutto il possibile
per eliminare il drago. Guardò la fanciulla che dormiva sul letto — alla
luce delle due lune la sua pelle era bianca come il latte - poi si girò su un
lato e si sforzò di dormire.