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Dedicato a voi due.

Viaggiatori, dove finalmente dovevano essere.


Benvenuti a casa.
CAPITOLO UNO

Trade Street e 30th Avenue


Caldwell, New York

Quarantotto minuti prima che Ralphie DeMellio venisse ucciso, stava


vivendo la sua vita.
- Hai capito - stava dicendo il suo amico mentre massaggiava le spalle
nude di Ralphie. - Hai capito, cazzo, sei un mostro, sei un fottuto mostro! –
Ralphie e la sua squadra si trovavano al sesto piano di un parcheggio
che era tutto macchie d'olio e rifiuti, piuttosto che Oldsmobile e Lincoln. La
struttura abbandonata era solo una fottuta scrivania di cemento senza niente
nei cassetti, e in questa parte di Caldie, qualsiasi tipo di struttura isolata non
durava a lungo. Salve, BKC. Il Bare Knuckle Conquests era l'unico circuito
di combattimento clandestino legittimo nella parte meridionale dello Stato
di New York, e l'incontro tenutosi quella sera era il motivo per cui lui, i suoi
fratelli e cinquecento persone in cerca di popolarità su Instagram, erano lì.
Il BKC era un grosso affare, e Ralphie, in quanto campione in carica,
stava guadagnando un sacco di soldi, a condizione che nessuno di questi
idioti con i telefoni con fotocamera rivelasse la loro posizione. Ma quante
erano le possibilità?
- Dov'è la coca? –
Allungò la mano e quando la fiala marrone gli fu schiaffata nel palmo
come uno strumento chirurgico, lui cominciò a divertirsi. Dopo essersi
infilato due chili di polvere in profondità nei seni paranasali, i suoi occhi si
spostarono sulla folla. All'altra estremità, erano ansiosi, si drogavano e
scommettevano con gli allibratori dell'organizzatore. Nient'altro che tre
round di pochi minuti a mani nude tra loro e l'omicidio che si aspettavano di
compiere.
Ralphie era un'ottima scommessa.
Non aveva ancora perso un incontro, anche se aveva i muscoli pompati
e fumava molta erba. Ma ecco la fottuta questione. I tipi con il fisico da
buttafuori erano impressionanti solo quando stavano fermi. In movimento
non avevano equilibrio, velocità e accompagnavano il colpo come se ci
vedessero doppio. Finché Ralphie continuava a ronzare come una mosca
sulla merda, lui era inattaccabile e il suo gancio destro andava a segno.
- Sei bravo, Ralphie. Sei davvero bravo! –
- Sì, è vero, Ralphie, sei il migliore! –
Il suo staff era composto da cinque ragazzi del quartiere. Erano
cresciuti insieme ed erano tutti imparentati, le loro famiglie erano arrivate
su una barca a Ellis Island un paio di generazioni prima ed erano andati via
da Hell's Kitchen non appena se lo erano potuto permettere. Little Italy a
Caldie era un po' diversa da quella di Manhattan, e come diceva sempre suo
padre, non fidarti di qualcuno che non conosci e non conosci qualcuno se
non puoi andare a casa sua.
E c'era un'altra persona nella squadra di Ralphie.
- Dov'è lei? - Ralphie si guardò intorno. - Dov'è...? –
Chelle era tornata vicino alla G Wagon, in posa come una ragazza
Pirelli, i gomiti sul cofano, un tallone conficcato nel cerchione di una
gomma. La testa era all’indietro, le punte viola dei suoi capelli neri
sfioravano la vernice metallica, le sue labbra rosa erano socchiuse e fissava
il nulla. La notte era fredda perché aprile era ancora uno stronzo in quella
zona, ma non gliene fregava un cazzo. Il bustino era tutto quello che
indossava sopra, e la sua metà inferiore non era coperta molto meglio.
Cazzo. Si vedevano quei tatuaggi sulla parte superiore delle cosce. E
quelli sui rigonfiamenti dei suoi seni. E sul suo braccio sinistro.
Si era sempre rifiutata di farsi tatuare una delle sue iniziali.
Lei era così.
Come se avesse percepito lo sguardo i lui, Chelle girò lentamente la
testa. Poi si leccò le labbra con la punta della lingua.
La mano di Ralphie andò sul davanti dei jeans. Non era il tipo di donna
che portavi a casa da tua madre, e all'inizio era per questo che se l'era
scopata. Ma era intelligente e aveva un suo negozio di parrucchiera. Lui
non controllava il suo telefono. Non le importava se usciva con altri
ragazzi. Aveva dei soldi suoi, non gli aveva mai chiesto una dannata cosa, e
lei aveva delle alternative, molte alternative.
Gli uomini la desideravano.
Lei stava con lui, però. E non aveva importanza che aspetto avesse, lei
non ci provava con il suo staff. Non era una che passava da un uomo
all’altro, e se qualcuno le dava fastidio era una che gli dava uno schiaffo dal
fargli cadere i denti.
Quindi sì, dopo un anno, Ralphie era molto preso da lei.
Al punto che non gli importava di quello che pensavano gli altri,
inclusa la sua tradizionale madre italiana. Per quanto lo riguardava, Chelle
era una moglie ideale e questo era tutto quello che importava.
- ... capito, Ralphie... –
Ralphie mise la mano al centro del petto del ragazzo e lo spinse
indietro.
- Dammi un minute –
Il suo staff sapeva cosa stava succedendo, e si voltarono affrontando la
folla, avvicinandosi spalla a spalla.
E Chelle era dannatamente consapevole di ciò che lui stava cercando.
La G Wagon era parcheggiata con un paio di metri di spazio tra il
paraurti posteriore e il brutto muro di cemento del garage. Chelle fece il
giro e assunse la posizione appoggiandosi allo schienale della portiera
posteriore squadrata della Benz e inarcandosi. Sui tacchi era alta quanto
Ralphie, e mentre le sue palpebre si abbassavano e i suoi seni si tendevano
contro il pizzo del bustier, lo guardò dritto negli occhi.
Il cuore di Ralphie stava battendo forte, ma il suo sorriso era lento
quando mise le mani sulla sua piccola vita.
- Lo vuoi? –
- Sì. Dammelo –
Ralphie si aprì i jeans, si accarezzò e le baciò la gola. Perché lei non
avrebbe voluto che le rovinasse il rossetto. Quel tipo di roba sarebbe
arrivato più tardi, dopo aver spaccato il culo di chiunque avesse intenzione
di metterlo alla prova quella sera.
Chelle spostò il suo perizoma e, quando appoggiò un tacco a spillo
contro il cemento, lui pompò dentro di lei e lei si aggrappò alle sue spalle
nude.
Il sesso era incredibilmente bollente. Perché se rispettava la femmina
rendeva tutto più bollente.
Quando Ralphie la sollevò in modo che potesse mettere entrambe le
gambe intorno ai suoi fianchi, chiuse gli occhi. La corsa pre-combattimento,
la coca, Chelle, la nuova G Wagon dalla sua fetta di torta che stava
guadagnando al BKC, era tutto potere nelle sue vene. Lui era il migliore.
Lui era il mostro. Lui era...
Ralphie cominciò a venire, e avrebbe urlato, ma non voleva che la
gente potesse cogliere la sua ragazza in quel modo. Invece strinse i denti e
si tenne stretto, lasciando cadere la testa nel collo profumato di Chelle e
spingendo imprecazioni attraverso la mascella serrata.
E poi dovette dirlo.
- Ti amo, ti amo, cazzo - grugnì.
Era così preso dalla sua ragazza, così preso dall’orgasmo, così preso
dalla sensazione di lei che veniva con lui... che non si accorse di chi li stava
osservando nell'ombra a circa sei metri di distanza.
Se l'avesse fatto, avrebbe impacchettato il suo vero amore e il suo staff,
e avrebbe lasciato la gomma sulla strada uscendo dal garage.
Tuttavia, la gran parte del destino era basata sulla necessità di sapere.
E a volte, era meglio non ricevere un avviso sull'inevitabile che aveva
scritto sopra il tuo nome.
In un modo decisamente troppo terrificante, cazzo.
CAPITOLO DUE

2464 Crandall Avenue


Quindici chilometri dal centro

Mae, figlia di sangue di Sturt, sorella di sangue di Rhoger, si infilò il


cappotto e non riuscì a trovare la sua borsa. Il piccolo ranch non offriva
molti nascondigli, e lei la trovò, con le sue chiavi, sulla lavatrice vicino alla
porta del garage. Oh giusto. La sera prima aveva portato dentro il
necessario e aveva perso il controllo di così tanti bagagli. La sua borsa si
era rovesciata sul pavimento di piastrelle e lei aveva avuto solo l'energia per
rimettere a posto alla meglio. Portare l'imitazione di Michael Kors in cucina
era stato semplicemente troppo.
Afferrando la cosa, controllò che la cinghia rotta fosse ancora fissata
con le spille da balia che aveva trovato. Sì. Come nuova. Aveva pensato di
poter andare da TJMaxx per comprare una sostituta, ma chi aveva tempo
per quello. Inoltre Non sprecare, non volere era sempre stato il mantra nella
casa della sua famiglia.
Ai tempi in cui i loro genitori erano ancora vivi.
- Telefono. Ho bisogno del mio… -
Trovò l'iPhone 6 nella tasca dei jeans. Il suo ultimo doppio controllo?
Lo spray lacrimogeno che aveva sempre con sé.
Fermandosi alla porta sul retro, ascoltò il silenzio.
- Non starò via a lungo - gridò. Silenzio. - Tornerò presto –
Altro silenzio.
Con un senso di sconfitta, abbassò la testa e scivolò nel garage.
Quando la porta d'acciaio si richiuse alle sue spalle, chiuse il catenaccio di
rame con la chiave e premette il telecomando. La luce soprastante si accese
e la notte fredda e umida si rivelò centimetro dopo centimetro mentre i
pannelli si avvolgevano sui binari.
La sua macchina aveva otto anni, una Honda Civic del colore di una
nuvola invernale. Entrando, sentì un debole odore di olio per motori. Se
fosse stata umana, invece di un vampiro, probabilmente non se ne sarebbe
accorta, ma non c'era modo di evitare quell'odore. O ciò che significava.
Grande. Altre buone notizie.
Inserendo la marcia, diede gas e si avviò lentamente sul vialetto. Suo
padre le aveva sempre detto di entrare in retromarcia, quindi era sempre
pronta nel caso avesse bisogno di uscire in fretta. In caso di incendio, per
esempio. O di un attacco da parte dei lesser.
Oh, la triste ironia su quello.
Guardò nello specchietto retrovisore, aspettò che la porta del garage
tornasse al suo posto prima di svoltare a destra nella sua strada tranquilla e
correre via. Tutti gli umani si stavano preparando per la notte nelle loro
case, rintanati nelle ore buie, si ricaricavano prima del lavoro e della scuola
con il ritorno del sole. Lei pensava che fosse strano vivere così a stretto
contatto con le altre razze, ma era tutto ciò che aveva mai conosciuto.
Come per la bellezza, ciò che era strano era relativo.
La Northway era una strada secondaria a sei corsie che andava e
veniva dal centro di Caldwell, e lei aspettò di essere su di essa e di
viaggiare a sessantuno miglia all'ora prima di prendere il telefono e fare la
sua chiamata. Tenne il telefono in viva voce e in grembo. Non c'era il
Bluetooth nella sua vecchia auto e non avrebbe rischiato di essere fermata
per aver usato un cellulare...
- Pronto? Mae? - disse la voce fragile e tremante. - Stai arrivando? –
- Sì –
- Vorrei davvero che tu non dovessi farlo –
- Andrà tutto bene. Non sono preoccupata –
La bugia pungeva, davvero. Ma cos'altro poteva dire?
Rimasero in contatto senza parlare, e Mae aveva un'immagine
dell’anziana femmina seduta accanto a lei in macchina, la vestaglia
ricamata e le pantofole rosa nello stile di Lucille Ball che avrebbe indossato
nell'appartamento suo e di Ricky. Ma Tallah si muoveva a malapena, anche
con il suo bastone. Non c'era modo che potesse avere il coraggio per quello
che stava per succedere.
Dannazione, Mae non era sicura di potercela fare.
- Sai cosa fare? - chiese Tallah. - E mi chiamerai appena sarai di nuovo
in macchina? –
Dio, quella voce stava diventando così debole.
- Sì. Lo prometto –
- Ti voglio bene, Mae. Puoi farcela -
No, non posso.
- Ti voglio bene anch'io –
Quando Mae riattaccò, si strofinò gli occhi che bruciavano. Ma poi
diventò tutta una questione di uscite. Quarta Strada? Market? Si innervosì
per aver perso quella di cui aveva bisogno e finì per lasciare l'autostrada
troppo presto. Seguendo uno schema inefficiente attorno a un intreccio di
sensi unici, trovò Trade Street e vi rimase, i numeri sui viali salivano dal
tredici fino al venti.
Quando si avvicinò ai trenta, il valore degli immobili commerciali
erano crollati, gli edifici degli uffici erano stati tutti sbarrati, tutti i ristoranti
o i negozi abbandonati. Le uniche macchine in giro erano di passaggio o da
demolire e ripulite, e nessun pedone. I marciapiedi crepati e disseminati di
rifiuto erano vuoti, e non solo perché aprile era rimasto inospitale nello
stato di New York.
Stava perdendo la fiducia in tutto il piano quando arrivò al primo di
diversi parcheggi pieni zeppi.
E Gesù, si trattava di ciò che era lì dentro.
I veicoli, perché di sicuro non sembravano normali berline e utilitarie,
avevano brillanti colori al neon a meno che non fossero neri, ed erano in
stile anime, tutti angoli aerodinamici e paraurti sollevati.
Era nel posto giusto…
Come non detto. Lei non apparteneva a quel posto, ma era dove
doveva essere.
Mae entrò al terzo parcheggio con la stessa teoria secondo la quale
aveva abbandonato l'autostrada troppo presto: se fosse andata molto oltre,
avrebbe potuto superarlo. E una volta entrata all'interno del confine di un
isolato di rete metallica arrugginita, dovette andare fino all'ultima fila per
trovare un posto. Mentre andava avanti, gli umani che corrispondevano alle
fantasiose versioni di Jake Paul e Tana Mongeau1, la guardavano come se
fosse una bibliotecaria che si era persa a un rave.
Questo la rendeva triste, ma non perché le importasse dell’opinione
degli umani.
Il fatto che sapesse qualcosa sugli influencer di un’altra razza era per
gentile concessione di Rhoger. E il ricordo di come andavano le cose tra
loro era una porta che lei doveva chiudere. Cadere in quel buco nero, in
quel momento, non l'avrebbe aiutata.
Quando scese dalla sua Civic, chiuse la portiera con la chiave perché
il telecomando era morto. Accostò la borsa al suo corpo, abbassò la testa e
non guardò le persone che incrociava. Poteva percepire i loro sguardi,
tuttavia, e l'ironia era che non la stavano fissando perché era un vampiro.
Senza dubbio i suoi jeans e la sua felpa SUNY Caldie erano un'offesa a
tutto il loro Gucci.
Non era sicura di dove andare, ma un rivolo di persone si stava
incanalando in un più grande gruppo di umani, e tutti si stavano dirigendo
verso un parcheggio. Quando si unì a quel fiume di ventenni tutti fighi e
sexy, cercò di vedere avanti. L'ingresso al mucchio di calcestruzzo a più
livelli era barricato, ma si era formata una fila fuori da una porta che si
trovava su un lato.
Mentre Mae prendeva posto e se ne stava per conto suo, c'era una fila
di dodici metri in corso che si muoveva lentamente. Due uomini delle
dimensioni di un semirimorchio ringhiavano agli eletti a cui era stato
permesso di entrare mentre allontanavano gli altri. Non era subito chiaro
quale fosse lo schema, anche se senza dubbio Mae sarebbe stata nella lista
dei sì, no…
- Ti sei persa o qualcosa del genere? –
La domanda dovette essere ripetuta prima che si rendesse conto che
era indirizzata a lei, e quando si girò, le due ragazze… beh, le donne che
l’avevano posta, sembravano tanto impressionate quanto lo sarebbero stati i
buttafuori quando avrebbero cercato di negarle l’ingresso.
- No, non mi sono persa –
Quella a destra, che aveva un tatuaggio sotto l'occhio con la scritta
Dady's Girl in corsivo, si sporse in avanti.
- Penso che tu ti sia persa –
Le sue pupille erano così dilatate che le iridi erano invisibili, e le
sopracciglia erano state ridotte a un filo così sottile che... no, aspetta, erano
state tatuate anche loro. Le ciglia finte avevano sulla punta dei piccoli
puntini rosa che corrispondevano all'etica rosa e nera di ciò che era più
costume che abbigliamento, e c'erano piercing in punti che facevano sperare
a Mae che la donna non avesse mai avuto il naso che colava o
un'intossicazione alimentare.
E per quanto poteva valere, ci si doveva chiedere se la d mancante era
stata intenzionale, o se quel lavoro magistrale era stato venduto a lettera e
gli spiccioli di qualcuno erano finiti.
- No, non è così - rispose Mae.
La donna si chinò in avanti, il seno in fuori come Barbarella, anche se
probabilmente non aveva idea di chi fosse Jane Fonda, tanto meno di che
attrice era stata negli anni Sessanta.
- Devi andartene da qui, cazzo –
Mae guardò il marciapiede rovinato su cui erano tutti in piedi. Le
erbacce si erano fatte strada attraverso le fenditure, anche se tutto era secco
e morto grazie all'inverno.
- No, non devo –
Accanto a lei, l'altra donna accese una sigaretta e sembrava annoiata.
Come se fosse successo spesso e la scenata della sua amica avesse perso da
tempo il suo fascino...
- Vattene da qui, cazzo –
Dady's Girl diede un pugno con entrambi i palmi sulle spalle di Mae
con una tale forza che la mandò con il sedere per aria e atterrò forte sul
terreno gremito. L'unica buona notizia fu la cinghia rotta della sua borsa
aveva retto e non era caduto nulla. Mentre l'incredulità consumava la
maggior parte dello spazio nel cervello di Mae, alzò lo sguardo.
Dady's Girl era in piedi sopra la sua preda, tutta supereroe-superiore,
le mani sui fianchi, i tacchi alti piantati in posizione ampia, il mantello
invisibile della sua gioia sadica per aver maltrattato qualcuno le ondeggiava
sulle spalle.
Il resto della fila stava guardando, ma nessuno stava venendo in
soccorso, e nessuno sembrava impressionato da Dady's Girl quanto lei
stessa
Mae appoggiò un palmo sul cemento e spinse all'indietro per
raddrizzarsi, alzandosi in tutta la sua altezza che, rispetto a quella che la
guardava in cagnesco con i tacchi alti, era uno status da perdente e molto di
più.
- Fuori di qui - sibilò la donna. - Questo non è il tuo posto –
Quelle mani si allungarono di nuovo per colpire nello stesso punto,
come se fosse un tiro ben praticato, un'abilità che era stata mantenuta in
perfetta forma. Ma anche Mae aveva fatto pratica. Mentre barcollava
all'indietro, le braccia che sbattevano, i piedi che ballavano il tip-tap, il suo
corpo era meglio preparato per la caduta inclinata, ed ebbe un momento di
profondo intorpidimento. Non sentiva niente, né il precario equilibrio, né il
vento creato dalla quantità di movimento tra i suoi capelli, né il rapido
respiro di aria fresca nei suoi polmoni.
Fu una sorpresa che era riuscita a riprendersi.
Ma Dady's Girl non le diede molto tempo per farlo. La donna si
precipitò in avanti con un angolo acuto, come se fosse un difensore...
Il braccio di Mae schizzò fuori di sua spontanea volontà, l’arto si
trasformò nel ramo di un albero. E la femmina umana corse proprio contro
il palmo aperto con la parte anteriore della gola. Il contatto venne stabilito,
le dita di Mae si strinsero.
Dopo di che, arrivò la reazione.
Mae iniziò ad avanzare, scortando la donna fuori dal marciapiede. E
quando Dady's Girl lottò per adattarsi al movimento all'indietro, quei tacchi
appuntiti si incastrarono sul terreno, Mae aiutò le cose sollevandola per il
collo in modo che quelle gambe formose penzolassero. Nel frattempo,
unghie come lunghi artigli decorate con strass e volute di rosa artigliavano
la presa su quella trachea senza arrivare da nessuna parte. Le punte si
staccavano, una di loro colpì Mae sul mento e rimbalzò nel nulla
Non che le importasse. Non che se ne fosse accorta davvero.
Il garage era costruito in cemento a vista, quindi le sue pareti
offrivano parecchi punti d'appoggio. Quando Mae sbatté la donna contro la
lastra, fu l'habitus del corpo a cedere, il respiro esplose dai polmoni, le
ciglia con la punta rosa si allargarono.
Ma non era abbastanza per Mae.
Mise la mano libera sullo sterno ed esercitò una pressione crescente
sulle costole... che si trasmise ai polmoni... e infine al cuore che batteva
ferocemente dentro la sua gabbia di calcio e collagene.
Gli occhi della donna umana si spalancarono. La sua giugulare passò
dal battere costante all’intermittenza. Il suo colorito florido come il
rivestimento di un fienile.
A bassa voce, Mae disse:
- Non dirmi qual è il mio posto. Sono stata chiara? –
Dady's Girl annuì come se la sua vita dipendesse da quello. Ed era la
verità.
Nel frattempo, ai margini, la fila in attesa si era riorientata dalla sua
formazione avanti-indietro a un ferro di cavallo intorno a Mae, e c'era un
chiacchiericcio, debole ma eccitato...
- Gesù Cristo, sapete tutti che non potete fare questa merda! –
La gente venne gettata da parte come animali imbalsamati nel
momento in cui uno dei buttafuori si fece avanti. E quando Mae distolse gli
occhi da Dady's Girl per dargli un'occhiata, lui si fermò di colpo e sbatté le
palpebre. Come se non fosse certo di aver visto bene.
Come se una pianta d'appartamento fosse diventata marijuana.
O una specie carnivora.
- Signora - disse con un tono insicuro. - Cosa diavolo ci fa qui? –
Mae decise di seguire l'esempio del tipo con gli spettatori. Con un
movimento casuale del polso, lasciò la presa su Dady's Girl e poi con una
certa calma, ma solo di facciata, si sistemò la maglietta e raddrizzò la
giacca.
Fissando il buttafuori, si schiarì la gola.
- Sono qui per vedere il reverendo –
Il buttafuori sbatté di nuovo le palpebre. Poi disse a bassa voce:
- Come conosce quel nome –
Mae spostò la borsa davanti a sé e la coprì con entrambe le braccia,
anche se la probabilità che venisse borseggiata era appena svanita. Poi si
avvicinò così tanto al ragazzo da poter sentire l'odore del suo sudore, della
sua colonia sbiadita e del prodotto per capelli che aveva usato.
Socchiuse gli occhi e abbassò la voce.
- Non sono affari tuoi e ho finito di parlare. Mi porterai subito da lui –
Un altro battito di ciglia. E poi:
- Mi dispiace, non posso farlo –
- Risposta sbagliata - disse Mae. - Questa è la fottuta risposta
sbagliata -
CAPITOLO TRE

Edificio Commodore, vita di lusso al suo meglio™


Caldwell

Balthazar, figlio di Hanst, aveva ai piedi scarpe morbide come orecchie


di agnello. I suoi vestiti attillati erano neri. La sua testa e la maggior parte
della sua faccia erano coperte da un berretto. Le mani coperte da guanti.
Anche se i vampiri non dovevano preoccuparsi di lasciare impronte
digitali.
Poiché era all'altezza di tutti i miti sulla sua razza, o almeno di quelli
inventati dagli umani, era un'ombra tra le ombre che sussurrava attraverso
le stanze dai soffitti alti del più grande appartamento del Commodore, per
catalogare ogni sorta di meraviglie che erano in mostra nella penombra.
Il fottuto appartamento di tre piani era come un museo. Per qualcuno
che aveva guardato molto American Horror Story.
Girando un altro angolo per entrare in un'altra piccola stanza a tema
con i suoi oggetti, si fermò di colpo.
- Che cosa… -
Come le altre stanze che aveva attraversato, anche questa era piena di
ripiani di vetro. Era quello che c'era su di loro a essere una sorpresa, e
considerando che aveva gironzolato per un'intera stanza piena di strumenti
chirurgici vittoriani, voleva dire qualcosa.
Oh, e poi c'erano stati gli scheletri di pipistrello.
- Hai comprato un mucchio di pietre - mormorò. - Davvero? Come se
non avessi niente di meglio da fare con i tuoi soldi –
Attraverso l'oscurità, Balz scivolò sull'elegante pavimento di parquet
fino a raggiungere una pagnotta di pane di segale troppo lievitato. Aveva la
forma di uovo con un nucleo semi solido, i suoi confini esterni erano pieni
di buchi, l'intero oggetto era esposto su una specie di supporto in Lucite.
Una piccola targhetta in oro spazzolato recitava: Frammento di Willamette,
1902.
Ognuno dei pezzi sembrava avere il nome di un posto: Lübeck, 1916.
Kitkiöjärvi, 1906. Poughkeepsie, 1968.
Niente di tutto quello aveva senso…
Dover, 1833.
Balz aggrottò la fronte. E poi, prima che potesse fare qualsiasi calcolo
consapevole sulla data e sul luogo, il passato lo colpì: all’istante venne
risucchiato via dal lussuoso, particolare condominio, e teletrasportato dalla
memoria nel Vecchio Continente... dove lui e la Banda dei Bastardi
vivevano da soli nelle foreste, scroccando cibo, armi, e uccidendo lesser.
Ah, quei primi anni difficili ed eccitanti. Erano stati l'esatto opposto di dove
erano ora, alleati con la Confraternita del Pugnale Nero e la Prima Famiglia,
in una grande villa grigia in cima a una montagna, sani, salvi, protetti.
Gli mancavano alcuni momenti delle care vecchie notti. Tuttavia non
avrebbe cambiato nulla del presente.
Ma sì, nel marzo del 1833, nel Vecchio Continente, i bastardi si erano
appena svegliati nella caverna in cui si erano rifugiati per evitare il sole
durante il giorno. Improvvisamente, in alto, un brillante lampo di luce era
sembrato attraversare l'intero cielo notturno, ardendo luminoso come una
stella e diventando più grande in un istante, e la sua coda era stata simile a
scintillanti gioielli.
Erano tornati di corsa nella caverna e si erano accucciati, le braccia
sulla testa per proteggere il volto.
Balz aveva pensato che forse il mondo stava per finire, la Vergine
Scriba aveva finito di fare i capricci con la razza, o forse l'Omega aveva
scoperto una nuova arma contro i vampiri.
L'esplosione era stata vicina, il suono dell'impatto aveva spaccato loro
le orecchie, il terreno aveva tremato, particelle di pietra erano cadute sulle
loro spalle mentre l'integrità strutturale della grotta veniva messa in
discussione. Dopo di che... diversi minuti di attesa. E poi erano usciti per
annusare l'aria.
Ferro. Ferro arroventato.
Avevano seguito il fetore metallico attraverso gli alberi per scoprire
una fossa fumante con una piccola roccia al centro. Come se una strana,
mistica creatura-uccello avesse deposto un uovo tossico.
Balz tornò al presente e si guardò di nuovo intorno.
Questi erano meteoriti. Tutte queste rocce di Dio solo sapeva cosa
avevano viaggiato nello spazio ed erano atterrate con un gran trambusto
sulla terra. Solo per essere rinchiuse qui da un collezionista con molti soldi
e un caso clinico di disturbo ossessivo compulsivo.
- Gambe in spalla - mormorò Balz mentre proseguiva.
Gli ci erano volute un paio di settimane per individuare questo
obiettivo, cioè ricercare e inseguire i preliminari anticipatori prima del
malvagio orgasmo. Il marito era un gestore di fondi speculativi, cosa che in
Balz evocò immagini di un uomo in giacca e cravatta che custodiva $ 27,94
in decespugliatori. La moglie era un'ex modella, il che significava che era
ancora sexy, solo che non veniva più fotografata a livello professionale ora
che aveva un anello. Non sorprendeva che ci fosse una differenza di età di
diciannove anni tra i due, e data la durata della vita degli umani, non
avrebbe avuto così tanta importanza ora che si trattava di circa sessant’anni
contro quasi quaranta. Tra dieci anni? Venti?
Difficile immaginare che quella moglie con una buona struttura ossea
e un posteriore eccellente avrebbe trovato una dentiera e un deambulatore
per cui valesse la pena investire.
Ma pazienza, quando eri un manager di siepi con molti soldi, avevi
bisogno di una moglie sexy. Avevi bisogno anche di mostrare un po' di
immobili. O proprietà, a seconda dei casi. Qui a Caldwell, il tipo aveva
acquistato i primi tre livelli di metà del Commodore, ed era logico. Il primo
piano era costituito da grandi spazi pubblici per intrattenere, sai, per quando
dovevi organizzare eventi per racimolare assegni per sostenere le filantropie
locali. Il secondo livello era questo labirinto di piccole stanze con le loro
accurate raccolte di sassi spaziali e, oh, sì, quelle tre dozzine di scheletri di
pipistrello che erano come modellini di navi solo con le ali.
Balz in realtà quasi rispettava i gusti di quel tipo.
Per quanto riguarda il terzo piano? Era quello che stava cercando, e
quando arrivò alle scale, salì in modo silenzioso quei gradini di marmo.
Dipinti a olio di Banksy seguivano la parete curva, e in alto, un lampadario
con prismi di cristallo luccicava come una irrequieta debuttante alla quale
era stato detto di suonare il flauto al ballo. Al pianerottolo dell'attico
iniziava la moquette da parete a parete, e qui avvenne un cambiamento nel
profumo, un bouquet fiorito che riempiva l'aria di lavanda, caprifoglio e
della leggiadra libertà che si accompagnava con i grossi estratti conto.
Balz seguì la passatoia, così spessa che era come camminare sulla
mollica di pane, il percorso lo condusse a una fila di finestre ad arco che
lasciavano entrare una fantastica vista sui grattacieli e le strade di
collegamento sottostanti. La visuale delle linee fluide dei fari bianchi e dei
fanali posteriori rossi, insieme agli archi luminosi e aggraziati dei ponti
gemelli, era così accattivante che dovette prendersi un momento per
apprezzare quel paesaggio urbano.
E poi fu di nuovo in movimento.
Il sistema di sicurezza era stato come previsto, un sistema integrato di
alto livello anti effrazione e disattivarlo era stato una sfida divertente.
Ehi, Vishous non era l'unico a essere pratico con la roba informatica,
okay?
Era stato un momento di orgoglio per Balz non aver dovuto consultare
il Fratello e gli altri cervelloni per disarmare tutti i rilevatori di movimento,
i contatti delle porte e i sensori laser della casa. E il fatto che Balz avesse
fatto tutto il lavoro da solo faceva parte delle regole che si era posto. Questi
umani con i loro oggetti portatili di valore erano obiettivi facili per un ladro
come lui: a tutti gli effetti, in qualsiasi casa, condominio, appartamento,
yacht, bunker, poteva semplicemente smaterializzarsi attraverso una vetrata,
mettere gli abitanti a dormire con la mente, e utilizzare l’abilità delle sue
cinque dita per prendere quello che voleva, quando voleva.
Ma era come sedersi a Monopoli con un paio di tirapugni. Se potevi
mettere fuori combattimento il tuo avversario, prendere tutti gli hotel e le
case, tutte le banconote e tutte le proprietà? Bene, congratulazioni. Ti
bastava lanciare quei dadi e muovere la tua scarpina sul tabellone per i
successivi settantacinquemila round, giocando con te stesso.
La sfida erano le limitazioni. E nel suo caso, lui metteva alla prova se
stesso con tutte le limitazioni degli umani: non poteva fare nulla che quei
topi senza coda non potessero fare. Quella era l'unica regola, ma aveva
molte, molte implicazioni.
Okay beh. Aveva barato in alcune occasioni.
Solo un po’.
Ma era un ladro, non un prete, cazzo.
Andò avanti, non era interessato alle camere da letto vuote per gli
ospiti. In effetti, l'intero condominio, comprese le stanze anti panico verso
cui si stava dirigendo, era vuoto. Aveva avuto intenzione di entrare quando
la coppia felice si trovava nell’appartamento perché i proprietari di casa
erano molto più di una sfida quando erano in realtà, tipo, a casa. Ma era in
rotazione con i turni della Confraternita e il signore e la signora
viaggiavano parecchio. Quindi aveva dovuto aspettare che le stelle si
allineassero.
L'ente di beneficenza per gli animali a cui dava i soldi doveva essere
ricostruito dopo quell'incendio. Fortunatamente, nessuno dei cani o dei gatti
era stato ucciso, ma il loro reparto medico aveva subito un colpo...
Cosa? Lui aveva un debole per le cose a quattro zampe. Inoltre, non
aveva bisogno di quei soldi e avere uno scopo era ciò che rendeva tutto più
di un semplice hobby per la rapina.
La master suite era un appartamento all'interno del condominio, una
concentrazione localizzata di super-lusso e ultra-privato che includeva una
zona cucina separata, una terrazza privata e una combinazione
bagno/armadio delle dimensioni delle case della maggior parte delle
persone. Inoltre avevano seguito l'esempio di Jodie Foster del 2002. Il tutto
si isolava completamente in caso di infiltrazione di qualcuno con un
patrimonio netto inferiore a $ 40 milioni o, se era una donna, un rapporto
vita-fianchi inferiore a 0,75.
Gli standard? Non era dato saperlo.
Mentre attraversava la Big Man Zone, si fermò ad ascoltare tutto quel
silenzio. Dio, quanto era fottutamente noioso tutto questo. Avrebbe davvero
preferito aspettare che il signore e la signora fossero in casa.
Arrivato a un arco, guardò in cucina. Era sterile come una sala
operatoria e altrettanto accogliente, tutto in acciaio inossidabile e molto
professionale. In realtà non erano in corso cene di famiglia. Il figlio della
coppia, generato prima di guadagnare il suo primo miliardo, era stata
gettato via come un cattivo investimento. Non c’era più bisogno di qualcosa
di accogliente.
Elegante e bella, fredda e all'avanguardia.
Come la nuova moglie, la nuova vita.
Balz continuò. Lo spogliatoio aveva due ingressi, uno nella camera da
letto e uno in un piccolo corridoio per la servitù. Sembrava educato
scegliere quest'ultimo considerando che stava commettendo un furto con
scasso, e fu sorpreso di trovarlo chiuso a chiave. Nessun problema. Tirando
fuori il suo kit di grimaldelli, entrò in meno di un minuto, e quando si
inoltrò nella collezione di abiti, cravatte, vestiti e accessori degna di
Neiman-Marcus, respirò profondamente. Ah. Quindi questa era la fonte
della fragranza che permeava il piano superiore, e sì, se il denaro avesse
avuto un profumo, sarebbe stato quello. Inebriante, abbastanza forte da
essere notato, ma non invadente… fiorito, ma con l’importanza di una
sofisticata colonia maschile.
E merda, era un miracolo che il signore e la signora avessero lasciato
qualcosa in banca considerando tutti questi vestiti.
Dietro i vetri, proprio come le vetrine al piano di sotto, erano state
sistemate aste per appendere a tutti i livelli, come se centinaia e centinaia di
migliaia di dollari di vestiti fossero deperibili se lasciati all'aria aperta. C'era
anche un corridoio centrale lungo circa dieci metri di cassettiere su
entrambi i lati, per lui e per lei.
Era ora di divertirsi.
Fischiando tra i denti davanti, si concentrò sul vano che conteneva la
serie di smoking dell'uomo. Aprendo la vetrina, Balz spostò, come Mosè il
Mar Rosso, le spalle delle belle giacche di seta. Il muro che si rivelò era
liscio, tranne per il contorno quadrato che, se non avevi la vista da vampiro
o i dettagli della posizione della cassaforte, non avresti notato.
Con una CPU delle dimensioni di una tazza, digitò un paio di
comandi sulla tastiera simile a quella di un BlackBerry. Poi mise l'unità
contro il muro. Ci furono dei ronzii, un tonfo e un sibilo... e poi il pannello
si ritrasse per rivelare una cassaforte di un metro per un metro con una
ghiera del vecchio tipo… ed era stata una bella sorpresa quando aveva
hackerato il sistema di allarme per controllare quanti fossero e dove si
trovavano i suoi contatti.
Rispettò la scelta analogica. Perché, ehi, non si poteva irrompere in
quella dannata cosa attraverso il web, e quando girò leggermente il
quadrante, riconobbe che avrebbe avuto difficoltà a entrare anche con una
fiamma ossidrica e un paio d'ore in più a disposizione.
Quindi sì, era ora di modificare le sue regole.
Mentre azionava con la mente la serratura, che non era di rame, la
facile capitolazione dei chiavistelli interni lo fece sentire come se fosse
stato seduto in un poltrona reclinabile a mangiare Doritos per due notti di
fila: si sentiva gonfio per il sollievo e annoiato dalla mancanza di sfida.
Ci saranno altre notti per mettermi alla prova, si disse.
Quando la porta della cassaforte si aprì, una piccola luce si accese
all'interno e illuminò il tipo di meraviglie che si aspettava. Dentro c’erano,
rullo di tamburi, mensole trasparenti, e tutto ciò che si trovava su di esse era
diviso in sorpresa! per genere. C'erano soldi in pile che erano legate
insieme, che per qualche ragione gli ricordarono i letti a castello. C'era una
valigetta piena di orologi. E parecchie custodie di gioielli in pelle.
Ecco perché lui era qui.
Scelse quella in alto. Quella più grande del suo palmo dannatamente
grande e ricoperta di pelle rossa con un bordo dorato in rilievo. Aprì il
coperchio.
Balz sorrise così tanto che apparvero le zanne.
Ma la gioia non durò quando contò le custodie rimaste all'interno. Ce
n'erano altre sei e, per qualche ragione, quella mezza dozzina di ulteriori
opportunità lo sfinì. In un altro momento della sua vita le avrebbe esaminate
tutte e avrebbe scelto il gioiello più prezioso. Ora non gliene fregava un
cazzo. Inoltre, quello che aveva era un Cartier, e il peso del diamante era
compreso tra i quaranta e i cinquanta carati con un taglio, un colore e una
limpidezza superbi. Cosa poteva chiedere di più?
E quindi no, non le avrebbe aperte tutte. La sua regola era una, e una
sola, a ogni dannato furto. Poteva essere un oggetto, un mucchio di cose in
un contenitore, o un insieme che era in qualche modo a sé, ma
tangibilmente collegato all’insieme.
Nel Vecchio Continente, per esempio, secondo quella piccola regola,
aveva rubato una carrozza con quattro cavalli grigi perfettamente abbinati.
Quindi rimase fedele al Cartier, lasciandosi dietro il resto.
Con la mente chiuse e bloccò la porta della cassaforte. E proprio mentre
si stava chiedendo se avrebbe dovuto tirare fuori di nuovo il suo fidato kit
per chiudere il pannello, la sezione del muro si abbassò e si incastrò
automaticamente.
Per un momento, tutto ciò che riuscì a fare fu fissare lo spazio vuoto tra
il mare aperto delle giacche da smoking. Chiudendo gli occhi, sentì un
vuoto che...
- Cosa sta facendo? –
Al suono della voce femminile, Balz si voltò. In piedi sulla soglia che
conduceva alla camera da letto, la proprietaria dell’appartamento era
direttamente sotto una delle lampade sul soffitto, il che significava che la
sua diafana camicia da notte era completamente trasparente.
Ebbene, signor Gestore di fondi speculativi, pensò Balz, ti sei proprio
sistemato bene all'altare.
- Cosa ci fa lei qui? - ribatté Balz con un lento sorriso. - Voi due
dovreste essere a Parigi -
CAPITOLO QUATTRO

Mentre Ralphie si chiudeva la zip dei pantaloni e Chelle si


riorganizzava sotto la gonna, lui era su di giri, ma non troppo, in quanto
l'orgasmo aveva smorzato gli effetti della cocaina. Bloccando i molari,
incrociò le braccia e irrigidì tutti i muscoli della parte superiore del corpo,
la torsione gli incurvò la colonna vertebrale in avanti, le labbra si
staccarono dai denti anteriori.
Il suono che emise fece girare la testa al suo staff.
- È pronto! Lui è il mostro! –
In quel momento, come se gli arbitri avessero aspettato che lui se la
spassasse un po’, il segnale suonò in fondo al livello del garage.
Il suo equipaggio iniziò a intonare cori, e Chelle si avvicinò e si chinò
verso di lui. Lui la baciò sulla fronte e disse ti amo abbastanza piano in
modo che nessuno, tranne lei, lo sentisse. Poi avanzò, i suoi ragazzi
formarono una lancia di corpi davanti a lui, Chelle in coda. Quando
penetrarono tra la folla, la gente si allontanò, gli applausi raggiunsero un
volume che avrebbero attirato l'attenzione se qualcuno fosse stato vicino a
questa parte schifosa della città.
Il Reverendo aveva organizzato questo incontro tre giorni prima, con
un forestiero che non aveva precedenti e un nome che nessuno aveva mai
sentito. Quindi sarebbe stato un gioco da ragazzi.
- Mostro! Mostro! –
Il suo staff stava gridando il suo nome, e la folla lo apprezzò e si unì a
loro. E anche se sapeva che lo stava guardando, lui si guardò indietro per
assicurarsene. Chelle lo stava fissando. Aveva il mento abbassato, ma i suoi
occhi erano su di lui, e aveva un sorriso segreto sul viso che lo faceva
sentire più alto di quanto non fosse. Più grosso di quello che era. Più forte.
Lei era la sua fonte di forza.
Perché lui desiderava vedere quella piccola felicità sul suo viso per
tutto il tempo.
Ralphie si ricompose e tornò a concentrarsi sui corpi che si stavano
togliendo di mezzo per lui. Quando si avvicinò all'area di combattimento,
entrò in un campo di luce giallastra proiettato dalle fari di marcia delle
poche auto che erano state ammesse attraverso le barricate al livello della
strada. La folla iniziò ad andare ancora più su di giri quando lo videro
meglio, e lui fece finta di essere nella WWE e sul punto di spaccare un
cranio sul ring.
Anche se tutto quello che aveva era un cerchio rosso dipinto a spruzzo
sul cemento macchiato.
C'erano due cerchi, in realtà, l'interno era di circa quattro metri di
diametro, l'esterno forniva uno spazio di un metro e mezzo in cui la folla
non avrebbe dovuto entrare, ma lo faceva sempre alla fine delle partite.
All'inizio, però, seguivano le regole, quindi lui lasciava indietro il suo staff
per entrare da solo nella zona di combattimento.
Sotto i suoi stivali, le macchie di sangue essiccate della battaglia della
settimana precedente avevano il colore del fango, e lui fece schioccare le
nocche e cominciò a camminare su e giù, il cuore batteva all'impazzata
mentre ricordava di aver rotto quel naso e di aver fatto saltare quei denti.
Mentre si preparava, la folla, anche i suoi ragazzi e Chelle, scomparvero per
lui. Tutto sparì. Era dentro di sé e da solo, dentro di sé e da solo, dentro di
sé e da solo…
Quel mantra iniziò a ripetersi come un treno che percorreva i suoi
binari, uno slancio che creava un suo movimento, lui affondò il peso sulle
ginocchia e passò ad appoggiarsi da uno stivale all'altro. I pugni alzati, i
bicipiti piegati, gli occhi che battevano appena, si concentrò sul cerchio, sul
circolo di corpi che doveva ancora separarsi per rivelare il suo avversario.
Rimbalzare.
Respirare.
Rimbalzare.
Respirare...
Dopo un minuto e mezzo di quella roba, Ralphie cominciò a diventare
impaziente.
Che cazzo. Dove sei, figlio di puttana? Fottuta femminuccia, stronzo di
fuori città…
All'improvviso, le persone di fronte a lui iniziarono a vibrare come se
fossero a disagio, le teste andavano avanti e indietro come se stesse per
succedere qualcosa di brutto. E poi cominciarono a muoversi troppo
velocemente, alcuni inciamparono nella fretta.
Gesù, era meglio che nessuno tirasse fuori una dannata pistola…
Un condotto lungo dieci metri era formato da corpi che gridavano, quel
corridoio affollato correva dal cerchio di combattimento al lontano
passaggio coperto. E alla fine? Un combattente in piedi da solo, rivolto
lontano da tutto, da tutti, le sue spalle pesanti si stagliavano contro il freddo
bagliore d'acciaio della città.
Ralphie smise di saltellare. Il suo cuore perse un battito.
Ma poi una donna inciampò nella zona di sicurezza e si guardò intorno
con l’espressione sorpresa, come se non avesse la minima idea di dove si
trovasse.
Ignorandola, Ralphie si prese a calci in culo. Che cazzo. Era lui la
femminuccia ora? Quel ragazzo non era diverso da qualsiasi altro grosso
idiota. Il bastardo gli stava dando le spalle? Probabilmente era più grasso di
zio Vinnie.
Fanculo a lui…
Il fulmine arrivò dal nulla, il lampo così luminoso che trasformò
l'interno del garage in mezzogiorno. E mentre le persone tra la folla, e anche
il suo staff, alzavano le braccia sopra la testa e si accovacciavano, Ralphie
non fece né l'una né l'altra cosa.
Rimase lì.
A osservare il tatuaggio che copriva la schiena massiccia e muscolosa
dell'altro combattente. Quel bianco e nero era un enorme fottuto teschio,
una corona d'ossa sulla nuca, la mascella con i denti aguzzi all'altezza della
vita. E anche se i bulbi oculari erano spariti, il male si irradiava da quelle
orbite nere come la pece.
Lentamente, il combattente si voltò.
Ralphie avvampò e non riuscì a respirare. Il suo avversario sorrise
come un serial killer che stava fissando la sua prossima vittima, i suoi denti
sembravano troppo lunghi. Soprattutto i canini.
Morirò stanotte, pensò Ralphie con una convinzione assoluta che non
aveva niente a che fare con la paranoia da cocaina.
Era più come se la mano ossuta del Tristo Mietitore fosse atterrata
sulla sua spalla... per chiudere la sua presa. Per sempre.
Quello che stava per attaccarlo era un vero mostro.

•••
Mae superò i buttafuori al piano terra. Naturalmente lo fece. E ci
riuscì senza ricorrere a un replay delle tattiche di Dady's Girl, anche se lo
avrebbe fatto se avesse dovuto, e come vampira, avrebbe potuto abbattere il
blocco di una qualsiasi di quelle barriere di uomini all'ingresso. Era più
efficiente, tuttavia, azionare gli interruttori in quei cervelli umani e
scivolare dentro come se quel posto le appartenesse, un granello di pepe tra
cristalli Swarovski.
E ora era lassù, stipata in mezzo a un gruppo di umani vestiti per lo
spettacolo, le loro spalle che urtavano contro le sue, i loro odori che le
invadevano il naso come dita, il loro canto eccitato un fumo tangibile e
nocivo che addensava l'aria e le ostruiva i polmoni. Assaltata dal misero
sovraccarico sensoriale, il suo cervello cercò di elevarsi al di sopra, ma la
sua consapevolezza era come un globo di neve, un’agitazione vorticosa che
oscurava l’elemento centrale.
Dov'era il Reverendo?
Sforzandosi di calmarsi, cercò di usare il suo istinto. Non aveva idea
di che aspetto avesse il maschio, quale fosse il suo vero nome. Ma i vampiri
potevano individuare i vampiri, e lei non se ne sarebbe andata fino a quando
non l'avesse trovato...
La folla si spostò all’improvviso, gli umani si muovevano come
bestiame spaventato nella superficie di cemento del garage e, quando lei
cercò di allontanarsi da qualunque confusione stesse accadendo, trovò
improvvisamente spazio intorno a lei. Era completamente sola.
Guardando in basso, come se ci fosse una bomba in una valigetta che
in qualche modo le era sfuggita, vide due linee rosse dipinte con lo spray. E
quando alzò lo sguardo, scoprì di essere all'inizio di una lunga interruzione
nella calca dei corpi.
Mae perse tutto il respiro nei suoi polmoni.
Il tempo rallentò. La gente scomparve. Non era nemmeno più sicura
di dove si trovasse.
Il vampiro in fondo al parcheggio che guardava fuori nella notte, era
straordinario… e terrificante.
Prima di poter formare qualunque altro pensiero, una luce accecante
esplose ovunque.
Il cielo notturno venne inondato da luce così brillante, così vasta, che
era come se la Vergine Scriba avesse rivolto la sua ira sulla terra stessa. E
poi arrivò l'esplosione. Qualunque impatto fosse avvenuto era stato
talmente devastante che un lampo ancora più intenso illuminò il parcheggio,
una luce bianca irruppe da tutti i lati e prese il sopravvento come un tuono
lontano che si riverberava per tutta la città.
Eppure, nonostante tutto questo, Mae aveva occhi solo per il maschio.
Quel tatuaggio della morte sulla sua ampia schiena era orribile, e lei
aveva la sensazione che lo fosse anche lui...
Il combattente si voltò e lei sussultò. Aveva grandi spalle gonfie di
muscoli e cosce che erano fissate saldamente nel cemento su cui si trovava.
Anche il suo petto nudo era tatuato, il paesaggio nero e grigio sopra i
pettorali e gli addominali raffigurava una mano ossuta che si protendeva dal
suo torso. Come se fosse il canale attraverso il quale il Dhunhd reclamava
ciò che gli era dovuto.
- Stai indietro! –
Ancora una volta, Mae ignorò che si stavano rivolgendo a lei.
Ma poi una mano le afferrò il braccio e per una frazione di secondo il
suo cervello le disse che si trattava dell'artiglio del combattente. Con un
grido sussultò e, prima di poter comprendere la realtà, venne trascinata
indietro.
- Sei nella fottuta zona di sicurezza - scattò l'uomo. - E credimi, vuoi
toglierti di mezzo da qui –
Non c'era dubbio di cosa stesse parlando il ragazzo, e Mae si portò le
braccia attorno alla vita, anche se non era il bersaglio di nessuno. E che
l'avversario del vampiro fosse pronto o meno, o che la folla fosse in grado
di gestire ciò che stava per accadere, il maschio iniziò a farsi avanti, una
minaccia con stivali pesanti che atterrò come se stesse dominando tutta
Caldwell. Con il mento abbassato e lo sguardo malizioso dritto davanti a sé,
la sua fronte e la sua espressione brutale rendevano impossibile dire di che
colore fossero i suoi occhi, ma nel midollo, lei sapeva che erano neri. Neri
come l'anima depravata che dimorava in quel corpo terribile e potente.
Un senso di terrore si diffuse in Mae e lei cercò di allontanarsi ancora
di più, ma i corpi alle sue spalle erano troppo ammassati. E poi le venne in
mente. Con chi diavolo stava combattendo il maschio?
Lei spostò la testa nell'altra direzione.
- Oh Dio… -
L'umano che stava per essere mangiato come un pasto era più basso di
pochi centimetri e più leggero di cento libbre, ed era chiaro, dall'espressione
di pura paura sul suo viso magro, che sapeva di essere nei guai. Anche lui
aveva dei tatuaggi, ma erano un miscuglio di scritte, simboli e colori di
inchiostri diversi, una raccolta casuale non molto più coordinata di quella
che le era caduta dalla borsa la sera prima. E lei immaginò, guardando i
suoi occhi spalancati e dilatati, che i suoi pensieri non fossero più
organizzati dei suoi tatuaggi.
Mae voleva dirgli di scappare. Ma lui sapeva già che la fuga era nel
suo interesse. Stava guardando dietro di sé come per valutare la sua
traiettoria di fuga, eppure, per qualche ragione, affondò in una parvenza di
posizione da combattimento e alzò i pugni ossuti fino alle guance. Mentre la
sua testa e le sue spalle si piegavano in avanti, il resto del suo corpo si
inarcò all'indietro sui fianchi, come se i suoi organi vitali non volessero
farne parte.
E il vampiro continuava ad avanzare.
Il maschio si fermò solo quando si trovò dentro l’incerto cerchio
interno che era stato dipinto con lo spray sul cemento e, a differenza
dell'umano, non si stava preparando ad aggredire. Si limitava a fissare
l'uomo con le braccia lungo i fianchi e la spina dorsale dritta come una
quercia. Niente pugni. Nessun affondo accennato o in corso.
In effetti era un predatore così mortale da non aver bisogno di difese
né di offese. Lui era una legge della fisica, innegabile e inevitabile.
Mentre la folla restava in silenzio e i due combattenti era sul punto di
venire alle mani, Mae si ritrovò a fissare il petto nudo del maschio. C'era
qualcosa di affascinante nel modo in cui la mano si muoveva mentre
respirava con inspirazioni calme e controllate. Nel frattempo, dall'altra parte
del cerchio, l'umano aspettava un attacco con una serie di saltelli. Quando
non accadde nulla, i suoi occhi si spalancarono. La folla stava diventando
irrequieta e l'uomo sembrò costretto dalla loro impazienza. Si avvicinò con
cautela, il maschio non si mosse. E poi l'umano tirò il primo pugno, l'angolo
verso l'alto a cercare quella mascella pesante...
Il maschio afferrò quel pugno nel suo palmo molto più grande, e torse
il braccio come una corda. Quando l'umano emise un grido e cadde in
ginocchio, la folla rimase senza fiato e poi tornò il silenzio.
- Basta - disse Mae sottovoce. - Smettila… -
L'espressione del vampiro non cambiò mai. Nemmeno il suo respiro.
E aveva senso. Era un assassino che non si stava esercitando.
Senza battere ciglio, costrinse l'umano sulla schiena e poi si mise a
cavalcioni sulla preda. L'uomo sembrava momentaneamente incapace di
reagire per il terrore. Ma questo cambiò. Qualche ingranaggio scattò nella
sua testa e iniziò a scalciare, la sua gamba era abbastanza piccola da potersi
piegare e colpire con il piede l'area dell'inguine. Il vampiro saltò fuori
portata e tornò giù con una serie di nocche mirate al viso che furono evitate
per un soffio. Il cemento si incrinò sotto la forza dell'impatto del pugno e
l'umano balzò di nuovo in piedi. Il suo equilibrio era pessimo, e il suo
avversario più grande ne approfittò, afferrando l'altro braccio, lo fece girare
e lo tirò indietro contro quell'enorme petto.
Non morderlo!, pensò Mae. Sei pazzo? Con tutti questi umani?
Solo che fu l'umano ad affondare i canini nella pelle, i suoi denti si
bloccarono nell'avambraccio. Non durò a lungo. Il vampiro si liberò dal
morso anche se parte della carne se ne andò con quella bocca, e poi tirò un
pugno per la seconda volta.
L'impatto sul lato del cranio fece svenire l'umano, il corpo magro
cadde in modo disarticolato sul cemento, in un mucchio tenuto insieme solo
da quella sacca di pelle tatuata.
Il sorriso del vampiro tornò.
Lento. Pericoloso. Mortale.
Con solo un accenno di zanna.
Quando l'umano iniziò a muovere le braccia e le gambe come se non
fosse sicuro che fossero ancora attaccate, il maschio si chinò e aspettò che
tornasse completamente cosciente. Perché, chiaramente, non bastava
uccidere. Dovevi uccidere la tua vittima solo quando si rendeva conto che
gli stavi togliendo la vita...
All'improvviso, tutto ciò che Mae riuscì a vedere fu suo fratello. Era
Rhoger a giacere sotto quella minaccia. Rhoger era il più debole dei due che
stava per essere colpito. Rhoger stava per morire...
- No! - urlò. - Non fargli del male! –
A causa del silenzio scioccato della folla, la sua voce si diffuse per
tutto il livello del parcheggio, e qualcosa in essa… l’altezza? Il tono?…
attirò l’attenzione del vampiro. Poi quel viso terrificante si voltò verso di
lei, e quegli occhi orribili si strinsero.
Il cuore di Mae si fermò.
- Per favore - disse. - Non ucciderlo... –
Dal nulla, l'umano colpì con un debole pugno che ancora una volta
mancò il segno su quella mascella prominente.
Ma poi arrivò il sangue.
Un rivolo.
Uno zampillo.
Un geyser.
Dalla gola del vampiro.
Confusa, Mae guardò la mano che aveva inferto quel colpo leggero e
qualcosa d'argento scintillò nella presa dell'umano. Un coltello.
Mentre la pioggia rossa cadeva sulla gola e sul petto dell'uomo,
cinquecento paia di scarpe e tacchi alti cominciarono a scappare, la folla
corse verso la tromba delle scale. Nel frattempo, l'umano sembrava
scioccato dal suo successo. Quanto al vampiro? La sua espressione non era
cambiata, ma non perché stava ignorando la sua ferita mortale. Toccò la
seconda bocca che era stata aperta al lato della sua gola e poi portò le dita
lucide nel suo campo visivo.
Quando si spostò di lato, semmai, era quasi seccato. Cadde in
ginocchio. Appoggiò una mano sul cemento per evitare di crollare
completamente. Nel frattempo, chiaramente incerto se fosse o meno libero
dal pericolo, l'umano si divincolò da sotto e decollò correndo a perdifiato.
Mae guardò il vampiro. Poi diede un'occhiata alla tromba delle scale
che era ostruita dai corpi che cercavano di uscire dal garage, dal quartiere,
dallo stato.
- Merda - mormorò mentre dei gorgoglii si alzavano dal maschio.
Non farti coinvolgere, si disse. La tua prima e unica preoccupazione è
Rhoger.
Solo che voleva essere d’aiuto. Dannazione, si sentiva responsabile
per aver distratto il vampiro, e quella era l'unica ragione per cui l'umano era
sopravvissuto, l'unica ragione per cui il maschio non l'avrebbe fatto.
Ma suo fratello aveva bisogno di lei più di questo estraneo violento.
Il maschio emise un suono.
- Non posso aiutarti - disse con voce rotta.
Il maschio stava lottando per parlare e quando tossì sangue, lei si
guardò intorno... e poi andò a inginocchiarsi accanto a lui. Non esisteva un
equivalente del 911 per i vampiri, e anche se fosse esistito, stava perdendo
sangue troppo velocemente per qualsiasi tipo di ambulanza, o anche per un
guaritore che potesse smaterializzarsi per lui. Inoltre, chi poteva chiamare?
Forse il numero della Casa delle Udienze del Re?
No. C'erano delle regole contro la fraternizzazione con gli umani,
quelle che, era certa, impedivano di combattere sottoterra in un mare di
Homo sapiens e di cercare di uccidere membri di quella specie di fronte a
centinaia di quei topi senza coda. Se avesse chiamato il popolo del Re, sia
lei che questo vampiro sarebbero stati in guai grossi.
E Rhoger doveva venire prima.
- C'è qualcuno che posso chiamare per te? –
- Vai - le disse tra respiri affannosi. - Lasciami qui. Salvati! –
La sua voce era molto profonda e davvero ruvida, e quando non
rispose, i suoi occhi si concentrarono su di lei con uno sguardo che la colpì
dritto dietro la nuca.
- Per l'amor di Dio, femmina, abbi cura di te –
Era l'ultima cosa che si aspettava che dicesse, e quando ripeté quelle
parole, Mae si alzò in piedi e barcollò all'indietro. Mentre si allontanava, lo
sguardo duro di lui la seguì, anche se non era sicura che potesse davvero
vederla.
- Vai - ordinò nonostante il sangue che gli usciva dal lato del collo. -
Scappa! –
- Mi dispiace... –
- Come se me ne fregasse un cazzo! –
Tremando dalla testa ai piedi, Mae chiuse gli occhi e cercò di
concentrarsi.
Quando fu finalmente in grado di smaterializzarsi, i suoni
gorgoglianti del vampiro morente la perseguitavano. Ma aveva i suoi
problemi e lui aveva ragione. Doveva prendersi cura di se stessa. Suo
fratello dipendeva da lei.
Inoltre, se vivevi di lotta, morivi a causa sua.
Era un fatto del destino, e non qualcosa che qualcuno come lei
avrebbe potuto provare a cambiare.
CAPITOLO CINQUE

- Come fa a sapere che dovevamo essere a Parigi? –


Quando la signora fece quella domanda abbastanza ragionevole a
Balz, lui si trovò totalmente distratto da come appariva sotto quella
plafoniera. Quei suoi seni avevano... i capezzoli eretti... perché faceva un
po' freddo... e quella seta sottile, sempre così leggermente trasparente, era
quasi meglio che completamente nuda.
Perché poteva dare a un maschio un lavoro da fare. Lentamente. Con
la lingua.
Mentre lui girava nella sua testa un cortometraggio di loro due
insieme, la signora riprese a parlargli, la bocca si muoveva, l'espressione di
lei era ansiosa ma non spaventata. Per gentile concessione delle immagini
nella mente di Balz, tuttavia, tutto ciò che sentì fu la frase di Teri Hatcher
da quell'episodio di Seinfeld: Sono reali e sono spettacolari.
- … lei? –
- Che cosa? - mormorò Balz. - Mi dispiace, ero distratto –
- Lo sta prendendo? - la signora indicò il portagioielli di Cartier. -
Nella sua mano –
- Sì - disse con un cenno del capo. - Lo sto facendo –
- Oh - la sua espressione si fece assente. - Mio marito mi ha comprato
quella collana un anno fa. Per il nostro anniversario –
- Vuoi che ti rubi qualcos'altro, allora? –
Dopo un momento, lei scosse la testa.
- No. Va bene –
Balz sorrise.
- Pensi di sognare, vero? –
La signora ricambiò il sorriso.
- Altrimenti sarei terrorizzata –
- Non ti farò del male –
- Ma lei è un ladro, vero? –
- I ladri rubano oggetti - toccò il portagioielli. - Non facciamo del
male alle persone –
- Oh, va bene - gli occhi si spostarono sulla sua bocca. E poi continuò
lungo il petto. Gli addominali. Indugiarono sui suoi fianchi... come se si
stesse chiedendo cosa ci fosse esattamente dietro la patta e quanto bene
potesse usarlo. - Questo è davvero un bene. Sì… –
- Dimmi una cosa, tuo marito è qui? - mormorò Balz mentre sentiva il
suo corpo agitarsi in luoghi che erano stati tristemente poco utilizzati negli
ultimi tempi.
- No. È in Idaho –
Balz sbatté le palpebre.
- Idaho? È per questo che non sei andata in Francia? –
- L'Idaho è più importante. Anche se stasera è il nostro anniversario –
- Non riesco a capire –
- Ha una società che ha sede lì. È un'azienda manifatturiera. Hanno
bisogno di molto spazio e il valore del terreno è molto ragionevole. Ha un
suo aereo e una pista a disposizione - Improvvisamente, i suoi occhi si
abbassarono. - Ma gli affari non sono il motivo per cui è andato lì –
- Perché? –
- Lui ha... un’amica. Nell'Idaho –
- Che tipo di amica? - Quando lei non continuò, Balz mormorò: -
Quell'uomo è uno idiota –
Quei begli occhi scuri tornarono nei suoi e le mani di lei, aggraziate e
preoccupate, andarono al corpetto della camicia da notte.
- Lo pensa davvero? –
- Penso cosa? Che si sta perdendo qualcosa a non stare con te? Cazzo
sì... - Balz sollevò la mano libera. – Perdoni il francesismo –
La signora arrossì leggermente e guardò di nuovo in basso. Era
oltremodo triste che questa bella donna avesse bisogno di essere rassicurata
da un ladro. Ma chi meglio di lui per valutarne il valore?
- Quindi è in Idaho - Balz non aveva mai amato di più uno stato. -
Che bello, soprattutto in questo periodo dell'anno –
La signora sollevò lo sguardo.
- Oh, no, il tempo è orribile all'inizio della primavera –
- Non sono d'accordo. Penso che il tempo sia perfetto per lui - Che al
bastardo possa congelarsi l'uccello. - Proprio come è meglio per te qui a
Caldwell. Tanto tanto… meglio –
Dopo un momento, lei annuì lentamente.
- È molto bello qui. Questo periodo dell'anno –
Divertente, rifletté, come due sconosciuti potessero parlare di
argomenti casuali usando parole che avevano fottutamente a che fare con
ciò di cui stavano veramente parlando.
- E penso che ti sbagli - disse Balz mentre apriva il coperchio della
scatola della collana. - Se tuo marito ti ha comprato questa per il tuo
anniversario, dovresti assolutamente tenerla –
Gli occhi di lei andarono al portagioielli. In tono duro, mormorò:
- È assicurata. Quindi riavrà indietro i suoi soldi. Riprende sempre i
suoi soldi –
- Tuttavia, dovrebbe esserci un attaccamento sentimentale a questo -
con il mignolo liberò la collana di diamanti dal nido di velluto e si gettò
l'astuccio alle spalle. - Qualcosa che ti faccia sorridere quando lo indossi –
- Lei la pensa così? - chiese lei.
Balz annuì.
- Lo so bene. E te lo dimostrerò –
- Davvero? –
- Sì - Si avvicinò a lei. - Proprio adesso –
Il profumo della sua eccitazione lo fece avvicinare. Di sicuro la sua
erezione non aveva bisogno di aiuto considerando il corpo di lei.
Balz sganciò il fermaglio e poi girò i diamanti in modo che fossero
rivolti in avanti e raggiungessero l'aria elettrica tra di loro.
- Cosa sta facendo? - sussurrò lei.
- Ti metto al collo la collana di tuo marito - Lui abbassò le labbra
proprio accanto al suo orecchio mentre riallacciava il fermaglio. - Così
posso fotterti con questa addosso –
Il sussulto di lei era erotico da morire.
- Perché... perché... perché dovresti farlo? –
Balz indietreggiò. Il battito cardiaco di lei pulsava alla giugulare, e
mentre respirava velocemente, la seta della sua camicia da notte si muoveva
su e giù sui suoi capezzoli. Cazzo, all'improvviso aveva fame. Era famelico.
- Ci vuole più di un semplice diamante per far sentire bella una donna
- Fece scorrere un dito sulla pelle alla base della gola di lei per seguire i
contorni della collana. - È qualcosa che tuo marito dovrebbe ricordare. E
poiché a lui non importa, ti offrirò qualche ricordo da abbinare a queste
pietre fredde e gelide –
- Ma pensavo che volesse rubarla - lei alzò la mano e lo toccò mentre
lui faceva lo stesso. - Pensavo che fosse... –
- Concentriamoci su di te per un po' –
Chinandosi, premette le labbra sull'incavo tra le clavicole. Poi si
spostò sullo sterno, annidandosi tra i suoi seni. Quando lei emise un sospiro,
lui sentì le sue dita affondare nei capelli, e fu allora che si spostò dove
avrebbe voluto essere dal momento in cui l' aveva vista.
Balz allungò la lingua e le leccò uno dei capezzoli, inumidendo la
seta. Indietreggiando, si prese un momento per ammirare la sua opera, la
sottile barriera era scomparsa, la camicia da notte era ora aggrappata alla
sua carne deliziosa. Quando le soffiò sul seno, lei rabbrividì e il suo
profumo si fece più forte nel suo naso.
- Oh, Dio, fallo di nuovo - sussurrò.
- Sarà un piacere, signora –
Detto questo, la prese tra le braccia... e la portò nel letto del suo
stupido marito.

•••

Sette piani più in basso, la detective della omicidi Erika Saunders uscì
dall'ascensore e guardò a destra e a sinistra. Sapeva dove stava andando, ma
era una vecchia abitudine. Controllava sempre in entrambe le direzioni
prima di attraversare la strada. O quando entrava in un corridoio.
O si dirigeva lungo il corridoio.
Quest'ultimo sicuramente se lo sarebbe ricordato.
Il Commodore era la vita di lusso al suo meglio, o almeno quello
slogan faceva parte del suo marchio registrato di recente. E da quello che
aveva visto, dal servizio di portineria alla reception, alla vista dei ponti
sull'Hudson a quello che aveva sentito dai condomini, era stato tutto appena
rinnovato secondo gli standard delle migliori cooperative nell'Upper East
Side di Manhattan. Adesso il posto aveva anche una palestra e una piscina,
e la società alberghiera che l'aveva acquistato un anno prima parlava di
strutture aggiuntive come un ristorante gourmet, una spa e un centro di
yoga.
Progetti, progetti, progetti.
Circa sei porte più giù, si avvicinò a un agente della polizia di
Caldwell in uniforme che stava sull'attenti, e lui le aprì immediatamente la
porta.
- È in camera da letto, detective - come se fosse il docente di un
museo.
- Grazie, Pellie - disse lei infilando un paio di fragili stivaletti blu
sulle sue Merrell nere.
All'interno dell’appartamento, la sua prima impressione era che
appartenesse a nuovi ricchi super tecnologici. C'erano cornici digitali
dappertutto, le immagini mostravano la stessa coppia nella stessa posa
guancia a guancia innamorata e molto felice con diversi sfondi degni di
Instagram: tropicale, montuoso, deserto, ruscello. Il tessuto del divano e
delle poltrone era in fibra naturale, il tappeto era chiaramente intessuto a
mano e, a proposito della posizione del cane a terra, un paio di materassini
da yoga color lavanda erano disposti fianco a fianco nell'area aperta vicino
alla cucina.
La cucina non era niente di speciale, tranne per l’attrezzatura per la
droga lasciata sul bancone di granito accanto a uno spremiagrumi delle
dimensioni di una vasca da bagno e una ciotola piena di frutta senza dubbio
biologica.
Sembrava che la coppia non fosse così fedele alla storia del corpo è il
mio tempio come avrebbero potuto suggerire i loro social media.
L'ecstasy non era assolutamente venduta dai negozi biologici.
Seguendo le voci nello stretto corridoio, iniziò a sentire l'odore della
decomposizione, e il bouquet della morte sbocciò davvero quando si
avvicinò alla porta aperta della camera da letto.
Tre o quattro giorni, pensò mentre si infilava i guanti di nitrile. Forse
una settimana.
Su un letto matrimoniale, l'uomo e la donna delle fotografie erano
distesi nudi sulla schiena, la testa sui cuscini, i volti grigi inclinati l'uno
verso l'altro. C'era un'ampia perdita di sangue da entrambi a causa delle
ferite nei loro petti, e il letto sottostante aveva assorbito gli umori.
Si tenevano per mano, le dita rigide e insensibili bloccate in posizione
intorno ai polsi da quello che sembrava un filo interdentale.
Il detective Andy Steuben, che stava prendendo appunti vicino alla
testiera, guardò Erika.
- Non ho il coraggio di dire quanto sia triste –
Erika alzò gli occhi al cielo.
- Va bene anche senza commenti. Grazie –
Avvicinandosi ai corpi, osservò bene le mutilazioni. Sia all'uomo che
alla donna era stato rimosso il cuore, e non in un modo chirurgico pulito e
ordinato. Le ferite profonde erano lacerate ai bordi e frammenti di osso
punteggiavano i loro addominali e le coperte. Sembrava che chiunque
avesse eseguito quelle estrazioni avesse allungato una mano e strappato via
il muscolo cardiaco.
Solo che era impossibile.
- La scientifica sta arrivando - annunciò Andy.
Erika lo sapeva già, ma proprio come Steuben aveva la reputazione di
essere un sapientone, lei era la stronza fredda della divisione, e non sentiva
il bisogno di alimentare quel pettegolezzo dando una spinta al ragazzo su
una cosa non necessaria.
Fece scorrere gli occhi per la stanza, notò che lo scrittoio aveva tutti i
cassetti chiusi. C'erano un laptop e una videocamera su una scrivania. Un
portafoglio e una borsa erano accanto a loro. Sul comodino a sinistra c’era
un piatto d'argento con un mucchio di gioielli d'oro e un orologio pesante.
Erika si massaggiò la testa dolorante.
- Devo andare a fare una telefonata –
- Vuoi tirare dentro i federali? - chiese Andy.
Erika si avvicinò alla testiera di legno grezzo. In alto sul muro, in
corsivo, era stata scritta una parola di cinque lettere.
AMORE.
- Questa è la terza serie di vittime - disse cupo. - Penso che abbiamo
un serial killer -
CAPITOLO SEI

Quando la gola di Sahvage era stata tagliata, lui aveva uno e un solo
pensiero che gli passava per il cervello: forse stava finalmente scendendo da
questo fottuto treno.
Questo è quello che stava pensando quando si inginocchiò e sentì il
caldo pompare del suo sangue attraversare le sue dita e cadere per
immergersi nei suoi pantaloni e allargarsi sul cemento. Quando la folla si
scatenò, il suo cervello iniziò a rallentare… quindi aveva un po' di speranza,
un po' di ottimismo che finalmente, dopo tutti quegli anni…
Chi poteva pensare che quell'umano ce l'avrebbe fatta.
E a proposito dello stupido, del ragazzo magro con il coltello in mano
sgusciato fuori dal basso e fuggito via come se la sua vita dipendesse da
quello. Sahvage aveva lasciato andare lo stronzo. Il veloce bastardo
meritava l'offerta della libertà per quella mossa abile con la lama celata.
Anche se quella femmina non fosse stata una distrazione...
Prima di perdere conoscenza, il cervello di Sahvage ordinò alla sua
testa di voltarsi verso dove si trovava lei. Ma tutto si stava prosciugando
rapidamente: energia, consapevolezza, cognizione. Quindi non fece molti
progressi con quello. Invece, il mondo diventò un vortice, e cominciò a
girare intorno a lui.
La sensazione di imbuto terminò con l’impatto di una mano, qualcosa
di freddo e duro colpì il lato della sua faccia, e si chiese chi lo avesse
colpito sulla mascella con un salmone congelato come una mazza da
baseball. Ma no, era stato un assalto vegetariano. Si trattava del pavimento
di cemento, sul quale era stato in piedi, ad afferrare il suo corpo e a tenerlo
fermo.
Un attimo, non aveva senso.
E non è poi così eccezionale, pensò mentre la sua vista svaniva, anche
se le sue palpebre erano ancora aperte. Forse questa volta, pensò con
un'attesa esausta. Forse... questa... volta...
Fu momentaneamente sorpreso quando la sua vista tornò, ma poi
riconobbe un'altra luce brillante e accecante che lo stava costringendo a
concentrarsi. All'inizio pensò che fosse il Fado, ma no. La fonte si
allontanò. E poi ne arrivò un’altra. E un’altra…
Le auto che avevano illuminato l'area di combattimento se la stavano
svignando.
E qualcuno si trovava in piedi sopra di lui.
Quella femmina... quello che gli aveva urlato contro. E anche mentre
si dissanguava, la notò.
Il che era molto meglio che veder passare la sua vita davanti agli
occhi.
Era alta e vestita in modo semplice, i suoi jeans e la felpa era fuori
posto con la roba elaborata e succinta che indossavano le umane. I suoi
capelli erano tirati indietro, quindi era difficile per lui dire di che colore
fossero, e il suo viso era spigoloso, gli zigomi alti, la mascella forte, le
cavità tra questi ultimi due suggerivano che avesse fame per la maggior
parte del tempo.
Che diavolo ci faceva in un posto come quello?
Un'altra macchina partì, i fari blu brillante illuminarono lei e sui suoi
occhi spalancati e spaventati.
- Vai - le disse. - Lasciami qui –
Lei non si mosse e non comprese le sue parole, e lui si chiese se aveva
parlato solo nella sua testa...
Sahvage iniziò a tossire, ma era debole perché non c'era molta aria nei
suoi polmoni. E dannazione, la sua bocca era piena di rame.
La femmina si guardò intorno, e fu allora che vide la sua coda di
cavallo. Capelli scuri, ma con meches bionde. Poi lei scese al suo livello e
la sua bocca cominciò a muoversi.
Che diavolo stava facendo? Doveva pensare a se stessa…
Se stessa. Doveva prendersi cura di se stessa.
Proprio mentre si stava preparando ad alzarsi per spingerla verso il
lato del fottuto garage, lei si raddrizzò in tutta la sua altezza e gli diede
un'ultima, lunga occhiata. Sembrava addolorata. Voleva dirle di non
preoccuparsi.
Anche se fossero stati intimi, lui non ne valeva la pena. E loro erano
estranei.
Alla fine, lei scomparve nel nulla, lo spazio che aveva occupato era
stato sgomberato, l'ultima delle auto che erano state usate per far partire il
combattimento, un SUV nero squadrato, fece stridere le gomme e passò
proprio nel punto in cui lui si trovava.
Quasi lo investì. Avrebbe voluto che finisse il lavoro per lui.
Quando le ultime luci svanirono, i suoni degli umani divennero
silenzio e la temperatura della notte diventò sempre più fredda, Sahvage
sorrise nella pozza del suo stesso sangue.
Finalmente una femmina che aveva fatto quello che lui le aveva detto,
quando contava davvero. Al contrario di...

•••
Vecchio Continente 1833

- Non puoi salvarmi –


Mentre il suo incarico, Rahvyn, pronunciava quelle parole, Sahvage
venne colpito dal terribile carattere della femmina che sedeva davanti a lui
sull'erba del prato. In verità, se sua cugina di primo grado avesse posato il
palmo della mano su di lui, non avrebbe potuto offenderlo di più.
- Cosa stai dicendo - ringhiò nel profondo del suo petto. - Io sono il
tuo ghardian. É un mio onore e dovere assicurarmi che tu… -
- Basta! - Lei posò la mano pallida sulla pelle ruvida della sua
manica. - Ti imploro. Non c'è più tempo –
Determinato a non scatenare la sua lingua contro di lei, distolse lo
sguardo da dove erano seduti l'uno di fronte all'altro. In mezzo al tranquillo
prato che si stava appena risvegliando al tepore primaverile, sotto lo
splendore di una limpida notte stellata con una luna parziale, era
sconveniente discutere. Era sempre sconveniente discutere con Rahvyn.
Eppure la natura di lui era quella che era.
E lei era viva per quello.
- Sahvage, devi lasciarmi andare. Non ti servirà a niente cadere ferito
prima... –
- Serve invece! Non hai buon senso, femmina... –
- Lascia che mi prendano - sussurrò. - Sopravviverai. Lo prometto –
Sahvage tacque. E non poté riportare lo sguardo su di lei. Guardò
avanti anche se non vedeva nulla, il suo sangue ribolliva, il suo bisogno di
combattere non aveva bisogno di un bersaglio, perché non avrebbe mai
potuto farle del male. Non con i fatti. Né con le parole. Nemmeno con il
pensiero.
Imprecò.
- Ho fatto voto a mio zio, a tuo padre, di proteggerti. Hai già insultato
i miei pugnali neri, ora vuoi passare al mio onore? –
Guardò torvo la linea degli alberi e il lontano cottage in cui loro due
avevano vissuto da quando la sua parte di famiglia era stata uccisa dai
lesser. Suo padre e sua mahmen erano già morti. Senza Rahvyn, non aveva
altri nella sua linea di sangue diretta.
Quando lei non disse nulla, dovette guardarla ancora una volta. I
suoi capelli, neri come quelli di sua madre, erano arricciati fuori dal
cappuccio che aveva tirato sulla testa, e il suo viso pallido brillava al
chiaro di luna. I suoi occhi, neri e misteriosi, si rifiutavano di sollevarsi sui
suoi mentre si torceva le mani in grembo, e la sua soprannaturale
concentrazione sui suoi movimenti nervosi gli irrigidiva la spina dorsale.
- Cosa hai previsto? - le chiese.
In risposta, ci fu solo un silenzio che rafforzò la sua determinazione
anche se minacciava di spezzargli il cuore.
- Rahvyn, devi dirmelo –
Lo sguardo di lei finalmente si sollevò per incontrare il suo. Lacrime,
luminose e tragiche, le tremavano sulle ciglia inferiori.
- Sarà più facile per entrambi se te ne andrai. Ora –
- Perché? –
- Il tempo della mia rinascita è vicino. La prova che devo affrontare è
segnata per me dal destino. Per trovare il mio vero potere, non c'è altro
modo –
Lui allungò una mano e asciugò l'unica lacrima che cadde.
- Di quale follia stai parlando? –
- La carne deve soffrire affinché l'ultima barriera possa bruciare –
Un brivido percorse Sahvage.
- No –
In lontananza, si udì un clamore di zoccoli sulla strada di terra
battuta che costeggiava il campo aperto. Le torce, tenute alte e agitate
dall'andatura spinta di potenti cavalli, giravano a una velocità simile a
quella di una guerra.
Era una guardia che portava i colori di Zxysis il Vecchio.
- No! - Sahvage balzò in piedi, tirando fuori i suoi pugnali neri per
affrontare l'attacco. - Salva te stessa... me ne occuperò io! –
Il conteggio dei maschi su quei destrieri era di una dozzina. Forse di
più. E dietro di loro? Una gabbia d'acciaio trainata da cavalli.
- Rahvyn - abbaiò. - Devi andare! –
Quando lei non disse nulla, si guardò alle spalle...
Sahvage perse ogni traccia di pensiero. Un bagliore si era
concentrato intorno a sua cugina, e quando i suoi occhi si adattarono, era
confuso, perché vide che le stelle avevano lasciato la loro posizione lassù
per orbitare intorno a lei.
Com'era possibile…
No, non stelle. Erano lucciole. Ma... era la stagione sbagliata per
loro, non è vero?
Seduta in mezzo a loro, nel suo mantello nero con il cappuccio, il suo
viso cinereo sollevato al chiaro di luna, era una virtù vivente, la purezza
conferita entro i confini mortali.
- No... - La voce di Sahvage si incrinò. - Non lasciare che ti prendano

- È l'unico modo –
- Non hai bisogno del potere –
- Da ora in poi sarò responsabile di me stessa, Sahvage, non più un
peso che ti impedisce di svolgere il tuo dovere verso la razza –
Sahvage allungò una mano attraverso il bagliore, l'afferrò per un
braccio e la trascinò su.
- Vattene! Adesso! –
Gli occhi di lei incontrarono i suoi. E lei scosse la testa.
- Deve essere così... –
- No! - Controllò i cavalieri che si erano staccati dalla strada e
stavano correndo sull'erba alta, puntando sulla luce che si raccoglieva
intorno a lei. - Non c'è più tempo: smaterializzati! –
Rahvyn scosse lentamente la testa e, quando lui chiuse gli occhi, il
petto gli bruciava.
- Ti faranno a pezzi - disse con voce strozzata.
- Lo so. È così che deve essere, cugino. Ora vai, e lasciami al mio
destino –
- Rahvyn, figlia di Rylan - fu il grido. - Sei vincolata dall'autorità di
Zxysis il Vecchio su questa terra! –
Quando le spade vennero sguainate e sollevate in alto, Sahvage
costrinse sua cugino a ripararsi dietro di lui e si preparò a combattere.
Durante i suoi anni in battaglia, ne aveva uccisi molti più di così da solo, e
per sua cugina, avrebbe visto il loro sangue scorrere come un fiume
attraverso il prato.
- Perché devi essere così testarda! - gridò.
Prima di poterla guardare ancora una volta, la prima delle frecce
fischiò vicino al suo orecchio. La seconda andò tra le sue gambe. La terza,
lo colpì alla spalla.
E non provenivano da quelli che si stavano dirigendo verso su di lui
con quelle spade.
Venivano da est. Da... dietro gli alberi che offrivano una solida
protezione: gli arcieri erano rimasti nascosti e aspettavano che in loro
aiuto arrivassero quegli zoccoli tuonanti con quelle torce fiammeggianti...
La freccia che lo uccise fu la quarta che era stata lanciata verso di
lui, la punta d'acciaio e l'asta affilata gli penetravano nel cuore, gli strati di
pelle destinati a proteggerlo in caso di un coltello o un pugno non offrirono
resistenza alla corsa mortale del proiettile lucido. E anche dopo quel colpo
mortale, i compagni del suo vincitore continuarono a colpirgli il torso, i
muscoli delle gambe, la schiena.
Doveva esserci più di un arciere, perché gli archi venivano ricaricati
troppo velocemente per un semplice soldato.
- Scappa! - gridò mentre cadeva in ginocchio. - Prenditi cura di te
stessa! –
Quando Sahvage cadde sul fianco, la vista lo abbandonò, anche se la
sua mente rimase attiva almeno per un momento. In verità, aveva sempre
pregato la Vergine Scriba di poter morire in battaglia, un mantello di onore
e coraggio, un drappo funebre che copriva il suo corpo mentre diventava
grigio e freddo.
Non voleva andarsene così. Fallendo nel suo compito di proteggerla,
sapendo che non avrebbero scagliato frecce su di lei, perché sarebbe stata
portata viva a Zxysis e consegnata a lui.
A favore del dolore. Della degradazione. La fossa infuocata dalla
quale lei credeva che sarebbe emersa come una fenice che si elevava dalla
sofferenza fino a una posizione di potere.
- Non fategli del male! - gridò Rahvyn dall'alto, come se lo stesse
proteggendo con il suo corpo. - Non dovete ucciderlo! –
Quando udì la voce di lei nelle orecchie, il puro terrore quasi lo
rianimò. Ma il suo cuore debole era andato troppo oltre, e quella rinascita
di forza e consapevolezza non durò abbastanza a lungo.
Maledizione, lei era ancora con lui...
Quello fu l'ultimo pensiero mortale prima che Sahvage si trovasse in
un vasto paesaggio bianco, con la porta del Fado che si stava avvicinando
velocemente verso di lui, come se avesse avuto un appuntamento lì che era
atteso da molto, molto tempo.
Ecco, il suo cuore era finito. E non solo in senso mortale. Per quello
che stava per essere fatto alla sua amata cugina... era distrutto mentre
moriva.
CAPITOLO SETTE

- Non era un fulmine –


Mentre Nate, figlio adottivo del fratello Murhder della Confraternita
del Pugnale Nero, continuava a martellare sulla cornice davanti a lui, il suo
amico si sporse in avanti e parlò più forte, come se non avesse sentito.
- Niente fulmini - Arcshuli, figlio di Arcshuliae il Giovane, spinse il
telefono in faccia a Nate. - Vedi? –
Dopo un altro colpo di martello, Nate abbassò la sua arma di
costruzione e si tolse i chiodi dalla bocca.
- Va bene. Quel lampo non era un fulmine. Allora? –
- Allora cos'è stato? - Shuli inarcò le sopracciglia. - Non vuoi saperlo?

Con i suoi pantaloncini cargo color cachi e la sua t-shirt, Shuli
sembrava solo un altro membro della squadra di costruzione, a patto di
ignorare la sua struttura ossea, l'Hublot al polso e le voci secondo cui suo
padre era il capo della glymera.
- Dai, non vuoi saperlo? - ripeté.
- No, voglio finire questo. Poi voglio che mi aiuti con il cartongesso.
Dopodiché, possiamo... –
- Ma hai visto quella cosa. Ha illuminato tutto il cielo. E mio fratello
dice che non era un fulmine –
- Ora è anche un meteorologo? Pensavo fosse candidato a un
dottorato di ricerca in un programma di ingegneria chimica umana –
Shuli fece sparire il suo iPhone nella tasca sul sedere.
- Esattamente. È lui quello intelligente, io sono quello carino. E per
tua informazione, ha un cervello migliore di noi due messi insieme -
Ecco che arriva... ecco che... arriva…
- Certo, io sono il più bello di noi tre -
Bingo.
- Non ha senso –
- Hai visto questa faccia? - Shuli fece un cerchio attorno al suo viso. -
Sul serio. Sono fantastico, caldo... –
- Sei ridicolo –
Un cinguettio ritmico costrinse Shuli a tirare fuori di nuovo il suo
cellulare.
- Oh, mio Dio, è l'ora della pausa - Mostrò di nuovo il telefono, come
se l'allarme che suonava potesse essere soggetto a un'interpretazione errata
se non ci fosse stata una conferma visiva. - Immagino che dobbiamo
mettere giù martello e chiodi e... cavolo, non lo so. Andare a fare una
passeggiata nei boschi su quella strada? –
- Ora di pausa - era la voce del caposquadra dall'interno della fattoria
che stavano ristrutturando. - Trenta minuti! –
Nate guardò fuori dal garage aperto nella direzione che Shuli stava
indicando. A loro due era stato assegnato il lavoro lì dentro perché erano
dei novellini, e se i buchi lasciati dalla rimozione delle finestre non erano
stati rattoppati alla perfezione, a chi sarebbe importato davvero?
Beh, a Nate importava. A Shuli? Non così tanto.
- Dai - Shuli prese il Black & Decker di Nate e lo posò sul banco. -
Andiamo a fare due passi –
Nate scrollò le spalle e giocò a seguiamo-il-leader, i due si diressero
verso il vialetto e poi sul prato. Quando arrivarono al recinto, lanciarono
ciascuno una gamba sui due binari inferiori e si abbassarono sotto quello
superiore. Dopodiché fu tutto campo aperto, anche se, essendo solo fine
aprile, non c'era molta crescita dell'erba. Solo un po' di fango, però, nel
quale i loro stivali con le punte d'acciaio si infilarono.
Con un cipiglio, Nate guardò il suo amico.
- Perché indossi pantaloncini? –
- Ho il sangue caldo, amico mio –
- Sei vergine –
- Anche tu. E non confondere la mia mancanza di esperienza con la
scarsità di entusiasmo –
- Parole grosse - disse Nate con una risata.
- Papà è uno psichiatra, idiota –
- E questo cosa c’entra con te? –
- So tutto sulla conflazione - Shuli si avvicinò e abbassò la voce. -
Così come su altre cose che finiscono in azione’ –
- Cos'è questo odore? -
Shuli balzò in avanti e camminò all'indietro.
- Quindi... tu hai? –
Per evitare uno starnuto, Nate si strofinò il naso come se stesse
lucidando la sua estremità per farla brillare.
- Lo senti? –
- Smettila di evitare la domanda. Sei a tre mesi dalla transizione e sei
un maschio perfettamente funzionante. Il che significa... –
Nate guardò oltre le spalle dell'altro maschio.
- Puzza di bruciato… ferro –
Shuli si fermò di colpo.
- Sei già venuto da solo? –
- Non sono affari tuoi - Nate aggirò l'ostacolo vivente, respirante,
incredibilmente elegante ma arrapato.
- C'è anche del fumo –
- Non vedo quale sia il problema. Io te lo direi –
- Lo hai già fatto - Nate lanciò un'occhiata secca al ragazzo. - Molte
volte. Non hai i palmi pelosi e la cecità ormai? –
- Quello riguarda solo gli esseri umani e io sto cercando di ispirarti
guidandoti con l'esempio –
- Non sono interessato a quel tipo di leadership - Nate batté una mano
sulla nuca del ragazzo e gli diede una scossa. - Ora basta. Concentriamoci
sulla tua brillante idea. Ora guarderai tutto quel fumo? –
Per aiutarlo a concentrarsi, girò il viso di Shuli verso il pennacchio
che si alzava dalla linea degli alberi e nel cielo notturno.
Shuli si fermò di nuovo.
- Che cazzo è? –
- Non è a causa della tua eccitazione –
- Beh, già, o sarebbe proprio sopra di noi –
La buona notizia era che, per gentile concessione di qualunque cosa
stessero affrontando, il ragazzo abbandonò l'attività della mano sinistra. La
cattiva notizia era che qualunque cosa stesse fumando in quei boschi e
puzzando come se qualcuno avesse dato fuoco a un calderone, era
probabile... beh, che fossero brutte notizie.
- Dovremmo chiamare qualcuno? - chiese Nate.
- Tipo chi? –
- Mio padre? –
Sembrava ancora un po' strano usare quella parola, ma non perché
Murhder non fosse suo padre. Non si sarebbe mai aspettato di averne uno.
La vita non avrebbe dovuto concederti una vera famiglia solo perché ne
avresti voluta una. Solo perché ne avevi bisogno.
Nate si accigliò.
- Ehi, ci sono persone lì dentro? –
- Sai, forse questa non è una grande idea... –
- No, voglio... –
- No, ho commesso un errore. Torniamo indietro. La pausa è finita –
Quando Nate sentì che il suo braccio veniva stretto in una presa forte,
lanciò a Shuli un'occhiataccia.
- Stai scherzando, vero? –
La faccia del suo migliore amico era più seria di quanto Nate l'avesse
mai vista.
- Ho fatto un errore –
- No, stai facendo la femminuccia… aspetta, quella è una pistola? Che
cazzo stai facendo con una pistola? –
- Ti sto proteggendo –
Nate sbatté le palpebre e scosse la testa verso l'arma nella mano del
suo amico.
- Chi sei e cosa hai fatto a Shuli? –
- Non posso permettere che ti succeda niente –
Con improvviso terrore, Nate disse:
- Cosa ti ha detto mio padre? –
- Non ha niente a che fare con tuo padre –
Nate guardò il fumo e le persone che poteva vedere muoversi dentro e
intorno alla foresta. Poi decise, Fanculo.
- Beh, io non sono un tuo problema, e andrò laggiù. Se hai un'altra
opinione su questo puoi spararmi nel culo –
Non arrivò lontano prima che Shuli lo raggiungesse.
- Nate, è pericoloso... –
- Metti via quella cosa, vuoi? Cristo. Finirai per spararti da solo –
Quando raggiunsero la linea degli alberi, stavano ancora discutendo di
ogni genere di cose: pistole, idioti con le pistole, idioti che volevano
indagare su cose quando non ne erano sicuri, idioti che suggerivano
indagini e poi le abbandonavano… anche se almeno la nove millimetri era
stata messa via.
E ragazzi, non erano soli.
Almeno una dozzina di persone si erano radunate a un centinaio di
metri, ma fortunatamente, a giudicare dagli odori, erano tutti membri della
razza. D'altra parte, non c'erano molti umani lì fuori tra i rami, ed era
proprio per questo che loro lavoravano in quella fattoria.
Era meglio stare lontani da quei topi senza coda.
Nate l'aveva imparato in prima persona. In quel laboratorio.
La puzza di metallo peggiorava, le sue narici si rivoltarono emettendo
starnuti dopo starnuti. Per aiutarlo, Shuli gli diede un pugno sulla schiena, il
che aggiunse un giro di tosse alla festa.
Nate schiaffeggiò via il palmo del suo amico, preoccupato che dopo
sarebbe arrivata la manovra di Heimlich… o forse, Dio non voglia, la
rianimazione bocca a bocca… quando entrarono in una radura.
A proposito della scena di un crimine. La terra era stata violata da
qualcosa di abbastanza grande, che aveva viaggiato abbastanza velocemente
da estrarre trenta o quaranta metri quadrati buoni di terra. E nel buco?
Vapore. Quindi era difficile vedere molto.
Nate e Shuli si avvicinarono, unendosi ai maschi e alle femmine che
si stavano chinando in avanti per cercare di osservare qualunque cosa fosse
atterrata.
- Sembra un libro di Stephen King - mormorò Shuli.
Scacciando via la puntura nei suoi occhi, Nate alzò lo sguardo al
cielo.
- Meteora. E supponendo che sia quello che è, lui ne ha già scritto uno

- O spazzatura spaziale - Shuli diede una gomitata al braccio di Nate.
- Ehi, pensi che se lecco il meteorite, posso diventare virale? –
- Penso che ti prenderai un virus –
- Sono serio –
- Lo so, e ora ho paura - Il vento cambiò direzione e spazzò via il
fumo, Nate mormorò: - E no, non ho intenzione di filmarlo... –
La sua voce si spense, perdendo il conto delle parole che il suo
cervello aveva prontamente dimenticato.
Dall'altra parte del buco, a lato della folla, una figura stava in piedi da
sola. Era una femmina. Almeno suppose che fosse una femmina, tenendo
conto della lunga ciocca sottile di capelli biondo chiaro che le era scivolato
via dal cappuccio che aveva in testa.
- Ehi… - disse Shuli. - Ho detto che il fulmine non colpisce due volte
nello stesso punto. Quindi siamo al sicuro –
Nate si allontanò dal suo amico e borbottò:
- Pensavo che tuo fratello ti avesse detto che non era un fulmine –
Quando iniziò a camminare verso la femmina, Shuli gridò:
- Dove stai andando? –
- Torno subito -
CAPITOLO OTTO

Il cervello di Mae era aggrovigliato dalle recriminazioni quando si


smaterializzò fuori dal parcheggio. Riformandosi nell'ombra al piano terra,
si strofinò il viso e notò i flussi di umani che si riversavano fuori dalla
tromba delle scale per allontanarsi dai parcheggi all'aperto. Mentre le auto
si infilavano in un ingorgo e la gente usciva dalla porta dove c'era stata la
fila d'attesa, si disse di uscire e tornare a casa. O forse a quella di Tallah.
Avrebbe potuto tornare alla sua macchina in mezz'ora quando la folla se ne
sarebbe andata.
Beh, presumendo che il posto non fosse invaso da poliziotti umani per
allora. Anche in una parte abbandonata della città, questo tipo di trambusto
poteva essere notato e, francamente, era sorpresa che fossero riusciti a farla
franca con le risse.
- Accidenti... - alzò lo sguardo fino al sesto livello.
Ma questo non riguarda lui, si disse. Lui non è un mio problema.
I clacson suonarono. Qualcuno inciampò e cadde proprio davanti a
lei, si riprese e ripartì. Sui piani aperti del garage, i fari giravano
tutt'intorno, le tre o quattro macchine che erano state usate per far luce sulla
rissa ora stavano infilando di corsa la via d’uscita. Quando guardò le pesanti
barriere di cemento che erano state spostate per bloccare l'ingresso, si
chiese se ci fosse un'altra via d'uscita...
La domanda trovò la sua risposta quando un camion impattò contro
una di quelle barriere e la spinse via con la griglia anteriore.
Quindi qualcuno ha già problemi con la legge, pensò quando la Ford
tagliò il marciapiede per aggirare l'ingorgo.
Devi lasciarmi qui! Vattene! Salva te stessa.
Era il consiglio giusto. Quello era...
Improvvisamente, Mae alzò di nuovo lo sguardo in preda al panico. E
se il vampiro che aveva organizzato l’incontro... era il vampiro che si
trovava tra loro?
E se quel maschio che stava morendo fosse il Reverendo? Aveva
setacciato la folla con il suo istinto, cercato tutti i profumi e le presenze, e
c'era stato solo un vampiro tra quell'intera schiera di umani.
- Fanculo! –
Il suo cuore iniziò a battere forte, chiuse gli occhi e cercò di fare
respiri lenti e profondi. Non servì a nulla, mosse i piedi, ruotò le spalle e si
impartì una bella lezione sul fatto che aveva bisogno di rilassarsi
PROPRIOINQUELMOMENTO.
Il che, ovviamente, era davvero favorevole a tranquillizzare le cose
per smaterializzarsi.
Mentre il suo corpo si dissolveva in molecole, volò verso l'alto in
modo sparso, scivolando all'aperto. Si riformò accanto al combattente ferito
pensando che avrebbe dovuto controllare le sue tasche per un documento
d'identità.
Sì, certo. Perché lui andava in giro con Io sono il Reverendo nel
portafoglio proprio per questo genere di cose.
E merda, salvarlo solo per i suoi scopi la fece sentire come inumana.
Non vampira. Una cosa del genere.
- Maledizione - mormorò mentre lasciava cadere la borsa vicino alla
sua testa e si metteva in ginocchio.
L'enorme maschio era disteso sulla schiena, un braccio gettato di lato,
l'altro sui suoi pesanti pettorali. La pozza di sangue sotto di lui era tre volte
più grande di quando se n'era andata pochi istanti prima, e poteva giurare
che c'era una pulsazione nel flusso che abbandonava la vena aperta al lato
della sua gola, anche se quella era la buona notizia. Significava che aveva
ancora un battito cardiaco. Non per molto, però. Il suo colorito era pessimo
e stava peggiorando, il suo viso era grigio come il cemento su cui giaceva, e
quella mano ossuta tatuata sul suo torace non si muoveva molto, il che
significava che respirava a fatica.
- Scusa - disse infilandogli il braccio sotto la testa per sollevarlo. -
Santo... buon Dio, sei pesante –
Con un grugnito, lo tirò sul suo grembo, o almeno ci provò. Era come
spostare una casa, quindi dovette infilarsi sotto di lui. E oh, cavolo, il
sangue. Era caldo, scivoloso, e… aveva un buon profumo.
- Stai pensando questo di un uomo morente - mormorò lui. - Davvero
di classe –
Mae lo fece alzare leggermente, e si spinse i capelli sopra la spalla,
anche se erano ancora raccolti in una coda, concentrandosi su quella ferita.
Era come se qualcuno gli avesse piantato una zappa da giardino sul lato
della gola, e per un momento, lei si sentì stordita a guardare quell'anatomia
rovinata. Ma il suo svenimento non avrebbe aiutato nessuno di loro.
- Scusa, so che è un po'... - sfrontato? Tipo, come se fossero a una
cena e lei stesse allungando la mano sul piatto per prendere la saliera? - È
solo, ehm... -
Taci, Mae.
Deglutendo a fatica, fece un respiro profondo. E poi abbassò le labbra
sulla ferita. C'era solo un modo in cui poteva aiutarlo, ed era un'impresa
ardua. Ma i vampiri dovevano nutrirsi dalle vene e, quando avevano finito,
dovevano sigillare i segni della puntura.
Con una gentilezza che sembrava inutile, data la situazione e la
potenza del corpo di lui, mise la bocca sul taglio...
Il suo sapore rimbalzò dentro di lei come un'allettante onda d'urto:
quel vino scuro che le toccò semplicemente la lingua era il genere di cosa
che sentì fino al midollo, e quando una fame vibrante la prese...
No, no, no, questo non è un pasto, si disse. Assolutamente non è
questo il punto.
Lui già mezzo dissanguato, santo cielo. E se fosse il Reverendo e lei
lo avesse ucciso perché non riusciva a controllarsi? Non sarebbe andata
bene per nessuno.
Tuttavia, bere era inevitabile, e lo era anche deglutire. Ma anche se la
faceva sudare non tirò da quella vena. Invece la sigillò. Le ci volle un po' di
tempo, le sue labbra e la sua lingua correvano sopra la profonda ferita con
tutti i suoi danni ancora e ancora, e aveva la sensazione che non sarebbe
guarita bene, almeno non per un po'. Ma aveva importanza?
Se era il Reverendo, lei aveva bisogno che vivesse. Era necessario.
Quando decise di farla finita, perché stava sentendo l'eco del suo
sapore in bocca, sollevò la testa e ignorò diligentemente il modo in cui la
sua lingua passò sulle labbra e non solo per ripulirle. Assaporò il sapore di
lui e, mentre lo faceva, lo fissò dritto in faccia. I suoi capelli erano tagliati
molto corti, ma poteva dire che erano scuri, forse neri. Le sue ciglia erano
spesse e piuttosto belle, e sembrava una cosa frivola da notare, così si
spostò direttamente sulla bocca.
Pessima idea se stava cercando di evitare complicazioni.
Perché era... davvero piuttosto sorprendente…
Non aveva intenzione di farlo. Non era una cosa cosciente... ma lei gli
accarezzò il viso.
- Non morire - pregò con la voce che si incrinava. - Ho bisogno di te –
Per qualche stupida ragione, si aspettava che lui reagisse a quello.
Magari per aprire quelle ciglia così da poterla fissare con il suo sguardo di
ossidiana.
A quel punto, il suo principe/Reverendo sarebbe tornato e rimasto
affascinato dal suo viso senza trucco, dalla sua coda di cavallo disordinata e
dai suoi vestiti assolutamente poco sexy, e avrebbe giurato di darle ciò per
cui era venuta qui.
Sì, giusto, perché la vita reale era sempre sceneggiata dalla Disney.
Ma dai, lei lo aveva salvato.
- Ehi? - disse. - Ehm... ciao? –
No, davvero. Lo aveva salvato. Giusto?
Il suo colorito era ancora brutto, il suo respiro non era migliorato, e
solo perché la pozza di sangue… o meglio, lo stagno… sotto entrambi non
stava diventando più grande, non significava che fosse fuori pericolo.
Nemmeno la chiusura della ferita sarebbe stata sufficiente. Aveva
bisogno di cure mediche adeguate.
- Ho bisogno che tu viva - mormorò tirandosi su la manica.
Segnandosi il polso con le zanne, aspettò che il suo sangue sgorgasse
e poi allungò la parte inferiore del braccio sopra la bocca di lui. La prima
goccia che colpì le sue labbra non fece altro che offrirle un pessimo
confronto tra la sua pelle pallida e quella di una persona in salute. La
seconda non servì a nulla. La terza…
Il rantolo che uscì da lui fu così forte, così brusco, così violento, che
lei sussultò e quasi gli lasciò cadere la testa dal grembo. E poi quegli occhi
si aprirono, ma non nel modo sognante che aveva fantasticato.
Tuttavia, quell'occhiataccia ostile era degna di lui.
E poi le afferrò il polso.
Mentre le sue ossa venivano schiacciate nella sua presa, la paura la
fece ritrarre di scatto, o almeno ci provò. Non riuscì a liberarsi, non fino a
quando non lo avesse deciso lui.
Il maschio si mise a sedere, il busto incurvato, la muscolatura gonfia
mentre il petto si contraeva per sollevare il peso delle spalle. E poi la sua
testa scattò verso la vena aperta sul polso di lei.
Il ringhio che gli uscì era quello di un animale.
Ora quella mano tatuata la stava raggiungendo. Reclamando. Per
trascinarla nell'inferno che conteneva la sua anima nera...
- No - ordinò lei. - Non puoi prendere più del necessario. Non puoi
farmi del male –
Quando le parole la lasciarono, forti e decise, Mae non aveva idea da
dove venisse quella convinzione. Ma non aveva intenzione di discuterne.
Aveva bisogno di vivere per suo fratello.
Era proprio così che doveva essere.

•••

Quando il cervello di Sahvage tornò on line, la sua prima


consapevolezza fu l'odore del sangue della femmina. Nonostante fossero
circondati da tutto il suo sangue, oltre alle mani di lei, la sua felpa… la sua
bocca… il suo profumo riusciva a sopraffare tutto. Era un prato fresco in
una notte stellata, subito dopo una tiepida pioggia primaverile.
Affascinante.
Premurosa.
Pulita.
E aveva bisogno di altro di lei nel suo naso…
Si accigliò e si concentrò sul suo viso pallido e spaventato. Era
bellissima, pensò, in un modo non appariscente, i suoi lineamenti non erano
cosparsi di trucco, i capelli tirati indietro in modo semplice. E le sue labbra
si muovevano. Stava parlando con lui. Probabilmente gli stava dicendo di
lasciarla andare. Di non farle del male. Forse stava implorando…
Cazzo.
Era ancora vivo.
Dannazione.
Con un’insensibile e persistente frustrazione, si guardò la mano che le
stringeva l'avambraccio. Grazie a un nuovo morso sul polso, il suo sangue,
rosso e lucido... colò sulla sua presa.
Quello era il sapore che aveva in bocca, il sapore celestiale che
l'aveva rianimato, richiamato, portato da lei come un cane chiamato dal
padrone.
E adesso? Aveva una decisione da prendere. Ucciderla e prendere
tutto dalla sua vena. Oppure lasciarla libera e andare via subito. Perché se
lui fosse rimasto e lei era viva l’avrebbe scopata mentre beveva da lei fino a
dissanguarla.
Mentre Sahvage rimuginava sulla questione, pensò che il fatto di
dover soppesare la scelta di far sopravvivere un innocente non rifletteva
bene il suo carattere. Ma dopo tutto questo tempo, non aveva più un
carattere. Non era rimasto più nulla di ciò che era stato una volta. Era una
macchina della morte che vagava per la terra, e la tragedia per la femmina
era che aveva scelto di stare con lui invece di scappare con la folla.
- Sei il Reverendo? - chiese lei con voce roca.
O almeno pensò che fosse quello che stava dicendo. Era distratto da
quel suo profumo, da quel sapore... dal fatto che ora era completamente
duro.
- Ho bisogno di sapere - disse. - E tu hai bisogno di vivere. Prendi
quello che ti serve, ma non di più –
Con quello, mise il polso contro la sua bocca, premendo le ferite sulle
sue labbra, e all'istante lui fu perso come lo era stato mentre stava morendo,
la sua mente fluttuava in un mare di sensi compromessi, il suo corpo non
era più suo, il suo cuore perse i battiti, i suoi polmoni si congelarono.
Non riusciva a deglutire abbastanza velocemente. Era un pozzo senza
fondo.
Sahvage si adagiò di nuovo sul grembo di lei, la fissò mentre beveva
dalla sua vena. Lei non avrebbe incontrato il suo sguardo, e lui non era
sorpreso. Non era il tipo di maschio con cui una femmina come lei avrebbe
dovuto avere a che fare volontariamente, e non perché fosse
un'aristocratica. Poteva dire dai vestiti che indossava e dalla borsa che era
una civile, ma non era quello che li divideva.
Lui sapeva molto bene chi era, e qualsiasi cosa viva non avrebbe
dovuto restare da sola con lui. Maschio o femmina.
Eppure lei era lì che lo stava aiutando. Per ragioni che sfidavano ogni
spiegazione.
Non ti ucciderò, le promise.
Era la minima cortesia che le doveva, no?
Sahvage si ritrasse dalla sua vena, dal suo polso... e, con un grugnito,
dal suo grembo.
Con uno movimento disordinato, si girò sullo stomaco e poi si
trascinò via da lei, i suoi palmi e le sue braccia pesanti fecero lo sforzo, le
sue gambe che raschiarono sul cemento. Quando fu fuori dalla gigantesca
pozza di sangue che si era lasciato alle spalle, quando lasciò più di due
metri buoni tra lui e la femmina, si lasciò crollare di nuovo.
Il pavimento freddo del garage era piacevole contro il lato caldo della
sua faccia, e pensò che la sua erezione era seriamente stipata in una brutta
angolazione nei suoi pantaloni. Ma come poteva preoccuparsi del suo
dannato stupido uccello? Ansimò e cercò di orientarsi, la sua mano tornò al
lato del collo.
La ferita era stata sigillata. Lei doveva avere…
. Io, ah… - la femmina si schiarì la gola. - Ho cercato di chiuderla –
Lui la guardò.
- Non avresti dovuto farlo –
- Beh, l'ho fatto –
Quei suoi occhi sembravano non fermarsi su nulla, ma davvero, quali
erano le sue opzioni? I suoi vestiti macchiati di sangue? La pozza di sangue
che si era lasciato dietro? Il garage vuoto da cui entrambi avevano bisogno
di uscire?
- Come ti senti? - gli chiese.
- Bene. Davvero alla grande –
- Vuoi, ah, andare da un dottore? –
Sahvage rise aspramente.
- Sicuro. Grande idea –
Quello sguardo incontrò direttamente il suo.
- Sei il Reverendo? –
- Chi? –
- Non mentirmi. Non siamo più estranei –
Giù per le strade, i suoni delle sirene ululavano in lontananza e
Sahvage si chiese quanti poliziotti stavano arrivando. Gli umani erano così,
si facevano sempre vedere dove non erano stati invitati.
La femmina distolse lo sguardo verso il rumore, abbassando le
sopracciglia come se stesse cercando di contare il numero di isolati che la
polizia stava coprendo al secondo.
- Si stanno avvicinando –
- Già –
- Ho bisogno del tuo aiuto - lei tornò a guardarlo. - Non ho molto
tempo –
Socchiuse gli occhi.
- Sei sicura di aver bisogno del genere di cose che sono in grado di
fare? –
- Se avessi un'altra scelta, fidati, la preferirei –
Con un gemito, lui si mise a sedere e cercò di spazzolare via lo sporco
dai pettorali. Ma il sangue secco era come la colla.
- Ti credo. Di cosa hai bisogno? –
- Sei il Reverendo? –
Abbassando il mento, la guardò da sotto le palpebre.
- Ti sembro una figura religiosa? –
- Non giocare con me –
- Non lo sto facendo, Tesoro –
- Questo non è un gioco per me - sputò lei. - Ho bisogno di sapere se
sei il Reverendo –
Lei balzò in piedi e Sahvage la osservò pensando che nuda sarebbe
stata bellissima. Quei vestiti larghi non mettevano in risalto le sue doti, ma
ne aveva in abbondanza, e gli piaceva il fatto che non fosse il tipo da
mettersi in mostra.
- E io ho bisogno di un Motrin - mormorò portandosi il palmo
insanguinato sulla testa dolorante.
Che diavolo doveva fare un maschio come lui per morire? Aspetta...
non voleva la risposta a questo. Alcune cose era meglio lasciarle nel campo
dell’ipotesi. Ed ehi, almeno non stava pensando più al sesso.
- Sei il Reverendo? - domandò di nuovo, la sua voce echeggiò intorno
al livello del garage vuoto e scavalcò le sirene.
Tutto si stava concentrando su questo bagno di sangue che
coinvolgeva una coppia di vampiri, uno dei quali era a caccia di una specie
di Protestante con le zanne, e l'altro aveva deciso di non farsi mai più
coinvolgere dai drammi delle altre persone.
Perché si era preso la briga di andare di nuovo a Caldwell?
Oh giusto. Era annoiato.
CAPITOLO NOVE

- Sei il Reverendo? –
Si poteva pensare che Mae stesse urlando per farsi sentire sopra le
auto della polizia che si stavano avvicinando, ma no, era solo incazzata. E
intanto, l'enorme maschio al quale aveva dato la sua vena - sì, perché quello
era stato sulla sua lista di cose da fare in quella piccola avventura in città -
la stava fissando con quella sua espressione annoiata, una pista doppia di
striature di sangue partiva da dove era quasi morto a dove si era trascinato
lontano da lei.
Lo schema di tutto sembrava come se lui fosse stato un razzo lanciato
nello spazio, la grande pozza l'esplosione del decollo, le tracce lasciate dai
suoi stivali le scie di condensazione del suo combattimento.
Anche se non aveva alcun senso.
E per l’amor del cielo, avrebbe potuto fare a meno di quel tatuaggio
sul petto che puntava verso di lei.
- Il mio dannato cranio sta martellando - gemette.
Quindi non combattere a mani nude con gli umani che non hanno
onore, si lamentò lei nella sua testa. Cosa pensavi che sarebbe successo?
- Comunque - scattò il maschio mentre la fissava. - Sei stata tu a
distrarmi –
Cavolo, l'aveva detto ad alta voce. Ma comunque era giusto.
- Non hai mai sentito parlare della regola di non fraternizzare? - si
risentì lei. - Non dovresti essere qui, tanto per cominciare –
- Disse la femmina che era anche lei tra la folla –
Mae si mise le mani sui fianchi e si chinò verso di lui.
- Ho il permesso di andare dove voglio, non sono più i secoli bui dei
vampire –
- Oh, quindi tu hai la libertà, ma io no perché sono un maschio. Com'è
conveniente... –
- Io non stavo combattendo a mani nude con loro! –
- Quindi sei venuta qui solo per scommettere? Allora, oh, sì, hai fatto
tutto assolutamente alla luce del sole –
Mae serrò i molari e pensò seriamente di avvicinarsi per prenderlo a
calci in una gamba. O forse nel culo. A ogni modo, le sarebbe piaciuto
dargli qualcosa di cui preoccuparsi oltre alla sua testa dolorante.
- Non sono venuta per giocare... –
- Per il sesso, allora? Perché avresti potuto ottenere di più se avessi
mostrato un po' di pelle. Sembri la madre di qualcuno –
Mae alzò gli occhi al cielo.
- Oh, certo, accetterò consigli sartoriali da una pubblicità ambulante
di morte di oltre cento chili. Ma non hai mai sentito parlare di pubblicità
ingannevole? Perché l'ultima volta che ho controllato, sei stato fatto a pezzi
da un umano... –
Il maschio alzò le mani.
- Perché qualcuno che conosciamo mi stava dicendo di non uccidere
quel figlio di puttana! –
- Non dovresti uccidere nessuno! –
- Bene, non siete voi due una coppia davvero felice? –
Al suono di quella voce maschile, entrambi guardarono verso le
ombre dove una grande figura incombeva nell'oscurità.
Senza perdere tempo, lei e il combattente parlarono allo stesso
momento:
- Non siamo una coppia... –
- Non siamo una coppia... –
La risatina che provenne da quell'angolo era un sì, certo, ma
all'improvviso era più preoccupata per la sua vita e la sua sicurezza che
essere collegata a quello scheletro laggiù.
E tra l’altro, sopravvivere avrebbe dovuto essere la sua priorità prima
di ogni altra cosa.
La sua mano affondò nella borsa per cercare lo spray al peperoncino,
la fonte della voce entrò in una macchia di luce ambientale.
- Ti chiederò di tenere le armi dove sono, grazie. E questo include
anche te, Shawn -
Shawn?
Guardò il combattente. E poi si concentrò su ciò che era venuto a
unirsi a loro.
Okay, questo maschio era... niente di quello che si sarebbe aspettata
di vedere in una parte così decrepita della città. Era alto, enorme e il suo
viso apparteneva a una schiera di persone che avevano ucciso i loro nemici
in modi molto complicati. Quindi sì, tutto ciò si adattava alla lista, così
come il suo Mohawk. Ma indossava uno spolverino di pelliccia lungo fino
al pavimento, e con il bastone d'oro che lo aiutava a mantenere l'equilibrio
sembrava che stesse andando all'opera...
Shawn si alzò in piedi e spostò la montagna del suo corpo di fronte a
lei. Come per volerla proteggere.
- Rilassati, grande uomo, non le farò del male - disse seccamente
l'altro maschio.
- Hai dannatamente ragione - rispose Shawn. - Perché non te ne darò
la fottuta possibilità –
Mae si sporse di lato e guardò una serie di muscoli delle braccia
sporgenti.
- Sei il Reverendo? –
L' espressione del maschio con il visone non mutò. Eppure lei avvertì
un cambiamento in lui, anche se le sarebbe stato difficile individuare il
motivo per cui l'aveva riconosciuto.
- Per cosa ti serve il Reverendo, femmina? Non sei il suo tipo –
- Nemmeno lei è il tuo, stronzo - scattò Shawn. - Allora che ne dici di
toglierti dalla palle... –
- Non sta parlando con te, ragazzo mio... –
Okaaaaay, era davvero stanca di tutto quel testosterone.
Mae uscì da sotto copertura e fissò il nuovo arrivato.
- Mi ha mandato Tallah. A cercare il Reverendo. E qualcosa mi dice
che è proprio davanti a me –
Entrambi i maschi restarono in silenzio come se fossero sorpresi che
lei non fosse disposta a fare tappezzeria per le loro routine di battersi il
petto.
- Sii sincero con me - disse lei sfinita. - Sono davvero stanca stasera
anche prima che tu entrassi qui come il figlio di Liberace e Hannibal Lecter

Il maschio con il visone socchiuse gli occhi e Shawn scoppiò a ridere.
- Oh, andiamo, Reverendo – disse - devi ammettere che è stato
divertente –
Mae era troppo occupata a valutare lo sguardo dell'altro maschio per
prestare attenzione ai complimenti di Shawn. Aveva la sensazione che le
sue iridi fossero viola scuro, qualcosa che non aveva mai visto prima. E
Dio, quella strana sensazione la stava attraversando di nuovo. Non era
attrazione, no, no, lei sembrava riservarla solo agli assassini che avevano
più inchiostro di una fabbrica di Bic e il sapore del paradiso. No, quello che
provava era qualcos'altro, e qualunque cosa fosse, voleva solo scappare da
quell’inquietudine che la avvolgeva.
- Te lo chiederò di nuovo, femmina - il tono del maschio non cambiò.
- Cosa vuoi dal Reverendo... –
- Oh, basta con le stronzate - lo interruppe lei. - E io non voglio te.
Voglio il Libro. Tallah ha detto che avresti saputo come trovarlo –
Mentre le gomme stridevano in basso e le portiere delle macchine
iniziavano ad aprirsi e chiudersi, il maschio smise di parlare. E rimase così.
- Allora sai cos'è… - disse lei con speranza. - Sai cosa sto cercando...

- Certo, so cos'è un libro. Sono due copertine rigide con qualcosa di
fragile rilegato nel mezzo. Le parole sono scritte sulle pagine in righe pari, a
meno che non siano illustrate. E a volte contengono parolacce, tipo di che
cazzo stai parlando? –
Un ringhio uscì da Shawn e lei si voltò e lo fissò con uno sguardo
duro.
- Non ho bisogno del tuo aiuto - Quando il suo sguardo spiacevole
rimase bloccato sull'altro idiota nel garage, lei gli diede una pacca sul petto.
- Ehi, Shawn. Puoi andartene ora... –
All’improvviso, un gruppo di poliziotti umani sbucò fuori dalla
tromba delle scale, pistole alzate e torce accecanti puntate dritto davanti a
loro.
Quando Shawn sganciò un'altra imprecazione, e il vampiro con la
pelliccia di visone alzò le mani, Mae si schermò gli occhi con le braccia, ed
era molto sicura del fatto che, probabilmente per l'unica volta in tutte le loro
vite, lei e questi due maschi erano completamente d'accordo.
Cazzo era la parola giusta.

•••

Rehvenge venne colpito con un fascio led da bruciare la retina, e capì


che la femmina con le idee brillanti era qualcosa che aveva bisogno di
evitare come la peste. Era anche totalmente infastidito da Shawn e dal suo
atteggiamento da super maschio, anche se era principalmente perché il
combattimento era stato annullato e ora Rehv si aspettava dodici tipi di mal
di testa per dover sistemare la situazione con gli scommettitori. Ma la
polizia? Ebbene, quei ragazzi e quelle ragazze in blu lo avevano irritato.
Aveva già abbastanza problemi senza che loro interferissero.
Con quel pensiero, congelò il trio dove si trovava. Come symphath,
leggere le loro griglie emotive era sia irresistibile che una questione di un
attimo: la donna a sinistra era molto ansiosa, una nuova tirocinante che si
stava ancora stabilizzando; l'uomo al centro era completamente calmo, un
veterano che aveva visto praticamente tutto; e il ragazzo dall'altra parte
stava nascondendo qualcosa a tutti quelli vicino a lui.
- State tranquilli - ordinò Rehv.
In una danza coordinata, abbassarono le torce, spensero le telecamere
portatili e riferirono ai comunicatori a spalla che non c'era niente di strano
al sesto piano, niente di sbagliato, niente in corso. Qualunque cosa fosse
accaduta qui era conclusa. Le chiamate erano errate o si trattava di un altro
caso di falsa segnalazione per deviare risorse.
Probabilmente un gruppo di ragazzini che volevano giocare.
Ragazzini stupidi.
Uno dopo l'altro, si voltarono e cominciarono a chiacchierare del più e
del meno mentre si dirigevano in fila indiana verso la tromba delle scale: la
donna aveva cenato con un sandwich Ruben che le era rimasto sullo
stomaco, l’uomo al centro era preoccupato per l’acquisto della sua nuova
casa, e il ragazzo che stava appena più indietro sperava che gli accettassero
gli straordinari.
Ah. E stava risparmiando per comprare un anello di fidanzamento per
la sua ragazza. Questo era quello che stava nascondendo, e per fortuna non
erano tangenti o roba del genere.
Davvero dolce.
La porta d'acciaio da cui erano entrati venne sbattuta negli stipiti
dietro di loro, e Rehv guardò la coppia di vampiri. Che ovviamente si erano
nutriti l'uno dell'altro. Poteva fiutarlo nell'aria.
- Sei sicura che voi due non state insieme? - disse alla femmina per
distrarla. - Lui non è tuo? –
- No! - Lei giocherellò con la sua borsa. Il colletto della felpa. La
manica sinistra. - Lui non è… Gesù, ci siamo appena conosciuti… voglio
dire, incontrati. Non so nemmeno il suo nome. O almeno non lo sapevo
finché non sei arrivato tu... qual era la domanda? –
Mentre lei balbettava, Rehv entrò e controllò la sua griglia emotiva, e
quello che vide era brutto. Molto brutto.
- Non conosco nessun libro - disse, interrompendola. - Mi dispiace –
La femmina fece un respiro profondo.
- Tallah mi ha detto che lo avevi o che avresti saputo dove trovarlo.
Ne era sicura... lei... –
- Lei ha torto - Rehv si accigliò. - Come sta, a proposito. Non la vedo
da anni. Era una buona amica di mia mahmen –
- Ma lei ha detto... –
- Ho finito di negarti i fatti - Rehv sorrise lentamente e fece un cenno
verso Shawn, che stava ancora fumando per l'aggressività, un grido di
possessività da vampiro. - Ma puoi rispondermi su una cosa. Se non è tuo,
perché lo hai nutrito? –
Questo fermò la femmina sui suoi passi.
- Stava morendo –
Rehv rise.
- Fatemi capire bene. Vieni qui in cerca di una specie di bestseller, ti
imbatti in questo ragazzone, e quando comincia a sanguinare… - Rehv
indicò la macchia ovale di sangue sul cemento - rischi la tua vita per
salvarlo? –
- Ho fatto quello che avrebbe fatto chiunque altro -
No, pensò Rehv tra sé e sé. Avevi le tue ragioni per offrirgli la tua
vena, e qualunque siano, ti stanno facendo disperare.
- No, non è così - mormorò Rehv. - La maggior parte delle persone lo
avrebbe lasciato morire. In realtà, tutti lo avrebbero fatto. Quindi ora è tuo...

- No, lui non è... –
- Ti deve la vita. Quindi è tuo... –
- Non lo voglio! –
Shawn... e comunque, chi cazzo poteva offrirsi volontario per un
nome umano come quello? Non poteva quel bastardo pensare a
qualcos'altro con cui distinguersi? … all'improvviso sembrava offeso.
Come se lei avesse rifiutato della carne appena uscita dal frigorifero,
controllata dal Dipartimento dell'agricoltura degli Stati Uniti.
Certo, perché un maschio come lui era un tale premio. Soprattutto per
una bella femmina che era chiaramente fuori di sé per qualunque cazzo di
cosa stesse succedendo lì.
- Va bene, va bene, sono affari tuoi - Rehv scrollò le spalle. - E con
questo, me ne vado... –
- Ho bisogno del tuo aiuto - implorò lei.
Rehv strinse di nuovo gli occhi. Unì i palmi delle mani e si chinò in
avanti come per pregare, l'espressione sul suo viso sarebbe stata straziante
se gli fosse importato un cazzo. Ma non poteva permetterselo. La sua
griglia, quella sovrastruttura che solo i symphaths vedevano, risplendeva di
una luce feroce e distruttiva che stava salendo a un livello di incendio di
allarme cinque.
Soprattutto visto quello che lei stava chiedendo.
- Come ti chiami? - chiese.
- È importante? –
- No, non proprio... –
- Sei la mia unica speranza – implorò.
Dopo un momento, lui scosse la testa.
- Questa è una battuta di Star Wars, femmina. Non ha niente a che
fare con me –
Mentre si smaterializzava, pensò di dover lasciare perdere tutto
quello.
Sfortunatamente, visto quello che lei stava cercando, era coinvolto
come qualcuno legato a un'ancora che affonda.
CAPITOLO DIECI

Era stato un bene che il Reverendo se ne fosse andato. Quando quel


maschio con il cappotto stravagante aveva dato fiato alla bocca, Sahvage si
era chiesto quale modo di uccidere quel figlio di puttana sarebbe stato più
soddisfacente. Ce n’erano molti tra cui scegliere, come accadeva quando
avevi passato un paio di secoli a cacciare di notte ed eliminare le cose. La
mancanza di armi, tuttavia, limitava alcune delle sue opzioni, anche se
semplicemente a mani nude non era certo un motivo di preoccupazione.
Alla fine, il migliore della cucciolata era stato prendere la testa del
tipo e sbatterla a faccia in giù contro uno dei muri di cemento prontamente
disponibili, con il risultato che il cranio del Reverendo si sarebbe rotto
come un uovo, e il suo cervello sarebbe uscito dalla prigione cranica come
piccioni schiacciati sotto i piedi, con chiazze di sangue dappertutto.
Oh, che sollievo.
Sfortunatamente, prima che quel piccolo piano felice potesse essere
messo in atto, lo stronzo se ne era andato...
- No - gridò la femmina correndo in avanti.
Allungò le mani verso il nulla, anche se i suoi occhi dovevano averle
detto che non c'era nessuno da afferrare, nessuno da prendere. Nessuno che
poteva aiutarla.
Stando in disparte, Sahvage pensò che sarebbe stato interessante
essere necessario per lei in quel modo. Desiderato in quel modo.
Determinato a essere necessario…
Che diavolo stava pensando.
Era già stato in quella situazione, lo aveva già fatto, e guarda tutte le
stronzate felici che gli erano cadute in testa a causa di quello.
- Allora… cos'è questo libro? - chiese.
Accidenti. No. Non doveva aprire quella porta...
La femmina si voltò. L'assoluta sconfitta sul suo viso fu uno shock,
senza alcuna buona ragione.
- Era la mia ultima possibilità –
- Per cosa? –
La femmina si guardò le scarpe. Quando finalmente tornò a guardarlo,
strinse le labbra e scosse la testa.
- Devo andare –
- Sahvage incrociò le braccia sul petto.
- Se vuoi, te lo riporto –
Con le sopracciglia inarcate, lei si portò le mani a un orecchio come
se non avesse sentito bene.
- Come hai detto? –
- Lui. Lo troverò e te lo riporterò –
Lei lanciò un'imprecazione stanca.
- Non puoi farlo –
- Guardami - scrollò le spalle. - Non mi dispiace trasportare carichi
pesanti e boriosi. L’ho già fatto prima, lo farò di nuovo –
- Lui sa dov'è - mormorò voltandosi a guardare dove era stato l'altro
maschio. - Tallah non mi mentirebbe mai. Lui sa dov'è il Libro, ma per
qualche ragione finge di non saperlo –
Sahvage rimase immobile.
- Che libro stai cercando –
Distrattamente, come se fosse una riflessione secondaria a tutto il
resto che le passava per la mente, disse:
- E devi smettere di combattere –
Sahvage si accigliò e indicò tutto lo spazio vuoto.
- Con chi? Siamo soli qui, e per tua informazione, questo nostro
scambio di battute può difficilmente essere considerato un combattimento –
Gli occhi di lei tornarono nei suoi.
- Devi smettere di combattere con tutto e tutti –
- Non fingere di conoscermi, femmina - l'avvertì.
- Non devo fingere. Hai un cartellone appeso sulle spalle affinché tutti
lo vedano - lei scosse la testa. - Smettila di combattere. È un dannato spreco
di energia. E mi dispiace di averti distratto così che ti sei fatto male. Penso
che ora siamo pari, però... –
- Pensavi che fossi il Reverendo - disse bruscamente. - Ecco perché
sei tornata, è vero? –
- Non ha importanza ormai –
- Hai ragione - fece un passo verso di lei. - Ma rispondimi –
- Devo andare... –
- Se avessi saputo che non ero lui, avresti comunque cercato di
salvarmi? - Quando lei non rispose, abbassò le palpebre. - Dai, sii onesta.
Cosa hai da perdere? –
- No - disse dopo una pausa. - Non sarei tornata –
- Bene - Quando la sorpresa divampò sul suo viso, lui scrollò le
spalle. - Dimostra che hai mezzo cervello, e qualcosa mi dice che ne avrai
bisogno, Tesoro –
La femmina fece un respiro profondo.
- Se mi chiami tesoro ancora una volta, ti colpirò –
Sahvage ridacchiò un po'.
- Sembra divertente. Ti lascerò persino tenermi fermo quando lo farai.
Mi piace l'idea di te sopra –
Il rossore di lei iniziò dalla gola e salì fino a colorarle il viso, e non fu
l'unico calore che divampò. Il profumo della sua eccitazione viaggiò
nell’aria fino al suo naso, e lui inspirò lentamente e profondamente.
- È un peccato che te ne vada - disse a bassa voce. - Devo fare una
doccia e mi servirebbe un aiuto per la schiena –
La femmina si riscosse, come se uscisse da uno stato di trance.
- Inutile dire che sono più che disinteressata. Puoi tenere il sapone per
te –
Detto questo, si smaterializzò così velocemente che lui rimase
sbalordito dal suo controllo mentale. E poi, appena registrò la sua assenza...
per una frazione di secondo, fece come aveva fatto lei, e allungò le mani nel
nulla.
Anche se davanti a lui non c'era niente.
Abbassando le braccia, un vuoto gli attraversò il petto e scese sulle
sue membra. La sensazione di non essere altro che un vuoto che respirava
era familiare. Era quello che era stato per molto tempo.
Eppure, per qualche ragione, quella femmina lo aveva reso
consapevole della sua esistenza sterile come se questa assenza di peso fosse
nuova di zecca.
Come se contasse qualcosa, però, si disse mentre si smaterializzava
anche lui.
Inoltre, era in grado di guardarsi le spalle.
Lo aveva sempre fatto e sarebbe sempre stato così.
•••

In basso, al livello del suolo, Mae si riformò nell'oscurità e ignorò


diligentemente il fatto che stava ansimando. E c'erano molte altre cose nel
suo corpo che si rifiutava di riconoscere, ma non si sarebbe soffermata su di
esse. Non esistevano. Perché le stava ignorando.
- Cazzo! – mormorò, anche se imprecava raramente.
Ma questa notte stava battendo tutti i tipi di record.
Presa dai suoi pensieri, iniziò a camminare senza preoccuparsi di
vedere chi c'era intorno. Fortunatamente, i poliziotti stavano chiacchierando
dall'altra parte del parcheggio, e tutti gli altri umani erano andati via.
Attraversò la strada, le luci rosse intermittenti delle sirene delle auto
della polizia lampeggiavano intorno agli edifici abbandonati, e non c'era
assolutamente traffico su nessuna delle strade in un raggio di dieci isolati.
Allo stesso modo, i parcheggi che erano stati occupati da quelle vistose
macchine adesso erano vuoti, nient'altro che spazzatura e qualche rottame…
e in alto, l'elicottero della polizia stava spegnendo i suoi riflettori e
allontanandosi dall'area.
Era come l'ultima scena di un film dell'orrore, lo spavento era finito,
l'eroina salva, le lezioni apprese. Via ai titoli di coda.
Grande analogia, o metafora, quello che era.
Già, a parte il fatto che Jason tornava dal proverbiale lago e trascinava
il ragazzo in fondo con lui.
Per rivendicare il suo ultimo omicidio, dopotutto.
La sua macchina era dove l'aveva lasciata e salendo, l’accese, mise la
retromarcia e fece inversione. Mentre si avviava, in una direzione che le
assicurasse di evitare i poliziotti, si aggrappò al volante e affondò al posto
di guida.
Dio, non era affatto così che pensava che le cose sarebbero andate. E
aveva bisogno di chiamare Tallah.
Invece di prendere il telefono dalla borsa, tirò semplicemente dritto
dalla selva di sensi unici della città, trovando una rampa d'ingresso sulla
Northway...
Cazzo, andava a sud, non a nord.
- Dannazione - mormorò mentre si guardava alle spalle per
immettersi.
Non c'erano auto, solo un paio di semirimorchi, e Mae prese l'uscita
successiva, dovette fermarsi a un semaforo, e tornò in autostrada, andando
nella direzione giusta.
Anche se teneva la macchina nella sua corsia e rimaneva al limite di
velocità per monitorare il numero crescente delle uscite, per lo più era persa
nei suoi pensieri, in una rappresentazione di tutto ciò che era appena
accaduto scena per scena. Quando tutto finì e si stava preparando per un
replay, guardò l'orologio sul cruscotto.
Porca puttana. Era passata solo un'ora.
Sembravano dodici.
O forse un'intera settimana.
Eppure, nonostante tutto ciò che era accaduto, l'essenziale era rimasto
immutato e la schiacciante realtà della sua situazione le rendeva difficile
respirare. Aprendo il finestrino, prese alcuni grandi respiri. Poi spense il
riscaldamento.
Quando giunse alla sua uscita, fu come se la sua macchina andasse da
sola, e la stessa cosa accadde quando si avvicinò alla stazione di servizio
Shell in cui si fermava ogni notte. Quando la Honda si fermò davanti alla
parte del negozio, lontano dalle pompe, la sua testa si voltò verso il
frigorifero.
Per un momento, tutto diventò sfocato, i pinguini dei cartoni animati
con le loro sciarpe rosse erano scomparsi nel mezzo del loro paesaggio
artico.
Tenne a bada il crollo aprendo la portiera e uscendo con la sua borsa.
Quando entrò nel minimarket, il ragazzo dietro il registratore di cassa alzò
lo sguardo dal suo telefono.
- Oh, ehi - si accarezzò la barba ispida. - Il solito? –
- Sì, grazie –
Mae tirò fuori due biglietti da venti dollari, l'umano fece il suo bip,
bip, bip alla cassa e il cassetto dei contanti si aprì. Quando le restituì il
cambio di ventisette centesimi, lei mise le monete nel piatto di plastica per
qualcun altro.
- Ho tenuto aperto per te - le disse mentre si sistemava sullo sgabello
e tornava al telefono. - Sicuramente organizzi molte feste –
- Vuoi che metta la catena e il lucchetto quando ho finito? –
Alzò lo sguardo sorpreso, come se non fosse mai successo prima che
un cliente lo aiutasse.
- Sì, grazie –
- Stai attento –
- Sì, anche tu –
Tornata fuori, andò al congelatore. Ci vollero tre viaggi avanti e
indietro fino alla sua macchina, e nell'ultimo posò i suoi fagotti scivolosi e
freddi sul marciapiede, fece passare gli anelli della catena attraverso le
maniglie e la serratura in posizione.
Guardando nella telecamera di sicurezza, salutò con la mano.
Attraverso la parete di vetro, l'uomo dietro la cassa alzò la mano in
risposta.
Con un gemito, Mae raccolse le ultime sacche di ghiaccio e le sollevò
fino al bagagliaio. Gettandole dentro con le altre, chiuse il portellone e
tornò al volante.
Pianse fino a casa sua.
Nella casa in cui lei e suo fratello erano cresciuti.
Nella casa in cui ora vivevano insieme, dopo la morte dei genitori.
Il vialetto sembrò salire per incontrare le gomme anteriori della sua
auto, e quando i suoi abbaglianti inondarono la facciata del ranch a un solo
piano, vide che uno dei cespugli vicino alla porta era morto durante
l'inverno, e c'era un ramo caduto nel prato di fianco. Avrebbe dovuto
sistemarli.
Mentre aspettava che la porta del garage si aprisse, si rese conto di
aver notato quel cespuglio e quel ramo ogni notte quando tornava con il
ghiaccio. E ogni notte prendeva la stessa decisione. Domani notte?
Probabilmente avrebbe ripetuto l'intera storia.
Perché nulla era cambiato…
- Merda! - mormorò mentre parcheggiava al contrario.
Di nuovo in strada, girò la macchina, guardò da sopra la sua spalla e
fece marcia indietro con la Civic. Frenò appena prima che il paraurti
posteriore della Honda colpisse la parete in fondo, spense la macchina e
aspettò che le porte del garage scendessero e si bloccassero in posizione.
Dopodiché, ci vollero un paio di minuti prima di riuscire a sopportare di
mettersi al lavoro.
Continuava a pensare a quel combattente.
E no, non l'avrebbe aiutato a lavarsi la schiena. Non aveva alcun
interesse a fissare quel teschio mentre insaponava gli enormi muscoli delle
sue spalle e la sua vita stretta e il suo...
- Non andare oltre - ordinò a se stessa scendendo dalla macchina.
Il rituale di puntellare la porta sul retro con il bidone della spazzatura
e andare avanti e indietro dal suo portabagagli al punto in cui aveva
svuotato la sua borsa la sera prima era più faticoso di quanto avrebbe
dovuto essere.
Quando finalmente ebbe finito, si assicurò di inserire il catenaccio e
poi si fermò sopra gli otto sacchi di cubetti di ghiaccio. Aveva i palmi rossi
e che bruciavano, e se li strofinò sui pantaloni. Non riusciva a respirare, ma
non era per lo sforzo.
Quando sentì di poterlo sopportare, percorse lo stretto corridoio e
attraversò la cucina. Il soggiorno era buio, e anche il corridoio sul lato
opposto, dove c'erano le camere da letto al piano superiore e il bagno in
comune.
Lei e suo fratello erano sempre stati lassù. Ma nelle ultime due
settimane lei si era trasferita nel seminterrato.
Si fermò alla porta chiusa del bagno comune, chiuse gli occhi. Poi
bussò.
- Rhoger? Rhoger, sono io –
Aspettò, senza una buona ragione.
Aprì la porta e tenne gli occhi sul pavimento di piastrelle finché non
riuscì più a evitarlo. Spostandoli verso la vasca, sentì un dolore al centro del
petto.
Il corpo di Rhoger era sommerso da una pozza di acqua ghiacciata, i
cubetti che aveva aggiunto la sera prima si erano per lo più sciolti.
Indossava ancora i vestiti di quando era tornato a casa ed era svenuto
nell'ingresso, le macchie di sangue sbiadite a causa di tutta l'acqua, la
camicia e le maniche che si gonfiavano per l'immersione, i jeans consumati.
Non c'erano scarpe e i suoi piedi nudi erano bianchi come il suo viso.
Le sue palpebre erano di nuovo aperte.
Mae si portò la mano alla bocca e iniziò a iperventilare, la sua gabbia
toracica faceva gli straordinari, i polmoni in fiamme non funzionavano
quando si trattava di alleviare un'improvvisa sensazione di soffocamento.
- Rhoger, lo giuro... - si asciugò il viso e si schiarì la gola. - Prenderò
il Libro. In qualche modo lo prenderò e ti salverò –
Sotto l'acqua ferma, suo fratello la guardò con occhi spenti e senza
battere ciglio.
Lei li conosceva bene. Quando riusciva a dormire un po', li vedeva nei
suoi incubi.
Tornò di nuovo barcollando nel corridoio, avrebbe voluto cadere in
ginocchio e vomitare.
Invece si ricompose... e andò a prendere il ghiaccio nuovo.
CAPITOLO UNDICI

- Sei stato... –
Balz aspettava che la signora finisse il suo pensiero ad alta voce e
sorrise nel crepuscolo della sua maestosa camera da letto principale. Si era
assicurato di tenere aperte le porte del bagno di marmo in modo che ci fosse
abbastanza luce perché i suoi occhi umani potessero vedere cosa le stava
facendo. Ed era stata una sessione davvero buona, il tipo di allenamento di
base che significava che non avrebbe dovuto andare in palestra al centro di
addestramento, quando sarebbe tornato a casa.
Si girò su un fianco, passò la punta delle dita sulla collana di diamanti
che le aveva messo.
- È stato divertente –
La signora girò la testa verso di lui, i suoi capelli curati si
rovesciarono sul cuscino, le punte brune ora erano aggrovigliate, grazie ai
suoi orgasmi e al modo in cui si era inarcata così tante volte contro il letto.
- È stato molto più che divertente –
Le fece scorrere l'indice su per la gola e le sfiorò il labbro inferiore
con il pollice.
- Devo andare –
- Puoi restare fino al mattino... - All'improvviso la signora distolse lo
sguardo, il suo profilo era perfettamente bilanciato, probabilmente grazie a
un piccolo aiuto del bisturi. - Ma non devi rispondere, mi rendo conto che
non è... lo sai –
Balz premette le labbra sulla sua spalla nuda.
- Sei incredibilmente bella e qualsiasi uomo sarebbe onorato di essere
nel tuo letto. Fidati di me. Non lo dimenticherò mai –
Quando gli occhi di lei tornarono nei suoi, il suo sorriso si allargò
piano.
- Grazie. Sono stata spesso dimenticata –
- Mai da me - Mentre le diceva quello che lei voleva sentire, le prese
la mano e se la mise sul petto, sul cuore. - Proprio qui, c'è un posto per te.
Anche se non ci vedremo più –
La signora annuì.
- Sono sposata –
- E non dovresti sentirti in colpa per questo. Soprattutto quando lui è
in Idaho. Promettimelo, okay? –
Lei annuì tristemente, Balz la baciò sulla fronte, e poi si districò dal
suo corpo, dalle sue lenzuola, dal suo letto... dalla sua vita. Mentre si
rivestiva con i suoi vestiti neri da ladro, lei lo guardava, rannicchiata su un
fianco e con le coperte sul seno.
Che, in effetti, era spettacolare. Oltre che autentico.
- Non la prendi questa? - gli chiese.
Lui si voltò e lei si toccò i diamanti alla gola.
- No. Tienila tu. Non voglio prendere niente da te –
- Non sei preoccupato che possa chiamare la polizia? Voglio dire, non
lo farò mai, ma... –
- No, non sono preoccupato per questo –
E poiché era giunto il momento, perché era così che dovevano andare
le cose, entrò nel suo cervello e la costrinse a un sonno profondo e curativo.
All'interno dello schedario della sua memoria, assegnò tutto ciò che
avevano fatto insieme, alla finzione di uno stato onirico, il tempo in cui
avevano trascorso una meravigliosa e soddisfacente fantasia a qualcosa che
sarebbe sembrata vera come se fosse realmente accaduta.
Un fuoco acceso per scaldarsi nel bel mezzo dell'inverno del suo
matrimonio.
Prima che Balz la lasciasse, tirò su il piumone in modo che, mentre il
sudore si asciugava sulla sua pelle, non prendesse freddo. Poi tornò
nell'armadio. Chiuse le doppie porte dietro di lui, e fece un secondo viaggio
nella sezione abbigliamento formale di suo marito, e separò di nuovo quegli
smoking.
Balz sbuffò mentre riapriva la cassaforte, e non c'erano dubbi su cosa
avrebbe preso questa volta. Scelse la cassa degli orologi da polso, si infilò
sotto il braccio la collezione di cronometri del signore e richiuse tutto.
Che fottuto idiota era quel tipo. Aveva una bella cosa proprio al suo
fianco, ma nooooo, aveva bisogno di andare a cercare qualcosa di strano.
Nell'Idaho.
Davvero stupido.
Tornò nel corridoio ed ebbe l'idea di smaterializzarsi attraverso una
delle finestre a doppio vetro. Invece, si ritrovò a scendere le scale ricurve
solo per poter passare di nuovo davanti al Banksy. Ora quella era arte.
E ne avrebbe rubato uno o due se avesse potuto. Ma purtroppo
capolavori del genere non potevi venderli per pochi spiccioli. Troppo
tracciabile, troppa attenzione, e questo era il problema dell'essere un ladro.
Riguardava la strategia di uscita, e non solo in termini di farla franca con la
roba di qualcun altro. Dovevi essere in grado di liberartene, o eri solo un
accaparratore criminale.
Giù al secondo piano, si girò verso il panorama e prese un respiro
profondo...
Era tutto silenzioso nell’appartamento e, in seguito, si sarebbe chiesto
come lo avesse sentito.
Un tocco. Come su una finestra. Ma non proprio.
Accigliandosi, si girò e guardò nella direzione da cui pensava
provenisse. Fu allora che lo sentì di nuovo.
Tap. Tap.
Come se qualcosa fosse intrappolato e cercasse di uscire.
Strano. In tutte le sue ricerche sul signore e la signora, non aveva
trovato nessun animale domestico. Per prima cosa, la coppia aveva un
programma di viaggi in cui difficilmente si poteva mantenere in vita una
pianta d'appartamento, tanto meno qualcosa che richiedeva cibo, acqua e
passeggiate. Dall’altra, il signore era terribilmente ordinato. Pelo di gatto?
Pelo di cane? Avrebbe avuto un fottuto infarto.
Beh, qualunque cosa fosse, non c'era motivo di...
Di loro spontanea volontà, i piedi di Balz iniziarono a camminare, il
suo corpo venne trasportato come un bagaglio inanimato mentre si
dirigevano in una direzione, in una missione, che era completamente
estranea al suo volere: lui voleva andarsene. Voleva tornare con gli orologi
nella sua stanza nella villa della Confraternita. Voleva fare una telefonata al
suo tizio del mercato nero per monetizzare la piccola collezione di tic tac da
polso del signore.
Invece Balz stava attraversando le stanze delle collezioni... con i
meteoriti, gli strumenti chirurgici, i pipistrelli.
Una nuova stanza adesso. Totalmente buia senza luci o finestre.
Quando entrò, un apparecchio a soffitto venne attivato dal movimento
e una luce bassa scese silenziosa dall'alto.
Libri.
Ovunque.
Ma non allineati sugli scaffali, dorso a dorso. Erano collocati in teche
di vetro che correvano lungo le pareti, i tomi adagiati su supporti inclinati
come se fossero in una spa. Al bagliore della luce soffusa, le lettere dorate
brillavano sulle copertine e sui bordi di alcune pagine. Quando Balz inspirò,
sentì odore di polvere...
E qualcos'altro.
Tap. Tap. Tap…
La sua testa girò lentamente verso l'angolo più lontano. Isolato da tutti
gli altri, in una vetrina che era alta fino ai fianchi e illuminata da riflettori,
un tomo separato dal resto aveva ricevuto una nobile distinzione dagli altri
della collezione.
Tap.
Balz si avvicinò, richiamato dal suono. Dalla presenza del libro
speciale. Da...
In fondo alla sua mente, si rese conto di non avere il potere di voltare
le spalle. Ma era così affascinato da ciò che aveva davanti che non prese
atto della sua schiavitù, né pensò di cambiare destinazione. E mentre si
avvicinava al rivestimento, trattenne il respiro.
- Sono qui - sussurrò mettendo da parte gli orologi sul piano di vetro.
- Stai bene? –
Come se fosse un bambino che era stato dimenticato. Che aveva
bisogno di essere salvato. Da lui.
L'inestimabile manufatto era rilegato in una specie di pelle scura e
screziata che gli faceva fremere la nuca in segno di avvertimento.
Antico.
Il volume unico era molto, molto antico. Nessun titolo era impresso
sulla superficie della copertina e le pagine sembravano spesse come
pergamene...
Qualcosa puzzava.
Come la morte.
Quando un'ondata di nausea gli salì allo stomaco, Balz si coprì la
bocca con il palmo e si piegò in avanti per i conati di vomito...
Il suono del suo cellulare che squillava fu una scossa elettrica
assoluta, il suo corpo saltò indietro sul pavimento. Che cazzo? Aveva messo
il silenzioso...
Debole e disorientato, armeggiava con la cosa.
- Pronto? Pronto…? –
- È ora di tornare a casa, Balz. Subito –
All'inizio non riconobbe la voce. Certamente non era qualcuno che lo
chiamava molto spesso.
- Lassiter? –
Perché era l'angelo caduto che lo stava chiamando…
I suoi occhi tornarono al libro sul supporto e sussultò di nuovo. Si era
aperto da solo, la copertina tirata indietro, le pagine giravano in fretta, quel
turbinio di attività non aveva senso...
- Ora - Lassiter abbaiò nella connessione. - Porta il tuo culo a casa
adesso, cazzo... –
Balz scattò sull'attenti. Qualcosa nelle sillabe dell'angelo ruppe
qualunque incantesimo lo avesse colto, e con un lampo di lucidità, capì che
se non si fosse smaterializzato in quel preciso istante, non sarebbe mai stato
libero.
Qualunque cosa volesse dire.
Proprio mentre stava chiudendo gli occhi, il libro si fermò su una
pagina aperta e lui si rese conto che in realtà non era illuminato; infatti,
brillava da solo. E doveva leggere quello che gli era stato offerto, e lui...
All'improvviso, la sua forma fisica si dissolse in una nuvola invisibile
di se stesso, e si allontanò furtivamente attraverso le stanze delle collezioni
fino alla fila di finestre che davano sul fiume Hudson. Scivolando tra le
molecole di una delle lastre di vetro, viaggiò verso nord, registrando l'aria
fredda e tonificante anche se non era corporeo.
A meno che forse non si sentiva proprio così…
L'invito a tornare in città, a tornare nel Commodore, a rientrare
nell’appartamento per leggere quanto era stato previsto per lui, e per lui
solo, era quasi irresistibile. Eppure sapeva, senza dubbio, che lì c'era
un'infezione, qualcosa che sarebbe entrato in lui e gli avrebbe divorato la
mente e il midollo, una malattia dell'anima che poteva benissimo essere
trasmissibile.
Tale da poterlo passare a coloro che amava di più.
Era stato salvato per un pelo.
E la gente non era così fortunata due volte, specialmente non nella
stessa fottuta notte.
Cosa diavolo era appena successo?, pensò.
Qualche istante dopo, la montagna della Confraternita del Pugnale
Nero si profilava sul suo orizzonte, alta con la sommità a cupola, i contorni
coperti di pini formavano un fianco della valle. Protetta dal mhis, grazie al
Fratello Vishous, la superficie era il tipo di posizione che si vedeva su
Google Maps ma, a meno che tu non sapessi cosa stavi facendo e dove
volevi arrivare, non riuscivi a trovare la strada appena mettevi piede nella
proprietà.
Tutto era sfocato.
Confuso.
Disorientante.
Un po' come si sentiva lui adesso.
Quando si riformò, la nausea lo perseguitava e respirò attraverso il
naso per calmare lo stomaco...
- Che... cazzo? –
Invece di trovarsi di fronte alla grande villa grigia, era dietro la
vecchia canonica di pietra, a fissare una serie di finestre del secondo piano.
Non era lì che doveva essere. Perché…
Il lugubre suono di un gufo irruppe nel silenzio della notte e lui ebbe
un'improvvisa voglia di entrare... come se ci fosse qualcuno… o, peggio,
qualcosa… che lo stava inseguendo.
Dal nulla, i ricordi irruppero nel suo cervello. Tra un battito di ciglia e
l'altro, non era più l'inizio della primavera, con la neve scomparsa dai
giardini e dalla piscina invernale. All'improvviso era pieno inverno, tutto
era ricoperto di bianco, l'aria gelida gli schiaffeggiava il viso e gli arruffava
i capelli. Non era più in piedi. Era in alto, su un lato della casa, agganciato
senza imbracatura alle fenditure di malta con le scarpe da arrampicata e le
impugnature per le dita, a lavorare sulle persiane di protezione dalla luce
del giorno del secondo piano. Molti dei pannelli avevano ceduto durante
quella bufera di neve, e lui e alcuni degli altri avevano fatto il possibile per
mettere a posto le protezioni d'acciaio mentre la tempesta infuriava. Si
tranne per il fatto che lui non era l’Uomo Aggiustatutto. La scossa elettrica
degli ingranaggi motorizzati era stata uno shock… letteralmente e
figurativamente… e non aveva memoria di essere stato scaraventato giù nel
vuoto dal davanzale.
Era morto quando era caduto sul manto nevoso. Z e Blay gli avevano
fatto la rianimazione per salvargli la vita, e gli era stato detto che era stato
vicino alla morte.
Per ringraziarli, aveva riportato loro un messaggio dall'Altra Parte.
Il demone è tornato.
Quelle erano le parole che aveva pronunciato quando alla fine si era
ripreso, anche se non ricordava di averle pronunciate, e nemmeno di essere
morto. Sapeva cosa era uscito dalla sua bocca solo perché aveva sentito
parlarne per caso un paio di Fratelli, ed era consapevole di essere stato un
cadavere solo per breve tempo a causa di ciò che c'era nella sua cartella
clinica.
La gente non diventava così se ti tagliavi semplicemente con un pezzo
di carta...
Il demone è tornato.
Quando udì la propria voce ripetere quella frase nella sua testa, il
sudore gli uscì da sotto i vestiti e si asciugò la fronte con la mano che
tremava...
- Hai fatto la cosa giusta –
Sentì la voce di Lassiter da lontano e guardò il telefono che aveva in
mano. Portando l'unità al suo orecchio, disse:
- Davvero? –
- Sono quaggiù –
Balz guardò a destra. L'angelo era in fondo all'angolo della casa, in
piedi su una delle porte-finestre.
- Vieni qui - disse Lassiter tendendo il palmo della mano.
- Dove sono andato quando sono morto? - Balz fissò il terreno e cercò
di immaginare che aspetto aveva avuto il suo corpo nella neve. Era stato
sdraiato sulla schiena? Avrebbe dovuto, se era caduto dalla casa. - So di non
essere andato nel Fado. Non ho visto nessuna porta. Dovresti vedere una
porta, giusto...? –
- Non preoccuparti per questo. Vieni dentro... –
Guardò l'angelo lungo il fianco della villa.
- Come sapevi di dovermi chiamare proprio ora? -
Tap.
Lassiter non lo stava più guardando. Era concentrato su qualcosa in
alto e a sinistra, nel cielo.
- Ho bisogno che vieni dentro. Proprio adesso -
Tap. Tap.
- Beh, io ho bisogno che tu mi dica cosa sta succedendo… -
- Balthazar, fidati di me. Devi entrare dentro... -
Tap, tap, tap, tap, taptap…
All'improvviso, si udirono rumori da ogni parte sopra di loro e Balz
istintivamente si chinò e si coprì la testa mentre si accucciava.
Uccelli. All’improvviso presero il volo.
Sullo sfondo delle stelle, centinaia di uccelli non notturni uscirono
dalla foresta, ali disperate e in fuga di passeri, ghiandaie blu e cardinali che
scapparono in tutte le direzioni, i loro piccoli corpi delicati ostruirono la
lontana foschia delle galassie in uno schema discordante e tremolante.
Per una frazione di secondo, Balz pensò agli scheletri di pipistrello.
E poi tutto ciò che sentì fu puro terrore.
Cedendo all'improvviso scoppio di paura, si mise a correre e, in
qualche modo, sapeva di non dover provare nessuna delle altre porte della
casa. In qualche modo, sapeva che Lassiter era l'unico portale che poteva
usare, l'angelo caduto era la sua unica speranza, la sua salvezza da un
destino peggiore della morte.
Anche se non sapeva chi o cosa lo stesse inseguendo.
I polmoni di Balz gridavano per l'ossigeno e le sue gambe pompavano
più velocemente di quanto avessero mai fatto in tutta la sua vita. E mentre si
avvicinava al punto in cui l'angelo si sporgeva dalla villa, Lassiter iniziò a
urlargli di muoversi, muoversi, muoversi...
Appena Balz entrò nel raggio d'azione, l'angelo allungò la mano e lo
trascinò dentro, sbattendo la porta e sostenendo il suo corpo contro di essa
mentre Balz inciampava e cadeva sul tappeto persiano della biblioteca.
Taptaptaptaptap…
Mentre una raffica di quel suono si irradiava attraverso la stanza,
attraverso l'intera villa, Balz si girò sulla schiena e si allontanò ancora più
lontano dal rumore. Quel qualcosa che voleva reclamarlo stava per colpire
il vetro di quella porta finestra, il rumore un ingrandimento di ciò che lo
aveva chiamato in quella stanza nell’appartamento, verso il libro.
Solo più forte. Più esigente.
In modo petulante, come se non potesse sopportare di essere ignorato.
- Che cazzo sta succedendo? - chiese Balz.
Ma l'angelo sembrava non sentirlo. Lassiter aveva chiuso i suoi occhi
stranamente colorati e stava facendo pressione contro la porta chiusa, il suo
corpo enorme contratto vibrava di potere, i suoi capelli biondi e neri gli
cadevano sul petto e sulle braccia flesse.
Come se lui fosse l'unico essere che poteva tenere fuori dalla villa
qualunque cosa fosse.
- È tornata - si sentì sussurrare Balz, sconfitto.
CAPITOLO DODICI

Quando il sole iniziò a sorgere su Caldwell, il demone Devina spense


la sua cucina Viking e mise la padella All-Clad sul ripiano. Il piatto che
aveva deciso di usare era quadrato e bianco, e i due pezzi di carne che ci
aveva messo sopra con un paio di pinze in acciaio inossidabile erano cotti
alla perfezione: solo un po' di sale e pepe. Un filo di olio extra vergine di
oliva per ungere la padella e favorire la doratura.
Roba semplice, preparata bene. Molto meglio di un pasto gourmet che
richiedeva una narrazione di dodici minuti e un dizionario di francese per
decifrarla.
Prendendo il suo bicchiere di vino, portò il cibo al tavolo e scelse il
posto che si affacciava dalla zona della cucina in modo da poter guardare
tutte le cose che possedeva. Il suo spazio privato, la sua tana, se volete, era
una vasta area aperta nel seminterrato di uno dei vecchi edifici per uffici
della città. Tecnicamente, era una delle dozzine di depositi più tipicamente
utilizzati per raccogliere file e documenti aziendali, un vantaggio per le
aziende che occupavano interi piani dei livelli superiori.
Il suo era diverso, e non solo perché poteva mimetizzare lui e il suo
prezioso contenuto a suo piacimento. Invece di stupide scartoffie e dischi
rigidi inutili o qualunque diavolo ci fosse negli altri, il suo era pieno di
bellezza.
Prendendo forchetta e coltello - Christofle, argento sterling - tagliò la
carne e se ne infilò un pezzo in bocca.
Una schifezza. Era gommosa. La prova che quanto qualcosa potesse
essere bello non era una vera misura del suo valore.
Deglutì con una smorfia, afferrò il suo Sauvignon blanc e prese un
sano sorso dal bordo sottile del bicchiere di cristallo. La maggior parte delle
altre persone avrebbe preferito un rosso, ma era troppo pesante per lei… e
Dio, detestava quello che stava mangiando. Era come prendere una
medicina, qualcosa che non andava giù, ma aveva benefici terapeutici.
O almeno era meglio che avesse dei benefici. Altrimenti, stava
perdendo il suo tempo.
Per distrarsi dal malessere familiare e da stronza che si stava
stabilendo nel suo monologo interiore, guardò con orgoglio tutta l'alta moda
che aveva collezionato nel corso dei decenni. Alcuni vestiti erano originali,
degli anni settanta, ottanta e novanta. Alcuni li aveva presi più di recente in
negozi vintage di lusso. E altri erano nuovi di zecca, della Fifth Avenue,
Rodeo Drive, Worth Avenue.
Possedeva capolavori di Gucci, Vuitton, Escada, Chanel, Armani,
Lacroix, McQueen, McCartney. Se avesse avuto un gusto estetico diverso,
avrebbe potuto seguire anche la strada di Mainbocher e Givenchy, ma
Audrey Hepburn le aveva sempre fatto venire il bruciore di stomaco.
E poi c'erano gli accessori. Ma che cazzo, aveva avuto le Manolo
prima di Carrie-maledetta-Bradshaw, e le suole delle sue scarpe erano state
rosse per anni prima che la plebe scoprisse Louboutin.
E non solo per aver camminato nel sangue che aveva versato.
Tornò al suo guardaroba delle meraviglie. Naturalmente, parte del
divertimento era quell'esposizione, e tutte le gonne, i vestiti, le camicette e i
pantaloni erano divisi tra innumerevoli appendiabiti. C'erano sezioni per gli
spezzati e avamposti per i completi organizzati per stilista. Un intero tavolo
per le Birkins e una serie di scaffali pieni di Chanel. Ma quella sistemazione
non era statica. Regolarmente, cambiava le cose. A volte l'ordine
cronologico era per epoca; a volte cromatico. Una volta aveva provato in
base al valore, ma era stato impossibile farlo bene. Le cose più vecchie
avevano cartellini dei prezzi che ora erano pochi centesimi di dollaro, e la
rarità e la storia rendevano inestimabile parte di ciò che aveva.
Continua a mangiare, si disse. Devi continuare a mangiare.
Mentre mandava giù a fatica il più grande dei due pezzi di carne, i
suoi occhi accarezzavano quella cacofonia ottica davanti a lei: le sete e i
lustrini, il cashmere e la pelliccia, le borse, le scarpe e la biancheria, tutto
ciò offriva così tanti colori, così tante trame, così tante scelte di espressione
individuale. E la collezione era una tale fonte di soddisfazione e felicità,
ogni pezzo come un bambino adottato in una casa amorevole. Sia che
l'avesse rubato o pagato, tolto da un cadavere o impacchettato per sé, la sua
proprietà era indiscutibile e immutabile, e la sua bellezza era sempre
amplificata mille volte da ciò che metteva sul suo corpo perfetto.
I suoi vestiti erano l'aureola che lei, per sua natura, non avrebbe mai
posseduto metafisicamente.
Ma fanculo, poteva avere un bell'aspetto anche quando faceva del
male.
Eppure…
Mentre le sue posate tintinnavano dolcemente contro il piatto, c'era un
tale silenzio lì, un promemoria che ciò che adorava poteva essere
fondamentale per lei e un'importante fonte di caccia, eccitazione per
l’acquisto, ma alla fine... questi capolavori di moda non potevano toccarla.
Abbracciarla. Ridere e piangere con lei.
Era sola in una stanza affollata.
Spingendo via il piatto, rimase seduta con il suo vino facendo roteare
il liquido giallo all'interno del bicchiere trasparente.
Chianti e fave, eh?, pensò mentre osservava il colore dorato. Com'è
banale.
D'altronde, gli organi umani non erano certo una prelibatezza, giusto?
E peggio ancora, quella roba non funzionava.
Non lo stava mangiando per la sua salute, porca puttana.
Non per la sua salute fisica, in ogni caso.
Doveva esserci un modo per catturare l'amore che c'era là fuori,
l'amore che vedeva tra gli altri che erano in coppia, l'amore che tutti sul
pianeta, tranne lei, erano riusciti a trovare. Solo perché era un demone non
significava che non aveva emozioni. Che non aveva bisogno di essere
amata. Che non aveva il desiderio di essere considerata preziosa, unica...
importante... da chi lei aveva trovato prezioso, unico e importante.
Era un istinto naturale.
Così come un dannato programma televisivo del Dr. Phil.
Devina, lo sai, lo faccio da quasi quarant'anni, quindi so di cosa sto
parlando. Come va la tua vita?
- Non bene, Phil - disse ad alta voce. - Voglio solo quello che avete tu
e Robin –
Il suo Dr. Phil mentale si sporse in avanti in giacca e cravatta, il suo
grande orologio d'oro ammiccava da sotto il polsino, la sua testa calva era
coperta di trucco in modo da non riflettere le luci dello studio.
Se guardi alle tue precedenti relazioni, come diresti che è stato il tuo
comportamento? Sei stata una buona compagna?
- Ovviamente -
Devina, non possiamo cambiare ciò che non riconosciamo.
Pensò al suo unico vero amore, Jim Heron.
- Ho cercato di uccidere la sua ragazza solo una volta - Quando Phil le
rivolse quello sguardo, lei imprecò. - Va bene. Un paio di volte. Ma era così
fottutamente fastidiosa, e non so come diavolo abbia fatto a preferirla a me
-
Le relazioni sono una strada a doppio senso. E lui sembra che fosse
su una strada diversa dalla tua.
- Beh, allora aveva bisogno di leggere bene la sua dannata mappa.
Tornare in rotta. Procedere con il programma -
Guarda, io potrei essere solo un ragazzo di campagna...
- Oh, lascia perdere le stronzate sulla povertà del sud. Hai un
patrimonio netto di oltre quattrocento milioni di dollari… -
L’immaginario dottor Phil la fissò dritto negli occhi.
Se tu avessi una relazione in questo momento, contribuiresti o la
contamineresti?
- Vaffanculo, Phil –
Con una forchettata svogliata, colpì il muscolo cardiaco. Da quanto
tempo lo stava facendo sperando di trovare il suo destino attraverso il suo
tratto digestivo?
Stava finendo la pazienza. E l’antiacido.
Su un'ondata di frustrazione, i suoi occhi vagarono per la sua tana. Ed
era difficile individuare con esattezza quando si affacciò quel pensiero, ma
subito dopo si alzò in piedi per andare alla sua collezione di Birkins
Le borse di Hermès erano esposte su un adorabile doppio scrittoio che
aveva rubato a un conte francese con il quale aveva avuto una deliziosa
piccola relazione che l'aveva soddisfatta per quindici giorni... ed era finita
con lui sventrato e appeso a una staccionata di ferro.
Ma perché sottolineare le cose spiacevoli?
Inoltre, il suo finale era andato bene. Era passata a cose più grandi e
migliori. In particolare a un maniscalco che era stato impiccato come uno
degli stalloni che aveva ferrato.
Era stato divertente. Ma ancora una volta, niente di tutto quello era
durato. Un sacco di peli sulla schiena... e non si riferiva a quelli dei
mammiferi con gli zoccoli che avrebbero dovuto portare una sella.
E questo era il suo problema. In effetti, niente era durato. Nemmeno
Jim Heron, perché non era mai stato suo, tanto per cominciare.
Dannazione, lei non stava diventando più giovane.
Naturalmente non stava nemmeno invecchiando.
Immortale, ehi!
La più costosa di tutte le sue borse era l'iconica Birkin 35 Himalaya
Niloticus Crocodile con il fermaglio di diamanti. Il capolavoro bianco e
grigio aveva il posto d'onore su un antico comodino intarsiato con due
cassetti, perché andiamo, doveva metterlo su una specie di piedistallo. E
quando si trovò davanti alla borsa, si prese un momento per apprezzare il
disegno di squame e i segni che significavano che le sezioni più scure della
pelle erano all'esterno, il centro bianco crema per un contrasto perfetto.
Davvero bella.
Eppure non era il suo oggetto più prezioso, anche se sul mercato
secondario, perché era una 35 con il fermaglio di diamanti, valeva ben
400.000 dollari. O di più se l’avesse venduta con il braccialetto di diamanti
abbinato. Che lei aveva.
Aprì il primo cassetto del mobile d'antiquariato e fu con lacerante
sconfitta che si chinò in avanti. Lei era come quelle persone che non
avrebbero mai voluto leggere le istruzioni di montaggio, chiedere
indicazioni o sentirsi dire cosa fare a un bivio. Quindi per lei usare un aiuto,
anche se il dottor Phil indirizzava sempre i suoi ospiti a esperti, sembrava...
Devina si accigliò.
Si sporse più in avanti.
Accarezzò l'interno del cassetto con la mano. Che era totalmente
dannatamente vuoto.
Con una imprecazione esplosiva, strappò il livello superiore del letto.
Non c'era niente dentro. E anche se i suoi occhi funzionavano bene, come
un fottuto idiota, girò l'oggetto e lo scosse.
Come se quello che si era aspettata di trovare lì dentro fosse in
qualche modo attaccato al fondo.
Il Libro era sparito.
Con un movimento frenetico, aprì il cassetto sottostante, nel caso
avesse ricordato male in quale l'aveva messo. Vuoto anche quello. Anche i
cassetti dell’altro scrittoio erano privi di libri, i tanga di seta e i reggiseni
non avevano alcuna somiglianza con il tomo rivestito di carne umana che
stava cercando.
Con mani tremanti, iniziò a frugare tra le altre sue scrivanie, gli
scaffali vicino al letto, i mobili della cucina, la zona del bagno. Andò a
controllare persino sotto il letto prima di ricordare che era una cazzo di
piattaforma senza un posto dove poter riporre qualcosa sotto.
- Dove cazzo è il mio Libro! - gridò nel silenzio.
E poi ricordò…
Voltandosi verso l'angolo più lontano, fissò il recinto di metallo
cinque per cinque con la ciotola dell'acqua e il pagliericcio. Quella dannata
cosa era vuota perché quel fottuto idiota vergine che era stato lì dentro era
scappato.
- Stupido figlio di puttana - sussurrò mentre si avvicinava.
Era stata colpa sua, davvero. Ovviamente lo aveva sottovalutato,
probabilmente perché non aveva realmente bisogno di lui. Il rapimento era
stato un impulso più che qualcosa che le circostanze le aveano richiesto,
un’eco di un comportamento del passato che non era più necessario. Con il
suo specchio distrutto, non doveva preoccuparsi di proteggere così tanto la
sua privacy.
Si era sentita sola, però.
- Tu piccola merda - disse mentre fissava il punto in cui lo aveva
imprigionato. - Hai preso il mio fottuto Libro? –
Era l'unico ad essere stato qui dall'ultima volta che l'aveva visto.
Quel fottuto bastardo doveva averla vista sfogliare le pagine quella
mattina.
Devina si voltò di nuovo verso l'antico scrittoio, ormai svuotato dei
cassetti. C'era, naturalmente, un'altra spiegazione, assolutamente
impensabile. Quindi la scartò prontamente.
Il Libro l'amava. Ovviamente voleva stare con lei.
No, lui aveva preso il Libro, il piccolo bastardo, e anche se non
pensava di usare uno dei suoi incantesimi per portare a sé il suo vero amore,
aveva comunque bisogno di riavere quella fottuta cosa.
Era suo, dopotutto. E lei era molto possessiva.
- Figliodiputtana - mormorò.
Ora doveva assolutamente trovarlo.
CAPITOLO TREDICI

La sera seguente, Mae era di nuovo davanti alla porta del garage, le
chiavi della macchina in mano, la borsa in spalla. Non aveva dormito affatto
durante il giorno e il Primo Pasto era stato un unico pezzo di pane tostato
secco che era andato giù come lamiera.
- Tornerò presto - gridò a Rhoger.
Perché aspettò una risposta? Pensava davvero che si sarebbe seduto in
quella vasca di acqua ghiacciata per ordinare qualcosa da McDonald’s?
In fondo alla sua mente suonò un campanello d'allarme. Quando stavi
parlando con tuo fratello morto e ti aspettavi che lui rispondesse,
probabilmente eri fuori di testa.
Senza il probabilmente.
- Porterò i tuoi saluti a Tallah - disse prima di scivolare attraverso la
porta e richiuderla.
Mentre si allontanava, frugò nella borsa per gli occhiali da sole. Il
fatto che le altre auto sulla strada avessero i fari accesi, e che i suoi vicini
tornassero a casa dal lavoro, non significava molto per un vampiro quando
si trattava di quel bagliore appena visibile all'orizzonte occidentale. Il fatto
che i suoi occhi bruciassero e la sua pelle formicolasse in segno di
avvertimento sotto i suoi vestiti, era un buon promemoria di quanto non
fosse negoziabile l’assenza di luce solare per la razza.
Ma non sarebbe potuta restare in quella casa un attimo di più.
E sì, smaterializzarsi era un'opzione. Aveva bisogno di altro ghiaccio,
però, e guidare l'avrebbe aiutata a calmarsi.
Era incredibile quanto potevi restare intrappolato anche quando eri
libero di andare dove volevi.
Il cottage di Tallah si trovava all'estrema periferia di Caldwell, un
piccolo gioiello di pietra incastonato in una valle di aceri. Il viaggio poteva
durare dai quindici ai venti minuti, a seconda del traffico, e Mae accese la
radio per distrarsi da cose a cui non voleva pensare. Non funzionò, però. La
sua mente continuava a rimuginare su cose come il fatto che i corpi dei
vampiri affondavano, non galleggiavano, nell'acqua, qualcosa che non
sapeva finché non aveva iniziato a prendersi cura di Rhoger nel suo stato
attuale. Era anche profondamente consapevole che il tempo stava finendo
per lei e suo fratello. E pensò che forse il libro di cui parlava Tallah non era
la risposta al problema.
Forse tutto quello che aveva come risposta era una Cerimonia del
Fado, una casa permanentemente vuota, e la schiacciante consapevolezza di
essere l'ultima della sua linea di sangue, rimasta sola sul pianeta.
Se i ricordi condivisi erano i migliori... allora quelli che non potevi
più condividere con le persone che vi erano coinvolte, erano i peggiori.
Quel tipo di solitudine ti trasformava in un volume di riferimento piuttosto
che in una parte della storia, e aveva la sensazione che le perdite rendessero
ogni pensiero un binario per il lutto.
Per evitare di piangere, cominciò a pensare a una serie di cose
sgradite, e indovinate dove si diresse il suo gancio cognitivo?
Al combattente della sera prima.
Fantastico.
Tuttavia, mentre seguiva le strade tortuose del paese e la densità della
popolazione umana defluiva a favore di campi di grano e piccoli
allevamenti da latte, scelse lui su cui concentrarsi. Era la cosa migliore di
una pessima moltitudine, come avrebbe detto suo padre, e non doveva
faticare molto per richiamare quel pensiero. Ricordava Shawn chiaro come
il giorno, dai suoi occhi di ossidiana, ai tatuaggi che coprivano il suo corpo,
alla sua aggressività... al suo sangue versato su tutto quel cemento.
Non aveva idea di come qualcuno potesse passare dall'essere quasi
morto ad andarsene per i fatti suoi. Ma aveva la sensazione che quella ferita
non era stata la prima che lui aveva subito. Dio, se fosse successo a lei,
avrebbe urlato fino a perdere conoscenza anche dopo essersi ripresa.
Nel frattempo, lui aveva l’aria di uno che era semplicemente bloccato
nella corsia sbagliata di un supermercato.
E tra l’altro, se lei glielo avesse detto, le avrebbe riportato indietro
quel maschio, il Reverendo.
Forse avrebbe dovuto prendere quella strada. Ma poi? Se il
Reverendo non sapeva nulla del Libro, come avrebbe potuto essere d’aiuto
trascinarlo di nuovo in quel garage? E forse l'offerta era stata solo
un’esagerazione da parte del combattente, una spacconata per gentile
concessione della sua esplosione di testosterone.
Giusto?
Mentre imboccava una strada sterrata soffocata da cespugli ed
eccessiva vegetazione, stava ancora dibattendo i pro e i contro della
decisione presa la sera prima. Ma almeno era quasi da Tallah e poi...
evviva! … aveva avuto altro a cui pensare... come Libri che possono o non
possono esistere, e possono o non possono essere utili nella situazione di
suo fratello.
E poi doveva concentrarsi sulle cattive condizioni di questo sentiero
per le capre. C'erano buche con cui combattere, i fari che rimbalzavano su e
giù mentre cercava di evitare il peggio, e i rovi che erano cresciuti lungo i
lati erano così stretti che i più aggressivi graffiavano la verniciatura della
Civic.
Ma poi il cottage fece la sua comparsa.
Dopo l'ultima curva, la sua auto puntò la sua destinazione, i fari
illuminarono la vecchia pietra delle pareti esterne con una luce un po'
scortese. Il posto era in un signorile stato di abbandono, la porta d'ingresso
dipinta di un rosso sbiadito era parzialmente scheggiata, una persiana era
appesa storta, il tetto di ardesia mostrava qua e là una tegola mancante.
Anche i giardini erano in disordine, il roseto nient'altro che un intricato
cerchio di spine ed erbacce, il vialetto anteriore irregolare e consumato
dalle radici degli alberi e dai tunnel delle talpe. Nel cortile laterale c'era un
ramo caduto grande come un'auto, e quella vecchia betulla, nonostante la
rianimazione del calore e del sole della primavera, sembrava che non
avrebbe superato il coma del freddo invernale.
Mettendo la macchina nel parcheggio, spense il motore e prese un
respiro profondo. Aveva davvero bisogno di essere più di aiuto nella
proprietà, ma tra il suo lavoro a tempo pieno e la cura della propria casa,
l'ultimo anno era passato davvero velocemente. In passato, quando suo
padre era stato ancora vivo, lei veniva qui per occuparsi di un sacco di cose,
e anche suo fratello aveva aiutato. Era incredibile quanto velocemente le
cose fossero degenerate, però.
Tre anni senza manutenzione e tutto era quasi irriconoscibile. Ed era
difficile non trovare un parallelo con il crollo della sua vita: tutto ciò che
una volta era rimasto forte e vero, ora era decadente e perduto.
I suoi genitori erano sembrati così duraturi. Anche Rhoger.
La giovinezza e il fatto di non essere mai a contatto con la morte,
avevano significato che la sua famiglia era immortale e i dettagli della sua
vita… dove viveva, con chi era imparentata, cosa faceva… erano stati scritti
nella pietra, immutabili come il cielo notturno, come la gravità, come il
colore dei suoi occhi.
Un errore, però.
Uscendo, quasi dimenticò di chiudere la macchina. Ma un'eco della
paura che aveva provato tra quella folla di umani le aveva fatto inserire la
chiave nella portiera per girarla.
Mentre camminava sul vialetto lastricato, Tallah aprì la porta, e la
vista della femmina anziana curva in piedi in quell'arco familiare le fece
sbattere le palpebre. Tallah era sempre la stessa, vestita con una delle sue
ampie vestaglie, questa volta di un blu pervinca, indossava delle pantofole
blu e gialle abbinate. Anche il suo bastone era coordinato, un nastro azzurro
pallido avvolto lungo lo stelo di metallo del supporto, e c'era un fiocco
corrispondente all'estremità della sua treccia di capelli bianchi.
- Ciao - disse Mae salendo sul gradino d'ingresso.
- Salve, mia cara –
Si abbracciarono oltre la soglia, Mae stava attenta a non stringere
troppo forte, anche se tutto ciò che voleva era avvicinare Tallah per non
lasciarla mai andare.
- Vieni - disse Tallah. - Prendiamo il tè –
- Penso io alla porta - mormorò Mae entrando.
La cucina era sul retro, e mentre seguiva Tallah attraverso le stanze
minuscole e familiari, tutto aveva lo stesso odore. Pane fresco. Vecchie
poltrone in pelle. Fuoco spento nel focolare e fragranti foglie di tè. I mobili
erano fin troppo grandi per la piccola casa, ed erano di una qualità
assurdamente alta, i tavoli dorati con marmi, lo scrittoio di legno pregiato
intarsiato, le sedie e i divani rivestiti di sete sbiadite e ormai consumate.
Alle pareti erano appesi dipinti a olio in pesanti cornici dorate, paesaggi e
ritratti eseguiti da Matisse, Seurat, Monet, Manet.
C'era una fortuna sotto il tetto di questo minuscolo cottage e Mae si
preoccupava spesso che i ladri potessero venire qui. Ma fino a quel
momento era andato tutto bene. Tallah viveva qui dagli anni Ottanta e non
era mai stata preoccupata. Era un peccato, però, che la donna si fosse
sempre rifiutata di vendere anche solo uno di quei dipinti per migliorare le
sue condizioni di vita. Tuttavia, era stata risoluta nel tenere le sue cose con
sé, anche se ciò significava che non poteva permettersi i miglioramenti
necessari. Quell'ostinazione non aveva molto senso, ma era una decisione
sua e di nessun altro.
Nessuna delle due disse nulla mentre Mae si sedeva al tavolo della
cucina e Tallah si dava da fare al ripiano con il bollitore elettrico e due tazze
da tè. La voglia di aiutare la femmina con il vassoio era quasi irresistibile,
soprattutto quando Tallah appese il bastone all'avambraccio e sembrò lottare
con quel carico di panna, zucchero e tazze piene. Ma l'autosufficienza era
una fonte di orgoglio per gli anziani, e nessuno voleva togliere ulteriore
autonomia alla femmina prima che fosse assolutamente necessario.
Tallah posò il vassoio e Mae accennò all'angolo più lontano del
tavolo, dove una specie di esposizione di oggetti era coperta da un logoro
asciugamano con monogramma.
- Cosa c'è lì sotto? –
Di solito, la femmina teneva tutto in ordine, la minima quantità di
cose sui ripiani, sui tavoli, sugli scaffali, sulle mensole del camino.
- Dimmi di nuovo cosa è successo la scorsa notte? - disse Tallah
sedendosi e passandole una tazza e un piattino.
La porcellana vibrò nella sua presa instabile e il suono si riverberò in
tutto il corpo di Mae. Fu un sollievo prendere il tè e porre fine sia
all'acustica che al rischio di una fuoriuscita totale, e lei mascherò la sua
fretta parlando un po’ di tutto. Naturalmente, omise alcune parti. Quella in
cui aveva malmenato quella donna umana nella fila d'attesa, e sì, accidenti,
parecchi buchi per quello che riguardava Shawn.
- Il Reverendo ha mentito sul Libro - disse Tallah versando del latte
nel suo tè. - Sa esattamente di cosa si tratta. Ma forse non dove si trova –
- Beh, lui non ci aiuterà. È stato abbastanza chiaro su questo –
Mentre tacquero, Mae guardò il ricciolo di vapore che si alzava dal
suo tè. L'Earl Grey si stava raffreddando e la sua ampiezza stava
diminuendo.
- Tallah... –
- Cosa, mia cara? –
Pensò a Rhoger in quell'acqua fredda.
- Non so quanto tempo abbiamo ancora –
Il corpo non si stava decomponendo, non ancora. Ma sarebbe
accaduto. E in più, non era sicura di quante notti ancora sarebbe potuta
andare a quel distributore a comprare del ghiaccio, per poi tornare in quella
vasca e scaricare l'acqua per poi riempirla di nuovo...
Oh, chi voleva prendere in giro! Avrebbe continuato a farlo finché
non fossero rimasti solo pezzi di lui, nient'altro che una zuppa di fluidi
corporei in quel bagno, purché ci fosse speranza. E forse, in quel momento,
era proprio quella che stava morendo in lei.
Spinse via la tazza da tè.
- Tallah, è difficile per me dirlo –
- Per favore - l’anziana femmina si sporse in avanti e mise la mano sul
braccio di Mae. - Puoi dirmi qualsiasi cosa –
Mae si concentrò sulla stampa floreale della manica della vestaglia, i
fiorellini gialli e bianchi in un mare di blu.
- Questo Libro, qualunque cosa sia… - Mae guardò in quegli occhi
acquosi e cercò di tenere lontana la richiesta dalla sua voce, dalla sua
espressione. - Voglio dire, cosa stiamo facendo veramente. Non voglio
dubitare di te, ma non posso... faccio fatica a continuare questa inutile
ricerca. Hai detto che il Reverendo era la nostra ultima speranza e siamo al
punto di partenza. Di nuovo –
Beh, e poi c'era il problema più grande di ciò che le era stato detto che
il Libro avrebbe fatto per lei. Aveva così tanto bisogno di credere che la
resurrezione fosse possibile, ma stava cominciando a chiedersi se le
leggende metropolitane iniziavano e si propagavano in questo modo:
qualcuno vulnerabile che aveva bisogno di credere che ci fosse una
soluzione metafisica per i suoi problemi, era stato ingannato.
La disperazione poteva plasmare la verità su ogni bugia. E anche se
proveniva da una fonte ben intenzionata, c'era crudeltà nella falsa promessa
di aiuto.
Tallah bevve un sorso dalla sua tazza. Poi si rilassò sullo schienale
tenendo il tè tra le mani nodose come se fossero fredde.
- Pensavo che perdere la mia posizione sarebbe stato il punto più
basso della mia vita. Ma guardando tutto quello che hai sopportato in questi
ultimi anni... supera anche i miei momenti più tristi. Come potrei non
aiutarti? –
Mae non aveva mai chiesto dettagli, ma a un certo punto Tallah era
stata al più alto livello dell'aristocrazia, accoppiata con un membro del
Consiglio. La mahmen di Mae, Lotty, aveva lavorato per lei come
domestica. Era successo qualcosa, però, e quando Tallah era venuta qui,
Lotty aveva insistito per pulire la casa gratuitamente e, abbastanza presto,
l'intera famiglia era stata coinvolta nel prendersi cura della femmina
anziana.
Che ironia che quella caduta in disgrazia avesse infine salvato la vita
della femmina. Se avesse continuato a vivere in quella grande casa sarebbe
stata uccisa durante i raid nella proprietà, proprio come i genitori di Mae.
- Il vero nome del Reverendo è Rehvenge - disse Tallah. - È un
membro della glymera, o almeno lo era. Non sono sicura di quanti ne siano
rimasti esattamente adesso. Come ti ho detto, conoscevo molto bene sua
mahmen. Lei stessa ha usato il Libro in passato e mi ha parlato del suo
potere. È così che l'ho saputo la prima volta. Ti fornirà ciò di cui hai
bisogno. Lo giuro su quel poco che è rimasto della mia vita –
Mae abbassò gli occhi.
- Non parlare così –
- È la verità e lo sappiamo entrambe. Morirò presto, ma a differenza
di tuo fratello, il mio tempo per andare è come dovrebbe essere. Ho vissuto
la mia parte di notti. Invece la sua vita è stata presa troppo presto, e questo è
un torto che deve essere corretto –
Tallah allungò la mano verso il telo all'estremità del tavolo. Tirò
indietro il tessuto e ciò che vide non aveva senso: aceto bianco. Un piatto
d'argento. Sale. Un coltello affilato. Un limone. Una candela.
Okay, bene, se volevi preparare il condimento per l'insalata, tutte
quelle cose potevano essere utili, ma perché quegli altri oggetti da Houdini?
- A cosa serve tutto questo? - chiese Mae.
- Ti porteremo il Libro - Tallah fece un cenno verso gli ingredienti. -
Se è necessario -
CAPITOLO QUATTRORDICI

A nord, nel maestoso atrio della dimora della Confraternita del


Pugnale Nero, Rehvenge stava camminando sulla rappresentazione a
mosaico di un melo in piena fioritura. Quando arrivò alla grande scalinata,
salì a un buon ritmo, i suoi mocassini Bally divorarono la passatoia rosso
sangue con il visone che si allargava dietro di lui. Quando arrivò al
pianerottolo superiore, le doppie porte dello studio del Re Cieco erano
aperte, e in fondo alla stanza azzurra, in antico stile francese, Wrath, figlio
di Wrath, padre di Wrath, era in una posizione privilegiata, cioè seduto
dietro una scrivania intagliata grande come un orso grizzly a quattro zampe
con il culo piantato sul trono di suo padre. Con tutti quei capelli nerissimi
che cadevano dall’attaccatura a V, e il suo viso crudele con quegli occhiali
avvolgenti, e il suo corpo da guerriero, Wrath sembrava esattamente colui
che avrebbe dovuto guidare la razza dei vampiri.
E poi c'era il fatto che, anche senza la vista, vedeva le cose molto
chiaramente e non sopportava gli idioti. Mai.
Per Rehv, Re dei symphath, loro due erano potenti alleati. E porca
puttana, avrebbero avuto bisogno di esserlo dopo quella sera.
- Sua Eccellenza è in anticipo - mormorò Wrath quando quegli
occhiali neri si sollevarono dal Golden Retriever sul suo grembo.
George, il suo cane guida, era sdraiato sulla schiena, i peli bianchi
della pancia dappertutto, la testa ciondolante come se fosse in una spa.
Quando scese per andare ad annusare Rehv, la sua testa squadrata si sollevò
brevemente e offrì un leggero scodinzolare. Ma poi ci fu un rapido ritorno
al suo essere adorato.
- Quel cane è il vero re da queste parti - disse Rehv entrando e
chiudendo le porte.
Quando scattarono in posizione, una delle sopracciglia del Re Cieco
si sollevò sui bordi di quegli occhiali.
- Quindi sei arrivato con una buona notizia - borbottò Wrath. -
Davvero piacevole –
Rehv prese tempo e cominciò a camminare in giro, il suo viaggio lo
portò intorno ai divani di seta e alla collezione di sedie bergère. Quando
finalmente si sistemò sulla poltrona di fronte alla scrivania intagliata, il
Retriever lo guardò di nuovo, questa volta con occhi preoccupati.
E la dimostrazione che George aveva un grande istinto.
- Wow - disse Wrath facendo scorrere le dita attraverso il pelo biondo
che su un bipede sarebbe stato considerato come capelli lunghi fino alle
spalle. - Lo zio Rehv è nervoso. Questa sarà davvero buona –
- Sarei venuto ieri sera - Rehv sistemò le pieghe del visone in modo
che gli coprissero le gambe. - Ma ho avuto qualcosa da risolvere –
- Altro divertimento con i tuoi cittadini? –
- Umani questa volta - Tutti quei rimborsi per quel combattimento
annullato. - È stata una lunga notte –
- Perché cazzo vuoi avere a che fare con loro? –
- È un difetto di carattere. Ma uno dei miei meno letali, quindi cedo.
Vivere una vita di perenne negazione è come essere in una bara fuori terra.
E per favore non dirmi che ho già abbastanza soldi. Non sono mai
abbastanza –
Mentre il Re ridacchiava, Rehv guardò il camino spento e si chiese se
valesse la pena accendere una fiamma. Anche se nella stanza c'erano
ventuno gradi, lui aveva perennemente freddo, la dopamina che prendeva
per tenere a freno il suo lato malvagio gli abbassava la temperatura interna.
Ecco perché il visone lungo fino ai piedi. Che indossava anche
d'estate
E su quel pensiero, silenzio. Un lungo silenzio.
Wrath si voltò da un lato sul suo trono come se avesse intenzione di
posare George sul pavimento. Il cane aveva altri piani, tuttavia, si agitò tra
le enormi braccia del suo padrone e avvolse le sue grandi zampe anteriori
attorno al collo di Wrath. Come se stesse per essere calato in una fossa di
lava.
Wrath ridacchiò tornando al suo posto.
- Immagino che sia un no, eh? –
Il Re riportò giù il cane in modo da tornare a cullarlo come un grosso
bambino. Mentre riprendeva la routine di carezze, Rehv si concentrò sui
tatuaggi dell'avambraccio interno che raffiguravano l'impeccabile lignaggio
di Wrath.
- Inizia a parlare, Symphath, stai innervosendo il mio cane –
Rehv annuì anche se il suo compagno d'armi non poteva vederlo.
- Abbiamo un problema, io e te –
- Pensavo che fossi venuto qui a parlare di moda. Stavo per dirti di
rivolgerti a Butch –
- Senti, non c'è molto che tu possa fare con questa routine di pelle
nera e canottiera che indossi da centinaia anni. Continuo a dirtelo –
- Già, il mio obiettivo è arrivare sulla copertina di GQ, cazzo. Ora
parla –
- La stampa è morta –
- Questa è una frase di Ghostbusters. E una deviazione –
Rehv si sistemò il bastone tra le ginocchia e lo sbatté avanti e indietro
con i palmi delle mani.
- Una femmina mi ha avvicinato stasera –
Con una risata, Wrath disse:
- Ehlena è totalmente sicura nella vostra relazione. E ti conosco così
bene da pensare che non farai mai qualcosa di stupido –
- Non è come pensi –
- Bene, perché io non sono Ann Landers –
- La femmina stava cercando qualcosa che nessuno di noi vuole che
lei trovi - si costrinse ad appoggiarsi allo schienale della sedia. - Hai mai
sentito parlare del Libro? –
- Ne ho sentito parlare dagli umani. Stai parlando della Bibbia? –
- L'opposto. Quello a cui mi riferisco è un canale verso il lato oscuro.
È rilegato in carne umana e non ho idea di che cosa siano fatte le pagine, e
non voglio saperlo. Ha viaggiato attraverso la storia, trovato persone e
scatenato il caos –
- Quindi è un libro di incantesimi o una cosa del genere? –
- Il Libro degli incantesimi. Con la L maiuscola –
Wrath si accigliò. E questa volta, quando mise George a terra, non
accettò un no come risposta. Mentre il cane crollava sconfitto ai suoi piedi,
il Re si sporse in avanti e la sua espressione mentre guardava Rehv dall'altra
parte della scrivania era così intensa che potevi dimenticare che fosse cieco.
- Ho sentito parlare di magia nel corso dei secoli - Wrath alzò le spalle
poderose. - Ma sono stato troppo occupato con l'Omega e la Lessening
Society per preoccuparmi di una stronzata come le formule magiche –
- Non è una stronzata –
- Quindi hai visto questa cosa? O l'hai usata? –
- Nessuna delle due - Rehv abbassò gli occhi sulla carta assorbente. -
Ma avevo un’... amica... che mi ha parlato di quella dannata cosa e di cosa
poteva fare –
Amica non era la parola giusta per la Principessa symphath che lo
aveva ricattato per scoparselo per decenni. Il fatto che per il sesso aveva
quasi sempre rischiato di restare ucciso era stata solo una parte del suo
divertimento; c'era stato così tanto altro divertimento nella relazione per lei.
Ma lui aveva regolato i conti, per così dire.
L'uomo della sabbia era venuto per lei.
Tuttavia, avrebbe dovuto sapere che lei non aveva finito con lui, e
questa merda del Libro era il tipo di tuffo nel passato che faceva venire
voglia a un maschio di farsi venire una commozione cerebrale.
Sapete, per l'amnesia.
Il sopracciglio di Wrath si sollevò di nuovo.
- Te l'ha detto un’amica. Sembra una confessione su Internet –
- Neanche lontanamente. E prima che tu lo chieda, sì, lei lo aveva
usato –
- Per fare cosa –
- Niente di buono. Non conosco i dettagli, ma considerando chi era,
puoi scommettere che è stata un'idea del cazzo –
- Okay, quindi una femmina è venuta da te e ti ha chiesto del Libro.
Sai dov'è? –
- No. Ha lasciato la mia amica –
- Lasciata? Tipo, quella dannata cosa ha chiamato un Uber ed è
andato via da Caldwell? O dovunque fosse? –
- Qualcosa del genere. Da quello che lei mi ha detto, sceglie la sua
strada in questo mondo - Rehv si strofinò gli occhi. - Guarda, puoi usare gli
incantesimi che contiene per fare ogni genere di cosa che non dovresti fare.
E il fatto che questa femmina sapesse di dover venire da me è una brutta
notizia, in tutti i sensi –
- Quindi conosce la tua amica? –
- È stata indirizzata a me tramite una vecchia conoscenza di mia
mahmen. Ho seguito la femmina per ottenere il suo numero di targa, ma non
ci aiuterà molto. Tuttavia, l'ho data a V nel caso lei avesse registrato il suo
alias umano in un database da qualche parte. E per quanto riguarda il
motivo per cui sta cercando il Libro… ho visto la sua griglia. È disperata
fino alla follia. È la combinazione peggiore: un incredibile potere oscuro
mescolato a quel tipo di disperazione –
Wrath rimase in silenzio.
- Sai che non sono un allarmista - disse Rehv. - Questo è molto
pericoloso. Non so cos'altro... –
- Non devi dirmi altro - Wrath abbassò la testa e quegli occhi ciechi
brillarono dietro gli occhiali. - La risposta è facile. Prendiamo il Libro
prima che lo faccia la femmina e lo distruggiamo. Fine -
Come se fosse così semplice, pensò Rehv.
Tuttavia, almeno Wrath era d'accordo a prendere sul serio quella
storia.
- Prima dobbiamo trovarlo - Rehv si passò un palmo sulla cresta. - E
per quanto riguarda la seconda parte di quel piano, qualcosa mi dice che
non accadrà senza combattere –
- Useremo tutte le risorse che abbiamo e sai che odio perdere –
Rehv imprecò sottovoce.
- Mi sembra di essere in un film d'azione quando dico: Questo è
diverso da qualsiasi cosa tu abbia mai cercato, Indy –
- Beh, te lo sei tolto di mezzo - borbottò Wrath. - Buon per te –
E per quanto riguarda il fatto di rintracciarlo, a scapito della sua
intelligenza, non c'è molto da cercare su Internet per V. E qualcosa mi dice
che questa antica fonte del male non si troverà su Google –
- Lascia a me il compito di rintracciarlo. Ho un asso nella manica
quando si tratta di trovare cose del genere –
Rehv fissò il caminetto freddo e pensò alla Principessa, con le sue dita
snodabili e quegli scorpioni nelle orecchie. I ricordi delle sue perversioni gli
facevano rivoltare lo stomaco, ma doveva farlo. Doveva cercare di ricordare
tutto ciò che poteva sull'antico tomo.
- È tutto a posto - mormorò Wrath. - Hai già fatto abbastanza nel farti
Avanti –
- Controllerò con la mia gente. Vediamo cos'altro riesco a scoprire –
- Sarà un bene –
Con un gemito, Rehv si alzò in piedi.
- Ero pronto per una pausa, sai. La Lessening Society è finita,
l'Omega è andato. Doveva essere l'inizio di un nuovo capitolo –
- Purtroppo è la stessa vecchia storia dell'orrore, amico mio. La vita
richiede battaglia per la sopravvivenza. È proprio così. E per quanto
riguarda questo Libro, chiamerò la Confraternita, dirò loro quello che mi
hai detto. Dovresti partecipare alla riunione –
- Bene. Mi farai sapere quando? –
- Che ne dici di adesso? –
- Vado a chiamare Tohr. È in sala da biliardo –
- Perfetto –
Rehv annuì e si diresse verso le porte. Si fermò nell'arco. Wrath era
tornato a concentrarsi sul suo cane, il grande Re Cieco era piegato sotto la
scrivania e stava sussurrando all'animale come se stesse spiegando a George
che sarebbe andato tutto bene, e che lui era un bravo ragazzo, un bravo
ragazzo, sì, sì, lo era.
- Ehi, Mio Signore… -
La testa di Wrath spuntò da sopra la scrivania.
- Si? –
- Posso chiederti una cosa? –
- Sicuro. Ma solo un avvertimento: se vuoi la mia opinione, la
otterrai, e raramente è generosa. O così mi è stato detto. In realtà, i fratelli
mi hanno regalato una maglietta –
Rehv inarcò le sopracciglia.
- Veramente? –
- La parte davanti dice: Chiedimi qualsiasi cosa. Il retro: Beh, È
Davvero Stupido, Cazzo. A quanto pare, dovrei girarci intorno dopo che
hanno finito di parlare… È Davvero Stupido, Cazzo - Wrath guardò di lato e
si accigliò. – Accidenti –
Rehv accostò le due metà del visone, si schiarì la gola e sistemò i
gemelli.
- Pensi che sembro un incrocio tra Liberace e Hannibal Lecter? –
Wrath scosse la testa come se non avesse sentito bene.
- Che cosa? –
- Sai. Come se Liberace e Hannibal Lecter… avessero avuto un
bambino –
- Wow - Ci fu una pausa. - Questo è parecchio da... prima di tutto,
perché diavolo dovresti chiedere a un maschio cieco che aspetto hai? –
- Ottima osservazione e non ha importanza - Rehv si voltò. - Avviserò
i tuoi ragazzi –
- Di' loro di lasciare il Chianti di sotto - Wrath alzò la voce. - A meno
che tu non abbia sete –
- Non è divertente - mormorò Rehv mentre si dirigeva verso le scale.
- Dai, è un po' è divertente - gridò Wrath dallo studio. Silenzio. - Va
bene, porta un candelabro con te se ti senti un po’ stronzo. Forse accenderà
un fuoco sotto le tue buffe ossa –
Mentre una risata tonante si liberava dallo studio ed echeggiava in
tutta la fottuta villa, Rehv scese le scale borbottando. Nota per sé stesso:
non dare al grande Re Cieco quel genere di munizioni.
Avrebbe davvero dovuto saperlo.
CAPITOLO QUINDICI

- Esatto, metti il polso sul piatto d'argento –


Mae si accigliò e si sporse sul tavolo della cucina di Tallah per dare
un'occhiata più da vicino. Ma questo non modificò la zuppa di latte che era
stata fatta con l'aceto bianco, il succo di limone, la cera di candela e il sale.
Arricciando il naso, disse:
- Vuoi che mi tagli? –
- Non profondamente. Ma deve essere sul palmo e sulla linea della
vita –
- Pensavo che leggere la mano fosse una cosa umana –
- È universale - Tallah allungò il coltello da cucina pulito. - Deve
attraversare la linea della vita. E quando lo farai, immagina che il Libro
venga da te. Che ti trovi. Per aiutarti quando ne hai bisogno –
- Non so che aspetto abbia il Libro –
- Se ti sente, lo vedrai - Tallah agitò il coltello. - Prendi questo –
Mae scosse la testa e quasi cercò di trovare una scusa per alzarsi e
andare in bagno. Ma poi pensò a come i vampiri sprofondavano nell'acqua
quando erano morti. E a come non l'avrebbe mai saputo se non fosse stato
per Rhoger...
Prese con cura la lama dalla femmina anziana. Ma non la usò. Pensò
alle bufale. E alle tavole Ouija. E alle sfere di cristallo.
E a quanto voleva disperatamente non essere sola al mondo.
- Tallah, devi essere onesta con me. Come fai a essere così sicura di
tutto questo? - Quando la femmina non rispose immediatamente, Mae tenne
per sé un’imprecazione. - Non è solo per quello che ti ha detto la mahmen
del Reverendo, vero? –
Lo sguardo miope di Tallah si abbassò sul suo tè, e ci fu un lungo
silenzio.
- L'ho usato una volta - Quegli occhi acquosi si sollevarono. - Ma solo
per essere chiari, ho ricevuto le informazioni sul suo potere dalla mahmen
di Rehvenge e lei mi ha detto come evocarlo. Ecco come lo so –
Quando la femmina indicò il piatto d'argento, Mae si sedette dritta
sulla sedia.
- Per cosa l'hai usato? Ha funzionato? Hai fatto… -
- Non era per riportare indietro qualcuno, no - Tallah cominciò a
giocare con il piccolo fiocco blu all'estremità della sua lunga treccia bianca.
- In verità, volevo far sparire qualcuno. Volevo che la femmina che mi stava
portando via il mio hellren scomparisse –
- E cos'è successo? - chiese Mae in un sussurro.
Tallah scosse la testa. Poi la scosse di nuovo.
- Tu sei diversa. Le tue intenzioni sono diverse dalle mie –
- Cos'è successo? - disse Mae più forte.
- Il risultato mi ha portato qui - Tallah indicò la semplice cucina. - E
non è stata una brutta vita. Una vita diversa, ma non brutta. Ho scoperto che
quello che mi piaceva di più della mia vecchia posizione sociale era come
suonava mentre la spiegavo agli altri. Viverla non era poi così edificante –
- Hai ucciso qualcuno? - e Mae cominciò a temere la risposta.
- Volevo che lei scomparisse. Questo è tutto - Tallah sollevò la mano
in aria. - Ma niente di tutto questo ha importanza ora. Come ho detto, tu sei
diversa. Il tuo cuore è puro. Non c'è ombra di malvagità in ciò che cerchi.
Vuoi sistemare le cose e restituire ciò che è stato rubato ingiustamente, e
l'intenzione è importante. Io ero solo gelosa. Possessiva –
- Era il tuo compagno –
- Il cuore di un altro non è mai nostro se non è donato liberamente.
Questa era la lezione che dovevo imparare. Anche dopo che lei se n'era
andata... lui non mi ha voluta. Pertanto, ho ricevuto ciò che ho chiesto, ma
non il risultato che desideravo. In effetti, il mio hellren era così consumato
dal suo dolore che non poteva essere consolato, e più mi sforzavo, più lui ce
l’aveva con me. Mi ha mandato via, mi ha bandito dalla sua grande stirpe, e
tutto ciò che ho potuto permettermi è stato questo, dato che nessuno
avrebbe acquistato alcuna delle mie cose. Nessun collezionista vuole
qualcosa di una femmina disonorata. Si possono anche svendere capolavori
per pochi soldi, ma io non ho contatti nel mondo umano –
Quindi, dopotutto, Tallah era stata determinata a conservare i suoi
beni, pensò Mae.
- Mi dispiace tanto –
Tallah si guardò intorno come per osservare il cottage nel suo
insieme.
- Ho avuto molto tempo per considerare le mie scelte, il loro esito e la
mia situazione. Bisogna far pace con le circostanze o ti distruggerai da sola
- Allungò una mano e strinse il braccio di Mae. - Ecco perché l'intenzione è
importante. Ho solo pensato ad allontanare la femmina. Non a me e al mio
compagno felici e insieme. Ottieni ciò che chiedi, quindi rendi chiara la tua
intenzione quando chiederai che il Libro venga da te –
Anche se ebbe l'impulso di sapere esattamente cosa fosse successo
all'altra femmina, Mae tenne comunque per sé quelle domande. Inoltre, non
si trattava del passato di Tallah. Riguardava il presente di Mae e dai suoi
ricordi più vividi e dolorosi, vide Rhoger crollare quando era entrato dalla
porta principale, le forze esaurite, il sangue sui vestiti, un suono disperato
che era esploso fuori da lui quando era caduto a terra per rimbalzare come
se fosse già morto.
Aveva cercato di tenerlo in vita. Aveva fallito. Era morto tra le sue
braccia, il suo amato fratello... andato.
- Non è stato giusto - disse. - Quello che è successo a Rhoger –
- Sono d'accordo. Devi cercare un'udienza con il Re. Dovresti dire alla
Confraternita del Pugnale Nero cosa è stato fatto a tuo fratello. Possono
aiutarti a trovare l'aggressore che lo ha attaccato e garantire che giustizia sia
fatta –
- Se solo sapessi cosa è successo, però. Rhoger è morto prima di
potermelo dire –
- Se lo riporti indietro, potrà dirglielo lui stesso –
Mae sbatté le palpebre. Stupidamente, non ci aveva mai pensato.
Concentrandosi sul coltello, si sentiva divisa in due. Una che la
esortava alla cautela con questa follia. L'altra che...
- Cosa devo fare? - chiese.
- Immagina il tuo buon risultato, tuo fratello vivo e in salute al tuo
fianco, voi due riuniti. Immagina che hai bisogno di aiuto per arrivarci.
Tieni la mente concentrata su questo mentre tagli il palmo della tua mano
attraverso la linea ella vita. Poi chiedi che il Libro venga da te –
- E questo è tutto –
- È così che mi è stato detto che funziona ed è così che ho usato
questo incantesimo. Anche se una volta che hai chiesto, ci vuole tempo, non
è una cosa immediata… ma ha funzionato in passato e credo che funzionerà
anche ora -
Non farlo, disse una voce in fondo alla mente di Mae. È sbagliato. È
una porta che dovrebbe restare chiusa…
Strizzando gli occhi, immaginò Rhoger in quell'acqua ghiacciata, i
cubi che fluttuavano sopra il suo sguardo ossessionato e vacuo. Quando il
dolore la travolse, aprì la cassaforte nel suo cuore e ripose la sua timorosa
speranza in... beh, nell'universo perché non era sicura di credere nella
Vergine Scriba.
Cercò di immaginare Rhoger vivo e al suo fianco...
Mae chiuse la mano a pugno attorno al coltello e ansimò quando fece
scorrere la lama. Aprì le palpebre e ottenne una chiara immagine del sangue
rosso che cadeva dalla sua mano e atterrava con uno spruzzo nella tintura
lattiginosa sul fondo del piatto d'argento.
Goccia. Goccia. Goccia…
Non era sicura di cosa aspettarsi. Ma mentre i secondi si
trasformavano in minuti, e tutto quello che sentiva era... quel gocciolare...
una penetrante insoddisfazione la attraversò. Era stata una follia, una
fantasia nata dalla disperazione e dal desiderio di Tallah di ripagare i servizi
resi alla mahmen di Mae. Un vicolo cieco…
Tallah tirò fuori qualcosa dal tasca della vestaglia e allungò la mano
ossuta sul tavolo.
Tra le sue dita tremanti c'era un piccolo pezzo triangolare di quella
che sembrava una pergamena, due lati lisci come se fossero stati tagliati, il
lato lungo irregolare come se fosse stato strappato.
- Questo viene dal Libro? - sussurrò Mae.
- L'ho conservato per tutti questi anni. L'ho conservato per... in caso
di bisogno. Quindi te lo offro per la tua ricerca –
Poi Tallah mise il frammento nel piatto d'argento...
Il lampo fu luminoso e abbastanza caldo da costringerle entrambi ad
allontanarsi dal tavolo, la mano e il polso di Mae ronzarono per un calore
improvviso, un battito ritmico di dolore nel palmo che non aveva nulla a
che fare con il taglio del coltello.
Tutt'intorno al cottage, le luci si abbassarono e tremolarono, e una
raffica di vento fece vibrare le finestre.
Tutto diventò nero.
La sedia di Mae cadde all'indietro quando lei balzò in piedi.
- Tallah, cosa sta succedendo? –
Ci fu uno scricchiolio dall'altra parte del tavolo e poi il tonfo del
corpo dell’anziana femmina che colpiva il pavimento.
- Tallah! - Mae girò di corsa intorno alle sedie, ci urtò contro
disperdendole in una cacofonia di suoni. - Dove sei... –
All'improvviso si riaccesero le luci. Niente più sfarfallio
dell'elettricità. Niente più suoni fuori. Tallah era distesa svenuta sulle assi
del pavimento, i suoi occhi erano ruotati all'indietro, il bianco brillava come
se fosse stata posseduta da...
Con uno forte respiro e un gemito, la femmina si riprese e il suo viso
rugoso era sconvolto. Poi alzò la testa e si guardò intorno come se non
avesse idea di dove si trovasse.
Mae si inginocchiò e afferrò con cautela una di quelle mani rugose.
- Stai bene? Possiamo andare alla clinica del guaritore. Ho la
macchina... –
Tallah tossì e scosse la testa. Poi dissipò la preoccupazione di Mae.
- Sto bene. Sto bene... - Quegli occhi vagarono intorno. - Non so cosa
sia successo, puoi aiutarmi ad alzarmi? –
Afferrando il braccio sottile della donna, Mae accompagnò di nuovo
Tallah sulla sedia. Poi andò verso la sua borsa.
- Chiamerò la clinica e dirò loro… -
- No, no... - Tallah fermò Mae agitando le mani. - Non essere sciocca.
Gli farai solo perdere tempo... lascia che si prendano cura delle persone che
ne hanno bisogno. Ti assicuro che sto bene. L'oscurità improvvisa mi ha
spaventato, tutto qui –
Mae fissò la femmina per cercare sintomi di confusione o... Dio, non
sapeva di cosa. Non era un dottore. Ma col passare del tempo, Tallah
riusciva a restare in piedi e sembrava non avere problemi.
- Sai, forse mi sbagliavo - disse sconfitta l'anziana femmina.
- Riguardo a cosa? –
- Tutto - si mise la testa tra le mani. - Sono stanca –
- Vuoi che ti aiuti a tornare a letto al piano di sotto... –
Il bussare alla porta d'ingresso era forte e insistente, e Mae si voltò per
guardare verso la facciata della casa.
- È il... –
Tallah l'afferrò per un braccio.
- Non rispondere –
I colpi cessarono. Poi ripresero.
- Rimani qui - Mae si liberò e infilò una mano nella borsa. - Torno
subito... –
- No! Non aprire! –
Mae attraversò il salotto e, proprio quando raggiunse la porta, si
guardò indietro. Tallah si era allontanata dal tavolo e stava finendo il suo tè,
la testa inclinata mentre sembrava abbassare la tazza per forza.
Mae sollevò il suo spray al peperoncino, il suo corpo tremava, il suo
istinto le urlava di fare attenzione.
Ma sicuramente quell'incantesimo di evocazione non poteva aver
manifestato un libro che aveva il potere di bussare alle porte.
Dicendo a se stessa di diventare reale, Mae spalancò la porta
d'ingresso, allungò la mano con lo spray… e fece un salto indietro.
- Cosa diavolo ci fai qui? - abbaiò.
Ci volle un momento prima che Shawn rispondesse, come se
nemmeno lui potesse credere a dove si trovava. Ma poi il combattente della
sera prima, quello che aveva salvato, quello a cui aveva cercato così
intensamente di non pensare mai più, si strinse nelle spalle.
Come se si fossero incontrati per caso nel reparto frutta di Hannaford.
- Ti dispiace abbassare il repellente per orsi - disse ironicamente.
Lei scosse la testa per schiarirsela.
- Che cosa? –
Lui accennò allo spray.
- A meno che tu non abbia intenzione di usarlo su un maschio
disarmato e indifeso… voglio dire, sono a favore del femminismo, ma mi
sembra un po' aggressivo, non credi? –
- Tu? Indifeso. Davvero? Bene, allora io sono la fatina dei denti –
- Non assomigli a una fatina - gli occhi di lui percorsero il suo corpo.
- A meno che tu non stia nascondendo le tue ali in parti delle quali
probabilmente non dovrei chiedere… -
Mae chiuse gli occhi e pregò di calmarsi. E quando diventò chiaro che
avrebbe potuto aspettare fino al mese prossimo prima che qualcosa di
vicino all’equilibrato atterrasse sul suo portico anteriore, costrinse le sue
palpebre ad aprirsi di nuovo per fissare il combattente. Era esattamente
come lei lo ricordava. Grande, con l’aria da cattivo e con una serie di biglie
nere che lo fissavano dalla sua espressione dura per una combinazione di
noia e giudizio.
Oh, ed era vestito come qualcosa uscito da un film di Deadpool,
abbigliamento da combattimento completamente nero e aderente al corpo.
- Che diavolo ci fai qui? – ripeté, perché davvero, cos'altro c'era da
dire?
- Ero nel quartiere. Ho pensato di fare un salto - Si sporse in avanti e
annusò l'aria. - Ehi, hai del caffè in quella cucina? Non sono un gran
bevitore di tè -

•••

- Fottimi... oh, sì... lasciati guardare... –


Balz era supino nel letto nella sua stanza nella villa della
Confraternita. Ma non era solo. Santo cielo, decisamente non era solo.
Una donna dai capelli scuri stava a cavalcioni sui suoi fianchi nudi e
cavalcava la sua erezione, in modo lento e costante. E come se lei gli avesse
letto nel pensiero, si inarcò all'indietro e piantò i palmi delle mani sul
copriletto disordinato vicino alle sue ginocchia, allargando le cosce,
lasciandolo guardare mentre il suo enorme cazzo lucido scivolava dentro e
fuori dal suo sesso morbido e caldo.
- Ah… dannazione… cazzo…
Era così bella, i suoi seni ondeggiavano con i movimenti, le punte
erette puntavano al soffitto mentre si inarcava ancora di più. Al di sotto del
loro peso perfetto, i suoi addominali si contraevano sotto la pelle soda e
liscia, e tutte quelle lussuose ciocche castane gli cadevano sugli stinchi.
- Così, fottimi - gemette mentre le stringeva ginocchia tra le mani per
allargarle le gambe ancora di più. - Più veloce –
Come se non avesse niente di meglio da fare che soddisfare ogni sua
fantasia, lei si mosse in maniera più urgente, le labbra rosso sangue
dischiuse, il bacino che si muoveva, il piercing che pendeva dall'ombelico
ammiccava nella luce scarsa. Lei era così flessibile, come se fosse fatta
d'acqua, il suo corpo scorreva su di lui, coprendolo, anche nei punti in cui la
sua pelle non era su quella di lui.
In fondo alla sua mente, pensò alla signora dell’appartamento. Aveva
fatto questo tipo di cose con quella donna umana, l'aveva presa, controllata,
le aveva dato il tipo di piacere che le avrebbe fatto riconsiderare tutti gli
amanti che aveva avuto e che avrebbe mai avuto. Quel gioco era stato molto
divertente. Un bel modo per trascorrere un'ora o due.
Ma questo... questo sesso cambiava tutto.
Spostando l'equilibrio, la donna portò una mano davanti. Le sue
unghie erano lunghe come artigli e dipinte dello stesso colore rosso delle
sue labbra, e quando raggiunsero il suo sesso tra le gambe, scintillavano
nell'oscurità.
Sollevò i fianchi, il cazzo di lui emerse dalla sua presa scivolosa e lei
le avvolse sulla sua asta surriscaldata e super sensibile...
- Sto venendo - abbaiò lui. - Cazzo, sto venendo... –
Proprio mentre stava per eiaculare, mentre il piacere si acuiva fino a
un punto di agonia anticipatrice che lui voleva catturare e trattenere
all'interno delle sue palle per sempre, nel momento stesso in cui l'orgasmo
stava iniziando… lei si alzò e scomparve.
Ci fu anche un puff! e un filo di fumo…
Balz scattò in piedi.
Allungando le mani davanti al suo petto nudo e alla sua erezione
dritta come un bastone, le agitò nell'aria, cercando la carne calda, la donna,
il calore e la passione.
Niente.
Non c'era niente lì.
Strofinandosi il viso, si guardò intorno. Sì, questa era la sua camera
da letto. O almeno così pensava: no, no, era a casa. Poteva vedere i contorni
della familiare disposizione degli oggetti d'antiquariato, e la pila dei suoi
vestiti da ladro sul pavimento, e la porta aperta nell'enclave di marmo del
suo bagno...
All'esterno, nel corridoio, iniziò a risuonare una serie di suoni bassi.
Era l'orologio a pendolo nel salotto del secondo piano che annunciava l'ora.
Contò i rintocchi: uno, due, tre, quattro, cinque, sei... sette.
Nient'altro. Quindi erano le sette.
E doveva essere sera, perché era andato a letto verso le otto del
mattino. Quindi sì, era nel posto giusto, all’ora giusta. Ma per quanto
riguardava la donna? Non aveva idea di come fosse finita nel palazzo della
Confraternita molto accuratamente nascosto, nella sua stanza, o forse...
doveva essere stato un sogno.
Gesù, che stupido.
Ovviamente era un dannato sogno. Una vendetta inconscia ed
esistenziale per quando era scappato dalla signora in quell’appartamento.
Gli occhi di Balz andarono al suo ufficio. Lì, accanto alla lampada
con il paralume in vetro colorato, c'era la collezione degli orologi del
signore. Tutti e sei. Proprio dove Balz li aveva lasciati.
Quindi sì, tutta quella storia al Commodore con la cassaforte e la
signora e quei Banksy nella tromba delle scale era accaduta...
Una sensazione di inquietudine gli attraversò la spina dorsale.
Era successo qualcos'altro, però. Qualcosa che lo aveva trattenuto.
Qualcosa che aveva impedito la sua partenza…
L'immagine del corpo nudo della misteriosa donna, dei suoi capelli
castani e dei suoi occhi scuri, dei suoi seni incredibili, gli fece serrare i
molari...
Balz ebbe un forte orgasmo, getti caldi uscirono dal suo cazzo e
atterrarono sulle sue cosce, le lenzuola, il basso addome, gli spruzzi lo
marchiarono a fuoco. E mentre la liberazione lo squarciava, la donna era di
nuovo dentro la sua stanza, in piedi davanti a lui, il suo sorriso antico, il suo
corpo giovane come appena uscito dalla transizione.
Solo che lei non era un vampiro. E in realtà non si trovava di fronte a
lui. Il suo ricordo era così intenso, però, che ogni dettaglio di lei bruciava
nella sua immaginazione.
Era come se fossero stati amanti per anni. In effetti, aveva la
sensazione che quella non fosse la prima volta che lo faceva venire, ma
piuttosto che avevano scopato per tutto il giorno.
Stava ricordando questo particolare quando...
Bang, bang, bang.
- Balz! Sei morto? Che diavolo –
Scattando sull'attenti, si voltò di scatto verso la porta. Poi tirò su in
fretta sul suo grembo le coperte, dove le tenne in posizione come se la sua
erezione fosse in grado di afferrare un cappello a cilindro e un bastone per
ballare il tip-tap sul suo bacino.
Gesù, stava impazzendo, cazzo.
- Sì, sì - i schiarì la gola. - Sto bene –
Syphon, suo cugino e il miglior assassino in circolazione, fece
capolino.
- Abbiamo una riunione nello studio di Wrath tra cinque minuti. E
perché non eri al Primo Pasto? Ti ho portato del cibo –
Il bastardo gli lanciò un croissant avvolto in un strofinaccio e fece
seguire quella bomba di carboidrati da una tazza da viaggio sigillata. Balz li
prese entrambi.
- Zucchero e panna come piace a te. Ora alza il culo dal letto. Ci
vediamo lì –
La porta si chiuse con uno schianto, la luce che era entrata dal
corridoio si spense, nient'altro che il bagliore del gabinetto che filtrava di
nuovo nell'oscurità.
Balz guardò verso la doccia. Poi spostò lo sguardo sullo strofinaccio e
sulla tazza da viaggio.
Tutto sembrava faticoso, e si lasciò ricadere sui cuscini. Chiuse gli
occhi, fece un respiro profondo e annusò la propria eccitazione. Anche se
era sempre disponibile ad andare a un incontro con i Fratelli, e nonostante
avesse dormito molto durante il giorno, non voleva andare da nessuna parte.
Forse solo un altro paio di minuti di riposo.
Sì, solo un secondo o due. Poi avrebbe fatto una doccia e mangiato il
suo Primo Pasto prima di scendere nello studio. Sì. Solo un altro po'…
Oh, chi cazzo voleva prendere in giro.
Tutto quello che voleva era quella donna. Aveva di nuovo bisogno di
lei come aveva bisogno di ossigeno per sopravvivere.
Anche se era solo un frutto della sua immaginazione.
CAPITOLO SEDICI

In piedi sulla soglia di un cottage in pietra che apparteneva a un


catalogo di case per le bambole, Sahvage aspettava di essere invitato
all'interno per un caffè. Perché, sapete, era un gentiluomo. Un vero tipo in
gamba con i modi di un fottuto aristocratico.
Nel frattempo, la femmina che aveva davanti lo guardava come se lui
avesse perso la testa. E forse aveva ragione.
Però forse l’aveva persa molto tempo prima, e loro si erano appena
incontrati.
La femmina si guardò alle spalle in un interno buio. Poi uscì dalla
casetta e chiuse la porta. I suoi capelli erano di nuovo raccolti in una coda
di cavallo, ciuffi biondi le fluttuavano intorno al viso come un'aureola.
Niente trucco, ma non ne aveva bisogno, e indossava gli stessi jeans della
sera prima: no, aspetta, probabilmente no. Lui aveva la sensazione, dato il
suo fragile autocontrollo, che fosse una maniaca della pulizia e un po'
compulsiva. Senza dubbio ne aveva tre o quattro paia della stessa marca e
taglia, e li infilava a turno nella lavatrice.
Oh, ma quella sera aveva un pile sopra invece di un'altra maglietta…
Dio, aveva ancora un odore fottutamente fantastico e non poteva fare
a meno di fissarle le labbra. Il fatto che fossero state sulla sua gola a
succhiare... leccare...
Beh, lo faceva irritare da morire essere stato mezzo morto quando
tutto era successo. E avrebbe fatto meglio a smetterla di pensare a quello
che lei gli aveva fatto al collo, o avrebbe dovuto risistemarsi le parti
basse… e non solo a causa della sua cattiva postura.
- Tu non sei qui in questo momento - disse lei a bassa voce.
Sahvage inarcò un sopracciglio.
- Non lo sono? Dove sono, allora? Faresti meglio a dirmelo, perché
altrimenti mi sono perso –
- Non è quello che intendevo –
Lui si sporse in avanti e abbassò il volume per abbinarlo a quello di
lei, come se stessero condividendo dei segreti.
- Ti suggerirei di darmi un pizzico per controllare se sono reale, ma
temo che intenzionalmente potresti interpretate male l'invito e tirarmi un
pugno –
- Sì, sicuramente non vuoi darmi un’occasione del genere. Non sono
una persona violenta, ma qualcosa in te... –
- Ti ispira - si passò una mano sui capelli corti. - Sì, lo so, ho
quest'effetto sulle femmine... –
- Tu non mi ispiri… -
- … che cercano libri. Quindi hai già trovato la tua piccola collezione
di Beatrix Potter? Oppure, aspetta, è più simile a Nancy Drew, giusto? –
Questo la zittì per un secondo.
In realtà no, non era esatto. I suoi occhi gli dicevamo mooolto.
- Come hai trovato questa casa? - gli chiese.
- Mi hai nutrito ieri sera - Sahvage fece un passo indietro. - Il tuo
sangue è dentro di me. Meglio del GPS –
E… ehi, almeno era riuscito a non leccarsi le labbra mentre le
ricordava quello a cui non riusciva a smettere di pensare. Nella sua mente,
però, era tutto concentrato sul suo sapore… e cosa ne sai, quella passeggiata
lungo il viale dei ricordi aveva trasformato la notte fredda in tropicale.
Almeno da parte sua.
Per lei? L'Antartide non aveva nulla da invidiare alle schegge di
ghiaccio nei suoi occhi mentre incrociava le braccia sul petto.
- No, non ho trovato quello che cerco –
- Peccato che sia solo un libro –
- Chiedo scusa? –
Sahvage scrollò le spalle.
- Solo per dire –
- Non sto cercando te. Tanto per esser chiari –
- Oh, ora stai ferendo i miei sentimenti - si mise una mano sul cuore e
gettò indietro la testa. - Sei davvero... –
- Che cosa? –
Mentre Sahvage lasciava che le sue parole scivolassero via, si voltò e
guardò il cortile intricato. La casetta in pietra era arretrata rispetto alla
strada di campagna su cui si trovava, e la proprietà era stata abbandonata da
tempo, quindi c'erano rovi che crescevano ovunque. Allo stesso modo, la
strada sterrata nel terreno era contrassegnata da alberi aggraziati come mani
artritiche e cespugli che avevano invaso le loro forme.
- Vai Avanti - suggerì la femmina. - Dillo. Credi che non possa
sopportare un insulto... –
- Ssh –
- No, non ssh –
Sahvage alzò la mano e continuò a scrutare il paesaggio incolto e
infestato dalle ombre.
- Smetti di parlare –
La femmina sbuffò.
- Okay, mi rendo conto che questa sarà una sorpresa schiacciante per
te, ma non devo ascoltare… -
- Dov'è il cielo?
Ci fu una pausa.
- Cosa hai detto? –
Lui indicò in alto.
- Dove sono le stele? Era una notte serena quando sono arrivato qui.
Dove sono? –
- Si chiama cielo coperto -
Col cavolo che lo è, pensò lui.
E intanto, sulla terra, non c'era vento, né la luna a far luce, eppure
qualcosa si era mosso là fuori.
Anche se i suoi occhi gli dicevano che non c'era niente che non
andava, il suo istinto lo sapeva.
- Entra in casa - disse a bassa voce.
- Lo farò. Appena te ne andrai... –
Sahvage la fissò con uno sguardo serio.
- Non ti sto prendendo in giro. C’è qualcosa che non va… -
Lei guardò oltre le spalle di lui. E poi gli afferrò il braccio e indicò i
rovi.
- Che diavolo è quello? –
Lui si girò di scatto e si mosse in modo che il suo corpo si
frapponesse tra lei e qualunque cosa fosse là fuori… e gli ci volle meno di
una frazione di secondo per vedere di cosa stava parlando. Un'ombra stava
correndo veloce sul terreno, viaggiava come un serpente sul percorso a
ostacoli di rami abbattuti ed erbacce morte. Eppure non c'era alcuna origine
per quello, niente nell'aria sopra che potesse creare quel genere di cose.
Nessuna fonte di luce.
- Entra dentro... –
Sahvage non ebbe la possibilità di finire la parte e chiudi quella cazzo
di porta. La strisciante macchia scura sbucò dal terreno diventando una
figura tridimensionale che aveva estensioni simili a braccia e gambe, oltre a
un tronco delle dimensioni di un maschio.
Prima che Sahvage potesse schierare una delle sue armi, la cosa,
qualunque cazzo fosse, si precipitò in avanti con un suono stridulo che si
propagò nelle orecchie e in tutto il corpo. Per proteggere la femmina dietro
di lui, Sahvage spalancò le braccia…
L'entità gettò fuori una delle sue appendici e colpì il petto di Sahvage,
l'impatto fu simile alla puntura di mille api, il dolore rimbalzò nella sua
spina dorsale e si annidò nei suoi muscoli. Rimase in piedi grazie alla sola
volontà, la sua determinazione a tenere al sicuro la femmina gli dava una
forza che altrimenti non avrebbe avuto, specialmente quando il secondo
attacco lo colpì in faccia, accecandolo.
Il suo cervello si bloccò per l'agonia e barcollò avanti e indietro, per la
prima volta, da quanto poteva ricordare, pregò di non morire. Non poteva
lasciarla indifesa di fronte a quella fottuta cosa. Quindi, quando la sua
visione da schifo gli disse che l'entità stava avanzando di nuovo verso di
loro, si fece forza, scoprì le zanne e cercò di schierare una risposta
difensiva...
Proprio accanto alla sua testa, proteso in avanti dal nulla, apparve un
braccio… uno vero, non dell'ombra. O almeno così gli sembrò. La sua vista
era incredibilmente sfocata... no, era davvero un braccio e apparteneva alla
femmina. E alla fine di quello, stretto in una morsa ferrea, c'era un piccolo
oggetto simile a un contenitore.
La femmina urlò premendo il meccanismo, il rumore che emise non
era di paura, ma di aggressività. Eppure la nuvola di aerosol che uscì venne
spazzata via all'istante, come se la cosa nell’ombra avesse gli occhi.
Tuttavia, era stato un bene da parte sua però fare un tentativo...
Sentì uno strattone improvviso alla vita.
Da sotto la sua ascella, dall'altro fianco, apparve la canna della
pistola. E quando la femmina premette il grilletto, vi fu un'esplosione dalla
canna, un proiettile sparato verso l'entità, ma con una sola mano lei non
poteva controllare la mira o il rinculo dell’arma.
Lo spray non avrebbe avuto alcun effetto, ma quei proiettili di piombo
sicuramente sì.
Sahvage le afferrò la mano.
- Mira! Ti stabilizzerò io: mira, dannazione! Non riesco a vedere! –
Con il suo enorme palmo bloccato sulla sua presa, la femmina eseguì,
puntò e premette il grilletto, i muscoli dell'avambraccio e i bicipiti
assorbirono il contraccolpo, mantenendo la pistola ovunque lei ne avesse
bisogno...
L'ombra venne colpita perpendicolarmente al busto, l'impatto spazzò
via le estensioni della parte inferiore del suo corpo, quella superiore del
busto si sbilanciò, un altro terribile urlo si riverberò nella notte.
Prima che Sahvage potesse dirle di sparare di nuovo, la femmina
premette quel fottuto grilletto ancora e ancora e ancora. E anche se a quel
punto non aveva affatto una visione a distanza, poteva dire che lei era a
posto su dove stavano andando quelle pallottole di piombo.
Il qualsiasi-cazzo-di-cosa-fosse incespicò all'indietro e barcollò.
- Continua a colpirlo! - urlò Sahvage sopra i suoni della pistola.
In attesa che lei svuotasse il caricatore, lui allungò la mano sul fondo
della schiena e ne tirò fuori uno di riserva.
Nel momento in cui l'ultimo proiettile nel caricatore lasciò la camera,
abbaiò:
- Ricarica ora! –
Le prese la pistola, tirò fuori la camera, caricò e riorientò la mira.
Questa volta lei gli afferrò l'avambraccio con entrambe le mani per spostare
la pistola.
- Spara! - disse nell’orecchio di lui.
Sahvage seguì la sua indicazione e lasciò che lei gli controllasse il
braccio come se fosse parte dell'arma. E i proiettili andarono dove
dovevano andare. Man mano che il suo livello di dolore migliorava,
Sahvage riusciva a vedere un po' meglio, e l'ombra era crivellata di buchi...
E poi volò via.
In una raffica di schegge piumate, l'entità esplose in pezzi, come un
avvoltoio colpito da una palla di cannone.
- Entra dentro! - Sahvage spinse la femmina verso la porta. - Entra! –
Dio solo sapeva se quella cosa si sarebbe riformata...
Ci fu uno scricchiolio quando l'ingresso venne spalancato, e poi
Sahvage si sentì trascinare. Quando inciampò nel telaio con la punta dello
stivale, si lanciò in avanti e cadde a terra. La buona notizia? Prima che
potesse urlarle di chiudere quella dannata porta, ci fu un sonoro tonfo...
All’improvviso la femmina era giù con lui.
- Stai bene? –
Sahvage ripose la sua pistola, i suoi occhi continuavano a non
funzionare bene, ma il suo olfatto era sempre al lavoro e, oh, il profumo di
lei.
Respirò profondamente e non riuscì a smettere di sorridere.
- Ora sì -
•••

Mae fissò il combattente. Shawn.


Il suo viso era gonfio, un rilievo che gli attraversava la bocca fino a
sopra uno dei suoi occhi, la pelle intatta, ma sollevata come se fosse
bruciata. E sebbene la giacca nera che indossava era tutta intera, lei poteva
sentire l'odore del sangue fresco, così le sue mani tremanti gli tirarono fuori
la camicia dalla cintura dei pantaloni.
Mae distolse lo sguardo quando il tatuaggio fece la sua comparsa, il
dito ossuto che si estendeva dallo sfondo nero la spaventava. Ma poi si
ricompose. Oh... wow. La sua muscolatura era il tipo di cosa che non potevi
fare a meno di guardare, e non con disapprovazione.
Tranne che poi si dimenticò tutte le cose da santo cielo: la sua carne
sembrava essere stata colpita da una frusta, i lividi andavano dalla spalla
agli addominali. Ma come mai i suoi vestiti erano intatti?
- Sei ferito - sussurrò.
Spontaneamente, lei allungò la mano e toccò il...
Il combattente sibilò e sobbalzò, e così facendo, i suoi addominali si
tesero come spesse corde sotto la sua pelle, il grasso non celava i contorni
della sua anatomia.
- È davvero ferito! - esclamò Tallah dall'arco in cucina. E poi la
femmina anziana sembrò confusa. - Aspettate, chi è lui... e ho sentito degli
spari… -
- Va tutto bene ora - disse Mae, anche se non ci credeva affatto.
Niente andava bene. Aveva appena sparato con una pistola … e che
diavolo era stata quella cosa dell'ombra? E perché…
- Sei ferita anche tu? - chiese Tallah. - Ha bisogno di un guaritore? –
- No, sto bene - Mae allungò le braccia e si guardò. - Niente pizzica o
fa male –
- E io sto perfettamente bene - intervenne Shawn.
Con un gemito, si alzò in piedi. E poi, rivolgendosi a Tallah, disse
nell'Antico Idioma:
- È un onore per me fare la conoscenza di una femmina di valore.
Sono Sahvage e mi perdoni per la mia intrusione nella sua casa -
Mentre parlava, si portò la mano allo sterno e fece un profondo
inchino. Come se fosse in smoking e si trovassero in una sala da ballo
invece che nel piccolo salotto anteriore del cottage.
E all’improvviso Tallah sembrava una Principessa Disney alla quale
erano state regalate le chiavi di un castello.
- Sahvage, la vostra presenza è benvenuta e apprezzata in questa casa
- rispose lei con un breve inchino in vestaglia.
Che diavolo, pensò Mae. Perché io non ho ricevuto questo elegante
trattamento?
D'altra parte, l'inflessione di Tallah, che fosse in inglese o nell’Antico
Idioma, era decisamente aristocratica: c'era solo un gruppo di vampiri che
parlava come lei. E chiaramente Shawn-Sahvage aveva esperienza con loro.
O era uno di loro.
Sahvage?, pensò.
Ma in fondo... quale altro avrebbe potuto essere il suo nome?
- Allora, cosa è successo là fuori? - chiese Tallah stringendo le mani
al corpetto della sua vestaglia.
- Niente - rispose velocemente Mae alzandosi in piedi.
Tallah strinse gli occhi.
- Beh, questo spiega certamente gli spari, vero? –
Shawn, no, Sahvage, guardò verso la porta d'ingresso chiusa.
- Serve una barricata. Vi dispiace se sposto quello? –
Tallah e Mae si voltarono entrambe verso la credenza di epoca
Giacobina che occupava l'intera parete laterale. Era di vecchia quercia
spessa quanto i muri di pietra esterni del cottage, e forse anche più pesante.
- Immagino di doverti aiutare - disse Mae.
- No, ci penso io –
Si avvicinò al mobile intagliato alto due metri e mezzo e largo un
metro e ottanta e allungò le braccia da un capo all'altro. Poi affondò nelle
sue cosce pesanti, fece un respiro profondo e...
Mae si aspettava davvero che l'armadio non si muovesse.
Sbagliato. Con uno scricchiolio di protesta e molti gemiti da parte del
legno, la credenza si lasciò sollevare con cautela da terra. Poi Sahvage la
inclinò leggermente, il che significava che tutto il peso era sul suo petto... e
si avvicinò alla porta d'ingresso del cottage. Il suo respiro si fece più
profondo, ma a parte quello, aveva totalmente il controllo del carico
impossibile che stava trasportando.
E quando lo ebbe posizionato, come se fosse una piuma, i suoi piedi
si ricongiunsero con le assi del pavimento non con uno colpo ma con un
sussurro, il vecchio legno stava gemendo di nuovo.
Sahvage si raddrizzò, sbatté le mani come se i suoi palmi fossero
leggermente insensibili e si girò. Dopo due respiri tornò normale. Come se
non avesse appena spostato una macchina.
- Le persiane delle finestre - disse guardando Mae. - Ho bisogno del
tuo aiuto per chiuderle tutte. Dobbiamo sigillarle, e quante altre porte verso
l'esterno ci sono? –
Lei era ancora così stupita dalla sua prova di forza che non riuscì a
rispondere immediatamente. Il suo cervello era andato in posti che erano
inutili in modo sublime... tipo cos'altro poteva essere in grado di fare con
quel corpo?
E no, non stava parlando di passare l'aspirapolvere o di piccoli lavori
domestici.
- Cosa sta succedendo esattamente - chiese Tallah.
Mae scosse la testa per schiarirsi i pensieri.
- Penseremo a tutto noi. Non preoccuparti - diede un'occhiata a
Sahvage. - E sì, ah... c'è un ingresso sul retro in cucina. E c'è anche una
porta blindata giù nel seminterrato, ma è d'acciaio e completamente
rinforzata –
Lui annuì.
- Mi occuperò io di mettere in sicurezza la cucina. Tu comincia con le
finestre - si voltò verso Tallah e si inchinò. - Perdonatemi per il disordine
della vostra casa, signora. Ma è necessario per garantire la vostra
sicurezza e protezione –
Tallah arrossì come se avesse sedici anni e le fosse stato chiesto di
ballare un lento.
- Ma certo. Fate pure –
- I miei ringraziamenti –
Mae si avvicinò per prendere il braccio della femmina.
- Siediti qui. Non voglio che tu svenga di nuovo –
Mentre lei sistemava Tallah su una poltrona, Sahvage iniziò a
chiudere le persiane mentre si dirigeva in cucina, bloccando i pannelli
avvolgibili nei ganci montati sui davanzali. Il fatto che la polvere fosse
volata via dalle tende mentre lui le spingeva da parte, fece capire a Mae che
quelle precauzioni di sicurezza per il sole non venivano utilizzate
regolarmente da un po'.
Quindi Tallah aveva passato le sue giornate nel seminterrato, da sola,
senza protezione se doveva salire le scale. Se ci fosse stato un incendio. O
un problema.
- Resta qui - disse Mae mentre il suo cuore si spezzava.
Precipitandosi in cucina, tirò giù le persiane e le fissò saldamente:
sopra il lavandino, vicino al tavolo, anche quelle più piccole nella dispensa
e nel bagno di lato.
Quando uscì dal bagno, si fermò di colpo.
Sahvage stava provando un altro dei suoi afferra-e-sposta, questa
volta con il frigorifero. E avrebbe anche potuto spostare un tostapane su un
ripiano per tutto lo sforzo che sembrava fare.
- Aspetta! La spina! –
Proprio mentre il cavo si tendeva, Mae si lanciò verso la presa e la
liberò prima che le punte venissero piegate o, peggio, spezzate.
- Grazie - le disse.
Per evitare di fissare le dimensioni della sua schiena e delle sue
spalle, lei si concentrò sull'impronta di polvere e sporcizia che si era
accumulata sotto l’elettrodomestico.
- Il mio regno per un Roomba in versione industriale - mormorò.
- Che ne dici se andiamo di sopra? –
Lei si voltò e lo vide battere di nuovo i palmi delle mani, e mentre
misurava quel torace e quelle gambe e quelle braccia, si risentì per quanto
potesse essere utile avere tutti quei muscoli in casa. Specialmente quando,
tipo, qualcosa che era dell’altro mondo ti aggrediva sul dannato prato di
fronte a casa.
Mae guardò il tavolo dove erano ancora in mostra i resti del tè,
insieme agli ingredienti dell'incantesimo di evocazione e al piatto d'argento
vuoto.
Cosa avevano richiamato al cottage?,si chiese con paura.
- La farò dormire su questo piano - disse lei. - E abbiamo bisogno di
una prolunga per il frigorifero –
- Ci sono problemi se vado di sopra? –
- No –
Aveva intenzione di muoversi mentre Sahvage si dirigeva verso le
scale. Invece, tornò a guardare il tavolo. La bottiglia di aceto, la bacinella
del sale e il limone schiacciato, insieme a quel coltello da cucina e al piatto
d'argento, erano un errore che avrebbe voluto cancellare.
Negli alloggi al pianterreno di Tallah, Mae chiuse le persiane e
quando sentì Sahvage muoversi al piano di sopra, il fatto che la segatura
filtrasse dalle assi del pavimento le fece pensare che avrebbe dovuto portare
l'anziana femmina con lei e Rhoger. Per prima cosa, c'era l'ovvia
preoccupazione per il fatto che Tallah non si ricordava, o non aveva
l'energia per farlo, di chiudere le persiane di sicurezza durante le ore diurne.
Inoltre, a meno di una seria ristrutturazione del cottage, era preoccupata per
la sua integrità strutturale...
Tallah apparve sulla soglia, il bastone a sostenere il suo peso, il viso
verso il basso.
- So cosa stai pensando. Volevo chiudere le persiane per la giornata di
ieri. Lo volevo davvero. Ero solo stanca –
- Va tutto bene - Anche se non era così. - Io, beh, ne parleremo più
tardi –
- Mi piace lui, comunque - La femmina anziana guardò verso il
soffitto mentre altri passi pesanti risuonavano verso il basso. - È davvero
bello. Da dove viene? –
Dalle porte del Dhunhd, pensò Mae. Per torturarmi.
- Tinder - mormorò invece.
- Lo hai incontrato in un cerchio di fuoco? –
- Qualcosa del genere - Mae si strofinò la testa dolorante e poi si
concentrò sull’anziana. - Sembri stanca... –
- Mi dispiace che l'incantesimo non abbia funzionato - Tallah spostò il
bastone dall'altra parte. - E quanto all'essere stanchi, dopo una certa età, ci
si stanca dei propri fallimenti nella vita. Non si tratta solo di dormire, mia
cara –
- Non mi hai deluso –
- Pensavo che l'incantesimo di evocazione avrebbe funzionato –
- So che lo volevi, e sono grata che ci abbiamo provato –
Quando Tallah mise la mano sullo stipite della porta per sostenersi,
Mae si avvicinò.
- Che ne dici di un vero riposo al piano di sotto. Io terrò d'occhio le
cose qui –
- Farai stare con noi quel maschio, allora? È molto forte. E anche
bello –
Mae emise un rumore in fondo alla gola. Era quello che succedeva
quando mandavi giù due imprecazioni accompagnate da un figlio di
puttana.
- Siamo abbastanza forti da sole, tu e io - disse prendendo il braccio
della femmina. - Dai, andiamo a letto. Riposati mentre io penso al resto –
Tallah si rifiutò di muoversi.
- Cosa c'era nel mio cortile? –
- Solo un coyote –
- Non sembrava un coyote –
- Vuoi che ti porti giù del latte caldo? - chiese Mae con voce
tranquilla mentre guidava Tallah verso la porta del seminterrato.
- A essere onesti, sono troppo stanca per bere qualcosa - disse Tallah
sconfitta. - Sono così felice che tu sia qui. Mi fido di te -
Beh, almeno questo è un voto di fiducia, pensò Mae.
CAPITOLO DICIASSETTE

A circa dieci miglia di distanza, nei sobborghi, in una graziosa casetta


ristrutturata di recente, Nate era seduto da solo in cucina a un tavolo
rotondo.
Okay, non era completamente solo. Aveva un semplice bagel di
Thomas (leggermente tostato) con crema di formaggio spalmata (non
troppo) e una tazza di caffè Dunkin' Donuts (fatto in casa nella macchina
del caffè, non nella K-cups, con lo zucchero). Mentre sorseggiava la
caffeina e ingurgitava i carboidrati, il tallone del suo piede destro rimbalzò
sotto la sua sedia come se stesse facendo un conto alla rovescia per il
decollo… e ormai aveva perso la pazienza per il tempo che stavano
impiegando i razzi a riscaldarsi.
Il tip-tip-tip-tip lo faceva impazzire, quindi si diede una pacca sulla
coscia. Poi la spinse verso il basso per tenere ferma la gamba.
Controllò l'ora sul telefono, guardò la porta scorrevole in vetro
dall'altra parte del tavolo. Le persiane erano ancora abbassate perché
Murhder e Sarah non volevano correre rischi con la luce del sole. Anche se
era ormai passato il tramonto, la casa era ancora sigillata, il che lo stava
costringendo a fare un po' di ginnastica mentale sulle implicazioni di lui che
sgattaiolava fuori dal garage. Conosceva il codice dell'allarme, ma non era
sicuro che ce ne fosse un altro secondario attivo.
Aspetta, suonava tutto nel seminterrato, giusto? Tipo, ogni volta che
veniva aperta una finestra o una porta.
Diede un'occhiata a quella del seminterrato. I suoi genitori erano
ancora laggiù, a farsi la doccia e vestirsi. Quindi avrebbero potuto sentire il
suono. O ricevere un avviso sul loro telefono. Per come Vishous aveva
impostato questi sistemi di sicurezza, sarebbe stato stupido pensare che non
ci fossero più allarmi quando si trattava di tracciare la violazione di
qualsiasi contatto.
Controllò di nuovo l'ora. Non c'era nessuna regola precisa che gli
vietasse di andarsene prima che le persiane fossero alzate. Inoltre il sole era
tramontato circa un'ora e trentatré minuti prima.
E ventisette secondi.
Ventotto.
Ventinove…
Il rumore di passi pesanti che salivano le scale fece sì che Nate
mettesse via il telefono come se fosse stato sorpreso a guardare le foto di
Emily Ratajkowski. E quando la porta della cantina si spalancò, tornò con il
programma del bagel, masticando come se non avesse pianificato niente di
stupido.
Solo un'altra notte normale, nel bel mezzo di una serie di notti tutte
uguali, dove si presentava al Primo Pasto e poi andava a lavorare al
cantiere.
NIENTEDICHÈ.
- Ma guardati, ti sei alzato presto - disse suo padre.
- Papà… -
Era, almeno a livello visivo, un termine totalmente improprio.
Murhder era l'esatto opposto del classico padre di famiglia malleabile e
scherzoso che indossava jeans e occhiali da lettura. Già, no. Murhder era
alto due metri e dieci milioni di centimetri, vestito di pelle nera e la
canottiera da combattimento nera attillata, con le fondine delle armi che
pendevano da una mano e i capelli rossi e neri tagliati corti, sembrava
qualcosa appena uscito da un videogioco.
Dalla parte sbagliata dei buoni.
- Allora come hai dormito? - Murhder mise da parte le fondine e poi
si spostò vicino al tavolo della cucina, posando un'enorme mano sulla spalla
di Nate.
- Bene - Mastica. Mastica. Sorso. - Finisco questo e mi metto al
lavoro –
Sono contento che il lavoro stia andando bene -Suo padre aprì
l'armadietto sopra la macchina del caffè e tirò fuori una tazza con sopra un
inglese altezzoso e la parola "WANKER"'incisa sotto. - E stai rendendo un
servizio alla razza. I giovani maschi e femmine che vivranno lì hanno
bisogno di un riparo –
Nate cercò di inserirsi nella conversazione.
- Non capisco, però. Staranno lì da soli? –
Le immagini delle confraternite umane gli fecero chiedere se tutti
quei mobili nuovi sarebbero durati a lungo.
- No, ci saranno degli assistenti sociali sul posto - Murhder mise la
tazza nella macchina e la accese con una capsula di Green Mountain
Breakfast Blend. - Il Porto Sicuro non consente ai maschi di superare la loro
transizione sotto il suo tetto, il che, considerando che è una struttura per le
femmine e i loro bambini, ha perfettamente senso. Ma ci sono famiglie che
devono essere tenute insieme e bambini che sono da soli. Quindi Luchas
House andrà bene per la razza –
- Mmmh –
Mastica. Mastica.
Ci fu un sibilo quando il caffè uscì. Poi il tintinnio di un cucchiaio
quando suo padre mescolò lo zucchero. Alla fine...
- Ahhhhhhh –
Buffo come fosse ormai normale questo loro rituale con il caffè. Nate
si era abituato a tutto davvero in fretta. Questa era... casa. E Murhder e
Sarah erano la sua famiglia.
E a volte si sentiva così fortunato che piangeva da solo nella sua
stanza tenendosi un cuscino sul viso in modo che nessuno potesse sentirlo.
Ma non era quello che aveva in mente quella sera.
- Stai bene, figliolo? –
Nate alzò lo sguardo, pronto con un sto-bene. Ma il modo in cui
quegli occhi lo fissavano? Quello che stava vendendo non sarebbe stato
comprato, e non c'era un modo per dire la verità. Era così impegnato a
negarlo a se stesso, che non riusciva a immaginare di dire le parole ad alta
voce.
Ma aveva qualcosa da dire.
- Hai... - si schiarì la gola. - Ah, hai chiesto a Shuli di proteggermi? –
Le sopracciglia di Murhder si abbassarono sui suoi occhi.
- Proteggerti? Tipo un ahstrux nohtrum? –
- Non sono sicuro di cosa sia –
- È una guardia del corpo con un contratto a vita - Murhder allungò il
palmo e lo agitò come se stesse cancellando una cattiva idea su una
lavagna. - E senza offesa per il tuo amico… è un giovane maschio molto in
gamba, ma non è esattamente una punta di diamante, se capisci cosa
intendo. Al suo posto preferirei scegliere un buon Doberman ogni notte se
fossi preoccupato per la tua sicurezza –
- Oh - Nate si alzò e andò alla lavastoviglie con il piatto e la tazza. -
Va bene –
- Cosa sta succedendo, figliolo –
Non era una domanda. E Nate si fidava del maschio. Come avrebbe
potuto non farlo? Ma...
- Niente - infilò le sue stoviglie con gli altri piatti sporchi. - Shuli era
strano... –
Quando Nate si raddrizzò e si voltò, Murhder era proprio lì.
- Parla con me - disse il Fratello.
- Non è stato davvero niente. Eravamo al cantiere, a lavorare nel
garage, quando è successa quella cosa della luce brillante –
- Il meteorite che è nei notiziari? –
- Sì. Bene, siamo andati a vedere il buco, e mentre eravamo lì, sai,
Shuli… - Nate evitò la parte della pistola - ha fatto questo commento su
come avrebbe dovuto proteggermi –
- Noi non c’entriamo –
- Immagino che stesse solo... –
- Che tipo di arma aveva con sé? - lo sguardo di Murhder era diretto
come una mazza da baseball sopra la spalla. - E non mentire. Te lo leggo in
faccia –
- Non era niente - Tre. Due. Uno... - Era una pistola, ma lui... –
- Gesù Cristo - scattò Murhder. - Cosa diavolo voleva fare con una
pistola? È in grado di sparare? Ovviamente no. Quindi o sparerà a te alla
testa o si castrerà... –
- No, no, ascolta, non è un problema… -
- Ogni arma nelle mani di qualcuno che non sa quello che sta facendo
è un grosso problema –
- Non voglio che si metta nei guai. Guarda, dimentichiamo... –
- Non è qualcosa che si può dimenticare –
Nate alzò la voce.
- Non sono affari tuoi! –
- Quando si tratta della tua sicurezza, puoi scommetterci il culo! –
In quel momento, le persiane cominciarono ad alzarsi da tutte le
finestre e la porta del seminterrato si spalancò. Sarah, la shellan di Murhder,
la mamma di Nate, si affacciò. Era già in camice bianco per andare a
lavorare nel suo laboratorio, i capelli castani tirati indietro, una paio di
occhiali per proteggere gli occhi di plastica trasparente appesi a una tasca
anteriore.
La sua espressione incerta suggeriva che stava pensando di mettere
l'equipaggiamento di sicurezza proprio in quel momento.
- Tutto bene qui, ragazzi? –
- Bene –
- Sì –
Quando Nate si rese conto che lui e suo padre avevano incrociato le
braccia sul petto, lasciò cadere le mani e si diresse verso la porta scorrevole
di vetro.
- Sono in ritardo per il lavoro –
- No - mormorò Murhder. - Non lo sei. Hai ancora mezz'ora –
Nate non si degnò di rispondere. Aprì le vetrate e scivolò fuori nella
notte. Anche se era agitato, riuscì comunque a smaterializzarsi fuori dalla
proprietà, e fu un sollievo riformarsi al lavoro, vicino al garage.
Non entrò, anche se le porte erano già state sbloccate e le persone
stavano spostando grossi pezzi di mobili da un camion U-Haul parcheggiato
proprio davanti alla porta d'ingresso. Abbassandosi nel cortile laterale, corse
via finché non fu sicuro che nessuno potesse vederlo.
Avvantaggiarsi con l'ultima parte da verniciare in garage non era mai
stato lo scopo di arrivare in anticipo. Invece, si diresse verso il recinto,
passò sotto e attraversò a grandi passi il campo. Mentre camminava, ripeté
nella sua testa il confronto con suo padre.
E si sentì uno stronzo.
Dopodiché si sentì frustrato con Shuli e tutte le sue stronzate sullo
sparare.
Mentre si avvicinava alla linea degli alberi della foresta, inspirò, in
parte per calmarsi e in parte per fiutare qualcosa. A differenza della sera
prima, non c'era nemmeno traccia di quell'odore di metallo bruciato.
Neanche vapore. E niente persone. Vampiri. Nessuno.
Chinandosi sotto un ramo, ne spinse via un altro e ne urtò un terzo
imprecando. Poi ci furono altri ostacoli del terreno da superare, scavalcare,
aggirare. Si sentiva come Godzilla che distruggeva un palcoscenico per
tutto il rumore che stava facendo.
La fossa dove era atterrato il meteorite apparve proprio dove era stata
la notte prima, e sembrava esattamente la stessa. Certamente non era un
cumulo di neve che si sarebbe sciolto dopo ore trascorse alla luce del sole.
Sul bordo del luogo dell'impatto, fissò il buco nel terreno profondo un
metro. Tutto era stato segnato dal calore, gli aghi di pino caduti e la
sterpaglia sul terreno erano bruciati, la terra annerita all'interno dello scavo.
Stando così vicino, poteva ancora sentire l'odore, anche se era debole.
Dov'era finito il meteorite? Era imploso nell'impatto?
Alzando gli occhi, scrutò il cielo sopra di lui. Così tante stelle... e
pensò che forse la Terra era come un bersaglio a una fiera della contea:
esseri celesti che miravano a una biglia blu nella speranza di vincere un
animale di pezza.
Quando quell'ipotesi lo fece preoccupare per l’estinzione di massa che
aveva messo fuori combattimento i dinosauri, perlustrò i tronchi e i rami
della foresta. E più cercava di trovare ciò che non c'era, più gli tornava in
mente la femmina della notte prima, quei capelli biondi, il cappotto con il
cappuccio, gli occhi sfuggenti...
Lo schiocco del bastone dietro di lui lo fece girare su se stesso.
Per un momento, non pensò che quello che stava vedendo fosse reale.
Immaginò solo che il suo cervello avesse creato una versione
tridimensionale di ciò che aveva sognato per tutto il giorno. Ma poi colse
l'odore.
Il profumo di lei.
E quando quell’assoluta meraviglia gli entrò nel naso, si sentì
trasportato anche se il suo corpo non si era mai mosso.
- Sei tu - sussurrò con stupore.
CAPITOLO DICIOTTO

Di sopra, al secondo piano della piccola casa, Sahvage tornò nella


stanza degli ospiti che si affacciava sul davanti. Sollevando i pannelli che
aveva appena chiuso, sbirciò nel cortile incolto. Con le luci spente dietro di
lui, era in grado di vedere chiaramente la notte attraverso i vecchi vetri.
Niente si muoveva. Né intorno all'acero. In fondo alla strada. Tra i
rovi e i rami aggrovigliati.
Chinandosi in basso, cercò di vedere se le stele...
Erano tornate. Come se fosse passata una tempesta.
Pensò a quell'entità ombra e sapeva nelle sue ossa cosa stava
succedendo, eppure voleva negarlo. Dopo tutti quegli anni, aveva pensato
che quella parte della sua vita fosse finita. Conclusa. Non avrebbe mai più
incrociato il percorso del suo destino.
Sahvage si strofinò il viso. Non voleva pensare al passato. Rivedere
quella merda nella sua mente non era il tipo di passeggiata lungo il viale dei
ricordi che aveva intenzione di fare---
- Stai bene? –
Le parole, pronunciate sottovoce dietro di lui, gli fecero venire voglia
di sussultare. Ma si riprese e si voltò per affrontare la femmina che per lui
era come un’erbaccia che continuava a ricrescere.
In realtà era lui l'idiota che si era presentato davanti alla porta di casa
sua, quindi chi era davvero l’erbaccia? E anche se senza dubbio si sarebbe
sentita offesa, non poteva fare a meno di assicurarsi che non fosse ferita. Di
nuovo. Ma sembrava stare bene: non zoppicava e lui non sentiva l'odore del
sangue.
E lei sicuramente lo stava fissando con occhi totalmente chiari e
diretti.
Che, in realtà, erano... piuttosto dannatamente attraenti. Non aveva
mai pensato al colore dell'iride che preferiva in una femmina. Gli attributi
sotto il collo erano stati il suo unico obiettivo in passato. Ma ora?
Gli piacevano di più gli occhi nocciola. Risoluti, intelligenti.... occhi
nocciola che lo guardavano come se si aspettasse che lui giustificasse lo
spazio che occupava e l'aria che respirava comportandosi da brava persona.
Piuttosto che da assassino a sangue freddo.
- Stai bene? - ripeté la femmina agitando le braccia davanti a lui come
se si trovassero in mezzo alla folla e lei cercasse di attirare la sua
attenzione.
Non preoccuparti, tesoro, pensò lui richiudendo la persiana. Potresti
essere in mezzo a centomila persone e io ti troverei.
- Va tutto benissimo - annuì intorno alla stanza polverosa. - Tutto
bloccato al suo posto –
La femmina esitò sulla soglia. I suoi capelli biondi e castani erano
spuntati fuori dalla coda di cavallo, e le sue guance erano arrossate. Anche
le sue mani tremavano, e nell'istante in cui lui se ne accorse, lei incrociò le
braccia per nasconderle.
E non fu sorpreso quando lei sollevò il mento.
- Anche al piano di sotto - annunciò. - Anche lì tutto bene –
Sahvage avrebbe sorriso. In circostanze diverse.
- Sono solo curioso. Qual è esattamente la tua definizione di non va
tutto bene? –
- Non sono affari tuoi... –
- Ho appena capito una cosa. Non so nemmeno il tuo nome.
Considerando che abbiamo condiviso la vita e la morte per due notti di
seguito, non pensi che sia ora di fare una conoscenza formale? Oppure mi
dirai che non sono affari miei? –
- Bingo –
- Non immaginavo che una femmina forte e indipendente come te
fosse così meschina –
- Io non sono... –
- Allora dimostra che puoi essere superiore a me - ribatté lui. - Come
ti chiami? –
La femmina distolse lo sguardo. Guardò indietro.
- Un bel dilemma, non è vero? - mormorò Sahvage. - E ti fotte in ogni
caso, non... –
- Mae - scattò lei. - Mi chiamo Mae –
Concentrandosi sulla bocca della femmina, lui fu tentato di chiederle
di ripeterlo. Solo così poteva guardare le sue labbra incresparsi.
- Ecco - disse dolcemente. - È stato così brutto, Mae? –
Quando lei arrossì e sembrò ritirarsi nella sua testa, senza dubbio per
inventare alcuni usi veramente creativi delle parole vaffanculo e fottiti,
intervenne per primo nel silenzio teso.
- È lì che vuoi dirmi di andare? Perché non me ne vado –
Cavolo, gli piaceva il modo in cui gli occhi di lei brillavano.
- Questa non è casa tua –
- Sì. Lo so. È per questo che ho bussato –
- Questo non è un tuo problema... –
- Oh, vedi, è qui che ti sbagli - Indicò la finestra da cui aveva appena
guardato fuori. - Quella cosa ha quasi ucciso anche me. Quindi sei pazza se
pensi che ora io non sia coinvolto –
- Non c'è più. È... morta –
- Pensi che quell'entità fosse viva. Davvero? - si sporse in avanti. - E
come fai a saperne così tanto? Di sicuro io non ho mai visto un'ombra del
genere prima d'ora, e ho combattuto parecchie cose, quasi tutte vive,
almeno fino a quando non ho finito con loro. Mai affrontato qualcosa del
genere. Ma tu, cosa? Gli hai stretto la mano e ti sei presentata? Vi siete
scambiati i numeri di telefono? Dillo –
- Stiamo bene, okay? Tallah e io stiamo bene qui, insieme. Da sole –
- Sei disposta a scommettere la tua vita su questo? E quella di lei? –
La femmina gettò i capelli sulla spalla, anche se erano tutti tirati
indietro.
- Pensi di essere l'unico che può salvarci? Grazie, passo –
Sahvage puntò il pollice verso le finestre che si affacciavano sul
davanti.
- Non potevi tenere in mano quella pistola senza di me... –
- Tu non potevi vedere bene per sparare... –
- Quindi creiamo una coppia perfetta - mentre lei sbuffava, lui dovette
sorridere. - Ora che ne dici di quel caffè? Grazie mille. Lo prendo nero –
- Proprio come la tua anima, giusto? –
Sahvage perse la leggerezza, abbassò il mento e la fissò da sotto le
pesanti sopracciglia.
- Ecco un piccolo consiglio per te - Quando la mano di lei andò alla
base della gola, lui pensò a tutto ciò che aveva fatto in passato. - Quando il
tuo nemico è malvagio, non ti preoccupi della virtù del tuo scudo. Tu e
quella vecchia femmina non potreste sopravviverete senza quelli come me -
•••

Duecento anni nel passato, e un po' di tempo dopo la sua morte a


causa delle penetrazioni di molte frecce, Sahvage tornò cosciente,
l’adunata del suo ingegno richiamò una consapevolezza che era graduale,
ma irrevocabile: il prato era sparito, sostituito da una nebbia così densa
che gli sembrava di fluttuare, anche se registrava il peso del suo corpo.
Anche l'odore del suo sangue fresco non c'era più, e lo stesso valeva per i
suoi virtuosi nemici con le loro grida di sentenza e vendetta.
L'unica cosa a cui teneva, l'unica cosa che contava... Rahvyn... non
poteva essere vista, udita o percepita da nessuna parte…
Era un sogno? Era vivo? No, non poteva essere vero.
Confuso, si guardò. Aveva un ampio abito bianco che non possedeva
né aveva alcun ricordo di aver indossato, ma importava davvero? Ciò che
era più pertinente era che nessuna freccia sporgeva dal suo petto e,
mettendo la mano sul cuore, inspirò e non sentì congestione, nessuna lotta
per estrarla. Non c'era nemmeno dolore.
Guardandosi intorno, un brivido di consapevolezza gli percorse la
schiena quando notò il paesaggio bianco che non aveva nulla di terreno.
Nebbia... solo nebbia fin dove poteva vedere. In effetti, non c'era divisione
tra cielo e terra, nessuna struttura, niente flora o fauna, e nessun altro
intorno a lui. Era come se questo ambiente strano e inquietante fosse stato
creato per lui e solo per lui.
Dopo un momento di raccoglimento, si voltò a sinistra come se fosse
stato invitato a farlo.
E quando vide ciò che aveva davanti, il terrore scorse in tutto il suo
corpo, sostituendo il sangue nelle sue vene.
La porta del Fado apparve proprio come gli era stata descritta da un
wahlker, e ricordò le parole del maschio, pronunciate con voce
ammaliante:
- Dalla nebbia apparirà davanti a te una porta, e se desidererai
procedere verso l'altro lato, allora l’aprirai. Se desideri restare tra i vivi, non
appoggiare la mano sul chiavistello. Una volta stabilito il contatto, la tua
scelta sarà sancita per sempre -
Sahvage avvolse le braccia intorno a se stesso, nel caso in cui la sua
mano avesse voluto agire da sola, senza il suo consenso o suggerimento.
Rahvyn era laggiù, indifesa, in mezzo a un mare di maschi con la crudeltà
nel cuore. Aveva bisogno che lui la tenesse al sicuro…
Il chiavistello si abbassò di sua spontanea volontà, e ci fu
l'inconfondibile scatto di una serratura che si sbloccava. Il portale si
sganciò dai suoi stipiti, aprendosi con una forza inesorabile e in un modo
che ricordava la dipartita della sua forza vitale sul soffice letto di fiori di
quel prato, né volontaria né confutabile.
- No! - gridò al cielo lattiginoso. - Non voglio procedere! Mi rifiuto...

All'improvviso, un vortice lo investì, il paesaggio indistinto gli si
avvolse intorno, o forse era lui che si stava voltando per agitarsi al suo
interno. E poi ci fu uno strappo, come se fosse tornato nel canale del parto,
il suo corpo venne aspirato attraverso una stretta apertura che non poteva
vedere, ma sicuramente percepire, la compressione spremette l'aria dai suoi
polmoni e compresse le sue costole in modo tale che il suo il cuore non
riusciva più a battere.
La nausea gli ribollì nelle viscere e la testa divenne confusa, i
pensieri si rifiutavano di formarsi adeguatamente, e tuttavia cosa poteva
sapere di quello che gli veniva fatto in quel momento? Non era più in vita,
il suo corpo una dimora che era stata chiusa dalla chiave della morte per
evitare il rientro della sua anima... a meno che tutte le sue preghiere di
servire sua cugina di primo grado non fossero state onorate? Forse…
Una caduta libera seguì un improvviso rilascio da quella soffocante
costrizione, i suoi sensi lo informarono che stava per iniziare una discesa
attraverso l'aria che non offriva una resistenza sufficiente per rallentarlo. E
mentre si sforzava di vedere dove si trovava, la sua vista lo abbandonò.
Allungando le braccia non afferrò nulla. Calciando le gambe, non trovò
nulla. Si agirò e si dimenò... senza scontrarsi con niente.
E in mezzo a tutto quello non c'era paura, solo rabbia, com'era nella
sua natura.
Il Dhunhd.
Avendo rifiutato il dono del Fado, avendo rinunciato all'eternità
dell'amore e della vita che gli era stata miracolosamente offerta nonostante
le sue azioni terrene, ora veniva punito per la temerarietà di tentare di
determinare il proprio destino.
Il covo di sofferenza dell'Omega sarebbe stato il suo infinito…
Senza preamboli, le sue membra registrarono un impatto sbalorditivo,
così come il suo torso e il suo cranio. Era come se fosse atterrato di
schiena sulla pietra più spietata, ma senza il rimbalzo che avrebbe
caratterizzato una simile caduta da una tale altezza.
Oscurità.
Oscurità assoluta.
Una sensazione di claustrofobia reclamò la sua trachea, e lui
cominciò ad ansimare, il suo respiro, pesante e urgente, echeggiò vicino
alle sue orecchie... che follia era questa? Gli sembrava di trovarsi in uno
spazio chiuso. Uno spazio ristretto e ben definito.
Sollevò le mani…
Sahvage non riuscì a portarsele al petto. Non c'era spazio per piegare
i gomiti e le nocche battevano contro qualcosa di concavo.
Legno. Direttamente sopra di lui.
Scalciò con i piedi, incontrò lo stesso all'estremità del suo corpo. E
allargando le braccia, apprese i limiti dei suoi confini, stretti e modellati
sulla sua forma corporea.
Il suo intelletto cosciente lo informò della sua posizione.
E anche se la sua mente rifiutava quella conclusione e la sua
irritazione saliva a livelli insostenibili, era ancora inevitabile.
Poteva trovarsi in una bara?
CAPITOLO DICIANNOVE

Mentre Nate fissava la femmina a cui aveva pensato per tutto il


giorno, si sentiva sospeso nel nulla anche se aveva i piedi per terra. Era
proprio come la ricordava, i capelli chiari che le uscivano da sotto il
cappuccio che le copriva la testa, le mani nascoste nelle pieghe del suo
lungo cappotto nero. E come prima, era di lato, in piedi da sola.
- Ciao - disse alzando la mano. Quando lei fece un passo indietro, lui
allungò entrambi i palmi. - Non ti farò del male, lo prometto – Lei non si
allontanò oltre, ma guardò dietro di sé come per essere sicura di avere via
libera per scappare. O smaterializzarsi. - Sono Nate - indicò il suo petto e
poi si sentì un idiota. Come se ci fosse qualcun altro in giro a fare le
presentazioni! - Tu sei... sei tornata per vederlo ancora? –
Lei guardò la fossa nella terra.
- È stato fantastico, vero? Chi l'avrebbe mai detto: una meteora. Qui
fuori? –
Nate si schiarì la gola e voleva avvicinarsi a lei. Ma rimase dov'era, e
come un idiota, anche se erano solo a due metri di distanza, parlò più forte.
Così, solo per essere sicuro che lei lo sentisse.
Sopra il frastuono della foresta assolutamente tranquilla.
Dio, era un idiota.
- Io e il mio amico Shuli stavamo lavorando - puntò il pollice dietro la
sua spalla. - Stiamo aiutando a ristrutturare una casa laggiù, dall'altra parte
del campo. Comunque, abbiamo visto il lampo di luce nel cielo. Lo hai
visto? È stato stupefacente. Così... ah, di dove sei? –
Grande. Subito dopo le avrebbe chiesto se veniva qui spesso. Se era
maggiorenne, anche se erano vampiri, non umani. Se le sarebbe piaciuto
bere qualcosa, nonostante la totale assenza di baristi, liquori o bicchieri
nelle vicinanze.
E a lui non piaceva nemmeno l'alcool.
- Vivo in città. Con i miei genitori - inserì quella seconda parte per
sembrare più accessibile. - Tu vivi con i tuoi? –
A differenza di un compagno. Che era, tipo, grosso come Murhder e
possessivo come un cane da guardia. Che probabilmente avrebbe fatto a
pezzi Nate con i denti arto per arto e seppellito i resti nel suo cortile.
- Mia madre è una scienziata. Mio padre è... - No, aspetta, non
avrebbe parlato della Confraternita del Pugnale Nero. - È un combattente
per il... - No, non avrebbe dovuto menzionare il Re. - Si prende cura delle
persone –
La testa della femmina si voltò di nuovo verso la fossa creata
dall'impatto e lui osservò bene il suo profilo. Era... beh, perfetto come lo era
la vista frontale del suo viso. I suoi lineamenti erano delicati ed equilibrati,
gli occhi un po' infossati, la bocca uno sbuffo rosato tra il naso e il mento.
C'era una foglia marrone avvizzita all’estremità dei suoi capelli, un residuo
di ciò che era caduto in autunno, e lui era tentato di andare a toglierlo da un
intrappolamento così delicato. Metterlo in tasca. Tenerlo al sicuro durante il
suo turno di lavoro.
Nasconderlo nel comodino quando tornava a casa. Tenerlo nascosto
per sempre.
Qualcosa gli diceva che avrebbe voluto la prova di essere stato
davvero lì con lei.
- Ieri sera stavo per parlare con te - Gesù, sembrava patetico. - Volevo
salutarti. Ma non pensavo... beh, c'era molta gente in giro –
Lei continuò a rimanere in silenzio, ma quando i suoi occhi tornarono
su di lui, non lo lasciarono… e non era sicuro se fosse una cosa buona o
cattiva. Sembrava diffidente e stanca.
E fu allora che vide lo sporco sulle pieghe del suo indumento simile a
un mantello. E notò quanto fosse pallida.
Nate strinse gli occhi.
- Hai passato la giornata qui? –
Lei fece un altro passo indietro.
Lui scosse la testa.
- Non sto giudicando. Solo... non è sicuro. Per il sole. Per altre cose -
le diede la possibilità di dire qualcosa. - Senti, c'è qualcuno che posso
chiamare per te? –
Quando tirò fuori il telefono, lei mise un po' più di distanza tra loro,
gli aghi di pino caduti frusciarono sotto i suoi piedi, e lui sperò che avesse
delle scarpe per coprirli.
- Per favore - disse. - Lascia che ti aiuti. Posso chiamare qualcuno.
Chi posso chiamare per te? –
- Mi sono persa –
- Come hai detto? –
- Mi sono persa –
Lui indicò il suo orecchio.
- Mi dispiace, io, ah, non riesco a capire che lingua che stai parlando.
Puoi... certo che non parli inglese o parleresti inglese - Stava parlando più
lentamente, il che era dannatamente stupido. - Chiamerò qualcuno – Con
una mano un po' instabile, cercò un numero tra i suoi contatti e mise il
telefono in viva voce. - Dammi solo un minuto. È una brava femmina, che
può aiutarti... –
Due squilli dall'altoparlante metallico, Mary, la shellan di Rhage,
disse:
- Nate! Che piacere sentirti. State facendo un ottimo lavoro alla
Luchas House. Abbiamo sistemato il resto dei mobili stasera… -
- Signora Mary, ho un problema - incontrò gli occhi della femmina
con il cappuccio e pregò… pregò… che restasse dov'era. - Sono qui con
un... amica... e lei non parla una lingua che conosco. Ha bisogno di...
un’amica. Puoi aiutarmi? –
Ci fu solo una minima pausa, prova certa che la signora Mary era la
persona giusta da chiamare.
- Va bene, Nate. Prima di tutto, voi due siete in un posto sicuro? Vuoi
che ti mandi qualcuno? –
Immaginò il fratello Vishous. Qhuinn. Merda… Zsadist.
- No, no, siamo assolutamente al sicuro. Nella foresta di Luchas
House. Dove è atterrato il meteorite –
- Bene. Puoi passarmela? –
- Ecco - disse, porgendo il telefono alla femmina. Quando lei si limitò
a fissare confusa ciò che lui aveva nel palmo, sentì che erano necessarie
ulteriori rassicurazioni. - Non preoccuparti. È una professionista. Puoi
fidarti di lei –
Come se sarebbe stato d'aiuto se lei non parlava inglese.
Merda!

•••
- Quindi mi stavi parlando di questa cosa del Libro –
Accanto al bancone della cucina di Tallah, Mae chiuse gli occhi e
giurò a se stessa che il caffè che stava versando sarebbe rimasto nel suo
dispositivo di erogazione in ceramica. Non lo avrebbe dato al maschio che
lo aveva ordinato come se fosse stato in un ristorante.
Come erano riusciti ad arrivare al piano di sotto tutti interi era una
specie di miracolo. E non perché erano stati inseguiti da qualcosa.
Olio e acqua. Erano olio e acqua insieme.
- Allora? - suggerì Sahvage posando la giacca di pelle sulle armi che
si era tolto dal torace.
Si appoggiò allo schienale della sedia e la guardò con uno sguardo
diretto.
- Non voglio parlare del Libro - disse lei portandogli la tazza.
- Grazie - sorrise indicando ciò che gli aveva preparato. - È perfetto –
- Non l'hai ancora assaggiato –
- L'hai fatto per me. Questo è tutto ciò che la perfezione richiede –
Con un cipiglio, lei si sedette dall'altra parte del tavolo.
- Non farlo –
- Cosa? –
- Cercare di essere affascinante - si strofinò gli occhi doloranti e si
chiese se ci fosse del Motrin nella sua borsa. - Non funziona –
- Non sono mai stato affascinante –
- Beh, chi lo può dire. Metteremo la consapevolezza di sé nella tua
breve lista di attributi positive –
- Un giorno ti piacerò - Ci fu un suono. Poi un ahhhhh. - Vedi? Te l'ho
detto che è perfetto. Ora parlami del Libro. E sì, smetterò di fare lo scemo –
- Impossibile –
- Dammi una possibilità - Sahvage si fece serio. - Voglio sapere
qualunque cosa tu faccia al riguardo –
Il combattente restò in silenzio, pronto ad aspettare. Mae si sentì
retrocedere nella sua mente, ma non si trattava di suo fratello, di quella
vasca piena di cubetti di ghiaccio, della terribile missione in cui era
impegnata. Invece, era di nuovo fuori sulla veranda di questo cottage in
precedenza tranquillo, a sparare con una pistola pesante che, Sahvage aveva
ragione, non avrebbe potuto reggere da sola.
- Non potevo usare due mani - mormorò. - Con due mani ce l'avrei
fatta –
- Che cosa? - le disse. - Oh, stai pensando alla mia Glock. Sì, è grande

Mae strinse gli occhi.
- Puoi smetterla con i doppi sensi. In qualsiasi momento –
- Sei stata tu, non io - si spostò di lato e posò la pistola sul tavolo in
mezzo a loro. - Il nome è proprio lì sull'arma –
- Cosa hanno i maschi che vogliono sempre mostrare le loro pistole? –
- Non puoi offrirmi un'occasione del genere... –
- Cosa ho detto sui doppi se... –
- Intendi queste pistole? - le disse contraendo due enormi bicipiti. -
Oh, ed ecco che ora mi lancia un sguardo mortale. Come se nessuno lo
facesse per fare scena –
Mae cercò di non sorridere, lo guardò inclinare l'arma per rimetterla
nella fondina… e quando notò quanto fossero muscolose le sue spalle sotto
quella maglietta attillata, non riuscì a restare seduta. Si alzò in piedi e portò
con sé le due tazze da tè e l’Earl Grey freddo di Tallah per posarle nel
lavandino. Poi tornò per la zuccheriera e la caraffa della panna. Così come
per il limone spremuto.
- Mettete l'aceto nel vostro tè? - prese la bottiglia e ne esaminò
l'etichetta. - Strani gusti –
- Lo prendo io –
Quando andò per prendergli la bottiglia, lui non la lasciò andare.
- Parla con me, Mae. So che non ti piaccio e di sicuro non apprezzi il
fatto che io sia venuto qui. Ma quel tizio con la cresta ha ragione. Ti devo la
vita e potrei essere un pezzo di merda, ma ho un codice d'onore. Inoltre, hai
appena visto quanto sono abile in una rissa, vero? –
Rilasciò la presa. Ma non smise di fissarla, però.
Così, quando lei si voltò e rimise l'aceto nell'armadio, poteva sentire i
suoi occhi su di lei.
- Prometto di fare il bravo – mormorò, poi ridacchiò. - Va bene,
prometto di migliorare. E farlo durare questa volta –
Appoggiata al bancone, Mae considerò le sue opzioni. E non
sembravano includere cacciarlo di casa a calci, e non solo perché non
avrebbe mai potuto portarlo alla porta.
Con un senso di sconfitta, tornò alla sedia su cui era stata seduta.
Appoggiò le mani sul tavolo, intrecciò le dita e prese un respiro profondo.
- Qualunque cosa sia - le disse - ti crederò –
- Che cosa strana da dire –
Lei lo guardò. Lui incombeva lì, il suo corpo enorme traboccava dalla
sedia, dal tavolo... dal cottage. Eppure era immobile e silenzioso. Pronto ad
ascoltarla.
- Ma è tutto così folle - Mae scosse la testa. - Davvero folle –
- La vita è folle. La cosa sciocca è pensare che non lo sia –
- Se tu dovessi tirare a indovinare, cos'era quell'ombra là fuori? –
- Parlami del Libro. Ho la sensazione che risponderà alla tua
domanda, ed è quello che credi anche tu, vero? –
- Smettila di leggermi nel pensiero –
- Non ti sto leggendo nel pensiero - continuò a sorseggiare il suo
caffè. - È un’intuizione –
- Non è un cosa da femmine? –
- I ruoli sessuali tradizionali sono sessisti –
Mae non voleva ridere. Quindi si coprì la bocca con la mano per
attutire il suono, nascondere l'espressione.
- Dovresti farlo più spesso - le disse dolcemente.
Arrossendo, Mae si allontanò dal viso i capelli. Strano. Anche se i
suoi vestiti erano in ordine e i suoi capelli ancora raccolti in una coda di
cavallo, si sentiva tutta in disordine. Come se qualcuno l'avesse infilata in
una galleria del vento.
- Non ho avuto molti motivi per ridere ultimamente - si sentì dire.
- Parla con me –
Gli occhi di Mae andarono al piatto d'argento vuoto, con nient'altro
che il residuo del suo sangue e gli altri ingredienti dell'incantesimo.
- Ho perso molte persone care di recente. E non voglio perderne
un’altra –
- Chi è morto? O sta morendo? - Quando lei non rispose, lui alzò le
spalle. - Lasciami indovinare. Le preghiere non hanno funzionato, o non ti
sembra che sono servite a qualcosa. Quindi stai facendo di testa tua –
- Credi nella magia? –
Quando non rispose, lei alzò lo sguardo in quello di lui. La stava
fissando con un'espressione assente.
- In effetti, sì - disse dolcemente.
Mae dovette distogliere lo sguardo a causa di una seconda vampata di
calore che le salì sulla gola e sul viso. Ma sicuramente stava interpretando...
qualunque cosa fosse... nella maniera sbagliata. Un maschio come lui? Di
sicuro andava con una di quelle donne o femmine da fight club, quelle che
facevano la fila d'attesa con le altre al parcheggio, quelle con i fianchi e le
tette e gli abiti per mostrare quel genere di doti.
- Cosa faresti per mantenere in vita qualcuno che ami? - gli chiese per
rimettersi in carreggiata.
Nessuna esitazione:
- Ucciderei chiunque. Qualsiasi cosa –
Guardò la sua giacca e pensò a cosa c'era sotto.
- Ti credo. Ma non sto parlando di difenderli. E se potessi... farli
vivere di nuovo? E se avessi la capacità di riportarli indietro, cambiare il
destino, prenderlo nelle tue mani? Prendere il controllo di un risultato
sbagliato? –
Ci fu un lungo silenzio, poi gli occhi di lui la abbandonarono.
- Stai parlando di resurrezione… -
- Vedi… – disse - te l'avevo detto che è folle –
- Non è folle - Il suo sguardo di ossidiana tornò su quello di lei. -
Incredibile, forse, ma non folle –
- Non è la stessa cosa? –
- Di cosa stiamo parlando esattamente, Mae? –
Ci volle un po' prima che lei potesse rispondere, prima che potesse
scegliere le parole giuste. E poi mentì.
- Tallah è tutto ciò che mi resta. Sta arrivando alla fine della sua vita.
Non posso lasciarla morire. Io... devi capire. Non ho nessun altro al mondo,
e non perderò anche lei –
Mae si alzò di nuovo dalla sedia. Dato che non c'era più niente da
riordinare, nessun motivo se non la sua ansia di muoversi, si allungò verso
il piatto d'argento. Raccogliendolo, andò al lavandino e lo sciacquò.
- A volte devi lasciare andare le persone - disse Sahvage a bassa voce.
Lei si voltò a guardarlo.
- Beh, non voglio –
- E pensi che questo Libro sia la tua risposta? Lei vivrà per sempre
dopo che hai fatto cosa? Agitato una bacchetta sulla sua fronte? –
- Non è divertente –
- Non voleva esserlo. Cosa c'è nel Libro? –
Dato che Mae non aveva una vera risposta per quello, la fragilità del
suo piano, o soluzione, sembrava traballante come un castello di carte.
- Mi dirà cosa fare. Per salvarla –
- Incantesimi, eh - Prese un altro sorso dalla tazza. - Dio, non sentivo
una cosa del genere dai tempi del Vecchio Continente. E per quanto
riguarda l'immortalità, fai attenzione a ciò che desideri. A volte, lo ottieni
davvero –
- Esattamente. Non voglio che muoia e resterà viva –
- Le persone non dovrebbero vivere per sempre –
- Non mi interessa –
Lui rise.
- Sai, ho molto rispetto per la tua aggressività arrogante. E detto
questo, come farai a trovare questo Libro? –
Prendendo uno strofinaccio, asciugò il piatto d'argento.
. Abbiamo già fatto quello che dovevamo fare –
- Che sarebbe? - alzò l'indice. - Aspetta, fammi indovinare. Vai a un
combattimento a mani nude e cerchi di far uccidere un ragazzo distraendolo
come sacrificio di sangue. Ottimo piano, e ha funzionato davvero bene –
- Stavi per uccidere quell'umano –
- No, non è così - Dopo un momento, fece un movimento con la mano
libera. - Va bene, va bene, forse lo avrei fatto. Ma non era omicidio. Lo ha
chiesto lui e io ho sempre detto che le decisioni stupide degli altri non sono
un mio problema. Ora, come hai fatto a ottenere il libro? Hai cercato su
Amazon sotto Magia per Principianti? –
- Era un incantesimo di evocazione. E sono abbastanza intelligente,
grazie mille –
Anche se sentiva di non aver vinto molti premi per il suo Quoziente
Intellettivo ultimamente.
Gli occhi di lui si strinsero.
- Quindi il Libro è qui… -
- Non ancora –
- Quando hai fatto l'incantesimo? –
- Appena prima... - lei si schiarì la gola. - Appena prima che tu
arrivassi –
Un lungo silenzio. Poi lui mormorò:
- E te lo dirò di nuovo: ti chiedi perché è apparsa quell'ombra? –
In realtà, lei non lo stava facendo.
- Penso che dovremmo controllare le tue ferite. Solo per essere sicuri
che stai bene –
- Cambiamo argomento, eh? –
- Affatto –
Sahvage si portò la tazza alle labbra e inclinò la testa all'indietro,
finendo il caffè. Quando posò il vuoto sul tavolo, le sorrise in quel modo:
un lato della bocca che si sollevava, uno sguardo d'intesa in quei brillanti
occhi neri.
Come se avesse tutte le risposte e ogni volta che apriva la bocca era
un'opportunità per spiegare sempre tutto.
- Solo perché tu lo sappia, so cosa stai facendo - le disse.
Appunto.
- Cosa? Forse dovrei prendere appunti, o sarà un'altra ovvia
affermazione... –
- Quando ti senti parlare, ti rendi conto di quanto ti stai comportando
da pazza, ma il tuo cuore non ha intenzione si lasciar perdere, quindi devi
sviare il discorso. Va bene. Possiamo controllare di nuovo le mie ferite. Ma
non credo che dovremmo ignorare ciò che sta realmente accadendo qui –
- Non sai un cazzo di me –
- Hai ragione. Sono totalmente fuori strada. Quindi controlliamo
perché sono io ad avere bisogno di aiuto –
Con quella piccola dichiarazione felice, Sahvage prese le estremità
della sua maglietta e non distolse lo sguardo quando sollevò lentamente
quella dannata cosa... per rivelare quel tatuaggio e tutta la muscolatura sotto
la sua pelle piena di inchiostro. Quando gettò da parte ciò che gli aveva
coperto il busto, si risistemò sulla sedia come se fosse completamente nudo.
Come se fosse assolutamente sicuro del proprio corpo. Come se fosse molto
consapevole che lei non potesse non notare quello che le stava mostrando.
E reagire in qualche modo.
Tra l’altro, con il petto nudo, lui ora sembrava essere ancora più
grande, e Mae deglutì. Ma non perché avesse paura.
No, la paura non era il problema. Decisamente no.
- Vieni a curare le mie ferrite - le disse con un basso mormorio. - E
comunque, puoi toccarmi ovunque. Sai, a scopo clinico. Lungi da me
impedire qualsiasi valutazione sulla mia salute e il mio benessere generale –
Mae sbatté le palpebre. Poi recuperò.
- Sei un idiota –
- Sì, lo so - Lui si chinò e abbassò le palpebre. - Ma tu mi vuoi lo
stesso -
CAPITOLO VENTI

Nel cuore del centro cittadino, la detective Erika Saunders accostò la


sua auto senza contrassegni sul lato di un vicolo tra due condomini.
Parcheggiò e i fari inquadrarono un SUV nero squadrato vicino a un
cassonetto. Sulla sinistra, c'erano un paio di agenti in uniforme che si
aggiravano lì intorno e un'auto di pattuglia stava bloccando l'ingresso della
Trade. Nessuna troupe giornalistica.
Non sarebbe durato.
Scese, si infilò i guanti di nitrile e impugnò la torcia. I poliziotti
tacquero quando si avvicinò, e lei fece loro un cenno del capo mentre si
avvicinava alla portiera del guidatore del SUV.
- Chi ha chiamato? - disse puntando il raggio all'interno del veicolo, o
almeno ci provò.
I finestrini erano oscurati.
Chinandosi sul cofano, senza toccare la fiancata del veicolo, puntò la
torcia attraverso il parabrezza anteriore...
Fanculo.
Non aveva nemmeno sentito quale era stata la risposta alla sua
domanda. Era troppo presa dall'uomo e dalla donna che sedevano fianco a
fianco sui sedili anteriori. I due erano nel pieno della vita, sebbene la parte
vita di quella descrizione non fosse più applicabile. E chi l’avrebbe detto, i
corpi avevano ferite enormi al centro del petto, i vestiti macchiati di sangue,
il loro grembo simili a ciotole di zuppa per tutto il plasma rappreso.
Erika si avvicinò al finestrino in modo da poter guardare nel veicolo.
Tra i sedili, sulla consolle imbottita, le loro mani erano unite, le dita rigide
intrecciate. E all’altezza dei poggiatesta si stavano guardando, i loro occhi
concentrati sullo spazio tra i loro volti cerei e grigi.
Erika fece girare la torcia. Il giovane era a torso nudo, una collezione
di tatuaggi sul busto e sulle braccia come se qualcuno avesse lanciato un
libro di illustrazioni sulla sua pelle. Era muscoloso ma magro, un tipo
asciutto che probabilmente era alto poco più di un metro e ottanta. Le
ricordava Pete Davidson. Accanto a lui, la donna era voluttuosa nel suo
bustino con dei bei capelli. Orecchini di bambù dorato. Piercing al naso.
Tatuaggi, ma non così tanti come quelli del ragazzo e molto più curvilinei.
Sembravano fatti per stare insieme, così sexy, nei locali di moda.
Probabilmente si dilettavano con le droghe, ma non troppo spesso dato il
loro stato di buona salute.
- Il mio assassino ha sicuramente una sua tipologia - disse Erika
andando ad aprire la portiera della macchina. - Chi ha chiamato? –
- Un tizio che faceva jogging - disse uno degli ufficiali dietro di lei.
L'aria che si sprigionò era densa, odorava di colonia, profumo, sangue
e materia fecale.
Erika ispezionò il foro nello sterno del ragazzo. Poi toccò il collo
freddo con la punta delle dita della mano guantata. Niente battito. Ma
davvero?
- E quando siamo arrivati? –
- Circa venticinque minuti fa. Forse trenta –
- Sono qui da un po' –
- Auto costosa. Sono sorpreso che non sia stata smontata –
Facendo un passo indietro, Erika ispezionò il veicolo.
- Mercedes. Finestrini oscurati, cerchi anneriti. Nemmeno io l'avrei
toccata, per paura che possa appartenere a uno spacciatore… oh, e cosa
abbiamo qui? –
Un portafoglio Louis Vuitton era caduto dalla tasca del ragazzo ed era
appollaiato tra la parte inferiore del telaio e la base del sedile del
conducente. Entrò e tirò fuori il portafoglio maneggiandolo con cura. Aprì
la tasca anteriore e fece scivolare fuori una patente di guida.
- Ralph Anthony DeMellio - l'indirizzo era nella parte italiana di
Caldwell. - Ventidue anni. Così dannatamente giovane –
Pensò alla coppia del Commodore. E le altre due coppie che erano
state uccise allo stesso modo. Tutte le vittime avevano più o meno quell’età,
sui vent'anni. E tutti loro facevano parte della scena alla moda e benestante.
E tutti loro erano stati innamorati.
- Li trova nei locali - mormorò mentre infilava la patente nella
fessura. - Forse per il sesso. O forse è lì che incrociano la sua strada e
vengono identificati come prede. Poi li segue a casa o in un posto
tranquillo... –
Si guardò intorno nel vicolo. In questa parte della città era tutto ben
tenuto e la criminalità era bassa. Quindi potevano esserci telecamere di
sicurezza operative e anche molte finestre di appartamenti, sebbene la
maggior parte di loro avesse le tende o le persiane chiuse.
Mentre stava iniziando la sua lista mentale di cose da fare, una Vic
Crown grigia si avvicinò, e mentre gli agenti in uniforme alzavano le
braccia per proteggersi gli occhi, i fari vennero spenti. Quando si fermò,
uscirono ogni genere di stereotipo dell'FBI: abito grigio e cravatta nera.
Capelli a spazzola. Mascella degli anni '50.
L'agente speciale Deiondre Delorean era un uomo privo di grasso
corporeo, con le spalle dritte, una laurea alla Howard e un background di
Intelligence militare che era ancora molto attivo.
Diede subito un'occhiata all'interno del SUV.
- Un altro –
- Direi che tre coppie erano sufficienti, ma ora siamo a Quattro –
- Per quello che ne sai –
- Hai ragione - gli mostrò la patente di guida. - Voglio andare io a
parlare con i genitori. È tutto il giorno che aspettano che lui torni a casa. Sei
il benvenuto se vuoi venire con me, ma parlerò io –
- E io che pensavo che la tua reputazione fosse esagerata - Deiondre
esaminò il documento d'identità e poi la fissò. - Alcune volte anch'io ho
informato la famiglia, sai –
- Ma sono stato io a ricevere quell'orribile notizia dalle autorità. sai? –
Lui distolse lo sguardo.
- Mi dispiace per la tua famiglia –
- Sono passati quattordici anni. L'ho superato. E immagino che tu
abbia fatto i compiti –
- FBI, ricordi? –
Poco distante, i poliziotti iniziarono a guardarsi le scarpe, come se
mamma e papà stessero litigando. Ma se Erika si fosse preoccupata di come
si sentivano le persone intorno a lei, le sue giornate sarebbero state più
lunghe di otto ore e la sua pazienza ridotta di due metri.
- E come fai a sapere che i suoi genitori lo stanno aspettando? - chiese
Deiondre.
- L'indirizzo è nel quartiere di Jersey Gardens. Lì i giovani non
vivono da soli. È dove le persone vivono con i loro figli adulti nel
seminterrato. Scommetto che i suoi genitori pensavano che Ralph fosse a
casa della ragazza tutto il giorno ed era per quello che non lo avevano
sentito. Ma ora che sono passate più di dodici ore da quando hanno parlato
con lui, stanno iniziando a preoccuparsi –
Deiondre si sporse dentro la macchina.
- Stesso modus operandi. Ma forse per questa coppia era solo
l'avventura di una notte e sono stati messi in questa posa –
- Le altre tre coppie erano legate da un rapporto serio e la nostra
indagine qui dimostrerà lo stesso. Il mio killer sceglie le persone
innamorate –
Rimettendo il portafoglio dove l'aveva trovato, lei fece il giro sul retro
con la torcia e poi proseguì lungo il lato opposto del SUV, infilandosi tra
esso e il muro del più alto dei condomini. Nessun graffio sulla verniciatura
lucida. Nessun adesivo sul paraurti, biglietti per il parcheggio o un telaio
del concessionario sulla targa temporanea dell'auto nuova.
Non c'era abbastanza spazio per aprire la portiera del lato passeggero,
quindi uscì da quello spazio ristretto e si avvicinò alla griglia anteriore.
Deiondre teneva il cellulare vicino all'orecchio e lei pensò che stesse
portando i federali sulla scena del crimine.
Tornò accanto al corpo di Ralph DeMellio, Erika allungò il braccio
sotto il volante, assicurandosi di non sfiorare nulla. Il pulsante di accensione
era sul lato opposto del piantone dello sterzo, e lei dovette tastare in giro per
cercarlo. Quando le sue dita trovarono finalmente il bottone circolare, lo
premette.
Un avviso di assenza delle chiavi lampeggiò sul cruscotto.
Districandosi con cautela, scosse la testa.
- Hanno preso la chiave –
- Cos'era quello? - chiese Deiondre terminando la chiamata.
- Hanno lasciato la macchina aperta e hanno preso la chiave - Aprì la
portiera del sedile posteriore e puntò la sua torcia. - Beh, guarda un po' –
- Un'arma? –
Deiondre si chinò e si unì a lei nel controllare che tutto era pulito e
ordinato: niente rifiuti sotto i sedili, niente vestiti appallottolati o scarpe da
ginnastica. Niente borsa da palestra.
Erika inspirò profondamente.
- Odora di macchina nuova. O almeno nuova per lui. Doveva aver
appena comprato questo veicolo, davvero qualcosa di cui andare orgogliosi

- Andiamo insieme a casa dei suoi genitori –
Erika fece un passo indietro e fissò il SUV.
- Prenderò questo figlio di puttana. Lo inchioderò al fottuto muro
prima che lo faccia di nuovo -

•••

Nate pregò come un matto che la signora Mary guidasse in fretta a


Luchas House per poi correre a tutta velocità attraverso quel campo fino
alla foresta. Dato che non poteva smaterializzarsi, le ci sarebbero voluti
venti minuti. O di più. Specialmente se avesse rispettato il limite di velocità,
e lui aveva la sensazione che l'avrebbe fatto.
- Potrebbero volerci venti minuti - disse alla femmina. - Prima che lei
venga -
Per favore non andartene…
Senza preavviso, la femmina sussultò e barcollò all'indietro, alzando
le mani per difendersi. In in impeto di protezione, Nate si voltò di scatto...
Invece di farsi prendere dal panico, o di attaccare, che in realtà era
stato il suo primo istinto, ottenne una buona dose di sollievo. E il Fratello
del Pugnale Nero che si era materializzato nella radura non era una gran
sorpresa, anche se la sua presenza imponente era un problema.
. Rhage - disse Nate, e poi allungò i palmi per rassicurare la femmina.
- Non preoccuparti, lui è con me. Io sono con lui. voglio dire... –
Il Fratello le sorrise e alzò le mani.
- Non aver paura. Sono un amico –
La femmina inclinò la testa.
- Come faccio a saperlo? Sei armato –
- Non contro di te. E mai contro di lui –
Mentre volavano sillabe sconosciute, Nate andava avanti e indietro,
giocando una partita di tennis mentre loro parlavano in quella lingua. E
sebbene non avesse idea di cosa si stessero dicendo, notò che il loro accento
era lo stesso e, cosa più importante, la femmina non se ne stava andando ed
era meno spaventata.
Quindi ehi, per quanto lo riguardava, i due potevano prendere un paio
di sedie e chiacchierare tutta la notte.
Rhage passò all'inglese.
- La mia shellan sta arrivando. Sono qui per assicurarmi che tu sia al
sicuro, e anche lui –
- Lui è tuo figlio... - la femmina si chiuse la bocca con le mani.
Nate si accigliò.
- Mi hai sempre capito? - Mentre lei distoglieva lo sguardo, lui guardò
Rhage, come se il Fratello potesse spiegarne il motivo. - Per tutto il tempo?

- Non sapevo... cosa fare - sussurrò lei.
- Va bene. Va tutto bene - Nate si schiarì la gola. - Sono solo
contento... beh, puoi fidarti della signora Mary. E del Fratello Rhage –
Gli occhi di lei si spalancarono sul guerriero.
- Sei un membro della Confraternita del Pugnale Nero? –
Rhage aprì la sua giacca di pelle e fece lampeggiare il paio di pugnali
che erano legati, con i manici in basso, al suo enorme petto.
- Sì, lo sono –
La femmina sospirò.
- Grazie alla Vergine Scriba –
- Ascolta - disse Rhage - se per te va bene, vorrei suggerirti di
andarcene. Abbiamo una casa laggiù. Del cibo e delle bevande da offrirti,
ed è totalmente sicura –
Nate si accigliò.
- Ma ci sono molti operai sul posto... –
- Non quando dirò loro di andare, non ci sarà nessuno. Puoi riportarla
a Luchas House? –
Nate sbatté le palpebre. E poi arrossì.
- Oh, sì, posso, sì, lo farò... - chiuse i molari. - Voglio dire, se per lei
va bene… per te. Intendo -
Merda.
La femmina guardò avanti e indietro tra loro due.
- Sì, certo, ma non voglio creare problemi... –
- Non è un problema - intervenne Nate.
- Proprio nessuno - Rhage batté i palmi. - Vado a sgombrare la casa.
Nate, prenditi cura di lei, d'accordo? –
La voglia di mettersi sull'attenti e salutare era quasi irresistibile. E a
sostegno di quella ridicolaggine c’era l'idea di offrire il braccio alla
femmina, come se lui fosse una persona speciale. Come se potesse essere in
grado di fare qualsiasi cosa per difenderla.
Quando si accontentò di annuire verso il Fratello, Rhage fece loro un
cenno di saluto e si smaterializzò, il che significava... che erano di nuovo da
soli.
- È laggiù - disse Nate indicando, attraverso gli alberi, il prato e le luci
lontane della casa, neanche ci fosse un'altra opzione.
La femmina annuì e si avvicinò, e lui fu così sbalordito nel vederla
muoversi e poter sentire il suo odore da vicino che rimase dov'era come se i
suoi stivali fossero stati inchiodati a terra. Nel frattempo, lei lo oltrepassò...
e poi si fermò e guardò indietro.
- Scusa - lui si passò una mano tra i capelli. - Voglio dire, arrivo –
Insieme uscirono dagli alberi ed entrarono nel campo. E fu allora che
lei fermò di nuovo. Scrutò lo spazio aperto apparendo così sola. Così triste.
Se avesse un altro posto dove andare, qualcuno di cui potersi fidare,
non sarebbe qui, pensò lui. Chiunque avrebbe contattato un familiare o un
amico se ne avesse avuto uno…
Lei si avviò di nuovo in avanti, il suo piede si impigliò in un groviglio
di erbacce, e lui allungò le braccia per assicurarsi che non cadesse.
- Attenta - disse tenendola in equilibrio per poi lasciarla andare subito
dopo.
Con le mani che tremavano, lei sollevò il cappuccio sui capelli biondi.
- Perdonami –
- Oh, non c'è niente di cui scusarsi. Io... ah, come hai detto che ti
chiami? –
Lei non l'aveva detto, in realtà. Ma lui non voleva sembrare troppo
esigente.
E quando il rumore dei loro piedi che sguazzavano nelle pozze di
fango fu l'unica risposta, pensò che forse lo era stato.
Erano a metà strada da Luchas House quando la voce di lei, calma e
con un forte accento, arrivò a lui.
- Elyn. Per favore, chiamami Elyn –
- È bellissimo... - si schiarì la gola. - Voglio dire, wow –
Le diede un'occhiata nel caso in cui lei lo stesse fissando come se
fosse un maniaco, ma non lo stava guardando. Era chiaramente immersa nei
suoi pensieri, le sopracciglia abbassate, anche se non sembrava concentrata
su nulla di specifico davanti a sé. E quando rimasero di nuovo in silenzio, il
cervello di Nate si sforzò di trovare una conversazione... ma tutto quello che
aveva in mente era off limits, e il fatto che non riuscisse a inventare niente
di neanche lontanamente normale da dire, gli fece capire che era solo un
fottuto mutante.
Ma come avrebbe potuto socializzare in quel laboratorio? Con
qualcosa di diverso dai camici bianchi che avevano fatto esperimenti su di
lui e da quella televisione che gli avevano permesso di guardare?
Perso nei suoi brutti ricordi, uscì dalla trance quando arrivarono alla
staccionata. Pensò di sollevare la parte superiore per lei, ma la femmina
scivolò attraverso le travi veloce come un fischio e lo aspettò dall'altra
parte.
- È una bella fattoria, eh – borbottò, perché doveva dire qualcosa o
sarebbe esploso. - Ci sto lavorando, beh, ci ho lavorato. Abbiamo
praticamente finito con i lavori di ristrutturazione –
Mentre la conduceva sul vialetto, pensò al suo accento. Era davvero
elegante, come quello di suo padre. Come quello di Rhage. Probabilmente
non sarebbe rimasta impressionata da un lavoro da operaio come quello che
stava facendo lui. E poiché tutto ciò che non aveva da offrire alle femmine
in generale, e a lei in particolare, si schiantò contro le sponde della sua
autostima, divenne silenzioso quanto lei.
Già, non era così che dovevano andare le sue fantasie. Ed era la prova
che non dovevi permettere a un pio desiderio di interferire con la realtà. Nei
suoi sogni a occhi aperti l’aveva incontrata vicino a quella buca e l’aveva
invitata a mangiare in quel ristorante aperto h24 dove lui e Shuli andavano
ogni tanto dopo il lavoro. Tra hamburger e fette di torta di mele, avevano
parlato di tutto e di niente fino a poco prima che diventasse troppo
pericoloso restare fuori… e poco prima che sorgesse il sole, l’avrebbe
riportata a casa dei suoi genitori, dove lei gli avrebbe dato il suo numero per
poterla chiamare il giorno dopo.
Era l'inizio di una bella storia d'amore... che culminava con lui che la
baciava davanti alla porta sul retro di casa sua. Dolcemente. Esattamente
una settimana prima del loro primo appuntamento.
E dal momento che era solo una fantasia, quel bacio, nonostante lui
non avesse assolutamente idea di cosa stesse facendo, era stato
assolutamente perfetto per entrambi...
- Ciao, ragazzi! –
La signora Mary li salutò dalla porta d'ingresso della fattoria, fece un
cenno con la mano e uscì nella luce esterna. La buona notizia era che la
femmina di Rhage era esattamente ciò che chiunque avrebbe voluto vedere
se stava cercando un rifugio sicuro: il suo viso era aperto e il sorriso
sincero, e la faceva sembrare una persona che sarebbe stata brava a
dispensare abbracci.
Nessuna pubblicità ingannevole lì.
Improvvisamente, tutti iniziarono a parlare. Mary. Rhage. E una delle
assistenti sociali, Rhym, che si era unita al gruppo. Elyn rimase per lo più in
silenzio, ma non sembrava spaventata.
Nate fece un passo indietro. Attraverso la porta aperta, vide che nel
soggiorno erano stati sistemati dei mobili e, in lontananza, anche la cucina.
Tutto sembrava accogliente. Sicuro.
L'assistente sociale entrò dentro. Lo fece anche Rhage. Mary disse
qualcosa e indicò l'ingresso.
Elyn annuì e si avviò verso la soglia.
Nate la guardò andare via e sapeva che non l'avrebbe rivista. Dopo
aver finito di dipingere l'interno del garage, sarebbe stato affidato a un
progetto diverso dal suo supervisore, e ogni possibile connessione tra di
loro sarebbe scomparsa.
Non avrebbe avuto la possibilità di dirle addio. Almeno non nel modo
in cui lui voleva.
Non nel modo in cui avrebbe potuto ottenere il suo numero di
telefono. O lei il suo.
Con un dolore acuto al petto, pensò che era strano piangere la perdita
di qualcuno che non conosceva nemmeno...
Elyn esitò e poi lo guardò da sopra la spalla.
- Tu non entri? –
- Oh, sei in buone mani adesso –
- Per favore. Ho paura –
Fissando i suoi grandi occhi d'argento, Nate sentì un rossore
attraversargli tutto il corpo. Dopo di che prese un profondo respiro e gonfiò
il petto.
- Non me ne andrò finché non mi dirai di andarmene - disse unendosi
a lei.
CAPITOLO VENTUNO

- Allora, controllerai le mie ferite? Oppure puoi semplicemente


continuare a fissarmi in quel modo. Vanno bene entrambe le cose –
Quando Sahvage si rilassò sulla vecchia sedia di legno, ci fu uno
scricchiolio sotto di lui, le gambe esili si adattavano al suo peso con una
certa mancanza di fiducia. Ma se fosse finito per terra? Beh, per lui andava
bene. Quella femmina gli avrebbe offerto una mano per sollevarsi, perché
era nella sua natura aiutare.
E forse poteva tirarla su di sé.
- Non ti sto fissando in nessun modo - sbottò lei. - Sono preoccupata
per la tua salute –
- E io sono contento che tu lo sia. Il punto è, preoccupati per me
ovunque tu voglia con le mani –
- Oh, per l'amor del cielo - mormorò lei chinandosi sul suo petto.
Sahvage si concentrò sul viso di lei, con lo sguardo accigliato e gli
occhi taglienti come il laser. Pensò che se si fosse chinato un po' in avanti,
non molto, avrebbe potuto baciarla.
E scoprire che sapore aveva la sua bocca sembrava un ottimo modo
per occupare il suo tempo.
- Sai... non ha un bell’aspetto –
O almeno questo è quello che pensava lei avesse detto. La sua
attenzione era altrove, e quando gli tornarono in mente le immagini di lei
alla sua gola, i suoi fianchi ruotarono dentro i pantaloni e l'urgenza tra le
sue cosce si fece più forte. Specialmente quando immaginò i suoi capelli
sciolti riversarsi sul suo petto nudo…
La punta delle sue dita tracciava una striscia di pelle in rilievo che
andava dalla clavicola fino agli addominali.
Quando lui sibilò, lei sembrò preoccupata.
- Mi dispiace, non volevo farti del male -
Già, il dolore non è il motivo per cui ho emesso questo suono, pensò
Sahvage.
Anche se stava cominciando a stare male per il desiderio di lei. Ed era
quello che succedeva quando notavi una femmina, poi ti toglievi la
maglietta davanti a lei... e lei toccava la tua pelle. Dovunque.
Indietreggiando, lei lo fissò.
- Perché mai ti sei fatto quel tatuaggio? - Prima che potesse
rispondere, lei tese la mano. - Mi dispiace, non sono affari miei... –
- Voglio che i miei nemici sappiano cosa accadrà loro quando mi
vedono –
Mentre si preparava per un'altra lezione moralista sul non uccidere,
dovette impedirsi di sorriderle. E nel frattempo, lei era così concentrata sul
suo petto, che si stava chiedendo se avrebbe mai distolto lo sguardo.
Per lui andava bene se non l'avesse fatto, e fu una delusione quando
invece si allontanò.
- Quindi si tratta solo di pubblicità? - disse seccamente. - Non potresti
semplicemente attaccare un Salve, Il Mio Soprannome è Aggressivo sulla
maglietta? –
- Non indosso mai una maglietta quando combatto. E direi che le
targhette con i nomi sono antitetiche alla cattiveria –
- Se me lo chiedi, penso che un approccio discreto sia la cosa migliore

- Come vuoi –
- Non mi piace –
- Il mio tatuaggio? Veramente? Allora perché continui a fissarlo? –
- Non sto guardando il tatuaggio... –
Quando fece per voltarsi, Sahvage le prese la mano.
- Allora cosa stai guardando? –
Quando i loro sguardi si incontrarono, ci fu uno sfrigolante momento
di immobilità, e fu sorpreso che loro due non avessero preso fuoco
spontaneamente. Ma lei non ne voleva sapere, e lui la lasciò liberare dalla
sua presa.
- Oh, aspetta, le ferite, giusto? - strascicò. - Stavi solo fissando la bua.
E non ti piace che mi sia ferito –
- Bua! - lei incrociò le braccia sul petto. – Cos’hai, cinque anni? E hai
bisogno di un dottore –
- Voglio un'infermiera –
La femmina si mise le mani sui fianchi.
- Smettila –
- Okay –
Imprecando sottovoce, lei si guardò intorno come se stesse cercando
qualcosa, qualsiasi cosa da fare e finì per raggiungere un coltello da cucina
che era stato lasciato fuori con quella strana collezione di condimenti per
insalata e tazze da tè.
Al ritmo con cui andava, avrebbe sparecchiato la tavola la settimana
prossima. Il che era adorabile.
- Normalmente non sei così ben disposto - mormorò. - Ti senti
svenire? –
- Quando guardi il mio corpo, sì, mi gira la testa. Ma vuoi davvero
che ti parli di dove va il sangue... –
- Ahi! –
Il coltello cadde dalla sua mano sul pavimento e lei strinse il pugno e
poi il braccio al petto.
Sahvage scattò in piedi.
- Fammi vedere... –
- Sto bene… -
Questa volta non la lasciò andare. E lei non si oppose quando le aprì
la mano.
Si era tagliata un dito e il sangue rosso vivo stava sgorgando lungo il
taglio degno di un intervento chirurgico.
Lui si leccò le labbra… perché come avrebbe dovuto non farlo? …
Sahvage la guardò negli occhi. Lei non stava fissando il taglio. Affatto.
La sua attenzione era sulla bocca di lui.
- Lascia che me ne occupi io - sussurrò. - Per ricambiare il favore.
Sai, proprio quello che hai fatto per me ieri sera, e niente di più –
Lei sembrava colta in flagrante, a cavallo tra il sì e il no, combattuta
tra ciò che voleva e ciò che sapeva essere un bene per lei. E per tutto il
tempo, il sangue formò un fiume lento che scorreva lungo il suo indice,
girando poi intorno.
Sahvage digrignò i molari.
- Aspetterò finché non mi dirai di sì. Prendo vite contro la loro
volontà, ma mai femmine –
Il tempo si dilatò, allungandosi come una corda che stava cedendo e
diventando sempre più lunga. E nel silenzio elettrico tra di loro, lui divenne
acutamente consapevole del respiro di lei. Stava diventando più profondo. E
quel battito alla gola stava diventando più veloce.
- Non ti farò del male - giurò.
- Sì, lo farai –
Tolse la mano dalla presa si lui e si voltò. Al lavandino, fece scorrere
l'acqua e mise il dito sotto la corrente con un gemito. Nel frattempo, lui era
rimasto dov'era, un cipiglio gli aggrottava le sopracciglia.
Quando chiuse il rubinetto e strappò un tovagliolo di carta da un
rotolo, lui disse:
- Che razza di maschio pensi che io sia? –
Tornando da lui, avvolse la ferita nella carta.
- Sei un assassino, giusto? Sembra che tu debba dimostrarlo non solo
a me, ma a tutti quelli che incontri. E gli assassini fanno del male alle
persone –
- Pensi di essere in pericolo vicino a me. Sul serio? –
- Se la vita mi ha insegnato qualcosa, è che non mi sono dovute
eccezioni particolari. Quindi sì, penso che tu sia pericoloso per me –
Lui indicò la facciata della casa.
- Ho salvato la tua fottuta vita là fuori –
- Beh, allora siamo pari, vero? E puoi andartene con la coscienza
pulita –
Sahvage guardò la maglietta che si era tolto. La riprese e se la infilò
da sopra la testa, poi si avvicinò. Mentre attraversava la cucina verso la
femmina, lei lo guardava dritto negli occhi senza cedere di un centimetro.
- Morirai - le disse. - Forse con me in giro, ma sicuramente senza di
me. Cosa c'è là fuori? Non sai dove sia andato, ed è stupido supporre che sia
coinvolta un qualsiasi tipo di tomba. Ma non posso costringerti a salvare te
stessa o quella vecchia femmina al piano di sotto –
- Grazie –
- Come hai detto? –
- Per la previsione. Hai finito o vuoi cimentarti con i numeri della
lotteria? Forse su chi vincerà il Super Bowl l'anno prossimo? –
- Divertiti a scegliere un bel paio di bare. Dio sa che prendi sempre le
decisioni giuste, vero? –
Con quel commento, prese la sua giacca e le sue armi e andò alla
porta principale. Spostò da una parte il massiccio mobile di quercia e uscì.
Peccato che nel cottage non ci fosse qualcuno abbastanza forte da
rimettere a posto la barricata. Ma come quella femmina gli aveva fatto
notare tante volte… non era un suo problema.

•••

Mae guardò Sahvage scomparire dalla porta d'ingresso. Lui non


l’aveva sbattuta. Non ne aveva avuto bisogno.
Quando fu sicura che se ne fosse andato, corse in salotto e chiuse la
serratura di rame. Poi appoggiò la schiena contro i robusti pannelli della
credenza e cercò di spingerla contro la porta. Quando tutto ciò che ottenne
furono scarpe che scivolavano e respiri affannosi, chiuse la bocca sulle
imprecazioni che aveva in gola...
Un gemito delle assi del pavimento le fece spostare l’attenzione verso
il soffitto.
Il cuore le batteva forte nelle orecchie, deglutì a fatica e si chiese dove
avesse lasciato lo spray al peperoncino. Poi si ricordò di aver svuotato il
contenitore contro quel… qualunque cosa fosse.
Fissò il soffitto, non udì altro. Senza dubbio, il vecchio cottage stava
solo reagendo al calo di temperatura della notte...
Mae sobbalzò e guardò a sinistra. Qualcosa si era mosso tra le gambe
del tavolino?
Strofinandosi gli occhi, pensò a Rhoger e al ghiaccio che si stava
sciogliendo.
E a Tallah al piano di sotto, quasi svenuta per la stanchezza.
- Stiamo bene. Va tutto bene – si disse.
Incapace di stare ferma, andò in cucina e si bloccò. Non per molto,
però. Presa da un'urgenza del tutto estranea alla realtà che aveva quasi fatto
del suo meglio per combattere qualsiasi cosa potesse presentarsi al cottage,
afferrò un secchio da sotto il lavandino e lo riempì di acqua calda e sapone.
C'era solo una spugna in casa, e avrebbe dovuto sacrificarsi per la squadra.
Mettendosi in ginocchio, strofinò il quadrato sporco dove prima c'era
stato il frigorifero. E strofinò. Strofinò.
Il suo braccio era intorpidito, l'articolazione della spalla bruciava, così
come i palmi e le dita.
Ma dannazione, quando ebbe finite quel pavimento splendeva.
Naturalmente quel quadrato brillante faceva sembrare il resto del
vecchio linoleum come se fosse stato posato prima delle Guerre Puniche. E
lei era sfinita. E anche senza una spugna.
Ispezionando i suoi angoli consumati e il lato quasi nero, decise che
era proprio come si sentiva lei: consumata, usata, logora.
Guardò l'orologio sul muro e fece qualche calcolo. Poi osservò il
frigorifero che bloccava la porta sul retro e tutte le persiane che erano al
loro posto...
- Cavolo. Una prolunga –
Le ci volle un po' per trovarne una e quando la collegò, sperò che non
avrebbe bruciato il cottage.
- Okay, beh, la cucina.
Guardò i ripiani, il piano cottura, il frigorifero fuori posto, il tavolo e
le sedie, e immaginò tutto coperto di fiamme arancioni e gialle... quando
notò qualcosa.
Mae si accigliò e andò al lavandino. Il piatto d'argento che lei e Tallah
avevano usato per l'incantesimo di evocazione era tutto pulito e asciutto, e
lei lo raccolse per guardare il bordo ondulato.
- Che cos'è? - chiese a nessuno in particolare.
Eppure qualcosa stava decisamente penetrando in qualche punto
profondo della sua coscienza. E più si sforzava di indovinare cosa fosse, più
l’apprensione diventava sfuggente.
- Non importa - mormorò riponendo il piatto.
Considerate tutte le altre cose che chiedevano a gran voce
concentrazione mentale ed energia, annullò l'inutile gioco del nascondino.
- Devo andare –
Okay, con chi sto parlando esattamente?, si chiese guardando la porta
del seminterrato.
Dopo un momento di indecisione, prese un taccuino da un cassetto e
usò il mozzicone di matita per scrivere un breve messaggio per Tallah.
Lasciò il blocco al centro del tavolo, prese la borsa e tornò indietro per
aggiungere il suo numero di cellulare nel caso in cui la femmina lo avesse
dimenticato.
Quando Mae uscì dalla porta principale, si assicurò di avere la chiave
della macchina pronta e disse una breve preghiera prima di...
Aprire la porta. Si girò e la chiuse. Corse fino alla sua Honda.
Al lato del guidatore, la chiave si rifiutò di trovare casa all'interno
della serratura, il metallo scivolava intorno al buco. E più tempo impiegava,
più si guardava intorno freneticamente, ogni sorta di ombre si sollevavano
dal suolo, dalle viti contorte, dai tronchi degli alberi, tutto era in procinto di
attaccarla...
La chiave alla fine entrò nella fessura e quasi la spezzò, armeggiò con
la maniglia e si gettò sul sedile del conducente. Sbatté la portiera e si chiuse
dentro, il cuore le batteva forte nelle orecchie mentre ricominciava lo stesso
girotondo con l'accensione.
Prima che qualcosa atterrasse sul cofano, praticasse un foro nel tetto e
la trascinasse fuori per i capelli, riuscì ad avviare il motore e a mettere in
moto l'auto. Tranne che doveva uscire in retromarcia, perché per una volta
non aveva seguito il consiglio molto saggio di suo padre sull’essere pronta
ad allontanarsi in fretta. Schiacciando l'acceleratore, le gomme sollevarono
il fango e non la portarono da nessuna parte.
- Dannazione, dannazione, dannazione... –
Per tutto il tempo, guardò attraverso i finestrini e si è preparò per una
di quelle... cose... che si avvicinava a lei, attraversava i raggi dei fari,
strappava via la portiera per afferrarla e portarla alla tomba.
Ma non c'era niente.
Nessun movimento. Niente in arrivo per lei. Niente che fosse fuori
posto.
Diminuendo il peso sull’acceleratore, ansimò e cercò di convincere
l'auto a retrocedere, dando solo un po' di gas. Quando le gomme finalmente
fecero presa, resistette all'impulso da pilota di Formula Uno. Centimetro
dopo centimetro, o almeno così le sembrò, si avviò lungo il vialetto di
Tallah in modo da potersi voltare, mantenendo le mani bloccate sul volante
mentre i suoi occhi rimbalzavano tra il parabrezza anteriore e lo specchietto
retrovisore.
Mae odiava l'idea di lasciare la femmina anziana da sola nel cottage.
Ma non aveva scelta. Rhoger aveva bisogno di ghiaccio fresco.
E inoltre, era stato il suo sangue a finire in quel piatto d'argento.
Qualunque cosa c’era là fuori, qualunque cosa avessero richiamato dal
Dhunhd…
Stava dando la caccia a lei, e a nessun altro.
Tallah sarebbe stata al sicuro... anche se Mae non lo era affatto.
CAPITOLO VENTIDUE

Come symphath, a Rehv non era mai importato sganciare bombe.


Quando coglievi di sorpresa una persona o meglio ancora, un'intera stanza
piena di gente che reagiva con un checazzo!?! per qualcosa che avevi detto,
assaporavi ogni genere di emozioni divertenti, griglie che si accendevano,
persone che parlavano tra loro.
Caos. Dissenso. Disaccordo. Il tutto alimentato da una deliziosa ansia
sottostante che dimostrava che i mortali con ragionamento ipo-deduttivo
potevano agitarsi in un batter d'occhio.
I Symphath si nutrivano si queste cose. Le divoravano come una torta.
Tuttavia, in quel momento non era così.
Beh, okay, sì, l'attuale scia di frenetica aggressione della Confraternita
era tutta su di lui e la sua piccola notizia riguardo a quel parcheggio. Ma
mentre sedeva su una delle sedie di seta nello studio del Re e ascoltava tutte
quelle persone care parlare con un atteggiamento aggressivo, non era
contento dell'angoscia che aveva causato.
Vedete? I Symphath non erano tutti cattivi.
Solo la maggior parte di loro. E lui era mezzo vampiro, grazie alla sua
mahmen.
Naturalmente, il primo incontro che avevano avuto sulla questione del
Libro e quella femmina era andato bene. La scorsa notte, avevano
mantenuto la calma. Ascoltato. Erano stati soddisfatti circa le ulteriori
informazioni. Ora, però, avevano avuto quasi ventiquattr'ore per pensare
alle implicazioni di tutto quello, quindi questo semplice aggiornamento di
stato si era trasformato in un Armageddon.
- ... tutte stronzate - stava dicendo qualcuno. - Erano solo voci.
Pettegolezzi del cazzo… -
- Mia nonna mi ha parlato della magia nel Vecchio Continente: stai
dicendo che è una bugiarda? Stai dicendo che mia nonna è una fottuta
bugiarda… -
Oh grande. L'unica cosa peggiore di qualcuno che insultava la
mahmen di un Fratello era se l'autore del reato avesse gettato sua nonna nel
falò del disonore.
Rehv controllò il suo Royal Oak in oro rosa. Cristo, erano qui da
un'ora e mezza. E per come stavano andando le cose, questo branco di teste
calde avrebbe scambiato rythes per il resto della notte.
Almeno Fritz, il maggiordomo della villa, sarebbe stato felice. Quel
doggen amava pulire il sangue dai tappeti costosi. Se il lavoro del maschio
che gestiva quella famiglia piena di assassini fosse mai andato a rotoli,
avrebbe avuto un futuro alla Stanley Steemer...
Boom!
Quando il pugno di Wrath colpì la grande scrivania di legno, tutti
rimasero in silenzio, ma nessuno sobbalzò per la sorpresa. Francamente
Rehv stava aspettando quella conclusione. Era pronto a scommettere che
era così per tutti.
- Basta con queste stronzate - gridò Wrath accarezzando il mento di
George per calmare i nervi del cane. - Basta discutere se la magia esiste o
no. Volete masturbarvi sull'argomento o sui fottuti parenti l'uno dell'altro?
Potete farlo nel vostro fottuto tempo libero –
Ah sì. Non c’era nulla come un leader con le capacità di relazionarsi
di una motosega.
Quegli occhiali neri oscillarono verso V che stava fumando una
sigaretta arrotolata a mano vicino al caminetto.
- Non hai ancora trovato la femmina? –
- No, voglio dire, ho rintracciato la targa dell'auto e l'indirizzo legato a
quella targa, ma è quello che lei usa nel mondo umano. Ho controllato la
casa in questione, ma niente vampiri da nessuna parte. Non ho trovato
nient'altro, ma se lei e la sua linea di sangue non si sono offerti volontari per
essere inseriti in un database, non ci sarà molto che posso fare. Ma ad ogni
modo, cercherò ancora –
- Questo è quello che ha detto lui - mormorò qualcuno.
- Quando l'ho vista - mormorò Rehv - sembrava... davvero normale.
Troppo vaniglia per il posto in cui è venuta a cercarmi. Difficile
immaginare cosa vorrebbe fare una persona del genere con il Libro.
Ridipingere casa? Trovare una videocassetta di Blockbuster mancante da
prima che esistesse Internet? –
- Non cerchi una cosa del genere a meno che tu non sia pazzo - disse
Butch.
Rehv annuì.
- Ho letto la sua griglia. È fottutamente disperata. Ma i suoi genitori
sono morti, tipo, tre anni fa, e non credo che sia accoppiata, vista la
situazione in cui stava con uno dei combattenti. Ho percepito un parente
stretto, un fratello... cosa le manca? Di cosa ha così tanto bisogno da essere
disposta a rischiare con la magia near –
- La maggior parte delle volte - disse V - se riesco a vedere dove è
stato qualcuno, posso capire dove è diretto –
- Semplicemente non torna –
- Sareste sorpresi di quante persone non sono quello che sembrano
all’esterno –
Qualcuno da dietro disse:
- Questo significa che in segreto ti piace coccolare, V? –
Quando V fece il dito medio a Rhage, la conversazione riprese a
ribollire, anche se a un livello di volume molto più ragionevole, che però
non sarebbe durato.
E mentre i Fratelli ricominciavano ad alzare il volume, una voce si
inserì:
- Questa è una situazione seriamente pericolosa. Non importa chi sia
la femmina o per cosa userà il Libro –
Tutti guardarono verso le porte dello studio. Un altro interessato era
entrato nella conversazione, ma con l’atmosfera bollente nella stanza,
nessuno si era accorto del suo arrivo.
Lassiter, l'angelo caduto, era appoggiato alle porte chiuse, le braccia
incrociate su una maglietta con la scritta BOY MILK sui pettorali. Con i suoi
leggings zebrati, i suoi lunghi capelli biondi e neri e tutte le sue catene d'oro
e i piercing, somigliava a David Lee Roth che stava attraversando una fase
da Mr T.
- Le forze che si possono scatenare per gentile concessione di quelle
pagine… - Lassiter scrollò le spalle - sono come nient'altro sul pianeta. Vera
merda da dito di Dio. E il problema sarà che, una volta rilasciate quelle
energie, saranno come una tigre fuori dalla gabbia che non mangia da un
mese. Non si può ragionare con loro, nessuno le fermerà –
- Perché non è successo prima? - chiese Tohr. - Voglio dire, ci sono
storie e voci dal Vecchio Continente. Ma niente di sostanziale –
- Equilibrio - Lassiter giocherellava con alcuni dei suoi braccialetti,
avvolgendoli attorno al suo grosso polso, le maglie offrivano un morbido
chiacchiericcio di metallo su metallo. - Ci deve essere equilibrio nel mondo,
e l'Omega era abbastanza pesante sul lato delle cattive notizie della bilancia.
Ora non c’è più, però, e il destino ha un horror vacui. Quella presenza
oscura deve essere sostituita con qualcosa, e così è stato –
- Sai - mormorò Rhage - devo dirlo di nuovo. Non vedevo davvero
l'ora di una vacanza. Non per sempre, ma tipo, venticinque, forse
cinquant'anni senza impegni sarebbero stati fantastici. Voglio dire, ho
appena aperto la mia enciclopedia on-line di bomboniere di gelato –
- Hai davvero fatto una cosa del genere? - chiese qualcuno. - Quanto
tempo può volerci? Anche Baskin-Robbins ha solo trentuno tipi… -
Rhage lanciò un’occhiata severa alla platea.
- Baskin-Robbins ha più di milletrecento voci nel profilo dei gusti, sei
un fottuto ritardato. Io sto parlando di tutti i gelati di tutti i produttori. Lo
chiamerò Wiki-licks –
V gettò la sigaretta nel camino.
- Faresti meglio a stare attento che l'URL non venga utilizzato da
qualcuno con altri programmi per la propria lingua... –
- Concentratevi! - abbaiò Wrath. - Gesù Cristo, siete come Google
senza alcun controllo. E nel frattempo, abbiamo un problema che non
sappiamo come contenere... –
- Non è esatto - disse Lassiter. - Possiamo bloccarlo –
Quando tutti gli occhi tornarono all'angelo, lui era molto serio, e Rehv
pensò che per quanto fastidioso poteva essere Lassiter quando era normale,
il rovescio della medaglia era molto peggio.
E spaventoso, anche per un symphath: Lassiter aveva accesso a cose
che nessun altro nella stanza poteva fare, e parte di quella roba faceva
sembrare l'Omega niente di peggio di un bambino di due anni in preda ai
capricci.
- Hai ciò di cui hai bisogno sotto questo tetto - annunciò l'angelo.
- Faremo mangiare il Libro a Rhage? - intervenne qualcuno.
Hollywood alzò la mano.
- Ho solo bisogno del condimento giusto e in qualche modo lo
manderò giù. Lo giuro, posso farlo –
- Voto di dare fuoco all'angelo e catapultarlo contro quella dannata
cosa - ribatté V. - E mi offro volontario per accendere quel fiammifero –
- Quale arma abbiamo che non vediamo? - domandò il Re.
- Seguitemi - Lassiter aprì le porte dello studio e uscì.
A suo merito, V fu il primo a seguirlo.
- Non sto dicendo che mi piace - disse mentre marciava verso le scale.
- Ma userò qualsiasi arma che abbiamo. Anche se è lo stronzo a mettercela
in mano –
Rehv si alzò con il resto dei combattenti e il Re. E mentre uscivano
tutti dallo studio e scendevano verso l'atrio, gli sembrava di essere tornato a
scuola e che stesse andando in gita.
Supponendo che la scuola fosse un'accademia di arti marziali e il
corpo studentesco composto da bambini che potevano sollevare due Tesla
con una mano.
Lassiter guidò la sfilata attraverso tutta la sala da pranzo e in cucina,
dove era quasi impossibile non trovare un vassoio da dessert, una caraffa di
caffè o un intero cosciotto d'agnello nel palmo di un doggen timorosamente
disponibile.
Naturalmente, Rhage accettò un panino al tacchino come se fosse un
pallone da calcio passato oltre la linea di fondo. E un litro di Coca Cola. E
un sacchetto di M&M’S.
Proprio quando Rehv si stava chiedendo dove diavolo stesse portando
tutto ciò, Lassiter entrò nel garage, e fu allora che i conti tornarono.
- Cazzo - mormorò Rehv entrando nel vasto spazio aperto non
riscaldato.
Strofinandosi la faccia, si guardò intorno verso l'attrezzatura da
giardinaggio e i bidoni di semi d'erba e fertilizzanti, e si chiese se quello
fosse il suo posto. Erano cose private della Confraternita.
Perché nessuno era lì per l’attrezzatura agricola.
Sedici bare impilate. Alte due metri e profonde quattro.
Gli involucri erano di diversi tipi di legno, ed erano invecchiati in
modi diversi, ma quello che c'era dentro aveva qualcosa in comune.
Erano i resti dei dannati.
Fratelli a cui non erano state concesse cerimonie per il Fado adeguate.
O non potevano essere loro concesse.
Wrath aveva rivelato il retroscena una notte che lui e Rehv si erano
confidati su quanto fosse divertente essere Re.
- Siamo dove penso che siamo? - chiese Wrath dopo un momento.
Lassiter passeggiò lungo la fila di bare, e poi si fermò davanti alla
penultima della fila superiore. Mentre metteva il palmo sul coperchio, disse:
- Sì, lo sei –
Ciascuna delle bare aveva iscrizioni che correvano lungo i lati e sulla
sommità, e i simboli dell'Antico Idioma non erano solo nomi e date. Erano
avvertimenti.
Di non disturbare i dannati.
- Non ci sono prove che non sia stato solo un colpo di stato per la
terra e le risorse - mormorò Wrath. - Potrebbe essere stata semplicemente la
glymera a fare un'altra mossa di potere –
- O quella storia era uno stratagemma - disse Rehv. - Perché, ehi,
l'aristocrazia non mente né travisa mai gli eventi storici, giusto? –
- Di che cazzo state parlando voi due? - domandò V.
Rehv trattenne il respiro mentre Wrath si guardò alle spalle come se
potesse vedere il Fratello.
- Uno stregone –
Gli occhi di Vishous si strinsero, il tatuaggio sulla tempia si deformò.
- Non sapevo che ne avessimo uno qui dentro –
Il Re si voltò in direzione di Lassiter.
- Quindi immagino che la voce fosse vera –
L'angelo parlò a bassa voce e accarezzò la bara.
- Abbiamo bisogno di quello che c'è qui dentro. Anche se non è
facilmente controllabile –
- Scusatemi - disse Tohr. - Quel fratello è morto da tempo. I suoi
difetti della personalità non sono un punto controverso? Proprio come
qualsiasi cosa possa fare per aiutarci? –
- Non è lui che ci interessa - ribatté Lassiter. - È quello che c'è in lui
che stiamo cercando –
- Non apriremo quella bara qui - Wrath scosse la testa. - Non me ne
frega un cazzo dei protocolli, ma se esponiamo il corpo di un fratello,
accadrà solo in un posto. Anche se è dannato nella morte –
Lassiter inclinò la testa.
- Sono d'accordo –
Gli altri Fratelli annuirono con la testa e rimasero in silenzio. Rehv
guardò i loro volti feroci, i loro corpi forti... le loro risolute volontà e
sentiva un profondo onore, da estraneo, ad assistere alla tradizione della
Confraternita del Pugnale Nero.
Tutti questi maschi, compreso il Re, facevano parte della venerabile
storia dei servigi alla razza. E sebbene i dettagli e la natura di quel passato
fossero, per definizione, intoccabili e immutabili, di tanto in tanto, ciò che
era stato prima arrivava, attraverso i filamenti dei minuti e delle ore... a
toccare il presente.
Qualcosa che era stato ucciso un paio di secoli prima sarebbe stato
richiamato in servizio adesso. E questo meritava un momento di silenzio, di
rispetto.
E c'era un altro motivo per il silenzio che permeava i freddi confini
del garage: queste bare ricordavano che coloro che erano qui ora sarebbero
stati in futuro tra quelli che erano andati per primi.
Essere mortali significava dover morire.
Mentre un brivido che non aveva nulla a che fare con la dopamina,
attraversò il corpo ricoperto di visone di Rehv, pensò alla sua amata Ehlena
e dovette guardare il pavimento di cemento. Distrattamente, notò che i suoi
mocassini Bally, che erano intrecciati e neri, erano il complemento perfetto
per i suoi bei pantaloni neri e la giacca doppiopetto sotto lo spolverino di
pelliccia.
Normalmente, sarebbe stato contento di ammirare il suo guardaroba.
Adesso... tutto ciò a cui riusciva a pensare era stato vestirsi da solo in
quella cabina armadio che condivideva con Ehlena. Lei era dovuta andare
in clinica presto. E si era dimenticata di salutarlo con un bacio perché aveva
avuto molta fretta...
Un bisogno improvviso e graffiante al centro del petto di Rehv lo
trascinò indietro, lontano dall'assemblea. Lontano dalle bare. Lontano dal
problema che aveva portato alla porta d'ingresso della Confraternita.
Letteralmente.
Scivolando di nuovo in casa, attraversò sia l’ingresso che la cucina,
dirigendosi verso l'atrio. Quando arrivò allo scalone, fece il giro e aprì la
porta nascosta.
Il tunnel sotterraneo che collegava la Tana, la villa e il centro di
addestramento era una dritta strada di cemento attraverso la terra, e fece il
miglior tempo possibile nonostante la dopamina che aveva dovuto prendere
che creava intorpidimento alle gambe e ai piedi. Ringraziò Dio per il suo
bastone.
Emerse dallo sgabuzzino nell'ufficio, poi spinse la porta a vetri e si
diresse verso il centro di addestramento vero e proprio.
Seguendo il sangue della sua femmina, scese nell'area clinica e si
fermò davanti alla porta chiusa di un ambulatorio.
Bussò piano, ma avrebbe voluto rompere il pannello a mani nude...
- È il mio hellren? - disse la voce ovattata di Ehlena.
Rehv entrò. La sua amata era alla scrivania e stava scrivendo sul
computer. Vestita con un camice, aveva una retina chirurgica sui capelli,
stivaletti chirurgici sulle sue Crocs e quelle sopracciglia serrate per la
concentrazione con cui lui aveva familiarità.
Per un momento, tutto ciò che riuscì a fare fu fissarla. E pensare alla
prima volta che l'aveva vista, nella vecchia clinica di Havers. Era entrata in
una stanza per le visite per controllarlo, e lui era stato... ossessionato fin
dall'inizio…
Ehlena si voltò e sorrise.
- Questa è una bella sorpresa! –
Senza dire una parola, lui si avvicinò e la prese tra le braccia,
sollevandola dalla sedia a rotelle. Chiuse gli occhi e la tenne stretta.
- Stai bene? - disse lei mentre gli accarezzava la schiena attraverso il
visone. - Rehv, cosa c'è che non va? –
- Dovevo solo vederti –
- È successo qualcosa? –
Come poteva risponderle, si chiese, senza allarmarla. E non stava
pensando al Libro o alla magia nelle mani sbagliate o a cosa avrebbe potuto
esserci in una di quelle bare. No, stava pensando se l'amore sopravviveva
davvero anche alla fredda mano della morte. Se chiedevi a un qualsiasi
romantico ti avrebbe detto che era vero: accidenti, se credevi nel Fado, era
vero. Hai il tuo per sempre con la tua anima gemella. Ma se eri uno
scettico?
- No, non è successo niente. Volevo solo vedere la femmina che amo

- Puoi parlare con me - mormorò. - Lo sai, vero? Puoi dirmi cosa sta
succedendo… -
- Come ho detto, non è niente –
Beh, niente tranne il fatto che agli scettici, in generale, non piaceva
vedere le bare. Gli ricordavano che la vita finiva e lui non poteva sopportare
il pensiero di perdere la sua shellan.
Non sapeva cosa avrebbe fatto senza...
Rehv indietreggiò quando l'immagine di quella femmina nel
parcheggio… e la griglia di lei… gli tornarono in mente.
- Oh, mio Dio! - sbottò. - Vuole riportare in vita qualcuno dalla morte

Ehlena scosse la testa.
- Mi dispiace, cosa... –
- Un normale civile che cerca qualcosa di malvagio… l'unico motivo
per cui lo farebbe è se qualcuno che ama è morto e non riesce più vivere
con quel dolore. Suo fratello. Deve essere il fratello... è l'unica persona
rimasta nella sua famiglia. Scommetto che gli è successo qualcosa -
CAPITOLO VENTITRE

Sahvage si materializzò sul lato del garage in cui Mae aveva appena
parcheggiato la sua auto. Quando le serrande iniziarono a scendere, si
guardò alle spalle. Guardò la casa a un piano. Controllò cosa poteva vedere
sul retro. Non voleva che lei uscisse da quel fottuto veicolo finché le cose
non fossero state sicure...
E lei non lo fece. Aspettò che tutto fosse chiuso.
- Brava ragazza - disse dolcemente, anche se lei non avrebbe
approvato di essere chiamata ragazza.
Rimanendo nell'ombra, tirò fuori dallo zaino ciò che aveva rubato dal
cottage quando lei aveva portato Tallah a letto: il sale non iodato di Morton.
Anche se lui l'avrebbe preso con lo iodio. Non aveva importanza.
Con mano ferma, aprì la parte superiore della scatola, e fu fortunato
per due ragioni: il contenitore era quasi pieno e la casa degli anni settanta
non era grande. Tuttavia fu attento a razionare il sale. Lo versò solo per
terra davanti alle porte e alle finestre. Avrebbe preferito sigillare tutto
intorno, ma non poteva rischiare di rimanere senza.
Dopo aver coperto il pianterreno, si materializzò sul tetto. Niente
camino, ma c'erano due tubi di sfiato, probabilmente per i bagni, e versò il
sale sulle tegole.
Poi si sedette con il culo sulla trave centrale della casa e scalciò le
gambe davanti sul facile pendio. Si chiese cosa stesse facendo la femmina
sotto di lui, forse prendeva qualcosa da mangiare, controllava la posta. Però
sarebbe tornata al cottage per la giornata. Non avrebbe voluto che quella
femmina rimanesse da sola.
Maledicendo se stesso, maledicendo Mae, scrutò il cortile e il vicinato
non solo con gli occhi, ma con tutti i sensi e l'istinto che aveva.
Non era sicuro di credere nel sale. Ma era qualcosa su cui Rahvyn
aveva sempre giurato, ed era una raccomandazione buona come un’altra per
uscire da quell'incubo.
Dio, avrebbe voluto che suo cugina fosse stata lì. Avrebbe saputo cosa
fare.
Accidenti, forse avrebbe potuto dissuadere Mae da quella follia...
La prima cosa che notò furono le stelle che scomparivano sopra di
loro. Ma non per le nuvole. Era come se un sudario nero fosse stato tirato
attraverso il cielo direttamente sopra la casa.
- Fanculo! –
Alzandosi in piedi, estrasse entrambe le pistole e osservò il quartiere
che era a stretto contatto con la periferia e popolato come tale: nelle case su
entrambi i lati, così come in quelle dall'altra parte della strada, vivevano
esseri umani, uomini e donne che si rilassavano a letto, guardavano la TV,
facevano spuntini di mezzanotte.
L'ultima cosa di cui aveva bisogno erano un mucchio di indici che
chiamavano il 911 mentre stava cercando di salvare la vita di quella
femmina.
- Cazzo1 –
Scese dal tetto inclinato fino alla la grondaia e saltò a terra, atterrando
con un boom. Girandosi verso la porta d'ingresso, avrebbe voluto bussare,
ma si fermò.
Il garage. Non aveva sigillato la porta del garage.
Infilando una delle pistole nella fondina, strappò la scatola e corse
verso la minuscola fenditura tra quei pannelli retrattili e il bordo di cemento
della soletta del garage. Il sale doveva essere a terra prima che qualunque
cosa fosse apparsa al cottage si ripresentasse...
- Non pensi mica che funzionerà, vero? –
La voce era femminile e sembrava provenire da ogni direzione. Ma
per quanto scioccante fosse, rifiutò di farsi distrarre. Continuò a versare, la
leggerezza del contenitore lo spaventò quando si avvicinò al lato opposto
dell'ampio ingresso.
Più veloce.
Più veloce.
Più veloce… più veloce…
Sahvage quasi gettò il dannato contenitore all'angolo formato dal
bordo della casa e il cemento, sulla base della teoria che il sale era ancora al
suo interno, anche se c'era un contenitore di cartone che lo avvolgeva.
Fu quando alzò lo sguardo che vide la gamba.
Una gamba molto formosa... inserita in uno stiletto nero lucido con la
suola rossa.
I suoi occhi seguirono la delicata caviglia fino al polpaccio tornito e si
spinsero più in alto, fino a un ginocchio molto femminile. Dopo arrivarono
le cosce, cosce incredibilmente lisce messe in mostra da una minigonna
nera che dava un nuovo significato sia ad attillata che a corta. E Gesù... la
metà superiore della donna era più che all'altezza della parte inferiore. Tra il
bustier push-up nero, e tutti quei capelli castani, e quel viso...
- Ciao - strascicò la donna mentre si appoggiava alla casa, proprio
sopra il contenitore del sale. - Che piacere incontrarti qui –
I suoi occhi erano neri come l'ebano e scintillanti come se fossero in
controluce, e le sue labbra erano rosso sangue, ed era la donna più bella che
lui avesse mai visto.
E la sua malvagità gli fece venir voglia di tirare fuori l'altra pistola.
Così fece, cazzo.
- Dai, andiamo - gli disse - è davvero necessario? Non siamo
nemmeno stati adeguatamente presentati. Se hai intenzione di spararmi, non
dovremmo almeno stringerci la mano prima? –
Con un movimento aggraziato, lei raccolse la scatola. Incontrò gli
occhi di lui, fece scorrere un'unghia rosso sangue intorno al beccuccio di
metallo aperto.
- Solo perché tu lo sappia, in questo momento sto resistendo alla
tentazione di fare alcune battute tipo sei così salato - Quel dito continuò a
giocare con l'apertura. - Lo dirò di nuovo, pensi davvero di potermi tenere
fuori da un qualsiasi posto? –
Nella pozza di luce proiettata da un lampione all’esterno, lei stava
fallendo completamente nel cercare di sembrare perfettamente normale: le
ombre sotto il suo corpo si muovevano anche quando lei non lo faceva, e
poi c'era la sua aura. Un luccichio nero come la pece tingeva l'aria intorno a
lei.
Perché irradiava il male.
Lanciò la scatola oltre la spalla e il contenitore rimbalzò via come se
stesse scappando da lei.
- Ti servirà molto di più della roba per condire le patatine fritte per
tenermi fuori. Ma basta con gli ingressi e le uscite, dimmi una cosa, questa
gonna mi fa sembrare il culo grosso? –
Girandosi, si mise in posa e guardò oltre la sua spalla, mentre con la
mano percorreva la piega dalla vita fino al rigonfiamento perfettamente
proporzionato del suo fianco.
- Allora? - suggerì con le fusa nella gola. - Cosa ne pensi del mio
culo? –
Sahvage bloccò i suoi pensieri immaginando un armadio, un armadio
con ripiani che correvano lungo le pareti dal pavimento al soffitto.
All'interno dell’armadio gli scaffali erano vuoti, la luce in alto rivelava tutto
il niente che c'era dentro. Quando fu sicuro di poter vedere chiaramente i
dettagli, dalle venature del legno su quelle assi verticali fino al cordino che
pendeva dalla lampadina, chiuse la porta dell'armadio. E lo bloccò.
Mentre la donna accarezzava i suoi beni posteriori, aveva in mente
quell'ultima immagine: una porta robusta, una porta spessa, una porta
rinforzata che era sbarrata, che proteggeva un armadio senza niente.
La donna ridacchiò.
- Guardati, con i trucchetti da quattro soldi -
Non dire niente, si disse. Non dire niente ad alta voce.
- Così protettivo nei confronti della femmina sotto questo tetto - La
donna… donna?... diede un'occhiata alla casa. - Devi tenere profondamente
a lei. O ti stai solo assicurando che viva abbastanza a lungo da poterla
scopare? –
Sahvage guardò davanti a sé e sbatté a malapena le palpebre.
- Ho ragione, non è vero? - La donna sorrise mentre si voltava per
guardarlo in faccia. - Non l'hai ancora fottuta. Ma lo vuoi, non è vero? La
vuoi nuda sotto di te e la marchierai come tua, come se di questi tempi
questo significasse qualcosa. Non hai sentito che la monogamia è fuori
moda? –
La sua voce era bassa e seducente, a sostegno del suo corpo, delle sue
labbra, dei suoi capelli. Era un pacchetto così allettante, ma una volta tolto
quel nastro? Strappato la carta da regalo?
- O forse c'è di più per voi due? - Lei tese una mano elegante e puntò
l'indice rosso sangue al centro del suo petto. - Lei ha questo? Cosa batte
qui... ha preso il tuo cuore? - Silenzio. - Di già... wow. Dovrò prendere
qualche consiglio da lei. Non è un granché, ma il suo gioco evidentemente
sta andando alla grande -
Non dare niente, pensò Sahvage. Non dare niente, non dare niente,
nondarenientenondarenientenon dare…
Gli occhi di lei brillavano di minaccia.
- Sai, mi fai venire voglia di entrare dentro di te. Penso che sarebbe
divertente, almeno per me. E per te, per un po'. Ma ehi, a volte nella vita,
tutto ciò che ottieni sono brevi piccoli divertimenti, giusto? Piccole gioie.
Allora che ne dici, combattente. Che ne dici se scopiamo e ti faccio
divertire davvero –
Di punto in bianco, gli venne un pensiero, come un aeroplano di carta
che navigava nel suo campo visivo.
Questa donna, che non era affatto una donna ma qualcos'altro... era il
suo biglietto per lasciare il pianeta.
Dopo tutti quegli anni, la morte, che tante volte aveva desiderato, e
troppe volte gli era stata negata, aveva finalmente varcato la soglia della sua
casa interiore e si era seduta su una sedia.
Ad aspettare il momento giusto.
La donna sorrise, le sue labbra rosso sangue si contrassero in
un'espressione di malvagia soddisfazione.
- Sarai mio -

•••

Il rumore del ghiaccio che rimbalzava sul petto immobile di Rhoger e


cadeva sui lati della vasca era il genere di cosa che Mae avrebbe sentito per
sempre nei suoi incubi. E quel suono tintinnante, così tenue, così leggero, le
ricordò quanto fosse diventata sconvolta. Anche se era in grado di vestirsi
adeguatamente, mangiare i suoi pasti e guidare la macchina senza distrarsi,
era a malapena in grado di tenere a bada il caos.
- Andrà tutto bene - disse a suo fratello accartocciando del tutto la
borsa vuota e gocciolante.
Prese quella successiva, strappò la linguetta di plastica e poi si rese
conto che si era dimenticata di sbatterlo per terra. Era un pezzo solido
congelato.
- Accidenti –
Afferrando un asciugamano dalla rastrelliera, avvolse la borsa e la
lasciò cadere sul tappetino da bagno un paio di volte, la frantumazione
interna era troppo poca per i suoi gusti.
Ora però, il ghiaccio in parte sbriciolato si riversò fuori.
Quando ebbe finito di riempire la vasca, si sedette sui talloni e
appoggiò le mani sul bordo scivoloso. Fissò il viso di suo fratello attraverso
il ghiaccio, ma non riusciva a riconoscere i suoi lineamenti. Ma
probabilmente non sarebbe riuscita a farlo comunque.
Era passato molto tempo dall'ultima volta che lo aveva guardato negli
occhi, e non perché era morto.
- Mi dispiace così tanto - gracchiò. - Non intendevo... quella notte che
te ne sei andato, non volevo urlarti contro. Davvero non volevo –
Non c'era risposta per lei. Ma non per il modo in cui erano andate le
cose. Prima che Rhoger se ne andasse quella notte per non tornare più a
casa, avevano litigato ripetutamente.
Per cose davvero insignificanti, o almeno così sembrava ora.
Dio, avrebbe voluto essere più paziente. O forse non aver scavato così
a fondo con le critiche. Forse se non fosse stata così dura con lui, sarebbe
rimasto a casa quella notte.
Forse...
Pensò all'incantesimo di evocazione. A tutto quello che Tallah le
aveva detto che il Libro avrebbe fatto per lei.
Sì, voleva riportare indietro Rhoger. Ma la verità era che era il suo
torto che voleva rettificare. Aveva iniziato una spirale discendente che si era
conclusa con la sua tragica morte: dopo quella discussione particolarmente
brutale, lui era andato via... e poi, ad un certo punto, aveva incrociato il
percorso del suo assassino.
Con un’imprecazione ricordò quei terribili giorni di attesa, seduta
sulla sedia in cucina, pregando per una sua chiamata. E poi le notti a cercare
di lavorare alla sua scrivania, per essere pronta ad aprire la porta quando lui
sarebbe tornato a casa.
Quest'ultima cosa era successa, alla fine... quasi due settimane dopo la
sua scomparsa. Prima aveva annusato il sangue fresco, poi aveva sentito i
piedi che inciampavano. Precipitandosi fuori dalla sua stanza, era scesa
lungo il corridoio proprio mentre lui era crollato all'interno della porta
d'ingresso, le membra abbandonate e il busto fuori posto erano state le cose
più terrificanti che avesse mai visto.
- Rhoger - sussurrò.
Se non fosse tornato a casa a morire non l'avrebbe mai trovato.
Avrebbe passato il resto della sua vita ad ascoltare la porta, bloccata in
questa casa perché era dove lui avrebbe potuto trovarla, chiedendosi,
immaginandosi e torturandosi con mille diversi esiti negativi.
- Risolverò tutto - gli disse. - Lo prometto –
Si alzò in piedi e gemette perché ogni muscolo del suo corpo le
faceva male, ma non era vero. Era solo la parte superiore delle braccia a
farle male, e per un momento non riuscì a capire perché.
Poi si ricordò di essere stata sulla soglia del cottage. Con Sahvage. A
sparare a un'ombra.
- Tornerò domani sera - disse a Rhoger. - Devo assicurarmi che Tallah
stia bene. È... una lunga storia –
Il fatto che si fosse fermata per attendere una sua risposta la sconvolse
davvero. Così andò nella sua stanza e preparò velocemente una borsa per
un’intera giornata. La verità era che non vedeva l'ora di uscire da quella
casa, e questo la faceva sentire in colpa. Ma per l'amor del cielo, Rhoger
non era consapevole che lo stava lasciando da solo. Inoltre, era meglio per
lei non essere intorno al corpo. Se fosse apparsa un'altra di quelle ombre?
Doveva rimanere intatto, altrimenti non sapeva cosa diavolo avrebbe
resuscitato.
Santo cielo, che genere di vita stava vivendo.
Fuori nel garage, fece un respiro profondo...
L'odore di carne avariata riportò la sua paranoia al posto di guida: era
una legione di non morti che veniva a prenderla? Buon Dio, perché aveva
detto a un'arma come Sahvage di andarsene? Era totalmente indifesa.
Mae voltò la testa. Verso il cestino dell'immondizia nell'angolo.
- È giovedì - mormorò. - È il giorno della spazzatura –
Invece che di un’apocalisse zombi.
Andando alla Civic, gettò la sua borsa di tela nella parte posteriore
insieme alla borsa. Poi premette l'apri porta del garage e marciò verso il
rullo. Quando la saracinesca si sollevò, inclinò il peso e iniziò a tirare…
Direttamente fuori dal garage, c'erano due paia di gambe.
Che erano in piedi faccia a faccia. O stivale a stiletto, in quel caso.
Riconobbe le prime. Quelli erano i pantaloni e le scarpe di Sahvage.
Ma quelle della femmina?
Mentre la porta continuava a salire, Mae prestò molta attenzione a ciò
che veniva rivelato dal lato del gentil sesso: un sacco di gambe. Una
minigonna. Perfezione dall'anca alla vita fino a... wow, quello sì che era un
seno. Capelli lunghi castani.
E un profilo che implorava per un primo piano.
Okay, quindi si era sbagliata. Sahvage non apparteneva a uno di quei
tipi rave del parcheggio. Questo era ciò di cui aveva bisogno. La femmina
era un esemplare straordinario quanto lui, l’equilibrio tra l’estremamente
femminile con l'estremamente maschile. E i loro corpi sarebbero stati
perfetti insieme.
Il fatto che Mae fosse così leggermente gelosa era pazzesco.
E cosa diavolo ci faceva quella coppia felice nel suo vialetto?
Proprio mentre stava per far valere le leggi sulle violazioni dello Stato
di New York, la testa di Sahvage scattò nella sua direzione.
Non disse una parola. Ma i suoi occhi stavano comunicando un chiaro
avvertimento.
E poi la donna guardò dalla sua parte.
- Ciao! - disse la bruna con una voce che era in parte Sophia Loren, in
parte il giudice Judy. - È davvero un piacere conoscerti –
Mentre parlava, Sahvage non si muoveva. Non era nemmeno chiaro
se stesse respirando. Ma quei suoi occhi. Così intensi, non batterono ciglio.
Nel frattempo, lo sguardo scintillante della donna scivolò lungo il
corpo di Mae.
- Sai, sono sicura che sei brava e buona, e che tua madre ti ama. Ma
sono davvero sorpresa che lui stia rischiando la propria vita per salvare una
persona come te - Mise i palmi in avanti come per rassicurare. - Senza
offesa, voglio dire… penso solo che l'onestà sia la politica migliore, vero? E
tu non sei esattamente quello che mi sarei aspettata –
Sahvage guardava in basso. Ma non perché stava per intervenire. Era
concentrato su qualcosa.
Mandare un messaggio.
Mae lasciò che la donna continuasse a parlare mentre cercava di
capire cosa lui le stesse indicando… aspetta, c’era un contenitore di sale sul
prato?
La donna si avvicinò al bordo della lastra di cemento del garage.
- Comunque, basta con le chiacchiere. Sto pensando di comprare una
casa in questo quartiere - Mise in mostra il suo essere favolosa passando
una mano lungo le sue curve. - Potrai ringraziarmi in seguito per aver
migliorato il valore della tua proprietà. Ma adesso, che ne dici di farmi fare
un giro in questa tua piccola dimora incredibilmente caratteristica? Sto
proprio morendo dalla voglia di vedere cosa hai fatto con la cucina. Frutti
dorati, giusto? Con porta piante in macramé e un tappeto color avocado.
Voglio dire, sembri qualcuna che ha raggiunto il suo massimo alla fine degli
anni settanta, primi anni ottanta. Supponendo che un'insegnante di seconda
elementare sia, tipo, uno stile o un'epoca –
Il sorriso di lei era un caso esemplare di condiscendenza.
E quando Mae guardò il viso di Sahvage, la donna alzò le mani.
- Oh, vuoi smetterla di preoccuparti per lui? Beh, sì, me lo scoperò,
ma ti assicuro che non significherà nulla da parte mia, quindi non minaccerà
la tua relazione... beh, finché lui non si ucciderà. Ma non sarà per colpa
mia, però. Inoltre, credimi sulla parola, lui è una pessima scommessa per
qualsiasi cosa a lungo termine. Non dovresti mai fidarti di ciò che non puoi
controllare. Qualcosa mi dice che lo sai già, però, non è vero? –
Mae si concentrò sulla donna.
E con voce lenta e chiara disse:
- Non sei la benvenuta qui. Non ti accoglierò in casa mia. Né ora, né
mai –
Lo sguardo nero della donna si restrinse.
- Penso che ti stai sbagliando –
Sahvage fece tre passi in avanti e attraversò la lastra di cemento. Di
fronte alla femmina, rimase in silenzio e tornò immobile.
L'espressione sul viso della rara bellezza cambiò, le sue ciglia si
abbassarono sugli occhi che ora brillavano di rabbia.
- Oh, che stronzi! - disse a bassa voce. - Non siete così intelligenti,
nessuno di voi due. E i trucchetti non mi terranno lontano. Io sono ovunque

Indietreggiando, Sahvage allungò il braccio e premette il pulsante per
chiudere la porta del garage.
Quando i pannelli iniziarono ad abbassarsi, la donna ringhiò
profondamente, come un predatore.
- Mi rivedrete presto - disse. - Questa è una promessa -
CAPITOLO VENTIQUATTRO

Toc toc.
Un bussare costante alla porta della camera da letto di Balz.
Quando le sue pesanti palpebre si sollevarono, non riusciva a capire
perché diavolo qualcuno lo stesse svegliando nel bel mezzo della giornata.
Stava dormendo, cazzo!
- Che c’è? - sbottò.
Su suo gentile invito, la porta si aprì e gli spedì per via aerea un
raggio di luce dal corridoio che gli incenerì l'iride. Con un sibilo, fece un
classico gesto alla Dracula, si coprì il viso con l'avambraccio e indietreggiò.
- Sei ancora a letto? –
Syphon, di nuovo. Ovviamente. L’iperprotettivo figlio di puttana era
una sveglia che arrivava con frullati biologici senza glutine, frullati di
mandorle e porridge biologico.
Se solo ci fosse stato un sacchetto di Doritos da lanciare al ragazzo.
O qualsiasi cosa che avesse del colorante rosso o roba OGM nella
lista degli ingredienti.
- Sì, sono ancora nel dannato letto - ribatté lui. - È quasi l'una del
pomeriggio. La domanda è: perché tu non sei… -
- È mezzanotte - Quando Balz non rispose, il bastardo continuò. -
Mezzanotte, sai tipo una dozzina di rintocchi dell'orologio a pendolo nel... –
- So contare –
- Davvero? –
Balz allungò una mano sul comodino. Afferrando il suo Galaxy S21,
controllò l'ora, pronto a lanciarlo in faccia a suo cugino...
00:07
Sedendosi, si scostò i capelli dal viso, anche se li aveva tagliati di
recente e non c'era niente nei suoi occhi. Infatti, vicino a dove era stato il
suo telefono, c'era quella tazza da viaggio e il croissant che era ancora
avvolto in uno strofinaccio.
Gesù. Aveva dormito come se gli avessero dato un pugno in testa.
E nessun sogno sulla sua femmina.
Le luci in alto si accesero quando Syphon premette l'interruttore, e poi
il combattente pronunciò le parole che ogni fratello e Bastardo temeva
quanto una seconda venuta dell'Omega.
- Ho chiamato la dottoressa Jane –
- Che cosa? - Balz cercò di non urlare. - Perché? Sto benissimo… -
Sei rimasto fulminato –
Balz si accigliò perché poteva non aver sentito bene. Quando suo
cugino si limitò a fissarlo in attesa, come se il bastardo avesse appena
dimostrato per certo che i maiali potevano volare, era evidente che la logica
doveva essere spiegata.
Dov'erano una lavagna bianca e un pennarello quando ne avevi
bisogno?
- Torna a dicembre - Balz indicò se stesso. - E nel caso non l'avessi
notato, io non risplendo al buio –
- E pensi che questo significhi che stai bene? –
- Penso che mi esclusa come luce notturna. E sono stato dalla
dottoressa Jane quattro mesi fa... –
- Qualcuno ha pronunciato il mio nome? - La brava dottoressa,
shellan di V, fece capolino dallo stipite della porta. - Come stiamo? –
Balz gemette e si lasciò cadere sui cuscini.
- Qualcuno può spiegarmi perché i medici usano il noi quando
parlano a persone che pensano siano malate? Chi è questo noi? –
La femmina bionda passò accanto a Syphon e diede al bastardo una
pacca sulla spalla, che era il segno universale per tutto a posto, grazie.
- Sono d'accordo - mormorò Balz. - Puoi andare, cugino –
- Siete entrambi così carini - Syphon si avvicinò e si parcheggiò sulla
sedia vicino al cassettone. - Davvero. Che cosa carina –
Avendo chiaramente perso quella battaglia, Balz si concentrò sulla
dottoressa Jane e scosse il suo cappello mentale pieno di scuse, senza
preoccuparsi davvero di ciò che veniva fuori. E mentre lei lo fissava
pazientemente, era difficile sentirsi frustrato da lei. Con i suoi corti capelli
biondi e lo sguardo verde, sembrava il tipo di persona in grado di trattare
qualsiasi cosa, da un'unghia rotta a un'aorta lesionata, con competenza,
empatia e tranquillità.
E lei aveva davvero bisogno di portare tutta quella competenza da
qualche altra parte, da qualcuno che ne avesse davvero bisogno.
- Capisco che sei stanco - disse sedendosi sul bordo del letto.
- Di questa visita? Sì, e non abbiamo ancora iniziato, vero? - Imprecò.
- Scusa, non intendevo offenderti –
- Nessun problema - si sporse in avanti. - Non crederesti a quello che
mi hanno detto i pazienti nel corso degli anni –
- Solo non dirlo al tuo hellren. Mi piacciono le mie braccia e le mie
gambe esattamente dove sono –
- Il tuo segreto è al sicuro con me - Lei gli sorrise. - Ora dimmi cosa
sta succedendo –
- Niente - Guardò Syphon. - Lo giuro... no, aspetta. Soffro di cuginite.
Puoi rimuovere quel tumore rumoroso e maligno per me? Lo trovò davvero
irritante ultimamente… -
- Ha perso una riunione della Confraternita - Syphon fissò il dottore. -
Non lo fa mai –
- Ho dormito! –
Syphon alzò gli occhi al cielo.
- Fino a mezzanotte? E in effetti ti sei perso due riunioni, non è così...

- Okay, okay - la dottoressa Jane fece dei gesti con le mani per
calmarli. - Che ne dici se faccio un controllo veloce? Se i parametri vitali
sono buoni e non c'è febbre o altro, dichiareremo chiuso questo caso –
- Grande! - Balz fissò suo cugino mentre si toglieva la maglietta. - E
ascolta, Doc, dopo che avrai finito di certificare che sto perfettamente bene,
farò trecento flessioni per questo stronzo, così si accerterà anche lui che sto
bene –
Syphon annuì.
- Le conterò io così non dovrai farlo tu –
Jane prese lo stetoscopio dalla sua temuta borsa nera.
- Non ci vorrà molto... –
- A meno che tu non trovi qualcosa - intervenne Syphon.
Balz appallottolò la camicia e con essa colpì il bastardo in testa.
- Sei come la General Electric, dai vita a cose belle. Quando stai zitto

- È rimasto fulminato, lo sai? - Syphon si tolse la maglietta dalla
faccia. - Voglio dire, era morto... –
- Lei mi ha curato! Ed è stato mesi fa... –
- Ragazzi. Per favore –
Syphon gettò via la maglietta e Balz cercò di non sembrare di
malumore. La dottoressa Jane si infilò lo stetoscopio nelle orecchie e si
avvicinò.
- Fai un respiro profondo per me - disse. - Bene. E un altro? –
Mosse il disco intorno ai suoi pettorali. Poi lo mise al centro.
- Respira normalmente ora –
Dopo un momento, si alzò.
- Stai bene. Voglio solo sentire anche la schiena –
Balz si sporse in avanti in modo che lei potesse fare tutto ciò di cui
aveva bisogno e resistette all'impulso di fare la linguaccia a Syphon. Perché
era assolutamente immaturo.
Quindi mostrò a quello stronzo entrambi i medi...
La dottoressa Jane controllò due volte e si tolse i tappi dalle orecchie.
- Come è successo? –
Syphon scattò a sedere in avanti, come se fosse pronto a essere
chiamato per aiutare con un codice rosso, Balz le lanciò un'occhiata.
- Com'è successo cosa? –
- Questi graffi. Sono su tutta la tua schiena, come se qualcuno ti
avesse afferrato mentre eri... oh –
Quando il dottore arrossì, un brutto presentimento spinse Balz a
gettare da parte le coperte per entrare nel suo bagno. Non c'era motivo di
accendere più luci. Quella plafoniera in camera da letto faceva un sacco
di…
Che.Cazzo.
Mentre mostrava la spina dorsale allo specchio sopra i lavandini, vide
delle lunghe strisce sulla sua pelle su entrambi i lati delle spalle, il torace...
e proprio sopra il culo.
Beh, almeno sapeva perché la dottoressa Jane, il medico
imperturbabile, aveva detto un oh!. C'era solo una ragione per cui un
maschio avrebbe potuto avere segni come quelli, e non aveva nulla a che
fare con un problema medico.
Piuttosto il contrario.
Quando uscì dal bagno, Jane stava chiudendo la sua borsa nera e si
stava alzando.
- Penso che qui siamo a posto, non è vero? –
Balz incrociò le braccia sul petto.
- Come ho detto, sto bene. Ero solo stanco –
Guardò attentamente Syphon.
- Ma chiamami se hai bisogno di me, okay? - Jane aprì la porta del
corridoio. - Promesso? –
- Lo prometto - Balz le sorrise. - E grazie. Mi dispiace che Mister
Pulsante Anti Panico qui abbia agito d’impulso –
- Nessun problema - Jane salutò entrambi. - Sono sempre qui, e
preferirei che mi chiamassi per niente piuttosto che non chiamarmi affatto –
Quando la porta si chiuse, Balz fissò suo cugino.
- Ora capisci perché potrei aver bisogno di un po’ di riposo? –
Syphon alzò entrambi i palmi come se avesse una pistola carica tra le
scapole.
- Chiaramente mi sono sbagliato. Chiedo scusa –
- Sei perdonato –
- Allooooora, dimmi chi è la femmina. E… possiamo condividere? –
No, non avrebbe mai condiviso la sua bruna. Con nessuno. Mai.
- Non è una di noi - fece un cenno con la mano. - Era solo la moglie
di questo tipo a cui ho fatto visita ieri sera. Era tutta sola quando non
avrebbe dovuto, e io mi sono preso cura di lei –
- Una scopata per pietà? Non è il tuo stile –
- Oh, non mi è dispiaciuto, fidati di me - Balz scrollò le spalle. -
Aveva solo bisogno di qualcuno che la facesse sentire di nuovo bella –
- E ovviamente lo hai fatto tu. Parecchie volte. Sono geloso - Syphon
si batté sulle cosce e si alzò. - Il che è chiaramente il motivo per cui un
ragazzo dovrebbe aver bisogno di qualche sonnellino in più per aver perso
un po’ di sonno... –
- Allora di cosa trattava l'incontro della Confraternita? - chiese Balz.
Non giunse risposta alla sua domanda, e il fatto che suo cugino se ne
fosse andato, fu un sollievo per molte ragioni.
Quando rimase di nuovo solo, tornò in bagno. Si guardò allo specchio
e pensò al tempo trascorso con la signora al Commodore. L’aveva trattata
come la regina che era, adorandola con le mani, la bocca, la lingua. Molto
di quel sesso non era stato registrato per una qualche particolarità, ma di
sicuro lui sapeva una cosa.
Voltando di nuovo la schiena allo specchio, fissò i graffi.
La signora non aveva le unghie lunghe.
E i sogni non lasciavano quel tipo di segni...
Giusto?

•••

Mentre la porta del garage si chiudeva, Mae si voltò verso Sahvage,


consapevole che le sue gambe tremavano e che non riusciva a respirare
bene. E quando i suoi occhi si spostarono su di lei, si mosse prima di
rendersene conto.
Gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo.
- Sono così felice che tu sia qui... –
- Grazie a Dio non l'hai invitata a entrare - le disse tenendola stretta. -
Hai fatto la cosa giusta. Non può raggiungerti ora perché ho sparso il sale
davanti a tutti gli ingressi –
Il fatto che lui tremasse fu uno shock, ma poi il suo ampio palmo le
cullò la testa e tutto ciò a cui riuscì a pensare fu il calore e la protezione che
le offriva.
Chiudendo gli occhi, sussurrò:
- Chi era? –
- Non lo so –
Mae si tirò indietro.
- Era... non era un vampiro. E non credo che sia umana, vero? –
- Lei non è di questo mondo. Questo è tutto quello che so –
Okay, era pazzesco provare sollievo per il fatto che quella... cosa...
non era la sua ragazza…
Mentre Mae lottava con alcune emozioni seriamente stupide, data la
situazione, la mascella di Sahvage si indurì.
- E prima che mi urli contro per averti seguito, non potevo lasciarti
senza protezione. L'unico motivo per cui sono venuto qui era sigillare la
casa. Questo è tutto. Lo giuro –
Mae si allontanò e finì per vagare verso il bidone della spazzatura. Ma
di sicuro non l’avrebbe portato fuori adesso.
- Non avrei mai dovuto fare quell'incantesimo di evocazione - Tornò a
guardarlo. - È stato un errore enorme. Ma non sapevo cos'altro fare. E non
lo so ancora –
Sahvage scosse la testa.
- Lascia andare Tallah. Questo è quello che devi fare. Amala finché è
qui... e poi lasciale proseguire il viaggio verso il Fado quando sarà il suo
momento –
- Non posso farlo - lei mise il viso tra le mani. - Non capisci. Sarò...
non me lo perdonerò mai –
- La morte non è qualcosa che puoi controllare, a meno che tu non sia
un assassina. Fidati di me. E la perdita... Mae, la perdita è qualcosa che
accade a tutti noi. Non puoi scappare da lei, non puoi evitarla... e di sicuro
non puoi impedirla –
Mae abbassò i palmi.
- Non capisci –
- Sì, invece. Te lo assicuro, capisco –
Gli occhi di lui erano seri. E soprattutto, pieni di dolore.
- Chi hai perso? - sussurrò lei.
Quando lui non rispose immediatamente, lei pensò che non l'avrebbe
fatto. Ma poi la sua voce, roca e bassa, attraversò lo spazio tra loro.
- Me stesso. E puoi dire tutto quello che vuoi sul lutto per le altre
persone, non è niente in confronto al lutto per la perdita di te stesso dannato

Dio, lei sapeva tutto di quello. Anche lei si era persa... la vecchia
Mae, che tornava a casa all'alba, preoccupata per cose tipo cosa avrebbe
mangiato al Primo Pasto o se avrebbe avuto una promozione al lavoro,
anche se in realtà dormiva durante il giorno.
- Mi dispiace così tanto - disse. - Cosa è successo? –
- Non è importante. Tutto ciò che conta in questo momento è che devi
smetterla con questa storia del Libro. Non ne sta venendo fuori niente di
buono –
Girandosi verso la porta in fondo al corridoio, lei pensò a Rhoger. In
quella vasca. Con il ghiaccio.
- No, ho bisogno del Libro - la sua voce si spense nel silenzio. - Il
Libro è la risposta –
Eppure, anche mentre pronunciava quelle parole, stava perdendo la
sua convinzione. In effetti, l'unica cosa che l’aveva tenuta bloccata nel
percorso che aveva seguito nelle ultime due settimane... era che non aveva
altre soluzioni.
Tranne quella che non riusciva a sopportare.
- Troverò il Libro e tutto andrà bene. Farò in modo che vada tutto
bene –
Quando Sahvage non fece commenti, si guardò alle spalle. Lui
sembrava esausto, sopraffatto dalla fatica.
Mae tornò da lui.
- E per quanto riguarda quella donna, o qualunque cosa fosse, c’era
un'ombra intorno a lei, come... un alone di oscurità. Proprio come
quell'entità ombra. Quindi, se possiamo sparare a quella cosa, possiamo
sparare anche a lei –
Oh, Dio, cosa stava dicendo?
Sahvage sembrava aver bisogno di un momento per riorganizzarsi.
Poi si strofinò i capelli corti sulla sommità della testa.
- Hai una pistola che sai come usare? –
- No, ma posso trovarne una – Mae iniziò a parlare sempre più
velocemente. - E devo andare subito da Tallah e mettere il sale davanti alla
sua porta... –
- Ho sigillato il cottage. Prima di andare via. Lei è al sicuro –
- Grazie a Dio - Mae sentì le vertigini per il sollievo. - Ma come
sapevi cosa fare? Con il sale? –
- Non ero sicuro che avrebbe funzionato. Nel Vecchio Continente, mia
cugina lo faceva a casa nostra, per tenere fuori il male. Pensavo fosse pazza,
ma non lo so... dopo che è apparsa quell'ombra sembrava una buona idea -
Fissò le porte chiuse del garage. - Non lo so, cazzo. La mia testa è un
fottuto casino... –
- Grazie per essere tornado –
Gli occhi di Sahvage tornarono nei suoi e la sorpresa sul suo viso
suggeriva che la gratitudine era l'ultima cosa che si sarebbe mai aspettato
che uscisse dalla sua bocca.
- Ti sono davvero grata - Pensò a Rhoger. - Non so cosa sarebbe
successo se tu non fossi venuto ad aiutarmi –
- Va bene. Non è niente... –
- Aiutami a trovare il Libro – Sahvage aprì la bocca. La chiuse. - Per
favore - aggiunse. - So che non è stato facile andare d'accordo e mi scuso.
Cercherò di migliorare, lo prometto. Ma la realtà è che... ho bisogno del tuo
aiuto. Hai ragione. Mi sono sbagliata – Quando lui distolse lo sguardo, e poi
rimase in silenzio, lei scosse la testa. - Sei venuto in quella casa stasera per
aiutarmi, e ora non hai intenzione di farlo? Dopo che mi hai seguito anche
qui? –
Lui incrociò le braccia sul petto.
- Mi hai accusato di essere un pericolo per te, ricordi? E pensi che io
abbia una gran fretta di interpretare il buon samaritano solo perché hai
avuto una rivelazione sull’arrivo di Gesù? –
- Per quel che vale - disse lei seccamente - non credo che tu sia Gesù

- E potrei anche esserci ormai dentro fino al collo. Ma non sono una
soluzione magica per questo - fece un cenno alla porta chiusa del garage. -
Stiamo affrontando una cosa che non ho mai visto prima –
- Ma tu sapevi del sale. E sai altre cose, vero? - prese un respiro
profondo. - Perché sei un membro della Confraternita del Pugnale Nero,
vero? –
Il viso di Sahvage si congelò in una vera e propria maschera.
- No. non lo sono –
- Ho visto la cicatrice a forma di stella sul tuo pettorale. Dopo che ti
sei tolto la maglietta. Non l'ho capito subito, ma è quello il marchio, vero? -
Non fu sorpresa quando lui non rispose. - Mio fratello sapeva tutto sulla
Confraternita. Mi ha parlato della scarificazione che ha ogni Fratello.
Pensavo facesse parte delle tue ferite, ma non è così. E anche il tuo nome si
adatta... –
- Non sono un membro della Confraternita –
- Non vedo perché tu non possa ammetterlo –
- Facile. Perché non è vero - scrollò le spalle. - Non ti sto mentendo, e
inoltre, dopo quell'attacco dell’ombra, non pensi che avrei chiamato i
rinforzi se avessi potuto farlo? –
Mae serrò le labbra. Poi disse:
- Sei con me o no? –
Lui rimase in silenzio per molto tempo, e sebbene i suoi occhi fossero
su di lei, aveva la sensazione che non la vedesse.
Proprio quando pensò di non insistere, perché aveva la sensazione di
aver fatto troppi errori con lui, disse in maniera brusca:
- Sono con te –
- Grazie a Dio... –
- A una condizione –
Mae strinse gli occhi e si chiese fino a che punto sarebbe arrivato.
- E quale esattamente? –

CAPITOLO VENTICINQUE

- Sei sicura che non possiamo prendere nulla per te da dove vivi? –
Quando Rhage fece l'offerta alla donna con la veste con il cappuccio,
Nate era pronto a offrirsi volontario per quel viaggio, ovunque lo portasse.
Attraversare lo stato? Sì, certo. Attraversare il paese? Sì, certo. L'unico
guaio? Aveva la sensazione che Elyn non avesse cose da prendere. O
nessun posto sicuro da cui portarle via.
- No, grazie - disse lei dolcemente con quel bellissimo accento.
Elyn era seduta su un divano così nuovo che i cuscini erano ancora
avvolti dalla plastica e lei era chiusa in se stessa esattamente come quei
cuscini ancora imballati. Con la schiena perfettamente dritta, le gambe
incrociate alle caviglie e le mani intrecciate in grembo, era come una
perfetta femmina qualsiasi della glymera, la sua postura trasformava quel
ruvido mantello in un abito da ballo.
Oh, e i suoi capelli non erano biondi. Nella luce, erano bianchi come la
neve, senza alcun pigmento, le lunghe estremità che uscivano dai confini
del cappuccio si arricciavano naturalmente.
- Sono davvero felice che tu venga a stare con noi al Porto Sicuro oggi
– La signora Mary guardò l'assistente sociale e tornò a guardare Elyn. - E
poi penso che Luchas House soddisferà le tue esigenze. Abbiamo solo
bisogno di altre ventiquattro ore per sistemare le cose e saremo pronti per te

- Grazie - disse Elyn. - Siete molto generosi con una sconosciuta –
- Non sei un’estranea - La signora Mary scosse la testa. - Ci prendiamo
cura delle persone della razza che hanno bisogno di aiuto –
- Non so come potrò ripagarvi –
- Non devi preoccuparti per questo –
Beh, sicuramente Nate si sarebbe offerto volontario per cedere il suo
stipendio. E aveva deciso che uno dei vantaggi dell'essere ai margini di
quella conversazione era che aveva una scusa per fissare Elyn senza
sembrare un maniaco. Ciò che non era così piacevole? Aveva studiato le
espressioni di lei nell'ultima mezz'ora e sapeva che non era d'accordo con
questa sistemazione quanto pensava la signora Mary.
Potevano farle passare una notte al Porto Sicuro. Ma qui? Non era a
suo agio, anche se le era stato assicurato che ci sarebbero stati assistenti
sociali e personale sempre in giro: lo capiva dal modo in cui non incontrava
gli occhi della signora Mary ogni volta che accennava a Luchas House. Al
momento, e tragicamente, Elyn era esausta, affamata e infreddolita. Ma
l'indomani sarebbe scappata al calar della notte e nessuno di loro l'avrebbe
più rivista.
- Allora andiamo, d'accordo? - disse la signora Mary alzandosi. - Ti
accompagno al Porto Sicuro e, ehi, è la notte dei biscotti –
Rhage sorrise a Elyn.
- È sempre la notte dei biscotti al Porto Sicuro, giusto perché tu lo
sappia –
Il Fratello accompagnò la sua compagna e l'assistente sociale alla
porta, e quando i tre uscirono e si radunarono insieme per parlare
tranquillamente sulla veranda, Nate ebbe la sensazione che lo stessero
facendo apposta per dare a lui ed Elyn la possibilità di salutarsi.
- Starai bene con loro - le disse guardandola. - Te lo prometto –
Le mani di Elyn si intrecciarono nel suo grembo, e lui voleva tenerle.
Trattenere lei.
- Mi dispiace di averti mentito - i suoi occhi d'argento si sollevarono
nei suoi. - Sulla conoscenza dell'inglese. Ma non so di chi fidarmi –
- Totalmente perdonata - spazzò via l'aria con la mano. – Dimenticato –
La testa di lei si voltò verso la porta d'ingresso.
- Penso che forse devo andare adesso –
Dio, poteva ascoltare quell'accento per ore.
- Forse ci rivedremo ancora... –
- Sì, per favore - supplicò lei, prima di aggiungere rapidamente: - Ma
non voglio essere un peso... –
- Mai! - si schiarì la gola. - Voglio dire, sai, non preoccuparti di questo.
Mai. Lascia che ti dia il mio numero di cellulare –
Quasi saltò oltre il divano per arrivare in cucina. E quando iniziò ad
aprire freneticamente i cassetti, Rhage tornò dentro e tirò fuori un
pennarello dalla tasca della sua giacca di pelle.
- Ecco - mormorò il Fratello con uno sguardo d'intesa. - E usa questo
per scrivere, non è l’ideale, ma andrà bene –
Nate prese l'involucro del Tootsie Pop che gli era stato offerto come se
fosse una lamina d'oro e scarabocchiò frettolosamente il suo numero. Sulla
via del ritorno verso il divano, agitò avanti e indietro la carta cerata viola
per assicurarsi che l'inchiostro si asciugasse.
Elyn si alzò in piedi quando si avvicinò a lei, e voleva davvero infilare
le dita in profondità in una delle sue tasche solo per assicurarsi che non lo
perdesse. Invece, quando lei prese l'involucro, tolse quella foglia che era
ancora annidata tra le lunghezze dei suoi capelli.
Lei sembrò spaventata e lui arrossì.
- Scusa, ho... la rivuoi indietro? –
Idiota. Idiota…
Ma lei non lo stava guardando.
Era concentrata su uno specchio montato sulla parete opposta, e mentre
fissava il suo riflesso, sembrava tormentata. Quasi spaventata.
Come se fosse in trance, si avvicinò e si fermò davanti al vetro. Con
mano tremante si toccò i capelli che si arricciavano fuori dal cappuccio.
- Stai bene? - chiese lui dolcemente.
Gli occhi di lei incontrarono i suoi nello specchio.
- No, non credo –
All'improvviso, le lacrime le tremavano sulle ciglia. Ma lei le asciugò e
raddrizzò le spalle.
Schiarendosi la gola, disse:
- Mi dispiace molto di averti mentito. Non so di chi fidarmi –
Nate annuì e pensò che lei non avesse idea di quello che stava dicendo,
non si rendeva conto di ripetere le cose.
All'improvviso lei si voltò e guardò quello che lui aveva scritto.
Quando le sue sopracciglia si unirono, lui si preoccupò che i numeri si
fossero sbavati. Non era così, quindi si preoccupò che lei non volesse
accettarlo.
Ma alla fine infilò l'involucro nella sua veste.
Fuori il vento fischiava e lui avrebbe volute darle il suo cappotto. Ma
ovviamente non ne aveva indossato uno quando era uscito di corsa da casa.
- Buona serata, Nate - disse abbassandosi per un breve inchino.
Anche lui si inchinò, sebbene non aveva idea di cosa stesse facendo.
- Chiamami. In qualsiasi momento -
Oggi, pensò. Magari appena arrivi al Porto Sicuro.
Prima che potesse dire qualcos'altro, anche se in realtà cos'altro
poteva dire senza sembrare ancora più un idiota, lei se n'era andata, quel
lungo mantello che indossava svolazzò dietro di lei quando uscì dalla casa.
Quando la porta si chiuse alle sue spalle, si concentrò sulle macchie di
fango su di essa, e gli ci volle un minuto per capire perché: lui sapeva
com'era essere solo e avere paura.
Questo probabilmente li rendeva anime gemelle.
- Stai bene, figliolo? - chiese Rhage.
Nate si voltò.
- Oh, pensavo fossi andato via –
- Infatti - Il Fratello andò verso una poltrona. - Ho dimenticato la
giacca e sono dovuto tornare a prenderla –
Ci fu un momento di silenzio, ed era chiaro che il maschio più grande
voleva dire qualcosa. Di sicuro non voleva parlare del tempo.
- Per favore, non dirlo a mio padre... - borbottò Nate.
- Cosa, che per la prima volta hai dato il tuo numero a una femmina? -
Quando Nate arrossì, Rhage annuì. - Non preoccuparti. Sta a te dirglielo,
non a me. Abbi cura di te, figliolo –
Dieci minuti dopo, Nate era ancora in piedi nel soggiorno appena
arredato quando la porta d'ingresso si aprì di nuovo e i ragazzi iniziarono a
entrare con le loro tute e i loro attrezzi. Fece un cenno di saluto al gruppo, e
cercò di fingere indifferenza, pensò che non c'era molto altro da fare lì, ed
era un peccato. Considerando che questa era un'estensione del Porto Sicuro,
sentiva che finché Elyn era laggiù e lui era qui, una connessione tra loro
esisteva ancora.
Sì, a differenza di quel numero di cellulare che sembrava troppo
labile, e non perché era scritto su un involucro di lecca-lecca. Lei doveva
scegliere di usare quel numero...
- Che diavolo hai che non va? –
Con un sussulto, si voltò verso Shuli, e gli sembrò di non riconoscere
il suo amico. Il che era pazzesco perché il ragazzo indossava, come sempre,
la stessa polo Izod, un maglione di cashmere e pantaloncini color cachi.
Aveva persino un paio di Ray-Ban infilati nello scollo a V, come James
Spader in quel vecchio film. Bella in viola? Qual era il titolo?
- Ehi? - Shuli agitò una mano. - C’è qualcuno là dentro? –
Distrattamente, gli occhi di Nate seguirono il luccichio dell'orologio
di lusso sul polso del suo amico. E poiché non voleva pensare ad altro, e di
certo non voleva parlare di tutte le cose a cui non voleva pensare, sbottò:
- Perché lavori qui? –
- Eh… oh, perché sono nella squadra? Mio padre pensa che il salario
minimo formi il carattere –
- Non credo che funzioni –
- Ah, ma probabilmente hai ragione. A volte posso essere uno stronzo.
Detto questo, perché sembra che qualcuno ti abbia preso a pugni? –
- Non è vero. Voglio dire… andiamo a finire di dipingere il garage –
Quando Nate iniziò a zoppicare, Shuli ridacchiò e lo seguì.
- Quindi è per questo che non ti trastulli regolarmente. È tutto più
chiaro –
- Di che diavolo stai parlando? –
- Niente palle, niente erezione. Problema risolto –
- Proprio per niente - mormorò Nate.
- No, davvero, è così che funziona… -
- Per favore, per amor di Dio, smettila di parlare –
- Di cosa, delle palle? O di qualsiasi altra cosa? –
L'occhiataccia che Nate gli rivolse rispose per lui. Mentre si
dirigevano verso il garage, pregò che Shuli gli desse due minuti per
riprendersi. Fortunatamente, quando il ragazzo iniziò ad aprire le lattine e
sistemare i pennelli in silenzio, Nate cercò di darsi una calmata e guardò la
foglia che aveva tolto dai capelli di Elyn...
Si accigliò e la girò per controllare il retro. E poi la girò di nuovo.
Quando aveva visto per la prima volta la foglia d'acero tra i suoi
capelli, vicino al punto in cui era atterrata la meteora, era secca, marrone,
aveva terminato il suo ciclo vitale.
Quella che aveva in mano ora era morbida e gialla con le punte rosse,
come se fosse appena caduto dal suo ramo autunnale.
- Che diavolo stai guardando? - disse Shuli. - E per quel che vale, se è
la tua linea del cuore, mi preoccupa dove sia diretta –
- Non è niente - mormorò Nate mettendosi la foglia in tasca. - Sei
pronto a dipingere? -
•••
La saggezza collettiva era sbagliata. In effetti si poteva essere in due
posti contemporaneamente.
Mentre Sahvage si trovava di fronte a Mae nel suo garage, un'altra
parte di lui era nell'oscurità con l'altra donna. Femmina. Con-la-cosa-che-
non-deve-essere-nominata.
Con la capacità di un giornalista, stava ripetendo tutto ciò che la
bruna gli aveva detto, che aspetto aveva, come si era comportata. Era come
cercare mine sotterranee in un campo, sollevare rocce per vedere se aveva
sventato tutto il pericolo.
- Allora? - suggerì Mae. - Cosa devo accettare? –
- Scusa, come hai detto? –
- La tua condizione –
Lui si riprese e disse:
- Se ti dico di andare via, devi promettermi che lo farai. Se resterò
ferito, devi lasciarmi lì e salvarti –
Gli occhi di lei si spalancarono, ma lui non poteva aiutarla. Qualcosa
dentro sé stava ancora una volta guardando in un futuro avvolto nella
nebbia... e guardando un momento nel tempo per entrambi in cui solo uno si
salvava.
La fissò negli occhi.
- Devi andare via quando dovrai farlo. Promettimelo –
Le sopracciglia di Mae si abbassarono.
- E se mi rifiuto? –
- Allora me ne andrò adesso –
- Non ha senso –
- Beh, è così che deve essere –
Lei aprì e chiuse la bocca un paio di volte, ma lui aspettò solo che lei
arrivasse a una qualunque conclusione. Non era negoziabile, e anche se lei
lo aveva fatto incazzare, era contento che avessero dovuto rinegoziare il
loro... beh, qualunque cosa ci fosse tra loro.
- Okay. Va bene –
Sahvage allungò la mano.
- Sul tuo onore. Giuralo –
Lei esitò per un momento. Poi spinse il palmo in avanti e strinse
quello che lui le offrì con una forte stretta, come se, nella sua testa, gli
stesse strappando il braccio e offrendo un po' di buon senso.
- Dillo – chiese.
- Lo prometto –
Lui annuì una volta, come se avessero stretto un patto di sangue. E
poi diede un'occhiata alla sua macchina.
- Lasciala qui e smaterializziamoci fino al cottage. Ho rotto la
persiana del secondo piano. Possiamo entrare in quel modo –
- Hai sigillato anche le finestre del secondo piano? Con il sale? –
- Il male può entrare solo dal piano terra o con un invito –
- E se una casa non è protetta? –
- Può andare dove vuole - si strofinò la testa dolorante. - Scendere dal
camino come Babbo Natale se vuole. Non lo so, cazzo –
- Lo dirò di nuovo, grazie a Dio hai fatto quello che hai fatto - Mae
andò a prendere la borsa e il borsone dalla macchina. - E sei sicuro che
questa casa sia sicura –
- Lo hai visto di persona. Non è riuscita a entrare –
- Non posso credere che stia succedendo –
Sahvage andò verso la finestra sul retro. Le persiane diurne erano
abbassate e liberò i ganci, ma si assicurò che rimanessero per lo più al loro
posto.
- Ti riporterò al cottage – disse - poi andrò a casa mia a prendere altre
armi –
- Posso aiutarti. Verrò con te… -
- Devi stare con Tallah. Voi due dovreste restare al sicuro insieme e io
non starò via a lungo... –
- Posso chiederti una cosa? –
Lui le diede un'occhiata. Mae aveva la borsa sulla spalla e un borsone
a due manici nella mano sinistra. Sembrava esausta, i capelli erano usciti da
quella coda di cavallo, gli occhi troppo luminosi, le guance troppo pallide.
Ma era chiaro che non avrebbe mollato.
Dannazione. Le sarebbe mancata quando se ne sarebbe andato.
- Dipende da cosa vuoi sapere - disse dolcemente.
- Dove vivi? Chi è... c’è qualcuno nella tua vita? –
- Non preoccuparti. Nessuno si chiederà dove sono o cosa sto facendo
o farà il ficcanaso. La tua privacy, e quella di Tallah, è al sicuro –
Mae si schiarì la gola.
- Mi dispiace –
- Per cosa? –
- Che sei solo –
- Non è un caso, te lo assicuro… -
- Quindi è per questo che mi stai dicendo di andare via prima ancora
di iniziare, eh. Anche se sei ferito. Anche se stai... morendo –
Tutto ciò che Sahvage poteva fare era scuotere la testa.
- Non giocare al gioco delle ipotesi –
- Come? –
- Non cambio la mia unica richiesta solo perché me la stai ribadendo,
tesoro. Ora usciamo, ho bisogno di un po' d'aria, e sì, ti ho appena chiamato
tesoro di nuovo. Se vuoi sgridarmi per questo, trattieni il respiro fino a
quando non torneremo al cottage –
Mae si avvicinò a lui. Alzò il mento. E...
- Non ora - lui quasi gemette. - Per favore. Vai, ci vedremo da quella
femmina anziana. È lei la persona a cui tieni, ricordi? –
- Non è necessario che tu mi ricordi quali sono le mie priorità –
Detto questo, Mae se ne andò, e per una frazione di secondo, mentre
si guardava intorno nel garage, ebbe una breve, folle fantasia in cui lui
tornava a casa alla fine della notte, e lei da qualunque lavoro avesse fatto, e
si sedevano uno di fronte all'altro a tavola per parlare delle ore in cui erano
stati separati.
Non succederà mai, pensò mentre si allontanava. Per tanti motivi.
Mentre si allontanava dalla periferia, disperso in molecole, seguì l'eco
del suo sangue dentro di lei oltre la campagna e si riformò all'interno della
camera da letto nella parte anteriore del cottage. Lei era già lì e stava
andando verso le scale, la borsa le batteva contro il fianco, l’altro borsone le
dondolava nella mano.
- Vai a controllare Tallah? - chiese.
- Tu che pensi - mormorò.
O almeno pensava che fosse quello che aveva detto.
Mentre la ascoltava scendere la vecchia scala traballante, arrivò a due
conclusioni, nessuna delle quali gli offrì alcun conforto: avrebbero avuto
bisogno di armi che anche lei potesse usare. E merda, avrebbe voluto
credere nella Vergine Scriba.
Avrebbe potuto avere qualcuno da pregare.
- Torno subito - gridò.
Nessuna risposta. Ma non se l'aspettava.
Ascoltandola muoversi al primo livello, le diede la possibilità di
liberarsi da un po’ di stress. Poi la sentì entrare nel seminterrato, il rumore
dei suoi passi si attenuò.
Chiuse gli occhi, usò il suo istinto per assicurarsi che non ci fossero
suoni, odori o strani rumori di alcun tipo. Quando non avvertì nulla, pensò
che erano al sicuro come avrebbero dovuto essere.
Inutile dire che il viaggio di ritorno a casa sua sarebbe stato davvero
veloce. E merda, pensava di non avere abbastanza potenza di fuoco.
In realtà, avrebbe potuto avere un lanciamissili nel cortile e si sarebbe
sentito ancora come se stesse viaggiando leggero.
CAPITOLO VENTISEI

Lassiter camminava attraverso la foresta della montagna della


Confraternita, non con spavalderia, come se possedesse quel luogo.
Sceglieva, invece, con cura i punti tra le foglie e il sottobosco scosceso
dove poteva mettere in sicurezza i piedi. E si puliva costantemente le spalle,
convinto che qualcosa gli stesse cadendo addosso dall'alto. E quel dolce
profumo di pino natural irritava a morte le sue narici.
Nonostante tutto il dominio che aveva sulle cose terrene, e sui vampiri
in particolare, odiava la natura, cazzo. Qualcosa si insinuava sempre sotto il
tuo colletto e scendeva lungo la schiena. O ti faceva la cacca in testa. O ti
irritava gli occhi. O ti faceva prendere la rabbia.
Inoltre la pioggia. Neve. Nevischio. Grandine. Tutto quello portava al
gran divertimento dei nasi che colavano, delle dita dei piedi congelate e, oh,
sì, della strada ghiacciata che mandava la tua auto a faccia in giù contro il
tronco di un albero.
E poi, visto che da giugno ad agosto non voleva perdere l'opportunità
di molestare le persone, arrivava l'estate troppo calda. Quindi oltre alle api,
alle vespe e ai calabroni, avevi sudore sotto le ascelle. Prurito. Infradito.
Non sopportava le infradito, cazzo. Nessuno poteva mai voler vedere i
maialini-che-andavano-al-mercato di qualcun altro.
E c'era anche altro in tutto quello. A peggiorare la sua intolleranza
climatica e allergia alle cosiddette meraviglie della natura? Viveva con
Vishous. Che era fin troppo felice di chiamare una persona "rammollito" se
sollevava il fatto che forse, restare in casa, era una grande idea quando la
temperatura era più alta, o più bassa, di venticinque gradi.
Pazienza. Metti quel sarcastico figliodiputtana in un mondo pieno di
bigliettini d’auguri, nomignoli a tutti i livelli e hashtag Britney Libera e
vedi come se la cavava…
Quando il vento cambiò direzione e una metà dei capelli lunghi fino
al petto dell'angelo gli raggiunse il viso, lui li respinse e lanciò
un'occhiataccia a nord-est.
- Te lo giuro, cazzo, ti metterò la museruola –
Consapevole di aver appena detto a una forza della natura di smetterla
o gli avrebbe dato qualcosa per cui piangere, decise che forse era solo
viziato. Il suo ufficio era nell’Aldilà, nel Santuario. Dove c'erano sempre
venticinque gradi senza brezza, e senza zecche, calabroni o zanzare. Ragni
violino. Aspidi.
Niente Vishous.
A proposito di bocche. Tecnicamente, c'erano delle opzioni per
trattare con quel fratello. Nella gerarchia delle cose, il vero diagramma di
flusso dell'autorità, Lassiter era l'apice dello stronzo, anche sopra Wrath. E
non importava quanto facesse incazzare V, la situazione era questa. Gravità.
Il sorgere e il tramonto del sole. La supremazia degli assoli di Eddie Van
Halen, il senso dello stile di Bea Arthur, la media di battuta dei New York
Yankees... e la responsabilità era solo di Lassiter.
In realtà, non gliene fregava un cazzo del baseball. Gli piaceva
davvero prendere per il culo l'ossessione di V per i Red Sox.
- Come sparare a un pesce in un barile - si disse.
Mentre considerava nuovi approcci per diventare meno critico, la
caverna che stava cercando comparve per accoglierlo. L’apertura scoscesa
nel fianco della montagna era assolutamente insignificante, nient'altro che
una spaccatura in una vena di granito mimetizzata da alberi e cespugli. A
meno che tu non sapessi che era lì, non l'avresti mai vista, e quello era
l’obiettivo.
Scivolando all'interno, sentì un pungente odore di terra e muffa, un
altro grande suggerimento per il Campeggio… e nell'oscurità, si orientò
gettando un bagliore dorato intorno al soffitto basso...
Direttamente di fronte a lui, a un solo metro di distanza, c'era un
cumulo di frammenti di ceramica alto fino ai fianchi e largo come una pista
da ballo.
I resti della collezione dei vasi dei lesser della Confraternita del
Pugnale Nero.
Prendendo un pezzo di forma irregolare che aveva uno smalto blu,
pensò all'Omega. Alla Lessening Society. Alla fine di quell'era.
Quanti viaggi c’erano voluti per ripulire il casino?, si chiese gettando
il frammento e aggirando quel mucchio.
Dirigendosi verso un’impercettibile curva nella fessura, arrivò a una
serie di cancelli di ferro ricoperti da una rete lucida e brillante. Le sbarre
erano spesse come il polso di un maschio e la sottile trama d'acciaio, che
impediva ai vampiri di smaterializzarsi all'interno, era stata saldata. La
serratura era di rame.
Con un gesto della mano, gettò da parte la venerabile barriera ed entrò
in una sala piena di torce che sibilavano e sputavano sui loro supporti. Il
rumore delle scope lo attirò in avanti, e ben presto apparve la rovina. Dal
pavimento al soffitto, le scaffalature fatte con assi tagliate a mano erano
appese in modo disordinato, rotte o per lo più mancanti, le estremità
frastagliate come se qualcosa le avesse morse. Mentre procedeva, immaginò
come erano prima, orizzontali e fissate con sopra vasi in un numero
incalcolabile di diverse forme, dimensioni e colori. Ce ne dovevano essere
stato... merda, mille? No, forse di più. E dentro quei vasi? I cuori dei lesser
che la Confraternita aveva ucciso.
I contenitori appartenevano a ogni secolo, da quelli di ceramica antica
che erano stati fatti a mano, fino a roba scadente e prodotta in serie da
Target.
La collezione esisteva da così tanto tempo, ed era stata ampliata per
così tanti anni, che, come tutte le cose che si vedono spesso, era sempre
stata considerata permanente. L'Omega aveva messo fine anche a quello.
Come una vespa agli ultimi spasmi alla fine dell’estate, il male era arrivato
per pungere un'ultima volta, reclamando i cuori che aveva rimosso durante
l’arruolamento per rafforzare la sua potenza.
Il male alla fine era stato sconfitto, però.
E adesso? Un nuovo nemico era arrivato a Caldwell.
Lassiter poteva solo pregare che ciò di cui avevano bisogno per
combattere il Libro fosse ancora in quella bara.
Una quarantina di metri più giù, Butch e Vishous stavano pulendo, e i
due, vestiti con lunghe tuniche nere, stavano avendo una specie di
conversazione.
Senza dubbio il poliziotto stava cercando di calmare il suo coinquilino
per qualcosa.
Il modo in cui quell'ex umano riusciva a convivere con una bottiglia
molotov come V era un brillante esempio di tolleranza.
- Parli del diavolo - disse Lassiter a Vishous. - E come stai, Butch? –
- Non bussi mai? - V si chinò per raccogliere dei detriti con una
paletta portatile con un adesivo Joe Rogan Experience su di essa.
- Anch'io sono felice di vederti - Lassiter si avvicinò. - E accidenti,
voi ragazzi siete abili a mettere in ordine. Se avessi una macchina, ti
chiederei di lavarla –
- Perché sei di nuovo qui? - disse V spazzando via la polvere.
- Oh, la solita vecchia storia - Lassiter scrollò le spalle. - Non ti vedo
da quasi ventidue minuti e volevo solo starti vicino. Sai, per ricaricarmi di
tutto il calore che emani nel mondo –
Quando V si raddrizzò e lanciò un'occhiataccia attraverso lo stretto
corridoio, Butch diede una pacca sulla spalla al suo coinquilino.
- No, non puoi colpirlo con la scopa. Non ci pensare nemmeno –
- Comincerò a chiamarlo il tuo guardiano dello zoo, V - Lassiter
strizzò l'occhio e continuò a camminare. Poi, alle sue spalle, aggiunse: - Ci
vediamo all'altare, ragazzi –
- Non attraverserei nemmeno la strada per spegnere un fuoco sul tuo
cadavere - annunciò Vishous.
Lassiter si indicò la testa senza voltarsi.
- Immortale, ricordi? –
Il sanctum sanctorum della Confraternita del Pugnale Nero era nel
profondo della montagna, la vasta caverna sotterranea un tempo serviva da
serbatoio per un fiume sotterraneo. E giù, nel punto terminale della graduale
discesa, c'era il fulcro di tutto: una pedana rialzata, illuminata da candele
nere, sulla quale era stato posto un altare di pietra in modo che l'antico
teschio del primo fratello potesse essere esposto correttamente. Dietro quel
prezioso manufatto un enorme muro di marmo su cui era inciso il nome di
ogni membro della Confraternita, dal primo... al più recente, John Matthew.
Ce ne sarebbero stati altri. Anche se non poteva dirlo.
Il destino era, dopotutto, una specie di marmellata di informazioni
riservate.
Lassiter si fermò davanti al teschio, incontrando il vuoto nero delle
orbite come se stesse ricambiando lo sguardo con un essere vivente.
- Vorrei poterli rassicurare - mormorò.
Quando eri al comando c'erano cose che la base non era autorizzata a
sapere. E di tutte le sorprese che erano arrivate da quando aveva accettato
questo compito dalla Vergine Scriba, la più grande era la quantità di
informazioni che non era in grado di condividere con le persone che ne
sarebbero state più influenzate.
Evidentemente, conoscere il risultato a volte cambiava la parte libera
del libero arbitrio.
Quindi, per quanto lo odiasse, il più delle volte doveva rimanere in
silenzio...
Delle voci, profonde e lontane, arrivarono fino a lui, e prima che
giungesse la Confraternita, diede un'ultima occhiata alle stalattiti, alle
candele nere, alle torce... all'altare, al muro.
Allontanandosi dal teschio, andò a mettersi di lato. Pochi istanti dopo,
le voci si spensero e vennero sostituite dal suono di stivali pesanti che si
avvicinavano e dallo spostamento di tessuto consistente.
Il primo degli abiti neri entrò da solo. E anche se il cappuccio
dell'abito da cerimonia era alzato e proteggeva la maggior parte dei tratti del
viso, era ovvio che si trattasse di Wrath, e non a causa del bastone bianco
che scorreva da un lato all'altro.
Lui era semplicemente più grande degli altri, in un modo che non
aveva nulla a che fare con le dimensioni fisiche.
Il successivo era Tohr, un posto d'onore guadagnato in virtù del fatto
che era il primo luogotenente della Confraternita. E quando registrò la
presenza del combattente, Lassiter ricordò di aver trovato il maschio nella
foresta e di avergli portato qualcosa da McDonald's. Il vedovo addolorato
era sopravvissuto grazie al sangue di cervo, aspettando con impazienza di
morire in modo da poter raggiungere la sua shellan e il figlio non ancora
nato nel Fado.
Il destino aveva avuto altri piani per lui.
Dietro Tohr, erano entrati gli altri, e i quattro in mezzo non sono
rimasti a mani vuote. O con le spalle vuote, in quel caso. Rhage, Vishous,
Phury e Zsadist avevano la vecchia bara sulle spalle e ne assumevano la
responsabilità con solenne onore.
Il Fratello del Pugnale Nero Sahvage era tornato in casa, per così dire.
Il legno della bara si era scurito quasi fino a diventare nero, i pannelli
erano solcati da crepe create dal tempo e pieni di buchi. Ma le incisioni
erano ancora evidenti. Avvertenze dettagliate nei simboli dell'Antico Idioma
da tutte le parti, e intessuto tra le terribili lettere c'era il nome del fratello.
All'altare, Tohr si inchinò davanti al teschio. Quindi lo raccolse e
diede la reliquia a Wrath, il diamante nero del Re lampeggiò mentre
accettava il simbolo sacro di tutto ciò che era accaduto in passato.
La bara fu posta sulla lastra, occupando tutta la superficie piana.
I fratelli strinsero il cerchio attorno ad esso, in piedi spalla a spalla, e
mentre Wrath teneva il teschio sopra la testa, iniziò un canto basso, le voci
dei maschi si mescolarono insieme per diventare un tono, un suono, che fu
amplificato dall'acustica della grotta.
Tohr si fece avanti tirando fuori dalle pieghe della sua veste nera un
cuneo d'argento e un vecchio martello con un manico di legno. Trovando la
fenditura del coperchio della bara, inserì lo strumenti affilato con una serie
di bam-bambam, e poi ripeté il processo tutt'intorno, allentando il singolo
piano di legno che sigillava la cassa della mortalità. L'aria che si sprigionò
sibilò e la sensazione che qualcosa di imminente si stesse avvicinando al
gruppo punse la nuca di Lassiter in segno di avvertimento.
Se fosse stato cattolico, si sarebbe fatto il segno della croce.
Fortunatamente, Butch O 'Neal lo aveva fatto per tutti loro.
Ehi, non faceva mai male affidarsi a Dio.
I chiodi della bara erano lunghi e rettangolari, essendo stati forgiati a
mano secoli prima, e sembravano essercene un centinaio. A ogni giro di
cuneo, protestavano contro il distacco che erano stati chiamati a prevenire, i
cigolii ricordavano che non solo erano bravi nel loro lavoro, ma lo facevano
da molto, molto tempo.
Rimettendo gli strumenti nella veste, Tohr fece un cenno alla fila dei
fratelli, e Rhage e Vishous si unirono a lui, uno alla testa, uno ai piedi del
feretro.
Il canto divenne più forte quando i tre fratelli strinsero le dita tra il
coperchio e il corpo della bara e Lassiter pensò che era contento che questo
non fosse un film di John Carpenter.
I chiodi si liberarono in una serie di schiocchi e poi l'interno venne
rivelato.
Con un'inclinazione sincronizzata, la Confraternita si sporse in avanti
come se avessero le braccia unite, e Lassiter fece lo stesso da un lato.
Quando il suo cuore iniziò a battere forte, si disse che aveva dato loro il
consiglio giusto.
La soluzione a tutto era lì dentro…
Tutti si bloccarono, compresi i tre che tenevano il coperchio.
- Che cazzo… - sussurrò V.
CAPITOLO VENTISETTE

Mentre Sahvage era al secondo piano del cottage a cercare l'uomo


nero, Mae era giù nel seminterrato a fissare l'oscurità della camera da letto
di Tallah. La luce delle scale del seminterrato era sufficiente a permetterle
di vedere l'anziana femmina sdraiata sulla chaise longue accanto al suo
antico scrittoio. Il suo fragile corpo era sdraiato sui cuscini di seta, un
braccio sopra la testa, l'altro sull'ombelico. I suoi piedi in quelle pantofole
erano stesi con la punta arcuata, come se fosse una ballerina che stava per
atterrare dopo un piroetta.
Se fosse stata più giovane, la sua posizione sarebbe stata sensuale.
Nella sua vecchiaia, la sua posa sembrava triste come tutti i suoi mobili
eleganti infilati in questa piccola casa fatiscente: la prova che la parte
migliore della sua vita era avvenuta nel passato, e ciò che era rimasto erano
solo resti di gloria e giovinezza, entrambi sbiaditi a un punto di non ritorno.
- Gli ho mentito - sussurrò. - Non potevo parlargli di... –
Uno scricchiolio in alto in cucina le fece contrarre le spalle per l'ansia.
Voltandosi, tirò giù l'orlo della felpa e andò alla base dei gradini di
legno.
Su in alto, Sahvage non era altro che una massa incombente, senza
volto ma non informe, i suoi muscoli scolpivano la sua presenza nella luce
dietro di lui.
- Sei già andato via? - chiese.
- Sì. Sono tornato adesso –
Wow, era stato veloce.
- È profondamente addormentata –
- Tutto è sicuro quassù. E io ho... ciò che ci serve –
Mae fu attenta quando salì, assicurandosi di evitare lo scricchiolio
delle assi. Si avvicinò a dov'era lui e Sahvage indietreggiò per darle un po'
di spazio.
Chiudendo la porta del seminterrato dietro di sé, si guardò intorno.
- Allora... okay –
- No, non ci sono libri in giro. Da nessuna parte –
- Non era quello che stavo pensando –
- Sì che lo era –
Mae incrociò le braccia sul petto.
- Mi rifiuto di discutere di quello che mi passa per la testa con una
terza parte disinteressata –
Le palpebre di Sahvage si abbassarono.
- Oh, non sono affatto disinteressato –
Mae si appoggiò alla porta del seminterrato. C'era la tentazione, quasi
irresistibile, di continuare quel botta e risposta con lui, ma invece ruotò la
spalla dolorante e rimase in silenzio.
- Cosa faremo ora? – chiese.
- Siediti e aspetta –
- Che cosa? –
- Che succede con quella spalla? –
- Eh? Oh! - si strofinò il muscolo con la mano opposta. - Ho avuto un
incidente stradale un paio di anni fa. La cintura di sicurezza mi ha salvato la
vita, ma sono stata colpita proprio qui, e da allora mi fa male –
- Siediti - disse girando una delle sedie del tavolo. - Ci penso io –
- Non ho bisogno di aiuto –
- No, davvero? - si strinse le mani al petto. - Che capovolgimento.
Sono sconvolto. Tu, rifiuti un aiuto? –
Mae sorrise.
- Sei pazzo –
- Forse, ma so cosa fare con gli infortuni alla spalla - indicò la sedia. -
Andiamo, di cosa hai paura? Che proverò a baciarti? –
Mae sbatté le palpebre. E pensò: No, sono preoccupata che se lo
farai, ti chiederò di farlo di nuovo. E ancora. E ancora…
- No - Per mantenere il punto, si avvicinò e gli piazzò il sedere
davanti. - Fai pure quello che vuoi –
Sentì la mano ampia e calda di lui scivolare sul punto in questione. E
aspettò che facesse qualche mossa chiropratica o la spezzasse a metà...
- Ohhhhh… - gemette mentre le massaggiava la parte superiore del
braccio.
- Ti sto facendo male? –
- No, è fantastico –
Era gentile ma deciso mentre lavorava i muscoli pieni di tensione che
le attraversavano il lato del collo... e Dio, il modo in cui il calore dei suoi
palmi si espandeva nella sua pelle, nei muscoli, nelle ossa. E quella trama di
calore non era contenuta solo nel punto in cui stava toccando. La
connessione tra lui e il suo corpo scorreva ovunque, dalla testa ai piedi.
All’improvviso, non era solo seduta sulla sedia, si stava rilassando.
Poi notò che il suo respiro stava rallentando e che anche il dolore
persistente che aveva dietro l'occhio destro si era alleviato per poi
scomparire… aveva notato la sua presenza a causa della sua improvvisa
assenza.
C’era stato così tanto stress nelle ultime due settimane. Ma a ogni
sottile stretta e a ogni tocco, Sahvage glielo stava portando via, donandole
una pace temporanea che sapeva sarebbe durata solo fino a quando lui
l'avrebbe massaggiata.
Ma dannazione, si sarebbe presa una tregua se l'avesse trovata.
- Ecco, torno alla clavicola - le disse.
Notò a malapena Sahvage che si muoveva, ma poi era di fronte a lei e
il suo pollice stava spingendo nelle cavità sopra e sotto l'osso che era stato
rotto e guarito male.
Nell'istante in cui lei sussultò, si fermò.
- Troppo? –
- No, è meraviglioso - mormorò. - Per favore, continua –
Quando lui si inginocchiò si senti un crack provenire dalle sue
ginocchia, ed era così grande che il viso era di fronte al suo anche se il resto
di lui era sul pavimento. E mentre riprendeva il ritmo di pressione e rilascio,
il busto di lei si muoveva avanti e indietro, diventando un'onda, invece della
rigidità di tutto quello stress difficile da gestire.
Fu complicato capire quando quel rilassamento si trasformò in
consapevolezza.
Quando iniziò a concentrarsi su quanto le fosse vicino.
Quando i suoi occhi, che non si era accorta di aver chiuso, si
riaprirono lentamente.
Sahvage stava fissando il suo viso invece del punto che stava
massaggiando, e la sua espressione era una maschera che non mostrava
nulla. Il suo sguardo, però... era pieno di calore.
Prendo vite contro la loro volontà, ma mai femmine.
- Penso che tu ora stia bene - disse lasciando cadere le sue magiche
mani.
Nel silenzio, lui non si alzò. Non si mosse per avvicinarsi. Rimase
semplicemente dov'era, non mostrandole nulla e raccontandole tutto con i
suoi occhi di ossidiana.
E fu allora che lei si rese conto...
- Non neri, ma blu - sussurrò.
- Che cosa? –
- I tuoi occhi - La voce di lei si fece più roca. - Ho pensato che fossero
neri. Sono di un blu molto scuro –
- Non saprei –
- Come puoi non sapere di che colore hai gli occhi? –
- Perché non mi interessa –
Le loro voci erano basse e sommesse nel cottage silenzioso, ma non
perché entrambi fossero preoccupati di svegliare Tallah. Almeno non era
nella mente di Mae. No, per lei avevano creato uno spazio separato dal
mondo intero, e non c'era motivo di parlare più forte di quanto fosse
necessario per attraversare la distanza infinitesimale tra loro.
- Come può non interessarti? - gli disse.
- Non mi piace guardare me stesso - Allungò una mano e le spostò
indietro una ciocca di capelli. - Gli specchi non sono miei amici –
- Perché? –
Scrollò le spalle.
- Non sopporto il mio riflesso –
La mano di lei si sollevò di sua spontanea volontà sul viso di lui. Nel
momento in cui entrò in contatto con la sua guancia, il suo respiro sembrò
fermarsi, il che sembrava strano dato quanto era potente il suo corpo.
Con dita attente, seguì la linea della sua mascella... e si soffermò sul
mento.
- Hai un'ombra di barba –
- Davvero? –
- Ti radi senza specchio? –
- Sì –
Lei scosse la testa.
- Come? –
- Lo faccio sotto la doccia –
Proprio come se avesse impiantato quell'immagine nella sua mente, lo
immaginò sotto una cascata d'acqua, la testa inclinata all'indietro, i capelli
lisci per l'umidità... i picchi e le valli del suo corpo nudo attraversati dagli
spruzzi. Scintillante. Lucido.
Mentre scorreva in basso verso il suo…
- Ti sei mai tagliato? - mormorò.
- No. Faccio così da anni –
Si fermò con la mano sul lato del suo viso. E quando lei rimase di
nuovo in silenzio, si voltò verso il suo palmo... e premette le labbra sulla
linea della vita, nel punto in cui si era segnata con il coltello in modo da
poter sanguinare nella bacinella d'argento ed evocare il Libro.
- Mi dispiace - gli disse.
- Per cosa? –
- Non lo so –
Sahvage le abbassò la mano e fece scorrere il pollice sul taglio già
chiuso.
- Pensavo che ti fossi ferita al dito, non qui –
- No, questo è precedente –
- Non sei molto brava con i coltelli, eh –
- Immagino di no –
Abbassò la testa, lei chiuse le palpebre mentre lui accarezzava con le
labbra la ferita.
Rimase esattamente dov'era per quella che sembrò un'eternità.
Quando aprì gli occhi, lui la stava fissando e lei disse una sola parola:
- Sì! -
CAPITOLO VENTOTTO

A volte dovevi dare una seconda occhiata.


O dodici.
Nel profondo della sacra tomba della Confraternita del Pugnale Nero,
Lassiter si fece strada a gomitate tra i grandi corpi maschili per raggiungere
il bordo della bara. Ma la vicinanza non cambiò ciò che stava vedendo.
Cioè assolutamente niente... tranne una mezza dozzina di vecchi
sacchi di…
- Cos'è quello? - disse qualcuno.
V tirò fuori uno dei suoi pugnali neri e colpì il sacco di tela scolorito.
Quando uscì della polvere bianca, ne infilò un po' sulla lama.
- Ci penserei due volte prima di infilarla nel naso - osservò qualcun
altro.
- Farina d'avena - annunciò Vishous quando annusò. - Proprio fottuta
vecchia farina d'avena -
Che cazzo, pensò Lassiter.
Nessuno scheletro circondato da ragnatele. Nessuna mummia.
Nessuno zombi con carne in perenne putrefazione e una brama di carne
fresca. Nemmeno un insieme generico di resti con un sudario rovinato e un
po' di polvere su un mucchio di ossa scombussolate.
Al contrario, avevano qualcosa con cui Fritz poteva fare una pagnotta
di pane.
E non l'arma per cui Lassiter li aveva portati qui.
- Qualcuno farebbe meglio a dirmi che cazzo sta succedendo - ringhiò
Wrath tirando giù il cappuccio della veste.
- Non sta succedendo niente - Lassiter guardò il Re mentre anche gli
altri fratelli toglievano i cappucci sopra le loro teste. - Ci sono un paio di
sacchi di farina lì dentro. Ovvero, la bara è vuota –
La piccola lieta novella sorprese il grande Re Cieco dietro le sue
vesti.
- Sahvage. È andato –
- Se mai è stato lì - Lassiter indietreggiò e finì per guardare il muro
dei nomi. - Forse abbiamo la bara sbagliata –
Tohr sollevò il coperchio.
- Il suo nome è inciso su quella dannata cosa. Insieme a tutti gli
ammonimenti –
- Quindi non l'hanno ucciso - disse Wrath con un'alzata di spalle. -
Quelle guardie non devono averlo ucciso, dopotutto –
- Gli stregoni non sono immortali, se è questo che intendi - disse
Lassiter distrattamente. - Solo perché pratichi la magia non significa che
puoi vivere per sempre. Non funziona così –
- E solo perché dici di aver ucciso qualcuno e di averlo infilato in una
bara non significa che sia quello che hai fatto - ribatté Wrath. - La glymera
ha mentito. Pensa un po’. Non è mai successo, cazzo –
- Deve aver usato la presunta morte a suo vantaggio - disse Tohr. - È
scomparso ed è rimasto tale perché sapeva che non sarebbe venuto nulla di
buono da quello che è successo con quell'aristocratico, in quel castello.
Avrà voluto risparmiare alla Confraternita i problemi... –
Phury lo interruppe.
- Per quelli di noi che non conoscono la storia, qualcuno può
spiegare? –
Lassiter si avvicinò per controllare i nomi che erano stati scritti sul
muro di marmo, e ascoltò Wrath che esponeva lo schema dei fatti: Sahvage
e la magia nel Vecchio Continente. Il capo locale della glymera che si era
spaventato. Una caccia che si supponeva si fosse conclusa con il massacro
di un aristocratico e delle sue guardie e con la morte di Sahvage. Il fratello
messo in questa bara insieme al Dono della Luce.
Ma forse non era andata così, come si era scoperto.
- E cos’è il Dono della Luce? - disse Phury.
- È una fonte di energia - rispose Lassiter quando trovò il nome di
Sahvage nella lista delle iscrizioni. - Ma è più di questo. È incredibilmente
potente e, se vuoi combattere il male, è davvero fottutamente utile –
- Quindi non avresti provato a resuscitare Sahvage? Pensavo che
riportarlo indietro fosse il punto di tutto questo –
- No - Lassiter scosse la testa. - Sahvage non è mai stato il punto. Si
suppone che sia stato sepolto con il Dono della Luce, ed è quello che voglio
che abbiate –
- Cos'è esattamente? Una spada? Un altro libro? –
- Già, come se avessimo bisogno di una seconda copertina rigida in
tutto questo - mormorò V.
C'è qualcosa che non va qui, pensò Lassiter. Non è così che dovrebbe
essere.
Allontanandosi dall'iscrizione di Sahvage, si schiarì la gola.
- Il Dono della Luce è un prisma, una sacra reliquia di un tempo
antico che risale a quando la Vergine Scriba stava creando la razza dei
vampiri. Riflette qualunque cosa ci sia dentro. Quindi, se lo sfrutti contro un
grande male... –
- Allora è quello che otterrai indietro - concluse V.
- Quindi potresti volgere il male contro se stesso? - disse Phury.
- Solo alcuni tipi di male - Lassiter si passò una mano tra i capelli. -
Non avrebbe funzionato contro l'Omega. Era l'altra metà della Vergine
Scriba, quindi erano troppo vicini: ora devo andare –
- Mi stai prendendo in giro, vero? - V fulminò con lo sguardo la bara
vuota. - Se te ne stai andando perché la Ragazza d’Oro è in… -
- No, non è quello –
- Allora cosa diavolo c'è che non va in te? –
Scuotendo di nuovo la testa, Lassiter ripeté una combinazione
dell'album devo-uscire-di-qui nella sua testa e si smaterializzò direttamente
fuori dalla Tomba.
Ottimo lavoro, l’Aldilà non era mai troppo lontano per lui. Tutto
quello che doveva fare era squarciare il velo che separava la terra da tutto
ciò che era eterno e puf! si ritrovava in un glorioso campo d'erba che non
necessitava di falciatura, volgendo il viso verso un cielo bianco lattiginoso
che non prometteva mai tempesta, e respirando profondamente l'aria
temperata che era profumata dalla delicata fragranza dei tulipani.
Ma non c'era pace per lui in quel momento.
Mentre si dirigeva a grandi passi verso la sua destinazione, passò
davanti al tempio balneare con il suo bellissimo bacino d'acqua scintillante,
e poi proseguì verso le ville con colonne dove avevano soggiornato le Elette
quando avevano vissuto lì. C'era anche la Tesoreria, con i suoi cesti di
gemme e manufatti particolari, e ancor più importante... il Tempio delle
Scribe.
Si fermò al di fuori dei sacri confini dove, per millenni, le più recluse
di tutte le Elette avevano trascorso le eterne ore della loro esistenza fissando
le ciotole di cristallo, vedendo e registrando le vite e gli eventi che si
svolgevano giù sulla terra.
Aprendo una delle solide porte, vide le postazioni di scrittura disposte
in file ordinate, le scrivanie con ancora i calamai e le piume, le ciotole e i
fogli di pergamena nuova e mai usata. Tutto era come doveva essere, le
sedie allineate perfettamente, le piume delle penne si estendevano tutte con
grazia alla stessa angolazione, niente polvere, niente ragnatele, lo spazio
com'era al momento in cui era stato stabilito il suo scopo.
Anche se era stato abbandonato.
Entrando, i suoi stivali echeggiavano intorno all'alto soffitto, e pensò
che con la Vergine Scriba che si era ritirata e lui che aveva preso il suo
posto, tutte queste funzioni che un tempo erano state così vitali, erano
scomparse.
A proposito di reliquie.
Oltrepassò le postazioni di scrittura e si diresse verso la biblioteca… e
anche per un angelo come lui, che era dannatamente poco propenso a essere
impressionato, era scoraggiante vedere tutte le pile e le pile di storia
registrata della razza dei vampiri.
All'interno degli innumerevoli volumi, che erano disposti in ordine
cronologico, ogni incidente più o meno grave di ogni anima ospitata
all'interno di ogni corpo con sangue di vampiro era stato fedelmente
registrato. A mano. Con l’inchiostro.
Era tutta la conoscenza che esisteva riguardo le vite precedenti... e lui
stava per sfogliare le pagine per trovare qualsiasi menzione del Dono della
Luce e di Sahvage e di quel dannato Libro.
I fratelli e gli altri combattenti nella villa gli avevano spesso fatto
passare dei momenti difficili per non aver preso abbastanza sul serio il suo
lavoro.
E per la prima volta pensò che forse avevano ragione.
Perché qualcosa non tornava; ma semplicemente non sapeva cosa.

•••
Devina camminava per il locale, i tacchi alti tintinnavano, anche se
nessuno poteva sentire le sue Louboutin attraversare il pavimento sudicio.
In alto, il SoundCloud rap era martellante, la voce distorta e sintetizzata di
un ragazzo che borbottava su droghe e sesso era scandita da un sacco di
battiti sintetizzati ad alta frequenza. Secondo lei, la traccia aveva tanto in
comune con la musica reale quanto un plumcake con una spugna fatta in
casa, ma che cazzo le importava.
Era una goccia nel mare che aveva tirato fuori dalle case e dagli
appartamenti ogni sorta di umani, per creare un buffet per i suoi istinti di
base.
Mentre osservava le varie coppie e terzetti, valutando ogni genere di
corpo e scelta del guardaroba ma soprattutto il contatto visivo tra le varie
persone, pensò che si sentiva appena un po’ aggressiva.
E quella consapevolezza di sé non dimostrava una crescita personale?
Certo che sì, cazzo, pensò concentrandosi su un paio di uomini che
erano naso contro naso, occhi negli occhi, i loro corpi si muovevano in
sincronia. Dietro di loro c'erano un uomo e una donna. Accanto a loro,
intorno a loro, era più o meno lo stesso, combinazioni di sessi e altezze e
colori di capelli che si confondevano.
Così da potersi riunire.
Il fatto che fosse circondata da così tante avventure di una notte era
l'unica cosa che le impediva di far esplodere quel posto, semplicemente
travolgendo le persone con la sua ira in modo da mandarli in pezzi. Sarebbe
stato davvero fottutamente piacevole...
Okay, beh, sarebbe stato piacevole forse per il tempo necessario
affinché i pezzi delle braccia, delle gambe e dei torsi avessero smesso di
rimbalzare sul pavimento.
Ma era già qualcosa, giusto?
Fermandosi al centro di tutto quel palpeggiamento, direttamente sotto
la lampada che lanciava raggi laser nelle masse che si contorcevano, si
voltò, si voltò e si voltò... fino a quando lei non fu come il flashback di un
programma televisivo che si avvolgeva sempre più velocemente finché tutto
si confondeva e scivolava via...
Verso qualcosa che portava un nuovo significato o una rivelazione
riguardo dagli eventi del presente.
Ovviamente non era quello che stava realmente accadendo in quel
momento. Nonostante la rivoluzione del narcisismo su Instagram, che lei
aveva pienamente sostenuto, la vite delle persone, anche se eri immortale,
in realtà non erano produzioni cinematografiche con tagli di scena,
narrazione fuori campo e colonne sonore. Non c'erano sceneggiature,
nessun segno sul palco per dove dovevi essere, niente proviamo-e-riprendi
con un po' più di emozione.
Faceva schifo.
Lei voleva poter rifare una scena. E una luce migliore. E un fottuto
protagonista, grazie mille.
Mentre la sua frustrazione si acuiva ulteriormente, osservò il
panorama degli innamorati e capì che due cose erano vere: una, non tutte
queste avventure di una utu sarebbero rimaste tali. Alcune di queste coppie
avrebbero sviluppato la loro connessione e creato una relazione, e un giorno
in uture, avrebbero riso tra di loro, o forse con gli amici, per come avevano
trovato il vero amore in un locale.
- Riuscite a crederci? Eravamo così incasinati con Molly quando ci
siamo incontrati, ma ora stiamo scegliendo oggetti di porcellana e un
divano. Siamo così fortunati, Todd –
- Hai ragione, Elaine, che fortuna! -
Sì, vaffanculo, Todd ed Elaine. Oh, e l'altra cosa che sapeva per certo?
Lei non faceva parte di tutto questo e non perché non era umana. Mentre
tutti questi strumenti inutili si stavano accoppiando, a lei non era permesso
di avere un lieto fine, proprio come le era stato impedito di entrare in quello
stupido fottuto cottage.
A causa del sale. Accidenti.
Non c’era niente lì dentro che lei avrebbe voluto. Per l'amor del cielo,
senza dubbio in quel posto c’erano divani vecchi di quindici anni, tappeti
che lei non avrebbe toccato nemmeno con un palo di tre metri e carta da
parati sbiadita che era stata acquistata da Sears quando Jimmy Carter era
stato presidente e Taxi veniva trasmesso in prima serata.
Ma a volte volevi solo entrare in un posto in cui non ti era permesso
di entrare.
Volevi solo le cose che non potevi avere.
Volevi solo fare una cazzata e andartene con un esplosione nucleare
dietro di te, sentendoti la padrona del mondo solo perché eri stata in grado
di distruggerlo.
Devina smise di girare.
Basta con queste stronzate. Era ora di scegliere il suo divertimento per
il resto della notte, perché se non si fosse divertita al più presto, sarebbe
andata fuori di testa.
Oh, e quel vampiro? Con il sale?
Sarebbe stato bello mangiare il suo cuore. Perché che lui lo sapesse o
no, che lo volesse ammettere a se stesso o no, era assolutamente innamorato
di quella femmina e della sua stupida coda di cavallo. E altrettanto patetico?
Lei era innamorata di lui. Era ovvio dal modo in cui avevano comunicato
tra loro, non erano necessarie le parole per rendere chiaro il loro significato,
i loro corpi si erano rivolti l'uno all'altro, la loro connessione era tangibile.
Bene. Pazienza. Quei due piccioncini potevano essere in grado di
tenere un demone fuori da quella casa.
Ma non le avrebbero impedito di buttare giù il loro maledetto castello
di sabbia.
CAPITOLO VENTINOVE

Quando Sahvage udì la parola pronunciata da Mae, quel telecomando


composto di due lettere entrò nelle sue orecchie e in tutto il suo corpo.
Sì.
Eppure lei lo fermò quando si avvicinò alle sue labbra.
- Non so... fino a che punto andrà avanti –
- Io sì - le sfiorò la guancia. - Andrà fin dove vuoi tu. E non oltre –
La tensione abbandonò il suo corpo e lei si spostò verso di lui.
- Non dovrei farlo –
- Ti chiederei perché, ma non voglio –
C'erano troppe ragioni, per entrambi, per non complicare ancora di
più le cose. Ma chiaramente, nessuno dei due avrebbe fermato
l'inevitabile... quindi quelle furono le ultime sillabe che pronunciarono
prima che le loro bocche si incontrassero… e che bacio. Aveva pensato di
essere preparato per la sensazione della morbidezza e del calore di lei, ma
solo perché desideravi qualcosa non significava che eri in grado di gestirlo.
Mae lo faceva sciogliere.
E lui voleva solo di più. Mantenendo un tocco gentile, spostò la mano
sul lato del suo collo per attirarla ancora più vicino, e quando lei lo fece di
sua volontà, gemette e inclinò la testa. Ora il bacio si fece più profondo.
Ancora più profondo. Fino a quando la sua lingua non entrò in lei.
Avrebbe voluto che avessero un letto grande, con molta privacy.
Ma aveva così tanto bisogno di lei che l'avrebbe fatto nel bel mezzo di
una zona di guerra.
La sedia su cui lei si trovava scricchiolò dolcemente, e in un istante
lui fu tra le sue ginocchia, cullandole il viso, imparando cosa le piaceva e
mentre se la prendeva comoda, mentre procedeva con calma, tutto si
allontanava da lui…
Beh, non tutto. Il suo istinto per il pericolo rimaneva in allerta, ma al
momento non c'era niente che non andava dentro o fuori dal cottage.
E aveva le pistole con lui.
Dio, non avrebbe dovuto farlo. Lei era una civile; lui era un
combattente ribelle assetato di sangue senza casa, senza stirpe e senza
identità. Eppure ne aveva bisogno come se stesse soffocando e lei fosse la
sua aria.
Continuarono a baciarsi, e anche se la lussuria iniziò a sopraffarlo,
non le avrebbe messo fretta, e questo era un serio cambiamento di rotta per
lui. Per tutta la sua vita post-transizione, quando sentiva di farlo e la donna
o la femmina era ben disposta, prendeva quello che voleva e poi se ne
andava.
Con Mae? Non era interessato che finisse al più presto, e anche se
avesse potuto lasciare il cottage, era davvero felice di stare con lei.
Quando si ritrasse, lui nascose la sua delusione.
Ma poi lei portò le cose in una direzione che era molto più
impegnativa.
Se quella era la parola giusta.
Con la sua mano piccola e morbida, gli tolse il palmo dal lato del
collo... e lo posò sul suo seno.

•••

Sahvage era il miglior baciatore che Mae avesse mai conosciuto. Il


che, considerando che non aveva baciato più di due maschi nei suoi
cinquant'anni di vita, probabilmente non era molto. Ma santo... beh, merda,
onestamente...
C'era davvero qualcosa di meglio di questo?
Il problema? Nonostante l’evidente eccitazione di lui, sembrava
essere bloccato in una deliziosa neutralità.
Quando le loro labbra si incontrarono e si incollarono, e la sua lingua
iniziò una penetrazione sbalorditiva, mentre il suo corpo ruggiva di calore, e
così quello di lui, lei percepì il suo potente controllo... e aspettò che
iniziasse a esplorare. Aspettò di fare un po' di esplorazione lei stessa.
Eppure lui si era fermato al bacio.
Quindi, sì, in un'insolita ondata di determinazione, risolse il problema
prendendo la mano di lui per posarla dove c'era un dolore che solo lui
poteva cancellare. Baciare. Succhiare.
Mae sussultò quando avvertì il calore della sua mano attraverso il
pile, la maglietta, il reggiseno. Proprio come se fosse nuda.
- Va bene? - chiese lui tirandosi indietro.
Quando lei cercò di rispondere, lui le passò il pollice sul capezzolo, e
questo le impedì di far funzionare bene il cervello. Invece di rispondere
verbalmente, si inarcò e riprese possesso delle labbra di lui mentre si
spingeva contro il suo palmo… e lui capì. Cominciò ad accarezzarla con un
movimento che la fece ansimare contro la sua bocca, e poi infilò la mano
sotto e trovò la sua pelle.
Lei si aggrappò alle sue spalle.
Che erano così grandi che le sembrò di cercare di afferrare un tronco
di quercia.
- Per favore - pregò.
- Cosa vuoi? –
- Toccami… -
- Dove? - Le baciò il lato della gola. - Voglio sentirtelo dire –
- Il... capezzolo... ancora... –
Ora stava gemendo, e con un movimento improvviso lui le sollevò
entrambe le coppe del reggiseno e i suoi strati di vestiti si incunearono sotto
le braccia. Quando uno dei suoi pollici andò esattamente dove lei gli aveva
detto di andare, lei ansimò di nuovo e aveva bisogno di sapere come
sarebbe stata la sua bocca lì, la sua testa scura sui suoi seni che la
assaporava...
Sahvage si tirò indietro così velocemente che le mani di lei caddero
dalle sue spalle e le sbatterono in grembo. Confusa, guardò la parte
superiore dei suoi vestiti arrotolata, le punte erette rosa dei suoi seni che
spuntavano da sotto tutto quel cotone e pile.
Proprio mentre stava per chiedergli cosa avesse fatto di sbagliato, in
che modo lo avesse spento, lui le rimise a posto i vestiti e balzò via da lei.
Come se fosse diventata radioattiva.
- Cosa ho fatto? - chiese con una voce rotta.
La porta della cantina si spalancò e il viso rugoso di Tallah apparve
oltre lo stipite.
- Non sto interrompendo niente, vero? –
Mae sbatté le palpebre. L’anziana femmina si era tolta la vestaglia,
scambiando i fiori blu e gialli con un lungo vestito rosso fatto di un
materiale lucido che probabilmente era pura seta, visto il suo passato. Si era
anche truccata, un leggero rosa le tingeva le guance, i suoi occhi erano
enfatizzati da una raffinata ombreggiatura, una riga rossa e un gloss sulle
labbra.
E i suoi capelli erano sciolti, le onde bianche e grigie scorrevano
intorno alle sue spalle come un mantello d'argento.
- No - disse Sahvage con calma. - Affatto. Mae mi stava solo dicendo
da quanto tempo siete qui e quanto spesso viene a farle compagnia –
Mae guardò nella sua direzione. In qualche modo, nel nanosecondo
tra quando le aveva tirato giù la felpa e Tallah aveva manifestato la sua
presenza, era riuscito a prendere una tazza da tè e uno strofinaccio. Con
mani ferme fingeva di asciugare ciò che non era bagnato.
E stava facendo tutto questo proprio davanti ai suoi fianchi.
A questo proposito, Mae si girò verso il tavolo, portando con sé la
sedia, in modo da avere una scusa per voltarsi e assicurarsi che i suoi vestiti
fossero dove dovevano essere.
Grazie a Dio. La maglietta e la felpa erano al loro posto. Non
perfettamente, ma poteva andare. E il suo reggiseno, che era di nuovo al suo
posto, non mostrava nulla di strano. In effetti lei non usava imbottiture o
ferretti.
- Vuoi qualcosa da mangiare? - chiese Mae, perché non riusciva a
guardare Tallah negli occhi.
La verità era che non aveva idea di come gestire quella situazione.
Le vergini non erano famose per le loro strategie e lei fece del suo
meglio per non soffermarsi su come tutto sembrava normale per Sahvage.
Chiaramente, lui aveva esperienza... in molte cose.
- Ho fame, grazie - disse Tallah. - Ma ho voglia di cucinare –
- Ascolta, ho bisogno di uscire un momento - Sahvage posò la tazza
sul piattino e si avvicinò al giubbotto antiproiettile che aveva gettato sul
bracciolo del divano. - Torno subito. Solo una commissione veloce –
Mentre Mae lo guardava, lui scosse la testa come se le stesse
leggendo nel pensiero di nuovo?
- Non ci vorrà molto. Lo prometto –
- Oh okay –
Annuì, e poi se ne andò, smaterializzandosi proprio davanti a loro. Il
che significava che stava usando di nuovo quella finestra del secondo piano.
In sua assenza, Tallah sorrise e le accarezzò i capelli.
- Un maschio così ti fa sentire giovane, vero? -
Dove stai andando?, pensò Mae.
Nascose il suo rossore e la sua preoccupazione alzandosi dal tavolo.
- Come posso aiutarti con il cibo? –
- Siediti, siediti, siediti - Tallah rifiutò l'offerta avvicinandosi ai
fornelli. - Ho portato un po' di carne dal frigorifero del piano di sotto.
Lascia che prepari un pasto a te e a lui. È il minimo che posso fare –
- A proposito, ti dispiace se rimaniamo qui oggi? –
Gli occhi di Tallah scintillarono in un modo che Mae non vedeva da...
anni.
- Mi piacerebbe avere compagnia. Che meraviglia! -
CAPITOLO TRENTA

Okay, quindi ecco un dilemma morale.


No, non proprio.
Quando Sahvage si riformò fuori da una roulotte con dei fori di
proiettile nel rivestimento in alluminio a buon mercato, si guardò intorno in
quel cortile schifoso: due pickup da un lato, parti arrugginite di auto sparse
qua e là, un barbecue senza coperchio e un serbatoio di propano inclinato
accanto a un tavolo da picnic rotto. Il terreno era pieno di alberi e viti e,
quando ripensò al cottage, desiderò di poter restare nella vita di Mae. Gli
piaceva l'idea di prendere un tosaerba, mettere in ordine la casa, prendersi
cura di...
Gesù. Un bacio e lo aveva trasformato in un marito casalingo di
periferia. Subito dopo, contenitori termici per la birra, il calcio in autunno e
la tipica pancetta di mezz’età.
Non succederà mai, pensò impugnando una delle sue pistole.
Ma ciò che poteva fare per lei era assicurarsi che fosse al sicuro.
C'erano tre gradini di legno che portavano a una porta che
probabilmente era l'unica cosa solida della proprietà. Alzò il pugno per
bussare…
L'urlo di dolore dall'interno era attutito. Ma era chiaramente di una
donna, acuto e disperato.
E poi, molto, molto più forte:
- Fottuta puttana! Dove sono i miei fottuti soldi... –
- Li ho dati a te! Sono proprio lì... –
Lo schiaffo fu così forte che risuonò nelle orecchie di Sahvage. E poi
ne ebbe abbastanza.
Aggrappandosi alla maniglia, strappò la porta dal telaio e si fece
strada con il muso della sua pistola.
Su un logoro divano scozzese, una donna con gli occhi infossati in
blue jeans sbiaditi e una maglietta macchiata di sangue era intrappolata
sotto il corpo allampanato di un drogato di metanfetamine che Sahvage
aveva conosciuto due settimane e mezzo prima. Le banconote spiegazzate
ricoprivano i cuscini logori intorno a loro, e un bong alto un metro e
carbonizzato come un tubo di scappamento era stato rovesciato sul tappeto
sporco e stropicciato.
Entrambi lo guardarono sorpresi e Sahvage puntò la pistola contro
l'uomo.
- Lasciala andare –
Nonostante la sua assoluta follia, lo stronzo misogino si riprese
rapidamente.
- Vaffanculo! Che cazzo vuoi fare... –
- Dave… - disse Sahvage con tono ragionevole - lasciala andare o ti
sparo in testa –
- Non sono affari tuoi, cazzo - Dave torse indietro la mano della
donna finché non piagnucolò. - E non avevamo un appuntamento –
- Come se questo fosse uno studio dentistico? - Sahvage strinse gli
occhi. - Al tre. Lasciala andare o ti sparo in testa. Uno –
Dave si voltò con uno sguardo torvo, mentre usava la presa sulla parte
anteriore della gola della donna per mantenere l'equilibrio.
- Stai commettendo un fottuto errore... –
- Due –
- Non mi sparerai –
Con una mossa coordinata, come se avesse già dovuto farlo prima,
Dave si lanciò sui cuscini del divano per prendere una pistola.
- Tre - disse Sahvage premendo per primo il grilletto.
La scarica fu un forte battito di mani in quei confini sgangherati, e poi
il QI piuttosto limitato di Dave esplose dalla parte posteriore del suo cranio,
macchiando il muro dietro di lui di sangue e materia grigia. La pistola che
aveva preso esplose mentre la mano che la teneva si contraeva in una stretta
automatica, ma la canna era girata invece che in posizione, quindi il
proiettile colpì gli armadietti economici sopra il lavandino e fece tintinnare
qualunque piatto ci fosse lì dentro.
La donna urlò di nuovo e si allontanò dal corpo crollato.
- Mi dispiace per questo - disse Sahvage cupo.
Non ebbe la possibilità di offrire aiuto. Lei raccolse i soldi, si
agganciò uno zaino nero al braccio e schivò la spazzatura e i rifiuti per
fuggire via. Una frazione di secondo dopo, un furgoncino senza marmitta si
accese con un ruggito e alzò la ghiaia del vialetto.
Sahvage espirò e tenne fuori la pistola mentre si avvicinava al divano
e prendeva quella dalla mano ormai senza vita del suo trafficante d'armi.
Poi andò in camera da letto. Sganciando la porta dai cardini con lo stivale,
puntò la sua arma contro l'armadietto d'acciaio alto due metri dall’altra
parte della stanza.
Due colpi. Entrambi rimbalzarono sul materasso macchiato del letto.
Mentre i pannelli della cassaforte dell'armeria si aprivano, si affrettò a
rubare le armi che Dave aveva rubato a Dio solo sa chi. Che era il davvero-
no al dilemma se fosse un furto prendere le cose da una persona che si era
messa nella merda da solo.
E oh, guarda. C'era un borsone proprio accanto a una collezione di
Nike immacolate. Comodo per il trasporto.
Prendendo la borsa e lasciando le scarpe, Sahvage riempì il suo nuovo
bagaglio morbido di fucili, pistole e una nove millimetri per Mae. Le
munizioni erano in fondo all'armadio delle armi e prese le scatole di
proiettili.
Alla fine avrebbe pagato Dave per questo. Aveva 2.800 dollari in
contanti nella topaia in cui era accampato, e un altro combattimento con il
Reverendo avrebbe coperto il resto dei 5.000 o giù di lì: non era venuto qui
con l'intenzione di rubare, ma solo per prendere in prestito e pagare un po’
per volta.
Ma il buon vecchio Dave non doveva più preoccuparsi del bilancio
della sua attività di mercato nero, quindi Sahvage stava valutando
l'estinzione del debito.
Quando tornò fuori, fissò Dave e si prese un minuto per pensare alla
natura dei cadaveri. Subito dopo, i ricordi che aveva cercato di superare
mentalmente lo riportarono nel passato.

•••

All'interno dello spazio ristretto della sua bara, Sahvage raccolse il


suo ingegno, schierò le sue forze. C'era la tentazione di battere e picchiare,
ma non riusciva a percepire nulla di dove si trovasse. Non sentiva odore di
terra e lo interpretò come un segno che non era stato sepolto. Oltre a
questo, non era sicuro di niente.
Nessun suono emesso per aiutarlo. Neanche odori particolari.
Nient’altro che il taglio fresco delle assi di legno che lo
circondavano.
Non c'era modo di calmarsi per smaterializzarsi. Nessuna misura
sufficiente di autocontrollo da raccogliere mentre il suo cuore tuonava per
tutto ciò che doveva essere accaduto a Rahvyn. Così modellò i suoi palmi
sulla parte inferiore del coperchio, e con una forza sempre crescente,
spinse, spinse, spinse...
I chiodi gemettero e cigolarono, ma cedettero alla prima pressione, il
coperchio si sollevò di schianto, l'aria entrò, anche se non la luce. Un
respiro profondo suggerì un luogo privo di significato, anche se poteva
essere stato sotto due metri di terra poteva sentire anche l’odore di grano e
avena. E proprio mentre il coperchio si staccava dai suoi numerosi
ormeggi, ne afferrò il bordo per non fare rumore...
Con un sibilo, si morse la lingua per soffocare il grido mentre la sua
mano veniva ferita dalla punta dei chiodi. L'odore di sangue fresco gli salì
nel naso mentre la sua carne gemeva, e pregò che questa area di
conservazione del cibo fosse priva di correnti d'aria che avrebbero portato
il suo profumo al naso di qualcun altro.
Quando sollevò il busto dalla posizione reclinata, fece attenzione con
il coperchio mettendolo da una parte nel modo più silenzioso possibile...
Qualcosa cadde dal suo petto. Perline? Sembravano biglie.
Si toccò e incontrò qualcosa di umido e inquietante. Il suo sangue?
Quello di qualcun altro?
Non poteva preoccuparsene ora.
In qualunque posto si trovasse, c'era una porta... poteva vedere il
contorno luminoso creato dalla sua sottile apertura, e sebbene
l'illuminazione non portasse lontano, era sufficiente mentre si alzava
lentamente.
Ora Sahvage respirava più profondamente, in modo più uniforme, e il
suo olfatto confermava alcuni fondamenti di gastronomia: di nuovo, la
farina. Spezie di qualche tipo. Grano.
Un deposito asciutto. E c'era un'abbondanza così evidente che poteva
essere solo all'interno del castello di Zxysis.
Un luogo improbabile per qualsiasi bara, ma quel gentiluomo aveva
bisogno di tenere Sahvage nascosto. Come membro della Confraternita del
Pugnale Nero, le sue spoglie sarebbero state considerate sacre dai suoi
fratelli, qualcosa da reclamare e prontamente da vendicare. Ma lì, nascosto
nel deposito per l'uso dei servi dell'aristocratico, dal momento che tutti
dipendevano dal signore per la sua beneficenza, i doggen non avrebbero
detto niente e non avrebbero fatto domande. Né qualcuno alla ricerca di
una bara avrebbe pensato di guardare laggiù.
Mentre stava per uscire dal suo letto di legno, scoprì due ulteriori
dettagli: non aveva niente ai piedi tranne una larga veste sul suo corpo.
Una rapida ispezione non produsse punti di dolore degni di nota. Le frecce,
a un certo punto, erano state rimosse, qualunque danno avessero fatto, era
già guarito. Fermandosi un momento, sollevò la testa e offrì una rapida
preghiera di gratitudine alle Elette di razza pura da cui si era nutrito solo
tre notti prima.
Senza la loro forza sarebbe sicuramente morto.
Girandosi verso lo stipite della porta, decise di cercare sua cugina. E
si preoccupò di quanto tempo avesse dormito. Tutto il giorno? Un giorno e
una notte.
C'erano casse e sacchi di tela sulla sua strada verso l'uscita, e lui
vagò e barcollò intorno a loro, cercando di mantenere sia l’equilibrio che il
silenzio nell'oscurità, nel percorso sconosciuto degli ostacoli. Quando
arrivò alle robuste assi di quercia nel loro allineamento verticale, premette
un orecchio su di esse e smise di respirare.
Niente dall'altra parte che potesse sentire o annusare.
Mentre posava una mano sullo stipite, in cerca di un chiavistello,
pregò che ce ne fosse uno all'interno...
Quando trovò il perno e l'asta di metallo, sollevò con cura il
catenaccio e aprì la porta. Muri di pietra chiara suggerivano un corridoio
illuminato da torce. Nessun suono. Nessun profumo. O almeno niente che
mise in allarme il suo istinto.
Sporgendosi, guardò il corridoio in entrambe le direzioni. Poi guardò
la veste che lo copriva. Piume nere, arruffate da una sorta di umidità
caddero ai suoi piedi a ciuffi, insieme ad alcuni sassolini di qualche tipo, e
sentì l'odore di qualcosa che non riusciva a collocare. Toccando la parte
anteriore della veste, allungò le dita. Erano macchiate di qualcosa di rosso.
Il suo sangue. Ma qualcos'altro…
Mentre una zaffata astringente gli fece pizzicare le narici, si rese
conto di cosa gli era stato fatto.
Zxysis e le sue guardie avevano marchiato il suo corpo con la magia,
per conservare ciò che non era uno stregone morto… e che in realtà non
era defunto. Senza dubbio in modo da potergli preparare una tomba
nascosta.
La loro determinazione errata del suo status, su entrambi quei livelli,
sarebbe stata ridicola se non avessero avuto Rahvyn nelle loro grinfie.
Uscendo, Sahvage recuperò una torcia dalla sua sede di ferro sulla
pietra e girò a destra, seguendo una debole scia d'aria fresca. Mentre
camminava a piedi nudi, cercò di ricordare la pianta del castello. Di tanto
in tanto era stato nella sede del potere di Zxysis per i festival, prima che la
natura speciale di Rahvyn iniziasse a manifestarsi. Ma non era mai stato
laggiù. Che importava, però? Avrebbe trovato un'arma, anche se avesse
dovuto farne una di fortuna, e avrebbe localizzato la sua amata cugina.
E poi l'avrebbe costretta a lasciare questo insediamento con lui,
anche se doveva legarla alla sella del suo cavallo.
Dopo di che, quando lei sarebbe stata al sicuro, sarebbe tornato e li
avrebbe massacrati tutti.
Quando il suo destino divenne non solo chiaro ma inevitabile, sapeva
perfettamente che lo avrebbe allontanato dalla Confraternita del Pugnale
Nero. Ma non poteva coinvolgerli. Era un suo diritto e un dovere verso sua
cugina. Non avrebbe accettato alcun aiuto, e quando il Consiglio si sarebbe
opposto alle sue azioni, sarebbero andati dai suoi fratelli e avrebbero
cercato vendetta.
Eppure non sarebbe stato dissuaso in nessun modo né avrebbe
cercato alcun consenso per le sue azioni. Quindi d'ora in poi sarebbe stato
un solitario.
Forse sarebbe stato meglio se tutti lo credevano morto.
Fu quando questo pensiero si verificò... che rallentò fino a fermarsi.
Guardando indietro da dove era venuto, scoprì di aver percorso una certa
distanza senza incontrare alcun membro della vasta famiglia. Inoltre, il
silenzio risonante tutt'intorno sprofondò nella sua coscienza. Imprecò. In
effetti, doveva essere giorno, nel qual caso il salvataggio di sua cugina
sarebbe stato complicato dalla minaccia sempre presente della luce del
sole...
Una porta si aprì e si chiuse più in fondo al corridoio, e la ventata
d'aria fresca doveva provenire da un doggen che entrava o usciva, perché
quella sottospecie della razza non era influenzata dai raggi del giorno.
Quando i passi si avvicinarono, scivolò verso una porta e quando l'aprì fu
sollevato di scoprire un altro ripostiglio. Si infilò all’interno, attese, e
mentre il servitore passava, rimase immobile e in silenzio.
Quando la strada fu libera, si sporse e si accigliò.
Non era il profumo di un doggen. Quello era un vampiro maschio.
Quindi doveva essere ancora note…
Accelerando il passo, proseguì, seguendo il corridoio fino al suo
capolinea prima di salire una scalinata e poi un'altra. E il silenzio
persisteva ancora, lassù, tutt'intorno. Dov'erano gli abitanti del castello?
Arrivò a un'ampia scalinata, capace di ospitare spalla a spalla molti
maschi, e fu allora che sentì qualcosa che gli fece accelerare il passo
piuttosto che preoccuparsi di rimanere inosservato.
Sua cugina! Era vicina!
In cima ai gradini si aprì la grande sala... e lui sussultò.
- Rahvyn! –
Precipitandosi in avanti, attraversò il pavimento di pietra fino al
focolare dove la femmina era stata incatenata a dei cappi d'acciaio montati
nello spesso muro di malta, la testa penzolante, la veste macchiata di terra
e sangue. Altro sangue arruffava i suoi capelli scuri.
- Rahvyn, santissima Vergine Scriba, Rahvyn... fu gentile con le mani
tremanti quando le tirò indietro i riccioli dal viso. – Guardami… -
Quando lei sollevò la testa, sentì una rabbia che gli arrivò alle ossa.
Entrambi i suoi occhi erano stati anneriti, il labbro spaccato e c'era
un livido intorno al collo.
Il suo sguardo, tuttavia, brillava di un potere che lui non riuscì a
comprendere immediatamente.
- Rahvyn, ti libererò… - la torcia cadde andando a sbattere contro la
parete. - Io... –
- No… - sibilò lei. - Non possono farmi del male… -
Sahvage si bloccò. Poi raddoppiò i suoi sforzi.
- Cosa dici? - tirò le catene d'acciaio e pensò a un modo per portarla
fuori. - Solo un momento... –
- Sono tornata adesso. Non possono farmi del male –
Sahvage si accigliò. Qualcosa nel suo tono di voce, nelle sue parole...
- Che cosa? –
- Ero andata via, ma sono tornata. E niente potrà farmi più male –
- Come ti hanno fatto del male loro? - disse.
- Anche tu sei stato liberato. Sei libero adesso. Vai avanti e non
preoccuparti per me... –
- Cosa vuoi dire con sono libero? –
- Ti ho liberato e ora puoi andare... –
- Non ti lascerò… -
Con una voce distorta da un'autorità che non capiva, Rahvyn
pronunciò:
- Mi prenderò cura di me stessa. E tu te ne andrai, perché l'unico
potere che qualcuno potrà mai avere su uno di noi due, sono io –
Lui scosse la testa.
- Cosa stai dicendo? –
- Dobbiamo restare separati d'ora in poi –
Sahvage riprese a strattonare.
- Basta con queste chiacchiere. Ti porterò via da qui e mi prenderò
cura di te... –
Passi pesanti e martellanti, ora. Parecchi, un certo numero di maschi
di grandi dimensioni e armamenti provenivano da altre parti del castello.
Sahvage tirò così forte contro le catene d'acciaio che sentì uno
schiocco nell'articolazione della spalla, ma l'anello uscì, le catene
tintinnarono. Lui andò dall'altra parte.
- Fermati - ordinò Rahvyn. - Lascia stare le catene. Io non ho paura –
- Dopo quello che ti hanno fatto... –
- Sono stata liberata grazie alla violenza di Zxysis. Non ho
rimpianti... –
Il secondo blocco si staccò, e poi cercò di prenderla tra le braccia.
La sua amata cugina lo respinse.
- No! Non vengo con te... –
- Sei impazzita? –
- Se non ci separi tu, lo farò io, Sahvage. Dobbiamo restare separati,
e tu sei libero ora... “
E fu allora che un gruppo di guardie giunse all'arco. Una squadra al
completo in uniforme con nastri dei colori della linea di sangue di Zxysis,
armati di spade e fucili.
Quando Sahvage mise il suo corpo tra sua cugina e il suo nemico
ormai giurato, prese ancora una volta la torcia come unica difesa che
aveva al di fuori della sua forma fisica. Preparandosi, orientò la sua
posizione verso l’uscita, cioè le scale che aveva salito e il...
Le guardie rimasero dov'erano, le armi spianate, i corpi pronti
all'attacco, ma la violenza rimase sospesa piuttosto che alla messa in
pratica.
C’era paura nei loro occhi.
Poiché nessuno si muoveva, uno strano senso di presentimento fece sì
che Sahvage guardasse sua cugina. Lei stava fissando le guardie con una
concentrazione che sembrava potesse toccare e sentire, come una corda o
un paio di catene come quelle che le cadevano dai polsi.
- Ho detto al vostro signore di lasciarmi in pace - disse ai maschi. - E
lui non ha ascoltato. Non vi darò la possibilità di ritiravi –
Improvvisamente, i foderi e i fucili si abbassarono e poi caddero sulla
pietra con un rumore metallico. E poi arrivò il tremito. Quei corpi maschili,
così robusti e forti nelle loro divise protettive, cominciarono a tremare.
Ognuno di loro. E poi le loro mani raggiunsero la gola, le tempie, il petto.
Il panico rese i loro occhi ancora più ampi…
I gemiti echeggiarono nella grande sala mentre le bocche si
spalancavano per afferrare l'aria, e le guance diventavano floride per lo
sforzo, e il sudore scorreva lungo i volti e gocciolava sul petto...
Il capo della guardia all'estrema destra esplose per primo, come una
zucca presa a calci: frammenti di cranio e soffici pezzi bianchi di cervello
volarono via in uno spruzzo di sangue rosso vivo.
Quando il corpo senza testa cadde a terra, atterrando sulle armi un
tempo tenute da mani vitali e combattive, gli altri gridarono e si agitarono,
ma erano come alberi radicati che non andarono da nessuna parte. Uno
dopo l'altro, seguirono il destino del primo, il caos sanguinario travolgente
e inesplicabile, perché non c'erano mani su di loro, né strumenti
contundenti sulle loro spalle o davanti ai loro volti. Nessun contatto
esercitato contro di loro.
Eppure era reale, perché il loro sangue trasportato dall'aria
punteggiò la veste nera di Sahvage, e l'odore della loro carne cruda era nel
suo naso.
Voltandosi verso Rahvyn, fece un passo indietro rispetto alla femmina
che credeva di conoscere come il proprio riflesso.
- Chi sei? – disse rudemente.
•••

Con uno scatto, Sahvage tornò al presente e scoprì che si era


avvicinato al divano e stava fissando l'esplosione di sangue e cervello sul
muro dietro il punto in cui Dave era disteso nel suo permanente riposo.
Anche adesso, anche dopo tutti questi anni, e tutti i combattimenti corpo a
corpo che Sahvage aveva fatto... non aveva mai superato ciò che aveva
visto quella notte in cui Rahvyn era tornata da uno stato di torpore e aveva
letteralmente fatto saltare in aria le teste di un gruppo di guardie.
- Dormi bene, stronzo - mormorò Sahvage agganciando il borsone
pieno di pistole sulla spalla e raggiungendo l'uscita.
Fuori, fu tentato di prendere l’ultimo furgone rimasto, ma non per
molto. Non aveva mai avuto bisogno di una macchina, e come avrebbe
potuto sbarazzarsi di quella dannata cosa senza che qualcuno potesse
rintracciarlo fino a risalire a questa scena del crimine? Pazienza. Meglio
fare le cose pulite, comunque non sarebbe rimasto a Caldwell ancora per
molto.
Anche se adesso, data la sua persistente premonizione di morte, aveva
la sensazione che se ne sarebbe andato in una bara. La morte sarebbe stata
un sollievo, e se fosse riuscito a evitare che Mae commettesse un errore con
l'inevitabile destino di quell’anziana femmina… beh, allora avrebbe fatto
una cosa giusta in questo mondo.
Poco prima di smaterializzarsi di nuovo verso il cottage, guardò il
cielo e pensò a Rahvyn. Era passato un po' di tempo da quando l'aveva
fatto. Un paio di decenni.
E adesso non si sentiva meglio di prima. Lei era il suo miglior
fallimento.
Scuotendo la testa, svanì. Con un po' di fortuna, presto non avrebbe
mai più pensato a lei. Si sarebbe trovato in quel vuoto nero che giungeva
dopo l'ultimo battito cardiaco, senza più preoccupazioni, niente più
sofferenza, più nulla.
Sebbene avesse imparato a proprie spese che nel mondo esisteva la
magia, non credeva più nel Fado. La morte era definitiva.
Nient'altro che luci spente.
Meno male, cazzo.
CAPITOLO TRENTUNO

No, no, no, no…


Mentre Erika si faceva strada a gomitate attraverso una selva in
movimento di frequentatori di locali semi vestiti e completamente ubriachi,
era incazzata e tesa. Davanti a lei, il buttafuori che le faceva strada divideva
la maggior parte della marea, ma c'erano dei ritardatari che si mettevano
sulla sua strada, e lei dovette resistere a spingerli via. E poi c'erano i laser. E
la musica alta. Era come trovarsi in un uragano, tutto le esplodeva in faccia,
troppo tra lei e dove aveva bisogno di essere.
Fortunatamente, il viaggio non durò all’infinito. Anche se era
sembrato un anno e mezzo.
Nell'angolo più lontano del locale, in un corridoio che era l'unica cosa
adeguatamente illuminata, due agenti in borghese stavano discutendo con
un ragazzo che si era tirato indietro i capelli con quella che doveva essere
gommalacca e indossava jeans neri che erano stati fissati chirurgicamente
sulle sue gambe magre. Un piccolo circolo di festaioli stava assistendo alla
scena, ma la maggior parte della clientela si faceva i fatti suoi al bar e sulla
pista da ballo.
- ... non può costringermi - stava dicendo all'ufficiale. - Non può dirmi
che devo chiudere... –
Erika superò la discussione e andò dove si trovava un agente fuori dal
bagno delle donne.
- Signora - disse aprendole la porta, poi arrossì. - Mi scusi... voglio
dire, detective –
Andava bene lo stesso, aveva altre cose di cui preoccuparsi.
Gesù. L'odore del sangue fresco era così denso da sovrastare l’odore
di sigaretta nell'aria, e mentre si infilava un paio di stivaletti, l'odore di rame
che sbocciò in fondo alla sua gola le fece venire voglia di vomitare.
Nel bagno delle donne si infilò i guanti di nitrile e si guardò intorno.
Tutto era in acciaio inossidabile e piastrelle e lei era pronta a scommettere
che quel posto veniva lavato con candeggina alla fine di ogni notte. Non
c'erano nemmeno veri specchi, ma pannelli di metallo lucido, come se il
bagno si trovasse in un parco pubblico. Ventilatori, niente asciugamani di
carta. Niente bidoni della spazzatura, il che spiegava gli involucri dei
preservativi, i batuffoli di tessuto e discutibili macchie e granelli su tutto il
pavimento.
I bagni erano sulla destra, quattro. Dall'altra parte, due lavandini e
spazio sul bancone più che sufficiente per fare sesso.
La pozza di sangue usciva da sotto l'ultimo gabinetto.
Mentre si avvicinava alla porta di acciaio inossidabile, rimase a
osservare da lontano quando la sua mano avanzò per aprire la porta...
- Merda! - sussurrò.
Un'altra coppia eterosessuale: l'uomo era seduto sul water con i
pantaloni intorno alle ginocchia, a torso nudo riverso nell'angolo creato dal
muro piastrellato. La donna era a cavalcioni su di lui, con la gonna corta
intorno ai fianchi, la linea di un perizoma che senza dubbio era stata spinta
da parte a malapena visibile tra la zona delle natiche. Il suo corpo erano
inclinati sul lato opposto, la fronte sul tramezzo che separava i due bagni.
La perdita di sangue di entrambi era ampia, il liquido rosso scorreva
lungo tutti i lati della base del bagno, le pozze si univano per poi scorrere
verso lo scarico al centro del pavimento.
In mezzo al petto dell'uomo... una ferita lacerata che mostrava costole
bianche tra il muscolo rosso e la pelle ormai grigia.
Data la pozza di sangue sotto il torace della donna anche a lei era stata
fatta la stessa cosa.
Erika scosse la testa, si voltò e tornò in corridoio. Avvicinandosi al
proprietario del locale e ai poliziotti in borghese, guardò il ragazzo.
- Spenga subito la musica e nessuno esca dal locale –
Il ragazzo alzò le mani.
- Abbiamo altri bagni! Li chiuderemo... –
- L'intero locale ora è una scena del crimine. Lei non ha più il
comando –
Lui indicò sopra la spalla di lei.
- C'è un'uscita antincendio proprio laggiù. Se avete bisogno di portare
fuori i corpi, potete semplicemente... –
- Due persone sono state uccise in quel bagno - scattò lei. - Quindi
l'intero club e tutte le persone qui dentro devono essere controllate.
Accendete le luci e mettiamoci al lavoro –
- Aspettate, prenderete i nomi dello staff? –
- Prenderemo i nomi di tutti –
Il ragazzo incrociò le braccia sul petto e scosse la testa.
- Ci farà chiudere, signora... –
- Ho anche bisogno dei filmati della sicurezza, dentro e fuori. E non
mi dica che non li ha –
- Non vi darò un cazzo! –
Erika si posizionò davanti alla faccia del ragazzo e abbassò la voce.
- Due persone sono appena morte nella tua attività o in quella del tuo
capo. Due esseri umani. Ed è stato qualcuno qui dentro. Quindi non sei più
tu a comandare. Possiamo farlo con gentilezza oppure possiamo metterti le
manette e puoi divertirti a pagare un avvocato per difenderti dall'accusa di
intralcio alle indagini che sta per arrivare –
Il ragazzo si sgonfiò più velocemente di quanto lei si aspettasse.
- Mi licenzierà. Verrò licenziato per questo, cazzo –
- Non posso aiutarti, ma tu puoi aiutare noi. Facendo la cosa giusta,
adesso –
Ci fu una pausa, e poi il ragazzo si guardò alle spalle.
- Tibby, spegni tutto –
Erika si voltò e sbatté dritta contro il grande petto di Deiondre
Delorean.
- Ben fatto, detective - mormorò l'agente speciale.
- Quelle lezioni di buone maniere a scuola sono servite a qualcosa –
Le luci si accesero tutte in una volta e quando anche la musica venne
interrotta, fu come se l'illuminazione avesse scacciato via il rumore.
Naturalmente, la risposta della folla giunse immediata e scontenta sotto
l’effetto dell’alcol.
Riunire quel gruppo di potenziali testimoni ubriachi in una parvenza
di ordine sarebbe stato divertente, e come se le avesse letto nel pensiero,
Delorean prese il telefono per chiamare altri agenti. Con l'unità della scena
del crimine già in arrivo, Erika tornò in bagno e fissò la porta chiusa. Il
sangue si stava rapprendendo sulle piastrelle. Una macchia sul bordo del
tallone dell'uomo di quando aveva mosso la gamba da un lato all'altro,
probabilmente per il dolore, la paura.
Osservò anche tutto ciò che non c'era.
Nessuna orma insanguinata sul pavimento. O sulla strada per l'uscita.
Nessuna goccia di sangue da nessuna parte, tranne che all'interno del
bagno.
Erika aprì di nuovo il pannello di metallo. Molto sangue sotto i corpi,
ma a parte qualche agitazione delle mani delle vittime, niente sui muri.
Come diavolo aveva fatto qualcuno a strappare due cuori a due
persone in un luogo pubblico per poi andarsene senza lasciare traccia o
senza che nessuno se ne accorgesse?
Forse i clienti del locale avrebbero potuto rispondere ad alcune di
queste domande, ma temeva di avere più vicoli ciechi che indizi.
Quando il telefono squillò rispose di riflesso.
- Saunders... –
- Controlla la tua e-mail –
Lei roteò gli occhi.
- Avresti potuto semplicemente infilare la testa qui dentro, Delorean –
- Sto uscendo dal locale. Il quartier generale mi ha chiamato, ma ho
altri quattro agenti che stanno per farti supporto. Controlla la tua e-mail –
La connessione venne interrotta e lei borbottò mentre apriva la posta
elettronica. Stava ancora parlando da sola quando lesse ciò che l'agente
speciale le aveva inviato. L'e-mail aveva un allegato... un file video... e
Delorean aveva digitato tre parole senza punteggiatura: presa ieri sera.
Fece partire il filmato...
Illuminazione soffusa. Folla di persone rumorose in cerchio.
Qualcuno al centro…
Ralph De Mellio. A torso nudo.
La telecamera rimbalzava tutt'intorno, come se il proprietario del
cellulare venisse urtato di continuo, ma lei sapeva cosa stava facendo
Ralph: un fight club clandestino. Erika sapeva bene che si svolgevano in
città e negli ultimi due mesi si era aspettata di essere chiamata per qualcuno
che era morto per un pugno a mani nude...
- Santo cielo - sussurrò.
La telecamera fece una panoramica sull'avversario di Ralph, ed Erika
si ritrasse quando guardò il ragazzo. La muscolatura del petto dell'uomo era
quella di un atleta professionista e il tatuaggio che copriva ogni centimetro
della sua pelle era degno del membro di una banda, il campo nero metteva
in risalto la mano ossuta di uno scheletro proteso in avanti.
- Gesù, Ralph, a cosa stavi pensando - mormorò.
DeMellio chiaramente combatteva per hobby, in base alla sua
corporatura e a ciò che aveva imparato dopo aver parlato con i suoi genitori.
Ma questo avversario? Non aveva bisogno della sua fedina penale per
sapere che era un assassino: guardava davanti a sé con gli occhi freddi e
vuoti di un predatore senz’anima.
Per una frazione di secondo, Erika sentì un brivido attraversarla. Poi
la sua grinta professionale tornò in linea e guardò cosa era successo quando
la lotta era iniziata, la coppia si girava intorno, le mani di Ralph in alto
mentre le braccia del suo avversario erano abbassate in modo rilassato.
Quando l'azione finalmente iniziò, Ralph si avvicinò con i pugni che
sembravano quelli di un bambino rispetto a quello che stava per cercare di
colpire. Si mise nei suoi panni, il cuore in gola, sapendo cosa sarebbe
successo dopo, e non solo per quello che succedeva in genere in queste
competizioni. Erano le ultime due ore della vita del ragazzo, e lei non poté
fare a meno di pensare a com'era stato sedersi di fronte a sua madre e suo
padre e dare la terribile notizia della sua morte a due brave persone.
Il padre aveva pianto più della madre.
Erika, invece, era crollata in seguito, quando era stata a casa da sola...
Accadde così in fretta che fu necessario un replay: l'avversario aveva
dominato rapidamente Ralph, ma qualcosa aveva fatto sì che l'uomo alzasse
lo sguardo tra la folla e Ralph aveva tirato fuori un coltello e tagliato quella
gola spessa.
Il file si concludeva bruscamente con un grosso spintone, come se chi
stava filmando fosse scappato di corsa insieme al resto del pubblico. Molto
cemento sotto i piedi. Poi una tromba delle scale affollata di persone.
Possono esserci molti posti così in città, pensò. Forse è un garage? O
un'arena?
Erika riprodusse il filmato e alzò il volume dell'altoparlante. Durante
la seconda visione, notò che Ralph indossava gli stessi jeans con cui era
stato ucciso; riconobbe gli strappi e le sfilacciature realizzati dal designer. E
in quanto alla ragazza accanto a cui era stato trovato? Era difficile vedere
molto tra la folla, ma non sarebbe stato difficile congelare le immagini per
ricontrollare la sua presenza.
Avevano bisogno di saperne di più sulla fonte di questo filmato.
Quando arrivò il momento per l'avversario di alzare lo sguardo e
restare immobile, Erika fermò la riproduzione e si avvicinò a quella faccia
dura e fredda. Poi fece lo stesso proprio quando il coltello terminò il suo
arco.
Difficile credere che l'uomo fosse sopravvissuto a tutto questo, e in
circostanze normali, avrebbe potuto pensare che la morte di Ralph era stata
causata da uno dei membri del gruppo del ragazzo, per vendetta. Ma non
con i precedenti di tanti altri con i loro amanti e senza cuore nel petto.
Ma cosa era successo all'avversario?, si chiese.
Doveva esserci un corpo associato a quell'emorragia arteriosa, e prima
o poi sarebbe comparso.
Era solo un'altra parte del mistero.
CAPITOLO TRENTADUE

La sera seguente, dopo che il sole era tramontato sotto l'orizzonte, le


luci esterne si accesero intorno al quartiere di Nate, ma non tutti gli umani
erano rimasti a casa. Venerdì sera. Tempo di cena e di un film. Sport in TV.
Locali di cabaret, teatro, una gara di poesia.
Anche Nate se ne stava andando. Appena il Primo Pasto si era
concluso.
Aveva una scusa per andare a Luchas House: avrebbe chiamato la
fattoria per dire loro se poteva andare a dare un'occhiata per cercare una
giacca che forse aveva lasciato nel garage.
Mentre ripeteva nella testa la sua richiesta disinvolta e senza grossi
problemi… per tipo, la centesima volta… era vagamente consapevole che i
suoi genitori non stavano parlando. Murhder e Sarah erano a tavola al loro
posto abituale, e le uova, il bacon, i bagel e la frutta erano la norma per
questo pasto, ma nessuno dei due stava dicendo niente.
Pazienza. Nate doveva seguire bene il suo piano. Dopo aver parlato
con chiunque avesse risposto al telefono fisso di Luchas House della storia
della giacca, doveva essere pronto a entrare nella fattoria, controllare il
garage per cercare quello che già sapeva che non c'era e tirare fuori con
disinvoltura Elyn. Da qualunque posto lei poteva essere. Avrebbe dovuto
mantenere il tono tranquillo e lo sguardo sereno. Niente di nervoso o losco.
Anche se il suo vero intento non era casuale. Affatto.
Non aveva ricevuto telefonate durante il giorno.
No, non era vero. Shuli aveva chiamato. Due volte. E c'erano stati
messaggi di lavoro per assegnarlo a un nuovo compito a partire da lunedì. Il
che significava che aveva la notte e il fine settimana liberi senza nient'altro
da fare che aspettare, farsi domande e sussultare ogni volta che Shuli lo
chiamava per chiedergli di uscire.
Che diavolo avrebbe fatto...
- Beh, sono stato io a chiedere a Shuli di vegliare su di te –
Nate si bloccò a metà masticazione mentre Murhder faceva lo stesso
con una forchettata di uova strapazzate vicina alla bocca.
- Che cosa? –
- Che cosa? –
Quando parlarono entrambi allo stesso momento, Sarah spinse via il
piatto e incrociò le braccia sul camice da laboratorio. I suoi occhi color
miele erano turbati mentre si lisciava i capelli lunghi fino alle spalle.
- Io... mi dispiace, Nate. Stavi iniziando il tuo primo lavoro. Stavi
entrando in un mondo pericoloso. Ero spaventata. Ho fatto la cosa sbagliata,
va bene, ma non mi scuserò per aver cercato di tenerti al sicuro. Hai avuto...
beh, un trauma, sai? E non ero sicura di come aiutarti, e a volte i genitori
fanno cose stupide. Ma di sicuro non ho mai pensato di coinvolgere una
pistola –
A quel punto lei scoppiò in lacrime, afferrò un tovagliolo e se lo
premette sugli occhi. Con il naso che tirava su e le spalle che tremavano,
Nate guardò Murhder in preda al panico, ma il Fratello se ne stava già
occupando, gettò indietro la sedia e andò a inginocchiarsi accanto alla sua
shellan.
- Sto bene - rispose lei al suo compagno. - Detesto solo che voi due
non stiate parlando! Non sopporto di essere nella stessa casa con tutta
questa tensione, ed è colpa mia e, oh, merda, posso avere anche il tuo
tovagliolo? –
Nate si sedette lentamente mentre stava assimilando due delle parole
che lei aveva pronunciato. La stessa. Casa.
- Pensi che possa trasferirmi a Luchas House? - sbottò.
Lo guardarono entrambi. E poi Sarah iniziò a piangere ancora più
forte.
- Non sapevo che fossi così infelice qui... –
- Cosa ti è preso? - Murhder si alzò in piedi. - Non capisco... –
- Ti droghi? –
- Ti stai drogando?! –
A Nate sembrava di essere in un episodio del telefilm degli anni
Ottanta Casalingo Superpiù quando entrambi i suoi genitori cominciarono a
parlare l'uno sull'altro in preda al panico: nostro figlio è un drogato.
Mettendo il tovagliolo vicino al piatto, si alzò dal tavolo.
- Devo fare una telefonata –
In quel momento, il cellulare di Murhder iniziò a squillare.
- Dannazione! - infilò una mano nella tasca posteriore e poi controllò
lo schermo, imprecò di nuovo e indicò Nate. - Rimettiti seduto
immediatamente - poi abbaiò al telefono: - Cosa? –
Nate guardò il ripiano dove aveva lasciato lo zaino. Forse invece di
seguire la strada della giacca smarrita, avrebbe potuto chiamare la signora
Mary e chiedere se c'era una stanza a Luchas House per un posto da
custode. Era la sua unica possibilità di essere lì regolarmente e organizzare
un incontro casuale con Elyn: Ovviamente, non poteva lavorare al Porto
Sicuro perché lì i maschi non erano ammessi... beh, e non aveva una laurea
in terapia o esperienza per quel lavoro. E non poteva essere a Luchas House
come assistente sociale per lo stesso motivo. Ma forse se avesse potuto
vivere lì in qualità di personale di livello inferiore …
Perché forse si era sbagliato sulla partenza di Elyn…
Ma chi stava prendendo in giro. Lei non lo aveva chiamato e in
qualche modo quella non era una foglia di tè che avrebbe dovuto
interpretare…
- ... è proprio qui - Murhder si accigliò e guardò dall'altra parte del
tavolo. - Uh Huh. Okay, beh, fammi parlare con lui e Sarah. Sicuro. Sì. A
dopo… - Quando il Fratello riattaccò, si accigliò. - Era Rhage. Ha detto che
Mary sta cercando aiuto a Luchas House. Immagino che ci sia una giovane
femmina che si trasferisce lì e hanno bisogno di mobili nella sua camera da
letto… -
Nate saltò su dalla sedia.
- Sì! Gli hai detto che lo farò, sì? Sì! - si voltò per prendere lo zaino e
armeggiò per tirare fuori il telefono. - Gli scrivo un messaggio... –
- Puoi sederti, cazzo - scattò Murhder - e dirci cosa diavolo sta
succedendo prima? –
- Niente! - Nate abbassò il sedere sulla sedia e alzò le mani in aria
come davanti a una rapina. - Voglio solo dare una mano. Alla Luchas
House. Sai, stanno facendo cose davvero speciali… sai, aiutano le persone.
Laggiù –
Murhder guardò Sarah. Lei gli restituì lo sguardo. E poi entrambi
fissarono Nate.
- Non mi drogo - posò lo zaino sul tavolo e aprì tutte le cerniere che
aveva, tasche e scomparti che mostrarono un sacco di niente di illegale. - E
puoi frugare in tutta la mia stanza. Ogni cassetto, sotto il letto,
nell'armadio... in tutte le giacche e i pantaloni che ho. Non mi piace quella
roba e non lo farei mai –
- Quindi si tratta davvero di Shuli? - disse Sara. - Sono sinceramente
dispiaciuta... –
- No, non è così. Voglio dire, ho pensato che la mossa di Shuli fosse
strana, ma non mi interessa… davvero –
Ci fu un lungo silenzio durante il quale i suoi genitori gli fecero una
radiografia con ogni tipo di cosa-possiamo-fare.
- Puoi sempre venire a parlare con noi - disse Sarah tirando su col
naso e asciugandosi gli occhi. - In qualsiasi momento, su qualsiasi cosa. E
mi scuso ancora per aver coinvolto Shuli. Non avevo idea che si sarebbe
spinto così lontano, e avrei dovuto prima venire da te con le mie
preoccupazioni –
- Beh, ho sistemato quella cosa del così lontano - mormorò Murhder. -
Fidati di me –
- Puoi mandare un messaggio a Rhage? - chiese Nate in fretta mentre
richiudeva tutto. - Chiamarlo? Lo chiamerò io. Ci vado subito... –
- Cosa diavolo è successo a Luchas House di così importante... –
Murhder si lanciò in un altro sproloquio, ma Sarah aveva uno strano
sguardo sul viso. E poi mise la mano sull'avambraccio del suo compagno,
una specie di aha che spazzava via l'ansia e la sostituiva con una dolce
sorpresa.
- Manderemo un messaggio a Rhage - disse. - E, certo, perché non vai
laggiù immediatamente? –
- Grande! Ci vediamo per l'Ultimo Pasto, grazie, ciao! –
Nate si precipitò verso la porta scorrevole dietro il tavolo, tirò di lato
il vetro e quasi cadde sulla terrazza. Chiuse gli occhi per smaterializzarsi, li
aprì e li chiuse di nuovo e dovette rallentare il respiro…
Ma non accadde nulla di simile alla smaterializzazione.
Rimase dov'era, il cuore che gli batteva nel petto.
Prendendo un respiro profondo, agitò le braccia. Si concentrò.
Quando non funzionò, guardò i suoi genitori. Murhder aveva il
telefono in mano, ma era concentrato su Sarah e sembrava un po' turbato. E
quando il Fratello guardò fuori attraverso il vetro, Nate richiuse le
palpebre...
Questa volta riuscì a svanire.
Viaggiando in una dispersione di molecole, non riuscì ad arrivare a
Luchas House abbastanza velocemente, e quando si riformò, corse
attraverso il prato fino alla porta d'ingresso. Stava quasi soffocando per
l'eccitazione, per la speranza e il...
Bene, un po’ per tutto.
Ma doveva ricordare a se stesso di rilassarsi. Poteva trattarsi di
un'altra femmina, ma allora perché aveva chiamato Rhage? Il Fratello
sapeva cosa stava succedendo, e dai, avevano altre braccia per aiutare a
montare i mobili.
A meno che non avevano davvero bisogno di aiuto.
- Zitto! - disse al suo cervello.
Quando Nate suonò il campanello una volta… e poi volle premere il
pulsante centomila volte… ebbe di nuovo un pensiero che lo raffreddò: e se
si fosse trattato davvero di qualcun altro, e se avessero davvero bisogno di...
La porta si aprì e mezzo viso apparve nella fenditura.
Quando Nate riconobbe i lineamenti, iniziò a sorridere.
- Ciao - disse.

•••

Tallah non era una brava cuoca.


Mae iniziò a far scorrere un po' d'acqua sul mucchio di pentole e
padelle sporche nel lavello della cucina del cottage, e pensò che era stato
davvero gentile da parte dell’anziana femmina insistere per preparare un
pasto la sera prima, ma.... oltre a essere incredibilmente inefficiente con gli
utensili e qualsiasi cosa con un manico, Gordon Ramsay non avrebbe reso
poco commestibile quello stufato e probabilmente avrebbe gettato un paio
di piatti per terra per chiarire il punto. Ma Tallah non aveva mai dovuto
cucinare qualcosa nella sua vecchia vita. La sua casa precedente era stata
piena di doggen, e non solo non c'era mai stata una ragione per lei di
imparare a preparare il cibo, ma farlo sarebbe stato considerato molto al di
sotto della sua posizione sociale.
E da allora? Beh, riscaldava i pasti surgelati di Stouffer da vera
professionista.
Tuttavia, a Sahvage non era sembrato importare dello stufato, e in
seguito, quando Tallah aveva insistito per giocare a Monopoli, l'aveva
assecondata anche su quello, e anche Mae, finché non si era addormentata
sul divano a metà del gioco. A un certo punto, qualcuno le aveva disteso
addosso una coperta, e quando lei si era svegliata pochi istanti prima, aveva
trovato Sahvage addormentato seduto sulla poltrona di fronte a lei. Tallah si
era senza dubbio ritirata di sotto, e il tabellone del Monopoli, come le
pentole e le padelle, era stato lasciato in uno stato di disordine post-uso,
case verdi e alberghi rossi punteggiavano le proprietà, denaro falso in pile
sparse ingombrava il tavolino da caffè, la scarpa e il cane erano ancora
rispettosamente su Park Place e Pennsylvania Avenue.
Appena Mae si era alzata dal divano, l'occhio destro di Sahvage si era
spalancato, ma non era rimasto così. Come se lei avesse superato una specie
di revisione, forse inconscia, lui si risistemò e sembrò riaddormentarsi.
Mae non aveva fame, il suo stomaco continuava a ribollire per lo
splendore della cucina casalinga di Tallah, anche molte ore dopo, ma non
riusciva a stare seduta.
Inoltre, ogni cosa che si poteva mettere sul fornello era stata usata per
quello stufato. Se qualcuno voleva le uova per il Primo Pasto, non aveva
nulla in cui cucinarle, e questo rivelava un'altra verità lapalissiana sulle
femmine di valore della glymera.
Non solo non sapevano cucinare, ma non sapevano nemmeno pulire.
Colpendo l’acqua calda con una spruzzata di detersivo per i piatti
Ivory, si guardò alle spalle per essere sicura di non fare troppo rumore. Per
fortuna, gli stivali di Sahvage erano nella stessa posizione, incrociati alla
caviglia, quindi lui era rimasto dove lo aveva lasciato.
Mae cercò di rimanere il più silenziosa possibile visto che stava
usando un rotolo di carta come spugna, dato che la sera prima aveva
distrutto l'unico lavasciuga di Tallah sul pavimento della cucina. Sembrava
che stesse sviluppando una comprovata esperienza per la pulizia nervosa…
Al suono di uno scricchiolio, si immobilizzò e guardò il frigorifero
che barricava la porta sul retro. Quando il suono non si ripeté, fece un
respiro profondo e si disse che anche se non poteva fare nulla per qualunque
cosa ci fosse fuori dal cottage, dannazione, poteva lavare e asciugare quel
disordine davanti a lei.
Quando lo scolapiatti si riempì troppo, si fermò con l'insaponatura e il
risciacquo e prese uno strofinaccio…
- Oh! - sussultò. - Sei sveglio –
Sahvage era appoggiato alla porta aperta del bagno, le braccia
incrociate, le palpebre abbassate mentre la studiava. Sembrava più grande
che mai, ma lei stava cominciando ad abituarsi a quella reazione istintiva.
Sembrava che ogni volta che lo vedeva, dovesse abituarsi di nuovo alle sue
dimensioni.
E quella non era l'unica cosa che continuava a creare nuove reazioni. I
suoi occhi. Le sue labbra. I suoi... fianchi.
- Non volevo svegliarti - iniziò ad asciugare il mucchio che aveva
creato. - Io, beh, bisogna pulire se qualcuno vuole cucinare di nuovo –
- Non stavo dormendo. Stavo solo riposando gli occhi. Tallah è
sveglia? –
- Di solito non si alza fino a mezzanotte - Mae sorrise. - Lei crede nel
sonno di bellezza. Faceva impazzire mia mahmen… be, non importa… -
- No, continua –
Mae circondò una padella con uno strofinaccio.
- Tallah amava mia mahmen. Ed è stato reciproco. Erano molto
diverse, ma avevano una meravigliosa amicizia che superava le barriere
della serva e della padrona –
- Quindi Tallah deve sentire la sua mancanza –
- Penso che lo faccia, sì –
Ci fu un lungo silenzio, poi lui disse:
- Ascolta, dobbiamo parlare –
Mae non aveva intenzione di far viaggiare i suoi occhi lungo il suo
corpo. Ma lo fece. E non voleva che la sua faccia arrossisse. Ma lo fece. E
lei pregò che lui non notasse nessuna delle due cose.
Ma lui lo fece.
Sahvage si raddrizzò, lei deglutì a fatica e decise di non far cadere la
padella dalle mani. Quindi la mise giù.
Durante le ore diurne, aveva avuto sogni vividi di lui che le si
avvicinava. La prendeva tra le sue braccia. Abbassava le labbra sulle sue…
E ogni volta, appena prima del bacio, l'immagine scompariva. Ancora
e ancora. Era come un ciclo che non si fermava, una promessa allettante che
non si realizzava mai.
Un miraggio sempre sul limite, mai reale.
Anche se ora, per come i suoi occhi socchiusi erano concentrati su di
lei, e il suo corpo si stava muovendo verso di lei, e...
Sahvage tornò in salotto. Accanto alla poltrona in cui era stato,
raccolse il borsone nero che aveva sempre tenuto con sé… e dal suono di
metallo su metallo, lei capì cosa c'era dentro.
Eppure era ancora uno shock mentre metteva le cose sul tavolo e
richiudeva tutto.
- Così tante... - lei sussurrò.
Armi, finì nella sua testa.
Mae osservò le grandi mani di lui che passavano tra i grovigli di
canne e calci o come diavolo si chiamavano. C'erano anche delle munizioni
lì dentro, proiettili lunghi e appuntiti, e poi anche scatole.
La pistola che aveva tirato fuori era piccola.
- Questo è un caricatore automatico da nove millimetri pieno - disse. -
Ha un mirino laser. Inquadra e spara, letteralmente. Usa entrambe le mani.
E assicurati che non ci sia nulla a cui tieni dietro qualunque cosa tu stia
mirando. La sicura è qui. Disinserita. Inserita. Prova –
In qualsiasi altra circostanza, non si sarebbe nemmeno avvicinata a
quella cosa. Ma Sahvage non poteva stare con loro per sempre, e... beh,
quella bruna, per prima cosa… e quell'ombra, per un'altra.
Le mani di Mae erano sorprendentemente ferme mentre accettava
l’arma da lui. Ma in effetti non avrebbe provato a fare niente con la pistola.
- Disinserita. Inserita – disse, replicando il movimento di lui con la
sicura.
- Ecco, lascia che tiri fuori il caricatore - Dopo aver rimosso i
proiettili, le restituì l'arma. - Vedi il pulsante lì sull'impugnatura? Premilo…
così, ecco il tuo mirino laser –
Mae spostò il punto rosso in cucina, fissandolo sul logo GE del
frigorifero e poi sulla maniglia della porta del bagno. Dopodiché scelse una
padella sullo scolapiatti e poi trascinò il raggio fino a una sedia.
- Mantieni la sicura finché non sei pronta a sparare - disse Sahvage. -
Niente fondina, ma puoi metterla in tasca –
- Anche quando sono sola in casa? –
- Sì. Te l'avrei data prima, ma non volevo allarmare Tallah - fece un
cenno verso il bagno. - Vado a farmi una doccia. Ecco, prendi il caricatore e
rimettilo al suo posto in modo da sapere come si fa –
Lei lo prese e lo inserì.
- Non ho mai sparato con una pistola prima. Beh... da sola, cioè –
- Speriamo che non diventi un'abitudine –
Mae annuì e poi si schiarì la gola.
- Senti, devo tornare a casa… sai, per prendere un po' di cose di
lavoro… -
- Posso venire con te… -
- No, no. Sono più preoccupata per Tallah che per me stessa –
- Questa è una pessima valutazione della realtà –
Lei si schiarì la gola e cercò di sembrare indifferente.
- Senti, puoi restare qui? La casa è protetta, l'hai detto tu stesso.
Inoltre, se Tallah si sveglia, non voglio che pensi che l'abbiamo
abbandonata o, peggio, che mi sia successo qualcosa –
- Hai un cellulare. Può chiamarti… -
- Non è brava con i telefoni. Per favore, non starò via a lungo –
Sahvage scosse la testa. Ma poi scrollò le spalle.
- Non posso fermarti. Ma porterai quella con te –
Le indicò l'arma, lei annuì.
- Sì. Lo faro –
- Mi dai un minuto per fare una doccia. Poi te ne vai? –
- Assolutamente! - allungò le mani per rassicurarlo e si rese conto che
in una di esse c'era una pistola. Così lasciò cadere le braccia. - Voglio dire,
prenditi tutto il tempo che ti serve –
- Non ci metterò molto - disse scomparendo nella stanzetta e
chiudendo la porta.
Lasciata sola, Mae si afflosciò e si chiese come avrebbe fatto a
passare la notte. Poi pensò a cosa stava facendo Sahvage e a dove lo stava
facendo.
Quando Tallah si era trasferita nel cottage, il padre di Mae aveva
riadattato quella vasca al primo piano con una doccia moderna, perché lei
insisteva che poteva avere ospiti. Gli ospiti non si erano mai presentati,
quindi Mae non era sicura di quanto tempo era passato da quando il
soffione della doccia era stato chiamato in servizio.
Sembrava così strano pensare che sarebbe stato questo sconosciuto ad
aprire quel rubinetto.
In un certo senso, creava un collegamento tra lui e suo padre.
- Vado a finire di lavare i piatti - mormorò senza una buona ragione
alla porta chiusa.
Che non si era chiusa. Non completamente.
Mae aprì la bocca per fargli notare l’apertura i qualche centimetro…
Oh. Okay... Ah sì. Lui stava abbandonando i suoi vestiti davvero in
fretta, la maglietta faceva su e giù, quel teschio con le zanne sulla schiena
ricomparve in modo scioccante. Senza tatuaggi sulle braccia, era facile
dimenticare tutto l'inchiostro che aveva.
E poi non pensò più a tutto quello.
Stava guardando i muscoli muoversi sotto la sua pelle liscia... e si
stava chiedendo come sarebbe stato far passare le mani sulle sue spalle. La
spina dorsale. I fianchi...
Sahvage si voltò e tornò a guardarla, la luce del lavabo proiettava
ombre sotto i suoi pettorali, le increspature dei suoi addominali, i tagli delle
sue braccia.
Mae arrossì e cercò di fingere di non averlo guardato a bocca aperta.
- Scusa, scusa... io, ah, stavo per parlarti della porta... –
- Non scusarti –
Quando lei si voltò a guardarlo di nuovo, lui abbassò il mento e la
fissò da sotto le folte sopracciglia.
- Mi piace quando mi guardi –
Aprendo le labbra, Mae fece fatica a respirare.
- Cos'altro vuoi vedere? - disse Sahvage con voce bassa e gutturale.
CAPITOLO TRENTATRE

A Balz piaceva essere puntuale.


Soprattutto quando si trattava di monetizzare il lavoro notturno.
Mentre si riformava ai margini di un terreno degli umani in mezzo ai
boschi, dovette muoversi velocemente, ma era pronto per quello che
sarebbe successo dopo aver ottenuto i suoi soldi. Aveva i suoi abiti da
combattente, i suoi pantaloni di pelle e le sue armi, non sarebbe venuto qui
in questo buco di merda in smoking.
O senza tutti i tipi di metallo.
Venti minuti e doveva essere in campo con Syphon.
La roulotte era nascosta su un terreno talmente ampio che non saresti
venuto a cercare la proprietà a meno che non fossi lì per recintarla. Il tizio
che viveva in quel posto era un vero gioiello del cazzo, ma commerciava in
qualsiasi cosa, e il suo denaro era reale.
Quindi, onestamente, non erano richieste altre qualifiche.
Saltando sui gradini, bussò alla porta che pendeva piuttosto allentata.
Quando non ci fu risposta, bussò più forte e guardò il mezzo. Lo stronzo era
dentro, e ieri avevano fissato l'appuntamento. Inoltre, Dave non era il tipo
che prendeva due appuntamenti alla stessa ora. Per il suo tipo di lavoro,
l'anonimato era tutto. Non volevi che i tuoi fornitori si incrociassero con i
tuoi acquirenti o ti ritrovavi fuori dal giro di intermediario.
- Andiamo, Dave - gridò. - Apri questa cazzo... –
Tirò la porta sfondata per interrompere Dave da qualunque
telefonata...
L'odore che si diffuse era di sangue un po' invecchiato.
Balz aveva già la pistola discretamente impugnata e, con la sua
visione da vampiro, poteva vedere attraverso l'oscurità dell'interno.
Inspirando profondamente, si assicurò che non ci fosse nessun altro lì
dentro.
Sembrava che il buon vecchio Dave avesse giocato con la mano un
po' troppo pesante.
Entrando, trovò l'uomo sdraiato sul divano logoro con la maggior
parte del cervello esploso dalla parte posteriore del cranio, arte astratta
senza una cornice.
- Dannazione! - mormorò Balz guardandosi intorno. - Ho preso questi
orologi, ragazzo mio –
La camera da letto era dall'altra parte, e lui andò a grandi passi verso
l'arredamento con il materasso sul pavimento solo per vedere... qualcuno
aveva aperto l'armadio delle armi di Dave e l'aveva ripulito.
Tornato nella roulotte vera e propria, Balz fissò il punto in cui l'area
salotto aveva subito la sua ristrutturazione di materia grigia e schizzi di
sangue. Meraviglioso, cazzo! Ora doveva trovare un altro ricettatore.
Era come se Starbucks avesse sospeso il Verismo. Aveva accumulato
cialde per mesi, e quando quella dannata macchinetta si fosse rotta o alla
fine le avesse finite, avrebbe dovuto reinventare il suo caffè perfetto.
Un fottuto inconveniente.
Proprio mentre si stava voltando, scorse qualcosa sul pavimento,
seminascosto sotto la sudicia frangia del divano della morte. Era un
sacchetto di plastica della Hannaford ed era parzialmente aperto...
… e mostrava parecchie facce di B. Franklin.
Si avvicinò, tirò via la borsa dai batuffoli di polvere per afferrare
qualcosa di brutto sul tappeto. Mentre trovava resistenza, sentì la voce di
Flula Borg dire A Beer Pong, sei terribile.
La busta si liberò, e quando la aprì, lui fischiò come a un branco di
agnelli.
- Beh, è davvero perfetto, non è vero, Dave? - Determinato a fare il
gioco di squadra, sorrise alla faccia pallida con i suoi occhi ciechi e il buco
rosso fuori centro sulla fronte. - Ci saranno circa ventimila dollari qui
dentro. Uno scambio equo –
Al dettaglio, gli orologi della collezione del signor Commodore
valevano oltre centomila dollari. Ma eri fortunato a ottenere il venti per
cento quando eri dal lato degli affari di Balz.
- Lascerò questi qui - fece l'occhiolino al suo freddo e immobile socio
in affari posando le casse dell'orologio sul tavolino. - Mi dispiace derubarti.
Ma è solo per non rovinare la mia reputazione su LinkedIn – Quindi prese
le banconote e lasciò che il sacchetto sporco scivolasse sul tappeto
sgualcito. - Abbi cura di te, ragazzo –
Proprio mentre Balz stava per uscire dalla roulotte, un paio di fari
inondarono la parte anteriore. Le persiane erano abbassate, quindi lui si
avvicinò e aprì le stecche polverose. Era una berlina malmessa e ne scese
un uomo anziano con una tuta da lavoro, la barba trasandata e i capelli
brizzolati, il viso segnato e cadente. Accese una sigaretta e guardò la
roulotte con un'espressione esausta.
Il padre di Dave. Doveva essere lui. Avevano la stessa struttura ossea,
ma più di questo, il modo in cui guardava davanti a sé era come se si
aspettasse quello che avrebbe trovato all’interno.
Una tristezza inaspettata avvolse il cuore di Balz.
I ladri avrebbero dovuto essere compianti, pensò mentre si
smaterializzava. Anche se le loro vite non valevano un cazzo.

•••

A Luchas House, Nate entrò in una camera da letto nell'angolo sud-


ovest della fattoria. C'erano grandi scatole di cartone contro il muro, un
tappeto arrotolato e due materassi impilati nel mezzo, quindi non era
esattamente accogliente e invitante. Ma quando si avvicinò alla finestra,
ebbe una buona visuale del grande acero nel prato davanti.
- Se metti il letto contro questo muro - indicò il tratto più lungo della
stanza - potrai guardarlo mentre sei sdraiata –
Quando non ci fu risposta, si guardò alle spalle. Elyn era in bagno,
chinata verso lo specchio a fissarsi come se non riconoscesse il suo riflesso,
o forse come se non fosse sicura di dove si trovasse e stesse cercando di
ritrovarsi nei propri lineamenti.
Nate si avvicinò a lei. Al piano di sotto, c'era il rumore di persone che
si muovevano, voci, risate. E il profumo dei biscotti Toll House appena
sfornati. Avrebbe voluto portare quella vita lassù, fino a Elyn.
Gli occhi d'argento di lei incontrarono i suoi nello specchio. Lei non
disse niente, non era necessario. Lui sapeva esattamente a cosa stava
pensando.
Si schiarì la gola.
- Sai, la cosa più difficile per me quando sono uscito è stato
convincermi che sarei rimasto fuori. Che in realtà era dove mi trovavo. Era
come se da un momento all'altro sarei stato riportato indietro. Non mi
fidavo della realtà –
Elyn si voltò verso di lui, gli occhi spalancati.
- Dove sei stato trattenuto? –
- Da qualche parte dove non volevo essere - dovette distogliere lo
sguardo. - Non è importante. So solo quanto sia difficile per te in questo
momento. Ma andrà meglio, te lo prometto –
Quando riuscì a incontrare i suoi occhi, sperava che lei si aprisse e
parlasse della sua storia, anche se temeva i dettagli.
- Sei al sicuro ora? - sussurrò lei.
Lui annuì.
- Sì. E anche tu –
Lei si voltò di nuovo verso lo specchio.
- Mi sono persa. Ho pensato... che sarei stata libera, ma mi sono persa

- Lo so e mi dispiace così tanto. So quello che stai provando e fa
schifo –
- Raccontami… -
- Io, ah, io… non posso - Non sarebbe crollato di fronte a lei. E in
qualche modo, parlare del laboratorio lo avrebbe fatto sentire più nudo che
se lo fosse stato davvero. - Vorrei poterlo fare, ma non posso –
Elyn fece un respiro profondo. Poi si allungò nello spazio tra loro e
gli prese la mano. Lei chiuse gli occhi, e lui non poteva credere che lo stava
toccando…
Un fulmine attraversò il suo corpo e, in seguito, rimase immobile e
totalmente insensibile, ma ancora in piedi. Poi arrivò la confusione.
All'inizio pensò che si trattasse di qualcosa di fisico, ma poi si rese conto
che ciò che stava accadendo era nel suo cervello. Era come se i suoi
pensieri venissero mescolati, come un mazzo di carte.
E poi Elyn rimase a bocca aperta.
Nel bel mezzo del suo strano stato di trance, Nate si concentrò sui
suoi occhi mentre si allargavano e il colore svaniva dal suo viso. Le lacrime
si formarono e scivolarono sulle sue guance, scorrendo giù e cadendo dai
lati della mascella. Il tremito arrivò dopo, la bocca di lei si aprì e il labbro
inferiore iniziò a tremare. Con la mano libera la coprì…
Elyn lasciò cadere la mano di lui e fece un passo indietro barcollando
e sbatté il fianco contro il lavandino.
Mentre la sensazione di intorpidimento svanì, proprio come se fosse
un livello tangibile di un qualche tipo di liquido, Nate fu consapevole di una
grande vergogna che inondava il vuoto.
Per quanto fosse stato doloroso il laboratorio, Elyn inorridita da lui
era un'agonia peggiore.
Schiarendosi la gola, si concentrò sulle scatole nella sua stanza.
- Beh, comincerò con queste –
Allontanandosi da lei, lui…
Elyn gli saltò davanti e lo abbracciò così forte da togliergli il fiato nei
polmoni.
- Ah... Nate - disse con una voce rotta. - Oh, santissima Vergine
Scriba. Quello che ti hanno fatto. Alla tua mahmen. Ti hanno fatto del male

Nate era così scioccato dal contatto, dal suo profumo, da lei... da
tutto... che non registrò il contenuto delle sue parole. Ma poi si mise al
passo con tutto.
Le mani di lei gli stavano accarezzando la schiena.
- Mi dispiace così tanto –
Nate voleva abbracciarla. Lo fece, ma tutto precipitò. Lasciò cadere la
testa sulla spalla di lei, aprì la cassetta di sicurezza interna in cui conservava
i suoi orribili ricordi... e lasciò entrare il dolore.
Era passato un po' dall'ultima volta che l'aveva fatto, il ritmo delle sue
notti e dei suoi giorni, la normalità della vita con Sarah e Murhder, avevano
oscurato il suo passato... e ringraziava il cielo per quello. Eppure Elyn stava
tirando fuori ciò che lui desiderava fermamente ignorare.
E in qualche modo, anche se era un'agonia, la sua vicinanza gli diede
una pace che non aveva mai ottenuto con nessun tipo di terapia con la
signora Mary.
Giù al primo piano, la gente continuava a parlare, a ridere e a fare i
biscotti.
Su, nel bagno di Elyn, il mondo si era fermato quando due persone
spezzate erano tornate intere. Attraverso la magia del non essere da soli.
CAPITOLO TRENTAQUATTRO

Sahvage appoggiò la camicia sul ripiano del lavandino e si concentrò


su Mae. Era in piedi dall'altra parte del tavolo della cucina, una mano
stringeva la pistola che le aveva portato, l'altra fluttuava nell’aria come se
stesse cercando qualcosa da fare.
E incredibilmente, lui aveva qualche idea in proposito… e lei era
chiaramente disponibile: il suo delizioso profumo l'aveva tradita. I suoi
occhi, mentre percorrevano il suo petto nudo, la tradivano. Il modo in cui
respirava...
- Dimmi, cosa vuoi vedere, Mae… -
Per favore, Dio, lascia che Tallah dorma per un'altra ora, pensò.
Due. Otto.
Perché il modo in cui Mae lo stava fissando… c’erano cose che
dovevano fare insieme che non avevano bisogno di un pubblico o di alcun
tipo di interruzione.
- Cosa vuoi, Mae… - Nessuna domanda questa volta. - Vuoi che
chiuda questa porta? –
Lei rispose senza toccare nulla o muoversi. Il pannello di legno che li
separava, quello che le offriva solo una visione parziale di lui, si mosse in
modo da aprirsi di più. In modo che lei potesse vederlo bene.
Completamente.
Sahvage di certo non aveva modificato la sua posizione, e di sicuro il
vento non avrebbe potuto farlo.
Era stata lei. Perché quello che lui voleva mostrarle era ciò su cui lei
voleva posare gli occhi.
E lungi da lui deludere una femmina di valore.
Le mani di lui andarono alla cintura e staccò il cinturino di cuoio dalla
fibbia. Poi schiacciò il bottone e aspettò ad aprire la cerniera.
Il petto di Mae si stava sollevando sempre più velocemente e i suoi
occhi erano fissi su ciò che lui stava facendo. E il profumo della sua
eccitazione si stava facendo più intenso.
E gli fece desiderare di andarci piano, così che questo viaggio in
bilico tra tortura e piacere, durasse per sempre.
- È questo che vuoi? - chiese in un ringhio.
- Sì - sussurrò.
Beh, non era quella la risposta giusta.
Sahvage abbassò la cerniera e la sua erezione fece il resto, liberandosi
dalla sua costrizione, il suo membro sporgeva eretto dai suoi fianchi.
Quando lasciò andare i pantaloni, questi caddero ai suoi piedi.
Lei si morse il labbro inferiore e gemette. Ma non si avvicinò.
Ed era eccitante.
- Vuoi che lo tocchi? - disse lui a bassa voce.
Quando lei annuì, lui avvolse il palmo intorno alla sua asta. Gemette:
non poté farne a meno. Voleva che fosse lei a toccarlo, e voleva baciarla
mentre lei lo accarezzava. Mentre muoveva la mano su e giù, mentre lei lo
guardava, la sua mente andò su come sarebbe stato quando sarebbe stata lei
a farlo. Quando la mano di Mae sarebbe stata su di lui. Quando lo avrebbe
fatto venire…
Così eccitante, cazzo.
E lei doveva sentirsi allo stesso modo perché mise via la pistola e si
avvicinò. A ogni passo che faceva, lui si accarezzava. Accarezzava.
Accarezzava. Quando arrivò alla porta, pregò che entrasse.
Lei lo fece.
Oltre la soglia. La porta si chiude dietro di lei.
Ma poi vi si appoggiò contro e, avvolgendosi con le braccia, lo fissò.
- Ora non è il momento –
La sua voce era incredibilmente delusa, e sentire quello lo trafisse
come una spada.
Sahvage fermò la mano, ma non lasciò la presa.
- Mi piacerebbe discutere su questo. Ma come puoi vedere, al
momento sono un po' egoista –
La lingua rosa di Mae, la sua deliziosa, erotica lingua rosa, attraversò
il suo labbro inferiore. Poi morse quella carne morbida con le zanne, come
se stesse ingoiando un gemito.
- E se Tallah si sveglia? - sussurrò.
- Mi fermo –
Ci fu un momento di silenzio. E poi, grazie alla Vergine Scriba, Mae
annuì.
- Voglio solo vedere... come sei –
Appoggiando la mano libera al muro, lui ebbe la sensazione che
avrebbe avuto bisogno di aiuto per tenersi in equilibrio.
- Quando vengo? –
- Sì - sospirò.
- Dimmi quello che vuoi. Sai, solo per essere sicuro di aver capito
bene –
- Voglio... vederti... –
- Cosa? - chiese.
- Venire –
Quella parola che lasciò le sue labbra fece inclinare e girare il mondo.
E lui non perse la sua occasione. Anche se voleva le mani di lei sul suo
corpo, e voleva darle piacere, se questo era il massimo a cui potevano
spingersi… bene. Era totalmente fottuto.
Liberandosi con un calcio dei pantaloni, andò dalla base alla punta
con il palmo, trovando un ritmo lento che stimolava la sua erezione più del
miglior sesso che avesse mai fatto, e non era a causa della sua tecnica. Era
tutto a causa di Mae. La sua sola presenza, anche senza alcun contatto fisico
tra loro, era più eccitante di tutte le altre femmine con cui era stato
fisicamente.
Non sapeva perché. E non era incline a perdere tempo a pensarci.
Aveva la sensazione che la risposta lo avrebbe spaventato a morte...
Mae si portò le dita alla bocca per sfregarsi il labbro inferiore avanti e
indietro come se stesse immaginando lui che la baciava...
Sahvage sibilò e chiuse gli occhi. Era già così al limite e non voleva
che finisse così presto. Questo spazio sacro, solo per loro due, era come un
caveau che chiudeva fuori il mondo, e cazzo, lui lo voleva davvero. Aveva
desiderato questo tipo di amnesia da molto tempo.
Ma poi dovette aprire di nuovo le palpebre. E tornare al lavoro.
Mentre il calore aumentava e il suo cazzo diventava ipersensibile,
strinse la presa e si mosse più velocemente.
- Di’ il mio nome - ordinò. - Voglio sentirlo –
- Sahvage... –
- Vuoi questo? –
- Dio… sì - lei chiuse gli occhi, ma solo per una frazione di secondo. -
Voglio te –
- Quanto? - Più veloce. Più veloce. - Dimmi quanto –
- Così tanto. Sahvage... –
Mentre lei gemeva il suo nome, lui lasciò andare il muro e afferrò un
asciugamano, ma non coprì la punta della sua erezione. Mise le pieghe
morbide davanti quando cominciò a eiaculare così che lei potesse guardare,
potesse immaginare lui che la riempiva, il suo ritmo immutabile mentre si
svuotava dentro di lei. E cazzo, voleva continuare a guardarla, ma il piacere
era così intenso che le sue palpebre si chiusero da sole.
Bene. Avrebbe fantasticato di essere sopra di lei, i suoi seni contro i
suoi pettorali, le sue gambe allargate, il suo corpo inarcato per ricevere ciò
che le stava pompando dentro…
Ricominciò a venire prima ancora che avesse finito.
Dio, l'unica cosa che avrebbe potuto rendere tutto questo ancora più
eccitante? Era se lei avesse raggiunto l'orgasmo insieme a lui.

•••

Mae dovette sorreggersi contro la porta del bagno. Il corpo di


Sahvage era magnifico, così potente, così virile, i muscoli contratti dei suoi
enormi pettorali e delle braccia in netto contrasto con il suo corpo, quel
tatuaggio che portava con sé un margine di pericolo, il suo profumo troppo
delizioso per essere descritto. E la sua mano larga su quella grossa
erezione… lo avrebbe visto sulla parte posteriore delle palpebre per quasi
tutto il resto dei suoi giorni di sonno. Forse anche durante le notti di veglia.
Dio, sperava che Tallah non si svegliasse. Per tipo un anno.
Nel frattempo, Sahvage continuava a raggiungere l'orgasmo, ed era...
bellissimo. Era un po' spaventoso perché era così grande. Ma lui aveva
capito che doveva essere lei ad aprire quella porta, letteralmente e
proverbialmente.
Non poteva immaginare di dargli piacere in quel modo. Ma era
disposta a scommettere che lui le avrebbe mostrato come fare...
Perché no?, pensò. Cosa stai aspettando?
Mae si fece avanti verso di lui e, mentre lo faceva, era nervosa.
Soprattutto quando i suoi occhi brillarono come se lo avesse sorpreso. Ma
lei non si tirò indietro, però. Quando avrebbe avuto un'altra occasione come
questa?
Soprattutto perché sapeva che lui era di passaggio nella sua vita.
- Cosa devo fare? - disse dolcemente.
Ci fu un attimo di silenzio, come se lui non fosse sicuro di cosa stesse
chiedendo.
- Tutto quello che vuoi - Si lasciò andare e si appoggiò alla parete
vicino alla doccia. - Puoi toccarmi ovunque tu voglia e in qualsiasi modo tu
voglia –
- Ma cosa... - Mentre lui la guardava confuso, lei arrossì. - Io, ah...
dimmi cosa ti piace –
- Le tue mani su di me. Dovunque. La tua bocca. Su qualsiasi parte di
me. Questo è quello che voglio - Improvvisamente, Sahvage si irrigidì. -
Mae.... hai mai toccato un maschio prima? –
Bene, merda.
Voleva mentire. Voleva apparire sofisticata, come quella bruna,
sessualmente sicura di sé. Come qualcosa di diverso da ciò che era
veramente. Ma non c’era nulla da nascondere, anche se la faceva morire di
vergogna.
E poi, di cosa doveva vergognarsi?
Mae scosse la testa.
- No –
Lui sbatté le palpebre. Due volte. E poi coprì il suo sesso con
l'asciugamano.
Ingoiando un’imprecazione, Mae fece un passo indietro. Finché la
porta chiusa le colpì le scapole con un sobbalzo.
- Cambia le cose, eh? - Si scostò i capelli dal viso. – Scusami –
- Non hai niente di cui scusarti –
- Lo so - Schiarendosi la gola, alzò le spalle e si strofinò la parte
superiore delle braccia per riscaldarsi. - I miei genitori erano molto
conservatori, quindi sia io che mio fratello... beh, non è importante ora. Ha
rovinato tutto, però. Sembra che sia meglio che io me ne vada adesso –
Mentre usciva dal bagno, il suo cuore batteva forte e un brivido la
seguì, anche se aveva la sensazione che il punto freddo fosse all'interno del
suo corpo e non dovuto a correnti d'aria.
Il fatto era che aspettare per fare sesso finché non fosse stata
accoppiata era il modo in cui era stata cresciuta, e non era stato qualcosa a
cui aveva pensato molto. Quando si era dovuta nutrire era stata sorvegliata,
e un paio di volte in cui ne aveva avuto bisogno, era andata dal guaritore
della razza per la sedazione. Trovare un maschio e sistemarsi era sempre
stato una fantasia del futuro. E dopo la morte dei suoi genitori nei raid, il
romanticismo era stata l'ultima cosa a cui aveva pensato. Aveva bisogno di
assicurarsi di avere abbastanza soldi, che la casa fosse curata e che tutto non
andasse in pezzi, specialmente quando si trattava di Rhoger.
Già, e guarda come era andata a finire bene.
Ma che diavolo importava adesso?
Quello che doveva fare era ricongelare suo fratello. Perché per quanto
raccapricciante fosse il suo lavoro notturno, era un'opzione migliore che
stare qui con il suo stato di vergine in bella vista mentre un eccitante
maschio prendeva una saponetta fortunata per un giro di prova sul suo
corpo. E sì, certo, avrebbe dovuto sentirsi realizzata e cose del genere,
sentire il ruggito di essere femmina, per nulla dispiaciuta per la scelta che
aveva fatto riguardo al sesso… che non sembrava affatto una scelta, ma
quando eri attratta da un maschio e avevi superato l'età in cui la maggior
parte delle femmine aveva avuto un paio di amanti, ti sentivi come se
qualcosa in te non andava.
E Dio, il modo in cui lui si era coperto! Era come se pensasse di
essere uno sporco pervertito o qualcosa del genere. Ma andiamo, adulti
consenzienti e tutto il resto.
La porta del bagno si aprì. E Sahvage uscì, completamente vestito.
Mae alzò la mano.
- Per favore. Non dirlo –
- Come fai a sapere cosa stavo per dire? –
- Posso indovinare. Ti dispiace, non succederà più, non lo sapevi, non
potevi immaginarlo, non volevi offendermi… - imprecò sottovoce. - Non
hai fatto niente di sbagliato –
Lui fece un cenno a qualcosa nella sua mano.
- Te ne stai andando? –
Mae abbassò lo sguardo e scoprì di aver preso la giacca e la borsa. Eh.
Vai a capire.
- Ah sì. Ma tornerò subito –
- Mae… -
Chiuse gli occhi al suo tono. C'era così tanta compassione in esso,
anche pietà. E questo bastava a risucchiare l’atmosfera bollente tra loro.
Anche se non ne era rimasta affatto in verità.
Mae scosse la testa.
- Non posso parlarne ora - Prova con mai. - Inoltre, ci sono cose più
importanti di cui preoccuparsi. Ci vediamo tra un po' –
Mentre si precipitava verso la porta d'ingresso, perché avrebbe dovuto
calmarsi prima di potersi smaterializzare, tutto si fece confuso e armeggiò
con il catenaccio, le mani sudate, le dita maldestre. Quando finalmente
riuscì ad aprire, saltò quasi fuori sul gradino anteriore e ci volle un po' di
autocontrollo per non sbattere la porta, non perché era arrabbiata, ma perché
era totalmente scoordinata.
L'aria della notte era fresca contro il suo viso caldo e fece dei respiri
profondi. Doveva farlo per smaterializzarsi, ma anche i suoi polmoni
stavano bruciando e le sembrava di avere una mano intorno alla gola.
Camminando in avanti, era vagamente consapevole della luna in alto. Solo
una striscia sottile, però, quindi l’illuminazione era scarsa...
Un fascio di luce uscì dal cottage alle sue spalle, la sua ombra si
allungò sull'erba secca per l'inverno, la forma del suo corpo diventò
distorta.
Quando si voltò, Sahvage si stava avvicinando, e quando si fermò, lei
sussultò quando le prese la mano per metterla tra le sue gambe. L’erezione
contenuta dalla lampo era ancora molto grande e molto dura...
- Non hai rovinato nulla - disse con voce gutturale. - Mi hai solo
sorpreso e non ero sicuro di come gestirlo –
Le strofinò il palmo avanti e indietro contro la sua erezione, e quando
lei lo sentì attraverso i pantaloni, lui sibilò e chiuse gli occhi.
- Non è cambiato niente per me - la sua voce era così ruvida che quasi
non riusciva a capirlo. - Affatto. Ti voglio ancora su di me –
Mae sollevò la testa per guardarlo, e in quel momento lui abbassò lo
sguardo. Ci fu un momento incandescente di attesa, e poi il bacio fu
immediato e intenso, le braccia di lei lo avvolsero e lo tennero forte. Quelle
di lui fecero lo stesso. Era così grande, ed era proprio come lo voleva.
Massiccio, affamato e pesante sopra di lei, in grado di cancellare tutto.
Anche Rhoger e il Libro e quella bruna.
Quando finalmente si fermarono per prendere fiato, lei fissò il suo
viso affamato. Era impossibile non immaginarli sdraiati a guardarsi negli
occhi mentre...
Quando un'ombra passò attraverso il raggio di luce, lei guardò di
nuovo dentro casa. Tallah stava uscendo dal seminterrato, la porta della
cantina si stava aprendo.
- Torno subito - giurò Mae allontanandosi dal suo corpo.
- Ti aspetterò –
Ci volle un momento per calmarsi abbastanza da smaterializzarsi, e
mentre scompariva, lo intravide che si girava di nuovo verso la casa di
pietra...
Quando Mae si riformò dietro il garage del ranch dei suoi genitori,
stava sorridendo. E quasi non importava se si fossero davvero rivisti di
nuovo. Solo il fatto che lui l'aveva accettata così com'era era abbastanza.
Tirando fuori la chiave della macchina, pensò a come era stato quel
bacio.
E decise... beh, forse il fatto di essere accettata non era abbastanza.
CAPITOLO TRENTACINQUE

In città, Balz camminava fianco a fianco con Syphon attraverso un


quartiere di vendita al dettaglio, le vetrine chiuse con grate retrattili e
contrassegnate con i cartelli 70% di sconto!, suggerivano che il flusso di
cassa fosse un problema perpetuo per quegli esercizi sgangherati. Molti
graffiti. Parecchia spazzatura ammucchiata dal vento, l'equivalente urbano
delle dune di sabbia nel deserto. E il cemento irregolare sotto i loro anfibi
era il tipo di cosa che dovevi controllare continuamente: non importava
quanto forte fosse la tua spavalderia o quante armi avessi allacciato addosso
o quanto cuoio fosse fissato con la cerniera sul tuo corpo: una punta
rinforzata in acciaio contro una fessura avrebbe potuto farti tornare con i
piedi per terra in molti modi diversi.
- Sì, e poi cosa è successo? - chiese Balz mentre guardava da sinistra
a destra.
- Nella bara non c'era niente –
Balz si accigliò e guardò suo cugino. Syphon camminava
tranquillamente come al suo solito, i suoi capelli scuri erano stati tinti da
poco con delle strisce verde scuro. Data la sua dieta ortoressica, si poteva
supporre che si stesse effettivamente trasformando in un frullato. Ma no, lui
e Zypher erano stati impegnati con la tinta per capelli per tutto il giorno.
Zypher aveva scelto alcune sfumature viola scuro molto accattivanti.
- Cosa vuoi con dire, niente? - suggerì Balz.
- Beh, nessun corpo. Ma abbiamo dell'avena di duecento anni se
vogliamo giocare alla roulette russa con la gastroenterite. E il Dono della
Luce o qualunque cosa fosse? Niente nemmeno di quello. Rhage mi ha
detto che erano tutti intorno alla bara aperta assolutamente confusi. Una Tic
Tac? –
Balz allungò il palmo, uno scuoti-scuoti precedette due caramelle che
gli andarono dritte in bocca.
- E ora? –
Pigramente si guardò alle spalle. Da quando l'Omega non c’era più,
queste pattuglie notturne non erano altro che passeggiate, e gli mancava il
combattimento.
- Non lo so. Wrath dice che dobbiamo trovare il Libro in un altro
modo… -
Balz si fermò.
- Cosa? –
Syphon fece un paio di passi avanti, si fermò e guardò indietro.
- Il Libro. Quello di cui ti ho parlato. Il motivo per cui Rehvenge è
venuto dalla Confraternita: perché mi guardi così? –
Quando una sensazione di stordimento fece pensare a Balz che il
cemento sotto i suoi piedi fosse ondulato, si voltò verso i negozi in modo da
poter fingere che qualcosa avesse attirato la sua attenzione. Tipo, in un
modo normale.
- Che mi dici di questo Libro - disse con calma.
- Te l'ho detto –
- Dimmelo ancora –
Syphon alzò le grosse spalle.
- È una specie di libro di incantesimi. Una femmina ha avvicinato
Rehv perché lo stava cercando, e lui non era affatto felice a quell’idea –
- Solo per curiosità, che aspetto ha il Libro? –
- Non lo so. Rehv non l'ha detto. Ho la sensazione che lo riconoscerai
quando lo troverai –
Portandosi una mano malferma agli occhi, Balz era vagamente
consapevole che suo cugino stava continuando a parlare, ma non riusciva a
sentirlo. E mentre cercava di riprendersi...
L’impronta di una mano viola.
Si accigliò, sbatté le palpebre un paio di volte, ma non cambiò nulla
di ciò che stava fissando: apparentemente era in piedi di fronte a l'impronta
viola di un palmo delle dimensioni del suo petto. Sopra di essa, in corsivo al
neon, c'era un cartello lampeggiante che diceva SENSITIVA.
Syphon si mise tra lui e la finestra.
- Dove sei andato, cugino? –
- Sono proprio qui - mormorò facendo il giro per provare ad aprire la
porta viola.
Quando l’aprì non fu sorpreso, e non solo perché era ormai buio e le
SENSITIVE probabilmente non staccavano alle cinque, nemmeno in questo
quartiere: era come se una specie di campanello fosse stato suonato al
contrario, non era lui che cercava qualcuno lì dentro, ma piuttosto qualcuno
là dentro che lo stava cercando.
- Cosa stai facendo, cugino? - chiese Syphon.
La scala che si rivelò era stretta e ripida, dipinta di viola, e Balz
superò i gradini con urgenza, come se il suo nome fosse stato chiamato al
secondo piano. Come se fosse stato qui prima, anche se non l'aveva mai
fatto. Come se questo fosse il punto centrale di... qualunque cosa.
Dietro di lui, Syphon aveva molto da dire.
Balz non sentì nulla.
C'era una porta sul pianerottolo superiore, contrassegnata da un altro
simbolo di un palmo viola. E non era sorpreso che prima di pensare di
provare la maniglia, la porta si fosse aperta per lui.
Cazzo, era buio lì dentro. L'interno nero come la pece era così denso,
così pervasivo, che era simile a uno strappo nel tessuto del tempo e dello
spazio...
Syphon gli afferrò il braccio e diede uno strattone.
- No! –
- Lasciami andare... –
- Non entrare... –
Successe tutto così in fretta. Un momento loro due stavano giocando a
tiro alla fune con il suo braccio, quello dopo…
Le luci tremolarono nella tromba delle scale, e poi qualcosa afferrò
Syphon intorno al petto e lo spinse indietro. Ma non cadde. Rimase sospeso
in aria sopra i gradini ripidi.
Un'ombra, che in qualche modo aveva forza e sostanza, lo stava
afferrando come se fosse una preda, reclamando il suo corpo da
combattente. E Syphon si stava inarcando all'indietro e urlava di dolore, il
viso pallido, gli occhi spalancati.
Salvalo, si disse Balz. Salva…
Eppure si voltò a guardare la porta che si era aperta per lui. La spinta
a procedere oltre, a entrare e perdersi nell'oscurità, era come un tocco
tangibile su tutta la sua pelle, un richiamo che era cibo per un maschio
affamato, denaro per un povero, guarigione per un malato terminale. C'era
qualcosa lì per lui che lo avrebbe salvato, lo avrebbe salvato da...
Syphon urlò di nuovo, e il suono di quell'agonia liberò Balz dalla
schiavitù. Con un sussulto, si voltò e afferrò la pistola.
Fu allora che arrivò il profumo.
L'odore era speziato e intenso, una vecchia fragranza che aveva
annusato negli anni ottanta, sulle femmine della razza che erano
socialmente superiori a lui, sulle donne al di fuori della razza che vivevano
nelle città e camminavano per le strade di notte al braccio di uomini in
smoking.
Poison di Dior.
Aveva cercato il nome perché gli piaceva così tanto…
Anche prima di voltare la testa verso il vuoto, sapeva cosa avrebbe
visto nell'oscurità.
Non si era sbagliato.
Da un buco nero apparve la bruna dei suoi sogni, ed era magicamente
bella, irreale ma corporea.
- Sei tu... - sussurrò.
Quando lei gli sorrise, Syphon urlò di nuovo, ma era come se la
presenza di lei abbassasse il volume su tutto il resto del pianeta, incluso suo
cugino.
Quello che stava succedendo sopra le scale all'improvviso sembrava
un sogno invece che lei.
- Ti manco? - La sua voce era il paradiso, il paradiso assoluto nelle
sue orecchie... una sinfonia mista a una banda musicale, condita con hip-
hop e un po' di jazz. - Tu mi sei mancato. Sembra passata un'eternità da
quando siamo stati insieme. Perché non vieni dentro, ho un letto che
potremmo usare... –
Syphon urlò ancora più forte.
- Non preoccuparti per lui - Si leccò le labbra rosse come se
pregustasse che sapore avrebbe avuto il cazzo di Balz. - Non ha niente a che
fare con noi - La sua donna fece un passo indietro nell'oscurità e gli fece un
cenno con l'unghia rosso sangue. - Vieni con me, Balthazar, e ti mostrerò un
piacere che non hai mai conosciuto… e ricchezze che faranno smettere di
rubare persino te. Niente più spazi vuoti da riempire con gli oggetti degli
altri, niente più prurito che non puoi grattare. Sarai finalmente sazio.
Troverai finalmente la pace che rincorri. Con me potrai riposare, Balthazar

Lacrime si riversarono negli occhi di lui.
- Come fai a conoscermi? - sussurrò.
- Sciocco maschio, sono stata dentro di te. Pensavi che non stessi
camminando per i tuoi corridoi e provando i tuoi mobili mentre ero lì?
Luogo solitario, la tua anima, e ne ho visti molti. Ma non devi più
preoccuparti di questo. Sarò con te a ogni passo da ora in poi. Tutto quello
che devi fare è venire da me ora –
La decisione era stata presa prima che lui si rendesse conto di essere
arrivato a una conclusione: il suo corpo fece un passo avanti. E un altro.
Balz non si voltò a guardare suo cugino.
Non riusciva a negare nulla a quella femmina.
Nulla.

•••

Quando Mae si smaterializzò, Sahvage riorganizzò la sua erezione nei


pantaloni e tornò nel cottage.
Chiuse la porta e vide che la porta del seminterrato era aperta. Ma
Tallah non era in cucina né si stava muovendo al piano di sopra.
Chiaramente, era tornata di sotto, per qualcosa che aveva dimenticato
o che aveva richiesto la sua presenza nei suoi alloggi, e lui immaginò che
avesse a che fare con il suo abbigliamento. La vecchia femmina era rimasta
certamente fedele alle sue radici della glymera. Anche se non viveva in una
villa, si vestiva per quella parte. Era arrivata per giocare a Monopoli con
l'aria di essere a un evento formale, ed era dolce il modo in cui arrossiva
ogni volta che lo guardava.
Anche un po' triste.
Ed era ovvio quanto lei significasse per Mae, e viceversa. Non c'era
da stupirsi che il Libro fosse un tale argomento di discussione. Se esisteva
una vita che valeva la pena preservare con la magia oscura, Tallah sarebbe
stata sulla lista.
Diede un'occhiata ai piatti sporchi che erano rimasti.
Ma Dio, quello stufato era stato terribile.
Determinato a essere utile e non solo decorativo, prese il posto
lasciato da Mae, raccolse il batuffolo di carta insaponata fradicia e lavò le
stoviglie rimaste nel lavandino. Come Tallah fosse riuscita a usare
settecentomila pentole e padelle era un mistero. C'erano stati solo due
ortaggi a radice e un paio di manciate di carne in quel bollito di cemento
liquido.
Mentre lavava e risciacquava, pensò a Mae in piedi contro la porta del
bagno, i suoi occhi fissi sul suo lavoro manuale come se fosse la cosa più
incredibile che avesse mai visto. Cazzo, gli era sembrato di avere un palmo
pieno d'oro mentre lei lo guardava, ma quando aveva saputo che era...
Ovviamente desiderava ancora la femmina. Semplicemente non
voleva toglierle qualcosa di permanente visto che lui era molto meno che
temporaneo nella sua vita.
Non era giusto.
Con quel pensiero in mente, finì di mettere in ordine il lavandino.
Asciugò tutto. Mise via le cose nei posti da cui Tallah le aveva tirate fuori.
E proprio quando controllò l'orologio sul muro, registrò qualcosa, il
suo campanello interno suonò, anche se non era sicuro per cosa.
Anche se il fatto che Mae fosse via quasi da un'ora non era una grande
notizia.
Sollevando la pistola che aveva nascosto, guardò il frigorifero che
barricava la porta sul retro. Guardò fuori verso la porta d'ingresso. Controllò
le scale del seminterrato. Che diavolo era…
Quando i suoi occhi si posarono sul tavolo, tornarono indietro su ciò
che aveva catturato la sua attenzione inconscia.
- Merda –
Rimettendo la pistola nella cintura, raccolse la nove millimetri che
aveva preso per Mae. Lei l'aveva lasciata nella fretta di andarsene.
- Torno subito - gridò nel seminterrato.
Smaterializzandosi, salì al secondo piano e uscì dalla persiana che
aveva lasciato aperta la sera prima. Non ci furono problemi a trovare il
ranch di Mae, e quando si riformò nel garage, le luci al suo interno erano
accese.
La saracinesca era come l'avevano lasciata, quindi riuscì ad
avvicinarsi alla macchina di lei senza problemi, e si accigliò. L'odore di gas
di scarico fresco era evidente, quindi era chiaramente uscita per delle
provviste e la porta sul retro della casa era stata tenuta aperta con un fermo.
Avrebbe voluto aiutarla a portare dentro qualunque cosa lei avesse
comprato.
Entrò in un breve corridoio, vide la borsa e le chiavi della macchina di
Mae sulla lavasciuga. Anche la sua giacca.
C'era una scia umida sulle piastrelle che conducevano in una cucina
modesta, e mentre la seguiva, sentì uno strano rumore più in profondità
all'interno della casa. Man mano che procedeva, scoprì che la casa a un
piano era piccola, con mobili che non erano nuovi, ma tutto era pulito e lui
si sentì a proprio agio per la mancanza di confusione.
Quel rumore lo fece addentrare ancora più in là nella casa, in un
corridoio che immaginò portasse alle camere da letto. La porta del bagno
era aperta a metà e iniziò a sorridere quando il profumo di Mae si fece più
forte nel suo naso.
- Posso aiutarti… -
Quando si avvicinò alla porta, lui...
Si fermò di colpo. Perché non aveva idea di cosa stava guardando.
Mae era in ginocchio davanti a una vasca da bagno, con le borse del
ghiaccio vuote sparse intorno a lei, una sorretta in modo che il suo carico di
cubetti potesse unirsi agli altri. Tutto ciò era strano, ma non come quello
che gli inchiodò sia gli stivali che il respiro nei polmoni.
Dentro la vasca... sembrava ci fosse un cadavere. La testa era
abbassata vicino al rubinetto, i piedi alzati all'altra estremità, le dita bianche
che spuntavano dal ghiaccio.
Con un'espressione di orrore, Mae si voltò di scatto e allargò le
braccia, come per proteggere ciò che stava tenendo al freddo. O forse per
cercare di nasconderlo.
- Cosa ci fai qui! –
- Hai dimenticato la pistola - disse lui lentamente mostrandole l'arma.
- Te l'ho portata in modo che ti sentissi al sicuro... cos'è quello? -
O chi, sarebbe stato meglio dire. Anche se aveva la sensazione di
saperlo. Quei capelli biondo scuro erano proprio come quelli di lei.
- Mae... - Sahvage si passò una mano sul viso. – No –
- Vattene - disse lei con voce tremante. - Lasciaci in pace... –
- Vuoi riportarlo indietro usando il Libro. Oh Dio... Mae... no -
CAPITOLO TRENTASEI

C'erano precipizi più terribili della vita e della morte. E Balz si


trovava su uno di essi.
Mentre era in bilico sul limite dell'acquiescenza, poiché ogni parte di
lui voleva seguire il comando della donna dei suoi sogni, era consapevole di
un'inevitabilità che era come una seconda nascita: una scelta fatta per lui da
qualcun altro che lo faceva esistere nel mondo. E quindi, sì, sarebbe entrato
nella proprietà della sensitiva, e avrebbe seguito il cenno della bruna, e
vissuto quello che era stato il suo destino fin dall'inizio.
- Esatto - disse lei con un sorriso su quelle labbra rosso sangue. -
Vieni da me... –
Dal nulla, un'immagine lo schiaffeggiò sul viso, come se fosse un
palmo che teneva il pugnale: in un tugurio nella foresta dove si stavano
riparando dal sole, vide suo cugino nel Vecchio Continente. Syphon stava
sorridendo avvolto nelle armi e nel robusto cuoio della guerra, una benda
curativa sulla tempia, il risultato della lama di un lesser che era stato più
veloce e più agile del suo bersaglio.
Un compagno. Un amico. Un protettore.
Famiglia.
I suoi occhi erano così blu, il suo sorriso così ampio, la sua generosità
inesauribile anche se non avevano cibo caldo nelle loro pance e solo la terra
di una grotta come giaciglio...
- Ecco, prendilo -
L' invito di suo cugino, pronunciato nell'Antico Idioma, era chiaro
come se fosse stato rivolto a Balz proprio in quel momento, e poteva vedere
il combattente proteso in avanti, con la mano tesa.
E nel palmo, l'ultimo pezzo di pane che aveva.
- Non hai fame, quindi? - aveva chiesto Balz.
- No, è per te, cugino. Prendi e nutriti. Troverò qualcos'altro -
Syphon aveva pronunciato quelle semplici parole sopra il ringhio del
proprio stomaco e nonostante il fatto che non c'era altro cibo da nessuna
parte nella caverna...
Gli occhi di Balz si spalancarono, anche se non si era accorto di averli
chiusi. E il sorriso che aveva davanti, il sorriso della seduzione, il sorriso
del male che sapeva di aver catturato un'altra anima... non era per niente
come quello di suo cugino.
Non aveva niente a che vedere con quello di suo cugino.
- Sai cosa vuoi fare - disse la donna. - Sai che verrai con me... –
Con un grido di battaglia, Balz si voltò e si lanciò dal pianerottolo più
alto delle scale per raggiungere le gambe penzolanti di suo cugino mentre
l'ombra sollevava il maschio indifeso sempre più in alto, come se stesse per
attraversare la finestra montata sopra l'ingresso per portare via Syphon.
- Fottuto idiota! - gridò la bruna dall'abisso. - Fottuto stronzo! –
Poco prima che l'entità ombra rompesse il vetro e scomparisse con la
sua preda, Balz afferrò lo stivale sinistro di suo cugino e accompagnò quella
presa insufficiente con una stretta dura come la roccia alla caviglia.
L'ombra emise un grido empio quando il peso aggiunto la trascinò
verso il basso, e poi qualcosa cedette, l'entità lasciò cadere il suo carico.
La schiena di Balz bloccò la caduta, il suo corpo atterrò con uno
schianto sui gradini di legno e iniziò una discesa che sicuramente lo
avrebbe portato all’ospedale… e il corpo di suo cugino era un orribile
inseguitore. Tutto quel peso lo sbatté ancora più forte contro le scale
spietate e senza moquette. Mentre il suo cervello era sopraffatto dal dolore,
ci fu un momento di stordita paralisi, ma il rapido contrattacco dell'entità
ombra significava che non c'era tempo per lamentarsi del dolore o anche
solo per controllare se Syphon era ancora vivo.
Gettando un piede fuori per fermare la loro discesa, Balz spostò una
mano verso la fondina e prese una delle sue pistole. Proprio quando sollevò
il muso, l'ombra scattò in avanti, tentacoli simili a serpenti sferzarono
colpendo lui e suo cugino. Quando il suo avambraccio venne urtato,
imprecò per il dolore, ma premette il grilletto.
Il caricatore automatico fece la sua parte sparando proiettili dopo
proiettili e grazie al cielo funzionò. L'ombra emise un altro di quegli strilli
assordanti, indietreggiando come se fosse stata bruciata. Eppure tornò.
Quindi Balz tirò fuori un pugnale d'argento. Quando uno dei tentacoli
si avvicinò troppo, lo pugnalò e fu ricompensato da quel grido acuto. Ma
poi Syphon, che aveva perso conoscenza, iniziò di nuovo a scivolare giù per
le scale, e mentre Balz cercava di afferrarlo, finirono entrambi per
rimbalzare a capofitto verso il fondo.
Mentre il suo corpo cadeva, fece il possibile per pugnalare e sparare
all'ombra, assicurandosi che né lui né suo cugino si trovassero in mezzo...
Boom!
Atterrarono in un ammasso aggrovigliato alla base dei gradini, i loro
grossi corpi rotolarono contro la porta chiusa. Con una spinta, Balz spostò
suo cugino di lato in modo da poter continuare a sparare, ma poiché l'ultimo
proiettile aveva lasciato la sua arma, c’era poco da fare. E non riuscì a
raggiungere il caricatore di riserva o le altre pistole...
La mano di Syphon apparve davanti al suo viso con un caricatore
pieno.
- Grazie a Dio - mormorò Balz. - Puoi procurarmi un'altra pistola? –
Ricevette un grugnito come risposta, scambiò i caricatori e continuò a
sparare e, come per magia, un'altra Sig Sauer apparve davanti al suo viso.
Abbandonò il pugnale e sparò proiettili di piombo da entrambi i
caricatori automatici, respingendo l'ombra, dei buchi apparvero nel suo
corpo traslucido… o forse era più come se la struttura che lo teneva insieme
cominciasse a cedere. Adesso era più simile a un banco di pesci, il tutto si
decentrava in parti coordinate e ondeggiava secondo uno schema che
diventava sempre più irregolare.
Un altro caricatore apparve al lato della sua testa, la mano tremante di
Syphon perforò il loro mucchio di arti male angolati. E un terzo. Tutto ciò
che Balz poteva fare era mirare, sparare e ricaricare…
- Ho finito - disse Syphon con voce roca.
Proprio in quel momento, quando l'ultimo proiettile lasciò la seconda
pistola, l'ombra esplose, le schegge rimasero sospese nell'aria come le
piume di un corvo che si disperdevano e galleggiavano lungo una leggera
corrente.
Nel frattempo, in cima alle scale, la bruna era appoggiata allo stipite
della porta, i suoi occhi furiosi fissavano Balz.
- Sei un fottuto sciocco - gridò.
E poi, all’improvviso, scomparve.
Balz si afflosciò, il respiro rimbalzava su e giù per la gola, una sorta
di strana nausea gli raggelava lo stomaco, un tremolio febbrile gli pungeva
la pelle. Mentre si contorceva e vomitava, sentiva ogni tipo di dolore
sbocciare in ogni parte del corpo.
Ora che la minaccia immediata era sparita, ricordò le storie sulle
ombre a Caldwell. E merda, avrebbe dovuto prendere alcuni dei proiettili
speciali di V. Ma non aveva preso abbastanza sul serio quei racconti.
E aveva bisogno di chiamare aiuto prima che apparissero altre fottute
ombre.
Cercò di alzarsi, ma perse l'equilibrio sbattendo il fianco contro la
ringhiera.
- Sei vivo? - borbottò mentre notava a malapena la nuova ferita.
Dai suoi piedi si udì un gemito. Poi Syphon sollevò il viso pieno di
lividi rossi, i lineamenti così distorti che era a malapena riconoscibile.
- Vado a chiamare aiuto - disse Balz attivando il localizzatore di
emergenza sul suo comunicatore. - E devo controllare questo posto –
- Ho un pugnale. Starò bene –
Balz non ebbe il coraggio di far notare a suo cugino che riusciva a
malapena a vedere.
- Bene, tieni duro –
Balz salì zoppicando i gradini, il percorso era irregolare. I proiettili
ricoprivano le scale, palline di piombo erano cadute libere quando avevano
colpito l'ombra.
Arrivato al pianerottolo più alto, si lanciò all'indietro vicino alla porta
aperta, poi accese la torcia e puntò il raggio verso l'interno buio.
Lo spazio era per lo più vuoto: un paio di tavoli sotto la fila di finestre
che si affacciavano sul davanti, un ammasso di candele, pentole e mazzi di
erbe che affollavano i ripiani. Al centro della stanza c'era la proverbiale
sfera di cristallo su una postazione di lettura rotonda con due sedie e tanto
drappeggio. Altrove c'erano futon con cuscini e un salottino di poltrone
logore. Strisce di tessuto dai colori vivaci bordati con fili d'oro a buon
mercato erano stati inchiodati alle pareti, come arcobaleni catturati e
intrappolati.
Nessuna bruna.
Era andata.
Balz inspirò profondamente. Non riusciva a sentire nient'altro che
l'odore acre di bruciatura metallica della polvere da sparo e uno sgradevole
sentore di carne fresca.
Era stata anche lì?
Si disse che aveva preso la decisione giusta. Aveva fatto la cosa
giusta. Aveva scelto la famiglia... qualunque cosa lei fosse.
Eppure la rimpiangeva. Come un amante abbandonato…
Quando il suo comunicatore emise un segnale acustico, inclinò la
testa verso la spalla.
- Ho bisogno di assistenza medica. SUBITO - Guardò giù per le scale.
Poi le scese di corsa. - Un ferito, entità delle ferite... resisti –
Tornò da suo cugino, prese la mano rilassata del combattente a cui era
probabilmente più vicino. Syphon era svenuto di nuovo, ma respirava
attraverso quelle labbra carnose.
Stranamente, i suoi vestiti erano tutti intatti. Il che non aveva senso.
- L'entità delle ferite è grave - disse Balz con voce strozzata mentre
perdeva la forza nel proprio corpo e crollava su un fianco. - Avete la mia
posizione... ? Bene. Fate in fretta, cazzo -

•••

Di ritorno a casa dei suoi genitori, nel bagno dove non aveva mai
voluto che nessuno vedesse cosa stava tenendo congelato, Mae cercò di
bloccare la perfetta visuale di Sahvage sulla vasca... di Rhoger. Ma un
cadavere nel ghiaccio non era il genere di cosa che gli occhi potevano
ignorare, anche se si vedevano solo una parte dei resti.
- Chiudi la porta - abbaiò, perché era tutto ciò che riusciva a dire. -
Non guardarlo così –
Solo che Sahvage non era concentrato su Rhoger. Stava fissando lei.
- Mae… -
- No! - Si coprì le orecchie con i palmi delle mani. - Non voglio
ascoltarti –
Invece di continuare a parlare o di fare ciò che lei aveva chiesto,
Sahvage indietreggiò finché non fu contro il muro del corridoio. Poi scivolò
verso il basso fino a quando il suo sedere atterrò sul pavimento e si
trovarono allo stesso livello.
Ora non guardava né lei né Rhoger. Aveva messo la testa tra le mani.
Rimase in silenzio e Mae crollò contro il lato della vasca. Guardò suo
fratello attraverso il ghiaccio.
- Non capisci - sussurrò. - È tutta colpa mia –
Sahvage emise un suono esausto.
- A meno che tu non l'abbia ucciso con le tue stesse mani, sono certo
che non è così –
- I nostri genitori erano davvero severi - si sentì dire. - Molto vecchia
scuola. Dopo che furono uccisi nelle incursioni, Rhoger iniziò a cambiare.
Stava fuori tutto il giorno, a volte per tutta la settimana. Era in giro con altra
gente. Lui era... fuori controllo. Nel frattempo, ero qui a occuparmi della
casa, a pagare le bollette, a cercare di tenere insieme ciò che restava della
nostra famiglia. Ero amareggiata –
Raggiunse la vasca e versò il ghiaccio in modo più uniforme. Mentre
la sua mano si raffreddava, la differenza di temperatura tra il palmo e i
cubetti era un chiaro ricordo di tutto ciò che la separava da suo fratello.
Mae trattenne le lacrime.
- L'ultima notte che è uscito... abbiamo avuto un terribile litigio. Ho
perso la testa. Gli ho detto che doveva trovare un lavoro o trasferirsi. Lui mi
gridò contro. È stato terribile - Lei scosse la testa, anche se non era sicura
che Sahvage la stesse guardando. - Non è tornato. Per due settimane... forse
quasi tre. Non sono riuscita a tenere tutto sotto controllo. Ho provato a
cercarlo. Ho chiamato al suo telefono costantemente. Sono andata a casa dei
suoi amici. Nessuno sapeva dove fosse andato. Poi una notte stavo
lavorando qui e... lui è entrato dalla porta principale. Era tutto... sanguinava
dappertutto e sembrava che non avesse mangiato da quando se n'era andato.
Mi sono precipitata da lui ed è morto tra le mie braccia - Mae si strofinò gli
occhi che bruciavano. - Non avevo idea di cosa gli fosse successo o di cosa
fare. Ho chiamato Tallah. Non ho nessun altro nella mia vita e non riuscivo
a pensare chiaramente. Dopo che le ho raccontato tutto e sono riuscita a
calmarmi un po', lei è diventata così silenziosa a quel telefono... pensavo
avesse riattaccato. E poi ha detto quelle parole... –
- Il Libro - disse Sahvage.
Mae gli lanciò un'occhiata dal bagno.
- Il Libro –
- Non puoi farlo. Mae, non hai idea di cosa stai lasciando uscire –
- Ma era giusto prolungare la vita di Tallah - mormorò amaramente.
- Non l'ho mai detto –
Mae alzò una mano.
- Rhoger è tutto ciò che mi resta –
- Questo è quello che hai detto di Tallah –
- Vogliamo davvero discutere di quante poche persone mi restano
nella vita in questo momento? Davvero? - Mae raccolse intorno a sé i
sacchetti vuoti di ghiaccio. E poi non ci fece nulla con loro. - Non posso
lasciare questa strada. Non capisci. È... è tutta colpa mia. L'ho cacciato da
questa casa e l'ho consegnato nelle mani di qualcuno che lo ha torturato così
tanto che è morto per le ferite riportate –
Sahvage imprecò.
- Se n'è andato perché se n'è andato, Mae. Poteva accadere in un'altra
notte... –
- Non fingere di conoscerci –
- E tu non fingere che quello che stai facendo sia giusto –
- C’è mio fratello in tutto quel ghiaccio - disse con voce strozzata.
- Quello è un maschio morto - ribatté Sahvage. - Poteva essere tuo
fratello quando era vivo, ma ora non più –
Mae espirò bruscamente.
- Come puoi dire una cosa del genere –
- Perché è la verità –
- Smettila - Lei chiuse gli occhi. - Smettila e basta –
Quando aprì le palpebre, Sahvage era proprio di fronte a lei, e quando
indietreggiò, lui le prese la mano.
- Per favore - disse. - Non fargli questo. Se lo ami, non lo farai... –
- Cosa, riportarlo da me? In che modo è sbagliato? –
Sahvage deglutì a fatica e la sua voce era appena udibile.
- Lascialo nel Fado. Ti scongiuro. Le conseguenze non ne valgono la
pena –
Quegli occhi blu notte le scavavano dentro e la sua espressione era
così intensa che sapeva che lui non stava soltanto cercando di fare il suo
bene.
- Cosa non mi stai dicendo? - chiese.
- Solo quello che ho sentito dire essere vero... –
- Cazzate. Cosa sai? E non mentirmi –
Sahvage interruppe il contatto tra loro e si sedette di nuovo sul culo.
Quando i suoi occhi andarono a Rhoger e al ghiaccio, rimase immobile.
Quando finalmente parlò, la sua voce, come la sua espressione, era
tormentata.
- So solo che le persone non sono fatte per vivere per sempre... –
- Non voglio che sia immortale, dannazione. Voglio solo portare... –
- E pensi di essere tu a stabilire i termini? Pensi onestamente di essere
tu a stabilire le regole? Stai giocando con le fondamenta stesse della
mortalità –
- Fanculo la mortalità! Rhoger è stato derubato. E io sistemerò tutto
questo, anche se è l'ultima cosa che faccio! -
CAPITOLO TRENTASETTE

Sahvage aveva avuto solo un altro momento in tutti i suoi anni terreni
che aveva evidenziato una cecità così grande, una cecità che aveva
cambiato tutto riguardo a dove si trovava. E non perché Mae gli aveva
mentito. Ma perché non era riuscito ad anticipare il suo vero motivo. Aveva
preso alla lettera ciò che lei gli aveva detto, e si era concentrato su altre
cose.
Tipo l'attrazione sessuale che aveva per lei.
Divertente, come quella merda avesse un suo modo per pulire la
lavagna.
- Non ho altra scelta - annunciò Mae.
- Ti sbagli su questo - lui scosse la testa. - La morte non è un male –
- Come puoi dirlo? Rhoger aveva appena settant'anni. È stato
ingannato –
- Ma se credi nel Fado... –
- Vuoi dirmi che mio padre e mia mahmen, che non andavano molto
d'accordo quando erano qui sotto questo tetto, stanno godendo di una
relazione perfetta su una nuvola da qualche parte nel cielo? Per favore. Mi
andava bene la teoria del Fado finché non ho fatto i conti sulle persone che
si suppone siano lassù. Un'eternità con i nostri cosiddetti cari è solo una
favola costruita per noi in modo da non perdere la testa in una situazione
come quella in cui mi trovo adesso… e sì, sono consapevole di essere
pazza. Ma non sai com'è... –
- Anche io ho perso l’unico membro della mia famiglia che mi era
rimasto. Quindi so esattamente come ti senti –
Questo mise a tacere la sua femmina.
Non che lei fosse sua.
- Cosa è successo? - chiese Mae con un tono più dolce.
- È stato nel Vecchio Continente - Sahvage si strofinò il viso. - Era
una mia responsabilità, mia cugina di primo grado. Ero responsabile per lei.
Ero la sua unica famiglia, il suo protettore... –
Quando non andò avanti, Mae si sporse in avanti.
- E tu... l'hai persa –
- L'ho completamente delusa. Mi è stata portata via da un
aristocratico. E poi è stata... brutalizzata - Sahvage fissò Mae con sguardo
duro. - Quindi sì, so anche io com'è, ed è stata anche tutta colpa mia –
Gli occhi di Mae brillarono di lacrime, il suo viso arrossì di
compassione.
- Ecco perché non ti piace guardarti –
- No - disse cupo. - Ecco perché odio guardare me stesso –
Merda, sta diventando tutto troppo reale, pensò.
- Come puoi dire che non capisci il mio punto di vista, allora? -
suggerì.
- Non ti ho mai detto questo. Ho detto che quello che stai cercando di
fare è sbagliato. Con il Libro. L’eternità sulla terra non è per i mortali, Mae,
e nemmeno per coloro che amiamo. Lascialo andare. Dagli un'adeguata
Cerimonia per il Fado... e lascialo andare –
Mae rimase in silenzio per un po'.
- Mi dispiace... semplicemente non penso di poter vivere con me
stessa. Ho bisogno di andare fino in fondo. Se trovo il Libro, lo farò –
- C'è qualcosa che posso dire per farti cambiare idea? –
- No –
Gli occhi di lui lasciarono i suoi e andarono alle borse di ghiaccio
vuote che lei aveva accartocciato e messo vicino al suo fianco. Una delle
borse si era aperta e mostrava il cartone animato di un pinguino con una
sciarpa rossa. Il bastardo sembrava piuttosto allegro. In un modo
inappropriato, date le circostanze.
- Mi dispiace di averti mentito - gli disse. - A proposito di Rhoger –
- Adesso non ha più importanza –
- È una cosa difficile di cui parlare –
Sahvage la fissò desiderando che fosse umana e che lui potesse
manipolare la sua mente.
- Ovviamente lo è. Perché sai che è sbagliato, e se lo dici ad alta voce
a qualcuno o lo fai vedere a qualcuno, corri il rischio di renderti conto da
sola quanto sia una cattiva idea –
Mae sbatté le palpebre. Un paio di volte. Poi si sporse in avanti,
socchiudendo gli occhi.
- Stai scherzando? - lei scosse la testa. - Sei uno sconosciuto. Ti
conosco da quarantotto ore... e ti ho incontrato mentre stavi sanguinando
per un combattimento clandestino a mani nude con un umano... –
Sahvage alzò l'indice.
- Non avrei sanguinato se tu non mi avessi distratto –
- Smettila! - Mae alzò le mani. – Dannazione! Il punto è che tu non
sei esattamente qualcuno che fa parte della mia vita. E questo… - puntò un
dito contro suo fratello - mi sta uccidendo, okay? Sta uccidendo me. Quindi
no, non avevo molta fretta di condividerlo con te –
La sua voce si incrinò e i suoi occhi si riempirono di nuovo di
lacrime. Ma era chiaro che non voleva alcun tipo di compassione, almeno
non da lui: con rabbia portò i palmi delle mani sulle guance e poi se li
asciugò sui jeans.
- Non posso stare qui seduta a non fare nulla - gli disse. - Quindi
l'unica cosa di cui io e te dobbiamo parlare è quello che farai ora. Sei dentro
o sei fuori. E prima che tu trovi un modo per farmi incazzare di nuovo con
uno dei tuoi commenti, sì, siamo qui a questo bivio. Un’altra volta –
Sahvage chiuse gli occhi. Dopo un periodo di silenzio teso, aveva
intenzione di darle una risposta. Ma invece, il presente si allontanò e venne
sostituito dal passato che lui aveva risolutamente ignorato per così tanto
tempo…

•••

Nella grande sala del castello di Zxysis il Vecchio, Sahvage si sentiva


come se un velo fosse caduto dai suoi occhi, la sua vista ora era chiara,
anche se non si era mai accorto che era stata offuscata, il mondo intorno a
lui non era più assediato dalla foschia, anche se aveva dato per scontato
che tutto fosse come credeva.
E ciò che vide davanti a sé era terrificante.
- Chi sei? - sussurrò di nuovo mentre fissava Rahvyn, sua cugina, la
sua responsabilità, la sua unica famiglia.
Dietro di lui, i corpi senza testa delle guardie sussultarono nelle loro
pozze di sangue mentre l'ultimo dei loro movimenti rimandava al freddo
richiamo dell'immobilità della morte. E davanti a lui, Rahvyn era indomita,
anche di fronte al pestaggio che aveva subito, alla violazione che era
avvenuta alla sua virtù.
Ma aveva buone ragioni per non temere nulla, non è vero?
Lei alzò le braccia, guardò prima una poi l'altra, le manette d'acciaio
che le avevano morso i fragili polsi. Caddero come se gli fosse stato
ordinato di farlo, sbattendo sul pavimento di pietra.
- Sono quella che sono sempre stata - disse con quella voce potente. -
Solo libera, ormai –
Zxysis in qualche modo conosceva questo potere dentro di lei, pensò
Sahvage.
Era chiaro che l'aristocratico aveva messo insieme le storie del
villaggio e aveva visto i sentieri per quello che erano. Invece Sahvage, che
era stato presumibilmente il più vicino alla femmina, aveva perso la rotta.
Lei non aveva bisogno della sua protezione.
Non aveva bisogno di quella di nessuno.
- Andremo per la nostra strada, cugino - Ora la sua voce era
cambiata, tornando più vicina a quella che lui aveva conosciuto. - Hai
assolto il tuo compito, il voto fatto al mio sire, tuo zio, è stato pienamente
rispettato. E siccome so che non mi abbandonerai, lo farò io… -
- Rahvyn, dov'è Zxysis. Cosa gli hai fatto? –
Il sorriso che tirava agli angoli della bocca della femmina lo
terrorizzò.
- Quello che lui ha fatto a me. Né più né meno. Ho ricambiato le sue
attenzioni entrando dentro di lui - Rahvyn si avvicinò zoppicando al punto
in cui un mantello nero era stato gettato su uno dei sedili del banchetto.
Tirandolo su se stessa, lo affrontò. - Non cercarmi. Non provarci nemmeno

Di riflesso, lui protestò.
- Il mio dovere verso di te è sacrosanto... –
- E io qui ti sollevo dal tuo compito - Improvvisamente, i suoi occhi si
addolcirono. - Sahvage, sei libero. Da tutto. Niente più preoccupazioni per
me che ti distraggano dalla tua vera vocazione. Sarai il combattente più
potente che abbia mai servito la Confraternita del Pugnale Nero. La gloria
sarà tua, perché la razza non avrà mai visto un protettore come te –
- No! Difendere te è più importante di... –
- Non più - Lei sbatté le palpebre per cacciare via le lacrime e sollevò
il mento. - Stai bene, cugino. Ho così tanta fiducia nel tuo futuro. Ti esorto
a unirti a me in questo ottimismo, anche se mi allontanerò dalla tua vita.
Quest’era è finite –
- Rahvyn! - gridò precipitandosi in avanti.
Ma lei si smaterializzò dalla grande sala senza lasciare altro che il
suo profumo... e la sanguinosa carneficina che aveva causato.
- No! – gridò, anche se non sapeva cosa stava negando.
Si portò le mani tra i capelli, camminò su e giù. E intorno. E poi in un
cerchio ancora più stretto. Ma nulla era cambiato. Non quello che aveva
fatto sua cugina, non quello che aveva visto con i propri occhi. Con
un’imprecazione, lasciò la presa sulla testa e accanto ai cadaveri. Il
groviglio di corpi e armi erano sovrapposti in disordine, il sangue
luccicava sulle scarpe di cuoio, sulla carne, sulla pietra... sui foderi in
acciaio lucido e i fucili grigi.
- Rahvyn… - sussurrò - cos'altro hai fatto? –
Solo che Rahvyn non c'era più.
Quando quella consapevolezza lo colpì, un'urgenza lo richiamò con
la chiarezza di una campana di ottone, e si preoccupò di armarsi con le
armi dei morti prima di affrettarsi lungo l'ampia arteria che segnava la
strada per il ponte levatoio. Mentre correva veloce e in silenzio, c'era molto
da superare. Un campo di macerie contrassegnava le lastre di pietra:
vestiti, generi alimentari nelle loro reti e borse, pagine di diari e libri
disseminati fino all'uscita.
Un turbinio di persone, veloci e in preda al panico, si era precipitato
di recente su questa stessa strada, i loro oggetti di secondaria importanza
rispetto alle loro stesse vite.
Cosa li aveva spaventati così tanto? Era una domanda di cui temeva
la risposta.
Quando si presentò il grande ingresso della fortificazione, Sahvage
rallentò.
Poi si è fermò.
La visuale attraverso la vasta apertura offriva una vista diretta del
campo bonificato che circondava il castello. Rivoli calpestati tra le erbe
indicavano la dispersione degli abitanti che erano fuggiti, e il ponte
levatoio, che era rimasto abbassato, era anch'esso coperto della stesse
macerie.
- Cosa sapevano… - sussurrò Sahvage mentre varcava i grandi
cancelli di ferro e acciaio. - Cosa hanno visto mentre abbandonavano tutto
questo? -
Goccia. Goccia... goccia.
A quel suono sommesso, Sahvage abbassò lo sguardo accanto
all’orlo della sua veste. Lì, sulla vecchia superficie consumata del legno del
ponte levatoio, una pozzanghera luccicava al chiaro di luna.
Rosso. Rosso brillante.
Sahvage si voltò e guardò in alto:
- Santissima Vergine Scriba –
Sopra l'ingresso grandioso e formale, infilzato sul montante di ferro
che portava lo stemma di seta della stirpe, c'era...
Zxysis il Vecchio.
E senza dubbio era deceduto.
Come se l'impalamento non fosse stato un indizio.
In verità, la sua pelle era stata strappata dalle ossa e dai muscoli:
tutto ciò che un tempo aveva legato la sua forma corporea era sparito, il
suo intestino fuoriusciva dal bacino, gli organi filtravano liberi da sotto la
gabbia toracica. Tuttavia, il suo volto era stato preservato. Quelle
caratteristiche che definivano la sua identità all'interno della glymera e di
questa famiglia e del villaggio erano rimaste intatte, la sua espressione era
di assoluto orrore, le labbra spalancate sui denti scoperti, gli occhi ciechi
fissavano terrorizzati sulla sua proprietà terriera.
- Rahvyn... –
Una luce brillante esplose nel cielo, così brillante da superare
prontamente la luna, così dolorosa che lui gemette e sollevò le braccia per
proteggersi gli occhi. Inciampando all'indietro, Sahvage cercò la protezione
delle mura di pietra del castello, e quando fu sotto di loro, tentò di vedere
cosa poteva sopportare di quell'essere celeste.
Qualunque cosa fosse attraversò il cielo vellutato, eclissando il
luccichio delle stelle, sembrava assorbire tutta l'illuminazione dall'alto. E
quando raggiunse l'orizzonte a nord, ci fu un'altra breve intensificazione, e
poi si ridusse a nulla.
Alla sua partenza, tutto era come prima.
Ma no, non era vero sulla terra. Niente di ciò che era intorno a lui
era come avrebbe dovuto essere.
E Rahvyn si sbagliava.
Non lo aveva liberato con la sua partenza. Lo aveva incastrato per gli
omicidi che aveva compiuto contro i suoi rapitori.
Nessuno avrebbe creduto che non avesse eliminato Zxysis e le sue
guardie: la sua reputazione all'interno della Confraternita non solo
giustificava la nomenclatura che gli era stata data alla nascita; ma lo
aveva preceduto ovunque era andato.
I corpi nella grande sala. Zxysis lassù, scuoiato come un animale,
trafitto come una carcassa. E qualunque altra cosa fosse stata fatta a
chiunque altro avesse fatto del male a Rahvyn, tutto sarebbe stato imputato
a Sahvage, e così la glymera sarebbe venuta a cercarlo, chiedendo
spiegazioni che lui non sarebbe stato in grado di fornire. E la Confraternita
sarebbe stata messa in una situazione insostenibile, perché sapevano
com'era sul campo, e sapevano cosa aveva significato per lui il suo
incarico.
Sarebbero anche venuti a sapere dei pettegolezzi del villaggio intorno
al castello, i vecchi e i giovani che parlavano di magia nei boschi e di
avvenimenti inspiegabili in città.
Per proteggere la persona affidatagli, Sahvage era stato disposto ad
accettare la maledizione di essere chiamato stregone anche se era lontano
dall'essere come qualsiasi altro mortale. E inoltre, la magia di Rahvyn era
stata innocua... o, in ogni caso, nulla di cui aver paura.
Chiuse gli occhi e immaginò Zxysis.
Non più per l'innocuità.
Quindi, anzi, Sahvage non era libero, qualunque cosa aveva
sostenuto sua cugina. Le azioni di lei lo avevano condannato a morte…
Si voltò all’improvviso e tornò verso la strada da cui era venuto.
E poi cominciò a correre.
Quando si avvicinò alle guardie decapitate, saltò sui corpi e sul
sangue. Andò ancora avanti, ai gradini che aveva salito all’inizio... e,
oltrepassandoli, avanzò verso il livello inferiore del castello.
Quando arrivò nel magazzino in cui si era svegliato, prese una torcia
all'interno e la mise in un supporto proprio accanto alla porta. Si avvicinò
alla sua bara, depose le armi e rimise a posto il coperchio com'era prima, e
fu allora, grazie alla luce della torcia, che notò gli avvertimenti che erano
stati scolpiti nel legno. Un cadavere dannato era lì, i simboli lo
annunciavano da tutte le parti.
Sahvage si guardò intorno. Poi tolse di nuovo il coperchio e raccolse
i sacchi di farina che erano vicini, tre, quattro, ancora di più, appoggiando
il loro peso dove avrebbe dovuto essere il suo corpo. Infine, abbassò il
coperchio e usò la pietra di una mola, avvolta in un sacco, per martellare
ciò che aveva divelto. Alla fine recuperò il fodero che aveva trafugato.
Utilizzando la sua robusta punta, incise il suo nome sul coperchio e sui
pannelli verticali, poiché non era tra quello che era stato inciso.
Si mise in spalla il fucile, prese la torcia e tornò nel corridoio.
Controllando in entrambe le direzioni, quel silenzio risonante persisteva,
anche se non sarebbe durato. La superstizione avrebbe tenuto lontani i
vampiri e gli umani allo stesso modo, ma solo per un po'. L'avidità dei ladri
avrebbe presto sopraffatto il loro senso di auto protezione, e c'era molto da
rubare all'interno. E questo sarebbe servito ai suoi scopi. Nel corso di tale
violazione, la sua bara sarebbe stata trovata, e di tutte le cose all'interno
delle mura del castello, non sarebbe stata toccata. Nessuna anima avrebbe
voluto possedere un tale artefatto. Eppure la voce si sarebbe diffusa.
Alla fine, la Confraternita avrebbe trovato la sua ultima dimora, ma
se avrebbero accettato i suoi resti o se avessero scoperto il suo doppio
gioco, nessuno poteva dirlo.
Sahvage, tuttavia, non sarebbe stato in giro per accertare il destino
del suo presunto cadavere. Invece, avrebbe cercato sua cugina finché non
l'avesse trovata, e poi, quando lei avrebbe pensato con la giusta logica, si
sarebbe assicurato che loro due restassero nascosti. E la sua presunta
morte avrebbe fatto in modo di renderlo possibile…
Tap.
Proprio mentre stava per scappare, Sahvage si voltò verso quel
suono.
Tap. Tap.
Nella quiete innaturale del castello, quel sommesso rumore risaltava
molto più di quanto avrebbe consentito il suo volume sommesso in qualsiasi
altra circostanza.
Tap. Tap. Tap. Tap…
Lascia stare, si disse. Il suo mandato riguardo a un rapido esodo era
chiaro.
Taptaptaptaptap…
Quando una fredda premonizione gli sfiorò la nuca, la sua volontà lo
guidava verso l'uscita. Il suo corpo, però, stava procedendo in un'altra
direzione.
Tanto che seguì quello strano suono.
CAPITOLO TRENTOTTO

Mentre Sahvage taceva e sembrava ritirarsi nella sua mente, Mae


posò la mano sul bordo della vasca.
- Non posso lasciarti andare - sussurrò a Rhoger. - E ti prometto che
non lo farò. So come risolvere questo problema –
Intendeva davvero quelle parole, soprattutto le ultime, ma quel
ritornello era debole, come se lo avesse usato troppo spesso e stava
perdendo il suo significato. O forse fin dall’inizio non aveva mai avuto
alcun potere, solo il carburante del panico della sua disperazione… e quanto
lontano poteva mai portare qualcuno nella vita reale?
- Non cambierai idea - mormorò Sahvage.
Lei lo guardò.
- Mai! –
Quella parola aveva più vigore di lei. Era come se gli tenesse testa,
stesse resistendo al Fato, e quello doveva essere il suo pensiero...
nonostante non avesse ancora il Libro. E stava prendendo per vero ciò che
Tallah le aveva detto.
- Va bene - disse lui infine.
- Stai andando via? –
- No - lui scosse la testa. - Non ho intenzione di andare da nessuna
parte –
Mae chiuse gli occhi e si afflosciò con sollievo.
- Te lo prometto, andrà tutto bene. Andrà tutto bene. Staremo bene -
Sì, e poi cosa?, si chiese.
Anche se conosceva la risposta quando si trattava di loro due.
Sahvage avrebbe continuato con la sua vita. Lei sarebbe andata avanti
con la propria. Ed era nella natura di ciò che non avevano in comune che si
sarebbero separati. Dato che fin dall’inizio non c’erano state intersezioni,
niente li avrebbe tenuti insieme.
Alzandosi in piedi, raccolse le buste del ghiaccio.
- Torniamo al cottage –
Strano quanto sembrava normale dirlo. D'altra parte, una persona
poteva abituarsi a qualsiasi cosa, e anche disabituarsi.
Quando lei uscì dal bagno, lui spostò le gambe di lato e poi si alzò
anche lui. E quando lei chiuse la porta, lo fece con una certa fermezza... ma
cambiava qualcosa? Come se potesse chiudere fuori l'imbarazzo? La sua
bugia?
No.
- Torno a casa mia - disse lui.
- Va bene, non sei obbligato a restare. Voglio dire, al cottage, o con...

- Sì. Ora più che mai. Ma ho bisogno di vestiti –
Non la guardò quando si avviò verso il garage, e lei si precipitò dietro
di lui, afferrando la borsa e le chiavi sulla lavatrice. Chiuse a chiave la casa
e lui le fece un cenno e poi si smaterializzò attraverso la fessura della
persiana. Rimasta sola, diede un'occhiata alla spazzatura che non era ancora
stata portata fuori e ricordò il motivo.
D'impulso salì in macchina e avviò il motore. Forse avrebbero avuto
bisogno di un veicolo. O forse lei aveva solo bisogno di guidare.
Mentre usciva a marcia indietro, perché era stata così distratta al
ritorno dalla stazione Shell che aveva infranto di nuovo la regola del
parcheggio di suo padre, pensò a come il Libro si stava prendendo il suo
maledetto tempo... e cercò di non vedere quel ritardo per quello che era:
Un segno che questa era solo una grande follia. E lei una sciocca
disperata.
Facendo inversione per immettersi nella strada, pensò a Tallah, a casa
da sola. Con una imprecazione, Mae diede gas e si diresse fuori dal suo
quartiere, consumata dall’ossessione per le ombre, le brune e gli enormi
maschi nudi nei bagni.
Incapace di sopportare il caos nella sua testa, accese la radio. Aveva
lasciato la stazione su NPR, e una donna dalla voce stupida continuava a
parlare di finanziamenti pubblici per le biblioteche, quindi passò a FM.
- ... serial killer qui a Caldwell. La polizia ha riferito che un altro
uomo e una donna sono stati trovati morti la notte scorsa. I corpi sono stati
scoperti al club Eight-Seven-Five, ed entrambi i loro cuori sono stati
rimossi... –
Gli occhi di Mae andarono alla radio e alzò il volume.
- … proprio come gli altri. Le identità delle nuove vittime non sono
state rivelate al momento, in attesa di informare le famiglie. Il conteggio è
ora salito a cinque coppie, inclusa la coppia identificata di recente, Ralph
DeMellio e Michelle Caspari. Presumibilmente, DeMellio era coinvolto in
un giro di combattimenti clandestini e le autorità ritengono che sia stato
ucciso poco dopo uno di questi combattimenti. I filmati trovati su Instagram
suggeriscono che avesse affrontato un avversario con un caratteristico
tatuaggio che gli copriva il petto... –
Il piede sinistro di Mae premette sul freno…
Il suono di un clacson dietro di lei soffocò il resto della notizia… e
poi il mondo esplose, l'impatto del tamponamento fece esplodere la testa di
Mae contro il sostegno mentre l'airbag scoppiava e la sua auto finiva fuori
sbandando dalla corsia con un urlo di pneumatici.
Tutto lo slancio si fermò con un impatto furioso, la griglia anteriore
della Civic colpì qualcosa che non aveva ceduto.
Mentre l'airbag si sgonfiava con un sibilo, Mae si abbassò in avanti, la
coscienza annebbiata... e poi tornare nella nebbia. Nei fari della sua
macchina, attraverso una specie di vapore che usciva dal cofano distrutto,
lesse un cartello montato su un muro di mattoni: Poplar Woods.
Era finita contro il cartello di un complesso residenziale accanto al
suo.
Armeggiando con la cintura di sicurezza, riuscì ad aprire la portiera. Il
suo corpo cadde di lato, le braccia e le gambe non ascoltarono i comandi
che dava loro, e con tutta la grazia di un peso morto, cadde sul terreno, la
terra le entrò in bocca, nel naso. Si lasciò cadere sulla schiena e prese alcuni
respiri profondi.
Un volto agitato entrò nel suo campo visivo. Era un uomo con gli
occhiali senza montatura, stempiato e con un cellulare all'orecchio.
- Non sono riuscito a fermarmi in tempo! - le disse. - Hai frenato così
velocemente... chiamo il nove-uno-uno… -
- No, no... non chiamare… - Mae allungò la mano, come se potesse in
qualche modo prendere quel telefono da lui. - No, no... –
- Pronto? Sì, mi chiamo Richard Karouk. Devo segnalare un... –
Con un sussulto improvviso, Richard Karouk smise di parlare, i suoi
occhi si allargarono dietro quegli occhiali. Poi ci fu un clic e la sua bocca si
spalancò.
Il sangue rosso vivo si riversò sulla sua camicia da lavoro e sulla sua
bella giacca.
Mentre crollava a terra, si rivelò una figura con un bustino e un paio
di pantaloni di pelle nera attillati. La bruna.
E aveva in mano un lungo coltello d'acciaio macchiato di rosso...
rosso come le sue labbra, le sue unghie.
- Ciao, dolcezza - sorrise. - Sembra che tu abbia sbattuto la testa e
distrutto la tua macchina. Grazie a Dio sono qui quando hai bisogno di
un’amica -

•••

Sahvage non tornò nel posto di merda in cui passava la notte. Invece
si riformò in cima a un'altura in un parco pubblico, e mentre fissava un
fiume largo e lento, decise che le luci delle case sulla sponda opposta erano
come una galassia caduta al suolo. Scintillante, distante... intoccabile.
C'è qualcosa che posso dire per farti cambiare idea?
No.
Quello scambio con Mae si ripeté nella sua testa un paio di centinaia
di volte e, naturalmente, anche ripeterlo non cambiava la risposta di lei,
anche se aveva l’illusione che forse con il tempo quel discorso sarebbe
migliorato, la puntina nel proverbiale disco LP avrebbe trovato un groove
diverso, migliore.
Con un'imprecazione, tirò fuori il telefono. E mentre chiamava,
sapeva che si stava infilando in un percorso immutabile quanto quello di
Mae. Tuttavia, lo guidavano le intenzioni di lei. Ed era quello che era.
Dopo una conversazione concisa, interruppe la connessione e mise via
il telefono.
Era ancora in piedi dove aveva piantato gli stivali quando un maschio
si materializzò davanti a lui.
Il Reverendo era stato presente al combattimento, una figura
imponente con una lunga pelliccia, la sua cresta da moicano e gli occhi
ametista non erano il genere di cose che si vedevano ogni notte. Data la
mole elegante di quel visone, non era immediatamente evidente se c’erano
armi sotto lo spolverino, ma una strana sensazione disse a Sahvage che la
roba convenzionale che potevi comprare nel tuo negozio locale click-click,
bang-bang non sarebbe stata necessaria per proteggere il ragazzo.
C'era qualcosa di strano in lui.
E il fatto che fosse coinvolto con il Libro sembrava appropriato.
- È un piacere sentirti - disse il Reverendo con voce strascicata, poi si
accigliò. - Non si tratta dei soldi per il combattimento, vero? –
- No –
- Come sta la tua femmina? –
- Lei non è mia - Sahvage ignorò la risatina. - Ma devo trovare quel
Libro che sta cercando –
- A San Valentino mancano altri dieci mesi, e per quanto riguarda il
romanticismo, potresti avere un risultato altrettanto buono con i
cioccolatini, senza il fottuto fastidio... –
- Dove posso trovarlo. E non dirmi che non le hai mentito. Sai molto
più di quanto dici –
All'improvviso, la parte scherzosa abbandonò quella chiacchierata.
- Non ho alcun obbligo di assecondare il tuo dramma - Il Reverendo
sorrise freddamente, mostrando le lunghe zanne. - E non stai cercando di
ottenerlo per lei, vero? No, no, hai altri piani per il Libro –
- Certo che è per lei –
Un sopracciglio scuro si sollevò.
- O stai mentendo a me o stai mentendo a te stesso –
Dalla sua parte della conversazione, Sahvage era impegnato a
bloccare ogni pensiero che aveva, e chiaramente non stava funzionando. Il
che significava che stava decisamente parlando con il maschio giusto.
Con un'alzata di spalle disse:
- Sto solo aiutando un’amica –
- Già, perché sei il genere di maschio che fa cose del simili - Il
Reverendo si mise la mano in tasca, poi si fermò. - Non mi dirai di tenere i
palmi in bella vista? –
- No –
- Così fiducioso. Un'altra sorpresa. Continuiamo così e mi dirai che ti
stai trasformando in un pacifista –
- Non mi fido affatto di te. Ma non puoi farmi del male –
Quegli occhi color ametista si strinsero.
- Ecco, amico mio, è qui che ti sbagli –
- Nessuno può farmi del male - ribatté Sahvage cupamente.
- Sai… - il Reverendo tese di nuovo la mano - ho già sentito parlare di
narcisismo nocivo, ma tu vinci tutto. Ecco i tuoi soldi –
- Tienili e dimmi cosa sai del Libro –
- Senza offesa, non ho bisogno di soldi. Quindi non mi stai facendo
alcun favore –
- Tienili comunque. E dimmi cosa sai –
Il Reverendo fece sparire di nuovo i soldi. Poi si limitò a fissare
Sahvage.
- Dov'è la tua famiglia perduta, combattente? –
- Che cosa? –
- Ho questo piccolo talento di capire cosa nascondono le persone - si
picchiettò su un lato della testa. - Una cosa così utile, davvero. E hai perso
la tua gente, la tua famiglia, molto tempo fa, vero? –
- Non ho perso nessuno e voglio solo il Libro –
Ci fu un lungo periodo di silenzio. Poi il Reverendo passò il bastone
da una mano all'altra.
- A quanto pare, c’è qualcuno con cui vorrai parlare. Non so dove sia
quella fottuta cosa, ma un mio amico lo sa. Dovrai chiedere a lui. È davvero
un angelo –
- Bene. Dimmi quando e dove –
- Mi terrò in contatto –
- Fai in fretta –
- Non sei nella posizione di fare richieste –
Sahvage scosse lentamente la testa.
- Non sai con chi hai a che fare –
Il Reverendo aprì la bocca come per fare un commento sprezzante.
Ma il maschio non seguì quell'impulso.
Quando uno sguardo calcolatore entrò in quegli occhi, sorrise.
- Affascinante! - poi annuì con rispetto. - E credo che tu abbia
ragione. Non so con chi ho a che fare, ma nemmeno tu, combattente. Avrai
mie notizie –
Il Reverendo si inchinò. E poi se ne andò, scomparendo nella notte.
Rimasto solo, Sahvage tornò a fissare l'acqua che si muoveva
lentamente. Il fatto che non conoscesse il nome di quel fiume era una
testimonianza di quanti posti avesse visitato negli ultimi due secoli. Dal
vagare per i vari stati-nazione del Vecchio Continente al venire nel Nuovo
Mondo cinquant'anni prima per viaggiare per tutto il Sud e il Midwest, per
lui il mondo era confuso. D'altra parte, non aveva mai usato le mappe. Le
mappe erano per le persone con una destinazione. L'unica direzione che lui
aveva seguito era stata nessuna luce del giorno e le vene solo quando ne
aveva avuto assolutamente bisogno.
Altrimenti, vagava alla ricerca di un bersaglio in movimento.
No, in realtà non era più vero. Era arrivato da questa parte del grande
lago perché alla fine aveva rinunciato a trovare sua cugina. Proprio come
aveva predetto la notte in cui aveva richiuso la sua bara piena di farina
d'avena, la sua morte lo aveva liberato da ogni legame, si era tenuto
nascosto, seguendo indizi, pettegolezzi e tenui racconti di magia nella
speranza di trovare Rahvyn.
Non una sola traccia. Doveva essere morta da qualche parte... e ora lui
era qui, a un oceano di distanza. Ma non senza più uno scopo.
Il Reverendo aveva ragione. Non stava cercando il Libro per Mae.
Avrebbe trovato e distrutto quella dannata cosa prima che lei potesse
rovinare la vita di suo fratello.
E la sua.
CAPITOLO TRENTANOVE

Balz zoppicava in tondo fuori da una delle sale operatorie del centro
di addestramento. C'erano molte persone con lui: Xcor e il resto della Banda
dei Bastardi, la Confraternita, gli altri combattenti della casa. Dall'altra
parte della porta chiusa, Syphon veniva curato per Dio solo sapeva cosa.
Tirò su la manica della camicia di flanella con cui si era cambiato
dopo la visita medica. La ferita sull'avambraccio stava migliorando, la carne
sollevata era meno rossa, meno gonfia. Aveva un sacco di quelle dannate
cose, soprattutto sul petto e sulle braccia. Forse il venti per cento di tutto il
suo corpo.
Syphon era più vicino all'ottanta per cento.
Se il maschio moriva, era tutta colpa di Balz.
Manny era arrivato da quella sensitiva con la sua unità chirurgica
mobile solo otto minuti dopo la richiesta di aiuto, e Xcor e molti dei Fratelli
avevano caricato Syphon nella zona dell'infermeria. Balz a quel punto
aveva rifiutato qualsiasi assistenza medica e aveva insistito per entrare per
offrire protezione.
Anche se non era stato molto utile. Aveva sofferto di un dolore
mortale.
Ma accusare se stessi era un analgesico migliore della morfina, vai a
capire.
Nel raccontare l'attacco, aveva fatto quello che poteva per informare i
dottori e gli altri combattenti dell'accaduto. Ma aveva dato a tutti loro una
versione modificata, anche se era stato totalmente schietto sull'ombra.
Ancora una volta, era stato un vero peccato che non avesse avuto l'acqua
della fontana della Vergine Scriba in quei proiettili...
- C'è un nuovo male in città - mormorò Butch. - Forse le ombre
appartengono a lei –
Quando una fredda ondata di consapevolezza cadde sulla testa di
Balz, si girò e affrontò il Fratello. Butch O'Neal era molto elegante quando
era fuori turno, un grande combattente quando cacciava. Era anche stato a
distanza ravvicinata con...
- Lei? - Balz si sentì dire.
- Ricordi cos'è successo con l'Omega. La donna… o qualunque cazzo
di cosa sia –
- Oh giusto - Balz si schiarì la gola. Due volte. - Giusto. Giusto, certo

Il suo cervello, la sua coscienza, era come uno stereoscopio
vittoriano, dove due fotografie piatte della stessa cosa si fondevano e
diventavano un'immagine tridimensionale.
Gli sembrava di non riuscire a respirare.
- Solo per curiosità. Che aspetto aveva? –
Butch scosse la testa mentre lanciava un'occhiata al suo coinquilino,
V, e poi si voltò.
- Vuoi dire, se ho visto la sua patente di guida? - Poi si accigliò. -
Aspetta, dici sul serio. Che aspetto aveva? –
- Sì - Balz si strinse nelle spalle e cercò di apparire disinvolto. -
Voglio dire, se è là fuori per le strade di Caldwell, con una specie di esercito
ombra, non dovremmo avere tutti un'idea di come è fatta? –
Butch si strinse nelle spalle e poi annuì.
- Giusta osservazione. Ah beh... è praticamente la bruna più bella che
tu abbia mai visto. Finché non la guardi negli occhi. Poi... è puro orrore,
distruzione e malattia... - Butch si fece il segno della croce sul grosso petto.
- Lei è attraente come il veleno in un bocciolo di rosa –
La conversazione a quel punto esplose, i Fratelli che l'avevano vista
intervennero. Ma Balz non aveva bisogno di altre descrizioni: la verità era...
che lui aveva saputo la risposta prima di aver fatto la domanda.
Per far sembrare che non ci fosse niente che non andava, rimase in
giro un altro po', e poi si allontanò, assicurandosi di dire a Xcor che sarebbe
tornato subito. Lo spogliatoio per i maschi era lì accanto, e quando vi entrò
barcollando, oltrepassò la fila di armadietti fino ai lavandini vicino alle
docce. Facendo scorrere un po' d'acqua si spruzzò il viso e strofinò via
l'umidità con alcuni asciugamani di carta color camoscio presi da un
distributore.
Lasciando cadere le mani, si guardò allo specchio…
Non preoccuparti, ti perdono, amante mio.
Quando la voce femminile echeggiò nella sua testa, si voltò.
- Non sono tuo - disse ai box doccia.
Cosa vuoi scommettere?
La porta dello spogliatoio si aprì e lui cercò la pistola che aveva
caricato...
Butch entrò, e il passo del Fratello era disinvolto come quello di Balz
quando se ne era andato. Quel viso, però, non era minimamente rilassato, e
quegli occhi nocciola sapevano. Il ragazzo era stato un poliziotto nella sua
vita precedente da umano.
- Dimmi dove l'hai vista –
Per fortuna, come ladro, Balz era un abile bugiardo. La verità,
dopotutto, era solo un'altra cassaforte da forzare e da cui rubare. Solo che lo
facevi con le parole invece che con le mani.
- Non so di cosa stai parlando... –
- Non prendermi in giro - Butch incrociò le braccia sul petto, il
giubbotto da combattimento di pelle scricchiolò. - Non aiuterà nessuno di
noi. Quando l'hai vista e cosa ti ha fatto –
Con un'imprecazione, Balz pensò a quella pausa, a quel momento in
cui era rimasto bloccato tra salvare suo cugino e... qualunque cosa fosse.
Non avrebbe dovuto esserci stata alcuna esitazione. Ed era questo che
lo terrorizzava adesso.
- Stasera - Prese un respiro profondo. - Stasera da quella sensitiva. E
prima ancora, durante il giorno nella mia camera da letto. È venuta a
trovarmi e ho pensato che stessi sognando, ma in qualche modo mi ha
graffiato la schiena –
Butch fece un respiro profondo, come se fosse sollevato.
- Bene –
- Come hai detto? - disse Balz.
- Guarda, so che sei un ragazzo grande e puoi prenderti cura di te
stesso. So anche che non mentiresti mai su una cosa del genere… -
- Certo che non lo farei –
- Ero solo preoccupato che l'avessi vista. Sono contento che tu non
l'abbia fatto –
- Che cosa? - Balz scosse la testa perché chiaramente le sue orecchie
non funzionavano. - Ti ho appena detto che l'ho fatto. Che lei era con me...

- Non possiamo essere mai troppo attenti, lo sai. Penso che lei sia
come una specie di infezione. Una volta che ti entra dentro, prende il
sopravvento fino alla tua morte - Butch diede una pacca sulla spalla di Balz.
- Mi dispiace di essere stato paranoico e sono davvero felice che lei non
abbia incrociato la tua strada –
Balz fissò il Fratello in totale confusione. Quando Butch arrivò alla
porta, il combattente si guardò alle spalle e sorrise.
- Ma… ehi, mettiamo le mani su quel Libro e abbiamo ogni genere di
arma –
- Cioè? - chiese Balz.
- Si dice che il Libro possa essere usato per molte cose divertenti.
Compreso lo sbarazzarsi di fastidiosi intrusi, e non sto parlando di tuo zio
Norman durante le vacanze di Natale –
Il Fratello uscì dallo spogliatoio e Balz borbottò:
- Non ho uno zio Norman –
Di sicuro aveva un intruso, comunque, e aveva la sensazione che lei
stesse operando attraverso di lui in modi di cui non era a conoscenza.
Questa consapevolezza lo avrebbe completamente terrorizzato.
Se non fosse stato già spaventato a morte.

•••

Tornato al cottage, Sahvage entrò dalla finestra della camera da letto


al secondo piano e, quando arrivò in cima alle scale, chiamò Tallah.
Fece lo stesso al primo piano.
Alla porta del seminterrato si sporse in avanti. Poi scese. La stanza
dell’anziana era aperta e la luce del corridoio brillava all'interno. C'era un
sacco di seta rosa con fiori e mobili che aveva visto in quella che gli umani
chiamavano Francia, quando aveva viaggiato per il Vecchio Continente. Su
una chaise longue, Tallah dormiva profondamente. Si era vestita ancora una
volta in modo formale, l’abito di un verde acqua sbiadito, la ciocca argentea
di capelli sciolti e aggrovigliati sulle perline che aveva cucite sul corpetto.
Accanto a lei c'era un vassoio con una tazza di tè, un toast mezzo
consumato e un vasetto di marmellata.
La durata della vita dei vampiri era molto diversa da quella degli
umani, e non solo dal punto di vista della longevità. A differenza di
quell'altra specie, i vampiri sembravano incredibilmente belli per tutta la
loro vita, fino all'ultimo decennio circa. A quel punto, il processo di
invecchiamento si abbatteva sul corpo e sulla mente, e la degenerazione
avveniva con un'escalation ad alta velocità che portava dritta alla tomba.
Tallah non era molto lontana da una lapide…
- Sahvage? - mormorò la femmina alzando la testa. - Sei tu? –
- Mi dispiace di averla svegliata. Stavo solo controllando –
- Oh, è così gentile. Dov'è Mae? –
- Sta tornando - fece un respiro profondo. - Non ha mangiato molto –
- Non avevo molta fame. Lo stufato di ieri sera era così abbondante –
- Si riposi e basta. Sembra stanca –
- Lo sono - Quando si voltò, Tallah aggiunse: - È fortunata ad averti –
Con un vago borbottio tornò di sopra e si sedette al tavolo della
cucina. Controllò il telefono, aggrottò la fronte e mandò un messaggio a
Mae. E poi rimase ad aspettare una risposta. Che sarebbe arrivata da un
momento all'altro. Era abbastanza sicuro. Probabilmente aveva preso la sua
macchina.
Diede un'occhiata all'orologio sul muro. Sì, era così. Mae stava
tornando indietro con la sua macchina e le ci sarebbero volute… diede di
nuovo un'occhiata all'ora sulla schermata iniziale… probabilmente altri
dieci minuti. Quindici al massimo.
Mentre la quiete nel cottage si insinuava in lui, il passato tornò
un'ultima volta. Buona cosa. Aveva perso la pazienza con i suoi ricordi...
ma in realtà, questo era vero nel momento stesso in cui si presentavano.

•••

Tap. Tap. Tap...


Quel suono lamentoso lo condusse all'ampia scalinata che saliva al
livello più alto del castello. Mentre lo seguiva, come un cane con un
profumo, si accorse che il volume non cambiava. Sebbene sapesse
istintivamente che si stava avvicinando alla destinazione, il ticchettio non
diventò più forte. Era come se il suono si trovasse nelle stesse pareti di
pietra, nel pavimento, nel soffitto.
O forse no.
Avrebbe potuto benissimo essere dentro di lui.
Il suo viaggio si concluse davanti a una porta robusta, le pesanti assi
erano rinforzate con sbarre di ferro. E su entrambi i lati, bandiere di seta
con rifiniture dorate erano montate su fieri pali.
Pensò a Zxysis, impalato nel retto...
Tap. Tap. Tap...
Come se il suo scopo fosse stato raggiunto, il suono svanì. E la porta
si aprì con un cigolio, sebbene egli non lo volesse né avesse messo la mano
sul chiavistello.
Era la camera da letto del padrone, una folata di aria fresca si
precipitò fuori come se fosse ansiosa di lasciare quei confini lussuosi. Ma le
cose non si stavano mettendo bene.
Nella luce tremolante delle fiamme agitate delle candele, persino
Sahvage chiuse gli occhi per quello scenario di violenza.
La semplice biancheria intima di Rahvyn, quella che aveva indossato
molte volte, era stata fatta a brandelli e macchiata di sangue, parti di essa
qui... là... sulla piattaforma del letto. E sotto un baldacchino
contrassegnato con lo stemma della linea di sangue, l'odore del sangue e
del sesso era più forte, anche con la finestra aperta.
Lì lei era stata presa con violenza.
- Santissima Vergine Scriba –
Ma non era tutto.
Laggiù... nell'angolo... c'era un mucchio di pelle, pelle chiara,
indefinita...
La pelle di Zxysis.
Sahvage si portò la mano sul viso. Anche se non era mai stato un
maschio spirituale, dedito alla preghiera o alla consolazione della
promessa del Fado, non poté fare a meno di pronunciare il nome della
mahmen della razza ancora e ancora
Tap. Tap. Tap...
Si voltò e aggrottò la fronte. Il suono proveniva da un tavolo a
cavalletto vicino al focolare e, quando si avvicinò, vide un libro aperto
accanto a una candela nera, un piatto di terracotta, un pugnale e alcune
erbe. Inspirò e colse un profumo che gli era familiare.
La sua veste.
Sollevando la parte anteriore della tunica nera che lo copriva,
annusò. Sì, era quello che era stato versato su di lui... e che aveva
all'interno del naso… il sangue di Rahvyn.
Guardò l'antico tomo. C'erano linee d'inchiostro sulla sua
pergamena, il colore marrone ruggine suggeriva che il sangue fosse stato
nella penna che aveva accarezzato le pagine. Le lettere e i simboli, invece,
erano diversi da qualsiasi cosa avesse mai visto prima. Tuttavia, aveva
un'ipotesi sul suo contenuto.
Un incantesimo, perché sicuramente questi ingredienti erano
inesplicabili per qualsiasi altro scopo.
E la vena di Rahvyn era stata aperta.
Pensò agli avvertimenti scolpiti all'esterno della sua bara. Non era
una conclusione difficile che fosse stato operato su di lui una sorta di
incantesimo di contenimento, anche se ovviamente Zxysis non aveva avuto
successo nel tentativo.
Girando la copertina per chiuderlo, Sahvage fece una smorfia. Non
gli importava la sensazione di maneggiare qualsiasi parte del libro. E per
quanto riguarda ciò con cui era rilegato? La brutta pelle era crivellata di
crepe e fessure, come se fosse invecchiata oltre i secoli. C'era anche un
odore come latte cagliato o carne in decomposizione.
Lasciò cadere la presa e si strofinò il palmo sul fianco. Anche dopo
averlo fatto, sentì come se qualcosa si fosse trattenuto sulle sue dita, sul
palmo...
La copertina si riaprì di sua spontanea volontà, le pagine si
sfogliarono in fretta, come se mani fantasma le stessero girando. Sahvage
indietreggiò, ma si fermò quando il libro si fermò in un luogo diverso da
quello esposto in precedenza.
Tap. Tap. Tap...
Socchiudendo gli occhi, riconobbe i simboli della lingua che aveva
imparato da giovane. In effetti, ora poteva leggere ciò che c'era sulla
pergamena, e aveva la sensazione che fosse un messaggio per lui. O forse
un richiamo… o un commando.
Sahvage si coprì gli occhi.
- No! –
Non sapeva cosa stava dicendo, né a chi. Ma la negazione doveva
essere vera, essere forte. Aveva in qualche modo la convinzione che se
avesse posato lo sguardo sulle pagine, se avesse assorbito i simboli e li
avesse tradotti in parole, avrebbe intrapreso una strada dalla quale non
avrebbe più potuto discostarsi.
Si voltò di scatto. Le persiane a listelli delle finestre erano, come il
ponte levatoio, aperte e offrivano una pronta via di fuga.
Tap. Tap. Tap... Taptaptaptaptaptap…
Quando il suono dell'evocazione riprese, e divenne così forte da
essere ormai martellante come stivali pesanti su un pavimento di legno,
Sahvage chiuse gli occhi e respirò profondamente l'aria fresca della notte.
Doveva bloccare gli odori che lo rendevano violento, il sangue e il sesso di
un innocente presa con la forza, gli rendevano impossibile calmarsi.
Quindi aveva bisogno di ignorarli.
Mentre si concentrava per smaterializzarsi, si sentiva come gli altri
del castello, costretti da un senso di sopravvivenza a partire, andarsene,
scappare...
•••

Sahvage tornò al presente con un sussulto in tutto il corpo e una gran


boccata d'aria. Per un momento, i dettagli ormai familiari della cucina di
Tallah furono completamente estranei. Ma poi vide le pentole e le padelle
che aveva lavato e asciugato nella rastrelliera, il frigorifero accanto alla
porta, il borsone di pistole e munizioni sul tavolo di fronte a lui.
- Merda! - sussurrò.
Strofinandosi la testa, riusciva ancora a immaginare quel tavolo a
cavalletto nella camera da letto insanguinata, e ciò che era successo con il
Libro gli fece ripensare a ciò che Mae e Tallah avevano disposto lì, gli
ingredienti per condire l'insalata che non erano mai stati usati per nessuna
foglia di lattuga...
Si guardò intorno con attenzione.
- Mae? –
La sua mano scattò e afferrò il telefono. Controllò i messaggi... niente
da lei. Nessuna chiamata. Ed era trascorsa più di un'ora e venti minuti da
quando aveva lasciato casa sua.
Dove cazzo era?
CAPITOLO QUARANTA

Mae tornò in sé lentamente, e gli indicatori che il suo cervello era


tornato on line erano principalmente le informazioni fisiche che aveva
iniziato a elaborare: le faceva male la testa. Era sdraiata su qualcosa che
aveva sottili sporgenze. Un intero braccio era insensibile.
E cos'era quell'odore?
Si concentrò sulla fragranza senza una ragione particolare, e poiché
era stata stabilita una connessione mentale, l'immagine che i suoi ricordi
tirarono fuori non aveva molto senso.
Il centro commerciale. Periodo natalizio.
Il reparto profumi di Macy. Una commessa aggressiva con flaconi
spray nelle mani. Mae era stata colpita sul viso con qualcosa che le aveva
fatto bruciare gli occhi e il naso le pizzicava come se avesse dei peli di gatto
dentro ogni narice.
I suoi occhi si aprirono.
Proprio davanti al suo viso... c'era del filo metallico. Ma non poteva
essere vero... giusto?
Ci vollero alcuni respiri profondi prima di concentrarsi correttamente
e scoprire che ciò che pensava di vedere fosse reale, e anche sbagliato. Le
sottili sporgenze che premevano contro di lei erano una trama di fili di ferro
rivestiti di nero.
Era in una gabbia. Tipo una gabbia per cani.
- Mi stai ricordando qualcuno –
Al suono della voce familiare, Mae spostò lo sguardo, non la testa.
Attraverso lo schema dei fili, guardò uno spazio aperto...
Aspetta... era un grande magazzino? C'erano scaffali e scaffali di
vestiti... un'esposizione di borse e scarpe firmate... un tavolo da trucco. Ma
c'era anche una cucina a vista che correva lungo un muro e un bagno senza
pareti né porta. Un letto matrimoniale.
- Sono qui, idiota –
Mae seguì il suono al centro di qualunque cosa fosse. Seduta su un
divano di pelle bianca, con le gambe incrociate come una signora, la bruna
si era cambiata d'abito e si era sistemata i capelli. Ora indossava un
completo bianco con una gonna, la parte superiore era aderente alla vita
sottile, la parte inferiore con uno spacco che arrivava a metà coscia. I tacchi
a spillo erano bianchi e neri, e c'erano perle, tante perle.
Ma non era tutto.
Indossava uno spettacolare cappello bianco con la tesa che le
svolazzava intorno al bel viso e al collo aggraziato, bassa in alcuni punti,
più alta in altri.
- Ti piace? - mormorò la bruna mentre le sue dita dalla punta rosso
sangue si libravano attorno alle delicate cuciture nere.
Mae si tirò su e sbatté la testa sulla parte superiore della gabbia.
- Oh scusa. È per cani - la bruna sorrise. - Ma i cani di grossa taglia
non sono grandi come le femmine adulte, però –
Agitando i piedi, Mae cercò di sedersi, la testa inclinata in modo
imbarazzante. Osservando meglio l'area in cui si trovavano, vide un
migliaio di metri quadrati con un soffitto basso sostenuto da spessi supporti
anonimi. Niente finestre. E una sola porta.
Quindi era lì che lei doveva arrivare.
- Alexis Carrington Colby - La bruna si passò una mano sulle gambe
lisce. - Questo è il suo vestito. Dal primo episodio della seconda stagione. E
non una copia, è l'abito vero e proprio. L'ho comprato dal ragazzo del
guardaroba. O meglio, mi sono lasciata scopare per questo. Ce l’aveva
piccolo, tra l'altro, e le dimensioni contano. Ma questo vestito... con il
cappello… ne è valsa la pena. Inoltre, ero molto più sexy della roba a cui lui
era abituato, infatti è durato un minuto e mezzo –
Mae sbatté le palpebre.
- Okay, beh… due minuti, al massimo! - la bruna si accigliò. -
Aspetta, non l'hai mai visto? Come si può non guardare Dynasty? Anche se,
viste le tue scelte sartoriali... –
La gabbia del cane aveva un chiavistello proprio davanti e anche uno
sul lato corto. Entrambi erano stati chiusi con un lucchetto. La rete era
d'acciaio. Non esattamente una maglia, e se fosse rimasta calma, sarebbe
stata in grado di uscire dalla gabbia in sicurezza. Ma era dolorante e
terrorizzata.
La bruna sembrava irritata dalla sua mancanza di adulazioni.
- Sai, mi sono vestita per te. Potresti mostrare un po' di
apprezzamento - Quando Mae non rispose, ci fu un'elegante scrollata di
spalle. - Bene, sei stata fuori gioco per un po'. Come va la tua testa? Mmh?

La gabbia era costituita da pannelli pieghevoli, gli angoli retti tenuti
in posizione in virtù dei due lati corti che erano spinti verso l'alto per tenere
la parte superiore.
- Non parli molto - la bruna le mostrò la mano. - Vedi questo
diamante? Venticinque carati. Ti piace? –
Mae sapeva che la sua unica speranza era di dare calci ai lati e piegare
i ganci di metallo fino a quando l'integrità strutturale dei pannelli non fosse
venuta meno.
- È di vetro - la bruna tese la mano e spostò l'enorme pietra da una
parte all'altra. - Sai, alcuni direbbero che il taglio a pera non è un classico,
non come quelli ovali o gli smeraldi. Come il taglio marquis, o quella
fottuta roba da principessa. Ma vedi, questo è l'anello che indossava Joan
Collins. L'ho preso a un'asta tipo tre anni fa. Avrei pagato anche di più... –
Mae si spostò e piantò i suoi stivali sul lato corto della gabbia.
Schiacciandosi contro l'altra estremità, iniziò a metterci la forza...
- Cosa fai? - la bruna sollevò un sopracciglio perfetto. - Onestamente,
pensi che funzionerà? –
Sforzandosi, Mae sentì la rete che le mordeva le spalle, la nuca, la
testa. Le ferite dell'incidente d'auto… la spalla contusa da dove la cintura di
sicurezza si era stretta su di essa, il suo viso atterrato sul terreno, la sua
tempia Dio solo sa cosa aveva… iniziarono a mormorare più forte e pulsare.
Soprattutto quando iniziò a scalciare.
La bruna rise e si alzò in piedi.
- Stai facendo un buon allenamento? E uno, e due, e uno, e due…
dimmi, senti il bruciore? -
Bang, bang, bang, rattle, rattle, rattle…
Mae grugnì. Il sudore le colava sul viso. La sua vista vacillava mentre
il suo corpo protestava per le richieste che stava esigendo.
- Dopo questo… - disse la bruna sorridendo - possiamo lavorare sul
nucleo del corpo? Il nucleo è davvero importante –
La gabbia si stava allentando, la parte superiore affondava mentre lei
continuava a colpire scattando all'indietro quando ritraeva le ginocchia.
- Lo giuro... mi ricordi qualcuno - la bruna si avvicinò per stare in
piedi accanto a lei. - Ma non è importante... –
Con un'ultima, potente estensione, Mae fece esplodere l'estremità,
facendo rimbalzare sul pavimento il reticolo di fili robusti. Metà della parte
superiore le cadde addosso, e lei se la spinse via mentre si trascinava fuori
dalla via di fuga che aveva creato.
Nel momento in cui fu libera, si affrettò ad alzarsi…
Il suo equilibrio era una schifo, il suo corpo totalmente scoordinato, e
si accorse che la bruna rideva quando Mae colpì il pavimento duro e cercò
di rialzarsi. E poi di nuovo.
Crollò distesa, ansimando, con la testa che le girava, ogni tipo di
dolore praticamente ovunque.
- E dove pensi di andare adesso? –
Il paio di tacchi a spillo bianco e nero apparve proprio accanto al viso
di Mae, ed era l'unico motivo per cui capì che era finita su un fianco con
l'orecchio e la guancia sul marmo fresco.
- Sai… - mormorò la bruna - hai rovinato una gabbia perfettamente
funzionante. Dovrò fartela pagare, in un modo o nell'altro. E sceglierò
qualcosa di diverso dai contanti, ovviamente... –
- Non mi farai del male –
- Come hai detto? –
Mae alzò la testa. Sollevò il busto. Cercò di sollevare tutto il corpo,
ma decise di sedersi contro il muro dove prima c'era la gabbia.
Anche se i suoi occhi si stavano ancora concentrando in modo
intermittente, li puntò verso la bruna.
Prendendo un respiro profondo, disse:
- Tu.Non.Mi.Farai.Del.Male –
Quelle lucide labbra rosse si appiattirono e quella voce divenne
cattiva.
- Continui a pensarlo, allora. Vedremo quanto dureranno le tue
stronzate –
All’improvviso, una forza invisibile fece levitare Mae dal pavimento
e la inchiodò contro il muro. Una pressione schiacciante le coprì tutto il
corpo, una coperta che pesava quanto un'auto, e mentre si sforzava di
riprendere fiato, cercò di combattere la stretta, ma non c'era niente contro
cui combattere.
La bruna si avvicinò e si mise in posa, un'anca in fuori, la mano
opposta posata sulla vita. Eppure il suo viso era contratto in un’espressione
dura e malvagia.
- Farò tutto quello che voglio di te - i suoi occhi scrutarono Mae, e poi
le sembrò sorpresa. – Bene, bene, bene. Sembra che quel maschione non ti
abbia ancora preso. Una vergine? Veramente? Che premio che sei! - Ora
sorrise di nuovo. - Proprio quello che vuole ogni ragazzo, mani che
annaspano e goffi sussulti di dolore. Che sexy... –
- Non puoi farmi del male - grugnì Mae - perché hai bisogno del
Libro –
La bruna tacque e chiuse la bocca. Poi girò i tacchi e si avvicinò
all'esposizione di borsette squadrate a due manici con dei piccoli lucchetti.
Ce n'erano sicuramente una dozzina, in un arcobaleno di colori e con
altrettante trame diverse.
- Sai… - disse la bruna - ho usato molti maschi vergini nel corso degli
anni. E tsk, tsk, tsk, non nel modo che stai pensando. Erano necessari per
uno scopo privato, non sessuale, che purtroppo non è più applicabile… -
- Hai bisogno di me viva - Mae tossì. - Perché ho evocato il Libro.
Hai bisogno di me per avere il Libro –
La bruna si guardò alle spalle, socchiudendo gli occhi.
- Non sarei così arrogante, tesoro. Ho altre fonti per quello –
- Allora uccidimi. Ora! –
Mae emise un grido mentre la pressione diventava insopportabile, le
ossa del viso minacciavano di collassare, le costole le schiacciavano cuore e
polmoni, il bacino si stava quasi spezzando. E proprio mentre iniziava a
svenire, nel momento in cui si sentì scivolare via, riuscì a trascinare un po'
d'aria in gola.
Quando i suoi occhi iniziarono a schiarirsi un po', la bruna era di
nuovo davanti a lei. Non più arrabbiata, ma pensierosa.
- Dimmi come hai fatto - disse.
- Mmh? - ansimò Mae.
- Guardati. Non sei brutta, ma non sei una per cui vale la pena
attraversare la strada. Non hai stile, nessuna personalità, e nessuna
esperienza a letto. Eppure... quel maschio… è così preso da te. Non lo
capisco –
Quando la bruna tacque, Mae mise un po' di forza nella voce.
- È per questo che vuoi il Libro. Non è vero? –
- No –
- Stai mentendo – Lo sguardo della bruna era una promessa di
sofferenza. Sofferenza infinita. - E puoi baciarmi il culo –
All'improvviso, il dolore e il soffocamento tornarono, e Mae capì di
aver esagerato.
E fu il suo ultimo pensiero cosciente.
CAPITOLO QUARANTUNO

In una proprietà rurale che aveva un sacco di spazzatura per terra,


Erika abbassò la testa per entrare in una roulotte fatiscente. Dentro c'era
disordine dappertutto: scatole di pizza, pacchetti di sigarette accartocciati e
bottiglie vuote di alcolici che nascondevano i particolari della cucina, il
pavimento, i mobili logori. Non sorprendeva che ci fosse anche una
collezione di bong, siringhe, bustine di plastica e panetti di droga avvolti in
sacchetti del supermercato.
Il cadavere era su un divano talmente macchiato che sembrava avesse
iniziato la sua vita in una melma marrone. La vittima era un maschio, sulla
ventina, ed era sdraiato all'indietro contro i cuscini consumati, l’espressione
congelata in uno sguardo fisso davanti a sé, l'unica ferita di proiettile, stile
esecuzione, quasi al centro della fronte.
Mentre I suoi occhi scendevano sulla parte anteriore del petto, in
contrasto con la macchia rossa sul muro dietro il suo cranio, tornò con la
mente alla conversazione con il suo sergente.
- Hai bisogno di una serata libera, Saunders. Hai dato troppo per
troppo tempo… –
- Siamo a corto di personale dopo che Pam è andata in maternità e
Sharanya si è trasferita. Cos'altro possiamo fare? –
- … ed è così che si commettono errori –
- Non ne ho commessi. E non voglio… -
- Questa non è una richiesta, Erika. Non riesco a ricordare quando è
stata la tua ultima vacanza, e nemmeno tu -
- L’ha trovato il padre - riferì uno degli agenti, il più giovane dei due
perché l’altro era al telefono. - Poveraccio. Nessuno vuole vedere suo figlio
in questo modo –
Erika si chinò a controllare la ferita da proiettile sulla fronte. Nessun
residuo di polvere da sparo, quindi non era stato un colpo a bruciapelo. Chi
aveva sparato era stato a una certa distanza.
- Un colpo da professionista - mormorò.
L’agente continuò:
- Il nome della vittima era David Eckler e aveva precedenti. Per lo più
vendeva beni rubati, ma ha una serie di accuse per droga, due delle quali
sono cadute per questioni tecniche. Il detective de la Cruz ha portato il
padre alla stazione per essere interrogato –
Lei tirò fuori la torcia tascabile e si guardò intorno per controllare il
disordine sul pavimento.
- Ecco una cartuccia –
Si chinò per cerchiarla con un pennarello e prima di rialzarsi, si
ritrovò all'altezza di un tavolino da caffè fuori posto e una delle gambe era
stata sostituita da un cartone del latte. In mezzo a tutto quel disordine? Una
scatola di pelle lunga circa trenta centimetri e larga dodici. A differenza di
tutto il resto, era di buona fattura e senza polvere o graffi.
- Sorpresa, sorpresa - mormorò sbirciando attraverso il piano di vetro.
La fila di orologi all'interno era di grandi marche che anche qualcuno
della classe media come lei avrebbe riconosciuto: Rolex. Piaget. Okay, va
bene, non aveva mai sentito parlare di Hublot.
- Come si pronuncia… - disse - whoo-blot? –
- Eh? –
E fu allora che lo vide. Un luccichio nell'angolo più lontano, a un lato
del divano: una lente aveva catturato il raggio della sua torcia.
- C’è la sicurezza – annunciò.
- Vuole dire un cane incatenato in cortile? Non ne ho visto uno... –
- No, tipo telecamera –
Si sporse in avanti e ispezionò attentamente l'unità di registrazione.
Poi seguì i fili intorno allo schienale del divano, evitando la vittima, fino a
un armadio. All’interno un laptop nuovo di zecca collegato a un salvavita.
Stava registrando.
- Grazie, Gesù bambino - mormorò.
- Non dovrebbe essere di riposo? –
Erika si raddrizzò e per la prima volta guardò bene l'uniforme.
- Dick? –
- Rick - Il ragazzo dal viso fresco indicò il suo distintivo. -
Donaldson. Sono ancora di pattuglia, ma spero di trasferirmi presto alla
Omicidi –
- Io sono la Detective... -
- Oh, so chi è lei. E pensavo che stasera fosse di riposo... –
- Come conosci i miei orari? –
Il ragazzo si guardò intorno come se sperasse che qualcun altro
avrebbe risposto. Sfortunatamente per lui, l'ufficiale più anziano era ancora
al telefono.
- Ah… tutti conoscono i suoi orari, detective –
Dei fari illuminarono la parte anteriore del rimorchio e frammenti di
luce penetrarono all'interno.
- Beh, sei fortunato - Erika spense la torcia. - Ci vediamo domattina.
Vado a casa a dormire un po' –
Mentre Dick-Rick Donaldson sembrava sollevato, come se qualcuno
gli avesse risparmiato un viaggio a Target durante il Black Friday, Erika
uscì dalla porta rotta. Le ci era voluto ogni grammo di autocontrollo per
uscire dalla roulotte, ma la realtà era che i ragazzi sulla scena del crimine
avrebbero avuto bisogno di quattro o sei ore per controllare tutto, e ora
erano, cosa...? Controllò l'orologio. Le tre del mattino. Perfetto. Poteva
essere nel suo letto a casa in quarantacinque minuti, con i denti lavati, i
piedi nei calzini puliti e la testa avvolta in una coperta per attutire il rumore
dei mattinieri che vivevano nell'appartamento sopra di lei.
Facendo la bella vita, pensò accendendo la macchina e salutando gli
investigatori della scena del crimine.
Sarebbe tornata in sella non più tardi delle otto del mattino. E poi il
sergente non poteva avere assolutamente niente da dire sui suoi turni di
lavoro. Esatto.
Inoltre, finché c'era ancora un cuore nel petto di quella vittima le
andava bene affidare il caso a qualcun altro.

•••

Quando Syphon finalmente riuscì a riposare in silenzio, e le persone


in camice blu con le collane per ascoltare il cuore furono certe che sarebbe
stato bene, Balz fu il primo a uscire dal centro di addestramento. E ancora
una volta sembrava disinvolto, o almeno cercava di apparire in quel modo.
Dentro la sua pelle, stava urlando.
Alla fine del tunnel sotterraneo, uscì da sotto la grande scalinata del
palazzo e poi si smaterializzò fino al corridoio del secondo piano. Quando
si avviò verso la sua camera da letto, si mosse in silenzio, come il ladro che
era, e pregò di non incontrare nessuno. Nella sua suite, gli ci volle meno di
un minuto per cambiarsi con i suoi abiti completamente neri, e non molto di
più per allacciarsi una doppia fondina intorno alla vita.
Scivolando di nuovo nel corridoio, guardò a destra e a sinistra. Voci
risuonavano dal soggiorno al secondo piano, così tornò indietro per
prendere le scale della servitù in una rapida discesa. In fondo, fece ogni
sorta di deviazioni dal doggen che stava preparando l'Ultimo Pasto in
cucina. Poi uscì attraverso il garage e arrivò nei giardini recintati per
l'inverno dietro la villa.
Chiuse gli occhi e si smaterializzò senza sforzo, e questo lo sorprese
dal momento che nel cervello aveva delle uova strapazzate, e si allontanò
dalla montagna in ordine sparso per dirigersi verso la città.
Balz si riformò sul tetto del Commodore.
Niente più regole da gentiluomini per questa effrazione. Aprì con la
mente la porta d'acciaio vicino ai sistemi di ventilazione perché il
catenaccio non conteneva rame e sarebbe sceso attraverso i gradini di
cemento, ma non poteva essere completamente sicuro se ci sarebbero stati
calcinacci o porte tagliafuoco sulla sua strada.
Tre piani più in basso, non emise alcun suono quando entrò nel
corridoio con la moquette. Passando davanti alle porte di cinque o sei
condomini, si avvicinò agli ascensori proprio nel momento in cui si stava
aprendo una delle porte.
All'interno c’erano due donne, i loro vestiti eleganti e il buon taglio di
capelli suggerivano che avevano sia i soldi che il gusto di sapere come
spenderli. Giusto per restare al sicuro, le congelò, cancellò i loro ricordi... e
le rimandò giù nell'atrio.
Tap...
Balz si fermò e si guardò alle spalle. Ma sapeva che dietro di lui non
c'era nessuno.
No, doveva stare attendo del posto verso cui era diretto.
La porta dell’appartamento si aprì al suo avvicinamento, e quando
entrò disattivò il sistema di sicurezza con un aggeggio programmato con il
codice che aveva prelevato dal database dell'allarme.
Tap. Tap...
Una rapida inspirazione non rivelò odori. La coppia felice ancora una
volta non era in casa.
Non avrebbe avuto importanza se lo fossero stati.
Niente aveva importanza.
Beh... tranne una cosa.
Tap. Tap. Tap...
Mentre il suo petto si serrava per l'emozione, attraversò gli spazi
espositivi, rivisitando gli scheletri di pipistrello, gli strumenti chirurgici
vittoriani e uno pieno di animali imbalsamati che gli era sfuggito durante il
suo primo viaggio.
Tap. Tap. Tap. Tap. Tap. Tap...
D'un tratto, la stanza con gli scaffali e i libri si presentò davanti a lui,
proprio come se fosse stata lei ad avanzare, non Balz.
Si fermò appena entrato e fissò i suoi stivali per un breve momento, il
suo cuore batteva per il terrore che si sbagliasse. Poi saltò i battiti perché
era terrorizzato dal fatto di avere ragione.
Infine, guardò dall’altra parte del bellissimo pavimento in parquet.
- Merda! – sussurrò, perché non c'erano dubbi.
Quello era il Libro.
E lo aveva chiamato. Lo stava chiamando.
Tap...
Quando l'ultimo tap arrivò alle sue orecchie, era morbido, come un
sospiro. E anche se non voleva, Balz andò avanti, non con riverenza, però.
Nemmeno ammaliato come era stato quando era rimasto bloccato dalla
sensitiva. C'era rassegnazione nei suoi passi, un senso di inevitabilità.
Tutto aveva portato a questo.
Quando si fermò davanti alla vetrina, l'antico volume di Dio solo
sapeva cosa vibrava sul suo supporto, come un cucciolo che si dimenava
per la gioia. E poi, come se la sua felicità non potesse essere contenuta,
saltò e si aprì. Le pagine svolazzarono veloci, troppo veloci per seguirle,
eppure quando si fermarono, fu con un movimento deciso, come se i
particolari passaggi esposti avessero preso il sopravvento.
Balz si chinò.
All'inizio, non riuscì a decifrare le righe di scrittura. Ma poi si
stropicciò gli occhi, e quando lasciò cadere le mani, tutto era in inglese.
Inglese semplice e informale, del tipo che potevi trovare su un volantino per
la vendita di un garage. Con un gergo moderno.
Data l'età della pergamena e l'usura della copertina, non riusciva a
conciliare il modo in cui non adatto a un pubblico di minori" sembrava
apparire nella parte superiore di qualsiasi pagina della rilegatura. Ma non
avrebbe messo in discussione tutto quello.
Allungandosi, sollevò la copertura di Lucite dalla vetrina e, sebbene
prevedesse resistenza, non ce ne fu. Il cubo protettivo si sollevò come se
stesse levitando, e quando andò a metterla da parte, la sentì leggera come
una piuma...
- Cazzo! - mormorò indietreggiando.
L'odore era terribile. Come un lesser, ma senza la sfumatura dolce.
E poi non si preoccupò più del suo naso.
- No - disse iniziando a leggere le parole. - Non è quello che voglio.
Ho bisogno di qualcos'altro –
Il Libro svolazzò come in disaccordo con lui.
- Non sto cercando... - lui scosse la testa. - Non sto cercando l'amore.
Sei fuori di testa. In realtà sto cercando di sbarazzarmi di una... donna –
Non poteva dire l’altra parola…
- Non muoverti! Ho una pistola! –
Al suono della voce maschile rimbombante, Balz sollevò gli occhi al
cielo e si voltò mettendo il corpo tra il Libro e il signore dell’appartamento
che era in piedi nell'arco della stanza, una piccola scacciacani tra le mani.
Come se avesse visto molti film di Roger Moore dell'era 007.
Maledizione, Balz si era talmente distratto che non aveva sentito il
suo odore...
- Chiamo la polizia! –
Il signore aveva un sacco di Botox, quindi le sue sopracciglia erano
bloccate in posizione abbassata, anche se stesse ansimando per lo shock ed
era super arrossato. Probabilmente solo la metà inferiore del suo volto era in
grado di mostrare sorpresa.
Oh, e quel pigiama a quadri? Non era decisamente appropriato se
stavi cercando di essere preso sul serio come protettore della tua casa felice.
Alzando gli occhi al cielo, Balz congelò l'umano dove si trovava, e
poi dovette chiedersi se anche la signora fosse in giro. Non che avesse
davvero importanza.
- Metti via quella cosa, cazzo! - mormorò Balz.
A comando, il signore abbassò la pistola e poi sbatté le palpebre come
se stesse aspettando ulteriori suggerimenti su ciò che doveva fare.
Lanciando un'occhiata al Libro, Balz si accigliò.
- Lascia che ti chieda una cosa. Dove hai trovato questo? –
- È un nuovo acquisto - Il signore si guardò intorno, e nell'istante in
cui i suoi occhi si posarono sul Libro, l'amore si riversò dal suo sguardo. -
Sapevo solo che dovevo averlo. Era come... destinato a essere mio –
Mentre la mano di Balz si intrufolava verso la sua pistola, si disse di
rilassarsi, cazzo. Era davvero pronto a sparare a questo figlio di puttana per
un libro...
Il Libro, rettificò.
Il signore continuò:
- C'è un commerciante di libri rari qui in città. Sa che compro ciò che
è insolito, soprattutto se ha... diciamo una marcia in più? - L'uomo sorrise in
un modo da ragazzo birichino, con le sopracciglia che non si muovevano
minimamente. Poi abbassò la voce e si piegò in avanti. - Il mio venditore mi
ha detto che è rilegato in carne umana –
Tutto di questo figlio di puttana fece venire voglia a Balz di prenderlo
a calci nelle palle. Per una questione di principio.
- Allora da dove diavolo viene? - chiese al tipo.
- È molto antico –
- Ma davvero! -
- Ed è scritto in ungherese –
Balz guardò dietro di sé il non adatto a un pubblico di minori. E tutte
le parole inglesi sotto quell'intestazione.
- No, non lo è –
Il signore gonfiò il petto.
- Stai dicendo che non conosco la prima lingua che ho imparato? –
Indicando il Libro, Balz disse:
- No, sto dicendo che è inglese –
- Lei, signore, ha torto - Se non fosse stato per il Botox, ci sarebbe
stato chiaramente un arco su uno di quei bulbi oculari. - Ma poiché è il mio
libro, non ne discuterò con un estraneo –
- Per cosa lo usa? –
- Usarlo...? - Quello sguardo si indurì. Ed era quello che facevano i
bugiardi quando entravi nei loro giochetti. - Non si può usare un libro come
quello. È solo da esposizione –
- Dici tutte stronzate, ma non mi interessa la tua risposta - Almeno
non a quello. - Devo sapere quando l'hai comprato –
- Circa due settimane fa. È il mio ultimo acquisto –
- Sì, l'hai già detto. Il negoziante ti ha detto da dove l'ha preso? –
Il signore sorrise e annuì.
- Una storia folle. Qualche malvivente l'ha portato in libreria e lo ha
lasciato lì. Ha detto di averlo trovato in qualche vicolo del centro. Lui si è
rifiutato di prendere soldi, e non sono sicuro che sia vero, ma ha detto che il
libro gli ha chiesto di portarlo al negozio. Riesci a immaginare? –
- Quanto l'hai pagato? –
Il signore gonfiò di nuovo il petto, come se fosse abituato a dire alla
gente quanto pagava per i suoi oggetti. Perché gli piaceva fare quel tipo di
discorsi.
- Era a sei cifre –
- Beh, è meglio che si prepari a fare una denuncia alla sua
assicurazione –
- Perché? –
Balz prese il Libro.
- Perché questo verrà con me... –
Poco prima che le sue mani entrassero in contatto con l'antico tomo,
le luci tremolarono...
E poi tutto diventò nero.
CAPITOLO QUARANTADUE

Mae riprese conoscenza perché era caduta a terra e l'impatto


improvviso fece male. Ma riuscì a respirare di nuovo.
Andata. Quella pressione schiacciante e invisibile era sparita.
Quando iniziò a tossire e a vomitare, si girò sulla schiena e si scostò i
capelli dal viso con mano debole. Fissò il soffitto bianco e vuoto ed era
confusa su dove si trovasse. Poi il suo cervello iniziò a far emergere il
contesto nella barca della sua coscienza, le immagini, i suoni e gli odori dei
suoi ricordi a breve termine erano come pesci in un bacino di carenaggio
che giravano intorno, si contraevano e si sovrapponevano.
La bruna…
Con una scarica di adrenalina, Mae si mise a sedere e si portò una
mano alla testa. Anche se tutto girava, riuscì a vedere abbastanza da
registrare gli scaffali dei vestiti e così anche le borse e le scarpe... la zona
cucina. Il letto.
Era sola.
La donna bruna, o qualunque cosa fosse, non si vedeva da nessuna
parte.
Le gambe di Mae erano deboli quando si alzò, ed ebbe bisogno di
appoggiare una mano sul muro per mantenersi in posizione verticale. Si
guardò intorno, aspettandosi che la donna malvagia saltasse fuori da dietro
il tramezzo vicino all'area del bagno... o si riformasse proprio di fronte a lei.
Quando non accadde nessuna di queste cose, Mae smise di pensare
all'autodifesa e a possibili armi e iniziò a preoccuparsi di sopravvivere e
andarsene da ovunque si trovasse.
Barcollando si diresse verso la porta dall'altra parte del... che cos'era
questo, comunque? Un appartamento in un magazzino convertito? Doveva
essere sottoterra dato che non c'erano finestre, e lei cercò di annusare in giro
per avere qualche indizio, ma o per tutto quel profumo o perché il suo naso
non funzionava bene, non riusciva a sentire nient'altro tranne quella roba di
Macy.
L'unica porta che poteva vedere era di solido acciaio. Con barre
rinforzate.
Quando spinse la maniglia non si mosse, ma non era sorpresa. E non
ci sarebbe stata alcuna smaterializzazione per lei. Non aveva idea di dove
fosse o di cosa si trovasse dall'altra parte di quelle pareti o di quella porta.
Inoltre a causa del dolore non si sarebbe potuta calmare in nessun modo…
Telefono!
Mae infilò la mano in tasca. Il telefono. Aveva ancora il telefono!
Tirandolo fuori, le sue mani tremavano.
Nessun servizio.
- Merda! –
Ma almeno erano le tre del mattino. Era stata via per ore. Sahvage
aveva notato la sua assenza? Sicuramente la stava cercando. E anche se era
rimasta incosciente per un po', c'era ancora abbastanza tempo prima
dell'alba per tornare a casa.
Tenendo il cellulare dritto, fece un giro sperando di trovare campo.
Quando ciò non accadde, ne fece un altro del perimetro dello spazio,
cercando un'opzione praticabile per uscire.
Non c'era niente. Nessun altro modo per andarsene tranne quella porta
degna del caveau di una banca. Sì, c'erano un paio di prese d'aria sopra la
cucina e nella stanza da bagno, e due scambiatori di calore negli angoli che
pompavano aria calda e secca. Ma era troppo suicida. Potevi
smaterializzarti e viaggiare attraverso un sistema di ventilazione che non
conoscevi?
Bastava un filtro dell'aria d'acciaio ed eri un formaggio svizzero.
Per una frazione di secondo, il suo cervello andò panico, e il ronzio
del nessunaviad’uscita peggiorò quando guardò la gabbia del cane da cui si
era liberata.
Ma perdere la concentrazione non avrebbe aiutato.
Ricordò a se stessa che Sahvage sapeva che ormai sarebbe dovuta
essere arrivata a casa da molto tempo. L'avrebbe cercata. Avrebbe persino
potuto trovare la sua macchina sul ciglio della strada...
Oh, Dio, quel povero uomo umano che l'aveva tamponata. Era morto
perché aveva cercato di aiutarla.
Doveva andarsene da lì…
Un basso rombo scaturì da qualche parte in alto… no, non in alto.
Tutto intorno.
Terrorizzata, Mae si coprì la testa e si chinò, le sue ferite urlavano per
la posizione scomoda mentre qualunque cosa fosse arrivò al culmine del
volume, con una vibrazione che le si riverberò attraverso le gambe.
Poi... scomparve.
Quando Mae si raddrizzò e lasciò cadere le braccia, si guardò intorno.
La metropolitana, pensò.
Era decisamente da qualche parte sottoterra.

•••

- No, no, sono felice di... - Nate guardò Elyn e decise di non finire
quel pensiero ad alta voce.
Sono felice di andare ovunque con te sembrava un po' intenso.
- È una bella idea camminare - concluse decidendo di guardare il cielo
stellato. - E prendere un po' d'aria –
Avevano passato la maggior parte della notte a sistemare tutti i mobili
della sua camera da letto. Erano stati una buona squadra, seguendo le
indicazioni, usando gli strumenti, cercando di capire dove tutto doveva
essere sistemato per ottenere l’effetto migliore. Il fatto che Elyn non avesse
nulla da mettere nei cassetti del cassettone o da appendere nell'armadio non
gli era sfuggito.
- Sai cosa potremmo fare qualche volta? - disse mentre si infilavano
sotto la ringhiera superiore della recinzione nel cortile laterale. - C'è un
posto dove fare shopping. Un centro commerciale. È come un mucchio di
negozi sotto lo stesso tetto. La gente dice che stanno scomparendo, ma
quello di Caldwell va ancora forte –
Una cosa che aveva imparato su Elyn era che non aveva familiarità
con tante cose che lui dava per scontate. Apparentemente, non l'aveva
chiamato perché non era sicura di come far funzionare un telefono. Aveva
pensato che fosse una scusa, ma mentre lei lo fissava negli occhi, si rese
conto che era mortalmente seria. E poi, quando si erano presi una pausa a
mezzanotte per uno spuntino, non aveva idea di come usare un microonde e
lo spremiagrumi che ronzava l'aveva spaventata. Oh, e la TV l'aveva
affascinata.
Al punto che aveva fatto il giro e aveva guardato dietro lo schermo
piatto come se non riuscisse a capire da dove provenissero le immagini.
Quando poco prima gli aveva chiesto di prendere una pausa da casa,
lui l'aveva compresa completamente...
All'improvviso, Elyn si fermò e alzò lo sguardo. La luna era luminosa
in alto, strisce di nuvole si spostavano sulla sua faccia.
- Quando sono uscito dal laboratorio - si sentì dire - era tutto troppo.
Troppo forte. Troppo tutto. I miei genitori adottivi mi hanno aiutato molto e
mi sono abituato. Ma per un buon mese o due, ogni tanto dovevo rilassarmi.
Mi sdraiavo nella mia camera da letto con le luci basse e un po' di musica
classica. Mi ha aiutato –
Mentre lei era concentrata sul cielo notturno, lui studiò il suo profilo e
la tristezza sul suo viso era qualcosa che conosceva bene. Il dolore aveva lo
stesso aspetto sui lineamenti di tutti, non importava se fossero vecchi o
giovani, maschi o femmine.
- Chi hai perso? - disse a bassa voce.
- Non posso... –
Le sue parole andarono alla deriva, e lui non fu sorpreso che lei non
avesse finito il pensiero. O, più probabilmente, non aveva potuto farlo.
- Non dirò niente a nessuno - giurò. - Lo prometto –
Quell’assicurazione sembrava l'unica cosa che lui potesse fare per
aiutarla, ovunque fosse la sua mente.
Con un cenno della testa, riprese a camminare, gli occhi bassi, le mani
infilate nel parka grigio chiaro che le era stato regalato al Porto Sicuro. Le
era stato fornito anche l’abbigliamento che indossava, i jeans, la dolcevita e
un maglione comodo adatto al tempo. E fuori da quella tunica nera che
aveva indossato, era molto più piccola di quanto era sembrata… e questo lo
faceva sentire peggio per qualunque cosa le era stata fatta.
Aveva bisogno di protezione.
Mentre attraversavano il prato, non era sorpreso che lei li avesse
portati nella foresta, fino al punto d'impatto della meteora. E quando
emersero dagli alberi nella radura, lei non si fermò finché non fu proprio
sull'orlo della fossa, e rimase silenziosa e immobile per così tanto tempo
che lui dovette cominciare a camminare perché una delle sue gambe iniziò
ad avere i crampi.
- Ho dovuto lasciarlo - disse bruscamente. - Non ho avuto scelta –
Lo stomaco di Nate si strinse... eppure non era sorpreso. I maschi
violenti erano la ragione per cui esistevano il Porto Sicuro e la Luchas
House. E grazie a Dio ne era uscita viva.
- Dovevi salvarti - Con gli occhi tracciò i suoi bei lineamenti e il
modo in cui la luce della luna trasformava i suoi capelli bianchi in filati
d'argento. - Grazie a Dio ora sei al sicuro –
Quando lei rimase in silenzio ancora una volta, sapeva che stava
rivivendo il suo incubo e voleva abbracciarla.
- Ho dovuto salvare entrambi - si passò una mano sul viso. - Lui non
mi avrebbe lasciato, ed era troppo pericoloso perché mi restasse accanto. Io
sono pericolosa –
Nate si ritrasse.
- Che cosa? - allungò la mano e le prese il braccio. - Non lo sei. Non
permettere a nessuno di farti pensare una cosa del genere –
Dopo un momento, lei alzò gli occhi in quelli di lui.
- Tu non mi conosci, Nate –
L'espressione grave sul suo viso lo fece restare in silenzio. Ma poi se
lo scrollò di dosso.
- Ti conosco invece. E qualunque cosa ti abbia detto il tuo aggressore
è una bugia. Non devi vederlo mai più... –
- Aggressore? - Elyn si accigliò e poi scosse la testa. - Oh, no. Era
buono con me. Era troppo buono con me. Stava per perdere la vita per me,
la sua vocazione per me. Ho dovuto separarci. Meritava molto di più del
voto che aveva fatto alla morte di mio padre, ed era un maschio così degno
che, indipendentemente dalle circostanze, non avrebbe mai cambiato i
nostri destini – Si concentrò di nuovo sulla fossa. - Era uno dei migliori
maschi che abbia mai conosciuto. Onore e forza erano solo l'inizio delle sue
numerose virtù –
- Oh… - Nate lasciò cadere la presa. Fece un passo indietro. -
Pensavo... bene. Forse avresti dovuto restare con lui, allora –
- Ero una sua responsabilità e mi ha protetto meglio di chiunque altro.
Questo ha fatto di lui un bersaglio e i miei nemici hanno deciso di
ucciderlo. Volevano me, ma sapevano che dovevano togliere di mezzo lui
per prima cosa, perché sarebbe morto piuttosto che permettere che mi
succedesse qualcosa - Chiuse gli occhi e gemette. - E alla fine, sono stata
presa lo stesso... –
Qualcosa nel modo in cui lo disse fece andare la mente di Nate in
posti molto brutti.
- Sai se il maschio che hai perso è sopravvissuto? - chiese con voce
roca.
Elyn rimase in silenzio per un po'.
- C'è stata... una grande distanza tra noi. Davvero vasta –
- Quando è stata l'ultima volta che l'hai visto? –
- Secoli fa –
Nate sbatté le palpebre, sbalordito.
- Ehm... vuoi provare a cercarlo? –
Elyn fece un respiro profondo.
- Credo di sì. Ma non voglio che gli venga fatto del male di nuovo a
causa mia. Sono sopravvissuta a malapena a quel fardello una volta, in
verità non potrei viverlo di nuovo. Ma lui... beh, lui è tutto quello che ho –
Nate si strofinò i capelli per assicurarsi che non si vedesse nulla sulla
sua espressione, del suo profondo dolore al cuore.
- Come posso aiutarti? Sai se è qui a Caldwell? –
- Lui è qui. Ecco perché sono arrivata –
- Okay, abbiamo una gran varietà di modi per trovare le persone -
pensò a tutte le cose che la confondevano. - Ci sono dei database per le
ricerche. Posti in cui possiamo andare o, tipo, puoi andare tu. Voglio dire,
non voglio essere d'intralcio... –
- Non puoi aiutarmi, Nate -
Oh, ti sbagli su questo, pensò. Sono assolutamente entusiasta di
aiutarti a riunirti con il maschio che ami. Mettimi alla prova.
- Certo che posso –
- Sarà... pericoloso –
Nate si accigliò.
- Chi ti sta cercando? –
- È morto, adesso –
- Quindi hai paura dei parenti di lui? - Quando lei non rispose, Nate
sentì una strana sensazione d’avvertimento lungo la schiena. - Quindi i suoi
parenti sono vivi? –
- Era di un buon lignaggio –
- Glymera? - Quando lei annuì, Nate sospirò di sollievo, anche se non
c'erano ragioni per farlo. Non ancora. - Forse non lo sai, ma molti di loro
sono morti adesso –
- Davvero? –
- Nei raid di un paio di anni fa - Non fu sorpreso quando lei lo fissò
con sguardo assente. - I lesser si sono infiltrati nelle loro case qui a
Caldwell. Molti sono stati uccisi. Puoi dirmi il nome del tuo nemico?
Possiamo controllare e vedere se la sua linea di sangue è stata colpita.
Possiamo chiedere all’hellren della signora Mary, lui lo saprà, o saprà come
scoprirlo... –
Quando ancora una volta lei fissò la fossa dell'impatto e non gli
rispose, Nate le diede un colpetto sulla spalla e aspettò che i suoi occhi
d'argento si alzassero nei suoi.
- Non ho paura - disse.
La risposta di lei fu cupa:
- Dovresti averne –
Invece di blaterare per quell'avvertimento, Nate sentì nel petto una
certezza che non aveva mai conosciuto prima, una sicurezza solida come
una roccia, come se il punto di arrivo di dove erano diretti fosse già
arrivato.
- Non ne ho e non ne avrò mai - disse a bassa voce. - Qualunque cosa
accada –
- Nate… -
- Credi che non abbia vissuto il dolore? Ho subito interventi chirurgici
senza anestesia. Virus e batteri infilati nelle mie vene. Sono stato esaminato
al solo scopo di degradarmi, ed ero giovane quando è successo tutto questo.
Non ci sono sofferenze che non ho sopportato, e se l'ho vissuto una volta,
posso farlo di nuovo –
Soprattutto per lei, e anche se chiaramente non c'era futuro per loro.
Era innamorata del suo maschio e, visto il genere di eroe che il ragazzo
ovviamente era, chi avrebbe potuto competere con lui?
Dopo un lungo momento, Elyn si alzò e mise la mano sul lato del viso
di Nate.
- Sei così coraggioso –
Non appena registrò il contatto della carne di lei con la sua, si bloccò
dove si trovava... e si rese conto, mentre fissava i suoi occhi d'argento, che
era come il maschio che amava.
Disposto a dare la vita per lei.
- Il tuo hellren è un maschio molto, molto fortunato - disse rudemente
Nate.
Elyn aggrottò la fronte e inclinò la testa di lato.
- Hellren? Non sono accoppiata –
- Il maschio che ami, allora –
- No, non è così. Lo amo, ma è mio cugino di primo grado. Lui è la
mia famiglia, non il mio compagno –
Quando le sue parole affondarono, l'anima di Nate sorrise. Non
poteva descrivere quella sensazione in nessun altro modo. Ma si riprese in
fretta, dato che Elyn sembrava ancora molto seria.
- Allora troviamolo - disse. – Insieme –
Lei lo guardò negli occhi, e lui voleva essere ancora più alto di quanto
non fosse. Più grande. Più forte. Aveva attraversato la transizione, certo, ma
rispetto a suo padre, Murhder, era un microbo.
- Sei stato così buono con me - mormorò lei. - Sei stato un amico
quando ne avevo bisogno, un rifugio quando non ne avevo nessuno, un
pozzo di comprensione in questa oscurità in cui sono intrappolata. Quindi
non posso e non voglio fare nulla che possa metterti in pericolo. Questa è
sempre stata una mia missione, e deve restare tale –
Si fissarono a lungo.
Baciala, pensò Nate. Adesso è il momento…
Oltre la spalla di Elyn, apparve un minuscolo bagliore di luce e iniziò
a muoversi. E un altro. E un terzo.
Si voltò e guardò la piccola galassia che si era inspiegabilmente
formata dietro di lei.
- Oh, sono tornate –
Elyn allungò il palmo e le scintille arrivarono a lei, fondendosi sopra
la sua mano tesa.
- Lucciole - mormorò Nate. – Wow –
Il bagliore era tale che le illuminava il viso rendendola decisamente
splendente - no, era più di questo. I suoi capelli e i suoi occhi d'argento
sembravano attirare la luce dorata e rifletterla indietro, così che un alone si
era formato tutt'intorno a lei.
Senza preavviso, lei lo fissò con uno sguardo duro.
- Non permetterò a niente e nessuno di farti del male, Nate –
Toccato com'era dal sentimento, non aveva il cuore di affermare la
verità. Tra loro due lei non era certo in grado di offrire alcuna protezione.
Quello era un suo compito.
CAPITOLO QUARANTATRE

Balz annusò la bruna per primo.


Nel mezzo della fitta oscurità all'interno della stanza della collezione
di libri dell’appartamento, quel profumo, quel profumo Dior, cupamente
sensuale, pervadeva l'aria immobile.
- Devina? - disse il signore attraverso il vuoto. - Cosa ci fai qui? –
Le luci si riaccesero e, quando Balz sbatté le palpebre, la retina gli
bruciava, ma non si spostò dalla posizione in cui si trovava, le braccia e le
mani ancora protese verso il Libro. Ma voltò la testa. Tra lui e il signore, la
bruna… Devina, evidentemente… era in posa come una ragazza copertina,
indossava una gonna e una giacca bianca formali e un cappello che si
poteva indossare a un matrimonio reale.
- Dovresti essere alla sede centrale - disse il signore. Poi si guardò alle
spalle e abbassò la voce. - Pensavo fossimo d'accordo che non ti saresti mai
presentata qui senza preavviso. L'Idaho è dove devi... –
- Oh, stai zitto, Herb - sbottò la bruna. - E non sono mai stata in
Idaho, fottuto idiota –
- M…m…ma... –
Devina si concentrò su Balz e alzò gli occhi al cielo.
- Umani. Davvero. Sono tutti dentro macchine telecomandate che
pensano di guidare. Assolutamente ridicolo... –
Herb si avvicinò e prese la bruna per il braccio.
- Questo non è un gioco che puoi vincere. Ti voglio fuori di qui, e se
vuoi continuare a vedermi, non fare mai più una cosa del genere. Ci siamo
capiti? Mia moglie vive qui –
La bruna guardò dov'era la mano di Herb. E nel paio di secondi di
silenzio che seguirono, Balz fu tentato di dire al ragazzo di lasciarla andare,
cazzo, ma non c'era nessuna stupida salvezza.
- Mi stai toccando - disse la bruna con voce dolce.
Herb si alzò leggermente in punta di piedi in modo da poterla
guardare dall’alto, visti i suoi tacchi.
- Io ti toccherò ovunque voglio, e tu andrai via, ora –
Mentre Balz si raddrizzava accanto al Libro, pensò che Herbieboy si
sarebbe soffocato con quelle parole.
- Questo comportamento non è davvero da te - Herb sentì il bisogno
di continuare.
Il sopracciglio perfettamente arcuato di Devina si sollevò sull'occhio
destro perfettamente truccato.
- Ma non mi dire. Bene, aspetta di vedere questo –
Il corpo di Herb volò all'indietro contro una serie di scaffali, come se
mani invisibili lo avessero preso e lanciato dall'altra parte della stanza. E
mentre i libri venivano rimossi dalla loro posizione e ogni tipo di oggetti
cadeva sul pavimento, Balz si accigliò. Non c'era rumore. Nessun dannato
suono, tranne il flop delle prime edizioni quando colpivano il parquet, né il
fracasso dei supporti in Lucite mentre cadevano, né il rumore sulle assi
verniciate.
Allo stesso modo, mentre Herb era inchiodato contro il muro e la sua
bocca si spalancava per iniziare a urlare, non c'era nessun suono acuto nelle
orecchie per quell'agonia dolorosa, nessun colpo quando quei talloni
presero a calci il cartongesso, nessuno strappo quando i suoi vestiti...
Oh merda. Il pigiama largo che indossava il povero Herb si stavano
strappando all'inguine.
Ma non era certo la cosa peggiore.
Sembrava che qualcuno gli avesse spalancato le gambe come l’osso a
forcella di un tacchino e il signore cominciò a strapparsi nel mezzo, una
faglia iniziava dalle sue palle e procedeva su per il bacino, l'addome...
Tutti gli organi interni caddero e atterrarono come lasagne troppo
bollite, lucide, molli in inquietanti rosa e marrone.
- Oh, amico - mormorò Balz - ci sarà un po’ di cattivo odore –
Il lacerare e lo strappare continuò. Lo sterno di Herb si ruppe,
dividendo i polmoni fino a fermarsi alla base della gola. E poi caddero a
terra.
Herb, l'ex gestore di fondi di investimento ora fertilizzante per siepi,
si contorse un paio di volte... e poi non si immobilizzò.
Beh, non era esattamente vero.
Il suo sangue continuava a fuoriuscire dalle vene e dalle arterie
principali.
- Sai - commentò secco Balz - scommetto che ti preoccupa molto
essere aggredita, vero? –
Devina si asciugò le mani sul fianco anche se non aveva toccato
direttamente il tipo.
- No, sto bene per le strade da sola. E a proposito di rapine, è ora che
io e te smettiamo di fare cazzate. Dammi il mio Libro –
Balz, si voltò a guardare l'antico volume. Si era chiuso e il faretto
montato sul soffitto non si era riacceso. O forse non era mai stato acceso e
l'alone intorno al Libro si era solo attenuato.
- Dammi ciò che è mio - ordinò Devina tendendo la mano come se
Balz le dovesse cinque dollari e avrebbe dovuto schiaffare la banconota
proprio lì. - Se non me lo consegni - disse avvicinandosi ancheggiando -
allora quello accadrà anche a te –
In modo ridicolo indicò il casino sul pavimento, come se qualcuno
avesse potuto non notare tutte le sue abilità.
Balz strinse gli occhi. Poi fece un passo deciso di lato.
- Lo vuoi? Prendilo. Prendilo e vattene. Non c'è niente che te lo
impedisca -
O c'è?, si chiese.
Il broncio sul suo viso era poetico.
- Dopo tutto quello che siamo stati l'uno per l'altro… sicuramente
puoi aiutare una signora –
- Senza offesa, ma puoi davvero definirti una signora quando hai
appena reso concime quel figlio di puttana? –
- Ora fa parte dell’esposizione –
- Come un’illustrazione di anatomia umana? –
- Esattamente –
Entrambi risero un po'. Poi terminarono contemporaneamente.
- Quindi Balthazar, ecco cosa accadrà - La bruna sorrise di nuovo, ma
i suoi occhi erano schegge di ossidiana, freddi, luminosi e duri. - Lo
prenderai e me lo darai. E poi deciderò se... –
- Di far saltare in aria la tua nave - Mentre lei sbatteva le palpebre
confusa, lui scosse la testa. - Andiamo, I predatori dell'arca perduta.
Dietrich a Katanga. Ricordi, erano sul ponte della nave e... –
- Sta' zitto! – puntò l’indice con la l’unghia rossa sul Libro. - Dallo a
me –
- No - alzò le mani. - Non lo farò. Ora cosa? –
- Dallo a me! –
Ci fu una pausa, e lui aspettò che lei lo gettasse contro il muro. O
forse lo castrasse per fargli mangiare le palle. Quando non successe niente
del genere, era incuriosito da quanto lontano poteva spingerla.
- Sai, se pesti un piede, mi convincerai davvero. Ancora meglio, tip
tap. Io fischietterò una melodia… -
Il ruggito lo colpì in faccia come se fosse stato lanciato da un
uragano, i suoi capelli volarono all'indietro, la sua pelle sbatté come se si
trovasse in una galleria del vento, il suo petto si compresse… eppure il
suono sembrava essere solo nelle sue orecchie, l’effetto solo sul suo corpo.
- Ti possiedo - ringhiò Devina sopra il frastuono - e tu mi darai quello
che voglio -

•••

Sahvage trovò l'auto di Mae dopo quattro ore di ricerche. Non aveva
trovato niente nel cottage di Tallah. Niente a casa di lei. Niente che potesse
percepire da nessuna parte.
Era come se fosse scomparsa dalla faccia del pianeta.
O, cosa ancora più insostenibile, non c'era più... perché era andata nel
Fado anche se lei non ci credeva.
Proprio mentre stava per perdere la sua fottuta mente, e faceva un
altro giro di ritorno dalla periferia e verso il cottage, senza Mae a casa sua,
senza Mae al telefono e senza Mae...
Luci blu. Luci blu lampeggianti.
Le aveva già viste durante il precedente giro in città dai campi rurali,
ma poiché non l'aveva percepita da nessuna parte vicino alla scena, le aveva
ignorate. Inoltre, la verità era che, circa due ore dopo aver cercato Mae,
aveva smesso di sperare di trovarla e aveva iniziato a prepararsi ad essere
trovato.
Da una bruna con delle pretese.
Oppure, Vergine Scriba non voglia, con pezzi di cadavere.
Senza nessun altro posto dove andare, decise di controllare la scena
dell'incidente. Materializzandosi nell'oscurità proiettata da un muro di
pietra, osservò l'incidente d'auto...
- Mae! –
Sahvage urlò il suo nome quando riconobbe la sua Civic e quando i
poliziotti alzarono lo sguardo da quello che si rivelò essere un corpo a terra,
il suo sangue si gelò. Sapeva che non era Mae, ma poiché era sottovento,
pregò che non fosse Tallah.
- Signore, a meno che non sia un testimone o non sia in grado di
identificare... –
Quando un'ufficiale donna si avvicinò a lui, non le diede la possibilità
di andare oltre. Entrò nella sua mente e ottenne i dettagli di cui aveva
bisogno: la vittima di sesso maschile sull'erba era stata pugnalata ed era
morta. L'auto fuori strada era intestata a un certo Christopher Wooden
morto nel 1982 e che viveva a dieci miglia di distanza. Un passante che
aveva una casa nel quartiere aveva chiamato la polizia.
Nient’altro, almeno che potesse importare a Sahvage. Ma quella era
sicuramente l'auto di Mae.
Allora dove diavolo era?
Eppure, anche mentre si poneva quella domanda, lo sapeva. Era
pronto a scommettere che in qualche modo la bruna era arrivata lì e aveva
rapito Mae...
Quando il telefono squillò, lo tirò fuori dalla giacca per controllare lo
schermo. Quando vide chi era, tipo per la centesima volta, perse il
controllo.
- Oh, porca puttana… cosa? - scattò mentre rispondeva alla chiamata. -
Puoi lasciarmi in pace, cazzo? –
- Sei tu quello che mi ha chiamato, stronzo - ribatté il Reverendo. - E
visto quello che stai cercando, pensavo che avresti risposto al tuo cazzo di
telefono nelle ultime quattro maledette cazzo di volte che ho chiamato. Ora,
vuoi trovare il Libro o no? –
Sahvage guardò il tipo morto e si passò una mano sopra la testa.
- A meno che tu non ce l'abbia in grembo, ho altre priorità in questo
momento... –
- Ci vediamo al parco cittadino. Quindici minuti. Se vuoi il Libro, ci
sarai. Questa è la tua unica possibilità. Dopo questo, non mi sentirai e non
mi cercherai mai più –
Quando la linea si interruppe, Sahvage quasi lanciò il suo fottuto
telefono contro la Honda di Mae. Ma si aggrappò alla cosa perché sperava
ancora, per un miracolo del tutto impossibile, che lei lo chiamasse.
Imprecò e si guardò intorno…
E si rese conto che tutti i poliziotti sulla scena erano immobili e lo
fissavano come se fossero pronti a ricevere una lista di ordini da eseguire. O
forse un indizio su quali erano i loro nomi di battesimo.
Andò alla macchina di Mae. La portiera del guidatore era aperta e lui si
sporse verso l'interno. Entrambi gli airbag erano esplosi, ma le chiavi erano
ancora nell'accensione. Strappandole via, non vide dove fosse il suo
telefono o la sua borsa. Potevano essere già nelle mani dei poliziotti, ma
non era preoccupato che gli agenti si presentassero a casa sua… e Dio non
voglia, trovassero suo fratello in quella vasca. Come la carta di
circolazione, tutti i suoi documenti d'identità erano intestati a qualcun altro
con un indirizzo diverso da quello in cui viveva realmente. Era una
procedura standard per i vampiri che vivevano nelle aree umane
densamente popolate.
- Merda! - mormorò. - Merda, merda... –
- Posso aiutarla? - disse la poliziotta. - C'è qualcosa di cui ha bisogno? –
- Quello di cui ho bisogno è... –
Mentre lasciava svanire il suo pensiero, una parola giunse dal nulla,
come se gli fosse stata impiantata nella testa: Scambio.
Esatto, pensò.
Aveva bisogno di qualcosa da poter scambiare.
Il genere di cosa che quando quella bruna si fosse presentata di
nuovo, e lo avrebbe fatto, lui avrebbe avuto qualcosa che lei voleva.
Qualcosa di cui aveva bisogno. In modo da poter ottenere ciò che lui
doveva avere in cambio.
Che era Mae. Al sicuro.
- Uno scambio - disse ad alta voce guardando il suo telefono.
Si smaterializzò e liberò i poliziotti dal loro stato catatonico, ma solo
dopo aver cancellato ogni ricordo della sua presenza dalle loro menti. Per
quanto potevano ricordare, lui non sarebbe stato altro che etere.
Come fantasma lui aveva molto senso.
Ma era un fantasma con una fottuta missione. Avendo già
abbandonato una femmina nel corso della sua vita, non avrebbe fatto di
nuovo quella stronzata. Anche se lo aveva ucciso.
E sperava che lo facesse di nuovo.
CAPITOLO QUARANTAQUATTRO

- Ecco il problema - disse Balz a Devina. - Non sono un gentiluomo,


per niente. E mi dispiace dirtelo, ma tu non sei una signora. Quindi ti
lascerò fare quello che vuoi con questo Libro che sembri volere così tanto –
Mentre la furia trasformava quel bel viso in qualcosa di orribile, lui
sapeva che quella sera lei non se ne sarebbe andata con quella cosa. Non era
esattamente sicuro di quali fossero le regole, solo che non sarebbe stata in
grado di toccare quella fottuta roba.
Non aveva idea del perché, ma al momento non aveva importanza.
- Abbi cura di te - le disse.
- Ti ucciderò –
- Non stasera e non qui. Il tuo bluff è stato scoperto –
Con un piccolo gesto di saluto, chiuse gli occhi, si smaterializzò fuori
di lì e non perse assolutamente tempo nel tornare alla montagna e alla villa
della Confraternita. Era pronto a scommettere che la bruna avrebbe avuto
un secondo o due di muto stupore, perché davvero, quand'era stata l'ultima
volta che un uomo non aveva fatto quello che lei gli aveva detto di fare? E
poi avrebbe cercato di negoziare con il Libro stesso.
Lei avrebbe perso a quel tavolo delle trattative.
Ma ci avrebbe provato.
E quel difetto di personalità, di narcisismo arrogante sarebbe stata
l'unica ragione per cui sarebbe riuscito a entrare vivo nel mhis. Cosa
sarebbe successo dopo? Chi diavolo lo sapeva, ma aveva la sensazione che
lei potesse agire su di lui solo se dormiva.
Altrimenti, gli sarebbe apparsa di persona quando era sveglio.
Quando Balz si riformò sui gradini della villa, andò di corsa verso
l'enorme porta, ma poi pensò ai graffi che aveva sulla schiena e si fermò.
- Cazzo! - mormorò.
E si chiese cosa ci fosse esattamente dentro la sua pelle.
Fece un passo indietro... e un altro... e un altro... andò avanti così
finché la fontana del cortile non urtò contro le sue scapole.
Fissando i grandi muri di pietra grigia della villa, i gargoyle agli
angoli in alto e le inclinazioni del tetto di ardesia, pensò a chi c'era dietro
tutte quelle finestre illuminate, ma tenne quelle immagini vaghe nella sua
mente. Aveva la sensazione di dover fare in modo che i suoi pensieri
fossero il più indistinti possibile.
Con una sensazione di terrore, tirò fuori il telefono. Il primo numero
che chiamò non rispose. Il secondo? Niente. Il terzo? Segreteria telefonica.
Quando il suo cuore iniziò a battere forte, ebbe paura che le cose
avessero preso una brutta piega.
Il quarto numero ricevette risposta prima che lo squillo iniziale
iniziasse a svanire.
- Padrone! Come va? Cosa posso fare per... –
- Fritz - disse cupamente. - Fai scendere le persiane. Tutto intorno alla
casa. Subito. Non ho il tempo di spiegare –
Qualsiasi altro maggiordomo, in qualsiasi altra casa reale, avrebbe
potuto prendere fiato per chiedere perché. Forse si sarebbe un po' agitato o
avrebbe pensato di dover parlare con uno dei suoi veri padroni.
Non Fritz Perlmutter.
- Subito, Padrone! –
E con subito il doggen intendeva esattamente quello: in tutta la villa,
su ogni piano, su ogni lato, le persiane cominciarono ad abbassarsi.
- Cos'altro, Padrone? –
- Dove sono tutti? - chiese Balz. - Nessuno risponde al telefono -

•••

Quando Sahvage si riformò nel parco, era parzialmente oscurato da


una nebbia che aveva iniziato a salire dal fiume, il risultato di uno strano
squilibrio nel tempo che sicuramente non si era verificato quando era stato
qui in precedenza. Tra gli spettrali banchi di nebbia, appariva e scompariva
l'anello di alberi ai margini della radura, e in alto, la luna e le stelle erano
ugualmente mascherate e rivelate di volta in volta quando le nuvole
passavano.
Senza lampioni o luci intorno, era molto buio, i grattacieli in
lontananza offrivano solo un bagliore che non era sufficiente a vedere.
- Non hai paura? –
Al suono della voce del Reverendo, Sahvage si voltò.
- Dov'è il tuo tipo? –
L'altro maschio lo fissò in silenzio, come se stesse facendo una sorta
di valutazione.
- E ancora non ti stai Armando –
- Se ti accenderà un fuoco sotto il culo, sono più che felice di puntarti
una pistola alla testa. Ora mostrami il tuo tipo o me ne vado, cazzo –
Il Reverendo annuì con un piccolo inchino.
- Come vuoi –
E poi il maschio scomparve.
- Fanculo! - mormorò Sahvage guardandosi intorno.
Nient'altro che quella nebbia. Con un'imprecazione tirò fuori il
telefono. Sai, nel caso avesse perso la chiamata che stava aspettando da
Mae. Nei 3,2 nanosecondi che era stato fuori uso mentre veniva qui...
Sahvage abbassò il telefono. Lo mise via. Impugnò una pistola.
Non arrivava nulla nel suo naso, ma il suo istinto gli diceva che non
era più solo. In modo sostanziale.
- Va bene, falla finita - disse alla fila degli alberi. - Non aspetterò tutta
la fottuta note –
Con il successivo abbassarsi della nebbia, una figura emerse dai
tronchi e dai rami spogli. E quando riconobbe il maschio, il suo cuore perse
un battito.
Hai perso la tua gente, la tua famiglia.
Tohrment, figlio di Hharm, era com'era stato secoli prima, un soldato
alto, largo e intransigente con lo sguardo fisso e una presenza tranquilla.
C'era una macchia bianca sulla parte anteriore dei suoi capelli scuri adesso,
e i suoi vestiti di pelle erano moderni. Ma i pugnali neri incrociati, con le
impugnature abbassate, sul petto, erano proprio come sempre.
- Quanti sono venuti con te - disse rude Sahvage quando il Fratello
cominciò ad avanzare.
- Tutti –
A quel punto, altre figure si fecero avanti... Vishous, che ora aveva il
pizzetto. Murhder, che aveva ancora i capelli rossi e neri. E poi c'erano altri
i cui volti non riconosceva.
E altri che si aspettava di vedere ma non c’erano.
Era passato molto, molto tempo.
Le cose erano cambiate.
Su quel pensiero, il vento cambiò direzione portandogli i loro
profumi… e quando inspirò, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Si disse
che era a causa della brezza fredda sul viso. Sì. Era così.
E figlio di puttana, avrebbe dovuto sapere che sarebbe stata una
trappola. Inoltre, avrebbe dovuto sapere di non andare in giro per Caldwell,
dopo aver sentito che il Re aveva sede qui e finalmente aveva deciso di
governare. Troppo vicino, dato che dove si trovava Wrath, la Confraternita
non poteva essere lontana.
Non avrebbe mai dovuto mettere piede in questo posto.
Sahvage si schiarì la gola.
- Quindi è qui che mi ucciderete per aver recato disonore alla
Confraternita? –
- Cosa ti è successo? - chiese Tohr senza rancore. Che era, dopo tutto,
il suo modo di essere... e senza dubbio la ragione per cui si era fatto avanti
per primo. Era ancora quello equilibrato. - Pensavamo che fossi morto –
- Quindi avete trovato la mia bara, eh? - Sahvage controllò il telefono
anche se non aveva squillato. - Sentite, non ho tempo per una riunione e
non mi interessa fare due chiacchiere. Le nostre strade si sono separate… -
Che cazzo stava dicendo? - per tutto questo tempo, e manterremo le cose
così, a meno che non vogliate combattere. In tal caso, diamoci da fare.
Devo andare in un posto –
Dove esattamente, non lo sapeva.
- Cosa ti è successo? - chiese Tohr di nuovo.
- Ho dei tatuaggi. Questo è praticamente tutto –
Per una frazione di secondo, tornò al suo passato con i maschi: il suo
addestramento con loro nell’accampamento militare del Carnefice. I
combattimenti. La sua investitura. Faceva parte della Confraternita da un
po', ma poi suo zio era stato ucciso dai lesser... e Rahvyn era rimasta da
sola.
Dopo quello... vennero prati, lucciole e frecce. Guardie senza testa. E
un aristocratico sull'asta di una bandiera.
Mentre ogni tipo di immagine risuonava nella sua mente, era
consapevole di trattenere nel petto le proprie emozioni. D'altra parte,
piangersi addosso non era mai stato da lui.
Pensò a Mae e a suo fratello.
Poi pensò a Mae.
- Sono stato una pessima scelta sin dall’inizio - disse. - E mi dispiace
di avervi fregato con la storia della bara. Ma sono le uniche scuse che
riceverete... –
- Neanche noi siamo qui per recuperare il tempo perso - gli occhi di
Tohr andarono su e giù. - E non abbiamo bisogno di scuse o spiegazioni.
Abbiamo bisogno del tuo aiuto –
Sahvage rise di colpo e batté uno stivale.
- Siete davvero nella merda, se cercate aiuto da me –
- Esattamente - disse Tohr con voce cupa.
CAPITOLO QUARANTACINQUE

Ancora bloccata nella... tana della bruna, o qualunque diavolo di cosa


fosse... Mae fece di nuovo un altro giro intorno all'area del guardaroba,
anche se non avrebbe fatto alcuna dannata differenza. E mentre passava
davanti a quello che le fece pensare a un viale scintillante, sentì di nuovo il
rombo della metropolitana.
- Pensa, pensa, pensa, pensa, pensa… -
Aveva già fatto tutto quello che poteva con la porta, cioè
assolutamente niente, cazzo. Quella cosa era solida come se fosse stata
saldata sul posto. E ancora niente finestre o prese d'aria praticabili. E il
tempo passava.
E le probabilità che la bruna tornasse aumentavano.
Frustrata, Mae chiuse gli occhi e lasciò cadere la testa all'indietro. Se
non si fosse inventata qualcosa, non sarebbe stata in grado di aiutare
Rhoger. Tallah sarebbe rimasta da sola e spaventata. E Sahvage…
Quando i suoi occhi si aprirono, quasi riprese a camminare... ma
proprio mentre stava per fare un passo in avanti, si accorse dell'apparecchio
sul soffitto, sotto il quale si era appena fermata.
Il rilevatore antincendio.
Improvvisamente vigile, cercò gli altri. Ce n'erano sei in totale,
montati a intervalli equidistanti sul soffitto. E non solo erano luminosi e
brillanti, ma avevano delle luci rosse, quindi facevano parte di un sistema in
funzione.
Mae si voltò verso la zona cucina. La stufa era a otto fuochi, e anche
perfettamente pulita. Con il cuore in gola, si avvicinò e azionò una delle
manopole. Ci fu un clic...
Poomph!
Spuntò una fiamma blu, molto accomodante. Calda. Pronta a darsi da
fare con tutto ciò che arrivava nelle sue vicinanze.
Tornò barcollando ai vestiti, prese in considerazione le sue opzioni e
decise di prendere le borse. Per prima cosa erano in grado di mantenere la
fiamma e non solo bruciare rapidamente. E poi avrebbe potuto usare le
maniglie per tenere il calore vicino alla testa dell'irrigatore. Ma quale?
- Non devi abbinare un dannato outfit - mormorò.
Al centro dell'espositore c'era una borsa squadrata di una specie di
pelle esotica, il motivo delle squame con sfumature di grigio sui bordi
sfumavano al centro con il bianco crema. Mentre la afferrava perché era la
più vicina, il lucchetto sul davanti scintillò a causa dei diamanti.
Sul fornello, tenne uno degli angoli verso la fiamma. L'odore era
come quello di un barbecue, ma la bruciatura istantanea che aveva
immaginato non stava avvenendo.
Quando i secondi si trasformarono in minuti, si voltò a guardare verso
la porta principale. Proprio mentre stava diventando disperata, avvenne
un'esplosione di giallo e arancione sul cuoio. Mae aspettò finché non fu
certa che il trasferimento fosse completo... e poi iniziò a camminare.
Fortunatamente, l'irrigatore più vicino non era lontano.
- Forza... - gemette allungandosi sulle punte dei piedi per sollevare la
borsa più in alto che poteva.
Nessun allarme scattò. Niente acqua. Niente.
Il soffitto era alto tre o quattro metri. Forse non era abbastanza vicina?
Ma merda, le sue braccia si stavano stancando perché la borsa era davvero
pesante. Con un'imprecazione, le abbassò... e poi si avvicinò e tirò via una
sedia dal tavolo. Di nuovo sotto l'irrigatore, salì e avvicinò la fiamma
all'impianto di acciaio.
L'odore della pelle bruciata si fece più forte. Il fumo cominciò a
diffondersi sul suo viso. Tossì e dovette voltare la testa.
Ma non accadde niente.
Guardandosi alle spalle, controllò gli altri irrigatori.
- Accidenti... –
Non aveva bisogno di vedere un orologio per sapere che il tempo
stava scadendo. E lei non aveva altre opzioni.

•••

Nonostante la piccola ondata di emozione, Sahvage non lasciò che


Tohrment, figlio di Hharm, andasse oltre con qualsiasi problema avesse la
Confraternita.
- Ragazzi, dovete occuparvi da soli dei vostri problemi - agitò una
mano verso tutti i forti corpi maschili in piedi nella nebbia e poi si
concentrò sul suo telefono. Che… dannazione!... non aveva squillato. -
Possedete le risorse e avete avuto a che fare con l'Omega e la Lessening
Society per secoli. Non avete bisogno di me... –
- L'Omega non c’è più –
Sahvage alzò lo sguardo dal suo cellulare. Sicuramente aveva sentito
male.
- Cosa hai detto? –
- L'Omega non esiste più. La Lessening Society non esiste più –
Si concentrò sul Fratello e pensò che quelle due affermazioni erano
praticamente l'unica cosa che avrebbe potuto distoglierlo, anche per una
frazione di secondo, dalla sua preoccupazione per Mae. Anche se era
passato così tanto tempo da quando aveva riflettuto sulla guerra, sentire che
era finita e che la razza era al sicuro fu uno shock, e si ritrovò a cercare i
volti che riconosceva nella Confraternita.
Tuttavia, non stavano accorrendo per dargli il benvenuto E nessuno di
loro si stava nemmeno muovendo per abbracciarlo. Ma era passato tanto,
tanto tempo.
- Abbiamo vinto? – disse, perché ancora non riusciva a crederci. Poi
scosse la testa. - Voglio dire, avete vinto? Davvero? –
- Sì. Ma c'è un nuovo pericolo –
Sahvage guardò il suo telefono. Guardò di nuovo la Confraternita.
- Come ho detto, dovete occuparvi... –
- Abbiamo bisogno di te... –
- Non sono diverso da... –
- È un demone –
Il corpo di Sahvage rimase immobile di sua spontanea volontà.
- Un demone? Che tipo di… demone –
- Stiamo cercando di capirlo. E sappiamo che hai abilità speciali... –
Mettendo la mano davanti al volto del Fratello, interruppe il discorso.
- È una femmina, giusto? Una bruna. E con lei ci sono delle ombre...

Uno dei Fratelli che non riconobbe, con i capelli scuri e più basso e
più largo degli altri, si fece avanti.
- Esatto. Può essere una bruna. Ma può anche essere molte altre cose

L'accento era forte, ma non come quello del Vecchio Continente:
americano, anche se Sahvage non aveva una conoscenza sufficiente del
Nuovo Mondo per individuare un'origine in particolare.
- L'hai vista? - chiese Sahvage al maschio.
- Sì –
- Dove? Sai dove trovarla? –
Tohrment si sporse in avanti e mise la sua faccia in mezzo.
- Tu la conosci? –
Mentre Sahvage rifletteva sulla sua risposta, la Confraternita gli si
avvicinò, ma non in modo aggressivo, nonostante tutte le loro armi.
- Non ho tempo per spiegare - mise via il telefono. - Ascoltate, ho
solo bisogno di sapere dov'è. Penso che lei abbia qualcuno... abbia preso
qualcuno. Stasera. E se non trovo quel demone, penso che una persona a cui
tengo verrà uccisa –
- Conosco un posto - disse il combattente tarchiato con l'accento. -
Posso portarti lì –
- Andiamo! –
Tohrment mise tutto il suo corpo in mezzo.
- Non finché non avremo la tua parola –
- Bene! L’avete – Sahvage alzò le braccia. - Qualunque cosa vi serva,
non me ne frega un cazzo... –
- Ci aiuterai dopo che noi avremo aiutato te. Farai quello che solo tu
puoi fare quando ne avremo bisogno –
Sahvage fissò gli occhi di suo fratello, del suo ex Fratello.
- Non avrai creduto sul serio a quelle stronzate, vero? Agli
avvertimenti sulla mia bara? Posso assicurarti che non ho poteri speciali –
- Stai mentendo –
- Guarda, quella puttana ha preso la femmina che a... una femmina a
cui tengo. Se io fossi così fottutamente potente, pensi che non la
strangolerei all’istante? –
- Ma nel Vecchio Continente... –
- Non dovresti credere a tutto quello che senti –
Tohrment lanciò un'occhiata alla Confraternita.
- Quindi non hai massacrato Zxysis o le sue guardie? Non hai fatto
niente di tutto ciò. Non sei uno stregone –
Proteggere Rahvyn era un riflesso, ma non c'era più motivo di
continuare a mentire. Non la vedeva né sentiva parlare di lei da duecento
anni.
- No, non sono uno stregone. E non sono stato io –
- Non ti credo –
Sahvage scrollò le spalle.
- Non me ne frega un cazzo che tu mi creda o no. Guarda, devo
andare, devo trovare… -
- Ti porterò dove ho trovato il male - disse il Fratello con l'accento. -
Senza condizioni –
Sahvage incrociò le braccia sul petto.
- Non ti conosco. Perché dovresti farlo? –
- Damigella in pericolo a parte? - Il fratello strinse gli occhi nocciola.
- Sono un dannato Cattolico irlandese. Quindi i demoni devono andarsene –
- Sei sicuro che i Cattolici possano parlare così? –
- Se vieni dalla parte sud di Boston, sì, cazzo –
- In cambio - intervenne Tohr - ci aiuterai a trovare quello che stiamo
cercando. Ci devi un favore, e sei sempre stato un maschio di parola –
- Continua a ripetertelo... –
- Troviamo il Libro e poi sarai libero di andare –
Sahvage si avvicinò.
- Scusa, cosa hai detto che state cercando? -
CAPITOLO QUARANTASEI

Vernon Reilly non ne voleva sapere. Mentre guardava l'altra guardia


di sicurezza in servizio, era davvero stanco di quella merda.
- Devi smetterla, okay? Non ne posso più –
Buddy Halles sembrava sorpreso che qualcuno, chiunque, potesse
opporsi alle sue lamentele.
- Non vedo perché stai prendendo le sue parti –
L'ufficio di sicurezza era una scatola con un'unica porta, due sedie
girevoli e una serie di monitor e apparecchiature, ed erano fortunati ad
avere lo spazio che avevano. L'edificio di cui erano responsabili era vecchio
ma in buono stato, con una grande pila di piani quando era stata costruita un
secolo prima. Ora, naturalmente, era un mozzicone di pietra antiquato
rispetto ai graziosi grattacieli a specchio del centro.
In questo senso era un po' come Vernon. Vecchia scuola, ma
comunque utile.
Almeno per altri due mesi, tre settimane e quattro giorni, nel suo caso.
Buddy si sedette in avanti sulla sedia girevole e indicò il suo
distintivo lucido.
- Sono occupato. Ho un lavoro, ho delle responsabilità. Lei deve
capire dove sono. Questo mi riguarda, amico –
Buddy era un ventisettenne nato e cresciuto a Caldie che si faceva
crescere i capelli ovunque ci fosse un follicolo e che sembrava pensare, alla
maniera della nuova generazione, che assolutamente tutto ruotasse attorno a
come lui si sentiva.
Vernon aveva dovuto ascoltare i problemi del ragazzo a ogni turno di
otto ore da quando Buddy era stato assunto a ottobre.
- E mia madre sa come mi sento -
Quale madre non lo sa.
- Mmh mmh –
- Ho il diritto di sentirmi al sicuro a casa mia... –
- È la casa di tua madre. E non stai pagando l'affitto –
- Sono allergico ai gatti, però. Lei sa che sono allergico… -
Come un dono di Dio, uno dei sensori iniziò a lampeggiare sulla
console. Quando Vernon si mise a sedere per inserire la richiesta di codifica
diagnostica nel suo computer, sperò, per l'unica volta nella sua carriera
professionale come guardia di sicurezza, che ci fosse un vero incendio.
- Forse tua madre ti sta inviando un messaggio - osservò Vernon
mentre aspettava la risposta dal terminale.
- Intendi... pensi che lo faccia apposta? Per farmi andare via di casa...

Quando la lettura della valutazione tornò, Vernon si alzò dalla sedia.
- È un altro malfunzionamento. Nessuna traccia termica. Ho spento
l’allarme, ma vado comunque a controllare –
- Vengo con… -
- No! - Vernon si infilò la giacca. - Resta qui. Qualcuno deve
continuare a controllare –
Buddy stava protestando per il fattore anzianità e Vernon uscì
nell'atrio. Quando la porta si chiuse alle sue spalle, abbassò le palpebre e
ascoltò il clic.
Ah... il Paradiso.
Se avesse giocato bene le sue carte, avrebbe potuto allungare le
indagini per un'ora o più. L'ufficio di sicurezza era al primo piano, proprio
accanto al montacarichi, ma non era uno sciocco. Fece le scale. Lentamente.
Giù nel seminterrato, fischiettò una melodia che non aveva un titolo,
la stessa di sempre quando la pressione diminuiva. Era una combinazione di
Settembre degli Earth, Wind & Fire e la versione originale di My Girl di
Smokey Robinson. E c'erano buone probabilità che avrebbe fischiettato per
tutto il tempo di cui aveva bisogno. A differenza del resto dei piani
superiori, il seminterrato non aveva stanze per gli uffici, solo aree di
stoccaggio, ma soprattutto era così tardi che tutti i dipendenti erano andati
via, anche quelli a cui piaceva lavorare fino a tardi nei fine settimana.
E quella era un'altra ragione per cui era sicuro che l'allarme fosse un
malfunzionamento. Quaggiù non c'erano più caffettiere accese. Nessuno
che fumava di nascosto e buttava la cenere in un bidone di combustibile nel
bagno degli uomini. Nessuna lampada da scrivania angolata troppo vicino
ad apparecchiature informatiche... o una delle mille cose bizzarre di cui
aveva sentito parlare o visto di persona nell'edificio.
Garantire la sicurezza di una proprietà come questa per trentasette
anni? Imparavi a conoscere tutti i diversi modi in cui gli esseri umani
combinavano un casino. Aveva fatto uscire persone dagli ascensori che
avevano bloccato apposta per ore per fare sesso. Aveva salvato persone dal
tetto, persone che ce l'avevano con le loro vite. Si era voltato dall'altra parte
quando alcune discussioni si erano rumorosamente alzate nelle trombe delle
scale e si era intromesso in altre in modo che nessuno si facesse male.
Aveva tollerato tutti, indipendentemente dal loro status, dalle statistiche o
dal proverbiale numero di matricola.
Il fatto che Buddy lo stesse facendo impazzire era probabilmente il
miglior indicatore, a parte il fatto che avrebbe compiuto sessantacinque anni
il mese prossimo, che era ora di appendere la vecchia uniforme e trovarsi un
hobby. Non aveva mai avuto un hobby. Forse costruire navi. Gli piacevano
le cose con parti piccole, e Dio sapeva che era un talento naturale quando si
trattava di fare ordine nel disordine.
Ed era per questo che gli era sempre piaciuto questo lavoro…
L'odore di bruciato attirò la sua attenzione, anche se non comprese le
sfumature all'interno di quell'aroma sgradevole. Era come... pelle bruciata?
Vernon aumentò il ritmo. Conosceva a memoria il seminterrato, come
il resto dell'edificio, e si precipitò nel magazzino che stava avendo quello
che sembrava essere un non-malfunzionamento.
Tirò fuori il suo vecchio mazzo di chiavi, aveva anche pronta la
tessera. Ciascuna delle unità di archiviazione era stata affittata privatamente
e, se entrava, doveva registrare il suo ID insieme alla data e all'ora per
motivi di sicurezza. E in questo caso, quello spazio in particolare era stato
affittato a una delle compagnie di assicurazione, quindi all'interno c'erano
molte informazioni sensibili.
Quando si avvicinò alla porta, ci appoggiò il palmo sopra e si accigliò
perché l'acciaio non era caldo. Infilò comunque la chiave nella serratura e,
quando il catenaccio cedette, spinse il pesante peso con la spalla.
Immediatamente, sentì l'odore di ciò che aveva attirato la sua
attenzione. Proveniva sicuramente dall'interno, ma quando la luce attivata
dal movimento si accese...
- Che diavolo? - mormorò Vernon.
Entrò nella stanza e strisciò la sua carta d'identità per zittire il segnale
acustico dell'allarme della porta, e poi fece un giro...
Tutto lo spazio completamente vuoto.
Le pareti erano come previsto, dipinte di grigio scuro con il soffitto e
il pavimento neri. Questo aveva senso. Ogni volta che una delle unità
veniva affittata, la squadra di manutenzione applicava una nuova mano di
vernice economica e lucida su ogni centimetro quadrato, gli strati erano così
spessi ora che i contorni del cemento erano completamente cancellati. Ma
questo lavoro di verniciatura era immacolato, nessun graffio dove gli stivali
avevano camminato o le scatole erano state posate, nessuna ammaccatura
dove gli oggetti erano stati spinti negli angoli.
Quindi non solo non c'era niente al momento lì dentro, ma non c'era
mai stato.
Non era un suo problema, però. Se qualche azienda voleva pagare per
il privilegio di non mettere nessuna dannata cosa quaggiù, quello era stato
un loro stupido errore. La sua preoccupazione era capire perché diavolo
stesse annusando qualcosa che stava bruciando e vedendo... assolutamente
niente. E sì, era sicuro di essere nel posto giusto. Glielo diceva il rapporto
dell’allarme.
No, un attimo. Uno degli irrigatori, in fondo stava lampeggiando due
volte, per indicare che era quello che si era spento.
Vernon gli si avvicinò e fece un giro un paio di volte. Ma non cambiò
nulla: l'allarme antincendio continuò a lampeggiare, e il suo naso continuò a
percepire fumo, e il magazzino era rimasto completamente vuoto.
Ok, questo andava decisamente nella sua lista delle situazioni strane.
Tornò alla porta, fece un ultimo controllo a ciò che aveva già
controllato; poi uscì…
Vernon si bloccò, tutto il sangue defluì dal suo viso.
In fondo al corridoio, c’erano tre uomini vestiti di pelle nera che
camminavano in formazione fianco a fianco. Beh, uno aveva dei pantaloni
mimetici. E Vernon non aveva bisogno di un metal detector per sapere che i
rigonfiamenti sotto quelle giacche erano armi.
Avevano tutti i capelli scuri, occhi letali ed erano concentrati su di lui.
Con un'improvvisa ondata di nausea, si rese conto che non ce
l'avrebbe fatta ad andare in pensione.
Mio Dio... Rhonda. Avrebbe dovuto seppellirlo.
Vernon chiuse gli occhi. Aveva un teaser, ma nessuna pistola.
Non aveva modo di difendersi…
•••

… aprì la porta dell'ufficio della sicurezza. Alla console, Buddy alzò


lo sguardo.
- Non ci è voluto molto - disse il ragazzo. - Quindi si è trattato solo un
malfunzionamento, eh –
Vernon sbatté le palpebre e si guardò intorno. Buddy era lo stesso,
ancora con la barba e i capelli lunghi, ancora giovane e annoiato. Allo
stesso modo, la console era quella che era sempre stata, e così anche i
monitor. Anche la sua sedia era esattamente come l'aveva lasciata, girata
verso la porta... eppure si sentiva come se fosse stato via vent'anni. E
mentre andava a sedersi al suo lato del pannello di controllo, aveva un vago
mal di stomaco e un mal di testa costante tra le tempie.
- Stai bene, Vern? –
Odiava quando il ragazzo lo chiamava con quel soprannome.
Generalmente. Non adesso.
- Sto bene - dopo aver cancellato la notifica di allarme, girò la sedia
verso Buddy. - Ehi, puoi farmi un favore? –
Le sopracciglia di Buddy si alzarono.
- Sì, certo. Vuoi una soda? –
- No, voglio che tu… - Vernon si massaggiò la fronte - controlli di
nuovo i nastri della sicurezza –
- Certo, da dove? –
- Giù nel... - Il dolore tra le tempie peggiorò e lui strinse i denti. - Nel
seminterrato. Dov'era l'allarme –
- Hai visto qualcosa? –
- No - disse brusco. - Voglio solo rivedere i nastri –
- Ma se non hai visto niente... va bene, sì, certo. Come vuoi –
Mentre Buddy lavorava sui monitor per caricare il filmato, Vernon
aprì il cassetto e tirò fuori la sua bottiglia di Motrin. Ne mise due… e poi
Quattro… nel palmo della mano, e buttò giù le pillole senz’acqua.
Stava tossendo quando l'immagine del corridoio in questione apparve
sullo schermo di destra di Buddy...
Appena Vernon si concentrò su quel corridoio vuoto al livello del
seminterrato, tutto il suo cervello urlò per il dolore.
- Continua - gemette. - Voglio vedere il filmato di quando ero laggiù –
Quando il mal di testa si intensificò, dovette lottare per tenere gli
occhi sull'immagine luminosa...
Proprio mentre usciva dalla tromba delle scale, passando dalla porta
tagliafuoco per entrare nel corridoio, le immagini diventarono nere.
- Che diavolo… - mormorò Buddy tornando indietro.
Buddy avrebbe potuto essere un collega che si lamentava di sua
madre, ma non era un idiota. Non stava facendo niente di sbagliato. Il file,
per un motivo o per l'altro, era stato danneggiato al punto da non fornire
alcun elemento visivo.
Undici minuti.
Undici minuti mancanti.
- Mi arrendo - disse Vernon lasciando ricadere la testa.
- Succede. E… ehi, gli allarmi sono disattivati. Quindi è tutto finito
qualunque cosa fosse –
- Sì –
Tuttavia, c'era questo bisogno quasi innegabile di sondare i suoi
ricordi. Era successo qualcosa in quel seminterrato. Da quando aveva
lasciato questo ufficio e aveva deciso di prendere le scale per...
Vernon lasciò perdere tutto quando l'agonia aumentò di nuovo. Era un
mal di testa strano, come se avesse mangiato tre coni gelato, uno dopo
l'altro, una specie di lancia affilata e fredda proprio nella parte anteriore del
cranio.
- Vuoi farti vedere? - chiese Buddy con una voce che sembrava
preoccupata. - Non sembri stare troppo bene –
- Il Motrin entrerà in azione tra un po' - Vernon si schiarì la gola. -
Parlami di nuovo del gatto, vuoi? –
Buddy tornò immediatamente al suo dramma.
- Sì, allora mia madre dice che è un regalo di zia Rose, ma non credo
che lo sia. Penso che abbia bisogno di una scusa per buttarmi fuori... –
Davvero bizzarro. Mentre Vernon si concentrava sul dramma felino, il
mal di testa scomparve completamente e non poteva essere il Motrin. Non
c'era modo che fosse efficace così rapidamente.
Ma poteva mettere in discussione ciò che funzionava?
- E non puoi fare delle iniezioni per l’allergia? - disse Vernon quando
ci fu una pausa di Buddy per riprendere fiato.
Il ragazzo si accigliò.
- Cosa stai... aspetta, si può fare? –
Vernon annuì e iniziò a togliersi la giacca dell'uniforme.
- Sì. Sicuro. Ti fanno un’iniezione e poi non sei più allergico –
- Oh, mio Dio, è esattamente quello che farò! Grazie amico –
Con un'altra inclinazione della testa al momento non dolorante,
Vernon decise di dare un'occhiata alla console. Quando le luci non gli
fecero più male agli occhi o non gli causarono dolore, si rilassò. Chi diavolo
sapeva cosa era stato. Forse quel nervo schiacciato nel collo stava di nuovo
facendo i capricci.
Sì, doveva essere quello.
Dannazione, era davvero pronto ad andare in pensione, lo era
davvero.
CAPITOLO QUARANTASETTE

All'interno del magazzino pieno di abiti firmati, Mae abbassò la borsa


in fiamme nelle vicinanze della testa dell'irrigatore. La luce rossa non
lampeggiava più.
- No, no… no… -
Si voltò di nuovo verso la porta. Il pannello rinforzato era ancora
chiuso e completamente fissato, ma qualcuno era stato nelle vicinanze. Li
aveva sentiti. Aveva sentito la loro voce. Erano stati così vicini…
Eccoli di nuovo. Il suo istinto le diceva che non era più sola.
Mae guardò l'irrigatore con ogni sorta di speranza: la luce era ancora
spenta.
- Merda! –
Quando scese dalla sedia, pensò che forse stava impazzendo per la
disperazione e il terrore che derivava dal sapere che il tuo assassino non
sarebbe rimasto lontano per sempre. E mentre fissava di nuovo la porta,
l'ondata di emozione che la travolse non fu assolutamente d'aiuto: non era
più spaventata per la sua vita e concentrata sulla liberazione, era oltremodo
triste. Vicina al punto di piangere.
Mae respirò profondamente.
All'inizio, quel profumo non aveva senso. E poi era convinta di averlo
immaginato perché più di ogni altra cosa, era stato quello per cui aveva
pregato.
- Sahvage! - urlò. - Sono qui! Sahvage! –
Attraverso la connessione per averlo nutrito, poteva percepirlo
chiaramente come se fosse in piedi di fronte a lei. Era lì. In qualche modo
l'aveva trovata.
Gettò la borsa a terra e si precipitò attraverso lo spazio, spingendo da
parte le rastrelliere. Stringendo i pugni, bussò alla porta.
- Sono qui! Sono qui! Aiuto! –
Mentre colpiva più e più volte il pannello d'acciaio, registrò qualcosa
nella sua mente… e ci volle qualche altro grido per capire cosa fosse.
All'improvviso, smise di colpire l'acciaio, smise di urlare. Calmandosi, Mae
bussò leggermente.
Bussò più forte.
Picchiò di nuovo.
Non c'era alcun rumore.
Quando entrò in contatto con la porta, non ci fu alcun riverbero in lei,
niente che le entrò nelle orecchie... niente che potesse essere sentito da
qualcun altro.
Cercando di non farsi prendere dal panico, bussò al cartongesso
dipinto di bianco vicino allo stipite.
Niente neanche lì.
E anche se c'era del fumo intorno alle rastrelliere dei vestiti, e un
brutto odore nelle narici, temeva, per nessun motivo logico, che nessun
altro potesse sentirlo.
Che Sahvage non potesse fiutarlo.
Mae si portò le mani alla bocca e si voltò verso gli scaffali e gli
espositori. Era un'illusione, si rese conto. Tutto questo... tutti i vestiti e gli
accessori, i mobili e la cucina, quella vasca laggiù... tutto questo non
esisteva nel senso normale del termine.
Il che significava che lei non esisteva nel senso normale del termine.
- Sahvage - sussurrò. - Aiutami... –
Come diavolo avrebbe fatto a rompere il divario che separava
dovunque lei fosse da dove esistevano tutti gli altri...
... prima che il demone tornasse?
Oh, santissima Vergine Scriba, se la bruna fosse tornata, ora anche
Sahvage era in pericolo.
Il panico in piena regola le inceppò il cervello e cominciò a
camminare avanti e indietro. Poi le venne un'idea.
Mae si mise a correre e, mentre scivolava nell'area della cucina, iniziò
a spalancare gli armadietti aperti.
Aceto bianco. Grazie a Dio. Sale… sì. Limoni... limoni...
Mae provò il frigorifero.
- Dai, ci deve essere... –
Niente limoni, ma c'era vinaigrette al miele e limone. Girando la
bottiglia, scosse la testa. Il terzo ingrediente era il limone. Doveva bastare
per forza.
- Candele... –
Aprì i cassetti. Trovò candele di compleanno rosa, gialle e blu.
- Argento sterling. Ho bisogno… -
Sul tavolo espositivo, dove erano le borse, trovò un piatto splendente
che conteneva una dozzina di paia di orecchini.
- Coltello –
Scaricò tutto vicino alla porta. Tornò indietro a un ceppo di legno
pieno di coltelli sul ripiano accanto al piano cottura. Tornando indietro con
il suo bottino, prese anche la borsa in fiamme.
Seduta a gambe incrociate, cercò di ricordare ciò che le aveva detto
Tallah. Quali erano le dosi, quanto dell'uno e dell'altro degli ingredienti. Oh,
e per quanto riguardava il limone di quel condimento per l'insalata?
La tua intenzione è importante.
Quando udì la voce di Tallah nella testa, ispezionò cosa aveva messo
nel piatto d'argento, come se potesse sapere cosa era giusto o sbagliato. Poi
aprì la busta delle candeline di compleanno e ne tirò fuori una blu.
Che diavolo stava facendo? Tutto questo non aveva funzionato con il
Libro.
- Smettila! -ordinò. - Intenzione... –
Facendosi forza, si morse il labbro e si tagliò il palmo, proprio sopra
la linea della vita. Il sangue uscì velocemente cadendo dappertutto, prese la
candela e la inclinò verso la borsa ancora accesa.
La fiamma prese rapidamente.
Anche se il cuore di Mae batteva forte e non pensava davvero che
avrebbe funzionato, mise la sua ferita e la candela accesa sul piatto. Poi
chiuse gli occhi e cercò di calmare la mente. Immaginò Sahvage che
attraversava la porta, e...
No. Se questo era un qualche tipo di incasinato altro piano
esistenziale, non voleva che entrambi fossero intrappolati qui.
Immaginò Sahvage a cavallo dei due piani. Un piede nella realtà, un
piede dentro dovunque lei si trovasse.
Con totale concentrazione, Mae ricordò ogni singola cosa del
combattente. Immaginò i suoi capelli. Il suo viso bello e forte. I suoi occhi
di ossidiana. Le sue labbra...
Ma mentre inspirava, non riuscì a sentirlo. Anche se lo immaginava,
non riusciva ad andare abbastanza lontano: era una fotografia, non una
scultura. Sicuramente non una persona.
Mae spalancò gli occhi e si guardò intorno.
- Pensa a lui, pensa a lui... –
Cercò di calmarsi di nuovo, e pensò a loro due insieme...
Nel bagno.
Da Tallah.
Improvvisamente, scattò: era così vicina a Sahvage, le loro labbra che
quasi si incontravano, i loro occhi bloccati insieme. Poteva annusarlo e
sentirlo dentro il suo corpo anche se non si stavano toccando, il suo sangue
scorreva, i sensi vivi, il precipizio da cui stava per saltare che non si sarebbe
concluso con una violenta caduta... ma con un volo in ascesa.
Con questo nella mente, immaginò di avere un piede sul lato opposto
della porta e un piede da questa parte, qualunque cosa fosse. Lui si stava
allungando verso di lei, tendendole la mano. E lei stava mettendo il suo
palmo in quello di lui. E lui la stava tirando...
Sahvage. Sono qui.
Pensò intensamente a quelle parole e continuò a ripeterle finché non
le sembrò di stare per scoppiare. Espirando, con i polmoni in fiamme e il
cuore che perdeva i battiti, tutto andò in tilt.
Ansimando, Mae aprì gli occhi e...
Niente era cambiato.
Incurvandosi nella propria pelle, si guardò intorno e sentì una
disperazione che andava oltre il dolore che si era portata dietro per Rhoger,
e questo perché tutto ciò che gli era successo era avvolto nell'agonia
penetrante che ora le marchiava il centro del petto.
E avrebbe perso anche Tallah.
Tutto era finito. La sua vita come l'aveva conosciuta, la sua vita come
aveva desiderato che fosse.
E non avrebbe mai, mai saputo dove l'avrebbero portata i baci di
Sahvage.
Avrebbe perso anche lui.
Le lacrime le rigavano le guance mentre guardava la strana, empia
prigione in cui era intrappolata, e l'orrore che non c'era niente da fare se non
aspettare il ritorno del demone.
E sarebbe stato sia un inizio che una fine.
Tutte le speranze perdute.
Nel bel mezzo della sua tristezza e del suo rimpianto, il volto di
Sahvage le tornò in mente ancora una volta, da quando si era presentato al
cottage e avevano combattuto contro quell'ombra. L'immagine di lui era
l'attacco, quando erano stati in cucina. Stava scherzando con lei, un sorriso
malizioso sul viso, i suoi occhi blu-nero che scintillavano.
In circostanze diverse, forse avrebbero potuto vivere insieme...
- Avrei potuto amarlo! - urlò.
Con un movimento del braccio, colpì il piatto d'argento, tutte quelle
stupide stronzate che non servivano a niente volarono e colpirono la porta
rinforzata d'acciaio, un po’ di liquido si incollò alla porta. Per via di quella
fottuta candela di compleanno azzurra.
All'improvviso, le luci tremolarono... e si spensero.
CAPITOLO QUARANTOTTO

Dopo che un’anziana guardia di sicurezza era stata mandata via senza
alcun ricordo dei tre vampiri che si erano presentati nel seminterrato del suo
edificio, Sahvage stava impazzendo mentre attraversava una specie di
magazzino.
Erano più di quattrocento metri quadrati di assolutamente,
fottutamente nulla.
Ma Mae era qui.
Camminando attorno ai piloni che sorreggevano il soffitto, non
riusciva a spiegare cosa stesse fiutando, cosa stesse sentendo. Ma Mae era
lì. Poteva quasi sentirla. Eppure i suoi occhi gli dicevano che era solo in
quelle quattro mura di cemento.
- Non capisco - gridò.
Butch, il Fratello che si era offerto volontario per guidarlo, scosse la
testa.
- È stato così anche per me e V. Stavamo seguendo il demone con il
GPS, ma... non siamo riusciti a trovarla anche se era in questa posizione –
- Mae è qui - inspirò e annusò anche il fumo. Insieme al profumo
della sua femmina. - Io riesco... lei è qui –
Continuò a camminare sempre più veloce. Ma sarebbe cambiato
qualcosa?
- Fanculo - disse tornando indietro verso la porta d'acciaio. - Prendo il
cazzo di Libro. Poi farò un patto con lei. Lei lo vuole e farà di tutto per
ottenerlo –
Il dolore in quei volti che lo guardavano era un forte e chiaro
avvertimento.
- Mi dispiace, Mae viene prima –
Tohr scosse la testa.
- Riporteremo indietro la tua femmina. Ma il Libro e quel demone
non possono essere riuniti. Le dà troppo potere –
- Solo per essere chiari - Sahvage puntò lo sguardo su di loro. - Non
me ne frega un cazzo se quella bruna fa esplodere metà Caldwell, l'unica
cosa che mi interessa è Mae –
- Abbiamo altre risorse. Possiamo aiutarti –
- Tutto ciò di cui ho bisogno è quel fottuto Libro –
Mentre Sahvage affrontava i Fratelli, riconobbe le urla nella sua testa.
Lo riportarono a tutte quelle notti piene di divertimento alla ricerca di
Rahvyn. Dannazione, come aveva fatto a passare dallo sguardo a Mae tra la
folla in quel combattimento a questa... cieca disperazione... per non essere
in grado di salvarla?
- Sto venendo a prenderti, Mae - disse ad alta voce. - Resta viva, sto
venendo a prenderti –
Mentre la sua voce riecheggiava sul cemento grigio e nero, capì di
essere pazzo. Ma non c'era modo di scendere da quel treno.
Si voltò e uscì a grandi passi dal magazzino. Chiudendo la porta
dietro di sé e dei Fratelli, guardò su e giù per il corridoio mentre gli altri
combattenti continuavano a guardarlo storto con ogni genere di no-non-
andare.
Quando uscì, gli sembrò farlo dalla propria pelle. E l'unico modo in
cui poteva andare avanti era promettere a se stesso... che in qualche modo
avrebbe trovato la sua femmina.
Non che lei fosse sua.
Porca puttana, avrebbe dovuto ascoltare il suo istinto e non farsi
coinvolgere...
Un rumore sordo risuonò nel corridoio, come se qualcosa di metallico
avesse colpito... qualcosa di metallico. Voltandosi, si accigliò al fatto che
non stava succedendo nulla.
- Cosa c'è? - chiese Tohr.
- Non l'hai sentito? –
- No. Non ho sentito alcun rumore –
Butch scosse la testa.
- Non c'era niente, ragazzo mio –
Sahvage li ignorò. Ma quando non sentì altro... proprio un cazzo di
niente... comprese di essere solo uno idiota.
- Figlio di puttana! -
Si voltò, e fu allora che udì il pianto. Leggero. Come da lontano...
eppure il suono era inconfondibile.
Concentrato, Sahvage tornò alla porta d'acciaio, anche se non si
aspettava di vedere nulla.
Si sbagliava.
- Mae! Porca puttana! Mae! –
Il solido pannello di metallo si era in qualche modo trasformato in
uno schermo: ora poteva vedere attraverso di esso, e dall'altra parte, Mae
era seduta a gambe incrociate su un pavimento di marmo bianco brillante, la
testa tra le mani, i suoi singhiozzi attraversavano qualsiasi tipo di distanza
che li separava.
- Mae! -gridò cadendo in ginocchio.
- Cosa fai? - chiese Butch.
- Lei è proprio lì! Che diavolo c'è di sbagliato con te? Mae! –
Sahvage toccò il metallo... e cedette, le sue dita in qualche modo
entrarono dentro ciò che non avrebbe dovuto cedere affatto.
E come se lo sentisse, Mae alzò di scatto la testa e si guardò intorno.
- Sono qui! - si strappò la giacca e la porse al Fratello più vicino a lui.
- Prendi questa –
Tohr guardò in basso confuso.
- Di cosa stai parlando –
- Vado da lei. Devo tirarla fuori. Ma avrò bisogno di un riferimento -
non gli importava se l’altro non capiva. - Tieni questa! –
Tohr continuò a guardarlo come se avesse perso la testa… benvenuto
nel dannato club… ma il Fratello afferrò il polso della giacca.
- Non so dove diavolo pensi di andare... –
- La tua opinione è irrilevante –
Sahvage sostenne il suo corpo, un piede piantato dietro di lui, l'altro
appoggiato proprio sul bordo della porta. Poi allungò il braccio nel pannello
d'acciaio...
La sensazione era sgradevole, come se stesse spingendo la mano nel
fango freddo, ma non gliene fregava un cazzo. Continuò semplicemente ad
andare, sporgendosi sempre più in avanti, il palmo, il polso, l'avambraccio,
penetrarono attraverso la porta... e uscirono dall'altra parte.
Mae si ritrasse.
E poi, all'istante, la sua espressione cambiò.
Sahvage!
O almeno questo è quello che pensava lei avesse detto. Lui non
riusciva a sentirla.
- Prendi la mia mano - gridò. - Prendila, ti tirerò fuori –
Anche se non sapeva se era possibile. Non sapeva nient'altro tranne
che non se ne sarebbe andato senza di lei.
- Sto entrando - disse.
Muovendosi con cautela, infilò lo stivale nell'altra versione della
realtà e spostò parte del suo peso. Lo stesso istinto che gli diceva di
assicurarsi di tenere un piede in ogni piano dell'esistenza, uno su ciascun
lato della porta, diventò sempre più forte, quindi fece affidamento sulla
presa della manica della sua giacca mentre si sporgeva.
Penetrare quella porta con il busto gli fece venire i brividi, la pelle
d'oca, i muscoli si contraevano, le ossa gli facevano male fino al midollo. E
quando la sua testa si liberò dalla resistenza, venne investito da ogni genere
di vista e odore. Abiti. Qualcosa che bruciava. Profumo.
Come se gliene fregasse un cazzo.
Mae era proprio di fronte a lui. Poteva finalmente annusare le sue
lacrime, percepire la sua presenza e ascoltarla nel modo giusto.
Oh, Dio, era ferita. Il suo viso era ferito e...
- Sahvage! –
Gli si lanciò contro di lui e lui si aggrappò al suo corpo, ma non poté
dedicare nemmeno un secondo a controllare le sue ferite.
- Aspetta, femmina mia. Tienimi stretto –
Guardando sopra la sua testa, ebbe una breve, ma indelebile,
impressione di scaffali e scaffali di roba di lusso. E mobili moderni e una
cucina e un letto. C'era un intero spazio vivibile nel magazzino, ma il
demone era così intelligente, giusto?
- Andiamo - disse Sahvage.
L'ultima cosa che notò, quando iniziarono a ritirarsi, fu la bottiglia di
aceto proprio accanto alla porta. E il contenitore del sale. E una busta di
candeline di compleanno.
E una borsa bianca e grigia in fiamme.
Non aveva importanza. Aveva Mae tra le braccia, e questo era tutto
ciò che contava.

•••
Mae era al capolinea, piangendo con la testa tra le mani, quando
aveva sentito qualcosa fuori dalla porta. E poi un braccio, un braccio
muscoloso e pieno di vene, in qualche modo, era arrivato a lei. Era stata
così scioccata che era quasi scappata.
Ma poi aveva sentito Sahvage. Chiaramente.
E poi lui era apparso, proprio di fronte a lei, attraverso la porta.
- Mae! –
Quando aveva pronunciato il suo nome, non ci aveva pensato due
volte. Si era lanciata in avanti e si era gettata su di lui… e nel momento in
cui aveva sentito la sua solida presa, era quasi andata a pezzi per il sollievo.
Non aveva mai afferrato niente così forte in vita sua.
Sahvage le aveva detto qualcosa sul fatto di tenerlo stretto, ma quello
era un comando di cui non aveva bisogno quando si aggrappò al suo collo e
gli avvolse quasi le gambe intorno alla vita. Quando iniziò a ritirarsi
attraverso la porta, la trazione fu terribile, il suo corpo si stirò finché le sue
ossa divennero fitte di agonia e i suoi muscoli scaglie di dolore
incandescente. Tutto quello che poteva fare era seppellire il viso nella gola
del maschio e cercare di continuare a respirare.
Il tremito arrivò in seguito, i brividi la percorsero, i denti batterono,
spasmi alle gambe. Proprio quando pensò che sarebbe andata in pezzi, nel
momento in cui comprese di non farcela più, tutta la resistenza sul suo
corpo scomparve...
Mae esplose fuori da quel covo come se fosse stata caricata a molla...
e Sahvage fu la sua piattaforma di atterraggio. Mentre venivano sbattuti
contro il muro di un corridoio, lei gli sbatté contro il petto, colpendo con il
ginocchio qualcosa di duro come una roccia, il suo naso registrò ogni
genere di nuovi odori.
- Ti ho presa - le disse subito dopo. - Stai bene, sei fuori... ti ho presa

Mae tremava dappertutto, l'adrenalina diminuiva e la lasciava così
debole che non riusciva a sollevare la testa.
- Va tutto bene... - mormorò Sahvage mentre le accarezzava le spalle.
Gradualmente, i sensi di Mae tornarono in linea. Erano in un
corridoio... dall’altra parte di una porta d'acciaio che era chiusa.
Due enormi maschi stavano in piedi sopra di loro.
E un demone stava ancora per tornare da un momento all'altro.
Presa dal panico, Mae si sollevò dai pettorali di Sahvage.
- Dobbiamo andarcene da qui. Sta tornando. Dobbiamo... casa mia.
Andiamo lì. Il sale la terrà fuori... –
- Puoi smaterializzarti? –
Con l'aiuto di Sahvage, Mae riuscì a stare in piedi per lo più da sola,
ma quando si spostò bruscamente di lato, lui imprecò. Così fece lei.
- Se dovete andare a piedi, vi proteggeremo noi - disse uno dei
maschi, il più tarchiato della coppia.
Lei lo guardò e si rese conto che aveva un paio di pugnali neri legati
al petto con le impugnature in basso. E così anche l’altro.
La Confraternita del Pugnale Nero, pensò con soggezione.
- Ti ho presa - disse Sahvage per la centesima volta.
Subito dopo, lui l'aveva presa in braccio e aveva iniziato a correre.
Con tutte le sue forze, la portò lungo il corridoio di cemento come se non
pesasse nulla, i suoi stivali battevano sul pavimento mentre i due fratelli
fornivano riparo davanti e dietro.
Quando arrivarono a una porta pesante con sopra un cartello rosso di
uscita, il Fratello più tarchiato balzò avanti e la tenne aperta.
- Da questa parte - ordinò.
Mae sentiva la sua coscienza andare e venire, come era successo
subito dopo essere stata coinvolta in quell'incidente. Nel frattempo, Sahvage
continuava a correre, correre, correre come se avesse una quantità infinita di
energia nel suo corpo e tutto il potere del mondo.
Alla fine, arrivarono a una specie di centro di consegna, una fila di
stive di carico e ogni tipo di contenitori per la movimentazione, il che
suggeriva che si trovassero nel reparto di smistamento della posta di un
grande edificio. Gli altri due combattenti andarono immediatamente in una
delle aree di ricezione e aprirono una serie di porte verticali facendo ruotare
le stecche sui loro binari...
All'improvviso Mae sentì l'aria della notte che portava un accenno di
olio e spazzatura. Erano in città da qualche parte.
- Posso smaterializzarmi - disse. Schiarendosi la gola, parlò più forte.
- Posso farlo –
- Prima ti facciamo controllare –
Sahvage saltò giù sul marciapiede e, quando ricominciò a correre, si
rese conto che stavano andando verso un enorme camper... dove un uomo in
camice bianco, un umano?, era in piedi vicino a quella che sembrava essere
una sala operatoria.
- No, non è sicuro - disse Mae spingendo contro la spalla di Sahvage.
- Devo tornare a casa mia. Lei verrà qui da un momento all'altro… -
- Mae… -
- No! - si spinse via dalle sue braccia e dovette recuperare l’equilibrio
sulle luci dei freni del veicolo. - Sta arrivando! - Mae guardò tutti i maschi
in preda al panico. - Voi non sapete cos’è... –
- No - ribatté quello più tarchiato. - Sappiamo esattamente cos'è. Se
hai un posto sicuro, vai ora. Noi vi raggiungeremo –
Sahvage aprì la bocca come se volesse mettersi a discutere, ma il
Fratello gli afferrò la spalla.
- Lasciala andare dove deve essere, le porteremo le cure. L'hai tirata
fuori una volta, ma ti garantisco che qualunque scappatoia hai trovato quel
demone lo capirà nel momento stesso in cui tornerà. Ora abbiamo qualche
secondo, usiamolo –
Mae si fece avanti e mise entrambe le mani sul viso di Sahvage.
- Incontriamoci a casa dei miei genitori. Dì loro dove andare –
E poi, anche se era ancora stordita, e nonostante la testa che
martellava e il dolore al corpo, strinse gli occhi per chiuderli.
Puoi farlo, ordinò a sé stessa. Ma soprattutto, devi.
Oppure la sua vita, e quella di Sahvage e degli altri due maschi, erano
finite.
CAPITOLO QUARANTANOVE

Non poteva credere che Mae fosse in grado di farlo.


In tutti i suoi anni di combattimenti nel Vecchio Continente e anche
durante le sue ultime esperienze nei fight club umani, Sahvage non aveva
mai visto un simile atto di volontà. Anche se la femmina riusciva a
malapena a tenersi in piedi, in qualche modo era riuscita a raccogliere la
concentrazione e la presenza mentale per smaterializzarsi fino a casa sua.
Non solo, era riuscita a entrare nel garage. E fino alla porta.
Lui l’aveva seguita per tutto il tempo, restando proprio dietro di lei.
Così, quando alla fine era crollata, lui si era riformato appena in tempo per
afferrarla.
- Ci sono io - mormorò prendendo le chiavi che aveva preso dalla
macchina di lei dalla sua giacca di pelle.
Grazie al cielo aveva pensato di prenderle. La serratura di rame
sarebbe stata un problema.
Entrando di corsa, lasciò la porta aperta per i Fratelli e si diresse
direttamente nel seminterrato con lei. Non voleva che gli altri maschi
controllassero il resto della casa e trovassero suo fratello nella vasca.
C'erano già troppe complicazioni per offrirsi volontario per quel tipo di
domande.
- La camera da letto che sto usando è laggiù - borbottò Mae.
Fortunatamente, le luci erano rimaste accese, quindi era facile
raggiungere la stanza modesta con arredi semplici. E quando lui la adagiò
sul letto, lei emise un sospiro…
In alto, pesanti passi annunciavano l'arrivo dei Fratelli, e appena Mae
chiuse gli occhi, gli altri combattenti scesero in cantina.
- L’unità di Manny è a circa dieci minuti - disse Tohr.
Il maschio protettivo in Sahvage voleva dire a entrambi di uscire dalla
stanza di Mae, ma respinse subito quella stronzata. Questa non era il genere
di situazione da più siamo meglio è, soprattutto perché con quel tipo di
situazioni arrivavano armi e munizioni di tutti i generi.
Il tempo passava e tutti rimasero in silenzio, Sahvage si sedette sul
bordo del materasso per tenere la mano di Mae. Era così immobile che se
non avesse respirato si sarebbe preoccupato che fosse morta...
- Ehi? - arrivò una voce dall'alto.
- Qui, doc - gridò Tohr.
L'umano in camice bianco scese di corsa, un borsone nero frusciava al
suo fianco.
- Ehi - disse rivolgendosi a Sahvage. - Sono il dottor Manello. Non
siamo stati presentati –
Mentre il ragazzo si avvicinava ai piedi del letto, Sahvage lo squadrò
dall'alto in basso. Bell'uomo. Grandi spalle per un essere un umano.
Sembrava competente.
Ma Sahvage non si mosse dal fianco di Mae. E quando il silenzio si
prolungò, i Fratelli si schiarirono la gola.
- Lo prometto - disse il dottore - è strettamente medico. Devo
esaminarla, però. Ha un evidente trauma cranico, okay? –
Con un'ondata di aggressività che cresceva nel suo corpo, Sahvage
voleva dire al ragazzo che lei stava bene, solo che non lo sapeva davvero.
Quello era il punto. Aveva avuto un incidente d'auto, era stata rapita e poi si
era quasi persa per sempre grazie a quella dannata bruna. Un esame
strettamente medico era necessario, soprattutto in considerazione del fatto
che Mae era stesa su quei cuscini come se avesse bisogno di un
defibrillatore, il suo bel viso dolorosamente pallido, il suo corpo troppo
immobile, il suo petto si alzava e si abbassava in modo superficiale.
C'era solo un piccolo problema.
Sahvage voleva prendere il bell’umano dai capelli scuri... e sbattere la
faccia del ragazzo contro una vetrata. E poi magari inchiodargli le braccia e
le gambe al muro. E poi colpirlo con uno spruzzo di combustibile, seguito
da un...
- Fiammifero - disse Sahvage ad alta voce.
- Che cosa? - chiese l'umano.
- Non importa. E non le toglierai i vestiti –
Su quel piccolo e felice annuncio, si guardò intorno nella camera da
letto di Mae senza una buona ragione. C'era una scrivania, un comodino e
un letto matrimoniale con un semplice piumone e un paio di cuscini. A
parte qualche libro e un orologio, non c'era nulla in disordine. Funzionale.
Niente di elaborato.
Sterile.
E questo lo rese triste.
- Guarda, sono felicemente accoppiato, ragazzo mio - disse Manello. -
Quindi so come ti senti in questo momento. Ma come farò a esaminarla se
non posso toglierle la maglietta? –
Prima si avere un pensiero cosciente, la mano di Sahvage scattò in
avanti e afferrò la parte anteriore del camice del dottore. Tirando l'umano
vicino a sé, scoprì le zanne.
Ma invece di strillare, chiedere aiuto o respingerlo, il ragazzo alzò
semplicemente gli occhi al cielo.
- Gesù, voi avete bisogno di rilassarvi, cazzo. Rilassati, testa di cazzo.
E risparmiami il se la tocchi, ti ammazzo. L'ho sentito un milione di volte, e
mai una volta questi tipi di due metri e cento trenta chili hanno dovuto
sbattere la mia faccia contro una vetrata –
Le sopracciglia di Sahvage si sollevarono.
- Non pensavo che gli umani potessero leggere la mente –
- Wow, hai pensato alla vetrata? Davvero? - Il dottor Manello diede
un pugno al petto di Sahvage e si liberò. - Su. Adesso, se tieni davvero a
questa femmina, mi lascerai fare il mio lavoro. Non voglio più stronzate a
causa del tuo legame... –
- Oh, no, no... stai sbagliando tutto - Sahvage alzò i palmi delle mani.
- Non ho nessun legame con lei –
- Quindi sto annusando la colonia che hai appena deciso di metterti
nel bel mezzo di una crisi? - Il dottore si batté il lato del naso. - Lo sento,
idiota. Nel caso non te ne fossi accorto –
Su quella nota, l'umano piantò un paio di mani abbastanza grandi sul
busto di Sahvage e gli diede una bella spinta.
Mentre Sahvage ballava il tip tap uscendo fuori dalla stanza, i Fratelli
lo seguirono e la porta della camera da letto si chiuse.
E lui rimase lì. Tipo, beh, un idiota.
- Sai… - osservò Tohrment mentre si parcheggiava sul divano del
salotto - non sono sicuro di cosa mi sorprenda di più. Il fatto che la tua bara
fosse piena di farina, che tu sia vivo, l’aver tirato fuori una femmina da una
porta d'acciaio... o questo –
- Cos'è questo? - mormorò Sahvage voltandosi.
- Il legame –
- Non sono legato a lei, per l'amor del cielo –
Il fatto che dovesse trattenersi fisicamente dallo sbattere lo stivale era
qualcosa su cui si rifiutava risolutamente di soffermarsi.
Nel frattempo, su una poltrona, il fratello Butch inarcò un
sopracciglio. E non disse una dannata parola.
Il che peggiorava le cose, ovviamente.
Mentre i minuti si allungavano in trecento anni di attesa, Sahvage
camminò avanti e indietro. Un paio di volte.
Poi si fermò.
- Quindi sapete dov'è il libro? –
Butch guardò Tohrment. Che scosse la testa.
- Abbiamo un paio di persone che stanno lavorando su alcune piste -
Tohrment incrociò le braccia sui pugnali. - Ma puoi starne certo, lo
troveremo – Sahvage pensò all'incantesimo di evocazione. E tenne la sua
dannata bocca chiusa. - Quando avremo la sua posizione - continuò
Tohrment - avremo bisogno che tu ci aiuti a trovarlo. E prima che tu provi
di nuovo a prenderci in giro dicendo che non sei niente di speciale, hai
appena tirato fuori una femmina da una specie di realtà alternativa
attraverso una porta d'acciaio. Abbiamo bisogno di te, stregone. Senza i tuoi
poteri, non arriveremo all'obiettivo –
Sahvage strinse gli occhi.
- Rispondimi a questo: cosa farai con il Libro quando lo avrai? –
- Lo metterò in un posto molto sicuro –
- Lo distruggerai? –
- Sarà in un posto molto sicuro –
Sahvage pensò alla bruna. E a quello che quella puttana aveva fatto a
Mae.
Poi imprecò tra sé mentre ricordava il motivo per cui la sua Mae
voleva il Libro. Ma forse tutto quello che era appena successo le aveva fatto
cambiare idea, anche se non conosceva ancora i dettagli del rapimento. Era
sicuro che avrebbe scoperto tutto non appena lei fosse stata in grado di
dirglielo, però.
Perché ora c'erano due cose sulla sua lista di distruzione.
- Resto qui con Mae - disse Sahvage. - Se riuscite a scoprire qualcosa
sul Libro, il Reverendo ha il mio numero –
- Quindi ci aiuterai –
Sahvage fissò dritto negli occhi blu del combattente che un tempo era
stato suo fratello in tutto tranne che per il sangue… e mentì attraverso le sue
dannate zanne.
- Assolutamente sì -

•••

Quando Erika scese dall'ascensore principale dell'edificio del


Commodore, un paio di piani sopra a dove era stata chiamata in quella
scena del crimine con la coppia assassinata e profanata, era contenta che i
problemi di carenza di personale si fossero nuovamente presentati.
Camminava a grandi passi e non sentiva la mancava del sonno. Del
suo appartamento vuoto. Del suo paio di ore libere. Stava andando a mille.
L’agente vicino alla porta le fece un cenno la aprì. Quando passò, lei
annuì di rimando.
- Sono dentro con tutti i libri - le disse.
L’indicazione era ottima, tranne per il fatto che si presumeva che
sapesse qualcosa sulla disposizione delle stanze all'interno. Ma
considerando tutte le cose di cui dovevano occuparsi in quel momento, il
mistero della posizione del corpo era la più semplice che lei doveva
risolvere. Inoltre, tutto quello che aveva fatto era stato seguire la
conversazione.
Secondo l'agente speciale Delorean, la moglie aveva trovato il marito
dopo che era andata a indagare sull’allarme che era scattato. E il cadavere
era proprio... perfetto per Erika.
Dopo aver attraversato una stanza piena di pezzi di roccia, e poi una
che conteneva vecchi strumenti dall'aspetto piuttosto raccapricciante, girò
l'angolo e scattò un'istantanea per la sua memoria: nient'altro che scaffali e
libri in quella stanza, ma non sarebbe stato quello che avrebbe ricordato.
Nell'angolo più lontano, un cadavere sembrava essere stato usato
come un proiettile contro una scaffalatura, pezzi di legno rotti e copertine di
pelle strappate e incrinate intorno ai resti.
Che erano in pessime condizioni.
Delorean si staccò dagli altri agenti e si avvicinò.
- Non c'è... è proprio come la scena del club e degli altri posti, come
se qualcuno avesse agitato una dannata bacchetta per strapparlo a metà –
Erika si avvicinò e si inginocchiò. Forse era la stanchezza... forse il
fatto che aveva i nervi a pezzi... ma stava avendo problemi a elaborare le
ferite della vittima. Era come se fosse stato squarciato dalle gambe, il busto
lacerato a metà dall'inguine alla gola.
La sensazione di essere osservata le fece voltare la testa sopra la
spalla. Ma non c'era nessuno lì…
Erika aggrottò la fronte e si raddrizzò. All'interno di uno stand da
esposizione in Lucite con un coperchio, come se fosse qualcosa di speciale,
un libro era distanziato dagli altri e catturò senza motivo la sua attenzione.
Anche se non poteva vedere la copertina o il dorso e non aveva idea di
quanto fosse lussuoso o costoso, c'era qualcosa...
Beh, di affascinante in esso…
- Stai bene? - chiese Delorean.
- La moglie è nell'altra stanza? - chiese tornando in sé.
- Sì –
- Vado a parlarle - Erika alzò la mano all'agente speciale. - Dammi
solo un minuto con lei da sola –
Senza aspettare una risposta, seguì i suoni dei singhiozzi attraverso un
altro paio di stanze ed emerse in una specie di salotto che sembrava
abbastanza grande da essere simile a quello di un hotel. Su un paio di
divani, vicino a una scala ricurva, una donna con dei bellissimi capelli e il
viso gonfio indossava un accappatoio e una camicia da notte che
probabilmente costava più di un mese o due dell'affitto di Erika.
Quando si avvicinò, non ebbe bisogno di chiedere all'ufficiale di
alzarsi e andarsene. Lui diede uno sguardo a Erika e mormorò qualcosa alla
moglie della vittima prima di scusarsi.
- Salve, sono il detective Saunders - disse mentre si avvicinava. -
Sono della omicidi –
La moglie si accarezzò il naso rosso con un fazzoletto e alzò lo
sguardo.
- Ho appena detto a lui tutto quello che so –
- Sono sicura che sarà utile. Posso sedermi con lei? –
- Non ho altro da dire. Herb è sceso quando l'allarme ha registrato un
movimento e non è più tornato. Ho aspettato una ventina di minuti e poi...
ho lasciato la nostra camera da letto e l'ho trovato… -
Erika si abbassò su un divano di velluto bianco che faceva parte di
uno schema generale di colori neutri, in modo da far risaltare i capolavori
alle pareti, senza dubbio. Cavolo, quel posto era come un museo d'arte
moderna.
- Perché qualcuno avrebbe dovuto farlo? - disse la moglie fissando il
batuffolo di tessuto che aveva in mano. - Perché? –
Quando quegli occhi rossi si spostarono, il cuore di Erika si fermò.
- Mi dispiace tanto - chinandosi in avanti, mise la mano sulla spalla
della donna. - Glielo prometto, troverò il responsabile. Lo consegnerò alla
giustizia fosse l'ultima cosa che faccio –
Forse era una cosa da femmina a femmina, forse era una comunione
cristiana con il dolore che stava provando la donna, ma gli occhi della
moglie si riempirono di nuovo di lacrime.
- Pensa che questo abbia qualcosa a che fare con gli orologi? –
Erika sbatté le palpebre.
- Gli orologi? –
- Quelli che sono stati rubati - La moglie tirò su con il naso e prese un
altro fazzoletto da una scatola bianca. - Abbiamo chiamato la polizia non
appena mio marito è tornato a casa dall'Idaho e ha scoperto che erano
scomparsi. È andato alla cassaforte nel nostro armadio e ha visto che erano
spariti. Facevano parte della sua collezione. Mi ha sempre detto quanto
valevano, ma io non... non riesco a ricordare ora. Ma diverse centinaia di
migliaia di dollari –
Erika guardò il soffitto, prendendo nota delle telecamere montate
negli angoli della stanza.
- Avete un sistema di sicurezza qui, giusto? –
- Non ci sono filmati di quella notte... qualcosa non ha funzionato –
- Quindi avete anche le telecamere - Quando la moglie annuì, Erika si
accigliò. - L'allarme è scattato quando è avvenuto il furto? –
- Ero qui da sola. Giuro di averlo inserito, ma forse ho fatto qualcosa
di sbagliato. Forse ho spento le telecamere… oh, Dio, cosa gli hanno fatto?
- Quegli occhi si sollevarono di nuovo. - C'è così tanto sangue... e il suo
corpo... –
Quando la moglie iniziò ad agitarsi, Erika scosse la testa.
- Cerchi di non pensarci –
Che stronzata da dire. Ma cos'altro poteva fare?
- Non posso non farlo. Ogni volta che sbatto le palpebre lo vedo sul
pavimento… c'è così tanto sangue. Così tanto... -
Mentre le parole della moglie andavano alla deriva, lei fissò il bel
tappeto e fu quando Erika studiò il suo profilo che si accorse dello scintillio
alla gola della donna.
Porca... puttana, indossava una collana di diamanti… e non un
diamante su una collana, ma un collare di diamanti che luccicava a ogni
respiro affannoso che faceva. Molti diamanti.
Dita ben curate si posarono sulle pietre, come se la moglie avesse
notato che Erika stava guardando i gioielli.
- Mio marito me l'ha regalata per il nostro anniversario l'anno scorso –
- È... incredibilmente bella - mormorò Erika.
- Mi sento bella ora quando lo indosso - La donna chiuse gli occhi. -
Mi tiene al caldo la notte quando mio marito non lo fa… non lo faceva…
Erika prese nota mentalmente, ma si chiese che tipo di amante geloso
avesse la forza di fare a pezzi un uomo adulto.
- No, non ho ucciso mio marito - lo sguardo della moglie si spense. -
Non vorrei mai... lui avrebbe potuto avere qualcun altra, ma io lo amavo e...

- Non è una sospettata - Erika notò tutte quelle unghie pulite. - E io
non giudico –
Ci fu un momento in cui semplicemente si guardarono. Poi la moglie
fece un respiro profondo e abbassò di nuovo gli occhi sul fazzoletto.
- Mi sento sleale – mormorò - anche se era lui l'infedele. Oh, Dio,
Herb è morto –
Quando iniziò a piangere di nuovo, Delorean apparve nell'arco della
stanza, ma Erika scosse la testa. Quando lui annuì e indietreggiò, lei
apprezzò la sua discrezione.
- Voglio solo tornare al mio sogno –
Erika si concentrò sulla moglie.
- Che sogno? –
- La notte in cui sono stati rubati gli orologi... ho fatto questo sogno
incredibile. Quest'uomo è venuto da me, e lui... beh, mi ha detto di
indossare questa e di sentirmi bella - La moglie sospirò. - Ma niente di tutto
quello era reale, e non dovrei pensarci ora –
- A volte la mente si ritira - disse piano Erika - dovunque può. A volte
quei ritiri sono l'unica ragione per cui superiamo le cose. Quindi, se vuole
ricordare un sogno del genere in una notte come questa, deve farlo –
La moglie si voltò e inclinò la testa. Mentre i suoi occhi si
concentravano, era come se stesse vedendo Erika per la prima volta.
- La persona che l'ha fatto... tornerà? - disse con voce roca. - E perché
non sono venuti di sopra? –
- È a conoscenza di qualcuno che avrebbe voluto fare del male a suo
marito? –
- No. Era un brav’uomo. Almeno negli affari. Sono in pericolo qui? –
- Ha un altro posto dove potrebbe stare? –
- Non proprio - La moglie si guardò intorno. - Ma la camera da letto è
una stanza anti panico. Immagino che potrei iniziare l’isolamento e restare
qui –
- Quello che le sembra più giusto. Se rimane, però, che ne dice di fare
una perlustrazione lassù così da essere sicura che non ci sia nessuno
nascosto in qualcuna delle stanze? –
- Lo apprezzerei davvero –
Erika guardò i diamanti. E pensò che sapeva com'era non sentirsi
bella. Tranne che nel suo caso, non era perché un uomo non la trattasse
bene o le mancasse di rispetto con le altre donne.
Era perché non c'era un uomo da molto, molto tempo.
- Le darò il mio cellulare private - disse. - Voglio che mi chiami in
qualsiasi momento, per qualsiasi cosa. La memoria è una cosa strana.
Ritorna in momenti particolari. Se le viene in mente qualcosa che può
aiutarci, voglio che mi chiami –
La moglie annuì.
- Va bene. Lo faro –
- E continui a indossare la collana - Erika si alzò in piedi. - È davvero
perfetta su di lei -
CAPITOLO CINQUANTA

Con un gemito, Mae si svegliò... e si spinse un po' più in alto sui


cuscini. Mentre sussultava, il cane da guardia maschio alla sua porta aperta
sembrava pronto a difenderla da qualsiasi cosa, anche se erano solo i dolori
di cui stava soffrendo.
La vista di Sahvage nella familiarità della sua camera da letto fu uno
shock, ma il fatto che lei fosse nel suo letto, a casa sua?
Non era sicura di potersi fidare di questa realtà.
- Gli altri maschi se ne sono andati? - chiese con voce roca.
- Sì. Una ventina di minuti fa - Sahvage si schiarì la gola. - Posso
portarti del Motrin o qualcosa del genere? Il dottore ha detto che potevi
prendere una seconda dose se volevi –
La luce del soggiorno faceva sembrare la sua figura enorme
minacciosa come un assassino. Il suo profumo, invece, era una fonte di
totale conforto.
- Starò bene - disse. - Il dottore è stato davvero gentile con me –
- Sono contento che tu non sia ferita… voglio dire, non ferita
seriamente. Hai fame? –
- Non lo so - Mae rise di colpo e si guardò. Aveva qualche vago
ricordo di essersi cambiata con dei vestiti puliti. Aveva fatto una doccia
veloce? Forse. Era tutto così confuso. - Riesci a credere... che non so se ho
fame? –
Sbatté le palpebre e vide quegli scaffali di abiti firmati. Quindi cercò
di cancellare le immagini dalla sua mente mettendosi le nocche sugli occhi.
- Ho chiamato Tallah - le disse.
Lasciando cadere le mani, sospirò sollevata.
- Grazie a Dio. Le hai parlato? Non sa come entrare nella segreteria
Telefonica –
- Sì, ho parlato con lei. Le ho solo detto che saremmo rimasti qui
stasera. Nient'altro –
- E le andava bene? –
- Assolutamente –
- Perfetto –
Mae rabbrividì e si tirò metà del piumone sulle gambe.
- Non riesco a scaldarmi –
Ci fu un momento di silenzio. E poi Sahvage disse:
- Posso aiutarti in questo… - Quando lei lo guardò, lui allungò le
mani. - Non sto suggerendo che noi... –
Con le lacrime che le illuminavano gli occhi, lei tese le braccia. Non
aveva la voce per rispondergli.
Quando lui si raddrizzò dallo stipite della porta ed entrò nella stanza,
lei non riusciva a credere a quello che stava facendo, anche se le sembrava
la cosa più naturale del mondo. Non aveva mai avuto un maschio in quel
letto, in nessun letto, ma non c'era altra risposta che sì.
Prima di unirsi a lei, Sahvage si portò le mani davanti ai fianchi e,
mentre lei arrossiva e dovette deglutire a fatica, si tolse semplicemente la
fondina della pistola e la mise lì vicino.
L'intero materasso si inclinò quando lui si sedette sul bordo, e lei si
spostò per fare in modo che lui avesse abbastanza spazio. Ma quando si
sdraiò, all'improvviso lei non pensò più allo spazio. Ma alla vicinanza.
Di lui e lei.
Prima di pensare troppo a qualsiasi cosa, si raggomitolò contro di lui,
e il suo braccio pesante si infilò sotto il collo. Quando lei sibilò, lui si
bloccò.
- No, va bene - mormorò. - Ho solo un bernoccolo in testa –
- Per l'incidente d'auto? –
Quando si fu sistemata, disse:
- Non lo so. Forse. Non ricordo molto –
- Come è successo? - chiese vicino al suo orecchio.
- L'incidente? - Mae ripensò al servizio radiofonico che aveva
ascoltato. - Mi sono distratta e ho frenato. Sono stata tamponata… oh, Dio,
ha ucciso quell'uomo gentile… che stava chiamando il nove uno uno per me

Lei gemette e lui le prese una mano tra le sue.
- Cerca di non pensarci –
- Ero così spaventata - disse mentre approfondiva i ricordi. - In quel
posto. C’era una gabbia: io ero dentro... una gabbia –
- Mae... – ora sembrava che stesse soffrendo.
Alzò la testa e guardò nei suoi occhi blu scuro.
- Come sapevi dove trovarmi? –
- Uno dei Fratelli sapeva dov'era la bruna –
- Li hai chiamati per avere aiuto? –
- Mi hanno trovato loro… - le sue sopracciglia si abbassarono. -
Siamo andati lì, in quell'edificio in città, e non riesco a spiegarlo. Potevo
fiutarti nello spazio, ma non potevo vederti. Ho girato e girato. Giuro che
era vuoto e me ne stavo andando... ma poi, all'improvviso, c’è stato un
rumore metallico. E quando sono tornato indietro, la porta si è trasformata
in una finestra, in qualcosa che non c'era nel senso comune del termine –
Imprecò sottovoce e lei mise il braccio sul suo petto che era così
ampio che le sembrò di abbracciare un divano.
- E se non avessi sentito quel suono? - mormorò.
- Ogni volta che ci penso mi sento terrorizzato a morte –
- Ti ho evocato - Entrambe le sopracciglia di lui si inarcarono per la
sorpresa, lei annuì. - Ho usato lo stesso incantesimo che ho usato sul Libro.
Almeno per te ha funzionato –
- Ecco come... porca puttana –
Ci fu un momento di silenzio. E poi Sahvage rotolò verso di lei.
- Sai, se ne andrà se le darai quello che vuole –
- Cosa vuoi dire, intendi... la bruna? - Quando annuì, Mae si mise a
sedere. - Come fai a saperlo? –
- È nella natura di coloro che bramano. Acquisiscono. Hai visto tutti
quei vestiti –
Mae si scostò i capelli dal viso.
- Stai dicendo che dovrei usare il Libro per Rhoger e poi darlo a lei? –
- No, sto dicendo che per salvarti la vita, dovresti semplicemente
darglielo - Quando lei non rispose, anche Sahvage si mise a sedere. - Mae,
pensa a dove sei stata. Pensa a cosa sei appena sopravvissuta, per un colpo
di fortuna –
Tra un battito di ciglia e l'altro, lei rivisse il risveglio in quella cassa.
Il panico di essere intrappolata. Il modo in cui si era sentita schiacciata
contro quel muro dal potere invisibile del demone.
Era stata così terrorizzata. Così fuori controllo.
Esattamente come si era sentita alla morte dei suoi genitori. Alla
morte di Rhoger.
- Non è stato un colpo di fortuna - mormorò. - Ti ho evocato. E
inoltre, non ho il Libro –
- Mae... –
- No! –
Non si era nemmeno accorta di aver parlato finché Sahvage non disse:
- No, cosa? –
Anche se Mae ricordava di essersi sentita intrappolata e spaventata,
scosse la testa nell'oscurità. Poi si voltò verso di lui.
- Non la lascerò vincere. Lei non avrà mai quel maledetto Libro -

•••

In città, al piano seminterrato del vecchio edificio per uffici, Devina


percorse il corridoio fino alla sua tana, i suoi tacchi a spillo ticchettavano
sul cemento. Avrebbe potuto proiettarsi a casa, ma non ne aveva voglia.
Semplicemente non ne aveva voglia.
Il fatto che fosse così arrabbiata da rendere impossibile la
concentrazione era una realtà che si rifiutava di ammettere. Stava bene.
Stava davvero fottutamente bene…
Percepì l'odore a una decina di metri dalla sua destinazione, ma era
così in ansia che solo quando arrivò alla porta si accorse che qualcosa stava
andando a fuoco da qualche parte nelle vicinanze. E poi, quando entrò in
casa sua, c'era fumo nell'aria. Guardandosi intorno, vide che quella stupida
fottuta vampira era sparita...
Devina urlò.
- No, no, nonononono! –
Ci fu uno scricchiolio quando colpì il pavimento lucido con le
ginocchia, ma non le importava del dolore. Con mani tremanti, prese e cullò
teneramente l'innocente che era stata massacrata.
La sua Birkin quasi inestimabile.
La sua Himalayan Niloticus 35 con la fibbia di diamanti.
Un pazzo assoluto aveva bruciato l'angolo della borsa rovinando la
pelle di coccodrillo, la sua delicata colorazione e il disegno di scaglie
bianche, camoscio, grigie e nere invase dal cancro dell’ossidazione di una
fiamma.
Distrutta. Quattrocentomila dollari del migliore sforzo di Hermès, ore
di lavoro di un maestro artigiano, la borsa più rara e costosa del mondo...
distrutta.
Ricadendo sul sedere, una delle sue caviglie si piegò in una brutta
angolazione, ma non le importava.
Stringendo al petto la borsa profanata, guardò la sua collezione in
lacrime. Il disordine della gabbia del cane nell'angolo più lontano sembrava
un così forte ammonimento, quindi lo respinse, facendo sparire il dannato
simbolo del suo fottuto fallimento.
Che note!
Tutto era andato storto.
E quello era il problema della sua esistenza. Quando le cose andavano
male, volevi condividere l'incubo con qualcuno a cui fregava un cazzo.
Qualcuno che potesse parlare con te di tutto, appianare i dossi, aiutare a
formulare un nuovo piano, un approccio diverso.
Un modo migliore per raggiungere il tuo obiettivo.
Invece era lì, circondata da cose belle che non potevano offrire alcun
consiglio o vero sostegno.
Chiudendo gli occhi, ricordò a se stessa che la sua terapista, quel
flaccido sacchetto di donna, le aveva detto che andava bene essere
arrabbiata. Essere delusa. Che lei aveva bisogno di sentire i suoi sentimenti
e sapere che, per quanto forti fossero, per quanto insopportabili potessero
sembrare, sarebbero svaniti. Le emozioni non erano mai permanenti.
Ma no, una di loro lo era.
Sebbene odio e rabbia, felicità e gratitudine, gelosia, ottimismo,
paranoia, tutte le altre erano soggette a picchi e valli... l'amore era una
costante.
Il vero amore era immortale.
E quando eri un demone, quando non c'era una rampa d'uscita per la
tua esistenza, apprezzavi le cose che potevano stare al passo con il tuo
calendario eterno di notti e giorni.
L’eternità era meno divertente di quanto la gente pensasse.
Inondata dalla tristezza, Devina sistemò le gambe, allungandole e
mettendo la vittima Birkin sulle sue cosce. Passando la punta delle dita sulla
texture opaca, ricordò di averla comprato alla casa madre. Ventiquattro Rue
du Faubourg Saint-Honoré a Parigi. E dopo anni di supporto al marchio,
dopo aver comprato così tante Kelly e Birkins, era stata finalmente invitata
ad acquistare il Santo Graal.
E l'aveva fatto nel modo giusto. Non sul mercato secondario, ma dopo
aver scalato la montagna per guadagnarsi quell'invito.
Quattrocentomila era quello che avrebbe potuto ottenere se l'avesse
venduta. Ma non le era costata così tanto. Quando venivi accolto in quel
gruppo sacro che le poteva avere legittimamente, non pagavi neanche
lontanamente il prezzo del rivenditore.
Ma ora, questo simbolo di tutto ciò che aveva ottenuto, di tutto ciò
che lei era, era stato violato.
Devina strinse gli occhi nel punto in cui si trovava la gabbia del cane
sfondata.
La sua vendetta sarebbe stata tremenda.
CAPITOLO CINQUANTUNO

Fuori dal palazzo della Confraternita, Balz accese un’altra delle


sigarette di Vishous e si appoggiò alla fontana. V aveva iniziato a fornire le
sigarette gratuitamente, regalo non da poco considerando che non solo
l'ingrediente principale era il tabacco turco molto, molto pregiato, ma ci
volevano molte abilità motorie per arrotolarle bene. Anche molto tempo.
Era solo una delle tante benedizioni che erano piovute sulla testa di un
ladro da quando era venuto lì con gli altri bastardi.
E lui aveva ripagato la famiglia in che modo?
Chiudendo gli occhi, abbassò la testa ed espirò. Aveva portato da loro
quel demone. Oh Dio... aveva portato il male in mezzo a loro.
Com'era iniziato? Quando era avvenuta quell'infiltrazione? Non era
sicuro. Forse era stata quella folgorazione, anche se il motivo per cui aveva
creato un'apertura nella sua anima, non era certo. Sì, era morto... molte
persone che conosceva avevano stretto la mano al Tristo Mietitore ma non
avevano riportato indietro un premio dall'inferno.
Letteralmente dall'Inferno.
Con l'aumentare della sua ansia, fumava più velocemente, espirando
da sopra la spalla anche se non c’era nessuno in giro a inalare il fumo
passivo. Era stato trattato con nient'altro che rispetto dalla Confraternita e
dalla loro comunità. Persino, osava dirlo, con affetto.
Rubare, tuttavia, era nella natura dei ladri.
E a quanto pare, era così bravo con quel tipo di crimine che non era
nemmeno più consapevole di farlo. Perché di sicuro aveva derubato la
sicurezza di quelle persone meravigliose all'interno di questa grande e
antica villa, e quella truffa avrebbe portato a un furto ancora più grande e
più atroce.
In qualche modo, li avrebbe uccisi tutti.
E sarebbe stata tutta colpa sua…
- Lascialo andare –
Con un grido, Balz si voltò di scatto.
- Che cosa? Oh, merda, Lass, che cazzo. Avvicinarsi di nascosto in
questo modo -
In una notte come questa, aggiunse tra sé.
Lassiter fece un passo avanti dall'ombra, i suoi capelli biondi e neri
catturavano i raggi di luna che cadevano dal cielo sopra di loro. O forse era
solo l'angelo caduto che brillava come una luce notturna.
- Lascialo andare –
Balz aggrottò la fronte. Le labbra del maschio non si muovevano.
Lascialo andare.
- Che diavolo c'è che non va in te? Non è il momento per qualche
stronzata di Frozen, okay? Non sono dell'umore... –
Al di là dei gradini di pietra, le figure apparvero dall'oscurità, i
Fratelli e gli altri bastardi tornavano da dovunque fossero stati, le loro forti
schiene rivolte a lui mentre guardavano la loro casa.
- Finalmente, cazzo! - mormorò Balz.
Il suo impulso fu di buttare il mozzicone, ma si leccò il pollice e lo
spense. E mentre si avviava verso gli altri combattenti, cercò di capire in
quale tasca metterlo… e decise che non voleva rovinarsi i pantaloni. Quindi
mangiò quella dannata cosa.
Stava masticando e facendo una smorfia per il gusto muschiato e
bruciato quando si chiese perché, supponendo che fosse abbastanza
biodegradabile da entrare nel suo tratto digestivo, non l'avesse
semplicemente gettato a terra per lasciare che la natura facesse il suo corso
mentre lui si avvicinava alla Confraternita.
Tutti stavano parlando allo stesso tempo.
- … lavorando con noi –
- Non posso credere che sia davvero vivo... –
- ... diavolo è stato per tutti questi anni? –
- So dov'è il Libro –
Quando Balz pronunciò quelle parole, il dietrofront sulle scale
avrebbe anche potuto essere coreografato da Bob Fosse: ogni singolo
combattente improvvisamente lo stava guardando, e mentre ingoiava il
batuffolo di gomma da masticare al tabacco, pregò di non star peggiorando
le cose.
E non per quello che si era appena messo nello stomaco.
Guardò indietro per cercare Lassiter…
Si accigliò. L'angelo non c'era.
Pazienza.
- So dov'è il Libro - ripeté a tutti loro.
Tohr scosse la testa. E scese i gradini.
- È per questo che hai detto a Fritz di chiudere la casa? –
- Sì... e... - Balz fece un respiro profondo e tossì un fiocco di tabacco
dal suo esofago. - Non posso più vivere qui. Sono infetto da... –
Sulla sinistra, Butch si sporse in avanti come se Balz non stesse
parlando abbastanza forte.
- Sei malato? - chiese Tohr mentre il vento soffiava da nord.
Balz si guardò intorno, e lì, in fondo alla formazione...
- Rehv. Puoi leggere la mia griglia, giusto? Voglio che tu dica loro
quello che vedi. Glielo direi io stesso... ma ho paura che lei non me lo
permetterà –
Il Reverendo aggirò gli altri, gli occhi color ametista del symphath si
strinsero.
- Lei chi? –
- Di’ loro quello che vedi –
Ci fu un lungo momento, quello strano vento vorticava intorno come
se stesse cercando una via per dirigersi verso la pelle attraverso i vestiti. O
forse era questo che Balz percepiva quando il symphath entrava nel suo
panorama emotivo.
- Lui ha... - Rehv sembrò cercare le parole. - C'è qualcosa che non va.
La sua griglia ha uno schema di blocco –
Xcor scese i gradini e si fermò proprio accanto a Balz.
- Qualunque cosa sia, noi siamo con te. Sistemeremo tutto ciò che non
va –
- Sono pericoloso - disse Balz. - Non so come sia successo, ma non
posso più restare qui –
- Allora ti troviamo un posto sicuro - Xcor afferrò le spalle di Balz. -
Non abbandoniamo la nostra famiglia –
- Esatto - disse qualcuno –
- Cazzo, sì! –
- Ci pensiamo noi a te –
Subito dopo, tutti i corpi che erano stati all'ingresso principale della
villa erano intorno a lui. E il calore che sentiva era molto più forte di quel
vento freddo che veniva ostacolato.
Quando il braccio pesante di Xcor gli raggiunse le spalle, Balz si
asciugò il viso. Non che stesse piangendo. Lui era un baluardo freddo come
la gelida pietra.
- Parlaci del Libro - disse Tohr. - Dobbiamo sapere –
Lui tossì un po' per ricomporsi.
- Io, ah, sono andato a fare un po' del mio secondo lavoro. Solo la mie
solite cose. Stavo camminando in quel posto dopo che... - Ho fatto sesso
con quella moglie sola. - Comunque, è stato allora che l'ho visto. Un libro
che ha catturato la mia attenzione in un modo che non sono riuscito, e
ancora non riesco, a comprendere. È antico e ha un cattivo odore… ed è
come se fosse vivo. Non sapevo esattamente cosa fosse la prima volta che
l'ho visto, ma quando Syphon mi ha parlato di quello che stavi cercando,
sono dovuto tornare indietro e vedere se forse... non c'è dubbio. È il Libro.
Lo so nel profondo della mia anima. E ho provato a prenderlo stasera, ma è
protetto dalla bruna che ha visto Butch. La donna che è il nuovo male –
Il fatto che non sapesse se le sue parole venivano ascoltate nel modo
in cui lui le intendeva era terrificante.
- Sahvage - disse Tohr. - Abbiamo bisogno di Sahvage. Qualunque
protezione metafisica sia in atto, se ne occuperà lui. E ha accettato di
aiutarci –
Balz guardò quei volti così aperti, così fiduciosi. Per un ladro e un
bugiardo trovare questo tipo di amore… beh, se non fosse stato un duro,
freddo come la pietra, avrebbe messo in ginocchio una persona.
- Ho bisogno di una sigaretta - mormorò Balz.
La mano guantata di nero di V si fece avanti con una delle sue.
- Anch'io - disse il Fratello.
Mentre la accendevano insieme, Balz fissò la facciata serrata della
villa e pensò alla bruna.
- Sahvage e io andiamo da soli. Non voglio rinforzi. Se le cose si
metteranno male, perdere me non avrà importanza –
- Non è vero - intervenne Xcor.
Syn, l'altro cugino di Balz, e Zypher, il suo compagno bastardo,
dissero la loro su quello.
Ma tutto quello che lui poté fare era scuotere la testa.
- È vero. E ciò che lo protegge è... non possiamo correre rischi con
quel demone. Fidatevi di me - Incontrò i loro sguardi, uno per uno. - Se
Sahvage e io non riusciamo a prendere il Libro e a riportarlo indietro, non
sarà possibile farlo –
Xcor parlò.
- Ma come potremo curarti? –
Rehv rispose prima che potesse farlo Balz.
- Il Libro. Useremo il Libro –
- È quello che stavo pensando anch'io - disse Balz espirando e
tornando a guardare la villa. - O quantomeno... questo è quello che spero -
CAPITOLO CINQUANTADUE

Sdraiato al buio, con Mae tra le braccia, Sahvage era calmo quasi
quanto lo era prima di un combattimento a mani nude: era consapevole del
coltello, gli occhi si muovevano incessantemente intorno ai contorni in
ombra della stanza, le orecchie percepivano qualsiasi suono, i sensi in
allerta. E accanto a lui, la sua femmina…
No. Non era sua.
Questa femmina, si corresse, era al sicuro. Per adesso.
- Sahvage? –
- Sì? - Sperava che lei volesse qualcosa da mangiare in modo da poter
fare qualcosa. - Hai fame? Posso portarti un po' di cibo? –
- Sento che dovrei scusarmi - Lei si spinse sul suo petto. - Mi sento
come... vorrei potermi fermare. Ma non posso. Spero che tu lo possa capire,
soprattutto perché sai cosa vuol dire una simile perdita –
Senza pensare, le spostò indietro una ciocca di capelli. Poi le toccò il
viso. Quando lei trattenne il respiro, non approvò dove fosse andata la sua
mente.
- Sì, lo so –
- Sono così grata che tu sia ancora qui. Ancora con me –
- Non me ne andrò finché non sarà finita. Nel bene e nel male –
L'ombra di un sorriso apparve sul viso di lei.
- Questa è una cosa umana –
- Cosa? –
- Nel bene e nel male. È quello che dicono quando si accoppiano per
la vita - Lei distolse lo sguardo. - Comunque, sono grata che tu sia qui –
- La lealtà è praticamente la mia unica virtù - Il suo tono di voce si
fece ironico. - E anche così, sono riuscito a trasformarlo in un peccato –
Si fissarono negli occhi, e poi lei disse:
- Quando ero intrappolata in quel posto... ero così arrabbiata. Mi sono
sentita completamente tradita. Ho provato a fare tante cose giuste nel corso
della mia vita, ma ero lì. Sapevo che non appena la bruna fosse tornata, mi
avrebbe ucciso… e avrei perso tutto… ed è un bel paradosso considerando
che vivo con un maschio morto e lavoro da casa… -
Sahvage pensò alla terra desolata della sua vita.
- Almeno sai di avere una fine… -
- Di nuovo il Fado - disse rassegnata. - Hai davvero bisogno di lasciar
perdere –
- Quindi quel consiglio è una strada a senso unico per te, eh? Ti
aspetti che gli altri lascino perdere le stronzate, ma tu non lo fai –
- Sì! - si mise a sedere. - Un po' come te che rifiuti di rispettare i
confini. Non importa quante volte ti viene detto di smetterla –
All'improvviso, diede un'occhiata alla porta come se nella sua mente
stesse camminando verso di essa. E poi lasciò cadere la testa all'indietro e
iniziò a borbottare imprecazioni verso il soffitto della camera da letto.
- Se hai intenzione di urlarmi contro - osservò Sahvage - tanto vale
che mi fai partecipare al tuo memento di tenerezza. Mi sembra giusto e…
ehi, posso sempre usare i tuoi consigli su come usare correttamente la
parola stronzo –
Gli lanciò un'occhiata.
- In realtà, sto urlando contro me stessa –
- Perché? –
- Perché non riesco a credere che tu eri una delle cose per cui ero
arrabbiata –
- Oh, andiamo… - rise forte. - Non è una notizia scioccante. Sei
incazzata con me da quando mi hai incontrato. Il che è piuttosto divertente
considerando che mi hai distratto in quella rissa... –
- Non tirare fuori di nuovo quella storia del taglio –
- Taglio? - Anche lui si mise seduto, quindi erano allo stesso livello. -
Stai chiamando quell'emorragia arteriosa un taglio? Solo per curiosità, cosa
consideri una ferita? L’eviscerazione totale? –
- Sei sopravvissuto! –
- Sopravvivo sempre - disse rudemente.
- Giusto, perché sei davvero un duro –
- Non era quello che stavi per mettere sul mio cartellino con il nome?

- In realtà stronzo era quello che stavo pensando. E questo solo perché
coglione era già stato preso –
Sahvage iniziò a sorridere. Non poteva farci niente.
- Ti irrito, vero? –
- No - lei incrociò le braccia sul petto e lo fissò. – Affatto –
- Va bene. Ti credo. Davvero. Sono solo curioso, però... per cosa in
particolare eri così arrabbiata con me? Voglio dire, non può essere la mia
affascinante personalità –
Quando si voltò verso di lui, ci fu una pausa e all'improvviso l'aria
nella stanza cambiò. E anche se c’era poca luce, poteva dire che gli occhi di
lei erano scivolati sulla sua bocca, e nonostante le sue ferite, il suo profumo
era cambiato. Più intenso.
- Dai, dimmi - mormorò Sahvage. - Sai quanto ti piace elencare i miei
difetti. Ce ne sono così tanti nel tuo libro –
Lei ancora non distolse lo sguardo, anche dopo che lui l'aveva
provocata... fu allora che il suo sangue iniziò ad addensarsi.
- Quando ero bloccata in quel posto, ero arrabbiata... la sua voce si
spezzò. - Ero arrabbiata perché non avrei mai saputo come sarebbe stato…

- Cosa? –
Ci fu un lungo silenzio. Poi gli disse:
- Pensi che sopravvivremo a questo? –
Non voleva che lei si sforzasse di definire questo. Non c'era motivo
per lei di dire ad alta voce che avrebbero affrontato quella bruna, alla
ricerca di un Libro che era un catalogo di magia nera per cercare di
resuscitare i morti.
Sì, perché cosa avrebbe potuto andare storto con tutta quella merda?
- Posso prometterti - le disse - che farò tutto ciò che è in mio potere
per farti uscire viva –
Come se fossero in un combattimento.
Ma non lo erano?
- Riuscirò mai a trovare il Libro? –
- Non lo so - Lui scosse la testa. - Ma se quell'incantesimo di
evocazione ha funzionato per portarmi da te... scommetterei che funzionerà
anche per portarci al Libro. Ci vuole solo un po' di tempo per organizzare lo
scambio –
E quando le fosse atterrato in grembo, lui le avrebbe salvato la vita
con...
- Ero arrabbiata perché mi sono sentita tradita - sussurrò. - Se non... –
Adesso era lui a fissarle la bocca. E cazzo, c'erano così tante ragioni
per non percorrere la strada che stava apparendo davanti a loro, ancora una
volta. Ma...
- Dillo! - ordinò.
- Se non avessi saputo com'eri –
Con un'ondata di calore sessuale, Sahvage allungò la mano e le toccò
di nuovo il viso, lasciando che la punta delle dita si spostasse lungo la
mascella e poi scendesse fino al battito irregolare al lato della gola.
- Vuoi dire, come compagno di cena? - le disse. - O stavi pensando a
qualcosa di più... coinvolgente? Come gli scacchi? –
Mae rise.
- Sul serio –
- Monopoli? - Si piegò in avanti e le premette un bacio sulla guancia.
- So già che il Monopoli ti fa addormentare –
Mae si chinò verso lui e sentì la sua mano sulla spalla, ma non per
spingerlo via. Lo tenne stretto.
- Voglio solo stare con te - Quando lui cercò di dire qualcosa, lei gli
mise un dito sulle labbra per farlo tacere. - So che non cambia nulla. So che
te ne andrai quando tutto questo sarà finito. Ma continuo a pensare...
eccomi qui, determinata a riportare indietro mio fratello, ma che tipo di vita
sto conducendo? Non faccio altro che lavorare e preoccuparmi. E le due
persone che mi hanno fatto giurare di non fare mai sesso prima di
accoppiarmi sono andate via da quanti anni? Tre? Cosa sto aspettando
esattamente? Quando arriverà la prossima gabbia per cani per cosa mi
pentirò di non aver fatto? –
- Ho bisogno che tu sappia una cosa - le disse con voce ruvida.
Mae abbassò bruscamente il braccio. E lui lo rimise dov'era.
- Se potessi essere diverso, lo sarei... per te - le disse. - E in futuro, se
mai dubiterai di quanto tu sia importante, pensa solo a me. Prometto che
sarò da qualche parte sul pianeta... a pensare a quanto sei speciale e a
desiderare che le cose fossero diverse –
- Ti lascerai tutto alle spalle - mise la mano su quella di lui. - Mi
dimenticherai e sarò io a sentire la tua mancanza – Lui fece per parlare, ma
lei scosse la testa. - Va tutto bene. Sono una che si dimentica facilmente –
- Non dire così… -
- Sono una delle mille femmine civili, uscite dalla transizione, ma non
nel declino della vecchiaia, che vive in una casa semplice e fa un lavoro
regolare. Mi preoccupo del giorno in cui ritirano la spazzatura e se ho
riciclato abbastanza. Rimango impigliata nella mia testa davanti alle
verdure di Hannaford quando non riesco a decidere cosa mangiare. La mia
macchina ha dieci anni, beh, aveva dieci anni. Russo quando dormo sulla
schiena, faccio brutti sogni se sono troppo stanca e mi manca la sensazione
del sole sul viso, anche se sono passati decenni da quando potevo uscire a
mezzogiorno - rise senza gioia. - Anche il demone ha detto che non sono
brutta, ma che non vale la pena attraversare la strada per... –
Sahvage la baciò. Perché voleva farlo. Perché odiava quello che lei
stava dicendo di se stessa. Perché lei non capiva.
Anche se tutte quelle statistiche di vita mediocre erano
presumibilmente vere, lei era comunque indimenticabile.
Per lui.
Quando si trattava di essere una leggenda, bastava una persona per
riconoscere che eri epico. Era così.

•••

Quando la bocca di Sahvage si mosse sulla sua con una richiesta


gentile, Mae capì di averlo infastidito con la sua realtà, ma aveva ragione su
tutto.
Non c'era motivo di litigare, però. Non mentre lui era...
Quando la sua lingua la leccò, lei gli mise le braccia intorno alle
spalle, pronta per molto di più. E lui si rilassò, le loro bocche si aprirono
con un suono sommesso.
- Mae... –
Lei sollevò gli occhi al cielo.
- Oh per favore. Risparmiami il losomegliodite, soprattutto quando si
tratta di rimetterci la mia v... –
- Lo renderò fantastico - sussurrò. - Lo prometto. Questo è tutto –
Quando la baciò di nuovo, chiuse la porta della camera da letto con la
sua mente. E mentre gli occhi di lei si adattavano, poteva sentire il calore
nello sguardo di lui, anche se non poteva davvero vederlo. In effetti, tutto
sembrava caldo.
E lei aveva pensato che le fosse mancato il sole? Sahvage glielo aveva
portato, non in alto sopra la sua testa, ma nelle vene.
Mae si sdraiò e lui fece altrettanto, tenendo le labbra unite. Tutto
senza smettere di baciarla, e lei divenne ancora una volta impaziente. Così
prese una delle sue mani e se la portò sul seno...
Con un gemito, si inarcò verso di lui, e egli fece esattamente quello
che lei sperava che facesse. La accarezzò attraverso i suoi vestiti, dal torace
fino al fianco, per poi tornare dove era più sensibile. Fece quel percorso più
e più volte, tranquillizzandola, accarezzandola.
Proprio mentre si stava chiedendo se avrebbe dovuto togliersi i vestiti
da sola, lui fece scivolare la mano sotto la felpa e poi sotto la maglietta.
Quando entrò in contatto con la pelle, lei gemette di nuovo. La sua mano
era così ampia, così calda, così callosa. Una mano molto maschile.
L'unica mano maschile a toccarla così.
Lentamente, lui si mosse verso l'alto, e quando arrivò al reggiseno, si
fermò. Il suo pollice andò avanti e indietro un paio di volte... e poi sotto le
coppe di cotone per spingerle in alto.
- Sahvage… - ansimò.
La sua pelle era ipersensibile e lui sapeva dove massaggiare, cosa
accarezzare, quando pizzicare. I suoi capezzoli si tesero, le punte dure
formicolarono per più di quello che le stava dando, e tutto il suo corpo si
abbandonò.
- Per favore... –
- Per favore cosa? - disse nella sua bocca. - Cosa vuoi? –
Di più –
E così si ritrovò mezza nuda. Con un rapido movimento, i suoi strati
superiori erano stati tolti di mezzo…
Ora era lui che gemeva.
- Sei così bella –
Il gancio anteriore saltò sotto la punta delle sue dita, e poi sparì del
tutto. Le punte rosa dei suoi seni erano così rigide che prima che potesse
imbarazzarsi nel guardarle, Sahvage le stava baciando il collo. La clavicola.
Lo sterno.
Infilò le mani nei suoi capelli e scoprì che i suoi fianchi si stavano
sollevando, le gambe strofinavano l’una contro l’altra, il suo sesso era
affamato di lui.
Quando la catturò con la bocca, succhiandola, leccandola, baciandola,
si spostò in modo da giacere tra le sue gambe. Perfetto. Usò il suo corpo: la
pressione, il peso, le dimensioni la fecero ansimare mentre strofinava il suo
sesso contro i suoi contorni.
Era così perfetto.
E se il momento in cui si sarebbero uniti fosse stato qualcosa di
simile?
Non c'era da meravigliarsi che le persone facessero cose folli per del
buon sesso…
All'improvviso, lui alzò la testa e imprecò.
- Mi stai uccidendo, Mae... –
- Come? Cosa sto facendo di sbagliato? –
- Stai facendo tutto troppo bene –
- Non fermarti –
E lui non lo fece.
E quando si sollevò dai suoi seni nudi, e le sue mani andarono alla
cintura di lei, si precipitò ad aiutarlo, anche se di sicuro lui sapeva cosa
stava facendo. Le slacciò il bottone dei jeans, aprì la cerniera e glieli tirò
giù per le gambe.
Prese anche le mutandine con loro.
Mae non aveva alcuna timidezza. Nessuna paura. Nessun imbarazzo.
Tutto quello che capiva, in quel momento, era l’odore di lui. E poi il
delizioso peso del suo corpo quando tornò da lei. E infine un'anticipazione
ardente che la faceva sentire in fiamme.
- Voglio toccarti anch'io - disse Mae mentre lui la baciava di nuovo.
Sahvage si tolse la maglietta così velocemente che si udì uno
strappo... e non si fermò nemmeno a controllare per vedere cosa fosse. La
gettò da parte come se fosse completamente usa e getta e tornò subito a
baciarle la bocca, la gola, i seni.
- Mi fa male... –
Nell'istante in cui la parola uscì dalla bocca di lei, lui si alzò di scatto.
- Oh, Dio, mi dispiace… -
- No, no... - mormorò lei. - Niente del genere –
Lui si sentì sollevato. Poi la sua voce si fece molto, molto bassa.
- Dove ti fa male, Mae? –
Lei fece le fusa e si strofinò contro di lui.
- Qui... –
- Qui dove? - Le baciò la spalla. - No? Che ne dici di qui? - le baciò la
gabbia toracica. – No? … Mmmh… che ne dici di qui? –
Le baciò l'ombelico. Poi ci fece scorrere la lingua intorno.
Le ginocchia di Mae si aprirono. Anche se dove si stava dirigendo era
scioccante, lei era così disperata per qualcosa, qualsiasi cosa, per alleviare il
calore, la tensione e il...
- Non è ancora il posto giusto? –
Gli occhi di Mae si erano adattati all'oscurità così, quando alzò la
testa, guardò in basso per trovare Sahvage che la fissava, le sue enormi
spalle bloccavano il quadrato di luce intorno alla porta, il suo corpo
massiccio la copriva.
Come se fosse la sua preda.
E a lei andava bene. Era più che pronta a essere divorata.
CAPITOLO CINQUANTATRE

Mae poteva non aver fatto sesso prima, ma era Sahvage a non essere
preparato per quello che stava succedendo. Non si sarebbe mai aspettato di
essere così coinvolto dalla sua pelle, dal suo profumo, dal suo erotismo
innocente mentre si strofinava contro ogni parte di lui che entrava in
contatto con il suo sesso eccitato gloriosamente nudo e bello.
Non aveva intenzione di portare le cose in questa direzione.
Ma eccoli… con lui sul punto di metterci la bocca…
- Sahvage… - gemette.
Gettando di nuovo la testa sui cuscini, Mae si inarcò di nuovo e poi
ondeggiò, i suoi seni a punta, quei piccoli capezzoli eretti erano il genere di
cosa che lui non poteva non toccare.
Allungando la mano ne pizzicò uno e poi fece ruotare l'altro avanti e
indietro tra il pollice e l'indice, ancora… ancora… ancora…
E poi abbassò la testa e le sfiorò il basso ventre con le labbra.
- Qui? Mae... fa male qui? –
Con voce roca lei disse:
- Più in basso -
Cazzo, pensò mentre si avvicinava al suo fianco. Sussurrando con la
bocca sulla graziosa sporgenza del bacino di lei, fece scivolare
completamente la parte inferiore del suo corpo dall'estremità del letto.
Quando le sue ginocchia toccarono il tappeto, la tirò a sé per la parte
posteriore delle ginocchia, le cosce spalancate, il suo sesso luccicava nella
luce scarsa.
Sahvage si leccò le labbra in attesa.
- Ho bisogno di assaggiarti - si sentì dire.
Lei gemette il suo nome, lui cominciò dall'esterno di una delle gambe,
nel caso avesse ripensamenti.
Ma lei non ne aveva. Pronunciò di nuovo il suo nome... con quella
voce ruvida e ansimante che quasi lo fece venire.
Le baciò la parte superiore della coscia fino all'interno, seguendo la
piega dove incontrava il suo corpo, dove si collegava alla sua...
Voleva restare su quella pelle morbida, sul precipizio del suo bel
sesso, ma il bacino di lei si mosse senza preavviso...
E all'improvviso le sue labbra furono di lei, e tutta la sua intenzione di
essere gentile, di andarci piano e prendersela comoda, andò fuori dalla
fottuta finestra. La succhiò, e nell'istante in cui assaggiò il suo sapore, il suo
cervello andò completamente in corto.
Quando Mae urlò il suo nome e gli afferrò i capelli con forza, lui
perse completamente la testa. Bloccando i palmi delle mani sulla parte
posteriore delle sue cosce, la allargò ancora di più mentre le dava piacere
con la bocca e la lingua, leccandola e succhiandola finché non capì che si
stava avvicinando all’orgasmo.
Con un movimento improvviso, Mae si mosse contro il suo viso e...
Proprio come aveva previsto, lei gridò e si irrigidì. E poi sussultò più
e più volte, il suo corpo si liberò mentre lui la leccava per farla andare
avanti... mentre tutto quello che voleva era essere dentro di lei, sentire le
sue contrazioni fino a quando non sarebbe venuto anche lui.
Ma non sarebbe successo.
Lei meritava qualcuno meglio di lui per la sua prima volta, e non
l'avrebbe privata della gioia e della comunione che sarebbero arrivate
quando si fosse donata per amore invece che per disperazione. Non poteva
proprio farle questo.
La buona notizia era che c’erano molte altre cose che potevano fare
insieme.
Quando finalmente Mae si rilassò, le braccia e la testa ricaddero sul
piumone, respirava a fatica, i seni si gonfiavano e si abbassavano, le costole
si espandevano e si contraevano. Sahvage sorrise e iniziò a pianificare la
loro prossima posizione. Tipo lei a quattro zampe davanti a lui, la sua mano
che si masturbava sul suo sesso così da poterla leccare fino a pulirla…
In lontananza, in salotto, un telefono iniziò a squillare.
Ma come poteva lasciarla, in quel momento?
- Sahvage? - chiese lei.
- Sei incredibile - mormorò accarezzandole le cosce.
- Che cosa... cosa farai adesso? Che cosa... e tu? –
Raddrizzandosi sulle ginocchia, portò le mani alla cintura. Mentre di
toglieva i pantaloni, si rese conto che il suo cazzo era così duro, così
affamato, che doveva stringere i denti ed esercitare un po' di autocontrollo,
o rischiare di venirle addosso.
Cosa che stava per fare? Voleva solo essere nudo quando lo faceva e
lei era così rilassata che decise che non l'avrebbe fatta inginocchiare. Gli
piaceva proprio quella vista, i suoi seni sodi, la sua pancia così liscia, il suo
sesso...
- Stai bene? - le chiese, come se la penetrazione che stava accadendo
nella sua mente stesse effettivamente avvenendo proprio in quel momento.
- Io sono... oh, Dio, sì... - disse quando vide la sua erezione.
Con le mani che all'improvviso tremavano, lui si tolse i pantaloni, tipo
Magic Mike, strappandoli dalla parte inferiore del corpo.
E il suo materasso era all'altezza perfetta per lui: la sua erezione era
proprio al livello del sesso di lei. Ma doveva essere sicuro.
- Tutto bene? –
- Oh, Dio, sì... e voglio di più –
- Davvero? - lui non aveva intenzione di toccarsi. Ma lo fece. - Cazzo,
Mae... –
Le mani di lei erano irrequiete, afferravano il piumone, lo chiudevano
tra i pugni... una di loro scivolò via e le sbatte contro il fianco.
Sahvage allungò la mano e le prese la sua. La spostò tra le gambe, lei
sussultò quando lui cominciò ad accarezzarla con le sue stesse dita mentre
lavorava sul suo cazzo.
Quando lei si avvicinò di nuovo all'orgasmo, disse:
- Mae... Mae, guardami –
Nella penombra, colse i suoi occhi scintillanti mentre eseguiva il suo
comando. E poi sollevò alla bocca quello con cui lei si era toccata. Le
succhiò le dita, lui era oh, così soddisfatto quando lei gridò di nuovo il suo
nome che echeggiò nella camera da letto.
Leccando la sua essenza, sorrise nell'oscurità... quando si rese conto
che lei era già la migliore amante che avesse mai avuto.

•••
Gli occhi di Mae si chiusero e non riuscì a farli restare aperti. Ma
buon Dio, voleva continuare a vedere tutto. Voleva guardare tutto, eppure
c'era un sorprendente erotismo nell'oscurità. Tutto quello di cui era
consapevole era la lingua di Sahvage, calda e scivolosa, che le leccava le
dita... poi la sua bocca calda e liscia che le succhiava il pollice.
I rumori la facevano impazzire.
E un nuovo orgasmo la attraversò.
Quando finalmente svanì, aprì gli occhi. Il suo amante era una forma
massiccia sopra di lei e il suo profumo le inondava il naso ed era...
Lui le abbassò la mano sul piumone. E proprio mentre stava per
chiedergli... cosa aveva intenzione di chiedere? … sentì qualcosa sul suo
sesso.
Non erano le sue dita. Non era la sua bocca.
Era a punta. Molto liscio. E molto caldo.
Mae si inarcò di nuovo, e se ci fosse stato un modo per allargare
ancora di più le cosce, l'avrebbe fatto.
Sahvage la accarezzò con se stesso, stuzzicando l'apertura del sesso di
lei, poi si concentrò sulla parte superiore della sua fessura. Mentre un altro
orgasmo scaturì nel sesso di lei, nel suo sangue, sapeva che ora era il
momento… sarebbe successo...
Il suo ampio palmo si chiuse sul suo fianco, tenendola ferma. Mentre
Mae era sospesa sull'orlo, sentì parole rauche uscire dalla sua bocca, ma
non aveva idea di cosa stesse dicendo. Ma lui la stava accarezzando sempre
più velocemente, e il fatto che fosse il suo sesso sul sesso di lei, loro due
così vicini a essere uniti, significava che tutto era amplificato.
Proprio quando ricominciò a venire, sentì uno schiocco. Veloce. Una
delle sue braccia andava avanti e indietro… e poi si stava reggendo sul
materasso con il palmo opposto, incombendo su di lei, sul punto di…
Il primo dei getti caldi sferzò il suo sesso e il calore la fece esplodere
ancora una volta. Dato che era venuta per... quante volte era successo? …
non aveva importanza perché quando venne di nuovo, lui eiaculò su di lei,
coprendole il sesso, l'interno delle cosce, il basso ventre.
Nell'oscurità, poteva sentirlo respirare affannosamente, una
imprecazione che sfuggiva tra ciò che sapeva essere denti serrati.
Passò un po' prima che arrivasse la delusione.
Per quanto fosse stato eccitante, giusto, nonostante si fosse preso cura
di lei... si rese conto che non sarebbe andato oltre.
Non l'avrebbe presa.
Non davvero.
Non l’avrebbe mai fatto.
CAPITOLO CINQUANTAQUATTRO

La sera seguente, alle sei, Erika parcheggiò la sua auto senza


contrassegni a lato dell'ingresso principale del Commodore. Mise il
permesso di parcheggio sul cruscotto e uscì con il suo laptop e la sua borsa.
All'interno della hall, c'era una postazione per gli addetti alla
sicurezza e una reception. Entrambi erano vuoti, e lei poté sentire una
specie di discussione dietro l'angolo, due uomini andavano avanti e indietro
per un pacco FedEx che era stato smarrito.
Evitando l'intera faccenda del check-in, prese l’ascensore centrale e,
mentre saliva, si guardò negli specchi che rivestivano l'interno. Wow.
Sembrava avere centootto anni, le borse sotto gli occhi scure, la pelle
giallastra, il fatto che si fosse tirata indietro i capelli rossi e castani e li
avesse tagliati sulla nuca facevano sembrare ogni piccola piega del suo viso
qualcosa che era stato scolpito nella pelle. E accidenti, anche il suo blazer
blu navy era davvero sgualcito.
Forse era solo l'illuminazione.
- Sì, giusto - mormorò.
Da qualche parte aveva letto che i produttori di ascensori avevano
fatto uno studio e avevano scoperto che se le persone guardavano il loro
riflesso mentre andavano su e giù, sembrava loro di essere bloccate
all'interno della cabina per meno tempo.
Beh, lei doveva dire un grande no a quello.
Stanca del suo riflesso, guardò la giuntura delle porte, ma poiché era
un edificio elegante, ogni centimetro quadrato, tranne il dannato pavimento,
era coperto di materiale riflettente colorato.
- Grande! -
Dìng!
L'ascensore si fermò di colpo e le doppie porte dell'ultimo piano
dell'edificio si aprirono. Uscendo, guardò a sinistra e a destra, e poi si
diresse verso l’appartamento del signore e della signora Herbert C.
Cambourg.
Questo era ciò che si poteva leggere sulla targhetta di ottone incisa
sopra il campanello.
Perché non mettere anche il nome di tua moglie se era casa sua?
Tuttavia, adesso era tutto di lei.
Erika suonò il campanello e fece un passo indietro in modo che lo
spioncino potesse fare il suo lavoro...
Quando la porta si aprì, era pronta per una cameriera con un'uniforme
grigia e bianca, scarpe comode e una crocchia. Ma no, aveva aperto la
padrona di casa.
- Detective - disse la signora Cambourg. – Entri –
Questa volta niente vestaglia di seta e camicia da notte. Leggings neri,
dolcevita nero, i lunghi capelli castani sciolti e lucenti. Questa era una
donna che non era mai brutta, a prescindere dall'illuminazione. E Gesù, era
alta.
Ma i suoi occhi erano rossi come quelli di Erika.
- Grazie - Erika annuì ed entrò. - So che è tardi. Apprezzo che lei
possa ricevermi –
L'ultimo piano aveva un ingresso grande quanto l'intero condominio
di Erika, o almeno così sembrava. E c'era così tanto marmo, il marrone, il
crema e il nero separati da ghirigori d’ottone… o, merda, forse era anche
oro.
- Vogliamo andare in soggiorno? –
Mentre la signora Cambourg aspettava una risposta, era come se fosse
abituata ad attendere le opinioni degli altri per inquadrare le proprie scelte.
O forse era completamente a pezzi, e chi poteva biasimarla?
- Sicuro. Sarebbe fantastico –
- Da questa parte –
La sera prima, la signora Cambourg aveva chiuso l'ultimo piano ed
era rimasta nell'appartamento anti panico all'interno del condominio. Aveva
promesso di non entrare nelle sale delle collezioni al piano di sotto. Ma in
effetti perché avrebbe voluto volerci andare?
- Prego - La signora Cambourg indicò un divano di seta. - E posso
portarle qualcosa? –
Posso, non potrei farle portare.
Inoltre nessuna cameriera. Erano nuovi ricchi, e una donna che non
era affatto abituata a tutto quello. Non che Erika giudicasse. Lei non veniva
dal niente e non l'aveva mai infastidita né era il genere di cosa che le era
stato d’intralcio.
- No, sto bene così, grazie - Entrambe si sedettero insieme. - Come
sta? –
Mentre la signora Cambourg raccoglieva i pensieri, Erika si guardò
intorno. A differenza della galleria in basso, o delle sale per l’esposizione,
quassù c'era molto colore. Beh, supponendo che l'oro fosse un colore.
Anche il divano era nero e oro. Come se gli anni Ottanta avessero
attraversato tre decenni e avessero deciso di accamparsi nel presente.
Attraverso l'arco, Erika notò che anche gli elettrodomestici della
cucina erano dorati.
Anche i bagni? Probabilmente.
- Non ho dormito affatto –
- Ci scommetto. Qualcuno le dà fastidio? –
- Oh, no. Ho sistemato le mura anti panico. Sigillato la tromba delle
scale e tutto, comprese le finestre quassù. Anche se qualcuno avesse voluto
entrare, non avrebbe potuto... sa, avvicinarsi a me. Intendo. Sì –
Erika si schiarì la gola.
- Allora, ho delle novità. Credo che abbiamo trovato gli orologi di suo
marito –
La signora Cambourg si sporse in avanti.
- Davvero? –
Erika annuì.
- Le foto dell'assicurazione che ci ha inviato via email sono state
davvero utili, e ieri sera ci siamo trovati in una scena del crimine dove
pensiamo che potrebbero essere stati ricettati. Posso mostrarle alcune
immagini per l'identificazione? –
- Sì. Per favore –
Erika accese il suo laptop e mise lo schermo tra loro.
- Riconosce qualcuno di questi... qui, usi il cursore. Sì. Esatto –
Gli occhi della signora Cambourg si riempirono di lacrime quando
passò in rassegna le foto.
- Sì. Questi sono i suoi... e sì, è la custodia in cui li teneva. Quella che
si trovava nella nostra cassaforte –
Distrattamente, Erika si chiese se quella collana di diamanti fosse
ancora addosso a lei sotto quel dolcevita. Era disposta a scommettere di sì.
Perché fosse importante, non ne aveva idea.
- E non manca nient'altro, giusto? - chiese.
- No, non è stato preso nient'altro –
Erika annuì.
- Mentre eravamo nell'altro posto, abbiamo trovato alcune telecamere
di sicurezza. Il loro filmato mostra gli orologi di suo marito consegnati da
un uomo e… vuole vedere se lo riconosce? Posso mostrarle un filmato? –
La signora Cambourg si passò una mano tra i capelli di seta.
- Ovviamente –
- Ecco… - Erika tirò a sé il portatile e caricò il file successivo. -
Guardi questo… -
Mentre premeva play e inclinava lo schermo verso l'altra donna, sentì
il petto irrigidirsi. E poi, anche se aveva visto il filmato una dozzina di
volte, ed era stata lei a ritagliare il file, si perse ancora una volta... quando
l'uomo in nero apparve sullo schermo.
Era alto e, data la sua sagoma muscolosa, sembrava che si allenasse
spesso e intensamente, e di sicuro si muoveva come se avesse il controllo
totale del suo corpo. Sopra quelle grandi spalle, i suoi capelli erano scuri e
tagliati corti, ma era il suo atteggiamento che aveva attirato davvero la sua
attenzione. C'era una calma così fredda e calcolatrice sul suo viso
straordinariamente attraente. Anche mentre si fermava a guardare il
cadavere con il cervello esploso sul muro dietro il divano.
Era come se avesse visto molti cadaveri.
Ma, naturalmente, l'immagine del defunto era stata oscurata in questo
filmato. La signora Cambourg era già abbastanza sconvolta. A proposito di
questo…
Erika si accigliò alla sua espressione.
- Sa chi è? –
Ci volle un po' prima che l'altra donna rispondesse. E quando lo fece,
fu con voce bassa e confusa.
- Quello è l'uomo nel mio sogno - Indicò lo schermo. - Questo è
l'uomo che ho sognato -

•••

- Camicia blu... camicia rossa –


Nate ne teneva una davanti a sé. Poi l'altra. Entrambe erano di
flanella. Entrambe erano a scacchi neri. Entrambe…
No, rossa. Il rosso era decisamente meglio.
Gettando da parte quella blu sul ripiano del bagno, si sporse sul
lavandino per assicurarsi che il punto in cui si era tagliato durante la
rasatura fosse guarito. Sembrava a posto. Tolse il pezzo di carta igienica
dalla macchia di sangue.
Bene... merda. La camicia rossa era stata una buona idea finché non
l'aveva infilata nei suoi jeans. Poi sembrò l'uomo dei tovaglioli di carta
Brawny.
- Accidenti! - Controllò il telefono. - Camicia nuova –
Mentre si toglieva la flanella incriminata, si prese un minuto per
studiare il suo petto. Le braccia. Le spalle. Andavano bene, secondo uno
standard umano. Contro uno come suo padre? Era il ragazzo magro in
spiaggia che prendeva la sabbia in faccia.
Se Elyn avesse davvero bisogno di me, potrei fare in modo di farla
stare al sicuro?, chiese al suo riflesso.
- Fanculo! –
E avrebbe voluto avere un po' di colonia.
Nella sua camera da letto, si avvicinò e aprì la porta dell'armadio.
Felpe. Altre camice di flanella. Polo che sarebbero andate bene se fosse
stato maggio. Giugno. Luglio.
A meno che non fosse Shuli, ovviamente. E non lo era per molte cose.
Alla fine scelse una semplice t-shirt bianca di Hanes nuova di zecca e
una felpa di Mark Rober per essere casual. Proprio mentre stava tirando
quest'ultima sopra la testa, sentì bussare alla porta.
- Si? - disse.
La porta si aprì quando fu di nuovo allo specchio in bagno, e suo
padre entrò, vestito per combattere. Tutte le armi di Murhder erano sul suo
corpo, i suoi pugnali neri legati, le impugnature abbassate sul petto, una
fondina sui fianchi, un coltello su una coscia. I suoi capelli rossi e neri
erano nascosti sotto uno zucchetto, e quello era... sì, un giubbotto
antiproiettile.
Nate deglutì.
- Cosa sta succedendo. Cosa c'è che non va? –
- Esco per la note - Ci fu una pausa. - Guarda, so che le cose sono
state... strane tra di noi. E non volevo andarmene prima di dirti che ti voglio
bene. Nate, non potrei amarti di più anche se fossi del mio stesso sangue.
Sei un bravo ragazzo e diventerai un maschio eccezionale e... –
- Papà? - disse Nate a bassa voce. - Cosa sta succedendo? Perché
indossi quel giubbotto? –
- È solo un'altra notte sul campo –
No, non lo era, ma era chiaro che non avrebbe ottenuto alcuna
informazione sul perché.
Mentre era alle prese con un improvviso terrore, Murhder continuò a
parlare.
- Non so nemmeno cosa sia andato storto esattamente qui per te.
Voglio dire, sei stato felice, per un po'. Non sono sicuro di cosa sia
cambiato, ma qualunque cosa sia, lo scopriremo. Ci sono risorse di ogni
genere per te, e se davvero si riduce a questo... non vogliamo che te ne
vada, ma... beh, l'ho detto prima. Ti amiamo come se fossi nostro figlio. E
non potevo andarmene senza dirtelo. Certe sere è meglio dire quello che
devi perché non si sa come andranno le cose –
Il cervello di Nate ribolliva di così tanti tipi di paura che perse
letteralmente la voce.
E nel silenzio, dopo un momento, Murhder annuì e si voltò.
- Aspetta, papa –
Nate si lanciò fuori dal bagno e si aggrappò al Fratello proprio mentre
Murhder si voltò di nuovo su se stesso.
- Ti amo anch'io, papà. Ti amo –
Murhder emise un suono strozzato, e poi quelle enormi braccia
tennero stretto Nate.
- Sono contento, figliolo. Questo fa... fa la differenza per me –
Nate fece un passo indietro.
- Morirai stanotte? –
Murhder scosse la testa.
- No, se posso evitarlo. E no, non posso parlarne. Ma tu e tua madre
siete al sicuro qui... –
- E Luchas House? - chiese Nate in fretta.
- Il... oh, sì, no, dovreste stare bene là fuori. Ma sai, questo mi fa
pensare. Vuoi fare un po' di allenamento... –
- Sì - pensò a Elyn. - Voglio imparare a combattere –
Murhder diventò molto, molto immobile.
- Cosa c’è? - disse Nate. - Non pensi... non pensi che posso? –
- Penso che lo farai molto bene. È solo che non volevo questa vita per
te, figliolo. Ma non ho intenzione di fermarti, però. Parlerò con i fratelli e
penseremo a qualcosa –
- Va bene. Grazie. La mamma è a casa stasera? –
- Sarò al centro di addestramento. Tu… -
- Vado a Luchas House –
- Stai attento là fuori. Chiamami se hai bisogno di me. Non importa
cosa stia succedendo, risponderò sempre, verrò sempre da te –
Dopo un lungo momento, Murhder annuì e uscì dalla camera da letto
per dirigersi verso le scale che portavano alla cucina.
Certe sere, è meglio dire quello che devi.
- Ho incontrato qualcuno - sbottò Nate.
Quando sentì la propria voce, fu sorpreso di aver parlato. Ma era
qualcosa che voleva che suo padre sapesse, soprattutto se non avesse avuto
la possibilità di dirlo di nuovo al maschio.
Suo padre si voltò lentamente e l'espressione sul suo viso sarebbe
stata divertente. In un'altra notte. Riguardo a un'altra cosa.
Sembrava che qualcuno gli avesse appena detto che la fatina dei denti
era reale. Stupore.
- Davvero? - disse Murhder.
- Sì, e penso che mi piaccia davvero, papa -
CAPITOLO CINQUANTACINQUE

- No, i cereali vanno bene. Veramente –


Mentre Mae era seduta al tavolo della sua cucina, la ciotola piena di
Cheerios della marca commerciale, il latte scremato che in qualche modo
aveva superato il test del naso anche se era di un giorno dopo la data di
scadenza, stava cercando di mantenere il controllo. E no, non perché stava
per avere una crisi di pianto o qualcosa del genere.
Stava soffocando per le domande che non doveva fare. Soprattutto,
tipo, perché Sahvage aveva tracciato quella linea? Due adulti consenzienti e
tutto il resto…
Ma evidentemente si trattava di un solo adulto consenziente.
Quando Sahvage si sedette di fronte a lei con un toast e una tazza di
caffè, cercò di sorridere in modo disinvolto e senza pensieri. Il fatto che non
avesse avuto uova o pancetta da offrirgli e che fosse stato un miracolo che
c’era abbastanza caffè per entrambi, era un indizio su quanto fossero state
difficili per lei le ultime settimane.
E tutto ciò che non avevano fatto a letto era solo la ciliegina sulla
torta.
Mentre mangiavano, non dissero molto... quindi tutto quello che si
sentiva in casa, in tutto il mondo sembrava, era lui che sgranocchiava il
pane tostato e il cucchiaio di lei che colpiva il lato della sua ciotola. Ma il
fatto era che non si fidava di se stessa per affrontare l’argomento di cui non
voleva parlare.
Sì, non sarebbe andata bene. Era frustrata e arrabbiata per un sacco di
cose, e lui si sarebbe ritrovato a parare i colpi con cose che non avevano
nulla a che fare con i loro problemi orizzontali…
Chiuse gli occhi.
- Stai bene? –
Tenendo per sé un’imprecazione, lei annuì.
- Oh si. Sto bene –
Lui spinse via il piatto.
- Allora vado a prendere del ghiaccio –
Mae alzò lo sguardo.
- Cosa? –
- Per tuo fratello. Ho bisogno che tu rimanga qui. È la cosa più sicura
e ho un'auto - Si alzò, la sedia strusciò sul pavimento. - Non dovrebbe
volerci così tanto tempo –
- Ah, c'è un distributore di benzina non molto lontano da qui - Solo
che lei sentiva un bisogno territoriale di comprare il ghiaccio. Quello era un
suo compito. - Ma potrei sempre... –
- Fare un altro incidente? - disse lui portando i piatti nel lavandino. -
Come ieri sera? Sappiamo tutti come è finita bene –
Mae si accigliò.
- Scusami, come se l'avessi programmato –
Sahvage appoggiò i palmi sul bancone e chinò la testa. Quando la sua
mascella si serrò, era delusa che lui stesse lottando per controllare la rabbia.
Voleva una discussione.
E questo la rendeva una stronza, vero?
- Si tratta di nuovo del Libro? - chiese. - Perché non siamo più in
disaccordo su questo argomento –
- Hai ragione su questo - lui scosse la testa. - Non sto più cercando di
dissuaderti. Non avrei mai dovuto farlo in primo luogo –
- Grazie - Mae sospirò sollevata. - E mi dispiace di essere così sulla
difensiva. Sono felice che tu finalmente capisca –
Sahvage annuì e poi guardò nella stretta distanza tra lui e la finestra
chiusa davanti al suo viso. Era impossibile non studiare quei lineamenti duri
e quel corpo possente senza pensare a cosa avevano fatto al buio. Ma in
quel momento non c'era niente di sensuale in lui. Era da qualche altra parte
nella sua testa, lontano, anche se lei poteva allungare la mano per toccarlo.
- Non starò via a lungo - disse alla fine. - Voglio dire, dovrò
attraversare la città con la macchina, ma sì, non dovrebbe volerci molto
tempo –
- Va bene. Come se avessi qualsiasi tipo di programma… –
In realtà, aveva del lavoro da fare per poter tenere questo tetto sopra
la testa. Supponendo che ce l'avesse fatta, avrebbe avuto bisogno di vivere
da qualche parte.
- E devo chiamare Tallah - si sentì dire.
Dopo un momento, Sahvage girò la testa e la guardò. Qualcosa nel
suo sguardo di sufficienza la faceva sentire come...
- Non dirlo - sussurrò, un dolore sordo e solitario si accingeva a
mettere su bottega nel suo cuore. - Non dire addio. Preferirei che... non
attraversassi più quella porta piuttosto che dover sentire quelle parole –
Inoltre, in quel modo, avrebbe potuto avere la possibilità di rivederlo. Un
addio era una porta chiusa. Niente era... niente. - Non voglio chiusure -
disse con voce stanca. - Sono davvero fottutamente stufa delle chiusure –
- Non ti lascerò -
Sì, certo, pensò.
- Non ti biasimerei se lo facessi - Mae sorrise, ma non riuscì a
sopportare quella finzione. - Io mi lascerei se potessi –
- Te l'ho detto, tornerò presto. Non mi ci vorrà molto –
È così che lui lasciò le cose.
E non si guardò indietro mentre camminava verso il garage.

•••
Sahvage era perso nei suoi pensieri quando la porta si chiuse dietro di
lui, ma ebbe abbastanza presenza di spirito da aspettare che Mae si
avvicinasse per chiudere il chiavistello. Quando lei non lo fece, lui riaprì
con l'intenzione di ricordarle di farlo.
Alla fine del breve corridoio, lei era ancora al tavolo della cucina con
la testa tra le mani. Non stava piangendo; sembrava che non riuscisse a
reggersi da sola e avesse bisogno dei gomiti per tenere il viso lontano dalla
ciotola dei cereali.
Si fece forza per non tornare lì dentro e prenderla tra le braccia, e
dirle che tutto sarebbe andato bene. Ma non gli piaceva fare promesse che
non poteva mantenere.
Così, invece, richiuse la porta e ricordò a se stesso che ciò che
avevano paura potesse entrare in casa era già stata chiusa fuori. Mae era al
sicuro.
Per un momento, prima di andarsene, fissò il punto in cui era
parcheggiata la macchina di lei. Ora c'erano solo macchie d'olio e segni
dove le gomme erano andate avanti e indietro così tante volte, e immaginò
che i suoi genitori parcheggiassero qui in passato. Pensò a quante volte la
famiglia, compreso suo fratello, era entrata e uscita dalla porta che lui aveva
appena usato per andare via.
La capiva davvero riguardo a Rhoger. Ci era già passato con Rahvyn.
E cazzo, se lui avesse creduto ai miracoli? Nel destino? Nel fatto che
l'universo era un luogo giusto e perfetto? Allora lui e sua cugina avrebbero
potuto riunirsi e se Mae avesse riportato indietro suo fratello, non ci
sarebbero stati rimpianti.
Ma non credeva più a quella merda di giustizia esistenziale.
E dannazione, Mae lo avrebbe ringraziato per quello che stava per
fare. Forse non subito, ma in seguito... quando la natura non sarebbe stata
alterata e lei non avrebbe sofferto così tanto. Allora, avrebbe capito che
aveva fatto la cosa giusta.
Calmandosi, si smaterializzò attraverso l'imposta aperta. Ma non
tornò a casa sua per farsi un giro in quel buco di merda.
Andò in città.
Dato che era a Caldwell solo da un mese, non conosceva i nomi delle
strade o altro. La buona notizia era che il Commodore era l'unico edificio
residenziale di oltre venti piani, e dato che aveva lettere luminose verticali
sul fianco che recitavano C-O-M-M-O-D-O-R-E…
Non ci voleva un genio per individuarne il tetto.
E proprio come avevano pianificato, c'era una figura solitaria che lo
aspettava vicino ai sistemi di ventilazione.
Quando Sahvage si riformò di fronte al ragazzo, teneva le mani vicino
alle pistole, ma non alzò il palmo. Non c'era motivo per non essere civile, e
inoltre, durante le ore diurne si era fatto un'idea del Bastardo. Quando Mae
dormiva, era andato di sopra per scoprire chi aveva fatto squillare il suo
telefono.
Ed era stata proprio la chiamata che stava aspettando.
- Quindi sei Sahvage, il maschio del momento - Il combattente
allungò la mano. – Balthazar –
Sahvage annuì e scosse ciò che gli veniva offerto.
- Sei pronto a farlo? –
- Come ho detto al telefono, dobbiamo muoverci in fretta –
Guardandosi intorno, Sahvage ebbe la sensazione che l'edificio fosse
circondato. Ombre?, si chiese. No... riusciva a cogliere i profumi, anche se
lontani e diluiti dal vento freddo, e ne riconosceva molti.
- I tuoi rinforzi sono in posizione - disse. - So che non siamo soli –
- Proprio come avevamo concordato, sono sul perimetro e resteranno
lì a meno che le cose non vadano a puttane. Non voglio... beh, come ti ho
detto, ieri sera è arrivata non appena mi sono avvicinato al Libro –
- Indicami solo la direzione giusta, poi me ne occuperò io –
Il maschio socchiuse gli occhi.
- Non era il nostro accordo –
- Anche se ti impedirà di essere ucciso? –
- Lei vuole il Libro, non noi. Quindi se morirò, sarà perché sono un
danno collaterale. Lo stesso vale per te. O facciamo come abbiamo
concordato, o lasciamo perdere –
Sahvage guardò il combattente dritto negli occhi.
- Ricevuto –
Quando Balthazar si voltò, Sahvage seguì il maschio fino all'ingresso
della tromba delle scale che correva al centro dell'edificio. Scesero i gradini
di cemento e quando, un paio di piani più in basso, Balthazar si fermò
davanti a una porta tagliafuoco e sembrò annusare la fenditura attorno allo
stipite della porta, Sahvage si rese conto di qualcosa.
- Non hai emesso un suono - disse sotto voce.
Il Bastardo si guardò alle spalle.
- Eh? –
- Mentre scendevamo. Non hai fatto alcun rumore –
- Sono un ladro - Il tipo alzò gli occhi al cielo e mise la mano sulla
maniglia per aprire. - Pensi che dovrei avere una banda musicale nel culo? –
- Questo sì che è un bel biglietto da visita –
Si avviarono rapidamente per un corridoio che puzzava di gente ricca
e aveva un'atmosfera elegante e moderna, e Sahvage cercò di prendere
esempio da Mr Shhh. Ma come faceva lo stronzo a non far scricchiolare
nemmeno il suo equipaggiamento?
Era ovvio dove stavano andando.
Il nastro della polizia lo suggeriva.
Quando si avvicinarono alla porta, Balthazar si voltò.
- Dall’altra parte c’è un’enorme sala. Spero che non ci siano
attrezzature della polizia in mezzo. Disattiverò l'allarme e attraverseremo le
stanze delle collezioni –
- Sono proprio dietro di te –
Balthazar entrò per primo e Sahvage fu un nanosecondo dietro di lui.
Nessuna attrezzatura della polizia, solo un’enorme sala come aveva
descritto, come se quel posto fosse un museo.
- Da questa parte - sussurrò il Bastardo. - È laggiù –
Le stanze erano piccole e senza finestre, e contenevano collezioni di
strani oggetti. Strumenti chirurgici. Scheletri di pipistrello… e poi…
Il respiro di Sahvage esplose dai polmoni quando entrarono in uno
spazio pieno di espositori di libri e i suoi stivali si bloccarono dov'erano. Lì,
attraverso il pavimento intricato, oltre una sezione di scaffalature distrutte e
disordine sul pavimento di legno duro... c’era un contenitore trasparente.
Ospitava un oggetto che Sahvage non vedeva da duecento anni.
Mentre sbatteva le palpebre, era di nuovo nell'alloggio padronale di
Zxysis, il sangue innocente di sua cugina versato sul lenzuolo del letto, la
finestra aperta, le erbe, le pozioni e la cera delle candele sul tavolo.
Aveva la sensazione che il Bastardo gli stesse parlando.
Ma ancora una volta, il maschio non emetteva alcun suono.
Sahvage si avvicinò alla teca con le gambe intorpidite, e avrebbe
potuto giurare, quando si fermò davanti all'antico volume, che le pagine del
tomo aperto svolazzassero in segno di saluto. E non era l'unico pietrificato.
Balthazar era accanto a lui e fissava il Libro con lo stesso tipo di
incantesimo.
In effetti, lui e l'altro combattente erano così affascinati... da non
riuscire a notare la luce rossa lampeggiante del rilevatore di movimento sul
soffitto.
CAPITOLO CINQUANTASEI

- È l'allarme –
Quando la signora Cambourg si alzò dal divano con il telefono in
mano, Erika era già al lavoro, non solo si alzò, ma mise la mano sulla
fondina dell'arma di servizio.
- C’è qualcuno al secondo piano - La donna girò lo schermo del
cellulare. - Cosa devo... –
- Probabilmente è solo uno dei tecnici della scientifica –
- Oh. Va bene –
O almeno era quello che Erika sperava, e se lo era davvero? Avrebbe
strigliato chiunque non si fosse presentato come si doveva.
- Voglio che si chiuda dentro e resti quassù - disse. - Vado giù a
controllare –
- Ma è sicuro? - chiese la donna stringendo il telefono al petto.
- Torno subito. Sono sicura che c’è una spiegazione assolutamente
ragionevole –
- Va bene - La signora Cambourg indicò un arco. - Può attraversare
quel corridoio e prendere la tromba delle scale per scendere di un livello.
Devo chiamare qualcuno? –
- Me ne occupo io. Non si preoccupi. Resti quassù –
Mentre Erika si allontanava a grandi passi lungo il corridoio, ci fu una
serie di leggeri suoni dietro di lei. Quando si guardò indietro, l'area era stata
chiusa con un pannello dorato opaco.
Bene. Ciò significava che non doveva preoccuparsi di nessun altro.
Inoltre, probabilmente era solo un tecnico che non si era fatto vedere.
La scala era ricurva, arte moderna risplendeva sulle pareti. C'era un
dipinto che le piaceva particolarmente, ma non aveva intenzione di perdere
tempo ad ammirare il cromatismo di quella dannata cosa.
Come se sapesse qualcosa di arte, comunque.
Ma di sicuro sapeva come proteggere se stessa.
Quando arrivò in fondo alle scale, al secondo piano, sfilò la sua arma
di servizio, ma la tenne sul fianco. L'ultima cosa di cui qualcuno aveva
bisogno era che lei facesse saltare in aria un collega. Allo stesso tempo, le
cose stavano diventando strane a Caldwell, quindi non avrebbe corso rischi
con la propria vita.
Tutti quei corpi che aveva visto senza cuore erano ciò che aveva in
mente quando girò l'angolo e vide, oltre un paio di stanze, un paio di uomini
davanti a una vetrina di Lucite nella stanza dei libri. Erano... enormi. Vestiti
di nero. Sembravano esser in grado di cavarsela da soli in qualsiasi
situazione.
Quindi sì, sicuramente non erano della scientifica.
Si voltarono contemporaneamente.
L'addestramento di Erika le imponeva di fare due cose; scattare
un'istantanea mentale delle loro caratteristiche da poter usare in seguito per
l’identificazione. E mettere in atto la procedura per chiamare i rinforzi.
Invece, fissò quello a sinistra. Era... l'uomo del filmato, il ladro che
aveva portato lì gli orologi... quello che la signora Cambourg credeva di
aver sognato. E Dio, era davvero incredibilmente bello, se si poteva usare
quella parola su qualcosa di così virile: il suo viso era tutto angoli perfetti e
mascella, e i suoi occhi, mentre si restringevano e la squadravano su e giù,
erano astuti e...
- Non sono sorpresa che tu sia qui - si sentì dire. - Sembra che passi
molto tempo in questo posto –
Quando parlò, lui inclinò la testa in un modo che le ricordò un pastore
tedesco, un predatore curioso di sapere quanto velocemente potesse correre
la sua preda.
- Detective Saunders, polizia di Caldwell - Erika gli puntò contro la
pistola e prese le manette. - Chiederò a entrambi di mettere le mani sulla
testa e di voltarvi. Siete in arresto per violazione di domicilio, ma qualcosa
mi dice che le accuse non si fermeranno qui –
Nessuno dei due si mosse. E fu allora che si rese conto di aver
riconosciuto anche l'altro.
Il fight club, pensò con un'ondata di adrenalina.
Era quello del filmato con Ralph DeMellio.
Porca puttana.
Prima che potesse ripetere il suo comando, quello a sinistra, quello
che aveva davvero bisogno di fissare in modo esclusivamente professionale,
disse sottovoce:
- Ci penso io –
Erika approfondì la voce.
- Mettete le mani sulla testa e… -

•••

Quando Balz entrò nella mente della donna umana e la bloccò, in


realtà voleva che continuasse a parlare. In qualche modo, era riuscita a
trasformare semplici parole in una sinfonia per le sue orecchie, e non era
stato tutto ciò che aveva fatto.
Il suo profumo si infilò nel suo naso e gli andò direttamente nel
sangue.
Fisicamente non era poi così alta. Un metro e sessanta, forse settanta.
E tutto in lei aveva un senso pratico, dalle scarpe basse alla coda di cavallo
stretta alla base del collo, dalla sua mancanza di trucco al suo sguardo duro
e diretto. E a proposito di abbigliamento professionale. Il distintivo sulla
sua giacca blu scuro emetteva un bagliore a ogni respiro che faceva, e i suoi
pantaloni larghi non gli davano la minima idea di come fosse il suo corpo.
Ma aveva importanza?
Tutto di lei... lo colpì.
E quello era solo una parte.
Mentre penetrava nella sua mente in modo da poter cancellare il
presente e sistemare i suoi ricordi, emersero lampi di... indicibili violenze e
tragedie del passato. Come se quelle immagini e quei suoni facessero parte
della sua memoria a lungo termine, ma per lei erano sempre appena sotto la
superficie.
Aveva affrontato cose a cui nessuna donna, nessun uomo, avrebbe
potuto sopravvivere.
Eppure non aveva avuto assolutamente paura quando aveva affrontato
lui e Sahvage, due vampiri che erano pesantemente armati e la superavano
di centoottanta chili. Tuttavia, considerando quello che aveva già vissuto
poche cose l'avrebbero scossa.
- Che cazzo sta succedendo qui? –
Quando l'impazienza di Sahvage tagliò il silenzio, Balz tornò in
azione.
- Ho fatto. È tutto a posto –
- Davvero? Perché da qui sembra che lei ti abbia colpito –
Nonostante la posta in gioco, Balz aveva bisogno di un altro
momento, e poi privò la donna di ogni ricordo di essere stata lì. Dopodiché,
inserì il pensiero che era stato solo un malfunzionamento dell'allarme.
Gli allarmi funzionavano sempre male.
Niente di sbagliato, niente che non andava.
Quando lei si girò per andarsene e ripose la sua arma e quelle
manette, fu chiaro che si sentiva a suo agio con le pistole e fiduciosa nella
sua capacità di usarle bene… e incredibile, a Balz venne duro dentro i suoi
boxer.
Doveva rivederla.
In qualche modo…
Un rumore sordo gli fece girare la testa.
Sahvage aveva rimosso la parte superiore della vetrina e si stava
raddrizzando con le mani tese. Si avvicinò al Libro e i suoi occhi erano
concentrati in modo totale, il suo corpo era teso, il suo...
- Oh, no, non lo farai - disse Balz lanciandosi in avanti anche lui.
I due afferrarono il Libro esattamente nello stesso momento. E mentre
quella puzza di carne avariata si alzava nell'aria, entrambi iniziarono a
tirare… e a Balz sembrò di fare un tiro alla fune per la sua stessa vita.
Certo, Sahvage si era comportato come uno che faceva gioco di squadra,
ma in quel momento, niente riguardo a quel bastardo faceva pensare che
fosse d'accordo con il piano originale.
Avrebbe preso quella fottuta cosa.
Mostrando le zanne, Balz ringhiò:
- Fottuto idiota –
- Questo è il male. Deve essere distrutto! –
- Cosa stai… -
- Non vuoi questo! –
- Ne ho bisogno per salvarmi la vita! –
In qualche modo, nonostante il fatto che entrambi fossero inclinati
all'indietro, con tutto il loro peso impegnato nella trazione, tutti i loro
muscoli contratti... il Libro non si strappò. Anche se avrebbe dovuto farlo,
non ci fu alcuna lacerazione dell'integrità strutturale, nessuna rottura del
dorso, nessun cedimento da nessuna parte.
Era come una trave d’acciaio…
Lascialo andare.
Dal nulla, come se fosse stata convogliata nella stanza, o forse nella
testa di Balz? la voce di Lassiter permeò il ringhio della rissa.
Lascialo andare.
- No! - abbaiò Balz. - Assolutamente no! –
Si rifiutava di vivere con quel male dentro di sé per il resto della sua
vita...
Se vuoi vivere, lascialo andare.
Dal nulla, l'immagine di quella detective che aveva appena mandato
via gli tornò alla mente.
Ma era il male che gli parlava o... in realtà Lassiter stava cercando di
salvarlo?
Come poteva fare per capire la differenza tra le seducenti false
dichiarazioni della bruna e la realtà?
- Fanculo! - gridò.
CAPITOLO CINQUANTASETTE

C’erano alcune battaglie in cui perdere non era un'opzione. Questa era
una di esse.
Mentre il corpo di Sahvage era messo a dura prova e il sudore gli
colava sul petto e sul viso, serrò i molari e continuò a tirare. Dall’altra parte
delle pagine del Libro aperto, il Bastardo stava facendo lo stesso, ogni
grammo di potenza nel corpo e nella mente di quel maschio era determinato
a prendere anche il controllo.
C'era la tentazione di prendere un'arma. Un proiettile alla testa
dell'altro combattente e questa discussione fisica sarebbe finita, cazzo.
Ma Sahvage non poteva rischiare che il Libro venisse strappato via
dalla sua presa. Senza conoscere molti dettagli sul Bastardo, aveva la
sensazione che Balthazar fosse perfettamente in grado di smaterializzarsi in
un batter d'occhio. E se lo faceva?
Sahvage non avrebbe avuto una seconda possibilità. In duecento anni,
non aveva mai incrociato la strada con quella cazzo di cosa. Non sarebbe
accaduto di nuovo, e con quell'incantesimo di evocazione?
Sicuramente, vista la sua fottuta fortuna, avrebbe trovato la strada per
arrivare da Mae...
All'improvviso, e senza preavviso, il Bastardo lasciò la presa. Aprì
semplicemente le mani e lasciò andare quella dannata cosa.
Senza più forze opposte che lavoravano contro di lui, lo slancio
all'indietro di Sahvage fu così grande che andò a sbattere contro il muro
opposto, l'impatto lo rese intontito per una frazione di secondo.
Nel frattempo, attraverso la vetrina ormai vuota, Balthazar si
guardava le mani come se non capisse cosa avesse fatto, o pensasse che
avevano agito in modo indipendente.
Alzò gli occhi e parlò con rassegnazione.
- Dove lo porterai? –
Per qualche ragione, forse perché Sahvage aveva riconosciuto la
disperazione sul volto dell'altro combattente, si trovò a rispondere.
- Dove nessuno potrà mai più usarlo –
- Ne ho bisogno. Per togliere il male dentro di me –
- Non c'è male in te –
- Ti sbagli di grosso su questo, e il Libro è la mia unica speranza -
Se solo Rahvyn fosse ancora viva, pensò Sahvage.
Si prendeva cura di problemi del genere nel loro villaggio nel Vecchio
Continente.
- Mi dispiace - disse Sahvage, e lo intendeva sul serio.
Poi si smaterializzò fuori dalla stanza. Fuori dalla galleria. Poi uscì
nel corridoio ed entrò nella tromba delle scale.
Ma non salì. Li è dove era, o era stata, la Confraternita. Scese,
sfrecciando attraverso i pianerottoli di cemento più veloce di un battito del
cuore. In fondo, aprì una porta antincendio e si aspettò di trovare tutta la
Confraternita con le pistole puntate contro di lui. No. Solo un elegante atrio
di marmo con un paio di umani seduti alle scrivanie e due donne che
entravano con le borse della spesa
Mentre correva su quel pavimento lucido, sentì qualcuno che gridava.
Fuori, nell'oscurità davanti all'edificio, si aspettava di nuovo la
Confraternita. O la bruna. O le ombre.
Niente.
Per una frazione di secondo, si guardò intorno e si chiese che cazzo
fosse successo a tutti i personaggi della sua commedia. Il palco era davvero
fottutamente vuoto. Neanche fosse nella posizione di discutere quando le
cose finalmente andavano nel verso giusto…
Sentendosi come un rapinatore di banche durante la rapina della sua
vita, chiuse gli occhi e svanì nella fresca notte primaverile.
Mentre lasciava il centro, ebbe un pensiero bizzarro.
Era quasi come se Balthazar lo avesse lasciato andare.

•••

Nella stanza dei libri, Balz cadde a terra e si prese la testa tra le mani.
- Fanculo. Fanculo... cazzo! –
Quando alzò di nuovo lo sguardo, non era solo. Lassiter era proprio di
fronte a lui, e l'angelo caduto si abbassò lentamente in modo che fossero
faccia a faccia.
- Ciao! –
Balz deglutì a fatica.
- Non so cosa ho appena fatto –
- Sì. Lo sai –
- Come faccio a sapere che sei davvero tu? Non so più di cosa
fidarmi, e include anche me stesso –
- Dammi la mano –
L'angelo caduto allungò la mano e Balz pensò che se avesse toccato
ciò che gli veniva offerto, sarebbe potuto rimanere intrappolato per sempre
in...
Fanculo.
Balz afferrò ciò che aveva davanti e si preparò a...
Con un'improvvisa ondata di energia, sentì un calore, simile al sole.
Accettazione, come da una mahmen che ti amava. Pace, per un'anima
tormentata.
Hai fatto la cosa giusta, disse Lassiter senza muovere le labbra.
- Era la mia unica e sola possibilità, però - Balz non era sicuro di
come poteva saperlo con tanta certezza. - Verrò mangiato vivo da lei,
dall'interno -
No, c'è un altro modo.
Tutto quello che Balz riuscì a fare era scuotere la testa. Ma poi
Lassiter sorrise.
Il vero amore ti salverà.
Balz quasi rise.
- Non credo nel vero amore -
Quando è stata l'ultima volta che hai visto il sole?
- La mia transizione -
Eppure ha continuato a esistere e a riscaldare il pianeta, a sostenere
la vita, anche senza il beneficio dei tuoi occhi. Sei meno potente di così,
Balthazar. Il vero amore non richiede il tuo riconoscimento per essere una
forza in questo mondo.
Okay.
- Uccideranno me, i Fratelli e i miei bastardi. Ho lasciato che Sahvage
prendesse il Libro -
No, non è quello che è successo. C'è stata una lotta e tu sei scivolato
e hai preso una storta alla caviglia. Quando hai rilasciato la presa su di
esso, Sahvage è fuggito con il Libro…
- Ahi, che cazzo… - Balz lasciò cadere la mano dell'angelo e si
afferrò la parte inferiore della gamba destra, che all'improvviso lo stava
uccidendo.
Quando alzò di nuovo lo sguardo, Lassiter se n'era andato, ma il
dolore era così grande che non riuscì a preoccuparsi della sua partenza.
Fece una smorfia, rotolò sulla schiena e si chiese perché diavolo
l’articolazione in questione urlava come se lui…
Beh, come se fosse scivolato su qualcosa...
Cercando a tentoni il telefono, fece una chiamata e non era necessaria
nessuna promessa di una statuetta dell'Oscar per dire:
- Figlio di puttana, ha preso il libro: sono caduto a terra, non posso
camminare o smaterializzarmi... dovete venire a prendermi, e no… non so
dove sia andato quello stronzo –
Immediatamente, chiunque fosse dall’altra parte della linea iniziò ad
abbaiare contro di lui, e quando non riuscì più a sopportare il rumore,
interruppe la connessione e chiuse gli occhi. L'unica buona notizia, pensò,
era anche la cattiva notizia: con il Libro sparito, era meno probabile che la
bruna si sarebbe fatta viva e avrebbe giocato di nuovo a dadi con chiunque
fosse importante per Balz.
O con lui stesso.
Sahvage, quel bugiardo figlio di puttana, aveva preso la proverbiale
tigre per la coda. Le probabilità erano molto, molto buone che non sarebbe
sopravvissuto per vedere un altro tramonto, e non per quello che la
Confraternita gli avrebbe fatto. Il suo destino, era colpa sua.
E mentre Balz si preoccupava per la sua anima infetta, udì la voce
dell'angelo nella sua testa.
Il vero amore, pensò Balz. Che fottuto mucchio di...
Attraverso quel dolore incandescente che reclamava tutta la sua
attenzione, un'immagine trafisse il velo, tagliando via la sofferenza.
Era quella della donna umana, la detective con la pistola e le manette,
così disciplinata, così concentrata... così stanca, come se avesse lavorato
sodo per troppe ore di seguito. Troppi anni di fila.
Ma sicuramente quello non era il suo destino.
O quello di lei.
Giusto?
CAPITOLO CINQUANTOTTO

Mae era seduta al tavolo della cucina a fissare il vuoto sopra i suoi
quasi-Cheerios ormai molli, quando il telefono iniziò a squillare. Pensando
che fosse Tallah, tirò fuori il cellulare dalla tasca, ma nessuno la stava
chiamando.
Quando il suono continuò, si alzò e lo seguì fino alle scale del
seminterrato. Scese, si guardò intorno e si diresse verso il divano nell’area
salotto. Nascosto dietro di esso... c’era un borsone nero. Era di Sahvage,
quello pieno di pistole: doveva essere tornato al cottage per recuperarlo in
modo da essere ben armato durante il giorno. Mentre guardava la cerniera
chiusa, tutto divenne silenzioso, ma quasi immediatamente, la suoneria
riprese.
Imprecando tra sé e sé, si inginocchiò e si avvicinò alla borsa,
frugando tra... beh, i fucili, come aveva scoperto. Giù, in fondo a molte altre
armi... c’era il suo cellulare.
Lo schermo mostrava che il numero era privato.
Rispose alla chiamata.
Prima che potesse salutare, una voce maschile ringhiò:
- Figlio di puttana doppiogiochista. Hai appena firmato la tua
condanna a morte e sappiamo dove sei... –
- Chi è? –
Ci fu un momento si silenzio.
- Tu chi sei? –
- Io sono un... - Amica? Come diavolo poteva rispondere a quello. -
Conosco Sahvage. Cosa ha fatto? –
- Dove si trova? –
- È uscito... - A prendere del ghiaccio per mio fratello morto. - Mi
dispiace, ma non so cosa stia succedendo –
- Signora, dovrò chiederle di identificarsi. E deve sapere che abbiamo
un localizzatore nel telefono dal quale sta parlando, quindi siamo a
conoscenza della sua posizione. Sahvage è ora un nemico della
Confraternita del Pugnale Nero. Se lo nasconde in qualsiasi modo, o tenta
di ingannarci per suo conto, si ritroverà dalla parte sbagliata, mi capisce? –
Mae si raddrizzò.
- Cosa ha fatto? –
- Ha qualcosa che è nostro –
Facendo un passo di lato, fissò la sua camera da letto e ricordò che
stavano litigando.
Quando un freddo terrore le colpì la testa, disse:
- Lui ha il Libro, vero? –
- Cosa sa del Libro? –
Figlio di puttana.
Riattaccando il telefono e tenendolo con sé, Mae salì le scale a due a
due e andò direttamente in garage dove si smaterializzò dalla casa. Se la
Confraternita aveva la posizione del telefono, non li voleva vicino a casa
sua. Avrebbero trovato Rhoger.
A circa cinque miglia di distanza, si riformò dietro un centro
commerciale e gettò il cellulare in un cassonetto sul retro. Poi scomparve di
nuovo.
Viaggiando in una dispersione di molecole, seguì il segnale del
sangue emesso da Sahvage, a cui solo lei aveva accesso. E mentre si
concentrava su di esso, venne portata in una parte vecchia di Caldwell, ai
margini dei quartieri fatiscenti della città. Qui, le case erano vittoriane a tre
piani, molte delle quali erano state convertite in appartamenti o venivano
usate come dormitori per il SUNY Caldwell perché erano vicine al campus.
Per orientarsi adeguatamente, si riformò nel parcheggio di una
costruzione che era stata ristrutturata e trasformata in un museo. Mentre si
trovava in uno spazio per disabili e si guardava intorno, stava tremando, ma
non perché faceva freddo e non aveva il cappotto. Chiuse gli occhi,
combatté la distrazione della sua rabbia e si concentrò su dove fosse
Sahvage. Quando ebbe un punto preciso, svanì di nuovo e si materializzò in
un cortile trasandato che era recintato da assi alte un metro e ottanta.
In lontananza, un cane abbaiò. Poi sentì un'ambulanza.
Esaminando il retro della casa, trovò due porte posteriori. Una portava
in una cucina, da quello che poteva vedere attraverso le finestre. L'altra era
alla base di una serie di gradini di cemento poco profondi.
Era lì che aveva percepito Sahvage.
•••
Un dei vantaggi di dormire in una vecchia casa piena di spifferi che
era stata costruita prima della fine del secolo scorso e che ora era di
proprietà di un vecchio eccentrico... era che c'erano un sacco di impianti
vecchio stile e roba del genere. Tipo l'impianto idraulico. Gli
elettrodomestici. Le luci.
Il sistema di riscaldamento
Quando Sahvage passò davanti alla sua stanza in affitto, sentì il calore
aumentare di intensità e pensò di essere contento di essersi sistemato a nord
di New York invece che, tipo, in Florida o in Carolina. In nessun modo
avrebbero acceso le loro vecchie caldaie in una notte d'aprile.
Entrando nel locale caldaia, controllò il bruciatore panciuto e
alimentato con combustibili fossili che manteneva calda quella struttura a
tre piani e piena di stanze.
Grazie al fatto che lui stesso aveva duecento anni, conosceva bene
come funzionava. Eppure, mentre si trovava di fronte al colosso di ferro, era
come se non ne avesse mai visto uno prima.
Sotto il suo braccio sentiva il Libro tremare, come se fosse un piccolo
animale spaventato.
- Mi dispiace - disse. - Devi sparire... e lo sai. Causi troppi fottuti
problemi – Quando cominciò a tremare ancora più forte, abbassò lo
sguardo. - Oh andiamo. Un po' di coscienza, per favore –
Il Libro si fermò con un brivido di ciò che sembrava rassegnazione.
Che diavolo sto aspettando?, si chiese Sahvage.
Allungò la mano verso il chiavistello della porta della caldaia…
- Fermati! –
All'inizio, quando immaginò di sentire la voce di Mae, pensò che
fosse la sua coscienza a parlare. Ma poi un raggio rosso lo trafisse
attraverso il bulbo oculare destro.
Quando voltò la testa, il mirino laser gli perforò il cranio. E alla fine
di quel biglietto da visita? Mae era assolutamente immobile, mentre usava
due mani sulla pistola che aveva preso per lei.
- Che diavolo stai facendo? - gli chiese con una voce rotta.
Lui tornò a guardare la caldaia.
- È così che deve andare... –
- Chi lo dice! Questo non ti riguarda, non sono affari tuoi, dannazione

- Sto cercando di salvarti! –
Mae scoprì le zanne, il viso contratto dalla rabbia, il corpo che
vibrava di emozione.
- Non ho bisogno dell'aiuto di un codardo come te -
- Come hai detto? –
- Sei stato scottato dal tuo passato, e mi dispiace per questo, ma da
allora scappi. Niente radici, niente legami. Perché non hai le palle per
vivere la vita. Bene, questo è un tuo fallimento, non mio. E tu non mi
impedirai di percorrere il mio cammino –
- Tu non mi conosci - disse lui freddamente. - Non sai niente di me –
- Sicuro? Non hai potuto nemmeno fare l'amore con me come si deve,
la scorsa note, perché non riesci a gestire nessuna responsabilità, nemmeno
quella inventata nella tua fottuta testa. Non hai il coraggio di essere reale…
ma non ha importanza, non lascerò che i tuoi fallimenti mi rovinino la vita.
Dammi quel dannato Libro –
Sahvage scattò in avanti.
- Solo per essere chiari, non ho fatto sesso con te perché sapevo che
dovevo farlo… - indicò con un dito la caldaia - e sapevo che mi avresti
odiato per questo. L'ultima cosa che una femmina vuole è una prima volta
con qualcuno che disprezza, quindi mi sono trattenuto per te, non per me –
- Beh, non sei un fottuto eroe –
Alzando il Libro, le disse:
- Non sai cosa stai facendo, Mae. Sto solo cercando di fare in modo
che tu... –
- Non voglio più parlare. Dammi il libro. È mio –
- Non è di nessuno –
- L'ho evocato - Lei scosse la testa e abbassò la canna della pistola
puntandogliela al centro del petto. - Ha cercato di trovarmi e tu sei
d'intralcio –
Com'è appropriato, pensò.
Se avesse premuto il grilletto, gli avrebbe sparato dritto al cuore.
- Mae… -
- No! - gridò nel calore del locale caldaia. - Non ho bisogno che tu mi
dica un dannato niente. Non hai nessun diritto di decidere della vita di
un’estranea… soprattutto dato il modo in cui hai gestito la tua. Non sono
affari tuoi! Ci siamo incontrati per errore e per me sei già uno dei miei
rimpianti, non voglio aggiungerti alla mia lista di tragedie! –
Sahvage strinse gli occhi... e si disse che lei aveva ragione. Erano
estranei. La vicinanza e un po' di casini li avevano tenuti insieme in maniera
casuale. Se lei voleva rovinare suo fratello e se stessa perché diavolo gli
importava così tanto?
Con un'imprecazione, questa volta contro se stesso, gettò il Libro.
Quando Mae si mise a correre per prendere quella dannata cosa,
armeggiò con la pistola e premette il grilletto per errore, un proiettile
esplose dalla canna e rimbalzò nella stanza di pietra grezza con una serie di
ping!
Sahvage si chinò e si coprì la testa, preparandosi a essere colpito da
qualche parte...
Uno strillo acuto, come quello di un maiale, segnò la fine del viaggio
in volo libero del proiettile di piombo.
Abbassò le braccia e guardò Mae. Aveva il Libro al petto, e quando si
raddrizzò dalla propria posizione accovacciata, girò il tomo.
Nel bagliore polveroso della lampadina sopra la loro testa, il piccolo
foro rotondo al centro della copertina era come qualsiasi altra ferita nella
carne, ma l'imperfezione non durò a lungo. Come se fosse in grado di
guarire, come se fosse viva, la ferita da proiettile si richiuse gradualmente.
Mae alzò gli occhi, e quando Sahvage incontrò il suo sguardo, il
dolore al petto fu proprio come se fosse stato lui a essere stato colpito.
- Addio, Mae - disse a voce bassa girandole intorno. Sulla soglia della
stanza della caldaia, si guardò alle spalle. - E lo sto dicendo perché io
voglio chiudere. Potrebbe essere uno shock per te, ma anche le altre persone
fanno delle scelte -
CAPITOLO CINQUANTANOVE

Balz era ancora accasciato sul pavimento della stanza dei libri,
quando Xcor entrò a grandi passi. Era accompagnato da un certo numero di
Fratelli, nessuno dei quali vide davvero, e nessuno sembrava felice.
Il capo della Banda dei Bastardi, quello a cui Balz aveva affidato la
sua vita tanto tempo prima, si inginocchiò e prese la sua mano del pugnale.
Quando l'immagine di quella faccia dura, con il labbro leporino e i suoi
occhi familiari, si mosse, Balz si prese a calci nel sedere. Ma accidenti, il
senso di colpa faceva male.
- Ti tireremo fuori di qui e faremo controllare quella gamba –
Dio, si sentiva malissimo, e non solo perché la sua caviglia era in
fiamme.
- Avete trovato Sahvage? –
- V sta rintracciando il suo cellulare –
- Va bene - Merda. Merda. Merda. - Mi dispiace. mi dispiace tanto... –
- Hai fatto del tuo meglio. E non preoccuparti, lo troveremo e
prenderemo il Libro. Questo non cambierà il risultato. Avanti, lascia che ti
aiuti ad alzarti –
Balz continuò a imprecare per un sacco di ragioni mentre cercava di
rialzarsi, e dovette fare affidamento sulle spalle di Xcor per uscire
zoppicando dall'appartamento. In corridoio dovette fermarsi per riposare
mentre i Fratelli fornivano copertura controllando il corridoio.
Per favore, non lasciate che quella bruna si presenti, pensò Balz.
E poi allontanò molto velocemente quel pensiero. L'ultima cosa che
doveva aggiungere a questo spettacolo di merda era una telefonata mentale
a quella puttana.
- Manny è al piano di sotto in attesa - disse Xcor.
- Possiamo usare l'ascensore? Non posso smaterializzarmi –
- Ovviamente –
Ebbe una scorta armata fino a dove si trovavano i pulsanti con le
frecce, e quando arrivarono alle doppie porte, aveva le vertigini per il
dolore. Quando l’ascensore arrivò, si trascinarono nella cabina piena di
specchi. Cioè, tre di loro. Lui, Xcor e Butch. Non c'era abbastanza spazio
per Z e Phury.
- Ci vediamo giù - annunciò uno dei due.
- Capito - disse Butch.
Quando i pannelli si chiusero, qualcosa si mosse nella coda
dell'occhio di Balz. Sussultò, ma vide solo il suo riflesso, l'immagine del
suo viso pallido e segnato dal dolore che si rifletteva avanti e indietro,
all'infinito. E quello di Xcor. E di Butch…
Là.
Eccolo di nuovo, qualcosa che si muoveva in quella serie di riflessi,
un'ombra, che saltava di un livello. E un altro livello. E un altro livello...
avvicinandosi alla realtà.
- Che cos'è? - chiese Xcor.
- Sta venendo per noi... –
Le luci in alto tremolarono. La cabina si fermò di colpo.
Da qualche parte scattò un allarme.
- Chiudete gli occhi - ordinò Balz, anche se non sapeva perché. -
Dovete chiudere gli occhi o lei vi prenderà! Chiudete gli occhi! –
Strinse la presa sul suo leader e afferrò la parte anteriore della fondina
del pugnale di Butch, avvicinando il fratello.
- Non guardare, non aprire gli occhi... –
Un suono, come il sibilo della lingua di un serpente, arrivò a loro, li
circondò, diventando più forte. E attraverso le palpebre, poteva dire che la
luce stava lampeggiando di nuovo. Preso dal panico, tutto ciò che riuscì a
fare fu pregare che gli altri due maschi avessero gli occhi chiusi come lui.
Ma non c'era modo di controllare…
Qualcosa gli sfiorò la caviglia ferita e sembrò sondargli il piede, come
se stesse cercando, e avesse identificato, la sua debolezza. Poi Butch si
mosse contro di lui, come se stesse cercando di sottrarsi a un tocco. Xcor
ringhiò.
Ma nessuno disse niente.
Con un forte rumore, tutti e tre i loro comunicatori si attivarono
contemporaneamente.
- Combattimento! Combattimento, ripeto... –
Il sibilo simile a un serpente si fece più forte e scattò sulla spalla di
Balz, come se l'entità, qualunque cosa fosse, stesse controllando il rumore.
Balz alzò la mano e mise a tacere l'emergenza. Dato che anche le altre
unità tacevano, pensò che gli altri avessero fatto lo stesso.
Sembrava che tutti i combattenti fossero stati attaccati all’improvviso.
Contemporaneamente.
Cazzo .

•••

Andava bene. Lei non aveva bisogno di lui.


Quando Mae si smaterializzò di nuovo a casa sua con il Libro, era
talmente risoluta che si rifiutò assolutamente di pensare a Sahvage.
Riformandosi all'interno del garage, entrò nel corridoio sul retro, attraversò
la cucina e uscì dall'altra parte.
- Ho quello che ci serve - ignorò il modo in cui la sua voce si era
incrinata. - Mi occuperò di tutto –
Entrò in bagno e per un momento trattenne il respiro. Il ghiaccio della
notte prima era per lo più sciolto, nient'altro che una pozza fredda che
circondava il corpo di suo fratello.
- Andrà tutto bene –
Aveva la sensazione di piangere. Non sapeva perché altrimenti le sue
guance sarebbero state bagnate, ma non le importava e quella era la parte
positiva delle ossessioni. Tutto era assolutamente più chiaro. Nient'altro
importava, e questo rendeva tutto molto più facile. Soprattutto quando i tuoi
sentimenti iniziavano a complicarsi.
Si inginocchiò accanto alla vasca, posò il Libro sul tappetino da
bagno e fissò il viso di suo fratello. Poi guardò l'antico tomo. La sua
copertina era davvero orribile, e ogni volta che inspirava, il suo naso si
rivoltava. Ma non aveva scelta.
- Ha funzionato - disse a quella cosa. - Non credevo nell'incantesimo
di evocazione, ma eccoci qui –
Allungò una mano per aprirlo e sentì un'ondata di nausea quando le
sue dita entrarono in contatto con il libro. E poi, quando cercò di sollevare
la copertina, avrebbe potuto giurare di sentire resistenza, come se non
volesse intrusioni. Ma era un oggetto inanimato, giusto?
Quando una delle sue lacrime cadde sulla vecchia pelle, la goccia
venne assorbita. E poi, all'improvviso, il Libro si aprì, la copertina si ribaltò
senza alcun aiuto da parte sua. Quando Mae sussultò per la sorpresa, le
pagine iniziarono a girare di loro volontà, la pergamena scorreva sempre più
veloce, finché all'improvviso il movimento si fermò.
Come se avesse scelto una pagina per lei.
Quando il suo cuore iniziò a battere forte, guardò in basso. E pregò
che qualunque ingrediente fosse necessario per la rianimazione, lo avesse in
casa...
Che cosa... diavolo?
- Oh, no... no, no, no –
C'era un titolo in cima alla pagina, e c'erano molte, molte righe di
inchiostro marrone e nero sotto... c'era persino un disegno, di natura arcaica,
tipo medievale, che illustrava un cadavere che sorgeva da una tomba.
Quindi era la sezione giusta.
Ma non riusciva a comprendere la lingua. In qualunque idioma fosse
scritto l'incantesimo... non era niente che avesse mai visto prima.
- Merda! –
Quando cercò di vedere se c'era una traduzione che poteva leggere da
qualche parte più avanti, le pagine rifiutarono di essere girate, il Libro
divenne un blocco congelato.
Mae iniziò a respirare pesantemente. Poi armeggiò con il telefono. Le
sue mani tremavano mentre componeva il numero.
- Pronto? - disse la voce anziana.
- Tallah, ho il Libro. Hoillibromanonriescoaleggerlo... –
- Santissima, Santissima... ti prego - La voce della donna anziana era
preoccupata. - Non ti capisco. Devi rallentare –
Mae stava ansimando, ma si costrinse a riprendere il controllo.
- Ho il Libro. Sono qui, con Rhoger, a casa mia. Ma non riesco a
capire quello che dice. Puoi venire qui ad aiutarmi? –
- L'incantesimo di evocazione ha funzionato? - La voce di Tallah
scivolò nella meraviglia. - E ovviamente, come sai, sono stata educata in
modo tradizionale per le femmine, quindi parlo fluentemente molte lingue –
- Non ho una macchina per venirti a prendere –
Ci fu un momento di silenzio.
- Tesoro, cosa è successo al... –
- Non è importante. Riesci a smaterializzarti fino a casa? –
- Sì, sì. Carissima, sarò subito lì –
- Grazie. Vieni attraverso il garage, la porta è sbloccata e una delle
persiane diurne sul retro è stata rotta. Non c'è niente dove dovrebbe esserci
la mia macchina, quindi è sicuro –
- Non preoccuparti. Lo risolveremo insieme –
Quando terminarono la chiamata, Mae si afflosciò con sollievo. Ma
non sapeva se Tallah era capace di...
Toc, toc, toc.
La sua testa si voltò di scatto. Si alzò in piedi, scavalcò il Libro e tirò
fuori la pistola, anche se non era sicura di usare quella dannata cosa. Era
riuscita quasi a spararsi al cuore in quel locale della caldaia con Sahvage...
Okay, non voleva pensarci in quel momento. O mai più.
Mio Dio, che cosa era diventata la sua vita?
Toc, toc.
Chi c'è?, pensò sporgendosi dal corridoio per guardare la porta
d'ingresso.
E se era la Confraternita? Se fossero riusciti a rintracciare il telefono,
avrebbero sicuramente saputo dove Sahvage aveva trascorso la giornata. E
se erano venuti lì per il...
- Mae? - le giunse una voce ovattata attraverso la porta. - Mae,
carissima, ci sei? –
- Oh, Gesù, Tallah –
Mentre si lanciava nel soggiorno, pensò che fosse così tipico della
femmina più anziana essere confusa. Aprì la porta con uno strattone e trovò
la femmina proprio sulla veranda, vestita con uno dei suoi caftani, le mani
nodose stringevano una piccola borsa sul petto come se fosse una
mendicante.
- Entra, entra - disse Mae tirando dentro la femmina. - Qui sei al
sicuro –
Tallah inciampò sul bordo della porta e Mae dovette afferrare il suo
fragile corpo prima che cadesse a terra. Non appena si fu calma, Mae tornò
di corsa in bagno, parlando per tutto il tempo.
- Spero che tu possa leggere questo - disse sopra la sua spalla.
Svoltò l'angolo nel gabinetto e si accigliò. Sul tappetino da bagno, il
Libro si era richiuso.
- Oh, andiamo… - mormorò andando a prenderlo.
- Sei così incredibilmente stupida –
Mae si bloccò. Poi si raddrizzò lentamente e si voltò.
La bruna era in piedi sulla porta aperta, il caftano di Tallah troppo
corto alle maniche e sul fondo per coprire il suo corpo spettacolare.
- E posso solo dirti… - il demone la guardò - che sono davvero felice
di togliermi questa robaccia di dosso –
Con un gesto elegante della mano, il caftano scomparve e venne
sostituito da una tuta nera. Gettando i suoi splendidi capelli lucenti sulla
spalla, sorrise con quelle labbra rosso sangue.
- Allora, penso che tu e io siamo tornate a dove abbiamo iniziato ieri
sera - Un dito rosso sangue si alzò. - Beh, a parte che mi devi
quattrocentomila dollari. Perché... perché... hai dovuto scegliere la mia
Himalayan Crocodile? E scommetto che non è stato nemmeno calcolato.
Probabilmente non sapevi nemmeno cosa stavi bruciando, vero. Sei così
stupida, fottuta stronza –
- Io non... capisco –
- Certo che no. Lo giuro, sei come quella frase di Thirty Qualcosa -
Mentre Mae sbatteva le palpebre confusa, la bruna continuò. - Jay Z? Gesù
Cristo, probabilmente ascolti musica folk e sicuramente non fai acquisti da
Bergdorf. Va bene, vuoi sapere che borsa è quella? Le Birkins sono borse
realizzate a mano dall'azienda Hermès. Sono le borse più ambite sul
mercato, e ognuna è realizzata da un singolo artigiano che prende... –
Mae scosse la testa.
- Non riguardo alla borsa –
Il demone sembrò sorpresa che la sua lezione venisse interrotta.
- Sai, questa potrebbe essere una vera opportunità di apprendimento
per te. Tuttavia, non sarai viva ancora per molto –
- Come mai sei in questa casa? –
- Mi hai invitato a entrare, idiota - Sorrise ancora un po'. - E no, il
fatto che tu non sapessi che non era Tallah non conta. Un invito è un invito.
Avresti dovuto stare più attenta... oh, ed ero già al cottage prima che il tuo
ragazzo con il sale andasse in città. Non ha fatto altro che chiudere la porta
con il lupo già nel pollaio. O qualcosa del genere. Non sono mai stata molto
brava con le metafore animali. Mi dispiace –
- Ma... –
- Oh, cazzo. Devo farti un disegno? Hai evocato il Libro e, non
appena l'hai fatto, ho sentito l'incantesimo. Quella dannata cosa è mia, e uno
stronzo me l'ha rubata… ma questa è un'altra storia. Quello schifo di
cottage non era protetto, quindi sono entrata a passo di valzer... e Tallah... –
- Dov'è? - domandò Mae. - Cosa ne hai fatto di lei? –
- Tesoro, lei se n'è andata da tempo. Non aveva più niente con cui
combattere contro di me. È stato come togliere un cerotto bagnato. Il lavoro
di un secondo –
Mae gemette e ondeggiò sui suoi piedi –
- Oh per favore - Il demone alzò gli occhi al cielo e batté i piedi nel
suo tacco a spillo. - Non sono stata così male come coinquilina. Ho persino
cucinato per te e il tuo ragazzo e lo stufato vi è piaciuto. In effetti era
davvero buono. Ci ho messo dentro molto sentimento, davvero –
Mentre la mente di Mae lottava per parlare, voleva lasciarsi andare
alle emozioni, ma sapeva che quella era una condanna a morte. Doveva
pensare. Pensare. Pensare…
Nel silenzio, gli occhi del demone si spostarono sulla vasca. E poi
guardò di nuovo.
- Dio mio! - guardò Mae e rise. - Ovviamente. Mi chiedevo perché
qualcuno così moralista come te volesse il mio Libro, ma avrei dovuto
capire che era per una ragione sentimentale. Chi è? –
Il demone si avvicinò alla vasca e Mae allungò il braccio.
- Non fargli del male! –
Il demone si fermò. Guardò Mae. Guardò di nuovo la vasca.
- Porca puttana! – Poi - È tuo fratello? Quel... quel vergine, il mio
vergine, quello che è scappato, è tuo fratello? –
Mae ebbe le vertigini quando ricordò Rhoger che entrava dalla porta e
crollava tra le sue braccia. Morente... a causa delle sue ferite.
- L'hai ucciso… - sussurrò. - Sei la sua assassina… -
Il demone sussurrò un paio di imprecazioni.
- Accidenti, il destino è davvero un casino a volte, lo è davvero... e
questo spiega perché ti ho riconosciuto nella gabbia in cui era stato lui - Si
passò una mano tra i capelli per la frustrazione. - E sì... anche se potrei
lasciarti usare il mio Libro, sai, perché sono una ragazza davvero gentile,
dovrai passare sul mio cadavere per riportare indietro quel ladro. E
considerando che sono immortale dovrai aspettare per sempre prima che io
muoia –
All’improvviso, l'atteggiamento del demone cambiò.
Erano finite le stronzate di quella conversazione disinvolta.
- Ora dammi il mio fottuto Libro - le gridò.
Mae afferrò il tomo e lo tenne stretto con entrambe le braccia
incrociate sul petto.
- No. Non me lo prenderai –
Gli occhi neri scintillavano.
- Dammi.Il.Mio.Libro. –
Mae scosse lentamente la testa anche quando iniziò a tremare.
- Dovrai portarmelo via. Avanti. Sei molto più forte di me. Sei così
potente. Vieni a prenderlo –
Il bel viso del demone diventò orribile per la rabbia e l'aria intorno a
lei si deformò.
- Non sai con chi cazzo hai a che fare –
- Sì... lo so –
Anche se si stava chiedendo cosa diavolo stesse facendo, Mae allungò
le braccia in basso e porse il Libro al demone.
- Prendilo… -
Il ringhio che vibrò nella tensione tra loro era quello di un predatore,
basso e mortale.
- Tu fottuta... –
- Mae? - disse una voce profonda. La porta del garage si chiuse con
un tonfo dall'altra parte della casa. - Sono qui solo per prendere le mie
pistole - gridò Sahvage. - E poi me ne vado. Non preoccuparti –
Il demone si raddrizzò. E fece un sorriso compiaciuto.
Poi sussurrò:
- Sembra che all'improvviso ho un piccolo vantaggio, non è vero? –
Con una voce più alta che sembrava esattamente quella di Mae, il
demone disse:
- Sono quaggiù. E ho bisogno di te –
Il demone le strizzò l'occhio e Mae cercò di gridare. Cercò di
avvertirlo. Urlò più forte che poteva. Ma sembrava non riuscire a emettere
alcun suono.
Era come se le avessero rubato la voce.
Ovviamente.
CAPITOLO SESSANTA

Era come un incubo.


Quando Mae sentì gli stivali pesanti di Sahvage camminare verso il
bagno, sempre più vicini, cercò disperatamente di avvertirlo. Ma poi lui
entrò dalla porta aperta.
Quando si fermò, le lacrime scesero dagli occhi di Mae.
Mi dispiace così tanto, mimò con la bocca.
- Ciao, Tesoro! - gli disse il demone. - A quanto pare sei a casa –
Prima che Sahvage potesse rispondere, il suo corpo fu sbattuto contro
il muro del corridoio, lo stesso tipo di pressione invisibile della mano che
aveva colpito Mae in quella tana sotterranea lo costrinse a lottare per
respirare.
- Allora… - disse il demone a Mae in tono ragionevole. - Ecco come
andrà. Tu mi darai il Libro e io ti renderò lui. E prima che tu cominci con
un mucchio di richieste per uscirne viva, sì, me ne andrò. Senza offesa, ma
questa casa, proprio come te, non è affatto il mio stile. Francamente, ha
bisogno di un bell’incendio. Abbiamo un accordo? Tu mi dai ciò che è mio,
io ti do ciò che è tuo. Siamo pari –
Sul muro, a sei metri da terra, le labbra di Sahvage si staccarono dai
denti per l'agonia, e le vene del suo collo spiccarono in netto rilievo.
- Oh, e detto tra noi… - fece notare il demone - la sua vita è la tua sigla
di Jeopardy! Quindi, quando finirà, sarà finite anche il suo tempo, e pur
avendo altre opzioni con cui lavorare, lui sarà rotto come una maniglia della
porta. O è manopola? Penso che sia la manopola –
Mae guardò la vasca. Guardò Sahvage.
Quando incontrò i suoi occhi, sapeva cosa avrebbe deciso prima ancora
di essere consapevole di fare una scelta.
Di fronte a una tale fonte di distruzione, Mae riconobbe quanto lei
stessa fosse stata distruttiva. Nella sua disperazione, aveva sacrificato
troppo; nel suo dolore, si era spinta oltre il limite... nel suo rifiuto di
accettare la tragedia, ne aveva causata molta di più a se stessa. Agli altri.
Non era Sahvage il codardo. Era lei.
- Prendi il Libro - disse forte e chiaro. - Prendilo e basta. Tanto per
cominciare non avrei mai dovuto percorrere questa strada –
Quando lanciò il pesante peso, il demone aveva sul viso un'espressione
da mattina di Natale, tutta la rabbia era sparita, nient'altro che gioia. E poi
fu lei a stringere quella vecchia, brutta cosa al suo seno perfetto.
Ci fu un momento in cui i suoi occhi neri si chiusero per il sollievo.
E poi le sue palpebre si aprirono.
- Grazie! - disse con una strana sincerità. - Hai fatto la cosa giusta. E
mi dispiace per tuo fratello. Ma onestamente, faresti meglio a non giocare
con la morte. È l'unica cosa a cui faccio attenzione anche io –
Fuori nel corridoio, il corpo teso di Sahvage fu lentamente riportato a
terra. E poi lui si scrollò come se si stesse liberando delle catene.
- Mae… - disse tendendo le braccia.
Senza preavviso, la sua testa girò sulla spina dorsale con uno schiocco
nauseante… crack! e il suo corpo cadde a terra.
La bruna mosse l’anca in modo impertinente e mosse l’indice in aria.
- Scherzavo –
- Sahvage! - Mae urlò a pieni polmoni.
CAPITOLO SESSANTUNO

O Mio Dio, la notte sta decisamente migliorando, pensò Devina


mentre si spostava delicatamente dalla traiettoria del vampiro femmina.
All'inizio era stata davvero di cattivo umore, ma questa dimostrazione
di tragedia emotiva? Dai.
Era meglio del sesso.
Beh, del sesso che aveva fatto ultimamente, in ogni caso. E lei aveva il
Libro.
- Anche se io e te dobbiamo parlare - mormorò a quella cosa. - Cattivo
libro. Sei un Libro molto, molto cattivo –
Nel corridoio angusto, la vampira femmina stava girando
delicatamente il suo stallone, la testa del maschio ricadde, i suoi occhi
ciechi fissavano il pavimento, il muro… oh, e ora il soffitto.
- Potresti provare con la respirazione bocca a bocca - suggerì Devina -
ma non credo che aiuterà –
La femmina crollò su quel grande petto immobile e cominciò a
piangere. E per un attimo Devina pensò di fare qualche battuta, giusto per
smorzare la tensione. Perché stava diventando tutto un po' intenso.
E poi le apparve evidente.
Nessuno l'avrebbe mai pianta così. A nessuno sarebbe mai importato se
fosse vissuta o morta. Nessuno l'avrebbe mai... amata in quel modo.
Proprio mentre il dolore le attraversava il petto, la femmina si voltò di
scatto.
Con una pistola in mano.
Quando un puntino rosso traballante le scivolò negli occhi, Devina
indietreggiò...
La femmina urlò di rabbia quando premette il grilletto più e più volte,
il rumore della pistola entrava in competizione con quelle urla di dolore.
E Devina dovette dare credito a quella stronza. Era un’incredibile
tiratrice.
I proiettili squarciarono carne e ossa, facendo esplodere pezzi sulle
piastrelle, sul pavimento, persino nella vasca con il fratello morto della
femmina, tutti i suoi lineamenti perfetti venivano distrutti mentre Devina
veniva spinta indietro...
Click. Click. Click.
Devina aprì l'unico occhio che ancora funzionava. La femmina aveva
ancora la pistola puntata davanti a sé e stava premendo compulsivamente il
grilletto, anche se non usciva nulla.
Lanciandosi in avanti, afferrò la femmina per la gola con una mano e
la fece svolazzare lungo il corridoio fino a una piccola patetica cucina.
Quando la vampira inciampò e iniziò a cadere, Devina le diede una spinta e
un tavolo con una scatola di cereali e una ciotola piena di latte fermarono la
corsa. Tutto si frantumò, le sedie vennero rovesciate.
Devina tenne il Libro nell'altra mano quando si avvicinò per tirare su
la femmina per poi lanciarla contro il bancone. Contro gli armadietti.
Contro la cucina.
E a riprova che lei era un'entità superiore, riuscì a fare tutto quel ping-
pong mentre rimarginava le ferite da arma da fuoco.
Quando la femmina si accasciò sul pavimento, tutto era tornato al suo
posto.
Devina la prese per la gola un'ultima volta e lanciò quel corpo che
non opponeva resistenza contro il muro vicino alla porta in quello che
doveva essere il garage.
Tenendo ferma la femmina con un incantesimo, Devina le arruffò i
capelli.
- Bene. È successo. E ora sistemerò i conti. Hai rovinato la mia borsa
col fuoco. Quindi darò fuoco a questa casa schifosa con te, il tuo fidanzato
cadavere e quel tuo fottuto ladro di un fratello morto - Lei si guardò intorno.
E poi sbatté il tacco frustrata. - Dannazione, non ho i marshmallow. Tu hai...
oh, non importa –
Cominciò a camminare in cerchio e si chiese da dove cominciare.
- Sai, ho sempre voluto avere il mio momento Oprah. Eccolo qui!
Ecco una fiamma per te... e una fiamma... e una fiamma –
Tutt'intorno, piccoli lampi gialli e arancioni apparvero sulle cose: lo
schienale del divano e l'angolo del tappeto in soggiorno. L'armadietto sopra
il frigorifero. L'arco dell’ingresso. E ce n'erano anche altre nelle camere da
letto sul retro. Anche giù nel seminterrato.
- Uff! - Si prese una pausa per sventolarsi. - Sono io o fa caldo qui? E
comunque, mi devi ancora almeno duecentomila dollari. È impossibile che
questo tugurio si avvicini al costo della mia borsa -

•••

Contro il muro, Mae stava perdendo conoscenza, almeno fino a


quando la casa non prese fuoco intorno a lei. Quando il fumo e il calore
iniziarono ad addensare l'aria, e la sua pelle formicolava in segno di
avvertimento per le fiamme, un'ondata di adrenalina le rimise in ordine il
cervello.
Ma non c'era niente da fare. Era bloccata. Proprio come Sahvage era
stato tenuto fermo prima...
Mae gemette e chiuse forte gli occhi. Lo aveva ucciso. Non
intenzionalmente, ma le sue azioni avevano creato una situazione che lo
aveva portato alla morte.
Era tutta colpa sua. E non avrebbe mai avuto la possibilità di
scusarsi... o di dirgli che lo amava. Aveva rovinato la vita di lui a causa
della sua ricerca egoistica del potere sulla morte.
Sollevò le palpebre e si concentrò sul demone. La bruna stava
sorridendo mentre il fumo vorticava intorno a lei, e stringeva il Libro che
aveva dato inizio a tutto...
Dalle spirali grigie emerse una figura.
Una figura che non aveva senso.
Sahvage? pensò Mae. Come è possibile?
Ma era lui, anche se forse non era reale. Forse era solo un'invenzione
del suo cervello disperato e morente.
- Beh, il mio lavoro qui è finite - disse il demone. - E per quanto mi
piacerebbe restare qui a guardare il barbecue, ho i miei incantesimi da... –
Con un grido di battaglia che fece tremare la casa, Sahvage, o il suo
miraggio, gettò le sue braccia intorno al demone. Prima che la bruna
potesse reagire, scoprì le zanne e le affondò nella gola di lei.
Mentre il demone urlava, le fiamme, che avevano trovato presa
intorno alla casa, esplosero in un incendio in piena regola, raddoppiando
l'inferno.
Ancora attaccato al suo collo, Sahvage trascinò il demone dove le
fiamme erano più forti, il fuoco bruciava più luminoso. La bruna, nel
frattempo, combatteva e scalciava, artigliando e mordendo la presa su di lei.
Proprio mentre Sahvage scompariva nel fuoco, i suoi occhi si
fissarono su Mae.
- Mi dispiace! - urlò lei. - Ti amo! –
E poi lui se n'era andato.
- No! - gridò Mae. - Sahvage! –
Quando iniziò a piangere, cercò di liberarsi dalla presa. Ma non ci fu
nessun cedimento, nessuna fuga, poiché la casa stava diventando un forno e
ogni respiro che prendeva le bruciava i polmoni.
Stava per morire.
Anche se fossero arrivati i vigili del fuoco umani, sarebbe stato troppo
tardi per lei. Troppo tardi. Troppo tardi…
Mae.
Proprio nel momento in cui stava perdendo conoscenza, sentì il suo
nome. Si sforzò di aprire le palpebre-
- Rhoger? –
Il fuoco era intenso adesso, il crepitio, lo scoppiettio e lo scricchiolio
delle travi e dei muri così assordante che non sapeva se la sua voce poteva
essere sentita. Poi di nuovo, come l'immagine di Sahvage, stava davvero
vedendo suo fratello in quel momento? E non era solo.
Tallah era in piedi accanto a lui.
I due si tenevano per mano, e lo sfarfallio giallo e arancione li
proiettava in una luce stroboscopica che era, in un modo strano, paradisiaca.
Nonostante il calore, erano in qualche modo inalterati, i loro vestiti non
erano bruciati, né i loro capelli in fiamme.
Si limitavano a fissarla, la loro espressione piena di pace.
Andrà tutto bene, disse Rhoger.
Okay, non che volesse discutere con il fantasma di suo fratello
durante i suoi ultimi momenti sulla terra, ma di sicuro non erano d'accordo
sulla definizione di quel termine. Niente andava bene…
La visione dei suoi cari fu infranta, il miraggio spezzato da un
maschio vestito di nero.
Il suo primo pensiero fu che fosse tornata di nuovo la sua fantasia di
Sahvage, ma no, non era lui. Questo era un combattente, però.
Un combattente con il pizzetto e un paio di pugnali neri legati al
petto, con le impugnature abbassate.
- Ci sono io – disse con voce autoritaria.
- No, no, sono in trappola... –
All'improvviso, la presa su di lei scomparve, e mentre si lasciava
cadere in avanti, lui la prese e si voltò.
- Sahvage! - urlò lei sopra il frastuono. - Sahvage è laggiù! –
Il soldato diede un'occhiata al corridoio.
- Nessuno può sopravvivere lì dentro! Devo salvarti! –
Dovevano entrambi urlare per essere ascoltati, e quando lui iniziò a
portarla via, lei lo artigliò per liberarsi. Anche se sapeva che aveva ragione.
Niente poteva sopravvivere in quella fornace e il suo amore era morto
ancora prima di iniziare.
Nemmeno un demone avrebbe potuto sopravvivere laggiù. Questo
doveva essere il motivo per cui il suo corpo non era più imprigionato.
- Sahvage - gemette.
Quando tutte le sue forze l’abbandonarono, il Fratello entrò nel
garage, azionò l'apri porta con un pugno e, nell'istante in cui l'aria fresca
fece irruzione nello spazio di cemento, lei vide gli altri maschi in fila nel
vialetto.
Cercò di concentrarsi nonostante il suo improvviso delirio.
- Ha preso il demone - disse al Fratello con il pizzetto. - Sahvage è
tornato in vita in qualche modo e ha portato il demone tra le fiamme. Mi ha
salvato... ha salvato tutti noi –
Sirene. Sirene rumorose.
Gli umani stavano arrivando.
- Ci prenderemo cura di te - le disse il Fratello. - Resta con me, va
bene? –
Fissando oltre la sua spalla, vide la casa dei suoi genitori che
bruciava, le fiamme spuntavano dietro ogni finestra, il fumo usciva dai
buchi che si erano formati nel tetto.
Distruzione assoluta.
Non era rimasto niente.
Proprio quando venne messa nell’unità medica che aveva già visto,
notò le luci rosse del primo dei camion dei pompieri.
Le doppie porte vennero chiuse, impedendo la vista degli umani
venuti a salvare ciò che non poteva essere salvato.
Mentre il motore del camper rombava e barcollavano in avanti, si rese
conto che c'era un altro maschio seduto di lato su una panca. Una delle sue
caviglie era fasciata e aveva l'intera gamba sollevata su un mucchio di
coperte bianche.
La stava fissando.
- Cosa è successo? - disse mentre il maschio con il pizzetto assicurava
il suo corpo sul tavolo con una serie di cinghie.
- Ho perso il maschio che amo – mormorò, anche se non aveva
parlato con lei. - L'ho perso prima di potergli dire quello che provo –
E quella era stata l'ultima cosa che ricordava.
CAPITOLO SESSANTADUE

A Luchas House, Nate era sdraiato accanto a Elyn sul divano. Il suo
laptop era aperto su di lei… beh, sul suo grembo, per meglio dire… e lei
stava cercando un database di nomi della razza. Dall'altra parte della stanza,
sulla TV montata sopra il caminetto, era in onda la seconda stagione di
Stranger Things.
Quando Elyn chiuse bruscamente il computer, lui sollevò lo sguardo.
- Niente? –
Lei non rispose. Si limitò a fissare il pavimento.
Quando inspirò e sentì l'odore della pioggia fresca, si accigliò e si
mise a sedere.
- Elyn, stai piangendo –
Lei si portò le mani al viso.
- Mi dispiace. Mi dispiace... mi dispiace... –
- Per cosa? Dimmi. Dimmi cosa sta succedendo –
Con un brivido, lei sembrò cercare di riprendersi. E quando lo guardò
di nuovo, i suoi occhi d'argento brillarono in un modo che lo fece ricadere
sullo schienale.
La luce in loro era... scintillante. Come se fossero bacini di luce,
piuttosto che qualcosa di convenzionale attraverso cui la femmina guardava
semplicemente fuori.
- Ti ho mentito - disse con calma. - Non... –
- Su cosa? –
- Non appartengo a questo posto –
- Luchas House è pensata per aiutare le persone come te... –
- No, non è quello che intendevo –
- Caldwell, allora? –
- Questo tempo presente. È stato tutto un errore. Un errore enorme –
Elyn mise da parte il portatile e si alzò. Cominciò a camminare su e
giù e si voltò verso la cucina.
- Siamo soli - le disse. - Puoi parlare liberamente. Shuli e gli altri non
torneranno prima di mezz'ora –
- Mi dispiace, Nate –
Le sue parole furono pronunciate distrattamente, come se non si fosse
accorta che lui era ancora nella stanza. Come se non sapesse esattamente
dove si trovava. - Devo andare - sbottò.
- Andare dove? –
- Fuori a camminare. Non posso restare qui dentro adesso, ho bisogno
di un po' d'aria –
- Verrò con te –
- No, vorrei stare da sola. Non andrò lontano, te lo prometto –
Infilò i piedi negli stivali che le erano stati dati dal personale della
Luchas House, e poi si diresse verso la parte anteriore della casa. Dopo un
momento lui sentì la porta aprirsi e chiudersi silenziosamente.
- Merda! –
Nate si guardò intorno e si chiese se doveva chiamare l'assistente
sociale. Sarebbe dovuta tornare a casa insieme a Shuli e a due potenziali
ospiti. Erano andati a rifornire gli armadietti e il frigorifero.
Ansioso e incerto su cosa diavolo fare, tirò su il suo laptop. Effettuò
l'accesso ed entrò nella funzione di ricerca. Si disse che stava violando la
sua privacy, ma non riuscì a trattenersi. Era successo qualcosa. Qualcosa...
probabilmente era stato lì per tutto il tempo. Lui era solo un sempliciotto,
però, e si preoccupava di...
Il nome che aveva cercato venne fuori subito perché non aveva chiuso
il database.
Sahvage.
Sahvage era il nome che lei aveva cercato.

•••

Al centro di addestramento della Confraternita, Rehvenge uscì


dall'ufficio e si diresse a grandi passi verso la clinica. C'erano molte persone
radunate fuori da una delle sale visita e nessuno stava parlando molto. In
effetti c'erano molti feriti, ogni genere di contusioni, lividi e tagli segnavano
i volti dei Fratelli e degli altri combattenti.
- Gesù ragazzi vi hanno fatto a pezzi - osservò.
Scrutò le loro griglie una per una, e il dolore era così travolgente che,
anche se era un symphath e aveva tendenze sociopatiche, era impossibile
non sprofondare in quella sofferenza.
Beh, e poi c'era il fatto che quella era la sua gente. La sua comunità.
La sua... famiglia.
La porta si aprì e Vishous uscì.
- Intossicazione da fumo. Ma lei riuscirà a farcela. È cosciente e
stiamo cercando di convincerla a restare, ma insiste che vuole andare a casa

- Pensavo che la sua casa fosse bruciata - disse Rhage facendo roteare
la spalla bendata.
- Un’altra. C'è un cottage da qualche parte –
- Cosa è successo a Sahvage? - chiese Rehv.
V accese una sigaretta arrotolata a mano e mentre espirava disse:
- Ha salvato la situazione. Quella femmina lì dentro ha detto che il
fratello in qualche modo è tornato da una tragica ferita al collo, ha afferrato
il demone e l'ha trascinata di nuovo in un inferno. Sono morti insieme
nell’incendio –
- Cazzo! - disse qualcuno. - Immagino che non fosse uno stregone,
dopotutto –
- E il Libro era con loro - concluse V.
- Grazie a Dio! - Butch si fece il segno della croce. - Non dobbiamo
più preoccuparci di nessuno dei due –
Rehv diede un'occhiata alla porta della sala visita.
- Va bene se vado a parlarle? Non la farò agitare o altro –
- Per me va bene - V prese un'altra boccata. - Non ci sono restrizioni
mediche, e comunque, Ehlena è lì in questo momento –
Rehv entrò nella stanza. Nell'istante in cui vide la sua shellan, sentì il
suo corpo rispondere, e la sua femmina gli sorrise dal lavandino dove si
stava lavando le mani.
- Mae, questo è il mio hellren –
Dall'altra parte del letto, la femmina coperta di fuliggine era in
pessime condizioni, la maschera di ossigeno copriva gran parte del suo viso,
ma nessuna delle sue emozioni.
Lui le leggeva fin troppo facilmente. Ed era per questo che aveva
voluto vederla.
La sua sofferenza era così terribile, così profonda... che gli ricordava
la propria.
Dopo aver salutato la sua shellan con un bacio, guardò la paziente.
- Mi dispiace di averti mentito - disse. - Su quello che sapevo –
Sul lettino, la femmina annuì. Tossì un po'. Teneva i suoi occhi
arrossati su di lui, eppure non era arrabbiata. In effetti, non sentiva
nient'altro che il dolore.
- Volevo solo che lo sapessi - disse. - E vorrei poter fare qualcosa –
Ehlena si asciugò le mani.
- Vorrebbe tornare a casa. Forse potresti portarla dove vuole andare?
Ci sono così tanti feriti qui –
La femmina sul letto d'ospedale tirò giù la maschera.
- Cosa è successo a loro? - chiese con voce roca. - I Fratelli… -
Rehv poteva rispondere a quello.
- Sono arrivate le ombre. È stata una lotta epica in città, come se il
demone avesse bisogno di farli rimanere al Commodore. Fortunatamente
non ci sono state vittime. Avrebbero potuto esserci, però, solo che
all'improvviso tutto si è fermato. Il nemico è scomparso –
- Sahvage - disse. - Quando ha attirato il demone nel fuoco. Non
appena lei è stata uccisa, il suo potere è scomparso. Lui ha salvato la
Confraternita –
Rehv annuì e si voltò a guardare la porta.
- Beh, questo spiega tutto –
- Spiega cosa? –
- Perché tutti i guerrieri in questa famiglia sono fuori dalla tua stanza
d'ospedale –
- Mi dispiace, non capisco... –
- Sei la femmina di Sahvage. Quindi onorano la sua memoria
prendendosi cura di te - Rehv abbassò la voce. - Non sei sola come pensi di
essere. Non più –
Ci fu un lungo periodo di silenzio. E poi lei disse:
- Ti sbagli di grosso. Senza di lui sarò sempre sola -
CAPITOLO SESSANTATRE

Due ore dopo, mentre i fari della Mercedes illuminavano la parte


anteriore del cottage di Tallah, Mae sentì aumentare di nuovo l'agonia nel
petto e pensò che il suo dolore fosse come l'incendio che il demone aveva
appiccato in casa, continuava a crescere di intensità.
Chiuse gli occhi e si chiese se sarebbe stata in grado di entrare,
figuriamoci passare il resto della notte lì dentro.
- Sai, potresti invece restare sveglia nella mia casa sul lago - disse il
Reverendo accanto a lei. - È sicura. Ci sono le Elette lì. È un buon posto per
guarire –
Mae tornò a concentrarsi sulla porta d'ingresso.
- No, questa è la mia nuova casa. Potrei anche abituarmici –
Eppure non scese dalla macchina riscaldata. Fissò invece tutte le
finestre buie, i cespugli troppo cresciuti, gli alberi non potati.
- Qui una volta viveva una femmina meravigliosa - osservò con
tristezza.
E ora poteva vedere il percorso per diventare ciò che era stata Tallah,
un’anziana femmina che viveva tra quelle quattro mura, barcollando intorno
ai mobili di grandi dimensioni, sempre decisa a mettere in ordine un po'
meglio le cose.
- Grazie per il passaggio - disse aprendo la portiera.
Il Reverendo le toccò il braccio.
- Puoi sempre chiamare il centro di addestramento. Ci sono delle
alternative lì per te. Ti ho dato il numero –
- Grazie! - rispose, anche se sapeva che non avrebbe mai telefonato.
- Qualunque cosa ti serva, vieni da noi –
Lei annuì, ma solo per convincerlo a smettere di parlare. Onestamente
apprezzava quello che le stava dicendo, ma non poteva pensare a nient'altro
che al doloroso presente e ai quattrocento anni nel futuro quando tutto
questo sarebbe finito. Tutta la sofferenza scomparsa. Quando alla fine
sarebbe morta anche lei.
Mae disse alcune altre cose al maschio, e lui annuì come se avessero
avuto un senso. Poi si avvicinò alla porta d'ingresso del cottage. Quando
aprì, fece un respiro profondo e sentì solo odore di fumo.
Sarebbe stato così per un po', le avevano detto. Le sue narici lo
avevano catturato e avrebbero trattenuto quell'odore acre per diverse notti.
Ma non le importava, però.
Mae fece un cenno da sopra la spalla e chiuse la porta. Poi si appoggiò
contro i pannelli freschi e guardò il retro della credenza che Sahvage aveva
spostato per proteggerli. I ricordi di lui erano affilati come coltelli, eppure
non riusciva a evitarli nemmeno se le facevano a pezzi il cuore.
Per cercare di spostare la sua attenzione altrove, fece un altro
inventario di come stava il suo corpo. Non troppo bene: la sua pelle era
calda, ma più di questo, il suo nucleo interno era surriscaldato, come se la
sua temperatura corporea fosse stata permanentemente incrementata dal
fuoco.
Come se fosse un roast beef di un ristorante, appena sfornato, che
buttava via il calore.
Chissà quanto durerà, pensò svogliatamente.
Guardando tutti i mobili troppo grandi e lussuosi di Tallah, ascoltò
quel silenzio e avrebbe voluto piangere. Ma non aveva più lacrime.
Dio, ogni volta che sbatteva le palpebre, soffriva per un'altra
immagine del bagno a casa dei suoi genitori, il demone davanti a lei, suo
fratello sotto quell'acqua fredda, il collo di Sahvage che si spezzava...
Mae gemette e decise di non sbattere mai più le palpebre. Anche se i
suoi bulbi oculari si sarebbero trasformati in biglie nel suo cranio.
Scese in bagno e fissò la doccia. Riusciva a immaginare Sahvage in
piedi lì davanti, il suo corpo magnifico, i suoi occhi che la fissavano, il suo
profumo.
Con una triste capitolazione nei confronti della realtà, entrò, chiuse la
porta dietro di sé e aprì l'acqua. Mentre si toglieva il camice ospedaliero che
le era stato dato, si guardò il corpo. Molti lividi. Chiazze sulle pelle rossa e
irritata. Graffi.
Sembrava che avesse attraversato una guerra.
Entrò sotto il getto caldo e sibilò quando avvertì il dolore dappertutto
e il sapone pizzicava, così come lo shampoo. Ma quando arrivò al balsamo,
stava meglio.
Non riusciva a sentire l'odore delle cose familiari che usava. Solo
fumo. Come se il fuoco fosse un inseguitore che non rinunciava alla caccia.
Quando fu pulita, o il più pulita possibile, uscì e rabbrividì. Indossò
uno spesso accappatoio di spugna, si avvolse i capelli in un asciugamano e
strofinò via la condensa dallo specchio.
Una sconosciuta ricambiò il suo sguardo.
E tutto quello a cui riusciva a pensare era quello che avrebbe potuto
fare diversamente: qualcosa che non l'avrebbe portata da nessuna parte.
Cibo. Avrebbe dovuto provare a vedere se in giro c'era del cibo.
Ad esempio, nel frigorifero che si trovava ancora contro la porta sul
retro.
Pensò di nuovo a Sahvage, ancora non capiva esattamente cosa fosse
successo in quell'incendio. Come era passato da avere il collo rotto ed
essere morto tra le sue braccia... a essere tornato in vita. Ma in fondo, a chi
stava morendo accadevano cose eroiche e, quando contava davvero, lui era
stato ovviamente determinato a non deluderla.
Scuotendo la testa, aprì la porta e...
Urlò a squarciagola.
CAPITOLO SESSANTAQUATTRO

Ok, così avvenne quella riunione romantica... non esattamente quello


che un maschio poteva sperare.
Ma quando Sahvage si portò entrambe le mani alle orecchie e fece una
smorfia, si chiese come avrebbe potuto rendere le cose più facili a Mae.
- Mi dispiace - disse nel frastuono. - Mi dispiace! –
Mae smise di urlare e iniziò a iperventilare.
- Cosa... cosa… cosa...? –
Indossava un accappatoio, i suoi capelli erano avvolti in un
asciugamano, il viso troppo pallido era segnato da ogni genere di livido e
macchie di fuliggine che avrebbero richiesto parecchie docce per sparire. E
incredibile, era la femmina più bella che lui avesse mai visto. O avrebbe
visto mai.
Ma sembrava che lei stesse per svenire.
Sahvage balzò in avanti e l'afferrò per un braccio.
- Ecco, vieni, sediamoci qui – La trascinò verso il tavolo della cucina e
la fece sedere su una sedia, perché non era sicuro che potesse ricordarsi di
come farlo da sola. - Fai dei respiri lenti e profondi con me. Esatto. Cosa...

- Come mai sei vivo? - disse con voce roca. - Di nuovo? –
Mentre lei ansimava, lui si sedette e si strofinò le cosce.
- Ho bisogno di dirti tutto. E avrei dovuto farlo prima... ma
semplicemente non sapevo come –
- P… p… per favore - lei allungò una mano e gli toccò il viso. - Sei
davvero tu? Com'è possibile... –
- Io non posso morire –
Mae si accigliò. Sbatté le palpebre un paio di volte. Poi portò i palmi
delle mani ai lati del viso di lui.
- Oh, mio Dio, sei uno stregone... –
- Non sono uno stregone –
- Ma... –
- Non lo sono. Mia cugina di primo grado Rahvyn, è lei quella magica.
E duecento anni fa, sono morto cercando di proteggerla durante
quell'attacco alla sua vita. Fui colpito da frecce e steso in una bara. Mi ci
sono voluti decenni per capire cosa fosse successo, per mettere insieme i
pezzi, e non sono sicuro di avere capito tutto. Ma quello che so per certo è
che mi ha riportato indietro usando un incantesimo del Libro, e poi lei è...
scomparsa. Ecco perché non volevo che riportassi indietro Rhoger. Mae, la
mia esistenza è terribile. Tutti pensano di voler essere immortali, ma è un
vero... inferno. Non appartieni a nessun posto, a nessuno, perché l'unica
cosa che esiste per te è il tempo. È un incubo. Amici, famiglia, amanti, se
ne sono andati tutti, tutti quelli che conoscevo una volta... tranne qualcuno
della Confraternita che ho visto ieri sera... non ci sono più. È un lutto senza
fine –
- Sahvage... com'è possibile? - chiese con stupore.
- Il Libro - Lui scosse la testa. - È stato un incantesimo nel Libro. E
Mae, non volevo che tu facessi la stessa cosa a tuo fratello. Tutto quello che
conoscerà è la morte di coloro che amava, inclusa te. Ho dovuto separarmi
da tutti, perché come potevo spiegare la mia situazione? Chi mi avrebbe
creduto? E per quanto riguarda la distruzione del Libro, era la mia unica
opzione per aiutarti. O quantomeno... questo è quello che ho pensato in quel
momento. Avevi ragione, però, e mi dispiace. Non avevo il diritto di privarti
della tua scelta, anche se ero preoccupato per le sue implicazioni –
Mae si strofinò uno degli occhi e poi sussultò come se le facesse male.
- Torniamo al parcheggio... quella prima notte, saresti sopravvissuto
comunque. Non ti ho salvato, vero? –
- Oh, Mae… - disse lui con voce rotta - tu mi hai salvato. In tutti i
modi che contano, mi hai assolutamente salvato. Il mio cuore era morto, e
poi sei arrivata tu... –
- Senza preavviso, la femmina di Sahvage si lanciò su di lui, gli gettò
le braccia al collo e premette le labbra sulle sue.
- Ti amo - disse quando si separarono. - E sono io quella che ha
bisogno di scusarsi. Sono stata così miope riguardo a Rhoger che stavo per
distruggere tutto... –
- Aspetta, cosa hai detto? –
- Stavo distruggendo tutto con la mia ottusa... –
Sahvage scosse la testa.
- Prima di quello –
Vi fu una pausa. E poi gli accarezzò i capelli.
- Ti amo. E non mi interessa cosa succederà. Tutto quello che so è che
questo è il tuo posto. Con me –
Con un brivido, lui chiuse gli occhi. Ripensò a quando era stato sul
prato di quella piccola casa a pensare che gli sarebbe piaciuto poter ripulire
quel posto.
Perché era dove viveva Mae.
Adesso? Era dove avrebbero vissuto entrambi.
Alzando lentamente le palpebre, fissò il viso di Mae. C'erano così tante
cose che non sapeva. Tanti veli che oscuravano il futuro. Rimanevano così
tante cose da chiarire e di cui parlare.
Ma una cosa sapeva di sicuro.
- Ti amo anch'io - disse semplicemente. - Per sempre -
•••

Nella camera da letto al secondo piano del cottage, Mae giaceva nuda
tra lenzuola fresche, la testa su un cuscino soffice, il respiro profondo e
tranquillo. Al piano di sotto, sentì muoversi dei passi pesanti... e poi
iniziarono a salire le scale.
Il corpo che stava salendo era così grande che il vecchio legno
scricchiolava, ma era un suono accogliente.
Perché sapeva chi si sarebbe avvicinato al suo letto.
Sulla porta aperta apparve Sahvage, il suo enorme corpo splendido,
potente, nudo. La luce del lampadario in alto inondava gli affossamenti e i
rilievi dei muscoli, e quando entrò nella stanza, lei vide chiaramente il suo
enorme tatuaggio sul petto.
Solo che ora il dito puntato su di lei sembrava molto diverso.
Le sembrava che fosse la risposta alla domanda... di chi era
innamorato.
Mae sorrise spostandosi dal suo lato del letto e rivelando il suo corpo.
- Oh, Mae - sospirò.
- Vieni da me, maschio mio –
Sahvage si unì a lei, ma quando fece per girarsi su un fianco, lei
scosse la testa.
- Voglio sentirti addosso - sussurrò.
- Sarò gentile –
- So che lo sarai. Non mi farai mai e poi mai del male –
- Mai - iniziò a baciarla. - Amore mio –
Il contatto delle loro labbra era sensuale, e aveva la sensazione che lui
volesse andarci piano. Ma lei aveva troppa fame, e anche lui.
- Mae… -
- Per favore… - pregò. - Voglio solo te dentro di me. Ho aspettato così
a lungo. Aspetto da una vita –
Lui gemette, e poi lei sentì una delle sue mani tra le gambe. Quando
le sfiorò il sesso, lei fece le fusa.
Quando Sahvage iniziò ad accarezzarla, e lei sentì il suo piacere
aumentare, scosse la testa.
- No, voglio stare con te –
- Come desideri –
Proprio mentre era al limite, la mano di lui scomparve e lei sentì la
punta smussata proprio dove voleva.
- Ti amo - sussurrò.
Sahvage lasciò cadere la testa nel suo collo mentre ripeteva le parole
che lei non si sarebbe mai stancata di sentire o di dire. E poi mosse i fianchi
in avanti e ci fu un breve lampo di dolore che fu immediatamente
dimenticato quando una miracolosa sensazione di pienezza la portò sull'orlo
di un orgasmo che le fece venire le lacrime agli occhi.
Quando Mae iniziò a venire, gridò il nome del suo amore,
marchiandogli la schiena con le unghie e inarcando il corpo contro il suo.
E lui fece lo stesso, unendosi a lei nel piacere.
Era così bello, così perfetto, che lei pianse.
Di gioia.
CAPITOLO SESSANTACINQUE

- Nessuna causa nota - disse la voce di un uomo.


- Non hanno capito come è iniziato? –
- No. Ma l'ispettore dei vigili del fuoco sta tornando per un altro
controllo –
- Davvero strano. I testimoni hanno detto che si è acceso come un
fiammifero –
Ci fu una serie di passi. Il rumore della portiera di un'auto che si
chiudeva. Poi un’altra. E finalmente, un paio di veicoli si allontanarono
lungo la strada.
Silenzio. Beh, non esattamente. C'era un gocciolamento continuo
ovunque, acqua che cadeva tutt'intorno, come se piovesse. E poi, dalle altre
case vicine, rumori lontani di persone che facevano la doccia. TV con i
notiziari del primo mattino. Genitori che gridano su per le scale ai bambini
di sbrigarsi, si stava facendo tardi, l'autobus stava arrivando.
Prima dell’alba era venuta in questo stupido quartiere borghese del
cazzo, e l'unica cosa buona era che per lo più era ancora buio.
Il demone Devina si alzò a sedere dal mucchio di cenere. Guardando
se stessa, dovette scuotere la testa. Non era altro che carne e ossa.
Letteralmente…
- Oh, stai zitto - sbottò. - So che ho bisogno di una doccia, e
comunque, è tutta colpa tua –
Fissò il mucchio bruciato accanto a lei.
- Sai, puoi giocare duro per ottenere tutto ciò che vuoi, ma hai
bisogno di me. Senza di me, non sei niente –
Un mucchietto di fuliggine umida le colpì il seno quando la copertina
del Libro si aprì di colpo. E quando le pagine vennero sfogliate con rabbia,
come se a lei importasse…
- Fanculo - disse alzandosi in piedi. - Dovrei lasciarti qui, sai? Stanno
per demolire l'intero posto. Finirai in una discarica, che è meglio di quanto
ti meriti –
Quando una sezione di pagine rimase dritta dal dorso, lei sussultò.
- Mi stai facendo il dito medio? Sul serio? Che maleducato! –
Cercando di farsi strada tra i detriti, scivolò e rimase impigliata a una
trave ancora fumante. Ma alla fine, superò tutto ciò che era pieno di cenere
e arrivò sul prato bruciacchiato. Diede una triste occhiata alla carne cruda
del suo involucro corporeo.
Ci sarebbe voluto un po' per riprendere le forze. E anche il suo
aspetto.
- Pazienza… - fece per andarsene, ma poi si rese conto di quanto
stesse tremando. – Dannazione! –
Aveva bisogno di tornare nella sua tana.
A tal proposito, aprì uno squarcio nel tessuto della realtà, la sua
piccola casa confortevole apparve davanti a lei in modo che tutto ciò che
doveva fare fosse fare un passo per entrare dentro. E lei mise un piede
dall'altro lato.
Un lamentoso piagnucolio le fece voltare la testa ferita e calva verso il
luogo dell'incendio. Il lamento si ripeté.
- Non so perché dovrei preoccuparmi. Mi tratti senza rispetto. Te ne
vai sempre -
Piagnucolio.
Roteò gli occhi e stava per lasciarsi alle spalle il Libro quando ebbe
un ricordo di quella femmina vampira china e piangente sul petto del suo
maschio morto.
Con un’imprecazione, Devina si fece strada tra i danni del fuoco.
- Farai meglio a scusarti - Si chinò e fissò il fottuto pezzo di merda di
Libro. - E per ringraziarmi che ti porto via adesso, mi farai un favore. Ora
me lo devi –
Tirando via quella cosa dal caos, tornò allo strappo nella realtà.
Le era dovuto il suo vero amore.
E questo ingrato mucchio di pergamene glielo avrebbe riportato.
Altrimenti...
CAPITOLO SESSANTASEI

- Io non... non so come è possibile –


Quando Sahvage pronunciò quelle parole, si rese conto di di averle
ripetute in continuazione. Da quando aveva riattaccato il telefono al cottage
e fissato la sua Mae dall'altra parte del tavolo della cucina.
- Non lo so... –
Meno male che la sua femmina stava guidando quel rottame della sua
macchina.
Cercando di riprendersi, le prese la mano libera sul sedile consunto, e
riconsiderò di nuovo con se stesso lo schema dei fatti: il telefono squilla. È
Murhder. Sostiene di voler parlare di qualcosa.
Ed era stato proprio allora che le cose erano andate completamente
fuori dai binari. E, considerando le ultime ventiquattr'ore, voleva dire
davvero qualcosa.
- ... come sia possibile - Guardò Mae. - Grazie a Dio sei qui. Non
potrei farlo senza di te. Sai dove andare? –
Mae lo guardò con un sorriso.
- Sì. E non è molto lontano –
- Okay. Bene –
Sahvage deglutì con la gola serrata e cercò di distrarsi. Lui e Mae
avevano fatto l'amore durante le ore diurne nel loro letto grande e pieno di
cigolii, imparando a conoscere i loro corpi, amandosi, e infine
addormentandosi insieme. Era stato il giorno più bello della sua vita.
Quindi, in un certo senso, ricevere quella telefonata circa trenta
minuti prima era sembrato eccessivo.
- Eccoci qua - disse lei uscendo su una strada di campagna.
Il viottolo li condusse fino al cottage che lui era deciso a trasformare
in una fattoria dipinta di fresco, le persiane restaurate e il comignolo dritto,
e tutto si trovava in un giardino ben curato e rigoglioso.
- È così adorabile - mormorò Mae spegnendo il motore e guardando il
prato da un lato. - Scommetto che è bellissimo quando spuntano le foglie e
l'erba è verde –
Lui annuì. E poi disse:
- Non riesco a sentire le gambe –
Immediatamente la sua femmina si concentrò su di lui.
- Ti aiuterò. Lo faremo insieme –
- Dopo tutti questi anni... - D'impulso si avvicinò per baciarla
brevemente. – Grazie –
Gli accarezzò il viso.
- Lo affronteremo insieme. Qualsiasi cosa accada –
Aprirono le rispettive portiere nello stesso momento, e fu allora che
annusò la Confraternita e gli altri maschi che erano stati coinvolti
nell'infiltrazione la notte prima: i grandi corpi uscirono dal garage, e lui
rimase sorpreso quando gli si avvicinarono con sorrisi e parole di
benvenuto.
Uno dopo l'altro, gli strinsero la mano del pugnale. Gli diedero pacche
sulla schiena.
Lo salutarono. O si presentarono quando era necessario.
Più di uno di loro disse qualcosa del tipo Sono felice che tu sia
tornato. Oppure, avremo davvero bisogno di te. Oppure, ci vediamo alla
magione.
Qualunque cosa fosse.
E poi...
- Merda! - disse. - Wrath... –
In mezzo a tutta la Confraternita e ai combattenti, il grande Re Cieco
era inconfondibile. Non era cambiato letteralmente nulla in lui, tranne il
cane al suo fianco. Era ancora alto come una quercia, ancora con i capelli
neri che cadevano dall’attaccatura a V, ancora con quel viso crudele e
aristocratico.
- Fratello mio - mormorò Wrath avvicinandosi a lui. - È bello vederti
sano e salvo. Ieri sera hai reso un ottimo servizio alla razza –
Sahvage deglutì.
Era tornato? Si stava riunendo a loro?
- Io... non so cosa dire –
- Bene. Ci sono comunque troppi idioti con delle opinioni in questo
gruppo. E sì, se vuoi tornare nella Confraternita, saremo felici di riaverti
con noi –
Sahvage si guardò intorno e vide tutti i volti che annuivano. E con
Mae alle sue spalle era possibile... che il maschio che non poteva morire
potesse avere un futuro che non temeva più?
E poi non sentì più niente.
Una figura minuta apparve sulla soglia del garage.
Tutti smisero di fare qualunque cosa stessero facendo. Anche il tempo
sembrò essersi fermato.
- Mae? - disse allungando la mano alla cieca. - Mae, ho bisogno di
te... –
Subito avvertì il braccio della sua femmina intorno alla vita per
riportarlo in l'equilibrio.
- Sono qui, Sahvage. Cosa c'è che non va? Ti senti male… oh… -
La folla si divise quando la piccola femmina si fece avanti, e Sahvage
era vagamente consapevole che c'era un maschio dietro di lei. Era giovane,
però. Appena uscito dalla transizione.
Niente che potesse farle del male.
Dio... sembrava diversa. Non più i capelli neri, non più gli occhi scuri.
Lei era color argento adesso. Ora... brillava.
- Rahvyn - si sentì dire.
Con un grido strozzato, sua cugina perduta da tempo si lanciò
attraverso la distanza che li separava.
- Mi dispiace, Sahvage! Mi dispiace tanto! –
Lei scoppiò in lacrime e continuò a parlare nell'Antico Idioma, lui la
prese e la sollevò.
Mentre Mae sosteneva lui.
Quando fu sicuro che Rahvyn fosse davvero, sì, davvero viva, la
rimise a terra e un freddo brivido di tristezza lo attraversò. I suoi capelli
erano così diversi… un grigio così chiaro da essere bianco, e sì, anche i suoi
occhi erano d'argento adesso...
Nella sua mente, tornò in quella camera da letto. Il sangue. La
violenza.
Sahvage le toccò il viso. Anche se in apparenza era ancora giovane,
sembrava invecchiata di centomila anni, e lui odiava tutto questo.
Mentre i discorsi fiorivano tra la Confraternita, come se i combattenti
stessero cercando di dare loro un po’ di privacy, Sahvage si schiarì la gola.
Prima che potesse chiedere, lei disse:
- Sono viva, sì –
Abbastanza vero, ma lui sapeva più di tutti che quel termine era molto
relativo, e del tutto estraneo alla respirazione e al battito cardiaco.
Ne valeva la pena?, voleva chiedere. Il potere che cercavi, ne è valsa
la pena?
Invece, passò all'inglese e disse:
- Dove sei stata? Ti ho cercato per tutto il Vecchio Continente per due
secoli. Ho attraversato il mondo per cercarti –
- Io non ero qui –
- Sì, lo so, quando sei arrivata nel Nuovo Mondo? –
Rahvyn tornò all’Antico Idioma e abbassò la voce in modo che solo
lui potesse sentirla.
- Sono stata nel tempo, caro cugino, non in un luogo. Ho viaggiato
nelle notti e nei giorni per incontrarti qui, in questo momento, in questo
luogo. Mio amato cugino, mio protettore, ti avevo detto che il tuo lavoro
era finito. Dovevo solo trovarti per farti sapere che tutto andava bene –
Sahvage sbatté le palpebre e si rese conto che la bocca di lei non si
muoveva. In qualche modo aveva messo quel pensiero nella sua mente.
Ma non va tutto bene, pensò lui con un brivido.
- Sei rinata - le disse con voce strozzata.
E pensò alle guardie senza testa. A Zxysis. A...
- Sì - disse lei.
Ad alta voce? Forse. Non ne era sicuro.
- Vuoi presentarci? - suggerì Mae.
Come se lui e Rahvyn fossero stati lì, senza parlare ad alta voce, per
un po'.
Sahvage attirò la sua femmina verso sua cugina e si chiese se doveva
proteggere Mae dalla femmina che aveva giurato di difendere. Solo che era
pazzesco...
Giusto?
Cercò di guardare attraverso gli occhi di Rahvyn e nella sua anima,
ma non era mai stato uno stregone. La magia era sempre stata in lei, e solo
in lei.
- Questa è la mia Mae - annunciò Sahvage. - Mae, lei è la mia prima
cugina, Rahvyn. L’ho cercata per molto, molto tempo –
Si sentì un po' meglio quando Rahvyn sorrise timidamente e fece un
profondo inchino; era come se una parte di lei fosse rimasta quella che lui
aveva conosciuto.
- Piacere di conoscerti - disse. - È un onore per me –
Mae sorrise e iniziarono a chiacchierare, come se fosse un normale
primo incontro tra parenti acquisiti, e Sahvage si disse di non preoccuparsi.
Aveva bisogno di concentrarsi sul miracolo, non preoccuparsi di cosa
significasse. O cosa sarebbe successo da ora in avanti.
Eppure... per quanto fosse felice di vedere la sua parente di sangue, si
sentiva spaventato dalla femmina.
Fanculo, però. Il suo sistema nervoso era appena stato scosso, e
perché non avrebbe dovuto esserlo? Aveva già avuto abbastanza guai nella
sua vita immortale, e ora che aveva finalmente trovato la sua femmina non
voleva più correre rischi.
Guardò i suoi fratelli e poi la sua amata, e decise... beh, forse
l'universo non era così ingiusto come aveva pensato.

•••

In un angolo del garage, in disparte dalla folla di combattenti e


femmine che si stavano radunando sul vialetto, Lassiter si accigliò. E si
accigliò ancora.
Mentre guardava le due femmine abbracciarsi, e Sahvage, il fratello
scomparso, sembrava preoccupato di essere sul punto di svegliarsi da un
sogno molto bello, Lassiter scosse la testa e cercò di riconsiderare l'ultima
settimana e mezza.
Il problema era che la bobina del film continuava a mantenere la sua
versione finale, nessuna delle scene si era alterata, la colonna sonora delle
conversazioni e dei pensieri interiori era rimasta la stessa, la sceneggiatura
evidentemente non era stata soggetta ad alterazioni.
- Quale cazzo è il tuo problema, bastoncino luminoso - disse una voce
secca.
Grande.
Vishous.
Esattamente il fratello che non voleva vicino a lui in quel momento.
Davvero, perché portare un fiammifero a una festa del gas?
- Hai l’espressione di uno a cui qualcuno ha rotto tutti i telecomandi
in casa - Si udì lo shcht di un accendino. E poi il profumo del tabacco turco.
- Dai, angelo, questo non è da te e non posso credere di essere io a infilarmi
nelle tue stranezze –
- Non l'ho vista - mormorò Lassiter fissando la femmina con i lunghi
capelli argentati e gli strani occhi argentati.
- Eh? –
- In tutte le visioni su tutto questo... non ho mai visto lei - Lassiter si
concentrò sul fratello. - Non capisco. Ho visto tutto... il demone, il Libro,
Sahvage, Balthazar, Rehvenge... tutto. Anche fino a questa scena qui, anche
se non riuscivo a capire perché si sarebbe svolta qui e non alla villa. Ma non
ho mai visto lei –
Tornò a guardare attraverso la folla di corpi familiari, persone che gli
bloccavano la visuale e poi la rivelavano quando si facevano da parte. Un
giovane maschio in particolare sembrava stravedere per lei, le aveva portato
un bicchiere di latte dall'interno della casa, ma lei sembrava sospesa e
scollegata in mezzo a tutti loro.
Eterea.
Bellissima –
Gli occhi di lei si spostarono come se stessero cercando qualcosa su
cui atterrare, come se stesse iniziando a sentirsi sopraffatta e volesse
scappare…
Guarda me, pensò. Voglio che tu veda me.
Lo sguardo di lei vagò oltre lui. E poi immediatamente tornò indietro.
Quando i loro occhi si incontrarono, un luccichio di consapevolezza,
di calore... di scopo... attraversò l'intero corpo di Lassiter.
- Beh - disse V - tutto quello che posso dirti è che non ho mai visto
niente che fosse destinato a me… -
Lassiter si voltò a guardare il fratello.
- Eh? Cosa? –
- Le mie visioni. Hanno sempre e solo riguardato i destini degli altri,
mai il mio - Il fratello si strinse nelle spalle e iniziò ad allontanarsi. - Quindi
buona fortuna, angelo. O dovrei dire, buona fortuna con lei… –
Con uno sguardo d'intesa, il fratello si allontanò.
Lasciando Lassiter con la strana sensazione che il Dono della Luce
non fosse affatto un oggetto... e che lui e questa femmina dai capelli
d'argento fossero appena all’inizio.
Note

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