Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
SEDUZIONE
AL CIOCCOLATO
Traduzione di Sara Caraffini
OBLADÌ OBLADÀ
ISBN 88-8154-229-3
I colpi sulla porta d'ingresso della mia casetta erano inconfondibili. Lei.
Riuscivo a distinguere la figura sottile di Caroline DeSantos dietro il
pannello di vetro smerigliato dell'uscio. Aveva cominciato suonando il
campanello, una, due, tre volte, per poi mettersi a scuotere rumorosamente
il pomolo con una mano e a picchiare con il batacchio d'ottone con l'altra.
«Eloise? Apri. Dico sul serio. La tua bestia l'ha fatto di nuovo. Sto per
chiamare l'accalappiacani. Mi senti? Ho qui il cellulare. Sto digitando il
numero. So che mi senti, Eloise».
Aveva davvero in mano un oggetto che somigliava a un telefonino.
Anche Jethro la sentì. Sollevò il muso scuro, punteggiato di deliziose
macchioline bianche che sembravano lentiggini al contrario, drizzò le
orecchie e, riconoscendo la voce del nemico, sgattaiolò sotto il tavolo di
pino del soggiorno.
Mi inginocchiai per grattargli il muso, in segno di solidarietà. «È vero,
Jethro? Hai davvero fatto di nuovo pipì sulle camelie?».
Lui chinò il capo. È solo un cane randagio ma non mi racconta quasi mai
bugie, il che è più di quanto io possa dire di qualsiasi altro maschio al quale
sono stata legata.
Gli diedi qualche colpetto sulla testa come premio per la sua onestà.
«Bravo il mio cagnolino. Fai pure. Innaffia pure tutto, là fuori. Lascia un
ricordino davanti alla porta di casa e ti comprerò l'osso di prosciutto più
grande di Savannah».
I colpi e gli scossoni alla porta continuarono. «Eloise. So che sei in casa.
Ho visto il tuo pick–up parcheggiato in strada. Ho chiamato Tal. Sta
telefonando al suo avvocato».
«Spiona», borbottai, mettendo da parte lo scatolone di cianfrusaglie che
stavo esaminando.
Raggiunsi con passo felpato la porta d'ingresso. Le consunte assi di legno
di pino erano fresche sotto i miei piedi nudi. Caroline stava scuotendo la
porta così energicamente che temetti potesse rompere il pannello di vetro
smerigliato.
«Stronza», borbottai.
Jethro abbaiò per esprimere la sua approvazione. Mi voltai e vidi che
stava scodinzolando, perfettamente d'accordo con me.
«Sgualdrina». Altro scodinzolare. Ci stavamo facendo forza in vista
dell'attacco imminente. Jethro strisciò fuori da sotto il tavolo e si
accovacciò proprio dietro di me. Trovai stranamente rassicurante sentire il
suo fiato tiepido sulle caviglie.
Spalancai la porta. «Attacca, Jethro», dissi ad alta voce. «Mordi la
signora cattiva».
Caroline indietreggiò di mezzo passo. «Ti ho sentito», strillò. «Se quel
bastardo rimette una zampa nel mio giardino io...».
«Tu cosa?», chiesi. «Cosa intendi fare? Avvelenarlo? Sparargli?
Investirlo con la tua auto sportiva? Ti piacerebbe, vero, Caroline? Ti
piacerebbe investire un povero cagnolino indifeso».
Mi misi le mani sui fianchi e feci una buona imitazione di uno sguardo di
disprezzo dall'alto verso il basso. Era fisicamente impossibile, naturalmente.
Caroline DeSantos è alta almeno una decina di centimetri più di me, e
questo senza i tacchi a spillo di dieci centimetri che considera il suo
marchio per quanto riguarda l'abbigliamento.
Lei arrossì. «Ti sto avvisando. Tutto qui. Per l'ultima volta. In questa città
esiste una legge che impone di tenere i cani al guinzaglio, come ben sai. Se
davvero volessi bene a quel bastardino non lo lasceresti in continuazione
scorrazzare in giro libero».
Era davvero bella, Caroline. Persino nella spaventosa calura estiva di
Savannah era fresca e profumata come una gardenia appena colta. Aveva i
lucidi capelli scuri raccolti in uno chignon e la sua pelle olivastra era
perfetta. Indossava calzoni alla pescatora di lino verde lime e una camicetta
di lino dello stesso colore, con lo scollo a barchetta che lasciava vedere solo
un elegante accenno di décolleté. Avrei potuto benissimo sopravvivere
anche senza vederla con quell'aspetto, quel giorno.
«Oh», dissi. «Jethro fa il birichino. È questo che ti infastidisce del mio
povero cuccioletto? Eppure sei un'esperta in questo campo, vero, Caroline?
Credo che tu e mio marito abbiate fatto i birichini per almeno sei mesi,
prima che io aprissi finalmente gli occhi e lo buttassi fuori a calci».
Avevo buttato fuori Tal ma non era andato molto lontano. Il giudice che
si era occupato della nostra causa di divorzio era un vecchio amico di suo
padre, Big Tal. Aveva assegnato a Tal la nostra casa del 1858, come parte
degli accordi, e solo dopo che il mio avvocato aveva sollevato il più
dannato putiferio della storia mi aveva gettato un osso – in pratica –
concedendomi la stretta ex rimessa per le carrozze a due piani dietro la casa.
Tal aveva sistemato Caroline nella casa grande non appena le carte erano
state firmate, e da allora lei e io avevamo cominciato una gara di ripicche
tra vicine.
Il mio avvocato, che si dà il caso sia anche mio zio James, aveva perso la
voce nello sforzo di convincermi a vendere e trasferirmi altrove, ma ha
troppo buon senso per cercare di far cambiare idea a una Foley. A Charlton
Street avrei piantato le tende – per vivere e morire a Dixie, come dice la
canzone. Traslocare? Io? Neanche morta.
Caroline si scostò una ciocca di capelli dal viso. Mi squadrò da capo a
piedi e fece un sorrisetto arrogante.
Era giovedì. Mi ero alzata all'alba per percorrere le vie di Savannah
ancora immerse nel buio cercando di mettere le mani sui rifiuti dei pezzi
grossi della città prima dei netturbini. Avevo un aspetto spaventoso. La mia
divisa per frugare tra il ciarpame, fuseaux neri e camicia da lavoro di denim
blu, era incrostata di sudiciume perché avevo rovistato nei bidoni. Festoni
di ragnatele ornavano i miei corti capelli rossi, avevo le unghie spezzate e le
nocche costellate di pezzetti di vernice scrostata.
Il bottino della giornata era stato stranamente scarso. I due grossi
scatoloni di vecchi libri su cui mi ero gettata dietro una villa di arenaria in
stile italiano in Barnard Street, contenevano soprattutto volumi di inni
metodisti degli anni Trenta, ammuffiti e senza valore. Nello scatolone di
graziosi piatti prodotti in Giappone durante l'occupazione americana
recuperato da un ammasso di pattume davanti a una casa di Washington
Avenue non avevo trovato un solo pezzo che non fosse sbeccato, incrinato o
rotto. L'unica scoperta che sembrasse seppur lontanamente promettente era
una vecchia scatola di biscotti di latta piena di bottoni, comprata per due
dollari a un mercatino di oggetti usati che mi ero quasi lasciata sfuggire
mentre tornavo a casa.
Stavo esaminando proprio i bottoni quando Caroline aveva sferrato
l'attacco alla mia porta d'ingresso.
Alle mie spalle udii il rumore sommesso di un peto. Lei fissò con
disprezzo il mio cane, dilatò le narici del suo lungo naso latino e arricciò il
carnoso labbro superiore. «Mio Dio», esclamò. «Cos'è questo tanfo
orrendo?».
Annusai e girai la testa verso Jethro, che stava sgattaiolando nella
direzione opposta.
«Non è colpa sua», dissi, prendendo le difese del mio cucciolo. Indicai la
balaustra di ferro battuto nell'ingresso su cui avevo sistemato il logoro
tappeto all'uncinetto che avevo cercato di arieggiare prima di portarlo
dentro casa. «Probabilmente è il tappeto. L'ho preso in una vecchia villetta
sulla Huntingdon dove si spacciava crack. Temo che sia pieno di pulci».
Caroline fece un balzo all'indietro come se il tappeto fosse una puzzola
viva.
«Non riesco a credere al sudicio pattume che porti qua dentro», cominciò
a dire. «È spaventoso. E non c'è da stupirsi che io debba far profumare la
villa due volte al mese. Ho detto a Tal: "Weezie sta infestando la nostra
casa"».
Dietro di me, nel minuscolo soggiorno, il telefono cominciò a squillare.
«Ora devo andare», dissi. «Ho un'attività di cui occuparmi». Le sbattei la
porta in faccia e misi il chiavistello.
Jethro mi leccò l'alluce, colmo di gratitudine. «Ro–Ro», dissi
dolcemente, non volendo ferire la sua sensibilità, «non è stata una bella cosa
da fare. Niente più panini alla mortadella per te, amico mio».
Risposi al telefono al quarto squillo.
«Weezie, non ci crederai mai».
Era BeBe Loudermilk, la mia migliore amica, la cui madre, stremata
dopo aver avuto otto figli in dieci anni, per la nona e ultima rampolla si era
accontentata del nome BeBe, pronunciato bebè, alla francese.
Essere nata per ultima faceva sì che fosse sempre di fretta, nel perenne
tentativo di recuperare lo svantaggio. Era un ciclone umano, che
considerava una perdita di tempo iniziare una conversazione con inutili
convenevoli quali "Ciao" o "Come stai?".
«Prova a indovinare», mi sollecitò.
«Stai per sposarti di nuovo?». Aveva scaricato il marito numero tre solo
pochi mesi prima ma, come ho appena detto, BeBe non perde tempo. E non
le è mai piaciuto stare senza un uomo.
«È una cosa seria, Weezie», replicò. «Indovina chi è morto?».
«Richard?», chiesi speranzosa. Richard era il suo secondo marito, quello
con la malaugurata inclinazione per il sesso telefonico. BeBe stava ancora
litigando con la compagnia telefonica per le bollette che lui aveva
accumulato chiamando l'1–900–HOT–LINE.
«Sii seria», mi chiese. «Stamattina mi ha telefonato Emery Cooper. Lo
conosci, vero, tesoro? È uno dei Cooper della Cooper–Hale, sai, l'agenzia di
pompe funebri. Mi tormenta da settimane perché vada a cena con lui, ma gli
ho risposto che non esco mai con un uomo finché non è divorziato da
almeno un anno. Comunque, Emery è carino, però ha dei figli. Sai come
sono fatta. Inoltre non mi piace l'idea di avere addosso le mani di uno che
lavora con i morti. Lo trovi terribile da parte mia?». Non perse tempo ad
aspettare una risposta. «Comunque, Weezie, durante la conversazione
Emery ha detto per caso che Ann Ruby Mullinax è morta la notte scorsa.
Nel sonno. Aveva novantasette anni, lo sapevi? E viveva ancora nella stessa
casa in cui era nata. Naturalmente la Cooper–Hale si occuperà dei funerali».
Jethro aveva ricominciato a leccarmi gli alluci. Voleva uscire ma
preferivo non correre il rischio che facesse pipì su qualche altra camelia
prima che Caroline si fosse calmata. Alzai la spalla per premermi il telefono
contro l'orecchio.
«Molto interessante, BeBe», dissi. «Senti, potresti richiamarmi? Devo
portare a spasso Jethro con urgenza».
«Weezie!», esclamò lei. «Non capisci?».
«Cosa? Che Emery Cooper vuole portarti a letto? Puzza di formaldeide,
secondo te?».
«No. Ha un profumo magnifico, il profumo dei soldi. Ma tesoro, sono
preoccupata per te. Non hai capito cosa ti ho appena detto? Ann Ruby
Mullinax. La casa in cui ha vissuto ed è morta è Beaulieu, tesoro. Ora cosa
mi dici?».
Avvertii un lieve formicolio sul collo. Beaulieu. Mi guardai gli
avambracci. Pelle d'oca.
«Hai detto che aveva novantasette anni», dissi, con voce tremante. «Ha
lasciato dei parenti?».
«Neanche uno», annunciò BeBe in tono trionfante. «Ed Emery dice che
la casa è piena zeppa di roba antica. Ora, chi è l'amica migliore del mondo e
di tutti i tempi?».
«Tu», le assicurai. «Ti richiamo più tardi».
2
Quando finimmo di caricare tutto sul mio pick–up erano già le undici e
mezzo. Avrei dovuto correre a casa dei miei genitori per fare una rapida
doccia e cambiarmi prima di raggiungere Beaulieu.
Sfrecciai attraverso la porta della cucina e oltrepassai la mamma, che era
in piedi accanto al lavandino a pelare i pomodori per il pranzo di papà.
Durante l'estate, a mezzogiorno mio padre mangia sempre le stesse cose: un
sandwich con pomodori, pane bianco e maionese, patatine e una Diet Pepsi.
Papà stava facendo il suo sonnellino di metà mattina, lo sapevo. Da
quando è andato in pensione dal suo impiego alle poste, ha una routine
regolare: colazione, giornale, buoni sconto da ritagliare, sonnellino, pranzo,
poi lavoretti in giardino, sonnellino, programmi a quiz in TV, cena.
«Ti spiace se faccio una doccia?», chiesi, senza aspettare una risposta.
«Weezie?», domandò la mamma, alzando gli occhi. «Cosa stai
combinando?».
«Vado di fretta», risposi, afferrando una manciata di patatine mentre
passavo.
Avevo i capelli ancora umidi quando rientrai in cucina, con indosso il
mio abito giallo alla Zelda Fitzgerald.
«Vai a una festa in maschera a luglio?».
«Nossignora», ribattei. «Sto andando a Beaulieu. Al servizio funebre
della signorina Ann Ruby Mullinax».
Non appena lo dissi, capii di aver commesso un errore.
«Jean Eloise Foley, non osare», mi intimò la mamma, posando sul tavolo
con un rumore sordo il suo bicchiere di tè freddo. Le sue sottili narici
venate di blu si dilatarono per quell'oltraggio. «È la cosa più sacrilega che
io abbia mai sentito. Non intendo permettertelo, hai capito?».
Quando beve un whisky annacquato in modo da sembrare tè freddo, cosa
che di solito fa tutto l'anno dall'una alle quattro del pomeriggio, giudica
qualsiasi cosa oltraggiosa o sacrilega.
«Il giornale dice che familiari e amici verranno accolti a Beaulieu per il
servizio funebre a partire dall'una di oggi», sottolineai. «La defunta non
lascia nessun familiare. Chi può dire che io non sono un'amica?».
«Non lo sei», dichiarò lei. «Noi non conosciamo nessuno di loro. Le
persone come i Mullinax non conoscono persone come i Foley». Si piegò
verso di me, annusò il mio vestito e fece una smorfia. «La gente come i
Mullinax non conosce gente che trova i propri vestiti frugando nella
spazzatura altrui».
Passai la mano sul corpetto del mio abito, che avevo impiegato ore a
lavare a mano, rammendare e stirare. All'improvviso non mi sentii come
Zelda. Mi sentii una perfetta nullità. La mamma ha un vero talento per
questo.
«Questo vestito ha ancora l'etichetta originale di Hattie Carnegie»,
spiegai quietamente. «Se decidessi di venderlo potrei ottenere almeno
duecento dollari da uno dei miei contatti di New York che vendono vintage.
Forse di più, se lo mettessi all'asta su eBay».
«Non puoi andare a casa di quella donna», insistette la mamma.
«È morta. Non le dispiacerà».
Lei sorseggiò il suo bourbon travestito da tè. «È disdicevole», disse. «E
se per caso uno degli Evans fosse là? I genitori di Tal frequentano
quell'ambiente. E se uno di loro ti vedesse?».
Mi costrinsi a sorridere e mi curvai in una finta riverenza. «Dirò "Salve,
Genevieve. Salve, Big Tal. Che piacere rivedervi. Sono venuta solo per
scoprire come vive l'altra metà del mondo, ora che vostro figlio mi ha
lasciato e mi ha portato via quasi tutto ciò che possiedo. Vi prego,
salutatemi Little Tal e ditegli che spero che lui e la sua cara Caroline
marciscano all'inferno"».
La mamma si alzò di scatto, raggiunse il frigorifero, prese un contenitore
di alluminio e fece cadere qualche cubetto di ghiaccio nell'alto bicchiere
pronto sul bancone della cucina.
«Non riesco ancora a credere che tu sia finita così», disse in tono
accusatorio. «Tal era perfetto per te. Avevi una vita perfetta». Il suo quasi
inesistente labbro superiore tremò, mentre la sottilissima peluria si
increspava come un campo di grano in miniatura. «Guardati ora. Vivi in un
garage. Senza lavoro, senza marito, senza prospettive. Che genere di vita è
mai questa?».
Papà entrò in cucina mentre lei si stava lanciando nella sua tiritera sul
"senza prospettive". Aveva piegato le pagine dei programmi TV in un
quadrato perfetto, i suoi progetti pomeridiani come spettatore già delineati
con cura. Abbassò lo sguardo sul drink della mamma posato sul piano di
lavoro, si accigliò e mi fissò.
«Se solo tu trovassi un lavoro e poi ti licenziassi, potrei dire alla gente
che tipo di occupazione hai lasciato», dichiarò, ridacchiando come suo
solito quando mi faceva quella battuta. Allungò una mano verso la tasca
posteriore dei pantaloni, prese il portafoglio di pelle nera e ne sfilò due
biglietti da dieci dollari. «Tieni», disse, strizzandomi l'occhio. «Per aiutarti
a tirare avanti».
Respinsi i soldi. «Sono a posto, papà. Davvero».
Lui guardò il mio abito, mi prese la mano e mi ripiegò le dita sopra le
banconote. «Comprati qualcosa di carino. Un vestito nuovo».
Come se venti dollari potessero bastare. Papà crede ancora che una
Coca–Cola costi dieci centesimi. Gli infilai le banconote nel taschino della
camicia a maniche corte. «Tieni i tuoi soldi», dissi. Sii dolce, Weezie,
pensai. Anche se questo ti uccide. «Sai cosa ti dico, papà? Gioca i miei
numeri al lotto. Questa settimana il montepremi è di undici milioni di
dollari. Se vinci puoi darmene la metà».
Cominciava a seccarsi, come faceva quando mostravo di essere troppo
cresciuta per il primo reggiseno da ragazzina e il telefono rosa – due oggetti
che si trovavano ancora nella mia vecchia stanza, sul retro della casa.
«Tienili solo finché non trovi un lavoro e smetti di abitare in quel
garage», replicò lui, rimettendomi i soldi in mano.
«Lavoro in proprio, non sono disoccupata. E abito in una ex rimessa per
le carrozze, non in un garage», precisai in tono teso. «La mia ex rimessa per
le carrozze è un edificio di valore storico situato nella strada più bella del
distretto storico».
«Per l'amor del cielo! È un garage dietro la villa in cui tuo marito vive
con la sua fidanzata», ribatté papà.
«Ex marito», specificò la mamma, servizievole come sempre. «Immagino
che dovremmo ringraziare il cielo che lei abbia un tetto sopra la testa, Joe.
Se non fosse per tuo fratello James, si troverebbe in mezzo a una strada.
Oppure sarebbe tornata a stare da noi».
Sii dolce, Weezie, pensai, mordendomi il labbro. Ma sapevo che avrei
preferito abitare dentro un cassonetto dell'immondizia in un vicolo
dell'inferno piuttosto che tornare in quel santuario rosa da piccola
principessa a casa dei miei.
Dal loro punto di vista ero un disastro, lo sapevo. Avevo superato la
trentina, ero fresca di divorzio, non avevo denaro né uno scopo preciso nella
vita né competenze da poter sfruttare. Lasciare l'università della città per
sposare Talmadge Evans III era sembrata una buona idea quando l'avevo
fatto, dieci anni prima. L'inchiostro sul suo diploma di laurea in architettura
del Georgia Institute of Technology si era a malapena asciugato ed eravamo
stanchi di fare sesso sul sedile posteriore della Lincoln Continental di sua
madre.
Genevieve Evans aveva sempre guidato delle Lincoln mentre il padre di
Tal, Big Tal, preferiva le Cadillac. La famiglia di Tal è ciò che la mamma
definisce "facoltosa".
A Savannah quello è un eufemismo per indicare il denaro posseduto da
generazioni di membri della chiesa Episcopale. "Pieno di soldi", invece,
indica il denaro guadagnato di recente, yankee. "Ricco sfondato" è il denaro
ebreo. Se una donna è "popolare", significa che ci sta. Se un uomo ha "un
temperamento artistico" è gay. Se un ragazzo ricco è "problematico" vuol
dire che è sociopatico. È facile, se hai vissuto qui abbastanza a lungo. E i
Foley hanno sempre abitato a Savannah. Be', almeno sin da quando
Aloysious Francis Foley è venuto qui dalla contea di Kerry, Irlanda, tra il
1850 e il 1860 per collaborare alla posa dei binari della Southern Railroad.
Papà accese il televisore posato sul bancone della cucina, si sedette al
tavolo di metallo cromato e formica e consultò il programma della
televisione. Si accigliò. La trasmissione di quiz non sarebbe iniziata prima
di mezz'ora. Avrebbe dovuto accontentarsi de La ruota della fortuna.
«Vendere ciarpame!», borbottò. «Che genere di lavoro è mai questo?».
«Sono una rigattiera», gli spiegai per la milionesima volta. «Compro
pezzi d'antiquariato alla fonte di provenienza e li restauro per poi venderli
agli antiquari. È un vero lavoro e guadagno soldi veri».
«Raccogli immondizia», disse la mamma, sorseggiando il suo whisky
travestito da tè.
«È tardi», annunciai, dirigendomi lentamente verso la porta. «Ciao».
«Che fretta c'è?», chiese papà. «Resta qui a pranzo. Hai l'aria di una a cui
farebbe comodo un pasto gratis».
Afferrai un'altra manciata di patatine e mi precipitai verso la porta.
«Grazie!», gridai, voltando la testa.
3
La porta d'ingresso era stata coperta con una brutta zanzariera d'alluminio
anni Cinquanta a cui era fissata un'avvizzita ghirlanda di felci e margherite.
Sotto, un cartoncino scritto a mano diceva "Entrate, prego".
Varcammo la soglia marcia e ci ritrovammo in un'altra epoca. Non nel
Sud prebellico, purtroppo, piuttosto negli ultimi anni dell'amministrazione
Eisenhower.
L'ampio atrio era buio e fresco. Un finto lampadario coloniale con una
sola lampadina ancora funzionante era appeso al soffitto imbarcato. Il gesso
delle splendide pareti antiche era dipinto di rosa chiaro; le elaborate cornici
di stucco decorate e le modanature erano di un grigio opaco. Le alte finestre
che andavano dal pavimento al soffitto erano schermate da veneziane.
Abbassai lo sguardo sul pavimento. Grazie a Dio. Era rivestito di
sudiciume, ma l'assito originale in legno di pino era stato lasciato intatto.
James mi prese un gomito e mi guidò delicatamente all'interno. Due
salottini gemelli si aprivano ai lati del corridoio. Quello sulla destra era
ingombro di mobili: tre lunghi tavoli da gioco pieghevoli erano stati
accostati ed erano interamente coperti di cristalleria, porcellane, argenteria e
bric–a–brac. Naturalmente mi diressi da quella parte, ma James mi tirò
indietro. «Dall'altra parte», mi sussurrò.
Il salottino sulla sinistra era stato sgombrato. Uno scadente ventilatore
rettangolare ronzava su una delle finestre aperte, facendo entrare altra aria
calda e umida nella stanza che sembrava già una sauna.
Non c'era molta gente, non più di una ventina di persone. Quasi tutti gli
amici di Ann Ruby Mullinax davano l'impressione di essere verosimili
candidati per il proprio servizio funebre. Erano fragili, con i capelli bianchi
e la schiena curva. Gli uomini si tamponavano il viso lucido con un
fazzoletto, le donne si facevano vento con i fascicoletti della cerimonia
funebre che erano stati ammucchiati su un tavolo accanto alla porta
d'ingresso.
Una donna alta e sottile in abito ecclesiastico era in piedi dietro un leggìo
di legno davanti al caminetto. I capelli bianchi e lunghi fino alle spalle
formavano un'aureola crespa intorno alla sua testa.
Ma io non la stavo guardando davvero. Stavo cercando Caroline.
Fu lei a vedermi per prima, e mi rivolse un discreto cenno di saluto con la
mano. Annuii educatamente e sentii lo stomaco che mi si stringeva e il
cuoio capelluto che cominciava a prudere.
Indossava un tailleur di lino grigio chiaro la cui gonna corta e attillata
arrivava dieci centimetri più su delle sue ginocchia incredibilmente ossute.
Come sempre, emanava un'aria di fresca eleganza mentre noi altri stavamo
annegando in un lago di sudore.
Un uomo più anziano era fermo al suo fianco, la mano posata
delicatamente sulla sua spalla. Aveva capelli scuri e ondulati pettinati in
modo da formare un brutto riporto, sopracciglia cespugliose e brizzolate, e
un'abbronzatura da giocatore di tennis. Avevo incontrato persone come lui
alle feste dei genitori di Tal. Christ Church. Oglethorpe Club. Portava
l'anello di un college. Probabilmente il Duke o la University of Virginia.
Sicuramente apparteneva alla Kappa Alpha, la confraternita universitaria
più antica.
«Chi è il tizio insieme a lei?», sibilai nell'orecchio di James.
Lo zio gli lanciò un'occhiata e rivolse un solenne cenno di saluto
all'amico di Caroline, che stava osservando noi due che fissavamo loro due.
«È Gerry Blankenship, l'avvocato della famiglia Mullinax. Sshh».
Ann Ruby Mullinax era morta all'età di novantasette anni ma il discorso
funebre per lei durò meno di dieci minuti. "Un quattro e quattr'otto",
l'avrebbe definito mio padre.
Meno di cinque minuti dopo, un giovanotto biondo in camicia bianca,
pantaloni neri e cravattino nero prese a girare tra i presenti con in mano un
vassoio di bicchierini di sherry grandi come ditali. Un teenager di colore
vestito allo stesso modo reggeva invece un vassoio d'argento pieno dei
salatini al formaggio tradizionalmente offerti ai cocktail e ai funerali di
Savannah.
Gli ospiti si alzarono e presero a chiacchierare tranquillamente, come se
si trovassero fuori da una chiesa invece che tra le ultime vestigia di uno stile
di vita quasi scomparso.
Mi mossi lentamente verso la porta, dirigendomi verso la stanza in cui
erano stipati tutti quegli oggetti meravigliosi. James mi afferrò il braccio un
attimo prima che raggiungessi l'atrio. «Eloise!», disse, un po' troppo
calorosamente.
Caroline DeSantos e Gerry Blankenship erano fermi davanti a lui. Non
fui in grado di stabilire chi avesse messo con le spalle al muro l'altro.
James rivolse un cenno all'avvocato e poi a me. «Gerry Blankenship,
questa è mia nipote, Eloise Foley. Gerry è l'avvocato della signorina
Mullinax, Weezie. Mi stava giusto parlando dei progetti per Beaulieu. E
naturalmente conosci già Caroline DeSantos».
L'adorabile viso olivastro di Caroline assunse una leggerissima sfumatura
rosa. Lei si scostò dalla fronte una ciocca di lucenti capelli neri.
«Imbarazzante, vero?», chiese, spostando lo sguardo da me a Gerry allo
zio James. «Ex moglie e futura moglie, che vivono praticamente l'una sopra
l'altra. Lo sapevi, Gerry? Weezie abita nella ex rimessa per le carrozze
dietro la nostra casa. Ma questa è Savannah. Dovremo semplicemente
dimostrarci persone mature, vero, Weezie?».
Blankenship tossicchiò. Sentii James trattenere bruscamente il respiro, in
attesa di vedere se avrei mantenuto la promessa di non ricorrere alla
violenza. Sentii le mie mani stringersi a pugno. Caroline era più alta ma io
pesavo almeno dieci chili più di lei. Potevo dargliele di santa ragione in
quel preciso istante, pensai. Schiaffeggiarla fino a farle vedere le stelle.
Staccarle la testa a mani nude.
«Siamo tutti adulti», replicai, stringendomi nelle spalle. Naturalmente
non avrei aggredito Caroline in pubblico. La vendetta privata è molto più
dolce.
5
Merijoy Rucker capì che stava succedendo qualcosa. Non per niente era
la più grande ficcanaso di Savannah. «Una cartiera? E scommetto che so chi
c'è dietro. È quel Mayhew, vero?», chiese. «La Coastal Paper Products?
Diane Mayhew era al caffè degli organizzatori del Symphony Ball, questa
settimana, e non riusciva a guardarmi negli occhi. Ho capito subito che c'era
qualcosa di strano. Sono mesi che mi lecca i piedi».
Mi guardai intorno, impotente. Il pastore stava stringendo mani e
dirigendosi verso la porta. Anche altre persone si spostavano da quella
parte. Se Merijoy Rucker mi bloccava lì facendomi il terzo grado su
Beaulieu, non sarei mai riuscita a entrare nell'altro salottino per dare
un'occhiata agli oggetti che conteneva. Zio James non era di nessun aiuto.
Era ancora immerso nella conversazione con i Loudermilk.
«Credi che a qualcuno dispiacerebbe se ci guardassimo un po' intorno?»,
le chiesi. «Non sono mai entrata a Beaulieu prima d'ora. Mi piacerebbe
darle un'ultima occhiata, soprattutto se vogliono davvero demolirla».
Fu come se avessi lanciato un grido di battaglia. Le sue narici fremettero
per l'indignazione. «Nessuno demolirà un bel niente», mi assicurò.
«Andiamo a sbirciare nell'altro salottino. Ho l'impressione che la
tappezzeria di quella stanza abbia un antico motivo Scalamandré.
Prebellico».
Sapevamo entrambe che si riferiva all'unica guerra che contasse davvero
qualcosa a Savannah: la guerra dell'aggressione nordista, l'antico sgarbo.
Mentre svoltavamo a destra dell'atrio, Merijoy si fermò di colpo – così di
colpo che le finii addosso.
«Lewis!», esclamò, indietreggiando rapidamente.
L'uomo con cui si era scontrata sembrò stupito di essere stato
riconosciuto. Si accigliò, seccato. Si affrettò a infilare la mano destra nella
tasca del blazer blu, ma non lo fece abbastanza velocemente per impedirmi
di vedere che vi faceva scivolare una piccola macchina fotografica nera.
«Oh, ciao, Merijoy», disse, mentre il suo cipiglio spariva. Rivolse un
brusco cenno nella mia direzione. «Salve».
Lewis Hargreaves sa come mi chiamo. Tutti gli antiquari di Savannah mi
conoscono, persino quelli che fingono di non comprare da rigattieri come
me. Non che io abbia mai venduto granché, a lui.
Lewis è il proprietario dell'L. Hargreaves, una "galleria d'antiquariato" –
niente di così plebeo come un negozio. La sua specialità sono costosissimi
pezzi unici d'antiquariato del Sud. Viene considerato una sorta di ragazzo
prodigio. Abbiamo frequentato insieme la scuola parrocchiale ma, mentre io
ero ancora una modesta rigattiera, lui aveva aperto la sua "galleria" un anno
dopo essere uscito dalla Georgetown University. Non molto tempo dopo il
suo negozio veniva citato su tutte le grandi riviste di architettura come HG e
Architectural Digest.
Merijoy si piegò in avanti per dargli un bacetto leggero sulla guancia.
Una sfumatura rosa chiaro si diffuse sul viso pallido dell'uomo, che arrossì
fino alla radice dei capelli di un biondo chiarissimo.
«Lewis, ragazzaccio», lo apostrofò lei in tono scherzoso. «Cosa ci fai
nascosto qui dentro tutto da solo?».
Hargreaves batté rapidamente le palpebre. «Stavo solo rendendo omaggio
alla signorina Mullinax».
«Palle, Lewis», replicò Merijoy. Era il linguaggio più colorito che le
avessi mai sentito usare. «Non eri nella stanza durante il servizio funebre».
«Mi ha invitato Gerry Blankenship», spiegò lui. «È una faccenda
riservata, al momento non posso aggiungere altro».
Attraversò rapidamente l'atrio, diretto verso la scalinata.
«Sta ispezionando la casa», commentai, osservando la sua schiena
coperta da un abito dal taglio impeccabile. «Ci sarà sicuramente una vendita
degli arredi, sai. Scommetto che lui sta già facendo un'offerta per la roba
migliore».
Merijoy sospirò. «Speravo che il mobilio non venisse toccato. È davvero
di fondamentale importanza conservare gli arredi originali per una casa–
museo importante come questa».
«Certo», concordai. Entrammo nel salottino, traboccante di mobili,
tappeti, scatoloni e casse.
«Oh!», gridò Merijoy, passando il palmo della mano sulla parete. Sulla
carta da parati azzurra erano dipinti degli uccelli costieri: aironi selvatici,
gallinelle d'acqua, egrette e martin pescatori. Strisce di carta pendevano dal
muro; ampie sezioni erano scurite da chiazze marroni d'acqua sempre più
grandi.
«Mio Dio», gemette. «Questa è un'opera di Menaboni, dipinta a mano.
Ed è rovinata». Estrasse una macchina fotografica tascabile e scattò una
foto.
«Forse si può restaurare», ipotizzai.
Nell'angolo della stanza, una pila di scatoloni nascondeva un grosso
mobile. Era una credenza, piena di porcellane blu e bianche.
Spostai gli scatoloni, spingendoli contro un tappeto intrecciato
rosicchiato dalle tarme che si trovava sul pavimento. La polvere e la muffa
che li rivestivano mi sporcò le mani. Niente di quanto era contenuto in
quella stanza veniva usato da molto tempo.
Persino nella luce fioca del salottino la credenza nell'angolo spiccava
come un diamante in mezzo a una manciata di sassolini. Trattenni il fiato
mentre accarezzavo il legno liscio come seta. Era in legno d'olmo con
venature scure, alta almeno due metri, con tre ripiani dietro un paio di
antine di vetro ondulato. Sotto c'erano sportelli accuratamente lavorati e un
bordo dentellato. Nella mia testa cominciarono a squillare dei campanelli.
Quel mobile era opera di un maestro ebanista e risaliva agli inizi
dell'Ottocento. La qualità della manifattura avrebbe potuto reggere
benissimo il paragone con le opere di uno qualsiasi dei famosi artigiani di
Philadelphia o Boston dell'epoca, ma il design era tipicamente del Sud.
«Bella», disse Merijoy, sfiorando lo sportello. «Scommetto che è
originale della casa. Guarda come si inserisce perfettamente in quell'angolo.
Tu ti occupi di antiquariato, Weezie. Che tipo di porcellane sono?».
«Porcellane di Canton», risposi, continuando a fissare la credenza. «Del
1700. Di grande valore».
Merijoy sospirò. «Com'è tutto trascurato. In rovina. Ho voglia di
piangere. Davvero. Guarda quella caminiera».
Strappandomi a fatica dal mobile mi diressi verso la caminiera che
bordava il caminetto. Era estremamente elaborata, con ninfe e cariatidi a
bassorilievo e orpelli di ogni genere.
«Carina», mormorai. Non sono un'appassionata di suppellettili vittoriane.
Continuai a guardare la credenza nell'angolo. Mi stava chiamando,
seducendomi.
«È orrenda!», esclamò Merijoy. «Così volgare! E non c'entra nulla con la
casa». Diede un colpetto con una matita sul legno, che diede l'impressione
di sbriciolarsi come una torta stantia. «Inoltre è piena di termiti». Scattò
un'altra foto, poi batté un piede a terra. «Detesto quando i proprietari si
comportano in modo irresponsabile con una casa antica come questa.
Avrebbe dovuto esserci una caminiera di cipresso, qui. O magari di marmo.
Non questa». Passò una mano sopra gli intagli. «Questa cosa grottesca».
«Forse quella originale si trova su in solaio», ipotizzai, «oppure in uno
degli edifici esterni. Fuori ho visto un granaio e quello che sembrerebbe un
affumicatoio. E l'edificio accanto alla casa è una cucina estiva.
Probabilmente tutte quelle vecchie rimesse sono piene di pezzi
d'antiquariato». Mi guardai intorno nella stanza, osservando le pile
polverose di libri e carte, gli scatoloni pieni di biancheria da letto e utensili
di cucina, oggetti di vetro e album di foto. «Ho l'impressione che i Mullinax
non abbiano mai buttato via niente».
«Forse», ribatté lei, scettica. «Naturalmente, anche il resto della casa
potrebbe essere semplicemente un mucchio di segatura – proprio come
questo caminetto. Andiamo, Weezie», aggiunse, prendendomi per una
manica. «È troppo deprimente continuare a guardarsi intorno. Solo da
quello che ho visto finora, potrebbero volerci centinaia di migliaia di dollari
per restaurare Beaulieu, se non milioni».
Rivolsi un'ultima occhiata piena di desiderio alla stanza. Alla credenza.
Era quella ad aver attirato nel salottino Lewis Hargreaves e la sua macchina
fotografica tascabile.
Il salotto principale era quasi deserto, fortunatamente, visto che eravamo
tutte e due in uno stato disastroso. Io avevo le mani chiazzate di sudiciume
e il mio vestito era tutto spiegazzato. Quanto a Merijoy, sembrava che
qualcuno le avesse rubato il suo giocattolo preferito. Il suo elegante abitino
di lino nero era macchiato, i capelli arruffati. Sulle sue labbra non c'era più
traccia del rossetto.
«Quella donna, Caroline DeSantos», disse. «Vive davvero a casa tua con
Tal? Proprio sotto il tuo naso?».
Zio James mi salvò da ulteriori domande sulla nostra inconsueta
situazione. Si avvicinò, seguito dai Loudermilk. Aveva un'aria compiaciuta.
Per essere una cariatide, anche Spencer Loudermilk sembrava soddisfatto.
«Weezie», disse James, «credo che tu conosca già il signor Loudermilk».
Allungai la mano per stringere quella piccola e rugosa dell'uomo. «Sua
nipote BeBe è una mia cara amica, signor Loudermilk. Mi ha parlato molto
di lei e di sua moglie. E signori Loudermilk, vi presento Merijoy Rucker.
Merijoy è molto attiva nel campo della conservazione dei beni culturali e
ambientali».
Lorena Loudermilk mi guardò strizzando gli occhi dietro un paio di
occhiali appannati che in due punti erano stati riparati con il nastro adesivo.
Era quasi piegata in due dalla cifosi più pronunciata che avessi mai visto,
ma la sua pelle pallida era liscia e rosea, i denti ancora bianchi e regolari.
«Ti conosco», disse lei, rivolgendo un cenno d'assenso a Merijoy. «Hai
sposato quel ragazzo Rucker». Subito dopo, quasi senza prendere fiato,
aggiunse: «Mio marito, Spencer, ha una pinza incastrata nell'intestino.
Questo giovane avvocato citerà il Candler Hospital e li lascerà in mutande».
Spencer sembrava una macchia di fegato con le gambe. Fece un sorriso
radioso e si diede un colpetto sull'addome. «Esatto. Dovreste vedere che
effetto ho sui metal detector dell'aeroporto».
La mente a senso unico di Merijoy non si lasciava sviare a lungo.
«Weezie e io stavamo giusto ricordando i vecchi tempi». Si girò verso
James e gli rivolse un sorriso abbagliante. «Signor Foley, lei è avvocato. Ha
sentito qualche pettegolezzo su ciò che potrebbe accadere a Beaulieu?».
James ha una straordinaria capacità di restare impassibile. Secondo mio
padre dipende dal fatto che è stato educato dai gesuiti. Papà considera l'ala
della sinistra radicale dei gesuiti responsabile di tutte le cose negative
accadute alla Chiesa cattolica o alla civiltà moderna.
«Non ho sentito nulla», rispose con voce pacata mio zio. «Volete
scusarci? Weezie e io abbiamo un appuntamento urgente in città».
Lui chinò il capo e io presi graziosamente congedo, ma mentre uscivamo
sulla veranda qualcuno mi prese per un polso. Caroline. Minuscole stille di
sudore le imperlavano il labbro superiore. «Di cosa ti stava parlando
Merijoy Rucker?», chiese.
«Conservazione», dissi. «È molto interessata alla conservazione delle
antiche dimore».
Cercai di liberarmi dalla sua stretta, ma lei mi affondò ancora di più le
unghie nella carne del polso. I suoi occhi scuri erano ridotti a delle fessure.
«Se crede di poter trasformare Beaulieu in una casa–museo si sbaglia di
grosso. Abbiamo concluso un accordo con la Coastal Paper Products.
Inattaccabile. E se lei cerca di scatenare un putiferio al riguardo, raderemo
al suolo questa catapecchia. Nel giro di una sola mattinata». Mi lasciò
andare la mano. «Diglielo, va bene? Spiegale come sono determinata».
Mi guardai il polso: sulla pelle spiccavano i segni rossi lasciati dai suoi
artigli.
«Tu non conosci Merijoy Rucker, vero, Caroline? Be', sono sicura che vi
conoscerete presto. In effetti voi due avete un sacco di cose in comune. Sarà
davvero interessante».
9
Jethro abbaiò.
«Mio Dio, no», esclamai. Ma conoscevo quel latrato. Acuto, ansioso.
"Weezie, torna da me", sembrava voler dire. O forse era solo il suo latrato
"Weezie, mi annoio e ho fatto scappare uno scoiattolo sull'albero". Stavamo
ancora lavorando sulla comunicazione.
Rimasi ferma lì, inchiodata al pavimento, a fissare Caroline. Mi girava la
testa ma continuai a guardare. Jethro continuava ad abbaiare. Fuori si udì un
colpo di clacson. Questo riuscì a rompere l'incantesimo. Corsi nella camera
da letto e sporsi la testa dalla finestra.
«Zitto», dissi. «Zitto, cucciolo». Le foglie di magnolia formavano una
volta spessa e quasi impenetrabile sopra il prato sottostante. L'aria calda e
umida era perfettamente immobile. Jethro uggiolò e io sentii la sua coda
battere ritmicamente sull'erba.
Poi un raggio di luce fendette la quiete impenetrabile della notte. Sollevai
una mano per ripararmi gli occhi, ma il raggio era implacabile. Jethro
uggiolò di nuovo e io ebbi una gran voglia di imitarlo.
«Signora?». La voce sotto di me era sonora ma non profonda. «Signora?
Sono della Paragon Security. È scattato l'allarme. È lei la proprietaria di
questa casa?».
«È morta». Mi riferivo ad Ann Ruby Mullinax, ma stavo pensando anche
al cadavere sul pavimento del bagno.
Lui si schiarì la gola. «Signora, potrebbe scendere, per favore? E... ehm,
credo di doverle dire che sono un agente armato. Lei è... ehm, in arresto».
Date le circostanze, decisi di nascondere sotto il letto il sacchetto del
bottino.
All'improvviso la magnolia aveva un aspetto minaccioso, e il terreno
sembrava distare chilometri dalla finestra. «Cosa ne direbbe se scendessi e
le venissi incontro alla porta d'ingresso?», provai a chiedere.
«Scenda per la stessa via da cui è entrata», ribatté lui. Puntò nuovamente
la torcia sulla cima dell'albero. Me la presi comoda nello scendere, posando
con cautela un piede sotto l'altro, senza mai guardare giù. Sotto di me
sentivo crepitare e ronzare una ricetrasmittente. L'uomo vi stava parlando.
Per chiamare rinforzi, probabilmente.
Quando mi trovavo a poco più di un metro da terra vidi un'auto con le
luci blu lampeggianti sfrecciare sul vialetto d'accesso di Beaulieu.
«Perfetto», disse la guardia giurata. «Salti giù, signora, la prego».
Mi scivolò un piede e caddi a terra di schianto, rotolando a una certa
distanza dalla base dell'albero, sbucciandomi la coscia e la mano destre nel
tentativo di attutire la caduta. Jethro mi raggiunse trotterellando e mi leccò
la faccia.
«Non si muova», mi ordinò la guardia. Intravidi un giovane uomo,
un'uniforme marrone e la canna di una grossa pistola puntata con garbo ma
determinazione verso di me.
Sentendo la sirena della polizia Jethro cominciò a ululare. A poco a poco,
nel giardino buio di Beaulieu si accesero delle luci. La prima auto della
polizia fu seguita da un veicolo di rinforzi, in realtà, solo un veicolo
malconcio con una rastrelliera per fucili nel finestrino posteriore.
«Stavo solo cercando un bagno», spiegai alla giovane guardia ossuta.
Sembrò poco convincente persino a me. «Ho visto una finestra aperta e
sono entrata in casa, e ho usato il bagno, ma poi ho avuto bisogno di
qualcosa con cui asciugarmi le mani, così ho aperto l'armadio». Mi
interruppi e presi una boccata di aria densa. Un moscerino mi finì in bocca.
Era quel tipo di notte. «Agente, forse le conviene chiamare dei veri
poliziotti».
Un tizio più vecchio e corpulento mi prese per un braccio. «Signora, non
potremmo essere più veri di così. E stiamo per spiccare contro di lei un
ancor più vero mandato d'arresto per violazione di domicilio con
effrazione».
Feci una smorfia e cercai di sottrarmi alla sua stretta, ma lui accentuò la
presa. Per una persona nella mia situazione non esisteva un modo adatto per
sollevare l'argomento del cadavere. Ma ero stata educata da cattolica, quindi
la confessione sembrava più che naturale.
Scacciai con la mano il nugolo di moscerini che avevo intorno alla faccia.
«Agente, c'è una donna morta nell'armadio del bagno al piano di sopra».
«Oh». Una vena cominciò a pulsare nel collo del tizio magro. Il tipo
corpulento estrasse un paio di scalcinate manette che davano l'impressione
di essere state vinte con una raccolta punti del supermercato.
In lontananza si udivano le sirene della polizia. La gente sparsa nella
tenuta cominciò a muoversi. Intorno a noi, sotto la magnolia, si radunò una
piccola folla di persone che sussurravano e mi indicavano. Mi martellava la
testa. Avevo bisogno di caffè e di analgesici perché non riuscivo a riflettere
lucidamente. Avrei dovuto pensare a un avvocato, chiedermi chi poteva aver
provocato quella grossa e brutta macchia di sangue sul petto di Caroline.
Invece mi stavo domandando se avrebbero rimandato o meno la vendita
fino a quando non fossi riuscita a tirarmi fuori da quel piccolo,
ingarbugliato pasticcio.
15
Adesso, alzando gli occhi verso Tal, verso il suo viso ridotto una
maschera di disperazione e infelicità, era difficile credere che tutto fosse
cambiato così drasticamente in così poco tempo.
Quand'era stato che la dolcezza era diventata tanto amara? Perché avevo
rinunciato così facilmente al mio matrimonio, se aveva significato così
tanto per me? Non mi ero mai considerata una persona rinunciataria. Forse,
pensai, avrei dovuto concedere un'altra chance a Tal, invece di intestardirmi
e dare inizio alla terza guerra mondiale.
Feci ruotare più volte il bicchiere di vino nella mano, guardando il mio ex
marito e scoprendomi ansiosa di raggiungerlo per abbracciarlo, consolarlo.
Poveretto.
Povero idiota! Sbattei il bicchiere sul tavolo. Dannazione a lui per avermi
tradito. Dannazione a lui per essersi infischiato di ciò che avevamo costruito
insieme. Dannazione a lui per aver amato Caroline DeSantos invece di me.
Finii il vino e gettai gli avanzi dell'omelette al di là del muro del giardino
posteriore, per i gatti randagi che ripulivano il vicoletto dai topi. Avevo
perso l'appetito ma all'improvviso avevo molta sete.
Tornata in casa, finii la bottiglia di vino e mi trascinai intontita su per le
scale, fino al letto. Da sola. Chiusi la portafinestra per non dover vedere Tal,
ma non ce n'era bisogno. La luce al piano di sopra era spenta. La casa era
buia.
18
La mattina del lunedì dopo il mio arresto avevo dei terribili postumi da
sbornia. Mi sedetti in cucina a sorseggiare il caffè e a guardare storto la
segreteria telefonica. Alla fine, alle nove, mi costrinsi a sollevare la
cornetta. Se la chiamo, mi dissi, sarò io a gestire la situazione. Sarò io ad
avere il controllo.
Povera illusa.
«Mamma?».
«Dov'eri?», chiese lei. «Ho continuato a telefonarti per ventiquattr'ore
filate. Tuo padre e io eravamo fuori di noi per la preoccupazione».
«Lo so. Mi dispiace. C'erano dei giornalisti accampati davanti a casa mia,
così ho passato la notte da BeBe. Poi, quando sono finalmente rincasata, ieri
sera, era talmente tardi che ho preferito non chiamarvi per non svegliarvi».
«Come se fossimo riusciti a chiudere occhio da quando è iniziato tutto
questo», scattò lei.
«Mi dispiace», ripetei, tracciando due tacche sul retro di una busta posata
sul piano di lavoro. Era un'abitudine che avevo preso quando parlavo con la
mamma: tenevo il conto di quante volte mi scusavo durante la
conversazione. Il mio obiettivo era di non superare le dodici volte in dieci
minuti. Sembrava che stavolta non ci sarei riuscita.
«Stai bene? Non hai... voglio dire, la gente in prigione non ti ha toccato –
o cose del genere?».
«Sto benissimo», risposi. «Ho guardato la televisione e ho letto un po'.
Lo zio James non vi ha telefonato per spiegarvi cosa stava succedendo?».
«Sì», ammise la mamma, «ma continuo a non capire come mai hai
chiamato lui invece di noi».
«James è un avvocato», sottolineai, benché non ve ne fosse bisogno. «Ho
semplicemente immaginato che sapesse cosa fare. Per farmi uscire su
cauzione e via dicendo».
«Uscire su cauzione», gemette lei. «Non riesco ancora a credere che tutto
questo sia potuto succedere».
«Non è così grave. Violazione di proprietà privata. Non è un vero e
proprio crimine, o quasi».
«Ma loro credono che tu abbia ucciso quella donna», ribatté bruscamente
lei. «L'hanno detto al notiziario ed era scritto su tutti i giornali, persino su
quello di Atlanta. Ho visto Sarah Donnellen alla messa delle dieci, ieri.
Papà ha acceso due candele per te, a proposito. La nuora di Sarah, che fa
l'avvocato ad Atlanta, le ha telefonato perché sapeva che siamo amiche. E
Sarah dice che secondo sua nuora potrebbero ancora accusarti di omicidio».
Mi morsi il labbro. Il figlio di Sarah Donnellen, Ricky, era stato un mio
compagno di classe alla Blessed Sacrament School. Era famoso per
gironzolare intorno alla struttura per arrampicarsi nel parco giochi, sperando
di riuscire a vedere le mutandine di qualche bambina. Qualunque donna
avesse sposato quel pervertito non poteva essere troppo sveglia, avvocato o
meno.
«Mamma», dissi in tono tranquillo, «non mi accuseranno di omicidio
perché non ho ucciso Caroline DeSantos. Non l'ho mai toccata. Sono entrata
in quella casa per andare in bagno, e questa è la verità».
Lei emise un lungo sospiro. «Quante volte ti ho detto di non usare i bagni
pubblici? E ancora non capisco cosa ci facevi là a quell'ora della notte».
«Volevo arrivare alla vendita il prima possibile», spiegai, cercando di
essere paziente.
«La situazione non sembra molto promettente. Ieri, a messa, ci fissavano
tutti. Ho fatto fatica a tenere la testa alta. Persino padre Morrison mi ha
guardato in modo strano, quando ho fatto la comunione».
«Padre Morrison guarda tutti in modo strano», risposi, cominciando a
perdere la calma. «È strabico, Cristo santo».
«Non nominare il nome di Dio invano davanti a me, signorina», mi
intimò la mamma. «Ora devo andare, mi sta venendo una delle mie
emicranie. Ma tuo padre vorrebbe parlarti».
Alzai gli occhi al cielo.
«Eloise?», borbottò lui.
«Mi dispiace, papà», togliendomi subito il pensiero.
«Hai bisogno di soldi?».
Caro vecchio papà.
«No. Sono a posto».
«Tua madre è piuttosto sconvolta», disse lui.
«Lo so, ma lo zio James sistemerà tutto. È stato un semplice malinteso,
tutto qui».
«E la ragazza morta?».
«Non l'ho uccisa io», dichiarai.
«Bene», ribatté lui, come se questo sistemasse tutto. «Stammi bene,
capito?».
Il telefono squillò non appena riagganciai. Guardai il display ma non
riconobbi il numero di chi chiamava, così lasciai che rispondesse la
segreteria. Saggia decisione. Era Ira Stein, il giornalista di cronaca nera del
Morning News. «La prego, mi richiami subito», disse. «Ho saputo che la
polizia ha trovato le sue impronte digitali sulla pistola ritenuta l'arma del
delitto nell'omicidio di Caroline DeSantos. E so anche che la signorina
DeSantos era fidanzata con il suo ex marito e che lei l'ha minacciata davanti
a testimoni».
Dio. Trovai il flaconcino degli analgesici e mandai giù quattro pasticche
con un'altra tazza di caffè.
Il telefono suonò a intervalli per tutta l'ora successiva. Anche il
campanello squillò. Invece di rispondere, corsi al piano di sopra per
guardare fuori e vidi due furgoni della TV satellitare parcheggiati nel
vicoletto dietro la mia casetta.
Stavo massaggiandomi le tempie e desiderando una generosa iniezione di
morfina quando bussarono di nuovo alla porta. Jethro si lanciò nell'ingresso
e cominciò ad abbaiare. Era corso su e giù per le scale latrando come un
ossesso ogni volta che squillavano il telefono o il campanello. Era stressato
quanto me. Cominciai a chiedermi se esistesse del Valium per cani.
«Va bene», borbottai, posando la tazza del caffè. «Attaccali, ragazzo».
«Non aizzare quel cane contro di me», disse una voce dietro la porta.
BeBe.
«Fai in modo di legarlo o qualcosa del genere, ti spiace? Sono vestita di
bianco e sai che adora saltarmi addosso».
Presi Jethro per il collare e lo trascinai in cucina. «Bravo», dissi. «Rimani
qui e ti lascerò aggredire il prossimo giornalista».
BeBe era in forma smagliante. In effetti, portava un semplice tubino di
lino bianco e sandali bianchi. I suoi capelli lucidi erano raccolti sulla nuca
in una specie di chignon. Stringeva una sporta piena di generi alimentari.
«Hai un aspetto orrendo», mi disse, restando a debita distanza. «Cos'hai
combinato?».
«Ieri sera mi sono ubriacata con dello Chardonnay scadente», spiegai. «Il
telefono non fa che squillare da ore. Mio padre ha cominciato a recitare
delle novene per me».
Scosse la testa con aria di disapprovazione. «Quante volte devo
ripetertelo? La vita è troppo breve per bere vino scadente».
«Per te è facile dirlo. Non lo paghi mai il normale prezzo al pubblico».
«Vero», ammise lei, sedendosi su una poltrona vicino alla finestra. «Ma
non è da te ubriacarti tutta sola. Come mai hai fatto bisboccia?».
«Ero depressa», risposi. «Sai, per essere appena uscita di prigione e via
dicendo».
BeBe strinse le labbra. «Uh–uh. Cos'altro?», chiese poi, chinandosi verso
di me. «Forza, raccontalo al dottor BeBe».
«Si tratta di Tal».
Lei fece un'espressione scioccata. «È venuto qui? Cosa ti ha detto?».
«Non è venuto qui. Non ho parlato con lui. Ero seduta fuori in cortile e
per puro caso ho alzato gli occhi. Lui era al piano di sopra, seduto alla sua
scrivania, guardando fuori dalla finestra. La sua espressione tormentata,
BeBe... Era così patetica. Mi ha fatto una tale compassione. Sembrava
davvero distrutto. E di colpo mi è tornato in mente tutto. Come ci siamo
innamorati, la nostra vita insieme. Era l'unica cosa che potevo fare per
impedirmi di correre a chiedergli di riprendermi con sé».
Lei spalancò gli occhi. «Dimmi che non hai fatto niente di stupido».
Sbuffai. «Certo, sono andata da lui e l'ho scopato fino a sfinirlo».
«Il che significa che hai bevuto fino a stordirti perché compativi il
bastardo e quella sgualdrina della sua amichetta».
«Sbronzarmi mi è sembrato più saggio che andare a letto con il mio ex»,
spiegai.
«Vero anche questo», convenne BeBe. «Ma dai un'occhiata qui, ti ho
portato delle provviste».
Cominciò a estrarre dei pacchetti dalla sporta. «Cioccolato. Molto più
appagante di uno Chardonnay schifoso. Croissant. Coca–Cola. Cereali
glassati, di quelli per i bambini – oh, sì, conosco il tuo piccolo vergognoso
segreto, Eloise Foley. Latte scremato, persino qualche biscotto da cani per
Jethro».
«Sei la migliore amica che ci sia», dissi, alzandomi per portare tutto in
cucina.
«Giù, Jethro», intimò BeBe, seguendomi. Prese la scatola di biscotti e
gliene lanciò uno. «Vedi com'è carina zia BeBe?». Infilò di nuovo la mano
nella borsa, poi si bloccò. «Ho portato qualcos'altro, oltre al cibo. I giornali.
Vuoi vederli?».
«Penso che ne farò a meno. La mamma mi ha già fatto un riassunto».
«Bene, e adesso?», chiese lei, versandosi una tazza di caffè. «Hai
intenzione di restare nascosta qui per il resto della vita?».
«No. Forse. Dannazione, non lo so».
«Cosa dice tuo zio?».
«Dice che secondo il suo amico penalista, le guardie hanno incasinato
tutto a Beaulieu, toccando gli oggetti all'interno della villa e sequestrando il
mio sacchetto senza autorizzazione. Questo amico dice che dubita che una
qualsiasi di queste prove – incluse le pistole – possa essere ammessa in
tribunale».
Lei bevve un sorso di caffè. «Chi è questo principe del foro?».
«Non lo so. James è molto misterioso in proposito».
BeBe sorrise. «Credi che si sia trovato una fidanzata? Buon per lui!».
«Non so chi sia questa persona», dissi in tutta sincerità. Non le avevo
detto che James era gay. Lui era ancora molto restio a parlare della sua vita
privata.
«Secondo me dobbiamo portarti fuori di qui», dichiarò BeBe, sbirciando
la bottiglia di vino da due litri nella pattumiera, «prima che tu cominci a
bere gin da un ferro da stiro».
«Cosa avevi in mente?», chiesi. Iniziavo ad avvertire un leggero senso di
claustrofobia.
Lei estrasse il giornale.
«Non mi interessa», dissi.
«Non saltare così in fretta alle conclusioni», replicò, battendo un dito
sulla pagina. «Questi sono gli annunci economici. Ricordi la scuola delle
Piccole Suore di Carità, giù a Sandfly?».
«Certo», risposi. «Era la scuola parrocchiale per bambini di colore, prima
che l'arcidiocesi unificasse tutte le altre scuole. Ma è chiusa sin dagli anni
Ottanta».
«Infatti», confermò BeBe. «E secondo l'articolo pubblicato sul giornale
di oggi, l'ultima delle suore è andata in pensione, tornando alla sua casa
madre di Philadelphia. Stanno per demolire la scuola e il convento per
costruire un centro commerciale. Sai cosa vuol dire la parola
"liquidazione"?».
Infilai i piedi nudi negli infradito accanto alla porta posteriore e afferrai
la borsetta. «Andiamo».
19
James parcheggiò l'auto accanto alla berlina blu marino, sotto una
vecchia ed enorme quercia a una dozzina di metri dalla porta d'ingresso
della vecchia villa.
Jay Bradley, il detective che aveva conosciuto la notte dell'arresto di
Weezie, era appoggiato al cofano del veicolo datogli in dotazione dalla
contea, fumando una sigaretta che gettò a terra vedendo arrivare James.
Aveva una camicia bianca a maniche corte, pantaloni scuri spiegazzati e
un'espressione annoiata.
«Come sta, padre?».
«Solo James, ricorda?».
«Mi scusi. Le vecchie abitudini sono dure a morire, sa».
«Allora», chiese James in tono energico, «siamo autorizzati a dare
un'occhiata in giro per la casa?».
Gli era profondamente seccato dover chiedere quel favore a Jonathan, ma
aveva davvero bisogno di farsi un'idea del tipo di prove che la polizia
poteva avere contro Weezie.
Anche Jonathan era stato incerto. «Un avvocato della difesa ha il diritto
di vedere la scena del crimine», aveva sottolineato. «Naturalmente, Weezie
non è stata accusata di omicidio».
«Ma secondo te lo sarà», aveva ribattuto James.
«Sai che non posso parlarne», era stata la risposta.
Così Jonathan gli aveva detto chi chiamare, e quella mattina Bradley gli
aveva telefonato per organizzare il sopralluogo, dando l'impressione di non
essere precisamente entusiasta dell'idea.
James sentiva già la camicia inzuppata di sudore. Dovevano esserci più o
meno trentotto gradi, e non erano ancora le dieci. Non osava pensare a
come doveva essere l'interno di quella vecchia casa ammuffita, con quel
caldo e quell'umidità.
Bradley si avviò verso il lato est della villa. Posò la mano sul tronco di
un'enorme vecchia magnolia che faceva sembrare quasi piccolo l'edificio, al
confronto. «È da qui che sua nipote dice di essersi introdotta all'interno»,
dichiarò.
«Se dice di essersi arrampicata sull'albero significa che è vero», replicò
James.
«Abbiamo rilevato le sue impronte sulla maniglia della porta della cucina
e su quella della porta d'ingresso».
«Prima ha provato ad aprire le porte, naturalmente, ma erano tutte chiuse
a chiave. Doveva andare in bagno».
«Certo», ribatté Bradley, la voce che grondava scetticismo. Pescò una
chiave dalla tasca dei pantaloni. «Noi entreremo dalla cucina».
James lo seguì all'interno. Nella stanza dall'aspetto antiquato, stipata fino
al soffitto di mobili impolverati, piatti e scatoloni su scatoloni di oggetti
eterogenei, era stato liberato uno stretto passaggio.
«Tutta la casa è così», disse Bradley, facendo schioccare la lingua per
esprimere la sua disapprovazione. «Piena zeppa di schifezze».
«La bellezza è negli occhi di chi guarda», ribatté James, ricordando
l'insistenza di Weezie sul fatto che Beaulieu fosse un'autentica miniera di
preziosi pezzi d'antiquariato. Anche se per quanto lo riguardava non
riusciva a immaginare che qualcuno potesse desiderare uno di quegli
oggetti.
Seguì nell'atrio il poliziotto che indicò le scale con la ricetrasmittente.
«Il corpo è stato rinvenuto lassù, nell'armadio di un bagno. Secondo sua
nipote, almeno».
«I suoi uomini hanno trovato qualche prova del fatto che il corpo sia stato
spostato?», chiese James. «La DeSantos era molto più alta di Weezie. Anche
se lei l'avesse uccisa, cosa che non ha fatto, dubito che sarebbe riuscita a
infilarne il cadavere in un armadio».
Bradley non rispose. Cominciò invece a salire le scale. I suoi passi
pesanti echeggiarono sui gradini di legno scheggiati e il corrimano gemette
ogni volta che lui vi si appoggiava con il corpo massiccio. James pregò
silenziosamente che le scale non crollassero sotto il peso dei due visitatori.
Al piano di sopra la calura parve se possibile ancora più opprimente.
Bradley si tamponò la fronte grondante con un fazzoletto, e James lo
imitò.
«L'armadio è in quel bagno», ansimò Bradley, precipitandosi verso la
porta di una camera da letto. «Devo aprire una finestra e fare entrare un po'
d'aria, prima di svenire».
«Giusto», disse James. Aspettò di sentire lo scricchiolio del telaio in
legno della finestra che veniva aperto, poi estrasse rapidamente la piccola
macchina fotografica che aveva in tasca.
Scivolò nel bagno e con la punta della scarpa aprì l'anta dell'armadio,
preparandosi a uno spettacolo sgradevole.
In realtà c'era ben poco sangue. Era un normalissimo armadio. Vuoto, a
parte alcuni vecchi appendiabiti di legno sparpagliati sul fondo.
Continuò a scattare il più in fretta possibile, cambiando inquadratura con
ogni foto. Quando ebbe finito, rimise in tasca la macchina fotografica e
tornò rapidamente in corridoio.
Sentì Bradley avvicinarsi, con il respiro affannoso. Il viso del poliziotto
era di un'allarmante sfumatura di grigio.
«Detective Bradley?», disse James, allungando una mano verso il braccio
del poliziotto proprio mentre questi barcollava, strabuzzando gli occhi.
L'uomo crollò a terra.
«Cristo santo», esclamò James, inginocchiandoglisi accanto. Posò i
polpastrelli alla base della gola del detective. Bradley aveva il fiato corto,
un colorito malato e, malgrado il caldo soffocante, la sua pelle era viscida al
tatto.
Tornò di corsa nel bagno. Afferrò un vecchio straccio appeso al porta
asciugamani, lo infilò sotto il rubinetto e aprì l'acqua. Le tubature gemettero
e, dopo quella che parve un'eternità, un sottile rivoletto di acqua marrone
cominciò a uscire dal rubinetto. Inzuppò lo straccio e tornò di corsa verso la
sagoma riversa di Bradley, strizzandolo sul viso e il collo dell'uomo, poi
tamponandogli i polsi e la base della nuca.
Cercò di sbottonargli il colletto della camicia, stretto intorno al collo
carnoso. Ma aveva le mani sudate e le dita si muovevano goffamente. Tirò il
colletto fino a far saltare i bottoni, poi passò ai fianchi dell'uomo,
allentandogli la stretta cintura di pelle.
«Jay?», disse James, tenendo le dita sul suo polso per sentire il battito
cardiaco. Era rapido, irregolare. Il detective non poteva avere più di
quarant'anni, ma era sovrappeso di almeno venti chili e fumava. Era
possibile che avesse avuto un attacco cardiaco?
Doveva sollevargli la testa? Tentare la respirazione artificiale? Anni
addietro, nella sua prima parrocchia a Thunderbolt, aveva assistito quando il
gruppo dei boy–scout si era esercitato nella respirazione artificiale nella sala
ricreazione. Ma aveva prestato poca attenzione, più impegnato a impedire ai
ragazzi di disturbare un gruppo di parrocchiani che partecipavano alla
riunione della Bulimici Anonimi nella biblioteca adiacente.
Aveva bisogno d'aiuto, pensò. C'era un telefono funzionante in quella
casa dimenticata da Dio? Sicuramente no. Poi si ricordò della
ricetrasmittente. Eccola lì, agganciata alla cintura del detective. Allungò una
mano e la prese. La avvicinò al viso, premette quello che pregava fosse il
pulsante per la trasmissione.
«Ehm... uh, sono un civile. Mi chiamo James Foley, e uno dei vostri
detective ha bisogno di assistenza medica. Sembra che abbia avuto una
specie di attacco. Respira, ma il suo battito cardiaco è irregolare. Ci
troviamo nella piantagione di Beaulieu, vicino al fiume Skidaway, al primo
piano della casa. Per favore, mandate subito un'ambulanza».
La ricetrasmittente gracchiò, poi giunse una voce femminile. «Dieci–
quattro, signor Foley. Abbiamo già inviato un'unità di soccorso».
«Dio sia ringraziato», rispose lui.
20
Rimasi seduta con un'espressione gelida sul bordo del sedile del
passeggero mentre Daniel caricava i suoi acquisti.
Gli ci vollero tre viaggi per mettere tutto sul pick–up. Alla fine, la mia
curiosità prese il sopravvento. Scesi e sbirciai al di sopra del pianale. «Che
cosa hai comprato?», chiesi.
«Un sacco di roba», rispose. Indicò il vetro istoriato. «La finestra che hai
scoperto tu. Si sono accontentati di ottanta dollari. Più un'altra più piccola
che posso usare come lunetta sopra la porta d'ingresso. Per quella ne hanno
voluti solo quaranta».
Un vero affare.
«E un gruppo di vecchie sedie pieghevoli di legno con lo schienale di
assicelle». Ne colpì una con la punta della scarpa. Erano graziosissime,
simili a seggioline vintage da bistro francese.
«Quanto?».
«Un dollaro l'una. Ma ne ho potute prendere solo dieci. Le altre erano a
pezzi».
«Niente male». Ero verde d'invidia.
«Quella», disse, dando un calcio a un'enorme cassa da vino in legno, «è
piena di vecchi piatti».
«Di che genere?».
«Non lo so», rispose. Si accovacciò e sollevò il coperchio della cassa,
passandomi una pesante scodella di porcellana vetrosa bianca con un'alta
striscia blu che correva lungo il bordo e un monogramma rotondo, "C of
G", al centro.
«Oh, mio Dio», dissi. «Porcellana delle ferrovie. Dove l'hai trovata?».
«In cucina. Accanto alla sala mensa. Cos'è la porcellana delle ferrovie?».
«Porcellana che un tempo veniva usata sui vagoni ristorante», spiegai,
capovolgendo la scodella per vedere il marchio del produttore. «Vedi?».
Glielo mostrai. «È una Shawnee».
«Pregiata?».
«Pregiatissima», risposi, in tono pieno di invidia. «La "C of G" era la
Coastal of Georgia Railroad. Aveva una linea ferroviaria che andava da St.
Augustine fino a Baltimora. Mia nonna prendeva quel treno ogni estate per
andare a trovare sua sorella nel Maryland. C'erano tovaglioli di damasco
rosa e fiori freschi in vasi di vetro intagliato su ogni tavolo. E servivano
granchi fritti».
«Non ne ho mai sentito parlare, eppure ho vissuto a Savannah tanto
quanto te».
«L'hanno chiusa alla fine degli anni Cinquanta o agli inizi dei Sessanta.
Credo siano stati rilevati da una delle compagnie ferroviarie più grandi.
Ecco cosa rende così ambita dai collezionisti qualunque cosa rechi il
marchio "C of G". Gli appassionati delle ferrovie adorano questi oggetti».
Lui annuì. «Quindi, se avessi dell'argenteria con lo stesso marchio...
avrebbe qualche valore?».
«Mi stai prendendo in giro. Argenteria "C of G"? Fammi vedere».
Lui trascinò un altro scatolone fino al bordo del pianale del pick–up. Mi
sedetti e vi infilai dentro una mano, estraendone una manciata di scintillanti
posate in Silver plate.
Capovolsi un massiccio mestolo, ma non avevo davvero bisogno di
cercare il marchio. Avevo visto due o tre delle caratteristiche posate da
portata della Coastal alle mostre di antiquariato. Il manico sottile si
allargava a ventaglio formando una fronda di palma stilizzata con il
monogramma "C of G" impresso sul retro. I pezzi, un autentico trionfo del
design, erano in Silver plate pregiato.
«Quanti ne hai comprati?».
«Li ho presi tutti», dichiarò lui in tono spiccio. «Forse... quanti? Quattro
o cinque dozzine di coperti. Più un sacco di posate da portata. Ho comprato
anche forchette per il pesce, pinze da insalata e ogni tipo di stravaganti
posate per servire».
«E a quanto?».
«Cinquanta dollari».
Socchiusi gli occhi. «Cinquanta dollari a coperto?».
Daniel scosse il capo. «Per tutti. Cosa c'è? Li ho pagati troppo?».
«No», risposi, ridendo. «Come dice mio padre, persino un maiale cieco
trova una ghianda, ogni tanto. Hai fatto un colpaccio, Danny. È l'affare del
giorno. Dovrei controllare ma, a quanto ne so, la stima più recente per
questa roba è di settantacinque dollari – a coperto».
«Sul serio?».
Infilò le mani nelle tasche dei jeans e il sorriso fanciullesco gli illuminò il
viso abbronzato.
«Sul serio».
«Be', accidenti. Volevo soltanto qualcosa di economico in cui mangiare».
Mi passai la mano tra i capelli fradici di sudore. Che mattinata.
«Sembra che tu ti sia accaparrato tutti i migliori affari della giornata, e a
prezzo stracciato», commentai mestamente. «Mentre io mi trascinavo qua e
là commiserandomi».
Lui mi diede un colpetto leggero con il gomito. «Non ti abbattere. Hai
avuto un paio di giorni difficili».
«Giusto», ribattei vivacemente, lottando contro l'impulso di crogiolarmi
ancora un po' nell'autocommiserazione. «Cos'altro hai preso? C'è un sacco
di roba su questo pick–up».
«Oh, niente di che».
«Avanti», dissi, restituendogli la gomitata. «Fammi vedere. Sempre che
tu ne abbia voglia. Finora sono rimasta davvero impressionata. Non mi
aspettavo che un eterosessuale fosse così interessato ai pezzi
d'antiquariato».
Si accigliò. «Cosa vorresti dire?».
«Oh, smettila. Sappiamo entrambi che sei etero».
«Dannatamente etero. E non dimenticarlo».
«Come se tu mi permettessi di farlo. Avanti, mostrami i tuoi acquisti,
okay?».
Il resto del suo bottino era discreto, ma niente di speciale. Daniel dava
l'impressione di aver svuotato la cucina della scuola: pesanti casseruole di
ghisa, pentole da quattro e otto litri, tegami, persino una scatola di legno
contenente ventiquattro dozzine di candele votive bianche.
«Cosa te ne farai di tutta questa roba?», chiesi. «Insomma, non
fraintendermi. È magnifico, ma come mai un uomo single che vive solo ha
bisogno di tutta questa porcellana, argenteria e candele... per non parlare di
una pentola da otto litri?».
Lui sembrò a disagio. «Se te lo dico prometti di non parlarne a
nessuno?».
«Sì».
«Nemmeno a BeBe? Lei è il mio capo, non dimenticarlo».
«Non le dirò niente».
«Bene», ribatté in tono vivace lui, «una parte di tutto questo è destinata
alla casa di Tybee. Ma il resto, credo... sai, ogni chef desidera aprire un suo
ristorante».
«Te compreso?».
«Certo. Insomma, il Guale è magnifico. All'inizio BeBe sembra un po'
matta, ma in realtà è una persona davvero fantastica. La gente adora starle
vicino. Solo che... voglio un posto tutto mio. Riesci a capirlo?».
Riuscivo a capirlo benissimo. Per tutta la vita mi ero adeguata ai progetti
di qualcun altro, perché non volevo creare problemi e mettere le mie
esigenze davanti a tutto il resto. In fondo, per la maggior parte del tempo
non sapevo nemmeno quali fossero i miei progetti personali. Ma il bisogno
di realizzare il mio sogno stava reclamando a gran voce di poter uscire.
«Certo», risposi, sorridendogli. «Il tuo ristorante. Il tuo menu. Il tuo
locale. Più che logico».
Eravamo sul pick–up ed eravamo tornati su Skidaway Road quando lui
guardò ostentatamente l'orologio. «Sono quasi le due. L'ora di pranzo è
passata da un pezzo. Hai fame?».
Il mio primo istinto fu quello di rispondere di no. Dopo tutto lui era
Danny Stipanek. Il terribile Danny Stipanek. Portami a casa, pensai.
«Sto morendo di fame», ammisi. «Dove possiamo andare? Probabilmente
al Carey Hilliard's si può ancora mangiare».
«Conosco un posto migliore», ribatté Daniel, voltandosi a guardarmi.
«Okay. Dov'è?».
«A Tybee, a casa mia».
Notò la mia espressione esitante.
«Avanti», mi disse in tono suadente. «Il cibo è fantastico e il prezzo
imbattibile. E te lo giuro... niente sesso».
«Figuriamoci», dissi, cercando di prendere un tono sprezzante.
22
La radio sul pick–up di Daniel era sintonizzata su una stazione che non
avevo mai ascoltato – SURF 101, specializzata in vecchi successi.
Non avevo mai sentito prima neanche quella particolare canzone, ma
evidentemente era una delle sue preferite. Lui la intonò con evidente
soddisfazione, segnando il tempo sul volante con le dita, senza sembrare
minimamente imbarazzato nel cantare davanti a me – nonostante avesse una
voce orribile, forte, stonata, nemmeno lontanamente in grado di raggiungere
le note alte.
Il testo traboccava di allusioni sessuali, sessanta minuti a stuzzicare e
sessanta minuti a dare piacere, ecc. Guardai fuori dal finestrino,
sforzandomi di dare l'impressione di trovarmi altrove.
Quando la canzone finì, lui annuì con aria di approvazione.
«Vuoi un consiglio gratuito?», chiesi.
«Dipende».
«Non lasciare il tuo lavoro per tentare la carriera musicale».
«Non ti piace Boxcar Willy?». Aveva un'aria offesa.
«Non l'ho mai sentito nominare».
«Ragazzi», disse lui. «Immagino che questo significhi che non ti piace la
musica da spiaggia, vero?».
«Intendi i Beach Boys e cose del genere? Quel tipo di musica? Immagino
che non siano male, ma non proprio della mia generazione. E neanche della
tua, a ben pensarci».
«Non sto parlando dei Beach Boys», dichiarò Daniel.
«Anche se mi piacciono le loro prime canzoni. No, mi riferisco alla vera
musica da spiaggia, sai, Drifters, Tams, Platters, Swinging Medallions.
Alcuni la definiscono musica da spiaggia della Carolina, altri musica da
scopata perché è musica che puoi tenere in sottofondo mentre scopi».
Ormai ci trovavamo sulla Highway 80 e stavamo attraversando l'ultimo
ponte sul Lazaretto Creek prima di entrare davvero a Tybee. L'acqua sotto
di noi era calma, punteggiata da una mezza dozzina di barche per la pesca
dei gamberetti.
«Vecchi successi», dissi, arricciando leggermente il naso. A me piaceva il
rock classico. «Non sei un po' giovane per la musica degli anni Sessanta?».
«Mai», rispose Daniel. «È stato mio fratello maggiore, Richard, a farmi
apprezzare la musica da spiaggia. Aveva una fantastica collezione di dischi.
Ce l'ha ancora. Vinile vintage. La musica da spiaggia è musica giovane, sai,
"sii giovane, sii sciocco, sii felice". Roba del genere».
«Be', questo mi piace», dissi. Quando era stata l'ultima volta in cui
qualcuno mi aveva esortata a essere sciocca, per non dire felice?
Sulla carreggiata opposta del ponte il traffico era fermo, le auto
incolonnate che svoltavano a destra nell'emporio di Chu. Benché fosse
lunedì c'era parecchio traffico. D'estate a Tybee è sempre così, quando tutta
la Georgia del Sud viene qui a passare una giornata in riva al mare.
«Guarda quello», disse Daniel, scuotendo la testa e indicando un
cartellone pubblicitario sul ciglio della strada.
"Prossima realizzazione – Esclusivo complesso di villette in riva al mare
– A partire da 200.000 dollari".
«Dovresti vederle», continuò, la voce che grondava disgusto. «Scatole da
scarpe prefabbricate, attaccate l'una all'altra fino al margine dell'acquitrino,
ognuna dipinta di un colore diverso. Sembrano caramelle alla frutta».
«Con un tendone a strisce sopra la porta d'ingresso e un sacco di
decorazioni finto vittoriane di pessimo gusto», aggiunsi.
«Le hai viste? Non dirmi che stai pensando di comprare una di quelle
schifezze».
Scoppiai a ridere. «Non ci penso nemmeno. Le ha progettate il mio ex
marito». Indicai la parte inferiore del cartellone, dove spiccava la scritta
"Progetto dello studio di architettura Evans & Associati".
«Mi spiace», disse Daniel.
«Non ne hai motivo. Sono davvero orrende. Una volta Tal avrebbe riso in
faccia a chiunque gli consigliasse di disegnare una cosa del genere. Ma
dopo il divorzio aveva bisogno di soldi. Caroline è... era una donna dai gusti
dispendiosi. Invece della parcella, lo studio ha preso una delle villette
all'estremità del complesso. Credo che lui e Caroline progettassero di
trasformarlo nel loro piccolo nido d'amore sulla spiaggia, finché...».
Distolsi lo sguardo.
«Hai voglia di parlarne?», chiese Daniel. «Io... ehm, non sono affatto
pettegolo, nonostante quello che ti ho detto prima sul fatto di sapere del tuo
divorzio e tutto il resto».
«Ti credo», replicai. «Sono semplicemente davvero stanca di parlarne, al
momento. Senza offesa. Okay?».
«Okay».
Continuò a guidare fino all'estremità di Butler Avenue, oltrepassando il
municipio di Tybee e il nuovo motel DeSoto, una sbiadita costruzione in
cemento che non possedeva nemmeno lontanamente la grazia originale
dell'edificio precedente che era stato raso al suolo, poi svoltò a sinistra su
Delores Street e, subito dopo ancora, a sinistra sulla Gladys.
Le auto, quasi tutte con targhe di altre città, erano parcheggiate in doppia
fila lungo l'intera strada; i frequentatori della spiaggia erano troppo tirchi
per infilare monetine nei parchimetri dei parcheggi pubblici.
Mezzo isolato più giù si infilò in un cortile che era più sabbia che erba.
Spense il motore. «Eccoci qua. L'Hilton traballante».
Aveva definito la casa un cottage ma, per la verità, sembrava più una
baracca che assumesse steroidi. Probabilmente molti anni prima era stata
dipinta, ma il tempo si era alleato con la sabbia e il sale portati dal vento per
scrostare tutta la vernice, lasciandone solo tenui tracce di un blu pallido.
Bassa e a un solo piano sul davanti, con un'ala a due piani sul retro, era
fatta di scandole di legno di cedro, con una malconcia veranda chiusa da
zanzariere che apparentemente girava tutt'intorno alla casa. Sulla facciata
non c'erano due finestre che avessero le stesse dimensioni o la stessa forma,
e le sottofondazioni di mattoni della veranda erano decisamente incurvate.
Il cortile era invaso dalle tracce di una ristrutturazione totale: un
arrugginito frigorifero dorato, cataste di pannelli di fibre da due soldi, una
pila di pezzi di ammuffita moquette di un lanuginoso color oro, e mucchi di
legname, mattoni nuovi, persino una piccola betoniera.
«Quella moquette è la prima cosa che ho tolto», disse Daniel, scendendo
dal pick–up. «E subito dopo è toccato ai pannelli».
«Ben fatto», commentai. Il rivestimento a pannelli da poco prezzo era il
tormento della mia vita. Ne avevo divelti una montagna dalla casa di
Charlton Street. «Non è pericoloso entrare?», chiesi poi. La porta
d'ingresso, a cui mancavano tre o quattro listelli di legno, era spalancata.
«Niente affatto», rispose lui, precedendomi. «Mio fratello Derek è venuto
qui stamattina. Fa l'idraulico. Mi ha montato un nuovo scaldabagno».
«Hai un fratello che fa l'idraulico?». Ero verde d'invidia. Tal era un mago
con progetti e disegni, ma considerava indegna di lui qualunque cosa
somigliasse a un lavoretto da idraulico o da elettricista. Io avevo imparato i
principi fondamentali in fatto di impianti elettrici, ma ero una vera frana
quando si trattava di tubature.
Daniel interpretò la mia domanda nel modo sbagliato, prendendola come
un insulto.
«Sì, ho un fratello che fa l'idraulico. E io faccio il cuoco, e Richard guida
un camion con rimorchio. È un problema, per te? Hai qualcosa contro le
persone perbene che lavorano sodo, e che magari non portano abiti gessati e
non chiamano il loro broker con il cellulare?».
«No», risposi, cercando di chiarire l'equivoco. «Daniel, non volevo
affatto dire questo».
Lui rimase fermo sulla soglia, il viso indurito. «Eppure questa era proprio
l'impressione che davi. Sai cosa penso, Eloise Foley? Penso che tu sia una
fottuta snob, che si crede superiore a tutti gli altri».
«No», dissi con un fil di voce. «Davvero».
«Davvero cosa?».
Il sole mi batteva sul collo e sentivo la mia pallida pelle lentigginosa che
cominciava a scottarsi, formando delle vesciche.
«Dio», gemetti. «Non volevo affatto dire questo. Quello che intendevo è:
un idraulico? Hai un fratello capace di installare uno scaldabagno? Posso
adottarlo? Prenderlo in prestito, è sposato?».
Gli occhi di Daniel si strinsero leggermente. L'azzurro era così brillante
contro la pelle abbronzata. Mi scoprii a chiedermi se lui passasse molto
tempo all'aria aperta. Se senza la camicia fosse così abbronzato dappertutto.
E che aspetto avrebbe avuto senza camicia? L'adolescente allampanato che
ricordavo era scomparso molto tempo prima. Daniel mi superava in altezza
di circa trenta centimetri, ma era solido, muscoloso, con braccia che davano
l'impressione di poter sollevare senza fatica una catasta di legname. I suoi
jeans lisi erano sformati, tranne che sul sedere. Ed era un gran bel sedere,
pensai, ricordando le lodi fattene da BeBe. Dio, cosa c'era di sbagliato in
me?
«A Richard piaceresti», stava dicendo Daniel. «Ma è sposatissimo. E
Rochelle ti farebbe a pezzi se solo tu guardassi suo marito».
«Non lo farò, lo giuro», promisi. «Allora, ci siamo chiariti?».
Lui sospirò. «Sì. Sai, non sta affatto andando come avevo programmato».
Questo mi fece fermare di colpo. «Aspetta un attimo. Oh, merda. Oh, no.
Stavolta ucciderò BeBe. Lo giuro su Dio, è una donna morta. Potresti
accompagnarmi a casa?».
Daniel stava scuotendo la testa. «Dannazione. Dannazione. Dannazione».
«Un complotto», dissi. «Uno schifoso appuntamento combinato. E lei ha
giurato che era un caso che ci fossimo incontrati alla vendita. Una semplice,
innocente coincidenza».
«Ehi», replicò lui, prendendomi un braccio. «Quella parte è stata davvero
una coincidenza».
Ritrassi il braccio di scatto. «Certo. E pensi che io ci creda?».
«Non avevo idea che ci saresti stata anche tu», dichiarò Daniel,
stringendo le labbra. «L'ho scoperto quando ho incontrato BeBe. Stava
pagando i suoi acquisti e mi ha detto che c'eri anche tu».
«Ed è a quel punto che avete organizzato tutto».
«Cristo, Weezie», disse lui in tono supplichevole, «fa un caldo infernale,
qua fuori. Non potresti semplicemente entrare così possiamo parlarne senza
dare spettacolo davanti all'intero quartiere?».
«E poi mi accompagnerai a casa?».
«Ti chiamerò un taxi», borbottò lui. «Sei una vera rompiscatole».
Sulla veranda c'erano perlomeno sette gradi in meno.
«Da questa parte», disse Daniel in tono formale, aprendo la porta della
casa vera e propria.
L'interno sembrava una grossa scatola vuota ma era pervaso da un odore
che adoravo: segatura. E chiodi nuovi. E vernice. Aspirai profondamente e
mi sedetti su una pila di assi di legno.
«Raccontami il tuo piano», gli dissi.
«Volevo solo mostrarti la casa», spiegò lui, in tono implorante. «Magari
prepararti il pranzo. Farti capire che non sono un ragazzino arrapato che
cerca di portarti a letto. È forse un reato federale?».
«Non se mi racconti qual è il piano».
«Ti ho detto che volevo cucinarti il pranzo e mostrarti la casa».
«Mi hai detto che BeBe è dovuta correre al ristorante per un'emergenza»,
lo corressi io.
«Era un'emergenza», sostenne Daniel. «Era l'unico modo in cui potevo
attirare la tua attenzione, così abbiamo raccontato qualche bugia. È tanto
grave?».
«Di chi è stata l'idea che BeBe prendesse il pick–up lasciandomi a
piedi?».
«Sua», ammise lui. «Sai com'è fatta».
«Sì, lo so».
Lui si fissò le scarpe per qualche momento. Logore scarpe da ginnastica
nere macchiate di vernice. «Vuoi mangiare qualcosa?».
«D'accordo».
Mi diede un cinque e mi fece fare un rapido giro della casa. «Abbiamo
abbattuto la maggior parte delle pareti interne», spiegò. «Qui c'erano
all'incirca una dozzina di stanzette minuscole. Io ne avrò meno. Soggiorno–
sala da pranzo, cucina, camera da letto e bagno, e al secondo piano sul retro,
alla fine farò un paio di camere per gli ospiti e un bagno».
«Bel pavimento», dissi, guardando le assi di legno.
«Pino», precisò orgogliosamente lui. «Devo aver estratto circa un milione
di chiodi da moquette. Devo ancora iniziare la lamatura finale».
Il Soggiorno–sala da pranzo aveva la forma di un grosso rettangolo. Una
serie di finestre nuove di zecca, con l'etichetta del fabbricante ancora
attaccata, costituivano la parete posteriore.
«Riesci a crederci?», chiese Daniel. «In questo muro c'era solo una
minuscola finestrella. Derek e io abbiamo montato quelle nuove. Le
abbiamo prese in un deposito di materiali di recupero nel Westside, e
nonostante questo scommetto che le ho pagate più di quanto sia costata
l'intera casa nel '68, quando i miei zii l'hanno costruita».
«Wow», dissi, guardando fuori dalle finestre. Attraverso la veranda
chiusa da zanzariere, che al momento era priva di zanzariere, si vedevano
due enormi dune di sabbia e, nell'avvallamento tra di esse, una striscia color
smeraldo di oceano Atlantico.
«E questa», disse lui, indicando un punto alla sua sinistra, verso l'entrata
dell'ala a due piani, «sarà la mia stanza preferita. La mia cucina. O almeno
lo sarà quando avremo finito i lavori».
Per il momento la sua cucina sembrava costituita da una stufa di bronzo
sistemata accanto a un vecchio frigorifero dalla sommità arrotondata.
Daniel aveva creato un piano di lavoro con una vecchia porta appoggiata su
un paio di cavalletti, e una rastrelliera non verniciata era piena di utensili.
«Dove l'hai preso?», domandai, passando la mano sul frigo anni
Quaranta.
«Era fuori nella rimessa», rispose, felice che mi piacesse. «Mio zio ci
teneva le esche per i granchi e la birra. Funziona ancora perfettamente,
anche se devo sbrinare il freezer se voglio infilarci qualcosa di più di un
paio di vaschette per il ghiaccio».
«È davvero adorabile», dissi, e lui fece una smorfia. «Bello», mi corressi.
Aprii lo sportello, aspettandomi di trovare le tipiche provviste da scapolo,
birra, magari qualche hot dog. Invece il frigorifero era pieno: frutta fresca,
vino bianco, verdura, una mezza dozzina di tipi diversi di senape,
contenitori di plastica ordinatamente etichettati e una confezione da sei di
birra, sì, ma d'importazione.
«Ti piace davvero cucinare», commentai.
«Non stavo scherzando a proposito del pranzo», disse lui. «Ti piace la
zuppa?».
«Zuppa? Non fa un po' troppo caldo per preparare una zuppa? Mi
aspettavo qualcosa come panini con il burro d'arachidi o formaggio».
«Siediti», disse, indicando un malconcio sgabello di legno nell'angolo.
«Vuoi un po' di vino?».
«No, grazie», risposi, rabbrividendo al ricordo dei postumi della sbornia
di quella mattina.
«Allora acqua». Prese una caraffa dal frigo e me ne versò un bicchiere.
Rimasi seduta sullo sgabello a guardare. BeBe aveva ragione. La gente
sarebbe stata disposta a pagare pur di osservare Daniel mentre cucinava.
I suoi movimenti erano rapidi, efficienti. Prese un contenitore dal frigo,
lo aprì e mi mostrò il contenuto rosato.
«Zuppa di frutti di mare fredda», disse. «Ti piacciono i frutti di mare,
vero?».
«Li adoro».
Dopo pochi secondi aveva già sminuzzato una manciata di erbe
aromatiche e le aveva lasciate cadere nella zuppa, poi aveva aggiunto del
vino bianco preso dalla bottiglia nel frigorifero.
Da un cestino sotto il piano di lavoro di fortuna recuperò un lungo filone
di pane francese, che affettò rapidamente. Da un altro cestino prese due
grossi pomodori che tagliò a fette spesse e sistemò sul pane, aggiungendovi
poi del bianco formaggio cremoso conservato in una ciotola piena d'acqua
nel frigo.
«Mozzarella di bufala», spiegò, notando il mio sguardo di interesse. «Ce
la facciamo spedire in aereo da Atlanta».
Una volta preparati i sandwich, estrasse un pacchetto di erbe avvolto in
un tovagliolo di carta e sistemò qualche fogliolina su ogni panino.
«Basilico», disse. «Lo coltivo in vaso, in città. Spero che cresca bene
anche qui». Sopra il basilico versò un filo d'olio da un contenitore che
teneva sul banco di lavoro.
Distribuì la zuppa in due ciotole spaiate, che sistemò su un vassoio
insieme ai sandwich e a due bottiglie di birra.
«Andiamo a mangiare sulla veranda», propose.
Ci sedemmo su secchi di vernice capovolti e io assaporai il miglior picnic
della mia vita.
Alla fine lavai i piatti mentre Daniel scaricava i suoi tesori dal pick–up.
«Vuoi andare a fare una nuotata?», mi chiese, tornando in cucina.
«Non ho il costume», risposi in tono di scusa.
«Mmm», disse lui, passandosi le mani tra i capelli.
«Non importa. È stato fantastico, Daniel, ma devo proprio tornare a
casa».
«Okay. Ma l'oceano sarà sempre qui. E l'invito resta valido».
«Magari un'altra volta. Quando avrò il costume da bagno», dissi.
«Come vuoi», ribatté lui.
23
***
«Come trovi il pasticcio, Weezie?», chiese con voce tonante Randy dalla
sua estremità del tavolo.
«Squisito», risposi, tenendo la mano posata delicatamente sul petto.
«Devi darmi la ricetta, Randy», disse Daniel. «Lo chiamerò Pasticcio
Bluffton. Lo includerò nel menu, a diciannove dollari e novantacinque, e
quei turisti lo divoreranno».
«Niente da fare, a meno che tu lo chiami Pasticcio Bluffton di Rucker»,
ribatté Randy. Stava facendo girare un'altra bottiglia. Ormai avevo perso il
conto di quanto vino avevo bevuto, ma era parecchio. Apparentemente, ogni
volta che il mio bicchiere cominciava a svuotarsi, qualcuno veniva a
riempirlo.
«È una vecchia ricetta di famiglia?», domandai.
«Forse della famiglia di Martha Stewart», rispose lui. «Merijoy l'ha
copiata da quella sua rivista».
«Ma Martha Stewart non può avere i gamberetti di Bluffton», sottolineò
Daniel.
«O il granturco coltivato nella fattoria del padre di Merijoy», disse
Randy. «Quindi il suo pasticcio non può essere buono come questo».
«Dobbiamo andarcene», bisbigliai a Daniel, «prima che questo vestito si
apra in due».
«So che non vedi l'ora di rimanere sola con me per fare cose innominabili
sul mio corpo, ma è da maleducati andarsene a metà della cena», rispose lui
senza nemmeno muovere le labbra.
«Allora sbrigati a mangiare, dannazione», replicai.
«Calmati o farai saltare un'altra cucitura», sussurrò Daniel.
«Ascoltate», stava dicendo Merijoy. «Sapete che non sono tipo da fare
oziosi pettegolezzi...».
«Ah!», esclamò Jonathan. «Ti vogliamo bene, Merijoy, ma ammettilo: sei
la regina dei pettegolezzi di Ardsley Park».
«Sono solo una dilettante», protestò lei. «Ma questa faccenda di Caroline
DeSantos è così affascinante. Insomma, Weezie, mi dispiace che tu vi sia
rimasta accidentalmente coinvolta, ma davvero, è tutto così intrigante.
Quello che vorrei sapere è cosa ci faceva Caroline nella villa a quell'ora di
notte».
Si guardò intorno in cerca di approvazione. Sperai che nessuno chiedesse
cosa ci stavo facendo io, nella villa, quando avevo trovato il corpo.
Soprattutto con il viceprocuratore distrettuale seduto proprio accanto a me.
«Non si diceva che sarebbe stata lei l'architetto della nuova cartiera?»,
chiese Doug.
«Lo si diceva», dichiarò sarcasticamente Merijoy. «Solo che trovo
difficile credere che un affarino pelle e ossa come lei abbia ottenuto un
incarico così importante solo pochi mesi dopo essersi trasferita a Savannah
e aver cominciato ad andare a letto con Talmadge Evans».
Feci una smorfia, ma quella era un'altra delle domande che mi ero fatta.
«Scusa, Weezie», disse Merijoy. «Ma, davvero, lo studio di Tal non si
occupava soprattutto di edifici residenziali?».
«Si occupava di parecchi edifici residenziali e di qualche stabile
commerciale», risposi. «Qualche banca, un paio di chiese e alcune
abitazioni multifamiliari. Non penso che lui si sia mai dedicato granché al
design industriale».
«Secondo voi come ha fatto una ragazza affascinante come lei a ottenere
quel lavoro?», domandò Doug.
«Guarda chi l'ha assunta», ribatté Merijoy.
«La società di produzione della carta? Phipps Mayhew?», chiese Judy
Hunter.
«Phipps l'avrà assunta», precisò Randy, «ma probabilmente ha solo
seguito le raccomandazioni di qualcuno del posto».
«Gerry Blankenship», ipotizzò Merijoy. «È l'avvocato della signorina
Ann Ruby. Ed è l'uomo con cui Caroline ha partecipato al servizio funebre.
Il vecchio idiota non riusciva a levarle gli occhi di dosso».
«Bisogna ammettere che Caroline era un gran bello spettacolo per gli
occhi», commentò Doug, guadagnandosi uno sguardo furioso da parte della
moglie.
«Gerry Blankenship», disse la signora McDowell, facendo schioccare la
lingua. «Era uno dei miei piccoli alunni quando insegnavo catechismo. Che
canaglia. Sembra avere le mani in pasta dappertutto, vero?».
«Si dice sia ben introdotto», commentò Doug. «E il vecchio Gerry è
immanicato in un modo che non capirò mai».
«Sua madre era una Cargill», disse Sudie. «Una grande e antica famiglia
di Savannah. Non so molto dei Blankenship. Credo che suo padre fosse un
commesso viaggiatore o qualcosa del genere».
«Quel tizio non ha nemmeno una laurea in legge vera e propria»,
brontolò Doug.
«Davvero?», chiese Merijoy, senza fiato per l'eccitazione. «Allora forse il
testamento della signorina Ann Ruby non è legale».
«No, credo che la laurea sia valida», replicò Doug. «Ma lui non ha
frequentato la Emory o la Mercer o la University of Georgia».
«Secondo Doug, chiunque non abbia frequentato l'università della
Georgia è solo un avvocatuccio passacarte», spiegò Judy ridendo.
«Immagino che questo faccia di me un avvocatuccio», dichiarò Jonathan.
«Io sono andato alla Emory».
«Sai cosa voglio dire», ribatté Doug. «Blankenship si è laureato alla
vecchia Ben Franklin University, la fabbrica di lauree che un tempo operava
giù in centro. Lo stato l'ha chiusa nei primi anni Settanta, ma in città gira
parecchia gente che si è laureata in legge là».
«Gente assolutamente in gamba», sottolineò Jonathan. «Abbiamo un paio
di laureati della Ben Franklin nel nostro ufficio. Naturalmente non se ne
vantano».
«Mi piacerebbe sapere cosa ne sarà dell'arredamento, se demoliscono la
vecchia casa», disse Sudie. «Ricordo che la signorina Ann Ruby aveva dei
pezzi magnifici. In sala da pranzo c'era un tappeto Aubusson con tonalità di
rosa, crema e color pesca. Splendido».
«È Weezie la persona a cui chiedere informazioni sul mobilio», disse
Merijoy. «La villa era piena di pezzi di antiquariato quando siamo andate là
per il servizio funebre. Ma la vendita degli arredi è stata cancellata dopo...
sapete cosa».
Sembrò che tutti gli occhi si rivolgessero verso di me. Avevo addosso la
giacca di Daniel ma percepii distintamente una corrente d'aria sul petto.
«La organizzeranno di nuovo?», chiese Emily Flanders, guardandomi.
«Non ho saputo niente in proposito», dichiarai, cercando di prendere un
pezzo di pasticcio con una mano mentre tenevo chiusa la giacca con l'altra.
«Vi dirò io cosa ho saputo», annunciò Judy Hunter. «Si dice che chiunque
diriga le cose, a Beaulieu, abbia cominciato a vendere i mobili davvero
pregiati».
La mia forchetta si bloccò a mezz'aria. «A chi?».
Judy fece una smorfia. «Conosce Lewis Hargreaves?».
«Sì». Recitai una breve preghiera silenziosa. Ti prego, fa' che non gli
vendano la credenza di Moses Weed. Quella no.
«Sabato scorso ero dal parrucchiere e Vivian Chambers era seduta sotto il
casco accanto a me mentre mi tagliavano i capelli. Stava parlando al
cellulare – sapete com'è cattiva la ricezione in centro, quindi lei aveva
alzato parecchio la voce. Immagino che stesse chiacchierando con il suo
arredatore perché stava dicendo di aver ricevuto una telefonata da Lewis
Hargreaves a proposito di una credenza Sheraton proveniente da Beaulieu.
Stava chiedendo all'arredatore di raggiungerla nel negozio di Lewis per dare
un'occhiata al mobile e dirle se avrebbe dovuto comprarlo. E le ho sentito
citare anche il prezzo – diciottomila dollari. Non è pazzesco? Per un solo
mobile?».
«Non pensare neanche di mettere piede nel negozio di quel tizio», le
intimò Doug, puntandole contro un dito accusatore.
«Chi? Io?». Judy sbatté le ciglia. «Non preoccuparti. Quell'uomo mi dà i
brividi. E i suoi prezzi sono assurdi».
Merijoy posò i gomiti sul tavolo e si protese in avanti. «Jonathan, tutto
questo non ti sembra decisamente, strano?».
Jonathan rifletté. «L'omicidio è sempre strano, Merijoy».
«Dico sul serio», continuò lei. «L'intera faccenda della cartiera da
costruire a Beaulieu. Conoscevo la signorina Ann Ruby. Nel corso
dell'ultimo anno le ho parlato diverse volte dell'eventualità di lasciare la
casa all'associazione per la conservazione di Savannah, che l'avrebbe
trasformata in un museo. Non aveva detto di sì ma non aveva nemmeno
esplicitamente rifiutato. E di certo non ha mai accennato di volerla vendere
perché potessero costruire una cartiera. Amava quella casa, ed era l'ultima
discendente della famiglia, quindi non era come se avesse avuto intenzione
di lasciare i soldi a parenti o altro».
Sudie McDowell stava scuotendo il capo. «Un'altra cartiera. Proprio
quando l'aria e l'acqua stavano finalmente tornando pulite dopo essere state
inquinate per anni dalla fabbrica di sacchetti di carta».
Doug si schiarì la voce. «Ora, quanto sto per dirvi non deve uscire da
qui», ci mise in guardia, «ma da quello che si sente dire in tribunale questo
Mayhew potrebbe aver trovato sulla sua strada un ostacolo da parte dei tizi
dell'agenzia per la protezione ambientale».
«Che genere di ostacolo?», chiese Merijoy.
«Qualcosa circa una dichiarazione di impatto ambientale», rispose Doug.
«Non sono un esperto di tutte le normative ambientali dello stato, ma ho
saputo che la loro proposta prevede il prosciugamento di tutti i vecchi canali
delle risaie laggiù. E sapete come sono questi burocrati quando si tratta di
permettere a qualcuno di toccare le zone paludose».
«Forse questo è l'unico caso in cui i burocrati sono dalla parte della
ragione», commentò Randy. «Quella è una splendida proprietà affacciata
sulla palude. Detesto l'idea che una fabbrica sporchi l'acqua laggiù. Quando
ero bambino, il posto migliore del fiume in cui pescare granchi era proprio
il vecchio pontile di Beaulieu. La pesca era eccezionale, così come la
caccia. La signorina Ann Ruby permetteva a mio padre di tenere lì un
nascondiglio per la caccia alle anatre».
«Sì», confermò Daniel in tono grave, passando di nuovo il piede nudo
sulla mia gamba. «Là c'erano una fauna e una flora selvatiche davvero
meravigliose, quando eravamo ragazzi, vero, Weezie?».
Feci per colpirgli di nuovo il piede, ma quando mi chinai in avanti sentii
saltare un altro punto.
Adesso tutti mi stavano guardando. Presi un generoso sorso di vino.
«Chiedo scusa», dissi, arrossendo di nuovo. «Di cosa stavate parlando?».
«Daniel stava semplicemente confermando che sarebbe un vero peccato
perdere un monumento storico come Beaulieu», spiegò Merijoy, poi si alzò.
«Tutti pronti per il dessert? Lo hanno preparato gli Otwell, ma la loro baby–
sitter ha dato forfait all'ultimo minuto, così Sally Ann l'ha portato qui prima
che la cena iniziasse. Si scusano di non essere potuti venire. Ora, credo che
potremmo prendere il dessert e i drink dopo cena in biblioteca», disse. «E
immagino che Randy abbia un paio di quei suoi orrendi sigari, se qualcuno
ha voglia di avvelenarsi i polmoni».
Era il momento giusto per poter fuggire. Tutti si stavano alzando e
stavano dando una mano a sparecchiare.
«Andiamo», dissi, afferrando il braccio di Daniel mentre lui si
incamminava verso la porta.
«Così presto?», chiese, fissando senza mezzi termini la mia scollatura
sempre più ampia. «La situazione cominciava proprio adesso a farsi
interessante».
Ignorandolo, raggiunsi Merijoy.
«Grazie mille per l'invito, Merijoy», le dissi. «È stata una splendida
serata ma siamo costretti ad andarcene presto. Il cercapersone di Daniel ha
appena suonato. Una piccola emergenza al ristorante».
«Oh, no», ribatté lei, facendo il broncio. «Che seccatura. Ma tu rimani,
Randy può accompagnarti a casa dopo il dessert».
«No, no», mi affrettai a replicare. «Ho avuto una giornata faticosa e
domattina devo alzarmi alle cinque. È giorno di vendite, sai».
«D'accordo, ma devi promettermi che verrai di nuovo a cena qui».
«Prometto».
Daniel ci raggiunse e baciò la mano di Merijoy. Pensai che lei sarebbe
svenuta. «Mi spiace di dover andare», spiegò lui, «ma il cane di Weezie è
scappato e dobbiamo correre a casa a cercarlo».
Fui tentata di prenderlo a calci.
Merijoy assunse una strana espressione, poi sorrise. «Smettetela con
queste sciocchezze», ci intimò. «Ricordo com'era essere giovani e
innamorati. E vedo che volete rimanere soli. Quindi forza, andate».
Lui mi cinse le spalle con un braccio. «Ora posso riavere la mia giacca,
tesoro? Comincio ad avere freddo anch'io».
29
«Sei arrabbiata con me?», mi chiese Daniel dopo che gli gettai la giacca e
mi incamminai a grandi passi verso il pick–up.
Issandomi sul sedile, sentii saltare altri punti. Abbassai lo sguardo e vidi
che la cucitura sul fianco destro dell'abito si era aperta fino a metà coscia. A
quel punto non mi importava più. Daniel mi aveva già visto il seno. Era
troppo tardi per il pudore, ormai.
«Riportami a casa e basta, per favore», gli chiesi, incrociando le braccia
sul petto.
«Non sono nemmeno le dieci», protestò lui. «Che fretta c’è?».
«Nel caso tu non l'abbia notato, il mio vestito si sta disintegrando»,
risposi.
«Be', diavolo, a me non dispiace, se non dispiace a te».
«A me dispiace».
«Devi ammetterlo, Weezie, il tuo vestito ha reso davvero eccitante la
serata. Hai mai visto quel film di Alfred Hitchcock in cui un tizio penzola
dalla torcia stretta nella mano della Statua della Libertà? E c'è un altro tizio
che lo sta tenendo per la manica della giacca. E tutt'a un tratto la macchina
da presa fa uno zoom sulla manica che si sta scucendo, un punto dopo
l'altro. Pop. Pop. Pop. E più o meno tre punti sono tutto ciò che impedisce al
tizio di cadere sfracellandosi al suolo. Il tuo vestito è un po' così, sai? Pieno
di suspense».
«Sono lieta che tu abbia apprezzato lo spettacolino», dissi. «Ma in fin dei
conti non eri tu quello che rischiava di trovarsi a seno nudo al tavolo della
sala da pranzo davanti a Dio, al viceprocuratore distrettuale e alla sua dolce
mammina dai capelli bianchi».
«Ti ho dato la mia giacca. Cos'altro avrei potuto fare?».
«Niente. Sei stato davvero di grande sostegno, tranne quando mi guardavi
dentro la scollatura o mi tastavi l'inguine con le dita dei piedi».
«Ti è piaciuto. Ammettilo».
«Maiale».
«Okay», disse lui, svoltando in Abercorn Street. «Così ora so cosa ti
eccita. Vuoi sapere cosa eccita me?».
«Lo so già», risposi. «Pressoché tutto, compreso palpare le donne in
pubblico».
Daniel sospirò. «E io che ero convinto di fare quello che mi avevi
chiesto. "Comportati come se io ti piacessi, Daniel", dice lei. "Sii mio
amico". Mi stavo semplicemente dimostrando amichevole».
«È stato imbarazzante. Ora Merijoy pensa che ce ne siamo andati così in
fretta per correre a infilarci in un letto». Mi nascosi il viso tra le mani.
«Dio».
«Ho solo detto che dovevamo andare a casa perché il tuo cane era
scappato», puntualizzò Daniel.
«Io le avevo già raccontato una bugia diversa, a proposito di
un'emergenza al ristorante».
«Preferisco la mia versione», commentò lui.
«Ormai non ha la minima importanza. Hai sentito cosa hanno detto gli
amici di Merijoy: lei è la regina dei pettegolezzi di Ardsley Park. Sapeva
che stavamo mentendo. Entro domattina la notizia si sarà diffusa in tutta la
città. Weezie Foley si scopa quel gran bel fusto dello chef del Guale».
«Lei pensa che sia un gran bel fusto? Davvero?». Daniel si guardò nello
specchietto retrovisore, sistemandosi i capelli con le dita. Sembrava
estremamente compiaciuto. «Gran bel fusto. Mi piace. Probabilmente
gioverà anche agli affari. BeBe ne sarà felice».
«Già. Sarai l'uomo più sexy e desiderato della città. E io sarò la
sgualdrina ex galeotta che raccoglie rifiuti. Mamma e papà saranno così
fieri di me».
«Ehi», disse lui, mettendo una mano sopra la mia. «Non prenderla così
sul serio. Ti preoccupi troppo, lo sai?».
La mano di Daniel era calda. Accarezzò delicatamente la mia e io la
ritrassi di scatto.
«Ho un sacco di cose di cui preoccuparmi», dichiarai. «La mia vita fa
schifo, ma finora la gente mi giudicava una nullità simpatica e perbene».
«Agli ospiti dei Rucker sei piaciuta. Ti dirò la verità: mi aspettavo che
sarebbero stati solo un branco di snob presuntuosi, invece sono stati tutti
molto cordiali».
«Non è stato poi così male», ammisi, «finché non hanno cominciato a
parlare di Caroline. E Tal».
«Hai affrontato la cosa con molta disinvoltura», commentò lui. «Gran
classe».
«Davvero?».
«Assolutamente sì».
«Grazie. Questo mi consola. Almeno un po'».
«Allora, cosa ne dici di terminare la cena?».
«Mi spiace, non me la sento di affrontare di nuovo quelle persone, non
con questo vestito. Sta davvero andando in pezzi».
«Non intendevo dire dai Rucker, pensavo che potevamo passare dal
ristorante a prendere un dessert da portare via».
«Be'...».
«Non sarai una di quelle donne che non mangiano dolci, vero?», chiese
con un'aria preoccupata.
«Diavolo, no», risposi. «Adoro i dolci. È uno dei motivi per cui preparo i
cheesecake per BeBe. Tal era incredibilmente goloso. Ora che sono single
non ho molte scuse per fare torte».
«Allora», disse lui, infilandosi nel vicoletto dietro il ristorante, «cosa
vuoi per dessert, Weezie Foley?».
«Cioccolato. Senza dubbio cioccolato».
***
La casa della cugina Lucy era un lindo cubo di mattoni situato in una
stretta stradina di Thunderbolt. Un tempo Thunderbolt era un villaggio di
pescatori sulla riva del fiume Wilmington; negli anni Ottanta, però, i
gamberetti scomparvero quasi completamente, e adesso è solo un sobborgo
di Savannah.
La mamma aprì la porta d'ingresso chiusa a chiave. Entrai e per poco non
svenni. La casa puzzava come il fondo di un portacenere.
«Bleah!», esclamai, facendomi vento con una mano. «Ora capisco perché
la statuina sta piangendo».
«Non essere blasfema. Lasciami solo arieggiare un po' la stanza», disse la
mamma, aprendo tende e finestre.
L'aria fresca migliorò la situazione, ma non di molto. Mi guardai intorno
nel soggiorno. Tutto era di un giallo opaco: pareti, pavimenti, tende, persino
la moquette logora e macchiata. Ogni cosa era rivestita da una sottile patina
color nicotina.
«Non è grazioso?», chiese mia madre, passando le mani sul bracciolo di
un divano. «La cugina Lucy ha speso parecchio per questi mobili, sai».
Il divano, un modello troppo imbottito e con i braccioli rotondi, risaliva
agli anni Quaranta ed era rivestito di tessuto marrone felpato. C'erano anche
due poltrone coordinate. In un'altra casa me ne sarei impadronita al volo,
ma questi avevano quella disgustosa patina giallastra causata dal tabacco.
Per poterli utilizzare sarebbe stato necessario togliere la stoffa e
ritappezzarli completamente. Un'operazione tutt'altro che economica.
«Guarda questa sala da pranzo», disse la mamma, oltrepassando la soglia
ad arco che portava nella stanza accanto. Erano dei bei mobili in mogano,
realizzati nel Michigan e risalenti anch'essi agli anni Quaranta: tavolo, sei
sedie, un buffet e una vetrinetta per le porcellane. Vedevo mobili del genere
a una vendita su due, a Savannah.
«Sono veri pezzi di antiquariato», spiegò lei. «Pensavamo di poterne
ricavare un migliaio di dollari. Un vero affare, vero?».
«Molto carina», commentai, cercando di essere evasiva. Con il passare
del tempo la vernice su tutti i mobili si era annerita e probabilmente sarebbe
stato necessario rimuoverla. Ancora una volta, non molto conveniente.
«Le camere sono da questa parte», annunciò la mamma. La seguii
nell'ingresso. Lei si fermò davanti a una piccola nicchia nella parete e cadde
in ginocchio.
«È il Bambin Gesù di Praga», sussurrò, indicando la nicchia.
Il Bambin Gesù di Praga era identico a tutte le altre statuine che avevo
visto in pressoché tutte le case di piccole e anziane signore cattoliche in cui
fossi mai entrata. Gesso dipinto, con un'espressione perplessa sul viso. Ma
niente lacrime, a quanto potevo vedere.
«Non vedo niente», dichiarai.
«Perché lui sa che non sei credente».
«Se lo dici tu».
Infilai la testa in quella che doveva essere stata la camera da letto
padronale. Conteneva il solito assortimento di quadri, targhe e santini
religiosi. Il mobilio non era male. Il letto di Lucy era un pezzo vittoriano,
intagliato e con la testiera alta; c'erano anche un tavolino da toeletta di
quercia coordinato, bombato e dotato di uno specchio, un treppiede con una
bacinella per lavarsi e un comodino. Il puzzo di sigaretta, tuttavia, mi
costrinse a tornare nell'ingresso.
«Dobbiamo far entrare un po' d'aria», dissi, tossendo.
Riuscimmo ad aprire alcune finestre, e in un armadio trovai un piccolo
ventilatore che sistemai nell'ingresso per creare un po' di corrente.
La mamma si fermò sulla soglia della camera di Lucy. «Questa roba di
quercia è scadente, lo so, ma credo che sia stata la madre di Lucy a
lasciargliela in eredità».
La camera "degli ospiti" conteneva un set di mobili di mogano tutti
graffiati costituito da due letti a baldacchino gemelli, un canterano, un
mobiletto basso a cassetti, un tavolino da toeletta e due comodini. Risaliva
alla stessa epoca della sala da pranzo: mobilio marrone robusto, solido,
rispettabile e noioso.
I copriletti erano di ciniglia rosa, con grandi medaglioni raffiguranti delle
rose. Se mai fossi riuscita a eliminare il tanfo di sigarette, avrei potuto
venderli su Internet per un centinaio di dollari.
«Allora?».
«Lasciamici pensare».
La sua espressione si fece triste. «Ho detto ai cugini che probabilmente
avresti comprato tutto».
«Lo so», dissi in tono di scusa, «ma ho fatto un grosso acquisto di merce
proprio ieri. Tutto il mio denaro è investito in quella e finché non la rivendo
non ho contanti da spendere».
«Potremmo aspettare».
«No. Sai cosa ti dico? Prenderò il contenuto delle due camere da letto.
Trecento dollari sarebbero sufficienti?».
«Per quella roba scadente? Ma cosa mi dici di quella bellissima sala da
pranzo in mogano? Preferiresti sicuramente prendere quella. È vero
mogano, sai».
«È splendida», mentii, «ma non ho posto in cui sistemarla. Credo che tu e
i cugini dovreste organizzare una vendita. Non sarebbe carino?».
«Immagino di sì», rispose, con una leggera esitazione.
«Bene», replicai, prendendo la borsa. «Se mi dai la chiave tornerò qui
dopo averti riportata a casa e caricherò i mobili delle camere sul pick–up».
«Non puoi sollevare quella roba pesante. E sai com'è ridotta la schiena di
tuo padre».
«Mi troverò un aiutante», dissi. E avevo un'idea piuttosto precisa del tipo
di aiutante che mi serviva. Estrassi il libretto degli assegni. «A chi devo
intestare l'assegno?».
La mamma strinse le labbra. «Be', i cugini hanno detto che preferirebbero
dei contanti. Sai, visto che sei stata arrestata e tutto il resto».
35
Avevo davvero bisogno d'aiuto per spostare tutti quei mobili così pesanti,
mi dissi mentre percorrevo il ponte che portava a Tybee. Girai intorno a
casa sua due volte. Il suo pick–up era lì.
Era il suo giorno libero. Un aiuto per sollevare oggetti pesanti, mi dissi,
non volevo altro.
Certo.
Bussai ma non ebbi risposta. All'interno dell'abitazione sentii il suono
stridente di una sega elettrica. Torna a casa, mi dissi. Chiama Karl. Karl è il
mio factotum. Sbriga lavoretti di vario genere per me, per esempio spostare
mobili. Ha cinquant'anni, è calvo, e non crede nei deodoranti. Ma possiede
un carrellino e una rampa per il suo pick–up. Chiama Karl, mi dissi,
aprendo la porta di Daniel e scavalcando una catasta di legname.
Ma lui era girato di schiena, senza maglietta; era chino sopra un'asse
appoggiata su un cavalletto, sulla quale stava passando con movimento
fluido una sega elettrica. I muscoli delle sue spalle guizzavano mentre
lavorava, e io mi dimenticai all'istante di Karl.
Era sudato e mezzo nudo. La cintola dei jeans gli arrivava giusto ai
fianchi, e vidi la fascia elastica dei suoi boxer. Mi chiesi da quando in qua
trovavo eccitante la biancheria intima di un uomo e mi risposi che era da
quel preciso istante.
«Daniel!», gridai.
Lui finì di tagliare l'asse, la cui estremità cadde rumorosamente sul
pavimento di linoleum.
«Daniel!», chiamai di nuovo. Si voltò, sempre stringendo la sega. Sgranò
gli occhi per lo stupore. Spense la sega.
«Ciao», disse. «Cosa ci fai qui?».
Ottima domanda. Cosa ci facevo lì? Aveva della segatura tra la peluria sul
torace. Avrei voluto toglierla. Cominciare da lì. No. Male. Malissimo.
Chiusi gli occhi nel tentativo di liberarmi dell'immagine di noi due che
rotolavano su un letto di segatura.
«Io... ehm...». La voce mi uscì stridula, come quella di Minnie che avesse
appena inalato dell'elio. «Avrei bisogno di una specie di favore».
Lui posò la sega sul pavimento, prese la maglietta posata sulla spalliera
di una sedia e se la infilò. Bene. Molto meglio. Riuscivo a pensare più
lucidamente senza vedere il suo torace, per non parlare della pancia piatta
come un'asse.
«Davvero?», chiese con disinvoltura. «Che genere di favore?».
Raggiunse un frigo rosso e prese una bottiglia di birra. La sollevò verso
di me. «Vuoi una birra?».
Sì. Una birra. L'ideale per risolvere i problemi di voce. No. Avevo un
lavoro da sbrigare.
«No, grazie», risposi. «Ho appena comprato un carico di mobili e volevo
portarli via dalla casa in cui si trovano. È qui vicino, a Thunderbolt».
«A Thunderbolt», ripeté lui.
«La persona che di solito mi aiuta a spostare la roba è fuori città»,
spiegai. Tecnicamente non era una bugia, visto che tecnicamente Karl abita
a Port Wentworth che, tecnicamente parlando, è un paesino a sé stante e non
una parte in Savannah, quindi è di fatto fuori città.
«I mobili sono a casa della cugina di mia madre. Immagino che questo la
renda anche mia cugina», continuai. «È morta la settimana scorsa, e sto
comprando una parte del suo mobilio, una specie di favore a mia madre. Ma
ho bisogno di portarlo via in modo che si possa preparare la casa per
metterla in vendita».
Daniel bevve un sorso di birra. Si sedette sul bordo del cavalletto. «E
quando si pensa al lavoro manuale, viene subito in mente il buon vecchio
Daniel».
Mi accigliai. «No. Be', sì. Voglio dire che sei forte. Ti tieni in esercizio.
Non posso spostare i cassettoni da sola. Sono grossi e pesanti. Per non
parlare dei letti».
Letti. Gemetti dentro di me. Stupida. Stavo diventando rossa come un
pomodoro.
«Letti, eh?», ribatté lui. «Perché non chiedi al tuo ex marito di darti una
mano con quelli? Dà proprio l'impressione di saperci fare».
«Volevo parlarti di questo», dichiarai, senza sollevare lo sguardo. «Voglio
chiederti scusa. Non è come credi. Era ubriaco. Non l'avevo mai visto così».
«Cosa voleva?», chiese Daniel in tono disinvolto. Niente di importante.
«Compassione», risposi. «Voleva dirmi che con Caroline le cose non
avevano funzionato. Voleva dirmi che gli manco».
Alzai gli occhi verso di lui, sperando in un barlume di comprensione. Si
limitò ad annuire, come se quella fosse una storia che aveva già sentito.
«In realtà», aggiunsi, correggendo quanto avevo appena detto, «credo
abbia dimostrato chiaramente che non sono io a mancargli quanto piuttosto
la mia cucina. E le mie tazze da caffè».
«Tazze da caffè?».
«Tal è il prototipo del WASP», spiegai. «Estremamente represso. Sua
madre gli compra ancora la maggior parte dei vestiti».
«Non è solo la tua cucina a mancargli», commentò Daniel, osservandomi.
«È ancora innamorato di te».
«Credi?».
«Ieri notte stava praticamente ululando alla luna».
«Ha mangiato la mia Seduzione al cioccolato e ha rovesciato il vino sulla
moquette. Ho temuto che mi vomitasse sul divano. L'ho buttato fuori a
calci».
«Questa volta», replicò Daniel. Bevve un altro lungo sorso di birra.
«Cosa vorresti dire?».
«L'hai buttato fuori perché era ubriaco e dava spettacolo ma se si
presentasse alla tua porta perfettamente sobrio, tutto pulito e in ordine,
sarebbe tutta un'altra storia. Torneresti di corsa tra le sue braccia».
«No», dichiarai, alzando il mento. «È finita. Non sono più innamorata di
lui. Ecco cosa stavo cercando di dimostrarti ieri sera. Sul divano».
Daniel sospirò. «Stavi cercando di dimostrarlo a me o a lui? Stavi
cercando di far ingelosire il tuo ex marito perché capisse che cosa si stava
lasciando sfuggire? Sapevi sicuramente che avrebbe visto il mio pick–up
parcheggiato là fuori. Diavolo, probabilmente ci stava spiando dalle
finestre. È una cosa che ti eccita?».
«No», gridai. «Dio, è questo che pensi di me? Pensi che io stia giocando
con te?».
Lui incrociò le braccia. «Dimmelo tu. Un attimo prima mi dici di non
toccarti né guardarti e subito dopo torni da me coperta solo da un
accappatoio».
«Era un kimono», precisai. «E mi copriva dal collo alle caviglie».
«Sotto eri nuda», ribatté bruscamente lui. «Quando si parla di messaggi
contraddittori...».
«Okay», dissi, ricacciando indietro le lacrime, determinata a non
piagnucolare davanti a lui. «Non importa. Se pensi che voglia solo
provocarti, che stia giocando con te, non importa. Ora vado. Scusa se ti ho
offeso».
Mi voltai per andarmene, decisamente e con dignità.
«Merda», gli sentii mormorare. «Mi stai facendo impazzire, lo sai?», mi
gridò dietro. «Mi trasferisco di nuovo a Savannah, convinto di poter
condurre una vita piacevole e priva di complicazioni. Cucinare un po',
pescare un po', ristrutturare la casa sulla spiaggia, magari andare a letto con
un paio di cameriere. Un'esistenza piacevole, tranquilla e semplice. Poi
arrivi tu e mandi tutto all'aria».
«Ti chiedo scusa per il disturbo», dissi, senza curarmi di voltarmi, la
mano posata sulla porta d'ingresso.
«Aspetta un attimo», replicò. «Lasciami solo chiudere casa e ti aiuterò
con i tuoi dannati mobili. Ma non intendo spostare pianoforti e non porto
niente fino al secondo piano. Chiaro?».
Tirai su con il naso. «Chiaro».
36
«Caspita», disse Daniel quando entrò nel soggiorno della cugina Lucy.
«Ti avevo avvisato».
Si guardò intorno nella stanza, passò un dito su un tavolino coperto da
una patina di nicotina. «Pensa solo all'aspetto che devono aver avuto i
polmoni di quella donna», commentò in tono stupito. «Quanti anni aveva
quando è morta?».
«Novantatré», risposi. «Probabilmente il catrame era l'unica cosa che la
teneva in vita». Indicai il corridoio. «Le camere sono da quella parte».
Lui infilò la testa nella camera degli ospiti. «Cominciamo da qui?».
«Perché no?».
Tolsi i copriletti di ciniglia dai due letti, seguiti dalle lenzuola e dal resto
della biancheria.
«Sembra quasi che qui viva qualcuno», commentò Daniel, indicando
l'anta dell'armadio aperta.
Una fila di camicette e calzoni era appesa ordinatamente alla sbarra.
«Ehi», dissi, estraendo una camicetta rosa a fiori che conoscevo bene,
«questa è di mia madre».
Presi un cuscino e lo annusai. Lacca per i capelli e whisky. L'aroma che
costituiva il marchio di fabbrica di Marian Foley.
«Che io sia dannata», aggiunsi. «Sta dormendo in questo letto».
«E con ciò?».
«Mi chiedo come mai non me lo abbia detto».
«Forse è stata qui quando tua cugina era malata», suggerì Daniel.
«Immagino di sì», dissi, aggirandomi per la stanza, cercando altre tracce
di chi aveva occupato quella stanza. I cassetti del comò erano vuoti. Entrai
nel bagno rivestito di piastrelle rosa e grigie e aprii l'armadietto dei
medicinali.
Fu come aprire la porta di una macchina del tempo. C'era una confezione
di cipria. Un tubetto di rossetto, un flacone blu notte di colonia. Pillole. Un
flacone di "Tonico Femminile". Sciroppo per la tosse, una bottiglietta
marrone di tintura di merthiolate. L'unico oggetto presente nell'armadietto
che non sembrasse risalire all'amministrazione Eisenhower era un
flaconcino di plastica quadrato pieno di pillole posato sull'ultima mensolina.
Lo presi e lessi l'etichetta. "Lucy McKuen. Prendere una pastiglia in caso
di ansia. Xanax". Il flaconcino era pieno per metà.
La statuina del Bambin Gesù di Praga era nella sua nicchia all' ingresso,
accanto al tavolino del telefono. Non stava piangendo, ma ebbi la netta
impressione che mi strizzasse l'occhio.
Andai in cucina. La mamma aveva cominciato a sistemarla. Gli armadi
erano stati parzialmente svuotati e gli scatoloni posati sul tavolo
traboccavano di pentole, padelle e utensili da cucina di vario genere.
Rovistai in mobili e cassetti e trovai la bottiglia di whisky nello stipetto che
conteneva l'asse da stiro estraibile. Almeno la mamma era costante.
«Weezie?». Daniel era fermo sulla soglia, stringendo la testiera di uno dei
letti della camera degli ospiti. «Che succede?».
Gli mostrai la bottiglia e lo Xanax. «Mia madre ha delle visioni. Dice che
la statuina nell'ingresso piange vere lacrime e le sta facendo delle
rivelazioni. Ora credo di capire».
Lui prese il flaconcino e lesse l'etichetta. «Xanax. Tranquillanti?».
«Esatto. Tranquillanti molto forti. La prescrizione è stata fatta venerdì,
stando all'etichetta».
«E con ciò?».
«La cugina Lucy è morta mercoledì scorso», spiegai.
«Inoltre, secondo l'etichetta, in origine questo flacone conteneva trenta
pillole ma ora non ce ne sono così tante, dentro. È mezzo vuoto».
«Tua madre?». Un'espressione preoccupata gli attraversò il volto.
Annuii. «Sta prendendo i tranquillanti della cugina Lucy. E butta giù lo
Xanax con il whisky. Dormendo qui, per di più. Non ne avevo idea».
«Cos'hai intenzione di fare?».
«Non lo so», ammisi. «È un'alcolizzata sin da quando frequentavo il
liceo». Lo guardai e mi sentii travolgere dalla vergogna e dalla paura. Era la
prima volta che confessavo a qualcuno che la mamma beveva. «È un grande
segreto, sai», aggiunsi, con la voce incrinata. «Lei ha sempre in mano un
bicchiere di tè freddo, ma tutti sappiamo che in realtà non è affatto tè. È
molto astuta. Comincia a sorseggiare verso mezzogiorno, poi fa un lungo
sonnellino, dopo di che si sveglia e brucia la cena».
Sentii la mia voce farsi sempre più debole. «Povero papà. Ha dovuto
convivere con il problema per tutti questi anni, e non ha mai detto una sola
parola contro di lei. Io ne sono uscita quando avevo diciotto anni, quando
sono andata via di casa e ho sposato Tal. Lui invece è rimasto e ha
sopportato la mamma. Lei inizia a cucinare la cena, poi se ne scorda, e tutto
il cibo si rovina. Papà si limita a uscire per andare a prendere una pizza o
del cibo cinese. La sera di libertà della cuoca, la chiama, come fosse una
barzelletta».
Daniel mi cinse le spalle con un braccio. Come se fosse la cosa più
naturale del mondo. Mi diede una stretta consolatoria.
«Nessuno ha mai suggerito di farla aiutare da uno specialista?», chiese.
Riuscii a fare una risata strozzata. «Una volta è svenuta. Nel bel mezzo
della cena del Ringraziamento. È andata in cucina a prendere la salsa di
mirtilli e praticamente è stramazzata al suolo. Quella sera zio James e papà
hanno fatto una lunga, seria chiacchierata. E il giorno dopo mi hanno detto
che la mamma stava per entrare in ospedale. Per un imprecisato problema
femminile. Avevo solo quattordici o quindici anni, ma ho immaginato che si
trattasse di una sorta di centro di disintossicazione per alcolisti. Lei odiava
quel posto. Telefonava tutte le sere, piangendo e supplicando papà di
riportarla a casa. E dopo una settimana lui lo ha fatto».
«Era sobria?».
«Lo è stata per un paio di mesi», risposi. «Poi è ricomparso il bicchiere di
tè freddo».
Lui sollevò il flaconcino di pillole verso la luce. «Probabilmente non è
una buona idea mescolare queste piccolette con l'alcol, vero?».
«Probabilmente no», confermai. «Grazie a Dio la mamma sta dormendo
qui, a quanto pare». Fui scossa da un brivido. «Non voglio nemmeno
pensare a quello che avrebbe potuto provocare cercando di tornare a casa in
auto dopo aver preso lo Xanax con un bicchierino di whisky».
«Non dovresti parlarne a tuo padre?», domandò Daniel. «È una faccenda
piuttosto seria, Weezie».
«Lo so, ma non posso parlargliene. Voglio bene a mio padre. È una
persona fantastica. Ma non parliamo dei problemi nella mia famiglia».
«Di cosa parlate?», chiese lui.
«Pneumatici. Religione. Hillary Clinton, che per papà è Satana. Non
discutiamo di questioni personali, tutto qui. Non li ho mai nemmeno
informati del mio divorzio».
«Stai scherzando».
«L'ho detto a James. È stato lui a dare la notizia ai miei genitori. Erano
distrutti. Consideravano Tal la cosa migliore al mondo dopo il pane già
affettato. Credo che parlerò di questa faccenda a James. Ma non posso
lasciare qui queste pillole. Potrebbe uccidersi. Oppure uccidere qualcun
altro».
Tornai nel bagno e aprii gli altri flaconi nell'armadietto dei medicinali. Le
pillole di antidolorifico non erano esattamente identiche ai tranquillanti, ma
la mamma è miope e mette raramente gli occhiali. Sarebbero state perfette.
Rovesciai lo Xanax sul serbatoio del water e lo sostituii con le pillole di
antidolorifico. Raccolsi quelle di Xanax e le misi nell'altro flacone, che
infilai nella tasca dei jeans.
Daniel mi stava aspettando in cucina, dove versai nel lavandino metà del
contenuto della bottiglia di whisky, diluendo poi il resto con l'acqua del
rubinetto. «Ho scambiato le pillole di tranquillante con quelle di
antidolorifico», gli spiegai. «Lei non soffrirà di crampi mestruali e, se tutto
va bene, il Bambin Gesù di Praga smetterà di fare pettegolezzi su di me».
«Una storia bizzarra», disse Daniel. Mi prese la mano e ne baciò il dorso.
Mi posò le mani sulle spalle e mi costrinse a voltarmi verso di lui. Con il
pollice mi asciugò una lacrima che in qualche modo mi era sfuggita. «Le
famiglie fanno schifo», dichiarò.
Mi baciò. All'inizio dolcemente, poi con maggiore insistenza. La sua
lingua mi scivolò in bocca, e le sue mani salirono lentamente lungo la mia
schiena, e io mi inarcai per avvicinarmi a lui. Sentii il debole suono del
gancio del reggiseno che si apriva, poi le sue mani si posarono sul mio seno.
Avevo il respiro corto; mi costrinse a indietreggiare fino al piano di lavoro
di formica gialla della cugina Lucy, e io sentii qualcosa cadere nel
lavandino e rompersi, ma c'erano altre cose a cui pensare.
Come quella segatura sul petto di Daniel. Gli sfilai la maglietta, lui
ricambiò il favore, e restammo seminudi, petto contro petto, ed era cosi
bello. Insinuò il ginocchio tra le mie gambe, e io gli affondai le unghie nella
schiena. Era curvo su di me quando all'improvviso si udirono colpi secchi
sulla porta della cucina.
«Cristo santo», borbottò Daniel.
Balzai all'indietro facendo inavvertitamente cadere a terra una pila di
coppette a stelo, che si ruppero in un milione di frammenti.
«C'è qualcuno in casa?», chiese una voce femminile da dietro la porta.
«Marian? Sei tu?».
Cercai a tentoni sul pavimento finché trovai la maglietta. Me la infilai,
facendomi piovere in testa una miriade di pezzetti di vetro.
«No», risposi, cercando di riprendere fiato. «Sono Eloise. La figlia di
Marian. Chi è?».
Daniel trovò la sua maglietta e se la mise. Gli feci segno di uscire dalla
cucina.
«Sono Alice, la cugina di tua madre. Sono passata solo a prendere un
paio di cose. Tua madre ha detto che non c'erano problemi. Ho pensato che
il pick–up potesse essere suo».
«Oh, certo, Alice», dissi, togliendomi schegge di vetro dai capelli.
«Dammi solo un minuto. La mamma ha tirato i chiavistelli di questa porta e
l'ha chiusa a doppia mandata».
Grazie a Dio, pensai.
Stavo aprendo la porta quando vidi con la coda dell'occhio del pizzo di
un rosa brillante. Il mio reggiseno di Victoria's Secret – penzolava dalla
maniglia del mobiletto sotto il lavandino.
Alice irruppe in cucina e mi strinse in un abbraccio. Indietreggiai fino al
lavandino, sperando di impedirle la visione del mio reggiseno fuori posto.
«Bene, Weezie», disse in fretta, «sono secoli che non ti vedo. Non eri alla
veglia funebre, vero?».
Era una donna alta, più o meno dell'età di mia madre ma diversissima da
lei. Portava blue–jeans chiazzati di vernice, una maglietta hippy e sandali
Birkenstock, e i suoi ispidi capelli grigi erano raccolti in una treccia che le
scendeva fin sotto le scapole.
«Mi è terribilmente dispiaciuto di essermi persa la veglia», mentii, «ma
ero fuori città per lavoro e non l'ho saputo fino al mio ritorno».
Alice non mi stava ascoltando del tutto. Si guardò intorno, osservando il
caos che regnava nella cucina. «Cos'è successo qui dentro?», chiese,
indicando i vetri rotti.
«Sono stata la solita stupida», replicai. «Stavo cercando di aiutare la
mamma imballando la roba sulla mensola più alta quando mi è scivolato il
piede e ho urtato le coppette impilate sul piano di lavoro».
«Non ti sei tagliata, vero?», domandò lei, avvicinandosi ancora di più.
«Sto benissimo», risposi, indietreggiando per impedirle di notare che non
portavo il reggiseno. «Accomodati pure, porta via quello che vuoi. Devo
sistemare questo disastro prima che qualcuno entri e si ferisca». Sorrisi e le
rivolsi un piccolo cenno di incoraggiamento con la mano.
«Bene», disse Alice in tono esitante, «se sei proprio sicura... C'è un set da
cordiale che mi è sempre piaciuto. È in sala da pranzo. Vado di là e vedo
come imballarlo».
«Ottima idea», ribattei in tono vivace. «Fai pure».
Non appena lei uscì dalla stanza afferrai il reggiseno e lo lanciai dentro il
mobiletto sotto il lavandino.
«Oh», sentii Alice esclamare in sala da pranzo. «Salve. Non sapevo che
Weezie avesse compagnia».
Daniel sbucò dal corridoio reggendo la sponda di uno dei letti di mogano.
«Salve», rispose, e si diresse verso la porta d'ingresso senza fermarsi.
«Alice», dissi, raggiungendola con uno scatolone vuoto e alcuni giornali
in cui avvolgere i bicchieri, «quello è il mio amico Daniel. Mi sta aiutando a
portare via i mobili delle camere da letto. Li ho comprati». Poi aggiunsi: «In
contanti».
«Che carino», commentò lei, osservando le ampie spalle di Daniel mentre
lui issava la sponda sul pick–up. Mi morsi il labbro. Si era messo la
maglietta a rovescio. Alice ammiccò con enfasi. «Molto, molto carino».
«Ecco», dissi, cercando di sembrare indaffarata, «lascia che ti aiuti a
imballare questa roba».
Lei aveva aperto la vetrinetta e stava posando i bicchieri da cordiale sulla
credenza. «Oh, no, non voglio interromperti. Continua con quello che stavi
facendo prima che io arrivassi».
La mia mente tornò con rimpianto a quanto stavamo facendo prima che
lei ci interrompesse. Magari potessi, pensai. BeBe aveva ragione. La volta
seguente avremmo preso una stanza.
Dopo aver impacchettato la boccia e i bicchierini da cordiale, Alice
svolazzò in giro per la casa, prendendo qualche altro oggettino da portare
via.
«Sicura che non posso aiutarti a impacchettarli?», chiesi, osservando
Daniel che arrancava trasportando le reti dei letti.
«Sicurissima», rispose. «Vai ad aiutare il tuo amico. Do solo un'ultima
occhiata in cucina e poi me ne vado».
Raggiunsi la camera degli ospiti e cominciai a estrarre i cassetti del
comò. A un tratto mi chiesi dove avrebbe dormito la mamma, una volta che
avessimo portato via i letti. Quasi sicuramente sul divano. Dopo aver
mischiato Xanax e whisky, probabilmente non le importava affatto dove si
coricava. Anche se la situazione sarebbe leggermente cambiata, visto che
d'ora in poi avrebbe preso pillole di antidolorifico vecchie di quarant'anni
con whisky annacquato.
Portai i cassetti sul vialetto d'accesso e li passai a Daniel che, in piedi sul
pianale del pick–up, stava avvolgendo alcune vecchie coperte intorno alle
testiere.
«Se ne andrà presto?», chiese, fissando la porta di casa.
«Un'ultima occhiata in giro e si leva dai piedi», dissi, rallegrandomi
segretamente della sua espressione delusa. «Ehi», aggiunsi poi,
controllando se Alice ci stava guardando. «Vieni qui. Devo dirti un
segreto».
«Quale?». Lui prese un'aria guardinga, ma si sporse dal pianale del
veicolo.
Accostai le labbra al suo orecchio e vi feci dardeggiare la lingua, poi
sussurrai: «Hai la maglietta messa a rovescio, dongiovanni».
Mi voltai e tornai rapidamente verso la casa, ancheggiando in quello che
speravo fosse un modo piuttosto sexy.
Fui ricompensata da un fischio sommesso ma carico di apprezzamento.
Alice era in cucina e stava chiudendo un grosso scatolone con del nastro
da pacchi.
«Ho trovato qualche altra cosuccia», annunciò, dandogli un colpetto.
«Sarà una consolazione, avere qualche ricordino di Lucy».
«Ne sono felice», replicai. Lei mi diede un bacio sulla guancia, si
appoggiò il contenitore sull'anca e uscì dalla porta posteriore per caricare i
suoi tesori nel bagagliaio dell'auto.
Daniel rimase fermo sul vialetto a guardare la Plymouth di Alice che
usciva in retromarcia sulla strada.
«Cos'è che stavi dicendo delle famiglie, là in cucina?», chiesi.
«Fanno schifo», dichiarò, accigliato. «Quante altre cugine ha tua
madre?».
«Non più di una dozzina».
«E oggi verranno tutte qui a frugare in questa casa?».
«Conoscendo la mamma, direi che è altamente probabile. La loro è una
famiglia molto unita. E Lucy non si è mai sposata, quindi tutta la sua roba è
di chi se la prende».
«Okay». Lui si diresse verso l'abitazione. «Tanto vale che carichiamo
quei letti, visto che non li useremo».
Si fermò nella camera padronale a fissare quello dalla spalliera alta.
«Bello», disse, facendo correre le dita sul fregio intagliato di foglie di
quercia e ghiande.
Lo osservai più attentamente. «Sì, lo è davvero, ora che me lo fai notare.
Stai cercando un letto?».
«Ne ho uno ad acqua ancora in deposito. Non ho avuto il tempo di
montarlo».
Arricciai il naso. Letti ad acqua. Ai miei occhi rientravano nella stessa
categoria delle giacche alla coreana in velluto. «Su cosa dormi?».
«Quando mi sono trasferito ho trovato nella casa un vecchio divano.
Serve allo scopo».
«È un bel letto», dissi. «E anche i cassettoni non sono male. Non troppo
femminili».
Si guardò intorno nella stanza. «Ti piace questa roba?».
«Certo», risposi. «Posso vendere mobili come questi praticamente
ovunque. Quelli nell'altra stanza, in mogano e piuttosto malridotti,
richiederanno un po' di lavoro. Li vernicerò di bianco, sabbierò gli angoli, li
renderò un po' più malconci, aggiungerò pomelli di vetro e li venderò come
un perfetto esempio di shabby chic».
«Come starebbe questa roba di quercia, in casa mia?».
«Starebbe benissimo», risposi. «Ti piacciono i mobili antichi?».
«Credo di sì. Mi piace l'arredamento di casa tua. Mi piace il modo in cui
metti insieme le cose».
«Grazie», dissi, sorridendo.
«Credo che ti assumerò», annunciò Daniel.
«Per fare cosa?».
«Per sistemare casa mia. Il ciarpame che ho in deposito non vale nulla.
Non ho mai posseduto niente di davvero pregevole. Forse è arrivato il
momento di cambiare. Potresti farlo, vero? Comprare roba, voglio dire. Fare
in modo che abbia l'aspetto giusto. Cosa ne dici?».
«Non sono un'arredatrice d'interni», replicai. «Mi limito ad acquistare e
vendere cianfrusaglie. E tengo quelle che mi piacciono. Tutto qui. Cosa ti fa
pensare che sarei in grado di arredarti la casa? Non ti conosco neppure così
bene».
Lui si avvicinò. Mi cinse la vita con le braccia. «Mi piaci. Mi piacciono
le cose che piacciono a te. Avanti, cosa ne dici? Vuoi giocare a mettere su
casa?».
«Vuoi davvero che lo faccia?». Provai un'improvvisa timidezza. Un'ora
prima ero rimasta quasi nuda insieme a lui, ma giocare a mettere su casa?
Era una cosa completamente diversa. E parlando di diverso, c'era qualcosa
che mancava. Abbassai lo sguardo sulla mia maglietta e vidi i miei
capezzoli turgidi. Li vide anche Daniel.
«Ciao», disse, baciandomi sul collo.
«Il mio reggiseno», strillai. «Per poco non lo lasciavo in cucina. Dio non
voglia che la mamma lo trovi quando cerca il suo whisky».
Lui mi seguì in cucina. Mi inginocchiai e aprii il mobiletto sotto il
lavandino. C'era una confezione di detersivo, un albergo per scarafaggi e
una scatola di pagliette per pentole. Niente pizzo rosa.
«Merda», dissi, ricordando lo scatolone di Alice. «La cugina della
mamma ha rubato il mio reggiseno».
«Te l'ho detto», ribatté Daniel, aiutandomi ad alzarmi. «Le famiglie fanno
schifo».
37
Quando tornai a casa Jethro era nascosto sotto il tavolo della cucina, gli
occhi scuri colmi di rimprovero perché non l'avevo portato con me.
Presi un biscottino per cani e cercai di convincerlo a uscire.
«Avanti, Ro–Ro», dissi con voce carezzevole. «Vieni a prenderti un
biscottino, ragazzo. Vieni a prenderlo».
Ma lui rimase dov'era. «Bastardino cocciuto», dissi, alzandomi.
Fu a quel punto che la vidi: una piantina di orchidea gialla infilata in uno
splendido vaso di porcellana cinese blu e bianca. Sollevai il vaso per
esaminarlo meglio, sbirciai lo smalto cavillato e i marchi cinesi stampigliati
sul fondo. Era originale.
Una piccola busta cadde a terra. La raccolsi e l'aprii.
Conteneva il biglietto da visita di Tal. Sul retro lui aveva scritto "Torna
da me".
Posai l'orchidea sul tavolo. Jethro non si era mosso.
«L'hai lasciato entrare, Ro–Ro. L'uomo cattivo ti ha spaventato?».
Ma Jethro si stava appellando al diritto di non rispondere. E io avevo la
nausea.
Mi versai un bicchiere di tè ghiacciato, il che mi ricordò la questione
della mamma. Così feci quello che faccio sempre quando ho un problema:
chiamai James.
«Weezie!», esclamò lui, dopo che Janet lo avvisò che ero in linea. «Ho
buone notizie. Il detective Bradley mi ha appena telefonato. Ha notificato
all'ufficio del procuratore distrettuale che non dispone di prove sufficienti
per incriminarti per l'omicidio di Caroline».
«Fantastico», replicai. L'orchidea aveva una sfumatura di giallo davvero
sgradevole, con una tinta rosso sangue quasi oscena sulla parte anteriore
dall'aspetto fallico. Presi dal cassetto le forbici di cucina e tagliai uno dei
fiori che scendevano a grappolo. Mi sentii subito meglio.
«Non sembri molto eccitata», commentò James. «Hanno lasciato cadere
anche l'accusa di violazione di proprietà privata. La tua fedina penale è
pulita».
«La mamma ne sarà felice», dissi. «È magnifico. Davvero, zio James, ti
sono così grata per tutto quello che hai fatto. Non so come ringraziarti».
«Sei la mia famiglia», replicò semplicemente lui. «Se devo dirti la verità,
mi è piaciuto occuparmi di diritto penale a tempo perso. Ma ho
l'impressione che tu abbia qualche altro problema. Hai intenzione di
dirmelo oppure vuoi limitarti a restartene seduta lì a rimuginarci sopra?».
«Non sto rimuginando», replicai. «Solo che mi stanno succedendo cose
strane. E non sono neanche paranoica. A quanto pare emano un tipo di
energia che suscita comportamenti bizzarri».
«Fammi un esempio. Senza contare il fatto di aver trovato il cadavere
della fidanzata del tuo ex marito in un armadio».
«Si tratta della mamma. E del Bambin Gesù di Praga che piange. È da un
po' che voglio chiedertelo, James. Cosa dovrebbe rappresentare il Bambin
Gesù di Praga?».
«Io l'ho sempre visto come Gesù Bambino travestito», rispose lui, «ma
non dispongo di prove a sostegno della mia tesi».
«Be', io invece ho qualche prova a carico della mamma», affermai. E gli
raccontai della bottiglia di whisky trovata a casa di Lucy.
«Santo cielo. Speravo che stesse bevendo meno. Tuo padre non ha detto
niente in proposito».
«Sai com'è fatto papà. Ho anche trovato un flacone di Xanax in casa. La
ricetta era intestata a Lucy, ma secondo l'etichetta i medicinali sono stati
ritirati due giorni dopo la sua morte. Mancava una mezza dozzina di pillole.
La mamma ha preso i tranquillanti di Lucy mandandoli giù con il whisky».
«Dio dei cieli», ribatté James. «Potrebbe restarci secca. O magari
uccidere qualcun altro mentre è intontita dal miscuglio di pillole e alcol».
«La buona notizia è che, a quanto pare, sta dormendo a casa di Lucy.
Immagino che sia allora che ha quelle interessanti conversazioni con la
statuina».
«Dobbiamo farla aiutare da qualcuno», dichiarò James. «Poveretta. Non
ne avevo idea. Tuo padre non ha fatto cenno al fatto che lei dorme là o si
comporta in modo strano?».
«Non ha detto nemmeno una parola in proposito. Cosa possiamo fare?».
«Dovrò parlare con Joe, fargli capire che Marian ha un disperato bisogno
d'aiuto. Probabilmente lui non è al corrente delle pillole, anche se sappiamo
entrambi che si limita a ignorare il problema del bere».
«Quindi parlerai con tutti e due?».
«Parlerò con mio fratello», rispose James. «Ma credo che tu debba
parlare con tua madre, Weezie».
«No», replicai, sentendomi prendere dal panico. «Non posso. Devi farlo
tu, James. Sei bravo in queste cose. Lei ti adora. Ti ascolterà».
«È tua madre. È tempo che voi due facciate una bella chiacchierata».
«Ma cosa posso dirle?», chiesi in tono querulo. «Non è come se fossimo
amiche. Non abbiamo mai avuto quel tipo di rapporto».
«Comincia da oggi», mi disse in tono tranquillo. «Portala fuori a pranzo.
In un localino quieto, che non la faccia sentire minacciata. E dille
semplicemente che hai trovato i tranquillanti. Spiegale com'è pericoloso
mescolare pillole e alcol. Cerca di non darle l'impressione di giudicarla ma
falle capire che tu e tuo padre volete che si faccia aiutare per il problema
dell'alcol».
«Non saprei. Ci proverò. Ma tu parlerai con papà? Lo prometti?».
«Lo prometto. Ora ti senti meglio?».
«Un po'», risposi, sempre occhieggiando l'orchidea. Aveva un'aria
malevola, con il suo lungo e ampio ramo fiorito. Presi le forbici e tagliai
altri due fiori. «Si tratta di Tal», aggiunsi, schiacciandoli sotto il tacco della
scarpa. «Si comporta in modo strano. L'altra sera è piombato in casa mia,
ubriaco fradicio, supplicandomi di tornare con lui. Non è incredibile?».
«Tal ha fatto una cosa del genere?».
«Sì. Gli ho detto di andarsene, ma aveva un'aria così patetica che stavo
cominciando davvero a impietosirmi. James, Tal dice che Caroline aveva
una relazione con un altro uomo, proprio prima di essere uccisa».
«Davvero?». James non sembrò molto stupito.
«Sì. E mi ha raccontato che secondo lui aveva appuntamento con il suo
amante, la notte in cui è stata uccisa. Tal nutriva già dei sospetti e quella
notte lei ha ricevuto una misteriosa telefonata. Ha cercato di seguirla
quando ha lasciato la casa, ma l'ha persa a un semaforo rosso all'incrocio tra
la Victory e Bee Road».
«Gli credi? Oppure stava solo cercando di suscitare la tua pietà in modo
che tu lo riprendessi con te?».
«Credo che Caroline lo stesse tradendo», risposi. «L'altra sera ero a una
cena e tutti stavano spettegolando su di lei».
«Sì. Ho saputo una parte di quei pettegolezzi da un amico».
«Quale amico? Tu non frequenti pettegoli».
«Mi arrivano all'orecchio le voci», dichiarò James. «Hai idea di chi
potrebbe essere l'altro uomo?».
«Gerry Blankenship è stato il primo nome che mi è venuto in mente».
«Nessun altro candidato?».
«Caroline sarebbe potuta andare a letto praticamente con chiunque»,
osservai malignamente. «Solo che non saprei. È l'atteggiamento di Tal a
preoccuparmi. Si comporta in modo bizzarro. Dopo tutti quei mesi in cui è
stato così offensivo e crudele, ora torna da me strisciando. L'altra notte mi
sbavava addosso. Disgustoso».
«Credevo che avresti trovato lusinghiera tutta quell'attenzione», dichiarò
James.
«Non è così», replicai. «Senti, ho cominciato a vedere una persona. E lui
non vuole venire a casa mia perché Tal si aggira sempre nei paraggi».
«Quando hai tenuto l'ex rimessa per le carrozze sapevi che lui avrebbe
abitato lì accanto».
«Non sapevo che avrebbe fatto scappare il primo uomo con cui avessi
avuto un appuntamento. O che mi avrebbe spiato. O che sarebbe entrato con
la forza in casa mia per lasciarmi qui orrende piantine d'orchidea».
Silenzio. «È davvero entrato con la forza? Quando? Questo è tutt'un altro
paio di maniche».
Andai a esaminare la porta della cucina. La serratura non era stata
manomessa e la vernice dello stipite era integra. Quella mattina ero uscita di
fretta. Avevo dimenticato di chiudere a chiave? Tal mi stava guardando e
aveva notato la mia distrazione?
«È successo oggi», raccontai. «Forse non ha davvero forzato la serratura,
ma è sicuramente entrato in questa casa, e senza il mio permesso. Ha
lasciato dei fiori con un biglietto che dice "Torna da me". E ha spaventato
Jethro».
«Chiamerò il suo avvocato», annunciò James. «Gli dirò che chiederemo
un'ordinanza restrittiva contro Tal, a meno che non resti lontano da te».
«Davvero?». Sentii vacillare la mia determinazione. «Non voglio fare
scenate o farlo arrestare o altro. Voglio solo che mi lasci in pace».
«Me ne occupo io», promise James. «Ora chiama tua madre e rispetta la
tua parte dell'accordo».
«Lo farò».
Riagganciai. L'orchidea aveva ancora un grappolo di fiori.
Zac.
Buttai il terriccio nella pattumiera e mi collegai a Internet per vedere le
quotazioni correnti dei vasi cinesi su eBay.
41
Dopo aver cercato inutilmente mia madre per mezz'ora, telefonai a papà.
«La mamma è tornata a casa?».
«Pensavo fosse con te», rispose lui. «James ha detto che avreste fatto una
chiacchierata. A proposito del bere».
«Infatti. È furiosa con me. E corsa via dal ristorante. Non riesco a
trovarla, papà. E l'ho cercata dappertutto».
Lui fece un profondo sospiro. «Non prendertela. Non è colpa tua. Avrei
dovuto essere io a parlarle. Sono suo marito».
«E io sono sua figlia. Credi che stia bene?».
«Non ha bevuto niente a pranzo, vero?».
«Niente».
«E un vero sollievo. Torna pure a casa. Faccio un giro in macchina per
vedere se la trovo».
«Dove può essere andata?», chiesi. «Non ha la macchina».
«Ma ha dei contanti», rispose lui. «Tiene sempre cinquanta dollari nella
borsa. In caso di emergenza. E mi vengono in mente almeno una mezza
dozzina di posti in cui potrebbe essersi rifugiata. Non preoccuparti. Ti
chiamo non appena la trovo».
«Lascia che venga a cercarla con te», lo implorai.
«Meglio di no», rispose lui. «Lascia che la calmi un po'».
Tornando in città mi fermai a casa dei miei genitori. Trovai mio padre
seduto al tavolo di cucina, che fissava accigliato un opuscolo.
«Ciao, papà», dissi, dandogli un bacio sui capelli. «La mamma è tornata a
casa con te?».
«No. Dice di non essere ancora pronta, però ci ha lasciato entrare. E noi
tre abbiamo fatto una lunga chiacchierata».
«È disposta a farsi aiutare?».
Posò l'opuscolo, si tolse gli occhiali e li pulì con l'orlo della camicia. Il
dépliant si intitolava "Risposta della famiglia all'alcolismo".
«Dice che lo farà», rispose. «Dovremo aspettare e vedere. Domani
andremo a parlare con questo amico di James che lavora al Candler–St.
Joe's. Marian ha promesso di venire perlomeno a sentire cosa hanno da
dire».
Per la prima volta mi accorsi che ultimamente era cambiato, e non certo
in meglio. Mentre io ero distratta da altre cose, i suoi capelli castani si erano
ingrigiti. Il viso un tempo allegro somigliava tutt'a un tratto a un budino non
rappreso. E, per la prima volta in vita mia, notai che aveva un'aria
trasandata.
La spessa montatura dei suoi occhiali era tenuta insieme da un cerotto, la
camicia sportiva a maniche corte aveva bisogno di essere stirata, i pantaloni
erano stinti e stazzonati e, cosa più sconvolgente di tutte, le scarpe nere con
i lacci non erano lucide.
Un tempo la mamma non avrebbe mai permesso che lui andasse in giro
in quel modo. Ma non era una faccenda di cui mio padre fosse disposto a
parlare. Sarebbe sembrato sleale nei confronti della moglie, e lui non
l'avrebbe mai criticata.
«La mamma ha accettato di andarci», ripetei, concentrandomi sul lato
positivo della situazione. «E vi ha fatto entrare in casa. E adesso ammette di
essere un'alcolizzata?».
Papà si sfregò di nuovo gli occhi. «No. Rifiuta di ammetterlo».
«Non pensa di avere un problema con il bere?».
«Dice che ce l'abbiamo tutti con lei. L'unico motivo per cui ha accettato
di andare a parlare con queste persone è che in questo modo loro ci diranno
che non ha nessun problema».
«Ma papà, lei ce l'ha. Si ubriaca pressoché ogni giorno. Lo fa ormai da
anni. E la cosa sta peggiorando».
«Lo so, tesoro», ribatté. «Io lo so e tu lo sai e James lo sa. Lui dice che
Marian è in una fase di negazione. Ma dobbiamo pur cominciare da qualche
parte. Quindi questo è quanto faremo».
«Mi odia», dichiarai. «Il mio divorzio è stato la sua rovina».
«No», si affrettò a replicare lui. «È l'alcol che le fa dire queste cose. E
quella faccenda della negazione. Ti ama più di qualsiasi altra cosa al mondo
ma è ferita e sconvolta, ed è terrorizzata all'idea di tornare in un ospedale.
Dobbiamo essere pazienti con lei».
«Perché non vuole tornare a casa?».
«Dice che è stanca di essere spiata. La verità, secondo me, è che si
vergogna di affrontarci, adesso che la cosa è di dominio pubblico. Sa che il
vizio del bere le è sfuggito di mano e si sente in colpa per averci deluso».
Annuii, guardandomi intorno nella cucina. Come papà, la casa aveva
visto giorni migliori. Le tendine pendevano flosce e unte da finestre che non
venivano lavate da mesi. C'erano ditate sul frigorifero e piatti sporchi nel
lavandino, e il pavimento era appiccicoso. Come mai non avevo notato
nulla di tutto ciò? Un ceroso accumulo giallastro sul pavimento della cucina
di Marian Foley? Quello avrebbe dovuto fungere da allarme rosso,
segnalando che la mamma aveva qualcosa che non andava.
Posai la borsetta sul tavolo e raggiunsi il lavandino, prendendo il secchio
e il detersivo.
«Cos'hai intenzione di fare adesso?», chiese papà.
«Sistemare le cose», risposi, riempiendo il lavandino di acqua saponata
bollente. «In modo che la mamma possa tornare a casa».
«Ti do una mano», annunciò, alzandosi faticosamente dalla sedia. Rimasi
a guardarlo, senza parole, mentre apriva il ripostiglio e prendeva scopa e
paletta. Mai, in vita mia, lo avevo visto fare il più piccolo lavoretto
domestico. Non riuscivo a credere che sapesse dove si trovava la scopa, non
parliamo del fatto di saperla usare.
Papà notò la mia espressione sbalordita e mi strizzò l'occhio. «Non è mai
troppo tardi per provare qualcosa di nuovo, vero?».
«Nossignore», replicai.
Avevo un'ultima sosta da fare mentre tornavo a casa. Si trattava di una
piccola boutique di biancheria intima su Whitaker Street, in centro. Vi ero
passata davanti centinaia di volte senza mai fermarmi. Varcai con aria
colpevole la porta di legno intagliato, sperando che nessuno passasse lì
davanti e mi vedesse.
La mia scusa era che avevo davvero bisogno di un nuovo reggiseno, visto
che la cugina Alice aveva rubato il mio. In realtà, però, stavo curiosando per
cercare una nuova me stessa.
I miei giorni di cotone bianco erano terminati. Non appena lo vidi, capii
che dovevo averlo: un reggiseno di pizzo nero e color carne con mutandine
di seta coordinate che mi ricordò il négligé indossato da Lana Turner in un
vecchio poster da pin–up degli anni Quaranta. La mia taglia, il mio nuovo
stile, e l'insieme creò un buco di novanta dollari nel mio gruzzolo per gli
acquisti. Mi morsi il labbro e pagai in contanti. La commessa se la prese
comoda avvolgendo il completino in carta velina color pesca e infilandolo
in un sacchetto color pesca legato da un nastro di chiffon dello stesso
colore, quando invece l'unica cosa che desideravo era afferrarlo e
svignarmela.
Una volta a casa feci una rapida doccia e indossai shorts di lino giallo
chiaro e un top di lino dello stesso colore. Mi laccai le unghie dei piedi –
giusto così. Era stata una giornata difficile e orribile. Ero pronta per dello
smalto per unghie rosso – e per la biancheria intima più costosa che avessi
mai posseduto.
Daniel suonò il campanello proprio mentre stavo scendendo al pianoterra.
Mi squadrò dalla testa ai piedi. «Non sei un po' troppo elegante per andare a
pesca di granchi?».
«Non hai detto che saremmo andati a pescare granchi», gli feci notare.
«Hai parlato di shorts».
«Non shorts carini».
«Non metto vestiti sporchi quando esco con qualcuno», replicai,
cominciando a fumare di rabbia. Per quale motivo Daniel aveva
quell'effetto su di me?
«Stai benissimo», si addolcì lui, «ma non dare la colpa a me se i vestiti si
rovinano».
Gli lanciai un'occhiataccia e tornai al piano di sopra, dove buttai in una
sacca di tela dei brutti pantaloni tagliati al ginocchio e una maglietta,
insieme a un paio di malconce scarpe da ginnastica.
«Andiamo», disse lui, trascinandomi fuori dalla porta. «Perderemo la
marea».
Prima che me ne rendessi conto eravamo nel mezzo del Talmadge
Memorial Bridge, che attraversa il fiume Savannah dividendo la Georgia
dal South Carolina.
«Dove stiamo andando?», chiesi, allarmata.
«Bluffton». Lui mi lanciò un'occhiata per vedere se avevo obiezioni. «È
l'unico modo in cui posso sottrarti alla tua famiglia, al tuo cane e al tuo ex
marito».
Abbassai lo sguardo sul lento scorrere dell'acqua marrone del Savannah.
«Mi stai portando al di là del confine dello stato con scopi immorali?».
«Lo spero ardentemente», rispose lui. «Un mio amico ha una casa con un
pontile sul fiume May, e posso usarla mentre sono in ferie, questa
settimana».
«Non posso restare a Bluffton per una settimana».
«Io ho la casa per tutta la settimana, non tu», precisò lui. «Ho
semplicemente pensato che forse ti sarebbe piaciuto vederla. È in quello
stile da rigattiere che tu sembri apprezzare. Faremo una cenetta, andremo a
pesca di granchi e magari dopo faremo una nuotata».
«Non hai parlato di un costume da bagno», replicai.
«Dev'essermi uscito di mente», disse, tenendo gli occhi fissi sulla strada.
«Ci scommetto».
Cominciò a piovere proprio mentre raggiungevamo l'estremità del ponte
nel South Carolina. All'inizio la pioggia scese lenta e il vapore si levò
dall'asfalto cotto dal sole. Luglio era stato estremamente secco ma ormai si
stava avvicinando la stagione degli uragani. Il cielo si oscurò e la pioggia si
fece più intensa, inondando rapidamente la strada bassa.
Daniel alzò il volume della radio per sovrastare il suono dell'acquazzone.
L'aveva sintonizzata di nuovo sulla sua stazione preferita, quella
specializzata in vecchi successi.
Stavano trasmettendo Summer Rain, un vecchio pezzo di Johnny Rivers
che ricordavo di aver sentito parecchi anni prima al campeggio, quando alla
sera una capogruppo che aveva nostalgia del suo ragazzo rimasto a casa,
dopo aver fatto spegnere le luci ascoltava senza interruzione quella
canzone.
Daniel canticchiò a bocca chiusa accompagnando la radio e io osservai la
palude scorrere rapida dietro il finestrino formando una striscia di un verde
intenso, punteggiato qua e là da un negozietto di fuochi d'artificio o una
bancarella di pomodori.
Mentre entravamo nella cittadina di Bluffton rallentò e indicò una fila di
negozi sulla destra. «Ci sei mai stata?».
Guardai il punto indicato. Metà del piccolo centro commerciale era
occupata da un negozio chiamato La Juntique. Sedie, tavoli e specchiere
bordavano il marciapiede di fronte all'edificio.
«No», risposi, allungando il collo per vedere meglio. «Ne vale la pena?».
«Non ci sono mai entrato neanch'io. Vuoi dare un'occhiata?».
Era un'assoluta novità. Un uomo che offriva di fermarsi in un negozietto
di antiquariato invece di passarci davanti rapidamente, come avrebbe fatto
Talmadge Evans.
«C'è sotto un trabocchetto?», domandai, guardandolo insospettita.
«Sto solo cercando di essere gentile», ribatté lui. «Un uomo non può
essere gentile?».
«Vuoi qualcosa in cambio».
Di nuovo il sorriso. «Sì».
«Scommetto che non si tratta della mia ricetta per il cheesecake».
«Magari in un secondo tempo».
44
James aprì la porta del suo ufficio, concentrato sul fatto che fosse tardi e
non sulla donna piangente seduta di fronte a Janet, la sua segreteria.
«James», disse Janet, «la signora Cahoon sta aspettando di poter parlare
con te».
«Oh», ribatté lui, «stamattina ho un altro appuntamento. Fuori ufficio».
La capacità di Janet di leggergli nel pensiero aveva qualcosa di
straordinario.
«Gliel'ho spiegato», replicò subito. «Le ho spiegato che bisogna prendere
un appuntamento, ma lei voleva vedere se avresti potuto dedicarle giusto un
attimo. Prima di uscire, fra cinque minuti, per il tuo appuntamento».
Denise Cahoon si accasciò sulla sedia di fronte alla scrivania di James.
«Si tratta di Inky», annunciò, sbattendo una cartelletta sulla scrivania.
«Vuole il divorzio. Stamattina un uomo è venuto a casa mia a darmi questi
documenti. Dopo ventidue anni di matrimonio».
James scorse i fogli. Bradley R. Cahoon Jr. aveva avviato le procedure di
divorzio da Denise Doheny Cahoon per abbandono del tetto coniugale.
«Abbandono», disse, porgendole un fazzoletto di carta. «Pensavo che
fosse stato Inky a lasciare lei».
«Infatti», confermò la donna, piangendo. «Mentre stavo da mia sorella, a
Waycross».
«Stava a Waycross? Con sua sorella?».
«Solo finché i suoi nervi non fossero migliorati. Sheila è sempre stata
molto sensibile, così sono andata a Waycross per aiutarla».
«Quando è successo?», chiese James.
Lei strinse le labbra e ci rifletté. «Nel 1996, probabilmente. Sì, proprio
nel 1996».
James annuì. «Si è trasferita a Waycross. Nel 1996. Per stare con sua
sorella. E quando è tornata a Savannah?».
«Mesi fa. Sono tornata qui ormai da parecchi mesi».
«Signora Cahoon, non vive con suo marito dal 1996. È questo che mi sta
dicendo?».
«Non era mai a casa. Era sempre in giro di nascosto con quella sua
sgualdrina», dichiarò lei tra le lacrime.
«In base alla legge, signora Cahoon, è lei che ha lasciato il tetto
coniugale. Da parte di una moglie, questo è stato un lasso di tempo
decisamente lungo da trascorrere lontano dal marito».
«Sheila aveva bisogno di me», affermò Denise, con il mento che le
tremava.
«Ne sono sicuro», disse James. Lanciò un'occhiata all'orologio. «Bene.
Mi spiace di doverle mettere fretta, ma devo davvero uscire per il mio
appuntamento».
«E il mio problema?», chiese Denise. «Questo divorzio. Voglio
impedirlo. Non credo nel divorzio».
James ebbe un'idea. Fece scorrere le schede della rubrica, scribacchiò un
nome e un numero di telefono e li passò a Denise Doheny Cahoon.
«Chi è?», domandò lei.
«Un mio ex collega, padre Gower. Lavora per l'arcidiocesi».
«Fa il consulente coniugale?», domandò la donna in tono eccitato.
«No. Si occupa di istanze di annullamento».
«Annullamento. È legale?».
«Perfettamente legale», spiegò James, «e se mai ho conosciuto dei validi
candidati per l'annullamento, siete lei e Inky. Buona giornata, signora
Cahoon».
Janet stava scuotendo la testa quando lui uscì dal suo ufficio. Aveva
origliato, naturalmente. «Annullamento. Questa sì che è un'idea geniale.
Come mai non ci hai pensato prima?».
«Non lo so. Ho davvero un appuntamento, sai. In un paesino in
campagna, vicino a Guyton».
«Benissimo», disse Janet. «Spero sia un appuntamento che sfocerà in ore
fatturabili. Ha telefonato tua cognata, mentre parlavi con Denise Cahoon».
«Ti è sembrata sobria?».
«Non stava parlando con qualche santo o altro. Ha solo chiesto di
ricordarti che oggi pomeriggio devi andare in un certo posto con lei».
«Lo so», replicò stancamente James. «Stiamo cercando di farla entrare in
un centro di disintossicazione. E di farla uscire di nuovo dalla casa della
cugina defunta».
«Comunque sia», ribatté Janet.
***
Era stato durante una delle sue camminate terribilmente noiose intorno a
Forsyth Park che si era ricordato i nomi di Grady e Juanita Traylor, i
testimoni citati sul testamento di Ann Ruby Mullinax.
Grady Traylor era stato un diacono della Christ Our Hope, la sua prima
chiesetta di campagna. La moglie, Juanita, era stata l'unica insegnante di
catechismo della chiesa. All'epoca erano già piuttosto anziani, sulla
sessantina, probabilmente. E Grady Traylor, finalmente lui se ne ricordò,
era un cugino di Clydie Jeffers, che era stata per diversi anni la governante
di Ann Ruby Mullinax. Gli sembrava che Grady avesse lavorato
saltuariamente come giardiniere a Beaulieu.
Era stata una fatica improba rintracciare i Traylor. La Christ Our Hope
era stata annessa a un'altra chiesa di campagna il cui sacerdote, padre Viraj,
era arrivato da poco e non sapeva dove fossero conservati i vecchi registri
parrocchiali. Era stata Karyl Conners, la segretaria della chiesa, a chiamare
finalmente James per dirgli che aveva trovato i Traylor al loro nuovo
indirizzo di Guyton, in Georgia.
Con l'indirizzo tra le mani, Janet aveva effettuato qualche ricerca a
computer e trovato l'atto di proprietà della casa di Guyton che, si scoprì,
apparteneva alla Willis J. Mullinax Foundation.
Ora la Mercedes bianca ronzava sull'asfalto ancora bagnato della stradina
di campagna fuori Guyton.
Juanita Traylor era stata felicissima di sentire James, benché lui fosse
stato costretto a urlare per farsi capire.
«Padre Foley!», aveva esclamato quando lui le aveva telefonato. «Aspetti
che dica a Grady che viene a trovarci. Sarà fuori di sé per la gioia. E credo
che potrebbe riconoscerla. Ultimamente non mi riconosce sempre, ma si
ricorda delle persone del passato. Il medico ha detto che si chiama perdita
della memoria a breve termine. Arriverà in tempo per il pranzo, vero,
padre? Sono sicura che sente la mancanza della buona cucina di campagna,
dopo aver abitato per tutti questi anni in città».
James si sentiva in colpa per non aver fatto cenno allo scopo della sua
visita o al fatto di non essere più padre Foley, ma si convinse che, in questo
caso, il fine giustificava i mezzi.
Juanita gli aveva spiegato la strada, dicendogli di svoltare a destra dopo
un magazzino di mangimi in disuso e a sinistra all'altezza di un deposito di
scuolabus abbandonato.
Su una stradina tranquilla non lontana dal campo pieno di vecchie
corriere gialle, fu stupito di trovare una tozza casa di mattoni palesemente
nuova con i nomi di Grady & Juanita Traylor dipinti sulla cassetta per la
posta in lettere alte cinque centimetri.
«Padre Foley!», esclamò Juanita quando aprì la porta. Vent'anni prima era
stata una donna grassoccia con un debole per i grandi cappelli ornati di fiori
e gli abiti ampi. Adesso somigliava a una bambolina raggrinzita, il vestito
stinto che le pendeva dalle spalle scheletriche e la testa quasi calva, fatta
eccezione per le poche ciocche di capelli bianchi come neve.
Lo fece entrare, stringendogli il braccio per sostenersi.
«Che gioia», disse, sorridendogli felice con gli occhi appannati dalla
cataratta. «È così bello avere compagnia».
Lo fece accomodare a un piccolo tavolo di formica in cucina e gli offrì un
piatto di verdura preparata in casa. «Sono piselli del mio orto, e granturco
dolce, naturalmente, e pomodori e gombo stufati. Il mio gombo non è
cresciuto, quest'anno, ma ne ho messo una quantità in freezer l'anno
scorso», spiegò, con la voce acuta che tremava per la gioia.
Lui le strinse la mano fragile come carta velina mentre recitavano
insieme la preghiera di ringraziamento, ma Juanita rifiutò di mangiare. «Oh,
no, padre. Non mangio fino alle quattro, quando preparo la cena per me e
Grady. Adesso lui sta facendo il sonnellino, ma fra poco andrò a svegliarlo
così si godrà la sua sorpresa. È lei. È lei la sua sorpresa. Sarà così eccitato».
Il cibo era squisito, fresco, cucinato in modo semplice, accompagnato da
un pezzo di pane di farina di mais e da una caraffa di tè freddo così dolce e
ghiacciato che James avrebbe potuto berne un litro.
Quando ebbe finalmente convinto Juanita che aveva mangiato a sazietà,
prese tempo prima di parlare dello scopo della sua visita.
«I vostri figli», disse. «Come stanno il piccolo Grady e Juanette e Boo e
Travis?».
La donna si illuminò di nuovo in volto e lo informò del numero di nipoti
e pronipoti che lei e Grady avevano contribuito a crescere.
«E Grady?», chiese James. «Mi sembra di capire che abbia qualche
problema di salute».
«Oh, sì», confermò lei, dandogli un colpetto sulla mano. «Ma il Signore
non ci dà nulla che non possiamo sopportare. È davvero bravo, Grady.
Questa casa è stata un vero dono del Signore. C'è l'aria condizionata così il
suo enfisema non lo tormenta troppo e un grande bagno di piastrelle in cui
riesco a spingere facilmente la sua sedia a rotelle. La signorina Ann Ruby ci
ha fatto un enorme regalo, e questo è un fatto».
James sorrise. «La signorina Ann Ruby è morta il mese scorso, sai».
Juanita annuì. «Sì, padre, ho saputo tutto. Il figlio più grande di Boo, se
lo ricorda, è il mio ultimogenito, ha ritagliato il trafiletto del giornale di
Savannah che parlava della sua morte e l'ha portato qui per leggermelo. Io e
Grady ci siamo sentiti molto tristi per la sua scomparsa, ma siamo stati
felici che la signorina Ann Ruby sia andata in un posto migliore».
«Ho saputo che tu e Grady avete avuto contatti con l'avvocato della
signorina Ann Ruby, Gerry Blankenship, qualche mese prima che lei
morisse», dichiarò James.
Juanita abbassò lo sguardo sulle proprie mani e le studiò. Lui rimase in
attesa.
«Il signor Gerry ha detto che non dovevamo parlarne», disse alla fine. «È
stato così buono con noi che non voglio fargli torto».
«Il testamento è un documento pubblico, ormai», spiegò James, estraendo
alcuni fogli dalla ventiquattrore. «Vedi? Ne ho ottenuta una copia dal
tribunale. Quindi non violeresti alcun segreto parlandone adesso».
«Lo crede davvero? So che è peccato attaccarsi ai beni materiali, ma
questa casa... la signorina Ann Ruby ce l'ha data e preferisco non pensare a
cosa faremmo se dovessimo lasciarla, adesso. È la prima volta in vita mia
che ho l'aria condizionata, e lodo il Signore ogni giorno, quando l'aria fresca
mi soffia sul viso».
«È una bellissima casa», commentò James, osservando con aria ammirata
la minuscola cucina immacolata. «Da quanto vivete qui?».
«Ci siamo trasferiti il primo maggio», disse in fretta Juanita. «All'inizio
ho detto nossignore, non posso trasferirmi a Guyton. È troppo lontano.
Laggiù non c'è nessuno dei miei parenti. Ma il signor Gerry ha insistito
molto, dicendo che io e Grady dovevamo avere questa graziosa casetta di
mattoni. E ci ha messo i mobili e tutto il resto, così non abbiamo dovuto
preoccuparci di niente».
«È stato molto gentile da parte sua. E vi ha detto che la casa era un regalo
della signorina Ann Ruby?».
«Esatto. E io mi sono terribilmente preoccupata, pensando che avrei
ricevuto per posta un conto o altro, ma non è mai successo. Sono passati tre
mesi, quindi credo che il Signore ci voglia qui».
«Ne sono sicuro», concordò James. «Mi chiedevo se saresti disposta a
parlarmi un po' di come siete arrivati a firmare come testimoni le ultime
volontà della signorina Ann Ruby».
Le tese i documenti che aveva portato con sé perché li esaminasse. Lei li
osservò per un attimo e poi alzò di nuovo gli occhi su di lui. «Esatto.
Abbiamo firmato questi fogli proprio come ci ha chiesto di fare il signor
Gerry».
«Quando ve l'ha chiesto?».
«Mmm. Be', ricordo che è venuto a casa nostra, la vecchia casa, intendo,
in un giorno di primavera e mi ha portato una scatola di caramelle. È stato
un gesto carino, vero? Non ho voluto dirgli che non potevo mangiarle
perché ho il diabete. E aveva alcuni fogli che doveva far firmare a me e a
Grady. Come favore verso la signorina Ann Ruby. Così noi l'abbiamo fatto,
e il signor Gerry è stato così contento. E ha detto che la signorina Ann Ruby
aveva una casa qui a Guyton che stava sistemando per andarci a vivere, solo
che non stava molto bene e preferiva rimanere a casa sua, quindi le
avremmo fatto un piacere se ci fossimo trasferiti qui per occuparci di tutto».
«È stato davvero gentile da parte del signor Blankenship», disse James.
«E avete avuto occasione di vedere la signorina Ann Ruby quando avete
firmato i documenti?».
«No, padre», rispose Juanita. «Non abbiamo più rivisto il suo caro viso».
«E non l'avete vista nemmeno il giorno in cui avete firmato i fogli?».
«No», rispose lei, poi si accigliò. «Oh, Signore. Non avrei dovuto dire
niente su questo, vero?».
«Il signor Gerry vi ha chiesto di non raccontare a nessuno in che modo
avete firmato i fogli?».
Lei si fissò di nuovo le mani. «È stato incredibilmente buono con noi»,
ripeté.
«Tu e Grady siete brave persone. E ho davvero apprezzato il pranzo che
mi hai preparato».
«Non vorrà già andarsene, vero? Non prima che Grady possa vederla».
James guardò l'orologio. L'appuntamento di Marian al St. Joseph era
fissato per le due e mezzo. «Mi dispiacerebbe che tu interrompessi il suo
pisolino».
Ma Juanita si era già alzata e si stava dirigendo con passo malfermo
verso il corridoio. «Rimanga lì un attimo, padre Foley».
Cinque minuti dopo spinse una sedia a rotelle nel soggiorno. Un tempo
l'uomo che vi era seduto era stato grande e grosso, non molto alto ma
massiccio, talmente forte da riuscire a tagliare e spostare da solo i pini
caduti sopra la Christ Our Hope durante un violento uragano. Adesso Grady
Traylor era abbandonato sulla sedia a rotelle e una cinghia che gli
attraversava il torace era l'unica cosa che impediva al suo fragile corpo di
scivolare in avanti fino a terra. Una mascherina per l'ossigeno gli copriva la
bocca e i suoi occhi castani sembravano vitrei.
«Guarda chi c'è, Grady Traylor», disse ad alta voce sua moglie. «Ricordi
sicuramente padre Foley, Grady. È venuto a trovarci. Non è splendido? Ha
fatto tutta quella strada fin da Savannah».
L'uomo sbatté le palpebre, e a James parve di vedere nel suo sguardo un
barlume di riconoscimento.
Juanita lisciò il tessuto consunto della giacca del pigiama del marito, le
sue mani magre ne accarezzavano la scapola scheletrica.
«È così felice di vederla», disse a James. «Ora, mi stavo chiedendo se lei
potrebbe fare una cosa per noi. Una cosa speciale. Perché, a dirle la verità,
questa casa è così isolata nella campagna che non riusciamo ad andare a
messa».
James annuì. Si inginocchiò sul pavimento rivestito di moquette accanto
alla sedia a rotelle di Grady Traylor, e Juanita si inginocchiò al suo fianco,
reggendosi al bracciolo della sedia.
«Perdonami, Padre, perché ho peccato», cominciò a dire la donna, gli
occhi serrati con forza.
"E perdona me, Padre", pensò James, "per il peccato di aver voluto offrire
conforto a questi figli di Dio fragili ma fedeli".
49
«Mamma?». Infilai la testa nel tinello dei miei genitori, dove lei era
seduta fissando il televisore.
«Cosa?». I suoi occhi non lasciarono lo schermo. Stava guardando un
programma di cucina in cui uno chef cinese mostrava come disossare una
gallinella con il coltello più lungo e dall'aspetto più crudele che io avessi
mai visto.
Mi sedetti sul divano, davanti alla sua poltrona. «Com'è andata oggi
pomeriggio?».
Era ben pettinata e portava un tailleur pantalone color pastello e gli
orecchini di perle, quindi si era presentata all'appuntamento al centro di
disintossicazione.
«Sshh», rispose. «Sto cercando di vedere cosa sta facendo quest'uomo».
«Sta disossando una gallinella», spiegai. «E anche se tu decidessi di
cucinarne una, cosa di cui dubito sinceramente, perché mai dovresti volerla
disossare? Mamma, voglio sapere com'è andata al centro, oggi».
«Benissimo», scattò, prendendo il telecomando e alzando il volume. «Ora
potrei, per favore, godermi un po' di pace e silenzio senza che tutti mi
facciano un sacco di domande indiscrete?».
«Oookaaay», dissi, alzandomi e uscendo. Trovai papà in cortile, sotto la
tettoia per auto, impegnato nel tentativo di districare il filo di nylon
aggrovigliato intorno al manico del suo amato tagliaerba.
«Ciao, tesoro», disse, alzando gli occhi quando mi lasciai cadere
pesantemente su una sedia da giardino di alluminio accanto a lui.
«La mamma sembra un po' tesa», dissi. «È andato tutto bene al centro,
oggi pomeriggio?».
Lui estrasse il suo coltello a serramanico e cominciò a tagliare il filo
aggrovigliato. «Non è scappata».
«È già un inizio. Ma ti è sembrata ricettiva?».
«Passami il cestino dell'immondizia, Weezie, ti spiace?», chiese,
districando il filo ormai rovinato.
Cominciai a raccogliere i pezzi di filo di nylon e a buttarli nel cestino.
«Non è andata troppo bene», ammise alla fine. «James dice che ci vorrà
tempo. Ma oggi, be', direi che questa prima volta è stata un fiasco».
«Cos'è successo?».
«Quando siamo arrivati, l'addetta all'ammissione, è così che chiamano
l'infermiera che ti fa tutte le domande, ha portato Marian in una stanza e le
ha chiesto un sacco di cose, per un'ora. E io sono andato con un'altra
persona, che mi ha fatto domande sulla famiglia. Poi abbiamo partecipato
insieme a un incontro con i responsabili del ricovero che hanno spiegato
cosa, secondo loro, dovrebbe fare tua madre per curarsi».
«Quando hanno cominciato ad andare male le cose?».
«Più o meno nel momento in cui ci hanno detto che, secondo loro, lei
dovrebbe essere ricoverata come interna. Il che significa restare in ospedale
per sei settimane».
«Oh, no», dissi.
«Tua madre è diventata isterica e mi ha accusato di volerla indurre con
l'inganno a lasciarsi rinchiudere di nuovo. Le ho detto e ripetuto che non
sarebbe andata così, ma sai com'è fatta».
«Lo so».
«Alla fine siamo riusciti a calmarla, e i responsabili hanno detto che,
visto che lei era così contraria all'idea di restare in ospedale, forse potevano
curarla come paziente esterna, il che, come tua madre ha ammesso alla fine,
non sarebbe poi così terribile».
«Poi cosa è successo?».
«L'hanno fatta partecipare a una seduta di gruppo. E, quando è uscita, era
come l'hai vista adesso in casa. Traumatizzata, in un certo senso».
«E non ha voluto dirti cosa l'ha sconvolta tanto?».
«Ha semplicemente continuato a ripetere che gli altri membri nel gruppo
erano tutti drogati, ubriaconi, barboni e criminali, e a chiedermi come
potevo pretendere che restasse chiusa a chiave in una stanza con quel
genere di persone sei giorni alla settimana per tre mesi».
«Hai cercato di parlarle?».
«Sia James che io abbiamo fatto del nostro meglio per farla ragionare.
Lei continua a pensare di non avere alcun problema con il bere. Non capisce
perché mai dovrebbe andare in un centro di disintossicazione con un branco
di drogati e ubriaconi».
Mi chiesi se qualcuno dei drogati e degli ubriaconi del centro avesse mai
pensato di mescolare Xanax e whisky come aveva fatto lei.
«C'è qualcosa che posso fare?», chiesi.
«Più avanti vogliono che partecipiamo tutti a qualche sessione di terapia
di gruppo», rispose papà. «Ma non prima che tua madre sia pronta ad
ammettere di avere un problema con il bere».
«D'accordo», dissi, alzandomi dalla sedia da giardino. Feci per
andarmene, poi tornai indietro per stringerlo in un abbraccio. «Ti voglio
bene, papà», aggiunsi.
«Ti voglio bene anch'io», ribatté lui, ricambiando la stretta. «Supereremo
tutto questo, Weezie. Ma di' una preghiera per tua madre, d'accordo?».
«Lo farò», promisi. «E ne dirò una anche per te e per me».
Mentre tornavo a casa dal Guale passai accanto al magazzino sul Martin
Luther King Boulevard dove il mattino dopo si sarebbe tenuta la vendita
degli arredi di Beaulieu.
Parcheggiai lì davanti e fissai l'edificio. Per la prima volta mi resi conto
che un tempo il vecchio stabile bianco di mattoni aveva ospitato il
Cranman's, l'emporio di articoli sportivi preferito di mio padre. La mia
primissima canna da pesca era uscita da lì, così come il sacco a pelo che
usavo durante le gite delle Girl Scout.
Le vetrine in cui un tempo erano esposte tende canadesi e rastrelliere di
fucili erano chiuse con assi ormai da parecchi anni e l'entrata del negozio
era protetta da una massiccia rete a maglie metalliche.
Poster di un arancione fluorescente erano fissati a intervalli di due metri
sulla rete metallica. "Importante vendita. Sabato – ore 8", recitavano.
"Importante" era un termine riduttivo, per quanto mi riguardava.
"Urgente" era un aggettivo più adatto. Con i soldi messi insieme avrei
dovuto disporre di contanti sufficienti per comprare la credenza di Moses
Weed. Se era ancora lì e se il prezzo non era salito.
Quando arrivai a casa, la composizione floreale di Tal si trovava ancora
davanti alla mia porta. La presi e la lasciai cadere nel suo bidone
dell'immondizia.
Jethro fu entusiasta di vedermi. Andai in cucina e gli diedi una ciotola di
acqua fresca e un biscotto per cani, e giuro che sembrò in preda a un'estasi
canina lì sul pavimento della cucina. Mi seguì al piano di sopra e si sdraiò ai
piedi del letto.
La vendita di Beaulieu sarebbe cominciata alle otto. Preparai il mio
equipaggiamento per le vendite: torcia elettrica, metro a nastro, lente di
ingrandimento, libretto di assegni e portafoglio. Ma niente thermos di caffè.
Non avrei permesso alla mia vescica di farmi finire nei guai, stavolta.
Puntai la sveglia alle quattro e scivolai nel sonno, sognando credenze
danzanti e vecchi armadi canterini.
***
«Cosa pensi che stiano facendo in quel deposito?», chiesi, prendendo una
punta di guacamole con il mio nacho.
BeBe tirò il piatto di nachos verso il suo lato del tavolo della cucina e ne
infilò con eleganza uno coperto di formaggio fuso, salsa e panna acida nella
piccola bocca rosea.
«Contrabbandano droga?».
«Lewis Hargreaves è un antiquario, non un narcotrafficante
internazionale», dissi.
«Pensaci», continuò BeBe. «Quel posto si trova proprio accanto ai moli
di Port Authority. Forse fanno dei fori nei pezzi d'antiquariato per
nasconderci dentro la droga e spedirli oltremare, ai loro soci».
«Oppure potrebbe funzionare nell'altro senso», ipotizzai. «Forse i loro
soci in posti come Hong Kong nascondono la roba nei pezzi d'antiquariato e
li mandano qui a Lewis. Poi lui estrae la droga, la spaccia, e vende anche gli
oggetti. Forse è per questo che può permettersi di comprare il tipo di merce
che compra».
«Ma non capisco cosa c'entri in tutto questo la credenza di Moses Weed»,
osservò BeBe.
«Neanch'io», ammisi, «ma stanno sicuramente combinando qualcosa di
losco».
«Perché?».
«Perché Lewis Hargreaves ha l'aria malvagia», dichiarai.
BeBe annuì. Lei mi capisce.
«Hai dell'altra birra?», chiesi. «Questa salsa mi sta ustionando il palato».
Lei aveva la bocca piena, così si limitò ad agitare una mano in direzione
del piccolo frigorifero incassato dove tiene birra e Coca–Cola.
Presi altre due bottiglie di birra, affettai un altro lime e gliene passai una
fetta insieme con una birra.
«Ormai tu e Jonathan McDowell siete grandi amici, vero? Perché non
vedi se lui può ottenere un mandato di perquisizione che ci permetta di
entrare là dentro a dare un'occhiata?», suggerì lei.
«È fissato con l'etica e cose di questo genere. Non sguinzaglierà certo i
cani contro Hargreaves solo perché glielo chiedo io».
«L'etica è una grande scocciatura», commentò BeBe. «Cosa ne diresti se
andassimo semplicemente là, quando fa buio, per dare un'occhiata in giro?».
«Come? È un magazzino. Non ho visto finestre».
«Forse sono sui lati, oppure sul retro. Senti, è sabato sera. Non abbiamo
appuntamenti e se ci annoiamo più di così finiremo per mangiare tutto
quello che c'è in casa. Andiamoci».
«D'accordo», dissi, finendo il guacamole perché davvero, il guacamole va
subito a male, e il prezzo degli avocado è criminale. «Magari ci verrà in
mente un piano, una volta là».
BeBe si alzò, raggiunse il freezer e lo aprì. Estrasse una grossa scatola di
cartone. «Vuoi un Fudgsicle?», chiese, offrendomi un gelato ricoperto di
cioccolato.
«Incredibile», risposi, prendendone uno. «Non li mangio da quando
avevo dodici anni».
«Lo so», disse lei, staccando con un morso l'estremità del suo. «Il
grossista di gelati che serve il ristorante li aveva in offerta speciale, ma ho
dovuto comprare la confezione da sessanta per avere lo sconto. Non vuoi
prenderne due?».
«No», replicai, guardandomi intorno per cercare le chiavi del pick–up.
«Se mangio troppo mi addormenterò».
«Dove stai andando?».
Il cioccolato mi aveva dato un'euforia spavalda. «Vado a casa a fare una
doccia e cambiarmi», annunciai. «Vuoi passare a prendermi fra mezz'ora?».
«Non hai paura? Di andare a casa, con Tal vicino?», chiese BeBe. «Puoi
fare la doccia qui. E ci sono ancora alcuni tuoi vestiti dall'ultima volta in cui
sei rimasta a dormire».
«Non avrò problemi», risposi. «C'è Jethro, e lui odia Tal. Inoltre, ho
deciso che Tal è fondamentalmente uno smidollato». Ma, per sicurezza,
aprii un cassetto e presi il coltello da carne più affilato che BeBe avesse.
«Per sicurezza», spiegai.
L'auto di Tal non era parcheggiata vicino a casa e non la vidi nemmeno
sulla strada, il che mi indusse a chiedermi se Jonathan lo avesse portato
dentro per interrogarlo.
Non era un mio problema, decisi.
Corsi al piano di sopra, mi feci la doccia e mi aggirai nella cabina
armadio cercando di decidere cosa mettermi. Qualcosa di scuro,
naturalmente. È senza fronzoli, così non avrei rischiato che il lembo della
camicetta si impigliasse da qualche parte, se avessimo deciso di
arrampicarci.
Alla fine optai per un paio di fuseaux elastici neri, una maglietta nera con
la cerniera sul davanti e dei mocassini neri con il tacco basso e la suola di
gomma. In piedi davanti allo specchio, mimai diverse pose,
accovacciandomi, piegandomi, puntando la mia pistola immaginaria. In
cuor mio mi trovavo un vero schianto. Quasi come il mio idolo televisivo,
Emma Peel, interpretata da Diana Rigg nel telefilm Agente speciale.
All'insieme però mancava un tocco particolare così all'ultimo momento
aggiunsi una sciarpa di seta leopardata legata intorno al collo.
Ero in cucina a dare un biscotto per cani a Jethro cercando di spiegargli
come mai non poteva venire a divertirsi con me, quando BeBe bussò alla
porta, che avevo cominciato a chiudere con chiave e chiavistello, nel caso
Tal avesse sviluppato un'improvvisa vena criminale.
Le aprii. Rimase perfettamente immobile e mi guardò. Anch'io la guardai.
Indossava una tuta di lycra nera elasticizzata, senza maniche e con una
cerniera sul davanti, scarpe da jogging nere e una cintura leopardata.
«Gran bella tenuta», dissi ridendo.
«Anche la tua», ribatté.
«Volevo ottenere un look alla Diana Rigg».
Lei mi guardò con l'aria di non capire.
«Sai, Agente speciale. Negli anni Sessanta. E tu chi dovresti essere?».
«Honey West», rispose, indicando un neo che si era disegnata sul lato
destro della bocca con la matita per gli occhi. «Chi?».
«Non guardi mai le repliche dei vecchi telefilm? Weezie, Honey West
interpretata da Annie Francis era la donna che Angie Dickinson voleva
diventare da grande. Quando si parla di fascino... Era una specie di
detective privato–trattino–ladro acrobata. E come animale domestico aveva
un gattopardo di nome Bruce».
«Sei pronta ad andare?».
In quel momento sentimmo la porta della cucina aprirsi dietro di noi. So
di aver fatto un salto di almeno mezzo metro. Afferrai il coltello per la carne
di BeBe e ruotai su me stessa per affrontare l'aggressore.
Daniel era fermo sulla soglia con una bottiglia di vino in una mano e un
vassoio di Seduzione al cioccolato nell'altra.
«Gesù», disse, indietreggiando.
«Sono un po' nervosa», spiegai. «Secondo la polizia, Tal potrebbe aver
ucciso Caroline».
«Abbiamo scoperto che lei aveva una relazione con Phipps Mayhew»,
aggiunse BeBe. «Quindi, se Tal è venuto a saperlo, forse l'ha uccisa in preda
a una furia omicida scatenata dalla gelosia. Anche se, personalmente, non
riesco a immaginarlo in preda a una passione violenta di alcun genere».
«Ti dispiacerebbe posare quel coltellaccio?», chiese Daniel.
«Sei venuto a scusarti per aver fatto il prepotente con me?», chiesi. La
mia spavalderia da cioccolato era davvero notevole.
Lui posò il dolce e il vino sul piano di lavoro, accanto al coltello. «In
realtà speravo che potessimo fare pace e poi farci un po' di coccole. Ma a
quanto pare voi due avete altri progetti».
Spostò lo sguardo da me a BeBe per poi riportarlo su di me.
«Come mai siete vestite uguali? Sembrate due hostess della Air
Leopard».
BeBe inarcò un sopracciglio ma lasciò che fossi io a spiegare.
«Stiamo per intraprendere una piccola spedizione. Per scoprire cosa sta
combinando Lewis Hargreaves. È l'antiquario che ha comprato la credenza
di Moses Weed».
«Perché non glielo chiedete semplicemente?», domandò lui.
«È coinvolto in qualcosa di illegale», spiegò BeBe. «Abbiamo seguito la
sua assistente fino a un magazzino dall'aria sinistra nei pressi di Port
Authority. Stava comprando un sacco di materiale da ferramenta, chiodi,
vernici e via dicendo. Weezie sospetta che contrabbandino droga».
«È assurdo», commentò lui.
«Ci andiamo comunque», annunciai. «Metti il dolce in frigo. Puoi restare
qui con Jethro, se vuoi».
Lui scosse la testa. «Guido io».
«Okay», dissi, «ma non puoi darci ordini».
Ci stringemmo tutti e tre sul sedile anteriore del pick–up di Daniel. Io gli
permisi di accarezzarmi la gamba mentre guidava e BeBe fece finta di non
accorgersene.
«Merda», dissi quando arrivammo nella via in cui sorgeva il deposito.
Era illuminata come un centro commerciale di sabato sera. C'era persino un
faretto nel parcheggio.
Daniel parcheggiò dall'altra parte della strada in modo da poter vedere la
porta principale del magazzino. «È un modo piuttosto sfacciato per
spacciare droga», osservò.
Abbassammo i finestrini e osservammo l'edificio per qualche minuto.
«Lo sentite?», chiesi. Un suono acuto e lamentoso arrivava fin nella
strada.
«Attrezzi elettrici», disse Daniel. «Sembra di essere a casa mia».
«Forse stanno segando i mobili spediti da Hong Kong per recuperare la
droga», suggerì BeBe.
«È assurdo», disse di nuovo Daniel.
«Non resteremo seduti qui con le mani in mano», dichiarai alla fine,
dando un colpetto sul fianco di BeBe. «Fammi scendere».
«Aspetta», disse Daniel, afferrandomi un braccio. «Qual è il piano?».
«Piano?».
«Io ne ho uno», annunciò BeBe. Indicò l'angolo del magazzino, dov'era
inchiodata un'insegna con la scritta "Affittasi".
«Diremo loro che io sono un agente immobiliare e tu un mio cliente, e
che vogliamo dare un'occhiata allo spazio da affittare».
«Niente male», commentò lui.
«Le stai semplicemente leccando i piedi perché è il tuo capo», dissi. «Io
chi dovrei essere? L'arredatrice d'interni?».
«Nessuno», ribatté BeBe. «Hargreaves ti conosce, giusto? Se ti vede,
farai saltare la nostra copertura».
«Non è giusto», replicai. «L'idea è stata mia. Comunque, voi due non
sapete un accidente di antiquariato. Non avete mai visto la credenza di
Moses Weed».
«Me l'hai descritta una dozzina di volte», disse BeBe. «Se è lì dentro la
riconoscerò. Ora vieni», disse, rivolta a Daniel, «prima che perda il
coraggio».
Rimasi imbronciata nel pick–up, osservando il magazzino con la mano
sul cellulare nel caso arrivassero dei trafficanti di droga dall'aria
minacciosa.
Daniel e BeBe attraversarono la strada, e fui costretta ad ammettere che
lei era favolosa con la sua tuta alla Honey West. Cercò di aprire la porta, poi
si voltò per indicarmi a gesti che era chiusa a chiave.
Daniel trovò un campanello accanto alla porta e lo premette per un
minuto. Dopo parecchio tempo l'uscio si aprì è un uomo basso, con fattezze
messicane e avambracci robusti, uscì a parlare con loro.
Vidi BeBe parlare e gesticolare in modo animato, e Daniel che parlava e
annuiva, in segno di approvazione. Il messicano continuava a scuotere la
testa in segno di diniego ma, ogni volta che lo faceva, BeBe avanzava di un
passo, seguita da Daniel, finché si ritrovarono all'interno del magazzino e la
porta si richiuse dietro di loro.
Per cinque minuti non accadde nulla, il che mi fece impazzire. Infilai il
cellulare nella cintola dei pantaloni, scesi dall'auto e attraversai
furtivamente la strada, cercando di evitare il fascio di luce del faretto nel
parcheggio.
Mi accovacciai dietro una fila di cassonetti ai margini del complesso,
lontano dal cerchio di luce ma abbastanza vicino da poter tenere d'occhio
l'ingresso.
Dopo altri cinque minuti la porta si spalancò e BeBe e Daniel uscirono,
seguiti dal messicano che stava gesticolando e parlando animatamente.
L'uomo rimase fermo sulla soglia e li guardò attraversare la strada e
raggiungere il pick–up, ma io non osai lasciare il mio nascondiglio.
Salirono a bordo e vidi che si stavano chiedendo dove fossi finita. Dopo un
paio di secondi Daniel avviò il motore e imboccò lentamente la strada. Il
messicano li guardò allontanarsi poi, finalmente, lasciò che la porta del
magazzino si richiudesse alle sue spalle.
Merda. Mi stavano lasciando lì? Mi accovacciai accanto al cassonetto e
cercai di decidere cosa fare.
Il mio girovita cominciò a ronzare, il che mi spaventò parecchio finché
non mi resi conto che il ronzio proveniva dal mio cellulare. Lo presi.
«Pronto», sussurrai.
«Dove diavolo sei?», chiese BeBe.
«Nascosta tra i cassonetti», risposi. «Tornate indietro a prendermi. E fate
in fretta».
Quando il pick–up oltrepassò lentamente il parcheggio lo raggiunsi con
una corsa molto diversa da quelle di Diana Rigg. BeBe stava tenendo aperta
la portiera del passeggero e io saltai a bordo prima che Daniel avesse il
tempo di fermarsi.
«Cosa avete visto?», chiesi, ansimando.
«Un magazzino», rispose Daniel.
«Trecentosettanta metri quadrati, niente riscaldamento», aggiunse BeBe.
«Cosa stanno combinando là dentro?», volli sapere.
«Quel messicano continuava a cercare di riportarci sul davanti
dell'edificio», raccontò BeBe. «Ma gli ho spiegato che il mio cliente aveva
bisogno di vedere tutto lo spazio disponibile. Abbiamo girato nel magazzino
per un paio di minuti, prima che ci riaccompagnasse nella zona anteriore
degli uffici».
«Avevi ragione sui materiali da costruzione», disse Daniel. «C'erano pile
di legname e attrezzi elettrici. Anche un sacco di arnesi da falegname, cosa
che ho trovato piuttosto strana. Vecchie seghe a nastro, scalpelli e altri
arnesi antiquati. Avevano montato un tavolo per verniciare, e c'era
parecchio materiale da ferramenta, chiodi, catene. Come se fosse un
laboratorio».
«E per quanto riguarda i pezzi d'antiquariato? Ne avete visti?».
«Abbiamo notato un paio di tavoli quasi identici a quello che tu e io
abbiamo visto nella vetrina del negozio di Hargreaves», spiegò BeBe. «Solo
che erano di legno non verniciato. E c'era una miriade di gambe da tavolo e
sportelli del tipo che potrebbe esserci su un armadio o cose del genere. E
cataste di legname dall'aria antica, il genere che dà l'impressione di essere
stato recuperato da una vecchia casa».
«E la credenza di Moses Weed?», chiesi. «L'avete vista?».
«No», rispose BeBe, «ma siamo riusciti a dare solo una rapida occhiata a
quella specie di laboratorio. C'erano dei mobili. Questo è certo».
«Mobili antichi?».
«Sai, un po' come quella roba primitiva e dall'aria malconcia che piace a
te», spiegò BeBe. «Il tizio non parlava bene l'inglese, ma era chiaro che ci
voleva fuori di lì, e in fretta».
«Mobili primitivi», dissi. Poi mi ricordai di tutta la carta vetrata, la
paglietta metallica e la vernice acquistate da Zoe Kallenberg nel negozio di
ferramenta. E cominciai a farmi un'idea molto chiara di quello che Lewis
Hargreaves stava combinando in quel magazzino. I pregevoli pezzi
d'antiquariato del Sud cominciavano a scarseggiare. Il mercato si stava
facendo interessante, ma la disponibilità si era ridotta quasi a zero. Così
Lewis Hargreaves aveva trovato una soluzione: se li costruiva da solo.
58
Ogni sabato pomeriggio alle cinque in punto James beveva un gin and
tonic. Gli piaceva portarlo sulla veranda posteriore, ammirando il giardino
che Bernadette aveva curato per così tanti anni. Lì si sentiva più vicino alla
madre che in qualsiasi altro punto della casa. Il suo logoro fazzoletto di
cotone era ancora appeso a un gancio accanto alla porta sul retro. Le sue
scarpe da giardinaggio, un paio di stivali dalla suola di gomma a cui aveva
tagliato i gambali, si facevano compagnia nell'angolo, le punte girate verso
l'interno, e la ciotola smaltata che lei usava per sgranare i piselli era posata
capovolta su un tavolino traballante, accanto alla sedia a dondolo di James.
Si dondolò e ripensò agli avvenimenti della giornata. Phipps Mayhew era
il tipo d'uomo a cui era meglio non pestare i piedi. La sua rabbia era
esplosiva e aveva molto denaro. Messo di fronte a una minaccia di qualsiasi
genere, avrebbe risposto all'attacco, e in modo spietato.
Fece una smorfia ricordando la minaccia di Mayhew di rendere di
pubblico dominio il suo orientamento sessuale. Il denaro era l'ultima delle
sue preoccupazioni. Sarebbe stato costretto a rivelare la verità. La sua
famiglia e i suoi vecchi amici sarebbero rimasti scioccati, disgustati, si
sarebbero sentiti traditi. Non Weezie. Weezie sapeva e apparentemente
accettava quell'aspetto della vita di James. Ma gli altri come avrebbero
reagito?
Sorseggiò il drink e rifletté sulla questione. Ma comunque formulasse la
domanda, la risposta era sempre la stessa. Avrebbe fatto quello che andava
fatto. Avrebbe affrontato le conseguenze quando ci fossero state.
Dall'interno della casa sentì giungere il sommesso trillo del campanello.
Prese il bicchiere e attraversò l'abitazione raggiungendo l'ingresso. Stava
aspettando che Weezie venisse a riprendersi la borsetta. Aprì la porta.
Diane Mayhew era in piedi sulla veranda, con un elegante abito di seta. Il
cappello ornato di fiori era scomparso, ma aveva un nuovo accessorio: una
pistola a canna corta.
«Salve, padre», disse.
Lui fissò la canna della pistola.
«È una calibro quarantacinque», spiegò Diane, notando dove si era
posato il suo sguardo. «È carica e la so usare. Posso entrare, per favore?».
Gli sembrò opportuno obbedire.
«E adesso?», chiese James.
«Potremmo sederci?», propose lei. «È tutto il giorno che porto questi
dannati tacchi. Ho i polpacci che pulsano».
Lui indicò il salotto, con le grandi finestre affacciate su Washington
Avenue. Le tende erano scostate. Forse qualcuno sarebbe passato in auto e
avrebbe visto Diane Mayhew puntargli contro una pistola.
«Non qui», disse lei, abbassando una mano per massaggiarsi una gamba.
«Non ha uno studio o una cosa del genere?».
«Certo», rispose lui, indicando la sala da pranzo. Mangiava sempre in
cucina, così aveva regalato i mobili della madre a una nipote, sostituendoli
con una scrivania e alcuni scaffali per i libri.
«Carina», commentò Diane, guardandosi intorno nella stanza. «Questa
casa è molto più grande di quanto appaia dall'esterno. L'ha arredata lei?».
«In parte», ribatté James, cercando di non sembrare nervoso.
«Mi piace la tinta delle pareti», disse la donna, passando la mano libera
sul muro dello studio. «Come si chiama?».
«Marrone».
Diane Mayhew, pensò James, era fuori di testa: gli puntava contro una
pistola e intanto gli chiedeva consigli d'arredamento. Lui si rese conto che
la maggior parte delle donne di Savannah con cui aveva contatti era in
qualche modo vagamente disturbata. Bastava guardare Marian, sua cognata.
E Denise Cahoon. E Merijoy Rucker.
Forse era colpa degli ormoni, decise. O magari solo dell'umidità.
«Si sieda là, padre», gli ordinò lei, indicando con la pistola una delle
sedie dallo schienale rigido addossate alla parete più lontana. James ubbidì.
«Di cosa si tratta, signora Mayhew?», chiese, mantenendo un tono di
voce sommesso e non provocatorio.
«Ho sentito tutto quello che ha detto a Phipps nel suo studio, oggi. Se si
sta accanto alla bocchetta di ventilazione, nella camera padronale al piano
di sopra, si sente qualsiasi cosa venga detta nello studio. È davvero
incredibile».
«Mi dispiace molto che lei abbia dovuto scoprirlo da me. Le chiedo
scusa».
«Sapevo già che lui mi stava tradendo con quella donna, Caroline
DeSantos», precisò Diane. «Ma lei si sbaglia. Phipps se la scopava
soltanto». Arrossì leggermente. «Mi scusi, padre, volevo dire che faceva
sesso con lei. Non l'avrebbe mai uccisa. Sono stata io a uccidere Caroline».
«Sono sicuro che aveva dei buoni motivi per farlo», commentò calmo
James. «Dev'essere devastante scoprire che il proprio marito è attratto da
un'altra donna. E Caroline DeSantos non era una bella persona. Una
rovinafamiglie, la si potrebbe definire».
«Infatti. E, a ben pensarci, la situazione avrebbe potuto andare avanti fino
a diventare irrimediabile, se io non mi fossi preoccupata tanto dei miei
ragazzi».
«I suoi ragazzi?».
«I nostri figli. Phipps III, detto Tripp, e Phillip. Flip. Sono adolescenti,
iscritti alla Country Day, ma temevo che frequentassero le persone
sbagliate».
James annuì, senza capire nulla.
«Ho trovato dei preservativi nello zainetto di Tripp. Ho supplicato Phipps
di parlare con i ragazzi, ma lui ha detto che stavo ingigantendo le cose. Ho
deciso di scoprire chi fossero le ragazze».
«Ottima idea», commentò James. Si chiese cosa c'entrasse con il motivo
per cui Diane Mayhew aveva ritenuto necessario sparare al petto a Caroline.
«Ho comprato una microspia», continuò lei. «Una cimice. E l'ho messa
nel telefono dei ragazzi. E ogni sera ascoltavo le loro conversazioni. Una
settimana dopo averla acquistata ho sentito Phipps. Al telefono dei ragazzi.
Per poco non mi è venuto un colpo. Stava parlando con una donna.
Parlando sporco! Sul telefono dei miei bambini. E se loro lo avessero
sentito usare quel linguaggio osceno?».
«La loro autostima avrebbe potuto esserne danneggiata», mormorò James
in tono tranquillizzante.
«Stava parlando con Caroline DeSantos», continuò Diane, digrignando i
denti nel pronunciare il nome, «organizzando degli incontri. Lei non
portava le mutandine, lo sapeva? Ogni volta che andava da Phipps – niente
mutandine. L'ho sentita dirglielo al telefono. Ed è stato a quel punto che ho
deciso che doveva morire».
«Davvero sconvolgente», concordò lui. Disturbata? Quella donna era
completamente pazza.
«Phipps era in contatto anche con un avvocato divorzista», raccontò
Diane, mentre i pallidi occhi castani le si riempivano di lacrime. «Dovevo
impedirgli di andarsene. Per il bene dei ragazzi».
«Signora Mayhew», disse James, chinandosi verso di lei. «Credo che
dovrebbe raccontare questa storia a uno psicoterapeuta che conosco. È stata
sottoposta a un terribile stress».
«No!», strillò la donna, sollevando la pistola per puntargliela di nuovo
contro. «Niente psicoterapeuta. Parla come Phipps».
Deglutì. «Non sprechi il suo tempo tentando di rifilarmi quella stronzata
dello psicoterapeuta, padre. Il punto è che ho ucciso Caroline. Lei lo ha
capito oppure c'è andato vicino, e ora vorrebbe smascherare pubblicamente
Phipps. Ma se lo fa, rovinerà tutto. Abbiamo speso milioni di dollari per
concludere questo affare della cartiera. I finanziamenti sono pronti ma sono
tutti a breve termine, con un alto tasso di interesse. Un qualsiasi ritardo,
siamo completamente rovinati. Non posso permettere che accada. Devo
pensare ai miei ragazzi».
James annuì. «Capisco».
«Davvero?», chiese lei con amarezza. «Ne dubito. La pianificazione che
tutta questa faccenda ha richiesto, le attente riflessioni. È stato magistrale,
modestamente parlando. Ho tenuto da parte tutti i nastri delle telefonate di
Phipps e Caroline. Ho preso un altro registratore e tagliato vari stralci delle
loro conversazioni. Poi ho chiamato l'ufficio di Caroline e ho aspettato che
rispondesse la sua segreteria. Ho fatto partire un nastro che avevo preparato,
con la voce di Phipps che le dava appuntamento a Beaulieu. Non c'è stato
bisogno di altro».
«Davvero geniale», disse James.
«Quella sera Caroline è andata a Beaulieu pensando che l'aspettasse
l'ennesima lurida sessione di sesso con Phipps», raccontò Diane. «Ma io
sono arrivata per prima. Ho portato la mia pistola, ma una volta entrata in
casa ho trovato lo scrigno con le pistole da duello. È stato un dono della
provvidenza, davvero. Erano entrambe cariche. Ne ho presa una, ho sparato
un colpo contro il muro, e funzionava perfettamente. Poi mi sono nascosta
nella camera al piano di sopra. Lei ha salito le scale di corsa, chiamando
Phipps. E io sono uscita dalla camera e le ho sparato al petto. Avrebbe
dovuto vedere la sua faccia», aggiunse in tono trionfante. «Sa, se Caroline
avesse saputo che stava per morire, scommetto che avrebbe messo le
mutandine quella sera».
«Signora Mayhew». James era stanco. «C'è qualcosa che posso fare per
aiutarla?».
Lei piegò la testa di lato e sorrise. «Deve morire. È in gioco il denaro per
il college dei ragazzi e il buon nome dei Mayhew. Non posso lasciare che
qualcosa interferisca con tutto ciò o con il nostro matrimonio. Visto che è
un prete e via dicendo capisce sicuramente».
«Non sono più un prete», precisò James. Era seccato. «Suo marito l'ha
tradita, signora Mayhew. Perché non sfoga la sua rabbia su di lui?»
«È un marito. E un padre. Lei, invece, è solo l'ennesimo gay. Ci sono
migliaia di uomini come lei a Savannah. Niente moglie, niente figli. Non
sarebbe una gran perdita».
«Ho una famiglia, qui. Persone che mi vogliono bene».
«Non sanno che è un finocchio, vero?», chiese lei in tono di
commiserazione.
«Non lo faccia», la pregò James. «Lei è una persona con dei principi
morali. Uccidere è immorale».
All'improvviso la donna si alzò. «Detesto questa città dimenticata da Dio.
Non appena i ragazzi finiranno il liceo, ho intenzione di fare le valigie e
andarmene». Scoppiò a ridere. «In realtà, "detesto" non è un termine
abbastanza forte. Io odio questa città. Mio Dio! Gli scarafaggi. E i
moscerini. Mi pungono fino a farmi sanguinare. E questa ossessione sul
fatto di essere di Savannah. Questa gente non ha mai sentito parlare di
Boston? O Philadelphia? Quelli sì che sono centri di cultura. E di sapere.
Non questa maleodorante palude infestata di insetti». Dopo un attimo
aggiunse, agitando la pistola: «E il riso!».
«Il riso?».
«Il riso», ripeté lei, rabbrividendo. «Se qualcuno in questa città me ne
serve un altro piatto, credo che morirò».
Era in piedi vicinissimo a lui, la pistola puntata dritta contro il suo petto.
Ma a James venne in mente una vecchia battuta che diceva che gli abitanti
di Savannah erano proprio come i cinesi: venerano gli antenati e mangiano
un sacco di riso.
Ora il respiro di Diane era corto e affannoso. Aveva i capelli tutti arruffati
e il viso lucido di sudore.
«Sembra nervosa», disse James.
«Crede che mi piaccia uccidere la gente?», scattò lei. «Non è facile, per
me. Non sono una serial killer. Sono una donna allo stremo delle forze».
«Le andrebbe di bere qualcosa di fresco?», propose lui, incrociando le
dita.
«Solo un goccio, e in fretta. Devo rincasare prima che i ragazzi tornino
dagli allenamenti di lacrosse».
«Andrò solo un attimo in cucina a prenderle qualcosa».
«Sono dietro di lei, quindi non tenti di fare scherzi», lo avvisò Diane,
premendogli la canna della pistola contro la schiena.
«Del tè freddo?», chiese lui quando furono in cucina. «Oppure del succo
di frutta?».
Lei si fermò con la schiena appoggiata alla porta, respirando
affannosamente. «Sono così tesa», si lamentò. «Davvero in ansia. Non è
stato così, con Caroline. Quando le ho sparato ero fredda come il ghiaccio.
Sono uscita dalla casa, ho visto tutte quelle persone che arrivavano per la
vendita e me ne sono andata via in macchina, come se niente fosse. Forse
sono nervosa perché lei è un prete».
Anche i nervi di James erano considerevolmente tesi. Le mani gli
tremavano incontrollabilmente mentre rovistava nel mobiletto, cercando un
bicchiere pulito. E il suo sguardo si posò sul flaconcino delle pillole. I
tranquillanti di Marian. Xqualcosa.
«Lasci che le versi un bicchiere di vino», propose. «Ho un Bordeaux
squisito».
«Soltanto uno. Devo mantenermi lucida. Non voglio che i poliziotti mi
fermino mentre andiamo a fare il nostro giretto».
«Il nostro giretto?». Un brivido freddo gli corse lungo la schiena.
Allungando la mano verso il bicchiere riuscì ad afferrare anche il
flaconcino. Posò il bicchiere sul piano di lavoro.
«Sì. Non posso certo spararle qui. Ho pensato a quella palude fuori
Beaulieu. Ci sono gli alligatori, là. Li ho visti prendere il sole sulle rive».
«Vediamo», disse James, accovacciandosi davanti al mobiletto e
infilandovisi fino a metà del busto. «Quella bottiglia deve essere qui in
fondo». In realtà il Bordeaux era lì davanti ma, con il corpo seminascosto
nello stipetto, lui riuscì ad aprire il flacone e a farsi cadere sei pillole nella
mano. Si sarebbero sciolte nel vino? Si alzò, le posò sul piano di lavoro e vi
mise sopra la bottiglia. Prese il cavatappi dal cassetto e, mentre toglieva il
tappo, le schiacciò il più forte possibile con il fondo della bottiglia.
«Tenevo da parte questo Bordeaux per un'occasione speciale», spiegò,
cercando di mantenere un tono disinvolto. «Immagino che non ne avrò
nessuna più speciale di questa, ormai».
«Oh, non sia così melodrammatico. Sono un'ottima tiratrice», gli disse
Diane in tono rassicurante. «Non si preoccupi. Non sentirà nulla».
Lui fece scivolare le pillole nel bicchiere, poi versò il Bordeaux. Lo fece
roteare delicatamente, osservando con sollievo i frammenti che si
scioglievano. Ma il vino era ancora un po' torbido. Se ne sarebbe accorta?
«Le andrebbero un paio di cracker?», le chiese, nonostante tutto ancora
un perfetto padrone di casa, avvolgendo un tovagliolo di carta intorno al
bicchiere nella speranza di nasconderne la torbidezza.
«No, grazie», rispose la donna, strappandogli di mano il vino e bevendo
un grosso sorso.
«Le dispiace se mi unisco a lei?», domandò James. Si riempì un bicchiere
fino all'orlo. Forse l'alcol avrebbe attutito il dolore, se Diane Mayhew non
era l'abile tiratrice che si vantava di essere.
La donna allontanò il bicchiere dalle labbra e si accigliò. «Ha detto che
questo è un Bordeaux?».
«Sì».
«Strano. Di solito il Bordeaux non mi piace molto, ma questo non è male.
Di che marca è?».
«Georges DuBoeuf», rispose James. «In autunno c'è stata un'offerta
speciale al Johnny Ganem». Le passò il tappo. «Ecco. Per ricordarsi il
nome».
Lei infilò il tappo nella tasca del suo vestito da garden party. «Andiamo».
«Il bicchiere della staffa?», chiese lui, cercando di temporeggiare.
«Non per me. Devo guidare».
Ma lei gli consentì di versarsi un altro bicchiere. James prese tempo,
sorseggiando il vino, infilando la bottiglia nella pattumiera, pulendo il piano
di lavoro, sciacquando il bicchiere vuoto della donna e sistemandolo nello
scolapiatti. Prese lo strofinaccio per i piatti umido e lo ripiegò
accuratamente, posandolo sul portasciugamani di Bernadette dietro la porta
della cucina.
Diane abbassò lo sguardo sull'orologio. «Okay, ora sbrighiamoci. Ho
parecchio lavoro da fare, stasera».
James rifletté freneticamente. «Posso esprimere un ultimo desiderio?».
«No», scattò lei, brusca. «Questa non è la Legione Straniera».
«La prego. Il mio rosario. È un regalo della mia defunta madre».
«Lo prenda. E si sbrighi. Mio Dio. Avrei dovuto spararle quando ha
aperto la porta e togliermi il pensiero».
Il rosario si trovava nell'angolo opposto della casa. Era un vero miracolo
che si fosse ricordato dove l'aveva messo. Diane salì pesantemente le scale
dietro di lui, percorrendo il corridoio fino alla vecchia camera della madre
di James. Lui dovette prendere una scala per poter raggiungere l'ultimo
scaffale dell'armadio. Con grande lentezza, salì gli scalini e poi cominciò a
spostare gli scatoloni, posandone a terra uno e poi un altro. Sapeva che il
rosario si trovava nell'ultima scatola.
«Andiamo», gridò la donna mentre lui lo prendeva. «Tra poco i moscerini
usciranno dalla palude. Le ho spiegato che effetto mi fanno».
Quanto ancora?, si chiese James, scendendo le scale con tutta la lentezza
possibile. Quanto, ancora?, si chiese, chiudendo a chiave la porta posteriore,
spegnendo la luce sulla veranda, chiudendo la porta d'ingresso dietro di
loro, con la pistola di Diane premuta sul fianco.
La scintillante Lincoln bianca della donna era parcheggiata sul vialetto
d'accesso, dietro la sua Mercedes. «Salga», gli ordinò lei, indicando il sedile
del guidatore. James ebbe l'impressione che farfugliasse leggermente.
«Guidi lei. E non faccia scherzi, altrimenti le pianto un proiettile nella testa
qui sul suo vialetto».
«D'accordo», ribatté lui. Diane inciampò leggermente mentre girava
intorno all'auto ma poi riuscì ad aprire la portiera del passeggero e salire a
bordo.
James infilò la chiavetta nell'accensione e la girò. Il cruscotto si illuminò
e un segnale sonoro cominciò a suonare insistentemente. Si voltò a guardare
Diane. La donna aveva la testa che ciondolava su una spalla. E gli occhi
chiusi. Stava russando.
«Signora Mayhew?», disse gentilmente James. Le mani della donna
erano abbandonate in grembo, i muscoli del viso rilassati. Lui si piegò e le
sfilò di mano la pistola. «Sogni d'oro, Diane», aggiunse. Poi le prese il
cellulare e chiamò il 911.
59
Quando Daniel se ne andò, ero sotto shock. Non aveva urlato, non aveva
sbraitato. Se n'era semplicemente andato. Guidai fino a casa quasi senza
rendermene conto. Corsi dentro e provai a chiamare BeBe, per sapere se era
tornato da lei. Lasciai messaggi sulla segreteria di Daniel nella casetta sulla
spiaggia. Per un momento presi addirittura in considerazione l'idea di
seguirlo. Ma il ricordo della sua schiena rigida mentre si allontanava nel
buio mi convinse che avrei potuto piangere in cinese prima che Daniel
Stipanek tornasse da me, quella sera.
Alla fine mi lasciai cadere sul divano e feci quello che fanno tutte le
donne in gamba dei nostri giorni quando si trovano davanti quelle che le
riviste da salone di bellezza definiscono "sfide della vita".
Piansi a dirotto come un dannato neonato. E fu liberatorio. Ma dopo aver
piagnucolato e tirato su con il naso per un quarto d'ora, cominciai ad avere
sete. Ero in cucina a prepararmi una tisana, quando sentii aprirsi la porta
d'ingresso.
Trattenni il fiato. Era tornato. In un attimo mi asciugai il viso arrossato e
gonfio con uno strofinaccio per i piatti bagnato e mi passai le dita tra i
capelli impastati di lacrime cercando di dargli una parvenza d'ordine. Non
volendo sembrare troppo ansiosa di fare pace rimasi vestita, anche se
ammetto di aver abbassato appena appena la cerniera della mia maglietta
alla Emma Peel nel tentativo di apparire vagamente provocante.
«Daniel?», chiamai con nonchalance.
Sentii Jethro uggiolare sul davanti della casa. Non abbaiare, soltanto
uggiolare.
«No, piccola, sono io».
Lasciai cadere la scatola della tisana nel lavandino e mi girai di scatto.
Tal era fermo sulla soglia della cucina, con la testa china perché era troppo
alto per poter stare sotto lo stipite ad arco della porta.
Per un minuto il mio cervello si paralizzò, poi riprese a funzionare, in
fretta.
«Vattene», gli intimai.
«Daniel?», disse, farfugliando e facendola sembrare una brutta parola,
come catarro o velopendulo. «È così che si chiama il tuo cuoco da
strapazzo?».
Il cordless era appeso alla parete della cucina. Lo afferrai e lo brandii
come un'arma. «Vattene o chiamo la polizia. Dico sul serio, Tal. Non sono
dell'umore adatto per una qualunque delle tue stronzate, stasera. O in
qualsiasi altra sera».
«Oh, piccola», replicò, avvicinandosi di un altro passo, «scommetto che
però eri dell'umore adatto per Daniel, vero?».
«Vattene. Sei ubriaco e mi fai schifo. E da questo momento in poi stammi
lontano. Non voglio altre visite a sorpresa o messaggi sulla mia segreteria o
altri fiori. Voglio solo che tu esca dalla mia vita. Per sempre».
Lui fece un altro passo e mi accarezzò il viso. Io mi ritrassi e gli
schiaffeggiai la mano.
«Weezie», sussurrò, con l'alito che sapeva di whisky. «Non dici sul
serio».
«Dico sul serio eccome», replicai a denti stretti.
«No», insistette lui, scuotendo la testa come un cane che cerchi di
scacciare una pulce. «Sei confusa. Tutto questo casino con Caroline ti ha
sconvolta. Ma ormai è tutto finito. L'hai saputo? Hanno arrestato Diane
Mayhew. Ha ucciso lei Caroline. Ricordi Diane? Lei e Phipps sono venuti a
cena da noi, una sera. Tu eri furibonda perché quella stupida vecchia non
voleva mangiare quello che avevi cucinato».
«Vattene. Subito». La mia voce era innaturalmente calma, ma mi
tremavano le ginocchia. Decisi di chiamare il 911. Era arrivato il momento
di chiedere rinforzi.
«No!». Tal mi schiaffeggiò con forza, facendo cadere sul pavimento il
telefono, e la sua plastica scadente s'incrinò nell'impatto.
Per un attimo rimasi accecata dal dolore. Le lacrime mi rigarono il volto
mentre premevo entrambe le mani sulla guancia contusa.
«Weezie», disse lui in tono carezzevole, stringendomi. «Mi dispiace,
piccola. Non volevo farti male. Dannazione, Weezie. Perché mi hai costretto
a fare una cosa del genere?».
Stavo singhiozzando, senza riuscire a respirare, cercando di capire quello
che era appena successo. Il buon vecchio smidollato Tal Evans aveva
appena alzato le mani su di me. E adesso mi stava abbracciando, dandomi la
colpa dell'accaduto.
«Lasciami andare», gridai, cercando di spingerlo via. «Lasciami andare,
Tal».
Mi strinse ancora più forte, schiacciandomi contro di lui.
«Sshh», sussurrò, accarezzandomi i capelli. «Ora stai calma. Devi solo
stare calma».
«Tal», dissi lamentosamente, «mi stai facendo male. Lasciami andare, ti
prego».
«Stai zitta e ascolta», continuò lui, stringendomi più forte. «È questo il
problema con te, Weezie. Non hai mai voluto ascoltare».
«Adesso ti sto ascoltando», risposi. Sentii un rivoletto tiepido colarmi dal
naso. Sangue. «Davvero, Tal. Sto ascoltando».
«Bene», rispose, e mi diede un bacio sulla testa, come un padre che
ricompensi il figlio disobbediente perché ha fatto il bravo.
«Quel tizio, Daniel», aggiunse. «Ci sei andata a letto, Weezie? Lo hai
fatto?». Mi fissò dall'alto, con aria severa. «Non lo conosci nemmeno e ti
dai alla pazza gioia mezza nuda insieme a lui, qui in casa. Non è affatto da
te».
«Lo so», riuscii a dire. Cosa stava succedendo? Nella mia mente
turbinavano varie possibilità. Tal era ubriaco. Era pazzo. L'impronta della
sua mano era stampata sulla mia faccia. Dei marziani si erano impadroniti
del suo cervello. Qualunque fosse la causa, Tal mi stava seriamente
spaventando. Se mai fossi riuscita ad allontanarmi da lui, giurai a me stessa
che subito prima di farlo chiudere in galera lo avrei preso a calci fino a farlo
diventare blu.
«Queste donne», stava dicendo. «Mia madre aveva ragione. Non sanno
cosa sia la vergogna. Le giovani donne non hanno più alcuna morale. Se ne
vanno in giro comportandosi come donnacce di strada. Non c'è più un
briciolo di decenza».
Possibile che stesse succedendo? Il mio ex marito infedele e dongiovanni
mi stava davvero facendo una predica sulla morale? Forse ero io la pazza.
Forse quell'unica esperienza con l'LSD ai tempi del liceo mi stava facendo
fare il viaggio più brutto della mia vita.
Dio santo. Se mai fossi riuscita a cavarmela, subito dopo aver preso a
calci Tal fino a farlo diventare blu avrei intrapreso una crociata personale
contro la droga. "Ehi, ragazzi, dite semplicemente di no. Anzi, dite no,
cazzo".
«Però mia madre si sbagliava su Caroline». Tal dava l'impressione di
essere perfettamente lucido. «La mamma adorava Caroline. Ecco perché mi
ha dato l'anello di diamanti della nonna. Perché lo dessi a lei. Tu invece non
le sei mai piaciuta, Weezie. Ti trovava volgare. Caroline l'aveva tratta in
inganno. Aveva ingannato tutti. Persino me, per un po'. Sembrava così
raffinata, così elegante. Quella maledetta sgualdrina. Se ne andava in giro
con un abito da duemila dollari e al dito l'anello di mia nonna, e sotto quel
vestito di seta era completamente nuda».
Mi sentii gelare.
Alzai gli occhi verso di lui. Tal annuì, con un sorriso contorto. «Ti ho
scioccato, vero?».
«Di cosa stai parlando?». Avevo la bocca secca.
«Di Caroline. La sera in cui è andata all'appuntamento con Phipps
Mayhew. A Beaulieu. Faceva parte del suo giochetto con lui. Niente
mutandine. Che classe, vero? È morta portando un diamante da due carati
ma non le mutandine».
«Come facevi a saperlo?». Il sangue mi stava scendendo sull'angolo della
bocca. Lo assaggiai con la punta della lingua. Era caldo e salato. Proprio
come doveva essere stato quello di Caroline. Ma come faceva Tal a sapere
cosa non indossava lei la sera in cui era stata uccisa? Jonathan aveva detto
che la polizia non aveva reso noto quel dettaglio. Solo l'assassino lo
conosceva. E l'assassino era Diane Mayhew, vero?
«Facevano sesso telefonico», stava raccontando Tal. «Caroline e Phipps.
Una cosa rivoltante. Diane mi ha fatto sentire un nastro registrato. Quella
stupida donna aveva messo una cimice nel telefono dei figli, ma invece dei
figli ha colto in flagrante il vecchio caprone».
Scoppiò a ridere. Aveva sempre trovato spassose le proprie battute.
«Tu e Diane?». Forse avevo una commozione cerebrale.
«Un giorno è venuta nel mio ufficio. Mi ha spiegato cosa stava
succedendo tra Phipps e Caroline. Pretendeva che io la licenziassi».
«Perché non l'hai fatto?».
Sorrise di nuovo. «Phipps Mayhew era il maggior cliente dello studio. Il
cliente più importante che avessimo mai avuto. Con una commissione del
genere, era solo questione di tempo prima che ci incaricassero di progettare
altri grandi edifici commerciali. Impianti per il trattamento del liquame,
scuole. Ospedali. E tutto grazie a Caroline. Grazie al fatto che lei non
riusciva a tenere chiuse le gambe. Se le avessi dato il benservito sarebbe
andata in un altro studio, portando con sé il progetto per l'impianto
Mullinax. Non intendevo licenziarla. Neanche morto. E lo spiegai anche a
Diane».
Mi carezzò i capelli. Con la coda dell'occhio colsi uno scintillio dorato.
La sua fede nuziale. Quella che gli avevo dato io. Il tocco di Tal era
ingannevolmente gentile. Attivò quello che gli strizzacervelli chiamano
memoria sensoriale. Molto tempo prima ero stata sdraiata in un letto con
quest'uomo, noi due nudi, abbracciati. Lo stesso tocco.
«Tu e Diane. Insieme. Siete stati voi due a uccidere Caroline».
La sua mano mi scivolò di nuovo lungo la spalla. Lui sospirò.
«È stata Diane a farlo. Tutta da sola. Non ha avuto bisogno del mio
aiuto».
«L'hai organizzato tu, vero?».
«No». Lo disse con tono noncurante. «Le ho detto che era pazza. Era
troppo rischioso. Ma non ha voluto ascoltarmi. Cosa potevo fare? Come
potevo fermarla? Ho avuto un presentimento, la sera in cui ho seguito
Caroline fino a Beaulieu. E non mi sbagliavo».
«Eri là?».
«Non sono entrato in casa. Ho sentito gli spari. E ho visto Diane
andarsene in auto. Ormai non potevo più fare nulla per Caroline».
«Ma tu sapevi», dissi. «Sapevi che Diane l'aveva uccisa. La polizia
pensava che fossi stata io. Mi hanno arrestata. Messa in prigione. Se non
fosse stato per James... Mi avrebbero processato per omicidio».
«Diane avrebbe confessato. Alla fine». Lui si accigliò e mi agitò un dito
davanti al viso. Quell'uomo meritava davvero di essere ucciso. «È stata
colpa tua, Weezie. Hai voluto ficcare il naso in giro a Beaulieu. Caroline mi
ha raccontato di come sei comparsa al servizio funebre per la signorina Ann
Ruby. Senza vergogna, davvero».
«Io?», gridai. «Io sarei senza vergogna?».
«Sei cambiata», dichiarò, corrugando la fronte. «Lo hai fatto, Weezie?».
Mi tenne a distanza con un braccio, e i suoi polpastrelli affondarono nelle
mie scapole.
«Ho fatto cosa?».
«Lo. Hai. Scopato». Ogni parola era un'affermazione.
«No», risposi calma. Oscillai leggermente all'indietro sui talloni, sollevai
il ginocchio con tutta la forza che avevo e colpii Tal direttamente ai
testicoli.
Lui ululò e si piegò in due per il dolore. Non aspettavo altro. Corsi verso
la porta d'ingresso. Dovevo andarmene di lì. Ma al di sopra del rumore dei
suoi lamenti, sentii una voce che mi chiamava.
«Weezie? Eloise?».
Mi bloccai. Era mia madre.
«Mamma?». Tornai di corsa in cucina. Mia madre non veniva mai a casa
mia. Diceva che non sopportava di vedermi abitare in un garage.
Ma adesso era qui. Era in piedi sulla soglia della mia cucina, tenendo tra
le mani una pirofila bianca e azzurra. Tal stava barcollando sul pavimento,
urlando come un cane ustionato, con le mani strette sull'inguine.
«Weezie? Ti ho portato uno dei miei pasticci di tonno e tagliatelle. Cosa
diavolo sta succedendo qui? Cos'ha Tal?».
Aveva un bellissimo aspetto. I suoi capelli erano tinti e freschi di
parrucchiere, aveva il rossetto sulle labbra e un paio di piccoli orecchini di
perla. Il suo sguardo era limpido e vivace. Era la mia mamma di una volta.
Mi mise un dito sotto il mento. Trattenne il fiato. «Mio Dio, bambina, stai
sanguinando. E sotto l'occhio ti sta spuntando un grosso livido».
«È stato Tal. Mi ha picchiata. Dobbiamo andarcene di qui. Lui è
pericoloso, mamma. Ha aiutato Diane Mayhew a uccidere Caroline». La
tirai per un braccio. «Vieni. Chiamiamo la polizia».
Lei si liberò dalla mia stretta. Abbassò lo sguardo su Tal, stringendo gli
occhi. Lui stava cercando di alzarsi.
«Marian», ansimò, aggrappandosi all'anta di un mobiletto per rimettersi
in piedi. «Grazie a Dio sei arrivata. Weezie è fuori di sé. Dobbiamo farla
aiutare. Da uno psicologo».
«Hai picchiato Weezie?». La voce della mamma mi fece correre un
brivido lungo la spina dorsale. Alzai gli occhi e vidi Jethro fermo sulla
soglia. Si stava facendo piccino, intimidito dalla mamma.
«Hai picchiato la mia bambina?».
«Weezie sta mentendo», disse Tal. Respirava affannosamente, ma era in
piedi. «Si è ubriacata con quel suo amichetto ed è caduta. Oppure l'ha
picchiata lui. Ecco perché sono corso qui, l'ho sentita gridare aiuto».
Per un attimo la mamma rimase immobile. Poi, prima che potessi
fermarla, sollevò la pirofila del pasticcio di tonno e tagliatelle e gliela sbatté
sulla testa.
Tal cadde a terra come un sacco di patate.
«Vergognati, Talmadge Evans», disse severamente lei, agitando un dito in
direzione del suo corpo immobile, in quel momento coperto di tonno in
scatola, tagliatelle all'uovo e fettine di patata. «Ti conviene fare in modo che
non ti scopra mai più ad alzare le mani su mia figlia. E non andartene
nemmeno in giro a darle della bugiarda. Altrimenti ti darò una lezione che
non dimenticherai per un bel pezzo, signorino».
Mi voltai verso di lei e la strinsi forte in un abbraccio.
«Mamma», dissi, aspirando il suo profumo di lacca per capelli e Shalimar
e deodorante. «Mi hai salvato. Però hai rovinato il tuo bel pasticcio di
tonno».
Mi permise di abbracciarla esattamente per dieci secondi, poi mi
allontanò delicatamente. «Non preoccuparti per il pasticcio», disse in tono
allegro. «Ne ho altri due in freezer, a casa. Tutta questa sobrietà mi fa
cucinare come se non ci fosse un domani».
62
Quando scesi al pianterreno, il mattino dopo, Tal era scomparso. Papà era
seduto al tavolo di cucina, circondato da vari utensili e pennelli, oltre al mio
tostapane cromato, all'aspirapolvere, al videoregistratore e a un vecchio
orologio da cucina rotto che avevo appeso al muro a scopo puramente
decorativo.
Aveva tolto la parte posteriore dell'orologio e lo stava osservando
accigliato al di sopra delle sue lenti bifocali.
Notai che la sua camicia era stata stirata di recente. I pantaloni avevano
una piega perfetta e i capelli erano stati spuntati. Portava persino degli
occhiali nuovi – perlomeno secondo i suoi standard, quindi risalenti agli
anni Ottanta. La mamma stava meglio.
«Ciao, tesoro», disse in tono distratto. «Il caffè è pronto». Indicò con un
cenno della testa i fornelli, dove borbottava la vecchia caffettiera di mia
nonna.
«Cosa sta succedendo qui?», chiesi, indicando tutti gli elettrodomestici.
«E dov'è Tal?».
«Andato», rispose papà. «Ha detto che aveva dei bagagli da fare».
Sbirciai fuori dalla finestra della cucina. La porta posteriore della casa era
aperta, e vidi il mio ex marito uscire lentamente con una valigia in ogni
mano.
«Ti è sembrato che stesse bene? Lo hai svegliato per controllare?».
«Sapeva il suo nome e riusciva a contare», rispose papà in tono cupo. «E
ha dato l'impressione di capire cosa gli avrei fatto se lo avessi sorpreso ad
alzare di nuovo anche un solo dito su mia figlia».
«Bene», dissi, dandogli un bacio sulla testa e sollevando una sveglia
cromata che ticchettava allegramente. «Stanotte ho finalmente dormito,
sapendo che tu eri al piano di sotto a fare la guardia. Hai passato così tutta
la notte?».
«In parte», rispose, posando un cacciavite. «La ricezione del tuo
televisore non era granché, così mi sono gingillato un po' con quello. Poi,
quando è finito il film di John Wayne, mi sono ricordato che tua madre
voleva che dessi un'occhiata al filo del tuo tostapane. Ho fatto un breve
sonnellino, poi mi sono limitato a gingillarmi con questo e con quello».
«La mamma ha ragione», dissi, versando due tazze di caffè. «Sei un
santo».
Arrossì leggermente e tossicchiò per nascondere la sua gioia.
«Quell'aspirapolvere dovrebbe funzionare un po' meglio, adesso. L'ho oliato
e pulito per bene».
Bevetti un sorso di caffè. «Perché non riesco a trovare un uomo come il
buon vecchio papà?».
«Sciocchezze», disse. Fece un cenno in direzione della finestra. «Hai
detto a Tal che doveva traslocare?».
«Ho suggerito che forse avrebbe preferito farlo».
«Altrimenti?».
«Non vuoi davvero saperlo?».
«Mettimi alla prova».
«Gli ho detto che la mamma avrebbe detto sotto giuramento ai poliziotti
di averlo visto picchiarmi. E che lo avrei fatto arrestare per aggressione
aggravata».
«Avresti dovuto farlo comunque», commentò papà.
«Lo avrebbero rilasciato su cauzione. E non appena si fosse ubriacato di
nuovo sarebbe tornato a bussare alla mia porta. Lo voglio lontano da qui per
sempre. Non riuscirò a dormire tranquilla fino a quando non saprò che non
sta più guardando dentro dalle mie finestre».
«Come farai a costringerlo a restare lontano da qui?», chiese papà.
«Questa è casa sua. Weezie, non dovresti prendere in considerazione
l'ipotesi di trasferirti altrove? Potresti tornare a casa per un po'. La mamma
e io non ti daremmo fastidio. E puoi stare sicura che non lo farà nemmeno
Tal».
Rabbrividii, sia al pensiero di tornare a casa che al pensiero di Tal.
«No», dissi alla fine. «Non ho intenzione di fuggire. Ma grazie lo stesso.
Sei stato davvero un tesoro a passare la notte qui per proteggermi. E a
riparare tutto quello che c'è in casa».
Lui sorrise. «Come va il tuo pick–up?».
«Bene», risposi. «Ho comprato dei nuovi pneumatici come mi hai
consigliato. Adesso è il mio turno di fare qualcosa per te. Cosa ne dici di
uova strapazzate e farinata di granturco?».
64
«Lasciami solo prendere una giacca o una cosa del genere», dissi,
rovistando nell'armadio dell'ingresso. Alla fine afferrai un vecchio scialle di
seta nera ricamata e con le frange posato sullo scaffale più alto e me lo
drappeggiai ad arte intorno alle spalle.
«Meglio?», chiesi.
«Dipende dalla persona a cui lo chiedi», rispose James. «Personalmente,
trovo che tu sia adorabile in entrambe le versioni».
Gli diedi un veloce bacio colmo di gratitudine sulla guancia. «Sono
contenta che BeBe mi abbia convinto a venire alla festa, dopo tutto. Sarà
divertente averti come accompagnatore».
«Forse troverai un partner più adatto, una volta là».
«Mai», risposi, infilando il mio braccio sotto il suo.
La Bentley color argento di Emery Cooper scintillava come una moneta
nuova sotto il lampione.
«Non è divertente?», tubò BeBe, sporgendosi al di sopra del sedile
anteriore, dopo che James mi ebbe aiutata a salire a bordo. «Proprio come
un doppio appuntamento».
«Che meraviglia», dissi.
«Stasera sei davvero bellissima, Weezie», disse Emery.
Prima di quella sera lo avevo incontrato solo un paio di volte. Era sulla
cinquantina, con capelli scuri che si stavano diradando e un viso stretto che
gli dava l'aspetto del tipico impresario di pompe funebri, fatta eccezione per
i sorprendenti occhi scuri frangiati da lunghe ciglia nere incredibilmente
folte.
«Hai un vestito strepitoso», aggiunse in tono malizioso.
«Ora fai il bravo», gli disse BeBe, dandogli un pugno scherzoso sulla
spalla. «Sei già impegnato».
«Stavo solo cercando di essere galante», protestò lui.
«C'è un confine molto sottile tra galante e lascivo», dichiarò BeBe con
sussiego.
Chiacchierammo tutti e quattro del più e del meno finché Emery si fermò
alla svolta per Beaulieu.
«Oh, mio Dio», sussurrò BeBe.
L'antico cancello di ferro battuto della villa era stato rimesso al suo posto
e ridipinto. Un uomo di colore dai capelli bianchi in smoking, cilindro e
guanti di capretto bianco ci invitò a entrare con un gesto solenne.
«Wow», concordai. Il lungo vialetto di gusci d'ostrica tritati era stato
rastrellato da poco. I bulldozer erano scomparsi, e ognuna delle querce su
entrambi i lati era coperta di minuscole lucine bianche che scintillavano nel
crepuscolo calante.
«Non venivo qui sin da quando ero un ragazzino e mio padre mi portò
con sé quando venne a organizzare il funerale della sorella della signorina
Ann Ruby» raccontò Emery, rallentando per ammirare lo spettacolo. «È
davvero magnifico, vero?».
«Guardate!», esclamò BeBe, curvandosi in avanti e indicando la villa che
stava comparendo davanti ai nostri occhi.
L'esterno della casa era nascosto da una ragnatela di ponteggi che però
erano stati ornati con altre lucine, e su ogni angolo c'erano grossi fiocchi
fatti con lunghi nastri di seta bianca.
La villa aveva già un aspetto più allegro, con gli angoli cascanti sorretti
da nuove intelaiature e i vecchi muri puliti e ridipinti. Sulle finestre, alle
quali erano stati rimessi i vetri, scintillavano nuove persiane verde scuro.
Gli alberi cresciuti disordinatamente intorno alla casa erano stati potati e
c'erano nuove aiuole di fiori in boccio intorno alle fondamenta.
«Quella Merijoy è davvero incredibile», disse BeBe.
Sul vialetto si era già formata una fila di macchine e altri uscieri in livrea
stavano aiutando le persone a scendere dalle macchine.
«Non lo trovi davvero elegante?», chiese BeBe, dandomi di gomito
mentre ci incamminavamo tutti insieme verso la veranda.
«È incredibile il risultato che Merijoy ha già ottenuto», replicai,
guardandomi intorno nell'atrio.
I pavimenti di legno di pino erano stati puliti, lamati e incerati, e adesso
scintillavano alla luce di centinaia di candele disposte in massicci
candelabri d'argento sparsi per le stanze per la maggior parte vuote. Le
modanature mancanti erano state sostituite con copie di quelle originali.
Composizioni floreali di camelie, rose e foglie di magnolia erano
disposte strategicamente qua e là, ma Merijoy aveva saggiamente deciso di
lasciare che le maestose vecchie stanze di Beaulieu parlassero da sole.
«Guarda». BeBe mi diede nuovamente di gomito e indicò la parete di
fronte al caminetto del salottino sul davanti.
Là, circondata da un cordone di velluto, troneggiava la credenza di
Moses Weed. Le tavole di olmo risplendevano di una calda luminosità e le
mensole adesso erano occupate da porcellane di Canton blu e bianche,
praticamente identiche a quelle che un tempo la famiglia Mullinax aveva
esibito con tanto orgoglio. Con l'eccezione di un lungo tavolo coperto da
una tovaglia che fungeva da bancone bar, la credenza era l'unico mobile
presente nella stanza.
«È splendida, Weezie». Mi voltai. Merijoy era ferma al mio fianco. Mi
prese la mano e la strinse,. «Non è incredibile? Non è incredibile com'è
bella la casa? È come in una fiaba, non trovi?».
«È magnifica», concordai, abbracciandola. Nello stesso tempo mi resi
conto che la vita stessa di Merijoy era come una fiaba. Ma il suo entusiasmo
era davvero contagioso.
Dopo aver chiacchierato per un po' con James, BeBe ed Emery, Merijoy
mi trascinò nell'ingresso a vedere un quadro che aveva comprato. «Non
proviene da Beaulieu, naturalmente», ammise. «Ma è opera di un artista
della zona meridionale della Georgia e risale al penultimo decennio
dell'Ottocento, così ho pensato che sarebbe stato perfetto per la casa».
Eravamo ferme a sorseggiare champagne di fronte al dipinto, un
paesaggio fluviale, quando vidi Daniel. Indossava uno smoking e stava
parlando con una donna che non riconobbi. Per poco non sputai il vino.
«Cosa ci fa qui?», sussurrai.
Merijoy guardò attraverso la stanza.
«Chi? Daniel? Stasera si occupa lui del catering. E ci ha fatto un prezzo
davvero di favore. Sinceramente, Weezie, è un vero schianto con quello
smoking. Potrei mangiarmelo in un boccone. E tu?».
Non riuscivo a levargli gli occhi di dosso. Specialmente perché la donna
con cui stava parlando si era voltata. Era bionda, con una scollatura
strepitosa. Doveva essere Michelene.
«Weezie?». Merijoy mi tirò per un braccio. «C'è qualcosa che non va?
Voi due siete la coppia più tenera che io abbia mai visto».
Vide la mia espressione sconvolta.
«Non dirmi che avete rotto».
Annuii in silenzio.
«Oh, no», gemette lei. «Cos'è successo?».
«Abbiamo litigato». Suonò stupido persino alle mie orecchie.
«Be', dovete rimettervi insieme. Lui è troppo carino. Non puoi lasciartelo
sfuggire, tesoro».
«È già sfuggito», replicai. «E a quanto sembra, direi che ormai qualcun
altro lo ha catturato». Mi guardai intorno per cercare James, ma a quel
punto c'era una tale ressa che vidi solo un mare di smoking e abiti da sera.
Merijoy e io ci scambiammo due baci sulle guance facendo attenzione a
non rovinarci il trucco e io mi allontanai per cercare il mio
"accompagnatore". All'improvviso la serata aveva perso tutta la sua
piacevolezza.
«Weezie». BeBe era comparsa accanto a me. «Hai visto chi c'è?».
«Daniel», risposi. «Si occupa del catering».
«Be', lo sapevo. Sta usando l'attrezzatura del ristorante».
«L'ho visto in salotto mentre si scambiava moine con quella Michelene.
È in smoking. Ed è splendido, naturalmente».
BeBe mi fece vento sbattendo le ciglia finte.
«Weezie, tesoro», disse con voce strascicata. «Odio dovertelo dire, ma tu
sei due volte più splendida di lui. Ogni uomo nella stanza – eccetto Emery,
naturalmente – ha gli occhi incollati addosso a te».
Abbassai lo sguardo sulla mia scollatura e cercai di tirare su il corpetto
dell'abito. «Ma io non voglio ogni uomo nella stanza. Voglio Daniel».
«Allora smettila di lamentarti e frignare e fai qualcosa», sbottò lei. Mi
diede una spintarella. «Vai a parlargli. Flirta con lui. Quando ti vedrà con
quel vestito ti garantisco che dimenticherà il vostro stupido litigio».
«Non Daniel. Lui non dimentica nulla. Si ricorda persino il costume da
bagno che indossavo quando avevo diciassette anni».
Lei sospirò teatralmente. «D'accordo. Fai come vuoi. Nasconditi.
Crogiolati nella tristezza. Sei una persona adulta. Fai quello che vuoi».
«Grazie mille», dissi.
Mi allontanai prima che potesse darmi altri consigli non richiesti. Dopo
tutto, ragionai, perché dovrei accettare consigli in materia di sentimenti da
una donna con tre matrimoni falliti alle spalle?
Merijoy e il suo comitato avevano allestito un buffet nella sala da pranzo.
All'improvviso rammentai che non avevo mangiato niente, a parte una
banana e una tazza di caffè quattordici ore prima.
Il cibo, fui costretta ad ammetterlo, aveva un'aria molto invitante. Uno
chef alto e vestito di bianco era intento ad affettare un enorme taglio di
roastbeef a un'estremità del tavolo. Al lato opposto, uno chef giapponese
preparava sushi su richiesta.
Presi un piattino di vetro e cominciai a mangiucchiare. Gamberetti
grigliati infilati in spiedini, tartellette con minuscoli formaggini di capra e
pomodorini essiccati al sole, e tortini di farina di mais fritti e sormontati da
cipolline caramellate riempirono il mio piatto. Aggiunsi una tartina di pane
nero con salmone e capperi.
Stavo giusto mettendomi in bocca un acino d'uva quando James entrò
nella stanza. «Senti, mi dispiace ma devo andare».
«Va bene», risposi. «Sono pronta quando vuoi tu».
Lui scosse il capo. «No. Devo andarmene subito. Janet ha appena
chiamato sul mio cercapersone. Denise Cahoon è in guai seri. Janet mi sta
venendo a prendere qui davanti, poi andremo direttamente al dipartimento
di polizia».
«Cosa c'è che non va?».
«Denise ha scoperto che la fidanzata di Inky guida una nuova jeep
Cherokee e ha avuto un crollo nervoso. È andata al giornale, si è introdotta
di soppiatto nella sala composizione e ha cominciato a sparare
all'impazzata».
«Mio Dio», dissi. «Qualcuno è rimasto ferito?».
Lui sorrise. «Per fortuna, ha colpito Inky al sedere. Lui è piuttosto
robusto. La fidanzata si è presa un proiettile nella mano, ma un altro
proiettile ha mancato il bersaglio e ha colpito alla gamba il caporeparto
della sala composizione, che ha perso parecchio sangue ed è ancora in sala
operatoria al Memorial».
«Vai pure. Non preoccuparti per me. Tornerò a casa con BeBe ed
Emery». Lui mi sfiorò la spalla e se ne andò.
Lo osservai mentre fendeva speditamente la ressa per raggiungere la
porta d'ingresso, poi mi voltai e cominciai a cercare BeBe ed Emery.
Ma la stanza era gremita di ospiti. Smoking, paillette, gioielli e capelli
cotonati riempivano tutta la casa.
Finalmente scorsi Merijoy sulla veranda, immersa nella conversazione
con un uomo corpulento con un orribile parrucchino e un'aria vagamente
familiare.
Lei mi invitò con un gesto ad avvicinarmi. «Eloise!», chiamò,
rivolgendomi un ampio sorriso. «Voglio presentarti Baxter Howell».
Ecco perché lo conoscevo. Per gli spot della Baxter Howell Cadillac in
televisione. Negli annunci pubblicitari portava una corona sopra il
parrucchino e incedeva attraverso la concessionaria proclamandosi il "re
delle Cadillac del Regno della Costa".
«Il re delle Cadillac!», dissi, ridendo. «Adoro i suoi spot».
Lui mi prese la mano e la baciò. «E io adoro il suo vestito».
Risi, a disagio, e mi tirai su lo scialle fino al mento.
«Baxter», disse Merijoy, «Eloise era una mia compagna di scuola alla St.
Vincent Accademy. È lei che ci ha trovato quella magnifica credenza nella
stanza sul davanti».
«Che bello», commentò lui, bevendo un sorso del suo drink. «È una
giovane signora dai gusti squisiti, vedo».
«Scusate se vi interrompo», dissi. «Merijoy, hai visto BeBe?».
Lei prese un'espressione dispiaciuta. «Oh, Weezie. Immagino che non sia
riuscita a trovarti per avvisarti che se ne andava. Emery ha avuto
un'emergenza familiare. Se ne sono andati un quarto d'ora fa».
«Un'emergenza familiare? Uno dei suoi figli?».
«No. La sua sorella minore, Melanie. Stava lavorando giù al giornale e
una donna impazzita ha fatto irruzione nell'edificio e le ha sparato alla
mano. Non è incredibile?».
«La sorella di Emery è la fidanzata di Inky Cahoon?». Il mondo era
davvero troppo piccolo.
«Chi?». Adesso era Merijoy a non capire.
«Non importa», dissi, dandole un colpetto sulla mano. «Il fatto è che
anche zio James è dovuto andarsene d'urgenza, quindi sembra che io sia
rimasta a piedi».
«Sciocchezze. Puoi tornare in città con noi. Naturalmente ce ne andremo
solo fra qualche ora. Ci sarà un buffet di mezzanotte, sai».
Erano solo le dieci. Le dita dei miei piedi, strette nei sandali dai tacchi a
spillo di BeBe, protestarono a gran voce.
«Che bello», dissi debolmente.
Baxter Howell si era voltato per parlare con qualcun altro.
«Senti, Weezie», disse Merijoy, abbassando la voce. «A Baxter Howell
brillavano gli occhi mentre parlavi con lui. Finanzierà Beaulieu con una
donazione di diecimila dollari l'anno per tre anni».
«Ne sono felice».
Mi diressi verso la toilette, vicina al corridoio sul davanti della casa. Era
un bagno minuscolo, molto simile a un ripostiglio, che era stato
frettolosamente rivestito di carta da parati e tinteggiato in tempo per la
festa. Sbattei la porta e chiusi a chiave. La stanzetta odorava di cera di
candele e vernice fresca.
Mi sistemai i capelli, applicai di nuovo il rossetto e cominciai a
slacciarmi i sandali. Se ero costretta a resistere per altre due ore, dovevo
assolutamente togliermi quegli strumenti di tortura.
Abbassai il coperchio del water e mi sedetti. Il caldo e il vino mi avevano
dato una leggera sonnolenza. Prima che me ne rendessi conto, qualcuno
cominciò a bussare discretamente alla porta.
Balzai in piedi e mi infilai di nuovo a fatica i dannati sandali.
Fuori dalla porta, una signora anziana stava saltellando su e giù, in attesa
di entrare.
«Scusi», dissi. Imboccai rapidamente il corridoio per allontanarmi da lei.
E mi scontrai con una figura vestita di nero che reggeva un enorme
vassoio d'argento pieno di piatti e bicchieri. Il mio tacco si impigliò nella
passatoia. Caddi in avanti, trascinando a terra con me la persona con il
vassoio.
Il vassoio finì sulla sinistra. E i fragili bicchieri di champagne e i piatti di
avanzi finirono... ovunque, ma principalmente addosso a me.
«Maledizione», mormorai, sentendo lo champagne freddo filtrare
attraverso il vestito.
«Dannazione», grugnì il cameriere. Conoscevo quel ringhio. Smisi di
ripulirmi il vestito dalle tartine e alzai gli occhi. Era Daniel. Adesso il
freddo non dipendeva solo dallo champagne. Rabbrividii.
«Scusa», dissi, cercando di alzarmi per potergli dare una mano.
Lui allontanò la mia mano con un gesto, raccolse il vassoio e rimase
fermo a fissare il disastro sul pavimento.
«Prendo una scopa. Pulisco tutto io», dissi. «Mi dispiace davvero,
Daniel».
Lui fece volare via un pezzetto di indivia dal risvolto dello smoking e si
accigliò. «Mi dispiace. Mi sembra di averlo già sentito da qualche parte».
70