Sei sulla pagina 1di 432

Mary Kay Andrews

SEDUZIONE
AL CIOCCOLATO
Traduzione di Sara Caraffini
OBLADÌ OBLADÀ
ISBN 88-8154-229-3

COPYRIGHT © 2002 BY WHODUNNIT, INC.


© 2006 BY MARCO POLILLO EDITORE S.R.L, MILANO

TITOLO ORIGINALE DELLL’OPERA:


«SAVANNAH BLUES»

I EDIZIONE: NOVEMBRE 2006

Copertina di Davide Dondena


Il Libro

Il fallimento del suo matrimonio è stato un duro colpo per la giovane


Weezie, ma se deve essere sincera, non le manca tanto il ricco e fedifrago
Talmadge Evans III, quanto la vecchia dimora nel centro della città storica
di Savannah, in Georgia, perché ne aveva amorevolmente curato il restauro
riportandola all'antico splendore. Ora la padrona di casa e Caroline,
l'amante del marito, mentre lei è stata relegata insieme al cane nel retro
della proprietà, in un'ex rimessa per carrozze ristrutturata. L'antiquariato è
sempre stata la passione dominante di Weezie, che di mestiere fa il rigattiere
e batte mercatini e vendite all'incanto della zona, sgombera case e spesso
esce all'alba per perlustrare i vicoli dei vecchi quartieri alla ricerca dei
"tesori" che la gente ha buttato via. Tutto questo quando non è impegnata a
risolvere i problemi della sua eccentrica famiglia, a scambiarsi dispetti con
Caroline e a cercare di capire lo strano effetto che le ha provocato
l'inaspettato ritorno in citta di Daniel, una vecchia fiamma dei tempi della
scuola ora acclamato chef e creatore di un superlativo dolce che va sotto il
nome di "Seduzione al cioccolato". Finché in una notte d'estate, all'interno
di una splendida villa coloniale, Weezie fa una macabra scoperta che
stravolgerà la sua vita e porterà alla luce gli intrighi e i segreti che
albergano nel cuore del vecchio Sud.
L’autrice

Mary Kay Andrews, nata a St. Petersburg in Florida, è un'ex reporter


dell'Atlanta Journal –Constitution. Il suo esordio nel giornalismo era
avvenuto negli anni Ottanta a Savannah, dove aveva seguito il celebre caso
di omicidio che ha ispirato il libro Mezzanotte nel giardino del bene e del
male di John Berendt e l'omonimo film. Proprio in quest'affascinante città
del Sud degli Stati Uniti ha deciso di ambientare Seduzione al cioccolato,
facendone la vera coprotagonista del libro. Oltre a questo, ha dato alle
stampe i romanzi Una memorabile scenata (Polillo Editore), Little Bitty
Lies e Savannah Breeze, di prossima pubblicazione presso Polillo. Con il
suo vero nome, Kathy Hogan Trocheck, ha poi firmato dieci mystery, molti
dei quali sono stati candidati ai prestigiosi premi Edgar, Anthony e Agatha.
Quando non tiene conferenze e corsi di scrittura creativa presso varie
università, l'autrice è un'assidua frequentatrice di mercatini e botteghe di
rigattiere. Sposata da ventotto anni con il suo ragazzo del liceo e madre di
due figli, vive a Raleigh, North Carolina.
SEDUZIONE AL CIOCCOLATO

Alla mia sorellona Susie, con amore.


1

I colpi sulla porta d'ingresso della mia casetta erano inconfondibili. Lei.
Riuscivo a distinguere la figura sottile di Caroline DeSantos dietro il
pannello di vetro smerigliato dell'uscio. Aveva cominciato suonando il
campanello, una, due, tre volte, per poi mettersi a scuotere rumorosamente
il pomolo con una mano e a picchiare con il batacchio d'ottone con l'altra.
«Eloise? Apri. Dico sul serio. La tua bestia l'ha fatto di nuovo. Sto per
chiamare l'accalappiacani. Mi senti? Ho qui il cellulare. Sto digitando il
numero. So che mi senti, Eloise».
Aveva davvero in mano un oggetto che somigliava a un telefonino.
Anche Jethro la sentì. Sollevò il muso scuro, punteggiato di deliziose
macchioline bianche che sembravano lentiggini al contrario, drizzò le
orecchie e, riconoscendo la voce del nemico, sgattaiolò sotto il tavolo di
pino del soggiorno.
Mi inginocchiai per grattargli il muso, in segno di solidarietà. «È vero,
Jethro? Hai davvero fatto di nuovo pipì sulle camelie?».
Lui chinò il capo. È solo un cane randagio ma non mi racconta quasi mai
bugie, il che è più di quanto io possa dire di qualsiasi altro maschio al quale
sono stata legata.
Gli diedi qualche colpetto sulla testa come premio per la sua onestà.
«Bravo il mio cagnolino. Fai pure. Innaffia pure tutto, là fuori. Lascia un
ricordino davanti alla porta di casa e ti comprerò l'osso di prosciutto più
grande di Savannah».
I colpi e gli scossoni alla porta continuarono. «Eloise. So che sei in casa.
Ho visto il tuo pick–up parcheggiato in strada. Ho chiamato Tal. Sta
telefonando al suo avvocato».
«Spiona», borbottai, mettendo da parte lo scatolone di cianfrusaglie che
stavo esaminando.
Raggiunsi con passo felpato la porta d'ingresso. Le consunte assi di legno
di pino erano fresche sotto i miei piedi nudi. Caroline stava scuotendo la
porta così energicamente che temetti potesse rompere il pannello di vetro
smerigliato.
«Stronza», borbottai.
Jethro abbaiò per esprimere la sua approvazione. Mi voltai e vidi che
stava scodinzolando, perfettamente d'accordo con me.
«Sgualdrina». Altro scodinzolare. Ci stavamo facendo forza in vista
dell'attacco imminente. Jethro strisciò fuori da sotto il tavolo e si
accovacciò proprio dietro di me. Trovai stranamente rassicurante sentire il
suo fiato tiepido sulle caviglie.
Spalancai la porta. «Attacca, Jethro», dissi ad alta voce. «Mordi la
signora cattiva».
Caroline indietreggiò di mezzo passo. «Ti ho sentito», strillò. «Se quel
bastardo rimette una zampa nel mio giardino io...».
«Tu cosa?», chiesi. «Cosa intendi fare? Avvelenarlo? Sparargli?
Investirlo con la tua auto sportiva? Ti piacerebbe, vero, Caroline? Ti
piacerebbe investire un povero cagnolino indifeso».
Mi misi le mani sui fianchi e feci una buona imitazione di uno sguardo di
disprezzo dall'alto verso il basso. Era fisicamente impossibile, naturalmente.
Caroline DeSantos è alta almeno una decina di centimetri più di me, e
questo senza i tacchi a spillo di dieci centimetri che considera il suo
marchio per quanto riguarda l'abbigliamento.
Lei arrossì. «Ti sto avvisando. Tutto qui. Per l'ultima volta. In questa città
esiste una legge che impone di tenere i cani al guinzaglio, come ben sai. Se
davvero volessi bene a quel bastardino non lo lasceresti in continuazione
scorrazzare in giro libero».
Era davvero bella, Caroline. Persino nella spaventosa calura estiva di
Savannah era fresca e profumata come una gardenia appena colta. Aveva i
lucidi capelli scuri raccolti in uno chignon e la sua pelle olivastra era
perfetta. Indossava calzoni alla pescatora di lino verde lime e una camicetta
di lino dello stesso colore, con lo scollo a barchetta che lasciava vedere solo
un elegante accenno di décolleté. Avrei potuto benissimo sopravvivere
anche senza vederla con quell'aspetto, quel giorno.
«Oh», dissi. «Jethro fa il birichino. È questo che ti infastidisce del mio
povero cuccioletto? Eppure sei un'esperta in questo campo, vero, Caroline?
Credo che tu e mio marito abbiate fatto i birichini per almeno sei mesi,
prima che io aprissi finalmente gli occhi e lo buttassi fuori a calci».
Avevo buttato fuori Tal ma non era andato molto lontano. Il giudice che
si era occupato della nostra causa di divorzio era un vecchio amico di suo
padre, Big Tal. Aveva assegnato a Tal la nostra casa del 1858, come parte
degli accordi, e solo dopo che il mio avvocato aveva sollevato il più
dannato putiferio della storia mi aveva gettato un osso – in pratica –
concedendomi la stretta ex rimessa per le carrozze a due piani dietro la casa.
Tal aveva sistemato Caroline nella casa grande non appena le carte erano
state firmate, e da allora lei e io avevamo cominciato una gara di ripicche
tra vicine.
Il mio avvocato, che si dà il caso sia anche mio zio James, aveva perso la
voce nello sforzo di convincermi a vendere e trasferirmi altrove, ma ha
troppo buon senso per cercare di far cambiare idea a una Foley. A Charlton
Street avrei piantato le tende – per vivere e morire a Dixie, come dice la
canzone. Traslocare? Io? Neanche morta.
Caroline si scostò una ciocca di capelli dal viso. Mi squadrò da capo a
piedi e fece un sorrisetto arrogante.
Era giovedì. Mi ero alzata all'alba per percorrere le vie di Savannah
ancora immerse nel buio cercando di mettere le mani sui rifiuti dei pezzi
grossi della città prima dei netturbini. Avevo un aspetto spaventoso. La mia
divisa per frugare tra il ciarpame, fuseaux neri e camicia da lavoro di denim
blu, era incrostata di sudiciume perché avevo rovistato nei bidoni. Festoni
di ragnatele ornavano i miei corti capelli rossi, avevo le unghie spezzate e le
nocche costellate di pezzetti di vernice scrostata.
Il bottino della giornata era stato stranamente scarso. I due grossi
scatoloni di vecchi libri su cui mi ero gettata dietro una villa di arenaria in
stile italiano in Barnard Street, contenevano soprattutto volumi di inni
metodisti degli anni Trenta, ammuffiti e senza valore. Nello scatolone di
graziosi piatti prodotti in Giappone durante l'occupazione americana
recuperato da un ammasso di pattume davanti a una casa di Washington
Avenue non avevo trovato un solo pezzo che non fosse sbeccato, incrinato o
rotto. L'unica scoperta che sembrasse seppur lontanamente promettente era
una vecchia scatola di biscotti di latta piena di bottoni, comprata per due
dollari a un mercatino di oggetti usati che mi ero quasi lasciata sfuggire
mentre tornavo a casa.
Stavo esaminando proprio i bottoni quando Caroline aveva sferrato
l'attacco alla mia porta d'ingresso.
Alle mie spalle udii il rumore sommesso di un peto. Lei fissò con
disprezzo il mio cane, dilatò le narici del suo lungo naso latino e arricciò il
carnoso labbro superiore. «Mio Dio», esclamò. «Cos'è questo tanfo
orrendo?».
Annusai e girai la testa verso Jethro, che stava sgattaiolando nella
direzione opposta.
«Non è colpa sua», dissi, prendendo le difese del mio cucciolo. Indicai la
balaustra di ferro battuto nell'ingresso su cui avevo sistemato il logoro
tappeto all'uncinetto che avevo cercato di arieggiare prima di portarlo
dentro casa. «Probabilmente è il tappeto. L'ho preso in una vecchia villetta
sulla Huntingdon dove si spacciava crack. Temo che sia pieno di pulci».
Caroline fece un balzo all'indietro come se il tappeto fosse una puzzola
viva.
«Non riesco a credere al sudicio pattume che porti qua dentro», cominciò
a dire. «È spaventoso. E non c'è da stupirsi che io debba far profumare la
villa due volte al mese. Ho detto a Tal: "Weezie sta infestando la nostra
casa"».
Dietro di me, nel minuscolo soggiorno, il telefono cominciò a squillare.
«Ora devo andare», dissi. «Ho un'attività di cui occuparmi». Le sbattei la
porta in faccia e misi il chiavistello.
Jethro mi leccò l'alluce, colmo di gratitudine. «Ro–Ro», dissi
dolcemente, non volendo ferire la sua sensibilità, «non è stata una bella cosa
da fare. Niente più panini alla mortadella per te, amico mio».
Risposi al telefono al quarto squillo.
«Weezie, non ci crederai mai».
Era BeBe Loudermilk, la mia migliore amica, la cui madre, stremata
dopo aver avuto otto figli in dieci anni, per la nona e ultima rampolla si era
accontentata del nome BeBe, pronunciato bebè, alla francese.
Essere nata per ultima faceva sì che fosse sempre di fretta, nel perenne
tentativo di recuperare lo svantaggio. Era un ciclone umano, che
considerava una perdita di tempo iniziare una conversazione con inutili
convenevoli quali "Ciao" o "Come stai?".
«Prova a indovinare», mi sollecitò.
«Stai per sposarti di nuovo?». Aveva scaricato il marito numero tre solo
pochi mesi prima ma, come ho appena detto, BeBe non perde tempo. E non
le è mai piaciuto stare senza un uomo.
«È una cosa seria, Weezie», replicò. «Indovina chi è morto?».
«Richard?», chiesi speranzosa. Richard era il suo secondo marito, quello
con la malaugurata inclinazione per il sesso telefonico. BeBe stava ancora
litigando con la compagnia telefonica per le bollette che lui aveva
accumulato chiamando l'1–900–HOT–LINE.
«Sii seria», mi chiese. «Stamattina mi ha telefonato Emery Cooper. Lo
conosci, vero, tesoro? È uno dei Cooper della Cooper–Hale, sai, l'agenzia di
pompe funebri. Mi tormenta da settimane perché vada a cena con lui, ma gli
ho risposto che non esco mai con un uomo finché non è divorziato da
almeno un anno. Comunque, Emery è carino, però ha dei figli. Sai come
sono fatta. Inoltre non mi piace l'idea di avere addosso le mani di uno che
lavora con i morti. Lo trovi terribile da parte mia?». Non perse tempo ad
aspettare una risposta. «Comunque, Weezie, durante la conversazione
Emery ha detto per caso che Ann Ruby Mullinax è morta la notte scorsa.
Nel sonno. Aveva novantasette anni, lo sapevi? E viveva ancora nella stessa
casa in cui era nata. Naturalmente la Cooper–Hale si occuperà dei funerali».
Jethro aveva ricominciato a leccarmi gli alluci. Voleva uscire ma
preferivo non correre il rischio che facesse pipì su qualche altra camelia
prima che Caroline si fosse calmata. Alzai la spalla per premermi il telefono
contro l'orecchio.
«Molto interessante, BeBe», dissi. «Senti, potresti richiamarmi? Devo
portare a spasso Jethro con urgenza».
«Weezie!», esclamò lei. «Non capisci?».
«Cosa? Che Emery Cooper vuole portarti a letto? Puzza di formaldeide,
secondo te?».
«No. Ha un profumo magnifico, il profumo dei soldi. Ma tesoro, sono
preoccupata per te. Non hai capito cosa ti ho appena detto? Ann Ruby
Mullinax. La casa in cui ha vissuto ed è morta è Beaulieu, tesoro. Ora cosa
mi dici?».
Avvertii un lieve formicolio sul collo. Beaulieu. Mi guardai gli
avambracci. Pelle d'oca.
«Hai detto che aveva novantasette anni», dissi, con voce tremante. «Ha
lasciato dei parenti?».
«Neanche uno», annunciò BeBe in tono trionfante. «Ed Emery dice che
la casa è piena zeppa di roba antica. Ora, chi è l'amica migliore del mondo e
di tutti i tempi?».
«Tu», le assicurai. «Ti richiamo più tardi».
2

Naturalmente, una volta calmata dopo l'incontro con Caroline riuscii a


inserire Ann Ruby Mullinax nel contesto di Beaulieu, la fatiscente
piantagione di riso Mullinax sul fiume Skidaway, a circa dieci chilometri di
distanza dalla città.
Era l'ultima discendente dei Mullinax, una delle "vecchie grandi
famiglie" i cui membri sostenevano di essere arrivati qui nel 1733 con la
prima nave del generale James Oglethorpe carica di coloni che, tra
parentesi, non erano affatto i disperati che vorrebbero far credere i libri di
storia yankee. Non pronunciate mai l'espressione "colonia di debitori" a
Savannah – a meno che non amiate il rischio.
A un certo punto, secondo mia madre – che è molto informata su questo
tipo di cose – i Mullinax erano la famiglia più ricca della costa e Beaulieu,
la villa coloniale più imponente di tutto il Sud, era l'ultimissima piantagione
della Georgia a coltivare il riso, fino al 1970, quando l'uragano Brenda si
scatenò a sud di Charleston e l'onda di maremoto gettò nei canali delle
risaie abbastanza acqua salata per rovinare il raccolto e la fortuna dei
Mullinax.
Buffo. L'anno in cui i Mullinax persero i loro soldi è lo stesso in cui sono
nata io.
Ho fatto qualche ricerca. Il 1970 è stato anche l'anno in cui i Beatles si
sciolsero, Nixon era presidente, le forze statunitensi invasero la Cambogia e
La famiglia Partridge riscosse un enorme successo in TV. Riesce difficile
credere che sia stato anche l'anno in cui morirono sia Jimi Hendrix sia Janis
Joplin. Avevano solo ventisette anni. Per non dire che fu l'anno in cui
quattro studenti della Kent State University furono uccisi dalla guardia
nazionale dell'Ohio mentre dimostravano contro l'invasione della
Cambogia.
Per il resto dell'America fu un anno di rivoluzione. Per i Foley di
Savannah fu l'anno in cui la mia genitrice quarantunenne produsse un
miracolo vivente – la sottoscritta.
Fino a quando la mamma non si rese conto che un caso davvero
fastidioso di bruciore allo stomaco era in realtà una gravidanza giunta ormai
al sesto mese, nessuno si era mai davvero aspettato grosse sorprese da
Marian Foley. Avere un figlio a quarant'anni era l'ultima cosa al mondo che
lei si aspettasse dalla mezza età. Lo so perché me l'ha detto ogni volta che
nel corso degli anni l'ho fatta arrabbiare.
«Quaranta», dice sempre, incrociando le braccia sul petto nella classica
posa da matrona martirizzata. «Pensare che ti ho aspettato per tutti quegli
anni. Un miracolo, ecco cosa è stato. Padre Keane disse che eri un dono di
Nostra Signora, in ricompensa di tutte le novene che avevo recitato».
Una volta, durante una festa di famiglia nel corso della quale aveva dato
fondo alla bottiglia di whisky insieme agli zii scapestrati, mio padre sentì la
mamma raccontare la storia una volta di troppo.
«Stronzate», gridò. «Non sono state le dannate novene ma un
preservativo rotto!».
Lei non gli rivolse la parola per sei mesi.
E così, più di trent'anni dopo quel decisivo incidente con il profilattico,
nel giorno più caldo di luglio mi diressi verso Beaulieu per porgere i miei
omaggi alla defunta Ann Ruby Mullinax. E, naturalmente, per vedere i
tesori di Beaulieu.
Quel posto mi ha affascinato sin da quando riesco a ricordare. Ci
passavamo sempre davanti durante le nostre gite domenicali in auto, e papà
rallentava per permetterci di osservare bene il lungo viale bordato di querce.
Dalla strada non si riusciva a vedere la villa, ma solo gli alberi coperti di
muschio spagnolo e l'arrugginito cancello di ferro battuto con "Beaulieu"
scritto in sinuose lettere corsive.
Una volta, quando ero adolescente, un ragazzo mi portò a fare un giro in
barca sul fiume Skidaway e mi indicò le rovine degli antichi alloggi per gli
schiavi della piantagione, a stento visibili attraverso la striscia verde e
dorata di vegetazione palustre che separa Beaulieu dal fiume. Un tempo
c'era stato un lungo pontile che si stendeva sopra la palude fino a
raggiungere un approdo sul fiume, ma nei tardi anni Ottanta tutto quello che
ne restava erano palificazioni marcite abitate da enormi pellicani marroni
che se ne stavano appollaiati al sole a battere le palpebre e sbadigliare nella
calura inesorabile.
C'era alta marea, così portammo la barca fino alla riva del fiume coperta
di fango grigiastro e ci intrufolammo nella proprietà. Il ragazzo si chiamava
Danny Stipanek. Restammo insieme solo per tre mesi, soprattutto perché
Danny, che aveva diciannove anni e si accingeva ad arruolarsi nei Marines,
era perennemente arrapato mentre io avevo paura di restare incinta o, cosa
di gran lunga peggiore a Savannah, di procurarmi una brutta fama. Quel
giorno, però, venni conquistata da qualcosa. Non da Danny Stipanek, ma
dalla fresca e vellutata bellezza di Beaulieu.
Non rimasi incinta, solo scottata dal sole e punta dagli insetti nei peggiori
punti immaginabili. Danny Stipanek uscì dalla mia vita ed entrò nei
Marines proprio quando per me giunse il momento di iniziare l'ultimo anno
di liceo. Adesso penso sempre a lui quando vedo in TV quegli spot per il
reclutamento dei Marines. Gli eletti. I fieri. Gli arrapati.

Mio padre chiama i necrologi "la pagina sportiva degli irlandesi". Il


giorno dopo la telefonata di BeBe vidi l'annuncio del funerale di Ann Ruby
Mullinax che, proprio come la mia amica aveva preannunciato, non lasciava
congiunti. E, sempre come aveva specificato BeBe, a Beaulieu si sarebbe
tenuto un servizio funebre. L'occasione ideale per dare un'occhiata in
anteprima.
Quel venerdì infilai il mio vestito migliore in un sacco di plastica da
lavanderia e lo appesi con cura nel pick–up sopra il sedile del passeggero.
Lo consideravo il mio omaggio a Zelda Fitzgerald – in voile di seta giallo
ranuncolo e lungo fino alle caviglie, con sottoveste di seta coordinata. Lo
avevo trovato in un sacchetto della spazzatura pieno di vestiti vecchi un
anno prima, mentre degli operai demolivano una vecchia casa vittoriana
sulla Trentottesima Est.
Con indosso i comodi calzoncini kaki che preferivo, maglietta stinta e
scarpe da ginnastica, mi dedicai ai soliti giri del venerdì mattina. Avevo
segnato con un cerchiolino quattro vendite nella pagina degli annunci
economici del Savannah Morning News ma soltanto una produsse qualcosa
che valesse la pena di comprare. Poi passai nel negozietto che vendeva
oggetti di seconda mano per beneficenza sulla Victory Drive, al negozio di
oggetti usati St. Vincent DePaul e infine al This N' That.
Il TNT è gestito dal signor Meshach Greenaway. È una piccola
costruzione in blocchi di cemento dove un tempo venivano riparati i
tosaerba, finché il signor Greenaway scoprì che portando via il ciarpame dei
bianchi poteva guadagnare di più che sistemando i tosaerba rotti dei neri.
Il TNT si trova in quello che mia madre, con uno dei suoi caratteristici
eufemismi, definisce "gli alloggi" – in altre parole Roosevelt Park, un
modesto quartiere abitato prevalentemente da neri che dista solo pochi
chilometri dal quartiere residenziale in stile ranch e abitato solo da bianchi
dei miei genitori.
Il signor Greenaway mi vide arrivare. Aprì la porta e il viso di un nero
bluastro madido di sudore si aprì in un sorriso. Indicò una torre di scatoloni
che occupava tutta la parte anteriore del negozio.
«Ti stavo aspettando, Weezie», disse, bevendo un sorso dal suo
onnipresente bicchiere di polistirolo pieno di acqua ghiacciata. «Dai
un'occhiata laggiù, ragazza. Quello è l'intero contenuto della soffitta e del
garage del signor Arnold Lowenstein della Quarantaseiesima Est». Abbassò
la voce, in caso ci fossero spie. «Il signor Lowenstein, il proprietario della
Low–Low Liquors. Ex proprietario, in ogni caso. Adesso è morto. Aveva
quella grande vecchia casa di mattoni rossi circondata da una siepe,
sull'angolo di Atlantic Avenue».
L'indirizzo che aveva citato era una zona di prim'ordine, un quartiere di
ricchi, ampie ville e antichi patrimoni.
Il signor Greenaway mi diede una leggera spinta. «Dai un'occhiata».
Oh, il ciarpame!
I Lowenstein della Low–Low Liquors occupavano un posto di rilievo in
tutti i circoli giusti di Savannah e avevano quattro figli. Erano pezzi grossi
al tempio Mickve Israel. Cissy Lowenstein era stata un anno avanti a me
alla St. Vincent Academy, Walter un anno dietro di me alla Benedictine. Nel
caso ve lo stiate domandando, a Savannah funziona che i ricchi ragazzi
WASP frequentano la Country Day School mentre i cattolici della classe
lavoratrice e gli ebrei facoltosi studiano nelle scuole confessionali.
Comunque, sapevo che i figli si erano già presi tutta la roba "buona",
quindi non c'era traccia di argento, vetro intagliato o porcellana fine, niente
che vantasse un pedigree inglese o un accento francese. Restava solo una
quantità di caratteristiche suppellettili americane risalenti al ventennio
compreso tra il 1946 e il 1964.
I Lowenstein avevano conservato tutto, che Dio li benedica. Praticamente
non era stato buttato via niente da quando il signor Arnold era tornato dalla
seconda guerra mondiale. Naturalmente, non si trattava di merce che i miei
commercianti locali avrebbero toccato.
C'era uno scatolone pieno di stoviglie in giadeite, con piatti da portata,
tazze da caffè, ciotole per cereali e piattini coordinati, sufficienti per
rifornire una piccola tavola calda degli anni Cinquanta.
Un'altra scatola si rivelò piena di riviste risalenti agli anni Trenta e
Quaranta, in perfette condizioni: Field and Stream, Boy's Life, Argosy,
Collier's e Vanity Fair. Sulle copertine spiccavano illustrazioni a colori
realizzate dai nomi più famosi dell'epoca. Solo le copie di Field and Stream
avrebbero potuto fruttarmi quindici dollari l'una, se le avessi portate dal mio
contatto di Charleston che si occupava di libri antichi.
Rovistai negli scatoloni come un'indemoniata, scartando trenta annate di
National Geographics e tutti gli estratti conto bancari del signor Lowenstein
dell'ultimo mezzo secolo, mettendo invece da parte una pila di lenzuola e
federe di lino irlandese con l'orlo a giorno, tendine di pizzo ingiallite e un
mucchio di sottovesti, camicie da notte e mantelline per pettinarsi in satin e
seta. Quando aprii un bauletto metallico contenente le uniformi dell'esercito
della seconda guerra mondiale del signor Lowenstein, capii di aver scoperto
qualcosa di buono. Nascosto sotto le uniformi c'era un meraviglioso
ammasso di calendari di pin–up, carte da gioco e riviste degli anni Quaranta
e Cinquanta. Non appena scorsi il primo calendario di ragazze disegnate da
Alberto Vargas cominciai ad apprezzare il fatto che Arnold Lowenstein
fosse stato un vero esperto in fatto di nudi artistici. Il mio affetto per lui
crebbe ulteriormente quando trovai il primo numero di Playboy, datato
1951, e quello seguente, sulla cui copertina campeggiava la famosa foto di
Marilyn Monroe.
Un'ora più tardi ero sudicia, coperta di polvere e muffa, con gli abiti
costellati di pesciolini d'argento morti. Puzzavo di naftalina, ma ero felice.
Mi sedetti sui talloni e alzai lo sguardo verso il signor Greenaway, che
stava ancora fingendo di leggere il giornale.
«Quanto?», chiesi, indicando il mucchio che avevo accumulato.
«Direi centosettantacinque», rispose. «Ed è perché sei una cliente
regolare».
Provai una fitta di senso di colpa cattolico. La merce valeva perlomeno
quattrocento dollari, persino comprando all'ingrosso come stavo facendo io.
Ero quasi sicura di poterne ricavare almeno il triplo, se i miei acquirenti
abituali erano in vena di comprare e se io non avevo commesso qualche
stupido errore. Ma avevo portato con me esattamente duecento dollari e
stavo cercando di pianificare i miei acquisti in modo da disporre di
abbastanza contanti per l'imminente vendita degli arredi a Beaulieu.
«Quella roba vale di più, signor Greenaway», replicai. «Il servizio di
piatti verde è di giadeite. Molto alla moda. I piatti da soli si vendono a
trentacinque dollari l'uno, ad Atlanta».
Si spinse verso la nuca il berretto da baseball macchiato di sudore.
«Davvero?», domandò, prendendo uno dei piatti da tavola calda e
guardandolo con un nuovo rispetto.
Estrassi il rotolo di biglietti da venti dal mio marsupio di pelle nera, presi
sette banconote e gliele diedi. «Sono un po' a corto, questa settimana»,
spiegai. «Cosa ne direbbe se prendessi tutto tranne i piatti per centoquaranta
dollari? Se non li vende, magari posso tornare la settimana prossima, dopo
aver rivenduto questi articoli».
Greenaway prese il denaro e lo infilò nella tasca sulla pettorina della
salopette. «Prendi anche i piatti, Weezie», disse. «Sei in gamba. Credi che
non lo sappia?».

Quando finimmo di caricare tutto sul mio pick–up erano già le undici e
mezzo. Avrei dovuto correre a casa dei miei genitori per fare una rapida
doccia e cambiarmi prima di raggiungere Beaulieu.
Sfrecciai attraverso la porta della cucina e oltrepassai la mamma, che era
in piedi accanto al lavandino a pelare i pomodori per il pranzo di papà.
Durante l'estate, a mezzogiorno mio padre mangia sempre le stesse cose: un
sandwich con pomodori, pane bianco e maionese, patatine e una Diet Pepsi.
Papà stava facendo il suo sonnellino di metà mattina, lo sapevo. Da
quando è andato in pensione dal suo impiego alle poste, ha una routine
regolare: colazione, giornale, buoni sconto da ritagliare, sonnellino, pranzo,
poi lavoretti in giardino, sonnellino, programmi a quiz in TV, cena.
«Ti spiace se faccio una doccia?», chiesi, senza aspettare una risposta.
«Weezie?», domandò la mamma, alzando gli occhi. «Cosa stai
combinando?».
«Vado di fretta», risposi, afferrando una manciata di patatine mentre
passavo.
Avevo i capelli ancora umidi quando rientrai in cucina, con indosso il
mio abito giallo alla Zelda Fitzgerald.
«Vai a una festa in maschera a luglio?».
«Nossignora», ribattei. «Sto andando a Beaulieu. Al servizio funebre
della signorina Ann Ruby Mullinax».
Non appena lo dissi, capii di aver commesso un errore.
«Jean Eloise Foley, non osare», mi intimò la mamma, posando sul tavolo
con un rumore sordo il suo bicchiere di tè freddo. Le sue sottili narici
venate di blu si dilatarono per quell'oltraggio. «È la cosa più sacrilega che
io abbia mai sentito. Non intendo permettertelo, hai capito?».
Quando beve un whisky annacquato in modo da sembrare tè freddo, cosa
che di solito fa tutto l'anno dall'una alle quattro del pomeriggio, giudica
qualsiasi cosa oltraggiosa o sacrilega.
«Il giornale dice che familiari e amici verranno accolti a Beaulieu per il
servizio funebre a partire dall'una di oggi», sottolineai. «La defunta non
lascia nessun familiare. Chi può dire che io non sono un'amica?».
«Non lo sei», dichiarò lei. «Noi non conosciamo nessuno di loro. Le
persone come i Mullinax non conoscono persone come i Foley». Si piegò
verso di me, annusò il mio vestito e fece una smorfia. «La gente come i
Mullinax non conosce gente che trova i propri vestiti frugando nella
spazzatura altrui».
Passai la mano sul corpetto del mio abito, che avevo impiegato ore a
lavare a mano, rammendare e stirare. All'improvviso non mi sentii come
Zelda. Mi sentii una perfetta nullità. La mamma ha un vero talento per
questo.
«Questo vestito ha ancora l'etichetta originale di Hattie Carnegie»,
spiegai quietamente. «Se decidessi di venderlo potrei ottenere almeno
duecento dollari da uno dei miei contatti di New York che vendono vintage.
Forse di più, se lo mettessi all'asta su eBay».
«Non puoi andare a casa di quella donna», insistette la mamma.
«È morta. Non le dispiacerà».
Lei sorseggiò il suo bourbon travestito da tè. «È disdicevole», disse. «E
se per caso uno degli Evans fosse là? I genitori di Tal frequentano
quell'ambiente. E se uno di loro ti vedesse?».
Mi costrinsi a sorridere e mi curvai in una finta riverenza. «Dirò "Salve,
Genevieve. Salve, Big Tal. Che piacere rivedervi. Sono venuta solo per
scoprire come vive l'altra metà del mondo, ora che vostro figlio mi ha
lasciato e mi ha portato via quasi tutto ciò che possiedo. Vi prego,
salutatemi Little Tal e ditegli che spero che lui e la sua cara Caroline
marciscano all'inferno"».
La mamma si alzò di scatto, raggiunse il frigorifero, prese un contenitore
di alluminio e fece cadere qualche cubetto di ghiaccio nell'alto bicchiere
pronto sul bancone della cucina.
«Non riesco ancora a credere che tu sia finita così», disse in tono
accusatorio. «Tal era perfetto per te. Avevi una vita perfetta». Il suo quasi
inesistente labbro superiore tremò, mentre la sottilissima peluria si
increspava come un campo di grano in miniatura. «Guardati ora. Vivi in un
garage. Senza lavoro, senza marito, senza prospettive. Che genere di vita è
mai questa?».
Papà entrò in cucina mentre lei si stava lanciando nella sua tiritera sul
"senza prospettive". Aveva piegato le pagine dei programmi TV in un
quadrato perfetto, i suoi progetti pomeridiani come spettatore già delineati
con cura. Abbassò lo sguardo sul drink della mamma posato sul piano di
lavoro, si accigliò e mi fissò.
«Se solo tu trovassi un lavoro e poi ti licenziassi, potrei dire alla gente
che tipo di occupazione hai lasciato», dichiarò, ridacchiando come suo
solito quando mi faceva quella battuta. Allungò una mano verso la tasca
posteriore dei pantaloni, prese il portafoglio di pelle nera e ne sfilò due
biglietti da dieci dollari. «Tieni», disse, strizzandomi l'occhio. «Per aiutarti
a tirare avanti».
Respinsi i soldi. «Sono a posto, papà. Davvero».
Lui guardò il mio abito, mi prese la mano e mi ripiegò le dita sopra le
banconote. «Comprati qualcosa di carino. Un vestito nuovo».
Come se venti dollari potessero bastare. Papà crede ancora che una
Coca–Cola costi dieci centesimi. Gli infilai le banconote nel taschino della
camicia a maniche corte. «Tieni i tuoi soldi», dissi. Sii dolce, Weezie,
pensai. Anche se questo ti uccide. «Sai cosa ti dico, papà? Gioca i miei
numeri al lotto. Questa settimana il montepremi è di undici milioni di
dollari. Se vinci puoi darmene la metà».
Cominciava a seccarsi, come faceva quando mostravo di essere troppo
cresciuta per il primo reggiseno da ragazzina e il telefono rosa – due oggetti
che si trovavano ancora nella mia vecchia stanza, sul retro della casa.
«Tienili solo finché non trovi un lavoro e smetti di abitare in quel
garage», replicò lui, rimettendomi i soldi in mano.
«Lavoro in proprio, non sono disoccupata. E abito in una ex rimessa per
le carrozze, non in un garage», precisai in tono teso. «La mia ex rimessa per
le carrozze è un edificio di valore storico situato nella strada più bella del
distretto storico».
«Per l'amor del cielo! È un garage dietro la villa in cui tuo marito vive
con la sua fidanzata», ribatté papà.
«Ex marito», specificò la mamma, servizievole come sempre. «Immagino
che dovremmo ringraziare il cielo che lei abbia un tetto sopra la testa, Joe.
Se non fosse per tuo fratello James, si troverebbe in mezzo a una strada.
Oppure sarebbe tornata a stare da noi».
Sii dolce, Weezie, pensai, mordendomi il labbro. Ma sapevo che avrei
preferito abitare dentro un cassonetto dell'immondizia in un vicolo
dell'inferno piuttosto che tornare in quel santuario rosa da piccola
principessa a casa dei miei.
Dal loro punto di vista ero un disastro, lo sapevo. Avevo superato la
trentina, ero fresca di divorzio, non avevo denaro né uno scopo preciso nella
vita né competenze da poter sfruttare. Lasciare l'università della città per
sposare Talmadge Evans III era sembrata una buona idea quando l'avevo
fatto, dieci anni prima. L'inchiostro sul suo diploma di laurea in architettura
del Georgia Institute of Technology si era a malapena asciugato ed eravamo
stanchi di fare sesso sul sedile posteriore della Lincoln Continental di sua
madre.
Genevieve Evans aveva sempre guidato delle Lincoln mentre il padre di
Tal, Big Tal, preferiva le Cadillac. La famiglia di Tal è ciò che la mamma
definisce "facoltosa".
A Savannah quello è un eufemismo per indicare il denaro posseduto da
generazioni di membri della chiesa Episcopale. "Pieno di soldi", invece,
indica il denaro guadagnato di recente, yankee. "Ricco sfondato" è il denaro
ebreo. Se una donna è "popolare", significa che ci sta. Se un uomo ha "un
temperamento artistico" è gay. Se un ragazzo ricco è "problematico" vuol
dire che è sociopatico. È facile, se hai vissuto qui abbastanza a lungo. E i
Foley hanno sempre abitato a Savannah. Be', almeno sin da quando
Aloysious Francis Foley è venuto qui dalla contea di Kerry, Irlanda, tra il
1850 e il 1860 per collaborare alla posa dei binari della Southern Railroad.
Papà accese il televisore posato sul bancone della cucina, si sedette al
tavolo di metallo cromato e formica e consultò il programma della
televisione. Si accigliò. La trasmissione di quiz non sarebbe iniziata prima
di mezz'ora. Avrebbe dovuto accontentarsi de La ruota della fortuna.
«Vendere ciarpame!», borbottò. «Che genere di lavoro è mai questo?».
«Sono una rigattiera», gli spiegai per la milionesima volta. «Compro
pezzi d'antiquariato alla fonte di provenienza e li restauro per poi venderli
agli antiquari. È un vero lavoro e guadagno soldi veri».
«Raccogli immondizia», disse la mamma, sorseggiando il suo whisky
travestito da tè.
«È tardi», annunciai, dirigendomi lentamente verso la porta. «Ciao».
«Che fretta c'è?», chiese papà. «Resta qui a pranzo. Hai l'aria di una a cui
farebbe comodo un pasto gratis».
Afferrai un'altra manciata di patatine e mi precipitai verso la porta.
«Grazie!», gridai, voltando la testa.
3

James Aloysious Foley si appoggiò alla spalliera della seggiola e osservò


il lento roteare delle pale di legno del ventilatore fissato all'alto soffitto di
stagno sopra la sua testa. Sospirò, poi tornò a guardare la donna seduta sulla
poltrona dall'alto schienale di fronte alla sua scrivania, che stava aspettando
di sentirgli dire qualcosa di profondo.
«Vede, padre James», cominciò a dire lei, tamponandosi nervosamente la
fronte con un fazzolettino di carta spiegazzato. «Non voglio il divorzio.
Divorziare è peccato. Voglio solo che lei sistemi le cose in modo che Inky
porti a casa il suo stipendio come è suo dovere».
«Signora Cahoon, la prego», ribatté James. «Non sono più padre James,
ricorda? Ho lasciato il sacerdozio. Sono un avvocato. Ora, in base a quanto
lei ha raccontato alla mia segretaria, è da parecchio che il suo matrimonio
non è più davvero tale. È arrivato il momento di mettervi fine. Si crei una
nuova vita e lasci che Inky vada avanti con la sua».
Denise Cahoon balzò in piedi, il viso rosso come un pomodoro. Aveva
superato da poco i cinquanta e, in base agli standard di James, era una bella
donna; corporatura snella, lucidi capelli scuri pettinati dietro le orecchie,
espressivi occhi grigi. Il suo desiderio di restare aggrappata a uno zoticone
pieno di birra come Inky Cahoon era davvero incomprensibile.
«Non è vero!», disse con voce acuta. «I nostri voti sono sacri. Non voglio
una nuova vita, rivoglio quella vecchia. Costringa Inky a fare la cosa giusta.
Chiami il suo capo giù al giornale e gli dica che Inky sta sperperando lo
stipendio in puttane e alcolici. Gli dica che devono mandare l'assegno a casa
nostra, invece di lasciarglielo spendere tutto».
James guardò di nuovo il ventilatore sul soffitto. A volte era sicuro di
scorgere veri e propri disegni nel pulviscolo, mentre le pale del ventilatore
lo fendevano: cavalli lanciati al galoppo, querce imponenti. Mentre Denise
Cahoon lo supplicava di salvare ciò che non poteva più essere salvato,
sarebbe stato pronto a giurare che le volute di pulviscolo fossero identiche
al santino dell'Immacolato Cuore di Maria, quello cinto da catene e trafitto
da una spada fiammeggiante. Scosse il capo e tornò a guardare la donna.
«Signora Cahoon», disse, con il tono gentile del confessore che era stato
per ventiquattro anni (quando mancava solo un anno al suo giubileo
d'argento, aveva improvvisamente abbandonato l'abito talare, restituendo
tonaca, cotta, scapolare e acquasantiera), «Inky se n'è andato di casa cinque
anni fa e, come lei stessa ha detto alla mia segretaria, vive con una ragazza
del reparto composizione. Hanno un figlio di quattro anni e un altro in
arrivo. Questo non sembra di buon auspicio per il vostro matrimonio».
«Probabilmente il figlio non è suo», dichiarò Denise in tono bellicoso.
«Quella ragazza va a letto con chiunque porti i pantaloni. L'ho vista, la
sgualdrina. Inky vuole soltanto credere che sia suo. Ha sempre desiderato
dei figli».
James allungò una mano verso un raccoglitore posato sulla scrivania,
prese i moduli per il divorzio e glieli porse.
«Probabilmente è meglio così», dichiarò. «Non ci sono bambini
coinvolti. Esamini questi documenti, mi chiami e li compileremo. Possiamo
chiedere il divorzio; si potrebbe sistemare tutto nel giro di sei settimane».
La donna lo fissò come se fosse un alieno, fatto comparire in quel piccolo
ufficio polveroso di Factors Walk dalle stesse imprecisate forze sacrileghe
che negli ultimi cinque anni si erano già accanite per distruggere la sua vita.
«Tutto qui? È tutto qui quello che può dirmi? Niente consulente
matrimoniale, niente terapia di coppia? Solo boom, firmi qui, è finita?
Ventidue anni e ora non sono più la signora Bradley R. Cahoon junior?».
Il suo tono aumentò leggermente di volume ad ogni sillaba, il suo viso
divenne ancora più rosso, e lei sovrastò sempre più minacciosamente la
scrivania di James. Quest'ultimo pensò che forse Inky aveva fatto bene ad
andarsene mentre ancora ne aveva la possibilità.
«Può farsi chiamare come vuole», sottolineò James, «ma temo che il
divorzio rappresenti la sua unica opzione, a questo punto. Se la tira in
lungo, questo non farà che costarle di più in spese legali. Dopo cinque anni
e due figli, dubito che Inky possa cambiare idea».
La signora Bradley R. Cahoon junior si allungò sopra la scrivania e gli
strappò di mano i documenti. «Non importa. Sono venuta qui perché le
nostre madri erano amiche. Mia madre ha assistito alla sua ordinazione, sa,
proprio là nella cattedrale. Pensavo che un prete avrebbe capito qual è la
cosa giusta da fare. Ah! Bernadette Foley si rivolterebbe nella tomba se
potesse vederla adesso, James Foley. Divorzio! Si vergogni». Gli agitò un
dito davanti alla faccia. «Si vergogni».
James spinse indietro la sedia, allontanandosi da quel dito affusolato e
carnoso. «Arrivederci, signora Cahoon».
Ruotò la sedia in modo da poter guardare fuori dalla finestra striata di
sudiciume, verso il fangoso fiume marrone, il Savannah.
Una lucida nave cisterna nera scivolò sull'acqua, la sua enorme stazza che
faceva sembrare minuscole le persone e le auto su River Street. Bandiera
giapponese. Sulla prua era dipinto il nome "Shinmoru Sunbeam".
Sentì sbattere la porta dell'ufficio. Bene.
Aveva avuto molti clienti come Denise Cahoon da quando era tornato a
Savannah lasciando la sua ultima chiesa di Naples, Florida. Le persone
volevano semplicemente che lui dicesse quello che loro desideravano
sentire. E ormai lui non era più nel campo del pentimento.
La porta si aprì di nuovo e James percepì un odore che mescolava
profumo – gardenie, questo mese – e sigarette.
«Cristo!», disse Janet con voce strascicata. «Quella donna non vuole
proprio capirla, vero?».
James fece ruotare la sedia in modo da guardare di nuovo la porta. Il
fiume lo ipnotizzava. Lo aveva sempre fatto. Non riusciva a concludere
niente, se poteva vedere il fiume dal punto in cui sedeva. E c'era del lavoro
da sbrigare. Grazie a Dio.
Janet stringeva tra le braccia una pila di fascicoli. Li sistemò sulla
poltrona con lo schienale alto, poi posò sulla scrivania davanti a lui uno dei
foglietti rosa usati per i messaggi. Si passò le dita tra i corti e ispidi capelli
grigi, e la sigaretta che si era infilata dietro l'orecchio cadde a terra. Cercò di
allontanarla con un calcio, in modo che lui non la vedesse.
«Pensavo volessi smettere di fumare», dichiarò James, cercando di
assumere un tono severo.
«Non cominciare», lo ammonì lei.
Janet Shinholster era la sua segretaria, la sua più vecchia amica e la sua
contabile. Si erano conosciuti moltissimi anni prima, quando lui si era
appena iscritto alla Benedictine e lei frequentava la St. Vincent. Dopo essere
diventato prete l'aveva vista solo occasionalmente, prima di tornare a
Savannah dalla Florida.
Avevano provato a uscire insieme un paio di volte dopo il suo rientro in
città, due anni prima. C'era stata persino qualche palpatina sul divano
nell'appartamento di Janet, finché James non aveva confessato con
riluttanza il suo sospetto di non essere poi così interessato al sesso.
«Sei gay», aveva commentato lei, tutt'altro che stupita. «Capisco, James.
Capisco benissimo».
A dire il vero la sua reazione lo aveva irritato. James non si era mai
considerato effeminato, in nessun modo. Davvero.
«Cosa te lo fa credere?», le aveva chiesto.
«Hai passato tutta la vita chiuso in un seminario o in una canonica», era
stata la risposta di Janet. «Sin da quando avevi diciotto anni. Poi hai lasciato
il sacerdozio. Così, come se niente fosse. Finalmente, ho pensato, sai. È
pronto a lasciarsi andare, a esplorare le alternative».
«Ho atteggiamenti da omosessuale, secondo te?», aveva voluto sapere
lui. «Interessato ai ragazzi? È questo che hai pensato? Che fossi uno di quei
preti? Un pedofilo?».
«Non importa», aveva ribattuto lei, accendendo le luci e sistemandosi la
camicetta. «Facciamo finta che non sia successo nulla».
Quello che gli dava maggiormente fastidio era che Janet aveva ragione.
Un anno più tardi aveva cominciato a frequentare qualcuno. Non un
giovane gigolò effeminato. Jonathan era un avvocato di successo, un
viceprocuratore distrettuale. Una faccenda molto discreta, se non che Janet
aveva capito tutto la prima volta che Jonathan era passato dall'ufficio per
uscire a pranzo con James. La dannata Janet sapeva tutto.
«Ha chiamato Weezie», gli disse lei. «Voleva sapere se oggi pomeriggio
avevi molto da fare».
James sorrise. Sua nipote era il vero motivo per cui era tornato a
Savannah. Erano sempre stati molto uniti. «Sei il padre che non ho mai
avuto», le piaceva scherzare. «E la madre».
«Cosa sta combinando?», chiese.
Janet si strinse nelle spalle. «Ha detto che stava andando a Beaulieu per il
servizio funebre di Ann Ruby Mullinax. Vuole che tu la raggiunga là, se non
hai niente di meglio da fare».
«Ce l'ho?», domandò James, dando un'occhiata eloquente ai fascicoli
impilati sulla poltrona.
«Secondo me dovresti andarci», replicò Janet. «Ann Ruby Mullinax
conosceva un sacco di gente in questa città. Gente influente. Gente che ha
bisogno di assistenza legale». Prese il blazer blu di James dal gancio
d'ottone fissato dietro la porta e glielo allungò. «Devi mettere la cravatta,
sai».
Lui rabbrividì. Fuori c'erano trentacinque gradi, con un tasso di umidità
del cento per cento, come sempre.
«E non dimenticare di portare qualche biglietto da visita», aggiunse
Janet. «Si chiama "crearsi dei contatti", James».
4

Aumentai l'intensità dell'aria condizionata del pick–up e osservai


ansiosamente l'indicatore della temperatura. L'ago restava fermo sotto il
livello "ebollizione".
«Fammi solo arrivare a Beaulieu, poi puoi guastarti di nuovo», dissi,
dando una pacca di incoraggiamento al cruscotto.
Prima di divorziare non avevo mai parlato agli oggetti inanimati. Non ad
alta voce. Adesso parlavo al pick–up, al tostapane e all'estratto conto
bancario, a qualunque cosa promettesse di non ribattere o mostrarsi
altezzosa. Ne avevo abbastanza degli interlocutori altezzosi.
La coda di Jethro batté sul sedile di vinile. Una delle caratteristiche di
Jethro è che ama il suono della mia voce. «Bravo», gli dissi. Thump.
Thump. «Dolce, adorabile tesoro», dissi. Thump. Thump. Thump. A quel
punto era davvero accaldato e irrequieto.
Tra le sue doti migliori c'è quella di essere il cane meno critico che io
abbia mai conosciuto. Vuole bene a tutti, non ha nemmeno un briciolo di
cattiveria in corpo. L'ho trovato una mattina, subito dopo che Tal mi aveva
lasciata, mentre stavo facendo il mio consueto giro dei marciapiedi prima
dell'alba.
C'era un'enorme montagna di ciarpame davanti a una casa vittoriana che
stavano ristrutturando sulla Habersham. Stavo frugando qua e là, estraendo
frammenti di balaustre di veranda, pezzi di cancellata in ferro battuto,
persino una magnifica sopraffinestra di vetro istoriato, quando sentii un
flebile squittio. Mi allontanai velocemente dal mucchio di macerie. Gli
squittii continuarono, troppo sonori persino per i più sfacciati ratti di
Savannah.
Mi avvicinai piano piano, spinsi da parte con un calcio un pezzo di
grondaia arrugginita e vidi una piccola palla di pelo bianco e nero che si
dimenava. Aveva un naso rosa con macchie nere e non era più grosso di un
sacchetto di farina da mezzo chilo. All'inizio sembrava coperto di farina, ma
in realtà si trattava solo di polvere d'intonaco proveniente dal cumulo di
ciarpame. Fu amore a prima vista. Lasciai perdere il vetro istoriato, mi
infilai il cucciolo sotto un braccio e i pezzi di balaustra di legno sotto l'altro
e scappai come un ladro, tornando a casa.
Esaminato il cucciolo, il veterinario disse che era in parte beagle, in parte
pastore tedesco e in prevalenza meticcio. Vaccinarlo e sverminarlo mi costò
duecento dollari. È l'unico cane che io abbia mai avuto. Papà non ha mai
voluto nemmeno sentir parlare di un cane, visto che era un postino e via
dicendo. Lo chiamai Jethro, in onore del gruppo rock dei Jethro Tuli, e di
Jethro Bodine, il fusto di Beverly Hillbillies.
La prima volta che guardò fuori dalla finestra sul retro e vide Jethro
alzare una zampa sopra un cespuglio di camelie nella sua metà del giardino
cintato, Tal telefonò al suo avvocato e poi al mio.
«Quella stronza squilibrata tiene degli animali», gridò. (James mi fece
ascoltare il nastro della segreteria telefonica.)
«Weezie non è un'inquilina», gli ricordò mio zio quando lo richiamò.
Naturalmente io ero seduta lì di fianco, in ascolto. «Controlla sui documenti
relativi alla divisione dei beni», gli disse. «Il giudice ha assegnato a lei l'ex
rimessa per le carrozze. Weezie può tenere anche elefanti e giraffe, se vuole.
Quindi, se fossi in te, me ne starei tranquillo riguardo al cane. Impossibile
dire cosa Weezie potrebbe portarsi a casa, altrimenti».
Avevamo quasi raggiunto il cancello di Beaulieu. Sentivo il mio abito
avvizzire come lattuga vecchia di una settimana. La temperatura all'interno
del pick–up era di almeno trenta gradi. Mi fermai all'inizio del vialetto
d'accesso lastricato di gusci d'ostrica triturati, proprio in corrispondenza del
cancello aperto, poi mi curvai e abbassai il finestrino. Jethro è giusto
dell'altezza necessaria per vedere fuori dal finestrino del passeggero. Sporse
la testa, annusò e fece un solo breve latrato di apprezzamento. Sono
convinta che quel cane sia in grado di fiutare l'odore di un pezzo
d'antiquariato.
Mi guardai rapidamente nello specchietto retrovisore. Avevo i corti
capelli rosso scuro incollati alla testa e la mia faccia era quasi altrettanto
rossa, a causa del calore. L'eyeliner marrone aveva cominciato a colarmi
agli angoli degli occhi, facendomi sembrare un personaggio dei Pagliacci di
Leoncavallo.
Mi stavo tamponando il trucco sciolto quando una Mercedes bianca si
fermò accanto a me e suonò il clacson.
James. Il finestrino elettrico sul lato del passeggero si abbassò
silenziosamente. «Sarà meglio che tu faccia il resto della strada con me», mi
gridò.
«Anche Jethro?».
Lui lanciò un'occhiata al cane, che mi era saltato sulle ginocchia e stava
cercando di sporgersi dal finestrino per salutare il suo vecchio amico James.
«È capace di restare in macchina senza mordicchiare il rivestimento dei
sedili?». La Mercedes era stata un regalo per il pensionamento da parte dei
suoi parrocchiani in Florida. Io la definisco un'auto da pappone, ma James
dice che ha rinunciato al voto di povertà e intende iniziare a compensare
tutti gli anni passati a guidare Chevrolet.
«Farà il bravo», promisi.
La macchina di James era deliziosamente fresca. Profumava di pelle
nuova e chewing–gum alla menta. Misi la testa davanti alla bocchetta
dell'aria condizionata e mi passai le dita tra i capelli nel tentativo di
asciugarli.
«Non sapevo che tu conoscessi Ann Ruby Mullinax», disse lui, inarcando
un sopracciglio nel suo modo caratteristico.
«Non la conoscevo», replicai, «ma questa potrebbe essere la mia unica
chance di mettere piede a Beaulieu. La mamma dice che è un sacrilegio».
«Tua madre è una vera esperta in fatto di sacrilegi».
«Tu invece conoscevi la signorina Ann Ruby», aggiunsi. «Me l'ha detto
Janet».
«Ti ha raccontato come ci siamo conosciuti?».
«Non credo».
«È successo molto tempo fa», spiegò James. «L'anno in cui ho dato una
mano a far nascere quella chiesetta di Metter, Christ Our Hope. Doveva
essere il 1978 o qualcosa del genere. La signorina Mullinax mi telefonò e
disse di aver saputo dalla "sua gente" che stavamo costruendo una nuova
chiesa».
«Pensavo che i Mullinax fossero episcopali», lo interruppi.
«Infatti. Parlando della "sua gente" si riferiva alle persone di colore che
avevano lavorato come domestici per la famiglia. Schiavi, in origine. Ma le
persone come i Mullinax non amavano chiamarla schiavitù, dopo che i
diritti civili sono diventati di moda. Parecchie di quelle persone di colore
vivevano lassù a Metter. Erano quasi tutte cattoliche, quasi tutte membri
della mia nuova chiesa».
«Cosa voleva?», chiesi.
James sorrise. Ha la mascella tipica dei Foley, lunga e squadrata, e
quando sorride, il che succede spesso, gli si increspa tutto il viso, fino agli
occhi.
«Voleva donarci qualcosa per la nuova chiesa. In memoria di una certa
Clydie, Clydie Jeffers, che era stata la sua governante finché non era morta,
a ottantotto anni. Così sono venuto qui a Beaulieu, e abbiamo parlato, e la
signorina Ann Ruby ha finito per donare i banchi per la chiesa. Li fece
costruire con il legno di cipressi tagliati qui nella tenuta. E una targhetta
d'ottone diceva che erano "In memoria della cara Clydie Jeffers". Il
donatore non veniva citato. La signorina Mullinax chiese un assoluto
anonimato».
Una lieve brezza agitò il muschio sugli alberi che si protendevano sopra
il vialetto d'accesso. Le querce erano disposte come delle sentinelle, a dieci
metri di distanza l'una dall'altra su entrambi i lati, la base del tronco rivestita
da un tappeto d'edera rampicante, la volta dei loro rami che quasi
nascondeva il luminoso cielo azzurro.
Strinsi gli occhi e, in fondo al tunnel di alberi, riuscii a distinguere la
sagoma della villa, che si innalzava sopra la cima delle querce. Mi
raddrizzai sul sedile e aspettai che diventasse del tutto visibile. Era da
parecchio tempo che desideravo vedere Beaulieu.
«Era una donna simpatica?», mormorai, continuando a fissare
l'abitazione.
«Un tipo davvero originale», rispose James. «Portava i pantaloni, quello
lo ricordo. Non avevo mai visto una signora così anziana con i pantaloni.
Ed era scalza! Tua nonna Foley non aveva mai i piedi nudi se non in camera
sua, figuriamoci se si sarebbe mai aggirata così per casa davanti a un
estraneo, un prete, per di più. La signorina Ann Ruby era una persona
indipendente, e un'ottima amministratrice del suo denaro».
Ma ormai avevo smesso d'ascoltarlo. Eravamo arrivati.
Colonne doriche alte tre piani, dodici in tutto, si stagliavano sulla
facciata, sorreggendo una balaustrata scolpita, sopra la quale spiccavano tre
frontoni; su ogni lato c'era un'ala a un solo piano. La villa era rialzata, e
posava su fondamenta fatte con il conglomerato di gusci di ostrica
sminuzzati, sabbia e calce tipico delle vecchie dimore lungo la costa del
South Carolina e della Georgia.
Una doppia scalinata collegava la veranda d'ingresso al colonnato.
Contrariamente alla candida versione hollywoodiana delle ville nelle
piantagioni del Sud, Beaulieu era dipinta di un pallido rosa dorato, con
persiane verde scuro alle ampie finestre con dodici pannelli di vetro. Era
maestosa e sbalorditiva – e cadeva a pezzi.
Scaglie di vernice si staccavano dalle colonne, i cui basamenti erano
sbeccati e marci come i denti di una vagabonda. Una sottile patina di muffa
verde si era estesa dalle fondamenta alla facciata, e le assicelle di legno
delle persiane erano marce e cadevano. Uno dei tetti a due spioventi era
crollato, il pavimento della veranda era imbarcato, e alle poche finestre che
non fossero grigie e ornate di festoni di ragnatele mancava qualche pannello
di vetro.
«Oh», dissi, sentendo sfumare il mio entusiasmo. «Com'è triste».
«Sì», confermò quietamente James. «Molto triste».
Jethro premette il naso sul finestrino e io lo spinsi delicatamente di lato.
«Non era così malridotta quando sono venuto qui negli anni Settanta»,
commentò mio zio.
Percorse il vialetto girando attorno alla fiancata della casa, fino a uno
spiazzo non asfaltato che fungeva da parcheggio. C'erano una dozzina di
auto, tra cui una Triumph Spitfire giallo ranuncolo accuratamente
parcheggiata sotto l'ombra di un liquidambar.
Ebbi un tuffo al cuore, come mi succede sempre quando vedo la Spitfire.
«Cosa ci fa lei qui?», chiesi, afferrando il braccio di James. «Le cose
antiche non le piacciono nemmeno».
Mio zio aveva lasciato accesa l'aria condizionata ma stava armeggiando
con la cravatta. «Lei chi?».
Indicai la Triumph. Conoscevo bene quell'auto. Dopo tutto, era sempre
parcheggiata sotto la tettoia accanto alla mia casetta, nello spazio che un
tempo era mio. James era riuscito a farmi ottenere la ex rimessa delle
carrozze e metà del giardino recintato dietro la villa su Troup Square ma il
giudice, inspiegabilmente, aveva assegnato a Tal il mio posto auto.
Ogni sera sentivo il rombo della Triumph che sfrecciava lungo il vialetto
e si infilava agilmente nel posto auto – il mio posto – mentre io dovevo
cercare di parcheggiare il pick–up davanti a casa, su Charlton Street –
sempre che non fosse già piena di macchine.
«Caroline», risposi. «È qui».
James mi lanciò un'occhiata preoccupata. «Preferisci che andiamo via?».
«Non avrò problemi», gli assicurai. «Fintanto che non è lei a
cominciare».
Mio zio impallidì leggermente. Gli diedi un colpetto rassicurante sulla
mano, poi mi girai a grattare il muso di Jethro.
«Fai il bravo e non mangiare la bella auto da pappone di zio James».
Abbassai i finestrini e mi feci forza. «Andiamo», dissi.

La porta d'ingresso era stata coperta con una brutta zanzariera d'alluminio
anni Cinquanta a cui era fissata un'avvizzita ghirlanda di felci e margherite.
Sotto, un cartoncino scritto a mano diceva "Entrate, prego".
Varcammo la soglia marcia e ci ritrovammo in un'altra epoca. Non nel
Sud prebellico, purtroppo, piuttosto negli ultimi anni dell'amministrazione
Eisenhower.
L'ampio atrio era buio e fresco. Un finto lampadario coloniale con una
sola lampadina ancora funzionante era appeso al soffitto imbarcato. Il gesso
delle splendide pareti antiche era dipinto di rosa chiaro; le elaborate cornici
di stucco decorate e le modanature erano di un grigio opaco. Le alte finestre
che andavano dal pavimento al soffitto erano schermate da veneziane.
Abbassai lo sguardo sul pavimento. Grazie a Dio. Era rivestito di
sudiciume, ma l'assito originale in legno di pino era stato lasciato intatto.
James mi prese un gomito e mi guidò delicatamente all'interno. Due
salottini gemelli si aprivano ai lati del corridoio. Quello sulla destra era
ingombro di mobili: tre lunghi tavoli da gioco pieghevoli erano stati
accostati ed erano interamente coperti di cristalleria, porcellane, argenteria e
bric–a–brac. Naturalmente mi diressi da quella parte, ma James mi tirò
indietro. «Dall'altra parte», mi sussurrò.
Il salottino sulla sinistra era stato sgombrato. Uno scadente ventilatore
rettangolare ronzava su una delle finestre aperte, facendo entrare altra aria
calda e umida nella stanza che sembrava già una sauna.
Non c'era molta gente, non più di una ventina di persone. Quasi tutti gli
amici di Ann Ruby Mullinax davano l'impressione di essere verosimili
candidati per il proprio servizio funebre. Erano fragili, con i capelli bianchi
e la schiena curva. Gli uomini si tamponavano il viso lucido con un
fazzoletto, le donne si facevano vento con i fascicoletti della cerimonia
funebre che erano stati ammucchiati su un tavolo accanto alla porta
d'ingresso.
Una donna alta e sottile in abito ecclesiastico era in piedi dietro un leggìo
di legno davanti al caminetto. I capelli bianchi e lunghi fino alle spalle
formavano un'aureola crespa intorno alla sua testa.
Ma io non la stavo guardando davvero. Stavo cercando Caroline.
Fu lei a vedermi per prima, e mi rivolse un discreto cenno di saluto con la
mano. Annuii educatamente e sentii lo stomaco che mi si stringeva e il
cuoio capelluto che cominciava a prudere.
Indossava un tailleur di lino grigio chiaro la cui gonna corta e attillata
arrivava dieci centimetri più su delle sue ginocchia incredibilmente ossute.
Come sempre, emanava un'aria di fresca eleganza mentre noi altri stavamo
annegando in un lago di sudore.
Un uomo più anziano era fermo al suo fianco, la mano posata
delicatamente sulla sua spalla. Aveva capelli scuri e ondulati pettinati in
modo da formare un brutto riporto, sopracciglia cespugliose e brizzolate, e
un'abbronzatura da giocatore di tennis. Avevo incontrato persone come lui
alle feste dei genitori di Tal. Christ Church. Oglethorpe Club. Portava
l'anello di un college. Probabilmente il Duke o la University of Virginia.
Sicuramente apparteneva alla Kappa Alpha, la confraternita universitaria
più antica.
«Chi è il tizio insieme a lei?», sibilai nell'orecchio di James.
Lo zio gli lanciò un'occhiata e rivolse un solenne cenno di saluto
all'amico di Caroline, che stava osservando noi due che fissavamo loro due.
«È Gerry Blankenship, l'avvocato della famiglia Mullinax. Sshh».
Ann Ruby Mullinax era morta all'età di novantasette anni ma il discorso
funebre per lei durò meno di dieci minuti. "Un quattro e quattr'otto",
l'avrebbe definito mio padre.
Meno di cinque minuti dopo, un giovanotto biondo in camicia bianca,
pantaloni neri e cravattino nero prese a girare tra i presenti con in mano un
vassoio di bicchierini di sherry grandi come ditali. Un teenager di colore
vestito allo stesso modo reggeva invece un vassoio d'argento pieno dei
salatini al formaggio tradizionalmente offerti ai cocktail e ai funerali di
Savannah.
Gli ospiti si alzarono e presero a chiacchierare tranquillamente, come se
si trovassero fuori da una chiesa invece che tra le ultime vestigia di uno stile
di vita quasi scomparso.
Mi mossi lentamente verso la porta, dirigendomi verso la stanza in cui
erano stipati tutti quegli oggetti meravigliosi. James mi afferrò il braccio un
attimo prima che raggiungessi l'atrio. «Eloise!», disse, un po' troppo
calorosamente.
Caroline DeSantos e Gerry Blankenship erano fermi davanti a lui. Non
fui in grado di stabilire chi avesse messo con le spalle al muro l'altro.
James rivolse un cenno all'avvocato e poi a me. «Gerry Blankenship,
questa è mia nipote, Eloise Foley. Gerry è l'avvocato della signorina
Mullinax, Weezie. Mi stava giusto parlando dei progetti per Beaulieu. E
naturalmente conosci già Caroline DeSantos».
L'adorabile viso olivastro di Caroline assunse una leggerissima sfumatura
rosa. Lei si scostò dalla fronte una ciocca di lucenti capelli neri.
«Imbarazzante, vero?», chiese, spostando lo sguardo da me a Gerry allo
zio James. «Ex moglie e futura moglie, che vivono praticamente l'una sopra
l'altra. Lo sapevi, Gerry? Weezie abita nella ex rimessa per le carrozze
dietro la nostra casa. Ma questa è Savannah. Dovremo semplicemente
dimostrarci persone mature, vero, Weezie?».
Blankenship tossicchiò. Sentii James trattenere bruscamente il respiro, in
attesa di vedere se avrei mantenuto la promessa di non ricorrere alla
violenza. Sentii le mie mani stringersi a pugno. Caroline era più alta ma io
pesavo almeno dieci chili più di lei. Potevo dargliele di santa ragione in
quel preciso istante, pensai. Schiaffeggiarla fino a farle vedere le stelle.
Staccarle la testa a mani nude.
«Siamo tutti adulti», replicai, stringendomi nelle spalle. Naturalmente
non avrei aggredito Caroline in pubblico. La vendetta privata è molto più
dolce.
5

James Foley trattenne il fiato mentre osservava le due donne che si


studiavano come un paio di gatti randagi che stiano girando intorno allo
stesso avanzo di triglia.
Aveva conosciuto Caroline mesi prima, molto tempo prima che Tal
annunciasse che i suoi sentimenti avevano preso un'altra direzione, a una
cena organizzata da Weezie. In quell'occasione si era reso conto che Tal e
Caroline erano inseparabili. Weezie svolazzava da un ospite all'altro,
offrendo drink e antipasti, e, naturalmente, una radiocronaca ininterrotta
sulla casa, che era il suo orgoglio e la sua gioia. Non si era accorta delle
attenzioni che Tal rivolgeva a Caroline DeSantos.
Weezie era una padrona di casa nata. James non riusciva a capire da chi
avesse ereditato quel talento. Di sicuro i Foley non erano famosi come
organizzatori di feste. Bastava pensare a Bernadette Foley, sua madre, la cui
idea di cena consisteva in un brasato cotto fino ad essere quasi essiccato, un
bel piatto di rape bollite, e carote come contorno.
Sua cognata Marian, la madre di Weezie, non si trovava certo molto più a
suo agio in cucina. E negli ultimi dieci anni circa era stata quasi sempre
troppo brilla per servire qualcosa di più di un panino al formaggio o magari
uno di quei vasetti di salsa alla marinara versato su un piatto di spaghetti
scotti.
Era stato un errore, James adesso se ne rendeva conto, aiutare Weezie a
ottenere la ex rimessa per carrozze negli accordi di divorzio. Ma lei si era
dimostrata assolutamente irremovibile in proposito. Anche Tal,
l'allampanato WASP dalle labbra sottili, aveva puntato i piedi riguardo alla
casa, rifiutando di cedere la sua metà.
Aveva sfacciatamente sistemato Caroline nella casa padronale,
confidando che quella sarebbe stata l'unica cosa capace di costringere
Weezie ad andarsene. Aveva sottovalutato la vena di testardaggine dei
Foley.
Adesso, con le due donne che si guardavano in cagnesco, James pensò
che avrebbe dovuto indossare una casacca da arbitro a strisce bianche e
nere, invece della giacca del vestito buono e della cravatta che Janet teneva
in ufficio nel caso arrivassero clienti importanti.
Afferrò due bicchierini pieni di sherry, li porse a Weezie e Caroline e poi
ne prese uno anche per sé. Gerry Blankenship declinò l'offerta con un gesto
del capo. A giudicare dal naso arrossato e luccicante e dal puzzo del suo
fiato, quel giorno aveva già bevuto qualcos'altro, e non certo un liquore
leggero come uno sherry dolce da dieci dollari al gallone.
«Ha parlato di piani per Beaulieu», gli disse James, sperando di distrarre
le due donne. «Mi sembra di capire che la signorina Mullinax non avesse
parenti in vita. Cosa succede alla proprietà, ora?».
«Non ci sono ancora stati annunci ufficiali», ribatté Gerry, elusivo,
scoprendo all'improvviso qualcosa di interessante da fissare sul pavimento.
«Il testamento va omologato, i progetti approvati. Non c'è ancora nulla di
certo».
Caroline fece un ampio sorriso. I suoi denti erano molto belli, bianchi e
regolari, e gli occhi i più grandi e scuri che James avesse mai visto. Un vero
schianto, nonostante fosse una rovinafamiglie, pensò lui, sentendosi in
colpa.
«A Gerry piacciono i segreti», disse la donna in tono confidenziale. «Ma
in ogni caso, domani si scoprirà tutto. Diglielo, Gerry. Oppure posso farlo
io?».
Blankenship afferrò un bicchierino di sherry che qualcuno aveva lasciato
su una credenza. Lo bevve tutto d'un sorso, poi si guardò intorno
cercandone un altro. «Questo potrebbe non essere il momento o il posto
adatto», rispose.
«Bah», disse Caroline, liquidando il commento con un gesto della mano.
«Sarà un dono del cielo, per questa città. Trecento, quattrocento posti di
lavoro? Un investimento di capitale pari a più di trecento milioni di dollari?
Chi potrebbe fare obiezioni a una cosa del genere?». Rivolse a James un
sorriso abbagliante. «Un tempo lei era un prete, signor Foley, quindi non c'è
bisogno di raccomandarle la riservatezza, vero?».
«Sono un avvocato», replicò James. «I miei clienti fanno affidamento
sulla mia discrezione».
«Insomma, Caroline...», cominciò a dire Blankenship.
«Di cosa state parlando?», chiese Weezie. Aveva smesso di lanciare
occhiate piene di desiderio verso il salottino e stava cercando di non fissare
con troppo interesse il grande e logoro tappeto orientale arrotolato contro la
parete di fronte a lei. James aveva l'impressione di vedere il cervello della
nipote stimarne il valore come una calcolatrice.
In quel momento Weezie stava guardando con ostilità Caroline, gli occhi
socchiusi, pronta a balzare sulla preda. «Di cosa stai parlando?» chiese,
avvicinandosi a lei. «Cosa ne sarà di Beaulieu?».
«Gerry?».
Blankenship si dondolò avanti e indietro sui tacchi. «Fai pure», disse alla
fine. «È quello che desiderava Ann Ruby. Ed è proprio questo il succo della
faccenda, i suoi desideri», aggiunse, mentre la sua voce prendeva un tono
bellicoso. «Non quello che vogliono i tizi della società storica o per meglio
dire isterica». Abbassò il tono di voce. «Ann Ruby si preoccupava delle
persone, non di un vecchio ammasso marcescente di mattoni e assi. Si
preoccupava della nostra economia locale, della creazione di posti di lavoro.
Ne abbiamo parlato spesso. Di come si potesse fare sì che a Savannah ci
fossero le condizioni adatte per consentire ai giovani di restare qui,
guadagnarsi di che vivere dignitosamente e diventare parte integrante della
comunità».
«Sarà fantastico», annunciò Caroline in tono vivace. «Tutta tecnologia
d'avanguardia. La Coastal Paper Products vuole che questo sia l'impianto
migliore del mondo, nel suo genere. E i controlli ambientali...». Alzò gli
occhi al cielo. «Lo stiamo progettando in modo che risponda a requisiti che
l'agenzia per la protezione ambientale non ha neppure ancora stabilito.
Nessuno si accorgerà della sua presenza. Lontano dalla strada, niente
ciminiere, niente emissioni, niente di niente».
James bevve lo sherry, facendo una smorfia per il sapore dolce. «State
parlando di una cartiera? Qui? A Beaulieu?».
Weezie rimase a bocca aperta. «Non potete... Beaulieu?».
Blankenship si schiarì la gola. Raddrizzò la schiena. «Come ho appena
detto, era questo che desiderava la signorina Mullinax. Era una donna
pratica. E Beaulieu aveva perso la sua utilità già da parecchio tempo. Avete
idea di quanto costerebbe mantenere questo posto? E non c'erano soldi per
farlo, sapete. La signorina Mullinax era orgogliosa dell'eredità della sua
famiglia. La Coastal Paper Products intende chiamare l'impianto "Beaulieu–
Mullinax". Un monumento vivente».
«Beaulieu. La casa?», chiese Weezie con voce acuta. «Cosa ne sarà della
casa?».
Caroline lanciò un'occhiata eloquente a Blankenship, che si strinse nelle
spalle.
«Non è stato ancora deciso niente», rispose lei. «La Coastal vorrebbe
tanto restaurarla. I suoi dirigenti sono molto attenti alla conservazione del
patrimonio artistico. Conosce Phipps e Diane Mayhew?», chiese a James.
«Ehm, no», rispose lui.
«Phipps è il presidente della Coastal Paper Products», spiegò Caroline.
«Tal ha appena finito di progettare una dépendance per la loro villa a
Turner's Rock. E io progetterò il nuovo impianto. Ricordi i Mayhew,
Weezie, vero? Oggi Diane è venuta qui con noi, per rendere l'ultimo saluto
alla signorina Ann Ruby. Phipps aveva una riunione a New York».
James sapeva che la nipote conosceva i Mayhew. Weezie si era lamentata
amaramente degli sforzi fatti per impressionare favorevolmente i due
coniugi quando si erano trasferiti a Savannah e Tal aveva avuto sentore di
tutti i soldi yankee che i due intendevano spendere per la loro "proprietà di
campagna".
Weezie gli aveva raccontato di aver sgusciato e pulito cinque chili di
gamberetti, scelto e selezionato accuratamente due chili e mezzo di polpa di
granchio, e di aver persino ridipinto il bagno al pianterreno, tutto per fare
colpo sui Mayhew durante la "cenetta intima" che aveva organizzato per
loro.
«Phipps Mayhew ha ingurgitato tutto quello che gli mettevo davanti.
Avrebbe potuto trattarsi di una ciotola di cereali molli e lui non ci avrebbe
fatto caso», aveva riferito allo zio. «E la moglie! Diane Mayhew ha
sostenuto di essere allergica ai frutti di mare. Ha mordicchiato una foglia di
lattuga e ha chiesto una marca di acqua minerale importata che non avevo
mai sentito nominare».
«Oh», disse Caroline, sorridendo e salutando qualcuno dall'altra parte
della stanza. «Ecco Diane».
Una donna bassa e tarchiata che indossava un costoso tailleur nero di
maglia trotterellò verso di loro e rivolse un sorriso esitante a Weezie.
«Oh, salve, signora Evans», disse. «Non so se si ricorda di me. Sono
Diane Mayhew. Mio marito Phipps e io abbiamo gustato una cena squisita a
casa sua, quando ci siamo trasferiti qui in città».
«Salve, Diane», rispose Weezie. «Naturale che mi ricordo di lei. Ma non
mi chiamo più Evans. Sono Weezie Foley adesso. Tal e io abbiamo
divorziato, sa».
L'altra sbatté le palpebre. «Mi spiace», balbettò. «Non lo sapevo. Phipps
non ha mai detto...».
«In realtà», miagolò Caroline, «Tal e io siamo fidanzati. Mi stupisce che
Phipps non gliene abbia parlato».
«Oh», disse Diane Mayhew, con una risatina nervosa. «Sapete come sono
gli uomini. Se non si tratta di affari, non si preoccupano degli irrilevanti
dettagli delle vite altrui».
La donna aveva capelli color topo, sopracciglia sottili e acquosi occhi
azzurri. Sui suoi polsi tintinnavano pesanti catene d'oro e braccialetti a
cerchio. Con quel pesante tailleur nero, a James sembrava il modello
dell'eleganza fuori posto. Il suo viso luccicava di sudore e la pettinatura si
era afflosciata come un soufflé.
James vide la nipote socchiudere gli occhi.
«Caroline ci ha appena spiegato che la società di suo marito ha comprato
Beaulieu», disse Weezie, «ma di sicuro è impossibile che vogliate radere al
suolo questa splendida villa antica».
Diane Mayhew si guardò intorno e rabbrividì.
«Splendida? Credo che non capirò mai voialtri di queste zone. Insomma,
su da noi questo posto non si meriterebbe nemmeno una seconda occhiata.
Mio Dio, quando si pensa alla storia di luoghi come la Westchester County
a New York o la Bucks County della Pennsylvania, questo posto è
assolutamente insignificante. E trovo indecorosa la mancanza di
manutenzione. Phipps mi dice che Caroline e il suo studio hanno disegnato
un nuovo edificio favoloso, che sarà un vero motivo di orgoglio per
voialtri».
Weezie quasi digrignò i denti. «Diane», disse con voce lenta, volutamente
strascicata, «forse a voialtri interesserà sapere che Beaulieu è la villa di
piantagione più antica della costa della Georgia». Si rivolse a Blankenship.
«Non è una specie di monumento dal punto di vista storico o qualcosa del
genere?».
Gerry Blankenship rabbrividì sentendole pronunciare la parola
"monumento".
«Niente affatto», si affrettò a ribattere. «L'architettura non ha
assolutamente niente degno di nota e, naturalmente, l'edificio sta andando a
pezzi. Ma la nostra Caroline è un architetto; può dirvi molto più di quanto
possa fare io. I tizi di quella società isterica sono venuti qui a ficcare il naso
in giro, facendo un sacco di domande ma, quando era viva, la signorina
Mullinax non li avrebbe mai lasciati entrare nella tenuta. Era uno spirito
libero, non le andava che qualcun altro le dicesse cosa fare della sua
proprietà».
Caroline fece per ribattere ma si bloccò all'improvviso, lanciando
un'occhiata in tralice a una bellissima donna ferma nell'atrio, che fissava
con aria rapita uno dei medaglioni di stucco sbeccati del soffitto. Diede di
gomito a Blankenship. «Vedi la stessa persona che vedo io?».
Si voltarono tutti per scoprire chi stesse guardando Caroline.
«Scusateci», mormorò lei. Prese la mano dell'avvocato, poi scivolarono
entrambi silenziosamente verso l'angolo opposto della stanza. Diane
Mayhew li seguì.
«Di chi si tratta?», chiese James.
«Merijoy Rucker», rispose Weezie, con il sorriso soddisfatto di un gatto
che si sta leccando i baffi. «Non c'è da stupirsi che quei tre si siano zittiti
così in fretta».
«Chi è?», domandò James, fissando la giovane donna bruna che aveva
avuto un tale effetto su Caroline e Blankenship. Nel suo viso,
nell'impertinente nasino all'insù e nei corti e lucenti capelli neri, c'era
qualcosa di familiare. Dimostrava più o meno l'età di Weezie, ma era vestita
in modo più classico, con un abitino senza maniche di lino nero, collana e
orecchini di perle. Molto sottile, con gambe lunghissime fasciate da collant
neri e velati. Aveva il tipico aspetto della persona ricca.
«L'ho già vista da qualche parte», disse lui.
«Be', è cattolica, quindi la cosa non mi stupirebbe», ribatté Weezie. «In
più è il presidente dell'associazione per la conservazione dei beni culturali e
architettonici di Savannah. Era un paio di classi avanti a me alla St. Vincent.
Ha sposato il più giovane dei Rucker, che credo si chiami Randy».
«La compagnia di trasporti Rucker», disse James, ricordando. «La
signora Rucker era cattolica, ma il signor Rucker era semplicemente ricco».
«Bravissimo, James». Weezie gli diede un colpetto sulla spalla con aria di
approvazione. Portando l'abito talare, suo zio era stato esentato dall'obbligo
di partecipare al gioco del "Dimmi chi conosci". Adesso, però, era avvocato,
e gli avvocati dovevano conoscere tutti i pezzi grossi. Aveva finito con il
dipendere da Janet e Weezie perché lo aiutassero a districarsi in questo
genere di cose.
«Perché mai Merijoy Rucker dovrebbe indurre Gerry Blankenship a
fuggire con la coda tra le gambe?», si chiese James.
«L'associazione per la conservazione di Savannah è il gruppo che si
assicura che nessuno, nel distretto storico, pianti anche solo una petunia
senza prima accertarne il contesto storico. Se scopre che Beaulieu sta per
essere venduta e demolita per far posto a una cartiera, scatenerà un terribile
putiferio. Soprattutto Merijoy, che ha tutto il denaro dei Rucker e nient'altro
da fare con il suo tempo e la sua energia. Quella donna è una vera peste».
«Stai esagerando», commentò James, osservando Merijoy estrarre un
temperino dalla sua agenda e cominciare a grattare la vernice di un
davanzale. Con estrema nonchalance prese una bustina di plastica dalla
borsetta, v'infilò le scaglie di vernice, poi la chiuse e la ripose nell'agenda.
«Blankenship non ha parlato di demolire Beaulieu», precisò lui.
«Caroline ha detto che la società spera di salvarla».
«Una quantità di fandonie per pubbliche relazioni», dichiarò Weezie.
«Hai sentito cosa ha detto Diane Mayhew. Questa villa è spacciata. La
maggior parte degli architetti vogliono creare le proprie strutture, non
sistemare quelle altrui. Se lo studio di Tal è coinvolto, probabilmente hanno
già preparato un progetto grandioso, che di certo non include una villa
coloniale vecchia e pacchiana con porte a zanzariera in alluminio e
l'intonaco che si sbriciola solo a guardarlo. Puoi scommetterci».
James era scettico. Aveva già assistito a situazioni simili. «Se la signorina
Mullinax ha lasciato disposizioni precise nel suo testamento, l'associazione
per la conservazione di Savannah non può certo impedire alla Coastal Paper
Products di usare la proprietà come meglio crede. Giusto?».
«Merijoy Rucker sarebbe capace di fermare un branco di elefanti in
corsa», sottolineò Weezie. «E nel farlo non si rovinerebbe neppure la
manicure. Ricordi la balaustra di ferro battuto che c'era davanti alla nostra
casa quando l'abbiamo comprata? Volevo toglierla perché non era
particolarmente bella e in più era pericolosa: se fosse caduta avrebbe potuto
uccidere qualcuno. Ma Merijoy l'ha saputo ed è venuta da me per fare in
modo che io chiedessi il permesso di eliminarla. Da casa mia».
«Cristo santo», disse lui. Diede una seconda occhiata alla signora Rucker.
Aveva un'aria così adorabile, così innocua. «Hai dovuto chiedere un
permesso per fare dei lavori a casa tua?». Non riusciva ancora a crederci.
Aveva fatto parte della burocrazia più conservatrice e più legata alle
tradizioni della storia del mondo, la Chiesa cattolica, eppure non aveva mai
sentito niente del genere.
«La casa si trova nel distretto storico. È elencata nel registro nazionale
dei luoghi storici. Abbiamo ottenuto una detrazione fiscale sui lavori di
ristrutturazione perché l'abbiamo restaurata seguendo le loro indicazioni»,
spiegò Weezie. «Quindi adesso è l'associazione per la conservazione di
Savannah a decidere tutto. Ed è Merijoy Rucker a guidarla. È una nazista in
scarpette di Ferragamo». Sorseggiò elegantemente lo sherry. «Sai, non parlo
con lei da mesi. Scommetto che non sa che Tal e io abbiamo divorziato».
James scoppiò a ridere. «In questa città? Tutti sanno che hai divorziato.
Oggi nel mio ufficio è venuta Denis Cahoon, che ha pianto e si è lamentata
senza interruzione del fatto che Inky non voglia tornare da lei. Sa a
malapena che giorno è, ma persino lei mi ha chiesto come se la cava mia
nipote dopo quella brutta separazione».
«Denise Cahoon», disse Weezie. «Quella sì che è una storia patetica.
Renderà finalmente Inky un uomo onesto permettendogli di sposare la
madre dei suoi figli prima che vadano al college?».
James sospirò. «Rivuole semplicemente Inky. Be', Inky e il suo stipendio
e i suoi assegni di pensionamento».
Weezie posò sulla credenza il bicchiere vuoto e si passò le dita tra i
capelli.
«Torno subito, zio James. Voglio solo andare a scambiare due chiacchiere
con la mia ex compagna di scuola Merijoy, per vedere cosa sa di questa
faccenda della demolizione di Beaulieu».
James annuì. «Janet dice che devo aggirarmi tra la folla e distribuire i
miei biglietti da visita. Non trovi che sia di cattivo gusto, durante un
servizio funebre?».
«Sii discreto», gli consigliò la nipote. «Guarda quella coppia laggiù».
James fissò il punto indicatogli e vide due ultra–novantenni, un uomo e una
donna, così fragili da dare l'impressione che una folata di vento forte
potesse spazzarli via. Uno dei camerieri aveva commesso l'errore di lasciare
incustodito sulla credenza un vassoio di antipasti. La donna stava
nascondendo manciate di salatini al formaggio nella sua screpolata borsetta
di pelle nera.
«Sono Spencer e Lorena Loudermilk. Ho saputo che Spencer è stato
operato alla cistifellea al Candler Hospital sei settimane fa e da allora ha
febbre e mal di pancia. È andato da un medico ad Atlanta che gli ha detto
che il chirurgo deve avergli lasciato una pinza nell'addome. Tutti i nipoti
stanno cercando di convincerlo a fare causa al Candler, ma Spencer dice che
non si fida degli avvocati più di quanto si fidi dei medici». Diede di gomito
a James. «Perché non vai a chiacchierare con loro?».
«Sarebbe come inseguire le ambulanze», si affrettò a ribattere lui.
«Assolutamente contrario all'etica».
«Di' al signor Loudermilk che tua nipote è la migliore amica della loro
nipote, BeBe», gli suggerì Weezie. «Chiedigli solo come sta. E non
dimenticare di lasciar cadere nella conversazione che fai l'avvocato».
James toccò il mucchietto di biglietti da visita che Janet gli aveva infilato
in tasca. Odiava quella parte della sua nuova vita. Il suo unico desiderio era
aiutare le persone. Ma, come Janet amava ricordargli, il proprietario del suo
ufficio non poteva incassare un assegno di buone intenzioni come affitto, e
il serbatoio della scintillante Mercedes bianca parcheggiata lì fuori non si
sarebbe potuto riempire con azioni nobili.
Lo studio sulla Factors Walk rappresentava la sua maggiore spesa, un
lusso, in realtà, per poter guardare il fiume ogni volta che lo desiderava.
Viveva in modo semplice, nel cottage dall'intelaiatura di legno e con due
camere da letto di Washington Avenue che Bernadette gli aveva lasciato in
eredità.
Si raddrizzò il nodo della cravatta. Non poteva certo fargli male
semplicemente presentarsi ai Loudermilk. Sembravano una coppia
simpatica. Sperava solo che Weezie non finisse coinvolta in una rissa
mentre lui si procurava qualche nuova fatturazione.
6

«Eloise Foley!». Il sorriso di piacere di Merijoy nel vedermi le increspò


la pelle intorno agli occhi. Doveva aver dimenticato l'incidente con la
balaustrata. «Come stai?», mi chiese, stringendomi in un abbraccio.
Indietreggiò e mi osservò. «E dove hai preso questo delizioso vestito?».
A Merijoy Rucker piaceva il mio abito alla Zelda Fitzgerald. Ero una
donna di successo. «Ti piace davvero?», chiesi timidamente. «È un Hattie
Carnegie. Fine anni Venti, credo».
«È carinissimo», mi assicurò lei. «Gli abiti vintage sono una delle mie
passioni. Nessuno tranne te potrebbe permettersi un look del genere, Eloise.
Dopo tutti i chili che ho preso per via dei bambini, se mi infilassi una cosa
del genere sembrerei un tendone da circo».
«Oh, no», protestai. «Sei così magra, Merijoy. Persino più magra che al
liceo».
Lei diede uno sguardo alla stanza. I presenti si stavano congedando,
dirigendosi verso la porta. Stava guardando con particolare interesse
Caroline e Gerry Blankenship, fermi sul lato opposto della stanza, le teste
accostate mentre parlavano animatamente.
«È così triste che la signorina Mullinax sia morta. La conoscevi bene?».
Era la domanda che avevo temuto. Mi guardai intorno cercando zio
James, sperando che mi raggiungesse, intavolasse una conversazione e mi
traesse d'impiccio. Niente da fare: stava circuendo i nonni di BeBe.
«No, non la conoscevo bene», replicai, cercando di sembrare disinvolta.
«Era più che altro un'amica di mio zio James. Io mi sono solo accodata
come accompagnatrice». Abbassai la voce. «A dirti la verità, Merijoy, il
motivo per cui sono venuta è che sono preoccupata per Beaulieu. Una
costruzione di inestimabile valore, dal punto di vista storico. Perderla
sarebbe terribile».
«Perdere Beaulieu? Cosa intendi dire? Sai qualcosa che io non so?».
Caroline aveva spostato la sua attenzione su di me. I suoi occhi stavano
lanciando piccole scintille cariche d'odio attraverso la stanza. Disse
qualcosa a Blankenship, e mi fissarono entrambi. Probabilmente lei sapeva
leggere le labbra. Tutto il resto lo sapeva fare. Calma, ragazza, mi dissi. Sii
dolce.
«Sai com'è Savannah. Ho semplicemente sentito delle voci, tutto qui».
Mi spostai leggermente di lato in modo da dare la schiena a Caroline,
impedendole così di leggere le mie onde cerebrali.
Mi curvai verso Merijoy. «Cartiera», mormorai, muovendo appena le
labbra.
«No», disse lei. Si portò le mani al petto ossuto e roteò i grandi occhi
scuri come se stesse per avere un infarto. «Non succederà mai e poi mai. Mi
hai sentito?».
Avevo premuto il tasto giusto.
«Ho parlato con la signorina Mullinax», spiegò. «Per mesi e mesi. In
febbraio abbiamo cenato insieme all'Elizabeth's, sulla Trentasettesima. Mi
ha mostrato alcuni documenti originali relativi alla concessione dei terreni
di Beaulieu. Praticamente ha promesso di lasciarla all'associazione per la
conservazione di Savannah. Abbiamo discusso l'ipotesi di trasformarla in
museo. Ho già cominciato a informarmi per ottenere dei fondi per il
restauro. Questo posto ha bisogno di una massiccia iniezione di contanti.
Diverse fondazioni si sono dette interessate. Gli edifici esterni della
piantagione verrebbero restaurati, ci sarebbe una produzione di riso su scala
ridotta. Lei non avrebbe mai...».
«Forse si tratta di un equivoco», mi affrettai a ribattere. «Ti prego,
Merijoy, dimentica ciò che ho detto. Se tu dici che Beaulieu è salva, sono
sicura che è così».
Lei serrò le labbra, con aria meditabonda. «Gerry Blankenship è
l'avvocato della signorina Ann Ruby. Temevo che telefonargli prima potesse
sembrare un po'... be', avido, una mancanza di rispetto verso la defunta. Ma
ho chiamato più volte il suo ufficio, lasciando messaggi, per sapere del
testamento. E oggi ho cercato di restare sola con lui almeno per un attimo,
sin da quando è arrivato. Continua a sfuggire il mio sguardo. Conosci la
donna con cui sta parlando? L'ho già vista in giro, credo».
«La conosco», risposi, sentendo lo stomaco che mi si stringeva. «Si
chiama Caroline DeSantos. Lavora nello studio di architettura di Tal. È la
sua nuova fidanzata».
Merijoy fece una smorfia. «Allora è vero. Avevo sentito dire che tra voi
due le cose non andavano molto bene. Mi dispiace, Eloise».
«Preferisco essere chiamata Weezie», precisai, alzando il mento. «Il
divorzio è diventato definitivo il mese scorso».
«E la tua casa?», chiese lei, mentre il suo allarme interiore scattava.
Conosceva ogni centimetro quadrato di ogni abitazione del distretto
storico. Non faceva che sbirciare dentro le finestre della gente e curiosare
nei vicoletti.
«La tua casa», aggiunse in tono cupo. «Pensare a tutta la fatica che hai
fatto. Era un rudere prima che tu la comprassi. Ci passavo sempre davanti e
dicevo a Randy: "Quel posto è una vergogna. Bisogna che qualcuno lo
compri e lo sistemi, prima che non rimanga altro che un ammasso di
mattoni sbriciolati". Non hai intenzione di venderla, vero? Perché Adelaide
e Malcolm Osborne stanno cercando da mesi qualcosa su Troup Square...».
«L'ex rimessa per le carrozze non è in vendita», dissi, a denti stretti.
Insomma, alcune persone sono autentici avvoltoi. Da quando si era sparsa
la voce del nostro divorzio, la gente aveva cominciato a fermarmi per la
strada. «Come mi dispiace per la vostra separazione... quella casa ha un
vero e proprio bagno, al pianoterra, oppure solo una toilette?».
«Tal ha ottenuto la villa, con il divorzio», spiegai. «Ma io ho avuto l'ex
rimessa. È lì che vivo. Per me è l'ideale. Due camere da letto, due bagni,
uno studio, e ho anche metà del giardino».
«E quell'adorabile cucinino. Spero che tu non abbia fatto niente per
coprire le pareti di mattoni a vista». Merijoy inarcò un sopracciglio.
«Quindi stai vivendo sulla stessa proprietà di Tal e della sua fidanzata.
Davvero insolito. Devo riconoscertelo, Weezie; dimostri una mentalità
molto più aperta di quella che avrei io se mio marito mi lasciasse per
un'altra. Se Randy osasse soltanto guardare un'altra donna, ti assicuro che
sarei costretta a farmi giustizia da sola».
Caroline e Gerry Blankenship si stavano dirigendo verso la porta
d'ingresso. Caroline si fermò una volta e si girò a guardarmi, cercando di
capire cosa stessi facendo.
Merijoy seguì la direzione del mio sguardo. «Insomma, Weezie, non
provi semplicemente il desiderio di ucciderla?».
7

Subito dopo che Tal annunciò di essersi innamorato di un'altra e di volere


il divorzio, ero così depressa che tutti i miei amici temettero che potessi
suicidarmi.
Presi a fare tutte le cose che fanno le donne quando la loro vita va in
pezzi.
Parlai al telefono per ore con le mie amiche. Facemmo congetture su chi
potesse essere l'altra donna. BeBe si offrì di pagare un detective privato
perché seguisse Tal. Quando rifiutai, si offrì di pedinarlo personalmente,
gratis. BeBe adora gli intrighi.
Non potevo permettermi uno psicoterapeuta, così cominciai a leggere un
sacco di articoli di auto–aiuto. I migliori si trovano sulle riviste dal mio
parrucchiere.
"Raccogliere i cocci dopo il divorzio" era l'articolo che stavo leggendo
nel periodo in cui Tal se n'era andato di casa, in apparenza per trasferirsi dal
suo ex compagno di stanza al college. Solo molto tempo dopo scoprii dove
abitava davvero.
L'articolo sosteneva che le donne che stanno affrontando un divorzio
dovrebbero dedicarsi a un cosiddetto "inventario dei talenti", in modo da
riscuotersi da qualsiasi atteggiamento autodistruttivo tipico della post–
separazione.
Talenti. Per esempio? Contabilità? Tassidermia? Riparazioni auto?
Per qualche anno, mentre Tal si stava facendo strada a gomitate fino al
vertice dello studio di architettura che apparteneva comunque a suo nonno,
io avevo svolto la consueta varietà di lavori ottenuti tramite parenti, amici e
amici degli amici. È così che chiunque io conosca ha sempre trovato un
impiego a Savannah. Non ti serviva un curriculum, e certamente non un
"inventario dei talenti". Avevi bisogno di conoscere qualcuno.
Avevo fatto l'impiegata nell'agenzia assicurativa dello zio della mia
vicina di casa, mi ero occupata dell'inserimento di dati nella banca con la
quale il signor Evans aveva sempre fatto affari, mi ero occupata delle
cartelle nello studio del dentista che mi aveva raddrizzato i denti a dodici
anni. L'unico lavoro che mi fossi mai procurata da sola era stato quello di
bibliotecaria nella biblioteca pubblica; avevo superato il test di spelling con
il massimo dei voti.
Sono davvero bravissima nello spelling. Ero stata campionessa di
spelling della Blessed Sacrament School in quarta, quinta e sesta classe.
Ma probabilmente questo non faceva parte dei talenti di cui parlava il
giornale nell'articolo sui cocci da raccogliere.
BeBe non riesce ancora a credere che io non abbia mai sospettato che ci
fosse qualcosa tra Tal e Caroline. Perché mai avrei dovuto? Lui non
lavorava fino a tardi, la nostra vita amorosa non era cambiata (sesso il
sabato mattina e il giovedì sera), lui non aveva mai cercato di nascondere
l'affetto che provava per lei – in effetti insisteva perché Caroline e io
diventassimo amiche per la pelle. L'amicizia non era nata, naturalmente.
Organizzammo cene insieme, andammo in barca a vela e a giocare a golf,
tutte le solite cose. Ora che ci ripenso, mi rendo conto che io cucinavo per
le cene mentre Caroline comprava il vino. Tal e Caroline portavano la
barca; io preparavo il picnic.
Il mio risentimento sobbollì, poi si fece più aspro, finché una domenica
sera, dopo un intero weekend di forzato cameratismo con Caroline, spiegai
a Tal quali fossero i miei veri sentimenti.
«Ne ho abbastanza di lei», gli dissi. «Non abbiamo niente in comune.
Detesta tutti i miei amici, non fa che ripetere quanto è sciocca BeBe. Ogni
volta che organizziamo queste stupide riunioni mondane io faccio tutto il
lavoro mentre lei si limita a restarsene seduta lì con le mani in mano e ad
apparire favolosa. Quella donna non ha ghiandole sudorifere. È bravissima
in tutto e cerca volutamente di farmi sentire inadeguata».
Tal si limitò a ridere. «Sei gelosa!», ribatté. «È naturale».
«Cosa vorresti dire?».
«Lo sai benissimo», replicò. «Se Caroline ti fa sentire inadeguata,
probabilmente è perché sei così... be'... non focalizzata. Ammettilo, Weezie,
prendi un milione di direzioni diverse. Ti gingilli con questo e con quello
senza impegnarti mai seriamente in niente. Niente che interessi a me,
comunque. Sei...», fece un bel respiro, «sei una dilettante, Weezie».
Se avesse preso il coltello da filetto sul tavolo e me lo avesse affondato
tra le costole, non avrebbe potuto ferirmi di più.
Non focalizzata. Rigira il coltello, guarda se riesci a colpire un'arteria.
Ti gingilli con questo e con quello. Cosa ne diresti di un organo vitale?
Una dilettante. Strappami il cuore e pestalo sul pavimento di legno di
pino della cucina che ho lamato e incerato a mano, tutto da sola.
Visto che era lui a dirlo, pensai, doveva essere vero. In fin dei conti, tutti
non facevano che sottolineare come Talmadge Evans III fosse bravissimo in
qualsiasi campo. Architettura. Chitarra classica. Golf. Pesca con la mosca.
Vela. E adesso l'adulterio.
Ero rimasta nella villa fino all'ultimo momento possibile. Il giudice mi
aveva concesso un mese di tempo per portare via le mie cose.
Alle sei di un venerdì sera, esattamente trenta giorni dopo che l'accordo
sui beni era diventato definitivo, terminai di traslocare. Il camion con i
mobili di Caroline era già passato due volte davanti alla porta d'ingresso. Se
proprio devo essere sincera, lasciando la casa piansi più di quanto avessi
fatto per la perdita di Talmadge Evans III.
Quel giorno arrotolai i miei consunti tappeti orientali, imballai ogni
singolo pezzo di porcellana blu e bianca raccolto nel corso degli ultimi dieci
anni, infilai negli scatoloni i miei libri sull'antiquariato, inclusi tutti i
tariffari pubblicati negli ultimi quindici anni, e poi, singhiozzando,
trasportai a mano i mobili che a Tal non erano mai piaciuti fino alla ex
rimessa per le carrozze, la mia nuova casa.
Non me la sentivo di affidare il mio tesoro ai facchini, così riempii il
carrettino di legno verniciato di blu che avevo trasformato in tavolino e feci
la spola tra un'abitazione e l'altra.
Il giudice aveva assegnato a Tal il letto a baldacchino in mogano che
avevamo comprato per il nostro quinto anniversario, tutte le posate
d'argento che sua madre e i suoi amici ci avevano regalato quando ci
eravamo sposati, il tavolino settecentesco in ciliegio con ribalta
nell'ingresso e tutti i mobili del soggiorno.
Dopo aver fatto l'ultimo carico tornai nella villa per l'ultima volta. Era
sceso il crepuscolo. Svitai tutte le lampadine della casa. Mi infilai sotto il
lavello della cucina e, con una chiave giratubi, tolsi il sifone che impedisce
l'uscita del grasso dal tubo del lavello. Piegai il tubo di rame che partiva
dalla caldaia. Dopo qualche attimo di riflessione, aprii il frigorifero da
tremila dollari che avevo comprato a metà prezzo da un grossista di
elettrodomestici che conosco, e tolsi il piccolo congegno elettronico che
avvisa la macchina per il ghiaccio che bisogna produrre altri cubetti.
Un'ora senza ghiaccio a Savannah equivale a una vita intera all'inferno.
Avrei potuto fare di più, ma non me la sentivo di infliggere danni davvero
irreparabili alla mia casa. Non importava cosa diceva il giudice: era la mia
casa. L'avevo trovata, le avevo dato vita, l'avevo resa mia. Le pareti erano
dipinte con colori che avevo mescolato io stessa, gli antichi lampadari con
luci a gas erano quelli che avevo smontato, pezzo per pezzo, lucidando
l'ottone, lavando le parti in cristallo e sostituendo i fili elettrici nei bracci.
Da quando avevo restaurato la casa avevo imparato a rimettere vetri nelle
finestre, sabbiare assi di legno, posare piastrelle, riparare l'intonaco, fare
piccoli lavori sull'impianto elettrico, pitturare e fare giardinaggio. Attività
da dilettante, le avrebbe definite Tal.
Naturalmente, c'erano cose che avevo capito di non saper fare. L'unica
volta in cui mi ero cimentata in un lavoretto di idraulica mi ero fatta una
brutta ustione alla mano con una fiamma ossidrica. Non riuscivo ad
attaccare le strisce di carta da parati diritte e non avevo molta affinità con la
carpenteria.
Quel pomeriggio mi aggirai per le stanze sempre più buie, mentre i miei
passi echeggiavano sotto gli alti soffitti della casa semivuota. «È ora di
andarsene», mi dissi severamente, dopo essermi sorpresa a cercare una
scopa per togliere un'ultima ragnatela da una modanatura del soggiorno.
«Sono i ragni di Tal adesso».
L'ultimo scatolone di vestiti era nella nostra camera da letto. Ora la
camera di Tal. Lo presi e lo aprii per vedere cosa contenesse. Era pieno di
biancheria intima di pizzo; pagliaccetti, bustini, slip e tanga; tutti regali di
Tal, che sembrava non essersi mai accorto che nessuno di essi
corrispondeva ai miei gusti.
Lanciai un'occhiata verso il bagno e mi intravidi nello specchio bordato
di foglie d'oro sopra il lavandino.
Avevo le occhiaie per la mancanza di sonno. Ero dimagrita, e i vestiti mi
pendevano flosci dalle spalle curve. Due minuscoli orecchini scintillavano
sul lobo dell'orecchio destro. La mia paura degli aghi rasenta il patologico,
ma BeBe mi aveva convinto a farmi fare un secondo foro. Avevo ceduto
perché ho sempre amato gli orecchini e ho scatole e scatole piene di curiosi
orecchini vintage che ho raccolto nel corso degli anni alle vendite e nei
negozietti dell'usato.
Tal, naturalmente, era inorridito vedendo che sua moglie aveva due buchi
nello stesso lobo. «Sembri un membro della tribù degli Ubangi!», aveva
commentato.
Non mi aveva mai visto come ero davvero. Forse adesso io potevo
riuscirci. Portai lo scatolone di biancheria in bagno e lo posai a terra.
Estrassi gli slip uno dopo l'altro: zebrati, in nylon rosso, in tessuto a rete
color pesca. Ne lasciai cadere un paio nel water. Fu una sensazione
piacevole. Ne gettai cinque in tutto, tirai l'acqua una volta e poi una
seconda. I tubi emisero un gorgoglio, e il livello dell'acqua nella tazza
cominciò a salire.
Tornata nella mia nuova casa, mi versai una vodka and tonic e diedi a
Jethro una grossa bistecca cruda. Poi avvicinai una sedia alla finestra e
rimasi a guardare Tal e Caroline arrivare e parcheggiare la Triumph di lei
nel mio vecchio posto auto. Quando il telefono cominciò a squillare senza
interruzione, lo staccai e mi preparai un altro drink.
8

Merijoy Rucker capì che stava succedendo qualcosa. Non per niente era
la più grande ficcanaso di Savannah. «Una cartiera? E scommetto che so chi
c'è dietro. È quel Mayhew, vero?», chiese. «La Coastal Paper Products?
Diane Mayhew era al caffè degli organizzatori del Symphony Ball, questa
settimana, e non riusciva a guardarmi negli occhi. Ho capito subito che c'era
qualcosa di strano. Sono mesi che mi lecca i piedi».
Mi guardai intorno, impotente. Il pastore stava stringendo mani e
dirigendosi verso la porta. Anche altre persone si spostavano da quella
parte. Se Merijoy Rucker mi bloccava lì facendomi il terzo grado su
Beaulieu, non sarei mai riuscita a entrare nell'altro salottino per dare
un'occhiata agli oggetti che conteneva. Zio James non era di nessun aiuto.
Era ancora immerso nella conversazione con i Loudermilk.
«Credi che a qualcuno dispiacerebbe se ci guardassimo un po' intorno?»,
le chiesi. «Non sono mai entrata a Beaulieu prima d'ora. Mi piacerebbe
darle un'ultima occhiata, soprattutto se vogliono davvero demolirla».
Fu come se avessi lanciato un grido di battaglia. Le sue narici fremettero
per l'indignazione. «Nessuno demolirà un bel niente», mi assicurò.
«Andiamo a sbirciare nell'altro salottino. Ho l'impressione che la
tappezzeria di quella stanza abbia un antico motivo Scalamandré.
Prebellico».
Sapevamo entrambe che si riferiva all'unica guerra che contasse davvero
qualcosa a Savannah: la guerra dell'aggressione nordista, l'antico sgarbo.
Mentre svoltavamo a destra dell'atrio, Merijoy si fermò di colpo – così di
colpo che le finii addosso.
«Lewis!», esclamò, indietreggiando rapidamente.
L'uomo con cui si era scontrata sembrò stupito di essere stato
riconosciuto. Si accigliò, seccato. Si affrettò a infilare la mano destra nella
tasca del blazer blu, ma non lo fece abbastanza velocemente per impedirmi
di vedere che vi faceva scivolare una piccola macchina fotografica nera.
«Oh, ciao, Merijoy», disse, mentre il suo cipiglio spariva. Rivolse un
brusco cenno nella mia direzione. «Salve».
Lewis Hargreaves sa come mi chiamo. Tutti gli antiquari di Savannah mi
conoscono, persino quelli che fingono di non comprare da rigattieri come
me. Non che io abbia mai venduto granché, a lui.
Lewis è il proprietario dell'L. Hargreaves, una "galleria d'antiquariato" –
niente di così plebeo come un negozio. La sua specialità sono costosissimi
pezzi unici d'antiquariato del Sud. Viene considerato una sorta di ragazzo
prodigio. Abbiamo frequentato insieme la scuola parrocchiale ma, mentre io
ero ancora una modesta rigattiera, lui aveva aperto la sua "galleria" un anno
dopo essere uscito dalla Georgetown University. Non molto tempo dopo il
suo negozio veniva citato su tutte le grandi riviste di architettura come HG e
Architectural Digest.
Merijoy si piegò in avanti per dargli un bacetto leggero sulla guancia.
Una sfumatura rosa chiaro si diffuse sul viso pallido dell'uomo, che arrossì
fino alla radice dei capelli di un biondo chiarissimo.
«Lewis, ragazzaccio», lo apostrofò lei in tono scherzoso. «Cosa ci fai
nascosto qui dentro tutto da solo?».
Hargreaves batté rapidamente le palpebre. «Stavo solo rendendo omaggio
alla signorina Mullinax».
«Palle, Lewis», replicò Merijoy. Era il linguaggio più colorito che le
avessi mai sentito usare. «Non eri nella stanza durante il servizio funebre».
«Mi ha invitato Gerry Blankenship», spiegò lui. «È una faccenda
riservata, al momento non posso aggiungere altro».
Attraversò rapidamente l'atrio, diretto verso la scalinata.
«Sta ispezionando la casa», commentai, osservando la sua schiena
coperta da un abito dal taglio impeccabile. «Ci sarà sicuramente una vendita
degli arredi, sai. Scommetto che lui sta già facendo un'offerta per la roba
migliore».
Merijoy sospirò. «Speravo che il mobilio non venisse toccato. È davvero
di fondamentale importanza conservare gli arredi originali per una casa–
museo importante come questa».
«Certo», concordai. Entrammo nel salottino, traboccante di mobili,
tappeti, scatoloni e casse.
«Oh!», gridò Merijoy, passando il palmo della mano sulla parete. Sulla
carta da parati azzurra erano dipinti degli uccelli costieri: aironi selvatici,
gallinelle d'acqua, egrette e martin pescatori. Strisce di carta pendevano dal
muro; ampie sezioni erano scurite da chiazze marroni d'acqua sempre più
grandi.
«Mio Dio», gemette. «Questa è un'opera di Menaboni, dipinta a mano.
Ed è rovinata». Estrasse una macchina fotografica tascabile e scattò una
foto.
«Forse si può restaurare», ipotizzai.
Nell'angolo della stanza, una pila di scatoloni nascondeva un grosso
mobile. Era una credenza, piena di porcellane blu e bianche.
Spostai gli scatoloni, spingendoli contro un tappeto intrecciato
rosicchiato dalle tarme che si trovava sul pavimento. La polvere e la muffa
che li rivestivano mi sporcò le mani. Niente di quanto era contenuto in
quella stanza veniva usato da molto tempo.
Persino nella luce fioca del salottino la credenza nell'angolo spiccava
come un diamante in mezzo a una manciata di sassolini. Trattenni il fiato
mentre accarezzavo il legno liscio come seta. Era in legno d'olmo con
venature scure, alta almeno due metri, con tre ripiani dietro un paio di
antine di vetro ondulato. Sotto c'erano sportelli accuratamente lavorati e un
bordo dentellato. Nella mia testa cominciarono a squillare dei campanelli.
Quel mobile era opera di un maestro ebanista e risaliva agli inizi
dell'Ottocento. La qualità della manifattura avrebbe potuto reggere
benissimo il paragone con le opere di uno qualsiasi dei famosi artigiani di
Philadelphia o Boston dell'epoca, ma il design era tipicamente del Sud.
«Bella», disse Merijoy, sfiorando lo sportello. «Scommetto che è
originale della casa. Guarda come si inserisce perfettamente in quell'angolo.
Tu ti occupi di antiquariato, Weezie. Che tipo di porcellane sono?».
«Porcellane di Canton», risposi, continuando a fissare la credenza. «Del
1700. Di grande valore».
Merijoy sospirò. «Com'è tutto trascurato. In rovina. Ho voglia di
piangere. Davvero. Guarda quella caminiera».
Strappandomi a fatica dal mobile mi diressi verso la caminiera che
bordava il caminetto. Era estremamente elaborata, con ninfe e cariatidi a
bassorilievo e orpelli di ogni genere.
«Carina», mormorai. Non sono un'appassionata di suppellettili vittoriane.
Continuai a guardare la credenza nell'angolo. Mi stava chiamando,
seducendomi.
«È orrenda!», esclamò Merijoy. «Così volgare! E non c'entra nulla con la
casa». Diede un colpetto con una matita sul legno, che diede l'impressione
di sbriciolarsi come una torta stantia. «Inoltre è piena di termiti». Scattò
un'altra foto, poi batté un piede a terra. «Detesto quando i proprietari si
comportano in modo irresponsabile con una casa antica come questa.
Avrebbe dovuto esserci una caminiera di cipresso, qui. O magari di marmo.
Non questa». Passò una mano sopra gli intagli. «Questa cosa grottesca».
«Forse quella originale si trova su in solaio», ipotizzai, «oppure in uno
degli edifici esterni. Fuori ho visto un granaio e quello che sembrerebbe un
affumicatoio. E l'edificio accanto alla casa è una cucina estiva.
Probabilmente tutte quelle vecchie rimesse sono piene di pezzi
d'antiquariato». Mi guardai intorno nella stanza, osservando le pile
polverose di libri e carte, gli scatoloni pieni di biancheria da letto e utensili
di cucina, oggetti di vetro e album di foto. «Ho l'impressione che i Mullinax
non abbiano mai buttato via niente».
«Forse», ribatté lei, scettica. «Naturalmente, anche il resto della casa
potrebbe essere semplicemente un mucchio di segatura – proprio come
questo caminetto. Andiamo, Weezie», aggiunse, prendendomi per una
manica. «È troppo deprimente continuare a guardarsi intorno. Solo da
quello che ho visto finora, potrebbero volerci centinaia di migliaia di dollari
per restaurare Beaulieu, se non milioni».
Rivolsi un'ultima occhiata piena di desiderio alla stanza. Alla credenza.
Era quella ad aver attirato nel salottino Lewis Hargreaves e la sua macchina
fotografica tascabile.
Il salotto principale era quasi deserto, fortunatamente, visto che eravamo
tutte e due in uno stato disastroso. Io avevo le mani chiazzate di sudiciume
e il mio vestito era tutto spiegazzato. Quanto a Merijoy, sembrava che
qualcuno le avesse rubato il suo giocattolo preferito. Il suo elegante abitino
di lino nero era macchiato, i capelli arruffati. Sulle sue labbra non c'era più
traccia del rossetto.
«Quella donna, Caroline DeSantos», disse. «Vive davvero a casa tua con
Tal? Proprio sotto il tuo naso?».
Zio James mi salvò da ulteriori domande sulla nostra inconsueta
situazione. Si avvicinò, seguito dai Loudermilk. Aveva un'aria compiaciuta.
Per essere una cariatide, anche Spencer Loudermilk sembrava soddisfatto.
«Weezie», disse James, «credo che tu conosca già il signor Loudermilk».
Allungai la mano per stringere quella piccola e rugosa dell'uomo. «Sua
nipote BeBe è una mia cara amica, signor Loudermilk. Mi ha parlato molto
di lei e di sua moglie. E signori Loudermilk, vi presento Merijoy Rucker.
Merijoy è molto attiva nel campo della conservazione dei beni culturali e
ambientali».
Lorena Loudermilk mi guardò strizzando gli occhi dietro un paio di
occhiali appannati che in due punti erano stati riparati con il nastro adesivo.
Era quasi piegata in due dalla cifosi più pronunciata che avessi mai visto,
ma la sua pelle pallida era liscia e rosea, i denti ancora bianchi e regolari.
«Ti conosco», disse lei, rivolgendo un cenno d'assenso a Merijoy. «Hai
sposato quel ragazzo Rucker». Subito dopo, quasi senza prendere fiato,
aggiunse: «Mio marito, Spencer, ha una pinza incastrata nell'intestino.
Questo giovane avvocato citerà il Candler Hospital e li lascerà in mutande».
Spencer sembrava una macchia di fegato con le gambe. Fece un sorriso
radioso e si diede un colpetto sull'addome. «Esatto. Dovreste vedere che
effetto ho sui metal detector dell'aeroporto».
La mente a senso unico di Merijoy non si lasciava sviare a lungo.
«Weezie e io stavamo giusto ricordando i vecchi tempi». Si girò verso
James e gli rivolse un sorriso abbagliante. «Signor Foley, lei è avvocato. Ha
sentito qualche pettegolezzo su ciò che potrebbe accadere a Beaulieu?».
James ha una straordinaria capacità di restare impassibile. Secondo mio
padre dipende dal fatto che è stato educato dai gesuiti. Papà considera l'ala
della sinistra radicale dei gesuiti responsabile di tutte le cose negative
accadute alla Chiesa cattolica o alla civiltà moderna.
«Non ho sentito nulla», rispose con voce pacata mio zio. «Volete
scusarci? Weezie e io abbiamo un appuntamento urgente in città».
Lui chinò il capo e io presi graziosamente congedo, ma mentre uscivamo
sulla veranda qualcuno mi prese per un polso. Caroline. Minuscole stille di
sudore le imperlavano il labbro superiore. «Di cosa ti stava parlando
Merijoy Rucker?», chiese.
«Conservazione», dissi. «È molto interessata alla conservazione delle
antiche dimore».
Cercai di liberarmi dalla sua stretta, ma lei mi affondò ancora di più le
unghie nella carne del polso. I suoi occhi scuri erano ridotti a delle fessure.
«Se crede di poter trasformare Beaulieu in una casa–museo si sbaglia di
grosso. Abbiamo concluso un accordo con la Coastal Paper Products.
Inattaccabile. E se lei cerca di scatenare un putiferio al riguardo, raderemo
al suolo questa catapecchia. Nel giro di una sola mattinata». Mi lasciò
andare la mano. «Diglielo, va bene? Spiegale come sono determinata».
Mi guardai il polso: sulla pelle spiccavano i segni rossi lasciati dai suoi
artigli.
«Tu non conosci Merijoy Rucker, vero, Caroline? Be', sono sicura che vi
conoscerete presto. In effetti voi due avete un sacco di cose in comune. Sarà
davvero interessante».
9

Quando salì sull'auto di James, Weezie stava tremando ed era pallida


come un cencio. Vedendola Jethro sporse la testa dal finestrino e abbaiò
entusiasticamente, ma lei gli rivolse solo uno svogliato cenno del capo.
James era preoccupato per gli sbalzi d'umore della nipote. Un attimo
prima Weezie aveva colto allegramente l'opportunità di far vedere i sorci
verdi a Caroline mentre adesso sembrava che si sentisse male. Dannato
Talmadge Evans III.
«C'era sicuramente un sacco di roba vecchia in quella casa», commentò
lui, cercando di suonare entusiasta. «Un gran bel bottino – giusto?». La villa
gli sembrava un orrendo ammasso di pattume in rovina ma in fin dei conti,
come Weezie gli ricordava spesso, non capiva un accidente di quel genere
di cose.
«Favoloso», rispose la ragazza, giocherellando con il merletto che
decorava l'orlo del suo strano vestito penzolante. «Solo nelle tre stanze che
ho visto c'era abbastanza materiale per dieci aste».
James accese il motore e si diede da fare per infilare un disco nel lettore
CD. Si voltò per chiedere a Jethro, in tono educato, di levargli cortesemente
la lingua dall'orecchio.
Il CD era l'ultimo dei Clancy Brothers. Lui sospirò. Era il dono di uno dei
suoi parrocchiani della Florida.
La signora Finley gli aveva regalato una scatola di CD per la sua nuova
auto: Clancy Brothers, Irish Rovers e cose del genere. All'inizio James ne
era stato entusiasta, ma ormai pensava che sarebbe impazzito se avesse
sentito ancora una cornamusa o un'arpa celtica. Era terribilmente fragorosa,
la musica irlandese. Gli sarebbe piaciuto poter ascoltare, invece, qualche
pezzo di Trisha Yearwood o Garth Brooks. Roba semplice che parlava di
pick–up e bugie, tradimenti e bevute.
Invece aveva gli Yancy Brothers che ululavano su una ragazza con gli
occhi sognanti e un nastro tra i capelli.
«Odio questo posto», disse Weezie all'improvviso.
Stavano sobbalzando sul vialetto rivestito di gusci d'ostrica, passando
davanti a ruderi chiazzati dal verde spumoso delle felci.
«Da quando in qua?», chiese James, scioccato.
«Davvero», insistette lei. «Savannah fa schifo. C'è sempre caldo. Le
zanzare mi fanno impazzire. La palude puzza di pesce marcio. La gente è
così soddisfatta di sé che mi fa venir voglia di vomitare. Agli abitanti di
questa città piace credersi così sofisticati. Quella storia della Parigi del Sud,
che cumulo di stronzate! Da queste parti nessuno sa niente delle cose
davvero importanti, come l'arte o la letteratura o la musica».
Tirò con forza l'orlo del vestito, e un brandello di pizzo e un grosso pezzo
di stoffa le rimasero in mano. Li gettò per terra. «Questi stronzi non fanno
altro che rovinare tutto. Demoliscono tutto quello che è pregevole o bello».
«Lastricano il paradiso per costruirci un parcheggio», disse James.
«Cosa?». Weezie lo guardò in modo strano.
«Joni Mitchell», spiegò lui, felice di essere riuscito a sorprenderla. Aveva
sempre amato i cantanti folk radicali, soprattutto quelli con logori blue–
jeans e capelli unti, pieni di indignazione per le ingiustizie della vita. Forse
dipendeva dal gesuita dentro di lui. Si voltò a guardare la nipote. «Gerry
Blankenship era mezzo sbronzo, oggi. Puzzava di gin. Le sue erano solo
chiacchiere da ubriaco. Comunque, non dovranno radere al suolo Beaulieu,
sai. Crollerà da sola, da un momento all'altro».
«Forse». Weezie continuava a rivedere Caroline ferma davanti alle
finestre del salottino, che guardava verso la palude e il fiume retrostante.
Come se Beaulieu le appartenesse. Un'altra casa da distruggere.
«Potrei guadagnare un sacco di soldi con quell'asta», confidò allo zio.
«Prendere le cose di valore e svignarmela finché ne ho la possibilità».
«Svignartela? Cosa vorresti dire?», domandò James, fermandosi accanto
all'arrugginito pick–up turchese di Weezie.
«Che vadano tutti al diavolo», ribatté lei. «Hai due secondi di tempo per
rispondere, James. Qual è il versetto della Bibbia che dice che c'è un tempo
per ogni cosa? Forse tutto quello che mi sta capitando significa che è
arrivato il momento di andarsene. Trasferirsi in una vera città. Atlanta.
Magari San Francisco. Non sono mai stata nell'ovest. Diavolo, New York.
Perché no? Potrei aprire un negozietto. Diventare un vero e proprio
antiquario. Basta fare la dilettante. Mi basta fare un unico bel colpo a
quell'asta, poi arriverà il mio momento».
«Ecclesiaste», disse James. «In origine, naturalmente, benché anche i
Byrds ne abbiano realizzato una versione apprezzabile».
10

Il giorno dopo il servizio funebre di Ann Ruby Mullinax esaminai tutti i


miei libri sui mobili del Sud, cercandone uno simile alla credenza vista a
Beaulieu. Ma la maggior parte di quelli che trovai fotografati erano più
eleganti, di stile più raffinato.
Feci uno schizzo della credenza, poi portai l'album da disegno giù a River
Street, nella parte meno alla moda, nell'ultimo vecchio magazzino di cotone
non restaurato di Savannah.
Lester Dobie ripescò gli occhiali dal taschino della camicia sportiva di
cotone macchiata d'unto e tenne fermo il mio disegno a pochi centimetri dal
naso. Strinse gli occhi, lo allontanò leggermente, sospirò e riprese il sigaro
acceso dal bancone su cui l'aveva posato.
«Olmo con venature scure? Sei sicura?».
Esitai. I mobili di olmo erano una rarità. Gli unici che avessi visto di
persona si trovavano nel museo Telfair di Savannah e nel museo delle
antiche arti decorative del Sud di Winston–Salem. Una consolle e una
cassapanca.
«Quasi sicura», dichiarai. «Il colore sembrava quello dell'olmo, e anche
la venatura. La credenza era sudicia, ma è questa l'impressione che ho
avuto».
«Due ante di vetro, tre mensole, cornice elaborata?».
«Non sono un'artista», dissi in tono di scusa, «ma credo che il mio
disegno sia piuttosto accurato. Il vetro era decisamente vecchio. Un occhio
di bue, probabilmente. Era ondulato».
Lui si sfregò l'ispida barbetta di due giorni che aveva sul mento. Sospirò.
«E Lewis Hargreaves la stava esaminando con un certo interesse?».
«C'era altra roba nella stanza, tra cui porcellane di Canton davvero belle,
ma scommetto che era la credenza quello che gli interessava. Si era portato
una macchina fotografica».
«Lewis è un intenditore. Deve trattarsi di una credenza di Moses Weed.
Per forza».
Abbassai lo sguardo sul disegno, poi lo riportai su di lui, aspettando la
sua approvazione. Lester Dobie mi ha insegnato tutto quello che so
sull'antiquariato. Il suo negozio di rigattiere, Dobie's – semplicemente
Dobie's, non "Antichità di Dobie" o "L'antica bottega di Dobie" – si trovava
nel magazzino del cotone sin da quando riuscivo a ricordare. È lì che ho
comprato il mio primo pezzo antico, un cuscino vittoriano per bambini di
seta rosa e pizzo veneziano. L'avevo pagato due dollari, usando una parte
dei miei guadagni come baby–sitter, quando avevo quattordici anni. Da quel
momento ero stata conquistata. Non passava settimana senza che andassi
nel suo negozio a rovistare tra le vecchie ruote di carro e le bottiglie
disseppellite nella zona che erano la sua specialità.
Avevamo legato perché non avevo paura di fare domande. Per anni avevo
perlustrato mercatini di oggetti usati e negozi di rigattieri, raccogliendo
cianfrusaglie che mi sembravano promettenti e portandole poi da Lester per
avere informazioni oppure rivenderle e recuperare il mio investimento.
«Hai un buon occhio», mi disse un giorno, dopo che avevo cercato di
vendergli un sacchetto di plastica pieno di cucchiai d'argento che avevo
scovato in un cassetto di cucina a un'asta di Wilmington Island. «Ma altrove
puoi spuntare prezzi migliori. Porta quell'argenteria dalla vecchia signora
Dreyer, le piace quella roba raffinata. Valgono cinquanta cent l'uno».
Prima che me ne rendessi conto, il mio hobby del sabato mattina si era
trasformato in un lavoro.
«Sai chi era Moses Weed, giusto?». Lester masticò il sigaro con la parte
destra della bocca. Le sue mani erano impegnate a lucidare un piccolo
barometro d'ottone.
«Non esattamente», ammisi.
«Era uno schiavo», spiegò lui. «Nato ad Ahston Place, un'enorme tenuta
appena fuori Charleston. Moses Weed aveva imparato la falegnameria da un
ebanista itinerante di Philadelphia, che si chiamava Thomas Elphas. I
proprietari di Ahston Place lo avevano assunto perché andasse là a costruire
tutti i mobili per la loro biblioteca, sala da pranzo e salotto. E avevano
messo il piccolo Moses a lavorare nella bottega come suo apprendista. In
seguito, Weed venne venduto a un ottimo prezzo, data la sua abilità come
falegname».
«Venduto ai Mullinax?», chiesi. «A Beaulieu?».
«Nel 1860 doveva avere poco più di vent'anni», continuò Lester. «Ha
realizzato qualche mobile per Beaulieu prima che iniziasse la guerra.
Nessuno sa con precisione quando se ne sia andato da lì o dove sia finito.
Gli vengono attribuiti forse una dozzina di pezzi. Roba di utilizzo pratico,
per lo più – panche, tavoli da cucina, un buffet, un paio di poltrone. C'è una
culla di ciliegio intagliato che è ritenuta opera sua. Ho visto delle foto. Si
trova in un museo di Philadelphia che possiede una piccola collezione di
opere di Elphas».
«È una credenza come quella che ho visto a Beaulieu?».
Lester annuì e batté un dito tozzo sul mio disegno. «Negli anni Settanta la
signorina Ann Ruby l'ha prestata all'High Museum di Atlanta per la mostra
di mobili ottocenteschi costruiti nel Sud. Io e Ginger ci siamo andati e
l'abbiamo vista. Bellissima. Il legno brillava. La chiamavano la credenza di
Moses Weed».
«Dev'essere quella», commentai. «Quanto? Quanto vale un pezzo del
genere, oggi?».
Lui succhiò il sigaro e ci rifletté. «Devi essere in possesso dei documenti
che ne attestano la provenienza, per poterla vendere a un collezionista serio.
Secondo la signorina Ann Ruby la credenza era fatta con il legno degli olmi
di Beaulieu. Da queste parti non ci sono più olmi. Quel pezzo è stato
costruito proprio là, nella bottega di falegnameria della piantagione. Cardini
fatti a mano. Weed non sapeva leggere né scrivere, ma gli insegnarono
come apporre il suo marchio. Deve essere sul mobile, da qualche parte. Ma
se non riesci a dimostrare che la credenza proviene direttamente da
Beaulieu, non puoi dimostrare che sia opera sua».
«Quanto?», ripetei.
«Vuoi una stima approssimativa? Forse duecentomila dollari. Di più, se
tu la vendessi a uno di quei musei che nuotano nell'oro. Ma ricorda – devi
poter dimostrare che è stata fatta da Weed».
Chiusi il blocco da disegno e lo infilai di nuovo nella borsa. «Non ci
spero granché. Forse non ci sarà un'asta. Forse la venderanno prima di
allora. A Hargreaves, forse. Probabilmente non me la potrei permettere
comunque».
Lester abbassò lo sguardo sul barometro. La patina ossidata era
scomparsa e l'oggetto brillava con una tenue lucentezza dorata. «Sono un
sacco di forse».
11

Dopo meno di un mese tutti i giornali, anche quelli di Atlanta,


riportavano che la Coastal Paper Products aveva annunciato il suo progetto
di costruire un'immensa cartiera a Savannah. Ma quando la stampa venne a
sapere della faccenda, il costo stimato dell'impianto aveva già raggiunto la
stratosferica cifra di 750 milioni di dollari.
"Novecento nuovi posto di lavoro!", strombazzò il Morning News.
"Controlli ambientali d'avanguardia!", dichiarò orgogliosamente la
Camera di commercio locale.
Il venerdì mattina, il notiziario televisivo mostrò la cerimonia d'inizio dei
lavori. La vidi con la coda dell'occhio mentre aspettavo le previsioni del
tempo. L'asta era fissata per il giorno seguente. Fa' che piova, pregai. Tieni
lontani i dilettanti curiosi.
Quando la telecamera riprese Caroline che aiutava Phipps Mayhew a
sollevare la prima badilata di terriccio, cambiai rapidamente canale.
«L'ho visto», disse BeBe. Era seduta su un alto sgabello accanto al tavolo
della mia cucina, impegnata a separare i tuorli dagli albumi per il dolce che
stavo preparando.
«Visto cosa?». Ma era inutile: a BeBe non sfugge mai niente. Ecco
perché possiede una mezza dozzina di attività di successo, guida una Jaguar
decappottabile e ha una governante a tempo pieno che vive a casa sua.
Ruppe il decimo e ultimo uovo, versandoli poi tutti nella grande ciotola
di acciaio inossidabile del mio robot da cucina.
Prese il telecomando e si sintonizzò di nuovo sul canale. Quel giorno
sembrava che non ci fossero notizie di rilievo. Stavano ancora blaterando di
come fosse vantaggioso demolire un monumento storico per costruire
un'ennesima escrescenza maleodorante nel territorio di Savannah.
«Guarda, guarda», disse BeBe. «La Signorina Sempre Splendida». Studiò
lo schermo televisivo con sguardo critico. «Vedi l'abito di Caroline? È un
Briaggi».
«E con ciò?». Stavo guardando il frullino roteare in mezzo all'impasto
della torta, evitando volutamente di osservare il televisore e Caroline. Dopo
il nostro ultimo scontro, quando lei aveva chiamato l'accalappiacani e
denunciato che Jethro si trovava fuori senza guinzaglio, mi ero ritirata dalla
nostra guerra reciproca.
«Quel vestito costa tremila dollari», dichiarò BeBe in tono autorevole.
«Qui in Georgia non è nemmeno in vendita. L'ho visto sul nuovo numero di
Vogue. A parte New York, l'unico posto in cui lo puoi comperare è una
boutique di Palm Beach, Martha's».
Aggiunsi all'impasto un cucchiaino di vanillina e uno di estratto di
limone.
«Sai cosa potrei fare con tremila dollari?». Non mi preoccupai di
nascondere l'amarezza del mio tono, visto che si trattava della mia migliore
amica. «Potrei aprire un negozio tutto mio. Dico sul serio, BeBe. Hai
presente tutta la roba che ho sistemato nel garage dei miei genitori e a casa
di zio James? Tremila dollari. Affittare un posticino, sistemarlo... Magari
vivere in un appartamentino sopra il negozio. Sei mai stata a Baltimora?».
Mi interruppi. Non era la prima volta che affrontavamo l'argomento,
ultimamente. BeBe pensava che fossi pazza a voler lasciare Savannah.
Si accigliò. «Senti, tesoro, sai che non mi piace fare domande personali,
ma non riesco a capire come mai tu sia così al verde. Insomma, hai ricevuto
dei soldi con gli accordi del divorzio, vero?».
«Un po'», ammisi. «Ma James mi ha convinto a investire una gran
quantità di contanti per una rendita annuale – per quando smetterò di
lavorare, visto che non ho ottenuto nessuno dei benefit pensionistici di Tal.
E il resto del denaro è investito in merce, che vale parecchio ma che devo
rivendere prima di poter guadagnare qualcosa. E, non avendo un negozio,
sto ancora vendendo all'ingrosso».
«Aprine uno qui», mi consigliò lei. «C'è un posticino delizioso sulla East
Congress. Quel vecchio locale, ricordi? Accanto al Lucas Theater».
Arricciai il naso. «Il Lamplighter? Quello che puzzava come una toilette?
Di fronte al quale ogni ubriacone della città aveva l'abitudine di svenire?
No, grazie mille».
«Il vecchio City Market è di gran moda, moda, moda», canticchiò BeBe.
Mise un dito nell'impasto e fece schioccare le labbra in segno di
apprezzamento. «Squisito. A proposito... ieri sera sono venuti al ristorante,
sai».
«Chi?». Stavo armeggiando con il termostato del forno.
«Fammi il piacere! Sai benissimo a chi mi riferisco. Tal e Caroline.
Dovresti vedere l'anello di lei. Cinque carati come minimo».
Abbassai lo sguardo sul mio anello di fidanzamento.
Quando avevo diciannove anni mi era sembrato il diamante Hope.
Adesso sembrava il mezzo carato che la madre di Tal gli aveva dato per me.
«Una baguette dal taglio rettangolare? Con due grossi zaffiri ai lati?
Fascetta di oro bianco?».
BeBe sgranò i grandi occhi azzurri. Si era messa una bandana tra i
riccioli biondi e non era truccata, fatta eccezione per il lucidalabbra.
Sembrava una versione adulta di Shirley Tempie.
«Merda», disse.
«L'anello della bisnonna di Tal», spiegai. «La madre di Tal lo teneva in
una cassetta di sicurezza. Ha sempre detto che era troppo vistoso per una
cosina minuta come me».
«È pacchiano», commentò BeBe, con una foga un po' eccessiva. «Non le
si addice. Tutti sanno che le brune dovrebbero portare l'oro giallo».
«Grazie, BeBe», replicai, riconoscendo la menzogna piena di tatto.
«Caroline gli sta sempre addosso», continuò lei. «Una cosa nauseante.
Ieri sera volevo chiederle di andarsene perché stava rovinando l'appetito ai
miei clienti. Te lo giuro, Weezie, gli aveva infilato la mano nei pantaloni,
sotto il tavolo. Se ne sono accorti tutti».
Il potente motore del robot da cucina ronzò, zittendola.
Imburrai e cosparsi di farina gli stampi, poi aprii lo sportello del forno ed
estrassi il cheesecake che avevo preparato in precedenza. Al caffè.
«Non sei costretta a fare tutto questo, sai», dichiarò BeBe. «Lascia che ti
dia io i soldi. Sarò una specie di investitore nel tuo nuovo negozio».
«Ne abbiamo già parlato», dissi, mettendo a raffreddare la torta
sull'apposita griglia. «Non possiedo nulla a parte questa casetta. Anche se
dovessi traslocare non la venderei. È mia. E sai che non ho una storia
personale finanziaria a mio favore. Rappresento un orrendo rischio come
investimento. Non accetterò il tuo denaro, BeBe».
Posai un dito sulla sommità lucida del cheesecake e premetti. Sembrava
perfetto: né troppo bagnato né troppo asciutto.
«Basta che tu mi lasci fare questo, preparare dolci per il Guale. Lo so fare
bene. Cosa ne dici? Venticinque per il cheesecake, magari trenta per l'altra
torta?».
Il Guale era l'ultima scommessa imprenditoriale di BeBe. Un piccolo
bistrò in quella che era sempre stata una botteguccia di lustrascarpe sulla
Abercorn, a St. Julian. Un anno prima, lì davanti i trafficanti di droga
gestivano uno smercio all'aperto. Adesso la gente faceva la fila per la strada,
aspettando di entrare ad assaggiare la "cucina costiera" così di moda.
Era stata un'idea di BeBe quella di farmi preparare i dolci.
«Hai presente quante uova e quanto formaggio cremoso contengono
queste torte? Sono così sostanziose che dovremo tagliarle in fette sottili,
sottilissime. Possiamo ricavare venti fette da ognuna e farle pagare cinque
dollari l'una, il che significa un centinaio di dollari a torta. La tua parte
ammonta a cinquanta dollari».
«Per un dolce come questo? Come riesci a farla franca con una cosa del
genere? Potresti comprare un'intera torta di fragole da Shoney's per otto
dollari».
«Ma quello è Shoney's», ribatté BeBe, arricciando il naso con aria di
disgusto. «Un sacco di rozzi sudisti che mangiano cheeseburger e vongole
fritte. Questo invece è il Guale. La gente vuole pagare profumatamente.
Vuole qualcosa che pensa di non poter trovare da nessun'altra parte».
«Sei una criminale, BeBe Loudermilk», affermai, scuotendo la testa.
«Una capitalista», mi corresse lei. «A proposito, aspetta di posare gli
occhi sul nuovo cuoco che ho assunto». Si passò la lingua sulle labbra in
modo teatrale. «Parlando di cose squisite... Capelli scuri che gli ricadono
sopra un occhio. Grandi ed espressivi occhi azzurri. È un po' magro, ma ha
il più bel sedere che tu abbia mai visto. Sto pensando di abbattere il muro
tra la sala da pranzo principale e la cucina, in modo che tutti possano
guardarlo mentre lavora».
BeBe assumeva e licenziava cuochi una settimana sì e una no. Il primo
mese erano sempre dei geni, il secondo mese si erano già trasformati in folli
psicopatici. L'ultimo l'aveva inseguita lungo il vialetto con una terrina di
rame piena di banane flambé, dopo che lei aveva osato criticare la
freschezza della sua spigola al forno.
«È single», precisò, canzonatoria. «Ed etero».
«Come fai a sapere che è etero?», chiesi, osservando gli albumi con aria
critica.
«Fidati di me. Lo capisco».
«Come?», domandai in tono di sfida.
«Daniel è appassionato di pesca della spigola», raccontò. «Ha un adesivo
della Federazione Pescatori di Spigole sul suo pick–up, un Dodge Ram».
«I gay guidano pick–up», sottolineai.
«Ma della Toyota», replicò lei. «pick–up giocattolo. Inoltre è stato nei
Marines. È lì che ha imparato a cucinare in modo così divino».
Infilai la teglia nel forno e chiusi lo sportello.
«Proprio quello di cui ho bisogno nella vita», dissi. «Un rozzo sudista che
sa tagliare i fagiolini a julienne. Scordatelo, BeBe. Ho chiuso con gli
uomini».
«Aspetta di vederlo», ribatté, facendosi vento con una mano. «Povera me,
mi viene caldo solo a pensarci».
«È colpa del forno, non degli ormoni», le dissi.
«Parla per te», mi rimbeccò.
Era arrivato il momento di cambiare discorso. «Un centinaio di dollari
per i cheesecake», dissi, sedendomi sull'altro sgabello. «E ne ho altri
ottocento da parte. Non bastano. Dicevi sul serio, prima, riguardo al
denaro? Sarebbe un semplice anticipo per i dolci. Potrei prepararne molti di
più se lo facessi nella cucina del ristorante, con quel tuo forno
professionale».
«Accetterai i soldi?». BeBe sembrava confusa. «Credevo che andasse
contro i tuoi principi».
«C'è un mobile, a Beaulieu», spiegai parlando lentamente. «La vendita
degli arredi comincia sabato mattina. Se riuscissi a procurarmelo a un
prezzo decente, sono sicura di poterlo vendere per ventimila dollari come
minimo».
Avevo pensato spesso alla credenza di olmo con venature scure, quella su
cui sbavava Lewis Hargreaves. La credenza di Moses Weed.
Lei si alzò per versarsi una tazza di caffè. «Quindi mi permetterai di
finanziarti? Quanto?».
Feci una smorfia. Di solito, quando compro dei pezzi mi tengo alla larga
dalla roba davvero bella, soprattutto perché comporta un maggior
investimento di contanti e quindi un rischio maggiore. Normalmente mi
occupo degli oggetti che gli addetti ai lavori definiscono "minuteria", per
esempio carte, vetro, porcellane, argenteria, biancheria da letto, quadri e
accessori. Quando ho acquistato pezzi voluminosi, come un armadio di pino
o un gruppo di mobili da sala da pranzo, è sempre stato perché
rappresentavano un affare troppo vantaggioso per resistervi e sapevo di
poterli rivendere in fretta.
Stavolta sarebbe stato diverso. «Cinquemila», risposi, provando una fitta
di dolore a ogni parola. «In contanti. A volte riesci a spuntare un prezzo più
basso, se paghi in contanti. Ma è solo per stavolta. E ricorda, è un anticipo.
Probabilmente preparerò questi dannati cheesecake anche quando sarò
ultracentenaria».
Lei prese la borsa e si diresse verso la porta. «Andiamo in banca», disse
voltando la testa. «Ma ricorda, ho un diritto di prelazione sulla roba più
bella».
«Come se in casa tua ci fosse ancora posto per qualcosa», replicai. Jethro
alzò gli occhi dal suo angolo accanto alla porta. «Non questa volta, amico»,
dissi, dandogli un colpetto sulla testa. «Ma venerdì sera saremo tu e io.
Sempre e soltanto noi due».
12

Le porte di Beaulieu dovevano aprirsi alle otto di sabato mattina.


Alle sei di venerdì sera caricai il mio equipaggiamento sul pick–up. Per
prima cosa il frigo portatile con panini e Diet Coke, e un termos di caffè.
Poi sacco a pelo, cuscino, spray antizanzare, torcia elettrica, le mie sacche
di tela più capienti e i miei prezzari. Non appena vide il frigo portatile,
Jethro saltò sul sedile del passeggero. Gli piace giocare al campeggio la sera
prima di una vendita.
Uno degli aspetti positivi dell'essere divorziata era non avere intorno Tal
che mi scherniva perché prendevo così sul serio le mie spedizioni di caccia.
Quando eravamo ancora sposati e io mi alzavo all'alba per mettermi in
fila per una vendita che non iniziava prima delle nove, lui mi dava della
pazza. E odiava l'idea che facessi il giro dei commercianti "porta a porta",
come era solito dire.
Adesso erano soltanto affari miei. Stavo gettando una sedia a sdraio sul
retro del pick–up quando comparve BeBe. Scese dalla sua Mazda rossa con
un sacco a pelo in una mano e una bottiglia di vino nell'altra.
«Cosa succede?», chiesi con circospezione.
«Vengo con te», annunciò lei. «Posso esserti d'aiuto, alla vendita. La
trasformeremo in una festicciola. Sai che non sono mai entrata a Beaulieu».
Chiuse a chiave l'auto, buttò le sue cose sul fondo del pick–up e aprì lo
sportello del passeggero. Ma Jethro rifiutò di spostarsi.
«Mi spiace, amico», gli dissi, spingendolo via delicatamente. «Il
finanziatore ha il diritto di sedersi davanti».

«Svolta qui», disse BeBe quando raggiungemmo l'angolo tra la Charlton


e la Habersham.
«Perché?».
«Devo passare un attimo dal ristorante».
«Dal Guale? Perché?».
«Il nuovo cuoco non è soddisfatto dei gamberetti che hanno consegnato
questa mattina, dice che sono troppo piccoli. Sta minacciando di togliere i
tortini di gamberetti e farina di granturco dal menu di stasera».
«Lascia che lo faccia. Qual è il problema?».
«Sono il nostro marchio», spiegò BeBe. «La gente viene fin da Atlanta e
Hilton Head per assaggiarli. Sarebbe una vera catastrofe».
Scossi la testa, esasperata. «Non puoi semplicemente telefonargli? Volevo
arrivare a Beaulieu in tempo per occupare un buon posto accanto alla casa».
«Ci arriveremo», ribatté lei, disinvolta. Si curvò verso di me e mi
esaminò con aria critica. «Non metti mai il rossetto?».
«Per fare campeggio con trentasette gradi e un tasso di umidità del cento
per cento? No. Perché dovrei?».
Invece di rispondere frugò nella borsa ed estrasse un rossetto, puntandolo
verso il mio viso.
Svoltai in Lafayette Square e mi fermai accanto al marciapiede di fronte
alla cattedrale.
BeBe si accigliò. «E adesso cosa c'è?».
La gente si stava affrettando a entrare nella magnifica cattedrale di san
Giovanni Battista, in stile gotico francese, per la messa delle sei. Vidi un
paio di amiche di mia madre e feci un gesto di saluto con la mano. Quando
suor Perpetua, la mia professoressa della terza media, mi passò accanto a
passo svelto, mi abbassai sul sedile perché non potesse vedermi e guardarmi
con religiosa disapprovazione.
«Cosa sta succedendo?», chiesi. «Perché vuoi che ci fermiamo al
ristorante? E perché è così importante che io metta il rossetto? Cosa stai
combinando?».
«Niente», protestò lei. «Davvero, Weezie». Allungò una mano e mi
gonfiò i capelli con le dita. «Ora va meglio». Mi porse il rossetto. «Tienilo
pure. Non posso usare quel colore, mi fa sembrare Joan Crawford».
Lanciai una rapida occhiata allo specchietto dietro la mia aletta parasole.
Forse BeBe aveva ragione. Un po' di colore non poteva certo farmi male.
Mi misi il rossetto e cercai di appiattire i capelli che mi aveva appena
gonfiato, ma lei mi diede uno schiaffetto sulla mano. «Lasciali stare»,
protestò. «Le pettinature voluminose sono tornate di moda, quest'anno. Non
leggi le riviste?».
Scossi la testa e accesi il motore. Raggiungemmo il Guale senza incidenti
e fui sorpresa di trovare parcheggio sul ciglio opposto di Johnson Square
rispetto al ristorante. Di solito, il venerdì sera, non riesci a parcheggiare a
meno di tre isolati di distanza dal locale.
«La mia fortuna sta cambiando», dissi. «Oppure si è sparsa la voce del
disastro dei tortini e stasera non viene nessuno».
BeBe mi lanciò un'occhiataccia. «Non apriamo fino alle sette. Andiamo».
«Ti aspetto qui», risposi. «Non posso lasciare solo Jethro».
«Può venire anche lui», disse BeBe. Fece schioccare le dita. «Qui, Ro–
Ro».
Jethro saltò giù dal retro del pick–up e la seguì attraverso la piazza.
Non avendo di meglio da fare, chiusi a chiave il pick–up e li seguii. A
quell'ora la piazza era tranquilla. I piccioni svolazzavano intorno alla statua
dell'eroe della rivoluzione Nathaniel Greene e alcuni turisti giapponesi
erano fermi pochi passi più in là, scattando fotografie. Un autobus turistico
girava pesantemente intorno alla piazza, emettendo fumo nero dalla
marmitta.
«Dannati bus turistici», borbottò BeBe. «Lo smog sta facendo staccare la
pittura sulla facciata del ristorante. È una vera indecenza».
Annusai l'aria con aria di apprezzamento. «Non mi sembra odore di
smog. È odore di soldi».
Lei fece una smorfia. Si trattava di una vecchia battuta tipica di
Savannah. Vivevamo in una delle città più belle e di maggior interesse
storico del paese e sin da quando si poteva ricordare avevamo sempre
inquinato l'aria e l'acqua intorno a noi – prima con gli impianti che
producevano pasta di cellulosa e carta e adesso con tutti i turisti attirati a
Savannah da un oltraggioso libro pettegolo basato su un vero delitto. Tutti si
lamentavano che gli autobus bloccavano il traffico, provocavano frastuono
e rischi per la salute, ma a nessuno dispiacevano i milioni di dollari che quei
turisti stavano immettendo nell'economia locale.
Il Guale si trovava sull'angolo di St. Julian Street. Superammo la porta
d'ingresso per raggiungere quella della cucina, nel vicolo. Quando eravamo
ancora a un centinaio di metri di distanza, udimmo delle voci irate.
«Oh–oh», disse BeBe. «Aspetta qui. Daniel è sceso di nuovo sul sentiero
di guerra».
Un grosso pick–up Dodge Ram nero era parcheggiato illecitamente nel
vicoletto. Mi appoggiai al paraurti, incrociai le braccia sul petto e chiusi gli
occhi. Il mio stomaco cominciò a brontolare. In quella cucina stavano
preparando qualcosa di magnifico. Sentivo un profumo di aglio e rosmarino
e carne arrosto. Forse BeBe mi avrebbe portato qualche avanzo.
Mentre ero lì ferma, annusando l'aria con l'acquolina in bocca, la porta
della cucina si spalancò. Un uomo con pantaloni a quadretti bianchi e neri e
una candida casacca da chef si avvicinò a grandi passi, furibondo, reggendo
in una mano una grossa ciotola di acciaio inossidabile. La rovesciò sul muro
di mattoni del ristorante, creando un fiume di zuppa bollente sul
marciapiede.
Balzai di lato per levarmi dalla traiettoria ed evitai per un pelo di restare
ustionata.
«Ecco cosa penso del tuo brodo di pesce!», gridò rabbiosamente lui,
voltando la testa verso la cucina. «Chi ti ha detto di usare il prezzemolo
essiccato nel brodo? Chi ti ha detto di usare il pepe nero? Chi? Ti ho forse
detto di metterci porcherie del genere? Te l'ho detto?».
«Ehi!», gli gridai. «Stai attento».
L'uomo si voltò verso di me. La sua casacca bianca era costellata di
macchie di unto e brodo. I suoi capelli avevano un gran bisogno di essere
tagliati. Ondulate ciocche castane gli ricadevano sugli occhi e lui le spinse
via con una mano, impaziente.
«Che cosa? Cosa vuoi? Non assumiamo personale e non apriamo prima
delle sette». Dal suo accento capii che era originario del Sud. E non
semplicemente del Sud, era di Savannah. Te ne accorgi subito. L'accento è
particolare, quasi identico a quello di Richmond ma piuttosto diverso da
quello di, tanto per fare un esempio, Atlanta o New Orleans.
«Mi hai quasi scottato con quella zuppa», sbottai. «Dovresti fare più
attenzione, prima di cominciare a gettare cibo bollente a destra e a manca».
Lui arrossì. Era molto abbronzato e gli occhi azzurri brillavano sotto
sopracciglia folte. Era alto, forse un metro e novanta. Ricamate sul lato
sinistro della sua casacca c'erano le parole "Guale" e "Chef Daniel".
BeBe sporse la testa dalla porta della cucina. «Daniel?». Parlava con
voce mite. «Tutto bene?».
Ero sbalordita. Non l'avevo mai sentita parlare in quel modo, prima. Né a
un uomo né a nessun altro.
«Daniel», continuò lei, avvicinandoglisi lentamente, «Pete è spiacente.
Davvero. Non ha visto il contenitore delle erbe aromatiche fresche nel frigo
e non si è reso conto che usi grani di pepe bianco nel brodo di pesce. Era
ansioso di cominciare prima che tu arrivassi questo pomeriggio. Voleva
rendersi utile».
Daniel batté le palpebre. Con le lunghe dita magre si scostò una ciocca di
capelli dalla fronte. «Dovrebbe provare a leggere il cartoncino della ricetta.
È fissato con il nastro adesivo accanto al lavello».
BeBe uscì e gli batté la mano sul braccio in modo consolatorio. «Ora lo
sa. Sta sminuzzando il prezzemolo fresco come un ossesso. Metterà subito
sul fuoco il nuovo brodo».
«Deve sobbollire per almeno quattro ore».
«C'è una quantità di brodo surgelato nel freezer», disse BeBe. «Almeno
quattro litri. Saranno più che sufficienti per stasera, vero?».
Fece un sorriso radioso e sbatté le palpebre per accentuare l'effetto.
«Presumo di sì».
«Magnifico». BeBe si girò verso di me. «Vi siete presentati?».
Lui ebbe la buona grazia di sembrare imbarazzato. «No. Temo di essere
stato troppo impegnato a cercare di ustionarla con il brodo di pesce
malriuscito».
Allungò la mano, ci ripensò, se la pulì sulla casacca, poi me la tese di
nuovo. Gliela strinsi.
«Scusami», disse. «Mi chiamo Daniel. Daniel Stipanek. Di solito non
faccio una prima impressione così negativa».
Il sorriso che avevo fatto automaticamente si congelò. Sentii le orecchie
bruciarmi e, inverosimilmente, ebbi l'impressione che la mano stretta nella
sua fosse ghiacciata. Stipanek? Danny Stipanek?
No, impossibile. Il Danny Stipanek con cui me l'ero spassata all'ombra
delle querce di Beaulieu era poco più alto di me. Aveva le orecchie a
sventola. Era un imbranato privo di grazia. L'uomo che mi stava stringendo
la mano non somigliava affatto a quel Danny Stipanek. Questo Daniel
torreggiava su di me e aveva un sorriso che gli disegnava rughe sottili
intorno alla mascella quadrata e gli occhi azzurri che brillavano nel viso
abbronzato. La descrizione che ne aveva fatto BeBe era stata più che
accurata: era davvero bellissimo.
Cercai di dire qualcosa ma dalle labbra mi uscì solo un rantolo strozzato.
Inspirai a fondo e tentai di riprendermi dallo shock, ritraendo la mano. «In
realtà questa non è davvero una prima impressione. Ci conosciamo, sai.
Sono Eloise Foley».
Lui fece un passo indietro. «Non ci credo». Gli occhi pigri mi studiarono
dalla testa ai piedi, ma il sorriso lento comparve di nuovo. «Weezie?
Davvero? Be', che io sia dannato».
Lo sperai ardentemente.
BeBe spostò lo sguardo da me a Daniel. «Vi conoscete? Come?».
Lo osservai, innervosita. Cosa ricordava? E quanto era disposto a rivelare
al suo nuovo capo?
«Abbiamo frequentato insieme scuole superiori diverse», disse Daniel.
«Esatto», confermai, sollevata. «Anni fa. Mi stupisce che Daniel ricordi il
mio nome».
Di nuovo quel dannato sorriso. «Come avrei potuto dimenticare?», chiese
con voce strascicata.
Dovevo andarmene di lì. Il cuore mi batteva all'impazzata. Il profumo di
aglio e brodo di pesce mi stava dando la nausea.
Danny Stipanek! Di tutti gli uomini possibili in cui potevo imbattermi in
tutti i vicoletti di Savannah... Gemetti dentro di me. Logico che avesse un
aspetto strepitoso. E io? Io dovevo per forza avere l'aspetto di sempre. Jeans
sformati e stazzonati. Maglietta stinta. Non mi ero presa nemmeno il
disturbo di infilare il reggiseno. Buon Dio. Non osai abbassare lo sguardo.
Almeno, pensai, mi sono messa il rossetto da Joan Crawford, quindi forse
non sembro una perfetta megera.
«Ehm, BeBe», dissi, lanciando un'occhiata eloquente all'orologio.
«Dobbiamo davvero andare se vogliamo trovare posto vicino alla casa».
«Solo un altro minuto», promise lei. «Volevo prendere qualcosa da
mangiare. Pollo arrosto freddo, qualche biscotto».
«Casa? Quale casa?», chiese Daniel.
«È una villa coloniale. Sul fiume. Domattina parteciperemo a una vendita
di arredi là. Weezie è un'antiquaria, sai».
«No, non lo sapevo», rispose lui, inarcando una delle sue sopracciglia
scure. «Abbiamo perso i contatti, nel corso degli anni».
Ricordai i nostri contatti fisici a Beaulieu. Rabbrividii.
«Oh, certo», disse BeBe con nonchalance, esagerando. «Aprirà un suo
negozio in autunno. Dove una volta c'era la Lamplighter Lounge.
Attualmente sta comprando merce per il negozio. È probabile che a questa
vendita ci sia della roba davvero favolosa».
«Davvero?», chiese lui. «Dove si tiene? Magari ci farò un salto anch'io.
Sto cercando un paio di cose per casa mia».
«A Beaulieu», rispose BeBe. «Posso disegnarti una cartina, se vuoi».
Avrei voluto morire. Lì sul posto. Oppure avrei potuto entrare in cucina
per infilare la testa in uno di quei grandi forni a gas professionali.
Daniel stava sorridendo di nuovo. I suoi occhi azzurri danzarono.
«Beaulieu? Ci sono stato».
«E ricordi come ci si arriva?», domandò BeBe, ansiosa di rendersi utile.
«Oh, sì», ribatté lui in tono pigro. «Ricordo tutto di Beaulieu».
13

«Illustrami di nuovo le regole del gioco», mi chiese BeBe, cercando di


schiacciare una zanzara.
Le passai il mio flacone di lozione antizanzare e lei si spalmò su tutto il
corpo il liquido dall'odore stucchevolmente dolce. Avevamo parcheggiato
sul prato all'inglese davanti a Beaulieu e sistemato le nostre sedie a sdraio
sul pianale del pick–up. Non era certo il Ritz, ma era gratis e avevo
posteggiato il più vicino possibile alla villa. Almeno altre due dozzine di
frequentatori di aste avevano avuto la mia stessa brillante idea di
accamparsi. Nonostante i numerosi cartelli con la scritta "Proprietà Privata",
l'intero spazio erboso antistante la casa era disseminato di camper veri e
propri, pick–up, furgoni, persino un paio di tende canadesi.
Riconobbi la maggior parte dei pick–up e dei furgoni: appartenevano ad
antiquari e rigattieri giunti da ogni dove, persino da una città a sud come
Jacksonville e da una a nord come Charlotte. L'annuncio della vendita era
apparso sui giornali di Savannah e di Atlanta. "Messo in vendita l'intero
contenuto di splendida piantagione prebellica", si leggeva. Occupava
quattro colonne da tre centimetri l'una e prometteva di tutto, da targhe
pubblicitarie in latta a tavolini con il piano di zinco. Decisamente roba da
acquolina in bocca.
Quella sera, tra i campeggiatori c'erano persino alcuni collezionisti
dilettanti. Indicai a BeBe una macchina color cobalto parcheggiata
all'ombra di un'enorme vecchia quercia.
«Quelli sono gli Einstein», dissi.
«Sul serio?». BeBe rimase colpita. «Come il genio?».
«Loro lo pronunciano Ainstiin», precisai. «Hanno una gioielleria a
Statesboro. Hanno superato entrambi la settantina e sono collezionisti
fanatici di vetro intagliato. L'annuncio sui giornali non ha parlato di vetro,
ma se loro sono qui devono aver ricevuto una soffiata. Sono anche cattivi
come pochi altri. Bennie, il più vecchio, ha un deambulatore e lo utilizza
per passarti sopra, se lo intralci mentre insegue un pezzo interessante. E mi
è già capitato di vedermi strappare la roba di mano da Sammy, quello basso
con i baffi gialli. Quindi, probabilmente, ci terremo alla larga dal vetro.
Anche se ho visto un fantastico servizio da punch – coppa da punch,
supporto, dodici coppette. In perfette condizioni. Okay, se riesci ad arrivare
alla coppa da punch fai pure. L'ultima volta che sono stata qui era posata su
un buffet in sala da pranzo. Non restare lì a fissarlo, prendi tutto e infilalo in
una delle sacche di tela. Dentro ci sono dei pannolini per bambini, avvolgici
i pezzi. Non possiamo permetterci che qualcosa si rompa. Conta le coppette
per assicurarti che qualcun altro non ne abbia portate via un paio. Dieci
coppette vanno bene, dodici fanno salire di duecento dollari il valore del
servizio».
Poi le mostrai il furgone di un color argento brillante e da mezza
tonnellata sulla cui fiancata campeggiava la scritta L. HARGREAVES.
«Quello è Lewis Hargreaves. Se lo vedi interessato a qualcosa sii discreta
ma cerca di impadronirtene prima di lui. Hargreaves è la concorrenza. E sa
cosa cercare».
BeBe prese una sigaretta e l'accese. «Lewis. Lo conosco. Mio Dio,
Weezie. Come fai a sapere cosa è cosa? Come fai a ricordarti tutto?
Cominci a intimorirmi, e io non mi intimorisco facilmente».
«È come quel gioco in TV», le dissi. «Te lo ricordi? Quello in cui tutti i
concorrenti sono fermi alla linea di partenza, poi qualcuno grida "Via!" e
tutti sfrecciano su e giù per i corridoi del supermercato arraffando merce e
sperando di tornare alle casse nel più breve tempo possibile e con i prodotti
più costosi. Probabilmente tutte queste persone mirano alle stesse cose che
vogliamo noi. Dobbiamo soltanto batterle sul tempo. Si tratta di uccidere o
essere uccisi».
Puntai il mio bicchiere di carta pieno di vino verso un pick–up rosso
parcheggiato a breve distanza da noi. «Fa eccezione una persona come
Nappy. È un altro esperto. Compra vecchi dischi, libri tascabili, radio,
orologi e fucili. Roba da maschi. Poi la rivende a vari commercianti su
nell'Ohio e nell'Indiana. Ha un aspetto un po' strano perché è
completamente calvo ma è un tipo gentile. A volte prende qualcosa che sa
che io compro. Io faccio lo stesso per lui».
«Okay», disse BeBe. Si versò un altro bicchiere di vino. Era il terzo, per
lei. Io stavo ancora sorseggiando il primo. «Stiamo alla larga da radio od
orologi».
«Be'», esitai, «li compro, se sono carini. Per esempio, se vedi una vecchia
radio in bachelite, buttatici sopra. Se è per questo, arraffa qualunque oggetto
di bachelite. Sai che aspetto ha, vero? Sembra plastica vecchia ma ha una
particolare lucentezza. Di solito è rossa, gialla, verde o color ambra. Oppure
una di quelle graziosissime sveglie antiche con i campanelli di metallo, o
una sveglia da viaggio in un astuccio di pelle. Niente di grosso. Solo oggetti
piccoli e graziosi».
«Piccoli e graziosi», borbottò lei.
«Li chiamiamo "minuteria"», spiegai. «Ecco cosa devi cercare:
qualunque pezzo di porcellana blu e bianca. La signorina Ann Ruby ne
possedeva parecchi. Assicurati che non siano sbeccati, a meno che non
siano venduti a prezzo stracciato, diciamo un vassoio a dieci dollari o meno.
Se sono inglesi è meglio, gli americani sono okay, non compro quelli
giapponesi. Argento – ma solo sterling. Controlla sul fondo per vedere il
marchio di identificazione. Biancheria da casa. Dovrebbero essercene
quintali. Cerca tovaglie e tovaglioli di damasco, tovagliette stampate anni
Quaranta, lenzuola e federe di lino, copriletti, qualunque cosa rientri nella
categoria bianco vittoriano. I quadri sono magnifici. Le pareti ne sono
piene. Prendi le stampe antiche, i...».
«Smettila!», gridò lei, tappandosi le orecchie con le dita. «Basta così.
Dio, pensavo che sarebbe stato divertente. Tu fai sembrare tutto così serio».
«Lo è», dichiarai, allontanandole le mani dalle orecchie. «Una vendita di
arredi come questa viene organizzata una volta ogni dieci anni, a dir poco. I
Mullinax erano degli autentici intenditori. Compravano il meglio in ogni
settore. E non buttavano mai via nulla».
«D'accordo». BeBe sospirò. «Argento sterling. Dipinti a olio. Ho
afferrato il concetto».
«Puoi prendere anche qualche mobile», aggiunsi. «Nella tua borsa ho
messo un rotolo di nastro adesivo per mascherature su cui ho scritto un
centinaio di volte "Venduto – Foley". Quando vedi un mobile che ti
interessa, attaccaci sopra un pezzo di nastro. Se non è troppo grosso per
poterlo spostare, cerca di portarlo dalla persona responsabile della cassa.
Spiegale che lo stai mettendo nella mia pila. Cerca bei pezzi antichi di legno
dipinto oppure di quercia o pino. Lascia perdere la roba in mogano anni
Quaranta da poco prezzo. Concentrati sulle cose in stile country. Sai, come
quelle che ho in casa io».
«Che avevi in casa», mi corresse lei in tono assonnato. «Ma pensavo ci
fosse una credenza su cui avevi messo gli occhi».
«La credenza di Moses Weed. Di quella mi occupo io», dichiarai in tono
fermo. «Ora passiamo al solaio e al seminterrato e agli armadi. È molto
importante. Sai come sono io a proposito di abiti vintage. Assicurati di
controllare negli armadi. In tutte le stanze. Prendi tutti i vestiti che puoi –
qualunque cosa tranne poliestere anni Settanta. So che è di moda, ma non
tratto abiti da discoteca. Anche vecchi cappelli, scarpe e borsette vanno
bene. Cerca quelle di coccodrillo, le vendo benissimo. E non dimenticare di
controllare nei cassetti dei comò. La lingerie vintage è magnifica».
«Mutande di persone morte? Disgustoso». Sbadigliò di nuovo. «Sono
troppo stanca. Spiegamelo domattina».
Lanciai un'occhiata verso di lei e vidi che si era assopita, il bicchiere di
vino ancora in equilibrio sul petto. «Hai ragione», sussurrai. «Dormi.
Dobbiamo alzarci alle cinque per metterci in coda».
«Weezie?». Lei riaprì gli occhi. «Tu e Daniel. Ho percepito qualcosa.
Qualcosa di decisamente rovente. Siete mai usciti insieme?».
Nonostante l'afa sentii un brivido freddo lungo la schiena. «Una volta,
forse. Al liceo. Niente di importante. Dormi».
Lei sbadigliò. «Non riesco a credere che tu non ti sia tenuta ben stretto un
figo del genere». Poi si addormentò.
Cercai di non pensare a Daniel Stipanek. Cercai di non ricordare quel
giorno d'estate di tanto tempo prima e la sensazione del muschio spagnolo
sotto la schiena. Finii il vino e scivolai nel sonno.
Una zanzara mi stava ronzando intorno alla faccia. Cercai di colpirla,
sbadigliai, tentai di girarmi e mi resi conto che avevo un impellente bisogno
di fare pipì. Dannazione. Non avrei mai dovuto bere quel secondo bicchiere
di vino. Guardai l'orologio. Erano le due.
La mia sedia a sdraio scricchiolò mentre mi mettevo a sedere. Jethro mi
sentì e si alzò anche lui. Emise un uggiolio soffocato.
«Anche tu?», sussurrai. Lui uggiolò di nuovo.
E adesso? Avevo programmato di fare una corsa da McDonald's, il
mattino dopo, per prendere un caffè, un giornale e passare dal bagno. Ma
dovevo andarci subito. In un paio d'ore la gente avrebbe cominciato a
mettersi in fila per entrare nella villa.
Saltai giù dal pianale del pick–up, seguita da Jethro. Mi stiracchiai,
sbadigliai e lo accompagnai fino a un albero vicino, dove quel cane
fortunato poté svuotare la vescica.
Da quando mi ero assopita era arrivata altra gente. C'erano circa settanta
od ottanta veicoli parcheggiati nello spiazzo erboso. Alzai gli occhi verso le
finestre buie di Beaulieu. Un bagno, pensai, se solo avessi potuto
approfittare di un bagno...
Okay. Cominciai con l'idea di un bagno ma ben presto iniziai a pensare a
quella vecchia villa silenziosa e a come, nel giro di poche ore, avrebbe
brulicato di antiquari e collezionisti impazziti. Quello di cui avevo bisogno
era un leggero vantaggio. Una piccola, furtiva visione in anteprima della
merce. Infilai una mano nel pick–up, presi la torcia elettrica e poi,
ripensandoci, mi infilai nella cintola dei jeans il sacchetto di plastica che
aveva contenuto il vino di BeBe.
La villa era immersa nel buio. Un'unica lampadina nuda brillava sul retro,
sopra quella che sembrava la porta della cucina. Provai a girare il pomolo.
Chiusa a chiave, naturalmente. Premetti il viso contro il vetro della porta e
accesi la torcia. Vidi una luce notturna inserita nella presa accanto a un
bancone. L'intero contenuto degli armadietti era stato disposto sui piani di
lavoro. Vidi magnifiche vecchie ciotole gialle, pile di piatti, tazze e vassoi,
bacinelle per lavare i piatti, teglie da forno e bricchi da caffè in ceramica
decorata. Qualcuno aveva sistemato sulla cucina a gas di smalto blu anni
Venti una grossa macchina per il caffè, insieme a una pila di bicchieri di
polistirolo e a bustine di latte e zucchero. Provviste per chi si sarebbe
occupato della vendita. Mi chiesi se in casa ci fosse qualcuno.
Apparentemente, nessuna delle persone con cui avevo parlato sapeva chi
avrebbe condotto la vendita. Nessuno degli abitanti del posto che lo
facevano di solito era stato interpellato. In realtà, la maggior parte di loro
era parcheggiata lì fuori come me, morendo dalla voglia di entrare.
Girai intorno alla villa fino a raggiungere il lato del salotto e salii i
gradini che portavano alla veranda. Le finestre che andavano dal pavimento
al soffitto erano saldamente chiuse, con le tende tirate. Evidentemente,
l'ignoto responsabile della vendita non intendeva concedere anteprime.
Proseguii fino alla facciata, inciampando di tanto in tanto su una sedia a
dondolo o un attrezzo da giardino lasciato fuori posto.
Accendendo per un attimo la torcia vidi che la veranda era stata riempita
con il genere di oggetti che di solito trovo nei garage, durante quel genere di
vendite: attrezzi da cortile, arnesi da giardinaggio, vecchie sedie di legno
pieghevoli, vasche galvanizzate, secchi di legno pieni di chiodi, dozzine e
dozzine di vasi da fiori. Una pila di vasi attirò la mia attenzione. Mi chinai.
Erano ricoperti di vernice lucida in tinte pastello, con graziosi disegni di
tulipani e uccelli azzurri e girasoli. Ne capovolsi uno. Tombola. Erano
autentici McCoy. Terracotta, in altre parole. Esaminai rapidamente la pila.
C'erano sei McCoy e due Roseville, tutti con un adesivo indicante un prezzo
di dieci centesimi. I negozi di antiquariato di Buckhead vendevano i McCoy
non decorati a trenta–cinquanta dollari l'uno; Roseville come questi
avrebbero spuntato almeno sessanta dollari. Uno a zero per Weezie.
Ma dove nasconderli? Mi guardai intorno, vidi un enorme bosso troppo
cresciuto ai margini della veranda. Presi la pila di vasi, mi stesi bocconi e la
infilai sotto il cespuglio.
Adesso dovevo assolutamente fare pipì. Lanciandomi in una specie di
balletto lungo la veranda, raggiunsi il lato opposto della casa. Le finestre
della sala da pranzo erano ben chiuse, le tende accostate. Dannazione.
Questo lato della villa era immerso nel buio. Una malevola vecchia
magnolia svettava sopra la veranda; i suoi rami più alti premevano contro il
muro nascondendolo quasi completamente. Diressi il raggio della torcia in
quella direzione. Una finestra a ghigliottina del primo piano si trovava quasi
alla stessa altezza di uno dei rami. Ed era socchiusa, lasciando uno spiraglio
di una quindicina di centimetri.
Quando ero bambina le magnolie erano i miei alberi preferiti per
arrampicarmi. I rami erano massicci e bassi, e il fogliame così folto da
rendere impossibile vedere un bambino in cima alla pianta che lanciava
palloncini pieni d'acqua su quelli che passavano in bicicletta.
Mi abbassai per accostare il viso al muso di Jethro. «Resta qui», gli
intimai in tono severo. Lui sbadigliò e si accovacciò. Mi infilai la torcia
nella cintura dei jeans, contro la schiena, posai un piede sul ramo più basso,
mi issai e cominciai a salire.
A tre metri di distanza da terra, il ramo più vicino alla finestra sembrava
molto più sottile e faceva molta più paura che dal basso. Ma il rischio di
farmela addosso – in pubblico – e di dovermi tenere i pantaloni bagnati
durante la vendita del secolo mi spinse a continuare.
Strisciai fino all'estremità del ramo, mi misi a cavalcioni e mi allungai
precariamente verso il muro della casa. Reggendomi al ramo con una mano,
allungai l'altra e provai a spingere verso l'alto il pannello inferiore della
finestra. Bloccato. Strinsi i denti, posai entrambe le mani sul telaio marcio e
spinsi ancora.
Lentamente, si sollevò di qualche centimetro. Quando il varco fu
sufficientemente ampio vi infilai il busto e mi spinsi dentro la stanza,
cadendo sul pavimento.
Ero entrata! Accesi la torcia. Mi trovavo in una piccola camera da letto
dominata da un massiccio letto a baldacchino di legno intagliato su cui
erano impilati vecchi abiti e biancheria. Le pareti erano coperte di carta da
parati con un disegno a tralicci di rose e macchiata d'acqua. Ma, per la
prima volta in almeno vent'anni, non prestai la minima attenzione alla
paccottiglia accatastata quasi fino al soffitto. Al diavolo i pezzi
d'antiquariato. Dovevo trovare un bagno.
Nella stanza c'erano due porte. Una era stretta e dipinta di bianco. L'aprii
e una pila di cappelliere mi cadde in testa. Un armadio. Traboccava di
vestiti. Abiti da casa di cotone stinto, mucchi di tessuto a rete, chiffon, seta
e broccato. Con riluttanza, raggiunsi l'altra porta. Si apriva sul corridoio.
Non osai accendere la luce. Puntai il fascio luminoso della torcia in giro
per l'ampio corridoio. Altre quattro porte. Con le ginocchia strette l'una
contro l'altra e gli occhi strabici per la sofferenza, ne aprii due, scoprendo
altre due camere. Dietro la terza trovai il bagno.
Tutto rivestito di piastrelle gialle, con una vasca da bagno con piedi ad
artiglio e sì! – una comoda antiquata ma apparentemente funzionante.
Subito dopo, rimasi ferma in corridoio, tendendo le orecchie. Qualcuno
aveva sentito il rumore delle tubature in ferro, il gorgoglio dell'acqua? Nella
vecchia casa regnava il silenzio, fatta eccezione per lo scricchiolio
dell'assito sotto i miei piedi e uno zampettare soffocato nei muri.
Scarafaggi. Eravamo a Savannah, dopo tutto. Chiunque ha gli scarafaggi,
tranne i miei genitori. La disinfestazione è uno degli hobby di papà.
Bene, ero entrata, vero? Non era scattato nessun allarme. Non c'era niente
di male a guardarsi un po' intorno. Cominciai a scendere le scale
aggrappandomi al corrimano, che oscillava ogni volta che lo toccavo.
Ai piedi delle scale mi fermai di nuovo, cercando di orientarmi. Gli
organizzatori della vendita avevano avuto parecchio da fare. Lunghi tavoli
erano accostati alle pareti dell'atrio, coperti dal bric–a–brac accumulato in
un centinaio di anni.
La mia mano si posò su due massicci candelabri d'argento georgiani
scompagnati. Uno aveva la base quadrata, l'altro rotonda. Erano ossidati e
ammaccati, e sul nastro adesivo che li teneva uniti c'era scritto "dieci
dollari". Faceva troppo buio per poter vedere i marchi, ma erano comunque
regalati. Presi il sacchetto di plastica dalla tasca posteriore e ve li infilai.
Urtai con il fianco il tavolo e afferrai al volo il ninnolo che stava cadendo
per terra; lo illuminai con la torcia e vidi che era un gruppetto di pastorelle
di porcellana Staffordshire. Senza riflettere, lo sollevai e cercai l'adesivo
con il prezzo. Venticinque dollari. Non certo regalato, ma sapevo di poterlo
rivendere a una mezza dozzina di negozi lì in città. Presi da una pila di
biancheria uno strofinaccio per i piatti e vi avvolsi le pastorelle,
aggiungendole al mio bottino segreto.
Il sacchetto cominciava a essere pesante. Era tempo di andarsene. Con la
coda dell'occhio vidi uno scintillio metallico in mezzo alla biancheria. Mi
chinai per vedere meglio. Sopra di essa era posata una scatola di legno
splendidamente intagliata, aperta. L'interno era foderato di sbiadito velluto
viola e conteneva due piccoli revolver con l'impugnatura di madreperla
magnificamente intarsiata.
Mi accigliai. Le armi da fuoco non sono la mia specialità. Nella Georgia
meridionale c'erano troppi commercianti di armi competenti, e io ne sapevo
troppo poco per rischiare. Ma persino il mio occhio inesperto poteva vedere
che queste erano qualcosa di speciale. Presi la scatola per esaminarla. Il
coperchio era ornato da una targa d'argento cesellata. Strizzai gli occhi ma
non riuscii a leggere le parole incise su di essa e ormai semicancellate
dall'usura. Per quel poco che potevo valutare, si trattava probabilmente di
pistole da duello risalenti all'epoca della guerra civile. Non c'era nessun
adesivo con il prezzo. Finirono nel sacchetto insieme ai candelabri e alle
pastorelle di porcellana.
Raddrizzando la schiena, mi diressi verso il salottino sul davanti.
Trattenni il fiato mentre puntavo la torcia verso l'angolo opposto, dove
avevo visto la credenza.
Era ancora lì. Espirai. Era stata svuotata e aveva le antine di vetro
spalancate. Mi avvicinai in punta di piedi, accarezzai la patina liscia come
seta del legno. Una piccola scheda era stata fissata con il nastro adesivo sul
fondo, all'interno. C'era scritto, a lettere maiuscole, CREDENZA
D'ANGOLO IN OLMO, MOBILE ORIGINALE DELLA PIANTAGIONE
DI BEAULIEU. FIRMATA, RISALENTE AL 1858, AUTENTICATA. La
riga seguente mi fece boccheggiare. 15.000 DOLLARI.
Spensi la torcia e la infilai nella tasca posteriore. Tutta l'adrenalina era
improvvisamente svanita. Il prezzo sulla credenza di Moses Weed era
onesto, ma se anche fosse stato 150.000 dollari non sarebbe cambiato
niente. Ero venuta a Beaulieu pronta a rischiare una speculazione, però
qualcuno aveva alzato la posta molto oltre le mie possibilità.
Era giunto il momento di andarsene. Mi sentivo debole, per la fatica e la
delusione. Avevo perso l'entusiasmo e il coraggio. Basta temerarie
arrampicate sugli alberi, per me. Mi sarei limitata a uscire dalla porta
posteriore per poi raggiungere furtivamente il mio pick–up.
Ma cosa fare del bottino? Ora che la credenza di Weed era al di fuori
della mia portata, tanto valeva tentare di accaparrarmi gli altri tesori. Mi
serviva un posto in cui nascondere il sacchetto, un posto off limits, dove
mani e occhi indiscreti non avrebbero potuto impadronirsene prima che io
entrassi in casa all'ora stabilita per l'inizio della vendita. Un posto il più
lontano possibile dal tavolo vicino alla porta d'ingresso dove sarebbe stata
sicuramente ubicata la cassa.
Il piano di sopra. Nel bagno c'era un piccolo armadio, sicuramente
destinato alla biancheria da casa. Potevo nascondere il sacchetto sotto le
immancabili lenzuola e federe. Le ginocchia mi tremavano, mentre salivo le
scale.
Entrai nel bagno, chiusi la porta, premetti l'interruttore della luce. Ormai
ero troppo stanca per essere prudente. Stringendo il sacchetto con la mano
sinistra, tirai l'anta dell'armadio con la destra. Bloccata. Il caldo e l'umidità
l'avevano gonfiata e deformata. Posai il sacchetto sul pavimento di
piastrelle, afferrai il pomolo con entrambe le mani e tirai. Cedette
leggermente ma rifiutò di aprirsi. Indietreggiai di un passo, piegai le
ginocchia e tirai di nuovo.
L'anta si spalancò e io sentii qualcosa. Non lo zampettare di scarafaggi
fuorilegge ma il rumore di qualcosa di pesante che scivolava a terra.
Abbassai lo sguardo. Caroline DeSantos mi fissava dal basso, la testa
innaturalmente piegata di lato, le gambe tese in avanti. Portava ancora
l'abito di Briaggi da tremila dollari, solo che adesso sulla seta color crema
spiccava un enorme fiore scarlatto, in mezzo al petto. Caroline non si
sarebbe vestita di rosso nemmeno morta. Solo che adesso lo era.
14

Jethro abbaiò.
«Mio Dio, no», esclamai. Ma conoscevo quel latrato. Acuto, ansioso.
"Weezie, torna da me", sembrava voler dire. O forse era solo il suo latrato
"Weezie, mi annoio e ho fatto scappare uno scoiattolo sull'albero". Stavamo
ancora lavorando sulla comunicazione.
Rimasi ferma lì, inchiodata al pavimento, a fissare Caroline. Mi girava la
testa ma continuai a guardare. Jethro continuava ad abbaiare. Fuori si udì un
colpo di clacson. Questo riuscì a rompere l'incantesimo. Corsi nella camera
da letto e sporsi la testa dalla finestra.
«Zitto», dissi. «Zitto, cucciolo». Le foglie di magnolia formavano una
volta spessa e quasi impenetrabile sopra il prato sottostante. L'aria calda e
umida era perfettamente immobile. Jethro uggiolò e io sentii la sua coda
battere ritmicamente sull'erba.
Poi un raggio di luce fendette la quiete impenetrabile della notte. Sollevai
una mano per ripararmi gli occhi, ma il raggio era implacabile. Jethro
uggiolò di nuovo e io ebbi una gran voglia di imitarlo.
«Signora?». La voce sotto di me era sonora ma non profonda. «Signora?
Sono della Paragon Security. È scattato l'allarme. È lei la proprietaria di
questa casa?».
«È morta». Mi riferivo ad Ann Ruby Mullinax, ma stavo pensando anche
al cadavere sul pavimento del bagno.
Lui si schiarì la gola. «Signora, potrebbe scendere, per favore? E... ehm,
credo di doverle dire che sono un agente armato. Lei è... ehm, in arresto».
Date le circostanze, decisi di nascondere sotto il letto il sacchetto del
bottino.
All'improvviso la magnolia aveva un aspetto minaccioso, e il terreno
sembrava distare chilometri dalla finestra. «Cosa ne direbbe se scendessi e
le venissi incontro alla porta d'ingresso?», provai a chiedere.
«Scenda per la stessa via da cui è entrata», ribatté lui. Puntò nuovamente
la torcia sulla cima dell'albero. Me la presi comoda nello scendere, posando
con cautela un piede sotto l'altro, senza mai guardare giù. Sotto di me
sentivo crepitare e ronzare una ricetrasmittente. L'uomo vi stava parlando.
Per chiamare rinforzi, probabilmente.
Quando mi trovavo a poco più di un metro da terra vidi un'auto con le
luci blu lampeggianti sfrecciare sul vialetto d'accesso di Beaulieu.
«Perfetto», disse la guardia giurata. «Salti giù, signora, la prego».
Mi scivolò un piede e caddi a terra di schianto, rotolando a una certa
distanza dalla base dell'albero, sbucciandomi la coscia e la mano destre nel
tentativo di attutire la caduta. Jethro mi raggiunse trotterellando e mi leccò
la faccia.
«Non si muova», mi ordinò la guardia. Intravidi un giovane uomo,
un'uniforme marrone e la canna di una grossa pistola puntata con garbo ma
determinazione verso di me.
Sentendo la sirena della polizia Jethro cominciò a ululare. A poco a poco,
nel giardino buio di Beaulieu si accesero delle luci. La prima auto della
polizia fu seguita da un veicolo di rinforzi, in realtà, solo un veicolo
malconcio con una rastrelliera per fucili nel finestrino posteriore.
«Stavo solo cercando un bagno», spiegai alla giovane guardia ossuta.
Sembrò poco convincente persino a me. «Ho visto una finestra aperta e
sono entrata in casa, e ho usato il bagno, ma poi ho avuto bisogno di
qualcosa con cui asciugarmi le mani, così ho aperto l'armadio». Mi
interruppi e presi una boccata di aria densa. Un moscerino mi finì in bocca.
Era quel tipo di notte. «Agente, forse le conviene chiamare dei veri
poliziotti».
Un tizio più vecchio e corpulento mi prese per un braccio. «Signora, non
potremmo essere più veri di così. E stiamo per spiccare contro di lei un
ancor più vero mandato d'arresto per violazione di domicilio con
effrazione».
Feci una smorfia e cercai di sottrarmi alla sua stretta, ma lui accentuò la
presa. Per una persona nella mia situazione non esisteva un modo adatto per
sollevare l'argomento del cadavere. Ma ero stata educata da cattolica, quindi
la confessione sembrava più che naturale.
Scacciai con la mano il nugolo di moscerini che avevo intorno alla faccia.
«Agente, c'è una donna morta nell'armadio del bagno al piano di sopra».
«Oh». Una vena cominciò a pulsare nel collo del tizio magro. Il tipo
corpulento estrasse un paio di scalcinate manette che davano l'impressione
di essere state vinte con una raccolta punti del supermercato.
In lontananza si udivano le sirene della polizia. La gente sparsa nella
tenuta cominciò a muoversi. Intorno a noi, sotto la magnolia, si radunò una
piccola folla di persone che sussurravano e mi indicavano. Mi martellava la
testa. Avevo bisogno di caffè e di analgesici perché non riuscivo a riflettere
lucidamente. Avrei dovuto pensare a un avvocato, chiedermi chi poteva aver
provocato quella grossa e brutta macchia di sangue sul petto di Caroline.
Invece mi stavo domandando se avrebbero rimandato o meno la vendita
fino a quando non fossi riuscita a tirarmi fuori da quel piccolo,
ingarbugliato pasticcio.
15

La stazione di polizia in mattoni rossi si trovava all'angolo tra la


Habersham e la Oglethorpe. James la raggiunse in meno di dieci minuti.
Era preoccupato per sua nipote. Al telefono, lei aveva accennato di aver
trovato un cadavere, a Beaulieu, e di essere stata arrestata con l'accusa di
violazione di domicilio con effrazione. Oh, sì, e forse di omicidio. Era
isterica e, lui lo sperava ardentemente, stava reagendo in modo esagerato.
Anche se non era affatto da Weezie reagire così.
Spinse le pesanti porte a vetri. Una donna di colore dall'aria assonnata
alzò gli occhi dal suo trespolo dietro il bancone all'ingresso. Un tempo il
bancone era un'alta scrivania di mogano verniciato, e il viso dietro di esso
sarebbe stato quello carnoso di uno dei Finnegan o magari quello di BoBo
Kuniansky. Ma i Finnegan avevano lasciato la polizia e, stando alle ultime
notizie, Kuniansky vendeva immobili sull'isola di Hilton Head. Quella
donna gli era assolutamente sconosciuta. Ed era separata dal mondo da un
pannello di vetro antiproiettile spesso più di due centimetri. Lui sospirò.
Questa non era la Savannah della sua giovinezza.
La donna di colore gli disse che doveva chiedere del detective Bradley.
Al piano di sopra. L'ascensore salì con un'estrema lentezza. Un uomo
massiccio con una camicia marrone a maniche corte sembrava essere l'unica
persona presente nell'ufficio dei detective.
«È lei il detective Bradley?», chiese James.
«Sono Jay Bradley. E lei è padre Foley?».
«Solo James, se non le dispiace».
«Lei è stato il mio insegnante d'inglese del primo anno, alla
Benedictine», spiegò Bradley. «La classe degli anni Ottanta. Immagino che
non se ne ricordi».
«È stato molto tempo fa», disse James in tono di scusa. «E ho insegnato
solo per due anni. Era bravo in inglese?».
«No, facevo schifo», ammise Bradley. «Vuole vedere Eloise?».
«Sì», si affrettò a rispondere James.
Bradley gli indicò la porta di fronte a lui. «È là dentro. Piuttosto scossa».
«Weezie non ucciderebbe mai nessuno», dichiarò James in tono brusco,
autoritario, da ex insegnante di inglese.
«Certo», replicò Bradley. «Comunque sia... fra poco la rinchiuderanno, e
io andrò a casa a dormire un po'. Sono distrutto».
«Rinchiuderla?». James non riuscì a nascondere l'allarme nella sua voce.
«Weezie non è un'assassina. Non potete tenerla qui per la notte».
Bradley si strinse nelle spalle. «La teniamo qui finché un giudice non
dice diversamente», replicò. «Lei è un avvocato, vero? Sa come funziona».
In realtà James non lo sapeva, ma conosceva qualcuno per cui il diritto
penale non aveva segreti. Poteva arrischiarsi a telefonare a Jonathan a
quell'ora? La loro amicizia era ancora così recente, così fragile. Fece una
smorfia. Si trattava di Weezie. E il sangue non era acqua.
Sua nipote era rannicchiata su una sedia nell'angolo di quella che
sembrava una sala riunioni. Erano a Savannah, in piena estate, e quindi in
ogni edificio pubblico della città la temperatura media era quella di una
cella frigorifera. Nella stanza si gelava, e lei stringeva le braccia al petto,
tenendo le gambe raccolte contro il corpo in posizione fetale. Aveva la
faccia arrossata e chiazzata a forza di piangere, e le braccia coperte di
escoriazioni rosse.
«Zio James!». In realtà fu un sussurro. Weezie si alzò e lui la strinse tra le
braccia, come faceva quando lei aveva sei anni e si sbucciava un ginocchio
cadendo dalla bicicletta.
«Weezie», disse, strofinandole le braccia ghiacciate. «Va tutto bene,
Weezie. Sono qui. Sono qui».
Alla fine riuscì a calmarla. Andò in una saletta, le prese una tazza di caffè
e una merendina confezionata. La merendina, in realtà, era per lui. Un vizio
davvero terribile.
Mise la sua giacca a vento sulle spalle della nipote, pallida e tremante.
«Raccontami cosa è successo», le chiese quando fu meno gelata.
«Caroline è morta. Pensano che l'abbia uccisa io».
«Lo so».
Weezie si coprì la bocca con la mano. «Oh, mio Dio!».
«Cosa c'è?». James si piegò verso di lei, allarmato. «Cosa c’è?».
«BeBe. L'ho lasciata là. A Beaulieu. Con Jethro, e il pick–up. Mi hanno
fatto salire sull'autopattuglia. Lei dormiva come un sasso. Mio Dio. Penserà
che io sia stata rapita».
«No», la contraddisse lui, sollevato nello scoprire che quella particolare
crisi poteva essere evitata. «Mi ha telefonato subito dopo di te. Ha visto i
poliziotti che ti facevano salire in macchina e uno dei tuoi amici antiquari le
ha raccontato cosa era successo. O, almeno, cosa si pensava fosse
successo».
«Cioè che mi ero introdotta illegalmente nella casa, avevo rubato alcuni
oggetti e sparato a Caroline», disse Weezie. «È quello che pensano tutti».
«BeBe sa che non hai fatto niente del genere», ribatté James, dandole un
colpetto sulla mano. «Ha portato a casa il pick–up. Jethro è con lei. Voleva
solo assicurarsi che io fossi al corrente dell'accaduto».
La porta si spalancò. Bradley infilò dentro la testa e tossicchiò in tono
zelante. «È ora di andare».
«Andare?». Weezie sembrava confusa.
«In prigione», spiegò Bradley. «È così che funziona quando si è accusati
di omicidio».
16

Passai la notte in prigione. Quello lo ricordo. Tutto il resto, il mio


subconscio lo ha completamente rimosso. Grazie a Dio.
Il mattino dopo, James e BeBe pagarono la cauzione e mi fecero uscire.
James portò la Mercedes davanti alla porta laterale della prigione e BeBe
arrivò di corsa reggendo un enorme porta–abiti e il suo beauty case, che la
maggior parte della gente potrebbe usare come valigia per una settimana di
vacanza.
«Cos'è tutta quella roba?», le chiesi stancamente. «Voglio solo andare a
casa, BeBe. Farò una doccia e mi cambierò quando arrivo là».
«Non se ne parla neanche», ribatté lei con decisione. «Qua fuori c'è una
folla di giornalisti che ti aspettano. Tutte le stazioni televisive, i giornali di
Savannah, Atlanta e Jacksonville, c'è persino una tizia che intervista le
persone e giura di lavorare per People. Se credi che ti permetterò di uscire
in questo stato ti sbagli di grosso. Forza, facciamo un salto nella toilette
delle signore e proviamo a darti una sistemata. Non so come potrò
nascondere quelle occhiaie scure. E quelle punture di zanzara! Cavoli,
Weezie».
«No», sussurrai. «Perché? Perché sono venuti?».
BeBe batté le palpebre. «Tesoro, detesto dovertelo dire, ma questa è una
storia davvero sensazionale. Non solo per Savannah ma per qualunque città.
Il paparino di Caroline è un importante architetto di Chicago. E Tal... be',
noi due sappiamo che è solo un impiegatucolo vigliacco, ma appartiene a
un'antica famiglia molto in vista di Savannah, ed era fidanzato con lei. E tu
sei la ex moglie di Tal. E affrontiamo la cosa, voi due avete una storia alle
spalle. Non andavate d'accordo».
Il mio stomaco si strinse. La mia migliore amica pensava che avessi
ucciso Caroline.
«Ma non sono stata io. Ero con te. L'hai detto alla polizia, vero?».
Lei annuì vigorosamente. «Certo. Gliel'ho ripetuto un sacco di volte.
Siamo rimaste insieme tutta la sera. Fino a quando? Mezzanotte? Il
problema, Weezie, è che abbiamo bevuto tutto quel vino e io mi sono
addormentata. Sai come sono, quando alzo il gomito. Potrei dormire anche
mentre infuria un uragano. In effetti, ho dormito durante l'uragano Floyd».
«Ma non pensi che l'abbia uccisa io, vero?».
«L'hai fatto? Insomma, in tal caso non te ne farei una colpa».
Gemetti. «BeBe!».
«Okay, okay», si affrettò a dire lei. «No. Naturale che non sei stata tu.
Assolutamente no. Eloise Foley non è tipo da uccidere qualcuno».
«Grazie», dissi debolmente.
«Per quanto, se tu mi avessi chiesto di aiutarti, avrei comprato i
proiettili».
«Non dirlo neanche per scherzo, ti prego», la pregai. «Ti ho detto che mi
hanno ammanettato? E che, mentre ero seduta su quell'autopattuglia,
un'altra macchina si è fermata accanto a noi? Indovina chi ha guardato
dentro, fissandomi?».
«Chi?».
«Patti Dowd».
«Chi è?».
«Patti Dowd, capoclasse quando frequentavamo la St. Vincent. E Marcia
Watts le sedeva accanto. E Janisse Haddad era al volante! Non puoi non
notare la Viper gialla che il marito le ha regalato per il suo trentesimo
compleanno».
BeBe gemette. «Se Marcia Watts ti ha visto, probabilmente è stata lei ad
avvisare i media».
«Non è affatto uno scherzo. I vicesceriffi mi hanno perquisita. Ho dovuto
mettere scarpe da prigione. E la mia cella aveva una panca d'acciaio
inossidabile che era in parte una toilette».
«Ihhh», disse BeBe, pulendosi le mani sui pantaloni. «Avrei preferito che
tu me l'avessi raccontato prima che ti abbracciassi. Senza offesa».
Mentre lei teneva bloccata la porta della toilette mi levai tutti gli
indumenti che avevo indosso la notte prima e li gettai nel bidone dei rifiuti.
Mi lavai a pezzi, lì nel bagno delle donne della prigione della contea di
Chatham, sfregandomi la pelle fino a farla diventare scarlatta. Poi mi infilai
gli slip che BeBe mi aveva portato da casa. Lei aprì la cerniera del porta–
abiti ed estrasse un abitino alla marinara di lino blu, completo di ampio
colletto, fiocco rosso e pieghe. Giuro, aveva anche le maniche a sbuffo.
«Blah!», esclamai, tenendolo a distanza con un braccio. «Dove sono i
jeans e la maglietta che avresti dovuto portarmi?».
«A casa», rispose lei in tono risoluto. Aprì la cerniera dell'abito e cercò di
infilarmelo dalla testa, ma la spinsi via.
«In nome di Dio, dove hai trovato quello straccio? Da Punch n' Judy?».
Era la boutique di Savannah che vendeva costosissimi vestiti per bambini.
Mia madre mi aveva costretta a portare gli abitini pieni di fronzoli di Punch
n' Judy fino a quando non avevo compiuto dodici anni e mi era cresciuto un
seno che nessun genere di punto smock o falpalà riusciva a nascondere. Era
scoppiata a piangere quando la commessa le aveva spiegato che non
vendevano reggiseni da ragazzine della seconda misura, nella sezione
Teenager.
BeBe cercò di prendere un'aria offesa. Non fu molto convincente.
«Si dà il caso che provenga dal negozio Young Careers. È un abito molto
grazioso».
Incrociai le braccia sopra il reggiseno. «Benissimo. Allora mettilo tu.
Non mi farei vedere con quella roba addosso neanche morta. Dov’erano i
miei jeans?».
Lei sospirò. «È stato tuo zio James a suggerirlo. Dobbiamo pensare alla
tua immagine, Weezie. Non puoi semplicemente uscire di prigione con i
tuoi jeans sdruciti e le magliette tinte in casa mentre tutti quei giornalisti e
fotografi ti aspettano là fuori. Devi avere un'aria dolce. Persino pudica.
Innocente».
«Non ho bisogno di avere un'aria innocente. Sono innocente».
«Be', questo loro non lo sanno». Infilò una mano nella borsa ed estrasse
un paio di scarpe décolleté blu. Con un fiocchetto di gros–grain blu sul
davanti. Lo giuro davanti a Dio. Un fiocchetto.
«Ecco. Metti anche queste».
Le lanciai un'occhiata feroce. «Niente calzine bianche?».
Dopo avermi vestita, mi truccò con un chilo di correttore, una rapida
spolveratina di cipria e un velo di rossetto rosa chiaro.
Mi accigliai quando vidi cosa aveva fatto. «Dammi del fard, ti spiace? E
del mascara. Ho l'aspetto di una persona che abbia urgente bisogno di una
trasfusione».
«È quella l'idea che vogliamo dare», spiegò BeBe. «Pallida. Emaciata.
Abbattuta».
Quando finì di sistemarmi, indietreggiò per esaminare il risultato delle
sue fatiche. «Mi piace. Semplice. Addirittura virginale. Andiamo».
Un vicesceriffo ci accompagnò fino alla porta sul retro ma, quando l'aprì,
una folla di persone si lanciò verso di me.
Una dozzina di teleobiettivi erano puntati in direzione della mia faccia.
Notai una mezza dozzina di macchine da presa. La gente mi chiamava per
nome. «Weezie! Eloise Foley! Hai ucciso quella donna? Perché l'hai fatto,
Weezie?».
James si fece largo tra la folla e mi prese per un braccio, mentre BeBe mi
strinse l'altro. Era nel suo elemento, mentre respingeva le macchine
fotografiche. «No comment!», gridava. «La signorina Foley non ha niente
da dire!».
James spalancò la portiera posteriore della Mercedes e, prima che potessi
rendermene conto, BeBe mi spinse dentro. Lei saltò sul sedile del
passeggero accanto a mio zio, e un attimo dopo ci staccammo rombando dal
cordolo del marciapiede.
BeBe stava ridendo come una pazza. «È stato magnifico!», esclamò,
esultante.
James si voltò per rivolgermi un'occhiata piena di comprensione. «Stai
bene?».
Scossi il capo. «Sì. Stanca. Umiliata. Credi che lo trasmetteranno davvero
in TV?».
«Temo di sì, tesoro», rispose lui. «I giornalisti hanno continuato a
telefonare per tutta la mattina. Stamattina presto sono venuti a picchiare alla
mia porta. Hanno circondato casa tua. E anche quella di Tal, naturalmente.
Quindi non possiamo tornare a Charlton Street, per ora».
Mi morsi il labbro. Per la prima volta, quel giorno, sentii lacrime bollenti
riempirmi gli occhi.
«Allora dove mi state portando?».
«A casa mia», rispose rapidamente BeBe. «Nessuno saprà mai dove ti
trovi».
«D'accordo», dissi, sconfitta. Avevo il corpo indolenzito e gli occhi che
bruciavano per la mancanza di sonno. Appoggiai la nuca alla pelle fresca
che rivestiva il poggiatesta. Poi mi ricordai di una cosa. Il vestito.
«BeBe».
Lei si voltò. «Cosa c'è, tesoro?».
«Dove hai preso questo vestito? Il negozio Young Careers è chiuso ormai
da anni».
Lei sorrise. «Lo ha portato tua madre. Lo conservava per te».
Quando varcai la porta d'ingresso di BeBe, Jethro spiccò un salto e per
poco non mi fece cadere all'indietro. Abbaiò e scodinzolò – e fece pipì su
tutto il pavimento.
«Quel cane deve uscire di qui», dichiarò la mia amica, allungando una
mano verso il suo collare.
«Ti prego, BeBe», dissi, cercando di apparire pallida e virginale e
innocente mentre asciugavo la pozza con un tovagliolo di carta. «Non lo
farà più. Era semplicemente felice di vedermi. Ti prego, non metterlo fuori.
Voglio solo stendermi e fare un sonnellino. Lui starà con me, vero, Ro–
Ro?».
Jethro si accovacciò, mi posò le zampe anteriori sulle spalle e mi leccò
vigorosamente il volto. Era una sensazione magnifica.
«Come farai a dormire con quel bestione che sbava dappertutto?», si
agitò BeBe. «E cosa mi dici delle pulci? Se le attacca ai miei gatti giuro che
lo scuoio e inchiodo la sua pelle alla porta posteriore».
«Non ha le pulci, vero, Ro–Ro?».
Jethro scodinzolò energicamente.
«Significa no», spiegai.
James mi diede un bacio sulla testa e io lo abbracciai. «Vado a vedere se
riesco a guadagnarmi il pane», annunciò. «Ho fatto qualche ricerca. Sono
sicuro che nessuno degli oggetti che hanno trovato nella casa – come le
pistole antiche o il sacchetto di plastica con lo scontrino del vino – possa
essere usato come prova contro di te perché quelle guardie giurate hanno
lasciato entrare così tanta gente nella villa che non sono in grado di stabilire
con certezza chi ha toccato cosa. Ma voglio andare a Beaulieu a dare
un'occhiata in giro, per vedere se riesco a scoprire qualcosa di più su quello
che è successo là venerdì sera».
«La vendita», dissi. Provai una fitta al cuore. La più grossa vendita di
arredi del secolo, e io avevo passato tutto il giorno in prigione. «A quest'ora
sarà già finita. Dio. La mia unica chance».
«Ti sbagli», ribatté vivacemente BeBe. «I poliziotti hanno invaso la casa.
La vendita è stata annullata, tesoro. E avresti dovuto sentire che putiferio
hanno fatto i compratori. Lewis Hargreaves dava l'impressione di essere sul
punto di avere un infarto miocardico lì sul posto, tanto era rosso in viso. Ho
temuto che un paio di quei tizi volessero assaltare la villa. E lo avrebbero
fatto per davvero, solo che i poliziotti hanno cacciato via tutti dalla
proprietà e circondato la casa con quel nastro giallo da scena del crimine».
Sorrisi e poi sbadigliai. Era la notizia migliore della giornata.
Naturalmente, era ancora il giorno più brutto della mia vita.
Dormii il sonno degli angeli. O dei dannati. Ma era comunque sonno, e io
ero così stanca da avere l'impressione che non sarei mai più riuscita a
svegliarmi. Percepii in sottofondo lo squillo di un telefono e il picchiettare
dei tacchi di BeBe sul pavimento in legno. Sentii scorrere dell'acqua, delle
voci e il fioco ronzio di un televisore in lontananza. Ma continuai a dormire.
Quando mi svegliai, Jethro era scomparso. Guardai fuori dalla finestra
della stanza degli ospiti. Era sceso il crepuscolo. Le lucciole brillavano tra
le fronde di una palma davanti alla finestra. Avevo dormito per quasi sei
ore.
Andai in bagno a lavarmi la faccia. Mi guardai nello specchio e vidi che
indossavo ancora il vestito alla marinara. Lo abbandonai in un mucchio
disordinato sul pavimento e tornai in camera, dove trovai un sacchetto di
carta contenente i miei amati jeans, una maglietta e persino il mio paio di
sandali infradito preferiti.
BeBe era in cucina e stava parlando al telefono. «Oh», disse,
guardandomi e coprendo il ricevitore con la mano. «Sei sveglia. Giusto in
tempo. Daniel ti ha mandato la cena. Temevo che si raffreddasse».
«Daniel?». La peluria sul retro del mio collo cominciò a pizzicare.
«L'ha visto al telegiornale. Ha telefonato due volte, chiedendo di te».
Tolse la mano dal ricevitore. «Senti, Emery, ora non posso parlare. C'è
una persona con me. Richiamami più tardi».
Mi sedetti su uno degli sgabelli accanto al tavolo. BeBe si avvicinò e
cominciò a estrarre da un sacchetto di carta contenitori di cartone da
asporto.
Un vapore profumato si diffuse nella cucina. Aglio, cipolla, un'erba
aromatica che non riuscii a identificare. Jethro comparve dal nulla e posò le
zampe sul piano di lavoro, accanto a BeBe, che lo spinse via.
«Non ti sembra un gesto dolcissimo?», chiese. «Ti ha preparato pollo al
curry e riso pilaf, e dai un'occhiata a questa magnifica insalata Caesar».
Sollevò il coperchio di un contenitore pieno di croccanti foglie di lattuga.
Il mio stomaco fece una piccola capriola.
«Non ho fame».
«Stronzate», ribatté BeBe. «So con sicurezza che non tocchi cibo da
almeno ventiquattro ore».
«James mi ha dato un pezzo di merendina», dissi debolmente.
Lei aprì un armadietto e prese due piatti di porcellana bianca. Li sistemò
sul piano di lavoro e aggiunse tovaglioli e posate d'argento. Poi prese una
bottiglia di vino bianco dal frigorifero di acciaio inossidabile da ristorante e
versò un bicchiere per ciascuna.
Quando i piatti furono pieni di cibo, si sedette accanto a me e indicò il
mio con la forchetta. «Ora mangia», intimò in tono severo. «Altrimenti
chiamo uno di quei giornalisti e gli dico dove sei nascosta».
«Ricattatrice», risposi. Ma presi un pezzetto di pollo. Divino.
BeBe fece un sorriso angelico. «Vedi», disse, «quell'uomo sa cucinare.
Ed è interessato a te, Weezie. Molto interessato».
«Ma io non sono interessata a lui», ribattei, mangiando un altro boccone
di pollo. «Tutto quello che desidero è finire la cena, prendere il mio cane e
andare a casa. E dimenticare che questo giorno sia mai esistito».
17

Chiusi a chiave la porta dietro di me e feci un profondo respiro. Ero a


casa. Jethro mi premette la testa contro le ginocchia. Mi sedetti sul
pavimento e gli presi il muso tra le mani. «Credevi che ti avessi
abbandonato, non è così, amico?». Mi leccò il mento. «Hai pensato che i
cattivi mi avessero rinchiuso per sempre, vero?».
Un'altra leccatina. Posai la nuca contro il bracciolo del divano e chiusi gli
occhi. Ma solo per un minuto.
Passai di stanza in stanza, accendendo tutte le luci, sfiorando con le dita
le superfici dei tavoli. Tutto era identico a come lo avevo lasciato... quando?
Soltanto un giorno prima?
In cucina, la lucina rossa della segreteria telefonica lampeggiava
furiosamente. Indietreggiai, allontanandomi come se fosse un serpente
velenoso. Conoscevo quel lampeggiare: la mamma. L'avrei richiamata, più
tardi. Non subito. Al momento non avevo la forza necessaria per affrontare
la sua isteria.
Salii al primo piano. Un tempo era stato un solaio lasciato incompleto,
ma quando avevo preso possesso dell'ex rimessa delle carrozze avevo
lasciato i soffitti spioventi così com'erano, dipinto di bianco le vecchie travi
scure e lo avevo trasformato in una camera da letto, completa del bagno
padronale dei miei sogni – grazie a una vasca di ferro battuto con i piedi ad
artiglio che, previa bustarella di cinquanta dollari, un netturbino mi aveva
portato a casa dallo scheletro bruciato di una casetta vittoriana a schiera
sulla Trentottesima Strada.
Al centro della camera avevo sistemato un imponente letto antico di
ottone, dal quale potevo guardare fuori dalle due finestre con le tendine di
pizzo e dal minuscolo balcone di ferro battuto rivolto verso il retro della
casa grande.
Il giorno prima avevo avuto una tale fretta di uscire che non avevo
nemmeno rifatto il letto – il che non era da me. Fare il letto era un rituale
che amavo. Nel corso degli anni avevo raccolto ceste di lenzuola e vecchie
federe – lenzuola di lino irlandese con bordi all'uncinetto, federe con
eleganti monogrammi (mai le mie iniziali), piegoline, ricami e pizzi fatti in
convento. Sopra stendevo un antico copriletto matelassé bianco dai bordi
smerlati. Accanto alla testata tenevo un mucchio di cuscini inamidati e
sull'estremità opposta la trapunta patchwork che nonna Foley aveva
confezionato come regalo di nozze per mia madre.
Ero piuttosto esperta sulle trapunte patchwork ma questa era decorata da
un motivo che non avevo mai visto da nessun'altra parte, probabilmente una
variante della "catena irlandese". I colori erano tenui tinte pastello, risalenti
all'epoca della Depressione, probabilmente ricavati da vecchi sacchi di
mangime.
La trapunta era scivolata sul pavimento. La raccolsi e mi sedetti sul bordo
del letto. Jethro saltò su, sistemandosi accanto a me. Me l'avvolsi intorno
alle spalle e affondai il naso nelle pieghe di soffice cotone. Persino dopo
tutti questi anni conservava il profumo di mia nonna: lavanda e sapone in
scaglie. Alla mamma non piacevano le cose antiquate come le trapunte
patchwork, così l'aveva lasciata per anni nel baule di cedro che conteneva il
suo corredo finché non l'avevo supplicata di darmela.
Mi stesi sul letto e chiusi di nuovo gli occhi. Magari sarei riuscita a
dormire e quella sensazione di nervosismo e irrequietezza sarebbe
scomparsa. Magari sarei riuscita a cancellare dalla mente l'immagine del
viso cereo di Caroline e tutti gli altri orrori delle ultime ventiquattro ore.
Ma il sonno si rifiutò di arrivare, anche dopo che feci un lungo bagno
bollente di schiuma e mi infilai la mia camicia da notte di cotone più fresca.
Mi sentivo ancora inquieta, agitata da una strana energia repressa. Alla fine
gettai da parte la trapunta e tornai al pianterreno.
In cucina continuai a dare la schiena alla segreteria telefonica e rovistai
nel frigorifero cercando qualcosa che potesse calmarmi i nervi. Non c'era
molto cibo perché ero stata troppo impegnata a prepararmi alla vendita per
fare la spesa. Avevo uova, panna, formaggio e un involto di carta stagnola
dall'aria sospetta che, come scoprii, conteneva il prosciutto che la mamma
mi aveva dato da portare a casa dopo che avevo pranzato da loro la
domenica precedente.
Un'omelette! Sbattei le uova con la panna e misi il prosciutto a rosolare,
con una scandalosa quantità di burro, in una padella di ghisa nera.
Mentre il prosciutto sfrigolava, grattugiai il formaggio e lo aggiunsi alle
uova e alla panna, insieme a sale e pepe nero. Il profumo del prosciutto che
friggeva mi fece quasi svenire. Naturalmente Jethro pretese la sua parte di
avanzi.
Quando l'omelette fu pronta, riempii di Chardonnay un bicchiere da tè
freddo e andai a sedermi al minuscolo tavolo della cucina. All'improvviso,
però, l'aria condizionata sembrava troppo fredda. Rabbrividii e decisi di
andare a mangiare la mia cena di mezzanotte in cortile.
Posai il piatto e il bicchiere sul tavolino di ferro battuto sotto l'ombra
della lagerstroemia rosa. L'umidità mi avviluppò come una coperta ma
apprezzai il tepore dell'aria.
Mangiai un boccone di omelette e sorseggiai il vino, imponendomi di
rilassarmi. Amavo il cortile durante le ore notturne. Per la maggior parte del
tempo, il quartiere storico è riempito dal fragore delle varie attività, dal
rombo degli autobus turistici, del traffico e dei martelli pneumatici
impegnati nel perenne processo di restauro. Ma a quest'ora le strade erano
silenziose. Ormai i turisti erano stati sistemati nei loro costosi bed and
breakfast, ed era come se la città appartenesse solo a me.
Sbocconcellai l'omelette e lasciai vagare lo sguardo nel cortile. C'era una
pianta di rose bianche rampicanti abbarbicata ai mattoni intorno alla porta
della mia casetta; sei settimane prima era stata piena di fiori. Adesso avrei
dovuto tagliare i fiori appassiti e probabilmente annaffiarla bene, visto che
avevamo avuto una primavera molto secca. Mi alzai e attraversai il cortile
per raggiungere il minuscolo stagno per i pesci rossi accanto al cespuglio di
osmanto. Mi sedetti sul bordo di sassi e lasciai cadere al centro un pezzetto
di omelette. Lo specchio d'acqua era talmente piccolo da poter ospitare solo
due carpe koi–Rocky e Bullwinkle – che ora comparvero sotto il pelo
dell'acqua, sbocconcellando l'omelette.
Presi un altro sorso di vino, e una brezza leggera mi agitò i capelli sulla
nuca. Alzai gli occhi e notai per la prima volta che la finestra al secondo
piano della villa, quella dello studio di Tal, era illuminata.
Un viso si stagliava dietro il vetro. Tal. Lo vidi così chiaramente da
restare quasi senza fiato. Stava guardando fuori dalla finestra ma senza dare
l'impressione di vedere nulla. Mentre lo fissavo, nascose il volto tra le mani.
Distolsi lo sguardo, addolorata perché la sua disperazione era così nuda,
così palese. Poi, incapace di impedirmelo, guardai di nuovo. Sembrava
paralizzato dietro quella finestra, una ciocca di folti capelli color grano che
gli cadeva sugli occhi, le dita allargate sul viso.
Stava soffrendo per Caroline. Rimasi stupita dalla fitta di sofferenza che
provai. Non avevo messo la parola fine una volta per tutte, non avevo
superato tutte quelle stronzate romantiche? Il nostro matrimonio era finito
da più di un anno. Un tempo sufficiente per sanare le ferite, mi ero detta.
Ma era così dannatamente difficile non amarlo. Eravamo usciti insieme
per due anni, eravamo stati sposati per poco più di dieci. Quasi metà della
mia vita. Avevo amato Tal così a lungo che facevo fatica a ricordare cosa
ero stata prima che noi due formassimo una coppia. La nostra separazione
era stata piena di amarezza e a un certo punto mi ero imposta di rimuovere
qualsiasi ricordo di come era stata la nostra vita prima che tutto andasse in
pezzi.
Adesso, senza che lo volessi, i ricordi tornarono prepotenti mentre sedevo
lì in giardino, in camicia da notte, guardando l'unico uomo che avessi mai
amato davvero. Mentre lui era nella casa che avevamo costruito insieme, a
piangere la donna che si era messa tra noi. Quella che lui pensava io avessi
ucciso.
Sembrava così dannatamente vulnerabile. Così fragile – una parola che
non avrei mai pensato di associare a Talmadge Evans.
Ripensai a quando ci eravamo conosciuti, in un locale di River Street. Io
avevo diciott'anni, mi ero appena iscritta all'Armstrong State College e
vivevo ancora con i miei genitori.
Era stato chiaro sin dall'inizio che non frequentavamo lo stesso ambiente.
Tal era il tipico preppy. WASP. Un classico esemplare da scuola privata. I
suoi genitori vivevano in una grande villa di Ardsley Park, suo padre
lavorava in una delle banche del centro. Nulla di tutto ciò aveva la minima
importanza.
Quella sera, all'ora di chiusura, mi convinse ad accompagnarlo fino alla
sua auto. Mi tirò all'interno della sua MG e mi fece sedere sulle sue
ginocchia. Non riuscivamo a staccarci. Oh, Signore, ero così pazza di lui
che ancora arrossisco al solo pensiero.
Il giorno dopo mi telefonò e andammo al cinema, dopo di che
raggiungemmo in auto la spiaggia e, per la prima e ultima volta nella mia
vita, feci sesso con un uomo al primo appuntamento.
Fu bellissimo.
Quando le vacanze natalizie terminarono, lui tornò al Georgia Tech e io
lo seguii.
Si laureò alla fine del quadrimestre invernale. Era marzo. Ci trasferimmo
di nuovo a Savannah e in giugno ci sposammo, andando ad abitare in un
minuscolo appartamentino al pianoterra di una casa di Jones Street che
apparteneva a un amico degli Evans.
E sì, ricordo quegli anni come un periodo di perfetta felicità. Facevo
lavori di cui non mi importava e Tal e io progettavamo il nostro futuro. Lui
disegnò sulla spiaggia il bozzetto della casa che avrebbe costruito per noi su
un'isoletta vicina alla costa. Io riempivo le nostre minuscole stanze con le
mie scoperte d'occasione, tinteggiavo, sabbiavo e tappezzavo. Dopo cinque
anni la mamma cominciò a parlare di nipoti ma Tal si stava ancora
costruendo una carriera, inoltre ci stavamo divertendo troppo per desiderare
che dei bambini ci ostacolassero.
Quando trovai la casa su Charlton Street capii che era quella. Tal voleva
qualcosa di più piccolo, vicino ai suoi genitori ad Ardsley Park, ma nel
momento in cui vidi l'agente immobiliare sistemare il cartello nella finestra
della casa seppi che sarebbe stata mia. Lo fermai e lo interrogai sul prezzo e
sull'identità del proprietario, ma lui non volle fornirmi informazioni.
Non aveva importanza. A quel punto BeBe e io eravamo già amiche, e lei
conosceva tutti, in città. Le bastarono tre rapide telefonate, e mi chiamò per
dire che la casa apparteneva a una certa Jean MacCready.
Avrei potuto piangere di gioia. La signorina Jean, una zitella che aveva
superato l'ottantina, viveva nello stesso quartiere dei miei genitori ed era
stata la madrina della mamma. Oltre al nome Eloise, un'antica tradizione dei
Foley, mi era stato dato quello di Jean proprio in suo onore. Non avevo mai
saputo che l'anziana donna avesse delle proprietà in centro. Quando chiesi
alla mamma della villa di Charlton Street, sembrò stupita che non ne sapessi
niente.
«Era la loro antica dimora di famiglia», spiegò. «Credo che appartenesse
a Walter, il fratello di Jean, che è morto l'anno scorso. Si occupava di navi
mercantili e tornava a casa solo una volta ogni tanto».
«Chiamala», la supplicai. «Devo avere quella casa. Morirò se non riesco
a comprarla».
Così infilai il mio vestito più classico, scarpe con i tacchi e collant –
persino la collana di perle del mio matrimonio – e la mamma e io andammo
a fare visita alla signorina Jean.
Lei ci offrì tè caldo al limone, anche se era agosto e nel suo piccolo
bungalow di mattoni si soffocava, e mi interrogò sui miei progetti per la
dimora di famiglia dei MacCready.
«Non intendi demolirla, vero?», chiese in tono sospettoso. «L'ha costruita
mio nonno. Mia madre è nata lì».
La mia espressione sconvolta fu sincera. «Non demolirei mai quella casa,
signorina Jean», giurai, alzando una mano.
«E cosa mi dici dei bambini?», domandò lei, fissando senza mezzi
termini il mio grembo vuoto, fino a quel momento rimasto sterile. «In
quella casa ci sono sempre stati dei bambini. Ecco perché Walter non l'ha
mai voluta vendere. Tutti gli omosessuali che vivono in centro volevano
comprare la casa di mio nonno, ma Walter diceva che si sarebbe rivoltato
nella tomba se gli invertiti vi avessero messo le mani sopra».
La mamma inarcò un sopracciglio. Mi chiesi se avesse dato lei
l'imbeccata all'anziana signora.
«Oh, desideriamo dei figli», dissi, «ma l'appartamento di Jones Street è
davvero minuscolo, e il padrone di casa non vuole bambini. Se potessimo
avere la casa di suo nonno, la riempiremmo di bimbi».
Entrambe le sopracciglia della mamma schizzarono verso l'alto, quindi
evitai di guardarla. Tal e io non avevamo parlato di figli, ma lui non aveva
mai detto di non volerne e probabilmente in un angolino del mio cervello io
avevo sempre immaginato che un giorno li avremmo avuti – non appena
avessimo abitato in una casa tutta nostra.
«Dareste loro un'educazione cattolica, naturalmente», disse la signorina
Jean, curvandosi in avanti per darmi una pacca sulle mani.
Eravamo così vicine a raggiungere un accordo che avrei accettato di
crescere i miei figli come cannibali, se questo l'avesse resa felice.
«Sì», assicurai. «Cattolici. Naturalmente».
Mamma Evans avrebbe avuto un doppio attacco isterico, pensai
malignamente.
La signorina Jean bevve un sorso di tè. «Non mi è mai piaciuta l'idea che
gente di ogni genere si aggirasse con passo pesante nella casa del nonno,
osservandola, parlandone, toccando gli oggetti», spiegò alla mamma,
ignorandomi. «Ma le tasse su quella villa continuano a salire e ora che
Walter se n'è andato devo pensare al mio futuro».
«Certo», ribatté la mamma. Poi fece una cosa del tutto inaspettata: si
espose per me, benché io sapessi benissimo che considerava la villa troppo
vecchia e fatiscente.
«Jean», disse, curvandosi verso la sua madrina, «Weezie ama davvero le
vecchie case. Ne va pazza. È una bravissima padrona di casa, molto più
brava di quanto io sia mai stata. Tal è un giovane architetto di grande
talento, ma è solo agli inizi. I ragazzi non hanno molti soldi».
Lasciò che la signorina Jean assimilasse tutte le informazioni.
Sorseggiammo il tè e parlammo dei fiori dell'anziana signora e del suo
impegno per l'associazione religiosa. Io ero quasi fuori di me per
l'impazienza, ma sapevo che cosa aveva in mente la mamma.
Alla fine, mentre raccoglievamo le borsette e ci preparavamo ad
andarcene, la signorina Jean mi prese da parte.
«Voglio che tu abbia la casa», annunciò. «Il tizio dell'agenzia
immobiliare sostiene che dovremmo ricavarne trecentomila dollari ma
credo stia solo dicendo una bugia per farmi contenta. So in che condizioni
è. Significherebbe davvero molto per me se la persona che porta il mio
nome riuscisse a comprarla. Credi che potreste pagarla duecentomila
dollari?».
Il cuore mi batteva all'impazzata. Era una cifra alla quale non osavo
nemmeno pensare. Ed era la metà del valore effettivo della casa, anche se
quest'ultima fosse stata costituita solo da quattro mura in rovina.
«La prendiamo», risposi. Lei mi diede un bacio sulla guancia per
suggellare l'accordo.
Fuori, in macchina, la mamma mi guardò con aria incredula. «Hai
accettato di comprare quel... quel rudere senza nemmeno consultare tuo
marito?».
Lei non comprava nemmeno un tubetto di dentifricio senza
l'approvazione di mio padre. Dopo quarant’anni di matrimonio non aveva
mai nemmeno messo il suo nome sul loro conto in banca. Ogni domenica
sera, papà si limitava a contare una serie di biglietti da dieci dollari fino a
formare una piccola pila, e quella era la paghetta settimanale della mamma.
«So quello che faccio», dichiarai allegramente. «Tal adorerà quella casa.
Sai com'è per quello che riguarda il distretto storico. E non potevo
lasciarmela sfuggire – non a quel prezzo. Mamma, per me è un sogno
diventato realtà. Grazie infinite per aver parlato alla signorina Jean a nome
mio».
Mia madre incrociò le braccia e mi rivolse un sorrisino teso per
informarmi che alla fine avrebbe avuto la meglio su di me.
Era venerdì pomeriggio e mancavano pochi minuti alle tre. «Puoi darmi
un passaggio in banca?», chiesi. Eravamo sulla sua macchina.
«Perché?», chiese lei.
«Voglio spostare denaro dal conto di risparmio al conto corrente»,
spiegai.
La verità era che non avevamo nessun conto di risparmio, e Dio sa che
non possedevamo abbastanza soldi per coprire l'assegno che avevo appena
lasciato alla signorina Jean. Il tenore di vita che mantenevamo assorbiva
tutti i nostri guadagni. Volevo aprire la mia cassetta di sicurezza e
saccheggiare il mio gruzzoletto di buoni di risparmio. Questo tipo di buoni
erano sempre stati una specialità dei Foley. A ogni Natale e compleanno, sin
da quando riuscivo a ricordare, mi erano stati regalati buoni di risparmio da
cinquanta dollari – per il college.
I miei tre mesi di soggiorno all'università non li avevano intaccati. Con la
mamma seduta in macchina davanti all'edificio, entrai in banca, vuotai la
mia cassetta di buoni e li incassai. Una volta conclusa la transazione uscì
saltellando, con la gioia nel cuore. Corsi a casa il più in fretta possibile per
dire a Tal che avevo comprato una casa. La nostra casa.
Quando gli diedi la notizia non mi credette.
«Hai comprato una casa? Per duecentomila dollari? Sei impazzita? Dove
troveremo mai una cifra del genere?».
Era pallido, con gli angoli delle labbra contratti in un'espressione che non
gli avevo mai visto – pur avendola osservata molte volte su mamma Evans.
«È in Charlton Street, Tal», dissi, tirandolo verso la porta. «L'isolato 300.
Hai sempre detto che è uno dei tuoi preferiti, qui in città».
«Ho anche detto che la Jaguar è una delle mie auto preferite ma non esco
per andare a comprarne una senza avvisarti, no?».
«Vieni solo a vederla», replicai, facendogli oscillare la chiave sotto il
naso. «Mi dispiace di non averne discusso con te, tesoro, ma non ce n'è
stato il tempo. La mamma è intervenuta in mio aiuto – in mio aiuto! E la
signorina Jean vuole che la prendiamo noi. Davvero. La villa è sempre
appartenuta alla sua famiglia. E Tal, non ci crederai: ha intenzione di
concederci lei il mutuo. Al cinque per cento! Riesci a crederci? La rata
mensile non sarà molto più alta dell'affitto che paghiamo qui. E pensa agli
sgravi fiscali».
«Pensa a quanto ci costerà renderla abitabile», brontolò lui. «Hai mai
visto l'interno?».
«Non ne ho bisogno. È magnifico. Lo so. E se non lo è già, tu e io lo
sistemeremo».
«E moriremo poveri in canna».
Ma stavo vincendo le sue resistenze. A quei tempi, Tal amava quello che
amavo io. Prendemmo una torcia elettrica e una bottiglia di vino e
attraversammo a piedi i cinque isolati che ci separavano da Charlton Street.
«Guarda i mattoni», lo sollecitai, ferma sul marciapiede davanti alla villa.
«Tipici mattoni grigi di Savannah. Anche se ci limitassimo ad abbattere la
casa per rivenderli, guadagneremmo molto di più di quanto la stiamo
pagando».
«Belli», commentò Tal, passando la mano sulla facciata. Piegò la testa
all'indietro per osservare il secondo piano. «Anche il ferro battuto non è
male. Non bello come alcuni altri che ho visto ma decisamente carino».
«Forza, entriamo», dissi, dandogli una piccola spinta.
Mentre lui armeggiava con la serratura, io stavo già stilando un elenco di
cose da fare. Il massiccio pomolo e la piastra alla base della porta, entrambi
d'ottone, non venivano lucidati da anni. Avevo una confezione di lucidante
per ottone sotto il lavandino di casa. Tutte le finestre del piano terra erano
incrostate di sudiciume ma le inferriate di ferro battuto erano abbastanza
larghe per ospitare dei portavasi. Con il pensiero vi piantai balsamina rosa
chiaro, plectranthus variegata, con due palme piantate in enormi vasi di
ghisa sistemati ai lati dell'ampio gradino all'ingresso.
Tal aprì la porta, entrò e poi uscì altrettanto rapidamente. «Cristo!». Si
coprì naso e bocca con un braccio ripiegato. «C'è qualcosa di morto, lì
dentro».
All'interno della casa dei miei sogni ce n'erano parecchie di cose morte.
Un'indagine più accurata rivelò che numerose generazioni di piccioni e
scoiattoli si erano insediate nel camino, mentre una famigliola di pipistrelli
si era trasferita nella camera al secondo piano.
«La faremo fumigare», annunciai, dopo che facemmo una scappata al
negozio di fai da te per prendere mascherine di carta e potentissimi
deodoranti per ambienti. «Ma hai visto le modanature in soggiorno? Sono
larghe trenta centimetri. E i medaglioni di stucco sul soffitto? E
quell'adorabile piccolo lavandino nel bagno al piano di sotto? E pensa alla
cucina che potremmo creare dove adesso c'è la stanza dei domestici. Ci sarà
persino posto per una lavanderia. Dio, posso smettere di andare nella
lavanderia a gettone».
«Hai visto l'intonaco che si stacca dalla parete?», ribatté Tal. «Hai visto il
colore dell'acqua che esce dal tuo adorabile piccolo lavandino? Fango
liquido. Questo significa che le tubature sono di ghisa. Dovremo cambiare
tutte le condutture. Sai quanto si fanno pagare gli idraulici in questa città?».
Sentii che il mio labbro superiore cominciava a tremare. Avevo incassato
tutti i miei buoni di risparmio per il college, supplicato mia madre di
intercedere per me con la signorina Jean, e tutto quello che lui riusciva a
fare era lamentarsi di qualche scheletro di scoiattolo e di qualche tubatura
scadente.
Un attimo dopo mi stava stringendo tra le braccia, scusandosi «Mi
dispiace, Weezie», disse, dandomi un bacio sui capelli. «Hai ragione. È una
casa incredibile. Questo è uno dei quartieri del centro che preferisco. E hai
dimenticato di parlare della rimessa per le carrozze. Possiamo trasferirci lì a
vivere mentre sistemiamo la villa. Poi, una volta finita, potremo affittarla.
Scommetto che potremmo ottenere facilmente un migliaio di dollari al
mese. Reddito da immobili! Pensaci, saremo dei proprietari immobiliari».
Cominciò a disegnare bozzetti per la ristrutturazione della rimessa sul
retro del sacchetto di carta in cui avevo infilato il vino.
Avevo pensato spesso alla rimessa per le carrozze. E avevo i miei piccoli
bozzetti – solo in testa, naturalmente, e non eseguiti in modo altrettanto
professionale. Ma i miei progetti non prevedevano un appartamento da
affittare. Quello che avevo in mente era un piccolo negozio. Una minuscola,
perfetta bottega d'antiquariato, un posto in cui avrei potuto giocare a
vendere, magari allestire addirittura un piccolo recinto per bambini sul
retro. Tenni tutto per me, però. Tal aveva ragione, il canone d'affitto della
rimessa sarebbe stato una vera manna dal cielo. Il negozio poteva aspettare.
Per il momento volevo festeggiare il nostro colpo di fortuna. Stappammo
il vino, poi ci girammo per la casa tenendoci per mano, facendo progetti per
il nostro futuro a Charlton Street.

Adesso, alzando gli occhi verso Tal, verso il suo viso ridotto una
maschera di disperazione e infelicità, era difficile credere che tutto fosse
cambiato così drasticamente in così poco tempo.
Quand'era stato che la dolcezza era diventata tanto amara? Perché avevo
rinunciato così facilmente al mio matrimonio, se aveva significato così
tanto per me? Non mi ero mai considerata una persona rinunciataria. Forse,
pensai, avrei dovuto concedere un'altra chance a Tal, invece di intestardirmi
e dare inizio alla terza guerra mondiale.
Feci ruotare più volte il bicchiere di vino nella mano, guardando il mio ex
marito e scoprendomi ansiosa di raggiungerlo per abbracciarlo, consolarlo.
Poveretto.
Povero idiota! Sbattei il bicchiere sul tavolo. Dannazione a lui per avermi
tradito. Dannazione a lui per essersi infischiato di ciò che avevamo costruito
insieme. Dannazione a lui per aver amato Caroline DeSantos invece di me.
Finii il vino e gettai gli avanzi dell'omelette al di là del muro del giardino
posteriore, per i gatti randagi che ripulivano il vicoletto dai topi. Avevo
perso l'appetito ma all'improvviso avevo molta sete.
Tornata in casa, finii la bottiglia di vino e mi trascinai intontita su per le
scale, fino al letto. Da sola. Chiusi la portafinestra per non dover vedere Tal,
ma non ce n'era bisogno. La luce al piano di sopra era spenta. La casa era
buia.
18

La mattina del lunedì dopo il mio arresto avevo dei terribili postumi da
sbornia. Mi sedetti in cucina a sorseggiare il caffè e a guardare storto la
segreteria telefonica. Alla fine, alle nove, mi costrinsi a sollevare la
cornetta. Se la chiamo, mi dissi, sarò io a gestire la situazione. Sarò io ad
avere il controllo.
Povera illusa.
«Mamma?».
«Dov'eri?», chiese lei. «Ho continuato a telefonarti per ventiquattr'ore
filate. Tuo padre e io eravamo fuori di noi per la preoccupazione».
«Lo so. Mi dispiace. C'erano dei giornalisti accampati davanti a casa mia,
così ho passato la notte da BeBe. Poi, quando sono finalmente rincasata, ieri
sera, era talmente tardi che ho preferito non chiamarvi per non svegliarvi».
«Come se fossimo riusciti a chiudere occhio da quando è iniziato tutto
questo», scattò lei.
«Mi dispiace», ripetei, tracciando due tacche sul retro di una busta posata
sul piano di lavoro. Era un'abitudine che avevo preso quando parlavo con la
mamma: tenevo il conto di quante volte mi scusavo durante la
conversazione. Il mio obiettivo era di non superare le dodici volte in dieci
minuti. Sembrava che stavolta non ci sarei riuscita.
«Stai bene? Non hai... voglio dire, la gente in prigione non ti ha toccato –
o cose del genere?».
«Sto benissimo», risposi. «Ho guardato la televisione e ho letto un po'.
Lo zio James non vi ha telefonato per spiegarvi cosa stava succedendo?».
«Sì», ammise la mamma, «ma continuo a non capire come mai hai
chiamato lui invece di noi».
«James è un avvocato», sottolineai, benché non ve ne fosse bisogno. «Ho
semplicemente immaginato che sapesse cosa fare. Per farmi uscire su
cauzione e via dicendo».
«Uscire su cauzione», gemette lei. «Non riesco ancora a credere che tutto
questo sia potuto succedere».
«Non è così grave. Violazione di proprietà privata. Non è un vero e
proprio crimine, o quasi».
«Ma loro credono che tu abbia ucciso quella donna», ribatté bruscamente
lei. «L'hanno detto al notiziario ed era scritto su tutti i giornali, persino su
quello di Atlanta. Ho visto Sarah Donnellen alla messa delle dieci, ieri.
Papà ha acceso due candele per te, a proposito. La nuora di Sarah, che fa
l'avvocato ad Atlanta, le ha telefonato perché sapeva che siamo amiche. E
Sarah dice che secondo sua nuora potrebbero ancora accusarti di omicidio».
Mi morsi il labbro. Il figlio di Sarah Donnellen, Ricky, era stato un mio
compagno di classe alla Blessed Sacrament School. Era famoso per
gironzolare intorno alla struttura per arrampicarsi nel parco giochi, sperando
di riuscire a vedere le mutandine di qualche bambina. Qualunque donna
avesse sposato quel pervertito non poteva essere troppo sveglia, avvocato o
meno.
«Mamma», dissi in tono tranquillo, «non mi accuseranno di omicidio
perché non ho ucciso Caroline DeSantos. Non l'ho mai toccata. Sono entrata
in quella casa per andare in bagno, e questa è la verità».
Lei emise un lungo sospiro. «Quante volte ti ho detto di non usare i bagni
pubblici? E ancora non capisco cosa ci facevi là a quell'ora della notte».
«Volevo arrivare alla vendita il prima possibile», spiegai, cercando di
essere paziente.
«La situazione non sembra molto promettente. Ieri, a messa, ci fissavano
tutti. Ho fatto fatica a tenere la testa alta. Persino padre Morrison mi ha
guardato in modo strano, quando ho fatto la comunione».
«Padre Morrison guarda tutti in modo strano», risposi, cominciando a
perdere la calma. «È strabico, Cristo santo».
«Non nominare il nome di Dio invano davanti a me, signorina», mi
intimò la mamma. «Ora devo andare, mi sta venendo una delle mie
emicranie. Ma tuo padre vorrebbe parlarti».
Alzai gli occhi al cielo.
«Eloise?», borbottò lui.
«Mi dispiace, papà», togliendomi subito il pensiero.
«Hai bisogno di soldi?».
Caro vecchio papà.
«No. Sono a posto».
«Tua madre è piuttosto sconvolta», disse lui.
«Lo so, ma lo zio James sistemerà tutto. È stato un semplice malinteso,
tutto qui».
«E la ragazza morta?».
«Non l'ho uccisa io», dichiarai.
«Bene», ribatté lui, come se questo sistemasse tutto. «Stammi bene,
capito?».
Il telefono squillò non appena riagganciai. Guardai il display ma non
riconobbi il numero di chi chiamava, così lasciai che rispondesse la
segreteria. Saggia decisione. Era Ira Stein, il giornalista di cronaca nera del
Morning News. «La prego, mi richiami subito», disse. «Ho saputo che la
polizia ha trovato le sue impronte digitali sulla pistola ritenuta l'arma del
delitto nell'omicidio di Caroline DeSantos. E so anche che la signorina
DeSantos era fidanzata con il suo ex marito e che lei l'ha minacciata davanti
a testimoni».
Dio. Trovai il flaconcino degli analgesici e mandai giù quattro pasticche
con un'altra tazza di caffè.
Il telefono suonò a intervalli per tutta l'ora successiva. Anche il
campanello squillò. Invece di rispondere, corsi al piano di sopra per
guardare fuori e vidi due furgoni della TV satellitare parcheggiati nel
vicoletto dietro la mia casetta.
Stavo massaggiandomi le tempie e desiderando una generosa iniezione di
morfina quando bussarono di nuovo alla porta. Jethro si lanciò nell'ingresso
e cominciò ad abbaiare. Era corso su e giù per le scale latrando come un
ossesso ogni volta che squillavano il telefono o il campanello. Era stressato
quanto me. Cominciai a chiedermi se esistesse del Valium per cani.
«Va bene», borbottai, posando la tazza del caffè. «Attaccali, ragazzo».
«Non aizzare quel cane contro di me», disse una voce dietro la porta.
BeBe.
«Fai in modo di legarlo o qualcosa del genere, ti spiace? Sono vestita di
bianco e sai che adora saltarmi addosso».
Presi Jethro per il collare e lo trascinai in cucina. «Bravo», dissi. «Rimani
qui e ti lascerò aggredire il prossimo giornalista».
BeBe era in forma smagliante. In effetti, portava un semplice tubino di
lino bianco e sandali bianchi. I suoi capelli lucidi erano raccolti sulla nuca
in una specie di chignon. Stringeva una sporta piena di generi alimentari.
«Hai un aspetto orrendo», mi disse, restando a debita distanza. «Cos'hai
combinato?».
«Ieri sera mi sono ubriacata con dello Chardonnay scadente», spiegai. «Il
telefono non fa che squillare da ore. Mio padre ha cominciato a recitare
delle novene per me».
Scosse la testa con aria di disapprovazione. «Quante volte devo
ripetertelo? La vita è troppo breve per bere vino scadente».
«Per te è facile dirlo. Non lo paghi mai il normale prezzo al pubblico».
«Vero», ammise lei, sedendosi su una poltrona vicino alla finestra. «Ma
non è da te ubriacarti tutta sola. Come mai hai fatto bisboccia?».
«Ero depressa», risposi. «Sai, per essere appena uscita di prigione e via
dicendo».
BeBe strinse le labbra. «Uh–uh. Cos'altro?», chiese poi, chinandosi verso
di me. «Forza, raccontalo al dottor BeBe».
«Si tratta di Tal».
Lei fece un'espressione scioccata. «È venuto qui? Cosa ti ha detto?».
«Non è venuto qui. Non ho parlato con lui. Ero seduta fuori in cortile e
per puro caso ho alzato gli occhi. Lui era al piano di sopra, seduto alla sua
scrivania, guardando fuori dalla finestra. La sua espressione tormentata,
BeBe... Era così patetica. Mi ha fatto una tale compassione. Sembrava
davvero distrutto. E di colpo mi è tornato in mente tutto. Come ci siamo
innamorati, la nostra vita insieme. Era l'unica cosa che potevo fare per
impedirmi di correre a chiedergli di riprendermi con sé».
Lei spalancò gli occhi. «Dimmi che non hai fatto niente di stupido».
Sbuffai. «Certo, sono andata da lui e l'ho scopato fino a sfinirlo».
«Il che significa che hai bevuto fino a stordirti perché compativi il
bastardo e quella sgualdrina della sua amichetta».
«Sbronzarmi mi è sembrato più saggio che andare a letto con il mio ex»,
spiegai.
«Vero anche questo», convenne BeBe. «Ma dai un'occhiata qui, ti ho
portato delle provviste».
Cominciò a estrarre dei pacchetti dalla sporta. «Cioccolato. Molto più
appagante di uno Chardonnay schifoso. Croissant. Coca–Cola. Cereali
glassati, di quelli per i bambini – oh, sì, conosco il tuo piccolo vergognoso
segreto, Eloise Foley. Latte scremato, persino qualche biscotto da cani per
Jethro».
«Sei la migliore amica che ci sia», dissi, alzandomi per portare tutto in
cucina.
«Giù, Jethro», intimò BeBe, seguendomi. Prese la scatola di biscotti e
gliene lanciò uno. «Vedi com'è carina zia BeBe?». Infilò di nuovo la mano
nella borsa, poi si bloccò. «Ho portato qualcos'altro, oltre al cibo. I giornali.
Vuoi vederli?».
«Penso che ne farò a meno. La mamma mi ha già fatto un riassunto».
«Bene, e adesso?», chiese lei, versandosi una tazza di caffè. «Hai
intenzione di restare nascosta qui per il resto della vita?».
«No. Forse. Dannazione, non lo so».
«Cosa dice tuo zio?».
«Dice che secondo il suo amico penalista, le guardie hanno incasinato
tutto a Beaulieu, toccando gli oggetti all'interno della villa e sequestrando il
mio sacchetto senza autorizzazione. Questo amico dice che dubita che una
qualsiasi di queste prove – incluse le pistole – possa essere ammessa in
tribunale».
Lei bevve un sorso di caffè. «Chi è questo principe del foro?».
«Non lo so. James è molto misterioso in proposito».
BeBe sorrise. «Credi che si sia trovato una fidanzata? Buon per lui!».
«Non so chi sia questa persona», dissi in tutta sincerità. Non le avevo
detto che James era gay. Lui era ancora molto restio a parlare della sua vita
privata.
«Secondo me dobbiamo portarti fuori di qui», dichiarò BeBe, sbirciando
la bottiglia di vino da due litri nella pattumiera, «prima che tu cominci a
bere gin da un ferro da stiro».
«Cosa avevi in mente?», chiesi. Iniziavo ad avvertire un leggero senso di
claustrofobia.
Lei estrasse il giornale.
«Non mi interessa», dissi.
«Non saltare così in fretta alle conclusioni», replicò, battendo un dito
sulla pagina. «Questi sono gli annunci economici. Ricordi la scuola delle
Piccole Suore di Carità, giù a Sandfly?».
«Certo», risposi. «Era la scuola parrocchiale per bambini di colore, prima
che l'arcidiocesi unificasse tutte le altre scuole. Ma è chiusa sin dagli anni
Ottanta».
«Infatti», confermò BeBe. «E secondo l'articolo pubblicato sul giornale
di oggi, l'ultima delle suore è andata in pensione, tornando alla sua casa
madre di Philadelphia. Stanno per demolire la scuola e il convento per
costruire un centro commerciale. Sai cosa vuol dire la parola
"liquidazione"?».
Infilai i piedi nudi negli infradito accanto alla porta posteriore e afferrai
la borsetta. «Andiamo».
19

James parcheggiò l'auto accanto alla berlina blu marino, sotto una
vecchia ed enorme quercia a una dozzina di metri dalla porta d'ingresso
della vecchia villa.
Jay Bradley, il detective che aveva conosciuto la notte dell'arresto di
Weezie, era appoggiato al cofano del veicolo datogli in dotazione dalla
contea, fumando una sigaretta che gettò a terra vedendo arrivare James.
Aveva una camicia bianca a maniche corte, pantaloni scuri spiegazzati e
un'espressione annoiata.
«Come sta, padre?».
«Solo James, ricorda?».
«Mi scusi. Le vecchie abitudini sono dure a morire, sa».
«Allora», chiese James in tono energico, «siamo autorizzati a dare
un'occhiata in giro per la casa?».
Gli era profondamente seccato dover chiedere quel favore a Jonathan, ma
aveva davvero bisogno di farsi un'idea del tipo di prove che la polizia
poteva avere contro Weezie.
Anche Jonathan era stato incerto. «Un avvocato della difesa ha il diritto
di vedere la scena del crimine», aveva sottolineato. «Naturalmente, Weezie
non è stata accusata di omicidio».
«Ma secondo te lo sarà», aveva ribattuto James.
«Sai che non posso parlarne», era stata la risposta.
Così Jonathan gli aveva detto chi chiamare, e quella mattina Bradley gli
aveva telefonato per organizzare il sopralluogo, dando l'impressione di non
essere precisamente entusiasta dell'idea.
James sentiva già la camicia inzuppata di sudore. Dovevano esserci più o
meno trentotto gradi, e non erano ancora le dieci. Non osava pensare a
come doveva essere l'interno di quella vecchia casa ammuffita, con quel
caldo e quell'umidità.
Bradley si avviò verso il lato est della villa. Posò la mano sul tronco di
un'enorme vecchia magnolia che faceva sembrare quasi piccolo l'edificio, al
confronto. «È da qui che sua nipote dice di essersi introdotta all'interno»,
dichiarò.
«Se dice di essersi arrampicata sull'albero significa che è vero», replicò
James.
«Abbiamo rilevato le sue impronte sulla maniglia della porta della cucina
e su quella della porta d'ingresso».
«Prima ha provato ad aprire le porte, naturalmente, ma erano tutte chiuse
a chiave. Doveva andare in bagno».
«Certo», ribatté Bradley, la voce che grondava scetticismo. Pescò una
chiave dalla tasca dei pantaloni. «Noi entreremo dalla cucina».
James lo seguì all'interno. Nella stanza dall'aspetto antiquato, stipata fino
al soffitto di mobili impolverati, piatti e scatoloni su scatoloni di oggetti
eterogenei, era stato liberato uno stretto passaggio.
«Tutta la casa è così», disse Bradley, facendo schioccare la lingua per
esprimere la sua disapprovazione. «Piena zeppa di schifezze».
«La bellezza è negli occhi di chi guarda», ribatté James, ricordando
l'insistenza di Weezie sul fatto che Beaulieu fosse un'autentica miniera di
preziosi pezzi d'antiquariato. Anche se per quanto lo riguardava non
riusciva a immaginare che qualcuno potesse desiderare uno di quegli
oggetti.
Seguì nell'atrio il poliziotto che indicò le scale con la ricetrasmittente.
«Il corpo è stato rinvenuto lassù, nell'armadio di un bagno. Secondo sua
nipote, almeno».
«I suoi uomini hanno trovato qualche prova del fatto che il corpo sia stato
spostato?», chiese James. «La DeSantos era molto più alta di Weezie. Anche
se lei l'avesse uccisa, cosa che non ha fatto, dubito che sarebbe riuscita a
infilarne il cadavere in un armadio».
Bradley non rispose. Cominciò invece a salire le scale. I suoi passi
pesanti echeggiarono sui gradini di legno scheggiati e il corrimano gemette
ogni volta che lui vi si appoggiava con il corpo massiccio. James pregò
silenziosamente che le scale non crollassero sotto il peso dei due visitatori.
Al piano di sopra la calura parve se possibile ancora più opprimente.
Bradley si tamponò la fronte grondante con un fazzoletto, e James lo
imitò.
«L'armadio è in quel bagno», ansimò Bradley, precipitandosi verso la
porta di una camera da letto. «Devo aprire una finestra e fare entrare un po'
d'aria, prima di svenire».
«Giusto», disse James. Aspettò di sentire lo scricchiolio del telaio in
legno della finestra che veniva aperto, poi estrasse rapidamente la piccola
macchina fotografica che aveva in tasca.
Scivolò nel bagno e con la punta della scarpa aprì l'anta dell'armadio,
preparandosi a uno spettacolo sgradevole.
In realtà c'era ben poco sangue. Era un normalissimo armadio. Vuoto, a
parte alcuni vecchi appendiabiti di legno sparpagliati sul fondo.
Continuò a scattare il più in fretta possibile, cambiando inquadratura con
ogni foto. Quando ebbe finito, rimise in tasca la macchina fotografica e
tornò rapidamente in corridoio.
Sentì Bradley avvicinarsi, con il respiro affannoso. Il viso del poliziotto
era di un'allarmante sfumatura di grigio.
«Detective Bradley?», disse James, allungando una mano verso il braccio
del poliziotto proprio mentre questi barcollava, strabuzzando gli occhi.
L'uomo crollò a terra.
«Cristo santo», esclamò James, inginocchiandoglisi accanto. Posò i
polpastrelli alla base della gola del detective. Bradley aveva il fiato corto,
un colorito malato e, malgrado il caldo soffocante, la sua pelle era viscida al
tatto.
Tornò di corsa nel bagno. Afferrò un vecchio straccio appeso al porta
asciugamani, lo infilò sotto il rubinetto e aprì l'acqua. Le tubature gemettero
e, dopo quella che parve un'eternità, un sottile rivoletto di acqua marrone
cominciò a uscire dal rubinetto. Inzuppò lo straccio e tornò di corsa verso la
sagoma riversa di Bradley, strizzandolo sul viso e il collo dell'uomo, poi
tamponandogli i polsi e la base della nuca.
Cercò di sbottonargli il colletto della camicia, stretto intorno al collo
carnoso. Ma aveva le mani sudate e le dita si muovevano goffamente. Tirò il
colletto fino a far saltare i bottoni, poi passò ai fianchi dell'uomo,
allentandogli la stretta cintura di pelle.
«Jay?», disse James, tenendo le dita sul suo polso per sentire il battito
cardiaco. Era rapido, irregolare. Il detective non poteva avere più di
quarant'anni, ma era sovrappeso di almeno venti chili e fumava. Era
possibile che avesse avuto un attacco cardiaco?
Doveva sollevargli la testa? Tentare la respirazione artificiale? Anni
addietro, nella sua prima parrocchia a Thunderbolt, aveva assistito quando il
gruppo dei boy–scout si era esercitato nella respirazione artificiale nella sala
ricreazione. Ma aveva prestato poca attenzione, più impegnato a impedire ai
ragazzi di disturbare un gruppo di parrocchiani che partecipavano alla
riunione della Bulimici Anonimi nella biblioteca adiacente.
Aveva bisogno d'aiuto, pensò. C'era un telefono funzionante in quella
casa dimenticata da Dio? Sicuramente no. Poi si ricordò della
ricetrasmittente. Eccola lì, agganciata alla cintura del detective. Allungò una
mano e la prese. La avvicinò al viso, premette quello che pregava fosse il
pulsante per la trasmissione.
«Ehm... uh, sono un civile. Mi chiamo James Foley, e uno dei vostri
detective ha bisogno di assistenza medica. Sembra che abbia avuto una
specie di attacco. Respira, ma il suo battito cardiaco è irregolare. Ci
troviamo nella piantagione di Beaulieu, vicino al fiume Skidaway, al primo
piano della casa. Per favore, mandate subito un'ambulanza».
La ricetrasmittente gracchiò, poi giunse una voce femminile. «Dieci–
quattro, signor Foley. Abbiamo già inviato un'unità di soccorso».
«Dio sia ringraziato», rispose lui.
20

Quando ero piccola, andavamo a Sandfly a comprare arachidi bollite dal


venditore di noccioline. All'epoca Sandfly era solo un incrocio a malapena
asfaltato, con il chioschetto delle noccioline americane, un distributore di
benzina e una moltitudine di bambinetti che giocavano a palla in mezzo alla
strada sabbiosa. Era sempre stato così, a sentire mio padre, secondo il quale
il quartiere era stato creato da schiavi liberati giunti da Beaulieu, Wymberly
e Wormsloe, le grandi piantagioni sulla Isle of Hope, che si trovava poco
più su di Sandfly sulla strada per la palude.
Oggi invece ci sono un vero e proprio centro commerciale, un paio di
stazioni di servizio e persino un semaforo, e quasi tutte le tracce dell'antica
comunità di colore sono scomparse – anche se il venditore di arachidi è
ancora là. La scuola delle Piccole Suore di Carità sarebbe stata la prossima
a sparire.
Sul massiccio edificio scolastico in mattoni a due piani di Skidaway
Road era appeso uno striscione sul quale erano scritte in bella calligrafia le
parole "Oggi svendita".
Infilai il pick–up nel parcheggio lastricato di gusci d'ostrica triturati,
accanto a una quantità di camioncini e furgoni. «A che ora inizia la
vendita?», chiesi a BeBe.
«Non prima di mezzogiorno, secondo il giornale», rispose lei.
«Sembra che abbiano aperto le porte in anticipo», dissi, prendendo la mia
sacca di tela più capiente, quella con le rotelle e la maniglia estraibile.
Mi stavo affrettando verso l'entrata della scuola quando BeBe si fermò di
colpo davanti alla statua di una suora, alta più di un metro, sistemata in un
angolo riparato del parcheggio.
«Guarda», strillò, indicandola. «È favolosa. L'adoro».
«Quella?», chiesi in tono scettico. Era una statua di semplice cemento,
ridipinta parecchie volte, e raffigurava una delle prime Piccole Suore di
Carità, o suorine grigie, come le chiamavano tutti a Savannah. Questa
indossava un soggólo bianco di foggia antiquata e il lungo abito grigio.
Aveva le mani giunte in preghiera, un rosario infilato tra i polpastrelli di
cemento scheggiato. Era all'interno di una minuscola grotta a forma di
conchiglia rivestita a mosaico, con un vaso di cemento da cui spuntavano
un filodendro di plastica stinto e sbiaditi crisantemi di plastica gialla.
«Credi che me la venderanno?», chiese BeBe, inginocchiandosi accanto
alla statua per esaminarla meglio.
«Cosa te ne faresti? Non sei nemmeno cattolica».
«La metterei nel ristorante», rispose lei, gli occhi che le brillavano per
l'eccitazione. «Non te l'ho detto? Quell'orrendo negozio di tatuaggi di fianco
al Guale chiude alla fine della settimana. Il padrone di casa muore dalla
voglia di liberare l'edificio. Abbatterò la parete divisoria e raddoppierò lo
spazio. Finalmente avrò una vera saletta interna. Ehi, e se la chiamassi
Saletta delle Piccole Suore? Non sarebbe fantastico? Potrei riempirla con
tutta questa stravagante roba cattolica. Sai, statue, candelabri e via dicendo.
E le cameriere potrebbero indossare corte vesti da suora, ma con le calze a
rete».
«Una sorta di look da monaca peccatrice?».
«Esatto. Devo avere quella statua».
Qualcosa, nel parcheggio, attirò la sua attenzione. «Guarda», disse,
indicando un grosso pick–up nero parcheggiato nella fila più vicina alla
porta. Sul paraurti spiccava un adesivo del corpo dei Marines. «Guarda chi
c'è. Daniel».
Girai sui tacchi e cominciai a dirigermi verso il mio pick–up.
«Weezie». BeBe mi rincorse. «Qual è il problema?».
«Se questa è la tua idea di appuntamento combinato, hai davvero il
peggior tempismo del mondo», dichiarai, sentendomi avvampare.
«Cosa?». Sembrava offesa dalla mia insinuazione. «Lo giuro su Dio, non
avevo idea che Daniel sarebbe venuto qui, oggi. È lunedì, Weezie, il suo
unico giorno libero. Probabilmente ha letto il giornale, ha visto l'articolo
sulla chiusura del convento e ha deciso di venire a dare un'occhiata –
proprio come abbiamo fatto noi due».
Non ero dell'umore adatto per affrontare Daniel Stipanek.
Tuttavia quella era una vendita che non volevo assolutamente perdermi.
Per tutta la vita avevo sentito mia madre raccontare storie sulle suorine
grigie. Erano venute a Savannah dalla casa madre di Philadelphia poco
dopo la guerra civile per occuparsi dei bambini di colore bisognosi del Sud.
Il convento e la scuola erano stati costruiti negli anni Trenta, con il denaro
donato da un ricco industriale della Pennsylvania.
Era logico pensare che il luogo fosse pieno di pregevoli pezzi antichi. E
non ero mai stata tipo da lasciare che un semplice uomo – per quanto
irritante come Daniel Stipanek – si intromettesse tra me e il mio ciarpame.
«D'accordo», cedetti. «Entreremo. Se lo vediamo saremo educate ma tu
non gli darai in alcun modo l'impressione che potrei essere interessata a lui.
Chiaro?».
«Chiaro», rispose BeBe.
Spingemmo la massiccia porta d'ingresso di quercia intagliata e io provai
immediatamente la sensazione di essere tornata indietro ai tempi della
scuola parrocchiale. Il pavimento dell'atrio era rivestito del tipico linoleum
verde mentre le pareti erano costellate di sbiaditi ritratti di santi e pontefici.
L'odore di disinfettante si mescolava a quello di pastelli a cera e polvere di
gesso, uniti a quell'odore tipicamente cattolico – erano candele o incenso? O
forse semplicemente aroma di acqua santa?
Accanto ai muri dell'atrio erano allineati vecchi banchi di quercia tutti
graffiati, lunghi un metro e venti. Gli schienali erano intagliati con volute e
su ogni fiancata c'era un'apertura per i libri di inni. Il cartello sulla parete
diceva: "Banchi. $25. Così come sono".
Sentii un formicolio sul collo. Quello era ciarpame di alto, altissimo
livello.
«Prendo quattro di questi», mi affrettai a dire, rovistando nella sporta di
tela per cercare il rotolo di nastro adesivo con scritto "Venduto – Foley". «E
se hai davvero intenzione di creare una sala nel ristorante, questi non
potrebbero servire per creare dei magnifici séparé, rivolti uno verso l'altro e
con in mezzo un tavolo?».
«Magnifico», disse BeBe. «E adesso?».
«Ci incollo sopra gli adesivi con scritto "venduto". Tu entra a cercare il
registratore di cassa. Di' alla persona che se ne occupa che vuoi aprire un
conto per Weezie Foley e spiegale che hai già messo un adesivo sui banchi.
Quanti ne vuoi?».
Lei fece qualche rapido calcolo. «Sei séparé, lungo la parete di fronte al
bancone del bar. Facciamo dodici banchi».
Lanciai una rapida occhiata ai banchi. «Meglio prenderne qualcuno di
scorta», commentai. «Il cartello dice "Così come sono", quindi
probabilmente alcuni hanno il sedile rotto o altro».
«Certo, va benissimo», ribatté BeBe.
«E chiedi se c'è qualcuno che può cominciare a caricarceli sul pick–up».
«Di già? Non abbiamo nemmeno iniziato a guardarci intorno».
«Ci sono un sacco di antiquari che conosco», spiegai, abbassando la
voce. «Quel grosso furgone laggiù è di Addison Creamer. È un tizio
enorme, grasso, che porta sempre una tuta da ginnastica rossa, estate e
inverno. Sarebbe capace di rubare le otturazioni d'oro dal cadavere di sua
nonna. L'anno scorso, alla vendita di beneficienza della chiesa metodista
della Isle of Hope, avevo trovato una pila di vecchi piatti di Limoges che
costavano due dollari l'uno. Li avevo sistemati in una cesta da bucato piena
di minuteria. Ho posato la cesta per guardare qualcosa e, quando mi sono
voltata, Addison si stava allontanando con la mia pila di piatti. L’ho seguito
e gli ho detto che li aveva presi dalla mia cesta, ma si è limitato a ignorarmi.
Alla fine, una delle signore della chiesa ha visto cosa stava succedendo e lo
ha costretto a restituirmeli. Da quel giorno ce l'ha a morte con me».
«Ragazzi», disse BeBe. «La tua è un'attività davvero rischiosa».
«Non ricordarmelo, ti prego», replicai.
Stavo attaccando l'ultimo adesivo con la scritta "Venduto" sui banchi
quando lei tornò di corsa. «Tutto a posto», annunciò. «Dammi le chiavi del
pick–up così posso portarlo in retromarcia davanti alla scuola. Ho dato dieci
dollari a un ragazzino perché carichi la roba».
«Splendido», commentai, passandole le chiavi. «Come ti sembra la
merce?».
«Discreta», rispose, sollevando un globo d'argento magnificamente
filigranato appeso a una lunga catenella d'argento. «Guarda. Non è una
splendida lampada?».
«Magnifica, però non è una lampada ma un turibolo».
«E cioè?».
Presi la catenella e sollevai l'oggetto con la mano destra. «Ci si brucia
dentro l'incenso, e il sacerdote va avanti e indietro lungo la navata
facendolo oscillare e diffondendo il fumo».
Lei se lo riprese. «Per cinquanta dollari è una lampada. Lo metterò nel
corridoio tra i bagni. Starà benissimo». Poi aggiunse: «Secondo la cassiera,
tutti gli altri oggetti in vendita sono ammassati nella sala mensa. C'è una
gran ressa, là. Ho visto il tuo amico Addison: stava spintonando via una
vecchietta per raggiungere una pila di sedie pieghevoli in legno».
«È proprio da lui».
La sala mensa, come preannunciato, era gremita. Era una stanza piccola;
probabilmente la scuola delle Piccole Suore non aveva mai avuto più di
duecento studenti. Adesso fungeva da magazzino.
BeBe notò un gruppo di statue vicino al palco.
«Guarda, Cristo in croce».
Guardai. «Sono le stazioni della via Crucis», spiegai. «Dubito
sinceramente che tu le voglia in un ristorante».
«Dividiamoci», propose lei. «Ci vediamo qui fuori fra un'ora,
d'accordo?».
«Perfetto», risposi.
Un angolo della stanza era occupato da pile di banchi scolastici venduti a
dieci dollari l'uno. Non mi interessavano, ma trovai una bellissima vecchia
lampada a collo d'oca di ottone massiccio, con il paralume di vetro verde
originale. Pesava circa cinque chili, ma aveva quella magnifica aria
tipicamente era industriale degli anni Quaranta per la quale i giovani
collezionisti sono disposti a pagare grosse cifre. La sistemai nella mia
sporta di tela. Poi presi un set di cassettini da schedario da tavolo, a un
dollaro l'uno. Nessuno usa più gli schedari, ora che tutto è archiviato su
computer, ma pensavo che i cassettini sarebbero potuti diventare degli
splendidi porta–CD. Ce n'erano dodici e riuscii a infilarne dieci nella mia
sporta con rotelle.
Una donna che avevo già visto ai mercatini delle pulci del sabato mattina
stava tendendo la mano verso gli altri due quando si accorse di me. Non
conoscevo il suo nome, ma solo il soprannome affibbiatole dagli altri
antiquari, la Mattiniera. Guidava una malconcia Mercedes marrone degli
anni Settanta ed era famosa per presentarsi alle vendite con due ore di
anticipo – persino a quelle del sabato mattina che iniziavano alle sette.
Impallidì leggermente quando mi vide. «Oh, salve. Non sapevo che fosse
uscita di prigione».
Fu come se mi avesse schiaffeggiato.
«Sì», dissi. «Si è trattato di un semplice equivoco».
«Naturalmente», ribatté lei. Indicò i cassettini per le schede. «Può
prendere anche quei due. Non mi interessano davvero».
Sapevo cosa stava pensando. Questa è Weezie Foley. Ha ucciso una
donna. Non metterti nei guai con lei.
La Mattiniera se la svignò il più in fretta possibile, girando la testa per
assicurarsi che non la stessi seguendo. Cercai di non farci caso. Era un tipo
strambo: parlava da sola, alle vendite comprava sempre scatolame. Chi
potrebbe mai acquistare scatolame appartenuto a persone morte? Cominciai
a frugare tra i libri. Dopo un breve e accorto rovistare, trovai un grazioso
sillabario degli anni Cinquanta. Era della stessa collana che mia madre
aveva usato alle elementari – quella su cui mi aveva insegnato a leggere
prima di affidarmi alla Blessed Sacrament School. Sull'interno della
copertina era segnato a matita il prezzo, cinquanta cent.
Lo infilai nella sporta di tela. Uno dei negozi di Whitaker Street faceva
ottimi affari vendendo pagine incorniciate di vecchi libri. Potevo ricavare
senza difficoltà cinquanta dollari dal sillabario.
Era appena passato mezzogiorno e la sala mensa cominciava a essere
davvero affollata. Non c'era l'aria condizionata, naturalmente, solo una serie
di ventilatori sul soffitto che cercavano inutilmente di far circolare l'aria.
Afferrai la mia sporta e mi diressi verso la cassa.
Un'anziana signora di colore con un grembiule era seduta dietro il tavolo,
maneggiando una calcolatrice con aria professionale. Elencai i miei acquisti
e lei li spuntò. «Ho fatto mettere in conto quattro banchi a venticinque
dollari l'uno», dissi. «Il nome è Eloise Foley».
Lei alzò gli occhi, sbalordita, con un ampio sorriso. «Io la conosco».
«Davvero?».
«L'ho vista in TV. E sul giornale. È la ragazza che ha ucciso la fidanzata
del marito. E sa cosa le dico? Brava! Così quella impara a mettersi con
l'uomo di un'altra».
«Non l'ho uccisa io», dichiarai quietamente.
«Dovrebbero darle una medaglia», continuò lei, scuotendo il capo.
All'improvviso persi completamente la voglia di comprare cianfrusaglie. La
gente in coda dietro di me stava cominciando a bisbigliare. Posai i soldi sul
tavolo e mi allontanai allungando il collo per individuare BeBe, ma vidi
soltanto una distesa di facce sudate.
L'atrio era più fresco e misericordiosamente deserto. All'estremità
opposta notai una porta intagliata a doppio battente che si apriva verso
l'interno. La cappella della scuola. Un tempo, ricordai, aveva magnifiche
vetrate istoriate recuperate da un'antica chiesa di Augusta distrutta da un
incendio.
Quasi tutti i banchi erano già stati portati via dalla semplice cappella
dipinta di bianco. Vicino al confessionale trovai una vecchia sedia di
metallo pieghevole e mi sedetti. Le finestre erano lì, appese a dei ganci
davanti a semplici intelaiature bianche.
La mia preferita aveva la forma di un arco gotico, con una semplice rosa
fatta di pezzi di vetro colorato tra i quali erano inseriti alcuni prismi
scintillanti che catturavano i raggi del sole e li rifrangevano in un centinaio
di frammenti luminosi sul consunto pavimento di legno.
Rimasi ferma lì davanti, osservandola dal basso. Alla base della finestra
era attaccato un pezzo di nastro adesivo. Sopra c'era scritto qualcosa, ma si
trovava troppo in alto perché riuscissi a leggerlo, così presi la sedia e vi salii
sopra per vedere meglio.
Una mano mi toccò dietro il ginocchio.
«Cristo!». Per poco non caddi dalla sedia, ma due mani mi cinsero la vita
e mi sostennero.
«Non hai ancora imparato la lezione, quanto all'uscire dalle finestre?».
Daniel Stipanek aveva lo sguardo alzato su di me e rideva.
Guardai accigliata il suo viso sorridente. «Adesso puoi lasciarmi andare».
21

Daniel mi lasciò e io scesi dalla sedia.


«Non stavo cercando di entrare o uscire dalla finestra», spiegai. «Stavo
cercando di leggere il prezzo sul vetro quando mi hai afferrato
spaventandomi a morte».
«Oh», ribatté lui. «Scusa. Quanto costa?».
«Non riesco a vedere».
Lui si avvicinò per guardare. «Cento dollari».
Mi morsicai un labbro e cominciai a riflettere. La forma goticheggiante
della finestra la rendeva molto attraente. Era in buone condizioni, con il
vetro intatto. Non era poi così vecchia, una settantina d'anni o poco più, ma
aveva un certo fascino.
«Se non la compri tu la prendo io», annunciò Daniel.
«Cosa pensi di fartene?».
«Troverò un posto in cui metterla», rispose. «Magari in un bagno».
«In un appartamento in affitto?».
«Ho una casa», precisò con un pizzico di autocompiacimento. «A Tybee.
Vicino al North End».
«Gli chef possono permettersi i prezzi di Tybee?».
L'isola di Tybee era la stazione balneare di Savannah. Un tempo era la
più pacchiana dell'intera costa orientale, con un sudicio piccolo carnevale di
strada, negozietti di T–shirt a buon mercato e una miriade di dozzinali motel
a conduzione familiare e di ristorantini per famiglie. Le abitazioni erano
costruite a casaccio. Lungo la costa trovavi edifici davvero belli che
risalivano agli inizi del Novecento, ma il resto di Tybee era costituito
prevalentemente da fatiscenti cottage con l'intelaiatura in legno oppure da
bungalow in cemento usciti direttamente dagli anni Cinquanta.
Quando ero bambina, Tybee era così sporca e disordinata che per passare
un week end al mare molti abitanti di Savannah preferivano fare un'ora di
macchina verso nord fino alla più elegante isola di Hilton Head, oppure
verso sud fino a St. Symons o all'isola di Jekyll.
Ma all'improvviso, negli ultimi sei o sette anni, aveva cominciato a
diventare sempre più chic. Le baracche fatiscenti adesso erano "cottage
Tybee d'epoca" venduti a più di duecentomila dollari, persino se distavano
due isolati dall'oceano; quanto alle costruzioni anni Cinquanta in blocchi di
cemento, erano ormai esempi di "stile moderno della metà del secolo" e di
gran moda tra gli ex tossici con gusti rétro.
Daniel si accorse della mia gelosia. Segretamente avevo sempre
desiderato una di quelle piccole e graziose baracche sulla spiaggia.
«Gli chef possono permettersi più di quanto ci si potrebbe aspettare»,
dichiarò. «Ma ti rivelerò un segreto: la casa appartiene alla mia famiglia da
trent'anni».
«In quale via?», chiesi, vinta dalla curiosità.
«Gladys», rispose lui.
«Proprio sull'acqua?».
«Proprio sulle dune».
«Cemento o legno?».
«Legno», disse Daniel. «Naturalmente, l'unico motivo per cui è ancora in
piedi è che tutte le termiti si tengono per mano. È piuttosto malridotta».
Annuii. Parecchi dei cottage su quell'estremità della spiaggia avevano
visto giorni migliori. Comunque, Gladys era una bella via. E lui possedeva
una casa in riva al mare.
«Ci sai fare con le mani?», domandai.
I suoi occhi mi squadrarono. «Dimmelo tu».
Mi resi conto di diventare paonazza. «Hai intenzione di ricominciare? Per
l'amor di Dio, è successo un sacco di tempo fa. Non puoi semplicemente
dimenticarlo?».
«Perché mai dovrei volerlo fare?». Adesso i suoi occhi azzurri erano
serissimi. «Per me non è stata solo l'avventura di una notte, sai. Ero pazzo
di te».
«Eri soltanto arrapato», lo contraddissi io. «Saresti saltato addosso a
qualunque cosa fosse salita su quella barca con te».
«Non è vero. Be', sì, ero arrapato, ma per colpa tua. Mi facevi impazzire
con quelle magliette e quei minuscoli calzoncini attillati. E mio Dio, quel
bikini. Che altra reazione avrei dovuto avere?».
Mi sentii arrossire di nuovo. «Siamo in una chiesa, ti ricordo. Non è il
posto adatto per una conversazione di questo genere. In realtà, non esiste un
posto adatto per una conversazione di questo genere».
«Mi hai scaricato», disse lui, come se non riuscisse ancora a crederci,
neanche dopo tutti quegli anni. «La prima volta che sono tornato in licenza
ho chiamato un sacco di volte a casa tua, e tua madre si è comportata come
se fossi un criminale».
Sospirai. «Senti, è stato un errore, okay? Avevo bevuto troppo e ho perso
la testa. Comunque, quell'autunno ho conosciuto un altro».
«Talmadge Evans? È lo stronzo che ti ha lasciato per la donna che è stata
uccisa?». Non si poteva certo dire che usasse mezzi termini.
«Sì», confermai. «Tal. Il mio ex marito».
«BeBe dice che è un bastardo. Dice che si scopava questa donna nel tuo
letto, a casa tua. Dice che con il divorzio è riuscito a farsi assegnare tutto e
ti ha lasciato a vivere in un garage o una cosa simile».
«BeBe farebbe meglio a tenere la bocca chiusa» replicai, ricacciando
indietro lacrime improvvise. Era stato davvero troppo. La gente che mi
fissava, bisbigliando, parlando di me alle mie spalle. E adesso persino
Daniel Stipanek conosceva la storia della mia vita. Volevo sgattaiolare a
casa e nascondermi sotto il divano insieme a Jethro.
«Ehi», disse lui, toccandomi la spalla. «Mi dispiace. Davvero, Weezie.
Non avevo il diritto di dire tutte quelle cose sul tuo ex. Di solito non mi
piace spettegolare, sai. Solo che quando ho saputo che BeBe era la tua
migliore amica, in un certo senso volevo scoprire cosa ne era stato di te
dopo tutti questi anni».
«La mia vita è andata in malora. Ora vuoi scusarmi?».
«E la finestra?», chiese lui, indicandola.
«Offri settantacinque dollari».
Cominciai a dirigermi verso l'uscita, tirandomi dietro la sporta, ma lui mi
affiancò.
«Ehi, dovevo avvisarti che BeBe è dovuta andare via».
«Cosa vuol dire che è dovuta andare via?», chiesi, allarmata. «Non ha la
macchina. Siamo venute con il mio pick–up».
«Infatti», disse lui. «Lei aveva le chiavi, ricordi? Sylvia, la direttrice del
ristorante, l'ha chiamata dieci minuti fa. Il nostro fornitore di tovaglie è
arrivato con quelle sbagliate e, per di più, abbiamo un gabinetto intasato nel
bagno degli uomini. Ha preso il tuo pick–up. Devo accompagnarti a casa
io».

Rimasi seduta con un'espressione gelida sul bordo del sedile del
passeggero mentre Daniel caricava i suoi acquisti.
Gli ci vollero tre viaggi per mettere tutto sul pick–up. Alla fine, la mia
curiosità prese il sopravvento. Scesi e sbirciai al di sopra del pianale. «Che
cosa hai comprato?», chiesi.
«Un sacco di roba», rispose. Indicò il vetro istoriato. «La finestra che hai
scoperto tu. Si sono accontentati di ottanta dollari. Più un'altra più piccola
che posso usare come lunetta sopra la porta d'ingresso. Per quella ne hanno
voluti solo quaranta».
Un vero affare.
«E un gruppo di vecchie sedie pieghevoli di legno con lo schienale di
assicelle». Ne colpì una con la punta della scarpa. Erano graziosissime,
simili a seggioline vintage da bistro francese.
«Quanto?».
«Un dollaro l'una. Ma ne ho potute prendere solo dieci. Le altre erano a
pezzi».
«Niente male». Ero verde d'invidia.
«Quella», disse, dando un calcio a un'enorme cassa da vino in legno, «è
piena di vecchi piatti».
«Di che genere?».
«Non lo so», rispose. Si accovacciò e sollevò il coperchio della cassa,
passandomi una pesante scodella di porcellana vetrosa bianca con un'alta
striscia blu che correva lungo il bordo e un monogramma rotondo, "C of
G", al centro.
«Oh, mio Dio», dissi. «Porcellana delle ferrovie. Dove l'hai trovata?».
«In cucina. Accanto alla sala mensa. Cos'è la porcellana delle ferrovie?».
«Porcellana che un tempo veniva usata sui vagoni ristorante», spiegai,
capovolgendo la scodella per vedere il marchio del produttore. «Vedi?».
Glielo mostrai. «È una Shawnee».
«Pregiata?».
«Pregiatissima», risposi, in tono pieno di invidia. «La "C of G" era la
Coastal of Georgia Railroad. Aveva una linea ferroviaria che andava da St.
Augustine fino a Baltimora. Mia nonna prendeva quel treno ogni estate per
andare a trovare sua sorella nel Maryland. C'erano tovaglioli di damasco
rosa e fiori freschi in vasi di vetro intagliato su ogni tavolo. E servivano
granchi fritti».
«Non ne ho mai sentito parlare, eppure ho vissuto a Savannah tanto
quanto te».
«L'hanno chiusa alla fine degli anni Cinquanta o agli inizi dei Sessanta.
Credo siano stati rilevati da una delle compagnie ferroviarie più grandi.
Ecco cosa rende così ambita dai collezionisti qualunque cosa rechi il
marchio "C of G". Gli appassionati delle ferrovie adorano questi oggetti».
Lui annuì. «Quindi, se avessi dell'argenteria con lo stesso marchio...
avrebbe qualche valore?».
«Mi stai prendendo in giro. Argenteria "C of G"? Fammi vedere».
Lui trascinò un altro scatolone fino al bordo del pianale del pick–up. Mi
sedetti e vi infilai dentro una mano, estraendone una manciata di scintillanti
posate in Silver plate.
Capovolsi un massiccio mestolo, ma non avevo davvero bisogno di
cercare il marchio. Avevo visto due o tre delle caratteristiche posate da
portata della Coastal alle mostre di antiquariato. Il manico sottile si
allargava a ventaglio formando una fronda di palma stilizzata con il
monogramma "C of G" impresso sul retro. I pezzi, un autentico trionfo del
design, erano in Silver plate pregiato.
«Quanti ne hai comprati?».
«Li ho presi tutti», dichiarò lui in tono spiccio. «Forse... quanti? Quattro
o cinque dozzine di coperti. Più un sacco di posate da portata. Ho comprato
anche forchette per il pesce, pinze da insalata e ogni tipo di stravaganti
posate per servire».
«E a quanto?».
«Cinquanta dollari».
Socchiusi gli occhi. «Cinquanta dollari a coperto?».
Daniel scosse il capo. «Per tutti. Cosa c'è? Li ho pagati troppo?».
«No», risposi, ridendo. «Come dice mio padre, persino un maiale cieco
trova una ghianda, ogni tanto. Hai fatto un colpaccio, Danny. È l'affare del
giorno. Dovrei controllare ma, a quanto ne so, la stima più recente per
questa roba è di settantacinque dollari – a coperto».
«Sul serio?».
Infilò le mani nelle tasche dei jeans e il sorriso fanciullesco gli illuminò il
viso abbronzato.
«Sul serio».
«Be', accidenti. Volevo soltanto qualcosa di economico in cui mangiare».
Mi passai la mano tra i capelli fradici di sudore. Che mattinata.
«Sembra che tu ti sia accaparrato tutti i migliori affari della giornata, e a
prezzo stracciato», commentai mestamente. «Mentre io mi trascinavo qua e
là commiserandomi».
Lui mi diede un colpetto leggero con il gomito. «Non ti abbattere. Hai
avuto un paio di giorni difficili».
«Giusto», ribattei vivacemente, lottando contro l'impulso di crogiolarmi
ancora un po' nell'autocommiserazione. «Cos'altro hai preso? C'è un sacco
di roba su questo pick–up».
«Oh, niente di che».
«Avanti», dissi, restituendogli la gomitata. «Fammi vedere. Sempre che
tu ne abbia voglia. Finora sono rimasta davvero impressionata. Non mi
aspettavo che un eterosessuale fosse così interessato ai pezzi
d'antiquariato».
Si accigliò. «Cosa vorresti dire?».
«Oh, smettila. Sappiamo entrambi che sei etero».
«Dannatamente etero. E non dimenticarlo».
«Come se tu mi permettessi di farlo. Avanti, mostrami i tuoi acquisti,
okay?».
Il resto del suo bottino era discreto, ma niente di speciale. Daniel dava
l'impressione di aver svuotato la cucina della scuola: pesanti casseruole di
ghisa, pentole da quattro e otto litri, tegami, persino una scatola di legno
contenente ventiquattro dozzine di candele votive bianche.
«Cosa te ne farai di tutta questa roba?», chiesi. «Insomma, non
fraintendermi. È magnifico, ma come mai un uomo single che vive solo ha
bisogno di tutta questa porcellana, argenteria e candele... per non parlare di
una pentola da otto litri?».
Lui sembrò a disagio. «Se te lo dico prometti di non parlarne a
nessuno?».
«Sì».
«Nemmeno a BeBe? Lei è il mio capo, non dimenticarlo».
«Non le dirò niente».
«Bene», ribatté in tono vivace lui, «una parte di tutto questo è destinata
alla casa di Tybee. Ma il resto, credo... sai, ogni chef desidera aprire un suo
ristorante».
«Te compreso?».
«Certo. Insomma, il Guale è magnifico. All'inizio BeBe sembra un po'
matta, ma in realtà è una persona davvero fantastica. La gente adora starle
vicino. Solo che... voglio un posto tutto mio. Riesci a capirlo?».
Riuscivo a capirlo benissimo. Per tutta la vita mi ero adeguata ai progetti
di qualcun altro, perché non volevo creare problemi e mettere le mie
esigenze davanti a tutto il resto. In fondo, per la maggior parte del tempo
non sapevo nemmeno quali fossero i miei progetti personali. Ma il bisogno
di realizzare il mio sogno stava reclamando a gran voce di poter uscire.
«Certo», risposi, sorridendogli. «Il tuo ristorante. Il tuo menu. Il tuo
locale. Più che logico».
Eravamo sul pick–up ed eravamo tornati su Skidaway Road quando lui
guardò ostentatamente l'orologio. «Sono quasi le due. L'ora di pranzo è
passata da un pezzo. Hai fame?».
Il mio primo istinto fu quello di rispondere di no. Dopo tutto lui era
Danny Stipanek. Il terribile Danny Stipanek. Portami a casa, pensai.
«Sto morendo di fame», ammisi. «Dove possiamo andare? Probabilmente
al Carey Hilliard's si può ancora mangiare».
«Conosco un posto migliore», ribatté Daniel, voltandosi a guardarmi.
«Okay. Dov'è?».
«A Tybee, a casa mia».
Notò la mia espressione esitante.
«Avanti», mi disse in tono suadente. «Il cibo è fantastico e il prezzo
imbattibile. E te lo giuro... niente sesso».
«Figuriamoci», dissi, cercando di prendere un tono sprezzante.
22

La radio sul pick–up di Daniel era sintonizzata su una stazione che non
avevo mai ascoltato – SURF 101, specializzata in vecchi successi.
Non avevo mai sentito prima neanche quella particolare canzone, ma
evidentemente era una delle sue preferite. Lui la intonò con evidente
soddisfazione, segnando il tempo sul volante con le dita, senza sembrare
minimamente imbarazzato nel cantare davanti a me – nonostante avesse una
voce orribile, forte, stonata, nemmeno lontanamente in grado di raggiungere
le note alte.
Il testo traboccava di allusioni sessuali, sessanta minuti a stuzzicare e
sessanta minuti a dare piacere, ecc. Guardai fuori dal finestrino,
sforzandomi di dare l'impressione di trovarmi altrove.
Quando la canzone finì, lui annuì con aria di approvazione.
«Vuoi un consiglio gratuito?», chiesi.
«Dipende».
«Non lasciare il tuo lavoro per tentare la carriera musicale».
«Non ti piace Boxcar Willy?». Aveva un'aria offesa.
«Non l'ho mai sentito nominare».
«Ragazzi», disse lui. «Immagino che questo significhi che non ti piace la
musica da spiaggia, vero?».
«Intendi i Beach Boys e cose del genere? Quel tipo di musica? Immagino
che non siano male, ma non proprio della mia generazione. E neanche della
tua, a ben pensarci».
«Non sto parlando dei Beach Boys», dichiarò Daniel.
«Anche se mi piacciono le loro prime canzoni. No, mi riferisco alla vera
musica da spiaggia, sai, Drifters, Tams, Platters, Swinging Medallions.
Alcuni la definiscono musica da spiaggia della Carolina, altri musica da
scopata perché è musica che puoi tenere in sottofondo mentre scopi».
Ormai ci trovavamo sulla Highway 80 e stavamo attraversando l'ultimo
ponte sul Lazaretto Creek prima di entrare davvero a Tybee. L'acqua sotto
di noi era calma, punteggiata da una mezza dozzina di barche per la pesca
dei gamberetti.
«Vecchi successi», dissi, arricciando leggermente il naso. A me piaceva il
rock classico. «Non sei un po' giovane per la musica degli anni Sessanta?».
«Mai», rispose Daniel. «È stato mio fratello maggiore, Richard, a farmi
apprezzare la musica da spiaggia. Aveva una fantastica collezione di dischi.
Ce l'ha ancora. Vinile vintage. La musica da spiaggia è musica giovane, sai,
"sii giovane, sii sciocco, sii felice". Roba del genere».
«Be', questo mi piace», dissi. Quando era stata l'ultima volta in cui
qualcuno mi aveva esortata a essere sciocca, per non dire felice?
Sulla carreggiata opposta del ponte il traffico era fermo, le auto
incolonnate che svoltavano a destra nell'emporio di Chu. Benché fosse
lunedì c'era parecchio traffico. D'estate a Tybee è sempre così, quando tutta
la Georgia del Sud viene qui a passare una giornata in riva al mare.
«Guarda quello», disse Daniel, scuotendo la testa e indicando un
cartellone pubblicitario sul ciglio della strada.
"Prossima realizzazione – Esclusivo complesso di villette in riva al mare
– A partire da 200.000 dollari".
«Dovresti vederle», continuò, la voce che grondava disgusto. «Scatole da
scarpe prefabbricate, attaccate l'una all'altra fino al margine dell'acquitrino,
ognuna dipinta di un colore diverso. Sembrano caramelle alla frutta».
«Con un tendone a strisce sopra la porta d'ingresso e un sacco di
decorazioni finto vittoriane di pessimo gusto», aggiunsi.
«Le hai viste? Non dirmi che stai pensando di comprare una di quelle
schifezze».
Scoppiai a ridere. «Non ci penso nemmeno. Le ha progettate il mio ex
marito». Indicai la parte inferiore del cartellone, dove spiccava la scritta
"Progetto dello studio di architettura Evans & Associati".
«Mi spiace», disse Daniel.
«Non ne hai motivo. Sono davvero orrende. Una volta Tal avrebbe riso in
faccia a chiunque gli consigliasse di disegnare una cosa del genere. Ma
dopo il divorzio aveva bisogno di soldi. Caroline è... era una donna dai gusti
dispendiosi. Invece della parcella, lo studio ha preso una delle villette
all'estremità del complesso. Credo che lui e Caroline progettassero di
trasformarlo nel loro piccolo nido d'amore sulla spiaggia, finché...».
Distolsi lo sguardo.
«Hai voglia di parlarne?», chiese Daniel. «Io... ehm, non sono affatto
pettegolo, nonostante quello che ti ho detto prima sul fatto di sapere del tuo
divorzio e tutto il resto».
«Ti credo», replicai. «Sono semplicemente davvero stanca di parlarne, al
momento. Senza offesa. Okay?».
«Okay».
Continuò a guidare fino all'estremità di Butler Avenue, oltrepassando il
municipio di Tybee e il nuovo motel DeSoto, una sbiadita costruzione in
cemento che non possedeva nemmeno lontanamente la grazia originale
dell'edificio precedente che era stato raso al suolo, poi svoltò a sinistra su
Delores Street e, subito dopo ancora, a sinistra sulla Gladys.
Le auto, quasi tutte con targhe di altre città, erano parcheggiate in doppia
fila lungo l'intera strada; i frequentatori della spiaggia erano troppo tirchi
per infilare monetine nei parchimetri dei parcheggi pubblici.
Mezzo isolato più giù si infilò in un cortile che era più sabbia che erba.
Spense il motore. «Eccoci qua. L'Hilton traballante».
Aveva definito la casa un cottage ma, per la verità, sembrava più una
baracca che assumesse steroidi. Probabilmente molti anni prima era stata
dipinta, ma il tempo si era alleato con la sabbia e il sale portati dal vento per
scrostare tutta la vernice, lasciandone solo tenui tracce di un blu pallido.
Bassa e a un solo piano sul davanti, con un'ala a due piani sul retro, era
fatta di scandole di legno di cedro, con una malconcia veranda chiusa da
zanzariere che apparentemente girava tutt'intorno alla casa. Sulla facciata
non c'erano due finestre che avessero le stesse dimensioni o la stessa forma,
e le sottofondazioni di mattoni della veranda erano decisamente incurvate.
Il cortile era invaso dalle tracce di una ristrutturazione totale: un
arrugginito frigorifero dorato, cataste di pannelli di fibre da due soldi, una
pila di pezzi di ammuffita moquette di un lanuginoso color oro, e mucchi di
legname, mattoni nuovi, persino una piccola betoniera.
«Quella moquette è la prima cosa che ho tolto», disse Daniel, scendendo
dal pick–up. «E subito dopo è toccato ai pannelli».
«Ben fatto», commentai. Il rivestimento a pannelli da poco prezzo era il
tormento della mia vita. Ne avevo divelti una montagna dalla casa di
Charlton Street. «Non è pericoloso entrare?», chiesi poi. La porta
d'ingresso, a cui mancavano tre o quattro listelli di legno, era spalancata.
«Niente affatto», rispose lui, precedendomi. «Mio fratello Derek è venuto
qui stamattina. Fa l'idraulico. Mi ha montato un nuovo scaldabagno».
«Hai un fratello che fa l'idraulico?». Ero verde d'invidia. Tal era un mago
con progetti e disegni, ma considerava indegna di lui qualunque cosa
somigliasse a un lavoretto da idraulico o da elettricista. Io avevo imparato i
principi fondamentali in fatto di impianti elettrici, ma ero una vera frana
quando si trattava di tubature.
Daniel interpretò la mia domanda nel modo sbagliato, prendendola come
un insulto.
«Sì, ho un fratello che fa l'idraulico. E io faccio il cuoco, e Richard guida
un camion con rimorchio. È un problema, per te? Hai qualcosa contro le
persone perbene che lavorano sodo, e che magari non portano abiti gessati e
non chiamano il loro broker con il cellulare?».
«No», risposi, cercando di chiarire l'equivoco. «Daniel, non volevo
affatto dire questo».
Lui rimase fermo sulla soglia, il viso indurito. «Eppure questa era proprio
l'impressione che davi. Sai cosa penso, Eloise Foley? Penso che tu sia una
fottuta snob, che si crede superiore a tutti gli altri».
«No», dissi con un fil di voce. «Davvero».
«Davvero cosa?».
Il sole mi batteva sul collo e sentivo la mia pallida pelle lentigginosa che
cominciava a scottarsi, formando delle vesciche.
«Dio», gemetti. «Non volevo affatto dire questo. Quello che intendevo è:
un idraulico? Hai un fratello capace di installare uno scaldabagno? Posso
adottarlo? Prenderlo in prestito, è sposato?».
Gli occhi di Daniel si strinsero leggermente. L'azzurro era così brillante
contro la pelle abbronzata. Mi scoprii a chiedermi se lui passasse molto
tempo all'aria aperta. Se senza la camicia fosse così abbronzato dappertutto.
E che aspetto avrebbe avuto senza camicia? L'adolescente allampanato che
ricordavo era scomparso molto tempo prima. Daniel mi superava in altezza
di circa trenta centimetri, ma era solido, muscoloso, con braccia che davano
l'impressione di poter sollevare senza fatica una catasta di legname. I suoi
jeans lisi erano sformati, tranne che sul sedere. Ed era un gran bel sedere,
pensai, ricordando le lodi fattene da BeBe. Dio, cosa c'era di sbagliato in
me?
«A Richard piaceresti», stava dicendo Daniel. «Ma è sposatissimo. E
Rochelle ti farebbe a pezzi se solo tu guardassi suo marito».
«Non lo farò, lo giuro», promisi. «Allora, ci siamo chiariti?».
Lui sospirò. «Sì. Sai, non sta affatto andando come avevo programmato».
Questo mi fece fermare di colpo. «Aspetta un attimo. Oh, merda. Oh, no.
Stavolta ucciderò BeBe. Lo giuro su Dio, è una donna morta. Potresti
accompagnarmi a casa?».
Daniel stava scuotendo la testa. «Dannazione. Dannazione. Dannazione».
«Un complotto», dissi. «Uno schifoso appuntamento combinato. E lei ha
giurato che era un caso che ci fossimo incontrati alla vendita. Una semplice,
innocente coincidenza».
«Ehi», replicò lui, prendendomi un braccio. «Quella parte è stata davvero
una coincidenza».
Ritrassi il braccio di scatto. «Certo. E pensi che io ci creda?».
«Non avevo idea che ci saresti stata anche tu», dichiarò Daniel,
stringendo le labbra. «L'ho scoperto quando ho incontrato BeBe. Stava
pagando i suoi acquisti e mi ha detto che c'eri anche tu».
«Ed è a quel punto che avete organizzato tutto».
«Cristo, Weezie», disse lui in tono supplichevole, «fa un caldo infernale,
qua fuori. Non potresti semplicemente entrare così possiamo parlarne senza
dare spettacolo davanti all'intero quartiere?».
«E poi mi accompagnerai a casa?».
«Ti chiamerò un taxi», borbottò lui. «Sei una vera rompiscatole».
Sulla veranda c'erano perlomeno sette gradi in meno.
«Da questa parte», disse Daniel in tono formale, aprendo la porta della
casa vera e propria.
L'interno sembrava una grossa scatola vuota ma era pervaso da un odore
che adoravo: segatura. E chiodi nuovi. E vernice. Aspirai profondamente e
mi sedetti su una pila di assi di legno.
«Raccontami il tuo piano», gli dissi.
«Volevo solo mostrarti la casa», spiegò lui, in tono implorante. «Magari
prepararti il pranzo. Farti capire che non sono un ragazzino arrapato che
cerca di portarti a letto. È forse un reato federale?».
«Non se mi racconti qual è il piano».
«Ti ho detto che volevo cucinarti il pranzo e mostrarti la casa».
«Mi hai detto che BeBe è dovuta correre al ristorante per un'emergenza»,
lo corressi io.
«Era un'emergenza», sostenne Daniel. «Era l'unico modo in cui potevo
attirare la tua attenzione, così abbiamo raccontato qualche bugia. È tanto
grave?».
«Di chi è stata l'idea che BeBe prendesse il pick–up lasciandomi a
piedi?».
«Sua», ammise lui. «Sai com'è fatta».
«Sì, lo so».
Lui si fissò le scarpe per qualche momento. Logore scarpe da ginnastica
nere macchiate di vernice. «Vuoi mangiare qualcosa?».
«D'accordo».
Mi diede un cinque e mi fece fare un rapido giro della casa. «Abbiamo
abbattuto la maggior parte delle pareti interne», spiegò. «Qui c'erano
all'incirca una dozzina di stanzette minuscole. Io ne avrò meno. Soggiorno–
sala da pranzo, cucina, camera da letto e bagno, e al secondo piano sul retro,
alla fine farò un paio di camere per gli ospiti e un bagno».
«Bel pavimento», dissi, guardando le assi di legno.
«Pino», precisò orgogliosamente lui. «Devo aver estratto circa un milione
di chiodi da moquette. Devo ancora iniziare la lamatura finale».
Il Soggiorno–sala da pranzo aveva la forma di un grosso rettangolo. Una
serie di finestre nuove di zecca, con l'etichetta del fabbricante ancora
attaccata, costituivano la parete posteriore.
«Riesci a crederci?», chiese Daniel. «In questo muro c'era solo una
minuscola finestrella. Derek e io abbiamo montato quelle nuove. Le
abbiamo prese in un deposito di materiali di recupero nel Westside, e
nonostante questo scommetto che le ho pagate più di quanto sia costata
l'intera casa nel '68, quando i miei zii l'hanno costruita».
«Wow», dissi, guardando fuori dalle finestre. Attraverso la veranda
chiusa da zanzariere, che al momento era priva di zanzariere, si vedevano
due enormi dune di sabbia e, nell'avvallamento tra di esse, una striscia color
smeraldo di oceano Atlantico.
«E questa», disse lui, indicando un punto alla sua sinistra, verso l'entrata
dell'ala a due piani, «sarà la mia stanza preferita. La mia cucina. O almeno
lo sarà quando avremo finito i lavori».
Per il momento la sua cucina sembrava costituita da una stufa di bronzo
sistemata accanto a un vecchio frigorifero dalla sommità arrotondata.
Daniel aveva creato un piano di lavoro con una vecchia porta appoggiata su
un paio di cavalletti, e una rastrelliera non verniciata era piena di utensili.
«Dove l'hai preso?», domandai, passando la mano sul frigo anni
Quaranta.
«Era fuori nella rimessa», rispose, felice che mi piacesse. «Mio zio ci
teneva le esche per i granchi e la birra. Funziona ancora perfettamente,
anche se devo sbrinare il freezer se voglio infilarci qualcosa di più di un
paio di vaschette per il ghiaccio».
«È davvero adorabile», dissi, e lui fece una smorfia. «Bello», mi corressi.
Aprii lo sportello, aspettandomi di trovare le tipiche provviste da scapolo,
birra, magari qualche hot dog. Invece il frigorifero era pieno: frutta fresca,
vino bianco, verdura, una mezza dozzina di tipi diversi di senape,
contenitori di plastica ordinatamente etichettati e una confezione da sei di
birra, sì, ma d'importazione.
«Ti piace davvero cucinare», commentai.
«Non stavo scherzando a proposito del pranzo», disse lui. «Ti piace la
zuppa?».
«Zuppa? Non fa un po' troppo caldo per preparare una zuppa? Mi
aspettavo qualcosa come panini con il burro d'arachidi o formaggio».
«Siediti», disse, indicando un malconcio sgabello di legno nell'angolo.
«Vuoi un po' di vino?».
«No, grazie», risposi, rabbrividendo al ricordo dei postumi della sbornia
di quella mattina.
«Allora acqua». Prese una caraffa dal frigo e me ne versò un bicchiere.
Rimasi seduta sullo sgabello a guardare. BeBe aveva ragione. La gente
sarebbe stata disposta a pagare pur di osservare Daniel mentre cucinava.
I suoi movimenti erano rapidi, efficienti. Prese un contenitore dal frigo,
lo aprì e mi mostrò il contenuto rosato.
«Zuppa di frutti di mare fredda», disse. «Ti piacciono i frutti di mare,
vero?».
«Li adoro».
Dopo pochi secondi aveva già sminuzzato una manciata di erbe
aromatiche e le aveva lasciate cadere nella zuppa, poi aveva aggiunto del
vino bianco preso dalla bottiglia nel frigorifero.
Da un cestino sotto il piano di lavoro di fortuna recuperò un lungo filone
di pane francese, che affettò rapidamente. Da un altro cestino prese due
grossi pomodori che tagliò a fette spesse e sistemò sul pane, aggiungendovi
poi del bianco formaggio cremoso conservato in una ciotola piena d'acqua
nel frigo.
«Mozzarella di bufala», spiegò, notando il mio sguardo di interesse. «Ce
la facciamo spedire in aereo da Atlanta».
Una volta preparati i sandwich, estrasse un pacchetto di erbe avvolto in
un tovagliolo di carta e sistemò qualche fogliolina su ogni panino.
«Basilico», disse. «Lo coltivo in vaso, in città. Spero che cresca bene
anche qui». Sopra il basilico versò un filo d'olio da un contenitore che
teneva sul banco di lavoro.
Distribuì la zuppa in due ciotole spaiate, che sistemò su un vassoio
insieme ai sandwich e a due bottiglie di birra.
«Andiamo a mangiare sulla veranda», propose.
Ci sedemmo su secchi di vernice capovolti e io assaporai il miglior picnic
della mia vita.
Alla fine lavai i piatti mentre Daniel scaricava i suoi tesori dal pick–up.
«Vuoi andare a fare una nuotata?», mi chiese, tornando in cucina.
«Non ho il costume», risposi in tono di scusa.
«Mmm», disse lui, passandosi le mani tra i capelli.
«Non importa. È stato fantastico, Daniel, ma devo proprio tornare a
casa».
«Okay. Ma l'oceano sarà sempre qui. E l'invito resta valido».
«Magari un'altra volta. Quando avrò il costume da bagno», dissi.
«Come vuoi», ribatté lui.
23

Sentii suonare il telefono mentre giravo la chiave nella porta posteriore


dell'ex rimessa per le carrozze. Non mi affrettai perché sapevo chi c'era
all'altro capo del filo. Tolsi il guinzaglio a Jethro prima di rispondere.
«Eloise?». Era la mamma. Aveva ricominciato a chiamarmi così,
probabilmente perché sa che la cosa mi fa impazzire.
«Sì, mamma», risposi, bevendo sorsate di acqua fredda direttamente dalla
caraffa che tengo nel frigo.
«Ieri sera ho pregato per te».
«Grazie, mamma».
«Ti ho detto che ho dovuto smettere di andare alla messa mattutina alla
Blessed Sacrament?»
«Nossignora», dissi. Scorsi i titoli del Morning News, sperando di non
trovarvi il mio nome. Da quando era stato scoperto il corpo di Caroline
avevano pubblicato un articolo sulla vicenda pressoché ogni giorno, e
naturalmente usavano la peggiore foto della sottoscritta che ci fosse in
circolazione, quella scattata mentre uscivo di prigione con il vestito alla
marinara.
«Sì. La gente mi guardava in modo strano. Soprattutto padre Morrison.
Ho convinto tuo padre ad accompagnarmi alla messa delle sei alla Church
of the Nativity di Thunderbolt».
Sbadigliai. «Che bello». Era giovedì. Avevo preso una copia del
Pennysaver mentre tornavo dal parco; pubblica i migliori annunci di
mercatini di oggetti usati. A volte riesco a trovarne uno più che discreto il
venerdì, anche se a Savannah si svolgono quasi tutti il sabato mattina.
«Ma tuo padre sta minacciando di non accompagnarmi più», stava
dicendo la mamma, con voce improvvisamente tremante.
«Come mai?». Stavo sottolineando il Pennysaver con un pennarello,
cerchiando gli annunci che sembravano promettenti. La stavo ascoltando
solo in parte. C'era una vendita nel distretto vittoriano, a East Gwinnett,
proprio accanto al parco. Cercai di visualizzare quell'isolato, ma la mamma
continuava a parlare.
«Non gli piace la messa serale alla Church of the Nativity. È una di
quelle messe con la musica folk, sai. Tutti si alzano e cantano dall'inizio alla
fine, e hanno banjo e tamburi e non so cos'altro. Tuo padre la chiama chiesa
del karaoke e dice che se volesse andare in una bettola scenderebbe a River
Street a prendere una birra fredda invece di starsene lì con un branco di
hippy in quella chiesa».
Cercai di immaginare chi mio padre potesse considerare un hippy.
Probabilmente chiunque non avesse i capelli tagliati a spazzola e non
portasse camicie sportive con le maniche corte, pantaloni di cotone color
kaki ben stirati e lucidissime scarpe stringate come faceva lui.
«Mamma», dissi, spingendo da parte il giornale, «mi dispiace che tu non
te la senta di frequentare la tua chiesa. Forse dovresti fare una chiacchierata
con padre Morrison e chiedergli perché all'improvviso ti guarda in modo
strano».
«Il perché lo so», ribatté lei, prendendo di nuovo la voce tremula che la
faceva sembrare una novantenne colpita da un ictus invece della
campionessa di bowling settantenne e in perfetta salute che era.
«E qual è?».
«Non arrabbiarti. È a causa tua. Eloise, non posso credere che tu abbia
coinvolto la nostra famiglia in questo sordido affare. Adesso tutti pensano
che tu abbia ucciso la fidanzata di Tal. Perché sanno che sei andata in
prigione e hai minacciato di ucciderla a Beaulieu».
«Mamma», replicai in tono severo. «Non posso impedire alle persone di
pensare. Non è colpa mia se Tal aveva una relazione. Non è colpa mia se
abbiamo divorziato e lui si è fidanzato con quella donna. Non è colpa mia
se lei è stata uccisa e non posso controllare ciò che la gente sta dicendo di
me o il modo in cui ti guarda un prete mentalmente disturbato o il genere di
canzoni che cantano nella Church of the Nativity. In questo momento ti
consiglio semplicemente di tenere la testa alta e ignorare tutta questa storia.
È quello che sto cercando di fare io».
All'altro capo del filo si udì un piccolo singhiozzo. «Ho detto a tuo padre
che ti saresti arrabbiata e mi avresti urlato contro. Vuole parlarti».
Ci fu una pausa di silenzio, poi sentii in lontananza un tintinnio di
spiccioli e uno schiarirsi di gola. Papà era in linea.
«Weezie?».
«Sì, papà?».
«Hai abbastanza soldi?».
«Sì, papà, sono a posto».
«Tua madre ti ha raccontato della chiesa?».
«Vagamente».
«Quest'estate celebrano le funzioni nella sala mensa alla Church of the
Nativity. Te l'ha detto?».
«No. Ha parlato solo della musica».
«Dannatamente strano, secondo me. Ascoltare la messa in una mensa
scolastica. Quel posto sa di navone stufato. Non ho mai sopportato il
navone. Sai come George Finnegan chiama quella chiesa, vero?».
«Come?».
«Nostra Signora della Caffetteria».
«Molto divertente, papà».
«Bene, è tutto quello che volevo dirti. Quando pensi di venire? Ho una
bella cesta di zucchini per te, e anche dei peperoncini gialli. L'orto mi sta
dando parecchie soddisfazioni, quest'anno».
Per fortuna non poteva vedere la mia faccia. Ogni anno piantava un sacco
di roba nell'orto e ogni anno aveva un raccolto eccezionale di zucchini. La
mamma e io preparavamo pane di zucchini, zucchini fritti e zucchini saltati.
Io avevo persino provato la ricetta di una torta al cioccolato e zucchini
ritagliata dal giornale; Jethro si era rivelato l'unico disposto a mangiarla.
La mamma tornò al telefono.
«Eloise?».
«Pensavo avessi detto che quest'anno papà non avrebbe piantato gli
zucchini», le dissi in tono accusatore.
«Infatti», ribatté lei, abbassando la voce a un sussurro. «L'anno scorso
avevo portato fuori gli zucchini e li avevo sotterrati nel giardinetto
posteriore. Non avrei sopportato di vederne un altro. Immagino che
quest'anno si siano riprodotti da soli».
«Qualcuno deve mettere fine a questa faccenda», borbottai. «Hai pensato
di versare della candeggina o qualcosa del genere sulle piantine?».
«Potrei farlo. Ascolta, Sarah Donnellen mi ha telefonato ieri sera e ha
detto...».
«Non mi interessa cosa ha detto Sarah Donnellen», urlai. Lei interruppe
bruscamente la conversazione.
«Dannazione», dissi guardando Jethro, che sembrava spaventato perché
avevo alzato la voce. «Se avessi saputo che mi avrebbe riagganciato il
telefono in faccia in quel modo, avrei urlato dieci minuti fa».
Stavo cerchiando gli annunci di vendite sul Morning News quando sentii
il familiare rombo di un autobus turistico – ma in un punto inconsueto:
sembrava provenire non dalla strada davanti alla casa grande bensì dal
vicoletto retrostante.
Dal vicoletto? Impossibile. Il consiglio municipale aveva finalmente
attuato severe restrizioni per i tour operator locali, stabilendo che gli
autobus non potevano fermarsi in vie residenziali e avevano il divieto
assoluto di accedere ai vicoletti. Comunque, perché mai a dei turisti sarebbe
dovuto interessare un gruppetto di bidoni dell'immondizia e posti
macchina? Sporsi la testa dalla porta d'ingresso per dare un'occhiata di
persona.
Fermo proprio davanti alla mia porta c'era un grosso autobus a due piani
del tour Savannah pittoresca che sputava fumo nero. La gente si stava
sporgendo dai finestrini, puntando videocamere nella mia direzione. La
guida, un'ossuta donna di mezza età che portava un ridicolo abito da sera
anteguerra e un cappello di paglia ornato di fiori, era in piedi accanto
all'autista del veicolo e parlava in un microfono.
Il rumore rimbombò tutt'intorno a me. «Un famigerato caso di omicidio»,
le sentii dire, e le sue parole furono seguite dal suono degli otturatori delle
macchine fotografiche. «La nuova fidanzata dell'ex marito uccisa con un
colpo d'arma da fuoco in un'antica villa coloniale di grande interesse
storico... La polizia ritiene che un'antiquaria abbia pedinato la giovane
donna, un noto architetto, e l'abbia uccisa per vendetta».
Con il viso in fiamme, tornai subito dentro. Mi sentivo stordita e
nauseata. E furibonda. Era la goccia che faceva traboccare il vaso. Prima
una presunta omicida, adesso un dannato spettacolo per turisti. Mi
tremavano le mani mentre componevo il numero della polizia.
«È la polizia di Savannah?», chiesi quando l'operatore rispose. «Voglio
denunciare un autobus turistico. È parcheggiato illegalmente nel vicoletto
dietro casa mia. A Charlton Street. L'isolato 300». Stavo cercando di
ricacciare indietro le lacrime. «Voglio che quel dannato autobus venga
messo sotto sequestro. Voglio che l'autista e la guida vengano arrestati. E
voglio che i dannati turisti vengano deportati», gridai, poi buttai giù la
cornetta con violenza.
Dopo essermi calmata feci una doccia e mi preparai ad andare al
supermercato. Stavo aprendo la portiera del pick–up quando sentii del
trambusto vicino ai bidoni nel vicoletto. Charles Hsu, il mio vicino
ottantenne, stava infilando un sacchetto di immondizia nel bidone di
plastica verde fornito dall'amministrazione cittadina e sistemato accanto al
mio.
«Salve, signor Hsu», gridai. «Come stanno crescendo i suoi pomodori?».
Ogni anno lui e io facciamo amichevolmente a gara per vedere chi dei
due ha le piante di pomodoro che producono più frutti. In realtà non c'era
mai stata una vera e propria competizione perché quelle del signor Hsu
appartengono a una varietà segreta che lui coltiva da tutta una vita.
Adesso, però, l'uomo si voltò a guardarmi ma non aprì bocca. Spinse il
sacchetto nel bidone e tornò rapidamente verso il suo lato dello steccato.
Sospirai. Il signor Hsu non era l'unico vicino che stesse cercando di
evitarmi. Il giorno prima, mentre Jethro e io stavamo attraversando Charlton
Street diretti verso il parco, avevo visto Cheryl Richter che spingeva il
passeggino con il piccolo Eddie sul lato opposto della strada. La mattina
andavamo spesso al parco insieme. Eddie adorava Jethro, e il sentimento
era reciproco.
«Ciao, Cheryl», avevo gridato. Ma lei era rimasta sul suo lato della strada
e, raggiunto l'angolo con la Abercorn, si era premurata di svoltare per
allontanarsi dal parco.
D'accordo, mi dissi. Forse i miei vicini erano afflitti da un improvviso
calo dell'udito o forse avevano problemi di vista — non vedevano nessun
motivo per frequentare una donna accusata di omicidio.
Famigerata. Jean Eloise Foley, mi dissi, incamminandomi verso il
supermercato sulla Habersham, sei famigerata.
Quando arrivai, decisi di tenere gli occhiali da sole saldamente sistemati
sul naso. In incognito, pensai, farò la spesa in incognito.
Una volta all'interno, con gli occhiali scuri mi sentii del tutto disorientata.
Avevo dimenticato a casa la lista della spesa, e le distrazioni della mattinata
avevano gettato il mio cervello in una profonda confusione.
Ero ferma nel corridoio della frutta e verdura, fissando i vari tipi di
lattuga esposti e cercando di decidere quale comprare, quando sentii una
voce acuta e nervosa.
«Eloise? Eloise Foley? Sei tu, tesoro?». Mi guardai intorno. Tutto aveva
una torbida sfumatura di verde, come se fossimo sott'acqua. Ma, anche se
era verde, riconobbi subito Merijoy Rucker.
Dannazione. Prima la mamma, ora Merijoy. Stavo espiando un peccato
che non avevo nemmeno commesso.
Aveva in mano un grosso sacchetto di peperoncini rossi. Lo lasciò cadere
in un carrello pieno di bambinetti e mi strinse in un abbraccio ossuto e
profumato di Dior.
«Tesoro», esclamò con fervore. «Che cosa terribile. Ero fuori di me per la
preoccupazione. Stai bene?».
Prima che potessi rispondere, si girò verso i bambini nel carrello, tutti
con capelli di un biondo chiarissimo ed enormi occhi castani.
«Renée», tubò Merijoy, «tesorino, non dare a Rodney i peperoncini
piccanti. Gli faranno bruciare la boccuccia».
Renée dava l'impressione di essere in età prescolare, sui cinque anni. Le
sue lunghe gambe abbronzate erano incastrate nella parte del carrello in cui
di solito metto la borsetta. Aveva il viso macchiato da quello che poteva
essere sangue o il ripieno della ciambella ai lamponi che stava agitando con
una mano.
La parte inferiore del carrello ospitava una versione maschile e
leggermente più giovane di Renée, che dimostrava quattro anni circa.
Rodney, immaginai, visto che stringeva un peperoncino piccante
parzialmente masticato e stava urlando abbastanza forte da risvegliare i
morti.
C'erano anche altri due bambini, due gemelli identici di due o tre anni, un
maschio e una femmina, che indossavano abitini estivi gialli uguali.
«Mammina, abbiamo fame», cinguettarono.
Con un unico movimento fluido, Merijoy strappò il peperoncino dalla
mano del figlio urlante e lo gettò per terra. Infilò una mano nel carrello,
svitò il tappo di una bottiglietta di succo di frutta e gliela accostò alle
labbra. Lui smise di urlare e cominciò a bere. Un attimo dopo lei aveva
aperto una confezione di biscotti a forma di animali che distribuì a tutti i
figli.
«Tutti a posto?», chiese. I bambini, che ricordavano molto una nidiata di
piccoli storni, masticarono soddisfatti i rispettivi biscotti.
«Sono così felice di averti incontrato», esclamò Merijoy, stringendomi il
braccio per enfatizzare le sue parole. «L'ho detto a Randy ieri sera, dopo
che in televisione hanno trasmesso quell'orrendo servizio su di te: "Randy,
stanno processando ingiustamente la povera Eloise per questa faccenda"».
Cercai di ribattere qualcosa, ma lei proseguì in fretta. «Naturalmente,
tutti i vicini mi chiedono se ti conosco – visto che abbiamo frequentato
entrambe la St. Vincent e tutto il resto. E io ho risposto: "Eloise Foley non
farebbe male a una mosca". Ma tesoro, non è questo che volevo dirti.
Quello che volevo dire è che ho avuto una splendida idea. Ed è magnifico
averti incontrato perché avevo intenzione di chiamarti subito dopo aver
lasciato Renée alla sua lezione di tennis e Rodney all'asilo e aver messo a
dormire Rachel e Ross. È troppo perfetto, Eloise. Randy e io saremmo
assolutamente entusiasti se tu venissi a cena da noi, domani sera».
«Be'...», cominciai a dire.
«È il nostro turno di ospitare il club delle cenette. E il padrone di casa
può invitare un'altra coppia. Siamo solo poche persone, davvero. E devi
portare un amico, naturalmente. A meno che tu non preferisca che inviti io
qualcuno per te».
«No», riuscii finalmente a replicare. «Non credo di poter venire. Grazie
di aver pensato a me, Merijoy, ma davvero, non sono molto di compagnia,
ultimamente».
«Assurdo. Sarai tra amici. Cari, dolci, splendidi amici. Ora, non intendo
accettare un no come risposta. Verrai, e questo è quanto. Sette e mezzo in
punto e sai dove abitiamo, vero tesoro?».
In quel momento, uno dei gemelli cominciò a emettere suoni strozzati.
Guardai giù. La piccola Rachel stava diventando blu intorno alle labbra.
Merijoy si accigliò, abbassò una mano e le diede un colpetto sulla
schiena mentre contemporaneamente accostava l'altra mano a coppa alla
boccuccia rosa della bimba.
«Sputa, tesoro», la esortò. «Sputa il biscotto cattivo».
Fu ricompensata da un rigurgito di biscotto a forma di animale.
«Magnifico», disse, sorridendo entusiasta come se la figlia le avesse
regalato un mazzo di rose invece che un biscotto masticato. Depositò
abilmente quest'ultimo in un sacchetto di plastica, che poi chiuse e infilò
nella borsa.
«Rachel, amore, ricordi cosa ti ha detto mammina? Mastica, prima di
inghiottire. Non è un vero leone, tesoro, quindi non gli farai male se gli
stacchi la testolina con un morso. Ora», aggiunse, pulendosi la mano con
una salviettina umida apparentemente materializzatasi dal nulla, «vediamo.
Conosci la nostra casa, vero? È la terza quando svolti dalla Habersham
all'altezza della Quarantacinquesima Strada. Ardsley Park, naturalmente. Lo
so, non è il distretto storico che Randy e io adoriamo, ma con cinque
bambini avevamo davvero bisogno di più spazio».
«Cinque?».
«Oh», disse lei, vedendo la mia aria confusa. «Giusto, non sai
dell'ultimogenito. Il piccolo Randall è rimasto a casa con Hattie Mae. Non
riesco a concludere nulla, se lo porto con me». Fece un profondo sospiro.
«Ha sedici mesi e pretenderebbe di essere allattato tutto il giorno, se glielo
permettessi».
Ebbi una visione della piccola Merijoy perfettamente curata con cinque
bambini scatenati che le si arrampicavano addosso, le vomitavano in mano
e stavano attaccati al suo seno. Rabbrividii e rimasi di nuovo senza parole,
cosa che lei interpretò come una risposta affermativa al suo invito a cena.
«Magnifico», dichiarò. «Allora ci vediamo domani. Ed Eloise, intendo
davvero le sette e trenta, non secondo l'ora di Savannah».
Quello, almeno, lo capii. Secondo l'ora di Savannah, se si è invitati da
qualche parte per le otto è maleducazione farsi vivi prima delle nove. Gli
abitanti di Savannah nutrono un radicato terrore di arrivare in anticipo a
qualsiasi occasione mondana.
«I ragazzi si innervosiscono se prolunghiamo i cocktail fin dopo le otto e
mezza», stava spiegando Merijoy. Mi diede una pacca sulla spalla, ed ebbi
la netta impressione che mi avesse lasciato sulla pelle un po' del biscotto
sputato dalla figlia. «Allora è tutto stabilito», aggiunse, spingendo il carrello
verso il reparto della frutta. «Ci vediamo domani sera. Saranno tutti così
eccitati di poterti finalmente conoscere!».
24

Stavo togliendo dal forno l'ultimo cheesecake quando BeBe entrò


disinvolta dalla porta della cucina.
Guardò i dolci allineati sul piano di lavoro – due torte al cioccolato, due
cheesecake al caffè e due con pesche e panna.
«Coma va?», chiese, avvicinando uno sgabello al tavolo.
«Non molto bene», risposi. «La mamma ha dovuto cambiare chiesa a
causa della mia pessima reputazione. I miei vicini attraversano la strada per
non dovermi parlare. Sono diventata una fermata per l'autobus dei tour
Savannah Pittoresca. Papà ha avuto un altro raccolto eccezionale di
zucchini. Credi che potremmo vendere dei cheesecake agli zucchini?».
Lei rabbrividì. «Non nel mio ristorante».
«Ho cominciato a fare la spesa in incognito, al supermercato. E la gente
continua a girarsi per indicarmi con il dito e bisbigliare. Come se io fossi
una dannata criminale o una cosa del genere».
«Per la gente non sei una criminale ma un'eroina», dichiarò BeBe.
«Proprio ieri, mentre ero al salone di bellezza per fare i colpi di sole, tu non
indovineresti mai cos'hanno messo sul bancone all'ingresso, quello dove sta
la receptionist».
«Cappelli di plastica per la pioggia», dissi.
«No, tesoro, ero dalla mia parrucchiera, non da quella di tua madre. Te lo
dico io: c'era una scatola di latta da caffè vuota. E qualcuno aveva ritagliato
la tua foto dal giornale e l'aveva attaccata sopra con un foglietto che diceva
"Liberate Weezie Foley". Non è incredibile?».
Scossi il capo.
«Ho detto a KiKi, la proprietaria, che sei la mia migliore amica. E
guarda...». Estrasse dalla borsa una busta piena di biglietti da venti. «Mi ha
incaricato di darti queste».
Allargò le banconote a ventaglio sul piano di lavoro. Ce n'erano almeno
venti.
«Soldi? Per me? Perché?».
«È il "Fondo per la difesa di Weezie Foley"», spiegò lei. «Si sono prese a
cuore la tua causa. Ogni donna di Savannah vuole darti una medaglia per
aver cacciato un proiettile nel petto di Caroline DeSantos. Sei diventata la
santa patrona delle ex mogli del mondo intero».
«Mi sento una reietta», commentai, «tranne che per una cosa: poco fa,
mentre ero al supermercato, Merijoy Rucker mi ha fermato per invitarmi
alla riunione di domani sera del suo club delle cenette».
BeBe drizzò le antenne. «I Rucker? Ti hanno invitato a una riunione del
club delle cenette di Ardsley Park? Fantastico. È da parecchio che muoio
dalla voglia di partecipare a una delle loro cene».
«Cos'hanno di tanto speciale?».
«Tesoro, il club delle cenette di Ardsley Park è incredibilmente esclusivo.
Nessuno, dico nessuno, viene invitato a meno che tutti i membri siano
d'accordo. E alle cene non partecipano mai più di dodici persone perché
nelle loro sale da pranzo non c'è posto per un numero maggiore di ospiti. I
membri del club non amano le sedie pieghevoli e i tavolini. Inoltre si dice
che il cibo sia straordinario. È una gran fortuna essere invitati. Dovresti
esserne onorata».
«Vacci tu», replicai, estraendo un cheesecake dalla teglia e posandolo
sull'apposita griglia perché si raffreddasse. «Domani sera io rimango a
casa».
«Cosa? No, non se ne parla neanche. Weezie, perché hai accettato l'invito
se non avevi intenzione di andarci?».
«Non ho accettato. Non proprio. In un certo senso Merijoy ha dato per
scontato che io avessi detto di sì. Ha questo effetto sulle persone. Si limita a
passarti sopra. Io continuavo a dirle di no e lei continuava a sentire "sì"».
«Sono uscita con uomini di questo tipo», disse BeBe, passando un dito
sulla ciotola dell'impasto posata nel lavandino.
«E c'è un altro motivo per cui non voglio andarci», aggiunsi. «Merijoy
dice che devo portare un amico, altrimenti mi troverà qualcuno lei. E sai
cosa penso degli appuntamenti combinati». Le lanciai uno sguardo
eloquente.
«Non ricominciare», replicò BeBe. «È andato a meraviglia, vero? Non
capisco cos'hai contro Daniel Stipanek. È assolutamente fantastico.
Insomma, puoi guardarmi negli occhi e dirmi che non lo trovi terribilmente
attraente?».
«Non lo trovo attraente. Neanche un po'».
«Stai mentendo», disse BeBe. Infilò la punta della sua unghia finta in uno
dei cheesecake già freddi. «Accidenti. Questo è rovinato. Perché non lo
tagliamo subito a fette?».
«Per me significa cinquanta dollari di guadagno», protestai.
Lei infilò la mano nella borsetta e posò con decisione due biglietti da
venti e uno da dieci sul piano di lavoro. «Ecco qui. Ora vuoi tagliarmi una
fetta di quel dannato dolce oppure no? Sto morendo di fame».
Le tagliai una fetta di cheesecake e le versai un bicchiere di latte.
«Cos'è che non ti piace di Daniel?», mi chiese. «E voglio una risposta
precisa».
«Non lo so», risposi, prendendo una forchettata del suo dolce. Era quello
decorato con pesche e glassa di lamponi freschi, una nuova ricetta che stavo
provando. «Non è il mio tipo. Troppo abbronzato, tanto per dirne una».
«Ti stai chiedendo fin dove è abbronzato», disse BeBe, ammiccando.
«Disdicevole, disdicevole».
«Non essere sciocca. Non sono mai stata attratta dai tipi come lui.
Uomini bruni. Mai».
«Tal è del tutto beige. E sappiamo come è andata a finire la cosa, vero?».
«Gli occhi di Daniel sono così azzurri. Non è naturale per un uomo avere
occhi di quel colore».
«Non sono lenti a contatto. Ho controllato», precisò lei.
«C'è qualcosa di sbagliato nel fisico».
BeBe finse di soffocare. «No, Weezie, il suo fisico è perfetto. Mio Dio. È
fatto così bene. Cosa può non piacere, in un corpo del genere?».
«È solo che non sono abituata a una persona fatta come lui», dichiarai,
cercando di spiegarmi. «Tal è... era alto, e aveva un che di architettonico,
sai. Tutto superfici levigate e capelli dritti. Pelle chiara e angoli acuti. Mi
piaceva guardargli le dita, così lunghe e affusolate».
«Contrariamente al resto della sua anatomia», commentò BeBe.
«No comment», ribattei con sussiego. «Ora, Daniel non gli somiglia
affatto. È più basso. E quei muscoli. È come se fosse troppo muscoloso, sai.
Non ho mai apprezzato quel genere di cosa».
Presi un'altra forchettata del suo cheesecake. A scopo puramente
scientifico.
«Cosa mi dici di quel fondoschiena?», chiese lei. «Hai intenzione di stare
lì seduta a dirmi che Daniel non ha il sedere più bello che tu abbia mai visto
in un uomo?».
«Non l'ho notato», risposi, incrociando le dita dei piedi.
«Bugiarda, ti si sta già allungando il naso», mi prese in giro BeBe. «La
maggior parte dei camerieri e degli inservienti del Guale sono gay. E,
tesoro, loro l'hanno notato. Praticamente fanno a pugni per entrare in quella
cucina, quando Daniel ci sta lavorando».
«E il suo tatuaggio? Tutt'altro che igienico. E un po' volgare, non trovi?».
«È solo una minuscola aquila del corpo dei Marines», ribatté lei. «Me ne
ha parlato. Durante la sua prima licenza a Parris Island si è ubriacato e se l'è
fatto fare. E no, non trovo affatto che sia volgare. È questo il tuo problema,
Eloise: hai frequentato così a lungo la cerchia boriosa degli Evans che hai
cominciato a credere alle loro idiozie sul sangue blu».
Bevve una bella sorsata di latte e si asciugò le labbra con il tovagliolino
che le porgevo.
«Se dovessi scegliere tra il tatuaggio di Daniel Stipanek e il cosiddetto
pedigree di Talmadge Evans non avrei nemmeno un attimo di esitazione –
un attimo newyorkese. Non sopporto quella famiglia e tutta la sua
arroganza. Pensano di discendere dai lombi di Venere e invece sono solo
pidocchi che hanno messo le ali».
Scoppiai a ridere così forte che per poco non sputai il pezzo di dolce che
le avevo appena rubato.
Lei mi rivolse un'occhiata esasperata. «Dannazione, prenditi una fetta di
torta tutta per te. Perlomeno tu puoi permetterti le calorie». Mi sollevò un
polso e lo lasciò subito ricadere. «Mio Dio. Quanti chili hai perso da
quando è iniziata questa faccenda?».
«Neanche uno».
Era una bugia e lo sapevamo entrambe. Mi ero tenuta accuratamente
lontana dalla bilancia ma, dal modo in cui la biancheria intima mi pendeva
addosso, dovevo aver perso quasi cinque chili dalla notte in cui il corpo di
Caroline era caduto fuori da quell'armadio a Beaulieu.
BeBe prese un piatto dal mobiletto e mi tagliò una fetta di cheesecake.
Estrasse una Coca–Cola dal frigo e la posò accanto al piatto. «Ora mangia»,
ordinò. «E raccontami qualche altra bugia sul fatto di non sentirti attratta da
Daniel Stipanek».
Masticai e riflettei.
«Non abbiamo niente in comune. Non ci piace nemmeno lo stesso tipo di
musica. A me piace il rock and roll classico, a lui la musica da spiaggia. Io
non sapevo nemmeno cosa fosse finché non me l'ha spiegato».
BeBe scosse la testa davanti alla mia ignoranza. «Vuoi dire che non hai
mai pomiciato con Under the Boardwalk dei Drifters in sottofondo?».
«Una volta sono stata palpeggiata da Chuck Manetti a un concerto dei
Van Halen nel centro civico», raccontai.
Lei fece schioccare la lingua per esprimermi la sua compassione. «Povera
ragazza, quante rinunce».
«Senti, te lo concedo, Daniel è abbastanza attraente. Sono persino
disposta ad ammettere che il suo carattere non è disgustoso come pensavo
all'inizio».
«Un tempo deve esserti piaciuto. Hai ammesso di essere uscita con lui
anni fa, ai tempi del liceo».
All'improvviso, senza che lo volessi, un flashback di noi due nudi sotto le
querce di Beaulieu mi attraversò la mente. Mi sentii avvampare, così mi
alzai per sciacquare il piatto nel lavandino ed evitare che lo sguardo acuto
della mia amica notasse il mio imbarazzo.
Sarei morta piuttosto che confessarlo a BeBe o a chiunque altro, ma il
principale problema di Daniel era il fatto che fosse diverso. E pericoloso. E,
al momento, nella mia vita c'erano già abbastanza pericoli.
«Non può funzionare, tutto qui», affermai, continuando a darle la
schiena. «Non sono ancora pronta per una relazione. Daniel può anche
essere dolce, questo lo ammetto. Quando mi ha portato a pranzo a casa sua
mi ha preparato una zuppa. Zuppa ai frutti di mare freddi. È un cuoco
magnifico. Capisco perché tu vuoi che si trovi bene, al Guale».
«Zuppa?». BeBe si alzò, mi prese per le spalle e mi costrinse a voltarmi
in modo da guardarla in faccia. «Ti ha preparato la zuppa? Dio del cielo.
Perché non l'hai detto subito?».
«Cosa c'è di tanto speciale? Mi ha preparato anche un sandwich. Con il
basilico fresco. Non avevo mai conosciuto un uomo che coltivasse erbe
aromatiche».
«Ecco cosa c'è di speciale: un uomo che ti prepara la zuppa dev'essere
fantastico a letto. Ora che ci ripenso, se non lo vuoi tu, Daniel me lo prendo
io. Anche se ho una politica ben precisa, sai: mai andare a letto con i
dipendenti».
«Perché?», indagai.
«Perché è una pessima idea mischiare gli affari e il piacere. Inoltre, è
molto più divertente fottere la concorrenza. Lo sai?».
«No. Voglio dire che non capisco cosa c'entri la zuppa con l'essere un
bravo amante». Pensai di nuovo al mio giro in barca a Beaulieu. L'unico
aspetto memorabile di quell'incontro era la varietà di posti in cui ero stata
punta dagli insetti. Quella sera, quando ero tornata a casa, avevo usato un
intero flacone di lozione lenitiva.
«Weezie, Weezie», disse BeBe, con il tono di un insegnante che abbia a
che fare con uno studente un po' ritardato. «Anche tu sei un'ottima cuoca.
Pensaci. La zuppa richiede tempo. Pazienza. Attenzione ai dettagli. Un
uomo che prepara una zuppa sa come prendersi i suoi tempi. Usa solo gli
ingredienti giusti. E aggiunge le spezie con il giusto movimento del polso.
A quel punto, e solo a quel punto, alza il fuoco per portare tutto a
compimento. Portare a ebollizione. E sai qual è il segreto di una zuppa,
vero? Più tempo richiede e più è buona».
Presi un volantino pubblicitario dal tavolo e cominciai a farmi vento.
«Povera me», dissi con voce strascicata. «Credo che tutti questi discorsi
sulla zuppa e il sesso mi abbiano accaldata».
BeBe mi fece l'occhiolino. «Pensa che la realtà sarà ancora più
piacevole».
«Assolutamente no».
«Vedremo».
25

Il tempo cominciava a stringere. Venerdì mattina allungai la mano verso


il telefono una mezza dozzina di volte, per chiamare Merijoy e declinare il
suo invito a cena. E ogni volta me ne mancò il coraggio.
Non che avessi voglia di partecipare alla sua festicciola, ma non volevo
sembrare una patetica donnetta che non era nemmeno in grado di rimediare
un accompagnatore per una stupida cena.
Eppure era proprio così. Le mie prospettive di trovare un uomo per la
serata erano pari a zero. La maggior parte degli uomini che conoscevo a
Savannah erano sposati o gay. Avevo soltanto un amico davvero single ed
etero: Tony Fields. Ci frequentavamo sin dalle elementari. Lui e la sua
seconda moglie, Bonnie, si erano separati sei mesi prima che io divorziassi
da Tal. Avevamo pranzato insieme un paio di volte, ma soprattutto per
lamentarci della difficoltà di ritrovarsi improvvisamente single.
Il problema di invitare Tony era che sapevo che lui frequentava la cerchia
di Merijoy. Giocava addirittura a golf con Randy Rucker. Non volevo che la
gente cominciasse a pensare che stavamo insieme – perché, realisticamente,
non sarebbe mai successo.
Per distrarmi dai miei problemi decisi di andare a vedere una presunta
vendita a Baldwin Park.
Ho detto vendita? L'annuncio sul Pennysaver prometteva pezzi di
antiquariato, ma la mercanzia era rappresentata principalmente da una
quantità di orribili abiti in poliestere per taglie forti, una motofalciatrice
guasta e una montagna di tazze di plastica scompagnate, del tipo dato in
omaggio dai fast–food. So che ci sono persone che collezionano cose come
tazze della federazione auto da rally o pupazzetti raffiguranti i personaggi di
Guerre Stellari, ma francamente non tratto oggetti di plastica.
Tuttavia la mattinata non fu totalmente improduttiva: sulla via del ritorno
mi fermai nel negozietto che vendeva oggetti usati per beneficenza dove per
cinquanta centesimi l'una comprai quattro coppette di vetro verde risalenti
agli anni Trenta, decorate con un motivo a ferro di cavallo piuttosto raro.
Non avevo bisogno di consultare il mio prezzario per sapere che valevano
quindici dollari l'una.
Il telefono stava squillando.
«Weezie?».
Una voce maschile, che non riconobbi.
«Sono io», risposi in tono cauto.
«Sono Daniel», disse lui. Buffo, sembrava una persona diversa al
telefono. La sua voce era bassa, l'accento di Savannah non così spiccato.
Sembrava un professore universitario, se proprio devo essere sincera.
«Oh». Non sapevo cosa dire. «Come stai?».
«Benissimo, e tu?».
«Abbastanza bene», risposi. «Pensi che pioverà?». Era davvero la
conversazione più idiota che avessi mai fatto. Tra poco gli avrei chiesto
quanti chilometri faceva il suo pick–up con un litro oppure cosa pensava
delle assicurazioni sulla vita.
«Ascolta», cominciò lui, «odio questo genere di cose. Stamattina BeBe è
passata dal ristorante. Ha detto per caso che ti serviva un accompagnatore
per una cena a cui dovevi andare stasera. Ed ecco cosa...».
«Non mi serve un accompagnatore», replicai in tono gelido.
«Come preferisci», ribatté lui, seccato. «Scusa se ti ho disturbato. Devo
aver capito male. Ci vediamo».
Stava per riagganciare. Era l'una passata. Non sarei mai riuscita a
raccattare un esemplare vivente di sesso maschile, a quell'ora. E Merijoy si
sarebbe arrabbiata se mi fossi presentata a casa sua da sola, scombinando la
disposizione dei posti a sedere. La mia già macchiata reputazione sarebbe
stata coperta di fango.
«Daniel, aspetta».
«Qualcosa non va?».
«Io... ehm, be', ascolta. Sono nei guai. Mi sono lasciata convincere ad
andare a questa cena, stasera. La padrona di casa è una mia vecchia
compagna di scuola e non ha accettato di sentirsi dire di no. È una cena a
coppie, e con un preavviso così breve...».
«I Rucker», disse Daniel. «BeBe mi ha spiegato tutto. Vengono sempre al
ristorante. A che ora?».
«Sette e mezzo. In punto».
«Giacca e cravatta?».
Non mi era venuto in mente di chiederlo. Ma era piena estate. Di solito a
Savannah una maglietta polo sarebbe stata sufficiente ma, ancora una volta,
se il club delle cenette era elegante come sosteneva BeBe, la polo non
sarebbe apparsa appropriata. L'incertezza riprese a torturarmi.
Daniel non si faceva gli stessi problemi.
«Metterò una giacca sportiva e porterò una cravatta. Va bene?».
«Sì», risposi, grata.
«Sei sicura?», chiese in tono strascicato. Il vecchio Daniel era tornato. «I
tuoi amici ricchi non penseranno che tu abbia frequentazioni sconvenienti –
portando in un'elegante casa di Ardsley Park un cuoco da fast food?».
Ci stava andando giù pesante. E probabilmente me lo meritavo. «Saranno
fortunati a poterti conoscere», replicai. E rimasi stupita di scoprire che lo
pensavo davvero.
Risolto il dilemma dell'accompagnatore, passai il resto del pomeriggio
seduta al computer, inserendo articoli su eBay.
Non tutto ciò che compro si presta a essere venduto su un sito di aste on
line come eBay. I mobili per esempio, che quasi tutti preferiscono vedere
prima dell'acquisto, per non parlare dei proibitivi costi di spedizione. Inoltre
mi capita raramente di trovarvi acquirenti per oggetti di cristallo pregiato.
Ma nell'ultimo anno avevo cominciato a vendere parecchi articoli di
minuteria tramite Internet. Me la cavavo discretamente con articoli come
argenteria, biancheria da letto, porcellane, vasellame, gioielli e persino
qualche piccolo dipinto a olio e qualche acquarello. Avevo comprato una
buona macchina fotografica digitale e dopo alcuni tentativi falliti, ero
diventata piuttosto brava a fotografare i miei pezzi d'antiquariato perché
facessero la miglior figura possibile.
Non guadagnavo certo molto denaro su Internet, ma avevo scoperto che
era un ottimo modo di raggiungere un mercato assai più ampio di quello in
cui avrei potuto sperare di entrare altrimenti.
In genere dedicavo un giorno alla settimana a catalogare la merce,
aggiornare il mio sito web e dare un'occhiata alle aste in corso, e un altro a
imballare e spedire gli oggetti, letteralmente, in tutto il mondo.
Stavolta dovevo aggiungere al sito soprattutto cianfrusaglie: originale
bigiotteria anni Cinquanta, un copriletto di ciniglia con un motivo a piume
di pavone e una magnifica tovaglia di damasco da banchetto con dodici
tovaglioli con orlo a giorno coordinati che speravo mi fruttassero un
centinaio di dollari.
Avevo trovato copriletto, tovaglia e tovaglioli in uno scatolone pieno di
biancheria comprato per cinque dollari a un'asta di Pooler, ma mi ci era
voluto qualche tempo a riportarli nelle condizioni adatte per poterli
rivendere.
Come spesso succede con la biancheria da casa vintage, la tovaglia era
rimasta chiusa in un armadio o un cassetto per decenni e con il passare del
tempo era ingiallita; al pari dei tovaglioli, inoltre, presentava diverse grosse
macchie marroni.
Per eliminarle utilizzai lo smacchiatore preferito da mia nonna: una pasta
ottenuta mescolando in parti uguali detersivo in polvere per lavastoviglie,
un vecchio detergente in polvere che si chiamava Biz e bicarbonato di
sodio. Si lava la biancheria e, mentre la stoffa è ancora umida, si stende la
pasta bagnata sulle macchie e la si lascia asciugare, meglio se all'aria aperta.
Stendere all'aperto aveva costituito un altro motivo di attrito con
Caroline. La prima volta che avevo steso il bucato sulla corda tesa dalla mia
parte dello steccato, lei era inorridita. Tal aveva addirittura chiamato il suo
avvocato, che a sua volta aveva telefonato a zio James, per costringermi a
toglierlo.
Inutile dire che stendevo la biancheria all'aperto ogni volta che ne avevo
la necessità.
Ero riuscita a stirare perfettamente tovaglia e tovaglioli usando il sistema
della nonna di inumidire con acqua la biancheria, per poi arrotolarla,
infilarla in un sacchetto di plastica e lasciarla tutta la notte in frigorifero.
Provavo un bizzarro piacere nel dedicare una mattinata alla stiratura,
sorseggiando un bicchiere di tè freddo e osservando la nuvoletta di vapore
che si formava quando il ferro passava sul tessuto fresco e umido. Forse era
un modo di entrare in contatto con la mia nonnina morta ormai da tempo,
che aveva trasformato l'economia domestica in un'arte così raffinata. O
forse dipendeva semplicemente dal mio perverso bisogno di ribellarmi ai
tessuti ingualcibili e a quelli non–stiro che, insieme al cibo da asporto e ai
pasti dietetici surgelati, rappresentava una componente essenziale della vita
con mia madre.
Alle quattro mi staccai da Internet e cominciai a essere assillata dal
pensiero di cosa indossare per la cena di Merijoy.
Non avevo poi molte alternative. Per quanto io ami vedere e sentire sulla
pelle i bei vestiti vintage, la realtà della mia vita post–divorzio mi
richiedeva raramente di indossare qualcosa di più di jeans, maglietta e
sandali infradito.
Dalla cabina armadio che avevo ricavato nel solaio della mia casetta
emersero tre possibili scelte: un tubino senza maniche di tessuto stampato
rosa acceso e bianco anni Sessanta di Lily Pulitzer, un'ampia sottoveste
vittoriana bianca lunga fino alle caviglie che uso come abito estivo, e un
attillato abitino nero di shantung a maniche corte che, sorpresa sorpresa, era
appartenuto alla mamma.
Li provai tutti e tre almeno due volte. Il Lily Pulitzer era divertente,
spigliato e decisamente tornato di moda, ma il rosa non si intonava granché
all'attuale sfumatura di rosso dei miei capelli. La sottoveste vittoriana era
troppo da trovatella; ero dimagrita così tanto che mi faceva sembrare la
piccola fiammiferaia.
Quello nero, pensai, piroettando ripetutamente davanti allo specchio a
figura intera. Decisamente quello nero. Era difficile credere che la mamma
avesse mai indossato qualcosa di tanto audace ma, quando avevo ripescato
l'abitino dall'armadio di cedro nella sua camera, aveva preso un'espressione
sognante e mi aveva raccontato del suo primo appuntamento con papà,
quando lui l'aveva portata a ballare al Barbee's Pavilion, sulla Isle of Hope.
«Ho comprato quel vestito con il mio primo stipendio della compagnia
telefonica», aveva spiegato. «Costava quasi quaranta dollari, e a tua nonna
venne un colpo quando scoprì quanto avevo speso. Lo mettevo con un paio
di sandali neri con il tacco a spillo, ma non so dove siano finiti».
Non me l'ero mai provato. A Tal non piaceva che mi vestissi di nero.
Persino con cinque chili in meno del solito dovetti trattenere il fiato per
riuscire a chiudere la cerniera. Aveva un profondo scollo a barchetta, vita
stretta e gonna attillata; quando mi guardai allo specchio stentai a
riconoscermi. Mi sembrava la copia esatta del vestito di Barbie che
preferivo quando ero bambina.
L'unico problema era che la mamma era alta quasi dieci centimetri più di
me, quindi l'orlo mi scendeva fino a metà polpaccio, facendomi sembrare
una bimbetta che si mette l'abito da cocktail della madre.
Mi sedetti sul bordo del letto e ripiegai l'orlo in modo che arrivasse dieci
centimetri sopra il ginocchio – sexy ma non volgare. Non c'era il tempo di
cucire, così feci ricorso al trucco preferito della scolaretta cattolica: il nastro
adesivo. Mentre lo applicavo pregai che l'abito non si strappasse. Era di
buona fattura, con cuciture splendidamente rifinite, ma la seta vecchia di
quarant'anni dava un'impressione di fragilità.
La Barbie possedeva un paio di sabot di plastica nera da mettere con il
suo abito, ma io dovetti accontentarmi di un paio di sandali con il tacco alto.
I collant erano fuori questione. Prima di tutto faceva troppo caldo.
Inoltre, dopo il divorzio, avevo fatto una mia personale versione del famoso
giuramento di Rossella O'Hara, stringendo una manciata degli odiati
accessori e gridando «Giuro davanti a Dio, non indosserò mai più i collant».
E già che si stava parlando di biancheria, anche un reggiseno era
impensabile, data la forma della scollatura.
Così eccomi lì, alle sette e un quarto, con indosso un abito più vecchio di
me sotto il quale non portavo altro che un paio di minuscole mutandine di
pizzo nero. I sandali con i tacchi alti mi fecero barcollare, all'inizio, ma per
calmarmi i nervi mi preparai un doppio vodka and tonic e lo mandai giù
avidamente come se fosse acqua ghiacciata. Il mio primo appuntamento. Il
mio primo appuntamento dopo dieci anni di matrimonio e un divorzio
infernale, e l'uomo con cui uscivo era tatuato.
Il campanello squillò. Il mio battito cardiaco accelerò. Presi in seria
considerazione l'idea di svenire o di svignarmela dalla porta sul retro.
Invece feci un bel respiro e cercai di non espirare per paura che il mio seno
esplodesse dalla scollatura.
Aprii la porta.
Daniel era lì, una mano posata sullo stipite. Aveva una camicia a righine
bianche e rosse perfettamente stirata, pantaloni color kaki, mocassini senza
calze e un blazer blu con una cravatta infilata nel taschino. I luminosi occhi
azzurri mi squadrarono da capo a piedi. Sorrise. «Accidenti, tesoro. Sei
bella da mangiare».
Date le circostanze, non penso che sbattergli la porta in faccia sia stata
una reazione così illogica.
26

Stranamente, Daniel era ancora lì quando riaprii la porta, pochi secondi


dopo. «È solo un modo di dire», commentò. Ma avevo la netta impressione
che avesse già fatto un inventario dettagliato di ciò che indossavo e
soprattutto di ciò che non indossavo. «Gran bel vestito», aggiunse poi,
aiutandomi a salire sul pick–up – impresa tutt'altro che facile, considerato
com'era attillato il suddetto abitino.
Strattonai le spalline, sperando di riuscire a sistemarmi il décolleté, ma
era un'impresa pressoché disperata. Mi sarei dovuta limitare a tenere bene a
mente gli insegnamenti inculcatimi da mia madre e a cercare di "stare
seduta diritta" per tutta la sera.
«Non è un po' eccessivo?», chiesi ansiosamente.
«Non per me», rispose lui.
«E per il club delle cenette di Ardsley Park? Non voglio che mi
giudichino una poco di buono».
Lui avviò il motore. «Hai detto che non volevi nemmeno partecipare alla
cena di stasera, quindi perché ti preoccupi dell'opinione di queste
persone?».
«Perché sì. Probabilmente non riuscirai a capirlo perché hai viaggiato e
abitato in altre città prima di tornare qui, ma io ho sempre vissuto a
Savannah. I miei genitori e i miei nonni hanno passato tutta la loro vita qui.
L'opinione della gente è importante. Comunque, per un uomo è diverso. Voi
potete dire o fare ciò che più vi aggrada, nei limiti del ragionevole, e la
gente vi ammirerà per il vostro coraggio. Ma se sei una donna, prova solo a
cercare di farla franca con qualcosa, in questa città».
«Ignorali», mi consigliò Daniel. «Io lo farei».
Scossi il capo e guardai fuori dal finestrino.
«L'intero episodio di Beaulieu è un vero incubo. Non puoi nemmeno
immaginare cosa si prova, sapendo che la gente spettegola su di te. Dei
perfetti sconosciuti sono convinti che io sia una pazza assassina. Vuoi
sapere come mai sto andando a questa cena? Ti dimostrerò come sono
patetica. Merijoy Rucker è la prima persona in due settimane che si sia
presa il disturbo di essere gentile con me. Quindi sì, lo ammetto, voglio
piacere alla gente. È quello che vogliono tutti».
«Non io», ribatté Daniel, serrando la mascella. «Non me ne frega niente
di ciò che la gente pensa di me». Ammiccò. «O di te».
«Per te è facile dirlo. Sei lo chef più celebre del ristorante più alla moda
della città. BeBe dice che ogni donna che entra al Guale vorrebbe saltarti
addosso. Non hai la minima idea di cosa significhi... essere un emarginato».
«Davvero pensi che non ce l'abbia?».
«No», insistetti, agitandomi sul sedile mentre cercavo di abbassare l'orlo
della gonna. «E smettila di guardarmi in quel modo. Sono già nervosa. Stai
peggiorando le cose».
«Non sto guardando te ma la casa dei Rucker», ribatté Daniel. «Niente
male».
Merijoy e Randy Rucker vivevano nella casa più elegante dell'isolato più
chic di Ardsley Park, un'enorme dimora di mattoni rossi in stile Tudor
revival.
Il quartiere era sorto verso l'inizio del secolo come il primo autentico
sobborgo della città – un nuovo indirizzo per la nascente classe cittadina
costituita dai grandi industriali e dalle loro famiglie.
Diversamente dalle strette ville settecentesche e ottocentesche nel
distretto storico in centro, le case ad Ardsley Park erano enormi edifici
costruiti su vasti lotti di terreno, con tanto di ampi giardini, verande e
terrazze – e garage e vialetti d'accesso destinati a ospitare la più grande
mania del nuovo secolo: l'automobile.
Daniel parcheggiò accanto al marciapiede, infilando abilmente il pick–up
tra una Jaguar marrone scuro e una Mercedes color argento.
«Pronta?», chiese.
Deglutii a fatica. «Faresti una cosa per me?».
«Forse».
Mi morsi un labbro. «Ti ho già detto che sono nervosa. Penso che potrei
vomitare o qualcosa del genere».
«Non sul mio pick–up».
Aprii la portiera del passeggero. «Cercherò di non sporcare». Un'altra
boccata di quella densa aria serale mi fece sentire un po' meglio. Continuai
a dare la schiena a Daniel.
«Senti», dissi, «questa è in un certo senso la prima... insomma, be', è la
prima volta che esco con qualcuno. Dopo Tal. So che non è un vero e
proprio appuntamento e che lo stai facendo solo perché BeBe è il tuo capo.
Ma se tu potessi soltanto... insomma, non so, comportarti come se io ti
piacessi... Potresti farlo?».
Lui scivolò sopra il sedile e mi avvicinò le labbra all'orecchio, così tanto
da farmi il solletico, poi sussurrò, molto sommessamente: «Tu mi piaci,
Weezie Foley. Mi sei sempre piaciuta».

***

«Eloise!», esclamò Merijoy con un sorriso radioso, porgendomi un


bicchiere coperto di goccioline di condensa, in apparenza pieno di gin and
tonic. «Eccoti qui. Sono così felice. Temevo che non saresti venuta».
«Non mi sognerei mai di fare una cosa del genere», replicai. Mi voltai
verso Daniel. «E credo che tu conosca già il mio amico Daniel Stipanek».
«Conoscerlo?», chiese lei, ridendo. «Se non fosse per lui Randy e io
moriremmo di fame. Mangiamo al Guale almeno una volta alla settimana e
spesso la sera Randy passa di lì mentre torna dal lavoro per prendere quella
sua divina tartare di salmone».
Passò un bicchiere anche a lui. «Randy», chiamò. «Vieni a vedere chi c'è,
tesoro, è la celebrità della nostra serata».
Sorseggiai il gin and tonic. Era gelato, aspro e allo stesso tempo dolce. Se
i Rucker avessero continuato a servirlo con regolarità, forse sarei riuscita a
superare quella serata.
«Ehi, ciao», disse Randy Rucker, cingendo con un braccio le spalle della
moglie. Fui costretta a guardare in alto, molto in alto, per vederlo in faccia.
Torreggiava sopra Merijoy. Era allampanato, con capelli castani che si
stavano diradando, spessi occhiali con la montatura di corno e un sorriso
che pareva irradiare un sincero piacere nel vedermi.
«È un piacere conoscerti, Eloise», disse. «Merijoy non fa che parlare di
te, da quando vi siete incontrate a Beaulieu. Ho saputo che sei una fanatica
della tutela del patrimonio artistico come la mia mogliettina».
Merijoy gli diede un leggero colpetto scherzoso sul braccio. «Non farti
prendere in giro da Randy, Eloise. È interessato alla tutela quanto me. Sai, è
lui che ha impedito al suo paparino di demolire la sede originale della
compagnia di trasporti sulla West Broad, scusate, volevo dire sul Martin
Luther King Boulevard».
«Non lo sapevo», replicai, colpita. Avevo visto la sede della compagnia
di trasporti Rucker. Era uno dei monumenti di Savannah, un enorme
edificio in stile coloniale spagnolo con quattro eleganti campate e una
facciata decorata da volute di ferro battuto nero.
«Oh, sì», continuò lei. «Il padre di Randy era pronto a radere al suolo
l'edificio. Aveva un'opzione per un lotto di terreno a poco prezzo dal lato del
ponte in South Carolina, dove intendeva trasferire la compagnia. Ma Randy
ha fatto qualche ricerca e gli ha spiegato che la famiglia poteva ottenere
dall'ente per lo sviluppo i fondi con cui restaurare l'antico stabile e persino
comprare altro terreno dietro l'appezzamento originario, in modo da potersi
espandere».
«Dannatamente astuto», commentò Daniel.
«Abbiamo risparmiato una quantità di denaro, sulla lunga distanza»,
disse con modestia Randy. «E questo è l'unico motivo per cui mio padre ha
accettato la mia proposta. Non era certo un sentimentale. I mattoni sono
mattoni, per quanto lo riguardava».
«Ma il punto è che avete salvato un edificio importante», dichiarai.
«Sì», confermò Merijoy con un sospiro. «Abbiamo già perso così tante
magnifiche case ed edifici commerciali, qui intorno. Sono così preoccupata
per quello che potrebbe succedere a Beaulieu».
Una donna minuta con i capelli bianchi e un elegante abito da cocktail di
broccato blu ci raggiunse. I suoi occhi avevano la stessa sfumatura di
turchese del vestito; portava un unico filo di perle e posato sulla sua testa
c'era un cappellino da cocktail ornato di perline e piume. Sembrava uscita
da un film degli anni Cinquanta.
«Merijoy», disse, posando una mano fragile su quella della padrona di
casa. «Cosa ne sarà di Beaulieu? L'associazione per la conservazione di
Savannah non può impedire a quei tizi di costruirvi una cartiera?».
«No, Sudie», rispose tristemente Merijoy. «La piantagione si trova al di
fuori dei confini della città, quindi non rientra nella nostra giurisdizione».
«Qualcuno deve mettere fine a tutto questo», continuò l'anziana donna.
«È un sacrilegio solo pensare di toccare quella magnifica vecchia casa, o il
terreno. Che diamine, mia madre e mia nonna sono state compagne di
scuola delle ragazze Mullinax. Ogni anno, prima che diventasse troppo
debole per farlo, la mamma ci accompagnava al tè natalizio della signorina
Ann Ruby. La sua cuoca preparava dei dolcetti alle noci squisiti – le noci
venivano dagli alberi di Beaulieu, naturalmente».
«È un vero scandalo», concordò Merijoy. «Sono convinta che
quell'uomo, Phipps Mayhew, il presidente della Coastal Paper Products...
sono convinta che ci sia qualcosa di strano nel modo in cui ha convinto la
signorina Ann Ruby a vendere. Ho passato mesi e mesi a discutere con lei
della possibilità di lasciare la villa all'associazione perché la trasformassimo
in un museo e poi, tutt'a un tratto...».
«Tesoro», la interruppe Randy. «Prima di lanciarti in una filippica su
Beaulieu non vorresti presentare i nostri ospiti agli altri?».
Merijoy sembrò imbarazzata. «Eloise e Daniel, scusatemi tanto. È solo
che questa faccenda mi rende così furiosa che dimentico la buona
educazione».
Rivolse un sorriso radioso alla donna anziana. «Sudie, le presento la mia
vecchia amica Eloise Foley. E il suo amico Daniel Stipanek. Ho
pronunciato bene il tuo cognome, vero, caro?».
«Perfettamente», rispose Daniel, stringendo la mano a Sudie McDowell.
«Sa, Sudie», continuò Merijoy, «Eloise e io abbiamo frequentato
entrambe la St. Vincent. Lei si occupa di antiquariato. Daniel, invece, è lo
chef del Guale. Ha mangiato lì, vero, Sudie?».
«Parecchie volte», disse la donna. «Immagino che lei non riveli mai le
sue ricette, vero? Mio figlio Jonathan va matto per la sua zuppa di frutti di
mare fredda. Ho l'impressione che per lui sia una specie di droga».
«Sarei onorato di darle la ricetta», dichiarò Daniel, con un piccolo
inchino garbato.
«Sudie è la prima vicina che ho conosciuto quando ci siamo trasferiti qui
ad Ardsley Park», spiegò Merijoy. «La sera del nostro arrivo ci ha portato
una torta di lamponi e una bottiglia di vino, e da allora siamo grandi
amiche. Lei e suo figlio Jonathan sono membri fondatori del club delle
cenette. Conoscerete gli altri soci fra pochi minuti».
«Mi piace molto il suo cappellino, signora McDowell», affermai. «È
vintage?».
«Oh, sì», rispose lei. «E anche il vestito. Non ho mai buttato via le cose
di mia madre. Indossarle mi procura un enorme piacere. Inoltre, se devo
dirle la verità, non mi sento mai completamente vestita se non ho un
cappello in testa».
«È il suo marchio di fabbrica, Eloise», precisò Merijoy. «Sudie, anche
Eloise ama gli abiti vintage. Un paio di settimane fa ne indossava uno
assolutamente delizioso».
«Jonathan», chiamò la signora McDowell, vedendo il figlio immerso
nella conversazione con una donna che non conoscevo. «Puoi venire qui,
tesoro? Voglio presentarti gli amici di Merijoy».
Jonathan McDowell ci raggiunse subito. Ricordava Jack Kennedy da
giovane: abbronzatura da velista, capelli arruffati e schiariti dal sole, naso
diritto e gli stessi occhi turchesi della madre. Indossava quella che era
l'uniforme estiva di Savannah – reparto uomo – costituita da pantaloni kaki,
giacca sportiva blu e camicia gialla. Niente calzini.
«Eloise Foley», disse Sudie, «le presento mio figlio Jonathan».
«Foley?», chiese lui, con una strana espressione. «Sei parente di James
Foley?».
«È mio zio», spiegai. «Io sono la sua figlioccia. Dove l'ha conosciuto?».
«Oh», disse lui, facendo un gesto vago con la mano. «In giro. Sai, noi
avvocati ci conosciamo tutti, in questa città».
«Jonathan è viceprocuratore distrettuale», spiegò sua madre.
«Oh». La parola rimase sospesa nell'aria.
Adesso l'uomo sembrava decisamente a disagio. Sapeva sicuramente del
mio arresto. Perché non avrebbe dovuto? Tutti gli altri lo sapevano.
«Jonathan», disse Merijoy, dandogli un bacetto sulla guancia. «Bene. Hai
conosciuto Eloise e Daniel».
«Weezie», corressi io.
«Voglio che Jonathan faccia qualcosa riguardo alla terribile situazione in
cui ti trovi, Weezie», spiegò lei. «Praticamente dirige l'ufficio del
procuratore distrettuale».
«Non darle retta», si affrettò a dirmi Jonathan. «Se conosci Merijoy, sai
che tende a esagerare, soprattutto quando si tratta dei vecchi amici».
«Sii serio, Jon», lo sollecitò Merijoy. «Sapevi che la polizia ha arrestato
Weezie solo perché è stata lei a trovare il corpo di quella donna a Beaulieu?
Ha dovuto persino trascorrere la notte in prigione. E potrebbero ancora
accusarla di omicidio».
«Santo cielo», disse Sudie McDowell. «Jonathan, sapevi qualcosa al
riguardo?».
Lui armeggiò con il colletto della camicia e si schiarì la voce. «Mamma,
lo sai che non posso discutere dei casi in corso», rispose in tono gentile.
«Be', io sì», insistette Merijoy.
Randy venne a salvarci. «Ascoltate», disse, «credo che ci converrebbe
dare inizio alla cena, se vogliamo mangiare il dessert prima di mezzanotte.
Allora, chi ha portato gli antipasti?».
«Io», rispose subito Jonathan. «O meglio, la mamma e io».
«È stato lui a fare tutto il lavoro», dichiarò Sudie. «Non ho mai
conosciuto un uomo che ami tanto cucinare. Non ha preso sicuramente dal
padre. Hudson McDowell non sapeva nemmeno far bollire l'acqua per il tè.
Era un'autentica frana in cucina».
Randy prese uno dei calici di vetro posati su un vassoio d'argento
sistemato sopra un buffet di mogano. Vi batté sopra con un cucchiaino.
«D'accordo, trasferiamoci in giardino. Va bene, vero, Jonathan?».
McDowell si stava dirigendo velocemente verso la cucina, seguito dalla
madre.
«Spero che siate tutti affamati», disse voltando la testa. «Ho portato
tortini di gamberi con salsa remoulade su un letto di crescione».
«E io ho portato il vino», aggiunse sua madre. «Un Pinot grigio. Jonathan
ha detto che ci voleva qualcosa di morbido e pieno per tener testa a tutte le
spezie che mette nei tortini di gamberi».
«Tesoro, hai sistemato le pastiglie di digestivo sul tavolo?», chiese
scherzosamente Randy, dando una leggera gomitata alla moglie. «Sai che
Jon perde il controllo con la sua salsa piccante».
«Randy, sei davvero terribile», disse Merijoy, ma si alzò in punta di piedi
e gli diede un bacio sul mento.
27

Il giardino dei Rucker mi fece tornare in mente un quadro che avevo


visto in un museo di Atlanta. Maestose vecchie querce circondavano un
vellutato tappeto erboso, bordato da siepi di azalee, camelie e gardenie alte
un metro e mezzo. Un cespuglio di gardenie raggiungeva in altezza il tetto
della porta carraia. Al centro spiccava una piccola piscina e un tavolo da
buffet era stato sistemato sul patio di mattoni, all'ombra di uno svettante
liquidambar.
Presi un piatto di vetro e vi posai sopra un tortino di gamberi. Prima che
me ne rendessi conto, Daniel mi servì una cucchiaiata di salsa remoulade.
«Ehi, posso servirmi anche da sola», dissi.
«Stavo solo cercando di essere d'aiuto. Sai, comportandomi come se tu
mi piacessi», ribatté lui.
Mi versò un bicchiere di vino, poi si piegò per mordicchiarmi un
orecchio.
«Basta così», dissi, spingendolo via. Ma aveva un profumo magnifico, e
quel particolare orecchio era stato deplorevolmente trascurato per
moltissimo tempo.
Ci avvicinammo a quello che sembrava uno spogliatoio per la piscina, un
piccolo edificio di mattoni a un solo piano con un tendone a strisce verdi e
bianche. Merijoy stava chiacchierando con due donne che non avevo mai
visto prima.
«Weezie», chiese, «conosci Anna ed Emily Flanders?».
Le due donne, che dimostravano un'età tra i quaranta e i quarantacinque
anni, avevano un viso interessante anche se non esattamente bello, con
lucidi capelli scuri tagliati a caschetto, carnagione olivastra e vivaci occhi
castani. Erano palesemente sorelle.
«Anna ed Emily sono le migliori agenti immobiliari della città», spiegò
Merijoy. Fece l'occhiolino a Daniel. «Stai attento, Daniel, altrimenti ti
venderanno una casa di cui non sapevi neppure di aver bisogno. Randy e io
non avevamo nemmeno preso in considerazione l'idea di lasciare il centro
città finché non mi hanno imbrogliata, con il pretesto di portarmi a pranzo
al Chatham Club».
Una delle due sorelle era leggermente più alta dell'altra e il suo mento
squadrato era più pronunciato.
«Quel giorno guidava Emily e ha sostenuto di voler passare un attimo
nella casa di Ardsley Park che l'avevano appena incaricata di vendere, solo
per lasciare la nuova cassaforte portatile», raccontò la sorella alta.
«Naturalmente io ho voluto vedere anche l'interno. Era Emily a essere
incaricata di venderla, così abbiamo portato Merijoy con noi».
«E, un attimo dopo, Randy Rucker si è ritrovato con un garage con tre
posti auto e quasi mezzo ettaro di prato da tagliare», aggiunse Emily, poi si
curvò verso di me. «Spero non ti dispiaccia, Eloise, ma al telefono Merijoy
ha accennato alla... ehm, situazione a Beaulieu. Volevo solo dirti quanto mi
dispiace per i tuoi problemi».
Daniel mi prese la mano e posò un bacio sul dorso. «Eloise è stata molto
coraggiosa, non e cosi, tesoro?».
Ritrassi la mano. «Si è trattato di un semplice malinteso».
Anna Flanders scosse il capo con aria comprensiva. «Conoscevamo
Caroline DeSantos, naturalmente».
«Vuoi la mia opinione?», intervenne Emily. «Quella ragazza era un vero
fenomeno, davvero. Furba come una volpe».
«Oh, per l'amor del cielo, Em», ribatté la sorella. «Diciamo pane al pane
e vino al vino: era perfida, un'autentica carogna. Sapeva cosa voleva ed era
disposta a passar sopra a chiunque, pur di ottenerla».
«Esatto», confermò Merijoy. «Anna, racconta a Weezie la storia che hai
raccontato a me».
Anna si fissò le scarpe. Portava dei sandali e aveva le unghie dei piedi
laccate di rosa acceso.
«Oh, avanti». Emily le diede di gomito. «Quella donna è morta e sepolta.
Non le devi niente. Soprattutto dopo che ha cercato di imbrogliarci in quel
modo».
Daniel bevve un sorso di vino. «Avete fatto affari con Caroline?».
«Non proprio», rispose Anna. «Ma immagino di poterlo raccontare senza
creare problemi a nessuno, ormai. Abbiamo conosciuto Caroline circa sei
mesi fa. Ha telefonato in ufficio chiedendo notizie di una delle case della
cui vendita ci occupavamo».
«Una doppia casetta a schiera sulla Gaston. Casa Sheehan–Poligny, che
un paio d'anni fa faceva parte del giro dei giardini».
«Caroline stava cercando una casa?». Per me era un'assoluta novità.
«Perché? Era appena andata a vivere con Tal».
Le due sorelle si scambiarono un'occhiata.
«A causa tua», spiegò Anna. «Caroline DeSantos non era certo una tua
fan sfegatata».
«Ti odiava a morte», aggiunse Emily. «Ha detto cose terribili su di te. E
sul tuo cane. Avrei dovuto capire da quello che era una persona malvagia.
Non mi fido di chi odia gli animali. La faceva impazzire di rabbia il fatto
che tu abitassi nel suo giardino posteriore».
«Nel mio giardino», precisai in tono risoluto. «O perlomeno io ero là
prima che venisse a starci lei».
«Le abbiamo mostrato la casa di Gaston Street», raccontò Emily. «Non
una volta, bada bene, ma due. L'ha passata accuratamente al setaccio. Ha
voluto vedere le piante e la perizia catastale. Tutto. La casa aveva bisogno
di qualche lavoretto; la cucina, in particolare, era un vero disastro. Ma
succede con tutte le vecchie dimore. Lei era architetto, avrebbe dovuto
saperlo. Dopo aver fatto le pulci alla casa per una settimana, alla fine
telefonò per dire che rinunciava».
«Passarono due mesi», disse Anna, «e a quel punto il proprietario aveva
quasi deciso di togliere la casa dal mercato per ristrutturarla personalmente.
Il nostro contratto scadeva solo dopo un altro mese, ma togliemmo il
cartello con la scritta "In vendita" in modo che la gente smettesse di
telefonare. Subito dopo, capitò casualmente che una domenica ci
trovassimo entrambe fuori città. E nel frattempo, strano ma vero, il
proprietario riceve la telefonata di una persona che vuole vedere subito la
casa. A questo punto lui comincia ad avere dei ripensamenti. Che diamine,
decide di mostrare la proprietà di persona, visto che non riesce a mettersi in
contatto né con me né con mia sorella. E indovinate chi era il potenziale
acquirente?».
«Caroline?».
Anna annuì così energicamente che i suoi lunghi orecchini presero a
oscillare come lampadari impazziti.
«Caroline dice al proprietario che adora la casa ma che la cucina è in
condizioni talmente pessime che ci vorranno almeno centomila dollari per
sistemarla – una vera esagerazione, si potrebbe creare una cucina
graziosissima in quello spazio per meno di cinquantamila. Ma è questo lo
stile di Caroline. Fa subito un'offerta al ribasso».
«Il proprietario rifiuta», spiegò Emily, proseguendo il racconto.
«Caroline chiede se può andare a prendere un'altra persona per un secondo
parere. Lui accetta e promette di aspettarli lì. Mezz'ora dopo, lei torna con
un uomo che definisce "il suo amico"».
«Era Tal?», chiesi, confusa.
«Aspetta», mi disse Merijoy. «Il meglio deve ancora venire».
«Visitano di nuovo la casa. Mano nella mano, con lui che la chiama
tesoro e lei che lo chiama amore, e tutto è molto romantico. Dopo un'ora,
l'uomo sale in auto e se ne va. Da solo. Caroline fa un'altra proposta al
proprietario, dicendo che il suo amico le ha consigliato di offrire diecimila
dollari in più».
«A questo punto il proprietario è seccato», spiegò Anna. «Le risponde
che, se intende fare un'offerta vera e propria, dovrebbe comunicarla
all'agente immobiliare».
«Quella carogna», aggiunse Emily, «ribatte dolcemente che lui non ha
bisogno di un agente immobiliare. Se decide per una vendita diretta non
dovrà versare a quelle stupide Flanders la commissione del sette per cento.
Potrà tenersi tutti i soldi e, visto che risparmierà così tanto sulla
commissione, può negoziare sul prezzo».
«Ah», disse Anna, «quello che la signorina Caroline non sa è che per
puro caso il proprietario della casa è un nostro vecchio amico di famiglia.
Le spiega che è impossibile, che ha firmato un contratto con noi e che,
anche se così non fosse, non ci ingannerebbe mai in quel modo».
«Le ha riso in faccia», continuò Emily. «Poi mi ha telefonato per
raccontarmi cosa era successo. Potete immaginare la mia reazione».
«L'hai affrontata a viso aperto?», chiesi.
Merijoy posò il bicchiere sul tavolo del buffet. «Weezie, ti sta sfuggendo
il punto fondamentale della faccenda».
«Quale? Che Caroline era un'imbrogliona bugiarda e intrigante? Non è
una novità».
«L'uomo», disse Merijoy. «Cosa mi dici dell'uomo con cui
amoreggiava?».
«Tal?».
«Ah–ah», intervenne Anna. «Sono andata su tutte le furie e ho minacciato
di chiedere spiegazioni a Caroline, ma non l'ho mai fatto. Poi, circa un mese
fa, ho visto Tal al club del golf. Ci conosciamo da una vita. Era solo, stava
uscendo dalla sala da pranzo con del cibo da asporto, e l'ho semplicemente
aggredito. Gli ho detto che non apprezzavo affatto che lui e la fidanzata
avessero cercato di imbrogliarci riguardo alla casa di Gaston Street».
«Dille cosa ti ha risposto lui», la sollecitò Merijoy.
«È rimasto di stucco», raccontò Anna. «Ha insistito che non aveva idea di
cosa stessi parlando. Ha detto che Caroline non stava affatto cercando una
casa, e nemmeno lui, e che nessuno dei due aveva mai parlato con il nostro
cliente o messo piede a casa sua. Si è arrabbiato moltissimo. Mi ha
consigliato di accertare i fatti prima di andarmene in giro a calunniare la
gente, poi si è allontanato a grandi passi con il suo cibo da asporto».
«Ora hai capito?», chiese Merijoy in tono trionfante.
Non proprio. «Avete controllato di nuovo con il proprietario?».
«Diavolo, sì», rispose Emily. «Il nostro amico ha descritto Caroline in
tutti i dettagli, inclusa la sua ridicola macchina gialla. Inoltre, lei gli aveva
dato il suo biglietto da visita. Lui me l'ha mostrato. Era Caroline, non
c'erano dubbi».
Cominciavo finalmente a capire, da quella tonta che sono. «Volete dire
che il fidanzato a cui Caroline ha mostrato la casa non era Tal?».
«Non gli somigliava nemmeno lontanamente», replicò Anna. «Il tizio che
ha visitato la casa non arrivava al metro e ottanta. Robusto. Molto più
vecchio di Caroline, forse sulla cinquantina. Portava un berretto da baseball,
quindi il nostro amico non ha potuto vedergli bene la faccia o i capelli, ma
la corporatura non è certo quella di Talmadge Evans III».
«Decisamente», disse Merijoy in tono esultante. «Caroline stava tradendo
Tal. Non lo trovi fantastico?».
Ma non ebbi il tempo di pensarci su.
Randy era fermo al centro del giardino e batté di nuovo il cucchiaino
d'argento sul suo calice. «Se siete tutti pronti possiamo trasferirci in sala da
pranzo», annunciò. «Chi ha la portata successiva?».
«Noi», esclamò un uomo dal volto rubizzo con una giacca sportiva
bianca e calzoni in cotone operato. «E vi conviene sbrigarvi perché Judy
non vuole che la sua zuppa si scaldi».
«Hai capito male, Doug», ribatté Randy. «La zuppa deve essere tiepida».
«Spiegalo a mia moglie», disse Doug. «Non sono io a preparare questa
roba, mi limito a pagare gli ingredienti».
Merijoy ci guidò verso casa. «Conosci Douglas e Judy Hunter?», mi
chiese.
«Soltanto di nome», risposi. «Lui non faceva parte del consiglio
comunale?».
«Oh, sì», disse Merijoy. «Ma alle ultime elezioni Judy ha puntato i piedi
e lo ha minacciato di chiedere il divorzio, se Doug si fosse ricandidato. È
stanca degli intrighi politici».
«Lui ha un'aria familiare», dichiarò Daniel. «Credo siano venuti al
ristorante».
«Vengono sempre insieme a noi», spiegò Merijoy. «Ora sbrigatevi a
entrare. Judy è una magnifica cuoca. Non vedo l'ora di farmi dare la ricetta
di questa sua zuppa».
La sala da pranzo era immensa, con un soffitto alto più di quattro metri,
carta da parati a motivi orientali e un lampadario di cristallo che era quasi
sicuramente Waterford.
Un lungo tavolo di mogano era talmente lucido da brillare ed era
apparecchiato con tovagliette bianche ricamate, porcellane e massiccia
argenteria Sheffield. Tre diversi calici di cristallo per ogni coperto. Solo
un'informale cenetta estiva. Ah. Mi guardai intorno e cercai di sistemarmi di
nascosto la scollatura.
«Ti ho visto», mormorò Daniel. «Non porti il reggiseno, vero?».
«Comportati bene», sussurrai.
Vasi d'argento pieni di fiori bianchi erano sistemati al centro del tavolo e
riempivano la stanza di un dolce profumo.
«Che meraviglia», dissi a Merijoy.
Lei sorrise. «Hattie Mae si è uccisa di fatica inamidando e stirando
tovaglie e tovaglioli e lucidando tutta questa argenteria». Abbassò la voce.
«Mentre tutti gli altri erano fuori sono sgattaiolata qui e ho scambiato i
segnaposti in modo che tu sia seduta tra Daniel e Jonathan. Quel Daniel è
divino. Come l'hai conosciuto, Weezie?».
«Abbiamo... ehm, un'amica in comune».
Doug Hunter era fermo sulla soglia della sala da pranzo insieme alla
moglie. La donna era graziosa, con capelli biondo miele e fossette che la
facevano sembrare una ragazzina a un ricevimento di persone adulte.
«Ora fate silenzio, così Judy può parlarvi di questa zuppa. Ha faticato
tutto il giorno sui fornelli spenti», disse Doug, provocando risate tra i
commensali.
Abbassai lo sguardo sul mio coperto. Un menu stampato era sistemato sul
tovagliolo di damasco accuratamente piegato a ventaglio.
Circolo delle cene di Ardsley Park
Anfitrioni: Merijoy & Randy Rucker
TORTINI DI GAMBERI CON SALSA REMOULADE SPEZIATA
ZUPPA DI CETRIOLI FREDDA CON ERBA CIPOLLINA E LIMONI
INSALATA DI PALMITO CON CREMA DI CIPOLLE DOLCI
PASTICCIO DI POLLO E GAMBERETTI CON GRANTURCO
MOUSSE DI LIME CON COULIS DI MIRTILLI DELLA GEORGIA

«Wow», dissi, alzando il menu per farlo leggere a Daniel.


«Stasera io non posso competere», commentò lui. «Se queste persone
decidessero di cucinare tutte le sere resterei disoccupato».
«Non preoccupatevi», disse Randy, dando una pacca sulla spalla di
entrambi. «Questa festicciola rappresenta l'unica occasione in cui ci
impegnamo seriamente in cucina, da queste parti. Per il resto del tempo
Merijoy ci fa mangiare hamburger di McDonald's e merendine
confezionate».
«Non è vero», lo contraddisse Jonathan, sorridendomi. «A tutti noi piace
cucinare, solo che non abbiamo il tempo di farlo spesso come vorremmo».
Judy Hunter entrò nella stanza reggendo un vassoio d'argento pieno di
fondine. Lo passò a Doug, che girò intorno al tavolo posandone una di
fronte a ciascun commensale.
«Come potete vedere sul menu», spiegò Judy, «stasera ho preparato una
zuppa di cetrioli fredda, con cetrioli cresciuti nell'orto di Doug. E guarnita
con erba cipollina presa dall'orto di Merijoy, e limoni...».
«Che ho comprato al supermercato mentre tornavo a casa dal lavoro»,
aggiunse suo marito.
«E questo è stato il suo unico contributo alla cena», precisò Judy.
«Insieme al vino», rettificò Doug. «Ho pagato il vino».
«Cos'è?», chiese Jonathan. «Mogen David? King Cotton Peach Wine?
Qualche vino in offerta speciale?».
«È un Chardonnay neozelandese, sapientone», ribatté l'altro, brandendo
la bottiglia in modo che tutti potessero leggerne l'etichetta.
Dopo qualche cucchiaiata di zuppa e parecchio vino sentii che
cominciavo a rilassarmi. Mi sfilai addirittura i sandali che mi stavano
torturando i piedi. Mmm, molto meglio.
Stavo raccogliendo le ultime gocce di zuppa quando sentii qualcosa sul
piede. Alzai la testa di scatto e mi guardai intorno. Jonathan si era alzato per
versare altro vino. Un piede nudo mi salì lungo la caviglia, poi per il
polpaccio, poi lungo la coscia.
«Smettila», sussurrai.
«Di fare cosa?», chiese Daniel.
«Smettila di palparmi con le dita del piede».
«Pensi stia facendo questo?».
Mosse il piede, e in modo tutt'altro che sgradevole. Mi sentii avvampare
e cercai di infilare una mano sotto il tavolo per spingerlo via.
«Ehi», sussurrò lui, «fallo di nuovo. Riesco a vederti il seno quando ti
chini così».
Mi raddrizzai di scatto e tirai con forza le spalline del vestito.
Immediatamente percepii un debole rumore di tessuto che si strappava.
Chinai lo sguardo. La cucitura centrale dello scollo dell'abito si stava
aprendo, un punto dopo l'altro.
«Oh, mio Dio», dissi, mettendo la mano sullo strappo che si allargava
lentamente.
«Oh, sì», disse Daniel in tono di approvazione.
Nessuno mi stava guardando. Doug stava togliendo le fondine e Randy
annunciava l'entrée, un pasticcio con i gamberetti che aveva pescato
personalmente dal suo pontile di Bluffton.
«Fai qualcosa», sussurrai. «Altrimenti mi arresteranno per oltraggio al
pudore».
«Hai freddo, tesoro?», chiese con voce premurosa e leggermente troppo
alta.
Annuii avvilita.
Daniel si alzò e si tolse la giacca. Me la posò sulle spalle e mi baciò di
nuovo sul collo.
«Devi portarmi via di qui», gli dissi.
«Cosa? E perdermi la mousse di lime?».
28

«Come trovi il pasticcio, Weezie?», chiese con voce tonante Randy dalla
sua estremità del tavolo.
«Squisito», risposi, tenendo la mano posata delicatamente sul petto.
«Devi darmi la ricetta, Randy», disse Daniel. «Lo chiamerò Pasticcio
Bluffton. Lo includerò nel menu, a diciannove dollari e novantacinque, e
quei turisti lo divoreranno».
«Niente da fare, a meno che tu lo chiami Pasticcio Bluffton di Rucker»,
ribatté Randy. Stava facendo girare un'altra bottiglia. Ormai avevo perso il
conto di quanto vino avevo bevuto, ma era parecchio. Apparentemente, ogni
volta che il mio bicchiere cominciava a svuotarsi, qualcuno veniva a
riempirlo.
«È una vecchia ricetta di famiglia?», domandai.
«Forse della famiglia di Martha Stewart», rispose lui. «Merijoy l'ha
copiata da quella sua rivista».
«Ma Martha Stewart non può avere i gamberetti di Bluffton», sottolineò
Daniel.
«O il granturco coltivato nella fattoria del padre di Merijoy», disse
Randy. «Quindi il suo pasticcio non può essere buono come questo».
«Dobbiamo andarcene», bisbigliai a Daniel, «prima che questo vestito si
apra in due».
«So che non vedi l'ora di rimanere sola con me per fare cose innominabili
sul mio corpo, ma è da maleducati andarsene a metà della cena», rispose lui
senza nemmeno muovere le labbra.
«Allora sbrigati a mangiare, dannazione», replicai.
«Calmati o farai saltare un'altra cucitura», sussurrò Daniel.
«Ascoltate», stava dicendo Merijoy. «Sapete che non sono tipo da fare
oziosi pettegolezzi...».
«Ah!», esclamò Jonathan. «Ti vogliamo bene, Merijoy, ma ammettilo: sei
la regina dei pettegolezzi di Ardsley Park».
«Sono solo una dilettante», protestò lei. «Ma questa faccenda di Caroline
DeSantos è così affascinante. Insomma, Weezie, mi dispiace che tu vi sia
rimasta accidentalmente coinvolta, ma davvero, è tutto così intrigante.
Quello che vorrei sapere è cosa ci faceva Caroline nella villa a quell'ora di
notte».
Si guardò intorno in cerca di approvazione. Sperai che nessuno chiedesse
cosa ci stavo facendo io, nella villa, quando avevo trovato il corpo.
Soprattutto con il viceprocuratore distrettuale seduto proprio accanto a me.
«Non si diceva che sarebbe stata lei l'architetto della nuova cartiera?»,
chiese Doug.
«Lo si diceva», dichiarò sarcasticamente Merijoy. «Solo che trovo
difficile credere che un affarino pelle e ossa come lei abbia ottenuto un
incarico così importante solo pochi mesi dopo essersi trasferita a Savannah
e aver cominciato ad andare a letto con Talmadge Evans».
Feci una smorfia, ma quella era un'altra delle domande che mi ero fatta.
«Scusa, Weezie», disse Merijoy. «Ma, davvero, lo studio di Tal non si
occupava soprattutto di edifici residenziali?».
«Si occupava di parecchi edifici residenziali e di qualche stabile
commerciale», risposi. «Qualche banca, un paio di chiese e alcune
abitazioni multifamiliari. Non penso che lui si sia mai dedicato granché al
design industriale».
«Secondo voi come ha fatto una ragazza affascinante come lei a ottenere
quel lavoro?», domandò Doug.
«Guarda chi l'ha assunta», ribatté Merijoy.
«La società di produzione della carta? Phipps Mayhew?», chiese Judy
Hunter.
«Phipps l'avrà assunta», precisò Randy, «ma probabilmente ha solo
seguito le raccomandazioni di qualcuno del posto».
«Gerry Blankenship», ipotizzò Merijoy. «È l'avvocato della signorina
Ann Ruby. Ed è l'uomo con cui Caroline ha partecipato al servizio funebre.
Il vecchio idiota non riusciva a levarle gli occhi di dosso».
«Bisogna ammettere che Caroline era un gran bello spettacolo per gli
occhi», commentò Doug, guadagnandosi uno sguardo furioso da parte della
moglie.
«Gerry Blankenship», disse la signora McDowell, facendo schioccare la
lingua. «Era uno dei miei piccoli alunni quando insegnavo catechismo. Che
canaglia. Sembra avere le mani in pasta dappertutto, vero?».
«Si dice sia ben introdotto», commentò Doug. «E il vecchio Gerry è
immanicato in un modo che non capirò mai».
«Sua madre era una Cargill», disse Sudie. «Una grande e antica famiglia
di Savannah. Non so molto dei Blankenship. Credo che suo padre fosse un
commesso viaggiatore o qualcosa del genere».
«Quel tizio non ha nemmeno una laurea in legge vera e propria»,
brontolò Doug.
«Davvero?», chiese Merijoy, senza fiato per l'eccitazione. «Allora forse il
testamento della signorina Ann Ruby non è legale».
«No, credo che la laurea sia valida», replicò Doug. «Ma lui non ha
frequentato la Emory o la Mercer o la University of Georgia».
«Secondo Doug, chiunque non abbia frequentato l'università della
Georgia è solo un avvocatuccio passacarte», spiegò Judy ridendo.
«Immagino che questo faccia di me un avvocatuccio», dichiarò Jonathan.
«Io sono andato alla Emory».
«Sai cosa voglio dire», ribatté Doug. «Blankenship si è laureato alla
vecchia Ben Franklin University, la fabbrica di lauree che un tempo operava
giù in centro. Lo stato l'ha chiusa nei primi anni Settanta, ma in città gira
parecchia gente che si è laureata in legge là».
«Gente assolutamente in gamba», sottolineò Jonathan. «Abbiamo un paio
di laureati della Ben Franklin nel nostro ufficio. Naturalmente non se ne
vantano».
«Mi piacerebbe sapere cosa ne sarà dell'arredamento, se demoliscono la
vecchia casa», disse Sudie. «Ricordo che la signorina Ann Ruby aveva dei
pezzi magnifici. In sala da pranzo c'era un tappeto Aubusson con tonalità di
rosa, crema e color pesca. Splendido».
«È Weezie la persona a cui chiedere informazioni sul mobilio», disse
Merijoy. «La villa era piena di pezzi di antiquariato quando siamo andate là
per il servizio funebre. Ma la vendita degli arredi è stata cancellata dopo...
sapete cosa».
Sembrò che tutti gli occhi si rivolgessero verso di me. Avevo addosso la
giacca di Daniel ma percepii distintamente una corrente d'aria sul petto.
«La organizzeranno di nuovo?», chiese Emily Flanders, guardandomi.
«Non ho saputo niente in proposito», dichiarai, cercando di prendere un
pezzo di pasticcio con una mano mentre tenevo chiusa la giacca con l'altra.
«Vi dirò io cosa ho saputo», annunciò Judy Hunter. «Si dice che chiunque
diriga le cose, a Beaulieu, abbia cominciato a vendere i mobili davvero
pregiati».
La mia forchetta si bloccò a mezz'aria. «A chi?».
Judy fece una smorfia. «Conosce Lewis Hargreaves?».
«Sì». Recitai una breve preghiera silenziosa. Ti prego, fa' che non gli
vendano la credenza di Moses Weed. Quella no.
«Sabato scorso ero dal parrucchiere e Vivian Chambers era seduta sotto il
casco accanto a me mentre mi tagliavano i capelli. Stava parlando al
cellulare – sapete com'è cattiva la ricezione in centro, quindi lei aveva
alzato parecchio la voce. Immagino che stesse chiacchierando con il suo
arredatore perché stava dicendo di aver ricevuto una telefonata da Lewis
Hargreaves a proposito di una credenza Sheraton proveniente da Beaulieu.
Stava chiedendo all'arredatore di raggiungerla nel negozio di Lewis per dare
un'occhiata al mobile e dirle se avrebbe dovuto comprarlo. E le ho sentito
citare anche il prezzo – diciottomila dollari. Non è pazzesco? Per un solo
mobile?».
«Non pensare neanche di mettere piede nel negozio di quel tizio», le
intimò Doug, puntandole contro un dito accusatore.
«Chi? Io?». Judy sbatté le ciglia. «Non preoccuparti. Quell'uomo mi dà i
brividi. E i suoi prezzi sono assurdi».
Merijoy posò i gomiti sul tavolo e si protese in avanti. «Jonathan, tutto
questo non ti sembra decisamente, strano?».
Jonathan rifletté. «L'omicidio è sempre strano, Merijoy».
«Dico sul serio», continuò lei. «L'intera faccenda della cartiera da
costruire a Beaulieu. Conoscevo la signorina Ann Ruby. Nel corso
dell'ultimo anno le ho parlato diverse volte dell'eventualità di lasciare la
casa all'associazione per la conservazione di Savannah, che l'avrebbe
trasformata in un museo. Non aveva detto di sì ma non aveva nemmeno
esplicitamente rifiutato. E di certo non ha mai accennato di volerla vendere
perché potessero costruire una cartiera. Amava quella casa, ed era l'ultima
discendente della famiglia, quindi non era come se avesse avuto intenzione
di lasciare i soldi a parenti o altro».
Sudie McDowell stava scuotendo il capo. «Un'altra cartiera. Proprio
quando l'aria e l'acqua stavano finalmente tornando pulite dopo essere state
inquinate per anni dalla fabbrica di sacchetti di carta».
Doug si schiarì la voce. «Ora, quanto sto per dirvi non deve uscire da
qui», ci mise in guardia, «ma da quello che si sente dire in tribunale questo
Mayhew potrebbe aver trovato sulla sua strada un ostacolo da parte dei tizi
dell'agenzia per la protezione ambientale».
«Che genere di ostacolo?», chiese Merijoy.
«Qualcosa circa una dichiarazione di impatto ambientale», rispose Doug.
«Non sono un esperto di tutte le normative ambientali dello stato, ma ho
saputo che la loro proposta prevede il prosciugamento di tutti i vecchi canali
delle risaie laggiù. E sapete come sono questi burocrati quando si tratta di
permettere a qualcuno di toccare le zone paludose».
«Forse questo è l'unico caso in cui i burocrati sono dalla parte della
ragione», commentò Randy. «Quella è una splendida proprietà affacciata
sulla palude. Detesto l'idea che una fabbrica sporchi l'acqua laggiù. Quando
ero bambino, il posto migliore del fiume in cui pescare granchi era proprio
il vecchio pontile di Beaulieu. La pesca era eccezionale, così come la
caccia. La signorina Ann Ruby permetteva a mio padre di tenere lì un
nascondiglio per la caccia alle anatre».
«Sì», confermò Daniel in tono grave, passando di nuovo il piede nudo
sulla mia gamba. «Là c'erano una fauna e una flora selvatiche davvero
meravigliose, quando eravamo ragazzi, vero, Weezie?».
Feci per colpirgli di nuovo il piede, ma quando mi chinai in avanti sentii
saltare un altro punto.
Adesso tutti mi stavano guardando. Presi un generoso sorso di vino.
«Chiedo scusa», dissi, arrossendo di nuovo. «Di cosa stavate parlando?».
«Daniel stava semplicemente confermando che sarebbe un vero peccato
perdere un monumento storico come Beaulieu», spiegò Merijoy, poi si alzò.
«Tutti pronti per il dessert? Lo hanno preparato gli Otwell, ma la loro baby–
sitter ha dato forfait all'ultimo minuto, così Sally Ann l'ha portato qui prima
che la cena iniziasse. Si scusano di non essere potuti venire. Ora, credo che
potremmo prendere il dessert e i drink dopo cena in biblioteca», disse. «E
immagino che Randy abbia un paio di quei suoi orrendi sigari, se qualcuno
ha voglia di avvelenarsi i polmoni».
Era il momento giusto per poter fuggire. Tutti si stavano alzando e
stavano dando una mano a sparecchiare.
«Andiamo», dissi, afferrando il braccio di Daniel mentre lui si
incamminava verso la porta.
«Così presto?», chiese, fissando senza mezzi termini la mia scollatura
sempre più ampia. «La situazione cominciava proprio adesso a farsi
interessante».
Ignorandolo, raggiunsi Merijoy.
«Grazie mille per l'invito, Merijoy», le dissi. «È stata una splendida
serata ma siamo costretti ad andarcene presto. Il cercapersone di Daniel ha
appena suonato. Una piccola emergenza al ristorante».
«Oh, no», ribatté lei, facendo il broncio. «Che seccatura. Ma tu rimani,
Randy può accompagnarti a casa dopo il dessert».
«No, no», mi affrettai a replicare. «Ho avuto una giornata faticosa e
domattina devo alzarmi alle cinque. È giorno di vendite, sai».
«D'accordo, ma devi promettermi che verrai di nuovo a cena qui».
«Prometto».
Daniel ci raggiunse e baciò la mano di Merijoy. Pensai che lei sarebbe
svenuta. «Mi spiace di dover andare», spiegò lui, «ma il cane di Weezie è
scappato e dobbiamo correre a casa a cercarlo».
Fui tentata di prenderlo a calci.
Merijoy assunse una strana espressione, poi sorrise. «Smettetela con
queste sciocchezze», ci intimò. «Ricordo com'era essere giovani e
innamorati. E vedo che volete rimanere soli. Quindi forza, andate».
Lui mi cinse le spalle con un braccio. «Ora posso riavere la mia giacca,
tesoro? Comincio ad avere freddo anch'io».
29

«Sei arrabbiata con me?», mi chiese Daniel dopo che gli gettai la giacca e
mi incamminai a grandi passi verso il pick–up.
Issandomi sul sedile, sentii saltare altri punti. Abbassai lo sguardo e vidi
che la cucitura sul fianco destro dell'abito si era aperta fino a metà coscia. A
quel punto non mi importava più. Daniel mi aveva già visto il seno. Era
troppo tardi per il pudore, ormai.
«Riportami a casa e basta, per favore», gli chiesi, incrociando le braccia
sul petto.
«Non sono nemmeno le dieci», protestò lui. «Che fretta c’è?».
«Nel caso tu non l'abbia notato, il mio vestito si sta disintegrando»,
risposi.
«Be', diavolo, a me non dispiace, se non dispiace a te».
«A me dispiace».
«Devi ammetterlo, Weezie, il tuo vestito ha reso davvero eccitante la
serata. Hai mai visto quel film di Alfred Hitchcock in cui un tizio penzola
dalla torcia stretta nella mano della Statua della Libertà? E c'è un altro tizio
che lo sta tenendo per la manica della giacca. E tutt'a un tratto la macchina
da presa fa uno zoom sulla manica che si sta scucendo, un punto dopo
l'altro. Pop. Pop. Pop. E più o meno tre punti sono tutto ciò che impedisce al
tizio di cadere sfracellandosi al suolo. Il tuo vestito è un po' così, sai? Pieno
di suspense».
«Sono lieta che tu abbia apprezzato lo spettacolino», dissi. «Ma in fin dei
conti non eri tu quello che rischiava di trovarsi a seno nudo al tavolo della
sala da pranzo davanti a Dio, al viceprocuratore distrettuale e alla sua dolce
mammina dai capelli bianchi».
«Ti ho dato la mia giacca. Cos'altro avrei potuto fare?».
«Niente. Sei stato davvero di grande sostegno, tranne quando mi guardavi
dentro la scollatura o mi tastavi l'inguine con le dita dei piedi».
«Ti è piaciuto. Ammettilo».
«Maiale».
«Okay», disse lui, svoltando in Abercorn Street. «Così ora so cosa ti
eccita. Vuoi sapere cosa eccita me?».
«Lo so già», risposi. «Pressoché tutto, compreso palpare le donne in
pubblico».
Daniel sospirò. «E io che ero convinto di fare quello che mi avevi
chiesto. "Comportati come se io ti piacessi, Daniel", dice lei. "Sii mio
amico". Mi stavo semplicemente dimostrando amichevole».
«È stato imbarazzante. Ora Merijoy pensa che ce ne siamo andati così in
fretta per correre a infilarci in un letto». Mi nascosi il viso tra le mani.
«Dio».
«Ho solo detto che dovevamo andare a casa perché il tuo cane era
scappato», puntualizzò Daniel.
«Io le avevo già raccontato una bugia diversa, a proposito di
un'emergenza al ristorante».
«Preferisco la mia versione», commentò lui.
«Ormai non ha la minima importanza. Hai sentito cosa hanno detto gli
amici di Merijoy: lei è la regina dei pettegolezzi di Ardsley Park. Sapeva
che stavamo mentendo. Entro domattina la notizia si sarà diffusa in tutta la
città. Weezie Foley si scopa quel gran bel fusto dello chef del Guale».
«Lei pensa che sia un gran bel fusto? Davvero?». Daniel si guardò nello
specchietto retrovisore, sistemandosi i capelli con le dita. Sembrava
estremamente compiaciuto. «Gran bel fusto. Mi piace. Probabilmente
gioverà anche agli affari. BeBe ne sarà felice».
«Già. Sarai l'uomo più sexy e desiderato della città. E io sarò la
sgualdrina ex galeotta che raccoglie rifiuti. Mamma e papà saranno così
fieri di me».
«Ehi», disse lui, mettendo una mano sopra la mia. «Non prenderla così
sul serio. Ti preoccupi troppo, lo sai?».
La mano di Daniel era calda. Accarezzò delicatamente la mia e io la
ritrassi di scatto.
«Ho un sacco di cose di cui preoccuparmi», dichiarai. «La mia vita fa
schifo, ma finora la gente mi giudicava una nullità simpatica e perbene».
«Agli ospiti dei Rucker sei piaciuta. Ti dirò la verità: mi aspettavo che
sarebbero stati solo un branco di snob presuntuosi, invece sono stati tutti
molto cordiali».
«Non è stato poi così male», ammisi, «finché non hanno cominciato a
parlare di Caroline. E Tal».
«Hai affrontato la cosa con molta disinvoltura», commentò lui. «Gran
classe».
«Davvero?».
«Assolutamente sì».
«Grazie. Questo mi consola. Almeno un po'».
«Allora, cosa ne dici di terminare la cena?».
«Mi spiace, non me la sento di affrontare di nuovo quelle persone, non
con questo vestito. Sta davvero andando in pezzi».
«Non intendevo dire dai Rucker, pensavo che potevamo passare dal
ristorante a prendere un dessert da portare via».
«Be'...».
«Non sarai una di quelle donne che non mangiano dolci, vero?», chiese
con un'aria preoccupata.
«Diavolo, no», risposi. «Adoro i dolci. È uno dei motivi per cui preparo i
cheesecake per BeBe. Tal era incredibilmente goloso. Ora che sono single
non ho molte scuse per fare torte».
«Allora», disse lui, infilandosi nel vicoletto dietro il ristorante, «cosa
vuoi per dessert, Weezie Foley?».
«Cioccolato. Senza dubbio cioccolato».

***

Jethro annusò la gamba dei pantaloni di Daniel, poi il sacchetto


proveniente dal Guale. Infine venne ad annusare me. Soddisfatto, si
accucciò sotto il tavolino e ci rivolse la sua migliore occhiata di supplica
canina.
«Assolutamente no», dissi quando Daniel cominciò ad aprire il sacchetto
del dolce. «Il cioccolato fa malissimo ai cani. Jethro può avere un biscottino
al manzo affumicato; sono in cucina, nella scatola dei biscotti. Puoi
dargliene uno, per favore? Io devo assolutamente togliermi questo vestito».
«Hai bisogno di aiuto?».
«Non cominciare», lo ammonii.
Una volta al piano di sopra mi sfilai l'abito e lo lasciai cadere sul
pavimento. Fu talmente piacevole liberarmi di quella morsa che l'idea di
rivestirmi mi dispiaceva.
Rimasi ferma nello spogliatoio a fissare gli abiti appesi, cercando di
decidere cosa mettermi. La mia solita tuta da ginnastica e una maglietta non
sembravano adatte all'occasione.
Ma avevo uno splendido vecchio kimono di seta gialla con ricamati dei
dragoni che il fratello della mamma le aveva portato dal Giappone.
Potrebbe andare, pensai. Lungo, comodo e insieme raffinato. E il giallo si
intonava alla mia carnagione e ai miei capelli. Annodai la cintura, senza
stringere troppo, feci una piroetta davanti allo specchio e mi guardai
soddisfatta.
Avevo un appuntamento. Era una sensazione così strana. Forse dipendeva
dal vino. Un uomo nuovo, che mi aspettava al pianoterra di casa mia – con
del cioccolato, per di più. Poteva rivelarsi un'esperienza davvero gradevole.
«È un accappatoio?», chiese Daniel.
«No, un kimono».
«Molto carino. Anche se cominciavo ad affezionarmi a quel tuo vestito».
«Quel vestito è ormai storia passata».
Aveva sistemato il dolce su due piatti di vetro: due enormi fette di
qualcosa al cioccolato, coperte di panna montata e sormontate da cioccolato
fuso e noci tritate.
«Mmm», dissi, affondando un dito nella panna montata. «Come si
chiama?».
Daniel aveva portato anche una bottiglia di champagne e due flûte di
cristallo. L'aprì e versò il vino. Mi passò un bicchiere e prese il suo. «Si
chiama Seduzione al cioccolato», disse. «Vogliamo brindare a questo?».
Inarcai un sopracciglio ma brindammo.
«Portiamo tutto in soggiorno», proposi.
Ci sedemmo sul divano davanti al mio minuscolo caminetto.
Jethro era ancora accovacciato sotto il tavolino e ci fissava con aria
afflitta.
Presi un boccone di dolce. Era morbido e leggermente dolceamaro, con
un accenno di caffè e di un liquore che non riuscii a riconoscere. «Mmm»,
dissi.
«Mi piace casa tua», dichiarò Daniel, guardandosi intorno. «Ha molto
carattere. E non è neanche troppo femminile. Hai fatto tutto da sola?».
«Quasi tutto», risposi, accompagnando un boccone di Seduzione con un
sorso di champagne. «Quando abbiamo comprato la villa, questo in pratica
era un garage a due posti. Ho sempre pensato che un giorno sarebbe stato
mio. Per aprirci un negozietto d'antiquariato. Nemmeno nei miei sogni più
folli immaginavo che avrei finito per abitarci. Da sola».
Lui si alzò e si aggirò per la stanza, fermandosi a osservare i quadri
appesi al muro e a leggere i titoli dei libri sugli scaffali, aprendo persino la
porta del bagno per dare un'occhiata.
«Dove hai preso tutte queste belle cose?», chiese.
«Ovunque», dissi. «È così che fanno i rigattieri. Questo divano
apparteneva a mia nonna; l'ho rifoderato con una pezza di vecchio tessuto
che ho trovato quando un negozio di stoffe di Statesboro ha chiuso. Il piano
del tavolino in ferro battuto era la vecchia grata di una finestra che ho
comprato per cinque dollari in un deposito di materiali di recupero di
President Street. La cassapanca sotto le finestre laggiù l'ho comprata nel
negozio di oggetti usati di St. Michael, giù alla spiaggia. L'ho pagata solo
venti dollari ma era ricoperta da circa novanta strati di vernice rosa come il
Pepto–Bismol. Mi ci è voluta un'eternità per sverniciarla, ma sapevo che
sotto avrei trovato un bel vecchio pino, e così è stato».
Lui mi raggiunse e si sedette accanto a me. «Sai una cosa?», chiese. «Sei
sorprendente». Mi cinse le spalle con un braccio. Trasalii. Jethro emise un
ringhio sordo.
Daniel prese un'aria ferita e ritrasse il braccio.
«Mi dispiace», dissi.
«È tutto a posto», replicò, scuotendo il capo. «Immagino che stasera tu
non abbia lasciato adito a dubbi sul fatto che non sei attratta da me». Si
drizzò a sedere e si guardò intorno per cercare la giacca. «Questa faccenda
con Tal ti sconvolge ancora, vero? Ho visto la tua espressione stasera
quando quella donna ha parlato di Caroline che andava a letto con lui. È
stato come se ti avessero schiaffeggiato. Immagino che tu non abbia ancora
smesso del tutto di amarlo». Si curvò per fare una carezza sulla testa di
Jethro. «Vado», annunciò, alzandosi. «Magari una volta o l'altra potresti
chiamarmi. Potremmo essere semplicemente amici, credo».
«No». Volevo urlare, ma la parola mi uscì in un sussurro. «No. Non
voglio che tu te ne vada».
Daniel si sedette sul divano.
«Pensi di riuscire a essere paziente con me?» domandai. «È da parecchio
che non sto con un altro uomo. Non so come comportarmi. Ma ho smesso di
amare Tal. Davvero».
Lui mi circondò di nuovo le spalle con un braccio e mi attirò a sé.
«E se io prendessi le cose molto lentamente? Questo ti farebbe sentire più
al sicuro?».
Inspirai a fondo e annuii.
«Niente mosse improvvise», aggiunse Daniel. Posò il mento sulla cima
della mia testa. «Va bene?».
«Okay», risposi. Aveva un profumo meraviglioso, come di erba appena
tagliata e dopobarba. E cioccolato.
«Pensavo di baciarti il collo, adesso». Una serie di baci leggeri si
posarono sulla base della mia nuca. Chiusi gli occhi e sentii il suo respiro
tiepido e dolce sulla pelle. Mi girava leggermente la testa, a causa del vino.
O forse della novità della situazione.
«Abbiamo proprio bisogno di questi orecchini?», chiese lui,
mordicchiandomi il lobo dell'orecchio.
«Non necessariamente». Li tolsi e li posai sul tavolino.
Daniel mi attirò di nuovo a sé.
«Ora la parte davvero piacevole», disse, spostandosi dalle mie spalle al
mio seno per poi tornare su verso le labbra. «Sentiti libera di ricambiare i
baci in qualsiasi momento», aggiunse. «Di solito è così che funziona».
Daniel Stipanek aveva imparato parecchie cose davvero piacevoli, dopo
il nostro ultimo incontro. Non ero in grado di stabilire se avesse appreso
come muoversi nei Marines o alla scuola di cucina, ma non mi importava.
Era magnifico.
Mi spinse delicatamente all'indietro sul divano. Le sue mani trovarono i
miei fianchi e li massaggiarono mentre mi attirava a sé. Mi baciò la spalla,
poi un punto solitario nell'incavo della gola, infine si dedicò alla cintura
annodata del mio kimono, con tormentosa lentezza.
Sentii Jethro ringhiare.
«Vattene, Ro–Ro», dissi con il fiato corto, tra un bacio e l'altro.
Adesso Jethro stava abbaiando. E qualcuno stava bussando sulla porta
d'ingresso.
«Weezie?».
Era Tal. Mi misi a sedere di scatto, rassettandomi il kimono.
«È lui, vero?», domandò Daniel, alzandosi e infilando la camicia nei
pantaloni.
Annuii.
«Digli di andare al diavolo», mi suggerì lui.
Mi limitai a scuotere il capo, con le lacrime agli occhi.
«Weezie? Piccola, ho bisogno di parlarti».
Mi irrigidii.
«Non importa», disse Daniel, afferrando la giacca. «Me ne vado».
Spalancò la porta d'ingresso e passò accanto al mio ex marito, che era
fermo sulla soglia, una bottiglia di vino e due bicchieri tra le mani.
30

Daniel schizzò via con il pick–up sgommando, impresa tutt'altro che


facile in un vialetto lastricato di mattoni. «Chi era quello?», chiese Tal. «Era
un uomo?». Era conciato da buttar via. Aveva i capelli arruffati. Talmadge
Evans non ha mai i capelli arruffati; si sveglia al mattino e sembra appena
uscito dalla bottega del barbiere. I suoi occhi erano iniettati di sangue.
Portava una camicia bianca button–down sgualcita come se ci avesse
dormito dentro, bermuda sformati e i suoi lucidi mocassini neri. Ignorai la
domanda su Daniel. «Cosa vuoi?». Tal passò un dito lungo la scollatura del
mio kimono.
«Carino», disse, quasi sovrappensiero. «Vai a letto con quel tizio? Chi
è?».
«Non sono affari tuoi». Feci per chiudere la porta ma lui vi posò sopra la
mano per impedirmelo.
«Ti prego, Weezie», disse. Il suo alito puzzava di whisky. «Ho bisogno di
parlarti».
«Chiamami quando sei sobrio», ribattei. «Sto andando a letto».
«Mi odi, vero?». Barcollò leggermente mentre lo diceva.
«Ne ho il diritto, non credi?».
«Mi sono comportato come un perfetto idiota. Voglio scusarmi. Non
posso entrare?».
Sentivo il fiato caldo di Jethro sulle mie caviglie. Lui infilò la testa tra le
mie gambe e ringhiò minaccioso.
«Ehi, Jethro, amico», disse Tal, chinandosi per dargli un buffetto sulla
testa.
Jethro ringhiò di nuovo e cercò di morderlo e lui ritrasse la mano di
scatto, giusto in tempo per non vedersi tranciare la punta delle dita.
«Anche lui mi odia», osservò con tristezza.
«Forza, entra», dissi con un sospiro, aprendo la porta.
Tal entrò in soggiorno con passo malfermo e crollò sul divano. Il vino
nella bottiglia schizzò sul pavimento e i bicchieri rotolarono sulla moquette.
«Merda», borbottò.
«Li ho presi», dissi, recuperandoli un attimo prima che li riducesse in
briciole con i suoi mocassini.
«Vuoi del vino?», chiese, indicando la bottiglia.
«No, grazie. Ne ho già bevuto parecchio. E lo stesso vale per te, a quanto
pare».
«Io ho bevuto da solo», precisò lui. «Tu avevi compagnia».
Prese una forchetta e tagliò un pezzo della Seduzione al cioccolato di
Daniel, ma quando cercò di infilarlo in bocca mancò il bersaglio e si
impiastricciò il viso di cioccolato e panna montata.
La cosa non parve turbarlo. Divorò entrambe le porzioni di dolce.
«Buono. Lo hai fatto tu, Weezie?».
«No».
«Mi manca la tua cucina», dichiarò, dando l'impressione di non avermi
sentito. «Caroline non sa cucinare nemmeno un uovo al tegamino. Lo
sapevi?».
Naturalmente avevo visto tutti i contenitori di cibo da asporto e le scatole
di surgelati nel bidone dell'immondizia. «Lo immaginavo», risposi.
«Sai qual è la cosa che preferisce fare, per cena?».
«Arriva al punto», lo sollecitai, prendendo i piatti per metterli nel lavello
della cucina.
«Le prenotazioni», disse lui, ridendo della propria orribile battuta. «Sai
cosa mangiamo quasi tutte le sere?», domandò poi, senza aspettare una
risposta. «Cibo da asporto. Chiamo la tavola calda della signora Wilkes
all'ora di pranzo, poi passo a prendere la cena da asporto e la scaldiamo nel
microonde. Oppure mangiamo piatti dietetici surgelati. Dannati piatti
dietetici». Riappoggiò la testa tra i cuscini del divano e chiuse gli occhi.
La situazione cominciava a farsi davvero tediosa.
Pochi istanti dopo Tal stava russando, con la bocca aperta. Desiderai di
avere a portata di mano una macchina fotografica. Il controllato Talmadge
Evans III collassato sul divano della ex moglie, con la barba di due giorni e
un paio di baffi di cioccolato e panna montata.
Gli scossi una spalla. «Tal, svegliati».
Aprì gli occhi di scatto.
«Weezie». Mi afferrò la mano e ne baciò il palmo. La girò e baciò il
dorso, sporcandola tutta di cioccolato.
«Vai a casa, Tal», gli dissi. «Sei ubriaco. Se vuoi parlare, chiamami
domani. Sarò a casa dopo mezzogiorno».
«No», si affrettò a ribattere. «Non buttarmi fuori. Non sono così ubriaco.
Ho solo bisogno di parlarti. Di alcune cose. D'accordo? Solo un paio di
cose».
«Per esempio?». Presi una sedia di legno e mi sedetti davanti a lui. Lo
guardai bene in faccia. Il suo viso era sempre stato magro, ma adesso
appariva decisamente emaciato. Per la prima volta notai che i capelli biondo
chiaro avevano cominciato a diradarsi sulla sommità della testa e stavano
diventando grigi all'altezza delle tempie.
Mi prese le mani tra le sue e chiuse gli occhi.
«Tal», chiesi bruscamente, «cosa volevi dirmi?».
«Eh?».
«È inutile». Mi allontanai per costringerlo a lasciarmi andare le mani.
«Caroline è morta», disse.
«Lo so. Mi dispiace».
«La mamma pensa che l'abbia uccisa tu. Pensa che tu sia una pericolosa
criminale».
«A tua madre non sono mai piaciuta. Però non ho ucciso Caroline, Tal.
Lo giuro su Dio, sulla tomba di mia nonna, non sono stata io a ucciderla».
I suoi occhi azzurri mi scrutarono.
«Lo so», disse. Una lacrima gli rotolò lungo la guancia.
«Non mi era simpatica, ma mi dispiace che sia morta», continuai. «Mi
dispiace che tu soffra così». Deglutii. «So che ti manca terribilmente.
Volevo venire a trovarti per dirti quanto mi dispiace, ma mi sentivo a
disagio. Non sono certo fiera di come mi sono comportata dopo il divorzio,
ma ormai è finita. Non voglio più litigare».
Lui tirò su con il naso, poi si asciugò il viso con un lembo della camicia e
già che c'era ci si soffiò anche il naso.
Quasi mi venne da vomitare. Quanto whisky aveva bevuto?
«Ascolta, e se ti preparassi un caffè?», chiesi.
«Certo», rispose, illuminandosi in volto. «Caffè. Come quello che
preparavi un tempo. Tieni ancora i chicchi in frigorifero?».
«Sì».
«Quei chicchi deliziosi importati dal Kenya?».
«Sì», risposi. Ormai cominciava davvero a preoccuparmi.
«E li macini con quel tuo piccolo macinacaffè elettrico? Quello rosso
tanto carino?».
«Gli accordi del divorzio hanno assegnato a te il macinacaffè rosso», gli
ricordai, non resistendo alla tentazione di una piccola cattiveria.
«Potrei andare a prenderlo. Puoi riaverlo. Caroline prepara il caffè
istantaneo».
«Ne ho comprato uno nuovo», replicai. «Aspettami qui. Vado a mettere
su una caffettiera».
Ma lui mi seguì in cucina e si appoggiò al tavolo, osservandomi mentre
versavo i chicchi nel macinacaffè elettrico e lo facevo andare per un minuto.
Aspirò a fondo. «Adoro il profumo di caffè appena macinato. È un'altra
delle cose che mi mancano di te, Weezie».
Già certo... Misi il caffè sul fuoco e presi due tazze di giadeite dal
pensile, poi il bricco di panna dal frigo.
«Me le ricordo», disse Tal, sollevando una delle tazze. «Mantengono il
caffè bello caldo. Hanno lo spessore ideale. È questo che amo di te, Weezie.
Ti preoccupi dei piccoli dettagli estetici. Del profumo che ha il caffè e della
sensazione che ti danno le tazze quando le tieni in mano. E scommetto che
in quel bricco c'è della vera panna. E questa è un'altra cosa. Versi la panna
dal tetrapak nel bricco».
Era solo un normalissimo piccolo bricco da panna in vetro pressato. «Uso
sempre la panna», dichiarai pacatamente. «Ha un gusto migliore, se la
conservi qui dentro».
«Caroline compra quella roba in polvere senza grassi e senza lattosio»,
raccontò Tal. «Dice che è una spesa inutile comprare la panna solo per noi
due».
Mi dava i brividi il modo in cui continuava a parlare di Caroline al
presente, come se fosse ancora viva. Mi chiesi se stesse attraversando una
fase di negazione della realtà.
Quando il caffè fu pronto riempii le due tazze. Nella sua aggiunsi
automaticamente due cucchiaini di zucchero, oltre a una generosa spruzzata
di panna.
Lui sorrise. «Grazie. Te lo sei ricordato».
«Certe cose non si dimenticano».
«Ho rovinato tutto», disse all'improvviso. Posò la tazza sul tavolo.
«Cristo. Quest'ultimo anno è stato un vero incubo. Il modo in cui ti ho
trattato, quello che ti ho fatto passare. Avrebbero dovuto sparare a me
invece che a lei».
Cosa voleva che facessi, che gli dessi ragione? Era in cerca di
un'assoluzione?
«Eri la cosa migliore che mi fosse mai capitata», aggiunse. «Ricordi
come ci siamo conosciuti in quel locale? Hai flirtato con me in modo
spudorato».
«La mia amica mi aveva sfidato a farlo», replicai, «e sembrava che la
cosa non ti dispiacesse».
«Eri tanto diversa da tutte le altre ragazze che avevo conosciuto.
Originale. Così giovane e adorabile...».
«E ingenua», conclusi io. «Ero così impressionata dal fatto che il
membro di una famiglia importante come Talmadge Evans III si
interessasse alla piccola Weezie Foley».
Lui bevve il caffè e giocherellò con i cucchiai posati sul piano di lavoro,
allineandoli, impilandoli uno sull'altro e poi rimettendoli di nuovo a posto.
«Lei non mi amava, sai», disse, continuando a spostare i cucchiai.
Inarcai un sopracciglio.
«È vero. Negli ultimi due mesi era cambiata. Insopportabile.
Incontentabile. Vuoi che ti racconti un segreto?».
«No. Bevi il tuo caffè».
«Credo che avesse un amante. Già. L'altra donna aveva un altro uomo.
Carino, non trovi?».
Mi chiesi quanto avesse saputo dai pettegolezzi di Savannah.
«Mentiva sui posti in cui doveva andare. Aveva tutti questi finti
appuntamenti con dei clienti. Una volta l'ho controllata. Non era dove aveva
detto che sarebbe stata. All'inizio ero davvero furioso ma poi, diavolo, non
mi importava più. Era troppo tardi. Avevo rovinato tutto, irrimediabilmente.
C'è anche un altro segreto, vuoi sentirlo?».
«E troppo tardi per i segreti. Ho mal di testa», risposi.
«Solo uno». Prese un cucchiaio, lo sollevò e osservò il proprio riflesso
nella parte convessa. «La notte in cui è stata uccisa ha ricevuto una
telefonata. L'ho sentita rispondere al telefono, poi è uscita. L'ho seguita».
«Davvero? Dove stava andando?».
«Non lo so. L'ho seguita lungo la Victory Drive ma è passata con il giallo
mentre io sono rimasto bloccato dal rosso. Avevo dietro un poliziotto e non
ho avuto il coraggio di bruciare il semaforo».
«Quale semaforo della Victory?».
«Quello all'altezza di Bee Road», rispose Tal. «Non che abbia qualche
importanza. Probabilmente Caroline aveva appuntamento con lui».
«Sai chi era questo lui?».
Tal sorrise e mi agitò un dito davanti al viso. «Ah, ah, ah. Hai detto che
non volevi sentire altri segreti».
«Questo mi interessa».
«Perché?».
«Perché Caroline potrebbe aver avuto un appuntamento con la persona
che l'ha uccisa, idiota. E al momento la polizia crede che quella persona sia
io».
«Non so chi fosse».
«Ma hai un'idea».
«No. Sai, non so nemmeno come mai Caroline mi abbia dato la caccia in
quel modo. O come mai io abbia preso una tale sbandata per lei. Era più
attraente di te, certo, e più giovane, ma non era una bella persona».
«Accidenti, grazie per il complimento».
«Penso che ad attirarla sia stata semplicemente la sfida. Voleva scoprire
se sarebbe riuscita a distruggere il nostro matrimonio».
«C'è riuscita».
«Dopo la prima volta mi sono sentito un verme. Il giorno seguente le ho
detto che rimpiangevo di averlo fatto, che era stato un errore. Perché amavo
mia moglie».
Mi sentii avvampare. Non volevo sentire niente di tutto ciò. A cosa
potevano servire, ormai, le confessioni? Ero stanca di tormentare e riaprire
vecchie ferite.
«Adesso basta, Tal», dissi debolmente. «Bevi il tuo caffè e vattene a
casa». Lui mi prese la mano. «Quel che è fatto è fatto», continuai. «Non
possiamo tornare indietro». Ritrassi la mano.
«Perché no? Te l'ho detto, è stato tutto un errore».
«Perché non voglio farlo. Ho una nuova vita. Non è un granché ma è
mia».
«Ti amo ancora», disse quietamente lui. «È pazzesco, vero?».
«Hai avuto un modo davvero strano di dimostrarlo».
«Potremmo provarci di nuovo. Sono pazzo di te, Weezie. È questa la cosa
stupida. Non litigavamo mai. Andavamo d'amore e d'accordo. Dovevo
essere impazzito. Evidentemente stavo attraversando una crisi di mezza età,
quando ti ho tradito. La prima volta, quella donna di Atlanta... Dopo avrei
voluto morire, tanto mi vergognavo. E ho giurato di non ricaderci. E per due
anni è stato così. Sono stato il marito più fedele del mondo. Fino a
Caroline».
«La prima volta? Una donna ad Atlanta? Tre anni fa?». Sentivo un ronzio
nelle orecchie, il sangue mi affluì al viso e temetti che la testa stesse per
esplodermi. «Mi hai tradita tre anni fa?», urlai. «Caroline non è stata la
prima? Stronzo! Sei una fottuta merda di cane, un lurido bugiardo, un figlio
di puttana spregevole e bastardo, una testa di cazzo».
Presi la mia tazza da caffè di giadeite, quella che si adattava così bene al
palmo della mia mano, quella con il caffè appena macinato e la panna fresca
così gradevole esteticamente, e la lanciai verso la sua compiaciuta faccia da
figlio di puttana.
«Jethro», gridai, «attacca!».
31

Sabato. Sei del mattino. Mi alzai faticosamente dal letto e mi infilai la


tenuta da lavoro: short sformati, maglietta extralarge, scarpe da ginnastica.
Trangugiai quattro aspirine, mandandole giù con una Coca–Cola. La testa
mi martellava per colpa di tutto il gin, il vino, lo champagne e
l'autocommiserazione della sera prima.
Era a malapena l'alba ma una ghiandaia stava già facendo un gran chiasso
nella mangiatoia che avevo sistemato sul mio lato del cortile. Mentre salivo
sul pick–up gorgheggiai anch'io a modo mio, in direzione della casa grande.
«Vai all'inferno, schifoso yuppie», borbottai.
Avevo cerchiato solo cinque annunci sul Pennysaver. Era agosto e a
Savannah faceva un caldo africano. Nessuno voleva perdere tempo con un
mercatino dell'usato a meno che non fosse strettamente necessario. I primi
tre si tenevano in centro, ad Ardsley Park o negli immediati dintorni, e nel
distretto storico. La mia prima sosta, in un cottage sulla St. Julian Street,
fruttò un paio di scoperte apprezzabili: un tavolo da cucina di pino a
sessanta dollari e una scatola piena di antiche applique di ottone a cinque.
Vidi due o tre antiquari che conoscevo, inclusa la Mattiniera, che lasciò
cadere l'oggetto che aveva in mano e scappò via quando entrai nel salottino
dove era stata allestita la cassa. Ci trovammo tutti d'accordo sul fatto che
faceva troppo caldo per lavorare e che i prezzi erano folli, poi pagammo e ci
dirigemmo verso la vendita seguente.
Passai davanti al mercatino di Victory Drive, che avrebbe dovuto iniziare
alle sette, ma dove gli organizzatori stavano giusto cominciando a montare i
tavoli sotto la tettoia per le auto.
«Dilettanti», commentai in tono derisorio, puntando verso la vendita
seguente, sulla Quarantaquattresima, dove una mezza dozzina di persone
gironzolava intorno a svariati tavoli carichi di mercanzia. Mi sporsi dal
finestrino per dare un'occhiata. Un sacco di rastrelliere di vestiti, ceste da
biancheria piene di stoviglie, contenitori Tupperware, brutte lampade.
Proseguii.
Per poco non mi fermai nemmeno davanti alla casa dove si teneva
l'ultima vendita che avevo cerchiato, un comune cottage anni Quaranta in
blocchi di cemento all'isolato 500 della Cinquattottesima Est. Sui tavoli
montati in cortile erano ammucchiati giocattoli, libri tascabili e,
naturalmente, l'inevitabile attrezzo per fare ginnastica — in questo caso un
tapis roulant.
Stavo per rinunciare e raggiungere un locale sulla Waters per mangiare
un piatto di uova con farinata di granturco quando qualcosa attirò la mia
attenzione. Mi fermai accanto al marciapiede per vedere meglio. All'ombra
di una lagerstroemia c'erano due solitarie sedie da giardino in metallo la cui
vernice scrostata era della mia sfumatura di turchese preferita.
Il prezzo non era indicato. Raggiunsi il capannello di persone impegnate
a frugare tra i vestiti per bambini e individuai la donna responsabile del
mercatino. È facile riconoscere i responsabili: hanno un marsupio. Era sui
trentacinque anni, con il volto arrossato e lucido di sudore, e stava cercando
di convincere una bimba a staccare il sederino nudo da una minuscola
comoda di legno.
La piccola aveva capelli di un biondo chiarissimo, una maglietta di
Topolino e i calzoncini abbassati intorno alle caviglie.
«Ma Krystal, ormai sei grande», stava dicendo la donna. «Usi il vaso
grosso, a casa. Lascia vendere questo alla mamma, poi andremo al negozio
a comprarti un giocattolo nuovo».
«No!», gridò la bambina, che doveva avere circa quattro anni. «Il mio
vasino».
«Mi scusi», dissi, dando un colpetto sulla spalla della donna. «Quanto
costano le sedie da giardino laggiù?».
«Krystal!», disse bruscamente lei. «Dai il vasino alla mamma. Subito».
«No!», urlò la bambina.
«Le sedie?», ripetei, a voce un po' più alta.
«Cosa?», chiese la donna. Stava tirando la figlia per una mano. «Avanti,
Krystal. C'è una persona che vuole comprare quel vasino. Fai la brava e
alzati».
La situazione cominciava a diventare seccante. Frugai nelle tasche dei
miei short. Estrassi un biglietto da un dollaro e una mezza bustina di
M&M's.
«Ehi, Krystal», dissi, facendo dondolare banconota e cioccolatini davanti
ai suoi occhi lacrimosi, «ti piacciono gli M&M's?».
Lei tirò su con il naso. «Sì».
«Ne vuoi un po'? E vuoi un dollaro?».
Krystal tirò di nuovo su con il naso. «Okay».
«Dai alla mamma il vasino e io ti darò i cioccolatini e i soldi», la
sollecitai, tenendoli a circa trenta centimetri di distanza.
La bimba si alzò e tirò su i pantaloncini. Le diedi la banconota e gli
M&M's.
«Grazie», disse sua madre, prendendo la piccola comoda.
«Blah», disse il potenziale acquirente.
Mi voltai. Krystal aveva lasciato un ultimo ricordo nel vasino.
«Le sedie da giardino», ripetei.
La donna le guardò. «Oh, quelle. Le può prendere per cinque dollari, ma
deve caricarsele in macchina da sola. Quel traditore di mio marito è andato
a cambiare dei soldi un'ora fa e non ha più dato sue notizie».
A cinque dollari erano un vero affare. Conosco un commerciante di
Atlanta che è specializzato in "arredi da giardino" shabby chic e che mi
paga trenta dollari per qualunque cosa abbia ancora la vernice originale.
«Le caricherò in macchina da sola», promisi, passandole cinque biglietti
da un dollaro. Girai intorno ai tavoli per assicurarmi di non lasciarmi
sfuggire nulla di interessante. Non era così.
Tornai dalla donna, che stava pulendo il vasino con la canna dell'acqua.
«Non ha nient'altro di vecchio come quelle sedie?».
«È tutto qui in cortile», rispose lei, raddrizzando la schiena. «A meno
che...».
«Sì?».
«Nella rimessa per le auto c'è un intero ripostiglio pieno di vecchio
ciarpame», spiegò. «Due anni fa abbiamo messo la nonna di mio marito in
una casa di riposo, e da allora tutte le sue cose sono lì a marcire e a
occupare spazio. Le sedie non ci stavano, così sono rimaste fuori sotto la
pioggia per tutti questi mesi. Un vero pugno nell'occhio».
Lanciai un'occhiata verso la tettoia, a cui era annesso un ripostiglio per
gli attrezzi prefabbricato, in alluminio.
«Le interesserebbe vendere una parte di quel vecchio ciarpame?».
«Mi interesserebbe versare della benzina sull'intero cumulo per poi
buttarci sopra un fiammifero», brontolò lei. «Ma mio marito potrebbe
obiettare».
«Be', se non le interessa...». Presi una delle sedie e cominciai a dirigermi
verso il pick–up.
«Aspetti un attimo. Sa cosa le dico? Le faccio una proposta. Se lei svuota
quella rimessa e si porta via tutto prima che torni mio marito, può averlo
per, diciamo... un centinaio di dollari».
Si avvicinò al ripostiglio, fermandosi davanti alla porta.
«Prima posso vedere cosa contiene?», domandai.
«No», rispose. «Tutto o niente».
Mmm. Bello. Mi ricordava Let's Make a Deal, quel programma
televisivo in cui ci sono tre porte e devi scegliere di aprirne una, dietro la
quale potrebbe esserci robaccia priva di valore o un tesoro. Quel mattino
avevo già ottenuto un margine di profitto di cento dollari. Decisi di
scegliere la porta numero uno.
«Ci sto», dissi.
Lei spalancò la porta. «Fregato», disse in tono trionfante.
Entrai a passo di marcia. La rimessa misurava all'incirca tre metri per
due. Puzzava di muffa e orina di gatto. Non è un brutto segno, quando stai
cercando roba vecchia.
«Un'ultima cosa», aggiunse la donna, sporgendo la testa dalla porta. «Se
mio marito torna e lei è ancora qui, gli dirò che è una ladra».
Magnifico. Adesso ero finita in Missione Impossibile.
Erano le otto. Infilai il pick–up sotto la tettoia per auto e cominciai a
caricarvi gli scatoloni. Non volevo perdere tempo esaminando il bottino lì,
ma notai degli indizi che mi fecero ben sperare: un paio di tavolini in
mogano anni Quaranta, una scatola piena di vecchie foto, alcune delle quali
avevano dignitose cornici intagliate e dorate, un paio di valigie e un beauty
case in pelle di coccodrillo coordinato, e uno scatolone i cui lembi aperti
lasciavano intravedere quelle che sembravano svariate tende di tela blu e
bianca con frange di seta. Avevo l'acquolina in bocca. D'altra parte, caricai
anche un deambulatore in alluminio, una bombola d'ossigeno e perlomeno
uno scatolone di pannoloni per adulti e un altro di integratori alimentari
liquidi.
Dopo aver sollevato e trascinato scatoloni per tre quarti d'ora, avevo
finito. Chiusi con un colpo energico la porta della rimessa, presi cinque
biglietti da venti, mi sporsi dal finestrino del pick–up e li allungai alla
donna mentre uscivo in retromarcia dal vialetto d'accesso.
«Meglio che se ne vada». Lei indicò con un cenno del capo una jeep nera
che si stava fermando accanto al marciapiede. «Quello è mio marito».
Rivolsi un cordiale cenno di saluto al tizio della jeep e mi allontanai in
fretta.
La mia prima sosta fu il negozietto della St. Francis of Assisi che vende
oggetti usati per beneficienza, dove mia madre dà una mano il sabato
mattina, prezzando le donazioni da rivendere.
Parcheggiai sul retro e suonai il campanello. La mamma venne ad aprire.
Indossava il suo grembiule rosa a fiori e una spilla con la scritta "Posso
aiutarla?".
«Cos'è tutta questa roba?», chiese, subito sospettosa.
«Una donazione», risposi, passandole il deambulatore. «Aspetta un
attimo mentre vado a prendere l'altra roba. Ci sono un sacco di prodotti per
persone malate. Cosa ne dici di prepararmi una ricevuta mentre scarico?».
Lei scomparve nel negozietto. Io scaricai alcuni scatoloni di libri
tascabili, vecchi vestiti, i pannoloni, gli integratori alimentari e, come gesto
caritatevole, una sedia a dondolo in legno che avrei potuto vendere per
procurarmi dei contanti.
Lei mi porse la ricevuta. «Sono tre giorni che cerco di telefonarti».
«Mi spiace. Ho avuto parecchio da fare».
«Mercoledì è morta tua cugina Lucy. Non l'hai visto sul giornale di
giovedì?».
L'unica sezione del giornale che leggevo il giovedì era quella riservata
agli annunci economici. «No», risposi. «Ho davvero una cugina Lucy?».
«Te la ricordi benissimo», insistette mia madre. «Ottantasei anni. Ramo
McKuen della famiglia. Ti sei persa la veglia funebre. È stata molto carina».
«Mi spiace», ripetei.
«La cugina Lucy aveva una casa a Thunderbolt. La famiglia vuole sapere
se ti interesserebbe comprare le sue cose. Io sono incaricata di svuotare la
casa perché possa essere venduta. Lucy era una specie di collezionista, sai».
L'unica cugina Lucy che ricordassi era un vecchio gnomo raggrinzito che
fumava una sigaretta dietro l'altra e terrorizzava tutti i parenti per
costringerli a comprare i prodotti Avon che vendeva. Non avevo mai visto
casa sua.
«Ti farò sapere», promisi, dandole un rapido bacio. «Ti chiamo».
Dopo essermi liberata del carico in eccesso, decisi di passare nel negozio
di Lester Dobie. Il tavolo di pino e le applique di ottone erano il genere di
articoli che gli interessavano, e inoltre volevo consultarmi con lui.
Era dietro il bancone all'ingresso, impegnato a riparare i fili elettrici di un
lampadario. Cavi elettrici, bulloni e gocce di cristallo erano sparsi su tutto il
bancone. Un piccolo ventilatore era puntato verso di lui, ma non riusciva a
smuovere granché l'aria calda e immobile.
Alzò gli occhi quando gli posai davanti lo scatolone.
«Ehi, tesoro», disse. «Che cos'hai lì?».
«Quattro coppie di applique a muro in ottone», risposi.
Lester sbirciò nello scatolone e si accigliò. «Roba da due soldi»,
brontolò.
«Quindici a coppia, sessanta dollari in tutto», replicai. Era il nostro gioco:
lui criticava la merce, io alzavo il prezzo.
«Te ne do cinquanta, e dovresti vergognarti, approfittare così di un
vecchio cieco».
«Ho un tavolo da cucina in legno di pino sul pick–up», dissi.
Lui spinse verso la nuca il berretto bagnato di sudore. «Diamo
un'occhiata».
«Niente male», ammise poi, passando la mano sulla liscia superficie di
un arancione bruciato. Accarezzò la parte inferiore del tavolo e le gambe.
«Incavigliato a mano. Quanto offriresti?».
«Mi accontenterò di centocinquanta dollari», dichiarai, ignorando la sua
domanda.
«Centoventi. Cos'altro hai lì dentro?».
«Non lo so con certezza». Gli raccontai come avevo svuotato la rimessa
sulla Cinquantottesima.
«Passami quella scatola con le cornici e l'altra roba», mi disse. «Andiamo
dentro dove non fa così caldo e diamo un'occhiata».
Portammo la scatola di foto nel suo ufficio e le esaminammo a una a una.
Alcune erano vecchie stampe ingiallite di soggetto religioso: il Discorso
della Montagna, l'Ultima Cena, Gesù e la pecorella smarrita.
«Ciarpame», disse lui, mettendole da parte.
Trovammo un paio di nature morte floreali dipinte ad acquarello,
probabilmente opera di un dilettante di talento, una cornice con la fotografia
in bianco e nero di quella che sembrava una riunione di ex compagni del
liceo, e un dipinto a olio raffigurante degli schiavi che raccoglievano il
cotone.
«Ehi», dissi, sollevando il quadro per esaminarlo meglio. La cornice,
dorata e riccamente intagliata, valeva da sola il centinaio di dollari che
avevo pagato per tutta la roba. Ma il dipinto era affascinante.
Misurava circa venti centimetri per ventotto e raffigurava un gruppo di
lavoratori, bianchi e neri, chini a raccogliere cotone in un campo bordato di
querce coperte di muschio. Le abili pennellate e il colore ricco di sfumature
davano alla scena un'aria vagamente triste e malinconica.
«Togliamolo dalla cornice per dare un'occhiata alla firma», propose
Lester.
Con un paio di pinze sottili estrasse abilmente i chiodini che lo fissavano
alla cornice. Mi passò quest'ultima e prese una lente d'ingradimento con una
lucina.
«Che io sia dannato», disse, indicandomi di guardare.
La firma, in lettere elegantemente vergate, era T. Eugene White.
«Lo conosci?», chiesi.
«Aspetta un attimo», mi rispose Lester. Fece ruotare la sua seggiolina
girevole per prendere un libro dallo scaffale dietro la scrivania. Esaminò
l'indice, trovò quello che cercava e aprì il volume su una delle ultime
pagine.
"T. Eugene White", diceva il libro. "Edgefield County, South Carolina,
1872–1949. Esposto alla Southern Beaux Arts Society, membro
dell'American Society of Painters and Illustrators".
Presi il volume per vederne il titolo: Pittori americani del Ventesimo
secolo.
«T. Eugene White è un pittore quotato», dissi, un sorriso idiota stampato
in faccia. «Cos'altro sai di lui?».
«Prediligeva soggetti legati al Sud, attualmente molto di moda», spiegò
Lester. «Ho il catalogo di una mostra organizzata al Valentine Museum di
Richmond che cita un T. Eugene White, e penso che il Telfair, proprio qui in
città, abbia uno dei suoi quadri».
«Andiamo al dunque. Quanto vale?», lo sollecitai.
Lui si grattò il mento. «Difficile a dirsi. Olio su legno, ottime condizioni,
le dimensioni sono quelle più apprezzate dagli acquirenti, tema molto
popolare. È un pittore della Carolina, morto più di cinquant'anni fa.
Probabilmente potresti vendere il quadro a un qualsiasi arredatore qui in
città per, diciamo, duemila dollari».
«Il che significa che ne vale almeno tremila, e questo basandosi solo
sull'aspetto estetico», replicai. «Potrei ottenere di più? Molto di più?».
«Certo», rispose. «Ma ci vorrà tempo. Dovresti fare un giro di telefonate
ad alcuni mercanti d'arte per scoprire cosa sta succedendo sul mercato. Una
bella pulita gli farebbe bene e ne aumenterebbe subito il valore. Se fossi in
te lo sistemerei da un mercante di Atlanta o Charlotte, convincendolo a
tenerlo in conto vendita».
«Accidenti», dissi, stringendomi al petto il quadro. «Accidenti».
«Sei stata brava, Weezie», mi lodò Lester, dandomi una pacca sulla
schiena. «Il vecchio T. Eugene White dovrebbe portarti un bel gruzzoletto».
«Non solo», replicai in tono sognante. «Forse mi porterà la credenza di
Moses Weed».
«Moses Weed? Stai ancora pensando a come metterci sopra le mani?».
«Sì», ammisi, curvandomi verso di lui. «Lester, hai sentito dire niente su
dei mobili di Beaulieu venduti qui in città? Hai saputo qualcosa su Lewis
Hargreaves? Ieri sera ho cenato da alcuni amici e una donna ha raccontato
di aver sentito per caso qualcuno dire che Lewis stava vendendo un buffet
di Beaulieu. Ma non è stata ancora annunciata un'altra vendita».
«Non ho sentito niente, ma posso controllare in un minuto».
Sollevò il telefono.
«Lewis? Sono Lester Dobie. Come stai? Ascolta, ho una cliente, una
signora dei Landings, che si è messa in testa di aver bisogno di veri mobili
appartenuti a una piantagione del Sud. So che tratti questo genere di cose e
mi stavo chiedendo se avevi qualcosa che potrebbe interessarle».
Rimase in ascolto e annuì. «Sì, so che sono difficili da trovare. Un vero
peccato che la vendita a Beaulieu sia stata annullata. Sai per caso quando
potrebbero riorganizzarla?».
Sorrise. «Be', sono felice di saperlo. Stammi bene, okay?».
Riagganciò. «Lewis dice di non avere nessun mobile proveniente da una
piantagione, al momento, ma che la vendita è stata fissata per sabato
prossimo».
Saltellai su e giù e lo abbracciai. «Perfetto. Ora non devo fare altro che
vendere il quadro prima di sabato. E sperare che Lewis non abbia già messo
le sue luride manacce sulla mia credenza».
32

Stavo scaricando il pick–up quando BeBe si infilò nel vicoletto dietro la


rimessa per le carrozze.
«Parcheggia pure nel posto di Caroline», le suggerii in tono di sfida.
«Non è probabile che ne abbia bisogno».
«Tal non si arrabbierà?».
«Che vada al diavolo», dissi, lanciando un'occhiataccia verso la casa.
«Ooh, un intrigo», ribatté. «Racconta».
«Prima aiutami a portare in casa il resto della roba».
Dopo che finimmo di scaricare e che mi fui finalmente tolta tutte le
ragnatele e il sudiciume dai capelli e dal corpo, infilai dei vestiti puliti e
scesi al pianoterra. BeBe aveva preparato due gin and tonic. I cani sono
fantastici, ma ben pochi di loro ti preparano un drink.
«Stai sorridendo», disse, «quindi ieri sera non può essere andata poi così
male».
«Ieri sera è stata un disastro», replicai. «Ma oggi ho avuto un colpo di
fortuna a un mercatino e penso di poter forse raggranellare abbastanza per
comprare la credenza di Moses Weed».
Lei fece una smorfia. «Non di nuovo quella».
«Proprio quella». Le raccontai la storia della rimessa per gli attrezzi e del
quadro di T. Eugene White. «Dovrei guadagnare un paio di migliaia di
dollari, come minimo».
«Il denaro è una bella cosa», dichiarò BeBe in tono solenne, «ma il sesso
è meglio. Cos'è successo ieri notte?».
Presi una lunga sorsata di gin and tonic. Era ghiacciato e mi liberò le
cavità nasali. Mmm.
«È una storia incredibile», dissi. «Nell'ultimo anno ho vissuto qui come
una monaca e ieri sera non uno ma ben due uomini ci hanno provato con
me».
«Daniel?».
«E Tal», aggiunsi cupamente.
«Prima raccontami la parte più piccante», mi implorò lei. «Com'è andata
con Daniel?».
«Bene».
«Weezie!», esclamò lei. «Non fare l'elusiva con me. L'hai fatto?».
Cercai di prendere un'aria indignata. «Ti sembro un tipo così facile?».
Lei sospirò. «Dimmi che almeno te la sei spassata un po'».
«Definisci cosa intendi per "spassarsela"».
BeBe fece una smorfia e rifletté attentamente.
«Vediamo. Lingua».
«Fatto», dissi.
«Posizione orizzontale».
«Fatto».
«Rimozione vestiti».
Mi accigliai. «Più o meno».
«Quelli di chi?».
«I miei».
«Definisci l'espressione "più o meno», mi chiese.
«Lui stava procedendo ma la mia cintura era annodata troppo stretta. Poi
Jethro ha cominciato ad abbaiare, e alla porta c'era Tal, e Daniel se l'è
svignata con il suo pick–up».
«Dio». Lei ridacchiò. «Proprio come al liceo. Il tuo fidanzatino se l'è
svignata».
«Forse al tuo liceo, non certo al mio. E non definirei Daniel il mio
fidanzatino».
«Gli hai quasi permesso di spogliarti», ribatté BeBe. «Se non è il tuo
fidanzatino che cos'è?».
«Non hai tutti i torti».
«Torniamo a Tal. Cosa voleva?».
«Voleva che io condividessi il suo dolore. Stronzo».
«Cos'ha detto per farti arrabbiare così? Solo l'altra sera eri pronta a
correre da lui a tamponargli la fronte febbricitante. Credevo che stessi
pensando a una riconciliazione».
«Mai», dichiarai. «Talmadge Evans è un sacco di merda schifoso, rozzo e
subumano».
«Questo avrei potuto dirtelo anch'io. Ma cosa diavolo ha combinato?».
«Prima di tutto ha mangiato il mio dolce. Volevo gustarmelo a
colazione».
«Pensavo che avessi in programma di gustarti Daniel, a colazione».
«Non ancora, ma dopo ieri sera ammetto che c'è questa possibilità».
«La prossima volta prendi una stanza in albergo», mi consigliò lei.
«Potrebbe non esserci una prossima volta. Sembrava molto arrabbiato».
«Gli passerà. Agli uomini passa sempre. Ma torniamo a Tal».
«Oh, già. Ha avuto il coraggio di dirmi che, per quanto Caroline fosse più
bella e più in gamba di me, era giunto alla conclusione che ero io la donna
che amava – non lei».
«Carino», commentò BeBe con voce strascicata.
«Non ti ho ancora raccontato il peggio», la avvisai. Mi stavo sforzando di
non pensarci sin da quando avevo buttato fuori Tal, la sera prima, ma era
come un'afta, non potevi fare a meno di toccarla con la lingua. Pensarci mi
feriva ma non riuscivo a evitare di farlo.
«Caroline non è stata la prima», spiegai. «Lui mi aveva già tradito. Tre
anni fa. Una tizia di Atlanta».
BeBe si alzò, mi prese il bicchiere e lo riempì di nuovo.
«Gli uomini sono dei tali stronzi», dichiarò.
«La cosa peggiore è che, fino al momento in cui mi ha confessato quella
scappatella, in fondo all'anima avevo avuto la segreta sensazione che
potesse funzionare di nuovo, tra noi. Non è folle?».
BeBe spremette il limone nel suo drink.
«Tesoro», disse, «ascoltami. Sono stata sposata tre volte e ho divorziato
tre volte. Forse adesso non vorrai crederci, ma ecco la triste notizia: tra te e
Tal non è ancora finita. Il divorzio è come un virus. Pensi di aver
dimenticato quella testa di cazzo ma, un paio di mesi dopo, wham! Sei di
nuovo sdraiata sulla schiena e non hai più le mutandine. Viene chiamata
scopata furtiva. Non vorrei che si sapesse in giro ma sì, sono andata a letto
con tutti i miei ex mariti, dopo il divorzio. Bizzarro, non trovi? Soprattutto
la sensazione che tu lo stia inducendo a tradire l'altra donna – con la sua ex
moglie».
«Niente da fare», replicai. «Il solo pensiero di baciarlo mi fa accapponare
la pelle. E non dimenticare che nel mio caso l'altra donna è morta. Inoltre
tutti pensano che l'abbia uccisa io. Questo è più che bizzarro, è macabro».
BeBe sollevò le mani, mostrandomi i palmi. «Dico solo per dire, okay?
Non restare scioccata se succede. E pensa a come sarebbe furiosa mamma
Evans se sapesse che il suo piccino è tornato strisciando nel letto della
cattiva Weezie?».
Scoppiai a ridere. «Probabilmente lo castrerebbe con un coltello da burro
smussato».
«Tieni a mente questa immagine, allora, ti servirà da afrodisiaco. Ma
ricorda, non sarà altro che questo: una breve sessione di sesso senza
significato ma terapeutico. E fammi un favore, ti prego. Costringilo a
implorarti. Tal non mi è mai piaciuto».
«Non succederà», ripetei.
Rovistai nel frigorifero e trovai un contenitore pieno di crema di
formaggio al pepe che avevo preparato qualche giorno prima. C'erano anche
dei cracker.
«Ehi, BeBe», dissi, spalmando del formaggio su un cracker. «Sei davvero
andata a letto con tutti e tre? Anche con Howie?».
Howie era l'ex marito che lei aveva scoperto a ordinare biancheria intima
femminile su Internet per la sua amante, facendola addebitare sull'American
Express di BeBe.
«Soprattutto con Howie», dichiarò lei in tono deciso. «E poi mi sono
assicurata di lasciare un paio delle mie mutandine nel vano portaoggetti
della sua macchina. Un ricordino perché pensasse a me».
33

James raggiunse Jonathan accanto al monumento commemorativo della


guerra ispano–americana di Forsyth Park.
Jonathan rallentò fino a camminare mentre l'altro pedalava al suo fianco.
«Ho già corso per quasi cinque chilometri», disse. «Dove sei stato?».
«La bici aveva una gomma a terra», spiegò James. «Mi sono dovuto
fermare alla stazione di servizio sulla Victory per gonfiarla e ho incontrato
dei vecchi conoscenti che hanno voluto sapere come mai ho lasciato il
sacerdozio e tutto il resto». Alzò le mani in un gesto di rassegnazione. «Le
solite chiacchiere. A volte penso che mi converrebbe stampare i motivi sui
biglietti da visita e distribuirli in giro».
«Potresti dire semplicemente che te ne sei andato perché sei gay».
«Non è quello il motivo», replicò James.
«No, ma riuscirebbe sicuramente a bloccare le altre domande».
Fecero altri due giri intorno al parco, con Jonathan che correva a ritmo
lento e costante per permettere all'amico di restare al passo con lui.
«Ieri sera ero a una cena con Weezie», raccontò mentre si trovavano a
metà del lato del parco che dava su Drayton Street.
«Dove?».
«A casa di Merijoy e Randy Rucker, per una riunione del club delle
cenette. La mamma e io abbiamo conosciuto Weezie e il suo amico».
«Quale amico?», volle sapere James.
«Si chiama Daniel Stipanek. Sembravano molto presi l'uno dall'altra. Una
gran bella coppia, è stata l'opinione generale».
«È la prima volta che sento parlare di un uomo ma mi fa piacere. Weezie
deve andare avanti con la sua vita. Che tipo è lui?».
«Carino», rispose Jonathan. «È lo chef del Guale, il ristorante dell'amica
di Weezie, BeBe. Parla bene, è intelligente e», sogghignò, «non riusciva a
levarle le mani di dosso. Se ne sono andati prima del dolce. Merijoy ha
avuto l'impressione che volessero rimanere soli».
«Non è possibile che si frequentino da molto. Weezie non ha mai fatto
nemmeno un accenno a lui con me».
«Questo non significa niente. Noi due ci frequentiamo ormai da mesi
eppure lei non sa di me, vero?».
«No», ammise James. «Sa che mi vedo con qualcuno e ha detto di
esserne contenta, però non sa chi sei».
«Per il momento, credo sia meglio che le cose restino così», commentò
Jonathan. Rallentò di nuovo, mise le mani sui fianchi e si piegò in avanti.
«Andiamo a bere qualcosa», disse, indicando la fontanella accanto al
Confederate Memorial. «Ieri sera, a cena, c'è stata una conversazione
interessante su Caroline DeSantos», spiegò poi. «Ben poco lusinghiera».
«È stato detto qualcosa di utile – utile per Weezie, voglio dire?».
«Forse». Jonathan gli parlò delle agenti immobiliari che avevano
mostrato la casa di Gaston Street a Caroline e del suo amico misterioso.
«Sai che non posso essere coinvolto in niente di tutto questo. Ho già
spiegato al procuratore che ho un conflitto di interessi. Ma ti consiglio di
parlare con Weezie il prima possibile; fatti riferire la storia che Anna ed
Emily Flanders ci hanno raccontato».
«E poi? Credi che dovrei parlare con il proprietario della casa di Gaston
Street?».
«Sì. Vedi se riesci a ottenere una descrizione più dettagliata di questo
uomo misterioso. E scopri che tipo di auto guidava».
James annuì. «Ho provato a pensare al motivo per il quale Caroline
potrebbe essere stata uccisa. Se non le ha sparato Weezie, chi è stato?».
«È quello che vogliono scoprire anche i poliziotti», replicò Jonathan. «E
a proposito, ho sentito dire che sei stato promosso al rango di santo dal
detective Bradley».
James minimizzò con un gesto. «Non ho fatto altro che cercare di
rinfrescarlo e chiamare l'ambulanza. Non è niente di speciale, davvero».
«Lo è per Jay Bradley», ribatté Jonathan. «Non sottovalutare l'importanza
della cosa: il detective a capo delle indagini è convinto di essere in debito
con te. Questo può solo aiutare la causa di Weezie».
James tornò sulla bicicletta. «Se servirà ad aiutare Weezie, credo di poter
lasciare che Jay Bradley pensi di dovermi qualcosa».
«Cos'hai intenzione di fare adesso?», chiese Jonathan.
«Adesso? Andrò a casa e farò una lunga doccia, poi crollerò sul divano.
Dopo di che darò un'occhiata al testamento di Ann Ruby».
«Te ne sei procurato una copia? Così presto? Come ci sei riuscito?».
«Semplice», disse James, compiaciuto. «Una delle impiegate dell'ufficio
omologazioni era una mia parrocchiana qui. Ho battezzato il suo primo
figlio».
«Ottimo», commentò Jonathan. «Credo che tu stia finalmente
cominciando a capire come funzionano le cose qui a Savannah».

James si passò un pettine tra i capelli bagnati. Erano ancora folti e


robusti, ma l'intenso color fulvo della sua gioventù era solo un ricordo,
ormai. Adesso c'era più grigio che rosso. Con gli occhiali sembrava ciò che
era: un avvocato di mezza età che si avvicinava rapidamente alla sessantina.
Andò nel suo studio e prese il fascicolo contenente il testamento
Mullinax.
Era una lettura impegnativa. James aveva studiato testamenti e atti di
proprietà... Quando? Venticinque anni prima. Quando si era iscritto alla
facoltà di legge dopo il seminario non aveva mai avuto realmente
intenzione di dedicarsi all'avvocatura. Si era specializzato in diritto
canonico, anche se come sacerdote di una parrocchia non aveva avuto molte
occasioni di sfruttare quelle competenze.
Dopo un'ora mise da parte il testamento. Apparentemente era un
documento chiaro, convalidato solo due mesi prima. La signorina Mullinax,
non avendo parenti ancora in vita, lasciava il grosso delle sue proprietà a un
ente non profit chiamato Fondazione Willis J. Mullinax. Stabiliva inoltre
che la sua tenuta, la piantagione di Beaulieu, venisse venduta insieme al suo
intero contenuto e che il ricavato andasse alla fondazione. Il documento
nominava Gerry Blankenship esecutore testamentario e al contempo
presidente della Fondazione Mullinax.
Strano, pensò James, ma non propriamente illegale. Aveva esaminato
anche gli atti costitutivi della Fondazione Mullinax, i cui scopi sembravano
estremamente vaghi. Benché gli atti stabilissero che i fondi dell'ente
dovevano servire "per fornire formazione professionale e assistenza da parte
delle persone più significative della comunità ai ragazzi e ai giovani adulti
del luogo", non fornivano indicazioni su come ciò dovesse essere fatto.
La vendita di Beaulieu alla Coastal Paper Products avrebbe dovuto
portare alla fondazione entrate per diversi milioni di dollari, James lo
sapeva. Ma in che modo quel denaro sarebbe stato usato per la formazione
professionale?
Quello che non trovava né strano né vago era l'indicazione che l'ente
dovesse essere gestito dal suo presidente, Gerald Blankenship, che avrebbe
ricevuto uno stipendio "proporzionato ai suoi doveri e responsabilità".
In altre parole, Blankenship poteva fare razzia a suo piacimento nei
forzieri della fondazione. Mica male come lavoro, pensò James.
Quando finì di leggere il fascicolo, guardò gli appunti che aveva
scribacchiato sulla pagina di un blocco di carta gialla.
Doveva fare altre ricerche. Voleva scoprire dove era stata stipulata la
vendita alla Coastal Paper Products e a quale prezzo.
Aveva anche annotato i nomi delle persone che avevano fatto da
testimoni per il testamento. Grady e Juanita Traylor. Quei nomi gli erano
familiari – ma perché?
Scarabocchiò sul blocco per appunti, disegnando frecce, punti e persino il
campanile di una chiesa, nella speranza che questo riuscisse a liberare il suo
subconscio.
Il telefono squillò. Alzò la cornetta.
«James?». Era sua cognata, Marian. Aveva il fiato corto, un tono eccitato.
«Ciao, Marian», rispose lui, disegnando una bottiglia di whisky. «Come
stai?».
«Sono stata benedetta, James. Davvero».
«Che bella cosa», ribatté lui. Marian era sempre stata una specie di
fanatica religiosa. «Così pochi di noi si soffermano a pensare a come siamo
fortunati».
«No, James, non fortunata. Benedetta. Ho avuto una visione».
Lui posò la penna.
«Che tipo di visione? Dove sei, Marian?».
«A casa di mia cugina Lucy. È morta la settimana scorsa, sai».
«Che Dio accolga la sua anima», disse automaticamente James. «La
conoscevo?». La famiglia di Marian, i Brennan, era un gigantesco e caotico
garbuglio di zie, zii, cugini e via dicendo. La stessa Marian aveva dieci
fratelli e sorelle.
«Lucy Sullivan McKuen, si chiamava. Mia cugina da parte di madre»,
spiegò Marian. «Te la ricordi sicuramente. Era la rappresentante dell'Avon».
«Oh, sì». Lui aveva un armadietto pieno di pozioni maleodoranti che
l'anziana signora lo aveva costretto a comprare. Una persona orribile, con
cipria rosa sulle guance e ombretto verde sulle palpebre.
«Sono venuta a casa di Lucy, qui a Thunderbolt, per sistemarla», spiegò
Marian, «prima che venga messa in vendita. Lucy era signorina, sai, quindi
saranno i cugini a ereditare».
Lui aveva ricominciato a scarabocchiare. «Ah. Sì. Che bello».
«James, Lucy teneva questa statuetta nell'ingresso, in una piccola nicchia
proprio accanto al telefono. Il Bambin Gesù di Praga. Stavo spazzando lì
accanto e l'ho fatta inavvertitamente cadere sul pavimento».
James fece schioccare la lingua. «Sono sicuro che è stato un incidente.
Ho sentito dire che hanno statuine molto graziose nel negozietto della
chiesa di St. Joseph».
«Non si è rotta», sussurrò lei.
«Grazie al cielo», ribatté suo cognato. Cominciò a disegnare il Bambin
Gesù di Praga, che ricordava come un bimbo dalle guance paffute con una
lunga veste e un alto colletto simile a un soggolo – e l'aureola,
naturalmente. Cercò di rammentare la leggenda che lo riguardava. Sapeva
che era considerato una sorta di mascotte della famiglia dai cattolici più
conservatori. Le sue due sorelle tenevano in casa una statuetta che lo
raffigurava, e sua madre ne aveva messa una bene in vista sul davanzale
della cucina – in quella stessa casa. Quando aveva preso possesso
dell'abitazione, lui aveva tolto la maggior parte dei ninnoli materni, ma per
qualche motivo non se l'era sentita di spostare la statuina.
«James», stava dicendo Marian, «ho posato il Bambin Gesù sul piano di
lavoro della cucina per poterlo pulire. Lucy non era certo un granché come
massaia, che Dio l'abbia in gloria. Poi, dopo averla pulita e asciugata, ho
rimesso la statuina nella sua nicchia all'ingresso. Ho continuato a pulire e
riordinare e dieci minuti dopo sono tornata nell'ingresso. Ho dato
un'occhiata al Bambin Gesù e ho visto che stava piangendo. Il Bambino ha
pianto!».
«Mio Dio». James non sapeva cosa dire.
«È un miracolo, non credi? Mi sono subito inginocchiata lì nell'ingresso.
Be', prima ho passato l'aspirapolvere. È davvero sconvolgente quanto fosse
sporca quella casa. Ma dopo aver passato l'aspirapolvere mi sono
inginocchiata e ho recitato due decine del rosario. Ho fatto la cosa giusta,
James?».
Lui si era messo a disegnare più rapidamente. Adesso stava ritraendo
Marian, un rosario e un crocifisso intorno alla bottiglia di whisky. Marian
era segretamente alcolizzata sin da quando la conosceva, ma le visioni
rappresentavano un nuovo sviluppo.
«Be', Marian», disse infine, «sono sicuro che non faccia mai male
trascorrere qualche minuto tranquillamente, immersi nella preghiera e nella
riflessione».
«So perché il Bambin Gesù stava piangendo, ecco perché ti ho chiamato.
Piange per i peccati».
James posò di nuovo la penna. Quanto whisky aveva bevuto Marian? E
quanto sapeva della sua vita privata? Lui era stato così discreto, così
prudente.
«Quali peccati? Perché il Bambin Gesù sta piangendo?».
«Weezie. Sta piangendo per Weezie».
«E quale peccato avrebbe commesso Weezie?». Era genuinamente
perplesso. Sua nipote e Marian non erano mai state molto legate. Marian
non capiva la figlia ma lui sapeva che le voleva molto bene.
«Il divorzio, naturalmente», rispose Marian. «La Chiesa non riconosce il
divorzio. È un abominio. E cosa mi dici della donna che ha ucciso? Ecco
perché il Bambin Gesù piange».
«Marian», replicò severamente lui, «Weezie non ha ucciso quella donna.
Tua figlia è una persona gentile, affettuosa. Non è una peccatrice. Non è
stata lei a volere il divorzio. Era Tal l'adultero, non lei».
«No. Il Bambin Gesù vuole che Weezie si penta. Ho pregato un'ora per
questo, James, ed è questo che lui vuole. Parla con lei, ti prego. Si fida di te.
Sei il suo padrino. Ti ascolterà. Sei un prete».
«Non sono più un prete, Marian», la corresse lui. «E non posso chiederle
di pentirsi di un peccato che non ha commesso».
«Allora dovrò semplicemente continuare a pregare», dichiarò lei, serena.
E riagganciò.
34

«Weezie? Alza la cornetta, Eloise. So che sei in casa».


Misi da parte i candelabri d'argento che stavo lucidando e ubbidii. Era da
sabato pomeriggio che la mamma lasciava messaggi.
In mia difesa posso dire che ero stata impegnata a risistemare i tesori
trovati nella rimessa per gli attrezzi.
Una telefonata a un commerciante di valigeria vintage a Dania, Florida,
mi aveva fruttato duecento dollari per i tre articoli in pelle di coccodrillo.
Anche le tende di tela blu e bianca mi avevano portato un apprezzabile
guadagno; erano francesi, di squisita fattura, con fodere e frange di seta. In
tutto c'erano otto tende e quattro coprimantovane sagomati. Mallery David,
un antiquario di alto livello che ha un negozio sulla Whitaker Street, mi
aveva dato cinquecento dollari per tutti i pezzi.
«Eloise!», ripeté bruscamente la mamma.
«Sissignora», dissi, sollevando la cornetta. «Stavo giusto per chiamarti.
Come sta papà?».
«Benissimo. Tuo zio James ti ha parlato?».
«Di cosa?».
«Della penitenza», rispose lei. «Per i tuoi peccati. Gli ho chiesto di
parlarti ma immagino che lui abbia scelto di chiudere un occhio sulle tue
mancanze».
Oh–oh. Era domenica ed erano soltanto le undici del mattino. Si era
attaccata alla bottiglia di whisky così presto?
«Mamma, mi dispiace per tutti i miei peccati», dichiarai. «E prometto di
telefonarti più spesso. D'accordo? Parleremo presto. Ti voglio bene».
Schioccai dei baci nel ricevitore e riagganciai.
Mi richiamò immediatamente. «Eloise, non avevo finito di parlare con te.
Papà e io vogliamo che tu venga a pranzo qui. Sto preparando il tuo brasato
preferito».
Riuscii a stento a trattenere un involontario conato di vomito. Mia madre
aveva trovato la ricetta sul retro di una scatola di zuppa di cipolle
liofilizzata. A dire il vero avevo assaggiato il brasato cucinato in quel modo
a casa di altre persone e mi era piaciuto, ma nelle sue mani la carne
diventava asciutta come segatura e aveva un bizzarro retrogusto sulfureo.
«Non penso di riuscire a farcela, oggi», spiegai. «Ho molto lavoro. Ieri
ho comprato l'intero contenuto di un ripostiglio e devo sistemare tutto per
poterlo rivendere».
«Puoi rimetterti al lavoro dopo pranzo», dichiarò lei, come se questo
sistemasse tutto. «E dopo mangiato puoi venire a casa della cugina Lucy per
decidere cosa vuoi comprare. I cugini sono d'accordo che sia tu a scegliere
per prima. Non è carino?».
«Grandioso».
«Ti aspettiamo all'una. Non fare tardi. Non voglio che il brasato si
asciughi».
Riagganciai. Non avrei mai voluto che quell'arrosto squisito si rovinasse.
Blah.
Finii di lucidare i candelabri. Erano d'argento, con il piedistallo quadrato
e a tre braccia, probabilmente risalenti agli anni Venti. L'argento si vende
benissimo a Savannah e conoscevo un paio di commercianti che sarebbero
stati felici di pagare centocinquanta dollari per la coppia.
C'erano alcuni altri oggetti d'argento che avevano bisogno di una
lucidata, ma avrebbero dovuto aspettare. Adesso dovevo darmi una ripulita
per rispondere alla convocazione a casa dei miei.
Prima, però, chiamai zio James.
«Mi sembra di capire che mia madre voglia che tu mi esorti a pentirmi
dei miei peccati».
«Oh, accidenti. Ti ha parlato, eh?».
«In un certo senso l'ho evitata per giorni, ma mi ha incastrato un attimo
fa. Fra poco devo andare a pranzo da lei. Ho pensato che forse avresti
potuto spiegarmi cosa sta succedendo. La mamma sembrava davvero
strana».
Lui scoppiò a ridere.
«No, più strana del solito», specificai. «Cos'è questa faccenda dei
peccati? Sapevo che stava frequentando quella chiesa del karaoke, ma
questo è un atteggiamento del tutto nuovo».
«Sta avendo delle visioni», spiegò James. «A casa di tua cugina Lucy. C'è
una statua del Bambin Gesù di Praga. Tua madre dice che sta versando vere
lacrime. Così lei ha pregato e il Bambin Gesù le ha detto che sta piangendo
per te. A causa dei tuoi peccati. Sai, il divorzio e l'omicidio».
Provai un senso di nausea. «Mia madre crede che io sia capace di
uccidere qualcuno?».
«Forse dipende dalla menopausa», ipotizzò James.
«Quella l'ha passata secoli fa, ricordi? Quando si è tinta i capelli di nero e
ha comprato quella Subaru».
«Be', le sta succedendo qualcosa di strano. È una statua di gesso che le
sta dicendo quelle cose, se questo può farti sentire meglio».
«Forse è il caso che io provi a calmarla. Immagino che tu non voglia
unirti a noi per un delizioso pranzetto di famiglia, vero?».
«Diamine, mi piacerebbe, ma il mio stomaco sta facendo le bizze».
«C'è il brasato», dissi.
«Sento che mi sta venendo un crampo».
«Vigliacco».

Mamma aveva apparecchiato il tavolo della sala da pranzo con il suo


migliore servizio da microonde. Il brasato aveva un profumo delizioso,
accompagnato da piselli in scatola e da un acquoso purè istantaneo.
Recitammo la preghiera di ringraziamento e papà cominciò
coraggiosamente a tagliare la carne con un coltello trinciante, per poi
depositare sul mio piatto due fette asciutte come cenere.
«Salsa?». La mamma mi passò la salsiera. Versai una cucchiaiata di
brodaglia dall'aria unta sulla mia carne, sperando di ammorbidirla
abbastanza per riuscire a masticarla.
Mamma e papà si scambiarono un'occhiata. Capii che ero nei guai.
«Ehm, Eloise...», disse papà.
«Joseph, diglielo», lo sollecitò la mamma.
Mio padre fissò il proprio piatto. «Mi stavo chiedendo... ehm, che tipo di
pneumatici hai sul tuo pick–up?».
«Pneumatici?». Non sapevo cosa rispondere. «Non lo so. Rotondi. Neri.
Di gomma, credo. Usano ancora la gomma per fare i pneumatici?».
«Diavolo, no», rispose papà. «Ormai è tutto sintetico. Arrivano da chissà
dove. Cina o Corea o qualche altro posto del genere. Ho notato che i tuoi
sembrano piuttosto lisci. Quello che ti ci vuole è un bel set di pneumatici a
struttura radiale e cinturati d'acciaio. Prodotti in America».
«Okay», dissi. Forse il pranzo non sarebbe stato così disastroso, forse ci
saremmo limitati a parlare di gomme. «Credo sia arrivato il momento di
cambiarli, ora che me lo fai notare».
«Joseph!», esclamò bruscamente la mamma.
«Ehm, ne parleremo più tardi», disse papà. «Al momento tua madre è
molto preoccupata. Ehm, quando è stata l'ultima volta che sei andata in
chiesa?».
Sapevano entrambi che l'unica occasione in cui ci vado è insieme a loro,
per assistere alla messa di mezzanotte. Decisi di troncare la discussione sul
nascere.
«Cos'è questa storia, comunque?», chiesi, guardando direttamente la
mamma. «Zio James ha detto che stai avendo delle visioni. È vero?».
«Il Bambin Gesù di Praga sta piangendo. Per i tuoi peccati», dichiarò lei.
«Una statua? Una statua pensa che io abbia commesso un omicidio?
Mamma, è impossibile».
«Non è impossibile», scattò lei. «Non per un credente. Ora finisci di
mangiare. Andremo a casa di Lucy così potrai vedere con i tuoi occhi».
«Non l'ho uccisa io», dissi, allungando una mano verso un panino. Quelli,
almeno, erano sicuramente commestibili, visto che erano usciti da una
confezione.
Mangiammo in silenzio. La mano della mamma era posata quietamente
sul suo bicchiere di tè freddo. Andò due volte in cucina per riempirlo. Il suo
sguardo era estremamente vitreo.
«Sparecchio io», dissi, alzandomi di scatto dopo aver fatto girare il cibo
nel piatto abbastanza a lungo.
La mamma alzò gli occhi, stupita.
«La domenica è sempre tuo padre a lavare i piatti».
«Non oggi», annunciai. «Voi due andate di là a rilassarvi. Io laverò i
piatti in un battibaleno, poi possiamo andare a fare un giro a casa di Lucy».
Dopo aver sentito accendersi il televisore chiusi la porta della cucina e mi
misi al lavoro. Sciacquare i piatti, infilarli nella lavastoviglie e pulire il
tavolo e i fornelli richiese solo pochi minuti.
Ispezionai gli armadi uno a uno, e anche i cassetti. Alla fine trovai la
bottiglia di whisky in fondo alla cesta di panni da stirare. Rovesciai quasi
tutto il contenuto nel lavandino, lasciandone circa un dito sul fondo della
bottiglia, poi aggiunsi acqua finché il liquido tornò al livello che aveva
prima e infine cercai qualcosa per renderlo del colore giusto.
La vanillina gli avrebbe dato l'odore sbagliato. La polverina liofilizzata
per la salsa era sul tavolo, ma avrebbe conferito un gusto strano al liquore.
Poi notai la caraffa di tè freddo. Perfetto. Lo aggiunsi all'acqua. Era
assolutamente identico al whisky.
«Tutto fatto», annunciai, fermandomi sulla soglia della stanza in cui si
trovavano i miei genitori.

La casa della cugina Lucy era un lindo cubo di mattoni situato in una
stretta stradina di Thunderbolt. Un tempo Thunderbolt era un villaggio di
pescatori sulla riva del fiume Wilmington; negli anni Ottanta, però, i
gamberetti scomparvero quasi completamente, e adesso è solo un sobborgo
di Savannah.
La mamma aprì la porta d'ingresso chiusa a chiave. Entrai e per poco non
svenni. La casa puzzava come il fondo di un portacenere.
«Bleah!», esclamai, facendomi vento con una mano. «Ora capisco perché
la statuina sta piangendo».
«Non essere blasfema. Lasciami solo arieggiare un po' la stanza», disse la
mamma, aprendo tende e finestre.
L'aria fresca migliorò la situazione, ma non di molto. Mi guardai intorno
nel soggiorno. Tutto era di un giallo opaco: pareti, pavimenti, tende, persino
la moquette logora e macchiata. Ogni cosa era rivestita da una sottile patina
color nicotina.
«Non è grazioso?», chiese mia madre, passando le mani sul bracciolo di
un divano. «La cugina Lucy ha speso parecchio per questi mobili, sai».
Il divano, un modello troppo imbottito e con i braccioli rotondi, risaliva
agli anni Quaranta ed era rivestito di tessuto marrone felpato. C'erano anche
due poltrone coordinate. In un'altra casa me ne sarei impadronita al volo,
ma questi avevano quella disgustosa patina giallastra causata dal tabacco.
Per poterli utilizzare sarebbe stato necessario togliere la stoffa e
ritappezzarli completamente. Un'operazione tutt'altro che economica.
«Guarda questa sala da pranzo», disse la mamma, oltrepassando la soglia
ad arco che portava nella stanza accanto. Erano dei bei mobili in mogano,
realizzati nel Michigan e risalenti anch'essi agli anni Quaranta: tavolo, sei
sedie, un buffet e una vetrinetta per le porcellane. Vedevo mobili del genere
a una vendita su due, a Savannah.
«Sono veri pezzi di antiquariato», spiegò lei. «Pensavamo di poterne
ricavare un migliaio di dollari. Un vero affare, vero?».
«Molto carina», commentai, cercando di essere evasiva. Con il passare
del tempo la vernice su tutti i mobili si era annerita e probabilmente sarebbe
stato necessario rimuoverla. Ancora una volta, non molto conveniente.
«Le camere sono da questa parte», annunciò la mamma. La seguii
nell'ingresso. Lei si fermò davanti a una piccola nicchia nella parete e cadde
in ginocchio.
«È il Bambin Gesù di Praga», sussurrò, indicando la nicchia.
Il Bambin Gesù di Praga era identico a tutte le altre statuine che avevo
visto in pressoché tutte le case di piccole e anziane signore cattoliche in cui
fossi mai entrata. Gesso dipinto, con un'espressione perplessa sul viso. Ma
niente lacrime, a quanto potevo vedere.
«Non vedo niente», dichiarai.
«Perché lui sa che non sei credente».
«Se lo dici tu».
Infilai la testa in quella che doveva essere stata la camera da letto
padronale. Conteneva il solito assortimento di quadri, targhe e santini
religiosi. Il mobilio non era male. Il letto di Lucy era un pezzo vittoriano,
intagliato e con la testiera alta; c'erano anche un tavolino da toeletta di
quercia coordinato, bombato e dotato di uno specchio, un treppiede con una
bacinella per lavarsi e un comodino. Il puzzo di sigaretta, tuttavia, mi
costrinse a tornare nell'ingresso.
«Dobbiamo far entrare un po' d'aria», dissi, tossendo.
Riuscimmo ad aprire alcune finestre, e in un armadio trovai un piccolo
ventilatore che sistemai nell'ingresso per creare un po' di corrente.
La mamma si fermò sulla soglia della camera di Lucy. «Questa roba di
quercia è scadente, lo so, ma credo che sia stata la madre di Lucy a
lasciargliela in eredità».
La camera "degli ospiti" conteneva un set di mobili di mogano tutti
graffiati costituito da due letti a baldacchino gemelli, un canterano, un
mobiletto basso a cassetti, un tavolino da toeletta e due comodini. Risaliva
alla stessa epoca della sala da pranzo: mobilio marrone robusto, solido,
rispettabile e noioso.
I copriletti erano di ciniglia rosa, con grandi medaglioni raffiguranti delle
rose. Se mai fossi riuscita a eliminare il tanfo di sigarette, avrei potuto
venderli su Internet per un centinaio di dollari.
«Allora?».
«Lasciamici pensare».
La sua espressione si fece triste. «Ho detto ai cugini che probabilmente
avresti comprato tutto».
«Lo so», dissi in tono di scusa, «ma ho fatto un grosso acquisto di merce
proprio ieri. Tutto il mio denaro è investito in quella e finché non la rivendo
non ho contanti da spendere».
«Potremmo aspettare».
«No. Sai cosa ti dico? Prenderò il contenuto delle due camere da letto.
Trecento dollari sarebbero sufficienti?».
«Per quella roba scadente? Ma cosa mi dici di quella bellissima sala da
pranzo in mogano? Preferiresti sicuramente prendere quella. È vero
mogano, sai».
«È splendida», mentii, «ma non ho posto in cui sistemarla. Credo che tu e
i cugini dovreste organizzare una vendita. Non sarebbe carino?».
«Immagino di sì», rispose, con una leggera esitazione.
«Bene», replicai, prendendo la borsa. «Se mi dai la chiave tornerò qui
dopo averti riportata a casa e caricherò i mobili delle camere sul pick–up».
«Non puoi sollevare quella roba pesante. E sai com'è ridotta la schiena di
tuo padre».
«Mi troverò un aiutante», dissi. E avevo un'idea piuttosto precisa del tipo
di aiutante che mi serviva. Estrassi il libretto degli assegni. «A chi devo
intestare l'assegno?».
La mamma strinse le labbra. «Be', i cugini hanno detto che preferirebbero
dei contanti. Sai, visto che sei stata arrestata e tutto il resto».
35

Avevo davvero bisogno d'aiuto per spostare tutti quei mobili così pesanti,
mi dissi mentre percorrevo il ponte che portava a Tybee. Girai intorno a
casa sua due volte. Il suo pick–up era lì.
Era il suo giorno libero. Un aiuto per sollevare oggetti pesanti, mi dissi,
non volevo altro.
Certo.
Bussai ma non ebbi risposta. All'interno dell'abitazione sentii il suono
stridente di una sega elettrica. Torna a casa, mi dissi. Chiama Karl. Karl è il
mio factotum. Sbriga lavoretti di vario genere per me, per esempio spostare
mobili. Ha cinquant'anni, è calvo, e non crede nei deodoranti. Ma possiede
un carrellino e una rampa per il suo pick–up. Chiama Karl, mi dissi,
aprendo la porta di Daniel e scavalcando una catasta di legname.
Ma lui era girato di schiena, senza maglietta; era chino sopra un'asse
appoggiata su un cavalletto, sulla quale stava passando con movimento
fluido una sega elettrica. I muscoli delle sue spalle guizzavano mentre
lavorava, e io mi dimenticai all'istante di Karl.
Era sudato e mezzo nudo. La cintola dei jeans gli arrivava giusto ai
fianchi, e vidi la fascia elastica dei suoi boxer. Mi chiesi da quando in qua
trovavo eccitante la biancheria intima di un uomo e mi risposi che era da
quel preciso istante.
«Daniel!», gridai.
Lui finì di tagliare l'asse, la cui estremità cadde rumorosamente sul
pavimento di linoleum.
«Daniel!», chiamai di nuovo. Si voltò, sempre stringendo la sega. Sgranò
gli occhi per lo stupore. Spense la sega.
«Ciao», disse. «Cosa ci fai qui?».
Ottima domanda. Cosa ci facevo lì? Aveva della segatura tra la peluria sul
torace. Avrei voluto toglierla. Cominciare da lì. No. Male. Malissimo.
Chiusi gli occhi nel tentativo di liberarmi dell'immagine di noi due che
rotolavano su un letto di segatura.
«Io... ehm...». La voce mi uscì stridula, come quella di Minnie che avesse
appena inalato dell'elio. «Avrei bisogno di una specie di favore».
Lui posò la sega sul pavimento, prese la maglietta posata sulla spalliera
di una sedia e se la infilò. Bene. Molto meglio. Riuscivo a pensare più
lucidamente senza vedere il suo torace, per non parlare della pancia piatta
come un'asse.
«Davvero?», chiese con disinvoltura. «Che genere di favore?».
Raggiunse un frigo rosso e prese una bottiglia di birra. La sollevò verso
di me. «Vuoi una birra?».
Sì. Una birra. L'ideale per risolvere i problemi di voce. No. Avevo un
lavoro da sbrigare.
«No, grazie», risposi. «Ho appena comprato un carico di mobili e volevo
portarli via dalla casa in cui si trovano. È qui vicino, a Thunderbolt».
«A Thunderbolt», ripeté lui.
«La persona che di solito mi aiuta a spostare la roba è fuori città»,
spiegai. Tecnicamente non era una bugia, visto che tecnicamente Karl abita
a Port Wentworth che, tecnicamente parlando, è un paesino a sé stante e non
una parte in Savannah, quindi è di fatto fuori città.
«I mobili sono a casa della cugina di mia madre. Immagino che questo la
renda anche mia cugina», continuai. «È morta la settimana scorsa, e sto
comprando una parte del suo mobilio, una specie di favore a mia madre. Ma
ho bisogno di portarlo via in modo che si possa preparare la casa per
metterla in vendita».
Daniel bevve un sorso di birra. Si sedette sul bordo del cavalletto. «E
quando si pensa al lavoro manuale, viene subito in mente il buon vecchio
Daniel».
Mi accigliai. «No. Be', sì. Voglio dire che sei forte. Ti tieni in esercizio.
Non posso spostare i cassettoni da sola. Sono grossi e pesanti. Per non
parlare dei letti».
Letti. Gemetti dentro di me. Stupida. Stavo diventando rossa come un
pomodoro.
«Letti, eh?», ribatté lui. «Perché non chiedi al tuo ex marito di darti una
mano con quelli? Dà proprio l'impressione di saperci fare».
«Volevo parlarti di questo», dichiarai, senza sollevare lo sguardo. «Voglio
chiederti scusa. Non è come credi. Era ubriaco. Non l'avevo mai visto così».
«Cosa voleva?», chiese Daniel in tono disinvolto. Niente di importante.
«Compassione», risposi. «Voleva dirmi che con Caroline le cose non
avevano funzionato. Voleva dirmi che gli manco».
Alzai gli occhi verso di lui, sperando in un barlume di comprensione. Si
limitò ad annuire, come se quella fosse una storia che aveva già sentito.
«In realtà», aggiunsi, correggendo quanto avevo appena detto, «credo
abbia dimostrato chiaramente che non sono io a mancargli quanto piuttosto
la mia cucina. E le mie tazze da caffè».
«Tazze da caffè?».
«Tal è il prototipo del WASP», spiegai. «Estremamente represso. Sua
madre gli compra ancora la maggior parte dei vestiti».
«Non è solo la tua cucina a mancargli», commentò Daniel, osservandomi.
«È ancora innamorato di te».
«Credi?».
«Ieri notte stava praticamente ululando alla luna».
«Ha mangiato la mia Seduzione al cioccolato e ha rovesciato il vino sulla
moquette. Ho temuto che mi vomitasse sul divano. L'ho buttato fuori a
calci».
«Questa volta», replicò Daniel. Bevve un altro lungo sorso di birra.
«Cosa vorresti dire?».
«L'hai buttato fuori perché era ubriaco e dava spettacolo ma se si
presentasse alla tua porta perfettamente sobrio, tutto pulito e in ordine,
sarebbe tutta un'altra storia. Torneresti di corsa tra le sue braccia».
«No», dichiarai, alzando il mento. «È finita. Non sono più innamorata di
lui. Ecco cosa stavo cercando di dimostrarti ieri sera. Sul divano».
Daniel sospirò. «Stavi cercando di dimostrarlo a me o a lui? Stavi
cercando di far ingelosire il tuo ex marito perché capisse che cosa si stava
lasciando sfuggire? Sapevi sicuramente che avrebbe visto il mio pick–up
parcheggiato là fuori. Diavolo, probabilmente ci stava spiando dalle
finestre. È una cosa che ti eccita?».
«No», gridai. «Dio, è questo che pensi di me? Pensi che io stia giocando
con te?».
Lui incrociò le braccia. «Dimmelo tu. Un attimo prima mi dici di non
toccarti né guardarti e subito dopo torni da me coperta solo da un
accappatoio».
«Era un kimono», precisai. «E mi copriva dal collo alle caviglie».
«Sotto eri nuda», ribatté bruscamente lui. «Quando si parla di messaggi
contraddittori...».
«Okay», dissi, ricacciando indietro le lacrime, determinata a non
piagnucolare davanti a lui. «Non importa. Se pensi che voglia solo
provocarti, che stia giocando con te, non importa. Ora vado. Scusa se ti ho
offeso».
Mi voltai per andarmene, decisamente e con dignità.
«Merda», gli sentii mormorare. «Mi stai facendo impazzire, lo sai?», mi
gridò dietro. «Mi trasferisco di nuovo a Savannah, convinto di poter
condurre una vita piacevole e priva di complicazioni. Cucinare un po',
pescare un po', ristrutturare la casa sulla spiaggia, magari andare a letto con
un paio di cameriere. Un'esistenza piacevole, tranquilla e semplice. Poi
arrivi tu e mandi tutto all'aria».
«Ti chiedo scusa per il disturbo», dissi, senza curarmi di voltarmi, la
mano posata sulla porta d'ingresso.
«Aspetta un attimo», replicò. «Lasciami solo chiudere casa e ti aiuterò
con i tuoi dannati mobili. Ma non intendo spostare pianoforti e non porto
niente fino al secondo piano. Chiaro?».
Tirai su con il naso. «Chiaro».
36

«Caspita», disse Daniel quando entrò nel soggiorno della cugina Lucy.
«Ti avevo avvisato».
Si guardò intorno nella stanza, passò un dito su un tavolino coperto da
una patina di nicotina. «Pensa solo all'aspetto che devono aver avuto i
polmoni di quella donna», commentò in tono stupito. «Quanti anni aveva
quando è morta?».
«Novantatré», risposi. «Probabilmente il catrame era l'unica cosa che la
teneva in vita». Indicai il corridoio. «Le camere sono da quella parte».
Lui infilò la testa nella camera degli ospiti. «Cominciamo da qui?».
«Perché no?».
Tolsi i copriletti di ciniglia dai due letti, seguiti dalle lenzuola e dal resto
della biancheria.
«Sembra quasi che qui viva qualcuno», commentò Daniel, indicando
l'anta dell'armadio aperta.
Una fila di camicette e calzoni era appesa ordinatamente alla sbarra.
«Ehi», dissi, estraendo una camicetta rosa a fiori che conoscevo bene,
«questa è di mia madre».
Presi un cuscino e lo annusai. Lacca per i capelli e whisky. L'aroma che
costituiva il marchio di fabbrica di Marian Foley.
«Che io sia dannata», aggiunsi. «Sta dormendo in questo letto».
«E con ciò?».
«Mi chiedo come mai non me lo abbia detto».
«Forse è stata qui quando tua cugina era malata», suggerì Daniel.
«Immagino di sì», dissi, aggirandomi per la stanza, cercando altre tracce
di chi aveva occupato quella stanza. I cassetti del comò erano vuoti. Entrai
nel bagno rivestito di piastrelle rosa e grigie e aprii l'armadietto dei
medicinali.
Fu come aprire la porta di una macchina del tempo. C'era una confezione
di cipria. Un tubetto di rossetto, un flacone blu notte di colonia. Pillole. Un
flacone di "Tonico Femminile". Sciroppo per la tosse, una bottiglietta
marrone di tintura di merthiolate. L'unico oggetto presente nell'armadietto
che non sembrasse risalire all'amministrazione Eisenhower era un
flaconcino di plastica quadrato pieno di pillole posato sull'ultima mensolina.
Lo presi e lessi l'etichetta. "Lucy McKuen. Prendere una pastiglia in caso
di ansia. Xanax". Il flaconcino era pieno per metà.
La statuina del Bambin Gesù di Praga era nella sua nicchia all' ingresso,
accanto al tavolino del telefono. Non stava piangendo, ma ebbi la netta
impressione che mi strizzasse l'occhio.
Andai in cucina. La mamma aveva cominciato a sistemarla. Gli armadi
erano stati parzialmente svuotati e gli scatoloni posati sul tavolo
traboccavano di pentole, padelle e utensili da cucina di vario genere.
Rovistai in mobili e cassetti e trovai la bottiglia di whisky nello stipetto che
conteneva l'asse da stiro estraibile. Almeno la mamma era costante.
«Weezie?». Daniel era fermo sulla soglia, stringendo la testiera di uno dei
letti della camera degli ospiti. «Che succede?».
Gli mostrai la bottiglia e lo Xanax. «Mia madre ha delle visioni. Dice che
la statuina nell'ingresso piange vere lacrime e le sta facendo delle
rivelazioni. Ora credo di capire».
Lui prese il flaconcino e lesse l'etichetta. «Xanax. Tranquillanti?».
«Esatto. Tranquillanti molto forti. La prescrizione è stata fatta venerdì,
stando all'etichetta».
«E con ciò?».
«La cugina Lucy è morta mercoledì scorso», spiegai.
«Inoltre, secondo l'etichetta, in origine questo flacone conteneva trenta
pillole ma ora non ce ne sono così tante, dentro. È mezzo vuoto».
«Tua madre?». Un'espressione preoccupata gli attraversò il volto.
Annuii. «Sta prendendo i tranquillanti della cugina Lucy. E butta giù lo
Xanax con il whisky. Dormendo qui, per di più. Non ne avevo idea».
«Cos'hai intenzione di fare?».
«Non lo so», ammisi. «È un'alcolizzata sin da quando frequentavo il
liceo». Lo guardai e mi sentii travolgere dalla vergogna e dalla paura. Era la
prima volta che confessavo a qualcuno che la mamma beveva. «È un grande
segreto, sai», aggiunsi, con la voce incrinata. «Lei ha sempre in mano un
bicchiere di tè freddo, ma tutti sappiamo che in realtà non è affatto tè. È
molto astuta. Comincia a sorseggiare verso mezzogiorno, poi fa un lungo
sonnellino, dopo di che si sveglia e brucia la cena».
Sentii la mia voce farsi sempre più debole. «Povero papà. Ha dovuto
convivere con il problema per tutti questi anni, e non ha mai detto una sola
parola contro di lei. Io ne sono uscita quando avevo diciotto anni, quando
sono andata via di casa e ho sposato Tal. Lui invece è rimasto e ha
sopportato la mamma. Lei inizia a cucinare la cena, poi se ne scorda, e tutto
il cibo si rovina. Papà si limita a uscire per andare a prendere una pizza o
del cibo cinese. La sera di libertà della cuoca, la chiama, come fosse una
barzelletta».
Daniel mi cinse le spalle con un braccio. Come se fosse la cosa più
naturale del mondo. Mi diede una stretta consolatoria.
«Nessuno ha mai suggerito di farla aiutare da uno specialista?», chiese.
Riuscii a fare una risata strozzata. «Una volta è svenuta. Nel bel mezzo
della cena del Ringraziamento. È andata in cucina a prendere la salsa di
mirtilli e praticamente è stramazzata al suolo. Quella sera zio James e papà
hanno fatto una lunga, seria chiacchierata. E il giorno dopo mi hanno detto
che la mamma stava per entrare in ospedale. Per un imprecisato problema
femminile. Avevo solo quattordici o quindici anni, ma ho immaginato che si
trattasse di una sorta di centro di disintossicazione per alcolisti. Lei odiava
quel posto. Telefonava tutte le sere, piangendo e supplicando papà di
riportarla a casa. E dopo una settimana lui lo ha fatto».
«Era sobria?».
«Lo è stata per un paio di mesi», risposi. «Poi è ricomparso il bicchiere di
tè freddo».
Lui sollevò il flaconcino di pillole verso la luce. «Probabilmente non è
una buona idea mescolare queste piccolette con l'alcol, vero?».
«Probabilmente no», confermai. «Grazie a Dio la mamma sta dormendo
qui, a quanto pare». Fui scossa da un brivido. «Non voglio nemmeno
pensare a quello che avrebbe potuto provocare cercando di tornare a casa in
auto dopo aver preso lo Xanax con un bicchierino di whisky».
«Non dovresti parlarne a tuo padre?», domandò Daniel. «È una faccenda
piuttosto seria, Weezie».
«Lo so, ma non posso parlargliene. Voglio bene a mio padre. È una
persona fantastica. Ma non parliamo dei problemi nella mia famiglia».
«Di cosa parlate?», chiese lui.
«Pneumatici. Religione. Hillary Clinton, che per papà è Satana. Non
discutiamo di questioni personali, tutto qui. Non li ho mai nemmeno
informati del mio divorzio».
«Stai scherzando».
«L'ho detto a James. È stato lui a dare la notizia ai miei genitori. Erano
distrutti. Consideravano Tal la cosa migliore al mondo dopo il pane già
affettato. Credo che parlerò di questa faccenda a James. Ma non posso
lasciare qui queste pillole. Potrebbe uccidersi. Oppure uccidere qualcun
altro».
Tornai nel bagno e aprii gli altri flaconi nell'armadietto dei medicinali. Le
pillole di antidolorifico non erano esattamente identiche ai tranquillanti, ma
la mamma è miope e mette raramente gli occhiali. Sarebbero state perfette.
Rovesciai lo Xanax sul serbatoio del water e lo sostituii con le pillole di
antidolorifico. Raccolsi quelle di Xanax e le misi nell'altro flacone, che
infilai nella tasca dei jeans.
Daniel mi stava aspettando in cucina, dove versai nel lavandino metà del
contenuto della bottiglia di whisky, diluendo poi il resto con l'acqua del
rubinetto. «Ho scambiato le pillole di tranquillante con quelle di
antidolorifico», gli spiegai. «Lei non soffrirà di crampi mestruali e, se tutto
va bene, il Bambin Gesù di Praga smetterà di fare pettegolezzi su di me».
«Una storia bizzarra», disse Daniel. Mi prese la mano e ne baciò il dorso.
Mi posò le mani sulle spalle e mi costrinse a voltarmi verso di lui. Con il
pollice mi asciugò una lacrima che in qualche modo mi era sfuggita. «Le
famiglie fanno schifo», dichiarò.
Mi baciò. All'inizio dolcemente, poi con maggiore insistenza. La sua
lingua mi scivolò in bocca, e le sue mani salirono lentamente lungo la mia
schiena, e io mi inarcai per avvicinarmi a lui. Sentii il debole suono del
gancio del reggiseno che si apriva, poi le sue mani si posarono sul mio seno.
Avevo il respiro corto; mi costrinse a indietreggiare fino al piano di lavoro
di formica gialla della cugina Lucy, e io sentii qualcosa cadere nel
lavandino e rompersi, ma c'erano altre cose a cui pensare.
Come quella segatura sul petto di Daniel. Gli sfilai la maglietta, lui
ricambiò il favore, e restammo seminudi, petto contro petto, ed era cosi
bello. Insinuò il ginocchio tra le mie gambe, e io gli affondai le unghie nella
schiena. Era curvo su di me quando all'improvviso si udirono colpi secchi
sulla porta della cucina.
«Cristo santo», borbottò Daniel.
Balzai all'indietro facendo inavvertitamente cadere a terra una pila di
coppette a stelo, che si ruppero in un milione di frammenti.
«C'è qualcuno in casa?», chiese una voce femminile da dietro la porta.
«Marian? Sei tu?».
Cercai a tentoni sul pavimento finché trovai la maglietta. Me la infilai,
facendomi piovere in testa una miriade di pezzetti di vetro.
«No», risposi, cercando di riprendere fiato. «Sono Eloise. La figlia di
Marian. Chi è?».
Daniel trovò la sua maglietta e se la mise. Gli feci segno di uscire dalla
cucina.
«Sono Alice, la cugina di tua madre. Sono passata solo a prendere un
paio di cose. Tua madre ha detto che non c'erano problemi. Ho pensato che
il pick–up potesse essere suo».
«Oh, certo, Alice», dissi, togliendomi schegge di vetro dai capelli.
«Dammi solo un minuto. La mamma ha tirato i chiavistelli di questa porta e
l'ha chiusa a doppia mandata».
Grazie a Dio, pensai.
Stavo aprendo la porta quando vidi con la coda dell'occhio del pizzo di
un rosa brillante. Il mio reggiseno di Victoria's Secret – penzolava dalla
maniglia del mobiletto sotto il lavandino.
Alice irruppe in cucina e mi strinse in un abbraccio. Indietreggiai fino al
lavandino, sperando di impedirle la visione del mio reggiseno fuori posto.
«Bene, Weezie», disse in fretta, «sono secoli che non ti vedo. Non eri alla
veglia funebre, vero?».
Era una donna alta, più o meno dell'età di mia madre ma diversissima da
lei. Portava blue–jeans chiazzati di vernice, una maglietta hippy e sandali
Birkenstock, e i suoi ispidi capelli grigi erano raccolti in una treccia che le
scendeva fin sotto le scapole.
«Mi è terribilmente dispiaciuto di essermi persa la veglia», mentii, «ma
ero fuori città per lavoro e non l'ho saputo fino al mio ritorno».
Alice non mi stava ascoltando del tutto. Si guardò intorno, osservando il
caos che regnava nella cucina. «Cos'è successo qui dentro?», chiese,
indicando i vetri rotti.
«Sono stata la solita stupida», replicai. «Stavo cercando di aiutare la
mamma imballando la roba sulla mensola più alta quando mi è scivolato il
piede e ho urtato le coppette impilate sul piano di lavoro».
«Non ti sei tagliata, vero?», domandò lei, avvicinandosi ancora di più.
«Sto benissimo», risposi, indietreggiando per impedirle di notare che non
portavo il reggiseno. «Accomodati pure, porta via quello che vuoi. Devo
sistemare questo disastro prima che qualcuno entri e si ferisca». Sorrisi e le
rivolsi un piccolo cenno di incoraggiamento con la mano.
«Bene», disse Alice in tono esitante, «se sei proprio sicura... C'è un set da
cordiale che mi è sempre piaciuto. È in sala da pranzo. Vado di là e vedo
come imballarlo».
«Ottima idea», ribattei in tono vivace. «Fai pure».
Non appena lei uscì dalla stanza afferrai il reggiseno e lo lanciai dentro il
mobiletto sotto il lavandino.
«Oh», sentii Alice esclamare in sala da pranzo. «Salve. Non sapevo che
Weezie avesse compagnia».
Daniel sbucò dal corridoio reggendo la sponda di uno dei letti di mogano.
«Salve», rispose, e si diresse verso la porta d'ingresso senza fermarsi.
«Alice», dissi, raggiungendola con uno scatolone vuoto e alcuni giornali
in cui avvolgere i bicchieri, «quello è il mio amico Daniel. Mi sta aiutando a
portare via i mobili delle camere da letto. Li ho comprati». Poi aggiunsi: «In
contanti».
«Che carino», commentò lei, osservando le ampie spalle di Daniel mentre
lui issava la sponda sul pick–up. Mi morsi il labbro. Si era messo la
maglietta a rovescio. Alice ammiccò con enfasi. «Molto, molto carino».
«Ecco», dissi, cercando di sembrare indaffarata, «lascia che ti aiuti a
imballare questa roba».
Lei aveva aperto la vetrinetta e stava posando i bicchieri da cordiale sulla
credenza. «Oh, no, non voglio interromperti. Continua con quello che stavi
facendo prima che io arrivassi».
La mia mente tornò con rimpianto a quanto stavamo facendo prima che
lei ci interrompesse. Magari potessi, pensai. BeBe aveva ragione. La volta
seguente avremmo preso una stanza.
Dopo aver impacchettato la boccia e i bicchierini da cordiale, Alice
svolazzò in giro per la casa, prendendo qualche altro oggettino da portare
via.
«Sicura che non posso aiutarti a impacchettarli?», chiesi, osservando
Daniel che arrancava trasportando le reti dei letti.
«Sicurissima», rispose. «Vai ad aiutare il tuo amico. Do solo un'ultima
occhiata in cucina e poi me ne vado».
Raggiunsi la camera degli ospiti e cominciai a estrarre i cassetti del
comò. A un tratto mi chiesi dove avrebbe dormito la mamma, una volta che
avessimo portato via i letti. Quasi sicuramente sul divano. Dopo aver
mischiato Xanax e whisky, probabilmente non le importava affatto dove si
coricava. Anche se la situazione sarebbe leggermente cambiata, visto che
d'ora in poi avrebbe preso pillole di antidolorifico vecchie di quarant'anni
con whisky annacquato.
Portai i cassetti sul vialetto d'accesso e li passai a Daniel che, in piedi sul
pianale del pick–up, stava avvolgendo alcune vecchie coperte intorno alle
testiere.
«Se ne andrà presto?», chiese, fissando la porta di casa.
«Un'ultima occhiata in giro e si leva dai piedi», dissi, rallegrandomi
segretamente della sua espressione delusa. «Ehi», aggiunsi poi,
controllando se Alice ci stava guardando. «Vieni qui. Devo dirti un
segreto».
«Quale?». Lui prese un'aria guardinga, ma si sporse dal pianale del
veicolo.
Accostai le labbra al suo orecchio e vi feci dardeggiare la lingua, poi
sussurrai: «Hai la maglietta messa a rovescio, dongiovanni».
Mi voltai e tornai rapidamente verso la casa, ancheggiando in quello che
speravo fosse un modo piuttosto sexy.
Fui ricompensata da un fischio sommesso ma carico di apprezzamento.
Alice era in cucina e stava chiudendo un grosso scatolone con del nastro
da pacchi.
«Ho trovato qualche altra cosuccia», annunciò, dandogli un colpetto.
«Sarà una consolazione, avere qualche ricordino di Lucy».
«Ne sono felice», replicai. Lei mi diede un bacio sulla guancia, si
appoggiò il contenitore sull'anca e uscì dalla porta posteriore per caricare i
suoi tesori nel bagagliaio dell'auto.
Daniel rimase fermo sul vialetto a guardare la Plymouth di Alice che
usciva in retromarcia sulla strada.
«Cos'è che stavi dicendo delle famiglie, là in cucina?», chiesi.
«Fanno schifo», dichiarò, accigliato. «Quante altre cugine ha tua
madre?».
«Non più di una dozzina».
«E oggi verranno tutte qui a frugare in questa casa?».
«Conoscendo la mamma, direi che è altamente probabile. La loro è una
famiglia molto unita. E Lucy non si è mai sposata, quindi tutta la sua roba è
di chi se la prende».
«Okay». Lui si diresse verso l'abitazione. «Tanto vale che carichiamo
quei letti, visto che non li useremo».
Si fermò nella camera padronale a fissare quello dalla spalliera alta.
«Bello», disse, facendo correre le dita sul fregio intagliato di foglie di
quercia e ghiande.
Lo osservai più attentamente. «Sì, lo è davvero, ora che me lo fai notare.
Stai cercando un letto?».
«Ne ho uno ad acqua ancora in deposito. Non ho avuto il tempo di
montarlo».
Arricciai il naso. Letti ad acqua. Ai miei occhi rientravano nella stessa
categoria delle giacche alla coreana in velluto. «Su cosa dormi?».
«Quando mi sono trasferito ho trovato nella casa un vecchio divano.
Serve allo scopo».
«È un bel letto», dissi. «E anche i cassettoni non sono male. Non troppo
femminili».
Si guardò intorno nella stanza. «Ti piace questa roba?».
«Certo», risposi. «Posso vendere mobili come questi praticamente
ovunque. Quelli nell'altra stanza, in mogano e piuttosto malridotti,
richiederanno un po' di lavoro. Li vernicerò di bianco, sabbierò gli angoli, li
renderò un po' più malconci, aggiungerò pomelli di vetro e li venderò come
un perfetto esempio di shabby chic».
«Come starebbe questa roba di quercia, in casa mia?».
«Starebbe benissimo», risposi. «Ti piacciono i mobili antichi?».
«Credo di sì. Mi piace l'arredamento di casa tua. Mi piace il modo in cui
metti insieme le cose».
«Grazie», dissi, sorridendo.
«Credo che ti assumerò», annunciò Daniel.
«Per fare cosa?».
«Per sistemare casa mia. Il ciarpame che ho in deposito non vale nulla.
Non ho mai posseduto niente di davvero pregevole. Forse è arrivato il
momento di cambiare. Potresti farlo, vero? Comprare roba, voglio dire. Fare
in modo che abbia l'aspetto giusto. Cosa ne dici?».
«Non sono un'arredatrice d'interni», replicai. «Mi limito ad acquistare e
vendere cianfrusaglie. E tengo quelle che mi piacciono. Tutto qui. Cosa ti fa
pensare che sarei in grado di arredarti la casa? Non ti conosco neppure così
bene».
Lui si avvicinò. Mi cinse la vita con le braccia. «Mi piaci. Mi piacciono
le cose che piacciono a te. Avanti, cosa ne dici? Vuoi giocare a mettere su
casa?».
«Vuoi davvero che lo faccia?». Provai un'improvvisa timidezza. Un'ora
prima ero rimasta quasi nuda insieme a lui, ma giocare a mettere su casa?
Era una cosa completamente diversa. E parlando di diverso, c'era qualcosa
che mancava. Abbassai lo sguardo sulla mia maglietta e vidi i miei
capezzoli turgidi. Li vide anche Daniel.
«Ciao», disse, baciandomi sul collo.
«Il mio reggiseno», strillai. «Per poco non lo lasciavo in cucina. Dio non
voglia che la mamma lo trovi quando cerca il suo whisky».
Lui mi seguì in cucina. Mi inginocchiai e aprii il mobiletto sotto il
lavandino. C'era una confezione di detersivo, un albergo per scarafaggi e
una scatola di pagliette per pentole. Niente pizzo rosa.
«Merda», dissi, ricordando lo scatolone di Alice. «La cugina della
mamma ha rubato il mio reggiseno».
«Te l'ho detto», ribatté Daniel, aiutandomi ad alzarmi. «Le famiglie fanno
schifo».
37

Lasciammo i mobili di quercia sul pick up di Daniel a Thunderbolt e


portammo quelli di mogano a casa mia. Parcheggiai nel mio spazio nel
vicoletto. Daniel fece una smorfia vedendo l'auto di Tal ferma lì.
«Non mi piace».
«È il posto in cui vivo», dissi.
«E anche quello in cui vive il tuo ex marito».
«Non intendo traslocare», annunciai, stringendo il volante con entrambe
le mani. «L'ex rimessa per le carrozze è mia. Sono stata io a trovarla e a
sistemarla, e intendo restarci».
«Non ti dà fastidio che lui viva a meno di cinquanta metri di distanza?
Sapere che osserva i tuoi andirivieni, che ti guarda dalla finestra?».
«Un po'», ammisi. Non sarei riuscita a trovare le parole adatte per
spiegargli quanto mi avesse resa infelice aver dovuto lasciare la villa, o cosa
significasse vedere Caroline in quella che era stata la mia cucina, sapendo
che stava facendo posare la moquette sui pavimenti di legno che io avevo
ripulito, togliendo la carta da parati che io avevo attaccato, e facendo
ridipingere sopra i colori che io avevo scelto con amore per ogni stanza
della casa.
«È una cosa dannatamente malata, ecco cos'è», affermò Daniel. «Hai
un'intera città a disposizione, Weezie. Savannah è piena di vecchie case in
cui potresti abitare – nessuna delle quali con lui che vive nel cortile di
fronte. Cos'ha di tanto speciale questo posto?».
Come potevo spiegarglielo, quando non riuscivo a spiegarlo fino in fondo
nemmeno a me stessa? Era irrazionale ma era così.
«Non sei obbligato a venire qui, se ti dà così fastidio», dissi.
«È questo che vuoi?».
«Voglio andare avanti con la mia vita», dichiarai, percependo la tensione
nella mia voce. «Sono stufa di preoccuparmi di cosa pensa Tal o di cosa
vuole la mamma. Solo per una volta, mi piacerebbe fare quello che rende
felice me».
«Allora fallo», mi esortò lui. «È quello che sto cercando di dirti. Smettila
di preoccuparti di cosa pensano gli altri».
«Incluso te?».
Scoppiò a ridere. «Speravo che potessimo raggiungere un compromesso
su questo punto».
«Che genere di compromesso?», chiesi, scivolando da sotto il volante per
rannicchiarmi contro di lui.
«Non qui», si affrettò a dire. «Non con Tal nei paraggi».
Tornai al mio posto. «Dimmi una cosa», chiesi. «Tutti questi tuoi discorsi
sulla necessità di non preoccuparsi di ciò che pensa la gente...».
«Sì?».
«Non hai una famiglia? Non ti preoccupi dell'effetto che le tue azioni
avranno su di loro?».
«No».
«No, non hai una famiglia oppure no, non ti preoccupi di quello che
pensano?».
«Ho una famiglia», fu la sua cauta risposta.
«So che hai due fratelli. Tutto qui. Dove abitano? Sono ancora qui a
Savannah?».
«Sono qui in giro», fu la sua lapidaria risposta. «Loro vivono la loro vita
e io la mia. E non si immischiano nei miei affari», dichiarò con foga. «Ora,
dove vuoi che metta questi mobili?».
Era chiaro che per quanto lo riguardava l'argomento era chiuso.
«Mettiamoli sotto la tettoia per auto», proposi. «Voglio sabbiarli e
verniciarli oggi pomeriggio».
«Oggi? Subito?», chiese con aria delusa.
«Prima lo faccio e prima posso rivenderli», spiegai.
«Perché tanta fretta?».
«Hanno fissato una nuova data per la vendita dell'intero contenuto di
Beaulieu. Sabato prossimo. C'è un pezzo davvero magnifico, la credenza di
Moses Weed. Se riuscissi a comprarla, sarebbe un vero colpaccio. Forse
potrei guadagnare abbastanza per aprire un negozio tutto mio. Quindi ho
bisogno di racimolare tutto il denaro possibile prima di sabato».
«Una cosa importante», disse Daniel.
«Importantissima».
Mi aiutò a scaricare i mobili, poi si guardò furtivamente intorno prima di
darmi un casto bacetto.
«Non vuoi restare per aiutarmi a verniciarli?», domandai, sapendo già la
risposta.
«Non qui», disse Daniel. Così lo accompagnai a casa. A malincuore.
Quando entrai in casa, la lucina della mia segreteria telefonica stava
lampeggiando, indicando che c'era un messaggio. «Sono Lester Dobie»,
disse la voce registrata. «Perché non passi a trovarmi oggi pomeriggio?».
Guardai l'orologio. Erano le tre passate. Se facevo in fretta, potevo
sabbiare e verniciare i cassettoni nel giro di un'ora, e poi andare a sentire
cosa voleva dirmi Lester prima che chiudesse il negozio.
Verniciai i mobili con slancio spasmodico. È questo il vantaggio del look
shabby chic tanto di moda oggigiorno: deve dare un'impressione di vecchio
e poco rifinito.
Quando tornai dentro casa, Jethro alzò gli occhi con aria piena di
aspettativa.
«Vieni, ragazzo», gli dissi. «Andiamo a trovare Lester».
Lui corse verso il pick–up e saltò dentro dal finestrino aperto. Adora
viaggiare sul pick–up e ama ancora di più Lester.
«Ehi, tesoro», disse Lester quando entrammo nel negozio. Si alzò dallo
sgabello dietro il bancone e lanciò un biscottino per cani a Jethro.
«Cosa succede, Lester?», chiesi.
Lui strattonò la visiera del berretto da pesca, un chiaro segnale che era
eccitato per qualcosa. «Vieni nell'ufficio».
Lo seguii lungo il labirinto di ciarpame, fino al suo ufficio ancora più
disordinato. Chiuse la porta e si sedette alla vecchia scrivania di quercia.
«Cosa c'è?».
«Sshh», disse. Si chinò sotto la scrivania e prese un pacchetto avvolto in
carta marrone. Me lo passò al di sopra del piano. «Dai un'occhiata».
Strappai la carta e mi ritrovai a fissare il mio quadro dei raccoglitori di
cotone. Quello di T. Eugene White.
«È magnifico», dissi con un fil di voce.
Adesso la tela brillava al punto da sembrare quasi viva, i colori un tempo
opachi trasformati in verde smeraldo, giallo girasole, cremisi e marrone
intensi. Dettagli in precedenza invisibili ora spiccavano nitidi: un cagnolino
accanto a uno steccato che prima non c'era, nuvole vaporose nel cielo più
azzurro che si potesse immaginare, persino un trattore rosso sullo sfondo.
«Pulito è un'altra cosa, non trovi?».
Persino la cornice si era trasformata. Il sudiciume incrostato nelle
scanalature degli intagli era stato pazientemente rimosso, e sbeccature e
crepe riempite prima di essere nuovamente dorate.
«Come ci sei riuscito?», chiesi.
«Conosco un tizio, Ron Ransome. Un tempo si occupava di tutti i restauri
per conto del museo Telfair. Ufficialmente è in pensione. Si guadagna da
vivere intagliando Babbi Natale ma ho pensato che potesse interessargli
lavorare su questo, visto che è opera di un artista del Sud. Non mi aspettavo
di riavere il quadro prima di un mese, ma Ron mi ha detto che una volta
cominciato a pulirlo non è più riuscito a smettere. Doveva assolutamente
scoprire cosa c'era sotto tutto quel sudiciume».
Sistemai il dipinto sul davanzale e indietreggiai per osservarlo da
un'angolazione diversa. «Fantastico. Non avrei mai immaginato che potesse
avere questo aspetto».
Lester strattonò di nuovo il berretto. «Ron si è lasciato prendere
dall'eccitazione, quando ha finito. Ha scattato alcune Polaroid al quadro e le
ha mandate per posta celere a una signora che conosce a Charleston».
«Un'arredatrice?».
Lui sorrise. «Ancora meglio. Questa signora lavora al museo Gailliard, è
la direttrice. Ron la conosceva perché lei lo aveva assunto per pulire un
altro paio di T. Eugene White per il museo. Si è scoperto che il tuo quadro
ha addirittura un nome. Cotton Time. Fa il paio con quello esposto nel loro
salottino sul davanti, che si intitola Planting Season».
Stavo trattenendo il fiato, aspettando che arrivasse al punto. «E?».
«Weezie, vogliono comprarlo».
«Quanto?». Chiesi con voce strozzata.
«La cifra di cui lei ha parlato a Ron è quindicimila dollari».
«Oh. Mio. Dio».
«Non otterrai così tanto», precisò cautamente lui. «Ne ho già dati mille di
tasca mia a Ron per il restauro, e sembra che debba ricevere un compenso
per averti messo in contatto con i tizi del Gailliard».
«Va benissimo», dissi con un fil di voce. «E la tua commissione?».
«Non pensavo di chiedertela. Siamo amici».
«Siamo soci», insistetti io. «Lester, se tu non avessi notato la firma di T.
Eugene White, probabilmente io avrei venduto il quadro per un paio di
centoni. Quindi diciamo una commissione del dieci per cento.
Millecinquecento per te e millecinquecento per Ron. Ti andrebbe bene?».
«Direi proprio di sì», rispose, e un lento sorriso gli illuminò il volto
segnato. «Peccato doverlo portare su a Charleston. È un quadro magnifico.
Dispiace veramente che non possa restare qui a Savannah».
«Lo so», dissi, piegando la testa per dargli un'altra occhiata. Gli passai la
carta marrone che era caduta per terra. «Sbrighiamoci a impacchettarlo di
nuovo, prima che io cambi idea».
«Non hai il tempo di cambiare idea», annunciò Lester. Mi passò una
busta. «La signora del Gailliard viene a prenderlo oggi stesso. Però ha
mandato l'assegno ieri».
Aprii la busta. Era un assegno circolare, intestato a Eloise Foley, e per un
importo di quindicimila dollari. All'improvviso la ruota della fortuna stava
cominciando a girare, per me. A parte l'accusa di omicidio che mi pendeva
sopra la testa.
38

«Due milioni e mezzo di dollari», disse James, togliendosi gli occhiali e


pulendoli con il bordo della sua polo. Gli occhiali gli si appannavano ogni
volta che dall'aria condizionata della casa in Washington Avenue usciva
sotto il sole cocente del tardo pomeriggio. «Questo è quanto la società di
produzione della carta ha pagato per Beaulieu».
Jonathan si lasciò sfuggire un fischio. «Cosa ha fatto la signorina Ann
Ruby con tutti quei soldi?».
«Ha finanziato la fondazione Willis J. Mullinax».
«E di cosa si occupa la fondazione?».
«Di formazione professionale e assistenza da parte del gruppo dirigente
della comunità», rispose James. «Non chiedermi cosa significhi. Sto
semplicemente citando gli atti legali, che sembrano suggerire che Gerry
Blankenship, in veste di esecutore testamentario e direttore della
fondazione, può spendere il denaro come preferisce».
«Gerry Blankenship», disse Jon, scandendo il nome. «Qui gatta ci cova».
«Quindi lo conosci», ribatté James. «Però se proprio dovessi paragonarlo
a un animale, sarei più propenso a definirlo un verme».
«Hai ragione», replicò Jon.
James regolò l'aria condizionata sulla Mercedes portandola al livello che
considerava gelo artico e uscì dal vialetto in retromarcia.
«Hai poi parlato con le Flanders del misterioso amico di Caroline?»,
chiese Jonathan.
«Sì», rispose lui. «E ho chiamato il proprietario della casa di Gaston
Street. Purtroppo si trova ad Highlands, in North Carolina, ed è una di
quelle persone antiquate che non credono nell'avere un telefono quando
sono in vacanza».
«Anna ed Emily ti sono state d'aiuto?».
«In parte. Purtroppo la loro descrizione del tizio non si adatta a Gerry
Blankenship. Lui è un uomo grosso e corpulento, che passa difficilmente
inosservato. Le sorelle Flanders hanno descritto l'amico di Caroline come
un uomo di media statura e di mezza età, ma che portava un berretto da
baseball con la visiera abbassata sulla faccia. E guidava una berlina argento.
Gerry, invece, ha una Corvette rossa come l'autopompa dei vigili del
fuoco».
«Blankenship ha proprio scritto in faccia "Corvette rossa", non trovi?»,
chiese Jon, e scoppiarono tutti e due a ridere.
«Quindi l'uomo misterioso è di mezza età e guida una berlina argento.
Questo restringe indubbiamente il campo», aggiunse Jonathan.
«Identificarlo sarà un gioco da ragazzi», concordò James.
«Cos'altro hai scoperto?».
«La vendita è stata conclusa una settimana prima della morte della
signorina Mullinax. E il tempo stringe. La Coastal Paper Products, a partire
da venerdì, è autorizzata a sgombrare Beaulieu».
«Sgombrare – nel senso di demolire la casa?», domandò Jon, sbalordito.
«Com'è possibile? Beaulieu è l'ultima villa coloniale risalente al periodo
prebellico ancora intatta che sia rimasta sulla costa della Georgia.
L'associazione per la conservazione di Savannah non permetterebbe mai
che venisse rasa al suolo. Se Merijoy Rucker lo scopre avrà un attacco
isterico di dimensioni epiche».
«Non c'è nulla che quell'associazione possa fare, al riguardo», spiegò
James. «E la tua amica può farsi venire tutti gli attacchi isterici che vuole.
Beaulieu non fa parte del distretto storico. Non si trova nemmeno nella città
di Savannah bensì nella contea autonoma di Chatham. Ed è stata proprio la
contea a rilasciare l'autorizzazione».
«Quindi sono liberi di distruggere un monumento storico?».
«Per il momento», rispose James. «L'ente statale per l'ambiente e il Genio
dell'esercito devono ancora pronunciarsi riguardo alla richiesta della Coastal
di poter prosciugare la palude, e questo è davvero un punto controverso,
grazie a Dio. E la società dovrà superare qualche altro grosso ostacolo,
prima di poter cominciare a costruire. Ma ieri ho fatto un salto a Beaulieu e
ho visto gli addetti ai rilevamenti topografici già al lavoro. Il caposquadra
mi ha spiegato che gli era stato detto che potevano cominciare subito ad
abbattere gli alberi».
«Tutte quelle splendide vecchie querce. Alcune hanno come minimo
duecento anni. Quindi perché stiamo tornando là? Cosa speri di fare?».
«Voglio dare un'occhiata in giro per la casa. Se ricordi, non ho concluso
granché l'ultima volta che ci sono stato. E ho pensato che mi sarebbe d'aiuto
conoscere anche il tuo punto di vista sulle cose».
«E il detective Bradley ha acconsentito?». Jonathan aveva un'aria
scettica.
«Si considera ancora in debito con me», spiegò James, con un certo
imbarazzo. «Ho fatto una lunga chiacchierata con lui e gli ho riferito quanto
abbiamo scoperto sul misterioso amico di Caroline e sullo strano modo in
cui è stato redatto il testamento della signorina Mullinax. Credo che
cominci a nutrire qualche dubbio sulla colpevolezza di Weezie».
«Mi stai nascondendo qualcosa», dichiarò Jonathan.
«Il detective Bradley mi ha fatto una confidenza», ammise James.
«Nonostante io non faccia che ripetergli che non è più così, continua a
considerarmi un prete».
«Ma tu non lo sei, quindi non puoi più ascoltare confessioni», sottolineò
Jonathan. «E io sto cercando di aiutarti».
«Potrebbe procurargli grossi guai, dal punto di vista professionale».
«E io, allora? Se il procuratore distrettuale scopre che sto ficcando il naso
a Beaulieu, la mia carriera rischia di concludersi qui».
«Vero. Mi sembra giusto. Bradley sta facendo richiesta per un congedo
per invalidità. Quell'episodio a Beaulieu lo ha davvero spaventato. Ha un
secondo matrimonio felice e dei figli, e non vuole morire in servizio».
James fece una breve pausa. «Penso che sia un bravo poliziotto. Non vuole
lasciare il lavoro pensando di aver arrestato la persona sbagliata per questo
omicidio. E mi ha confessato che l'istinto gli dice che non è stata Weezie. A
dispetto delle prove circostanziali che sembrano indicare il contrario».
A quel punto avevano imboccato la Skidaway Road, oltrepassando il
campo da golf di Bacon Park e i campi da tennis comunali. Erano quasi le
otto. Il luminoso cielo estivo era ormai di un azzurro chiaro, con ciuffi di
nuvole rosa striate di arancio e oro. Costeggiarono la palude, dove alcuni
trampolieri becchettavano nelle distese di canne e fango lasciate esposte
dalla marea e, più vicino alla strada, le querce protendevano i rami ornati da
festoni di muschio al di sopra dello stretto nastro di asfalto.
Il cancello di ferro battuto di Beaulieu era chiuso con una catena e un
lucchetto. Un grande cartello bianco proclamava che la proprietà sarebbe
diventata la sede dell'impianto Mullinax della Coastal Paper Products. Il
disegno di un elmetto giallo era fiancheggiato dal gaio slogan "Guardateci
crescere!".
«Che orrore», commentò Jonathan, sospirando.
James fermò la Mercedes, scese e inserì una chiave nel lucchetto.
Jonathan scivolò sul sedile del guidatore e portò l'auto oltre il cancello
aperto, che l'altro richiuse di nuovo.
«I nuovi proprietari sanno che Bradley ti ha dato una chiave?», domandò
Jon quando James risalì in macchina.
«Non chiederlo», replicò James.
La Mercedes percorse lentamente il viale di querce sempre più buio con i
pneumatici che facevano scricchiolare i gusci di mollusco triturati della
pavimentazione.
«Bellissima», disse Jonathan, in tono reverente – i freschi archi verdi gli
ricordavano una cattedrale, la quiete immobile rovinata solo dai fluttuanti
nastri rosa fissati ai paletti da rilevamento. «Bisogna assolutamente
salvarla».
«Tu puoi anche preoccuparti di salvare Beaulieu», replicò James. «Il mio
compito è salvare Weezie».
Quando fermò la Mercedes di fronte alla vecchia villa era già calato il
crepuscolo. Le lucciole brillavano intermittenti nella tenue foschia e un
succiacapre lanciava richiami nel buio.
Passò una torcia elettrica all'amico.
«Non c'è la corrente, all'interno?» L'espressione di Jonathan fece
allarmata.
«È una casa vecchia. E sembrava piuttosto buia, l'ultima volta che sono
venuto».
«L'ultima volta in cui sei venuto qui un uomo è quasi morto», gli ricordò
Jon.
James gli mostrò uno zainetto. «Ho portato una bottiglia d'acqua e un
cellulare. Questa volta non voglio correre rischi».
Estrasse il portachiavi datogli da Bradley e aprì la porta d'ingresso,
ignorando il cartello fissato a una colonna che dichiarava la villa proprietà
privata della Coastal Paper Products.
Jonathan entrò e accese la torcia, cercando un interruttore della luce. Lo
trovò e un'unica lampadina nuda illuminò l'intonaco screpolato delle pareti
dell'atrio.
«Triste», mormorò, entrando in uno dei salottini gemelli. I suoi passi
echeggiarono nelle stanze vuote. «Non avevi detto che questo posto era
pieno di oggetti d'antiquariato?».
«Infatti», confermò James. «Traboccava di roba, quando sono venuto qui
una settimana fa. Mi chiedo dove sia finita. Avrebbe dovuto esserci una
vendita. E c'è un mobile che Weezie vuole comprare».
«So io cosa è successo», dichiarò Jonathan, facendo schioccare le dita.
«Hanno spostato la vendita. Ieri ho ricevuto un dépliant per posta. La
terranno in un magazzino sulla East Broad Street. Immagino che stiano
svuotando la casa per prepararla alla demolizione».
«Non c'è molto da vedere, ormai», disse James, muovendo il fascio di
luce lungo le pareti del salottino vuoto. «Solo una casa fatiscente».
Jonathan percorse lentamente il perimetro della stanza, alzando lo
sguardo verso il soffitto e abbassandolo sul pavimento.
«Strano», commentò. «Tutte le modanature, le lampade, i battiscopa,
tutto quello che ti aspetteresti di trovare in una antica villa imponente come
questa sono spariti. Non è davvero niente di speciale, perlomeno
all'interno».
James sollevò lo sguardo verso il punto indicato dal raggio della torcia
dell'altro. Il soffitto intonacato era a pezzi e costellato di grossi buchi. Si
accigliò. «Prima c'era della roba, lassù, credo».
«Roba? Cosa vuoi dire?».
«Sai, fronzoli. C'era una specie di lampadario. E delle decorazioni. Non
so come si chiamino, somigliano alla glassatura su una torta nuziale. Ma
prima c'erano».
«Un rosone di stucco?», chiese Jon. «E cosa mi dici di queste pareti?
C'erano altri generi di fronzoli, come li chiami tu?».
«Qualcuno», rispose James. «Dipinti di bianco. Ce n'erano anche lungo i
pavimenti, e c'erano dei cosi intagliati intorno agli stipiti e sopra le porte».
Jonathan attraversò l'atrio per entrare nel salottino gemello del
precedente. «James, i caminetti avevano mensole o cornici decorate?».
James seguì l'amico. «Credo di sì. Ma c'erano così tanti mobili accatastati
che era difficile vedere bene. Non che io abbia prestato molta attenzione
alla cosa».
«Sei un caso disperato», commentò Jonathan. Indicò un caminetto che
era poco più di un buco quadrato nel muro. «Figlio di puttana», esclamò.
«Hanno spogliato la casa».
«Cosa vuoi dire?».
«E così che hanno superato l'esame della commissione della contea per la
tutela dei luoghi d'interesse storico», spiegò Jonathan, indicando il
caminetto. «Qualcuno è venuto qui e ha staccato tutte le modanature, le
cornicette, le soprapporte, le mensole dei caminetti, tutto, persino i
lampadari d'epoca».
«Per venderli?».
«Be', sì, probabilmente si potrebbe venderli dopo averli recuperati.
Qualcuno ha ripulito la villa perché non venisse dichiarata un edificio
d'interesse storico».
«In modo che fosse possibile demolirla», disse James.
«Tutte le modanature erano già sparite quando sei venuto qui con
Bradley?».
«Non l'ho notato. Bradley si è sentito male al piano di sopra. Non lo so».
«Andiamo su», propose Jonathan. «Vediamo cos'hanno combinato là».
Il ventilatore si trovava ancora nel corridoio al piano superiore, dove
James lo aveva sistemato per rinfrescare il detective Bradley. Un'altra
lampadina a basso voltaggio proiettava una luce fioca ma sufficiente per
convincere Jonathan che anche il primo piano era stato privato delle sue
decorazioni architettoniche.
Passarono comunque di stanza in stanza. Jonathan deplorava la perdita
degli arredi di Beaulieu e James si chiedeva ad alta voce quali prove
potessero essere state cancellate.
Si fermarono davanti all'armadio del bagno in cui era stato rinvenuto il
corpo di Caroline DeSantos. Era un semplice armadio.
«Andiamo», disse James. «Questo posto è deprimente».
«È infestato», ribatté Jonathan.
James lo guardò con aria stupita. «Sei l'ultima persona al mondo da cui
mi sarei aspettato un commento del genere».
«Non infestato da esseri soprannaturali», spiegò l'altro. «Niente del
genere. Niente fantasmi o minuscoli esseri che vanno in giro nella notte. Ma
in tutti questi anni, durante la guerra civile e il crollo del mercato azionario,
durante uragani e cicloni, una famiglia si è guadagnata da vivere qui, e altre
famiglie hanno vissuto dei frutti della terra. E dopo centocinquant'anni, puf,
tutto sparito. I Mullinax, una grande e antica famiglia della Georgia,
svanita. E ben presto scomparirà anche la casa. Non a causa di incendi o
inondazioni ma per colpa della mera avidità. La buona, vecchia avidità
americana».
39

Prima di martedì riuscii a vendere i mobili della cugina Lucy per


settecento dollari, e nel giro di due giorni di contrattazioni e transazioni
frenetiche raccolsi un totale di cinquemila dollari in contanti, la maggior
parte dei quali provenienti dal mio investimento di cento dollari nella
rimessa per gli attrezzi. Era il miglior risultato che avessi mai ottenuto nel
corso della mia carriera. Mi sentivo stordita dal senso di potere e dal
successo.
Quando il telefono squillò, risposi canticchiando: «Proontoo».
«Siamo di buon umore», disse BeBe.
«Sì, infatti», confermai. «Ho messo insieme un gruzzoletto di
diciassettemila dollari, e ho ancora quattro o cinque scatoloni di roba della
rimessa da vendere. Sono ricca, BeBe».
«Magnifico. Cosa stai facendo?».
«Mi sto preparando per andare a portare uno scatolone pieno di argenteria
da un commerciante di Tybee. Lui rifiuta di venire in città, quindi vado là
io».
«L'argenteria può aspettare», dichiarò lei. «Vediamoci al ristorante tra
mezz'ora».
«Non posso», cominciai a dire, ma aveva già riagganciato.
Abbassai lo sguardo sugli abiti che indossavo. Pantaloni mimetici tagliati
all'altezza del ginocchio, canotta a costine bianca e infradito verdi. Se fossi
andata al ristorante avrei potuto incontrare Daniel. Provai un piacevole
formicolio pensando a lui.
Mi precipitai nella doccia, poi, mentre mi asciugavo, cercai di decidere
come vestirmi. Niente di troppo elegante. Dopo tutto, si trattava solo di una
visita casuale. Ma nemmeno qualcosa di troppo sciatto. Niente magliette
malconce o pantaloncini lisi. Misi un paio di pantaloni capresi neri. Perfetti,
assolutamente perfetti. Il top senza maniche di un rosa acceso sarebbe stato
l'ideale ma, dannazione, il mio reggiseno rosa era andato disperso. Nero,
decisi. Il nero sarebbe andato bene. Scelsi una maglietta corta, con lo scollo
a barchetta e maniche a tre quarti. Mi infilai un paio di sabot neri con la
suola di sughero. Lunghi orecchini d'argento a conchiglia. Graziosa, casual,
non troppo vogliosa.
Era mezzogiorno passato quando arrivai al Guale. Trovai un posto vuoto
accanto al cordolo del marciapiede. Strano. Di solito il ristorante è gremito,
all'ora di pranzo.
Raggiunsi la porta d'ingresso, su cui campeggiava un cartello scritto a
mano. "Chiuso per ristrutturazione".
Da quando?
Le luci all'interno erano accese, ma la veneziana della porta era
abbassata. Attraverso le stecche riuscii a vedere BeBe, in piedi accanto al
banco ricezione, che parlava al telefono. Provai ad aprire la porta ma era
chiusa a chiave. Bussai sul vetro.
«Siamo chiusi», gridò lei.
«Sono io, sciocca», gridai di rimando. «Aprimi».
Stava ancora parlando al cellulare quando spalancò la porta e mi fece
cenno di entrare.
«D'accordo», stava dicendo. «Ma sia ben chiaro che se domani si
ripresenta qui ubriaco, gli taglio le palle con un coltello da ostriche. Diglielo
da parte mia».
Inarcai un sopracciglio.
«Imbianchini», spiegò, interrompendo la chiamata. «Trovami un
imbianchino sobrio nel sud della Georgia e pagherò qualunque cifra lui
chieda».
«Cosa sta succedendo?», domandai. «Cos'è questa faccenda della
ristrutturazione?».
«Ho perso la testa», ammise lei, passandosi le mani tra i capelli biondi
già arruffati.
Raggiunse il leggio del capocameriere e prese un anello pieno di chiavi.
La seguii all'esterno e rimasi ad aspettare mentre chiudeva a chiave la porta
del Guale. Sette passi sulla destra e ci ritrovammo di fronte al negozio per
tatuaggi Rose.
Alla finestra era appeso un cartello. "Chiuso. Abbiamo perso il nostro
fottuto contratto di affitto".
«Non l'hanno presa bene», spiegò BeBe. «Devo togliere quel cartello
prima che i nostri clienti si facciano un'idea sbagliata».
«Qual è l'idea giusta?» chiesi mentre apriva la porta.
«La mia sala interna», rispose eccitata. «Ricordi? La saletta delle Piccole
Suore? Non è un sogno?».
Entrò e indicò l'ambiente con un gesto. «Incredibile».
«Disgustoso», dissi. Puzzava come una fognatura intasata. «Non puoi
mettere una saletta qui».
Lei assunse un'aria delusa. «Pensavo che proprio tu, tra tutte le persone,
saresti riuscita a vederne le potenzialità».
Il pavimento era rivestito di linoleum appiccicoso. Il soffitto era
imbarcato e macchiato d'acqua. Uno scarafaggio sfrecciò sul pavimento,
probabilmente ansioso di darsi alla fuga.
«Vedo le potenzialità di beccarsi varie malattie a trasmissione aerea, a
cominciare dall'epatite A», ribattei. «Questo posto è un vero disastro».
«Aspetta e vedrai. Sarà divino. Ho avuto una visione».
Chiuse il negozio di tatuaggi e tornammo nel ristorante, dove mi versò un
bicchiere di tè ghiacciato.
«Oh». Estrasse dalla tasca un foglietto. «Quasi dimenticavo. Guarda. È
arrivato per posta». Era un volantino. Per la vendita dei mobili e degli
oggetti di Beaulieu.
«A me non l'hanno mandato», osservai.
«Puoi forse biasimarli se ti hanno depennato dalla mailing list?», chiese
BeBe. «In un certo senso hai rovinato la festa, l'ultima volta che hanno
cercato di organizzare una vendita».
Lessi il volantino. Riportava tutti gli articoli citati sull'elenco originale
ma non la credenza, che non era stata menzionata nemmeno la prima volta.
«Potrebbe anche non essere più là», spiegai. «In città girano alcune voci.
Si dice che Lewis Hargreaves potrebbe aver già comprato i pezzi migliori».
«Che importanza ha?», ribatté BeBe con noncuranza. «Se la credenza c'è,
la compri e fai un grosso colpo. Se invece non c'è, ti resta comunque il tuo
gruzzoletto. È più che sufficiente per aprire un tuo negozietto».
«Ma non ho più merce da vendere. Ho venduto tutto, persino alcuni dei
miei mobili, per mettere insieme i soldi necessari per comprare la credenza.
Dovrei andare fuori città, magari giù in Florida, per acquistare altra roba».
«Falla finita con questo pessimismo», mi ordinò lei, coprendosi le
orecchie con le mani. «Non voglio sentire nemmeno un'altra parola».
«Dov'è Daniel?», chiesi, guardandomi intorno nel ristorante buio.
«Piccola seduttrice!», esclamò BeBe, squadrandomi dall'alto in basso.
«Avrei dovuto capire che non ti sei messa la mousse nei capelli solo per me.
Scommetto che ti sei persino profumata. Be', sei sfortunata. Non è qui».
«Dov'è?».
«In ferie», rispose, stringendosi nelle spalle. «Per noi è comunque un
periodo fiacco, e devo far tinteggiare questo posto, cambiare la moquette e
far abbattere il muro per la nuova saletta. Quindi resteremo chiusi per due
settimane. Sempre che i miei imbianchini smaltiscano presto la sbornia».
«L'altro giorno non ha parlato di ferie», commentai.
«Ho deciso di chiudere il ristorante solo domenica sera», spiegò BeBe.
«E qual è l'altro giorno in cui hai visto Daniel, se posso chiedere?».
«Domenica», risposi, sorridendo al ricordo del nostro incontro in cucina.
«Dettagli», disse lei, schioccando le dita con impazienza. «Ho bisogno di
dettagli».
«Ha comprato il letto di mia cugina. E ora vuole che giochi a mettere su
casa», raccontai in tono sognante.
«Orizzontali?», chiese. «C'è stata dell'orizzontalità?».
«Siamo rimasti in verticale», dissi. «Ma in un bel modo».
40

Quando tornai a casa Jethro era nascosto sotto il tavolo della cucina, gli
occhi scuri colmi di rimprovero perché non l'avevo portato con me.
Presi un biscottino per cani e cercai di convincerlo a uscire.
«Avanti, Ro–Ro», dissi con voce carezzevole. «Vieni a prenderti un
biscottino, ragazzo. Vieni a prenderlo».
Ma lui rimase dov'era. «Bastardino cocciuto», dissi, alzandomi.
Fu a quel punto che la vidi: una piantina di orchidea gialla infilata in uno
splendido vaso di porcellana cinese blu e bianca. Sollevai il vaso per
esaminarlo meglio, sbirciai lo smalto cavillato e i marchi cinesi stampigliati
sul fondo. Era originale.
Una piccola busta cadde a terra. La raccolsi e l'aprii.
Conteneva il biglietto da visita di Tal. Sul retro lui aveva scritto "Torna
da me".
Posai l'orchidea sul tavolo. Jethro non si era mosso.
«L'hai lasciato entrare, Ro–Ro. L'uomo cattivo ti ha spaventato?».
Ma Jethro si stava appellando al diritto di non rispondere. E io avevo la
nausea.
Mi versai un bicchiere di tè ghiacciato, il che mi ricordò la questione
della mamma. Così feci quello che faccio sempre quando ho un problema:
chiamai James.
«Weezie!», esclamò lui, dopo che Janet lo avvisò che ero in linea. «Ho
buone notizie. Il detective Bradley mi ha appena telefonato. Ha notificato
all'ufficio del procuratore distrettuale che non dispone di prove sufficienti
per incriminarti per l'omicidio di Caroline».
«Fantastico», replicai. L'orchidea aveva una sfumatura di giallo davvero
sgradevole, con una tinta rosso sangue quasi oscena sulla parte anteriore
dall'aspetto fallico. Presi dal cassetto le forbici di cucina e tagliai uno dei
fiori che scendevano a grappolo. Mi sentii subito meglio.
«Non sembri molto eccitata», commentò James. «Hanno lasciato cadere
anche l'accusa di violazione di proprietà privata. La tua fedina penale è
pulita».
«La mamma ne sarà felice», dissi. «È magnifico. Davvero, zio James, ti
sono così grata per tutto quello che hai fatto. Non so come ringraziarti».
«Sei la mia famiglia», replicò semplicemente lui. «Se devo dirti la verità,
mi è piaciuto occuparmi di diritto penale a tempo perso. Ma ho
l'impressione che tu abbia qualche altro problema. Hai intenzione di
dirmelo oppure vuoi limitarti a restartene seduta lì a rimuginarci sopra?».
«Non sto rimuginando», replicai. «Solo che mi stanno succedendo cose
strane. E non sono neanche paranoica. A quanto pare emano un tipo di
energia che suscita comportamenti bizzarri».
«Fammi un esempio. Senza contare il fatto di aver trovato il cadavere
della fidanzata del tuo ex marito in un armadio».
«Si tratta della mamma. E del Bambin Gesù di Praga che piange. È da un
po' che voglio chiedertelo, James. Cosa dovrebbe rappresentare il Bambin
Gesù di Praga?».
«Io l'ho sempre visto come Gesù Bambino travestito», rispose lui, «ma
non dispongo di prove a sostegno della mia tesi».
«Be', io invece ho qualche prova a carico della mamma», affermai. E gli
raccontai della bottiglia di whisky trovata a casa di Lucy.
«Santo cielo. Speravo che stesse bevendo meno. Tuo padre non ha detto
niente in proposito».
«Sai com'è fatto papà. Ho anche trovato un flacone di Xanax in casa. La
ricetta era intestata a Lucy, ma secondo l'etichetta i medicinali sono stati
ritirati due giorni dopo la sua morte. Mancava una mezza dozzina di pillole.
La mamma ha preso i tranquillanti di Lucy mandandoli giù con il whisky».
«Dio dei cieli», ribatté James. «Potrebbe restarci secca. O magari
uccidere qualcun altro mentre è intontita dal miscuglio di pillole e alcol».
«La buona notizia è che, a quanto pare, sta dormendo a casa di Lucy.
Immagino che sia allora che ha quelle interessanti conversazioni con la
statuina».
«Dobbiamo farla aiutare da qualcuno», dichiarò James. «Poveretta. Non
ne avevo idea. Tuo padre non ha fatto cenno al fatto che lei dorme là o si
comporta in modo strano?».
«Non ha detto nemmeno una parola in proposito. Cosa possiamo fare?».
«Dovrò parlare con Joe, fargli capire che Marian ha un disperato bisogno
d'aiuto. Probabilmente lui non è al corrente delle pillole, anche se sappiamo
entrambi che si limita a ignorare il problema del bere».
«Quindi parlerai con tutti e due?».
«Parlerò con mio fratello», rispose James. «Ma credo che tu debba
parlare con tua madre, Weezie».
«No», replicai, sentendomi prendere dal panico. «Non posso. Devi farlo
tu, James. Sei bravo in queste cose. Lei ti adora. Ti ascolterà».
«È tua madre. È tempo che voi due facciate una bella chiacchierata».
«Ma cosa posso dirle?», chiesi in tono querulo. «Non è come se fossimo
amiche. Non abbiamo mai avuto quel tipo di rapporto».
«Comincia da oggi», mi disse in tono tranquillo. «Portala fuori a pranzo.
In un localino quieto, che non la faccia sentire minacciata. E dille
semplicemente che hai trovato i tranquillanti. Spiegale com'è pericoloso
mescolare pillole e alcol. Cerca di non darle l'impressione di giudicarla ma
falle capire che tu e tuo padre volete che si faccia aiutare per il problema
dell'alcol».
«Non saprei. Ci proverò. Ma tu parlerai con papà? Lo prometti?».
«Lo prometto. Ora ti senti meglio?».
«Un po'», risposi, sempre occhieggiando l'orchidea. Aveva un'aria
malevola, con il suo lungo e ampio ramo fiorito. Presi le forbici e tagliai
altri due fiori. «Si tratta di Tal», aggiunsi, schiacciandoli sotto il tacco della
scarpa. «Si comporta in modo strano. L'altra sera è piombato in casa mia,
ubriaco fradicio, supplicandomi di tornare con lui. Non è incredibile?».
«Tal ha fatto una cosa del genere?».
«Sì. Gli ho detto di andarsene, ma aveva un'aria così patetica che stavo
cominciando davvero a impietosirmi. James, Tal dice che Caroline aveva
una relazione con un altro uomo, proprio prima di essere uccisa».
«Davvero?». James non sembrò molto stupito.
«Sì. E mi ha raccontato che secondo lui aveva appuntamento con il suo
amante, la notte in cui è stata uccisa. Tal nutriva già dei sospetti e quella
notte lei ha ricevuto una misteriosa telefonata. Ha cercato di seguirla
quando ha lasciato la casa, ma l'ha persa a un semaforo rosso all'incrocio tra
la Victory e Bee Road».
«Gli credi? Oppure stava solo cercando di suscitare la tua pietà in modo
che tu lo riprendessi con te?».
«Credo che Caroline lo stesse tradendo», risposi. «L'altra sera ero a una
cena e tutti stavano spettegolando su di lei».
«Sì. Ho saputo una parte di quei pettegolezzi da un amico».
«Quale amico? Tu non frequenti pettegoli».
«Mi arrivano all'orecchio le voci», dichiarò James. «Hai idea di chi
potrebbe essere l'altro uomo?».
«Gerry Blankenship è stato il primo nome che mi è venuto in mente».
«Nessun altro candidato?».
«Caroline sarebbe potuta andare a letto praticamente con chiunque»,
osservai malignamente. «Solo che non saprei. È l'atteggiamento di Tal a
preoccuparmi. Si comporta in modo bizzarro. Dopo tutti quei mesi in cui è
stato così offensivo e crudele, ora torna da me strisciando. L'altra notte mi
sbavava addosso. Disgustoso».
«Credevo che avresti trovato lusinghiera tutta quell'attenzione», dichiarò
James.
«Non è così», replicai. «Senti, ho cominciato a vedere una persona. E lui
non vuole venire a casa mia perché Tal si aggira sempre nei paraggi».
«Quando hai tenuto l'ex rimessa per le carrozze sapevi che lui avrebbe
abitato lì accanto».
«Non sapevo che avrebbe fatto scappare il primo uomo con cui avessi
avuto un appuntamento. O che mi avrebbe spiato. O che sarebbe entrato con
la forza in casa mia per lasciarmi qui orrende piantine d'orchidea».
Silenzio. «È davvero entrato con la forza? Quando? Questo è tutt'un altro
paio di maniche».
Andai a esaminare la porta della cucina. La serratura non era stata
manomessa e la vernice dello stipite era integra. Quella mattina ero uscita di
fretta. Avevo dimenticato di chiudere a chiave? Tal mi stava guardando e
aveva notato la mia distrazione?
«È successo oggi», raccontai. «Forse non ha davvero forzato la serratura,
ma è sicuramente entrato in questa casa, e senza il mio permesso. Ha
lasciato dei fiori con un biglietto che dice "Torna da me". E ha spaventato
Jethro».
«Chiamerò il suo avvocato», annunciò James. «Gli dirò che chiederemo
un'ordinanza restrittiva contro Tal, a meno che non resti lontano da te».
«Davvero?». Sentii vacillare la mia determinazione. «Non voglio fare
scenate o farlo arrestare o altro. Voglio solo che mi lasci in pace».
«Me ne occupo io», promise James. «Ora chiama tua madre e rispetta la
tua parte dell'accordo».
«Lo farò».
Riagganciai. L'orchidea aveva ancora un grappolo di fiori.
Zac.
Buttai il terriccio nella pattumiera e mi collegai a Internet per vedere le
quotazioni correnti dei vasi cinesi su eBay.
41

Convincere la mamma a venire a pranzo con me richiese una certa fatica.


«Oh, non posso», rispose quando la invitai. «Ho così tanto da fare a casa
di Lucy. E cosa mi dici del pranzo di papà?».
«Ti aiuterò a finire di impacchettare e prezzare la roba di Lucy», promisi.
«E porterò a papà un pranzo al sacco, quando vengo a prenderti. Panino al
pomodoro con pane bianco e maionese. Giusto?».
«E patatine fritte», aggiunse lei, arrendendosi. «Gli piacciono quelle
ondulate. E magari qualche biscotto. Sai com'è goloso».
Dopo essere andata a prenderla parcheggiai il pick–up dalla parte opposta
della strada rispetto al ristorante, un posticino tranquillo che si chiamava
Arabella's consigliatomi da BeBe. Erano solo pochi passi, ma a metà
mattina c'era stato un breve acquazzone e adesso sembrava di essere in una
sauna. Il viso della mamma era rosa e rigato di sudore quando spingemmo
la pesante porta rossa dell'Arabella's.
Fummo accolte dal fresco dell'atrio, le cui pareti erano dipinte di un
riposante verde scuro. Il pavimento era di legno lucido e tende di chintz
ornavano le finestre che guardavano su Monterey Square. Delizioso. Il
posto ideale per un piccolo intervento di carattere familiare.
La mamma sorrise con palese apprensione, guardandosi intorno.
«Non è carino?», chiesi, prendendola sottobraccio. «Solo noi ragazze.
BeBe dice che i frutti di mare sono particolarmente buoni».
«Non sono speziati, vero? Sai che ho la diverticolite».
«Gli chiederemo di non mettere aglio e cipolla», la tranquillizzai, dandole
un colpetto rassicurante sul braccio.
Il maître attraversò rapidamente la stanza avvicinandosi a noi. Era alto e
magro come un modello, con capelli cortissimi, basette a forma d'apostrofo,
occhiali cerchiati di tartaruga e fianchi che avrei sognato di avere anch'io.
Ai piedi portava degli zoccoli.
«Signore?». Aveva un'aria vagamente perplessa. «Posso aiutarvi?».
«Sì», risposi. «Abbiamo prenotato. Il nome è Foley».
Lui abbassò gli occhi sul registro posato sul suo leggio, sfogliandolo.
«Per cena?».
«No. Pranzo. Una in punto. Siamo leggermente in anticipo. Spero non sia
un problema».
«Comunque sia», ribatté, stringendo le labbra. Fece scorrere un dito
lungo la pagina fino a trovare ciò che stava cercando. «Foley. Ecco qui».
Prese due menu, poi guardò me e la mamma. Si spinse gli occhiali
bifocali sulla punta del naso. «Non ditemelo», chiese. «Sorelle. Siete
sorelle, vero? La somiglianza è davvero incredibile».
La mamma ridacchiò. «Oh, com'è gentile. Ma questa è mia figlia.
Eloise».
Lui agitò scherzosamente un dito nella sua direzione. «Doveva essere una
bambina, quando ha avuto Eloise».
La mamma non capì e non solo perché aveva ormai una certa età. Dubito
che abbia mai saputo come flirtare.
«No», replicò, seria. «Avevo quarantanni quando è nata».
L'uomo si finse sconvolto. «Seguitemi, prego. Ho un tavolo molto intimo
accanto alla finestra che sono certo vi piacerà».
Seguimmo i suoi fianchi ancheggianti attraverso il ristorante. Il locale era
pieno ma c'era qualcosa di insolito nella clientela. Erano tutti uomini. E non
si trattava della solita folla di chiassosi avvocati del tribunale in centro o
uomini d'affari in maniche di camicia che parlavano al cellulare.
Erano uomini ben vestiti. La sala era tranquilla. Finalmente capii. All'ora
di cena l'Arabella's poteva anche essere un grazioso localino per coppiette
ma a pranzo, almeno il mercoledì, la mamma e io rappresentavamo una
netta minoranza, e non solo perché eravamo donne. Persino la carta da
parati era dell'altra sponda.
Mia madre, grazie al cielo, non si accorse di niente.
«È un posto così elegante», mi sussurrò, tirandomi il braccio. «Spero non
sia troppo costoso. Non voglio che tu spenda un patrimonio per me».
«È tutto a posto, mamma», la rassicurai. «Ho voglia di viziarti un po'».
«Non hai più un marito che ti mantiene», si preoccupò. «Dovresti
risparmiare, invece di sprecare denaro in pranzi eleganti».
Mia madre sa davvero come darmi sui nervi.
«Voglio offrirti il pranzo, okay? Posso permettermelo».
«Bene, d'accordo», disse lei con voce tremula. «Ma non prenderemo
l'insalata, se non è inclusa nel prezzo. Fanno sconti alle persone con più di
sessant’anni?».
Fu una fortuna che fosse impegnata a darmi consigli finanziari, perché
nell'ultimo séparé che oltrepassammo c'era un viso familiare.
Zio James. E non era solo. Seduto di fronte a lui, intento a guardarlo con
tenerezza, c'era Jonathan McDowell, il viceprocuratore distrettuale con cui
avevo cenato a casa di Merijoy Rucker.
In un lampo capii chi era l'amico speciale di James. E capii anche chi gli
stava riferendo tutti i pettegolezzi locali.
«Mamma», dissi, fermandomi e facendola ruotare su se stessa in modo
che voltasse le spalle allo zio. «Hai il rossetto tutto sbavato sul labbro
superiore».
«Davvero?». Si portò una mano al viso. «Ho controllato prima di uscire
di casa».
«Adesso è tutto sbavato», ripetei in tono comprensivo. «Vai alla toilette
delle signore. Intanto io ordino qualcosa da bere per tutte e due. Va bene del
tè freddo?».
«Senza limone», precisò in fretta, poi corse a sistemarsi il rossetto.
Afferrai il braccio del maître. «Credo che sarebbe meglio se ci desse un
tavolo sul davanti».
«Non c'è un altro tavolo», ribatté lui in tono gelido. «Sono tutti prenotati.
Il mercoledì è il nostro giorno di maggiore affluenza».
«Lo vedo», dissi secca. Tutte le coppie nel locale davano l'impressione di
essere venute direttamente lì dopo un incontro discreto in un motel.
Lanciai un'occhiata verso il tavolo dello zio James, che scelse proprio
quel momento per girarsi. I nostri sguardi si incrociarono. Gli rivolsi un
lieve cenno di saluto con un dito. Lui sbiancò. Sembrava sul punto di
svenire. Jonathan notò la sua espressione e si voltò per vedere cosa lo stesse
terrorizzando così. Anche lui impallidì visibilmente.
Si consultarono frettolosamente. James chiamò il maître con un cenno.
Entrambi avevano di fronte un piatto ancora mezzo pieno, ma
apparentemente avevano perso di colpo l'appetito.
James diede una rapida occhiata al conto e mise il denaro sul tavolo. Si
alzarono entrambi. Jonathan si avviò rapido verso la porta, facendo
deliberatamente il giro della stanza per evitare di passarmi accanto.
Mamma scelse per riapparire proprio il momento in cui James si
accingeva a seguire il suo amico.
«Ehi, James», disse, scorgendolo e bloccandogli la strada. «Pranzi anche
tu con noi? Pensavo che Weezie avesse detto che saremmo state solo noi
ragazze».
Fui costretta a mordermi il labbro per non scoppiare in una sonora risata.
Tutta contenta lei gli diede un bacio sulla guancia, lasciandogli uno
sbaffo di rossetto. «Che bello. E non è nemmeno il mio compleanno. Deve
arrivare anche Joe?».
«Be', no», rispose lui. «Avevo un pranzo d'affari. Con un altro avvocato.
Ma ora devo tornare in ufficio. Clienti da vedere e tutto il resto».
«Non puoi restare per qualche minuto?», domandai in tono
supplichevole.
Ma lui si stava già dando alla fuga. «Mi piacerebbe, ma un'altra volta.
Janet mi scuoierà vivo se faccio aspettare questo cliente».
La mamma si sedette e spiegò il tovagliolo sulle ginocchia. «D'accordo»,
rispose placida. «Ciao, James».
«Ordina pure per tutte e due, mamma», le dissi. «Io accompagno lo zio
fino all'uscita».
Aspettai che fossimo fuori dalla sua portata d'orecchio. «Avresti potuto
dirmi di Jonathan, sai».
«Non potevo», ribatté lui. «Mi ha pregato di non farlo».
«Sembra carino».
«Lo è. Molto carino. E anche tu gli piaci. Gli piace anche il tuo amico. Di
cui tu hai deciso di non dirmi nulla».
«Giusta osservazione. Presumo che tutti e due preferiamo non mostrare le
carte».
Mi cinse le spalle con un braccio. «Voglio vederti felice, Weezie. Questo
Daniel ti fa sorridere?».
«Sì. Mi fa sorridere, e mi fa ridere, e a volte mi rende talmente furiosa
che sono tentata di strangolarlo».
«Sembrerebbe un tipo fantastico».
Eravamo fermi accanto alla porta d'ingresso. Vidi Jonathan in piedi lì
fuori, con un'espressione ansiosa.
«Hai parlato con papà?».
«Subito prima di venire qui. Avevi ragione. Non immaginava neppure
lontanamente che la situazione di tua madre fosse così peggiorata. È
preoccupato».
«Ma è d'accordo sul fatto che lei abbia bisogno di aiuto?».
«Con riluttanza. Ricorda ancora l'ultima volta in cui è andata in... ehm,
ospedale e com'era infelice».
«Ma è successo quindici anni fa», osservai. «Ora esistono programmi di
disintossicazione di ogni genere. Forse non sarebbe nemmeno costretta a
farsi ricoverare».
«Gliel'ho detto. Ho un amico, un prete, che gestisce un programma al
Candler–St. Joseph's. Dovrei parlargli oggi pomeriggio, per vedere se
potrebbe essere la soluzione adatta a tua madre».
«Meglio che vada», dissi, stringendogli la mano. «La mamma penserà
che io sia scomparsa».
«Non essere troppo dura».
«James, non preoccuparti per lei. Non ha il minimo sospetto su te e
Jonathan. Salutalo da parte mia. Forse potremmo uscire a cena, voi due,
Daniel e io. Se le cose funzionano».
«Un'uscita a quattro?». Lui fece una smorfia. «Non credo di essere
ancora pronto per una cosa del genere. Già l'Arabella's ha richiesto
parecchio coraggio».

«L'insalata di gamberetti è il piatto del giorno», annunciò la mamma


quando mi sedetti. «Costa cinque dollari e novantacinque. Per dei semplici
gamberetti, roba da non credersi. Ma è il piatto più economico sul menu.
Lascio io la mancia».
«Mi sembra perfetto», dissi, bevendo un sorso di tè freddo.
«È un locale molto carino», dichiarò lei, guardandosi intorno. «Mi chiedo
se sarebbe il posto adatto per il pranzo del nostro gruppo di volontarie della
parrocchia».
Posai il bicchiere sul tavolo. «Forse sarebbe meglio venire qui per cena»,
osservai, immaginando le signore della parrocchia che si mescolavano con
gli habitué del pranzo del mercoledì.
«Oh, no. Molte delle ragazze non amano venire qui in centro con la
macchina di sera. Il crimine, sai».
Avevo provato e riprovato il mio discorsetto un centinaio di volte, la
notte prima. Avevo persino cercato di metterlo per iscritto. Adesso non
sapevo come affrontare l'argomento. Parlammo del tempo, di questioni
familiari e del giardino di papà finché il cameriere ci portò l'insalata di
gamberetti.
La mamma stava imburrando un panino. E io parlai semplicemente di
getto.
«Mamma, so del whisky. So che in realtà non bevi tutto il giorno tè
freddo. So che hai una bottiglia nascosta a casa della cugina Lucy. So che
prendi il suo Xanax. E so che stai dormendo là».
Lei continuò a imburrare il panino, staccandone alcuni pezzetti per poi
spalmarvi sopra il burro e posarli sul bordo del piatto. Non aprì bocca. Non
alzò lo sguardo. Una lacrima le rotolò lungo la guancia e cadde sul davanti
della sua camicetta.
«Mamma», sussurrai. «Va tutto bene. Non piangere. Ti faremo aiutare da
qualcuno»
Sollevò gli occhi, spaventata. «No», mormorò. «Non tornerò in quel
posto. Mai, mai, mai. Non ci andrò».
«Non in quel posto», replicai, allungando una mano per stringere la sua.
La ritrasse di scatto.
«Ci sono altri posti. Puoi tornare a casa, la sera. Non ti chiudono dentro a
chiave. Però ti aiuteranno. E mamma, hai bisogno di aiuto. Lo sai.
Prendendo quelle pillole avresti potuto morire».
«Tuo padre lo sa?». Mi guardò con aria implorante.
«Sì. E anche lui vuole che tu ti faccia aiutare».
«Gliel'hai detto!». Il suo viso si contorse irrigidendosi in una pallida
maschera di rabbia. «Non avevi alcun diritto di farlo!».
«Sapeva già del bere. Lo sapevamo tutti».
Il suo volto si raggrinzì. «Anche James?».
«Sì».
«Ti odio!», gridò. «Te ne vai in giro a sparlare di me alle mie spalle. Con
la mia famiglia. Raccontando bugie. Non ho bisogno di te. E non ho
bisogno di andare in ospedale. Sono in grado di badare a me stessa».
«No che non lo sei», dissi, chinandomi in avanti. «Le pillole che hai
preso sono un potente tranquillante. E le stavi prendendo insieme a del
liquore. Ecco perché la statuina ti parlava. Avevi le allucinazioni, mamma».
Lei si raddrizzò sulla sedia, sdegnata. «Ho avuto una visione religiosa». I
suoi occhi fiammeggiavano. «Ed è colpa tua. Perché sei una peccatrice.
Un'adultera. Ecco perché bevo. A causa tua. Tutto a causa tua!».
Cominciò a piangere disperatamente e si alzò, spingendo indietro la sedia
che cadde a terra.
Il maître si affrettò a raggiungerci, trasudando preoccupazione. «C'è
qualche problema?».
«No», risposi, rovistando nella borsa per prendere il portafoglio. «Non ci
fermiamo per il pranzo. Mia madre non si sente bene».
«Non sono un'alcolizzata», gridò lei. «E non ho le allucinazioni».
Afferrò la borsa e si precipitò verso la porta.
Il nostro cameriere comparve proprio in quel momento, con in mano un
vassoio di pasticcini.
«Niente dessert?», chiese.
«Non stavolta», replicai. «Stiamo cercando di smettere».
42

Dopo aver cercato inutilmente mia madre per mezz'ora, telefonai a papà.
«La mamma è tornata a casa?».
«Pensavo fosse con te», rispose lui. «James ha detto che avreste fatto una
chiacchierata. A proposito del bere».
«Infatti. È furiosa con me. E corsa via dal ristorante. Non riesco a
trovarla, papà. E l'ho cercata dappertutto».
Lui fece un profondo sospiro. «Non prendertela. Non è colpa tua. Avrei
dovuto essere io a parlarle. Sono suo marito».
«E io sono sua figlia. Credi che stia bene?».
«Non ha bevuto niente a pranzo, vero?».
«Niente».
«E un vero sollievo. Torna pure a casa. Faccio un giro in macchina per
vedere se la trovo».
«Dove può essere andata?», chiesi. «Non ha la macchina».
«Ma ha dei contanti», rispose lui. «Tiene sempre cinquanta dollari nella
borsa. In caso di emergenza. E mi vengono in mente almeno una mezza
dozzina di posti in cui potrebbe essersi rifugiata. Non preoccuparti. Ti
chiamo non appena la trovo».
«Lascia che venga a cercarla con te», lo implorai.
«Meglio di no», rispose lui. «Lascia che la calmi un po'».

Ero a casa solo da tre quarti d'ora quando papà mi telefonò.


«L'ho trovata». Aveva una voce sfinita.
«Dove? Sta bene?».
«Ha preso un taxi fino alla casa della cugina Lucy. Si è chiusa dentro. Ho
bussato e ribussato, ma non è voluta uscire. Credi che starà bene, là? Non
pensi che si farà del male, vero?».
«Non può ubriacarsi», dissi. «Ho versato nel lavandino la maggior parte
del suo whisky. E ho scambiato le pillole di Xanax con altre innocue.
Dubito che farà qualcos'altro. Cosa ha detto? Mi odia ancora?».
«Mi ha detto di andarmene», raccontò lui. «Ha detto che non tornerà più
a casa, che abbiamo tutti complottato contro di lei».
«Oh, papà», gemetti. «Mi dispiace tanto».
«Non lo si poteva evitare», dichiarò lui nel suo modo tranquillo e
pragmatico. «James sta andando da lei. È bravo con tua madre. Lo
raggiungo là. Abbiamo avuto la chiave della casa da un altro dei cugini,
quindi se lei non ci fa entrare apriremo da soli. Stammi bene, okay?».
«Sì. Chiamami».
Il telefono non squillò più. Rimasi seduta lì accanto, cercando di
convincerlo a suonare, senza successo. Chiamai di nuovo a casa dei miei,
ma non rispose nessuno.
Restare lì ad aspettare mi stava facendo impazzire. Camminai avanti e
indietro per casa, lucidai altra argenteria, mi collegai a Internet per mettere
in vendita il vaso cinese di Tal su eBay e controllare un altro paio di aste in
corso. Avevo i nervi tesi come corde di violino. A un certo punto estrassi
addirittura dalla borsa il flaconcino di Lucy e presi in considerazione l'idea
di seguire l'esempio della mamma. Forse dormire per un po' grazie a
qualche pillola di Xanax sarebbe stato piacevole. Forse il Bambin Gesù di
Praga mi avrebbe dato un paio di consigli.
Dio solo sapeva se avevo bisogno di qualche perla di saggezza. Su cosa
fare con Tal, con Daniel, con zio James, con l'offerta di BeBe di finanziare
l'apertura del mio negozio. Su cosa fare con la mamma e il suo vizio del
bere.
Alla fine optai per un po' di shopping–terapia. Quando il gioco si fa duro,
i duri fanno shopping. Avevo visto sul Pennysaver l'annuncio di una vendita
a un indirizzo del Southside, nella zona di Windsor Forest.
La Windsor Forest non si trovava sul mio consueto giro di raccolta
ciarpame perché la maggior parte delle case in quella zona della città erano
state costruite negli anni Sessanta o più tardi, quindi gran parte dei loro
arredi erano troppo moderni per i miei gusti.
Ma ero in preda a un grave caso di claustrofobia. Inoltre, riflettei in modo
razionale, si trattava di una rara vendita a metà settimana, il che significava
meno concorrenza per gli articoli migliori.
Quando mi fermai davanti alla casa, un edificio di mattoni rossi a livelli
sfalsati, cominciai a percepire vibrazioni positive. Una Lexus rossa era
parcheggiata nel vialetto. Conoscevo quell'auto: apparteneva a Sue Pierson,
un'arredatrice d'interni del centro con un fiuto incredibile per l'antiquariato.
Se Sue si trovava lì, dovevano esserci pezzi di buon livello. Sicuro come
l'oro.
Proprio mentre mi incamminavo sul vialetto la vidi uscire dalla porta, una
sedia Hitchcock nera e oro sotto ogni braccio.
«Arrivo troppo tardi?», chiesi.
Scoppiò a ridere. «Mia cara, là dentro ci sono abbastanza tesori per tutte
e due».
Le rivolsi un saluto militare e lei rise di nuovo.
Come Sue aveva promesso, la casa traboccava di pezzi d'antiquariato.
Tutte le stanze erano gremite di tavoli ingombri di porcellane, argenteria,
cristalleria, quadri, piatti e biancheria da casa.
Nel bel mezzo del caos del soggiorno, un uomo anziano in accappatoio
seduto su una logora poltrona reclinabile gridava la storia di ciascun oggetto
senza rivolgersi a nessuno in particolare.
«Quella radio è stato un premio che mia madre ha avuto per aver
acquistato del tè Jewel», disse, vedendomi prendere una radio vintage. Sul
cartellino c'era scritto sessantacinque dollari, così la rimisi al suo posto.
Dopo aver sbirciato una mezza dozzina di cartellini decisi che i
proprietari dell'abitazione avevano assunto un perito perché quotasse i vari
pezzi, il che significava che la maggior parte degli articoli aveva il prezzo al
pubblico — quindi al di fuori della mia portata.
L'ultima stanza che visitai era una veranda chiusa da vetrate sul retro
della casa. Era piena di vasi da fiori e attrezzi da giardino impolverati. Mi
girai per andarmene quando intravidi il bracciolo ricurvo di una poltrona in
rattan.
Spostai un lavatoio in latta galvanizzata per poterla esaminare meglio.
Il cuscino era orrendo, di velluto a motivi floreali arancioni e verdi, ma la
poltrona era una vera chicca. Risaliva ai tardi anni Quaranta o primi anni
Cinquanta ed era di rattan Heywood–Wakefield. Estremamente originale.
Un pezzo da collezionista. Un cartellino su cui era indicato un prezzo di
settantacinque dollari pendeva dal telaio.
Entrai in casa e trovai il cassiere. «Mi interessa la poltrona sulla
veranda», dissi. «Potrebbe venirmi incontro con il prezzo?».
Era un uomo massiccio, con un pizzetto disordinato e unti capelli grigi
che gli arrivavano al colletto. Lo avevo già visto in giro per la città a
sovraintendere ad altre vendite.
«Potrei», rispose, squadrandomi. «Le interessa anche il resto?».
«Il resto?». Il mio battito cardiaco accelerò.
«In garage», dichiarò, indicando una porta nella cucina. «Ci sono un
divano, una sedia a dondolo, due tavolini e un tavolinetto da caffè. Anche
un bancone bar di bambù con due sgabelli. Heywood–Wakefield della metà
del Novecento. Ed è la serie completa».
Il mio battito cardiaco tornò normale. Se l'uomo sapeva di che tipo di
rattan si trattava, sapeva anche quanto valeva. «Quanto?», chiesi, non
volendo dare nemmeno un'occhiata agli altri mobili prima di essere sicura
di potermeli permettere.
Lui prese un coltellino d'argento e cominciò a tagliarsi la lunga unghia
gialla del pollice. «Il set è quotato milleottocento dollari», annunciò. «E
possiamo ottenerli, se lo portiamo allo Scott's Antique Market il mese
prossimo».
Non lo contraddissi.
«Ma la famiglia ha venduto la casa, che verrà chiusa venerdì. Vogliono
svuotarla prima di allora, quindi ci accontenteremo di un migliaio».
«Mi lasci pensare», replicai.
Andai in garage a guardare il resto della serie Heywood–Wakefield.
Erano mobili davvero magnifici, con grandi braccioli, schienali arrotondati
e piani dei tavoli in legno biondo verniciato. Riuscivo quasi a vederli in una
casa sulla spiaggia, i cuscini ricoperti con un tessuto diverso, magari
un'imitazione di batik, con grandi fronde di palma e foglie di caladium.
Conosco una donna di Spanish Hammock che si fa chiamare Jacky la
Pacchiana e che realizza tappezzerie e fodere per poltrone e divani ai prezzi
più convenienti della città.
Una casa sulla spiaggia. Questo mi diede un'idea. Il rattan sarebbe stato
troppo costoso per comprarlo nella speranza di ricavarne un profitto, ma
sarebbe stato perfetto per una certa casupola sull'isola di Tybee.
Aprii il cellulare e chiamai il servizio informazioni per avere il numero di
Daniel.
«Sono Weezie», annunciai. «Dicevi sul serio quando mi hai chiesto di
comprare mobili per la tua casa sulla spiaggia?».
«Certo», rispose. «Hai già trovato qualcosa?».
«Forse. Una serie di mobili in rattan. Per il salotto. Dovresti far ricoprire i
cuscini, ma conosco una persona che può farlo. C'è persino un bancone da
bar. È molto di tendenza. Molto anni Quaranta».
«Prendilo», ribatté. «Se piace a te piacerà anche a me».
«Non vuoi sapere quanto costa?».
«Mi fido di te», spiegò. «Cosa fai stasera?».
«Mi preoccupo per mia madre», dissi. «È scappata di casa».
«Non pensarci. Passo a prenderti alle sei. Okay? Abbigliamento casual.
Shorts e scarpe da ginnastica».
«Perché no?», dissi.
«Ci vediamo alle sei».
Quando tornai in salotto l'addetto alla cassa era ancora impegnato a farsi
la manicure. Avevo riflettuto su quale potesse essere l'approccio migliore. Il
rattan era bello e un migliaio di dollari era un prezzo onesto, ma avevo la
sensazione di poterne ottenere uno più basso. Dopo tutto, lui aveva solo due
giorni di tempo per svuotare la casa e non c'era certo una folla di acquirenti
ansiosi di comprare.
«Il rattan mi piace», dichiarai, sorridendogli. «Ma il prezzo è un po'
troppo alto, se voglio rivenderli».
Lui si strinse nelle spalle e continuò a occuparsi delle sue unghie.
«Cosa ne direbbe se lasciassi un'offerta?», proposi.
«Potrebbe», ribatté. Rovistò sul tavolo fino a trovare un blocco da
stenografa a righe verdi, e lo aprì su una pagina vuota.
Scribacchiai un'offerta di settecentocinquanta dollari, annotando il mio
nome e numero di telefono.
«Quando mi farà sapere?», chiesi.
«Presto. Parlerò con la famiglia e vedrò cosa mi dicono».
43

Tornando in città mi fermai a casa dei miei genitori. Trovai mio padre
seduto al tavolo di cucina, che fissava accigliato un opuscolo.
«Ciao, papà», dissi, dandogli un bacio sui capelli. «La mamma è tornata a
casa con te?».
«No. Dice di non essere ancora pronta, però ci ha lasciato entrare. E noi
tre abbiamo fatto una lunga chiacchierata».
«È disposta a farsi aiutare?».
Posò l'opuscolo, si tolse gli occhiali e li pulì con l'orlo della camicia. Il
dépliant si intitolava "Risposta della famiglia all'alcolismo".
«Dice che lo farà», rispose. «Dovremo aspettare e vedere. Domani
andremo a parlare con questo amico di James che lavora al Candler–St.
Joe's. Marian ha promesso di venire perlomeno a sentire cosa hanno da
dire».
Per la prima volta mi accorsi che ultimamente era cambiato, e non certo
in meglio. Mentre io ero distratta da altre cose, i suoi capelli castani si erano
ingrigiti. Il viso un tempo allegro somigliava tutt'a un tratto a un budino non
rappreso. E, per la prima volta in vita mia, notai che aveva un'aria
trasandata.
La spessa montatura dei suoi occhiali era tenuta insieme da un cerotto, la
camicia sportiva a maniche corte aveva bisogno di essere stirata, i pantaloni
erano stinti e stazzonati e, cosa più sconvolgente di tutte, le scarpe nere con
i lacci non erano lucide.
Un tempo la mamma non avrebbe mai permesso che lui andasse in giro
in quel modo. Ma non era una faccenda di cui mio padre fosse disposto a
parlare. Sarebbe sembrato sleale nei confronti della moglie, e lui non
l'avrebbe mai criticata.
«La mamma ha accettato di andarci», ripetei, concentrandomi sul lato
positivo della situazione. «E vi ha fatto entrare in casa. E adesso ammette di
essere un'alcolizzata?».
Papà si sfregò di nuovo gli occhi. «No. Rifiuta di ammetterlo».
«Non pensa di avere un problema con il bere?».
«Dice che ce l'abbiamo tutti con lei. L'unico motivo per cui ha accettato
di andare a parlare con queste persone è che in questo modo loro ci diranno
che non ha nessun problema».
«Ma papà, lei ce l'ha. Si ubriaca pressoché ogni giorno. Lo fa ormai da
anni. E la cosa sta peggiorando».
«Lo so, tesoro», ribatté. «Io lo so e tu lo sai e James lo sa. Lui dice che
Marian è in una fase di negazione. Ma dobbiamo pur cominciare da qualche
parte. Quindi questo è quanto faremo».
«Mi odia», dichiarai. «Il mio divorzio è stato la sua rovina».
«No», si affrettò a replicare lui. «È l'alcol che le fa dire queste cose. E
quella faccenda della negazione. Ti ama più di qualsiasi altra cosa al mondo
ma è ferita e sconvolta, ed è terrorizzata all'idea di tornare in un ospedale.
Dobbiamo essere pazienti con lei».
«Perché non vuole tornare a casa?».
«Dice che è stanca di essere spiata. La verità, secondo me, è che si
vergogna di affrontarci, adesso che la cosa è di dominio pubblico. Sa che il
vizio del bere le è sfuggito di mano e si sente in colpa per averci deluso».
Annuii, guardandomi intorno nella cucina. Come papà, la casa aveva
visto giorni migliori. Le tendine pendevano flosce e unte da finestre che non
venivano lavate da mesi. C'erano ditate sul frigorifero e piatti sporchi nel
lavandino, e il pavimento era appiccicoso. Come mai non avevo notato
nulla di tutto ciò? Un ceroso accumulo giallastro sul pavimento della cucina
di Marian Foley? Quello avrebbe dovuto fungere da allarme rosso,
segnalando che la mamma aveva qualcosa che non andava.
Posai la borsetta sul tavolo e raggiunsi il lavandino, prendendo il secchio
e il detersivo.
«Cos'hai intenzione di fare adesso?», chiese papà.
«Sistemare le cose», risposi, riempiendo il lavandino di acqua saponata
bollente. «In modo che la mamma possa tornare a casa».
«Ti do una mano», annunciò, alzandosi faticosamente dalla sedia. Rimasi
a guardarlo, senza parole, mentre apriva il ripostiglio e prendeva scopa e
paletta. Mai, in vita mia, lo avevo visto fare il più piccolo lavoretto
domestico. Non riuscivo a credere che sapesse dove si trovava la scopa, non
parliamo del fatto di saperla usare.
Papà notò la mia espressione sbalordita e mi strizzò l'occhio. «Non è mai
troppo tardi per provare qualcosa di nuovo, vero?».
«Nossignore», replicai.
Avevo un'ultima sosta da fare mentre tornavo a casa. Si trattava di una
piccola boutique di biancheria intima su Whitaker Street, in centro. Vi ero
passata davanti centinaia di volte senza mai fermarmi. Varcai con aria
colpevole la porta di legno intagliato, sperando che nessuno passasse lì
davanti e mi vedesse.
La mia scusa era che avevo davvero bisogno di un nuovo reggiseno, visto
che la cugina Alice aveva rubato il mio. In realtà, però, stavo curiosando per
cercare una nuova me stessa.
I miei giorni di cotone bianco erano terminati. Non appena lo vidi, capii
che dovevo averlo: un reggiseno di pizzo nero e color carne con mutandine
di seta coordinate che mi ricordò il négligé indossato da Lana Turner in un
vecchio poster da pin–up degli anni Quaranta. La mia taglia, il mio nuovo
stile, e l'insieme creò un buco di novanta dollari nel mio gruzzolo per gli
acquisti. Mi morsi il labbro e pagai in contanti. La commessa se la prese
comoda avvolgendo il completino in carta velina color pesca e infilandolo
in un sacchetto color pesca legato da un nastro di chiffon dello stesso
colore, quando invece l'unica cosa che desideravo era afferrarlo e
svignarmela.
Una volta a casa feci una rapida doccia e indossai shorts di lino giallo
chiaro e un top di lino dello stesso colore. Mi laccai le unghie dei piedi –
giusto così. Era stata una giornata difficile e orribile. Ero pronta per dello
smalto per unghie rosso – e per la biancheria intima più costosa che avessi
mai posseduto.
Daniel suonò il campanello proprio mentre stavo scendendo al pianoterra.
Mi squadrò dalla testa ai piedi. «Non sei un po' troppo elegante per andare a
pesca di granchi?».
«Non hai detto che saremmo andati a pescare granchi», gli feci notare.
«Hai parlato di shorts».
«Non shorts carini».
«Non metto vestiti sporchi quando esco con qualcuno», replicai,
cominciando a fumare di rabbia. Per quale motivo Daniel aveva
quell'effetto su di me?
«Stai benissimo», si addolcì lui, «ma non dare la colpa a me se i vestiti si
rovinano».
Gli lanciai un'occhiataccia e tornai al piano di sopra, dove buttai in una
sacca di tela dei brutti pantaloni tagliati al ginocchio e una maglietta,
insieme a un paio di malconce scarpe da ginnastica.
«Andiamo», disse lui, trascinandomi fuori dalla porta. «Perderemo la
marea».
Prima che me ne rendessi conto eravamo nel mezzo del Talmadge
Memorial Bridge, che attraversa il fiume Savannah dividendo la Georgia
dal South Carolina.
«Dove stiamo andando?», chiesi, allarmata.
«Bluffton». Lui mi lanciò un'occhiata per vedere se avevo obiezioni. «È
l'unico modo in cui posso sottrarti alla tua famiglia, al tuo cane e al tuo ex
marito».
Abbassai lo sguardo sul lento scorrere dell'acqua marrone del Savannah.
«Mi stai portando al di là del confine dello stato con scopi immorali?».
«Lo spero ardentemente», rispose lui. «Un mio amico ha una casa con un
pontile sul fiume May, e posso usarla mentre sono in ferie, questa
settimana».
«Non posso restare a Bluffton per una settimana».
«Io ho la casa per tutta la settimana, non tu», precisò lui. «Ho
semplicemente pensato che forse ti sarebbe piaciuto vederla. È in quello
stile da rigattiere che tu sembri apprezzare. Faremo una cenetta, andremo a
pesca di granchi e magari dopo faremo una nuotata».
«Non hai parlato di un costume da bagno», replicai.
«Dev'essermi uscito di mente», disse, tenendo gli occhi fissi sulla strada.
«Ci scommetto».
Cominciò a piovere proprio mentre raggiungevamo l'estremità del ponte
nel South Carolina. All'inizio la pioggia scese lenta e il vapore si levò
dall'asfalto cotto dal sole. Luglio era stato estremamente secco ma ormai si
stava avvicinando la stagione degli uragani. Il cielo si oscurò e la pioggia si
fece più intensa, inondando rapidamente la strada bassa.
Daniel alzò il volume della radio per sovrastare il suono dell'acquazzone.
L'aveva sintonizzata di nuovo sulla sua stazione preferita, quella
specializzata in vecchi successi.
Stavano trasmettendo Summer Rain, un vecchio pezzo di Johnny Rivers
che ricordavo di aver sentito parecchi anni prima al campeggio, quando alla
sera una capogruppo che aveva nostalgia del suo ragazzo rimasto a casa,
dopo aver fatto spegnere le luci ascoltava senza interruzione quella
canzone.
Daniel canticchiò a bocca chiusa accompagnando la radio e io osservai la
palude scorrere rapida dietro il finestrino formando una striscia di un verde
intenso, punteggiato qua e là da un negozietto di fuochi d'artificio o una
bancarella di pomodori.
Mentre entravamo nella cittadina di Bluffton rallentò e indicò una fila di
negozi sulla destra. «Ci sei mai stata?».
Guardai il punto indicato. Metà del piccolo centro commerciale era
occupata da un negozio chiamato La Juntique. Sedie, tavoli e specchiere
bordavano il marciapiede di fronte all'edificio.
«No», risposi, allungando il collo per vedere meglio. «Ne vale la pena?».
«Non ci sono mai entrato neanch'io. Vuoi dare un'occhiata?».
Era un'assoluta novità. Un uomo che offriva di fermarsi in un negozietto
di antiquariato invece di passarci davanti rapidamente, come avrebbe fatto
Talmadge Evans.
«C'è sotto un trabocchetto?», domandai, guardandolo insospettita.
«Sto solo cercando di essere gentile», ribatté lui. «Un uomo non può
essere gentile?».
«Vuoi qualcosa in cambio».
Di nuovo il sorriso. «Sì».
«Scommetto che non si tratta della mia ricetta per il cheesecake».
«Magari in un secondo tempo».
44

Fedele al suo nome, La Juntique vendeva soprattutto ciarpame, con


giusto la quantità sufficiente di pezzi d'antiquariato sparsi sulle mensole e
sui mobiletti per indurmi a continuare a rovistare.
Daniel mi seguì lungo gli stretti corridoi, osservandomi mentre io
osservavo la mercanzia. «Che cos'è?», chiedeva quando io sollevavo una
fruttiera di vetro pressato o un cuscino vittoriano decorato di perline. «È di
valore?».
Cominciava a darmi sui nervi. Forse era stato un bene che Tal evitasse di
venire con me in cerca di cianfrusaglie.
Sul retro del negozio c'era un ampio spazio delimitato da cordoni. Un
cartello fissato con lo scotch allo schienale di una sedia diceva: "Vietato
l'ingresso. Solo personale"
Una baraonda di oggetti, mobili, scatoloni strapieni di carta da pacco,
casse colme di libri polverosi e vecchi dischi a 33 giri occupava quasi tutto
lo spazio. Un tavolinetto quadrato spiccava come un diamante in una
scatoletta di chiodi da due soldi.
Era in legno di ciliegio, con eleganti gambe affusolate e il piano intarsiato
d'ebano.
Mi fermai a fissarlo. Daniel mi stava respirando sul collo. «Sei pronta ad
andare?».
«Non ancora», risposi, scavalcando la corda.
«Il cartello dice che è vietato l'ingresso», disse lui. «Vieni, Weezie. Vuoi
farti arrestare di nuovo?».
Mi accovacciai sul pavimento di cemento e infilai la testa sotto il tavolo.
Feci correre le dita sul piano impolverato.
«Cos'ha di tanto speciale?», chiese Daniel, guardandosi intorno per
scorgere le guardie armate che si aspettava ci piombassero addosso da un
momento all'altro.
«È un tavolino stile Impero», spiegai. «Il più bello che io abbia mai visto.
È quello che ho pensato l'ultima volta in cui l'ho notato».
«Come, scusa?».
«A Beaulieu», aggiunsi, girandogli intorno lentamente per studiarlo da
ogni lato. «Viene da Beaulieu. Ne sono sicura».
Raggiunsi la parte anteriore del negozio, dove era seduta una ragazza di
circa diciotto anni assorta nella lettura dell'ultimo numero di People.
Alzò gli occhi verso di me. «Sì, signora?».
«Sul retro c'è un tavolino che mi interessa», dichiarai, indicando la
direzione. «Ma non c'è il prezzo».
Lei masticò il suo chewing gum. «Dovrà parlare con la proprietaria».
«D'accordo», replicai amabilmente. «Dov'è?».
«A casa».
«Può telefonarle?».
«Immagino di sì».
Posò la rivista e prese un cellulare.
«Liz? Sono Catharine. C'è qui una signora che vorrebbe chiederti
qualcosa su un tavolo».
«Le dica che è il tavolino in stile Impero», precisai. «Nella zona riservata
al personale».
A queste parole la ragazza si accigliò, ma ripeté la frase.
Rimase in ascolto e poi riappese. «La proprietaria mi ha chiesto di dirle
che il tavolino non è in vendita». Mi lanciò un'occhiata accusatrice. «Non
sarebbe dovuta andare là. È privato».
«La richiami, per favore», la pregai.
«Weezie». Daniel mi prese per il gomito. «Ti ha detto che non è in
vendita».
«Voglio solo parlarle», risposi. «Chiederle da dove viene il tavolino».
La ragazza alzò gli occhi al cielo ma compose di nuovo il numero. «Le
ho detto che il tavolino non è in vendita, ma vuole parlare con te». Mi passò
il telefono.
«Sono Liz Fuller», disse la donna in tono seccato. «Come Catharine le ha
spiegato, il tavolino è già stato venduto».
«Capisco», risposi, «ma mi stavo chiedendo da dove arrivi. È davvero un
mobile eccezionale. Sa qualcosa sulla provenienza?».
«No. L'ho comprato da uno dei miei rigattieri perché ho un cliente che
stava cercando un pezzo con quelle caratteristiche».
«Ma è in stile Impero», insistetti io. «Ed è davvero splendido.
Sicuramente sa qualcosa, al riguardo. Come si chiama il rigattiere? Sono
anch'io una rigattiera e mi interesserebbe vedere qualsiasi altra cosa possa
uscire dalla stessa casa».
«Non rivelo mai le mie fonti», disse Liz Fuller. E riagganciò.
«Serve altro?», chiese la ragazza, sogghignando.
Presi un biglietto da visita dalla borsetta e scribacchiai qualche parola sul
retro, poi glielo passai. «Lo dia alla proprietaria quando arriva», le chiesi.
Poi mi voltai e uscii a grandi passi.
Daniel mi raggiunse accanto al pick–up. «Cosa ti prende?».
Guardai le facciate degli altri negozi e vidi che c'era un'altra bottega di
antiquariato in fondo alla fila.
«Quel tavolino arriva da Beaulieu. L'ho visto la notte in cui sono entrata
nella villa, quando ho trovato Caroline. Hanno annullato la vendita, che
apparentemente è stata fissata per questo fine settimana, ma ho sentito voci
secondo cui i pezzi migliori sono già stati venduti».
«E con ciò?».
«Ti ho parlato della credenza, quella di Moses Weed. Ho bisogno di
sapere chi sta vendendo i mobili di Beaulieu, in modo da poterlo avvicinare
prima della vendita per tentare di acquistare la credenza».
«Non puoi semplicemente aspettare fino a sabato?».
«Non sono la sola persona interessata alla credenza. C'è un importante
antiquario, Lewis Hargreaves – interessa anche a lui. E gira voce che abbia
già acquistato alcuni pezzi usciti da Beaulieu. Voglio avere la credenza
prima che se ne impadronisca lui».
«Cosa hai scritto sul biglietto da visita?».
«Solo che ero disposta a pagare per l'informazione su chi le ha venduto il
tavolino».
«Funzionerà?».
«Non lo so», ammisi. «Le persone che rivendono i pezzi possono essere
molto riservate su questo genere di cose. Vogliono proteggere le loro fonti e
i nomi dei loro rigattieri per potersi tenere la roba migliore».
«Sei pronta ad andare?», chiese lui. «Ha smesso di piovere. Possiamo
ancora pescare qualche granchio prima che faccia buio».
Vide dove stavo guardando.
«Solo un ultimo negozio? Soltanto una rapida occhiata?».
«Quindici minuti», ribatté. «Devo accendere la carbonella per la cena».
«Affare fatto».
Il negozio si chiamava Annie's Attic. Guardando dalla finestra vidi che
era piccolo e ricercato, pieno di cristalleria e porcellane, con un sacco di
imitazioni vittoriane ornate di pizzi mescolate a candele, saponette, orsetti
di peluche e bambole costosi. Non era affatto il mio genere di negozio... Ma
non ero disposta a rinunciare alla possibilità di esaminare cianfrusaglie per
altri quindici minuti.
L'interno profumava di pot–pourri alla cannella. La tecnica espositiva era
l'opposto di quella de La Juntique's. Ogni oggetto era sistemato
ordinatamente su mensole di vetro immacolate e protette da centrini di
pizzo di carta.
Arricciai il naso.
«Adesso qual è il problema?», domandò Daniel.
«Nessuno. Solo che è un po' troppo frou–frou per i miei gusti».
«frou–frou?».
«Lo sai. Precisino. Affettato. Lezioso».
«Non rustico?».
«Be', sì», dissi. «Mi piace che i miei pezzi d'antiquariato dimostrino la
loro età. Non mi fido di nulla che sia troppo agghindato. Trovo che dia
un'impressione di pretenzioso».
«Ecco perché ti piaccio io», dichiarò lui, con un autocompiacimento un
po' eccessivo.
«Per questo e per la tua Seduzione al cioccolato».
Un gruppo di oggetti sul davanti del negozio attirarono la mia attenzione.
Contrariamente agli altri articoli in tinte pastello e pieni di pizzi,
costituivano un insieme piuttosto mascolino composto da panieri per la
pesca, finte anatre in legno, vecchi guanti da boxe in pelle e tre piatti da
ostriche di maiolica.
I piatti erano magnifici, smaltati in giallo e blu e verde sgargianti, con
ogni incavo per le ostriche smaltato in rosa per sembrare un guscio d'ostrica
stilizzato. Due erano uguali, e avevano un bordino in rilievo che
rappresentava delle alghe e, più all'esterno, un altro bordo di minuscole
conchiglie.
«Questa roba non sembra troppo frou–frou», commentò Daniel,
sollevando i guantoni da boxe. «Mio padre ha regalato a mio fratello e a me
dei guantoni identici a questi, quando eravamo bambini. Li usavamo sempre
per darcele di santa ragione».
Presi uno dei piatti gemelli e lo capovolsi. Il marchio era quello che mi
aspettavo. Minton.
«È la prima volta che ti sento parlare di tuo padre», dissi, esaminando
l'altro piatto per controllare che avesse lo stesso marchio.
«Mio padre è morto», replicò Daniel in tono neutro. «Quando avevo
quattro anni. Ecco perché non parlo di lui. Non c'è niente da dire».
Gli rivolsi un'occhiata meditabonda. La mia bisnonna era morta quando
avevo quattro anni, eppure pensavo a lei e parlavo di lei continuamente.
Forse era diverso con gli uomini.
Sollevai uno dei piatti per mostrarlo a Daniel. «Non sono bellissimi?».
«Ti piacciono le ostriche?», chiese, tornando di nuovo allegro. «C'è un
fantastico stufato di ostriche che preparo in autunno, quando diventano di
nuovo dolci».
«Le adoro».
Mi tolse di mano il piatto e lo guardò. «Bello». Ma fece una smorfia
quando vide l'adesivo con il prezzo. «Wow. Trecentocinquanta dollari per
un piatto su cui mangiare le ostriche».
«Sono trecentocinquanta dollari a coppia», spiegai, sollevando l'altro.
«Questa è maiolica inglese. I pezzi Minton, che è il nome del creatore, sono
molto ambiti. Non sono assolutamente un'esperta di maioliche, ma questi
sembrano piuttosto antichi, probabilmente risalgono al 1860 circa. E potrei
giurare che siano gli stessi che ho visto a Beaulieu».
Un'espressione addolorata gli attraversò il viso. «Di nuovo?».
«Almeno questi sono in vendita, a quanto pare», dissi.
Li portai verso il bancone, dove una donna dai capelli bianchi stava
esaminando e prezzando alcune posate d'argento.
Mi guardò e sorrise quando vide i piatti tra le mie mani. «Non sono
magnifici? Lei colleziona maioliche?».
«Sono splendidi», replicai. «Lei è Annie?».
«Sì. Vuole che glieli incarti?».
«Non ancora. Cosa può dirmi al riguardo?».
«Sono Minton, naturalmente, e il colore e il modello sono davvero
eccezionali per piatti del genere. In qualunque altro posto li pagherebbe il
doppio di quanto chiedo io».
«Da dove vengono?». Stavo sorridendo anch'io, semplicemente una
collezionista cordiale, curiosa.
«Dall'Inghilterra».
«No, voglio dire dove li ha comprati».
All'improvviso sul suo sorriso radioso calò un velo di ghiaccio. «Una
villa. Compro oggetti in tutto il Sud–Est. E ogni estate faccio un viaggio per
acquisti nel New England».
«Arrivano da una villa qui nella zona? O magari di Savannah?».
Lei prese un cucchiaio d'argento e appiccicò sul manico un adesivo con il
prezzo. «Non ricordo».
«Sono identici a un set di piatti per ostriche Minton che ho visto in una
vecchia villa coloniale fuori Savannah chiamata Beaulieu. Vengono da là?».
I suoi occhi azzurri scintillarono pericolosamente. «Non ho mai sentito
parlare di Beaulieu. Ora devo chiederle di andarsene, temo. Il mercoledì
chiudiamo presto».
Guardai con aria eloquente il cartello appeso alla parete alle sue spalle,
che diceva: "Aperto il mercoledì, da mezzogiorno alle nove".
Lei vide cosa stavo guardando e non batté ciglio.
«Orario estivo». Girò intorno al bancone e mi tenne aperta la porta.
«Arrivederci».
45

«Due strike», disse Daniel. «Credo ci sia un altro negozio di antiquariato


un po' più avanti sulla strada. Vuoi provare a fare il terzo strike?».
«Ho finito», annunciai mestamente. «Scusa se ti ho fatto perdere tempo.
Cos'è che stavi dicendo sulla cena?».
Lui svoltò sulla strada principale. «Ho fatto marinare tutto il giorno una
lombata di maiale. Poi abbiamo delle patate novelle con rosmarino, erba
cipollina e sale marino da mettere sul barbecue insieme al maiale. Ti piace il
mango?».
Annuii.
«Salsa di mango e ananas, con coriandolo fresco e peperoncini habanera.
Sono andato fino a Sandfly a prendere dei fantastici fagiolini. E per
dessert...». Mi lanciò un'occhiata. «Penso che lascerò sia una sorpresa».
«Credo che potrei abituarmi a questo genere di cose», dichiarai.
«Lo spero».
Svoltò a destra su una stradina stretta e superammo sobbalzando circa
una dozzina di case. Alcune erano semplici baracche sul fiume mentre altre
aspiravano a un'immagine più da quartiere residenziale, con mattoni a vista,
pontili ed elegante patio. Sorgevano tutte disordinatamente tra boschetti di
cipressi, oleandri, mirto palustre e palme nane.
Sentii l'odore del fiume ancor prima di vederlo, il suo intenso aroma di
fango e sale che inaspettatamente placò i miei nervi tesi. E poi eccolo,
chiazze verdi tra le case, con pontili che si protendevano come lunghe dita
verso l'acqua profonda.
«Siamo arrivati», annunciò Daniel, imboccando un vialetto in terra
battuta. La casa era in legno di cedro non dipinto, a cui il tempo aveva
conferito un color grigio argenteo. Il tetto era di lamiera arrugginita, e un
portico chiuso correva lungo la facciata. Un cartello di legno inchiodato a
una quercia nel cortiletto anteriore la identificava come Love Shack.
«Il cognome di Patata è Love», spiegò lui. «È il mio amico di cui ti ho
parlato».
«Conosci qualcuno che si chiama Patata Love?».
«Il suo vero nome è Wesley, ma quando era piccolo l'unica verdura che
mangiava erano le patate».
«Immagino non sia un nome più strano di Weezie», commentai.
Aveva ricominciato a piovere. Per cinque minuti restammo seduti sul
pick–up con il motore acceso, aspettando che smettesse. «Credo che non
andremo a pescare granchi, dopo tutto», disse Daniel. «Si sta facendo tardi,
comunque».
La pioggia continuava a cadere. «Ti va di fare una corsa fino alla porta?
Non è chiusa a chiave. Ti raggiungo subito».
Sguazzai nel cortile rivestito di erbacce e aprii con il piede la porta a
zanzariera. Daniel entrò subito dopo di me, reggendo un frigo portatile da
quaranta litri e io tenni spalancata la porta per lasciarlo passare.
Un'altra porta a zanzariera portava in un piccolo soggiorno. Lui entrò e
posò il frigo su un malconcio tavolo da picnic di legno di cedro.
«Allora?». Sembrava un bambino, ansioso di vedermi contenta.
«È bellissima», dissi, e lo era davvero, nella maniera disordinata di un
capanno per la pesca. Il pianoterra sembrava costituito da un'unica stanza. Il
soggiorno si trasformava nella sala da pranzo che a sua volta confluiva in
un minuscolo cucinotto. All'estremità più lontana c'erano un breve corridoio
e una scala che portava presumibilmente al primo piano. Anche l'interno era
rivestito di assicelle di legno di cedro patinato dal tempo, e un piccolo
caminetto di pietra troneggiava sul lato dell'ampia stanza adibita a
soggiorno. Grandi divani logori e poltrone erano disposti a U davanti al
caminetto. Il tavolo e una mezza dozzina di traballanti sedie da cucina in
legno erano sistemati in modo che si potesse ammirare il fiume mentre si
mangiava.
«Un paradiso», mormorai, guardando la palude gonfia di pioggia.
Daniel mi cinse la vita con le braccia e mi attirò a sé. «Sì», bisbigliò,
«stavo pensando la stessa cosa». Strofinò il naso contro il mio orecchio.
«C'è del vino in frigo. Posso versartene un bicchiere?».
«Sarebbe carino», risposi, baciandolo. «Vuoi dire che fai shopping nei
negozi di antiquariato, cucini e servi il vino?».
«Servizio completo», dichiarò, dando dimostrazione con le mani del
genere di servizio che offriva.
Lo seguii in cucina e lo aiutai a svuotare il frigo. Lui aprì il vino e riempì
due bicchieri. Lo sorseggiammo, ci coccolammo e alla fine la pioggia
diminuì abbastanza per permetterci di uscire a cercare il barbecue.
«Patata ha detto che era fuori sul pontile, l'ultima volta in cui è stato qui»,
spiegò Daniel. «Ma la casa è usata da tutta la famiglia, quindi la roba viene
spostata». Tenendomi per mano mi portò sul pontile, che era malconcio
come la casa.
C'era alta marea, e il fiume sciabordava delicatamente contro i piloni di
legno.
Trovammo un barbecue portatile in fondo al pontile. Una cassapanca
sistemata lì accanto conteneva remi, cuscini da barca, attrezzatura da pesca
e, sul fondo, un sacchetto di carbonella e una lattina di liquido per
l'accensione.
Daniel accese il fuoco e io lo osservai, sorseggiando il vino e ammirando
l'efficienza dei suoi movimenti. Estrassi un paio di cuscini da barca dalla
cassapanca e li sistemai su una panchina di assicelle rivolta verso il fiume.
Il cielo cominciava a essere solcato da strisce cremisi e oro, e la pioggia
aveva abbassato considerevolmente la temperatura.
Una volta soddisfatto della disposizione della carbonella, lui si sedette
accanto a me sulla panca, cingendomi le spalle con un braccio.
«Bel cielo», dissi.
«Può andare. Ora, di cosa stavamo parlando?».
«Di qualcosa che riguardava la possibilità di accendere il mio fuoco».
«Oh, sì», disse lui, attirandomi sulle sue ginocchia. «Puoi accendere il
mio fuoco».
Più tardi, la carbonella era bruciata fino a diventare cenere bianca. Il sole
tramontò e la maggior parte del vino nella bottiglia venne bevuto. Daniel e
io prendemmo il nostro tempo, imparando a conoscerci.
«Dovremmo entrare in casa», osservai pigramente, guardandolo slacciare
i bottoni della mia camicetta. «Qualcuno ci vedrà».
«Chi?».
«Pescatori. Gente nelle altre case. Gente fuori sui pontili».
«È buio», replicò Daniel. «E nessuno bada agli altri, quaggiù. Siamo a
Bluffton».
«Hai una vera mania per amoreggiare all'aperto o mi sbaglio?», chiesi.
Era impegnato a baciarmi, e per un po' non ebbi risposta.
«Oh», dissi, e lui mi baciò la scapola e scese un poco più giù.
«Oh», dissi di nuovo, ma stavolta in un contesto completamente diverso.
Intendevo "Oh, sì".
Quando il sole fu completamente scomparso, una brillante luce gialla si
accese in cima a un lampioncino accanto al barbecue.
Improvvisamente imbarazzata, cercai di chiudermi la camicetta.
«Ehi», disse Daniel, «stai rovinando tutto il mio duro lavoro».
«Lo so», replicai, mentre cercavo di alzarmi. «Ma non mi va di dare
spettacolo qua fuori. A parte questo, non vuoi cominciare a preparare la
cena?».
Mi tirò per la mano finché non gli ricaddi in grembo. «Al diavolo la cena.
Sono perfettamente soddisfatto degli antipasti».
Mi spinse la camicetta giù dalla spalla. «Ehi, carino», disse, infilando un
dito sotto la spallina del mio reggiseno nero–su–carne. «Va in pezzi come
quel tuo abitino nero?».
«No. È nuovo di zecca. È la biancheria intima più costosa che io abbia
mai posseduto».
«Per me?». Allungò le mani dietro la mia schiena. «Ecco, togliamolo così
non si bagna».
Lo sganciò con la stessa magnifica efficienza dimostrata nell'accendere il
fuoco.
«Non puoi far sparire quella luce?», chiesi.
Raggiunse il lampioncino con una sola ampia falcata. Dopo un minuto
calò il buio e io udii quella che identificai come una lampadina colpire la
superficie dell'acqua.
In seguito, gli unici rumori furono il sommesso sciabordio del fiume
contro i piloni del pontile e il fruscio ancora più sommesso di vestiti che
venivano tolti.
A un certo punto, durante il procedimento, una preoccupazione a lungo
dimenticata mi si riaffacciò alla mente.
«Controllo delle nascite», mormorai, scivolando lontano da Daniel sul
pontile.
Lui fece scorrere delicatamente un dito lungo il mio stomaco. «Prendi la
pillola, giusto?».
«Sbagliato», risposi, bloccandogli la mano con la mia.
Lui gemette, e non fu un gemito felice. «Hai per caso visto un emporio,
giù in città?».
Non potei fare a meno di ridere. «Mi porti al di là del confine dello stato
con scopi immorali, riempi un frigo con una cena di quattro portate, incluso
il vino, e ti dimentichi una cosa del genere?».
Mi baciò la spalla e si drizzò a sedere cominciando a cercare i suoi
vestiti.
«Non muoverti», disse. «Torno subito. Probabilmente Patata ha qualcosa
in casa».
«Sei pazzo se pensi che ti aspetterò qua fuori, nuda e completamente sola
in fondo a un pontile nel bel mezzo del nulla. Ho visto tutti i film splatter e
questo è uno scenario ideale per un omicidio sanguinolento. Inoltre»,
aggiunsi, allungando una mano verso i miei vestiti, «mi si stanno
conficcando nel sedere delle schegge di legno».
Una volta in casa mi sedetti sul bordo del divano, ridacchiando mentre
Daniel rovistava dappertutto, aprendo mobiletti, cassetti e ripostigli e
richiudendoli con forza e con sonore imprecazioni.
«Dannazione, Patata», lo sentii borbottare, «dove nascondi i tuoi dannati
affari?».
Cominciavo davvero ad avere fame. Trovai il filone di pane francese
portato da Daniel e ne tagliai una fetta, su cui spalmai quello che sembrava
paté fatto in casa.
Lui scese pesantemente la scala, imprecando e borbottando.
Gli tesi un pezzo di pane, ma scosse la testa.
«Quanti anni ha questo Patata?» chiesi, girando lo sguardo per la stanza.
Ora che ci pensavo, il posto non somigliava granché alla tana di uno
scapolo dall'intensa vita sessuale. Niente divani di pelle nera, niente luci
offuscate, niente lettore CD, niente preservativi.
«Patata?». Daniel prese un'aria vacua. «Non saprei. Tra i cinquanta e i
sessanta, credo».
«Ed è sposato?».
«Non più. Perché?».
«Abbandona le ricerche, genio», gli consigliai. «Se Patata avesse dei
preservativi, probabilmente sarebbero scaduti da una ventina d'anni.
Presumibilmente si sbriciolerebbero non appena ne scartassi uno».
Lui fece una smorfia delusa. «Dannato Patata». Prese le chiavi della
macchina posate sul tavolino, accanto al frigo. «Ho visto un piccolo
emporio subito prima di entrare a Bluffton. Scommetto che lì hanno
qualcosa».
«Ottima idea. Nel frattempo non vuoi che cominci a preparare la cena?
Sono le nove passate, sai».
«Sì, certo. C'è una graticola a rete per le patate. Versaci sopra un po' di
olio d'oliva prima di infilarcele. E sistema la lombata su un lato del
barbecue, non voglio che si bruciacchi troppo. I fagiolini si possono
riscaldare, li ho cotti oggi...».
«Vai», risposi, scacciandolo con un gesto della mano. «Sono capace di
cucinare, sai».
«Non bene quanto me».
«Lo vedremo».
Trovai una sporta di tela appesa a un gancio accanto alla porta posteriore
e vi infilai la lombata, le patate e tutto il necessario. Poi portai tutto sul
pontile e sistemai il cibo sopra la carbonella.
Rimasi seduta a sorseggiare il vino e ad ascoltare lo sfrigolio della carne
e delle patate sul barbecue. Dopo quindici minuti, tolsi la lombata. E dopo
altri dieci trasferii patate e carne sul vassoio che avevo portato, coprii il
tutto con la carta stagnola e tornai in casa.
Daniel era uscito da più di mezz'ora. Apparecchiai il tavolo per due, mi
preparai un'altra fetta di pane con paté, versai i fagiolini in una pentola sul
fornello che regolai al minimo.
Mi aggirai per la casa, con il bicchiere in mano, esplorandola. Come
avevo immaginato, al pianoterra c'era un piccolo bagno. Il primo piano
ospitava solo due stanze: un semplice bagno con un lavabo di porcellana
macchiato di ruggine e una vasca dai piedi ad artiglio, e una camera da
letto.
Non era certo il Ritz. La camera era stata ricavata nel solaio della casa,
quindi tra il letto e il soffitto spiovente c'era poco più di un metro di spazio.
Era un vecchio letto con quattro pilastrini che erano stati segati per poterlo
infilare al suo posto. Una pila di lenzuola ordinatamente piegate era posata
sulla logora trapunta patchwork di cotone che lo copriva.
Pensai di fare il letto ma, per qualche strano motivo, non vi riuscii.
Sembrava troppo premeditato. Troppo da ragazza sfrontata.
Tornai al pianoterra e guardai l'orologio. Daniel era via da
quarantacinque minuti. Ormai avrebbe avuto tutto il tempo di andare fino a
Savannah e tornare.
Mentre mi guardavo intorno nel soggiorno mi ricordai dell'offerta lasciata
qualche ora prima per i mobili di rattan. Mi chiesi se il responsabile della
vendita avesse chiamato.
C'era un telefono fissato alla parete della cucina. Sollevai la cornetta e
composi il numero della mia carta telefonica, poi quello di casa mia. Inserii
il codice per ascoltare i messaggi sulla segreteria. Ce n'erano tre.
Il primo era dello zio James.
«Weezie? Tua madre sta benissimo. Non preoccuparti per lei. Oggi avete
fatto tutte e due un grande passo. Ci sentiamo più tardi».
Il secondo messaggio era del responsabile della vendita.
«Eloise Foley? Sono Gary Wolcott. La sua offerta di settecentocinquanta
dollari per la serie Heywood–Wakefield è stata accettata. Venga a ritirare i
mobili domani entro le cinque, altrimenti l'accordo salta».
La terza persona che aveva chiamato non aveva bisogno di presentarsi.
«Weezie?». La sua voce era debole, poco più di un sussurro. «Piccola, mi
dispiace. Mi dispiace di tutto. Lo giuro su Dio», disse, poi cominciò a
farfugliare. «Non ho mai voluto farti soffrire. Credimi, ti amavo. Ho amato
soltanto te. Caroline è stata un errore. Tu sei l'unica donna che io abbia
davvero amato. Sempre. E... ehm, piccola, riguardo alla casa...». Per un
attimo la sua voce si spense. «Sì. La casa. Voglio che l'abbia tu. Dopo.
Quindi, okay. E ti amo. Te l'ho detto». Smise di parlare. Il nastro continuò,
ma la voce di Tal si interruppe.
Riagganciai, provando un'improvvisa sensazione di gelo. Cosa intendeva
con "dopo"? Era di nuovo ubriaco, mi dissi. Stava cercando di impietosirmi.
Stava cercando di spaventarmi.
Feci il numero di Tal. Sentii formicolare il cuoio capelluto quando udii la
voce sulla segreteria telefonica, una voce che proveniva dall'oltretomba.
Secca, nasale. «Salve. Risponde la segreteria di Caroline e Tal. Al momento
siamo impegnati, quindi lasciate il vostro numero, okay?».
Fui tentata di riattaccare, invece restai in linea. «Tal, sei lì? Se ci sei
rispondi. Sono Weezie, Tal. E sono stufa dei tuoi giochetti. Smaltisci la
sbornia e solleva la cornetta, dannazione», gridai.
La porta della cucina si aprì e Daniel entrò baldanzosamente, tenendo
sollevato un grosso sacchetto della spesa con una mano e un minuscolo
sacchetto marrone con l'altra.
«Guarda cosa ho portato!», cantilenò con voce allegra. «Regali grandi e
regali piccoli. Chi ne vuole uno?».
«Solo un attimo», dissi, coprendo il ricevitore con la mano. «Alza la
cornetta, Tal», gridai. «Rispondi e piantala con i giochetti».
L'unica cosa che sentii fu il fruscio del nastro che si avvolgeva.
Riagganciai.
Daniel mi lanciò il sacchetto di carta marrone. Ne uscì una confezione di
preservativi Massimo Piacere.
«Tieni», disse, con la voce che grondava disgusto. «Presumo che stasera
non ci serviranno. Puoi portarli a Tal».
46

«Non è come pensi», dissi. «Tal mi ha lasciato un messaggio sulla


segreteria. Aveva una voce strana. Ha detto di volermi lasciare la casa.
Dopo. Poi ha smesso di parlare. Temo che voglia suicidarsi».
«È ubriaco», dichiarò Daniel, gettando le chiavi sul tavolo.
«Ti dico che aveva qualcosa che non va», insistetti, facendo il mio
numero di casa. Inserii di nuovo il codice di attivazione e gli passai il
telefono. «Ecco. Dimmi cosa ne pensi».
Rimase in ascolto, poi riagganciò. «Sa come toccare i tasti giusti con te,
vero?».
«Mi stai dicendo che era una messinscena?».
«Cosa vuoi fare?».
«Non lo so. Non si è mai comportato così, prima. Non si ubriaca mai.
Non perde mai il controllo. Ma la sua voce... mi chiedo se abbia preso
qualcosa...».
«È ridicolo, Weezie. Pensaci. La voce sul messaggio si è interrotta ma tu
hai chiamato casa sua, vero? E ti ha risposto la segreteria. Giusto? Quindi
non sembrerebbe proprio che lui sia crollato al suolo lasciando il telefono
staccato».
«Giusto», risposi, provando un misto di rabbia e sollievo. «Ma... e se non
mi avesse chiamato da casa sua? Se fosse in ufficio o da qualche altra
parte?».
Daniel si passò le dita tra i capelli, lasciandoli dritti sulla testa.
«Non riesco a credere che questo stia succedendo. Stai dicendo che vuoi
tornare di corsa a Savannah per salvarlo da se stesso?».
«Non lo so», gridai, furiosa di essere sul punto di piangere. «Non so cosa
fare, dannazione. Ma questa non è una specie di gara di popolarità, Daniel.
Non amo più Tal, te l'ho detto. Non so come fartelo capire».
«Ci crederò quando ci crederai tu».
Sollevai il telefono.
«Ora cosa fai?».
«Voglio chiamare il suo ufficio», spiegai, dandogli le spalle. «Farei lo
stesso per qualsiasi semplice amico, se pensassi che è nei guai. Non puoi
pretendere che mi comporti come se Tal non fosse mai esistito. Non se tieni
davvero a me».
«Ti sta prendendo in giro», affermò Daniel. Andò in cucina e cominciò a
sbattacchiare pentole e padelle. Il telefono nell'ufficio di Tal continuò a
suonare, poi rispose la segreteria.
«Cristo», gridò Daniel. Quando mi voltai vidi una nuvola di fumo nero
levarsi dalla pentola di fagiolini. Lui la prese e la buttò nel lavandino,
aprendo il rubinetto.
«Scusa», dissi. «Mi sono distratta e me ne sono completamente
dimenticata. Ripagherò la pentola. Ti comprerò degli altri fagiolini. Non so
cos'altro fare».
Composi un altro numero.
«BeBe?».
«Cosa succede, Weezie?».
«Qualcosa non va con Tal. Mi ha lasciato un messaggio sulla segreteria.
Non so, mi è sembrato ubriaco o drogato o qualcosa del genere».
«Quale dei tre? E perché mi stai chiamando per dirmelo?».
«Sono a Bluffton. Con Daniel. Tal non risponde né a casa né in ufficio.
Sono preoccupata. Sembrava depresso, ultimamente. Pensi che potrebbe
aver fatto qualcosa di stupido?».
«L'ha sicuramente fatto», ribatté BeBe con voce strascicata. «Ti ha
lasciato per quella sgualdrina di Caroline. Dimenticalo, Weezie. Non ne
vale la pena. Tal Evans è il tuo passato. Daniel è il tuo futuro. Ora
riaggancia e piantala di incasinarti la vita».
«Un'unica cosa», la implorai. «Fammi solo un favore».
«Quale?».
«Vai a casa. Guarda se la sua macchina è là. C'è una chiave della porta
posteriore sotto la fioriera sui gradini sul retro. Controlla soltanto se lui è in
casa».
«Sei pazza, lo sai?».
«Ci andrai?».
«Cosa vuoi che faccia, dopo?».
«Chiamami qui». Guardai Daniel. «Qual è il numero di questa casa?».
Le diedi il numero. «Chiamami non appena sai qualcosa».
Daniel stava fregando con una paglietta metallica lo strato di fagiolini
bruciati rimasto sul fondo della pentola. A un certo punto prese un coltello
da bistecca e cominciò a raschiare il cibo carbonizzato. Lo osservai per un
paio di minuti, poi mi avvicinai al lavandino e gli tolsi di mano la pentola.
«Me ne stavo occupando io», disse, in tono freddo.
«Non riuscirai mai a pulirla, in quel modo», spiegai. «Credimi, ho visto
mia madre far bruciare tonnellate di cibo. Hai della candeggina?».
Lui rovistò in giro fino a trovare una bottiglietta di Clorox.
Versai nella pentola circa cinque centimetri di acqua e vi aggiunsi un
quarto di tazza di candeggina, poi la misi sul fornello più piccolo, regolato
al minimo.
«Fumi di candeggina», disse Daniel. «Ci ucciderai tutte e due. I poliziotti
troveranno il corpo di Tal a casa sua e i nostri qui. Penseranno a un
triangolo amoroso». Stava cercando di non sorridere, senza riuscirci.
Indicai tutte le finestre aperte e la veranda chiusa da zanzariere. «La
ventilazione è ottima. E non sto progettando di uccidermi. O di uccidere te.
Non con i fumi di candeggina. Non ancora, almeno».
Raccolsi il sacchetto di carta dei preservativi, guardai la confezione. Era
da ventiquattro. «Avevi dei piani ambiziosi per stanotte, a quanto pare».
«Non solo per stanotte», rispose quietamente.
Il telefono squillò. Lo afferrai di scatto.
«È a casa, ed è vivo, purtroppo», annunciò BeBe.
«Grazie a Dio», esclamai. «Cosa ha detto?».
«Niente. È svenuto sul divano».
«Non è in coma? Non hai visto pillole o altro?».
«Solo una bottiglia di whisky mezza vuota», spiegò lei. «Gli ho dato un
paio di schiaffi e ha ripreso i sensi abbastanza a lungo per dirmi di
andarmene subito da casa sua».
«Ti devo un favore, BeBe».
«Questo è certo», ribatté lei, poi riagganciò.
«Non è morto», dissi a Daniel. «Solo ubriaco e svenuto. Avevi ragione.
Immagino che Tal stesse semplicemente cercando di darmi fastidio. Di
nuovo».
«Non puoi nemmeno immaginare il mio sollievo», rispose lui, in tono
carico di sarcasmo.
«E adesso?», chiesi stancamente. «Vuoi riportarmi a casa».
Era in piedi accanto al piano di lavoro della cucina, impegnato a tagliare
metodicamente l'arrosto di maiale in fette spesse un centimetro. Posò il
coltello e venne a sedersi accanto a me sul divano.
«Sai cosa voglio?», domandò, prendendomi la mano. «Voglio sapere
perché continui a cercare di scappare via da me. Ogni volta che cominciamo
ad avvicinarci succede qualcosa. All'inizio ho pensato che dipendesse
semplicemente dalle circostanze, ma ormai non ne sono più sicuro. Stava
andando tutto benissimo, stasera. Poi tu decidi di chiamare casa e pam!
Siamo di nuovo al punto di partenza».
Abbassai lo sguardo sul pavimento, poi guardai fuori dalla finestra. Ma
non c'erano risposte, là.
«Voglio stare con te», sussurrai. «Davvero. Ma è inutile. Sono un vero
disastro nel campo delle relazioni. Ci provo, solo che non funziona, tutto
qui».
«Cosa diavolo vorrebbe dire?», chiese lui. Mi prese il mento e mi
costrinse a girare la testa per guardarlo negli occhi.
«Guarda i miei precedenti», dissi. «Pensavo che il mio matrimonio con
Tal fosse perfetto. E guarda cosa è successo. Tal e io non abbiamo mai
litigato. Intendo dire mai. Poi, un giorno, è finita. Non avevo il minimo
sospetto che avesse una relazione. O che non fosse felice. E adesso, guarda
te e me. È pazzesco. Sono così attratta da te. Per metà del tempo ho voglia
di essere nuda tra le tue braccia e per l'altra metà del tempo sono tentata di
picchiarti a sangue. Litighiamo di continuo. E a me non piace litigare».
«Come fai a saperlo?», replicò. «Penso che tu non abbia mai litigato con
Tal perché lui non teneva abbastanza al vostro matrimonio per farlo. E in
ogni caso tu facevi tutto quello che ti diceva di fare, quindi non aveva alcun
bisogno di discutere con te. Io, invece? Nella vita ho sempre dovuto lottare
per qualsiasi cosa. Mi va benissimo. Fa sembrare tutto più prezioso. Degno
di essere conquistato». Mi baciò il dorso della mano. «Tu sei degna di
essere conquistata, Weezie Foley. Vale la pena di lottare per te. E con te. E
fare pace».
«Come lo sai?».
«Lo so e basta». Raccolse la scatola di preservativi. «Credi che avrei fatto
un grosso investimento come questo se non fossi stato sicuro che insieme
saremmo andati alla grande?».
Tirai su con il naso e sorrisi. «Cosa c'è nel sacchetto più grosso? Se sono
altri preservativi me ne vado su due piedi».
«È un regalo», rispose. «Ho pensato che se questa doveva essere una
notte speciale, dovevi avere qualcosa che te la ricordasse».
«Oltre alle schegge di legno nel sedere, vuoi dire?».
Il sacchetto era pesante. L'oggetto che conteneva era avvolto in spessi
strati di carta velina fissati con il nastro adesivo. Strappai la carta finché non
apparve il brillante smalto azzurro e verde.
«I piatti da ostriche», dissi, con voce rotta.
«Ecco perché mi ci è voluto così tanto», spiegò lui. «La proprietaria del
negozio stava chiudendo quando sono arrivato. Ho avuto l'impressione che
non volesse vendermeli, finché non ho estratto i contanti».
«Hai pagato in contanti?», chiesi, incredula. «Ma avresti dovuto cercare
di mercanteggiare. I commercianti scendono almeno del venti per cento,
soprattutto quando paghi in contanti».
«Niente da fare. Volevo che li avessi tu. A prezzo intero. Niente
contrattazioni».
«Sono magnifici», dissi. «Ma non avresti dovuto spendere tanto denaro
per me».
«Per noi», corresse lui. Prese i piatti e li posò con cura sul tavolino. Poi
afferrò la scatola di preservativi e mi prese per mano. Salimmo al piano di
sopra per discutere il nostro potenziale come investimento.
47

Quando mi svegliai, Daniel mi stava mordicchiando l'orecchio.


«Cosa ne è stato della cena che mi hai promesso?», chiesi in tono
assonnato.
«Perché, hai fame?».
«Una fame da lupi», risposi, mettendomi seduta. «Che ore sono,
comunque?».
Lui prese il suo orologio dal comodino e me lo porse.
«Le sette», dissi, lasciandomi sprofondare di nuovo tra i cuscini. «Devo
andare».
«Che fretta c'è?», domandò Daniel, indicando la confezione di
preservativi, circondata da piccoli involucri di carta stagnola. «Abbiamo a
malapena intaccato la riserva».
«Tu puoi anche essere in vacanza», dichiarai, dandogli un bacio sulla
fronte, «ma io ho del lavoro da sbrigare. Incluso passare da quella casa sul
Southside per ritirare i nuovi mobili del tuo soggiorno».
«Oh, già», disse lui, sbadigliando di nuovo. «Mobili».
«Prenoto la prima doccia», annunciai. Presi la trapunta e me l'avvolsi
intorno al corpo, poi mi diressi a piedi nudi verso il bagno.
«Credo che dovremmo farla insieme», mi gridò dietro lui. «Sai, per via
della siccità».
«Ieri è piovuto per quasi tutto il giorno e la notte», gli feci notare.
«Comunque dico sul serio. Devo davvero tornare a Savannah».
Quando uscii dalla doccia, Daniel si era riaddormentato. Infilai i vestiti
che avevo portato per andare a pesca di granchi e ringraziai silenziosamente
il cielo di avere qualcosa di pulito da mettermi, giusto nel caso che
qualcuno che mi aveva visto uscire di casa il giorno prima guardasse
casualmente fuori dalla finestra e mi vedesse tornare dopo quasi
ventiquattr’ore – con gli stessi abiti.
Al piano terra preparai il caffè e mi gingillai in cucina, affettando il pane
francese e tostandolo sulla griglia con alcune fette di formaggio danese
portato da Daniel. Quando la mia colazione fu pronta la portai fuori sul
pontile e osservai il sole del primo mattino scintillare sul fiume May. Un
airone azzurro zampettava quietamente nel fango, e gli lanciai gli ultimi
pezzetti di pane tostato.
Alle otto portai a Daniel una tazza di caffè e qualche toast al formaggio.
Stava ancora dormendo. Posai tutto sul comodino e mi chinai per dargli un
bacio ma, non appena mi avvicinai, un braccio mi cinse la vita e mi tirò
verso il letto.
«Non pensarci nemmeno», dissi ridendo, cercando di liberarmi. «Ho fatto
la doccia e mi sono vestita, e ora sono pronta a mettermi al lavoro».
«Mmm», replicò lui, facendo scorrere le mani sotto la maglietta.
«Anch'io sono pronto a mettermi al lavoro».
«Lo vedo», dissi, battendo la mano sulle coperte. «Ma non è il tipo di
lavoro che avevo in mente io. Avanti, Daniel, devo davvero darmi da fare».
Lui fece un sorriso.
«Non intendevo quello», specificai. «Tutto ha un doppio senso per te?».
«Il mattino dopo? Sì. È un problema?».
«No, fintanto che ti alzi, ti vesti e mi accompagni a casa. Hai intenzione
di farlo oppure devo rubarti il pick–up e tornare a Savannah da sola?».
«Ti accompagno», brontolò lui. «Ma non è questo che avevo in mente».
«È solo rimandato», dissi, tirandolo in piedi.

La BMW di Tal era parcheggiata al suo posto, dietro la casa.


Daniel la indicò. «Immagino che stamattina non se la senta di lavorare».
«Stronzo», dissi. «Spero che abbia un'emicrania di dimensioni epiche,
dopo quello che mi ha fatto passare ieri sera».
«Quello che tu hai fatto passare a te stessa», mi corresse Daniel. «Ti
chiamo più tardi».
Ingranò la retromarcia e cominciò a dirigersi verso il vicoletto.
«Ehi», gridai, battendo sul tettuccio del pick–up per attirare la sua
attenzione.
Sporse la testa dal finestrino. «Cosa c'è?».
«Oggi pomeriggio devo passare a prendere i tuoi mobili. Mi daresti un
assegno con cui pagarli?».
Rovistò nel vano portaoggetti fino a trovare il libretto degli assegni.
«Vieni a letto con me per una sola notte e mi stai già facendo firmare
assegni a vuoto».
«Spero per il tuo bene che non sia a vuoto», replicai. «Ho una
reputazione da proteggere».
«È coperto», precisò Daniel. «Buono come me». Staccò l'assegno e me lo
diede.
«E cosa dovrei fare con la roba dopo averla ritirata? Non ho posto per
tenerla qui».
Lui sospirò. «A che ora pensavi di andarci?».
«Il tizio vuole liberarsi dei mobili prima delle cinque».
«Okay. Immagino che passerò semplicemente il resto della giornata in
città, per poi tornare a Bluffton stasera. Dammi l'indirizzo della casa e ci
vediamo lì. Va bene alle quattro?».
«Perfetto», dissi. Gli diedi l'indirizzo e, senza controllare se Tal stesse
guardando o meno fuori dalla finestra, infilai la testa nell'abitacolo per
salutare Daniel con un lungo bacio appassionato.
Una volta in casa, sistemai i miei piatti da ostriche di Beaulieu sulla
mensola del caminetto del soggiorno e indietreggiai per vedere l'effetto.
«Magnifici», mormorai. «Stanno benissimo ma non bastano per riempire
lo spazio. Mi serve qualcos'altro. Preferibilmente un altro pezzo in
maiolica».
Portai uno dei piatti fino alla mia scrivania e presi la lente
d'ingrandimento. Il marchio Minton spiccava nitido, il che mi fece sentire
molto meglio al pensiero che Daniel li avesse pagati a prezzo intero.
Per la prima volta esaminai l'adesivo con il prezzo attaccato dietro il
piatto. Era scritto a mano dalla commerciante. Come la maggior parte dei
proprietari di negozi, lei aveva aggiunto anche una serie di lettere e numeri
che sapevo rappresentare il suo codice, probabilmente indicanti la cifra
pagata per il piatto e qualsiasi altro dato che la donna volesse rammentare,
per esempio la data d'acquisto del pezzo e, magari, la fonte.
Tutti coloro che commerciano in pezzi di antiquariato hanno un loro
codice, è un modo per tenere l'inventario. La maggior parte consente loro di
ricostruire con una sola occhiata la storia pressoché completa del pezzo in
questione.
Presi l'altro piatto e lo capovolsi, ma non aveva l'adesivo con il prezzo. In
effetti la proprietaria del negozio aveva fissato un unico prezzo per
entrambi.
Il codice era un vero mistero per me, ma se c'era qualcuno in grado di
decifrarlo, pensai, quel qualcuno era Lester Dobie.

Lester osservò il piatto da ostriche attraverso un lentino da gioielliere.


«È un autentico marchio Minton», disse. «Da dove arriva?».
«Il mio amico l'ha comprato in un negozietto di Bluffton. Annie's Attic».
Strinse le labbra. «Il nome non mi dice niente».
«È il codice del commerciante quello che mi interessa», spiegai. «Lo
riconosci?».
Lui prese una matita e lo ricopiò su un pezzetto di carta.
«Una parte è costituita semplicemente dal vecchio codice prezzo, che
sostituisce le lettere ai numeri», disse, leggendo il foglietto. «AEO – molto
probabilmente indica centocinquanta dollari».
«Se li ha pagati così poco ha fatto un vero affare. Cosa puoi dirmi del
resto?».
«Sette–tre–zero–zero–zero», lesse. «Potrebbe essere la data d'acquisto. 30
luglio 2000».
«E ZK?».
Si strinse nelle spalle. «Le iniziali di chi l'ha venduto?».
«ZK», ripetei. «Ti fa venire in mente qualcosa?».
«Zack?».
Rovistai nella mia sacca fino a trovare il raccoglitore di biglietti da visita.
Andai alla pagina della K e diedi una scorsa a una dozzina di biglietti
appartenenti ad antiquari, arredatori d'interni, responsabili di depositi di
materiali di recupero e altri rigattieri. C'erano un sacco di K ma nessuno
ZK.
Lester prese la grossa rubrica Rolodex posata sopra alcuni vecchi testi di
consultazione impilati sulla sua scrivania e sfogliò la sezione alta due
centimetri riservata alla K.
«Nessuno ZK, qui», annunciò.
Spostai le carte sulla scrivania fino a trovare le pagine gialle di Savannah.
Le aprii in corrispondenza dei negozi di antiquariato.
«Kaplan Fine Antiques. Keyes Kollectibles. King's Ransom Antiques.
Kramer & Culkin», lessi, facendo scendere il polpastrello lungo le voci
elencate in ordine alfabetico. «Niente che corrisponda, qui. Pensi che il
codice sia invertito e che le iniziali in realtà siano KZ?».
Lui si strinse nelle spalle. Andai a vedere i biglietti da visita raccolti sotto
la Z. Ne avevo solo uno, quello di Ruth Zofchak, una commerciante della
Pennsylvania specializzata in vetri di Boemia.
Lester aveva due Z nella sua rubrica ma nessuno KZ, e non c'erano
negozi il cui nome iniziasse per Z nemmeno sulle pagine gialle.
«Potrebbe essere chiunque», dichiarai. «Io compro e vendo pezzi di
antiquariato da Orlando fino a Wilmington, nel North Carolina».
«Oppure lei potrebbe semplicemente aver comprato i piatti di maiolica da
qualcuno che per puro caso ne aveva due identici a quelli che hai visto a
Beaulieu», ipotizzò Lester.
«No». Scossi il capo con enfasi. «Non può trattarsi di una semplice
coincidenza. La proprietaria dell'Annie's Attic si è chiusa come un'ostrica
quando ho cominciato a chiederle dove li avesse acquistati. E quella de La
Juntique ha avuto la stessa reazione quando le ho chiesto da dove
provenisse il tavolino. No, Lester. Credo che entrambe abbiano comprato
merce dalla stessa persona, che ha fatto loro giurare di mantenere il segreto
perché i pezzi provenivano da Beaulieu e non vogliono che qualcuno lo
scopra».
Lester si sfregò il mento. «Come hai intenzione di dimostrarlo? E anche
se riuscissi a provare che la roba è uscita da Beaulieu, cosa otterresti?».
«È uscita da Beaulieu dopo il servizio funebre per Ann Ruby Mullinax
ma prima che io trovassi il corpo di Caroline», spiegai. «Non vedi il
collegamento? Chiunque stia vendendo questi pezzi, probabilmente sa chi
ha ucciso Caroline. Probabilmente l'ha uccisa lui».
Lester alzò gli occhi al cielo. «Continua a fare il tuo mestiere, Weezie»,
mi consigliò, «perché come detective fai pena. Lavori in questo settore da
parecchio, sai come funziona.
La gente cerca le scorciatoie. Si fanno transazioni di discutibile legalità.
Fa parte della natura degli affari. Il semplice fatto che qualcuno venda un
pezzo d'antiquariato di nascosto non lo rende necessariamente un assassino.
Diavolo, in caso contrario saremmo tutti dietro le sbarre».
«So di aver ragione, Lester. Non ti viene in mente nessuno che potresti
chiamare? Qualcun altro che conosca tutti, lungo la costa? Qualcuno che
potrebbe conoscere uno ZK?».
«Forse. Di certo le piace spettegolare, questo è innegabile. Lasciami fare
un tentativo».
Posò la mano sull'agenda, coprendo la scheda per impedirmi di vedere il
nome; evidentemente questa fonte rappresentava la sua versione di Gola
Profonda.
Digitò il numero e rimase in attesa. «Tesoro? Ciao, sono Lester. Come
stai?». Ascoltò, poi ridacchiò. «Ho un piccolo enigma per te. Sto cercando
di rintracciare una persona che forse sta comprando qualche oggetto per poi
rivenderlo nelle vicinanze di Bluffton. Conosciamo solo le iniziali. ZK o
KZ. Ti viene in mente qualcuno che possa corrispondere?».
Scosse il capo. «La persona in questione sta vendendo roba che potrebbe
essere uscita da Beaulieu. Sai, la vecchia villa coloniale sulla Isle of Hope».
Rimase in attesa, poi scrisse rapidamente qualcosa sul suo blocco per
appunti.
«È un inizio. Grazie, tesoro. Salutami tuo padre».
Riagganciò e spinse il blocco verso di me.
«Zoe Kallenberg», lessi. «La conosci?».
«Mai sentita nominare», rispose lui, prendendo le pagine bianche
dell'elenco telefonico. Le sfogliò fino ad arrivare alla K. «Vive al due–zero–
quattro barrato della Liberty. Dovrebbe essere nei pressi dell'incrocio della
Abercorn. Probabilmente un appartamento. Con ogni probabilità situato nel
seminterrato».
«Aspetta un attimo», dissi. Riaprii le pagine gialle in corrispondenza
della sezione negozi di antiquariato. L. Hargreaves era il primo nome citato
nella pagina. Il negozio di Lewis Hargreaves. Al 206 della Abercorn.
48

James aprì la porta del suo ufficio, concentrato sul fatto che fosse tardi e
non sulla donna piangente seduta di fronte a Janet, la sua segreteria.
«James», disse Janet, «la signora Cahoon sta aspettando di poter parlare
con te».
«Oh», ribatté lui, «stamattina ho un altro appuntamento. Fuori ufficio».
La capacità di Janet di leggergli nel pensiero aveva qualcosa di
straordinario.
«Gliel'ho spiegato», replicò subito. «Le ho spiegato che bisogna prendere
un appuntamento, ma lei voleva vedere se avresti potuto dedicarle giusto un
attimo. Prima di uscire, fra cinque minuti, per il tuo appuntamento».
Denise Cahoon si accasciò sulla sedia di fronte alla scrivania di James.
«Si tratta di Inky», annunciò, sbattendo una cartelletta sulla scrivania.
«Vuole il divorzio. Stamattina un uomo è venuto a casa mia a darmi questi
documenti. Dopo ventidue anni di matrimonio».
James scorse i fogli. Bradley R. Cahoon Jr. aveva avviato le procedure di
divorzio da Denise Doheny Cahoon per abbandono del tetto coniugale.
«Abbandono», disse, porgendole un fazzoletto di carta. «Pensavo che
fosse stato Inky a lasciare lei».
«Infatti», confermò la donna, piangendo. «Mentre stavo da mia sorella, a
Waycross».
«Stava a Waycross? Con sua sorella?».
«Solo finché i suoi nervi non fossero migliorati. Sheila è sempre stata
molto sensibile, così sono andata a Waycross per aiutarla».
«Quando è successo?», chiese James.
Lei strinse le labbra e ci rifletté. «Nel 1996, probabilmente. Sì, proprio
nel 1996».
James annuì. «Si è trasferita a Waycross. Nel 1996. Per stare con sua
sorella. E quando è tornata a Savannah?».
«Mesi fa. Sono tornata qui ormai da parecchi mesi».
«Signora Cahoon, non vive con suo marito dal 1996. È questo che mi sta
dicendo?».
«Non era mai a casa. Era sempre in giro di nascosto con quella sua
sgualdrina», dichiarò lei tra le lacrime.
«In base alla legge, signora Cahoon, è lei che ha lasciato il tetto
coniugale. Da parte di una moglie, questo è stato un lasso di tempo
decisamente lungo da trascorrere lontano dal marito».
«Sheila aveva bisogno di me», affermò Denise, con il mento che le
tremava.
«Ne sono sicuro», disse James. Lanciò un'occhiata all'orologio. «Bene.
Mi spiace di doverle mettere fretta, ma devo davvero uscire per il mio
appuntamento».
«E il mio problema?», chiese Denise. «Questo divorzio. Voglio
impedirlo. Non credo nel divorzio».
James ebbe un'idea. Fece scorrere le schede della rubrica, scribacchiò un
nome e un numero di telefono e li passò a Denise Doheny Cahoon.
«Chi è?», domandò lei.
«Un mio ex collega, padre Gower. Lavora per l'arcidiocesi».
«Fa il consulente coniugale?», domandò la donna in tono eccitato.
«No. Si occupa di istanze di annullamento».
«Annullamento. È legale?».
«Perfettamente legale», spiegò James, «e se mai ho conosciuto dei validi
candidati per l'annullamento, siete lei e Inky. Buona giornata, signora
Cahoon».
Janet stava scuotendo la testa quando lui uscì dal suo ufficio. Aveva
origliato, naturalmente. «Annullamento. Questa sì che è un'idea geniale.
Come mai non ci hai pensato prima?».
«Non lo so. Ho davvero un appuntamento, sai. In un paesino in
campagna, vicino a Guyton».
«Benissimo», disse Janet. «Spero sia un appuntamento che sfocerà in ore
fatturabili. Ha telefonato tua cognata, mentre parlavi con Denise Cahoon».
«Ti è sembrata sobria?».
«Non stava parlando con qualche santo o altro. Ha solo chiesto di
ricordarti che oggi pomeriggio devi andare in un certo posto con lei».
«Lo so», replicò stancamente James. «Stiamo cercando di farla entrare in
un centro di disintossicazione. E di farla uscire di nuovo dalla casa della
cugina defunta».
«Comunque sia», ribatté Janet.

***
Era stato durante una delle sue camminate terribilmente noiose intorno a
Forsyth Park che si era ricordato i nomi di Grady e Juanita Traylor, i
testimoni citati sul testamento di Ann Ruby Mullinax.
Grady Traylor era stato un diacono della Christ Our Hope, la sua prima
chiesetta di campagna. La moglie, Juanita, era stata l'unica insegnante di
catechismo della chiesa. All'epoca erano già piuttosto anziani, sulla
sessantina, probabilmente. E Grady Traylor, finalmente lui se ne ricordò,
era un cugino di Clydie Jeffers, che era stata per diversi anni la governante
di Ann Ruby Mullinax. Gli sembrava che Grady avesse lavorato
saltuariamente come giardiniere a Beaulieu.
Era stata una fatica improba rintracciare i Traylor. La Christ Our Hope
era stata annessa a un'altra chiesa di campagna il cui sacerdote, padre Viraj,
era arrivato da poco e non sapeva dove fossero conservati i vecchi registri
parrocchiali. Era stata Karyl Conners, la segretaria della chiesa, a chiamare
finalmente James per dirgli che aveva trovato i Traylor al loro nuovo
indirizzo di Guyton, in Georgia.
Con l'indirizzo tra le mani, Janet aveva effettuato qualche ricerca a
computer e trovato l'atto di proprietà della casa di Guyton che, si scoprì,
apparteneva alla Willis J. Mullinax Foundation.
Ora la Mercedes bianca ronzava sull'asfalto ancora bagnato della stradina
di campagna fuori Guyton.
Juanita Traylor era stata felicissima di sentire James, benché lui fosse
stato costretto a urlare per farsi capire.
«Padre Foley!», aveva esclamato quando lui le aveva telefonato. «Aspetti
che dica a Grady che viene a trovarci. Sarà fuori di sé per la gioia. E credo
che potrebbe riconoscerla. Ultimamente non mi riconosce sempre, ma si
ricorda delle persone del passato. Il medico ha detto che si chiama perdita
della memoria a breve termine. Arriverà in tempo per il pranzo, vero,
padre? Sono sicura che sente la mancanza della buona cucina di campagna,
dopo aver abitato per tutti questi anni in città».
James si sentiva in colpa per non aver fatto cenno allo scopo della sua
visita o al fatto di non essere più padre Foley, ma si convinse che, in questo
caso, il fine giustificava i mezzi.
Juanita gli aveva spiegato la strada, dicendogli di svoltare a destra dopo
un magazzino di mangimi in disuso e a sinistra all'altezza di un deposito di
scuolabus abbandonato.
Su una stradina tranquilla non lontana dal campo pieno di vecchie
corriere gialle, fu stupito di trovare una tozza casa di mattoni palesemente
nuova con i nomi di Grady & Juanita Traylor dipinti sulla cassetta per la
posta in lettere alte cinque centimetri.
«Padre Foley!», esclamò Juanita quando aprì la porta. Vent'anni prima era
stata una donna grassoccia con un debole per i grandi cappelli ornati di fiori
e gli abiti ampi. Adesso somigliava a una bambolina raggrinzita, il vestito
stinto che le pendeva dalle spalle scheletriche e la testa quasi calva, fatta
eccezione per le poche ciocche di capelli bianchi come neve.
Lo fece entrare, stringendogli il braccio per sostenersi.
«Che gioia», disse, sorridendogli felice con gli occhi appannati dalla
cataratta. «È così bello avere compagnia».
Lo fece accomodare a un piccolo tavolo di formica in cucina e gli offrì un
piatto di verdura preparata in casa. «Sono piselli del mio orto, e granturco
dolce, naturalmente, e pomodori e gombo stufati. Il mio gombo non è
cresciuto, quest'anno, ma ne ho messo una quantità in freezer l'anno
scorso», spiegò, con la voce acuta che tremava per la gioia.
Lui le strinse la mano fragile come carta velina mentre recitavano
insieme la preghiera di ringraziamento, ma Juanita rifiutò di mangiare. «Oh,
no, padre. Non mangio fino alle quattro, quando preparo la cena per me e
Grady. Adesso lui sta facendo il sonnellino, ma fra poco andrò a svegliarlo
così si godrà la sua sorpresa. È lei. È lei la sua sorpresa. Sarà così eccitato».
Il cibo era squisito, fresco, cucinato in modo semplice, accompagnato da
un pezzo di pane di farina di mais e da una caraffa di tè freddo così dolce e
ghiacciato che James avrebbe potuto berne un litro.
Quando ebbe finalmente convinto Juanita che aveva mangiato a sazietà,
prese tempo prima di parlare dello scopo della sua visita.
«I vostri figli», disse. «Come stanno il piccolo Grady e Juanette e Boo e
Travis?».
La donna si illuminò di nuovo in volto e lo informò del numero di nipoti
e pronipoti che lei e Grady avevano contribuito a crescere.
«E Grady?», chiese James. «Mi sembra di capire che abbia qualche
problema di salute».
«Oh, sì», confermò lei, dandogli un colpetto sulla mano. «Ma il Signore
non ci dà nulla che non possiamo sopportare. È davvero bravo, Grady.
Questa casa è stata un vero dono del Signore. C'è l'aria condizionata così il
suo enfisema non lo tormenta troppo e un grande bagno di piastrelle in cui
riesco a spingere facilmente la sua sedia a rotelle. La signorina Ann Ruby ci
ha fatto un enorme regalo, e questo è un fatto».
James sorrise. «La signorina Ann Ruby è morta il mese scorso, sai».
Juanita annuì. «Sì, padre, ho saputo tutto. Il figlio più grande di Boo, se
lo ricorda, è il mio ultimogenito, ha ritagliato il trafiletto del giornale di
Savannah che parlava della sua morte e l'ha portato qui per leggermelo. Io e
Grady ci siamo sentiti molto tristi per la sua scomparsa, ma siamo stati
felici che la signorina Ann Ruby sia andata in un posto migliore».
«Ho saputo che tu e Grady avete avuto contatti con l'avvocato della
signorina Ann Ruby, Gerry Blankenship, qualche mese prima che lei
morisse», dichiarò James.
Juanita abbassò lo sguardo sulle proprie mani e le studiò. Lui rimase in
attesa.
«Il signor Gerry ha detto che non dovevamo parlarne», disse alla fine. «È
stato così buono con noi che non voglio fargli torto».
«Il testamento è un documento pubblico, ormai», spiegò James, estraendo
alcuni fogli dalla ventiquattrore. «Vedi? Ne ho ottenuta una copia dal
tribunale. Quindi non violeresti alcun segreto parlandone adesso».
«Lo crede davvero? So che è peccato attaccarsi ai beni materiali, ma
questa casa... la signorina Ann Ruby ce l'ha data e preferisco non pensare a
cosa faremmo se dovessimo lasciarla, adesso. È la prima volta in vita mia
che ho l'aria condizionata, e lodo il Signore ogni giorno, quando l'aria fresca
mi soffia sul viso».
«È una bellissima casa», commentò James, osservando con aria ammirata
la minuscola cucina immacolata. «Da quanto vivete qui?».
«Ci siamo trasferiti il primo maggio», disse in fretta Juanita. «All'inizio
ho detto nossignore, non posso trasferirmi a Guyton. È troppo lontano.
Laggiù non c'è nessuno dei miei parenti. Ma il signor Gerry ha insistito
molto, dicendo che io e Grady dovevamo avere questa graziosa casetta di
mattoni. E ci ha messo i mobili e tutto il resto, così non abbiamo dovuto
preoccuparci di niente».
«È stato molto gentile da parte sua. E vi ha detto che la casa era un regalo
della signorina Ann Ruby?».
«Esatto. E io mi sono terribilmente preoccupata, pensando che avrei
ricevuto per posta un conto o altro, ma non è mai successo. Sono passati tre
mesi, quindi credo che il Signore ci voglia qui».
«Ne sono sicuro», concordò James. «Mi chiedevo se saresti disposta a
parlarmi un po' di come siete arrivati a firmare come testimoni le ultime
volontà della signorina Ann Ruby».
Le tese i documenti che aveva portato con sé perché li esaminasse. Lei li
osservò per un attimo e poi alzò di nuovo gli occhi su di lui. «Esatto.
Abbiamo firmato questi fogli proprio come ci ha chiesto di fare il signor
Gerry».
«Quando ve l'ha chiesto?».
«Mmm. Be', ricordo che è venuto a casa nostra, la vecchia casa, intendo,
in un giorno di primavera e mi ha portato una scatola di caramelle. È stato
un gesto carino, vero? Non ho voluto dirgli che non potevo mangiarle
perché ho il diabete. E aveva alcuni fogli che doveva far firmare a me e a
Grady. Come favore verso la signorina Ann Ruby. Così noi l'abbiamo fatto,
e il signor Gerry è stato così contento. E ha detto che la signorina Ann Ruby
aveva una casa qui a Guyton che stava sistemando per andarci a vivere, solo
che non stava molto bene e preferiva rimanere a casa sua, quindi le
avremmo fatto un piacere se ci fossimo trasferiti qui per occuparci di tutto».
«È stato davvero gentile da parte del signor Blankenship», disse James.
«E avete avuto occasione di vedere la signorina Ann Ruby quando avete
firmato i documenti?».
«No, padre», rispose Juanita. «Non abbiamo più rivisto il suo caro viso».
«E non l'avete vista nemmeno il giorno in cui avete firmato i fogli?».
«No», rispose lei, poi si accigliò. «Oh, Signore. Non avrei dovuto dire
niente su questo, vero?».
«Il signor Gerry vi ha chiesto di non raccontare a nessuno in che modo
avete firmato i fogli?».
Lei si fissò di nuovo le mani. «È stato incredibilmente buono con noi»,
ripeté.
«Tu e Grady siete brave persone. E ho davvero apprezzato il pranzo che
mi hai preparato».
«Non vorrà già andarsene, vero? Non prima che Grady possa vederla».
James guardò l'orologio. L'appuntamento di Marian al St. Joseph era
fissato per le due e mezzo. «Mi dispiacerebbe che tu interrompessi il suo
pisolino».
Ma Juanita si era già alzata e si stava dirigendo con passo malfermo
verso il corridoio. «Rimanga lì un attimo, padre Foley».
Cinque minuti dopo spinse una sedia a rotelle nel soggiorno. Un tempo
l'uomo che vi era seduto era stato grande e grosso, non molto alto ma
massiccio, talmente forte da riuscire a tagliare e spostare da solo i pini
caduti sopra la Christ Our Hope durante un violento uragano. Adesso Grady
Traylor era abbandonato sulla sedia a rotelle e una cinghia che gli
attraversava il torace era l'unica cosa che impediva al suo fragile corpo di
scivolare in avanti fino a terra. Una mascherina per l'ossigeno gli copriva la
bocca e i suoi occhi castani sembravano vitrei.
«Guarda chi c'è, Grady Traylor», disse ad alta voce sua moglie. «Ricordi
sicuramente padre Foley, Grady. È venuto a trovarci. Non è splendido? Ha
fatto tutta quella strada fin da Savannah».
L'uomo sbatté le palpebre, e a James parve di vedere nel suo sguardo un
barlume di riconoscimento.
Juanita lisciò il tessuto consunto della giacca del pigiama del marito, le
sue mani magre ne accarezzavano la scapola scheletrica.
«È così felice di vederla», disse a James. «Ora, mi stavo chiedendo se lei
potrebbe fare una cosa per noi. Una cosa speciale. Perché, a dirle la verità,
questa casa è così isolata nella campagna che non riusciamo ad andare a
messa».
James annuì. Si inginocchiò sul pavimento rivestito di moquette accanto
alla sedia a rotelle di Grady Traylor, e Juanita si inginocchiò al suo fianco,
reggendosi al bracciolo della sedia.
«Perdonami, Padre, perché ho peccato», cominciò a dire la donna, gli
occhi serrati con forza.
"E perdona me, Padre", pensò James, "per il peccato di aver voluto offrire
conforto a questi figli di Dio fragili ma fedeli".
49

James si abbandonò su una sedia a dondolo e prese una lunga sorsata di


gin and tonic.
«Va meglio?», chiese Jonathan.
Lui bevve un altro sorso e piegò all'indietro la testa. «Un po'».
«Sono sicuro che i Traylor siano stati felici di vederti», disse Jonathan.
«E in realtà non avevano niente da confessare, vero?».
«No», ammise James. «Grady ha avuto un ictus e ha perso la parola. E
Juanita, poveretta, l'unica cosa che ha potuto confessare è di essere stata di
tanto in tanto impaziente nei confronti dei medici».
«Hai offerto conforto agli afflitti. Non è questo che ci esorta a fare la
Bibbia?».
«Non ci dice di travestirci da preti mentre lo facciamo», precisò in tono
malinconico James.
«Non portavi il collare né la tonaca», gli fece notare Jon.
«Comunque sono andato deliberatamente là sotto mentite spoglie».
«E cosa hai scoperto?».
«Gerry Blankenship li ha indotti con l'inganno a firmare il testamento in
veste di testimoni», spiegò James. «Ho preso alcuni documenti legali senza
nessuna importanza e li ho mostrati a Juanita, fingendo che fossero le carte
che aveva firmato. Li ha guardati, ha sorriso e ha detto che erano proprio
quelle. È quasi cieca a causa del diabete, Jonathan. Non è in grado di
leggere il giornale e riesce a spostarsi in giro per la casa solo grazie al tatto.
Grady, naturalmente, è ridotto a un vegetale, ed è così da qualche tempo,
ormai».
«Ecco perché Blankenship li ha nascosti nel bel mezzo del nulla, a
Guyton».
«La casa appartiene alla Willis J. Mullinax Foundation. Lui ha detto ai
Traylor che era della signorina Ann Ruby e che gli avrebbero fatto un
favore se vi si fossero trasferiti per prendersene cura. Poveri vecchietti, ne
sono così felici. Una casetta di mattoni con l'aria condizionata e un bagno di
piastrelle – per Juanita è una vera reggia. Lui ha detto loro di mantenere il
segreto su tutta la faccenda, e naturalmente lei si sente in debito con il caro
signor Gerry».
«Il caro signor Gerry si dà parecchio da fare», commentò Jonathan.
«E si arricchisce grazie a questo, immagino», disse James.
«Forse no», ribatté Jonathan. «Ultimamente ho tenuto le orecchie tese.
Gerry è indebitato fino al collo».
«Davvero?».
«La cosa ti stupirà, ma è costoso salvare le apparenze in questa città,
James. Le quote associative dei club, la villa in centro, le donazioni agli enti
di beneficienza giusti, nulla di tutto questo è a buon mercato. E a Gerry
piace fare le cose in grande, fare colpo. Ma la realtà è molto diversa. Le sue
fatturazioni sono state patetiche. Ha persino iniziato a occuparsi di divorzi».
James fece una smorfia, pensando a Inky e Denise Cahoon. Forse
avrebbe dovuto dire a Denise di consultare Gerry Blankenship.
«Questo accordo con la Coastal Paper Products potrebbe essere la sua
salvezza», continuò Jonathan. «Mettere in contatto Phipps Mayhew con
Ann Ruby Mullinax è stato un vero colpo di genio. Blankenship guadagna
denaro da entrambe le parti dell'accordo, rappresentando sia Ann Ruby che
la Coastal Paper Products».
«Può farlo? Dal punto di vista etico, voglio dire».
«Chi può fermarlo? Ann Ruby Mullinax non ha lasciato eredi. Tutti i
soldi vanno a una fondazione controllata da Blankenship».
«Dovrà presentare certi documenti per conservare lo status di ente non
profit», sottolineò James.
«Gerry non è uno stupido», ribatté Jonathan. «Aspetta e vedrai. Le
scartoffie daranno l'impressione che stia distribuendo soldi più in fretta dei
Rockefeller».
«Di quanto denaro stiamo parlando?».
«Impossibile dirlo. La tenuta di Beaulieu è stata venduta per due milioni
e mezzo di dollari. Quello lo sappiamo, ma non sappiamo quanto stia
guadagnando Blankenship occupandosi dei permessi per la Coastal.
Quell'incarico vale da solo centinaia di migliaia di dollari».
James si dondolò avanti e indietro, assimilando tutte le informazioni.
«Un accordo estremamente vantaggioso per quasi tutte le parti in causa»,
commentò. «Tranne per Caroline DeSantos, che è stata uccisa. E per
Weezie, che ha rischiato di essere incriminata per l'omicidio. Tu conosci
Blankenship, Jonathan. È capace di uccidere?».
«È capace di fare parecchie cose. Tutto questo intrigo, l'aver falsificato il
testamento di Ann Ruby – se l'ha fatto davvero – lo dimostra
inconfutabilmente».
«Non possiamo dimostrare che l'abbia falsificato. Forse Ann Ruby ha
accettato di vendere Beaulieu alla Coastal Paper Products. E forse
Blankenship ha davvero intenzione di provvedere alla formazione
professionale dei giovani della comunità».
«E forse gli asini possono volare», ribatté Jonathan. «Blankenship è
implicato in qualcosa di illecito, questo è sicuro. Solo che non riesco a
capire quale movente potrebbe aver avuto per uccidere Caroline DeSantos».
«Una lite tra amanti?», ipotizzò James.
Jonathan si curvò in avanti sulla sedia a dondolo e sorrise. «Ne dubito».
«Cosa vorresti dire?».
«Secondo i pettegolezzi che girano in città, Caroline stava frequentando
di nascosto qualcuno. E, naturalmente, visto che stava lavorando così a
stretto contatto con Blankenship sul progetto per la cartiera, questo ha dato
origine ai pettegolezzi».
«Sappiamo che lei aveva un amante che stava pensando di comprarle una
casa», disse James.
«Non Blankenship. Lui non fa parte di quella squadra».
«Cosa vuoi dire?».
«Ti ho detto che Gerry è bravo a salvare le apparenze», rispose Jon. «E
questo include la sua vita privata, che gli piace mantenere molto, molto
privata».
«È gay?».
«Non potrebbe esserlo di più».
«E come lo sai?».
«Sono un penalista. La gente mi racconta le cose. Gerry Blankenship
conduce una doppia vita ormai da anni. Anni fa è stato sposato brevemente
per gettare fumo negli occhi.
Niente figli, e il divorzio è stato estremamente amichevole. L'ex signora
Blankenship ha preso i soldi della sua buonuscita e si è trasferita in Florida.
E Gerry, da allora, ha avuto una serie di amichetti molto discreti, molto
giovani».
«Ne sei sicuro?».
«Sicurissimo», disse Jonathan. «Non si trovava nemmeno qui in città,
quando Caroline è stata uccisa. Era a Charleston, a una festa». Gli strizzò
discretamente l'occhio. «Una festa di soli uomini».
«Oh. Questo lo scagiona, almeno per quanto riguarda l'omicidio. Chi altri
potrebbe essere stato?».
«Conosci bene Talmadge Evans?».
«È assurdo. Lui amava quella ragazza».
«E se avesse scoperto che lei lo tradiva?».
«Lo ha scoperto», ammise lentamente James. «L'altra sera ha raccontato
a Weezie che sapeva che Caroline frequentava un altro uomo».
«E come si sentiva, al riguardo?».
«Tradito, immagino. Sta cercando di convincere Weezie a rimettersi con
lui. Mandandole fiori, lasciandole messaggi sulla segreteria. Una sera si è
presentato alla sua porta ubriaco fradicio e ha fatto una scenata,
supplicandola di riprenderlo con lei. La polizia lo considera un indiziato per
l'omicidio di Caroline?».
«Il detective Bradley l'ha interrogato», disse Jonathan. «Ho letto il suo
rapporto sul colloquio. Tal ha dichiarato di aver lavorato in ufficio fino a
tardi, quella sera. Tutti, nello studio di architettura, stavano facendo un
sacco di straordinari per i progetti per la nuova cartiera. Ha raccontato a
Bradley che Caroline se n'era andata in anticipo quella sera, per un incontro
di lavoro».
«Non ha mai chiamato la polizia per denunciarne la scomparsa?».
«No. Ha detto a Bradley che era troppo in imbarazzo. Aveva la
sensazione che Caroline avesse mentito, su dove stava andando, ma non si
sentiva pronto a insistere. E, naturalmente, il mattino dopo gli hanno
telefonato per avvisarlo che era stata trovata. Morta. A Beaulieu».
«Trovata da Weezie», precisò James. «Ecco un'altra ipotesi. Cosa mi dici
di Phipps Mayhew? Stava lavorando a stretto contatto con Caroline sul
progetto della cartiera. È ricco. E sposato.
Al servizio funebre di Ann Ruby ho conosciuto sua moglie. Dà
l'impressione di considerare i sudisti vagamente idioti quando si
intestardiscono a voler salvare vecchie e orribili ville coloniali».
«Sono sicuro che la polizia ha interrogato Mayhew», replicò Jonathan.
«Ma non ricordo di aver letto niente nel rapporto di quanto lui potrebbe
aver raccontato».
«Forse dovresti tornare a dargli un'occhiata», gli suggerì James.
«Lo farò».
50

«Mamma?». Infilai la testa nel tinello dei miei genitori, dove lei era
seduta fissando il televisore.
«Cosa?». I suoi occhi non lasciarono lo schermo. Stava guardando un
programma di cucina in cui uno chef cinese mostrava come disossare una
gallinella con il coltello più lungo e dall'aspetto più crudele che io avessi
mai visto.
Mi sedetti sul divano, davanti alla sua poltrona. «Com'è andata oggi
pomeriggio?».
Era ben pettinata e portava un tailleur pantalone color pastello e gli
orecchini di perle, quindi si era presentata all'appuntamento al centro di
disintossicazione.
«Sshh», rispose. «Sto cercando di vedere cosa sta facendo quest'uomo».
«Sta disossando una gallinella», spiegai. «E anche se tu decidessi di
cucinarne una, cosa di cui dubito sinceramente, perché mai dovresti volerla
disossare? Mamma, voglio sapere com'è andata al centro, oggi».
«Benissimo», scattò, prendendo il telecomando e alzando il volume. «Ora
potrei, per favore, godermi un po' di pace e silenzio senza che tutti mi
facciano un sacco di domande indiscrete?».
«Oookaaay», dissi, alzandomi e uscendo. Trovai papà in cortile, sotto la
tettoia per auto, impegnato nel tentativo di districare il filo di nylon
aggrovigliato intorno al manico del suo amato tagliaerba.
«Ciao, tesoro», disse, alzando gli occhi quando mi lasciai cadere
pesantemente su una sedia da giardino di alluminio accanto a lui.
«La mamma sembra un po' tesa», dissi. «È andato tutto bene al centro,
oggi pomeriggio?».
Lui estrasse il suo coltello a serramanico e cominciò a tagliare il filo
aggrovigliato. «Non è scappata».
«È già un inizio. Ma ti è sembrata ricettiva?».
«Passami il cestino dell'immondizia, Weezie, ti spiace?», chiese,
districando il filo ormai rovinato.
Cominciai a raccogliere i pezzi di filo di nylon e a buttarli nel cestino.
«Non è andata troppo bene», ammise alla fine. «James dice che ci vorrà
tempo. Ma oggi, be', direi che questa prima volta è stata un fiasco».
«Cos'è successo?».
«Quando siamo arrivati, l'addetta all'ammissione, è così che chiamano
l'infermiera che ti fa tutte le domande, ha portato Marian in una stanza e le
ha chiesto un sacco di cose, per un'ora. E io sono andato con un'altra
persona, che mi ha fatto domande sulla famiglia. Poi abbiamo partecipato
insieme a un incontro con i responsabili del ricovero che hanno spiegato
cosa, secondo loro, dovrebbe fare tua madre per curarsi».
«Quando hanno cominciato ad andare male le cose?».
«Più o meno nel momento in cui ci hanno detto che, secondo loro, lei
dovrebbe essere ricoverata come interna. Il che significa restare in ospedale
per sei settimane».
«Oh, no», dissi.
«Tua madre è diventata isterica e mi ha accusato di volerla indurre con
l'inganno a lasciarsi rinchiudere di nuovo. Le ho detto e ripetuto che non
sarebbe andata così, ma sai com'è fatta».
«Lo so».
«Alla fine siamo riusciti a calmarla, e i responsabili hanno detto che,
visto che lei era così contraria all'idea di restare in ospedale, forse potevano
curarla come paziente esterna, il che, come tua madre ha ammesso alla fine,
non sarebbe poi così terribile».
«Poi cosa è successo?».
«L'hanno fatta partecipare a una seduta di gruppo. E, quando è uscita, era
come l'hai vista adesso in casa. Traumatizzata, in un certo senso».
«E non ha voluto dirti cosa l'ha sconvolta tanto?».
«Ha semplicemente continuato a ripetere che gli altri membri nel gruppo
erano tutti drogati, ubriaconi, barboni e criminali, e a chiedermi come
potevo pretendere che restasse chiusa a chiave in una stanza con quel
genere di persone sei giorni alla settimana per tre mesi».
«Hai cercato di parlarle?».
«Sia James che io abbiamo fatto del nostro meglio per farla ragionare.
Lei continua a pensare di non avere alcun problema con il bere. Non capisce
perché mai dovrebbe andare in un centro di disintossicazione con un branco
di drogati e ubriaconi».
Mi chiesi se qualcuno dei drogati e degli ubriaconi del centro avesse mai
pensato di mescolare Xanax e whisky come aveva fatto lei.
«C'è qualcosa che posso fare?», chiesi.
«Più avanti vogliono che partecipiamo tutti a qualche sessione di terapia
di gruppo», rispose papà. «Ma non prima che tua madre sia pronta ad
ammettere di avere un problema con il bere».
«D'accordo», dissi, alzandomi dalla sedia da giardino. Feci per
andarmene, poi tornai indietro per stringerlo in un abbraccio. «Ti voglio
bene, papà», aggiunsi.
«Ti voglio bene anch'io», ribatté lui, ricambiando la stretta. «Supereremo
tutto questo, Weezie. Ma di' una preghiera per tua madre, d'accordo?».
«Lo farò», promisi. «E ne dirò una anche per te e per me».

Il pick–up di Daniel era parcheggiato davanti alla casa sulla Southside, e


quando arrivai lui aveva già caricato il divano.
Diedi una rapida occhiata in giro per la casa ma non vidi molto altro che
valesse la pena di comprare, così presi un tavolino e lo aggiunsi ai mobili
impilati sul pianale del veicolo.
Mentre tornava verso la casa Daniel si fermò a darmi un bacio rapido e
sudato.
«Ti piacciono i mobili?», domandai.
«Sì», rispose. «Sono molto belli. Davvero. Temevo che tu stessi parlando
di quel vimini pieno di fronzoli, ma questo bambù mi piace davvero».
Una volta caricati entrambi i pick–up, lo seguii verso Tybee.
L'ultima volta in cui l'avevo vista, casa sua era immersa nel caos, ma
Daniel si era dato parecchio da fare. Le pareti odoravano ancora di vernice
fresca, e i pavimenti erano stati lamati e riverniciati.
«Wow», dissi in tono ammirato. «Che meraviglia. Come sei riuscito a
fare così tante cose?».
«I miei fratelli sono venuti ad aiutarmi», spiegò, posando una delle
poltrone contro il muro di fronte alla porta.
«Non lì», dissi, scuotendo la testa e indicando la parete opposta. «Qui. E
il divano laggiù, e i tavolini tra il divano e le poltrone. Il bar, invece, là in
fondo, vicino alla nicchia dove si mangia».
«Sei davvero dispotica».
«Mi hai assunto per darti ordini».
Lui posò lo sgabello del bar che stringeva e mi cinse la vita con le
braccia, attirandomi contro il suo torace sudato. «Devo confessarti una cosa.
Avevo un secondo fine quando ti ho assunto».
«E io avevo un secondo fine quando ho accettato l'incarico», replicai.
«Fammi vedere cosa hai fatto in camera da letto».
Lui sorrise.
«Non intendevo in quel senso», specificai. «Voglio solo assicurarmi che
tu non abbia messo le cose nel posto sbagliato».
«Pensavo che ti piacesse dove metto le cose», dichiarò, seguendomi.
«No», dissi, fermandomi sulla soglia della camera. «Non va affatto
bene».
Il grande letto di quercia era messo contro la finestra migliore, quella da
cui si godeva di una magnifica vista del cielo e del fiume, e il cassettone era
proprio accanto al letto.
«Come amante sei straordinario», gli dissi, «ma come arredatore d'interni
sei un vero disastro. Vieni, aiutami a spostare questo letto».
Mi afferrò la mano e mi tirò sul materasso insieme a lui.
«Non così», dissi, cercando di liberarmi. «Lo voglio addossato all'altra
parete, in modo che tu possa vedere l'acqua quando ti svegli al mattino».
«Detesto svegliarmi con il sole negli occhi», borbottò.
«Ti troverò delle tendine di bambù avvolgibili da tirare giù», annunciai,
«ma non vorrai certo che il letto impedisca la visuale. E non vorrai certo
inciampare nel cassettone quando scendi dal letto, la mattina».
Lui si alzò e cominciò a spingere i mobili. «Come fai a sapere tutte
queste cose?».
«È semplice buonsenso», affermai. «Tua madre non ti ha insegnato nulla
di tutto ciò?».
«Mia madre lavorava per la maggior parte del tempo», rispose lui. «Non
poteva certo preoccuparsi della sistemazione dei mobili».
L'atmosfera si era improvvisamente raggelata, tuttavia insistetti. Dopo
tutto, se andavamo a letto insieme, volevo sapere qualcosa della sua
famiglia.
«Dove lavorava?», chiesi.
«Allo zuccherificio».
«Chi badava ai bambini?».
«Eravamo perfettamente in grado di badare a noi stessi. Ce la siamo
cavata egregiamente».
«Sembra che tu e i tuoi fratelli siate molto uniti», dissi. «Quando potrò
conoscerli?».
«Quando vuoi», rispose. «È così che volevi i mobili?»
«Ora va meglio», dichiarai, in piedi al centro della stanza. «Ti servono un
paio di lampade e un copriletto. E cosa ne diresti di quadri per le pareti?».
«Perché ho bisogno di quadri?».
«Per aver qualcosa da guardare quando sei a letto».
«So cosa voglio guardare quando sono a letto», ribatté lui. «E non sono
quadri. Torni a Bluffton con me, stasera?».
L'idea era allettante. «Non posso. La vendita degli arredi di Beaulieu è
fissata per sabato mattina. E ho ancora alcune faccende da sbrigare».
«Quando, allora?», domandò.
Sapevo cosa voleva dire, ma lo chiesi comunque. «Quando cosa?».
«Quando la smetterai di correre continuamente in giro? Quando
resteremo insieme per più di una notte?».
Mi appoggiai mollemente al muro e incrociai le braccia. «Ora le ho
proprio sentite tutte».
«Cosa vorresti dire?».
«Un uomo che vuole un impegno ufficiale dopo una sola notte».
Lui arrossì. «Non sto chiedendo un impegno, voglio solo sapere a che
punto siamo come coppia. Se ben ricordi sei tu quella che, soltanto ieri sera,
era pronta a tornare di corsa dal suo vecchio innamorato».
Scossi il capo. «Oh, no. Non intendo ricominciare quella discussione».
«Non ti rendi conto di come è strano tutto questo, vero?».
«No. Perché è strano?».
«Vivi nel giardino del tuo ex marito. Lui ti sorveglia. Sta solo aspettando
che tu riattraversi quel giardino per tornare da lui».
«Mi stai chiedendo di venire a vivere qui?».
Prese un'espressione scioccata. «No. Insomma, non ci avevo pensato».
«Bene. Non farlo. Mi piace il posto in cui vivo. E non credere che il
semplice fatto che andiamo a letto insieme ti dia il diritto di darmi ordini».
«Sei tu l'unica che può darli, vero?».
Ritrassi bruscamente la mano. «No, non voglio essere io a farlo.
Guardaci. Stiamo discutendo di nuovo. Ti avevo detto che sarebbe andata
proprio così: non facciamo che litigare. Tra noi non funziona».
Gli voltai la schiena e mi diressi verso il mio pick–up in cortile.
«Ehi». Lui si fermò sulla soglia e mi urlò dietro. «Non era una lite. Non
era nemmeno una bella discussione. Eccoti lì, di nuovo in fuga. Torna
indietro, dannazione».
Quando arrivai a casa, l'auto di Tal era parcheggiata nel suo spazio. Vidi
qualcosa davanti alla mia porta. Una composizione floreale.
«Merda», mormorai, poi feci dietrofront e andai a casa di BeBe.
Le bastò darmi una sola occhiata per capire cosa era successo. «L'hai
fatto, vero?».
Le passai accanto entrando in cucina e aprii il suo enorme frigorifero di
acciaio inossidabile a due porte. «Hai del cioccolato in questo affare?».
«C'è della salsa di caramello e cioccolato Godiva in quel vasetto nello
sportello», disse. Presi la salsa e aprii il freezer. «Gelato?».
«Secondo ripiano dall'alto».
Presi la confezione di cartone e mi sedetti al piano di lavoro. Tolsi il
coperchio del gelato e vi aggiunsi una cucchiaiata di salsa. «Whisky?».
«Sai dove lo tengo», rispose BeBe, indicando il mobiletto dei liquori.
Presi un grosso bicchiere di foggia antiquata, versai due dita di whisky su
uno strato di cubetti di ghiaccio e lo mandai giù liscio, seguito da una
salutare porzione di gelato e salsa al cioccolato.
«Fammi capire», disse BeBe, versandosi un drink. «A un certo punto, ieri
sera, presumibilmente dopo che abbiamo parlato al telefono, tu e Daniel
avete prodotto un'appassionata musica per materasso insieme. E in seguito
avete avuto la vostra prima lite ufficiale».
«Abbiamo avuto la nostra prima lite ufficiale quando ci hai presentati»,
rettificai.
«La prima lite ufficiale come coppia», puntualizzò lei.
Mangiai un paio di cucchiaiate di gelato. «Cosa ti fa pensare che siamo
una coppia?».
«Non lo siete? Si tratta solo di scopate ricreative? Voglio dire, Weezie,
sono la più convinta sostenitrice delle scopate ricreative. È un concetto che
troppe poche donne americane dei nostri giorni abbracciano. Solo che non ti
credevo quel tipo di ragazza».
«Come mai tutti si preoccupano tanto del tipo di ragazza che sono?».
«Lascia perdere», disse lei. «Vedo che non sei dell'umore adatto per
discutere di filosofia. C'è qualcos'altro che posso fare per te, stasera, oltre a
fornirti cioccolato e liquore?».
«Non potevo tornare a casa», spiegai in tono di scusa. «Tal mi ha lasciato
un'altra composizione floreale davanti alla porta».
«Almeno questa non te l'ha lasciata dentro casa».
«Ho fatto cambiare le fottute serrature», spiegai. «E James gli ha
telefonato per dirgli di farla finita. Ma apparentemente Tal non ha ancora
afferrato il fottuto messaggio».
«Sei davvero di cattivo umore», commentò lei, lanciandomi un'occhiata
cauta.
«Ho avuto una giornata spaventosa», dissi. E le raccontai della reazione
di mia madre al centro di disintossicazione e della lite tra Daniel e me e
della mia deprimente sensazione che Lewis Hargreaves aveva già arraffato
la credenza di Moses Weed.
«Vuoi la mia opinione su una qualsiasi di queste cose?», mi chiese.
«Sì», risposi. «Scusa se sono stata così odiosa. Ora che ho mandato giù
un po' di cioccolato e di liquore, sono pronta per una seduta di psicoterapia.
Dio solo sa se ne ho bisogno».
«Prima di tutto, tua madre», cominciò lei. «Guardiamo in faccia la realtà.
È dipendente dallo Xanax e dal whisky. È drogata. Hai fatto il possibile per
lei. Tu e tuo padre le avete detto che pensate lei abbia un problema. Le hai
promesso di aiutarla in ogni modo possibile. Ora fatti da parte e lascia che
sia lei ad ammetterlo».
«Più facile a dirsi che a farsi».
«Secondo. Daniel. Odio dovertelo dire, Weezie, ma credo che lui abbia
ragione. Tu hai una sorta di avversione per le relazioni sentimentali».
«Stai dicendo che sono frigida?».
«Cristo, spero proprio di no. Lui è un uomo fantastico. Vuole stare con te.
È più che naturale che Tal lo metta a disagio. Diavolo, chiunque conosca
Tal lo trova inquietante».
«Stai dicendo che dovrei lasciare l'ex rimessa per le carrozze?». Feci per
alzarmi.
Lei mi spinse di nuovo giù. «Resta seduta. Dannazione, come sei
suscettibile, stasera. Scopare non ha certo migliorato questi sbalzi d'umore».
«Non ho sbalzi d'umore».
«D'accordo. Chiamiamole tempeste ormonali. Hai tenuto un paio delle
pillole di Xanax rubate a tua madre?».
«Ho l’intero flacone nella borsa».
«Potresti considerare l'ipotesi di prenderne una, se questi accessi d'ira
continuano».
Aprii la bocca per protestare ma poi la richiusi.
«Hai detto che volevi la mia opinione», sottolineò lei.
«Vai avanti».
«Dai una possibilità a quel ragazzo. Non ti chiedo altro. È dolce, è
spiritoso, è un vero schianto. È palesemente pazzo di te. E scommetto che è
bravo a letto. Dico bene?».
Mi limitai a guardarla.
«D'accordo. Sii pure discreta. È stato fantastico. L'ho capito dal modo in
cui camminavi quando sei entrata qui questa sera».
«Cosa?».
«Avevi evidenti difficoltà di deambulazione, come direbbe mia nonna
Loudermilk», spiegò.
«Sei di un'incredibile volgarità», risposi.
«E ho ragione. Ammettilo».
Sorrisi mio malgrado. «Avevi ragione sulla teoria della zuppa. Non
intendo aggiungere altro»
«Okay. Daniel Stipanek è perfetto sotto ogni punto di vista. Perché stai
scappando da lui?».
«Non lo sto facendo. Insomma, non voglio farlo, succede e basta. In lui
c'è qualcosa che mi spaventa, BeBe».
«Per esempio?».
«Tanto per dirne una, ha un vero blocco per quanto riguarda la sua
famiglia».
«In che senso?».
«Non vuole parlarne. Sa tutto della mia famiglia disfunzionale ma non
dice una sola parola su di sé e sull'ambiente da cui proviene. Tutto quello
che so di lui è che ha perso il padre quando era molto piccolo, che ha due
fratelli e che in pratica sono cresciuti da soli perché sua madre lavorava
nello zuccherificio».
«È parecchio».
«Come no», risposi. «Ed è arrabbiato per qualcosa che è legato a sua
madre, credo».
«Tesoro, siamo tutti arrabbiati con le nostre madri».
«Ma sappiamo per quale motivo», replicai, poi mi interruppi. «A
proposito, perché ce l'hai con tua madre?».
«Cosa ne diresti di chiamarti BeBe?».
«Oh, certo. Ma cosa rende così furibondo Daniel? Ecco un altro
problema, BeBe. Lo conoscevo già ai tempi del liceo. E non gli ho mai
sentito dire una sola parola sulla sua famiglia. Era come se fosse stato
allevato dai lupi o una cosa del genere. Cosa sai di lui?».
«So che è lo chef migliore di Savannah. Non mi serve sapere altro».
«Ma cosa mi dici del suo background? Insomma, non vorrei certo
assomigliare a mia madre, ma BeBe, chi sono i suoi?».
51

«Potremmo leggere il dossier di Daniel, quello del ristorante», propose


BeBe.
«Che cosa ci direbbe?».
«Parecchie cose. Il suo ultimo posto di lavoro, il suo ultimo indirizzo. Il
parente più prossimo».
«Probabilmente lui ha dato il nome di uno dei fratelli. So che ne ha uno
di nome Derek, che fa l'idraulico, e un altro, Richard, che guida un
autotreno».
BeBe finì il suo drink. «Vuoi farlo oppure no?».
«Sì», risposi, gettando nella pattumiera il contenitore del gelato.
«Facciamolo».
L'ufficio di BeBe al Guale era una stanzetta minuscola attigua alla
cucina. Lei accese la luce e indicò uno schedario per ufficio. "Fascicoli del
Personale".
Aprì il cassetto più in basso e ne scorse il contenuto fino a trovare la
cartelletta che stava cercando.
«Eccola», disse. «Stipanek, Daniel F.».
«Sbrigati. Per cosa sta la F?».
«Francis», rispose, sfogliando le carte all'interno. «Cos'altro vuoi
sapere?».
«Dammi quella roba», dissi, prendendo il fascicolo e sedendomi alla sua
scrivania.
«Ehi, questo è il mio ufficio e quella è la mia sedia», protestò lei.
Si sedette su una sedia nell'angolo e mise il broncio.
«L'ultimo posto di lavoro è stato la Huguenot House di Charleston», lessi
ad alta voce.
«Inutile chiamarli. Hanno chiuso».
«Le sue referenze non sembrano particolarmente interessanti», dissi,
continuando a leggere. «Ecco qui, parente più prossimo: Paula Gambrell. E
c'è un indirizzo di Columbia, North Carolina».
«Ha delle sorelle?», chiese BeBe.
«No, solo due fratelli».
«Forse è sua madre», ipotizzò lei.
«O una cugina».
«Quel nome mi è familiare», disse BeBe. «Gambrell. Ma non ricordo
come mai».
Sollevò la cornetta del telefono.
«Chi vuoi chiamare?», domandai.
«Emery Cooper», rispose, strizzandomi l'occhio.
«Il tuo amichetto delle pompe funebri?».
«Emery sa dove sono sepolti tutti gli scheletri, in questa città, nel vero
senso della parola», spiegò, facendomi di nuovo l'occhiolino. «È molto ben
immanicato. E ben dotato».
Si gonfiò i capelli e si mise il rossetto mentre aspettava la
comunicazione.
«Emery», tubò. «Tesoro, come stai?».
La sua risata tintinnante echeggiò nell'ufficio.
«Sei l'uomo più birichino che io abbia mai conosciuto», disse. «E farei
volentieri qualcosa in proposito se non avessi altre faccende urgenti di cui
occuparmi, al momento».
Ammiccò di nuovo con enfasi. Presi in considerazione l'ipotesi di lasciare
la stanza.
«Tesoro, ti dice qualcosa il nome Paula Gambrell? ... Sì, Gambrell con
due L. Sto controllando le referenze di un potenziale impiegato... Quindi il
nome ti dice qualcosa? Oh», disse, coprendosi la bocca con la mano.
«Giusto. Hoyt Gambrell. Dio del cielo, mi ero completamente dimenticata
di quell'uomo. Cosa gli è successo? ... Non dirmelo. E credi sia ancora in
prigione?».
Sentendo nominare la prigione mi raddrizzai leggermente sulla seggiola.
Lei rimase in ascolto ancora un momento. «Be', è una storia molto triste,
davvero tragica», commentò infine. «D'accordo, tesoro. Sì. Non appena
finisco con questa faccenda».
Riagganciò.
«Cosa ha detto Emery?».
«Ricordi quella faccenda di Hoyt Gambrell? Era una sorta di
vicepresidente dello zuccherificio anni fa, negli anni Ottanta, credo».
«Negli anni Ottanta io frequentavo la scuola parrocchiale», le ricordai.
«All'epoca in cui successe io ero abbastanza grande per capire che era la
faccenda più piccante che fosse successa a Savannah da parecchio tempo a
quella parte», rammentò BeBe. «La mamma nascondeva il giornale per
impedirmi di leggere tutte le cose squallide che stavano succedendo, ma gli
altri ragazzi a scuola mi tenevano informata perché, naturalmente, i figli di
Gambrell frequentavano la Country Day come me».
«Cosa c'è di tanto piccante riguardo a Hoyt Gambrell?».
«Era sposato con la figlia di uno dei fondatori della società, ma aveva un
debole per le donne. C'era questa giovane, Paula Stipanek, che lavorava
nella fabbrica, nel reparto sacchetti. Era bella e stava allevando una nidiata
di bambini da sola. Attirò l’attenzione di Gambrell, che la fece trasferire nel
suo ufficio. Una cosa tira l'altra, e ben presto cominciarono a "uscire
insieme"».
«Ma non finisci in prigione per adulterio», dissi.
«No», confermò BeBe, «ma ci finisci se chiedi mazzette ai venditori – se
ti beccano con le mani nel sacco. Come successe a Gambrell. La faccenda
avrebbe potuto sgonfiarsi come una bolla di sapone, visto che lui era
sposato con la figlia del capo, solo che, dopo essere stato colto in flagrante,
venne invitato senza scalpore a lasciare la compagnia. Ma quando lo
licenziarono perse la testa, chiamò il suocero e minacciò di dar fuoco allo
stabilimento. Fu a quel punto che intervenne la legge».
«E lui venne spedito in galera».
«Infatti. Aveva assemblato una specie di bomba che doveva esplodere
nella sala da pranzo dei dirigenti, ma il congegno fece cilecca. Subito prima
che si alzasse un gran polverone a proposito dell'estorsione, Gambrell capì
che i legali della compagnia avrebbero potuto cercare di convincere Paula
Stipanek a testimoniare contro di lui, visto che era la sua segretaria e
presumibilmente sapeva parecchie cose sulle tangenti, così si affrettò a
divorziare da Miss Principessa dello Zucchero e a sposare Paula».
«In modo che lei non potesse testimoniare contro di lui».
«Da quello che ricordo di aver sentito, non lo avrebbe fatto comunque»,
precisò BeBe. «Hoyt finì nel carcere federale in Florida, e Paula lo seguì
laggiù».
«Abbandonò i suoi figli?».
«Sissignora», rispose BeBe.
«Mio Dio. Daniel non stava scherzando quando ha detto che lui e i
fratelli sono cresciuti da soli. Che cosa terribile».
Restituii il dossier a BeBe. Adesso rimpiangevo di averlo letto. Le
famiglie fanno schifo, mi aveva detto lui, e io ero stata sicura che non
parlasse sul serio. Ma ormai sapevo che era così, e quale ne era il motivo, e
avrei preferito di gran lunga non saperlo.
«Andiamo», dissi a BeBe. «Sento di aver bisogno di un bagno».
52

Mentre tornavo a casa dal Guale passai accanto al magazzino sul Martin
Luther King Boulevard dove il mattino dopo si sarebbe tenuta la vendita
degli arredi di Beaulieu.
Parcheggiai lì davanti e fissai l'edificio. Per la prima volta mi resi conto
che un tempo il vecchio stabile bianco di mattoni aveva ospitato il
Cranman's, l'emporio di articoli sportivi preferito di mio padre. La mia
primissima canna da pesca era uscita da lì, così come il sacco a pelo che
usavo durante le gite delle Girl Scout.
Le vetrine in cui un tempo erano esposte tende canadesi e rastrelliere di
fucili erano chiuse con assi ormai da parecchi anni e l'entrata del negozio
era protetta da una massiccia rete a maglie metalliche.
Poster di un arancione fluorescente erano fissati a intervalli di due metri
sulla rete metallica. "Importante vendita. Sabato – ore 8", recitavano.
"Importante" era un termine riduttivo, per quanto mi riguardava.
"Urgente" era un aggettivo più adatto. Con i soldi messi insieme avrei
dovuto disporre di contanti sufficienti per comprare la credenza di Moses
Weed. Se era ancora lì e se il prezzo non era salito.
Quando arrivai a casa, la composizione floreale di Tal si trovava ancora
davanti alla mia porta. La presi e la lasciai cadere nel suo bidone
dell'immondizia.
Jethro fu entusiasta di vedermi. Andai in cucina e gli diedi una ciotola di
acqua fresca e un biscotto per cani, e giuro che sembrò in preda a un'estasi
canina lì sul pavimento della cucina. Mi seguì al piano di sopra e si sdraiò ai
piedi del letto.
La vendita di Beaulieu sarebbe cominciata alle otto. Preparai il mio
equipaggiamento per le vendite: torcia elettrica, metro a nastro, lente di
ingrandimento, libretto di assegni e portafoglio. Ma niente thermos di caffè.
Non avrei permesso alla mia vescica di farmi finire nei guai, stavolta.
Puntai la sveglia alle quattro e scivolai nel sonno, sognando credenze
danzanti e vecchi armadi canterini.

Un poliziotto che indossava un giubbetto catarifrangente di un arancione


brillante stava dirigendo il traffico intorno all'ex emporio Cranman's. Il
marciapiede davanti all'edificio era bordato di auto. Imprecai ma seguii le
sue indicazioni e parcheggiai in una stazione di servizio a un isolato di
distanza dall'edificio. Tornai indietro a piedi e mi unii a una folla variopinta
formata da una trentina di persone in piedi o sedute contro la rete metallica
lì davanti.
Il mio amico Nappy era in coda poco più avanti.
«Ciao, Weezie», mi disse, «stavolta hai intenzione di entrare
legalmente?».
Gli rivolsi un debole sorriso. Le altre persone in fila vicino a me
cominciarono a bisbigliare e a guardarmi in modo strano. Mi sedetti con la
schiena contro il reticolato e mi appisolai. Mi svegliai tre ore dopo, quando
la gente cominciò a spingere e a parlare. Erano quasi le sette e mezzo. La
fila si era allungata – si snodava lungo il Martin Luther King Boulevard e
scompariva dietro l'angolo. Mi alzai e mi stiracchiai sbadigliando.
Nappy incrociò il mio sguardo. «Da quando è così?», gli chiesi.
«Più o meno dalle sei. Ti sei persa una scena eccitante. Un commerciante
di Miami ha cercato di dare duecento dollari a qualcuno in testa alla fila
perché gli cedesse il suo posto. I tizi dietro di lui l'hanno quasi linciato».
«Non sento il bisogno di altra eccitazione», gli dissi.
«C'è qualcosa in particolare che ti interessa là dentro?», mi domandò.
«So che hai dato una bella occhiata in giro, l'ultima volta».
Mi morsicai il labbro e gli feci cenno di avvicinarsi.
«Mi può tenere il posto per un attimo?», chiese Nappy alla donna dietro
di lui.
Mi raggiunse. Avvicinai le labbra al suo orecchio. «C'è una credenza che
risale al periodo precedente la guerra civile. Realizzata a Beaulieu. L'ho
vista l'ultima volta, e il prezzo sul cartellino era di quindicimila. Se riuscissi
a procurarmela, potrei aprire un mio negozietto di antiquariato».
Lui annuì con aria d'intesa. «Vuoi che la segni con il tuo nastro, se la
vedo?».
«Assolutamente sì», risposi, e gli diedi un rotolo del mio nastro adesivo
con la scritta "Venduto – Foley". «Se la trovi prima di me riceverai una
commissione», gli promisi.
«Affare fatto», rispose, facendomi l'occhiolino.
Mentre la fila avanzava lentamente, davanti a noi scoppiò una lite. Di
solito gli abitanti di Savannah sono troppo beneducati per azzuffarsi a una
vendita, ma quella non era una vendita come tutte le altre e comunque erano
arrivate persone da tutta la costa orientale. E per loro gli affari erano affari.
Un tarchiato uomo di colore sulla cui maglietta bianca campeggiava la
scritta SICUREZZA minacciò di allontanare i facinorosi, e questi si
calmarono. Lui continuò ad avanzare lungo la fila distribuendo palette di
cartone con sopra un numero. A me toccò il trentasei.
Me lo strinsi al petto, recitai una piccola preghiera ed elaborai la mia
strategia per trovare la credenza. L'emporio era chiuso da almeno quindici
anni e non ricordavo più che aspetto avesse l'interno o come fossero
disposti i locali. Non potei fare altro che ripromettermi di attraversare
l'edificio a gran velocità, cercando di individuare l'alta sagoma della
credenza.
Alle otto in punto la gente cominciò a spingere. Alle otto e trenta mi
trovavo davanti alla porta. Alle otto e tre quarti ero dentro. Il locale
traboccava di roba, tutta ordinatamente allineata, sistemata sui tavoli e in
bacheche di vetro.
Corsi su e giù lungo i corridoi. Vidi la stufa a gas, le file di vasi da fiori
McCoy, i tappeti Aubusson e quelli orientali che erano stati puliti e srotolati
per essere esposti. Corsi su e giù nel grande vecchio emporio, passando
oltre merce su cui in qualsiasi altro giorno avrei sbavato.
Alle dieci decisi di rinunciare. Mi aprii faticosamente un varco fino alle
casse, dove una fila di donne con calcolatrice e macchinette per la carta di
credito stavano battendo gli acquisti degli altri visitatori.
«Chi è il responsabile?», chiesi a una ragazza.
Lei indicò l'antico ammezzato dell'emporio, raggiungibile grazie a una
scala attualmente chiusa da un cordone. «Lassù. Si chiama Stephanie».
Scavalcai la corda e salii i gradini. In cima alla scala era ferma una donna
con un binocolo in una mano e una ricetrasmittente nell'altra.
«Sì?». Non sembrava felice di vedermi.
«Sto cercando una credenza», dichiarai. «L'ho vista quando sono stata a
Beaulieu durante il servizio funebre di Ann Ruby Mullinax, e so per certo
che era inclusa nella vendita originaria. Ma ho girato tutto l'emporio, e
adesso non è qui».
«Se faceva parte del contenuto della villa, dovrebbe esserci», ribatté lei,
liquidandomi con un'alzata di spalle.
«Non è qui», insistetti, «e dubito che sia stata comprata da qualcuno
entrato prima di me. L'ultima volta aveva un prezzo di quindicimila dollari.
Non è certo un acquisto che si fa d'impulso, e io ero il numero trentasei
della fila, stamattina».
«Me la descriva», mi chiese lei, prendendo un inventario battuto a
macchina.
«È una credenza di olmo con venature scure, diciannovesimo secolo, con
vetri originali. Realizzata a Beaulieu. Dovrebbe essere indicata come la
credenza di Moses Weed», dissi. «Quindicimila», ripetei. «Voglio
comprarla».
Lei scorse il foglio e scosse il capo. «No. Niente del genere».
Persi la calma. «Lei come si chiama?», chiesi.
«Stephanie Prevost. Perché?».
«Perché voglio tenerlo a mente», affermai con foga. «Questa vendita è
una truffa. Avete venduto la roba migliore ad alcuni commercianti
privilegiati e questo mi rende davvero furiosa».
«Non so di cosa stia parlando», ribatté lei, a bassa voce.
«Lo sa benissimo, invece», dichiarai. «Ho già visto tre pezzi che so per
certo provenire da Beaulieu in vendita in negozi di antiquariato di Bluffton.
Un tavolino di ciliegio intarsiato e due piatti da ostriche in maiolica. Si
trovavano nella villa prima che iniziasse la vendita precedente. Li ho visti.
Ma ora non ci sono più e so con sicurezza che li avete venduti a Lewis
Hargreaves. E adesso è sparita anche la credenza di Moses Weed. Non so
chi è lei, signora, ma ho intenzione di uscire fuori e raccontare a ogni
rigattiere e a ogni antiquario che conosco che avete già venduto la roba
migliore».
«Chi si crede di essere?», domandò lei, gli occhi fiammeggianti. «È da un
mese che sto preparando questa vendita. Ho fatto l'inventario
personalmente, e posso dirle con certezza che nulla, e ripeto nulla, è già
stato venduto. Sto rispondendo a telefonate da settimane. Ho allontanato
personalmente antiquari dalla casa e dal magazzino perché le mie vendite
iniziano quando e dove stabilito. E non concedo anteprime».
«Allora come ha fatto Lewis Hargreaves a mettere le mani su quei
pezzi?».
«Non lo so», disse torvamente lei. «Sono stata assunta dall'avvocato che
cura la proprietà, Gerry Blankenship, per occuparmi di questa vendita dopo
che l'ultima è stata rimandata. Se ha delle domande da fare, dovrebbe farle a
lui».
«Può starne certa, dannazione», annunciai, voltandomi per andarmene.
Lei prese la sua ricetrasmittente. «Sicurezza», latrò, «qui con me
nell'ammezzato c'è una donna. Voglio che venga accompagnata fuori
dall'immobile».
53

Mi recai direttamente a casa di zio James in Washington Avenue. Mentre


mettevo la freccia per svoltare nel vialetto vidi la sua Mercedes avvicinarsi
dall'altra direzione. Aspettai e mi infilai nel vialetto subito dietro di lui.
Mentre mi avvicinavo alla sua auto mi accorsi che aveva compagnia.
Jonathan McDowell.
Quando James scese dall'auto aveva il viso scarlatto e grondante di
sudore. Jonathan indossava calzoncini da jogging e una maglietta incollata
al petto dal sudore. Sembrò vagamente contrariato di vedermi lì.
«Weezie», disse James, «pensavo che oggi ci fosse la tua grande
vendita».
«Infatti».
«E la credenza?».
«Scomparsa. Dubito che sia mai arrivata in quel magazzino, zio. Sono
stata la trentaseiesima a varcare la porta, stamattina, e nessuno mi ha
oltrepassato trasportando quel mobile».
«Weezie aveva messo gli occhi su un meraviglioso mobile antico di
Beaulieu», spiegò lui a Jonathan mentre entravamo in fila indiana dalla
porta d'ingresso.
Mi sedetti al tavolo di cucina. Notai con un certo divertimento che
Jonathan sembrava muoversi senza difficoltà in casa di James. Aveva preso
una caraffa dal frigorifero e stava servendo a tutti e tre un bicchiere di succo
d'arancia.
«Cosa pensi sia successo alla credenza?», chiese, sedendosi accanto al
tavolo da cucina di formica rossa di mia nonna.
«So cosa le è successo», risposi. «Gerry Blankenship ha preso i pezzi
migliori e li ha venduti a Lewis Hargreaves».
«Lewis ha un occhio davvero infallibile, quando si tratta di antiquariato.
Sei sicura che abbia lui la credenza?».
Annuii e raccontai loro dei piatti da ostriche in maiolica di cui avevo
seguito le tracce a ritroso fino a Zoe Kallenberg. «È la sua assistente e vive
in un appartamento nella casa di Lewis sulla Abercorn», spiegai. «Credo
che abbia venduto per conto di Lewis alcuni degli articoli più piccoli, ma
non riesco a capire come mai lo stiano facendo così furtivamente».
Jonathan e James si scambiarono un'occhiata.
«Blankenship non vuole attirare l'attenzione su ciò che sta combinando a
Beaulieu», disse James. «L'altro giorno siamo andati là e abbiamo dato
un'occhiata in giro».
Inarcai un sopracciglio.
«Il detective Bradley mi ha dato una chiave. È tutto perfettamente
legale».
Mi chinai in avanti. «La casa è completamente vuota, ormai?».
«È più che vuota», rispose Jonathan tristemente. «È stata saccheggiata.
Ogni decorazione pregiata che avesse un qualche interesse architettonico è
scomparsa. Modanature, cornicette, mensole di caminetto, vetri istoriati.
Tutto sparito».
«Ma perché?», chiesi.
«La società di produzione della carta non aveva altro modo per
assicurarsi che il funzionario dell'ente che tutela i siti di interesse storico
non dichiarasse la villa un monumento da preservare».
«E ha funzionato», aggiunse James. «Hanno ottenuto un permesso di
demolizione. L'abbiamo appurato di persona. Le scavatrici sono già là. Gli
operai hanno iniziato ad abbattere gli alberi per la nuova strada che porterà
nella tenuta».
«Oh, no», dissi. «È già abbastanza grave che Lewis Hargreaves si sia
preso tutti i mobili migliori della villa, ma adesso hanno intenzione di
radere al suolo quella bellissima vecchia casa? Non riesco a credere che
possano farla franca con un'azione del genere. È un vero schifo. Questo
significa che, se vendono tutto e costruiscono là un'orrenda cartiera,
Caroline ha vinto».
«È morta», disse in tono calmo James. «Come può essere una vittoria?».
«Ottiene quello che voleva. Tal è infelice e sta rendendo infelice me.
Beaulieu scompare senza lasciare traccia. E persone come Gerry
Blankenship e Phipps e Diane Mayhew si ritrovano più ricche che mai».
«Forse no», disse Jonathan.
«Come possiamo fermarli? Hai appena detto che è solo questione di
giorni, prima che demoliscano la casa».
«Potrebbe esserci un modo», ribadì lui, «se a livello pubblico scoppiasse
abbastanza clamore».
«Per opera di chi?», domandò James. «Non puoi venire coinvolto in una
faccenda del genere. Si creerebbe un conflitto di interessi con la tua carica».
«Non lo farò io. Non direttamente, almeno», precisò Jonathan. «Ma
conosco qualcuno che sarebbe disposto a smuovere mari e monti pur di
salvare Beaulieu».
All'improvviso capii di chi stava parlando.
«Merijoy Rucker. Ma cosa può fare?».
«Parecchie cose, considerati gli elementi in nostro possesso», sottolineò
Jonathan.
«Quali elementi?», chiesi.
James sospirò e scosse il capo. «Non voglio prendere iniziative che
rischino di far perdere la casa a Grady e Juanita Traylor».
«Quale casa?», domandai, spostando lo sguardo da mio zio al suo amico.
«Cosa avete combinato voi due?».
«Tuo zio è un ottimo detective», dichiarò Jonathan. «Ha scoperto che
Blankenship aveva convinto con l'inganno un'anziana coppia che un tempo
lavorava per Ann Ruby Mullinax a firmare come testimoni il testamento che
autorizza la vendita di Beaulieu alla Coastal Paper Products».
«Convinti con l'inganno. In che modo?».
«L'uomo ha avuto un ictus ed è praticamente un vegetale», spiegò lui, «e
sua moglie è quasi cieca a causa del diabete. Blankenship li ha usati come
testimoni del testamento senza che la signorina Mullinax fosse presente.
Solo il cielo sa se lei fosse o meno in grado di dare il suo consenso alla
vendita. Poi, per ingraziarsi la coppia e tenerla tranquilla, Blankenship l'ha
trasferita in una nuova casa sperduta in campagna, una casa che appartiene
alla Willis J. Mullinax Foundation – che lui dirige».
«Ma è illegale», dichiarai. «Blankenship ha organizzato tutto. La vendita
di Beaulieu è una farsa. Potremmo impedire che venga rasa al suolo».
Guardai Jonathan. «Sei il viceprocuratore distrettuale. Non puoi far
arrestare Blankenship o qualcosa del genere?».
«Forse», rispose lui. «Il testamento, la fondazione e tutto il resto sono
probabilmente una faccenda su cui dovrebbe indagare un gran giurì. L'intera
faccenda puzza di frode. Ma mi interessa persino di più scoprire come la
morte di Caroline DeSantos sia collegata a tutto questo. Il mio capo detesta
l'idea di avere un omicidio irrisolto sul suo curriculum. Sapete, l'anno
prossimo ci sono le elezioni».
Si alzò, sciacquò il suo bicchiere e lo posò ordinatamente sullo
scolapiatti.
«Weezie», disse, tornando al tavolo, «tuo zio mi ha detto che Tal sapeva
che Caroline aveva una relazione».
Annuii, sentendo il mio stomaco che cominciava a stringersi.
«Quanto era arrabbiato per questo? Abbastanza da uccidere?».
«No», sbottai. «Era depresso, questo è vero. Mi ha detto che sapeva che
tra loro era finita, prima che lei morisse, ma non era arrabbiato. Piuttosto
era rassegnato al fatto che lei avesse trovato qualcun altro e che lui si fosse
rovinato la vita divorziando da me».
«Dice che era solo, la notte in cui Caroline è stata uccisa, ma nessuno può
confermarlo», dichiarò Jonathan.
«Lei gli aveva detto di avere un appuntamento. Tal non le ha creduto. Ha
cercato di seguirla ma l'ha persa al semaforo tra la Victory e Bee Road».
«Però nessuno l'ha visto, quella sera», mi rammentò James.
«Tal non ucciderebbe mai qualcuno», sostenni. «Non è nel suo stile.
Quell'uomo non crede in nulla. Non... non nutre sentimenti abbastanza
profondi perché possano spingerlo a uccidere. Non l'amore. Non l'odio. Non
la gelosia».
«E i soldi?», chiese Jonathan.
«La sua famiglia è ricchissima», risposi. «E lo studio stava andando a
gonfie vele. La nuova commissione per la cartiera avrebbe fruttato centinaia
di migliaia di dollari».
«Forse lui sapeva quanto fosse fragile l'accordo», ipotizzò Jonathan. «Era
a capo dello studio, doveva sapere cosa stava succedendo là fuori. Di sicuro
sapeva che Blankenship era implicato in qualcosa di losco, magari con
l'aiuto di Caroline».
«No», dissi, scuotendo il capo. «È un verme schifoso ma non un
assassino».
«Sapeva come muoversi a Beaulieu», commentò quietamente James.
«Aveva una chiave della villa. Pensaci, Weezie. Tal aveva il movente, e un
accesso al luogo del delitto».
«Ma non il fegato necessario», ribattei. «Non ha avuto nemmeno
abbastanza fegato per ottenere che Caroline gli comprasse della vera panna
per il caffè».
Jonathan appoggiò i palmi delle mani sul tavolo. «D'accordo. Talmadge
Evans è innocente. Questo dove ci porta?».
«Penso che la tua idea di poco fa fosse ottima», dissi. «Andiamo a parlare
con Merijoy. Era a Beaulieu per il servizio funebre. E lo hai detto tu
stesso», gli ricordai, «è la regina dei pettegolezzi di Ardsley Park».
«Ho un'idea migliore», intervenne James. «Voi due andate da Merijoy. Io
invece, dopo essermi ripulito, andrò a trovare Gerry Blankenship. Potrebbe
essere interessante vedere cosa ha da dire sul testamento di Ann Ruby e
sulla Mullinax Foundation».
54

Mentre imboccavamo il vialetto d'accesso dei Rucker, Merijoy uscì dalla


casa seguita da un nugolo di bambinetti, tutti in maglietta e calzoncini
bianchi come la neve e con in mano le racchette da tennis più piccole che io
avessi mai visto.
«Ciao, Jonathan. E Weezie!», disse, senza curarsi di nascondere lo
stupore nel vederci insieme. Aprì le portiere della sua macchina e cominciò
a sistemare a bordo i figli. «Mi piacerebbe molto dirvi di restare per fare
quattro chiacchiere, ma mi avete presa nel peggior momento possibile. I
bambini hanno lezione di tennis al golf club e siamo già in ritardo di dieci
minuti». Abbassò la voce. «Stamattina Ross ha avuto il pancino in
disordine, e gli ho cambiato il completino già tre volte. Giuro che se fa la
pupù un'altra volta gli infilo un tappo di sughero nel sederino».
«Abbiamo davvero bisogno di parlare con te, Merijoy», spiegò Jonathan.
«Quando potremmo vederci?».
«Oh, Jonny, oggi non è proprio la giornata giusta», rispose lei. «Devo
lasciare i bambini al club per le loro lezioni e poi correre in tintoria prima
che chiuda a mezzogiorno. E devo esaminare alcuni campioni di carta da
parati per il bagno al piano terra, poi passare a prendere un regalo di nozze
per la nipote di Randy – il matrimonio è stasera alla St. John e ho un
appuntamento con la manicure...».
«Si tratta di Beaulieu», dichiarai, con deliberata scortesia. «Cosa ne
diresti se venissimo con te mentre sbrighi le tue commissioni? È davvero
importante, Merijoy. Potresti aiutarci a impedire a Blankenship e ai
Mayhew di radere al suolo Beaulieu».
Lei sgranò gli occhi. «Ma pensavo che fosse tutto sistemato. La
dichiarazione di impatto ambientale non è stata approvata. Non possono
prosciugare i canali delle risaie, senza quella».
«Hanno un permesso di demolizione per abbattere la casa», intervenne
bruscamente Jonathan. «I bulldozer sono già nella tenuta».
«Buon Dio», replicò lei. Infilò la testa nell'auto. «Rodney e Renée, siate
gli angioletti della mamma e spostatevi dietro, vi spiace? La signorina
Weezie e il signor Jonathan vengono a fare un giretto con noi. Non è
eccitante?».
Jonathan ebbe il posto del passeggero. Io finii sul sedile posteriore,
incastrata tra i gemelli, Rachel e Ross. Ross mi osservò con diffidenza da
dietro la frangia color grano che gli ricadeva sugli occhi.
«Ciao», dissi, cercando di essere cordiale.
«Vattene», piagnucolò lui, girando la testa.
Una volta scaricati i bambini e ritirato lo smoking di Randy in tintoria,
andammo in un ristorantino per un amichevole pranzetto e una
chiacchierata.
«Sai, Jonny», disse Merijoy, intingendo nel ketchup una patatina fritta,
«farei qualsiasi cosa per salvare Beaulieu. Dico sul serio. So che la gente
pensa che Merijoy Rucker sia solo una sciocchina, una ricca benefattrice
con troppo tempo libero a disposizione, ma Beaulieu è davvero importante
per me. È l'ultima piantagione di riso anteguerra ancora intatta nella zona.
Ho fatto qualche ricerca. Non esiste un altro posto del genere né in Georgia
né in Florida o in South Carolina. Ce ne sono un paio in Louisiana,
nient'altro. Cosa posso fare per aiutarvi, Jonny?».
«Fai quello che sai fare meglio», rispose Jonathan. «Metti in moto la
lingua».
«Parli come Randy», disse lei, indispettita.
«Dico sul serio. Hai i migliori contatti in città. E io ho qualche munizione
da darti».
«Per esempio?».
«Ricordi quando ci siamo incontrate a Beaulieu, durante il servizio
funebre di Ann Ruby?», intervenni io. «Quel giorno ti ho vista curiosare in
giro, scattando foto e prendendo campioni di carta da parati. Li hai
ancora?».
«Certo», rispose. «All'epoca ero ancora convinta che l'associazione per la
conservazione di Savannah potesse essere in grado di acquistare Beaulieu
per farne un museo della vita quotidiana di un tempo. Volevo cominciare a
documentare le cose. Per la campagna di raccolta fondi».
«Quelle foto potrebbero dimostrare che la villa è stata deliberatamente
spogliata», spiegò Jonathan. «Se riuscissimo a provarlo, forse l'associazione
potrebbe fare qualcosa per indurre la contea a ritirare il permesso di
demolizione».
«Dio solo sa che le ho tentate tutte per fermare Phipps Mayhew.
Comprese alcune azioni di cui non vado certo fiera», dichiarò lei con una
smorfia.
«Per esempio?», chiesi.
Si voltò per guardarmi in faccia. «Non avevo intenzione di parlarne mai
ad anima viva. Mai. Soprattutto non a te, Weezie. Dopo il tuo arresto,
quando sembrava che potessero davvero accusarti di aver ucciso Caroline,
sono quasi morta per la vergogna. E il senso di colpa». Fece una breve
pausa. «Hai presente il giorno in cui ci siamo viste al supermercato? Non è
stata una coincidenza. Ti ho seguito volutamente nel supermercato per poter
fingere di averti incontrato per caso e invitarti a cena. Avevo già organizzato
tutto. Dovevo cercare di farmi perdonare per averti fatto passare la notte in
prigione».
«Perché mai dovresti sentirti in colpa per il mio arresto?», chiesi. «Sono
stata io ad arrampicarmi fino alla finestra e a entrare in quella casa».
Lei abbassò gli occhi, poi lanciò un'occhiata in tralice a Jonathan.
«Jonny, se ti dico una cosa farai in modo che rimanga fra noi tre? Se
Randy venisse a sapere della mia stupida bravata mi farebbe rinchiudere in
manicomio».
Jonathan scoppiò in una risata disinvolta. «Non dirò niente a Randy. A
meno che tu stia per confessare di aver ucciso Caroline».
Lei si infilò una ciocca di capelli scuri dietro l'orecchio. Un gesto dovuto
al nervosismo, perché ogni capello sulla testa di Merijoy Rucker era
perfettamente a posto.
«Non l'ho uccisa ma, sinceramente, ero così furibonda con lei, per il suo
modo d'agire, che avrei voluto farlo. Tra tutte le sgualdrine yankee intriganti
e scaltre che siano mai calate qui in città, Caroline DeSantos era la
peggiore. So che non bisognerebbe parlare male dei morti, ma è vero».
«Cosa hai fatto?», chiesi.
«Quello che ha detto Jonny. Ho sfruttato il talento per ficcanasare che il
buon Dio mi ha dato. Non è stato neppure difficile. Lei era talmente volgare
che quasi non si preoccupava di essere discreta».
«Discreta riguardo a cosa? Al fatto di andare a letto con Tal e rovinare il
mio matrimonio?».
Merijoy parve leggermente a disagio. «No, tesoro, riguardo al fatto di
andare a letto con Phipps Mayhew».
«Cosa?», esclamammo in coro Jonathan e io.
«Oh, sì. Erano molto presi l'uno dall'altra. A un certo punto andarono
persino a cercare casa insieme».
«Quindi ecco chi era il misterioso cliente di Anna ed Emily», commentò
Jonathan. «Perché non hai detto niente, la sera della cena?».
«Perché sapevo già troppo», rispose Merijoy. «Non volevo che tu facessi
un sacco di domande a cui non potevo rispondere».
«Cos'altro sai su Caroline e Phipps Mayhew?», chiesi.
«Lui era pazzo di lei», raccontò Merijoy. «Ho visto una puntata del talk
show Oprah su questo tema. Si parlava di ossessione sessuale. Credo che
fosse così, per quei due. Era una cosa indecente. Facevano sesso
dappertutto, come una coppia di animali in calore. Nell'ufficio di lui,
nell'ufficio di lei, nella casa di Phipps a Turner's Rock, persino in casa tua,
Weezie – in casa di Tal, volevo dire. Lo fecero persino a Beaulieu, proprio lì
nel salottino». Aveva il viso roseo per l'indignazione.
«Come fai a sapere tutto questo?», domandai, cominciando a provare un
senso di nausea.
«L'ho seguita», spiegò lei. «Quella sua piccola Triumph gialla era come
una grossa freccia al neon. Non dovevo fare altro che cercare la macchina
gialla. Santo cielo, un paio di volte si sono quasi accorti di me, mentre
sbirciavo dai finestrini guardandoli scopare. Alla luce del giorno!».
Le labbra di Jonathan tremarono. «Cosa intendevi fare, con loro?».
Merijoy si mordicchiò una pellicina intorno all'unghia del pollice. «Non
era un vero e proprio ricatto», precisò alla fine. «Non chiedevo soldi o altro.
Volevo solo impedire la costruzione di quella cartiera».
«Raccontami cosa è successo», chiese Jonathan, adesso impassibile.
«Il giorno prima della vendita a Beaulieu, trovai finalmente il coraggio di
telefonare a Caroline», spiegò Merijoy. «Pensavo che fosse la mia ultima
possibilità di fermare la vendita degli arredi. Senza offesa, Weezie, ma mi
sentivo morire al pensiero di tutte le cose dei Mullinax che venivano portate
via dalla casa. Pensaci – tutto il mobilio originale, scomparso. La chiamai in
ufficio e le dissi che c'era una questione della quale dovevamo discutere. Mi
rispose che non aveva tempo per le mie isteriche assurdità storiche. Così le
dissi semplicemente che le conveniva abbassare la cresta e incontrarmi da
qualche parte perché sapevo tutto della sua relazione con Phipps Mayhew.
Questo ottenne la sua attenzione».
«Poi cosa è successo?», chiesi.
«Le dissi di raggiungermi a Beaulieu», rispose Merijoy. «All'inizio rifiutò
categoricamente, così le spiegai che, se non fosse venuta, avrei informato
Tal e Diane Mayhew della relazione. È stato a quel punto che ha cambiato
registro».
«L'hai vista davvero, quella sera?».
«No. Sono arrivata alla villa alle otto, come concordato. Sono entrata e
ho aspettato. Ma era buio pesto. Ho aspettato e aspettato. Alla fine, verso le
nove, non ho osato trattenermi oltre. Sono tornata a casa. E il mattino dopo
ho visto al telegiornale che Caroline era morta. E che ti avevano arrestato,
Weezie».
«Perché non hai detto niente? Perché non hai raccontato subito a
Jonathan quello che sapevi?».
Le si riempirono gli occhi di lacrime. «Non potevo. Se Randy avesse
saputo che avevo ficcato il naso in giro, spiando le persone e
minacciandole, gli sarebbe venuto un colpo. Davvero. Comunque, non
sapevo chi l'aveva uccisa».
«Sapevi chi aveva un valido movente per farlo», replicai in tono gelido.
«Tesoro, ti prego, non essere arrabbiata con me», mi supplicò. «Ora ti
aiuterò. Farò qualunque cosa sia necessaria per farmi perdonare da te.
D'accordo?».
55

Dopo che lasciammo la casa di Merijoy, Jonathan mi riaccompagnò a


casa di zio James per recuperare il mio pick–up. Non vedendo la sua
Mercedes, immaginammo che fosse andato a trovare Gerry Blankenship.
«Credi davvero che riusciremo a salvare Beaulieu?», chiesi a Jonathan.
«Sì», rispose. «Le foto che Merijoy ci ha dato, unite alla dichiarazione
giurata che farà, dimostreranno che la Coastal Paper Products, o chi per
essa, ha messo in atto una frode deliberata spogliando la villa di elementi
che contribuivano a renderla un monumento di interesse storico. Inoltre»,
aggiunse con aria compiaciuta, «Blankenship è spacciato. Sono sicuro che
riusciremo a incastrarlo per la questione del testamento Mullinax, oltre che
per la fondazione. Come minimo verrà radiato dall'albo e, se tutto va come
dovrebbe, potrò anche perseguirlo legalmente».
«Quanto ci vorrà per riuscire a fare tutto questo?», chiesi. «Cosa
impedirà alla Coastal Paper Products di dare il via ai bulldozer oggi stesso e
radere al suolo la casa?».
«Da qui andrò direttamente in ufficio. Chiamerò un giudice per chiedere
un'ingiunzione restrittiva temporanea che sospenda il loro permesso di
demolizione almeno finché non avremo raccolto tutte le prove».
«Puoi davvero convincere un giudice a farlo?».
Jonathan si tolse gli occhiali e li pulì con l'orlo della sua polo. «In questo
momento Merijoy è a casa sua, e sta chiamando tutte le persone elencate
sulla rubrica telefonica dell'associazione per la conservazione di Savannah.
In cima alla lista c'è Bea Gunther, che ha un profondo interesse per la
preservazione dei siti storici. Credo che il giudice Gunther ci fornirà
l'ingiunzione restrittiva senza battere ciglio».
«Jonathan, credi che Phipps Mayhew abbia ucciso Caroline?».
«È possibile. Ma, alla luce di quanto abbiamo appena saputo, sono più
propenso che mai a ritenere Tal implicato nel delitto».
Aprii la bocca per difendere il mio ex marito, ma non riuscii a trovare
niente da dire. Cosa sapevo davvero di lui, dopo tutto? Mi aveva tradito per
anni, e io ero stata beatamente ignara del suo adulterio. Era coinvolto anche
nell'accordo con la Coastal Paper Products, ed era impossibile pensare che
non avesse chiuso un occhio sulla spoliazione di Beaulieu.
«Il congedo per motivi di salute del detective Bradley non sarà effettivo
prima di un paio di settimane», continuò Jonathan. «Ho intenzione di
chiamarlo subito per vedere se possiamo incontrarci nel pomeriggio, così
potrò ragguagliarlo su tutto ciò che ho scoperto oggi». All'improvviso, la
sua espressione si fece inaspettatamente severa, da rappresentante della
pubblica accusa qual era. «Posso fare affidamento sulla tua discrezione,
vero?».
«Certo», risposi. «Immagino che tu non possa emettere un'ordinanza
restrittiva temporanea anche contro Lewis Hargreaves già che ci sei, vero?».
«Solo se puoi dimostrare che si è procurato illegalmente quei pezzi
d'antiquariato».
Ero a metà strada tra la casa di James e la mia quando realizzai che Tal
poteva essere un assassino, non soltanto uno spregevole bugiardo, un
traditore e uno squallido ubriacone. Poteva benissimo essere stato lui a
piantare un proiettile nel petto di Caroline DeSantos.
La temperatura esterna superava i trentacinque gradi, ma il ricordo del
corpo di Caroline che scivolava fuori dall'armadio di Beaulieu mi fece
correre brividi freddi lungo la spina dorsale. E se avevo totalmente
sottovalutato Tal? E se era davvero lui l'assassino? Sapeva che lei aveva una
relazione. Mi aveva confessato di averla seguita quasi fino a Beaulieu.
Ormai sapevo che era un bugiardo matricolato. Forse stava mentendo anche
su tutto il resto.
E se aveva ucciso Caroline in preda a un accesso di furiosa gelosia, cosa
gli impediva di uccidere una seconda volta? Mi aveva visto in almeno
un'occasione insieme a Daniel. Forse Daniel aveva ragione. Forse Tal mi
stava spiando. Pedinando. Avevo cambiato le serrature dell'ex rimessa per le
carrozze, ma se lui avesse deciso di darmi la caccia non si sarebbe certo
lasciato fermare da un'inezia come una serratura.
Cambiai strada e andai a casa di BeBe.
«Cos'altro c'è?», chiese quando entrai a passo di marcia dalla porta sul
retro.
Mi diressi direttamente verso il frigorifero e trovai la salsa di cioccolato e
caramello là dove l'avevo lasciata la sera prima. Il cucchiaio era ancora nel
vasetto. Lo affondai nel liquido appiccicoso e cominciai mangiare.
«Non dirmelo», aggiunse BeBe. «Hai fatto pace con Daniel dopo
essertene andata da qui ieri sera, e ora avete bisticciato di nuovo? Weezie,
tesoro, devi imparare a prendere con calma queste cose».
«Non è Daniel ad agitarmi», replicai tra un boccone e l'altro. «È Tal.
Jonathan e James pensano che abbia ucciso Caroline. Pensaci, tesoro. Tal,
l'uomo accanto al quale ho dormito per dieci anni, un assassino».
«Impossibile. Non ne ha il fegato».
«E se questa sua aria da WASP smidollato fosse semplicemente una
finta? Dico sul serio, BeBe. Potrei benissimo avere come vicino di casa uno
spietato assassino».
«Cerca di vedere il lato positivo», ribatté lei. «Forse arresteranno quel
figlio di puttana e lo sbatteranno in prigione, dopo di che tu potrai tornare
nella casa grande».
«Forse». Chiusi il vasetto di salsa e feci per rimetterlo in frigorifero.
BeBe lo prese e me lo restituì. «Tienilo pure, visto che praticamente l'hai
svuotato. Ehi», disse poi, rischiarandosi in volto. «Per poco mi scordavo di
chiederti della vendita. Com'è andata? Hai comprato la credenza?».
«No», risposi. «Non era nemmeno citata nel catalogo della vendita.
Lewis Hargreaves mi ha di nuovo battuto sul tempo».
Lei fece una smorfia delusa. «Sei sicura?».
«Chi altri potrebbe essere stato?».
Si alzò e prese la borsetta e le chiavi della macchina. «Andiamo».
«Dove? Non voglio tornare a casa. Non subito, almeno. Ho troppa
paura».
«Non andiamo a casa ma all'L. Hargreaves», annunciò. «I miei soldi
valgono quanto quelli di chiunque altro. Se lui ha davvero la credenza, che
cosa mi impedisce di comprarla?».
«Il denaro», risposi. «Se Hargreaves l'ha pagata quindicimila dollari,
quello è il suo prezzo per i commercianti. La venderà sicuramente a
trentamila o addirittura quarantacinquemila e oltre. Prezzo al pubblico. Se
spendiamo così tanto per averla, il margine di profitto è molto ridotto».
«Weezie, Weezie, Weezie», replicò lei, scuotendo i riccioli biondi. «Stai
parlando con BeBe Loudermilk. Non ho mai pagato il prezzo al pubblico in
vita mia, e non intendo certo cominciare adesso».
Mi guardai intorno cercando la mia borsa ma non riuscii a trovarla. Fui
presa dal panico. Lì dentro c'erano tutti i miei contanti – più di
diciassettemila dollari. «Oh, mio Dio», dissi lentamente, poi ricordai.
L'avevo portata a casa di zio James. Doveva essere ancora là.
Chiamai casa sua, ma non rispose nessuno. Almeno la borsa era là dentro,
al sicuro, pensai. BeBe e io saremmo potute passare a prenderla più tardi.
La vetrina dell'L. Hargreaves era allestita con la sobrietà caratteristica del
suo proprietario: su un fondale di mussola pieghettata e non candeggiata era
sistemato un tavolino di pino con cassetti e gambe affusolate, ancora
rivestito dalla vernice originale.
«Blah», disse BeBe, fermandosi di colpo lì davanti. «Pensavo avessi
detto che Hargreaves ha un gusto squisito».
«Lo aveva. Lo ha. Quel tavolino ha la vernice originale blu con finte
venature e cassetti con giunti a coda di rondine. È stato sicuramente
realizzato qui nel Sud, nel tardo Ottocento. Probabilmente lo vende a
ottomila dollari».
Lei arricciò il naso con aria sdegnosa. «Mio nonno ne ha uno identico nel
pollaio della sua fattoria».
«Digli che glielo pago cinquecento dollari», replicai.

***

«Entriamo a dare un'occhiata», propose BeBe. Spinse la porta di vetro,


che però non si aprì. Indietreggiammo, e fu solo a quel punto che notammo
il cartello con la scritta "Chiuso" sulla porta.
«Da quando in qua un negozio di antiquariato chiude il sabato
pomeriggio?», chiese BeBe.
«Se sei Lewis Hargreaves puoi permetterti di fare gli orari delle banche»,
spiegai. «Apre prevalentemente su appuntamento. Andiamocene. È tutto
inutile. Probabilmente ha già venduto la Moses Weed».
Stavamo cominciando ad attraversare la strada per tornare alla macchina
quando, per puro caso, mi voltai. Una ragazza alta e sottile con capelli rossi
che le arrivavano alla vita, uscì dall'L. Hargreaves e chiuse a chiave la
porta.
«Guarda», dissi, afferrando il braccio di BeBe. «Quella è Zoe Kallenberg,
l'assistente di Hargreaves».
La ragazza percorse rapidamente la strada raggiungendo un furgone
bianco parcheggiato accanto al cordolo del marciapiede di Liberty Street.
Aprì la portiera e salì a bordo.
«Scommetto che sta tornando a Beaulieu a prendere un altro carico di
mobili», dissi con voce lamentosa.
«Vieni», ribatté BeBe, accelerando l'andatura finché non arrivammo alla
sua auto. «Seguiamola e vediamo cosa sta combinando».
«Stavo scherzando», precisai, ma salii in macchina. BeBe accese il
motore e si infilò abilmente nel traffico, dietro il furgone bianco dell'L.
Hargreaves.
Seguimmo Zoe Kallenberg fino a un negozio di ferramenta sulla
DeRenne Avenue. Quando scese dal furgone aveva un cellulare premuto
contro l'orecchio.
BeBe e io la pedinammo mentre spingeva un carrello su e giù per i
corridoi.
I suoi lunghi capelli ondeggiavano lievemente mentre i tacchi alti otto
centimetri dei suoi sabot neri la costringevano ad avanzare a piccoli passi.
Le dita dalle unghie laccate si muovevano veloci sopra gli scaffali mentre si
consultava con la persona all'altro capo del filo, che evidentemente le stava
dettando la lista della spesa.
Il carrello che avevamo preso per fingerci normali clienti rimase vuoto,
fatta eccezione per la bomboletta di vernice spray che vi infilammo per
rafforzare la messinscena, ma quello di Zoe traboccava di vernice e
pennelli, paglietta, carta vetrata, lacca, alcol minerali e un assortimento di
altri articoli da ferramenta.
«Non mi sembra la tipica appassionata di bricolage», dissi mentre la
guardavamo pagare gli acquisti con una carta American Express Platinum.
«Non con quelle unghie e quell'abbigliamento», concordò BeBe.
Seguimmo Zoe fino al suo furgone.
«Continuiamo?», chiese lei mentre accendeva il motore.
«Sì», risposi. «In un certo senso è divertente».
Seguimmo senza difficoltà il veicolo attraverso lo scarso traffico del
sabato pomeriggio, puntando verso la zona orientale di Savannah, dove i
quartieri erano più fatiscenti e avevano un aspetto più industriale che
residenziale.
«I cantieri navali?», domandò BeBe mentre ci avvicinavamo al vasto
complesso di Port Authority.
«Forse è la nuova zona di tendenza dove la generazione X viene a
divertirsi», dissi.
«Ne dubito. Non ci sono locali notturni da queste parti. Forse club di
motociclisti».
Ma oltrepassammo i cantieri navali e proseguimmo finché Zoe svoltò
inaspettatamente nel parcheggio di un sudicio complesso di depositi
industriali.
BeBe proseguì, entrò nello spiazzo di un piccolo supermercato, fece
un'inversione a U e tornò lentamente verso i depositi, superandoli.
Il furgone bianco era parcheggiato accanto a una rampa di carico. Zoe era
ferma accanto ai portelloni posteriori aperti, e parlava con due uomini in
piedi sulla rampa sopra di lei. Uno era Lewis Hargreaves.
Mi abbassai sul sedile finché il mio mento toccò il cruscotto.
«Non fermarti», dissi a BeBe. «Non voglio che Hargreaves ci veda
ficcare il naso da queste parti».
«Cosa credi che stiano facendo?», domandò lei, allungando il collo per
guardare nello specchietto retrovisore.
«Non lo so», dichiarai, mettendomi di nuovo a sedere diritta. «Ma credo
che valga la pena di scoprirlo».
56

James si sedette alla sua scrivania nella casa di Washington Avenue.


Congiunse le mani, recitò una pacata preghiera per ricevere serenità e
telefonò a Gerry Blankenship.
«Gerry? Sono James Foley. Ci siamo incontrati a Beaulieu il giorno del
servizio funebre di Ann Ruby Mullinax. Vorrei parlare con lei di una certa
questione».
Blankenship cercò di liquidarlo. «Mi richiami lunedì, in orario d'ufficio»,
latrò. «Spieghi alla mia segretaria di cosa si tratta».
«Si tratta del testamento della signorina Mullinax», replicò James in tono
calmo. «E della vendita di Beaulieu alla Coastal Paper Products e
dell'imminente demolizione della villa della piantagione».
«Foley?». L'altro sembrava sconcertato. «Chi è lei? Qual è il suo
interesse nella questione?».
James era preparato a sentirsi fare quella domanda. E anche a raccontare
bugie.
«Grady e Juanita Traylor sono miei vecchi amici», disse con disinvoltura.
«Sono andato a trovarli questa settimana. Sono rimasto sconvolto dal
peggioramento delle loro condizioni di salute».
Sentì Blankenship trattenere il fiato.
«Cosa vuole?», ripeté l'uomo.
«Vorrei parlargliene di persona. Oggi stesso».
«Subito?».
«Sì», rispose James. «A Beaulieu sta succedendo tutto così in fretta che
ritengo preferibile discuterne subito».
«Sa dov'è il mio ufficio sulla Madison Square? Posso essere lì fra
mezz'ora», disse Blankenship. «Ma ho una partita di golf alle tre».
«Questo ci lascia parecchio tempo a disposizione», dichiarò James.
Fu solo dopo aver riagganciato che si accorse di sudare
abbondantemente. Si tamponò la fronte con il fazzoletto e decise di bere un
bicchiere di succo d'arancia ghiacciato.
Mentre prendeva un bicchiere dallo scolapiatti notò una borsetta posata
sul piano di lavoro, accanto al lavandino. La borsa di Weezie, capì. Era di
tela blu e il contenuto si era sparpagliato sul piano di lavoro. C'erano un
portafoglio, un paio di occhiali da sole, un rossetto, e un flaconcino di
medicinali dall'aspetto antiquato. Lo prese. L'etichetta indicava che si
trattava di pillole antidolorifiche, ma dovevano essere i tranquillanti rubati
da Marian, che Weezie aveva preso a casa della cugina Lucy. Non riusciva a
ricordare bene il nome delle pillole, era qualcosa che iniziava per X.
Xqualcosa. Molto opportuno, pensò, infilando di nuovo tutti gli oggetti,
tranne le pillole, nella borsetta.
Mise il flaconcino Xqualcosa sul piano di lavoro, accanto alla
zuccheriera di sua madre.
Non era davvero il caso che Weezie se ne andasse in giro per la città con
dei narcotici così potenti, pensò. Sua nipote si era già scontrata con la
giustizia, quell'estate. E una volta era più che sufficiente.

Le guance carnose di Gerry Blankenship tremolarono per l'ansia quando


vide James Foley in piedi nell'anticamera del suo ufficio.
«Ho fatto qualche ricerca su di lei», dichiarò. «È un prete. Perché non l'ha
detto, al telefono?».
«Ex prete», rettificò James. «Non aveva alcuna attinenza con
l'argomento».
Blankenship indicò il suo ufficio. «Possiamo parlare là dentro».
«Perfetto», disse James. Si sedette su una seggiola di pelle dallo
schienale rigido di fronte all'enorme scrivania.
«Dica quello che è venuto a dire», lo esortò bruscamente l'altro.
«Benissimo», ribatté James. «Come ben sa, Grady e Juanita Traylor
hanno quasi ottant'anni. L'ictus di due anni fa ha lasciato Grady
completamente incapace. Juanita soffre di diabete ormai da tempo e il
glaucoma l'ha resa praticamente cieca. Lei e io sappiamo che è impossibile
che uno qualunque dei due potesse fungere in modo legittimo da testimone
per le ultime volontà di Ann Ruby Mullinax».
Blankenship stava facendo rotolare avanti e indietro sul piano della
scrivania una penna stilografica d'argento, con i suoi grossi polpastrelli
lentigginosi che accarezzavano l'argento a ogni passaggio. Tenne lo sguardo
fisso sulla penna mentre parlava.
«I Traylor hanno fatto da testimoni su richiesta della signorina Mullinax.
Lei era molto affezionata a loro perché erano stati entrambi alle sue
dipendenze per moltissimo tempo. Non immaginavo che fossero incapaci.
Sembravano entrambi vigili e consapevoli di ciò che stavano firmando».
«No». James strinse con entrambe le mani la cartelletta che aveva sulle
ginocchia. «Non è vero. I Traylor non erano presenti quando la signorina
Mullinax ha firmato il testamento. Lei ha portato i documenti a casa loro e
ha spiegato che dovevano firmarli come "favore" nei confronti della loro
vecchia amica. Nessuno dei due vedeva la sua cliente da mesi».
Blankenship continuò a far rotolare la penna sulla scrivania.
«Un semplice equivoco», disse alla fine. «I Traylor sono anziani.
Probabilmente si sono dimenticati di quando il figlio li ha accompagnati a
Beaulieu a trovare la signorina Mullinax».
«Ho chiesto ai loro figli», replicò James. «Nessuno di loro ha portato i
genitori a Beaulieu. E, per sua informazione, Juanita ha una perfetta
percezione della realtà. Per quanto sia vagamente confusa riguardo alla casa
che lei ha generosamente dato loro. A quanto pare è convinta che lei gli
abbia detto che apparteneva alla signorina Mullinax».
L'altro sorrise. «Vede? Naturalmente la casa è di proprietà della Willis J.
Mullinax Foundation, che la signorina Mullinax ha creato prima di morire».
«Mi chiedo come una fondazione che dichiara come scopo quello di
provvedere alla formazione professionale dei giovani della comunità possa
servire a fornire una sistemazione a un'anziana coppia di pensionati», si
domandò ad alta voce James.
Blankenship alzò gli occhi. Era accigliato e la vena violacea sul suo naso
stava pulsando violentemente.
«Non sono sicuro che gli affari della fondazione la riguardino, Foley. E
invece sono dannatamente sicuro che la nostra conversazione sia
terminata». Si alzò di scatto, sparpagliando carte sul pavimento.
James rimase seduto. «Credo che per me sia arrivato il momento di
mettere le carte in tavola, Blankenship. Il nostro ultimo incontro, se ben
ricorda, ha avuto luogo a Beaulieu, il giorno del servizio funebre della
signorina Mullinax, a cui ho preso parte con mia nipote Weezie».
«Oh, sì», ribatté l'altro in tono di scherno. «La donna che ha ucciso
Caroline DeSantos. Caroline mi aveva detto che sua nipote voleva
vendicarsi di lei. La poverina era terrorizzata al pensiero di quali folli
iniziative sua nipote avrebbe potuto prendere. Le ho consigliato di chiedere
un'ordinanza restrittiva nei suoi confronti. Purtroppo, però, lei non pensava
che la sua vita fosse in pericolo».
«La sua vita non è mai stata minacciata da Weezie», replicò James, «ma
credo che il coinvolgimento di Caroline nel suo piano per vendere
illegalmente Beaulieu alla Coastal Paper Products le sia stato fatale».
«Assurdo. La transazione è stata perfettamente legale. Era desiderio della
signorina Ann Ruby vendere la proprietà per il bene della comunità».
«Weezie e io abbiamo visitato Beaulieu, il giorno in cui siamo stati là»,
continuò James, come se non l'avesse sentito. «Mia nipote era
particolarmente interessata a tutti i particolari architettonici della villa. La
tutela dei monumenti storici è uno dei suoi maggiori interessi e mi ha
mostrato tutte le decorazioni ottocentesche. Sono tornato a Beaulieu questa
settimana, Gerry, e ho visto come l'avete ridotta».
«Ha violato una proprietà privata», disse Blankenship, alzando la voce.
«Abbiamo ottenuto un permesso di demolizione dalla contea e gli incaricati
stanno preparando la casa per quello».
«No», replicò James. «Lei o Phipps Mayhew avete spogliato la villa
prima che venisse esaminata dal funzionario dell'ente per la tutela storica
della contea. Questo fa parte di una truffa che voi due state mettendo in atto
sin da quando avete avuto l'idea di costruire quella cartiera laggiù. Caroline
DeSantos era implicata nella vostra frode. E aveva una relazione con Phipps
Mayhew».
«Di quello non sapevo niente», disse Blankenship.
James si alzò. «Sono venuto da lei oggi per informarla che sono in
possesso di prove su tutto ciò che le ho appena detto e che ho consegnato il
materiale all'ufficio del procuratore distrettuale di Chatham. Ho intenzione
di dimostrare che mia nipote non ha avuto nulla a che fare con la morte di
Caroline, Blankenship. Non so perché Caroline sia stata uccisa, ma so che
lei e Mayhew siete coinvolti in questa truffa e che, considerato che ci sono
milioni di dollari in ballo, avevate entrambi un valido movente per
ucciderla».
Sbatté la cartelletta sulla scrivania, assaporando il rumore sordo della
carta sul legno. Si voltò per andarsene.
«Non ho ucciso io quella stupida puttana», disse Blankenship. «Perché
avrei dovuto?».
«Lascerò che sia la polizia a scoprirlo», ribatté James. «Nel frattempo,
sappia che l'associazione per la conservazione di Savannah ha richiesto
un'ordinanza restrittiva temporanea per bloccare la demolizione di
Beaulieu».
«Non ho ucciso Caroline DeSantos», ripeté l'altro. «E non è stata mia
l'idea di demolire l'edificio. Era previsto che salvassimo quella dannata
casa. È stato Mayhew a decidere di raderla al suolo, una volta morta
Caroline. È stato lui a farla spogliare. Mayhew. Dannato yankee».
James sentiva di avere la fortuna dalla sua parte. Blankenship aveva
praticamente ammesso il suo coinvolgimento nella truffa legata a Beaulieu.
Decise di spingersi oltre: sarebbe andato da Phipps Mayhew.
Tutti, a Savannah, sapevano dove viveva Mayhew. In origine la tenuta di
Turner's Rock aveva fatto parte di un'altra piantagione, Turnewolde, che era
stata suddivisa nei tardi anni Sessanta.
La villa era un imponente edificio rivestito di intonaco rosa, con finestre
tondeggianti, cortili e comignoli di pietra che gli ricordarono certe foto di
castelli francesi. Si tamponò la fronte con il fazzoletto e raggiunse
l'immensa porta intagliata dei Mayhew. Suonò il campanello e rimase
stupito sentendo una voce distante e metallica uscire da una scatoletta
accanto al campanello. «Sì? Chi è?».
«Ehm... Foley. James Foley. Cerco Phipps Mayhew».
«Cosa vuole?». Era una voce femminile, e il tono, sotto un raffinato
accento del New England, era sorprendentemente scortese.
«Sono venuto per vedere Phipps Mayhew». Gli venne un'idea. Un
suggerimento diabolico. «Riguardo a Caroline DeSantos».
Nessuna risposta.
«Pronto, è ancora lì?», aggiunse. «Mi ha sentito?». Era assurdo. Era come
parlare nell'altoparlante in uno di quei ristoranti drive–in.
Poi sentì un rumore di passi, all'interno. La porta si spalancò. Una donna
bassa e di mezza età che indossava un abito da sera a fiori e un cappello da
giardino lo squadrò.
«Mio marito non vuole vederla», disse bruscamente, e fece per chiudere
la porta.
«Diane?», tuonò una voce nel retro della casa. «C'è qualcuno alla
porta?».
«Nessuno di importante. Solo un piazzista», rispose lei.
«Sono James Foley, signor Mayhew», gridò James, sorprendendo persino
se stesso. «Sono venuto per parlarle di Caroline DeSantos».
Quello attirò l'attenzione dell'uomo. Altri passi, rapidi, agitati.
«Cosa diavolo vuole?». Come la moglie, Phipps Mayhew sembrava
vestito per qualche specie di garden party, con un completo di cotone blu,
cravatta a righine rosse e blu, e scarpe di pelle scamosciata. James si sforzò
di non fissare le scarpe, ma non le aveva mai viste ai piedi di nessuno che
avesse più di vent'anni.
«Gli ho detto che eri impegnato, Phipps», spiegò la donna. «Lascia che
me ne occupi io. Se non se ne va chiamo la polizia».
«La polizia è già coinvolta», si affrettò a dire James. «L'ufficio del
procuratore distrettuale ha avviato un'indagine sulla vendita di Beaulieu alla
Coastal Paper Products e sul modo in cui Gerry Blankenship si è occupato
del presunto testamento di Ann Ruby Mullinax».
Era un attacco verbale di tutto rispetto.
«Dannazione», ruggì Mayhew. «Chi diavolo è lei?».
«James Foley», rispose lui, lanciando un'occhiata eloquente a Diane
Mayhew. «L'ex marito di mia nipote Eloise è Talmadge Evans, il cui studio
di architettura lei ha ingaggiato per progettare la sua cartiera. Talmadge
Evans era fidanzato con Caroline DeSantos. Ora, non preferirebbe discutere
la questione più in privato?».
«Chiamo la polizia», sussurrò la signora Mayhew, poi si appoggiò con
forza alla porta, cercando di chiuderla.
«Non importa, Diane», disse Phipps, staccandole delicatamente la mano
dal battente. «Ci vorranno solo pochi minuti. Perché non mi precedi alla
festa? Ti raggiungerò lì».
«No», mormorò lei, pallida. «Ti aspetto. Ho alcune cose da fare al piano
di sopra. Chiamami quando sei pronto».
«Ci metterò pochi minuti», promise lui.
Serrò il braccio di James con una mano forte e abbronzata e lo guidò fino
a una stanza attigua all'ingresso, uno studio arredato con scaffali di libri
rilegati in pelle, boiserie di mogano e pareti rosso scuro. C'era persino un
caminetto.
«Cosa cazzo pensa di fare, venendo qui a lanciare accuse assurde?»,
chiese Mayhew, sbattendo la porta dietro di sé.
«Le dico subito cosa cazzo intendo fare. Intendo impedirvi di radere al
suolo un monumento di Savannah», rispose James, reso spavaldo dal
linguaggio volgare dell'uomo. «E intendo ripulire una volta per tutte la
reputazione di mia nipote. So tutto dei suoi accordi con Gerry Blankenship.
So che il testamento è stato redatto in modo fraudolento per dare
l'impressione che la signorina Mullinax volesse vendere Beaulieu alla sua
società. E so che Blankenship dirige una fondazione fittizia creata per
dirottare il denaro dall'eredità Mullinax nei vostri conti. E, una volta
cominciate le indagini, sono sicuro che la polizia scoprirà che Caroline
DeSantos era implicata nel vostro piano, e che è per questo che è stata
uccisa».
Mayhew sbarrò gli occhi. «Blankenship mi ha appena telefonato per
mettermi al corrente delle voci che lei sta spargendo in città». Si alzò, con il
viso a pochi centimetri da quello di James, le mani strette a pugno. «Se
ripete queste menzogne la denuncerò per calunnia. Assumerò un vero
avvocato di New York, non uno di questi bifolchi locali, e la citerò
chiedendo come risarcimento ogni fottuto centesimo che possiede. E
vincerò. Nel frattempo, se vuole cercare di rendere di dominio pubblico i
miei affari personali, mi assicurerò di fare la stessa cosa con le sue
tendenze, fottuta checca non dichiarata».
James sbatté le palpebre.
«Oh, sì», continuò Mayhew. «Gerry mi ha raccontato tutto di lei. Di lei e
del suo amichetto finocchio nell'ufficio del procuratore distrettuale. Un ex
prete. Disgustoso. E mi sembra di capire che il suo patetico studiolo
collabori con la diocesi cattolica. Mi chiedo cosa penseranno quando
scopriranno che il loro avvocato è il più grosso fottuto frocio di Savannah».
James sorrise. «Il mio orientamento sessuale non fa la minima differenza.
Ma il suo orientamento sessuale e la sua relazione con Caroline DeSantos
non erano affatto un segreto. Lei l'ha fatta franca dopo aver fottuto Caroline,
signor Mayhew, ma non le permetterò di fottere me o la mia famiglia o
questa comunità. Quindi chiami pure il suo avvocato di New York. E gli
dica di fare le valigie. Perché questo è uno scontro da cui non intendo
ritirarmi».
«Checca», disse Mayhew in tono di scherno.
"Non mi lascerò spaventare", pensò James mentre lasciava lo studio
eccessivamente arredato di Phipps Mayhew. Diane Mayhew era ferma
accanto alla porta d'ingresso e lo fissava con uno sguardo pieno d'odio.
«Arrivederci», le disse educatamente. «Si diverta alla festa».
57

«Cosa pensi che stiano facendo in quel deposito?», chiesi, prendendo una
punta di guacamole con il mio nacho.
BeBe tirò il piatto di nachos verso il suo lato del tavolo della cucina e ne
infilò con eleganza uno coperto di formaggio fuso, salsa e panna acida nella
piccola bocca rosea.
«Contrabbandano droga?».
«Lewis Hargreaves è un antiquario, non un narcotrafficante
internazionale», dissi.
«Pensaci», continuò BeBe. «Quel posto si trova proprio accanto ai moli
di Port Authority. Forse fanno dei fori nei pezzi d'antiquariato per
nasconderci dentro la droga e spedirli oltremare, ai loro soci».
«Oppure potrebbe funzionare nell'altro senso», ipotizzai. «Forse i loro
soci in posti come Hong Kong nascondono la roba nei pezzi d'antiquariato e
li mandano qui a Lewis. Poi lui estrae la droga, la spaccia, e vende anche gli
oggetti. Forse è per questo che può permettersi di comprare il tipo di merce
che compra».
«Ma non capisco cosa c'entri in tutto questo la credenza di Moses Weed»,
osservò BeBe.
«Neanch'io», ammisi, «ma stanno sicuramente combinando qualcosa di
losco».
«Perché?».
«Perché Lewis Hargreaves ha l'aria malvagia», dichiarai.
BeBe annuì. Lei mi capisce.
«Hai dell'altra birra?», chiesi. «Questa salsa mi sta ustionando il palato».
Lei aveva la bocca piena, così si limitò ad agitare una mano in direzione
del piccolo frigorifero incassato dove tiene birra e Coca–Cola.
Presi altre due bottiglie di birra, affettai un altro lime e gliene passai una
fetta insieme con una birra.
«Ormai tu e Jonathan McDowell siete grandi amici, vero? Perché non
vedi se lui può ottenere un mandato di perquisizione che ci permetta di
entrare là dentro a dare un'occhiata?», suggerì lei.
«È fissato con l'etica e cose di questo genere. Non sguinzaglierà certo i
cani contro Hargreaves solo perché glielo chiedo io».
«L'etica è una grande scocciatura», commentò BeBe. «Cosa ne diresti se
andassimo semplicemente là, quando fa buio, per dare un'occhiata in giro?».
«Come? È un magazzino. Non ho visto finestre».
«Forse sono sui lati, oppure sul retro. Senti, è sabato sera. Non abbiamo
appuntamenti e se ci annoiamo più di così finiremo per mangiare tutto
quello che c'è in casa. Andiamoci».
«D'accordo», dissi, finendo il guacamole perché davvero, il guacamole va
subito a male, e il prezzo degli avocado è criminale. «Magari ci verrà in
mente un piano, una volta là».
BeBe si alzò, raggiunse il freezer e lo aprì. Estrasse una grossa scatola di
cartone. «Vuoi un Fudgsicle?», chiese, offrendomi un gelato ricoperto di
cioccolato.
«Incredibile», risposi, prendendone uno. «Non li mangio da quando
avevo dodici anni».
«Lo so», disse lei, staccando con un morso l'estremità del suo. «Il
grossista di gelati che serve il ristorante li aveva in offerta speciale, ma ho
dovuto comprare la confezione da sessanta per avere lo sconto. Non vuoi
prenderne due?».
«No», replicai, guardandomi intorno per cercare le chiavi del pick–up.
«Se mangio troppo mi addormenterò».
«Dove stai andando?».
Il cioccolato mi aveva dato un'euforia spavalda. «Vado a casa a fare una
doccia e cambiarmi», annunciai. «Vuoi passare a prendermi fra mezz'ora?».
«Non hai paura? Di andare a casa, con Tal vicino?», chiese BeBe. «Puoi
fare la doccia qui. E ci sono ancora alcuni tuoi vestiti dall'ultima volta in cui
sei rimasta a dormire».
«Non avrò problemi», risposi. «C'è Jethro, e lui odia Tal. Inoltre, ho
deciso che Tal è fondamentalmente uno smidollato». Ma, per sicurezza,
aprii un cassetto e presi il coltello da carne più affilato che BeBe avesse.
«Per sicurezza», spiegai.

L'auto di Tal non era parcheggiata vicino a casa e non la vidi nemmeno
sulla strada, il che mi indusse a chiedermi se Jonathan lo avesse portato
dentro per interrogarlo.
Non era un mio problema, decisi.
Corsi al piano di sopra, mi feci la doccia e mi aggirai nella cabina
armadio cercando di decidere cosa mettermi. Qualcosa di scuro,
naturalmente. È senza fronzoli, così non avrei rischiato che il lembo della
camicetta si impigliasse da qualche parte, se avessimo deciso di
arrampicarci.
Alla fine optai per un paio di fuseaux elastici neri, una maglietta nera con
la cerniera sul davanti e dei mocassini neri con il tacco basso e la suola di
gomma. In piedi davanti allo specchio, mimai diverse pose,
accovacciandomi, piegandomi, puntando la mia pistola immaginaria. In
cuor mio mi trovavo un vero schianto. Quasi come il mio idolo televisivo,
Emma Peel, interpretata da Diana Rigg nel telefilm Agente speciale.
All'insieme però mancava un tocco particolare così all'ultimo momento
aggiunsi una sciarpa di seta leopardata legata intorno al collo.
Ero in cucina a dare un biscotto per cani a Jethro cercando di spiegargli
come mai non poteva venire a divertirsi con me, quando BeBe bussò alla
porta, che avevo cominciato a chiudere con chiave e chiavistello, nel caso
Tal avesse sviluppato un'improvvisa vena criminale.
Le aprii. Rimase perfettamente immobile e mi guardò. Anch'io la guardai.
Indossava una tuta di lycra nera elasticizzata, senza maniche e con una
cerniera sul davanti, scarpe da jogging nere e una cintura leopardata.
«Gran bella tenuta», dissi ridendo.
«Anche la tua», ribatté.
«Volevo ottenere un look alla Diana Rigg».
Lei mi guardò con l'aria di non capire.
«Sai, Agente speciale. Negli anni Sessanta. E tu chi dovresti essere?».
«Honey West», rispose, indicando un neo che si era disegnata sul lato
destro della bocca con la matita per gli occhi. «Chi?».
«Non guardi mai le repliche dei vecchi telefilm? Weezie, Honey West
interpretata da Annie Francis era la donna che Angie Dickinson voleva
diventare da grande. Quando si parla di fascino... Era una specie di
detective privato–trattino–ladro acrobata. E come animale domestico aveva
un gattopardo di nome Bruce».
«Sei pronta ad andare?».
In quel momento sentimmo la porta della cucina aprirsi dietro di noi. So
di aver fatto un salto di almeno mezzo metro. Afferrai il coltello per la carne
di BeBe e ruotai su me stessa per affrontare l'aggressore.
Daniel era fermo sulla soglia con una bottiglia di vino in una mano e un
vassoio di Seduzione al cioccolato nell'altra.
«Gesù», disse, indietreggiando.
«Sono un po' nervosa», spiegai. «Secondo la polizia, Tal potrebbe aver
ucciso Caroline».
«Abbiamo scoperto che lei aveva una relazione con Phipps Mayhew»,
aggiunse BeBe. «Quindi, se Tal è venuto a saperlo, forse l'ha uccisa in preda
a una furia omicida scatenata dalla gelosia. Anche se, personalmente, non
riesco a immaginarlo in preda a una passione violenta di alcun genere».
«Ti dispiacerebbe posare quel coltellaccio?», chiese Daniel.
«Sei venuto a scusarti per aver fatto il prepotente con me?», chiesi. La
mia spavalderia da cioccolato era davvero notevole.
Lui posò il dolce e il vino sul piano di lavoro, accanto al coltello. «In
realtà speravo che potessimo fare pace e poi farci un po' di coccole. Ma a
quanto pare voi due avete altri progetti».
Spostò lo sguardo da me a BeBe per poi riportarlo su di me.
«Come mai siete vestite uguali? Sembrate due hostess della Air
Leopard».
BeBe inarcò un sopracciglio ma lasciò che fossi io a spiegare.
«Stiamo per intraprendere una piccola spedizione. Per scoprire cosa sta
combinando Lewis Hargreaves. È l'antiquario che ha comprato la credenza
di Moses Weed».
«Perché non glielo chiedete semplicemente?», domandò lui.
«È coinvolto in qualcosa di illegale», spiegò BeBe. «Abbiamo seguito la
sua assistente fino a un magazzino dall'aria sinistra nei pressi di Port
Authority. Stava comprando un sacco di materiale da ferramenta, chiodi,
vernici e via dicendo. Weezie sospetta che contrabbandino droga».
«È assurdo», commentò lui.
«Ci andiamo comunque», annunciai. «Metti il dolce in frigo. Puoi restare
qui con Jethro, se vuoi».
Lui scosse la testa. «Guido io».
«Okay», dissi, «ma non puoi darci ordini».

Ci stringemmo tutti e tre sul sedile anteriore del pick–up di Daniel. Io gli
permisi di accarezzarmi la gamba mentre guidava e BeBe fece finta di non
accorgersene.
«Merda», dissi quando arrivammo nella via in cui sorgeva il deposito.
Era illuminata come un centro commerciale di sabato sera. C'era persino un
faretto nel parcheggio.
Daniel parcheggiò dall'altra parte della strada in modo da poter vedere la
porta principale del magazzino. «È un modo piuttosto sfacciato per
spacciare droga», osservò.
Abbassammo i finestrini e osservammo l'edificio per qualche minuto.
«Lo sentite?», chiesi. Un suono acuto e lamentoso arrivava fin nella
strada.
«Attrezzi elettrici», disse Daniel. «Sembra di essere a casa mia».
«Forse stanno segando i mobili spediti da Hong Kong per recuperare la
droga», suggerì BeBe.
«È assurdo», disse di nuovo Daniel.
«Non resteremo seduti qui con le mani in mano», dichiarai alla fine,
dando un colpetto sul fianco di BeBe. «Fammi scendere».
«Aspetta», disse Daniel, afferrandomi un braccio. «Qual è il piano?».
«Piano?».
«Io ne ho uno», annunciò BeBe. Indicò l'angolo del magazzino, dov'era
inchiodata un'insegna con la scritta "Affittasi".
«Diremo loro che io sono un agente immobiliare e tu un mio cliente, e
che vogliamo dare un'occhiata allo spazio da affittare».
«Niente male», commentò lui.
«Le stai semplicemente leccando i piedi perché è il tuo capo», dissi. «Io
chi dovrei essere? L'arredatrice d'interni?».
«Nessuno», ribatté BeBe. «Hargreaves ti conosce, giusto? Se ti vede,
farai saltare la nostra copertura».
«Non è giusto», replicai. «L'idea è stata mia. Comunque, voi due non
sapete un accidente di antiquariato. Non avete mai visto la credenza di
Moses Weed».
«Me l'hai descritta una dozzina di volte», disse BeBe. «Se è lì dentro la
riconoscerò. Ora vieni», disse, rivolta a Daniel, «prima che perda il
coraggio».
Rimasi imbronciata nel pick–up, osservando il magazzino con la mano
sul cellulare nel caso arrivassero dei trafficanti di droga dall'aria
minacciosa.
Daniel e BeBe attraversarono la strada, e fui costretta ad ammettere che
lei era favolosa con la sua tuta alla Honey West. Cercò di aprire la porta, poi
si voltò per indicarmi a gesti che era chiusa a chiave.
Daniel trovò un campanello accanto alla porta e lo premette per un
minuto. Dopo parecchio tempo l'uscio si aprì è un uomo basso, con fattezze
messicane e avambracci robusti, uscì a parlare con loro.
Vidi BeBe parlare e gesticolare in modo animato, e Daniel che parlava e
annuiva, in segno di approvazione. Il messicano continuava a scuotere la
testa in segno di diniego ma, ogni volta che lo faceva, BeBe avanzava di un
passo, seguita da Daniel, finché si ritrovarono all'interno del magazzino e la
porta si richiuse dietro di loro.
Per cinque minuti non accadde nulla, il che mi fece impazzire. Infilai il
cellulare nella cintola dei pantaloni, scesi dall'auto e attraversai
furtivamente la strada, cercando di evitare il fascio di luce del faretto nel
parcheggio.
Mi accovacciai dietro una fila di cassonetti ai margini del complesso,
lontano dal cerchio di luce ma abbastanza vicino da poter tenere d'occhio
l'ingresso.
Dopo altri cinque minuti la porta si spalancò e BeBe e Daniel uscirono,
seguiti dal messicano che stava gesticolando e parlando animatamente.
L'uomo rimase fermo sulla soglia e li guardò attraversare la strada e
raggiungere il pick–up, ma io non osai lasciare il mio nascondiglio.
Salirono a bordo e vidi che si stavano chiedendo dove fossi finita. Dopo un
paio di secondi Daniel avviò il motore e imboccò lentamente la strada. Il
messicano li guardò allontanarsi poi, finalmente, lasciò che la porta del
magazzino si richiudesse alle sue spalle.
Merda. Mi stavano lasciando lì? Mi accovacciai accanto al cassonetto e
cercai di decidere cosa fare.
Il mio girovita cominciò a ronzare, il che mi spaventò parecchio finché
non mi resi conto che il ronzio proveniva dal mio cellulare. Lo presi.
«Pronto», sussurrai.
«Dove diavolo sei?», chiese BeBe.
«Nascosta tra i cassonetti», risposi. «Tornate indietro a prendermi. E fate
in fretta».
Quando il pick–up oltrepassò lentamente il parcheggio lo raggiunsi con
una corsa molto diversa da quelle di Diana Rigg. BeBe stava tenendo aperta
la portiera del passeggero e io saltai a bordo prima che Daniel avesse il
tempo di fermarsi.
«Cosa avete visto?», chiesi, ansimando.
«Un magazzino», rispose Daniel.
«Trecentosettanta metri quadrati, niente riscaldamento», aggiunse BeBe.
«Cosa stanno combinando là dentro?», volli sapere.
«Quel messicano continuava a cercare di riportarci sul davanti
dell'edificio», raccontò BeBe. «Ma gli ho spiegato che il mio cliente aveva
bisogno di vedere tutto lo spazio disponibile. Abbiamo girato nel magazzino
per un paio di minuti, prima che ci riaccompagnasse nella zona anteriore
degli uffici».
«Avevi ragione sui materiali da costruzione», disse Daniel. «C'erano pile
di legname e attrezzi elettrici. Anche un sacco di arnesi da falegname, cosa
che ho trovato piuttosto strana. Vecchie seghe a nastro, scalpelli e altri
arnesi antiquati. Avevano montato un tavolo per verniciare, e c'era
parecchio materiale da ferramenta, chiodi, catene. Come se fosse un
laboratorio».
«E per quanto riguarda i pezzi d'antiquariato? Ne avete visti?».
«Abbiamo notato un paio di tavoli quasi identici a quello che tu e io
abbiamo visto nella vetrina del negozio di Hargreaves», spiegò BeBe. «Solo
che erano di legno non verniciato. E c'era una miriade di gambe da tavolo e
sportelli del tipo che potrebbe esserci su un armadio o cose del genere. E
cataste di legname dall'aria antica, il genere che dà l'impressione di essere
stato recuperato da una vecchia casa».
«E la credenza di Moses Weed?», chiesi. «L'avete vista?».
«No», rispose BeBe, «ma siamo riusciti a dare solo una rapida occhiata a
quella specie di laboratorio. C'erano dei mobili. Questo è certo».
«Mobili antichi?».
«Sai, un po' come quella roba primitiva e dall'aria malconcia che piace a
te», spiegò BeBe. «Il tizio non parlava bene l'inglese, ma era chiaro che ci
voleva fuori di lì, e in fretta».
«Mobili primitivi», dissi. Poi mi ricordai di tutta la carta vetrata, la
paglietta metallica e la vernice acquistate da Zoe Kallenberg nel negozio di
ferramenta. E cominciai a farmi un'idea molto chiara di quello che Lewis
Hargreaves stava combinando in quel magazzino. I pregevoli pezzi
d'antiquariato del Sud cominciavano a scarseggiare. Il mercato si stava
facendo interessante, ma la disponibilità si era ridotta quasi a zero. Così
Lewis Hargreaves aveva trovato una soluzione: se li costruiva da solo.
58

Ogni sabato pomeriggio alle cinque in punto James beveva un gin and
tonic. Gli piaceva portarlo sulla veranda posteriore, ammirando il giardino
che Bernadette aveva curato per così tanti anni. Lì si sentiva più vicino alla
madre che in qualsiasi altro punto della casa. Il suo logoro fazzoletto di
cotone era ancora appeso a un gancio accanto alla porta sul retro. Le sue
scarpe da giardinaggio, un paio di stivali dalla suola di gomma a cui aveva
tagliato i gambali, si facevano compagnia nell'angolo, le punte girate verso
l'interno, e la ciotola smaltata che lei usava per sgranare i piselli era posata
capovolta su un tavolino traballante, accanto alla sedia a dondolo di James.
Si dondolò e ripensò agli avvenimenti della giornata. Phipps Mayhew era
il tipo d'uomo a cui era meglio non pestare i piedi. La sua rabbia era
esplosiva e aveva molto denaro. Messo di fronte a una minaccia di qualsiasi
genere, avrebbe risposto all'attacco, e in modo spietato.
Fece una smorfia ricordando la minaccia di Mayhew di rendere di
pubblico dominio il suo orientamento sessuale. Il denaro era l'ultima delle
sue preoccupazioni. Sarebbe stato costretto a rivelare la verità. La sua
famiglia e i suoi vecchi amici sarebbero rimasti scioccati, disgustati, si
sarebbero sentiti traditi. Non Weezie. Weezie sapeva e apparentemente
accettava quell'aspetto della vita di James. Ma gli altri come avrebbero
reagito?
Sorseggiò il drink e rifletté sulla questione. Ma comunque formulasse la
domanda, la risposta era sempre la stessa. Avrebbe fatto quello che andava
fatto. Avrebbe affrontato le conseguenze quando ci fossero state.
Dall'interno della casa sentì giungere il sommesso trillo del campanello.
Prese il bicchiere e attraversò l'abitazione raggiungendo l'ingresso. Stava
aspettando che Weezie venisse a riprendersi la borsetta. Aprì la porta.
Diane Mayhew era in piedi sulla veranda, con un elegante abito di seta. Il
cappello ornato di fiori era scomparso, ma aveva un nuovo accessorio: una
pistola a canna corta.
«Salve, padre», disse.
Lui fissò la canna della pistola.
«È una calibro quarantacinque», spiegò Diane, notando dove si era
posato il suo sguardo. «È carica e la so usare. Posso entrare, per favore?».
Gli sembrò opportuno obbedire.
«E adesso?», chiese James.
«Potremmo sederci?», propose lei. «È tutto il giorno che porto questi
dannati tacchi. Ho i polpacci che pulsano».
Lui indicò il salotto, con le grandi finestre affacciate su Washington
Avenue. Le tende erano scostate. Forse qualcuno sarebbe passato in auto e
avrebbe visto Diane Mayhew puntargli contro una pistola.
«Non qui», disse lei, abbassando una mano per massaggiarsi una gamba.
«Non ha uno studio o una cosa del genere?».
«Certo», rispose lui, indicando la sala da pranzo. Mangiava sempre in
cucina, così aveva regalato i mobili della madre a una nipote, sostituendoli
con una scrivania e alcuni scaffali per i libri.
«Carina», commentò Diane, guardandosi intorno nella stanza. «Questa
casa è molto più grande di quanto appaia dall'esterno. L'ha arredata lei?».
«In parte», ribatté James, cercando di non sembrare nervoso.
«Mi piace la tinta delle pareti», disse la donna, passando la mano libera
sul muro dello studio. «Come si chiama?».
«Marrone».
Diane Mayhew, pensò James, era fuori di testa: gli puntava contro una
pistola e intanto gli chiedeva consigli d'arredamento. Lui si rese conto che
la maggior parte delle donne di Savannah con cui aveva contatti era in
qualche modo vagamente disturbata. Bastava guardare Marian, sua cognata.
E Denise Cahoon. E Merijoy Rucker.
Forse era colpa degli ormoni, decise. O magari solo dell'umidità.
«Si sieda là, padre», gli ordinò lei, indicando con la pistola una delle
sedie dallo schienale rigido addossate alla parete più lontana. James ubbidì.
«Di cosa si tratta, signora Mayhew?», chiese, mantenendo un tono di
voce sommesso e non provocatorio.
«Ho sentito tutto quello che ha detto a Phipps nel suo studio, oggi. Se si
sta accanto alla bocchetta di ventilazione, nella camera padronale al piano
di sopra, si sente qualsiasi cosa venga detta nello studio. È davvero
incredibile».
«Mi dispiace molto che lei abbia dovuto scoprirlo da me. Le chiedo
scusa».
«Sapevo già che lui mi stava tradendo con quella donna, Caroline
DeSantos», precisò Diane. «Ma lei si sbaglia. Phipps se la scopava
soltanto». Arrossì leggermente. «Mi scusi, padre, volevo dire che faceva
sesso con lei. Non l'avrebbe mai uccisa. Sono stata io a uccidere Caroline».
«Sono sicuro che aveva dei buoni motivi per farlo», commentò calmo
James. «Dev'essere devastante scoprire che il proprio marito è attratto da
un'altra donna. E Caroline DeSantos non era una bella persona. Una
rovinafamiglie, la si potrebbe definire».
«Infatti. E, a ben pensarci, la situazione avrebbe potuto andare avanti fino
a diventare irrimediabile, se io non mi fossi preoccupata tanto dei miei
ragazzi».
«I suoi ragazzi?».
«I nostri figli. Phipps III, detto Tripp, e Phillip. Flip. Sono adolescenti,
iscritti alla Country Day, ma temevo che frequentassero le persone
sbagliate».
James annuì, senza capire nulla.
«Ho trovato dei preservativi nello zainetto di Tripp. Ho supplicato Phipps
di parlare con i ragazzi, ma lui ha detto che stavo ingigantendo le cose. Ho
deciso di scoprire chi fossero le ragazze».
«Ottima idea», commentò James. Si chiese cosa c'entrasse con il motivo
per cui Diane Mayhew aveva ritenuto necessario sparare al petto a Caroline.
«Ho comprato una microspia», continuò lei. «Una cimice. E l'ho messa
nel telefono dei ragazzi. E ogni sera ascoltavo le loro conversazioni. Una
settimana dopo averla acquistata ho sentito Phipps. Al telefono dei ragazzi.
Per poco non mi è venuto un colpo. Stava parlando con una donna.
Parlando sporco! Sul telefono dei miei bambini. E se loro lo avessero
sentito usare quel linguaggio osceno?».
«La loro autostima avrebbe potuto esserne danneggiata», mormorò James
in tono tranquillizzante.
«Stava parlando con Caroline DeSantos», continuò Diane, digrignando i
denti nel pronunciare il nome, «organizzando degli incontri. Lei non
portava le mutandine, lo sapeva? Ogni volta che andava da Phipps – niente
mutandine. L'ho sentita dirglielo al telefono. Ed è stato a quel punto che ho
deciso che doveva morire».
«Davvero sconvolgente», concordò lui. Disturbata? Quella donna era
completamente pazza.
«Phipps era in contatto anche con un avvocato divorzista», raccontò
Diane, mentre i pallidi occhi castani le si riempivano di lacrime. «Dovevo
impedirgli di andarsene. Per il bene dei ragazzi».
«Signora Mayhew», disse James, chinandosi verso di lei. «Credo che
dovrebbe raccontare questa storia a uno psicoterapeuta che conosco. È stata
sottoposta a un terribile stress».
«No!», strillò la donna, sollevando la pistola per puntargliela di nuovo
contro. «Niente psicoterapeuta. Parla come Phipps».
Deglutì. «Non sprechi il suo tempo tentando di rifilarmi quella stronzata
dello psicoterapeuta, padre. Il punto è che ho ucciso Caroline. Lei lo ha
capito oppure c'è andato vicino, e ora vorrebbe smascherare pubblicamente
Phipps. Ma se lo fa, rovinerà tutto. Abbiamo speso milioni di dollari per
concludere questo affare della cartiera. I finanziamenti sono pronti ma sono
tutti a breve termine, con un alto tasso di interesse. Un qualsiasi ritardo,
siamo completamente rovinati. Non posso permettere che accada. Devo
pensare ai miei ragazzi».
James annuì. «Capisco».
«Davvero?», chiese lei con amarezza. «Ne dubito. La pianificazione che
tutta questa faccenda ha richiesto, le attente riflessioni. È stato magistrale,
modestamente parlando. Ho tenuto da parte tutti i nastri delle telefonate di
Phipps e Caroline. Ho preso un altro registratore e tagliato vari stralci delle
loro conversazioni. Poi ho chiamato l'ufficio di Caroline e ho aspettato che
rispondesse la sua segreteria. Ho fatto partire un nastro che avevo preparato,
con la voce di Phipps che le dava appuntamento a Beaulieu. Non c'è stato
bisogno di altro».
«Davvero geniale», disse James.
«Quella sera Caroline è andata a Beaulieu pensando che l'aspettasse
l'ennesima lurida sessione di sesso con Phipps», raccontò Diane. «Ma io
sono arrivata per prima. Ho portato la mia pistola, ma una volta entrata in
casa ho trovato lo scrigno con le pistole da duello. È stato un dono della
provvidenza, davvero. Erano entrambe cariche. Ne ho presa una, ho sparato
un colpo contro il muro, e funzionava perfettamente. Poi mi sono nascosta
nella camera al piano di sopra. Lei ha salito le scale di corsa, chiamando
Phipps. E io sono uscita dalla camera e le ho sparato al petto. Avrebbe
dovuto vedere la sua faccia», aggiunse in tono trionfante. «Sa, se Caroline
avesse saputo che stava per morire, scommetto che avrebbe messo le
mutandine quella sera».
«Signora Mayhew». James era stanco. «C'è qualcosa che posso fare per
aiutarla?».
Lei piegò la testa di lato e sorrise. «Deve morire. È in gioco il denaro per
il college dei ragazzi e il buon nome dei Mayhew. Non posso lasciare che
qualcosa interferisca con tutto ciò o con il nostro matrimonio. Visto che è
un prete e via dicendo capisce sicuramente».
«Non sono più un prete», precisò James. Era seccato. «Suo marito l'ha
tradita, signora Mayhew. Perché non sfoga la sua rabbia su di lui?»
«È un marito. E un padre. Lei, invece, è solo l'ennesimo gay. Ci sono
migliaia di uomini come lei a Savannah. Niente moglie, niente figli. Non
sarebbe una gran perdita».
«Ho una famiglia, qui. Persone che mi vogliono bene».
«Non sanno che è un finocchio, vero?», chiese lei in tono di
commiserazione.
«Non lo faccia», la pregò James. «Lei è una persona con dei principi
morali. Uccidere è immorale».
All'improvviso la donna si alzò. «Detesto questa città dimenticata da Dio.
Non appena i ragazzi finiranno il liceo, ho intenzione di fare le valigie e
andarmene». Scoppiò a ridere. «In realtà, "detesto" non è un termine
abbastanza forte. Io odio questa città. Mio Dio! Gli scarafaggi. E i
moscerini. Mi pungono fino a farmi sanguinare. E questa ossessione sul
fatto di essere di Savannah. Questa gente non ha mai sentito parlare di
Boston? O Philadelphia? Quelli sì che sono centri di cultura. E di sapere.
Non questa maleodorante palude infestata di insetti». Dopo un attimo
aggiunse, agitando la pistola: «E il riso!».
«Il riso?».
«Il riso», ripeté lei, rabbrividendo. «Se qualcuno in questa città me ne
serve un altro piatto, credo che morirò».
Era in piedi vicinissimo a lui, la pistola puntata dritta contro il suo petto.
Ma a James venne in mente una vecchia battuta che diceva che gli abitanti
di Savannah erano proprio come i cinesi: venerano gli antenati e mangiano
un sacco di riso.
Ora il respiro di Diane era corto e affannoso. Aveva i capelli tutti arruffati
e il viso lucido di sudore.
«Sembra nervosa», disse James.
«Crede che mi piaccia uccidere la gente?», scattò lei. «Non è facile, per
me. Non sono una serial killer. Sono una donna allo stremo delle forze».
«Le andrebbe di bere qualcosa di fresco?», propose lui, incrociando le
dita.
«Solo un goccio, e in fretta. Devo rincasare prima che i ragazzi tornino
dagli allenamenti di lacrosse».
«Andrò solo un attimo in cucina a prenderle qualcosa».
«Sono dietro di lei, quindi non tenti di fare scherzi», lo avvisò Diane,
premendogli la canna della pistola contro la schiena.
«Del tè freddo?», chiese lui quando furono in cucina. «Oppure del succo
di frutta?».
Lei si fermò con la schiena appoggiata alla porta, respirando
affannosamente. «Sono così tesa», si lamentò. «Davvero in ansia. Non è
stato così, con Caroline. Quando le ho sparato ero fredda come il ghiaccio.
Sono uscita dalla casa, ho visto tutte quelle persone che arrivavano per la
vendita e me ne sono andata via in macchina, come se niente fosse. Forse
sono nervosa perché lei è un prete».
Anche i nervi di James erano considerevolmente tesi. Le mani gli
tremavano incontrollabilmente mentre rovistava nel mobiletto, cercando un
bicchiere pulito. E il suo sguardo si posò sul flaconcino delle pillole. I
tranquillanti di Marian. Xqualcosa.
«Lasci che le versi un bicchiere di vino», propose. «Ho un Bordeaux
squisito».
«Soltanto uno. Devo mantenermi lucida. Non voglio che i poliziotti mi
fermino mentre andiamo a fare il nostro giretto».
«Il nostro giretto?». Un brivido freddo gli corse lungo la schiena.
Allungando la mano verso il bicchiere riuscì ad afferrare anche il
flaconcino. Posò il bicchiere sul piano di lavoro.
«Sì. Non posso certo spararle qui. Ho pensato a quella palude fuori
Beaulieu. Ci sono gli alligatori, là. Li ho visti prendere il sole sulle rive».
«Vediamo», disse James, accovacciandosi davanti al mobiletto e
infilandovisi fino a metà del busto. «Quella bottiglia deve essere qui in
fondo». In realtà il Bordeaux era lì davanti ma, con il corpo seminascosto
nello stipetto, lui riuscì ad aprire il flacone e a farsi cadere sei pillole nella
mano. Si sarebbero sciolte nel vino? Si alzò, le posò sul piano di lavoro e vi
mise sopra la bottiglia. Prese il cavatappi dal cassetto e, mentre toglieva il
tappo, le schiacciò il più forte possibile con il fondo della bottiglia.
«Tenevo da parte questo Bordeaux per un'occasione speciale», spiegò,
cercando di mantenere un tono disinvolto. «Immagino che non ne avrò
nessuna più speciale di questa, ormai».
«Oh, non sia così melodrammatico. Sono un'ottima tiratrice», gli disse
Diane in tono rassicurante. «Non si preoccupi. Non sentirà nulla».
Lui fece scivolare le pillole nel bicchiere, poi versò il Bordeaux. Lo fece
roteare delicatamente, osservando con sollievo i frammenti che si
scioglievano. Ma il vino era ancora un po' torbido. Se ne sarebbe accorta?
«Le andrebbero un paio di cracker?», le chiese, nonostante tutto ancora
un perfetto padrone di casa, avvolgendo un tovagliolo di carta intorno al
bicchiere nella speranza di nasconderne la torbidezza.
«No, grazie», rispose la donna, strappandogli di mano il vino e bevendo
un grosso sorso.
«Le dispiace se mi unisco a lei?», domandò James. Si riempì un bicchiere
fino all'orlo. Forse l'alcol avrebbe attutito il dolore, se Diane Mayhew non
era l'abile tiratrice che si vantava di essere.
La donna allontanò il bicchiere dalle labbra e si accigliò. «Ha detto che
questo è un Bordeaux?».
«Sì».
«Strano. Di solito il Bordeaux non mi piace molto, ma questo non è male.
Di che marca è?».
«Georges DuBoeuf», rispose James. «In autunno c'è stata un'offerta
speciale al Johnny Ganem». Le passò il tappo. «Ecco. Per ricordarsi il
nome».
Lei infilò il tappo nella tasca del suo vestito da garden party. «Andiamo».
«Il bicchiere della staffa?», chiese lui, cercando di temporeggiare.
«Non per me. Devo guidare».
Ma lei gli consentì di versarsi un altro bicchiere. James prese tempo,
sorseggiando il vino, infilando la bottiglia nella pattumiera, pulendo il piano
di lavoro, sciacquando il bicchiere vuoto della donna e sistemandolo nello
scolapiatti. Prese lo strofinaccio per i piatti umido e lo ripiegò
accuratamente, posandolo sul portasciugamani di Bernadette dietro la porta
della cucina.
Diane abbassò lo sguardo sull'orologio. «Okay, ora sbrighiamoci. Ho
parecchio lavoro da fare, stasera».
James rifletté freneticamente. «Posso esprimere un ultimo desiderio?».
«No», scattò lei, brusca. «Questa non è la Legione Straniera».
«La prego. Il mio rosario. È un regalo della mia defunta madre».
«Lo prenda. E si sbrighi. Mio Dio. Avrei dovuto spararle quando ha
aperto la porta e togliermi il pensiero».
Il rosario si trovava nell'angolo opposto della casa. Era un vero miracolo
che si fosse ricordato dove l'aveva messo. Diane salì pesantemente le scale
dietro di lui, percorrendo il corridoio fino alla vecchia camera della madre
di James. Lui dovette prendere una scala per poter raggiungere l'ultimo
scaffale dell'armadio. Con grande lentezza, salì gli scalini e poi cominciò a
spostare gli scatoloni, posandone a terra uno e poi un altro. Sapeva che il
rosario si trovava nell'ultima scatola.
«Andiamo», gridò la donna mentre lui lo prendeva. «Tra poco i moscerini
usciranno dalla palude. Le ho spiegato che effetto mi fanno».
Quanto ancora?, si chiese James, scendendo le scale con tutta la lentezza
possibile. Quanto, ancora?, si chiese, chiudendo a chiave la porta posteriore,
spegnendo la luce sulla veranda, chiudendo la porta d'ingresso dietro di
loro, con la pistola di Diane premuta sul fianco.
La scintillante Lincoln bianca della donna era parcheggiata sul vialetto
d'accesso, dietro la sua Mercedes. «Salga», gli ordinò lei, indicando il sedile
del guidatore. James ebbe l'impressione che farfugliasse leggermente.
«Guidi lei. E non faccia scherzi, altrimenti le pianto un proiettile nella testa
qui sul suo vialetto».
«D'accordo», ribatté lui. Diane inciampò leggermente mentre girava
intorno all'auto ma poi riuscì ad aprire la portiera del passeggero e salire a
bordo.
James infilò la chiavetta nell'accensione e la girò. Il cruscotto si illuminò
e un segnale sonoro cominciò a suonare insistentemente. Si voltò a guardare
Diane. La donna aveva la testa che ciondolava su una spalla. E gli occhi
chiusi. Stava russando.
«Signora Mayhew?», disse gentilmente James. Le mani della donna
erano abbandonate in grembo, i muscoli del viso rilassati. Lui si piegò e le
sfilò di mano la pistola. «Sogni d'oro, Diane», aggiunse. Poi le prese il
cellulare e chiamò il 911.
59

«Ripetimi come funziona questa truffa di Hargreaves», mi chiese Daniel,


allontanandosi dai fornelli di BeBe su cui stava soffriggendo nel burro
dell'aglio e dello scalogno. Dal deposito eravamo tornati a casa di BeBe,
ancora inebriati dall'eccitazione.
Daniel non poteva accontentarsi di stappare una bottiglia di vino e
riscaldare nel microonde una cena già pronta. Invece aveva deciso di
preparare dei tortini di granchio. «Non posso farne a meno», spiegò,
radunando gli ingredienti necessari sul piano di lavoro. «È per via di tutta
questa energia nervosa. Quando mi sento così devo smaltirla; fare
ginnastica, andare a correre, riparare qualcosa in casa. Oppure cucinare».
«Conosco modi migliori per bruciare energia», scherzò BeBe, «e nessuno
di essi richiede di usare coltelli o martelli».
Mi lanciò un'occhiata eloquente e io arrossii fino alla radice dei capelli.
Anche Daniel la vide e mi strizzò l'occhio.
«Non bruciare quella roba», lo misi in guardia. «Sto morendo di fame».
Presi un sorso di Pinot nero e gli esposi di nuovo la mia teoria su
Hargreaves. «Compra i migliori pezzi antichi che riesce a trovare, poi li fa
copiare», spiegai. «E il bello è che sono pezzi davvero semplicissimi. La
credenza di Moses Weed, per esempio, è elegante ma per nulla elaborata.
Non ha intarsi di alcun genere né impiallacciature, particolari che sarebbe
complicato riprodurre».
«Allora perché non ci sono più falsari?», volle sapere BeBe.
«Non è così facile», dissi. «Prima di tutto, per realizzare una copia
credibile bisognerebbe servirsi di arnesi simili a quelli usati nel periodo in
cui è stato costruito il mobile. Vecchi coltelli a petto, ganci fatti a mano,
utensili capaci di produrre calette e tenoni fatti a mano per i giunti dei
cassetti. Sarebbe necessario un vero e proprio artigiano, che disponga degli
arnesi giusti».
«Probabilmente bisognerebbe avere anche del legno vecchio, giusto?»,
suggerì Daniel.
«Infatti», concordai. «La credenza di Moses Weed è fatta di olmo con
venature, con legname ricavato da alberi di Beaulieu. Ma gli olmi in questa
zona del paese sono stati distrutti decenni fa dalle malattie. E non è solo il
legno a essere difficile da imitare. Le maniglie di ottone antiche erano
realizzate a mano nella fucina di Beaulieu. E quello degli sportelli era il
vecchio vetro ondulato. Se lo si guarda attentamente, ha quasi una
sfumatura purpurea».
«Hargreaves sarebbe in grado di trovare materiali del genere?», chiese
BeBe.
«Sì, se sapesse dove cercare, e lo sa», risposi. «Lo zio James dice che
Mayhew e Blankenship hanno fatto spogliare Beaulieu di tutte le vecchie
modanature, le cornicette e i battiscopa, qualunque cosa potesse avere una
rilevanza architettonica che avrebbe permesso alla villa di essere giudicata
storicamente importante. A mio parere, visto che Blankenship aveva già
cominciato a concedere i pezzi migliori a Hargreaves, deve avergli anche
permesso di spogliare la casa, prendendo tutto quello che voleva. Lui
potrebbe aver trovato vecchie porte o finestre nel seminterrato o nel solaio
della casa, oppure in qualche edificio esterno della proprietà».
«Significa prendersi un bel fastidio, solo per realizzare un mobile che
sembri antico e rischiare di farsi beccare», commentò BeBe. «Hargreaves è
già schifosamente ricco. Insomma, avete mai visto la sua casa in città, a
Madison Avenue?».
«Io l'ho vista», ammisi. «Ha un letto a colonnine intagliate per cui sarei
disposta a uccidere».
«Magari è falso anche quello», scherzò Daniel. Mi voltai a guardarlo e gli
sorrisi. Aveva tolto la padella dal fuoco e vi stava aggiungendo polpa di
granchio, panna e uova battute. Divise il composto in tortini, dandogli
forma con tocchi gentili, per poi passarli in un piattino pieno di cracker
sbriciolati. Le sue mani erano grandi ma delicate, le unghie di un rosa
chiaro che spiccavano contro l'intensa abbronzatura delle dita lunghe e
sottili mentre trasferiva abilmente i tortini su un vassoio coperto da un
tovagliolo di carta.
«Non capisco perché Hargreaves dovrebbe correre un simile rischio»,
riconobbi.
«Forse è solo dannatamente avido», disse Daniel, scurendosi in volto per
la rabbia. «La gente ricca è così. Lo si vede di continuo, nel ristorante.
Grassoni milionari entrano al Guale, ordinano una bottiglia di vino da cento
dollari e una cena luculliana, poi non lasciano la mancia al cameriere. La
loro è arroganza. Lo fanno perché possono farlo».
«E il margine di profitto non è niente male», feci notare. «Se Hargreaves
ha il cliente giusto, può vendere la credenza di Weed anche per centomila
dollari. Se ne ha due, raddoppia il guadagno».
«Ma la gente non finirà per scoprirlo?», chiese BeBe. «Insomma, siamo a
Savannah. È impossibile mantenere un segreto in questa città».
Stavo pensando la stessa cosa già da un po'. I clienti di Hargreaves erano
tra le persone più esperte e ricche di Savannah. Non erano certo dei babbei
quelli ai quali avrebbe rifilato delle copie.
«Probabilmente non venderebbe i mobili falsi a nessuno che viva qui in
zona», dissi lentamente. «Non oserebbe. Comunque, ha una clientela
internazionale. Probabilmente vende attraverso Internet. Forse ha addirittura
un suo sito web».
BeBe batté il palmo della mano sul piano di lavoro. «Dobbiamo
distruggere questo tizio». Si accovacciò nella sua posa alla Honey West.
«Rompergli il culo!».
Il campanello suonò e lei corse ad aprire. Io raggiunsi i fornelli e Daniel
mi tese il suo bicchiere vuoto perché lo riempissi.
«Guardate cosa ho trovato fuori dalla porta», esclamò allegramente BeBe
mentre Jonathan McDowell la seguiva in cucina. Lui fece un rapido sorriso
e per la prima volta notai che aveva le fossette.
«Avete saputo?», chiese, guardando diritto verso di me.
«Saputo cosa?», domandai. «Avete ottenuto l'ordinanza restrittiva?».
«Ancora meglio. Abbiamo l'assassino di Caroline DeSantos».
«Cosa?», strillai. «Non Tal. Dimmi che non è stato Tal».
«Non è stato Tal. È stata Diane Mayhew. Quando James è andato da lui,
oggi, Blankenship ha accusato Mayhew di quanto è successo a Beaulieu.
Così James ha deciso di affrontare anche Phipps. Diane ha origliato e ha
sentito tutta la loro conversazione. Deve essersi spaventata parecchio
quando James ha spiegato a Mayhew di essersi rivolto al nostro ufficio per
sporgere denuncia. Un paio di ore fa è andata a casa sua e gli ha raccontato
tranquillamente di aver ucciso Caroline».
«Stai scherzando», disse BeBe, con una risata sprezzante.
«Diane Mayhew un'assassina? Non ci posso credere. Quella donnetta
insignificante non farebbe male a una mosca».
«Stava per cacciare un proiettile in testa a James e buttarlo nella palude
in modo che gli alligatori lo divorassero», dichiarò cupamente Jonathan. Le
fossette adesso erano scomparse. «Ha ucciso Caroline perché aveva una
relazione con Phipps, ed era pronta a eliminare James per impedirgli di
svelare la relazione e il losco accordo legato a Beaulieu».
Sentii la testa che mi ronzava. «James sta bene?», chiesi, afferrandogli un
braccio. «Dov'è?».
«Sta benissimo», si affrettò a rispondermi. «Diane Mayhew aveva perso
completamente il lume della ragione. Mentre lei si vantava di essere pronta
a tutto pur di tenere insieme la sua famiglia, lui si è ricordato della buona
educazione tipica del Sud e le ha offerto un bel bicchiere di Bordeaux. Con
una dose generosa dello Xanax di tua madre. Diane ha perso i sensi proprio
mentre stava per costringerlo a guidare fino al luogo in cui intendeva
seppellirlo».
«Gesù, Giuseppe, Maria e tutti i santi», dissi, prendendo in prestito una
delle esclamazioni preferite di mio zio. «Sei sicuro che stia bene?».
«È scosso», ammise Jonathan. «Diane gli aveva puntato una calibro
quarantacinque in faccia. Volevo accompagnarlo in ospedale, solo per farsi
fare una visita di controllo, ma sai come è fatto Jimmy. Dannatamente
stoico».
Jimmy? In vita mia non avevo mai sentito nessuno chiamare mio zio altro
che James. Forse non lo conoscevo bene come pensavo.
«Comunque», aggiunse lui, «volevo dirtelo di persona, prima che i
giornalisti cominciassero a telefonare. James ha detto che probabilmente ti
avrei trovato qui, se non fossi stata a casa».
«E adesso cosa succederà?», chiesi.
«Diane Mayhew è ancora al Memorial Hospital. I medici dicono che
dovrebbe rimettersi completamente. Quando si sveglierà, il detective
Bradley farà una lunga e seria chiacchierata con lei. Sono passato di là
prima di venire da te. Phipps è in sala d'aspetto e Fulmer Woodall è seduto
accanto a lui per dargli sostegno morale».
«Chi è Fulmer Woodall?», chiese BeBe, battendomi sul tempo.
«Il più grande penalista del Sud–Est», rispose Jon, mostrando di nuovo le
fossette. «È volato sin qui da Atlanta con il suo Gulfstream privato non
appena ha ricevuto la telefonata di Phipps. Fra poco la situazione si farà
molto, molto interessante, qui».
«Ma l'avete colta con le mani nel sacco, vero?», chiesi. «E anche Phipps
e Blankenship, giusto?».
«Diane ha raccontato a Jimmy l'intera storia. È stata estremamente
precisa sui dettagli. Soprattutto riguardo all'unico particolare che soltanto
l'assassino poteva conoscere».
«E quale sarebbe?», chiesi.
Jonathan chinò la testa e arrossì leggermente. «Caroline non portava le
mutandine, la sera in cui è stata uccisa. Era andata a Beaulieu aspettandosi
una... ehm, un appuntamento con Phipps. La polizia non ha reso pubblico
quel dettaglio».
«Direi», commentò BeBe. «Mio Dio. Fino a che punto si può essere
volgari? Venire uccisi senza mutandine è peggio di avere un incidente
d'auto quando hai addosso biancheria intima vecchia e sciatta. Potete
immaginare cosa penserà la mamma di Caroline quando lo scopre?».
«Credo che sua madre sia morta», intervenni io.
«Diane ha persino tenuto le registrazioni dei colloqui telefonici tra Phipps
e Caroline», continuò Jonathan. «Se riusciamo a ottenerle, forniranno il
movente del delitto. Naturalmente non c'è niente di sicuro».
«Cosa vorresti dire?», domandai.
Lui si passò una mano tra i capelli già arruffati. «Prima di tutto, Fulmer
Woodall sosterrà che Diane era vittima di una temporanea infermità
mentale, questo è certo. E naturalmente cercheranno di riempire la giuria di
donne di mezza età che saranno solidali con la sua triste condizione».
«La sua triste condizione?», chiesi, alzando la voce. «È una donna
ricchissima e fa un'intensa vita mondana. Il peggior dramma della sua vita è
dover decidere se andare al golf club con la Beemer o la Lincoln».
«Il suo matrimonio è stato minacciato da una donna più giovane», replicò
Jonathan con voce atona, il volto inespressivo. «Diane è in menopausa. I
suoi figli non hanno più bisogno di lei. La sua autostima era ridotta ai
minimi termini. Il suo medico le aveva prescritto una dose eccessiva di
pericolosi farmaci psicotropi. Soffriva di sindrome da abbandono».
Inarcò un sopracciglio. «Scegli uno di questi problemi. Uno qualsiasi».
Sentii le mie spalle curvarsi.
«Faremo del nostro meglio», annunciò Jonathan. «Non posso dirvi altro».
«E Lewis Hargreaves?», chiese BeBe. «Arresterete almeno lui, vero?».
«Con quale accusa?», volle sapere Jonathan.
«Ha messo su una fabbrica vicino a Port Authority», raccontò con rabbia
lei. «Crea pezzi d'antiquariato falsi. Ecco perché voleva la credenza di
Weezie, per poterne realizzare delle copie e venderle a clienti che vivono
fuori città».
Lui mi guardò. «È vero?».
Annuii. «Ho scoperto che Blankenship stava prendendo i pezzi migliori
dell'eredità Mullinax per venderli di nascosto a Hargreaves. Siamo andati
all'L. Hargreaves, oggi. BeBe voleva fare un'offerta per la credenza di
Moses Weed, ma il negozio era chiuso e l'assistente di Hargreaves se ne
stava andando, così l'abbiamo seguita fino a quel magazzino».
«E Daniel e io siamo riusciti a entrare con un trucco», raccontò BeBe,
eccitata. «Abbiamo visto tutto. Ora dovete solo arrestarli».
Jonathan annuì ma non aprì bocca.
«Hargreaves era in combutta con Blankenship e Mayhew», dissi. «È un
truffatore, Jonathan».
«Questo lo dite voi», replicò lui, «ma mi serve qualcosa di più».
Daniel stava versando olio di oliva in una padella sul fornello. «Per
esempio?».
«Hargreaves ha venduto un pezzo falso a qualcuno di voi?», chiese
Jonathan, senza mezzi termini. «Ha fatto dichiarazioni relative alla merce
che sapete essere menzognere?».
BeBe e io ci limitammo a guardarci.
«Sapete di persone che abbiano acquistato da Hargreaves merce che voi
siete assolutamente certi non sia quello che lui dice?».
«Dacci tregua», protestò BeBe. «Abbiamo scoperto tutto soltanto oggi».
«E siete stati davvero bravi a riuscirci», disse Jonathan, in tono
conciliante. «Ma non possiamo semplicemente fare irruzione in un
magazzino e arrestare Lewis perché ha avuto la meglio su Weezie in un
affare».
Feci per dire qualcosa ma lui abbassò lo sguardo sul suo orologio e alzò
una mano.
«Sentite, ora devo andare. Ho intenzione di passare a prendere Jimmy
alla stazione di polizia e portarlo fuori per una cena calda e un Martini ben
freddo. Quello che vorrei, Weezie, è che tu e BeBe veniste nel mio ufficio
lunedì mattina. Voglio che parliate con N'Lida Shearwater, una delle
assistenti del procuratore distrettuale. Molto in gamba. Molto aggressiva e
davvero brava quando si tratta di frode e reati di colletti bianchi. Voi tre
potrete ricostruire la truffa, dopo di che inchioderemo Hargreaves. Okay?».
«Come vuoi», risposi.
Jonathan mi cinse le spalle con un braccio e mi strinse per un istante. La
sua barba mi graffiò la guancia.
«Ehi», disse in tono sommesso, «so che vuoi tutto chiuso in un bel
pacchetto ordinato, ma non sempre la vita reale funziona in quel modo.
Guarda la situazione da questo punto di vista. Jimmy è vivo e sta bene.
Diane Mayhew è in arresto, e Gerry Blankenship e Phipps Mayhew hanno
le palle sotto un torchio, se mi permetti l'espressione. E per il momento,
almeno, Beaulieu è al sicuro dai bulldozer. La vita è bella. Giusto?».
«Giusto», confermai. Ma se era così splendida, come mai all'improvviso
mi sentivo di merda?
60

BeBe aspettò di sentire il rumore dell'auto di Jonathan che usciva dal


vialetto.
«Jimmy?», disse poi, le mani posate sui fianchi. «Jimmy?». Scosse la
testa con tristezza. «Non hai mai detto una sola parola in proposito. Io sono
la tua migliore amica e tu non mi hai mai detto niente».
«Non potevo», replicai. «Comunque, anch'io l'ho appena scoperto».
«Scoperto che cosa?». Daniel posò i piatti di tortini di granchio sul piano
di lavoro della cucina, insieme a un vassoio di pomodori e cetrioli affettati
conditi con della vinaigrette fatta in casa.
«Lo zio di Weezie ha un fidanzato. Jonathan McDowell. Onestamente,
Weezie, questo è il pettegolezzo più ghiotto che io abbia sentito da parecchi
anni a questa parte, subito dopo il dettaglio su Caroline uccisa senza
mutandine. Insomma, sapevo che era gay, ma non ho mai detto niente
perché voi cattolici siete così puritani su questo tipo di questioni. Ma tu
sapevi di Jonathan e non hai mai aperto bocca».
Mi servii un tortino di granchio e dei pomodori. «James non me l'ha mai
detto esplicitamente. È una persona terribilmente riservata».
Giocherellai con il cibo, rimuginando su tutte le ingiustizie del mondo.
Stando a quanto aveva detto Jonathan, ci sarebbe voluto del bello e del
buono per portare in tribunale Lewis Hargreaves. E nel frattempo, lui
avrebbe probabilmente venduto la credenza di Moses Weed e chissà quale
altro mobile di Beaulieu, guadagnando nel frattempo un paio di centinaia di
migliaia di dollari.
«È un vero schifo», dichiarai, allontanando il tortino che avevo ridotto in
pezzi con la forchetta.
«Cosa c'è che non va?», chiese Daniel. «Troppo coriandolo?».
«Non parlavo del cibo», spiegai. «È tutta questa faccenda a rendermi
furiosa. Guardate che cosa è successo. A prescindere da quello che facciamo
lunedì, Lewis Hargreaves avrà comunque il suo raffinato negozio, la sua
villa da svariati milioni di dollari e il suo grosso furgone elegante. E io
continuerò a essere una rigattiera itinerante che guida un malconcio pick–up
azzurro. La gente come Hargreaves non viene arrestata per essere strisciata
fuori da una finestra del primo piano. Non viene schedata, non le vengono
prese le impronte digitali e non viene palpata da mani sudate e sporche. E
non deve mettersi scarpe da prigione, questo è poco ma sicuro».
«Scarpe da prigione?», chiesero BeBe e Daniel all'unisono.
«Lasciate perdere», dissi. «Stasera non sono molto di compagnia. Mi
dispiace mangiare e scappare via subito, ma credo che sarà proprio quello
che farò».
«Niente dessert?», domandò BeBe, sollevando la scatola dei gelati
ricoperti di cioccolato.
«Non stavolta», risposi. «Ci sentiamo domani, magari».
«Ti accompagno fuori», si offrì Daniel.
Mi tenne per mano mentre raggiungevamo il mio pick–up.
Il suo gesto mi fece venir voglia di piangere. Dopo che ci eravamo
sposati, Tal non mi aveva mai tenuta per mano.
«Stai bene?», chiese, guardandomi.
«Sono un po' giù», ammisi. «È stata una lunga giornata. Mi riprenderò
presto».
«Lasciami venire a casa con te», chiese. «Non resterò a dormire.
Potremmo semplicemente sederci sul divano. Magari ascoltare un po' di
musica o altro. Ehi, ci sono. Ti farò un bel massaggio alla schiena. So fare
dei massaggi alla schiena eccezionali».
Scossi il capo. «Non stasera».
«Avanti», mi blandì lui. «Ascolterò persino arie di opere liriche, se vuoi».
Mi irritai. «Cosa vorresti dire?».
«Niente. Era solo una battuta».
«Era una battuta sul fatto che mio zio è gay?».
«No», si affrettò a dire lui. «Stavo solo cercando di tirarti su di morale.
Cavoli, perché sei così suscettibile, tutt'a un tratto?».
«Ti crea problemi sapere che mio zio è gay?», domandai.
«No», rispose, balbettando leggermente. «Te l'ho già spiegato, detesto
tutta questa faccenda delle famiglie. Non mi interessa quel genere di cosa».
Allungò una mano per attirarmi a sé. «Tu e io, è questa l'unica cosa che mi
interessa, Weezie. Tutti gli altri possono anche andare all'inferno, per quel
che mi riguarda».
«Ma non ci siamo solo tu e io», replicai seccamente. «Io faccio parte di
una famiglia, Daniel. Un'incasinata, stravagante famiglia. I Foley ne hanno
fatto un'arte dell'essere una famiglia disfunzionale, ma per quanto loro siano
incasinati – e lo sia anch'io – gli voglio bene. E so che anche loro me ne
vogliono. Per lo più».
«E allora?». Inarcò un sopracciglio, improvvisamente nervoso.
«Anche tu fai parte di una famiglia, nel caso tu l'abbia dimenticato»,
affermai. «Però non vuoi ammetterlo. Non vuoi nemmeno parlarne. E
questo mi preoccupa».
«Perché mai dovrebbe preoccuparti? Pensi che ci sia qualcosa che non va
nella mia famiglia? Pensi che gli Stipanek non valgano quanto la famiglia di
Talmadge Evans? Hai paura che siamo un branco di ritardati che si sposano
fra loro o una cosa del genere?».
«La famiglia di Tal?», dissi, ridendo con disprezzo. «Non valgono niente.
Puoi anche non averlo notato, ma non ho nemmeno preso il suo cognome
quando mi sono sposata. Penso solo che tutti questi tuoi segreti siano
davvero pericolosi, Daniel. Ti stanno consumando».
La sua mano mi serrò la spalla.
«Di cosa diavolo stai parlando? Quali segreti?».
Mi morsi il labbro. All'improvviso rimpiansi che BeBe mi avesse
convinto a leggere il suo dossier personale. Forse Daniel aveva ragione su
una cosa: il passato non mi riguardava. Ma dannazione, il suo passato
continuava a mettersi tra di noi.
«So di tua madre», dichiarai, la voce ridotta a un sussurro.
I suoi occhi azzurri sembrarono trapanarmi la fronte. Ebbi l'impressione
che potesse vedere i verminosi piccoli segreti nascosti là dentro.
«Di cosa stai parlando? Cosa sai di mia madre?».
Non c'era un modo garbato per dirlo. Avevo fatto una cosa spregevole e
subdola. Era impossibile metterla in una luce migliore. Diglielo e basta, mi
esortai. Togliti il pensiero. Una volta svelato il segreto, potrete parlarne.
«So che tua madre ha avuto una relazione con Hoyt Gambrell, quando eri
solo un bambino. So che è scoppiato uno scandalo terribile. So che lei lo ha
sposato, che lui è finito in prigione e tua madre ha abbandonato te e i tuoi
fratelli. So che è per questo che hai lasciato Savannah. A causa sua».
«Con chi hai parlato?». Il suo tono era pacato, ma le sue dita stavano
affondando nella carne della mia spalla.
«Con nessuno», balbettai. Mi ero aspettata una scenata, invece Daniel mi
stava uccidendo con la freddezza.
«Dimmelo», insistette. «È successo vent'anni fa. Chi te l'ha raccontato?».
Gli presi la mano. «Mi stai facendo male».
Allentò la presa, ma i suoi occhi azzurri continuarono a rimanere fissi su
di me. «Chi ti ha parlato della mia famiglia?».
«Daniel, non è questo il punto», dissi in tono supplichevole. «Non mi
interessa cosa ha fatto tua madre. Lo giuro su Dio, non ti giudico in base a
lei».
«Chi ha ritirato fuori i panni sporchi della mia famiglia? Ho bisogno di
saperlo».
«Ce l'ha raccontato uno dei corteggiatori di BeBe», ammisi alla fine.
«Non è stata colpa sua. Ho cominciato io. Non riuscivo a capire come mai
tu fossi tanto riservato a proposito della tua famiglia. La cosa mi
preoccupava, Daniel, così BeBe e io abbiamo letto il tuo dossier personale
al Guale. Abbiamo visto il nome che avevi indicato come parente più
prossimo. Paula Gambrell. Sapevo che non avevi sorelle, così mi sono
chiesta chi fosse. E BeBe ha detto che aveva già sentito quel nome, così ha
telefonato al suo amico. Sa tutto quello che è successo a Savannah dalla
notte dei tempi. Non ricordava il nome di tua madre ma ci ha raccontato di
Hoyt Gambrell... e di quello che è successo», aggiunsi debolmente.
«E voi due vi siete fatte una bella risata, vero?», chiese lui. «Quella BeBe
adora i pettegolezzi piccanti. E nemmeno a te dispiacciono, Weezie, non è
così?».
«No», gridai. «Non è andata affatto così. Mi sono sentita malissimo,
dopo averlo scoperto. E anche BeBe. Non lo sapevamo, Daniel».
«Non avevi alcun diritto di farlo», dichiarò lui.
Il lampione del marciapiede gli proiettava una calda luce gialla sul viso,
che però era del tutto inespressivo. Di pietra. Irriconoscibile. Daniel uscì dal
cerchio di luce e si allontanò a grandi passi nella notte grigio azzurra.
61

Quando Daniel se ne andò, ero sotto shock. Non aveva urlato, non aveva
sbraitato. Se n'era semplicemente andato. Guidai fino a casa quasi senza
rendermene conto. Corsi dentro e provai a chiamare BeBe, per sapere se era
tornato da lei. Lasciai messaggi sulla segreteria di Daniel nella casetta sulla
spiaggia. Per un momento presi addirittura in considerazione l'idea di
seguirlo. Ma il ricordo della sua schiena rigida mentre si allontanava nel
buio mi convinse che avrei potuto piangere in cinese prima che Daniel
Stipanek tornasse da me, quella sera.
Alla fine mi lasciai cadere sul divano e feci quello che fanno tutte le
donne in gamba dei nostri giorni quando si trovano davanti quelle che le
riviste da salone di bellezza definiscono "sfide della vita".
Piansi a dirotto come un dannato neonato. E fu liberatorio. Ma dopo aver
piagnucolato e tirato su con il naso per un quarto d'ora, cominciai ad avere
sete. Ero in cucina a prepararmi una tisana, quando sentii aprirsi la porta
d'ingresso.
Trattenni il fiato. Era tornato. In un attimo mi asciugai il viso arrossato e
gonfio con uno strofinaccio per i piatti bagnato e mi passai le dita tra i
capelli impastati di lacrime cercando di dargli una parvenza d'ordine. Non
volendo sembrare troppo ansiosa di fare pace rimasi vestita, anche se
ammetto di aver abbassato appena appena la cerniera della mia maglietta
alla Emma Peel nel tentativo di apparire vagamente provocante.
«Daniel?», chiamai con nonchalance.
Sentii Jethro uggiolare sul davanti della casa. Non abbaiare, soltanto
uggiolare.
«No, piccola, sono io».
Lasciai cadere la scatola della tisana nel lavandino e mi girai di scatto.
Tal era fermo sulla soglia della cucina, con la testa china perché era troppo
alto per poter stare sotto lo stipite ad arco della porta.
Per un minuto il mio cervello si paralizzò, poi riprese a funzionare, in
fretta.
«Vattene», gli intimai.
«Daniel?», disse, farfugliando e facendola sembrare una brutta parola,
come catarro o velopendulo. «È così che si chiama il tuo cuoco da
strapazzo?».
Il cordless era appeso alla parete della cucina. Lo afferrai e lo brandii
come un'arma. «Vattene o chiamo la polizia. Dico sul serio, Tal. Non sono
dell'umore adatto per una qualunque delle tue stronzate, stasera. O in
qualsiasi altra sera».
«Oh, piccola», replicò, avvicinandosi di un altro passo, «scommetto che
però eri dell'umore adatto per Daniel, vero?».
«Vattene. Sei ubriaco e mi fai schifo. E da questo momento in poi stammi
lontano. Non voglio altre visite a sorpresa o messaggi sulla mia segreteria o
altri fiori. Voglio solo che tu esca dalla mia vita. Per sempre».
Lui fece un altro passo e mi accarezzò il viso. Io mi ritrassi e gli
schiaffeggiai la mano.
«Weezie», sussurrò, con l'alito che sapeva di whisky. «Non dici sul
serio».
«Dico sul serio eccome», replicai a denti stretti.
«No», insistette lui, scuotendo la testa come un cane che cerchi di
scacciare una pulce. «Sei confusa. Tutto questo casino con Caroline ti ha
sconvolta. Ma ormai è tutto finito. L'hai saputo? Hanno arrestato Diane
Mayhew. Ha ucciso lei Caroline. Ricordi Diane? Lei e Phipps sono venuti a
cena da noi, una sera. Tu eri furibonda perché quella stupida vecchia non
voleva mangiare quello che avevi cucinato».
«Vattene. Subito». La mia voce era innaturalmente calma, ma mi
tremavano le ginocchia. Decisi di chiamare il 911. Era arrivato il momento
di chiedere rinforzi.
«No!». Tal mi schiaffeggiò con forza, facendo cadere sul pavimento il
telefono, e la sua plastica scadente s'incrinò nell'impatto.
Per un attimo rimasi accecata dal dolore. Le lacrime mi rigarono il volto
mentre premevo entrambe le mani sulla guancia contusa.
«Weezie», disse lui in tono carezzevole, stringendomi. «Mi dispiace,
piccola. Non volevo farti male. Dannazione, Weezie. Perché mi hai costretto
a fare una cosa del genere?».
Stavo singhiozzando, senza riuscire a respirare, cercando di capire quello
che era appena successo. Il buon vecchio smidollato Tal Evans aveva
appena alzato le mani su di me. E adesso mi stava abbracciando, dandomi la
colpa dell'accaduto.
«Lasciami andare», gridai, cercando di spingerlo via. «Lasciami andare,
Tal».
Mi strinse ancora più forte, schiacciandomi contro di lui.
«Sshh», sussurrò, accarezzandomi i capelli. «Ora stai calma. Devi solo
stare calma».
«Tal», dissi lamentosamente, «mi stai facendo male. Lasciami andare, ti
prego».
«Stai zitta e ascolta», continuò lui, stringendomi più forte. «È questo il
problema con te, Weezie. Non hai mai voluto ascoltare».
«Adesso ti sto ascoltando», risposi. Sentii un rivoletto tiepido colarmi dal
naso. Sangue. «Davvero, Tal. Sto ascoltando».
«Bene», rispose, e mi diede un bacio sulla testa, come un padre che
ricompensi il figlio disobbediente perché ha fatto il bravo.
«Quel tizio, Daniel», aggiunse. «Ci sei andata a letto, Weezie? Lo hai
fatto?». Mi fissò dall'alto, con aria severa. «Non lo conosci nemmeno e ti
dai alla pazza gioia mezza nuda insieme a lui, qui in casa. Non è affatto da
te».
«Lo so», riuscii a dire. Cosa stava succedendo? Nella mia mente
turbinavano varie possibilità. Tal era ubriaco. Era pazzo. L'impronta della
sua mano era stampata sulla mia faccia. Dei marziani si erano impadroniti
del suo cervello. Qualunque fosse la causa, Tal mi stava seriamente
spaventando. Se mai fossi riuscita ad allontanarmi da lui, giurai a me stessa
che subito prima di farlo chiudere in galera lo avrei preso a calci fino a farlo
diventare blu.
«Queste donne», stava dicendo. «Mia madre aveva ragione. Non sanno
cosa sia la vergogna. Le giovani donne non hanno più alcuna morale. Se ne
vanno in giro comportandosi come donnacce di strada. Non c'è più un
briciolo di decenza».
Possibile che stesse succedendo? Il mio ex marito infedele e dongiovanni
mi stava davvero facendo una predica sulla morale? Forse ero io la pazza.
Forse quell'unica esperienza con l'LSD ai tempi del liceo mi stava facendo
fare il viaggio più brutto della mia vita.
Dio santo. Se mai fossi riuscita a cavarmela, subito dopo aver preso a
calci Tal fino a farlo diventare blu avrei intrapreso una crociata personale
contro la droga. "Ehi, ragazzi, dite semplicemente di no. Anzi, dite no,
cazzo".
«Però mia madre si sbagliava su Caroline». Tal dava l'impressione di
essere perfettamente lucido. «La mamma adorava Caroline. Ecco perché mi
ha dato l'anello di diamanti della nonna. Perché lo dessi a lei. Tu invece non
le sei mai piaciuta, Weezie. Ti trovava volgare. Caroline l'aveva tratta in
inganno. Aveva ingannato tutti. Persino me, per un po'. Sembrava così
raffinata, così elegante. Quella maledetta sgualdrina. Se ne andava in giro
con un abito da duemila dollari e al dito l'anello di mia nonna, e sotto quel
vestito di seta era completamente nuda».
Mi sentii gelare.
Alzai gli occhi verso di lui. Tal annuì, con un sorriso contorto. «Ti ho
scioccato, vero?».
«Di cosa stai parlando?». Avevo la bocca secca.
«Di Caroline. La sera in cui è andata all'appuntamento con Phipps
Mayhew. A Beaulieu. Faceva parte del suo giochetto con lui. Niente
mutandine. Che classe, vero? È morta portando un diamante da due carati
ma non le mutandine».
«Come facevi a saperlo?». Il sangue mi stava scendendo sull'angolo della
bocca. Lo assaggiai con la punta della lingua. Era caldo e salato. Proprio
come doveva essere stato quello di Caroline. Ma come faceva Tal a sapere
cosa non indossava lei la sera in cui era stata uccisa? Jonathan aveva detto
che la polizia non aveva reso noto quel dettaglio. Solo l'assassino lo
conosceva. E l'assassino era Diane Mayhew, vero?
«Facevano sesso telefonico», stava raccontando Tal. «Caroline e Phipps.
Una cosa rivoltante. Diane mi ha fatto sentire un nastro registrato. Quella
stupida donna aveva messo una cimice nel telefono dei figli, ma invece dei
figli ha colto in flagrante il vecchio caprone».
Scoppiò a ridere. Aveva sempre trovato spassose le proprie battute.
«Tu e Diane?». Forse avevo una commozione cerebrale.
«Un giorno è venuta nel mio ufficio. Mi ha spiegato cosa stava
succedendo tra Phipps e Caroline. Pretendeva che io la licenziassi».
«Perché non l'hai fatto?».
Sorrise di nuovo. «Phipps Mayhew era il maggior cliente dello studio. Il
cliente più importante che avessimo mai avuto. Con una commissione del
genere, era solo questione di tempo prima che ci incaricassero di progettare
altri grandi edifici commerciali. Impianti per il trattamento del liquame,
scuole. Ospedali. E tutto grazie a Caroline. Grazie al fatto che lei non
riusciva a tenere chiuse le gambe. Se le avessi dato il benservito sarebbe
andata in un altro studio, portando con sé il progetto per l'impianto
Mullinax. Non intendevo licenziarla. Neanche morto. E lo spiegai anche a
Diane».
Mi carezzò i capelli. Con la coda dell'occhio colsi uno scintillio dorato.
La sua fede nuziale. Quella che gli avevo dato io. Il tocco di Tal era
ingannevolmente gentile. Attivò quello che gli strizzacervelli chiamano
memoria sensoriale. Molto tempo prima ero stata sdraiata in un letto con
quest'uomo, noi due nudi, abbracciati. Lo stesso tocco.
«Tu e Diane. Insieme. Siete stati voi due a uccidere Caroline».
La sua mano mi scivolò di nuovo lungo la spalla. Lui sospirò.
«È stata Diane a farlo. Tutta da sola. Non ha avuto bisogno del mio
aiuto».
«L'hai organizzato tu, vero?».
«No». Lo disse con tono noncurante. «Le ho detto che era pazza. Era
troppo rischioso. Ma non ha voluto ascoltarmi. Cosa potevo fare? Come
potevo fermarla? Ho avuto un presentimento, la sera in cui ho seguito
Caroline fino a Beaulieu. E non mi sbagliavo».
«Eri là?».
«Non sono entrato in casa. Ho sentito gli spari. E ho visto Diane
andarsene in auto. Ormai non potevo più fare nulla per Caroline».
«Ma tu sapevi», dissi. «Sapevi che Diane l'aveva uccisa. La polizia
pensava che fossi stata io. Mi hanno arrestata. Messa in prigione. Se non
fosse stato per James... Mi avrebbero processato per omicidio».
«Diane avrebbe confessato. Alla fine». Lui si accigliò e mi agitò un dito
davanti al viso. Quell'uomo meritava davvero di essere ucciso. «È stata
colpa tua, Weezie. Hai voluto ficcare il naso in giro a Beaulieu. Caroline mi
ha raccontato di come sei comparsa al servizio funebre per la signorina Ann
Ruby. Senza vergogna, davvero».
«Io?», gridai. «Io sarei senza vergogna?».
«Sei cambiata», dichiarò, corrugando la fronte. «Lo hai fatto, Weezie?».
Mi tenne a distanza con un braccio, e i suoi polpastrelli affondarono nelle
mie scapole.
«Ho fatto cosa?».
«Lo. Hai. Scopato». Ogni parola era un'affermazione.
«No», risposi calma. Oscillai leggermente all'indietro sui talloni, sollevai
il ginocchio con tutta la forza che avevo e colpii Tal direttamente ai
testicoli.
Lui ululò e si piegò in due per il dolore. Non aspettavo altro. Corsi verso
la porta d'ingresso. Dovevo andarmene di lì. Ma al di sopra del rumore dei
suoi lamenti, sentii una voce che mi chiamava.
«Weezie? Eloise?».
Mi bloccai. Era mia madre.
«Mamma?». Tornai di corsa in cucina. Mia madre non veniva mai a casa
mia. Diceva che non sopportava di vedermi abitare in un garage.
Ma adesso era qui. Era in piedi sulla soglia della mia cucina, tenendo tra
le mani una pirofila bianca e azzurra. Tal stava barcollando sul pavimento,
urlando come un cane ustionato, con le mani strette sull'inguine.
«Weezie? Ti ho portato uno dei miei pasticci di tonno e tagliatelle. Cosa
diavolo sta succedendo qui? Cos'ha Tal?».
Aveva un bellissimo aspetto. I suoi capelli erano tinti e freschi di
parrucchiere, aveva il rossetto sulle labbra e un paio di piccoli orecchini di
perla. Il suo sguardo era limpido e vivace. Era la mia mamma di una volta.
Mi mise un dito sotto il mento. Trattenne il fiato. «Mio Dio, bambina, stai
sanguinando. E sotto l'occhio ti sta spuntando un grosso livido».
«È stato Tal. Mi ha picchiata. Dobbiamo andarcene di qui. Lui è
pericoloso, mamma. Ha aiutato Diane Mayhew a uccidere Caroline». La
tirai per un braccio. «Vieni. Chiamiamo la polizia».
Lei si liberò dalla mia stretta. Abbassò lo sguardo su Tal, stringendo gli
occhi. Lui stava cercando di alzarsi.
«Marian», ansimò, aggrappandosi all'anta di un mobiletto per rimettersi
in piedi. «Grazie a Dio sei arrivata. Weezie è fuori di sé. Dobbiamo farla
aiutare. Da uno psicologo».
«Hai picchiato Weezie?». La voce della mamma mi fece correre un
brivido lungo la spina dorsale. Alzai gli occhi e vidi Jethro fermo sulla
soglia. Si stava facendo piccino, intimidito dalla mamma.
«Hai picchiato la mia bambina?».
«Weezie sta mentendo», disse Tal. Respirava affannosamente, ma era in
piedi. «Si è ubriacata con quel suo amichetto ed è caduta. Oppure l'ha
picchiata lui. Ecco perché sono corso qui, l'ho sentita gridare aiuto».
Per un attimo la mamma rimase immobile. Poi, prima che potessi
fermarla, sollevò la pirofila del pasticcio di tonno e tagliatelle e gliela sbatté
sulla testa.
Tal cadde a terra come un sacco di patate.
«Vergognati, Talmadge Evans», disse severamente lei, agitando un dito in
direzione del suo corpo immobile, in quel momento coperto di tonno in
scatola, tagliatelle all'uovo e fettine di patata. «Ti conviene fare in modo che
non ti scopra mai più ad alzare le mani su mia figlia. E non andartene
nemmeno in giro a darle della bugiarda. Altrimenti ti darò una lezione che
non dimenticherai per un bel pezzo, signorino».
Mi voltai verso di lei e la strinsi forte in un abbraccio.
«Mamma», dissi, aspirando il suo profumo di lacca per capelli e Shalimar
e deodorante. «Mi hai salvato. Però hai rovinato il tuo bel pasticcio di
tonno».
Mi permise di abbracciarla esattamente per dieci secondi, poi mi
allontanò delicatamente. «Non preoccuparti per il pasticcio», disse in tono
allegro. «Ne ho altri due in freezer, a casa. Tutta questa sobrietà mi fa
cucinare come se non ci fosse un domani».
62

La mamma piegò la testa da un lato e mi rivolse uno sguardo civettuolo.


«Cos'è questa storia di un amichetto?».
«Lascia perdere», risposi, inginocchiandomi accanto a Tal, che stava
gemendo ma era immobile. «Penso sia meglio chiamare il 911. Credo che
potrebbe avere una commozione cerebrale».
«Sciocchezze», replicò lei, pulendosi le mani su uno strofinaccio per i
piatti. «Quella piccola vecchia pirofila non può avergli fatto poi così male.
È fortunato che non avessi tra le mani la mia padella di ferro battuto quando
ho visto cosa ti aveva fatto».
Era in piedi accanto al lavandino, facendo scorrere l'acqua sopra dei
tovaglioli di carta. «Ma dobbiamo spostarlo subito di lì perché non voglio
che quella roba al tonno impregni il pavimento. Le macchie di unto sono le
peggiori sul legno duro».
Questa era la mia vecchia mamma, che si preoccupava delle macchie di
tonno più che del rischio di aver quasi ucciso l'ex genero.
Insieme riuscimmo a metterlo in piedi e, barcollando, lo trascinammo
fino al divano del salotto.
«Avrà un bel mal di testa che gli impedirà di dimenticarmi», annunciò la
mamma in tono arcigno, guardando dall'alto Tal, abbandonato sul lenzuolo
con il quale lei aveva frettolosamente coperto il divano. «Questo miserabile
pezzo...».
Era un modo di esprimersi davvero volgare per lei. Le lanciai un'occhiata
stupita.
«Non lo perdonerò mai per il modo in cui ti ha trattata», dichiarò,
piegando la testa. Mi prese la mano. «E non perdonerò mai me stessa per
come ti ho trattata io, comportandomi come se il divorzio fosse colpa tua».
Le diedi un veloce bacio sulla guancia, il che per la famiglia Foley era
l'equivalente di una sdolcinata smanceria. La serata si stava trasformando in
un vero e proprio tripudio d'amore.
«È per questo che sono venuta qui stasera», spiegò lei. «Al centro lo
chiamiamo "fare ammenda". Tuo padre e io abbiamo fatto alcune lunghe e
piacevoli chiacchierate». Sospirò. «Che cosa non ha dovuto sopportare quel
poveretto».
«Ti vuole bene», replicai. «E anch'io te ne voglio. E sono così felice che
tu ti stia facendo aiutare, adesso. È l'unica cosa che conta. Il fatto che ti stia
facendo aiutare».
Abbassai lo sguardo su Tal. Sulla fronte gli stava spuntando un
bernoccolo rosso grande come un uovo. «Ho letto da qualche parte che i
colpi alla testa possono essere mortali».
«Se è in grado di dire il suo nome significa che sta bene», dichiarò la
mamma. Gli pungolò il braccio con una lunga unghia laccata di rosa.
«Ehi!», esclamò. «Come ti chiami, amico?».
Tal aprì gli occhi, sollevò una mano e si toccò la fronte con
circospezione. «Cristo, Marian, mi hai fracassato il cranio».
«Meglio ancora, sa come mi chiamo io», disse lei in tono trionfante. «Sta
benissimo».
Ma io non stavo più guardando Tal bensì le mani della mamma. Le sue
unghie, per essere precisi. Non le avevo mai viste con lo smalto, e di certo
non con lunghe unghie artificiali.
«È questo che cos'è?», chiesi, prendendole una mano.
«Non sono carine?», domandò lei, muovendo le dita. «Me le ha fatte
Naomi. Dice che potrei fare la modella per le mani. Ho dei letti ungueali
molto graziosi, lo sapevi?».
«Chi è Naomi?».
«Fa parte del mio gruppo di recupero di donne cristiane del mercoledì
sera. Lavorava come manicure nel salone di bellezza Elizabeth Arden di
Atlanta finché non ha comunicato a fumare così tanto crack che l'hanno
licenziata».
«Sei amica di una drogata?».
«Ex tossicodipendente», mi corresse lei con fermezza. «Naomi è una
persona adorabile. Ed è la prima amica afroamericana che abbia mai avuto.
Non ha voluto nemmeno un penny per questa manicure. E sai, ad Atlanta
chiedono quaranta dollari per una cosa del genere».
«Molto carine», commentai. Fino a poco tempo prima mia madre si
riferiva agli afroamericani con il termine "di colore". Il programma di
disintossicazione a cui partecipava stava ampliando i suoi orizzonti davvero
molto in fretta.
«Cristo», gemette di nuovo Tal. «Volete stare zitte? La testa mi si sta
spaccando in due. Datemi dell'aspirina, per amor di Dio. E anche del
whisky».
«Niente alcol», disse la mamma, arricciando il naso. «Puzzi già di
whisky. Per l'amor del cielo, Talmadge Evans. Sei ubriaco fradicio. Devi
assolutamente rimetterti in riga».
«Senti chi parla», borbottò lui, chiudendo di nuovo gli occhi. «Weezie,
dannazione, dammi qualcosa per la testa».
«Non parlarle in quel modo», gli intimò bruscamente lei. «Non è più tua
moglie, sai».
«Non importa», dissi, «vado a prenderglielo».
La mamma mi seguì in cucina. Presi alcune aspirine dal flacone che
tenevo nel mobiletto accanto alla porta posteriore e raccolsi il cordless, che
funzionava ancora nonostante le incrinature.
«Sono preoccupata per lui», dichiarai. «È indiscutibilmente un figlio di
puttana, ma non voglio che tu e io siamo responsabili di qualche lesione che
potrebbe renderlo invalido».
«D'accordo», disse la mamma, togliendomi di mano il telefono. «Se
questo può farti sentire meglio chiamerò il dottor Dick. Abita a due passi da
qui, su Jones Street. Verrà a dare un'occhiata e, se lui lo ritiene necessario,
porteremo Tal al Memorial».
«Chi è il dottor Dick?».
«È il mio referente del programma di disintossicazione», spiegò la
mamma. «Tutti gli iscritti al programma hanno un referente, un ex paziente
che ha portato a termine con successo il ciclo di cure. Durante il trattamento
definiscono le persone come lui medici inabili. Il dottor Dick dice
semplicemente che aveva una strepitosa assuefazione al Percodan».
«Oh», replicai. «Credi che non gli dispiacerà dare un'occhiata a Tal?».
«Certo che no. Dice che posso chiamarlo a qualsiasi ora del giorno o
della notte. Per qualsiasi cosa mi serva. E questo include le visite a
domicilio».
Mentre lei chiamava il dottor Dick, io portai a Tal un bicchiere d'acqua e
tre aspirine.
«Tieni», dissi, cacciandogli in mano il bicchiere. «Prendi le tue dannate
aspirine».
Lui le inghiottì e mi restituì il bicchiere. «Grazie mille».
«Fottiti», mormorai.
Aprì un occhio, poi l'altro. Probabilmente la visione del livido sulla mia
guancia e del sangue intorno al mio naso lo colse di sorpresa.
«Mi dispiace», sussurrò.
«Fottiti», ripetei io.
«Lo giuro su Dio, Weezie, non ho mai e poi mai avuto l'intenzione di farti
del male. Non ho mai picchiato una donna in vita mia. Lo sai. Non capisco
cosa mi abbia preso».
«Io sì», dissi. «Probabilmente mezzo litro di Johnnie Walker».
«Non ero ubriaco», replicò lui.
«No, eri solo un perfido, folle figlio di puttana», dissi. Mi inginocchiai
sul pavimento accanto a lui.
Si girò a guardarmi, facendo una smorfia per lo sforzo.
«Ascoltami», sussurrai. «Potrei chiamare la polizia e denunciarti per
aggressione aggravata, ma non lo farò. Potrei anche chiamare il detective
che sta indagando sulla morte di Caroline e spiegargli che sapevi che Diane
Mayhew aveva ucciso la tua fidanzata, che quella sera eri a Beaulieu. Come
minimo si tratta di occultamento di prove».
«Non ero là», protestò lui. «Non c'era niente che io potessi fare per
fermare Diane».
«Falla finita», dissi. «Sono stanca di trattare con i poliziotti. Preferirei
trattare con te».
«Cosa vorresti dire?».
«Che ti voglio fuori dalla casa».
«Cosa?». Si sollevò, puntellandosi su un gomito. «Ti ha dato di volta il
cervello».
«No». Avvicinai il viso al suo. «Non mi sento più al sicuro, qui, con te
che vivi nella porta accanto. Mi hai tormentato abbastanza. Ti voglio fuori
di qui».
«Sfortunatamente per te», disse, lasciandosi ricadere all'indietro sul
divano, «la casa è mia».
«Pensaci bene. La mamma ha visto cosa mi hai fatto stasera».
«Non era qui».
«Mentirà. Giurerà che ti ha visto picchiarmi. E che è per questo che ti ha
colpito sulla testa con la pirofila. Per impedirti di farlo di nuovo. E i
poliziotti le crederanno. Ti denuncerò per aggressione aggravata. Per
effrazione e violazione di domicilio. E mi assicurerò che la notizia appaia
sul Morning News».
«Non lo faresti mai», dichiarò Tal.
«Lo farei eccome», replicai. «Il nipote della segretaria di zio James è un
giornalista di cronaca nera. Lei gli telefonerà non appena la chiamo. Entro
domani sarà su tutti i giornali e i notiziari. Il nome degli Evans trascinato
nel fango. Non vedo l'ora. Il figlioletto di mamma Evans un volgare
criminale. Un marito violento».
«Questo è un ricatto».
«Chiamalo come vuoi, ma se non ti vedo caricare le tue cose e traslocare
entro domattina chiamo la polizia. E l'aggressione aggravata sarebbe
l'ultimo dei tuoi problemi».
«Dove dovrei andare?».
«Vai al diavolo», gli consigliai con disinvoltura. «Basta che tu lasci
quella casa. Entro le nove di domattina. Ora vado in cucina. La mamma
vuole scattare qualche foto dei miei lividi».
Quando entrai in cucina la mamma stava rimettendo il cordless nel suo
supporto. Misi il bollitore sul fuoco per preparare il tè. Quello che davvero
desideravo era bere qualcosa di forte, ma non osavo farlo di fronte alla
mamma.
«Preparo del pane tostato», disse lei. «Dove tieni il pane?».
Prese due fette e le infilò nel mio tostapane, uno stravagante modello
cromato degli anni Cinquanta che avevo comprato per venticinque
centesimi in un negozietto di Waters Avenue che vendeva oggetti usati per
beneficenza.
«Guarda questo filo elettrico», disse, indicandolo. «È tutto sfilacciato.
Potresti restare fulminata».
«Funziona perfettamente», replicai. «Fa solo qualche scintilla di tanto in
tanto».
Lei si accigliò ma continuò a occuparsi del pane tostato e del tè.
«Ora raccontami di questo fidanzato», mi chiese quando ci sedemmo a
bere il tè e ad aspettare il medico.
«Ex fidanzato», la corressi cupamente. «Abbiamo rotto stasera».
«Lo conosco?».
«Lo conoscevi. Ricordi il ragazzo con cui uscivo l'estate prima del mio
ultimo anno al liceo? Danny Stipanek?».
Bevve un sorso di tè e strinse gli occhi. «Stipanek. Era il ragazzo con la
marmitta rumorosa?».
«Esatto. Alla fine di quell'estate entrò nei Marines ed è tornato a vivere
qui in città solo l'anno scorso. Fa lo chef nel ristorante di BeBe».
«Conosco i suoi?», chiese la mamma, accigliata.
«No», risposi, temendo la conversazione che sarebbe inevitabilmente
seguita.
«Stipanek», disse lei, riflettendo. «Quale chiesa frequentavano?».
«Non ne ho idea». Mi diedi da fare a sciacquare le tazze.
«Sua madre era una donna minuta e con i capelli scuri? Occhi azzurri?
Scarpe a punta con i tacchi alti e una borsetta sempre coordinata?».
«Non lo so», risposi, pulendo una macchia inesistente sul piano di lavoro.
«Non parlava molto della sua famiglia. Comunque, tra noi è finita, quindi
non ha nessuna importanza chi siano i suoi, vero?».
«Nessuna importanza?». La mamma sembrava scioccata. «Certo che ne
ha».
Il campanello suonò proprio in quel momento e io balzai in piedi,
cogliendo al volo la scusa per sottrarmi al suo interrogatorio.
L'uomo alla porta era alto e con una calvizie incipiente. Aveva occhiali
alla moda dalla montatura metallica e un pizzetto a punta.
«Sei Eloise?», chiese.
«Il dottor Dick?».
Lui sorrise. «Quella Marian. Sono Dick Sorensen. Mi sembra di capire
che ci sia stato un piccolo incidente. Qualcuno con una botta alla testa?».
«Dick!», trillò la voce della mamma. Mi feci da parte e lei lo strinse in un
abbraccio. «Sei stato davvero un tesoro a venire. Entra a dare un'occhiata a
Talmadge, vuoi?».
Lo accompagnò fino al divano. «Questo è Talmadge», annunciò. «Ha
battuto la testa mentre saliva quelle scale, vero, Tal?».
«Come dici tu», rispose lui.
Dick Sorensen estrasse una piccola torcia dal taschino della camicia e si
accovacciò accanto al divano.
«Se la sente di mettersi seduto?», gli chiese.
«Ho l'impressione che la mia testa stia per spaccarsi in due», gemette Tal.
«Mettiti seduto e comportati da adulto», gli ordinò seccamente la
mamma.
Tal ubbidì, facendomi pensare che lei fosse finalmente riuscita a
spaventarlo.
Il medico gli puntò la piccola torcia in entrambi gli occhi, agitò le mani
di qua e di là, gli chiese se vedesse delle macchie, lo fece contare da uno a
dieci e da dieci a uno e tastò delicatamente l'impressionante bernoccolo
sulla sua testa.
«Ora può rimettersi sdraiato», disse dopo un paio di minuti.
Ci indicò di seguirlo fino alla porta d'ingresso.
«Credo che si rimetterà», spiegò in tono sommesso. «Forse ha una
leggera commozione cerebrale. Ecco cosa voglio che facciate. Restate con
lui, stanotte. Lasciatelo sonnecchiare, se vuole, ma svegliatelo ogni due ore
circa per fargli le stesse domande che gli ho fatto io, per farlo contare,
chiedergli come si chiama, quel genere di cose. Se sembra disorientato o
accusa più dolore di quanto ne abbia adesso, io chiamerei il suo medico».
«Restare con lui?», chiesi in tono scioccato. «Non può andare a casa?».
«Non proprio», rispose il dottor Sorensen. «Dev'essere tenuto sotto
controllo. E sarebbe meglio non spostarlo, stanotte. È un problema?».
«No», si affrettò a dire la mamma. «Penseremo noi a tutto». Lo spinse
delicatamente verso l'uscita. «Ci vediamo alla riunione di domani»,
aggiunse, chiudendogli quasi la porta in faccia.
«E adesso?», domandai, quando restammo sole. «Non voglio Tal qui.
Non voglio dormire sotto lo stesso tetto con lui. Avremmo dovuto portarlo
al pronto soccorso».
«Non preoccuparti di questo», replicò lei in tono tranquillizzante.
«Chiamerò tuo padre. Può venire a passare la notte qui e tenerlo d'occhio».
«Per tutta la notte?», protestai. «Non voglio che lo faccia. Tal non gli è
mai stato simpatico».
«Non gli dispiacerà», disse la mamma. «Non dorme molto bene
comunque. Vai solo su a prendergli una trapunta e un cuscino e io penserò a
tutto il resto».
63

Quando scesi al pianterreno, il mattino dopo, Tal era scomparso. Papà era
seduto al tavolo di cucina, circondato da vari utensili e pennelli, oltre al mio
tostapane cromato, all'aspirapolvere, al videoregistratore e a un vecchio
orologio da cucina rotto che avevo appeso al muro a scopo puramente
decorativo.
Aveva tolto la parte posteriore dell'orologio e lo stava osservando
accigliato al di sopra delle sue lenti bifocali.
Notai che la sua camicia era stata stirata di recente. I pantaloni avevano
una piega perfetta e i capelli erano stati spuntati. Portava persino degli
occhiali nuovi – perlomeno secondo i suoi standard, quindi risalenti agli
anni Ottanta. La mamma stava meglio.
«Ciao, tesoro», disse in tono distratto. «Il caffè è pronto». Indicò con un
cenno della testa i fornelli, dove borbottava la vecchia caffettiera di mia
nonna.
«Cosa sta succedendo qui?», chiesi, indicando tutti gli elettrodomestici.
«E dov'è Tal?».
«Andato», rispose papà. «Ha detto che aveva dei bagagli da fare».
Sbirciai fuori dalla finestra della cucina. La porta posteriore della casa era
aperta, e vidi il mio ex marito uscire lentamente con una valigia in ogni
mano.
«Ti è sembrato che stesse bene? Lo hai svegliato per controllare?».
«Sapeva il suo nome e riusciva a contare», rispose papà in tono cupo. «E
ha dato l'impressione di capire cosa gli avrei fatto se lo avessi sorpreso ad
alzare di nuovo anche un solo dito su mia figlia».
«Bene», dissi, dandogli un bacio sulla testa e sollevando una sveglia
cromata che ticchettava allegramente. «Stanotte ho finalmente dormito,
sapendo che tu eri al piano di sotto a fare la guardia. Hai passato così tutta
la notte?».
«In parte», rispose, posando un cacciavite. «La ricezione del tuo
televisore non era granché, così mi sono gingillato un po' con quello. Poi,
quando è finito il film di John Wayne, mi sono ricordato che tua madre
voleva che dessi un'occhiata al filo del tuo tostapane. Ho fatto un breve
sonnellino, poi mi sono limitato a gingillarmi con questo e con quello».
«La mamma ha ragione», dissi, versando due tazze di caffè. «Sei un
santo».
Arrossì leggermente e tossicchiò per nascondere la sua gioia.
«Quell'aspirapolvere dovrebbe funzionare un po' meglio, adesso. L'ho oliato
e pulito per bene».
Bevetti un sorso di caffè. «Perché non riesco a trovare un uomo come il
buon vecchio papà?».
«Sciocchezze», disse. Fece un cenno in direzione della finestra. «Hai
detto a Tal che doveva traslocare?».
«Ho suggerito che forse avrebbe preferito farlo».
«Altrimenti?».
«Non vuoi davvero saperlo?».
«Mettimi alla prova».
«Gli ho detto che la mamma avrebbe detto sotto giuramento ai poliziotti
di averlo visto picchiarmi. E che lo avrei fatto arrestare per aggressione
aggravata».
«Avresti dovuto farlo comunque», commentò papà.
«Lo avrebbero rilasciato su cauzione. E non appena si fosse ubriacato di
nuovo sarebbe tornato a bussare alla mia porta. Lo voglio lontano da qui per
sempre. Non riuscirò a dormire tranquilla fino a quando non saprò che non
sta più guardando dentro dalle mie finestre».
«Come farai a costringerlo a restare lontano da qui?», chiese papà.
«Questa è casa sua. Weezie, non dovresti prendere in considerazione
l'ipotesi di trasferirti altrove? Potresti tornare a casa per un po'. La mamma
e io non ti daremmo fastidio. E puoi stare sicura che non lo farà nemmeno
Tal».
Rabbrividii, sia al pensiero di tornare a casa che al pensiero di Tal.
«No», dissi alla fine. «Non ho intenzione di fuggire. Ma grazie lo stesso.
Sei stato davvero un tesoro a passare la notte qui per proteggermi. E a
riparare tutto quello che c'è in casa».
Lui sorrise. «Come va il tuo pick–up?».
«Bene», risposi. «Ho comprato dei nuovi pneumatici come mi hai
consigliato. Adesso è il mio turno di fare qualcosa per te. Cosa ne dici di
uova strapazzate e farinata di granturco?».
64

James si sistemò il colletto. Si raddrizzò la cravatta, tossì per schiarirsi la


voce. Alla fine, quando non poté rimandare più a lungo, chiamò Janet nel
suo ufficio.
«Sono arrivati?».
«Dieci minuti fa. Togliti il pensiero, James. Hai altri appuntamenti
stamattina, compreso quello con Tal Evans. Se non li incontri subito,
riceverai in ritardo tutti i clienti».
«D'accordo», rispose lui, sospirando. «Ora o mai più. Accompagnali
qui».
Congiunse le mani e le posò davanti a sé sulla scrivania, poi gettò la testa
all'indietro e osservò le particelle di polvere che fluttuavano nell'aria. Le
preferiva alle formazioni di nuvole, che per lui non somigliavano mai a
granché. Forse era quello il suo problema. Era sempre stato un pensatore
troppo concreto. Le cose astratte erano sprecate con lui. Il pulviscolo,
invece, aveva qualcosa da mostrargli. Oggi stava vorticando come il sole in
uno dei paesaggi di Vincent Van Gogh. Probabilmente era un buon presagio,
decise.
«Ah–ehm».
Raddrizzò la testa di scatto e guardò suo fratello Joe e sua cognata
Marian in piedi davanti alla scrivania con aria di attesa.
«Ciao!», disse, un po' troppo allegramente.
Si alzò, strinse la mano di Joe e diede a Marian un abbozzo di abbraccio.
Si sedettero entrambi sulle sedie che Janet portò nella stanza, rifiutando la
sua offerta di un caffè.
«Stai bene?», chiese di colpo Marian, una volta che Janet ebbe lasciato la
stanza. «James, non sei malato, vero? Niente di incurabile?».
«Oddio, no», rispose in fretta lui. «È questo che avete pensato? Che io
stessi per morire?».
«L'ipotesi ci è passata per la mente», rispose Joe. «Sai, ci hai fatti venire
qui nel tuo ufficio e tutto il resto. Come se fosse una cosa ufficiale».
«No, non si tratta affatto di questo. Mi spiace se vi ho spaventato. Solo
che ultimamente sono stato così indaffarato, e con tutto ciò che è successo,
con Weezie e il resto... ci sono alcune cose che volevo discutere con voi».
«Weezie non ha problemi legali, vero?», domandò Joe, con una smorfia
preoccupata. «Ci ha detto che era tutto sistemato. Hanno incriminato per
omicidio quella tale Mayhew, così abbiamo letto sui giornali».
«Non si tratta di Weezie», replicò James. «Sta benissimo. Nessun
problema, su quel versante. In realtà, credo che lei e Tal vogliano
rinegoziare l'accordo di divorzio».
«Perché?», chiese Marian.
«Tal vuole venderle la villa», spiegò James, sorridendo suo malgrado.
«Ha avuto... ehm, qualche rovescio di fortuna, ultimamente».
«Cosa vorrebbe dire?», domandò Joe, brusco. «Quel figlio di puttana è al
verde?».
«Non proprio», disse James, «ma lo stato ha emesso un'ordinanza che
blocca i lavori per la cartiera a Beaulieu. Per problemi ambientali. Si stanno
intentando cause legali e controcause. La Coastal Paper Products intende
citare lo studio di Tal, con l'accusa di illeciti nella gestione del progetto. Nel
frattempo, la pubblicità negativa ha danneggiato la società di Tal. Non
riceve lavoro. E, visto che al momento lui non abita nella casa, ha deciso
che rappresenta una spesa che può benissimo tagliare. Mi ha telefonato ieri
per proporre a Weezie di comprarla».
«Scommetto che cercherà di spillarle parecchi quattrini, per di più»,
commentò Joe.
«Non necessariamente», ribatté James, sorridendo di nuovo. «Credo che
abbia avuto un tardivo attacco di senso di colpa. Considerando il valore di
mercato della casa, il prezzo che ha proposto è estremamente ragionevole.
Addirittura conveniente».
«Lei può permettersi di comprarla?», chiese Marian, con la stessa
espressione preoccupata del marito. «Con quello che guadagna vendendo
ciarpame?».
«Fossi in voi non mi preoccuperei di Weezie», dichiarò James. «È
un'ottima donna d'affari. Ora, tornando al motivo per cui vi ho chiesto di
venire qui...».
Fece un bel respiro. Recitò mentalmente una breve preghiera.
«Sono gay», disse.
«Lo sappiamo», ribatté Marian.
Joe si agitò sulla sedia. Si guardò le scarpe, perfettamente lucide, e si
sistemò l'orlo dei calzini. Raddrizzò la piega dei pantaloni color kaki che
Marian aveva stirato di buon'ora quella mattina.
James abbassò lo sguardo sui propri calzini. Non avevano bisogno di
essere tirati su, così riportò lo sguardo sul fratello e sulla cognata, che lo
stavano fissando con una vaga curiosità.
«Lo sapete. Da quanto tempo?».
«Da sempre», rispose Joe. «Sin da quando eri bambino. Non sapevo
come definirlo, ma mi accorgevo che non eri esattamente come tutti gli altri
membri della famiglia».
«Sapevate che ero omosessuale?». James non riusciva a credere alla
facilità con cui la parola gli era uscita di bocca. Fino a quel momento non
l'aveva mai usata riferendosi a se stesso. «Ma come? Non lo sapevo
nemmeno io. L'ho scoperto solo da poco».
Joe si strinse nelle spalle. «Era solo una sensazione». Lanciò un'occhiata
alla moglie. «Non ne ho mai parlato con nessuno. Neanche con te, Marian.
Pensavo semplicemente che non riguardasse nessuno tranne te, James».
Marian diede un colpetto rassicurante sulla mano del marito. «Sai com'è
fatto, James».
Lui si accorse di essere rimasto a bocca aperta. «E tu, Marian? Lo
sapevi?».
«No», ammise la donna. «Non fino a quel giorno nel ristorante in cui mi
ha portato Weezie. Ti ho visto con quell'uomo e a un certo punto, credo, ho
capito che lui era il tuo... ehm, amico». Arrossì. «Anche se ero piuttosto
ubriaca, in qualche modo ho capito tutto. E non appena l'ho capito mi sono
anche resa conto che ero l'ultima a venirne a conoscenza». Si costrinse a
fare un sorrisino. «È questo che fa l'alcol, ti impedisce di vedere le cose».
«Oh».
James allontanò un poco la sedia dalla scrivania per poter osservare
meglio i suoi familiari. Sembravano tranquilli. Niente attacchi isterici,
niente accuse. Non era quello che si era aspettato.
«Cosa ti ha spinto a decidere di dircelo?», domandò Marian. «Sempre se
non ti dispiace che te lo chieda».
«Diverse cose», rispose lui. «Siete la mia famiglia. Non voglio avere un
segreto del genere con voi. Non è una cosa di cui mi vergogni, sapete».
Joe annuì.
«E un'altra cosa», si affrettò ad aggiungere James. «Phipps Mayhew, il
marito della donna che ha ucciso Caroline DeSantos, se ne sta andando in
giro per la città spargendo voci su di me. Per vendicarsi. Perché io ho
scoperto i suoi accordi disonesti riguardanti Beaulieu. Ha raccontato
all'arcivescovo che sono gay perché pensa che questo mi danneggerà dal
punto di vista economico».
«Ed è vero?», chiese suo fratello.
«Non lo so ancora. Se succede, pazienza. C'è parecchio lavoro legale in
questa città. Possiedo la casa in cui vivo, la mia auto è pagata. Il denaro non
mi preoccupa».
«Bene», commentò Marian. «Ascolta, James. Una delle donne nel mio
gruppo di donne cristiane... le ho raccontato che sei avvocato. Vuole fare
testamento. Le ho detto di chiamarti».
«Grazie», disse lui, commosso per il gesto.
«Si chiama Naomi», spiegò orgogliosamente Marian. «Era drogata.
Crack».
Visto che era il momento delle grandi rivelazioni, James decise di andare
fino in fondo. Di svelare tutto. «Il mio amico», disse con improvvisa
spavalderia, «si chiama Jonathan. Fa l'avvocato. Lavora nell'ufficio del
procuratore distrettuale».
«Un avvocato. Che bello!», disse Marian, sorridendo radiosamente. «Chi
sono i suoi genitori?».
65

Il viso di Merijoy Rucker era arrossato dall'eccitazione.


«Weezie, tesoro», disse, saltellando sui gradini di casa mia. «So che è
terribile da parte mia arrivare a quest'ora del mattino senza prima avvisarti
per telefono, ma dovevo semplicemente correre qui per farti vedere una
cosa».
Avevo una salvietta avvolta intorno ai capelli bagnati e un'altra intorno al
corpo ancora umido. Erano appena le otto.
«Entra», le dissi.
«È fuori sul retro della mia macchina», disse lei, sorridendo. «Sbrigati a
vestirti. Se non lo mostro a qualcuno rischio di scoppiare».
«Dammi un minuto», risposi, salendo al piano di sopra.
Infilai un paio di jeans e una maglietta, senza preoccuparmi di mettere il
reggiseno.
Quando tornai al pianterreno, Merijoy mi prese la mano e mi trascinò
quasi a forza fino alla sua auto parcheggiata nel vicoletto.
Spalancò i portelloni del fuoristrada. All'interno, avvolto in una trapunta
di un azzurro stinto, intravidi brillare un oggetto in legno scuro.
«Che cos'è?», chiesi, tirando il bordo della trapunta per vedere meglio.
«Un antico tavolino da gioco stile Impero», rispose lei, tirando via la
trapunta. «E viene direttamente da Beaulieu. Non ti fa semplicemente
impazzire?».
Senza trapunta, potevo finalmente vedere il nuovo tesoro di Merijoy: un
tavolino quadrato di legno di ciliegio, con intarsi d'ebano ed eleganti gambe
affusolate. Ma non era la prima volta che lo vedevo. Il suo gemello si
trovava in quel negozietto d'antiquariato di Bluffton.
Trattenni il fiato.
«Cosa c'è?», chiese Merijoy, mentre il suo sorriso svaniva. «Ha qualcosa
che non va?».
«No», mi affrettai a rispondere. «Tiriamolo fuori così posso esaminarlo
meglio».
Estraemmo il tavolino dal veicolo.
«Dove l'hai comprato?», domandai.
Lei sorrise, mettendo in mostra una fossetta. «Veramente non dovrei
dirlo».
«Neanche a me?», chiesi, fingendo di fare il broncio. «Pensavo fossimo
amiche».
«Lo so», disse lei, cingendomi le spalle con un braccio e dandomi una
stretta affettuosa. «Comunque sono una vera frana nel mantenere i segreti.
Promettimi soltanto di non dirlo a Randy Rucker. Se scopre quanto ho speso
per questo vecchio tavolino avrà sicuramente un attacco isterico».
«Dove l'hai comprato?», ripetei. «A Bluffton? In un negozio che si
chiama La Juntique?».
«No», rispose, con aria perplessa. «Bluffton? Perché hai pensato a
Bluffton?». Si guardò intorno per controllare che non ci fossero spie. «L'ho
comprato da Lewis Hargreaves», sussurrò. «Non lo trovi semplicemente
strepitoso?».

Ci vollero un'intera cuccuma di caffè e mezza confezione di pasticcini


per tirarle fuori l'intera storia.
«Sai che mi sto dando da fare per raccogliere fondi con cui ricomprare
Beaulieu dalla Coastal Paper Products?», chiese Merijoy, bevendo un sorso
di caffè.
Annuii. Avevo letto sui giornali degli sforzi della società storica per far
dichiarare Beaulieu sito di interesse storico. Ero stata persino invitata a un
galà per raccogliere fondi presieduto da Merijoy e organizzato alla Telfair
Academy. Ma cinquecento dollari a persona erano un prezzo d'ingresso
leggermente troppo alto per me. Inoltre, non avevo un accompagnatore. A
dire il vero, ora che Daniel era uscito dalla mia vita, avevo a malapena una
vita. Mangiare. Dormire. Ciarpame. Pensieri ossessivi. L'unico sviluppo
positivo, ultimamente, era che Tal sembrava essere scomparso dalla faccia
della terra. La casa era vuota, e io dormivo molto meglio. Però da sola.
«Lewis Hargreaves ha versato mille dollari per la mia campagna di
raccolta fondi», continuò Merijoy, eccitata. «Così, naturalmente, l'ho
chiamato per ringraziarlo. Ed è stato a quel punto che ha detto di avere un
pezzo che forse avrei voluto comprare. Per quando trasformeremo Beaulieu
in una casa–museo».
«Il tavolino?», chiesi.
«Mi ha spiegato di aver comprato alcuni pezzi pregevoli, alla vendita. E
mi sono ricordata della credenza che desideravi tanto».
Sentii il mio battito cardiaco che accelerava. «Quella di Moses Weed? Ti
ha proposto di comprarla?».
«No», rispose lei. «Quando gli ho chiesto notizie in proposito si è
comportato come se non sapesse di cosa stessi parlando. L'ho trovato strano
perché, il giorno della cerimonia funebre della signorina Ann Ruby, lo
abbiamo visto tutte e due girare intorno alla credenza e annusarla come un
cane in calore».
«Molto strano», commentai seccamente.
«Comunque, dopo aver esitato e temporeggiato un po' ha detto che aveva
un cliente pronto a comprare tutti i pezzi ma che detestava l'idea di vederli
uscire da Savannah. Perché erano stati costruiti qui».
«Davvero nobile da parte sua. Lewis sì che si preoccupa della tutela dei
beni artistici», dissi.
«Praticamente ho dovuto implorarlo, per poter vedere questo tavolino»,
continuò Merijoy. «Ma ieri sera tardi mi ha telefonato, con fare molto
misterioso. Ha detto che se fossi passata dal suo negozio stamattina di
buon'ora avrei potuto fargli un'offerta per averlo. Hai mai sentito niente del
genere?».
«Mai».
«Me ne sono innamorata non appena l'ho visto», ammise Merijoy. «Ora
dimmi la verità, Weezie, pensi che quindicimila dollari siano un prezzo
eccessivo?».
Per poco non sputai il caffè che stavo bevendo.
«Hai pagato il tavolino quindicimila dollari?».
Lei fece una smorfia delusa. «È troppo? Ho pensato che, visto che
intendo donarlo alla casa–museo, avrei potuto dedurli dalle tasse. E Lewis
ha detto che è stato costruito nella tenuta, prima della guerra civile. E aveva
un altro compratore pronto a subentrare, ha detto. Un tale di Charleston. Ho
semplicemente chiuso gli occhi e firmato l'assegno. Ho preso i soldi dal mio
piccolo conto per gli investimenti. Randy mi ucciderà, quando lo scopre».
La mia mente stava lavorando freneticamente. Hargreaves le aveva
davvero venduto il pezzo che avevo visto a Bluffton? Oppure le aveva
rifilato una delle sue copie magistralmente realizzate?
«È un mobile davvero bello», dissi alla fine. «E sarebbe magnifico
riportare a Beaulieu pezzi appartenuti alla famiglia, una volta che riuscirete
a comprarla».
«È proprio quello che ho pensato anch'io», ribatté Merijoy, tutta felice.
«C'è un problema, però», aggiunsi, esitando. «Gran parte del valore di
quel tavolino è rappresentato dalla sua provenienza. Devi poter dimostrare
che arriva da Beaulieu, altrimenti è solo l'ennesimo grazioso mobile
ottocentesco».
«Non preoccuparti di questo. Lewis mi ha detto tutto sulla sua
provenienza. Mi ha fatto giurare di mantenere il segreto, ma alla fine ha
ammesso che quell'orribile Phipps Mayhew gli ha lasciato scegliere qualche
pezzo da Beaulieu, prima della vendita. Mi ha dato una copia dell'atto di
vendita e tutto il resto».
«Bene», replicai in tono pensieroso. «Tieni ben stretto quel pezzo di
carta, Merijoy. E se fossi in te non direi a nessuno, per il momento, dove hai
comprato quel tavolino. Almeno finché la società non avrà raccolto fondi
sufficienti per comprare la villa».
«Ottima idea», disse lei, con un sorriso radioso. «Sapevo che avresti
adorato quel tavolino tanto quanto lo adoro io. E nessun altro, qui a
Savannah, è in grado di apprezzarlo quanto noi».
«Hai assolutamente ragione».
Mezz'ora più tardi stavo guidando verso Bluffton. Erano gli ultimi giorni
di settembre, ancora estate per Savannah, ma qua e là vidi che l'erba della
palude stava cominciando ad assumere una colorazione rame e oro, e la
consueta cappa di umidità si era leggermente attenuata. Lasciai abbassati i
finestrini del pick–up e Jethro sporse la testa per godersi la sensazione
dell'aria fresca sul pelo.
Sulla porta de La Juntique era appeso un cartello con la scritta "Chiuso".
Erano solo le dieci del mattino ma c'era un furgone parcheggiato nel cortile
dietro il negozio e dalla vetrina vidi che all'interno c'era una luce accesa.
Mi morsicai il labbro ma bussai.
«Ehi, c'è qualcuno?», gridai.
Un'altra luce si accese sul davanti del negozio e una donna di mezza età
si avvicinò rapidamente alla porta. Indossava jeans macchiati di vernice,
una camicia da lavoro blu e aveva un'aria seccata.
«Siamo chiusi», disse a voce alta. «Torni a mezzogiorno».
«La prego», replicai, con un bel sorriso. «Il mese scorso ho visto un
mobile nel suo negozio e sto morendo dalla voglia di scoprire se lo ha
ancora. Ho guidato fin qui da Savannah per saperlo».
Lei scosse la testa ma aprì la porta. «Quale pezzo le interessava?».
«Era un tavolino da gioco in stile Impero. Ciliegio. Con intarsi di ebano».
Sentii la sua mano serrarmi il braccio con forza.
«Era lei la donna che tormentava mia nipote riguardo a quel tavolino?».
La sua bocca si ridusse a una linea arcigna.
«Ho chiesto a sua nipote di telefonarle per dirle che ero interessata. Ho
lasciato il mio biglietto da visita, ma lei non mi ha mai chiamato. E adesso
sono più interessata che mai a quel tavolino».
La donna si mise le mani sui fianchi. «Perché? Cos'ha di tanto speciale?».
«Ne ho visto uno identico proprio stamattina. A Savannah. Un'amica mi
ha detto di averlo pagato una grossa cifra, nel negozio di un antiquario. Ha
persino ottenuto l'atto di vendita originale».
«No, impossibile», dichiarò lei in tono piatto. «L'ho venduto a una coppia
californiana. È stato spedito il giorno dopo che lei l'ha visto».
Incrociai le dita delle mani e dei piedi. «Se non era lo stesso tavolino, era
un'ottima imitazione. Ma chi l'ha venduto ha dato alla mia amica una copia
dell'atto di vendita originale, attestante che il pezzo proveniva da un'antica
villa coloniale di Savannah. Beaulieu».
Le sue labbra si contrassero. «Cosa sta cercando di dire? Il tavolino che
ho comprato io veniva da Beaulieu. Anch'io ho una copia dell'atto di vendita
originale».
«Lei si chiama Liz. Liz Fuller, vero?».
«Esatto. E lei chi è?».
«Sono una rigattiera. Mi chiamo Eloise Foley, ma tutti mi chiamano
Weezie. Diamoci del tu, d'accordo? Ti dirò cosa penso che stia succedendo,
Liz. Credo che qualcuno stia realizzando delle copie e le stia vendendo
come se fossero originali. E credo che il nome di questo qualcuno sia Lewis
Hargreaves. È stato lui a venderti il tavolino, vero?».
Lei sospirò e si passò le mani tra i capelli. Erano corti, scuri, costellati da
macchioline di vernice uguali a quelle sui jeans.
«Guardati intorno», disse, indicando i corridoietti ingombri di ninnoli,
cristalleria e porcellane. «Il mio è un negozio da rigattiere travestito da
bottega antiquaria. Vendo oggetti in vetro degli anni Venti e Trenta,
ceramiche Fiesta, peluche fuori produzione. Niente di grande valore. Ho
dato cinquemila dollari a quel tizio, per il tavolo. È il pezzo più costoso che
abbia mai trattato, un affare che ti capita una sola volta nella vita». Scosse il
capo. «Avrei dovuto avere più buonsenso. Probabilmente mi sono lasciata
trascinare dall'avidità. Quella coppia si è fermata qui il giorno stesso in cui
ho sistemato il tavolino in negozio. I Follachio. L'hanno pagato novemila
dollari, senza battere ciglio».
«Hargreaves ti ha fornito tutte le informazioni sulla provenienza?».
«Oh, sì», rispose con amarezza lei. «Non lo avevo mai incontrato ma lo
conoscevo di fama. Un antiquario di alto livello. Lui ha gettato l'esca e io
ho abboccato. Alla grande».
«Se non lo conoscevi, come ha fatto Lewis a offrirtelo?».
«Non è stato lui. Una sera, sul tardi, ero qui a lavorare, rifinendo una
specchiera di quercia. Una ragazza è entrata, cercando la proprietaria. Poi
ha chiesto se compravo pezzi d'antiquariato provenienti da vecchie tenute.
Ha spiegato di avere sul furgone che aveva lasciato nel parcheggio alcuni
pezzi che arrivavano da un'antica villa coloniale a Savannah. Ho dato
un'occhiata e notato subito il tavolino. Ho capito immediatamente che era
speciale».
«L'hai comprato dalla ragazza?».
«Non subito», rispose Liz. «Era stranamente evasiva. Alla fine le ho detto
che avrei potuto venderlo a un prezzo nettamente più alto se avessi saputo
qualcosa della sua storia. Le ho dato il mio biglietto da visita e le ho chiesto
di tornare quando avesse avuto qualche documento scritto».
«Ed è tornata?».
«È venuto Hargreaves. Il giorno dopo. Mi ha mostrato l'atto di vendita
che attestava la provenienza da Beaulieu e una fotografia del tavolino
sistemato in soggiorno insieme a un sacco di altri mobili d'epoca. Disse che
cinquemila dollari era il prezzo minimo e che, se non l'avessi comprato per
quella cifra, aveva una fila di altri commercianti che non aspettavano altro».
«Così tu hai abboccato».
«Tu non l'avresti fatto?».
«Certo», risposi, «senza pensarci nemmeno un secondo. Hai per caso il
numero di telefono o l'indirizzo della coppia californiana, quella a cui l'hai
venduto?».
«Nel retro. Ma preferirei chiamarli da sola».
Mi sedetti in una poltroncina polverosa mentre lei faceva la sua
telefonata.
Quando finì, Liz Fuller sporse la testa dalla soglia del suo ufficio. «Non
hanno venduto il pezzo. Lo adorano».
«Uno di quei tavolini è una copia estremamente costosa», sottolineai.
«Dio». Lei gemette. «Mi sarei dovuta limitare agli oggetti di vetro di
inizio secolo».
«Se io fossi stata imbrogliata in quel modo», dissi lentamente, «sarei
arrabbiata. Molto arrabbiata».
Lei sollevò il mento. «Cosa mi stai suggerendo?».
«Quanto sei arrabbiata?».
Liz si morsicò il labbro inferiore. «Parecchio. Non mi piace essere
truffata. E detesto l'idea di poter avere involontariamente truffato qualcun
altro».
Annuii. «Saresti disposta a parlare della tua transazione con Hargreaves a
qualcuno dell'ufficio del procuratore distrettuale?».
«Non sono particolarmente ansiosa di pestare i piedi a una persona come
Lewis Hargreaves».
«Sarà una gran seccatura», concordai.
«Chi hai detto che ha comprato l'altro tavolino?».
«Una signora di Savannah molto nota nei circoli mondani. Hargreaves
sapeva che sarebbe stata interessata al tavolino perché lei sta cercando di
raccogliere fondi per ricomprare Beaulieu e trasformarla in museo. La mia
amica l'ha pagato quindicimila dollari».
«Figlio di puttana», mormorò Liz. «Immagino che abbia pensato di tirare
il bidone a un paio di dame ottuse».
«Cosa ne dici, Liz? Ti va di rompere un po' le scatole a Lewis
Hargreaves?».
Lei raddrizzò le spalle e si alzò. «Perché no? Cos'ho da perdere? Questo
stabile mi appartiene e mio marito ha un fantastico piano pensionistico.
Inoltre, non me ne frega un accidente di cosa pensa Lewis Hargreaves.
Nessuno fa il furbo con Liz Fuller».
66

«Assolutamente no», dichiarò Merijoy, spostando lo sguardo da Liz


Fuller a me.
«Ti prego, Merijoy», dissi, spingendo verso di lei la foto del "tavolino di
Beaulieu" di Liz. «Se non vai all'ufficio del procuratore distrettuale a
denunciare Lewis Hargreaves, lui continuerà a vendere falsi pezzi
d'antiquariato. È questo che vuoi?».
«Voglio il mio tavolino in stile Impero nel salottino di Beaulieu», ribatté
lei. «Se si sparge la voce che sono stata così stupida da lasciarmi
imbrogliare da Lewis, nessuno mi darà più un centesimo per il mio progetto
del museo. Diventerò lo zimbello di Savannah. E Randy non mi permetterà
mai di dimenticarlo».
Eravamo sedute nella veranda della sua casa di Ardsley Park,
sorseggiando tè freddo e sbocconcellando salatini al formaggio. La sua
governante stava tenendo a bada la maggior parte dei bambini, anche se
Merijoy aveva un neonato che poppava allegramente sotto la maglietta del
suo completo da tennis.
«Nessuno penserà che tu sia stupida», protestai. «Hargreaves è davvero
bravo in quello che fa. Non sei l'unica che lui abbia truffato. Impossibile
dire quanti falsi abbia realizzato o da quanto tempo lo stia facendo».
«Io lavoro nel settore eppure mi sono lasciata abbindolare», dichiarò Liz
in tono solidale. «Ma non mi importa cosa pensa la gente. Questo tizio deve
essere fermato».
Merijoy accarezzò la testa del bimbo. «Non da me. Mi dispiace davvero,
ma non posso farlo. È troppo imbarazzante. Inoltre manderebbe a monte il
progetto per Beaulieu. Non posso impedirti di andare alla polizia, Liz, ma
non mi lascerò coinvolgere in tutto questo».
«E se non ci rivolgessimo alla polizia?», chiesi. «E se restasse tutto tra te,
Liz e Hargreaves? E me, naturalmente, visto che sono stata io a capire cosa
stava combinando».
«A cosa servirebbe?», domandò Liz. «Senza offesa, Weezie, ma cosa ti fa
credere che Hargreaves ti ascolterebbe? Tu non sei la legge».
«Sa che opero nel settore», spiegai. «E se tutte e tre lo affrontassimo
dicendogli cosa sappiamo, forse la cosa avrebbe un certo peso».
«E con ciò?», chiese Merijoy in tono scettico.
«Nella migliore delle ipotesi lo costringeremo a restituirvi i vostri soldi e
a confessare se uno dei vostri tavolini è l'originale. E forse, in un modo o
nell'altro, scoprirò qualcosa sulla credenza di Moses Weed».
«E nella peggiore delle ipotesi?».
«Si sbellicherà dalle risate e mentirà spudoratamente», risposi. «In ogni
caso, sarà sempre meglio di niente. Cosa ne dite?».
«Ci sto», dichiarò Liz.
«Giuri che Randy non ne saprà mai niente?», chiese Merijoy.
«Non da me», promisi.
Stabilimmo di incontrarci all'L. Hargreaves alle quattro. Merijoy chiamò
Hargreaves per fissare un appuntamento, dicendogli che voleva vedere altri
pezzi usciti da Beaulieu.
«Non avrebbe potuto essere più gentile», raccontò dopo aver riattaccato.
«Ha persino detto di avere un quadro che potrebbe interessarmi. Un ritratto
del prozio di Ann Ruby».
«Certo», disse Liz. «Un antenato Mullinax. Molto comodo, visto che non
ci sono membri della famiglia ancora in vita che possano dire se è autentico
o meno».
«Potrebbe anche esserlo», sottolineai.
«Oppure potrebbe trattarsi di un'altra dannata copia», ribatté Merijoy.
«Devo ammettere, Weezie, che tutto questo comincia a irritarmi. Non vedo
l'ora di sentire cos'ha da dire Lewis quando gli spieghiamo cosa abbiamo
scoperto».
«Ora sì che cominci a ragionare», le dissi.
Liz e io arrivammo all'L. Hargreaves cinque minuti prima di Merijoy.
Restammo sedute sul mio pick–up e fissammo la vetrina. Hargreaves
l'aveva allestita in tema autunnale, con un tavolo rustico dalla vernice
originale color zucca, sei sedie con lo schienale di assicelle e una credenza
con intarsi di latta punzonata.
Liz sospirò. «Non c'è che dire, quell'uomo ha davvero occhio. Io potrei
cercare delle sedie come quelle per un anno intero senza mai trovarle».
«O un tavolo con la vernice originale», aggiunsi. «Come lo odio».
«Anch'io. Chissà quanto ha pagato quella roba».
«Magari sono copie».
«Dio santo, in questo caso sono comunque copie splendide».
Merijoy arrivò con il suo fuoristrada e parcheggiò dietro di noi, accanto
al marciapiede. Quando scese vidi che si era vestita in grande stile: aveva
un tailleur pantalone di seta grezza color salvia, décolleté di Ferragamo e
orecchini fatti di monetine d'oro.
Scendemmo dal mio pick–up, Liz con il suo scamiciato di cotone a fiori e
io con i miei pantaloni capresi neri e una camicetta di popeline bianca.
Sembravamo le cugine di campagna appena giunte in città.
Merijoy ci salutò con un rapido abbraccio e un sorriso radioso. «Mi sono
appena scolata un gin and tonic per farmi coraggio», raccontò,
ammiccando. «Andiamo a prendere quel bastardo».
Zoe, l'assistente dai lunghi capelli, sollevò lo sguardo e, quando vide
entrare Merijoy nella showroom, si alzò.
«Salve», disse. «La signora Rucker?».
«Esatto», rispose freddamente lei. «C'è Lewis?».
«Lo avviso del suo arrivo», annunciò la ragazza, allungando la mano
verso il telefono sulla scrivania. Si accorse per la prima volta di Liz e me e
si accigliò. «Sì?».
«Siamo con la signora Rucker», spiegai, sperando di sembrare autoritaria
come mi sentivo.
«Solo un attimo», ribatté la ragazza, dopo aver riagganciato.
Mentre aspettavamo mi aggirai per la showroom ed esaminai i pezzi
esposti.
Un paio di ritratti a olio nello stile di Peale guardavano da una parete
illuminata da faretti, sopra una vetrinetta Chippendale cinese.
Raffiguravano due uomini dall'aria severa in abiti settecenteschi.
Liz indicò i ritratti. Inarcò un sopracciglio con aria interrogativa. Mi
strinsi nelle spalle. A me sembravano autentici.

Stavo passando la mano sul pannello anteriore della vetrinetta quando


comparve Lewis Hargreaves.
«Merijoy!», esclamò con voce allegra tendendo le mani per prendere
quelle di lei.
«Lewis», disse lei, facendo mezzo passo indietro e sottraendosi con
eleganza al suo abbraccio.
«Salve», aggiunse lui, rivolgendomi un rapido cenno del capo.
Tesi la mano per stringere la sua. «Eloise Foley», dissi. «Ci siamo
incontrati al servizio funebre di Ann Ruby Mullinax».
«Oh, certo», ribatté, aspettando ulteriori particolari.
Posai la mano sul braccio di Liz. «Questa è Liz Fuller. Ha già conosciuto
anche lei».
Lui strinse le labbra. «Mi spiace, non me ne ricordo. Forse potreste
chiedere a Zoe di fissarvi un appuntamento. Come vedete, questo
pomeriggio sono impegnato con la signora Rucker».
«Lewis», disse Merijoy, «Liz ed Eloise sono con me. Vorremmo parlarti.
Tutte insieme».
«Non capisco», rispose lui, mordicchiandosi una pellicina intorno
all'unghia del pollice.
Merijoy gli posò una mano sull'avambraccio. «Oh, non preoccuparti.
Capirai».
Lui ci condusse sul retro della showroom, in un piccolo ufficio privato.
La stanza era arredata con gusto impeccabile: stuoie di sisal, un lungo
tavolo da fattoria in pino che serviva da scrivania, alcuni schedari e tre sedie
extra. Ci sedemmo fronteggiando Hargreaves.
Il suo viso era lungo e stretto, con la fronte alta e ciuffi di radi capelli
biondastri che coprivano la sommità ormai quasi calva. Aveva gli occhiali
bifocali dalla spessa montatura nera in equilibrio sulla punta del naso e ci
stava guardando con un cipiglio preoccupato.
«Di cosa si tratta, Merijoy?», chiese, tamburellando con i polpastrelli sul
piano della scrivania. «Non mi piacciono molto le sorprese, sai».
Merijoy mi lanciò un'occhiata, e io annuii in un tacito incoraggiamento.
«Neanche a noi piacciono, Lewis», replicò tranquillamente lei. «E ne ho
avuta una particolarmente sgradevole qualche ora fa, quando ho mostrato a
Weezie il tavolino che ho comprato da te».
Lui inarcò un sopracciglio. «È gelosa. Quella donna si è introdotta in una
villa per cercare di rubare degli arredi prima della vendita. È evidentemente
una squilibrata».
«Ne dubito», replicò Merijoy. Aprì la sua borsetta Kelly di coccodrillo e
prese la foto Polaroid del tavolino che Hargreaves aveva venduto a Liz. «Lo
riconosci?», chiese.
Hargreaves la girò e rigirò sulla sua scrivania. «Sembrerebbe il tavolino
che ti ho venduto».
«Sembrerebbe il tavolino che ha venduto a me», lo corresse Liz,
piegandosi in avanti.
«Ed è una copia esatta di quello che ho comprato io», aggiunse Merijoy,
riprendendo la foto. «Quindi, vedi, abbiamo un dilemma».
«Difficile credere che possano esistere due tavolini in stile Impero
costruiti nella tenuta di Beaulieu», non potei fare a meno di sottolineare. «Ti
è andata male, Lewis».
Lui scivolò più indietro sulla poltroncina e chiuse gli occhi, emettendo il
sospiro di un uomo martirizzato e stanco di avere a che fare con donne
isteriche.
«Non capisco di cosa stiate parlando», dichiarò, fissando tranquillamente
Merijoy. «Non ho mai visto questa Fuller in vita mia. E di certo non le ho
venduto nulla di simile a un tavolino in stile Impero».
«Però l'hai fatto», dissi. «L'ho visto io stessa. Nel suo negozio di
Bluffton. Il giorno dopo che tu gliel'hai venduto. L'ho riconosciuto perché
era identico a quello che avevo visto a Beaulieu durante il servizio
funebre».
Liz infilò una mano nella tasca dello scamiciato e prese un foglio
ripiegato con cura, che posò ordinatamente davanti a Hargreaves. «Questo è
l'atto di vendita. La sua calligrafia, su carta intestata dell'L. Hargreaves».
Merijoy si curvò in avanti ed esaminò l'atto con palese interesse, del tutto
simulato dato che lo aveva già visto poche ore prima. Prese di nuovo la
borsa, come durante le prove che avevamo fatto, ed estrasse il suo atto di
vendita, che sbatté sopra quello di Liz.
«Fregato», dissi con un tono frivolo.
«È assurdo», disse lui. «Merijoy, mi stai davvero accusando di vendere
dei falsi?».
«Ti sto accusando di vendere disonestamente dei falsi», lo corresse lei.
«Anch'io», disse Liz.
«Idem», dissi io.
«E vuoi sapere cosa mi manda davvero in bestia, Lewis?», chiese
Merijoy, accavallando le gambe. «Trovo molto, molto seccante che tu mi
abbia fatto pagare il triplo di quanto hai chiesto a Liz».
«Te l'ho detto, non l'ho mai vista prima», gridò Lewis, rosso in volto.
«Conosci la mia reputazione, Merijoy. E non commetterei mai un'azione
priva di scrupoli come quella di cui parli. E voglio dirti un'altra cosa.
Questa è calunnia.
Puntò un dito contro di me. «E so benissimo chi sta sollevando questo
vespaio. Tu! Una ladra di terza categoria».
«Attento», dissi. «L'accusa originaria contro di me era di violazione di
proprietà privata, ma anche quella è stata lasciata cadere. Quindi se vuoi
scoprire qualcosa sulla calunnia, prova solo a darmi un'altra volta della
ladra. Ti farò causa così in fretta da farti girare la testa».
«Tutto questo è ridicolo», ribatté, infilando una mano nel cassetto della
scrivania. Prese un libretto degli assegni e cominciò a scrivere. «Ma,
Merijoy, se non sei soddisfatta del tavolo, sarò più che felice di restituirti i
soldi e riprendermelo».
«Oh, no, non lo farai», rispose lei. «Mi credi così stupida? Oggi verrà qui
il curatore di un museo di Jacksonville, per dare un'occhiata al tavolino e
dirmi cosa ne pensa».
«Se è falso, lui se ne accorgerà», dichiarai. «Si chiama Bennett Campos.
È un'autentica autorità in fatto di mobilio ottocentesco del Sud e un terribile
pettegolo».
«Benny Campos?». Hargreaves dava l'impressione di non sentirsi molto
bene. «Quell'uomo mi odia. Farebbe di tutto per infangare la mia
reputazione».
«Un vero peccato», commentai.
Lui si morsicò il labbro inferiore. «Il tuo tavolino è autentico, Merijoy.
Puoi farlo esaminare come e quanto vuoi, ma è genuino. Non avrei mai
osato venderti una copia, visto che era destinata a finire in un museo».
«E il mio?», chiese Liz.
«Una riproduzione moderna magistralmente realizzata», sussurrò
Hargreaves.
«Una copia», disse Liz. Colpì la scrivania con un pugno. «Lo sapevo».
Hargreaves stava facendo di nuovo stridere la penna sul libretto degli
assegni. Concluse con uno svolazzo, staccò l'assegno e lo passò a Liz.
«Si è trattato solo di un malaugurato equivoco», disse. «Ero convinto che
lei si sarebbe resa conto che nessuno avrebbe potuto vendere un mobile
antico di quella qualità a soli cinquemila dollari. Ho semplicemente dato per
scontato che lei sapesse che era una copia».
«Stronzate», disse Liz, abbassando lo sguardo sull'assegno. «Diecimila
dollari. Il doppio di quanto l'ho pagato. È questo per lei il prezzo del mio
silenzio?».
Hargreaves fece una smorfia.
«Vorrei riavere il tavolino, per evitare che nascano ulteriori equivoci.
Questa somma la ripagherà per il disturbo di contattare i suoi clienti e
farmelo rispedire».
«Neanche per sogno», replicò Liz. «Non le permetterò di togliersi dai
guai così facilmente».
«Cosa volete da me?», gemette lui. «È tutto così ridicolo. Non riesco a
credere che mi stiate accusando di azioni del genere».
«Tanto perché tu lo sappia», intervenni io, «ho visto la tua fabbrichetta di
mobili falsi, quella vicino a Port Authority».
Hargreaves spalancò gli occhi.
«Sì», dissi. «Un piccolo laboratorio davvero grazioso, quello che avete
creato. Da quanto ci stai lavorando, Lewis?».
«Sei pazza», sbottò lui. «Una straccivendola. Una rigattiera. Non sei
nessuno».
«Non sono un antiquario milionario come te», ammisi, «ma so cosa ho
visto, e ho visto quel laboratorio. E ho visto il falso tavolino che hai
venduto a Liz, oltre all'originale quando si trovava ancora a casa di Ann
Ruby Mullinax. E so tutto del tuo accordo con Gerry Blankenship per poter
prendere i pezzi migliori della villa oltre a sottrarre le decorazioni lignee e
le modanature originali di Beaulieu».
«Sciocchezze», disse debolmente lui.
«Hai dovuto versare a Blankenship una franchigia per le copie che hai
fatto dei mobili di Beaulieu?», chiesi.
Alzò bruscamente gli occhi.
«Oh, Blankenship non lo sapeva, vero?», aggiunsi. «Altrimenti avrebbe
voluto sicuramente una fetta della torta, quel porco avido».
Hargreaves si alzò.
«Abbiamo finito, Merijoy? Hai intenzione di tenere il tavolino?».
«Lo terrò», rispose lei. «E ti farò sapere cosa dice Bennett Campos. Ma
credo che tu abbia ancora una faccenda da sistemare in privato con
Weezie».
«E con me», aggiunse Liz, strappando l'assegno che lui le aveva appena
dato. «Dovrò fornire qualche fantasiosa spiegazione a Peg Follachio,
quando la chiamerò per chiederle di rispedirmi il tavolino. Non credo che
questo suo piccolo e lercio assegno possa coprire seppur lontanamente i
costi che dovrò affrontare in termini di tempo e disagi».
«Dille che hai scoperto che il tavolino era infestato di tarli», le consigliai.
«La legge dello stato stabilisce che venga bruciato per impedire il
propagarsi dell'infestazione».
«Ottima idea», ribatté Liz. Guardò Lewis e allungò la mano. «Ventimila
dovrebbero bastare».
«Oltraggioso», borbottò lui, ma ricominciò a scribacchiare sul libretto
degli assegni.
Sbatté l'assegno sulla scrivania, ignorando la mano tesa di Liz. «Abbiamo
finito? Ho un mal di testa lancinante».
«Io ho finito», disse Merijoy, alzandosi e sistemandosi i pantaloni.
«Vado subito in banca a incassare questo assegno», annunciò Liz,
seguendola verso la porta. «E se non è coperto andrò direttamente dalla
banca alla stazione di polizia».
«È coperto», replicò Hargreaves, premendosi le tempie con i polpastrelli.
67

Hargreaves si appoggiò allo schienale della poltroncina e mi rivolse


un'occhiata interrogativa. Le sue labbra esangui si contrassero in un
sogghigno. «Qual è il tuo interesse in questa faccenda?».
«La credenza di Moses Weed», dichiarai. «La voglio».
Scoppiò a ridere. «Come diceva sempre mia madre, l'erba voglio non
cresce neanche nel giardino del re».
«Ho visto il prezzo della credenza, la sera in cui sono entrata a
Beaulieu», continuai, «e sono pronta a pagarlo».
«Cosa ti fa pensare che l'abbia io?».
«Ce l'hai. Quindi smettiamola con i giochetti. Sono pronta a versarti il
prezzo originale di quella credenza, che era di quindicimila dollari».
Lui accavallò le gambe e poi le distese di nuovo. «Sempre ammesso che
l'abbia io, sappiamo entrambi che quello è il prezzo per i commercianti.
Venduta al prezzo al pubblico frutterebbe il triplo o il quadruplo».
Sollevai il mento e ignorai il suo sogghigno. «Non pago mai il prezzo al
pubblico».
«Perché mai dovrei vendertela? Se l'avessi, voglio dire».
«Perché so della tua attività di contraffazione. L'ho vista messa in pratica,
e lo stesso vale per i due amici che sono entrati nel deposito. Ho le copie
dell'atto di vendita che hai dato a Merijoy e a Liz Fuller. Posso provare
quello che hai fatto».
«Allora perché non dirlo alla polizia?». Aveva un tono di scherno.
«La polizia si interessa soprattutto di reati violenti», spiegai, «ma i miei
clienti, antiquari sparsi lungo tutta la costa orientale, sarebbero molto
interessati a sapere della tua piccola impresa. Non lo pensi anche tu?».
«Quello che stai proponendo è un ricatto».
«Una mente criminale come la tua potrebbe anche considerarlo tale. Io ti
sto semplicemente offrendo di pagare un prezzo onesto per un pezzo
d'antiquariato».
«E terresti la bocca chiusa?», domandò lui.
«Solo se avrò la certezza che la fabbrica ha chiuso i battenti», risposi.
«Oh, li ha chiusi», disse amaramente lui. «Ci penserà Merijoy Rucker. È
una sforna–pettegolezzi. Se si lascia sfuggire qualcosa con uno dei suoi
amici, sono rovinato».
«Non è particolarmente ansiosa di far sapere in giro che è stata
imbrogliata», gli feci notare. «E io non sono ansiosa di lasciarmi sfuggire di
nuovo la credenza di Moses Weed. Direi che questa è una situazione in cui
tutti hanno qualcosa da guadagnare, non trovi?».
«La credenza non si trova a Savannah», annunciò lui, tamburellando con
le dita sulla scrivania.
«L'hai spedita da qualche parte per farla copiare?».
Si accigliò. «Aveva bisogno di restauri che non potevo far realizzare qui.
Si trova nel laboratorio di un ebanista ad Alexandria, in Virginia».
«Ho un pick–up», dissi. «Dammi l'indirizzo e vado a prenderla io».
«Ho già dato a quel tizio millecinquecento dollari per riparare alcune
tavole danneggiate sul retro», spiegò Hargreaves, «quindi il prezzo è
salito».
Deglutii a fatica. «No. Non pagherò neanche un centesimo di più. E se
scopro che il tuo ebanista sta facendo copie della credenza, l'accordo salta.
Renderò pubblico quello che so sui tuoi mobili falsi. L'ufficio del
procuratore distrettuale di Chatham potrà avviare un'indagine sulla tua
attività. E scommetto che al fisco interesserebbe controllare le tue
dichiarazioni dei redditi degli ultimi anni. Hai dichiarato tutte le entrate
ottenute grazie alle contraffazioni, vero?».
Dopo un attimo di riflessione, lui sollevò la cornetta e digitò un numero.
«Andrew? Sono Lewis. Hai già iniziato a lavorare sulla credenza che ti
ho mandato? No? Perfetto. Lasciala stare. L'ho venduta così com'è.
L'acquirente dice che verrà a prenderla di persona».
«La settimana prossima», suggerii.
«La settimana prossima», ripeté Hargreaves.
Riagganciò, scrisse un indirizzo su un pezzo di carta e me lo passò.
«Grazie», dissi, rivolgendogli un elegante cenno del capo. «È stato un
vero piacere fare affari con te».
«Questa sarà l'ultima volta», disse Hargreaves.
«Naturalmente».
68

«Ha detto qualcosa su di me?», chiesi a BeBe. Mi stava aiutando a


tinteggiare l'ex rimessa per le carrozze in segno di solidarietà.
L'obiettivo della squadra era far sì che il mio negozio aprisse entro il
primo novembre. Ed eravamo già in ottobre.
«Chi?». Lei stava dipingendo la finitura intorno alla finestra di quello che
era stato il mio salotto.
Sapeva benissimo a chi mi riferivo. «Daniel».
«Mi parla a malapena, figuriamoci se fa il tuo nome», rispose lei. «Ho
cercato di chiedergli scusa. Tesoro, mi sono davvero umiliata. E sai che Dio
non ha fornito a BeBe Loudermilk il gene dell'umiliazione».
«Si vede con qualcuno?».
Sembrò profondamente interessata a una crepa nell'intonaco, studiandola
e girando la testa da una parte e dall'altra per esaminarla meglio.
«Nessuno di importante», disse alla fine.
«Chi è la sgualdrina?». Avevo il viso in fiamme. Nelle settimane
trascorse da quando Daniel era uscito dalla mia vita, avevo fantasticato
continuamente su di lui. Era ferito, terribilmente ferito. È così solo. Nelle
mie fantasie cucinava senza interruzione, tagliando a dadini e affettando,
affogando l'infelicità nei soffritti. Oppure lavorava nella casa sulla spiaggia
di Tybee, imbronciato e solo, pensando ossessivamente a pannelli di
cartongesso, pensili e rivestimenti in piastrelle. Non c'erano altre donne
nelle mie fantasie sulla vita di Daniel post–sottoscritta.
«Non conta niente», disse BeBe. «Se non fosse la miglior cameriera che
io abbia mai visto in qualunque ristorante del pianeta, la licenzierei subito».
«Lavora per te?».
«Ha un mento davvero buffo. E dei seri problemi di depilazione. Ma
davanti a tette come le sue, immagino che gli uomini possano passare sopra
a un piccolo pizzetto».
«Non mi stai facendo sentire meglio. Come si chiama?».
«Il nome non ha importanza».
«Se non me lo dici ti uccido».
«Visto che la metti così, è Michelene».
«Dimmi che non è francese».
«Non proprio Alsaziana, credo».
«Fa lo stesso. È bionda?».
BeBe indietreggiò per lanciare un'occhiata critica alla parete che stavamo
tinteggiando. «Credo che potremo avere la meglio su questo bastardo con
una sola mano di pittura, non pensi?».
«Almeno dimmi che non è una bionda naturale», la implorai.
«Di solito quella sfumatura di azzurro degli occhi è accompagnata da
quella sfumatura di biondo dei capelli», disse BeBe. «Ma forse è una
mutante. Non saprei dirtelo».
Fantastico. L'unico grande amore della mia vita usciva con una cameriera
francese bionda naturale e con gli occhi azzurri che avrebbe potuto tenere
un vassoio di cocktail in equilibrio sulle tette.
«Voglio che venga eliminata», dichiarai, intingendo il pennello a rullo in
una latta di vernice bianca. (Finitura a guscio d'uovo.)
«Non chiedermi di farlo», mi supplicò BeBe. «Michelene è la cameriera
migliore che io abbia mai visto. I clienti l'adorano. Soprattutto gli uomini.
Le mie vendite di vino sono aumentate del trenta per cento, da quando è
venuta a lavorare per me. Non posso licenziarla».
«Non voglio che venga licenziata. Voglio che venga assassinata», spiegai,
fissando malinconicamente le pareti candide. «Vanno a letto insieme?».
«Come posso saperlo?», rispose BeBe, cercando di assumere un'aria
pudica. Non le si addiceva.
«Be', cosa ne pensi?».
«Se Daniel sta scopando qualcuno, la cosa non sta certo migliorando il
suo carattere. Dio, è intrattabile».
«È un sì o un no?».
Ci rifletté. «Se anche vanno a letto insieme, non è in esclusiva».
«Cosa vorresti dire? Lui si sta scopando l'intero staff di cameriere?».
«Daniel?». BeBe scoppiò a ridere. «È Michelene a non fare troppo la
difficile. Le piace divertirsi».
«Daniel lo sa?». Mentre aspettavo la risposta mi resi conto che stavo
trattenendo il fiato.
«A dirti la verità, visto che me lo chiedi, non sono sicura che gli importi
qualcosa, in un senso o nell'altro».
Deglutii a fatica e mi costrinsi a respirare. «Quindi non è... insomma...
vero amore? Niente del genere?».
«No di certo. È una cosa dannatamente strana. So che... escono insieme,
ma al ristorante lui la guarda a malapena. Pensa solo al lavoro. Daniel non è
affatto una compagnia divertente da quando voi due avete rotto».
«Abbiamo rotto», ripetei. «Non descrive esattamente quello che è
successo, vero? Insomma, non è come se avessimo litigato davvero o
avessimo deciso di comune accordo di frequentare altre persone o che era
finita. È stata solo... bam! Combustione. Combustione spontanea. Un
momento stavamo parlando di James e quello successivo, dopo che ho
confessato di sapere di sua madre e di Hoyt Gambrell, è tutto finito. Lui si è
trasformato in una statua di ghiaccio, poi si è voltato ed è uscito dalla mia
vita. Non gli ho più parlato da allora».
BeBe mi diede un colpetto affettuoso sulla spalla. «Lo so, tesoro». Certo
che lo sapeva. In pratica me l'aveva sentito ripetere almeno una dozzina di
volte, dopo quella sera. Avevo gridato, pianto e digrignato i denti, e in
generale ero stata del tutto irrazionale a proposito di quello che era andato
storto tra Daniel e me.
«Perché non gli telefoni semplicemente?», mi chiese, non per la prima
volta. «Digli che ti dispiace. Digli che mi dispiace».
«No».
«E perché, accidenti?».
«Non mi ama più».
«Guarda il lato positivo. Hai fatto in modo che Tal uscisse dalla tua vita,
vero?».
«In realtà è stato merito della mamma. Non voglio nemmeno pensare a
cosa mi sarebbe successo la sera in cui Tal si è presentato in casa mia se lei
non fosse arrivata per farmi la sorpresa del pasticcio di tonno».
BeBe ridacchiò. «Avresti mai immaginato, nelle tue fantasie più sfrenate,
che uno dei pasticci di tua madre ti avrebbe salvato la vita?».
«Che potessero uccidermi forse sì, ma non certo che potessero salvarmi»,
risposi.
«Come sta andando la disintossicazione?», si informò BeBe.
«Bene. Il suo terapeuta era un prete gesuita ed è andato a scuola con zio
James. Naturalmente, per lei è Dio. Le ha consigliato di cercarsi un nuovo
hobby, qualcosa che la tenga occupata».
«A cosa si sta dedicando? Lavoro a maglia? Découpage?».
«Magari», risposi con un sospiro. «Per celebrare il fatto che la mamma
non avesse toccato una goccia d'alcol per un mese, papà è andato a
comprarle un'antenna satellitare. Adesso hanno centododici canali di TV via
cavo, incluso Food Network, il canale di cucina. E lei si è scatenata sul
cibo. Quel pasticcio di tonno e tagliatelle era solo la punta dell'iceberg, un
enorme iceberg alimentare».
«Che bello», commentò BeBe.
«Essere sobria non l'ha resa una cuoca migliore», dissi. «Odio doverlo
dire ma almeno quando beveva si rendeva conto dei suoi limiti. L'unico
libro di cucina che aveva era quello con la copertina a quadretti bianchi e
rossi ricevuto come regalo di nozze. Adesso invece si sta cimentando in tutti
questi piatti esotici. Il cuscus, Cristo santo».
«Il cuscus mi piace», disse BeBe.
«Con il suo potresti cementare i mattoni», continuai. «E non farmi
parlare della sua ratatouille». Rabbrividii. «Mi sono scheggiata un molare
cercando di mangiarla».
«Con la ratatouille?».
«Non ha ancora capito bene la faccenda del far cuocere a fuoco lento».
«Lo trovo tenero. Cosa c'è di male?».
«Papà sta per lasciarci le penne, tutto qui», spiegai. «Nel corso degli anni
si era abituato alla sua piccola routine: tè e pane tostato a colazione, un
panino a pranzo, cibo da asporto a cena. Finché la mamma non ha smesso di
bere lui riusciva ancora a infilarsi la divisa da postino che gli hanno dato
quando aveva ventidue anni. Ma ora, mio Dio... Lei si alza all'alba, prepara
frittelle, focaccine e omelette e non so cos'altro. E, prima ancora che papà
abbia lavato i piatti della colazione, gli mette davanti qualcos'altro da
mangiare».
«Ha una sua specialità?».
«Le torte», dissi. «Se non è una torta alla Coca–Cola, è una torta alla
Seven–Up. Sforna dolci come un'ossessa. Ogni giorno, quando torno a casa,
trovo un pacchetto avvolto nella stagnola davanti alla porta posteriore. Hai
mai sentito parlare di una torta al cioccolato fatta con il succo di
pomodoro?».
«Ho sempre pensato che fosse l'idea di qualcuno per uno scherzo di
pessimo gusto».
«Penso che lei non abbia letto bene la ricetta», dissi. «Stavo morendo di
fame, così ho dato un morso. Credo che abbia usato per sbaglio del
concentrato di pomodoro. Nemmeno Jethro l'ha voluta toccare».
«Tua madre sa di tuo zio?».
Annuii e sorrisi. «Ha persino invitato a cena James e Jonathan. Abbiamo
avvisato Jonathan in anticipo, così ha inghiottito una mezza scatola di
digestivi come antipasto. Sai come è fatto. È così educato, il tipico
gentiluomo del Sud. Si è sperticato in elogi sul polpettone della mamma.
Adesso lei gliene prepara uno alla settimana. Lui si limita a infilarli nel
freezer. Gli ho detto che quando ne avrà abbastanza può prendere un po' del
cuscus della mamma e usarli per ampliare lo studio di James».
BeBe si esaminò le unghie e si grattò via una macchiolina di vernice
dalla salopette bianca. «Vai alla festa di Merijoy, stasera?».
Feci una smorfia. «Le ho promesso di partecipare. Era l'unico modo per
far sì che mi aiutasse a mettere con le spalle al muro Hargreaves. E conosci
Merijoy. Non dimentica mai una promessa. Dio. Perché mai mi sono
lasciata coinvolgere da quella donna?».
«Perché ti ha aiutato a inchiodare Hargreaves. E a mettere le mani sulla
tua credenza».
Misi il rullo per dipingere nel lavandino della cucina e cominciai a
sciacquarlo.
«Okay. Ne è valsa la pena. In vita mia non avevo mai pensato di poter
vendere un mobile per una cifra del genere».
«Settantacinquemila dollari sono una gran bella sommetta», concordò
BeBe. «Randy Rucker sa quanto Merijoy ha pagato quel mobile?».
«Lo sa», risposi. «A Merijoy piace far finta di dovergli tenere nascoste le
cose, ma Randy è assolutamente pazzo di lei. E credo che sia davvero fiero
del fatto che lei sia riuscita a raccogliere tutta da sola i fondi necessari per
comprare Beaulieu e abbia rintracciato così tanti degli arredi originali.
Inoltre, i Rucker sono talmente ricchi che settantacinquemila dollari sono
soltanto spiccioli, per loro».
«Ci vai con qualcuno?».
«E tu?».
«Emery Cooper». Arrossì nel dirlo.
Lanciai un grido di esultanza. «Emery! Pensavo che avessi una moratoria
riguardo all'uscire con uomini appena divorziati».
«Martedì è passato un anno esatto da quando il divorzio è diventato
definitivo. E sua moglie sta per risposarsi. Prende i ragazzi e si trasferisce
ad Atlanta».
«È una storia seria?».
Lei si gonfiò i capelli in modo da lasciare scoperte le orecchie e per la
prima volta notai i suoi orecchini. Diamanti. Almeno un carato l'uno.
«BeBe!». La abbracciai. «Significa quello che penso io?».
«Sì, se pensi che regalare orecchini di diamanti autorizzi un gentiluomo
ad aspettarsi un'accoglienza particolarmente cordiale a fine serata», ribatté,
sbattendo le ciglia.
«Hai intenzione di sposarlo?».
«Dipende».
«Da cosa?».
«Dalla velocità con cui vende l'agenzia di pompe funebri», rispose lei,
rabbrividendo. «Non posso sposare un uomo che gioca con la morte».
«Posso farti da damigella d'onore?».
«Chi altri? Contavo anche sul fatto che preparassi tu la torta nuziale. Ora,
cosa mi dici di stasera? Vai con qualcuno?».
«James si è offerto di accompagnarmi», dissi. «Jonathan lavora fino a
tardi perché domani deve presentare una causa davanti al gran giurì. A dirti
la verità, però, preferirei restare a casa».
«Non pensarci nemmeno», ribatté BeBe. «Potete fare un'uscita a quattro
con Emery e me. Passiamo a prendervi alle sette e trenta. Aspetta di vedere
la splendida piccola Bentley che Emery ha preso questa settimana».
«In tal caso credo che verrò», dissi, asciugando il rullo con un tovagliolo
di carta. «Come bisogna vestirsi, comunque?».
«L'invito dice "cravatta nera", quindi io metto un vestito da cocktail.
Senza spalline. E raccoglierò i capelli sulla nuca, in modo che tutti in città
muoiano di invidia vedendo i miei diamanti».
«Magnifico», replicai. «L'unico abito da cocktail che possiedo è quello
che è andato a pezzi la sera della cena dai Rucker».
«Prendine in prestito uno dei miei», propose BeBe. «Ne ho un armadio
pieno. Alcuni hanno il cartellino del prezzo ancora attaccato».
«Non saprei. Mi sentirei strana a mettere un tuo vestito».
«Ma non ti senti strana ad andare in giro con addosso quello di una donna
morta comprato in un negozietto dell'usato?».
«È diverso. Quei vestiti sono vintage».
«Anche i miei», replicò BeBe. «Ce ne sono persino un paio che risalgono
al mio primo matrimonio. Quelli sì che sono vintage. Radunerò un paio di
cose e te le porto oggi pomeriggio. D'accordo?».
«D'accordo», dissi alla fine. «Posso prendere in prestito anche i tuoi
orecchini di diamanti?».
«Scordatelo».
69

Stavo esaminando una scatola contenente vecchie posate d'argento


quando BeBe fece irruzione in casa mia. In una mano aveva una sacca
porta–abiti di cellofan e nell'altra un sacchetto di Saks Fifth Avenue.
«Ecco il vestito che ti ho promesso, tesoro», disse con voce squillante,
posando tutto su una sedia.
Aprì la cerniera del porta–abiti ed estrasse un vestitino nero di paillettes,
cortissimo e aderente. Il cartellino del prezzo penzolava ancora da una
cucitura sotto il braccio.
Lanciai un'occhiata al prezzo e spinsi via il vestito. «Seicento dollari!
Non posso prendere in prestito una cosa così costosa, BeBe. E se ci sudo
dentro o altro?».
BeBe scoppiò a ridere. «Tesoro, questo abito è fatto per far sudare gli
altri quando lo metti. Sudare, ridere e gridare: "Prendimi, Signore"».
Lo appesi all'esterno dell'anta dell'armadio e lo osservai con aria critica.
«Non credo che tu lo avessi semplicemente nell'armadio. Non è neppure
della tua taglia. Non era nemmeno della mia, fino a poco tempo fa».
Lei giocherellò con gli orecchini di diamanti. «L'ho comprato secoli fa.
Perché mi motivasse a dimagrire. Ma non riesco a mettermi a dieta. Non ho
alcuna intenzione di rinunciare a burro, panna e cioccolato solo per potermi
infilare in una trentotto. Questo è quanto. Sono condannata a portare una
quaranta per tutta la vita».
«Un destino davvero tragico», commentai sarcasticamente. «E pensi che
starò bene, combinata così?».
«Sarai un vero schianto», dichiarò in tono frivolo, porgendomi il
sacchetto di carta. «Ho buttato qui dentro alcune altre cosucce. Ci vediamo
alle sette e mezza».
Passai il resto del pomeriggio occupandomi del futuro negozio. Garrett, il
tizio delle finestre, venne verso le quattro a montare un paio di finestre ad
arco in stile gotico che avevo comprato un paio di anni prima per
settantacinque dollari a una vendita pre–demolizione di un edificio di
Reynolds Street. Da allora erano rimaste a coprirsi di polvere nel garage dei
miei genitori, aspettando che io trovassi il modo di utilizzarle. Feci una
smorfia quando la mazza di Garrett colpì per la prima volta la vecchia
parete di mattoni dell'ex rimessa per le carrozze ma, mentre il buco si
allargava, vidi che era il posto ideale per una delle vetrine del negozio.
Quando lui finì, era tardi. Quasi le sette. Salii i gradini due alla volta ed
entrai e uscii di corsa dalla doccia. Mi applicai della mousse sui capelli
bagnati e dedicai qualche minuto extra al trucco. Poi svuotai sul letto il
sacchetto di carta di BeBe.
"Le cosucce" che vi aveva infilato erano un paio di collant neri
ultravelati, un paio di sandali da sera neri con il tacco alto, una minuscola
borsetta dorata e una scatoletta da gioielliere che racchiudeva un paio di
lunghi orecchini antichi di giaietto.
Trattenni il fiato mentre mi facevo passare il vestito sopra la testa e
lottavo con la cerniera. BeBe aveva speso un vero capitale per quel vestito.
Sarei stata pronta a scommettere che non c'era più di un metro di stoffa.
Allacciai i cinturini dei sandali e feci un'ultima piroetta davanti allo
specchio, rischiando di inciampare a causa dei tacchi alti.
Sembravo una prostituta, pensai. Una squillo di alto bordo, grazie ai gusti
costosi di BeBe, ma comunque una squillo.
Qualcuno stava bussando alla porta, al pianoterra.
«Arrivo», gridai. Infilai chiavi di casa e rossetto nella piccola borsetta da
sera, poi scesi le scale in equilibrio precario e raggiunsi la porta d'ingresso.
«Dio dei cieli», disse zio James, arrossendo.

«Lasciami solo prendere una giacca o una cosa del genere», dissi,
rovistando nell'armadio dell'ingresso. Alla fine afferrai un vecchio scialle di
seta nera ricamata e con le frange posato sullo scaffale più alto e me lo
drappeggiai ad arte intorno alle spalle.
«Meglio?», chiesi.
«Dipende dalla persona a cui lo chiedi», rispose James. «Personalmente,
trovo che tu sia adorabile in entrambe le versioni».
Gli diedi un veloce bacio colmo di gratitudine sulla guancia. «Sono
contenta che BeBe mi abbia convinto a venire alla festa, dopo tutto. Sarà
divertente averti come accompagnatore».
«Forse troverai un partner più adatto, una volta là».
«Mai», risposi, infilando il mio braccio sotto il suo.
La Bentley color argento di Emery Cooper scintillava come una moneta
nuova sotto il lampione.
«Non è divertente?», tubò BeBe, sporgendosi al di sopra del sedile
anteriore, dopo che James mi ebbe aiutata a salire a bordo. «Proprio come
un doppio appuntamento».
«Che meraviglia», dissi.
«Stasera sei davvero bellissima, Weezie», disse Emery.
Prima di quella sera lo avevo incontrato solo un paio di volte. Era sulla
cinquantina, con capelli scuri che si stavano diradando e un viso stretto che
gli dava l'aspetto del tipico impresario di pompe funebri, fatta eccezione per
i sorprendenti occhi scuri frangiati da lunghe ciglia nere incredibilmente
folte.
«Hai un vestito strepitoso», aggiunse in tono malizioso.
«Ora fai il bravo», gli disse BeBe, dandogli un pugno scherzoso sulla
spalla. «Sei già impegnato».
«Stavo solo cercando di essere galante», protestò lui.
«C'è un confine molto sottile tra galante e lascivo», dichiarò BeBe con
sussiego.
Chiacchierammo tutti e quattro del più e del meno finché Emery si fermò
alla svolta per Beaulieu.
«Oh, mio Dio», sussurrò BeBe.
L'antico cancello di ferro battuto della villa era stato rimesso al suo posto
e ridipinto. Un uomo di colore dai capelli bianchi in smoking, cilindro e
guanti di capretto bianco ci invitò a entrare con un gesto solenne.
«Wow», concordai. Il lungo vialetto di gusci d'ostrica tritati era stato
rastrellato da poco. I bulldozer erano scomparsi, e ognuna delle querce su
entrambi i lati era coperta di minuscole lucine bianche che scintillavano nel
crepuscolo calante.
«Non venivo qui sin da quando ero un ragazzino e mio padre mi portò
con sé quando venne a organizzare il funerale della sorella della signorina
Ann Ruby» raccontò Emery, rallentando per ammirare lo spettacolo. «È
davvero magnifico, vero?».
«Guardate!», esclamò BeBe, curvandosi in avanti e indicando la villa che
stava comparendo davanti ai nostri occhi.
L'esterno della casa era nascosto da una ragnatela di ponteggi che però
erano stati ornati con altre lucine, e su ogni angolo c'erano grossi fiocchi
fatti con lunghi nastri di seta bianca.
La villa aveva già un aspetto più allegro, con gli angoli cascanti sorretti
da nuove intelaiature e i vecchi muri puliti e ridipinti. Sulle finestre, alle
quali erano stati rimessi i vetri, scintillavano nuove persiane verde scuro.
Gli alberi cresciuti disordinatamente intorno alla casa erano stati potati e
c'erano nuove aiuole di fiori in boccio intorno alle fondamenta.
«Quella Merijoy è davvero incredibile», disse BeBe.
Sul vialetto si era già formata una fila di macchine e altri uscieri in livrea
stavano aiutando le persone a scendere dalle macchine.
«Non lo trovi davvero elegante?», chiese BeBe, dandomi di gomito
mentre ci incamminavamo tutti insieme verso la veranda.
«È incredibile il risultato che Merijoy ha già ottenuto», replicai,
guardandomi intorno nell'atrio.
I pavimenti di legno di pino erano stati puliti, lamati e incerati, e adesso
scintillavano alla luce di centinaia di candele disposte in massicci
candelabri d'argento sparsi per le stanze per la maggior parte vuote. Le
modanature mancanti erano state sostituite con copie di quelle originali.
Composizioni floreali di camelie, rose e foglie di magnolia erano
disposte strategicamente qua e là, ma Merijoy aveva saggiamente deciso di
lasciare che le maestose vecchie stanze di Beaulieu parlassero da sole.
«Guarda». BeBe mi diede nuovamente di gomito e indicò la parete di
fronte al caminetto del salottino sul davanti.
Là, circondata da un cordone di velluto, troneggiava la credenza di
Moses Weed. Le tavole di olmo risplendevano di una calda luminosità e le
mensole adesso erano occupate da porcellane di Canton blu e bianche,
praticamente identiche a quelle che un tempo la famiglia Mullinax aveva
esibito con tanto orgoglio. Con l'eccezione di un lungo tavolo coperto da
una tovaglia che fungeva da bancone bar, la credenza era l'unico mobile
presente nella stanza.
«È splendida, Weezie». Mi voltai. Merijoy era ferma al mio fianco. Mi
prese la mano e la strinse,. «Non è incredibile? Non è incredibile com'è
bella la casa? È come in una fiaba, non trovi?».
«È magnifica», concordai, abbracciandola. Nello stesso tempo mi resi
conto che la vita stessa di Merijoy era come una fiaba. Ma il suo entusiasmo
era davvero contagioso.
Dopo aver chiacchierato per un po' con James, BeBe ed Emery, Merijoy
mi trascinò nell'ingresso a vedere un quadro che aveva comprato. «Non
proviene da Beaulieu, naturalmente», ammise. «Ma è opera di un artista
della zona meridionale della Georgia e risale al penultimo decennio
dell'Ottocento, così ho pensato che sarebbe stato perfetto per la casa».
Eravamo ferme a sorseggiare champagne di fronte al dipinto, un
paesaggio fluviale, quando vidi Daniel. Indossava uno smoking e stava
parlando con una donna che non riconobbi. Per poco non sputai il vino.
«Cosa ci fa qui?», sussurrai.
Merijoy guardò attraverso la stanza.
«Chi? Daniel? Stasera si occupa lui del catering. E ci ha fatto un prezzo
davvero di favore. Sinceramente, Weezie, è un vero schianto con quello
smoking. Potrei mangiarmelo in un boccone. E tu?».
Non riuscivo a levargli gli occhi di dosso. Specialmente perché la donna
con cui stava parlando si era voltata. Era bionda, con una scollatura
strepitosa. Doveva essere Michelene.
«Weezie?». Merijoy mi tirò per un braccio. «C'è qualcosa che non va?
Voi due siete la coppia più tenera che io abbia mai visto».
Vide la mia espressione sconvolta.
«Non dirmi che avete rotto».
Annuii in silenzio.
«Oh, no», gemette lei. «Cos'è successo?».
«Abbiamo litigato». Suonò stupido persino alle mie orecchie.
«Be', dovete rimettervi insieme. Lui è troppo carino. Non puoi lasciartelo
sfuggire, tesoro».
«È già sfuggito», replicai. «E a quanto sembra, direi che ormai qualcun
altro lo ha catturato». Mi guardai intorno per cercare James, ma a quel
punto c'era una tale ressa che vidi solo un mare di smoking e abiti da sera.
Merijoy e io ci scambiammo due baci sulle guance facendo attenzione a
non rovinarci il trucco e io mi allontanai per cercare il mio
"accompagnatore". All'improvviso la serata aveva perso tutta la sua
piacevolezza.
«Weezie». BeBe era comparsa accanto a me. «Hai visto chi c'è?».
«Daniel», risposi. «Si occupa del catering».
«Be', lo sapevo. Sta usando l'attrezzatura del ristorante».
«L'ho visto in salotto mentre si scambiava moine con quella Michelene.
È in smoking. Ed è splendido, naturalmente».
BeBe mi fece vento sbattendo le ciglia finte.
«Weezie, tesoro», disse con voce strascicata. «Odio dovertelo dire, ma tu
sei due volte più splendida di lui. Ogni uomo nella stanza – eccetto Emery,
naturalmente – ha gli occhi incollati addosso a te».
Abbassai lo sguardo sulla mia scollatura e cercai di tirare su il corpetto
dell'abito. «Ma io non voglio ogni uomo nella stanza. Voglio Daniel».
«Allora smettila di lamentarti e frignare e fai qualcosa», sbottò lei. Mi
diede una spintarella. «Vai a parlargli. Flirta con lui. Quando ti vedrà con
quel vestito ti garantisco che dimenticherà il vostro stupido litigio».
«Non Daniel. Lui non dimentica nulla. Si ricorda persino il costume da
bagno che indossavo quando avevo diciassette anni».
Lei sospirò teatralmente. «D'accordo. Fai come vuoi. Nasconditi.
Crogiolati nella tristezza. Sei una persona adulta. Fai quello che vuoi».
«Grazie mille», dissi.
Mi allontanai prima che potesse darmi altri consigli non richiesti. Dopo
tutto, ragionai, perché dovrei accettare consigli in materia di sentimenti da
una donna con tre matrimoni falliti alle spalle?
Merijoy e il suo comitato avevano allestito un buffet nella sala da pranzo.
All'improvviso rammentai che non avevo mangiato niente, a parte una
banana e una tazza di caffè quattordici ore prima.
Il cibo, fui costretta ad ammetterlo, aveva un'aria molto invitante. Uno
chef alto e vestito di bianco era intento ad affettare un enorme taglio di
roastbeef a un'estremità del tavolo. Al lato opposto, uno chef giapponese
preparava sushi su richiesta.
Presi un piattino di vetro e cominciai a mangiucchiare. Gamberetti
grigliati infilati in spiedini, tartellette con minuscoli formaggini di capra e
pomodorini essiccati al sole, e tortini di farina di mais fritti e sormontati da
cipolline caramellate riempirono il mio piatto. Aggiunsi una tartina di pane
nero con salmone e capperi.
Stavo giusto mettendomi in bocca un acino d'uva quando James entrò
nella stanza. «Senti, mi dispiace ma devo andare».
«Va bene», risposi. «Sono pronta quando vuoi tu».
Lui scosse il capo. «No. Devo andarmene subito. Janet ha appena
chiamato sul mio cercapersone. Denise Cahoon è in guai seri. Janet mi sta
venendo a prendere qui davanti, poi andremo direttamente al dipartimento
di polizia».
«Cosa c'è che non va?».
«Denise ha scoperto che la fidanzata di Inky guida una nuova jeep
Cherokee e ha avuto un crollo nervoso. È andata al giornale, si è introdotta
di soppiatto nella sala composizione e ha cominciato a sparare
all'impazzata».
«Mio Dio», dissi. «Qualcuno è rimasto ferito?».
Lui sorrise. «Per fortuna, ha colpito Inky al sedere. Lui è piuttosto
robusto. La fidanzata si è presa un proiettile nella mano, ma un altro
proiettile ha mancato il bersaglio e ha colpito alla gamba il caporeparto
della sala composizione, che ha perso parecchio sangue ed è ancora in sala
operatoria al Memorial».
«Vai pure. Non preoccuparti per me. Tornerò a casa con BeBe ed
Emery». Lui mi sfiorò la spalla e se ne andò.
Lo osservai mentre fendeva speditamente la ressa per raggiungere la
porta d'ingresso, poi mi voltai e cominciai a cercare BeBe ed Emery.
Ma la stanza era gremita di ospiti. Smoking, paillette, gioielli e capelli
cotonati riempivano tutta la casa.
Finalmente scorsi Merijoy sulla veranda, immersa nella conversazione
con un uomo corpulento con un orribile parrucchino e un'aria vagamente
familiare.
Lei mi invitò con un gesto ad avvicinarmi. «Eloise!», chiamò,
rivolgendomi un ampio sorriso. «Voglio presentarti Baxter Howell».
Ecco perché lo conoscevo. Per gli spot della Baxter Howell Cadillac in
televisione. Negli annunci pubblicitari portava una corona sopra il
parrucchino e incedeva attraverso la concessionaria proclamandosi il "re
delle Cadillac del Regno della Costa".
«Il re delle Cadillac!», dissi, ridendo. «Adoro i suoi spot».
Lui mi prese la mano e la baciò. «E io adoro il suo vestito».
Risi, a disagio, e mi tirai su lo scialle fino al mento.
«Baxter», disse Merijoy, «Eloise era una mia compagna di scuola alla St.
Vincent Accademy. È lei che ci ha trovato quella magnifica credenza nella
stanza sul davanti».
«Che bello», commentò lui, bevendo un sorso del suo drink. «È una
giovane signora dai gusti squisiti, vedo».
«Scusate se vi interrompo», dissi. «Merijoy, hai visto BeBe?».
Lei prese un'espressione dispiaciuta. «Oh, Weezie. Immagino che non sia
riuscita a trovarti per avvisarti che se ne andava. Emery ha avuto
un'emergenza familiare. Se ne sono andati un quarto d'ora fa».
«Un'emergenza familiare? Uno dei suoi figli?».
«No. La sua sorella minore, Melanie. Stava lavorando giù al giornale e
una donna impazzita ha fatto irruzione nell'edificio e le ha sparato alla
mano. Non è incredibile?».
«La sorella di Emery è la fidanzata di Inky Cahoon?». Il mondo era
davvero troppo piccolo.
«Chi?». Adesso era Merijoy a non capire.
«Non importa», dissi, dandole un colpetto sulla mano. «Il fatto è che
anche zio James è dovuto andarsene d'urgenza, quindi sembra che io sia
rimasta a piedi».
«Sciocchezze. Puoi tornare in città con noi. Naturalmente ce ne andremo
solo fra qualche ora. Ci sarà un buffet di mezzanotte, sai».
Erano solo le dieci. Le dita dei miei piedi, strette nei sandali dai tacchi a
spillo di BeBe, protestarono a gran voce.
«Che bello», dissi debolmente.
Baxter Howell si era voltato per parlare con qualcun altro.
«Senti, Weezie», disse Merijoy, abbassando la voce. «A Baxter Howell
brillavano gli occhi mentre parlavi con lui. Finanzierà Beaulieu con una
donazione di diecimila dollari l'anno per tre anni».
«Ne sono felice».
Mi diressi verso la toilette, vicina al corridoio sul davanti della casa. Era
un bagno minuscolo, molto simile a un ripostiglio, che era stato
frettolosamente rivestito di carta da parati e tinteggiato in tempo per la
festa. Sbattei la porta e chiusi a chiave. La stanzetta odorava di cera di
candele e vernice fresca.
Mi sistemai i capelli, applicai di nuovo il rossetto e cominciai a
slacciarmi i sandali. Se ero costretta a resistere per altre due ore, dovevo
assolutamente togliermi quegli strumenti di tortura.
Abbassai il coperchio del water e mi sedetti. Il caldo e il vino mi avevano
dato una leggera sonnolenza. Prima che me ne rendessi conto, qualcuno
cominciò a bussare discretamente alla porta.
Balzai in piedi e mi infilai di nuovo a fatica i dannati sandali.
Fuori dalla porta, una signora anziana stava saltellando su e giù, in attesa
di entrare.
«Scusi», dissi. Imboccai rapidamente il corridoio per allontanarmi da lei.
E mi scontrai con una figura vestita di nero che reggeva un enorme
vassoio d'argento pieno di piatti e bicchieri. Il mio tacco si impigliò nella
passatoia. Caddi in avanti, trascinando a terra con me la persona con il
vassoio.
Il vassoio finì sulla sinistra. E i fragili bicchieri di champagne e i piatti di
avanzi finirono... ovunque, ma principalmente addosso a me.
«Maledizione», mormorai, sentendo lo champagne freddo filtrare
attraverso il vestito.
«Dannazione», grugnì il cameriere. Conoscevo quel ringhio. Smisi di
ripulirmi il vestito dalle tartine e alzai gli occhi. Era Daniel. Adesso il
freddo non dipendeva solo dallo champagne. Rabbrividii.
«Scusa», dissi, cercando di alzarmi per potergli dare una mano.
Lui allontanò la mia mano con un gesto, raccolse il vassoio e rimase
fermo a fissare il disastro sul pavimento.
«Prendo una scopa. Pulisco tutto io», dissi. «Mi dispiace davvero,
Daniel».
Lui fece volare via un pezzetto di indivia dal risvolto dello smoking e si
accigliò. «Mi dispiace. Mi sembra di averlo già sentito da qualche parte».
70

Smisi di tamponarmi il vestito con l'orlo dello scialle e guardai Daniel


con tutta la dignità che riuscii a raccogliere. Non poi molta, considerando
che avevo dei pezzetti di Brie attaccati agli orecchini.
«Non hai bisogno di prendere quell'aria altezzosa», osservai in tono
calmo. «È stato un incidente, sai. Non intendevo certo...».
«Farmi del male», disse lui. Tese una mano per sistemarmi la spallina
dell'abito, che mi era scivolata dalla spalla. «Sei fradicia», aggiunse, con
l'ombra di un sorriso che mi fece rabbrividire ancora di più. «Credo che il
tuo vestito si stia restringendo».
Abbassai gli occhi e feci un coraggioso tentativo di tirare su il corpetto.
Un pezzetto di tartina ai gamberetti mi si era appiccicato al seno sinistro. Lo
tolsi. «Il vestito è rovinato», dissi. «E non è nemmeno mio. Seicento dollari.
Buttati nella spazzatura».
Fece un'aria scioccata. «Davvero?».
«È di BeBe. Me l'ha prestato. Era nuovo di zecca». Mi strinsi nelle spalle.
«Oh, be'. In cucina ci sono una paletta e una scopa?».
«Probabilmente sì. Devo pulire questa roba prima che qualcun altro
scivoli e si faccia male. Perché non rimani qui e tieni lontana la gente
mentre io prendo il necessario?».
«D'accordo».
Dopo un minuto tornò con uno straccio, una scopa e una paletta.
«Non posso spazzare con addosso questo vestito», dissi in tono di scusa
mentre lui si dava da fare per raccogliere i cocci di vetro.
«Mi stupisce che tu riesca anche solo a camminare», ribatté, lanciandomi
un'occhiata.
«Sapevo che sarei dovuta restare a casa, stasera», dichiarai, sfregandomi
le braccia per scaldarle.
«Ho saputo che hai comprato la casa grande», disse Daniel, gettando i
cocci di vetro e di porcellana nel cestino della spazzatura. «Ti ci sei già
trasferita?».
«Più o meno. La maggior parte della mia roba si trova là, ma sto ancora
dormendo nell'ex rimessa per le carrozze».
Lui inarcò un folto sopracciglio con aria interrogativa.
Era una domanda a cui non mi andava di rispondere in quel momento. E
forse mai.
«Okay», dissi in tono vivace. «Senti, mandami il conto della lavanderia
per lo smoking. È stata tutta colpa mia. Credo che andrò a scroccare un
passaggio fino in città. Ci vediamo».
Gli rivolsi un brioso cenno di saluto con un dito.
«Ho visto tuo zio andarsene più di un'ora fa», mi gridò dietro lui.
Mi voltai lentamente. «Ha avuto un'emergenza, ma Merijoy può trovare
qualcun altro disposto a portarmi in città». Mi incamminai di nuovo. Sentii
una smagliatura salirmi lungo il polpaccio della gamba sinistra. Le dita dei
piedi sguazzavano nei sandali.
«Io sto tornando in città», annunciò Daniel, «se vuoi venire con me».
«Pensavo che dovessi preparare un buffet di mezzanotte. Non sono
ancora le undici».
«Di quello si occupa un altro addetto al catering», spiegò lui. «E ho il
furgone del Guale. Devo lasciarlo al ristorante e riprendere il pick–up che
ho lasciato là davanti, quindi sei sulla strada».
«Hai posto?», chiesi, pensando all'alsaziana pettoruta. Michelene.
Lui prese un'aria seccata. «Non ti ho appena offerto un passaggio? Certo
che ho posto. Allora, sì o no?».
«D'accordo. Sì. Grazie».
«Bene. Ci troviamo qui davanti fra dieci minuti. Devo solo assicurarmi
che sia stato caricato tutto sul furgone».
Trascorsi i dieci minuti seguenti nella toilette, cercando di lavarmi via lo
champagne dai capelli e risistemarmi il trucco.
Era una causa persa. Avevo con me solo il rossetto, e nella minuscola
borsetta da sera non c'era stato abbastanza posto per un pettine o una
spazzola.
Alle undici in punto ero ferma accanto ai gradini all'ingresso della villa,
stretta nello scialle umido. Sentii un miagolio e guardai giù. Un minuscolo
gattino nero si strofinò contro il mio sandalo. Probabilmente mi aveva
scambiato per una scatoletta di Friskies.
Gli permisi di leccarmi via un po' di salsa di granchio dal sandalo. Non
agitarti, mi ammonii. Sei in condizioni disastrose. Lui ha una ragazza. Ti sta
dando un passaggio solo per pietà.
Chi stavo cercando di prendere in giro? La triste realtà era che da Daniel
Stipanek avrei accettato qualsiasi cosa, anche una dose di pietà.
Lui si fermò davanti alla porta d'ingresso con il grosso furgone bianco
sulla cui fiancata campeggiavano le parole "Guale – Un bistrò del Sud".
Saltò giù, girò intorno al veicolo e mi aprì la portiera del passeggero. Poteva
anche odiarmi a morte, ma era comunque troppo educato per permettere che
una signora si aprisse la portiera da sola.
«Grazie», mormorai, issandomi sul sedile. Daniel si mise al volante, mi
lanciò un'occhiata e fece un sorrisetto malizioso. Abbassai lo sguardo. La
gonna mi era salita quasi fino all'inguine.
«Piacere mio», disse, distogliendo rapidamente lo sguardo.
«Cosa pensa la tua ragazza del fatto che tu lasci la festa in anticipo per
darmi un passaggio fino a casa?», chiesi.
Mi fissò con l'aria di non capire. «La mia ragazza?».
Mi sistemai lo scialle in grembo, mettendolo in modo che mi coprisse le
ginocchia.
«Pensavo che stessi uscendo con una donna che lavora al ristorante»,
dissi.
«Adesso non più». Inserì la marcia e sfrecciò lungo il vialetto, in una
nube di polvere.
Strinsi con forza le labbra e serrai le mani che tenevo in grembo. Un gran
bel risultato per i miei sforzi di intavolare una conversazione educata.
Daniel svoltò sull'asfalto di Skidaway Road e rallentò a stento all'altezza
del cartello di stop. Eravamo quasi arrivati a Thunderbolt quando parlò di
nuovo.
«Sei proprio un bel tipo, vero?».
Continuai a tenere lo sguardo fisso davanti a me.
«Cosa vorresti dire?».
Colpì il cruscotto con un pugno. «Sai dannatamente bene cosa voglio
dire. Cos'era quella battuta sulla mia ragazza? Hai chiesto di nuovo a BeBe
di controllarmi?».
Be', BeBe era la mia migliore amica. Certo che le avevo chiesto di
controllarlo.
«Non montarti la testa», dissi. «Ho notato per puro caso che stavi
parlando con quella cameriera bionda, stasera. Sembravate piuttosto intimi.
Ho semplicemente dedotto...».
«Hai semplicemente dedotto che fosse un'oca, visto che è bionda e fa la
cameriera, e quindi che me la stavo sicuramente scopando», ribatté lui,
scuotendo il capo. «Be', ti sbagli di grosso. Siamo usciti insieme qualche
volta. Michelene non è una stupida, anzi, è davvero intelligente. È laureata
in storia dell'arte. Solo che non abbiamo molto in comune, visto che io sono
solo un umile cuoco e via dicendo».
Mi morsicai il labbro. Era stato un errore pensare che le cose avrebbero
potuto sistemarsi, tra noi. Daniel continuava ad avercela a morte con me.
Niente avrebbe potuto cambiare la situazione.
«Non l'ho affatto pensato», lo corressi in tono secco, poi tacqui. Sentii gli
occhi che mi si riempivano di lacrime.
Però, prima che potessi emettere un solo singhiozzo, Daniel sterzò
bruscamente sulla sinistra, attraversando due corsie trafficate e infilandosi
nel parcheggio dello Skiddaway Liquor Store. Frenò di colpo e io scivolai
lungo il sedile di pelle e quasi tra le sue braccia.
«Dannazione, Weezie», disse con voce roca. Mi attirò a sé. «Smettiamola
con i giochetti. Sono negato per questo genere di cose. Non me ne frega un
accidente di Michelene, o di chiunque altra. Sono uscito con lei perché
sapevo che BeBe sarebbe corsa a dirtelo. Volevo farti ingelosire».
«Perché?». Mi allontanai da lui.
«Probabilmente volevo farti soffrire come tu hai fatto soffrire me. Ma è
inutile». Mi stava baciando sul collo. «Sai di champagne».
Sollevai le mani e gli passai le dita tra i capelli. Qualcosa mi si appiccicò
al pollice. Odorava di pesce. «Credo che tu abbia del caviale tra i capelli».
Lui rise e mi baciò con trasporto, questa volta sulle labbra. «Dio, mi sei
mancata», disse, prendendomi il viso tra le mani.
«Anche tu a me», risposi. «Ti ho tenuto d'occhio per un po'. Passando in
macchina davanti alla casa di Tybee».
«Una volta ti ho visto. Quella sera sono stato sul punto di chiamarti, ma
ero troppo testardo».
Le sue mani vagarono sul mio corpo e io non feci assolutamente nulla per
fermarlo, anche se eravamo parcheggiati proprio di fronte al negozio di
liquori, con gente che arrivava in macchina e scendeva passandoci accanto.
Sentii un'altra risata, soffocata, perché lui aveva il viso affondato tra i
miei seni.
«Cos'altro c'è?», chiesi.
Daniel stringeva tra pollice e indice un affarino a forma di pisello. «Un
cappero. Se andiamo avanti così potremo organizzare il nostro buffet di
mezzanotte».
«Se andiamo avanti così ci arresteranno per oltraggio al pudore»,
sottolineai io. «Non che voglia fermarti, tesoro, solo che penso che ci siano
posti migliori dove farlo».
«Hai ragione», ammise con riluttanza. «Casa mia o casa tua?»
«Casa mia», risposi, senza esitare. «La casa grande».
Sembrò sorpreso.
«Non voglio stare là da sola», confessai in tono esitante. «Pensavo che
fosse a causa di Caroline, ma probabilmente mi sbagliavo. Forse non
dipendeva affatto da lei ma da me. Non ero ancora pronta».
Daniel mi cinse le spalle con un braccio e mi strinse ancora più a sé, poi
girò la chiave dell'accensione. «Posso fare qualcosa per aiutarti?».
«Lo faresti?», chiesi, un po' intimidita. «Passeresti la notte con me nella
mia nuova casa?».
«Dipende», rispose lui, tornando sulla Skidaway Road e puntando verso
la città.
«Da cosa?».
«Da quello che offri come dessert. Ho già gustato l'antipasto, sai».
Allungai una mano e cominciai a sbottonare i minuscoli bottoncini di
madreperla della sua camicia da smoking.
«Oh, sarà dolce», promisi. «Molto, molto dolce».
Ringraziamenti

Nell'estate del 2000 sono scappata da casa per svolgere le ricerche


relative a questo libro e scriverlo. Un migliaio di ringraziamenti, baci e
abbracci a coloro che ho lasciato ad Atlanta – Tom, Katie e Andy. E ancora
di più a quanti mi hanno aiutato a trovare una casa temporanea a Savannah.
Jacky Blatner Yglesias e Polly Powers Stramm mi hanno offerto cibo,
amicizia, vendite immobiliari e contatti inestimabili. Jan e Jay Bradley sono
stati i padroni di casa più gentili del mondo. Anne Landers e il "club delle
cenette" di Ardsley Park mi hanno dato più di quanto potranno mai
immaginare – inclusa la ricetta per le polpettine di gamberi con remoulade.
E i "punzecchiatori" del mercoledì sera al Twiggs di Savannah mi hanno
fatto piegare in due dalle risate. Devo anche ringraziare il procuratore
distrettuale di Chatham, Spencer Lawton, e i vicedirettori del carcere di
Chatham che mi hanno chiuso in gattabuia per il bene dell'autenticità.
Qualunque imprecisione, inesattezza o errore madornale sono interamente
colpa mia.
FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI OTTOBRE 2006
DA GRAFICA VENETA S.P.A., TREBASELEGHE (PD)

Potrebbero piacerti anche