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Letizia Loi

LA GRANDE MUTAZIONE
LA GRANDE MUTAZIONE
Autore: Letizia Loi
Copyright © 2014 La mela avvelenata BookPress
Via Donna Prassede 8 - 20142 Milano (MI)
info@lamelavvelenata.com
http://deadly.lamelavvelenata.com

ISBN 978-88-98847-06-8
Impostazione grafica e progetto copertina:
Valentina Sannais
© 2014 La mela avvelenata BookPress
Editing a cura di: Alexia Bianchini
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni
riproduzione dell’opera, anche parziale.
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi,
luoghi ed eventi narrati sono il frutto della
fantasia dell’autore o sono usati in maniera
fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali,
viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da
ritenersi puramente casuale.

ISBN: 9788898847068
Questo libro è stato realizzato con BackTypo
un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
Cit.
Negredo
Albedo
Rubedo
Biografia
Ringraziamenti
CIT.

If you are going through Hell, keep going.


– Winston Churchill
NEGREDO
O pera al Nero

Era trascorso quasi un anno dall’Afghanistan


quando lo rincontrai.
Era una mattina cupa, la pioggia si abbatteva come
proiettili sui finestroni della Pneumopolitana, gocce
grosse, rumorose e dense. L’acqua scorreva così fitta sui
vetri da rendere impossibile distinguere il grigio
paesaggio esterno. Potevo a malapena intuire sullo
sfondo le ciminiere della Hoffman & Sons, alla quale mi
stavo dirigendo, e il profilo dei palloni aerostatici
attraccati sul fiume, sopra il Big Bang.
Lo scompartimento era vuoto e silenzioso, a parte
il battere della pioggia e il fracasso dei pistoni sulle rotaie
della Sopraelevata. I sedili erano di un rosso sbiadito
dalle migliaia di schiene che vi si erano poggiate, ma
abbastanza ampi e comodi da cullare gli scossoni.
Passai distrattamente le dita sulla cartella di pelle
che custodiva i miei progetti, anch’essa bagnata di
pioggia. All’interno vi erano i miei nuovi lavori, le ultime
macchine che avevo ideato. Quelle che non
ammazzavano nessuno. Speravo che la loro ideazione,
insieme alla reputazione che mi portavo sulle spalle con
riluttanza, sarebbe bastata a trovarmi un posto di lavoro
alla fabbrica più conosciuta della City.
Una voce familiare, bassa e ruvida come sabbia, mi
riscosse da quelle elucubrazioni: «Maggiore Smith?»
Sollevai lo sguardo per incontrare gli occhi blu di
qualcuno che pensavo non avrei più rivisto. «Colonnello
Shurley» mormorai sorpreso.
Era cambiato, naturalmente. Lo eravamo entrambi.
Non era più la figura emaciata e pallida che rammentavo
stesa sulla branda della tenda medica, accanto alla mia.
Eppure era inconfondibile. Alto e slanciato, con un fisico
da corridore più che da soldato. Gli occhi dal
compassionevole taglio all’ingiù, la bocca arcuata e piena,
la mascella squadrata.
«Questo posto è occupato?» mi domandò,
accennando al sedile di fronte al mio.
«No, prego» lo invitai a sedersi con un gesto della
mano, raddrizzandomi sul posto in un riflesso
condizionato, ancora sorpreso da quell’incontro.
Si accomodò di fronte a me con innata eleganza,
curandosi di non sgualcire il cappotto. I capelli neri non
erano più arruffati e sporchi come li ricordavo, ma
tagliati di fresco e impomatati. Il volto e le mani non
apparivano più bruciati dal sole, benché mostrassero
ancora un’intensa abbronzatura, che con ogni probabilità
non sarebbe mai scomparsa del tutto. Come la mia,
d’altronde.
Ci scrutammo in silenzio per un lungo minuto,
abituandoci di nuovo alla presenza dell’altro, all’essere
ancora entrambi vivi, in salvo, al sicuro nella civilizzata
Londra. La pioggia che batteva sui vetri e il cla-clam-cla-
clam dei pistoni della Pneumopolitana divennero solo un
rumore bianco in sottofondo.
«Ti trovo bene» disse infine, rompendo la quiete.
Mi strappò un mezzo sorriso. «Anche io».
«Come ti sta trattando la City?» mi domandò.
Un accenno di risata mi sfuggì dalle labbra, un
suono che non portava con sé nessuna vera gioia. «Mi ha
inghiottito e risputato» ammisi. E lui annuì, partecipe.
Facevo ancora fatica a integrarmi nella società.
Londra mi sembrava un mondo estraneo, dove tutto
scorreva rapido e disinteressato, troppo veloce perché
potessi aggrapparmi a qualcosa. I rumori forti
continuavano a farmi sussultare, portare avanti una
conversazione civile era una recita vuota, il mio sonno
era un incubo continuo di sabbia, vento e polvere da
sparo.
«Sono in cerca di lavoro» continuai, tamburellando
le dita sulla cartella che portavo in grembo. La pensione
che ricevevo dal governo di nostra Maestà era appena
sufficiente a pagare le cure per mia madre, sotto le
attenzioni di una gentile cameriera a cui l’avevo affidata
prima di arruolarmi, e un piccolo alloggio nel West End.
«E lei, Sir?» chiesi, non per cortesia, ma sinceramente
interessato.
Il Colonnello trasse un portasigarette in ottone
dalla tasca interna del cappotto e me lo offrì. Accettai in
silenzio e mi chinai sullo spazio tra noi per lasciare che
mi accendesse la stecca. La fiammella del cerino baluginò
per un attimo nel blu delle sue iridi.
«Mio fratello maggiore mi ha informato che non
apprezza il mio… stile di vita dissoluto» rispose, con l’aria
di citare letteralmente le parole del suo congiunto. Un
rivolo di fumo bluastro gli sfuggì dalle labbra arrossate e
secche, arricciandosi nell’aria.
Lo avevano tagliato fuori, intuii quindi. Ciò
spiegava perché prendesse un mezzo pubblico anziché
una carrozza a scoppio.
Di nuovo ci osservammo per qualche secondo
senza proferire verbo. Il silenzio non era mai stato teso
tra noi, fin dal nostro primo incontro c’eravamo sempre
compresi senza necessità di parlare.
Sapevo bene cosa intendeva: era una delle persone
più sobrie che conoscevo, non certo un dandy, eppure le
sue preferenze non erano un segreto né per me né per la
sua famiglia.
James Shurley era stato il più grande errore e la più
grande benedizione della mia vita. Amavo le donne, ma
laggiù all’inferno, dove eravamo sempre a un passo dal
morire, era stato un porto sicuro nella tempesta. Non
aveva nulla a che fare col suo aspetto – benché egli fosse
stato, e ancora fosse, una delle persone più affascinanti
che avessi mai conosciuto – e nemmeno con il fatto che
fosse un uomo. Ritrovarlo lì nella City, dove quei pensieri
erano illegali e peccaminosi, mi spaventava. Ma non
abbastanza da allontanarmi da lui.
Mi aveva salvato la vita, era tornato indietro per me
quando nessuno era rimasto, mi aveva protetto con il suo
corpo dall’ordigno che era esploso a pochi piedi da noi. E
le schegge nonostante tutto gli avevano trapassato il
petto, conficcandosi nella mia schiena e rovinando la
carriera a entrambi. Pur non avendo colpito alcuna zona
vitale, infatti, i frammenti erano stati scagliati dalla
detonazione a una velocità tale da renderli pericolosi
quanto proiettili, e il ricovero era stato lungo e penoso.
Nell’intimità del nostro scompartimento mi
allungai a prendere la sua mano e gli accarezzai le nocche
con il pollice, in muto conforto.
«Dean?» mormorò, ma non si ritrasse dalla mia
presa. Una domanda inespressa. La sigaretta moriva tra le
sue dita, ignorata, e la cenere crollò a terra.
«Permettimi di invitarti a cena, Jimmy».
Lui annuì.

Il colloquio andò a buon fine. Dalla settimana


seguente sarei stato ingegnere meccanico alla Sezione
Progetto e Sviluppo della Hoffman & Sons. Avrei avuto
due assistenti personali e una squadra di cinque
meccanici alle mie dirette dipendenze. Il primo progetto
su cui avremmo lavorato erano proprio i design delle
protesi leggere e a basso costo che avevo portato come
presentazione, studiate sul campo per altri reduci di
guerra.
Quella sera incontrai Jimmy all’hotel dove
alloggiava in attesa di trovare un nuovo appartamento, e
ci incamminammo fianco a fianco, immergendoci nella
nebbia, il suo braccio nel mio tra gli scoppiettii delle
carrozze e il tintinnare dei campanelli delle biciclette.
Trovammo un ristorantino italiano dalle parti di Baker
Street e festeggiammo la mia assunzione, oltre al nostro
nuovo incontro. Il cibo era semplice e delizioso, la
conversazione facile e familiare. E forse avemmo
entrambi troppo vino, ma a nessuno dei due pareva
importare.
Avevo la possibilità di fare ammenda, di ideare e
costruire macchine che aiutassero l’umanità anziché
sterminarla. Solo quello bastava a sollevare il mio umore.
La compagnia era un regalo inaspettato.
A fine serata dividemmo una carrozza. O almeno
quella era l’intenzione, prima che essa si fermasse con un
fischio davanti al mio alloggio e proponessi il bicchiere
della staffa.
Caracollammo oltre la porta, solo in parte coscienti
del trambusto che stavamo provocando, zittendoci a
vicenda con sommessi «Shhh, shhh» mentre già le mani
cercavano pelle nuda da toccare, e scrosci di risate ebre ci
sfuggivano dalle labbra. Ero ubriaco, ma non ero certo
che la causa fosse il vino.
Ebbi l’accortezza di accertarmi che le tende fossero
ben tirate, prima che Jimmy riuscisse a slacciarmi del
tutto i pantaloni. Raggiungere la camera da letto
sembrava un’impresa troppo gravosa, benché fosse
appena a pochi passi di distanza.
«In ginocchio» ordinò al mio orecchio, e la voce
ruvida mi causò nuovi brividi lungo la schiena.
«Sissignore» risposi, lasciandomi scivolare giù per il
suo corpo asciutto.
L’eccitazione era perfettamente intuibile attraverso
la stoffa dei calzoni. Vi affondai il viso, sfregando la linea
dura con la punta del naso, prima di sollevare lo sguardo
e incontrare i suoi occhi, neri nella penombra della
stanza. Mi accarezzò la testa, in attesa, paziente. Sbottonai
il tessuto e lo accompagnai sino alle caviglie, insieme
all’intimo. E per qualche infinito momento mi limitai a
respirarlo. Il profumo della sua pelle, pulito e intenso, era
familiare e tutto nuovo allo stesso tempo.
Jimmy tirò senza violenza una manciata dei miei
capelli per incitarmi, pregandomi in silenzio di smettere
di provocarlo. «Dean» sussurrò, un comando e un
avvertimento nascosto tra le lettere.
Mi leccai le labbra. Era un gioco tra noi indulgere
in quei ruoli, avrei potuto tirarmi indietro in qualunque
momento e lui me l’avrebbe permesso, ma non volevo
farlo. Quello che volevo era fargli tremare le ginocchia e
sentirlo spingersi nella mia gola.
E fu ciò che feci. Lo presi in bocca e lasciai che si
muovesse a suo piacimento, una mano ferma sulla mia
nuca e i fianchi che trovavano il proprio ritmo. Gli
accarezzai l’addome e il petto sotto la camicia, trascinai i
palmi lungo le cosce ferme come colonne, artigliai le
natiche sentendo i muscoli lavorare tra le mie dita.
«Dean, Dean, Dean…» ansimò in una litania, le
palpebre serrate e la testa gettata indietro.
Succhiai, sentendolo pulsare sulla lingua, duro e
bollente. Afferrai il mio membro, ancora in parte
intrappolato dai calzoni, sfregandolo allo stesso tempo.
Non impiegò molto a raggiungere il piacere, aveva
atteso troppo a lungo – quasi un anno – e lo conoscevo
troppo bene. Ingoiai come se stessi morendo di sete, e in
un certo senso era vero.
Jimmy mi tirò in piedi senza permettere né a me
né a lui stesso di riprendere fiato. Mi affondò la lingua tra
le labbra e portò una mano sulla mia, facendomi
stringere la presa sul mio sesso. Accelerò il ritmo e mi
portò oltre il limite in pochi, secchi tocchi.
Lì, nell’ingresso che fungeva anche da soggiorno, ci
tenemmo in piedi aggrappandoci l’uno a l’altro,
respirando a fatica. Sarebbe stato saggio chiamargli una
carrozza e pagargli la corsa fino all’hotel, lasciarlo andare
con un bacio d’addio e la promesso di ritrovarci un
giorno forse non troppo lontano, anche se sapevo che
non l’avrei più cercato. Proprio come non avevo mai
tentato di trovarlo dopo il nostro congedo.
«Resta» dissi invece, spingendo il naso contro la sua
guancia, la fronte premuta contro una sua tempia.
Ancora una volta Jimmy annuì in silenzio.

Così rimase. Il giorno dopo e quello dopo ancora.


In breve tempo i suoi effetti più essenziali si unirono ai
miei pochi averi. Trovò lavoro allo Strand come
giornalista, al quale vendeva occasionalmente qualche
racconto d’appendice, oltre agli altri articoli.
L’Afghanistan gli aveva insegnato a fare a meno del lusso,
e io non l’avevo mai conosciuto. Il poco che avevamo era
sufficiente a concederci una vita dignitosa.
Gli oggetti più preziosi che Jimmy aveva portato
con sé erano un bastone da passeggio con il manico
d’argento, che nascondeva una lama lunga e sottile – un
regalo del padre, mi disse – e la sua macchina da scrivere.
Era un fatto curioso, ma spesso pensavo che quei due
oggetti riassumessero bene la sua figura. Amavo vederlo
seduto al tavolo accanto alla finestra, con la luce grigia di
Londra a filtrare attraverso le tende e tra i suoi capelli,
una sigaretta tra le labbra e i polpastrelli che battevano
sui tasti. Amavo vederlo lì tanto quanto mi aveva
rassicurato averlo al mio fianco sulla sabbia, armato di
fucile.
La sera, dietro le finestre sprangate e le porte chiuse
a doppia mandata, ballavamo stretti nel breve spazio
davanti al camino, alla musica di un grammofono.
Seguivo i passi che mia madre mi aveva insegnato
quand’ero un ragazzino, ricordando i suoi riccioli rossi
volteggiare nell’aria. Sostituii il ricordo agrodolce con
ciocche nere e corte tra le mie dita. E quando ne
avevamo abbastanza di danzare, Jimmy aumentava il
volume per soffocare il suono delle nostre voci, i gemiti
che non riuscivamo a trattenere.
Dopo il mio primo stipendio ci trasferimmo in un
appartamento più decoroso, seppur non molto distante.
Nulla di eccezionale, davvero. L’ingresso si apriva
direttamente sul salotto, il cui mobilio principale era
costituito da due poltrone spaiate davanti al camino, un
tavolo da pranzo vicino all’angolo dov’era collocata la
stufuccina – un ibrido tra una stufa a gas e una cucina
economica recentemente prodotto dal mio reparto – e
una scrivania accanto alla finestra. La carta da parati,
ingiallita dal fumo, aveva un’orrenda fantasia floreale, e le
assi di legno del pavimento scricchiolavano a ogni passo.
Ma era ben connesso alla posta pneumatica e l’impianto a
gas era sicuro. La parete di fronte alla porta d’ingresso
portava a due camere da letto e anche lì l’arredamento
era spartano: un letto a due piazze, un comodino e un
armadio. Una di quelle stanze non venne mai utilizzata.
Vorrei poter dire che fosse tutto perfetto, ma non lo
era. Eravamo pur sempre due adulti che dividevano un
piccolo spazio, e nondimeno due uomini molto testardi.
In principio, prima ancora che trovassimo il nostro
nuovo alloggio, ci furono alcune discussioni sull’affitto:
non avrei voluto che si sentisse obbligato a pagare –
d’altronde mi aveva salvato la vita, e nessun ammontare
di denaro avrebbe mai ripagato quel debito – ma Jimmy
insistette per dividere le spese.
La notte, se non ero io a svegliarmi con un grido
intrappolato in gola, era lui a precedermi. Al sorgere del
sole fingevamo che l’inferno non ci desse la caccia, ma
nel buio, quand’eravamo forzati ad abbassare la guardia,
era diverso. Ci aggrappavamo l’uno a l’altro e
respiravamo il più piano possibile per ascoltare il battere
della pioggia sui vetri, per ricordare dove eravamo.
Oppure ci attardavamo a lungo davanti al caminetto
acceso, rimandando quanto potevamo l’inevitabile
momento in cui avremmo dovuto cedere al sonno.
«Ti capita mai di rimpiangerlo?» mi domandò una
di quelle sere, lo sguardo perso tra le fiamme, il volto
illeggibile. Tra le dita teneva mollemente una sigaretta,
dimentico di averla accesa.
«Cosa?» replicai, pur avendo una vaga idea di dove
si fosse persa la sua mente.
«Esserti arruolato. Tutto quello che abbiamo fatto
laggiù, all’inferno» chiarì, incontrando i miei occhi solo
per un breve momento, prima di tirare una boccata di
fumo come se ne avesse bisogno per respirare.
Mi agitai sulla poltrona senza volerlo, mettendomi
istintivamente più dritto, il corpo che per abitudine
cadeva in una postura militare. L’avevo sempre e solo
chiamato inferno nella mia testa; sentire Jimmy fare
altrettanto mi lasciò in qualche modo turbato, anche se
non saprei dirne con certezza la ragione.
Impiegai più tempo di quanto mi piace ammettere
per rispondere, ma infine ammisi: «Ogni giorno della
mia vita».
Chiusi gli occhi. Nelle fiamme del camino vedevo
ancora le esplosioni, le sentivo nelle orecchie, potevo
quasi respirare l’odore di polvere da sparo. «Ma… è ciò
che ci ha portato qui, no? Ciò che ha portato entrambi
qui. E mi ha concesso più tempo con mia madre». Non
potevo davvero rimpiangere gli ultimi anni che le avevo
comprato, il sorriso che ero riuscito a strapparle al mio
ritorno. «Non te l’ho mai chiesto… cosa ti ha portato ad
arruolarti?»
Jimmy si accigliò, pensieroso. «Non ne sono più
certo» confessò. «Sembrava la cosa corretta da fare a quel
tempo, suppongo. Tutti i miei fratelli avevano già
un’importante carriera: bancari, medici, avvocati… ma io?
Non volevo essere uno di quegli scrittori perdigiorno.
Ero bravo con la scherma e con la tattica, sono sempre
stato piuttosto furbo» asserì, privo di falsa modestia.
«Volevo rendere mio padre fiero». Esalò un ricciolo di
fumo dalle labbra, guardandolo srotolarsi nella luce
aranciata delle fiamme. «Hai presente come ci
chiamano… invertiti. Come se indossassimo la giacca con
la fodera all’esterno, o come se tutti gli altri nuotassero da
una parte e noi fossimo sulla riva sbagliata del fiume. Per
tutta la vita mi sono sentito a quel modo: sottosopra. Così
pensai che per una volta avrei potuto lasciarmi trascinare
dalla corrente» concluse, poi tacque per lungo tempo.
Finché mi alzai e presi la sua mano, tirandola
gentilmente per suggerirgli di mettersi in piedi.
«Vieni a letto» fu tutto ciò che dissi.
C’erano anche problemi più mondani, comuni a
tutte le convivenze. Jimmy sapeva essere
sorprendentemente disordinato, malgrado l’educazione
militare. I privilegi dell’essere cresciuto con una
governante, circondato da un esercito di camerieri. La
sua scrivania era sempre un disastro, l’unica cosa
perfettamente impilata erano i fogli dattiloscritti. Era
facile intuire cosa appartenesse a me e cosa a lui, nelle
nostre stanze. Sembrava quasi di vedere una linea
tracciata a terra, a dividere il mio ordine ossessivo da
quello che Jimmy chiamava il suo caos organizzato.
«Lascia stare, Dean. È tutto perfettamente al
proprio posto» insisteva ogni volta che tentavo di
convincerlo a dare una sistemata.
Una volta al mese Jimmy faceva visita ai fratelli; più
perché questi volevano conservare le apparenze, che per
loro sincero interesse. Gli Shurley erano una famiglia di
“nuovi borghesi”, benestante e aggrappata all’immagine
più di quanto lo fossero gli autentici Lord che bussavano
alle loro porte in cerca di denaro. Sapevo che la madre di
Jimmy era mancata poco tempo dopo la sua nascita, per
complicanze dovute al parto, mentre il padre era stato
stroncato da un infarto quando ancora eravamo in
Afghanistan; la notizia era giunta al fronte con quasi sei
mesi di ritardo. Gli erano rimasti solo i fratelli e la
sorella: Marcus, Lucy, Roland e George.
«Non è stato sempre così» mi rivelò una volta, e io
rimasi zitto per paura di interromperlo. Jimmy non
parlava spesso della famiglia, ancora meno di quanto
parlasse della guerra; non che della seconda fosse
necessario discuterne, l’avevamo vissuta insieme.
«Quando eravamo piccoli, era Marcus a occuparsi di tutti
noi. Sembrava essersi messo in testa che fosse suo
dovere, in quanto figlio maggiore. E Lucy tentava di farci
da madre, a suo modo. A parte la governante, lei è l’unica
figura femminile della mia infanzia. Ed era così
intelligente, sai? Molto più di tutti noi maschi messi
assieme. Avrebbe meritato un posto all’università ben più
di noi».
Non ero certo di quando le cose fossero andate a
rotoli. Forse lo erano sempre state, fin dalla morte di Mrs.
Shurley, o forse era cominciato tutto quando i suoi
congiunti avevano compreso che Jimmy non fosse affatto
interessato al gentil sesso. Qualcosa lungo il cammino era
andato orribilmente storto, trasformando l’amore
fraterno in astio e vergogna malcelati.
Dopo ogni incontro con loro ero costretto a vederlo
rincasare furioso e abbattuto. In quelle occasioni Jimmy
mi tirava a lui, mi spingeva sulla poltrona e mi saliva
addosso, spogliando entrambi appena il tanto che bastava
a calarsi con ferocia sul mio membro. Oppure si gettava
in ginocchio e lo prendeva in bocca senza indugi, come
se stesse morendo di fame. Come se avesse bisogno di
rimarcare qualcosa… che quella era la vita che aveva
scelto, e l’amava.
Solo una volta mi presentò due dei fratelli, Marcus
e George, e fu per un caso fortuito. Li incontrammo
all’uscita di una soirée a teatro, sopra il tappeto rosso,
sotto la luce di pesanti lampadari di cristallo; non ci
concedevamo spesso simili svaghi, ma eravamo vicini a
Natale e Jimmy amava l’opera.
George era il più giovane dei due, appena un paio
d’anni più vecchio di Jimmy, e il più amichevole. Aveva
capelli biondi e ricci, e intensi occhi verdi. L’unica
somiglianza che trovai con il mio compagno fu la forma
generosa della bocca e la fossetta sul mento. Ci rivolse un
sorriso cortese e mi strinse la mano quando vennero fatte
le presentazioni.
Marcus, invece, era un uomo massiccio e possente,
con spalle larghe e schiena dritta come un fuso. Aveva i
capelli corvini come quelli del fratello minore e gli stessi
occhi verdi di George, ma la smorfia che gli storceva le
labbra era tutt’altro che gentile.
«Jimmy mi ha parlato molto di voi» esordii nel
tentativo d’essere civile.
«Sì, James ha accennato qualcosa alla vostra…
convivenza» pronunciò la parola “convivenza” come se
qualcosa di disgustoso gli fosse appena morto in bocca e
lasciò la mia destra a mezz’aria, ignorata.
Ritirai la mano e la portai alla tasca esterna della
giacca. Presi il portasigarette facendo un certo sfoggio nel
non offrirlo a nessuno, quindi ne accesi una e, dopo aver
tratto un tiro, la infilai tra le labbra di Jimmy. Lui sbatté le
ciglia, preso alla sprovvista, ma fu l’unica reazione che
ebbe, prima di ispirare il fumo e restituirmela. La mano
di Marcus si strinse sul pomolo del bastone fino a
sbiancare le nocche.
«È stato un piacere» chinai la testa in saluto, poi
offrii il braccio al mio coinquilino e girammo sui tacchi,
allontanandoci dallo sgradito incontro. Jimmy si piegò su
di me, nascondendo un sorriso contro la mia spalla,
mentre chiamavo una carrozza.
Mia madre ci lasciò quell’inverno, vinta dalla
malattia. Jimmy divenne la mia sola famiglia e, per
quanto concerneva ciò che davvero importava, io ero la
sua.
Solitamente mi occupavo di progetti di alto livello,
soprattutto androidi, ma non mancavano i casuali piani
di lavoro più piccoli. Ideai uno strumento di dettatura,
per esempio, sperando che un giorno sarebbe stato utile
a Jimmy; anche se lui sosteneva di riuscire a pensare
meglio quando scriveva a mano o a macchina.
Amavo i progetti minori perché quelli più grossi
erano di gran lunga più drenanti, a volte portavano via
interi mesi di calcoli, bozze, grafici e statistiche, senza poi
contare la costruzione e i test di rodaggio. Cercavo
sempre di inframmezzare i più importanti con qualcuno
di livello più basso, in modo da riposare la mente. Non
solo per me, ma anche per la squadra di tecnici e
meccanici di cui ero a capo.
Fu quindi con curiosità e divertimento che accolsi
la commissione di un’azienda indipendente della City, la
Red Passion Bot. In genere condividevo le mie idee con
Jimmy, che mi ascoltava sempre con pazienza e occhio
gentile quando parlavo a ruota libera con l’entusiasmo di
un ragazzino. Gli mostravo i disegni, gli spiegavo i calcoli
e gli raccontavo i progressi dei test. Ma quella volta tenni
segreto il mio nuovo, piccolo lavoro. Volevo che fosse
una sorpresa.
«Ho qualcosa per te» annunciai una sera, rientrando
a casa, a un mese dalla commissione della Red Passion
Bot. Gli porsi una scatola semplice: era bianca, lunga e
rettangolare, chiusa da un fiocco rosso.
Jimmy rispose con un sorriso e un bacio casto,
prima di sciogliere il nastro con le sue dita eleganti e
aprire la confezione. Rimasi in piedi davanti a lui e sentii
le mie pulsazioni aumentare non appena sollevò il
coperchio, rivelando l’interno. Conteneva quattro pezzi:
un cubo simile a un carillon, decorato da grifi d’ottone, a
cui si dava la carica con una piccola chiave; un braccio
meccanico che si attaccava al cubo; un comando a
distanza; e l’ultima gloriosa parte, che andava a istallarsi
all’altra estremità del braccio meccanico: una
riproduzione realistica di un pene.
Trattenni il respiro quando Jimmy sollevò
quell’ultimo pezzo, lasciando scorrere un polpastrello
dalla base alla punta. Era in silicone – invenzione recente
di un genio visionario, Frederick Kipping – un materiale
che usavamo spesso per ricoprire lo scheletro degli
androidi e dargli sembianze più umane, e la forma era
familiare a entrambi. Lungo, leggermente curvo a destra,
con una cappella grossa e perfetta che mi dava sempre
l’acquolina in bocca.
Jimmy si leccò le labbra, lo posò di nuovo al suo
posto e dispiegò il foglio d’istruzioni. I suoi occhi si
allargarono leggermente quando lo lesse, poi sollevò lo
sguardo su di me, mostrandomi due pupille grandi come
penny. La voce gli calò di un ottava quando disse:
«Montalo» in un tono per me inconfondibile,
causandomi un brivido giù per la schiena.
«Sissignore» risposi, affrettandomi a eseguire il
comando. Misi insieme i pezzi con mani tremanti di
nervosismo e aspettativa, lasciando a lui il comando a
distanza, poi feci un passo indietro per permettergli di
ammirare la macchina. E attesi, la schiena dritta, le
gambe appena divaricate, le braccia dietro la schiena.
«Spogliati» ordinò allora, sempre seduto in
poltrona. Non sentiva l’esigenza di alzarsi, di imporsi
fisicamente su di me; non era necessario.
Cominciai dalle scarpe, slacciandole e posandole di
lato, poi mi levai i calzini e li appallottolai all’interno di
esse. Il cappotto era appeso all’attaccapanni nell’ingresso,
ma avevo ancora indosso la giacca, che mi affrettai a
sfilare, poggiandola sul bracciolo dell’altra poltrona. Presi
più tempo per il panciotto e la camicia, liberando ogni
bottone dalla sua asola in un lento spettacolo che sapevo
sarebbe stato apprezzato, prima di piegare
ordinatamente entrambi i capi. Il mio cuore scandiva il
tempo, battendomi nei timpani, schiantandosi sulle
costole, pompando lento ma con forza; avevo
l’impressione che fosse raddoppiato in dimensione. La
macchina al mio fianco era un richiamo costante a cosa
sarebbe accaduto da lì a breve.
Gli occhi blu di Jimmy tracciavano ogni mio
movimento, ogni flessione di muscoli e tendini, e non mi
lasciarono nemmeno nel momento in cui fui costretto a
distogliere lo sguardo per sfilarmi la canottiera.
Seguirono le mie mani quando cominciai a slacciarmi la
cintura, poi i bottoni dei calzoni, che lasciai cadere a terra
prima di abbassare anche l’intimo. Raccolsi entrambi e li
piegai sulla poltrona, infine tornai alla postura di riposo
militare, un polso chiuso nella mano opposta.
Solo allora Jimmy si alzò, percorrendo in due passi
lo spazio che ci separava. Chiuse le dita su una manciata
dei miei capelli, tirando con decisione; il dolore
improvviso mi strappò un ansito e fece scattare il mio
membro, già dolorosamente duro. «Insolente da parte
tua scegliere propria quella forma, la mia forma.
Pianifichi di vendermi e fare in modo che la mia copia
dia piacere al resto di Londra?» disse in un sibilo.
Scossi il capo come potevo, causando altre fitte al
cuoio capelluto, che mi fecero alzare la pelle d’oca sulle
gambe e sulle braccia. Non ero un fanatico del dolore –
nessuno di noi due lo era, ne avevamo già visto fin
troppo, sia ricevuto che inflitto – ma amavo quelle
piccole scintille. In quel momento mi sentivo vivo.
«Non ho capito» insistette Jimmy.
«No, Sir» riuscii a tirare fuori con voce roca.
«Allora cosa, ragazzo?»
Mi leccai le labbra, soppesando bene le prossime
parole che avrei detto: mi avrebbero valso un premio o
una punizione, e io non volevo essere cattivo. L’unica
risposta possibile era la verità, se avessi mentito l’avrebbe
capito nel preciso attimo in cui avrei aperto bocca.
«Quando ho accettato questo progetto sapevo che
avrei dovuto testarlo personalmente, non potevo
delegare alla mia squadra qualcosa di tanto intimo. Così
ho dato al prototipo l’unica forma che potevo
desiderare».
Qualcosa brillò in quegli occhi blu, soddisfazione
suppongo, ma Jimmy non lasciò che si mostrasse sul
resto del suo viso. Allentò la presa sui miei capelli e li
carezzò con gentilezza, ricompensandomi per aver
eseguito i comandi alla perfezione. «Vieni qui» disse poi,
manovrandomi fino a farmi voltare verso il camino, la
schiena piegata in avanti e i palmi poggiati sulla mensola
per sorreggermi. Chiusi gli occhi e svuotai la mente,
lasciandolo fare. Adoravo la sensazione delle sue mani
calde addosso; mi spingevano a mettermi nella posizione
che preferiva, togliendomi il peso della scelta, l’ansia di
compiacerlo. Tutto ciò che dovevo fare era semplice:
eseguire gli ordini. Non avevo bisogno di pensare, né di
preoccuparmi di nulla.
Con la punta di una scarpa diede un leggero colpo
alle mie caviglie, incitandomi a divaricare le gambe, e mi
lasciò così: nudo, tremante d’eccitazione, in mostra.
Lo sentii frugare in un cassetto, ma non mi voltai,
attesi finché non sentii il peso del suo corpo – ancora
completamente vestito, notai con un nuovo brivido –
poggiarsi sul mio fianco e baciarmi la nuca, mentre
andava a spargere con i polpastrelli una sostanza untuosa
tra le mie natiche.
«Bravo ragazzo» mormorò al mio orecchio, tirando
il lobo tra i denti. Sospirai in apprezzamento, per le sue
parole ancor più che per la leggera morsa dei denti.
Mi aprì con le dita, senza fretta, e per il tempo in
cui quattro di esse erano dentro di me, rivoli di sudore
mi colavano dai capelli giù lungo la schiena. Faticavo a
stare immobile, i miei fianchi si muovevano per riflesso
condizionato in cerca di frizione, persino mentre Jimmy
divideva le dita a forbice, due da ogni lato, allargandomi
quanto più possibile. Ogni affondo di quelle falangi
faceva esplodere luci bianche dietro le mie palpebre
chiuse.
«T-Ti prego, Sir…» ansai, «adesso».
Con un ultimo bacio sulla mia tempia, Jimmy si
allontanò da me. «Voltati» ordinò. Prese due cuscini dalle
poltrone e li lasciò cadere sul tappeto, leggermente
distanziati l’uno dall’altro. «Giù» disse quindi.
Eseguii, instabile su gambe molli, lasciandomi
cadere a terra, un ginocchio su ciascun cuscino.
Ipersensibile, i passi di Jimmy mi parvero rimbombare
come spari sulle assi del pavimento, ogni scricchiolio era
il cigolio del grilletto.
Lui posizionò la macchina alle mie spalle, unse
anche il silicone e angolò il braccio meccanico finché non
sentii la grossa punta del dildo premere tra le mie
natiche.
«Mani dietro la schiena» comandò, girando la
chiave per dare la carica. La macchina cominciò a
vibrare, anche lei pronta a eseguire i suoi comandi. Mi
mossi per riguadagnare l’equilibrio, sbilanciato dal
cambio di postura, e Jimmy mi poggiò una mano sicura
sulla spalla, guidandomi sul silicone finché non fu
completamente al mio interno. Lasciai andare un sospiro
– non mi ero accorto di aver trattenuto il fiato – e
contrassi i muscoli attorno a esso, assaporando il bruciore
e la forma familiare. Tremava a causa dei meccanismi
pronti all’azione, spedendo scariche di piacere su per la
mia colonna vertebrale, fino al cervello.
Jimmy prese il telecomando e mi scostò i capelli
umidi dalla fronte, accarezzando il mio volto. «Perfetto»
mormorò con calore palpabile, facendomi chiudere gli
occhi e piegare alla ricerca del suo palmo, di più contatto
fisico. Mi sfiorò lo zigomo con il pollice, poi il labbro
inferiore, facendomi schiudere la bocca. Con la mano
libera si slacciò i pantaloni, senza nemmeno levarsi le
bretelle e calarli, aprendoli giusto il tanto che bastava per
tirare fuori il suo membro, l’originale della copia fredda
già dentro di me. Scattò tra le sue dita, duro e tesissimo,
la cappella quasi viola e già bagnata. Il suo odore mi colpì
come uno schiaffò, lasciandomi ubriaco.
Jimmy disegnò le mie labbra con il glande,
inumidendole, mentre studiava il comando a distanza.
Schiacciò un pulsante e il braccio meccanico cominciò a
muoversi lentamente, pompando avanti e indietro, un
bruciore familiare ed estraneo allo stesso tempo, la
sensazione del silicone troppo artificiale contro le mie
pareti interne ma sempre deliziosa. Mi sfuggì un gemito
pietoso, ma fui presto zittito quando Jimmy guidò il mio
volto sul suo sesso, finché la mia bocca non si chiuse
attorno alla base, il naso che sfiorava la stoffa morbida dei
pantaloni.
«Succhia» ordinò e, se non fosse bastato il suo
sapore, avrei potuto gemere di nuovo solo per il tono
secco, urgente della voce.
Tenne una mano ferma sulla mia nuca,
immobilizzandomi la testa, e spinse con i fianchi,
seguendo il ritmo della macchina. Chiusi di nuovo gli
occhi, sopraffatto, preso da entrambe le estremità, e mi
conficcai le unghie nel polso per costringermi a stare
fermo. Il silicone si era scaldato rapidamente fino a
prendere la temperatura del mio corpo; era come se vi
fossero due Jimmy lì con me, a lavorarmi, a distruggere
ogni parvenza di dignità che avessi mai preteso di avere.
Sentii ogni muscolo rilassarsi, lasciarsi andare al suo
volere, permettere che mi usasse, che facesse di me ciò
che voleva. Gli unici rumori che percepivo oltre al rombo
del sangue nei miei timpani, erano il respiro ingolfato di
Jimmy e il ticchettio degli ingranaggi. Sentivo le sue
pulsazioni sulla lingua, premuta contro la vena gonfia
sotto il pene.
«Ma guardati…» sussurrò, grattandomi gentilmente
il cuoio capelluto, il collo, le spalle… tracce di fuoco sulla
mia pelle. «Era proprio questo che desideravi, non è così?
Uno solo non era abbastanza».
A quelle parole gemetti attorno al suo sesso, la mia
stessa erezione dura e ignorata mi sbatteva sulla pancia,
sospinto com’ero fra Jimmy e la macchina. Premette un
altro bottone e il ritmo accelerò, regolare e costante
come solo qualcosa di meccanico poteva essere. E anche
Jimmy si mosse più forte, affondando sino a sbattere
contro il palato e poi giù per la gola.
Rilassai i muscoli per lasciare che si spingesse fino
alla trachea, affondando il naso nel pube soffice,ma presto
lui perse la cadenza, e mi sfuggì un suono soffocato
mentre cercavo di riprendere a respirare. All’improvviso
Jimmy si ritrasse, liberandomi da quella costrizione, e
schizzi di seme caldo piovvero sulla mia bocca, le guance,
le ciglia, il naso.
Ansimai e schiusi gli occhi, le palpebre appesantite
dal liquido denso, il corpo tremante più del silicone che
mi pompava. Il mio membro era viola e bagnato di pre-
orgasmo.
«Ora» ordinò Jimmy. «Vieni per me, Dean».
E lo feci, spargendomi sul tappeto e sui cuscini,
sulle sue scarpe, sulle mie cosce. Mi afflosciai esausto, la
macchina che ancora si muoveva instancabile. Jimmy
non la spense subito, si inginocchiò davanti a me,
sostenendomi, cullandomi, mormorando sciocchezze
confortanti tra i miei capelli, e schiacciò un pulsante per
rallentarla. Poggiai la guancia sulla sua spalla, lasciando
andare tutti i versi che ero stato costretto a contenere,
aggrappandomi a lui. Solo dopo un minuto o due la
macchina si fermò, evitando una chiusa troppo brusca.
«Bravo, così bravo» sussurrò Jimmy, baciandomi la
fronte. «Il mio bravo ragazzo». Tirò fuori il fazzoletto e
mi ripulì con tenerezza il viso, incurante dello stato
discinto dei suoi calzoni. Poi mi aiutò ad alzarmi, e io mi
misi in piedi su gambe vacillanti, lasciando che mi
stringesse tra le braccia.
Ci voltammo entrambi a osservare la macchina.
«Penso sia pronta alla grossa produzione» ansimai,
e scoppiammo entrambi a ridere.
Un mese dopo il mio reparto ricevette un cesto di
frutta, indirizzato a me personalmente dal proprietario
della Red Passion Bot.

Nel mentre sulla City gravava una sottile cappa


d’ansia. Diverse persone erano scomparse dal giorno alla
notte, nell’arco degli ultimi mesi. Oppure non mettevano
più piede fuori di casa. Molto malati, insistevano i
congiunti di quegli sfortunati. La mortalità infantile
sembrò aumentare in maniera esponenziale. Le notizie
non raggiungevano mai i quotidiani, eppure parevano
essere sulla bocca di tutti. Sotto ogni tetto si nascondeva
qualcosa, o qualcuno.
La notte Jimmy abbandonava la macchina da
scrivere, le sue ricerche, i suoi sospetti, e mi stringeva tra
le braccia, sotto le lenzuola. Mi portava al piacere quasi
per esasperazione, con tocchi vaghi come sospiri, che
rendevano la pelle ipersensibile e ogni bacio sul corpo
doloroso nella sua intensità. Quando infine si spingeva
tra le mie natiche il sollievo era così intenso da darmi le
vertigini. E quando tutto era finito si aggrappava a me
come se avesse timore che potessi dissolvermi nell’aria.
I miei modi a confronto erano rudi, prepotenti. La
mattina, appena svegli, o al ritorno dal lavoro lo tiravo in
piedi e lo prendevo contro la prima superficie a
disposizione. Affondavo in lui senza finezza,
rabbrividendo nel sentirlo aprirsi per me, rispondere a
ogni morso, a ogni graffio, a ogni pressione.
Fu in quel clima teso che Jimmy si ammalò. Dolori
continui alle ossa, sulla schiena, dietro alle scapole. Nulla
sembrava alleviare quel malessere, né le prescrizioni del
medico né i massaggi delle mie mani. Sedeva curvo
davanti alla macchina da scrivere quasi che un peso
enorme gli gravasse addosso, ingobbito come un vecchio.
E nonostante tutto decise di fare visita ai fratelli.
«Ti accompagno» dichiarai.
«Sei un ingegnere meccanico, non una badante» mi
ricordò, addolcendo la replica con un bacio sul mio
palmo. «Va a lavoro. Sono ancora in grado di prendere
una carrozza».
A malincuore lo lasciai andare.
ALBEDO
O pera al Bi anco

Solitamente le visite di Jimmy non duravano più


dello spazio di qualche ora; quello era il massimo che i
suoi fratelli riuscissero a sopportare la sua presenza, e
viceversa. Tuttavia, quando rientrai al nostro
appartamento, non vi era traccia del mio compagno.
Cercai una nota sulla mensola del camino, dove ci
lasciavamo un biglietto qualora dovessimo uscire senza la
possibilità di avvertire l’altro. Non trovai nulla.
Considerai di attendere il suo ritorno per cinque
infiniti secondi, prima di infilare di nuovo il cappotto e
uscire. Chiamai una carrozza e diedi al macchinista
l’indirizzo degli Shurley.
L’elegante mansione si trovava a Chiswich, non
molto distante dall’abitazione di William Weasley, amico
d’infanzia di Jimmy e nostro commilitone. Pur non
essendovi mai stato, il mio compagno me l’aveva indicata
nelle occasioni in cui eravamo stati a cena dal Capitano
Weasley.
Aveva una facciata bianca intonsa, finestre
ottagonali che si aprivano sul giardino recintato di
magnolie e un portico ornato da colonne corinzie. Il
batacchio sulla porta, anch’essa bianca, era l’effigie di un
grasso putto d’ottone. Bussai con due suoni secchi che
alle mie stesse orecchie parvero spari.
Ad aprirmi fu un androide modello Sandman
vestito da maggiordomo. «Buonasera, Sir. Chi devo
annunciare?» mi domandò incolore. I capelli bianchi,
pettinati con sobrietà, contrastavano con i lineamenti
giovanili del volto.
Strinsi i denti, cosciente che quella bambola doveva
avermi riconosciuto e avere il compito di tenermi alla
porta. «Il Maggiore Smith. Sono qui per Jimmy».
«James è indisposto, Sir» rispose con voce
meccanica.
«Lo so bene. Sono qui per riaccompagnarlo a casa».
«James è a casa, Sir».
La mia pazienza raggiunse il limite. Casa non era
quella dimora pretenziosa e fredda, casa erano due
piccole stanze con una carta da parati orribile, scaldate da
due stufe a gas e un caminetto acceso.
«Fammi passare o ti smantello pezzo per pezzo»
ringhiai, ogni traccia di cortesia scomparsa.
L’androide rimase inespressivo, senza cedere il
passo. Tentare di spostare con la forza un Sandman non
era più semplice di spingere una montagna, così ricorsi a
un basso trucco: prima che potesse processare le mie
intenzioni, pressai uno specifico punto dietro il suo
orecchio e lui ricadde come un marionetta a cui avessero
reciso i fili. Lo scavalcai senza curarmi di richiudere la
porta.
La prossima a venirmi incontro fu una ginoide
modello Coppélia, abbigliata da cameriera. Il volto di
porcellana era perfetto, scolpito con maestria dai migliori
artisti, i capelli verde menta nascosti in parte dalla
cuffietta. Possedere una bambola della Hoffman & Sons
era segno di grande lusso, erano intelligenze artificiali
altamente sviluppate, frutto del più alto lavoro di
orologeria. Una sola di esse era più che sufficiente a
mandare avanti un’intera villa. Averne addirittura due era
pura ostentazione.
«Sii cortese, portami da Mr. Shurley» ordinai,
prima che potesse aprire bocca.
«Master Shurley mi ha pregato di riferirle che la
sua presenza non è gradita, Sir» rispose cortese.
«Sei una bambola perfetta, dolcezza, non
costringermi a disattivarti».
La Coppélia era sul punto di rispondermi, ma
venne interrotta da un grido lungo e penetrante. Mi si
accapponò la pelle. Conoscevo troppo bene quella voce.
Scattai prima che la cameriera meccanica potesse
impedirmelo, seguendo la direzione di quelle urla
inarticolate. Corsi attraverso il corridoio coperto d’arazzi,
i passi che rimbombavano sulle lucide assi di legno. In
fondo all’andito trovai una porta che presumibilmente
portava alle cantine. Tentai di forzare la serratura, ma era
chiusa a chiave. Al giungere di un nuovo grido la buttai
giù con un calcio.
Volai giù per la breve scalinata e mi trovai in un
ambiente buio e umido, adatto solo ai topi e alle scorte di
legna per l’inverno. Lo spazio era occupato da scaffali su
cui erano allineati vini e formaggi pregiati, e in un
angolo, su un pagliericcio gettato a terra, era
raggomitolata una sagoma familiare.
«Jimmy? Jimmy!» chiamai, raccogliendo il suo volto
tra le mani. «Santo Cielo» mormorai, sentendomi
impallidire.
La parte superiore delle sue vesti era lacerata e
ormai inservibile, lasciandolo a torso nudo, la pelle
sudata e pallida illuminata dalla luce che filtrava dal vano
scala. Ma non fu quello a causare l’orrore nella mia voce.
Sulla schiena macchiata di sangue, all’altezza delle
scapole stavano spuntando due ossa acuminate, e
crescevano a vista d’occhio, millimetro dopo millimetro.
Erano ormai lunghe quasi due spanne.
«Dean?» biascicò riconoscendomi.
«Sono qua» sussurrai deglutendo a fatica. «Andrà
tutto bene. Ti porto via da qui».
Jimmy tentò di rispondermi, ma la voce gli si
spezzò in un grido straziante, rimbombando sui muri in
infinite eco. Avevo sentito urla simili, sul campo. Avevo
assistito ad arti che venivano amputati, rotto ossa e
raddrizzato articolazioni. James Shurley non era una
donnicciola. L’avevo visto patire dolori inimmaginabili,
eppure in quel momento pianse tra le mie braccia come
un bambino.
«Uccidimi» farneticò. «Fallo smettere, Dean, ti
prego uccidimi».
Mi sentii lo stomaco rivoltarsi sottosopra. Sapevo
cosa stava chiedendo. All’inferno uccidere qualcuno che
soffriva era un atto di pietà. Avevo guardato la luce
spegnersi negli occhi dei nostri commilitoni mentre
premevo il grilletto che gli avrebbe portato pace, avevo
retto il loro peso morto tra le braccia e memorizzato ogni
lineamento dei loro visi, l’ultimo sorriso grato che mi
avevano concesso. Non potevo farlo ancora. Non stavolta.
«È l’unica cosa che merita» venne una voce alle mie
spalle. Mi voltai, trovando una sagoma alta e massiccia
sulla porta sopra le scale. Dopo un momento, oltre
l’ansimare sincopato di Jimmy, riconobbi la voce di
Marcus, suo fratello maggiore; doveva essere stato
chiamato dalla Coppélia. «Il Signore l’ha maledetto e lo
sta finalmente mostrando con il suo vero aspetto. Sei un
mostro, James. Un abominio».
«Silenzio» intimai. «Jimmy viene via con me».
«Lei non ha nessun diritto su di lui, Maggiore
Smith» rispose aspro.
Un nuovo gridò tentò di rompere gli argini della
gola del mio compagno e io lo strinsi a me, premendogli
il volto contro il mio petto, lasciando che mi conficcasse
le unghie nelle braccia e stringesse i denti sulle falde del
mio cappotto.
«Può lasciarmi passare, o può morire sotto i miei
pugni» lo avvertii, rimpiangendo di non aver portato la
pistola con me. Dalla mia convivenza con Jimmy avevo
perso gradualmente l’abitudine ossessiva di portarla
sempre appresso. Tuttavia, mio padre mi aveva insegnato
a fare a pugni quando ancora non arrivavo alla sua
cintura, mi aveva portato con sé agli incontri di boxe,
lasciato che reggessi il sacco mentre si allenava.
L’Afghanistan non aveva fatto altro che confermarmi che
potevo ammazzare un uomo a mani nude, se volevo.
Marcus Shurley si irrigidì visibilmente, preso alla
sprovvista. Sapeva che non era una minaccia vana, e un
damerino come lui non poteva affrontarmi. Dopo un
lungo minuto di silenzio, rotto solo dai singhiozzi di
Jimmy contro la mia spalla, la sua postura si rilassò.
«Faccia pure. Di questo passo, sarà morto prima
che faccia giorno, in ogni caso».
Jimmy non morì quella notte, ma ci andò fin
troppo vicino. Lo riportai a casa, ai nostri alloggi,
drappeggiato in una coperta. In carrozza lo tenni in
grembo e gli asciugai il sudore dalla fronte con il
fazzoletto, fingendo di non badare alle lacrime che gli
tergevo dagli occhi, ai gemiti che zittivano persino gli
scoppiettii della vettura. Lo presi tra le braccia e portai il
suo corpo su per le scale e oltre la soglia del nostro
appartamento, in una macabra imitazione di una coppia
di sposi, perché era troppo debole per reggersi in piedi.
Lo misi a letto steso prono e lo spogliai, ignorando
le sue preghiere. Gettai via giacca, panciotto e camicia,
ormai inutilizzabili, e gli ripulii la schiena dal sangue.
Tentai di esaminare, con le nozioni mediche di base che
avevo, quelle nuove protuberanze che gli spuntavano
dietro le scapole. In quanto ingegnere meccanico
conoscevo bene l’anatomia umana, che mi permetteva di
progettare e costruire androidi verosimili, ma non ero un
dottore. Ciononostante frugai nel mobiletto dei
medicinali e trovai una fiala di morfina. Iniettarla in
endovena era tutto ciò che fosse in mio potere, per il
momento. Dopo pochi secondi si afflosciò sul materasso,
esausto.
Frugai fra le carte di Jimmy, le ricerche e le mezze
testimonianze che aveva raccolto nei mesi passati. Poteva
essere questa la malattia che aveva colpito la City e, per
quanto sapevamo, il resto del mondo? Mi domandai
come l’avesse contratta. Come potesse diffondersi questo
virus – se davvero di ciò si trattava – che apparentemente
io non avevo preso pur vivendo al suo fianco.
Avrei dovuto chiamare un medico, ma ero
preoccupato, terrorizzato dalle possibili conseguenze. Di
chi potevo fidarmi abbastanza? Chi avrebbe mantenuto il
segreto professionale e non sarebbe corso a vendere la
notizia al primo giornalista di passaggio? Chi poteva
essere tanto umano da trattare ancora Jimmy come una
persona e non una cavia? O peggio, un mostro. Un
abominio, come l’aveva chiamato il suo stesso fratello.
James Shurley era l’uomo più gentile, più
caritatevole che avessi mai conosciuto. Gli erano state
poste sulle spalle molte ardue scelte e non si era mai
tirato indietro. Mai di fronte al pericolo, al dolore, alla
morte. Avevo passato ore al suo fianco, chini su carte e
mappe, a studiare i luoghi migliori dove piazzare le mie
macchine, le strategie che avrebbero riportato il maggior
numero dei nostri ragazzi a casa. Spalla a spalla con lui
sul campo di battaglia, i fucili in mano e gli occhi pieni di
sabbia, a gridare ordini e abbattere i nemici. E ora Jimmy
giaceva a letto in un sonno indotto, la schiena spezzata da
qualcosa che non poteva controllare. Forzato a smettere
di combattere.
E quand’era il mio turno di proteggerlo, di salvarlo
e tenerlo al sicuro, non c’era nulla che potessi fare.
Perché a lui?, mi chiesi. Perché a noi, perché
sempre a noi?

La mia famiglia non era ricca. Mio padre era stato


un pugile, uno molto bravo, ma non eccezionale. Mia
madre un’infermiera. Entrambi mi avevano insegnato
tutto ciò che sapevano, ma io amavo le macchine. Fin da
bambino, smontavo i pochi oggetti meccanici che
avevamo in casa per vedere com’erano fatti all’interno e
studiarne i componenti, prima di rimetterli insieme alla
perfezione.
A dodici anni sgraffignai lo stetoscopio di mia
madre e, connettendolo a una radio e a una macchina da
scrivere, creai un macchinario rudimentale che segnasse i
battiti del cuore. Lei si arrabbiò per due lunghi minuti,
prima di spalancare la bocca davanti al mio operato. Non
fu mai meno che fiera di me.
Non avevamo molti soldi, ma i miei genitori
salvarono ogni penny per farmi studiare meccanica,
tagliando sul riscaldamento, sul cibo, sugli abiti, vivendo
in maniera sempre appena poco più che decorosa. Non
se ne lamentarono mai.
Volevo fare qualcosa di grandioso in cambio,
rivoluzionare il mondo, inventare oggetti mirabolanti
che migliorassero la vita della gente.
Mio padre morì poco prima del mio diploma,
investito da una carrozza a scoppio. Mia madre si
ammalò pochi mesi dopo. E l’esercito di sua Maestà
cercava ingegneri meccanici, uomini visionari che
l’avrebbero portato alla vittoria. Arruolarmi mi parve la
maniera migliore di ricompensare i loro sacrifici. Avrei
potuto pagare le cure mediche di mia madre, e stavo
difendendo il nostro paese. O almeno questo fu ciò che
cercai di dirmi ogni giorno.
Mi feci un nome ideando macchine che
sterminavano la gente.
L’aiuto che prestavo nella tenda medica, assistendo
il nostro medico militare, sempre gomito a gomito con
Jimmy, non era mai abbastanza.
Nel sonno ancora vedevo le esplosioni, i corpi
smembrati, abbattuti dalle mie invenzioni che
avanzavano implacabili, marciando sulla sabbia e sui
cadaveri.
E ora, quando la vita più importante dipendeva da
me, non avevo nessun coniglio nel cappello. Nessuna
brillante idea che potesse salvarlo. Ero io il mostro,
l’abominio.
Le settimane seguenti rimasi a casa. Altri meccanici
si stavano occupando di costruire il mio ultimo progetto
e mi scusai per l’assenza con il mio superiore, insistendo
che riuscivo a concentrarmi meglio sul nuovo progetto
lavorando nella pace domestica. Per confermargli i
progressi, ogni due giorni chiudevo i disegni in un tubo
impermeabile, infilavo il cilindro nel condotto della posta
pneumatica, selezionavo l’indirizzo della Sezione
Progetto e Sviluppo della Hoffman & Sons e davo fuoco,
immaginando i miei lavori viaggiare come proiettili
lungo la rete di tubi sotterranei della City. La trovavo una
delle invenzioni più efficienti e innovative del secolo: la
posta arrivava direttamente all’indirizzo designato o al
casello delle poste più vicino, pronta a essere smistata dai
pony express.
Al risveglio dopo la prima dose di morfina, trovai
Jimmy più lucido, seppur non meno sofferente, e rifiutò
di lasciarsi sedare ancora. Sapevamo entrambi che a
lungo andare lo avrebbe portato a una dipendenza, ma il
dolore mi pareva davvero troppo da sopportare.
«Ne hai bisogno» tentai di insistere.
Scosse il capo a fatica, il corpo madido di sudore, la
schiena sempre sanguinante attorno a quelle spaventose
appendici. «Non posso. Non chiedermi di cedere il
controllo» ansimò. Tremava come una foglia,
febbricitante.
«Puoi lasciarti andare, Jimmy. Ci sono io»
mormorai, ravviandogli i capelli umidi.
«Non è a te che ho paura di cedere, Dean… mai a te.
Ma non chiedermi di… di arrendermi a questo incubo»
mi supplicò. Aveva già perso la carriera, la famiglia, e ora
non aveva più potere sul proprio corpo.
Chiusi gli occhi per un momento, sigillando la mia
condanna, e annuii. Perché capivo, perché al suo posto
avrei fatto lo stesso, avrei continuato a lottare. Anche
quando sembrava che non vi fosse più nessun nemico da
combattere, persino quando il nemico era il mio stesso
corpo. Ho molti peccati, ma non sono mai stato un
ipocrita.
Accostai un bicchiere d’acqua alle sue labbra secche
e lo aiutai a berlo a piccoli sorsi. Tra la febbre e la perdita
di sangue aveva bisogno di reintegrare i liquidi. Cercai di
sopperire a quello e alla carenza di zuccheri e sali
minerali con spremute di frutta, frullati e dosi massicce
di tè e latte. Il bollitore era sempre sul fuoco e una tazza
rimase costantemente sul comodino. I barattoli di miele
si svuotavano a una velocità incontrollata.
Intanto le protuberanze sulla schiena di Jimmy
continuavano a crescere, prendendo forma,
rimodellandosi, spezzandosi e ricomponendosi
all’esterno del suo corpo. E nuova pelle le seguì a breve,
ricoprendole. Presto cominciai a intuire cosa fossero, o
cosa sarebbero divenute di lì a breve. Ali. Ecco cos’erano:
ali.
Il dolore cedeva il passo a scoppi di fame
improvvisa e feroce. Mi curai di cercare i tagli di carne
migliore, senza badare a spese. Dalla morte di mia madre
ero stato in grado di mettere da parte qualche risparmio,
avevo un buon stipendio e potevo ancora contare sulla
pensione militare. Jimmy, allo stesso modo, aveva la sua
pensione e riceveva un fisso dallo Strand. Carne, frutta e
zucchero erano cari, ma potevamo permetterceli.
La mutazione però non aveva colpito solo
all’esterno. Anche il torace stava cambiando, allargandosi,
modificando i muscoli dorsali. I dolori intercostali erano
lancinanti. Riuscii a convincere Jimmy a prendere piccole
dosi di morfina a notti alterne, appena il tanto che
bastava a lenire il dolore e aiutarlo ad addormentarsi.
Tra la quinta e la sesta notte, mentre lo vegliavo,
crollai e mi assopii sulla poltrona che avevo trascinato
accanto al nostro letto. Quando mi svegliai, Jimmy aveva
catturato una delle mie mani tra le sue, cullandola,
sfiorandola con le labbra. Dal pallore del suo volto notai
subito che l’effetto della morfina doveva ormai essere
sfumato e sentii lo stomaco precipitarmi sotto i piedi. Lo
avevo lasciato da solo. E tuttavia, nonostante lo sguardo
sfocato, mi risolve un accenno di sorriso.
«Va tutto bene» sussurrò quasi senza voce, persa
dopo troppe grida, malgrado fosse lui quello che stava
attraversando un nuovo inferno. «Grazie» soffiò sul dorso
della mia mano.

Dopo una settimana Jimmy smise di sudare tanto


copiosamentee cessò di sanguinare, ma la febbre non
scese. La struttura ossea era oramai completa, terrificante
e sublime. Le ali giacevano ai lati della schiena,
occupando quasi tutto lo spazio della nostra camera, che
non era mai stata molto ampia. Pelle e muscoli coprivano
lo scheletro. E alla base, dietro le scapole, potevo già
cominciare a vedere i primi accenni di piumaggio, soffice
e corvino.
«Stai mettendo su peso» notai, pizzicandogli
gentilmente un fianco.
Jimmy emise un suono indignato. «Più miele»
ordinò, restituendomi la tazza di tè.
«Ne ho messo due cucchiai» risposi allibito.
«Non sa di niente» insistette, petulante.
«Ci vuoi del tè con il miele, caro?» ironizzai, seccato
e tuttavia grato che avesse le energie per comandare e
discutere con me. Non era mai stato particolarmente
goloso, perciò potevo solo dedurre che la convalescenza
lo portasse a un maggior bisogno di zuccheri.
«Sì, grazie. E vorrei del cavolo per pranzo, caro».
Tuttavia perse peso molto in fretta, divenendo
ancor più magro di quanto fosse stato in precedenza. Per
quanto mangiasse, sembrava che non fosse mai
abbastanza. Il metabolismo era troppo accelerato, e la sua
temperatura più alta del normale, seppur stazionaria.
Nel mentre, sui quotidiani e sulle frequenze radio,
circolò la notizia che anche sua Maestà la Regina Victoria
era malata, costretta a letto da terribili emicranie e dolori
ossei. Sul momento non sprecai più di un pensiero
incuriosito sulla vicenda; ero patriottico come tutti, ma
ero altresì occupato con un altro degente, che mi stava
ben più a cuore. Trascorrevo il tempo a cucinare pasti
iperproteici e rifornire la dispensa. Prima di colazione
lavavo il suo corpo con un panno umido, grattando via il
sudore febbrile. Gli misuravo la temperatura alla mattina
e alla sera, e il poco tempo rimanente cercavo di portare
avanti i progetti per la Hoffman & Sons.

Nei giorni seguenti il dolore maggiore lasciò spazio


a un furioso prurito. Era tanto insopportabile che in
diverse occasioni dovetti fisicamente trattenere Jimmy
dal continuare a grattarsi e ferire la nuova e tenera pelle
che copriva le ali.
«È orribile. Come avere un esercito di formiche
addosso» si lamentava.
Massaggiai i muscoli per aiutarlo, sfregando le
mani callose sulla pelle delicata. Era liscia, morbida e
corposa come quella di un neonato, sotto le mie dita, ma
potevo già percepire i bozzi dei calami pronti a spuntare.
Il mio tocco era duro e ruvido a confronto, e comunque
non era abbastanza, ma era meglio di niente.
Quella notte fu una rinnovata tortura. Il dolore si
acuì, raggiungendo nuovi picchi. Ogni calamo era un
coltello che tentava di forare la superficie. Ma al mattino
le penne primarie erano spuntate, lunghe e soffici, dello
stesso mogano dei suoi capelli.
Passai le dita tra di esse, pettinandole e
raddrizzandole. Jimmy sospirava piccoli suoni
d’apprezzamento ronzanti come fusa.
«Meglio?» domandai.
Lui annuì. «Prude ancora» disse tuttavia.
Nelle ore seguenti spuntarono anche le penne più
piccole e morbide, infoltendo il piumaggio, e il prurito si
calmò. Le ali apparvero in tutto il loro splendore, enormi
e possenti, troppo grandi per estendersi completamente
nella stanza. Dovevano essere alte quasi quanto Jimmy.
«Sono bellissime» sussurrai. «Tu sei bellissimo».
Jimmy si agitò sotto il loro peso sinché riuscì ad
afferrarmi un polso e tirarmi al suo fianco, facendosi
sedere accanto a lui per abbracciarmi la vita e sfregarmi il
volto in grembo.
«Sono vivo» rispose altrettanto incredulo.
«Sì» sospirai accarezzando i suoi capelli. Poi una
risata mi sfuggì dalle labbra. «Se potessero vederti i tuoi
fratelli! Sei un angelo, Jimmy» esclamai. Il mio angelo.
Sogghignò divertito, ma tornò presto serio. «Dubito
che la vedrebbero allo stesso modo» asserì mesto.
E naturalmente ora si poneva il problema di
quando mai l’avrebbero rivisto, quando chiunque
l’avrebbe rivisto. Poteva continuare a lavorare da casa e
spedire i suoi articoli tramite posta pneumatica, ma forse
non sarebbe mai più stato libero di presentarsi in
pubblico, sotto l’occhio avido della gente, all’aria aperta.
Nessuno dei due aveva il coraggio di dare voce a
quell’orribile pensiero.

I muscoli erano ancora contratti e infiammati,


specialmente i nuovi dorsali che sostenevano le ali, ma i
dolori lancinanti erano passati. L’appetito di Jimmy era
rinnovato e continuava a mangiare più spesso dei
normali tre pasti giornalieri, quasi ogni due ore come i
neonati; e in un certo senso, forse lo era. Prediligeva
ancora carne e cibi ad alto contenuto di zuccheri. Dopo
qualche giorno di sereno riposo, volle tentare di
rimettersi in piedi.
«Almeno fino al soggiorno, Dean» mi pregò.
«Non affrettare i tempi, d’accordo? Prima vediamo
se riesci a tenerti in piedi».
Con il mio aiuto e puntellandosi al comodino,
riuscì a tirarsi su dal letto. Una volta in piedi, comunque,
riuscì a stare dritto non più di una manciata di secondi,
prima di caracollare all’indietro, tirato giù dal peso delle
ali. Gli cinsi prontamente i fianchi, mentre lui mulinava il
braccio libero nel tentativo di riguadagnare l’equilibrio.
Scoppiai a ridere, la fronte poggiata alla sua tempia
e il naso premuto contro la sua guancia, e Jimmy mi
seguì di lì a breve. Quando mi abbracciò di rimando, più
per un riflesso condizionato che per necessità di
sostegno, le ali seguirono il movimento, circondandomi
in un bozzolo di piume.
«Poteva andare peggio» decretò.
Annuii appena, baciandogli l’angolo della bocca.
Nonostante gli arti supplementari, non mi parve più
pesante che in precedenza, e questo doveva dirla lunga
sulla massa muscolare perduta. Anche l’ossatura del resto
del corpo sembrava in qualche modo più fragile, più
leggera, ma non avrei saputo dire se fosse solo
un’impressione causata dalle mie angosce, o se fosse
davvero parte della mutazione.
«Fino al soggiorno, Dean» ripeté, cocciuto.
Tenendolo stretto a me, fummo in grado di
arrivare alla zona giorno, dove si lasciò crollare di
traverso sulla sua poltrona preferita, le ali gettate oltre un
bracciolo, esausto ma soddisfatto. Mi rivolse un sorriso
brillante e baciò entrambe le mie mani, quando mi
accucciai accanto a lui.
«Sono fiero di te» mormorai, incorniciando il suo
viso.
Jimmy sbatté le ciglia umide di gioia, il sorriso creò
piccole, deliziose rughe agli angoli dei suoi occhi, blu e
luminosi pur essendo ancora cerchiati.

«Dobbiamo trovarti dei nuovi abiti» osservai


corrucciato.
Jimmy cominciava finalmente a trovare il suo
nuovo baricentro e a compiere i primi passi in completa
autonomia. Quella mattina era riuscito ad arrivare fino al
bagno, dove l’avevo assistito a entrare nella vasca e
lavarsi, grattato via le ultime tracce della febbre e
massaggiato i muscoli ancora contratti.
Asciugandolo e aiutandolo a indossare la
biancheria, mi posi quel problema. Vederlo mezzo nudo
era sempre uno spettacolo delizioso, ma prima o poi
avrebbe ricominciato a sentire freddo e non c’era modo
che potesse infilare le vecchie camicie con quelle
appendici sulla schiena.
«Possiamo preoccuparcene più avanti» sussurrò,
poggiandomi un palmo sulla nuca e attirandomi a lui.
Il bacio mi colse di sorpresa. Avevo ripreso a
dormire nel nostro letto solo due sere prima, sotto una
soffice coperta di piume, dopo quasi tre settimane di
forzata distanza e brevi sonni rubati su una poltrona. Ero
abituato alle deprivazioni, dall’Afghanistan non avevo
mai dormito più di quattro ore, eppure mi sentivo
esausto, nella mente ancora più che nel corpo.
«Lascia che mi prenda cura di te» mormorò Jimmy
sulle mie labbra, salendo a baciarmi le guance, la linea del
naso, le palpebre, le tempie.
Gli permisi di condurmi di nuovo in camera e
spingermi sul letto, consentii che mi slacciasse il
panciotto e la camicia, perfino che si chinasse a sfilarmi i
calzini prima di spogliarmi dei pantaloni. Rimasi
completamente nudo sotto il suo sguardo, tanto intenso
da essere quasi palpabile, e attesi mentre scrutava ogni
lembo del mio corpo.
«Sei dimagrito» osservò, con un accento di quella
che poteva essere colpa.
«Non è importante» risposi, perché era vero, non vi
avevo nemmeno fatto caso.
Lo sguardo di Jimmy s’indurì, occhi gentili che
divenivano duri come marmo. Afferrò la mia mandibola
in una mano, tenendomi fermo il volto, e si chinò su di
me. «Tu sei importante» calcò a un soffio dal mio viso. Poi
assalì la mia bocca, forzandomi le labbra con la lingua e
rubandomi il fiato.
Non contrastai il suo assalto, lasciai che mi
sistemasse come preferiva, che facesse di me ciò che
voleva, perché lo conoscevo, comprendevo il bisogno di
riaffermare il proprio potere, la propria forza, la capacità
di occuparsi dell’altro. Mi afferrò i polsi e li portò sopra la
mia testa, tenendoli premuti giù con il suo peso, mentre
con i denti mi graffiava il mento, la mascella, il collo.
Mordeva la giugulare, le clavicole, il petto.
La mia schiena s’inarcò per riflesso condizionato, in
risposta al dolore, sbattendomi contro il suo torace, ma
non tentai di sottrarmi. Anche perché sarebbe stato uno
sforzo inutile. Mi aprì le gambe spingendovi un
ginocchio nel mezzo e sfregò i nostri bacini in cerca di
frizione. Il mio membro duro incontrò il cotone teso del
suo intimo.
«Fermo» ordinò, lasciando andare la presa sui miei
polsi. Si tirò su per liberarsi rapidamente della
biancheria, lasciandola cadere a terra senza cura, e le ali si
mossero per bilanciare i suoi movimenti, aprendosi e
catturando la mia attenzione.
Era incredibile. Uno spettacolo della natura. Facevo
ancora fatica a credere a ciò che avevo davanti agli occhi
pur avendo assistito a tutto lo spaventoso processo.
Potevo riconoscere le differenze più sottili, il torace
ampio che a confronto faceva sembrare la sua vita stretta
ancora più sottile, le costole e le anche che sporgevano
più del normale a causa della perdita di peso. E in quel
momento Jimmy mi parve una creatura estranea,
somigliante all’uomo che conoscevo, ma così
palesemente diversa.
«Ho bisogno di toccarti» dissi.
Lui mi osservò e forse lesse qualcosa nel mio
sguardo, la necessità di confermare che era la persona
che conoscevo, perché annuì ritrattando l’ordine. Mi
portai seduto e lo attirai a me, accarezzando con mani
tremanti il suo corpo, testando le novità e ritrovando i
vecchi tratti che mi erano familiari. Tracciai le cicatrici
sul petto, gemelle a quelle che sfregiavano anche me, i
segni delle schegge che avevano colpito entrambi. Trovai
i fori d’entrata sulla schiena, sfiorandoli con la punta delle
dita, contandoli mentalmente, e Jimmy mi lasciò fare,
limitandosi ad accarezzare i miei capelli in muto
conforto. Il calore del suo corpo era soffocante, come se
fosse ancora in preda alla febbre.
«Ti spavento?» domandò, occhi blu e onesti che mi
scrutavano dall’alto, una ruga di preoccupazione tra le
sopracciglia.
«Mai» risposi, baciando il suo sterno. Strisciai i
palmi sui dorsali fino a trovare la giuntura delle ali, il
piumaggio tenerissimo sotto cui si univano alle scapole.
Mi sorprese quando trovai dei piccoli bozzi che gli
causarono un sussulto. Quando ritirai le dita, le trovai
bagnate di una sostanza oleosa. La sfregai tra i
polpastrelli, testandone la consistenza. Aveva un odore
penetrante e muschiato, ma non cattivo. «Per districare le
piume?» supposi. Mi pareva di ricordare che gli uccelli
avessero qualcosa di simile.
Jimmy aggrottò la fronte. «Sono un animale».
«Uhm… concordo» dissi, ma lo intendevo in un
altro contesto e lui lo lesse nel mio sorriso.
Sbuffò una risata contro la mia tempia, prima di
spingermi di nuovo con la schiena sul letto. «Dovrò
divorarti, dunque» osservò. Mi sollevò le ginocchia,
premendole al mio petto, piegandomi in due come un
portafoglio. Riuscii a scoccargli uno sguardo confuso,
prima che si chinasse a leccare il solco tra le mie natiche.
Tentati di dire qualcosa, forse un’imprecazione o solo un
verso di sorpresa, ma la mia voce si spezzò in un gemito
tra i denti stretti quando mi infilò la lingua dentro,
premendo ai lati con i pollici per aprire l’orifizio.
Gocce copiose di sudore mi colavano lungo le
tempie e le cosce. Strinsi le dita tra i suoi capelli e dovetti
premere il volto contro una spalla per soffocare i versi
osceni che non riuscivo più a trattenere. Ricordavo
qualcosa di simile nell’intimità della sua tenda, le voci dei
nostri uomini che inveivano e ridevano ubriachi mentre
giocavano a carte attorno al fuoco appena oltre un velo,
la pelle che sapeva di sabbia, sudore e polvere da sparo
quando leccai le sue dita. Le stesse falangi che seguirono
alla sua lingua per aprirmi frettolosamente, come in quel
momento.
«Respira» ordinò, baciando l’interno di un
ginocchio.
Tentai di obbedire e regolarizzare il mio respiro
sincopato, ma pareva non ne fossi più capace. «Sbrigati»
ansimai.
Quando si spinse dentro di me, anziché tendermi,
fu come riprendere fiato. Il mio corpo si sciolse sotto il
suo peso alla sensazione familiare, al dolore fuggevole,
prospettando ciò che sarebbe seguito. Si chinò a
baciarmi, ingoiando i suoni che non mi rendevo più
conto di emettere.
«Non provocarmi» lo pregai. Non avevo la forza di
seguire il suo passo lento ed estenuante, non stavolta. Lo
volevo subito e senza fronzoli.
Jimmy annuì, si sollevò in ginocchio, sempre
tenendomi piegato in quella posa scomoda, e dettò un
tempo rapido e crudo. Era esattamente ciò di cui avevo
bisogno. Nessuno spazio per riflettere, solo la fisicità della
sua presenza, il calore, la frizione quasi dolorosa.
Il letto cigolava, la testava sbatteva contro il muro, e
fui sicuro che tutto il quartiere, l’intera City perfino, fosse
a conoscenza di ciò che stavamo facendo al dubbio riparo
di tende tirate e porte chiuse. E non m’importava. La
nostra relazione non era pubblica, non avevamo mai
“dato spettacolo”, eravamo sempre stati accorti. Agli occhi
di tutti eravamo due veterani che condividevano un
alloggio da quattro soldi. Ma quella sera non mi era
rimasto abbastanza sangue al cervello per
preoccuparmene.
La punta del mio membro sfregava sull’addome a
ogni spinta e, quando Jimmy spostò il proprio peso su un
lato, inclinandosi appena il tanto giusto, fu tutto ciò che
era necessario. Gocce di seme bianco mi schizzarono il
petto, cogliendomi quasi di sorpresa con il mio stesso
orgasmo. Jimmy grugnì, spalancò le ali, buttando giù una
lampada e alcuni libri su uno scaffale ai due lati opposti
della camera, e i suoi fianchi scattarono ancora due, tre,
quattro volte, prima che mi si accasciasse addosso,
ansando contro il mio collo. Le ali, esauste, mimarono il
movimento e calarono a coprirci come una coperta.
«Mi sei mancato» mormorò, premendo la fronte
contro la mia spalla, come se fossimo stati separati per
settimane, mesi. Comprendevo il sentimento.
RUBEDO
O pera al Rosso

Jimmy riprese a lavorare. Sedeva alla sua scrivania,


accanto alla finestra del soggiorno, e batteva per ore sulla
macchina da scrivere, una tazza di tè fumante posata
accanto a lui e una sigaretta che pendeva dalle labbra. Era
un’immagine familiare e confortante, nonostante le
bretelle dei pantaloni poggiassero direttamente sulle
spalle nude e le grandi ali corvine si estendessero dietro
di lui, ingombrando l’ambiente.
Quando mi accorgevo che restava troppo a lungo
seduto lì, mi limitavo a drappeggiare una coperta sulla
sua schiena e riempire di nuovo la sua tazza,
guadagnandomi un sorriso grato. Vedendolo così
assorbito nella sua scrittura, ebbi finalmente tempo di
concentrarmi di nuovo sui miei progetti, notando tutti gli
errori che la distrazione e l’ansia avevano portato ai miei
calcoli, le falle e le incongruenze nei disegni. Non
sbirciavo mai le sue carte. Solo in seguito scoprii che
stava stendendo un resoconto della propria mutazione.
«Dovresti tornare a lavoro» mi disse una mattina,
baciando le mie labbra, dopo che gli ebbi stretto la
coperta sulle spalle.
«Sto lavorando» obbiettai, rubandogli la sigaretta
dalle dita.
«Sai cosa intendo» rispose. «Non è necessario che tu
mi faccia ancora da badante. Puoi tornare al tuo ufficio e
ai tuoi meccanici. Sono certo che siano disperati, in tua
assenza».
«Presto» promisi. Ma non subito. Avevo bisogno di
accertarmi che non vi sarebbero state altre crisi, che non
sarei tornato una sera per trovare la casa gelida e il suo
corpo riverso a terra.
Poi accadde il più inaspettato degli eventi: la regina
venne allo scoperto. Apparve in pubblico mettendo in
mostra una tozza coda grigia e orecchie pelose da lupo
sulla testa canuta, artigli alle mani composte e occhi
mutati in un giallo feroce. L’evento fu trasmesso da tutte
le radio locali e internazionali.
«Siamo giunte a conoscenza di un grave fatto.
Abbiamo potuto costatare con i nostri stessi occhi che
questo male non ha colpito solo noi, ma molti nostri
sudditi, e sta ancora mietendo vittime. Vogliamo pregare
i fortunati sopravvissuti di non nascondersi. Non temete
il giudizio del prossimo, perché quando parlano contro
di voi, parlano contro la loro regina. E noi intendiamo
continuare a guidare questo impero».
Il monito, limpido e solenne, passò alla storia.
Mi voltai a guardare Jimmy, immobile al centro
della stanza, gelato dalla sorpresa. Io stesso facevo fatica a
credere a quel che avevamo appena ascoltato, a
contemplare cosa ciò significasse.
«Be’… suppongo che questo risolva il problema
vestiti» riuscii a tirare fuori, infine. I sarti avrebbero avuto
un bel da fare ad accontentare le esigenze dei loro nuovi
clienti. Un attimo dopo mi trovai le braccia piene di un
angelo alto sei piedi e la sua lingua in bocca.
«Sono libero!» ansò incredulo, quando permise a
entrambi di riprendere fiato.
«Sì» esclamai, baciando ancora le sue labbra. «Sì!»

Mr. Sheppard, il sarto a cui ci rivolgemmo, era un


uomo basso e robusto, dal ghigno saputo e un marcato
accento scozzese. La sua bottega era un negozietto
imbucato all’angolo di Pall Mall, che mostrava sulla
strada solo una sottile e anonima portafinestra. L’interno
del locale era piccolo e polveroso, ma
sorprendentemente ben fornito. Pile delle stoffe più varie
straripavano dagli scaffali sbilenchi, ritagli di tessuti
colorati coprivano le mattonelle scheggiate, un lungo
specchio dalla cornice dorata era appeso alla parete
destra, posizionato davanti a uno sgabello, e dietro al
bancone di noce si apriva una porticina che dava su una
stanza interna, che presunsi fosse quella dove gli abiti
venivano tessuti.
Mr. Sheppard fece salire Jimmy su uno sgabello,
poi sbraitò: «Donald! Inutile sacco di ossa, portami qui
metro e gesso!»
Dalla porticina dietro al bancone emerse un
ragazzetto mingherlino e allampanato, che ci rivolse un
largo sorriso, insensibile ai toni bruschi del suo datore di
lavoro. «Buongiorno, signori!» esclamò frenetico e
allegro, quasi avesse ingollato l’intero contenuto di una
caffettiera. All’orecchio destro portava un antiquato
apparecchio uditivo, che doveva correggere un difetto di
nascita o causato da qualche malattia infantile;
probabilmente ai suoi timpani le urla del sarto non
dovevano sembrare poitanto acute.
Mr. Sheppard gli strappo di mano gli oggetti
richiesti, prima di spingerlo via con malagrazia. «E
renditi utile, da una spazzata a questo schifo!» aggiunse.
«Sì, Master» rispose quello, giulivo, come se nulla
fosse.
Per qualche motivo, mi ricordarono il Gatto e la
Volpe della fiaba di Collodi.
Dopo aver preso con minuzia le misure, Mr
Sheppard studiò degli abiti appositi per Jimmy: camicie,
panciotti e giacche che, oltre ai bottoni sul davanti,
avevano una falda che si sollevava dall’altezza delle reni
per chiudersi sotto il colletto, lasciando liberi due tagli
per l’attaccatura delle ali. La soluzione, ingegnosa nella
sua semplicità, mi lasciò a bocca aperta. Li ritirammo due
giorni dopo e, nonostante l’aspetto discutibile della
sartoria, quei vestiti valevano il loro prezzo.
Indossati i suoi nuovi abiti e gettata via la coperta
con cui si era riparato per uscire da casa, Jimmy mi prese
sotto braccio e lasciammo il negozio. Il cielo era
insolitamente terso e luminoso sopra di noi, così
scegliemmo di fare una passeggiata, anziché prendere
una carrozza a scoppio, godendo della tiepida aria
primaverile e ammirando il nuovo mondo che ci
circondava.
All’improvviso la City si era riempita di colori, di
creature esotiche e aliene. Non tutte le mutazioni erano
evidenti come quelle di Jimmy, o altrettanto piacevoli
alla vista. Notai una giovane donna con branchie sul collo
e mani palmate, scaglie iridescenti sul dorso di queste
ultime e sui lembi di spalle scoperti dal vestito; quella che
in seguito venne classificata come una mutazione sirena.
Caratteri che avrebbe potuto celare senza troppa
difficoltà vestendo abiti più accollati e guanti leggeri, ma
la regina aveva ordinato di camminare fieri e a testa alta.
Allo stesso modo sentii voce che un vecchio conoscente
di mio padre, un uomo molto stimato dalla società, aveva
perso le gambe e ora “camminava” su otto viscidi
tentacoli. Di gran lunga un aspetto più spaventoso e
sublime.
Tuttavia i più stupefacenti erano i bambini. Piccole
creature che erano state nascoste per mesi in casa e solo
ora vedevano la luce, nati già mutati, ignari di cosa
volesse dire essere completamente umani. Code pelose
spuntavano dalle carrozzine dei neonati, spazzando l’aria,
mentre i più grandi giocavano al limitare di St. James
Park, arrampicandosi sugli alberi come scoiattoli o
accapigliandosi sull’erba come un branco di cuccioli.
Solo allora i recenti e incrementati dati di mortalità
infantile presero senso: non molti di quegli infanti e delle
donne che li avevano messi al mondo erano
sopravvissuti, per le difficoltà del parto o per il terrore
che era seguito al “lieto evento” e aveva portato i genitori
a compiere azioni atroci.
D’un tratto gli androidi prodotti dalla Hoffman &
Sons parevano più umani degli umani stessi, si
mescolavano nel grigio di Londra, tra le carrozze a
scoppio e il vapore denso, lasciando in mostra protesi
meccaniche come le persone esibivano tratti animali. E
non era finita lì, molta gente stava ancora mutando,
spariva dalla circolazione per qualche tempo e poi saltava
fuori con un aspetto sorprendente.
Cominciai a chiedermi quando sarebbe venuto il
mio turno, quale aspetto avrei preso e quanto avrebbe
condizionato le nostre vite.
Jimmy mi strinse gentilmente il braccio, attirando
la mia attenzione. «Un penny per i tuoi pensieri»
sussurrò.
«Mi domandavo quando accadrà a me» ammisi,
senza necessità di specificare a cosa mi riferissi.
«Potrebbe non avvenire affatto».
Sbuffai dal naso, scettico. «Potrebbe spuntarmi
qualcosa di orribile, come una proboscide in faccia o una
chiostra di denti da squalo» osservai.
Lui sorrise e mi diede un discreto buffetto sul naso,
sfiorandomi la schiena con un’ala. «Allora starò molto,
molto attendo nel baciarti» mormorò, con voce appena
udibile sotto lo schiamazzare dei bambini e i fischi delle
carrozze parcheggiato al lato della strada.

Jimmy ricominciò a lavorare a tempo pieno. La


notizia del suo completo recupero – o per meglio dire
sopravvivenza – e del suo ritorno in pubblico non venne
benaccolta dai fratelli, che lo disconobbero ufficialmente.
Lui non sprecò nemmeno una lacrima a riguardo. Sotto i
miei occhi strappò la lettera di Marcus Shurley in pezzi
sempre più piccoli, sino a farne coriandoli frastagliati,
poi li gettò al fuoco.Non gli domandai come si sentisse,
mi limitai a versargli due dita di brandy e ad accendergli
una sigaretta.
«Non ho tempo per le loro sciocchezze» asserì,
nonostante non l’avessi chiesto. Il suo volto era una
maschera illeggibile e non tentai di forzarlo a parlare. Un
uomo ha sempre diritto di aggrapparsi alle ultime
vestigia di dignità rimastegli.
Inoltre non aveva mentito. La Grande Mutazione,
come si cominciava già a chiamarla, aveva catturato
l’interesse della City. Il popolo bramava le interviste e le
biografie delle persone che avevano subito le
trasmutazioni più traumatiche e avvincenti. Era
l’argomento più in voga, in società come nei bassifondi, e
tutti i giornali necessitavano di buone penne.
I medici, se già non l’avevano, si affrettarono a
prendere una specializzazione veterinaria per adeguarsi
alle esigenze dei nuovi pazienti. Allo stesso modo
l’economia rifiorì per adattarsi al nuovo aspetto dei
cittadini. Cibi, abiti, medicinali, detergenti, suppellettili,
mobili… ogni cosa doveva essere personalizzata,
conforme alle specifiche necessità di ogni alterazione. La
tecnologia seguì allo stesso passo, creando “supplementi a
misura del singolo”. Non ebbi mai tante richieste di
lavoro come in quel primo, frenetico periodo. La
Hoffman & Sons divenne un impero, estendendo filiali in
tutto il regno di Sua Maestà.
La mia squadra di meccanici divenne
progressivamente sempre meno umana. Alcuni di loro
dovettero rinunciare a parte del lavoro, perché
impossibilitati dalla nuova struttura fisica, altri invece
vennero agevolati da essa. Jefferson, capo macchinista,
che portava due corna ricciute tra i capelli e claudicava su
zampe caprine, non era più in grado di chinarsi
correttamente e lavorare sotto ai macchinari. Per contro
Clara, una degli ingegneri meccanici, era divenuta tanto
snodata da potersi infilare ad armeggiare anche nelle
fessure più sottili. I miei amici, i colleghi, i conoscenti…
tutti si stavano trasformando. Attorno a me il mondo
cambiava, ma io rimanevo immutato.

Un pomeriggio rientrai a casa e trovai Jimmy con il


naso immerso in un grosso libro polveroso. La copertina
di pelle blu mezzanotte recitava Osservare gli uccelli: il
volo in grosse lettere argentee un po’ scrostate. Pinzava le
pagine ingiallite con la punta delle dita eleganti,
girandole con cautela, la fronte accigliata per la
concentrazione. Difatti era tanto immerso nella lettura da
non far caso alla mia presenza, almeno finché non mi
accomodai sulla poltrona di fronte alla sua. Solo allora
tirò su il capo di scatto, l’aria sorpresa di un bambino
scovato con le mani nel barattolo della marmellata.
Inarcai un sopracciglio, divertito. E con mia
sorpresa un soffuso rossore si sparse sulle sue guance,
accendendo ancora di più la mia curiosità. Jimmy era
sempre tanto compassato che di rado capitava di
coglierlo in imbarazzo.
Si schiarì la gola per ridarsi un tono, poi disse a mo’
di spiegazione: «Sto facendo delle ricerche».
«Lo vedo» risposi, puntellando un gomito sul
bracciolo e il volto sulla mano.
Lui si agitò appena sotto il mio sguardo, come fosse
seduto su un cuscino spinato, le ali che fremevano oltre
la spalliera bassa della poltrona. «Ora che sono guarite e
non più doloranti, pensavo… mi domandavo se fosse
possibile rendere queste di qualche uso» ammise dopo
un momento, allisciandosi una piuma che curvava nel
senso opposto alle altre.
«Intendi… volare?» domandai sorpreso. Mi diedi
dello sciocco per non averci pensato prima. Era il logico
passo successivo al portare sulla schiena delle ali
perfettamente funzionanti. Eppure l’idea di un uomo
volante sembrava ancora pura fantasia; non per nulla era
il sogno più antico del mondo.
Jimmy annuì in silenzio e io mi fermai un
momento a considerare la questione, soppesando la
struttura delle ali con lo sguardo, l’ampiezza e la forma.
Somigliavano a quelle di un grosso rapace, un’aquila
reale o forse un falco pellegrino. Sapevo che anche la
vista era aumentata notevolmente, riusciva a vedere
qualcosa di piccolo muoversi anche a un miglio di
distanza, proprio come un predatore. Con la giusta
pratica, forse…
«Parrebbero essere in grado di reggere il tuo peso»
convenni con riluttanza. Sarebbe inutile negare che il
pensiero di vederlo in volto non mi preoccupasse. Chi
non ha mai sentito raccontare il mito di Icaro? Tuttavia,
ritenevo che la questione meritasse almeno un tentativo.
Jimmy aveva necessità di spazio per esercitarsi, e
tentare di prendere il volo da un qualunque parco della
City era impensabile: oltre al fatto che avremmo attirato
attenzioni indesiderate, vi erano davvero troppi alberi
che sarebbero stati d’intralcio. Fu così che quel fine
settimana organizzammo una piccola escursione a Dover.
La città distava appena un’ora e mezzo di treno da
Londra, ma si rivelò una piccola tortura. I mezzi di
trasporto erano divenuti angusti e scomodi per lui, non
avendo spazio per dispiegare le ali. Avemmo bisogno di
uno scompartimento tutto per noi e Jimmy dovette
sedere di traverso per non schiacciarle, con le ginocchia
che sfioravano le mie. Ogni tanto si alzava in piedi e le
scrollava, facendo qualche passo nel breve spazio per
stirarle. Già sapevo che quella sera avrebbe avuto bisogno
di un massaggio per sciogliere i muscoli anchilosati; avrei
trovato una camera in qualche locanda discreta e sparso
olio sulle sue spalle, fino a renderle di nuovo flessibili
sotto le mie mani e tramutare il mio compagno in un
ammasso di piume e fusa.
La sofferenza fu ripagata quando giungemmo alla
meta e potemmo ammirare il bellissimo promontorio,
con le sue famigerate bianche scogliere e il castello che
dominava lo stretto. Splendidi palazzi dai fronti nivei si
affacciavano alle strade principali, nel cui reticolato si
potevano ancora scorgere tracce romane, quasi volessero
fare pendant con quegli strapiombi sul mare.
Noleggiammo una carrozza a scoppio, un vecchio
modello W1 che sputacchiava vapore dalla ciminiera sul
tettuccio e avrebbe giovato di una buona messa appunto,
ma aveva una cabina comandi aperta. Sedemmo
entrambi a cassetta, in modo che Jimmy non dovesse
pressare le ali in uno spazio ancora più stretto. Mi calai i
goggles sugli occhi e avviai il motore, allontanandoci dal
centro. La giornata era tiepida e soleggiata, il cielo terso
spruzzato appena da qualche nuvola pallida. Le scogliere
distavano poco più di quattro miglia da Dover e durante
il tragitto lasciammo spaziare lo sguardo sui campi
selvatici e verdissimi, punteggiati qua e là da qualche
sprazzo di brughiera rugginosa.
Parcheggiammo in prossimità del punto più alto
delle scogliere, trecentocinquanta piedi sopra il mare. Il
vento si sollevava in raffiche capaci di stendere un uomo
e dovemmo calcarci i cappelli sulla testa e poi
abbandonarli all’interno della cabina, per evitare di
perderli. Nonostante il bel tempo non vi era anima viva,
solo qualche gabbiano che lanciava il suo richiamo su
quell’immenso spazio incontaminato che moriva
nell’acqua cristallina.
Jimmy passò il peso da un piede all’altro,
insolitamente incerto, e frullò le ali, tentando qualche
battito che non ebbe alcun esito. Nascosi un sorriso
dietro un colpo di tosse. Lui si accigliò e le batté più
veloce, cocciuto. Le ali stesse erano abbastanza ampie da
creare nuove raffiche d’aria e per un momento riuscì a
staccarsi un paio di pollici da terra, ma presto ripiombò
giù. Ritentò ancora, sbattendole con frenesia, tuttavia non
ebbe miglior successo: ricadde a terra, perse l’equilibrio e
crollò in ginocchio, macchiandosi i calzoni.
«Questo è ridicolo» sbottò, incupito e ansimante
per lo sforzo.
«Aspetta… ho un’idea» dissi ammiccando. Scaricai la
mia valigia dal retro della carrozza e la aprii. All’interno
avevo nascosto un aquilone di un rosso sgargiante. Lo
sollevai per mostrarglielo, mentre Jimmy si metteva di
nuovo in piedi, spolverandosi la terra dai pantaloni. «Ho
pensato potesse aiutarci a individuare le correnti» spiegai.
I suoi occhi, ancora più blu fra il cielo e il mare, si
illuminarono d’entusiasmo. Mi incorniciò il volto e baciò
la mia bocca in uno slancio d’affetto, le labbra ancora
piegate in un sorriso.
Così ci trovammo a correre insieme sull’erba verde,
come ragazzini scapestrati. Quando l’aquilone si staccava
dalla mia mano, Jimmy batteva freneticamente le ali e ne
seguiva l’ascesa, lasciandosi sollevare dalla corrente. Le
prime volte non riuscì ad alzarsi più di qualche iarda
prima di rovinare a terra, ma presto un istinto che
doveva essere insito nella mutazione si accese e le ali si
spiegarono di conseguenze, trovando le raffiche
ascensionali, battendo per passare dall’una all’altra o
stringendosi per calare più in basso.
Mi ritrovai a osservarlo con occhi meravigliati
mentre seguiva il volo dei gabbiani, che vociarono
perplessi da quello strano uccello a loro sconosciuto, o
scendeva fino a rasentare le cime dei cespugli. Almeno
sinché non mise di nuovo piede a terra e non ebbe la
brillante idea di correre dritto verso il mare, gettandosi
dalla scogliera.
Sotto i miei occhi agghiacciati scomparve nel
vuoto.
«Jimmy!» gridai allungandomi nella stessa
direzione. Poi emerse, librandosi sul mare come un
autentico angelo vendicativo, sorto dall’Inferno con ali
sporche di fuliggine. E risi, coprendomi il volto con le
mani per lo shock, osservandolo passare sopra la mia
testa. Risi, risi e risi.
Presto fu necessario un censimento. Ogni uomo,
donna e bambino dell’impero venne schedato, i
documenti rinnovati per accogliere la nuova voce che li
catalogava come mutanti o umani. Le mutazioni a loro
volta vennero studiate e suddivise. Poco
sorprendentemente, James Shurley era una mutazione
angelo. Sua Maestà la Regina Victoria una mutazione
licantropo. Mr. Hoffman, la cui metà inferiore del corpo
aveva sembianze equine, una mutazione centauro.
Venne stimato che solo una persona su cinque, il
venti percento della popolazione, era rimasta
completamente umana. La “normalità” era del tutto
ribaltata, i mutanti erano la nuova norma.
E tra alcuni di quei pochi umani, quella minoranza
che non era cambiata, cominciò a circolare un’aria di
dissenso. Sciocchi che contrastavano il volere di Sua
Maestà. Si unirono in un piccolo partito d’opposizione,
che presto prese i connotati di una società segreta.
Chiamavano loro stessi i Conservatori. Non sorprese né
Jimmy né tantomeno me venire a sapere che i suoi
fratelli ne facevano parte.
Gli scienziati continuavano a lavorare, tentando di
comprendere cosa avesse causato la Grande Mutazione e
perfino se fosse reversibile. Gli esperimenti non ebbero
un esito piacevole.
Poi esplose la notizia che sconvolse ulteriormente
le leggi della natura. Una coppia omosessuale venne
processata per oltraggio al pudore: Thomas McFarland,
umano, e August Finnigan, mutazione felina.
Quest’ultimo si difese sostenendo che non potevano
considerarsi invertiti perché lui era incinto. Fu il
disordine generale. Molti accusarono Mr. Finnigan di
essere mentalmente disturbato, ma la stampa fece
pressioni al punto che vennero richieste approfondite
indagini mediche. Le quali rivelarono che, a tutti gli
effetti, quell’uomo era sì in dolce attesa.
Era il caos. Se una coppia di invertiti poteva
procreare, poteva invero dirsi contro natura?
Jimmy seguì l’intera vicenda con attenzione quasi
morbosa, e non solo per esigenza lavorativa. Presenziò a
ogni assise, intervistò gli imputati, cominciò perfino a
cercare con discrezione se vi fossero già stati casi simili.
Passava più tempo fuori casa di quanto avesse mai fatto
dall’inizio della nostra convivenza, dimenticava di
mangiare e a malapena dormiva, completamente
assorbito dai suoi appunti e dalla macchina da scrivere.
La carenza di sonno lo rendeva nervoso e irascibile, e
stava di nuovo perdendo peso a causa del cibo mancato e
del metabolismo troppo celere.
«Jimmy…» provai ad attirare la sua attenzione,
«Angelo, avanti, andiamo a letto».
«Non posso» rispose, senza nemmeno sollevare lo
sguardo. Le ali giacevano ai lati della sedia, esauste, e il
carrello della macchina emise uno squillante ding!
quando arrivò alla fine della corsa.
«Jimmy» ritentai, afferrandolo per un gomito.
«Non adesso, Dean!» rispose stizzito, strappandosi
alla mia presa. Sollevò su di me due occhi blu e furiosi,
ma tutto ciò che riuscivo a vedere era quanto fossero
cerchiati e iniettati di sangue.
«Hai bisogno di riposare» insistetti, duro.
«Non capisci? Davvero non comprendi cosa questo
potrebbe voler dire per noi? Per tutti quelli come noi»
morse tra i denti, il tono basso e ringhiante venato di
frustrazione. Le piume si gonfiarono, aumentando di
volume come se volesse intimidirmi.
Strinsi i pugni e sollevai gli occhi al soffitto,
obbligandomi a prendere un respiro profondo. «So che
non vorrà dire nulla se ti lascerai morire d’inedia. Non
per me» asserii, dopo aver riguadagnato un briciolo di
calma.
Il significato implicito di quelle parole bastò a
zittirlo e spegnere il suo ardore. Ancora una volta le ali
ricaddero dietro di lui, sciupate. «Non posso riposare.
Non riesco» ammise sconfitto, strofinandosi il volto con i
palmi.
«Non aiuterai nemmeno nessun altro, se non
compirai il tuo lavoro a pieno delle tue facoltà mentali»
gli feci presente.
Annuì mesto e stavolta, quando gli presi con
gentilezza un gomito, mi permise di tirarlo in piedi e mi
seguì in camera da letto. Le penne più lunghe spazzarono
il pavimento, quasi non avesse più la forza di sollevarle.
La questione era delicata. I documenti raccolti da
Jimmy testimoniavano dei precedenti che avrebbero
potuto rivoluzionare la legge, ma allo stesso tempo
denunciavano implicitamente altre coppie di invertiti.
«Stringimi, per favore» mormorò una volta sotto le
lenzuola.
E feci proprio quello: lo cinsi a me, poggiandogli
una guancia sui capelli, e le sue ali calarono a coprire
entrambi, come a volerci fare scudo da un nemico
invisibile ma ben noto.

Quando mi svegliai, la mattina dopo, lui si era già


alzato ed era quasi vestito di tutto punto. Si chinò a
baciarmi la bocca mentre chiudeva un polsino,
penetrando con la lingua le mie labbra, che potevo
sentire ancora gonfie di sonno. Accarezzò i segni che il
guanciale doveva avermi lasciato sul volto e sorrise alla
mia ovvia aria trasandata.
«Vederti così mi tenta a gettare al vento ogni buon
proposito» sussurrò, rubandomi un altro bacio.
«Fallo» lo incitai, inseguendo la sua bocca e
cercando al contempo di trascinarlo di nuovo fra le
lenzuola.
«Non posso» rispose, sfuggendo alla mia presa. «Ho
un piano» asserì, negli occhi ancora cerchiati bruciava la
luce di un nuovo proposito. Le ali erano tese e rigide alle
sue spalle, come fosse pronto a prendere il volo.
«Quale piano?» domandai, sfregandomi le ciglia
increspate e portandomi più dritto.
«Stasera te ne parlerò» promise, passando la
cravatta attorno al colletto pulito della camicia. «Farò
tardi, temo».
«Jimmy…» lo richiamai, tirandomi in piedi. Annodai
per lui la striscia di seta, chiudendola dentro il
doppiopetto. «Sii cauto» dissi serio.
Lui si limitò ad annuire. «A più tardi» mi salutò con
un’ultima casta carezza di labbra.
L’ora di cena era passata da lungo tempo, quando
rientrò, ma mantenne la parola data. Sedette nella sua
poltrona preferita, di fronte a me, e mi tese un plico di
fogli vergati nella sua calligrafia minuta e meticolosa. A
un cenno di ulteriore invito, li scorsi con attenzione: era
un elenco di nomi ben conosciuti al pubblico, uniti ad
altrettanti peccati. Nomi di gentiluomini associati in
maniera molto compromettente ad altri gentiluomini.
«Che significa?» domandai incerto.
La fiammella del cerino lampeggiò per un
momento nei suoi occhi blu, quando accese una sigaretta.
Scrollando le ali per accomodarle meglio ai lati dei
braccioli, Jimmy prese un tiro ed espirò il fumo
lentamente, prima di fissarmi con intensità. «Ogni nome
in quell’elenco è un parente o un buon amico di un
membro della giuria nel caso Finnigan-McFarland»
chiarì. Conoscevo quello sguardo, era lo stesso di quando
studiavamo insieme le mappe e le strategie sul campo,
spostando pedine che rappresentavano le nostre vite e
quelle dei nostri uomini.
Mi ci volle un momento per assorbire il concetto, e
un brivido gelido mi calò lungo la colonna vertebrale.
«Angelo… cosa hai intenzione di fare?» chiesi esitante, un
brutto presentimento mi pesava alla bocca dello stomaco.
«Ognuna, o quasi, delle persone sedute al banco per
decidere un verdetto non è innocente. Se non coinvolta
in prima persona nello stesso reato, lo è qualcuno che gli
è molto vicino, qualcuno che stanno coprendo. C’è di
tutto su questi fogli, Dean: figli, fratelli, cugini,
coinquilini… perfino genitori. Che diritto ha questa gente
di condannare quei ragazzi?»
Mi alzai e mi versai due dita di brandy, voltandogli
le spalle. «Non hai risposto alla domanda» gli feci
presente, portandomi il bicchiere alle labbra. «Cosa
intendi fare con queste informazioni, Jimmy?»
Mi rivolse un’occhiata di calcolata innocenza. «Solo
persuadere questi gentiluomini» asserì.
Posai il tumbler con un po’ troppa forza,
producendo un rumore sordo. «Stai parlando di ricatto».
Lui scrollò le spalle con voluta nonchalance, le ali si
sollevarono appena al movimento, poi ricaddero con
morbidezza ai suoi lati. «Un termine grezzo ma efficace»
concesse.
«Santo Cielo, Jimmy, ti senti quando parli? Stai
facendo di questa faccenda un’ossessione!» sbottai, a
corto di pazienza. «Vorresti fare guerra alla Regina, ora!
Hai pensato alle conseguenze per te? Per noi?»
«Siamo già in guerra, Dean» rispose con gelida
calma. «Una guerra fredda, ma una guerra nondimeno»
calcò. «Chi pensi che saranno i prossimi, vecchio mio?
Siamo brave persone, uomini d’onore, cittadini onesti:
lavoriamo, paghiamo le tasse, abbiamo dato la vita per
questo paese… e cosa abbiamo ricevuto in cambio? Una
medaglia al petto e quattro soldi sputati. Ci costringono a
nasconderci come topi» continuò aspro. «Forse tu non ci
arrivi, perché prima di incontrarmi eri un uomo
normale, amore mio, ma è tutta la vita che gli altri come
noi vengono trattati come criminali, educati a vivere nel
segreto e nella vergogna. Sono stanco, Dean».
Chiusi gli occhi e mi sfregai il volto con un palmo.
Ero stanco anche io. Non ero mai stato un esibizionista,
non avevo mai pensato di far sfoggio della nostra
relazione, ma ero esausto di vivere costantemente sulle
spine, sempre costretti a guardarci le spalle. Sfinito di
temere persino di osservarci l’un l’altro troppo a lungo,
quand’eravamo in pubblico, per terrore che qualcuno
potesse cogliere qualcosa, qualunque cosa.
Sospirai e mi lasciai ricadere sulla poltrona di
fronte al mio compagno. Ero altrettanto stanco di
combattere. Nulla era mai semplice, la vita ci tendeva una
mano solo per portarsi via tutto il braccio. Per un
momento considerai di andarmene, fare i bagagli e
lasciare Londra, lasciare l’Inghilterra. Salire su uno dei
dirigibili attraccati sopra il Big Bang, che facevano la
traversata della Manica, e portare Jimmy in un paese più
amico, dove non dovessimo controllare ogni gesto, ogni
parola, ogni sorriso che ci rivolgevamo. Ma quella era la
nostra terra; avevamo combattuto per essa, sanguinato e
sofferto. Quella era la nostra casa.
Jimmy allungò una mano al mio indirizzo, il palmo
aperto in offerta. «Sei con me?»
Sollevai lo sguardo e annuii. «Sempre» dichiarai,
stringendo la sua destra.
Il piano era semplice e silenzioso. Battemmo dei
messaggi a macchina, uno per ogni giurato che fosse o
avesse legami con un invertito, una sola riga: Cosa pensa
il suo amico – o suo figlio, o suo fratello, o suo padre – di
questo processo? E li spedimmo da altrettanti caselli
comuni della posta pneumatica sparsi per tutta la City.
Non sceglievamo mai lo stesso punto due volte.
A conti fatti non era molto, ma si rivelò abbastanza.
I membri della giuria cominciarono ad apparire ansiosi,
ai nuovi processi si guardavano attorno con discrezione,
nel tentativo di individuare chi potesse sapere, chi fosse
venuto a conoscenza del loro sporco segreto. Confesso
che osservarli tanto sulle spine mi portò una forte ondata
di soddisfazione; stavano assumendo una dose della loro
stessa medicina.
Qualche settimana dopo fui io a ricevere un
telegramma, proveniva dal vecchio conoscente di mio
padre a cui ho già accennato, un uomo molto amato in
società per la sua acuta intelligenza. Recitava solo: È una
strada accidentata quella che il tuo amico ha intrapreso.
Continuate pure. – S.H.
Sorrisi nel gettare il messaggio al fuoco, osservando
la carta bucarsi e arricciarsi su se stessa, divorando ogni
traccia. Quel significante avviso mi aveva rivelato diverse
cose: qualcuno aveva chiesto i servigi del consulente
investigativo più famoso di Londra, eravamo in qualche
modo stati scoperti da quest’ultimo, ma – per motivi che
sospettavo molto personali – la simpatia di quel
gentiluomo era più con noi che con il suo cliente, che
doveva aver rifiutato di aiutare.
«Va tutto bene?» mi domandò Jimmy, sollevando lo
sguardo dalla sua copia di Paradiso perduto, sciupata
dalle ripetute letture.
Annuii. «Siamo quasi fuori dal buio» risposi,
baciando i suoi capelli.

Il caso Finnigan-McFarland si chiuse un mese dopo


con il rilascio degli imputati e la caduta di tutte le accuse.
L’addome di August Finnigan cominciava ad arrotondarsi
visibilmente. Una foto della coppia felice venne scattata
all’uscita dal tribunale e stampata su tutti i giornali: i volti
quasi spaccati in due da un identico sorriso, i corpi
allacciati, le mani unite sulla pancia di August. La
diapositiva passò alla storia, venne replicata sulle
cartoline e sui francobolli, sui biglietti d’auguri per gli
anniversari e per San Valentino.
La lieta risoluzione del processo permise a Jimmy
di pubblicare le proprie ricerche, ormai certo che – con
un tale precedente alle spalle – le persone citate non
fossero più a rischio. L’articolò sbatté in faccia all’intera
nazione che non si trattava di un caso straordinario: la
biologia umana era cambiata su larga scala, l’uomo era
evoluto.
Sei mesi più tardi, dopo lunghe delibere, la legge
venne modificata. L’oltraggio al pudore cadde.

Il cielo era cupo, la pioggia si abbatteva come


proiettili sui finestroni della Pneumopolitana. Goccioloni
paffuti e pesanti, che scorrevano a fiumi sui vetri, sino a
rendere impossibile distinguere il grigio paesaggio
esterno. Eppure, nonostante la condensa che appannava
il finestrone, riuscivo a distinguere il profilo dei palloni
aerostatici attraccati sul fiume, sopra il Big Bang.
Sorrisi. Lo scompartimento era vuoto e silenzioso,
a quell’ora del mattino, occupato solo dal tamburellio
della pioggia e dal fracasso dei pistoni sulle rotaie della
Sopraelevata. Mi misi più comodo sui sedili sbiaditi
dall’uso e Jimmy lasciò cadere la testa sulla mia spalla,
sbirciando anche lui i dirigibili pallidi e le mongolfiere
colorate. La nostra meta.
Qualcuno bussò alla porta dello scompartimento,
prima di aprirla, facendo cigolare i vecchi cardini. Una
cameriera si affacciò, i capelli grigi ritirati sotto la
cuffietta, tagliata in due punti per lasciar spuntare due
pelose orecchie da coniglio, e un sorriso gentile
contornato da baffi tremolanti.
«Qualcosa dal carrello, giovanotti?» domandò.
La mano sinistra di Jimmy sul mio grembo, le
nostre dita intrecciate, ebbe uno spasmo inconscio di
tensione, ma la donna non vi fece nemmeno caso. La
nostra vicinanza non era insolita, non era volgare o
illecita. Era legale. Dovevamo ancora abituarci.
«La ringrazio, ma la prossima è la nostra fermata»
rispose lui, la voce ancora roca di sonno perfino più bassa
e ruvida del consueto.
La cameriera ci lasciò con un cenno del capo e
richiuse la porta. Jimmy sorrise esitante, quasi timido, e
si schiacciò di più contro il mio fianco, stirando le ali
parzialmente intrappolate dietro la schiena.
«Parigi, dunque?» sussurrò premendo il naso
freddo contro la mia guancia.
Parigi, dove la sodomia non era mai stata illegale.
Non lasciavamo l’Inghilterra dal nostro ritorno
dall’inferno, ma pensavo che qualche settimana d’aria
francese e amica ci avrebbe abituato a quella nuova
libertà. A viverla, ora che l’avevamo conquistata.
«Parigi» confermai, rispondendo al sorriso con uno
molto simile, affondando la mano libera tra le sue piume.
BIOGRAFIA

Letizia Loi, 23 anni sotto il segno dei Gemelli,


inciampò nella scrittura un decennio addietro, quando –
stanca d’attendere che uscisse in tutte le librerie – decise
di provare a scrivere la sua versione del sequel di un
famosissimo libro, non sapendo, nella sua illibata
innocenza, che qualcosa del genere già esistesse e si
chiamassero Fan Fiction.
Fonti sicure attestano che quel primo lavoro venne
dato alle fiamme, ma in seguito la giovane scoprì le
suddette Fan Fiction e perse tutta la sua innocenza,
votandosi all’erotismo più dissoluto.
Attualmente pubblica sia a suo nome che sotto lo
pseudonimo Hikaru Ryu e lavora come editor per La
Mela Avvelenata.
È stata selezionata per le antologie 365 racconti
erotici per un anno, 365 storie d’amore, e 365 racconti di
natale della Delos Books. Con Lite Editions ha
pubblicatoIl caso Sigerson, Intrighi e gelosia, Novecento
buoni motivi e Uno studio in vapore, per la collana Il velo
di Holmes. Per La Mela Avvelenata ha partecipato alle
antologie Mommotti e Merry Christmas with Mr. Death,
pubblicato il romanzo fantascientifico Ichnôussa, e il
racconto free Il violinista di Uno Studio in Vapore per la
collana Sherlock Project.
RINGRAZIAMENTI

Se questa storia ha un briciolo di senso, scientificamente


parlando, il merito è di Sara Benatti, amica e biologa, che si è
prestata a rispondere alle mie infinite domande e aiutarmi a
rendere la metamorfosi più credibile. Si deve a lei la riuscita di
questa avventura.

Un ringraziamento è inoltre dovuto ad Alexia Bianchini, che mi


ha aiutato a trovare lo stratagemma per sbloccare la trama,
quando mi pareva arrivata a un punto morto.

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