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Erri De Luca

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Era una amore ancora intero quando lo strappammo. Lo squarto in tempi solamente adesso,
lo seziono in un principio, un corpo, unestinzione. Allora eravamo incastro a coda di rondine, da
non poter distinguere nellangolo retto dei corpi il suo dal mio. Ora amore, una terra bruciata vista
da lontano, prima era bosco fitto, umido, senza cielo.
Mi aveva voluto. Mi aveva staccato dal mucchio di teste in una sera dosteria, mi aveva
estratto comero, ingiallito, pagina di foglia fitta di vene e rughe, fibroso come un legno di rose,
ispessito come un sonno senza sogni. Era venuta a casa, avevo cucinato e poi era stata a sentire una
musica che sapevo fare. Venne vicino ad ascoltare, con lorecchio sotto la mia bocca, finch mise la
sua sopra il canto e lo spense come fanno due dita umide e svelte sopra una candela. Per un
momento ci separ il legno della chitarra, poi niente altro.
Venne da me contro la sua vita, contro la sua casa, le stanze precedenti, gli amici chiusi a
coppie in serate di mezzet, un marito gi pronto e inginocchiato in chiesa. Contro la sua vita:
quanto poteva durare, un mese? Dur un anno, uno intero contro tutti gli altri passati e tutti quelli a
seguire, un anno per gridare esultando dimprovviso per una felicit di carne spalancata. Stringevo
senza capire: amore? Lo chiamavamo in fretta, di sfuggita, solamente more, crampo di poche
parole, avido daltro. Tornavo dal lavoro e poi ci seguivamo in ogni stanza, solo per starsi al fianco
in ogni soprappensiero, anche leggendo, studiando io qualcosa di lingue remote accarezzate per
bisogno di crescere.
Fu estate, vennero notizie, forse ti arresteranno, vattene, non me ne andrei e il
pensiero che questa era per lei una soluzione. Estate in brodo di noi, pi forte lansia di trattenersi,
di mischiarsi, di affondare insieme nellapnea: sotto il pelo del mare coi corpi formavamo la lenta
figura di una stella. Non mi chiedeva niente, n il passato n il dopo, perch non era nostro. Fingeva
di rischiare un figlio, sapevo che mentiva e non me ne importava. Ammucchiavamo giorni, alcuni in
montagna, arrampicando. Mi seguiva in tutto, senzaltra voglia che di starmi accanto. Non le
piaceva salire, afferrare piccoli appigli nel vuoto tenuta a me solo dallesile centimetro di spessore
della corda. Ai due capi erano stretti nodi paralleli sopra lombelico. Non aveva paura, di niente
aveva paura con me, se le era bruciate tutte alle spalle in quel tempo di vita contro se stessa.
Sbuffava per fatica e in cima si voltava appena, senza badare allimprovviso largo dorizzonte che si
apriva nellangolo giro della sommit, dopo tante ore passate a mettere passetti ragionati
sullabisso. Voleva solo raggiungermi, guadagnare in fretta il punto darrivo del giorno per tornare
alla stanza dei nodi slegati. Scendevamo a valle lungo ghiaie bianche abbaglianti come i grembiuli
delle balie sedute al sole del lungomare di Napoli; mi correggeva: come uova sode e cipolle.
Forzavamo la corsa nella discesa senza un grido, veloci tra i blocchi che scivolavano intorno ai
nostri salti. Scendere scale, scendere ghiaioni: improvviso un ritmo dei passi ci faceva voltare luno
verso laltra perch batteva i colpi dei nostri abbracci. Senza sorridere il nostro corpo apparecchiava
il prossimo.
A volte piangeva. La sua vita, la casa, il marito di salgemma inginocchiato al marmo in
attesa di sorgere al suo fianco, tutto chiamava indietro. Invece di scontrarla, accarezzavo la sua
nostalgia, un ripostiglio che non mi spettava, anche un figlio da dare al suo ragazzo infranto sulla
soglia. Ero lestraneo, laffanno, cuore di un alveare inferocito, da leccargli il fondo ma con lo sputo
in gola. E io credevo che non potesse pi smettere per tanto che ci eravamo consegnati i corpi.
Nessun distacco poteva pi restituirceli, il mio stava nei suoi nervi e lei mi aveva stampato a caldo
il suo sotto le dita, impronta digitale che per maledizione non avrei pi scacciato. Parole sue scritte
su biglietti e tovaglioli: Senza di me sarai dannato, vorrei le tue cicatrici, mi allontano col
terrore di compiere uninfamia.

Cos quellautunno fu pieno di foglie che non volevano cadere e bisognava scuote gli alberi
per vedere linverno. Non soffiava unanima di vento, tutto si conservava in una luce tagliente. Mi
aveva controvoglia regalato un coltello, un Pattada perfetto. Controvoglia: lo chiesi non con
permesso ma per esigerlo. Questanno lho perduto in montagna, scalando tra le Odle. Me lo dette,
me lo dette aprendolo e facendomelo prendere dal lato della lama. Lo trattenne serrandolo un poco
intorno al manico, strinsi la lama lungo il solco che i chiromanti chiamano la linea della vita. Aveva
spesore nel cavo della mano, glielo tolsi senza ferirmi. Se me ne vado, che farai? chiese. Non
far niente, proprio niente, non viagger lontano per dimenticare. Mi alzer tutti i giorni, lavorer
sodo come sempre, la domenica andr ad arrampicare. In una settimana avr di nuovo imparato a
dormire da solo. Tiravo a indovinare su di me, ma parlavo soltanto del corpo.
Credevo non potesse pi vivere senza il mio, ma non era cos, non era come in cordata sulla
prima torre del Sella. Poteva sciogliere la doppia gassa damante in ogni punto e solo la vertigine di
questa libert la tratteneva. Ancra, ancra, adesso era lei che guadagnava i giorni di un distacco
che aveva stabilito. Non capivo niente, pensavo di stare in una sosta in parete e di recuperare la sua
salita verso di me tenendo tesa la corda che le finiva in vita. Ancra, ancra, erano i giorni ancora,
io li scambiavo per i giorni sempre. Non davano tregua, erano coltello in pugno, dalla parte della
lama, more.
Sorrisi da adulto alla richiesta di andare al luna park. Ci passammo due pomeriggi. Mancavo
a quei giocattoli giganti da bambino e fui travolto per colpa del sorriso sbagliato. Avessi sorriso da
ragazzo pirata non sarei barcollato in quelle macchine spericolate che spingevano lo stomaco verso
luscita. Respiravo con la volont, come inghiottire. Lei in caccia, abbarbicata a me per annusare la
mia confusione, la mia sorpresa di vacillare tra i voli, i precipizi, le centrifughe, i salti mortali e
tutto larsenale di un addestramento da astronauti. Ne uscivo rigovernando laspetto e lei ne aveva
gi avvistato un altro, un marchingegno in cui si provava lebbrezza di stare in un pistone
dautomobile scatenato da un acceleratore. Respirava la mia adrenalina: non laveva assaggiata in
montagna, n ai giorni degli arresti. Vedevo il gioco e mi lasciavo fare, era il suo, per una volta in
pi era il suo e lo bruciava, scatola di fiammiferi, zolfo da sentir friggere. Il carrello precipitava a
picco dal punto pi alto delle montagne russe, uno scatto mi saldava le mascelle e vomitavo un
ringhio nella gola. Non chiudeva gli occhi, n guardava il tracciato furioso della corsa, guardava
me, esultava affondando le dite nel mio braccio. Le piaceva la mia tensione, hai paura mi fiatava
roca nellorecchio e non trovavo scampo a quella frase in nessuna resistenza. Hai paura, ecco in
qualcosa cedevo, venivo meno nel gioco, nelle trappole elettriche dei vortici, dei salti e la sua frase
aguzza passava sulla breccia del cuore. Hai gli occhi pieni di sangue. Due pomeriggi al luna park
di fine autunno: tra i viali svuotati le macchine rotanti erano mulini e macinavano gli ultimi gridi. A
casa riprendevamo a fiutarci, a svaporare chimica dal sangue, tracciargli una strada diversa dai vasi,
tracciarla a fior di pelle con unghie, ciglia, denti e vedere che il sangue seguiva il pifferaio di
superficie.
Autunno lucente, qualche grappolo duva dimenticato sotto la pergola marciva in un ronzio
di vespe appesantite. Dallamaca il cielo sarrostiva piano oltre il campo, ci staccavamo e cucinavo
un pesce. Durer cos, sar questo, ma se provavo a immaginare loltre mi indurivo. Era Natale
quando prei i miei panni dal suo armadio perdendone in discesa veloce per le scale. Era finito un
anno, quello della sua vita contro e del male di more, unghia incarnita di felicit.

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