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Twilight
New Moon
Eclipse
Breaking Dawn
La breve seconda vita di Bree Tanner
Life and Death: Twilight Reimagined
24
I edizione: settembre 2020
© 2020 Stephenie Meyer
Questa edizione è stata pubblicata in accordo con
The Italian Literary Agency e Writers House.
© 2020 Fazi Editore srl
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
Titolo originale: Midnight Sun
Traduzione dall’inglese di Donatella Rizzati, Michele Zurlo,
Valentina Niccoli e Alessandro Ciappa
ISBN: 978-88-9325-833-3
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Questo libro è dedicato a tutti i lettori
che negli ultimi quindici anni sono stati
una parte molto felice della mia vita.
Quando ci siamo incontrati per la prima volta,
molti di voi erano giovani adolescenti
dai begli occhi luminosi pieni di sogni per il futuro.
Spero che nel corso di questi anni tutti voi
abbiate trovato i vostri sogni e che la loro realizzazione
sia stata persino migliore di quanto avevate sperato.
1. A PRIMA VISTA
Era il momento della giornata in cui, più di tutti gli altri, desideravo
di poter dormire.
Liceo.
Oppure la parola giusta era purgatorio? Se esisteva un modo
qualsiasi per espiare i miei peccati, questo, in qualche misura,
doveva pur contare. La noia era una cosa alla quale non mi abituavo
mai; ogni giorno sembrava incredibilmente più monotono del
precedente.
Forse potevo considerarlo una forma di sonno – se la parola
sonno definiva lo stato di inerzia fra un’attività e l’altra.
Fissavo le crepe che percorrevano l’intonaco nell’angolo in fondo
alla caffetteria, immaginando dei disegni che non c’erano. Era un
modo per mettere a tacere le voci che blateravano nella mia testa
come gli spruzzi di un fiume.
Diverse centinaia di quelle voci le ignoravo perché erano noiose.
Quando si trattava di menti umane, all’inizio le ascoltavo tutte, poi
solo alcune. Quel giorno i pensieri di tutti si concentravano su un
evento di eccezionale irrilevanza: una nuova aggiunta all’esiguo
corpo studentesco. Bastava così poco per eccitarli. Avevo visto il
nuovo volto ripetuto in un pensiero dopo l’altro da ogni angolazione.
Era soltanto la solita ragazza umana. L’eccitazione che provocava il
suo arrivo era noiosamente prevedibile – era la stessa reazione che
ci si poteva aspettare mostrando un oggettino luccicante a un
gruppo di mocciosi. Metà dei maschi semiaddormentati già si
immaginavano infatuati di lei, solo perché era una cosa nuova da
guardare. Mi sforzai ancora di più per metterli a tacere.
Erano soltanto quattro le voci che bloccavo per cortesia, invece
che per disgusto: quelle della mia famiglia, i miei due fratelli e le mie
due sorelle, talmente abituati alla mancanza di intimità in mia
presenza che raramente se ne preoccupavano. Io gli davo ciò che
era nelle mie possibilità. Tentavo di non ascoltarli, se potevo farne a
meno.
Tentavo con tutte le mie forze, eppure... sapevo.
Rosalie stava pensando, come al solito, a se stessa – la sua
mente era un placido stagno con poche sorprese. Aveva scorto il
suo profilo riflesso negli occhiali di qualcuno e stava riflettendo a
fondo sulla propria perfezione. Nessuna aveva capelli, più dei suoi,
vicini all’autentico colore dell’oro, nessuna aveva un corpo a
clessidra più perfetto del suo, nessun’altra aveva un viso dall’ovale
altrettanto simmetrico e impeccabile. Ma non si confrontava con gli
umani: sarebbe stato un confronto ridicolo, assurdo. Pensava agli
altri come noi, nessuno dei quali, comunque, le stava alla pari.
L’espressione di Emmett, di solito spensierata, era un broncio di
frustrazione. Anche adesso si passava la mano enorme fra i riccioli
color ebano, torcendoli nel pugno. Stava ancora rimuginando
sull’incontro di lotta che aveva perso contro Jasper durante la notte.
Avrebbe esaurito tutta la sua limitata pazienza nel tentativo di
arrivare alla fine della giornata scolastica, solo per riorganizzare un
incontro. Ascoltare i pensieri di Emmett non mi dava la sensazione di
essere indiscreto, perché lui non pensava mai niente che non
avrebbe detto ad alta voce oppure messo in atto. Forse mi sentivo in
colpa soltanto nel leggere le menti degli altri, perché sapevo che
contenevano cose che non avrebbero voluto farmi conoscere. Se la
mente di Rosalie era un placido stagno, allora quella di Emmett era
un lago senza ombre, trasparente come il vetro.
E Jasper era... sofferente. Repressi un sospiro.
Edward. Alice mi chiamò mentalmente ed ebbe subito la mia
attenzione. Era come se mi avesse chiamato a voce alta. Ero felice
che, negli ultimi decenni, il mio nome fosse diventato fuori moda – in
passato era stato fastidioso; ogni volta che qualcuno pensava a un
Edward la mia testa si girava automaticamente.
La mia testa non si girò. Alice e io eravamo bravi in queste
conversazioni private. Era raro che qualcuno ci scoprisse. Mantenni
lo sguardo fisso sulle crepe nell’intonaco.
Quanto reggerà?, mi chiese Alice.
Io mi accigliai, appena un leggero cambiamento nelle linee della
mia bocca. Niente che avrebbe allertato gli altri. Capitava spesso
che mi accigliassi per la noia.
Jasper era immobile da troppo tempo. Non si stava producendo
nei tic umani come dovevamo fare tutti noi, in perenne movimento
per non farci notare, come Emmett che si tirava i capelli, Rosalie che
incrociava le gambe prima in un verso, poi nell’altro, o io che
spostavo la testa per fissare ghirigori su diversi punti della parete.
Jasper sembrava paralizzato, il corpo snello eretto e composto,
persino i capelli color miele sembravano non reagire alle folate che
arrivavano dai condotti dell’aria.
Ora il tono mentale di Alice era allarmato e vidi nella sua mente
che stava osservando Jasper con la coda dell’occhio. C’è un
pericolo? Frugò nell’immediato futuro, scorrendo visioni di monotonia
in cerca dell’origine del mio cipiglio. Anche mentre era impegnata
nella ricerca, ricordò di infilarsi il piccolo pugno sotto il mento
appuntito e di battere regolarmente le palpebre. Si scostò dagli occhi
una ciocca dei corti, spettinati capelli neri.
Io girai lentamente la testa verso sinistra, come per guardare i
mattoni del muro, sospirai e poi mi girai verso destra, di nuovo sulle
crepe nell’intonaco. Gli altri avrebbero pensato che stessi
interpretando la parte dell’essere umano. Soltanto Alice sapeva che
stavo scuotendo la testa.
Si rilassò. Fammi sapere se le cose peggiorano.
Spostai soltanto gli occhi, verso il soffitto e poi di nuovo in basso.
Grazie per quello che fai.
Fui felice di non poterle rispondere a voce alta. Che cosa le avrei
detto? È un piacere? Non lo era per niente. Non mi divertivo a
calarmi nelle lotte interiori di Jasper. Era proprio necessario
sperimentare in quel modo? Non sarebbe stato più sicuro ammettere
semplicemente che lui non sarebbe mai stato in grado di controllare
la sua sete come facevamo noi e non forzare i suoi limiti? Perché
giocare con il fuoco?
Erano passate due settimane dalla nostra ultima battuta di
caccia. Non era un lasso di tempo troppo problematico per noialtri.
Un po’ spiacevole, di tanto in tanto, se un umano ci camminava
troppo vicino o se il vento soffiava nel verso sbagliato. Ma gli umani
raramente ci camminavano troppo vicino. Il loro istinto gli diceva
quello che la mente razionale non avrebbe mai capito: noi eravamo
un pericolo da evitare.
In quel momento, Jasper era molto pericoloso.
Non succedeva spesso, ma ogni tanto mi colpiva la noncuranza
degli umani che ci giravano intorno. Noi tutti ci eravamo abituati, ce
lo aspettavamo sempre, ma qualche volta sembrava più evidente del
solito. Nessuno di loro ci notava, lì, mentre ce ne stavamo seduti al
tavolo malandato della caffetteria, sebbene un branco di tigri
pigramente sdraiate al nostro posto sarebbe stato meno letale di
quanto fossimo noi. Tutto quello che vedevano erano cinque tipi
strani, abbastanza simili agli umani da passare per loro. Era difficile
immaginare di sopravvivere con delle capacità sensoriali così
incredibilmente ottuse.
In quel momento, una ragazzina si fermò in fondo al tavolo più
vicino al nostro, per parlare con un’amica. Scosse i capelli color
sabbia pettinandoli con le dita. La corrente del condizionatore soffiò
il suo odore verso di noi. Ero abituato al modo in cui mi faceva
sentire quell’odore – il fastidio secco nella gola, il vuoto bramoso
nello stomaco, l’istintivo tendersi dei muscoli, l’eccesso di veleno che
mi inondava la bocca.
Era tutto abbastanza normale, di solito facile da ignorare. Fu più
difficile in quel momento, con le reazioni più forti, raddoppiate,
mentre tenevo d’occhio Jasper.
Jasper stava lasciando che la sua fantasia spaziasse sempre più
lontano. Lo stava immaginando – immaginava se stesso che si
alzava dalla sedia accanto ad Alice e andava a fermarsi vicino alla
ragazzina. Immaginava di protendersi verso di lei e abbassarsi,
come se volesse sussurrarle all’orecchio, e di lasciare che le sue
labbra toccassero l’arco della gola di lei. Immaginava come sarebbe
stato sentire il caldo pulsare del sangue, dietro la debole barriera
della pelle, sotto la sua bocca...
Tirai un calcio alla sua sedia.
Lui incontrò il mio sguardo, con un lampo di rabbia negli occhi
neri, e abbassò il suo. Sentii la vergogna e la ribellione che
battagliavano nella sua testa.
«Mi dispiace», borbottò.
Io mi strinsi nelle spalle.
«Non avresti fatto niente», mormorò Alice, alleviando la sua
mortificazione. «Questo l’ho visto».
Repressi a fatica l’occhiataccia che avrebbe tradito la sua
menzogna. Dovevamo rimanere uniti, io e Alice. Non era facile
essere i mostri in mezzo ad altri mostri. Proteggevamo a vicenda i
nostri segreti.
«Un po’ ti aiuta se pensi a loro come a delle persone», suggerì
Alice, con la sua voce acuta e musicale, troppo rapida per essere
intelligibile alle orecchie umane, se qualcuno si fosse trovato
abbastanza vicino da sentirla. «Si chiama Whitney. Ha una sorellina
più piccola che adora. Sua madre ha invitato Esme a quella festa in
giardino, ricordi?».
«Lo so chi è», disse seccamente Jasper. Si voltò per fissare una
delle finestrelle disposte tutto intorno alle pareti della lunga sala,
appena al di sotto delle grondaie. Il suo tono pose fine alla
conversazione.
Sarebbe andato a caccia quella notte stessa. Era ridicolo correre
un rischio come quello, per tentare di mettere alla prova la sua forza,
di incrementare la sua resistenza. Jasper doveva soltanto accettare i
suoi limiti e muoversi entro di essi.
Alice sospirò in silenzio e si alzò, portando via il vassoio del
pranzo – cioè il suo attrezzo di scena – e lasciandolo in pace.
Sapeva quando Jasper ne aveva avuto abbastanza dei suoi
incoraggiamenti. Sebbene Rosalie ed Emmett fossero più plateali
rispetto alla relazione che li legava, erano Alice e Jasper a
conoscere ogni reciproca necessità come fossero le proprie. Come
se sapessero leggere le menti – ma esclusivamente le loro.
Edward.
Reazione istintiva. Mi girai sentendo chiamare il mio nome, anche
se non era stato chiamato, ma soltanto pensato.
I miei occhi rimasero fissi, per mezzo secondo, in un paio d’occhi
umani color cioccolato, incastonati in un viso pallido a forma di
cuore. Conoscevo quel viso, anche se non l’avevo mai visto di
persona fino a quel momento. Era stata la visione principale di tutte
le menti, quel giorno. La nuova studentessa, Isabella Swan. Figlia
del capo della polizia della città, si era trasferita a Forks a causa di
un cambiamento nella custodia genitoriale. Bella. Aveva corretto
chiunque avesse usato il suo nome intero.
Annoiato, distolsi lo sguardo. Mi ci volle un secondo per rendermi
conto che non era stata lei a pensare il mio nome.
Ovviamente si è già presa una cotta per i Cullen, udii proseguire il
primo pensiero.
Adesso riconobbi la “voce”.
Jessica Stanley – era da un po’ che non mi infastidiva più con le
sue chiacchiere interiori. Che sollievo era stato quando aveva
superato la sua fissazione mal riposta. Era stato quasi impossibile
sfuggire ai suoi ridicoli, costanti sogni a occhi aperti. All’epoca avrei
tanto voluto poterle spiegare esattamente cosa sarebbe accaduto se
le mie labbra, e i denti che vi erano dietro, si fossero in qualunque
modo avvicinati a lei. Sicuramente avrei messo a tacere quelle
fastidiose fantasie. Il pensiero della sua reazione mi fece quasi
sorridere.
Sarà soltanto un buco nell’acqua, proseguì Jessica. Non è
nemmeno carina. Non capisco perché Eric la stia fissando così
tanto... e anche Mike.
Sussultò mentalmente sull’ultimo nome. La sua nuova
ossessione, il popolare Mike Newton, ignorava completamente la
sua esistenza. Ma a quanto pareva non era altrettanto ignaro della
nuova ragazza. Un altro bambino con la mano tesa verso l’oggetto
luccicante. Ciò aggiunse una sfumatura di cattiveria nei pensieri di
Jessica anche se, dall’esterno, lei si mostrava cordiale verso la
nuova arrivata mentre le spiegava quali fossero le informazioni
comunemente note sulla mia famiglia.
Oggi tutti stanno guardando anche me, pensò Jessica, con un
certo compiacimento. Non è una fortuna che Bella segua due corsi
insieme a me? Scommetto che Mike mi chiederà che cosa le...
Tentai di tenere quelle chiacchiere insulse fuori dalla mia mente
prima che la marea della stupidità mi facesse impazzire.
«Jessica Stanley sta lavando tutti i panni sporchi della famiglia
Cullen davanti alla nuova arrivata», mormorai a Emmett, per
distrarlo.
Lui ridacchiò sommessamente. Spero che lo faccia bene, pensò.
«Senza troppa fantasia, in realtà. Appena una vaga insinuazione
scandalosa. Nemmeno un grammo d’orrore. Sono un po’ deluso».
E la nuova ragazza? Anche lei è delusa dai pettegolezzi?
Mi misi in ascolto per sentire che cosa pensasse la nuova
ragazza, Bella, della storia di Jessica. Che cosa vedeva quando
guardava la strana famiglia dalla pelle bianca come il gesso, che era
universalmente evitata?
Conoscere la sua reazione era una mia responsabilità. Facevo da
vedetta, in mancanza di un termine migliore, per la mia famiglia. Per
proteggerci. Se mai qualcuno diventava sospettoso, io potevo
avvertire tutti immediatamente e darci la possibilità di fare subito un
passo indietro. Ogni tanto accadeva – qualche umano vedeva in noi
i personaggi di un libro o di un film. Di solito sbagliavano, ma era
meglio trasferirsi in un posto nuovo piuttosto che rischiare di essere
sottoposti a un esame minuzioso. Raramente, molto raramente,
qualcuno immaginava la verità. Non gli lasciavamo la possibilità di
dimostrare le sue ipotesi. Semplicemente, sparivamo per
trasformarci in niente di più di un ricordo spaventoso.
Non accadeva più da decenni.
Non udii niente, anche se ascoltai vicino al punto in cui il frivolo
monologo interiore di Jessica continuava a straripare. Che strano. La
ragazza si era forse spostata? Non sembrava probabile, visto che
Jessica stava ancora blaterando. Mi sentii disorientato, alzai lo
sguardo. Controllare il funzionamento del mio “udito” extra... era una
cosa che non avevo mai dovuto fare.
Di nuovo, il mio sguardo si fermò su quei grandi occhi color
cioccolato. Lei era seduta proprio dov’era prima e ci guardava – una
cosa naturale, immaginai, visto che Jessica si stava ancora
prodigando nel riferire i pettegolezzi locali sui Cullen.
Anche pensare a noi sarebbe stato naturale.
Ma non riuscii a udire nemmeno un sussurro.
Un caldo, invitante rossore macchiò le guance della ragazza
mentre abbassava gli occhi per liberarsi dall’imbarazzante gaffe di
essere stata sorpresa a fissare un estraneo. Era un bene che Jasper
stesse ancora guardando fuori dalla finestra. Non mi piaceva
immaginare l’effetto che avrebbe avuto sul suo controllo tutto quel
sangue a fior di pelle.
Le emozioni che aveva provato si erano manifestate sul suo viso
con la stessa chiarezza di un discorso: sorpresa, come se avesse
assimilato inconsapevolmente i segni delle sottili differenze fra i suoi
simili e i miei; curiosità, mentre ascoltava il racconto di Jessica; e
qualcos’altro... attrazione? Non sarebbe stata la prima volta. Per
loro, per le nostre prede designate, noi eravamo bellissimi. Poi, alla
fine, l’imbarazzo.
Eppure, sebbene i pensieri fossero stati così limpidi nei suoi
strani occhi – strani per gli abissi che nascondevano –, dal posto in
cui era seduta sentivo arrivare soltanto silenzio. Soltanto... silenzio.
Per un istante, mi sentii turbato.
Era una situazione in cui non mi ero mai trovato. C’era qualcosa
che non andava in me? Mi sentivo esattamente come al solito.
Preoccupato, ascoltai con maggiore impegno.
Tutte le voci che avevo bloccato, all’improvviso, urlarono nella
mia testa.
...mi chiedo quale musica le piaccia... forse potrei parlare del mio
nuovo CD..., stava pensando Mike Newton due tavoli più in là,
concentrato su Bella Swan.
Guardalo come la fissa. Non basta che metà delle ragazze della
scuola aspettino che lui... I pensieri di Eric Yorkie erano pungenti e
anche loro imperniati sulla ragazza.
...che schifo. Ti viene da pensare che sia una tipa famosa o roba
del genere... persino Edward Cullen la sta fissando... Lauren Mallory
era talmente gelosa che la sua faccia avrebbe avuto tutte le ragioni
per tingersi di verde scuro. E Jessica, che sta lì a sfoggiare la sua
nuova migliore amica. Che beffa... Il vetriolo continuava a irrorare i
suoi pensieri.
...scommetto che gliel’hanno chiesto tutti. Ma mi piacerebbe
parlare con lei. Qualcosa di più originale?, rimuginava Ashley
Dowling.
...forse sarà nel mio corso di spagnolo..., sperava June
Richardson.
...una tonnellata di cose ancora da fare stasera! Trigonometria e il
test di inglese. Spero che mia madre... Angela Weber, una ragazza
tranquilla i cui pensieri erano insolitamente gentili, era l’unica del
tavolo a non essere ossessionata da quella Bella.
Io potevo sentirli tutti, sentire ogni minima cosa cui stavano
pensando così come passava nei loro cervelli. Ma niente di niente
dalla nuova studentessa con gli occhi ingannevolmente comunicativi.
E, ovviamente, potevo ascoltare quello che diceva parlando con
Jessica. Non avevo bisogno di leggere la mente per riuscire a
sentire la sua voce bassa e limpida dal lato opposto della lunga sala.
«Chi è quello con i capelli rossicci?», la sentii domandare, mentre
mi lanciava un’altra occhiata furtiva con la coda dell’occhio, solo per
guardare rapidamente altrove quando vide che la stavo ancora
osservando.
Se avessi avuto il tempo per sperare che udire il suono della sua
voce mi avrebbe aiutato a sintonizzarmi sui suoi pensieri, sarei
rimasto istantaneamente deluso. Di solito, i pensieri delle persone
arrivano alle loro menti in un tono simile a quello della voce fisica.
Ma quella voce sommessa, timida, mi era estranea, non
corrispondeva a uno solo delle centinaia di pensieri che
rimbalzavano tutto intorno alla sala, di questo ero sicuro. Totalmente
nuova.
Oh, buona fortuna, idiota!, pensò Jessica prima di rispondere alla
domanda della ragazza. «Si chiama Edward. È uno schianto,
ovviamente, ma non sprecare il tuo tempo. Non esce con nessuna.
A quanto pare qui non ci sono ragazze abbastanza carine per lui».
Fece una risatina sprezzante.
Voltai la testa per nascondere un sorriso. Jessica e le sue
compagne non avevano idea di quanto fossero fortunate a non
essere particolarmente attraenti ai miei occhi.
Ma dietro quel momentaneo buonumore, provai uno strano
impulso, un impulso che non capii con chiarezza. Aveva qualcosa a
che fare con la cattiveria annidata nei pensieri di Jessica, perché la
nuova ragazza non era consapevole di... Provai la stranissima
urgenza di andare a mettermi fra di loro e proteggere Bella Swan
dalle cupe macchinazioni della mente di Jessica. Che strana
sensazione. Tentando di scovare le motivazioni nascoste dietro
quell’impulso, esaminai ancora la nuova ragazza, stavolta attraverso
gli occhi di Jessica. Il mio sguardo insistente aveva attirato troppa
attenzione.
Forse si trattava soltanto di un istinto di protezione rimasto
sepolto troppo a lungo – del forte per il debole. In qualche modo,
quella ragazza sembrava più fragile delle sue nuove compagne di
scuola. La sua pelle era talmente traslucida che si faticava a credere
che le offrisse una difesa dal mondo esterno. Riuscivo a vedere il
pulsare ritmico del suo sangue attraverso le vene sotto la membrana
pallida, trasparente... Ma non dovevo concentrarmi su quello. Ero
bravo a vivere la vita che avevo scelto, ma ero assetato quanto
Jasper e non era logico indugiare in una tentazione.
Fra le sue sopracciglia c’era una lieve ruga della quale sembrava
non accorgersi. Era incredibilmente frustrante! Vedevo chiaramente
lo sforzo che le costava rimanere seduta lì, fare conversazione con
degli sconosciuti, essere al centro dell’attenzione. Potevo percepire
la sua timidezza dal modo in cui teneva le spalle strette,
leggermente curve, come se si aspettasse un rifiuto da un momento
all’altro. Eppure potevo soltanto vedere, percepire, immaginare. Da
quella ragazza umana tutt’altro che eccezionale, non proveniva che
silenzio.
Non riuscivo a sentire niente. Perché?
«Andiamo?», mormorò Rosalie, interrompendo la mia
concentrazione.
Distolsi la mente dalla ragazza con un senso di sollievo. Non
volevo continuare a fallire – per me fallire era raro e persino più
irritante di quanto fosse inconsueto. Non volevo sviluppare alcun
interesse per i suoi pensieri nascosti soltanto perché erano nascosti.
Senza dubbio, quando fossi arrivato a decifrarli – e io avrei trovato il
modo di farlo –, si sarebbero rivelati insulsi e meschini come quelli di
qualsiasi altro umano. Non valevano lo sforzo che avrei dovuto fare
per raggiungerli.
«Allora, la nuova ha già paura di noi?», domandò Emmett, ancora
in attesa della mia risposta alla sua domanda precedente.
Mi strinsi nelle spalle. Lui non era abbastanza interessato da
insistere per avere altre informazioni.
Ci alzammo dal tavolo e uscimmo dalla caffetteria.
Emmett, Rosalie e Jasper fingevano di essere all’ultimo anno; se
ne andarono alle rispettive lezioni. Io recitavo il ruolo di quello più
giovane. Mi avviai alla lezione di biologia del terzo anno,
preparandomi mentalmente alla noia. Era difficile che il professor
Banner, un uomo di intelletto non superiore alla media, sarebbe
riuscito a tirare fuori, nella sua lezione, qualcosa di sorprendente per
chi aveva conseguito due lauree in medicina.
In aula, presi posto sulla sedia e lasciai i libri – di nuovo attrezzi di
scena; non contenevano niente che non avessi già letto – sparsi sul
banco. Ero l’unico studente ad avere un banco tutto per sé. Gli
umani non erano abbastanza intelligenti da sapere di aver paura di
me, ma il loro istinto di sopravvivenza era sufficiente a tenerli alla
larga.
La stanza si riempì lentamente mentre tutti tornavano, alla
spicciolata, dal pranzo. Mi appoggiai allo schienale della sedia e
aspettai che il tempo passasse. Di nuovo, desiderai di poter dormire.
Poiché avevo pensato alla nuova ragazza, quando Angela Weber
la scortò in classe, il suo nome si intrufolò nella mia attenzione.
Bella sembra timida quanto me. Scommetto che oggi è una
giornata difficile per lei. Mi piacerebbe tanto saperle dire qualcosa...
ma probabilmente sembrerebbe soltanto una stupidaggine.
Sì!, pensò Mike Newton, girandosi sulla sedia per veder entrare
la ragazza.
Eppure, dal punto in cui era Bella Swan, niente. Lo spazio vuoto
nel quale avrebbero dovuto trovarsi i suoi pensieri mi irritava e
innervosiva.
E se fosse sparito tutto? E se quello fosse stato il primo sintomo
di una sorta di declino mentale?
Spesso avevo desiderato poter sfuggire all’assordante
accozzaglia delle voci. Poter essere normale – per quanto fosse
possibile esserlo per me. Ma adesso quel pensiero mi gettava nel
panico. Che cosa sarei stato senza le mie capacità? Non avevo mai
sentito parlare di una cosa del genere. Avrei chiesto a Carlisle,
magari lui ne sapeva qualcosa.
La ragazza camminò fra i banchi, accanto a me, diretta verso la
cattedra del professore. Poverina. Il posto vicino al mio era l’unico
disponibile. Automaticamente, sgomberai quello che sarebbe stato il
suo lato del banco, sistemando i miei libri in una pila. Dubitavo che si
sarebbe sentita a suo agio lì. L’aspettava un lungo semestre – in
quel corso, almeno. Forse, però, sedendomi accanto a lei sarei
riuscito a far venire allo scoperto il nascondiglio dei suoi pensieri...
non che io avessi mai avuto bisogno della vicinanza, per farlo. Non
che avrei trovato qualcosa che valesse la pena ascoltare.
Bella Swan camminò nel flusso d’aria calda che soffiava verso di
me dal condotto d’aerazione.
Il suo profumo mi colpì come un ariete, come l’esplosione di una
granata. Non c’era un’immagine abbastanza violenta per esprimere
la forza di ciò che mi accadde in quel momento.
Istantaneamente, mi trasformai. Non fui più neanche l’ombra
dell’umano che ero stato una volta. Non rimase nessuna traccia dei
brandelli di umanità di cui mi ero ammantato negli anni.
Io ero un predatore. Lei, la mia preda. Non esisteva più niente in
tutto il mondo, tranne quella verità.
Non c’era una stanza piena di testimoni – nella mia mente erano
già danni collaterali. Il mistero dei suoi pensieri fu dimenticato. I suoi
pensieri non significavano niente, perché non li avrebbe pensati
ancora a lungo.
Io ero un vampiro e lei aveva il sangue più dolce che avessi mai
annusato in più di ottant’anni.
Non avevo nemmeno immaginato che potesse esistere un
profumo del genere. Se lo avessi saputo, sarei andato a cercarlo
molto tempo prima. Avrei passato al setaccio il pianeta, per trovarlo.
Potevo immaginarne il sapore...
La sete mi bruciò la gola come un fuoco. Sentivo la bocca riarsa
e secca, e la fresca ondata di veleno non servì a disperdere quella
sensazione. Il mio stomaco si contorse per la fame, che era un’eco
della sete. I miei muscoli si contrassero, pronti a scattare.
Non era passato nemmeno un secondo intero. Lei doveva ancora
terminare lo stesso passo che l’aveva portata sottovento rispetto a
me.
Quando il suo piede toccò il pavimento, gli occhi scivolarono
verso di me, un movimento che nelle sue intenzioni doveva essere
chiaramente furtivo. I nostri sguardi si incontrarono e io mi vidi
riflesso nello specchio delle sue pupille.
Lo shock dell’immagine del mio volto le salvò la vita per pochi,
delicati secondi.
Lei non mi aiutò. Quando assimilò l’espressione sul mio viso, il
sangue le affluì di nuovo alle guance, tingendole del colore più
delizioso che avessi mai visto. Il profumo era una nebbia fitta che mi
avvolgeva il cervello. Quasi non riuscivo a pensare. I miei istinti
infuriavano, si opponevano al controllo, sconnessi.
Lei camminò più in fretta, come se avesse compreso la necessità
di scappare. La fretta la rese goffa – inciampò e si sbilanciò in
avanti, rischiando di cadere sulla ragazza seduta di fronte a me.
Vulnerabile, debole. Persino più di quanto fosse normale per un
essere umano.
Tentai di concentrarmi sul viso che avevo visto nei suoi occhi, un
viso che riconoscevo con disgusto. Il viso del mostro che era dentro
di me – il viso che avevo respinto con decenni di sforzi e disciplina
inflessibile. Con quanta facilità era riemerso, adesso!
Il profumo mi circondò di nuovo con le sue volute, scompigliando i
miei pensieri e rischiando di farmi saltare dalla sedia.
No.
La mia mano si aggrappò con forza sotto il bordo del banco
mentre tentavo di rimanere seduto. Il legno, però, non era fatto per
resistere. La mano frantumò il rinforzo e ne tirò via un pugno di legno
scheggiato, lasciando la forma delle dita scavata nel resto del banco.
Distruggi la prova. Una regola fondamentale. Polverizzai in fretta i
bordi con l’impronta delle mie dita, lasciando soltanto un buco dai
bordi scheggiati e un cumulo di trucioli sul pavimento che sparpagliai
con il piede.
Distruggi la prova. Danno collaterale.
Sapevo che cosa doveva accadere, adesso. La ragazza si
sarebbe dovuta sedere accanto a me e io avrei dovuto ucciderla.
Agli innocenti spettatori della classe, altri diciotto ragazzini e un
uomo, non si poteva permettere di andar via, avendo visto quello
che presto avrebbero visto.
Sussultai al pensiero di ciò che dovevo fare. Anche nei miei
periodi peggiori, non avevo mai commesso questo genere di
atrocità. Non avevo mai ucciso degli innocenti. E adesso progettavo
di massacrarne venti in una volta sola.
Il viso del mostro nel mio riflesso mi derise.
Anche se una parte di me si ritraeva inorridita, un’altra parte
stava pianificando quello che sarebbe accaduto a breve.
Se avessi ucciso per prima la ragazza, avrei avuto soltanto
quindici o venti secondi con lei, prima che gli umani nella stanza
reagissero. Forse qualcuno in più se, all’inizio, non si fossero resi
conto di quello che stavo facendo. Lei non avrebbe avuto il tempo
per urlare o sentire dolore; non l’avrei uccisa in modo crudele. Fin lì
potevo arrivare, per quella sconosciuta con il sangue orribilmente
desiderabile.
Ma poi avrei dovuto impedire agli altri di fuggire. Non mi sarei
dovuto preoccupare delle finestre, troppo alte e troppo piccole per
fornire una via di fuga a qualcuno. Soltanto la porta; bloccata quella,
erano tutti in trappola.
Tentare di ucciderli tutti quando erano in preda al panico e si
agitavano nel caos come forsennati sarebbe stata un’operazione
lenta e più difficile. Non impossibile, ma ci sarebbe stato molto
rumore. E tempo per un sacco di urla. Qualcuno le avrebbe udite... e
io, in quell’ora oscura, sarei stato costretto a uccidere persino altri
innocenti.
E, mentre uccidevo gli altri, il sangue della ragazza si sarebbe
raffreddato.
Il profumo mi puniva chiudendomi la gola con un’arsura
dolorosa...
Allora, prima i testimoni.
Mentalmente, progettai l’azione. Io ero al centro dell’aula, nella
fila più lontana dalla cattedra. Avrei cominciato dalla mia destra.
Valutai che potevo spezzare quattro o cinque dei loro colli al
secondo. Non sarebbe stato rumoroso. Quello destro sarebbe stato
il lato fortunato: non mi avrebbero visto arrivare. Spostarmi sul lato
anteriore e tornare indietro da sinistra mi avrebbe richiesto, al
massimo, cinque secondi per stroncare ogni vita di quella stanza.
Sufficienti perché Bella Swan vedesse cosa stava per accaderle.
Sufficienti per farla spaventare. Sufficienti forse, se lo shock non la
impietriva, per farle lanciare un urlo. Un urlo sommesso che non
avrebbe fatto accorrere nessuno.
Presi un respiro profondo e il profumo fu un fuoco che scorreva
nelle mie vene inaridite, che mi bruciava il petto per distruggere
qualsiasi istinto nobile fossi capace di provare.
Lei si stava girando in quel momento. In pochi secondi si sarebbe
seduta a qualche centimetro da me.
Il mostro nella mia testa esultò.
Qualcuno alla mia sinistra chiuse, con un colpo secco, un
quaderno. Non alzai gli occhi per vedere quale fosse degli umani
condannati a morte, ma quel movimento mi soffiò sul viso una folata
d’aria normale, priva di profumo.
Per un breve istante riuscii a pensare lucidamente. In quel
prezioso momento vidi nella mia testa due volti, uno accanto all’altro.
Uno era il mio, o meglio, era stato il mio: il mostro dagli occhi
rossi che aveva ucciso talmente tante persone che avevo smesso di
contarle. Omicidi ragionati, motivati. Ero stato un assassino di
assassini, un uccisore di altri mostri meno potenti. Era stato un
delirio di onnipotenza decidere chi meritava una condanna a morte,
lo sapevo bene. Era stato un compromesso con me stesso. Mi ero
nutrito di sangue umano, ma soltanto nella sua definizione più
ampia. Le mie vittime erano, nei loro oscuri e variegati trascorsi, a
stento più umane di quanto lo fossi io.
L’altro volto era quello di Carlisle.
Non c’era alcuna somiglianza fra i due. Erano la luminosità del
giorno e l’oscurità della notte.
Non c’era nemmeno un motivo perché esistesse una
somiglianza. Carlisle non era mio padre nel senso biologico del
termine. Non avevamo alcun tratto in comune. Il colore simile della
nostra pelle era il prodotto di ciò che eravamo: tutti i vampiri sono
pallidi come cadaveri. Il colore degli occhi, invece, era un’altra
questione, il risultato di una scelta reciproca.
Eppure, sebbene non vi fosse alcun fondamento per una
somiglianza, avevo immaginato che il mio viso, in una certa misura,
avesse cominciato a riflettere il suo, dopo gli ultimi, strani
settant’anni nei quali avevo abbracciato la sua scelta e seguito il suo
percorso. I miei lineamenti non erano cambiati, ma mi sembrava che
un po’ della sua saggezza avesse segnato la mia espressione, che
qualcosa della sua compassione potesse essere rintracciata nelle
linee della mia bocca e che un accenno della sua pazienza fosse
visibile sulla mia fronte.
Tutti quei minuscoli miglioramenti erano completamente spariti
nel viso del mostro. In pochi istanti, dentro di me non sarebbe
rimasto niente a rispecchiare gli anni trascorsi insieme al mio
creatore, mio mentore, mio padre in tutti i sensi che avevano
importanza. I miei occhi sarebbero diventati di un rosso ardente
come quello dei diavoli; ogni somiglianza sarebbe andata perduta
per sempre.
Nella mia mente, gli occhi buoni di Carlisle non mi giudicavano.
Sapevo che lui mi avrebbe perdonato per quest’azione terribile.
Perché mi amava. Perché mi riteneva migliore di quanto non fossi.
Bella Swan si sedette sulla sedia accanto alla mia con dei
movimenti rigidi e goffi – per la paura, senza dubbio – e il profumo
del suo sangue volteggiò in un’inesorabile nuvola che mi circondò.
Avrei dimostrato che mio padre sbagliava, sul mio conto. Il
tormento di questa evidenza mi fece più male del fuoco che avevo in
gola.
Mi scostai da lei con un moto di repulsione, disgustato dal mostro
che smaniava di prenderla.
Perché era dovuta venire proprio qui? Perché doveva esistere?
Perché doveva rovinare la piccola pace di questa mia non vita?
Perché mai era dovuta nascere quest’umana esasperante? Mi
avrebbe portato alla rovina.
Voltai la testa per non guardarla mentre un odio improvviso,
violento e irrazionale, si scatenava dentro di me.
Non volevo essere un mostro! Non volevo fare una carneficina di
ragazzini indifesi ammassati in una stanza! Non volevo perdere tutto
quello che mi ero guadagnato in una vita intera di sacrifici e
negazioni!
Non lo avrei fatto. Non poteva essere lei a farmelo fare.
Il problema era il profumo, il profumo orribilmente invitante del
suo sangue. Se solo ci fosse stato un modo per resistere... se solo
un’altra ventata d’aria fresca mi avesse schiarito la mente.
Bella Swan scosse verso di me i lunghi e folti capelli color
mogano.
Era pazza?
No, non c’era alcuna brezza salvifica. Ma io non dovevo per forza
respirare.
Bloccai il flusso dell’aria attraverso i polmoni. Il sollievo fu
istantaneo, ma incompleto. Avevo ancora in mente il ricordo del
profumo, il suo sapore in fondo alla lingua. Non sarei riuscito a
resistere a lungo nemmeno a questo.
Ogni vita nella stanza era in pericolo finché c’eravamo anche io e
lei, insieme. Dovevo fuggire. Volevo fuggire, scappare dal suo calore
vicino a me e dall’agonia insopportabile del bruciore, ma non avevo
la sicurezza totale che se avessi sciolto i muscoli per muovermi,
anche solo per alzarmi, non mi sarei lanciato a commettere l’eccidio
che avevo già pianificato.
Ma forse potevo resistere per un’ora. Un’ora poteva essere
sufficiente a riprendere il controllo per muovermi senza colpire? Ne
dubitavo, poi mi sforzai di impegnarmi. Me la sarei fatta bastare.
Giusto il tempo sufficiente per uscire da quella stanza piena di
vittime, vittime che, forse, non dovevano essere tali. Se fossi riuscito
a resistere per una breve ora soltanto.
Non respirare era una sensazione fastidiosa. Il mio corpo non
aveva bisogno di ossigeno, ma dovevo oppormi all’istinto. Nei
momenti di stress mi affidavo all’olfatto più di tutti gli altri sensi.
Guidava il percorso durante la caccia; era il primo allarme in caso di
pericolo. Non mi capitava spesso di incontrare cose più pericolose di
me stesso, ma l’istinto di conservazione, nella mia razza, è forte
quanto lo è nell’essere umano medio.
Fastidioso, ma gestibile. Più sopportabile che sentire il suo odore
senza poter affondare i denti in quella pelle sottile, liscia e
trasparente, fino al caldo, bagnato e pulsante...
Un’ora! Soltanto un’ora. Non dovevo pensare al profumo, al
sapore.
La ragazza silenziosa teneva i capelli fra me e lei, chinandosi in
avanti in modo da farli ricadere sul suo raccoglitore. Non potevo
vedere il suo viso per tentare di leggere le emozioni in quegli occhi
profondi e limpidi. Stava cercando di tenermeli nascosti? Per paura?
Timidezza? Per mantenere dei segreti?
L’irritazione di prima, nell’essere ostacolato dai suoi pensieri muti,
era debole e inconsistente rispetto al desiderio – e all’odio – che mi
possedevano adesso. Perché odiavo quella fragile ragazza che mi
stava accanto, la odiavo con tutta la forza con la quale mi
aggrappavo alla mia personalità precedente, all’amore per la mia
famiglia, ai miei sogni di essere migliore di quanto fossi. Odiando lei,
odiando il modo in cui mi faceva sentire... un po’ mi aiutava. Sì,
l’irritazione che avevo provato prima era debole, ma anche quella
aiutava un po’. Mi aggrappavo a qualsiasi pensiero mi distraesse
dall’immaginare quale sarebbe stato il suo sapore...
Odio e irritazione. Impazienza. Ma quell’ora non sarebbe passata
mai?
E al termine dell’ora... lei sarebbe uscita dall’aula. E io che cosa
avrei fatto?
Se avessi potuto controllare il mostro, fargli vedere che sarebbe
valsa la pena rimandare... mi sarei potuto presentare. Ciao, mi
chiamo Edward Cullen. Posso accompagnarti alla prossima lezione?
Lei avrebbe detto sì. Sarebbe stata la cosa più educata da fare.
Anche se mi temeva già, cosa di cui ero sicuro, avrebbe seguito le
convenzioni e camminato accanto a me. Sarebbe stato facile
condurla nella direzione sbagliata. Un lembo della foresta si
allungava come un dito fino a toccare il fondo del parcheggio. Avrei
potuto dirle di aver dimenticato un libro in macchina...
Qualcuno avrebbe notato che ero l’ultima persona con la quale
sarebbe stata vista? Come sempre, stava piovendo. Due
impermeabili scuri che andavano nella direzione sbagliata non
avrebbero attirato chissà quale attenzione o tradito me.
Peccato che, quel giorno, non fossi l’unico studente interessato a
lei – sebbene nessun altro lo fosse con la mia stessa intensità. Mike
Newton, in particolare, si accorgeva di ogni spostamento del suo
peso quando lei si muoveva sulla sedia. Si sentiva a disagio, così
vicina a me, come chiunque altro, proprio come avevo previsto prima
che il suo profumo distruggesse ogni mia empatia verso il prossimo.
Se lei fosse uscita dalla lezione insieme a me, Mike Newton
l’avrebbe notato.
Se potevo resistere per un’ora, avrei resistito anche per due?
Il bruciore mi fece sussultare per la sofferenza.
Lei sarebbe tornata in una casa vuota. L’ispettore capo della
polizia Swan lavorava diciotto ore al giorno. Conoscevo casa sua,
come conoscevo ogni casa di quella minuscola città. La sua era
arroccata sul limitare della fitta foresta, senza vicini nei dintorni. Se
anche avesse avuto il tempo di urlare, cosa che non avrebbe avuto,
non ci sarebbe stato nessuno a sentirla.
Ecco il modo responsabile di risolvere la situazione. Andavo
avanti da sette decadi senza sangue umano. Se trattenevo il respiro,
potevo resistere due ore. E quando l’avessi avuta da sola, non ci
sarebbe stata alcuna possibilità di far male ad altri. E nessun motivo
per vivere frettolosamente l’esperienza, concordò il mostro nella mia
testa.
Era un sofisma pensare che salvando le diciannove vite in quella
stanza, con sforzo e pazienza, sarei stato meno mostruoso quando
avessi ucciso quella ragazza innocente.
Sebbene la odiassi, ero assolutamente consapevole che il mio
odio fosse ingiusto. Sapevo che l’essere che odiavo veramente ero
io stesso. Avrei odiato entrambi molto di più, quando lei fosse morta.
Arrivai alla fine dell’ora in questo modo: immaginando i modi
migliori per ucciderla. Tentai di evitare di immaginare l’atto reale.
Sarebbe stato troppo, per me. Così pianificai delle strategie e
nient’altro.
A un certo punto, proprio negli ultimi minuti, lei mi sbirciò
attraverso il muro liquido dei suoi capelli. Sentii il mio odio
ingiustificato consumarmi tra le fiamme mentre incontravo il suo
sguardo – ne vidi il riflesso nei suoi occhi spaventati. Il sangue le
colorò le guance prima che potesse nasconderle ancora dietro i
capelli e io fui quasi rovinato.
Ma suonò la campanella. E noi – che cliché – fummo salvi. Lei
dalla morte. Io, per un brevissimo istante, dall’essere la creatura da
incubo che temevo e contrastavo.
Adesso, dovevo muovermi.
Anche concentrando tutta la mia attenzione sulle azioni più
semplici, non riuscivo a camminare lentamente quanto avrei dovuto;
uscii dall’aula come una freccia. Se qualcuno mi avesse guardato,
avrebbe potuto sospettare che ci fosse qualcosa che non andava
nella mia uscita. Ma nessuno mi stava dedicando attenzioni; tutti i
pensieri giravano ancora intorno alla ragazza sarebbe stata
condannata a morire nel giro di poco più di un’ora.
Mi nascosi nella mia auto.
Non mi piaceva pensarmi come uno che aveva bisogno di
nascondersi. Era da codardi. Ma non mi era rimasto autocontrollo
sufficiente per stare in mezzo agli umani, ormai. Concentrare così
tanti sforzi nel non uccidere una di loro, non mi aveva lasciato
risorse per resistere agli altri. Che spreco sarebbe stato. Se proprio
avessi dovuto arrendermi al mostro, avrei fatto in modo che ne
valesse la pena.
Ascoltai un CD che di solito mi calmava, ma in quel momento
servì a poco. No, quello che mi aiutò fu soprattutto l’aria fredda e
bagnata che entrava, insieme alla pioggia leggera, dai finestrini
aperti. Anche se ricordavo perfettamente il profumo del sangue di
Bella Swan, respirare quell’aria pulita fu come purificare l’interno del
mio corpo dalla sua infezione.
Ero di nuovo in me. Potevo ricominciare a pensare. E a
combattere. Potevo combattere quello che non volevo essere.
Non dovevo andare a casa sua. Non dovevo ucciderla. Si
capisce, ero una creatura razionale e pensante, avevo una scelta.
C’era sempre una scelta.
In classe non mi era sembrato così... ma adesso ero lontano da
lei.
Io non dovevo deludere mio padre. Non dovevo provocare a mia
madre preoccupazioni, tensioni o... dolore. Sì, questo avrebbe ferito
anche la mia madre adottiva. E lei era così gentile, tenera e
amorevole. Provocare dolore a una persona come Esme era
davvero imperdonabile.
Forse, se avessi evitato con molta, molta attenzione quella
ragazza, non avrei avuto bisogno di cambiare la mia vita. Adesso le
cose erano come le volevo io. Perché avrei dovuto permettere a una
sconosciuta provocatoria e deliziosa di rovinarle?
Quanta ironia nel fatto che avevo voluto proteggerla
dall’insignificante minaccia senza denti dei pensieri maligni di
Jessica Stanley. Io ero l’ultima persona che avrebbe lottato per
proteggere Isabella Swan. Non avrebbe mai avuto bisogno di essere
protetta da niente di più pericoloso di me.
Dov’era Alice?, mi chiesi, d’un tratto. Non mi aveva visto uccidere
la Swan in una quantità di modi diversi? Perché non era venuta in
mio soccorso – per fermarmi o aiutarmi a far sparire le prove, una
delle due? Era così assorta nel tenere d’occhio Jasper da aver
mancato questa eventualità, molto più orribile? Oppure ero più forte
di quanto pensassi? Davvero non avrei fatto nessun male a quella
ragazza?
No. Sapevo che non era vero. Alice doveva essersi concentrata
completamente su Jasper.
Cercai verso il punto in cui sapevo che si sarebbe trovata mia
sorella, nel piccolo edificio che ospitava le lezioni di inglese. Non ci
misi molto a localizzare la sua “voce” familiare. E non mi ero
sbagliato. I suoi pensieri erano rivolti a Jasper, ne osservava le
piccole scelte con minuziosa attenzione.
Avrei voluto chiederle un consiglio ma, allo stesso tempo, ero
felice che lei non sapesse di cosa fossi capace. Sentii una nuova
fiamma ardere il mio corpo – quella della vergogna. Volevo che
nessuno di loro lo sapesse.
Se potevo evitare Bella Swan, se potevo riuscire a non ucciderla
– anche mentre lo pensavo, il mostro si contorceva e digrignava i
denti per la frustrazione –, allora nessuno avrebbe dovuto saperlo.
Se riuscivo a tenermi alla larga dal suo profumo...
Non c’era motivo per non provarci, almeno. Per fare la scelta
giusta. Tentare di essere come Carlisle pensava che fossi.
L’ultima ora di scuola era quasi finita. Decisi di mettere
immediatamente in atto il mio nuovo piano. Meglio che starmene
seduto lì, nel parcheggio, dove magari lei poteva passare e mandare
tutto all’aria. Di nuovo, provai un odio ingiusto verso quella ragazza.
Attraversai rapidamente – un po’ troppo rapidamente, ma non
c’erano testimoni – il piccolo campus fino alla segreteria.
Era vuota, a eccezione della segretaria che non notò il mio
ingresso silenzioso.
«Signorina Cope?».
La donna dai capelli innaturalmente rossi alzò gli occhi e
sussultò. I piccoli gesti che non capivano li sorprendevano sempre, a
prescindere da quante volte avessero già visto uno di noi.
«Oh», esclamò lei, un po’ confusa. Si lisciò la camicia. Sciocca,
pensò fra sé. È abbastanza giovane da essere mio figlio. «Ciao,
Edward. Che cosa posso fare per te?». Dietro le lenti spesse, le sue
ciglia tremolarono.
Imbarazzante. Ma sapevo come essere affascinante, quando
volevo. Era facile, perché avevo il riscontro immediato di ogni mio
gesto e intonazione.
Mi chinai in avanti, guardandola come se stessi scavando in
profondità nei suoi scialbi occhi marroni. I suoi pensieri erano già in
subbuglio. Sarebbe stato semplice.
«Mi chiedevo se lei potesse aiutarmi con le mie lezioni», dissi,
con la voce morbida che usavo per non spaventare gli umani.
Udii il ritmo del suo cuore accelerare.
«Certo, Edward. Come posso aiutarti?». Troppo giovane, troppo
giovane, cantilenava mentalmente lei. Sbagliando, ovviamente. Ero
più vecchio di suo nonno.
«Mi chiedevo se fosse possibile spostarmi dal corso di biologia a
una materia scientifica del quarto anno. Fisica, magari?».
«Hai problemi con il professor Banner, Edward?».
«No, per niente, è che io ho già studiato la sua materia...».
«In quella scuola accelerata che tutti voi avete frequentato in
Alaska. Bene». Le sue labbra sottili si contrassero mentre
considerava l’informazione. Tutti loro dovrebbero andare al college.
Ho sentito le lamentele dei professori. Sempre il massimo dei voti,
mai un’esitazione nelle risposte, mai una risposta sbagliata nei test –
come se avessero trovato un modo per copiare in ogni materia. Il
professor Varner preferisce credere che in trigonometria imbroglino
tutti, piuttosto che pensare che ci sia qualcuno più intelligente di lui.
Scommetto che la madre gli dà lezioni a casa... «In realtà, Edward,
fisica è piuttosto affollata al momento. Il professor Banner detesta
avere più di venticinque studenti in una classe...».
«Ma io non darei nessun problema».
Certo che non ne daresti, tu. Non un perfetto Cullen. «Lo so,
Edward. Ma il fatto è che non ci sono sedie sufficienti...».
«Potrei abbandonare il corso, allora? Userei quel tempo per
studiare autonomamente».
«Abbandonare biologia?». Spalancò la bocca. È una follia.
Quanto può essere difficile rimanere seduto ad ascoltare una
materia che già conosci? Deve esserci un problema con il professor
Banner. «Non avresti crediti sufficienti per diplomarti».
«Recupererò l’anno prossimo».
«Forse dovresti parlarne con i tuoi genitori».
Dietro di me si aprì la porta, ma chiunque fosse non pensò il mio
nome, così ignorai il suo arrivo e mi concentrai sulla signorina Cope.
Mi avvicinai un altro po’ e la fissai, come se guardassi ancora più
intensamente nei suoi occhi. Avrebbe funzionato meglio se, in quel
momento, i miei fossero stati dorati invece che neri. Il nero
spaventava le persone, com’è giusto.
Il mio errore di valutazione si rifletté sulla donna che, con un
sussulto, si ritrasse sulla sedia, confusa da istinti conflittuali.
«La prego, signorina Cope», mormorai, con la voce più suadente
e carezzevole possibile, e il suo momentaneo disgusto si attenuò.
«Non c’è un altro settore con il quale potrei cambiare? Sono sicuro
che da qualche parte dev’esserci una disponibilità. La sesta ora di
biologia non può essere l’unica opzione...».
Le sorrisi, facendo attenzione a non mostrarle proprio tutti i denti,
che l’avrebbero spaventata di nuovo, lasciando che l’espressione
addolcisse il mio viso.
Il suo cuore martellò ancora più veloce. Troppo giovane, ricordò
freneticamente a se stessa. «Bene. Forse potrei parlare con Bob...
voglio dire, il professor Banner. Potrei vedere se...».
Un istante fu tutto quello che bastò per cambiare ogni cosa:
l’atmosfera nella stanza, la mia missione lì, il motivo per cui ero
chino sulla donna dai capelli rossi... quello che era destinato a uno
scopo, d’un tratto fu rivolto a un altro.
Un istante fu tutto quello che bastò a Samantha Wells per entrare
nella stanza, depositare un permesso firmato nel contenitore
accanto alla porta, affrettarsi a uscire così da ritrovarsi, in un lampo,
lontana dalla scuola. Un’improvvisa ventata mi finì addosso dalla
porta aperta e io mi resi conto del motivo per cui la prima persona
che era entrata non mi aveva interrotto con i suoi pensieri.
Mi girai, anche se non mi serviva per esserne sicuro.
Bella Swan era lì, con la schiena premuta alla parete accanto alla
porta e un pezzo di carta stretto in mano. I suoi occhi erano persino
più grandi mentre scrutava il mio sguardo feroce, inumano.
L’odore del suo sangue saturò ogni particella d’aria nella
minuscola stanza surriscaldata. Il fuoco mi bruciò la gola.
Di nuovo, il mostro mi fissò dallo specchio dei suoi occhi, una
maschera di malvagità.
La mia mano rimase sospesa a mezz’aria sopra la scrivania. Non
avrei avuto bisogno di guardare per tenderla e sbattere la testa della
signorina Cope sul ripiano abbastanza forte da ucciderla. Due vite
invece di venti. Un affare.
Il mostro aspettava ansioso, affamato, che lo facessi.
Ma c’era sempre una scelta. Doveva esserci.
Bloccai il movimento dei polmoni e mi impressi davanti agli occhi
l’immagine del viso di Carlisle. Mi girai verso la signorina Cope e udii
la sua tacita sorpresa vedendo il cambiamento nella mia
espressione. Si ritrasse, ma la sua paura non si espresse in parole
coerenti.
Esercitando tutto il controllo che avevo imparato a padroneggiare
nei miei decenni di negazione autoinflitta, resi la mia voce
carezzevole. Mi era rimasta nei polmoni aria sufficiente per parlare
ancora una volta, ma molto in fretta.
«Non fa niente. Mi rendo conto che è impossibile. Molte grazie lo
stesso».
Mi girai e mi lanciai fuori dalla stanza tentando di non percepire il
calore sanguigno del corpo della ragazza mentre le passavo a pochi
centimetri di distanza.
Non mi fermai finché non arrivai alla mia macchina, muovendomi
troppo rapidamente per tutto il tragitto. La maggior parte degli umani
se n’era già andata, perciò non c’erano tanti testimoni. Udii uno del
secondo anno, D.J. Garrett, notarlo e poi lasciar correre.
Da dove è arrivato Cullen? Sembra che sia sbucato dal nulla...
ecco, ci risiamo con l’immaginazione. Mamma dice sempre...
Quando salii nella mia Volvo, gli altri erano già dentro. Tentai di
controllarmi, ma respiravo a pieni polmoni, come se avessi rischiato
di soffocare.
«Edward?», chiese Alice, con voce preoccupata.
Le risposi scuotendo la testa.
«Che diavolo ti è successo?», domandò Emmett, distraendosi
momentaneamente dal fatto che Jasper non era dell’umore per
dargli la rivincita.
Invece di rispondere, inserii la retromarcia, dovevo uscire da quel
parcheggio prima che Bella Swan potesse seguirmi anche lì. Il mio
demone interiore mi tormentava... feci manovra e accelerai.
Raggiunsi i sessanta all’ora prima di uscire dall’area. Sulla strada,
toccai i cento prima di girare l’angolo.
Senza guardare, sapevo che Emmett, Rosalie e Jasper si erano
girati a fissare Alice. Lei alzò le spalle. Non poteva vedere il passato,
ma soltanto quello che stava per accadere.
Guardò il mio futuro. Entrambi esaminammo quello che vedeva
nella sua mente, ed entrambi ne fummo sorpresi.
«Te ne andrai?», mormorò.
Gli altri passarono a fissare me.
«Davvero?», ringhiai a denti stretti.
Allora lo vide, mentre la mia decisione vacillava e un’altra scelta
deviava il mio futuro in una direzione più cupa.
«Oh».
Bella Swan, morta. I miei occhi arrossati dal sangue fresco. La
caccia che ne sarebbe seguita. Il tempo prudente che avremmo
aspettato prima che per noi fosse sicuro lasciare Forks e
ricominciare altrove...
«Oh», ripeté. Il quadro divenne più dettagliato. Vidi l’interno della
casa dell’ispettore Swan per la prima volta, vidi Bella in una piccola
cucina con i pensili gialli, mi voltava la schiena mentre io la seguivo
nascosto dalle ombre, lasciavo che il suo profumo mi attirasse verso
di lei...
«Basta!», gemetti, incapace di sopportare altro.
«Scusami», mormorò Alice.
Il mostro esultò.
E la visione nella mente di mia sorella cambiò ancora.
Un’autostrada vuota, di notte, gli alberi che la fiancheggiavano
coperti di neve, passavano a più di trecento all’ora.
«Mi mancherai», disse Alice. «Non importa quanto poco sarai
stato via».
Emmett e Rosalie si scambiarono un’occhiata piena d’ansia.
Eravamo quasi arrivati alla traversa sul lungo viale che portava
alla nostra casa.
«Lasciaci qui», mi ordinò Alice. «Dovresti essere tu stesso a dirlo
a Carlisle».
Annuii e l’auto stridette per la frenata improvvisa.
Emmett, Rosalie e Jasper uscirono in silenzio; avrebbero avuto
spiegazioni da Alice, dopo la mia partenza.
Alice mi toccò la spalla.
«Farai la cosa giusta», mormorò. Non era una visione, questa
volta, ma un ordine. «Lei è tutta la famiglia di Charlie Swan. La sua
morte ucciderebbe anche lui».
«Sì», dissi, d’accordo solo sulla seconda parte.
Scese dalla macchina per unirsi agli altri, con la fronte corrugata
dall’ansia. Li persi di vista nel folto della foresta, prima che potessi
girare l’auto.
Sapevo che la visione nella mente di Alice avrebbe lampeggiato
dal buio alla luminosità come una luce stroboscopica, mentre io
tornavo a Forks a tutta velocità. Non sapevo con certezza dove
stavo andando. A salutare mio padre? O ad abbracciare il mostro
dentro di me? La strada sfrecciava sotto le ruote.
2. LIBRO APERTO
Tornai a casa appena dopo che gli altri ne erano usciti per andare
a scuola. Mi cambiai in fretta, evitando gli occhi curiosi di Esme. Vide
la luce febbrile sul mio volto e si sentì allo stesso tempo sollevata e
preoccupata. Il lungo periodo di malinconia che avevo passato
l’aveva addolorata moltissimo ed era felice che, a quanto pareva,
fosse finito.
Corsi fino a scuola, arrivando pochi minuti dopo i miei fratelli. Non
si voltarono, anche se almeno Alice doveva aver saputo che mi
trovavo fra gli alberi fitti che rasentavano la strada. Aspettai finché
non ci fu nessuno a guardare, poi uscii dalla foresta ed entrai nel
parcheggio pieno di auto camminando come se niente fosse.
Udii il pick-up di Bella annunciarsi rombando da dietro l’angolo e
mi fermai dietro una Suburban, dove avrei potuto guardare senza
essere visto.
Bella entrò nel parcheggio e lanciò una lunga occhiataccia alla
mia Volvo prima di parcheggiare in uno dei posti più lontani, con
espressione accigliata.
Fu strano ricordare che probabilmente era ancora arrabbiata con
me e anche per un buon motivo.
Mi sarei riso in faccia, oppure preso a calci. Tutto quel tempo a
lambiccarmi il cervello per escogitare piani era del tutto inutile, se lei
non mi degnava nemmeno di uno sguardo, no? Poteva aver sognato
qualsiasi cosa. Che razza di idiota arrogante ero.
Be’, tanto meglio per lei, se non era interessata a me. Questo non
mi avrebbe impedito di occuparmi di lei, di tentare. Ma avrei
ascoltato il suo no. Glielo dovevo. Le dovevo anche di più. Le
dovevo la verità che non mi era permesso rivelarle. Perciò le avrei
dato tutta la verità che potevo permettermi. Avrei cercato di
avvertirla. E quando lei mi avesse confermato che non sarei mai
stato l’uomo al quale avrebbe detto sì, me ne sarei andato.
Mi incamminai, pensando al modo migliore di avvicinarla.
Fu lei a spianarmi la strada. Mentre scendeva le sfuggì dalle dita
la chiave del pick-up, che finì in una profonda pozzanghera.
Si chinò per prenderla, ma la precedetti recuperandola prima che
lei dovesse bagnarsi le dita nell’acqua fredda.
Mi appoggiai al suo pick-up mentre lei si raddrizzava.
«Ma come fai?», mi chiese.
Sì, era ancora arrabbiata.
Feci dondolare la chiave. «Come faccio cosa?».
Tese la mano e la lasciai cadere sul suo palmo. Respirai a fondo,
inalando il suo profumo.
«Ad apparire dal nulla», chiarì.
«Bella, non è colpa mia se tu sei straordinariamente distratta». Lo
dissi in modo giocoso, come fosse una battuta. C’era mai qualcosa
che quella ragazza non notava?
Aveva sentito come la mia voce si avvolgeva intorno al suo
nome, quasi come una carezza?
Mi guardò malissimo, evidentemente non apprezzava il mio
umorismo. Ma il battito del suo cuore accelerò – per rabbia? Paura?
– e, dopo un istante, abbassò gli occhi.
«Perché l’ingorgo, ieri sera?», mi domandò senza guardarmi.
«Pensavo avessi deciso di fingere che non esisto, non di irritarmi a
morte».
Ancora arrabbiatissima. Aggiustare le cose con lei avrebbe
richiesto parecchi sforzi. Ricordai la mia decisione di essere sincero.
«L’ho fatto per Tyler. Dovevo concedergli una possibilità». E poi
mi misi a ridere. Non riuscii a farne a meno, ripensando alla sua
espressione. Concentrarmi intensamente per lasciarla in vita, per
controllare le mie reazioni fisiche, mi lasciava pochissime risorse per
gestire le mie emozioni.
«Razza di...», rantolò, e poi tacque, troppo furiosa per finire la
frase. Eccola lì, sempre quell’espressione. Soffocai un’altra risata.
Era già abbastanza infuriata.
«E non sto fingendo che tu non esista», continuai. Mi sembrava
giusto mantenere un tono normale, un po’ ironico. Non volevo più
spaventarla. Dovevo nascondere la profondità dei miei sentimenti,
mantenere le cose su un piano di leggerezza.
«Allora hai deciso di irritarmi a morte, visto che il furgoncino di
Tyler non è riuscito a farmi fuori?».
Provai una fitta di rabbia. Come poteva credere, sinceramente,
una cosa del genere?
Era illogico, da parte mia, sentirmi così offeso, lei non sapeva
quali e quanti sforzi avevo fatto per non ucciderla, non sapeva che
avevo discusso con la mia famiglia per lei, non sapeva della
trasformazione che era avvenuta durante quella notte. Ma ero
furioso lo stesso. Emozione ingestibile.
«Bella, sei totalmente assurda», scattai.
Lei arrossì e mi voltò le spalle. Si allontanò.
Rimorso. La mia rabbia era ingiusta.
«Aspetta», la pregai.
Non si fermò, quindi la seguii.
«Scusa se sono stato maleducato. Non dico che non sia vero».
Era assurdo ipotizzare che io volessi che stesse male, in qualsiasi
modo. «Ma è stato maleducato dirtelo, ecco».
«Perché non mi lasci stare?».
Era il no che aspettavo? Era quello che voleva? Il mio nome nel
suo sogno, quindi, non significava niente?
Ricordavo perfettamente il tono della sua voce, l’espressione del
suo viso mentre mi chiedeva di rimanere.
Ma se adesso diceva di no... be’, allora fine della storia. Sapevo
cosa avrei dovuto fare.
Leggerezza, rammentai a me stesso. Quella poteva essere
l’ultima volta che l’avrei vista. Se era così, dovevo lasciarle un bel
ricordo. Quindi avrei recitato la parte del normale ragazzo umano. E,
soprattutto, le avrei dato una scelta e accettato la sua risposta.
«Volevo chiederti una cosa, ma mi hai fatto perdere il filo del
discorso». Mi era appena venuto in mente un piano, e scoppiai a
ridere.
«Soffri di disordini da personalità multipla?», mi chiese.
Dovevo averne tutta l’aria. Con tutte le emozioni nuove che stavo
vivendo, il mio umore era un’altalena impazzita.
«Non sviarmi un’altra volta», le feci notare.
Lei sbuffò. «Va bene. Cosa vuoi?».
«Mi chiedevo se, sabato prossimo...», la guardai mentre lo shock
la faceva impallidire e repressi una risata. «Hai presente, il giorno
del ballo di primavera...».
Mi interruppe, guardandomi finalmente negli occhi. «Mi stai
prendendo in giro?».
«Per cortesia, posso finire di parlare?».
Lei aspettò in silenzio, mordendosi il labbro.
Vederla così mi distrasse. Delle strane, sconosciute reazioni si
agitavano nell’essenza profonda dell’essere umano che ero stato e
avevo dimenticato. Tentai di liberarmene per poter recitare al meglio
la mia parte.
«Ti ho sentita dire che quel giorno hai in programma di andare a
Seattle e volevo chiederti se accetteresti un passaggio». Mi ero reso
conto che, invece di limitarmi a conoscere i suoi progetti, avrei
potuto condividerli con lei. Se diceva di sì.
Bella mi guardò sbalordita. «Cosa?».
«Vuoi un passaggio fino a Seattle?». Io e lei, da soli, dentro una
macchina. Soltanto il pensiero mi incendiò la gola. Presi un respiro
profondo. Facci l’abitudine.
«Da chi?», domandò, ancora confusa.
«Da me, ovviamente», dissi, scandendo le parole.
«Perché?».
Era davvero così sconvolgente il fatto che volessi la sua
compagnia? Doveva proprio aver interpretato nei modi peggiori il
mio comportamento passato.
«Be’», dissi con il tono più naturale possibile, «avevo intenzione
di fare un salto a Seattle nelle prossime settimane e, onestamente,
non sono sicuro che il tuo pick-up possa farcela». Mi sembrava più
sicuro buttarla sulla presa in giro, piuttosto che essere troppo serio.
«Il mio pick-up funziona più che bene, molte grazie per
l’interessamento», disse, con un tono ancora stupefatto. Poi
ricominciò a camminare. La seguii.
Non era un rifiuto esplicito, ma quasi. Voleva essere educata?
«Il tuo pick-up ce la fa anche con un solo pieno di benzina?».
«Non credo siano affari tuoi», borbottò.
Il battito del suo cuore era di nuovo accelerato e aveva il fiato
corto. Pensavo che l’ironia la mettesse a suo agio, ma forse la stavo
spaventando.
«Lo spreco di riserve non rinnovabili è affare di tutta la
comunità». Mi sembrò una reazione normale e tranquilla, ma non
potevo sapere se lei l’avesse intesa allo stesso modo. La sua mente
silenziosa mi lasciava sempre alla deriva.
«Seriamente, Edward, non riesco a seguirti. Pensavo che non
volessi essermi amico».
Quando disse il mio nome, un brivido d’eccitazione mi scosse
dalla testa ai piedi e fui di nuovo nella sua stanza mentre lei mi
chiamava, mi chiedeva di restare. Avrei voluto vivere per sempre in
quell’istante.
Ma, su questo argomento, l’unica scelta accettabile era la
sincerità.
«Ho detto che sarebbe meglio se non diventassimo amici, non
che non voglio».
«Oh, grazie, adesso è tutto molto più chiaro», rispose, sarcastica.
Si fermò sotto la tettoia della caffetteria e mi guardò in faccia. Il suo
cuore saltò un battito. Paura, o rabbia?
Scelsi con cura le parole. Lei doveva capire. Capire che era nel
suo interesse dirmi di andarmene.
«Sarebbe più... prudente che tu non diventassi mia amica».
Guardando negli abissi color cioccolato dei suoi occhi, persi
completamente il controllo sulla leggerezza. «Ma sono stanco di
costringermi a evitarti, Bella». Lo dissi con un tono bruciante,
caldissimo.
Lei smise di respirare per un istante, e nella frazione di secondo
che le servì per ricominciare entrai nel panico. L’avevo terrorizzata,
ne ero certo.
Tanto meglio. Avrei incassato il mio no cercando di tollerare la
sconfitta.
«Vieni con me a Seattle?», le chiesi, di punto in bianco.
Lei annuì, con il cuore che le martellava nel petto.
Sì. Mi aveva detto sì.
E in quel momento la mia coscienza mi prese a schiaffi. Quanto
le sarebbe costato, quel viaggio?
«Sarebbe meglio che mi stessi lontana, sul serio», l’avvertii. Mi
aveva sentito? Sarebbe sfuggita al futuro minaccioso che le stavo
prospettando? Potevo fare qualcosa per salvarla da me?
Leggerezza, urlai a me stesso. «Ci vediamo a lezione».
E immediatamente ricordai che non l’avrei vista a lezione. Quella
ragazza disperdeva completamente i miei pensieri.
Dovetti concentrarmi per non correre, quando le voltai le spalle.
6. GRUPPO SANGUIGNO
«Ti hanno mai detto che non si gioca con il cibo?», gridai a
Emmett.
«Oh, ehilà, Edward!», urlò lui, sorridendomi e salutandomi con la
mano. L’orso approfittò della sua distrazione e lo artigliò al petto. Gli
artigli acuminati lacerarono la camicia e stridettero sulla pelle come
lame sull’acciaio.
La bestia ruggì sentendo il rumore acuto.
Ah, bene, me l’aveva regalata Rose!
Anche Emmett ruggì rivolto alla bestia furiosa.
Io sospirai e mi misi seduto su una roccia comoda. Ci sarebbe
voluto un po’.
Ma Emmett aveva quasi finito. Lasciò che l’orso tentasse di
decapitarlo con un’altra zampata e rise quando il colpo andò a vuoto
e l’orso barcollò all’indietro. L’animale ruggì ancora e anche Emmett,
mentre rideva. Poi si lanciò sull’orso, che eretto sulle zampe
posteriori lo superava di una testa, e i loro corpi avvinghiati caddero
sul terreno, abbattendo anche un vecchio abete. I ruggiti dell’orso si
spensero in un gorgoglio.
Pochi minuti dopo, Emmett mi raggiunse, camminando senza
fretta, dove lo stavo aspettando. Aveva la camicia distrutta,
strappata e macchiata di sangue, appiccicosa di resina e coperta di
peli. I suoi capelli scuri non erano in condizioni migliori. Ma aveva un
sorriso smagliante stampato in faccia.
«Era una bestia forte. L’ho quasi sentito, quando mi ha artigliato».
«Sei proprio un bambino, Emmett».
Lanciò un’occhiata alla mia camicia pulita e senza grinze. «Allora,
non sei riuscito a scovare quel leone di montagna?».
«Certo che l’ho scovato. È solo che io non mangio come un
selvaggio».
Emmett scoppiò nella sua tipica risata fragorosa. «Vorrei che
fossero più forti. Sarebbe più divertente».
«Non eri obbligato a lottare con il tuo cibo».
«Già, ma con chi altro potrei farlo? Tu e Alice barate, Rose non si
vuole mai rovinare i capelli ed Esme si arrabbia se io e Jasper lo
facciamo sul serio».
«La vita è dura».
Emmett sorrise, poi spostò il peso quel tanto da mettersi in
posizione d’attacco.
«Forza, Edward. Spegnilo per un po’ e combatti lealmente».
«Non si può spegnere», gli ricordai.
«Mi chiedo come faccia quella ragazza a tenerti fuori», rifletté lui.
«Forse potrebbe darmi qualche dritta».
Il mio buonumore scomparve. «Sta’ lontano da lei», ringhiai.
«Permalosetto, eh?».
Sospirai. Emmett venne a sedersi accanto a me, sulla roccia.
«Scusa. So che stai passando un momento difficile. Sto cercando
davvero di non essere troppo un idiota insensibile, ma dal momento
che per me è una specie di condizione naturale...».
Aspettò che ridessi alla battuta, poi fece una smorfia.
Sempre così serio. Cos’è che ti dà fastidio, adesso?
«Pensare a lei. Be’, preoccuparmi, in realtà».
«Che c’è da preoccuparsi? Tu sei qui». Scoppiò a ridere.
Ignorai anche questa battuta, ma risposi alla sua domanda. «Hai
mai pensato a quanto sono fragili, tutti quanti? A quante cose brutte
possono accadere a un mortale?».
«Veramente no. Ma credo di capire cosa intendi. Io non fui
all’altezza dell’orso, quella prima volta, vero?».
«Orsi», borbottai, aggiungendo una nuova paura al già vasto
cumulo. «Sarebbe proprio la sua fortuna. Un orso in giro per la città.
Di sicuro andrebbe dritto a cercare lei».
Emmett ridacchiò. «Parli come un pazzo. Te ne accorgi, vero?».
«Immagina soltanto per un minuto che Rosalie sia umana,
Emmett. E possa imbattersi in un orso... o essere investita da una
macchina... o star male, prendersi una malattia». Le parole uscirono
dalla mia bocca con violenza. Fu un sollievo buttarle fuori, mi
avevano logorato per tutto il weekend. «Incendi, terremoti e uragani!
Uh! Quand’è stata l’ultima volta che hai guardato il notiziario? Hai
visto che razza di catastrofi possono capitare? Rapine e omicidi...».
All’improvviso fui così furioso all’idea che un altro umano potesse
farle del male che strinsi i denti e quasi non riuscii a respirare.
«Frena, frena! Basta così, fratello. Lei vive a Forks, ricordi? Al
massimo prenderà la pioggia». Alzò le spalle.
«Penso che abbia addosso una maledetta sfortuna, Emmett, lo
penso sul serio. Ecco la prova. Di tutti i posti in cui poteva andare, è
finita in una città dove i vampiri costituiscono una parte significativa
della popolazione».
«Sì, ma noi siamo “vegetariani”. Quindi non è sfortunata, al
contrario».
«Con il profumo che ha? Assolutamente sfortunata. E poi, la
sfortuna peggiore è quanto piaccia a me il suo profumo». Mi guardai
le mani con odio.
«Solo che tu possiedi più autocontrollo di chiunque altro, tranne
Carlisle. Un’altra fortuna».
«Il furgoncino?».
«Quello è stato solo un incidente».
«Avresti dovuto vederlo mentre la inseguiva, Emmett, in
continuazione. Lo giuro, sembrava che lo attirasse come una specie
di calamita».
«Ma tu eri lì. E questa è stata una fortuna».
«Dici? Non è forse la peggiore delle fortune, che un essere
umano possa incontrare un... vampiro innamorato?».
Emmett rifletté in silenzio per un istante. Si figurò la ragazza nella
mente e trovò l’immagine priva di interesse. Sinceramente, non
riesco davvero a vedere il suo fascino.
«Be’, nemmeno io riesco a vedere l’attrattiva di Rosalie», risposi
sgarbatamente. «Sinceramente, mi sembra che richieda più sforzi di
quanti ne meriti un qualsiasi bel visetto».
Emmett ridacchiò. «Immagino che non mi dirai...».
«Non so quale sia il suo problema, Emmett», mentii, con un
repentino sorriso.
Vidi le sue intenzioni in tempo per prepararmi. Tentò di buttarmi
giù dalla roccia e si udì un fragoroso scricchiolio mentre nella pietra
si apriva una crepa.
«Imbroglione», borbottò.
Aspettai che ci riprovasse, ma i suoi pensieri presero un’altra
deriva. Stava di nuovo immaginando il viso di Bella, ma questa volta
più bianco e con gli occhi rosso acceso.
«No», dissi, con voce strozzata.
«Risolverebbe le tue preoccupazioni riguardo alla mortalità, no?
E oltretutto non avresti nemmeno più voglia di ucciderla. Non ti
sembra la soluzione migliore?».
«Per me? O per lei?».
«Per te», rispose senza esitare. Il suo tono aggiunse ovviamente.
Risi senza allegria. «Risposta sbagliata».
«A me non è dispiaciuto così tanto», mi ricordò.
«A Rosalie sì».
Emmett sospirò. Sapevamo entrambi che Rosalie avrebbe fatto o
sacrificato qualsiasi cosa, se avesse potuto tornare umana.
Qualsiasi cosa. Persino Emmett.
«Sì, Rose sì», ammise, a bassa voce.
«Io non posso... non dovrei... non ho intenzione di rovinare la vita
di Bella. Non penseresti lo stesso se si trattasse di Rosalie?».
Emmett ci pensò per un attimo. Tu davvero... la ami?
«Non posso nemmeno descrivertelo, Em. Tutto d’un tratto questa
ragazza è diventata tutto il mio mondo. Non vedo più il senso del
resto del mondo, senza di lei».
Ma non la trasformerai? Lei non durerà in eterno, Edward.
«Lo so», gemetti.
E, come hai sottolineato, è molto fragile.
«Credimi, so anche questo».
Emmett non aveva tatto e i discorsi delicati non erano il suo forte.
Adesso si stava sforzando perché non voleva in alcun modo essere
offensivo.
L’hai mai toccata? Voglio dire, se la ami... non vorresti, be’,
toccarla?
Emmett e Rosalie vivevano un amore intensamente fisico. E lui
aveva molta difficoltà a capire come si potesse amare senza
quell’aspetto.
Sospirai. «Non riesco nemmeno a pensarci, Emmett».
Wow. Allora, quali opzioni hai?
«Non lo so», mormorai. «Sto cercando di trovare un modo per...
per lasciarla. È solo che non riesco a pensare a come costringermi a
starle lontano».
Con un profondo senso di gratificazione, mi resi conto d’un tratto
che era giusto che io rimanessi, almeno per il momento, con Peter e
Charlotte che stavano arrivando. Bella sarebbe stata più al sicuro
con me qui, temporaneamente, che se fossi andato via. Per il
momento sarei stato il suo improbabile protettore.
Quel pensiero mi rese ansioso. Fremevo per il desiderio di
tornare per poter occupare il più a lungo possibile il ruolo che mi
spettava.
Emmett notò il cambiamento nella mia espressione. A cosa stai
pensando?
«In questo momento», ammisi con un po’ d’imbarazzo, «sto
morendo dalla voglia di correre a Forks e vedere come sta. Non so
se riuscirò a resistere fino a domenica notte».
«A-ah! Tu non tornerai a casa prima del previsto. Lascia che
Rosalie sbollisca un po’. Per favore! Per il mio bene».
«Cercherò di restare», dissi, dubbioso.
Diede un colpetto al telefono nella mia tasca. «Se ci fosse un
qualsiasi fondamento per i tuoi attacchi di panico, Alice ti
chiamerebbe. È strana quanto te, con quella ragazza».
A questo non potevo obiettare. «D’accordo. Ma non resterò oltre
domenica».
«Non ha senso affrettarsi a tornare... ci sarà il sole, comunque.
Alice ha detto che non c’è scuola fino a mercoledì».
Scossi la testa.
«Peter e Charlotte sanno come comportarsi».
«Non mi interessa, Emmett, sul serio. Con la fortuna che si
ritrova, Bella è capace di andare a fare due passi nella foresta
esattamente nel momento sbagliato e...», trasalii. «Io torno
domenica».
Emmett sospirò. Proprio come un pazzo.
Quando mi arrampicai fino alla sua finestra, lunedì alle prime luci
dell’alba, Bella stava dormendo serenamente. Avevo portato dell’olio
per lubrificare la finestra, che si spostò senza problemi lasciandomi
via libera.
Dal modo in cui i suoi capelli si posavano sul cuscino, capii che
aveva trascorso una notte meno agitata rispetto all’ultima volta che
ero stato lì. Teneva le mani unite sotto la guancia come una bimba e
aveva la bocca leggermente aperta. Potevo sentire il respiro entrare
e uscire lentamente fra le sue labbra.
Era un sollievo meraviglioso essere lì, poterla rivedere. Mi resi
conto che non ero veramente a mio agio in nessun’altra situazione.
Niente andava bene quando ero lontano da lei.
Non che andasse tutto bene, quando ero con lei. Respirai,
lasciando che il fuoco della sete mi bruciasse la gola. Non lo sentivo
da troppo tempo. Il periodo trascorso senza provare dolore e
tentazione adesso rendeva entrambi molto più potenti. Era talmente
doloroso che avevo timore di andare a inginocchiarmi accanto al
letto di Bella per leggere i titoli dei suoi libri. Volevo conoscere le
storie che popolavano la sua mente, ma temevo qualcos’altro oltre la
sete: temevo che se mi fossi avvicinato a lei, avrei voluto starle
ancora più vicino.
Le sue labbra sembravano così morbide e calde. Riuscivo a
immaginare di toccarle con la punta di un dito. Appena una
carezza...
Questo era esattamene il tipo di errore che dovevo evitare.
Erravo con lo sguardo sul suo viso, esaminandone i cambiamenti.
I mortali cambiavano in continuazione e il pensiero di perdere un
dettaglio mi turbava.
Pensai che Bella sembrava... stanca. Come se durante il
weekend non avesse dormito abbastanza. Era uscita?
Risi, silenzioso e beffardo, per quanto mi turbava quell’idea. E
anche se fosse uscita? Lei non mi apparteneva. Non era mia.
No, non era mia... e io mi rattristai di nuovo.
«Mamma», mormorò Bella, sottovoce. «No... lasciami. Per
favore...».
La ruga d’apprensione fra le sue sopracciglia, a forma di piccola
V, si fece più profonda. Qualsiasi cosa sua madre stesse facendo
nel sogno, era chiaro che la preoccupasse. Si girò bruscamente
sull’altro fianco, ma le sue palpebre restarono sigillate.
«Sì, sì», borbottò, poi sospirò. «Bleah. È troppo verde».
Mosse una mano e notai che sul palmo c’era una serie di piccoli
graffi. Si era ferita? Anche se si trattava chiaramente di una cosa da
niente, mi inquietò comunque. Considerai il punto in cui si trovava
l’abrasione e decisi che Bella doveva aver inciampato. Mi sembrava
una spiegazione più che ragionevole.
Si lamentò con sua madre ancora un po’, mugugnò qualcosa a
proposito del sole, poi scivolò in un sonno più tranquillo e non si
mosse più.
Era confortante pensare che non mi sarei dovuto lambiccare il
cervello sui suoi piccoli misteri per sempre. Adesso eravamo amici o,
almeno, ci stavamo provando. Potevo chiederle come aveva
trascorso il weekend, com’era andata la gita in spiaggia e che cosa
mai avesse fatto la sera prima per avere un’aria così esausta.
Potevo chiederle come si era ferita alla mano. E potevo ridere
quando lei avrebbe confermato la mia teoria.
Tentai di immaginarla sotto il sole della spiaggia. Tuttavia,
l’immagine era incompleta perché non ero mai stato a First Beach.
La conoscevo soltanto dalle fotografie.
Provai una punta di malessere nel pensare al motivo per il quale
non avevo mai visitato la bella spiaggia che distava così poco dal
luogo in cui abitavo. Bella aveva trascorso la giornata a La Push –
un posto che mi era precluso, a causa di un trattato. Un posto dove
alcuni uomini anziani ricordavano ancora le storie sui Cullen, le
ricordavano e ci credevano. Un posto dove conoscevano i nostri
segreti.
Scossi la testa. Non dovevo preoccuparmi. Anche i Quileutes
erano vincolati da un trattato. Anche se Bella avesse incontrato uno
di quei vecchi saggi, nessuno di loro poteva rivelare niente. E perché
mai avrebbero dovuto affrontare l’argomento? No, i Quileutes erano,
forse, l’unica cosa di cui non dovevo preoccuparmi.
Mi arrabbiai con il sole, quando cominciò a sorgere. Mi ricordava
che non avrei potuto soddisfare la mia curiosità per i prossimi giorni.
Perché aveva deciso di brillare proprio adesso?
Con un sospiro, uscii dalla finestra di Bella prima che fosse
abbastanza giorno da rischiare che qualcuno mi vedesse lì. Avevo
intenzione di rimanere nella foresta accanto alla casa e vederla
uscire per andare a scuola, ma quando mi inoltrai fra gli alberi, fui
sorpreso nel trovare tracce del suo profumo sullo stretto sentiero.
Seguii la scia in fretta, sempre più preoccupato, mentre mi
guidava nel folto della foresta buia. Che cosa era venuta a fare qui?
La traccia che aveva lasciato si interrompeva bruscamente in
mezzo al nulla. Si era semplicemente spinta per pochi passi fuori dal
sentiero, tra le felci, dove aveva toccato il tronco di un albero caduto.
Forse si era seduta lì...
Mi sedetti nello stesso punto e mi guardai intorno. Non aveva
potuto vedere altro che felci e foresta. Probabilmente era piovuto – il
profumo era sparito perché non era penetrato a fondo nell’albero.
Perché Bella era andata a sedersi lì, da sola – perché era da
sola, non c’erano dubbi in proposito – in mezzo alla foresta umida e
scura?
Non aveva senso e, al contrario delle altre mie curiosità, sarebbe
stato difficile inserire questa in una normale conversazione.
Allora, Bella, stavo seguendo la scia del tuo profumo nel bosco,
dopo essere uscito dalla tua stanza – solo una banale effrazione,
niente di cui preoccuparsi, stavo... sterminando i ragni... Sì, poteva
essere un ottimo argomento per rompere il ghiaccio.
Non avrei mai saputo cosa stesse pensando o facendo lì, e la
frustrazione mi fece serrare i denti. Ma la cosa peggiore era che
sembrava lo scenario che avevo prefigurato a Emmett: Bella che
vagava da sola nella foresta dove il suo profumo avrebbe richiamato
chiunque avesse i sensi adatti a rintracciarlo.
Mi sfuggì un gemito. Non era soltanto sfortunata, corteggiava la
sfortuna.
Bene, per il momento aveva un protettore. Avrei vegliato su di lei,
l’avrei tenuta lontana dal pericolo fin quando avrei potuto
giustificarlo.
D’un tratto, mi ritrovai ad augurarmi che Peter e Charlotte
prolungassero il loro soggiorno.
8. FANTASMA
Non vidi granché gli ospiti di Jasper durante i due giorni assolati
che trascorsero a Forks. Andavo a casa soltanto per non far
preoccupare Esme. Per il resto, la mia esistenza era più simile a
quella di uno spettro, che di un vampiro. Mi appostavo nell’ombra,
invisibile, dove potevo seguire l’oggetto del mio amore e della mia
ossessione, dove potevo vederla e udirla nei pensieri degli umani
fortunati che potevano camminarle accanto alla luce del sole, magari
sfiorandole accidentalmente il dorso della mano con il proprio. Bella
non reagiva mai a quel tipo di contatto; le loro mani erano calde
quanto le sue.
L’assenza forzata da scuola non era mai stata una prova tanto
dura. Ma sembrava che il sole la facesse felice, perciò non poteva
darmi fastidio.
Lunedì mattina origliai una conversazione che, potenzialmente,
avrebbe potuto distruggere la mia fiducia e trasformare in una vera e
propria tortura il tempo trascorso lontano da lei. Tuttavia, quando
terminò, mi rese piuttosto felice.
Fui costretto a provare del rispetto per Mike Newton. Aveva più
coraggio di quanto gliene avessi attribuito. Non solo si era arreso ed
era andato di nascosto a farsi medicare le ferite, ma aveva
intenzione di riprovarci.
Bella arrivò a scuola piuttosto presto e, evidentemente decisa a
godersi il sole finché durava, si sedette su una delle panchine da
picnic che venivano usate di rado, mentre attendeva il suono della
prima campanella. I suoi capelli catturavano la luce del sole in modo
insolito, rivelando riflessi di un rosso scintillante che non mi sarei
aspettato.
Mike la trovò lì, intenta a scarabocchiare qualcosa, e quel colpo
di fortuna lo elettrizzò.
Dovermi limitare a guardare, impotente, imprigionato dal sole
nell’ombra della foresta, era un’agonia.
Bella lo salutò con un entusiasmo sufficiente a mandare lui in
estasi e me all’inferno.
Le piaccio. Non mi sorriderebbe così, altrimenti. Scommetto che
voleva andare al ballo con me. Mi chiedo che cosa ci sia di così
importante a Seattle...
Si accorse dei suoi capelli. «Non mi sono mai accorto... hai una
sfumatura di rosso nei capelli».
Quando ne prese una ciocca fra le dita, sradicai
involontariamente il giovane abete sul quale avevo appoggiato la
mano.
«Solo quando c’è il sole», rispose lei. Con mia grande
soddisfazione, Bella si ritrasse leggermente quando lui le sistemò la
ciocca ribelle dietro l’orecchio.
Per raccogliere il coraggio Mike impiegò un minuto, perdendo
tempo in chiacchiere di circostanza.
Lei gli ricordò il saggio che tutti noi dovevamo consegnare
mercoledì. Dalla sua espressione leggermente compiaciuta capii che
lo aveva già scritto. Mike, invece, lo aveva del tutto dimenticato e
questo limitò di parecchio il tempo libero a sua disposizione.
Alla fine riuscì ad arrivare al punto – io avevo i denti così serrati
che avrei potuto polverizzare il granito – ma nemmeno allora formulò
apertamente la sua domanda.
«Stavo per chiederti se ti andava di uscire».
«Ah», rispose Bella.
Ci fu un breve silenzio.
Ah? Che significa “ah”? Vuol dire sì? Aspetta... forse non gliel’ho
chiesto per bene.
Mike deglutì a fatica.
«Be’, potremmo uscire a cena o qualcosa del genere... e il saggio
lo preparo dopo».
Stupido. Nemmeno questa è una domanda.
«Mike...».
Il supplizio che mi inflissero la collera e la gelosia fu potente
quanto lo era stato la settimana precedente. Desideravo con tutto
me stesso correre nel campus, troppo veloce per gli occhi umani, e
portarla via, rubarla al ragazzo che in quel momento odiavo al punto
da essere capace di ucciderlo per il solo gusto di farlo.
Gli avrebbe detto sì?
«Non credo che sarebbe un’idea grandiosa».
Ripresi a respirare. Il mio corpo irrigidito si rilassò.
Allora Seattle era soltanto una scusa. Non avrei dovuto
chiederglielo. Come mi è venuto in mente? Scommetto che è quel
mostro di Cullen.
«Perché?», le chiese, scontroso.
Bella esitò. «Se osi ripetere quello che ti sto dicendo ti ammazzo,
ma penso...».
Sentendo una minaccia di morte uscire dalle sue labbra, scoppiai
in una risata irrefrenabile. Una ghiandaia, spaventata, strillò e volò
lontano da me.
«Penso che feriresti i sentimenti di Jessica».
«Jessica?». Cosa? Ma... oh. Okay. Immagino... oh.
I pensieri di Mike erano in totale confusione.
«Mike, stai scherzando o sei cieco?».
La pensavo come lei. Certo, non tutti erano così intuitivi, ma in
questo caso era lampante. Con tutte le difficoltà che Mike aveva
avuto per decidersi a invitare Bella, non gli veniva in mente che per
Jessica potesse essere stato altrettanto difficile? Doveva essere
l’egoismo a renderlo cieco verso gli altri. E Bella era talmente
altruista da vedere ogni cosa.
Jessica. Uh. Wow. Uh. «Ah», riuscì a dire.
Bella sfruttò la sua confusione per filarsela.
«Iniziano le lezioni, e non posso arrivare ancora in ritardo».
Da quel momento in poi, Mike divenne un punto di vista
inaffidabile. Mentre rimuginava sull’idea di Jessica, realizzò che gli
piaceva molto il pensiero che lei lo trovasse attraente. Era un premio
di consolazione, Bella sarebbe stata un’altra cosa.
Però è carina, credo. Un bel corpo... tette più grandi di quelle di
Bella. Meglio una gallina oggi...
Poi partì per la tangente, verso nuove fantasie volgari come
quelle che aveva fatto su Bella, ma adesso le trovavo soltanto
irritanti, anziché esasperanti. Non meritava nessuna delle due
ragazze, per lui erano quasi intercambiabili. Dopo questo, mi tenni
alla larga dai suoi pensieri.
Quando Bella non fu più in vista, mi raggomitolai contro il tronco
freddo di un enorme madrone e passai da una mente all’altra,
continuando a tenerla d’occhio, sempre felice quando potevo vederla
attraverso i pensieri di Angela Weber. Avrei voluto che fosse esistito
un modo qualsiasi per ringraziare quella ragazza semplicemente per
la bella persona che era. Mi faceva sentire meglio pensare che Bella
avesse un’amica che valeva la pena avere.
Osservai il viso di Bella da ogni angolo che mi veniva offerto e
capii che c’era qualcosa che la turbava. Mi sorprese, pensavo che il
sole sarebbe bastato a farle mantenere il sorriso. A pranzo la vidi
lanciare, di tanto in tanto, delle occhiate al tavolo vuoto dei Cullen e
provai un’emozione forte. Forse anche lei sentiva la mia mancanza.
Dopo la scuola aveva in programma di uscire con le sue amiche
– io adeguai immediatamente il mio piano di sorveglianza – ma
quando Mike invitò Jessica all’appuntamento pensato per Bella,
l’uscita venne rimandata.
Così andai direttamente a casa sua a fare una rapida
ricognizione della foresta per essere sicuro che nessun pericolo si
fosse spinto troppo vicino. Sapevo che Jasper aveva avvertito quello
che una volta era stato suo fratello di evitare la città, menzionando la
mia insanità mentale sia come giustificazione che come rischio, ma
non volevo correre alcun pericolo. Peter e Charlotte non avevano
intenzione di creare ostilità con la mia famiglia, ma le intenzioni
erano, per loro natura, mutevoli.
Va bene, stavo esagerando. Ne ero consapevole.
Come se sapesse che la stavo osservando, come se provasse
compassione per la sofferenza che mi dava non vederla, Bella uscì
in giardino dopo una lunga ora passata dentro casa. Aveva un libro
in mano e una coperta sotto il braccio.
Senza far rumore, mi arrampicai sul ramo più alto dell’albero che
si affacciava più vicino al giardino.
Bella stese la coperta sull’erba umida, si sdraiò a pancia in giù e
cominciò a sfogliare il libro, usurato dalle numerose letture, per
trovare il segno. Lessi da sopra la sua spalla.
Ah – un grande classico. Ragione e sentimento. Era
un’ammiratrice di Jane Austen.
Assaporai il gusto che la luce del sole e l’aria aperta davano al
suo profumo. Il calore sembrava renderlo ancora più dolce. La mia
gola bruciò di desiderio con un dolore ancora una volta nuovo e
intenso a causa della lunga separazione. Mi presi qualche istante
per recuperare il controllo, costringendomi a respirare dal naso.
Bella leggeva rapidamente, incrociando e sciogliendo le caviglie
che teneva sollevate in aria. Conoscevo quel libro, quindi non lo lessi
insieme a lei. Mi ero soffermato, invece, sulla luce del sole e il vento
che giocavano con i suoi capelli quando, all’improvviso, il suo corpo
si irrigidì e la sua mano rimase immobile sulla pagina. Era arrivata
alla conclusione del capitolo 2. La pagina iniziava a metà frase:
«...forse, a dispetto di qualsiasi riguardo suggerito alla più anziana
dalla cortesia o dall’affetto materno, le due signore non avrebbero
potuto vivere insieme tanto tempo...».
Bella afferrò una consistente quantità di pagine e le voltò tutte
insieme bruscamente, come se qualcosa nella pagina che stava
leggendo l’avesse fatta arrabbiare. Ma cosa? Era all’inizio della
storia, dove si presentava il primo conflitto tra suocera e nuora. Dove
compariva l’eroe del romanzo, Edward Ferrars. Si celebravano i
meriti di Elinor Dashwood. Ripassai mentalmente il capitolo
precedente, cercando qualcosa di potenzialmente offensivo nella
prosa fin troppo educata di Jane Austen. Che cosa poteva averla
infastidita?
Bella si fermò sul frontespizio di Mansfield Park. L’inizio di un
nuovo romanzo – il libro era una raccolta.
Ma era arrivata appena a pagina 7 – questa volta stavo seguendo
la sua lettura; Mrs Norris stava spiegando dettagliatamente i rischi
che avrebbero corso Tom e Edmund se non avessero conosciuto la
loro cugina Fanny Price prima di diventare adulti – quando strinse i
denti e chiuse il libro con un tonfo violento.
Respirando a fondo, come se dovesse calmarsi, Bella gettò da
parte il libro e rotolò sulla schiena. Si tirò le maniche sugli
avambracci esponendo altra pelle al sole.
Perché aveva reagito in quel modo a quello che era,
chiaramente, un romanzo che conosceva bene? Un altro mistero.
Sospirai.
Rimase sdraiata, immobile, tranne una volta in cui si scostò con
rabbia i capelli dal viso. Si aprivano a ventaglio sopra la sua testa,
un fiume color castano. Poi rimase di nuovo immobile.
Dava vita a un’immagine molto serena, là, nel sole. La pace che
l’aveva abbandonata prima, sembrava ritrovarla adesso. Il suo
respiro rallentò. Dopo parecchi, lunghi minuti le sue labbra
cominciarono a tremare. Mormorando nel sonno.
Mi sentii sgradevolmente colpevole. Perché quello che stavo
facendo non era esattamente bello, ma nemmeno lontanamente
brutto come le mie incursioni notturne. In teoria non stavo nemmeno
violando la loro proprietà – la base del mio albero cresceva nel
terreno adiacente – e men che meno facevo qualcosa di più
criminale. Ma sapevo che quando sarebbe scesa la notte, avrei
continuato a comportarmi male.
Persino in quel momento una parte di me voleva sconfinare.
Saltare giù, atterrare silenziosamente sulla punta dei piedi ed entrare
senza problemi nel suo cerchio di luce. Solo per starle più vicino. Per
sentirla mormorare parole come se le stesse sussurrando a me.
Non era la mia inaffidabile moralità a trattenermi – fu il pensiero di
me alla luce accecante del sole. Era già abbastanza sgradevole che
la mia pelle fosse granitica e inumana all’ombra; non volevo
guardare me e Bella uno accanto all’altra sotto i raggi del sole. La
differenza fra di noi era già insormontabile, già abbastanza dolorosa
senza avere quell’immagine nella testa. Non avrei potuto essere più
grottesco. Immaginai il suo terrore se avesse aperto gli occhi e mi
avesse visto lì, accanto a lei.
«Mmm...», mugugnò.
Mi ritrassi nell’ombra del fogliame, appoggiato al tronco.
Lei sospirò. «Mmm».
Non temetti che si fosse svegliata. La sua voce era soltanto un
mormorio sommesso e pensieroso.
«Edmund. Ah».
Ripensai al punto in cui aveva interrotto la lettura. Quando
Edmund Bertram veniva nominato per la prima volta.
Ah! Mi resi tristemente conto che non stava affatto sognando me.
Il disgusto di me stesso tornò alla carica. Stava sognando il
personaggio di un romanzo. Forse era sempre stato così e, per tutto
il tempo, aveva sognato Hugh Grant con un foulard al collo. Alla
faccia della mia presunzione.
Non disse nient’altro di intelligibile. Il pomeriggio passò e io rimasi
a guardare, sentendomi di nuovo impotente, mentre il sole affondava
lentamente nell’orizzonte e le ombre strisciavano sul prato, verso di
lei. Avrei voluto respingerle, ma ovviamente l’oscurità era inevitabile;
le ombre la presero. Quando la luce fu scomparsa, la sua pelle
divenne troppo pallida, spettrale. I capelli avevano perso i riflessi ed
erano tornati scuri, quasi neri intorno al suo viso.
Era una scena terribile da guardare, sembrava di assistere alle
visioni di Alice che diventavano realtà. La mia unica rassicurazione
era il battito forte e regolare del cuore di Bella, l’unico suono che
impediva a quell’istante di assumere i contorni di un incubo.
Quando suo padre tornò a casa, mi sentii sollevato.
Non riuscii a captare molto da lui, mentre la sua auto percorreva
la strada. Qualche vaga seccatura... passata, qualcosa della sua
giornata lavorativa. Aspettativa mista a fame – immaginai che
aspettasse con impazienza l’ora di cena. Ma i suoi pensieri erano
talmente calmi e contenuti che non potevo averne la certezza. Ne
colsi soltanto l’essenza.
Mi chiesi quale fosse la voce mentale della madre di Bella, quale
combinazione genetica avesse creato una creatura così unica.
Bella cominciò a svegliarsi, sedendosi di scatto quando sentì le
ruote della macchina di suo padre sul vialetto di mattoni. Si guardò
intorno, disorientata dal ritrovarsi al buio. Per un breve momento, i
suoi occhi toccarono le ombre nelle quali mi nascondevo, ma
proseguirono subito altrove.
«Charlie?», domandò a bassa voce, continuando a sbirciare fra
gli alberi che circondavano il piccolo giardino.
La portiera dell’auto si chiuse sbattendo e Bella guardò in
direzione del rumore. Si alzò subito in piedi e raccolse le sue cose,
gettandosi un’altra occhiata alle spalle, verso la foresta.
Mi spostai su un albero più vicino alla finestra posteriore della
piccola cucina e ascoltai la loro serata. Era interessante confrontare
le parole di Charlie con i suoi pensieri attutiti. L’amore e l’interesse
che provava per la sua unica figlia erano quasi travolgenti, eppure
quando parlava era sempre laconico e sbrigativo. Perlopiù, lui e
Bella condividevano un silenzio amichevole.
Udii lei parlare del suo progetto di andare a Port Angeles a fare
spese, il pomeriggio seguente con Jessica e Angela, e io,
ascoltandola, ridefinii i miei piani. Jasper non aveva avvertito Peter e
Charlotte di stare alla larga da Port Angeles. Anche se sapevo che si
erano nutriti di recente e non avevano intenzione di andare a caccia
nei dintorni della nostra casa, l’avrei tenuta d’occhio, per ogni
evenienza. Dopotutto, in giro ce n’erano altri come noi. Insieme,
ovviamente, a tutti gli altri pericoli umani che finora non avevo mai
considerato.
La sentii dispiacersi ad alta voce per non aver preparato la cena
per suo padre e sorrisi perché era la dimostrazione della mia teoria:
anche qui lei faceva da governante.
E poi me ne andai, sapendo che sarei tornato mentre lei stava
dormendo, ignorando ogni obiezione etica e morale al mio
comportamento.
Ma di sicuro non avrei violato la sua intimità come avrebbe fatto
un guardone. Ero lì per proteggerla, non per guardarla in modo
lascivo come avrebbe sicuramente fatto Mike Newton, se fosse stato
abbastanza agile da muoversi fra le cime degli alberi. Non l’avrei mai
trattata così grossolanamente.
Quando tornai a casa la trovai vuota, il che andava benissimo per
me. Non mi mancavano i diversi pensieri confusi che si
interrogavano sulla mia sanità mentale. Emmett aveva lasciato un
biglietto attaccato al pilastro della scala.
«FOOTBALL AL CAMPO RAINIER. DAI! PER FAVORE!».
Trovai una penna e scarabocchiai la parola «SCUSAMI» sotto la
sua richiesta. Fra l’altro, le squadre sarebbero state pari senza di
me.
Partii per una brevissima battuta di caccia, accontentandomi di
creature più piccole e più innocue che non erano buone quanto altri
predatori. Poi mi cambiai prima di correre a Forks.
Bella non dormiva bene neanche quella notte. Si agitava fra le
coperte con un’espressione a volte preoccupata, a volte triste. Mi
chiesi quale incubo la perseguitasse... e poi mi resi conto che non
volevo saperlo davvero.
Quando parlava, perlopiù borbottava insulti verso Forks in tono
tetro. Soltanto una volta, quando sospirò la parola torna e la sua
mano si aprì di scatto – in una muta preghiera – ebbi l’occasione di
sperare che magari stesse sognando me.
Il giorno di scuola successivo, l’ultimo in cui il sole mi avrebbe
tenuto prigioniero, fu quasi uguale al precedente. Bella sembrava
persino più triste del giorno prima e mi chiesi se avrebbe rinunciato
all’uscita – non sembrava proprio dell’umore. Ma, trattandosi di lei,
probabilmente avrebbe messo il divertimento delle sue amiche
davanti al proprio. Quel giorno indossava una camicia blu scuro, un
colore che si adattava perfettamente alla sua pelle rendendola del
colore della panna fresca.
La scuola terminò e Jessica acconsentì a passare a prendere le
altre ragazze.
Io tornai a casa a prendere la macchina. Quando scoprii che
c’erano Peter e Charlotte, decisi che potevo permettermi di dare alle
ragazze un’ora circa di vantaggio. Sarebbe stato faticoso seguirle
rispettando i limiti di velocità – un pensiero detestabile.
Erano tutti riuniti nel grande salone luminoso e sia Peter che
Charlotte notarono la mia distrazione mentre li salutavo in ritardo,
scusandomi senza entusiasmo per la mia assenza, baciando lei
sulla guancia e stringendo la mano a lui. Non ero in grado di
concentrarmi abbastanza per unirmi alle loro conversazioni, quindi,
non appena potei liberarmi educatamente, andai al pianoforte e
cominciai a suonare.
Che strana creatura, stava pensando Charlotte, simile ad Alice
nel fisico, ma con i capelli biondo platino. E l’ultima volta che ci
siamo visti era così normale e piacevole.
I pensieri di Peter erano in sintonia con i suoi, come sempre.
Dev’essere per colpa degli animali. La mancanza di sangue
umano alla fine li fa impazzire, stava concludendo. Aveva i capelli
chiari come quelli di Charlotte e quasi altrettanto lunghi. Erano molto
simili – tranne per la corporatura visto che Peter era alto quasi
quanto Emmett. Una coppia ben assortita, avevo sempre pensato.
Perché prendersi il disturbo di venire a casa?, era il pensiero
beffardo di Rosalie.
Ah, Edward. Detesto vederlo soffrire così. La gioia di Esme
cominciava a essere inquinata dalla preoccupazione. Avrebbe
dovuto preoccuparsi. La storia d’amore che prospettava per me
stava deviando verso una tragedia che diventava via via più
concreta.
Divertiti a Port Angeles, stasera, pensò Alice allegramente.
Fammi sapere quando avrò il permesso di parlare con Bella.
Sei patetico. Non posso credere che tu abbia rinunciato alla
partita di ieri solo per andare a guardare qualcuno mentre dorme,
borbottò Emmett.
Poco dopo, tutti tranne Esme smisero di pensare a me e io
continuai a suonare sommessamente per non attirare l’attenzione.
Non mi occupai più di loro per un bel po’, lasciando che la musica
mi distraesse dalla mia agitazione. Era sempre angosciante non
avere Bella sott’occhio. Tornai a concentrarmi sulle conversazioni
della mia famiglia soltanto quando i saluti divennero definitivi.
«Se rivedi Maria», stava dicendo Jasper, in tono cauto, «dille che
spero stia bene».
Maria era il vampiro che aveva creato sia Jasper che Peter –
Jasper nella seconda metà del diciannovesimo secolo, Peter più
recentemente, negli anni Quaranta. Era venuta a trovare Jasper
quando vivevamo a Calgary. Era stata una visita piuttosto
movimentata, avevamo dovuto fare subito le valigie. Jasper le aveva
chiesto educatamente di mantenere le distanze, per il futuro.
«Non credo che le nostre strade si incroceranno molto presto»,
rispose Peter, ridendo – Maria era innegabilmente pericolosa e fra lei
e Peter non correva più buon sangue. Dopotutto, Peter era stato
determinante nella defezione di Jasper. Mio fratello era sempre stato
il preferito di Maria, che considerava un dettaglio trascurabile aver
progettato di ucciderlo. «Ma, se dovesse accadere, lo farò
sicuramente».
Poi Peter e Charlotte salutarono tutti, preparandosi a partire.
Abbandonai la mia esecuzione con una chiusa insoddisfacente e mi
alzai in fretta dal pianoforte.
«Charlotte, Peter», dissi, salutandoli con un cenno della testa.
«È stato bello rivederti, Edward», disse Charlotte, un po’
dubbiosa. Peter rispose con un cenno.
Pazzo, disse Emmett.
Idiota, pensò Rosalie nello stesso istante.
Povero ragazzo. Esme.
E Alice, in tono di rimprovero. Andranno dritti a est, verso Seattle.
Lontano da Port Angeles. Me lo dimostrò nelle sue visioni.
Finsi di non averla sentita. Le mie scuse erano già abbastanza
fragili.
Una volta in macchina, mi sentii più rilassato. Il vigoroso rombo
del motore che Rosalie aveva incrementato per me – l’anno scorso,
quando il suo umore era migliore – era confortante. Fu un sollievo
mettersi in movimento, sapere che ogni chilometro che volava sotto
le mie ruote mi avvicinava di più a Bella.
9. PORT ANGELES
Sentivo il sole caldo sulla mia pelle ed ero contento di non poter
vedere quello che succedeva. Non volevo vedermi in quel momento.
Per il mezzo secondo più lungo che avessi mai vissuto, tutto taceva.
Ma poi Bella urlò.
«Edward!».
Spalancai gli occhi aspettandomi di vederla scappare da tutto ciò
che avevo appena rivelato di essere.
Ma lei correva verso di me, con la bocca aperta per l’angoscia. Le
sue mani erano appena protese, e inciampava e incespicava
attraverso l’erba alta. Non sembrava spaventata, ma disperata. Non
capivo che cosa stesse facendo.
Dovevo evitare che mi si schiantasse addosso, qualunque cosa
intendesse fare. Doveva starmi lontana. Sollevai di nuovo la mano,
con il palmo rivolto verso di lei.
Ebbe un’esitazione, e per un momento barcollò, palesemente
agitata.
Guardandola dritta negli occhi mi ci vidi riflesso e pensai forse di
aver capito: nello specchio dei suoi occhi io somigliavo a un uomo in
fiamme. Per quanto avessi sfatato i suoi miti, vi si doveva essere
aggrappata inconsciamente.
Perché era preoccupata. Temeva per il mostro più che il mostro.
Fece un passo verso di me e poi si arrestò non appena io feci a
mia volta un mezzo passo indietro.
«Senti dolore?», sussurrò.
Sì, era come dicevo io. Non era preoccupata per se stessa,
nemmeno adesso.
«No», risposi anch’io con un filo di voce.
Fece ancora un passo, avvicinandosi, ma con cautela adesso.
Abbassai la mano.
Voleva starmi ancora più vicina.
La sua espressione cambiò mentre si avvicinava. Piegò la testa
da un lato, strinse gli occhi, che poi ridivennero enormi. Nonostante
lo spazio che ci separava, potevo vedere gli effetti della luce che la
mia pelle rifrangeva come un prisma sulla sua. Fece un altro passo e
poi un altro ancora, tenendosi sempre alla stessa distanza mentre
lentamente cominciava a girarmi intorno. Restai completamente
immobile, avvertendo i suoi occhi sulla mia pelle anche quando era
fuori dal mio campo visivo. Il suo respiro accelerò più del solito, e il
suo cuore prese a battere forte.
Riapparve alla mia destra, e ora un accenno di sorriso
cominciava a formarsi agli angoli delle sue labbra mentre
completava il giro, per poi trovarsi nuovamente di fronte a me.
Come faceva a sorridere?
Si avvicinò, arrestandosi solo quando fu a pochi centimetri da me.
Sollevò la mano, poi se la riportò al petto, come se volesse
raggiungermi e toccarmi ma temesse di farlo. La luce si frantumò dal
mio braccio e prese a turbinare sulla sua faccia.
«Edward», disse in un respiro. Nella sua voce c’era meraviglia.
«Ti sto spaventando?», chiesi con calma.
Fu come se la mia domanda giungesse del tutto inattesa, come
se l’avesse sconvolta.
«No».
La fissai negli occhi, e non potevo impedirmi di cercare invano –
ancora – di ascoltarla.
Allungò la mano verso di me, molto lentamente, guardandomi la
faccia. Pensai che forse stesse aspettando che io le dicessi di
fermarsi. Non lo feci. Le sue calde dita sfiorarono il mio polso. Fissò
intensamente la luce che dalla mia pelle si muoveva verso di lei
come se danzasse.
«A cosa pensi?», sospirai. In quel momento, quel tenace mistero
fu ancora una volta qualcosa di profondamente doloroso.
Scrollò leggermente la testa. Sembrava lottare per trovare le
parole. «Sono...». Sollevò gli occhi, fissandomi. «Non so...». Prese
un lungo respiro. «Non ho mai visto nulla di più bello... non ho mai
immaginato che qualcosa di così bello potesse esistere».
La guardai anche io dritto negli occhi.
La mia pelle sfavillava mostrando platealmente i sintomi della
malattia. Nel sole ero meno umano di quanto non lo fossi mai stato.
E lei invece pensava che io fossi... bello.
La mia mano si sollevò automaticamente, girandosi per prendere
la sua, ma mi costrinsi a metterla giù di nuovo, perché non volevo
toccarla.
«È molto strano, però», dissi. Lei non poteva certo capire che
questo faceva parte dell’orrore.
«Fantastico», corresse.
«Non sei disgustata dalla mia evidente mancanza di umanità?».
Per quanto fossi abbastanza sicuro della sua risposta, non
riuscivo ancora a crederci.
Abbozzò un sorriso. «Nessun disgusto».
«Dovresti».
Il sorriso le corse da guancia a guancia. «Ho la sensazione che
l’umanità sia piuttosto sopravvalutata».
Con cautela estrassi il braccio dalle sue calde dita,
nascondendolo dietro la schiena. Lei considerava l’umanità con
troppa leggerezza. Non aveva capito che la sua perdita avrebbe
significato qualcosa di grave.
Fece un altro passetto verso di me e il suo corpo fu così vicino
che il calore che emanava divenne forte, più di quanto non lo fosse il
sole. Sollevò il viso all’altezza del mio e la luce indorò la sua gola in
un gioco di ombre che evidenziò il flusso di sangue lungo le arterie,
proprio dietro l’angolo della mascella.
Il mio corpo reagì istintivamente: secrezione di veleno,
contrazione dei muscoli, stato confusionale.
Quanto rapidamente affiorò! Per diversi secondi sprofondammo
in un subbuglio di visioni. Trattenni il respiro e feci un grande passo
indietro, sollevando di nuovo la mano per avvertirla del pericolo.
Non provò a seguirmi. «Mi... dispiace», sussurrò. Il suono delle
sue parole si fece cantilenante, trasformandole in una domanda.
Non sapeva di cosa si stesse scusando.
Rilassai lentamente i polmoni, controllando il respiro. Il suo odore
non era più doloroso del solito: non era così opprimente come avevo
quasi temuto di scoprire all’improvviso.
«Ho bisogno di tempo», dissi.
«D’accordo». Ancora un sussurro.
Le girai intorno, lentamente e con cautela, per poi spostarmi
verso il centro del prato. Mi sedetti in una zona di erba bassa e mi
immobilizzai, come avevo fatto in precedenza. Espirai e inspirai
lentamente mentre ascoltavo i suoi passi esitanti attraversare la
stessa distanza, assaporando il suo profumo quando venne a
sedersi accanto a me.
«Tutto a posto?».
Annuii. «Solo... lasciami concentrare».
Per la confusione e la preoccupazione i suoi occhi erano diventati
enormi. Non volevo dare spiegazioni. Chiusi gli occhi.
Non per vigliaccheria, mi dissi. O almeno, non solo per
vigliaccheria. Dovevo concentrarmi.
Mi concentrai sul suo odore, sul suono del sangue che sgorgava
nelle camere del suo cuore. Potevo muovere solo i polmoni. Ogni
altra parte di me era costretta in una rigida immobilità.
Il cuore di Bella, ricordai a me stesso mentre il mio sistema
involontario reagiva agli stimoli. La vita di Bella.
Ero sempre stato così attento a non pensare al suo sangue:
l’odore non lo potevo evitare, ma il fluire, il movimento, il pulsare, il
suo liquido caldo erano cose su cui dovevo evitare di soffermarmi.
Ma in quel momento lasciai che riempisse la mia mente, che
invadesse il mio sistema e attaccasse i miei dispositivi di controllo. Il
suo zampillare e fiottare, il suo palpitare e schizzare. Il suo avanzare
attraverso le arterie maggiori, il fluttuare attraverso le vene più
piccole. Il suo calore, un calore che sferzava a ondate la mia pelle
esposta nonostante la distanza che ci separava. Il suo sapore che
bruciava sulla lingua e nella gola.
Mi tenni prigioniero, e guardato a vista. Una piccola parte del mio
cervello era in grado di restare distaccata, di analizzare l’attacco
violento che stavo subendo. Con quel piccolo brandello di razionalità
esaminai minuziosamente ogni mia reazione. Calcolai la quantità di
forza necessaria per contenere ogni risposta e misurai la forza
corrispondente in mio possesso. Fu un calcolo approssimativo, ma
credo che la mia forza di volontà fosse più forte della mia natura
bestiale. Almeno un po’.
Era questo il nodo di Alice? Non sembrava... completo.
Nel frattempo, Bella rimase seduta quasi immobile come me,
immersa nei suoi pensieri. Poteva immaginare il tumulto che mi si
agitava dentro? Come si spiegava questa strana, silenziosa stasi?
Tuttavia, qualunque cosa pensasse, il suo corpo era calmo.
Sembrava che il tempo scorresse più lentamente, al pari del suo
battito. Il cinguettio degli uccelli sugli alberi lontani si era chetato. La
cascata di un ruscelletto si fece in qualche modo più debole. Il mio
corpo si rilassò e alla fine anche la mia bocca smise di salivare.
Duemilatrecentosessantaquattro battiti del suo cuore dopo,
avvertii una maggiore capacità di controllo, più di quanto non ne
avessi avuta da giorni. La chiave era affrontare le cose, come aveva
predetto Alice. Ero pronto? Come potevo esserne sicuro? Come ne
sarei stato sicuro per sempre?
E poi, come potevo rompere questo lungo silenzio che avevo
imposto? Cominciai a sentirmi a disagio, e così doveva essere per
lei da un po’. Mi liberai dalla mia posizione e mi distesi sull’erba,
tenendo una mano dietro la nuca. Simulare il segnale fisico
dell’emozione era una vecchia abitudine. Magari se mi fossi
mostrato rilassato lei ci avrebbe creduto. Si limitò a sospirare piano.
Aspettai per vedere se avrebbe parlato, ma rimase in silenzio
come prima, pensando a chissà cosa, sola in quel posto sperduto,
con un mostro che rifletteva il sole come milioni di prismi. Potevo
sentire i suoi occhi sulla mia pelle, ma non pensavo più che ne
sarebbe stata disgustata. Il peso immaginario del suo sguardo – ora
che sapevo che mi stava ammirando, che mi trovava bello a dispetto
di tutto – riportò quella scarica elettrica che avevo sentito insieme a
lei nel buio, una parvenza della vita che scorreva nelle mie vene.
Mi lasciai andare ai ritmi del suo corpo, lasciai che il suono e il
calore e l’odore si diffondessero, e scoprii che potevo ancora
padroneggiare i miei disumani desideri, anche mentre la corrente
fantasma continuava a fluire sottopelle.
Il che aveva catturato gran parte della mia attenzione. E
inevitabilmente quel momento di tranquilla attesa sarebbe finito. Lei
avrebbe avuto così tante domande da farmi, molto più dirette ora,
immaginavo. Le dovevo mille diverse spiegazioni. Avrei potuto
gestire tutto contemporaneamente?
Decisi di destreggiarmi con qualche altro compito mentre provavo
ancora a sintonizzarmi con il flusso e riflusso del suo sangue.
Innanzitutto, raccolsi informazioni. Triangolai l’esatta posizione
degli uccelli di cui avvertivo la presenza, e poi attraverso i loro versi
identificai ciascuno per genere e specie. Analizzai lo spruzzo
irregolare che denotava la presenza di vita nel ruscello, e poi,
equiparando l’acqua spostata con le dimensioni del pesce, ne
dedussi la varietà più probabile. Catalogai gli insetti che erano
intorno a me – al contrario delle specie più evolute, gli insetti
ignoravano quelli come me come avrebbero fatto con una pietra – a
partire dalla velocità del battito delle loro ali, dal livello di elevazione
del volo o dal piccolo clicchettio delle loro zampe contro il suolo.
Alla classificazione aggiunsi il calcolo. Se in quel momento
nell’area del prato, che misurava circa 1.025 metri quadri, ci fossero
stati 4.913 insetti, quanti insetti mediamente avrebbero potuto
trovarsi nei 3.625 chilometri quadrati del Parco Nazionale di
Olympic? E se la popolazione di insetti fosse diminuita dell’uno per
cento ogni tre metri di elevazione? Rappresentai nella mia mente
una mappa topografica del parco, e cominciai a calcolare.
Allo stesso tempo, vagliai le canzoni che avevo ascoltato più
raramente nella mia centenaria esistenza: niente di comune che
avessi sentito suonare più di una volta. Melodie che avevo udito
passando davanti l’ingresso di un bar, tipiche ninne nanne bisbigliate
ai bambini nelle loro culle mentre correvo di notte, tentativi scartati
da studenti di musica che scrivevano i loro progetti nella classe
adiacente alla mia. Passai rapidamente in rassegna i versi, rilevando
tutti i motivi per cui erano destinati al fallimento.
Il suo sangue pulsava ancora, la sua temperatura riscaldava
ancora e io ancora bruciavo. Ma riuscii a mantenere la presa su me
stesso. Non si era allentata. Ora avevo il controllo. Ne avevo quanto
bastava.
«Hai detto qualcosa?», sospirò.
«Stavo solo... cantando tra me», dissi. Non sapevo come
spiegare più chiaramente ciò che stavo facendo, ma lei non fece
altre domande.
Capii che quel silenzio stava per finire, e la cosa non mi
spaventò. Mi sentivo sempre più a mio agio in quella situazione, mi
sentivo più forte e controllato. Forse alla fine avevo superato il nodo.
Forse eravamo al sicuro sull’altra sponda e le visioni più ottimistiche
di Alice si stavano avverando.
Quando il ritmo del respiro di Bella cambiò, segnalando un nuovo
corso nei suoi pensieri, fui incuriosito più che spaventato. Mi
aspettavo una domanda, ma invece sentii l’erba muoversi intorno a
lei mentre si chinava su di me e il suono del suo polso si faceva più
vicino.
La morbida e calda punta del suo dito scivolò lentamente sul
dorso della mia mano. Fu un tocco molto delicato, ma la reazione
della mia pelle fu elettrica. Un diverso tipo di bruciore rispetto a
quello che avevo in gola, e con un maggiore potere di farmi perdere
la concentrazione. Tutti i miei calcoli e ricordi sonori si fecero
balbettanti, finché non si arrestarono del tutto, e lei ebbe la mia
totale attenzione, anche se il suo cuore denso di sangue stava
palpitando a pochi centimetri dal mio orecchio.
Aprii gli occhi, desideroso di vedere la sua espressione e
indovinare i suoi pensieri. Non rimasi deluso. I suoi occhi
splendevano di nuovo di meraviglia, gli angoli delle sue labbra erano
rivolti all’insù. Intercettò il mio sguardo e il suo sorriso si fece più
pronunciato. La imitai.
«Non ti faccio paura?». Non l’avevo spaventata. Voleva restare lì,
con me.
Rispose in tono scherzoso. «Non più del solito».
Si avvicinò e appoggiò la mano sul mio avambraccio,
accarezzandomi lentamente in direzione del polso. La sua pelle
contro la mia era calda, e sebbene un fremito attraversasse le sue
dita, non c’era paura in quel tocco. Le mie palpebre si chiusero di
nuovo mentre cercavo di contenere la mia reazione.
La corrente elettrica sembrava un terremoto che mi scuoteva dal
midollo.
«Ti dà fastidio?», chiese, e la sua mano si bloccò.
«No», risposi subito. E poi, poiché volevo che sapesse almeno
qualcosa di quello che stavo vivendo, aggiunsi: «Non hai idea di
come mi senta». Non avrei potuto immaginarlo prima. Era al di là di
ogni forma di piacere che avessi mai provato.
Le sue dita risalirono verso l’interno del mio gomito, seguendo
delle trame immaginarie. Cambiò posizione e con l’altra mano prese
la mia. Sentii che tirava leggermente e compresi che voleva che
girassi il palmo verso l’alto. Come obbedii, però, entrambe le sue
mani si bloccarono ed ebbe un lievissimo sussulto.
Sollevai gli occhi, realizzando immediatamente l’errore che avevo
commesso: mi ero mosso come un vampiro più che come un essere
umano.
«Scusa», mormorai. Ma, quando i suoi occhi incontrarono i miei,
capii di non averle fatto alcun male. Il sorriso, dopo la sorpresa
iniziale, non aveva mai abbandonato il suo viso. «È troppo facile
essere me stesso, assieme a te», dissi, e poi lasciai che le mie
palpebre si chiudessero nuovamente, così avrei potuto concentrarmi
sulla sensazione della sua pelle contro la mia.
Avvertii la pressione mentre cercava di sollevare la mia mano.
Mossi la mano assecondando i suoi movimenti, sapendo che per lei
ci sarebbe voluta un po’ di forza per sollevarla senza aiuto. Era un
po’ più pesante di quanto credessi.
Tenne la mia mano sul viso. Il suo alito caldo bruciava a contatto
con il palmo. La aiutai a inclinarlo in quel modo, assecondando la
pressione suggerita dalle sue dita. Aprii gli occhi e scoprii che mi
stava guardando intensamente, scintille di arcobaleno danzavano
sul suo viso nell’andirivieni della luce attraverso la mia pelle. Le
spuntò di nuovo quella ruga tra gli occhi. Quale interrogativo la
turbava adesso?
«Dimmi cosa pensi». Pronunciai le parole con gentilezza, ma
forse lei riusciva a sentire che la stavo implorando? «Mi sembra
ancora così strano, non riuscire a capirlo».
La sua bocca si increspò appena e il suo sopracciglio sinistro si
sollevò di pochissimo.
«Noi comuni mortali ci sentiamo sempre così, sai?».
Noi comuni mortali. La grande famiglia dell’umanità che non
includeva me. La sua gente, la sua specie.
«Che vita dura». Queste parole non mi uscirono nel modo
scherzoso che avevo immaginato. «Non hai risposto».
Parlò lentamente. «Mi chiedevo cosa stessi pensando tu...».
C’era di più, ovviamente. «E?».
Abbassò la voce; un essere umano avrebbe avuto difficoltà a
sentirla. «E desideravo poter credere che tu fossi vero. E mi
auguravo di non avere paura».
Un lampo di dolore mi trafisse. Mi ero sbagliato. Alla fine, l’avevo
spaventata. Sì, era così.
«Non voglio che tu abbia paura». Era una richiesta di scuse e un
gemito.
Fui sorpreso quando lei sorrise quasi in modo malizioso. «Be’,
non è esattamente quella la paura che intendevo, malgrado sia un
aspetto da non trascurare».
Ma stava scherzando ora? Cosa poteva voler dire? Mi misi a
sedere, troppo desideroso di avere risposte per fingermi ancora
indifferente.
«E allora, di cosa hai paura?».
Realizzai quanto fossero vicine le nostre facce. Le sue labbra che
quasi sfioravano le mie. Appena separate, non sorridevano più.
Inspirò dal naso e le palpebre si socchiusero. Si distese, ancora più
vicina, come per catturare meglio il mio odore, il mento
leggerissimamente inclinato, il collo inarcato in avanti, la giugulare
esposta.
E io reagii.
Il veleno inondò la mia bocca, le mani si mossero
involontariamente per afferrarla, la mascella si divaricò mente lei si
spingeva ancora di più verso di me.
Mi allontanai di scatto da lei.
Il furore non aveva raggiunto le mie gambe e riuscii a
catapultarmi fino ai bordi del prato. Mi mossi così in fretta che non
ebbi il tempo di liberare le mie dita dalle sue delicatamente; le avevo
praticamente strappate da lei. Il mio primo pensiero quando atterrai
accovacciato all’ombra degli alberi furono le sue mani, e fui invaso
da un senso di sollievo quando vidi che erano ancora attaccate ai
polsi.
Sollievo seguito da disgusto. Ripugnanza. Repulsione. Tutte le
emozioni che avevo temuto di vedere nei suoi occhi quel giorno
moltiplicate per cento anni e in più la consapevolezza di meritarmelo.
Mostro, incubo, distruttore di vite, mutilatore di sogni: dei suoi e dei
miei.
Se fossi stato qualcosa di meglio, se fossi stato in qualche modo
più forte, invece di essere un brutale passo verso la morte, quel
momento avrebbe potuto essere il nostro primo bacio.
Allora, avevo appena fallito il test? Non c’era più speranza?
I suoi occhi erano vitrei; il bianco risaltava tutt’intorno al tono
scuro delle sue iridi. Vidi mentre sbatteva le palpebre e cercava di
mettermi a fuoco, fissandomi nella mia nuova posizione.
Ci guardammo l’un l’altra per un po’.
Il suo labbro inferiore tremò, poi aprì la bocca. Aspettai, teso, che
mi rimproverasse. Che gridasse contro di me, che mi dicesse di non
avvicinarmi più a lei.
«Mi... dispiace... Edward», sussurrò quasi senza voce.
Certo.
Dovetti fare un respiro profondo prima di poter rispondere.
Calibrai il volume della mia voce in modo che fosse abbastanza
forte perché lei sentisse, cercando di mantenere un tono dolce.
«Dammi solo un momento».
Si mise a sedere poco più indietro. I suoi occhi erano ancora
perlopiù bianchi.
Presi un altro respiro. Da lì potevo ancora assaporarla. E ciò
alimentò un costante bruciore, ma niente di più. Mi sentii... come mi
sentivo quando le ero normalmente vicino. Non c’erano tracce nella
mia mente o nel mio corpo, ora, nessuna sensazione che il mostro
fosse acquattato sotto la superficie. Che avrei potuto scattare per un
nonnulla. Ciò mi fece venire voglia di urlare e di sradicare gli alberi.
Se non potevo vedere il limite, se non potevo vedere la scintilla,
come avrei potuto mai proteggerla da me?
Potevo immaginare l’incoraggiamento di Alice. Io avevo protetto
Bella. Non era successo nulla. Tuttavia, sebbene Alice avesse
potuto vedere così tanto, guardando quando il mio intervallo
temporale era ancora il futuro e non il passato, lei non poteva sapere
come era stato. Perdere il controllo di me stesso, essere più debole
del mio peggior impulso. Non essere capace di fermarmi.
Ma ti sei fermato. Ecco cosa avrebbe detto. Non poteva sapere
quanto non abbastanza fosse.
Bella non staccò mai gli occhi da me. Il suo cuore batteva due
volte più veloce del normale. Troppo veloce. Non era sano. Volevo
prenderle la mano e dirle che andava tutto bene, che lei stava bene,
che era al sicuro, che non c’era nulla di cui preoccuparsi: ma
sarebbero state evidenti bugie.
Mi sentivo ancora... normale; o almeno quello che normale era
diventato in quegli ultimi mesi. Ero capace di controllo. Proprio come
prima, quando grazie all’eccessiva fiducia in me stesso l’avevo quasi
uccisa.
Indietreggiai lentamente, chiedendomi se avrei dovuto mantenere
le distanze. Ma non mi sembrava corretto gridarle le mie scuse con
tutto il prato di mezzo. Tuttavia, non mi fidavo a starle vicino come
prima. Mi fermai a qualche passo da lei, a una distanza che
consentisse la conversazione, e sedetti sul prato.
Cercai di mettere nelle mie parole tutto ciò che sentivo. «Mi
dispiace tanto».
Bella sbatté le palpebre e i suoi occhi si fecero di nuovo troppo
grandi; il suo cuore cominciò a battere fortissimo. Rimase di stucco.
Quelle parole sembravano non significare nulla per lei, non lasciare
traccia in alcun modo.
Per quanto mi fosse sembrata subito una cattiva idea, decisi di
tornare al mio solito schema, cercando di assumere un tono
distaccato. Volevo a tutti i costi rimuovere quell’annichilimento dal
suo viso.
«Capiresti cosa intendo se ti dicessi che la carne è debole?».
Un istante dopo annuì, solo una volta. Provò a sorridere al mio
grossolano tentativo di sdrammatizzare, ma quello sforzo non fece
altro che peggiorare ancora di più la sua espressione. Sembrava
afflitta, e poi, alla fine, spaurita.
Mi era già capitato di vedere la paura sul suo volto, ma mi ero
sempre subito rassicurato. Ogni volta che avevo quasi sperato che si
accorgesse che io non valevo l’immenso rischio che correva, lei mi
smentiva. La paura nei suoi occhi non era mai stata paura di me.
Fino a ora, almeno.
L’odore della sua paura saturava l’aria di un sapore acre e
metallico.
Era esattamente quello che stavo aspettando. Ciò che mi ero
sempre detto di volere. Che lei voltasse le spalle. Che lei si salvasse
lasciandomi bruciare, e da solo.
Il suo cuore batteva forte e io volevo ridere e piangere. Stavo
ottenendo ciò che volevo.
E tutto questo perché si era spinta in avanti giusto di quel tanto in
più. Si era avvicinata per sentire il mio odore, e lo aveva trovato
piacevole, proprio come aveva trovato attraente il mio viso e
irresistibili tutte le altre mie trappole. Ogni cosa in me le aveva fatto
venire voglia di starmi più vicina, proprio come da copione.
«Sono il miglior predatore del mondo, no?». Non tentai in alcun
modo di nascondere l’asprezza della mia voce. «Tutto, di me, ti
attrae: la voce, il viso, persino l’odore». Era tutto così eccessivo. Che
senso avevano i miei incantesimi e le mie esche? Non ero una
Venere acchiappamosche in attesa che la preda le atterrasse sulla
bocca. Perché non potevo essere così ripugnante all’esterno come
lo ero all’interno? «Come se ce ne fosse bisogno!».
Ora sentivo di aver perso il controllo, ma non nello stesso modo.
Tutto il mio amore, il desiderio, la speranza, si erano sbriciolati, mille
secoli di afflizione si dipanavano davanti a me, e io non potevo più
fingere. Se non potevo essere felice giacché ero un mostro, allora
che diventassi il mostro che ero!
Ero in piedi, correvo come faceva il suo cuore in due cerchi stretti
lungo il margine della radura, domandandomi se potesse almeno
vedere quello che le stavo mostrando.
Mi fermai di scatto dove ero prima. Ecco perché non avevo
bisogno di una voce gradevole.
«Come se tu potessi fuggire». Risi al pensiero dell’immagine
grottesca che si era formata nella mia mente. Il suono della mia
risata rimbalzò in striduli echi tra gli alberi.
Dopo l’inseguimento ci sarebbe stata la cattura.
Il ramo più basso del vecchio abete alle mie spalle era facilmente
raggiungibile. Lo strappai senza alcuno sforzo. Il legno stridette e
gemette, dal punto in cui era stato lacerato schizzarono via corteccia
e schegge di legno. Soppesai un po’ il ramo nella mano: circa
trecentonovantuno chili. Non abbastanza per avere la meglio su una
cicuta canadese dall’altra parte della radura, ma sufficiente per
infliggere qualche danno.
Lanciai il ramo contro l’albero, mirando a un nodo che si trovava
a circa nove metri di altezza. Il mio proiettile colpì il centro del
bersaglio, l’estremità più spessa del ramo si schiantò con un tonante
scricchiolio e si disintegrò in una miriade di schegge che piovvero
sulle felci sottostanti con un tenue sibilo. Al centro del nodo si aprì
una crepa che si prolungò in entrambe le direzioni. La cicuta
canadese tremò e la scossa si irradiò verso le radici fin dentro il
terreno. Mi domandai se non l’avessi ucciso. Avrei dovuto aspettare
qualche mese per saperlo. Mi augurai che si sarebbe ripreso, perché
il prato era perfetto così com’era. Non feci alcuno sforzo. Non ebbi
bisogno di utilizzare che una minima parte della forza di cui
disponevo. Eppure, quanta violenza. E quanti danni.
Due falcate ed ero davanti a lei, ma a distanza di sicurezza.
«Come se potessi combattere ad armi pari».
Non c’era più durezza nella mia voce. Quel piccolo capriccio non
mi era costato alcuno sforzo, ma aveva scaricato un po’ la mia ira.
Durante tutto quel tempo lei non si era mossa. Adesso era ferma,
gli occhi spalancati. Ci fissammo per un tempo che sembrò
lunghissimo. Ce l’avevo ancora con me stesso, ma non bruciavo più
di rabbia. Sembrava tutto inutile. Io ero quello che ero.
Si mosse per prima. Solo appena. Lasciò cadere debolmente le
mani in grembo dopo che mi scostai da lei, ma una di esse aveva
cominciato ad aprirsi. Le dita si allungarono leggermente nella mia
direzione. Probabilmente si trattava di un movimento inconscio, ma
era così stranamente simile a quando aveva implorato nel sonno
«Torna», mentre cercava qualcosa. Avrei voluto che mi avesse
sognato.
Era la notte prima di Port Angeles, la notte prima che scoprissi
che lei sapeva già che cosa ero. Se fossi stato a conoscenza di
quello che Jacob Black le aveva detto, non avrei mai creduto che
avrebbe potuto sognarmi in altro che non fosse un incubo. Ma per lei
tutto quello non aveva importanza.
C’era ancora terrore nei suoi occhi. Sì che c’era. Ma sembrava
esserci anche una supplica. Era forse possibile che volesse che io
ora tornassi da lei? E se anche fosse stato così, io avrei dovuto
farlo?
La sua pena, la mia più grande debolezza: proprio come Alice mi
aveva mostrato che sarebbe andata. Non tolleravo di vederla
spaventata. Mi aveva distrutto vedere quanto meritassi quella paura,
ma più di ogni cosa non sopportavo di vedere la sua afflizione. Mi
aveva privato della capacità di prendere qualcosa che somigliasse
solo minimamente a una decisione.
«Non avere paura», implorai in un sussurro. «Prometto...». No,
era diventata una parola come un’altra. «Giuro che non ti farò del
male. Non avere paura».
Mi avvicinai a lei lentamente, senza fare movimenti che lei non
avrebbe avuto il tempo di prevedere. Mi sedetti un poco alla volta,
volutamente in più fasi, di modo da trovarmi nuovamente nel punto
in cui eravamo all’inizio. Mi abbassai un po’, così che la mia faccia
fosse all’altezza della sua.
I battiti del suo cuore si attenuarono. Le palpebre si rilassarono
riprendendo la loro posizione normale. Era come se la mia vicinanza
l’avesse calmata.
«Per favore, perdonami», supplicai. «Sono capace di
controllarmi. Mi hai preso in contropiede. Ma adesso sarò
impeccabile». Che scuse patetiche.
Eppure, il risultato fu che agli angoli della sua bocca apparve un
accenno di sorriso. Come uno sciocco, feci nuovamente ricorso ai
miei puerili tentativi di essere divertente.
«Sul serio, oggi non ho così tanta sete». Le strizzai l’occhio.
C’era da credere che avessi tredici anni anziché centoquattro.
Ma lei rise. Un po’ ansante, un po’ incerta, ma era una risata
vera, di vera ilarità e sollievo. Il suo sguardo si scaldò, le sue spalle
si rilassarono e le sue mani si schiusero di nuovo.
Sembrava così giusto rimettere delicatamente la mia mano nelle
sue.
«Stai bene?».
Ci guardammo le mani. Sennonché lei sollevò gli occhi per
incontrare il mio sguardo un istante e poi riabbassarli di nuovo.
Cominciò a tracciare delle linee lungo il palmo della mia mano con la
punta del dito, come aveva iniziato a fare prima del mio delirio.
Ritornò a guardarmi e un sorriso si allargò lentamente sul suo viso
finché non le apparve di nuovo la fossetta sul mento. Non c’era
rimprovero né rimpianto in quel sorriso.
Sorrisi anche io e fu come se solo in quel momento riuscissi ad
apprezzare la bellezza di quel posto. Il sole, i fiori e l’aria dorata
divennero per me improvvisamente gioiosi e indulgenti. Avvertii il
dono della sua clemenza e il mio cuore di pietra si gonfiò di
gratitudine.
Il senso di sollievo, gioia e colpa che si confondevano,
improvvisamente mi ricordarono il giorno in cui ero tornato a casa,
parecchi decenni prima.
All’epoca neanche io ero pronto. Avevo programmato di
attendere. Volevo che i miei occhi tornassero dorati prima che
Carlisle mi vedesse. Ma erano ancora di uno strano color arancio,
un’ambra che tendeva al rosso. In quel periodo avevo difficoltà a
adattarmi alla mia precedente dieta. Prima non era mai stato così
difficile. Temevo che se non avessi potuto contare sull’aiuto di
Carlisle non sarei riuscito ad andare avanti. Che sarei ricaduto nelle
mie cattive abitudini.
Ero ovviamente preoccupato, avendo nei miei occhi una prova
così evidente. Mi chiesi quale fosse la peggiore reazione che potevo
aspettarmi. Mi avrebbe allontanato? Avrebbe avuto difficoltà a
guardarmi, a vedere che delusione ero diventato? Mi avrebbe
chiesto di espiare? Qualunque cosa, io l’avrei fatta. Ma i miei sforzi
per migliorare lo avrebbero alla fine spinto ad agire, o si sarebbe
limitato ad assistere al mio fallimento?
Fu abbastanza semplice trovarli; non erano andati lontano dal
posto in cui li avevo lasciati. Lo fecero forse per rendermi più
semplice il ritorno?
La loro era l’unica casa in quel luogo alto e selvaggio. Mentre
risalivo la strada, il sole invernale riluceva dalle finestre, sicché non
potevo dire se in casa vi fosse qualcuno. Invece di prendere la
scorciatoia che passava tra gli alberi, avanzai verso di loro
attraverso un campo vuoto ricoperto di neve – ed ero anche ben
infagottato per difendermi dai raggi del sole – così da essere
facilmente individuabile.
Fu Esme a vedermi per prima.
«Edward», la sentii piangere, sebbene fossi ancora a più di un
chilometro di distanza.
Meno di un secondo dopo vidi la sua sagoma sfrecciare dalla
porta secondaria e correre tra le rocce che circondavano il ciglio
della montagna sollevando una fitta polvere di cristalli di neve dietro
di lei.
Edward! È tornato a casa!
Mio padre la seguiva a breve distanza, finché non la raggiunse
grazie alle sue falcate più ampie.
Nei suoi pensieri non c’era altro che un sentimento di disperata
speranza. Nessun giudizio. Non ancora, almeno.
«Edward», urlò Esme, con un inconfondibile squillo di gioia nella
voce.
E in un attimo era su di me, le braccia strette attorno al collo, le
labbra che mi baciavano sulle guance senza sosta. Per favore, non
andartene di nuovo.
Un secondo dopo, Carlisle ci abbracciava entrambi.
Grazie, pensò, e la sua mente traboccava di sincerità. Grazie per
essere tornato da noi.
«Carlisle... Esme... Mi dispiace tanto. Mi...».
«Non dire niente ora», sussurrò Esme, appoggiando la testa
contro il mio collo e respirando il mio odore. Il mio ragazzo.
Guardai Carlisle dritto in faccia, spalancando gli occhi. Senza
nascondere nulla.
Sei qui. Carlisle mi fissò a sua volta e nella sua mente non c’era
che felicità. Sebbene dovesse sapere che cosa significasse il colore
dei miei occhi, nella sua gioia non c’era nulla che stonasse. Non c’è
nulla di cui debba scusarti.
Lentamente, non riuscendo a capacitarmi che potesse essere
così semplice, sollevai le braccia e ricambiai l’abbraccio della mia
famiglia.
Avvertivo la stessa immeritata accoglienza e a stento riuscivo a
credere che tutto ciò che avevo fatto – il mio cattivo comportamento,
volontario o meno che fosse – fosse già acqua passata. Ma il suo
perdono sembrava lavare via ogni ombra.
«Cosa stavamo dicendo, prima che mi comportassi in maniera
così sgarbata?». Ricordai dove io ero. A pochi centimetri dalle sue
labbra dischiuse. Estasiato dal mistero della sua mente.
Sbatté due volte le palpebre. «Sinceramente non ricordo».
Era comprensibile. Inspirai quel fuoco per poi soffocarlo dentro di
me, con il desiderio che in qualche modo mi procurasse un danno.
«Credo che stessimo parlando di ciò che ti mette paura, a parte
le ragioni più ovvie». La paura che aveva provato probabilmente
aveva allontanato l’altra ragione dalla sua mente.
Ma lei sorrise e abbassò nuovamente lo sguardo sulla mia mano.
«Ah, sì».
E non aggiunse altro.
«Allora?», chiesi.
Invece di incrociare il mio sguardo, riprese a tracciare motivi sulla
mia mano. Cercai di individuare la loro sequenza, sperando che
formassero una figura o anche delle lettere – «E-D-W-A-R-D-P-E-R-F-
A-V-O-R-E-V-A-I-V-I-A» –, ma non riuscii a trovarvi nessun significato.
Solo altri misteri. Un’altra domanda a cui non avrebbe mai risposto.
Io non meritavo risposte.
Sospirai: «Com’è facile vanificare i miei sforzi».
Sollevò lo sguardo e i suoi occhi cominciarono a sondare i miei.
Per alcuni secondi ci fissammo e io rimasi sorpreso dall’intensità di
quello sguardo. Sentivo che era in grado di leggermi dentro più di
quanto io avessi mai potuto fare con lei.
«Avevo paura», esordì, e mi resi conto che alla fine stava
rispondendo alla mia domanda, e le fui grato. «Perché... per, ecco,
ovvi motivi, non posso stare con te». Quando pronunciò la parola
stare i suoi occhi si abbassarono di nuovo. Per una volta compresi
chiaramente. Potei sentire che quando aveva detto stare non
intendeva in quel momento, sotto la luce del sole, quel pomeriggio o
per una settimana. Lo intendeva nel modo in cui avrei voluto dirglielo
io. Stare sempre. Stare per sempre. «Ma d’altro canto vorrei stare
con te molto, molto più del lecito».
Pensai a tutto quello che sarebbe successo se, alla fine, l’avessi
costretta a fare proprio ciò che aveva descritto. I sacrifici che
avrebbe dovuto sopportare, le perdite che avrebbe pianto, i penosi
rimpianti, gli sguardi pieni di dolore ma privi di lacrime.
«Sì». Era difficile essere d’accordo con lei, persino con tutto quel
dolore così fresco nella mia mente. Lo volevo così tanto. «Non c’è
dubbio, è una paura legittima, voler stare con me». Egoista che non
ero altro. «È tutto fuorché una scelta vantaggiosa».
Guardò con aria severa la mia mano, come se quella conferma
non le piacesse più di quanto non piacesse a me.
Anche solo accennare a questa prospettiva era pericoloso. Ade e
la sua melagrana. Con quanti semi tossici l’avevo già infettata?
Abbastanza affinché Alice la vedesse pallida e afflitta in mia
assenza. Eppure, mi sentivo anche io come se fossi stato corrotto.
Drogato. Come se fossi un tossico senza speranze di guarigione.
Non riuscivo a formarmi un’immagine completa nella mia mente.
Lasciarla. Come avrei potuto sopravvivere? Alice mi aveva mostrato
lo stato di angoscia di Bella in mia assenza, ma cosa avrebbe visto
di me in quella versione del futuro? Non credo che avrei potuto
essere altro che un’ombra spezzata, inutile, ritorta, vuota.
Parlai ad alta voce, ma soprattutto a me stesso. «Avrei dovuto
lasciarti perdere tempo fa. Dovrei lasciarti, adesso. Ma non so se ci
riuscirei».
Lei fissava ancora le nostre mani, ma le sue guance
avvamparono. «Non voglio che tu mi lasci», mormorò.
Voleva che restassi con lei. Provai a combattere la felicità, la resa
a cui mi consegnava. La scelta era anche mia o era solo sua, ora?
Sarei rimasto finché non mi avesse detto di andare? Le sue parole
sembravano risuonare nella brezza leggera. Non voglio che tu mi
lasci.
«Il che è precisamente la migliore ragione per andarmene».
Sicuramente più tempo saremmo stati insieme e più difficile sarebbe
stato separarci. «Ma non preoccuparti, sono una creatura
essenzialmente egoista. Desidero troppo la tua compagnia per
comportarmi come dovrei».
«Ne sono lieta». Pronunciò queste parole con semplicità, come
se fosse una cosa ovvia. Come se ogni ragazza fosse contenta che
il proprio mostro preferito fosse troppo egoista per anteporla a se
stesso.
Mi infiammai, la rabbia era rivolta solo contro di me. Controllando
con estrema attenzione i miei movimenti, staccai le mie mani dalle
sue.
«Non esserlo! Non è solo la tua compagnia che amo! Non
dimenticarlo mai. Non dimenticare mai che sono più pericoloso per
te che per chiunque altro».
Mi guardò con aria interrogativa. Non c’era affatto paura nei suoi
occhi. Chinò leggermente la testa verso sinistra.
«Non credo di avere capito cosa intendi, specialmente l’ultima
frase», disse, in tono analitico. Il che mi ricordò la conversazione
avuta a mensa, quando mi aveva chiesto della caccia. Dava
l’impressione che stesse raccogliendo dati per un rapporto, qualcosa
che per lei era di interesse vitale, ma, tuttavia, niente di più che un
saggio accademico.
Non potei far altro che sorridere alla sua espressione. La mia
rabbia svanì come era arrivata. Perché perdere tempo ad arrabbiarsi
quando c’erano così tanti sentimenti a disposizione?
«Come faccio a spiegartelo...», sospirai. Naturalmente non aveva
idea di cosa intendessi. Non ero stato tanto specifico quando si era
trattato della mia reazione al suo odore. No, non lo ero stato; non era
affatto una bella cosa e me ne vergognavo profondamente. Per non
parlare dell’orrore evidente che suscitava l’argomento. Insomma,
come facevo a spiegarglielo? «Senza metterti di nuovo paura...
vediamo».
Le sue dita si distesero, tendendosi in direzione delle mie. E io
non riuscii a resistere. Rimisi delicatamente la mano tra le sue. La
benevolenza del suo tocco, la brama con cui stringeva le dita intorno
alle mie contribuirono a calmarmi. Sapevo che stavo per dirle tutto:
avvertivo che la verità stava ribollendo dentro di me, pronta a
esplodere. Ma non avevo idea di come lei l’avrebbe presa, per
quanto la sua generosità nei miei confronti fosse sempre stata
grande. Assaporai quel momento di accoglienza da parte sua, ben
sapendo che sarebbe finito bruscamente.
Sospirai. «È straordinariamente piacevole il calore».
Lei sorrise e incantata abbassò lo sguardo sulle mie mani.
Non fu certo d’aiuto. Avrei dovuto essere spudoratamente
esplicito. Girare intorno ai fatti l’avrebbe solo confusa, e lei doveva
sapere. Presi un profondo respiro.
«Hai presente, i gusti delle persone? Ad alcune piace il gelato al
cioccolato, ad altre alla fragola?».
Puah! Un inizio così fiacco ad alta voce suonava peggio di quanto
avessi pensato. Bella annuì, ma sembrava solo un modo per
esprimere un’accettazione cortese, per il resto la sua espressione
era piatta. Forse ci sarebbe voluto qualche minuto per elaborare il
discorso.
«Scusa l’analogia con il cibo», dissi. «Non trovo una metafora
migliore».
Sorrise... ed era un sorriso allegro, di intesa; spuntò fuori la
fossetta. Quel sorriso mi fece sentire come se in questa assurda
situazione noi due fossimo insieme, non come antagonisti ma come
una coppia, lavorando fianco a fianco per trovare una soluzione. Non
riuscivo a immaginare nulla che desiderassi di più, a parte,
ovviamente, l’impossibile. E cioè poter essere umano. Sorrisi a mia
volta, ma sapevo che il mio sorriso non era né autentico né genuino
come il suo.
Le sue mani si strinsero intorno alle mie, invitandomi a
continuare.
Pronunciai le parole lentamente, cercando di ricorrere alla
migliore analogia possibile, consapevole tuttavia che avrei fallito.
«Vedi, ogni persona ha un suo odore, un’essenza particolare. Se
chiudessi un alcolizzato in una stanza piena di lattine di birra
sgasata, le berrebbe senza badarci. Se invece fosse un alcolista
pentito, se decidesse di non berle, potrebbe riuscirci facilmente. Ora,
se poniamo nella stanza un solo bicchiere di liquore invecchiato
cento anni, il cognac migliore, il più raro di tutti, che diffonde
ovunque il suo profumo... come credi che si comporterebbe il nostro
alcolizzato?».
Stavo dipingendo un’immagine troppo benevola di me stesso?
Quella di una tragica vittima piuttosto che di una vera canaglia?
Mi fissò negli occhi, e mentre cercavo di capire istintivamente la
sua reazione interiore, ebbi la sensazione che lei stesse cercando di
fare lo stesso.
Esaminai le mie parole e mi chiesi se l’analogia fosse stata
abbastanza forte.
«Forse non è la metafora migliore», riflettei. «Forse rifiutare il
cognac sarebbe facile. Forse dovrei trasformare il nostro alcolista in
un eroinomane».
Sorrise, per quanto non in maniera così aperta come prima, ma
con una piega impertinente sulle labbra increspate.
«Cioè, vorresti dirmi che sono la tua qualità preferita di eroina?».
Risi quasi per la sorpresa. Stava facendo ciò che cercavo di fare
io sempre: scherzare, alleggerire la tensione, ridimensionare; solo
che lei ci riusciva.
«Ecco, tu sei esattamente la mia qualità preferita di eroina».
Era, senza alcun dubbio, un’affermazione terribile, eppure, in un
certo senso, provai sollievo. Era proprio quello che faceva: mi dava
sostegno e comprensione. L’idea che lei potesse perdonare tutto
questo mi dava le vertigini. Come era possibile?
Ma poi tornò in modalità ricercatrice.
«Succede spesso?», chiese, inclinando la testa da un lato.
Pur avendo una capacità unica di sentire i pensieri, era difficile
fare paragoni precisi. Non sentivo veramente le sensazioni delle
persone che ascoltavo, conoscevo solo i pensieri su quei sentimenti.
Il modo in cui io interpretavo la sete non era proprio come quello
della mia famiglia. Per me la sete era un fuoco che brucia. Anche
Jasper l’aveva descritta come un bruciore, ma era più qualcosa di
acido che una fiamma, era qualcosa di chimico, di pervasivo.
Rosalie pensava che fosse come una profonda secchezza, come
una lacerante mancanza più che una forza esterna. Anche Emmett
tendeva a valutare la sua sete allo stesso modo; immaginavo che
fosse una cosa naturale, dato che Rosalie aveva per prima
influenzato la sua seconda vita e anche in maniera abbastanza
assidua.
Conoscevo quindi le volte in cui avevano avuto difficoltà a
resistere alla sete e quando non erano stati in grado di farlo, ma non
sapevo esattamente quanto potente fosse stata la tentazione.
Potevo immaginare un’ipotesi plausibile, tuttavia, sulla base del loro
livello di controllo. Non era un metodo ineccepibile, ma forse
avrebbe risposto alla sua curiosità.
Era questa la cosa più orrenda. Io non potevo guardarla negli
occhi mentre rispondevo. E così guardai il sole invece, mentre
scivolava lungo il profilo degli alberi. Ogni secondo che passava mi
faceva più male di quanto me ne avesse mai fatto prima. Avrei
voluto che non ci fosse più bisogno di trascorrere quei momenti
preziosi a discorrere di qualcosa di così sgradevole.
«Ne ho parlato con i miei fratelli... Secondo Jasper, siete tutti
uguali. È stato l’ultimo a unirsi alla nostra famiglia e l’astinenza lo fa
soffrire ancora molto. Non ha ancora imparato a distinguere tra i
diversi odori e sapori».
Ebbi un sussulto non appena mi resi conto di dove mi avrebbe
portato la mia divagazione. «Scusa», aggiunsi subito dopo.
Sbuffò appena, ma in maniera esasperata. «Non importa. Ti
prego, non preoccuparti di offendermi, di spaventarmi o di qualsiasi
altra cosa. È il tuo modo di ragionare. Riesco a capire, o perlomeno
posso provarci. Però, ti prego, spiegami tutto come puoi».
Provai a raccogliere le idee. Dovevo accettare che in virtù di un
qualche miracolo Bella fosse in grado di apprendere gli aspetti più
oscuri di me evitando di esserne terrorizzata. E inoltre di non odiarmi
per questo. Se era stata abbastanza forte da ascoltare quello che
avevo da dirle, io avrei dovuto essere abbastanza forte da parlare.
Tornai a guardare il sole, avvertendo l’improrogabile scadenza
annunciata dalla sua lenta discesa.
«Perciò», ripresi lentamente, «Jasper non ha saputo dirmi con
certezza se gli sia mai capitato di conoscere qualcuna che fosse...
attraente come tu sei per me. Il che mi fa ritenere che non l’abbia
mai conosciuta. Emmett è dei nostri da più tempo, per così dire, e ha
capito cosa intendevo. A lui è capitato due volte, una più forte
dell’altra».
Alla fine incontrai il suo sguardo. I suoi occhi erano leggermente
socchiusi, in segno di estrema concentrazione. «E a te?», domandò.
La mia fu una risposta semplice, senza bisogno di troppi
ragionamenti. «Mai».
Avrei voluto sapere che cosa significasse per lei quella parola,
perché ebbi l’impressione che ci stesse riflettendo su a lungo.
Rasserenò un po’ il viso.
«Come si è comportato Emmett?», chiese in tono colloquiale,
come se le stessi narrando un racconto tratto da un libro di fiabe,
come se il bene avesse sempre la meglio e – sebbene la vicenda a
tratti potesse farsi oscura – niente di veramente cattivo o
estremamente crudele potesse accadere.
Come avrei fatto a parlarle di quelle due vittime innocenti? Esseri
umani con speranze e paure, persone con famiglie e amici che li
amavano, esseri imperfetti che meritavano la possibilità di diventare
migliori. Un uomo e una donna che adesso avevano i loro nomi incisi
su una lapide in un tetro cimitero.
Sarebbe cambiato in meglio o in peggio, il suo pensiero, se
avesse saputo che Carlisle ci aveva chiesto di partecipare ai loro
funerali? Non solo di quelle due persone, ma di ogni vittima dei
nostri errori e delle nostre cadute. Saremmo stati solo appena meno
dannati per il fatto di aver ascoltato coloro che li conoscevano meglio
parlare di quelle vite spezzate? Per il fatto di essere stati testimoni
delle loro lacrime e grida di dolore? Guardando indietro, il sostegno
economico fornito in maniera anonima per assicurarci che non
avessero inutili sofferenze materiali sembrava una cosa volgare.
Una blanda ricompensa. Alla fine, smise di attendere una risposta da
me. «Credo di aver capito».
Aveva un’aria triste. Aveva condannato Emmett laddove
assolveva me? I suoi crimini, anche se ben più di due, erano nel
complesso meno dei miei. Mi addolorava l’idea che pensasse male
di lui. Era questo – la specificità delle due vittime – il reato che
l’avrebbe fatta tentennare?
«Anche i più forti di noi possono smarrire la strada, no?», dissi in
maniera poco convinta.
Avrebbe perdonato anche questo?
Forse no.
Trasalì, allontanandosi da me. Non più di qualche centimetro, ma
sembrò un chilometro. Increspò le labbra.
«Cosa stai chiedendo? Il mio permesso?». L’intonazione dura
della sua voce lasciava trasparire del sarcasmo.
Ecco quindi il suo limite. Pensavo in verità che fosse stata troppo
gentile e compassionevole, troppo indulgente. Ma in realtà aveva
semplicemente sottovalutato la mia depravazione. Doveva aver
pensato che, a dispetto di tutti i miei avvertimenti, io fossi sempre e
solo stato tentato. E che avevo fatto la scelta migliore, come a Port
Angeles, quando mi ero allontanato da tutto quel sangue.
Quella stessa notte le avevo detto che, nonostante i nostri sforzi
migliori, la nostra famiglia aveva commesso degli errori. Non aveva
compreso che le stavo confessando l’omicidio? Non c’era da
meravigliarsi che avesse accettato le cose così facilmente; doveva
aver pensato che io ero stato sempre forte e che avessi solo qualche
macchia sulla coscienza. Be’, non era colpa sua. Non avevo mai
ammesso esplicitamente di aver ucciso qualcuno. Non le avevo mai
dato il numero delle vittime.
La sua espressione si addolcì mentre io mi contorcevo. Cercai di
pensare a come dirle addio in modo che lei sapesse quanto l’amassi
senza che quell’amore la facesse sentire minacciata.
«Voglio dire», esordì all’improvviso, senza spigolosità nella voce.
«Non c’è proprio speranza, allora?».
In una frazione di secondo ripassai in mente il nostro ultimo
scambio e realizzai quanto avessi interpretato male la sua reazione.
Quando avevo chiesto perdono per i peccati passati doveva aver
capito che mi stessi scusando per un crimine futuro, ma imminente.
Che cosa intendevo...
«No, no!». Dovetti sforzarmi di rallentare le mie parole a una
velocità umana, tanta era l’urgenza che le ascoltasse. «Certo che c’è
speranza! Voglio dire, è ovvio, non...».
Non voglio ucciderti. Non riuscii a finire la frase. Quelle parole
furono per me un’agonia, poiché immaginai che sarebbe andata via.
La guardai intensamente negli occhi, cercando di comunicarle tutto
ciò che non riuscivo a dire. «Per noi è diverso», le promisi.
«Emmett... quelli erano sconosciuti, incontrati per caso. È accaduto
tanto tempo fa, e lui non era... allenato e attento come ora».
Esaminò accuratamente le mie parole, cogliendo anche quello
che non avevo detto.
«Perciò, se ci fossimo incrociati...», fece una pausa, cercando di
individuare la scena giusta, «in un vicolo buio, o qualcosa del
genere...».
Ah, ecco l’amara verità.
«Mi c’è voluta tutta la forza che avevo per non assalirti durante la
prima lezione, in mezzo agli altri ragazzi, e...».
Ucciderti. Distolsi lo sguardo da lei. Troppa vergogna.
Eppure, non potevo lasciare che si formasse alcun tipo di illusioni
lusinghiere su di me.
«Quando mi sei passata accanto», ammisi, «ho rischiato di
rovinare in un istante tutto ciò che Carlisle ha costruito per noi. Se
non avessi messo a tacere così a lungo la mia sete negli ultimi, be’,
troppi anni, non sarei riuscito a trattenermi».
Rivedevo in modo nitido l’aula nella mia mente. Una memoria
infallibile era una maledizione, più che un dono. Era necessario
ricordare con tanta precisione ogni secondo di quell’ora? La paura
che le aveva dilatato gli occhi, il riflesso del mio viso mostruoso in
essi? Il modo in cui il suo odore aveva distrutto ogni cosa buona in
me?
La sua espressione era lontana. Forse anche lei stava
ricordando.
«Avrai creduto che fossi posseduto dal demonio».
Non negò.
«Non riuscivo a capire», disse con una voce debole, «come
potessi odiarmi così, e perché poi, dal primo istante...».
In quel momento aveva intuito la verità. Aveva giustamente capito
che io l’avevo odiata. Almeno quanto l’avevo amata.
«Ai miei occhi eri una specie di demone, sorto dal mio inferno
privato per distruggermi. L’odore soave della tua pelle...». Fu
doloroso rivivere quell’emozione, ricordarsi di averla vista come una
preda. «Quel primo giorno ho temuto di perdere definitivamente la
testa. In quella singola ora ho pensato a cento maniere diverse di
portarti via dall’aula, di isolarti. E mi sono opposto a tutte, temendo le
conseguenze che avrebbero colpito la mia famiglia. Dovevo
scappare, andarmene prima di pronunciare le parole che ti
avrebbero obbligata a seguirmi... Mi avresti seguito, te lo
garantisco».
Cosa doveva essere per lei venirlo a sapere? Come poteva
mettere insieme due elementi così opposti? L’io aspirante assassino
e l’io aspirante amante? Che cosa pensava della mia fiducia, della
mia certezza che avrebbe seguito l’assassino?
Il suo mento si sollevò appena. «Senza dubbio», ammise.
Le nostre mani erano ancora amorevolmente intrecciate. La sua
era quasi immobile come la mia, eccezion fatta per il sangue che vi
pulsava. Mi domandai se provasse la stessa paura che provavo io:
la paura che potessero separarsi e che lei non avrebbe trovato il
coraggio e il perdono necessari per riunirle di nuovo.
Era più facile confessare senza guardarla negli occhi.
«E poi», proseguii, «proprio mentre cercavo inutilmente di
cambiare l’orario settimanale per poterti evitare, rieccoti. In quella
stanzetta calda il tuo profumo mi faceva impazzire, in quel momento
sono stato lì lì per prenderti. C’era soltanto quell’altra fragile umana,
me ne sarei sbarazzato senza difficoltà».
Sentii un brivido passare dalle sue braccia alle mie mani. A ogni
nuovo tentativo di spiegare, mi ritrovavo a usare parole sempre più
angosciose. Erano le parole giuste, le parole più veritiere, ma
suonavano così sgradevoli.
Non c’era modo di fermarle, comunque, e lei rimase seduta in
silenzio e quasi immobile mentre sgorgavano dalle mie labbra: le
confessioni si mescolavano sempre di più alle spiegazioni. Le
raccontai del fallito tentativo di scappare e dell’arroganza che mi
aveva fatto tornare indietro; di come quell’arroganza avesse
plasmato la nostra interazione e di come la frustrazione per i suoi
pensieri a me inaccessibili mi avesse tormentato. Le spiegai come il
suo odore non avesse mai smesso di essere un misto di tortura e
tentazione.
La mia famiglia si intrufolava nel racconto e mi chiesi se Bella
fosse in grado di vedere come loro avessero influenzato le mie
azioni a ogni svolta importante. Le raccontai di come l’averla salvata
dal furgone di Tyler avesse modificato la mia prospettiva,
costringendomi a capire che lei per me era ben più di un semplice
rischio o di un fastidio.
«E in ospedale?», chiese, quando smisi di parlare. Esaminò la
mia faccia con un senso di compassione, con un desiderio
impaziente, ma libero da pregiudizi, di conoscere il prosieguo della
storia. Non mi sconvolgeva più la sua benevolenza, sebbene per me
sarebbe stata sempre una specie di miracolo.
Le spiegai i miei dubbi, non tanto sul fatto di averla salvata,
quanto piuttosto per aver esposto me stesso e la mia famiglia,
perché capisse il motivo della durezza che le avevo mostrato quel
giorno nel corridoio vuoto. Ciò, naturalmente, aveva generato
reazioni diverse all’interno della mia famiglia, e mi domandai che
cosa pensasse del fatto che alcuni di loro avessero cercato di farla
tacere in maniera definitiva. Non tremava più dai brividi né tradiva
alcuna paura, ora. Che strano doveva essere per lei apprendere
l’intera storia, l’oscurità che ora si intesseva alla luce che aveva
conosciuto.
Le raccontai di come avessi cercato di mostrarmi completamente
indifferente a lei dopo quanto accaduto, per proteggerla da tutto, e di
quanto fosse stato fallimentare.
Mi chiesi, e non era la prima volta, dove sarei stato adesso se
quel giorno nel parcheggio della scuola non avessi agito
istintivamente. Se – come le avevo descritto in modo grottesco –
fossi rimasto fermo e avessi lasciato che morisse per poi rivelare
magari la mia natura agli uomini nel modo più mostruoso possibile.
La mia famiglia sarebbe dovuta fuggire da Forks immediatamente.
Avevo immaginato quale sarebbe stata la loro reazione se si fosse
verificata quella versione degli eventi... più che l’opposto. Rosalie e
Jasper non si sarebbero arrabbiati. Sarebbero stati un po’
compiaciuti, forse, ma avrebbero capito. Carlisle avrebbe
profondamente disapprovato la cosa, ma alla fine mi avrebbe
perdonato. Alice avrebbe pianto l’amica che non avrebbe mai
incontrato? Solo Esme ed Emmett avrebbero reagito in una maniera
assai vicina alle loro prime reazioni: Esme preoccupandosi per il mio
benessere; Emmett con un’alzata di spalle.
Sapevo che avrei avuto ancora qualche lieve sentore del disastro
che mi era capitato. Anche così presto, dopo solo poche parole
scambiate, la mia attrazione per lei era già forte. Ma sarei stato in
grado di cogliere la vastità della tragedia? Penso di no. Mi avrebbe
fatto certamente male, e avrei portato avanti la mia vuota pseudovita
senza mai comprendere quanto davvero avessi perso. Senza mai
conoscere la vera felicità.
Sapevo che sarebbe stato più facile perderla. E come non avrei
mai conosciuto la gioia, così non avrei sofferto per la profondità del
dolore di cui adesso conoscevo l’esistenza.
Contemplavo il suo viso dolce e gentile, a me così caro ora,
sempre di più il centro del mondo. L’unica cosa che avrei voluto
guardare per tutto il tempo a venire.
Anche lei mi fissò, con la stessa meraviglia negli occhi.
«E la cosa più assurda», dissi, concludendo la mia lunga
confessione, «è che mi sarei curato meno di rovinarci tutti il primo
giorno, piuttosto che farti del male qui, ora, senza testimoni, senza
nessuno in grado di fermarmi».
I suoi occhi erano spalancati, ma non c’era paura o sorpresa.
Solo attrazione.
«Perché?», chiese.
Non ci sarebbe stata una spiegazione migliore delle altre, ma tra
le tante parole che avrei odiato dirle ce ne erano alcune che avrei
voluto pronunciare.
«Isabella... Bella». Solo dire il suo nome per me fu un piacere.
Sembrava una specie di dichiarazione. Questo era il nome a cui
appartenevo.
Sciolsi delicatamente dalla sua presa la mano e le carezzai i
capelli morbidi, riscaldati dal sole. La gioia del semplice tocco, la
consapevolezza che in questo modo ero libero di raggiungerla: ne
ero sopraffatto. Le afferrai di nuovo le mani. «Arriverei a odiare me
stesso, se dovessi farti del male. Non hai idea di che tormento sia
stato». Non sopportavo di distogliere lo sguardo dalla sua
espressione comprensiva, ma sarebbe stato troppo duro guardare
quell’altra faccia, quella della visione di Alice, nello stesso
fotogramma. «Il pensiero di te immobile, bianca, fredda... di non
vederti più avvampare di rossore, di non poter più cogliere la scintilla
nel tuo sguardo quando capisci che ti sto prendendo in giro... non
sarei in grado di sopportarlo».
Quelle ultime parole non riuscirono minimamente a trasmettere
l’angustia che celavano. Ma in quel momento avevo superato la
parte peggiore e potevo dirle quelle cose che avrei voluto dirle da
molto tempo. Incontrai di nuovo il suo sguardo, felice per questa
confessione.
«Ora sei la cosa più importante per me. La cosa più importante di
tutta la mia vita».
Proprio come le parole precedenti non erano abbastanza, allo
stesso modo queste non erano che deboli echi dei sentimenti che
cercavano di descrivere. Speravo che potesse vedere nei miei occhi
quanto fossero inadeguate. Era sempre più brava a leggere i miei
pensieri di quanto io a interpretare i suoi.
Resse il mio sguardo entusiastico per qualche momento, e il lieve
rossore cominciò a serpeggiarle lungo le guance. Ma poi fece
cadere gli occhi sulle nostre mani. Ero elettrizzato dalla bellezza
della sua carnagione, di cui notavo solo la grazia e nient’altro.
«Sai già cosa provo, ovviamente», disse, con la voce poco più
alta di un sussurro. «Sono qui, il che, in due parole, significa che
preferirei morire, piuttosto che rinunciare a te».
Non avrei pensato che sarebbe stato possibile provare tanta
euforia e allo stesso tempo rimorso. Lei mi voleva... che immensa
gioia. Lei stava mettendo a rischio la sua vita per me... inaccettabile.
Si accigliò, abbassando nuovamente lo sguardo.
«Sono un’idiota».
Risi a quest’ultima affermazione. Da un certo punto di vista aveva
ragione. Qualunque specie che avesse corso tra le braccia del suo
predatore in questo modo non sarebbe sopravvissuta a lungo. Era
una buona cosa che fosse una persona fuori dal comune.
«Certo che lo sei», le dissi gentilmente, in tono scherzoso. E non
avrei mai smesso di esserle grato per questo.
Bella sollevò lo sguardo, aveva un sorrisetto malizioso, e
scoppiammo a ridere insieme. Fu un tale sollievo mettersi a ridere
dopo le mie estenuanti rivelazioni, che la mia risata allegra si
trasformò in gioia pura. Ero sicuro che lei provasse la stessa cosa. In
quel momento così perfetto noi eravamo completamente in sintonia.
Per quanto impossibile, eravamo l’uno per l’altra. In questo
quadretto tutto era sbagliato: un assassino e tra le sue braccia la
vittima innocente, i quali, in perfetta armonia, si crogiolavano uno
davanti all’altra. Era come se in qualche modo fossimo ascesi a un
mondo migliore, in cui simili cose impossibili potevano esistere.
Mi ricordai improvvisamente di un quadro che avevo visto diversi
anni prima.
Ogni volta che perlustravamo le campagne in cerca di una
possibile città in cui stabilirci, Carlisle faceva delle deviazioni per
infilarsi in vecchie chiese parrocchiali. Sembrava incapace di
resistere. Quelle semplici strutture di legno, scure per mancanza di
adeguate fonti di luce, le assi del pavimento e gli schienali così
consunti da essere lisci e l’odore di strati e strati di tocchi umani gli
procuravano una sorta di calma contemplativa. Tornava ad
affacciarsi il pensiero di suo padre e della sua infanzia, ma la
conclusione violenta in quei momenti sembrava lontana. Ricordava
solo le cose piacevoli.
Durante una di queste deviazioni ci imbattemmo in un luogo di
culto quacchero a una cinquantina di chilometri a nord di
Philadelphia. Era un piccolo edificio, non più grande di una fattoria,
con l’esterno in pietra e arredi molto spartani all’interno. Altrettanto
semplici erano i pavimenti nodosi, le panche squadrate, e fui quasi
sorpreso nel vedere sulla parete opposta un oggetto decorativo.
Anche Carlisle ne fu molto incuriosito, così lo esaminammo insieme.
Era un dipinto abbastanza piccolo, non più di quaranta centimetri
per lato. Immaginai che fosse più antico della chiesa che l’ospitava.
Non si trattava chiaramente di un artista esperto, aveva uno stile
naïf. Eppure, quell’immagine semplice e grezza aveva qualcosa che
riusciva a trasmettere un’emozione. C’era una calda vulnerabilità
negli animali dipinti, una specie di dolorosa tenerezza. Fui
stranamente commosso da quell’universo gentile che l’artista aveva
raffigurato.
Un mondo migliore, pensò Carlisle.
Il tipo di mondo in cui avrebbe potuto esistere quel particolare
momento, pensavo io, avvertendo nuovamente quella tenerezza
dolorosa.
«Così, il leone si innamorò dell’agnello...», mormorai.
Per un secondo i suoi occhi restarono aperti e accessibili,
sennonché arrossì di nuovo e abbassò lo sguardo. Trattenne il
respiro un istante e riapparve il suo sorrisetto malizioso.
«Che agnello stupido», disse in tono scherzoso, stando al gioco.
«Che leone pazzo e masochista», ribattei.
Non ero però sicuro che quella fosse l’affermazione corretta.
Sotto un certo aspetto sì, mi stavo causando di proposito un dolore
non necessario e ne traevo piacere, il che rappresentava la
definizione da manuale di masochismo. Ma il dolore era il prezzo... e
la ricompensa era ben maggiore del dolore. Davvero, il prezzo era
trascurabile. Lo avrei pagato dieci volte di più.
«Perché...?», mormorò, esitando.
Le sorrisi, desideroso di conoscere ciò che stava pensando.
«Sì?».
Sulla sua fronte cominciò a prendere forma un accenno di ruga.
«Dimmi perché prima sei fuggito in un lampo da me».
Le sue parole ebbero su di me un effetto fisico, andandosi a
piazzare sulla bocca dello stomaco. Non riuscivo a capire perché
volesse rievocare un momento così detestabile.
«Lo sai, il perché».
Scosse la testa e le sopracciglia si abbassarono. «No, voglio dire,
cos’ho fatto di preciso?». Si era accalorata e il suo tono era
diventato serio. «È meglio che stia in guardia, per imparare cosa non
posso fare. Questo, per esempio», mi accarezzò con la punta delle
dita il dorso della mano fino al polso, lasciando dietro di sé una scia
di fuoco indolore, «non crea problemi».
Come se se ne fosse assunta interamente la responsabilità.
«Non hai fatto niente di male, Bella. È stata colpa mia».
Sollevò il mento. Il che avrebbe significato testardaggine se i suoi
occhi non fossero stati così supplichevoli.
«Ma se posso, voglio aiutarti, voglio renderti la vita meno
difficile».
Il mio primo istinto fu quello di insistere sul fatto che fosse un mio
problema e non una sua preoccupazione. Eppure, sapevo che lei
stava solo cercando di comprendermi, con tutte le mie strane e
mostruose anomalie. Sarebbe stata più felice se mi fossi limitato a
rispondere alle sue domande nella maniera più chiara possibile.
Come spiegare però la sete di sangue? Questa cosa così
ignobile.
«Be’... è stata una questione di vicinanza. Gli esseri umani sono
per la maggior parte naturalmente timidi con noi, la nostra alterità li
allontana... Non mi aspettavo che ti avvicinassi così tanto. E poi, il
profumo del tuo collo...».
Mi interruppi, augurandomi di non averla disgustata.
La sua bocca era contratta, come se stesse combattendo per
trattenere un sorriso.
«D’accordo. Niente collo scoperto». Fece il gesto di piegare il
collo verso la clavicola destra.
La sua intenzione era chiaramente quella di alleviare la mia
ansia, e funzionò. Risi.
«No, davvero», la rassicurai, «più che altro è stata la sorpresa».
Sollevai la mano e la posai dolcemente sul suo collo, sentendo
l’incredibile morbidezza della sua pelle, e il calore. Con il pollice le
sfiorai la mascella. L’impulso elettrico che solo lei poteva risvegliare
cominciò a ronzare lungo tutto il mio corpo.
«Vedi?», sussurrai. «Nessun problema».
Anche il suo battito cominciò ad accelerare. Potevo avvertirlo
sotto la mia mano e sentire il suo cuore galoppare. Il rossore invase
la sua faccia dal mento all’attaccatura dei capelli.
Il suono e la vista della sua reazione, invece di risvegliare
nuovamente la mia sete, sembravano solo aver accelerato la corsa
dei miei impulsi più umani. Non ricordavo di essermi mai sentito così
vivo; dubitavo di esserlo mai stato, anche quando ero vivo.
«Il rossore sulle tue guance è adorabile», mormorai.
Estrassi delicatamente la mano dalle sue, e mi mossi in modo da
poterle stringerle il viso tra i palmi. Le sue pupille si dilatarono e il
battito accelerò.
Desideravo baciarla. Le sue morbide e sinuose labbra, sempre
un po’ leggermente separate, mi incantavano e mi trassero a lei.
Tuttavia, sebbene queste nuove emozioni umane sembrassero
quanto mai forti, non mi fidavo completamente di me stesso. Sapevo
di aver bisogno di un’ulteriore prova. Credevo di aver superato il
nodo di Alice, ma sentivo che mancava ancora qualcosa. Compresi
allora cosa avrei dovuto fare di più.
Una cosa che avevo sempre evitato, che avevo sempre impedito
alla mia mente di esplorare.
«Resta ferma», le raccomandai. Lei quasi smise di respirare.
Mi avvicinai a lei lentamente, attento a scorgere nella sua
espressione ogni minimo segnale che in ciò che facevo potesse
esserci qualcosa che la disturbasse. Non notai nulla.
Alla fine, abbandonai la testa in avanti, girandola in modo da
appoggiare la guancia sulla base della sua gola. Il tepore di quella
vita a sangue caldo pulsava attraverso la sua fragile pelle nella
fredda pietra del mio corpo. Il ritmo del suo battito al mio tocco ebbe
un sobbalzo. Mantenni il respiro regolare come una macchina,
inspirando ed espirando in maniera controllata. Attesi, valutando
ogni minuscolo cambiamento all’interno del mio corpo. Forse attesi
più del necessario, ma era molto piacevole starsene lì.
Una volta sicuro che non avrei avuto qualche brutta sorpresa,
decisi di procedere.
Con cautela mi risistemai, con movimenti lenti e costanti, in modo
che nulla potesse sorprenderla o spaventarla. Mentre le mie mani si
spostavano dalla mascella a certi punti lungo le sue spalle, lei ebbe
un tremito, e per un momento persi il controllo del mio respiro. Mi
ripresi e ritrovai la calma, e così spostai la testa direttamente
all’altezza del suo cuore.
Il suo suono, già forte prima, ora sembrava che mi circondasse in
stereofonia. La terra sotto i miei piedi non sembrava affatto ferma,
come se tremasse leggermente insieme al battito del suo cuore.
Involontariamente mi sfuggì un sospiro. «Ah».
Avrei voluto restare così per sempre, immerso nel suono del suo
cuore e riscaldato dalla sua pelle. Era giunto il momento per il test
finale, e volevo superarlo.
In primo luogo, respirando il suo odore, feci in modo di lasciare
libera la mia immaginazione. Invece di bloccare i pensieri,
interromperli e ricacciarli via dalla mia mente, permisi loro di
spaziare liberamente. Non corsero liberamente, non in quel
momento. Tuttavia, mi costrinsi ad andare laddove avevo sempre
evitato.
Immaginai di assaporarla... di prosciugarla.
Avevo abbastanza esperienza per sapere che tipo di sollievo
avrei provato se avessi completamente soddisfatto il mio più bestiale
bisogno. Il suo sangue esercitava un’attrazione molto più forte
rispetto a qualsiasi altro essere umano mai incontrato prima: potevo
solo immaginare quanto più intensi sarebbero stati il sollievo e il
piacere.
Il suo sangue avrebbe lenito la mia gola dolorante, cancellando
mesi di bruciore. Sarebbe stato come se non avessi mai bruciato per
lei, e il dolore si sarebbe totalmente estinto.
La dolcezza del suo sangue sulla mia lingua era più difficile da
immaginare. Sapevo di non aver mai provato un sangue così
assolutamente corrispondente al mio desiderio, ma ero sicuro che
avrebbe soddisfatto ogni brama avessi mai conosciuto.
Per la prima volta in tre quarti di secolo – l’arco di tempo in cui
ero sopravvissuto senza sangue umano – sarei stato completamente
sazio. Il mio corpo sarebbe stato forte e integro. E sarebbero
trascorse diverse settimane prima di provare nuovamente la
sensazione di sete.
Facendo scorrere fino alla fine la serie degli eventi fui sorpreso,
sebbene avessi lasciato andare liberamente quelle fantasie
represse, da quanto poco mi attraessero in quel momento. Persino
reprimendo l’inevitabile conseguenza – il ritorno della sete, il mondo
vuoto senza di lei – non sentivo alcun desiderio di agire
assecondando quelle fantasie.
In quel momento ebbi modo di vedere con estrema chiarezza che
non esisteva un mostro separato da me e che non ne era mai
esistito uno. Ansioso di staccare la mia mente dai miei desideri, io
avevo – come d’abitudine – personificato quella parte di me così
detestabile per distanziarla dalla parte di me che consideravo me.
Proprio come avevo creato l’arpia per avere un nemico da
combattere. Era un meccanismo di difesa, e neanche così efficace.
Era meglio immaginarmi come un tutto, buono e cattivo allo stesso
tempo, e affrontare la realtà per quello che era.
Continuai a respirare in maniera regolare, il morso del suo odore
faceva da gradito contrappunto alle altre travolgenti sensazioni
fisiche che mi invadevano mentre la tenevo vicina.
Pensai di aver compreso un po’ meglio cosa mi era successo
prima, durante quella violenta reazione che aveva terrorizzato
entrambi. Mi ero talmente convinto che avrei potuto esserne
sopraffatto, che quando ne fossi stato davvero sopraffatto sarebbe
stato quasi come una profezia autoavverantesi. La mia ansia, le
visioni angoscianti con cui mi ero ossessionato, oltre ai mesi di dubbi
che avevano minato la mia fiducia in me stesso, tutto ciò aveva
contribuito a indebolire la determinazione che invece ora sapevo
essere assolutamente all’altezza di proteggere Bella.
Persino la visione da incubo di Alice fu improvvisamente meno
vivida, i colori più sbiaditi. La sua capacità di turbarmi si stava
attenuando, e questo perché – era palese ormai – quel futuro era
completamente impossibile. Bella e io avremmo lasciato quel posto
mano nella mano, e la mia vita sarebbe finalmente cominciata.
Stavamo attraversando il nodo.
Non avevo dubbi che anche Alice l’avesse visto e che se ne
fosse rallegrata.
Sebbene la mia attuale posizione fosse assolutamente
confortevole, ero tuttavia impaziente di vivere la mia vita.
Mi allontanai da lei, lasciando nel frattempo che le mani
scivolassero lungo le sue braccia mentre ricadevano sui miei fianchi,
colmo di felicità per essere tornato a vedere il suo viso.
Mi guardò con aria incuriosita, ignara degli eventi importanti che
avevo vissuto.
«Non sarà più così difficile», promisi, anche se realizzai che le
mie parole probabilmente non avevano granché senso per lei.
«È stata dura?», chiese, mostrando comprensione.
La sua preoccupazione nei miei riguardi mi scaldò fino al midollo.
«Non terribile come immaginavo. E per te?».
Mi lanciò uno sguardo incredulo. «No, niente affatto terribile... per
me».
Lo fece sembrare così semplice, essere abbracciata da un
vampiro. Ma doveva essere servito più coraggio di quello che
lasciava trasparire. «Hai capito cosa intendo».
Sul suo viso apparve un grande, caldo sorriso un po’ sbilenco che
evidenziò la fossetta. Era evidente che, se avesse dovuto impiegare
tutte le sue forze per sopportare la mia vicinanza, non l’avrebbe mai
ammesso.
Pazzesco. Era l’unica parola per descrivere quello stato di euforia
che stavo vivendo. Non era una parola a cui pensavo spesso in
relazione a me stesso. Ogni pensiero che avevo in testa pretendeva
di fuoriuscire attraverso le labbra. E volevo sentire ogni pensiero di
lei. Questo, se non altro, non era nulla di nuovo. Tutto il resto invece
sì. Perché era cambiato tutto.
Presi la sua mano – senza prima averci pensato a lungo – perché
semplicemente avevo voglia di sentire la sua pelle contro la mia. Mi
sentii libero per la prima volta di essere spontaneo. Questi nuovi
slanci erano del tutto estranei ai precedenti.
«Vieni qui», le avvicinai la mano alla mia guancia. «Senti?».
La sua reazione a quel gesto istintivo da parte mia superò ogni
aspettativa. Le sue dita cominciarono a tremare contro i miei zigomi.
Gli occhi si allargarono e il sorriso lentamente scomparve. Il battito e
il respiro accelerarono.
Prima che potessi pentirmi di ciò che avevo fatto, lei si avvicinò e
sussurrò: «Resta lì».
Fui scosso da un brivido.
Feci come mi aveva detto. Mi pietrificai come nessun essere
umano sarebbe stato capace di fare. Non capivo cosa avesse in
mente – sembrava improbabile che volesse familiarizzare con la mia
assenza di sistema circolatorio – ma ero ansioso di scoprirlo. Chiusi
gli occhi. Non sapevo se lo stessi facendo per non farla sentire in
imbarazzo o perché in quel momento non volevo distrazioni.
La sua mano cominciò a muoversi molto lentamente. Mi
accarezzò prima la guancia. Poi le sue dita mi sfiorarono le palpebre
e quindi l’incavo arcuato sotto di loro. Dove la sua pelle incontrava la
mia, lasciava una scia di calore formicolante. Seguì il profilo del mio
naso e poi, con un tremore più accentuato, quello delle labbra.
La mia posa statuaria si sciolse. Aprii leggermente la bocca di
modo che potesse sentire il mio respiro.
Con un dito mi accarezzò di nuovo il labbro inferiore, e poi scostò
la mano. Sentii l’aria più fresca tra noi mentre si faceva di nuovo
indietro.
Aprii gli occhi e incontrai il suo sguardo. Aveva ancora del
rossore sul viso e il cuore le batteva forte. Sentii l’eco del suo ritmo
riverberare nel mio corpo, sebbene non vi fosse sangue che vi
scorresse.
Volevo... così tante cose. Cose di cui non avevo mai sentito il
bisogno nella mia centenaria esistenza, prima di incontrarla. Cose
che sicuramente non avevo voluto prima di essere immortale. E
avvertii che alcune di queste cose, che avevo sempre ritenuto
impossibili, potevano essere, in effetti, più che possibili. Ma pur
essendo del tutto tranquillo con lei per quel che riguardava la sete,
mi sentivo nondimeno ancora troppo forte. Troppo più forte di lei.
Ogni parte del mio corpo era dura come l’acciaio. Non dovevo mai
dimenticarmi della sua fragilità. Ci sarebbe voluto tempo per
imparare esattamente come muoversi quando le ero vicino.
Mi fissò e restò in attesa, chiedendosi cosa pensassi di quelle
sue carezze.
«Vorrei... vorrei sentissi la complessità...», farfugliai cercando di
spiegarmi. «La confusione... che provo. Vorrei che potessi
comprendere».
Un ricciolo dei suoi capelli, artigliato dalla brezza, danzava al
sole, rosseggiando sotto la luce. Allungai la mano per sentire la
trama di quel groviglio svolazzante tra le dita. Ma poi, poiché era
così vicino al viso, non potei resistere alla tentazione di
accarezzarglielo. Sotto la luce del sole, le sue guance sembravano
velluto.
Spinse la testa verso la mia mano, ma continuò a guardarmi negli
occhi.
«Spiegamelo», sospirò.
Non sapevo da dove cominciare.
«Non credo che ci riuscirei. Te l’ho detto, da una parte sento fame
di te, anzi sete», sorrisi come per scusarmi, «da creatura deplorabile
quale sono. E questo lo puoi capire, in un certo senso. Anche se, dal
momento che non sei dipendente da nessuna sostanza illegale,
probabilmente non te ne rendi conto fino in fondo. Ma...».
Le mie dita sembravano cercare autonomamente le sue labbra.
Gliele sfiorai delicatamente. Erano più morbide di quello che
pensavo. Anche più calde.
«Ci sono altri tipi di fame», continuai. «E quelli non riesco a
interpretarli, mi sono del tutto estranei».
Fece di nuovo quello sguardo leggermente scettico. «Forse
riesco a capire questo più di quanto ti aspetti».
«Non sono abituato a sentirmi tanto umano», ammisi. «Funziona
sempre così?».
La corrente selvaggia che soffiava attraverso il mio sistema, la
forza magnetica che mi spingeva avanti, la sensazione che non
avrebbe potuto esserci vicinanza che ci tenesse abbastanza vicini.
«Per me?», si fermò, riflettendo. «No, mai. Mai prima di oggi».
Strinsi le sue mani tra le mie.
«Non so come fare a starti accanto in questo modo», ammisi.
«Non sono sicuro di esserne capace».
Dove porre il limite per tenerla al sicuro? Come impedire al mio
desiderio più egoistico di spostare in maniera imprudente quel
limite?
Si avvicinò a me. Restai fermo e attento mentre poggiava il viso
sul mio petto: non fui mai tanto grato ad Alice per l’influenza che
aveva esercitato sul mio guardaroba come in quel momento.
Chiuse gli occhi. Sospirò, contenta. «Così va bene».
Era un invito a cui non potevo resistere. Sapevo che avrei potuto
riuscirci abbastanza bene. Con estrema cura avvolsi le braccia
intorno al suo corpo, stringendola in un abbraccio per la prima volta.
Tenni premute le labbra contro la sua testa, respirando il suo caldo
odore. Le diedi un bacio, sebbene furtivo; non ricambiato.
Ridacchiò. «Sei molto più bravo di quanto tu voglia credere».
«Possiedo ancora istinti umani», mormorai nei suoi capelli.
«Sono sepolti da qualche parte, ma ci sono».
Mentre la cullavo, con le labbra strette ai suoi capelli, lo scorrere
del tempo non significava più nulla. Il suo cuore ora languiva, lei
respirava piano perfino contro la mia pelle. Notai quel cambiamento
solo quando l’ombra degli alberi cadde su di noi. Senza il riflesso
della mia pelle il prato sembrò improvvisamente più scuro, come se
fosse sera e non pomeriggio.
Bella emise un profondo sospiro, non di contentezza, ma di
desolazione.
«Devi andare».
«Pensavo non fossi capace di leggermi nel pensiero».
Sorrisi e poi le strinsi le labbra sulla testa per darle un ultimo
bacio nascosto. «Comincio a vederci qualcosa».
Restammo lì ancora per molto tempo, sebbene sembrassero
trascorsi solo pochi secondi. Avrebbe avuto dei bisogni umani che
forse stava ignorando. Pensai al lungo e lento viaggio per arrivare al
prato e mi venne un’idea.
Mi allontanai – restio a porre fine a quell’abbraccio qualunque
cosa fosse successa – e le strinsi delicatamente le spalle.
«Posso mostrarti una cosa?», chiesi.
«Cosa?», domandò lei, con una punta di sospetto nella voce. Mi
accorsi che il mio tono era ben più che entusiastico.
«Il modo in cui io mi sposto nella foresta», dissi.
Increspò le labbra, dubbiosa, e le apparve la ruga tra le
sopracciglia, più profonda addirittura di prima, di quando l’avevo
quasi aggredita. La cosa mi sorprese, di solito era più curiosa e
coraggiosa.
«Non preoccuparti», la rassicurai. «Non c’è pericolo e torneremo
al pick-up molto più velocemente».
Sorrisi per incoraggiarla.
Lei valutò la cosa per un po’, poi disse a bassa voce: «Ti
trasformi in un pipistrello?».
Non riuscii a trattenermi dal ridere. E non volevo in realtà. Non
ricordavo di essermi mai sentito così libero di essere me stesso. Be’,
non era propriamente vero. Mi sentivo sempre libero e aperto
quando ero da solo con la mia famiglia. Ma con loro non mi ero mai
sentito così: entusiasta, selvaggio, come se ogni cellula del mio
corpo fosse viva in un modo nuovo ed elettrizzante. Stare con Bella
amplificava tutte le sensazioni.
«Come se non l’avessi già sentita!», la punzecchiai, non appena
riuscii a parlare di nuovo.
Si aprì in un sorriso. «Già, immagino che te lo dicano tutti».
Mi alzai in piedi in un istante, tendendole la mano. Lei osservò la
scena con aria dubbiosa.
«E dai, fifona», la incitai, «salta in spalla».
Mi fissò per un momento, esitante. Non capivo se fosse
diffidente, e non sapevo esattamente come avvicinarmi. Per noi la
vicinanza fisica era qualcosa di nuovo, e c’era ancora molta
timidezza.
Immaginando che fosse questo il problema, cercai di renderle la
cosa più semplice.
La sollevai da terra e l’aiutai ad aggrapparsi al mio corpo, come
se la portassi a cavalluccio. Il suo battito accelerò e fermò il respiro,
ma una volta in posizione le braccia e le gambe si strinsero intorno a
me. Mi sentii circondato dal calore del suo corpo.
«Sono un po’ più pesante di un normale zaino». Sembrava
preoccupata... che non fossi in grado di reggere il suo peso.
«Figuriamoci», sbuffai.
Mi colpì quanto fosse facile non tanto portare il suo peso
insignificante, quanto piuttosto averla letteralmente avvolta intorno a
me. La mia sete era così completamente oscurata dalla felicità che a
malapena ne avvertivo consapevolmente il dolore.
Le presi una mano, che si reggeva al mio collo, e la premetti
contro il naso. Inalai più forte che potevo. Sì, ecco il dolore. Reale,
ma non imponente. Cos’era una scintilla paragonata a tutta questa
luce?
«Sempre più facile», dissi inspirando.
Dopo una breve rincorsa decollai, scegliendo il percorso più
regolare per ritornare al punto di partenza. Mi sarebbe costato
qualche secondo in più prendere la via più lunga, ma saremmo stati
comunque al suo pick-up nel giro di qualche minuto anziché di ore. E
sarebbe stato meglio rispetto a sballottarla lungo un percorso più
verticale.
Un’esperienza nuova, gioiosa. Avevo sempre amato correre. Per
quasi cento anni era stata la mia più pura sensazione fisica di
felicità. Ma ora, potendo condividere questo con lei, senza distanza
fisica o psichica tra noi, comprendevo quanto maggior piacere
potesse esserci nella corsa di quanto avessi mai immaginato. Mi
domandai se questa cosa l’entusiasmasse come entusiasmava me.
Fui improvvisamente colto da un dubbio. Mi ero affrettato a
portarla a casa immaginando che questo fosse il suo desiderio.
Tuttavia... non avremmo dovuto concludere quell’incontro
memorabile con un degno finale, qualcosa che suggellasse la nostra
nuova intesa? Una benedizione. Ma ero stato troppo frettoloso, e me
ne ero reso conto solo ora che eravamo in movimento.
Non era troppo tardi. Il mio sistema si era di nuovo elettrizzato
mentre pensavo a... un vero bacio. Un tempo credevo che fosse
impossibile. Un tempo avevo pianto perché questa impossibilità
feriva sia me che lei. Ora ritenevo che tutto questo fosse possibile...
e vicino. L’elettricità rimbalzò tra le pareti del mio stomaco, e mi
chiesi perché gli esseri umani avessero pensato di chiamare questa
sensazione farfalle nello stomaco.
Rallentai fino a fermarmi a pochi passi da dove aveva
parcheggiato.
«Elettrizzante, eh?», chiesi, ansioso della sua reazione.
Non rispose, e continuò a restare aggrappata attorno alla mia vita
e al collo. Trascorsero alcuni secondi in un silenzio calmo. C’era
qualcosa che non andava.
«Bella?».
Sussultò mentre respirava, e capii che cercava di trattenerlo.
Avrei dovuto accorgermene.
«Credo di dovermi sdraiare», disse con un filo di voce.
«Oh». Avevo ancora un disperato bisogno di fare pratica con gli
esseri umani. Non avevo nemmeno immaginato la possibilità della
cinetosi. «Scusa».
Aspettai che lasciasse la presa, ma non riusciva a rilassare i
muscoli.
«Ho bisogno di aiuto, credo», sussurrò.
Con movimenti lenti e delicati liberai prima le sue gambe, poi le
braccia, quindi la sollevai in modo da tenerla come se la cullassi.
Il colorito della sua carnagione all’inizio mi allarmò, ma avevo già
visto quel verde pallido. L’avevo già tenuta tra le braccia, quel
giorno, eppure ora era una cosa completamente diversa.
Mi inginocchiai e la adagiai su una morbida macchia di felci.
«Come va?».
«Credo di avere un po’ di nausea».
«Tieni la testa tra le ginocchia», suggerii.
Obbedì automaticamente, come se ormai fosse una risposta
consueta.
Mi sedetti accanto a lei. Sentendo il suo respiro regolare mi resi
conto che ero più ansioso di quanto la situazione non meritasse.
Sapevo che non era nulla di grave, solo un po’ di nausea, eppure...
vederla così sofferente e pallida mi disturbava più del normale.
Qualche istante dopo provò a sollevare la testa. Era ancora
pallida, ma non così verde. Una leggera patina di sudore le ricopriva
la fronte.
«Forse non è stata una grande idea», biascicai, sentendomi un
cretino.
Accennò un sorriso. «No, è stato parecchio interessante», mentì.
«Ma dai!», sbuffai in maniera stizzita. «Sei pallida come un
fantasma... anzi, sei pallida come me!».
Respirò lentamente. «Forse avrei dovuto chiudere gli occhi». A
queste parole le sue palpebre seguirono l’esempio.
«La prossima volta ricordatelo». Il suo colorito andò migliorando e
la mia tensione si allentò via via che le guance le ridiventavano rosa.
«Ma quale prossima volta?!», borbottò in maniera teatrale.
Si finse arrabbiata e la cosa mi fece ridere.
«Spaccone», bofonchiò.
Sporse il labbro inferiore, rotondo e pieno. Immaginai cosa
sarebbe successo se fossimo stati ancora più vicini.
Mi piegai sulle ginocchia e fui di fronte a lei. Mi sentivo nervoso,
irrequieto, impaziente e insicuro. Il desiderio di esserle vicino mi
ricordò la sete alla quale solitamente dovevo resistere. E anche
questo era difficile, impossibile da ignorare.
Sentivo il suo alito caldo sulla faccia. Mi feci più vicino.
«Apri gli occhi, Bella».
Obbedì muovendosi lentamente. Per un istante mi guardò da
dietro le ciglia folte, per poi sollevare il mento di modo che le nostre
facce fossero allineate.
«Mentre correvo, pensavo...», la mia voce calò all’improvviso;
non fu tra gli esordi più romantici.
Socchiuse gli occhi. «A non centrare gli alberi, spero».
Ridacchiai mentre lei provava a trattenere il sorriso. «Sciocca.
Correre per me è un gesto automatico, non è qualcosa a cui devo
stare attento».
«Spaccone», ripeté, ma con più enfasi questa volta.
Eravamo andati fuori traccia. E mi sorprese che ciò fosse perfino
possibile, tanto erano vicine le nostre facce. Sorrisi e ripresi il filo del
discorso.
«Dicevo... Pensavo a una cosa che vorrei provare». Le presi
delicatamente il viso tra le mani, lasciandole spazio per sottrarsi se
non avesse gradito.
Bloccò il respiro e inclinò automaticamente la testa più vicino alla
mia.
Impiegai una frazione di secondo per ricalibrare e verificare ogni
meccanismo del mio corpo e per assicurarmi completamente che
nulla potesse cogliermi di sorpresa. La mia sete era perfettamente
sotto controllo, sublimata al fondo dei miei bisogni fisici. Regolai la
pressione delle mani, delle braccia, il modo in cui inclinare il busto
verso di lei, in maniera tale che il mio tocco sulla sua pelle fosse più
leggero di una brezza. Sebbene fossi sicuro che si trattava di una
precauzione non necessaria, trattenni il respiro. Ma dopotutto la
prudenza non era mai troppa.
Le sue palpebre si chiusero.
Azzerai la distanza già minima che ci separava e premetti
dolcemente le mie labbra sulle sue.
Per quanto pensassi di essere pronto, non ero del tutto preparato
a quel tipo di combustione.
Che strana alchimia era mai quella, che un tocco delle labbra
potesse essere tanto più intenso di un tocco delle dita? Non aveva
alcun senso che il semplice contatto di quella zona specifica della
pelle fosse così tanto più potente di qualsiasi altra cosa avessi mai
sperimentato. Sembrava che un nuovo sole stesse esplodendo nel
punto esatto in cui le nostre bocche si erano incontrate e che il mio
intero corpo fosse riempito di questa luce folgorante fino a
frantumarsi in mille pezzi.
Ebbi solo una frazione di secondo per affrontare la potenza di
quel bacio prima che l’alchimia colpisse Bella.
Ansimò, le labbra leggermente aperte contro le mie, la febbre del
suo respiro che bruciava la mia pelle. Mi strinse le braccia al collo, le
dita intrecciate tra i capelli. Fece leva per schiacciare ancora di più le
sue labbra sulle mie. Le sue labbra divennero più calde di prima,
come se fossero state irrorate da sangue fresco. Si aprirono ancora,
un invito...
Un invito che non sarebbe stato prudente per me accettare.
Con cautela, esercitando la minore forza possibile, allontanai il
suo viso dal mio, tenendo però ferma la punta delle dita perché
rimanesse a distanza. Al di là di questo piccolo cambiamento, rimasi
immobile e cercai se non di ignorare la tentazione, almeno di
allontanarmi da essa. Notai il ritorno spiacevole di una reazione
predatoria – un travaso di veleno nella bocca, una specie di stretta
profonda – ma erano risposte superficiali. Per quanto forse fosse
scorretto affermare che la razionalità in quel momento avesse tutto
sotto controllo, alla fin fine non era una passione smodata ciò che
rendeva falsa questa affermazione. In realtà io ero preda di una
passione molto più gradevole. E nondimeno, la sua natura non
aveva eliminato la necessità di moderarla.
Bella fece un’espressione a metà tra il confuso e il dispiaciuto.
«Ops», disse.
Non potei fare a meno di pensare che cosa le sue azioni
innocenti avrebbero potuto scatenare solo qualche ora prima.
«“Ops” è troppo poco», concessi.
Non era a conoscenza dei progressi che avevo fatto quel giorno,
ma lei aveva sempre agito come se avessi il perfetto controllo di me
stesso, anche quando non era così. Fu un sollievo sentirmi
finalmente come se avessi meritato un po’ di quella fiducia.
Provò a farsi indietro, ma era come se le mie mani fossero
agganciate al suo viso.
«Devo...?».
«No», la rassicurai, «è sopportabile. Per favore, aspetta un
attimo».
Volevo essere sicuro che non mi sfuggisse nulla. I miei muscoli si
erano rilassati e l’afflusso di veleno era scomparso. Lo stimolo a
stringerla tra le braccia e riprendere l’alchimia del bacio era stato
l’impulso più difficile da respingere, ma feci ricorso a decenni di
pratica di autocontrollo per fare la scelta giusta.
«Ecco», dissi una volta completamente calmo.
Stava combattendo per trattenere un altro sorriso.
«Sopportabile?», chiese.
Risi. «Sono più forte di quanto pensassi». Non avrei mai creduto
di poter avere tutta quella capacità di controllo. Ma era stato un
progresso davvero rapido. «È una bella notizia».
«Mi piacerebbe poter pensare altrettanto di me».
«E dai, dopotutto sei soltanto un essere umano».
Sollevò gli occhi al cielo in risposta alla mia leggera presa in giro.
«Tante grazie».
La luce aveva pervaso il mio corpo mentre ci baciavamo. Provavo
una tale felicità che non sapevo se sarei riuscito a trattenerla. La
gioia travolgente e il generale senso di disorientamento mi fecero
preoccupare di non essere stato sufficientemente responsabile.
Avrei dovuto riaccompagnarla a casa. E poi, non era così difficile
pensare di mettere fine all’utopia di quel pomeriggio, perché
saremmo comunque ritornati insieme.
Mi alzai in piedi e le offrii la mano. Questa volta l’afferrò subito e
l’aiutai a sollevarsi. Barcollò un po’. Sembrava ancora poco stabile.
«Ti senti ancora indebolita dalla corsa?», chiesi. «O è stato il mio
bacio da maestro?». Scoppiai a ridere.
Mi strinse il polso con la mano per non cadere. «Non so», disse
scherzando. «Mi sento ancora imbambolata. L’uno e l’altro, penso».
Si fece vicinissima. Sembrava intenzionale e non una vertigine.
«Forse è meglio che guidi io».
Improvvisamente sembrò essersi completamente ristabilita.
Addrizzò la schiena. «Sei pazzo?».
Se avesse guidato lei, avrebbe dovuto tenere entrambe le mani
sul volante, e io non avrei potuto fare nulla per distrarla. Se avessi
guidato io, tuttavia, avrei avuto molto più margine di manovra.
«Sono un pilota migliore di te nella tua forma più smagliante. Hai i
riflessi molto più lenti dei miei». Sorrisi, in modo che lei capisse che
stavo scherzando. Più o meno.
Rispose senza argomentare. «Certo, ma non credo che i miei
nervi o il mio pick-up possano farcela a sostenerti».
Cercai di mettere in atto quella sorta di incantamento di cui mi
aveva già accusato. Ma non ero ancora sicuro di che cosa
intendesse esattamente. «E dai, Bella, un po’ di fiducia».
Non funzionò, forse perché stava guardando in basso. Tastò la
tasca dei jeans, poi estrasse la chiave del mezzo e la strinse forte
nella mano. Alzò nuovamente lo sguardo e scosse la testa. «No»,
disse. «Nemmeno per sogno».
Si avviò al pick-up, aggirandomi. Non sapevo se fosse ancora per
le vertigini o solo perché si muoveva goffamente, ma un passo dopo
barcollò e l’afferrai giusto in tempo prima che cadesse. La strinsi a
me.
«Bella», sospirai. Dai suoi occhi era scomparsa tutta la giocosità,
e si avvicinò, inclinando il viso verso il mio. Baciarla immediatamente
mi sembrò un’idea fantastica e terribile allo stesso tempo. Finii per
mantenermi cauto.
«Fino a questo momento il mio sforzo personale nel tentativo di
salvarti la vita è stato enorme», le ricordai in tono scherzoso. «Non
permetterò certo che tu ti metta al volante nel momento in cui non
riesci nemmeno a camminare in linea retta. Oltretutto, gli amici non
lasciano guidare chi ha bevuto, lo sai», conclusi, citando lo slogan
dell’Ad Council. Era un riferimento datato, per lei; doveva avere solo
tre anni quando era stata lanciata la campagna pubblicitaria.
«Pensi che sia ubriaca?».
Feci un mezzo sorrisetto. «Sei intossicata dalla mia presenza».
Sospirò, arrendendosi. «Non ti posso dare torto».
Tenendo il pugno sollevato lasciò cadere la chiave della
macchina nella mia mano.
«Vacci piano», mi avvertì. «Il pick-up è un pensionato».
«Molto ragionevole».
Fece una smorfia. «E tu, non sei nemmeno scalfito dalla mia
presenza?».
Scalfito? Mi aveva completamente trasformato. A stento mi
riconoscevo.
Per la prima volta in cento anni ero grato di essere quello che
ero. Ogni aspetto del mio essere un vampiro – tutto tranne il pericolo
che rappresentavo per lei – era improvvisamente diventato
accettabile, perché era ciò che mi aveva permesso di vivere
abbastanza per incontrare Bella.
Tutti quei decenni non sarebbero stati così difficili se avessi
saputo prima che cosa mi aspettava, che la mia esistenza stava
avanzando verso quanto di meglio potessi immaginare. Gli anni non
erano trascorsi ad ammazzare il tempo, come avevo pensato; erano
stati anni di progresso. Perfezionare, preparare, padroneggiare me
stesso per ottenere questo.
Non ero ancora sicuro di questa nuova versione di me; l’estasi
violenta che pervadeva ogni mia cellula sembrava insostenibile a
lungo andare. Eppure, non sarei mai voluto ritornare al vecchio me.
Quell’Edward sembrava incompiuto, incompleto. Come se ne
mancasse una metà.
Per lui sarebbe stato impossibile fare quello che avevo fatto io: mi
chinai e premetti le labbra sull’angolo della sua mascella, appena
sopra la sua arteria pulsante. Lasciai che le mie labbra la sfiorassero
dolcemente fino al mento e poi la baciai lungo la via che riportava
all’orecchio, sentendo il velluto cedevole della sua pelle calda sotto
la debole pressione delle mie labbra. Rabbrividì tra le mie braccia,
ricordandomi che quello che per me era un calore senza precedenti,
per lei era invece un inverno gelido. Lasciai la presa.
«E in ogni caso», le sussurrai all’orecchio, «i miei riflessi sono più
pronti dei tuoi».
18. RAGIONE E ISTINTO
Attraversai la porta.
Si frantumò. Pezzi di muro schizzarono via.
Il ruggito che mi esplose dal profondo fu del tutto istintivo. Il
segugio sollevò di scatto la testa e si tuffò per aggredire la sagoma
color rosso bruno che giaceva sul pavimento sotto di lui. Vidi una
mano pallida protesa nel vano tentativo di difendersi.
L’ostacolo della porta non aveva frenato il mio slancio. Mi fiondai
a mezz’aria sul segugio, trascinandolo lontano dalla sua preda e
scaraventandolo sul pavimento con tanta forza da squarciare le assi
di legno.
Mi rotolai e lo spinsi sopra di me, poi lo calciai al centro della
sala. Dove lo aspettava Emmett.
Per l’intera frazione di secondo in cui avevo lottato con il segugio
ero stato a malapena consapevole che fosse una creatura vivente.
Era piuttosto un oggetto che mi intralciava. Sapevo che in un certo
punto del prossimo futuro sarei stato invidioso di Emmett e Jasper.
Avrei voluto avere la possibilità di ghermire, lacerare e recidere. Ma
adesso non aveva più senso. Mi girai.
Come avevo immaginato, Bella era accartocciata contro il muro,
circondata da schegge di vetro. Rosso tutt’intorno.
Tutto il terrore e il dolore che mi avevano oppresso fin da quando
avevo avvertito per la prima volta lo spavento di Alice all’aeroporto
mi travolsero come un’ondata inarrestabile.
I suoi occhi erano chiusi. La mano giaceva esangue accanto a lei.
I battiti erano deboli, incerti.
Decisi di non muovermi. Ero lì, proprio accanto a lei,
inginocchiato nel suo sangue. Il fuoco mi bruciava in petto e nella
testa, ma non riuscivo a separare i due tipi di dolore. Avevo paura di
toccarla. Si stava frantumando in così tanti pezzi. Potevo solo
peggiorare le cose.
Sentii la mia voce che continuava a ripetere sempre le stesse
parole. Il suo nome. No. Per favore. Ancora e ancora, come un disco
incantato. Ma non riuscivo a controllare il suono.
Mi sentii urlare il nome di Carlisle, ma lui era già lì, a tamponare il
sangue dall’altra parte del suo corpo.
Le parole che mi uscivano dalla bocca non erano più parole, ma
solo suoni deformati, conati. Singhiozzi.
Le mani di Carlisle passavano dal cuoio capelluto alla caviglia, su
e giù, così rapidamente che si confondevano. Premette con
entrambe le mani sulla sua testa, per vedere se ci fossero fratture.
Con due dita fece pressione in un punto dietro l’orecchio destro. Non
riuscii a vedere cosa stesse facendo, i capelli di Bella erano pieni di
sangue.
Un debole grido le attraversò le labbra. La sua faccia si contrasse
dal dolore.
«Bella», supplicai.
La voce calma di Carlisle era l’antitesi del mio aspro grido. «Ha
perso sangue, ma la ferita alla testa non è profonda. Attento alla
gamba, è rotta».
Un ululato di pura rabbia lacerò la sala, e per un’istante pensai
che Emmett e Jasper fossero in pericolo. Mi misi in contatto con la
loro mente – stavano già raccogliendo i pezzi del corpo sparsi in giro
– e compresi che quel suono proveniva da me.
«Anche qualche costola, credo», aggiunse Carlisle, ancora
incredibilmente calmo.
I suoi pensieri erano impassibili, e molto pragmatici. Sapeva che
lo avrei ascoltato. Ma era anche incoraggiato da ciò che vedeva.
Eravamo in tempo. La situazione non era critica.
Notai però tutti i se nelle sue valutazioni. Se fosse riuscito a
tenere le ferite sotto controllo. Se una costola non avesse perforato il
polmone. Se i danni interni fossero stati inferiori a quello che
sembrava. Se, se, se. In tutti quegli anni trascorsi nel tentativo di
tenere in vita i corpi umani aveva accumulato una grande quantità di
conoscenze su ciò che poteva andare storto.
I miei jeans erano intrisi del sangue di Bella. Ce l’avevo
dappertutto sulle braccia. Ne ero completamente imbrattato.
Il dolore fece gemere Bella.
«Bella, andrà tutto bene». Le mie parole erano un’implorazione,
una supplica. «Mi senti, Bella? Ti amo».
Un altro gemito, o forse no... stava cercando di parlare.
«Edward», ansimò.
«Sì, sono qui».
«Fa male», sussurrò.
«Lo so, Bella, lo so».
Emerse un sentimento di invidia, come un pugno che mi colpiva
in pieno petto. Desideravo così tanto fare a pezzi il segugio,
strapparlo lentamente in lunghi brandelli. Tutto quel dolore e quel
sangue, e io non avrei più potuto fargliela pagare. Non bastava che
stesse morendo, che stesse bruciando. Non sarebbe mai stato
abbastanza.
«Non puoi farci niente?», ringhiai rivolto a Carlisle.
«La valigetta, per favore», disse freddamente ad Alice.
Alice emise un lieve suono soffocato.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal viso ferito e pieno di
sangue di Bella. Sotto lo strato di sangue rappreso, la sua pelle era
pallida come non l’avevo mai vista. Le sue palpebre a stento
sbattevano.
Ma mi misi in contatto con la mente di Alice e vidi quali
complicazioni ci sarebbero state.
Dovevo ancora davvero rendermi conto del lago di sangue in cui
ero inginocchiato. Dentro di me, da qualche parte, sapevo che il mio
corpo probabilmente stava reagendo a questa cosa. Ma, di
qualunque reazione si trattasse, era qualcosa che si trovava così al
di sotto del livello del dolore, che non era ancora emersa.
Ad Alice piaceva Bella, ma non era fisicamente preparata a tutto
questo. Era lì, esitante, i denti serrati, cercando di ingoiare veleno.
Anche Emmett e Jasper stavano lottando. Avevano gettato fuori
dalla sala i pezzi del corpo del segugio, sperai con tutte le mie forze
che quei brandelli fossero ancora in grado di sentire dolore. Emmett
teneva d’occhio Jasper per controllarne ogni minima variazione.
Emmett aveva un controllo ammirevole. La sua preoccupazione per
Bella era ben più forte di quella che il suo stato d’animo spensierato
in genere gli consentiva di avere.
«Trattieni il respiro, Alice», disse Carlisle. «Sarà meglio».
Lei annuì, smise di respirare e saettò per prendere la valigetta,
lasciandola accanto alla gamba di Carlisle. Si era mossa con così
tanta attenzione che non aveva nemmeno le scarpe sporche di
sangue. Alla fine, si rifugiò verso la porta d’emergenza sfondata,
bisognosa di respirare aria fresca.
Dalla porta aperta penetrarono suoni di sirene in lontananza, in
cerca dell’auto che aveva sfrecciato per le strade in maniera così
sconsiderata. Non credevo che avrebbero trovato l’auto rubata
parcheggiata in un punto poco visibile di una tranquilla strada
laterale, ma se anche ci fossero riusciti non mi interessava granché.
«Alice?», ansimò Bella.
«È qui», balbettai. «Sapeva dove ti avremmo trovata».
Bella gemette. «Mi fa male la mano».
Mi sorprese che fosse così specifica. Aveva così tante ferite.
«Lo so, Bella. Carlisle ti darà qualcosa per calmare il dolore».
Carlisle stava suturando i tagli sulla testa in maniera così rapida
che il movimento delle sue mani aveva ricominciato a confondersi.
Non c’era emorragia che gli sfuggisse. Era capace di riparare i vasi
sanguigni più grandi con piccoli punti di sutura in un modo che un
qualunque altro chirurgo non sarebbe stato in grado di ripetere
nemmeno in condizioni ideali e con l’ausilio di strumentazioni
meccaniche. Avrei voluto che si prendesse una pausa e che le
desse degli antidolorifici, ma sotto la sua apparente calma avvertivo
il timore che alla testa di Bella ci fossero più danni di quanti
pensasse. Aveva perso tantissimo sangue...
Con uno scatto improvviso, Bella si contorse sollevando il busto.
Carlisle le fermò la testa con la mano sinistra per bloccarla con la
sua presa d’acciaio. Bella spalancò gli occhi – erano iniettati di
sangue – e strillò con più forza di quanta avrei mai immaginato le
fosse rimasta.
Pensai che non ce l’avrebbe fatta.
«La mano sta andando a fuoco».
«Bella?», dissi in lacrime. Stupidamente, per un istante pensai
solo al fuoco che infuriava nel mio corpo. Le stavo facendo male?
I suoi occhi tremolavano, accecati dal sangue e dai capelli
impregnati di sangue.
«Il fuoco!», urlò, inarcando la schiena nonostante il dolore alle
costole. «Qualcuno spenga il fuoco!».
Il volume della sua agonia mi agghiacciò. Sapevo di aver capito
quello che stava dicendo, ma il panico non mi permetteva di
comprenderne il significato. Mi sentii come se qualcuno mi stesse
costringendo a non guardare la sua faccia e mi forzasse a
concentrare lo sguardo sulla sua mano segnata da alcuni fori color
rosso scuro, che stava spingendo lontano da sé e le cui dita tese si
contorcevano dal dolore.
Un piccolo pezzo di carne era stato reciso alla base del palmo
della mano. Niente in confronto alle altre ferite. Il sangue si era
subito rappreso...
Conoscevo quello che stavo vedendo, ma non riuscivo a trovare
le parole giuste.
Tutto quello che riuscii a fare fu dire a fatica: «Carlisle! La
mano!».
Carlisle sollevò malvolentieri lo sguardo da ciò che stava facendo
e per la prima volta le sue mani si fermarono. Ma poi anche lui
rimase sconcertato da ciò che vide.
La sua voce suonò vuota. «L’ha morsa».
Quelle parole: l’ha morsa. Il segugio aveva morso Bella. Il fuoco
era il veleno.
Rividi al rallentatore la scena nella mia mente. Avevo sfondato la
porta. Il segugio si era avventato. La mano di Bella protesa in avanti.
Avevo sbattuto contro di lui, spingendolo via di lì. Ma i suoi denti
erano scoperti, il collo teso...
Ero stato un millesimo di secondo troppo lento.
Le mani di Carlisle erano ancora immobili. Aggiustala, volevo
gridargli, ma sapevo, come lui, che sarebbe stato tutto inutile ora.
Ogni cosa che dentro di lei era rotta si sarebbe ricomposta da sola.
Ogni osso rotto, ogni squarcio, ogni piccola ferita aperta sotto la sua
pelle, tutto sarebbe tornato integro.
Il suo cuore si sarebbe fermato per non battere più.
Bella urlò e si contorse dal dolore.
Edward.
Alice era ritornata, con una nuova risolutezza che ora le
permetteva di inginocchiarsi accanto a Carlisle col sangue che le
impregnava le scarpe. Spostò delicatamente i capelli dagli occhi
insanguinati di Bella.
Non puoi lasciare che succeda in questo modo, stava pensando
rivolta a Carlisle.
Anche Carlisle stava ricordando, in quel momento. I segni dei
denti sul palmo della mano e la lunga, prolungata sofferenza della
sua trasformazione.
Poi Carlisle pensò a me.
L’immagine di un’ustione che correva lungo la mia mano, il mio
braccio. Anch’io ricordai.
«Edward, devi farlo», insistette Alice.
Avrei potuto renderlo più semplice e veloce, a Bella. Non avrebbe
dovuto soffrire così come era capitato a me.
Avrebbe sofferto comunque. Un dolore inimmaginabile. Il fuoco
l’avrebbe torturata per giorni. Solo... non così tanti giorni.
E alla fine...
«No!», strillai, ma sapevo che era inutile.
La visione di Alice era così forte ora da sembrare inevitabile. Era
storia, non futuro. Bella, bianca come una pietra, i suoi occhi che
brillavano cento volte più luminosi della scena da macello che
avevamo intorno.
Si intrufolarono dei ricordi miei, sospingendo una nuova
immagine che si giustappose alla visione di Alice: Rosalie. Il
risentimento, il rimpianto. Sempre a dolersi per ciò che aveva perso.
Mai rassegnata per ciò che le era stato fatto. Non aveva avuto scelta
e non ci aveva perdonato.
Avrei potuto sopportare Bella che mi fissava per i successivi mille
anni con lo stesso rimpianto?
Sì!, disse la parte più egoista di me. Meglio che vederla
scomparire e scivolare via da me.
Ma era davvero meglio? Se avesse potuto comprendere ogni
conseguenza e ogni perdita, lei avrebbe scelto così?
E io, ne comprendevo appieno il prezzo? Ero consapevole di tutto
ciò che avevo dato via in cambio della mia immortalità? Il segugio
aveva appena incontrato lo stesso muro nero del nulla a cui ero
destinato anche io un giorno? O ci sarebbero state le fiamme eterne
per entrambi?
«Alice», gemette Bella, chiudendo gli occhi. Aveva capito che
Alice era tornata o stava solo rinunciando al mio aiuto? Non stavo
facendo altro se non crollare.
Bella riprese a urlare, un lungo, interminabile ululato di dolore.
Edward!, gridò Alice. Di fronte alla mia esitazione, la sua
impazienza si stava trasformando in frenesia, ma non si fidava
abbastanza di se stessa per agire.
Alice vide che stavo affondando. Vide i miei futuri trasformarsi in
mille diversi tipi di disperazione. Al limite estremo, mi vide perfino
fare una cosa inimmaginabile che non avevo ancora preso in
considerazione in maniera cosciente. Una cosa su cui ero sicuro di
essere troppo debole. Finché non lo vidi nella sua mente e non mi
resi conto che quella versione esisteva anche nella mia testa.
Ora potevo vederlo.
Uccidere Bella.
Era la cosa giusta? Per non farla più soffrire? Per darle, nella sua
totale e perfetta innocenza, la possibilità di un destino diverso da
quello inevitabile che io sapevo di dover affrontare? Un diverso tipo
di vita nell’aldilà rispetto a quella fredda e assetata di sangue per cui
adesso stava bruciando.
Il dolore era troppo forte e non potevo fidarmi dei miei pensieri,
che erano fuori controllo perché Bella stava urlando.
Rivolsi il mio sguardo e la mia mente a Carlisle, sperando che
potesse rassicurarmi, o assolvermi, ma incontrai qualcosa di
completamente diverso.
Nella sua mente c’era una vipera del deserto avvolta a spirale, le
cui squame color sabbia scorrevano l’una sull’altra emettendo un
suono secco e stridulo.
Quell’immagine fu così inattesa che mi raggelai, stordito.
«Potrebbe esserci ancora una possibilità», disse Carlisle.
C’era appena un barlume di speranza nella sua mente.
Carlisle vedeva che cosa la sofferenza di Bella mi stava
provocando; anche lui temeva cosa avrebbe procurato, sia a lei che
a me, essere costretta a quella vita. Eppure, un barlume di
speranza...
«Quale?», lo implorai. Qual era la possibilità?
Carlisle ricominciò a ricucire le ferite sulla sua testa. Credeva così
tanto in quell’idea che ritenne necessario terminare prima il lavoro.
«Prova a succhiarle il veleno», disse, di nuovo calmo. «Il taglio è
piuttosto pulito».
Ogni muscolo del mio corpo si contrasse.
«Funzionerà?», chiese Alice. Osservò il futuro per rispondere alla
sua stessa domanda. Non era chiaro. Non era stata presa alcuna
decisione. La mia decisione non era stata presa.
«Non lo so. Ma dobbiamo sbrigarci», disse Carlisle senza
sollevare gli occhi da Bella.
Sapevo come si sarebbe diffuso il veleno. Aveva sentito solo
pochi momenti prima il divampare del bruciore. Il veleno si sarebbe
arrampicato lentamente lungo il polso, nel braccio. Poi sempre più
veloce. Non c’era tempo.
Ma!, volevo gridare. Ma io sono un vampiro!
Avrei assaggiato il sangue e mi avrebbe preso la frenesia. Tanto
più se era il suo. Solo il bruciore che in quel momento stava
sentendo lei superava quello che infiammava la mia gola, il mio
petto. Se avessi ceduto anche solo un po’ a quel bisogno...
«Carlisle, io...», la mia voce venne meno per la vergogna. Aveva
minimamente capito che cosa mi stava chiedendo? «Non so se ce la
faccio».
Le dita di Carlisle muovevano l’ago da sutura a una velocità tale
che divennero invisibili. Ora da dietro si era spostato al lato sinistro
della testa. C’erano così tante ferite.
La sua voce era piatta ma dura. «La decisione spetta a te».
Vita o morte, o una pseudovita. Ma anche la vita era in mio
potere? Non avrei mai avuto una simile forza.
«Non posso aiutarti», si giustificò. «Se tu succhierai il sangue
dalla mano, io dovrò fare in modo che smetta di sanguinare qui,
dalla testa».
Bella si dibatteva, investita da una nuova ondata di dolore che la
scuoteva tutta, facendole contorcere la gamba.
«Edward!», urlò.
I suoi occhi pieni di sangue si spalancarono e questa volta si
concentrarono completamente su di me, in maniera penetrante.
Imploravano, supplicavano.
Bella stava bruciando.
«Alice», scattò Carlisle, «portami qualcosa per tenerle la gamba
ferma».
Alice schizzò via dal mio campo visivo; potevo sentirla strappare
le assi dal pavimento e ridurle nelle dimensioni utili al caso.
«Edward», la voce di Carlisle aveva perso il controllo. Affiorò il
dolore. Dolore per me, per Bella. «Devi farlo subito, o sarà troppo
tardi».
Lo sguardo di Bella era implorante e alla disperata ricerca di un
sollievo.
Stava bruciando e io ero la persona peggiore per aiutarla.
Assolutamente e letteralmente la persona peggiore in tutto l’universo
per questo compito.
Ma ero l’unico lì per portarlo a termine.
Lo devi fare, mi imposi. Non ci sono altre strade. Non puoi fallire.
Le afferrai la mano che si contorceva, distendendole le dita e
tenendole ferme. Trattenni il respiro e mi gettai con la bocca sulla
mano.
La pelle ai bordi della ferita era già più fredda rispetto al resto
della mano. Si stava trasformando. Si stava irrigidendo.
Chiusi le labbra intorno al piccolo squarcio, chiusi gli occhi, e
cominciai.
C’era solo qualche rivolo di sangue, il veleno aveva già
incominciato a guarire la ferita. Solo qualche goccia da cui partire.
Quel tanto per bagnarmi la lingua.
Fu come una deflagrazione. Una bomba che esplodeva dentro il
mio corpo e la mia mente. La prima volta che avevo sentito l’odore di
Bella avevo avuto la sensazione che mi disgregasse. Ma quello in
confronto era solo un taglietto superficiale. Questa era una
decapitazione. Il mio cervello era stato reciso dal corpo.
Ma non era dolore. Il sangue di Bella era l’opposto del dolore.
Cancellava ogni bruciore che avevo patito. Ed era molto di più di una
semplice assenza di dolore. Era uno stato di appagamento, di
beatitudine. Mi sentivo soffocato da una strana specie di gioia: una
gioia tutta corporea. Ero guarito e vivo, ogni terminazione nervosa
pulsava di gioia.
Mentre succhiavo dalla ferita, gli effetti del veleno si invertivano. Il
sangue cominciava a fluire stabilmente, riversandosi sulla mia lingua
e nella gola. Il sapore pungente e gelido del veleno era un debole
contrappunto. Non feci nulla per interferire con il potere del suo
sangue.
Rapimento, estasi.
Il mio corpo sapeva che c’era ancora molto da prendere, e per di
più a portata di mano. Di più, fremeva il mio corpo, di più.
Ma il mio corpo non poteva muoversi. L’avevo obbligato a restare
immobile e così fu. Riuscivo a stento a capire perché, ma mi rifiutavo
di lasciare la presa.
Dovevo pensare. Dovevo smettere di sentire e pensare.
C’era altro al di là della beatitudine.
Dolore, c’era un dolore che il piacere non poteva raggiungere. Un
dolore che era sia fuori che dentro la mia mente.
Il dolore era acuto e dissonante. Procedeva in un crescendo.
Bella stava urlando.
Cercai mentalmente qualcosa a cui aggrapparmi, e trovai un
salvagente che mi aspettava.
Sì, Edward. Tu puoi farlo. Vedi? La stai salvando.
Alice mi mostrò migliaia di scorci di futuro. Bella che sorrideva,
Bella che rideva, Bella che mi tendeva la mano, Bella che allargava
le braccia verso di me, Bella che mi fissava rapita, Bella che
camminava vicino a me per andare a scuola, Bella seduta accanto a
me nel pick-up, Bella che dormiva tra le mie braccia, Bella che mi
premeva la mano sulla guancia, Bella che mi afferrava la faccia e
poggiava delicatamente le sue labbra sulle mie. Migliaia di scene
diverse in cui Bella era forte e sana, viva e felice, e con me.
La beatitudine, la gioia fisica, si attenuò.
Il sapore del veleno si fece più forte. Era ancora troppo presto.
Ti mostrerò quando, promise Alice.
Ma sentivo che mi stavo spingendo oltre il limite dove potevo
fermarmi. Mi stavo perdendo. La stavo per uccidere, non c’era
istante in cui il mio corpo non vibrasse di gioia.
Le urla di Bella si chetarono, allentando così la mia connessione
a un dolore che avevo necessità di sentire.
La stavo per uccidere.
«Edward», disse con un filo di voce.
«È qui, Bella», disse Alice per tranquillizzarla.
Proprio qui per ucciderti.
Non avevo quasi più coscienza di nulla. I suoni si smorzarono, la
luce dietro le palpebre sembrava affievolita, non c’era più nulla, solo
sangue. Anche i pensieri di Alice, che quasi urlavano, erano muti e
lontani.
Adesso, mi disse Alice. Ora, Edward.
Attraverso il quasi totale rapimento, potei sentirne il sapore. Il
ghiaccio pungente era sparito. Un nuovo sapore chimico prese il suo
posto e una parte di me realizzò che Carlisle aveva agito
velocemente.
Fermati, Edward! Adesso!
Ma Alice si accorse che mi ero perso. La sentii chiedere
freneticamente se poteva strapparmi da Bella o se quel gesto
avrebbe potuto ferire Bella ancora di più.
«Resta, Edward», sospirò Bella, adesso tranquilla. «Resta con
me...».
La sua voce calma scivolò nella mia testa, in qualche modo era
più forte del panico di Alice, ma più debole del caos che avevo
dentro e intorno a me. Sentire nella sua voce quella fiducia fu per me
un punto di svolta, come se avesse riconnesso il mio cervello al mio
corpo. Mi fece ridiventare una sola cosa.
Così, lasciai semplicemente cadere la sua mano dalle mie labbra.
Sollevai la testa e guardai la sua faccia. Era ancora macchiata di
sangue, ancora cinerea, gli occhi chiusi, ma era tranquilla ora. Il
dolore si era placato.
«Sì, resto», le promisi, con le labbra macchiate di sangue.
La sua bocca si contrasse in un debole sorriso.
«È uscito tutto?», chiese Carlisle. Temeva di essere stato troppo
veloce con l’antidolorifico, che avrebbe coperto il bruciore del veleno.
«Il sangue mi sembra pulito». Il suono della mia voce era aspro,
ruvido. «Sentivo il sapore della morfina».
«Bella?», chiese Carlisle con voce bassa e chiara.
«Mmm», rispose.
«Il fuoco è spento?».
«Sì», disse in un soffio, un po’ più chiaramente ora. «Grazie,
Edward».
«Ti amo».
Sospirò, gli occhi ancora chiusi. «Lo so».
La risatina che gorgogliò dal mio petto mi sorprese. Avevo il suo
sangue sulla lingua. Probabilmente stava tingendo i bordi delle mie
iridi anche in quel momento. Stava impregnando i miei vestiti e mi
macchiava la pelle. Ma lei sapeva ancora farmi ridere.
«Bella?», chiese di nuovo Carlisle.
«Cosa c’è?», il tono della sua voce era scontroso ora. Sembrava
mezza addormentata e impaziente di trovare l’altra metà.
«Dov’è tua madre?».
Sbatté un istante gli occhi, e poi disse in un respiro: «In Florida.
Mi ha imbrogliata, Edward. Ha guardato le nostre cassette».
Sebbene fosse quasi incosciente per il trauma subito e per la
morfina, era chiaro che fosse profondamente offesa da questa
violazione della sua privacy. Sorrisi.
«Alice». Bella lottò per tenere gli occhi aperti, ma poi desistette, e
le sue parole, in quelle condizioni, avevano assunto un carattere di
urgenza. «Alice, il video... Ti conosceva, Alice, sapeva da dove
vieni... Sento puzza di benzina».
Emmett e Jasper erano tornati con la benzina di cui avevamo
bisogno. Le sirene stavano ancora gemendo in lontananza, ma in
un’altra direzione. Non ci avrebbero trovati.
Con un’espressione cupa, Alice guizzò lungo il pavimento
devastato verso le apparecchiature vicino alla porta. Afferrò il piccolo
registratore portatile che stava ancora girando. Lo spense.
Nell’istante in cui decise di recuperare la telecamera, centinaia di
frammenti di futuro le balenarono in mente: immagini di quella
stanza, di Bella, del segugio, del sangue. Era tutto quello che
avrebbe visto se avesse riavvolto il nastro, troppo veloce e
disordinato perché qualcuno di noi potesse assimilare granché.
I suoi occhi scattarono verso i miei.
Ci occuperemo di questo dopo. Abbiamo moltissime cose da fare
adesso per dare un senso a questo incubo.
Si capiva che stava intenzionalmente allontanando i suoi pensieri
dalla telecamera mentre cominciava a esaminare le faccende
piuttosto complicate che avevamo da risolvere, così non insistetti.
Dopo.
«Possiamo portarla via», disse Carlisle. L’odore di benzina che
Emmett e Jasper stavano gettando sulle pareti stava diventando
asfissiante.
«No», mormorò Bella, «voglio dormire».
«Puoi dormire, cara», le sussurrai in un orecchio. «Ti porto io».
La sua gamba era legata stretta all’asse del pavimento che aveva
procurato Alice, e Carlisle aveva trovato il tempo per fasciarle le
costole. Muovendomi con la massima attenzione, la sollevai dal
pavimento ricoperto di sangue, cercando di sostenere ogni parte del
suo corpo.
«Adesso dormi, Bella», le sussurrai.
27. INCOMBENZE
Questo libro è stato la mia nemesi per così tanti anni, che ormai è
difficile ricordare tutti quelli che mi hanno aiutata lungo il percorso,
ma ecco chi se ne è assunto il fardello maggiore:
I miei tre figli meravigliosi, Gabriel, Seth ed Eli (oggi tre uomini
adulti!), che negli ultimi quindici anni si sono comportati in maniera
talmente lodevole che tutto il tempo che avrei dovuto trascorrere in
apprensione per le scelte sbagliate che loro non hanno compiuto l’ho
potuto investire nel preoccuparmi per le scelte sbagliate compiute
dai miei familiari immaginari.
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