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Della stessa autrice

Twilight
New Moon
Eclipse
Breaking Dawn
La breve seconda vita di Bree Tanner
Life and Death: Twilight Reimagined
24
I edizione: settembre 2020
© 2020 Stephenie Meyer
Questa edizione è stata pubblicata in accordo con
The Italian Literary Agency e Writers House.
© 2020 Fazi Editore srl
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
Titolo originale: Midnight Sun
Traduzione dall’inglese di Donatella Rizzati, Michele Zurlo,
Valentina Niccoli e Alessandro Ciappa
ISBN: 978-88-9325-833-3

Fotografia del frontespizio: Antonio Canova, Amore e Psiche.


The State Hermitage Museum, St. Petersburg
© The State Hermitage Museum /photo by Vladimir Terebenin

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Questo libro è dedicato a tutti i lettori
che negli ultimi quindici anni sono stati
una parte molto felice della mia vita.
Quando ci siamo incontrati per la prima volta,
molti di voi erano giovani adolescenti
dai begli occhi luminosi pieni di sogni per il futuro.
Spero che nel corso di questi anni tutti voi
abbiate trovato i vostri sogni e che la loro realizzazione
sia stata persino migliore di quanto avevate sperato.
1. A PRIMA VISTA

Era il momento della giornata in cui, più di tutti gli altri, desideravo
di poter dormire.
Liceo.
Oppure la parola giusta era purgatorio? Se esisteva un modo
qualsiasi per espiare i miei peccati, questo, in qualche misura,
doveva pur contare. La noia era una cosa alla quale non mi abituavo
mai; ogni giorno sembrava incredibilmente più monotono del
precedente.
Forse potevo considerarlo una forma di sonno – se la parola
sonno definiva lo stato di inerzia fra un’attività e l’altra.
Fissavo le crepe che percorrevano l’intonaco nell’angolo in fondo
alla caffetteria, immaginando dei disegni che non c’erano. Era un
modo per mettere a tacere le voci che blateravano nella mia testa
come gli spruzzi di un fiume.
Diverse centinaia di quelle voci le ignoravo perché erano noiose.
Quando si trattava di menti umane, all’inizio le ascoltavo tutte, poi
solo alcune. Quel giorno i pensieri di tutti si concentravano su un
evento di eccezionale irrilevanza: una nuova aggiunta all’esiguo
corpo studentesco. Bastava così poco per eccitarli. Avevo visto il
nuovo volto ripetuto in un pensiero dopo l’altro da ogni angolazione.
Era soltanto la solita ragazza umana. L’eccitazione che provocava il
suo arrivo era noiosamente prevedibile – era la stessa reazione che
ci si poteva aspettare mostrando un oggettino luccicante a un
gruppo di mocciosi. Metà dei maschi semiaddormentati già si
immaginavano infatuati di lei, solo perché era una cosa nuova da
guardare. Mi sforzai ancora di più per metterli a tacere.
Erano soltanto quattro le voci che bloccavo per cortesia, invece
che per disgusto: quelle della mia famiglia, i miei due fratelli e le mie
due sorelle, talmente abituati alla mancanza di intimità in mia
presenza che raramente se ne preoccupavano. Io gli davo ciò che
era nelle mie possibilità. Tentavo di non ascoltarli, se potevo farne a
meno.
Tentavo con tutte le mie forze, eppure... sapevo.
Rosalie stava pensando, come al solito, a se stessa – la sua
mente era un placido stagno con poche sorprese. Aveva scorto il
suo profilo riflesso negli occhiali di qualcuno e stava riflettendo a
fondo sulla propria perfezione. Nessuna aveva capelli, più dei suoi,
vicini all’autentico colore dell’oro, nessuna aveva un corpo a
clessidra più perfetto del suo, nessun’altra aveva un viso dall’ovale
altrettanto simmetrico e impeccabile. Ma non si confrontava con gli
umani: sarebbe stato un confronto ridicolo, assurdo. Pensava agli
altri come noi, nessuno dei quali, comunque, le stava alla pari.
L’espressione di Emmett, di solito spensierata, era un broncio di
frustrazione. Anche adesso si passava la mano enorme fra i riccioli
color ebano, torcendoli nel pugno. Stava ancora rimuginando
sull’incontro di lotta che aveva perso contro Jasper durante la notte.
Avrebbe esaurito tutta la sua limitata pazienza nel tentativo di
arrivare alla fine della giornata scolastica, solo per riorganizzare un
incontro. Ascoltare i pensieri di Emmett non mi dava la sensazione di
essere indiscreto, perché lui non pensava mai niente che non
avrebbe detto ad alta voce oppure messo in atto. Forse mi sentivo in
colpa soltanto nel leggere le menti degli altri, perché sapevo che
contenevano cose che non avrebbero voluto farmi conoscere. Se la
mente di Rosalie era un placido stagno, allora quella di Emmett era
un lago senza ombre, trasparente come il vetro.
E Jasper era... sofferente. Repressi un sospiro.
Edward. Alice mi chiamò mentalmente ed ebbe subito la mia
attenzione. Era come se mi avesse chiamato a voce alta. Ero felice
che, negli ultimi decenni, il mio nome fosse diventato fuori moda – in
passato era stato fastidioso; ogni volta che qualcuno pensava a un
Edward la mia testa si girava automaticamente.
La mia testa non si girò. Alice e io eravamo bravi in queste
conversazioni private. Era raro che qualcuno ci scoprisse. Mantenni
lo sguardo fisso sulle crepe nell’intonaco.
Quanto reggerà?, mi chiese Alice.
Io mi accigliai, appena un leggero cambiamento nelle linee della
mia bocca. Niente che avrebbe allertato gli altri. Capitava spesso
che mi accigliassi per la noia.
Jasper era immobile da troppo tempo. Non si stava producendo
nei tic umani come dovevamo fare tutti noi, in perenne movimento
per non farci notare, come Emmett che si tirava i capelli, Rosalie che
incrociava le gambe prima in un verso, poi nell’altro, o io che
spostavo la testa per fissare ghirigori su diversi punti della parete.
Jasper sembrava paralizzato, il corpo snello eretto e composto,
persino i capelli color miele sembravano non reagire alle folate che
arrivavano dai condotti dell’aria.
Ora il tono mentale di Alice era allarmato e vidi nella sua mente
che stava osservando Jasper con la coda dell’occhio. C’è un
pericolo? Frugò nell’immediato futuro, scorrendo visioni di monotonia
in cerca dell’origine del mio cipiglio. Anche mentre era impegnata
nella ricerca, ricordò di infilarsi il piccolo pugno sotto il mento
appuntito e di battere regolarmente le palpebre. Si scostò dagli occhi
una ciocca dei corti, spettinati capelli neri.
Io girai lentamente la testa verso sinistra, come per guardare i
mattoni del muro, sospirai e poi mi girai verso destra, di nuovo sulle
crepe nell’intonaco. Gli altri avrebbero pensato che stessi
interpretando la parte dell’essere umano. Soltanto Alice sapeva che
stavo scuotendo la testa.
Si rilassò. Fammi sapere se le cose peggiorano.
Spostai soltanto gli occhi, verso il soffitto e poi di nuovo in basso.
Grazie per quello che fai.
Fui felice di non poterle rispondere a voce alta. Che cosa le avrei
detto? È un piacere? Non lo era per niente. Non mi divertivo a
calarmi nelle lotte interiori di Jasper. Era proprio necessario
sperimentare in quel modo? Non sarebbe stato più sicuro ammettere
semplicemente che lui non sarebbe mai stato in grado di controllare
la sua sete come facevamo noi e non forzare i suoi limiti? Perché
giocare con il fuoco?
Erano passate due settimane dalla nostra ultima battuta di
caccia. Non era un lasso di tempo troppo problematico per noialtri.
Un po’ spiacevole, di tanto in tanto, se un umano ci camminava
troppo vicino o se il vento soffiava nel verso sbagliato. Ma gli umani
raramente ci camminavano troppo vicino. Il loro istinto gli diceva
quello che la mente razionale non avrebbe mai capito: noi eravamo
un pericolo da evitare.
In quel momento, Jasper era molto pericoloso.
Non succedeva spesso, ma ogni tanto mi colpiva la noncuranza
degli umani che ci giravano intorno. Noi tutti ci eravamo abituati, ce
lo aspettavamo sempre, ma qualche volta sembrava più evidente del
solito. Nessuno di loro ci notava, lì, mentre ce ne stavamo seduti al
tavolo malandato della caffetteria, sebbene un branco di tigri
pigramente sdraiate al nostro posto sarebbe stato meno letale di
quanto fossimo noi. Tutto quello che vedevano erano cinque tipi
strani, abbastanza simili agli umani da passare per loro. Era difficile
immaginare di sopravvivere con delle capacità sensoriali così
incredibilmente ottuse.
In quel momento, una ragazzina si fermò in fondo al tavolo più
vicino al nostro, per parlare con un’amica. Scosse i capelli color
sabbia pettinandoli con le dita. La corrente del condizionatore soffiò
il suo odore verso di noi. Ero abituato al modo in cui mi faceva
sentire quell’odore – il fastidio secco nella gola, il vuoto bramoso
nello stomaco, l’istintivo tendersi dei muscoli, l’eccesso di veleno che
mi inondava la bocca.
Era tutto abbastanza normale, di solito facile da ignorare. Fu più
difficile in quel momento, con le reazioni più forti, raddoppiate,
mentre tenevo d’occhio Jasper.
Jasper stava lasciando che la sua fantasia spaziasse sempre più
lontano. Lo stava immaginando – immaginava se stesso che si
alzava dalla sedia accanto ad Alice e andava a fermarsi vicino alla
ragazzina. Immaginava di protendersi verso di lei e abbassarsi,
come se volesse sussurrarle all’orecchio, e di lasciare che le sue
labbra toccassero l’arco della gola di lei. Immaginava come sarebbe
stato sentire il caldo pulsare del sangue, dietro la debole barriera
della pelle, sotto la sua bocca...
Tirai un calcio alla sua sedia.
Lui incontrò il mio sguardo, con un lampo di rabbia negli occhi
neri, e abbassò il suo. Sentii la vergogna e la ribellione che
battagliavano nella sua testa.
«Mi dispiace», borbottò.
Io mi strinsi nelle spalle.
«Non avresti fatto niente», mormorò Alice, alleviando la sua
mortificazione. «Questo l’ho visto».
Repressi a fatica l’occhiataccia che avrebbe tradito la sua
menzogna. Dovevamo rimanere uniti, io e Alice. Non era facile
essere i mostri in mezzo ad altri mostri. Proteggevamo a vicenda i
nostri segreti.
«Un po’ ti aiuta se pensi a loro come a delle persone», suggerì
Alice, con la sua voce acuta e musicale, troppo rapida per essere
intelligibile alle orecchie umane, se qualcuno si fosse trovato
abbastanza vicino da sentirla. «Si chiama Whitney. Ha una sorellina
più piccola che adora. Sua madre ha invitato Esme a quella festa in
giardino, ricordi?».
«Lo so chi è», disse seccamente Jasper. Si voltò per fissare una
delle finestrelle disposte tutto intorno alle pareti della lunga sala,
appena al di sotto delle grondaie. Il suo tono pose fine alla
conversazione.
Sarebbe andato a caccia quella notte stessa. Era ridicolo correre
un rischio come quello, per tentare di mettere alla prova la sua forza,
di incrementare la sua resistenza. Jasper doveva soltanto accettare i
suoi limiti e muoversi entro di essi.
Alice sospirò in silenzio e si alzò, portando via il vassoio del
pranzo – cioè il suo attrezzo di scena – e lasciandolo in pace.
Sapeva quando Jasper ne aveva avuto abbastanza dei suoi
incoraggiamenti. Sebbene Rosalie ed Emmett fossero più plateali
rispetto alla relazione che li legava, erano Alice e Jasper a
conoscere ogni reciproca necessità come fossero le proprie. Come
se sapessero leggere le menti – ma esclusivamente le loro.
Edward.
Reazione istintiva. Mi girai sentendo chiamare il mio nome, anche
se non era stato chiamato, ma soltanto pensato.
I miei occhi rimasero fissi, per mezzo secondo, in un paio d’occhi
umani color cioccolato, incastonati in un viso pallido a forma di
cuore. Conoscevo quel viso, anche se non l’avevo mai visto di
persona fino a quel momento. Era stata la visione principale di tutte
le menti, quel giorno. La nuova studentessa, Isabella Swan. Figlia
del capo della polizia della città, si era trasferita a Forks a causa di
un cambiamento nella custodia genitoriale. Bella. Aveva corretto
chiunque avesse usato il suo nome intero.
Annoiato, distolsi lo sguardo. Mi ci volle un secondo per rendermi
conto che non era stata lei a pensare il mio nome.
Ovviamente si è già presa una cotta per i Cullen, udii proseguire il
primo pensiero.
Adesso riconobbi la “voce”.
Jessica Stanley – era da un po’ che non mi infastidiva più con le
sue chiacchiere interiori. Che sollievo era stato quando aveva
superato la sua fissazione mal riposta. Era stato quasi impossibile
sfuggire ai suoi ridicoli, costanti sogni a occhi aperti. All’epoca avrei
tanto voluto poterle spiegare esattamente cosa sarebbe accaduto se
le mie labbra, e i denti che vi erano dietro, si fossero in qualunque
modo avvicinati a lei. Sicuramente avrei messo a tacere quelle
fastidiose fantasie. Il pensiero della sua reazione mi fece quasi
sorridere.
Sarà soltanto un buco nell’acqua, proseguì Jessica. Non è
nemmeno carina. Non capisco perché Eric la stia fissando così
tanto... e anche Mike.
Sussultò mentalmente sull’ultimo nome. La sua nuova
ossessione, il popolare Mike Newton, ignorava completamente la
sua esistenza. Ma a quanto pareva non era altrettanto ignaro della
nuova ragazza. Un altro bambino con la mano tesa verso l’oggetto
luccicante. Ciò aggiunse una sfumatura di cattiveria nei pensieri di
Jessica anche se, dall’esterno, lei si mostrava cordiale verso la
nuova arrivata mentre le spiegava quali fossero le informazioni
comunemente note sulla mia famiglia.
Oggi tutti stanno guardando anche me, pensò Jessica, con un
certo compiacimento. Non è una fortuna che Bella segua due corsi
insieme a me? Scommetto che Mike mi chiederà che cosa le...
Tentai di tenere quelle chiacchiere insulse fuori dalla mia mente
prima che la marea della stupidità mi facesse impazzire.
«Jessica Stanley sta lavando tutti i panni sporchi della famiglia
Cullen davanti alla nuova arrivata», mormorai a Emmett, per
distrarlo.
Lui ridacchiò sommessamente. Spero che lo faccia bene, pensò.
«Senza troppa fantasia, in realtà. Appena una vaga insinuazione
scandalosa. Nemmeno un grammo d’orrore. Sono un po’ deluso».
E la nuova ragazza? Anche lei è delusa dai pettegolezzi?
Mi misi in ascolto per sentire che cosa pensasse la nuova
ragazza, Bella, della storia di Jessica. Che cosa vedeva quando
guardava la strana famiglia dalla pelle bianca come il gesso, che era
universalmente evitata?
Conoscere la sua reazione era una mia responsabilità. Facevo da
vedetta, in mancanza di un termine migliore, per la mia famiglia. Per
proteggerci. Se mai qualcuno diventava sospettoso, io potevo
avvertire tutti immediatamente e darci la possibilità di fare subito un
passo indietro. Ogni tanto accadeva – qualche umano vedeva in noi
i personaggi di un libro o di un film. Di solito sbagliavano, ma era
meglio trasferirsi in un posto nuovo piuttosto che rischiare di essere
sottoposti a un esame minuzioso. Raramente, molto raramente,
qualcuno immaginava la verità. Non gli lasciavamo la possibilità di
dimostrare le sue ipotesi. Semplicemente, sparivamo per
trasformarci in niente di più di un ricordo spaventoso.
Non accadeva più da decenni.
Non udii niente, anche se ascoltai vicino al punto in cui il frivolo
monologo interiore di Jessica continuava a straripare. Che strano. La
ragazza si era forse spostata? Non sembrava probabile, visto che
Jessica stava ancora blaterando. Mi sentii disorientato, alzai lo
sguardo. Controllare il funzionamento del mio “udito” extra... era una
cosa che non avevo mai dovuto fare.
Di nuovo, il mio sguardo si fermò su quei grandi occhi color
cioccolato. Lei era seduta proprio dov’era prima e ci guardava – una
cosa naturale, immaginai, visto che Jessica si stava ancora
prodigando nel riferire i pettegolezzi locali sui Cullen.
Anche pensare a noi sarebbe stato naturale.
Ma non riuscii a udire nemmeno un sussurro.
Un caldo, invitante rossore macchiò le guance della ragazza
mentre abbassava gli occhi per liberarsi dall’imbarazzante gaffe di
essere stata sorpresa a fissare un estraneo. Era un bene che Jasper
stesse ancora guardando fuori dalla finestra. Non mi piaceva
immaginare l’effetto che avrebbe avuto sul suo controllo tutto quel
sangue a fior di pelle.
Le emozioni che aveva provato si erano manifestate sul suo viso
con la stessa chiarezza di un discorso: sorpresa, come se avesse
assimilato inconsapevolmente i segni delle sottili differenze fra i suoi
simili e i miei; curiosità, mentre ascoltava il racconto di Jessica; e
qualcos’altro... attrazione? Non sarebbe stata la prima volta. Per
loro, per le nostre prede designate, noi eravamo bellissimi. Poi, alla
fine, l’imbarazzo.
Eppure, sebbene i pensieri fossero stati così limpidi nei suoi
strani occhi – strani per gli abissi che nascondevano –, dal posto in
cui era seduta sentivo arrivare soltanto silenzio. Soltanto... silenzio.
Per un istante, mi sentii turbato.
Era una situazione in cui non mi ero mai trovato. C’era qualcosa
che non andava in me? Mi sentivo esattamente come al solito.
Preoccupato, ascoltai con maggiore impegno.
Tutte le voci che avevo bloccato, all’improvviso, urlarono nella
mia testa.
...mi chiedo quale musica le piaccia... forse potrei parlare del mio
nuovo CD..., stava pensando Mike Newton due tavoli più in là,
concentrato su Bella Swan.
Guardalo come la fissa. Non basta che metà delle ragazze della
scuola aspettino che lui... I pensieri di Eric Yorkie erano pungenti e
anche loro imperniati sulla ragazza.
...che schifo. Ti viene da pensare che sia una tipa famosa o roba
del genere... persino Edward Cullen la sta fissando... Lauren Mallory
era talmente gelosa che la sua faccia avrebbe avuto tutte le ragioni
per tingersi di verde scuro. E Jessica, che sta lì a sfoggiare la sua
nuova migliore amica. Che beffa... Il vetriolo continuava a irrorare i
suoi pensieri.
...scommetto che gliel’hanno chiesto tutti. Ma mi piacerebbe
parlare con lei. Qualcosa di più originale?, rimuginava Ashley
Dowling.
...forse sarà nel mio corso di spagnolo..., sperava June
Richardson.
...una tonnellata di cose ancora da fare stasera! Trigonometria e il
test di inglese. Spero che mia madre... Angela Weber, una ragazza
tranquilla i cui pensieri erano insolitamente gentili, era l’unica del
tavolo a non essere ossessionata da quella Bella.
Io potevo sentirli tutti, sentire ogni minima cosa cui stavano
pensando così come passava nei loro cervelli. Ma niente di niente
dalla nuova studentessa con gli occhi ingannevolmente comunicativi.
E, ovviamente, potevo ascoltare quello che diceva parlando con
Jessica. Non avevo bisogno di leggere la mente per riuscire a
sentire la sua voce bassa e limpida dal lato opposto della lunga sala.
«Chi è quello con i capelli rossicci?», la sentii domandare, mentre
mi lanciava un’altra occhiata furtiva con la coda dell’occhio, solo per
guardare rapidamente altrove quando vide che la stavo ancora
osservando.
Se avessi avuto il tempo per sperare che udire il suono della sua
voce mi avrebbe aiutato a sintonizzarmi sui suoi pensieri, sarei
rimasto istantaneamente deluso. Di solito, i pensieri delle persone
arrivano alle loro menti in un tono simile a quello della voce fisica.
Ma quella voce sommessa, timida, mi era estranea, non
corrispondeva a uno solo delle centinaia di pensieri che
rimbalzavano tutto intorno alla sala, di questo ero sicuro. Totalmente
nuova.
Oh, buona fortuna, idiota!, pensò Jessica prima di rispondere alla
domanda della ragazza. «Si chiama Edward. È uno schianto,
ovviamente, ma non sprecare il tuo tempo. Non esce con nessuna.
A quanto pare qui non ci sono ragazze abbastanza carine per lui».
Fece una risatina sprezzante.
Voltai la testa per nascondere un sorriso. Jessica e le sue
compagne non avevano idea di quanto fossero fortunate a non
essere particolarmente attraenti ai miei occhi.
Ma dietro quel momentaneo buonumore, provai uno strano
impulso, un impulso che non capii con chiarezza. Aveva qualcosa a
che fare con la cattiveria annidata nei pensieri di Jessica, perché la
nuova ragazza non era consapevole di... Provai la stranissima
urgenza di andare a mettermi fra di loro e proteggere Bella Swan
dalle cupe macchinazioni della mente di Jessica. Che strana
sensazione. Tentando di scovare le motivazioni nascoste dietro
quell’impulso, esaminai ancora la nuova ragazza, stavolta attraverso
gli occhi di Jessica. Il mio sguardo insistente aveva attirato troppa
attenzione.
Forse si trattava soltanto di un istinto di protezione rimasto
sepolto troppo a lungo – del forte per il debole. In qualche modo,
quella ragazza sembrava più fragile delle sue nuove compagne di
scuola. La sua pelle era talmente traslucida che si faticava a credere
che le offrisse una difesa dal mondo esterno. Riuscivo a vedere il
pulsare ritmico del suo sangue attraverso le vene sotto la membrana
pallida, trasparente... Ma non dovevo concentrarmi su quello. Ero
bravo a vivere la vita che avevo scelto, ma ero assetato quanto
Jasper e non era logico indugiare in una tentazione.
Fra le sue sopracciglia c’era una lieve ruga della quale sembrava
non accorgersi. Era incredibilmente frustrante! Vedevo chiaramente
lo sforzo che le costava rimanere seduta lì, fare conversazione con
degli sconosciuti, essere al centro dell’attenzione. Potevo percepire
la sua timidezza dal modo in cui teneva le spalle strette,
leggermente curve, come se si aspettasse un rifiuto da un momento
all’altro. Eppure potevo soltanto vedere, percepire, immaginare. Da
quella ragazza umana tutt’altro che eccezionale, non proveniva che
silenzio.
Non riuscivo a sentire niente. Perché?
«Andiamo?», mormorò Rosalie, interrompendo la mia
concentrazione.
Distolsi la mente dalla ragazza con un senso di sollievo. Non
volevo continuare a fallire – per me fallire era raro e persino più
irritante di quanto fosse inconsueto. Non volevo sviluppare alcun
interesse per i suoi pensieri nascosti soltanto perché erano nascosti.
Senza dubbio, quando fossi arrivato a decifrarli – e io avrei trovato il
modo di farlo –, si sarebbero rivelati insulsi e meschini come quelli di
qualsiasi altro umano. Non valevano lo sforzo che avrei dovuto fare
per raggiungerli.
«Allora, la nuova ha già paura di noi?», domandò Emmett, ancora
in attesa della mia risposta alla sua domanda precedente.
Mi strinsi nelle spalle. Lui non era abbastanza interessato da
insistere per avere altre informazioni.
Ci alzammo dal tavolo e uscimmo dalla caffetteria.
Emmett, Rosalie e Jasper fingevano di essere all’ultimo anno; se
ne andarono alle rispettive lezioni. Io recitavo il ruolo di quello più
giovane. Mi avviai alla lezione di biologia del terzo anno,
preparandomi mentalmente alla noia. Era difficile che il professor
Banner, un uomo di intelletto non superiore alla media, sarebbe
riuscito a tirare fuori, nella sua lezione, qualcosa di sorprendente per
chi aveva conseguito due lauree in medicina.
In aula, presi posto sulla sedia e lasciai i libri – di nuovo attrezzi di
scena; non contenevano niente che non avessi già letto – sparsi sul
banco. Ero l’unico studente ad avere un banco tutto per sé. Gli
umani non erano abbastanza intelligenti da sapere di aver paura di
me, ma il loro istinto di sopravvivenza era sufficiente a tenerli alla
larga.
La stanza si riempì lentamente mentre tutti tornavano, alla
spicciolata, dal pranzo. Mi appoggiai allo schienale della sedia e
aspettai che il tempo passasse. Di nuovo, desiderai di poter dormire.
Poiché avevo pensato alla nuova ragazza, quando Angela Weber
la scortò in classe, il suo nome si intrufolò nella mia attenzione.
Bella sembra timida quanto me. Scommetto che oggi è una
giornata difficile per lei. Mi piacerebbe tanto saperle dire qualcosa...
ma probabilmente sembrerebbe soltanto una stupidaggine.
Sì!, pensò Mike Newton, girandosi sulla sedia per veder entrare
la ragazza.
Eppure, dal punto in cui era Bella Swan, niente. Lo spazio vuoto
nel quale avrebbero dovuto trovarsi i suoi pensieri mi irritava e
innervosiva.
E se fosse sparito tutto? E se quello fosse stato il primo sintomo
di una sorta di declino mentale?
Spesso avevo desiderato poter sfuggire all’assordante
accozzaglia delle voci. Poter essere normale – per quanto fosse
possibile esserlo per me. Ma adesso quel pensiero mi gettava nel
panico. Che cosa sarei stato senza le mie capacità? Non avevo mai
sentito parlare di una cosa del genere. Avrei chiesto a Carlisle,
magari lui ne sapeva qualcosa.
La ragazza camminò fra i banchi, accanto a me, diretta verso la
cattedra del professore. Poverina. Il posto vicino al mio era l’unico
disponibile. Automaticamente, sgomberai quello che sarebbe stato il
suo lato del banco, sistemando i miei libri in una pila. Dubitavo che si
sarebbe sentita a suo agio lì. L’aspettava un lungo semestre – in
quel corso, almeno. Forse, però, sedendomi accanto a lei sarei
riuscito a far venire allo scoperto il nascondiglio dei suoi pensieri...
non che io avessi mai avuto bisogno della vicinanza, per farlo. Non
che avrei trovato qualcosa che valesse la pena ascoltare.
Bella Swan camminò nel flusso d’aria calda che soffiava verso di
me dal condotto d’aerazione.
Il suo profumo mi colpì come un ariete, come l’esplosione di una
granata. Non c’era un’immagine abbastanza violenta per esprimere
la forza di ciò che mi accadde in quel momento.
Istantaneamente, mi trasformai. Non fui più neanche l’ombra
dell’umano che ero stato una volta. Non rimase nessuna traccia dei
brandelli di umanità di cui mi ero ammantato negli anni.
Io ero un predatore. Lei, la mia preda. Non esisteva più niente in
tutto il mondo, tranne quella verità.
Non c’era una stanza piena di testimoni – nella mia mente erano
già danni collaterali. Il mistero dei suoi pensieri fu dimenticato. I suoi
pensieri non significavano niente, perché non li avrebbe pensati
ancora a lungo.
Io ero un vampiro e lei aveva il sangue più dolce che avessi mai
annusato in più di ottant’anni.
Non avevo nemmeno immaginato che potesse esistere un
profumo del genere. Se lo avessi saputo, sarei andato a cercarlo
molto tempo prima. Avrei passato al setaccio il pianeta, per trovarlo.
Potevo immaginarne il sapore...
La sete mi bruciò la gola come un fuoco. Sentivo la bocca riarsa
e secca, e la fresca ondata di veleno non servì a disperdere quella
sensazione. Il mio stomaco si contorse per la fame, che era un’eco
della sete. I miei muscoli si contrassero, pronti a scattare.
Non era passato nemmeno un secondo intero. Lei doveva ancora
terminare lo stesso passo che l’aveva portata sottovento rispetto a
me.
Quando il suo piede toccò il pavimento, gli occhi scivolarono
verso di me, un movimento che nelle sue intenzioni doveva essere
chiaramente furtivo. I nostri sguardi si incontrarono e io mi vidi
riflesso nello specchio delle sue pupille.
Lo shock dell’immagine del mio volto le salvò la vita per pochi,
delicati secondi.
Lei non mi aiutò. Quando assimilò l’espressione sul mio viso, il
sangue le affluì di nuovo alle guance, tingendole del colore più
delizioso che avessi mai visto. Il profumo era una nebbia fitta che mi
avvolgeva il cervello. Quasi non riuscivo a pensare. I miei istinti
infuriavano, si opponevano al controllo, sconnessi.
Lei camminò più in fretta, come se avesse compreso la necessità
di scappare. La fretta la rese goffa – inciampò e si sbilanciò in
avanti, rischiando di cadere sulla ragazza seduta di fronte a me.
Vulnerabile, debole. Persino più di quanto fosse normale per un
essere umano.
Tentai di concentrarmi sul viso che avevo visto nei suoi occhi, un
viso che riconoscevo con disgusto. Il viso del mostro che era dentro
di me – il viso che avevo respinto con decenni di sforzi e disciplina
inflessibile. Con quanta facilità era riemerso, adesso!
Il profumo mi circondò di nuovo con le sue volute, scompigliando i
miei pensieri e rischiando di farmi saltare dalla sedia.
No.
La mia mano si aggrappò con forza sotto il bordo del banco
mentre tentavo di rimanere seduto. Il legno, però, non era fatto per
resistere. La mano frantumò il rinforzo e ne tirò via un pugno di legno
scheggiato, lasciando la forma delle dita scavata nel resto del banco.
Distruggi la prova. Una regola fondamentale. Polverizzai in fretta i
bordi con l’impronta delle mie dita, lasciando soltanto un buco dai
bordi scheggiati e un cumulo di trucioli sul pavimento che sparpagliai
con il piede.
Distruggi la prova. Danno collaterale.
Sapevo che cosa doveva accadere, adesso. La ragazza si
sarebbe dovuta sedere accanto a me e io avrei dovuto ucciderla.
Agli innocenti spettatori della classe, altri diciotto ragazzini e un
uomo, non si poteva permettere di andar via, avendo visto quello
che presto avrebbero visto.
Sussultai al pensiero di ciò che dovevo fare. Anche nei miei
periodi peggiori, non avevo mai commesso questo genere di
atrocità. Non avevo mai ucciso degli innocenti. E adesso progettavo
di massacrarne venti in una volta sola.
Il viso del mostro nel mio riflesso mi derise.
Anche se una parte di me si ritraeva inorridita, un’altra parte
stava pianificando quello che sarebbe accaduto a breve.
Se avessi ucciso per prima la ragazza, avrei avuto soltanto
quindici o venti secondi con lei, prima che gli umani nella stanza
reagissero. Forse qualcuno in più se, all’inizio, non si fossero resi
conto di quello che stavo facendo. Lei non avrebbe avuto il tempo
per urlare o sentire dolore; non l’avrei uccisa in modo crudele. Fin lì
potevo arrivare, per quella sconosciuta con il sangue orribilmente
desiderabile.
Ma poi avrei dovuto impedire agli altri di fuggire. Non mi sarei
dovuto preoccupare delle finestre, troppo alte e troppo piccole per
fornire una via di fuga a qualcuno. Soltanto la porta; bloccata quella,
erano tutti in trappola.
Tentare di ucciderli tutti quando erano in preda al panico e si
agitavano nel caos come forsennati sarebbe stata un’operazione
lenta e più difficile. Non impossibile, ma ci sarebbe stato molto
rumore. E tempo per un sacco di urla. Qualcuno le avrebbe udite... e
io, in quell’ora oscura, sarei stato costretto a uccidere persino altri
innocenti.
E, mentre uccidevo gli altri, il sangue della ragazza si sarebbe
raffreddato.
Il profumo mi puniva chiudendomi la gola con un’arsura
dolorosa...
Allora, prima i testimoni.
Mentalmente, progettai l’azione. Io ero al centro dell’aula, nella
fila più lontana dalla cattedra. Avrei cominciato dalla mia destra.
Valutai che potevo spezzare quattro o cinque dei loro colli al
secondo. Non sarebbe stato rumoroso. Quello destro sarebbe stato
il lato fortunato: non mi avrebbero visto arrivare. Spostarmi sul lato
anteriore e tornare indietro da sinistra mi avrebbe richiesto, al
massimo, cinque secondi per stroncare ogni vita di quella stanza.
Sufficienti perché Bella Swan vedesse cosa stava per accaderle.
Sufficienti per farla spaventare. Sufficienti forse, se lo shock non la
impietriva, per farle lanciare un urlo. Un urlo sommesso che non
avrebbe fatto accorrere nessuno.
Presi un respiro profondo e il profumo fu un fuoco che scorreva
nelle mie vene inaridite, che mi bruciava il petto per distruggere
qualsiasi istinto nobile fossi capace di provare.
Lei si stava girando in quel momento. In pochi secondi si sarebbe
seduta a qualche centimetro da me.
Il mostro nella mia testa esultò.
Qualcuno alla mia sinistra chiuse, con un colpo secco, un
quaderno. Non alzai gli occhi per vedere quale fosse degli umani
condannati a morte, ma quel movimento mi soffiò sul viso una folata
d’aria normale, priva di profumo.
Per un breve istante riuscii a pensare lucidamente. In quel
prezioso momento vidi nella mia testa due volti, uno accanto all’altro.
Uno era il mio, o meglio, era stato il mio: il mostro dagli occhi
rossi che aveva ucciso talmente tante persone che avevo smesso di
contarle. Omicidi ragionati, motivati. Ero stato un assassino di
assassini, un uccisore di altri mostri meno potenti. Era stato un
delirio di onnipotenza decidere chi meritava una condanna a morte,
lo sapevo bene. Era stato un compromesso con me stesso. Mi ero
nutrito di sangue umano, ma soltanto nella sua definizione più
ampia. Le mie vittime erano, nei loro oscuri e variegati trascorsi, a
stento più umane di quanto lo fossi io.
L’altro volto era quello di Carlisle.
Non c’era alcuna somiglianza fra i due. Erano la luminosità del
giorno e l’oscurità della notte.
Non c’era nemmeno un motivo perché esistesse una
somiglianza. Carlisle non era mio padre nel senso biologico del
termine. Non avevamo alcun tratto in comune. Il colore simile della
nostra pelle era il prodotto di ciò che eravamo: tutti i vampiri sono
pallidi come cadaveri. Il colore degli occhi, invece, era un’altra
questione, il risultato di una scelta reciproca.
Eppure, sebbene non vi fosse alcun fondamento per una
somiglianza, avevo immaginato che il mio viso, in una certa misura,
avesse cominciato a riflettere il suo, dopo gli ultimi, strani
settant’anni nei quali avevo abbracciato la sua scelta e seguito il suo
percorso. I miei lineamenti non erano cambiati, ma mi sembrava che
un po’ della sua saggezza avesse segnato la mia espressione, che
qualcosa della sua compassione potesse essere rintracciata nelle
linee della mia bocca e che un accenno della sua pazienza fosse
visibile sulla mia fronte.
Tutti quei minuscoli miglioramenti erano completamente spariti
nel viso del mostro. In pochi istanti, dentro di me non sarebbe
rimasto niente a rispecchiare gli anni trascorsi insieme al mio
creatore, mio mentore, mio padre in tutti i sensi che avevano
importanza. I miei occhi sarebbero diventati di un rosso ardente
come quello dei diavoli; ogni somiglianza sarebbe andata perduta
per sempre.
Nella mia mente, gli occhi buoni di Carlisle non mi giudicavano.
Sapevo che lui mi avrebbe perdonato per quest’azione terribile.
Perché mi amava. Perché mi riteneva migliore di quanto non fossi.
Bella Swan si sedette sulla sedia accanto alla mia con dei
movimenti rigidi e goffi – per la paura, senza dubbio – e il profumo
del suo sangue volteggiò in un’inesorabile nuvola che mi circondò.
Avrei dimostrato che mio padre sbagliava, sul mio conto. Il
tormento di questa evidenza mi fece più male del fuoco che avevo in
gola.
Mi scostai da lei con un moto di repulsione, disgustato dal mostro
che smaniava di prenderla.
Perché era dovuta venire proprio qui? Perché doveva esistere?
Perché doveva rovinare la piccola pace di questa mia non vita?
Perché mai era dovuta nascere quest’umana esasperante? Mi
avrebbe portato alla rovina.
Voltai la testa per non guardarla mentre un odio improvviso,
violento e irrazionale, si scatenava dentro di me.
Non volevo essere un mostro! Non volevo fare una carneficina di
ragazzini indifesi ammassati in una stanza! Non volevo perdere tutto
quello che mi ero guadagnato in una vita intera di sacrifici e
negazioni!
Non lo avrei fatto. Non poteva essere lei a farmelo fare.
Il problema era il profumo, il profumo orribilmente invitante del
suo sangue. Se solo ci fosse stato un modo per resistere... se solo
un’altra ventata d’aria fresca mi avesse schiarito la mente.
Bella Swan scosse verso di me i lunghi e folti capelli color
mogano.
Era pazza?
No, non c’era alcuna brezza salvifica. Ma io non dovevo per forza
respirare.
Bloccai il flusso dell’aria attraverso i polmoni. Il sollievo fu
istantaneo, ma incompleto. Avevo ancora in mente il ricordo del
profumo, il suo sapore in fondo alla lingua. Non sarei riuscito a
resistere a lungo nemmeno a questo.
Ogni vita nella stanza era in pericolo finché c’eravamo anche io e
lei, insieme. Dovevo fuggire. Volevo fuggire, scappare dal suo calore
vicino a me e dall’agonia insopportabile del bruciore, ma non avevo
la sicurezza totale che se avessi sciolto i muscoli per muovermi,
anche solo per alzarmi, non mi sarei lanciato a commettere l’eccidio
che avevo già pianificato.
Ma forse potevo resistere per un’ora. Un’ora poteva essere
sufficiente a riprendere il controllo per muovermi senza colpire? Ne
dubitavo, poi mi sforzai di impegnarmi. Me la sarei fatta bastare.
Giusto il tempo sufficiente per uscire da quella stanza piena di
vittime, vittime che, forse, non dovevano essere tali. Se fossi riuscito
a resistere per una breve ora soltanto.
Non respirare era una sensazione fastidiosa. Il mio corpo non
aveva bisogno di ossigeno, ma dovevo oppormi all’istinto. Nei
momenti di stress mi affidavo all’olfatto più di tutti gli altri sensi.
Guidava il percorso durante la caccia; era il primo allarme in caso di
pericolo. Non mi capitava spesso di incontrare cose più pericolose di
me stesso, ma l’istinto di conservazione, nella mia razza, è forte
quanto lo è nell’essere umano medio.
Fastidioso, ma gestibile. Più sopportabile che sentire il suo odore
senza poter affondare i denti in quella pelle sottile, liscia e
trasparente, fino al caldo, bagnato e pulsante...
Un’ora! Soltanto un’ora. Non dovevo pensare al profumo, al
sapore.
La ragazza silenziosa teneva i capelli fra me e lei, chinandosi in
avanti in modo da farli ricadere sul suo raccoglitore. Non potevo
vedere il suo viso per tentare di leggere le emozioni in quegli occhi
profondi e limpidi. Stava cercando di tenermeli nascosti? Per paura?
Timidezza? Per mantenere dei segreti?
L’irritazione di prima, nell’essere ostacolato dai suoi pensieri muti,
era debole e inconsistente rispetto al desiderio – e all’odio – che mi
possedevano adesso. Perché odiavo quella fragile ragazza che mi
stava accanto, la odiavo con tutta la forza con la quale mi
aggrappavo alla mia personalità precedente, all’amore per la mia
famiglia, ai miei sogni di essere migliore di quanto fossi. Odiando lei,
odiando il modo in cui mi faceva sentire... un po’ mi aiutava. Sì,
l’irritazione che avevo provato prima era debole, ma anche quella
aiutava un po’. Mi aggrappavo a qualsiasi pensiero mi distraesse
dall’immaginare quale sarebbe stato il suo sapore...
Odio e irritazione. Impazienza. Ma quell’ora non sarebbe passata
mai?
E al termine dell’ora... lei sarebbe uscita dall’aula. E io che cosa
avrei fatto?
Se avessi potuto controllare il mostro, fargli vedere che sarebbe
valsa la pena rimandare... mi sarei potuto presentare. Ciao, mi
chiamo Edward Cullen. Posso accompagnarti alla prossima lezione?
Lei avrebbe detto sì. Sarebbe stata la cosa più educata da fare.
Anche se mi temeva già, cosa di cui ero sicuro, avrebbe seguito le
convenzioni e camminato accanto a me. Sarebbe stato facile
condurla nella direzione sbagliata. Un lembo della foresta si
allungava come un dito fino a toccare il fondo del parcheggio. Avrei
potuto dirle di aver dimenticato un libro in macchina...
Qualcuno avrebbe notato che ero l’ultima persona con la quale
sarebbe stata vista? Come sempre, stava piovendo. Due
impermeabili scuri che andavano nella direzione sbagliata non
avrebbero attirato chissà quale attenzione o tradito me.
Peccato che, quel giorno, non fossi l’unico studente interessato a
lei – sebbene nessun altro lo fosse con la mia stessa intensità. Mike
Newton, in particolare, si accorgeva di ogni spostamento del suo
peso quando lei si muoveva sulla sedia. Si sentiva a disagio, così
vicina a me, come chiunque altro, proprio come avevo previsto prima
che il suo profumo distruggesse ogni mia empatia verso il prossimo.
Se lei fosse uscita dalla lezione insieme a me, Mike Newton
l’avrebbe notato.
Se potevo resistere per un’ora, avrei resistito anche per due?
Il bruciore mi fece sussultare per la sofferenza.
Lei sarebbe tornata in una casa vuota. L’ispettore capo della
polizia Swan lavorava diciotto ore al giorno. Conoscevo casa sua,
come conoscevo ogni casa di quella minuscola città. La sua era
arroccata sul limitare della fitta foresta, senza vicini nei dintorni. Se
anche avesse avuto il tempo di urlare, cosa che non avrebbe avuto,
non ci sarebbe stato nessuno a sentirla.
Ecco il modo responsabile di risolvere la situazione. Andavo
avanti da sette decadi senza sangue umano. Se trattenevo il respiro,
potevo resistere due ore. E quando l’avessi avuta da sola, non ci
sarebbe stata alcuna possibilità di far male ad altri. E nessun motivo
per vivere frettolosamente l’esperienza, concordò il mostro nella mia
testa.
Era un sofisma pensare che salvando le diciannove vite in quella
stanza, con sforzo e pazienza, sarei stato meno mostruoso quando
avessi ucciso quella ragazza innocente.
Sebbene la odiassi, ero assolutamente consapevole che il mio
odio fosse ingiusto. Sapevo che l’essere che odiavo veramente ero
io stesso. Avrei odiato entrambi molto di più, quando lei fosse morta.
Arrivai alla fine dell’ora in questo modo: immaginando i modi
migliori per ucciderla. Tentai di evitare di immaginare l’atto reale.
Sarebbe stato troppo, per me. Così pianificai delle strategie e
nient’altro.
A un certo punto, proprio negli ultimi minuti, lei mi sbirciò
attraverso il muro liquido dei suoi capelli. Sentii il mio odio
ingiustificato consumarmi tra le fiamme mentre incontravo il suo
sguardo – ne vidi il riflesso nei suoi occhi spaventati. Il sangue le
colorò le guance prima che potesse nasconderle ancora dietro i
capelli e io fui quasi rovinato.
Ma suonò la campanella. E noi – che cliché – fummo salvi. Lei
dalla morte. Io, per un brevissimo istante, dall’essere la creatura da
incubo che temevo e contrastavo.
Adesso, dovevo muovermi.
Anche concentrando tutta la mia attenzione sulle azioni più
semplici, non riuscivo a camminare lentamente quanto avrei dovuto;
uscii dall’aula come una freccia. Se qualcuno mi avesse guardato,
avrebbe potuto sospettare che ci fosse qualcosa che non andava
nella mia uscita. Ma nessuno mi stava dedicando attenzioni; tutti i
pensieri giravano ancora intorno alla ragazza sarebbe stata
condannata a morire nel giro di poco più di un’ora.
Mi nascosi nella mia auto.
Non mi piaceva pensarmi come uno che aveva bisogno di
nascondersi. Era da codardi. Ma non mi era rimasto autocontrollo
sufficiente per stare in mezzo agli umani, ormai. Concentrare così
tanti sforzi nel non uccidere una di loro, non mi aveva lasciato
risorse per resistere agli altri. Che spreco sarebbe stato. Se proprio
avessi dovuto arrendermi al mostro, avrei fatto in modo che ne
valesse la pena.
Ascoltai un CD che di solito mi calmava, ma in quel momento
servì a poco. No, quello che mi aiutò fu soprattutto l’aria fredda e
bagnata che entrava, insieme alla pioggia leggera, dai finestrini
aperti. Anche se ricordavo perfettamente il profumo del sangue di
Bella Swan, respirare quell’aria pulita fu come purificare l’interno del
mio corpo dalla sua infezione.
Ero di nuovo in me. Potevo ricominciare a pensare. E a
combattere. Potevo combattere quello che non volevo essere.
Non dovevo andare a casa sua. Non dovevo ucciderla. Si
capisce, ero una creatura razionale e pensante, avevo una scelta.
C’era sempre una scelta.
In classe non mi era sembrato così... ma adesso ero lontano da
lei.
Io non dovevo deludere mio padre. Non dovevo provocare a mia
madre preoccupazioni, tensioni o... dolore. Sì, questo avrebbe ferito
anche la mia madre adottiva. E lei era così gentile, tenera e
amorevole. Provocare dolore a una persona come Esme era
davvero imperdonabile.
Forse, se avessi evitato con molta, molta attenzione quella
ragazza, non avrei avuto bisogno di cambiare la mia vita. Adesso le
cose erano come le volevo io. Perché avrei dovuto permettere a una
sconosciuta provocatoria e deliziosa di rovinarle?
Quanta ironia nel fatto che avevo voluto proteggerla
dall’insignificante minaccia senza denti dei pensieri maligni di
Jessica Stanley. Io ero l’ultima persona che avrebbe lottato per
proteggere Isabella Swan. Non avrebbe mai avuto bisogno di essere
protetta da niente di più pericoloso di me.
Dov’era Alice?, mi chiesi, d’un tratto. Non mi aveva visto uccidere
la Swan in una quantità di modi diversi? Perché non era venuta in
mio soccorso – per fermarmi o aiutarmi a far sparire le prove, una
delle due? Era così assorta nel tenere d’occhio Jasper da aver
mancato questa eventualità, molto più orribile? Oppure ero più forte
di quanto pensassi? Davvero non avrei fatto nessun male a quella
ragazza?
No. Sapevo che non era vero. Alice doveva essersi concentrata
completamente su Jasper.
Cercai verso il punto in cui sapevo che si sarebbe trovata mia
sorella, nel piccolo edificio che ospitava le lezioni di inglese. Non ci
misi molto a localizzare la sua “voce” familiare. E non mi ero
sbagliato. I suoi pensieri erano rivolti a Jasper, ne osservava le
piccole scelte con minuziosa attenzione.
Avrei voluto chiederle un consiglio ma, allo stesso tempo, ero
felice che lei non sapesse di cosa fossi capace. Sentii una nuova
fiamma ardere il mio corpo – quella della vergogna. Volevo che
nessuno di loro lo sapesse.
Se potevo evitare Bella Swan, se potevo riuscire a non ucciderla
– anche mentre lo pensavo, il mostro si contorceva e digrignava i
denti per la frustrazione –, allora nessuno avrebbe dovuto saperlo.
Se riuscivo a tenermi alla larga dal suo profumo...
Non c’era motivo per non provarci, almeno. Per fare la scelta
giusta. Tentare di essere come Carlisle pensava che fossi.
L’ultima ora di scuola era quasi finita. Decisi di mettere
immediatamente in atto il mio nuovo piano. Meglio che starmene
seduto lì, nel parcheggio, dove magari lei poteva passare e mandare
tutto all’aria. Di nuovo, provai un odio ingiusto verso quella ragazza.
Attraversai rapidamente – un po’ troppo rapidamente, ma non
c’erano testimoni – il piccolo campus fino alla segreteria.
Era vuota, a eccezione della segretaria che non notò il mio
ingresso silenzioso.
«Signorina Cope?».
La donna dai capelli innaturalmente rossi alzò gli occhi e
sussultò. I piccoli gesti che non capivano li sorprendevano sempre, a
prescindere da quante volte avessero già visto uno di noi.
«Oh», esclamò lei, un po’ confusa. Si lisciò la camicia. Sciocca,
pensò fra sé. È abbastanza giovane da essere mio figlio. «Ciao,
Edward. Che cosa posso fare per te?». Dietro le lenti spesse, le sue
ciglia tremolarono.
Imbarazzante. Ma sapevo come essere affascinante, quando
volevo. Era facile, perché avevo il riscontro immediato di ogni mio
gesto e intonazione.
Mi chinai in avanti, guardandola come se stessi scavando in
profondità nei suoi scialbi occhi marroni. I suoi pensieri erano già in
subbuglio. Sarebbe stato semplice.
«Mi chiedevo se lei potesse aiutarmi con le mie lezioni», dissi,
con la voce morbida che usavo per non spaventare gli umani.
Udii il ritmo del suo cuore accelerare.
«Certo, Edward. Come posso aiutarti?». Troppo giovane, troppo
giovane, cantilenava mentalmente lei. Sbagliando, ovviamente. Ero
più vecchio di suo nonno.
«Mi chiedevo se fosse possibile spostarmi dal corso di biologia a
una materia scientifica del quarto anno. Fisica, magari?».
«Hai problemi con il professor Banner, Edward?».
«No, per niente, è che io ho già studiato la sua materia...».
«In quella scuola accelerata che tutti voi avete frequentato in
Alaska. Bene». Le sue labbra sottili si contrassero mentre
considerava l’informazione. Tutti loro dovrebbero andare al college.
Ho sentito le lamentele dei professori. Sempre il massimo dei voti,
mai un’esitazione nelle risposte, mai una risposta sbagliata nei test –
come se avessero trovato un modo per copiare in ogni materia. Il
professor Varner preferisce credere che in trigonometria imbroglino
tutti, piuttosto che pensare che ci sia qualcuno più intelligente di lui.
Scommetto che la madre gli dà lezioni a casa... «In realtà, Edward,
fisica è piuttosto affollata al momento. Il professor Banner detesta
avere più di venticinque studenti in una classe...».
«Ma io non darei nessun problema».
Certo che non ne daresti, tu. Non un perfetto Cullen. «Lo so,
Edward. Ma il fatto è che non ci sono sedie sufficienti...».
«Potrei abbandonare il corso, allora? Userei quel tempo per
studiare autonomamente».
«Abbandonare biologia?». Spalancò la bocca. È una follia.
Quanto può essere difficile rimanere seduto ad ascoltare una
materia che già conosci? Deve esserci un problema con il professor
Banner. «Non avresti crediti sufficienti per diplomarti».
«Recupererò l’anno prossimo».
«Forse dovresti parlarne con i tuoi genitori».
Dietro di me si aprì la porta, ma chiunque fosse non pensò il mio
nome, così ignorai il suo arrivo e mi concentrai sulla signorina Cope.
Mi avvicinai un altro po’ e la fissai, come se guardassi ancora più
intensamente nei suoi occhi. Avrebbe funzionato meglio se, in quel
momento, i miei fossero stati dorati invece che neri. Il nero
spaventava le persone, com’è giusto.
Il mio errore di valutazione si rifletté sulla donna che, con un
sussulto, si ritrasse sulla sedia, confusa da istinti conflittuali.
«La prego, signorina Cope», mormorai, con la voce più suadente
e carezzevole possibile, e il suo momentaneo disgusto si attenuò.
«Non c’è un altro settore con il quale potrei cambiare? Sono sicuro
che da qualche parte dev’esserci una disponibilità. La sesta ora di
biologia non può essere l’unica opzione...».
Le sorrisi, facendo attenzione a non mostrarle proprio tutti i denti,
che l’avrebbero spaventata di nuovo, lasciando che l’espressione
addolcisse il mio viso.
Il suo cuore martellò ancora più veloce. Troppo giovane, ricordò
freneticamente a se stessa. «Bene. Forse potrei parlare con Bob...
voglio dire, il professor Banner. Potrei vedere se...».
Un istante fu tutto quello che bastò per cambiare ogni cosa:
l’atmosfera nella stanza, la mia missione lì, il motivo per cui ero
chino sulla donna dai capelli rossi... quello che era destinato a uno
scopo, d’un tratto fu rivolto a un altro.
Un istante fu tutto quello che bastò a Samantha Wells per entrare
nella stanza, depositare un permesso firmato nel contenitore
accanto alla porta, affrettarsi a uscire così da ritrovarsi, in un lampo,
lontana dalla scuola. Un’improvvisa ventata mi finì addosso dalla
porta aperta e io mi resi conto del motivo per cui la prima persona
che era entrata non mi aveva interrotto con i suoi pensieri.
Mi girai, anche se non mi serviva per esserne sicuro.
Bella Swan era lì, con la schiena premuta alla parete accanto alla
porta e un pezzo di carta stretto in mano. I suoi occhi erano persino
più grandi mentre scrutava il mio sguardo feroce, inumano.
L’odore del suo sangue saturò ogni particella d’aria nella
minuscola stanza surriscaldata. Il fuoco mi bruciò la gola.
Di nuovo, il mostro mi fissò dallo specchio dei suoi occhi, una
maschera di malvagità.
La mia mano rimase sospesa a mezz’aria sopra la scrivania. Non
avrei avuto bisogno di guardare per tenderla e sbattere la testa della
signorina Cope sul ripiano abbastanza forte da ucciderla. Due vite
invece di venti. Un affare.
Il mostro aspettava ansioso, affamato, che lo facessi.
Ma c’era sempre una scelta. Doveva esserci.
Bloccai il movimento dei polmoni e mi impressi davanti agli occhi
l’immagine del viso di Carlisle. Mi girai verso la signorina Cope e udii
la sua tacita sorpresa vedendo il cambiamento nella mia
espressione. Si ritrasse, ma la sua paura non si espresse in parole
coerenti.
Esercitando tutto il controllo che avevo imparato a padroneggiare
nei miei decenni di negazione autoinflitta, resi la mia voce
carezzevole. Mi era rimasta nei polmoni aria sufficiente per parlare
ancora una volta, ma molto in fretta.
«Non fa niente. Mi rendo conto che è impossibile. Molte grazie lo
stesso».
Mi girai e mi lanciai fuori dalla stanza tentando di non percepire il
calore sanguigno del corpo della ragazza mentre le passavo a pochi
centimetri di distanza.
Non mi fermai finché non arrivai alla mia macchina, muovendomi
troppo rapidamente per tutto il tragitto. La maggior parte degli umani
se n’era già andata, perciò non c’erano tanti testimoni. Udii uno del
secondo anno, D.J. Garrett, notarlo e poi lasciar correre.
Da dove è arrivato Cullen? Sembra che sia sbucato dal nulla...
ecco, ci risiamo con l’immaginazione. Mamma dice sempre...
Quando salii nella mia Volvo, gli altri erano già dentro. Tentai di
controllarmi, ma respiravo a pieni polmoni, come se avessi rischiato
di soffocare.
«Edward?», chiese Alice, con voce preoccupata.
Le risposi scuotendo la testa.
«Che diavolo ti è successo?», domandò Emmett, distraendosi
momentaneamente dal fatto che Jasper non era dell’umore per
dargli la rivincita.
Invece di rispondere, inserii la retromarcia, dovevo uscire da quel
parcheggio prima che Bella Swan potesse seguirmi anche lì. Il mio
demone interiore mi tormentava... feci manovra e accelerai.
Raggiunsi i sessanta all’ora prima di uscire dall’area. Sulla strada,
toccai i cento prima di girare l’angolo.
Senza guardare, sapevo che Emmett, Rosalie e Jasper si erano
girati a fissare Alice. Lei alzò le spalle. Non poteva vedere il passato,
ma soltanto quello che stava per accadere.
Guardò il mio futuro. Entrambi esaminammo quello che vedeva
nella sua mente, ed entrambi ne fummo sorpresi.
«Te ne andrai?», mormorò.
Gli altri passarono a fissare me.
«Davvero?», ringhiai a denti stretti.
Allora lo vide, mentre la mia decisione vacillava e un’altra scelta
deviava il mio futuro in una direzione più cupa.
«Oh».
Bella Swan, morta. I miei occhi arrossati dal sangue fresco. La
caccia che ne sarebbe seguita. Il tempo prudente che avremmo
aspettato prima che per noi fosse sicuro lasciare Forks e
ricominciare altrove...
«Oh», ripeté. Il quadro divenne più dettagliato. Vidi l’interno della
casa dell’ispettore Swan per la prima volta, vidi Bella in una piccola
cucina con i pensili gialli, mi voltava la schiena mentre io la seguivo
nascosto dalle ombre, lasciavo che il suo profumo mi attirasse verso
di lei...
«Basta!», gemetti, incapace di sopportare altro.
«Scusami», mormorò Alice.
Il mostro esultò.
E la visione nella mente di mia sorella cambiò ancora.
Un’autostrada vuota, di notte, gli alberi che la fiancheggiavano
coperti di neve, passavano a più di trecento all’ora.
«Mi mancherai», disse Alice. «Non importa quanto poco sarai
stato via».
Emmett e Rosalie si scambiarono un’occhiata piena d’ansia.
Eravamo quasi arrivati alla traversa sul lungo viale che portava
alla nostra casa.
«Lasciaci qui», mi ordinò Alice. «Dovresti essere tu stesso a dirlo
a Carlisle».
Annuii e l’auto stridette per la frenata improvvisa.
Emmett, Rosalie e Jasper uscirono in silenzio; avrebbero avuto
spiegazioni da Alice, dopo la mia partenza.
Alice mi toccò la spalla.
«Farai la cosa giusta», mormorò. Non era una visione, questa
volta, ma un ordine. «Lei è tutta la famiglia di Charlie Swan. La sua
morte ucciderebbe anche lui».
«Sì», dissi, d’accordo solo sulla seconda parte.
Scese dalla macchina per unirsi agli altri, con la fronte corrugata
dall’ansia. Li persi di vista nel folto della foresta, prima che potessi
girare l’auto.
Sapevo che la visione nella mente di Alice avrebbe lampeggiato
dal buio alla luminosità come una luce stroboscopica, mentre io
tornavo a Forks a tutta velocità. Non sapevo con certezza dove
stavo andando. A salutare mio padre? O ad abbracciare il mostro
dentro di me? La strada sfrecciava sotto le ruote.
2. LIBRO APERTO

Mi sdraiai, lasciando che il soffice cumulo di neve fresca


riprendesse forma sotto il mio peso. La mia pelle si era raffreddata
per adeguarsi all’aria e i frammenti di ghiaccio mi sembravano
velluto.
Sopra di me, il cielo era sereno, luccicante di stelle, soffuso di un
bagliore blu in alcuni punti, giallo in altri. Le stelle creavano forme
imponenti e vorticose contro lo sfondo nero dell’universo infinito –
una visione eccezionale. Sublime. O meglio, avrebbe dovuto essere
sublime. Lo sarebbe stata, se fossi stato capace di vederla.
Non stava andando affatto meglio. Erano passati sei giorni, sei
giorni durante i quali mi ero nascosto nella natura selvaggia e
disabitata di Denali ma, rispetto al momento in cui avevo sentito il
suo profumo, non mi ero avvicinato alla libertà nemmeno di un
passo.
Quando osservavo il cielo ingemmato, era come se fra i miei
occhi e la bellezza del cosmo ci fosse un intralcio. L’intralcio era un
volto, un comune volto umano, ma sembrava che io non riuscissi a
togliermelo dalla testa.
A un certo punto udii alcuni pensieri avvicinarsi, prima ancora dei
passi che li accompagnavano. Il rumore dei movimenti era soltanto
un sussurro sulla neve appena caduta.
Non mi sorprese che Tanya mi avesse seguito fin lì. Sapevo che,
negli ultimi giorni, aveva pensato e ripensato alla conversazione che
stavamo per avere, rimandandola finché non era stata sicura di
quello che voleva dire.
Comparve all’improvviso a circa cinquanta metri da me, saltando
sulla sporgenza di una roccia nera e restandoci in equilibrio sulla
punta dei piedi nudi.
Alla luce delle stelle, la pelle di Tanya era color argento e i suoi
lunghi riccioli biondi emanavano un bagliore chiaro, quasi rosato,
con una sfumatura color fragola. Mentre mi spiava, semisepolta nella
neve, i suoi occhi ambrati scintillarono e le labbra piene si stirarono
lentamente in un sorriso.
Splendida. Se fossi stato davvero in grado di vederla. Sospirai.
Non era vestita per essere vista da occhi umani: indossava
soltanto una sottile canottiera di cotone e un paio di pantaloncini.
Rannicchiandosi su uno spuntone di roccia, ne toccò la superficie
con la punta delle dita e il suo corpo scattò come una molla.
A palla di cannone, pensò.
Si lanciò in aria. La sua figura divenne un’ombra scura e roteante
mentre volteggiava con grazia fra me e le stelle. Si raccolse a palla
proprio quando colpì il banco di neve accanto a me.
Una valanga di fiocchi mi investì. Le stelle furono oscurate e io fui
sepolto dai delicati cristalli di ghiaccio.
Sospirai di nuovo, inalando il ghiaccio, ma non mi mossi per
uscire allo scoperto. Il buio sotto la neve non peggiorava, né
migliorava la visuale. Vedevo sempre lo stesso viso.
«Edward?».
E poi la neve volò via di nuovo mentre Tanya mi dissotterrava
rapidamente.
Mi ripulì la pelle dai fiocchi, evitando di guardarmi negli occhi.
«Scusa», mormorò. «Era uno scherzo».
«Lo so. È stato divertente».
Fece una smorfia triste.
«Irina e Kate hanno detto che avrei dovuto lasciarti in pace.
Pensano che io ti dia fastidio».
«Assolutamente no», la rassicurai. «Al contrario, sono io a essere
stato scortese... scortese in modo abominevole. Mi dispiace
moltissimo».
Torni a casa, vero?, pensò.
«Non ho... ancora deciso del tutto...».
Ma non resterai qui. Adesso il suo pensiero era malinconico.
«No. Pare che non sia poi così... utile».
Le sue labbra si contrassero in un broncio. «Colpa mia, vero?».
«Certo che no». Di sicuro non mi aveva reso le cose più facili, ma
l’unico vero impedimento era il viso che mi perseguitava.
Non fare il gentiluomo.
Le sorrisi.
Io ti metto a disagio, mi accusò.
«No».
Tanya sollevò un sopracciglio in un’espressione talmente
incredula che dovetti per forza scoppiare a ridere. Una risata breve,
seguita da un altro sospiro.
«Va bene», ammisi. «Un pochino».
Anche lei sospirò e appoggiò il mento fra le mani.
«Tanya, tu sei mille volte più deliziosa delle stelle. E sono sicuro
che tu lo sappia. Non lasciare che la mia ostinazione intacchi la tua
autostima». L’impossibilità che questo potesse accadere mi strappò
un sorriso.
«Non sono abituata ai rifiuti», brontolò lei, protendendo il labbro
inferiore in un adorabile broncio.
«Ne sono certo», ammisi, tentando con poco successo di
bloccare i suoi pensieri mentre lei ripassava brevemente i ricordi
delle migliaia di successi sentimentali che aveva avuto. Perlopiù,
Tanya preferiva maschi umani – erano molto più numerosi e
avevano anche il vantaggio di essere caldi e morbidi. E sempre
insaziabili, senza alcun dubbio.
«Succuba», la presi in giro per tentare di interrompere il flusso di
immagini nella sua testa.
Lei sorrise, facendo balenare i denti. «L’originale».
A differenza di Carlisle, Tanya e le sue sorelle avevano scoperto
le proprie coscienze lentamente. Alla fine, era stata la loro passione
per i maschi umani a spingerle a rifiutare il massacro. Adesso gli
uomini che amavano... vivevano.
«Quando ti sei presentato qui», disse lei lentamente, «ho pensato
che...».
Sapevo che cosa aveva pensato. E avrei dovuto immaginare che
si sarebbe sentita così. Ma in quel momento la mia capacità di
analisi era ottenebrata.
«Hai pensato che avessi cambiato idea».
«Sì». Aggrottò la fronte.
«Mi sento uno schifo per aver giocato con le tue aspettative,
Tanya. Non volevo... non ho proprio ragionato. Me ne sono andato e
basta, in... piuttosto in fretta».
«Immagino che non mi dirai perché».
Mi sedetti eretto e incrociai le braccia, con le spalle rigide.
«Preferirei non parlarne. Per favore, perdona il mio riserbo».
Lei tacque di nuovo, immersa ancora nelle sue riflessioni. La
ignorai e tentai, invano, di apprezzare le stelle.
Dopo un attimo di silenzio, Tanya lasciò perdere e i suoi pensieri
seguirono una nuova direzione.
Dove andrai se parti, Edward? Tornerai da Carlisle?
«Penso di no», mormorai.
Dove sarei andato?
Non riuscivo a pensare a un solo luogo in tutto il pianeta che mi
attirasse almeno un po’. Non c’era niente che volessi vedere o fare.
Perché il luogo non contava, io non sarei andato in nessun posto.
Sarei soltanto scappato. Detestavo questa situazione. Da quando
ero diventato un tale vigliacco?
Tanya mi circondò le spalle con il suo braccio esile. Io mi irrigidii,
ma non sussultai sotto il suo tocco. Era soltanto il conforto di
un’amica. Per la maggior parte.
«Io penso che tu tornerai», disse, con un vaghissimo accento
russo nella voce. «Non importa che cosa... o chi... ti stia
ossessionando. Lo affronterai di petto. Tipico di te».
I suoi pensieri erano sicuri quanto le sue parole. Tentai di
accogliere la visione di me stesso che vedeva lei. Quello che
affrontava le cose di petto. Era piacevole pensarmi di nuovo in quel
modo. Non avevo mai dubitato del mio coraggio, della mia capacità
di misurarmi con le difficoltà prima di quell’orribile ora passata a
seguire un corso di biologia per liceali.
Baciai la guancia di Tanya, ritraendomi rapidamente quando lei
girò il viso verso il mio. La mia fretta le strappò un sorriso triste.
«Grazie, Tanya. Avevo bisogno di sentire queste parole».
I suoi pensieri divennero petulanti. «Di niente, immagino. Vorrei
tanto che fossi più ragionevole su certe cose, Edward».
«Mi dispiace, Tanya. Sai che sei fin troppo, per me. È solo che io
non... non ho ancora trovato quello che sto cercando».
«Be’, se te ne vai prima che io ti veda ancora... arrivederci,
Edward».
«Arrivederci, Tanya». Pronunciai le parole e lo vidi. Vidi me
stesso andare via. Essere abbastanza forte per tornare nell’unico
luogo in cui volevo essere. «Di nuovo, grazie».
Con un movimento felino Tanya fu subito in piedi e, un istante
dopo, si era già allontanata correndo leggera sulla neve, tanto
velocemente che i suoi piedi non avevano il tempo di affondarvi. Non
lasciò impronte dietro di sé. Non si voltò. Il mio rifiuto la infastidiva
più di quanto avesse dato a vedere, persino nei suoi pensieri. Non
mi avrebbe rivisto prima della partenza.
La mia bocca assunse una piega amara. Non mi piaceva fare del
male a Tanya, anche se i suoi sentimenti erano superficiali, in ogni
caso erano qualcosa che non potevo ricambiare. Eppure, mi faceva
sentire un bruto.
Appoggiai il mento sulle ginocchia e osservai di nuovo le stelle,
anche se, all’improvviso, ero ansioso di rimettermi in viaggio.
Sapevo che Alice mi avrebbe visto tornare a casa, che lo avrebbe
detto agli altri. Li avrebbe resi felici, soprattutto Carlisle ed Esme. Ma
mi fermai un altro istante a guardare le stelle, cercando di vedere
oltre il viso nella mia testa. Fra me e le luci brillanti del cielo, un paio
d’occhi sconcertati, color cioccolato, che si chiedevano quali mai
potessero essere le mie ragioni e sembravano domandare cosa
avrebbe comportato la mia decisioneper lei. Certo, non potevo
essere sicuro che fosse davvero questa la spiegazione che
cercavano quegli occhi curiosi. Nemmeno con l’immaginazione
riuscivo a sentire i suoi pensieri. Gli occhi di Bella Swan
continuavano a interrogarmi e a impedirmi di vedere le stelle.
Con un gran sospiro, mi arresi e mi alzai in piedi. Se avessi
corso, sarei tornato all’auto di Carlisle in meno di un’ora.
Per la fretta di vedere la mia famiglia – e il desiderio di essere
l’Edward che affrontava le cose di petto – corsi, alla luce delle stelle,
sulla distesa innevata senza lasciare impronte.

«Andrà bene», sussurrò Alice. Aveva la vista sfocata e Jasper le


teneva una mano sotto il gomito per guidarla con delicatezza mentre
entravamo nella caffetteria fatiscente stretti in un solido gruppo.
Rosalie ed Emmett in testa, con Emmett che aveva l’aria ridicola di
una guardia del corpo al centro di un territorio nemico. Anche Rose
sembrava circospetta, ma molto più irritata che protettiva.
«Certo che andrà bene», brontolai. Si comportavano in modo
assurdo. Se non fossi stato più che sicuro di saper gestire quel
momento, sarei rimasto a casa.
L’improvviso passaggio dalla nostra normale, persino giocosa
mattina – durante la notte era nevicato ed Emmett e Jasper non si
erano fatti scrupolo di approfittare della mia distrazione per
bombardarmi con palle di neve fangosa; poi, quando la mia apatia li
aveva annoiati, se le erano tirate a vicenda – a quella vigilanza
esagerata sarebbe stato comico, se non fosse stato così irritante.
«Lei non c’è ancora, ma il modo in cui sta per arrivare... se ci
sediamo al nostro solito posto, lei non sarà sottovento».
«Certo che ci sediamo al nostro solito posto. Piantala, Alice. Mi
stai dando sui nervi. Starò benissimo».
Lei batté le palpebre una volta, mentre Jasper la aiutava a
sedersi, e finalmente mise a fuoco il mio viso.
«Uhm», disse, con una certa sorpresa. «Penso che tu abbia
ragione».
«Certo che ce l’ho», borbottai.
Detestavo essere il centro delle loro preoccupazioni. Provai
un’improvvisa comprensione per Jasper, ricordando tutte le volte in
cui gli eravamo stati addosso per proteggerlo. Lui incontrò il mio
sguardo per qualche secondo e sorrise.
Fastidioso, vero?
Gli lanciai un’occhiataccia.
Era passata soltanto una settimana da quando quella lunga sala
anonima mi era sembrata mortalmente noiosa? Da quando stare lì
mi era sembrato quasi come dormire, entrare in coma?
In quel momento i miei nervi erano tesi allo spasimo – come
corde di pianoforte, pronte a suonare alla minima pressione. I sensi
erano in iperallerta; esaminavo minuziosamente ogni suono, ogni
immagine, ogni movimento dell’aria che toccasse la mia pelle, ogni
pensiero. Soprattutto i pensieri. C’era soltanto un senso che tenevo
sottochiave e rifiutavo di usare. L’olfatto, ovviamente. Non respiravo.
Mi aspettavo di sentire molte più chiacchiere sui Cullen nei
pensieri che stavo vagliando. Le avevo attese per tutta la giornata,
cercando qualsiasi nuova conoscenza con la quale Bella Swan
poteva essersi confidata, tentando di vedere quale direzione
avrebbe preso il nuovo pettegolezzo. Ma non c’era niente. Nessuno
notò i cinque vampiri nella caffetteria, proprio come accadeva prima
che arrivasse la nuova ragazza. Parecchi degli umani presenti
stavano ancora pensando a lei, gli stessi pensieri della settimana
precedente. Ma invece di trovarlo indicibilmente noioso, adesso mi
affascinava.
Non aveva detto niente a nessuno, su di me?
Era impossibile che non avesse notato l’occhiata omicida che le
avevo lanciato. L’avevo vista reagire. Sicuramente l’avevo
traumatizzata. Ero convinto che ne avrebbe parlato a qualcuno,
forse persino esagerando per rendere la storia più interessante. Che
mi avrebbe attribuito qualche battuta minacciosa.
E poi mi aveva sentito mentre tentavo di tirarmi fuori dal corso di
biologia. Doveva aver immaginato, dopo aver visto la mia
espressione, che forse era lei la causa. Una ragazza normale
avrebbe chiesto in giro, confrontato la propria esperienza con quella
degli altri, cercato un fondamento comune che avrebbe spiegato il
mio comportamento, in modo da non sentirsi presa di mira. Gli
umani erano sempre ansiosi di sentirsi normali, adeguati. Di
confondersi con tutti quelli che avevano intorno, come un gregge di
pecore anonime. Era un desiderio particolarmente acuto durante gli
anni insicuri dell’adolescenza. Quella ragazza non avrebbe fatto
eccezione.
Ma nessuno di loro prestò particolare attenzione a noi, seduti al
solito tavolo. Bella doveva essere un tipo eccezionalmente timido, se
non si era confidata con nessuno. Forse aveva parlato con suo
padre; forse era quello il suo legame più forte... anche se sembrava
improbabile, dato che aveva trascorso così poco tempo con lui, in
tutta la sua vita. Probabilmente era più vicina a sua madre. Eppure,
qualche volta sarei dovuto passare vicino alla casa dell’ispettore
Swan e ascoltare i suoi pensieri.
«Novità?», domandò Jasper.
Mi concentrai, consentendo al brulicare di tutti i pensieri di
invadere di nuovo la mia mente. Non c’era niente di rilevante;
nessuno stava pensando a noi. Malgrado le mie recenti
preoccupazioni, sembrava che le mie abilità funzionassero come
sempre, ragazza silenziosa a parte. Dopo essere tornato, avevo
parlato delle mie ansie con Carlisle, ma lui aveva sempre e soltanto
sentito dire che i doni miglioravano e si rafforzavano con la pratica.
Mai il contrario.
Jasper aspettava con impazienza.
«Niente. Lei... molto probabilmente non ha detto niente a
nessuno». L’informazione li stupì tutti.
«Forse non sei poi così spaventoso come credevi», disse
Emmett, ridacchiando. «Scommetto che io avrei saputo spaventarla
meglio di così».
Alzai gli occhi al cielo.
«Mi chiedo perché...?». Continuava a scervellarsi sulla mia
rivelazione riguardo l’eccezionale silenzio della ragazza.
«Quello è un discorso chiuso. Non lo so».
«Sta arrivando», mormorò Alice. «Cercate di sembrare umani».
«Umani, dici?», domandò Emmett.
Sollevò il pugno destro e aprì le dita per rivelare la palla di neve
che aveva conservato nel palmo. Non si era sciolta, l’aveva
compressa fino a farla diventare un blocco di ghiaccio granuloso.
Aveva lo sguardo su Jasper, ma io vidi la direzione dei suoi pensieri.
Come Alice, ovviamente. Quando lui, all’improvviso, le lanciò
addosso il pezzo di ghiaccio, lei lo deviò con un semplice colpetto
delle dita. Il ghiaccio rimbalzò per tutta la lunghezza della caffetteria,
troppo veloce per poter essere visto da occhi umani, e si frantumò
con uno schianto secco contro il muro di mattoni. Si ruppe anche il
muro.
Le teste in quell’angolo della sala si girarono tutte per fissare il
cumulo di ghiaccio sul pavimento e poi si rigirarono a destra e
sinistra per trovare il colpevole. Non guardarono oltre pochi tavoli più
in là. Nessuno guardò verso di noi.
«Molto umano, Emmett», commentò Rosalie, in tono aspro.
«Perché non prendi a pugni il muro, già che ci sei?».
«Sarebbe più sensazionale se lo facessi tu, splendore».
Io tentavo di seguirli, mantenendo un sorriso fisso in faccia, come
se partecipassi ai loro scambi di battute. Non osavo guardare verso
la fila nella quale si trovava lei. Ma era quella l’unica cosa che stavo
ascoltando.
Sentii l’impazienza di Jessica con la nuova compagna che
sembrava distratta, visto che rimaneva ferma nella fila in movimento.
Vidi, nei pensieri di Jessica, che le guance di Bella Swan erano di
nuovo arrossate.
Presi alcuni respiri corti e brevi, pronto a smettere se un qualsiasi
accenno di profumo avesse toccato l’aria intorno a me.
Con le due ragazze c’era anche Mike Newton. Udii tutt’e due le
sue voci, quella mentale e quella verbale, quando chiese a Jessica
che problema avesse la Swan. Era disgustoso il modo in cui i suoi
pensieri le si stringevano intorno, il balenare di fantasie che gli
ottenebravano la mente mentre la guardava sussultare e scuotersi
dal suo torpore, come se avesse dimenticato che c’era anche lui.
«Niente», sentii rispondere Bella con quella voce sommessa e
limpida. Parve risuonare come una campanella al di sopra del
chiacchiericcio della caffetteria, ma sapevo che era soltanto perché
la stavo ascoltando con tutta la mia concentrazione.
«Oggi prendo soltanto una soda», continuò lei, mentre si
spostava per raggiungere la fila.
Non potei fare a meno di lanciarle un’occhiata. Stava fissando il
pavimento, mentre le sue guance perdevano lentamente colore.
Girai subito lo sguardo su Emmett che, davanti al sorriso ormai
imbalsamato che avevo in faccia, si fece una risata.
Sembri malato, fratello mio.
Risistemai i miei lineamenti in modo che l’espressione apparisse
disinvolta e naturale.
Jessica si stava interrogando ad alta voce sulla mancanza di
appetito della compagna. «Non hai fame?».
«A dir la verità, non mi sento tanto bene». La voce di Bella era
più bassa, ma ancora molto chiara.
Perché mi infastidiva la preoccupazione protettiva che
all’improvviso si irradiò dai pensieri di Mike Newton? Che
m’importava se avevano una sfumatura possessiva? Non erano
affari miei se Mike Newton si sentiva inutilmente in ansia per lei.
Forse questa era la reazione di tutti.
Non avevo provato anch’io l’istinto di proteggerla? Cioè, prima di
volerla uccidere...
Ma la ragazza era malata?
Difficile dirlo, sembrava così delicata con quella pelle
trasparente... Poi mi resi conto che mi stavo preoccupando
esattamente come quell’idiota e mi sforzai di non pensare alla sua
salute.
In ogni caso, mi dava fastidio tenere sotto controllo i suoi pensieri
attraverso quelli di Mike. Passai a quelli di Jessica, facendo molta
attenzione al tavolo che scelsero. Per fortuna si sedettero a quello
solito degli amici di Jessica, uno dei primi della sala. Non sottovento,
come aveva promesso Alice.
Mia sorella mi diede di gomito. Sta per guardarti. Fai l’umano.
Dietro il sorriso, strinsi i denti.
«Rilassati, Edward», disse Emmett. «Sinceramente. Ammettiamo
pure che uccidi un essere umano. Non penso proprio che sia la fine
del mondo».
«Dovresti saperlo», mormorai.
Emmett rise. «Devi imparare a lasciarti le cose alle spalle. Come
faccio io. L’eternità è un tempo lungo per passarlo a piangere sui
sensi di colpa».
Proprio in quel momento, Alice gettò in faccia a Emmett una
manciatina di ghiaccio che aveva tenuto nascosta.
Lui batté le palpebre, sorpreso, poi sorrise, preparandosi.
«L’hai voluto tu», disse, mentre si protendeva sul tavolo e
scuoteva verso di lei i capelli incrostati di ghiaccio. La neve,
sciogliendosi al caldo della sala, si trasformò in una pioggia mista di
ghiaccio e acqua.
«Bleah!», esclamò Rose, mentre lei e Alice balzavano indietro.
Alice scoppiò a ridere e noi con lei. Vidi nella sua mente come
avesse orchestrato quel momento perfetto e sapevo che la ragazza
– dovevo smetterla di pensare a lei in quel modo, come se fosse
l’unica ragazza al mondo – che Bella ci avrebbe visti ridere e
scherzare, felici, umani e irrealisticamente ideali come un quadro di
Norman Rockwell. Alice continuava a ridere e sollevò il vassoio
come uno scudo. Evidentemente la ragazza – Bella – ci stava
ancora guardando.
...ancora guardando i Cullen, pensò qualcuno, attirando la mia
attenzione.
Guardai istintivamente verso l’involontario richiamo, riconoscendo
facilmente la voce quando i miei occhi trovarono la loro destinazione.
L’avevo ascoltata così tanto, quel giorno.
Ma i miei occhi scivolarono oltre Jessica e si concentrarono sullo
sguardo penetrante della sua compagna.
Lei lo abbassò rapidamente, nascondendosi di nuovo dietro la
massa dei capelli.
A cosa stava pensando? Il passare del tempo pareva acuire la
mia frustrazione, invece che attenuarla. Tentai – esitando, perché
non lo avevo mai fatto prima – di sondare con la mente il silenzio
che la circondava. L’udito extra era sempre arrivato a me in modo
naturale, senza chiedere; non avevo mai dovuto lavorarci. Ma in quel
momento mi concentrai e tentai di sfondare l’armatura che la
proteggeva, qualsiasi cosa fosse.
Silenzio, soltanto silenzio.
Ma che accidenti ha, lei?, pensò Jessica, facendo eco alla mia
stessa irritazione.
«Edward Cullen ti sta fissando», mormorò all’orecchio della
Swan, aggiungendoci un sorrisetto. Nel suo tono non c’era alcuna
traccia di fastidio o gelosia. A quanto pare, Jessica era bravissima a
fingersi amica di qualcuno.
Ascoltai, fin troppo preso, la risposta della ragazza.
«Non sembra arrabbiato, vero?», mormorò lei.
E così aveva notato la mia reazione violenta della settimana
precedente. Certo che l’aveva notata.
La domanda mandò Jessica in confusione. Mi vidi riflesso nei
suoi pensieri mentre esaminava la mia espressione, ma non
incrociai il suo sguardo. Ero ancora concentrato sulla ragazza
mentre cercavo di udire qualcosa. La concentrazione intensa
sembrò non aiutare affatto.
«No», le disse Jess, e sapevo che avrebbe tanto voluto dire sì –
quanto le bruciava quel mio guardare – anche se nella sua voce non
traspariva. «Dovrebbe esserlo?».
«Penso di non piacergli», mormorò la ragazza, appoggiando la
testa sul braccio come se fosse improvvisamente stanca. Tentai di
interpretare quel gesto, ma potei soltanto tirare a indovinare. Forse
era stanca.
«Ai Cullen non piace nessuno», la rassicurò Jess. «Be’, non
fanno proprio granché caso agli altri per considerarli». Non lo hanno
mai fatto. Il suo pensiero era un borbottio lamentoso. «Ma lui
continua a fissarti».
«Smettila di guardarlo», le intimò in tono ansioso la ragazza,
sollevando la testa dal braccio per accertarsi che Jessica le
obbedisse.
Jessica ridacchiò, ma fece quanto richiesto.
La ragazza non staccò gli occhi dal tavolo per il resto dell’ora.
Pensai – anche se, ovviamente, non potevo averne la certezza –
che fosse intenzionale. Sembrava che lei volesse guardarmi. Il suo
corpo scivolava leggermente verso di me, il mento cominciava a
girarsi e poi si riprendeva, inspirava profondamente e guardava fisso
chiunque stesse parlando.
Ignorai la maggior parte dei pensieri che le giravano intorno
perché, al momento, non la riguardavano. Mike Newton stava
programmando una battaglia di palle di neve nel parcheggio dopo la
scuola senza rendersi conto, apparentemente, che la neve aveva già
cominciato a diventare pioggia. Il volteggiare dei morbidi fiocchi di
neve contro il tetto si era trasformato nel più comune ticchettio di un
acquazzone. Davvero non riusciva a sentire il cambiamento? A me
sembrava assordante.
Quando la pausa pranzo terminò, io rimasi al mio posto. Gli
umani uscirono in fila e io mi sorpresi a tentare di distinguere il
suono dei passi di Bella dagli altri, come se avessero qualcosa di
importante o insolito. Che stupido.
Neanche i miei fratelli si mossero per andar via. Aspettavano di
vedere che cosa avrei fatto.
Sarei andato a lezione, mi sarei seduto accanto alla ragazza,
dove potevo annusare il profumo incredibilmente potente del suo
sangue e sentirne il calore pulsante nell’aria che mi sfiorava la pelle?
Ero abbastanza forte per tutto ciò? O ne avevo avuto abbastanza
per un giorno solo?
Come famiglia, avevamo già analizzato questo momento da ogni
angolazione possibile. Carlisle disapprovava il rischio, ma non mi
avrebbe imposto la sua volontà. Jasper disapprovava quasi quanto
lui, ma più per paura di esporsi piuttosto che per scrupolo nei
confronti degli umani. Rosalie si preoccupava soltanto di come
avrebbe influenzato la sua vita. Alice vedeva talmente tanti futuri
oscuri e in contrasto fra loro che le sue visioni erano insolitamente
inutili. Esme pensava che io non potessi sbagliare. Ed Emmett
voleva soltanto confrontare esperienze analoghe che aveva vissuto.
Aveva coinvolto Jasper nelle sue reminiscenze, anche se la storia di
Jasper con l’autocontrollo era talmente breve e incostante che quasi
sicuramente non poteva essersi trovato in una conflittualità
altrettanto paragonabile. Dal canto suo, Emmett rammentava due
incidenti simili. I ricordi che ne aveva non erano incoraggianti. Ma
all’epoca era giovane e non ancora così votato all’autocontrollo. Di
sicuro, io ero più forte.
«Io... penso che sia okay», disse Alice, esitante. «Hai preso la tua
decisione. Penso che riuscirai ad arrivare alla fine dell’ora».
Ma sapeva bene quanto rapidamente un’idea potesse cambiare.
«Perché rischiare, Edward?», domandò Jasper. Anche se non
voleva godere del fatto che, adesso, ero io quello debole, sentii che
lo faceva, appena un po’.
«Vai a casa. Prendila con calma».
«Dove sta il problema?», obiettò Emmett. «O la uccide, oppure
no. Tanto vale togliersi il pensiero».
«Non voglio traslocare ancora», si lamentò Rosalie. «Non voglio
ricominciare da capo. Siamo quasi fuori dal liceo, Emmett.
Finalmente».
La scelta mi tormentava. Volevo, volevo disperatamente
affrontare la situazione di petto piuttosto che scappare di nuovo. Ma
non volevo nemmeno spingermi troppo oltre. Per Jasper, la scorsa
settimana era stato un errore andare avanti così a lungo senza
cacciare; anche questo era un errore inutile?
Non volevo sradicare la mia famiglia. Nessuno di loro mi avrebbe
ringraziato.
Ma volevo andare alla mia lezione di biologia. Mi resi conto che
volevo rivedere il viso di Bella.
Fu questo a decidere per me. Questa curiosità. Ero arrabbiato
con me stesso perché mi sentivo così. Non mi ero forse ripromesso
di non lasciare che il silenzio della mente della ragazza provocasse
in me un interesse eccessivo? Eppure, eccomi qui, eccessivamente
interessato.
Volevo sapere che cosa stava pensando. La sua mente era
chiusa, ma gli occhi erano ben aperti. Forse potevo leggere quelli.
«No, Rose, penso davvero che andrà tutto bene», disse Alice.
«Si sta... stabilizzando. Sono sicura al novantatré per cento che non
succederà niente di brutto se va a lezione». Mi guardò con aria
interrogativa, chiedendosi cosa fosse cambiato nei miei pensieri che
avesse reso la sua visione del futuro più sicura.
La curiosità sarebbe stata sufficiente a tenere in vita Bella Swan?
Emmett aveva ragione, però: perché non togliersi il pensiero, in un
modo o nell’altro? Avrei affrontato di petto la tentazione.
«A lezione», ordinai, spingendomi via dal tavolo. Mi girai e mi
allontanai a grandi passi da loro, senza voltarmi. Sentivo la
preoccupazione di Alice, la censura di Jasper, l’approvazione di
Emmett e l’irritazione di Rosalie seguirmi come una scia.
Sulla porta dell’aula presi un ultimo respiro profondo e poi lo
trattenni nei polmoni mentre entravo nel piccolo ambiente
surriscaldato.
Non ero in ritardo. Il professor Banner stava ancora disponendo
tutto per il laboratorio. La ragazza sedeva al mio – al nostro – banco,
il viso di nuovo basso mentre guardava con insistenza il quaderno
che stava scarabocchiando. Mentre mi avvicinavo esaminai il
disegno, interessato anche a quella banale creazione della sua
mente, ma era privo di significato. Soltanto un casuale scarabocchio
di cerchi concentrici. Magari non era focalizzata sul disegno, ma
pensava ad altro?
Tirai indietro la sedia con una rudezza non necessaria, lasciando
che grattasse il linoleum – gli umani si sentivano sempre più
tranquilli quando un rumore annunciava l’arrivo di qualcuno.
Sapevo che lei mi aveva sentito; non alzò gli occhi, ma la sua
mano saltò un cerchio nello schema che stava disegnando,
rompendone la simmetria.
Perché non alzava lo sguardo? Probabilmente era spaventata.
Dovevo essere sicuro di lasciarla con un’impressione diversa,
questa volta. Farle pensare di aver immaginato cose inesistenti.
«Ciao», dissi con la voce sommessa che usavo quando volevo
mettere gli umani a loro agio, formando con le labbra un sorriso
educato che non avrebbe mostrato i denti.
In quel momento lei sollevò lo sguardo, gli occhi scuri grandi,
stupiti e pieni di domande silenziose. Era la stessa espressione che
si era imposta alla mia vista durante l’ultima settimana.
Mentre guardavo in quegli occhi stranamente intensi – il colore
era quello del cioccolato al latte, ma la limpidezza era più simile a
quella del tè forte, c’erano profondità e trasparenza; vicino alle
pupille erano screziati di verde agata e caramello dorato – mi resi
conto che il mio odio, l’odio che avevo immaginato lei meritasse per
il semplice fatto di esistere, era svanito. Ora che non respiravo, ora
che non sentivo il suo profumo, trovavo difficile credere che una
persona così vulnerabile potesse mai meritare di essere odiata.
Lei cominciò ad arrossire e non disse niente.
Continuai a guardarla, concentrandomi soltanto sui suoi abissi
pieni di domande e tentai di ignorare l’appetitoso colore della sua
pelle. Avevo in serbo fiato sufficiente per parlare ancora un po’
senza inalare.
«Mi chiamo Edward Cullen», dissi, sebbene lei lo sapesse già.
Era il modo educato per cominciare. «La settimana scorsa non ho
avuto occasione di presentarmi. Tu devi essere Bella Swan».
Lei parve confusa, fra i suoi occhi ricomparve quella piccola
grinza. Per rispondere impiegò mezzo secondo in più del
necessario.
«Co... come fai a conoscere il mio nome?», domandò, e la sua
voce ebbe un leggero tremito.
Dovevo averla sinceramente terrorizzata e questo mi fece sentire
in colpa. Feci una risata gentile – era un suono che, come sapevo,
metteva gli umani più a loro agio.
«Oh, penso che tutti sappiano come ti chiami». Sicuramente
doveva essersi resa conto di essere diventata il centro
dell’attenzione di quel luogo noioso.
«La città intera ti stava aspettando».
Lei corrugò la fronte, come se questa informazione le fosse
sgradita. Immaginai che, essendo timida come sembrava,
considerasse l’attenzione una brutta cosa. La maggior parte degli
umani la pensava diversamente. Anche se non volevano distinguersi
dal gregge, allo stesso tempo smaniavano per avere un riflettore
puntato sulla loro individuale uniformità.
«No», rispose. «Intendevo, come mai mi hai chiamato Bella».
«Preferisci che ti chiami Isabella?», le chiesi, confuso perché non
riuscivo a vedere dove volesse arrivare con quella domanda. Non
capivo. Lei aveva chiarito molto bene e più volte quale fosse la sua
preferenza già dal primo giorno. Tutti gli esseri umani erano così
incomprensibili, se non avevi un contesto mentale a fare da guida?
Quanto dovevo aver fatto affidamento su quel senso in più. Senza,
sarei stato quindi completamente cieco?
«No, Bella mi piace», rispose lei, chinando leggermente la testa
di lato. La sua espressione, se la stavo interpretando correttamente,
era un conflitto fra imbarazzo e confusione. «Ma Charlie – voglio
dire, mio padre – quando parla di me credo mi chiami Isabella: a
quanto pare qui tutti mi conoscono con quel nome». La sua pelle si
tinse di un rosa più scuro.
«Ah», dissi, e guardai rapidamente altrove.
Mi ero appena reso conto del significato della sua domanda:
avevo fatto uno scivolone, un errore. Se non avessi origliato le
conversazioni di tutti, quel primo giorno, all’inizio l’avrei chiamata con
il suo nome intero. Aveva notato la differenza.
Provai una punta di imbarazzo. Si era accorta subito della mia
cantonata. Molto astuta, soprattutto per una che sembrava
terrorizzata dalla mia vicinanza.
Ma avevo problemi più grandi dei sospetti che lei poteva tenere
ben chiusi dentro la sua testa.
Ero a corto d’aria. Se le avessi parlato ancora, avrei dovuto
inspirare.
Sarebbe stato difficile evitare di parlare. Sfortunatamente,
condividere con me quel banco faceva di lei la mia compagna di
laboratorio e quel giorno avremmo dovuto lavorare insieme. Sarebbe
sembrato strano, e inspiegabilmente scortese, se l’avessi ignorata
durante l’esperimento. L’avrebbe resa più sospettosa, più intimorita.
Mi scostai da lei il più possibile senza muovermi dalla sedia,
girando la testa verso lo spazio fra i banchi. Mi preparai, bloccai i
muscoli al loro posto e poi inspirai una lunga boccata d’aria, soltanto
con la bocca.
Ah!
Provai un dolore intenso, come se ingoiassi dei carboni ardenti.
Anche senza annusare il suo profumo, potevo sentirne il sapore
sulla lingua. La bramosia fu violenta esattamente come lo era stata
nel primo momento in cui avevo percepito il suo odore la settimana
prima.
Strinsi i denti e tentai di riprendermi.
«Iniziate pure», ordinò il professor Banner.
Dovetti usare ogni grammo dell’autocontrollo che avevo raggiunto
in settantaquattro anni di duro lavoro per girarmi verso la ragazza,
che aveva lo sguardo rivolto al banco, e sorridere.
«Prima le donne, collega?», proposi.
Lei alzò gli occhi per guardarmi e il suo viso divenne pallido.
C’era qualcosa che non andava? Nelle sue iridi vidi riflessa la solita
espressione amichevole che riservavo agli umani. La facciata
sembrava perfetta. Era di nuovo spaventata? Non parlava.
«Se vuoi comincio io», dissi, a bassa voce.
«No», rispose, e arrossì di nuovo. «Faccio io».
Osservai gli strumenti sul banco – il microscopio malconcio, la
scatola dei vetrini – piuttosto che guardare il sangue affluire e
defluire sotto la sua pelle chiara. Presi un altro respiro veloce, fra i
denti, e sussultai quando il sapore mi bruciò la gola.
«Profase», disse, dopo un rapido esame. Poi cominciò a
rimuovere il vetrino, anche se l’aveva guardato appena.
«Ti dispiace se do un’occhiata?». Istintivamente – stupidamente,
come se fossi della sua stessa razza – tesi la mano per impedirle di
spostare il vetrino. Per un secondo, il calore della sua pelle bruciò
sulla mia. Fu come una scarica elettrica, il calore mi colpì le dita e
risalì lungo il braccio. Lei strappò via la mano da sotto la mia.
«Scusa», mormorai. Avevo bisogno di guardare da qualche parte,
quindi afferrai il microscopio e osservai attraverso la lente. Aveva
ragione lei.
«Profase», concordai.
Ero ancora troppo turbato per guardarla. Respirando fra i denti
più silenziosamente possibile e cercando di ignorare l’arsura, mi
concentrai sull’obiettivo più facile, e cioè compilare correttamente il
foglio di lavoro e poi cambiare il primo reperto con quello successivo.
Che cosa stava pensando? Che sensazione aveva provato
quando le avevo toccato la mano? La mia pelle doveva essere stata
fredda come il ghiaccio, repellente. Non mi meravigliava che fosse
così silenziosa. Diedi un’occhiata al vetrino.
«Anafase», mormorai, mentre lo scrivevo nella seconda riga.
«Posso?», domandò lei.
Alzai lo sguardo e fui sorpreso di vederla in attesa impaziente,
con una mano leggermente protesa verso il microscopio. Non
sembrava impaurita. Pensava davvero che avessi sbagliato la
risposta?
Non potei fare a meno di sorridere di fronte all’espressione
speranzosa sul suo viso, mentre le passavo il microscopio.
Guardò nella lente con un’impazienza che, ben presto, svanì. La
sua bocca assunse una piega delusa.
«Numero tre?», domandò, allungando la mano senza alzare gli
occhi dal microscopio. Le lasciai cadere sul palmo il reperto, stavolta
tenendo la mia pelle lontana dalla sua. Essere seduto accanto a lei
era come essere seduto accanto a una lampada a infrarossi. Il suo
calore scaldava anche me.
Bella non guardò a lungo nel microscopio. «Interfase», disse,
noncurante – forse sforzandosi un po’ troppo per sembrarlo – e mi
passò lo strumento. Non toccò il foglio, ma aspettò che fossi io a
scrivere la risposta. Controllai: ancora una volta era quella giusta.
Continuammo così fino alla fine, pronunciando una parola alla
volta e senza mai guardarci negli occhi. Fummo gli unici a terminare
il compito – gli altri stavano avendo parecchie difficoltà. Mike Newton
sembrava avere problemi a concentrarsi perché tentava di tenere
d’occhio me e Bella.
Vorrei tanto che se ne fosse rimasto là dove se n’era andato,
ovunque fosse, pensò Mike, lanciandomi un’occhiata al vetriolo.
Interessante. Non mi ero reso conto che il ragazzo covasse una
particolare ostilità nei miei confronti. A quanto pare era uno sviluppo
recente, più o meno quanto l’arrivo della ragazza. E, cosa ancora più
interessante, scoprii con mia sorpresa che ricambiavo i suoi
sentimenti.
Tornai a guardare Bella, sconcertato dalla vastità del caos e dei
disordini che, malgrado la sua apparenza ordinaria e inoffensiva,
stava portando nella mia vita.
Capivo perfettamente a cosa mirasse Mike. Per essere
un’umana, la ragazza era carina, anche se non convenzionale. Il suo
viso non era bello, era qualcosa di più... era inaspettato. Non proprio
simmetrico, con il mento troppo piccolo rispetto agli zigomi, violento
nei contrasti cromatici, pelle chiarissima e capelli scuri, e poi c’erano
gli occhi, troppo grandi per il suo viso, traboccanti di segreti
silenziosi...
Occhi che, d’un tratto, stavano scavando nei miei.
La fissai a mia volta, tentando di indovinare almeno uno di quei
segreti.
«Porti le lenti a contatto?», mi chiese, bruscamente.
Che strana domanda. «No». L’idea che potessi migliorare la mia
vista mi fece quasi sorridere.
«Oh», mormorò. «Mi sembrava di aver notato qualcosa di diverso
nei tuoi occhi».
D’un tratto, sentii un’ondata di freddo quando mi resi conto che
non ero il solo a caccia di segreti, quel giorno.
Alzai le spalle, rigido, e guardai dritto nel punto in cui il professore
stava facendo i suoi giri fra i banchi.
Certo che c’era qualcosa di diverso nei miei occhi dall’ultima volta
in cui lei li aveva guardati. Per prepararmi alla prova di quel giorno,
alla tentazione di quel giorno, avevo trascorso l’intero fine settimana
a cacciare, soddisfacendo il più possibile la mia sete, anche in modo
eccessivo. Mi ero saziato con sangue animale, ma non faceva molta
differenza di fronte all’aroma scandaloso che aleggiava nell’aria
intorno alla ragazza. Quando l’avevo guardata l’ultima volta, i miei
occhi erano neri a causa della sete. Adesso, con il corpo che
nuotava nel sangue, i miei occhi erano di un caldo colore dorato, più
chiaro dell’ambra.
Un’altra cantonata. Se avessi capito che cosa intendeva con la
sua domanda, avrei risposto semplicemente di sì.
Sedevo in mezzo agli umani di quella scuola ormai da due anni, e
lei era la prima a esaminarmi tanto minuziosamente da notare il
cambiamento nel colore delle mie iridi. Gli altri, anche se
ammiravano la nostra bellezza, tendevano ad abbassare subito gli
occhi quando noi ricambiavamo i loro sguardi. Restavano a distanza,
evitavano di notare i dettagli del nostro aspetto perché,
istintivamente, non volevano capire. L’ignoranza era un balsamo per
la mente umana.
Perché doveva essere proprio questa ragazza a vedere troppo?
Il professor Banner si avvicinò al nostro banco. Inspirai con
gratitudine la ventata d’aria fresca che portò con sé, prima che
potesse mescolarsi al suo profumo.
«Scusa, Edward», disse il professore, controllando le nostre
risposte, «perché non hai lasciato usare il microscopio anche a
Isabella?».
«Bella», lo corressi automaticamente. «A dire la verità, è stata lei
a identificarne tre su cinque».
Lessi lo scetticismo nei pensieri del professore, mentre si girava a
guardare la ragazza.
«Hai già fatto prima questo esperimento?».
La guardai, assorto, mentre sorrideva timidamente.
«Non con radici di cipolla».
«Embrioni di coregone?», domandò il professore.
«Sì».
Il professore si stupì. Aveva preso l’esercizio che ci aveva
assegnato quel giorno dal corso dell’ultimo anno. Rivolse a Bella un
cenno d’approvazione.
«A Phoenix frequentavi le lezioni del programma avanzato?».
«Sì».
Era a livello avanzato, allora. Intelligente, per un’umana. La cosa
non mi sorprese.
«Bene», disse il professor Banner, «penso sia il caso che voi due
lavoriate assieme». Si girò e, mentre si allontanava, borbottò: «Così
almeno gli altri ragazzi avranno una possibilità di imparare qualcosa
da soli». Dubitai che lei riuscisse a sentirlo. Infatti ricominciò a
scarabocchiare cerchi sul quaderno.
Due scivoloni in mezz’ora, fino a quel momento. Uno spettacolo
decisamente indegno, da parte mia. Sebbene non avessi idea di
quello che pensava di me – quanta paura provava, quanti sospetti
aveva? – sapevo di dovermi sforzare di più per darle un’impressione
diversa. Qualcosa per soffocare il ricordo del nostro ultimo, feroce
incontro.
«Peccato per la neve, eh?», dissi, ripetendo le chiacchiere che
avevo sentito fare da dozzine di studenti. Un argomento di
conversazione noioso e normale. Il tempo. Sempre una sicurezza.
Lei mi guardò palesemente dubbiosa, una reazione anormale alle
mie parole molto normali. «Non direi».
Tentai di riportare la conversazione su argomenti banali. Lei
veniva da un luogo molto più caldo e soleggiato – la sua pelle
sembrava rifletterlo, in un certo modo, malgrado la sua chiarezza – e
il freddo doveva infastidirla. Sicuramente lo aveva fatto la mia mano.
«Il freddo non ti piace», indovinai.
«Neanche l’umido», ammise lei.
«Per te dev’essere difficile vivere a Forks». Forse non saresti
dovuta venire qui, volevo aggiungere. Forse dovresti tornare a casa
tua.
Ma non ero sicuro di volerlo. Avrei ricordato per sempre il
profumo del suo sangue. Cosa mi garantiva che, alla fine, non l’avrei
seguita? Oltretutto, se fosse andata via, la sua mente sarebbe
rimasta per sempre un mistero, un enigma costante e assillante.
«Non lo immagini neppure», disse a bassa voce, lanciando
un’occhiataccia dietro di me.
Le sue risposte non erano mai quelle che mi aspettavo. Mi
facevano venire voglia di fare altre domande.
«Ma allora, perché sei venuta qui?», le chiesi, ma mi accorsi
subito che avevo un tono troppo accusatorio e non abbastanza
leggero per la conversazione. La domanda suonò sgarbata,
incalzante.
«È... una storia complicata».
Batté le palpebre, senza aggiungere altro, e io rischiai di
implodere per la curiosità che, in quel momento, bruciò quasi quanto
l’arsura in gola. A dir la verità, scoprii che respirare stava diventando
leggermente più facile; mi stavo abituando alla sofferenza.
«Penso di poterla capire», insistei. Forse una normale cortesia
l’avrebbe incoraggiata a rispondere alle mie domande, finché fossi
stato abbastanza maleducato da farne.
Lei rimase in silenzio a fissarsi le mani. Mi spazientii. Avrei voluto
metterle una mano sotto il mento e sollevarle il viso in modo da poter
leggere i suoi occhi. Ma, ovviamente, non avrei mai potuto toccare di
nuovo la sua pelle.
Fu lei ad alzare la testa, all’improvviso. Fu un sollievo poter
vedere le emozioni nei suoi occhi. Lo disse tutto insieme, parlando in
fretta.
«Mia madre si è risposata».
Ah, questo era tipicamente umano, facile da capire. Sul suo viso
passò un’ombra di sofferenza che fece ricomparire la piccola grinza
fra le sopracciglia.
«Non sembra così complicato», dissi, con una voce che risultò
gentile senza che mi sforzassi di renderla tale. Il suo sconforto era
stranamente disarmante e mi faceva desiderare di poter fare
qualcosa per farla sentire meglio. Un impulso strano.
«Quando è stato?».
«Settembre». Le sfuggì un sospiro grave, non proprio un
singhiozzo. Per un attimo, mi paralizzai mentre il suo respiro caldo
mi sfiorava il viso.
«E lui non ti piace», ipotizzai dopo quella breve pausa, cercando
ancora altre informazioni.
«No, Phil va bene», rispose lei, correggendomi. Adesso c’era
l’ombra di un sorriso agli angoli delle sue labbra piene. «Forse
troppo giovane, ma un bel tipo».
La descrizione non si adattava allo scenario mentale che mi ero
costruito.
«Perché non sei rimasta con loro?». Il mio tono era troppo avido;
davo l’impressione di voler ficcare il naso. Cosa che, in effetti, era la
verità.
«Phil viaggia molto. Gioca a baseball. È un professionista». Il
sorriso si accentuò; quella scelta lavorativa la divertiva.
Anch’io sorrisi, involontariamente. Non stavo tentando di farla
sentire a suo agio. Ma il suo sorriso mi faceva venire voglia di
risponderle a tono, di essere complice.
«Lo conosco?». Scorsi mentalmente l’elenco dei giocatori
professionisti, chiedendomi quale dei tanti Phil fosse il suo.
«Probabilmente no. Non è un bravo professionista». Un altro
sorriso. «Solo serie minori. Cambia squadra di continuo».
Immediatamente, nella mia testa gli elenchi cambiarono e, in
meno di un secondo, avevo predisposto una lista di possibilità. Allo
stesso tempo, stavo immaginando il nuovo scenario.
«E tua madre ti ha spedita qui per poterlo seguire», dissi.
Sembrava che lanciando delle ipotesi riuscissi a ottenere da lei più
informazioni che interrogandola direttamente. Funzionò. Lei alzò il
mento e la sua espressione divenne, d’un tratto, ostinata.
«No, non è stata lei a spedirmi qui», disse, con un’insolita
durezza nella voce. La mia ipotesi l’aveva turbata, sebbene non
riuscissi a capire come. «Sono stata io».
Non potevo indovinare che cosa intendesse, né l’origine della sua
rabbia. Ero del tutto smarrito.
Quella ragazza era semplicemente illogica. Non era come gli altri
umani. Forse il silenzio dei suoi pensieri e il suo profumo non erano
le uniche stranezze.
«Non capisco», ammisi, con molta riluttanza.
Lei sospirò e mi guardò negli occhi, più a lungo di quanto la
maggior parte degli umani normali fosse in grado di sopportare.
«All’inizio è rimasta con me, ma lui le mancava», mi spiegò
lentamente, rattristandosi via via che parlava. «Era infelice... perciò
ho deciso che era il caso di passare un po’ di tempo in famiglia con
Charlie».
La piccola grinza fra le sue sopracciglia si accentuò.
«Ma ora sei infelice tu», mormorai. Continuavo a esprimere le
mie ipotesi a voce alta, sperando che, contraddicendole, lei mi desse
altre informazioni. Stavolta, tuttavia, ebbi l’impressione di aver colto
nel segno.
«E...?», ribatté, come se fosse un aspetto da non tenere neanche
in considerazione.
La guardai ancora negli occhi, con la sensazione di aver
finalmente potuto sbirciare nella sua anima. In quell’unica parola vidi
dove collocava se stessa nella scala delle sue priorità. A differenza
di quasi tutti gli umani, metteva le sue esigenze in fondo.
Era un’altruista.
Quando lo capii, il mistero della persona che si nascondeva
dentro quella mente silenziosa cominciò a chiarirsi.
«Non mi sembra giusto», dissi. Mi strinsi nelle spalle, cercando di
ostentare una certa leggerezza.
Lei rise, ma in quel suono non c’era alcun divertimento. «Non te
l’hanno ancora detto? La vita non è giusta».
Avrei voluto ridere, ma neanch’io ero divertito. Ne sapevo
abbastanza sull’ingiustizia della vita. «Penso di averla già sentita».
Lei mi fissò e, di nuovo, mi parve confusa. I suoi occhi vagarono
altrove per un istante, poi tornarono da me.
«E questo è tutto», disse.
Non ero pronto a lasciar terminare la conversazione. La piccola V
fra i suoi occhi, uno strascico del suo dispiacere, mi disturbava.
«Dai buona mostra di te», dissi lentamente, riflettendo su quanto
stavo per dire. «Ma sono pronto a scommettere che soffri molto più
di quanto dai a vedere».
Lei fece una smorfia, strinse gli occhi e storse la bocca in un
broncio obliquo, poi distolse di nuovo lo sguardo. Non le piaceva
quando le mie ipotesi erano giuste. Non era la solita martire, non
voleva un pubblico per il suo dolore.
«Mi sbaglio?».
Lei trasalì leggermente, ma finse di non sentirmi.
Mi fece sorridere. «Io credo di no».
«Perché ti dovrebbe interessare?», mi chiese, sempre senza
guardarmi.
«Questa è una domanda molto sensata», ammisi, più a me
stesso che a lei.
Era più logica di me, lei andava dritta al cuore delle cose mentre
io annaspavo ai margini cercando indizi alla cieca. I dettagli della
sua vita umana non dovevano interessarmi. Sbagliavo a voler
scandagliare così a fondo i suoi pensieri. I pensieri umani non
significavano niente, per me, se non una protezione per la mia
famiglia.
Non ero abituato a essere meno intuitivo di qualcun altro. Mi
affidavo troppo al mio super udito e, chiaramente, non ero così
perspicace come credevo.
La ragazza sospirò e continuò a guardare imbronciata la lavagna.
C’era qualcosa di comico nella sua espressione frustrata. Tutta la
situazione e anche la conversazione erano comiche. Nessuno aveva
mai corso tanti rischi con me, quanto quell’esile ragazza umana. In
qualsiasi momento, distratto dal mio ridicolo interesse per la
conversazione, avrei potuto respirare dal naso e aggredirla prima di
riuscire a fermarmi. E lei era irritata perché non avevo risposto alla
sua domanda.
«Ti do fastidio?», domandai, sorridendo dell’assurdità di tutto ciò.
Lei mi lanciò una rapida occhiata e allora i suoi occhi parvero
rimanere intrappolati nel mio sguardo.
«Non esattamente», rispose. «Sono io stessa a darmi fastidio. Il
mio volto è così facile da leggere... mia madre dice sempre che sono
un libro aperto».
Si accigliò, contrariata.
La guardai, stupefatto. Era turbata perché pensava che avessi
letto dentro di lei troppo facilmente. Che assurdità. In tutta la mia vita
– o meglio, esistenza, visto che era difficile chiamarla vita – non mi
ero mai dovuto sforzare così tanto per comprendere qualcuno.
«Al contrario», obiettai, sentendomi stranamente... guardingo,
come se ci fosse un pericolo nascosto che non riuscivo a vedere.
Oltre al pericolo molto evidente, qualcosa di più... D’un tratto mi
sentii sulle spine, il presentimento mi agitò. «Per me tu sei molto
difficile da leggere».
«Devi essere un bravo lettore, allora», ribatté con una
supposizione che, ancora una volta, era esatta.
«Di solito sì», ammisi.
Poi le rivolsi un gran sorriso, lasciando che le mie labbra
scoprissero due file di denti luccicanti e forti come l’acciaio.
Fu un gesto stupido, ma inaspettatamente e all’improvviso sentii
un disperato bisogno di dare alla ragazza un avvertimento, di
qualsiasi tipo. Il suo corpo era più vicino di prima perché si era
inavvertitamente spostata mentre stavamo parlando. Sembrava che
tutti i piccoli dettagli e segnali, sufficienti di solito a spaventare il
resto dell’umanità, con lei non funzionassero. Perché non si ritraeva
in preda al terrore? Aveva sicuramente visto abbastanza del mio lato
oscuro per rendersi conto del pericolo.
Non riuscii a capire se il mio avvertimento avesse avuto effetto.
Proprio in quel momento, il professor Banner richiamò l’attenzione
della classe e lei mi voltò subito le spalle. Mi parve leggermente
sollevata per l’interruzione, perciò, forse, inconsciamente aveva
capito.
Sperai che fosse così.
Intanto, però, riconoscevo dentro di me la crescita di
un’attrazione che avevo tentato, invano, di sradicare. Non potevo
permettermi di trovare interessante Bella Swan. O meglio, era lei a
non poterselo permettere. Ma ero già ansioso di avere un’altra
occasione per parlarle. Volevo saperne di più su sua madre, sulla
sua vita prima che arrivasse qui, sul rapporto che aveva con il padre.
Tutti gli insignificanti dettagli che avrebbero messo ancora più in
risalto la sua personalità. Ma ogni secondo che trascorrevo con lei
era un errore, un rischio che lei non avrebbe dovuto correre.
Con un gesto distratto, Bella scosse i capelli proprio nel momento
in cui mi concedevo un altro respiro. Un’ondata particolarmente
intensa del suo profumo mi colpì in fondo alla gola.
Fu come il primo giorno. Come una bomba a mano. Il dolore
dell’arsura mi diede le vertigini. Dovetti afferrare di nuovo il banco
per rimanere al mio posto. Questa volta riuscii a controllarmi un po’
di più. Se non altro, non ruppi niente. Il mostro dentro di me ringhiò,
ma non trasse piacere dal mio dolore. Era legato troppo
strettamente. Per il momento.
Smisi subito di respirare e mi scostai il più possibile da lei.
No, non potevo permettermi di trovarla attraente. Più cresceva il
mio interesse, più aumentava la probabilità che l’avrei uccisa. Avevo
già commesso due errori di poco conto, quel giorno. Volevo
commetterne un terzo, uno che non sarebbe stato di poco conto?
Non appena suonò la campanella mi precipitai fuori dall’aula,
distruggendo probabilmente qualsiasi buona impressione avessi
iniziato a costruire durante l’ora trascorsa. Di nuovo respirai a pieni
polmoni l’aria pulita e umida dell’esterno, come se fosse un’essenza
curativa. Mi affrettai a mettere la maggior distanza possibile fra me e
la ragazza.
Emmett mi aspettava sulla porta della classe di spagnolo. Per un
istante, osservò la mia espressione feroce.
Com’è andata?, domandò mentalmente, con circospezione.
«Non è morto nessuno», borbottai.
Immagino che sia già qualcosa. Quando ho visto Alice
abbandonare la lezione alla fine, ho pensato...
Mentre entravamo in classe, vidi nella sua mente la scena di
pochi istanti prima, alla quale aveva assistito attraverso la porta
aperta dell’aula: Alice che, con un viso smorto, attraversava a passo
svelto i campi diretta verso l’edificio di scienze. Percepii, nel ricordo
di Emmett, il suo impulso di alzarsi e raggiungerla e poi la decisione
di restare dov’era. Se Alice avesse avuto bisogno di aiuto, lo
avrebbe chiesto.
Chiusi gli occhi in preda all’orrore e al disgusto mentre mi
accasciavo sulla sedia. «Non mi ero reso conto che fosse così
imminente. Non pensavo che stessi per... non avevo capito che
fosse così terribile», mormorai.
Non lo è stato, mi rassicurò lui. Non è morto nessuno, giusto?
«Giusto», dissi a denti stretti. «Questa volta no».
Magari diventerà più facile.
«Certo».
O magari la ucciderai. Si strinse nelle spalle. Non saresti il primo
a rovinare tutto. Nessuno ti giudicherebbe troppo duramente. A volte
le persone hanno un buon profumo e basta. Mi colpisce che tu abbia
resistito così a lungo.
«Non mi aiuti, Emmett».
Mi ripugnava il fatto che accettasse tranquillamente l’idea che
avrei comunque ucciso la ragazza, che fosse un fatto quasi
inevitabile. Era forse colpa sua se aveva un odore così buono?
So quando è successo a me... Emmett ricordò e mi riportò
indietro con sé a circa mezzo secolo prima, in un vicolo di campagna
al crepuscolo dove una donna di mezza età stava raccogliendo il
bucato asciutto da un filo teso fra due alberi di mele. Era una scena
che avevo già visto, il più violento dei suoi due incontri, ma adesso il
ricordo sembrava particolarmente vivido – forse perché mi faceva
ancora male la gola a causa del bruciore dell’ora precedente.
Emmett ricordava l’odore intenso delle mele che permeava l’aria –
era finito il raccolto e i frutti scartati erano sparsi sul terreno dove la
loro fragranza dolciastra si diffondeva in zaffate dense dalle bucce
ammaccate. Un campo di fieno appena tagliato era
l’accompagnamento di quel profumo, un’armonia. Emmett
percorreva quella strada per fare una commissione per Rosalie, del
tutto incurante della donna. Il cielo era viola, arancione sopra le
montagne dell’Ovest. Avrebbe continuato a seguire il sentiero
sinuoso e non ci sarebbe stato alcun motivo per ricordare quella
sera, se un’improvvisa brezza notturna non avesse gonfiato come
vele le lenzuola bianche e sventolato l’odore della donna in faccia a
Emmett.
«Ah!», gemetti piano. Come se il ricordo della mia stessa sete
non fosse sufficiente.
Lo so. Non resistetti nemmeno mezzo secondo. Non mi sfiorò
nemmeno il pensiero di resistere.
Il suo ricordo divenne troppo esplicito per poterlo sopportare.
Balzai in piedi, con i denti stretti.
«Estás bien, Edward?», domandò la professoressa Goff,
spaventata dal mio gesto improvviso. Mi vidi riflesso nella sua mente
e capii che avevo tutt’altro che un bell’aspetto.
«Perdóname», mormorai, mentre mi lanciavo verso la porta.
«Emmett, por favor, puedes ayudar a tu hermano?», chiese,
gesticolando inutilmente verso di me, mentre uscivo di corsa
dall’aula.
«Certo», lo udii rispondere. E poi mi fu subito dietro.
Mi seguì fino alla parte opposta dell’edificio, dove mi raggiunse e
mi posò una mano sulla spalla.
La spinsi via con una forza non necessaria. Se fosse stata
umana, avrei frantumato le ossa della mano e del braccio cui era
attaccata.
«Mi dispiace, Edward».
«Lo so». Inspirai grandi boccate d’aria, tentando di schiarirmi
testa e polmoni.
«È terribile come la mia?», mi chiese, cercando nel mentre di non
pensare al profumo e al sapore dei suoi ricordi, ma con poco
successo.
«Peggio, Emmett, peggio».
Lui rimase in silenzio.
Forse...
«No, non sarebbe meglio se mi togliessi il pensiero. Torna in
classe, Emmett. Voglio stare da solo».
Senza altre parole, Emmett si girò e si allontanò in fretta. Avrebbe
detto alla professoressa di spagnolo che mi sentivo male, che facevo
sega o che ero un pericoloso vampiro fuori controllo. Che
importanza aveva la scusa che avrebbe inventato? Forse non sarei
tornato affatto. Forse dovevo andarmene.
Tornai nella mia macchina per aspettare la fine delle lezioni. Per
nascondermi. Di nuovo.
Avrei dovuto passare il tempo a prendere decisioni, o a tentare di
rafforzare la mia decisione ma mi ritrovai, come un drogato, a
frugare nel chiacchiericcio dei pensieri che proveniva dagli edifici
scolastici.
Le voci dei miei fratelli spiccavano sulle altre, ma adesso non ero
interessato ad ascoltare le visioni di Alice o i lamenti di Rosalie.
Trovai facilmente Jessica, ma Bella non era con lei, così continuai a
cercare. I pensieri di Mike Newton attirarono la mia attenzione e, alla
fine, la localizzai in palestra insieme a lui. Mike era infelice perché io
avevo parlato con Bella durante l’ora di biologia. Ora stava
esaminando la reazione di lei quando lui aveva menzionato la cosa.
A dire il vero non l’ho mai visto rivolgere più di una parola a
chiunque. È chiaro che ha deciso di parlare con Bella. Non mi piace
il modo in cui la guarda. Ma sembra che lei non ci faccia tanto caso.
Che cosa mi ha detto, prima? «Chissà cosa gli era preso lunedì
scorso». Una cosa del genere. Non sembrava che le importasse.
Non può essere stata una conversazione interessante...
Esultò all’idea che Bella non fosse stata interessata a parlare con
me. La cosa mi irritò leggermente, così smisi di ascoltarlo.
Inserii un CD di musica violenta e alzai il volume finché non
sovrastò tutte le altre voci. Dovevo concentrarmi intensamente sulla
musica per non tornare sui pensieri di Mike Newton e spiare la
ragazza ignara.
Sgarrai qualche volta, mentre l’ora arrivava alla fine. Non stavo
spiando, tentavo di convincermi. Mi stavo soltanto preparando.
Volevo sapere il momento esatto in cui sarebbe uscita dalla palestra
e quando sarebbe arrivata nel parcheggio. Non volevo che mi
cogliesse di sorpresa.
Quando la fila degli studenti cominciò a uscire dalle porte, scesi
dalla macchina, senza sapere esattamente perché. Scendeva una
pioggerella leggera, la ignorai mentre mi inzuppava lentamente i
capelli.
Volevo che mi vedesse? Speravo che venisse a parlare con me?
Che cosa stavo facendo?
Non mi mossi, anche se cercavo di convincermi a rientrare in
macchina, ben consapevole che mi stavo comportando male. Tenni
le braccia conserte e presi dei respiri brevi e superficiali quando la
vidi camminare lentamente verso di me, con la bocca piegata in una
smorfia scontenta.
Non mi guardò. Lanciò qualche occhiataccia alle nuvole, come se
l’avessero offesa.
Rimasi deluso quando arrivò alla sua macchina prima di
oltrepassarmi. Mi avrebbe rivolto la parola? Le avrei parlato io?
Entrò in un pick-up scassato, un colosso arrugginito più vecchio
di suo padre. La guardai mentre metteva in moto – il motore
decrepito ruggì più forte di qualsiasi altro veicolo del parcheggio – e
poi tese le mani verso la ventola del riscaldamento. Doveva soffrire
molto il freddo, non le piaceva. Si passò le dita nella massa dei
capelli, tirandone le ciocche verso il flusso dell’aria calda, come se
stesse cercando di asciugarli. Immaginai quanto dovesse profumare
l’abitacolo di quel vecchio pick-up, ma scacciai immediatamente il
pensiero.
Lei si guardò intorno mentre si preparava a fare marcia indietro e,
finalmente, guardò verso di me. Mi fissò per mezzo secondo e riuscii
a leggere nei suoi occhi soltanto stupore prima che guardasse
altrove e inserisse bruscamente la retromarcia. Ma dovette
inchiodare di colpo, evitando di scontrarsi con l’utilitaria di Nicole
Casey solo per pochi centimetri.
Guardò nello specchietto retrovisore, a bocca aperta, inorridita
dall’incidente mancato per un soffio. Quando l’altra macchina si fu
allontanata, Bella controllò due volte tutti gli angoli ciechi, poi uscì
dal parcheggio un centimetro alla volta, con tanta cautela da
strapparmi un sorriso. Si comportava come se pensasse di essere
pericolosa dentro quel suo decrepito pick-up.
Il pensiero che Bella Swan fosse un pericolo per qualcuno, a
prescindere da quale mezzo guidasse, mi fece ridere di cuore
mentre lei mi passava davanti tenendo lo sguardo fisso sulla strada.
3. RISCHIO

In realtà non ero assetato, ma decisi ugualmente di andare di


nuovo a caccia, quella notte. Un pizzico di prevenzione, per quanto
fosse inefficace.
Carlisle venne con me. Non eravamo più rimasti insieme da soli
da quando ero tornato da Denali. Mentre correvamo nella foresta
buia, lo sentivo ripensare a quel frettoloso addio della settimana
precedente. Percepii di nuovo la sua sorpresa e la sua improvvisa
preoccupazione.
«Edward?».
«Devo andarmene, Carlisle. Devo andarmene subito».
«Cos’è successo?».
«Niente. Per ora. Ma succederà, se rimango».
Lui mi aveva preso il braccio e io mi ero divincolato. Soltanto
adesso vedevo quanto lo avevo ferito.
«Non capisco».
«Hai mai... non c’è mai stata una volta...?».
Attraverso il filtro della sua profonda preoccupazione, vidi me
stesso prendere un respiro profondo, vidi la ferocia che mi ardeva
negli occhi.
«Hai mai incontrato una persona con il profumo più buono di tutto
il mondo? Molto più buono?».
«Oh».
Quando vidi che aveva capito, ero stato sopraffatto dalla
vergogna. Aveva teso una mano per toccarmi, ignorando la mia
ritrosia, e l’aveva lasciata sulla mia spalla.
«Fai quello che devi per resistere, figliolo. Mi mancherai. Ecco,
prendi la mia macchina. Il serbatoio è pieno».
Adesso si stava chiedendo se in quel momento avesse fatto la
cosa giusta, mandandomi via. O se la sua mancanza di fiducia mi
avesse ferito.
«No», mormorai, mentre correvo. «Era quello che mi serviva. Se
mi avessi detto di rimanere, avrei potuto deluderti molto facilmente».
«Mi dispiace che tu stia soffrendo, Edward. Ma dovresti fare tutto
quello che puoi per mantenere in vita la giovane Swan. Anche se per
te significasse lasciarci un’altra volta».
«Lo so, lo so».
«Perché sei tornato? Sai quanto sia felice di averti qui, ma se è
troppo difficile...».
«Non mi piaceva sentirmi un vigliacco», ammisi.
Avevamo rallentato, adesso stavamo facendo una corsetta
leggera nelle tenebre.
«Meglio sentirti un vigliacco, piuttosto che mettere lei in pericolo.
Oltretutto, entro uno o due anni se ne andrà».
«Lo so, hai ragione». Contrariamente al loro scopo, i suoi discorsi
non facevano che accrescere il mio desiderio di restare. La ragazza
se ne sarebbe andata entro uno o due anni...
Carlisle smise di correre e io con lui. Si girò per studiare la mia
espressione.
Ma non hai intenzione di scappare, vero?
Chinai la testa.
È per orgoglio, Edward? Non c’è alcuna vergogna nel...
«No, non è l’orgoglio a tenermi qui. Non adesso».
Non sapresti dove andare?
Risi. «No. Non sarebbe quello a fermarmi, se riuscissi a
convincermi a partire».
«Noi verremmo con te, ovviamente, se è quello che ti serve. Devi
soltanto chiedere. Tu ti sei spostato senza mai lamentarti, per gli
altri. Non potranno prendersela con te».
Sollevai un sopracciglio.
Carlisle rise. «Sì, Rosalie potrebbe, ma te lo deve. In ogni caso, è
meglio per tutti noi andare via adesso, quando è tutto ancora
tranquillo, piuttosto che aspettare e sacrificare una vita». Sulla
conclusione, tutto il buonumore era svanito.
Le sue parole mi colpirono.
«Sì», concordai. La mia voce suonò aspra.
Ma tu non hai intenzione di partire?
Sospirai. «Dovrei».
«Cos’è che ti trattiene qui, Edward? Non riesco a capirlo...».
«Non so se riesco a spiegartelo». Persino per me era assurdo.
Lui mi osservò, pensoso, per un lungo momento.
No, davvero non lo capisco. Ma rispetterò il tuo riserbo, se lo
preferisci.
«Grazie. È generoso da parte tua, visto che io non rispetto il
riserbo di nessuno». Senza eccezioni. E stavo facendo di tutto per
privare anche Bella della sua intimità.
Tutti abbiamo le nostre manie. Rise di nuovo. Andiamo?
Aveva appena percepito l’odore di un piccolo branco di cervi. Era
difficile entusiasmarsi per quello che, nel migliore dei casi, era
tutt’altro che un aroma da far venire l’acquolina in bocca. In quel
momento, con il ricordo del sangue di Bella ancora fresco nella
testa, quell’odore mi dava il voltastomaco.
Sospirai. «Andiamo», concessi, sebbene sapessi che ingoiare a
forza altro sangue non mi avrebbe aiutato poi tanto.

Quando tornammo a casa, faceva più freddo. La neve sciolta si


era ghiacciata di nuovo; era come se un sottile foglio di vetro
coprisse ogni cosa: ogni ago di pino, ogni foglia di felce, ogni stelo
d’erba era coperto di ghiaccio.
Mentre Carlisle si cambiava per il primo turno in ospedale, io
rimasi vicino al fiume ad aspettare che sorgesse il sole.
Mi sentivo quasi... gonfio per la quantità di sangue che avevo
consumato, ma sapevo che la sete, in quel momento assente, si
sarebbe riaccesa quando mi fossi seduto di nuovo vicino alla
ragazza.
Freddo e immobile come la pietra sulla quale ero seduto, fissavo
l’acqua scura che scorreva accanto alla riva ghiacciata, scrutando
sotto la superficie.
Carlisle aveva ragione. Sarei dovuto andare via da Forks.
Avrebbero potuto diffondere una storia qualsiasi per spiegare la mia
assenza. Scuola di perfezionamento in Europa. Visita a parenti
lontani. Fuga adolescenziale. La storia non aveva importanza.
Nessuno avrebbe fatto domande troppo approfondite.
Soltanto un anno o due e la ragazza sarebbe sparita. Avrebbe
proseguito con la sua vita – lei aveva una vita da proseguire.
Sarebbe andata in un college da qualche parte, avrebbe iniziato a
lavorare, forse si sarebbe sposata. Riuscivo a vederla, la
immaginavo tutta vestita di bianco, che camminava con passo
cadenzato, al braccio di suo padre.
Fu strano il dolore che mi provocò quell’immagine. Non riuscivo a
capirlo. Stavo invidiando il suo futuro perché era una cosa che io
non avrei mai potuto avere? Non aveva senso. Tutti gli umani che mi
circondavano avevano, potenzialmente, lo stesso futuro di fronte a
loro – una vita – e raramente mi fermavo a invidiarli.
Avrei dovuto lasciarla al suo futuro. Smettere di farle rischiare la
vita. Era questa la cosa giusta da fare. Le scelte di Carlisle erano
sempre giuste. Avrei dovuto ascoltarlo, adesso. Avrei voluto.
Il sole spuntò da dietro le nuvole e la sua luce tenue si rifletté
luccicando su tutti i vetri ghiacciati.
Un giorno ancora, decisi. L’avrei vista ancora una volta. Potevo
cavarmela. Magari avrei accennato alla mia prossima assenza,
impostato la storia.
Sarebbe stato difficile. Lo sentivo nella riluttanza che già mi stava
facendo immaginare delle scuse per rimanere – per prolungare la
scadenza di due giorni, tre, quattro... Ma avrei fatto la cosa giusta.
Sapevo di potermi fidare del consiglio di Carlisle. E sapevo anche
che ero troppo combattuto per poter prendere la decisione giusta da
solo.
Davvero troppo combattuto. Quanta di questa riluttanza
proveniva dalla mia curiosità ossessiva e quanta dal mio appetito
insoddisfatto?
Entrai in casa per cambiarmi e andare a scuola.
Alice mi stava aspettando, seduta sull’ultimo gradino del
pianerottolo del terzo piano.
Stai per andartene di nuovo.
Sospirai e annuii.
Questa volta non riesco a vedere dove andrai.
«Perché non lo so ancora», mormorai.
Voglio che resti.
Scossi la testa.
Forse io e Jazz potremmo venire con te?
«Gli altri avranno ancora più bisogno di te, se non ci sono io a
stare attento a loro. E pensa a Esme. Vuoi portarle via mezza
famiglia in un colpo solo?».
Tu la renderai incredibilmente infelice.
«Lo so. Ecco perché tu devi restare».
Non sarebbe come avere te qui e lo sai.
«Sì. Ma devo fare quello che è giusto».
Però ci sono tanti modi giusti e tanti modi sbagliati, non è così?
Per un breve momento venne risucchiata in una delle sue strane
visioni; guardai insieme a lei le immagini indistinte che sfarfallavano
e si confondevano. Vidi me stesso mescolato a strane ombre che
non riuscii a identificare – forme imprecise, appannate. E poi,
all’improvviso, la mia pelle stava luccicando sotto il sole sfolgorante
di un piccolo giardino. Conoscevo quel posto. C’era una figura
insieme a me, nel giardino, ma, di nuovo, era indistinta, non
abbastanza presente per poterla riconoscere. Le immagini
tremolarono e scomparvero mentre milioni di minuscole scelte
riorganizzavano il futuro.
«Non ho afferrato granché», le dissi, quando la visione si oscurò.
Nemmeno io. Il tuo futuro è talmente mutevole che non riesco a
stargli dietro. Però, penso che...
Si interruppe e sfogliò una vasta collezione di visioni recenti di
me. Erano tutte uguali: appannate e vaghe.
«Penso che stia cambiando qualcosa», disse a voce alta.
«Sembra che la tua vita sia di fronte a un bivio».
Feci una risata macabra. «Ma ti rendi conto che parli come una
cartomante da luna park?».
Mi mostrò la lingua.
«Oggi, però, andrà tutto bene, no?», le domandai, con un tono
improvvisamente apprensivo.
«Per oggi non ti ho visto uccidere nessuno», mi rassicurò.
«Grazie, Alice».
«Vai a vestirti. Non dirò niente agli altri. Lascerò che sia tu a farlo
quando sarai pronto».
Si alzò in piedi e corse giù per le scale, con le spalle un po’ curve.
Mi mancherai. Tanto.
Sì, anche lei mi sarebbe mancata tanto.
Il viaggio fino a scuola fu silenzioso. Jasper avvertiva il
turbamento di Alice, ma sapeva che se avesse voluto parlare lo
avrebbe già fatto. Emmett e Rosalie erano immersi in uno dei loro
momenti, dimentichi di tutto: si guardavano negli occhi con aria
sognante. Vederli dall’esterno era piuttosto disgustoso. Ma tutti noi
sapevamo con quanta passione si amassero. O forse ero soltanto
rabbioso perché ero l’unico a non avere una compagna. In certi
giorni, vivere con tre coppie di perfetti innamorati era più difficile del
solito. Quel giorno era uno di questi.
Forse sarebbero stati tutti più felici senza di me a ronzargli
intorno, di cattivo umore e bilioso come il vecchio che ormai avrei
dovuto essere.
Ovviamente la prima cosa che feci una volta arrivati a scuola fu
cercare la ragazza. Solo per prepararmi a un altro incontro.
Bene.
Era imbarazzante vedere quanto all’improvviso il mio mondo
sembrasse svuotato di ogni altra cosa che non fosse lei.
Ma in realtà era abbastanza facile da capire. Dopo ottant’anni
delle stesse cose ogni giorno e ogni notte, bastava una sola novità
ad assorbire ogni altro pensiero.
Non era ancora arrivata, ma in lontananza riuscii a sentire il
motore del suo pick-up che arrancava con un rumore assordante. Mi
appoggiai alla mia auto e l’aspettai. Alice rimase con me mentre gli
altri andavano direttamente in classe. La mia fissazione li aveva già
annoiati, per loro era incomprensibile che un qualsiasi essere umano
potesse trattenere tanto a lungo il mio interesse, anche se aveva un
profumo irresistibile.
Lentamente, iniziai a vedere il pick-up. La ragazza guidava con
cautela, gli occhi fissi sulla strada e le mani strette sul volante.
Sembrava agitata e in ansia. Ma dopo un secondo immaginai di
cosa si trattasse accorgendomi che, quel giorno, ogni umano aveva
la sua stessa espressione. Ah, la strada era scivolosa per il ghiaccio
e tutti cercavano di guidare con molta prudenza. Vidi che anche lei
prendeva sul serio il pericolo.
Mi parve un particolare in linea con quel poco che avevo appreso
del suo carattere. Lo aggiunsi al mio piccolo elenco: era una persona
seria, una persona responsabile.
Parcheggiò non lontano da me, ma non aveva ancora notato che
ero lì e la stavo guardando. Mi chiesi cosa avrebbe fatto quando mi
avesse visto. Sarebbe arrossita e scappata via? Fu la mia prima
ipotesi. Ma forse mi avrebbe guardato anche lei. Forse sarebbe
venuta a parlare con me.
Per ogni eventualità, mi riempii i polmoni con un respiro profondo.
Lei uscì dal pick-up con cautela, saggiando il terreno scivoloso
prima di appoggiarvi tutto il suo peso. Non alzò lo sguardo e la cosa
mi indispettì. Magari sarei andato a parlarle...
No, sarebbe stato un errore.
Invece di andare verso la scuola, girò intorno al pick-up,
aggrappandosi in modo goffo al bordo del cassone per paura di
cadere sul ghiaccio. Mi fece sorridere, e sentii sul viso lo sguardo di
Alice. Non volevo ascoltare i suoi pensieri in proposito, qualunque
essi fossero – mi stavo divertendo troppo a guardare la ragazza che
controllava le catene. In effetti, a giudicare da come i suoi piedi
slittavano sul ghiaccio, sembrava che rischiasse di cadere da un
momento all’altro. Nessun altro si trovava nelle stesse difficoltà, a
quanto pare aveva parcheggiato nel punto peggiore.
Si fermò lì, a guardare le ruote con una strana espressione sul
viso. Era... tenera. Come se qualcosa nei suoi pneumatici la...
emozionasse?
Di nuovo, la curiosità mi punse dolorosa come la sete. Era come
se io dovessi sapere che cosa stava pensando, come se non
contasse nient’altro.
Sarei andato a parlare con lei. In ogni caso, sembrava che
potesse servirle una mano, almeno finché era su quel terreno
scivoloso. Certo, non potevo offrirle la mia. Esitai, combattuto. Da
come pareva disgustata dalla neve, il tocco della mia mano gelida
non le sarebbe stato tanto gradito. Avrei dovuto indossare dei
guanti...
«No!», gridò Alice, senza fiato.
Esaminai immediatamente i suoi pensieri, immaginando di vedere
me che facevo qualcosa di imperdonabile per una scelta sbagliata.
Ma i suoi pensieri non riguardavano affatto me.
Tyler Crowley aveva deciso di imboccare la curva del parcheggio
a una velocità folle. Quella decisione lo avrebbe fatto slittare su una
grossa lastra di ghiaccio.
La visione arrivò appena mezzo secondo prima della realtà. Il
furgoncino di Tyler girò l’angolo mentre io stavo ancora guardando la
scena che aveva strappato un grido d’orrore dalle labbra di Alice.
No, quella visione non aveva niente a che fare con me, eppure mi
riguardava in pieno, perché il furgoncino di Tyler – i cui pneumatici in
quel momento stavano colpendo il ghiaccio con la peggiore
angolazione possibile – stava per andare in testacoda nel
parcheggio e schiacciare la ragazza che era diventata l’indesiderato
fulcro del mio mondo.
Anche senza la previsione di Alice, sarebbe stato abbastanza
semplice immaginare la traiettoria del veicolo, che volò fuori dal
controllo di Tyler.
La ragazza, che si trovava proprio nel punto sbagliato, dietro il
pick-up, rimase confusa dallo stridore degli pneumatici. Guardò dritto
nei miei occhi inorriditi e poi si voltò verso la morte che si stava
avvicinando.
Non lei! Le parole urlarono nella mia testa come se
appartenessero a qualcun altro.
Guardando ancora nei pensieri di Alice, vidi che all’improvviso la
visione cambiava, ma non ebbi il tempo di vederne anche l’esito.
Mi lanciai nel parcheggio, gettandomi fra il furgoncino impazzito e
la ragazza paralizzata. Mi mossi a tale velocità che ogni cosa
divenne una striscia sfocata, tranne l’oggetto della mia
concentrazione. Lei non mi vide – nessun occhio umano poteva aver
seguito la mia corsa fulminea –, ancora paralizzata a fissare la cosa
gigantesca che stava per sfracellare il suo corpo fra le lamiere del
pick-up.
L’afferrai alla vita muovendomi con troppa urgenza per farlo con
la necessaria delicatezza. Nel centesimo di secondo che passò tra lo
spostare il suo corpo esile dalla traiettoria mortale del furgoncino e lo
schiantarmi sull’asfalto con lei fra le braccia, ebbi la vivida
consapevolezza di quanto quel corpo fosse fragile.
Quando sentii la sua testa sbattere sul ghiaccio, ebbi la
sensazione di diventare di ghiaccio anch’io.
Ma non ebbi nemmeno un secondo intero per accertarmi delle
sue condizioni. Udii il furgoncino dietro di noi stridere e fischiare
mentre andava in testacoda dopo aver urtato il solido cassone di
ferro del pick-up. Stava cambiando traiettoria. Disegnò un arco,
inseguendo Bella, come se fosse una calamita che lo attirava su di
noi.
Una parola che non avrei mai pronunciato in presenza di una
signora mi sfuggì dai denti stretti.
Avevo già fatto troppo. Quando avevo quasi volato per toglierla di
mezzo, ero stato pienamente consapevole dell’errore che stavo
commettendo. Saperlo non mi aveva fermato, ma non ignoravo il
rischio che stavo correndo, non solo per me, ma per tutta la mia
famiglia.
Saremmo stati smascherati.
E quello che stavo per fare non ci avrebbe sicuramente aiutato,
ma non avrei permesso in alcun modo a quel furgoncino di riuscire
nel secondo tentativo di prendersi la vita della ragazza.
La depositai per terra e tesi le mani in avanti intercettando il
veicolo prima che la toccasse. La forza dell’impatto mi spinse contro
l’auto parcheggiata accanto al pick-up di Bella e sentii la carrozzeria
piegarsi sotto le mie spalle. Il furgoncino sussultò e tremò contro
l’ostacolo irremovibile delle mie braccia, poi ondeggiò in equilibrio
precario su due ruote.
Se avessi spostato le mani, la ruota posteriore sarebbe caduta
sulle gambe di Bella.
Oh, per amore di ogni cosa sacra, sarebbe mai finita quella
catastrofe?
C’era qualcos’altro che poteva andare male? Non potevo restare
seduto lì, a tenere sollevato un furgoncino e aspettare i soccorsi.
Non potevo nemmeno lanciarlo – dovevo tenere conto del suo
conducente, sconvolto dalla paura.
Con un gemito silenzioso, diedi una spinta al veicolo in modo da
allontanarlo da noi per un istante. Quando ricadde verso di me, lo
afferrai sotto la carrozzeria con la mano destra mentre con il braccio
sinistro agganciavo la vita della ragazza, trascinandola vicina a me e
fuori dalla minaccia della ruota. Mentre la rigiravo per liberarle le
gambe, il suo corpo era inerte – era cosciente? Quanto l’avevo
danneggiata con il mio salvataggio improvvisato?
Ora che non poteva più ferirla, lasciai cadere il furgoncino. Colpì
l’asfalto di schianto e tutti i finestrini si frantumarono all’unisono.
Adesso ero in una vera e propria crisi. Quanto aveva visto, lei? E
chi altri stava guardando, quando mi ero materializzato al suo fianco
e poi avevo fatto il giocoliere con il furgoncino mentre tentavo di
metterla al riparo? Ecco le domande di cui avrei dovuto
preoccuparmi.
Ma ero troppo sconvolto per pensare alla nostra sicurezza.
Troppo angosciato dalla possibilità di aver fatto del male a Bella,
mentre mi sforzavo di salvarle la vita. Troppo spaventato dalla sua
vicinanza, ben sapendo quale profumo avrei sentito se mi fossi
concesso di respirare. Troppo consapevole del suo corpo morbido
premuto contro il mio; persino attraverso il doppio ostacolo delle
nostre giacche, riuscivo a percepirne il calore.
La prima paura era la più grande. Mentre intorno a noi
erompevano le urla degli studenti, mi chinai per esaminare il suo
viso e vedere se era cosciente, sperando con tutte le mie forze che
non stesse sanguinando da nessuna parte.
Aveva gli occhi aperti, fissi per lo shock.
«Bella?», domandai affannato. «Tutto a posto?».
«Sto bene». Lo disse in modo automatico, con una voce stupita.
Al suono della sua voce mi sentii invadere dal sollievo, talmente
puro da essere quasi doloroso. Inspirai aria fra i denti e, per una
volta, non feci caso al bruciore che mi incendiò la gola. In un certo,
strano modo, quasi lo gradii.
La ragazza si divincolò per mettersi seduta, ma io non ero ancora
pronto a lasciarla.
Avevo la sensazione che fosse più... sicuro? O, almeno, meglio
averla incastrata al mio fianco.
«Attenta», l’avvertii. «Mi sa che hai preso una bella botta in
testa».
Non avevo sentito odore di sangue fresco – una vera
benedizione, quella – ma questo non escludeva una lesione interna.
D’un tratto, fui ansioso di portarla da Carlisle e in una sala
radiologica completamente attrezzata.
«Ahi», disse lei, in un tono comicamente sorpreso, quando si
rese conto che non sbagliavo a proposito della sua testa.
«Come pensavo». Ero talmente sollevato che trovai la cosa
divertente, quasi elettrizzante.
«Come diavolo...?». Non terminò la frase e le sue palpebre
tremolarono. «Come hai fatto ad arrivare così in fretta?».
Il sollievo si guastò, il divertimento svanì.
Lei aveva visto troppo.
Ora che la sua salute non sembrava in pericolo, mi sentii
travolgere dall’ansia per la mia famiglia.
«Ero qui accanto a te, Bella». Sapevo per esperienza che se mi
mostravo molto sicuro delle mie bugie, chi poneva le domande era
meno sicuro della verità.
Lei si divincolò di nuovo per muoversi, e questa volta glielo lasciai
fare. Avevo bisogno di respirare in modo da poter recitare
correttamente il mio ruolo. Dovevo allontanarmi dal calore del suo
sangue affinché non si mescolasse con il suo profumo diventando
insostenibile. Mi spostai il più lontano possibile nello spazio angusto
fra i due veicoli ammaccati.
Lei mi fissò e io feci altrettanto. Distogliere lo sguardo per primo
era un errore che avrebbe commesso soltanto un bugiardo
incompetente, e io non lo ero. La mia espressione era innocente,
benevola. Questo parve confonderla. Bene.
Adesso, la scena dell’incidente era circondata. Perlopiù da
studenti, ragazzini che sbirciavano tra le fessure per vedere se
c’erano corpi martoriati in vista. C’era un generale fragore di urla e
un fiume di pensieri sconvolti. Li esaminai una volta per essere
sicuro che ancora non vi fossero sospetti, e poi li ammutolii per
concentrarmi soltanto sulla ragazza.
Era distratta dalla baraonda. Si guardò intorno, con
un’espressione ancora attonita, poi cercò di alzarsi in piedi.
Le posai delicatamente una mano sulla spalla per tenerla giù.
«Per adesso resta qui». Sembrava che stesse bene, ma poteva
muovere il collo?
Di nuovo, desiderai che ci fosse Carlisle. I miei studi di medicina
non erano niente in confronto ai suoi secoli di pratica sul campo.
«Ma fa freddo!», obiettò lei.
Aveva rischiato di morire schiacciata per ben due volte, e si
preoccupava per il freddo. Mi sfuggì una risatina fra i denti, prima di
ricordarmi che la situazione non era affatto divertente.
Bella batté le palpebre, poi i suoi occhi si concentrarono sul mio
viso. «Tu stavi laggiù».
Questo mi fece ridiventare serio.
Lanciò un’occhiata di lato, anche se non si vedeva nient’altro che
la fiancata accartocciata del furgoncino. «Eri accanto alla tua
macchina».
«Invece no».
«Ti ho visto», insistette. La testardaggine infondeva alla sua voce
una sfumatura infantile. Sporse il mento in fuori.
«Bella, ero qui accanto a te e ti ho spinta via appena in tempo».
La fissai intensamente negli occhi, tentando di indurla ad
accettare la mia versione – l’unica versione razionale disponibile.
«Invece no».
Cercai di rimanere calmo, di non farmi prendere dal panico. Se
solo fossi riuscito a tenerla tranquilla per qualche istante per darmi la
possibilità di distruggere le prove... e pregiudicare la sua storia
rivelando il suo trauma cranico.
Non avrebbe dovuto essere facile tenere tranquilla quella ragazza
silenziosa e riservata? Se soltanto si fosse lasciata guidare, solo per
pochi istanti...
«Per favore, Bella», dissi con una voce forse troppo intensa ma,
all’improvviso, volevo che lei si fidasse di me. Lo volevo tantissimo, e
non soltanto in questa circostanza. Un desiderio stupido. Perché
avrebbe dovuto fidarsi di me?
«Perché?», domandò, ancora diffidente.
«Fidati», la pregai.
«Prometti che poi mi spiegherai tutto?».
Mi faceva rabbia doverle mentire ancora, quando avrei tanto
desiderato poter meritare la sua fiducia. Le risposi esasperato.
«Promesso».
«Promesso», mi fece eco lei, con lo stesso tono.
Mentre intorno a noi cominciavano i tentativi di soccorso –
arrivarono gli adulti, le autorità, l’ambulanza –, tentai di ignorare
Bella e mettere in ordine le mie priorità. Frugai ogni mente presente
nel parcheggio, i testimoni e quelli arrivati dopo, ma non trovai niente
di pericoloso. Molti erano sorpresi di trovarmi lì insieme a Bella, ma
tutti ipotizzarono semplicemente di non aver notato che fossi lì prima
dell’incidente, dato che non c’era altra spiegazione plausibile.
Lei era l’unica a non accettarla, ma sarebbe stata anche
considerata il testimone meno attendibile. Era spaventata,
traumatizzata, per non parlare della botta in testa. Quasi
sicuramente era sotto shock. Era più che probabile che la sua storia
fosse confusa, no? Nessuno avrebbe dato più credito a lei rispetto a
tanti altri spettatori.
Sussultai quando intercettai i pensieri di Rosalie, Jasper ed
Emmett, appena arrivati sulla scena. Qualcuno sarebbe andato su
tutte le furie, quella sera.
Volevo spianare l’ammaccatura che la mia spalla aveva
provocato nella macchina, ma Bella era troppo vicina. Avrei dovuto
aspettare finché non si fosse distratta.
Era frustrante aspettare – troppi occhi su di me – mentre gli
umani si affaticavano intorno al furgoncino tentando di spostarlo.
Avrei potuto aiutarli, solo per accelerare il procedimento, ma io
avevo già abbastanza problemi e Bella uno sguardo troppo acuto.
Finalmente riuscirono a smuovere il veicolo a sufficienza perché i
soccorritori potessero far passare le barelle fino a noi. Una testa
brizzolata che già conoscevo mi esaminò rapidamente.
«Ciao, Edward», disse Brett Warner. Era un infermiere diplomato
che conoscevo bene per via dell’ospedale. Fu un colpo di fortuna –
l’unico di quel giorno – che fosse lui il primo a raggiungerci. Dai suoi
pensieri vidi che apparivo vigile e calmo. «Stai bene, ragazzo?».
«Perfettamente, Brett. Non sono stato colpito. Ma temo che Bella
possa avere una commozione cerebrale. Ha battuto forte la testa,
quando l’ho tirata via».
Brett rivolse la sua attenzione alla ragazza, che mi scoccò
un’occhiata inferocita per il mio tradimento. Oh, così andava bene.
Era proprio la martire perfetta: avrebbe preferito soffrire in silenzio.
Non contraddisse subito la mia versione, però, e questo mi fece
sentire meglio.
L’altro soccorritore tentò di convincermi a farmi visitare, ma non fu
troppo difficile dissuaderlo. Promisi che lo avrebbe fatto mio padre e
lui mi lasciò andare. Con la maggior parte degli umani bastava
parlare con una placida sicurezza. La maggior parte, ma non la
ragazza, ovviamente. C’era almeno uno schema normale nel quale
rientrasse?
Quando le misero il collare – e il suo viso divenne rosso di
vergogna – sfruttai quel momento di distrazione per sistemare
l’ammaccatura dell’auto con il piede. Soltanto i miei fratelli notarono
la mia operazione e udii che Emmett si riprometteva mentalmente di
controllare qualsiasi mia dimenticanza.
Grato per il suo aiuto – e ancora più grato che almeno lui avesse
quasi perdonato la mia decisione pericolosa – quando salii sul sedile
anteriore dell’ambulanza, vicino a Brett, mi sentii più rilassato.
Il capo della polizia arrivò prima che caricassero anche Bella.
Anche se i pensieri dell’ispettore capo Swan non si traducevano in
parole intelligibili, il panico e la preoccupazione che si irradiavano
dalla sua mente sovrastarono quasi ogni altro pensiero nelle
vicinanze. Un’ansia e un senso di colpa indicibili dilagarono da lui
quando vide la sua unica figlia sdraiata sulla barella.
Alice non stava esagerando quando mi aveva avvertito che se
avessi ucciso la figlia di Charlie Swan avrei ucciso anche lui.
Chinai la testa, affranto dal senso di colpa, mentre ascoltavo la
sua voce in preda al panico.
«Bella!», urlò.
«Sto benissimo, Char... papà». Sospirò. «Niente di rotto».
L’affermazione della figlia non attenuò la sua paura. L’uomo si
rivolse subito all’infermiere più vicino e chiese altre informazioni. Fu
soltanto quando lo sentii parlare e, malgrado il panico, formulare
frasi perfettamente coerenti, che capii che la sua ansia e la sua
preoccupazione non erano inesprimibili. Ero... io a non poter udire le
parole esatte.
Uhm. Charlie Swan non era silenzioso come sua figlia, ma in quel
momento capii da chi avesse preso Bella. Interessante.
Non avevo mai passato tanto tempo vicino al capo della polizia.
Lo avevo sempre considerato un uomo piuttosto tardo... adesso mi
rendevo conto che quello tardo ero io. I suoi pensieri erano
parzialmente nascosti, non assenti. Riuscivo a distinguerne soltanto
il senso, il tono.
Avrei voluto ascoltarlo con maggiore concentrazione per capire
se, nel suo nuovo e meno fitto mistero, potevo trovare la chiave per
accedere ai segreti di Bella. Ma ormai lei era stata caricata
sull’ambulanza ed eravamo partiti.
Fu difficile, per me, togliermi dalla testa quella possibile soluzione
del mistero, che aveva cominciato a ossessionarmi. Ma ora dovevo
riflettere, considerare tutto ciò che era accaduto quel giorno da ogni
angolazione. Dovevo rimanere in ascolto, accertarmi di non aver
messo tutti noi in un pericolo tanto grande da costringerci a partire
immediatamente. Dovevo concentrarmi.
Nei pensieri degli infermieri non c’era niente di preoccupante. Per
quanto ne sapevano, la ragazza non aveva subito alcun danno
grave. E, per il momento, Bella si stava attenendo alla storia che
avevo fornito io.
La prima priorità, quando arrivammo in ospedale, fu vedere
Carlisle. Mi precipitai dentro le porte automatiche, ma non riuscii a
rinunciare del tutto a sorvegliare Bella. La tenni d’occhio attraverso i
pensieri dei paramedici.
Fu facile trovare la mente di mio padre. Era nel suo ufficio, da
solo, il secondo colpo di fortuna in quella giornata sfortunata.
«Carlisle».
Aveva saputo del mio arrivo e si allarmò non appena vide la mia
espressione. Saltò in piedi e si sporse in avanti appoggiando le mani
sulla sua ordinata scrivania di noce.
Edward... non avrai...?
«No, no, non è quello».
Prese un respiro profondo. Certo che no. Mi dispiace di averlo
pensato. I tuoi occhi, ovvio, avrei dovuto saperlo. Notò con sollievo
le mie iridi, ancora color oro.
«Però lei è ferita, Carlisle, probabilmente non è niente di grave,
ma...».
«Cos’è successo?».
«Un ridicolo incidente d’auto. Lei era nel posto sbagliato al
momento sbagliato. Ma non potevo restarmene là e basta... lasciare
che la schiacciasse...».
Non capisco, ricomincia da capo. Come sei stato coinvolto?
«Un furgoncino ha sbandato sul ghiaccio», mormorai. Mentre
parlavo, fissavo il muro alle sue spalle. Invece di una serie di diplomi
incorniciati, Carlisle aveva appeso un semplice dipinto a olio, il suo
preferito, un ancora insospettato Hassam. «Lei si è trovata sulla
traiettoria. Alice l’ha visto arrivare, ma non c’è stato tempo per fare
niente tranne correre nel parcheggio e spingerla da parte. Nessuno
l’ha notato... tranne lei. Ho dovuto anche fermare il furgoncino, ma
anche questo non l’ha visto nessuno tranne lei. Io... mi dispiace,
Carlisle. Non volevo mettere in pericolo tutti noi».
Lui girò intorno alla scrivania e mi abbracciò per un breve istante
prima di fare un passo indietro.
Hai fatto la cosa giusta. E non dev’essere stato semplice. Sono
fiero di te, Edward.
Allora potei guardarlo negli occhi. «Lei sa che c’è qualcosa...
qualcosa di strano in me».
«Non importa. Se dobbiamo partire, partiamo. Che cosa ha
detto?».
Scossi la testa, un po’ frustrato. «Ancora niente».
Ancora?
«Ha confermato la mia versione... ma si aspetta che le dia una
spiegazione».
Lui aggrottò la fronte, considerando la cosa.
«Ha battuto la testa... be’, per colpa mia», mi affrettai a
continuare. «L’ho sbattuta per terra abbastanza forte. Sembrava che
stesse bene, ma... non penso che ci vorrà molto per screditare
quello che racconterà».
Non appena finii di dirlo, mi sentii un mascalzone.
Carlisle percepì il disgusto nella mia voce. Forse non sarà
necessario. Vediamo che cosa succede, che ne pensi? A quanto
pare, ho una paziente di cui occuparmi.
«Ti prego», dissi. «Ho molta paura di averle fatto male».
L’espressione di Carlisle si illuminò. Si lisciò i capelli biondi,
appena più chiari dei suoi occhi dorati, e rise.
A quanto pare hai avuto una giornata molto interessante. Lessi
l’ironia nei suoi pensieri e, in effetti, la cosa era divertente, almeno
per lui. C’era stata una notevole inversione di ruoli. Era bastato un
istante di incoscienza, una corsa nel parcheggio coperto di ghiaccio,
per trasformarmi da assassino in protettore.
Risi insieme a Carlisle, ricordando quanto fossi stato sicuro che
Bella non avrebbe mai avuto bisogno di essere protetta da nient’altro
oltre che da me. Ma fu una risata tesa perché, furgone a parte, la
mia affermazione era ancora vera.

Aspettai da solo nell’ufficio di Carlisle – una delle ore più lunghe


che avessi mai vissuto – ascoltando l’ospedale pieno di pensieri.
Tyler Crowley, che guidava il furgoncino, sembrava messo peggio
di Bella e, mentre lei aspettava il suo turno per le radiografie,
l’attenzione si spostò su di lui. Carlisle si tenne in disparte, fidandosi
della diagnosi dell’ausiliare medico secondo il quale la ragazza
riportava soltanto ferite lievi. Mi agitai un po’, per questo, ma sapevo
che era giusto così. Una sola occhiata al viso di Carlisle le avrebbe
fatto venire in mente me e il fatto che c’era qualcosa di strano nella
mia famiglia e, magari, l’avrebbe indotta a parlare.
Sicuramente aveva un compagno abbastanza disponibile con il
quale conversare. Tyler, roso dal senso di colpa per averla quasi
uccisa, sembrava non riuscire a smettere di parlarne. Vidi
l’espressione di Bella attraverso i suoi occhi ed era evidente che non
ne potesse più. Come faceva, lui, a non accorgersene?
Provai un momento di tensione quando Tyler le chiese come
avesse fatto a spostarsi.
Aspettai, immobile, mentre lei esitava.
«Ehm...», la sentii dire. Poi rimase in silenzio talmente a lungo
che Tyler si chiese se la sua domanda non l’avesse confusa.
Finalmente, concluse. «È stato Edward a spingermi via».
Respirai di sollievo. Ma poi il mio respiro accelerò. Non l’avevo
mai sentita dire il mio nome ad alta voce. Mi piacque la sua sonorità,
anche sentendola soltanto dai pensieri di Tyler. Avrei voluto sentirlo
di persona...
«Edward Cullen», disse lei, quando Tyler non capì a chi si
riferisse. Mi ritrovai davanti alla porta, con la mano sul pomello. Il
desiderio di vederla diventava sempre più forte. Dovetti rammentare
a me stesso la necessità di essere prudente.
«Era lì accanto a me».
«Cullen?». Uh. Strano. «Non l’ho visto». Avrei giurato che... «Dio,
forse perché è successo tutto talmente in fretta. Lui sta bene?».
«Penso di sì. È qui anche lui, non so dove. Ma non l’hanno
nemmeno portato in barella».
Vidi lo sguardo pensieroso sul suo viso, il sospetto nei suoi occhi,
ma a Tyler quei piccoli dettagli sfuggirono del tutto.
È carina, stava pensando, quasi sorpreso. Anche ridotta così
male. Non è il tipo che di solito piace a me. Però... dovrei invitarla a
uscire. Per chiederle scusa per oggi. In quel momento ero nel
corridoio, a metà strada dal pronto soccorso, senza pensare
neanche per un secondo a quello che stavo facendo.
Fortunatamente, l’infermiera entrò nella stanza prima che potessi
farlo io. Bella doveva andare in radiologia. Mi appoggiai alla parete,
nell’ombra di una rientranza appena dietro l’angolo e tentai di
riprendere il controllo mentre lei veniva portata via con la sedia a
rotelle.
Non era importante che Tyler pensasse che era carina. L’avrebbe
notato chiunque. Non avevo alcun motivo per sentirmi... ma come mi
sentivo, in effetti? Infastidito? Oppure arrabbiato era più vicino alla
verità? Tutto ciò non aveva alcun senso.
Rimasi dov’ero finché potei, ma l’impazienza ebbe la meglio e
feci un giro largo per arrivare a radiologia. Bella era già stata
riportata al pronto soccorso, ma io riuscii a dare un’occhiata alla sua
radiografia, mentre l’infermiera era distratta.
Dopo, mi sentii più calmo. La sua testa stava bene. Non l’avevo
ferita, non seriamente.
Carlisle mi sorprese lì.
Sembra che tu stia meglio, commentò.
Guardai dritto davanti a me. Non eravamo soli, i corridoi erano
pieni di portantini e visitatori.
Ah, sì. Incastrò la radiografia sulla lavagna luminosa, ma non
avevo bisogno di una seconda occhiata. Vedo. Bella sta benissimo.
Ben fatto, Edward.
L’approvazione di mio padre mi mandò in crisi. Ne avrei dovuto
essere felice, ma sapevo che non avrebbe approvato quello che
stavo per fare. Almeno, non lo avrebbe approvato se avesse
conosciuto i miei veri motivi.
«Penso che andrò a parlare con lei... prima che ti veda»,
mormorai. «Mi comporto normalmente, come se non fosse successo
niente. Per appianare le cose». Tutti motivi accettabili.
Carlisle annuì, ma pensava ad altro, era ancora concentrato sulla
radiografia.
Diedi un’occhiata per vedere cosa lo interessasse tanto.
Guarda tutte queste vecchie contusioni! Ma quante volte l’ha fatta
cadere, sua madre? Rise fra sé della sua battuta.
«Comincio a pensare che questa ragazza sia davvero sfortunata.
Si trova sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato».
Di sicuro Forks è il posto sbagliato, finché ci sei tu.
Sussultai.
Vai. Sistema le cose. Ti raggiungo fra poco.
Mi allontanai in fretta, sentendomi in colpa. Forse ero un bugiardo
troppo in gamba, se riuscivo a ingannare Carlisle.
Quando arrivai al pronto soccorso, Tyler era ancora lì a
borbottare delle scuse. Bella stava tentando di sfuggire al suo
rimorso fingendo di dormire. Aveva gli occhi chiusi, ma il respiro non
era regolare e, di tanto in tanto, l’impazienza le faceva contrarre le
dita.
Osservai il suo volto per un lungo momento. Quella era l’ultima
volta che l’avrei vista. Constatarlo mi provocò un dolore acuto nel
petto. Mi sentivo così perché detestavo lasciare un enigma irrisolto?
Non mi sembrava una spiegazione sufficiente.
Alla fine, presi un respiro profondo e mi feci vedere.
Tyler fece subito per parlare, ma mi appoggiai un dito sulle
labbra.
«Dorme?», mormorai.
Gli occhi di Bella si aprirono di colpo e misero a fuoco il mio viso.
Per un istante si spalancarono, poi si socchiusero, sospettosi.
Ricordai che dovevo interpretare un ruolo, così le sorrisi come se
quella mattina non fosse successo niente – a parte una botta in testa
e un’immaginazione un po’ troppo sfrenata.
«Ehi, Edward», disse Tyler. «Mi dispiace tanto...».
Lo misi a tacere con un gesto. «Niente sangue, niente danno»,
dissi in tono beffardo. Sovrappensiero, sorrisi in modo troppo
smagliante alla mia battuta. Tyler rabbrividì e guardò altrove.
Fu sbalorditiva la facilità con la quale riuscii a ignorare Tyler,
sdraiato a non più di un metro da me, con le sue profonde ferite
ancora stillanti sangue. Non avevo mai capito come Carlisle
riuscisse a ignorare il sangue dei suoi pazienti per poterli curare. La
tentazione costante non era una grossa distrazione, un grande
pericolo? Ma adesso... lo capivo. Se ti concentravi abbastanza
intensamente su qualcos’altro, la tentazione non era più tale.
Anche così fresco ed esposto, il sangue di Tyler non aveva niente
a che vedere con quello di Bella.
Mantenni la distanza da lei sedendomi in fondo al letto del
ragazzo.
«Allora, qual è il verdetto?», le domandai.
Il suo labbro inferiore si sporse un po’ in fuori. «Non mi sono fatta
neanche un graffio, ma non vogliono lasciarmi tornare a casa. Com’è
che tu non sei legato a una barella come noi?».
La sua impazienza mi fece sorridere di nuovo.
In quel momento sentii Carlisle nel corridoio.
«Tutto merito di chi sai tu», le dissi, con gentilezza. «Ma non
preoccuparti, sono venuto a liberarti».
Mentre mio padre entrava nella stanza, osservai attentamente la
reazione di Bella. Spalancò letteralmente occhi e bocca per la
sorpresa. Io gemetti in silenzio. Non c’era dubbio, aveva notato la
somiglianza.
«E allora, signorina Swan, come stiamo?», domandò Carlisle.
Aveva un modo meraviglioso di trattare i pazienti, che rasserenava
quasi tutti nel giro di pochi istanti. Ma non riuscii a capire che effetto
avesse su Bella.
«Bene».
Carlisle incastrò le lastre sul pannello luminoso sopra il letto. «Le
radiografie sono buone. Ti fa male la testa? Edward dice che hai
preso un brutto colpo».
Lei sospirò e ribadì: «Sto bene», ma stavolta trapelò
l’impazienza. Mi lanciò un’occhiataccia.
Carlisle le si avvicinò e le passò le dita sulla testa finché non
trovò il bernoccolo sotto i capelli.
L’ondata di emozioni che mi travolse mi colse del tutto
impreparato. Avevo visto mio padre lavorare con gli umani migliaia di
volte. Qualche anno prima, lo avevo persino assistito di straforo –
ma solo in situazioni dove non c’era sangue. Quindi per me non era
una novità vederlo interagire con la ragazza come se fosse umano
quanto lei. Tante volte avevo invidiato il suo autocontrollo, ma
l’emozione che provai non era la stessa. Invidiavo lui, più del suo
autocontrollo. Mi struggevo per l’elemento che ci distingueva: e cioè
il fatto che lui potesse toccarla con quella delicatezza, senza paura,
sapendo che non le avrebbe fatto del male.
Lei sussultò e io, seduto al mio posto, fremetti.
«Sensibile?», domandò Carlisle.
Il suo mento scattò in alto di un millimetro. «No, davvero»,
rispose.
Un altro frammento del suo carattere andò a incastrarsi nel
mosaico: era coraggiosa. Non le piaceva mostrarsi debole.
Era, forse, la creatura più vulnerabile che avessi mai visto, e lei
non voleva apparire debole. Mi sfuggì una risatina.
Bella mi lanciò un’altra occhiataccia.
«Bene», disse Carlisle, «tuo padre è in sala d’attesa, puoi farti
riaccompagnare a casa. Se hai capogiri o problemi di vista, però,
torna subito».
Suo padre era lì? Feci una rapida incursione nei pensieri che
affollavano la sala d’attesa gremita, ma non riuscii a isolare, nel
gruppo, la sua sottile voce mentale prima che Bella parlasse ancora,
con un’espressione ansiosa.
«Posso andare a scuola?».
«Forse per oggi dovresti stare tranquilla», suggerì Carlisle.
Lei indicò me. «Lui invece può tornare?».
Comportati normalmente, appiana le cose... ignora la sensazione
che provi quando ti guarda negli occhi...
«Qualcuno dovrà pur diffondere la notizia che siamo
sopravvissuti, no?», dissi.
«A dir la verità», mi corresse Carlisle, «sembra che metà istituto
sia in sala d’attesa».
Questa volta mi aspettai la reazione di Bella, la sua avversione
per le attenzioni. Non mi deluse.
«Oh, no», gemette, e si nascose il viso nelle mani.
Mi rallegrai di avere, finalmente, indovinato. Aver cominciato a
capirla.
«Vuoi restare?», domandò Carlisle.
«No, no!», si affrettò a rispondergli, gettando le gambe fuori dal
materasso e scivolando giù finché i piedi non toccarono il pavimento.
Inciampò, perse l’equilibrio e cadde in avanti fra le braccia di
Carlisle, che l’afferrò e la rimise dritta.
Di nuovo, mi sentii pervadere dall’invidia.
«Sto bene», disse arrossendo, prima che lui commentasse.
Ovviamente Carlisle nemmeno se ne accorse. Si accertò che lei
fosse in equilibrio e poi la lasciò.
«Prendi dell’aspirina contro il dolore», le suggerì.
«Non fa così male».
Carlisle sorrise mentre firmava la sua cartella. «A quanto pare sei
stata davvero molto fortunata».
Lei girò appena il viso per guardarmi con freddezza. «Fortunata
perché Edward si trovava lì accanto a me».
«Oh certo, sì», concordò Carlisle, avvertendo nella sua voce
quello che avvertii anch’io. Bella non aveva declassato i suoi sospetti
a immaginazione. Non ancora.
Tutta tua, pensò Carlisle. Gestiscila come meglio credi.
«Grazie tante», sussurrai in fretta. Nessuno dei due umani mi
sentì.
Carlisle sorrise impercettibilmente al mio sarcasmo mentre
rivolgeva la sua attenzione a Tyler. «Purtroppo, tu dovrai restare qui
un po’ più a lungo», gli disse mentre iniziava a esaminare i tagli
lasciati dai frammenti dei finestrini.
Bene, io avevo combinato il casino, quindi era giusto che fossi io
a risolverlo.
Bella venne decisa verso di me e non si fermò finché non arrivò a
una vicinanza imbarazzante. Ricordai quanto avessi sperato che si
avvicinasse, prima che succedesse il caos. Adesso sembrava che il
desiderio si fosse avverato per prendersi gioco di me.
«Hai un minuto? Ho bisogno di parlarti», sibilò a denti stretti.
Il suo respiro caldo mi sfiorò il viso e dovetti fare un passo
indietro. Il suo fascino non era diminuito di un grammo. Ogni volta
che mi stava vicino, scatenava tutti i miei istinti peggiori e più
pressanti. La bocca mi si riempì di veleno e il mio corpo bramava di
colpire, di afferrarla con violenza e affondarle i denti nel collo.
La mia mente era più forte del mio corpo, ma soltanto un poco.
«Tuo padre ti aspetta», dissi a denti stretti.
Lei lanciò uno sguardo a Carlisle e Tyler. Tyler ci ignorava
completamente, ma Carlisle stava seguendo ogni mio respiro.
Sii prudente, Edward.
«Vorrei parlare con te, da soli, se non è un problema», insistette
lei, a bassa voce.
Avrei voluto dirle che sì, era un grosso problema, ma sapevo che
alla fine avrei dovuto farlo. Tanto valeva assecondarla.
Provavo mille emozioni contrastanti mentre uscivo dalla stanza,
ascoltando i suoi passi malfermi che cercavano di raggiungermi.
Adesso dovevo mettere in scena uno spettacolo. Conoscevo
molto bene il ruolo che avrei interpretato, era il mio personaggio da
sempre: sarei stato il cattivo. Avrei mentito, l’avrei ridicolizzata e
sarei stato crudele.
Andava contro ogni mio impulso buono – quegli impulsi umani ai
quali mi ero aggrappato per così tanti anni. Non avevo mai
desiderato essere meritevole di fiducia come in quel momento,
quando sarei stato costretto a distruggere ogni possibilità di
ottenerla.
La cosa peggiore era sapere che quello sarebbe stato l’ultimo
ricordo che lei avrebbe avuto di me. Era la mia scena finale.
Mi girai verso di lei.
«Cosa vuoi?», le chiesi, con freddezza.
La mia ostilità la fece ritrarre, sbalordita, e l’espressione del suo
viso diventò esattamente quella che mi aveva ossessionato.
«Mi devi una spiegazione», disse, esitante. La sua pelle d’avorio
divenne ancora più pallida.
Fu molto difficile, per me, mantenere un tono aspro. «Ti ho
salvato la vita. Non ti devo niente».
Lei trasalì, e vederla ferita dalle mie parole mi bruciò come un
acido.
«L’hai promesso», mormorò.
«Bella, hai battuto la testa, non sai quello che dici».
Sollevò il mento in un gesto di sfida. «La mia testa non ha un
graffio».
Adesso era arrabbiata e questo mi rese le cose più facili.
Sostenni il suo sguardo furioso mentre la mia espressione diventava
più fredda, più dura.
«Cosa vuoi da me, Bella?».
«Voglio la verità. Voglio sapere perché ti sto coprendo».
Voleva quello che era giusto e doverglielo negare mi faceva star
male.
«Secondo te, cos’è successo?», scattai con rabbia.
Allora non si trattenne più. «Quello che so è che eri tutt’altro che
vicino a me. Neanche Tyler ti ha visto, perciò non dirmi che ho
battuto la testa. Quel furgoncino stava per schiacciarci entrambi,
invece non l’ha fatto, e con le mani hai lasciato un’ammaccatura
sulla fiancata sinistra – e hai lasciato un bozzo anche sull’altra auto,
senza farti niente – e il furgone stava per spaccarmi le gambe, ma
l’hai alzato e trattenuto...». All’improvviso strinse i denti e i suoi occhi
luccicarono di lacrime trattenute.
La guardai con un’espressione beffarda, anche se in realtà ero
sbalordito; aveva visto tutto.
«Pensi che abbia sollevato un furgoncino per salvarti?», le chiesi,
aumentando il sarcasmo nella mia voce.
Si limitò ad annuire, rigida.
Il mio tono divenne ancora più derisorio. «Non ci crederà
nessuno, lo sai».
Bella fece uno sforzo per controllarsi, per non dare sfogo alla
rabbia. Quando mi rispose, parlò con deliberata lentezza. «Non lo
dirò a nessuno».
Era sincera, lo vidi nei suoi occhi. Anche se era furiosa e si
sentiva tradita, avrebbe mantenuto il mio segreto.
Perché?
Per un istante, lo stupore rischiò di far crollare la mia maschera
sarcastica, ma mi ripresi subito.
«E allora, che importa?», le chiesi, sforzandomi di mantenere un
tono severo.
«Importa a me», disse con foga. «Non mi piace mentire; perciò,
se lo faccio, dev’esserci un buon motivo».
Mi stava chiedendo di fidarmi di lei. Proprio come io volevo che si
fidasse di me. Ma era un confine che non potevo oltrepassare.
La mia voce rimase dura. «Non puoi limitarti a ringraziarmi e
lasciar perdere?».
«Grazie», disse, e aspettò ribollendo di rabbia.
«Immagino che tu non intenda lasciar perdere».
«No».
«In tal caso...». Non potevo dirle la verità, anche se avessi
voluto... e io non volevo. Preferivo che inventasse una storia,
piuttosto che sapere che cosa fossi, perché niente poteva essere
peggio della verità: ero un incubo, un morto vivente uscito
direttamente dalle pagine di un romanzo dell’orrore. «Spero che tu
sopporti di buon grado la delusione».
Ci guardammo in cagnesco.
Lei arrossì e strinse di nuovo i denti. «Perché ti sei preso il
disturbo di salvarmi?».
Era una domanda che non mi aspettavo e alla quale non ero
preparato. Persi la presa sul mio personaggio. Sentii che la
maschera mi scivolava via dal viso e, questa volta, le dissi la verità.
«Non lo so».
Memorizzai un’ultima volta il suo viso – era ancora arrabbiato e
con le guance arrossate –, poi le voltai le spalle e me ne andai.
4. VISIONI

Tornai a scuola. Era la cosa giusta da fare, il comportamento più


defilato da tenere. Per la fine della giornata, erano tornati in classe
anche quasi tutti gli altri studenti. Soltanto Tyler e Bella – e pochi altri
che, con la scusa dell’incidente, avevano saltato le lezioni – rimasero
assenti.
Non avrebbe dovuto essere così difficile, per me, fare la cosa
giusta. Ma per tutto il pomeriggio avevo lottato contro il desiderio
smanioso di disertare le lezioni per tornare dalla ragazza.
Come uno stalker. Uno stalker ossessionato. Un ossessionato
vampiro stalker.
Quel giorno la scuola fu, se possibile, persino più noiosa di
quanto mi fosse sembrata solo una settimana prima. Da coma. Era
come se da tutto quello che mi circondava, mattoni, alberi, cielo,
volti, i colori fossero stati prosciugati... fissavo le crepe nel muro.
E c’era un’altra cosa giusta che avrei già dovuto fare... e che non
stavo facendo. Certo, era anche una cosa sbagliata. Questione di
prospettiva. Dalla prospettiva di un Cullen – non soltanto un vampiro,
ma un Cullen, un vampiro che apparteneva a una famiglia, cosa
molto rara nel nostro mondo – la cosa giusta sarebbe andata più o
meno così:
«Sono sorpreso di vederti in classe, Edward. Mi hanno detto che
anche tu sei rimasto coinvolto nell’orribile incidente di questa
mattina».
«Sì, professor Banner, ma sono stato fortunato». Un sorriso
amichevole. «Non mi sono fatto niente. Vorrei poter dire lo stesso di
Tyler e Bella».
«Loro come stanno?».
«Penso che Tyler stia bene... ha soltanto qualche graffio
provocato dal parabrezza. Ma non sono sicuro di Bella». Un cipiglio
preoccupato. «Potrebbe aver avuto una commozione cerebrale. Mi
hanno detto che ha vaneggiato per un bel po’... addirittura aveva le
allucinazioni. So che i medici erano preoccupati...».
Così sarebbe dovuta andare. Questo era ciò che dovevo alla mia
famiglia.
«Sono sorpreso di vederti in classe, Edward. Mi hanno detto che
anche tu sei rimasto coinvolto nell’orribile incidente di questa
mattina».
Nessun sorriso. «Non mi sono fatto niente».
Il professor Banner spostò il peso da un piede all’altro,
palesemente a disagio.
«Hai idea di come stiano Tyler Crowley e Bella Swan? Ho sentito
che sono rimasti feriti...».
Mi strinsi nelle spalle. «Non saprei».
Il professor Banner si schiarì la gola. «Ehm, bene...», disse, e il
mio sguardo freddo provocò un po’ di tensione nella sua voce.
Tornò in fretta alla cattedra e iniziò la sua lezione.
Era la cosa sbagliata da fare. A meno che non la si guardasse da
un punto di vista meno comprensibile.
Il problema era che sembrava così... poco cavalleresco
calunniare la ragazza alle spalle, soprattutto quando lei si
dimostrava molto più affidabile di quanto avessi sperato. Non aveva
detto niente che potesse tradirmi, malgrado avesse buoni motivi per
farlo. Avrei quindi dovuto tradirla io, quando lei aveva mantenuto i
miei segreti e basta?
Ebbi una conversazione quasi identica con la professoressa Goff
– ma in spagnolo, anziché in inglese – ed Emmett mi lanciò una
lunga occhiata.
Io lo ignorai.
A dir la verità mi era venuta in mente una spiegazione
inattaccabile. Supponiamo soltanto che io non avessi fatto niente per
impedire al furgoncino di schiacciare la ragazza. Il solo pensiero mi
disgustava. Ma se lei fosse stata colpita, se fosse stata stritolata e
avesse sanguinato e il fluido rosso si fosse sparso e disperso
sull’asfalto, mentre il profumo di sangue fresco si diffondeva
nell’aria...
Rabbrividii di nuovo, ma non soltanto d’orrore. Una parte di me
rabbrividì di desiderio. No, non avrei potuto guardarla sanguinare
senza smascherare tutti noi in modo molto più palese e scioccante.
Era una scusa più che valida... ma non l’avrei usata. Era troppo
deplorevole.
E comunque, ci avevo pensato soltanto molto dopo l’accaduto.
Sta’ attento a Jasper, continuò Emmett, ignorando le mie
fantasie. Non è tanto arrabbiato... ma molto determinato.
Capii che cosa intendeva e, per un attimo, la stanza intorno a me
si smaterializzò. La furia divampò dentro di me tanto ardentemente
che una foschia rossa mi annebbiò la vista. Pensai che mi avrebbe
soffocato.
Edward! Calmati!, mi urlò mentalmente Emmett. Abbassò la
mano sulla mia spalla, trattenendomi prima che potessi balzare dalla
sedia. Era raro che usasse tutta la sua forza – non ce n’era
praticamente mai bisogno, visto che lui era molto più forte di
qualsiasi altro vampiro –, ma in quel momento lo fece. Mi afferrò il
braccio, invece di spingermi giù. Se mi avesse spinto, la sedia sotto
di me sarebbe finita in pezzi.
Calma!, ordinò.
Tentai di calmarmi, ma era difficile. La collera mi bruciava il
cervello.
Jasper non farà niente finché non ne avremo parlato tutti insieme.
Ho soltanto pensato che tu dovessi sapere cosa ha in mente.
Mi concentrai per rilassarmi e sentii che Emmett allentava la
presa.
Cerca di non dare altro spettacolo. Sei già abbastanza nei guai
così.
Presi un respiro profondo e lui mi lasciò andare.
Come d’abitudine, controllai la stanza, ma il nostro alterco era
stato talmente breve e silenzioso che l’avevano notato soltanto le
poche persone sedute dietro Emmett. Nessuno di loro, però, sapeva
interpretarlo quindi se ne lavarono le mani. I Cullen erano eccentrici,
questo lo sapevano tutti.
Dannazione, ragazzo, sei in un bel casino, aggiunse Emmett, ma
aveva un tono affettuoso.
«Mordimi», mormorai sottovoce e udii la sua risata sommessa.
Emmett non portava rancore e io, probabilmente, avrei dovuto
essergli più riconoscente per la sua pacifica accettazione. Ma capivo
anche che vedeva un senso nelle intenzioni di Jasper e che stava
riflettendo su quale potesse essere la strada migliore da seguire.
La mia furia ribolliva, quasi fuori controllo. Sì, Emmett era più
forte di me, ma doveva ancora battermi in un incontro di lotta. Lui
affermava che io imbrogliavo, ma la capacità di ascoltare i pensieri
era soltanto una parte di me, come la sua immensa forza era
soltanto una parte di lui. In un combattimento eravamo alla pari.
Un combattimento? Saremmo arrivati a questo? Avevo davvero
intenzione di combattere contro la mia famiglia per un’umana che
quasi non conoscevo?
Ci pensai per un momento, pensai alla sensazione di fragilità che
emanava quel corpo che avevo tenuto fra le braccia, in confronto
alla forza e velocità sovrannaturali di Jasper, Rosalie ed Emmett,
macchine assassine per natura.
Sì, avrei combattuto per lei. Contro la mia famiglia. Rabbrividii.
Ma non era giusto lasciarla senza difesa quando ero stato io
stesso a metterla in pericolo!
Tuttavia, non potevo vincere da solo, non contro loro tre, e mi
chiesi chi sarebbe stato dalla mia parte.
Carlisle, sicuramente. Non avrebbe combattuto con nessuno, ma
si sarebbe opposto ai piani di Rose e Jasper. Poteva essere la sola
cosa di cui avevo bisogno.
Esme, senza dubbio. Nemmeno lei si sarebbe schierata contro di
me, e avrebbe detestato essere in disaccordo con Carlisle, ma
avrebbe appoggiato qualsiasi piano che mantenesse intatta la
famiglia. La sua priorità non sarebbe stata per ciò che era giusto, ma
per me. Se Carlisle era l’anima della famiglia, Esme ne era il cuore.
Lui rappresentava una figura che meritava la nostra obbedienza; lei
trasformava l’obbedienza in un atto d’amore. Eravamo tutti molto
affezionati gli uni agli altri. Anche dietro la collera che in quel
momento provavo verso Jasper e Rose, anche se stavo progettando
di combattere contro di loro per salvare la ragazza, sapevo che li
amavo entrambi.
Alice... non ne avevo idea. Probabilmente avrebbe deciso in base
alle visioni del momento. Si sarebbe schierata con il vincitore,
pensai.
Quindi avrei dovuto farlo senza aiuti. Da solo non avevo alcuna
possibilità contro di loro, ma non avrei permesso che alla ragazza
fosse fatto del male per colpa mia. Il che poteva comportare una
manovra elusiva.
Quell’insolito umorismo cinico attenuò la mia rabbia. Tentai di
immaginare come avrebbe reagito la ragazza se l’avessi rapita.
Certo, non indovinavo quasi mai le sue reazioni, ma come altro
avrebbe potuto reagire se non con terrore?
Tuttavia, il problema era che non ero sicuro di saper gestire il suo
rapimento. Non avrei sopportato starle così vicino per troppo tempo.
Magari potevo semplicemente riportarla da sua madre. Ma anche
così sarebbe stato pericoloso. Per lei.
E anche per me, mi resi conto all’improvviso. Se l’avessi uccisa
per errore... non sapevo con certezza quanto dolore mi avrebbe
provocato la sete, ma sapevo che sarebbe stata una sofferenza
intensa e complessa. Il tempo passava in fretta mentre rimuginavo
su tutte le complicazioni che avevo davanti: la discussione a casa, il
conflitto con la mia famiglia, e i sacrifici che, forse, avrei dovuto fare
in seguito.
Be’, non potevo lamentarmi che la vita fuori da quella scuola
fosse monotona. La ragazza l’aveva parecchio cambiata.
Quando suonò la campanella, io ed Emmett camminammo in
silenzio fino alla macchina. I suoi pensieri esprimevano
preoccupazione per me e per Rosalie. Sapeva che, quando si
sarebbe trattato di prendere posizione, non avrebbe avuto scelta e
questo lo infastidiva.
Gli altri ci stavano aspettando già dentro, anche loro in silenzio.
Eravamo un gruppo molto quieto. Soltanto io potevo sentire le urla.
Idiota! Pazzo! Deficiente! Imbecille! Stupido egoista,
irresponsabile! Rosalie manteneva costante un profluvio di insulti
mentali gridati a pieni polmoni. Mi rendeva difficile sentire gli altri, ma
feci del mio meglio per ignorarla.
Emmett aveva ragione riguardo a Jasper. Era sicuro della sua
strada.
Alice era agitata, si preoccupava per Jasper ed esaminava le
proprie visioni. A prescindere dal modo in cui lui arrivava alla
ragazza, io ero sempre lì a bloccarlo. Interessante... in quelle visioni
però non c’erano né Rosalie, né Emmett. Allora Jasper pensava di
agire da solo. Saremmo stati alla pari.
Jasper era il migliore, fra di noi di sicuro il combattente più
esperto. Il mio unico vantaggio stava nel fatto di poter udire le sue
mosse prima che lui le eseguisse.
Non avevo mai lottato sul serio con i miei fratelli, facevamo i
buffoni e basta. Mi sentivo male all’idea di tentare di colpire sul serio
Jasper.
No, questo no. L’avrei bloccato. E basta.
Mi concentrai sulle visioni di Alice, memorizzando le diverse vie
d’attacco di Jasper.
Ma mentre lo facevo, le visioni cambiarono, spostandosi sempre
più lontano dalla casa degli Swan. Fui interrotto troppo presto.
Basta, Edward!, scattò Alice. Non puoi fare una cosa del genere.
Non lo permetterò.
Non le risposi, continuai semplicemente a osservare.
Lei cominciò a cercare ancora più avanti, nel fumoso e incerto
regno delle possibilità lontane. Ogni cosa era confusa e vaga.
Per tutto il tragitto verso casa, il silenzio pesante non si alleggerì.
Parcheggiai nel grande garage accanto alla casa. La Mercedes di
Carlisle era lì, vicino alla grossa jeep di Emmett, alla M3 di Rose e
alla mia Vanquish. Ero felice che lui fosse già a casa – quel silenzio
poteva terminare in modo esplosivo e volevo che fosse presente
quando sarebbe accaduto.
Andammo subito in sala da pranzo.
La stanza, ovviamente, non veniva mai usata per lo scopo
indicato dalla sua denominazione. Ma era arredata con un lungo
tavolo ovale di mogano circondato da sedie – eravamo molto
scrupolosi nell’avere tutti gli attrezzi di scena collocati al posto
giusto. A Carlisle piaceva usarla come sala riunioni. In un gruppo
dotato di personalità così forti e diverse, a volte era necessario poter
discutere seduti con calma intorno a un tavolo.
Avevo l’impressione, però, che lo scenario non sarebbe servito a
molto, quel giorno.
Carlisle era seduto al suo solito posto a capotavola. Esme era al
suo fianco ed entrambi tenevano le mani sul tavolo.
I profondi occhi dorati di Esme erano fissi su di me, colmi di
preoccupazione.
Resta. Fu il suo unico pensiero. Non aveva idea di cosa stava per
accadere; era soltanto preoccupata per me. Avrei tanto desiderato
poter sorridere alla donna che consideravo come una vera madre,
ma in quel momento non avevo rassicurazioni da offrirle.
Mi sedetti accanto a Carlisle, dalla parte libera.
Mio padre intuiva ciò che stava per accadere. Aveva le labbra
strette e la fronte solcata da rughe, un’espressione che sembrava
troppo anziana per il suo viso giovane.
Mentre tutti gli altri prendevano posto, vidi le sue rughe farsi più
profonde.
Rosalie si sedette di fronte, all’altro capo del tavolo. Mi fulminava
con lo sguardo, senza mai staccarmelo di dosso.
Emmett le si mise accanto, ironico nel volto come nei pensieri.
Jasper esitò, poi rimase in piedi, appoggiato alla parete dietro
Rosalie. Comunque sarebbe andata a finire la discussione, lui aveva
preso la sua decisione. Strinsi i denti.
Alice fu l’ultima a entrare e il suo sguardo era lontano,
concentrato su un futuro ancora troppo indistinto per poterci essere
utile. Si sedette accanto a Esme, in modo apparentemente casuale.
Si massaggiò la fronte come se avesse mal di testa. Jasper trasalì
nervosamente e considerò l’idea di raggiungerla, ma rimase dov’era.
Presi un respiro profondo. Ero stato io a dare inizio a tutto questo.
Toccava a me parlare per primo.
«Mi dispiace», dissi, guardando prima Rosalie, poi Jasper, e poi
Emmett. «Non avevo intenzione di mettere in pericolo nessuno di
voi. Sono stato un incosciente e mi assumo tutte le responsabilità
del mio atto avventato».
Rosalie mi rivolse un’occhiata minacciosa. «Che cosa intendi con
“assumerti tutte le responsabilità”? Hai intenzione di riparare al
danno?».
«Non nel modo che intendi tu», risposi, sforzandomi di mantenere
un tono calmo e basso. «Avevo già in mente di partire prima che
accadesse tutto questo. Me ne andrò adesso...». Se avrò la certezza
che la ragazza sarà al sicuro. Corressi mentalmente. Se avrò la
certezza che nessuno di voi la toccherà. «La situazione si risolverà
da sola».
«No», mormorò Esme. «No, Edward».
Le coprii la mano con la mia. «Si tratta solo di un paio d’anni».
«Esme ha ragione, però», disse Emmett. «Non puoi andare da
nessuna parte. Sarebbe tutt’altro che utile. Ora più che mai abbiamo
bisogno di sapere quello che pensa la gente».
«Sarà Alice a cogliere le cose importanti», obiettai.
Carlisle scosse la testa. «Penso che Emmett abbia ragione,
Edward. La ragazza sarà più incline a parlare, se tu scompari. O
andiamo via tutti, oppure nessuno».
«Lei non dirà niente», insistei. Rose era sul punto di esplodere e
volevo prima chiarire questo punto.
«Tu non sai che cosa ha in mente», mi ricordò Carlisle.
«Almeno questo lo so. Alice, conferma quello che dico».
Alice mi rivolse uno sguardo sfinito. «Non posso vedere quello
che accadrà se ignoriamo il fatto e basta». Lanciò un’occhiata a
Rosalie e Jasper.
No, non poteva vedere quel futuro, non quando Rosalie e Jasper
erano così determinati a non ignorare l’incidente.
Rosalie sbatté con violenza il palmo sul tavolo. «Non possiamo
permettere che gli umani sappiano qualcosa su di noi. Carlisle, tu
devi capirlo. Anche se decidessimo di andarcene tutti, non è sicuro
lasciarci alle spalle delle storie. Viviamo in modo così diverso dai
nostri simili, lo sai che c’è chi non vede l’ora di trovare una scusa per
darci addosso. Noi dobbiamo essere più attenti di chiunque altro!».
«Ci siamo già lasciati dei pettegolezzi alle spalle», le ricordai.
«Soltanto chiacchiere e sospetti, Edward. Non testimoni e
prove!».
«Prove!», la sbeffeggiai.
Ma Jasper stava annuendo e mi guardava con durezza.
«Rose...», cominciò Carlisle.
«Fammi finire, Carlisle. Non dev’essere per forza una cosa
eclatante. Oggi la ragazza ha battuto la testa. Perciò la ferita
potrebbe rivelarsi più grave di quanto non sembri». Rosalie si strinse
nelle spalle. «Tutti i mortali vanno a dormire con la possibilità di non
risvegliarsi mai più. Gli altri si aspettano che facciamo pulizia.
Tecnicamente, dovrebbe occuparsene Edward, ma è chiaro che non
sia nelle sue possibilità. Tu sai quanto io sia capace di controllarmi.
Non lascerei nessuna prova».
«Sì, Rosalie, sappiamo tutti quale efficiente assassina tu sia»,
ribattei con rabbia.
Lei mi gelò con lo sguardo, momentaneamente a corto di parole.
Se solo avesse continuato così.
«Edward, per favore», disse Carlisle. Poi si rivolse a Rosalie.
«Rosalie, a Rochester ho fatto finta di non vedere perché sentivo
che ti era dovuta giustizia. L’uomo che hai ucciso ti aveva fatto una
cosa mostruosa. Ma questa situazione è diversa. Bella Swan è del
tutto innocente».
«Non è una questione personale, Carlisle», replicò Rosalie,
furiosa. «È per proteggere tutti noi».
Seguì un momento di silenzio nel quale Carlisle rifletté a lungo
sulla risposta da dare. Quando annuì, Rosalie si illuminò. Ma
avrebbe dovuto capirlo. Anche se non fossi stato in grado di leggere
i suoi pensieri, avrei potuto anticipare le sue parole. Carlisle non
scendeva mai a compromessi.
«So che le tue intenzioni sono buone, Rosalie, ma... io vorrei
tanto che la protezione della nostra famiglia avvenisse per un motivo
veramente valido. L’occasionale... incidente o perdita di controllo è
una parte spiacevole di quello che siamo». Era proprio da lui
includere se stesso nel discorso, anche se non aveva mai perso il
controllo in quel modo. «Uccidere a sangue freddo un’innocente è
completamente diverso. Penso che il rischio rappresentato da lei,
che parli o meno dei suoi sospetti, sia niente rispetto al rischio più
grande. Se facciamo un’eccezione per proteggerci, rischiamo
qualcosa di molto più importante. Rischiamo di perdere l’essenza di
quello che siamo».
Mi controllai con molta attenzione. Non volevo assolutamente
sorridere. O applaudire, come avrei desiderato.
Rosalie si accigliò. «È soltanto comportarsi in modo
responsabile».
«È comportarsi da insensibili», la corresse Carlisle con dolcezza.
«Ogni vita è preziosa».
Rosalie sospirò e mise il broncio. Emmett le diede una pacca
sulla spalla. «Andrà bene, Rose», la incoraggiò a bassa voce.
«La questione», proseguì Carlisle, «è se dobbiamo andarcene
oppure no».
«No», gemette Rosalie. «Ci siamo appena sistemati. Non voglio
ricominciare da capo l’ultimo anno di scuola!».
«Potresti mantenere l’età che hai adesso, ovviamente», disse
Carlisle.
«E dover traslocare di nuovo così presto?», ribatté lei.
Carlisle si strinse nelle spalle.
«A me piace qui! C’è poco sole, possiamo essere quasi normali».
«Be’, di sicuro non dobbiamo decidere adesso. Possiamo
aspettare e vedere se diventa necessario. Edward sembra essere
sicuro del silenzio della giovane Swan».
Rosalie sbuffò. Ma lei non mi preoccupava più. Capii che avrebbe
assecondato la decisione di Carlisle, a prescindere da quanto fosse
infuriata con me. La loro conversazione si era spostata su dettagli
non importanti.
Jasper, però, restava irremovibile.
Capivo anche il perché. Prima di incontrare Alice, viveva in una
zona di conflitto, sotto una continua minaccia di guerra. Sapeva a
cosa portava trasgredire le regole, ne aveva visto gli esiti orribili con i
suoi stessi occhi.
Era significativo che non avesse cercato di calmare Rosalie con i
suoi poteri e che non cercasse, ora, di aizzarla. Si stava tenendo al
di fuori della discussione. Al di sopra.
«Jasper», dissi.
Lui mi guardò negli occhi, senza espressione.
«Lei non pagherà per il mio sbaglio. Io non lo permetterò».
«Allora ne beneficerà? Sarebbe dovuta morire oggi, Edward.
Vorrei soltanto ristabilire il giusto equilibrio».
Mi ripetei, enfatizzando ogni parola: «Io non lo permetterò».
Jasper sollevò le sopracciglia. Non se lo aspettava, non aveva
immaginato che mi sarei mosso per fermarlo.
Scosse la testa. «E io non permetterò che Alice viva in pericolo,
anche un lieve pericolo. Tu non provi per nessuno quello che io
provo per lei, Edward, e non hai vissuto quello che ho vissuto io,
malgrado tu veda i miei ricordi. Non puoi capire».
«Non discuto su questo, Jasper. Ma adesso ti sto dicendo che
non ti permetterò di fare del male a Isabella Swan».
Ci fissammo, non per minacciarci, ma per misurarci a vicenda.
Percepii Jasper che saggiava il mio stato d’animo, esaminava la mia
determinazione.
«Jazz», disse Alice, interrompendoci.
Lui mi fissò ancora per un istante, poi la guardò. «Non disturbarti
a dirmi che sai proteggerti da sola, Alice. Lo so già. Ma questo non
cambia...».
«Non è quello che stavo per dire», lo interruppe lei. «Stavo per
chiederti un favore».
Vidi quello che aveva in mente e la mia bocca si aprì
involontariamente. La fissai, scioccato, e a malapena consapevole
che tutti gli altri, a parte lei e Jasper, mi stavano guardando con
apprensione.
«So che mi ami. Grazie. Ma apprezzerei molto se non cercassi di
uccidere Bella. Innanzitutto perché Edward è molto determinato e
non voglio vedervi litigare. E poi perché lei è mia amica. Almeno, lo
diventerà».
Nella sua testa l’immagine era chiarissima: lei, sorridente, con il
braccio bianco e freddo intorno alle fragili spalle di Bella. E anche la
ragazza sorrideva, con il braccio intorno alla vita di Alice.
La visione era solida come la roccia; soltanto il momento era
incerto.
«Ma... Alice...», balbettò Jasper. Non riuscii a girare la testa per
vedere la sua espressione. Non riuscii a strapparmi dall’immagine
nella visione di Alice per poter ascoltare i suoi pensieri.
«Un giorno le vorrò bene, Jazz. E sarò molto offesa con te se non
lo permetterai».
Ero ancora bloccato nei pensieri di Alice. Vidi il futuro tremolare
come un miraggio mentre la determinazione di Jasper vacillava di
fronte all’inaspettata richiesta.
«Ah», sospirò lei. L’indecisione di Jasper aveva dischiuso un
nuovo futuro. «Vedi? Bella non dirà niente. Non c’è nulla di cui
preoccuparsi».
Il modo in cui pronunciò il nome della ragazza... come se fossero
già amiche intime.
«Alice», dissi con voce strozzata. «Che... cosa...?».
«Te l’avevo detto che stava per arrivare un cambiamento. Non lo
so, Edward». Ma strinse la mascella e io capii che c’era dell’altro.
Stava cercando di non pensarci. All’improvviso si stava
concentrando su Jasper, anche se lui era troppo sbalordito per
avanzare nel suo processo decisionale.
A volte Alice faceva così quando tentava di tenermi nascosto
qualcosa.
«Che c’è, Alice? Che cosa stai nascondendo?».
Udii Emmett brontolare. Si sentiva sempre frustrato quando io e
Alice avevamo questo genere di conversazioni.
Lei scosse la testa, tentando di non farmi entrare.
«Riguarda la ragazza?», domandai. «Riguarda Bella?».
Per concentrarsi aveva stretto i denti, ma quando dissi il nome di
Bella, si lasciò andare. Durò una frazione di secondo, ma fu
abbastanza.
«No!», urlai. Udii la mia sedia sbattere sul pavimento e soltanto in
quel momento capii di essermi alzato in piedi.
«Edward!». Anche Carlisle era in piedi e mi afferrava la spalla. Io
me ne accorsi appena.
«Si sta concretizzando», mormorò Alice. «Ogni minuto che
passa, sei più deciso. Le restano davvero soltanto due strade. È
l’una o l’altra, Edward».
Vidi quello che vedeva lei... ma non potevo accettarlo.
«No», ripetei, con meno enfasi. Mi sentivo le gambe molli e
dovetti aggrapparmi al tavolo. La mano di Carlisle si allontanò.
«Che seccatura», si lamentò Emmett.
«Devo andare via», mormorai ad Alice, ignorandolo.
«Edward, di questo abbiamo già parlato», disse Emmett a voce
alta. «È il modo migliore per spingere la ragazza a parlare.
Oltretutto, se tu te ne vai, non sapremo con certezza se parla oppure
no. Devi restare e affrontare la situazione».
«Io non ti vedo andare da nessuna parte, Edward», mi disse
Alice. «No so se, ormai, puoi partire». Pensaci, mi disse
mentalmente. Pensa alla tua partenza.
Capii dove voleva arrivare. Sì, l’idea di non rivedere più la
ragazza era... dolorosa. Avevo già provato quella sensazione nel
corridoio dell’ospedale dove l’avevo salutata in modo così aspro. Ma,
adesso, andare via era persino più necessario. Non potevo
nemmeno approvare il futuro al quale, a quanto pareva, l’avevo
condannata.
Non sono del tutto sicura di Jasper, Edward, continuò Alice. Se tu
te ne vai, se pensa che lei sia un pericolo per noi...
«Non sento niente in quel senso», la contraddissi, sempre non
pienamente consapevole del nostro pubblico. Jasper stava cedendo.
Non avrebbe mai fatto qualcosa che avrebbe ferito Alice.
Non adesso. Rischieresti la sua vita, la lasceresti senza
protezione?
«Perché mi stai facendo questo?», gemetti. Mi presi la testa fra le
mani. Io non ero il protettore di Bella. Non potevo esserlo. Non ne
era una prova sufficiente il bivio nelle visioni di Alice?
Anch’io le voglio bene. O gliene vorrò. Non è la stessa cosa, ma
per questo tengo che resti vicina a noi.
«Le vuoi bene anche tu?», mormorai, incredulo.
Lei sospirò. Quanto sei cieco, Edward. Non vedi dove stai
andando? Non vedi dove già sei? È più inevitabile del sorgere del
sole di domani mattina. Vedi quello che vedo io...
Scossi la testa, inorridito. «No». Tentai di bloccare le visioni che
mi stava svelando. «Non devo seguire quella strada. Me ne andrò. Io
cambierò il futuro».
«Puoi provare», disse Alice, ma era scettica.
«Oh, ma insomma!», urlò Emmett.
«Ascolta», gli sibilò Rose. «Alice lo vede innamorato di
un’umana! Come sei scontato, Edward». Finse di vomitare.
La udii appena.
«Che cosa?», disse Emmett, stupefatto. Poi la sua risata
fragorosa risuonò per tutta la stanza. «Quindi è questo quello che
sta succedendo?». Rise di nuovo. «Povero Edward, che sfortuna».
Sentii la sua mano sul braccio, ma la scostai con un gesto
distratto. Non potevo ascoltarlo.
«Innamorato di un’umana?», ripeté Esme, stupefatta. «Della
ragazza che ha salvato oggi? Innamorato di lei?».
«Alice, che cosa vedi esattamente?», domandò Jasper.
Lei si voltò a guardarlo e io continuai a fissare, paralizzato, il suo
profilo.
«Dipende se Edward sarà abbastanza forte. O la ucciderà», si
voltò verso di me e mi fulminò con lo sguardo, «cosa che mi
irriterebbe moltissimo, Edward, per non parlare dell’effetto che
avrebbe su di te», guardò di nuovo Jasper. «Oppure, un giorno, lei
sarà una di noi».
Qualcuno sussultò; non mi girai a vedere chi.
«Non succederà mai!». Stavo urlando. «Nessuna delle due!».
Alice continuò a parlare come se non mi avesse proprio sentito.
«Dipende», ripeté. «Edward potrebbe davvero essere abbastanza
forte da non ucciderla – ma ci arriverà molto vicino. Richiederà una
notevole dose di autocontrollo», rifletté. «Persino più di quello che
possiede Carlisle. Ma l’unica cosa per la quale non è abbastanza
forte è starle lontano. È una causa persa».
Non riuscivo a trovare la voce. Ma nessun altro sembrava
riuscirvi. La stanza era silenziosa.
Io fissavo Alice e tutti fissavano me. Potevo vedere la mia stessa
espressione inorridita replicata da cinque diversi punti di vista.
Dopo un lungo momento, Carlisle sospirò. «Be’, questo...
complica le cose».
«Direi», concordò Emmett. La sua voce era ancora molto vicina a
una risata. Per trovare il lato ridicolo nella distruzione della mia vita,
mio fratello era una sicurezza.
«Tuttavia, suppongo che i piani rimangano invariati», disse
Carlisle, pensieroso. «Resteremo qui e staremo a vedere.
Ovviamente, nessuno farà... del male alla ragazza».
Mi irrigidii.
«No», disse Jasper, a bassa voce. «Su questo sono d’accordo.
Se Alice vede soltanto due strade...».
«No!». Non fu un urlo, un ruggito, o un grido di disperazione, ma
una sorta di combinazione di tutti e tre. «No!».
Dovevo andarmene, allontanarmi dal rumore dei loro pensieri – il
disgusto moralista di Rosalie, le spiritosaggini di Emmett, l’infinita
pazienza di Carlisle...
Peggio: la fiducia di Alice. La fiducia di Jasper in quella fiducia.
Peggio del peggio: la... gioia di Esme.
Uscii a grandi passi dalla stanza. Mentre passavo, Esme tese la
mano per prendere la mia, ma io la ignorai.
Prima ancora di essere uscito di casa, stavo correndo. Superai il
giardino e il fiume in un salto e corsi nella foresta. Era tornata la
pioggia e scendeva tanto fitta che mi inzuppò in pochi secondi. Mi
piaceva quello spesso lenzuolo d’acqua – creava un muro fra me e il
resto del mondo. Mi racchiudeva, dandomi pace e solitudine.
Corsi verso est, sulle montagne, senza mai interrompere la mia
traiettoria, finché non riuscii a vedere un accenno sfocato delle luci di
Seattle sull’altro versante. Mi fermai prima di toccare i confini della
civiltà umana.
Circondato dalla pioggia, completamente solo, finalmente mi
costrinsi a vedere quello che avevo fatto. Il modo in cui avevo
mutilato il mio futuro.
Per prima la visione di Alice e della ragazza abbracciate l’una
all’altra, che camminavano insieme nella foresta vicino alla scuola.
L’amicizia e la fiducia reciproche erano talmente evidenti che
sembravano risuonare al di fuori dell’immagine. In questa visione i
grandi occhi scuri di Bella non erano confusi, anche se ancora pieni
di segreti – segreti che in quel momento sembravano felici. Non
scappava dal braccio freddo di Alice.
Che cosa significava? E lei, quanto sapeva? Che cosa pensava
di me, in quel riquadro del futuro?
Poi l’altra immagine, così simile alla prima, eppure tinta d’orrore.
Alice e Bella sul portico della mia casa, ancora strette nell’abbraccio
dell’amicizia fiduciosa. Ma adesso, fra le loro braccia, non c’era
differenza: entrambe erano bianche e lisce come marmo, dure come
l’acciaio. Gli occhi di Bella non erano più color cioccolato. Le iridi
erano di uno scioccante rosso scarlatto. I segreti che racchiudevano
erano insondabili – accettazione o desolazione? Impossibile dirlo. Il
suo viso era freddo e immortale.
Rabbrividii. Non potevo reprimere un’altra domanda, simile ma
differente: che cosa significava, come era potuto accadere? E lei,
che cosa pensava di me, in quell’istante?
All’ultima domanda potevo rispondere. Se l’avessi costretta, per
la mia debolezza e il mio egoismo, a vivere quella semivita vuota,
sicuramente mi avrebbe odiato.
Ma c’era un’altra immagine, persino più orribile, peggiore di
qualsiasi altra avessi mai custodito nella mente.
I miei occhi, rossi di sangue umano, gli occhi del mostro. Il corpo
martoriato di Bella fra le mie braccia, cinereo, prosciugato, senza
vita. Era un’immagine così concreta, così chiara.
Non riuscivo a guardarla. Non riuscivo a tollerarla. Tentai di
allontanarla dalla mente, di vedere qualcos’altro, qualunque cosa.
Tentai di rivedere l’espressione viva del suo viso, che si era imposta
ai miei occhi durante l’ultimo capitolo della mia esistenza. Tutto
invano.
La terribile visione di Alice mi riempiva la testa, e il dolore che mi
provocava era un’agonia. Nel mentre, il mostro che era in me stava
traboccando di gioia, esultava perché il successo gli sembrava a
portata di mano. Mi nauseava.
Non potevo permetterlo. Doveva esserci un modo per aggirare il
futuro. Non avrei lasciato che la visione di Alice regolasse il mio
comportamento. Avrei scelto un percorso diverso. C’era sempre una
scelta.
Doveva esserci.
5. INVITI

Liceo. Non più purgatorio, adesso era inferno puro. Tormento e


fiamme... sì, li avevo entrambi.
Stavo facendo ogni cosa nel modo corretto. Con tutti i puntini
sulle i. Nessuno poteva accusarmi di sfuggire alle mie responsabilità.
Per far piacere a Esme e proteggere gli altri, rimasi a Forks.
Tornai al mio vecchio orario scolastico. Non andai a caccia più di
quanto facessero gli altri. Ogni giorno frequentavo la scuola e
recitavo la parte dell’umano. Ogni giorno ascoltavo attentamente
ogni novità riguardante i Cullen – ma non c’era niente di nuovo. La
ragazza non diceva una parola sui suoi sospetti. Ripeteva sempre la
stessa storia e basta – che io ero vicino a lei e l’avevo spinta via –,
finché i suoi avidi ascoltatori non ne ebbero abbastanza e smisero di
cercare altri dettagli. Non c’era alcun pericolo. Il mio gesto avventato
non aveva fatto male a nessuno.
Tranne che a me.
Ero deciso a cambiare il futuro. Non che fosse il più semplice
degli obiettivi, ma non c’era un’altra scelta con la quale potevo
convivere.
Alice diceva che non sarei stato abbastanza forte per stare
lontano dalla ragazza. Le avrei dimostrato che si sbagliava.
Avevo immaginato che il primo giorno sarebbe stato il più duro.
Alla fine della giornata ero sicuro che lo fosse stato. Mi sbagliavo,
però.
Era stato irritante sapere che avrei ferito la ragazza. Mi ero
consolato pensando che il suo dolore sarebbe stato quello di una
puntura di spillo – solo il bruciore momentaneo del rifiuto –
paragonato al mio. Bella era umana e sapeva che io ero
qualcos’altro, una cosa sbagliata, una minaccia. Probabilmente, più
che offesa, si sarebbe sentita sollevata quando le avrei voltato le
spalle fingendo che non esistesse.
«Ciao, Edward», mi aveva salutato il primo giorno in cui ero
tornato a lezione di biologia. Il suo tono era stato amichevole,
gentile, completamente diverso dall’ultima volta in cui avevamo
parlato.
Perché? Che cosa significava quel cambiamento? Aveva
dimenticato? Aveva deciso di aver immaginato tutto? Era possibile
che mi avesse perdonato per non aver mantenuto la promessa?
Le domande mi avevano tormentato come la sete che mi
aggrediva a ogni respiro.
Solo un istante per guardarla negli occhi. Solo per vedere se
riuscivo a leggervi le risposte...
No. Non potevo concedermi nemmeno questo. No, se avevo
intenzione di cambiare il futuro.
Avevo mosso il mento verso di lei di un centimetro, senza però
spostare lo sguardo dalla cattedra. Avevo annuito una volta e mi ero
rigirato.
Lei non mi aveva parlato più.
Quel pomeriggio, finita la scuola, recitato il mio ruolo, corsi quasi
fino a Seattle, come avevo fatto il giorno prima. Sembrava che
riuscissi a gestire meglio il dolore quando sfrecciavo sul terreno,
trasformando ogni cosa intorno a me in una macchia verde sfocata.
Quella corsa diventò la mia abitudine quotidiana.
Amavo Bella? Pensavo di no. Non ancora. Ma le visioni di Alice
mi erano rimaste dentro e vedevo benissimo quanto sarebbe stato
facile innamorarsi di lei. Esattamente come cadere: senza sforzo.
Impedirmi di amarla era l’opposto, era arrampicarmi su uno
strapiombo, una mano dopo l’altra, un’impresa estenuante, come se
possedessi soltanto le forze limitate di un umano.
Passò più di un mese e ogni giorno diventava più difficile. Era del
tutto insensato per me – continuavo ad aspettare che superassi la
cosa, che lo sforzo per contrastarla diventasse meno faticoso o che,
almeno, si stabilizzasse su un’unica frequenza. Doveva essere
questo che intendeva Alice quando aveva predetto che non sarei
stato capace di rimanere lontano da Bella. Aveva visto l’intensificarsi
progressivo del dolore.
Ma io potevo affrontare il dolore.
Non avrei distrutto il futuro di Bella. Se davvero ero destinato ad
amarla, evitarla non era forse il minimo che potessi fare?
Evitarla, però, era anche il massimo che potessi tollerare. Potevo
fingere di ignorarla e potevo non guardarla mai. Potevo far finta di
non avere alcun interesse verso di lei. Ma dipendevo da ogni suo
respiro, da ogni sua parola.
Non potevo guardarla con i miei occhi, quindi lo facevo tramite
quelli degli altri. Quasi tutti i miei pensieri giravano intorno a lei,
come se fosse il centro di gravità della mia mente.
Con il protrarsi di questo inferno, ordinai i miei tormenti in quattro
categorie.
Le prime due le conoscevo. Il suo profumo e il suo silenzio. O
meglio, spostando su di me la responsabilità, la mia sete e la mia
curiosità.
Le sete era il mio tormento primario. Ormai, non respirare durante
l’ora di biologia era diventata un’abitudine. Certo, c’erano sempre
delle eccezioni: quando dovevo rispondere a una domanda e avevo
bisogno di prendere fiato per parlare. Ogni volta che sentivo il
sapore dell’aria intorno a Bella, era come la prima volta – fuoco,
desiderio e brutale violenza che spasimava per liberarsi. In quei
momenti mi era difficile aggrapparmi, anche solo per poco, alla
ragione, o trattenermi. E, proprio come il primo giorno, il mostro
dentro di me ruggiva, vicinissimo alla superficie.
La curiosità era il mio tormento più costante. Avevo sempre in
mente la solita domanda: Che cosa sta pensando, adesso? Quando
sentivo i suoi sospiri. Quando si arrotolava distrattamente una ciocca
di capelli intorno a un dito. Quando posava i libri con più forza del
solito. Quando era in ritardo ed entrava in classe di corsa. Quando
batteva il piede impaziente sul pavimento. Ogni suo gesto che
coglievo con la coda dell’occhio mi sembrava un mistero
esasperante. Quando parlava con gli altri studenti, analizzavo ogni
sua parola e intonazione. Esprimeva i suoi pensieri, o pensava a
quello che doveva dire? Spesso avevo l’impressione che tentasse di
dire quello che si aspettavano gli altri e questo mi faceva pensare
alla mia famiglia e alla nostra vita quotidiana fatta di illusioni, che noi
sapevamo condurre meglio di lei. Ma perché avrebbe dovuto recitare
una parte? Lei era una di loro, un’adolescente umana.
Solo che... a volte non si comportava come tale. Per esempio,
quando il professor Banner assegnò un lavoro di gruppo in biologia.
Era sua abitudine lasciare che gli studenti scegliessero i propri
compagni. Come succedeva sempre con i lavori di gruppo, i più
arditi fra gli studenti ambiziosi – Beth Daws e Nicholas Laghari – mi
chiesero subito se volevo unirmi a loro. Io accettai con un’alzata di
spalle. Sapevano che avrei portato a termine la mia parte alla
perfezione e anche le loro, se non le avessero completate.
Non mi stupì che Mike si alleasse con Bella. La sorpresa fu che
Bella insistette per avere come terzo elemento Tara Galvaz.
Di solito era il professor Banner a dover assegnare Tara a un
gruppo. La ragazza parve più stupita che felice quando Bella le batté
su una spalla e le chiese, timidamente, se voleva lavorare con lei e
Mike.
«Come vuoi», le rispose Tara.
Quando tornò a sedersi, Mike le disse, molto irritato: «Quella è
una drogata. Non farà niente di niente, anzi credo che verrà bocciata
in biologia».
Bella scosse la testa e mormorò: «Non ti preoccupare, ci penserò
io».
Mike non si tranquillizzò. «Ma perché lo fai?».
Era la stessa domanda che morivo dalla voglia di farle io,
sebbene non nello stesso tono.
In effetti, Tara sarebbe stata bocciata in biologia. Il professor
Banner stava pensando a lei proprio in quel momento, sorpreso e
commosso dalla scelta di Bella.
Nessuno ha mai dato una possibilità a quella ragazzina. È un bel
gesto da parte della Swan – è molto più gentile di tutti questi
cannibali.
Forse Bella aveva notato che Tara veniva sempre emarginata dal
resto della classe? A parte la gentilezza, non riuscivo a immaginare
un altro motivo per il quale le tendesse una mano, soprattutto
considerando la sua timidezza. Mi chiesi quanto le fosse costato, in
termini di imbarazzo, e decisi, senza dubbio, più di quanto ogni altro
umano presente sarebbe stato disposto a tollerare per un’estranea.
Data la bravura di Bella in biologia, mi chiesi se il voto del
compito sarebbe servito a salvare Tara dalla bocciatura, almeno in
questo corso. E fu esattamente quello che accadde.
Poi ci fu quella volta a pranzo, quando Jessica e Lauren stavano
parlando delle destinazioni da sogno che erano in cima alla loro lista
dei viaggi da fare prima di morire. Jessica scelse la Giamaica, ma
soltanto per sentirsi scalzata da Lauren che nominò la Costa
Azzurra. Tyler intervenne con Amsterdam, pensando al famoso
quartiere a luci rosse, e gli altri cominciarono a dire la propria. Io
attendevo con ansia la risposta di Bella, ma prima che Mike (al quale
piaceva l’idea di Rio) potesse chiederglielo, Eric nominò con
entusiasmo la San Diego Comic-Con e tutto il tavolo scoppiò in una
risata.
«Che razza di nerd», commentò, acida, Lauren.
Jessica ridacchiò. «Vero?».
Tyler alzò gli occhi al cielo.
«Tu non avrai mai una ragazza», disse Mike a Eric.
La voce di Bella, più sonora rispetto al suo solito volume timido, si
intromise nella mischia.
«No, è fico», disse. «Ci voglio andare anch’io».
Mike fece immediatamente marcia indietro. «Cioè, immagino che
alcuni costumi siano fichi. Quello da Leia schiava». Avrei dovuto
tenere la bocca chiusa.
Jessica e Lauren si scambiarono uno sguardo imbronciato.
Bah, ma per favore, pensò Lauren.
«Dovremmo proprio andarci», disse con entusiasmo Eric a Bella.
«Voglio dire, quando avremo abbastanza soldi». Comic-Con insieme
a Bella! Persino meglio del Comic-Con da soli...
Per un istante, Bella fu sconcertata, ma dopo un rapido sguardo
alla faccia di Lauren, rilanciò. «Sì, mi piacerebbe. Ma forse è un po’
troppo costoso, che dici?».
Eric cominciò a mettere a confronto prezzi di biglietti e alberghi
con l’idea di dormire in macchina. Jessica e Lauren tornarono ai loro
discorsi mentre Mike ascoltava con aria infelice Eric e Bella.
«Secondo te il viaggio è di due o tre giorni?», le stava chiedendo
il ragazzo.
«Non ne ho idea», gli rispose lei.
«Be’, quanto c’è da qui a Phoenix in macchina?».
«Si può fare in due giorni», affermò Bella, «se sei disposto a
guidare per quindici ore al giorno».
«San Diego dovrebbe essere un po’ più vicina, giusto?».
Mi parve di essere l’unico a notare la lampadina che si illuminò
sopra la testa di Bella.
«Oh, certo, San Diego è assolutamente più vicina. Ma ci vogliono
sempre due giorni».
Era chiaro che non aveva la più pallida idea di quale fosse la città
che ospitava il Comic-Con. Era intervenuta soltanto per salvare Eric
dalle beffe degli altri. Certo, anche questo rivelava un aspetto del
suo carattere – e un’altra voce da mettere nel mio elenco –, ma
adesso non avrei mai saputo quale meta avrebbe scelto per se
stessa. Mike era insoddisfatto quasi quanto me, ma sembrava non
aver capito affatto le vere motivazioni di Bella.
Con lei era spesso così: non usciva mai dalla sua tranquilla
comfort zone, a meno che qualcuno non avesse bisogno d’aiuto;
cambiava argomento ogni volta che i suoi amici umani si trattavano
in modo troppo crudele; ringraziava un insegnante per la lezione, se
quell’insegnante sembrava abbattuto; cedeva il suo armadietto per
uno più scomodo in modo che due amici potessero essere vicini;
rivolgeva un sorriso particolare, che non emergeva mai con chi stava
bene, soltanto con chi vedeva infelice. Dettagli che nessuna delle
sue conoscenze, o dei suoi ammiratori, sembravano aver mai colto.
Mettendoli tutti insieme, ero arrivato ad aggiungere al mio elenco
la qualità più importante, la più rivelatrice di tutte, tanto semplice
quanto rara. Bella era buona. Tutto il resto andava ad aggiungersi a
un nucleo essenziale: gentile e schiva, altruista e coraggiosa. Era
buona d’animo. E nessuno, oltre me, sembrava rendersene conto.
Sebbene Mike, di sicuro, la osservasse altrettanto spesso.
Ed ecco qui il più sorprendente dei miei tormenti: Mike Newton.
Chi mai avrebbe immaginato che un mortale così noioso e comune
potesse essere così esasperante? Per essere corretti, avrei dovuto
provare una certa gratitudine nei suoi confronti; lui più degli altri
induceva Bella a parlare. Avevo saputo tante cose di lei tramite le
loro conversazioni, ma dover ringraziare Mike per il suo aiuto non
faceva che esacerbarmi. Non volevo che fosse lui a trovare la chiave
per i segreti di Bella.
Il fatto che lui non notasse mai le sue piccole rivelazioni, i suoi
piccoli lapsus, però, attenuava leggermente la mia irritazione. Mike
non sapeva niente di quella ragazza. Aveva creato nella sua mente
una Bella che non esisteva – una ragazza comune esattamente
come lui. Non aveva riconosciuto l’altruismo e il coraggio che la
distinguevano dagli altri umani, non aveva sentito l’eccezionale
maturità che traspariva dai suoi discorsi. Non si era accorto che
quando lei parlava di sua madre sembrava un genitore che parlava
di una bambina, piuttosto che il contrario: era affettuosa, indulgente,
leggermente divertita e ferocemente protettiva. Non sentiva la
pazienza nella sua voce quando fingeva di interessarsi alle storie
sconclusionate che lui le raccontava e non immaginava quanta
empatia nascondesse quella pazienza.
In ogni caso, malgrado l’utilità di queste scoperte, il ragazzo
continuava a non piacermi affatto. Il modo possessivo in cui
osservava Bella – come se fosse una proprietà da acquisire – mi
provocava quasi quanto le sue crude fantasie su di lei. Con il tempo
stava diventando anche più spigliato, perché Bella sembrava
preferirlo a coloro che Mike considerava i suoi rivali – Tyler Crowley,
Eric Yorkie e persino, talvolta, io stesso. Prima della lezione di
biologia si sedeva sempre accanto a lei, al nostro tavolo, per
chiacchierare incoraggiato dai suoi sorrisi. Sorrisi educati e basta, mi
dicevo. Comunque mi divertivo spesso a immaginare di farlo volare
per la stanza con un manrovescio fino alla parete opposta. Magari
non sarebbe stato un colpo fatale...
Mike non pensava sempre a me come a un rivale. Dopo
l’incidente, aveva temuto che io e Bella potessimo legare grazie
all’esperienza condivisa ma, ovviamente, era accaduto l’esatto
contrario. All’epoca ancora lo infastidiva che io avessi un’attenzione
particolare per lei rispetto a tutti gli altri compagni. Ma adesso che la
ignoravo, esattamente come ignoravo chiunque altro, Mike era
sempre più soddisfatto.
Che cosa stava pensando, Bella, adesso? Gradiva le sue
attenzioni?
E, infine, l’ultimo dei miei tormenti, il più doloroso: l’indifferenza di
Bella. Come io ignoravo lei, lei ignorava me. Non tentava più di
parlarmi. Per quanto ne sapevo, non pensava proprio a me, in
nessun modo.
Sarei potuto impazzire per questo – o peggio, sarei potuto tornare
sulle mie decisioni – se lei, di tanto in tanto, non mi avesse guardato
come faceva prima. Non lo vedevo con i miei occhi, perché non
potevo concedermi di guardarla, ma era Alice ad avvertirci delle sue
occhiate. Gli altri erano ancora diffidenti verso Bella e la sua
scomoda consapevolezza.
Il fatto che lei mi guardasse, anche se a distanza, alleviava un po’
il mio dolore. Certo, magari si stava semplicemente chiedendo quale
razza di mostro io fossi esattamente.
«Fra un minuto Bella guarderà Edward. Fate i normali», disse
Alice un martedì di marzo, e gli altri ebbero cura di cincischiare e
fare qualche movimento.
Feci caso a quanto spesso guardava verso di me. Mi fece
piacere, anche se non avrebbe dovuto, che la frequenza non
diminuiva con il passare del tempo. Non sapevo cosa significasse,
ma mi faceva sentire meglio.
Alice sospirò. Vorrei tanto...
«Stanne fuori, Alice», le intimai sottovoce. «Non succederà mai».
Lei mise il broncio. Era ansiosa di stringere con Bella l’amicizia
che aveva previsto. In un modo bizzarro, sentiva la mancanza di una
ragazza che non conosceva.
Lo ammetto. Sei migliore di quanto pensassi. Il tuo futuro è di
nuovo aggrovigliato e senza senso. Spero che tu sia felice.
«Per me ha molto senso».
Lei sbuffò.
Cercai di ammutolirla, troppo impaziente per fare conversazione.
Non ero proprio di buonumore, mi sentivo più teso di quanto
lasciassi vedere ai miei fratelli. Soltanto Jasper si accorse di quanto
fossi rigido, percepiva il mio stress grazie alla sua capacità di
avvertire e influenzare gli umori degli altri. Lui, però, non capiva quali
fossero i motivi dietro tali umori e, dal momento che in quel periodo
ero sempre nervoso, lo ignorò.
Sarebbe stata una giornata difficile. Più difficile del giorno prima,
dato lo scenario.
Mike Newton voleva chiedere a Bella di uscire.
All’orizzonte c’era il ballo di primavera, dov’erano le ragazze a
scegliere il cavaliere, e lui sperava da giorni che Bella lo invitasse.
Che lei non lo avesse ancora fatto aveva dato uno scossone alla sua
fiducia in se stesso. Adesso si trovava in grande imbarazzo – e io
godevo del suo disagio più di quanto avrei dovuto – perché Jessica
Stanley lo aveva appena invitato. Non voleva dirle di sì, perché
sperava ancora che Bella lo scegliesse (dimostrando di aver vinto
sugli altri aspiranti pretendenti), ma non voleva nemmeno dire no e
finire per perdere il ballo. Jessica, ferita dalla sua esitazione e
immaginando quale ne fosse il motivo, stava pugnalando
mentalmente Bella. Di nuovo, ebbi l’impulso di andarmi a mettere fra
lei e i pensieri rabbiosi di Jessica. Ora capivo l’origine di
quell’impulso, ma questo non lo rendeva meno frustrante, perché
comunque non potevo assecondarlo.
A che punto ero arrivato! Ero totalmente concentrato sugli stessi
insulsi drammi da liceali che un tempo avevo disprezzato tanto.
Mentre camminava con Bella verso l’aula di biologia, Mike stava
raccogliendo tutto il suo coraggio. Aspettando che arrivassero,
ascoltai i suoi sforzi. Il ragazzo era debole. Aveva volutamente
aspettato il ballo, timoroso di lasciar trapelare la sua infatuazione
prima che lei gli avesse dimostrato una netta preferenza. Non voleva
rendersi vulnerabile ricevendo un rifiuto, quindi preferiva che fosse
lei a fare il primo passo.
Vigliacco.
Si sedette di nuovo al nostro banco, ormai perfettamente a suo
agio, e io immaginai il suono che avrebbe prodotto il suo corpo se
avesse colpito la parete con forza sufficiente a spaccargli la maggior
parte delle ossa.
«Insomma...», disse alla ragazza, guardando il pavimento.
«Jessica mi ha invitato al ballo di primavera».
«Grande», rispose Bella, in fretta e con molto entusiasmo. Fu
difficile non sorridere mentre Mike elaborava il tono della risposta.
Aveva sperato in un disappunto. «Te la spasserai davvero, con lei».
Lui annaspò per dare la risposta giusta. «Be’...». Esitò e fu sul
punto di darsela a gambe. Poi si riprese. «Le ho detto che volevo
pensarci».
«E perché l’avresti fatto?», gli domandò lei. Aveva un tono di
disapprovazione, ma c’era anche una leggerissima sfumatura di
sollievo.
Che cosa significava? Una collera intensa e inaspettata mi fece
chiudere le mani a pugno.
Mike non udì il sollievo. Arrossì – il che, con l’improvvisa
aggressività che mi sentivo addosso, mi sembrò un invito aperto – e
guardò di nuovo per terra mentre parlava.
«Mi chiedevo se... be’, non avessi intenzione di invitarmi tu».
Bella esitò.
In quel momento vidi il futuro più chiaramente di quanto Alice
avesse mai fatto.
Adesso la ragazza poteva rispondere sì alla domanda inespressa
di Mike, oppure no, ma in ogni caso, presto o tardi, a qualcuno
avrebbe detto sì. Era bella e affascinante, cosa che ai maschi umani
non sfuggiva. Se poi si fosse accontentata di qualcuno pescato in
mezzo all’anonima popolazione di Forks, o avesse aspettato di
andarsene via, sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe detto sì.
Vidi la sua vita come avevo già fatto – college, carriera... amore,
matrimonio. La rividi al braccio di suo padre, tutta vestita di bianco, il
viso arrossato di felicità, mentre camminava sulle note del Coro
Nuziale di Wagner.
Il dolore che provai nell’immaginare il suo futuro mi rammentò la
sofferenza della trasformazione. Mi logorò.
E non soltanto il dolore, ma anche una collera assoluta.
Una collera che spasimava per avere una qualsiasi forma di
sfogo fisico. Anche se quel ragazzo insignificante e immeritevole non
era quello al quale lei avrebbe detto sì, io ardevo dal desiderio di
polverizzare il suo cranio a mani nude e lasciarlo come monito per
chiunque sarebbe stato il prescelto.
Era un’emozione, questa, che non capivo, tanto era intricato il
groviglio di dolore, rabbia, desiderio e disperazione. Non l’avevo mai
provata prima; non sapevo nemmeno darle un nome.
«Mike, credo che dovresti accettare l’invito di Jessica», disse
Bella, con gentilezza.
Le speranze di Mike crollarono. In altre circostanze ne avrei
gioito, ma ero troppo impegnato a vergognarmi dei pensieri che mi
avevano provocato il dolore e la collera.
Alice aveva ragione. Non ero abbastanza forte.
In quel momento mia sorella avrebbe visto il futuro vorticare,
aggrovigliarsi di nuovo. Le avrebbe fatto piacere?
«L’hai già chiesto a qualcun altro?», domandò Mike, rabbuiato.
Per la prima volta in tante settimane, mi lanciò un’occhiata
sospettosa. Mi resi conto di aver tradito il mio interesse: avevo la
testa inclinata verso Bella.
L’invidia feroce nei suoi pensieri – invidia per chiunque Bella
preferisse a lui – diede improvvisamente un nome alla mia
emozione.
Ero geloso.
«No, figuriamoci», disse la ragazza, con una sfumatura divertita
nella voce. «Non ci vengo al ballo».
Pur con tutta la vergogna e la rabbia che provavo, le sue parole
mi sollevarono. Era sbagliato, addirittura pericoloso considerare
Mike e gli altri mortali interessati a Bella come dei rivali, ma dovetti
ammettere che erano diventati esattamente questo.
«Perché no?», le chiese, in tono sgarbato. Mi sentii offeso nel
sentirlo parlare a quel modo. Repressi un ringhio.
«Quel sabato vado a Seattle», gli rispose.
Adesso che volevo scoprire le risposte a ogni cosa, la mia
curiosità non era aggressiva come lo sarebbe stata prima. Avrei
saputo presto i motivi che si nascondevano dietro questa nuova
rivelazione.
La voce di Mike divenne una sgradevole supplica. «Non puoi
rimandare a un altro fine settimana?».
«No, mi dispiace». Bella fu più brusca. «Perciò non fare aspettare
Jess: è scortese».
La sua preoccupazione per i sentimenti di Jessica fece
divampare le fiamme della mia gelosia. Quel viaggio a Seattle era
chiaramente una scusa per rifiutare – lo faceva soltanto per lealtà
verso la sua amica? Allora era molto più che altruista. Avrebbe
voluto poter accettare? Oppure entrambe le ipotesi erano sbagliate?
Era interessata a qualcun altro?
«Va bene, hai ragione», mormorò Mike, talmente demoralizzato
che provai pena per lui. Quasi.
Abbassò lo sguardo, bloccandomi la visione di Bella nei suoi
pensieri. Non potevo tollerarlo.
Mi girai a guardarla, per la prima volta dopo un mese. Il sollievo
che mi diede concedermi questo gesto fu improvviso. Immaginai che
fosse come mettere del ghiaccio su una bruciatura. Un’immediata
cessazione del dolore.
Bella aveva gli occhi chiusi e le mani premute ai lati del viso. Le
spalle curve, come per difendersi. Scosse appena la testa, come se
cercasse di scacciare un pensiero molesto.
Frustrante. Affascinante.
La voce del professor Banner la strappò alle sue meditazioni e i
suoi occhi si aprirono lentamente. Guardò subito verso di me, forse
percependo il mio sguardo. Mi fissò negli occhi con la stessa
espressione perplessa che mi aveva ossessionato per tanto tempo.
In quell’istante non provai rimorso, colpa o rabbia. Sapevo che
tutte quelle emozioni sarebbero tornate, e presto, ma in quel
momento provai una strana e agitata euforia. Come se avessi
trionfato, anziché perso.
Lei non distolse lo sguardo, anche se la stavo fissando con
un’intensità fuori luogo, mentre cercavo invano di leggerle la mente
attraverso i suoi liquidi occhi scuri. Ma erano pieni di domande,
invece che di risposte.
Vidi il riflesso dei miei stessi occhi, neri a causa della sete. Erano
passate quasi due settimane dall’ultima spedizione di caccia; non
era il giorno più adatto per intaccare la mia forza di volontà. Ma quel
colore non parve spaventarla. Continuò lo stesso a guardarmi e una
sfumatura rosata, pericolosamente attraente, cominciò a colorarle le
guance.
Che cosa stai pensando, adesso?
Rischiai di chiederglielo a voce alta ma, in quel momento, il
professor Banner chiamò il mio nome. Scelsi la risposta esatta dai
suoi pensieri, lo guardai brevemente e presi un respiro per
rispondergli.
«Il ciclo di Krebs».
L’arsura mi bruciò la gola – mi tese i muscoli, riempì di veleno la
mia bocca – e io chiusi gli occhi, tentando di concentrarmi, malgrado
il desiderio furioso del sangue di Bella che mi stava devastando.
Il mostro era più forte di prima, esultava. Accoglieva a braccia
aperte il duplice futuro che gli garantiva il cinquanta per cento delle
possibilità di ottenere l’oggetto del suo spietato desiderio. Il terzo e
precario futuro che avevo tentato di costruire soltanto con la forza di
volontà era crollato, distrutto per colpa di una banale gelosia, e lui
era molto più vicino al suo obiettivo.
Adesso, il rimorso e il senso di colpa bruciavano insieme alla sete
e se avessi avuto la facoltà di produrre lacrime, mi avrebbero
riempito gli occhi.
Che cosa avevo fatto?
Sapendo che ormai la battaglia era persa, sembrava che non vi
fosse più alcuna ragione per resistere a quello che volevo. Mi girai
per guardarla ancora.
Si era nascosta dietro i capelli, ma riuscii a intravedere le sue
guance arrossate.
Il mostro gioì.
Lei non mi guardò più, ma si attorcigliò una ciocca scura fra le
dita nervose. Le sue dita delicate, il polso esile, erano così fragili che
sembrava potessi spezzarli anche solo respirando.
No, no, no. Non potevo farlo. Lei era troppo indifesa, troppo
buona, troppo preziosa per meritare una cosa del genere. Non
potevo permettere alla mia vita di scontrarsi con la sua, di
distruggerla.
Ma non potevo nemmeno starle lontano. Su questo Alice aveva
ragione.
Mentre lottavo, il mio mostro interiore si stizziva.
La breve ora insieme a lei trascorse troppo rapidamente e io mi
sentivo lacerato fra due decisioni impossibili. Suonò la campanella e
lei cominciò a raccogliere i suoi libri senza guardarmi. Ne restai
deluso, ma non potevo aspettarmi qualcosa di diverso. Dal giorno
dell’incidente l’avevo trattata in modo imperdonabile.
«Bella?», dissi, incapace di fermarmi. La mia forza di volontà era
andata in briciole.
Prima di guardarmi, lei esitò. Quando si voltò aveva
un’espressione guardinga, sospettosa. Ricordai a me stesso che
aveva tutti i diritti di diffidare. Che avrebbe dovuto farlo.
Aspettò che dicessi qualcos’altro, ma io mi limitai a fissarla, per
leggere la sua espressione. A intervalli regolari, inalavo piccole
boccate d’aria, lottando contro la sete.
«Cosa?», disse finalmente, con una voce dura. «Hai deciso di
rivolgermi la parola?».
Non sapevo bene come rispondere a quella domanda. Le stavo
rivolgendo la parola, come intendeva lei?
No, se potevo farne a meno. Avrei tentato di farne a meno.
«No, non proprio», le dissi.
Chiuse gli occhi rendendo le cose ancora più difficili. Mi tagliava
fuori dalla migliore via d’accesso alle sue emozioni. Respirò a fondo
e con lentezza, senza aprirli, poi parlò. «E allora, Edward, che
vuoi?».
Sicuramente questo non era il normale tono di una conversazione
fra esseri umani. Perché si comportava così?
E come risponderle?
Dicendo la verità, decisi. D’ora in poi sarei stato più leale
possibile, con lei. Non volevo meritare i suoi sospetti, anche se
guadagnare la sua fiducia era impossibile.
«Mi dispiace», dissi. Che era più vero di quanto lei avrebbe mai
saputo. Sfortunatamente, le uniche scuse che potevo presentare
senza tradirmi erano superficiali. «Sono molto maleducato, lo so. Ma
è meglio così, davvero».
Lei aprì gli occhi, ancora sospettosi. «Non capisco che vuoi dire».
Tentai di avvertirla per quanto mi era possibile. «È meglio se non
diventiamo amici». Poteva intuirlo, ne ero sicuro. Era una ragazza
intelligente. «Fidati».
Socchiuse gli occhi, e io ricordai di averle già detto quelle parole,
proprio prima di infrangere una promessa. Trasalii quando la sentii
stringere i denti con un netto clic.
Anche lei lo ricordava.
«Peccato che tu non te ne sia reso conto prima», rispose con
rabbia. «Non avresti avuto nulla di cui rimproverarti».
La guardai, sbalordito. Che ne sapeva lei?
«Rimproverarmi? Rimproverarmi di cosa?», domandai.
«Di non avere lasciato semplicemente che quello stupido furgone
mi spiaccicasse», scattò lei.
Rimasi immobile, stupefatto.
Come poteva pensare una cosa del genere? Salvarle la vita era
l’unica azione degna che avessi compiuto da quando la conoscevo.
L’unica cosa di cui non mi vergognavo, che mi faceva essere felice
di esistere. Da quando avevo sentito il suo profumo, avevo lottato
affinché rimanesse in vita. Come poteva mettere in dubbio l’unica
buona azione di tutto quel caos?
«Vuoi dire che pensi mi sia pentito di averti salvato la vita?».
«Non penso. Lo so», ribatté.
Quel suo giudizio sulle mie intenzioni mi fece ribollire di rabbia.
«Tu non sai niente».
Che razza di meccanismi mentali confusi e incomprensibili aveva!
Di sicuro non ragionava come tutti gli altri esseri umani. Doveva
essere questa la spiegazione del silenzio della sua mente. Lei era
completamente diversa.
Si voltò sdegnata, di nuovo a denti stretti. Anche le guance erano
di nuovo arrossate, ma questa volta di rabbia. Impilò i libri
sbattendoli uno sull’altro, li prese fra le braccia e marciò verso la
porta senza rivolgermi uno sguardo.
Per quanto fossi irritato, qualcosa nella sua rabbia attenuò il mio
fastidio. Non so cosa fosse, ma la sua esasperazione ispirava...
tenerezza.
Camminò impettita senza guardare dove andava e inciampò nello
stipite della porta. Tutti i libri caddero sul pavimento. Invece di
chinarsi a raccoglierli, Bella rimase impalata, senza neanche
abbassare lo sguardo, come se non fosse sicura che i libri
meritassero di essere ripresi.
Non c’era nessuno a guardarmi. In un lampo fui al suo fianco e
impilai i libri ancor prima che lei avesse esaminato il danno.
Si chinò, ma mi vide e si bloccò. Le restituii i libri accertandomi
che la mia pelle gelida non toccasse la sua.
«Grazie», disse, brusca.
«Prego». La mia voce era ancora ruvida di rabbia, ma prima che
potessi schiarirmi la gola e riprovare, lei si era raddrizzata e si era
allontanata a grandi passi, diretta alla lezione successiva.
Restai a guardarla finché non persi di vista la sua figura
arrabbiata.
L’ora di spagnolo passò immersa nella nebbia. La professoressa
Goff non mi riprendeva mai per la mia distrazione – sapeva che il
mio livello di spagnolo era superiore al suo e per questo mi dava
grande libertà di movimento – lasciandomi libero di pensare.
E così non potevo ignorare la ragazza. Fin qui era evidente.
Quindi cosa significava, che non avevo altra scelta se non
distruggerla? Non poteva essere quello l’unico futuro a disposizione.
Doveva esserci un’altra scelta, un equilibrio delicato. Tentai di
pensare a qualcosa.
Non prestai molta attenzione a Emmett finché l’ora non fu quasi
finita. Era curioso. Emmett non aveva un intuito particolarmente
acuto per cogliere le sfumature degli umori altrui, ma si accorse del
mio palese cambiamento. Si chiese cosa mai fosse riuscito a
togliermi dalla faccia quell’espressione perennemente torva. Faticò
un po’ per definire il cambiamento e, alla fine, decise che sembravo
speranzoso.
Speranzoso? Era così che apparivo all’esterno?
Ci pensai su mentre andavamo alla macchina, chiedendomi in
cosa, esattamente, avrei dovuto sperare.
Ma non ebbi il tempo per pensarci. Sensibile com’ero sempre ai
pensieri riguardanti la ragazza, il suono del nome di Bella nelle menti
di quegli umani che non avrei dovuto considerare dei rivali, attirò la
mia attenzione. Eric e Tyler, dopo aver saputo, con molta
soddisfazione, dell’insuccesso di Mike, stavano preparando le
proprie mosse.
Eric era già in posizione, appoggiato al pick-up di Bella, dove lei
non avrebbe potuto evitarlo. La classe di Tyler, invece, era stata
trattenuta per l’assegnazione di un compito e lui si stava affrettando
per intercettare Bella prima che gli sfuggisse.
Questa la dovevo vedere.
«Aspetta qui gli altri, okay?», mormorai a Emmett.
Lui mi scoccò uno sguardo sospettoso, ma poi si strinse nelle
spalle e annuì.
Il ragazzo ha perso la testa, pensò, divertito.
Bella stava uscendo dalla palestra e io aspettai in un punto dove
non mi avrebbe visto. Quando arrivò vicina all’imboscata di Eric, mi
feci avanti misurando il passo in modo da comparire al momento
giusto.
Quando scorse il ragazzo che la stava aspettando, la vidi
irrigidirsi. Si bloccò per un attimo, poi si rilassò e proseguì.
«Ciao, Eric», la udii salutare in modo amichevole.
All’improvviso mi sentii inspiegabilmente ansioso. E se le piaceva
quel ragazzo allampanato e con la pelle butterata? Forse la sua
gentilezza non era solo altruismo.
Eric deglutì sonoramente facendo sobbalzare il pomo d’Adamo.
«Ciao, Bella».
Lei non sembrò accorgersi del suo nervosismo.
«Come va?», gli domandò aprendo la portiera, senza guardare il
suo viso spaventato.
«Ehm, mi chiedevo se... verresti con me al ballo di primavera?».
Terminò balbettando.
Finalmente lei alzò gli occhi. Era sbalordita o le faceva piacere?
Eric non riusciva a guardarla negli occhi, quindi nemmeno io potevo
vedere il suo viso nella mente di lui.
«Mi sembrava che secondo tradizione gli inviti spettassero alle
ragazze», rispose lei, in tono sconcertato.
«Be’, sì», ammise il ragazzo, rattristato.
Era talmente patetico che non mi irritò come invece faceva Mike
Newton ma, ugualmente, non riuscii a compatire la sua angoscia
finché Bella non gli ebbe risposto con la sua solita gentilezza.
«Grazie per avermelo chiesto, ma purtroppo quel sabato sarò a
Seattle».
Eric lo sapeva già, eppure fu una delusione.
«Ah», mormorò, osando a malapena sollevare lo sguardo fino al
naso di lei. «Allora magari la prossima volta».
«Certo», concesse Bella. Poi si morse un labbro come se si fosse
rammaricata di avergli lasciato un appiglio. Mi fece piacere.
Eric si allontanò ciondolando, ma nella direzione opposta rispetto
alla sua auto, con il solo pensiero di scappare da lì.
In quel momento passai davanti al pick-up di Bella e la sentii
sospirare di sollievo. Mi sfuggì una risatina prima di riuscire a
trattenermi.
Lei si girò di scatto, ma io guardavo dritto davanti a me e intanto
cercavo di trattenere le risate.
Tyler era dietro di me, quasi di corsa per la fretta di arrivare da
Bella prima che salisse in macchina e partisse. Rispetto agli altri due
era più sfrontato e sicuro di sé. Aveva aspettato così tanto per
invitarla soltanto per rispettare il diritto di prelazione di Mike.
Volevo che le parlasse per due motivi. Se – come cominciavo a
sospettare – tutte quelle attenzioni le stavano dando fastidio, volevo
godermi la sua reazione. Ma se non era così – se l’invito di Tyler era
quello che sperava di ricevere – allora volevo saperlo.
Valutai Tyler Crowley come antagonista pur sapendo che, da
parte mia, era deprecabile. Ai miei occhi appariva mediamente
noioso e ordinario, ma che ne sapevo io dei gusti di Bella? Magari le
piacevano i ragazzi ordinari.
Quell’idea mi colpì. Io non sarei mai stato un ragazzo ordinario.
Quanto ero stato sciocco a pensare di poter aspirare al suo affetto.
Come avrebbe potuto interessarsi a me che ero per definizione il
cattivo della storia?
Lei era troppo buona per il cattivo.
Sapevo che avrei dovuto permetterle di scappare via, ma la mia
imperdonabile curiosità mi impedì di fare la cosa giusta. Di nuovo. Mi
giustificai pensando che se Tyler avesse perso adesso la sua
occasione solo per contattare Bella in seguito, io non avrei avuto
alcuna possibilità di sapere come sarebbe andata a finire. Perciò mi
inserii con la Volvo sul viale d’uscita e la superai mentre faceva
manovra, bloccandola.
Emmett e gli altri stavano per raggiungermi, ma lui aveva parlato
del mio strano comportamento e tutti e quattro stavano camminando
lentamente mentre mi osservavano e cercavano di decifrare le mie
mosse bizzarre.
Guardai la ragazza nello specchietto retrovisore. Lei lanciò
un’occhiataccia alla mia auto, senza guardare me, con l’aria di una
che avrebbe voluto guidare un carro armato, invece di un pick-up
arrugginito.
Tyler si affrettò a entrare in macchina e si mise in fila dietro di lei,
grato per il mio inesplicabile comportamento. Le rivolse un cenno
con la mano, tentando di attirare la sua attenzione, ma lei non lo
notò. Lui aspettò un attimo, poi scese dalla macchina sforzandosi di
camminare a un’andatura rilassata mentre passava accanto al
finestrino del passeggero del pick-up. Bussò sul vetro.
Bella sussultò, poi lo fissò con aria stupefatta. Dopo un istante
abbassò il finestrino manuale, ma con molta fatica.
«Scusa, Tyler», disse in tono irritato. «Sono bloccata dietro
Cullen».
Pronunciò il mio cognome con durezza.
«Oh sì, ho visto», disse Tyler, per niente frenato dal suo cattivo
umore. «Volevo soltanto chiederti una cosa, mentre siamo fermi
qui».
Fece un sorriso impertinente.
Mi sentii gratificato dal modo in cui lei impallidì di fronte alle sue
evidenti intenzioni.
«Mi inviteresti al ballo di primavera?», le chiese, senza essere
nemmeno sfiorato dall’idea di un rifiuto.
«Sarò fuori città, Tyler», gli rispose Bella, con un tono ancora
palesemente irritato.
«Già, me l’ha detto Mike».
«Ma, allora...», cominciò lei.
Tyler fece spallucce. «Speravo fosse un modo carino di rifiutare il
suo invito».
Un lampo di rabbia passò negli occhi di Bella, ma poi tornò la
calma. «Spiacente, Tyler», gli disse senza ombra di dispiacere nella
voce. «Sarò davvero fuori città».
Data l’abitudine di Bella di mettere le esigenze degli altri davanti
alle proprie, quel rifiuto così granitico di partecipare al ballo mi
sorprese. Che origini aveva?
Tyler accettò le sue scuse senza che il suo ego ne fosse scalfito.
«Non c’è problema. Rimandiamo al ballo di fine anno».
E se ne tornò impettito in macchina.
Avevo fatto bene ad aspettare.
L’espressione inorridita di Bella non aveva prezzo. Mi disse quello
che non avrei dovuto desiderare così tanto di sapere: che non
provava assolutamente niente per nessuno di quei maschi umani
che volevano corteggiarla.
E poi la sua faccia era forse la cosa più divertente che avessi mai
visto.
In quel momento arrivarono i miei fratelli e rimasero confusi
perché, una volta tanto, mi stavo sganasciando dalle risate invece di
lanciare sguardi omicidi a ogni cosa in vista.
Che c’è di tanto divertente?, volle sapere Emmett.
Io scossi la testa mentre Bella riaccendeva con rabbia il suo
rumoroso veicolo. Aveva di nuovo l’aria di una che avrebbe
desiderato un carro armato.
«Andiamo!», mi intimò Rosalie, spazientita. «E piantala di fare
l’idiota. Se puoi».
Le sue parole non mi infastidirono – mi stavo divertendo troppo.
Ma obbedii.
Durante il viaggio di ritorno, nessuno mi parlò. Io continuai a
ridacchiare di tanto in tanto, pensando alla faccia di Bella.
Quando girai nel vialetto – accelerando, visto che non c’erano
testimoni – Alice mi rovinò il buonumore.
«Allora adesso posso parlare con Bella?», mi chiese, senza
preamboli.
«No», scattai.
«Ma non è giusto! Che cosa devo aspettare?».
«Non ho ancora deciso niente, Alice».
«Come ti pare, Edward».
Nella sua testa, i due destini di Bella erano di nuovo chiari.
«Che senso ha fare amicizia con lei», borbottai, improvvisamente
cupo, «se poi la ucciderò?».
Alice ebbe un istante d’esitazione. «Non fa una piega», ammise.
Imboccai l’ultimo tornante a più di centoquaranta all’ora e mi
fermai inchiodando a pochi centimetri dalla parete posteriore del
garage.
«Goditi la corsa», disse Rosalie con sufficienza, mentre uscivo
dall’auto.
Ma non andai a correre, quel giorno. Andai a caccia.
Gli altri avevano in programma di andarci il giorno dopo, ma io
non riuscivo a resistere alla sete. Andai e feci man bassa, bevendo
più del necessario, saziandomi fino all’eccesso con un piccolo
gruppo di alci e un orso nero nel quale mi imbattei per un colpo di
fortuna, data la stagione. Ero talmente pieno da sentirmi male.
Perché non poteva essere sufficiente? Perché il profumo di Bella
doveva essere tanto più forte di qualsiasi altra cosa?
E non soltanto il suo profumo, ma anche la sua spiccata
predilezione a trovarsi coinvolta in qualche disastro. Era a Forks da
poche settimane e già per ben due volte era stata a un passo da una
morte violenta. Per quanto ne sapevo, in quello stesso momento
poteva già ritrovarsi sulla rotta di un’altra sentenza letale. Cosa
sarebbe stato, questa volta? Un meteorite avrebbe sfondato il tetto
della sua casa schiacciandola nel letto?
Non riuscivo più a cacciare e al sorgere del sole mancavano
ancora diverse ore. Adesso che ci avevo pensato, l’idea del
meteorite e di tutte le sue possibili associazioni era difficile da
allontanare. Tentai di essere razionale, di considerare le probabilità
contrarie a tutti i disastri che riuscivo a immaginare, ma non servì.
Quante probabilità c’erano, in fondo, che quella ragazza venisse a
vivere in una cittadina con una buona percentuale di vampiri come
residenti stabili? E quante che piacesse così tanto a uno di loro?
E se le fosse accaduto qualcosa quella notte? E se la mattina
dopo io fossi andato a scuola, con tutti i sensi e le emozioni
concentrati sullo spazio dove lei avrebbe dovuto essere, e quello
spazio fosse rimasto vuoto?
D’un tratto, il rischio mi parve inaccettabile.
L’unico modo in cui potevo avere la certezza che fosse al sicuro
era che qualcuno stesse lì con lei pronto ad agguantare il meteorite
prima che potesse toccarla. Di nuovo mi sentii pervadere da
un’euforia nervosa quando mi resi conto che stavo andando a
trovare Bella.
Era mezzanotte passata e la sua casa era buia e silenziosa. Il
pick-up era parcheggiato vicino al marciapiede, l’auto di pattuglia del
padre nel vialetto. Non c’era traccia di pensieri coscienti in tutto il
vicinato. Osservavo la casa dal buio della foresta che la delimitava a
est.
Non c’erano prove di pericoli imminenti... a parte me stesso.
Ascoltai e identificai il suono di due persone che respiravano
nella casa, due cuori che battevano regolarmente. Quindi andava
tutto bene. Mi appoggiai al tronco di un giovane abete canadese e
restai lì ad aspettare i meteoriti vaganti.
Il problema dell’attesa era che lasciava via libera a ogni genere di
speculazione mentale. Ovviamente il meteorite era soltanto una
metafora per tutte le cose improbabili che potevano andare storte.
Ma non tutti i pericoli si sarebbero palesati striando il cielo notturno
con una fiammeggiante scia di luce. Ne conoscevo tanti che non
avrebbero dato alcun avvertimento, rischi che potevano muoversi di
soppiatto nella casa buia, che magari erano già dentro.
Preoccupazioni ridicole. Quella strada non aveva tubature del
gas, quindi una fuoriuscita di monossido di carbonio era improbabile.
Dubitavo che usassero spesso il carbone. La Penisola Olimpica
aveva davvero poco in materia di animali selvatici pericolosi. Niente
di grande di cui, in quel momento, potessi sentire la presenza. Non
c’erano serpenti velenosi, scorpioni o millepiedi, ma soltanto qualche
ragno, nessuno dei quali letale per un adulto in buona salute e
comunque difficili da trovare dentro casa. Ridicolo. Lo sapevo.
Sapevo che mi stavo comportando in modo illogico.
Ma mi sentivo ansioso, inquieto. Non riuscivo a liberarmi da
quelle immagini cupe. Se solo avessi potuto vederla...
Le avrei dato un’occhiata da vicino.
In mezzo secondo avevo attraversato il giardino e scalato il fianco
della casa. La finestra al primo piano doveva essere una camera da
letto, probabilmente quella padronale. Forse avrei dovuto cominciare
dal retro. Meno in vista, in quel modo. Appeso con una mano alla
grondaia sovrastante la finestra, guardai all’interno e mi si fermò il
respiro.
Era la sua stanza. La vidi nel letto singolo, le coperte sul
pavimento e le lenzuola attorcigliate alle gambe. Stava benissimo,
ovviamente, come la mia parte razionale già sapeva. Al sicuro... ma
non stava riposando. Mentre la guardavo, si muoveva in
continuazione e spostò un braccio sopra la testa. Non dormiva
profondamente, almeno non quella notte. Percepiva la vicinanza del
pericolo?
Mentre la vedevo rigirarsi, provai disgusto per me stesso. Come
potevo considerarmi migliore di un semplice guardone? Non lo ero.
Ero molto, molto peggio.
Rilassai le dita, sul punto di lasciarmi cadere. Ma prima mi
concessi un lungo, ultimo sguardo al suo volto.
Era ancora agitato. C’era la piccola ruga fra le sopracciglia, la
bocca aveva una piega triste. Le sue labbra tremarono, poi si
dischiusero.
«Okay, mamma», mormorò.
Bella parlava nel sonno.
Dentro di me, la curiosità divampò soffocando il disgusto. Era
tanto che desideravo udire i suoi pensieri e fallivo. La tentazione di
quelle parole incustodite, pronunciate inconsciamente, era troppo
allettante.
Dopotutto che cos’erano, per me, le leggi umane? Quante ne
ignoravo, ogni giorno?
Pensai alla quantità di documenti illegali di cui aveva bisogno la
mia famiglia per vivere come voleva. Nomi falsi e storie false, patenti
di guida che ci consentivano l’iscrizione a scuola e credenziali
mediche che permettevano a Carlisle di lavorare. Documenti che
facevano del nostro strano gruppo di adulti quasi coetanei, una
famiglia. Niente di tutto questo sarebbe stato necessario se non
avessimo cercato una residenza stabile anche per brevi periodi, se
non ci fosse piaciuto avere una casa.
Poi, ovviamente, c’era il modo in cui guadagnavamo da vivere. Le
leggi sull’insider trading non si applicano al campo della
chiaroveggenza, ma di sicuro quello che facevamo non era onesto.
E nemmeno il trasferimento di eredità da un nome fittizio a un altro
era legale.
E poi, tutti noi eravamo assassini.
Non la prendevamo alla leggera, ma nessuno di noi era mai stato
punito da un tribunale umano per i reati commessi. Li occultavamo,
un reato anche questo.
Allora perché dovevo sentirmi tanto in colpa per un reato minore?
Non avevo mai rispettato le leggi umane. E questa era la prima volta
che mi misuravo con un’effrazione.
Sapevo che potevo farlo in sicurezza. Il mostro era irrequieto, ma
ben incatenato.
Mi sarei tenuto a debita distanza. Non le avrei fatto del male. Non
avrebbe mai saputo che ero stato lì. Volevo soltanto accertarmi che
fosse al sicuro.
Era soltanto un tentativo di razionalizzazione, argomentazioni
maligne del diavolo appollaiato sulla mia spalla sinistra. Lo sapevo,
ma non c’era un angelo sulla mia spalla destra. Mi sarei comportato
come la creatura da incubo che ero.
Provai ad aprire la finestra che non era chiusa, ma indurita
perché inutilizzata da tanto tempo. Presi un respiro profondo –
l’ultimo, per tutto il tempo in cui sarei rimasto vicino a lei – e feci
scorrere il vetro ritraendomi a ogni minimo cigolio dell’intelaiatura
metallica. Finalmente riuscii ad aprirla abbastanza da potervi
passare.
«Mamma, aspetta...», mormorò. «Scottsdale Road è più veloce».
La sua stanza era piccola, disordinata e ingombra, ma non
sporca. Accanto al suo letto, sul pavimento, c’erano pile di libri con il
dorso rivolto alla parete e CD sparsi vicino al lettore da pochi soldi.
Quello in cima era soltanto un portagioie vuoto. Cumuli di fogli
circondavano un computer che sembrava provenire da un museo
dedicato alla tecnologia primordiale. Le scarpe abbellivano,
sparpagliate, il pavimento di legno.
Avrei voluto davvero tanto andare a leggere i titoli dei libri e dei
CD, ma ero deciso a non correre altri rischi. Quindi andai a sedermi
su una vecchia sedia a dondolo nell’angolo più lontano della stanza.
La mia ansia si attenuò, i pensieri cupi svanirono e la mia mente fu
di nuovo lucida.
Ma sul serio, una volta, l’avevo giudicata una ragazza come
tante? Pensai a quel primo giorno e al mio disgusto per i ragazzi che
erano così incantati da lei. Ma quando ricordai il viso che, allora,
avevo visto nei loro pensieri non riuscii a capire perché non l’avessi
immediatamente trovato bellissimo. Era talmente evidente.
Adesso – con i capelli scuri aggrovigliati e sparsi intorno al viso
pallido, una maglietta logora e una tuta malconcia addosso, le labbra
carnose dischiuse – mi toglieva il fiato. O l’avrebbe fatto, se avessi
respirato.
Non parlava più. Forse il sogno era finito.
Guardai il suo viso e pensai a un modo per rendere tollerabile il
futuro.
Farle del male non lo era. Significava che la mia unica scelta era
tentare di abbandonarla ancora una volta?
Adesso gli altri non potevano discutere con me. La mia assenza
non avrebbe messo in pericolo nessuno. Non sarebbero nati
sospetti, niente che qualcuno avrebbe potuto collegare all’incidente.
Esitai, come avevo fatto nel pomeriggio, e niente sembrava
possibile.
Un piccolo ragno marrone apparì sul bordo dello sportello
dell’armadio. Il mio arrivo doveva averlo disturbato. Eratigena
agrestis – un ragno vagabondo, maschio giovane a giudicare dalla
taglia. Una volta era considerato pericoloso, ma studi più recenti
avevano dimostrato l’inefficacia del suo veleno sugli umani. Il suo
morso, tuttavia, restava doloroso... Allungai un dito e lo schiacciai in
silenzio.
Forse avrei dovuto lasciar vivere quella creatura, ma il pensiero di
qualcosa che potesse far del male a Bella era intollerabile.
E poi, all’improvviso, anche i miei pensieri lo diventarono.
Perché potevo uccidere ogni ragno della sua casa, staccare le
spine a ogni cespuglio di rose che avrebbe toccato, bloccare ogni
auto che sfrecciava a un chilometro da lei, ma non c’era alcuna
missione vittoriosa che avrebbe fatto di me qualcosa di diverso da
quello che ero. Guardai la mia mano, bianca come pietra, così
grottescamente disumana, e mi disperai.
Non potevo sperare di competere con i ragazzi umani, anche se
quei ragazzi non le piacevano. Io ero il cattivo, l’incubo. Come
poteva vedermi in modo diverso? Se avesse saputo la verità su di
me, ne sarebbe stata disgustata e spaventata. Sarebbe corsa via
urlando, come la vittima designata di un film dell’orrore.
Ricordavo il primo giorno a lezione di biologia... e sapevo che
quella era esattamente la reazione che avrebbe dovuto avere.
Ero pazzo a immaginare che se l’avessi invitata a quello stupido
ballo lei avrebbe cancellato i suoi piani affrettati e avrebbe accettato
di andarci con me.
Non ero io quello destinato a ottenere i suoi sì. Lo era qualcun
altro, una persona, umana e calda. E un giorno, quando quel sì
sarebbe stato pronunciato, non avrei potuto nemmeno concedermi il
lusso di dare la caccia a quell’uomo e ucciderlo, perché lei lo
avrebbe meritato, chiunque fosse. Lei meritava di avere felicità e
amore dalla persona che avrebbe scelto.
Adesso, quello che le dovevo io era un comportamento corretto.
Non potevo più fingere di correre soltanto il pericolo di amare quella
ragazza.
Dopotutto, non aveva alcuna importanza se me ne andavo,
perché Bella non avrebbe mai potuto vedermi come io desideravo.
Come chi meritava di essere amato.
Poteva spezzarsi un cuore morto e gelido? Il mio sembrava
potesse.
«Edward», disse Bella.
Rimasi immobile a guardare i suoi occhi chiusi.
Si era svegliata, mi aveva sorpreso lì? Sembrava addormentata,
eppure la sua voce era stata così chiara.
Sospirò, silenziosa, e poi ricominciò ad agitarsi, rotolò su un
fianco riaddormentandosi in fretta e sognando.
«Edward», mormorò ancora.
Stava sognando me.
Poteva un cuore morto e gelido tornare a battere? Il mio
sembrava sul punto di farlo.
«Resta», sospirò. «Non andare. Per favore... non andare».
Stava sognando me e non era nemmeno un incubo. Voleva che
rimanessi lì con lei, nel suo sogno.
Mi sforzai di trovare le parole per dare un nome ai sentimenti che
dilagavano dentro di me, ma non avevo parole abbastanza forti per
racchiuderli. Per un lungo istante, mi lasciai sommergere.
Quando riemersi, non ero più lo stesso uomo.
La mia vita era un’infinita, immutabile mezzanotte. Era necessario
che lo fosse sempre, per me. Quindi com’era possibile che adesso,
nel cuore della notte, stesse sorgendo il sole?
Quando ero diventato un vampiro, scambiando nel dolore
bruciante della trasformazione l’anima, e il mio essere mortale con
l’immortalità, ero diventato davvero un pezzo di ghiaccio. Il mio
corpo si era trasformato in qualcosa di simile alla pietra, resistente e
immutabile. Anche la mia essenza si era cristallizzata – la mia
personalità, i miei gusti, i miei umori e desideri; tutto era rimasto
fermo a quell’istante.
Era lo stesso per gli altri: eravamo tutti congelati. Pietra vivente.
Quando arrivava un cambiamento per uno di noi, era una cosa
rara e definitiva. Lo avevo visto accadere con Carlisle e, dieci anni
dopo, con Rosalie. L’amore li aveva cambiati per l’eternità,
un’eternità che non si sarebbe mai indebolita. Erano passati più di
ottant’anni da quando Carlisle aveva trovato Esme, eppure la
guardava ancora con gli occhi increduli del primo amore. E per loro
sarebbe stato sempre così.
Anche per me sarebbe stato così per sempre. Avrei sempre
amato quella fragile ragazza, per il resto della mia infinita esistenza.
Guardai il suo volto incosciente, sentendo che l’amore per lei
pervadeva ogni angolo del mio corpo di pietra.
Ora lei dormiva più serenamente, con un leggero sorriso sulle
labbra.
Io cominciai a fare dei piani. La amavo e per questo sarei stato
abbastanza forte da lasciarla. Sapevo di non essere così forte,
adesso. Avrei lavorato per diventarlo. Ma, forse, ero abbastanza
forte per aggirare il futuro in un altro modo.
Alice aveva visto soltanto due futuri per Bella, e adesso li capivo
entrambi.
Amarla non mi avrebbe impedito di ucciderla, se commettevo
degli errori.
Eppure, adesso non percepivo il mostro, non riuscivo a trovarlo in
nessun luogo dentro di me. Forse l’amore lo aveva messo a tacere
per sempre. Se avessi ucciso Bella, adesso, non sarebbe stato
intenzionale, ma soltanto un orribile incidente.
Avrei dovuto essere esageratamente cauto. Non avrei mai, mai
potuto abbassare la guardia. Avrei dovuto controllare ogni mio
respiro. Avrei dovuto mantenere una distanza di sicurezza perenne.
Non avrei commesso errori.
Finalmente capivo quel secondo futuro. Ero stato frastornato da
quella visione, che cosa mai poteva far sì che Bella diventasse
prigioniera di questa mezza vita immortale? Ma adesso, devastato
dal desiderio per lei, riuscivo a capire che, con un gesto di
imperdonabile egoismo, avrei potuto chiedere quel favore a mio
padre. Avrei potuto chiedergli di prendere la sua vita e la sua anima
affinché io potessi tenerla per sempre con me.
Lei meritava di meglio.
Ma io vidi anche un altro futuro, un sottile filo teso sul quale avrei
potuto camminare se fossi riuscito a mantenermi in equilibrio.
Potevo farlo? Stare con lei e mantenerla umana?
Decisi di provare. Bloccai il mio corpo in una perfetta immobilità, lì
dove mi trovavo. Poi presi un respiro profondo. E un altro, e un altro
ancora, lasciando che il suo profumo mi squarciasse come un
incendio. La stanza era satura del suo aroma; la sua fragranza si
posava su ogni superficie. Il dolore mi diede le vertigini, ma resistetti.
Se avevo intenzione di restarle vicino, avrei dovuto abituarmi. Un
altro profondo respiro di fuoco.
La guardai dormire, finché il sole non si alzò dietro le nuvole a
oriente, e intanto respiravo e facevo progetti.

Tornai a casa appena dopo che gli altri ne erano usciti per andare
a scuola. Mi cambiai in fretta, evitando gli occhi curiosi di Esme. Vide
la luce febbrile sul mio volto e si sentì allo stesso tempo sollevata e
preoccupata. Il lungo periodo di malinconia che avevo passato
l’aveva addolorata moltissimo ed era felice che, a quanto pareva,
fosse finito.
Corsi fino a scuola, arrivando pochi minuti dopo i miei fratelli. Non
si voltarono, anche se almeno Alice doveva aver saputo che mi
trovavo fra gli alberi fitti che rasentavano la strada. Aspettai finché
non ci fu nessuno a guardare, poi uscii dalla foresta ed entrai nel
parcheggio pieno di auto camminando come se niente fosse.
Udii il pick-up di Bella annunciarsi rombando da dietro l’angolo e
mi fermai dietro una Suburban, dove avrei potuto guardare senza
essere visto.
Bella entrò nel parcheggio e lanciò una lunga occhiataccia alla
mia Volvo prima di parcheggiare in uno dei posti più lontani, con
espressione accigliata.
Fu strano ricordare che probabilmente era ancora arrabbiata con
me e anche per un buon motivo.
Mi sarei riso in faccia, oppure preso a calci. Tutto quel tempo a
lambiccarmi il cervello per escogitare piani era del tutto inutile, se lei
non mi degnava nemmeno di uno sguardo, no? Poteva aver sognato
qualsiasi cosa. Che razza di idiota arrogante ero.
Be’, tanto meglio per lei, se non era interessata a me. Questo non
mi avrebbe impedito di occuparmi di lei, di tentare. Ma avrei
ascoltato il suo no. Glielo dovevo. Le dovevo anche di più. Le
dovevo la verità che non mi era permesso rivelarle. Perciò le avrei
dato tutta la verità che potevo permettermi. Avrei cercato di
avvertirla. E quando lei mi avesse confermato che non sarei mai
stato l’uomo al quale avrebbe detto sì, me ne sarei andato.
Mi incamminai, pensando al modo migliore di avvicinarla.
Fu lei a spianarmi la strada. Mentre scendeva le sfuggì dalle dita
la chiave del pick-up, che finì in una profonda pozzanghera.
Si chinò per prenderla, ma la precedetti recuperandola prima che
lei dovesse bagnarsi le dita nell’acqua fredda.
Mi appoggiai al suo pick-up mentre lei si raddrizzava.
«Ma come fai?», mi chiese.
Sì, era ancora arrabbiata.
Feci dondolare la chiave. «Come faccio cosa?».
Tese la mano e la lasciai cadere sul suo palmo. Respirai a fondo,
inalando il suo profumo.
«Ad apparire dal nulla», chiarì.
«Bella, non è colpa mia se tu sei straordinariamente distratta». Lo
dissi in modo giocoso, come fosse una battuta. C’era mai qualcosa
che quella ragazza non notava?
Aveva sentito come la mia voce si avvolgeva intorno al suo
nome, quasi come una carezza?
Mi guardò malissimo, evidentemente non apprezzava il mio
umorismo. Ma il battito del suo cuore accelerò – per rabbia? Paura?
– e, dopo un istante, abbassò gli occhi.
«Perché l’ingorgo, ieri sera?», mi domandò senza guardarmi.
«Pensavo avessi deciso di fingere che non esisto, non di irritarmi a
morte».
Ancora arrabbiatissima. Aggiustare le cose con lei avrebbe
richiesto parecchi sforzi. Ricordai la mia decisione di essere sincero.
«L’ho fatto per Tyler. Dovevo concedergli una possibilità». E poi
mi misi a ridere. Non riuscii a farne a meno, ripensando alla sua
espressione. Concentrarmi intensamente per lasciarla in vita, per
controllare le mie reazioni fisiche, mi lasciava pochissime risorse per
gestire le mie emozioni.
«Razza di...», rantolò, e poi tacque, troppo furiosa per finire la
frase. Eccola lì, sempre quell’espressione. Soffocai un’altra risata.
Era già abbastanza infuriata.
«E non sto fingendo che tu non esista», continuai. Mi sembrava
giusto mantenere un tono normale, un po’ ironico. Non volevo più
spaventarla. Dovevo nascondere la profondità dei miei sentimenti,
mantenere le cose su un piano di leggerezza.
«Allora hai deciso di irritarmi a morte, visto che il furgoncino di
Tyler non è riuscito a farmi fuori?».
Provai una fitta di rabbia. Come poteva credere, sinceramente,
una cosa del genere?
Era illogico, da parte mia, sentirmi così offeso, lei non sapeva
quali e quanti sforzi avevo fatto per non ucciderla, non sapeva che
avevo discusso con la mia famiglia per lei, non sapeva della
trasformazione che era avvenuta durante quella notte. Ma ero
furioso lo stesso. Emozione ingestibile.
«Bella, sei totalmente assurda», scattai.
Lei arrossì e mi voltò le spalle. Si allontanò.
Rimorso. La mia rabbia era ingiusta.
«Aspetta», la pregai.
Non si fermò, quindi la seguii.
«Scusa se sono stato maleducato. Non dico che non sia vero».
Era assurdo ipotizzare che io volessi che stesse male, in qualsiasi
modo. «Ma è stato maleducato dirtelo, ecco».
«Perché non mi lasci stare?».
Era il no che aspettavo? Era quello che voleva? Il mio nome nel
suo sogno, quindi, non significava niente?
Ricordavo perfettamente il tono della sua voce, l’espressione del
suo viso mentre mi chiedeva di rimanere.
Ma se adesso diceva di no... be’, allora fine della storia. Sapevo
cosa avrei dovuto fare.
Leggerezza, rammentai a me stesso. Quella poteva essere
l’ultima volta che l’avrei vista. Se era così, dovevo lasciarle un bel
ricordo. Quindi avrei recitato la parte del normale ragazzo umano. E,
soprattutto, le avrei dato una scelta e accettato la sua risposta.
«Volevo chiederti una cosa, ma mi hai fatto perdere il filo del
discorso». Mi era appena venuto in mente un piano, e scoppiai a
ridere.
«Soffri di disordini da personalità multipla?», mi chiese.
Dovevo averne tutta l’aria. Con tutte le emozioni nuove che stavo
vivendo, il mio umore era un’altalena impazzita.
«Non sviarmi un’altra volta», le feci notare.
Lei sbuffò. «Va bene. Cosa vuoi?».
«Mi chiedevo se, sabato prossimo...», la guardai mentre lo shock
la faceva impallidire e repressi una risata. «Hai presente, il giorno
del ballo di primavera...».
Mi interruppe, guardandomi finalmente negli occhi. «Mi stai
prendendo in giro?».
«Per cortesia, posso finire di parlare?».
Lei aspettò in silenzio, mordendosi il labbro.
Vederla così mi distrasse. Delle strane, sconosciute reazioni si
agitavano nell’essenza profonda dell’essere umano che ero stato e
avevo dimenticato. Tentai di liberarmene per poter recitare al meglio
la mia parte.
«Ti ho sentita dire che quel giorno hai in programma di andare a
Seattle e volevo chiederti se accetteresti un passaggio». Mi ero reso
conto che, invece di limitarmi a conoscere i suoi progetti, avrei
potuto condividerli con lei. Se diceva di sì.
Bella mi guardò sbalordita. «Cosa?».
«Vuoi un passaggio fino a Seattle?». Io e lei, da soli, dentro una
macchina. Soltanto il pensiero mi incendiò la gola. Presi un respiro
profondo. Facci l’abitudine.
«Da chi?», domandò, ancora confusa.
«Da me, ovviamente», dissi, scandendo le parole.
«Perché?».
Era davvero così sconvolgente il fatto che volessi la sua
compagnia? Doveva proprio aver interpretato nei modi peggiori il
mio comportamento passato.
«Be’», dissi con il tono più naturale possibile, «avevo intenzione
di fare un salto a Seattle nelle prossime settimane e, onestamente,
non sono sicuro che il tuo pick-up possa farcela». Mi sembrava più
sicuro buttarla sulla presa in giro, piuttosto che essere troppo serio.
«Il mio pick-up funziona più che bene, molte grazie per
l’interessamento», disse, con un tono ancora stupefatto. Poi
ricominciò a camminare. La seguii.
Non era un rifiuto esplicito, ma quasi. Voleva essere educata?
«Il tuo pick-up ce la fa anche con un solo pieno di benzina?».
«Non credo siano affari tuoi», borbottò.
Il battito del suo cuore era di nuovo accelerato e aveva il fiato
corto. Pensavo che l’ironia la mettesse a suo agio, ma forse la stavo
spaventando.
«Lo spreco di riserve non rinnovabili è affare di tutta la
comunità». Mi sembrò una reazione normale e tranquilla, ma non
potevo sapere se lei l’avesse intesa allo stesso modo. La sua mente
silenziosa mi lasciava sempre alla deriva.
«Seriamente, Edward, non riesco a seguirti. Pensavo che non
volessi essermi amico».
Quando disse il mio nome, un brivido d’eccitazione mi scosse
dalla testa ai piedi e fui di nuovo nella sua stanza mentre lei mi
chiamava, mi chiedeva di restare. Avrei voluto vivere per sempre in
quell’istante.
Ma, su questo argomento, l’unica scelta accettabile era la
sincerità.
«Ho detto che sarebbe meglio se non diventassimo amici, non
che non voglio».
«Oh, grazie, adesso è tutto molto più chiaro», rispose, sarcastica.
Si fermò sotto la tettoia della caffetteria e mi guardò in faccia. Il suo
cuore saltò un battito. Paura, o rabbia?
Scelsi con cura le parole. Lei doveva capire. Capire che era nel
suo interesse dirmi di andarmene.
«Sarebbe più... prudente che tu non diventassi mia amica».
Guardando negli abissi color cioccolato dei suoi occhi, persi
completamente il controllo sulla leggerezza. «Ma sono stanco di
costringermi a evitarti, Bella». Lo dissi con un tono bruciante,
caldissimo.
Lei smise di respirare per un istante, e nella frazione di secondo
che le servì per ricominciare entrai nel panico. L’avevo terrorizzata,
ne ero certo.
Tanto meglio. Avrei incassato il mio no cercando di tollerare la
sconfitta.
«Vieni con me a Seattle?», le chiesi, di punto in bianco.
Lei annuì, con il cuore che le martellava nel petto.
Sì. Mi aveva detto sì.
E in quel momento la mia coscienza mi prese a schiaffi. Quanto
le sarebbe costato, quel viaggio?
«Sarebbe meglio che mi stessi lontana, sul serio», l’avvertii. Mi
aveva sentito? Sarebbe sfuggita al futuro minaccioso che le stavo
prospettando? Potevo fare qualcosa per salvarla da me?
Leggerezza, urlai a me stesso. «Ci vediamo a lezione».
E immediatamente ricordai che non l’avrei vista a lezione. Quella
ragazza disperdeva completamente i miei pensieri.
Dovetti concentrarmi per non correre, quando le voltai le spalle.
6. GRUPPO SANGUIGNO

La seguii per tutto il giorno attraverso gli occhi degli altri, a


malapena consapevole di quello che avevo intorno.
Non con gli occhi di Mike Newton, perché non potevo più tollerare
le sue fantasie volgari, e nemmeno quelli di Jessica Stanley, perché
il suo risentimento verso Bella era irritante. Una buona scelta era
Angela Weber, quando possibile. Era una ragazza gentile e la sua
mente era un buon posto dove stare. Oppure, a volte, la visuale
migliore la offrivano i professori.
Vedendo Bella inciampare durante tutto il giorno – nelle fessure
del marciapiede, nei libri sparsi e, molto più spesso, nei suoi stessi
piedi – fui sorpreso di sentire nei pensieri degli altri che veniva
considerata goffa.
Ci pensai su. Era vero che, spesso, aveva dei problemi a
rimanere in piedi. Ricordai che aveva sbattuto contro il banco il
primo giorno, era scivolata sul ghiaccio prima dell’incidente, aveva
inciampato nella porta il giorno precedente. Che strano... avevano
ragione. Lei era goffa.
Non so perché mi parve una cosa così divertente ma, nel passare
da storia americana a inglese, scoppiai in una sonora risata attirando
su di me gli sguardi sospettosi di parecchie persone che, a ogni
modo, si affrettarono ad abbassarli di fronte al luccichio dei miei
denti. Come avevo potuto non notarlo? Forse perché quando stava
ferma era così piena di grazia, nella posizione della testa, nell’arco
del collo...
Adesso non c’era proprio niente di aggraziato in lei. Il professor
Varner la guardò mentre inciampava con la punta dello stivale nel
tappeto e cadeva letteralmente sulla sedia.
Scoppiai a ridere di nuovo.
Il tempo passò con una lentezza esasperante mentre aspettavo
di avere l’occasione per rivederla con i miei occhi. Finalmente, suonò
la campanella. Mi diressi velocemente verso la caffetteria per
assicurarmi il posto. Fui uno dei primi ad arrivare nella sala. Scelsi
un tavolo che di solito non veniva occupato e che, con me seduto lì,
sicuramente sarebbe rimasto tale.
Quando i miei fratelli entrarono e mi videro seduto da solo, in un
posto nuovo, non ne furono sorpresi. Alice doveva averli avvertiti.
Rosalie passò oltre senza guardarmi.
Idiota.
Io e lei non avevamo mai avuto un rapporto facile – l’avevo offesa
la prima volta in cui mi aveva sentito parlare e da allora in poi le cose
erano peggiorate – ma negli ultimi giorni sembrava che il suo umore
fosse persino più nero del solito. Sospirai. Rosalie era talmente
autoreferenziale.
Jasper mi sorrise.
Buona fortuna, pensò, dubbioso.
Emmett alzò gli occhi al cielo e scosse la testa.
È diventato matto, povero ragazzo.
Alice aveva un sorriso smagliante, fin troppo.
Posso parlare con Bella adesso?
«Stai alla larga», le dissi sottovoce.
Lei si rabbuiò, poi sorrise di nuovo.
Bene. Fai di testa tua. Ma è solo questione di tempo.
Sospirai di nuovo.
Non dimenticare il laboratorio di biologia, mi ricordò.
Annuii. Mi infastidiva molto il programma deciso dal professor
Banner. Avevo sprecato così tante ore a biologia, seduto vicino a
Bella a fingere di non vederla; era un’ironia crudele che, quel giorno,
avrei perso l’occasione di un’ora insieme a lei.
Mentre aspettavo che arrivasse, seguivo i suoi movimenti tramite
gli occhi dello studente del primo anno che camminava dietro a
Jessica, verso la caffetteria. Jessica stava blaterando qualcosa a
proposito del ballo imminente, ma Bella non le rispondeva. Non che
l’amica le lasciasse l’opportunità di farlo.
Nel momento in cui varcò la soglia della mensa, Bella lanciò
un’occhiata verso il tavolo dove sedevano i miei fratelli. Indugiò per
un istante, poi aggrottò la fronte e abbassò gli occhi. Non mi aveva
ancora notato.
Sembrava così... triste. Provai un potente impulso di alzarmi e
andare a consolarla, solo che non sapevo per cosa. Jessica
continuava a ciarlare del ballo. Forse le dispiaceva perderlo? Mi
sembrava improbabile.
Ma se fosse stato vero... avrei voluto offrirle quella scelta.
Impossibile. La vicinanza fisica richiesta dal ballo sarebbe stata
troppo pericolosa.
Per pranzo acquistò una bibita e nient’altro. Andava bene così?
Non aveva bisogno di più sostanza? Non mi ero mai interessato alla
dieta degli umani, fino a quel momento.
Gli umani erano di una fragilità esasperante! C’erano milioni di
cose di cui preoccuparsi.
Sentii che Jessica stava parlando. «Edward Cullen ti sta fissando
di nuovo», disse. «Chissà come mai oggi se ne sta da solo».
E io fui molto grato a Jessica – sebbene avesse un tono ancora
più risentito del solito – perché Bella alzò la testa di scatto e i suoi
occhi cercarono nella sala, finché non incontrarono i miei.
Adesso non c’era più alcuna traccia di tristezza sul suo viso. Mi
permisi di sperare che prima fosse stata infelice perché pensava che
fossi uscito da scuola in anticipo, e questa speranza mi fece
sorridere.
Con un dito, le feci segno di raggiungermi. Sembrò talmente
sbalordita dal mio gesto, che volli stuzzicarla ancora di più. Così le
strizzai l’occhio e lei rimase, letteralmente, a bocca aperta.
«Ce l’ha con te?», chiese Jessica, in modo sgarbato.
«Forse ha bisogno d’aiuto per i compiti di biologia», mormorò lei,
con voce incerta. «Uhm, penso che mi toccherà andare a sentire
cosa vuole». Questo era quasi un altro sì.
Mentre veniva da me, inciampò due volte, sebbene sul suo
percorso non vi fosse altro se non un linoleum perfettamente liscio.
Ma come avevo fatto a non accorgermi della sua goffaggine? Forse
perché mi ero concentrato troppo sui suoi pensieri silenziosi. E che
cos’altro mi era sfuggito?
Era quasi arrivata al mio nuovo tavolo. Cercai di prepararmi.
Onestà, leggerezza, cantilenai, in silenzio.
Si fermò di fronte a me, accanto alla sedia vuota, esitante.
Inspirai a fondo dal naso, non dalla bocca.
Senti come brucia, pensai, ironicamente.
«Perché non mi fai compagnia, oggi?», le chiesi.
Lei tirò indietro la sedia e si sedette, fissandomi per tutto il tempo.
Sembrava nervosa. Aspettai che fosse lei a parlare. Ci volle ancora
un momento, ma alla fine disse: «Così è diverso».
«Be’...». Esitai. «Ho pensato che se proprio devo andare
all’inferno, tanto vale andarci in grande stile».
Perché lo avevo detto? Forse perché almeno era la verità. E
forse perché percepisse il sottile avvertimento che implicavano le
mie parole. Magari si sarebbe resa conto che avrebbe fatto meglio
ad alzarsi e andarsene il più in fretta possibile.
Ma lei non si alzò. Mi fissava, in attesa, come se dovessi ancora
terminare la frase.
«Sai bene che non ho la più pallida idea di cosa tu stia dicendo»,
disse, quando io rimasi in silenzio.
Che sollievo. Sorrisi. «Certo che lo so».
Era difficile ignorare i pensieri che stavano urlando da dietro le
sue spalle. E comunque volevo cambiare argomento.
«Credo che i tuoi amici siano arrabbiati con me perché ti ho
rapita».
La cosa non parve preoccuparla. «Sopravvivranno».
«Non è detto che ti restituisca, però». Non sapevo nemmeno io
se la stavo prendendo ancora in giro, o se stavo soltanto cercando di
essere onesto. Starle vicino faceva dei miei pensieri un
guazzabuglio.
Bella deglutì sonoramente.
Io risi.
«Sembri preoccupata». In realtà non avrebbe dovuto affatto
essere divertente. E lei avrebbe dovuto essere preoccupata.
«No». Sapevo che era una bugia; la voce tremolante la tradiva.
«Più che altro, sorpresa... A cosa devo tutto questo?».
«Te l’ho detto», le ricordai. «Sono stanco di sforzarmi di starti
lontano. Perciò, ci rinuncio». Continuai a sorridere, con un po’ di
fatica. Cercare di essere allo stesso tempo onesto e disinvolto non
stava funzionando affatto.
«Rinunci?», ripeté lei, perplessa.
«Sì, rinuncio a sforzarmi di fare il bravo». E, a quanto pareva,
anche di essere leggero. «D’ora in poi farò solo ciò che mi va e mi
prenderò quel che viene». Così ero abbastanza onesto. Lasciavo
che vedesse il mio egoismo. E anche che le servisse da monito.
«Mi sono persa un’altra volta».
Ero abbastanza egoista da esserne felice. «Quando parlo con te
mi lascio sempre scappare troppe cose. Questo è uno dei problemi».
Un problema piuttosto insignificante, paragonato agli altri.
«Non preoccuparti», mi rassicurò. «Tanto non ne capisco una».
Bene. Allora sarebbe rimasta.
«Ci conto».
«La traduzione di tutto questo è che adesso siamo amici?».
Ci pensai per un secondo. «Amici...», ripetei. Mi suonava male.
Non era... sufficiente.
«Oppure no», borbottò lei, imbarazzata.
Pensava forse di non piacermi abbastanza?
Sorrisi. «Be’, immagino che possiamo provarci. Ma ti avviso da
subito che non sarò un buon amico, per te».
Aspettai, combattuto, la sua reazione. Desideravo che finalmente
capisse e pensavo che sarei morto se l’avesse fatto. Quanto ero
melodrammatico.
Il suo cuore accelerò i battiti. «Continui a ripeterlo».
«Sì, perché tu non mi dai ascolto», dissi, di nuovo con troppa
intensità. «Sto ancora aspettando che tu ci creda. Se sai quello che
fai, cercherai di evitarmi».
Riuscivo a pensare soltanto al dolore che avrei provato quando
lei avrebbe compreso abbastanza da fare la scelta giusta.
Bella socchiuse gli occhi. «A quanto pare ti sei fatto un’opinione
piuttosto precisa della mia intelligenza».
Non ebbi la certezza di cosa volesse dire, ma le sorrisi a mo’ di
scuse, immaginando di averla involontariamente offesa.
«Perciò, dato che per ora non so quello che faccio, possiamo
provare a essere amici?».
«Mi sembra una proposta sensata».
Lei abbassò gli occhi per fissare intensamente la bottiglia di
limonata che aveva in mano.
La vecchia curiosità tornò a tormentarmi.
«Cosa pensi?», chiesi. Fu un immenso sollievo pronunciare,
finalmente, quelle parole a voce alta. Non ricordavo come ci si
sentisse ad aver bisogno d’aria nei polmoni, ma mi chiesi se il
sollievo dato dal respiro fosse simile a questo.
Lei sollevò gli occhi fino a incontrare i miei e il suo respiro si fece
più veloce, mentre una sfumatura rosata le scaldava le guance.
Inspirai, sentendone il gusto nell’aria.
«Sto cercando di capire cosa sei».
Mi sforzai di rimanere sorridente, mentre mi sentivo invadere dal
panico. Era ovvio che se lo chiedesse. Aveva una mente acuta. Non
potevo sperare che non notasse qualcosa di così eclatante.
«E hai fatto qualche passo avanti?», le chiesi, il più disinvolto
possibile.
«Non molti», ammise.
Sogghignai, sollevato. «Hai una teoria?».
Quali che fossero le sue conclusioni non potevano essere
peggiori della verità. Il rosa sulle sue guance divenne rosso e lei non
disse niente. Riuscivo a sentire il calore del suo imbarazzo.
Avrei tentato con il mio tono suadente. Sugli umani normali, di
solito, funzionava bene.
Le sorrisi per incoraggiarla. «Non me la vuoi dire?».
Scosse la testa. «Troppo imbarazzante».
Uff. Non sapere era peggio di qualsiasi altra cosa. Perché le sue
ipotesi avrebbero dovuto imbarazzarla?
«È una grossa frustrazione, lo sai».
La mia protesta accese una scintilla in lei. I suoi occhi si
illuminarono e le parole uscirono più fluide del solito.
«No, non riesco proprio a immaginare cosa ci sia di frustrante nel
fatto che qualcuno si rifiuti di dirti cosa pensa e nel frattempo faccia
anche piccole osservazioni criptiche proprio per toglierti il sonno
quando ti sforzi di interpretarle... Cosa ci sarà mai di frustrante in
tutto questo?».
Aggrottai la fronte, turbato nel rendermi conto che aveva ragione.
Il mio comportamento era ingiusto. Lei non poteva conoscere la
lealtà e i limiti che mi impedivano di parlare, ma questo non
cambiava la disparità che aveva evidenziato.
Non aveva ancora finito. «Oppure, ammettiamo che questo
qualcuno abbia anche fatto una serie di gesti strani – dal salvarti la
vita in circostanze incredibili un giorno al trattarti come
un’emarginata il giorno dopo – senza mai spiegare il suo
comportamento, mai, malgrado avesse promesso di farlo. Anche
questo sarebbe estremamente non frustrante?».
Era il discorso più lungo che l’avessi mai sentita pronunciare e mi
offrì una nuova caratteristica da aggiungere al mio elenco.
«Sbaglio o sei un po’ in collera?».
«Non mi piace il “due pesi e due misure”».
Certo, la sua irritazione era del tutto giustificata.
La guardai, chiedendomi come fosse possibile che con lei non ne
facessi mai una giusta, finché le silenziose urla di rabbia nella mente
di Mike Newton non mi distrassero. Era talmente furioso e la sua
volgarità talmente puerile che mi fece sogghignare ancora.
«Che c’è?», chiese Bella.
«Il tuo amichetto è convinto che io sia scortese con te: sta
decidendo se venire o no a interrompere il litigio». Quanto mi
sarebbe piaciuto vederlo in azione. Risi di nuovo.
«Non so di chi stai parlando», ribatté lei, con freddezza. «Ma
sono sicura che ti sbagli».
Mi piacque moltissimo il modo in cui ripudiò il ragazzo con
un’unica frase indifferente.
«Invece no. Te l’ho detto, di solito sono bravo a leggere le
persone».
«A parte me, ovviamente».
«Sì, a parte te». Doveva per forza essere l’eccezione a ogni
cosa? «Chissà perché».
La guardai negli occhi e riprovai.
Lei guardò altrove, poi aprì la sua limonata e la sorseggiò,
tenendo gli occhi bassi.
«Non hai fame?», le chiesi.
«No». Lanciò un’occhiata al tavolo vuoto. «E tu?».
«No, non ho fame», risposi. Assolutamente no.
Bella si ostinava a guardare in basso, poi si morse il labbro.
Io aspettavo.
«Mi faresti un favore?», mi chiese, guardandomi
improvvisamente negli occhi.
Che cosa voleva? Mi avrebbe chiesto di dirle una verità che non
mi era permesso raccontarle, una verità che mai, mai avrei voluto
farle conoscere?
«Dipende da cosa vuoi».
«Non è granché», mi assicurò.
Aspettai mentre, come al solito, la fiamma della curiosità
ricominciava a tormentarmi.
«Mi chiedevo...», disse lentamente, fissando la bottiglia della
limonata e passando il mignolo sul bordo, «se ti andrebbe di farmelo
sapere, la prossima volta che decidi di ignorarmi per il mio bene.
Così mi posso preparare».
Voleva essere avvertita? Allora il fatto che io la ignorassi le dava
fastidio. Sorrisi.
«Mi sembra corretto», concordai.
«Grazie», rispose, levando lo sguardo. Aveva un’espressione
talmente sollevata che mi venne da ridere per il sollievo che provai
io.
«In cambio, posso avere una risposta?», le chiesi, speranzoso.
«Una sola», mi concesse.
«Spiegami una teoria».
Lei arrossì. «Quella no».
«Non hai specificato, mi hai solo promesso una risposta»,
obiettai.
«Tu sei ancora in debito di una promessa», ribatté lei.
Come darle torto?
«Solo una teoria: giuro che non mi metto a ridere».
«Oh sì, lo farai». Sembrava molto sicura del fatto suo, anche se
io non riuscivo a capire cosa potesse esserci di divertente.
Riprovai con la mia opera di persuasione. La guardai
profondamente negli occhi – facile, con due occhi profondi come i
suoi – e mormorai: «Per favore».
Lei batté le palpebre e sembrò che le si svuotasse il cervello.
Be’, non era esattamente la reazione che cercavo.
«Ehm, cosa?», domandò dopo un istante.
Sembrava disorientata. Aveva qualche problema?
Tentai ancora.
«Per favore, raccontami solo una teoria, una piccola», la pregai
usando il mio tono più dolce, inoffensivo e inchiodando il suo
sguardo al mio.
Con mia grande sorpresa e soddisfazione, alla fine funzionò.
«Ehm, dunque, sei stato punto da un ragno radioattivo?».
Un fumetto? Come avrei potuto non ridere?
«Poco originale», la presi in giro per mascherare il mio sollievo.
«Scusa, ma di più non riesco a fare», rispose offesa.
Questo mi sollevò ancora di più. Ero ancora capace di prenderla
in giro.
«Non ci siamo proprio».
«Niente ragni?».
«Nah».
«Niente radioattività?».
«Niente».
«Acci...», sbuffò lei.
«E la kryptonite non mi fa niente», aggiunsi in fretta – prima che
potesse farmi domande sui morsi – e poi mi misi a ridere, perché
pensava che fossi un supereroe.
«Alt, avevi detto che non avresti riso».
Strinsi le labbra.
«Prima o poi capirò», promise lei.
E a quel punto sarebbe scappata.
«Meglio che non ci provi», dissi, questa volta serio.
«Perché?».
Dovevo essere onesto. Eppure, tentai di sorridere, di attenuare la
minaccia nelle mie parole. «E se non fossi il supereroe? Se fossi il
cattivo?».
I suoi occhi si spalancarono appena un po’ di più e le labbra si
dischiusero. «Oh», disse. Poi, dopo un attimo: «Capisco».
Mi ascoltava, finalmente.
«Davvero?», le chiesi, sforzandomi di non mostrare la mia
sofferenza.
«Sei pericoloso?», chiese, con il cuore in gola.
Non riuscii a risponderle. Era l’ultimo istante che passavo con lei?
Sarebbe scappata via? Potevo permettermi di dirle che l’amavo,
prima che se ne andasse? Oppure l’avrei spaventata ancora di più?
«Ma non cattivo», mormorò, scuotendo la testa, senza timore
negli occhi trasparenti. «No, non posso credere che tu sia cattivo».
«Ti sbagli», sussurrai.
Certo che ero cattivo. Adesso, per esempio, non stavo esultando
nello scoprire che mi credeva migliore di quanto meritassi? Se fossi
stato una brava persona, mi sarei tenuto lontano da lei.
Allungai la mano sul tavolo e, come scusa, presi il tappo della sua
bottiglia. Lei non trasalì per l’improvvisa vicinanza della mia mano.
Era vero che non aveva paura di me. Non ancora.
Giocherellai con il tappo, per non dover guardare lei. Avevo i
pensieri in subbuglio.
Scappa, Bella, scappa. Non riuscii a dirlo a voce alta. Poi, lei
scattò in piedi. Proprio quando cominciavo a temere che, chissà
come, avesse sentito il mio avvertimento silenzioso, disse:
«Arriveremo in ritardo».
«Oggi non vengo a lezione».
«Perché no?».
Perché non voglio ucciderti. «Saltare qualche lezione fa bene alla
salute».
Per essere precisi, faceva bene agli umani se i vampiri saltavano
le lezioni in cui si versava il loro sangue. Quel giorno, il professor
Banner aveva in programma una tipizzazione dei gruppi sanguigni.
Alice aveva già saltato la sua lezione quella mattina.
«Be’, io ci vado», disse. E non mi sorprese: era una ragazza
responsabile, faceva sempre la cosa giusta.
Era il mio esatto contrario.
«Allora ci vediamo più tardi», dissi, cercando di essere naturale e
fissando il tappo della bottiglia. Per favore, salvati. Per favore, non
lasciarmi mai.
Bella esitò e, per un momento, sperai che alla fine sarebbe
rimasta con me. Ma la campanella suonò e lei corse via. Aspettai
che se ne andasse, poi misi in tasca il tappo – un ricordo della
nostra conversazione più significativa –, e uscii sotto la pioggia per
andare a sedermi in macchina.
Misi il mio CD preferito – lo stesso che avevo ascoltato quel primo
giorno – ma non ascoltai Debussy molto a lungo. Nella mia mente
risuonavano altre note, il frammento di una melodia che mi piaceva e
mi affascinava. Abbassai il volume dello stereo e ascoltai la musica
nella mia mente trastullandomi con il frammento finché non si
trasformò in un’armonia più completa. Automaticamente, le mie dita
si mossero come sulla tastiera di un pianoforte immaginario. La
nuova composizione stava progredendo bene, quando la mia
attenzione fu attirata da un’ondata d’angoscia proveniente
dall’esterno.
Sta per svenire? Che cosa faccio? Era la voce spaventata di Mike
Newton.
A un centinaio di metri da me, Mike Newton stava adagiando il
corpo inerte di Bella sul marciapiede. Lei si afflosciò sul cemento
bagnato, con gli occhi chiusi e la pelle bianca come quella di un
cadavere. Rischiai di strappare via la portiera dalla macchina.
«Bella?», urlai.
Il suo volto esanime non reagì al mio grido. Sentii il mio corpo
farsi più freddo del ghiaccio. Fu come avere la conferma dello
scenario più grottesco che avevo immaginato. Proprio nel momento
in cui la perdevo di vista...
Mi accorsi dello stupore indispettito di Mike mentre setacciavo
furiosamente i suoi pensieri. Stava pensando soltanto alla rabbia che
covava contro di me, perciò non potevo sapere cosa fosse successo
a Bella. Se le aveva fatto del male, lo avrei polverizzato. Di lui non
avrebbero mai ritrovato neanche una molecola.
«Cos’è successo, si è fatta male?», gli chiesi, tentando di
concentrarmi sui suoi pensieri. Era esasperante dover camminare
con un passo umano. Ma non dovevo attirare l’attenzione su di me.
Poi, riuscii a sentire che il suo cuore batteva e il respiro era
regolare. Mentre la guardavo, strizzò gli occhi chiusi e il mio panico
si attenuò. Vidi balenare qualche ricordo nella mente di Mike,
frammenti di immagini provenienti dall’aula di biologia. La testa di
Bella appoggiata sul nostro banco, la sua pelle chiara che diventava
verdastra. Gocce rosse su cartoncini bianchi.
Tipizzazione del sangue.
Restai fermo dov’ero, trattenendo il respiro. Una cosa era il suo
profumo, ben altra lo scorrere del suo sangue.
«Temo sia svenuta», disse Mike, preoccupato e risentito allo
stesso tempo. «Non so cos’è successo. Non si è nemmeno punta il
dito».
Mi sentii invadere dal sollievo e ricominciai a respirare,
assaporando l’aria. Ah, sentii l’odore tenue della puntura sul dito di
Mike Newton. Una volta, l’avrei trovato allettante.
Mi inginocchiai accanto a Bella mentre Mike mi stava addosso,
furioso per la mia interferenza.
«Bella. Mi senti?».
«No», gemette lei. «Vattene».
Fui talmente sollevato che scoppiai a ridere. Non era in pericolo.
«La stavo portando dall’infermiera», spiegò Mike. «Ma si è
intestardita a rimanere qui».
«La porto io. Tu torna pure in classe», lo congedai.
Mike strinse i denti. «No. È compito mio».
Non avevo intenzione di perdere tempo a discutere con
quell’idiota. Emozionato e terrorizzato, grato e irritato dalla
situazione d’emergenza che rendeva necessario toccarla, con
delicatezza sollevai Bella dal marciapiede prendendola in braccio ma
toccando soltanto i jeans e la giacca a vento e mantenendo i nostri
corpi distanti, per quanto possibile. Sollevarla e camminare a grandi
passi verso l’infermeria fu un tutt’uno, per la fretta di metterla al
sicuro. In altre parole, lontana da me. Lei aprì gli occhi, stupefatta.
«Rimettimi giù!», mi ordinò con una vocina flebile e di nuovo in
imbarazzo, come intuii dalla sua espressione. Non le piaceva
mostrarsi debole. Ma era talmente fiacca che dubitavo della sua
capacità di rimanere in piedi da sola, men che mai di camminare.
Ignorai le vibrate proteste di Mike dietro di noi.
«Sei conciata proprio male», le dissi, incapace di smettere di
sorridere, perché non aveva niente che non andasse, a parte le
vertigini e uno stomaco debole.
«Rimettimi sul marciapiede!», disse. Aveva le labbra bianche.
«Perciò la vista del sangue ti fa perdere i sensi?». Che ironia
contorta.
Lei chiuse gli occhi e strinse le labbra.
«E dire che non era nemmeno tuo», aggiunsi, sorridendo ancora
di più.
Arrivammo alla segreteria. La porta era socchiusa e io la
spalancai con un calcio.
La signorina Cope sobbalzò, spaventata. «Oh, cielo», esclamò,
mentre esaminava la ragazza cerea fra le mie braccia.
«È svenuta durante biologia», le spiegai, prima che potesse
lavorare troppo di fantasia.
La signorina Cope corse ad aprire la porta dell’infermeria. Bella
aveva riaperto gli occhi e la stava guardando. Mentre la adagiavo
con cautela sul lettino malconcio, udii lo stupore silenzioso
dell’anziana infermiera. Non appena non ebbi più Bella fra le braccia,
mi rifugiai nell’angolo della stanza più lontano da lei. Il mio corpo era
troppo teso, troppo avido, i muscoli erano contratti e il veleno
scorreva a fiotti. Era così calda e profumata.
«Ha avuto un leggero mancamento», rassicurai la signora
Hammond. «È reduce dalla lezione sui gruppi sanguigni».
L’infermiera annuì, con l’aria di chi la sapeva lunga. «C’è sempre
qualcuno che fa questa fine».
Io soffocai una risata. Ovvio che Bella fosse una di quelli.
«Resta un po’ sdraiata, piccola, passerà».
«Lo so», disse Bella.
«Ti succede spesso?», domandò l’infermiera.
«Ogni tanto», ammise lei.
Io tossii per mascherare la mia risata.
Ma così attirai l’attenzione dell’infermiera. «Tu puoi tornare in
classe», mi disse.
La guardai dritto negli occhi e mentii con perfetta sicurezza.
«Devo restare con lei».
Uhmmm. Mi chiedo... oh, va bene. La signora Hammond annuì.
Sull’infermiera funzionava bene. Perché Bella doveva essere
tanto difficile?
«Vado a prendere un po’ di ghiaccio da metterti sulla fronte,
cara», disse la donna, ancora leggermente a disagio per avermi
guardato negli occhi – come ogni umano avrebbe dovuto essere – e
uscì dalla stanza.
«Avevi ragione», mugugnò Bella, chiudendo gli occhi.
Che cosa intendeva? Saltai alle conclusioni peggiori: aveva
compreso i miei avvertimenti.
«Certo, come al solito», risposi, tentando di mantenere un tono
divertito, anche se suonò acido. «Ma a cosa ti riferisci, adesso, di
preciso?».
«Saltare le lezioni fa davvero bene alla salute», sospirò.
Ah, che sollievo. Poi rimase in silenzio. Si limitava a respirare
lentamente. Sulle sue labbra cominciava a tornare il colore. Aveva
una bocca leggermente asimmetrica, con il labbro superiore un po’
troppo turgido rispetto a quello inferiore. Guardarle la bocca mi diede
una strana sensazione. Mi fece venire voglia di avvicinarmi, che era
una pessima idea.
«Per qualche minuto mi hai messo davvero paura», le dissi, nel
tentativo di riprendere la conversazione. Il silenzio era
dolorosamente strano, perché mi faceva sentire solo, senza la sua
voce. «Pensavo che Mike Newton stesse trafugando il tuo cadavere
per seppellirlo nel bosco».
«Divertente», rispose.
«Seriamente... ho visto cadaveri con un colorito migliore. Ero
preoccupato di dover vendicare il tuo omicidio». E lo avrei fatto.
«Povero Mike», sospirò lei. «Gli saranno saltati i nervi».
Provai una rabbia cieca, ma la dominai subito. Si preoccupava di
lui soltanto per compassione. Era una ragazza gentile. Tutto qua.
«Mi detesta con tutte le sue forze», dissi, rallegrato da quell’idea.
«Non puoi saperlo».
«La sua espressione era inconfondibile». Probabilmente era vero
che leggere la sua espressione mi avrebbe dato informazioni
sufficienti a trarne quella particolare deduzione. Tutto l’allenamento
che facevo con Bella stava affinando i miei talenti.
«Come hai fatto a vedermi? Pensavo avessi marinato la scuola».
Si stava riprendendo, la sua pelle traslucida aveva perso il sottotono
verdastro.
«Ero in macchina, ascoltavo un CD».
Fece una smorfia, come se la mia risposta così normale l’avesse
sorpresa.
Riaprì gli occhi quando la signora Hammond tornò con il ghiaccio.
«Ecco qui, cara», disse l’infermiera, mentre lo appoggiava sulla
fronte di Bella. «Mi sembra che vada meglio».
«Penso di sì», disse Bella e si sedette, mettendo da parte il
ghiaccio. Ovvio. Non le piaceva farsi coccolare.
La signora Hammond sventolò le mani grinzose come se volesse
spingerla di nuovo giù, ma in quel momento la signorina Cope aprì la
porta dell’infermeria e mise dentro la testa. Con la sua comparsa,
arrivò anche odore di sangue fresco, soltanto una folata.
Invisibile dietro di lei, nell’ufficio, Mike Newton era ancora molto
arrabbiato perché avrebbe tanto desiderato che il robusto ragazzo
che si stava trascinando dietro fosse la ragazza che, invece, era lì
insieme a me.
«Ce n’è un altro», disse la segretaria.
Bella saltò giù dal lettino, ansiosa di uscire dal centro
dell’attenzione.
«Tenga», disse, restituendo l’impacco freddo all’infermiera. «Non
mi serve più».
A quel punto, Mike entrò borbottando mentre spingeva Lee
Stephens oltre la porta. Dalla mano che Lee si teneva in faccia,
stillava ancora del sangue che stava gocciolando verso il polso.
«Oh no». Ecco il mio segnale d’uscita. E, a quanto pareva, anche
quello di Bella. «Esci, torna in segreteria, Bella».
Lei mi fissò, sorpresa.
«Fidati: vai».
Lei girò i tacchi e infilò la porta prima che si richiudesse,
precipitandosi nell’ufficio. Io la seguii a ruota.
I suoi lunghi capelli ondeggianti mi sfiorarono la mano. Poi si girò
a guardarmi, ancora dubbiosa.
«Mi hai obbedito all’istante». Era la prima volta.
Arricciò il naso. «Ho sentito odore di sangue».
La fissai, sbalordito. «L’odore del sangue non si sente».
«Be’, io lo sento, ecco perché mi viene la nausea. Sa di ruggine...
e di sale».
Continuai a fissarla, mentre rimanevo pietrificato.
Era davvero umana? Aveva l’aspetto di un essere umano. Era
morbida come un’umana. Aveva l’odore di un’umana – be’, in realtà
molto più buono. Si comportava come un’umana... più o meno. Ma
non pensava come un’umana, né reagiva come tale.
Tuttavia, non c’erano altre opzioni, a parte questa.
«Che c’è?», chiese.
«Niente».
Proprio allora Mike Newton ci interruppe entrando nella stanza
pieno di pensieri rancorosi e violenti.
«Sembra che tu stia meglio», le disse, in tono scortese.
Sentii un prurito alle dita, per la voglia che avevo di insegnargli le
buone maniere. Avrei dovuto stare molto attento, altrimenti avrei
finito davvero per uccidere quell’essere odioso.
«Basta che tu tenga la mano in tasca», rispose Bella. Per mezzo
secondo pensai che ce l’avesse con me.
«Non sanguina più», bofonchiò lui. «Rientri in classe?».
«Scherzi? Dovrei fare dietrofront appena arrivata per tornarmene
qui».
Molto bene. Avevo pensato che, saltando biologia, avrei perso
un’intera ora in sua compagnia, e adesso invece avevo ottenuto altro
tempo. Un regalo che non meritavo.
«Be’, immagino...», borbottò Mike. «Allora vieni, questo fine
settimana? Alla spiaggia?».
Di che parlava? A quanto pareva avevano dei progetti. La rabbia
mi pietrificò. Si trattava di una gita di gruppo, però. Nella sua testa,
Mike stava facendo l’elenco degli altri invitati, contando i posti. Non
sarebbero stati soltanto loro due. Ma questo non attenuò affatto la
mia furia.
Mi appoggiai con tutto il peso al banco della segreteria per
controllare le mie reazioni.
«Certo, ho già detto che ci sarò», lo rassicurò.
Quindi aveva detto sì anche a lui. La gelosia mi bruciò come un
fuoco, più dolorosa della sete.
«Appuntamento al negozio di mio padre alle dieci». E Cullen non
è invitato.
«Ci sarò», gli rispose.
«D’accordo. Ci vediamo in palestra».
«Ci vediamo», disse lei.
Se ne andò lentamente verso la sua classe, con i pensieri
ribollenti di collera. Che diavolo ci trova in quel tizio strambo? Certo,
è ricco, immagino. Le ragazze pensano che sia un fico, ma a me non
sembra proprio. Troppo... troppo perfetto. Scommetto che il padre ha
fatto esperimenti di chirurgia plastica su tutti loro. Ecco perché sono
così belli. Non è naturale. E lui è... fa quasi paura. A volte, quando
mi guarda, giurerei che stia pensando di uccidermi. Razza di
scherzo della natura.
Mike non era del tutto ottuso.
«No... ginnastica», borbottò Bella. Un gemito.
La guardai e vidi che era di nuovo infelice per qualcosa. Non
sapevo perché, ma era chiaro che non aveva voglia di andare alla
lezione seguente insieme a Mike, e io ero perfettamente d’accordo
con lei. Le andai vicino e mi chinai per parlarle all’orecchio, sentendo
il calore della sua pelle irradiarsi fino alle mie labbra. Non osai
respirare.
«Me ne occupo io», mormorai. «Siediti e impallidisci».
Lei mi obbedì e andò a sedersi su una delle sedie pieghevoli
appoggiando la testa alla parete mentre, dietro di me, la signorina
Cope usciva dall’infermeria e tornava al proprio posto. Con gli occhi
chiusi, Bella sembrava di nuovo svenuta. Non aveva ancora ripreso
colore.
Mi rivolsi alla segretaria. Ironicamente pensai che fosse una
fortuna che Bella stesse seguendo tutta la scena. Avrebbe visto
come doveva reagire un’umana.
«Signorina Cope?», dissi, usando di nuovo la mia voce suadente.
Le ciglia della donna tremolarono e il suo cuore accelerò i battiti.
Datti un contegno! «Sì?».
Interessante. Quando a Shelly Cope veniva il batticuore, era
perché mi trovava fisicamente attraente, non perché fosse
spaventata. Succedeva sempre con le umane, con quelle che a
poco a poco si erano abituate a quelli come noi, grazie al contatto
continuo... eppure non avevo considerato questa spiegazione per il
batticuore di Bella.
L’idea mi piacque, forse fin troppo. Rivolsi alla signorina Cope il
mio sorriso umano, attento e rassicurante, e il suo respiro si fece più
sonoro.
«La prossima lezione di Bella è in palestra e non credo si senta
abbastanza bene. A dire la verità, credo sarebbe più opportuno che
l’accompagnassi a casa. Potrebbe preparare una giustificazione per
lei?». Fissai i suoi occhi scialbi, godendomi lo scompiglio che il mio
sguardo infliggeva ai suoi processi mentali. Era possibile che
Bella...?
La signorina Cope dovette deglutire in modo evidente prima di
poter rispondere. «Anche tu hai bisogno di una giustificazione,
Edward?».
«No, io ho la professoressa Goff. Per lei non sarà un problema».
Non la stavo seguendo più. Stavo esplorando la nuova possibilità
che mi si era aperta davanti.
Uhm. Mi sarebbe piaciuto credere che Bella mi trovasse attraente
come accadeva alle altre donne, ma quando mai Bella aveva avuto
le stesse reazioni di qualcun altro? Non dovevo sperarci troppo.
«Bene, è tutto sistemato. Ti senti meglio, Bella?». Lei annuì
debolmente – un po’ troppo melodrammatica.
«Riesci a camminare, o vuoi che ti porti ancora in braccio?», le
chiesi, divertito dalla sua pessima recitazione. Sapevo che avrebbe
voluto camminare. Non voleva mostrarsi debole.
«Cammino», disse.
Bene, di nuovo.
Si alzò, con un istante d’incertezza, come per saggiare il suo
equilibrio. Le tenni la porta aperta e uscimmo sotto la pioggia.
La osservai mentre sollevava il viso verso la pioggia leggera, con
gli occhi chiusi e un lieve sorriso sulle labbra. Che cosa stava
pensando? Qualcosa nel suo gesto sembrava fuori posto e mi resi
conto in fretta del perché quella postura mi paresse insolita.
Nessuna ragazza normale avrebbe offerto il viso alla pioggia in quel
modo; le ragazze normali si truccavano, persino in questa landa
umida.
Bella non si truccava, né avrebbe dovuto farlo. L’industria
cosmetica guadagnava miliardi di dollari l’anno grazie a donne che
tentavano di ottenere una pelle come la sua.
«Grazie», mi disse, questa volta sorridendo a me. «Pur di saltare
ginnastica vale quasi la pena di ammalarsi».
Guardai dritto davanti a me, oltre il campus, chiedendomi come
prolungare il tempo da passare insieme a lei. «Quando vuoi», dissi.
«Allora, ci vai? Questo sabato, intendo». Sembrava speranzosa.
Ah, la sua speranza alleviò il pungolo della mia gelosia. Lei
voleva me, non Mike Newton. E io avrei voluto dirle di sì. Ma c’erano
tante cose da tenere in considerazione. Per dirne una, per sabato
era previsto tempo soleggiato.
«Dove andate, di preciso?», tentai di mantenere un tono
noncurante, come se la risposta non contasse poi tanto. Però Mike
aveva detto spiaggia. Lì non c’erano grandi possibilità di evitare il
sole. Se avessi cancellato il nostro programma, Emmett, si sarebbe
irritato, ma non sarebbe stato questo a fermarmi se ci fosse stata
una qualsiasi possibilità di passare del tempo con lei.
«Giù a La Push, a First Beach».
Allora era impossibile.
Dissimulai la mia delusione, poi la guardai e le sorrisi. «Non mi
sembra di essere stato invitato».
Lei sospirò, già rassegnata. «Ti sto invitando ora».
«Per questa settimana è meglio che io e te non esageriamo, con
il povero Mike. Non è il caso di fargli saltare i nervi». Mi sfiorò l’idea
di essere io stesso a far saltare uno a uno i nervi del povero Mike e
gustai intensamente l’immagine mentale.
«Povero Mike», disse lei, in tono sbrigativo. Io sorrisi.
E poi cominciò a camminare allontanandosi da me.
Senza pensare, tesi automaticamente una mano e l’afferrai per
un lembo della giacca. Lei si fermò di colpo.
«Dove pensi di andare?». Ero turbato – quasi arrabbiato perché
se ne stava andando. Il tempo insieme a lei non mi era ancora
bastato.
«Vado a casa», rispose, palesemente disorientata dal fatto che la
cosa mi turbasse.
«Non hai sentito? Ho promesso di portarti a casa sana e salva.
Pensi che ti lasci guidare in quelle condizioni?». Sapevo che questo
non le sarebbe piaciuto – che insinuassi una sua debolezza. Ma
avevo bisogno di esercitarmi in vista del viaggio a Seattle: vedere se
riuscivo a gestire la vicinanza in un ambiente chiuso. Fino a casa
sua il viaggio sarebbe stato molto più breve.
«Quali condizioni?», chiese. «E il mio pick-up?».
«Te lo faccio riportare da Alice dopo la scuola». La tirai indietro,
verso la mia macchina, con prudenza. A quanto pareva, camminare
in avanti per lei era già una sfida sufficiente.
«Mollami!», esclamò, divincolandosi e rischiando di inciampare.
Tesi una mano per prenderla, ma si raddrizzò da sola. Non avrei
dovuto cercare delle scuse per toccarla. Ricominciai a pensare alla
reazione della signorina Cope, ma la archiviai per riesaminarla dopo.
Su quel fronte, c’erano parecchie cose da considerare. La lasciai
andare come mi chiedeva e poi me ne pentii: inciampò e andò a
sbattere sulla portiera del passeggero della mia macchina. Avrei
dovuto essere ancora più prudente, tenere in considerazione il suo
pessimo equilibrio.
«Quanto sei prepotente!».
Aveva ragione, mi comportavo in modo bizzarro e quella parola
mi descriveva in modo fin troppo gentile. Adesso mi avrebbe detto
no?
«È aperta».
Entrai e accesi il motore. Lei rimase fuori, rigida, nonostante la
pioggia, e io sapevo che non amava il freddo e l’umidità. L’acqua le
stava inzuppando i capelli, scurendoli.
«Sono perfettamente in grado di guidare fino a casa!».
Certo che lo era. Ma io bramavo il tempo con lei come non avevo
mai desiderato nient’altro in vita mia. Non con l’immediatezza e
l’insistenza della sete che dev’essere placata, ma in modo diverso,
perché diverso era il desiderio e diverso era anche il dolore che
provocava.
Lei rabbrividì.
Abbassai il finestrino del passeggero. «Sali, Bella».
Lei strinse gli occhi e io immaginai che stesse considerando se
valeva la pena fare uno sforzo e scappare, oppure no.
«Tanto ti riprendo», scherzai, chiedendomi se avessi indovinato i
suoi piani. La sua espressione sbigottita mi disse di sì.
Con un gesto sdegnoso, aprì la portiera e salì in macchina. I
capelli gocciolarono sul sedile di pelle e i suoi stivali stridettero
sfregandosi l’un l’altro.
«Non ce n’è bisogno», disse.
Pensai che sembrava in imbarazzo, piuttosto che arrabbiata sul
serio. Avevo sbagliato completamente la mia tattica? Nella mia testa
stavo flirtando, mi stavo comportando come un qualsiasi ragazzo
innamorato, ma se invece avevo sbagliato tutto? Si era sentita
costretta? Mi resi conto che ne aveva tutte le ragioni.
Io non lo sapevo fare. Non sapevo come corteggiarla da uomo,
da normale uomo moderno dell’anno 2005. Quando ero un essere
umano, avevo imparato gli usi del mio tempo. Grazie al mio strano
dono, conoscevo piuttosto bene il modo di pensare attuale delle
persone, ma quando ero io a tentare di agire come un essere umano
moderno, sembrava tutto sbagliato. Probabilmente perché non ero
un umano, né tantomeno un normale umano moderno. E dalla mia
famiglia non avevo imparato niente di utile. Nessuno di loro aveva
vissuto un normale corteggiamento, anche senza le altre due
caratteristiche.
Rosalie ed Emmett erano stati un vero cliché, la classica storia
d’amore a prima vista. Non c’era mai stato un momento in cui uno
dei due si era interrogato sul tipo di relazione che li legava. Dal
primo momento in cui Rosalie aveva visto Emmett, era stata
riportata allo stato di innocenza e sincerità che in vita le era stato
sottratto, e aveva voluto lui. Dal primo momento in cui Emmett aveva
visto Rosalie, aveva trovato in lei la dea che avrebbe venerato,
senza mai smettere, per tutta l’eternità. Fra di loro non c’era mai
stata una prima conversazione imbarazzata e piena di dubbi, mai un
momento di ansia a mangiucchiarsi un’unghia in attesa di un sì o un
no.
L’unione di Alice e Jasper, poi, era stata persino più anormale.
Per tutti i ventotto anni precedenti al loro primo incontro, Alice aveva
saputo che avrebbe amato Jasper. Aveva visto anni, decadi, secoli
della loro futura vita insieme. E Jasper, avvertendo tutte le emozioni
che lei provò in quel momento tanto atteso, la purezza, la certezza e
la profondità del suo amore, non poté fare a meno di esserne
travolto. Per lui dovette essere come uno tsunami.
Immaginavo, invece, che Carlisle ed Esme fossero stati
leggermente meno atipici rispetto agli altri. Esme era già stata
innamorata di Carlisle – con grande sorpresa di lui – ma non per
magia o altri mezzi sovrannaturali.
Lo aveva conosciuto quando era una ragazzina e, attratta dalla
sua gentilezza, dal suo ingegno e dalla sua straordinaria bellezza,
aveva sviluppato verso di lui un attaccamento che l’aveva
ossessionata per tutto il resto della sua vita umana. La vita non era
stata buona con Esme, così non sorprende che il ricordo dorato di
quell’uomo gentile non fosse mai stato soppiantato da altro, nel suo
cuore. Dopo la sofferenza bruciante della trasformazione, quando si
era risvegliata di fronte al sogno tanto accarezzato, il suo amore era
già tutto, per lui.
Io ero rimasto lì vicino per avvertire Carlisle in caso di una
reazione imprevista di Esme. Si era aspettato che lei sarebbe stata
sconvolta dalla trasformazione, traumatizzata dal dolore, inorridita da
quello che era diventata, come era successo a me. Si era aspettato
di doverle spiegare e doversi scusare, di doverla confortare e poi
dover fare ammenda. Sapeva che c’era una buona probabilità che
lei preferisse la morte, che lo avrebbe disprezzato per aver scelto
senza il suo consenso, né la sua consapevolezza. Così, il fatto che
lei si fosse mostrata immediatamente preparata a unirsi alla sua vita
– a lui, più che alla sua vita – fu una cosa alla quale Carlisle non era
pronto.
Prima di allora, non si era mai considerato come possibile
oggetto di un amore romantico. Gli sembrava contrario a quello che
era: un vampiro, un mostro. La consapevolezza che gli trasmisi
cambiò il modo in cui guardava Esme e quello in cui guardava se
stesso.
Ma ancora più determinante fu per lui la scelta di salvare
qualcuno. Era una decisione che nessuna persona sana di mente
avrebbe preso a cuor leggero. Quando Carlisle mi scelse, si era già
legato a me con mille emozioni diverse, prima ancora che io mi
rendessi conto di ciò che stava accadendo. Responsabilità, ansia,
tenerezza, pietà, speranza, compassione... c’era stata una sorta di
naturale titolarità, in quell’atto, che non avevo mai sperimentato, ma
soltanto sentito nei suoi pensieri e in quelli di Rosalie. Lui si sentiva
già mio padre, prima che io conoscessi il suo nome. Per me fu
naturale e istintivo calarmi nel ruolo di suo figlio. L’amore arrivò con
semplicità – anche se io lo avevo sempre attribuito alla persona che
era, piuttosto che all’essere stato il mio creatore.
Così, che fosse per questi motivi, o perché Carlisle ed Esme
erano destinati a stare insieme... non l’avrei mai saputo, anche con il
dono di poter sentire tutto mentre accadeva. Lei lo amava e lui
scoprì in fretta di poterla ricambiare. Passò pochissimo tempo prima
che la sorpresa si tramutasse in meraviglia, scoperta e storia
d’amore. Quanta felicità.
Soltanto pochi istanti di imbarazzo facilmente superato, tutto
appianato con l’aiuto di un piccolo lettore di pensieri. Niente di così
imbarazzante come questo. Nessuno di loro si era ritrovato ad
annaspare senza alcuna idea di come agire, come stava
succedendo a me.
Non era passato neanche un secondo da che questi confronti mi
erano entrati in testa, quando Bella chiuse la portiera. Accesi subito
il riscaldamento per non farle sentire freddo e abbassai la musica a
un livello da sottofondo. Guidai verso l’uscita, guardando lei con la
coda dell’occhio. Teneva il labbro inferiore un po’ in fuori, in una
smorfia di assoluta ostinazione.
D’un tratto, si interessò allo stereo e il broncio scomparve. «Clair
de lune?», domandò.
Un’ammiratrice di musica classica? «Conosci Debussy?».
«Non bene», disse. «Mia madre ascolta sempre un sacco di
musica classica in casa, io riconosco solo i miei preferiti».
«È anche uno dei miei preferiti». Considerando la cosa, osservai
la pioggia. Allora qualcosa in comune fra di noi c’era. Avevo
cominciato a pensare che fossimo opposti sotto ogni aspetto
possibile.
Adesso lei sembrava più rilassata, mentre guardava la pioggia
insieme a me, senza che io potessi vedere i suoi occhi. Sfruttai la
momentanea distrazione per provare a respirare.
Inalai con cautela dal naso.
Potente.
Strinsi più forte lo sterzo. La pioggia accentuava ancora di più il
suo buon profumo. Non avrei mai pensato che fosse possibile. Sentii
un formicolio sulla lingua, anticipando il sapore.
Mi resi conto con disgusto che il mostro non era morto. Stava
soltanto aspettando il suo momento. Cercai di deglutire per alleviare
il bruciore della gola. Non servì. Questo mi fece arrabbiare. Avevo
così poco tempo da passare con lei. E già mi ero dovuto sforzare per
avere quindici minuti in più. Presi un altro respiro e lottai contro la
mia reazione. Dovevo essere io il più forte.
Che cosa farei se non fossi il cattivo della storia?, mi chiesi.
Come sfrutterei questo tempo prezioso?
Imparerei qualcosa in più su di lei.
«Com’è tua madre?», le chiesi.
Bella sorrise. «Mi somiglia molto, ma è più carina».
La guardai scettico.
«Io ho troppo in comune con Charlie», aggiunse. «Lei è più
estroversa di me, e più coraggiosa».
Estroversa, sì, ci credevo. Più coraggiosa? Non ne ero tanto
sicuro.
«Ed è una persona irresponsabile e piuttosto eccentrica, nonché
cuoca imprevedibile. È la mia migliore amica». La sua voce si fece
malinconica, una ruga le solcò la fronte.
Come avevo già notato, dalle sue parole sembrava che fosse lei il
genitore, anziché la figlia.
Mi fermai davanti casa sua, chiedendomi troppo tardi se avrei
dovuto sapere dove abitava o meno. No, in una città così piccola,
saperlo non avrebbe destato sospetti, soprattutto con un pubblico
ufficiale come padre.
«Quanti anni hai, Bella?». Doveva essere più grande di quanto
sembrasse. Forse era andata a scuola più tardi, o era stata bocciata.
Anche se non sembrava probabile, intelligente com’era.
«Diciassette», rispose.
«Non li dimostri».
Si mise a ridere.
«Che c’è?».
«Mia madre dice sempre che quando sono nata avevo già
trentacinque anni e che ormai sono vicina alla mezza età». Rise
ancora, poi sospirò. «Be’, qualcuno dovrà pur fare la parte
dell’adulto».
Questo mi chiariva alcune cose. Era facile capire quanto avesse
influito l’irresponsabilità della madre sulla maturità della figlia. Aveva
dovuto crescere in fretta, per diventare una governante. Ecco perché
non voleva che ci si prendesse cura di lei. Lo sentiva come un suo
compito.
«Neanche tu hai tanto l’aria di uno studente del terzo anno»,
disse, scuotendomi dalle mie riflessioni.
Aggrottai la fronte. Per ogni cosa che intuivo di lei, lei ne intuiva
altrettante di me. Cambiai argomento.
«Come mai tua madre ha sposato Phil?».
Prima di rispondere, aspettò un attimo. «Mia madre... si sente più
giovane della sua età. Penso che Phil la faccia sentire ancora più
giovane. E comunque, è pazza di lui». Scosse la testa, ma stava
sorridendo.
«Approvi?», chiesi.
«Importa qualcosa? Voglio che sia felice... e lui è ciò che
desidera».
L’estremo altruismo della sua risposta mi avrebbe sbalordito, se
non fosse stato perfettamente coerente con quello che sapevo del
suo carattere.
«Mi sembra un atteggiamento come minimo... generoso».
«Cosa?».
«Pensi che si comporterebbe allo stesso modo con te? Su
chiunque cadesse la tua scelta?».
Era una domanda stupida e non riuscii a mantenere un tono
neutro mentre la formulavo. Che sciocchezza anche solo
considerare l’idea che qualcuno potesse approvare me per la propria
figlia. E che sciocchezza anche solo pensare che Bella mi
scegliesse.
«P-penso di sì», balbettò, reagendo in modo strano al mio
sguardo. Aveva paura? Ripensai alla signorina Cope. Quali erano gli
altri segnali? Gli occhi sgranati potevano valere per entrambe le
emozioni. Le ciglia palpitanti, però, sembravano indicare qualcosa di
diverso dallo spavento. Le labbra di Bella erano dischiuse...
Si riprese. «Ma in fin dei conti, la mamma è lei. È un po’ diverso».
Feci un sorrisetto beffardo. «Niente ragazzi spaventosi, quindi».
«Cosa intendi per “spaventosi”? Piercing facciali multipli e
tatuaggi dappertutto?». Mi sorrise.
«Anche... Per esempio». Una definizione assolutamente non
spaventosa, a mio avviso.
«E cos’altro, secondo te?».
Questa ragazza faceva sempre le domande sbagliate. Oppure
proprio quelle giuste, forse. In ogni caso, quelle alle quali non volevo
rispondere.
«Pensi che io potrei essere spaventoso?», le chiesi, tentando di
sorridere.
Ci pensò su, prima di rispondermi con un tono serio. «Mmm...
penso che potresti esserlo, se volessi».
Anch’io parlavo sul serio. «In questo momento hai paura di me?».
Mi rispose subito, senza pensarci. «No».
Sorridere fu più facile. Non credevo che fosse proprio del tutto
sincera, ma non stava nemmeno mentendo. Se non altro, non era
abbastanza spaventata da voler andare via. Mi chiesi come sarebbe
andata se le avessi detto che stava avendo questa conversazione
con un vampiro e poi, immaginando la sua reazione, mi sentii in
imbarazzo.
«Adesso mi racconti tu qualcosa della tua famiglia? Senz’altro è
una storia molto più interessante della mia».
Più spaventosa, senza dubbio.
«Cosa vuoi sapere?», le chiesi, sulla difensiva.
«È vero che i Cullen ti hanno adottato?».
«Sì».
Esitò, poi aggiunse, a bassa voce: «Cos’è successo ai tuoi
genitori?».
Questa non era difficile. Non dovevo nemmeno mentirle. «Sono
morti parecchi anni fa».
«Mi dispiace», mormorò, preoccupata di avermi addolorato.
Lei si preoccupava per me. Che strana sensazione vedere la sua
delicatezza, anche in questo modo così banale.
«Non ricordo granché di loro», la rassicurai. «Carlisle ed Esme
sono i miei genitori da parecchio tempo».
«E gli vuoi bene», concluse.
Le sorrisi. «Sì. Non potrei immaginare due persone migliori».
«Sei molto fortunato».
«Lo so». In materia di genitori, non potevo proprio negare la mia
fortuna.
«E i tuoi fratelli?».
Se la lasciavo indugiare nei dettagli, avrei dovuto mentire. Diedi
un’occhiata all’orologio e il morale mi finì a terra perché il tempo
insieme a lei era finito, ma ne fui anche sollevato. Il dolore era
intenso e temevo che il bruciore in gola potesse all’improvviso
divampare e togliermi l’autocontrollo.
«Mio fratello e mia sorella, oltre a Jasper e Rosalie, si
innervosiranno parecchio se gli toccherà aspettarmi sotto la
pioggia».
«Oh, scusa, immagino che tu sia in ritardo».
Ma non si mosse. Nemmeno lei voleva che il nostro tempo
insieme finisse lì.
Il dolore, a dire il vero, non era poi così atroce, pensai. Ma
dovevo essere responsabile.
«E immagino che tu rivoglia indietro il tuo pick-up prima che
l’ispettore Swan torni a casa, così non dovrai dirgli dell’incidente di
biologia». Ricordando quanto fosse imbarazzata fra le mie braccia,
sorrisi.
«Di sicuro sa già tutto. A Forks non ci sono segreti». Pronunciò il
nome della città con evidente disgusto.
Io risi. Nessun segreto, infatti. «Divertiti alla spiaggia». Guardai la
pioggia che scendeva a rovesci, sapendo che non sarebbe durata e
desiderando più del solito che, invece, lo facesse. «C’è il tempo
giusto per prendere il sole». Be’, ci sarebbe stato sabato. Si sarebbe
divertita. E la sua felicità era diventata la cosa più importante. Più
importante anche della mia.
«Domani non ci vediamo?».
La preoccupazione della sua voce mi piacque, ma desiderai con
tutto il cuore di non doverla deludere.
«No, io ed Emmett anticipiamo il weekend». Adesso ce l’avevo
con me stesso per aver organizzato quell’uscita. Potevo
cancellarla... ma a quel punto non c’era cosa migliore di una bella
battuta di caccia senza limiti, e la mia famiglia si sarebbe già
preoccupata abbastanza per il mio comportamento, senza dovergli
rivelare quanto fossi diventato ossessivo. Non sapevo ancora dire,
con certezza, quale razza di follia si era impossessata di me la notte
scorsa. Dovevo assolutamente trovare un modo per controllare i miei
impulsi. Forse un po’ di distanza avrebbe giovato.
«Cosa fate?», mi chiese, e non sembrava tanto contenta
dell’informazione ricevuta.
Altro piacere, altro dolore.
«Andiamo a fare trekking nella riserva di Goat Rocks, a sud del
monte Rainier». Emmett aspettava con impazienza la migrazione
degli orsi.
«Oh, be’, divertitevi», disse, con poca convinzione. La sua
mancanza di entusiasmo mi rese ancora più felice.
Mentre la guardavo, cominciavo a sentirmi quasi agonizzante al
pensiero di non rivederla per un po’. Era così tenera, così
vulnerabile. Sembrava da pazzi permetterle di uscire dal mio
controllo visivo, dove poteva accaderle qualsiasi cosa. Eppure, le
cose peggiori che potevano capitarle sarebbero state per colpa mia.
«Faresti una cosa per me, questo weekend?», le chiesi in tono
serio.
Lei annuì, ma fraintese chiaramente la mia intensità.
Leggerezza.
«Non offenderti, ma tu sembri il classico genere di persona che
attrae gli incidenti come una calamita. Perciò... cerca di non cadere
nell’oceano, di non farti investire, o chissà cos’altro, d’accordo?».
Feci un sorrisetto contrito, sperando che non vedesse l’autentica
tristezza nei miei occhi. Quanto avrei desiderato che non fosse
meglio per lei starmi lontano, a prescindere da cosa poteva
accaderle alla spiaggia.
Corri, Bella, corri. Ti amo troppo, per il tuo bene o il mio.
Il mio scherzo l’aveva offesa; dovevo aver sbagliato di nuovo
qualcosa. Mi guardò malissimo. «Ci proverò», ribatté, uscendo dalla
macchina, nella pioggia, e sbattendo la portiera con tutta la forza che
aveva.
Chiusi la mano intorno alla chiave che avevo appena preso dalla
tasca della sua giacca e, mentre mi allontanavo, inalai
profondamente il suo profumo.
7. MELODIA

Quando tornai a scuola, dovetti aspettare. L’ultima ora non era


ancora finita. Mi andava benissimo, perché dovevo riflettere su
alcune cose e avevo bisogno di farlo in solitudine.
Il profumo di Bella aleggiava ancora nella macchina. Tenni i
finestrini chiusi affinché l’aroma mi aggredisse per tentare di
abituarmi alla sensazione di autoinfliggermi il dolore dell’arsura.
Attrazione.
Era una cosa problematica sulla quale riflettere. Aveva così tanti
aspetti, tanti significati e livelli diversi. Non era amore, ma vi era
indissolubilmente legata.
Non sapevo se Bella fosse attratta da me. (E il suo silenzio
mentale sarebbe diventato sempre più frustrante fino a farmi
impazzire? O c’era un limite che, alla fine, avrei raggiunto?).
Cercai di paragonare le sue reazioni fisiche a quelle di altre
umane, come la segretaria e Jessica Stanley, ma il confronto non
era decisivo. Gli stessi segni – batticuore e fiato corto – potevano
facilmente essere provocati da paura, shock o ansia, così come da
un interesse. Senza dubbio, le altre donne, e anche gli uomini,
avevano reagito al mio volto con un istintivo timore. Molti di più
rispetto a quelli che avevano avuto una reazione diversa. Sembrava
poco probabile che Bella potesse prendere in considerazione lo
stesso genere di pensieri che aveva, una volta, Jessica Stanley.
Dopotutto, Bella sapeva molto bene che in me c’era qualcosa di
strano, anche se non sapeva esattamente cosa fosse. Aveva toccato
la mia pelle ghiacciata e aveva ritratto la mano dal mio gelo.
Eppure... rievocai quelle fantasie che di solito mi disgustavano,
ma le rievocai mettendo Bella al posto di Jessica Stanley.
Il mio respiro si fece più rapido e il fuoco mi artigliò la gola.
E se fosse stata Bella a immaginarmi mentre abbracciavo il suo
corpo esile? A sentirmi mentre la stringevo al mio petto e poi le
sollevavo leggermente il mento con la mano? Mentre le scostavo i
capelli folti dal viso arrossato? E seguivo con la punta di un dito la
curva delle sue labbra piene? E avvicinavo il viso al suo, dove
potevo sentire il calore del suo respiro sulla bocca? Sempre più
vicino...
Ma con un sussulto mi strappai a quelle fantasie, sapendo, come
lo avevo saputo quando era stata Jessica a immaginare quelle
scene, ciò che sarebbe accaduto se mi fossi trovato così vicino a lei.
L’attrazione era un dilemma irrisolvibile, perché io ero già troppo
attratto da Bella, nel modo peggiore.
Volevo che Bella fosse attratta da me, come accade fra un uomo
e una donna?
La domanda era sbagliata. Quella giusta era: avrei dovuto volere
che Bella fosse attratta da me in quel modo? E la risposta era no.
Perché io non ero un uomo, e non era giusto per lei.
Desideravo disperatamente essere normale, per poterla prendere
tra le braccia senza mettere a rischio la sua vita. Per poter sbrigliare
le mie fantasie, fantasie che non terminavano con le mie mani
sporche del suo sangue e i miei occhi saziati di lei.
Continuare a inseguirla era una scelta indifendibile. Che genere
di relazione potevo offrirle, quando non potevo rischiare di toccarla?
Mi presi la testa tra le mani.
Era tutto ancora più disorientante perché, nel corso della mia
intera vita, non mi ero mai sentito tanto umano – per quanto riuscissi
a ricordare, nemmeno quando lo ero. A quei tempi, tutti i miei
pensieri erano concentrati sulla gloria militare. La prima guerra
mondiale aveva infuriato per quasi tutta la mia adolescenza, e
quando era scoppiata l’epidemia di influenza mancavano nove mesi
al mio diciottesimo compleanno. Degli anni vissuti da essere umano
avevo soltanto delle vaghe impressioni, ricordi nebulosi che, con il
passare dei decenni, diventavano sempre meno reali. Mia madre la
ricordavo con maggiore chiarezza e, quando pensavo al suo viso,
provavo la fitta di un dolore antico. Rammentavo a malapena quanto
avesse odiato il futuro al quale io, invece, ero corso incontro con
tanto entusiasmo, pregando ogni sera, prima di cena, che
quell’orrida guerra finisse. Era l’unico desiderio di cui avessi
memoria. A parte l’amore di mia madre, non c’era un altro amore per
il quale sarei voluto rimanere.
L’amore per Bella era una cosa completamente nuova, per me.
Non potevo confrontarlo con niente, né trovare analogie.
Il sentimento che provavo per lei era arrivato come un’emozione
e basta, ma adesso le acque si erano fatte torbide. Volevo
ardentemente poterla toccare. Chissà se lei provava lo stesso
desiderio.
Ma tentavo di convincermi che questo non contava.
Guardavo le mie mani pallide e ne detestavo la durezza, il gelo,
la forza disumana...
Quando la porta del passeggero si aprì, sobbalzai.
Ah. Colto di sorpresa. C’è sempre una prima volta, pensò
Emmett, entrando in macchina. «Scommetto che la professoressa
Goff pensa che ti droghi, negli ultimi giorni sei stato così incostante.
Dov’eri oggi?».
«Stavo... facendo buone azioni».
Uh?
Sorrisi. «Assistere i malati, sai, cose di quel tipo».
Emmett non capì un bel niente, ma poi prese un respiro e avvertì
il profumo nell’abitacolo.
«Oh. Ancora quella ragazza?».
Io mi accigliai.
La cosa sta diventando anomala.
«Dimmi», borbottai.
Lui inspirò ancora. «Mmm, in effetti ha un ottimo profumo,
vero?».
Mi sfuggì un ringhio prima ancora che le sue parole mi
arrivassero al cervello, fu una reazione automatica.
«Tranquillo, ragazzo. Stavo soltanto parlando».
In quel momento arrivarono gli altri. Rosalie notò
immediatamente il profumo e mi lanciò un’occhiata di fuoco,
l’arrabbiatura non le era ancora passata. Mi chiesi quale fosse il vero
problema, ma da lei riuscii a sentire soltanto insulti.
Non mi piacque nemmeno la reazione di Jasper. Come Emmett,
notò anche lui il fascino di Bella. Non che il suo profumo avesse su
di loro una millesima parte dell’effetto che aveva su di me, ma mi
turbava lo stesso sapere che apprezzavano la dolcezza del suo
sangue. Jasper aveva un autocontrollo ridicolo.
Alice fece il giro, venne dal mio lato dell’auto e tese la mano per
prendere la chiave del pick-up di Bella.
«Ho visto soltanto che ero io», disse, criptica come al solito.
«Dovrai dirmi perché».
«Sì, ma non significa che...».
«Lo so, lo so. Aspetterò. Non ci vorrà molto».
Sospirai e le diedi la chiave.
La seguii fino a casa di Bella. La pioggia scrosciava martellando
come un milione di minuscoli tamburi, talmente fragorosa che le
orecchie umane di Bella, forse, non avrebbero sentito il frastuono del
suo pick-up. Guardai la sua finestra, ma lei non si affacciò. Forse
non era in casa. Non udivo pensieri.
Mi rattristava molto non poter sentire i suoi pensieri nemmeno per
tenerla sotto controllo – per essere certo che fosse felice, o almeno
al sicuro.
Alice salì sul sedile posteriore e andammo a casa. Le strade
erano vuote, quindi ci vollero pochi minuti. Entrammo tutti insieme,
poi ognuno si dedicò al proprio passatempo.
Emmett e Jasper erano nel mezzo di una complessa partita a
scacchi che prevedeva otto scacchiere unite lungo la parete vetrata
e il relativo assortimento di regole complicate. Non mi facevano
giocare; soltanto Alice, ormai, giocava con me.
Alice andò al suo computer, dietro l’angolo della sala, e sentii il
suono dei suoi monitor che si accendevano. Stava disegnando dei
modelli per il guardaroba di Rosalie, ma questa volta Rosalie non
era dietro le sue spalle a dirigere tagli e colori mentre lei tracciava
linee sui touchscreen. Si era buttata sul divano e aveva cominciato a
cambiare venti canali al secondo sullo schermo piatto della TV,
senza mai fermarsi. La sentii mentre cercava di decidere se andare
in garage e mettere di nuovo a punto la sua BMW.
Esme era al piano di sopra e canticchiava mentre lavorava a
delle cianografie. Era sempre intenta a progettare qualcosa di
nuovo. Forse questo era destinato alla nostra prossima casa, o a
quella dopo ancora.
Dopo un po’, Alice fece capolino da dietro la parete per suggerire
in silenzio, a Jasper, le mosse di Emmett – lui era seduto per terra e
le dava la schiena – e, mentre isolava il cavallo preferito di Emmett,
l’espressione di Jasper rimase imperturbabile.
Quanto a me, per la prima volta da quando era iniziato il periodo
della vergogna, andai a sedermi allo stupendo pianoforte a coda
collocato proprio accanto all’ingresso.
Eseguii qualche scala per saggiare la tonalità. Era ancora
perfettamente accordato.
Al piano di sopra, la matita di Esme si fermò e lei inclinò la testa
di lato.
Cominciai a suonare le prime battute del pezzo che mi era venuto
in mente quella mattina in macchina, felice che suonasse ancora
meglio di quanto avessi immaginato.
Edward sta suonando di nuovo, pensò Esme con gioia, mentre
un sorriso luminoso si apriva sul suo volto. Si alzò dal tavolo da
disegno e sgattaiolò in silenzio in cima alle scale.
Aggiunsi degli accordi, lasciando che la melodia centrale si
intrecciasse alle loro note.
Esme sospirò di contentezza, si sedette sull’ultimo gradino e
appoggiò la testa alla balaustra. Una canzone nuova. Da quanto
tempo. E che bella.
Seguii la melodia in una nuova direzione, accompagnandola con
le note basse.
Edward sta componendo?, pensò Rosalie e strinse i denti,
incollerita.
In quel momento, però, ebbe un cedimento e io riuscii a leggere
tutta l’indignazione che c’era dietro la sua rabbia. Capii perché ce
l’aveva così tanto con me. Perché uccidere Isabella Swan non
avesse affatto turbato la sua coscienza.
Con Rosalie, era sempre e soltanto questione di vanità.
La musica si interruppe bruscamente e io scoppiai a ridere prima
di potermi controllare, un’improvvisa esplosione di divertimento che
soffocai rapidamente mettendomi una mano sulla bocca.
Rosalie si girò di scatto per fulminarmi con gli occhi luccicanti di
furiosa mortificazione.
Anche Emmett e Jasper si girarono a guardare e io udii la
confusione di Esme. Scese le scale in un istante, fermandosi fra me
e Rosalie, a guardare entrambi.
«Non smettere, Edward», mi incoraggiò Esme, dopo un minuto di
tensione.
Ricominciai a suonare voltando le spalle a Rosalie e cercando di
trattenere un sorriso. Lei si alzò dal divano e uscì impettita dalla
stanza, più arrabbiata che imbarazzata. Ma sicuramente anche
piuttosto imbarazzata.
Se dici una parola ti ammazzo come un cane.
Soffocai un’altra risata.
«Che succede, Rose?», le chiese Emmett, ma lei non si girò. A
schiena dritta e rigida, proseguì fino al garage e poi si infilò sotto la
sua macchina, come se potesse seppellirsi lì.
«Ma che ha?», mi chiese Emmett.
«Non ne ho la più pallida idea», mentii.
Emmett brontolò qualcosa, irritato.
«Continua a suonare», insistette Esme. Le mie dita si erano
fermate. Assecondai la sua richiesta e lei venne a mettersi dietro di
me, con le mani sulle mie spalle.
Il brano era coinvolgente, ma incompleto. Giocherellai con un
passaggio, ma non sembrava quello giusto.
«È incantevole. Ha un titolo?», domandò Esme.
«Non ancora».
«Ha una storia?», chiese ancora, con un sorriso nella voce. Era
davvero felice, e io mi sentii in colpa per averle negato così a lungo il
piacere della mia musica. Ero stato egoista.
«È... una ninna nanna, credo». In quel momento mi venne in
mente il passaggio. Mi portò facilmente al movimento successivo,
animandosi da solo.
«Una ninna nanna», mormorò.
C’era una storia in quella melodia e, una volta che la vidi, tutti i
frammenti andarono naturalmente a posto. La storia era quella di
una ragazza addormentata su un letto stretto, capelli scuri folti,
scompigliati e aggrovigliati come alghe sopra il cuscino...
Alice lasciò Jasper alle sue mosse e venne a sedersi accanto a
me sul panchetto. Con la sua voce cinguettante, abbozzò un
controcanto di due ottave più alto rispetto alla melodia.
«Mi piace», mormorai. «Ma che ne pensi di questo?».
Aggiunsi il suo canto all’armonia – le mie mani volavano sulla
tastiera per mettere insieme tutti i tasselli – modificandolo
leggermente e portandolo in una direzione diversa.
Lei capì l’atmosfera e l’accompagnò con la sua voce.
«Sì. Perfetto».
Esme mi strinse la spalla.
In quel momento vidi la conclusione del pezzo, con la voce di
Alice che si innalzava al di sopra della melodia e la portava altrove.
Vidi come il brano doveva terminare, perché la ragazza
addormentata era perfetta così com’era e qualsiasi cambiamento
sarebbe stato uno sbaglio, una tristezza. Il brano seguì quella
consapevolezza, rallentando, abbassando il tono. Anche la voce di
Alice rallentò e diventò solenne, assunse una tonalità che
apparteneva alle arcate riecheggianti di una cattedrale illuminata
dalle candele.
Suonai l’ultima nota, poi chinai la testa sulla tastiera.
Esme mi accarezzò i capelli. Andrà bene, Edward. Funzionerà
nel migliore dei modi. Tu meriti la felicità, figlio mio. È il destino che
te lo deve.
«Grazie», mormorai, desiderando tanto poterle credere. E che
fosse la mia felicità quella importante.
L’amore non arriva sempre dentro un comodo pacchetto.
Scoppiai a ridere di cuore.
Di tutti gli abitanti di questo pianeta, tu sei quello più preparato ad
affrontare un dilemma così difficile. Tu sei il migliore di tutti noi, il più
brillante.
Sospirai. Ogni madre pensava la stessa cosa del proprio figlio.
Esme era ancora piena di gioia perché finalmente, dopo tanto
tempo, qualcuno aveva toccato il mio cuore, non le importava affatto
del potenziale tragico. Aveva pensato che sarei rimasto da solo per
sempre.
Dovrà ricambiare il tuo amore, pensò all’improvviso, e la
direzione dei suoi pensieri mi sorprese. Se è una ragazza
intelligente. Sorrise. Ma non riesco a immaginare nessuna che sia
così ottusa da non vedere quale incredibile partito tu sia.
«Basta, mamma, mi fai arrossire», la presi in giro. Le sue parole,
per quanto improbabili, mi rallegrarono davvero.
Alice rise e scelse la partitura per la mano sinistra di Heart and
Soul. Le sorrisi e completai insieme a lei la semplice armonia. Poi la
gratificai con un’esecuzione di Chopsticks.
Lei ridacchiò, poi sospirò. «Speravo che mi dicessi perché hai
riso di Rosalie», disse. «Ma capisco che non lo farai».
«No».
Mi colpì l’orecchio con il dito.
«Fai la brava, Alice», la riprese Esme. «Edward si comporta da
gentiluomo».
«Ma io voglio sapere».
Il suo tono lamentoso mi fece sorridere. Poi dissi: «Ecco qui,
Esme», e cominciai a suonare la sua canzone preferita, un tributo
senza titolo all’amore che vedevo da così tanti anni fra lei e Carlisle.
«Grazie, caro». Mi strinse ancora la spalla.
Non dovevo concentrarmi per suonare quel pezzo familiare.
Pensai invece a Rosalie, ancora in garage a contorcersi, in senso
figurato, per l’umiliazione, e sorrisi fra me e me.
Tuttavia, avendo scoperto sulla mia pelle la potenza della gelosia,
provai per lei un minimo di compassione. Era uno stato d’animo
odioso. Certo, la sua gelosia era mille volte più meschina della mia.
Era una gelosia egoista e invidiosa.
Mi chiesi quanto sarebbero state diverse la vita e la personalità di
Rosalie se lei non fosse stata sempre la più bella. Sarebbe stata una
persona più felice – meno egocentrica? Più compassionevole? – se
la bellezza non fosse stata sempre il suo unico e costante punto di
forza? Be’, era inutile chiederselo, pensai, perché il passato era
passato e lei era sempre stata la più bella di tutte. Anche da essere
umano aveva vissuto sempre nella gloria della sua avvenenza. Non
che le dispiacesse. Al contrario, l’ammirazione degli altri era stata la
cosa che aveva apprezzato più di ogni altra. Il che non era cambiato
con la perdita della mortalità.
Date queste premesse, non era affatto sorprendente che si fosse
offesa, perché, fin dal nostro primo incontro, io non avevo venerato
la sua bellezza come lei si aspettava da ogni maschio che incrociava
la sua strada. Non che Rosalie volesse me, anzi, l’idea non la
sfiorava nemmeno. Ma quello che la irritava era che fossi io a non
volere lei, malgrado la sua perfezione.
Con Jasper e Carlisle era diverso, entrambi erano già innamorati.
Ma io non avevo alcun legame eppure rimanevo ostinatamente
indifferente.
Pensavo che quel vecchio risentimento fosse ormai sepolto, che
lo avesse superato da un pezzo. E infatti così era stato... fino al
giorno in cui non avevo trovato qualcuno la cui bellezza mi aveva
emozionato come la sua non era riuscita a fare. Era evidente. Avrei
dovuto rendermi conto di quanto questo l’avrebbe irritata. E, se non
fossi stato così preoccupato, probabilmente me ne sarei accorto.
Rosalie aveva contato sulla convinzione che se io non avevo
trovato la sua bellezza degna di essere venerata, sicuramente non
esisteva sulla terra un’altra bellezza capace di colpirmi. Ma, nel
momento in cui avevo salvato la vita di Bella, era diventata furiosa
perché, con il suo intuito scaltro e competitivo, aveva indovinato
subito un interesse da parte mia di cui nemmeno io ero ancora
consapevole.
Era stata un’offesa mortale, per Rosalie, che io avessi trovato
un’insignificante ragazza umana più attraente di lei.
Repressi un’altra risata.
Tuttavia, il modo in cui vedeva Bella un po’ mi disturbava.
Pensava davvero che fosse una ragazza scialba. Come poteva
credere una cosa del genere? Mi sembrava incomprensibile. Di
sicuro era opera della gelosia.
«Oh!», esclamò a un tratto Alice. «Jasper, indovina un po’?».
Vidi quello che aveva appena visto lei e mi si paralizzarono le
mani sui tasti.
«Cosa?», domandò lui.
«La prossima settimana verranno a trovarci Peter e Charlotte! Si
trasferiranno qui vicino. Non è fantastico?».
«Che c’è, Edward?», chiese Esme, avvertendo la mia tensione
nelle spalle.
«Peter e Charlotte stanno arrivando a Forks?», sussurrai ad
Alice.
Lei fece una faccia seccata. «Stai calmo, Edward. Non è la prima
volta che vengono qui».
Strinsi i denti. Era la prima volta che venivano qui da quando
c’era anche Bella, e il suo sangue dolce non attirava soltanto me.
Vedendo la mia tensione, Alice aggrottò la fronte. «Loro non
cacciano mai qui. Lo sai».
Ma lo pseudo fratello di Jasper e la piccola vampira che amava
non erano come noi; loro cacciavano nel solito modo. Non erano
affidabili nelle vicinanze di Bella.
«Quando?», chiesi.
Lei strinse le labbra, scontenta, ma mi diede l’informazione che
mi serviva. Lunedì mattina. Nessuno farà del male a Bella.
«No», concordai, poi girai la testa. «Sei pronto, Emmett?».
«Pensavo che saremmo partiti domani mattina».
«Torneremo domenica a mezzanotte. Immagino che tocchi a te
decidere quando vuoi partire».
«Okay, d’accordo. Ma prima fammi salutare Rose».
«Certo». Con l’umore che aveva Rosalie, sarebbe stato un saluto
molto breve.
Sei davvero fuori di testa, Edward, pensò mentre andava verso la
porta.
«Immagino di sì».
«Suonami ancora la nuova canzone», mi chiese Esme.
«Se ti piace», acconsentii, anche se ero un po’ restio a seguire la
melodia fino alla sua inevitabile conclusione – la conclusione che mi
aveva portato a soffrire in un modo che non conoscevo. Ci pensai un
istante, poi presi dalla tasca il tappo e lo posai sul leggio vuoto. Quel
piccolo ricordo del suo sì, mi aiutò un po’.
Annuii e cominciai a suonare.
Esme e Alice si scambiarono uno sguardo, ma nessuna fece
domande.

«Ti hanno mai detto che non si gioca con il cibo?», gridai a
Emmett.
«Oh, ehilà, Edward!», urlò lui, sorridendomi e salutandomi con la
mano. L’orso approfittò della sua distrazione e lo artigliò al petto. Gli
artigli acuminati lacerarono la camicia e stridettero sulla pelle come
lame sull’acciaio.
La bestia ruggì sentendo il rumore acuto.
Ah, bene, me l’aveva regalata Rose!
Anche Emmett ruggì rivolto alla bestia furiosa.
Io sospirai e mi misi seduto su una roccia comoda. Ci sarebbe
voluto un po’.
Ma Emmett aveva quasi finito. Lasciò che l’orso tentasse di
decapitarlo con un’altra zampata e rise quando il colpo andò a vuoto
e l’orso barcollò all’indietro. L’animale ruggì ancora e anche Emmett,
mentre rideva. Poi si lanciò sull’orso, che eretto sulle zampe
posteriori lo superava di una testa, e i loro corpi avvinghiati caddero
sul terreno, abbattendo anche un vecchio abete. I ruggiti dell’orso si
spensero in un gorgoglio.
Pochi minuti dopo, Emmett mi raggiunse, camminando senza
fretta, dove lo stavo aspettando. Aveva la camicia distrutta,
strappata e macchiata di sangue, appiccicosa di resina e coperta di
peli. I suoi capelli scuri non erano in condizioni migliori. Ma aveva un
sorriso smagliante stampato in faccia.
«Era una bestia forte. L’ho quasi sentito, quando mi ha artigliato».
«Sei proprio un bambino, Emmett».
Lanciò un’occhiata alla mia camicia pulita e senza grinze. «Allora,
non sei riuscito a scovare quel leone di montagna?».
«Certo che l’ho scovato. È solo che io non mangio come un
selvaggio».
Emmett scoppiò nella sua tipica risata fragorosa. «Vorrei che
fossero più forti. Sarebbe più divertente».
«Non eri obbligato a lottare con il tuo cibo».
«Già, ma con chi altro potrei farlo? Tu e Alice barate, Rose non si
vuole mai rovinare i capelli ed Esme si arrabbia se io e Jasper lo
facciamo sul serio».
«La vita è dura».
Emmett sorrise, poi spostò il peso quel tanto da mettersi in
posizione d’attacco.
«Forza, Edward. Spegnilo per un po’ e combatti lealmente».
«Non si può spegnere», gli ricordai.
«Mi chiedo come faccia quella ragazza a tenerti fuori», rifletté lui.
«Forse potrebbe darmi qualche dritta».
Il mio buonumore scomparve. «Sta’ lontano da lei», ringhiai.
«Permalosetto, eh?».
Sospirai. Emmett venne a sedersi accanto a me, sulla roccia.
«Scusa. So che stai passando un momento difficile. Sto cercando
davvero di non essere troppo un idiota insensibile, ma dal momento
che per me è una specie di condizione naturale...».
Aspettò che ridessi alla battuta, poi fece una smorfia.
Sempre così serio. Cos’è che ti dà fastidio, adesso?
«Pensare a lei. Be’, preoccuparmi, in realtà».
«Che c’è da preoccuparsi? Tu sei qui». Scoppiò a ridere.
Ignorai anche questa battuta, ma risposi alla sua domanda. «Hai
mai pensato a quanto sono fragili, tutti quanti? A quante cose brutte
possono accadere a un mortale?».
«Veramente no. Ma credo di capire cosa intendi. Io non fui
all’altezza dell’orso, quella prima volta, vero?».
«Orsi», borbottai, aggiungendo una nuova paura al già vasto
cumulo. «Sarebbe proprio la sua fortuna. Un orso in giro per la città.
Di sicuro andrebbe dritto a cercare lei».
Emmett ridacchiò. «Parli come un pazzo. Te ne accorgi, vero?».
«Immagina soltanto per un minuto che Rosalie sia umana,
Emmett. E possa imbattersi in un orso... o essere investita da una
macchina... o star male, prendersi una malattia». Le parole uscirono
dalla mia bocca con violenza. Fu un sollievo buttarle fuori, mi
avevano logorato per tutto il weekend. «Incendi, terremoti e uragani!
Uh! Quand’è stata l’ultima volta che hai guardato il notiziario? Hai
visto che razza di catastrofi possono capitare? Rapine e omicidi...».
All’improvviso fui così furioso all’idea che un altro umano potesse
farle del male che strinsi i denti e quasi non riuscii a respirare.
«Frena, frena! Basta così, fratello. Lei vive a Forks, ricordi? Al
massimo prenderà la pioggia». Alzò le spalle.
«Penso che abbia addosso una maledetta sfortuna, Emmett, lo
penso sul serio. Ecco la prova. Di tutti i posti in cui poteva andare, è
finita in una città dove i vampiri costituiscono una parte significativa
della popolazione».
«Sì, ma noi siamo “vegetariani”. Quindi non è sfortunata, al
contrario».
«Con il profumo che ha? Assolutamente sfortunata. E poi, la
sfortuna peggiore è quanto piaccia a me il suo profumo». Mi guardai
le mani con odio.
«Solo che tu possiedi più autocontrollo di chiunque altro, tranne
Carlisle. Un’altra fortuna».
«Il furgoncino?».
«Quello è stato solo un incidente».
«Avresti dovuto vederlo mentre la inseguiva, Emmett, in
continuazione. Lo giuro, sembrava che lo attirasse come una specie
di calamita».
«Ma tu eri lì. E questa è stata una fortuna».
«Dici? Non è forse la peggiore delle fortune, che un essere
umano possa incontrare un... vampiro innamorato?».
Emmett rifletté in silenzio per un istante. Si figurò la ragazza nella
mente e trovò l’immagine priva di interesse. Sinceramente, non
riesco davvero a vedere il suo fascino.
«Be’, nemmeno io riesco a vedere l’attrattiva di Rosalie», risposi
sgarbatamente. «Sinceramente, mi sembra che richieda più sforzi di
quanti ne meriti un qualsiasi bel visetto».
Emmett ridacchiò. «Immagino che non mi dirai...».
«Non so quale sia il suo problema, Emmett», mentii, con un
repentino sorriso.
Vidi le sue intenzioni in tempo per prepararmi. Tentò di buttarmi
giù dalla roccia e si udì un fragoroso scricchiolio mentre nella pietra
si apriva una crepa.
«Imbroglione», borbottò.
Aspettai che ci riprovasse, ma i suoi pensieri presero un’altra
deriva. Stava di nuovo immaginando il viso di Bella, ma questa volta
più bianco e con gli occhi rosso acceso.
«No», dissi, con voce strozzata.
«Risolverebbe le tue preoccupazioni riguardo alla mortalità, no?
E oltretutto non avresti nemmeno più voglia di ucciderla. Non ti
sembra la soluzione migliore?».
«Per me? O per lei?».
«Per te», rispose senza esitare. Il suo tono aggiunse ovviamente.
Risi senza allegria. «Risposta sbagliata».
«A me non è dispiaciuto così tanto», mi ricordò.
«A Rosalie sì».
Emmett sospirò. Sapevamo entrambi che Rosalie avrebbe fatto o
sacrificato qualsiasi cosa, se avesse potuto tornare umana.
Qualsiasi cosa. Persino Emmett.
«Sì, Rose sì», ammise, a bassa voce.
«Io non posso... non dovrei... non ho intenzione di rovinare la vita
di Bella. Non penseresti lo stesso se si trattasse di Rosalie?».
Emmett ci pensò per un attimo. Tu davvero... la ami?
«Non posso nemmeno descrivertelo, Em. Tutto d’un tratto questa
ragazza è diventata tutto il mio mondo. Non vedo più il senso del
resto del mondo, senza di lei».
Ma non la trasformerai? Lei non durerà in eterno, Edward.
«Lo so», gemetti.
E, come hai sottolineato, è molto fragile.
«Credimi, so anche questo».
Emmett non aveva tatto e i discorsi delicati non erano il suo forte.
Adesso si stava sforzando perché non voleva in alcun modo essere
offensivo.
L’hai mai toccata? Voglio dire, se la ami... non vorresti, be’,
toccarla?
Emmett e Rosalie vivevano un amore intensamente fisico. E lui
aveva molta difficoltà a capire come si potesse amare senza
quell’aspetto.
Sospirai. «Non riesco nemmeno a pensarci, Emmett».
Wow. Allora, quali opzioni hai?
«Non lo so», mormorai. «Sto cercando di trovare un modo per...
per lasciarla. È solo che non riesco a pensare a come costringermi a
starle lontano».
Con un profondo senso di gratificazione, mi resi conto d’un tratto
che era giusto che io rimanessi, almeno per il momento, con Peter e
Charlotte che stavano arrivando. Bella sarebbe stata più al sicuro
con me qui, temporaneamente, che se fossi andato via. Per il
momento sarei stato il suo improbabile protettore.
Quel pensiero mi rese ansioso. Fremevo per il desiderio di
tornare per poter occupare il più a lungo possibile il ruolo che mi
spettava.
Emmett notò il cambiamento nella mia espressione. A cosa stai
pensando?
«In questo momento», ammisi con un po’ d’imbarazzo, «sto
morendo dalla voglia di correre a Forks e vedere come sta. Non so
se riuscirò a resistere fino a domenica notte».
«A-ah! Tu non tornerai a casa prima del previsto. Lascia che
Rosalie sbollisca un po’. Per favore! Per il mio bene».
«Cercherò di restare», dissi, dubbioso.
Diede un colpetto al telefono nella mia tasca. «Se ci fosse un
qualsiasi fondamento per i tuoi attacchi di panico, Alice ti
chiamerebbe. È strana quanto te, con quella ragazza».
A questo non potevo obiettare. «D’accordo. Ma non resterò oltre
domenica».
«Non ha senso affrettarsi a tornare... ci sarà il sole, comunque.
Alice ha detto che non c’è scuola fino a mercoledì».
Scossi la testa.
«Peter e Charlotte sanno come comportarsi».
«Non mi interessa, Emmett, sul serio. Con la fortuna che si
ritrova, Bella è capace di andare a fare due passi nella foresta
esattamente nel momento sbagliato e...», trasalii. «Io torno
domenica».
Emmett sospirò. Proprio come un pazzo.

Quando mi arrampicai fino alla sua finestra, lunedì alle prime luci
dell’alba, Bella stava dormendo serenamente. Avevo portato dell’olio
per lubrificare la finestra, che si spostò senza problemi lasciandomi
via libera.
Dal modo in cui i suoi capelli si posavano sul cuscino, capii che
aveva trascorso una notte meno agitata rispetto all’ultima volta che
ero stato lì. Teneva le mani unite sotto la guancia come una bimba e
aveva la bocca leggermente aperta. Potevo sentire il respiro entrare
e uscire lentamente fra le sue labbra.
Era un sollievo meraviglioso essere lì, poterla rivedere. Mi resi
conto che non ero veramente a mio agio in nessun’altra situazione.
Niente andava bene quando ero lontano da lei.
Non che andasse tutto bene, quando ero con lei. Respirai,
lasciando che il fuoco della sete mi bruciasse la gola. Non lo sentivo
da troppo tempo. Il periodo trascorso senza provare dolore e
tentazione adesso rendeva entrambi molto più potenti. Era talmente
doloroso che avevo timore di andare a inginocchiarmi accanto al
letto di Bella per leggere i titoli dei suoi libri. Volevo conoscere le
storie che popolavano la sua mente, ma temevo qualcos’altro oltre la
sete: temevo che se mi fossi avvicinato a lei, avrei voluto starle
ancora più vicino.
Le sue labbra sembravano così morbide e calde. Riuscivo a
immaginare di toccarle con la punta di un dito. Appena una
carezza...
Questo era esattamene il tipo di errore che dovevo evitare.
Erravo con lo sguardo sul suo viso, esaminandone i cambiamenti.
I mortali cambiavano in continuazione e il pensiero di perdere un
dettaglio mi turbava.
Pensai che Bella sembrava... stanca. Come se durante il
weekend non avesse dormito abbastanza. Era uscita?
Risi, silenzioso e beffardo, per quanto mi turbava quell’idea. E
anche se fosse uscita? Lei non mi apparteneva. Non era mia.
No, non era mia... e io mi rattristai di nuovo.
«Mamma», mormorò Bella, sottovoce. «No... lasciami. Per
favore...».
La ruga d’apprensione fra le sue sopracciglia, a forma di piccola
V, si fece più profonda. Qualsiasi cosa sua madre stesse facendo
nel sogno, era chiaro che la preoccupasse. Si girò bruscamente
sull’altro fianco, ma le sue palpebre restarono sigillate.
«Sì, sì», borbottò, poi sospirò. «Bleah. È troppo verde».
Mosse una mano e notai che sul palmo c’era una serie di piccoli
graffi. Si era ferita? Anche se si trattava chiaramente di una cosa da
niente, mi inquietò comunque. Considerai il punto in cui si trovava
l’abrasione e decisi che Bella doveva aver inciampato. Mi sembrava
una spiegazione più che ragionevole.
Si lamentò con sua madre ancora un po’, mugugnò qualcosa a
proposito del sole, poi scivolò in un sonno più tranquillo e non si
mosse più.
Era confortante pensare che non mi sarei dovuto lambiccare il
cervello sui suoi piccoli misteri per sempre. Adesso eravamo amici o,
almeno, ci stavamo provando. Potevo chiederle come aveva
trascorso il weekend, com’era andata la gita in spiaggia e che cosa
mai avesse fatto la sera prima per avere un’aria così esausta.
Potevo chiederle come si era ferita alla mano. E potevo ridere
quando lei avrebbe confermato la mia teoria.
Tentai di immaginarla sotto il sole della spiaggia. Tuttavia,
l’immagine era incompleta perché non ero mai stato a First Beach.
La conoscevo soltanto dalle fotografie.
Provai una punta di malessere nel pensare al motivo per il quale
non avevo mai visitato la bella spiaggia che distava così poco dal
luogo in cui abitavo. Bella aveva trascorso la giornata a La Push –
un posto che mi era precluso, a causa di un trattato. Un posto dove
alcuni uomini anziani ricordavano ancora le storie sui Cullen, le
ricordavano e ci credevano. Un posto dove conoscevano i nostri
segreti.
Scossi la testa. Non dovevo preoccuparmi. Anche i Quileutes
erano vincolati da un trattato. Anche se Bella avesse incontrato uno
di quei vecchi saggi, nessuno di loro poteva rivelare niente. E perché
mai avrebbero dovuto affrontare l’argomento? No, i Quileutes erano,
forse, l’unica cosa di cui non dovevo preoccuparmi.
Mi arrabbiai con il sole, quando cominciò a sorgere. Mi ricordava
che non avrei potuto soddisfare la mia curiosità per i prossimi giorni.
Perché aveva deciso di brillare proprio adesso?
Con un sospiro, uscii dalla finestra di Bella prima che fosse
abbastanza giorno da rischiare che qualcuno mi vedesse lì. Avevo
intenzione di rimanere nella foresta accanto alla casa e vederla
uscire per andare a scuola, ma quando mi inoltrai fra gli alberi, fui
sorpreso nel trovare tracce del suo profumo sullo stretto sentiero.
Seguii la scia in fretta, sempre più preoccupato, mentre mi
guidava nel folto della foresta buia. Che cosa era venuta a fare qui?
La traccia che aveva lasciato si interrompeva bruscamente in
mezzo al nulla. Si era semplicemente spinta per pochi passi fuori dal
sentiero, tra le felci, dove aveva toccato il tronco di un albero caduto.
Forse si era seduta lì...
Mi sedetti nello stesso punto e mi guardai intorno. Non aveva
potuto vedere altro che felci e foresta. Probabilmente era piovuto – il
profumo era sparito perché non era penetrato a fondo nell’albero.
Perché Bella era andata a sedersi lì, da sola – perché era da
sola, non c’erano dubbi in proposito – in mezzo alla foresta umida e
scura?
Non aveva senso e, al contrario delle altre mie curiosità, sarebbe
stato difficile inserire questa in una normale conversazione.
Allora, Bella, stavo seguendo la scia del tuo profumo nel bosco,
dopo essere uscito dalla tua stanza – solo una banale effrazione,
niente di cui preoccuparsi, stavo... sterminando i ragni... Sì, poteva
essere un ottimo argomento per rompere il ghiaccio.
Non avrei mai saputo cosa stesse pensando o facendo lì, e la
frustrazione mi fece serrare i denti. Ma la cosa peggiore era che
sembrava lo scenario che avevo prefigurato a Emmett: Bella che
vagava da sola nella foresta dove il suo profumo avrebbe richiamato
chiunque avesse i sensi adatti a rintracciarlo.
Mi sfuggì un gemito. Non era soltanto sfortunata, corteggiava la
sfortuna.
Bene, per il momento aveva un protettore. Avrei vegliato su di lei,
l’avrei tenuta lontana dal pericolo fin quando avrei potuto
giustificarlo.
D’un tratto, mi ritrovai ad augurarmi che Peter e Charlotte
prolungassero il loro soggiorno.
8. FANTASMA

Non vidi granché gli ospiti di Jasper durante i due giorni assolati
che trascorsero a Forks. Andavo a casa soltanto per non far
preoccupare Esme. Per il resto, la mia esistenza era più simile a
quella di uno spettro, che di un vampiro. Mi appostavo nell’ombra,
invisibile, dove potevo seguire l’oggetto del mio amore e della mia
ossessione, dove potevo vederla e udirla nei pensieri degli umani
fortunati che potevano camminarle accanto alla luce del sole, magari
sfiorandole accidentalmente il dorso della mano con il proprio. Bella
non reagiva mai a quel tipo di contatto; le loro mani erano calde
quanto le sue.
L’assenza forzata da scuola non era mai stata una prova tanto
dura. Ma sembrava che il sole la facesse felice, perciò non poteva
darmi fastidio.
Lunedì mattina origliai una conversazione che, potenzialmente,
avrebbe potuto distruggere la mia fiducia e trasformare in una vera e
propria tortura il tempo trascorso lontano da lei. Tuttavia, quando
terminò, mi rese piuttosto felice.
Fui costretto a provare del rispetto per Mike Newton. Aveva più
coraggio di quanto gliene avessi attribuito. Non solo si era arreso ed
era andato di nascosto a farsi medicare le ferite, ma aveva
intenzione di riprovarci.
Bella arrivò a scuola piuttosto presto e, evidentemente decisa a
godersi il sole finché durava, si sedette su una delle panchine da
picnic che venivano usate di rado, mentre attendeva il suono della
prima campanella. I suoi capelli catturavano la luce del sole in modo
insolito, rivelando riflessi di un rosso scintillante che non mi sarei
aspettato.
Mike la trovò lì, intenta a scarabocchiare qualcosa, e quel colpo
di fortuna lo elettrizzò.
Dovermi limitare a guardare, impotente, imprigionato dal sole
nell’ombra della foresta, era un’agonia.
Bella lo salutò con un entusiasmo sufficiente a mandare lui in
estasi e me all’inferno.
Le piaccio. Non mi sorriderebbe così, altrimenti. Scommetto che
voleva andare al ballo con me. Mi chiedo che cosa ci sia di così
importante a Seattle...
Si accorse dei suoi capelli. «Non mi sono mai accorto... hai una
sfumatura di rosso nei capelli».
Quando ne prese una ciocca fra le dita, sradicai
involontariamente il giovane abete sul quale avevo appoggiato la
mano.
«Solo quando c’è il sole», rispose lei. Con mia grande
soddisfazione, Bella si ritrasse leggermente quando lui le sistemò la
ciocca ribelle dietro l’orecchio.
Per raccogliere il coraggio Mike impiegò un minuto, perdendo
tempo in chiacchiere di circostanza.
Lei gli ricordò il saggio che tutti noi dovevamo consegnare
mercoledì. Dalla sua espressione leggermente compiaciuta capii che
lo aveva già scritto. Mike, invece, lo aveva del tutto dimenticato e
questo limitò di parecchio il tempo libero a sua disposizione.
Alla fine riuscì ad arrivare al punto – io avevo i denti così serrati
che avrei potuto polverizzare il granito – ma nemmeno allora formulò
apertamente la sua domanda.
«Stavo per chiederti se ti andava di uscire».
«Ah», rispose Bella.
Ci fu un breve silenzio.
Ah? Che significa “ah”? Vuol dire sì? Aspetta... forse non gliel’ho
chiesto per bene.
Mike deglutì a fatica.
«Be’, potremmo uscire a cena o qualcosa del genere... e il saggio
lo preparo dopo».
Stupido. Nemmeno questa è una domanda.
«Mike...».
Il supplizio che mi inflissero la collera e la gelosia fu potente
quanto lo era stato la settimana precedente. Desideravo con tutto
me stesso correre nel campus, troppo veloce per gli occhi umani, e
portarla via, rubarla al ragazzo che in quel momento odiavo al punto
da essere capace di ucciderlo per il solo gusto di farlo.
Gli avrebbe detto sì?
«Non credo che sarebbe un’idea grandiosa».
Ripresi a respirare. Il mio corpo irrigidito si rilassò.
Allora Seattle era soltanto una scusa. Non avrei dovuto
chiederglielo. Come mi è venuto in mente? Scommetto che è quel
mostro di Cullen.
«Perché?», le chiese, scontroso.
Bella esitò. «Se osi ripetere quello che ti sto dicendo ti ammazzo,
ma penso...».
Sentendo una minaccia di morte uscire dalle sue labbra, scoppiai
in una risata irrefrenabile. Una ghiandaia, spaventata, strillò e volò
lontano da me.
«Penso che feriresti i sentimenti di Jessica».
«Jessica?». Cosa? Ma... oh. Okay. Immagino... oh.
I pensieri di Mike erano in totale confusione.
«Mike, stai scherzando o sei cieco?».
La pensavo come lei. Certo, non tutti erano così intuitivi, ma in
questo caso era lampante. Con tutte le difficoltà che Mike aveva
avuto per decidersi a invitare Bella, non gli veniva in mente che per
Jessica potesse essere stato altrettanto difficile? Doveva essere
l’egoismo a renderlo cieco verso gli altri. E Bella era talmente
altruista da vedere ogni cosa.
Jessica. Uh. Wow. Uh. «Ah», riuscì a dire.
Bella sfruttò la sua confusione per filarsela.
«Iniziano le lezioni, e non posso arrivare ancora in ritardo».
Da quel momento in poi, Mike divenne un punto di vista
inaffidabile. Mentre rimuginava sull’idea di Jessica, realizzò che gli
piaceva molto il pensiero che lei lo trovasse attraente. Era un premio
di consolazione, Bella sarebbe stata un’altra cosa.
Però è carina, credo. Un bel corpo... tette più grandi di quelle di
Bella. Meglio una gallina oggi...
Poi partì per la tangente, verso nuove fantasie volgari come
quelle che aveva fatto su Bella, ma adesso le trovavo soltanto
irritanti, anziché esasperanti. Non meritava nessuna delle due
ragazze, per lui erano quasi intercambiabili. Dopo questo, mi tenni
alla larga dai suoi pensieri.
Quando Bella non fu più in vista, mi raggomitolai contro il tronco
freddo di un enorme madrone e passai da una mente all’altra,
continuando a tenerla d’occhio, sempre felice quando potevo vederla
attraverso i pensieri di Angela Weber. Avrei voluto che fosse esistito
un modo qualsiasi per ringraziare quella ragazza semplicemente per
la bella persona che era. Mi faceva sentire meglio pensare che Bella
avesse un’amica che valeva la pena avere.
Osservai il viso di Bella da ogni angolo che mi veniva offerto e
capii che c’era qualcosa che la turbava. Mi sorprese, pensavo che il
sole sarebbe bastato a farle mantenere il sorriso. A pranzo la vidi
lanciare, di tanto in tanto, delle occhiate al tavolo vuoto dei Cullen e
provai un’emozione forte. Forse anche lei sentiva la mia mancanza.
Dopo la scuola aveva in programma di uscire con le sue amiche
– io adeguai immediatamente il mio piano di sorveglianza – ma
quando Mike invitò Jessica all’appuntamento pensato per Bella,
l’uscita venne rimandata.
Così andai direttamente a casa sua a fare una rapida
ricognizione della foresta per essere sicuro che nessun pericolo si
fosse spinto troppo vicino. Sapevo che Jasper aveva avvertito quello
che una volta era stato suo fratello di evitare la città, menzionando la
mia insanità mentale sia come giustificazione che come rischio, ma
non volevo correre alcun pericolo. Peter e Charlotte non avevano
intenzione di creare ostilità con la mia famiglia, ma le intenzioni
erano, per loro natura, mutevoli.
Va bene, stavo esagerando. Ne ero consapevole.
Come se sapesse che la stavo osservando, come se provasse
compassione per la sofferenza che mi dava non vederla, Bella uscì
in giardino dopo una lunga ora passata dentro casa. Aveva un libro
in mano e una coperta sotto il braccio.
Senza far rumore, mi arrampicai sul ramo più alto dell’albero che
si affacciava più vicino al giardino.
Bella stese la coperta sull’erba umida, si sdraiò a pancia in giù e
cominciò a sfogliare il libro, usurato dalle numerose letture, per
trovare il segno. Lessi da sopra la sua spalla.
Ah – un grande classico. Ragione e sentimento. Era
un’ammiratrice di Jane Austen.
Assaporai il gusto che la luce del sole e l’aria aperta davano al
suo profumo. Il calore sembrava renderlo ancora più dolce. La mia
gola bruciò di desiderio con un dolore ancora una volta nuovo e
intenso a causa della lunga separazione. Mi presi qualche istante
per recuperare il controllo, costringendomi a respirare dal naso.
Bella leggeva rapidamente, incrociando e sciogliendo le caviglie
che teneva sollevate in aria. Conoscevo quel libro, quindi non lo lessi
insieme a lei. Mi ero soffermato, invece, sulla luce del sole e il vento
che giocavano con i suoi capelli quando, all’improvviso, il suo corpo
si irrigidì e la sua mano rimase immobile sulla pagina. Era arrivata
alla conclusione del capitolo 2. La pagina iniziava a metà frase:
«...forse, a dispetto di qualsiasi riguardo suggerito alla più anziana
dalla cortesia o dall’affetto materno, le due signore non avrebbero
potuto vivere insieme tanto tempo...».
Bella afferrò una consistente quantità di pagine e le voltò tutte
insieme bruscamente, come se qualcosa nella pagina che stava
leggendo l’avesse fatta arrabbiare. Ma cosa? Era all’inizio della
storia, dove si presentava il primo conflitto tra suocera e nuora. Dove
compariva l’eroe del romanzo, Edward Ferrars. Si celebravano i
meriti di Elinor Dashwood. Ripassai mentalmente il capitolo
precedente, cercando qualcosa di potenzialmente offensivo nella
prosa fin troppo educata di Jane Austen. Che cosa poteva averla
infastidita?
Bella si fermò sul frontespizio di Mansfield Park. L’inizio di un
nuovo romanzo – il libro era una raccolta.
Ma era arrivata appena a pagina 7 – questa volta stavo seguendo
la sua lettura; Mrs Norris stava spiegando dettagliatamente i rischi
che avrebbero corso Tom e Edmund se non avessero conosciuto la
loro cugina Fanny Price prima di diventare adulti – quando strinse i
denti e chiuse il libro con un tonfo violento.
Respirando a fondo, come se dovesse calmarsi, Bella gettò da
parte il libro e rotolò sulla schiena. Si tirò le maniche sugli
avambracci esponendo altra pelle al sole.
Perché aveva reagito in quel modo a quello che era,
chiaramente, un romanzo che conosceva bene? Un altro mistero.
Sospirai.
Rimase sdraiata, immobile, tranne una volta in cui si scostò con
rabbia i capelli dal viso. Si aprivano a ventaglio sopra la sua testa,
un fiume color castano. Poi rimase di nuovo immobile.
Dava vita a un’immagine molto serena, là, nel sole. La pace che
l’aveva abbandonata prima, sembrava ritrovarla adesso. Il suo
respiro rallentò. Dopo parecchi, lunghi minuti le sue labbra
cominciarono a tremare. Mormorando nel sonno.
Mi sentii sgradevolmente colpevole. Perché quello che stavo
facendo non era esattamente bello, ma nemmeno lontanamente
brutto come le mie incursioni notturne. In teoria non stavo nemmeno
violando la loro proprietà – la base del mio albero cresceva nel
terreno adiacente – e men che meno facevo qualcosa di più
criminale. Ma sapevo che quando sarebbe scesa la notte, avrei
continuato a comportarmi male.
Persino in quel momento una parte di me voleva sconfinare.
Saltare giù, atterrare silenziosamente sulla punta dei piedi ed entrare
senza problemi nel suo cerchio di luce. Solo per starle più vicino. Per
sentirla mormorare parole come se le stesse sussurrando a me.
Non era la mia inaffidabile moralità a trattenermi – fu il pensiero di
me alla luce accecante del sole. Era già abbastanza sgradevole che
la mia pelle fosse granitica e inumana all’ombra; non volevo
guardare me e Bella uno accanto all’altra sotto i raggi del sole. La
differenza fra di noi era già insormontabile, già abbastanza dolorosa
senza avere quell’immagine nella testa. Non avrei potuto essere più
grottesco. Immaginai il suo terrore se avesse aperto gli occhi e mi
avesse visto lì, accanto a lei.
«Mmm...», mugugnò.
Mi ritrassi nell’ombra del fogliame, appoggiato al tronco.
Lei sospirò. «Mmm».
Non temetti che si fosse svegliata. La sua voce era soltanto un
mormorio sommesso e pensieroso.
«Edmund. Ah».
Ripensai al punto in cui aveva interrotto la lettura. Quando
Edmund Bertram veniva nominato per la prima volta.
Ah! Mi resi tristemente conto che non stava affatto sognando me.
Il disgusto di me stesso tornò alla carica. Stava sognando il
personaggio di un romanzo. Forse era sempre stato così e, per tutto
il tempo, aveva sognato Hugh Grant con un foulard al collo. Alla
faccia della mia presunzione.
Non disse nient’altro di intelligibile. Il pomeriggio passò e io rimasi
a guardare, sentendomi di nuovo impotente, mentre il sole affondava
lentamente nell’orizzonte e le ombre strisciavano sul prato, verso di
lei. Avrei voluto respingerle, ma ovviamente l’oscurità era inevitabile;
le ombre la presero. Quando la luce fu scomparsa, la sua pelle
divenne troppo pallida, spettrale. I capelli avevano perso i riflessi ed
erano tornati scuri, quasi neri intorno al suo viso.
Era una scena terribile da guardare, sembrava di assistere alle
visioni di Alice che diventavano realtà. La mia unica rassicurazione
era il battito forte e regolare del cuore di Bella, l’unico suono che
impediva a quell’istante di assumere i contorni di un incubo.
Quando suo padre tornò a casa, mi sentii sollevato.
Non riuscii a captare molto da lui, mentre la sua auto percorreva
la strada. Qualche vaga seccatura... passata, qualcosa della sua
giornata lavorativa. Aspettativa mista a fame – immaginai che
aspettasse con impazienza l’ora di cena. Ma i suoi pensieri erano
talmente calmi e contenuti che non potevo averne la certezza. Ne
colsi soltanto l’essenza.
Mi chiesi quale fosse la voce mentale della madre di Bella, quale
combinazione genetica avesse creato una creatura così unica.
Bella cominciò a svegliarsi, sedendosi di scatto quando sentì le
ruote della macchina di suo padre sul vialetto di mattoni. Si guardò
intorno, disorientata dal ritrovarsi al buio. Per un breve momento, i
suoi occhi toccarono le ombre nelle quali mi nascondevo, ma
proseguirono subito altrove.
«Charlie?», domandò a bassa voce, continuando a sbirciare fra
gli alberi che circondavano il piccolo giardino.
La portiera dell’auto si chiuse sbattendo e Bella guardò in
direzione del rumore. Si alzò subito in piedi e raccolse le sue cose,
gettandosi un’altra occhiata alle spalle, verso la foresta.
Mi spostai su un albero più vicino alla finestra posteriore della
piccola cucina e ascoltai la loro serata. Era interessante confrontare
le parole di Charlie con i suoi pensieri attutiti. L’amore e l’interesse
che provava per la sua unica figlia erano quasi travolgenti, eppure
quando parlava era sempre laconico e sbrigativo. Perlopiù, lui e
Bella condividevano un silenzio amichevole.
Udii lei parlare del suo progetto di andare a Port Angeles a fare
spese, il pomeriggio seguente con Jessica e Angela, e io,
ascoltandola, ridefinii i miei piani. Jasper non aveva avvertito Peter e
Charlotte di stare alla larga da Port Angeles. Anche se sapevo che si
erano nutriti di recente e non avevano intenzione di andare a caccia
nei dintorni della nostra casa, l’avrei tenuta d’occhio, per ogni
evenienza. Dopotutto, in giro ce n’erano altri come noi. Insieme,
ovviamente, a tutti gli altri pericoli umani che finora non avevo mai
considerato.
La sentii dispiacersi ad alta voce per non aver preparato la cena
per suo padre e sorrisi perché era la dimostrazione della mia teoria:
anche qui lei faceva da governante.
E poi me ne andai, sapendo che sarei tornato mentre lei stava
dormendo, ignorando ogni obiezione etica e morale al mio
comportamento.
Ma di sicuro non avrei violato la sua intimità come avrebbe fatto
un guardone. Ero lì per proteggerla, non per guardarla in modo
lascivo come avrebbe sicuramente fatto Mike Newton, se fosse stato
abbastanza agile da muoversi fra le cime degli alberi. Non l’avrei mai
trattata così grossolanamente.
Quando tornai a casa la trovai vuota, il che andava benissimo per
me. Non mi mancavano i diversi pensieri confusi che si
interrogavano sulla mia sanità mentale. Emmett aveva lasciato un
biglietto attaccato al pilastro della scala.
«FOOTBALL AL CAMPO RAINIER. DAI! PER FAVORE!».
Trovai una penna e scarabocchiai la parola «SCUSAMI» sotto la
sua richiesta. Fra l’altro, le squadre sarebbero state pari senza di
me.
Partii per una brevissima battuta di caccia, accontentandomi di
creature più piccole e più innocue che non erano buone quanto altri
predatori. Poi mi cambiai prima di correre a Forks.
Bella non dormiva bene neanche quella notte. Si agitava fra le
coperte con un’espressione a volte preoccupata, a volte triste. Mi
chiesi quale incubo la perseguitasse... e poi mi resi conto che non
volevo saperlo davvero.
Quando parlava, perlopiù borbottava insulti verso Forks in tono
tetro. Soltanto una volta, quando sospirò la parola torna e la sua
mano si aprì di scatto – in una muta preghiera – ebbi l’occasione di
sperare che magari stesse sognando me.
Il giorno di scuola successivo, l’ultimo in cui il sole mi avrebbe
tenuto prigioniero, fu quasi uguale al precedente. Bella sembrava
persino più triste del giorno prima e mi chiesi se avrebbe rinunciato
all’uscita – non sembrava proprio dell’umore. Ma, trattandosi di lei,
probabilmente avrebbe messo il divertimento delle sue amiche
davanti al proprio. Quel giorno indossava una camicia blu scuro, un
colore che si adattava perfettamente alla sua pelle rendendola del
colore della panna fresca.
La scuola terminò e Jessica acconsentì a passare a prendere le
altre ragazze.
Io tornai a casa a prendere la macchina. Quando scoprii che
c’erano Peter e Charlotte, decisi che potevo permettermi di dare alle
ragazze un’ora circa di vantaggio. Sarebbe stato faticoso seguirle
rispettando i limiti di velocità – un pensiero detestabile.
Erano tutti riuniti nel grande salone luminoso e sia Peter che
Charlotte notarono la mia distrazione mentre li salutavo in ritardo,
scusandomi senza entusiasmo per la mia assenza, baciando lei
sulla guancia e stringendo la mano a lui. Non ero in grado di
concentrarmi abbastanza per unirmi alle loro conversazioni, quindi,
non appena potei liberarmi educatamente, andai al pianoforte e
cominciai a suonare.
Che strana creatura, stava pensando Charlotte, simile ad Alice
nel fisico, ma con i capelli biondo platino. E l’ultima volta che ci
siamo visti era così normale e piacevole.
I pensieri di Peter erano in sintonia con i suoi, come sempre.
Dev’essere per colpa degli animali. La mancanza di sangue
umano alla fine li fa impazzire, stava concludendo. Aveva i capelli
chiari come quelli di Charlotte e quasi altrettanto lunghi. Erano molto
simili – tranne per la corporatura visto che Peter era alto quasi
quanto Emmett. Una coppia ben assortita, avevo sempre pensato.
Perché prendersi il disturbo di venire a casa?, era il pensiero
beffardo di Rosalie.
Ah, Edward. Detesto vederlo soffrire così. La gioia di Esme
cominciava a essere inquinata dalla preoccupazione. Avrebbe
dovuto preoccuparsi. La storia d’amore che prospettava per me
stava deviando verso una tragedia che diventava via via più
concreta.
Divertiti a Port Angeles, stasera, pensò Alice allegramente.
Fammi sapere quando avrò il permesso di parlare con Bella.
Sei patetico. Non posso credere che tu abbia rinunciato alla
partita di ieri solo per andare a guardare qualcuno mentre dorme,
borbottò Emmett.
Poco dopo, tutti tranne Esme smisero di pensare a me e io
continuai a suonare sommessamente per non attirare l’attenzione.
Non mi occupai più di loro per un bel po’, lasciando che la musica
mi distraesse dalla mia agitazione. Era sempre angosciante non
avere Bella sott’occhio. Tornai a concentrarmi sulle conversazioni
della mia famiglia soltanto quando i saluti divennero definitivi.
«Se rivedi Maria», stava dicendo Jasper, in tono cauto, «dille che
spero stia bene».
Maria era il vampiro che aveva creato sia Jasper che Peter –
Jasper nella seconda metà del diciannovesimo secolo, Peter più
recentemente, negli anni Quaranta. Era venuta a trovare Jasper
quando vivevamo a Calgary. Era stata una visita piuttosto
movimentata, avevamo dovuto fare subito le valigie. Jasper le aveva
chiesto educatamente di mantenere le distanze, per il futuro.
«Non credo che le nostre strade si incroceranno molto presto»,
rispose Peter, ridendo – Maria era innegabilmente pericolosa e fra lei
e Peter non correva più buon sangue. Dopotutto, Peter era stato
determinante nella defezione di Jasper. Mio fratello era sempre stato
il preferito di Maria, che considerava un dettaglio trascurabile aver
progettato di ucciderlo. «Ma, se dovesse accadere, lo farò
sicuramente».
Poi Peter e Charlotte salutarono tutti, preparandosi a partire.
Abbandonai la mia esecuzione con una chiusa insoddisfacente e mi
alzai in fretta dal pianoforte.
«Charlotte, Peter», dissi, salutandoli con un cenno della testa.
«È stato bello rivederti, Edward», disse Charlotte, un po’
dubbiosa. Peter rispose con un cenno.
Pazzo, disse Emmett.
Idiota, pensò Rosalie nello stesso istante.
Povero ragazzo. Esme.
E Alice, in tono di rimprovero. Andranno dritti a est, verso Seattle.
Lontano da Port Angeles. Me lo dimostrò nelle sue visioni.
Finsi di non averla sentita. Le mie scuse erano già abbastanza
fragili.
Una volta in macchina, mi sentii più rilassato. Il vigoroso rombo
del motore che Rosalie aveva incrementato per me – l’anno scorso,
quando il suo umore era migliore – era confortante. Fu un sollievo
mettersi in movimento, sapere che ogni chilometro che volava sotto
le mie ruote mi avvicinava di più a Bella.
9. PORT ANGELES

Quando arrivai a Port Angeles, c’era ancora troppa luce perché


potessi guidare in città. Il sole era alto e, sebbene i finestrini della
mia auto fossero abbastanza oscurati da fornire una certa
protezione, non c’era motivo per correre rischi inutili. Altri rischi
inutili, avrei dovuto dire.
Con quanto paternalismo avevo giudicato, in passato, Emmett
per i suoi comportamenti sconsiderati e Jasper per la sua mancanza
di disciplina, e adesso io stavo trasgredendo consapevolmente le
regole con un abbandono selvaggio al cui confronto i loro passi falsi
sembravano cose da niente. Io ero stato quello responsabile, un
tempo.
Sospirai.
Ero sicuro che sarei riuscito a individuare i pensieri di Jessica da
lontano – i suoi erano più rumorosi di quelli di Angela, ma una volta
trovata lei, sarei stato in grado di sentire anche l’altra. Poi, quando le
ombre si fossero allungate, mi sarei potuto avvicinare. Appena fuori
città, svoltai in un vialetto invaso dalle erbacce che sembrava poco
frequentato.
Sapevo, più o meno, in quale direzione cercare. A Port Angeles i
negozi d’abbigliamento non erano moltissimi. Non ci misi molto a
trovare Jessica, intenta a piroettare davanti a uno specchio a tre
ante, e, ai margini del suo campo visivo, vidi Bella che si
complimentava per il lungo abito nero che indossava.
Bella sembra ancora arrabbiata. Ah ah. Angela aveva ragione...
Tyler dice un sacco di cavolate. Eppure non riesco a credere che sia
ancora così nervosa. Almeno sa di avere già un accompagnatore
sicuro per il ballo di fine anno. E se Mike non si diverte al ballo di
primavera e non mi chiede più di uscire? E se invita Bella al ballo di
fine anno? Pensa che sia più carina di me? Lei pensa di essere più
carina di me?
«Penso che quello blu sia più bello. Ti fa risaltare gli occhi».
Jessica rivolse a Bella un sorriso falso mentre la guardava con
sospetto.
Lo pensa davvero? Oppure vuole che sabato sembri una mucca?
Mi stancai subito di ascoltare Jessica. Cercai Angela, lì vicino...
ah, ma si stava cambiando d’abito, quindi mi allontanai subito per
darle un po’ d’intimità.
Be’, in un negozio d’abbigliamento nemmeno Bella poteva
correre dei rischi. Le lasciai continuare le loro spese e le raggiunsi
una volta che ebbero finito. Non ci sarebbe voluto molto per avere
un po’ d’ombra, da est cominciavano a tornare le nuvole, sospinte
dal vento. Potevo intravederle soltanto attraverso il folto degli alberi,
ma vedevo come avrebbero affrettato il tramonto. Ne fui davvero
felice, desiderai la loro ombra come mai avevo fatto prima.
L’indomani, a scuola, mi sarei seduto di nuovo accanto a Bella e a
pranzo avrei monopolizzato la sua attenzione. Avrei potuto farle tutte
le domande che stavo mettendo da parte.
E così la presunzione di Tyler la faceva infuriare. L’avevo visto
nella testa di lui, che quando le aveva parlato del ballo intendeva
seriamente accampare un diritto su di lei. Rammentai l’espressione
di Bella di quel pomeriggio – indignata e incredula – e scoppiai a
ridere. Mi chiesi che cosa gli avrebbe detto in proposito. O magari
era più probabile che avrebbe finto di non saperne niente, che lo
avrebbe ignorato sperando che si sarebbe scoraggiato? Sarebbe
stato interessante da vedere.
Il tempo scorreva lento mentre aspettavo che le ombre si
allungassero. Di tanto in tanto controllavo Jessica; la sua voce
mentale era la più facile da trovare, ma non mi piaceva soffermarmi
troppo su di lei. Vidi il posto dove sarebbero andate a cena... magari
avrei potuto scegliere, casualmente, lo stesso ristorante. Toccai il
telefono che avevo in tasca pensando di invitare Alice a cenare con
me. Le sarebbe piaciuto moltissimo, ma avrebbe anche voluto
parlare con Bella. E io non ero sicuro di essere pronto a introdurla
ancora di più nel mio mondo. Un solo vampiro non era già un
problema sufficiente?
Controllai di nuovo Jessica. Stava pensando ai gioielli da
indossare e chiedeva l’opinione di Angela.
«Forse dovrei restituire la collana. A casa ne ho una che
probabilmente andrebbe bene e ho già speso più di quanto avrei
dovuto». Mia madre darà di matto. Che diavolo mi è venuto in
mente?
«Non mi dispiace tornare al negozio. Ma pensi che Bella ci
ritroverà?».
Cosa? Bella non era insieme a loro? Guardai prima attraverso gli
occhi di Jessica, poi quelli di Angela. Erano sul marciapiede, di
fronte a una fila di negozi, e stavano tornando indietro. Di Bella,
nessuna traccia.
Oh, chi se ne importa di Bella?, pensò Jessica, spazientita, prima
di rispondere alla domanda di Angela. «Bella non avrà problemi.
Arriveremo al ristorante in tempo anche se torniamo indietro. E
comunque penso che volesse rimanere da sola». Ebbi una breve
visione della libreria nella quale, secondo Jessica, era andata Bella.
«Allora sbrighiamoci», disse Angela. Spero che Bella non pensi
che l’abbiamo scaricata. È stata talmente carina, con me, in
macchina. Ma mi è sembrata un po’ malinconica per tutto il giorno.
Mi chiedo se non sia per colpa di Edward Cullen. Scommetto che
era per questo che faceva domande sulla sua famiglia.
Avrei dovuto stare più attento. Che cosa mi era sfuggito? Bella se
ne stava in giro da sola e aveva fatto domande su di me? Adesso
Angela stava dando retta a Jessica – che blaterava cose su
quell’imbecille di Mike – e da lei non potei ottenere più niente.
Valutai le ombre. Il sole sarebbe sparito dietro le nuvole
abbastanza presto. Se rimanevo sul lato ovest della strada, dove i
palazzi avrebbero schermato la luce morente...
Mentre guidavo nel poco traffico del centro città cominciai a
sentirmi ansioso. Non avevo considerato la possibilità che Bella se
ne andasse per conto suo e adesso non sapevo come trovarla. Avrei
dovuto pensarci.
Conoscevo bene Port Angeles. Andai direttamente alla libreria
alla quale aveva pensato Jessica, con la speranza che la mia ricerca
sarebbe stata breve, ma dubitavo che sarebbe stato così semplice.
Quando mai Bella aveva fatto qualcosa di semplice?
Come previsto, il piccolo negozio era vuoto, tranne per la donna
dietro al bancone vestita in modo anacronistico. Non sembrava il
luogo che Bella avrebbe potuto trovare interessante – troppo new
age per una persona pragmatica. Mi chiesi se si fosse presa il
disturbo di entrare.
C’era una macchia d’ombra nella quale avrei potuto
parcheggiare. Formava un sentiero scuro fino alla tenda parasole del
negozio. In realtà non avrei dovuto. Andarsene in giro alla luce del
sole non era sicuro, cosa sarebbe successo se una macchina di
passaggio mi avesse colpito con il riflesso del sole, proprio al
momento sbagliato?
Ma non sapevo dove altro cercare Bella!
Parcheggiai e scesi, tenendomi sul lato più ombreggiato.
Camminai velocemente verso il negozio, cogliendo nell’aria un
sentore del profumo di Bella. Era stata lì, sul marciapiede, ma dentro
il negozio di lei non c’era traccia.
«Salve! Posso aiutar...?», cominciò la donna, ma io ero già fuori
dalla porta.
Seguii il profumo di Bella finché l’ombra me lo permise
fermandomi quando arrivai alla barriera del sole.
Quanto mi faceva sentire impotente essere imprigionato dal
confine fra buio e luce che si allungava sul marciapiede davanti a
me.
Potevo soltanto ipotizzare che avesse proseguito lungo la strada
in direzione sud. Da quella parte non c’era granché. Si era persa?
Be’, non era un’ipotesi del tutto estranea al suo personaggio.
Tornai in auto e guidai lentamente per le strade, cercandola.
Incontrai poche altre macchie d’ombra, ma percepii il suo profumo
soltanto una volta e la sua direzione mi confuse. Dove stava
cercando di andare?
Feci avanti e indietro alcune volte fra la libreria e il ristorante,
sperando di vederla mentre si dirigeva lì. Jessica e Angela erano già
arrivate e stavano decidendo se ordinare o aspettare Bella. Jessica
spingeva per ordinare immediatamente.
Cominciai a scorrere le menti delle persone, passando dall’una
all’altra per guardare dai loro occhi. Qualcuno doveva pur averla
vista da qualche parte.
Ma più non la trovavo, più cresceva la mia ansia. Non avevo
affatto considerato quanto sarebbe stato difficile rintracciarla, una
volta che l’avessi persa di vista e fosse stata fuori dai suoi percorsi
abituali.
All’orizzonte, le nuvole si stavano ammassando e a breve sarei
stato in grado di continuare la mia ricerca a piedi. Allora non ci avrei
messo molto. Adesso era soltanto il sole a limitarmi. Pochi minuti
ancora e sarei stato di nuovo in vantaggio su un impotente mondo
umano.
Un’altra mente, poi un’altra. Quanti pensieri banali.
...penso che il bambino abbia di nuovo un’infezione all’orecchio...
Era sei-quattro-zero o sei-zero-quattro?
Ancora in ritardo. Devo dirglielo...
Aha! Eccola qua!
Ecco, alla fine, il suo viso. Finalmente qualcuno l’aveva notata!
Ma il sollievo durò una frazione di secondo, poi lessi meglio i
pensieri dell’uomo che stava gongolando sull’immagine del suo viso,
in cui lei esitava nascosta dall’ombra.
La mente dell’individuo mi era estranea, eppure non del tutto
ignota. Un tempo avevo dato la caccia proprio a menti come la sua.
«No!», urlai, come un ruggito. Affondai il piede sull’acceleratore,
ma dove stavo andando?
Conoscevo più o meno la direzione dalla quale provenivano i
pensieri, ma non il punto esatto. Qualcosa, doveva esserci qualcosa
– un cartello stradale, una vetrina – nella visuale dell’uomo, che lo
avrebbe tradito. Ma Bella era celata dalle ombre e gli occhi
dell’uomo erano concentrati soltanto sulla sua espressione
spaventata, godeva della sua paura.
L’immagine del viso di Bella nella sua mente era offuscata da altri
volti. Lei non era la sua prima vittima.
Il suono dei miei ruggiti scosse la lamiera della macchina, ma non
mi distrasse.
Nella parete alle spalle di Bella non c’erano finestre. Era una
costruzione industriale, lontana dalle affollate strade dei negozi. La
mia auto stridette girando un angolo, scartando per sorpassarne
un’altra, lanciata nella direzione che speravo fosse quella giusta.
Quando suonò il clacson, io ero già lontano.
Guarda come trema! L’uomo rideva sotto i baffi pregustando il
seguito. Era la paura ad attirarlo, la parte che preferiva.
«Stammi lontano». La voce di Bella era bassa e decisa, non un
grido.
«Non fare così, bellezza».
La guardò sussultare per la risata roca che arrivò da un’altra
direzione. L’uomo si irritò per il rumore – Sta’ zitto, Jeff!, pensò – ma
gli piacque il modo in cui lei si ritrasse. Lo eccitava.
Cominciò a immaginare le sue preghiere, il modo in cui lo
avrebbe implorato...
Non mi ero reso conto che c’erano altri con lui finché sentii le loro
risate. Esaminai l’uomo cercando disperatamente qualcosa di utile.
Stava facendo un passo verso di lei, flettendo le mani.
Le menti intorno alla sua non erano altrettanto disgustose. Erano
tutti leggermente ubriachi, nessuno di loro si rendeva conto di
quanto lontano volesse spingersi l’uomo che chiamavano Lanny.
Seguivano ciecamente il suo esempio. Gli aveva promesso che si
sarebbero divertiti un po’...
Uno di loro, nervoso, diede un’occhiata alla strada – non voleva
essere beccato a molestare la ragazza – e mi diede quello che mi
serviva. Riconobbi l’incrocio che stava guardando.
Sfrecciai sotto un semaforo rosso sgusciando nello stretto spazio
fra due auto in movimento. I clacson mi urlarono dietro.
Il telefono che avevo in tasca vibrò, ma lo ignorai.
Lanny si stava muovendo lentamente verso la ragazza,
trascinando la tensione, il momento di terrore che lo eccitava.
Aspettava il suo urlo, preparandosi ad assaporarlo.
Ma Bella strinse i denti e alzò la guardia. L’uomo rimase
sorpreso, si era aspettato che lei scappasse. Sorpreso e
leggermente deluso. Gli piaceva dare la caccia alle sue prede,
sentire l’adrenalina dell’inseguimento.
Coraggiosa, questa. Magari è meglio, immagino... ci sarà più
lotta.
Ero a un isolato di distanza. Quella canaglia poteva sentire il
rumore della mia macchina, ma era troppo concentrato sulla sua
vittima.
Avrei visto quanto gli piaceva la caccia quando la vittima sarebbe
stato lui. Avrei visto cosa pensava del mio stile di caccia.
In un’altra sezione del mio cervello stavo smistando gli orrori cui
ero stato costretto ad assistere durante il mio periodo da giustiziere,
cercando quelli più dolorosi. Non avevo mai torturato la mia preda, a
prescindere da quanto lo meritasse, ma quest’uomo era diverso.
Avrebbe sofferto per quello che stava facendo. Si sarebbe contorto
nell’agonia. Gli altri sarebbero morti e basta, ma la creatura di nome
Lanny avrebbe implorato la morte per parecchio tempo, prima che io
mi fossi deciso a farle quel regalo.
Era sulla strada, stava attraversando per andare da Bella.
Svoltai bruscamente l’angolo, con i fari puntati sulla scena,
bloccando gli altri dov’erano. Avrei potuto investire il capo, che si era
tolto di mezzo con un salto, ma sarebbe stata una morte troppo
facile per lui.
Lasciai che la macchina procedesse roteando, finché non mi
ritrovai con la strada da dove ero arrivato di fronte, e lo sportello del
passeggero vicino a Bella. Lo spalancai e lei corse verso di me.
«Sali», urlai.
Che diavolo succede?
Lo sapevo che era una cattiva idea! Non è sola.
Scappo?
Penso che vomiterò...
Bella saltò in macchina senza esitare e sbatté la portiera dietro di
sé.
Poi mi guardò con l’espressione più fiduciosa che avessi mai
visto e tutti i miei piani violenti crollarono.
Mi ci volle molto meno di un secondo per capire che non avrei
potuto lasciarla in macchina per sistemare i quattro uomini sulla
strada. Che cosa le avrei detto, non guardare? Ah! Quando mai
aveva fatto qualcosa che le era stato chiesto?
Li avrei trascinati via, lontano da lei, lasciandola da sola? Era
alquanto improbabile che un altro psicopatico si sarebbe messo a
passeggiare per le strade di Port Angeles, quella sera, ma era
alquanto improbabile anche che ce ne fosse già stato uno! Questa
era la prova dimostrata che non ero pazzo: come una calamita, Bella
attirava tutti i pericoli verso di sé. Se non fossi stato abbastanza
vicino per provvedere, qualche altro mostro avrebbe preso il mio
posto.
Deve esserle sembrato parte dello stesso movimento quando
accelerai, portandola via dai suoi persecutori talmente in fretta da
lasciarli a bocca aperta, alle nostre spalle, con la faccia di chi non
aveva capito cosa fosse accaduto. Lei non si accorse della mia
esitazione.
Non potevo nemmeno investirlo con la macchina. Bella si
sarebbe spaventata.
Lo volevo morto, con una tale violenza che mi risuonava nelle
orecchie, mi annebbiava la vista e aveva un sapore amaro più forte
del bruciore della sete. Sentivo i muscoli contrarsi per l’urgenza, il
desiderio, la necessità di farlo. Io dovevo ucciderlo. Lo avrei scuoiato
lentamente, pezzo per pezzo, separando la pelle dai muscoli, i
muscoli dalle ossa...
Solo che la ragazza – l’unica ragazza al mondo – era aggrappata
al sedile, intenta a fissarmi in modo stranamente calmo e fiducioso.
La vendetta avrebbe dovuto aspettare.
«Allacciati la cintura», le ordinai. La mia voce era arrochita
dall’odio e dalla sete di sangue. Non la normale sete di sangue. Mi
impegnavo da molto tempo ad astenermi dal sangue umano e non
avrei permesso a quella creatura di cambiarmi. Nel suo caso
sarebbe stata soltanto una ritorsione.
Bella agganciò la cintura di sicurezza, sobbalzando leggermente
per il clic. Il piccolo rumore dello scatto la fece sussultare, ma non
mosse un muscolo mentre io schizzavo nel traffico della città
ignorandone tutte le regole. Sentivo i suoi occhi su di me. Sembrava
stranamente rilassata. Non aveva senso – non con quello che le era
appena accaduto.
«Stai bene?», mi chiese, con la voce roca per la tensione e la
paura.
Lei voleva sapere se io stavo bene?
E io stavo bene?
«No». Me ne resi conto in quel momento; il mio tono ribolliva di
rabbia. La portai sullo stesso vialetto in disuso dove avevo trascorso
il pomeriggio, impegnato nella peggiore missione di sorveglianza che
avessi mai condotto. Adesso, sotto gli alberi, era completamente
buio.
Ero talmente furioso che il mio corpo rimase immobile,
completamente. Le mie mani gelide ardevano dal desiderio di
schiacciare il suo aggressore, di stritolarlo in pezzi così piccoli da
renderlo irriconoscibile.
Ma questo avrebbe comportato lasciarla lì da sola, senza
protezione, nel buio della notte.
Nella mente stavo replicando le scene del mio periodo di
cacciatore, immagini che avrei voluto dimenticare. Soprattutto
adesso che l’urgenza di uccidere era molto più forte di qualsiasi
istinto di caccia avessi mai provato prima.
Quell’uomo, quell’abominio, non era il peggiore della sua specie,
sebbene fosse difficile classificare gli abissi del male in base al
merito. Eppure, ricordavo il peggiore di tutti. Non avevo mai avuto
dubbi che lo fosse.
La maggior parte degli uomini cui avevo dato la caccia agendo da
giudice, giuria e carnefice, avevano provato un certo rimorso, o
almeno paura di essere presi. Molti di loro si erano dati all’alcol o alle
droghe per mettere a tacere le preoccupazioni. Altri avevano
sviluppato una doppia personalità e vivevano come due persone
distinte, una per la luce e una per il buio.
Ma per la peggiore, più immonda aberrazione che avevo
incontrato, il rimorso non era affatto un problema.
Non avevo mai conosciuto qualcuno che abbracciasse con tanto
trasporto la propria malvagità – che ne godesse. Costui era
assolutamente deliziato dal mondo che aveva creato, un mondo di
vittime impotenti e delle loro urla di dolore. La sofferenza fisica era
l’oggetto di tutte le sue persecuzioni, ed era anche diventato molto
bravo nel crearne di nuove e nel prolungarle.
Io ero legato alle mie regole, alla giustificazione per tutto il
sangue che rivendicavo. Ma in quel caso, esitai. Lasciare morire in
fretta quel particolare individuo mi era sembrata una scappatoia
troppo facile per lui.
Fu il momento in cui arrivai più vicino a varcare il confine. Eppure,
lo uccisi con la stessa efficienza e rapidità che avevo riservato agli
altri.
Sarebbe andata diversamente, forse, se quando lo avevo trovato
non ci fossero state due delle sue vittime, in quel seminterrato degli
orrori. Due giovani donne, già gravemente ferite. Sebbene le avessi
portate entrambe in ospedale alla massima velocità di cui ero
capace, ne sopravvisse soltanto una.
Non avevo avuto il tempo di bere il suo sangue. Non importava.
Ce n’erano talmente tanti altri che meritavano di morire.
Come quel Lanny. Anche lui era un’atrocità, ma di sicuro non
quanto colui che mi era tornato in mente. Perché, in quel momento,
avevo sentito come un imperativo che soffrisse così tanto di più?
Ma prima...
«Bella?», chiesi, a denti stretti.
«Sì?», rispose, ancora senza voce. Si schiarì la gola.
«Tu stai bene?». Era questa la cosa più importante, la priorità. La
punizione era secondaria. Io lo sapevo, ma il mio corpo era talmente
pieno di rabbia che era difficile pensarlo.
«Sì». Aveva la voce ancora roca, per la paura, senza dubbio.
Quindi non potevo lasciarla.
Anche se non fosse stata costantemente in pericolo in modo
esasperante – uno scherzo che l’universo mi stava giocando –,
anche se avessi potuto avere la certezza che, in mia assenza,
sarebbe stata perfettamente al sicuro, non potevo lasciarla da sola al
buio.
Doveva essere terrorizzata.
Eppure non ero in condizioni di confortarla, anche se avessi
saputo come fare, cosa che non sapevo. Lei avrebbe sentito
sicuramente la brutalità irradiarsi da me, era talmente evidente.
L’avrei spaventata anche di più, se non fossi riuscito a calmare il
desiderio che mi ribolliva dentro di massacrare quell’uomo.
Avevo bisogno di pensare ad altro.
«Per favore, fai qualcosa per distrarmi», la pregai.
«Che cosa?».
Avevo a malapena il controllo per cercare di spiegare quello che
mi serviva.
Non sapevo come esprimerlo. Scelsi la parola più adatta che mi
venne in mente. «Chiacchiera di qualcosa di poco importante finché
non mi calmo». Era una scelta pessima, me ne accorsi subito, ma
non riuscivo a preoccuparmene. Mi tratteneva dentro quella
macchina soltanto il fatto che lei avesse bisogno di me. Sentivo
ancora i pensieri dell’uomo, la sua rabbia e la sua delusione. Sapevo
dove trovarlo. Chiusi gli occhi, desiderando di non poter vedere
comunque.
«Uhm...». Esitò, tentando – immaginai – di dare un senso alla
mia richiesta, o forse si era offesa? Poi proseguì. «Forse domani,
prima che inizino le lezioni, investirò Tyler Crowley». Lo disse come
se fosse una domanda.
Sì, era questo ciò di cui avevo bisogno. Era ovvio che Bella se ne
sarebbe uscita con qualcosa di inaspettato. Com’era già accaduto, la
minaccia di violenza che uscì dalle sue labbra era stridente, comica.
Se non avessi avuto tutta quella smania di uccidere, forse sarei
scoppiato a ridere.
«Perché?», chiesi, per costringerla a parlare ancora.
«Va dicendo a tutti che mi porterà al ballo di fine anno», disse,
piena di indignazione. «O è impazzito, oppure sta ancora cercando
di scusarsi per avermi quasi ammazzata... be’ ti ricordi», tagliò corto
seccamente. «E secondo lui quel ballo è chissà perché il modo
migliore per farlo. Perciò, immagino che se metterò la sua vita a
repentaglio saremo pari e non si sentirà più in dovere di risarcirmi.
Non ci tengo ad avere nemiche, e probabilmente anche Lauren
smetterebbe di tormentarmi se lui mi lasciasse perdere. Mi toccherà
fare a pezzi la sua Sentra, credo. È un guaio, perché senza auto non
potrà dare a nessuno un passaggio per il ballo di fine anno...».
Era incoraggiante vedere che qualche volta si sbagliava.
L’insistenza di Tyler non aveva niente a che vedere con l’incidente.
Bella sembrava non comprendere il fascino che esercitava sui
giovani umani della scuola. Non vedeva nemmeno il fascino che
esercitava su di me?
Ah, stava funzionando.
I suoi sconcertanti processi mentali erano sempre coinvolgenti.
Stavo cominciando a riprendere il controllo di me stesso, a vedere
oltre la vendetta e l’omicidio.
«M’era giunta voce», le dissi. Aveva smesso di parlare e io avevo
bisogno che continuasse.
«Fino a te?», mi chiese, incredula. E poi ricominciò a parlare, più
arrabbiata di prima. «Be’, forse se resta paralizzato dal collo in giù
non potrà nemmeno partecipare, al ballo».
Avrei voluto che ci fosse un modo per chiederle di continuare con
le sue minacce di morte e danneggiamenti fisici senza sembrare
pazzo. Non avrebbe potuto scegliere un modo migliore per
calmarmi. E le sue parole – sarcastiche e iperboliche, nel suo caso –
erano un promemoria di cui, in quel momento, avevo un gran
bisogno.
Sospirai e aprii gli occhi.
«Va meglio?», mi chiese, timidamente.
«Non proprio».
No, ero più calmo, ma non mi sentivo meglio. Perché mi ero
appena reso conto che non potevo uccidere il mascalzone di nome
Lanny. L’unica cosa che in quel momento desideravo di più che
commettere un omicidio ampiamente giustificato era quella ragazza.
E, sebbene non potessi averla, soltanto sognare che fosse mia mi
rese impossibile abbandonarmi a un’orgia omicida quella notte.
Bella meritava qualcosa di meglio di un assassino.
Avevo trascorso più di sette decadi a cercare di essere qualcosa
– qualsiasi altra cosa – di diverso da un assassino. Quegli anni di
sforzi non mi avrebbero mai reso degno della ragazza che mi
sedeva accanto. Eppure, sentivo che se fossi tornato alla vecchia
vita, anche solo per una sera, l’avrei allontanata da me per sempre.
Anche se non avessi bevuto il loro sangue – anche se non avessi
avuto negli occhi la prova scarlatta di quello che avevo fatto – lei non
avrebbe forse avvertito la differenza?
Stavo tentando di essere una persona abbastanza buona per lei.
Era un obiettivo impossibile. Ma non tolleravo l’idea di arrendermi.
«Cosa c’è che non va?», mormorò Bella.
Il suo profumo mi riempì le narici e mi rammentò perché non
potevo meritarla. Dopo tutto quello che era successo, persino con
tutto l’amore che provavo per lei... mi faceva ancora venire
l’acquolina in bocca. Sarei stato più sincero possibile con lei, glielo
dovevo.
«Ogni tanto ho dei problemi di impulsività, Bella». Guardai fuori
dal finestrino, nel buio della notte, desiderando allo stesso tempo
che lei percepisse l’orrore insito nelle mie parole e che non se ne
accorgesse. Più la seconda, però. Scappa, Bella, scappa. Resta,
Bella, resta. «Ma non sarebbe affatto una buona cosa fare marcia
indietro e assalire quei...». Solo il pensiero rischiò di tirarmi fuori
dalla macchina. Presi un respiro profondo, lasciando che il suo
profumo mi bruciasse la gola. «Perlomeno, è ciò di cui sto tentando
di convincermi».
«Oh».
Non disse altro. Quanto aveva capito? Le lanciai un’occhiata
furtiva, ma il suo viso era illeggibile. Inespressivo per colpa dello
shock, forse. Be’, comunque non stava urlando terrorizzata. Non
ancora.
«Jessica e Angela saranno preoccupate», disse, a bassa voce.
Era molto calma, e io non capivo come fosse possibile. Era
scioccata? Forse gli eventi di quella sera ancora non si erano
sedimentati in lei? «Mi stavano aspettando».
Voleva allontanarsi da me? Oppure era soltanto preoccupata per
l’agitazione delle sue amiche?
Non le risposi, ma riaccesi la macchina e la riportai indietro. Più
mi avvicinavo alla città, più era difficile mantenere il mio proposito.
Gli ero così vicino...
Se era impossibile – se non avrei mai meritato Bella, né le sarei
appartenuto – allora che senso aveva lasciare quell’uomo impunito?
Di sicuro potevo permettermi almeno questo.
No. Non avrei ceduto. Non ancora. La volevo troppo per
arrendermi.
Arrivammo al ristorante dove doveva incontrare le sue amiche
prima ancora che fossi riuscito a dare un senso ai miei pensieri.
Jessica e Angela avevano finito di mangiare e, adesso, erano
entrambe sinceramente preoccupate per Bella. Stavano andando a
cercarla, inoltrandosi lungo la strada buia.
Non era la serata giusta perché se ne andassero in giro.
«Come facevi a sapere dove...?». La domanda sospesa di Bella
mi interruppe e mi resi conto di aver commesso un’altra gaffe. Ero
stato troppo distratto per ricordarmi di chiederle dov’era
l’appuntamento con le sue amiche.
Ma invece di concludere la domanda e insistere, Bella scosse la
testa e fece un sorrisetto.
Che cosa significava?
Be’, non ebbi il tempo per scervellarmi sulla sua strana
accettazione della mia ancor più strana consapevolezza. Aprii la
portiera.
«Cosa fai?», mi chiese, con aria sconcertata.
Non ti perderò d’occhio. Non mi permetterò di rimanere da solo
stasera. In quest’ordine. «Ti porto fuori a cena».
Bene, la cosa era interessante. Mi sembrava che sarebbe stata
tutta un’altra serata quando avevo immaginato di portare con me
Alice e fingere di scegliere lo stesso ristorante di Bella e le sue
amiche, per caso. E adesso, eccomi qui, mentre la invitavo a un
appuntamento. Solo che non contava, perché non le avrei dato
alcuna possibilità di dire di no.
Bella aveva già aperto la portiera prima che facessi il giro della
macchina – non era così irritante, di solito, dovermi muovere a una
velocità che non desse nell’occhio – invece di permettermi di aprirla
per lei.
Aspettai che mi raggiungesse e intanto mi innervosivo perché le
sue amiche proseguivano verso l’angolo buio.
«Vai a fermare Jessica e Angela, non ho intenzione di rincorrere
anche loro per Port Angeles», le ordinai, in fretta. «Non credo che
riuscirei a trattenermi, se dovessi imbattermi di nuovo nei tuoi
amichetti». No, non sarei stato abbastanza forte.
Lei rabbrividì, poi si riprese subito. Fece un passo dietro di loro,
urlando: «Jess! Angela!». Loro si girarono e Bella si sbracciò per
farsi vedere.
Bella! Oh, è salva!, pensò Angela, con sollievo.
Un po’ tardi?, brontolò Jessica, ma anche lei era felice che Bella
non si fosse né ferita, né smarrita. Questo me la fece piacere un po’
di più.
Tornarono indietro di corsa e poi si fermarono di colpo, sbalordite,
quando mi videro accanto a lei.
Uh-uh!, pensò Jessica, stupefatta. Non ci credo!
Edward Cullen? Se n’è andata per conto suo per incontrarlo? Ma
perché ha chiesto se erano fuori città, se poi sapeva che lui era
qui...? Ebbi una breve visione del viso mortificato di Bella quando
aveva chiesto ad Angela se i miei fratelli erano spesso assenti da
scuola. No, non poteva saperlo, decise Angela.
I pensieri di Jessica passarono dalla sorpresa al sospetto.
Bella si è guardata bene dal dirmelo.
«Dove sei stata?», le chiese, guardando lei, ma sbirciando me
con la coda dell’occhio.
«Mi sono persa. E poi ho incontrato Edward», rispose Bella,
indicandomi. Il suo tono era estremamente normale. Come fosse
davvero ciò che era accaduto.
Doveva per forza essere sotto shock. Era l’unica spiegazione per
la sua calma.
«Vi disturba se mi unisco a voi?», domandai, per essere educato.
Sapevo che loro avevano già mangiato.
Porca miseria, quanto è fico!, pensò Jessica, e i suoi pensieri
divennero d’un tratto leggermente incoerenti.
Angela era molto più composta. Vorrei che non avessimo
mangiato. Wow. Solo. Wow.
Perché non potevo fare lo stesso effetto a Bella?
«Ehm... certo che no», acconsentì Jessica.
Angela aggrottò la fronte. «Uhm, in realtà, Bella, abbiamo già
mangiato mentre ti aspettavamo», ammise. «Scusaci».
Sta’ zitta!, protestò Jessica fra sé e sé.
Bella si strinse nelle spalle come se niente fosse. Così a suo
agio. Era sotto shock, assolutamente. «Non c’è problema... non ho
fame».
«Penso che invece dovresti mangiare qualcosa», obiettai. Aveva
bisogno di zuccheri nel sangue – anche se era già abbastanza dolce
così, pensai. Da un momento all’altro tutto l’orrore per l’accaduto le
sarebbe rovinato addosso e uno stomaco vuoto non le avrebbe
giovato. Sveniva facilmente, come sapevo per esperienza.
Se le ragazze fossero tornate dritte a casa, non avrebbero corso
alcun rischio. Il pericolo non seguiva ogni loro passo.
E io preferivo rimanere solo con Bella, finché lei fosse stata
disposta a rimanere sola con me.
«Vi dispiace se accompagno io a casa Bella, stasera?», chiesi a
Jessica, prima che Bella potesse rispondere. «Così non sarete
costrette ad aspettarla mentre mangia».
«Uhm, non c’è problema, credo...». Jessica guardò intensamente
Bella cercando di dedurre se fosse quello che voleva anche lei.
Probabilmente vuole tenerselo per sé. Chi non lo vorrebbe?,
pensò Jessica. In quel momento, vide Bella farle l’occhiolino.
Bella fece l’occhiolino?
«D’accordo», disse subito Angela, per la fretta di togliersi di torno,
se era quello che voleva Bella. E a quanto pareva lo era. «Ci
vediamo domani, Bella... Edward». Si sforzò di pronunciare il mio
nome in tono normale. Poi prese Jessica per mano e la trascinò via.
Avrei trovato il modo di ringraziarla.
La macchina di Jessica era lì vicino, nel cerchio di luce creato da
un lampione. Bella osservò attentamente le sue amiche, con una
piccola ruga di preoccupazione fra le sopracciglia, finché non
salirono, dunque in qualche modo doveva essersi resa conto del
rischio che aveva corso. Mentre andava via, Jessica salutò con la
mano e Bella fece altrettanto. Fu soltanto quando l’auto scomparve
che lei prese un respiro profondo e si girò a guardarmi.
«Sinceramente non ho fame», disse.
Perché aveva aspettato che le ragazze andassero via, prima di
parlare? Voleva davvero rimanere da sola con me – persino adesso,
dopo aver assistito alla mia furia omicida?
Vero o no, Bella avrebbe mangiato qualcosa.
«Fammi questo piacere», insistetti.
Aprii la porta del ristorante e aspettai.
Lei sospirò ed entrò.
Arrivammo dalla direttrice di sala. Bella sembrava ancora
pienamente in sé. Avrei voluto toccarle la mano, la fronte per
controllarle la temperatura. Ma la mia mano fredda l’avrebbe
disgustata, come era già successo.
Oh, cavolo. La voce piuttosto rumorosa della direttrice di sala si
intromise nella mia testa. Cavolo, oh cavolo.
A quanto pare era la mia serata. Oppure ci facevo più caso
soltanto perché avrei voluto che fosse Bella a vedermi in quel modo?
Le nostre prede ci trovavano sempre attraenti, ma non ci avevo mai
pensato così tanto, prima. Di solito – a meno che, come con persone
tipo Shelly Cope e Jessica Stanley, non ci fosse una costante
reiterazione per attenuare l’orrore – la paura si manifestava in fretta
dopo l’iniziale attrazione.
«Un tavolo per due?», suggerii alla ragazza, quando non parlò.
Mmm! Che voce! «Oh, ehm, sì. Benvenuti a La Bella Italia.
Seguitemi, prego». Intanto, faceva i suoi calcoli mentali.
Forse lei è sua cugina. Non può essere la sorella, non si
somigliano per niente. Ma sono parenti, senza alcun dubbio. Non
può stare con questa qui.
Gli occhi umani erano annebbiati; non vedevano con chiarezza.
Come poteva quella donna dal cervello limitato trovare così attraenti
i miei tratti – una trappola per le prede – ed essere incapace di
vedere la delicata perfezione della ragazza che avevo accanto?
Be’, in ogni caso non ci sarà bisogno di aiutarla, pensò la
direttrice di sala mentre ci portava a un tavolo grande, al centro della
parte più affollata del ristorante. Posso dargli il mio numero mentre
c’è lei?, meditò.
Presi una banconota dalla tasca posteriore. Le persone
tendevano sempre a collaborare quando c’era di mezzo il denaro.
Bella si stava già sedendo nel posto che le indicava la ragazza,
senza obiettare. Io scossi la testa e lei esitò, incuriosita. Sì, la sua
curiosità sarebbe aumentata durante la serata. Un posto affollato
non era l’ideale per una conversazione di quel tipo.
«Non c’è qualcosa di più appartato?», domandai alla direttrice di
sala, porgendole il denaro. Lei rimase stupita, ma poi la sua mano si
chiuse sulla mancia.
«Certo».
Sbirciò la banconota mentre ci portava dietro una parete divisoria.
Cinquanta dollari per un tavolo migliore? Anche ricco. È logico...
scommetto che la sua giacca costa più del mio ultimo stipendio.
Dannazione. Perché vuole stare appartato con lei?
Ci offrì un piccolo séparé in un angolo silenzioso del locale dove
nessuno ci avrebbe visto, o meglio, nessuno avrebbe visto le
reazioni di Bella a qualunque cosa le avrei detto. Non avevo idea di
cosa avrebbe voluto da me, quella sera. Né di cosa le avrei dato io.
Quanto aveva indovinato? Quale spiegazione aveva inventato
per dare un senso agli eventi di quella sera?
«Questo va bene?», domandò la ragazza.
«Perfetto», risposi e, leggermente infastidito dal suo
comportamento astioso verso Bella, le feci un sorriso smagliante.
Che mi vedesse chiaramente.
Wow. «La cameriera arriva subito». Non può essere vero, questo
qui. Forse lei scomparirà... forse. Gli scriverò il mio numero sul piatto
con la salsa marinara. Si allontanò, sbandando leggermente da un
lato.
Strano. Non si era spaventata. D’un tratto ricordai Emmett che mi
prendeva in giro nella caffetteria, tante settimane prima. Scommetto
che avrei saputo spaventarla meglio di così.
Stavo perdendo il mio tocco?
«Non dovresti trattare così le persone». Bella interruppe i miei
pensieri con un tono di disapprovazione. «Non è per niente
corretto».
Guardai la sua espressione critica. Che cosa intendeva? Non
avevo affatto spaventato la ragazza, malgrado fosse mia intenzione.
«Trattarle come?».
«Abbacinarle in quel modo per fare colpo. Probabilmente è corsa
in cucina a cercare di riprendere fiato».
Mmm. Bella non aveva tutti i torti. In quel momento la direttrice di
sala non era del tutto in sé e stava riportando il suo giudizio errato su
di me a una cameriera sua amica.
«E dai», mi stuzzicò Bella, quando non risposi immediatamente.
«Non dirmi che non ti rendi conto dell’effetto che fai».
«Faccio colpo su tutti?». Un modo interessante per dirlo.
Abbastanza preciso per quella sera. Mi chiesi perché la differenza...
«Non te ne sei accorto?», mi domandò, ancora critica. «Pensi
che chiunque sia capace di fare quel che desidera così
facilmente?».
«Abbaglio anche te?». Diedi voce, impulsivamente, alla mia
curiosità, e quando le parole uscirono fu troppo tardi per recuperarle.
Ma prima che avessi il tempo per pentirmi di aver parlato, lei
rispose: «Spesso». E le sue guance si tinsero di rosa.
La abbagliavo.
Il mio cuore silenzioso si gonfiò della speranza più intensa che
avessi mai provato.
«Ciao», disse qualcuno, una cameriera, presentandosi. I suoi
pensieri erano più forti ed espliciti di quelli della direttrice di sala, ma
li bloccai. Guardai Bella, invece, e il sangue che si diffondeva sotto
la pelle delle sue guance, senza badare all’incendio che mi
scatenava in gola, ma piuttosto notando quanto illuminasse il suo
viso e mettesse in risalto la sua pelle di velluto.
La cameriera stava aspettando qualcosa da me. Ah, aveva
chiesto cosa prendessi da bere. Continuai a guardare Bella, e anche
la cameriera, controvoglia, fece lo stesso.
«Per me una Coca?». Lo disse come se volesse approvazione.
«Due», corressi. La sete – la normale sete umana – era un segno
dello shock. Volevo essere sicuro che Bella avesse a disposizione
tutto lo zucchero necessario per riprendersi.
Però sembrava che stesse bene. Più che bene. Era radiosa.
«Cosa c’è?», mi domandò – immaginai che si chiedesse perché
la stessi fissando. Mi accorsi vagamente che la cameriera era
andata via.
«Come ti senti?», le chiesi.
Lei batté le palpebre, sorpresa dalla domanda. «Bene».
«Non ti senti scossa, con la nausea, infreddolita?».
Adesso era ancora più confusa. «Dovrei?».
«Be’, in realtà sto aspettando che tu entri in uno stato di shock».
Feci un sorriso ironico, aspettandomi che negasse tutto. Non
avrebbe voluto che mi occupassi di lei.
Le ci volle un minuto per rispondermi. Aveva la vista leggermente
sfocata. A volte le succedeva quando le sorridevo. Era... abbagliata?
Avrei tanto voluto crederlo.
«Non credo che succederà. Sono sempre stata brava a reprimere
gli episodi spiacevoli», rispose, leggermente affannata.
Quindi aveva una certa pratica di episodi spiacevoli? La sua vita
era sempre stata così rischiosa?
«Comunque sia», le dissi, «starò meglio quando avrai assunto un
po’ di cibo e zuccheri».
La cameriera tornò con le bevande e un cestino di pane. Posò
tutto davanti a me e mi chiese l’ordinazione tentando, nel mentre, di
catturare il mio sguardo. Le indicai che avrebbe dovuto occuparsi di
Bella e poi mi disinteressai dei suoi pensieri. Aveva una mente
volgare.
«Ehm...», Bella diede una scorsa al menù. «Per me i ravioli ai
funghi».
La cameriera si voltò subito verso di me. «E per te?».
«Per me niente».
Bella fece una smorfia. Mmm. Doveva aver notato che non
mangiavo mai del cibo. Notava tutto. E io dimenticavo sempre di
stare attento con lei intorno.
Aspettai finché non fummo di nuovo soli.
«Bevi», ordinai.
Mi sorpresi quando lei obbedì subito e senza obiezioni. Bevve
quasi tutto il bicchiere, così spinsi verso di lei anche il secondo,
accigliandomi un po’. Sete o shock?
«Grazie».
Ne bevve ancora un po’, poi rabbrividì.
«Hai freddo?».
«È la Coca», disse, rabbrividì ancora, e le tremarono le labbra,
come se battesse i denti.
La bella camicia che indossava sembrava troppo leggera per
proteggerla adeguatamente. Le aderiva come una seconda pelle,
quasi altrettanto fragile. «Non hai un giubbotto?».
«Sì». Si guardò intorno, un po’ sconcertata. «Oh... l’ho lasciato
nella macchina di Jessica».
Mi tolsi la giacca, sperando che il gesto non venisse guastato
dalla mia temperatura corporea. Sarebbe stato bello offrirle una
giacca calda. Lei mi fissò e arrossì di nuovo. Che cosa stava
pensando?
Le passai la giacca da sopra il tavolo, lei la prese e la indossò
subito, poi rabbrividì ancora.
Sì, sarebbe stato molto bello essere caldo.
«Grazie», disse. Prese un respiro profondo, poi arrotolò le
maniche troppo lunghe per avere le mani libere. Respirò ancora a
fondo.
Finalmente la serata prendeva il verso giusto? Lei aveva ancora
un bel colorito. La sua pelle sembrava fatta di panna e rose, in
contrasto con il blu della camicia.
«Quel blu dona molto alla tua carnagione», le dissi. Era
un’osservazione sincera e basta.
Sembrava che stesse bene, ma non c’era motivo di rischiare.
Spinsi il cestino del pane verso di lei.
«Davvero», obiettò lei, indovinando il perché del gesto. «Non
sono in stato di shock».
«Dovresti: una persona normale reagirebbe così. Non sembri
neanche scossa». La fissai con aria di disapprovazione,
chiedendomi perché non potesse essere normale e poi chiedendomi
se volevo davvero che lo fosse.
«Vicino a te mi sento così sicura», spiegò, con gli occhi colmi di
fiducia. Fiducia che io non meritavo.
Il suo istinto era tutto sbagliato, funzionava a rovescio. Doveva
essere questo il problema. Non era in grado di riconoscere il
pericolo, come invece avrebbe dovuto, in quanto umana. Aveva le
reazioni opposte. Invece di scappare, lei restava, attirata da ciò che
avrebbe dovuto spaventarla.
Come potevo proteggerla da me stesso, quando nessuno di noi
due lo voleva?
«È più complicato di quanto avessi immaginato», mormorai.
Vidi che rimuginava sulle mie parole e mi chiesi che cosa ne
avrebbe dedotto. Prese un grissino e cominciò a mangiarlo, come se
non se ne accorgesse. Masticò per un istante, poi inclinò la testa di
lato, in maniera pensosa.
«Di solito, quando hai gli occhi così chiari sei di buonumore»,
disse, come se niente fosse.
Ma la sua constatazione, così pragmatica, mi lasciò di stucco.
«Cosa?».
«Quando hai gli occhi neri sei sempre intrattabile, almeno così mi
pare. Ho una teoria», aggiunse sorridendo.
Quindi si era data una spiegazione. Ovvio, da parte sua. Provai
un profondo timore mentre mi chiedevo quanto si fosse avvicinata
alla realtà.
«Un’altra?».
«Già». Mangiucchiò ancora il grissino, del tutto indifferente.
Come se non stesse per discutere gli aspetti di un demone con il
demone in persona.
«Spero che stavolta tu sia un po’ più fantasiosa», mentii, quando
lei non proseguì. Quello che speravo davvero era che sbagliasse,
che mancasse il bersaglio di mille chilometri. «O hai preso ancora
ispirazione dai fumetti?».
«Be’, no, non ho copiato dai fumetti», disse con un lieve
imbarazzo. «Ma non è neanche un’invenzione mia».
«E...?», le chiesi, teso.
Di sicuro non avrebbe parlato con tanta calma se fosse stata sul
punto di urlare.
Mentre esitava, mordendosi il labbro, ricomparve la cameriera
con la sua ordinazione. Prestai pochissima attenzione alla ragazza
mentre metteva il piatto davanti a Bella e poi chiedeva a me se
volevo qualcosa.
Dissi di no, ma chiesi altra Coca-Cola. La cameriera non aveva
notato i bicchieri vuoti.
«Dicevi?», le suggerii, non appena fummo di nuovo soli.
«Ti dirò tutto in macchina», disse a bassa voce. Ah, questo non
prometteva bene. Non aveva voglia di rivelare le sue supposizioni in
mezzo ad altra gente. «Se...», cominciò, d’un tratto.
«Ci sono delle condizioni?». Ero talmente teso che le parole
uscirono quasi come un ringhio.
«Anch’io ho qualche domanda da farti, ovviamente».
«Ovviamente», concordai, con durezza.
Probabilmente, le sue domande sarebbero state sufficienti a
rivelarmi la direzione dei suoi pensieri. Ma come avrei potuto
risponderle? Con bugie responsabili? Oppure l’avrei allontanata
dicendole la verità? Oppure non avrei risposto, incapace di prendere
una decisione?
Restammo in silenzio mentre la cameriera portò le altre bibite.
«Be’, vai avanti», la incalzai, quando la ragazza se ne fu andata.
«Cosa sei venuto a fare a Port Angeles?».
Era una domanda troppo facile – per lei. Non mi rivelava niente,
mentre la mia risposta, se sincera, avrebbe rivelato fin troppo. Che
fosse lei a scoprirsi per prima.
«La prossima», dissi.
«Ma questa era la più facile!».
«La prossima», ripetei.
Era frustrata dal mio rifiuto. Abbassò lo sguardo sul piatto.
Lentamente, riflettendo, prese un boccone e lo masticò con cura.
All’improvviso, mentre mangiava, uno strano confronto mi entrò
nella testa. Solo per un secondo vidi Persefone, con la melagrana in
mano. Mentre si condannava agli inferi.
Ero io la sua condanna? Ade in persona, che bramava la
primavera, la rubava e la condannava a una notte infinita. Tentai di
scacciare quell’impressione, senza riuscirvi.
Bella ingoiò il boccone con un sorso di Coca e, finalmente, mi
guardò in faccia. I suoi occhi erano pieni di sospetto.
«D’accordo», disse. «Diciamo – per ipotesi, certo – che...
qualcuno... sia capace di leggere la mente, i pensieri altrui, ecco...
con qualche eccezione».
Poteva andare peggio.
Questo spiegava il sorrisetto che aveva in macchina. Era
intelligente, nessun altro aveva mai ipotizzato una cosa del genere
su di me. Tranne Carlisle, all’inizio, ed era stato piuttosto ovvio,
allora, quando rispondevo a tutti i suoi pensieri prima ancora che lui
li esprimesse. Lui lo aveva capito prima di me.
Questa domanda non era male. Anche se era chiaro che sapeva
che in me c’era qualcosa di strano, la cosa era meno grave di
quanto avrebbe potuto essere. La capacità di leggere la mente,
dopotutto, non era un aspetto canonico dei vampiri. Seguii le sue
ipotesi.
«Una sola eccezione», la corressi. «Per pura ipotesi».
Si sforzò di non sorridere, la mia vaga sincerità le piaceva. «Va
bene, con una sola eccezione. Come funziona? Che limiti ci sono?
Come può quel... qualcuno... trovare una persona nel posto e nel
momento giusto? Come fa ad accorgersi che è in pericolo?».
«Per ipotesi?».
«Certo». Le sue labbra ebbero un fremito e il colore liquido dei
suoi occhi si fece ansioso.
«Be’», esitai. «Se... quel qualcuno...».
«Chiamiamolo Joe», suggerì.
Fui costretto a ridere di fronte al suo entusiasmo. Pensava
davvero che la verità fosse una cosa positiva? Se i miei segreti
fossero stati piacevoli, perché mai avrei dovuto tenerglieli nascosti?
«Vada per “Joe”», acconsentii. «Se Joe avesse fatto attenzione,
non sarebbe stato necessario essere tanto tempestivi». Scossi la
testa e repressi un brivido pensando a quanto fossi stato vicino ad
arrivare troppo tardi, quel giorno. «Solo tu sei capace di cacciarti nei
guai in una città così piccola. Sai, eri sul punto di rovinare un
decennio intero di statistiche locali sulla criminalità».
Fece una smorfia imbronciata. «Stavamo parlando di una
situazione ipotetica».
La sua irritazione mi fece ridere.
Le sue labbra, la sua pelle... avevano un aspetto così soffice.
Avrei voluto verificare se erano così vellutate come apparivano.
Impossibile. Il mio tocco l’avrebbe disgustata.
«Sì, certo», dissi, tornando alla conversazione prima che potessi
deprimermi troppo. «La chiamiamo Jane?».
Lei si sporse verso di me e vidi che nella sua espressione non
c’erano più né sarcasmo né irritazione.
«Come facevi a saperlo?», chiese, con una voce bassa e intensa.
Avrei dovuto dirle la verità? E, in caso, quale parte?
Volevo dirglielo. Volevo meritare la fiducia che ancora vedevo sul
suo viso.
Come se potesse sentire i miei pensieri, mormorò: «Di me ti puoi
fidare, già lo sai». Allungò una mano, come se volesse toccare le
mie, appoggiate sul tavolo vuoto davanti a me.
Le tirai indietro però, temendo la sua reazione alla mia pelle
fredda come la pietra, e lei rinunciò.
Sapevo che potevo fidarmi di lei, che avrebbe protetto i miei
segreti. Era una ragazza onesta, fino al midollo. Ma non potevo
essere certo che non ne sarebbe rimasta inorridita. Avrebbe dovuto
esserlo. La verità era un orrore.
«Non so se ormai mi resta altra scelta», mormorai. Ricordai che,
una volta, l’avevo presa in giro dicendole che era straordinariamente
distratta. Se avevo interpretato correttamente la sua espressione, si
era offesa. Bene, potevo, se non altro, rimediare a quell’ingiustizia.
«Mi sbagliavo, sei molto più leale di quanto ti avessi giudicata». E,
anche se lei non se ne era resa conto, le avevo già dato tutta la mia
fiducia.
«Pensavo che avessi sempre ragione», disse, sorridendomi
mentre mi prendeva in giro.
«Una volta era così». Una volta sapevo quello che stavo facendo.
Ero sempre sicuro delle mie decisioni. E adesso ogni cosa era caos
e subbuglio. Eppure non avrei scambiato il presente con il passato.
Non se il caos significava che potevo stare vicino a Bella. «Mi
sbagliavo anche a proposito di un’altra cosa», proseguii, mettendo le
cose a posto anche su un altro punto. «Non sei una calamita che
attira incidenti, è una classificazione troppo limitata. Tu attiri
disgrazie. Se c’è qualcosa di pericoloso nel raggio di dieci chilometri,
puoi scommettere che ti troverà». Perché lei? Che cosa aveva fatto,
nella vita, per meritare tutto questo?
Bella si fece di nuovo seria. «Tu rientri nella categoria?».
Una risposta sincera contava per questa domanda più che per
qualsiasi altra. «Senza alcun dubbio».
I suoi occhi si socchiusero leggermente, questa volta però non
erano sospettosi, ma stranamente preoccupati. Le sue labbra si
curvarono in quel particolare sorriso che le avevo visto soltanto
quando si trovava a confrontarsi con il dolore di un’altra persona.
Allungò, ancora una volta, la mano sul tavolo, lentamente e con
decisione. Mi ritrassi leggermente, ma lei mi ignorò, determinata a
toccarmi. Trattenni il fiato, questa volta non per il suo profumo, ma
perché all’improvviso fui sopraffatto dalla tensione. Dalla paura. La
mia pelle l’avrebbe disgustata. Sarebbe scappata via da me.
Con la punta delle dita, mi accarezzò il dorso della mano. Il calore
del suo tocco gentile e volontario non somigliava a niente che avessi
mai provato prima. Era quasi piacere puro. Lo sarebbe stato, tranne
per la mia paura. Osservai il viso di Bella mentre toccava la mia pelle
fredda come pietra, ancora incapace di respirare.
Il suo sorriso preoccupato si sciolse in qualcosa di più ampio,
qualcosa di più caldo.
«Grazie», disse, guardandomi negli occhi con straordinaria
intensità. «Con questa sono due».
Le sue dita morbide indugiarono sulla mia pelle come se lo
trovassero piacevole.
Le risposi nel modo più disinvolto possibile. «Facciamo in modo
che non ci sia un tre, d’accordo?».
Lei si accigliò leggermente, ma annuì.
Sfilai la mano da sotto la sua. Per quanto fosse sublime il suo
tocco, non volli aspettare che la magia della sua tolleranza svanisse,
trasformandosi in repulsione. Nascosi le mani sotto il tavolo.
Lessi i suoi occhi. Sebbene la sua mente fosse ancora silenziosa,
negli occhi potevo leggere fiducia e meraviglia. Mi resi conto, in quel
momento, che io volevo rispondere alle sue domande. Non perché
glielo dovevo. Non perché volevo che si fidasse di me.
Volevo che lei mi conoscesse.
«Ti ho seguita fino a Port Angeles», le dissi, e le parole uscivano
troppo velocemente perché potessi modificarle. Conoscevo i pericoli
della sincerità, i rischi che stavo correndo. In qualsiasi momento, la
sua calma innaturale poteva frantumarsi in una crisi isterica. Ma
questo rischio non fece che spingermi a parlare più velocemente.
«Non ho mai tentato di salvare la vita a una singola persona prima
d’ora, ed è un’impresa molto più fastidiosa di quanto credessi. Ma
probabilmente dipende anche da te. Le persone normali riescono a
tornare a casa ogni sera senza scatenare tante catastrofi».
La guardai, in attesa.
Lei sorrise ancora con quel sorriso smagliante. I suoi occhi scuri
e limpidi sembravano più profondi che mai. Avevo appena ammesso
che la stavo pedinando, e lei sorrideva.
«Hai mai pensato che forse la mia ora doveva suonare già la
prima volta, con l’incidente del furgoncino, e che tu hai di fatto
interferito con il destino?», mi chiese.
«Quella non era la prima volta», risposi, abbassando lo sguardo
sulla tovaglia marrone scuro e curvando le spalle per la vergogna.
«La tua ora è suonata quando ti ho conosciuta».
Era vero e mi faceva infuriare. Ero stato collocato al di sopra della
sua vita come la lama di una ghigliottina – come se fosse una
decisione del destino, proprio come aveva detto lei. Come se fosse
stata designata a morire da quel destino crudele e ingiusto che –
poiché io mi ero dimostrato uno strumento riluttante – continuava a
cercare di giustiziarla. Immaginai il destino come una persona, una
megera orribile e gelosa, un’arpia vendicativa.
Volevo poter attribuire la responsabilità di tutto questo a
qualcuno, o qualcosa, in modo da avere un nemico concreto da
combattere. Qualcosa da distruggere in modo che Bella potesse
essere salva.
Bella era molto silenziosa. Aveva il respiro accelerato.
Alzai lo sguardo sul suo viso, sapendo che, alla fine, vi avrei
trovato la paura che stavo aspettando. Non avevo appena ammesso
che ero stato vicino a ucciderla? Più vicino del furgone che per
pochi, scivolosi centimetri non l’aveva schiacciata. Eppure, il suo
viso era ancora calmo, i suoi occhi incupiti solo dalla
preoccupazione.
«Ti ricordi?».
«Sì», disse, con un tono tranquillo e serio. I suoi occhi profondi
erano pieni di consapevolezza.
Lei sapeva. Sapeva che avevo voluto ucciderla. Dov’erano le sue
urla?
«Eppure, eccoti seduta qui», dissi, evidenziando il suo
comportamento contraddittorio.
«Sì, sono seduta qui... grazie a te». Cambiò espressione, tornò
curiosa, mentre cambiava palesemente argomento. «Perché, in
qualche modo, sapevi dove trovarmi oggi?».
Senza speranze, spinsi ancora una volta la barriera che
proteggeva i suoi pensieri, bramoso di capire. Non aveva senso, per
me. Come poteva preoccuparsi del resto, quando lì davanti ai suoi
occhi c’era una verità così lampante?
Lei aspettò, soltanto curiosa. Era pallida, una cosa normale per
lei, eppure mi preoccupava. La cena era quasi intonsa nel suo piatto.
Se avessi continuato a dirle troppo, avrebbe avuto bisogno di un
cuscino quando, alla fine, lo shock l’avrebbe investita.
Dettai le mie condizioni. «Tu mangi, io parlo».
Lei ci pensò su per mezzo secondo, poi infilzò un boccone e se lo
infilò in bocca a una velocità che smentì la sua calma. Era più
ansiosa di sapere di quanto i suoi occhi lasciassero trapelare.
«È più difficile di come dovrebbe essere... non perdere le tue
tracce», le dissi. «Di solito sono in grado di individuare le persone
con molta facilità, mi basta sentire la loro mente una volta sola».
Mentre parlavo, la osservavo attentamente. Un conto era lanciare
un’ipotesi, ben altro averne la conferma.
Era immobile, con gli occhi inespressivi. Sentii i miei denti
stringersi, mentre aspettavo la sua crisi di panico.
Ma lei si limitò a battere le palpebre solo una volta, deglutì
sonoramente e poi, velocissima, si infilò in bocca un altro raviolo.
Ansiosa di sentire il seguito.
«Tenevo d’occhio Jessica», proseguii, osservando la sua
espressione a ogni parola. «Distrattamente. Come ti ho detto, solo tu
riesci a metterti nei guai a Port Angeles». Non riuscii a non dirlo. Si
rendeva conto che le altre vite umane non erano afflitte da
esperienze quasi mortali, o pensava di avere una vita normale? «E
all’inizio non mi sono accorto che avevi proseguito da sola. Poi,
quando ho capito che non eri più con lei, sono venuto a cercarti nella
libreria che ho visto nei suoi pensieri. Ho intuito che non c’eri entrata,
che ti eri diretta a sud... E sapevo che prima o poi saresti dovuta
tornare indietro. Perciò ti stavo aspettando, cercandoti qua e là tra i
pensieri dei passanti, nel caso che qualcuno ti avesse incrociata.
Non c’era motivo di preoccuparmi... ma sentivo una strana ansia...».
Nel ricordare quella sensazione di panico sentii il mio respiro che
accelerava. Il suo profumo mi bruciò la gola e ne fui felice. Era un
dolore che significava che lei era viva.
Finché io bruciavo, lei era salva.
«A quel punto ho iniziato a girare in tondo, restando... in ascolto».
Speravo che questa parola avesse un senso, per lei. Forse l’avrebbe
confusa. «Fortunatamente il sole stava tramontando, così sarei
potuto scendere dall’auto e seguirti a piedi. E poi...».
Quando arrivò il ricordo – perfettamente chiaro e vivido come se
rivivessi quel momento – avvertii la stessa furia omicida invadermi
dalla testa ai piedi, trasformandomi in una statua di ghiaccio.
Lo volevo morto. Doveva morire. Strinsi i denti mentre cercavo di
rimanere ancorato al tavolo. Bella aveva ancora bisogno di me. Era
questa la cosa importante.
«Poi, cosa?», mormorò lei, con gli occhi sgranati.
«Ho sentito cosa stavano pensando», dissi a denti stretti,
incapace di impedire alle parole di non uscire in un ringhio. «Ho visto
il tuo volto nei loro pensieri».
Sapevo ancora esattamente dove trovarlo. I suoi pensieri
disgustosi attiravano la mia attenzione.
Mi coprii il viso perché sapevo di avere l’espressione di un
cacciatore, di un assassino. Per controllarmi, fissai dietro gli occhi
chiusi l’immagine di Bella. L’ossatura delicata, il sottile velo della sua
pelle chiara, come seta stesa sopra un vetro, incredibilmente
morbida e fragile. Era troppo vulnerabile per questo mondo. Aveva
bisogno di un protettore. E per qualche contorto errore del destino, io
ero quanto di più vicino a un protettore fosse disponibile.
Tentai di spiegare la mia reazione violenta, perché lei potesse
capire.
«È stato molto... difficile – tu non puoi immaginare quanto –
limitarmi a portare via te e risparmiare loro... la vita», mormorai.
«Avrei potuto lasciarti rientrare assieme a Jessica e Angela, ma
temevo che se fossi rimasto solo sarei tornato a cercarli».
Per la seconda volta, quella sera, confessai un omicidio
intenzionale. Almeno, questo era giustificabile.
Mentre io mi sforzavo di mantenere il controllo, Bella era
silenziosa. Ascoltai il battito del suo cuore. Il ritmo era irregolare, ma
con lo scorrere del tempo rallentò fino a tornare costante. Anche il
suo respiro era calmo e regolare.
Io ero troppo vicino al limite. Dovevo riportarla a casa prima di...
E poi lo avrei ucciso? Sarei tornato a essere un assassino, ora che
lei si fidava di me? C’era un modo per fermarmi?
Bella aveva promesso di rivelarmi la sua ultima teoria quando
fossimo rimasti soli. Volevo sentirla? Molto, ma la ricompensa per la
mia curiosità sarebbe stata peggiore dell’ignoranza?
In ogni caso, per quella sera doveva averne avuta a sufficienza,
di verità.
La guardai ancora e il suo viso era più pallido di prima, ma calmo.
«Sei pronta per tornare a casa?», le chiesi.
«Sono pronta per andare via di qui», rispose, scegliendo le parole
con cura, come se un semplice sì non esprimesse del tutto quello
che voleva dire.
Frustrante.
Tornò la cameriera. Aveva sentito l’ultima frase di Bella mentre
esitava dall’altra parte della parete divisoria, chiedendosi che altro
poteva offrirmi. Avrei voluto alzare gli occhi al cielo di fronte ad
alcune delle offerte che aveva in mente.
«Come andiamo?», mi chiese.
«Siamo pronti per il conto, grazie», le dissi, guardando Bella.
Il respiro della cameriera ebbe un’impennata e lei rimase
momentaneamente – per dirla con le parole di Bella – abbagliata
dalla mia voce.
Con un’improvvisa intuizione, sentendo come risuonava la mia
voce in quell’insignificante testa umana, mi resi conto del perché
quella sera sembravo attirare così tanta ammirazione – non rovinata
dalla solita paura.
Era a causa di Bella. Sforzandomi così tanto nel cercare di
essere inoffensivo per lei, di essere meno spaventoso, di essere
umano, avevo sinceramente spuntato le mie armi. Gli altri umani,
adesso, vedevano soltanto bellezza, con la mia parte mostruosa
tenuta accuratamente sotto controllo.
Guardai la cameriera, in attesa che si riprendesse. Adesso che
ne capivo il motivo, era piuttosto divertente.
«C-certo. Ecco qui». Mi porse la cartellina con il conto, pensando
al biglietto che aveva fatto scivolare dietro la ricevuta. Un biglietto
con il suo nome e numero di telefono.
Sì, era piuttosto divertente.
Avevo già il denaro pronto. Le restituii la cartellina subito, così
non avrebbe perso tempo ad aspettare una telefonata che non
sarebbe mai arrivata.
«Niente resto», le dissi, sperando che la mancia consistente
avrebbe mitigato la sua delusione.
Mi alzai in piedi e Bella fece altrettanto. Volevo porgerle la mano,
ma pensai che sarebbe stato spingere la mia fortuna un po’ troppo
oltre, per una sola sera. Ringraziai la cameriera, senza mai staccare
lo sguardo dal viso di Bella. Anche lei sembrava divertirsi per
qualcosa.
Le camminai accanto, vicino quel tanto che osai. Abbastanza
perché il calore che emanava il suo corpo fosse quasi come una
carezza sul mio fianco sinistro. Mentre le tenevo aperta la porta, lei
sospirò e io mi chiesi quale dispiacere le pesasse addosso. La
guardai negli occhi, sul punto di chiederglielo, quando all’improvviso
abbassò lo sguardo, come se fosse imbarazzata. Mi incuriosì, anche
se ero riluttante a chiedere. Il silenzio fra di noi si protrasse mentre le
aprivo la portiera e poi salivo in macchina.
Accesi il riscaldamento – il clima caldo era bruscamente finito; la
macchina gelida sarebbe stata un disagio per lei. Si avvolse nella
mia giacca, con un sorrisetto sulle labbra.
Aspettai, rimandando la conversazione finché le luci del
lungomare non si attenuarono. Mi sembrava che così fossimo più
soli, io e lei.
Era la cosa giusta? La macchina sembrava molto piccola. Il suo
profumo la invadeva insieme all’aria del riscaldamento, acquisendo
ancora più forza. Cresceva come se fosse una terza entità. Una
presenza che chiedeva di essere riconosciuta.
Lo ottenne. Io bruciavo. Ma il bruciore era accettabile. Mi
sembrava stranamente appropriato. Avevo ricevuto così tanto, quella
sera, più di quanto mi fossi aspettato. E lei era lì, accanto a me, di
sua volontà. Le dovevo qualcosa in cambio. Un sacrificio. Un’offerta
di fuoco.
Ah, se avessi potuto continuare soltanto con questo, con il
bruciore e nient’altro. Ma il veleno mi riempiva la bocca e i miei
muscoli si tendevano, come se stessi cacciando.
Dovevo tenere quei pensieri lontani dalla mente. E sapevo che
cosa mi avrebbe distratto.
«Adesso», le dissi, temendo che la sua reazione mi spingesse
oltre il limite. «Tocca a te».
10. TEORIA

«Posso farti un’ultima domanda?», mi pregò, invece di


rispondere.
Ero agitato, temevo che accadesse il peggio. Eppure. Quanto era
invitante l’idea di prolungare quel momento. Averla con me, ben
disposta, solo per qualche altro secondo. Sospirai, e poi dissi: «Una
sola».
«Be’...», esitò per un attimo, come se decidesse a quale
domanda dare voce. «Hai detto di avere intuito che mi ero diretta a
sud, anziché entrare in libreria. Mi chiedevo soltanto come avessi
fatto».
Guardai fuori dal parabrezza. Ecco un’altra domanda che di lei
non rivelava niente e di me troppo.
«Pensavo che avessimo abolito gli atteggiamenti evasivi», disse
in tono critico e deluso.
Ironia della sorte. Lei era continuamente evasiva, senza
nemmeno provarci.
Bene, voleva che fossi diretto. E comunque la conversazione non
stava andando da nessuna parte.
«D’accordo», dissi. «Ho seguito il tuo odore».
Volevo guardarla in viso, ma temevo quello che avrei visto.
Invece, ascoltai il suo respiro accelerare e poi stabilizzarsi. Dopo un
attimo, Bella parlò ancora e la sua voce era più ferma di quanto mi
sarei aspettato.
«Inoltre, non hai ancora risposto a una delle mie prime
domande...», disse.
La guardai, corrugando la fronte. Anche lei stava tergiversando.
«Quale?».
«Come funziona la faccenda della lettura del pensiero?»,
domandò, come aveva già fatto al ristorante. «Riesci a leggere la
mente di chiunque, ovunque? Come fai? Anche i tuoi fratelli...?».
Lasciò la frase in sospeso, arrossendo di nuovo.
«Una domanda sola, hai detto», osservai.
Lei si limitò a guardarmi, in attesa delle risposte.
E perché non dargliele? In fondo aveva indovinato quasi tutto, ed
era un argomento più semplice rispetto a quello che incombeva
minacciosamente su di noi.
«No, è una dote soltanto mia. E non riesco a sentire tutti,
ovunque. Devo essere piuttosto vicino alle persone che leggo. Ma
più familiare è una “voce”, maggiore è la distanza a cui la avverto.
Mai più di qualche chilometro, comunque». Pensai a un modo per
descriverlo che glielo facesse capire. Un’analogia nella quale
potesse immedesimarsi. «È un po’ come essere in una grande sala
piena di persone che parlano contemporaneamente. Una specie di
rumore di fondo, il ronzio confuso delle voci. Finché non mi
concentro su una voce sola e la metto a fuoco: allora sento cosa sta
pensando. Il più delle volte semplicemente ignoro, escludo tutto:
rischia di distrarmi troppo. Così poi è più facile sembrare normale» –
aggrottai le sopracciglia – «ed evitare di rispondere per sbaglio ai
pensieri delle persone, anziché alle loro parole».
«Secondo te, perché non riesci a sentirmi?», chiese.
Le risposi con un’altra verità e un’altra analogia.
«Non lo so», ammisi. «Il mio sospetto è che la tua mente funzioni
in modo diverso da tutte le altre. Come se i tuoi pensieri
trasmettessero in AM e io ricevessi solo in FM».
Non appena terminai la frase, mi resi conto che, forse, Bella non
avrebbe apprezzato l’analogia. Sorrisi, anticipando la sua reazione.
Lei non mi deluse.
«La mia mente non funziona come dovrebbe?», domandò,
alzando la voce. «Sono una specie di mostro?».
Ah, riecco l’ironia della sorte.
«Io sento voci nella mia testa, e tu temi di essere il mostro?».
Risi. Quella ragazza coglieva tutti i dettagli, ma per la visione
d’insieme era di una sconcertante ingenuità. Sempre gli istinti
sbagliati.
Bella si stava mordendo il labbro e la ruga fra le sue sopracciglia
si era fatta più profonda.
«Stai tranquilla», la rassicurai. «È solo una teoria...». E ce n’era
una più importante di cui discutere. Non vedevo l’ora di passare
oltre. Ogni istante cominciava a sembrare tempo preso in prestito. «Il
che ci riporta a te».
Lei sospirò, continuando a mordersi il labbro, tanto che temetti si
facesse male. Mi guardò negli occhi, turbata.
«Abbiamo abolito le risposte evasive, no?», domandai.
Lei abbassò lo sguardo, impegnata in qualche suo conflitto
interiore. Poi, all’improvviso, si irrigidì e sgranò gli occhi. Per la prima
volta la vidi spaventata.
«Santo cielo!», esclamò.
Andai nel panico. Che cosa aveva visto? Come avevo fatto a
spaventarla?
Poi urlò: «Rallenta!».
«Cosa c’è?». Non capivo da dove arrivasse il suo terrore.
«Stai andando a centosessanta!», mi urlò. Lanciò un’occhiata
fuori dal finestrino e si ritrasse terrorizzata dagli alberi che ci
sfrecciavano accanto.
Quella bazzecola, solo una velocità un po’ sostenuta, l’aveva
fatta urlare di terrore?
Alzai gli occhi al cielo. «Rilassati, Bella».
«Stai cercando di ucciderci?», chiese, strillando.
«Non usciremo di strada», le promisi.
Lei inspirò bruscamente e poi parlò con un tono un po’ meno
agitato. «Perché tutta questa fretta?».
«Guido sempre così».
La guardai, divertito dalla sua espressione scioccata.
«Guarda davanti!», urlò.
«Non ho mai fatto incidenti, Bella. Non ho mai preso neanche una
multa». Le sorrisi e mi toccai la fronte. Era talmente assurdo
scherzare con lei su una cosa così segreta e strana, che mi veniva
da ridere. «Segnalatore radar incorporato».
«Divertente», disse lei, sarcastica, ma più spaventata che
arrabbiata. «Charlie è un poliziotto, ricordi? Da piccola mi è stato
insegnato a rispettare il codice della strada. Inoltre, se ci trasformi in
una ciambella di Volvo arrotolata a un albero, l’unico in grado di
uscirne senza un graffio sei tu».
«Probabile», dissi, e poi risi, ma senza divertirmi. Sì, ce la
saremmo passata in modo molto diverso, in caso di incidente. Aveva
ragione ad avere paura, malgrado la mia abilità di pilota. «Tu invece
no».
Sospirai e rallentai fino a una velocità moderata. «Contenta?».
Lei guardò il contachilometri. «Quasi».
Andavo ancora troppo veloce, per lei? «Odio andare piano»,
borbottai, ma feci scendere l’ago del contachilometri ancora un po’.
«Così è piano?», chiese.
«Fine dei commenti sulla mia guida», dissi, spazientito. Quante
volte aveva schivato la mia domanda, ormai? Tre? Quattro? Erano
supposizioni tanto orribili, le sue? Dovevo saperlo, immediatamente.
«Sto ancora aspettando la tua ultima teoria».
Lei si morse di nuovo il labbro e assunse un’espressione turbata,
quasi sofferente.
Trattenni la mia impazienza e addolcii il tono. Non volevo che si
sentisse oppressa.
«Non riderò», promisi, sperando che a impedirle di parlare fosse
soltanto l’imbarazzo.
«In realtà temo piuttosto che ti arrabbierai con me», mormorò.
Mi sforzai di mantenere un tono tranquillo. «È una teoria così
brutta?».
«Abbastanza, sì».
Abbassò lo sguardo, rifiutandosi di guardarmi. I secondi
passavano.
«Prosegui», la incoraggiai.
«Non so da dove cominciare». Lo disse con una vocina
sommessa.
«Perché non cominci dall’inizio?». Ricordai le sue parole, prima di
cena. «Hai detto che questa teoria non è tutta farina del tuo sacco».
«No», ammise, poi tacque di nuovo.
Pensai a quello che poteva averla ispirata. «A cosa ti sei ispirata?
Un libro? Un film?».
Avrei dovuto spulciare le sue collezioni mentre lei non era in
casa. Non sapevo se nel cumulo dei suoi libri logori ci fossero anche
Bram Stoker o Anne Rice.
«No», ripeté. «È stato sabato, alla spiaggia».
Questo non me l’aspettavo. Le chiacchiere locali su di noi non
erano mai arrivate a niente di troppo stravagante – o troppo definito.
C’era un nuovo pettegolezzo che avevo perso? Bella alzò lo sguardo
dalle proprie mani e vide la sorpresa sul mio volto.
«Ho incontrato per caso un vecchio amico di famiglia, Jacob
Black», proseguì. «Suo padre e Charlie si frequentano da quando
ero bambina».
Jacob Black... il nome non mi era familiare, eppure mi ricordava
qualcosa... qualcosa di passato, molto tempo prima... Guardai la
strada, sfogliando i ricordi in cerca di un collegamento.
«Suo padre è un anziano dei Quileutes», disse.
Jacob Black. Ephraim Black.
Un discendente, non c’era dubbio.
La cosa peggiore che poteva accadere. Lei sapeva la verità.
La mia mente sfrecciava fra le conseguenze, come la macchina
sfrecciava sulle curve buie della strada e io ero paralizzato
dall’angoscia, immobile, a parte il movimento minimo per controllare
lo sterzo.
Lei sapeva la verità.
Ma... se l’aveva saputo sabato... allora lo sapeva già dall’inizio
della serata, eppure...
«Abbiamo fatto una passeggiata», disse. «E lui mi ha raccontato
vecchie leggende locali, probabilmente per spaventarmi. Me ne ha
raccontata una...».
Si interruppe, ma i suoi scrupoli adesso non servivano. Sapevo
che cosa stava per dire. L’unico mistero era la sua presenza accanto
a me, in quel momento.
«Continua», dissi.
«...che parla di vampiri», bisbigliò, le parole ridotte a un soffio.
In un certo senso, sentirle pronunciare quella parola fu persino
peggio della sua ormai manifesta consapevolezza. Sussultai,
quando la sentii, poi recuperai il controllo.
«E hai pensato immediatamente a me?», chiesi.
«No. Lui... ha citato la tua famiglia».
Che ironia che fosse proprio la progenie di Ephraim a violare il
patto che lui aveva giurato di rispettare. Un nipote, o forse un
pronipote. Quanti anni erano passati? Settanta?
Avrei dovuto immaginare che il pericolo non sarebbe stato il
vecchio che credeva nelle leggende. Ovvio, era la generazione più
giovane – quella che era stata messa in guardia, ma che
considerava ridicole le antiche superstizioni –, era lì che si annidava
il pericolo dello smascheramento.
Immaginai che adesso, quindi, sarei stato libero di massacrare la
piccola, indifesa tribù della costa, se ne avessi avuto voglia. Ephraim
e il suo branco di protettori erano morti da un pezzo.
«Secondo lui era solo una sciocca superstizione», disse Bella,
improvvisamente. La sua voce era venata dall’ansia, come se
avesse potuto leggere i miei pensieri. «Non pensava che ci avrei
ricamato sopra».
Con la coda dell’occhio, vidi che si torceva le mani, a disagio.
«È stata colpa mia», disse, dopo una breve pausa, poi chinò la
testa come se si vergognasse. «L’ho costretto a raccontarmela».
«Perché?». Non fu difficile mantenere un tono tranquillo. Il danno,
ormai, era già stato fatto. Finché parlavamo dei dettagli della
rivelazione, non eravamo costretti ad affrontarne le conseguenze.
«Lauren ha fatto il tuo nome, così, per provocarmi». Nel
ricordarlo, fece una smorfia. Mi distrassi un attimo chiedendomi
come potesse essersi sentita provocata da qualcuno che parlava di
me. «E un ragazzo più grande, della tribù, le ha risposto che la tua
famiglia non entra nella riserva, ma il suo tono evidentemente
nascondeva qualcosa. Perciò sono rimasta sola con Jacob e gliel’ho
estorto con l’inganno», ammise a capo chino.
Mentre lo ammetteva, la sua testa si abbassò ancora di più e la
sua espressione parve... colpevole. Guardai avanti e scoppiai a
ridere; fu un suono duro. Lei si sentiva in colpa? Che cosa poteva
aver mai fatto per meritare di essere biasimata?
«Con l’inganno? E come?», domandai.
«Ho fatto la smorfiosa con lui, e ha funzionato meglio di quanto io
stessa pensassi», mi spiegò, e la sua voce divenne incredula,
ricordando quella vittoria.
Considerando l’attrazione che sembrava esercitare su tutti i
maschi, del tutto inconsapevolmente, potevo soltanto immaginare
quanto fosse stata travolgente se aveva tentato di essere
affascinante. D’un tratto, provai compassione per il povero ragazzo
sul quale aveva scatenato una forza così potente.
«Mi sarebbe piaciuto assistere», dissi, ridendo con un certo
cinismo. Mi sarebbe piaciuto poter sentire la reazione del ragazzo,
assistere alla devastazione. «E poi mi accusi di fare colpo sulle
persone... povero Jacob Black».
Al contrario di quanto mi sarei aspettato, non ero arrabbiato con il
responsabile del mio smascheramento. Lui non poteva saperlo. E
come potevo aspettarmi che qualcuno negasse a Bella quello che
voleva? No, provai soltanto compassione per il danno che lei
avrebbe creato alla sua pace mentale.
Sentii il rossore di Bella scaldare l’aria fra di noi. Le lanciai
un’occhiata e lei stava guardando fuori. Non parlava più.
«E allora, cos’hai fatto?», la incalzai. Era ora di tornare ai racconti
dell’orrore.
«Una breve ricerca su Internet».
Sempre pragmatica. «E hai trovato conferma ai tuoi dubbi?».
«No», disse. «Non mi quadrava niente. Più che altro si trattava di
stupidaggini. E poi...».
Si interruppe di nuovo e la sentii serrare i denti.
«Poi cosa?», domandai. Che cosa aveva trovato? Cosa era
verosimile riguardo all’incubo, per lei?
Ci fu una breve pausa, poi mormorò: «Ho deciso che non
m’importa».
Lo shock paralizzò i miei pensieri per mezzo secondo, poi tutto
ebbe un senso. Perché aveva mandato via le sue amiche, invece di
scappare con loro. Perché era salita in macchina con me, invece di
correre e chiamare la polizia urlando.
Le sue reazioni erano sempre sbagliate – sempre completamente
sbagliate. Era lei a tirarsi addosso i pericoli.
Li invitava.
«Non ti importa?», chiesi, con la rabbia che stava montando
dentro di me. Come avrei dovuto proteggere una persona così...
così... così decisa a mettersi a rischio?
«No», disse, con una voce bassa e, inspiegabilmente, tenera.
«Non m’importa cosa sei».
Quella ragazza era impossibile.
«Non t’importa se sono un mostro? Se non sono umano?».
«No».
Cominciai a chiedermi se fosse del tutto sana di mente.
Immaginai di poterle garantire le migliori cure disponibili... Carlisle
avrebbe avuto i contatti per trovare i medici migliori, i terapeuti più
preparati. Forse si poteva fare qualcosa per guarirla, quale fosse il
suo problema, quale fosse la malattia che la faceva sentire contenta
di stare seduta accanto a un vampiro, con il cuore che batteva calmo
e regolare. Naturalmente avrei sorvegliato la struttura e sarei andato
a trovarla tutte le volte che lei avrebbe voluto.
«Ti ho fatto arrabbiare», sospirò Bella. «Non avrei dovuto aprire
bocca».
«No. Preferisco sapere cosa pensi... anche se ciò che pensi è
assurdo».
«Quindi mi sto sbagliando di nuovo?», chiese, in tono
leggermente bellicoso.
«Non intendevo questo». I miei denti si strinsero. «“Non
m’importa”!», ripetei, aspramente.
«È così, allora?», esclamò lei.
«Ti interessa?», ribattei.
Lei prese un respiro profondo. Io aspettai, con rabbia, la sua
risposta.
«Non proprio», disse, di nuovo controllata. «Ma sono curiosa».
Non proprio. Era vero che non le importava. A lei non
interessava. Sapeva che ero un essere non umano, un orrore, e
davvero non le importava.
Al di là delle preoccupazioni per la sua salute mentale, cominciai
a sentir rinascere la speranza. Tentai subito di reprimerla.
«Cosa vuoi sapere?», le chiesi. Ormai non c’erano più grandi
segreti, ma soltanto dettagli di poca importanza.
«Quanti anni hai?», domandò.
Le diedi la risposta ormai automatica, inculcata dall’uso.
«Diciassette».
«E da quanto tempo hai diciassette anni?».
Cercai di non sorridere per il suo tono condiscendente. «Da un
po’», ammisi.
«D’accordo», disse, improvvisamente entusiasta. Mi sorrise.
Quando la guardai, sempre più preoccupato per la sua salute
mentale, il suo sorriso si fece ancora più radioso. Aggrottai la fronte.
«Non ridere se te lo chiedo», mi avvertì. «Ma... come fai a uscire
di casa quando è giorno?».
Malgrado la richiesta, scoppiai a ridere. A quanto pareva, le sue
ricerche non l’avevano fatta uscire dal cliché. «Leggenda», le dissi.
«Non ti sciogli al sole?».
«Leggenda».
«Dormi dentro una bara?».
«Leggenda».
Il sonno non faceva più parte della mia vita da moltissimo tempo,
almeno fino alle ultime notti, quando avevo guardato sognare Bella.
«Io non dormo», mormorai, rispondendole in maniera più
completa.
Lei rimase in silenzio per un istante.
«Mai?», domandò.
«Mai», bisbigliai.
Quando incontrai il suo sguardo penetrante vi lessi meraviglia e
compassione e, all’improvviso, provai uno struggente desiderio di
dormire. Non per estraniarmi, come mi succedeva prima, non per
sfuggire alla noia, ma perché volevo sognare. Forse, se avessi perso
conoscenza, se fossi stato capace di sognare, avrei potuto vivere
per qualche ora in un mondo dove per me e lei fosse possibile stare
insieme. Lei mi sognava. Anch’io volevo sognarla.
Bella mi guardò, piena di stupore.
Dovetti distogliere lo sguardo.
Io non potevo sognarla. Lei non avrebbe dovuto sognarmi.
«Non mi hai ancora fatto la domanda più importante», dissi. Il
cuore di pietra nel mio petto silenzioso sembrava ancora più freddo
e più duro di prima. Avrebbe dovuto capire per forza. A un certo
punto, avrebbe dovuto capire che tutto questo era importante, più di
qualsiasi altra considerazione. Come, per esempio, il fatto che io
l’amavo.
«Quale sarebbe?», chiese, sorpresa e impreparata.
Questo non fece che indurire ulteriormente la mia voce. «Non sei
preoccupata della mia dieta?».
«Ah... quella». Parlava con un tono tranquillo che non riuscivo a
interpretare.
«Sì, quella. Non sei curiosa di sapere se mi nutro di sangue?».
Si ritrasse. Finalmente.
«Be’, Jacob mi ha detto qualcosa», disse.
«Cosa ti ha detto?».
«Ha detto che voi non... andate a caccia di umani. Ha detto che
la tua famiglia non è considerata pericolosa, perché vi cibate solo di
animali».
«Ha detto che non siamo pericolosi?», ripetei, con cinismo.
«Non esattamente», chiarì. «Ha detto che non vi ritengono
pericolosi. Ma che per non correre rischi, i Quileutes ancora oggi non
vi vogliono nel loro territorio».
Guardai la strada, con i pensieri persi in un groviglio senza
speranza e la gola arsa dal solito fuoco.
«Ha detto la verità?», chiese, con il tono tranquillo di chi stava
confermando un bollettino meteorologico. «Riguardo a voi e agli
umani, dico».
«I Quileutes hanno una buona memoria».
Lei annuì, mentre rifletteva.
«Non fidarti troppo, però. Fanno bene a mantenere le distanze.
Siamo ancora pericolosi».
«Non capisco».
No, non capiva. Come farglielo vedere?
«Ci... proviamo», le dissi. «Di solito riusciamo molto bene in ciò
che facciamo. Ogni tanto compiamo qualche errore. Io, per esempio,
non dovrei restare solo con te».
Il suo profumo era ancora una presenza forte, in macchina. Mi
stavo abituando, potevo quasi ignorarlo, ma non potevo ignorare che
il mio corpo desiderasse Bella per il motivo peggiore possibile.
Avevo la bocca piena di veleno. Lo ingoiai.
«Questo è un errore?», mi chiese, con una voce molto triste.
Quel suono mi disarmò. Lei voleva stare con me. Malgrado tutto,
lei voleva stare con me.
La speranza rinacque e io la soffocai di nuovo.
«Un errore molto pericoloso», le dissi, con sincerità e
desiderando che la verità potesse davvero non essere importante.
Lei rimase zitta. Sentii il suo respiro che cambiava – era un
respiro pesante, affannato, ma non per la paura.
«Vai avanti», disse all’improvviso, con la voce distorta dalla
sofferenza.
La esaminai attentamente.
Sembrava che stesse provando dolore per qualcosa. Come
avevo potuto permetterlo?
«Cos’altro vuoi sapere?», domandai, tentando di pensare a un
modo per non farla soffrire. Lei non doveva soffrire. Io non potevo
lasciare che soffrisse.
«Dimmi perché vai a caccia di animali, anziché di esseri umani»,
disse, ancora sofferente.
Non era ovvio? Oppure nemmeno questo era importante, per lei?
«Non voglio essere un mostro», mormorai.
«Ma gli animali non ti bastano?».
Cercai un altro termine di confronto, un modo per farle capire.
«Non ho verificato, ovviamente, ma immagino che sia come una
dieta a base solo di tofu e latte di soia. Per scherzare, ci definiamo
“vegetariani”. Gli animali non placano del tutto la fame, o meglio, la
sete. Ma riusciamo a mantenerci abbastanza in forze. Il più delle
volte». La mia voce si abbassò. Mi vergognavo per il pericolo che le
stavo permettendo di correre. «Talvolta è davvero difficile».
«Anche in questo momento?».
Sospirai. Ovviamente mi aveva fatto la domanda alla quale non
volevo rispondere. «Sì», ammisi.
Questa volta mi aspettai la reazione fisica giusta: il suo respiro e
il cuore tornarono a un ritmo regolare e costante. Me l’aspettavo, ma
non lo capivo. Perché non aveva paura?
«Però adesso non hai fame», affermò lei, con estrema sicurezza.
«Cosa te lo fa pensare?».
«I tuoi occhi», disse, disinvolta. «Ho una teoria, te l’ho detto. Ho
notato che le persone – soprattutto gli uomini – diventano
indisponenti, quando hanno fame».
Indisponente mi fece sorridere. Era minimizzare. Ma, come al
solito, aveva centrato il bersaglio. «Sei una brava osservatrice, eh?».
Risi ancora.
Lei sorrise, ma aveva la solita ruga fra gli occhi, come se si
stesse concentrando su qualcosa.
«Lo scorso weekend sei andato a caccia con Emmett?», chiese,
quando smisi di ridere. Il tono naturale con cui conversava era tanto
affascinante, quanto irritante. Pensava davvero di poter gestire tutto
questo? Ero più vicino io allo shock di quanto non sembrasse lei.
«Sì», dissi, e poi, quando ero quasi sul punto di lasciar perdere,
sentii la stessa urgenza che avevo provato nel ristorante: volevo
farmi conoscere. «Non avrei voluto andare via, ma ne avevo
bisogno», continuai, lentamente. «È più facile starti vicino quando
non ho sete».
«Perché non volevi andarci?».
Presi un respiro profondo, poi mi girai a guardarla. Essere sincero
adesso era difficile, ma in un modo del tutto diverso.
«Starti lontano... mi rende... ansioso» – immaginai che fosse una
parola abbastanza esplicativa, anche se non abbastanza forte. «Non
scherzavo quando ti ho chiesto di badare a non cadere nell’oceano o
a non farti investire, giovedì. Per tutto il fine settimana sono rimasto
in pensiero. E dopo stasera, mi sorprende che tu sia sopravvissuta
al weekend senza farti un graffio». Poi ricordai i graffi sulle mani.
«Be’, non proprio», corressi.
«Cosa?».
«Le tue mani», le rammentai.
Lei sospirò e fece una smorfia di disappunto. «Sono caduta».
«Lo immaginavo», dissi, incapace di contenere il sorriso. «È
anche vero che, per i tuoi standard, avrebbe potuto andare peggio,
ed è proprio questo che mi ha tormentato mentre ero lontano da te.
Sono stati tre giorni molto lunghi. Ho rischiato di far saltare i nervi a
Emmett». Per essere sinceri, non avevo rischiato: anche adesso
continuavo a irritare tutta la mia famiglia. Tranne Alice.
«Tre giorni?», chiese, con una voce improvvisamente tagliente.
«Non siete tornati oggi?».
Non capivo la durezza nel suo tono. «No, siamo a casa da
domenica».
«Ma allora perché nessuno di voi è venuto a scuola?», domandò.
La sua irritazione mi confondeva. Sembrava non rendersi conto che
quella domanda era un’altra di quelle collegate alla leggenda.
«Be’, mi hai chiesto se il sole mi fa male e ti ho risposto di no»,
dissi. «Però non posso espormi alla sua luce... perlomeno non in
pubblico».
Questo la distrasse dal suo misterioso malumore. «Perché?»,
domandò, inclinando la testa di lato.
Dubitai di poter inventare un’analogia appropriata per spiegarle
anche questo. Così le dissi soltanto: «Un giorno ti farò vedere», e
subito mi chiesi se fosse una promessa che avrei finito per non
mantenere – l’avevo detto con molta disinvoltura, ma non riuscivo a
immaginare di farlo per davvero.
Non era, comunque, una cosa di cui preoccuparsi adesso. Non
sapevo se potevo concedermi di rivederla, dopo quella sera. La
amavo abbastanza da tollerare di lasciarla?
«Potevi chiamarmi», disse.
Che strana conclusione. «Ma sapevo che eri sana e salva».
«Io invece non sapevo dove fossi tu. Io...». Si interruppe
bruscamente e abbassò lo sguardo sulle sue mani.
«Cosa?».
«Non mi ha fatto piacere», lo disse timidamente, mentre
arrossiva. «Non vederti. Anche a me viene l’ansia».
Adesso sei felice?, mi chiesi. Be’, ecco qui la mia ricompensa per
aver sperato.
Ero sbalordito, euforico, inorridito – soprattutto inorridito – nel
rendermi conto che tutte le mie fantasie più ardite non erano così
lontane dalla realtà. Ecco perché a lei non importava che io fossi un
mostro. Era esattamente lo stesso motivo per cui, per me, le regole
non avevano più importanza. Perché giusto e sbagliato non avevano
più un forte ascendente su di me. Perché tutte le mie priorità erano
scese di livello per fare spazio, in cima, a questa ragazza.
Anche Bella teneva a me.
Sapevo che poteva non essere niente, confrontato all’amore che
provavo per lei – lei era mortale, volubile. Non era condannata ad
amarmi senza possibilità di riprendersi. Eppure, ci teneva tanto da
rischiare la sua vita per stare seduta lì con me. Ed essere felice di
farlo.
Tanto che l’avrei fatta soffrire se avessi fatto la cosa giusta e
l’avessi lasciata.
C’era qualcosa che potevo fare adesso e che non l’avrebbe
ferita? Qualsiasi cosa?
Ogni parola che pronunciavamo, ognuna di esse, era un chicco di
melagrana. Quella strana visione avuta nel ristorante era stata più
pertinente di quanto mi fossi reso conto.
Avrei dovuto starle alla larga. Non sarei mai dovuto tornare a
Forks. Le avrei fatto soltanto del male.
E questo mi avrebbe impedito di stare con lei, adesso? Di
mandare tutto in malora?
Le sensazioni che provavo in quel momento, il suo calore sulla
mia pelle...
No. Niente mi avrebbe fermato.
«Ah», gemetti fra me e me. «Così non va».
«Cos’ho detto?», mi chiese, pronta a prendersi la colpa di ogni
cosa.
«Non capisci, Bella? Che io renda infelice me stesso è una cosa,
ma che tu sia coinvolta è un altro paio di maniche. Non voglio più
sentirti dire che provi cose del genere». Era la verità, e anche una
bugia. La parte più egoista di me stava esultando alla
consapevolezza che lei mi voleva come io la volevo. «È sbagliato. È
rischioso. Bella, io sono pericoloso... ti prego, renditene conto».
«No». E sporse le labbra ostinatamente.
«Dico sul serio». Ero talmente combattuto fra il desiderio che lei
accettasse i miei avvertimenti e il desiderio che quegli stessi
avvertimenti non mi sfuggissero dalla bocca, che le parole mi
uscirono fra i denti come un ringhio.
«Anch’io», insistette lei. «Te l’ho detto, non m’importa cosa sei. È
troppo tardi».
Troppo tardi? Per un infinito istante, il mondo fu inesorabilmente
bianco e nero mentre, nel mio ricordo, guardavo le ombre allungarsi
verso il corpo addormentato di Bella sul prato assolato. Inevitabili,
inarrestabili. Rubavano il colore dalla sua pelle e la sprofondavano
nelle tenebre, negli inferi.
Troppo tardi? Mi vorticò nella mente la visione di Alice: gli occhi
rosso sangue di Bella che mi fissavano freddi, inespressivi. Sarebbe
stato impossibile che non mi odiasse per quel futuro. Per averle
rubato ogni cosa.
Non poteva essere troppo tardi.
«Non dirlo mai», sibilai.
Guardò fuori dal finestrino e si morse di nuovo il labbro. Teneva le
mani in grembo, chiuse in due pugni stretti. Respirava
affannosamente.
«A cosa pensi?». Dovevo saperlo.
Scosse la testa, senza guardarmi. Vidi qualcosa che luccicava,
come un cristallo, sulla sua guancia.
Sofferenza. «Piangi?». Io l’avevo fatta piangere. A tal punto
l’avevo ferita.
Si asciugò la lacrima con il dorso della mano.
«No», mentì, con la voce rotta.
Un istinto ormai sepolto da tanto tempo mi fece allungare la mano
verso di lei... in quell’unico istante mi sentii più umano di quanto mi
fossi mai sentito. E poi, ricordai che non lo ero. E ritrassi la mano.
«Scusa», dissi, teso. Come facevo a dirle quanto mi dispiaceva?
Per tutti gli stupidi errori che avevo commesso. Per il mio infinito
egoismo. Perché lei era stata talmente sfortunata da ispirare questo
mio primo e ultimo, tragico amore. Per quello che non potevo
controllare... l’essere stato il carnefice scelto dal destino per porre
termine alla sua vita.
Presi un respiro profondo – ignorando la mia abietta reazione al
profumo nella macchina – e tentai di riprendere il controllo.
Volevo cambiare argomento, pensare a qualcos’altro. Per mia
fortuna, nutrivo un’insaziabile curiosità per Bella.
«Dimmi una cosa», le chiesi.
«Parla», rispose con la voce ancora incrinata dal pianto.
«Cosa stavi pensando stasera, poco prima che arrivassi io? Non
riuscivo a leggere la tua espressione. Non sembravi impaurita,
pareva che ti sforzassi di concentrarti su qualcosa». Ricordai il suo
viso – sforzandomi di dimenticare attraverso quali occhi lo stavo
guardando –, la sua espressione determinata.
«Cercavo di ricordare come si mette fuori combattimento un
assalitore», disse, con la voce più controllata. «Insomma,
l’autodifesa. Stavo per spappolargli il naso conficcandoglielo nel
cervello». Il suo autocontrollo non durò fino alla fine della
spiegazione. Il tono cambiò fino a diventare ribollente di rabbia e
odio. Non era un’iperbole e la sua collera non era affatto divertente.
Riuscivo a vedere la sua figura fragile – come seta su un vetro –
messa in ombra dai grossi, nerboruti mostri umani che avrebbero
voluto farle del male. La collera ribollì anche nella mia testa.
«Li avresti affrontati?». Volevo piangere. I suoi erano istinti
suicidi. «Non pensavi di scappare?».
«Quando corro inciampo a tutto spiano», rispose con imbarazzo.
«Chiedere aiuto con un urlo?».
«Ci stavo arrivando».
Scossi la testa, incredulo. «Hai ragione», le dissi, con una vena
amara nella voce. «Cercare di tenerti in vita vuol dire davvero lottare
contro il destino».
Lei sospirò e guardò fuori. Poi guardò di nuovo me.
«Ci vediamo domani?», mi chiese, all’improvviso.
Dal momento che eravamo sulla strada per l’inferno, perché non
godersi il viaggio?
«Sì... Anch’io devo consegnare un saggio». Le sorrisi e mi parve
giusto così. Era chiaro che i suoi non fossero gli unici istinti che
andavano al contrario. «Ti tengo il posto, a pranzo».
Il suo cuore palpitò. Il mio cuore morto sentì un lieve calore.
Fermai la macchina davanti alla casa di suo padre. Lei non
accennò a voler scendere.
«Prometti che domani ci sarai?», insistette.
«Lo prometto».
Come potevo provare tanta felicità nel fare la cosa sbagliata?
Sicuramente, in questo, c’era qualcosa di stonato.
Lei annuì, soddisfatta, e cominciò a togliersi il mio giaccone.
«Puoi tenerlo», le assicurai. Preferivo lasciarla con qualcosa di
mio. Un pegno, come il tappo di bottiglia che avevo ancora nella
tasca. «O domani non avrai niente da mettere».
Ma lei me lo porse, con un sorriso triste. «Non mi va di dare
spiegazioni a Charlie», mi disse.
Potevo immaginare. Le sorrisi. «D’accordo».
Mise la mano sulla maniglia, poi si fermò. Non voleva andarsene,
come non lo volevo io.
Saperla senza protezione, anche solo per pochi minuti...
A quell’ora, Peter e Charlotte erano lontani, ben oltre Seattle,
senza dubbio. Ma c’era sempre qualcun altro.
«Bella?», domandai, stupefatto dal piacere che provai nel dire
semplicemente il suo nome.
«Sì?».
«Mi prometti una cosa?».
«Sì», acconsentì subito, poi socchiuse gli occhi, come se avesse
pensato a un motivo per obiettare.
«Non andare nel bosco da sola», la avvisai, chiedendomi se
questa richiesta avrebbe scatenato l’obiezione che le vedevo negli
occhi.
Lei batté le palpebre, sorpresa. «Perché?».
Lanciai uno sguardo torvo all’oscurità inaffidabile. La mancanza
di luce non era un problema per i miei occhi, ma non avrebbe creato
problemi neanche ad altri cacciatori.
«Diciamo che non sono sempre io la cosa più pericolosa in
circolazione», le dissi.
Lei ebbe un brivido, ma si riprese in fretta e stava persino
sorridendo, quando mi rispose: «Come vuoi».
Il suo respiro mi sfiorò il viso, dolcissimo.
Sarei potuto rimanere così per tutta la notte, ma lei aveva
bisogno di dormire. I due desideri sembravano ugualmente forti
mentre si davano continuamente battaglia dentro di me: volere lei
contro volere il suo bene.
Sospirai.
«Ci vediamo domani», dissi, sapendo che l’avrei vista molto
prima. Lei, però, non avrebbe visto me fino al giorno dopo.
«A domani, allora», rispose, mentre apriva la portiera.
Altra sofferenza, vederla andar via.
Mi protesi verso di lei, volevo trattenerla. «Bella?».
Lei si girò e poi rimase immobile, sorpresa di scoprire i nostri volti
così vicini. Anch’io fui sopraffatto dalla vicinanza. Il suo calore si
diffondeva a ondate, accarezzandomi il viso. Sentivo soltanto la seta
della sua pelle.
Il suo cuore saltò un battito e le sue labbra si dischiusero.
«Sogni d’oro», mormorai, e mi allontanai prima che l’urgenza
fisica che sentivo – sia la solita sete, sia una fame nuova e strana
che provai all’improvviso – potesse farmi commettere qualcosa che
le avrebbe nuociuto.
Bella rimase seduta immobile per un istante, con gli occhi
stupefatti e sbarrati. Abbagliata, immaginai. Come me.
Si riprese, anche se la sua espressione era ancora un po’
perplessa, e uscendo rischiò di cadere inciampando nei suoi piedi,
tanto che dovette sorreggersi alla macchina per rimanere dritta.
Ridacchiai, per fortuna troppo piano perché potesse sentirmi.
La guardai avanzare incespicando fino al cerchio di luce intorno
alla porta d’ingresso. Sana e salva, per il momento. E sarei tornato
presto per accertarmene.
Mentre guidavo lungo la strada buia, sentivo il suo sguardo che
mi seguiva. Una sensazione del tutto diversa da quella cui ero
abituato. Di solito, potevo semplicemente guardarmi attraverso gli
occhi di qualcun altro, se mi andava di farlo. Questa vaga
sensazione di essere osservato, invece, era stranamente eccitante.
Ma sapevo che lo era soltanto perché a guardarmi erano i suoi
occhi.
Un milione di pensieri si susseguivano nella mia testa, mentre
guidavo nella notte, senza meta.
Per molto tempo girai per le strade, senza andare da nessuna
parte, mentre pensavo a Bella e all’incredibile senso di liberazione
che mi dava sapere che la verità era ormai nota. Non dovevo più
temere che scoprisse che cosa ero. Lo sapeva. E non le importava.
Anche se per lei non era affatto un bene, era sorprendentemente
liberatorio per me.
Ma ancora di più pensavo a Bella e all’amore ricambiato. Non
poteva amarmi come l’amavo io, un amore travolgente, totale e
devastante come il mio probabilmente avrebbe distrutto il suo corpo
fragile. Ma lei si sentiva abbastanza forte. Abbastanza forte da
reprimere l’istintiva paura. Abbastanza forte da voler stare con me. E
stare con lei era la felicità più grande che avessi mai conosciuto.
Per un po’ – quando rimasi da solo e, per una volta, non potevo
fare del male nessuno – mi concessi di provare quella felicità, senza
rimuginare sulla tragedia. Di sentirmi emozionato perché lei teneva a
me. Di esultare per il trionfo di essermi guadagnato il suo affetto. Di
immaginare soltanto di stare seduto accanto a lei, il giorno dopo, ad
ascoltare la sua voce e meritare i suoi sorrisi.
Replicai, mentalmente, l’immagine di quel sorriso, vedendo le sue
labbra piene sollevarsi agli angoli, l’ombra di una fossetta sul mento
appuntito, il modo in cui i suoi occhi si scaldavano e diventavano
liquidi. Quanto erano calde e morbide le sue dita sulla mia pelle.
Immaginai come sarebbe stato toccare la pelle delicata sugli zigomi
– setosa, calda... così delicata. Seta su vetro... spaventosamente
fragile.
Non capii dove mi stavano portando i miei pensieri finché non fu
troppo tardi. Mentre mi soffermavo su quella devastante
vulnerabilità, altre immagini del suo viso si intromisero nelle mie
fantasie.
Smarrito nell’ombra, bianco di paura, eppure così determinato, gli
occhi pieni di concentrazione, il suo corpo sottile pronto a colpire le
enormi figure che la accerchiavano, mostri nell’oscurità.
«Ah», gemetti, mentre l’odio, tutt’altro che dimenticato nella gioia
di amarla, esplodeva di nuovo con una forza devastante.
Ero solo. Bella era sana e salva dentro casa sua; per un istante
fui felice che Charlie Swan – capo della polizia locale, addestrato e
armato – fosse suo padre. Doveva significare qualcosa, fornirle un
riparo.
Bella era al sicuro. Non ci sarebbe voluto poi molto per
distruggere il mortale che avrebbe voluto farle del male.
No. Lei meritava di meglio. Non potevo permetterle di affezionarsi
a un assassino.
Ma... e le altre? Bella era al sicuro, sì. Anche Angela e Jessica,
sane e salve nei loro letti.
Eppure, per le strade di Port Angeles girava libero un predatore.
Un mostro umano – questo ne faceva un problema degli umani? Noi
non ci immischiavamo spesso nelle questioni umane, tranne Carlisle
con la sua opera costante di cura e salvataggio. Quanto a noi, la
nostra debolezza verso il sangue umano costituiva un serio
impedimento al nostro relazionarci con loro. E, ovviamente, c’erano i
nostri guardiani, i Volturi, di fatto la polizia dei vampiri, che per il
momento erano lontani. Noi Cullen vivevamo in modo troppo
diverso. Attirare la loro attenzione con una qualsiasi azione pseudo
supereroica malamente sottostimata sarebbe stato estremamente
pericoloso per la nostra famiglia.
Quello era un problema umano, senza dubbio, non della nostra
gente. Commettere l’omicidio che volevo commettere era sbagliato.
Lo sapevo. Ma nemmeno lasciare quell’uomo libero di colpire ancora
poteva essere la cosa giusta.
La bionda direttrice di sala del ristorante. La cameriera che non
avevo mai davvero guardato. Entrambe mi avevano irritato con i loro
pensieri volgari, ma questo non significava che meritassero di
essere in pericolo.
Puntai la macchina verso nord, accelerando, ora che avevo un
obiettivo. Ogni volta che mi si presentava un problema oltre le mie
possibilità – qualcosa di concreto, come questo – sapevo dove
andare a cercare aiuto.
Alice era seduta sul portico, ad aspettarmi. Mi fermai davanti alla
casa, invece di parcheggiare in garage.
«Carlisle è nel suo studio», mi disse, prima che potessi
chiederglielo.
«Grazie», risposi, scompigliandole i capelli nel passarle accanto.
Grazie per avermi richiamata, pensò, sarcastica.
«Oh». Mi fermai vicino alla porta e tirai fuori il telefono. «Scusami.
Non ho nemmeno guardato chi fosse. Ero... occupato».
«Sì, lo so. Dispiace anche a me. Quando ho visto che cosa
sarebbe accaduto, tu eri già arrivato».
«Ci è mancato poco», mormorai.
Mi dispiace, ripeté, vergognandosi.
Era facile essere generosi sapendo che Bella stava bene. «Non
dispiacerti. So che non puoi vedere ogni cosa. Nessuno si aspetta
che tu sia onnisciente, Alice».
«Grazie».
«Stavo quasi per chiederti di venire a cena con me, questa sera.
L’hai visto, prima che cambiassi idea?».
Lei sorrise. «No, non ho visto nemmeno questo. Mi sarebbe
piaciuto saperlo. Sarei venuta».
«Su cosa ti stavi concentrando, per esserti persa tutte queste
cose?».
Su Jasper che pensava al nostro anniversario. Rise. Sta
cercando di non prendere decisioni sul mio regalo, ma penso di
averne un’idea...
«Sei senza vergogna».
«Sì».
Strinse le labbra e mi guardò con un’espressione leggermente
accusatoria. Dopo, però, sono stata più attenta. Hai intenzione di
dire agli altri che lei sa?
Sospirai. «Sì, più tardi».
Io non dirò niente. Fammi un favore, a Rosalie dillo quando io
non sono nei paraggi, okay?
Sussultai. «Certo».
Bella l’ha presa abbastanza bene.
«Troppo bene».
Alice mi sorrise. Non sottovalutarla.
Tentai di bloccare l’immagine che non volevo vedere: Bella e
Alice amiche del cuore.
Sospirai ancora, stavolta per impazienza. Volevo superare la
seconda parte della serata; volevo lasciarmela alle spalle. Ma ero un
po’ preoccupato di lasciare Forks.
«Alice...», cominciai. Lei vide che cosa stavo per chiederle.
Starà bene, stanotte. Adesso sarò più vigile. Ha quasi bisogno di
una sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro, non è vero?
«Come minimo».
«Comunque, la rivedrai presto».
Presi un bel respiro. Le sue parole erano un balsamo, per me.
«Vai... fai quello che devi, così potrai stare dove vuoi», mi disse.
Annuii e andai nello studio di Carlisle.
Mi stava aspettando, infatti guardava la porta anziché il grosso
libro posato sulla scrivania.
«Ho sentito Alice che ti diceva dove trovarmi», disse, e mi sorrise.
Era un sollievo essere con lui, vedere l’empatia e la profonda
intelligenza brillare nei suoi occhi. Carlisle avrebbe saputo cosa fare.
«Ho bisogno d’aiuto».
«Qualsiasi cosa, Edward», promise.
«Alice ti ha raccontato cos’è successo a Bella, questa sera?».
Quasi successo, mi corresse.
«Sì, quasi. Ho un problema, Carlisle. Vedi, voglio... voglio
davvero tanto... uccidere quell’uomo». Le parole cominciarono a
uscire come un fiume, veloci e appassionate. «Lo desidero molto.
Ma so che sarebbe sbagliato, perché si tratterebbe di una vendetta,
non di giustizia. Solo rabbia, nessuna imparzialità. Eppure, non può
essere giusto lasciare uno stupratore seriale, un assassino, libero di
girare per Port Angeles! Non conosco umani lì. Ma non posso
lasciare che un’altra vittima prenda il posto di Bella. Quelle altre
donne... non è giusto...».
Il suo ampio, inaspettato sorriso interruppe la foga delle mie
parole.
Ti fa un gran bene quella ragazza, vero? Così tanta
compassione, così tanto autocontrollo. Sono impressionato.
«Non sono in cerca di complimenti, Carlisle».
«Certo che no. Ma non posso censurare i miei pensieri». Sorrise
di nuovo. Me ne occuperò io. Puoi riposare tranquillo. Non ci
saranno altre vittime, al posto di Bella.
Vidi qual era il suo piano. Non era esattamente quello che volevo
– non soddisfaceva la mia brama di violenza – ma capii che era la
cosa giusta da fare.
«Ti faccio vedere dove trovarlo», dissi.
«Andiamo».
Uscendo, prese la sua borsa nera. Avrei preferito una forma di
sedazione più aggressiva – come un cranio fratturato – ma avrei
lasciato che Carlisle facesse a modo suo.
Prendemmo la mia macchina. Alice era ancora seduta sui gradini.
Ci sorrise, salutandoci con la mano mentre andavamo via. Vidi che
aveva guardato il futuro per me. Non avremmo avuto problemi.
Sulla strada buia e vuota, il viaggio fu molto breve. Spensi i fari
per non attirare l’attenzione. Sorrisi pensando a come avrebbe
reagito Bella a quella andatura. Quando aveva protestato stavo già
guidando a una velocità molto ridotta, per passare più tempo
insieme a lei.
Anche Carlisle stava pensando a Bella.
Non avevo previsto che gli avrebbe fatto così bene. È una
sorpresa. Forse era destino che accadesse. Forse serve per un
obiettivo più alto. Solo...
Si figurò nella mente l’immagine di Bella con la pelle bianca come
la neve e gli occhi rosso sangue, poi la scacciò, con un brivido.
Sì. Infatti. Solo. Perché cosa poteva esserci di buono nel
distruggere qualcosa di così puro e adorabile?
Guardai con rabbia nel buio, e tutta la gioia della serata
scomparve.
Edward merita di essere felice. Gli è dovuto. La passione feroce
nei pensieri di Carlisle mi soprese. Dev’esserci un modo.
Avrei tanto voluto credere nelle sue speranze. Ma non c’erano
scopi più elevati in quello che stava accadendo a Bella. Soltanto
un’arpia malvagia, un destino amaro e crudele che non tollerava che
lei avesse la vita che meritava.
Non mi attardai a Port Angeles. Accompagnai Carlisle nel bar
dove quella cosa perversa di nome Lanny stava annegando le
proprie delusioni insieme agli amici – due dei quali erano già
ubriachi. Carlisle capì quanto fosse difficile per me essere così
vicino, sentire i pensieri di quel demonio e vedere i suoi ricordi,
ricordi di Bella mischiati a quelli di ragazze meno fortunate che
nessuno ormai poteva salvare.
Il mio respiro accelerò. Le mani strinsero con forza lo sterzo.
Vai, Edward, mi disse gentilmente Carlisle. Farò in modo che
tutte le altre siano al sicuro. Torna da Bella.
Era esattamente la cosa giusta da dire. Il suo nome era l’unica
distrazione che significasse qualcosa per me.
Lasciai Carlisle in macchina e tornai correndo a Forks, tagliando
attraverso la foresta addormentata. Ci volle meno tempo rispetto
all’andata, in macchina. Soltanto pochi minuti più tardi scalavo la
parete della sua casa ed entravo dalla finestra.
Sospirai di sollievo. Era tutto come doveva essere. Bella al sicuro
nel suo letto, intenta a sognare, con i capelli bagnati aggrovigliati sul
cuscino.
Ma, a differenza delle altre notti, era raggomitolata con le coperte
strette intorno alle spalle. Freddo, immaginai. Prima che potessi
sedermi al mio solito posto, lei rabbrividì e le sue labbra tremarono.
Riflettei un attimo, poi uscii nel corridoio, esplorando per la prima
volta un’altra parte della sua casa.
Charlie russava sonoramente e in modo costante. Riuscivo quasi
ad afferrare i margini del suo sogno. Qualcosa che aveva a che fare
con lo scorrere dell’acqua e un’attesa paziente... la pesca, forse?
Lì, in cima alle scale, c’era un armadietto dall’aria promettente. Lo
aprii pieno di speranze e trovai quello che stavo cercando. Scelsi la
coperta più pesante dal ripostiglio della biancheria e la portai nella
stanza di Bella. L’avrei rimessa a posto prima che lei si fosse
svegliata e nessuno se ne sarebbe accorto.
Trattenendo il respiro, le sistemai addosso la coperta. Bella non
reagì al peso in più. Tornai a sedermi sulla sedia a dondolo.
Mentre aspettavo con impazienza che si scaldasse, pensai a
Carlisle, chiedendomi dove fosse in quel momento. Sapevo che il
suo piano sarebbe filato liscio, lo aveva visto Alice.
Il pensiero di mio padre mi strappò un sospiro. Carlisle mi dava
troppo credito. Avrei voluto essere la persona che pensava io fossi.
Quella persona, quella che meritava di essere felice, avrebbe potuto
sperare di essere degna di questa ragazza addormentata. Quanto
sarebbero state diverse, le cose, se io fossi riuscito a essere
quell’Edward.
Oppure, se non ci fossi riuscito, l’universo, per compensare,
avrebbe dovuto annullare la mia parte oscura. Non doveva esistere
una parte buona, uguale e contraria? Avevo immaginato il destino
con la faccia di una strega, come spiegazione per i terribili e assurdi
incubi che continuavano a perseguitare Bella: prima io stesso, poi il
furgoncino e poi la bestia immonda di quella sera. Ma se questo
destino era tanto potente, non doveva esistere una forza opposta in
grado di sventarne i piani?
Una persona come Bella doveva avere un protettore, un angelo
custode. Lo meritava. Eppure, era chiaro che fosse del tutto indifesa.
Avrei tanto voluto credere che un angelo, o qualsiasi altra cosa,
vegliasse su di lei, le offrisse protezione, ma quando cercavo di
immaginare quel difensore, era evidente quanto una cosa del genere
fosse impossibile. Quale angelo custode avrebbe permesso a Bella
di venire qui? Di incrociare la mia strada dato che, per come era
fatta, mi sarebbe stato impossibile non notarla? Un profumo di una
potenza assurda per reclamare la mia attenzione, una mente
silenziosa per stimolare la mia curiosità, una quieta bellezza per
incatenare il mio sguardo, un’anima altruista per guadagnarsi la mia
ammirazione. Aggiungendo a questo anche la totale mancanza di
istinto di conservazione, che non la induceva a sfuggirmi, e un fiume
di stupefacente sfortuna che la metteva sempre nel posto sbagliato
al momento sbagliato, era chiaro che un angelo custode fosse
soltanto una fantasia. Nessuno ne aveva bisogno o lo meritava più di
Bella. Eppure, qualsiasi angelo avesse consentito il nostro incontro
doveva essere talmente irresponsabile, sconsiderato e... dissennato,
che non poteva stare dalla parte del bene. Preferivo pensare che
esistesse davvero l’arpia, piuttosto che una creatura celeste così
incapace. Almeno avrei potuto combattere contro il destino avverso.
E avrei combattuto, e continuato a combattere. Qualsiasi fosse la
forza decisa a fare del male a Bella, avrebbe dovuto sfidare me. No,
lei non aveva alcun angelo custode. Ma avrei fatto del mio meglio
per colmare quella lacuna.
Un vampiro custode... era una forzatura.
Dopo circa mezz’ora, Bella si rilassò e si distese. Il suo respiro si
fece più profondo e lei cominciò a mormorare. Sorrisi, soddisfatto.
Era una piccola cosa, ma almeno adesso dormiva meglio per merito
mio.
«Edward», sospirò, e anche lei sorrise.
Misi da parte la tragedia, per il momento, e mi permisi di essere
di nuovo felice.
11. INTERROGATORI

La prima a battere la notizia fu la CNN.


Ero contento che ne avessero parlato prima che uscissi per
andare a scuola. Ero ansioso di sentire in che modo gli umani
avrebbero descritto l’accaduto e quanta attenzione avrebbe
suscitato. Per fortuna, fu una giornata piena di notizie. C’era stato un
terremoto in Sud America, e in Medio Oriente era avvenuto un
rapimento di stampo politico. Alla fine, quindi, alla vicenda fu
dedicato solo qualche secondo, giusto un paio di commenti e una
fotografia sgranata.
«Grazie a una segnalazione anonima, la scorsa notte a Portland,
nell’Oregon, è stato arrestato Orlando Calderas Wallace, un
presunto omicida ricercato negli Stati del Texas e dell’Oklahoma.
Wallace è stato trovato privo di conoscenza questa mattina presto, in
un vicolo, a pochi metri da una stazione di polizia. Al momento, gli
agenti non sono stati in grado di riferire se l’uomo verrà estradato a
Houston o a Oklahoma City per essere processato».
L’immagine non era nitida: era una foto segnaletica, e all’epoca in
cui era stata scattata l’uomo portava una barba folta. Anche se
l’avesse vista, probabilmente Bella non lo avrebbe riconosciuto. Io
speravo che non lo riconoscesse; l’avrebbe solo spaventata
inutilmente.
«Qui in città daranno poco spazio alla notizia. È un fatto accaduto
troppo lontano perché possa suscitare l’interesse locale», mi disse
Alice. «È stata una buona idea lasciare che Carlisle lo portasse via
dallo Stato».
Annuii. In ogni caso, Bella non guardava molto la TV e io non
avevo mai visto suo padre seguire altro all’infuori dei canali sportivi.
Avevo fatto quanto era nelle mie possibilità. Quell’essere ripugnante
non sarebbe più andato a caccia di vittime e io non ero stato un
assassino. Quantomeno, non di recente. Avevo fatto bene ad
affidarmi a Carlisle, anche se avrei voluto che quel farabutto non se
la fosse cavata così facilmente. Mi sorpresi a sperare che venisse
estradato in Texas, dove era molto diffusa la pena di morte.
No. Tutto questo non aveva più importanza. Mi sarei gettato la
vicenda alle spalle, concentrandomi invece su ciò che contava più di
ogni altra cosa.
Avevo lasciato la stanza di Bella da meno di un’ora. E già
agognavo di rivederla.
«Alice, ti dispiace se...».
Mi interruppe: «Ci porterà Rosalie. La farà lunga, ma tanto sai già
che approfitterà di questa scusa per sfoggiare la sua auto». Alice
scoppiò a ridere.
Le sorrisi. «Ci vediamo a scuola».
Alice fece un sospiro, e il mio sorriso mutò in un’occhiataccia.
Lo so, lo so, pensò lei. Non è ancora il momento. Aspetterò
finché non sarai pronto a farmi conoscere Bella. Anche se ormai
dovresti saperlo che qui non si tratta solo del mio egoismo. Anche io
piacerò a Bella.
Non le risposi e mi precipitai fuori della porta. Era un modo, il suo,
di vedere diversamente la situazione. Bella avrebbe voluto
conoscere Alice? Avere per amica una vampira?
Conoscendola, probabilmente l’idea non le avrebbe suscitato
alcun fastidio.
Mi accigliai al pensiero che quello che desiderava Bella e ciò che
risultava meglio per lei erano due cose completamente differenti.
Mentre parcheggiavo nel vialetto di Bella, iniziai a sentirmi a
disagio. Stando al proverbio degli umani, le cose appaiono diverse
alla luce del mattino... cambiano dopo che ci hai dormito sopra.
Sarei parso diverso a Bella alla debole luce di una giornata
nebbiosa? Più o meno sinistro di quanto le fossi sembrato nel buio
della notte? Aveva metabolizzato la verità nel sonno? Avrebbe
avuto, finalmente, paura?
Durante la notte appena trascorsa, però, i suoi sogni erano stati
serafici. Quando aveva pronunciato il mio nome, varie volte, aveva
sorriso. E in più occasioni sussurrando mi aveva pregato di
rimanere. Tutto questo, oggi, non avrebbe più avuto importanza?
Aspettavo nervoso, prestando ascolto ai suoni che provenivano
da dentro casa sua: i passi rapidi e malfermi sulle scale, lo strappo
improvviso di un foglio di alluminio, l’urto dei contenitori nel frigo
quando sbatté la porta. A giudicare dai rumori, sembrava fosse di
fretta. Era ansiosa di arrivare a scuola? Questo pensiero mi fece
sorridere, ancora una volta colmo di speranze.
Lanciai un’occhiata all’orologio. Tenendo conto della velocità
limitata a cui l’avrebbe costretta il suo pick-up decrepito, conclusi
che fosse davvero un po’ in ritardo.
Bella si precipitò fuori di casa, con lo zaino che le scivolava giù
dalla spalla e i capelli raccolti in una crocchia disordinata, che sulla
nuca iniziava già a scomporsi. Nonostante il pesante maglione
verde, si strinse nelle spalle per proteggersi dal freddo.
Quel lungo maglione era troppo grande per lei e non le donava
affatto. Celava la sua figura slanciata, rendendo le sue curve
delicate e le linee morbide un coacervo informe. Gliene fui grato, ma
al contempo avrei voluto che indossasse qualcosa di simile alla
morbida camicetta blu che portava la sera prima. Quel tessuto,
infatti, aderiva alla sua pelle in maniera particolarmente attraente ed
era abbastanza scollato da rivelare la forma magnetica delle sue
clavicole, che partivano dall’incavo della gola per poi incurvarsi. Quel
blu scorreva come acqua lungo le linee sottili del suo corpo.
Era meglio – anzi, essenziale – che tenessi i miei pensieri molto,
molto lontano da quelle forme, per questo ero grato di quella maglia
che non le si addiceva minimamente. Non potevo permettermi di
commettere sbagli, e sarebbe stato un colossale errore indugiare
sugli strani appetiti che il pensiero delle sue labbra... della sua
pelle... del suo corpo... stavano scatenando in me. Appetiti che non
avevo più provato da un secolo. Ma toccarla era un pensiero che
non mi potevo concedere, perché ciò era impossibile.
L’avrei distrutta.
Bella uscì talmente di fretta dalla porta che corse accanto alla mia
auto senza quasi accorgersene.
Dopodiché si arrestò bruscamente, con le ginocchia inchiodate
come quelle di un puledro spaventato. Lo zaino le scivolò dal braccio
e i suoi occhi rimasero spalancati, concentrandosi sulla macchina.
Smontai dall’auto, senza preoccuparmi di assumere la velocità di
un umano, e le aprii la portiera del passeggero. Non avrei più
cercato di ingannarla: almeno quando eravamo soli, sarei stato me
stesso.
Levò su di me lo sguardo, ancora una volta sorpresa di come,
apparentemente, mi fossi materializzato dalla nebbia. Poi però lo
stupore nei suoi occhi mutò in qualcos’altro, e non ebbi più da
temere – né sperare – che i suoi sentimenti per me fossero cambiati
durante la notte. Calore, meraviglia, rapimento: tutto questo
emanava dalla profondità traslucida dei suoi occhi.
«Hai bisogno di un passaggio?», le domandai. A differenza della
cena della sera prima, volevo che fosse lei a decidere. D’ora in poi,
doveva essere sempre una sua scelta.
«Sì, grazie», mormorò salendo in auto senza esitazioni.
Avrei mai smesso di entusiasmarmi per il fatto di essere io quello
a cui diceva di sì?
Girai in un baleno attorno all’automobile, ansioso di raggiungerla.
Quando riapparvi all’improvviso, lei non mostrò alcun segno di
turbamento.
La felicità che provai sedendomi accanto a lei in questo modo fu
del tutto inedita. Benché apprezzassi l’affetto e la compagnia della
mia famiglia, e nonostante i numerosi svaghi e divertimenti che il mio
mondo era in grado di offrirmi, non mi ero mai sentito più felice.
Anche se sapevo che era sbagliato, che non poteva andare a finire
bene, quando eravamo insieme non riuscivo a non sorridere.
Il mio giaccone era ripiegato sul poggiatesta del suo sedile. Notai
che lo osservava. «Ti ho portato questo», le dissi. Doveva essere la
mia scusa, se mai fosse stato necessario averne una, per essermi
presentato quella mattina senza essere stato invitato. Faceva freddo
e lei non aveva un giaccone. Di sicuro, era un gesto di galanteria
accettabile. «Non volevo che ti prendessi un raffreddore o qualcosa
del genere».
«Non sono così delicata», rispose fissandomi il petto anziché il
viso, come se avesse qualche esitazione a incrociare i miei occhi. A
ogni modo, prima che potessi cercare di persuaderla o pregarla, si
infilò la giacca.
«Ah, no?», mormorai tra me e me.
Mentre acceleravo per raggiungere la scuola, lei guardava la
strada. Dopo qualche secondo, non riuscii più a reggere il silenzio.
Quella mattina dovevo sapere quali fossero i suoi pensieri. Erano
cambiate così tante cose tra noi dall’ultima volta che era sorto il sole.
«Ehi, oggi niente questionario?», le chiesi mantenendo sempre
un tono leggero.
Lei sorrise come se fosse contenta che avessi toccato
l’argomento. «Le mie domande ti innervosiscono?».
«Non quanto le tue reazioni», risposi in modo franco, sorridendo
alla sua domanda.
Mise il broncio. «Reagisco male?».
«No, è proprio lì il problema. Sei sempre così tranquilla... È
innaturale». Fino a quel momento non c’era stato nemmeno un urlo.
Com’era possibile? «Mi chiedo cosa ti passi per la testa». Ovvio, me
lo chiedevo rispetto a tutto quello che faceva, o che non faceva.
«Ti dico sempre ciò che mi passa per la testa».
«Ma lo censuri».
Ancora una volta si morse il labbro. Pareva non accorgersi di
questo gesto; era una risposta inconscia alla tensione. «Non
granché».
Queste parole furono sufficienti a scatenare la mia curiosità. Che
cosa mi stava deliberatamente nascondendo?
«Abbastanza da farmi impazzire», ribattei.
Ebbe un momento di esitazione, dopodiché borbottò con un filo di
voce: «Sei tu che non vuoi sentirlo».
Prima di riuscire a comprendere dovetti riflettere un attimo,
ripercorrendo tutta la nostra conversazione della sera prima, parola
per parola. Forse, mi ci volle così tanta concentrazione poiché non
riuscivo a immaginare nulla che non avrei voluto che lei
condividesse con me. Finché poi – perché il tono della sua voce era
lo stesso della sera prima; improvvisamente, c’era di nuovo
dell’afflizione – ricordai. Una volta sola le avevo chiesto di non
dichiarare i suoi pensieri. Non dirlo mai, le avevo quasi ringhiato.
L’avevo fatta piangere...
Era forse questo che mi teneva nascosto? Quanto fossero
profondi i sentimenti che provava per me? Che non le importasse
nulla che fossi un mostro, e che ritenesse fosse ormai troppo tardi
per farle cambiare idea?
Non riuscivo a parlare: la gioia e il dolore erano troppo forti per
esprimerli a parole, e il conflitto tra loro troppo furioso per poter dare
una risposta coerente. Nell’auto calò il silenzio a eccezione del ritmo
costante del suo cuore e dei suoi polmoni.
«Ma i tuoi fratelli dove sono?», chiese di colpo.
Inspirai profondamente – rilevando per la prima volta, e con vera
sofferenza, il suo odore nell’auto; mi resi conto con soddisfazione
che mi ci stavo abituando – e mi sforzai di fare ancora il disinvolto.
«Hanno preso la macchina di Rosalie». Parcheggiai nel posto
libero accanto all’auto in questione. Celai un sorriso quando la vidi
sgranare gli occhi. «Appariscente, eh?».
«Uh, caspita. Se lei ha quella, perché si fa scarrozzare da te?».
Rosalie avrebbe gradito la reazione di Bella... Se solo fosse stata
obiettiva su Bella, cosa che probabilmente non sarebbe avvenuta.
«Come ho detto, è appariscente. Noi ci sforziamo di passare
inosservati».
Come ovvio, Bella era totalmente ignara della contraddizione
insita nella mia macchina. Non era un caso che la maggior parte
delle volte ci facessimo vedere a bordo di una Volvo, un’auto famosa
soprattutto per la sua sicurezza. La sicurezza: l’unica cosa che i
vampiri non avrebbero mai cercato in un veicolo. In pochi si
accorgevano che si trattava di un modello da corsa poco comune,
per non parlare delle modifiche che vi avevamo apportato
successivamente.
«Non ci riuscite», mi disse, per poi scoppiare in una risata
spensierata.
Il suono allegro e completamente sereno della sua risata scaldò il
vuoto che avevo in petto.
«Ma allora perché Rosalie oggi ha preso la sua macchina, se è
così vistosa?», si meravigliò.
«Non te ne sei accorta? Sto infrangendo tutte le regole».
La mia risposta dovette suonare un po’ terrorizzante – per cui,
ovvio, Bella abbozzò un sorriso.
Una volta scesi dall’auto, le andai quanto più possibile vicino,
facendo attenzione a ogni segnale che indicasse da parte sua del
fastidio per la mia prossimità. Per due volte aveva mosso verso di
me la mano, per poi ritrarla. Sembrava che volesse toccarmi... Il mio
respiro accelerò.
«Ma perché comprate macchine del genere, se siete gelosi della
vostra privacy?», mi chiese mentre camminavamo.
«Un capriccio», fu la mia ammissione. «Ci piace andare veloce».
«Ovviamente», mormorò con tono di disappunto.
Non alzò lo sguardo per vedere il mio sorriso di risposta.
Nooo! Non ci posso credere! Come diavolo ci è riuscita Bella?
I miei pensieri furono interrotti dallo sbigottimento di Jessica.
Stava aspettando Bella, cercando riparo dalla pioggia sotto la tettoia
della mensa, mentre tra le braccia stringeva il giaccone invernale di
Bella. I suoi occhi erano sgranati per l’incredulità. Dopo un istante,
anche Bella la vide. Le sue guance si arrossarono leggermente
quando si rese conto dell’espressione di Jessica.
La salutò dicendo: «Ehi, Jessica. Grazie per essertene
ricordata». Lei le allungò il giaccone senza proferire parola.
Sarei stato gentile con gli amici di Bella, indipendentemente dal
fatto che fossero o meno dei buoni amici. «Buongiorno, Jessica».
Caspita...
Gli occhi di Jessica schizzarono fuori dalle orbite, ma
contrariamente a quanto mi sarei immaginato, non fece alcun
sussulto né si tirò indietro. Sebbene spesso, in passato, mi avesse
ritenuto attraente, si era sempre mantenuta a distanza di sicurezza,
così come facevano inconsciamente tutti i nostri ammiratori. Era
strano e al tempo stesso divertente... e, a dire il vero, alquanto
imbarazzante... constatare quanto mi avesse rammollito stare vicino
a Bella. Era come se nessuno fosse più intimorito da me. Se lo fosse
venuto a sapere Emmett, ne avrebbe riso per i prossimi cent’anni.
«Ehm... ciao», mormorò Jessica lanciando una rapida occhiata,
assolutamente eloquente, al volto di Bella. «Be’, ci vediamo a
trigonometria».
Mi dirai tutto. Voglio i dettagli. Devo conoscere tutti i dettagli!
Cavoli, Edward Cullen!!!
La bocca di Bella si contrasse. «D’accordo, ci vediamo dopo».
I pensieri di Jessica si scatenarono all’impazzata mentre correva
in classe per la prima lezione, lanciando di tanto in tanto un’occhiata
indietro, verso di noi.
Tutto quanto. Non una parola di meno. Ma si erano già messi
d’accordo per incontrarsi ieri sera? Si stanno frequentando? E da
quanto? Come è riuscita a tenerlo segreto? E perché avrebbe voluto
fare una cosa simile? Non può essere successo per caso: le deve
piacere davvero un sacco. Riuscirò a scoprirlo. Chissà se hanno già
limonato. Oh, adesso svengo... I pensieri di Jessica si fecero
improvvisamente disarticolati e nella sua testa presero a vorticare
fantasie prive di parole. Le sue speculazioni mi diedero un sussulto,
e non solo perché in quelle immagini nella sua mente lei aveva
preso il posto di Bella.
Le cose non potevano andare in quel modo. Eppure io... Io
desideravo...
Non riuscii ad ammetterlo, neanche con me stesso. In quanti
modi sbagliati avrei voluto Bella? Quale di questi avrebbe finito per
ucciderla?
Scossi la testa e cercai di rilassarmi.
«Cosa le racconterai?», chiesi a Bella.
«Ehi!», sussurrò con fervore. «Ma allora mi leggi nel pensiero!».
«No». La guardai stupito, cercando di comprendere il senso delle
sue parole. Ah... dovevamo aver pensato la stessa cosa
contemporaneamente. «Però riesco a leggere nel suo: ti prenderà
d’assalto appena entri in classe».
Bella sbuffò, dopodiché iniziò a sfilarsi il giaccone. In un primo
momento non mi resi conto che stava per restituirmelo – non glielo
avrei chiesto indietro; avrei preferito che lo tenesse lei... come pegno
–, perciò tardai troppo a offrirle il mio aiuto. Mi allungò il giubbotto e
infilò le braccia nel suo.
«Perciò, cosa le racconterai?», incalzai.
«Mi dai un aiutino? Cosa vuole sapere?».
Sorrisi e scossi la testa. Volevo sapere che cosa stesse
pensando lei senza darle suggerimenti. «Non è corretto».
Strinse gli occhi. «No, non è corretto che tu non metta a
disposizione certe informazioni».
Giusto: non le piaceva che si usassero due pesi e due misure.
«Vuole sapere se usciamo assieme di nascosto», dissi
lentamente. «E vuole che tu le dica ciò che provi per me».
Sollevò le sopracciglia; stavolta non per lo stupore, ma con
ingenuità. Aveva un fare innocente.
«Oddio», borbottò. «E io cosa dovrei rispondere?».
«Mmm». Cercava sempre di farmi dire più di quanto lei fosse
disposta a dichiarare. Riflettei su cosa risponderle.
Una ciocca ribelle di capelli, leggermente inumiditi dalla nebbia, le
scendeva giù dalla spalla, andandosi ad arricciare proprio nel punto
in cui la clavicola era coperta da quel suo ridicolo maglione. Catturò i
miei occhi, guidandoli lungo tutte le altre linee nascoste...
La presi stando attento a non sfiorare la sua pelle – la mattina era
già abbastanza gelida senza bisogno di aggiungervi il mio tocco – e
la rimisi a posto nel suo chignon spettinato, così che non mi
distraesse ulteriormente. Ripensai a quando Mike Newton le aveva
toccato i capelli e a quel ricordo la mia mandibola si contrasse.
Allora, lei si era ritratta da lui. Adesso invece la sua reazione era
stata del tutto diversa; il sangue le era affluito sottopelle e
improvvisamente il cuore aveva preso a batterle in maniera
irregolare.
Mentre rispondevo alla sua domanda, cercai di celare il mio
sorriso.
«Penso che potresti rispondere di sì alla prima domanda... se non
è un problema per te». Che decidesse lei, che fosse sempre lei a
decidere. «È la spiegazione più facile da dare».
«Non è un problema», rispose con un filo di voce. Il ritmo del suo
cuore non era ancora tornato regolare.
«Quanto all’altra...». Stavolta non riuscii a nascondere il sorriso.
«Be’, anch’io sarò curioso di sentire la risposta».
Lasciai Bella a meditare su quella domanda. Dovetti soffocare
una risata, perché sul viso era affiorato tutto il suo turbamento. Le
voltai rapido le spalle, prima che potesse chiedermi dell’altro. Facevo
sempre fatica a non darle ciò che mi chiedeva. Ed erano i suoi
pensieri che volevo sentire, non i miei.
«Ci vediamo a pranzo», le urlai voltandomi, giusto una scusa per
controllare che fosse ancora lì a fissarmi. Aveva la bocca
spalancata. Mi girai di nuovo e scoppiai a ridere.
Andando via, percepii vagamente pensieri scioccati e indagatori
che mi turbinavano attorno: occhi che rimbalzavano avanti e indietro
tra il volto di Bella e la mia figura che si allontanava. Non ci badai più
di tanto. Non riuscivo a concentrarmi. Era già abbastanza difficile far
sì che i miei piedi si muovessero a una velocità accettabile mentre
attraversavo il prato fradicio di umidità per raggiungere la prima
lezione. Avevo voglia di correre; ma correre davvero, così forte da
scomparire, così forte che mi sarebbe sembrato quasi di volare. E
una parte di me stava già volando.
Arrivato in classe, misi su il giaccone e lasciai che il profumo di
Bella mi aleggiasse attorno con la sua intensità. Sarei arso dal
desiderio adesso – lasciando che il suo odore mi anestetizzasse –,
così che poi, quando mi fossi trovato di nuovo con lei a pranzo,
sarebbe stato più facile ignorarlo.
Era un bene che i professori non si preoccupassero più di
interrogarmi. Quello sarebbe stato il giorno in cui mi avrebbero colto
impreparato e avrei fatto scena muta. La mattina la mia mente
vagava in tanti luoghi diversi; solo il mio corpo era in classe.
Ovviamente tenevo d’occhio Bella. La cosa stava diventando
naturale: un automatismo come la respirazione, un pensiero a
malapena cosciente. Prestai ascolto alla sua conversazione con
Mike Newton, che era demoralizzato. Lei fu lesta nel dirottare il
discorso su Jessica e io ne sorrisi così apertamente che Rob
Sawyer, seduto al banco alla mia destra, ebbe un sussulto palese e
si ritrasse ulteriormente sulla propria sedia, allontanandosi da me.
Uh! Inquietante!
Be’, alla fine non mi ero poi rammollito del tutto.
Monitoravo vagamente anche Jessica, osservandola mentre
affinava le sue domande per Bella. A stento potevo aspettare fino
alla quarta ora, ero dieci volte più ansioso e impaziente di quella
ragazzina umana curiosa in cerca di pettegolezzi freschi.
E prestavo ascolto anche ad Angela Weber.
Non mi ero dimenticato della gratitudine che le dovevo, anzitutto
perché per Bella non aveva che pensieri gentili, e poi per l’aiuto della
sera precedente. Trascorsi quindi la mattinata in attesa, alla ricerca
di qualcosa che lei potesse desiderare. Credevo non sarebbe stato
difficile: come ogni altro essere umano, anche lei doveva avere tra i
suoi desideri qualche ninnolo o sciocchezza. Le avrei fatto recapitare
qualcosa in forma anonima, così da pareggiare il conto.
E invece, i pensieri di Angela si dimostrarono poco collaborativi
quasi quanto quelli di Bella. Per essere un’adolescente, era
stranamente soddisfatta. Felice. Forse era questo il motivo della sua
insolita gentilezza: era una di quelle rare persone che possiedono
quello che desiderano e desiderano quello che possiedono. Quando
non prestava attenzione ai professori e ai propri appunti, il suo
pensiero correva ai gemellini, i suoi fratelli, che quel fine settimana
avrebbe portato con sé in spiaggia, e nell’immaginare la loro
eccitazione provava un piacere quasi materno. Si prendeva spesso
cura di loro, ma ciò non provocava in lei alcun risentimento. Era
davvero dolce.
Ma non di grande aiuto per me.
Ci sarà pur stato qualcosa che desiderava. Dovevo
semplicemente continuare a cercare. Più tardi però. Adesso per
Bella era arrivata l’ora della lezione di trigonometria con Jessica.
Camminavo per raggiungere l’aula d’inglese, ma senza prestare
attenzione a dove stessi andando. Jessica era già seduta al suo
posto, tamburellando i piedi per l’impazienza in attesa dell’arrivo di
Bella.
Io, al contrario, una volta raggiunto il mio banco in classe mi
immobilizzai completamente. Di tanto in tanto, dovevo ricordare a
me stesso di agitarmi per portare avanti la mia messinscena. Non
era semplice; i miei pensieri erano così concentrati su Jessica.
Speravo che sarebbe stata attenta, cercando davvero di leggere per
me il volto di Bella.
Quando lei entrò in classe, Jessica iniziò a tamburellare i piedi
più freneticamente.
Mi sembra... cupa. Perché? Forse non c’è niente tra lei e Edward
Cullen. Questa sì che sarebbe una delusione. Tranne che... in tal
caso, lui allora è ancora disponibile... Se di colpo gli è venuta voglia
di uscire con qualcuna, non mi dispiacerà dargli una mano.
La faccia di Bella non era cupa, sembrava invece riluttante. Era
preoccupata: sapeva che io avrei ascoltato tutto.
«Dimmi!», pretese Jess mentre Bella era ancora intenta a
togliersi la giacca per appenderla sullo schienale della sedia. Si
muoveva con calma, controvoglia.
Uh, quant’è lenta. Andiamo subito ai dettagli piccanti!
«Cosa vuoi sapere?», traccheggiò Bella mettendosi a sedere.
«Cos’è successo ieri sera?».
«Mi ha portata a cena, poi mi ha accompagnata a casa».
E poi? Dai, ci deve essere stato dell’altro! In ogni caso sta
mentendo, lo so. Non se la caverà in questo modo.
«Come hai fatto a tornare a casa così presto?».
Vidi Bella alzare gli occhi al cielo dinanzi ai sospetti di Jessica.
«Guida come un pazzo. Ero terrorizzata».
Lei accennò un minuscolo sorriso e io risi ad alta voce,
interrompendo la spiegazione del professor Mason.
Cercai di far passare la mia risata per un colpo di tosse, ma non
ci cascò nessuno.
Il professor Mason mi lanciò un’occhiataccia irritata, ma io non mi
preoccupai neppure di cogliere il pensiero dietro a essa. Ero tutto
intento ad ascoltare Jessica.
Mmm. A sentirla, sembra stia dicendo la verità. Allora perché mi
costringe a cavarle di bocca ogni singola parola? Io invece me ne
vanterei gridandolo ai quattro venti.
«È stato una specie di appuntamento? Eravate d’accordo?».
Jessica notò della confusione nell’espressione di Bella e fu
delusa da quanto sembrasse autentica.
«No: sono stata molto sorpresa di incontrarlo», le disse Bella.
Cosa c’è sotto? «Ma oggi ti ha accompagnata a scuola, no?».
Deve esserci dell’altro in tutta questa storia.
«Sì... ma anche questa è stata una sorpresa. Ieri sera si è
accorto che ero rimasta senza giacca».
Questo non è molto divertente, pensò Jessica con rinnovata
delusione.
Ero stufo della sua sfilza di domande; volevo sentire qualcosa
che non sapessi già. Speravo non fosse insoddisfatta a tal punto da
saltare le domande che io stavo aspettando.
«Perciò, uscirete ancora?», domandò Jessica.
«Si è offerto di accompagnarmi a Seattle, sabato, perché è
convinto che il mio pick-up non ce la farà. Vale come un
appuntamento?».
Mmm. Di sicuro, lui si sta proprio dando da fare per... be’, per
prendersi cura di lei, in un certo senso. Se non da parte di lei, deve
esserci sotto qualcosa da parte di lui. Ma come è possibile? Bella è
davvero pazza.
«Sì». Jessica rispose alla domanda di Bella.
«Be’, allora sì», fu la conclusione di Bella.
«W-o-w... Edward Cullen». Che lui le piaccia o meno, questa sì
che è una notizia.
«Lo so», sospirò Bella.
L’intonazione della sua voce incoraggiò Jessica. Finalmente:
sembra averlo capito!
Mi domandai se Jessica stesse interpretando correttamente il
tono di Bella. Avrei voluto che le chiedesse di spiegare che cosa
intendesse dire, anziché darlo per scontato.
«Aspetta!», esclamò Jessica, ricordandosi improvvisamente della
domanda per lei più importante.
«Ti ha baciata?». Ti prego, di’ di sì. E poi descrivimi ogni istante!
«No», mormorò Bella, dopodiché abbassò lo sguardo sulle
proprie mani con aria delusa. «Non è come pensi».
Dannazione. Speravo che... ah! Sembra che dispiaccia anche a
lei.
Mi corrucciai. Bella sembrava turbata da qualcosa, ma non
poteva essere la delusione che immaginava Jessica. Non poteva
desiderare quello. Non sapendo quello che sapeva. Non poteva
desiderare di trovarsi così vicina ai miei denti. Per quel che ne
sapeva lei, io ero munito di zanne.
Ebbi un brivido.
«Pensi che sabato...», incalzò Jessica.
Bella parve ancor più frustrata quando disse: «Ne dubito
fortemente».
Sì, eccome se lo vorrebbe. Gran bello schifo.
A quanto pareva Jessica aveva ragione, forse perché stavo
osservando tutto questo attraverso il suo filtro percettivo?
Per mezzo istante fui distratto dall’idea, dall’impossibilità, di come
sarebbe stato provare a baciare Bella. Le mie labbra sulle sue, una
gelida pietra a contatto con una seta calda e arrendevole...
E poi lei che muore.
Scossi il capo, trasalendo, e mi concentrai di nuovo.
«Di cosa avete parlato?». Gli hai parlato, oppure lo hai costretto a
cavarti di bocca ogni minima informazione, come stai facendo con
me?
Sorrisi mestamente. Jessica era andata molto vicino alla realtà.
«Non so, Jess, un sacco di cose. Abbiamo parlato del saggio di
inglese per un po’».
Davvero per poco. Il mio sorriso si allargò.
Oh, maddai! «Ti prego, Bella, dammi qualche particolare in più».
Bella ci pensò su per un momento.
«Be’... d’accordo, uno solo. Avresti dovuto vedere la cameriera:
gli ha fatto una corte spietata. Ma lui non se l’è filata!».
Che strano dettaglio da condividere. Ero sorpreso che Bella lo
avesse notato. Sembrava una cosa così insignificante.
Interessante... «Buon segno. Era carina?».
Ehm. Il pensiero di Jessica vi si soffermò più di quanto avesse
fatto il mio.
«Molto», fu il commento di Bella. «E avrà avuto diciannove o
vent’anni».
Per un momento, Jessica fu distratta da un ricordo su Mike
durante il loro appuntamento di lunedì sera: lui era stato un tantino
troppo cordiale con una cameriera che lei non trovava affatto carina.
Scacciò quel ricordo e, soffocando la propria irritazione, tornò alla
sua caccia di dettagli.
«Meglio ancora. Vuol dire che gli piaci».
«Penso di sì», disse Bella lentamente, mentre io rimanevo sul
bordo della sedia con il corpo rigido e immobile. «Ma è difficile dirlo.
È sempre così criptico».
Non dovevo essere stato così trasparente e fuori controllo come
avevo creduto. Eppure, attenta com’era... come aveva potuto non
accorgersi che l’amavo? Riesaminai con cura la nostra
conversazione, quasi sorpreso di non aver pronunciato quelle parole
ad alta voce. Avevo avuto l’impressione che quella consapevolezza
fosse stata il sottinteso di tutta la nostra comunicazione.
Cavoli. Come te ne puoi stare seduta accanto a un modello e
metterti a fare conversazione? «Non so dove trovi il coraggio di
restare sola con lui», disse Jessica.
Il volto di Bella fu attraversato dal turbamento. «Perché?».
Che strana reazione. Cosa crede che intendessi? «Mette così...».
Come dire? «In soggezione. Io non saprei cosa dirgli». Stamattina
non sono riuscita a spiccicare una parola con lui, e mi ha detto solo
buongiorno. Devo essergli sembrata una tale idiota.
Bella sorrise: «A dire la verità, anch’io ho qualche problema di
lucidità quando è nei paraggi».
Probabilmente stava cercando di mettere Jessica a proprio agio.
Quando eravamo insieme aveva un autocontrollo quasi innaturale.
«Oh, be’», sospirò Jessica. «È bello da non crederci, non c’è
dubbio».
Il viso di Bella si fece improvvisamente più freddo. I suoi occhi
ebbero un lampo come quando si risentiva per qualche ingiustizia.
Jessica non si accorse del mutamento nella sua espressione.
«E poi, in lui, c’è molto altro», disse bruscamente Bella.
Oooh. Ora sì che facciamo progressi. «Davvero? Per esempio?».
Bella si morse per un attimo il labbro. Infine disse: «Non so come
spiegarlo... Ma dietro la facciata è ancora più incredibile». Distolse lo
sguardo da Jessica e i suoi occhi si persero leggermente nel vuoto,
come se stesse fissando qualcosa di molto lontano.
Mi fece ricordare il modo in cui mi sentivo quando Carlisle o
Esme mi elogiavano ben più di quanto non meritassi. Era
un’emozione simile, ma decisamente più intensa, più travolgente.
Dalla a bere a qualcun’altra: non c’è nulla che batta quel viso! A
meno che non si tratti del suo corpo. Adesso svengo. «Davvero?»,
ridacchiò Jessica.
Bella non si voltò. Continuava a fissare lontano, ignorando
l’amica.
Una persona normale starebbe gongolando. Magari, se continuo
a farle delle domande semplici. Ecco! Come se parlassi a una
dell’asilo. «Perciò ti piace?».
Mi irrigidii nuovamente.
Bella non stava guardando Jessica. «Sì».
«Voglio dire, ti piace davvero?».
«Sì».
Guarda com’è diventata rossa!
«Quanto ti piace?», domandò Jessica.
L’aula d’inglese sarebbe potuta andare a fuoco, io non me ne
sarei accorto.
Ora il viso di Bella si era acceso di un rosso vivo: riuscivo quasi a
percepirne il calore attraverso l’immagine mentale.
«Troppo», bisbigliò. «Più di quanto io piaccia a lui. Ma credo
proprio di non poterci fare niente».
Diamine! Che cosa ha appena chiesto il professor Varner?
«Uhm... Che numero, professor Varner?».
Fu un bene che Jessica non potesse più interrogare Bella. Avevo
bisogno di un minuto. A che stava mai pensando quella ragazza
adesso? Più di quanto io piaccia a lui? Come le era venuta in mente
quell’idea? Ma credo proprio di non poterci fare niente? E questo
che cosa voleva dire? Non riuscivo a dare una spiegazione razionale
a quelle parole. Erano praticamente prive di senso.
A quanto pareva, non potevo dare nulla per scontato. In qualche
modo, in quel suo cervello bizzarro, le ovvietà, cose che erano
perfettamente sensate, si distorcevano e si capovolgevano.
Guardai furioso l’orologio, digrignando i denti. Come potevano dei
semplici minuti sembrare così incredibilmente lunghi per un
immortale? Dov’era finito il mio senso della prospettiva?
La mia mandibola rimase contratta per tutta la lezione di
trigonometria del professor Varner. Prestai molto più ascolto alla sua
lezione che a quella in classe mia. Bella e Jessica non parlarono più,
ma un paio di volte quest’ultima lanciò a Bella un’occhiata furtiva, e
una volta notai che il suo viso si era fatto di nuovo di un rosso vivo
senza alcun motivo apparente.
L’ora di pranzo non arrivava mai.
Non ero sicuro che per la fine della lezione Jessica avrebbe
ottenuto alcune delle risposte che io stavo aspettando, ma Bella fu
più rapida di lei.
Non appena suonò la campanella, si girò verso Jessica.
«Durante inglese Mike chiedeva se tu mi avessi raccontato
qualcosa di lunedì sera», dichiarò Bella con un sorriso che le correva
da un capo all’altro della bocca. Compresi il suo gioco: la miglior
difesa è l’attacco.
Mike ha chiesto di me? La gioia rese la mente di Jessica
improvvisamente inerme, più affabile e priva della malignità
consueta. «Stai scherzando! E tu?».
Chiaramente, per quel giorno era tutto quello che sarei riuscito a
ottenere da Jessica. Bella sorrideva come se stesse pensando alla
stessa cosa. Come se avesse vinto lei quel round.
Bene, all’ora di pranzo sarebbe andata diversamente.
Trascorsi insieme ad Alice la lezione di ginnastica, muovendomi
in preda all’apatia come sempre facevamo quando dovevamo
svolgere delle attività fisiche con gli umani. Ovviamente era lei la mia
compagna di squadra. Nessun umano avrebbe mai scelto di fare
coppia con uno di noi. Era il primo giorno in cui si giocava a
badminton. Lanciai un sospiro annoiato, girando la racchetta al
rallentatore per ribattere il volano nel campo opposto. Nella squadra
avversaria giocava Lauren Mallory; mancò il tiro. Alice invece
roteava la sua racchetta come se fosse una bacchetta, mentre con
lo sguardo osservava il soffitto. Poi fece un passo per avvicinarsi alla
rete, e Lauren ne fece due per tirarsene indietro.
Tutti noi odiavamo l’ora di ginnastica, soprattutto Emmett.
Perdere una partita costituiva un affronto alla sua filosofia personale.
Quel giorno fare ginnastica sembrava peggio del solito: sentivo la
stessa irritazione che Emmett provava tutte le volte. Prima che la
mia testa rischiasse di esplodere per l’impazienza, l’allenatore Clapp
mise fine alle partite e ci mandò via in anticipo. Mi sentivo
ridicolmente grato che avesse saltato la colazione – un nuovo
tentativo di mettersi a dieta –, motivo per cui i morsi della fame lo
avevano costretto a lasciare in tutta fretta il campus per cercare da
qualche parte un pasto carico di grassi. Si era ripromesso che
avrebbe ricominciato la dieta l’indomani...
Questo mi diede il tempo necessario per raggiungere l’edificio di
matematica prima che terminasse la lezione di Bella.
Divertiti, fu il pensiero di Alice mentre andava incontro a Jasper.
Ancora qualche giorno di pazienza. Presumo che non porterai a
Bella i miei saluti, dico bene?
Scossi la testa esasperato. Ma tutti i sensitivi erano così
compiaciuti?
Per tua informazione, questo fine settimana splenderà il sole su
entrambi i lati dello stretto. Forse vorrai rivedere i tuoi programmi.
Procedendo in direzione opposta lanciai un sospiro. Compiaciuti,
ma sicuramente utili.
Mi misi ad aspettare appoggiato al muro, accanto alla porta. Ero
abbastanza vicino da sentire la voce di Jessica attraverso i mattoni
al pari dei suoi pensieri.
«Oggi non mangi assieme a noi, vero?». Sembra tutta così...
radiosa. Scommetto che ci sono miliardi di cose che non mi ha detto.
«Non penso», rispose Bella, stranamente incerta.
Non le avevo promesso che sarei stato con lei a pranzo? A che
cosa stava pensando?
Uscirono insieme dalla classe ed entrambe sbarrarono gli occhi
quando mi videro. Io però riuscivo a sentire solo Jessica.
Caspita. Premuroso. Oh sì, qui c’è sotto ben più di quel che mi
racconta.
«A dopo, Bella».
Bella mi venne incontro e si fermò a un passo di distanza, ancora
insicura. La sua pelle si era fatta tutta rossa sugli zigomi.
La conoscevo abbastanza bene da essere certo che dietro la sua
esitazione non vi fosse paura. A quanto pareva, la ragione era
invece un qualche baratro che lei aveva immaginato esserci tra i
suoi sentimenti e i miei. Più di quanto io piaccia a lui. Che assurdità!
«Ciao», le dissi con voce un po’ malinconica.
Il suo viso diventò ancora più rosso. «Ciao».
Non sembrò propensa a dire qualcosa in più, perciò feci strada in
direzione della mensa e lei mi camminò accanto, in silenzio.
Il giaccone aveva funzionato: il suo odore non costituiva più
quella sferzata che avvertivo in genere. Non era che un semplice
acuirsi del dolore che già provavo. Riuscivo a ignorarlo più
facilmente di quanto un tempo avrei creduto possibile.
Mentre aspettavamo in fila, Bella era irrequieta, giocherellava
distrattamente con la cerniera della giacca, spostando nervosa il
peso da un piede all’altro. Mi lanciava spesso un’occhiata, senza
però mai incrociare il mio sguardo, guardando in basso come se
fosse imbarazzata. Forse perché erano in tanti a fissarci? Magari
riusciva a sentire tutto quel forte sussurrio: quel giorno i pettegolezzi
erano tanto verbali quanto mentali.
Oppure, magari, dalla mia espressione aveva compreso che a
breve le avrei chiesto delle spiegazioni.
Non disse una parola finché non iniziai ad assemblare il suo
pranzo. Non conoscevo i suoi gusti – non ancora –, perciò presi un
po’ di tutto.
«Cosa fai?», sibilò a bassa voce. «Non starai prendendo tutta
quella roba per me?».
Scossi il capo e spinsi il vassoio verso la cassa. «Metà è per me,
ovviamente».
Sollevò un sopracciglio scettica, ma senza aggiungere altro
mentre pagavo e la scortavo allo stesso tavolo a cui ci eravamo
seduti la settimana prima. Non sembrava fossero passati solamente
pochi giorni. Ora era tutto diverso.
Ancora una volta, prese posto davanti a me. Io spinsi il vassoio
verso di lei.
«Scegli pure», la esortai.
Prese una mela e iniziò a rigirarla tra le dita con un’espressione
indagatrice.
«Sono curiosa...».
Che novità.
«Come reagiresti se qualcuno ti sfidasse a mangiare del cibo?»,
continuò a dire a bassa voce perché non arrivasse alle orecchie
umane. Quelle degli immortali erano tutt’altra storia, sempre che
quelle orecchie fossero ora in ascolto. Aggrottai la fronte.
«Curiosa come al solito», protestai. Be’, certo. Non è che non
avessi mai mangiato prima. Faceva parte della messinscena. Una
parte spiacevole.
Afferrai la cosa a me più vicina e, tenendo lo sguardo fisso su di
lei, diedi un piccolo morso a quel che avevo preso. Poiché non
avevo guardato, non sapevo di che si trattasse. Era viscido, spesso
e ripugnante come qualsiasi genere di alimento umano. Masticai
rapidamente e mandai giù, cercando di non tradire in viso il disgusto
che provavo. Il bolo di cibo si fece strada lentamente e con fastidio
giù per la gola. Sospirai pensando a come poi lo avrei dovuto
rigurgitare. Un pensiero ripugnante.
L’espressione sul volto di Bella era scioccata. Incredula.
Mi venne voglia di alzare gli occhi al cielo. Era ovvio che noi
avessimo escogitato simili inganni. «Se qualcuno ti sfidasse a
mangiare spazzatura potresti farlo, no?».
Arricciò il naso e sorrise. «Una volta è successo... una
scommessa. Non era così male».
Io risi. «La cosa non mi sorprende più di tanto».
Come ha potuto? Che idiota egoista! Come ha potuto farci
questo? L’urlo mentale di Rosalie fu penetrante e irruppe nella mia
ilarità.
«Calmati, Rose», sentii Emmett sussurrare all’altro capo della
mensa. Le aveva messo il braccio attorno alle spalle, stringendola al
suo fianco... per trattenerla.
Mi spiace, Edward, pensò Alice sentendosi colpevole. Dalla
vostra conversazione ha capito che Bella sapeva troppo... e, be’,
sarebbe stato peggio se non le avessi detto subito la verità. Credimi.
Ebbi un sussulto all’immagine mentale che ne seguì, per ciò che
sarebbe accaduto se, una volta tornati a casa dove Rosalie non era
costretta a salvare le apparenze, avessi ammesso con lei che Bella
sapeva che ero un vampiro. Se non si fosse calmata prima della fine
della scuola, avrei dovuto cercare un posto fuori dallo Stato in cui
nascondere la mia Aston Martin. Per quanto fossi consapevole di
essermi meritato quel castigo, mi turbò vedere la mia auto preferita
ridotta a pezzi e in fiamme.
Jasper non era molto più contento.
Mi sarei occupato degli altri più tardi. Il tempo a mia disposizione
per stare con Bella era solo quello, e non lo avrei sciupato.
Sembra che Edward e Bella siano diventati intimi, no? Mentre
cercavo di ignorare Rosalie, si inserirono i pensieri di Jessica.
Stavolta non fui seccato per l’intrusione. C’è un buon linguaggio
corporeo. Poi dirò a Bella la mia impressione. Lui va verso di lei
proprio come farebbe se provasse un interesse. Mi sembra
interessato. Sembra... perfetto. Jessica sospirò. Quant’è fico.
Incrociai gli occhi pieni di curiosità di Jessica e lei distolse lo
sguardo nervosa, stringendosi sulla sedia. Mmm. Forse è meglio che
mi concentri su Mike. Sulla realtà, e non sulle fantasie...
Era passato pochissimo tempo, eppure Bella si accorse della mia
disattenzione.
«Jessica sta analizzando tutti i miei movimenti», dissi io, usando
come giustificazione la minore tra le due distrazioni. «Più tardi ti farà
un resoconto dettagliato».
L’irritazione di Rosalie non accennava a placarsi, era un caustico
monologo interiore che si interrompeva a stento, giusto uno o due
secondi, per cercare tra i suoi ricordi qualche nuovo insulto da
scagliarmi contro. Cacciai in sottofondo il suono dei suoi pensieri,
perché ero determinato a prestare tutta la mia attenzione a Bella.
Spinsi verso di lei il piatto con il cibo – mi resi conto che era della
pizza –, pensando piuttosto a quale fosse il modo migliore per
introdurre il discorso. Non appena mi tornarono in mente le sue
parole, mi assalì di nuovo un senso di frustrazione: Più di quanto io
piaccia a lui. Ma credo proprio di non poterci fare niente.
Lei diede un morso allo stesso pezzo di pizza. Ero stupito da
quanto si fidasse. Certo, non sapeva che io fossi velenoso; non che
condividere del cibo potesse farle del male. Mi aspettavo però che
mi avrebbe trattato diversamente. Come qualcosa di diverso.
E invece non lo fece mai.
Volevo iniziare con delicatezza.
«Perciò, la cameriera era carina?».
Lei sollevò ancora il sopracciglio. «Non te ne eri accorto?».
Come se qualsiasi altra donna potesse sperare di distogliere la
mia attenzione da Bella. Un’altra assurdità.
«No, non ci ho fatto caso. Avevo altro per la testa».
«Poveretta», replicò lei sorridendo.
Gradì il fatto che io non avessi trovato in alcun modo interessante
quella cameriera. E questo lo potevo comprendere. Quante volte, a
biologia, avevo immaginato di azzoppare Mike Newton?
Ma poteva davvero credere che i suoi sentimenti umani, la
fruizione di diciassette brevi anni di vita da mortale, potessero
superare la forza di questo grumo di emozioni devastanti che mi
aveva ridotto a pezzi dopo un secolo di vuoto?
«Una delle cose che hai detto a Jessica...». Non riuscii a
mantenere un tono di voce indifferente. «Be’, mi infastidisce un po’».
Lei si mise subito sulla difensiva. «Non mi sorprende che tu abbia
sentito qualcosa di spiacevole. Sai quel che si dice di chi origlia».
Come recita il proverbio, chi si mette a origliare non sente mai
niente di buono su di sé.
«Ti ho avvertita che sarei rimasto in ascolto», le ricordai.
«E io ti ho avvertito che non avresti gradito conoscere tutti i miei
pensieri».
Ah, stava pensando a quando l’avevo fatta piangere. Il rimorso mi
arrochì la voce. «In effetti, mi avevi avvertito. Però, non credo tu
abbia ragione fino in fondo. Voglio sapere sì ciò che pensi, e tutto.
Soltanto, mi piacerebbe... che non pensassi certe cose».
Un’altra mezza bugia. Sapevo che non avrei dovuto desiderare
che lei ci tenesse a me. Ma lo volevo. Eccome se lo volevo.
«Bella differenza», protestò lei imbronciandosi.
«Ma non è questo il problema, al momento».
«E quale sarebbe?».
Si sporse in avanti, verso di me, coprendosi leggermente la gola
con la mano. Il suo gesto catturò la mia attenzione, distraendomi.
Come doveva essere morbida quella pelle...
Concentrati, ordinai a me stesso.
«Sei davvero convinta di piacermi meno di quanto io piaccia a
te?», le chiesi. La domanda mi parve ridicola, come se quelle parole
fossero state enunciate alla rinfusa.
Si bloccò per un attimo; anche il suo respiro si arrestò. Dopodiché
distolse lo sguardo, sbattendo velocemente le palpebre. Riprese
fiato con un rantolo basso.
«Lo stai rifacendo», mormorò.
«Cosa?».
«Stai cercando di incantarmi», ammise tornando a incrociare il
mio sguardo con fare cauto.
«Ah». Non sapevo come comportarmi riguardo a quello. Ero
ancora eccitato all’idea di poterla incantare. Questo però non era di
aiuto a far progredire la nostra conversazione.
«Non è colpa tua», sospirò. «Non ci puoi fare niente».
«Mi vuoi rispondere?», le chiesi.
Si mise a fissare il tavolo. «Sì».
Fu tutto quel che disse.
«Sì mi vuoi rispondere, o sì ne sei davvero convinta?», chiesi con
impazienza.
«Sì ne sono convinta», replicò senza nemmeno alzare lo
sguardo. Nella sua voce vi fu una lieve nota di malinconia. Arrossì
ancora una volta e i denti tornarono inconsciamente a tormentarle il
labbro. Improvvisamente, mi resi conto che per lei questo doveva
essere particolarmente faticoso da ammettere, perché ne era
sinceramente convinta. E io non mi ero comportato molto meglio di
quel codardo di Mike, chiedendole di confermare i suoi sentimenti
prima di darle prova dei miei. Non importava che sentissi di averle
chiarito abbondantemente come stessero le cose da parte mia. Lei
non l’aveva capito, perciò non avevo scusanti.
«Ti sbagli», la rassicurai. Doveva sentire la tenerezza nella mia
voce.
Bella alzò lo sguardo verso di me, i suoi occhi erano oscuri, non
lasciavano trasparire nulla. «Non puoi esserne sicuro», sussurrò.
«Cosa te lo fa pensare?», domandai. Dedussi che, secondo lei, io
stessi sottovalutando i suoi sentimenti perché non potevo sentire
quello che lei pensava. Il problema vero era, invece, che era lei a
sottovalutare notevolmente i miei, di sentimenti.
Proprio quando stavo per iniziare a implorarla, lei sollevò un dito
per impedirmi di parlare.
«Ci devo riflettere», fu la sua richiesta.
Se il suo bisogno era semplicemente quello di riorganizzare i
pensieri, allora potevo essere paziente.
O, quantomeno, fingere di esserlo.
Unì i palmi delle mani, intrecciando e sciogliendo le dita sottili.
Parlò guardandosi le mani come se fossero quelle di qualcun altro.
«Be’, ovvietà a parte», disse bisbigliando, «a volte... non mi sento
sicura – non sono capace di leggere nel pensiero, io – e ogni tanto
ho la sensazione che mentre mi dici certe cose in realtà tu stia
cercando di lasciarmi perdere». Non sollevò lo sguardo.
Se ne era accorta davvero? Si era resa conto che a trattenermi
erano solamente egoismo e debolezza? Questo riduceva la stima
che provava nei miei confronti?
«Perspicace», sospirai, ma poi vidi con orrore la sofferenza che
aveva stravolto la sua espressione. Mi affrettai a contraddire la sua
conclusione. «Purtroppo, è proprio qui che ti sbagli», cominciai a
dire, dopodiché feci una pausa ripensando alle prime parole da lei
usate nella sua spiegazione. Per quanto non le comprendessi, mi
infastidivano. «Cosa intendi per “ovvietà”?».
«Be’, guardami», disse.
La stavo guardando. Non facevo altro che guardarla.
«Sono una ragazza assolutamente normale...», chiarì lei. «Certo,
a parte difetti come gli incidenti quasi mortali e una goffaggine degna
di una disabile. E guarda te». Con la mano smosse l’aria verso di
me, come se stesse dicendo qualcosa di talmente ovvio che non
valesse la pena esplicitarlo.
Era convinta di essere una ragazza ordinaria? Credeva che io
fossi in qualche modo migliore di lei? Secondo il parere di chi?
Qualche umano cieco, sciocco e dalla mente ottusa come Jessica o
la signorina Cope? Com’era possibile che non si rendesse conto di
essere la più bella... la più deliziosa...? Questi aggettivi non
bastavano neppure.
E lei non ne aveva proprio idea.
«Credo che tu non abbia una buona percezione di te stessa»,
dichiarai. «Devo ammettere che quanto ai difetti ci hai azzeccato»,
risi senza allegria. Non vedevo comicità nel destino malvagio che la
perseguitava. Quanto alla goffaggine, invece, era in qualche modo
divertente. Dolce. Mi avrebbe creduto se le avessi detto che era
bellissima, sia dentro che fuori? Forse avrebbe ritenuto più
convincenti delle prove. «Ma tu non hai sentito cos’hanno pensato
tutti gli studenti maschi di questa scuola quando ti hanno vista la
prima volta».
Ah, la speranza, l’eccitazione, la brama di quei pensieri. La
velocità con cui si erano mutati in fantasie impossibili da realizzare.
Impossibili perché lei non desiderava nessuno di loro.
Ero io quello a cui aveva detto di sì.
Probabilmente feci un sorriso compiaciuto.
Il suo viso era pieno di stupore. «Non ci credo...», mormorò.
«Per una volta fidati, se ti dico che sei l’esatto contrario della
normalità».
Non era abituata a ricevere complimenti, era evidente. Arrossì e
cambiò argomento. «Ma io non sono intenzionata a lasciarti
perdere».
«Non capisci? È la dimostrazione che ho ragione io. Ci tengo più
di te, perché se ci riuscissi...». Sarei mai riuscito a essere
abbastanza altruista da fare la cosa giusta? Scossi la testa in preda
alla disperazione. Dovevo trovare la forza. Lei meritava una vita.
Non quello che Alice aveva visto in serbo per lei. «Se andarmene
fosse la scelta migliore...», e sarebbe stata la cosa giusta, vero?
Bella non apparteneva al mio mondo. Non aveva fatto nulla per
meritare la mia vita negli inferi. «Sarei disposto a danneggiare me
stesso, pur di non ferirti, pur di proteggerti».
Non appena pronunciai queste parole, desiderai che fossero
vere.
Lei mi lanciò un’occhiataccia. In qualche modo, quel che avevo
detto l’aveva fatta arrabbiare. «E non credi che sia lo stesso per
me?», domandò furiosamente.
Così furiosa... così fragile e delicata. Come avrebbe mai potuto
ferire qualcuno? «Non è a te che spetta questa scelta», dissi io,
ancora una volta avvilito dall’enorme divario che ci separava.
Lei mi fissò e nei suoi occhi la preoccupazione prese il posto
della rabbia, mettendo in rilievo la piccola piega che li separava.
Nell’ordine cosmico doveva esserci davvero qualcosa di sbagliato
se una creatura così buona e fragile non meritava un angelo custode
che la tenesse al riparo dai guai.
Be’, pensai con una nota di umorismo nero, quantomeno ha
trovato un vampiro custode.
Feci un sorriso. Quanto adoravo la mia scusa per rimanere con
lei. «Certo, darti protezione sta diventando un lavoro a tempo pieno
che richiede la mia presenza costante».
Anche lei sorrise. «Oggi nessuno ha cercato di farmi fuori»,
annunciò in tono leggero, dopodiché per un attimo il suo viso si fece
pensoso, poi i suoi occhi diventarono nuovamente opachi.
«Non ancora», aggiunsi ironicamente.
«Non ancora», assentì lei... con mio stupore. Mi aspettavo che
avrebbe negato qualsiasi bisogno di protezione.
Dall’altra parte della mensa, anziché diminuire, le proteste di
Rosalie si stavano facendo più veementi.
Mi spiace, pensò ancora una volta Alice. Doveva avermi visto
trasalire.
Sentirla mi fece però ricordare che avevo alcune questioni di cui
occuparmi.
«Ho un’altra domanda», dissi.
«Spara», replicò Bella sorridendo.
«Hai davvero bisogno di andare a Seattle, questo sabato, o era
soltanto una scusa per evitare di dire no a tutti i tuoi ammiratori?».
Mi lanciò uno sguardo di rimprovero. «Guarda, non ti ho ancora
perdonato per la faccenda di Tyler. È colpa tua se continua a illudersi
di potermi invitare al ballo di fine anno».
«Oh, avrebbe trovato l’occasione per chiedertelo anche se non ci
fossi stato io: morivo soltanto dalla voglia di vedere la tua reazione».
Scoppiai a ridere ricordandomi della sua espressione orripilata.
Nulla di quanto le avevo raccontato della mia oscura storia aveva
mai suscitato in lei uno sguardo altrettanto inorridito.
«Se te l’avessi chiesto io, avresti scaricato anche me?».
«Probabilmente no», rispose. «Ma all’ultimo momento avrei
cancellato l’invito... avrei finto una malattia o una caviglia slogata».
Che stranezza. «E perché mai?».
Scosse il capo, come se fosse delusa dal fatto che non avessi
compreso all’istante. «Immagino che tu non mi abbia mai vista in
palestra, ma pensavo che avresti capito».
Ah. «Ti riferisci al fatto che non sei in grado di camminare su una
superficie piana e solida senza inciampare?».
«Ovviamente».
«Non sarebbe un problema. Dipende tutto da chi guida».
Per una frazione di secondo fui sopraffatto dall’idea di stringerla
tra le mie braccia in un ballo... dove di sicuro avrebbe indossato
qualcosa di grazioso e delicato, anziché quell’orrendo maglione.
Ricordai nitidamente la sensazione del suo corpo sotto il mio,
dopo averla spinta via dalla traiettoria del furgone lanciato contro di
lei. Più che il panico o l’angoscia, era questa la sensazione che
ricordavo con maggior vividezza. Lei era così calda, così morbida, e
si armonizzava in maniera così semplice con il mio corpo di pietra...
Mi staccai con forza da quel ricordo.
«Non mi hai ancora risposto...», dissi velocemente, impedendole
di mettersi a discutere con me, come invece era ovvio intendesse
fare. «Vuoi davvero andare a Seattle, o ti andrebbe se facessimo
qualcos’altro?».
Fu perverso da parte mia... offrirle una scelta senza concederle
l’alternativa di poter stare lontana da me per quella giornata. Una
mossa ben poco corretta. Ma la notte prima le avevo fatto una
promessa. In maniera davvero fortuita, davvero sconsiderata,
eppure... Se fossi mai riuscito a meritare la fiducia che mi aveva
concesso malgrado la mia indegnità, avrei dovuto mantenere quante
più promesse possibile. Per quanto l’idea mi terrorizzasse.
Sabato ci sarebbe stato un sole splendente. Pertanto, se fossi
stato abbastanza coraggioso da sopportare il suo orrore e disgusto,
avrei avuto modo di mostrarmi a lei per come ero realmente.
Conoscevo il posto giusto in cui correre un simile rischio.
«Sono aperta a tutte le proposte», disse Bella. «Ma devo
chiederti un solo favore».
Un sì con riserva. Che cosa poteva volere da me?
«Cosa?».
«Posso guidare io?».
Era questo il suo concetto di umorismo? «Perché?».
«Be’, prima di tutto perché quando ho detto a Charlie che sarei
andata a Seattle, lui mi ha chiesto se fossi da sola, e visto che così
era l’ho rassicurato. Se me lo chiedesse di nuovo non potrei
mentirgli, ma non credo che lo farà: lasciare il pick-up a casa, però,
lo porterebbe a sollevare la questione. In secondo luogo, la tua
guida mi terrorizza».
Alzai lo sguardo verso di lei. «Con tutto ciò che in me potrebbe
terrorizzarti, ti preoccupi di come guido». Il suo cervello funzionava
davvero al contrario. Scossi la testa indignato. Perché non riusciva a
terrorizzarsi per le cose giuste? E perché io non riuscivo a
desiderare che lo facesse?
Non fui più in grado di mantenere il tono scherzoso della nostra
chiacchierata. «Non vuoi dire a tuo padre che passerai la giornata
con me?», le chiesi, con la voce che divenne seria al pensiero di
tutte le ragioni importanti in ballo, e immaginando già quale sarebbe
stata la sua risposta.
«Con Charlie, meno si dice, meglio è», rispose lei, perentoria. «E
comunque, dove andremmo?».
«Ci sarà bel tempo», annunciai con calma, lottando con il panico
e l’indecisione. Quanto mi sarei pentito di quella scelta? «Perciò
dovrò restare lontano da sguardi indiscreti... e se ti va, puoi venire
con me».
Bella comprese subito che cosa intendessi dire. I suoi occhi
brillarono di impazienza. «Mi mostrerai quel che dicevi a proposito
della luce solare?».
Come già tante altre volte, magari anche in questo caso la sua
reazione sarebbe stata opposta a quella che mi sarei aspettato.
Sorrisi a tale possibilità, sforzandomi di ritrovare la leggerezza di
prima. «Sì. Ma», comunque lei non aveva accettato, «anche se non
vuoi restare... sola con me, preferirei che tu non te ne andassi a
Seattle per conto tuo. Tremo al solo pensiero dei guai in cui potresti
cacciarti in una città così grande».
Le sue labbra si strinsero; si era stizzita.
«Phoenix è tre volte Seattle, e solo quanto a popolazione. Le
dimensioni...».
«Ma a quanto pare a Phoenix non era ancora giunta la tua ora»,
ribattei interrompendo le sue giustificazioni. «Perciò preferirei che mi
stessi accanto».
Ci sarebbe potuta restare per sempre e non sarebbe stato
comunque abbastanza.
Non dovevo pensarla in quei termini. Non avevamo l’eternità a
disposizione. I secondi che passavano contavano più di quanto non
avessero mai fatto prima; ogni istante produceva in lei un
cambiamento, mentre io rimanevo immutato. Quantomeno a livello
fisico.
«Si dà il caso che restare sola con te non mi dispiaccia affatto»,
dichiarò lei.
No... perché il suo istinto funzionava al contrario.
«Lo so», sospirai. «Però dovresti dirlo a Charlie».
«E perché mai dovrei?», chiese, atterrita all’idea.
Le lanciai un’occhiata seria, sebbene la mia rabbia fosse, come
sempre, rivolta contro me stesso. Come avrei voluto avere una
risposta diversa da darle.
«Così avrò un briciolo di motivazione in più per riportarti a casa»,
sibilai tra i denti. Questo me lo doveva concedere: un testimone che
mi costringesse ad agire con prudenza.
Bella deglutì rumorosamente e per un lungo momento rimase a
fissarmi. Che cosa stava guardando?
«Penso che correrò il rischio», annunciò.
Uh! Ma la elettrizzava mettere a repentaglio la propria vita? Era in
cerca di una scarica di adrenalina?
Vuoi stare zitto? Il grido mentale di Rosalie giunse al culmine,
irrompendo nella mia concentrazione. Vidi quel che pensava di
questa conversazione, di tutte le cose che Bella aveva già saputo.
Lanciai anch’io un’occhiata verso di lei, automaticamente, e intravidi
Rosalie furente di rabbia, anche se mi resi conto che alla fine non
me ne importava nulla. Che mi distruggesse pure la macchina. Non
era altro che un giocattolo.
«Parliamo d’altro», suggerì Bella improvvisamente.
La guardai, chiedendomi come potesse essere così
inconsapevole di quel che contava davvero. Perché non voleva
vedermi per il mostro che ero? Di certo, Rosalie lo faceva.
«Di cosa vuoi parlare?».
I suoi occhi scattavano da sinistra a destra, come se si stesse
accertando che non ci fosse nessuno a origliare. Doveva essere
intenzionata a tirar fuori un altro degli argomenti legati alle leggende.
Per un momento il suo sguardo si bloccò e il suo corpo si irrigidì,
dopodiché si rivolse nuovamente verso di me.
«Perché sei andato a Goat Rocks, lo scorso fine settimana, a
caccia? Charlie dice che ci sono gli orsi, non è un gran posto per
fare trekking».
Così inconsapevole. La fissai sollevando un sopracciglio.
«Orsi?», disse con un sussulto.
Sorrisi divertito, osservando come recepisse la cosa. Questo
avrebbe fatto sì che mi prendesse sul serio? C’era qualcosa in grado
di riuscirci?
Dille tutto. Mica abbiamo delle regole, Rosalie mi sibilò contro i
suoi pensieri. Lottai per non darle retta.
Bella si ricompose. «Be’, non è la stagione degli orsi», replicò
seria, socchiudendo gli occhi.
«Le leggi sulla caccia regolano solo quella con le armi, se vuoi
controlla pure».
Per un attimo, l’espressione del viso sfuggì di nuovo al suo
controllo.
Le labbra le si schiusero.
«Orsi?», ripeté ancora, e stavolta sembrò più una timida
domanda che un sussulto in preda al turbamento.
«Emmett va matto per il grizzly».
Osservai il suo sguardo mentre elaborava lo stupore e si
ricomponeva.
«Mmm», mormorò. Diede un morso alla pizza abbassando lo
sguardo. Masticò con cura, poi prese un sorso di bibita.
«Allora», riprese a dire, sollevando finalmente lo sguardo. «Il tuo
preferito, qual è?».
Suppongo che mi sarei dovuto aspettare una domanda del
genere, tuttavia mi colse alla sprovvista.
«Il puma», risposi bruscamente.
«Ah», fece lei in tono neutro. Il suo battito rimase stabile e
costante, come se stessimo parlando di un ristorante preferito.
Va bene, dunque. Se desiderava comportarsi come se tutto
questo non fosse nulla di insolito...
«Ovviamente dobbiamo stare attenti all’impatto ambientale e
cacciare con un certo giudizio», dichiarai con tono cinico e
distaccato. «Di solito ci concentriamo sulle aree sovrappopolate di
predatori, a qualunque distanza si trovino. Da queste parti c’è
abbondanza di alci e cervi, e tanto basta, ma dov’è il divertimento?».
Mi ascoltava con un’espressione gentilmente interessata, come
se fossi la guida di un museo che descriveva un quadro. Dovevo
sorridere.
«Eh, già, dove?», mormorò lei, dando un altro morso alla pizza.
«A Emmett piace andare a caccia di orsi all’inizio della
primavera», proseguii senza cambiare tono. «Appena usciti dal
letargo sono più irritabili».
Erano trascorsi settant’anni e lui non era ancora riuscito a
superare la sconfitta di quella prima sfida.
«Non c’è niente di più divertente di un grizzly irritato, in effetti»,
concordò Bella annuendo con aria solenne.
Scuotendo il capo di fronte all’illogicità della sua calma, non
riuscii a trattenere una risatina. «Per favore, dimmi quel che pensi
veramente».
«Sto cercando di immaginare... ma non ci riesco», rispose lei,
mentre tra i suoi occhi ricomparve quella piega. «Come fate a
cacciare gli orsi senza armi?».
«Be’, qualche arma l’abbiamo», ribattei io, lanciandole quindi un
ampio sorriso. Mi aspettavo che facesse uno scatto indietro, e
invece rimase molto tranquilla a osservarmi. «Non il genere di
strumenti che i legislatori prendono in considerazione quando
stendono i regolamenti di caccia. Se hai visto un documentario su
come attaccano gli orsi, dovresti essere in grado di visualizzare
Emmett».
Lanciò un’occhiata al tavolo dov’erano seduti gli altri ed ebbe un
brivido.
Finalmente. Dopodiché risi di me stesso, perché sapevo che una
parte di me desiderava che lei rimanesse inconsapevole.
Mentre mi fissava, i suoi occhi scuri si erano fatti grandi e
profondi.
«Anche tu somigli a un orso?», mi domandò quasi sussurrando.
«Più a un leone, così dicono», risposi sforzandomi di apparire
ancora distaccato. «Forse i nostri gusti rispecchiano il modo in cui
cacciamo».
Gli angoli della sua bocca si sollevarono leggermente. «Forse»,
mi fece eco lei. Al che piegò da un lato la testa e nel suo sguardo fu
facile cogliere la curiosità. «Avrò mai il permesso di assistere?».
Per un attimo divenne tutto perfettamente chiaro nella mia testa –
il corpo accasciato ed esangue di Bella tra le mie braccia –, come se
fossi io l’unico ad aver assistito a quella visione anziché averla vista
semplicemente nella mente di Alice. Ma non occorreva la
preveggenza per spiegare un simile orrore; la conclusione era ovvia.
«Assolutamente no!», le ringhiai contro.
Scattò all’indietro allontanandosi da me, turbata e spaventata
dalla mia rabbia improvvisa.
Anche io mi feci indietro, per creare tra noi una distanza. Non
l’avrebbe mai compreso, vero? Non avrebbe mai fatto niente per
aiutarmi a lasciarla in vita.
«Troppo spaventoso per me?», chiese con voce pacata. Il suo
cuore, però, batteva ancora a un ritmo raddoppiato.
«Se fosse questo, ti porterei con me stanotte», le replicai io tra i
denti. «Quel che ti serve è una salutare dose di paura. Non vedo
cosa potrebbe darti più beneficio».
«Ma allora, perché?», domandò imperterrita.
La fissai con uno sguardo torvo, in attesa che si spaventasse. Io
avevo paura.
I suoi occhi continuavano a esprimere solo curiosità e
impazienza, e nient’altro. Aspettava la risposta alla sua domanda,
senza arrendersi.
L’ora a nostra disposizione, però, era ormai terminata.
«Più tardi», dissi bruscamente alzandomi in piedi. «Siamo in
ritardo».
Si guardò attorno disorientata, come se si fosse dimenticata che
eravamo in pausa pranzo. Come se si fosse persino dimenticata che
eravamo a scuola e fosse sorpresa che non fossimo soli da qualche
parte, in privato. Comprendevo perfettamente quella sensazione.
Quand’ero con lei, diventava davvero difficile ricordarsi del resto del
mondo.
Si alzò di corsa, con uno scatto, e si gettò lo zaino in spalla.
«D’accordo, più tardi», replicò lei, e nell’espressione della sua
bocca vidi tutta la sua determinazione. Mi avrebbe fatto mantenere
l’impegno preso.
12. COMPLICAZIONI

Bella e io ci avviammo in silenzio verso il laboratorio di biologia.


Lungo il tragitto superammo Angela Weber, la quale si stava
attardando sul marciapiede per discutere di un compito con un
compagno della sua classe di trigonometria. Passai sommariamente
in rassegna i suoi pensieri, convinto che sarei rimasto ancora più
deluso, e invece fui sorpreso da quanto fossero malinconici.
Ah, allora c’era qualcosa che Angela desiderava.
Sfortunatamente, però, non si trattava di una cosa che si potesse
offrire facilmente, come un dono impacchettato.
Per un attimo, avvertii uno strano senso di conforto nel percepire
lo struggimento disperato di Angela. Fui pervaso da una sensazione
di affinità e, in quel momento, fui tutt’uno con quella gentile ragazza
umana.
Era una consolazione bizzarra sapere che non ero l’unico che
stava vivendo una tragica storia d’amore. I cuori spezzati erano un
po’ ovunque.
Un istante dopo, però, mi sentii improvvisamente e
profondamente irritato. Questo perché la storia di Angela non
doveva essere tragica. Lei era umana e anche lui era umano, perciò
la differenza che nella sua mente appariva insormontabile era
davvero ridicola in confronto alla mia situazione. Non c’era motivo
perché lei avesse il cuore infranto. Che dolore inutile. Perché quella
storia non avrebbe dovuto avere un lieto fine?
Io volevo farle un regalo... Benissimo, le avrei donato ciò che
desiderava. Con tutta la conoscenza che possedevo della natura
umana, probabilmente non sarebbe stato neppure così difficile.
Passai al setaccio la coscienza del ragazzo che le stava accanto,
l’oggetto del suo desiderio, e anche lui non sembrava riluttante; era
semplicemente trattenuto dalla stessa difficoltà che provava lei.
Non avevo che da instillare un suggerimento.
Fu facile concepire un piano; e il copione venne da sé, senza
alcuno sforzo da parte mia. Sarei ricorso all’aiuto di Emmett: l’unica
vera difficoltà sarebbe stata convincerlo a darmi il suo appoggio. La
natura umana era ben più semplice da manipolare rispetto a quella
immortale.
Ero soddisfatto della soluzione che avevo trovato, del mio regalo
per Angela. Era un piacevole diversivo dai miei problemi. Avrei
voluto che anche questi fossero altrettanto facili da risolvere.
Quando io e Bella ci sedemmo ai nostri posti, il mio umore era
leggermente migliorato. Forse avrei dovuto essere più ottimista.
Magari per noi c’era una soluzione che mi stava sfuggendo, proprio
come l’ovvia soluzione per Angela era invisibile ai suoi occhi.
Probabilmente no... Ma allora perché sprecare tempo per una causa
disperata? Trattandosi di Bella, non avevo tempo da perdere. Ogni
secondo era importante.
Il professor Banner entrò in classe spingendo un vecchio
televisore e un videoregistratore. Avrebbe saltato una parte del
programma a cui non era particolarmente interessato – le malattie
genetiche – facendoci vedere un film per tre giorni di seguito.
Sebbene L’olio di Lorenzo non fosse certo una botta di allegria, ciò
non smorzò l’entusiasmo in aula. Niente appunti, niente materiali da
testare. Gli umani erano in piena esultanza.
A me la cosa non interessava in alcun modo. Non ero
intenzionato a prestare attenzione a null’altro all’infuori di Bella.
Quel giorno non avevo allontanato da lei la sedia in cerca di
spazio per respirare. Al contrario, mi ero seduto al suo fianco come
avrebbe fatto qualsiasi umano normale. Più vicino di quanto fossimo
stati nella mia auto, tanto che il lato sinistro del mio corpo fu investito
dal calore della sua pelle.
Fu un’esperienza strana, piacevole e al tempo stesso snervante,
ma comunque preferivo questo piuttosto che sedermi dalla parte
opposta del banco. Era più di quanto fossi abituato a sopportare,
eppure ben presto mi resi conto che non ne avevo abbastanza. Non
ero soddisfatto. Standole così accanto provavo il desiderio di
avvicinarmi ancora di più.
L’avevo accusata di essere una calamita che attirava i pericoli. E
in quel momento sembrava essere letteralmente vero. Il pericolo ero
io, e per ogni centimetro in più che concedevo a me stesso per
esserle vicino, il suo potere di attrazione aumentava di forza.
Dopodiché il professor Banner spense le luci.
Fu strano constatare la differenza prodotta da questo
cambiamento, tanto più che la mancanza di luce influiva ben poco
sui miei occhi. Riuscivo ancora a vedere perfettamente come prima.
Ogni dettaglio della classe era nitido.
Perché dunque quell’improvvisa scossa di elettricità nell’aria?
Perché sapevo di essere l’unico in grado di poter vedere
chiaramente? Perché ero consapevole che io e Bella eravamo
invisibili agli altri? Come se fossimo stati soli, noi due soltanto,
nascosti nell’oscurità dell’aula, seduti così vicino uno accanto
all’altra.
La mia mano si mosse verso di lei senza il mio consenso.
Unicamente per toccare la sua mano, per stringerla al buio. Sarebbe
stato uno sbaglio così terribile? Se la mia pelle l’avesse infastidita,
non avrebbe avuto che da ritrarsi.
Tirai indietro la mano, incrociando le braccia strette al petto, e
tenni chiusi i pugni. Niente errori, mi ero ripromesso. Se le avessi
preso la mano, avrei solo desiderato qualcos’altro ancora: un altro
tocco insignificante, un ulteriore avvicinamento a lei. Riuscivo a
sentirlo. In me stava crescendo un desiderio nuovo, che premeva
per sopraffare il mio autocontrollo.
Niente errori.
Bella si era stretta le braccia al petto, serrando anche lei i pugni,
esattamente come me.
A cosa pensi? Morivo dalla voglia di sussurrarle quelle parole, ma
l’aula era troppo silenziosa per riuscire a non essere uditi, anche con
una conversazione fatta di sussurri.
Cominciò il film, e l’oscurità si illuminò leggermente. Bella sollevò
lo sguardo verso di me. Si accorse della mia postura rigida – proprio
come la sua – e sorrise. Le sue labbra si schiusero leggermente e gli
occhi parvero colmi di inviti ardenti.
O forse ero io a scorgervi ciò che avrei voluto vedere.
Ricambiai il sorriso. Il suo respiro ebbe un sussulto e lei distolse
lo sguardo rapidamente.
Questo peggiorò le cose. Ignoravo i suoi pensieri, ma
improvvisamente ero sicuro di non essermi sbagliato prima, e che lei
desiderasse che io la toccassi. Come me, anche lei aveva avvertito
quel desiderio pericoloso.
L’elettricità ronzava tra i nostri corpi.
Rimase immobile per tutta l’ora, mantenendo una postura rigida e
controllata, così come io mantenni la mia. Di tanto in tanto, mi
lanciava un’occhiata e la corrente che pulsava tra noi mi investiva
con una scossa improvvisa.
L’ora giunse al termine: con lentezza, eppure non abbastanza
lenta. Questa era davvero una novità, sarei potuto rimanere lì seduto
con lei per giorni, solo per godere appieno di quella sensazione.
Col passare dei minuti dentro di me si erano consumati una
decina di scontri diversi, in una lotta tra razionalità e desiderio.
Alla fine, il professor Banner riaccese le luci.
Sotto il chiarore delle lampade al neon, l’atmosfera in classe
tornò alla normalità. Bella emise un sospiro e si stiracchiò, aprendo
le dita dinanzi a sé. Doveva essere stato scomodo per lei tenere così
a lungo quella posizione. Per me invece era stato facile: l’immobilità
mi veniva naturale.
Ridacchiai vedendo l’espressione sul suo viso. «Be’,
interessante».
«Mmm», mormorò lei, ovviamente consapevole di ciò a cui stavo
alludendo, ma senza fare commenti. Cosa non avrei dato per sentire
che cosa stesse pensando in quel momento.
Sospirai. Per quanto grande potesse essere il mio desiderio, non
sarebbe comunque servito a niente.
«Andiamo?», chiesi alzandomi.
Lei fece una smorfia e si alzò malferma in piedi, con le mani
protese in avanti come se avesse timore di cadere.
Potevo offrirle la mia mano. Oppure potevo metterla sotto il suo
gomito – giusto appena – e sorreggerla. Di certo, non sarebbe stato
uno sgarro terribile.
Niente errori.
Lungo il tragitto verso la lezione di ginnastica fu molto silenziosa.
La piega tra i suoi occhi era marcata, segno che era profondamente
assorta nei suoi pensieri. Anch’io ero immerso nella riflessione.
Un semplice tocco della mia pelle non le causerebbe alcun male,
protestò il mio egoismo.
Potevo facilmente moderare la pressione della mia mano. Non
era affatto difficile. La mia sensibilità tattile era ben più sviluppata di
quella di un umano: potevo maneggiare come un giocoliere una
dozzina di calici di cristallo senza romperne nemmeno uno; e potevo
perfino colpire una bolla di sapone senza farla scoppiare. Questo
finché avevo il pieno controllo di me stesso.
Bella era come una bolla di sapone: fragile ed effimera.
Temporanea.
Per quanto tempo sarei stato in grado di giustificare la mia
presenza nella sua vita? Quanto era il tempo a lei concesso? Avrei
avuto un’altra opportunità come quella, come quel momento, come
quell’istante? Lei non sarebbe stata sempre a portata delle mie
braccia.
Sulla soglia della palestra, Bella si voltò verso di me e, vedendo
l’espressione sul mio viso, sgranò gli occhi. Non disse una parola.
Osservai me stesso riflesso nei suoi occhi e notai il conflitto che
infuriava nei miei. Vidi il mio volto cambiare mentre la parte migliore
di me usciva sconfitta dallo scontro interiore.
La mia mano si alzò senza un comando volontario. Le dita
sfiorarono la pelle calda del suo zigomo, delicata come se lei fosse
stata di un vetro sottilissimo, fragile come la bolla di sapone che
avevo immaginato. Al mio tocco avvampò e riuscii a sentire il sangue
che pulsava sotto la sua pelle diafana.
Basta, ordinai a me stesso, sebbene la mia mano desiderasse
ardentemente modellarsi lungo il contorno del suo viso. Basta.
Non fu facile ritrarre la mano, impedire a me stesso di avvicinarmi
a lei ancor più di quanto non avessi già fatto. In un istante, la mia
mente fu pervasa da migliaia di possibilità diverse: migliaia di modi
differenti in cui toccarla. Seguire il profilo delle sue labbra con la
punta del dito. Socchiudere il palmo della mano come una coppa
attorno al suo mento. Tirare via il fermaglio dai suoi capelli e lasciarli
ricadere sulla mia mano. Cingerle la vita con le braccia, stringendola
a me contro tutto il mio corpo.
Basta.
Mi costrinsi a voltarle le spalle, ad andare via da lei. Il mio corpo
si mosse rigido... controvoglia.
Lasciai che la mente indugiasse a osservarla mentre mi
allontanavo rapidamente, quasi fuggendo via dalla tentazione.
Intercettai i pensieri di Mike Newton – erano i più fragorosi –, che
vide Bella passargli accanto inconsapevole, con gli occhi persi nel
vuoto e le guance tutte rosse. Il suo sguardo si fece torvo e
d’improvviso nella sua mente il mio nome si unì alle imprecazioni.
Per tutta risposta, io non riuscii a trattenere un leggero sogghigno.
Avvertivo un formicolio alla mano. La distesi e poi strinsi il pugno,
ma il formicolio continuava a pungolare senza dolore.
No, non le avevo fatto del male... però toccarla era stato
comunque uno sbaglio.
Mi sembrava di bruciare sui carboni ardenti, come se tutto il mio
corpo fosse pervaso da una versione intorpidita della sete che mi
ardeva.
La prossima volta che mi fossi ritrovato accanto a lei, sarei
riuscito a trattenermi dal toccarla ancora? E se l’avessi toccata una
seconda volta, sarei poi riuscito a fermarmi?
Niente più errori. Punto. Assapora il ricordo, Edward, ammonii me
stesso, mestamente, e tieni le mani a posto. Dovevo fare così,
oppure sarei stato costretto ad andarmene... in qualche modo.
Perché se avessi insistito nel commettere sbagli, non mi sarei più
potuto concedere di starle accanto.
Presi un respiro profondo e provai a tenere a bada i miei pensieri.
Emmett mi raggiunse fuori l’edificio di inglese.
«Ehi, Edward!». Sembra stare meglio. Un po’ strano, ma meglio.
Felice.
«Ehi, Em!». Avevo un’aria felice? Malgrado il caos che avevo in
testa, immaginai di provare qualcosa di simile.
Bel modo di tenere la bocca chiusa, ragazzino. Rosalie ti
strapperà la lingua.
Sospirai.
«Mi spiace averti mollato a gestire la cosa. Sei arrabbiato con
me?».
«Nah. A Rose passerà. Doveva comunque succedere, era
destino». Stando a quello che Alice ha visto accadere...
Adesso non avevo voglia di pensare alle visioni di Alice. Guardai
di fronte a me, serrando i denti.
In cerca di qualcosa per distrarmi, notai Ben Cheney che entrava
nell’aula di spagnolo proprio davanti a noi. Ah... ecco la mia
occasione per fare un regalo ad Angela Weber.
Smisi di camminare e presi Emmett per un braccio. «Aspetta un
attimo».
Che c’è?
«So di non meritarlo, ma mi faresti lo stesso un favore?».
«Che favore?», mi chiese incuriosito.
Sottovoce – e a una velocità che avrebbe reso le mie parole
incomprensibili all’orecchio umano – gli spiegai ciò che volevo.
Quando ebbi finito, lui mi fissò e i suoi pensieri esprimevano la
stessa perplessità stampata sul suo viso.
«Allora?», lo incalzai. «Mi aiuterai a farlo?».
Gli ci volle un minuto buono per rispondermi. «Ma, perché?».
«Dai, Emmett. Perché no?».
Tu chi sei e che ne hai fatto di mio fratello?
«Non sei tu quello che si lamenta che la scuola è monotona?
Questo è qualcosa di un po’ diverso, ti pare? Consideralo un
esperimento... un esperimento sulla natura umana».
Mi fissò ancora per un momento, dopodiché cedette. «Be’,
diverso lo è davvero, te lo concedo. Okay, va bene». Emmett sbuffò
e poi alzò le spalle. «Ti aiuterò».
Il sorriso che gli feci fu davvero grande, perché ora che anche lui
era d’accordo mi sentivo ancora più entusiasmato dal mio piano.
Rosalie era una rompiscatole, ma sarei sempre stato in debito con
lei per aver scelto Emmett; nessuno aveva un fratello migliore del
mio.
Non occorreva che Emmett facesse pratica. Mentre entravamo in
classe, sottovoce gli sussurrai una volta sola tutto quello che doveva
dire.
Ben si era già messo al suo banco, dietro il mio, e stava
preparando i compiti da consegnare. Io ed Emmett ci sedemmo al
nostro posto e facemmo altrettanto. La classe non era ancora in
silenzio; il brusio delle chiacchiere a mezza voce sarebbe andato
avanti finché la professoressa Goff non avesse richiamato
l’attenzione. Non aveva fretta, stava ancora valutando i questionari
dell’ultima lezione.
«Allora», esclamò Emmett con voce più forte del necessario.
«Hai già chiesto ad Angela Weber di uscire con te?».
Alle mie spalle, il fruscio dei fogli subì una brusca interruzione e
Ben si bloccò, improvvisamente attento alle nostre parole.
Angela? Stanno parlando di Angela?
Bene. Avevo catturato il suo interesse.
«No», risposi io, scuotendo lentamente la testa in segno di
rammarico.
«Perché no?», improvvisò Emmett. «Ti manca forse il
coraggio?».
Lo guardai con disappunto. «No. Ho sentito dire che a lei
interessa un altro».
Edward Cullen stava per chiedere ad Angela di uscire con lui?
Ma... no. Questa cosa non mi piace. Non voglio che le stia vicino.
Lui... non va bene per lei. Non è... raccomandabile.
Non avevo previsto da parte sua un tale spirito cavalleresco, un
istinto protettivo. La mia intenzione era suscitare la sua gelosia. A
ogni modo, la cosa funzionò.
«E lascerai che questo ti fermi?», domandò Emmett con fare
sprezzante, ancora una volta improvvisando. «Non sei pronto a
lottare?».
Gli lanciai un’occhiata truce, ma sfruttai bene l’occasione che mi
aveva offerto.
«Guarda, mi sa che a lei piace davvero questo Ben. Non intendo
proprio cercare di farle cambiare idea. Ci sono tante altre ragazze».
La reazione sulla sedia alle mie spalle fu elettrica.
«Chi, scusa?», domandò Emmett, attenendosi al copione.
«La mia compagna di laboratorio mi ha detto che è un certo
Cheney. Non sono sicuro di sapere chi sia».
Mi morsi le labbra per non sorridere. Solo quegli altezzosi dei
Cullen potevano farla franca fingendo di non conoscere ogni
studente di quella piccola scuola.
A Ben girava la testa per lo smarrimento.
Io? Piuttosto che Edward Cullen? Ma perché dovrei piacerle
proprio io?
«Edward», mormorò Emmett, con voce più bassa e alzando gli
occhi verso il ragazzo. «È proprio dietro di te», sillabò con un’enfasi
tale che l’umano riuscì a leggere le sue parole senza alcuna fatica.
«Oh», mormorai io a mia volta.
Mi voltai sulla sedia e lanciai un’occhiata al ragazzo seduto dietro
di me. Per un istante, il terrore attraversò gli occhi neri dietro quegli
occhiali, dopodiché Ben si irrigidì e raddrizzò le spalle, risentito per il
palese disprezzo della mia valutazione. Il mento gli schizzò in avanti,
mentre una vampata di rabbia rese ancora più scura la sua pelle
normalmente di un bruno dorato.
«Uh», dissi con tono arrogante girandomi verso Emmett.
Crede di essere migliore di me. Ma Angela non la pensa così.
Gliela farò vedere io...
Perfetto.
«Ma non avevi detto che avrebbe portato Yorkie al ballo?», ribatté
Emmett, pronunciando con uno sbuffo il nome del ragazzo che molti
disprezzavano per la sua goffaggine.
«A quanto pare, quella è stata una decisione di gruppo». Volevo
assicurarmi che questo fosse chiaro a Ben. «Angela è timida. Se B...
Insomma, se un ragazzo non ha il coraggio di invitarla a uscire, lei
comunque non glielo chiederebbe mai».
«Ti piacciono le ragazze timide», disse Emmett improvvisando
ancora. Le ragazze tranquille. Le ragazze come... Mmm, non so.
Forse Bella Swan?
Gli feci un sorriso. «Esattamente». Dopodiché rientrai nella parte.
«Magari Angela si stuferà di aspettare. Forse le chiederò di andare
assieme al ballo di fine anno».
No, non lo farai, pensò Ben raddrizzandosi sulla sedia. Che
importa se lei è più alta di me? Se per lei non conta, allora non
interessa neppure a me. È la ragazza più gentile, intelligente, carina
di questa scuola... e vuole me.
Questo Ben mi piaceva. Sembrava sveglio e animato da buone
intenzioni. Forse si meritava una ragazza come Angela.
Da sotto il banco alzai il pollice verso Emmett in segno di
approvazione, e proprio allora la professoressa Goff si alzò in piedi e
salutò la classe.
Okay, lo ammetto... in un certo senso, è stato divertente, pensò
Emmett.
Sorrisi tra me e me, soddisfatto per essere riuscito a far sì che
una storia d’amore facesse progressi. Ero certo che Ben avrebbe
dato seguito alle sue intenzioni e Angela avrebbe così ricevuto il mio
regalo anonimo. Il debito era stato saldato.
Quanto erano sciocchi gli umani a lasciare che una differenza di
quindici centimetri di altezza potesse ostacolare la loro felicità.
Quel successo mi mise di buonumore. Sorrisi di nuovo,
sistemandomi sulla sedia e preparandomi al divertimento che mi
attendeva. Dopotutto, come Bella mi aveva fatto notare a pranzo,
non l’avevo ancora mai vista in azione durante l’ora di ginnastica.
Nel cicaleccio delle voci che sciamavano nella palestra, i pensieri
di Mike erano i più facili da intercettare. Nelle ultime settimane la sua
mente era diventata per me estremamente familiare. Con un sospiro,
mi rassegnai a mettermi in ascolto per suo tramite. Almeno potevo
stare certo che lui avrebbe prestato attenzione a Bella.
Arrivai giusto in tempo per sentire che si offriva di essere il suo
compagno di squadra a badminton; nel fare la sua proposta, gli
vennero in mente altre forme di accoppiamento con Bella.
Il mio sorriso svanì e digrignai i denti: dovetti ricordare a me
stesso che uccidere Mike Newton non mi era ancora consentito.
«Grazie, Mike... lo sai che non sei costretto, eh?».
«Non preoccuparti, ti starò lontano».
Lei gli sorrise e in brevi sequenze, attraverso la mente di Mike,
iniziò a balenare tutta una serie di incidenti, sempre in qualche modo
collegati a Bella.
All’inizio Mike aveva giocato da solo, mentre Bella si era rintanata
nella metà posteriore del campo, stringendo con cautela la racchetta
quasi che potesse esplodere se l’avesse maneggiata in maniera
troppo brusca. Poi però il professor Clapp si era avvicinato a passo
lento e aveva ordinato a Mike di lasciare giocare Bella.
Uh oh, pensò Mike mentre Bella si fece avanti con un sospiro e
tenendo la racchetta con un’angolazione maldestra.
Con una nota di compiacimento nei suoi pensieri, Jennifer Ford
lanciò il servizio direttamente verso Bella. Mike la vide incespicare
incontro al volano, agitando la racchetta a metri di distanza dal
bersaglio e si precipitò quindi per cercare di salvare la volée.
Seguii preoccupato la traiettoria della racchetta di Bella. Come
previsto, questa urtò la rete tesa e rimbalzò verso di lei, colpendola
sulla fronte prima di torcersi e finire contro il braccio di Mike con un
tac clamoroso.
Ahi. Ahi. Uh. Questo mi lascerà un livido.
Bella si stava massaggiando la fronte. Fu difficile rimanere seduto
al mio posto sapendo che lei si era fatta male. Ma anche se fossi
stato lì, che cosa avrei potuto fare? A ogni modo, non sembrava una
cosa seria. Indugiai continuando a osservare.
Il professore si era messo a ridere. «Mi spiace, Newton». Quella
ragazza è la peggior maledizione che abbia mai visto. Non dovrebbe
affliggere gli altri.
Si voltò con tutta calma e se ne andò ad assistere a un’altra
partita, così Bella poté tornare al suo precedente ruolo di spettatrice.
Ahi, pensò ancora Mike massaggiandosi il braccio. Si girò verso
Bella. «Tutto bene?».
«Sì, e tu?», domandò lei con aria mortificata.
«Credo che sopravvivrò». Non voglio fare la figura del
piagnucolone. Ma cavoli se fa male!
Mike mosse il braccio ruotandolo, con una smorfia di dolore.
«Me ne starò qui dietro», annunciò Bella, il cui viso esprimeva più
imbarazzo che dolore. Forse ad aver avuto la peggio era stato Mike.
Di sicuro era quello che speravo io. Quantomeno, lei aveva smesso
di giocare. Teneva la racchetta dietro la schiena con tale prudenza e
con su un’espressione così piena di rimorso... Dovetti camuffare la
mia risata con un colpo di tosse.
Che hai da ridere?, voleva sapere Emmett.
«Te lo spiego dopo», mormorai.
Bella non si arrischiò più a giocare. Il professore la ignorò e lasciò
che Mike giocasse da solo.
Superai agevolmente il questionario di fine lezione e la
professoressa Goff mi lasciò uscire prima. Mentre attraversavo il
campus, continuavo ad ascoltare con attenzione Mike. Aveva deciso
di affrontare Bella chiedendole di me.
Jessica giura che si stanno frequentando. Perché? Perché lui ha
dovuto scegliere proprio lei?
Non si rendeva conto di quale fosse la realtà: era stata lei a
scegliere me.
«E allora».
«Allora cosa?», domandò lei.
«Tu e Cullen, eh?». Tu e quel mostro. Immagino che se per te un
ragazzo ricco è così importante...
Di fronte a una supposizione così indegna, non potei che
digrignare i denti.
«Non è affar tuo, Mike».
Si è messa sulla difensiva. Allora è vero. Dannazione. «Non mi
piace».
«Non è che debba piacere a te», sbottò lei.
Come fa a non rendersi conto di che razza di fenomeno da
baraccone è quello lì? Lui e tutti gli altri. Il modo in cui la guarda. Mi
dà i brividi a vederlo. «Ti guarda come se fossi... qualcosa da
mangiare».
Mi acquattai e aspettai di sentire la sua replica.
Si era fatta tutta rossa in viso e aveva serrato la bocca come per
trattenere il fiato. Poi, improvvisamente, dalle sue labbra uscì fuori
un risolino acuto.
Adesso mi deride pure. Grandioso.
In preda ai pensieri più torvi, Mike si voltò e andò via a cambiarsi.
Io mi poggiai al muro della palestra, cercando di ricompormi.
Come aveva potuto ridere dinanzi all’accusa di Mike, un’accusa
così vicina alla realtà che iniziai a temere che la gente a Forks
stesse diventando troppo consapevole? Perché aveva riso all’ipotesi
che io potessi ucciderla, quando sapeva che era assolutamente
vero? Cos’era che non andava in lei? Possedeva un senso
dell’umorismo macabro? Ciò non corrispondeva all’idea che mi ero
fatto del suo carattere, ma dopotutto come potevo esserne sicuro?
Oppure, forse, la mia opinione su quell’angelo insensato era vera in
merito a una cosa: quella ragazza non possedeva alcun senso della
paura. Coraggiosa... ecco un modo per definire questo suo aspetto.
Altri l’avrebbero ritenuta una stupida, ma io sapevo quanto invece
fosse sveglia. Indipendentemente da quali fossero le ragioni, era
questa strana mancanza di paura a metterla costantemente in
pericolo? Forse avrebbe sempre avuto bisogno di me qui con lei.
Di colpo, il mio umore salì alle stelle.
Fossi riuscito a disciplinarmi, a rendermi inoffensivo, allora
magari sarebbe stato giusto che le rimanessi vicino.
Quando uscì dalla porta della palestra, le sue spalle erano rigide
e il labbro inferiore nuovamente stretto tra i denti: un chiaro segno di
ansia. Tuttavia, non appena i suoi occhi incrociarono i miei, la sua
postura si sciolse e sul suo viso si aprì un ampio sorriso. Era
un’espressione curiosamente serena. Camminò verso di me senza
esitazione, fermandosi solo quando arrivò talmente vicino che il
calore del suo corpo mi investì come un’onda che si infranse.
«Ciao», sussurrò.
La felicità che provai in quel momento era, ancora una volta,
senza precedenti.
«Ciao», replicai io, e a quel punto – poiché il mio umore si era
fatto di colpo così leggero da non resistere al desiderio di
punzecchiarla – aggiunsi: «Com’è andata in palestra?».
Il suo sorriso si smorzò. «Bene».
Non sapeva mentire.
«Davvero?», ribattei pronto ad aprire il discorso – ero ancora
preoccupato per la sua testa; le faceva male? –, ma a quel punto i
pensieri di Mike Newton divennero così forti che interruppero la mia
concentrazione.
Lo detesto. Vorrei che crepasse. Spero finisca dritto giù da un
burrone con quella sua auto tutta tirata a lucido. Perché non la lascia
in pace? Che se ne stesse con quelli come lui... con i mostri.
«Che c’è?», domandò Bella.
I miei occhi si concentrarono di nuovo sul suo viso. Lei osservò
Mike girato di schiena che se ne andava, dopodiché riportò lo
sguardo su di me.
«Newton inizia a darmi sui nervi», ammisi.
Aprì la bocca e il suo sorriso svanì completamente. Doveva
essersi scordata che ero in grado di osservarla durante tutta
quell’ultima ora disastrosa, oppure doveva aver sperato che non lo
avessi fatto. «Non dirmi che ti sei rimesso ad ascoltare».
«Come va la testa?».
«Sei incredibile!», sibilò tra i denti, dopodiché si voltò per
allontanarsi e si avviò furiosa verso il parcheggio. La sua pelle era
diventata di un rosso scuro... provava imbarazzo.
Le andai dietro, augurandomi che smaltisse presto la rabbia. In
genere mi perdonava in fretta.
«Sei stata tu a incuriosirmi», provai a spiegarle. «Hai detto che
non ti avevo mai vista in palestra».
Lei non rispose. Si accigliò.
Arrivati nel parcheggio, si fermò di colpo non appena si accorse
che l’accesso alla mia auto era ostruito da una folla di studenti,
perlopiù maschi.
Chissà che velocità hanno raggiunto su questo bolide.
Guarda i comandi del cambio manuale. Li ho visti sempre e solo
sulle riviste.
Che belle le griglie laterali!
Certo che li vorrei avere anch’io sessantamila dollari a
disposizione...
Eccolo il motivo per cui era meglio che Rosalie usasse la sua
macchina solamente fuori città.
Mi feci largo fino alla mia auto tra quella calca di ragazzi eccitati.
Dopo un attimo di esitazione, anche Bella seguì il mio esempio.
«Appariscente», borbottai mentre lei saliva a bordo.
«Che macchina è?», domandò.
«Una M3».
Aggrottò la fronte. «Tradotto per i comuni mortali?».
«Una BMW». Alzai gli occhi, concentrandomi quindi per fare
retromarcia senza investire nessuno. Fui costretto a guardare negli
occhi alcuni ragazzi che non sembravano intenzionati a togliersi di
mezzo. Bastò incrociare il loro sguardo per mezzo secondo per
convincerli.
«Sei ancora arrabbiata?», le chiesi. La sua fronte si era distesa.
«Assolutamente sì», annunciò in tono cortese.
Mi uscì un sospiro. Forse non glielo avrei dovuto dire. Oh,
pazienza. Pensai che potevo comunque provare a farmi perdonare.
«Se chiedo scusa mi perdoni?».
Ci pensò su per un momento. «Forse... se sei sincero», decise.
«E in più se prometti che non lo rifarai».
Non le avrei mentito ed era fuori discussione che potessi
accettare una richiesta del genere. Magari, se le avessi fatto una
proposta diversa.
«E se sarò sincero e in più ti lascerò guidare, sabato?», il solo
pensiero mi diede un brivido dentro.
Mentre era intenta a valutare la nuova offerta, tra i suoi occhi
spuntò quella sua ruga.
«Aggiudicato», dichiarò dopo un attimo di riflessione.
Riguardo invece alle mie scuse... Prima di allora non avevo mai
cercato di affascinare Bella di proposito, ma quello sembrò un buon
momento per provarci. Mentre mi allontanavo dalla scuola, fissai
intensamente i suoi occhi chiedendomi se lo stessi facendo nel
modo giusto. Ricorsi al mio tono più persuasivo.
«Bene, mi dispiace molto di averti fatta arrabbiare».
Il suo cuore prese a battere più forte, con un ritmo
improvvisamente staccato. I suoi occhi erano enormi e lei sembrava
stupita.
Accennai un mezzo sorriso. A quanto pareva, c’ero riuscito.
Certo, anch’io avevo qualche difficoltà a distogliere lo sguardo dai
suoi occhi. Ero altrettanto affascinato. Fortuna che conoscevo quella
strada a memoria.
«E sarò sulla soglia di casa tua sabato mattina presto», aggiunsi
per suggellare l’accordo.
Le sue palpebre sbattevano rapidamente e lei scosse il capo,
come per riprendersi. «Uhm», disse, «una misteriosa Volvo sul
vialetto non ci aiuterà di certo, con Charlie».
Ah, come non mi conosceva ancora abbastanza. «Non ho detto
che verrò in auto».
«Ma come...», provò a chiedere.
La interruppi. La risposta non avrebbe che generato un’ulteriore
serie di domande. «Non preoccuparti. Ci sarò, senza macchina».
Piegò di lato la testa e per un attimo parve essere sul punto di
insistere per saperne di più, ma poi sembrò cambiare idea.
«“Più tardi” è arrivato?», mi chiese ricordandomi la nostra
conversazione di prima, iniziata in mensa e poi interrotta.
Avrei fatto meglio a rispondere all’altra domanda. Questa era
ancora meno piacevole. «Pensavo fosse più tardi», concessi
controvoglia.
Parcheggiai di fronte a casa sua e in me crebbe la tensione
cercando di immaginare in che modo spiegarle... senza palesare
troppo la mia natura mostruosa, senza spaventarla di nuovo. Oppure
era uno sbaglio minimizzare la mia oscurità?
Lei era in attesa, con su la stessa maschera di cortese interesse
che aveva avuto a pranzo. Se in quel momento non fossi stato in
preda all’ansia, avrei riso di quella sua calma improbabile.
«Vuoi ancora sapere perché non ti posso portare a caccia?», le
domandai.
«Be’, più che altro mi chiedevo il perché della tua reazione», fu la
sua replica.
«Ti ho spaventata?», chiesi io, sicuro che avrebbe negato.
«No». Una bugia talmente palese.
Cercai di non sorridere, ma non ci riuscii. «Ti chiedo perdono per
averti terrorizzata». Dopodiché il mio sorriso svanì insieme
all’umorismo di quel momento. «È stato soltanto il pensiero della tua
presenza... durante la caccia».
«Non sarebbe il caso?».
Era troppo già solo immaginarlo... Bella, così vulnerabile in
quell’oscurità vuota; io senza controllo... Cercai di scacciare quella
visione dalla mia testa. «Nemmeno per scherzo».
«Perché?».
Feci un respiro profondo, concentrandomi per un attimo sulla sete
che mi ardeva in gola. Percepirla, gestirla, dar prova della mia
capacità di dominarla. Quella sete non avrebbe più avuto il controllo
su di me... volevo che fosse vero. Così sarei stato sicuro per lei.
Fissavo le nuvole sempre benaccette senza guardarle davvero,
desiderando invece che fosse possibile credere che la mia
determinazione sarebbe riuscita a fare la differenza, se mai mi fossi
imbattuto nel suo odore mentre ero a caccia.
«Quando cacciamo, ci abbandoniamo ai sensi», dissi
soppesando ogni parola prima di pronunciarla. «E non è la mente a
governarci. Seguiamo soprattutto l’olfatto. Se nel perdere il controllo
sentissi che sei vicina...».
Scossi la testa per lo strazio al pensiero di quel che sarebbe –
non che sarebbe potuto eventualmente, ma che sarebbe –
sicuramente accaduto in una simile circostanza.
Avvertii un picco nel suo battito cardiaco, dopodiché, inquieto, mi
voltai nuovamente verso di lei per leggere il suo sguardo.
Il volto di Bella non aveva perduto il proprio contegno e i suoi
occhi erano seri. La bocca era appena un po’ contratta per quella
che immaginavo potesse essere apprensione. Ma apprensione per
cosa? La propria incolumità? C’erano speranze che potessi
finalmente renderle chiara la realtà dei fatti? Continuai a fissarla
cercando di tradurre l’ambiguità della sua espressione in un dato
certo.
Anche lei mi fissava. Dopo un momento, i suoi occhi si fecero più
grandi e, benché la luce non fosse mutata, le sue pupille si
dilatarono.
Il mio respiro iniziò ad accelerare e d’improvviso la quiete
all’interno dell’auto sembrò emettere un ronzio, proprio come era
successo quel pomeriggio nell’oscurità dell’aula di biologia. Tra noi
tornò a scorrere una corrente elettrica e, per un attimo, il mio
desiderio di toccarla fu ancora più forte delle richieste della mia sete.
Quell’elettricità pulsante mi fece sentire come se i miei battiti
fossero ripresi. Tutto il mio corpo ne risuonava. Come se fossi un
umano. Più di ogni altra cosa al mondo, desideravo sentire il calore
delle sue labbra contro le mie. Per un istante solo, lottai
disperatamente per trovare la forza, il controllo, per riuscire a
poggiare la mia bocca vicinissimo alla sua pelle.
Lei fece un respiro stremato e solo allora mi accorsi che, mentre
io avevo cominciato a respirare più velocemente, lei aveva smesso
del tutto di farlo.
Chiusi gli occhi per cercare di interrompere quella connessione
tra noi.
Niente più errori.
L’esistenza di Bella era legata a migliaia di processi chimici, in
delicato equilibrio tra loro e tutti facilmente perturbabili:
quell’espansione ritmica dei suoi polmoni, quel flusso di ossigeno
era, per lei, una questione di vita o di morte. La cadenza palpitante
del suo fragile cuore poteva arrestarsi per tutta una serie di incidenti
stupidi o di malattie, oppure... a causa mia.
Credo che nessun membro della mia famiglia – eccetto forse
Emmett – avrebbe esitato di fronte alla possibilità di tornare indietro,
di fronte alla possibilità di barattare di nuovo l’immortalità con la
mortalità. Per farlo, io e Rosalie, e pure Carlisle, ci saremmo gettati
nel fuoco. Saremmo arsi per tutti i giorni o i secoli necessari.
Molti dei nostri simili consideravano l’immortalità la cosa in
assoluto più importante. E ad agognarla erano persino alcuni umani,
pronti a addentrarsi in meandri bui in cerca di chi potesse offrire loro
il più oscuro tra i doni.
Non noi. Non la mia famiglia. Noi avremmo offerto in cambio
qualunque cosa pur di essere umani.
Nessuno di noi però, neppure Rosalie, aveva mai avuto un
bisogno tanto disperato di trovare un modo per tornare indietro come
lo desideravo io adesso.
Aprii gli occhi e fissai le microscopiche cavità e incrinature del
parabrezza, come se nell’imperfezione di quel vetro si celasse una
qualche soluzione. L’elettricità non era ancora svanita e io dovevo
concentrarmi per mantenere le mani sul volante.
Ricominciai ad avvertire quel formicolio privo di dolore alla mano
destra, come quando l’avevo toccata prima.
«Bella, credo che a questo punto dovresti rientrare».
Lei aprì subito lo sportello, senza una parola, scese dall’auto e
richiuse la portiera. Anche lei, come me, aveva avvertito quel
potenziale disastroso in tutta la sua chiarezza?
Anche lei provava dolore nell’allontanarsi come io nel vederla
andare via? L’unico sollievo era che l’avrei rivista presto. Molto prima
di quando lei avrebbe rivisto me. Il pensiero mi fece sorridere, quindi
abbassai il finestrino e mi sporsi per parlarle ancora una volta.
Adesso era più sicuro farlo, con il calore del suo corpo fuori dall’auto.
Si voltò, incuriosita, per vedere che cosa volessi.
Sempre così curiosa, anche se avevo risposto a quasi tutte le sue
tante domande. La mia curiosità, invece, era del tutto inappagata.
Non era giusto.
«Ah, Bella?».
«Sì?».
«Domani è il mio turno».
La sua fronte si increspò. «Per cosa?».
«Per le domande». L’indomani, quando saremmo stati in un posto
più sicuro, circondati da testimoni, avrei ottenuto le mie risposte.
Sorrisi a quel pensiero, dopodiché mi allontanai, visto che lei non
accennava ad andarsene. Sebbene lei non fosse più dentro la
macchina, nell’aria continuava a vibrare l’eco di quell’elettricità.
Anch’io volevo scendere, accompagnarla alla porta usando quella
come scusa per starle accanto.
Niente più errori. Spinsi l’acceleratore e, quando lei scomparve
alle mie spalle, sospirai. Era come se stessi sempre correndo
incontro a Bella o lontano da lei, senza mai arrestarmi. Se mai
fossimo riusciti ad avere un po’ di pace, avrei dovuto trovare un
modo per rimanere fermo.
Quando ci passai davanti per raggiungere il garage, casa mia
appariva dall’esterno tranquilla e silenziosa. Nondimeno, riuscivo a
percepire lo scompiglio – sia espresso ad alta voce che pensato in
silenzio – presente al suo interno. Lanciai un’occhiata malinconica in
direzione della mia auto preferita – ancora integra, per il momento –
prima di andare ad affrontare l’orco sotto il ponte. Non riuscii
neppure a percorrere il breve vialetto che dal garage conduceva a
casa, che lei mi era già venuta incontro.
Non appena uditi i miei passi, Rosalie era schizzata fuori
dell’ingresso. Si era piazzata all’inizio delle scale, con le labbra
ritratte a mostrare i denti.
Io mi ero fermato a una ventina di metri di distanza, senza alcun
segno di aggressività nella mia postura. Sapevo di meritarmelo.
«Mi dispiace tanto, Rose», le annunciai prima ancora che lei
avesse avuto il tempo di raccogliere i pensieri per passare
all’attacco. Probabilmente non sarei riuscito a dire molto altro.
Lei raddrizzò le spalle e alzò di scatto il mento.
Come hai potuto essere così stupido?
Anche Emmett scese lentamente giù dalle scale, dietro di lei.
Sapevo che, se Rosalie mi avesse attaccato, Emmett si sarebbe
messo in mezzo a noi. Ma non per proteggere me. Per impedire che
lei mi provocasse al punto da farmi reagire.
«Mi dispiace», ripetei.
Vidi che era sorpresa della mancanza di sarcasmo nella mia
voce, della mia rapida capitolazione. Ma era ancora troppo
arrabbiata per accettare delle scuse.
Sei contento adesso?
«No», dissi, e il dolore nella mia voce confermò la mia risposta.
Perché l’hai fatto, allora? Perché dirglielo? Solo perché te l’ha
chiesto?
In sé, queste parole non erano dure: era il tono con cui erano
state formulate nella sua mente a essere tagliente come la punta
aguzza di un ago. Inoltre, nei suoi pensieri c’era il volto di Bella: una
caricatura del viso che io amavo. Sebbene in quel momento Rosalie
mi detestasse, questo sentimento non era nulla in confronto all’odio
che nutriva per Bella. Voleva convincersi che un tale astio fosse
giustificato, motivato unicamente dalla mia cattiva condotta: che
Bella fosse soltanto un problema poiché adesso era diventata un
pericolo per tutti noi. Una regola infranta. Bella sapeva troppo.
Io però riuscivo a vedere quanto il suo giudizio fosse offuscato
dalla gelosia per quella ragazza. Una gelosia ora ancora più acuta di
quella che aveva provato per il fatto che io avevo trovato Bella di
gran lunga più irresistibile di lei. Il fulcro della sua gelosia si era
spostato ed era mutato. Bella possedeva tutto ciò che Rosalie
desiderava. Era umana. Poteva compiere delle scelte. Rose era
furiosa perché Bella stava mettendo tutto questo in pericolo, perché
stava scherzando con l’oscurità quando invece aveva a disposizione
delle alternative.
E stava considerando che avrebbe persino potuto scambiare il
suo viso con quello della ragazza che giudicava bruttina, se solo
avesse potuto riacquistare l’umanità grazie a un simile accordo.
Per quanto Rosalie si sforzasse di non pensare a tutte queste
cose in attesa della mia risposta, non riuscì a scacciarle interamente
dalla propria testa.
«Perché?», chiese a voce alta mentre io continuavo a non dire
niente. Non voleva che continuassi a leggere i suoi pensieri.
«Perché gliel’hai detto?».
«In effetti, mi ha stupito che tu sia riuscito a farlo», commentò
Emmett prima che io potessi rispondere. «È raro che tu pronunci
apertamente quella parola, anche con noi. Non è tra le tue
preferite».
Stava considerando quanto io e Rose fossimo simili in questo,
quanto entrambi evitassimo il nome della non vita che odiavamo.
Emmett invece non aveva riserve di questo genere.
Come sarebbe stato sentirsi come lui? Essere così pragmatici,
così liberi dai rimpianti? Essere in grado di accettare così facilmente
le cose e andare avanti?
Io e Rose saremmo stati più felici se avessimo potuto seguire il
suo esempio.
Vedere tutto questo – le nostre affinità – così chiaramente
rendeva anche più facile perdonare gli strali avvelenati che nel
pensiero Rose ancora mi scagliava contro.
«Non ti sbagli», dissi a Emmett. «Io stesso dubito che sarei mai
stato capace di dirlo».
Emmett piegò di lato la testa. Dietro di lui, all’interno della casa,
riuscivo a percepire il turbamento in chi ci stava ascoltando. Solo
Alice non era sorpresa.
«E quindi?», sibilò Rosalie.
«Non esagerare», chiesi senza troppa speranza. Le sue
sopracciglia si sollevarono. «Non si è trattato di una violazione
deliberata. È stata una cosa che, probabilmente, avremmo dovuto
prevedere».
«Che stai dicendo?», ribatté lei.
«Bella è amica del nipote di Ephraim Black».
Rosalie rimase immobile per lo stupore. Anche Emmett fu colto
alla sprovvista. Erano impreparati a una simile svolta, così come lo
ero stato io.
Carlisle apparve sulla porta d’ingresso. Adesso non era più una
semplice lite tra me e Rosalie.
«Edward?», mi interpellò.
«Ce lo saremmo dovuti aspettare, Carlisle. Gli anziani avrebbero
certamente avvertito la nuova generazione del nostro ritorno. E,
come ovvio, la nuova generazione non ci avrebbe creduto. Per loro
non è che una stupida leggenda. Il ragazzo che ha risposto alle
domande di Bella non credeva a una parola di quello che le stava
raccontando».
Non ero in ansia per come Carlisle avrebbe reagito. Sapevo
quale sarebbe stata la sua risposta. Adesso stavo invece prestando
ascolto con molta attenzione alla stanza di Alice, perché volevo
sentire i pensieri di Jasper.
«Hai ragione», commentò Carlisle. «È naturale che sarebbe
andata così». Fece un sospiro. «È una sfortuna che la progenie di
Ephraim ne abbia parlato con un soggetto così perspicace».
Jasper stava ascoltando la risposta di Carlisle ed era
preoccupato. Ma più che sul mettere a tacere i Quileutes, i suoi
pensieri erano rivolti all’andare via con Alice. Lei aveva già
visualizzato i suoi progetti per il futuro, e si preparava a respingerli.
Non aveva alcuna intenzione di andarsene.
«Non è proprio sfortuna», dichiarò Rosalie tra i denti. «È colpa di
Edward se la ragazza sa qualcosa».
«È vero», ammisi subito. «È colpa mia. E ne sono dispiaciuto,
davvero».
Ma per piacere, pensò Rosalie rivolgendosi a me direttamente.
Falla finita con la solita scenetta di chi si arrende. Smettila di fare
quello tutto pentito.
«Non sto fingendo», le dissi. «Lo so che sono io il responsabile di
tutto questo. Ho combinato un gran casino».
«Alice te l’ha detto che stavo pensando di bruciarti la macchina,
vero?».
Feci un sorriso... più o meno.
«Sì, me l’ha detto. Ma me lo merito. Se ti fa piacere, allora fallo».
Lei mi fissò a lungo, valutando se procedere con la demolizione.
Mettendomi alla prova, per vedere se stessi bluffando.
Io alzai le spalle: «È solo un giocattolo, Rose».
«Non sei più tu», dichiarò lei ancora una volta tra i denti.
Io annuii. «Lo so».
Si voltò di scatto, diretta verso il garage. Ma era lei quella che
bluffava. Se con il suo gesto non poteva farmi del male, allora non
aveva alcun senso compierlo. Di tutta la famiglia, lei era l’unica che
amasse le auto quanto me. La mia era troppo bella per distruggerla
senza motivo.
Emmett la teneva d’occhio. «Suppongo che adesso non mi
racconterai come sono andate davvero le cose».
«Non so di che stai parlando», ribattei in tono innocente. Alzò gli
occhi al cielo, dopodiché raggiunse Rosalie.
Io guardai Carlisle e pronunciai il nome di Jasper.
Lui annuì. Sì, lo immagino. Parlerò con lui.
Alice comparve all’ingresso. «Ti sta aspettando», comunicò a
Carlisle. Lui le sorrise... un po’ divertito. Per quanto fossimo abituati
ad Alice, nei limiti del possibile, lei spesso risultava inquietante. Nel
passarle accanto, Carlisle le accarezzò i capelli scuri tagliati corti.
Io mi sedetti in cima alle scale e Alice si mise accanto a me,
entrambi in ascolto della conversazione al piano di sopra. Lei non
era minimamente tesa: sapeva come sarebbe andata a finire. Me lo
fece vedere e anche in me svanì la tensione. Il conflitto si era
concluso prima ancora di iniziare. Jasper nutriva ammirazione per
Carlisle, esattamente come ognuno di noi, ed era felice di seguire i
suoi consigli... finché non avesse ritenuto che Alice potesse essere
in pericolo. Adesso riuscivo a capire più facilmente il suo punto di
vista. Era strano come, prima di Bella, non lo avessi compreso. Lei
era riuscita a cambiarmi più di quanto avrei mai creduto possibile,
pur rimanendo me stesso.
13. UN’ALTRA COMPLICAZIONE

Quella notte, quando tornai nella camera di Bella, non mi sentivo


in colpa come al solito, anche se avrei dovuto. Mi sembrava il modo
migliore di agire, la sola cosa giusta da fare. Ero lì perché la mia
gola ardesse il più possibile. Avrei imparato a ignorare il suo
profumo. Ce l’avrei fatta. Non avrei permesso che questa cosa ci
creasse problemi.
Più facile a dirsi che a farsi. Ma sapevo che questo sarebbe stato
d’aiuto. Ci vuole pratica. Abbracciare il dolore, far sì che sia questa
la reazione più forte. Scacciare completamente fuori da me
l’elemento del desiderio.
Non c’era pace nei sogni di Bella. E non c’era pace nemmeno per
me mentre la guardavo agitarsi irrequieta e sussurrare
continuamente il mio nome. L’attrazione fisica, quella travolgente
chimica provata nell’oscurità della classe, lì, nella sua camera da
letto immersa nel buio della notte, era ancora più forte. Sebbene non
sapesse della mia presenza, sembrava avvertirla.
Si svegliò a più riprese. La prima volta si limitò a ficcare la testa
sotto il cuscino e a gemere, senza aprire gli occhi. Mi era andata
bene: avevo avuto una seconda possibilità che non meritavo, visto
che non ne approfittai per andarmene, come avrei dovuto. Sedetti
invece sul pavimento, nell’angolo più distante e buio della stanza,
fiducioso che i suoi occhi umani non mi avrebbero scovato.
E infatti non mi notò, nemmeno quando si alzò trascinandosi
verso il bagno per prendere un bicchiere d’acqua. Si muoveva
stizzita, come se fosse frustrata dal fatto che il sonno le stesse
sfuggendo.
Avrei voluto poter fare qualcosa, come la volta precedente con la
coperta calda presa dall’armadio. Ma potevo solo restare a guardare
mentre ardevo; e non le sarebbe servito a nulla. Fu un sollievo
quando alla fine sprofondò in uno stato di incoscienza senza sogni.
Ero nascosto tra gli alberi quando il cielo cominciò a schiarirsi
passando dal nero al grigio. Trattenni il respiro, questa volta per
evitare che il suo odore si disperdesse. Non volevo assolutamente
che l’aria pura del mattino cancellasse il dolore dalla mia gola.
Ascoltai Charlie a colazione, sforzandomi nuovamente di
intercettare le parole nei suoi pensieri. Era affascinante. Potevo
indovinare le motivazioni dietro quello che aveva appena detto ad
alta voce, percepire quasi le sue intenzioni, ma non si risolvevano
mai in frasi compiute, come accadeva con gli altri. Finii per
desiderare che i suoi genitori fossero ancora vivi. Sarebbe stato
interessante rintracciare questo tratto genetico indietro nel tempo.
Quella mattina fu sufficiente la combinazione di questi pensieri
inarticolati e dei suoi discorsi per avere un quadro complessivo del
suo modo di pensare. Era in pensiero per Bella, da un punto di vista
sia fisico che mentale. Al contempo, lo preoccupava l’idea che Bella
girasse da sola per Seattle, come preoccupava me, ma non in
maniera così maniacale. D’altronde le sue informazioni non erano
aggiornate come le mie; e poi non aveva idea di quanti pericoli fosse
riuscita a scampare di recente.
Lei formulò la sua risposta al padre con grande attenzione, ma
solo tecnicamente non era una bugia. Ovvio, non aveva intenzione
di parlargli del suo cambio di programma. O di me.
Charlie era anche preoccupato per il fatto che lei sabato non
sarebbe andata al ballo. Era rattristata per questo? Si sentiva
rifiutata? I ragazzi a scuola erano cattivi con lei? Non sapeva cosa
fare. Lei non sembrava depressa, ma lui sospettava che gli stesse
nascondendo qualcosa. Decise che avrebbe chiamato la madre in
giornata per consultarsi con lei.
Questo, se non altro, era quello che io pensavo lui stesse
pensando. Avrei potuto fraintendere i ruoli.
Mentre Charlie caricava la macchina, io andai a recuperare la
mia. Non appena svoltò l’angolo entrai nel vialetto per aspettare
Bella. Vidi le tendine scuotersi e poi la sentii precipitarsi lungo le
scale col suo passo malfermo.
Invece di uscire dall’auto per aprirle la portiera, come forse avrei
dovuto fare, rimasi seduto. Ma pensai che fosse più importante
restare a guardare. Non si era mai comportata come mi aspettavo, e
io dovevo essere in grado di prevedere le sue azioni in maniera
precisa; avevo bisogno di studiarla, di imparare come si muoveva in
autonomia, tentare di anticipare le sue intenzioni. Esitò un istante
fuori dalla macchina, poi accennò un sorriso ed entrò; era un po’
timida, pensai.
Quel giorno indossava un dolcevita scuro, color caffè. Non era
attillato, ma si adattava perfettamente alle sue forme... mi mancava il
suo orrendo maglione. Era più sicuro.
Avrei dovuto badare alle sue reazioni, tuttavia io fui
improvvisamente sopraffatto dalle mie. Non sapevo come facessi a
sentirmi così tranquillo con tutto quello che incombeva su di noi, ma
la sua presenza era un antidoto al dolore e all’ansia.
Inspirai profondamente col naso – non ogni tipo di dolore – e
sorrisi.
«Buongiorno. Oggi come stai?».
Sul suo viso erano evidenti i segni di una notte tormentata. La
sua pelle traslucida non nascondeva nulla. Ma sapevo che non si
sarebbe lamentata.
«Bene, grazie».
«Sembri stanca».
Chinò la testa, smuovendo i capelli intorno al viso con un gesto
che doveva essere consueto per lei. Ora i capelli le ricoprivano parte
della guancia sinistra. «Non riuscivo a dormire».
Le sorrisi. «Neanch’io».
Lei scoppiò a ridere e io assorbii il suono della sua felicità. «Non
c’è dubbio», disse. «Diciamo che avrò dormito poco più di te».
«Ci scommetto».
Mi scrutò attraverso i capelli, gli occhi le brillarono in un modo che
avevo imparato a conoscere. Bizzarro. «E tu, cosa hai fatto ieri
sera?».
Risi piano, felice di avere una scusa per non mentirle. «Alt. Oggi
le domande spettano a me».
Le riapparve tra le sopracciglia quell’accenno di broncio. «Ah,
d’accordo. Cosa vuoi sapere?». Aveva un tono leggermente scettico,
come se non riuscisse a credere che io mostrassi un vero interesse.
Non aveva affatto idea di quanto potessi essere curioso.
C’erano così tante cose che non conoscevo. Decisi di partire
cauto.
«Qual è il tuo colore preferito?».
Roteò gli occhi, dubitando ancora del mio livello di interesse.
«Cambia ogni giorno».
«Oggi qual è?».
Ci pensò un momento. «Probabilmente il marrone».
Pensai che mi stesse prendendo in giro, e cambiai tono per
adeguarmi al suo sarcasmo. «Marrone?».
«Certo», disse, e poi si mise inaspettatamente sulla difensiva.
Forse me lo dovevo aspettare. Non amava i giudizi. «Il marrone è
caldo. Ho nostalgia del marrone. Tutto ciò che in teoria è marrone –
tronchi d’albero, rocce, terra – da queste parti è coperto di roba
verde e viscida».
Il tono della sua voce mi riportò al lamento dell’altra sera, mentre
dormiva. Troppo verde: che cosa intendeva dire con questo? La
fissai, pensando a quanto in realtà avesse ragione. A dire il vero, in
quel momento, guardandola negli occhi, realizzai che il marrone era
anche il mio colore preferito. Non avrei potuto immaginare tonalità
più bella.
«Hai ragione», dissi, «il marrone è caldo».
Cominciò ad arrossire e involontariamente si rifugiò tra i suoi
capelli. Con cautela, preparandomi a ogni tipo di reazione inattesa,
le scostai i capelli dietro le spalle, così da avere di nuovo pieno
accesso al suo viso. La sua sola reazione fu un improvviso aumento
del battito cardiaco.
Svoltai nel parcheggio della scuola e fermai la macchina accanto
al posto che ero solito occupare. Il mio l’aveva preso Rosalie.
«Cosa c’è in questo momento nel tuo lettore CD?», chiesi dopo
aver girato la chiave e spento il motore. Non mi ero mai fidato
abbastanza di me stesso da arrivare a esserle così vicino mentre
dormiva, e questa situazione inedita mi intrigava.
Piegò la testa da un lato, come se cercasse di ricordare
qualcosa. «Ah, giusto», disse. «I Linkin Park. Hybrid Theory».
Non era quello che mi aspettavo.
Mentre estraevo lo stesso CD da uno scomparto, provai a
immaginare che cosa significasse per lei quell’album. Non sembrava
corrispondere a nessuno degli umori che avevo avuto modo di
osservare, c’erano molte cose tuttavia che non conoscevo.
«Da Debussy a questo?», mi sorpresi.
Fissò la copertina, e non riuscii a interpretare la sua espressione.
«Qual è la tua canzone preferita?».
«Mmm», mormorò, continuando a guardare la copertina. «With
You, penso».
Ripercorsi rapidamente a mente tutto il testo. «Perché quella?».
Accennò un sorriso e scrollò le spalle. «Non so».
Ecco, non era di grande aiuto.
«Il tuo film preferito?».
Si fermò a riflettere un istante.
«Non credo di poterne scegliere solo uno».
«Andiamo, il tuo film preferito».
Annuì mentre usciva dall’abitacolo. «Mmm. Di sicuro Orgoglio e
pregiudizio, quello di sei ore con Colin Firth. Vertigo. E... Monty
Python e il Sacro Graal. Ce ne sono molti altri... ma ora non mi
vengono in mente...».
«Dimmelo quando te ne ricordi», dissi mentre andavamo a
lezione di inglese. «E mentre ci pensi dimmi qual è il tuo profumo
preferito».
«Lavanda... O forse... biancheria pulita». Guardava dritto davanti
a sé, quando all’improvviso i suoi occhi si fermarono su di me per un
istante e le sue guance si colorarono di un rosa tenue.
«Ce ne sono altri?», chiesi, incuriosito da quell’espressione.
«No. Solo questi».
Non capivo perché avrebbe dovuto omettere una parte della sua
risposta a una domanda così semplice, ma ero abbastanza sicuro
che lo avesse fatto.
«E il dolciume che preferisci?».
Su questo fu molto sicura di sé. «Liquirizia e caramelle
gommose».
Sorrisi vedendo il suo entusiasmo.
Eravamo arrivati nella sua classe, ma lei esitava a entrare. E
anche io non avevo fretta di separarmi da lei.
«In un viaggio, dove ti piacerebbe andare?», chiesi, presumendo
che non mi avrebbe risposto al San Diego Comic-Con.
Inclinò la testa da un lato, socchiudendo gli occhi pensierosa. In
classe il professor Mason si stava schiarendo la voce per richiamare
l’attenzione.
«Pensaci e mi rispondi a pranzo», suggerii.
Il suo viso si aprì in un grande sorriso e si avviò alla porta, poi si
girò a guardarmi. Il suo sorriso svanì e tra i suoi occhi apparve una
V.
Avrei potuto chiederle a cosa stesse pensando, ma le avrei fatto
fare tardi, e probabilmente l’avrei messa nei guai. In ogni caso,
credevo di saperlo. O almeno, sapevo come mi sentivo io, mentre
lasciavo che la porta si chiudesse tra noi.
Mi sforzai di sorriderle in modo incoraggiante. Lei si precipitò
dentro mentre il professor Mason cominciava la lezione.
Camminai veloce verso la mia classe, consapevole che avrei
trascorso la giornata ignorando nuovamente ogni cosa intorno a me.
Ero amareggiato, però, perché nessuno parlò con lei durante le
lezioni della mattina, e così non c’era niente di nuovo da conoscere.
Solo lei che fissava il vuoto con un’espressione assente. Il tempo
trascorse lento, mentre io attendevo di rivederla di nuovo con i miei
occhi.
Quando la lezione di trigonometria terminò, io ero già lì ad
attenderla. Gli altri studenti lanciavano occhiate e facevano
commenti, ma Bella si affrettò a raggiungermi sorridendo.
«La bella e la bestia», annunciò. «E L’Impero colpisce ancora. So
che piace a tutti, ma...», disse facendo spallucce.
«E a ben vedere...», la rassicurai.
Camminavamo l’uno accanto all’altra. Era diventato già naturale
rallentare il passo, abbassare la testa di modo che fosse più vicina
alla sua.
«Hai riflettuto alla mia domanda sul viaggio?».
«Sì... Penso all’Isola del Principe Edoardo. Anna dai capelli rossi,
sai. Ma mi piacerebbe vedere New York. Non sono mai stata in una
grande città che si sviluppa perlopiù in verticale. Solo città orizzontali
come Los Angeles e Phoenix. Mi piacerebbe provare a fermare un
taxi». Rise. «E poi, se potessi andare dove mi pare, mi piacerebbe
l’Inghilterra. Vedere tutte quelle cose di cui ho letto».
La sua risposta portava dritta a un nuovo filone della mia
indagine, ma volevo approfondire prima di proseguire.
«Dimmi qual è il posto preferito tra quelli che hai già visitato».
«Mmm. Mi piace il molo di Santa Monica. Mia madre diceva che
Monterey era meglio, ma non ci siamo mai spinti così lontano lungo
la costa. Siamo stati perlopiù in Arizona; non c’è stato mai
abbastanza tempo per viaggiare e lei poi non voleva sprecare tutto il
tempo a stare in macchina. Le piaceva visitare quei posti che si
diceva fossero infestati dai fantasmi: Jerome, le Domes di Casa
Grande, praticamente tutte le città fantasma. Però non abbiamo mai
visto nessun fantasma, lei diceva che era per colpa mia. Perché ero
troppo scettica e li spaventavo tutti». Rise di nuovo. «Lei ama le
rievocazioni storiche, ogni anno andiamo a quella del Gold Canyon...
Be’, quella di quest’anno me la sono persa, mi sa. Una volta ho visto
i cavalli selvaggi del Salt River. È stato favoloso».
«Dov’è il posto più lontano da casa in cui sei stata?», chiesi,
cominciando a preoccuparmi un po’.
«Qui, temo», disse. «Il posto più a nord rispetto a Phoenix,
comunque. A est, Albuquerque, ma ero troppo piccola e non ho
ricordi. Il posto più lontano a ovest dovrebbe probabilmente essere
la spiaggia di La Push».
Si calmò improvvisamente. Mi chiedevo se stesse pensando alla
sua ultima visita a La Push e a tutto ciò che aveva scoperto lì.
Eravamo ormai in coda a mensa e lei scelse rapidamente ciò che
voleva invece di aspettare che fossi io a prenderle un po’ di tutto. E
si affrettò a pagare la sua parte.
«Non hai mai lasciato il paese?», continuai, una volta raggiunto il
nostro tavolo vuoto. Mi chiesi se il fatto che io mi sedessi lì non
avesse reso quella zona off limits per sempre.
«Non ancora», disse allegramente.
Sebbene avesse avuto solo diciassette anni per esplorare il
mondo, la cosa ancora mi sorprendeva. E... mi faceva sentire in
colpa. Aveva visto così poco e aveva vissuto una parte così esigua
di ciò che la vita aveva da offrirle. Era impossibile che sapesse
davvero ciò che voleva.
«Gattaca», disse, mentre masticava pensierosa uno spicchio di
mela. Non aveva notato il mio improvviso cambio di umore. «Era un
bel film. L’hai visto?».
«Sì. Anche a me è piaciuto».
«Qual è il tuo film preferito?».
Scossi la testa e sorrisi. «Non è il tuo turno».
«No, davvero. Sono così noiosa. E poi devi averne fin sopra i
capelli di fare domande».
«È il mio giorno», le ricordai. «E non sono affatto annoiato».
Arricciò le labbra, come se volesse ancora mettere in discussione
il mio livello di interesse, ma poi sorrise. Immaginai che in fondo non
mi credesse, ma aveva deciso che avrebbe rispettato i patti. Era il
mio giorno per fare domande.
«Parlami dei libri».
«Non puoi dirmi di sceglierne uno», protestò accalorandosi.
«Non è quello che voglio. Parlami di quelli che ti piacciono».
«Da dove cominciare? Mmm, Piccole donne. È stato il primo libro
grande che ho letto. Lo leggo ancora adesso praticamente ogni
anno. Tutta la Austen, sebbene non sia una grande fan di Emma...».
Della Austen ero già a conoscenza, poiché avevo visto la sua
antologia tutta sgualcita il giorno in cui era andata a leggere
all’aperto, ma quell’esclusione mi stupiva.
«Perché no?».
«Ehm, è troppo piena di sé».
Sorrisi e lei continuò senza bisogno che la sollecitassi.
«Jane Eyre. Anche questo l’ho letto abbastanza spesso. È il mio
ideale di eroina. Tutto di ognuna delle sorelle Brontë. Il buio oltre la
siepe, ovviamente. Fahrenheit 451. Tutte le Cronache di Narnia, ma
in particolare Il viaggio del veliero. Via col vento. Douglas Adams e
David Eddings e poi Orson Scott Card e Robin McKinley. Ho già
detto L.M. Montgomery?».
«Lo avevo capito dalle tue intenzioni di viaggio».
Annuì, ma poi sembrò combattuta. «Vuoi che prosegua? Forse
sto parlando troppo».
«Sì», la rassicurai. «Voglio che prosegui».
«Vado a caso», disse, mettendomi in guardia. «Mia madre aveva
un sacco di tascabili di Zane Grey. Alcuni erano niente male.
Shakespeare, soprattutto le commedie». Sorrise. «Vedi, vado a
caso. Vediamo... tutta Agatha Christie. I libri sui draghi di Anne
McCaffrey... e sempre in tema di grandi draghi, Tooth and Claw di Jo
Walton. La principessa sposa, molto meglio del film...». Si batté un
dito sulle labbra. «Ce ne sono un’infinità, ma ora di nuovo ho un
vuoto».
Sembrava un po’ provata.
«Va bene per ora». Aveva esplorato più nella finzione che nella
realtà, e fui sorpreso dal fatto che avesse elencato un libro che non
avevo ancora letto. Avrei dovuto cercare una copia di Tooth and
Claw.
Nella sua personalità potevo scorgere alcuni elementi di questi
romanzi, personaggi che avevano modellato i contorni del suo
mondo. C’era un po’ di Jane Eyre in lei, un pizzico di Scout Finch e
di Jo March, un po’ di Elinor Dashwood, e Lucy Pevensie. Ero sicuro
che avrei trovato molte più connessioni via via che avessi scoperto
di più su di lei.
Era come ricomporre un puzzle, uno di quelli da centinaia di
migliaia di pezzi, ma senza l’immagine intera che facesse da guida.
Serviva tempo, molte false piste, ma alla fine sarei riuscito a vedere
il quadro completo.
«Ovunque nel tempo. Amo quel film. Non riesco a credere di non
averci pensato prima», disse, interrompendo il flusso dei miei
pensieri.
Non era tra i miei preferiti. L’idea che due amanti potessero stare
insieme in paradiso solo dopo la morte non mi aveva mai convinto.
Cambiai argomento.
«Parlami della musica che ami».
Fece una pausa per deglutire nuovamente. Poi arrossì,
inaspettatamente.
«Qualcosa non va?», chiesi.
«Ecco, mi sa che io non... non sono una grande esperta di
musica. Il CD dei Linkin Park era un regalo di Phil. Cercava di
aggiornare un po’ i miei gusti».
«Prima di Phil, che cosa ti piaceva?».
Sospirò, sollevando le mani in segno di impotenza. «Ascoltavo
quello che aveva mia madre».
«Musica classica?».
«Talvolta».
«E le altre volte?».
«Simon & Garfunkel. Neil Diamond. Joni Mitchell. John Denver.
Quel genere di cose. Lei è come me: ascolta le cose che ascoltava
sua madre. Le piaceva cantare insieme a me durante i viaggi in
macchina». Improvvisamente, con il suo ampio sorriso apparve la
fossetta asimmetrica. «Ricordi quelle definizioni della paura di cui
abbiamo parlato prima?». Sorrise. «Finché non senti mia madre e
me cercare di prendere le note più alte della colonna sonora del
Fantasma dell’Opera, vuol dire che non hai mai conosciuto la vera
paura».
Risi con lei, ma avrei voluto ascoltare e assistere a quella scena.
La immaginavo sulla strada inondata di luce che si snodava
attraverso il deserto, con i finestrini abbassati e il sole che esaltava i
riflessi rossi dei suoi capelli. Mi sarebbe piaciuto sapere com’era sua
madre e anche che tipo di macchina fosse la loro, così che il mio
quadro fosse più preciso. Volevo essere lì con lei, ascoltarla cantare
stonata, guardare il suo sorriso nel sole.
«Il tuo programma TV preferito?».
«Non guardo molto la televisione».
Mi chiedevo se avesse paura di scendere più nei dettagli per
timore che mi potesse nuovamente annoiare. Forse qualche
domandina leggera l’avrebbe messa a suo agio.
«Coca o Pepsi?».
«Dr Pepper».
«Gelato preferito?».
«Il cookie dough».
«Pizza?».
«Al formaggio. Scontato, ma è così».
«Squadra di football?».
«Mmm, passo».
«Di pallacanestro?».
Scrollò le spalle. «Non sono una grande appassionata di sport».
«Balletto o opera?».
«Balletto, credo. Non sono mai stata all’opera».
Sapevo benissimo che l’utilità della lista che stavo compilando
andava ben oltre il semplice imparare a capire quanto più possibile
su di lei. Cominciavo a conoscere quello che le sarebbe potuto
piacere. Quali regali avrei potuto farle. I posti in cui avrei potuto
portarla. Le piccole e le grandi cose. Era enormemente presuntuoso
da parte mia immaginare che avrei potuto mai occupare un posto
simile nella sua vita. Ma quanto l’avrei voluto...
«E la tua pietra preferita?».
«Il topazio». Lo disse con decisione, ma poi i suoi occhi
improvvisamente si serrarono e un rossore le inondò le guance.
Era già successo prima, quando le avevo chiesto dei profumi.
Quella volta avevo lasciato correre, ma adesso no. Di sicuro l’altra
curiosità inappagata avrebbe continuato a tormentarmi.
«Perché questo ti... imbarazza?». Non ero sicuro di aver colto il
sentimento giusto.
Lei scosse il capo, guardandosi le mani. «Niente».
«Vorrei capire».
Scosse di nuovo il capo, evitando di guardarmi.
«Per favore, Bella...».
«Prossima domanda».
Ora morivo dalla voglia di sapere.
«Dimmelo», insistei. Fui perentorio e me ne vergognai subito.
Non sollevò lo sguardo, e cominciò ad arricciarsi una ciocca di
capelli con le dita.
«È il colore dei tuoi occhi, oggi», confessò. «Dovessi chiedermelo
tra due settimane ti risponderei che è l’onice».
Proprio come il mio colore preferito era adesso l’intenso marrone
scuro dei suoi.
Lasciò ricadere le spalle, e improvvisamente riconobbi la sua
postura. Era come quella del giorno prima, quando, alla mia
domanda se credesse di tenere più lei a me di quanto io tenessi a
lei, aveva avuto un’esitazione. L’avevo messa di nuovo nella stessa
posizione: attestare il suo interesse nei miei confronti senza ricevere
in cambio alcuna garanzia.
Maledicendo la mia curiosità, ripresi con le domande. Forse la
mia palese attrazione per ogni dettaglio della sua personalità
l’avrebbe convinta del grado di ossessività del mio interesse.
«Quali sono i tuoi fiori preferiti?».
«Mmm, la dalia. Per l’aspetto. Lavanda e lilla per il profumo».
«Non ami guardare lo sport, ma hai mai giocato in una
squadra?».
«Solo a scuola, costretta».
«Tua madre non ti ha mai iscritto a una squadra di calcio?».
Scrollò le spalle. «A mia madre piaceva tenere liberi i fine
settimana per le escursioni. Sono stata per un po’ negli scout, e una
volta mi ha fatto partecipare a una lezione di danza, ma è stato un
errore». Inarcò le sopracciglia, come se volesse sfidarmi a dubitare
di lei. «Pensava che sarebbe stato comodo, perché la scuola era
abbastanza vicina e potevo arrivarci a piedi; ma il danno non valeva
la comodità».
«Danno, davvero?», chiesi in tono scettico.
«Se avessi il numero della signora Kemenev, potrebbe
confermare la mia storia».
Sollevò improvvisamente gli occhi. Gli altri studenti intorno a noi
stavano raccogliendo le loro cose. Com’è che il tempo era passato
così in fretta?
Si alzò in piedi in risposta a tutto quel trambusto, e così feci io,
raccogliendo gli avanzi nel vassoio, mentre lei infilava lo zaino sulle
spalle. Allungò poi la mano verso di me, come se mi volesse
prendere di mano il vassoio.
«Ci penso io», dissi.
Sbuffò lentamente, un po’ esasperata. Non le piaceva ancora che
qualcuno usasse delle attenzioni.
Mentre andavamo a biologia, non riuscivo a concentrarmi sulle
domande a cui ancora non avevo ricevuto risposta.
Mi ricordai del giorno prima, e mi chiesi se quella stessa tensione,
carica di desiderio e di elettricità, ci sarebbe stata anche di lì a poco.
E se, come prevedevo, una volta spentesi le luci, le stesse
travolgenti voglie si sarebbero ripresentate.
Posizionai la sedia lontano da lei, ma non servì a niente.
C’era ancora una parte di me, egoista, che riteneva che stringerle
la mano non sarebbe stato così sbagliato e che arrivava persino a
suggerire che questo sarebbe stato il modo migliore per testare le
sue reazioni e prepararmi a stare insieme da soli. Cercavo in ogni
modo di ignorare questa voce e la tentazione che ne scaturiva.
Anche Bella, lo avevo capito, ci stava provando. Si sporse in
avanti, il mento sulle braccia. Vidi le sue dita arpionare il bordo del
banco così forte che le nocche diventarono bianche. Mi veniva da
chiedermi contro quale tentazione in particolare stesse lottando.
Quel giorno non mi guardò affatto. Nemmeno una volta.
C’erano così tante cose che non capivo di lei. Così tante cose
che non potevo chiederle. Il mio corpo era sempre così
impercettibilmente teso verso di lei. Mi ritrassi.
Quando si riaccesero le luci, Bella sospirò, e se avessi dovuto
tirare a indovinare avrei detto che la sua era un’espressione di
sollievo. Ma sollievo per cosa?
Camminai accanto a lei fino alla lezione successiva,
combattendo, come il giorno prima, la stessa battaglia interiore.
Bella si fermò poi sulla soglia dell’aula e sollevò su di me i suoi
occhi limpidi e profondi. Aspettava qualcosa o era solo confusa? Era
un invito o un avvertimento? Che cosa voleva?
È solo una domanda, mi dissi mentre la mia mano si muoveva
verso di lei, involontariamente. Un altro tipo di domanda.
Rigido, senza respirare, lasciai che il dorso della mia mano
sfiorasse appena un lato del suo viso, dalla tempia fino alla
mandibola contratta. Come il giorno prima, la sua pelle avvampò non
appena la toccai e il suo cuore cominciò a battere forte. Inclinò la
testa, ma solo di qualche centimetro, assecondando la mia carezza.
Era un altro tipo di risposta.
Ancora una volta mi allontanai da lei rapidamente, consapevole
che questo lato del mio autocontrollo era ormai compromesso,
mentre anche la mia mano aveva cominciato a bruciare senza
dolore.
Emmett era già al suo posto quando arrivai alla lezione di
spagnolo. E così anche Ben Cheney. Non furono solo loro due a
notare il mio ingresso. Riuscivo a sentire la curiosità degli altri
studenti, il nome di Bella accostato al mio, le insinuazioni...
Ben era il solo essere umano che non stesse pensando a Bella.
La mia presenza lo aveva un po’ irritato, ma non era ostile. Aveva
già parlato ad Angela ed era riuscito a fissare un appuntamento per
il prossimo weekend. Lei aveva accolto entusiasta l’invito, e lui era
ancora al settimo cielo. Sebbene diffidasse delle mie intenzioni, era
consapevole che ero stato io il catalizzatore del suo attuale stato di
felicità. Finché mi tenevo a distanza da Angela lui non avrebbe avuto
problemi con me. C’era persino un pizzico di gratitudine, sebbene
non avesse la minima idea che io desideravo che le cose andassero
proprio così. Sembrava un ragazzo sveglio; la mia stima nei suoi
confronti era cresciuta.
Bella era in palestra, ma, come il giorno prima, non aveva
partecipato alla seconda parte della lezione. Ogni volta che Mike
Newton si girava verso di lei, il suo sguardo sembrava perso. Era
ovviamente da qualche altra parte. Mike immaginò che qualunque
cosa le avesse detto in quel momento sarebbe stata inopportuna.
Immagino che non ho mai avuto alcuna possibilità, pensò, tra il
rassegnato e il corrucciato. Come è potuto succedere? È stato da un
giorno all’altro. Immagino che quando Cullen vuole qualcosa non gli
ci voglia molto per ottenerlo. Le immagini che si susseguirono, i suoi
pensieri su ciò che avrei ottenuto erano offensivi. Smisi di ascoltare.
Non mi piaceva il suo modo di vedere le cose. Come se Bella non
avesse una sua volontà. Era stata sicuramente lei a scegliere, no?
Se mai mi avesse chiesto di lasciarla in pace, io avrei girato i tacchi
e avrei cambiato strada. Ma lei voleva che restassi, allora e adesso.
I miei pensieri tornarono all’aula di spagnolo, volevo verificare
cosa stesse avvenendo lì, e mi sintonizzai naturalmente sulla voce
più familiare. Ma la mia mente era, come al solito, tutta presa da
Bella, sicché, per un istante, non compresi che cosa stessi
ascoltando.
E poi digrignai i denti così forte che anche gli esseri umani
accanto a me sentirono. Un ragazzo si guardò intorno in cerca
dell’origine di quel rumore.
Ops, pensò Emmett.
Strinsi forte le mani e mi sforzai di restare seduto al mio posto.
Scusa, stavo cercando di non pensare a questo.
Lanciai un’occhiata all’orologio. Quindici minuti ancora, prima di
potergli dare un pugno in faccia.
Non avevo cattive intenzioni. Ehi, ho preso le tue parti, okay? A
dire il vero, Jasper e Rose sono solo degli sciocchi a puntare contro
Alice. Sarà la scommessa più semplice che avrò mai vinto.
Una scommessa su questo weekend, se Bella sarebbe morta o
meno.
Quattordici minuti e mezzo.
Emmett si contorceva sulla sedia, ben consapevole del significato
della mia totale immobilità.
Dai, Ed. Lo sai che non facevo sul serio. Comunque, non si tratta
nemmeno della ragazza. Sai meglio di me tutto quello che sta
succedendo con Rose. È una questione tra voi due, immagino. Lei è
ancora furiosa, e non ammetterebbe per nessuna ragione al mondo
di fare il tifo per te in questo momento.
Dava sempre a Rosalie il beneficio del dubbio e, sebbene io
sapessi che era esattamente l’opposto – io non le avevo mai dato il
beneficio del dubbio –, questa volta si sbagliava. A Rosalie avrebbe
fatto piacere vedermi fallire. Sarebbe stata contenta di vedere Bella,
e le sue pessime scelte, ricevere quella che considerava la loro
giusta ricompensa. E poi, mentre l’anima di Bella correva incontro a
tutto ciò che l’attendeva, lei avrebbe continuato a essere gelosa.
E Jazz... be’, lo sai. È stanco di essere l’anello più debole. Tu sei
un po’ troppo perfettino con questa cosa dell’autocontrollo, e questo
può dar fastidio. Per Carlisle è diverso. Ammettilo, sei un pochino...
compiaciuto.
Tredici minuti.
Per Emmett e Jasper si trattava solo di una pozza melmosa di
sabbie mobili in cui mi ero ficcato da solo.
Trionfo o fallimento: per loro alla fine non era nulla di più che un
altro aneddoto su di me. Bella non faceva parte dell’equazione. La
sua vita era solo un segnapunti nella scommessa che avevano fatto.
Non prenderla sul personale.
C’erano altri modi? Dodici minuti e mezzo.
Vuoi che faccia un passo indietro? Lo farò.
Sospirai, e la rigidità del mio corpo iniziò a sciogliersi.
Che senso aveva alimentare la mia rabbia? Avrei dovuto
biasimarli per la loro incapacità a comprendere? Ma come avrebbero
potuto?
Quanto era insensato tutto questo. Irritante, sì, ma... avrei reagito
diversamente se il cambiamento non avesse riguardato la mia vita?
Se non si fosse trattato di Bella?
Al di là di tutto, non avevo tempo per combattere con Emmett.
Dovevo aspettare che Bella ritornasse dalla palestra. C’erano ancora
molti pezzi del puzzle che avevo bisogno di scoprire.
Avvertii il sollievo di Emmett quando, al suono della campanella,
sfrecciai davanti alla porta, ignorandolo.
Quando Bella oltrepassò la soglia della palestra e mi vide, un
sorriso le si allargò sul viso. Avvertii la stessa sensazione di sollievo
provata in macchina quella mattina. Mi sentii alleggerito da ogni
dubbio e tormento. Sapevo che erano ancora presenti, ma il loro
peso era molto più facile da sopportare, se solo potevo vederla.
«Parlami della tua casa», dissi, incamminandoci verso la
macchina. «Cosa ti manca?».
«Mmm... dici la mia casa o Phoenix? O intendi qui?».
«Tutto».
Mi guardò con aria interrogativa, dicevo sul serio?
«Prego», dissi, tenendole la portiera.
Sollevò un sopracciglio mentre saliva, ancora dubbiosa.
Ma una volta in macchina, di nuovo soli, sembrò rilassarsi.
«Sei mai stato a Phoenix?».
Sorrisi. «No».
«Già», disse. «Evidente. Il sole». Si fermò a meditare sulla cosa,
in silenzio per qualche istante. «Ti creerebbe una specie di
problema...?».
«Infatti». Non intendevo provare a rispondere a questa domanda.
Si trattava di qualcosa che per essere compreso doveva
necessariamente essere visto. E poi, Phoenix era un po’ troppo
vicina alle terre reclamate dagli aggressivi clan del Sud, e in fin dei
conti era una storia in cui non volevo addentrarmi.
Stava aspettando, chiedendosi se avrei approfondito l’argomento.
«Allora, parlami di questo posto che non ho mai visto», la
sollecitai.
Ci pensò su un momento. «La città è perlopiù piatta, con edifici
non molto più alti di due o tre piani. Ci sono alcuni piccoli grattacieli
in centro, ma era abbastanza distante da dove vivevo. Phoenix è
enorme. Puoi guidare tra i suoi sobborghi per tutta la giornata. È
piena di piastrelle, intonaco e ghiaia. Lì tutto è duro e la maggior
parte delle cose ha spine, non come qui dove tutto è soffice e
molliccio».
«Ma ti piace».
Annuì e si aprì in un sorriso. «È così... aperta. Tutto cielo. Le
cose che noi chiamiamo montagne sono in realtà solo colline, colline
dure e spinose. Ma la maggior parte della vallata è una grande
conca poco profonda ed è sempre inondata di luce». Disegnò la
forma con le mani. «Paragonate a quello che c’è qui, le piante
somigliano all’arte moderna, tutte angoli e spigoli. Perlopiù
appuntite». Sorrise ancora. «Ma anche loro sono tutte aperte. Anche
quando hanno le foglie, sono leggere e rade. Non ti ci puoi riparare.
Niente impedisce al sole di filtrare».
Fermai la macchina davanti casa sua. Al solito posto.
«Be’, di tanto in tanto piove», si corresse. «Ma è diverso da qui. È
più eccitante. Ci sono un sacco di tuoni, fulmini e allagamenti, non
solo quella pioggerellina continua che c’è qui. E c’è un odore più
buono lì. È odore di creosoto».
Conoscevo gli arbusti sempreverde di cui parlava. Li avevo visti
in macchina nel Sud della California, ma solo di notte. Non erano
granché.
«Non ho mai sentito l’odore del creosoto», confessai.
«Odora solo con la pioggia».
«Com’è?».
Ci pensò un po’. «Dolce e amaro allo stesso tempo. Un po’ resina
e un po’ medicina. Ma così suona male. Profuma di fresco. Come un
deserto pulito». Ridacchiò. «Non è molto d’aiuto, vero?».
«Al contrario. Cos’altro mi sono perso non visitando l’Arizona?».
«I saguaro, ma li avrai visti sicuramente in foto».
Annuii.
«Quando li vedi di persona sono più grandi di come te li aspetti.
Colgono di sorpresa tutti i neofiti. Hai mai vissuto in posti dove ci
sono le cicale?».
«Sì», sorrisi. «Per un po’ siamo stati a New Orleans».
«Quindi sai di cosa parlo», disse. «La scorsa estate lavoravo in
un vivaio. Lo stridio... erano come unghie sulla lavagna. Mi facevano
uscire di testa».
«E poi?».
«Mmm. I colori sono diversi. Le montagne – colline o quant’altro –
sono perlopiù vulcaniche. Un sacco di roccia viola, quanto basta per
trattenere il calore del sole. Come l’asfalto. In estate non si raffredda
mai, friggere un uovo sul marciapiede non è una leggenda
metropolitana. Ma c’è molto verde nei campi da golf. C’è anche chi
cura i prati, sebbene mi sembri folle. Comunque, è bello il contrasto
dei colori».
«Dove preferisci trascorrere il tempo?».
«In biblioteca». Sorrise. «Se non mi fossi già rivelata per la nerd
che sono, suppongo che sia ovvio. Credo di aver letto tutti i libri di
narrativa di una piccola biblioteca vicino casa mia. Il primo posto
dove sono andata quando ho preso la patente è la biblioteca
centrale in centro. Potrei viverci, lì».
«E poi dove?».
«D’estate andavamo in piscina al Cactus Park. Lì mia madre mi
fece prendere lezioni di nuoto prima ancora che imparassi a
camminare. Nelle notizie di cronaca c’era sempre qualche storia di
bambini annegati e questo la terrorizzava a morte. In inverno
andavamo al Roadrunner Park. Non era enorme, ma c’era un
laghetto. Da bambina facevamo andare barchette di carta. Non era
molto eccitante, come ho provato a dirti...».
«Trovo che sia molto carino. Io non ricordo molto della mia
infanzia».
Il suo sorriso beffardo si dissolse e si accigliò. «Deve essere
difficile. E strano».
Ora ero io a scrollare le spalle. «È così. Ma nulla di cui
preoccuparsi, ovviamente».
Rimase in silenzio per un po’, rimuginando su quello che avevo
detto.
Attesi il più possibile che riprendesse a parlare, finché alla fine
chiesi: «A cosa pensi?».
Il suo sorriso adesso si era attenuato. «Ho un sacco di domande.
Ma so che...».
Dicemmo queste parole simultaneamente.
«Oggi è il mio giorno».
«Oggi è il tuo giorno».
Anche le nostre risate si erano sincronizzate adesso, e io pensai
a quanto fosse stranamente facile stare con lei in questo modo. Alla
giusta distanza. Senza alcuna sensazione di pericolo. Ero così
divertito che quasi non sentivo più dolore alla gola, sebbene non
fosse tanto debole. E poi non era così interessante come pensare a
lei.
«Sono riuscita a convincerti su Phoenix?», chiese dopo un altro
momento di silenzio.
«Forse ho bisogno di essere ancora un po’ persuaso».
Si fermò a pensare. «Esiste un tipo di albero di acacia, ma non
ricordo come si chiama. Somiglia a tutti gli altri, spinoso, mezzo
morto». Improvvisamente fece un’espressione piena di nostalgia.
«Ma in primavera fa questi fiori gialli pelosi che sembrano pon-pon».
Mi mostrò la loro dimensione, fingendo di stringerne uno tra il pollice
e l’indice. «Hanno un profumo... incredibile. Unico. Davvero tenue e
delicato; se ne avverte solo un improvviso accenno nella brezza, poi
svanisce. Dovrei includerlo tra i miei profumi preferiti. Sarebbe bello
se qualcuno ne facesse una candela o qualcosa del genere. E i
tramonti sono incredibili», proseguì, cambiando repentinamente
soggetto. «Davvero, non vedrai mai nulla di simile da queste parti».
Si fermò ancora una volta a riflettere. «Anche in pieno giorno, il
cielo... è grandioso. Non è blu come il cielo di queste parti... sempre
quando riesci a vederlo. È più chiaro, sbiadito. Certe volte è quasi
bianco. Ed è ovunque». Sottolineò le parole con la mano, tracciando
un arco sopra la testa. «C’è molto più cielo lì. Se ti allontani un po’
dalle luci della città puoi vedere milioni di stelle». Fece un sorriso
malinconico. «Davvero, dovresti provarci una volta».
«Deve piacerti molto».
Lei annuì. «Non è una cosa per tutti, immagino». Fece una
pausa, pensierosa, ma mi sembrò di capire che ci fosse dell’altro,
così la lasciai riflettere.
«Mi piace il... minimalismo», disse. «È qualcosa di onesto. Non
nasconde nulla».
Pensai a tutto quello che qui le era nascosto, e mi domandai se le
sue parole volessero intendere che era consapevole di ciò, delle
tenebre invisibili che si erano raccolte intorno a lei. Ma mi stava
fissando e i suoi occhi non mi giudicavano.
Non aggiunse altro e dal modo in cui aveva ritirato leggermente il
mento all’indietro pensai che potesse pensare che stesse
nuovamente parlando troppo.
«Deve mancarti moltissimo», dissi.
Non si incupì come forse mi sarei aspettato. «All’inizio era così».
«E ora?».
«Mi sa che mi sono abituata a stare qui». Sorrise come se ormai
si fosse rassegnata alla foresta e alla pioggia.
«Parlami della tua casa lì».
Fece spallucce. «Niente di particolare. Intonaco e piastrelle,
come ti ho detto. Un piano, tre camere da letto, due bagni. Mi manca
molto il mio piccolo bagno. Condividerlo con Charlie è stressante.
Fuori solo ghiaia e cactus. All’interno l’arredamento è in stile anni
Settanta: rivestimenti in legno, linoleum, moquette, ripiani in formica
color mostarda e i soliti comfort. A mia madre non interessa granché
rimodernare. Dice che le cose vissute hanno più carattere».
«E la tua camera da letto?».
Dall’espressione che fece mi venne da chiedermi se non ci fosse
qualcosa di divertente che mi sfuggiva.
«Ora o quando vivevo lì?».
«Ora».
«Penso sia una sala da yoga o qualcosa di simile. La mia roba
sta in garage».
La guardai sorpreso. «Come farai quando torni?».
Non sembrava preoccupata. «Ci ficcherò dentro un letto in
qualche modo».
«Non c’era una terza camera da letto?».
«È la sala hobby di mia madre. Ci vorrebbe un intervento divino
per farci entrare un letto, lì». Rise allegramente. Avevo pensato che
volesse trascorrere più tempo con sua madre, ma parlava come se il
suo periodo a Phoenix fosse ormai qualcosa che apparteneva al
passato più che al futuro. Provai un senso di sollievo, ma cercai di
non darlo a vedere.
«Com’era la tua camera da letto quando vivevi lì?».
Arrossì appena. «Mmm, incasinata. Non sono molto ordinata».
«Parlamene».
Ancora una volta mi guardò come a dire mi stai prendendo in
giro, ma poiché rimasi impassibile, lei accettò di rispondere,
mimando a gesti la disposizione.
«È una camera piccola. Un letto sul lato sud e la cassettiera a
nord, sotto la finestra, con un passaggio stretto tra i due. C’è anche
una piccola cabina armadio, carina se fossi riuscita a tenerla
abbastanza in ordine da entrarci. La mia stanza qui è più grande e
meno disastrata, forse perché non ci sono stata abbastanza a lungo
da incasinare tutto».
Assunsi un’espressione tranquilla, nascondendo sia il fatto che
conoscessi molto bene come era fatta la sua camera qui, sia la mia
sorpresa che la sua camera a Phoenix fosse molto più disordinata.
«Mmm...». Mi guardò per vedere se desiderassi saperne di più, e
io annuii per incoraggiarla. «Il ventilatore al soffitto è rotto, funziona
solo la luce, così ne ho dovuto mettere uno molto rumoroso sulla
cassettiera. In estate sembra di stare in una galleria del vento. Ma è
molto meglio per dormire rispetto a quando qui piove. Il suono della
pioggia non è abbastanza costante».
Il pensiero della pioggia mi spinse a guardare il cielo, e rimasi
impressionato dalla debolezza della luce. Non riuscivo a
comprendere come facesse il tempo a curvarsi e a comprimersi
quando ero con lei. Quello concesso a noi era già finito?
Non capì la mia preoccupazione.
«Hai finito?», domandò sollevata.
«Neanche per sogno...», dissi, «ma tra poco tornerà tuo padre».
«Charlie!», trasalì, come se avesse dimenticato che esistesse.
«Quanto è tardi?», disse, e mentre lo chiedeva guardò l’orologio sul
cruscotto.
Guardai le nuvole. Per quanto fitte, si intuiva la posizione del
sole.
«È il crepuscolo», dissi. Il momento in cui escono i vampiri...
quando non dobbiamo preoccuparci che il passaggio di una nuvola
possa causarci problemi... quando possiamo goderci gli ultimi
barlumi di luce senza temere di subirne l’esposizione.
Abbassai lo sguardo e la trovai che mi fissava in modo curioso,
come se nel tono della mia voce avesse colto più di quanto le mie
parole avessero espresso.
«Per noi è il momento più sicuro della giornata», spiegai. «L’ora
più leggera, ma in un certo senso, anche la più triste... la fine di un
altro giorno, il ritorno della notte». Così tanti anni trascorsi di notte.
Cercai di eliminare qualsiasi traccia di pesantezza dalla mia voce.
«L’oscurità è troppo prevedibile, non credi?».
«A me la notte piace», disse, inaspettatamente. «Se non ci fosse
il buio non vedremmo le stelle». Un’espressione accigliata riordinò i
suoi lineamenti. «Be’, non che qui si vedano granché».
Assunse un’espressione che mi fece sorridere. Quindi non si era
ancora del tutto riconciliata con Forks. Pensai alle stelle di Phoenix
che aveva descritto e mi domandai se fossero come quelle che si
vedono in Alaska, così luminose, chiare, vicine. Avrei voluto poterla
portare lì quella notte stessa, così da paragonarle. Ma lei aveva una
vita normale da portare avanti.
«Charlie tornerà tra qualche minuto», le dissi. Potevo sentire solo
una vaga presenza della sua mente, forse a un chilometro e mezzo
di distanza: stava guidando lentamente verso casa. I suoi pensieri
erano rivolti a Bella. «Perciò, a meno che tu non voglia dirgli che
sabato verrai con me...».
Compresi che c’erano varie ragioni per cui Bella non voleva che il
padre sapesse del nostro rapporto. Ma lo desideravo... non solo
perché, per tenerla al sicuro, avevo bisogno di un maggiore
incoraggiamento, non solo perché pensavo che la minaccia alla mia
famiglia avrebbe tenuto sotto controllo il mostro che era in me. Ma
desideravo che lei... volesse che suo padre mi conoscesse. Che
volesse che io facessi parte della normalità della sua vita.
«Grazie, ma... no, grazie». Naturalmente era un desiderio
impossibile. Come molti altri. Iniziò a raccogliere le sue cose.
«Quindi, domani tocca a me?», chiese. Mi lanciò uno sguardo con i
suoi occhi luminosi, curiosi.
«Certo che no! Ti ho detto che non ho ancora finito, no?».
Si accigliò, confusa. «E che altro manca?».
Tutto. «Lo scoprirai domani».
Charlie si stava avvicinando. Mi allungai verso di lei per aprirle la
portiera, e sentii il suo cuore cominciare a battere forte e in maniera
irregolare. I nostri sguardi si incontrarono, e sembrò un nuovo invito.
Potevo permettermi di toccarle il viso una sola volta ancora?
Ma poi, con la mano ancora allungata sulla maniglia della
portiera, mi immobilizzai.
C’era un’altra macchina che stava giusto svoltando. Non era
quella di Charlie; lui si trovava ancora due strade più in là. Ecco
perché avevo prestato poca attenzione a quei pensieri poco familiari
che presumevo fossero rivolti a una delle altre case che davano
sulla strada.
Ma una parola catturò la mia attenzione.
Vampiri.
Dovrebbe essere abbastanza sicuro per il ragazzo. Non c’è
pericolo di imbattersi in un vampiro qui, dicevano quei pensieri,
anche se è un territorio neutrale. Spero di aver fatto bene a portarlo
in città.
Che probabilità c’erano?
«Cattive notizie», sospirai.
«Che c’è?», domandò ansiosa, mentre esaminava il
cambiamento della mia espressione.
Non c’era nulla che potessi fare. Che sfortuna.
«Un’altra complicazione», dissi.
La macchina svoltò nella stradina, dirigendosi dritta verso la casa
di Charlie.
Quando i fari illuminarono la mia auto, sentii una reazione
entusiastica, da ragazzino, di una delle persone presenti
nell’abitacolo di quella vecchia Ford Tempo.
Wow. È una S60 R? Non ne ho mai vista una da vicino prima
d’ora. Che ficata. Chissà chi è che guida una macchina del genere
da queste parti. Splitter anteriore aftermarket con verniciatura
personalizzata... semi-slick... questa strappa la strada. Devo dare
un’occhiata allo scarico...
Lasciai perdere il ragazzo, per quanto sicuro che in un’altra
occasione avrei gradito quel suo interesse da patito. Aprii la portiera
più del necessario, poi mi spostai bruscamente, sporgendomi in
avanti verso le luci che si avvicinavano, e aspettai.
«Charlie è dietro l’angolo», la avvertii.
Lei saltò fuori rapidamente sotto la pioggia, ma non c’era tempo
per riaffacciarsi dentro prima che ci vedessero. Sbatté la portiera e
rimase lì titubante, a guardare il veicolo che stava arrivando.
La macchina parcheggiò giusto di fronte, con i fari puntati
direttamente contro l’abitacolo della mia macchina.
Improvvisamente i pensieri dell’uomo più anziano si
trasformarono in un grido di shock e di paura.
Un freddo! Vampiro! Cullen!
Fissai il parabrezza, incrociando il suo sguardo.
Non riuscivo a cogliere alcuna somiglianza con suo nonno; non
avevo mai visto Ephraim nella sua forma umana. Ma doveva trattarsi
senza dubbio di Billy Black, con suo figlio Jacob.
A conferma della mia ipotesi il ragazzo si fece avanti sorridendo.
Oh, è Bella!
E sì, Bella doveva aver fatto qualche vittima quando era andata a
curiosare a La Push.
Rimasi comunque concentrato soprattutto sul padre, l’unico che
sapeva.
Poco prima aveva avuto ragione: quello era un territorio neutrale.
Io avevo diritto di stare lì come lui, e lui lo sapeva. Potevo vedere la
sua mascella serrarsi, la sua faccia nervosa e spaventata irrigidirsi.
Che cosa ci fa qui? Cosa dovrei fare?
Eravamo a Forks da due anni e nessuno si era fatto male.
Neanche se avessimo massacrato una nuova vittima al giorno
avrebbe avuto un’espressione più inorridita. Gli lanciai
un’occhiataccia, e le mie labbra, in risposta alla sua ostilità, si
contrassero leggermente mostrando i denti.
Ma non sarebbe servito a niente litigare. Carlisle non avrebbe
gradito se avessi creato problemi col vecchio. Potevo solo sperare
che si sarebbe attenuto al nostro patto meglio di quanto non aveva
fatto suo figlio.
Partii sgommando, e il ragazzo poté apprezzare il suono delle
mie gomme – solo in minima misura omologate per la strada – che
stridevano sull’asfalto bagnato. Mentre mi allontanavo si girò a
esaminare lo scarico della macchina.
Girato l’angolo, incrociai Charlie, il quale mi vide sfrecciare e
rallentò automaticamente guardando la macchina con aria severa.
Ma poi decise di proseguire, e fui in grado di sentire il sordo stupore
dei suoi pensieri, muti ma chiari, mentre se ne stava fermo
nell’abitacolo di fronte casa sua. Alla fine dimenticò completamente
la Volvo metallizzata che procedeva a velocità eccessiva.
Mi fermai due strade più su e lasciai la macchina vicino la foresta,
tra due ampie radure. Dopo pochi secondi, mi ritrovai
completamente fradicio di pioggia. Me ne stavo nascosto tra i folti
rami di un abete che dominava il cortile di casa di Bella, nello stesso
posto in cui mi ero nascosto quel primo giorno di sole.
Era difficile seguire Charlie. Non sentivo cenni di preoccupazione
nei suoi pensieri vaghi. Solo entusiasmo: doveva essere felice di
vedere i suoi ospiti. Niente che lo turbasse era stato detto... non
ancora.
Mentre Charlie lo salutava invitandolo a entrare, la mente di Billy
era una massa ribollente di domande. Per quel che potevo capire,
Billy non aveva preso alcuna decisione. Ero sollevato nel sentire
pensieri che riguardavano il patto mischiarsi alla sua agitazione,
poiché speravo che questo gli avrebbe cucito la bocca.
Bella scappò in cucina e il ragazzo la seguì; ah, non c’era
pensiero da cui non emergesse la sua infatuazione. Ma non era
sgradevole ascoltare i suoi pensieri, come succedeva, ad esempio,
con Mike Newton o i suoi altri ammiratori. C’era qualcosa di... molto
intrigante nella mente di Jacob Black. Qualcosa di puro e aperto. Mi
ricordava un po’ Angela, solo non così schivo. D’un tratto mi
dispiacque che proprio questo ragazzo fosse nato mio nemico. Era
quel raro tipo di mente in cui era facile indugiare. Quasi rilassante.
Nel soggiorno, Charlie aveva notato che Billy era distratto, ma
non gli chiese nulla. C’era una certa tensione tra loro due: un
vecchio dissapore risalente a molti anni prima.
Jacob stava chiedendo di me a Bella. Una volta udito il mio
nome, lui sorrise. «Ah, questo spiega tutto», disse. «Mi chiedevo
perché mio padre avesse reagito così».
«Già», rispose Bella con eccessiva innocenza. «I Cullen non gli
piacciono».
«Vecchio superstizioso», mormorò il ragazzo.
Sì, dovevamo prevederlo. Era naturale che i giovani membri della
tribù considerassero quella storia un mito: imbarazzante, divertente,
tanto più perché i membri più vecchi la prendevano molto sul serio.
Raggiunsero i genitori in soggiorno. Gli occhi di Bella non si
staccavano da Billy mentre lui e Charlie guardavano la televisione.
Era come se, al pari di me, anche lei si aspettasse un cedimento.
Ma non successe nulla. I Black se ne andarono prima che si
facesse troppo tardi. L’indomani c’era scuola, dopotutto. Li seguii a
piedi fino alla linea di confine tra i nostri territori, giusto per essere
sicuro che Billy non chiedesse al figlio di tornare indietro. Ma i suoi
pensieri erano ancora confusi. C’erano nomi che non conoscevo,
persone con cui si sarebbe consultato quella notte. Anche se
continuava a essere agitato, sapeva cosa avrebbe dovuto dire agli
altri anziani. Vedere un vampiro di persona lo aveva turbato, ma
cambiava poco.
Una volta oltrepassato il punto in cui non riuscivo più a sentirli, fui
abbastanza sicuro che non ci sarebbero stati nuovi pericoli. Billy
avrebbe rispettato le regole. Che scelta aveva? Se noi avessimo
infranto il patto, non c’era nulla che i vecchi avrebbero potuto fare al
riguardo. Avevano perso i denti. Se loro avessero infranto il patto...
be’, eravamo persino più forti di prima. Sette anziché cinque. Il che li
avrebbe resi sicuramente più cauti.
Carlisle non ci avrebbe mai consentito di far rispettare il patto in
quel modo, comunque. Invece di dirigermi direttamente a casa di
Bella, decisi di deviare verso l’ospedale. Quel giorno mio padre
aveva il turno di notte.
Ascoltai i suoi pensieri nel reparto di pronto soccorso. Stava
visitando un camionista di Olympia con una profonda ferita da
perforazione sulla mano. Entrai nell’atrio e riconobbi alla reception
Jenny Austin. Era impegnata in una telefonata con la figlia
adolescente e a stento si accorse del mio cenno di saluto quando le
passai davanti.
Non volevo interrompere, quindi oltrepassai la tenda dietro cui
stava Carlisle e proseguii verso il suo ufficio. Avrebbe riconosciuto il
suono dei miei passi – non accompagnato dal battito cardiaco – e
poi il mio odore. E avrebbe capito che volevo vederlo e che non si
trattava di una cosa urgente.
Mi raggiunse nel suo ufficio poco dopo.
«Edward? Tutto okay?».
«Sì. Volevo che lo sapessi subito: Billy Black mi ha visto stasera
a casa di Bella. Non ha detto nulla a Charlie, ma...».
«Mmm», disse Carlisle. Siamo qui da così tanto tempo, sarebbe
un peccato se nascessero nuove tensioni.
«Non è nulla, probabilmente. Semplicemente non era preparato a
trovarsi a pochi metri da un freddo. Gli altri lo tranquillizzeranno.
Dopotutto, cosa potrebbero fare?».
Carlisle si accigliò. Non è questo il modo di pensare. «Per quanto
abbiano perso i loro protettori, noi non rappresentiamo un pericolo
per loro».
«No. Ovviamente no».
Scosse lentamente la testa, interrogandosi su quale fosse il
miglior modo di agire. Non che ce ne fosse uno, se non ignorare
quello sfortunato incontro. Io ero già arrivato alla stessa conclusione.
«Tornerai... sarai a casa presto?», chiese Carlisle di punto in
bianco.
Sentendo queste parole provai disagio. «Esme è molto arrabbiata
con me?».
«Non con te... ma per te sì». Si preoccupa. Le manchi.
Sospirai e annuii. Bella sarebbe stata abbastanza al sicuro nella
sua casa per qualche ora. Probabilmente. «Ora vado a casa».
«Grazie, figliolo».
Trascorsi la serata con mia madre, lasciando che mi coccolasse
un po’. Mi fece cambiare i vestiti con abiti asciutti, più per proteggere
i pavimenti che ci aveva messo così tanto a rifinire che per altro. Gli
altri se ne erano andati, e capii che glielo aveva chiesto lei; Carlisle
le aveva telefonato prima. Mi piaceva quella tranquillità. Ci sedemmo
insieme al pianoforte e mi misi a suonare mentre parlavamo.
«Come stai, Edward?», mi domandò. E non era una domanda
casuale. Era ansiosa di conoscere la mia risposta.
«Sto... non ne sono del tutto sicuro», le dissi con onestà. «Alti e
bassi».
Ascoltò le note per un momento, toccando di tanto in tanto un
tasto, che si inseriva armoniosamente nella melodia.
Ti provoca dolore.
Scossi la testa. «Sono io la causa del mio dolore. Lei non ha
colpa».
Nemmeno tu hai colpa.
«Sono quel che sono».
E questo non è colpa tua.
Sorrisi senza gioia. «Incolpi Carlisle?».
No. Tu invece sì?
«No».
Allora perché incolpi te stesso?
Non avevo una risposta pronta. In verità, non ce l’avevo con
Carlisle per quello che aveva fatto, eppure... non doveva pur essere
di qualcuno la colpa? E non dovevo essere io quel qualcuno?
Detesto vederti soffrire.
«Non è tutta sofferenza». Non ancora.
Questa ragazza... ti rende felice?
Sospirai. «Sì... quando non divento quello che sono. In tal caso
sì, assolutamente».
«Allora è tutto a posto». Sembrava sollevata.
Storsi la bocca. «Lo è?».
Rimase in silenzio, i suoi pensieri esaminarono le mie risposte,
figurandosi il volto di Alice, pensando alle sue visioni. Sapeva della
scommessa e sapeva anche che io ne ero a conoscenza. Era in
collera con Jasper e Rose.
Che cosa sarà per lui, se lei muore?
Feci una smorfia, staccando le dita dai tasti.
«Scusa», disse subito. «Non intendevo...».
Scossi la testa e lei tacque. Osservai le mie mani, fredde e
ossute, disumane.
«Non so come...», sussurrai. «Come superare questa cosa. Non
vedo nulla... dopo questo».
Avvolse le braccia intorno alle mie spalle, intrecciando strette le
dita. «Non succederà. So che non succederà».
«Vorrei poterne essere sicuro».
Guardai le sue mani, così simili alle mie. Ma no. Non potevo
odiarle allo stesso modo. Anch’esse erano di pietra, ma no... non
erano le mani di un mostro. Erano le mani di una madre, premurose
e delicate.
Ne sono sicura. Tu non le farai del male.
«Così, mi pare di capire che hai puntato su Alice ed Emmett».
Sciolse le dita per baciarmi sulla spalla. «Non è una cosa su cui
scherzare».
«No, non lo è».
Ma quando Jasper e Rosalie perderanno non mi arrabbierò se
Emmett infierirà un po’.
«Dubito che ti deluderà su questo».
Nemmeno tu mi deluderai, Edward. Oh, figlio mio, quanto ti voglio
bene. Quando il peggio sarà passato... sarò molto felice, sai. Penso
che amerò questa ragazza.
La guardai inarcando le sopracciglia.
Non sarai così crudele da tenerla lontana da me, vero?
«Ora sembri proprio Alice».
«Non capisco perché la contrasti su tutto. È più semplice
accettare l’inevitabile».
Mi accigliai ma ripresi a suonare. «Hai ragione», dissi dopo un
istante. «Non voglio farla soffrire».
Certo che no.
Mi cinse in un abbraccio, e dopo pochi istanti piegai la testa
contro la sua. Lei sospirò e mi abbracciò più forte. Il che mi fece
tornare bambino. Come avevo detto a Bella, non avevo ricordi di
quando ero piccolo, non ricordavo niente di concreto. Ma c’era una
specie di memoria sensoriale nella sensazione delle sue braccia
strette intorno a me. Anche la mia prima madre doveva avermi
abbracciato così; doveva avermi consolato allo stesso modo.
Quando la musica terminò, sospirai e mi alzai in piedi.
Vai da lei ora?
«Sì».
Si incupì, confusa. Cosa fai tutta la notte?
Sorrisi. «Penso... e ardo. E ascolto».
Mi toccò la gola. «Non mi piace che questo ti faccia male».
«È la parte più semplice. Non è nulla, davvero».
E quella più difficile?
Ci pensai un po’ su. C’erano un mucchio di risposte che potevano
essere vere, ma solo una sembrava essere la più vera.
«Penso... il fatto che non posso essere umano con lei. Che la
versione migliore è quella impossibile».
Le sue sopracciglia si sollevarono all’unisono.
«Andrà tutto bene, Esme». Era così facile mentirle. Io ero il solo
in quella casa a poter sempre mentire.
Sì, andrà tutto bene. Non potrebbe essere in mani migliori.
Risi, anche questa volta senza gioia. Quanto avrei voluto che mia
madre avesse ragione!
14. PIÙ VICINO

Era stata una notte tranquilla in camera di Bella. Perfino la


pioggia irregolare, che generalmente la rendeva inquieta, quella
notte non le diede fastidio. Nonostante il dolore ero tranquillo, più
sereno di quanto ero stato a casa mia tra le braccia di mia madre.
Bella mormorava il mio nome nel sonno, come faceva spesso, e nel
farlo sorrideva.
Al mattino, a colazione, Charlie accennò al suo umore allegro, e
fui io a sorridere. Se non altro almeno anch’io la rendevo felice.
Salì rapidamente in macchina, quella mattina, con un grande
sorriso pieno di impazienza, desiderosa quanto me all’idea di stare
insieme.
«Dormito bene?», chiesi.
«Sì. E la tua nottata, come è stata?».
Sorrisi. «Piacevole».
Increspò le labbra. «Posso chiederti cosa hai fatto?». A stento
riuscivo a immaginare che livello avrebbe raggiunto il mio interesse
se avessi dovuto trascorrere otto ore del tutto inconsapevole e
ignaro di lei. Non ero pronto a rispondere a questa domanda... forse
non lo sarei mai stato.
«No. Oggi è ancora mio».
Lei sbuffò e sollevò gli occhi. «Non credo che ci sia qualcosa che
non ti ho detto».
«Parlami ancora di tua madre».
Era uno dei miei soggetti preferiti, perché era ovviamente anche
uno dei suoi.
«D’accordo. Vediamo... mia madre è un tipo... selvaggio, mi sa.
Non selvaggio come una tigre, più come un passero o un cervo. Lei
semplicemente non è fatta per le gabbie. Mia nonna... che, a
proposito, era del tutto normale, non aveva idea da dove fosse
uscita mia madre... la chiamava anguilla. Ho avuto la sensazione
che mia madre da adolescente non deve essere stata una
passeggiata. A ogni modo, lei non è affatto il tipo da stare in un solo
posto per molto tempo. Andarsene in giro con Phil senza una meta...
be’, non credo di averla mai vista così felice. Si è data molto da fare
per me, comunque. I fine settimana passati a fare avventure e
cambiando continuamente lavoro. Ho fatto tutto quello che potevo
per sgravarla dalle incombenze quotidiane. Immagino che Phil farà
lo stesso. Però mi sento come... una specie di cattiva figlia. Perché
mi sento anche po’ sollevata, capisci che intendo?». Fece
un’espressione mortificata, mostrando i palmi delle mani. «Non deve
più rimanere in un posto per me. È un peso in meno. E poi Charlie...
Non avevo mai pensato che lui avesse bisogno di me, ma in effetti è
così. Quella casa è troppo vuota per lui».
Annuii pensieroso, passando al setaccio quella miniera di
informazioni.
Avrei voluto conoscere quella donna che aveva plasmato in
maniera così profonda il carattere di Bella. Una parte di me avrebbe
preferito che Bella avesse avuto un’infanzia più semplice e
tradizionale; che si fosse limitata a fare la bambina. Ma non sarebbe
stata la stessa persona e, a dire il vero, non sembrava provare
risentimento. Le piaceva il ruolo di governante, le piaceva essere
indispensabile.
Forse questo era il vero segreto del motivo per cui era attratta da
me. C’era qualcuno che più di me aveva bisogno di lei? La lasciai
all’ingresso della sua classe, e la mattinata passò come il giorno
precedente. Alice e io ci dirigemmo in palestra con la testa tra le
nuvole. Vidi nuovamente il viso di Bella attraverso gli occhi di
Jessica Stanley, notando, come fece la ragazza, quanto poco Bella
fosse presente in classe.
Mi chiedo perché Bella non voglia parlare di lui, si stupiva
Jessica. Per tenerselo tutto per sé, immagino. A meno che non
stesse dicendo la verità prima, e in realtà non è successo nulla. La
sua mente corse alle smentite di Bella del mercoledì mattina – Non è
come pensi, quando Jessica le aveva chiesto se l’avessi baciata – e
aveva dedotto che Bella ne fosse rimasta delusa.
Sarebbe una tortura, pensava Jessica ora. Guardare ma non
toccare.
Quella parola mi aveva sorpreso.
Come una tortura? Si trattava ovviamente di un’esagerazione,
ma... una cosa del genere avrebbe potuto dare un dolore, per
quanto minimo, a Bella? No di certo, visto che conosceva bene la
realtà dei fatti. Mi incupii e intercettai lo sguardo interrogativo di
Alice. Scossi la testa rivolto a lei.
Sembra abbastanza felice, rifletteva Jessica, guardando Bella
che fissava le ampie vetrate con gli occhi persi nel vuoto. Deve
avermi mentito. O ci devono essere nuovi sviluppi.
Oh! L’improvviso arrestarsi di Alice e quella sua esclamazione mi
allarmarono. Nella sua mente si formò l’immagine della mensa in un
futuro non lontano e...
Be’, è ora!, pensò, aprendosi in un immenso sorriso.
Il quadro delle immagini si allargò: c’era Alice alle mie spalle, in
mensa, di fronte a Bella. Poi una rapidissima presentazione. Non era
chiaro come fosse cominciato. Era incerto, forse dipendeva da
qualche altro fattore. Ma sarebbe successo presto, magari quel
giorno stesso.
Sospirai, schiacciando distrattamente il volano oltre la rete. Se
avessi prestato attenzione non sarebbe andata meglio; segnai il
punto mentre l’insegnante di ginnastica fischiava la fine della
lezione. Alice si diresse subito verso l’uscita.
Non fare il bambino. Non è niente di che. E posso già vedere che
non mi fermerai.
Chiusi gli occhi e scossi la testa. «No, non lo farò proprio»,
concordai a bassa voce mentre camminavamo l’uno accanto
all’altra.
«Posso aspettare. Un passo alla volta».
Alzai gli occhi al cielo.
Provavo sempre un senso di sollievo quando potevo
abbandonare le osservazioni indirette e vedere Bella di persona; ero
ancora intento a riflettere sulle osservazioni di Jessica quando vidi
Bella varcare la porta dell’aula. Fece un grande, caldo sorriso. E poi
mi guardò, come se fosse molto felice di incontrarmi. Non avrei
dovuto preoccuparmi di ciò che sembrava impossibile se per lei non
era un problema.
C’era tutta una serie di questioni che finora ero stato restio a
porre. Ma con i pensieri di Jessica ancora in testa, improvvisamente
mi sentii più curioso che restio.
Ci sedemmo a quello che ormai era diventato il nostro tavolo, e
lei prese il cibo che avevo scelto per lei: ero stato più veloce di lei,
quel giorno.
«Parlami del tuo primo appuntamento», dissi.
I suoi occhi si fecero più grandi e le guance si infiammarono.
Esitò.
«Non ti va di dirmelo?».
«Non saprei dire... quali contino davvero».
«Fissa il criterio dal livello più basso», suggerii.
Fissò il soffitto, increspando le labbra mentre rifletteva. «Be’,
allora immagino che dovrebbe essere Mike... un altro Mike», si
affrettò a correggere vedendomi cambiare espressione. «Era il mio
compagno di ballo in quinta elementare», sorrise. «Mi aveva invitato
al suo compleanno; era un film». Sorrise. «Il sequel di Stoffa da
campioni. Fui l’unica a presentarmi. In seguito, dissero che era stato
un appuntamento. Ma non so chi avesse messo in giro la voce».
Avevo visto le foto di scuola in casa di suo padre, perciò avevo
un riferimento mentale di Bella undicenne. Sembrava che le cose
per lei allora non fossero così differenti. «Così però è fissare
l’asticella a un livello troppo basso».
Sorrise. «Sei stato tu a dire di metterla a un livello basso».
«Su, continua».
Le sue labbra si piegarono da un lato mentre ci pensava su.
«Delle amiche erano andate alla pista di pattinaggio con alcuni
ragazzi. Avevano bisogno di me per essere in numero pari. Non ci
sarei andata se avessi saputo che questo significava fare coppia con
Reed Merchant». Ebbe un lieve fremito. «E ovviamente presto mi
resi conto che il pattinaggio sul ghiaccio era stata una pessima idea.
Non mi feci molto male, ma la cosa positiva fu che dovetti starmene
seduta al bar per il resto della serata a leggere».
Sorrise, quasi... trionfalmente.
«Passiamo agli appuntamenti più recenti?».
«Vuoi dire come quando qualcuno prima mi chiede di uscire e poi
si va in qualche posto insieme?».
«Mi sembra una definizione corretta».
Sorrise nello stesso modo trionfale di prima. «Allora mi dispiace,
non ce ne sono».
La guardai accigliato. «Nessuno ti ha chiesto un appuntamento
prima che arrivassi qui? Davvero?».
«Non ne sono del tutto sicura. Parliamo di un appuntamento? O
solo di amici che escono insieme?». Scrollò le spalle. «Non che mi
interessi granché. Non ho mai avuto tempo per nessuna delle due
cose. Dopo un po’ cominciano a girare le voci e poi nessuno chiede
più nulla».
«Eri davvero impegnata? O trovavi delle scuse come stai facendo
adesso?».
«Ero davvero impegnata», insistette, un po’ offesa. «Portare
avanti una casa richiede tempo, e di solito avevo anche un lavoro
part time, per non parlare della scuola. Per andare al college avevo
bisogno di una borsa di studio, e...».
«Ricorda quello che stavi per dirmi», la interruppi. «Prima di
passare al prossimo argomento vorrei concludere questo. Se non
fossi stata così impegnata, avresti accettato qualcuno di questi
appuntamenti?».
Chinò leggermente la testa da un lato. «Non proprio. Voglio dire,
a parte trascorrere una serata fuori. Non erano ragazzi
particolarmente interessanti».
«E gli altri ragazzi? Chi non te l’ha chiesto?».
Scrollò la testa, i suoi occhi limpidi sembravano non poter
nascondere nulla. «Non ci ho fatto molto caso».
Strizzai gli occhi. «Perciò non sei mai uscita con qualcuno che ti
piaceva?».
Sospirò di nuovo. «Non a Phoenix».
Ci fissammo per un momento mentre io ragionavo sul fatto che,
come lei era il mio primo amore, in base a quanto mi aveva detto
anche io dovevo essere il suo primo amore... o quantomeno la sua
prima cotta. Questo allineamento mi faceva in un certo qual modo
piacere, ma mi impensieriva anche. Sicuramente si trattava di un
modo distorto e insano di cominciare una storia d’amore. E poi, c’era
la consapevolezza che lei sarebbe stata il mio primo e ultimo amore.
Per un cuore umano non sarebbe stato lo stesso.
«So che non è il mio giorno, ma...».
«No, non lo è».
«Dai», insistette. «Ti ho appena confidato tutta la mia
imbarazzante storia di appuntamenti mancati».
Sorrisi. «La mia è molto simile, in realtà... tolto il pattinaggio e le
feste di compleanno a trabocchetto. Nemmeno io ci ho fatto molto
caso».
Sembrava che non mi credesse fino in fondo, ma era così. Avevo
anche avuto alcune proposte che avevo rifiutato. Non esattamente lo
stesso tipo di proposte, ammisi a me stesso, rievocando il volto
imbronciato di Tanya.
«In quale college ti piacerebbe andare?», chiesi.
«Mmm...». Scosse leggermente la testa, come per adattarsi al
nuovo argomento. «Avevo pensato che l’Università dell’Arizona
fosse la scelta più pratica, perché potevo restare a casa. Ma con
mamma che ora non sta mai ferma in un posto, immagino che lo
spettro sia più ampio. Dovrà essere un’università statale – qualcosa
di ragionevole – anche con una borsa di studio. Quando sono venuta
qui... be’, ero contenta che Charlie non vivesse così vicino alla
Washington State da renderla una soluzione troppo pratica».
«Non starai mica denigrando i bei Cougars del nostro Stato?».
«Non ho niente contro la scuola, eccetto il clima».
«E se potessi andare dove ti pare – senza badare a spese – dove
andresti?».
Mentre rifletteva sulla mia domanda in merito al suo ipotetico
futuro, provai a raffigurarmene uno dove fossi presente anche io.
Bella a vent’anni, a ventidue anni, a ventitré... Quanto tempo ci
sarebbe voluto prima che mi superasse, io che ero immutabile?
Avrei accettato quel limite di tempo se ciò avesse significato che
Bella sarebbe stata in salute, umana e felice. Se solo avessi potuto
essere una presenza sicura per lei, giusta per lei, essere adeguato a
quell’immagine felice per ogni secondo del tempo che lei mi
concedeva.
Mi domandavo nuovamente come avrei potuto far sì che ciò
accadesse: essere con lei senza incidere negativamente sulla sua
vita. Rimanere nella primavera di Persefone, tenendola al riparo dal
mio mondo degli inferi.
Era facile capire che non sarebbe stata felice nei posti che io ero
solito frequentare. Era ovvio. Ma, finché mi avesse voluto, io l’avrei
seguita. Il che avrebbe significato molte giornate che trascorrono
lente al chiuso; ma era un prezzo così insignificante da pagare, che
non valeva nemmeno la pena sottolinearlo.
«Dovrei fare delle ricerche. La gran parte delle università più
esclusive si trova in zone nevose». Si aprì in un sorriso. «Come
saranno i college alle Hawaii?».
«Incantevoli, ne sono sicuro. E dopo l’università? Cosa hai in
mente?». Compresi quanto importante fosse per me conoscere i
suoi piani per il futuro. Così non li avrei fatti deviare. Avrei potuto
modellare questo improbabile futuro nella versione più adatta a lei.
«Qualcosa con i libri. Ho sempre pensato che avrei voluto
insegnare come... be’, non proprio come mia madre. Se potessi... mi
piacerebbe insegnare al college da qualche parte... probabilmente in
un college statale. Corsi facoltativi di inglese, di modo che chi si
iscrive lo faccia perché lo vuole davvero».
«È questo che hai sempre desiderato?».
Scrollò le spalle. «Direi di sì. Una volta ho pensato di lavorare per
una casa editrice, come redattrice o qualcosa del genere». Arricciò il
naso. «Feci delle ricerche. È di gran lunga più semplice trovare
lavoro come insegnante. Molto più pratico».
Tutti i suoi sogni avevano le ali tarpate, non come quelli delle
normali adolescenti che vorrebbero conquistare il mondo.
Ovviamente era il risultato del fatto di dover far fronte alla dura realtà
ben prima del tempo.
Addentò un pezzetto della sua ciambella, masticandola
pensierosa. Mi chiesi se stesse ancora pensando al futuro, o a
qualcos’altro. Mi chiesi se in quel futuro intravedesse anche me.
Mi abbandonai al pensiero del giorno successivo. Avrei dovuto
essere contentissimo: l’idea di una giornata intera da trascorrere con
lei. Così tanto tempo. Ma riuscivo solo a pensare al momento in cui
lei avrebbe visto che cosa ero realmente. Quando non avrei potuto
più nascondermi dietro il mio aspetto umano. Provai a immaginare la
sua reazione, e sebbene mi fossi sbagliato spessissimo quando
tentavo di prevedere i suoi sentimenti, sapevo che poteva andare
solo in due modi. Oltre alla repulsione, l’unica reazione ipotizzabile
sarebbe stata il terrore.
Volevo convincermi che ci fosse una terza possibilità. Che lei mi
avrebbe perdonato per ciò che ero come aveva già fatto così tante
volte. Che mi avrebbe accettato nonostante tutto. Ma non riuscivo a
figurarmelo.
Avrei avuto il coraggio di mantenere la mia promessa? Potevo
continuare a vivere in pace con me stesso se le avessi nascosto
questo?
Ripensai alla prima volta che vidi Carlisle al sole. Ero molto
giovane allora, ancora oltremodo ossessionato dal sangue, ma
quella visione aveva catturato la mia attenzione come poche volte mi
era capitato. Sebbene mi fidassi completamente di Carlisle, sebbene
già cominciassi a volergli bene, avevo avuto paura. Era tutto troppo
impossibile, troppo alieno. Prevalse l’istinto di difesa, e passarono
svariati lunghi momenti prima che i suoi pensieri calmi e rassicuranti
avessero qualche effetto su di me. Alla fine, mi convinse a farmi
avanti, per accertarmi che quel fenomeno non mi avrebbe fatto del
male.
E ricordo di essermi visto nella luce folgorante del mattino e di
aver realizzato – molto più profondamente di quanto mai avessi fatto
fino ad allora – di non avere nessuna relazione con ciò che ero
prima. Che io non ero umano.
Ma non era giusto nascondermi da lei. Significava mentire per
omissione.
Cercai di visualizzare l’immagine di noi sul prato, come sarebbe
andata se io non fossi stato un mostro. Era un posto così bello, così
tranquillo. Quanto avrei voluto riuscire a essere calmo di modo che
lei potesse godere di quel momento.
Edward, pensò Alice, insistente. Il lieve sentore di panico nel suo
tono mi immobilizzò.
Improvvisamente fui colto da una delle visioni di Alice, mentre
fissavo un radioso cerchio di luce. Fu disorientante, perché avevo
appena immaginato me e Bella lì – il piccolo prato dove nessuno era
mai andato eccetto me –, così all’inizio non riuscii a capire se stessi
vedendo nella mente di Alice o nella mia.
Ma c’era una differenza rispetto alla mia immagine: era proiettata
nel futuro e non nel passato. Bella mi fissava, arcobaleni danzavano
sulla sua faccia, i suoi occhi imperscrutabili. Dunque sarei stato
abbastanza coraggioso.
Nello stesso posto, pensò Alice. La sua mente era piena di un
orrore che strideva con la visione. Tensione, forse, ma perché
orrore? Che cosa voleva dire, lo stesso posto?
E poi vidi.
Edward!, protestò Alice in maniera veemente. Io le voglio bene,
Edward!
Però il suo amore non era paragonabile al mio. La sua visione
era illogica. Sbagliata. Vedeva cose impossibili, e doveva essere in
qualche modo una visione distorta. Menzogne.
Non era trascorso nemmeno mezzo secondo. Bella stava ancora
masticando, intenta a riflettere su qualcosa di misterioso di cui non
avrei mai saputo nulla. Non aveva notato il fugace lampo di terrore
sulla mia faccia.
Era solo una vecchia visione. Non più valida. Era cambiato tutto
da allora.
Edward, noi dobbiamo parlare.
Non c’era nulla di cui io e Alice dovessimo parlare. Scossi
appena la testa, solo una volta. Bella non se ne accorse.
I pensieri di Alice erano ora imperiosi. Mi ripresentò nuovamente
davanti agli occhi un’immagine che non potevo sopportare.
Le voglio bene, Edward. Non lascerò che tu lo ignori. Andiamo
via e risolviamo questa cosa. Ti do tempo fino alla fine della pausa.
Inventati delle scuse... eh!
La sua visione benevola di quella mattina in palestra aveva
interrotto la sua sequenza di ordini. La rapida presentazione. Vidi
precisamente cosa sarebbe accaduto ora, al secondo. Quindi,
questa visione aggressiva, inaccettabile e superata era il
catalizzatore che mancava prima? Serrai i denti.
Bene. Avremmo parlato. Io avrei sacrificato il mio tempo con
Bella quel pomeriggio per mostrare ad Alice quanto si sbagliasse. A
dirla tutta, sapevo che non avrei trovato pace finché non glielo
avessi mostrato, finché non le avessi fatto ammettere che questa
volta era fuori strada.
Aveva visto il futuro cambiare mentre cambiava la mia mente.
Grazie tante.
Strano, data l’improvvisa piega di vita e di morte di quel
pomeriggio, quanto fosse devastante perdere del tempo su cui
avevo contato. Doveva essere una cosa da nulla... davvero, solo
pochi minuti.
Provai a scrollarmi di dosso l’orrore che Alice mi aveva inflitto
così da non rovinare i minuti che restavano.
«Forse oggi era meglio che tu venissi da sola», dissi, cercando in
tutti i modi di allontanare la disperazione dalla mia voce.
I suoi occhi scattarono verso i miei. «Perché?».
«Dopo pranzo vado via con Alice».
«Oh», fece il muso. «Non c’è problema, farò una passeggiata».
Mi accigliai. «Non intendo farti tornare a casa a piedi. Andiamo a
prendere il pick-up e lo portiamo qui».
«Non ho le chiavi», disse, e sospirò. Questo per lei era un
ostacolo enorme, insormontabile. «Davvero, non è un problema».
«Il tuo pick-up sarà qui e la chiave sarà nel quadro», dissi. «A
meno che tu non tema che qualcuno lo rubi». Il rumore di quel
motore era come un allarme. Forse anche più forte. Scoppiai a
ridere al pensiero.
Bella increspò le labbra e gli occhi divennero opachi.
«D’accordo», disse. Dubitava delle mie capacità?
Provai a sorriderle in modo rassicurante – ero sicuro che non
avrei fallito un compito così semplice – ma i miei muscoli erano
troppo tesi per gestire la cosa nel giusto modo.
Ebbi l’impressione che stesse combattendo con la propria
delusione.
«Dove andate?».
Alice mi mostrò la risposta alla domanda di Bella.
«A caccia». Sentii che la mia voce si era fatta improvvisamente
cupa. Si trattava di una cosa per cui avrei trovato tempo in ogni
caso. La necessità di questa escursione era frustrante quanto
vergognosa. Ma non avrei voluto mentirle.
«Se voglio restare solo con te domani, devo prendere tutte le
precauzioni possibili». La fissai negli occhi, domandandomi se non
riuscisse a scorgere la paura nei miei. La visione di Alice stava
avendo la meglio sul mio autocontrollo. «Ricorda che puoi sempre
annullare la nostra uscita». Per favore, vai via. Non tornare indietro.
Abbassò lo sguardo, il suo viso sbiancò, diventando ancor più
pallido di prima. Alla fine, avrebbe ascoltato? La visione di Alice non
avrebbe significato nulla se Bella mi avesse detto in quel momento
di lasciarla da sola. Sapevo che l’avrei fatto, se me lo avesse chiesto
Bella. Il mio cuore era sul punto di spezzarsi.
«No», disse con un filo di voce, e la sorte del mio cuore prese
un’altra direzione. Ma si stava delineando un tipo di rottura peggiore.
Bella mi guardò fisso negli occhi. «Non posso».
«Forse hai ragione», mormorai. Dopotutto, forse anche lei come
me si sentiva legata.
Si protese verso di me, e i suoi occhi si strinsero come se fosse
preoccupata.
«A che ora ci vediamo, domani?».
Presi un lungo respiro, cercando di tranquillizzarmi e di scacciare
via quella sensazione di catastrofe. Mi sforzai di usare un tono più
leggero. «Dipende... È sabato, non vuoi dormire un po’ più a
lungo?».
«No», rispose d’un fiato.
Mi fece venire voglia di ridere. «Al solito orario, allora. Ci sarà
Charlie?».
Sorrise. «No, domani va a pesca». La cosa ovviamente le faceva
piacere, tanto quanto a me irritava il suo atteggiamento al riguardo.
Perché era determinata a mettersi così totalmente in balia di me... in
balia della parte peggiore di me?
«E se non torni a casa», chiesi tra i denti, «cosa penserà?».
Il suo sguardo era calmo. «Non ne ho idea. Di solito il sabato
faccio il bucato. Penserà che sono caduta nella lavatrice».
La guardai, non trovando la battuta affatto divertente. Per un
momento si incupì, ma poi l’espressione del suo viso tornò serena.
Cambiò argomento. «Di cosa vai a caccia, stanotte?».
Era così strano. Da un lato, non sembrava affatto prendere sul
serio il pericolo; dall’altro, era così tranquilla nell’accettare gli aspetti
peggiori della mia vita.
«Quello che troviamo nel bosco. Non ci allontaneremo».
«Perché ti fai accompagnare da Alice?».
Alice stava ascoltando attentamente, ora.
Mi feci serio. «È l’unica che mi... incoraggia». C’erano molte
parole che avrei voluto dire a favore di Alice, ma avrebbero finito
solo per confondere Bella.
«E gli altri?», sussurrò quasi, con un tono a metà tra il curioso e
l’ansioso. «Cosa dicono?». Sarebbe rimasta sconvolta se avesse
saputo che tutti avrebbero facilmente potuto sentire quel sussurro.
C’erano così tanti modi di rispondere a questa domanda. Scelsi il
meno terribile. «Perlopiù sono increduli». In realtà lo erano del tutto.
I suoi occhi guizzarono verso l’angolo della sala mensa, dove era
seduta la mia famiglia. Alice li aveva avvertiti, cosicché stavano tutti
guardando altrove.
«Non gli piaccio», ipotizzò.
«Non è questo il problema», replicai subito.
A-ha!, pensò Rosalie.
«Non capiscono perché mi intestardisca con te», proseguii,
cercando di ignorare Rose.
Sì, è abbastanza vero.
Bella fece una smorfia. «Nemmeno io, se è per questo».
Scossi la testa, pensando alla sua assurda affermazione dell’altra
volta: che a me non importasse di lei quanto a lei di me. Pensavo di
averglielo spiegato.
«Te l’ho detto: tu hai un’idea completamente sbagliata di te
stessa. Sei diversa da chiunque altra abbia conosciuto. Mi affascini».
Sembrava dubbiosa. Forse dovevo essere più preciso.
Le sorrisi. Al di là di quello che potevo pensare, per lei era
importante capire questo. «Grazie a certe mie qualità», mi passai
distrattamente due dita sulla fronte, «ho una comprensione della
natura umana superiore alla media. Le persone sono prevedibili. Ma
tu... tu non fai mai ciò che mi aspetto. Mi cogli sempre di sorpresa».
Distolse lo sguardo e un senso di insoddisfazione si affacciò in
lei. Questo particolare dettaglio chiaramente non l’aveva convinta.
«E fin qui, spiegare è molto facile», continuai subito dopo,
aspettando che il suo sguardo tornasse su di me. «Ma c’è di più...»,
così tanto di più. «E non è facile da dire a parole...».
Che fai, fissi proprio me, piccola seccatura con la faccia da
pipistrello?
Bella sbiancò. Sembrava impietrita, come se non riuscisse a
distogliere lo sguardo dall’angolo della sala.
Mi voltai di scatto e fulminai Rosalie con lo sguardo, mostrando
appena i denti. Emisi un lieve sibilo contro di lei.
Rosalie mi lanciò uno sguardo con la coda dell’occhio, quindi
voltò la testa in un’altra direzione.
Ha cominciato lei, pensò Rosalie in modo astioso.
Gli occhi di Bella erano spalancati.
«Mi dispiace», sussurrai subito. «È soltanto preoccupata». Mi
irritava dover difendere il comportamento di Rosalie, ma non riuscivo
a trovare altro modo in cui spiegarlo. Al fondo dell’ostilità di Rosalie
era questo il vero problema. «Non sarebbe pericoloso soltanto per
me, se dopo aver passato così tanto tempo assieme sotto gli occhi
di tutti...».
Non riuscii a finire la frase. Pieno di orrore e vergogna, abbassai
lo sguardo e vidi le mie mani, le mani di un mostro.
«Se?», intervenne.
«Se dovesse finire... male».
Mi presi la testa fra le mani. Non volevo vedere i suoi occhi
mentre cominciava a comprendere, mentre realizzava ciò che avevo
detto. Per tutto quel tempo avevo cercato di guadagnarmi la sua
fiducia. E ora dovevo dirle esattamente quanto non la meritassi.
Era giusto che lo sapesse. Questo sarebbe stato il momento in
cui sarebbe andata via. E andava bene così. Il mio primo, istintivo
rifiuto del panico di Alice stava svanendo. Non potevo onestamente
garantire a Bella che io non sarei stato un pericolo per lei.
«È ora di andare?».
Spostai lentamente lo sguardo su di lei.
Il suo viso era tranquillo: c’era un accenno di tristezza
nell’increspatura tra le sopracciglia, ma nessuna paura. La totale
fiducia che avevo visto quando era entrata nella mia macchina a
Port Angeles traspariva ancora dai suoi occhi. Sebbene non lo
meritassi, si fidava ancora di me.
«Sì», dissi.
La mia risposta la fece rabbuiare. Avrebbe dovuto solo sentirsi
sollevata vedendomi andar via, e invece era triste.
Avrei voluto appianare la piccola V tre le sue sopracciglia con un
tocco delle mie dita. Volevo che sorridesse di nuovo.
Mi sforzai di sorriderle. «Probabilmente è meglio così. Ci restano
ancora quindici minuti di quel maledetto filmato da vedere durante
l’ora di biologia e non penso che li sopporterei».
Immaginai che fosse così, che non avrei potuto sopportarli. Che
avrei fatto altri errori.
Ricambiò il sorriso ed era chiaro che aveva capito almeno in
parte quel che intendevo.
Poi saltò leggermente sulla sedia, sorpresa.
Avvertii i passi di Alice alle mie spalle. Non ne fui sorpreso. Avevo
già visto questa parte prima.
«Alice», la salutai.
Il suo sorriso pieno di eccitazione era riflesso negli occhi di Bella.
«Edward», rispose, imitando il mio tono.
Seguii il copione.
«Alice, Bella», dissi, presentandole nella maniera più telegrafica
possibile. Tenni gli occhi su Bella, gesticolando con scarso
entusiasmo. «Bella, Alice».
«Ciao, Bella. Piacere di conoscerti, finalmente».
La sottolineatura fu sottile, ma fastidiosa.
«Ciao, Alice», rispose Bella, con voce incerta.
Non voglio sfidare la sorte, promise Alice. «Sei pronto?», mi
chiese ad alta voce.
Come se io non conoscessi la risposta. «Quasi. Ci vediamo alla
macchina».
Ora mi tolgo dai piedi. Grazie.
Bella si fermò a fissare Alice, un piccolo broncio le fece piegare
verso il basso le labbra. Quando Alice scomparve oltre le porte,
Bella si voltò lentamente verso di me.
«Devo augurarvi “buon divertimento”, o è l’emozione sbagliata?»,
chiese.
Sorrisi. «No, “divertitevi” può andar bene».
«Allora divertitevi», disse, un po’ desolata.
«Ci proverò». Ma non era vero. Volevo solo mancarle mentre ero
via. «E tu, per favore, cerca di sopravvivere». Non contava quanto
spesso dovessi separarmi da lei, ogni volta che la pensavo indifesa
mi prendeva lo stesso senso di panico.
«Sopravvivere a Forks...», mormorò. «Che sfida».
«Per te lo è», sottolineai. «Promettilo».
Sospirò, ma il suo era un sorriso bonario. «Prometto che
cercherò di sopravvivere», disse. «Stasera faccio il bucato, una
missione piena di incognite».
Non avevo gradito il richiamo alla prima parte della nostra
conversazione. «Non cadere nella lavatrice».
Cercò di assumere un’espressione seria, ma non ci riuscì. «Farò
del mio meglio».
Era così difficile lasciarla. Mi alzai in piedi. Anche lei si sollevò.
«Ci vediamo domani», sospirò.
«Per te è un’eternità, vero?». Strano, ma anche a me sembrava
un’eternità.
Annuì, un po’ demoralizzata.
«A domattina», promisi.
Alice aveva ragione su questo: non avevo finito di fare errori.
Ancora una volta non riuscii a fermarmi, e spingendomi lungo il
tavolo le sfiorai gli zigomi con le dita. Prima che potessi fare qualche
altro guaio, mi voltai e la lasciai lì.
Alice stava aspettando in macchina.
«Alice...».
Cominciamo dall’inizio. Abbiamo un lavoro da sbrigare, giusto?
Nella mia mente balenarono immagini della casa di Bella. Una
serie di ganci – progettati per metterci le chiavi – sul muro della
cucina. Io nella camera di Bella, che perlustro la sua cassettiera e la
scrivania. Alice che segue letteralmente il suo naso per tutto il
soggiorno. Ancora Alice in una piccola lavanderia che sogghigna,
con una chiave in mano.
Guidai velocemente verso casa di Bella. Sarei stato in grado di
trovare la chiave da solo – l’odore del metallo era facile da
rintracciare, soprattutto il metallo impregnato delle sue dita – ma la
soluzione di Alice era decisamente più rapida.
Le immagini si fecero più precise. Vidi che Alice sarebbe entrata
da sola dalla porta d’ingresso. Aveva stabilito una dozzina di posti
differenti in cui cercare una seconda chiave, e la individuò quando
capì che doveva cercare nella grondaia sopra la porta d’ingresso.
Arrivati in casa, Alice impiegò solo pochi secondi per seguire il
percorso che si era prefissata. Dopo aver chiuso la serratura della
porta d’ingresso, lasciando il catenaccio aperto come lo aveva
trovato, salì sul pick-up di Bella. Il motore mugghiò con la forza di un
tuono. Non c’era nessuno in casa che potesse accorgersene.
Il viaggio di ritorno a scuola fu più calmo, ostacolato solo dalla
velocità massima a cui il vecchio Chevy poteva arrivare. Mi chiesi
come facesse Bella, ma alla fine lei preferiva guidare piano. Alice
parcheggiò nello spazio libero lasciato dalla mia Volvo e spense il
motore e con esso il rumore.
Osservai quel bestione tutto arrugginito, immaginando Bella al
suo interno. Era sopravvissuto al furgone di Tyler con appena
qualche graffio, ma ovviamente non aveva airbag o zone di schianto.
Involontariamente inarcai le sopracciglia.
Alice salì sul sedile dal lato del passeggero.
Eccomi, pensò. Mi porse un pezzo di carta e una penna.
Li presi. «Ammetto che sei utile».
Non riusciresti a sopravvivere senza di me.
Scrissi una breve nota e poi balzai fuori di corsa per lasciare il
biglietto sul sedile di guida del pick-up di Bella. Sapevo che non
c’era alcun potere di influenzare le cose, ma se tutto andava bene
questo le avrebbe ricordato la sua promessa. E mi avrebbe fatto
sentire un po’ meno in ansia.
15. PROBABILITÀ

«Adesso, Alice», esordii mentre chiudevo la mia portiera.


Sospirò. Mi dispiace, non avrei voluto...
«Non è reale», la interruppi allontanandomi a velocità sostenuta
dal parcheggio. Non dovevo badare alla strada. La conoscevo fin
troppo bene. «È solo una vecchia visione. Prima che cominciasse
tutto. Prima di sapere che l’amavo».
Nella sua testa era di nuovo lì, la peggiore tra tutte le visioni,
l’eventualità angosciante che mi aveva torturato per tante settimane,
il futuro che Alice aveva visto il giorno in cui avevo spinto Bella via
dalla traiettoria del furgoncino.
Il corpo di Bella tra le mie braccia, contorto, bianco e senza vita...
uno squarcio profondo e bluastro attraversava il suo collo spezzato,
il sangue rosso di lei sulle mie labbra e un lampo cremisi nei miei
occhi.
La visione nel ricordo di Alice mi strappò un ringhio furioso dalla
gola; un riflesso involontario al dolore che mi scuoteva.
Alice era paralizzata, lo sguardo angosciato.
È lo stesso posto, si era resa conto Alice nella caffetteria, i suoi
pensieri venati da un orrore che sulle prime non avevo colto.
Non avevo mai guardato oltre l’orrenda scena centrale; già
riuscivo a guardare a malapena quella. Ma Alice era abituata ad
analizzare le sue visioni da molti più decenni di me. Sapeva come
estrapolare i suoi sentimenti dall’analisi, come essere imparziale,
come osservare il quadro generale senza distogliere lo sguardo.
Alice era stata in grado di assimilare i dettagli... come la
scenografia. Il quadro raccapricciante si svolgeva nello stesso prato
in cui avevo programmato di portare Bella l’indomani.
«Non può essere ancora valido. Non lo hai visto di nuovo, lo hai
solo ricordato».
Alice scosse lentamente la testa.
Non è solo un ricordo, Edward. Lo vedo in questo istante.
«Andremo da qualche altra parte».
Nella sua testa vorticarono come caleidoscopi diversi fondali alla
sua visione, passando dalla luce al buio e viceversa. La scena in
primo piano, invece, rimaneva la stessa. Mi distolsi da quelle
immagini, cercando di cavarle via dal mio occhio mentale, e
desiderando di accecarlo.
«Annullerò l’appuntamento», dissi tra i denti. «Ha già perdonato
le mie promesse infrante in passato».
La visione scintillò, vacillò e poi ritornò alla sua solidità, con
contorni vivi e nitidi.
Il suo sangue ha un effetto così potente su di te, Edward. Quanto
più ti avvicini a lei...
«Tornerò a mantenere le distanze».
«Non penso che funzionerà. In passato non lo ha fatto».
«Partirò».
Sussultò nel sentire il dolore nella mia voce, e a quel punto il
quadro nella sua mente tremolò di nuovo. Cambiarono le stagioni,
ma le figure principali rimasero.
«È ancora lì, Edward».
«Com’è possibile?», bofonchiai.
«Perché se parti, ritornerai», rispose in tono implacabile.
«No», dissi. «Posso stare lontano. So che posso farcela».
«Non puoi», rispose lei con calma. «Forse... se si trattasse solo
del tuo dolore...».
Nella sua mente passò una carrellata di futuri possibili. Il viso di
Bella da migliaia di angolazioni diverse, sempre ingrigito, senza sole.
Era più smagrita, inconsuete cavità spuntavano sotto gli zigomi,
profonde occhiaie sotto gli occhi, l’espressione era vacua. Si poteva
dire senza vita, ma solo metaforicamente. Non come nelle altre
visioni.
«Che cosa c’è che non va? Perché ha quell’aspetto?».
«Perché te ne sei andato. Non... se la passa bene».
Detestavo quando Alice parlava in quel modo, con quello strano
mix di presente e futuro che ti faceva credere che la tragedia stesse
accadendo in quel preciso momento.
«Meglio delle altre opzioni», dissi.
«Davvero credi che potresti lasciarla a quel modo? Credi che non
torneresti a controllare? Credi che se la vedessi in quelle condizioni
saresti capace di rimanertene in silenzio?».
Mentre mi faceva queste domande vedevo le risposte nella sua
mente. Io nell’ombra, a osservare. Io che mi intrufolavo di nuovo
nella stanza di Bella. A vederla soffrire per un incubo, raggomitolata
in se stessa, con le braccia strette al petto, ansimando in cerca di
aria perfino nel sonno. Anche Alice si rannicchiò in se stessa,
stringendo le braccia attorno alle ginocchia in segno di solidarietà.
Naturalmente Alice aveva ragione. Sentivo un’eco delle emozioni
che avrei provato allora, in questa versione del futuro, e sapevo che
sarei ritornato, giusto per dare una controllata. E poi, quando avessi
visto questo... l’avrei svegliata. Non ce l’avrei fatta a guardarla
soffrire.
Tutti i futuri possibili si riallineavano nella stessa inevitabile
visione, solo ritardata di un po’.
«Non sarei mai dovuto ritornare», sussurrai.
E se non avessi mai imparato ad amarla? E se non avessi saputo
cosa stavo perdendo?
Alice scrollava la testa.
Ho visto delle cose, mentre tu eri via...
Aspettai che me le mostrasse, ma in quel momento era
concentratissima a fissarmi in viso. Per cercare di non mostrarmele.
«Quali cose? Che cosa hai visto?».
I suoi occhi erano addolorati. Non erano cose piacevoli. A un
certo punto – se tu non fossi tornato quando lo hai fatto, se tu non
l’avessi mai amata – saresti tornato per lei in ogni caso. Per...
cacciarla.
Ancora nessuna immagine, ma non avevo bisogno di vederle per
capire. Mi distolsi da lei, quasi perdendo il controllo dell’auto.
Premetti sul freno uscendo fuori strada. Le gomme affondarono nelle
felci e lanciarono pezzi di muschio sull’asfalto.
Quel pensiero era lì, fin dall’inizio, quando il mostro era quasi a
briglie sciolte. E cioè che non c’era nessuna garanzia che alla fine
non l’avrei seguita, dovunque lei fosse andata.
«Dammi qualcosa che andrà bene!», urlai. Alice sussultò per il
volume della mia voce. «Indicami un’altra strada! Mostrami come
rimanere lontano, dove andare!».
Nei suoi pensieri all’improvviso un’altra visione sostituì la prima.
Un sussulto di sollievo mi affiorò sulle labbra quando quell’orrore
svanì. Ma la nuova visione non era granché migliore.
Alice e Bella, l’una nelle braccia dell’altra, entrambe bianche
come il marmo e dure come il diamante.
Un chicco di melagrana di troppo, e lei era condannata agli inferi
insieme a me. Nessun ritorno. Primavera, luce del sole, famiglia,
futuro, anima, tutto le veniva sottratto.
Sessanta-quaranta... più o meno. Forse addirittura
sessantacinque-trentacinque. C’è ancora una chance che tu non la
uccida. Il tono era di incoraggiamento.
«È morta, in ogni caso», sussurrai. «Le fermerò il cuore».
«Non è esattamente quello che intendevo. Ti sto dicendo che lei
ha qualche futuro al di là di quel prato... ma prima deve attraversare
quel prato, il prato metaforico, non so se mi spiego».
I suoi pensieri... difficile da descrivere... si allargarono come se
stesse pensando a tutto contemporaneamente, e riuscivo a vedere
un groviglio di fili; ciascun filo era una lunga linea di immagini
congelate, ciascun filo era un futuro raccontato in istantanee, tutti
intrecciati in un nodo caotico.
«Non capisco».
Tutte le sue strade stanno portando a un unico punto; tutte le sue
strade sono intrecciate assieme. Che quel punto si trovi nel prato o
in qualche altro posto, lei è legata a quel momento di scelta. La tua
scelta, la sua scelta... qualcuno di questi fili continua dall’altra parte.
Qualcuno...
«No». La voce mi morì nella gola serrata.
Non puoi evitarlo, Edward. Devi affrontarlo. Anche se sai che può
andare in una maniera o nell’altra, devi comunque affrontarlo.
«Come faccio a salvarla? Dimmelo!».
«Non lo so. Devi trovare la risposta da solo, nel nodo. Non riesco
a vedere esattamente quale forma prenderà, ma ci sarà un
momento, credo, una prova, un test. Posso vederlo, ma non posso
esserti d’aiuto in questa cosa. Solo voi due potrete scegliere in quel
momento».
Digrignai i denti.
Lo sai che ti voglio bene, quindi adesso ascoltami. Mettere da
parte questa cosa non cambierà nulla. Portala nel prato, Edward e –
per me, ma specialmente per te – riportala indietro.
Mi feci cadere la testa tra le mani. Mi sentivo debilitato, come un
essere umano danneggiato, vittima di una malattia.
«Che ne dici di qualche buona notizia?», chiese gentilmente
Alice.
Sollevai lo sguardo su di lei. Mi lanciò un timido sorriso.
Seriamente.
«Allora dimmi».
«Ho visto una terza strada, Edward», mi rispose. «Se riesci a
superare la crisi, si apre una nuova strada».
«Una nuova strada?», ripetei senza convinzione.
«È solo abbozzata, ma guarda».
Un’altra immagine nella sua mente. Non era nitida come le altre.
Un terzetto nell’angusto soggiorno di Bella. Io ero sul vecchio
divano, Bella accanto a me, il mio braccio cingeva con nonchalance
le sue spalle. Alice sedeva sul pavimento accanto a Bella, poggiata
alla sua gamba in modo familiare. Alice e io eravamo gli stessi di
sempre, mentre quella era una versione di Bella che non avevo mai
visto prima. La sua pelle era ancora morbida e traslucida, rosea sulle
guance, sana. I suoi occhi erano ancora caldi, marroni, umani.
Eppure era diversa. Analizzai i cambiamenti e mi resi conto di ciò
che stavo vedendo.
Bella non era una ragazza ma una donna. Le gambe sembravano
un po’ più lunghe, come se fosse cresciuta di quattro o cinque
centimetri, il corpo si era vagamente arrotondato, dando una nuova
curvatura alla sua struttura snella. I capelli erano scuri, come se
avesse trascorso poco tempo al sole in quegli anni. Non molti, forse
tre o quattro. Ma era ancora umana.
Fui attraversato da gioia e dolore. Era ancora umana; stava
invecchiando. Era l’unico futuro, disperato, improbabile, con cui avrei
potuto convivere. Il futuro che non l’avrebbe derubata né della vita
né dell’aldilà. Il futuro che, un giorno o l’altro, l’avrebbe portata via da
me, con la stessa ineluttabilità con cui al giorno seguiva la notte.
«Non è ancora molto probabile, ma penso ti faccia piacere
sapere che c’è. Se voi due superate la crisi, c’è».
«Grazie, Alice», mormorai.
Riattivai l’auto e mi rimisi in carreggiata, tagliando la strada a un
furgoncino che procedeva a fatica ben al di sotto del limite di
velocità. Accelerai automaticamente, senza quasi rendermene
conto.
Ovviamente questo riguarda solo te, pensò Alice. Stava ancora
visualizzando l’improbabile trio sul divano. Non prende in
considerazione i suoi desideri.
«Che cosa intendi? I suoi desideri?».
«Non ti è mai venuto il dubbio che Bella non abbia nessuna
voglia di perderti? Che una breve vita mortale non le basti?».
«Ma è una follia. Nessuno sceglierebbe...».
«Non c’è bisogno di parlarne adesso. Prima la crisi».
«Grazie, Alice», ripetei, questa volta in tono caustico.
Lei lanciò una risata vibrante. Era un suono nervoso, come quello
di un uccello. Era tesa quanto me, quasi inorridita dalle tragiche
possibilità.
«Lo so che anche tu le vuoi bene», borbottai.
Non è la stessa cosa.
«No, non lo è».
Dopotutto, Alice aveva Jasper. Il centro del suo universo era al
sicuro accanto a lei, più indistruttibile che mai. E l’anima di lui non
era sulla sua coscienza. Lei non aveva donato a Jasper che felicità e
pace.
Ti voglio bene. Puoi farcela.
Volevo crederle, ma sapevo quando le sue parole erano costruite
su solide fondamenta e quando non erano altro che un semplice
auspicio.
Guidai in silenzio fino ai margini del parco nazionale e trovai un
punto defilato dove lasciare la macchina. Alice non si mosse quando
ci fermammo. Percepiva che avevo bisogno di un momento.
Chiusi gli occhi e cercai di non ascoltarla, di non sentire nulla, di
concentrarmi davvero sui miei pensieri per prendere una decisione.
Una soluzione. Premetti forte le dita sulle tempie.
Alice aveva detto che dovevo fare una scelta. Avrei voluto urlare
a squarciagola che avevo già deciso, che non esisteva nemmeno
una decisione, ma anche se mi sembrava che tutto il mio essere non
desiderasse nient’altro che l’incolumità di Bella, sapevo che il mostro
era ancora vivo.
Come avrei fatto a ucciderlo? A metterlo a tacere per sempre?
Oh, adesso taceva. Se ne stava nascosto. Risparmiava le forze
per la battaglia che sarebbe arrivata.
Per qualche istante pensai seriamente di uccidermi. Non
conoscevo altro modo per assicurarmi che il mostro non
sopravvivesse.
Ma come? Carlisle aveva esaurito quasi tutte le possibilità
all’inizio della sua nuova vita, e non era mai nemmeno andato vicino
a farla finita, nonostante fosse davvero pronto a farlo. Non ci sarei
riuscito se avessi agito da solo.
Uno qualsiasi della mia famiglia sarebbe stato in grado di farlo,
ma sapevo che nessuno di loro lo avrebbe fatto, anche se li avessi
implorati. Nemmeno Rosalie, che sicuramente avrebbe detto di
essere abbastanza arrabbiata da riuscirci, che con aria spaccona mi
avrebbe minacciato non appena l’avessi vista, l’avrebbe fatto.
Perché se anche qualche volta mi aveva odiato, mi aveva sempre
voluto bene. E sapevo che se fossi stato al posto di uno qualsiasi di
loro avrei provato le stesse cose e avrei agito esattamente allo
stesso modo. Non sarei stato capace di fare del male a nessuno dei
miei cari, non importa quanto stessero soffrendo o quanto volessero
farla finita.
C’erano altri... Ma gli amici di Carlisle non mi avrebbero aiutato.
Non lo avrebbero mai tradito. Mi veniva in mente un solo posto in cui
sarei potuto andare per farla finita con il mostro, e alla svelta... ma
ciò avrebbe messo in pericolo Bella. Sebbene non fossi stato io a
dirle la verità sul mio conto, lei sapeva cose che le era proibito
conoscere. Non era nulla che potesse attirare su di lei un’attenzione
sbagliata, a meno che io non facessi qualcosa di stupido, come
andare in Italia.
Peccato che ormai il patto con i Quileutes fosse inefficace. Tre
generazioni fa, tutto quello che avrei dovuto fare sarebbe stato
arrivare a La Push. Un’idea inutile, adesso.
Quei modi di uccidere il mostro erano impraticabili, dunque.
Alice sembrava così sicura che dovessi andare avanti e
affrontare questa cosa di petto. Ma come poteva essere la cosa
giusta da fare, se c’era la possibilità che uccidessi Bella?
Sussultai. Quell’idea era talmente dolorosa; non riuscivo a
immaginare come il mostro potesse superare la mia repulsione e
avere la meglio su di me. Non aveva desistito, attendeva solo in
silenzio che venisse il suo momento.
Sospirai. C’era altra scelta se non affrontare questa cosa di
petto? Valeva come coraggio se uno era costretto a farlo? Ero certo
di no.
Tutto quello che mi restava da fare, a quanto sembrava, era
aggrapparmi mani e piedi alla mia decisione, con tutte le mie forze;
sarei stato più forte del mio mostro. Non avrei fatto del male a Bella.
Avrei fatto la cosa più giusta che mi restava da fare. Sarei stato
quello che lei aveva bisogno che io fossi.
E all’improvviso, mentre pensavo quelle cose, non mi sembrò
così impossibile. Ovviamente potevo farlo. Potevo essere l’Edward
che Bella voleva, di cui aveva bisogno. Potevo afferrare quell’unico
futuro abbozzato con cui potevo convivere e tramutarlo in realtà. Per
Bella. Ovviamente potevo farlo, se era per lei.
Questa decisione mi fece sentire più forte. Più determinato. Aprii
gli occhi e guardai Alice.
«Oh, così va meglio», disse lei. Il groviglio di fili nella sua testa
era ancora una matassa disperatamente confusa ai miei occhi, ma
lei vedeva in essa più di quanto riuscissi a fare io.
«Settanta-trenta. Qualsiasi cosa tu stia pensando, continua a
pensarlo».
Forse la chiave era semplicemente accettare l’immediato futuro.
Affrontarlo. Non sottovalutare il mio stesso male. Farvi fronte.
Prepararmi.
Intanto potevo gettare le basi di questa preparazione. Era il
motivo per cui ci trovavamo lì. Alice vide la mia azione prima che la
compiessi, cosicché aprì lo sportello e si mise a correre prima che io
aprissi il mio. Provai un vago senso di umorismo e quasi sorrisi. Lei
non avrebbe mai potuto superarmi; provava sempre a imbrogliare.
Mi misi a correre anch’io.
Da questa parte, pensò Alice quando l’ebbi quasi raggiunta. La
sua mente correva avanti, alla ricerca della preda. Ma sebbene io
cogliessi il profumo di diversi possibili bersagli nei dintorni,
evidentemente non erano ciò che voleva lei. Ignorò tutto ciò che
vide.
Non ero sicurissimo di ciò che stava cercando con tanta
meticolosità, ma la seguii senza esitazione. Ignorò qualche branco di
cervi, conducendomi ancora di più nel folto della foresta, verso sud.
La vidi mentre cercava in anticipo, osservandoci in diversi punti del
parco, tutti ben familiari. Virò a est, e poi cominciò a curvare di
nuovo verso nord. Che cosa stava cercando?
A quel punto i suoi pensieri si fissarono su un movimento furtivo
nella boscaglia, squarci di una tana fulva.
«Grazie, Alice, ma...».
Sssh, sto cacciando.
Alzai gli occhi al cielo, ma continuai a seguirla. Cercava di fare
qualcosa di gentile per me. Non ci fu verso di farle capire quanta
poca importanza avesse. Ultimamente mi ero nutrito a forza, tanto
che dubitavo che avrei notato la differenza tra un puma e un
coniglio.
Non le ci volle molto per individuare la sua visione, ora che era
concentrata su di essa. Una volta che i movimenti dell’animale
furono udibili, Alice rallentò per farmi andare avanti.
«Davvero non dovrei, la popolazione felina del parco...».
Il tono mentale di Alice era esasperato: Vivi un po’.
Non aveva molto senso combattere con Alice. Scrollai le spalle e
la sorpassai. Adesso ne sentivo l’odore. Fu facile passare a un’altra
modalità... semplicemente lasciando che fosse il sangue a guidarmi
mentre inseguivo la mia preda.
Fu rilassante smettere di pensare per qualche minuto. Essere
soltanto un predatore come tanti, un superpredatore. Sentii Alice
puntare verso est, a caccia del suo pasto.
Il puma non mi aveva ancora notato. Anche lui si dirigeva verso
est, alla ricerca di una preda da cacciare. Grazie a me, la giornata di
qualche altro animale sarebbe finita meglio.
Fui sopra di lui in un secondo. A differenza di Emmett, non capivo
il senso di lasciare alla bestia la possibilità di combattere. Non
avrebbe fatto nessuna differenza, quindi non era meglio farlo alla
svelta? Spezzai il collo al puma e poi velocemente prosciugai il
corpo ancora caldo. Non avevo granché sete, dunque non ci fu un
vero sollievo in quell’azione. Ancora una volta, mi costrinsi ad
alimentarmi.
Quando ebbi finito, seguii l’odore di Alice verso nord. Aveva
trovato una cerva addormentata, immersa in un nido di rovi. Lo stile
di Alice era più simile al mio che a quello di Emmett. Sembrava che
la creatura non si fosse nemmeno svegliata.
«Grazie», le dissi in tono cortese.
Di nulla. A ovest c’è un branco più grande.
Si alzò in piedi e fece di nuovo strada. Trattenni un sospiro.
Dopo un’altra preda ne avevamo abbastanza entrambi. Io ero
troppo pieno, sentivo le viscere sgradevolmente liquide. Ma ero
sorpreso che anche lei fosse pronta a fermarsi.
«Possiamo continuare, se vuoi», le dissi, chiedendomi se avesse
visto che volevo fermarmi e stesse cercando di essere gentile.
«Uscirò domani con Jasper», mi rispose.
«Ma lui non ha appena...».
«Ultimamente ho deciso che è necessaria più preparazione», mi
disse sorridendo. Una nuova possibilità.
Vidi la nostra casa nella sua mente. Carlisle ed Esme in
trepidante attesa al portone d’ingresso. La porta che si apriva, io che
entravo, e accanto a me, a tenermi la mano...
Alice si mise a ridere e io cercai di riprendere il controllo del mio
viso.
«Come?», chiesi. «Quando?».
«Presto». Forse domenica...
«Questa domenica?».
Sì, quella che verrà dopodomani.
Bella era perfetta in quella visione, umana e in salute, e sorrideva
ai miei genitori. Indossava quella camicia blu che le rendeva la pelle
tanto luminosa.
Quanto al come, non ne sono del tutto sicura. Questa è solo una
possibilità remota, ma volevo che Jasper fosse preparato.
Jasper ai piedi della scala, adesso, che annuiva educatamente a
Bella, con gli occhi dorati chiari.
«Questo è... nel nodo?».
Uno dei fili.
Risuonò di nuovo nella sua mente; le lunghe corde delle
possibilità. Tante di queste convergevano sull’indomani... non
abbastanza riemergevano dall’altra parte.
«A che punto sono?».
Strinse le labbra. Settantacinque-venticinque? Lo pensò come
una domanda, e vidi che era generosa.
Dai, pensò mentre vedeva che mi richiudevo in me stesso.
Accetteresti quella scommessa. Io l’ho fatto.
Istintivamente le labbra mi si ritrassero sui denti.
«Per favore!», mi disse. «Come se volessi farmi sfuggire una
simile opportunità. Non si tratta solo di Bella. Sono abbastanza
fiduciosa che starà bene. Servirebbe anche a insegnare a Rosalie e
Jasper un po’ di rispetto».
«Non sei onnisciente».
«Ci vado vicino».
Non colsi il suo tono scherzoso. «Se fossi onnisciente, sapresti
dirmi cosa fare».
Lo scoprirai, Edward. Lo so che lo farai.
Se solo l’avessi saputo anche io.
A casa non c’era nessuno tranne mia madre e mio padre, quando
tornammo. Emmett senza dubbio aveva avvisato gli altri di sparire
dalla circolazione. In ogni caso non mi importava. Non avevo le
energie per preoccuparmi del loro stupido gioco. Anche Alice scappò
via alla ricerca di Jasper, e fui contento che quelle conversazioni
mentali si diradassero. Mi fu un po’ d’aiuto adesso che volevo
concentrarmi.
Carlisle era in attesa ai piedi delle scale, ed era difficile bloccare i
suoi pensieri, colmi delle stesse domande alle quali avevo implorato
Alice di rispondere. Non volevo ammettere con lui tutte le debolezze
che mi avevano impedito di scappare via prima di fare altri danni.
Non volevo che Carlisle conoscesse l’orrore che si sarebbe potuto
materializzare se non fossi tornato a Forks quando in effetti ero
tornato, gli abissi in cui sarebbe sprofondato il mio mostro.
Gli lanciai un vago cenno di conferma mentre passavo accanto a
lui. Lui sapeva che cosa volesse dire: che ero consapevole delle sue
paure e che non avevo risposte certe. Con un sospiro, rispose al mio
cenno. Salì anche lui le scale, più lentamente, e lo sentii che
raggiungeva Esme nello studio di lei. Non parlavano. Cercai di
ignorare i pensieri di lei mentre analizzava l’espressione sul volto di
Carlisle: il suo allarme, il suo dolore.
Carlisle capiva meglio di tutti, persino di Alice, che cosa mi stesse
capitando, l’infinito chiacchiericcio, i balbettii e i tumulti nella mia
testa; era quello che viveva con me da più tempo. Così, senza
bisogno di dire una parola, condusse Esme alla grande finestra che
usavamo spesso come uscita. Nel giro di qualche secondo erano
talmente lontani che non riuscivo a sentire nulla. Finalmente silenzio.
L’unico trambusto nella mia mente era quello creato da me.
All’inizio mi mossi con lentezza, solo un pochino più velocemente
di un umano, mentre mi facevo la doccia, pulendomi i residui della
foresta dalla pelle e dai capelli. Come prima, in auto, mi sentivo
danneggiato, compromesso, come se mi avessero prosciugato le
forze. Tutto nella mia testa, ovviamente. Sarebbe stato un vero
miracolo, un dono, se davvero avessi potuto perdere la mia forza. Se
avessi potuto essere debole, indifeso, un pericolo per nessuno.
Avevo quasi dimenticato la mia paura precedente – una paura
così vanitosa – che Bella mi trovasse ripugnante quando le avessi
mostrato il mio vero io alla luce del sole. Provavo disgusto verso me
stesso per aver perso anche solo un momento dietro a una
preoccupazione tanto egoistica. Ma mentre cercavo dei vestiti puliti
dovetti ripensarci nuovamente. Non perché importasse se lei fosse
rimasta disgustata da me, ma perché avevo una promessa da
mantenere.
Raramente dedicavo a ciò che indossavo un pensiero,
figuriamoci due. Alice riempiva il mio armadio di un’ampia scelta di
capi che sembravano abbinarsi bene. L’aspetto più importante dei
vestiti, a quanto pareva, era di aiutarci a mimetizzarci: adottare la
moda di un determinato periodo storico, minimizzare il nostro pallore
e coprire quanto più possibile la pelle senza apparire troppo fuori
stagione. Entro quei limiti, Alice si sbizzarriva, sdegnata all’idea di
doverci rendere invisibili. Sceglieva i vestiti per sé e per tutti noi
come una forma di espressione artistica. La nostra pelle era coperta,
il nostro colorito pallido non era mai messo in contrasto con tonalità
più scure, e sicuramente eravamo al passo con lo stile del momento.
Ma a mimetizzarci non riuscivamo. Sembrava una debolezza
innocua, come le auto che guidavamo.
A parte il gusto lungimirante di Alice, tutti i miei vestiti erano, tra le
altre cose, disegnati per essere il più possibile coprenti. Se volevo
mantenere lo spirito della mia promessa a Bella, non potevo esporre
soltanto le mani. Quanto minore fosse stata la mia esposizione,
tanto più facile sarebbe stato per lei ignorare il mio male. Lei doveva
vedermi per ciò che ero.
In quel momento mi ricordai di una camicia stipata nei recessi del
mio armadio che non avevo mai indossato.
Quella camicia era un’anomalia. Di solito Alice non ci procurava
nulla che non riuscisse a vederci addosso. Era molto rigida nel
seguire questa regola alla lettera. Ricordavo quel pomeriggio di due
anni prima quando vidi per la prima volta quella camicia appesa
assieme ai nuovi acquisti di Alice, relegata in fondo, come se
sapesse che non andava bene.
«Questa a che serve?», le avevo chiesto.
Aveva scrollato le spalle. Non lo so, sembrava carina sul
manichino.
I suoi pensieri non nascondevano nulla in quel momento.
Sembrava confusa quanto me da quell’acquisto impulsivo. Eppure,
nonostante tutto, non me l’aveva fatta gettare via.
Non si sa mai, aveva insistito. Potresti averne bisogno un giorno
o l’altro.
Adesso tirai fuori la camicia e provai uno strano sgomento. Un
brivido, quasi, se mai ero capace di provare cose del genere. Le sue
inquietanti premonizioni si proiettavano talmente in là, i suoi tentacoli
affondavano a tale profondità nel futuro che nemmeno lei
comprendeva appieno tutte le azioni che compiva. In qualche modo
aveva percepito, anni prima che Bella scegliesse di venire a Forks,
che a un certo punto io avrei dovuto affrontare questa assurda
prova.
Forse era davvero onnisciente, dopotutto.
Scivolai nella camicia bianca di cotone, agitato dall’aspetto delle
mie braccia nude nello specchio dentro la porta. L’abbottonai,
sospirai, poi la sbottonai di nuovo. Esporre la mia pelle era il senso
di tutto. Ma non dovevo essere tanto appariscente fin dall’inizio.
Afferrai una felpa marrone chiaro e la infilai. Così mi sentivo molto
più a mio agio; solo il colletto della camicia bianca si vedeva sopra il
girocollo. Forse avrei tenuto la felpa. Forse rivelarmi a quel modo
non era la strada giusta.
Non mi muovevo più con tanta lentezza. Era quasi comico, con
tutte le fosche paure e risoluzioni nella mia testa, che la paura più
familiare, quella che ultimamente aveva governato le mie azioni,
fosse capace di controllarmi con tanta facilità.
Non vedevo Bella da ore. Era al sicuro?
Strano che dovessi preoccuparmi anche dei milioni di pericoli che
non erano me. Nessuno di questi era altrettanto mortale. Eppure,
eppure... e se...?
Sebbene avessi programmato, come sempre, la mia notte da
Bella in compagnia del suo profumo – tanto più importante quella
notte di tutte le altre – mi affrettai per arrivare lì.
Ero in anticipo e, naturalmente, era tutto a posto. Bella stava
ancora facendo il bucato; sentivo i colpi sordi e lo sciacquio della
lavatrice malandata e percepivo il profumo dell’ammorbidente che
saliva caldo dallo scarico dell’asciugatrice. Una parte di me voleva
sorridere al ricordo delle mie prese in giro a pranzo, ma
quell’umorismo superficiale era troppo debole per vincere il panico
che mi accompagnava sempre. Sentivo Charlie che guardava un
programma sportivo in soggiorno. I suoi pensieri tranquilli
sembravano dolci, assonnati. Ero sicuro che Bella non avesse
cambiato idea e messo lui al corrente dei suoi veri programmi per
l’indomani.
Nonostante tutto, il placido, semplice fluire di una piatta serata a
casa Swan era rasserenante. Mi appollaiai sul mio solito albero e mi
lasciai cullare.
Mi scoprii invidioso del padre di Bella. La sua era una vita
semplice. Niente di serio gravava sulla sua coscienza. L’indomani
sarebbe stato un giorno normale come tanti, con passatempi
familiari e piacevoli di cui occuparsi.
Ma il giorno dopo...
Non era in suo potere garantire cosa lo avrebbe aspettato il
giorno successivo.
Lo era nel mio?
Fui sorpreso nell’udire il suono di un asciugacapelli provenire dal
bagno. Bella di solito non si dava la pena di asciugarli. I suoi capelli,
come avevo notato nelle mie notti di protettiva – e inqualificabile –
sorveglianza, umidi mentre dormiva, si asciugavano durante la notte.
Mi domandai il perché di quella novità. L’unica spiegazione che mi
venne in mente fu che voleva che avessero un bell’aspetto. E dato
che la persona che aveva in programma di vedere l’indomani ero io,
questo significava che voleva essere carina per me.
Forse sbagliavo. Ma se avevo ragione... che frustrazione! Che
tenerezza! La sua vita non era mai stata tanto in pericolo, ma lei si
preoccupava che a me, che ero proprio quella minaccia che metteva
a repentaglio la sua vita, piacesse il suo aspetto.
Ci volle un po’ più del solito, anche dopo il tempo in più con
l’asciugacapelli, prima che le luci si spegnessero nella sua camera, e
prima che accadesse udii qualche lieve sommovimento all’interno.
Essendo io curioso, sempre troppo curioso, mi sembrò che fossero
passate ore prima di essere sicuro di aver atteso a sufficienza
perché lei si fosse addormentata.
Una volta dentro mi resi conto che non ci sarebbe stato bisogno
di aspettare tanto. Quella sera dormiva più serenamente del solito,
con i capelli aperti morbidamente a ventaglio sul cuscino sopra la
testa, le mani rilassate lungo i fianchi. Nel sonno profondo, si
percepiva solo un lieve mormorio.
La sua camera rivelò immediatamente la fonte del tramestio che
avevo udito. In ogni angolo c’erano impilati dei vestiti, persino in
fondo al letto, sotto i suoi piedi nudi. Percepii di nuovo il piacere e il
dolore nello scoprire che lei voleva essere attraente per me.
Raffrontai questi sentimenti, il dolore e l’esaltazione, con la mia
vita prima di Bella. Ero così disincantato, così stanco del mondo,
come se avessi provato tutte le emozioni che si potevano provare.
Che stupido. Avevo a malapena sorseggiato dalla coppa che la vita
aveva da offrire. Solo adesso ero consapevole di ciò che mi
mancava, e di quanto ancora avevo da imparare. Tanta sofferenza
dinanzi a me, più della gioia, certamente. Ma la gioia era così dolce
e forte che non mi sarei perdonato di perdermene anche solo un
secondo.
Pensai a quanto sarebbe stata vuota la vita senza Bella, e mi
venne in mente una notte a cui non pensavo da tanto tempo.
Era il dicembre del 1919. Era passato più di un anno da quando
Carlisle mi aveva trasformato. I miei occhi si erano raffreddati
passando da un rosso brillante a un tenue ambrato, anche se era
costante lo stress di mantenerli di quel colore.
Carlisle mi aveva tenuto quanto più possibile isolato mentre io
vivevo quei primi mesi indisciplinati. Dopo quasi un anno, ero
abbastanza sicuro che la follia fosse passata e Carlisle accettò la
mia autovalutazione senza opporsi. Si preparò a introdurmi nella
società umana.
All’inizio fu solo una sera ogni tanto: sazi quanto più possibile,
passeggiavamo sulla via principale di una piccola cittadina dopo che
il sole era al sicuro dietro l’orizzonte. Rimasi sorpreso da quanto, in
fondo, riuscissimo a mimetizzarci. I volti umani erano completamente
diversi dai nostri – la loro pelle opaca e butterata, i lineamenti mal
modellati, così arrotondati e nodosi, il colore chiazzato della loro
pelle imperfetta. I loro occhi annebbiati e umidi dovevano essere
quasi ciechi, pensavo, se gli umani davvero credevano che noi
appartenessimo al loro mondo. Mi ci vollero diversi anni per
abituarmi ai volti umani.
Durante queste incursioni ero così concentrato a controllare il mio
istinto di uccidere che a malapena registravo come linguaggio la
cacofonia di pensieri che mi assalivano; era solo rumore. Man mano
che andava rafforzandosi la mia capacità di ignorare la sete,
divennero più chiari i pensieri della folla, più difficili da ignorare, il
pericolo della prima prova soppiantato dall’irritazione per la seconda.
In ogni caso superai questi primi test se non con facilità
quantomeno con risultati eccellenti. La sfida successiva fu vivere in
mezzo a loro per una settimana. Carlisle scelse il vivace porto di
Saint John, a New Brunswick, prenotando delle stanze in una
piccola locanda di legno nei pressi dei moli del West Side. A parte il
nostro vecchio locandiere, i coinquilini erano tutti marinai e portuali.
Quella fu una prova ardua. Ero completamente circondato.
L’odore di sangue umano era onnipresente. Percepivo il tocco della
mano umana sui tessuti della nostra camera, coglievo l’odore del
sudore umano attraverso le finestre. Contaminava ogni mio singolo
respiro.
Tuttavia, benché fossi giovane, ero anche ostinato e determinato
a vincere. Sapevo che Carlisle aveva un’alta considerazione dei miei
rapidi progressi, e compiacerlo era diventata la mia principale
motivazione. Anche nella relativa quarantena in cui avevo vissuto
fino ad allora avevo ascoltato i pensieri umani quel tanto che
bastava per sapere che il mio mentore era unico al mondo. Degno di
vera e propria venerazione.
Conoscevo il suo piano di fuga, nel caso in cui quella prova fosse
stata eccessiva per me, anche se lui voleva tenermelo nascosto. Era
quasi impossibile per lui mantenere un segreto. Nonostante la
sensazione di essere circondati dal sangue umano da ogni parte,
esisteva una veloce via di fuga attraverso le gelide acque del porto.
Eravamo a poche strade di distanza da quelle profondità grigie e
opache. Se la tentazione fosse stata sul punto di trionfare, lui mi
avrebbe spinto a fuggire.
Ma Carlisle era sicuro che io potessi farcela; troppo dotato,
troppo forte, troppo intelligente per cadere vittima dei miei bassi
istinti. Dovette aver notato come reagivo alle sue lodi interiori. Mi
rendevano arrogante, presumo, ma mi forgiarono anche,
rendendomi l’uomo che io vedevo nella sua testa, tanto ero
determinato a guadagnarmi l’approvazione che lui mi aveva già
concesso.
Carlisle era molto astuto.
Ed era anche molto gentile.
Era il mio secondo Natale da immortale, anche se era il primo
anno che apprezzavo davvero il mutare delle stagioni; l’anno prima
ero stato troppo preso dalla frenesia della nuova vita per badare al
resto. Sapevo che in cuor suo Carlisle si preoccupava di ciò che mi
sarebbe potuto mancare. Tutti i familiari e gli amici dei miei anni da
umano, tutte le tradizioni che avevano illuminato il clima uggioso. Ma
non doveva preoccuparsi. Le ghirlande e le candele, la musica e i
ritrovi... nulla di tutto questo sembrava fare al caso mio.
Guardavo a tutte queste cose da quella che pareva una distanza
immensa.
A metà settimana, una sera mi mandò a fare una passeggiata da
solo per la prima volta. Presi il compito molto sul serio e feci di tutto
per sembrare quanto più umano possibile, avvolgendomi in abiti
pesanti e fingendo di avere freddo. Una volta fuori mantenni il corpo
rigido per evitare le tentazioni, i miei movimenti erano lenti e studiati.
Superai alcuni uomini di ritorno a casa dalle banchine gelate.
Nessuno fece caso a me, eppure non feci salti mortali per evitare il
contatto. Pensavo alla mia vita futura, quando sarei stato controllato
e a mio agio come Carlisle, e immaginavo un milione di passeggiate
come quella. Carlisle aveva messo in pausa la sua vita per
occuparsi di me, ma io volevo a tutti i costi diventare una risorsa per
lui invece che un peso.
Ero fiero di me quando tornai in camera, scrollando la neve dal
berretto di lana. Carlisle era ansioso di sapere com’era andata e io
non vedevo l’ora di raccontarglielo. Non era stato così difficile
dopotutto, uscire in mezzo a loro con la mia forza di volontà come
unica protezione, e ostentavo nonchalance mentre varcai sicuro la
porta, notando soltanto tardivamente il forte profumo di resina.
Ero pronto a stupire Carlisle con il mio facile successo, ma lui mi
aspettava per sorprendere me.
I letti erano stati accatastati con cura nell’angolo, la scrivania
traballante spinta dietro la porta per fare spazio a un abete talmente
alto da spazzolare il soffitto con il ramo in cima. Gli aghi erano
bagnati, spruzzi di neve erano ancora visibili in alcuni punti, per la
rapidità con cui aveva sciolto i mozziconi di candela alle estremità
dei rami. Erano tutti accesi, e riflettevano una luce gialla e calda
sulla guancia levigata di Carlisle. La sua bocca era aperta in un largo
sorriso.
Buon Natale, Edward.
Mi resi conto con una punta di imbarazzo che la mia grande
impresa, la mia spedizione in solitaria era stata solo un pretesto. E
però, di nuovo, fui felice nel constatare che Carlisle si fidava
talmente tanto del mio autocontrollo da essere disposto a mandarmi
fuori a sostenere quella finta prova pur di sorprendermi in questo
modo.
«Grazie, Carlisle», risposi subito. «E buon Natale anche a te». In
verità, non ero sicuro di come mi sentissi per quel gesto.
Sembrava... qualcosa di infantile, come se la mia vita umana fosse
solo uno stadio larvale che mi ero lasciato alle spalle, insieme a tutti i
suoi orpelli, mentre adesso mi si chiedeva di tornare ad avanzare nel
fango benché avessi ormai le ali. Mi sentivo troppo vecchio per
quello spettacolo, ma allo stesso tempo ero commosso dal fatto che
Carlisle cercasse di offrirmi questo, un ritorno momentaneo alle gioie
di un tempo.
«Ho i pop-corn», mi disse. «Pensavo che ti avrebbe fatto piacere
appenderli insieme a me».
Nella sua mente vidi cosa significasse questo per lui. Percepii, e
non per la prima volta, la profondità del suo senso di colpa per
avermi trascinato in questa vita. Voleva darmi quei piccoli pezzi di
gioie umane che secondo lui erano conquistabili. E io non sarei stato
tanto viziato da negargli un simile piacere.
«Naturalmente», accettai. «Immagino che sarà un lavoro veloce,
quest’anno».
Si mise a ridere e andò a ravvivare la brace nel camino.
Non era difficile rilassarsi condividendo con lui la sua visione di
vacanza familiare, per quanto piccola e insolita fosse quella famiglia.
Benché mi riuscisse facile recitare quel ruolo, rimaneva la
sensazione di non appartenere a quel mondo in cui stavo recitando.
Mi chiedevo se con il tempo mi sarei trovato a mio agio nella vita che
Carlisle aveva creato, o se mi sarei sentito sempre come una
creatura aliena. Ero un vero vampiro più di quanto non lo fosse lui?
Troppo una creatura di sangue per abbracciare la sua sensibilità più
umana?
Le mie domande trovarono risposta con il tempo. Ero ancora un
neonato, più di quanto non mi rendessi conto in quei giorni, e tutto
diventò più facile man mano che invecchiai. Il senso di alienazione si
affievolì e scoprii di appartenere davvero al mondo di Carlisle.
Tuttavia, in quella particolare stagione, le mie preoccupazioni mi
lasciavano più vulnerabile del dovuto ai pensieri degli estranei.
La notte successiva incontrammo alcuni amici, il mio primissimo
incontro sociale.
Fu dopo mezzanotte. Avevamo lasciato la città e ci eravamo
avventurati sulle colline a nord, alla ricerca di un’area
sufficientemente lontana dalla presenza umana per poter cacciare in
sicurezza. Tenni a bada me stesso, sforzandomi di controllare i sensi
che desideravano soltanto essere liberati per guidarmi verso
qualcosa che avrebbe saziato la mia sete. Dovevamo essere sicuri
di essere abbastanza lontani dalla popolazione. Una volta che
avessi liberato quelle forze, non sarei stato così forte da tenermi
lontano dall’odore del sangue umano.
Qui dovrebbe essere sicuro, approvò Carlisle, che rallentò per
farmi condurre la caccia. Forse avremmo trovato dei lupi, magari
anche loro a caccia nella neve alta. Più probabilmente, con quel
tempo, avremmo dovuto scavare per tirare fuori gli animali dalle loro
tane.
Diedi libero sfogo ai miei sensi; fu un grande sollievo per me,
come rilassare un muscolo a lungo contratto. All’inizio tutto quello
che riuscii a odorare fu la neve fresca e i rami spogli degli alberi
decidui. Percepii il sollievo di non sentire nessun odore umano,
nessun desiderio, nessun dolore. Corremmo in silenzio nel folto della
foresta.
Fu allora che avvertii un nuovo profumo, allo stesso tempo
familiare ed estraneo. Era dolce, limpido, più puro della neve fresca.
C’era una lucentezza nella sua fragranza che ricordava i due profumi
che conoscevo: quello di Carlisle e il mio. Eppure, al contempo, mi
era ignoto.
Mi fermai di scatto. Carlisle colse l’odore e si bloccò accanto a
me. Per un centesimo di secondo percepii la sua ansia. Ma subito
dopo sentii che aveva riconosciuto qualcuno.
Ah, Siobhan, pensò subito tranquillizzandosi. Non sapevo che
fosse da questa parte del mondo.
Lo guardai con aria interrogativa, non essendo sicuro se fosse il
caso di parlare ad alta voce. Provavo apprensione, nonostante lui
fosse tranquillo. Quella situazione ignota mi mise in guardia.
Vecchi amici, mi rassicurò lui. Immagino sia giunto il momento
per te di conoscere altri della tua specie. Troviamoli.
Sembrava sereno, ma percepii una preoccupazione ovattata
dietro i pensieri che componeva in frasi per me. Mi chiesi per la
prima volta come mai non fossimo mai entrati in contatto con altri
vampiri fino a quel momento. Dalle lezioni di Carlisle sapevo che non
eravamo poi così rari. Doveva avermi tenuto lontano dagli altri
volutamente. Ma perché? Non avvertiva alcun pericolo fisico in quel
momento. Quali erano le sue motivazioni?
L’odore era piuttosto recente. Distinguevo due tracce diverse. Lo
guardai con aria interrogativa.
Siobhan e Maggie. Mi chiedo dove sia Liam. Quello è il loro clan,
loro tre. Di solito viaggiano insieme.
Clan. Conoscevo quella parola ma l’avevo sempre collegata ai
grossi gruppi militarizzati che affollavano le lezioni di storia di
Carlisle. Il clan dei Volturi, e prima di loro i rumeni e gli egiziani. Ma
se questa Siobhan poteva avere un clan di tre unità, forse la parola
si applicava anche a noi? Carlisle e io eravamo un clan? Il termine
non sembrava andare bene per noi. Era troppo... freddo. Forse
coglievo il senso di questa parola in maniera imperfetta.
Ci vollero alcune ore per raggiungere le nostre prede, perché
anche loro correvano. La pista ci fece addentrare sempre di più nel
deserto innevato, il che fu una fortuna. Se ci fossimo avvicinati
troppo a degli insediamenti umani, Carlisle mi avrebbe chiesto di
rimanere dietro. Usare il senso dell’olfatto per trovare una pista non
era molto diverso dall’usarlo per cacciare, e sapevo che sarei stato
sopraffatto se avessi incrociato una traccia umana.
Quando fummo abbastanza vicini perché io distinguessi il rumore
dei piedi che correvano davanti a noi – non si davano alcuna pena di
essere silenziosi, e ovviamente non si preoccupavano di essere
seguiti –, Carlisle chiamò ad alta voce: «Siobhan!».
Il tramestio davanti a noi cessò per un breve istante, poi quelli
ritornarono verso di noi, con un rumore assertivo che mi agitò un po’,
malgrado la fiducia di Carlisle. Lui si arrestò e io mi fermai al suo
fianco. Non lo avevo mai visto sbagliare, eppure mi accovacciai
quasi in automatico.
Tranquillo, Edward. All’inizio è una cosa difficile, incontrare un
predatore come noi. Ma non c’è nessun motivo di preoccuparsi, in
questo caso. Mi fido di lei.
«Certo», sussurrai, e mi raddrizzai accanto a lui, anche se non
potei evitare una rigida tensione nella postura.
Forse era per questo che mi aveva tenuto lontano dai suoi
conoscenti. Forse questo strano istinto di difesa era troppo forte se
uno era già sopraffatto dalla passione della nuova vita. Irrigidii
ancora di più i miei muscoli contratti.
Non lo avrei deluso adesso.
«Sei tu, Carlisle?», risuonò una voce dal tono chiaro e profondo
di una campana.
All’inizio soltanto un vampiro emerse dagli alberi innevati. Era la
donna più imponente che avessi mai visto, più alta sia di me sia di
Carlisle, con le spalle più larghe e gli arti più possenti. Eppure, non vi
era nulla di mascolino in lei. Le sue forme erano oltremodo femminili:
aggressivamente, forzutamente femminili. Era chiaro che non
avesse la minima intenzione di passare per un’umana, quella sera:
indossava solo una semplice camicia di lino senza maniche, con una
catena d’argento dall’intreccio complesso a mo’ di cintura.
Era stato in un’altra vita che avevo guardato l’ultima volta una
donna in quel modo, scoprendo di avere difficoltà a sapere dove
mettere gli occhi. Li concentrai sul suo viso che, come il suo corpo,
era intensamente femminile. Le labbra erano piene e sinuose, i suoi
profondi occhi cremisi erano enormi e incorniciati da ciglia più fitte
degli aghi sui rami di pino. I capelli neri e lucenti erano sollevati in un
generoso chignon sulla testa, con due spessi bastoncini di legno
distrattamente conficcati per tenerlo fermo.
Provai uno strano sollievo nel guardare un altro volto tanto simile
a quello di Carlisle: perfetto, levigato, privo della grumosità carnosa
dei visi umani. Quella simmetria era rilassante.
Mezzo secondo dopo apparve l’altra vampira, che spuntò da
dietro il largo fianco della donna. Quest’altra era meno notevole, solo
una ragazzina non molto più grande di una bambina. Se la femmina
alta sembrava possedere tutto in eccesso, questa ragazza era
l’immagine della carenza. Pareva tutta ossa sotto il semplice vestito
scuro, gli occhi guardinghi troppo grandi rispetto al viso, che pure,
come quello della compagna, era impeccabile e per questo
confortante. Di capelli, invece, ne aveva in abbondanza: un covone
selvatico di riccioli color rosso acceso che sembravano
irrimediabilmente annodati.
La femmina più grande balzò in avanti verso Carlisle, e mi ci volle
tutto il mio autocontrollo per non saltare e mettermi tra di loro. Mi resi
conto in quell’istante, osservando la muscolatura dei suoi arti
possenti, che avrei potuto solo provarci. Fu un pensiero umiliante.
Forse Carlisle aveva anche protetto il mio ego, tenendomi isolato.
Lei lo abbracciò, avvolgendolo tra le sue braccia nude. I suoi
denti brillanti erano in evidenza, ma solo per sfoggiare un sorriso
amichevole. Carlisle le strinse le braccia attorno alla vita e si mise a
ridere.
«Ciao, Siobhan, da quanto tempo!».
Siobhan lo liberò ma gli tenne le mani sulle spalle.
«Dove ti eri nascosto, Carlisle? Cominciavo a preoccuparmi che ti
fosse accaduto qualcosa di spiacevole». La sua voce era bassa
quasi quanto quella di lui, un contralto vibrante, con la cadenza dei
portuali irlandesi trasformata in qualcosa di magico.
I pensieri di Carlisle si rivolsero a me, un centinaio di lampi
folgoranti del nostro ultimo anno. In quel momento gli occhi di
Siobhan guizzarono per un momento sul mio viso e poi ne furono
distolti.
«È stato un periodo indaffarato», rispose Carlisle, ma ero più
concentrato sui pensieri di Siobhan.
Praticamente un neonato... ma i suoi occhi. Strano, non sono gli
stessi strani occhi di Carlisle. Di ambra più che dorati. È piuttosto
carino, mi chiedo dove Carlisle lo abbia trovato.
Siobhan fece un passo indietro. «Sono una maleducata. Non
conosco il tuo compagno».
«Permettimi di presentarvi. Siobhan, questo è Edward, mio figlio.
Edward, questa, sono certo che lo avrai intuito, è la mia vecchia
amica Siobhan. E lei è la sua Maggie».
La ragazzina inclinò la testa di lato, ma non come cenno di
assenso. Le linee sottili delle sue sopracciglia si unirono come se
stesse concentrandosi su qualche enigma.
Figlio?, pensò Siobhan, sulle prime colpita da quella parola. Ah,
quindi ha scelto di creare il suo compagno dopo tutto questo tempo.
Interessante. Mi chiedo perché adesso? Deve esserci qualcosa di
speciale nel ragazzo.
Ciò che dice è vero, pensò Maggie simultaneamente. Ma manca
qualcosa. Qualcosa che Carlisle non sta dicendo. Annuì una volta,
come se lo facesse a se stessa, e poi lanciò un’occhiata a Siobhan,
che stava ancora esaminandomi.
«Edward, che piacere conoscerti», disse Siobhan. Mi porse la
mano, e il suo sguardo indugiò sulle mie iridi, come se volesse
soppesarne l’esatta tonalità.
Conoscevo soltanto la risposta umana a questo tipo di incontro.
Le presi la mano e ne sfiorai il dorso con le labbra, notando la
levigatezza vetrosa della sua pelle contro la mia.
«Il piacere è mio», risposi.
Quanto è affascinante. Lasciò cadere la mano, offrendomi un
largo sorriso. Così grazioso, mi chiedo quale sia il suo dono, e
perché ha colpito Carlisle?
Fui colto di sorpresa dai suoi pensieri – comprendendo, quando
usò la parola dono, esattamente quello che voleva dire prima,
quando aveva immaginato che dovesse esserci qualcosa di speciale
in me –, ma avevo acquisito sufficiente pratica da nascondere la mia
reazione al suo sguardo interessato.
Naturalmente aveva ragione a pensare che avessi un dono.
Carlisle era rimasto sinceramente stupito quando aveva capito
cos’ero in grado di fare. Sapevo, grazie a quel dono, che lui non
fingeva. Non avevo visto alcuna menzogna, nessuna elusione nei
suoi pensieri quando aveva risposto ai miei perché: era molto solo;
mia madre aveva supplicato perché avessi salva la vita; il mio volto
recava l’inconscia promessa di qualche virtù, che io non ero del tutto
sicuro di incarnare.
Stavo ancora rimuginando su quanto fossero giuste o sbagliate le
congetture di Siobhan, quando lei si voltò verso Carlisle. Mentre si
spostava, fece un ultimo pensiero su di me.
Povero ragazzo. Immagino che Carlisle gli abbia imposto le sue
strane abitudini. Ecco perché i suoi occhi sono così strani. Che
tragedia... essere privati della più grande gioia di questa vita.
In quel momento, questa conclusione non mi turbò tanto quanto
quella sua altra speculazione. Più tardi – la loro conversazione durò
tutta la notte e ci tenne lontani dalle nostre stanze fino al tramonto –,
quando fummo di nuovo soli, ne parlai a Carlisle. Lui mi raccontò la
storia di Siobhan, la sua fascinazione per i Volturi, la sua curiosità
verso i doni mistici dei vampiri, e infine la sua scoperta di una strana
bambina che sembrava sapere più di quanto fosse umanamente
possibile. Siobhan aveva trasformato Maggie non perché avesse
bisogno di compagnia o perché le stesse a cuore la ragazza che, in
altre circostanze, avrebbe potuto costituire la sua cena, ma perché
voleva a tutti i costi collezionare un talento per il suo clan. Era un
modo diverso di vedere il mondo, un modo meno umano di quello
che Carlisle aveva cercato di conservare. Lui aveva tenuto nascoste
a Siobhan le informazioni sul mio dono (questo spiegava la strana
reazione di Maggie quando mi ero presentato; grazie al suo dono,
sapeva che Carlisle stava nascondendo qualcosa), non essendo
sicuro di come avrebbe reagito Siobhan dinanzi a un dono tanto raro
e potente, che non aveva nemmeno richiesto una ricerca. Poiché
non era stata altro che una strana coincidenza il fatto che io mi fossi
rivelato un talento. Il mio dono di leggere nella mente faceva parte di
me, quindi Carlisle non lo desiderava più di quanto non volesse
cambiare il colore dei miei capelli o il timbro della mia voce. In ogni
caso, non considerò mai quel dono come una merce a suo uso e
beneficio.
Ogni tanto ripensai a queste considerazioni, ma sempre meno col
passare del tempo. Mi sentii sempre più a mio agio nel mondo
umano, e Carlisle ritornò al suo precedente lavoro di chirurgo.
Mentre lui era via studiai medicina, tra le tante altre materie, ma
sempre sui libri, mai all’ospedale. Solo qualche anno dopo, Carlisle
trovò Esme e tornammo a una vita più reclusa per permettere a lei di
acclimatarsi. Fu un periodo indaffarato, pieno di nuove conoscenze e
di nuovi amici, e dunque solo molti anni dopo le parole
compassionevoli di Siobhan tornarono ad assillarmi.
Povero ragazzo. Che tragedia... essere privati della più grande
gioia di questa vita.
A differenza di altre sue congetture – così facili da smentire visto
che potevo leggere nella sincera trasparenza dei pensieri di Carlisle
– questa idea cominciò ad annidarsi nella mia mente. Fu
quell’espressione, la più grande gioia di questa vita, che alla fine
portò alla mia separazione da Carlisle ed Esme. Alla ricerca di quella
gioia promessa, mi impossessai più e più volte di vite umane
pensando che, usando in maniera arrogante il mio dono, potessi fare
più il bene che il male.
La prima volta che assaggiai il sangue umano il mio corpo ne fu
sopraffatto. Mi sentii completamente pieno, e completamente bene.
Vivo, come mai prima d’allora. Anche se il sangue non era della
migliore qualità – il corpo della mia preda era saturo di droghe dal
sapore amaro –, al confronto il mio cibo consueto sembrò acqua di
scarico. Eppure... la mia mente rimaneva separata dalla
gratificazione corporale. Non riuscivo a non vedere la bruttezza della
situazione. Non potevo ignorare ciò che Carlisle avrebbe
sicuramente pensato della mia scelta.
Credevo che quegli scrupoli sarebbero scomparsi. Trovai uomini
malvagi che avevano tenuto i loro corpi puliti, se non le loro mani, e
avevano un sapore di ottima qualità. Mentalmente contavo il numero
di vite che forse stavo salvando con le mie azioni da giudice, giuria e
carnefice insieme. Anche se ne salvavo solo una a ogni uccisione,
giusto la prossima vittima sulla lista, non era meglio quello che
lasciare che quei predatori umani continuassero ad agire?
Tutto questo avveniva anni prima che smettessi. Allora non ero
sicuro del motivo per cui il sangue non era quell’estasi di vita che
Siobhan credeva che fosse, del motivo per cui continuavano a
mancarmi Carlisle ed Esme più di quanto amassi la mia libertà, del
motivo per cui il peso di ciascuna uccisione sembrava accumularsi al
punto da farmi sentire paralizzato da quel fardello. Col passare degli
anni, dopo il mio ritorno da Carlisle ed Esme, mentre mi sforzavo di
riapprendere la disciplina che avevo abbandonato, giunsi alla
conclusione che forse per Siobhan non c’era nulla di più elevato del
richiamo del sangue, ma che io ero nato per qualcosa di meglio.
Le parole che un tempo mi avevano tormentato e spinto ad agire,
adesso tornarono con una forza sorprendente.
La più grande gioia di questa vita.
Non avevo dubbi. Ora capivo il significato di quella frase. La più
grande gioia della mia vita era questa ragazza fragile, coraggiosa,
calda, profonda che dormiva così pacificamente lì accanto. Bella. La
vera grande gioia che la vita avesse da offrirmi, e il più grande
dolore se lei si fosse persa.
Il mio telefono vibrò silenzioso nella tasca della camicia. Lo tirai
fuori, vidi il numero e lo portai all’orecchio.
«Vedo che non puoi parlare», disse tranquilla Alice, «ma pensavo
che volessi saperlo: adesso è ottanta-venti. Qualsiasi cosa tu stia
facendo, continua a farla». Riattaccò.
Naturalmente non potevo fidarmi del tono sicuro della sua voce
dal momento che non potevo leggerle nel pensiero, e lei lo sapeva.
Poteva mentirmi per telefono. Eppure mi sentii incoraggiato.
Ciò che stavo facendo era crogiolarmi, annegare, sguazzare nel
mio amore per Bella. Non pensavo sarebbe stato difficile continuare
a farlo.
16. IL NODO

Quella notte Bella dormì profondamente, senza interruzioni; fu


snervante.
Nel corso di quello che ormai mi sembrava un periodo
lunghissimo, dal primo istante in cui avevo percepito il suo odore,
non ero riuscito a evitare che il mio animo oscillasse furiosamente da
un estremo all’altro, in ogni momento della giornata. Quella notte fu
peggio del solito: il fardello del rischio incombente aveva spinto la
mia mente al limite della tensione, al di là di qualsiasi cosa avessi
sperimentato nell’arco di un secolo.
E intanto Bella dormiva, gli arti rilassati, la fronte distesa, gli
angoli della bocca all’insù e il respiro che entrava e usciva leggero,
regolare come un metronomo. In tutte le notti trascorse con lei, non
era mai stata così in pace. Che cosa voleva dire questo?
Potevo solo credere significasse che non si rendeva conto.
Nonostante tutti gli avvertimenti che le avevo fornito, lei non voleva
ancora accettare la verità. Si fidava troppo di me. Sbagliava.
Quando suo padre entrò nella stanza, Bella rimase immobile. Era
ancora presto; il sole non era sorto. Io restai al mio posto, sicuro
della mia invisibilità in quell’angolo nell’ombra. I pensieri che il padre
teneva celati erano venati dal rimpianto e dal senso di colpa. Nulla di
grave, a mio parere: semplicemente la consapevolezza che, ancora
una volta, la stava lasciando sola. Esitò un attimo, ma poi il rispetto
degli impegni presi – i programmi, i compagni, le gite promesse – lo
spinse a uscire. Non riuscii a supporre di meglio.
Charlie fece un gran baccano nel prendere tutti gli attrezzi da
pesca dall’armadio dei cappotti nel sottoscala. Bella però non ebbe
alcuna reazione a tutto quel trambusto. Le sue palpebre non si erano
mai mosse così rapidamente.
Per quanto fossi riluttante a dover abbandonare la serenità della
sua stanza, quando Charlie andò via toccò pure a me farlo.
Malgrado tutto, il sonno serafico di Bella era riuscito a placare il mio
animo. Presi un’ultima boccata di quel fuoco e poi lo trattenni in
petto, cullando in me quel dolore finché non fosse stato alimentato
nuovamente.
Il clamore riprese non appena lei si svegliò; la quiete che aveva
trovato nel sonno sembrava svanita con la luce del giorno. Il suono
dei suoi movimenti era dominato dalla fretta e un paio di volte scostò
le tende, credo per cercarmi. Questo mi rese impaziente di essere di
nuovo con lei, ma ci eravamo accordati per una certa ora e non
volevo interrompere in anticipo i suoi preparativi. I miei erano
conclusi, anche se sembravano incompleti. Come avrei mai potuto
essere pronto per un giorno come quello?
Desiderai di poterne gioire: un’intera giornata accanto a lei,
risposte a qualsiasi domanda le avrei posto, il suo calore che mi
avrebbe avvolto. Al tempo stesso, però, in quel momento desideravo
di poter voltare le spalle a casa sua e di correre via nella direzione
opposta; di poter essere abbastanza forte da raggiungere l’altro
capo del mondo e rimanervi, così da non metterla mai più in
pericolo. Ripensai però alla visione di Alice, in cui il viso di Bella era
cupo e adombrato, e compresi che non avrei mai avuto una forza
simile.
Quando emersi dalle ombre di un albero per attraversare il prato
davanti casa sua, ero di umore decisamente tetro. Cercai di
eliminare dal viso ogni traccia del mio stato d’animo, ma sembrava
avessi dimenticato il modo corretto in cui contrarre i muscoli.
Bussai con tocco leggero, poiché sapevo che lei era in ascolto e
infatti sentii i suoi passi incespicare sugli ultimi gradini verso
l’ingresso. Corse alla porta e per un lungo istante lottò con la
serratura, per poi infine spalancare la porta con una forza tale da
farla sbattere contro il muro.
Mi guardò negli occhi e improvvisamente si quietò, nel suo
sorriso tutta la pace della notte appena trascorsa.
Anche il mio umore divenne più leggero. Inspirai, sostituendo il
fuoco ormai spento con una nuova porzione di dolore, ma quella
pena era nettamente inferiore alla gioia di essere con lei.
Una curiosità inattesa attirò il mio sguardo sui suoi vestiti. Cosa
aveva poi scelto di indossare? Mi tornò subito in mente la pila di
indumenti: ora che ci pensavo, quella felpa era stata proprio il capo
più in vista di tutti, gettato sul suo vecchio computer, con accanto
una camicia bianca e un paio di jeans. Marrone chiaro, colletto
bianco, tela denim di un blu medio... Non ebbi bisogno di guardarmi
allo specchio per sapere che avevamo stile e tinte pressoché
identici.
Mi scappò una risata. Ecco un’altra cosa in comune.
«Buongiorno».
«Cosa c’è che non va?», rispose lei.
Erano mille le risposte a quella domanda e per un attimo fui colto
alla sprovvista, ma poi notai lo sguardo con cui stava esaminando se
stessa e compresi che era in cerca del motivo della mia risata.
«Stessa divisa», le chiarii.
Risi ancora mentre lei, afferrata la spiegazione, passò ad
analizzare i miei abiti e poi i suoi con aria sorpresa. Di colpo, però, il
suo stupore mutò in broncio. Perché? Non riuscivo a trovare nessun
motivo per cui quella coincidenza non dovesse essere quantomeno
un po’ divertente. C’era forse una ragione più profonda per cui aveva
scelto quei vestiti, un motivo che l’aveva fatta arrabbiare quando io
avevo riso? Come potevo chiederglielo senza che la mia domanda
suonasse strana? L’unica certezza che avevo era che la sua scelta
non era stata dettata da ragioni analoghe alle mie.
Internamente, ebbi un brivido al pensiero delle intenzioni che
avevano dettato il mio abbigliamento e di ciò che esso lasciasse
presagire. Ma non dovevo tirarmi indietro. Non avrei dovuto
desiderare di celarmi a lei. Aveva il diritto di sapere ogni cosa.
Mentre procedevamo insieme verso il suo pick-up, Bella ritrovò il
sorriso... di colpo compiaciuta. Io non mi sarei rimangiato la
promessa fatta, ma questa non mi allietava particolarmente. Sapevo
che era una cosa irrazionale. Tutti i giorni, lei se ne andava in giro a
bordo di quel ferrovecchio mostruoso e non le era mai accaduto
nulla di spiacevole. Di certo, però, i guai sembravano giusto
aspettare che io mi facessi vivo per assistervi con orrore. La mia
espressione dovette farle credere che fossi seccato per l’impegno
preso.
«Gli accordi sono accordi», precisò esultante, allungandosi sul
sedile per aprire la portiera del passeggero.
Mi augurai solo che le mie preoccupazioni fossero infondate.
Il motore, ormai decrepito, si avviò con una serie di scoppiettii. E
il metallo del telaio prese a vibrare con tale violenza, che ebbi timore
si staccasse qualche pezzo.
«Dove andiamo?», mi urlò quasi, per sovrastare quella cacofonia.
Afferrò il cambio per inserire la retromarcia e si voltò per guardare
indietro.
«Allaccia la cintura», le chiesi con fermezza. «Sono già nervoso».
Mi lanciò un’occhiata torva, ma in ogni caso agganciò la fibbia
della cintura ed emise un sospiro.
«Dove?», ripeté.
«Prendi la centouno, verso nord».
Mentre attraversava, lentamente, la città, non staccò mai gli occhi
dalla strada. Mi chiesi se raggiunta la statale avrebbe poi accelerato,
ma lei continuò a guidare tenendosi cinque chilometri sotto il limite
consentito. A oriente, il sole era ancora basso all’orizzonte e avvolto
da una sottile coltre di nuvole. Stando però alla visione di Alice, a
mezzogiorno sarebbe stato splendente. Iniziai a chiedermi se – a
quella velocità – saremmo arrivati al sicuro, nella radura, prima che i
raggi del sole potessero investirmi.
«Pensi di farcela, a uscire da Forks prima di sera?», chiesi io
sicuro di come avrebbe obiettato alla denigrazione del suo pick-up. E
infatti, lei reagì come previsto.
«Questo pick-up potrebbe essere il nonno della tua auto», scattò.
«Abbi un po’ di rispetto». A quel punto, però, tirò di più il motore.
Adesso, infatti, andavamo a tre chilometri in più rispetto al limite
massimo.
Usciti da Forks, mi sentii finalmente un po’ più sollevato. Poco
dopo, fuori dal finestrino cominciavamo a essere circondati sempre
più dalla foresta e sempre meno dalla civiltà. Il motore ronzava come
un martello pneumatico contro il granito. I suoi occhi non mollavano
neanche per un istante la strada. Mi sarebbe piaciuto dire qualcosa,
chiederle a cosa stesse pensando, ma non volevo distrarla. Nella
sua concentrazione vi era persino un che di feroce.
«Svolta a destra verso la centodieci», le indicai.
Annuì tra sé, dopodiché rallentò come una lumaca per fare la
svolta.
«Adesso prosegui finché non trovi lo sterrato».
«E quando arriva lo sterrato», domandò, «cosa c’è?».
Una foresta deserta. Senza alcun testimone. E un mostro. «Un
sentiero».
Nel rispondermi, la sua voce si fece più acuta e tesa, mentre gli
occhi continuavano a rimanere inchiodati alla strada. «Trekking?».
Il suo tono era preoccupato e questo mi mise in agitazione. Non
avevo considerato che... La distanza era davvero breve e il percorso
non era difficile, non così diverso da quello dietro casa sua.
«È un problema?». C’era un altro posto in cui portarla? Non
avevo preparato alcun piano di riserva.
«No», replicò lei prontamente, ma nella sua voce vi era ancora un
che di forzato.
«Non preoccuparti», la rassicurai. «Sono solo sette o otto
chilometri, e non abbiamo fretta». A dire il vero, non avrei desiderato
altro che un ritardo; e, di colpo, avvertii un senso di panico nel
rendermi conto di quanto quella distanza fosse effettivamente breve.
Le era rispuntata quella ruga. Dopo qualche secondo di silenzio,
iniziò a mordicchiarsi il labbro inferiore.
«A cosa pensi?».
Voleva invertire la marcia? Aveva cambiato idea riguardo a tutto
questo? Avrebbe voluto non aver mai aperto la porta di casa quella
mattina?
«A dove stiamo andando», fu la sua risposta. Il suo tono voleva
essere incurante, ma si tradì leggermente.
«In un posto in cui mi piace stare quando c’è bel tempo». Guardai
oltre il parabrezza e lei fece altrettanto. Adesso le nuvole si erano
ridotte a poco più che un velo sottile. Ben presto si sarebbero
dissolte.
Che cosa si aspettava di vedere quando il sole avrebbe toccato la
mia pelle? Che immagine si era creata nella sua mente per
giustificare a se stessa la gita di quel giorno?
«Charlie diceva che sarebbe stata una giornata calda».
Pensai a suo padre, immaginandolo in riva al fiume a godersi
quella piacevole giornata. Ignaro di trovarsi a un bivio, in prossimità
di un incubo potenzialmente capace di distruggere la vita e in attesa,
davvero a un passo, di inghiottire tutto il suo mondo.
«E tu gli hai raccontato quali erano i tuoi piani?». Lo chiesi senza
sperarci.
Sorrise continuando a guardare avanti. «No».
Desiderai che non sembrasse così felice nel dirlo. A ogni modo,
sapevo che c’era un testimone, una fonte che avrebbe parlato se
Bella non fosse rientrata a casa.
«Ma Jessica crede che stiamo andando a Seattle assieme?».
«No», dichiarò con aria soddisfatta. «Le ho detto che hai
annullato la gita... il che è vero».
Come? Questo non lo avevo sentito. Doveva essere successo
mentre ero a caccia con Alice. Bella aveva coperto le mie tracce
come se desiderasse che io la facessi franca con il suo assassinio.
«Nessuno sa che sei con me?».
Udito il mio tono trasalì leggermente, ma poi tirò su il mento e
fece un sorriso forzato. «Dipende... immagino che tu l’abbia detto ad
Alice».
Dovetti fare un respiro profondo, affinché la mia voce non si
alterasse. «Questo sì che mi è d’aiuto».
Il suo sorriso svanì, ma lei fece finta di non aver sentito.
«Forks ti deprime così tanto da farti contemplare il suicidio?».
«Sei stato tu a dire che per te poteva essere un problema», fu
pronta a ribattere, senza più traccia di umorismo. «Farci vedere
troppo assieme».
Ricordavo perfettamente la nostra conversazione e mi domandai
come avesse potuto interpretare fino a tal punto al contrario il senso
delle mie parole. Non le avevo detto quelle cose perché si rendesse
più vulnerabile a me.
Lo avevo fatto perché così sarebbe fuggita via.
«Così saresti preoccupata dei guai che potrei passare io», le
chiesi a denti stretti, cercando di pronunciare ogni parola
precisamente nell’ordine corretto, così che per lei fosse impossibile
non cogliere l’assurdità della sua congettura. «Se tu non torni a
casa?».
Annuì, senza distogliere lo sguardo dalla strada.
«Come fai a non vedere quanto io non vada bene per te?», sibilai
così arrabbiato da non riuscire a esprimere le parole abbastanza
lentamente perché lei potesse comprenderle. Dirle le cose non
funzionava mai. Occorreva mostrargliele.
Sembrava nervosa, ma in una forma inedita, e i suoi occhi si
spostarono un minimo per guardarmi, senza mai però staccarsi del
tutto dalla strada. Spaventata dalla mia rabbia, per quanto non nel
modo in cui avrebbe dovuto. Semplicemente preoccupata di avermi
scontentato. Non avevo certo bisogno di leggerle nel pensiero per
indovinare il suo solito schema.
Come le altre volte, non ero davvero arrabbiato con lei... solo con
me stesso. Sì, le risposte che mi dava erano sempre all’opposto di
come avrebbero dovuto essere. Ma questo perché, da una
prospettiva diversa, erano corrette. Lei era sempre troppo gentile. Mi
concedeva un credito che non meritavo, preoccupandosi dei miei
sentimenti, come se contassero. A cacciarla in questo pericolo era
stata proprio la sua bontà. La sua virtù, il mio vizio: i due opposti che
ci univano.
Eravamo giunti al termine della strada asfaltata. Bella parcheggiò
il pick-up sul margine argilloso e spense il motore. Quella quiete
improvvisa fu quasi scioccante dopo il lungo bombardamento
acustico. Lei si sganciò la cintura e sgusciò rapida fuori dal veicolo,
senza guardarmi. Mentre era girata di spalle, si sfilò via la felpa
tirandola su per la testa. Dopo alcuni secondi di lotta, se la legò
infine alla vita, annodando le maniche. Fui sorpreso nel constatare
come la sua camicia rispecchiasse la mia non soltanto per via del
colore; anche la sua, infatti, lasciava le braccia scoperte fino alle
spalle. Era più di quanto fossi abituato a vedere del suo corpo, ma al
di là dell’attrazione che una simile vista generò in me
immediatamente, quel che provai fu soprattutto preoccupazione.
Tutto ciò che poteva turbare la mia concentrazione costituiva un
pericolo.
Sospirai. Volevo lasciar perdere tutto. I motivi erano troppi,
ragioni di vita e di morte, ma in quel momento il mio terrore maggiore
era l’espressione sul suo viso, la repulsione nei suoi occhi quando
finalmente mi avrebbe visto.
Avrei affrontato la situazione a testa alta. Avrei finto di essere
coraggioso, di essere più grande di quella paura egoistica, anche se
non sarebbe stato altro che una messinscena.
Mi tolsi anch’io la felpa, sentendomi vistosamente appariscente.
Non avevo mai lasciato così tanto scoperta la mia pelle in presenza
di altri che non fossero i miei familiari.
Serrai le mandibole, scivolai fuori dal pick-up – senza portarmi
dietro la felpa, così da non avere tentazioni – e richiusi la portiera.
Guardai la foresta. Magari, se mi fossi tolto via dalla strada e fossi
andato tra gli alberi, non mi sarei sentito così esposto.
Sentivo i suoi occhi addosso, ma fui troppo codardo per voltarmi.
Le lanciai invece un’occhiata oltre la spalla.
«Da questa parte». Le parole mi uscirono troncate, troppo veloci.
Dovetti controllare l’ansia. Con calma, iniziai ad andare avanti.
«E il sentiero?», la sua voce era un’ottava più alta del consueto.
Sbirciai nuovamente: pareva nervosa mentre, per raggiungermi,
girava attorno al cofano del pick-up. Non potevo essere certo di
quale fosse il motivo, visto che erano così tante le cose che
avrebbero potuto intimorirla.
Cercai di apparire normale. Leggero, divertente. Forse così, se
non la mia, sarei riuscito quantomeno a smorzare la sua di
inquietudine. «Ho detto che alla fine della strada avremmo incontrato
un sentiero, non che lo avremmo percorso».
«Niente sentiero?». Pronunciò la parola sentiero come se si fosse
trattato dell’ultimo giubbotto di salvataggio su una nave che
affondava.
Raddrizzai le spalle, mi stampai sulle labbra un sorriso finto e mi
voltai verso di lei.
«Non ci perderemo, fidati», la rassicurai.
Fu peggio di quanto avessi immaginato. La sua bocca era
spalancata, come quella di un personaggio di una sit-com nel
momento in cui parte una di quelle risate registrate. Per un attimo
era rimasta senza parole, con gli occhi che le correvano da una
parte all’altra sulla mia pelle scoperta.
E questo non era niente. Non era che della pelle chiara. Be’,
estremamente chiara, e che curvava in maniera leggermente
inumana sulle spigolosità della mia muscolatura inumana. Ma se già
questa era la sua reazione alla vista della mia pelle all’ombra...
Sembrava delusa. Era come se il mio precedente sconforto si
fosse trasferito su di lei, riversandosi con tutto il peso dei miei cento
anni. Forse era già abbastanza. Magari aveva visto a sufficienza.
«Vuoi tornare a casa?».
Se avesse voluto lasciarmi, se ora avesse voluto andare via, io
non l’avrei trattenuta. L’avrei vista scomparire, e lo avrei sopportato.
Non sapevo bene come avrei fatto, ma avrei trovato un modo per
riuscirci.
I suoi occhi ebbero un lampo, come per una reazione
insondabile, e fu talmente lesta a esclamare quel: «No», che fu
quasi come se mi stesse rispondendo piccata. Si affrettò a venirmi
accanto, avvicinandosi così tanto che sarebbe bastato mi inclinassi
di appena qualche centimetro perché il mio braccio sfiorasse il suo.
Che significava questo?
«Cosa c’è che non va?», le chiesi. Nei suoi occhi c’era ancora
della sofferenza, sofferenza che non aveva senso se confrontata con
le sue azioni. Voleva andarsene via da me, sì o no?
Con voce bassa e quasi priva di inflessioni mi rispose: «Il trekking
non è il mio forte, purtroppo. Ti toccherà essere paziente».
Non riuscii a crederle fino in fondo, ma la sua era comunque una
cortese bugia. Indubbiamente, era preoccupata per il fatto che
stessimo per incamminarci su un sentiero non battuto, ma era
difficile credere che ciò fosse sufficiente a suscitarle quel dolore
stampato sul suo viso. Mi avvicinai a lei e le sorrisi il più dolcemente
possibile, cercando di ottenere in cambio un sorriso da parte sua.
Non sopportavo quell’ombra di afflizione agli angoli della sua bocca,
attorno ai suoi occhi.
«So essere molto paziente», la rassicurai in tono più leggero. «Se
mi sforzo».
Alle mie parole lei abbozzò un mezzo sorriso, per quanto un lato
della sua bocca non volle proprio sollevarsi.
«Ti porterò a casa», le promisi. Forse si sentiva in obbligo di
dover affrontare quella prova del fuoco, di essere in qualche modo in
debito con me. Ma non mi doveva proprio niente. Era libera di
andarsene in qualunque momento avesse voluto.
La sua risposta mi spiazzò. Anziché accettare con sollievo la
scappatoia che le stavo offrendo, mi lanciò un’occhiata decisamente
severa. E quando parlò, il tono della sua voce risultò caustico.
«Se vuoi che io riesca a percorrere otto chilometri nella giungla
prima che il sole tramonti, è il caso che tu faccia strada da subito».
Io la fissai, esterrefatto, in attesa di qualche elemento in più –
qualcosa che mi chiarisse in che modo l’avessi offesa –, ma lei tirò
semplicemente su il mento e socchiuse gli occhi, come se si
trattasse di una sfida.
Non sapendo che altro fare, allungai verso l’esterno un braccio
per invitarla a procedere, mentre con l’altra mano tiravo più in alto un
ramo troppo sporgente. Lei ci passò sotto con andatura pesante,
quindi si fece strada calpestando un ramo più piccolo.

Nella foresta fu tutto più semplice. O magari ero stato io ad aver


bisogno di un momento per elaborare la sua reazione iniziale. Feci
da guida, scostando il fogliame per liberarle il cammino. Lei teneva
gli occhi perlopiù abbassati, non tanto come se evitasse di guardare
me, quanto piuttosto come se non si fidasse del terreno. Notai lo
sguardo di traverso con cui, nello scavalcarle, squadrò alcune radici
per poi comprendere di cosa si trattasse; indubbiamente, qualunque
soggetto maldestro sarebbe stato nervoso di fronte a un terreno
accidentato. Tutto questo però continuava a non giustificare il suo
avvilimento di prima o la rabbia che ne era seguita.
Nella foresta molte cose si rivelarono più facili del previsto.
Eccoci lì, completamente soli, senza testimoni e, nonostante ciò,
senza la sensazione che vi fosse pericolo. Anche le poche volte in
cui ci imbattemmo in un ostacolo – un tronco caduto lungo il
percorso, uno spuntone di roccia troppo alto per potervi passare
sopra – e io corsi istintivamente in suo aiuto, toccarla non fu più
difficile di quanto non lo fosse stato a scuola. Ma non difficile non era
l’espressione corretta. Fu emozionante, piacevole, proprio come lo
era già stato prima. Quando la sollevai delicatamente, sentii il suo
cuore pulsare a un ritmo raddoppiato. Immaginai che anche il mio
avrebbe prodotto lo stesso suono, se solo avesse potuto battere
ancora.
Probabilmente, tutto questo sembrò essere sicuro, o quantomeno
abbastanza sicuro, perché sapevo che non era quello il luogo in cui
sarebbe potuto accadere. Alice non mi aveva mai visto uccidere
Bella in mezzo a una foresta. Se solo non fossi stato costretto a
dover tenere a mente la visione di Alice... Certo, non conoscere quel
possibile futuro, non essermici preparato, avrebbe potuto costituire
proprio l’inconsapevolezza che avrebbe condotto alla morte di Bella.
Era tutto così tortuoso e impossibile.
Non fu la prima volta in vita mia in cui desiderai che il mio cervello
potesse rallentare un minimo il passo. Poterlo costringere a lavorare
alla velocità degli umani, anche solo per un giorno, per un’ora, così
da non avere il tempo di ossessionarmi più e più volte per i
medesimi problemi privi di soluzione.
«Qual è stato il compleanno che hai amato di più?», le domandai.
Avevo disperatamente bisogno di qualcosa con cui distrarmi.
La sua bocca si contorse in una smorfia a metà tra un sorriso
ironico e un’espressione di disappunto.
«Ma come?», ribattei. «Oggi non toccava a me fare le
domande?».
Scoppiò a ridere e la sua mano fece un gesto come per scacciare
via quel pensiero. «Va bene. Solo che non so cosa rispondere. Non
sono una grande amante dei compleanni».
«Questo sì che è... curioso». Tra quelli che avevo conosciuto,
non mi venne in mente nessun altro adolescente che la pensasse
come lei.
«Mettono così tanta pressione», disse alzando le spalle. «I regali
e tutto il resto. E se non ti piacciono? Ti tocca mettere su una bella
faccia di circostanza per non ferire i sentimenti di nessuno. E le
persone ti guardano un sacco».
«Tua madre non è molto brava ad azzeccare i regali?», provai a
indovinare.
Il sorriso che mi offrì come risposta fu criptico. Si capiva che non
voleva dire nulla di negativo sulla madre, ma era ovvio che aveva
lasciato un segno.
Per un paio di chilometri camminammo in silenzio. Speravo che
di sua iniziativa mi dicesse qualcosa in più o che mi facesse una
domanda grazie alla quale avrei capito a che cosa stesse pensando,
e invece continuò a tenere lo sguardo fisso sul terreno,
concentrandosi su quello.
Feci quindi un altro tentativo.
«Chi era il tuo maestro preferito alle elementari?».
«La maestra Hepmanik», dichiarò senza esitazioni. «Seconda
elementare. Mi lasciava leggere in classe praticamente tutte le volte
che lo volevo».
Le feci un sorriso. «È stata un modello».
«Chi era il tuo maestro preferito alle elementari?».
«Non me lo ricordo», le rammentai.
Lei si accigliò. «Giusto. Scusami, non ci ho pensato...».
«Non ti devi scusare».
Mi ci volle un altro mezzo chilometro per trovare una domanda
che non mi potesse rigirare così facilmente.
«Cani o gatti?».
Piegò la testa da un lato. «Non ne sono proprio sicura... Forse i
gatti? Coccoloni ma indipendenti, non ti pare?».
«Hai mai avuto un cane?».
«No, non ho mai avuto nessuno dei due. Mia madre dice di
essere allergica».
La sua risposta fu stranamente scettica.
«Non le credi?».
Non volendo essere sleale, fece di nuovo una pausa. «Be’»,
riprese a dire lentamente, «un sacco di volte l’ho vista accarezzare i
cani degli altri».
«Chissà perché...», riflettei.
Bella scoppiò a ridere. La sua risata risuonò spensierata e
totalmente priva di ogni amarezza.
«Mi ci è voluta un’eternità per convincerla a lasciarmi prendere un
pesce. Alla fine, avevo capito che la sua paura era quella di
rimanere bloccata a casa. Ti ho raccontato che le piaceva partire il
fine settimana, quando potevamo... andare a visitare qualche
cittadina o monumento storico che non aveva mai visto. Le ho
mostrato quelle tavolette di mangime a rilascio graduale che
possono sfamare i pesci per oltre una settimana, e alla fine ha
ceduto. Renée non sopporta le zavorre. Insomma, già c’ero io, ti
pare? Una zavorra enorme, di quelle che ti cambiano la vita, era più
che sufficiente. Di sicuro non se ne sarebbe presa volontariamente
un’altra».
Mantenni un’espressione neutra. Questa sua perspicacia – che
non dubitavo fosse il motivo per cui era sempre riuscita a guardarmi
dentro con così tanta facilità – mi indusse a riflettere in maniera più
cupa sul suo passato. Più che dall’inettitudine della madre, il bisogno
di Bella di dover essere quella che si prendeva cura degli altri era
forse dettato dalla necessità di ritagliarsi un proprio ruolo? Provai
rabbia al pensiero che lei si potesse sentire indesiderata, o che
avesse bisogno di dimostrare il proprio valore. Ebbi il desiderio
assurdo di mettermi a suo completo servizio, in qualsiasi modo fosse
accettabile agli occhi della società, per dimostrare a Bella che già
solo il fatto che lei esistesse costituiva una ragione più che
sufficiente.
Lei non si accorse di come cercassi di mantenere il controllo sulle
mie reazioni.
Rise ancora e poi continuò. «Probabilmente, è stato un bene che
non abbiamo mai fatto prove con un animale più grande di un pesce
rosso. Non sono mai stata un granché come padrona di animali
domestici. Credo di aver dato troppo cibo al primo, perciò con il
secondo mi sono contenuta, ma è stato uno sbaglio. E il terzo», mi
lanciò un’occhiata perplessa, «sinceramente, non so quale fosse il
suo problema. Continuava a saltare fuori dalla boccia. Alla fine, non
ho fatto in tempo a ritrovarlo». Increspò la fronte. «Tre di fila...
Suppongo che questo faccia di me una serial killer».
Non ce la feci a non scoppiare a ridere, ma lei non sembrò
offendersi. Ridemmo insieme.
Mentre la nostra ilarità scemava, la luce mutò. Alice aveva
promesso che il sole avrebbe brillato sopra lo spesso baldacchino
della foresta e, di colpo, fui nuovamente investito dall’agitazione e
dall’ansia.
Sapevo che un’emozione del genere – il modo migliore che mi
venne in mente per descriverla fu panico da palcoscenico – era
davvero ridicola. Che sarebbe successo, dunque, se Bella mi avesse
trovato ripugnante? Se mi avesse respinto in preda al disgusto?
Questo sarebbe potuto andare bene, anzi anche meglio che bene.
Sarebbe stata davvero la minore, la più insignificante delle disgrazie
che potevano capitarmi quel giorno. La vanità, la fragilità dell’ego,
erano pulsioni davvero così forti? Non avevo mai ritenuto che queste
potessero avere presa su di me, e non lo credevo neppure in quel
momento. Ossessionarmi per questa rivelazione mi impedì di farlo
per altre cose. Ad esempio, il rifiuto che sarebbe seguito al disgusto.
Il fatto che Bella se ne sarebbe andata via da me, e la
consapevolezza di doverla lasciare andare. Sarebbe stata a tal
punto spaventata da me da rifiutare che la riaccompagnassi al pick-
up? Di certo, avrei dovuto almeno ricondurla sana e salva fino alla
strada. Da lì, poi, sarebbe potuta andare via da sola.
Anche se tutto il mio essere sentiva che sarebbe potuto crollare
dinanzi al dolore di un simile scenario, c’era qualcosa di molto
peggio... la prova imminente che Alice aveva presagito. Se non
l’avessi superata... Non riuscivo neppure a immaginarlo. Come avrei
potuto sopravvivere? Come avrei fatto a trovare un modo per
smettere di vivere?
Ormai eravamo quasi arrivati.
Quando attraversammo un tratto meno fitto di foresta, Bella si
accorse del cambio di luce. Per stuzzicarmi corrugò la fronte. «Non
siamo ancora arrivati?».
Anch’io mi finsi altrettanto spensierato. «Quasi. Vedi che laggiù
c’è più luce?».
Socchiuse gli occhi osservando la foresta dinanzi a noi, un solco
le si formò tra gli occhi per via della concentrazione. «Ehm, dovrei?».
«In effetti, forse è un po’ presto, per i tuoi occhi», le concessi.
Fece un’alzata di spalle. «Mi ci vuole una visita dall’oculista».
Man mano che avanzavamo, il silenzio si faceva più pesante.
Capii quando Bella riuscì a scorgere il chiarore del prato. Sorrise
quasi inconsciamente e allungò il passo. Non prestava più
attenzione a dove metteva i piedi; i suoi occhi erano fissi sul punto
da cui filtrava il bagliore del sole. Il suo entusiasmo rese ancora più
forte la mia riluttanza. Un po’ più di tempo. Giusto un’ora o due...
Non potevamo fermarci lì? Mi avrebbe perdonato se mi fossi tirato
indietro?
Ma sapevo che non c’era motivo di rinviare. Alice aveva visto
che, presto o tardi, saremmo arrivati a quel punto. Evitarlo non
avrebbe comunque reso le cose più semplici.
Adesso era Bella a fare strada, scostando senza esitazione i
margini delle felci per procedere verso il prato.
Quanto avrei voluto essere in grado di vedere il suo viso.
Riuscivo a immaginare come quel posto potesse essere adorabile in
una giornata del genere. E riuscivo anche a sentire il profumo dei
fiori di campo, più dolce al calore del sole, e a udire il cupo gorgoglio
del ruscello che scorreva all’estremo opposto. Il ronzio degli insetti e,
in lontananza, il cinguettio e il canto degli uccelli. In quel momento
non vi erano uccelli nelle vicinanze: la mia presenza era sufficiente a
far allontanare, per la paura, tutte le forme di vita più grandi.
Lei avanzò quasi con riverenza in quella luce aurea. Questa le
indorò i capelli e fece risplendere il chiarore della sua pelle. Le sue
dita sfiorarono i fiori più alti e il mio pensiero andò nuovamente a
Persefone. La personificazione della primavera.
Sarei potuto restare a guardarla per molto tempo, forse per
sempre, tuttavia era troppo sperare che la bellezza di quel luogo
potesse farle dimenticare a lungo il mostro che si celava nell’ombra.
Si voltò, gli occhi pieni di stupore, sulle labbra un sorriso
meravigliato, e mi guardò. Con grande aspettativa. Io non mi mossi,
al che lei iniziò ad avanzare lentamente verso di me. Alzò un
braccio, tendendomi una mano in segno di incoraggiamento.
In quel momento, il desiderio di essere umano fu in me talmente
forte che quasi mi paralizzò.
Ma non ero umano, ed era tempo di adottare una ferrea
disciplina. Sollevai il palmo della mano, in segno di avvertimento. Lei
comprese, ma non ebbe timore. Abbassò il braccio e rimase ferma lì
dov’era. In attesa. Curiosa.
Inspirai profondamente l’aria della foresta, registrando
intenzionalmente il suo odore rovente per la prima volta dopo ore.
Per quanto mi fidassi della visione di Alice, non ero sicuro di
come questa storia avrebbe potuto avere un seguito. Sarebbe
dovuta finire in quel momento, non è vero? Bella mi avrebbe visto e
sarebbe stata colta da tutto ciò che avrebbe dovuto provare sin
dall’inizio: terrore, disgusto, orrore, nausea... e con me avrebbe
chiuso.
Sentivo che quella sarebbe stata l’impresa più ardua che avrei
mai dovuto compiere, ma mi sforzai di sollevare il piede e di
spostare il peso in avanti.
Avrei affrontato tutto questo a testa alta.
Malgrado ciò... non sarei riuscito a sopportare la reazione iniziale
sul suo viso. Lei sarebbe stata gentile, ma non avrebbe potuto
dissimulare il turbamento e la repulsione provati nel primissimo
istante. Per questo motivo, le avrei concesso un attimo per potersi
ricomporre.
Chiusi dunque gli occhi e feci un passo avanti alla luce del sole.
17. CONFESSIONI

Sentivo il sole caldo sulla mia pelle ed ero contento di non poter
vedere quello che succedeva. Non volevo vedermi in quel momento.
Per il mezzo secondo più lungo che avessi mai vissuto, tutto taceva.
Ma poi Bella urlò.
«Edward!».
Spalancai gli occhi aspettandomi di vederla scappare da tutto ciò
che avevo appena rivelato di essere.
Ma lei correva verso di me, con la bocca aperta per l’angoscia. Le
sue mani erano appena protese, e inciampava e incespicava
attraverso l’erba alta. Non sembrava spaventata, ma disperata. Non
capivo che cosa stesse facendo.
Dovevo evitare che mi si schiantasse addosso, qualunque cosa
intendesse fare. Doveva starmi lontana. Sollevai di nuovo la mano,
con il palmo rivolto verso di lei.
Ebbe un’esitazione, e per un momento barcollò, palesemente
agitata.
Guardandola dritta negli occhi mi ci vidi riflesso e pensai forse di
aver capito: nello specchio dei suoi occhi io somigliavo a un uomo in
fiamme. Per quanto avessi sfatato i suoi miti, vi si doveva essere
aggrappata inconsciamente.
Perché era preoccupata. Temeva per il mostro più che il mostro.
Fece un passo verso di me e poi si arrestò non appena io feci a
mia volta un mezzo passo indietro.
«Senti dolore?», sussurrò.
Sì, era come dicevo io. Non era preoccupata per se stessa,
nemmeno adesso.
«No», risposi anch’io con un filo di voce.
Fece ancora un passo, avvicinandosi, ma con cautela adesso.
Abbassai la mano.
Voleva starmi ancora più vicina.
La sua espressione cambiò mentre si avvicinava. Piegò la testa
da un lato, strinse gli occhi, che poi ridivennero enormi. Nonostante
lo spazio che ci separava, potevo vedere gli effetti della luce che la
mia pelle rifrangeva come un prisma sulla sua. Fece un altro passo e
poi un altro ancora, tenendosi sempre alla stessa distanza mentre
lentamente cominciava a girarmi intorno. Restai completamente
immobile, avvertendo i suoi occhi sulla mia pelle anche quando era
fuori dal mio campo visivo. Il suo respiro accelerò più del solito, e il
suo cuore prese a battere forte.
Riapparve alla mia destra, e ora un accenno di sorriso
cominciava a formarsi agli angoli delle sue labbra mentre
completava il giro, per poi trovarsi nuovamente di fronte a me.
Come faceva a sorridere?
Si avvicinò, arrestandosi solo quando fu a pochi centimetri da me.
Sollevò la mano, poi se la riportò al petto, come se volesse
raggiungermi e toccarmi ma temesse di farlo. La luce si frantumò dal
mio braccio e prese a turbinare sulla sua faccia.
«Edward», disse in un respiro. Nella sua voce c’era meraviglia.
«Ti sto spaventando?», chiesi con calma.
Fu come se la mia domanda giungesse del tutto inattesa, come
se l’avesse sconvolta.
«No».
La fissai negli occhi, e non potevo impedirmi di cercare invano –
ancora – di ascoltarla.
Allungò la mano verso di me, molto lentamente, guardandomi la
faccia. Pensai che forse stesse aspettando che io le dicessi di
fermarsi. Non lo feci. Le sue calde dita sfiorarono il mio polso. Fissò
intensamente la luce che dalla mia pelle si muoveva verso di lei
come se danzasse.
«A cosa pensi?», sospirai. In quel momento, quel tenace mistero
fu ancora una volta qualcosa di profondamente doloroso.
Scrollò leggermente la testa. Sembrava lottare per trovare le
parole. «Sono...». Sollevò gli occhi, fissandomi. «Non so...». Prese
un lungo respiro. «Non ho mai visto nulla di più bello... non ho mai
immaginato che qualcosa di così bello potesse esistere».
La guardai anche io dritto negli occhi.
La mia pelle sfavillava mostrando platealmente i sintomi della
malattia. Nel sole ero meno umano di quanto non lo fossi mai stato.
E lei invece pensava che io fossi... bello.
La mia mano si sollevò automaticamente, girandosi per prendere
la sua, ma mi costrinsi a metterla giù di nuovo, perché non volevo
toccarla.
«È molto strano, però», dissi. Lei non poteva certo capire che
questo faceva parte dell’orrore.
«Fantastico», corresse.
«Non sei disgustata dalla mia evidente mancanza di umanità?».
Per quanto fossi abbastanza sicuro della sua risposta, non
riuscivo ancora a crederci.
Abbozzò un sorriso. «Nessun disgusto».
«Dovresti».
Il sorriso le corse da guancia a guancia. «Ho la sensazione che
l’umanità sia piuttosto sopravvalutata».
Con cautela estrassi il braccio dalle sue calde dita,
nascondendolo dietro la schiena. Lei considerava l’umanità con
troppa leggerezza. Non aveva capito che la sua perdita avrebbe
significato qualcosa di grave.
Fece un altro passetto verso di me e il suo corpo fu così vicino
che il calore che emanava divenne forte, più di quanto non lo fosse il
sole. Sollevò il viso all’altezza del mio e la luce indorò la sua gola in
un gioco di ombre che evidenziò il flusso di sangue lungo le arterie,
proprio dietro l’angolo della mascella.
Il mio corpo reagì istintivamente: secrezione di veleno,
contrazione dei muscoli, stato confusionale.
Quanto rapidamente affiorò! Per diversi secondi sprofondammo
in un subbuglio di visioni. Trattenni il respiro e feci un grande passo
indietro, sollevando di nuovo la mano per avvertirla del pericolo.
Non provò a seguirmi. «Mi... dispiace», sussurrò. Il suono delle
sue parole si fece cantilenante, trasformandole in una domanda.
Non sapeva di cosa si stesse scusando.
Rilassai lentamente i polmoni, controllando il respiro. Il suo odore
non era più doloroso del solito: non era così opprimente come avevo
quasi temuto di scoprire all’improvviso.
«Ho bisogno di tempo», dissi.
«D’accordo». Ancora un sussurro.
Le girai intorno, lentamente e con cautela, per poi spostarmi
verso il centro del prato. Mi sedetti in una zona di erba bassa e mi
immobilizzai, come avevo fatto in precedenza. Espirai e inspirai
lentamente mentre ascoltavo i suoi passi esitanti attraversare la
stessa distanza, assaporando il suo profumo quando venne a
sedersi accanto a me.
«Tutto a posto?».
Annuii. «Solo... lasciami concentrare».
Per la confusione e la preoccupazione i suoi occhi erano diventati
enormi. Non volevo dare spiegazioni. Chiusi gli occhi.
Non per vigliaccheria, mi dissi. O almeno, non solo per
vigliaccheria. Dovevo concentrarmi.
Mi concentrai sul suo odore, sul suono del sangue che sgorgava
nelle camere del suo cuore. Potevo muovere solo i polmoni. Ogni
altra parte di me era costretta in una rigida immobilità.
Il cuore di Bella, ricordai a me stesso mentre il mio sistema
involontario reagiva agli stimoli. La vita di Bella.
Ero sempre stato così attento a non pensare al suo sangue:
l’odore non lo potevo evitare, ma il fluire, il movimento, il pulsare, il
suo liquido caldo erano cose su cui dovevo evitare di soffermarmi.
Ma in quel momento lasciai che riempisse la mia mente, che
invadesse il mio sistema e attaccasse i miei dispositivi di controllo. Il
suo zampillare e fiottare, il suo palpitare e schizzare. Il suo avanzare
attraverso le arterie maggiori, il fluttuare attraverso le vene più
piccole. Il suo calore, un calore che sferzava a ondate la mia pelle
esposta nonostante la distanza che ci separava. Il suo sapore che
bruciava sulla lingua e nella gola.
Mi tenni prigioniero, e guardato a vista. Una piccola parte del mio
cervello era in grado di restare distaccata, di analizzare l’attacco
violento che stavo subendo. Con quel piccolo brandello di razionalità
esaminai minuziosamente ogni mia reazione. Calcolai la quantità di
forza necessaria per contenere ogni risposta e misurai la forza
corrispondente in mio possesso. Fu un calcolo approssimativo, ma
credo che la mia forza di volontà fosse più forte della mia natura
bestiale. Almeno un po’.
Era questo il nodo di Alice? Non sembrava... completo.
Nel frattempo, Bella rimase seduta quasi immobile come me,
immersa nei suoi pensieri. Poteva immaginare il tumulto che mi si
agitava dentro? Come si spiegava questa strana, silenziosa stasi?
Tuttavia, qualunque cosa pensasse, il suo corpo era calmo.
Sembrava che il tempo scorresse più lentamente, al pari del suo
battito. Il cinguettio degli uccelli sugli alberi lontani si era chetato. La
cascata di un ruscelletto si fece in qualche modo più debole. Il mio
corpo si rilassò e alla fine anche la mia bocca smise di salivare.
Duemilatrecentosessantaquattro battiti del suo cuore dopo,
avvertii una maggiore capacità di controllo, più di quanto non ne
avessi avuta da giorni. La chiave era affrontare le cose, come aveva
predetto Alice. Ero pronto? Come potevo esserne sicuro? Come ne
sarei stato sicuro per sempre?
E poi, come potevo rompere questo lungo silenzio che avevo
imposto? Cominciai a sentirmi a disagio, e così doveva essere per
lei da un po’. Mi liberai dalla mia posizione e mi distesi sull’erba,
tenendo una mano dietro la nuca. Simulare il segnale fisico
dell’emozione era una vecchia abitudine. Magari se mi fossi
mostrato rilassato lei ci avrebbe creduto. Si limitò a sospirare piano.
Aspettai per vedere se avrebbe parlato, ma rimase in silenzio
come prima, pensando a chissà cosa, sola in quel posto sperduto,
con un mostro che rifletteva il sole come milioni di prismi. Potevo
sentire i suoi occhi sulla mia pelle, ma non pensavo più che ne
sarebbe stata disgustata. Il peso immaginario del suo sguardo – ora
che sapevo che mi stava ammirando, che mi trovava bello a dispetto
di tutto – riportò quella scarica elettrica che avevo sentito insieme a
lei nel buio, una parvenza della vita che scorreva nelle mie vene.
Mi lasciai andare ai ritmi del suo corpo, lasciai che il suono e il
calore e l’odore si diffondessero, e scoprii che potevo ancora
padroneggiare i miei disumani desideri, anche mentre la corrente
fantasma continuava a fluire sottopelle.
Il che aveva catturato gran parte della mia attenzione. E
inevitabilmente quel momento di tranquilla attesa sarebbe finito. Lei
avrebbe avuto così tante domande da farmi, molto più dirette ora,
immaginavo. Le dovevo mille diverse spiegazioni. Avrei potuto
gestire tutto contemporaneamente?
Decisi di destreggiarmi con qualche altro compito mentre provavo
ancora a sintonizzarmi con il flusso e riflusso del suo sangue.
Innanzitutto, raccolsi informazioni. Triangolai l’esatta posizione
degli uccelli di cui avvertivo la presenza, e poi attraverso i loro versi
identificai ciascuno per genere e specie. Analizzai lo spruzzo
irregolare che denotava la presenza di vita nel ruscello, e poi,
equiparando l’acqua spostata con le dimensioni del pesce, ne
dedussi la varietà più probabile. Catalogai gli insetti che erano
intorno a me – al contrario delle specie più evolute, gli insetti
ignoravano quelli come me come avrebbero fatto con una pietra – a
partire dalla velocità del battito delle loro ali, dal livello di elevazione
del volo o dal piccolo clicchettio delle loro zampe contro il suolo.
Alla classificazione aggiunsi il calcolo. Se in quel momento
nell’area del prato, che misurava circa 1.025 metri quadri, ci fossero
stati 4.913 insetti, quanti insetti mediamente avrebbero potuto
trovarsi nei 3.625 chilometri quadrati del Parco Nazionale di
Olympic? E se la popolazione di insetti fosse diminuita dell’uno per
cento ogni tre metri di elevazione? Rappresentai nella mia mente
una mappa topografica del parco, e cominciai a calcolare.
Allo stesso tempo, vagliai le canzoni che avevo ascoltato più
raramente nella mia centenaria esistenza: niente di comune che
avessi sentito suonare più di una volta. Melodie che avevo udito
passando davanti l’ingresso di un bar, tipiche ninne nanne bisbigliate
ai bambini nelle loro culle mentre correvo di notte, tentativi scartati
da studenti di musica che scrivevano i loro progetti nella classe
adiacente alla mia. Passai rapidamente in rassegna i versi, rilevando
tutti i motivi per cui erano destinati al fallimento.
Il suo sangue pulsava ancora, la sua temperatura riscaldava
ancora e io ancora bruciavo. Ma riuscii a mantenere la presa su me
stesso. Non si era allentata. Ora avevo il controllo. Ne avevo quanto
bastava.
«Hai detto qualcosa?», sospirò.
«Stavo solo... cantando tra me», dissi. Non sapevo come
spiegare più chiaramente ciò che stavo facendo, ma lei non fece
altre domande.
Capii che quel silenzio stava per finire, e la cosa non mi
spaventò. Mi sentivo sempre più a mio agio in quella situazione, mi
sentivo più forte e controllato. Forse alla fine avevo superato il nodo.
Forse eravamo al sicuro sull’altra sponda e le visioni più ottimistiche
di Alice si stavano avverando.
Quando il ritmo del respiro di Bella cambiò, segnalando un nuovo
corso nei suoi pensieri, fui incuriosito più che spaventato. Mi
aspettavo una domanda, ma invece sentii l’erba muoversi intorno a
lei mentre si chinava su di me e il suono del suo polso si faceva più
vicino.
La morbida e calda punta del suo dito scivolò lentamente sul
dorso della mia mano. Fu un tocco molto delicato, ma la reazione
della mia pelle fu elettrica. Un diverso tipo di bruciore rispetto a
quello che avevo in gola, e con un maggiore potere di farmi perdere
la concentrazione. Tutti i miei calcoli e ricordi sonori si fecero
balbettanti, finché non si arrestarono del tutto, e lei ebbe la mia
totale attenzione, anche se il suo cuore denso di sangue stava
palpitando a pochi centimetri dal mio orecchio.
Aprii gli occhi, desideroso di vedere la sua espressione e
indovinare i suoi pensieri. Non rimasi deluso. I suoi occhi
splendevano di nuovo di meraviglia, gli angoli delle sue labbra erano
rivolti all’insù. Intercettò il mio sguardo e il suo sorriso si fece più
pronunciato. La imitai.
«Non ti faccio paura?». Non l’avevo spaventata. Voleva restare lì,
con me.
Rispose in tono scherzoso. «Non più del solito».
Si avvicinò e appoggiò la mano sul mio avambraccio,
accarezzandomi lentamente in direzione del polso. La sua pelle
contro la mia era calda, e sebbene un fremito attraversasse le sue
dita, non c’era paura in quel tocco. Le mie palpebre si chiusero di
nuovo mentre cercavo di contenere la mia reazione.
La corrente elettrica sembrava un terremoto che mi scuoteva dal
midollo.
«Ti dà fastidio?», chiese, e la sua mano si bloccò.
«No», risposi subito. E poi, poiché volevo che sapesse almeno
qualcosa di quello che stavo vivendo, aggiunsi: «Non hai idea di
come mi senta». Non avrei potuto immaginarlo prima. Era al di là di
ogni forma di piacere che avessi mai provato.
Le sue dita risalirono verso l’interno del mio gomito, seguendo
delle trame immaginarie. Cambiò posizione e con l’altra mano prese
la mia. Sentii che tirava leggermente e compresi che voleva che
girassi il palmo verso l’alto. Come obbedii, però, entrambe le sue
mani si bloccarono ed ebbe un lievissimo sussulto.
Sollevai gli occhi, realizzando immediatamente l’errore che avevo
commesso: mi ero mosso come un vampiro più che come un essere
umano.
«Scusa», mormorai. Ma, quando i suoi occhi incontrarono i miei,
capii di non averle fatto alcun male. Il sorriso, dopo la sorpresa
iniziale, non aveva mai abbandonato il suo viso. «È troppo facile
essere me stesso, assieme a te», dissi, e poi lasciai che le mie
palpebre si chiudessero nuovamente, così avrei potuto concentrarmi
sulla sensazione della sua pelle contro la mia.
Avvertii la pressione mentre cercava di sollevare la mia mano.
Mossi la mano assecondando i suoi movimenti, sapendo che per lei
ci sarebbe voluta un po’ di forza per sollevarla senza aiuto. Era un
po’ più pesante di quanto credessi.
Tenne la mia mano sul viso. Il suo alito caldo bruciava a contatto
con il palmo. La aiutai a inclinarlo in quel modo, assecondando la
pressione suggerita dalle sue dita. Aprii gli occhi e scoprii che mi
stava guardando intensamente, scintille di arcobaleno danzavano
sul suo viso nell’andirivieni della luce attraverso la mia pelle. Le
spuntò di nuovo quella ruga tra gli occhi. Quale interrogativo la
turbava adesso?
«Dimmi cosa pensi». Pronunciai le parole con gentilezza, ma
forse lei riusciva a sentire che la stavo implorando? «Mi sembra
ancora così strano, non riuscire a capirlo».
La sua bocca si increspò appena e il suo sopracciglio sinistro si
sollevò di pochissimo.
«Noi comuni mortali ci sentiamo sempre così, sai?».
Noi comuni mortali. La grande famiglia dell’umanità che non
includeva me. La sua gente, la sua specie.
«Che vita dura». Queste parole non mi uscirono nel modo
scherzoso che avevo immaginato. «Non hai risposto».
Parlò lentamente. «Mi chiedevo cosa stessi pensando tu...».
C’era di più, ovviamente. «E?».
Abbassò la voce; un essere umano avrebbe avuto difficoltà a
sentirla. «E desideravo poter credere che tu fossi vero. E mi
auguravo di non avere paura».
Un lampo di dolore mi trafisse. Mi ero sbagliato. Alla fine, l’avevo
spaventata. Sì, era così.
«Non voglio che tu abbia paura». Era una richiesta di scuse e un
gemito.
Fui sorpreso quando lei sorrise quasi in modo malizioso. «Be’,
non è esattamente quella la paura che intendevo, malgrado sia un
aspetto da non trascurare».
Ma stava scherzando ora? Cosa poteva voler dire? Mi misi a
sedere, troppo desideroso di avere risposte per fingermi ancora
indifferente.
«E allora, di cosa hai paura?».
Realizzai quanto fossero vicine le nostre facce. Le sue labbra che
quasi sfioravano le mie. Appena separate, non sorridevano più.
Inspirò dal naso e le palpebre si socchiusero. Si distese, ancora più
vicina, come per catturare meglio il mio odore, il mento
leggerissimamente inclinato, il collo inarcato in avanti, la giugulare
esposta.
E io reagii.
Il veleno inondò la mia bocca, le mani si mossero
involontariamente per afferrarla, la mascella si divaricò mente lei si
spingeva ancora di più verso di me.
Mi allontanai di scatto da lei.
Il furore non aveva raggiunto le mie gambe e riuscii a
catapultarmi fino ai bordi del prato. Mi mossi così in fretta che non
ebbi il tempo di liberare le mie dita dalle sue delicatamente; le avevo
praticamente strappate da lei. Il mio primo pensiero quando atterrai
accovacciato all’ombra degli alberi furono le sue mani, e fui invaso
da un senso di sollievo quando vidi che erano ancora attaccate ai
polsi.
Sollievo seguito da disgusto. Ripugnanza. Repulsione. Tutte le
emozioni che avevo temuto di vedere nei suoi occhi quel giorno
moltiplicate per cento anni e in più la consapevolezza di meritarmelo.
Mostro, incubo, distruttore di vite, mutilatore di sogni: dei suoi e dei
miei.
Se fossi stato qualcosa di meglio, se fossi stato in qualche modo
più forte, invece di essere un brutale passo verso la morte, quel
momento avrebbe potuto essere il nostro primo bacio.
Allora, avevo appena fallito il test? Non c’era più speranza?
I suoi occhi erano vitrei; il bianco risaltava tutt’intorno al tono
scuro delle sue iridi. Vidi mentre sbatteva le palpebre e cercava di
mettermi a fuoco, fissandomi nella mia nuova posizione.
Ci guardammo l’un l’altra per un po’.
Il suo labbro inferiore tremò, poi aprì la bocca. Aspettai, teso, che
mi rimproverasse. Che gridasse contro di me, che mi dicesse di non
avvicinarmi più a lei.
«Mi... dispiace... Edward», sussurrò quasi senza voce.
Certo.
Dovetti fare un respiro profondo prima di poter rispondere.
Calibrai il volume della mia voce in modo che fosse abbastanza
forte perché lei sentisse, cercando di mantenere un tono dolce.
«Dammi solo un momento».
Si mise a sedere poco più indietro. I suoi occhi erano ancora
perlopiù bianchi.
Presi un altro respiro. Da lì potevo ancora assaporarla. E ciò
alimentò un costante bruciore, ma niente di più. Mi sentii... come mi
sentivo quando le ero normalmente vicino. Non c’erano tracce nella
mia mente o nel mio corpo, ora, nessuna sensazione che il mostro
fosse acquattato sotto la superficie. Che avrei potuto scattare per un
nonnulla. Ciò mi fece venire voglia di urlare e di sradicare gli alberi.
Se non potevo vedere il limite, se non potevo vedere la scintilla,
come avrei potuto mai proteggerla da me?
Potevo immaginare l’incoraggiamento di Alice. Io avevo protetto
Bella. Non era successo nulla. Tuttavia, sebbene Alice avesse
potuto vedere così tanto, guardando quando il mio intervallo
temporale era ancora il futuro e non il passato, lei non poteva sapere
come era stato. Perdere il controllo di me stesso, essere più debole
del mio peggior impulso. Non essere capace di fermarmi.
Ma ti sei fermato. Ecco cosa avrebbe detto. Non poteva sapere
quanto non abbastanza fosse.
Bella non staccò mai gli occhi da me. Il suo cuore batteva due
volte più veloce del normale. Troppo veloce. Non era sano. Volevo
prenderle la mano e dirle che andava tutto bene, che lei stava bene,
che era al sicuro, che non c’era nulla di cui preoccuparsi: ma
sarebbero state evidenti bugie.
Mi sentivo ancora... normale; o almeno quello che normale era
diventato in quegli ultimi mesi. Ero capace di controllo. Proprio come
prima, quando grazie all’eccessiva fiducia in me stesso l’avevo quasi
uccisa.
Indietreggiai lentamente, chiedendomi se avrei dovuto mantenere
le distanze. Ma non mi sembrava corretto gridarle le mie scuse con
tutto il prato di mezzo. Tuttavia, non mi fidavo a starle vicino come
prima. Mi fermai a qualche passo da lei, a una distanza che
consentisse la conversazione, e sedetti sul prato.
Cercai di mettere nelle mie parole tutto ciò che sentivo. «Mi
dispiace tanto».
Bella sbatté le palpebre e i suoi occhi si fecero di nuovo troppo
grandi; il suo cuore cominciò a battere fortissimo. Rimase di stucco.
Quelle parole sembravano non significare nulla per lei, non lasciare
traccia in alcun modo.
Per quanto mi fosse sembrata subito una cattiva idea, decisi di
tornare al mio solito schema, cercando di assumere un tono
distaccato. Volevo a tutti i costi rimuovere quell’annichilimento dal
suo viso.
«Capiresti cosa intendo se ti dicessi che la carne è debole?».
Un istante dopo annuì, solo una volta. Provò a sorridere al mio
grossolano tentativo di sdrammatizzare, ma quello sforzo non fece
altro che peggiorare ancora di più la sua espressione. Sembrava
afflitta, e poi, alla fine, spaurita.
Mi era già capitato di vedere la paura sul suo volto, ma mi ero
sempre subito rassicurato. Ogni volta che avevo quasi sperato che si
accorgesse che io non valevo l’immenso rischio che correva, lei mi
smentiva. La paura nei suoi occhi non era mai stata paura di me.
Fino a ora, almeno.
L’odore della sua paura saturava l’aria di un sapore acre e
metallico.
Era esattamente quello che stavo aspettando. Ciò che mi ero
sempre detto di volere. Che lei voltasse le spalle. Che lei si salvasse
lasciandomi bruciare, e da solo.
Il suo cuore batteva forte e io volevo ridere e piangere. Stavo
ottenendo ciò che volevo.
E tutto questo perché si era spinta in avanti giusto di quel tanto in
più. Si era avvicinata per sentire il mio odore, e lo aveva trovato
piacevole, proprio come aveva trovato attraente il mio viso e
irresistibili tutte le altre mie trappole. Ogni cosa in me le aveva fatto
venire voglia di starmi più vicina, proprio come da copione.
«Sono il miglior predatore del mondo, no?». Non tentai in alcun
modo di nascondere l’asprezza della mia voce. «Tutto, di me, ti
attrae: la voce, il viso, persino l’odore». Era tutto così eccessivo. Che
senso avevano i miei incantesimi e le mie esche? Non ero una
Venere acchiappamosche in attesa che la preda le atterrasse sulla
bocca. Perché non potevo essere così ripugnante all’esterno come
lo ero all’interno? «Come se ce ne fosse bisogno!».
Ora sentivo di aver perso il controllo, ma non nello stesso modo.
Tutto il mio amore, il desiderio, la speranza, si erano sbriciolati, mille
secoli di afflizione si dipanavano davanti a me, e io non potevo più
fingere. Se non potevo essere felice giacché ero un mostro, allora
che diventassi il mostro che ero!
Ero in piedi, correvo come faceva il suo cuore in due cerchi stretti
lungo il margine della radura, domandandomi se potesse almeno
vedere quello che le stavo mostrando.
Mi fermai di scatto dove ero prima. Ecco perché non avevo
bisogno di una voce gradevole.
«Come se tu potessi fuggire». Risi al pensiero dell’immagine
grottesca che si era formata nella mia mente. Il suono della mia
risata rimbalzò in striduli echi tra gli alberi.
Dopo l’inseguimento ci sarebbe stata la cattura.
Il ramo più basso del vecchio abete alle mie spalle era facilmente
raggiungibile. Lo strappai senza alcuno sforzo. Il legno stridette e
gemette, dal punto in cui era stato lacerato schizzarono via corteccia
e schegge di legno. Soppesai un po’ il ramo nella mano: circa
trecentonovantuno chili. Non abbastanza per avere la meglio su una
cicuta canadese dall’altra parte della radura, ma sufficiente per
infliggere qualche danno.
Lanciai il ramo contro l’albero, mirando a un nodo che si trovava
a circa nove metri di altezza. Il mio proiettile colpì il centro del
bersaglio, l’estremità più spessa del ramo si schiantò con un tonante
scricchiolio e si disintegrò in una miriade di schegge che piovvero
sulle felci sottostanti con un tenue sibilo. Al centro del nodo si aprì
una crepa che si prolungò in entrambe le direzioni. La cicuta
canadese tremò e la scossa si irradiò verso le radici fin dentro il
terreno. Mi domandai se non l’avessi ucciso. Avrei dovuto aspettare
qualche mese per saperlo. Mi augurai che si sarebbe ripreso, perché
il prato era perfetto così com’era. Non feci alcuno sforzo. Non ebbi
bisogno di utilizzare che una minima parte della forza di cui
disponevo. Eppure, quanta violenza. E quanti danni.
Due falcate ed ero davanti a lei, ma a distanza di sicurezza.
«Come se potessi combattere ad armi pari».
Non c’era più durezza nella mia voce. Quel piccolo capriccio non
mi era costato alcuno sforzo, ma aveva scaricato un po’ la mia ira.
Durante tutto quel tempo lei non si era mossa. Adesso era ferma,
gli occhi spalancati. Ci fissammo per un tempo che sembrò
lunghissimo. Ce l’avevo ancora con me stesso, ma non bruciavo più
di rabbia. Sembrava tutto inutile. Io ero quello che ero.
Si mosse per prima. Solo appena. Lasciò cadere debolmente le
mani in grembo dopo che mi scostai da lei, ma una di esse aveva
cominciato ad aprirsi. Le dita si allungarono leggermente nella mia
direzione. Probabilmente si trattava di un movimento inconscio, ma
era così stranamente simile a quando aveva implorato nel sonno
«Torna», mentre cercava qualcosa. Avrei voluto che mi avesse
sognato.
Era la notte prima di Port Angeles, la notte prima che scoprissi
che lei sapeva già che cosa ero. Se fossi stato a conoscenza di
quello che Jacob Black le aveva detto, non avrei mai creduto che
avrebbe potuto sognarmi in altro che non fosse un incubo. Ma per lei
tutto quello non aveva importanza.
C’era ancora terrore nei suoi occhi. Sì che c’era. Ma sembrava
esserci anche una supplica. Era forse possibile che volesse che io
ora tornassi da lei? E se anche fosse stato così, io avrei dovuto
farlo?
La sua pena, la mia più grande debolezza: proprio come Alice mi
aveva mostrato che sarebbe andata. Non tolleravo di vederla
spaventata. Mi aveva distrutto vedere quanto meritassi quella paura,
ma più di ogni cosa non sopportavo di vedere la sua afflizione. Mi
aveva privato della capacità di prendere qualcosa che somigliasse
solo minimamente a una decisione.
«Non avere paura», implorai in un sussurro. «Prometto...». No,
era diventata una parola come un’altra. «Giuro che non ti farò del
male. Non avere paura».
Mi avvicinai a lei lentamente, senza fare movimenti che lei non
avrebbe avuto il tempo di prevedere. Mi sedetti un poco alla volta,
volutamente in più fasi, di modo da trovarmi nuovamente nel punto
in cui eravamo all’inizio. Mi abbassai un po’, così che la mia faccia
fosse all’altezza della sua.
I battiti del suo cuore si attenuarono. Le palpebre si rilassarono
riprendendo la loro posizione normale. Era come se la mia vicinanza
l’avesse calmata.
«Per favore, perdonami», supplicai. «Sono capace di
controllarmi. Mi hai preso in contropiede. Ma adesso sarò
impeccabile». Che scuse patetiche.
Eppure, il risultato fu che agli angoli della sua bocca apparve un
accenno di sorriso. Come uno sciocco, feci nuovamente ricorso ai
miei puerili tentativi di essere divertente.
«Sul serio, oggi non ho così tanta sete». Le strizzai l’occhio.
C’era da credere che avessi tredici anni anziché centoquattro.
Ma lei rise. Un po’ ansante, un po’ incerta, ma era una risata
vera, di vera ilarità e sollievo. Il suo sguardo si scaldò, le sue spalle
si rilassarono e le sue mani si schiusero di nuovo.
Sembrava così giusto rimettere delicatamente la mia mano nelle
sue.
«Stai bene?».
Ci guardammo le mani. Sennonché lei sollevò gli occhi per
incontrare il mio sguardo un istante e poi riabbassarli di nuovo.
Cominciò a tracciare delle linee lungo il palmo della mia mano con la
punta del dito, come aveva iniziato a fare prima del mio delirio.
Ritornò a guardarmi e un sorriso si allargò lentamente sul suo viso
finché non le apparve di nuovo la fossetta sul mento. Non c’era
rimprovero né rimpianto in quel sorriso.
Sorrisi anche io e fu come se solo in quel momento riuscissi ad
apprezzare la bellezza di quel posto. Il sole, i fiori e l’aria dorata
divennero per me improvvisamente gioiosi e indulgenti. Avvertii il
dono della sua clemenza e il mio cuore di pietra si gonfiò di
gratitudine.
Il senso di sollievo, gioia e colpa che si confondevano,
improvvisamente mi ricordarono il giorno in cui ero tornato a casa,
parecchi decenni prima.
All’epoca neanche io ero pronto. Avevo programmato di
attendere. Volevo che i miei occhi tornassero dorati prima che
Carlisle mi vedesse. Ma erano ancora di uno strano color arancio,
un’ambra che tendeva al rosso. In quel periodo avevo difficoltà a
adattarmi alla mia precedente dieta. Prima non era mai stato così
difficile. Temevo che se non avessi potuto contare sull’aiuto di
Carlisle non sarei riuscito ad andare avanti. Che sarei ricaduto nelle
mie cattive abitudini.
Ero ovviamente preoccupato, avendo nei miei occhi una prova
così evidente. Mi chiesi quale fosse la peggiore reazione che potevo
aspettarmi. Mi avrebbe allontanato? Avrebbe avuto difficoltà a
guardarmi, a vedere che delusione ero diventato? Mi avrebbe
chiesto di espiare? Qualunque cosa, io l’avrei fatta. Ma i miei sforzi
per migliorare lo avrebbero alla fine spinto ad agire, o si sarebbe
limitato ad assistere al mio fallimento?
Fu abbastanza semplice trovarli; non erano andati lontano dal
posto in cui li avevo lasciati. Lo fecero forse per rendermi più
semplice il ritorno?
La loro era l’unica casa in quel luogo alto e selvaggio. Mentre
risalivo la strada, il sole invernale riluceva dalle finestre, sicché non
potevo dire se in casa vi fosse qualcuno. Invece di prendere la
scorciatoia che passava tra gli alberi, avanzai verso di loro
attraverso un campo vuoto ricoperto di neve – ed ero anche ben
infagottato per difendermi dai raggi del sole – così da essere
facilmente individuabile.
Fu Esme a vedermi per prima.
«Edward», la sentii piangere, sebbene fossi ancora a più di un
chilometro di distanza.
Meno di un secondo dopo vidi la sua sagoma sfrecciare dalla
porta secondaria e correre tra le rocce che circondavano il ciglio
della montagna sollevando una fitta polvere di cristalli di neve dietro
di lei.
Edward! È tornato a casa!
Mio padre la seguiva a breve distanza, finché non la raggiunse
grazie alle sue falcate più ampie.
Nei suoi pensieri non c’era altro che un sentimento di disperata
speranza. Nessun giudizio. Non ancora, almeno.
«Edward», urlò Esme, con un inconfondibile squillo di gioia nella
voce.
E in un attimo era su di me, le braccia strette attorno al collo, le
labbra che mi baciavano sulle guance senza sosta. Per favore, non
andartene di nuovo.
Un secondo dopo, Carlisle ci abbracciava entrambi.
Grazie, pensò, e la sua mente traboccava di sincerità. Grazie per
essere tornato da noi.
«Carlisle... Esme... Mi dispiace tanto. Mi...».
«Non dire niente ora», sussurrò Esme, appoggiando la testa
contro il mio collo e respirando il mio odore. Il mio ragazzo.
Guardai Carlisle dritto in faccia, spalancando gli occhi. Senza
nascondere nulla.
Sei qui. Carlisle mi fissò a sua volta e nella sua mente non c’era
che felicità. Sebbene dovesse sapere che cosa significasse il colore
dei miei occhi, nella sua gioia non c’era nulla che stonasse. Non c’è
nulla di cui debba scusarti.
Lentamente, non riuscendo a capacitarmi che potesse essere
così semplice, sollevai le braccia e ricambiai l’abbraccio della mia
famiglia.
Avvertivo la stessa immeritata accoglienza e a stento riuscivo a
credere che tutto ciò che avevo fatto – il mio cattivo comportamento,
volontario o meno che fosse – fosse già acqua passata. Ma il suo
perdono sembrava lavare via ogni ombra.
«Cosa stavamo dicendo, prima che mi comportassi in maniera
così sgarbata?». Ricordai dove io ero. A pochi centimetri dalle sue
labbra dischiuse. Estasiato dal mistero della sua mente.
Sbatté due volte le palpebre. «Sinceramente non ricordo».
Era comprensibile. Inspirai quel fuoco per poi soffocarlo dentro di
me, con il desiderio che in qualche modo mi procurasse un danno.
«Credo che stessimo parlando di ciò che ti mette paura, a parte
le ragioni più ovvie». La paura che aveva provato probabilmente
aveva allontanato l’altra ragione dalla sua mente.
Ma lei sorrise e abbassò nuovamente lo sguardo sulla mia mano.
«Ah, sì».
E non aggiunse altro.
«Allora?», chiesi.
Invece di incrociare il mio sguardo, riprese a tracciare motivi sulla
mia mano. Cercai di individuare la loro sequenza, sperando che
formassero una figura o anche delle lettere – «E-D-W-A-R-D-P-E-R-F-
A-V-O-R-E-V-A-I-V-I-A» –, ma non riuscii a trovarvi nessun significato.
Solo altri misteri. Un’altra domanda a cui non avrebbe mai risposto.
Io non meritavo risposte.
Sospirai: «Com’è facile vanificare i miei sforzi».
Sollevò lo sguardo e i suoi occhi cominciarono a sondare i miei.
Per alcuni secondi ci fissammo e io rimasi sorpreso dall’intensità di
quello sguardo. Sentivo che era in grado di leggermi dentro più di
quanto io avessi mai potuto fare con lei.
«Avevo paura», esordì, e mi resi conto che alla fine stava
rispondendo alla mia domanda, e le fui grato. «Perché... per, ecco,
ovvi motivi, non posso stare con te». Quando pronunciò la parola
stare i suoi occhi si abbassarono di nuovo. Per una volta compresi
chiaramente. Potei sentire che quando aveva detto stare non
intendeva in quel momento, sotto la luce del sole, quel pomeriggio o
per una settimana. Lo intendeva nel modo in cui avrei voluto dirglielo
io. Stare sempre. Stare per sempre. «Ma d’altro canto vorrei stare
con te molto, molto più del lecito».
Pensai a tutto quello che sarebbe successo se, alla fine, l’avessi
costretta a fare proprio ciò che aveva descritto. I sacrifici che
avrebbe dovuto sopportare, le perdite che avrebbe pianto, i penosi
rimpianti, gli sguardi pieni di dolore ma privi di lacrime.
«Sì». Era difficile essere d’accordo con lei, persino con tutto quel
dolore così fresco nella mia mente. Lo volevo così tanto. «Non c’è
dubbio, è una paura legittima, voler stare con me». Egoista che non
ero altro. «È tutto fuorché una scelta vantaggiosa».
Guardò con aria severa la mia mano, come se quella conferma
non le piacesse più di quanto non piacesse a me.
Anche solo accennare a questa prospettiva era pericoloso. Ade e
la sua melagrana. Con quanti semi tossici l’avevo già infettata?
Abbastanza affinché Alice la vedesse pallida e afflitta in mia
assenza. Eppure, mi sentivo anche io come se fossi stato corrotto.
Drogato. Come se fossi un tossico senza speranze di guarigione.
Non riuscivo a formarmi un’immagine completa nella mia mente.
Lasciarla. Come avrei potuto sopravvivere? Alice mi aveva mostrato
lo stato di angoscia di Bella in mia assenza, ma cosa avrebbe visto
di me in quella versione del futuro? Non credo che avrei potuto
essere altro che un’ombra spezzata, inutile, ritorta, vuota.
Parlai ad alta voce, ma soprattutto a me stesso. «Avrei dovuto
lasciarti perdere tempo fa. Dovrei lasciarti, adesso. Ma non so se ci
riuscirei».
Lei fissava ancora le nostre mani, ma le sue guance
avvamparono. «Non voglio che tu mi lasci», mormorò.
Voleva che restassi con lei. Provai a combattere la felicità, la resa
a cui mi consegnava. La scelta era anche mia o era solo sua, ora?
Sarei rimasto finché non mi avesse detto di andare? Le sue parole
sembravano risuonare nella brezza leggera. Non voglio che tu mi
lasci.
«Il che è precisamente la migliore ragione per andarmene».
Sicuramente più tempo saremmo stati insieme e più difficile sarebbe
stato separarci. «Ma non preoccuparti, sono una creatura
essenzialmente egoista. Desidero troppo la tua compagnia per
comportarmi come dovrei».
«Ne sono lieta». Pronunciò queste parole con semplicità, come
se fosse una cosa ovvia. Come se ogni ragazza fosse contenta che
il proprio mostro preferito fosse troppo egoista per anteporla a se
stesso.
Mi infiammai, la rabbia era rivolta solo contro di me. Controllando
con estrema attenzione i miei movimenti, staccai le mie mani dalle
sue.
«Non esserlo! Non è solo la tua compagnia che amo! Non
dimenticarlo mai. Non dimenticare mai che sono più pericoloso per
te che per chiunque altro».
Mi guardò con aria interrogativa. Non c’era affatto paura nei suoi
occhi. Chinò leggermente la testa verso sinistra.
«Non credo di avere capito cosa intendi, specialmente l’ultima
frase», disse, in tono analitico. Il che mi ricordò la conversazione
avuta a mensa, quando mi aveva chiesto della caccia. Dava
l’impressione che stesse raccogliendo dati per un rapporto, qualcosa
che per lei era di interesse vitale, ma, tuttavia, niente di più che un
saggio accademico.
Non potei far altro che sorridere alla sua espressione. La mia
rabbia svanì come era arrivata. Perché perdere tempo ad arrabbiarsi
quando c’erano così tanti sentimenti a disposizione?
«Come faccio a spiegartelo...», sospirai. Naturalmente non aveva
idea di cosa intendessi. Non ero stato tanto specifico quando si era
trattato della mia reazione al suo odore. No, non lo ero stato; non era
affatto una bella cosa e me ne vergognavo profondamente. Per non
parlare dell’orrore evidente che suscitava l’argomento. Insomma,
come facevo a spiegarglielo? «Senza metterti di nuovo paura...
vediamo».
Le sue dita si distesero, tendendosi in direzione delle mie. E io
non riuscii a resistere. Rimisi delicatamente la mano tra le sue. La
benevolenza del suo tocco, la brama con cui stringeva le dita intorno
alle mie contribuirono a calmarmi. Sapevo che stavo per dirle tutto:
avvertivo che la verità stava ribollendo dentro di me, pronta a
esplodere. Ma non avevo idea di come lei l’avrebbe presa, per
quanto la sua generosità nei miei confronti fosse sempre stata
grande. Assaporai quel momento di accoglienza da parte sua, ben
sapendo che sarebbe finito bruscamente.
Sospirai. «È straordinariamente piacevole il calore».
Lei sorrise e incantata abbassò lo sguardo sulle mie mani.
Non fu certo d’aiuto. Avrei dovuto essere spudoratamente
esplicito. Girare intorno ai fatti l’avrebbe solo confusa, e lei doveva
sapere. Presi un profondo respiro.
«Hai presente, i gusti delle persone? Ad alcune piace il gelato al
cioccolato, ad altre alla fragola?».
Puah! Un inizio così fiacco ad alta voce suonava peggio di quanto
avessi pensato. Bella annuì, ma sembrava solo un modo per
esprimere un’accettazione cortese, per il resto la sua espressione
era piatta. Forse ci sarebbe voluto qualche minuto per elaborare il
discorso.
«Scusa l’analogia con il cibo», dissi. «Non trovo una metafora
migliore».
Sorrise... ed era un sorriso allegro, di intesa; spuntò fuori la
fossetta. Quel sorriso mi fece sentire come se in questa assurda
situazione noi due fossimo insieme, non come antagonisti ma come
una coppia, lavorando fianco a fianco per trovare una soluzione. Non
riuscivo a immaginare nulla che desiderassi di più, a parte,
ovviamente, l’impossibile. E cioè poter essere umano. Sorrisi a mia
volta, ma sapevo che il mio sorriso non era né autentico né genuino
come il suo.
Le sue mani si strinsero intorno alle mie, invitandomi a
continuare.
Pronunciai le parole lentamente, cercando di ricorrere alla
migliore analogia possibile, consapevole tuttavia che avrei fallito.
«Vedi, ogni persona ha un suo odore, un’essenza particolare. Se
chiudessi un alcolizzato in una stanza piena di lattine di birra
sgasata, le berrebbe senza badarci. Se invece fosse un alcolista
pentito, se decidesse di non berle, potrebbe riuscirci facilmente. Ora,
se poniamo nella stanza un solo bicchiere di liquore invecchiato
cento anni, il cognac migliore, il più raro di tutti, che diffonde
ovunque il suo profumo... come credi che si comporterebbe il nostro
alcolizzato?».
Stavo dipingendo un’immagine troppo benevola di me stesso?
Quella di una tragica vittima piuttosto che di una vera canaglia?
Mi fissò negli occhi, e mentre cercavo di capire istintivamente la
sua reazione interiore, ebbi la sensazione che lei stesse cercando di
fare lo stesso.
Esaminai le mie parole e mi chiesi se l’analogia fosse stata
abbastanza forte.
«Forse non è la metafora migliore», riflettei. «Forse rifiutare il
cognac sarebbe facile. Forse dovrei trasformare il nostro alcolista in
un eroinomane».
Sorrise, per quanto non in maniera così aperta come prima, ma
con una piega impertinente sulle labbra increspate.
«Cioè, vorresti dirmi che sono la tua qualità preferita di eroina?».
Risi quasi per la sorpresa. Stava facendo ciò che cercavo di fare
io sempre: scherzare, alleggerire la tensione, ridimensionare; solo
che lei ci riusciva.
«Ecco, tu sei esattamente la mia qualità preferita di eroina».
Era, senza alcun dubbio, un’affermazione terribile, eppure, in un
certo senso, provai sollievo. Era proprio quello che faceva: mi dava
sostegno e comprensione. L’idea che lei potesse perdonare tutto
questo mi dava le vertigini. Come era possibile?
Ma poi tornò in modalità ricercatrice.
«Succede spesso?», chiese, inclinando la testa da un lato.
Pur avendo una capacità unica di sentire i pensieri, era difficile
fare paragoni precisi. Non sentivo veramente le sensazioni delle
persone che ascoltavo, conoscevo solo i pensieri su quei sentimenti.
Il modo in cui io interpretavo la sete non era proprio come quello
della mia famiglia. Per me la sete era un fuoco che brucia. Anche
Jasper l’aveva descritta come un bruciore, ma era più qualcosa di
acido che una fiamma, era qualcosa di chimico, di pervasivo.
Rosalie pensava che fosse come una profonda secchezza, come
una lacerante mancanza più che una forza esterna. Anche Emmett
tendeva a valutare la sua sete allo stesso modo; immaginavo che
fosse una cosa naturale, dato che Rosalie aveva per prima
influenzato la sua seconda vita e anche in maniera abbastanza
assidua.
Conoscevo quindi le volte in cui avevano avuto difficoltà a
resistere alla sete e quando non erano stati in grado di farlo, ma non
sapevo esattamente quanto potente fosse stata la tentazione.
Potevo immaginare un’ipotesi plausibile, tuttavia, sulla base del loro
livello di controllo. Non era un metodo ineccepibile, ma forse
avrebbe risposto alla sua curiosità.
Era questa la cosa più orrenda. Io non potevo guardarla negli
occhi mentre rispondevo. E così guardai il sole invece, mentre
scivolava lungo il profilo degli alberi. Ogni secondo che passava mi
faceva più male di quanto me ne avesse mai fatto prima. Avrei
voluto che non ci fosse più bisogno di trascorrere quei momenti
preziosi a discorrere di qualcosa di così sgradevole.
«Ne ho parlato con i miei fratelli... Secondo Jasper, siete tutti
uguali. È stato l’ultimo a unirsi alla nostra famiglia e l’astinenza lo fa
soffrire ancora molto. Non ha ancora imparato a distinguere tra i
diversi odori e sapori».
Ebbi un sussulto non appena mi resi conto di dove mi avrebbe
portato la mia divagazione. «Scusa», aggiunsi subito dopo.
Sbuffò appena, ma in maniera esasperata. «Non importa. Ti
prego, non preoccuparti di offendermi, di spaventarmi o di qualsiasi
altra cosa. È il tuo modo di ragionare. Riesco a capire, o perlomeno
posso provarci. Però, ti prego, spiegami tutto come puoi».
Provai a raccogliere le idee. Dovevo accettare che in virtù di un
qualche miracolo Bella fosse in grado di apprendere gli aspetti più
oscuri di me evitando di esserne terrorizzata. E inoltre di non odiarmi
per questo. Se era stata abbastanza forte da ascoltare quello che
avevo da dirle, io avrei dovuto essere abbastanza forte da parlare.
Tornai a guardare il sole, avvertendo l’improrogabile scadenza
annunciata dalla sua lenta discesa.
«Perciò», ripresi lentamente, «Jasper non ha saputo dirmi con
certezza se gli sia mai capitato di conoscere qualcuna che fosse...
attraente come tu sei per me. Il che mi fa ritenere che non l’abbia
mai conosciuta. Emmett è dei nostri da più tempo, per così dire, e ha
capito cosa intendevo. A lui è capitato due volte, una più forte
dell’altra».
Alla fine incontrai il suo sguardo. I suoi occhi erano leggermente
socchiusi, in segno di estrema concentrazione. «E a te?», domandò.
La mia fu una risposta semplice, senza bisogno di troppi
ragionamenti. «Mai».
Avrei voluto sapere che cosa significasse per lei quella parola,
perché ebbi l’impressione che ci stesse riflettendo su a lungo.
Rasserenò un po’ il viso.
«Come si è comportato Emmett?», chiese in tono colloquiale,
come se le stessi narrando un racconto tratto da un libro di fiabe,
come se il bene avesse sempre la meglio e – sebbene la vicenda a
tratti potesse farsi oscura – niente di veramente cattivo o
estremamente crudele potesse accadere.
Come avrei fatto a parlarle di quelle due vittime innocenti? Esseri
umani con speranze e paure, persone con famiglie e amici che li
amavano, esseri imperfetti che meritavano la possibilità di diventare
migliori. Un uomo e una donna che adesso avevano i loro nomi incisi
su una lapide in un tetro cimitero.
Sarebbe cambiato in meglio o in peggio, il suo pensiero, se
avesse saputo che Carlisle ci aveva chiesto di partecipare ai loro
funerali? Non solo di quelle due persone, ma di ogni vittima dei
nostri errori e delle nostre cadute. Saremmo stati solo appena meno
dannati per il fatto di aver ascoltato coloro che li conoscevano meglio
parlare di quelle vite spezzate? Per il fatto di essere stati testimoni
delle loro lacrime e grida di dolore? Guardando indietro, il sostegno
economico fornito in maniera anonima per assicurarci che non
avessero inutili sofferenze materiali sembrava una cosa volgare.
Una blanda ricompensa. Alla fine, smise di attendere una risposta da
me. «Credo di aver capito».
Aveva un’aria triste. Aveva condannato Emmett laddove
assolveva me? I suoi crimini, anche se ben più di due, erano nel
complesso meno dei miei. Mi addolorava l’idea che pensasse male
di lui. Era questo – la specificità delle due vittime – il reato che
l’avrebbe fatta tentennare?
«Anche i più forti di noi possono smarrire la strada, no?», dissi in
maniera poco convinta.
Avrebbe perdonato anche questo?
Forse no.
Trasalì, allontanandosi da me. Non più di qualche centimetro, ma
sembrò un chilometro. Increspò le labbra.
«Cosa stai chiedendo? Il mio permesso?». L’intonazione dura
della sua voce lasciava trasparire del sarcasmo.
Ecco quindi il suo limite. Pensavo in verità che fosse stata troppo
gentile e compassionevole, troppo indulgente. Ma in realtà aveva
semplicemente sottovalutato la mia depravazione. Doveva aver
pensato che, a dispetto di tutti i miei avvertimenti, io fossi sempre e
solo stato tentato. E che avevo fatto la scelta migliore, come a Port
Angeles, quando mi ero allontanato da tutto quel sangue.
Quella stessa notte le avevo detto che, nonostante i nostri sforzi
migliori, la nostra famiglia aveva commesso degli errori. Non aveva
compreso che le stavo confessando l’omicidio? Non c’era da
meravigliarsi che avesse accettato le cose così facilmente; doveva
aver pensato che io ero stato sempre forte e che avessi solo qualche
macchia sulla coscienza. Be’, non era colpa sua. Non avevo mai
ammesso esplicitamente di aver ucciso qualcuno. Non le avevo mai
dato il numero delle vittime.
La sua espressione si addolcì mentre io mi contorcevo. Cercai di
pensare a come dirle addio in modo che lei sapesse quanto l’amassi
senza che quell’amore la facesse sentire minacciata.
«Voglio dire», esordì all’improvviso, senza spigolosità nella voce.
«Non c’è proprio speranza, allora?».
In una frazione di secondo ripassai in mente il nostro ultimo
scambio e realizzai quanto avessi interpretato male la sua reazione.
Quando avevo chiesto perdono per i peccati passati doveva aver
capito che mi stessi scusando per un crimine futuro, ma imminente.
Che cosa intendevo...
«No, no!». Dovetti sforzarmi di rallentare le mie parole a una
velocità umana, tanta era l’urgenza che le ascoltasse. «Certo che c’è
speranza! Voglio dire, è ovvio, non...».
Non voglio ucciderti. Non riuscii a finire la frase. Quelle parole
furono per me un’agonia, poiché immaginai che sarebbe andata via.
La guardai intensamente negli occhi, cercando di comunicarle tutto
ciò che non riuscivo a dire. «Per noi è diverso», le promisi.
«Emmett... quelli erano sconosciuti, incontrati per caso. È accaduto
tanto tempo fa, e lui non era... allenato e attento come ora».
Esaminò accuratamente le mie parole, cogliendo anche quello
che non avevo detto.
«Perciò, se ci fossimo incrociati...», fece una pausa, cercando di
individuare la scena giusta, «in un vicolo buio, o qualcosa del
genere...».
Ah, ecco l’amara verità.
«Mi c’è voluta tutta la forza che avevo per non assalirti durante la
prima lezione, in mezzo agli altri ragazzi, e...».
Ucciderti. Distolsi lo sguardo da lei. Troppa vergogna.
Eppure, non potevo lasciare che si formasse alcun tipo di illusioni
lusinghiere su di me.
«Quando mi sei passata accanto», ammisi, «ho rischiato di
rovinare in un istante tutto ciò che Carlisle ha costruito per noi. Se
non avessi messo a tacere così a lungo la mia sete negli ultimi, be’,
troppi anni, non sarei riuscito a trattenermi».
Rivedevo in modo nitido l’aula nella mia mente. Una memoria
infallibile era una maledizione, più che un dono. Era necessario
ricordare con tanta precisione ogni secondo di quell’ora? La paura
che le aveva dilatato gli occhi, il riflesso del mio viso mostruoso in
essi? Il modo in cui il suo odore aveva distrutto ogni cosa buona in
me?
La sua espressione era lontana. Forse anche lei stava
ricordando.
«Avrai creduto che fossi posseduto dal demonio».
Non negò.
«Non riuscivo a capire», disse con una voce debole, «come
potessi odiarmi così, e perché poi, dal primo istante...».
In quel momento aveva intuito la verità. Aveva giustamente capito
che io l’avevo odiata. Almeno quanto l’avevo amata.
«Ai miei occhi eri una specie di demone, sorto dal mio inferno
privato per distruggermi. L’odore soave della tua pelle...». Fu
doloroso rivivere quell’emozione, ricordarsi di averla vista come una
preda. «Quel primo giorno ho temuto di perdere definitivamente la
testa. In quella singola ora ho pensato a cento maniere diverse di
portarti via dall’aula, di isolarti. E mi sono opposto a tutte, temendo le
conseguenze che avrebbero colpito la mia famiglia. Dovevo
scappare, andarmene prima di pronunciare le parole che ti
avrebbero obbligata a seguirmi... Mi avresti seguito, te lo
garantisco».
Cosa doveva essere per lei venirlo a sapere? Come poteva
mettere insieme due elementi così opposti? L’io aspirante assassino
e l’io aspirante amante? Che cosa pensava della mia fiducia, della
mia certezza che avrebbe seguito l’assassino?
Il suo mento si sollevò appena. «Senza dubbio», ammise.
Le nostre mani erano ancora amorevolmente intrecciate. La sua
era quasi immobile come la mia, eccezion fatta per il sangue che vi
pulsava. Mi domandai se provasse la stessa paura che provavo io:
la paura che potessero separarsi e che lei non avrebbe trovato il
coraggio e il perdono necessari per riunirle di nuovo.
Era più facile confessare senza guardarla negli occhi.
«E poi», proseguii, «proprio mentre cercavo inutilmente di
cambiare l’orario settimanale per poterti evitare, rieccoti. In quella
stanzetta calda il tuo profumo mi faceva impazzire, in quel momento
sono stato lì lì per prenderti. C’era soltanto quell’altra fragile umana,
me ne sarei sbarazzato senza difficoltà».
Sentii un brivido passare dalle sue braccia alle mie mani. A ogni
nuovo tentativo di spiegare, mi ritrovavo a usare parole sempre più
angosciose. Erano le parole giuste, le parole più veritiere, ma
suonavano così sgradevoli.
Non c’era modo di fermarle, comunque, e lei rimase seduta in
silenzio e quasi immobile mentre sgorgavano dalle mie labbra: le
confessioni si mescolavano sempre di più alle spiegazioni. Le
raccontai del fallito tentativo di scappare e dell’arroganza che mi
aveva fatto tornare indietro; di come quell’arroganza avesse
plasmato la nostra interazione e di come la frustrazione per i suoi
pensieri a me inaccessibili mi avesse tormentato. Le spiegai come il
suo odore non avesse mai smesso di essere un misto di tortura e
tentazione.
La mia famiglia si intrufolava nel racconto e mi chiesi se Bella
fosse in grado di vedere come loro avessero influenzato le mie
azioni a ogni svolta importante. Le raccontai di come l’averla salvata
dal furgone di Tyler avesse modificato la mia prospettiva,
costringendomi a capire che lei per me era ben più di un semplice
rischio o di un fastidio.
«E in ospedale?», chiese, quando smisi di parlare. Esaminò la
mia faccia con un senso di compassione, con un desiderio
impaziente, ma libero da pregiudizi, di conoscere il prosieguo della
storia. Non mi sconvolgeva più la sua benevolenza, sebbene per me
sarebbe stata sempre una specie di miracolo.
Le spiegai i miei dubbi, non tanto sul fatto di averla salvata,
quanto piuttosto per aver esposto me stesso e la mia famiglia,
perché capisse il motivo della durezza che le avevo mostrato quel
giorno nel corridoio vuoto. Ciò, naturalmente, aveva generato
reazioni diverse all’interno della mia famiglia, e mi domandai che
cosa pensasse del fatto che alcuni di loro avessero cercato di farla
tacere in maniera definitiva. Non tremava più dai brividi né tradiva
alcuna paura, ora. Che strano doveva essere per lei apprendere
l’intera storia, l’oscurità che ora si intesseva alla luce che aveva
conosciuto.
Le raccontai di come avessi cercato di mostrarmi completamente
indifferente a lei dopo quanto accaduto, per proteggerla da tutto, e di
quanto fosse stato fallimentare.
Mi chiesi, e non era la prima volta, dove sarei stato adesso se
quel giorno nel parcheggio della scuola non avessi agito
istintivamente. Se – come le avevo descritto in modo grottesco –
fossi rimasto fermo e avessi lasciato che morisse per poi rivelare
magari la mia natura agli uomini nel modo più mostruoso possibile.
La mia famiglia sarebbe dovuta fuggire da Forks immediatamente.
Avevo immaginato quale sarebbe stata la loro reazione se si fosse
verificata quella versione degli eventi... più che l’opposto. Rosalie e
Jasper non si sarebbero arrabbiati. Sarebbero stati un po’
compiaciuti, forse, ma avrebbero capito. Carlisle avrebbe
profondamente disapprovato la cosa, ma alla fine mi avrebbe
perdonato. Alice avrebbe pianto l’amica che non avrebbe mai
incontrato? Solo Esme ed Emmett avrebbero reagito in una maniera
assai vicina alle loro prime reazioni: Esme preoccupandosi per il mio
benessere; Emmett con un’alzata di spalle.
Sapevo che avrei avuto ancora qualche lieve sentore del disastro
che mi era capitato. Anche così presto, dopo solo poche parole
scambiate, la mia attrazione per lei era già forte. Ma sarei stato in
grado di cogliere la vastità della tragedia? Penso di no. Mi avrebbe
fatto certamente male, e avrei portato avanti la mia vuota pseudovita
senza mai comprendere quanto davvero avessi perso. Senza mai
conoscere la vera felicità.
Sapevo che sarebbe stato più facile perderla. E come non avrei
mai conosciuto la gioia, così non avrei sofferto per la profondità del
dolore di cui adesso conoscevo l’esistenza.
Contemplavo il suo viso dolce e gentile, a me così caro ora,
sempre di più il centro del mondo. L’unica cosa che avrei voluto
guardare per tutto il tempo a venire.
Anche lei mi fissò, con la stessa meraviglia negli occhi.
«E la cosa più assurda», dissi, concludendo la mia lunga
confessione, «è che mi sarei curato meno di rovinarci tutti il primo
giorno, piuttosto che farti del male qui, ora, senza testimoni, senza
nessuno in grado di fermarmi».
I suoi occhi erano spalancati, ma non c’era paura o sorpresa.
Solo attrazione.
«Perché?», chiese.
Non ci sarebbe stata una spiegazione migliore delle altre, ma tra
le tante parole che avrei odiato dirle ce ne erano alcune che avrei
voluto pronunciare.
«Isabella... Bella». Solo dire il suo nome per me fu un piacere.
Sembrava una specie di dichiarazione. Questo era il nome a cui
appartenevo.
Sciolsi delicatamente dalla sua presa la mano e le carezzai i
capelli morbidi, riscaldati dal sole. La gioia del semplice tocco, la
consapevolezza che in questo modo ero libero di raggiungerla: ne
ero sopraffatto. Le afferrai di nuovo le mani. «Arriverei a odiare me
stesso, se dovessi farti del male. Non hai idea di che tormento sia
stato». Non sopportavo di distogliere lo sguardo dalla sua
espressione comprensiva, ma sarebbe stato troppo duro guardare
quell’altra faccia, quella della visione di Alice, nello stesso
fotogramma. «Il pensiero di te immobile, bianca, fredda... di non
vederti più avvampare di rossore, di non poter più cogliere la scintilla
nel tuo sguardo quando capisci che ti sto prendendo in giro... non
sarei in grado di sopportarlo».
Quelle ultime parole non riuscirono minimamente a trasmettere
l’angustia che celavano. Ma in quel momento avevo superato la
parte peggiore e potevo dirle quelle cose che avrei voluto dirle da
molto tempo. Incontrai di nuovo il suo sguardo, felice per questa
confessione.
«Ora sei la cosa più importante per me. La cosa più importante di
tutta la mia vita».
Proprio come le parole precedenti non erano abbastanza, allo
stesso modo queste non erano che deboli echi dei sentimenti che
cercavano di descrivere. Speravo che potesse vedere nei miei occhi
quanto fossero inadeguate. Era sempre più brava a leggere i miei
pensieri di quanto io a interpretare i suoi.
Resse il mio sguardo entusiastico per qualche momento, e il lieve
rossore cominciò a serpeggiarle lungo le guance. Ma poi fece
cadere gli occhi sulle nostre mani. Ero elettrizzato dalla bellezza
della sua carnagione, di cui notavo solo la grazia e nient’altro.
«Sai già cosa provo, ovviamente», disse, con la voce poco più
alta di un sussurro. «Sono qui, il che, in due parole, significa che
preferirei morire, piuttosto che rinunciare a te».
Non avrei pensato che sarebbe stato possibile provare tanta
euforia e allo stesso tempo rimorso. Lei mi voleva... che immensa
gioia. Lei stava mettendo a rischio la sua vita per me... inaccettabile.
Si accigliò, abbassando nuovamente lo sguardo.
«Sono un’idiota».
Risi a quest’ultima affermazione. Da un certo punto di vista aveva
ragione. Qualunque specie che avesse corso tra le braccia del suo
predatore in questo modo non sarebbe sopravvissuta a lungo. Era
una buona cosa che fosse una persona fuori dal comune.
«Certo che lo sei», le dissi gentilmente, in tono scherzoso. E non
avrei mai smesso di esserle grato per questo.
Bella sollevò lo sguardo, aveva un sorrisetto malizioso, e
scoppiammo a ridere insieme. Fu un tale sollievo mettersi a ridere
dopo le mie estenuanti rivelazioni, che la mia risata allegra si
trasformò in gioia pura. Ero sicuro che lei provasse la stessa cosa. In
quel momento così perfetto noi eravamo completamente in sintonia.
Per quanto impossibile, eravamo l’uno per l’altra. In questo
quadretto tutto era sbagliato: un assassino e tra le sue braccia la
vittima innocente, i quali, in perfetta armonia, si crogiolavano uno
davanti all’altra. Era come se in qualche modo fossimo ascesi a un
mondo migliore, in cui simili cose impossibili potevano esistere.
Mi ricordai improvvisamente di un quadro che avevo visto diversi
anni prima.
Ogni volta che perlustravamo le campagne in cerca di una
possibile città in cui stabilirci, Carlisle faceva delle deviazioni per
infilarsi in vecchie chiese parrocchiali. Sembrava incapace di
resistere. Quelle semplici strutture di legno, scure per mancanza di
adeguate fonti di luce, le assi del pavimento e gli schienali così
consunti da essere lisci e l’odore di strati e strati di tocchi umani gli
procuravano una sorta di calma contemplativa. Tornava ad
affacciarsi il pensiero di suo padre e della sua infanzia, ma la
conclusione violenta in quei momenti sembrava lontana. Ricordava
solo le cose piacevoli.
Durante una di queste deviazioni ci imbattemmo in un luogo di
culto quacchero a una cinquantina di chilometri a nord di
Philadelphia. Era un piccolo edificio, non più grande di una fattoria,
con l’esterno in pietra e arredi molto spartani all’interno. Altrettanto
semplici erano i pavimenti nodosi, le panche squadrate, e fui quasi
sorpreso nel vedere sulla parete opposta un oggetto decorativo.
Anche Carlisle ne fu molto incuriosito, così lo esaminammo insieme.
Era un dipinto abbastanza piccolo, non più di quaranta centimetri
per lato. Immaginai che fosse più antico della chiesa che l’ospitava.
Non si trattava chiaramente di un artista esperto, aveva uno stile
naïf. Eppure, quell’immagine semplice e grezza aveva qualcosa che
riusciva a trasmettere un’emozione. C’era una calda vulnerabilità
negli animali dipinti, una specie di dolorosa tenerezza. Fui
stranamente commosso da quell’universo gentile che l’artista aveva
raffigurato.
Un mondo migliore, pensò Carlisle.
Il tipo di mondo in cui avrebbe potuto esistere quel particolare
momento, pensavo io, avvertendo nuovamente quella tenerezza
dolorosa.
«Così, il leone si innamorò dell’agnello...», mormorai.
Per un secondo i suoi occhi restarono aperti e accessibili,
sennonché arrossì di nuovo e abbassò lo sguardo. Trattenne il
respiro un istante e riapparve il suo sorrisetto malizioso.
«Che agnello stupido», disse in tono scherzoso, stando al gioco.
«Che leone pazzo e masochista», ribattei.
Non ero però sicuro che quella fosse l’affermazione corretta.
Sotto un certo aspetto sì, mi stavo causando di proposito un dolore
non necessario e ne traevo piacere, il che rappresentava la
definizione da manuale di masochismo. Ma il dolore era il prezzo... e
la ricompensa era ben maggiore del dolore. Davvero, il prezzo era
trascurabile. Lo avrei pagato dieci volte di più.
«Perché...?», mormorò, esitando.
Le sorrisi, desideroso di conoscere ciò che stava pensando.
«Sì?».
Sulla sua fronte cominciò a prendere forma un accenno di ruga.
«Dimmi perché prima sei fuggito in un lampo da me».
Le sue parole ebbero su di me un effetto fisico, andandosi a
piazzare sulla bocca dello stomaco. Non riuscivo a capire perché
volesse rievocare un momento così detestabile.
«Lo sai, il perché».
Scosse la testa e le sopracciglia si abbassarono. «No, voglio dire,
cos’ho fatto di preciso?». Si era accalorata e il suo tono era
diventato serio. «È meglio che stia in guardia, per imparare cosa non
posso fare. Questo, per esempio», mi accarezzò con la punta delle
dita il dorso della mano fino al polso, lasciando dietro di sé una scia
di fuoco indolore, «non crea problemi».
Come se se ne fosse assunta interamente la responsabilità.
«Non hai fatto niente di male, Bella. È stata colpa mia».
Sollevò il mento. Il che avrebbe significato testardaggine se i suoi
occhi non fossero stati così supplichevoli.
«Ma se posso, voglio aiutarti, voglio renderti la vita meno
difficile».
Il mio primo istinto fu quello di insistere sul fatto che fosse un mio
problema e non una sua preoccupazione. Eppure, sapevo che lei
stava solo cercando di comprendermi, con tutte le mie strane e
mostruose anomalie. Sarebbe stata più felice se mi fossi limitato a
rispondere alle sue domande nella maniera più chiara possibile.
Come spiegare però la sete di sangue? Questa cosa così
ignobile.
«Be’... è stata una questione di vicinanza. Gli esseri umani sono
per la maggior parte naturalmente timidi con noi, la nostra alterità li
allontana... Non mi aspettavo che ti avvicinassi così tanto. E poi, il
profumo del tuo collo...».
Mi interruppi, augurandomi di non averla disgustata.
La sua bocca era contratta, come se stesse combattendo per
trattenere un sorriso.
«D’accordo. Niente collo scoperto». Fece il gesto di piegare il
collo verso la clavicola destra.
La sua intenzione era chiaramente quella di alleviare la mia
ansia, e funzionò. Risi.
«No, davvero», la rassicurai, «più che altro è stata la sorpresa».
Sollevai la mano e la posai dolcemente sul suo collo, sentendo
l’incredibile morbidezza della sua pelle, e il calore. Con il pollice le
sfiorai la mascella. L’impulso elettrico che solo lei poteva risvegliare
cominciò a ronzare lungo tutto il mio corpo.
«Vedi?», sussurrai. «Nessun problema».
Anche il suo battito cominciò ad accelerare. Potevo avvertirlo
sotto la mia mano e sentire il suo cuore galoppare. Il rossore invase
la sua faccia dal mento all’attaccatura dei capelli.
Il suono e la vista della sua reazione, invece di risvegliare
nuovamente la mia sete, sembravano solo aver accelerato la corsa
dei miei impulsi più umani. Non ricordavo di essermi mai sentito così
vivo; dubitavo di esserlo mai stato, anche quando ero vivo.
«Il rossore sulle tue guance è adorabile», mormorai.
Estrassi delicatamente la mano dalle sue, e mi mossi in modo da
poterle stringerle il viso tra i palmi. Le sue pupille si dilatarono e il
battito accelerò.
Desideravo baciarla. Le sue morbide e sinuose labbra, sempre
un po’ leggermente separate, mi incantavano e mi trassero a lei.
Tuttavia, sebbene queste nuove emozioni umane sembrassero
quanto mai forti, non mi fidavo completamente di me stesso. Sapevo
di aver bisogno di un’ulteriore prova. Credevo di aver superato il
nodo di Alice, ma sentivo che mancava ancora qualcosa. Compresi
allora cosa avrei dovuto fare di più.
Una cosa che avevo sempre evitato, che avevo sempre impedito
alla mia mente di esplorare.
«Resta ferma», le raccomandai. Lei quasi smise di respirare.
Mi avvicinai a lei lentamente, attento a scorgere nella sua
espressione ogni minimo segnale che in ciò che facevo potesse
esserci qualcosa che la disturbasse. Non notai nulla.
Alla fine, abbandonai la testa in avanti, girandola in modo da
appoggiare la guancia sulla base della sua gola. Il tepore di quella
vita a sangue caldo pulsava attraverso la sua fragile pelle nella
fredda pietra del mio corpo. Il ritmo del suo battito al mio tocco ebbe
un sobbalzo. Mantenni il respiro regolare come una macchina,
inspirando ed espirando in maniera controllata. Attesi, valutando
ogni minuscolo cambiamento all’interno del mio corpo. Forse attesi
più del necessario, ma era molto piacevole starsene lì.
Una volta sicuro che non avrei avuto qualche brutta sorpresa,
decisi di procedere.
Con cautela mi risistemai, con movimenti lenti e costanti, in modo
che nulla potesse sorprenderla o spaventarla. Mentre le mie mani si
spostavano dalla mascella a certi punti lungo le sue spalle, lei ebbe
un tremito, e per un momento persi il controllo del mio respiro. Mi
ripresi e ritrovai la calma, e così spostai la testa direttamente
all’altezza del suo cuore.
Il suo suono, già forte prima, ora sembrava che mi circondasse in
stereofonia. La terra sotto i miei piedi non sembrava affatto ferma,
come se tremasse leggermente insieme al battito del suo cuore.
Involontariamente mi sfuggì un sospiro. «Ah».
Avrei voluto restare così per sempre, immerso nel suono del suo
cuore e riscaldato dalla sua pelle. Era giunto il momento per il test
finale, e volevo superarlo.
In primo luogo, respirando il suo odore, feci in modo di lasciare
libera la mia immaginazione. Invece di bloccare i pensieri,
interromperli e ricacciarli via dalla mia mente, permisi loro di
spaziare liberamente. Non corsero liberamente, non in quel
momento. Tuttavia, mi costrinsi ad andare laddove avevo sempre
evitato.
Immaginai di assaporarla... di prosciugarla.
Avevo abbastanza esperienza per sapere che tipo di sollievo
avrei provato se avessi completamente soddisfatto il mio più bestiale
bisogno. Il suo sangue esercitava un’attrazione molto più forte
rispetto a qualsiasi altro essere umano mai incontrato prima: potevo
solo immaginare quanto più intensi sarebbero stati il sollievo e il
piacere.
Il suo sangue avrebbe lenito la mia gola dolorante, cancellando
mesi di bruciore. Sarebbe stato come se non avessi mai bruciato per
lei, e il dolore si sarebbe totalmente estinto.
La dolcezza del suo sangue sulla mia lingua era più difficile da
immaginare. Sapevo di non aver mai provato un sangue così
assolutamente corrispondente al mio desiderio, ma ero sicuro che
avrebbe soddisfatto ogni brama avessi mai conosciuto.
Per la prima volta in tre quarti di secolo – l’arco di tempo in cui
ero sopravvissuto senza sangue umano – sarei stato completamente
sazio. Il mio corpo sarebbe stato forte e integro. E sarebbero
trascorse diverse settimane prima di provare nuovamente la
sensazione di sete.
Facendo scorrere fino alla fine la serie degli eventi fui sorpreso,
sebbene avessi lasciato andare liberamente quelle fantasie
represse, da quanto poco mi attraessero in quel momento. Persino
reprimendo l’inevitabile conseguenza – il ritorno della sete, il mondo
vuoto senza di lei – non sentivo alcun desiderio di agire
assecondando quelle fantasie.
In quel momento ebbi modo di vedere con estrema chiarezza che
non esisteva un mostro separato da me e che non ne era mai
esistito uno. Ansioso di staccare la mia mente dai miei desideri, io
avevo – come d’abitudine – personificato quella parte di me così
detestabile per distanziarla dalla parte di me che consideravo me.
Proprio come avevo creato l’arpia per avere un nemico da
combattere. Era un meccanismo di difesa, e neanche così efficace.
Era meglio immaginarmi come un tutto, buono e cattivo allo stesso
tempo, e affrontare la realtà per quello che era.
Continuai a respirare in maniera regolare, il morso del suo odore
faceva da gradito contrappunto alle altre travolgenti sensazioni
fisiche che mi invadevano mentre la tenevo vicina.
Pensai di aver compreso un po’ meglio cosa mi era successo
prima, durante quella violenta reazione che aveva terrorizzato
entrambi. Mi ero talmente convinto che avrei potuto esserne
sopraffatto, che quando ne fossi stato davvero sopraffatto sarebbe
stato quasi come una profezia autoavverantesi. La mia ansia, le
visioni angoscianti con cui mi ero ossessionato, oltre ai mesi di dubbi
che avevano minato la mia fiducia in me stesso, tutto ciò aveva
contribuito a indebolire la determinazione che invece ora sapevo
essere assolutamente all’altezza di proteggere Bella.
Persino la visione da incubo di Alice fu improvvisamente meno
vivida, i colori più sbiaditi. La sua capacità di turbarmi si stava
attenuando, e questo perché – era palese ormai – quel futuro era
completamente impossibile. Bella e io avremmo lasciato quel posto
mano nella mano, e la mia vita sarebbe finalmente cominciata.
Stavamo attraversando il nodo.
Non avevo dubbi che anche Alice l’avesse visto e che se ne
fosse rallegrata.
Sebbene la mia attuale posizione fosse assolutamente
confortevole, ero tuttavia impaziente di vivere la mia vita.
Mi allontanai da lei, lasciando nel frattempo che le mani
scivolassero lungo le sue braccia mentre ricadevano sui miei fianchi,
colmo di felicità per essere tornato a vedere il suo viso.
Mi guardò con aria incuriosita, ignara degli eventi importanti che
avevo vissuto.
«Non sarà più così difficile», promisi, anche se realizzai che le
mie parole probabilmente non avevano granché senso per lei.
«È stata dura?», chiese, mostrando comprensione.
La sua preoccupazione nei miei riguardi mi scaldò fino al midollo.
«Non terribile come immaginavo. E per te?».
Mi lanciò uno sguardo incredulo. «No, niente affatto terribile... per
me».
Lo fece sembrare così semplice, essere abbracciata da un
vampiro. Ma doveva essere servito più coraggio di quello che
lasciava trasparire. «Hai capito cosa intendo».
Sul suo viso apparve un grande, caldo sorriso un po’ sbilenco che
evidenziò la fossetta. Era evidente che, se avesse dovuto impiegare
tutte le sue forze per sopportare la mia vicinanza, non l’avrebbe mai
ammesso.
Pazzesco. Era l’unica parola per descrivere quello stato di euforia
che stavo vivendo. Non era una parola a cui pensavo spesso in
relazione a me stesso. Ogni pensiero che avevo in testa pretendeva
di fuoriuscire attraverso le labbra. E volevo sentire ogni pensiero di
lei. Questo, se non altro, non era nulla di nuovo. Tutto il resto invece
sì. Perché era cambiato tutto.
Presi la sua mano – senza prima averci pensato a lungo – perché
semplicemente avevo voglia di sentire la sua pelle contro la mia. Mi
sentii libero per la prima volta di essere spontaneo. Questi nuovi
slanci erano del tutto estranei ai precedenti.
«Vieni qui», le avvicinai la mano alla mia guancia. «Senti?».
La sua reazione a quel gesto istintivo da parte mia superò ogni
aspettativa. Le sue dita cominciarono a tremare contro i miei zigomi.
Gli occhi si allargarono e il sorriso lentamente scomparve. Il battito e
il respiro accelerarono.
Prima che potessi pentirmi di ciò che avevo fatto, lei si avvicinò e
sussurrò: «Resta lì».
Fui scosso da un brivido.
Feci come mi aveva detto. Mi pietrificai come nessun essere
umano sarebbe stato capace di fare. Non capivo cosa avesse in
mente – sembrava improbabile che volesse familiarizzare con la mia
assenza di sistema circolatorio – ma ero ansioso di scoprirlo. Chiusi
gli occhi. Non sapevo se lo stessi facendo per non farla sentire in
imbarazzo o perché in quel momento non volevo distrazioni.
La sua mano cominciò a muoversi molto lentamente. Mi
accarezzò prima la guancia. Poi le sue dita mi sfiorarono le palpebre
e quindi l’incavo arcuato sotto di loro. Dove la sua pelle incontrava la
mia, lasciava una scia di calore formicolante. Seguì il profilo del mio
naso e poi, con un tremore più accentuato, quello delle labbra.
La mia posa statuaria si sciolse. Aprii leggermente la bocca di
modo che potesse sentire il mio respiro.
Con un dito mi accarezzò di nuovo il labbro inferiore, e poi scostò
la mano. Sentii l’aria più fresca tra noi mentre si faceva di nuovo
indietro.
Aprii gli occhi e incontrai il suo sguardo. Aveva ancora del
rossore sul viso e il cuore le batteva forte. Sentii l’eco del suo ritmo
riverberare nel mio corpo, sebbene non vi fosse sangue che vi
scorresse.
Volevo... così tante cose. Cose di cui non avevo mai sentito il
bisogno nella mia centenaria esistenza, prima di incontrarla. Cose
che sicuramente non avevo voluto prima di essere immortale. E
avvertii che alcune di queste cose, che avevo sempre ritenuto
impossibili, potevano essere, in effetti, più che possibili. Ma pur
essendo del tutto tranquillo con lei per quel che riguardava la sete,
mi sentivo nondimeno ancora troppo forte. Troppo più forte di lei.
Ogni parte del mio corpo era dura come l’acciaio. Non dovevo mai
dimenticarmi della sua fragilità. Ci sarebbe voluto tempo per
imparare esattamente come muoversi quando le ero vicino.
Mi fissò e restò in attesa, chiedendosi cosa pensassi di quelle
sue carezze.
«Vorrei... vorrei sentissi la complessità...», farfugliai cercando di
spiegarmi. «La confusione... che provo. Vorrei che potessi
comprendere».
Un ricciolo dei suoi capelli, artigliato dalla brezza, danzava al
sole, rosseggiando sotto la luce. Allungai la mano per sentire la
trama di quel groviglio svolazzante tra le dita. Ma poi, poiché era
così vicino al viso, non potei resistere alla tentazione di
accarezzarglielo. Sotto la luce del sole, le sue guance sembravano
velluto.
Spinse la testa verso la mia mano, ma continuò a guardarmi negli
occhi.
«Spiegamelo», sospirò.
Non sapevo da dove cominciare.
«Non credo che ci riuscirei. Te l’ho detto, da una parte sento fame
di te, anzi sete», sorrisi come per scusarmi, «da creatura deplorabile
quale sono. E questo lo puoi capire, in un certo senso. Anche se, dal
momento che non sei dipendente da nessuna sostanza illegale,
probabilmente non te ne rendi conto fino in fondo. Ma...».
Le mie dita sembravano cercare autonomamente le sue labbra.
Gliele sfiorai delicatamente. Erano più morbide di quello che
pensavo. Anche più calde.
«Ci sono altri tipi di fame», continuai. «E quelli non riesco a
interpretarli, mi sono del tutto estranei».
Fece di nuovo quello sguardo leggermente scettico. «Forse
riesco a capire questo più di quanto ti aspetti».
«Non sono abituato a sentirmi tanto umano», ammisi. «Funziona
sempre così?».
La corrente selvaggia che soffiava attraverso il mio sistema, la
forza magnetica che mi spingeva avanti, la sensazione che non
avrebbe potuto esserci vicinanza che ci tenesse abbastanza vicini.
«Per me?», si fermò, riflettendo. «No, mai. Mai prima di oggi».
Strinsi le sue mani tra le mie.
«Non so come fare a starti accanto in questo modo», ammisi.
«Non sono sicuro di esserne capace».
Dove porre il limite per tenerla al sicuro? Come impedire al mio
desiderio più egoistico di spostare in maniera imprudente quel
limite?
Si avvicinò a me. Restai fermo e attento mentre poggiava il viso
sul mio petto: non fui mai tanto grato ad Alice per l’influenza che
aveva esercitato sul mio guardaroba come in quel momento.
Chiuse gli occhi. Sospirò, contenta. «Così va bene».
Era un invito a cui non potevo resistere. Sapevo che avrei potuto
riuscirci abbastanza bene. Con estrema cura avvolsi le braccia
intorno al suo corpo, stringendola in un abbraccio per la prima volta.
Tenni premute le labbra contro la sua testa, respirando il suo caldo
odore. Le diedi un bacio, sebbene furtivo; non ricambiato.
Ridacchiò. «Sei molto più bravo di quanto tu voglia credere».
«Possiedo ancora istinti umani», mormorai nei suoi capelli.
«Sono sepolti da qualche parte, ma ci sono».
Mentre la cullavo, con le labbra strette ai suoi capelli, lo scorrere
del tempo non significava più nulla. Il suo cuore ora languiva, lei
respirava piano perfino contro la mia pelle. Notai quel cambiamento
solo quando l’ombra degli alberi cadde su di noi. Senza il riflesso
della mia pelle il prato sembrò improvvisamente più scuro, come se
fosse sera e non pomeriggio.
Bella emise un profondo sospiro, non di contentezza, ma di
desolazione.
«Devi andare».
«Pensavo non fossi capace di leggermi nel pensiero».
Sorrisi e poi le strinsi le labbra sulla testa per darle un ultimo
bacio nascosto. «Comincio a vederci qualcosa».
Restammo lì ancora per molto tempo, sebbene sembrassero
trascorsi solo pochi secondi. Avrebbe avuto dei bisogni umani che
forse stava ignorando. Pensai al lungo e lento viaggio per arrivare al
prato e mi venne un’idea.
Mi allontanai – restio a porre fine a quell’abbraccio qualunque
cosa fosse successa – e le strinsi delicatamente le spalle.
«Posso mostrarti una cosa?», chiesi.
«Cosa?», domandò lei, con una punta di sospetto nella voce. Mi
accorsi che il mio tono era ben più che entusiastico.
«Il modo in cui io mi sposto nella foresta», dissi.
Increspò le labbra, dubbiosa, e le apparve la ruga tra le
sopracciglia, più profonda addirittura di prima, di quando l’avevo
quasi aggredita. La cosa mi sorprese, di solito era più curiosa e
coraggiosa.
«Non preoccuparti», la rassicurai. «Non c’è pericolo e torneremo
al pick-up molto più velocemente».
Sorrisi per incoraggiarla.
Lei valutò la cosa per un po’, poi disse a bassa voce: «Ti
trasformi in un pipistrello?».
Non riuscii a trattenermi dal ridere. E non volevo in realtà. Non
ricordavo di essermi mai sentito così libero di essere me stesso. Be’,
non era propriamente vero. Mi sentivo sempre libero e aperto
quando ero da solo con la mia famiglia. Ma con loro non mi ero mai
sentito così: entusiasta, selvaggio, come se ogni cellula del mio
corpo fosse viva in un modo nuovo ed elettrizzante. Stare con Bella
amplificava tutte le sensazioni.
«Come se non l’avessi già sentita!», la punzecchiai, non appena
riuscii a parlare di nuovo.
Si aprì in un sorriso. «Già, immagino che te lo dicano tutti».
Mi alzai in piedi in un istante, tendendole la mano. Lei osservò la
scena con aria dubbiosa.
«E dai, fifona», la incitai, «salta in spalla».
Mi fissò per un momento, esitante. Non capivo se fosse
diffidente, e non sapevo esattamente come avvicinarmi. Per noi la
vicinanza fisica era qualcosa di nuovo, e c’era ancora molta
timidezza.
Immaginando che fosse questo il problema, cercai di renderle la
cosa più semplice.
La sollevai da terra e l’aiutai ad aggrapparsi al mio corpo, come
se la portassi a cavalluccio. Il suo battito accelerò e fermò il respiro,
ma una volta in posizione le braccia e le gambe si strinsero intorno a
me. Mi sentii circondato dal calore del suo corpo.
«Sono un po’ più pesante di un normale zaino». Sembrava
preoccupata... che non fossi in grado di reggere il suo peso.
«Figuriamoci», sbuffai.
Mi colpì quanto fosse facile non tanto portare il suo peso
insignificante, quanto piuttosto averla letteralmente avvolta intorno a
me. La mia sete era così completamente oscurata dalla felicità che a
malapena ne avvertivo consapevolmente il dolore.
Le presi una mano, che si reggeva al mio collo, e la premetti
contro il naso. Inalai più forte che potevo. Sì, ecco il dolore. Reale,
ma non imponente. Cos’era una scintilla paragonata a tutta questa
luce?
«Sempre più facile», dissi inspirando.
Dopo una breve rincorsa decollai, scegliendo il percorso più
regolare per ritornare al punto di partenza. Mi sarebbe costato
qualche secondo in più prendere la via più lunga, ma saremmo stati
comunque al suo pick-up nel giro di qualche minuto anziché di ore. E
sarebbe stato meglio rispetto a sballottarla lungo un percorso più
verticale.
Un’esperienza nuova, gioiosa. Avevo sempre amato correre. Per
quasi cento anni era stata la mia più pura sensazione fisica di
felicità. Ma ora, potendo condividere questo con lei, senza distanza
fisica o psichica tra noi, comprendevo quanto maggior piacere
potesse esserci nella corsa di quanto avessi mai immaginato. Mi
domandai se questa cosa l’entusiasmasse come entusiasmava me.
Fui improvvisamente colto da un dubbio. Mi ero affrettato a
portarla a casa immaginando che questo fosse il suo desiderio.
Tuttavia... non avremmo dovuto concludere quell’incontro
memorabile con un degno finale, qualcosa che suggellasse la nostra
nuova intesa? Una benedizione. Ma ero stato troppo frettoloso, e me
ne ero reso conto solo ora che eravamo in movimento.
Non era troppo tardi. Il mio sistema si era di nuovo elettrizzato
mentre pensavo a... un vero bacio. Un tempo credevo che fosse
impossibile. Un tempo avevo pianto perché questa impossibilità
feriva sia me che lei. Ora ritenevo che tutto questo fosse possibile...
e vicino. L’elettricità rimbalzò tra le pareti del mio stomaco, e mi
chiesi perché gli esseri umani avessero pensato di chiamare questa
sensazione farfalle nello stomaco.
Rallentai fino a fermarmi a pochi passi da dove aveva
parcheggiato.
«Elettrizzante, eh?», chiesi, ansioso della sua reazione.
Non rispose, e continuò a restare aggrappata attorno alla mia vita
e al collo. Trascorsero alcuni secondi in un silenzio calmo. C’era
qualcosa che non andava.
«Bella?».
Sussultò mentre respirava, e capii che cercava di trattenerlo.
Avrei dovuto accorgermene.
«Credo di dovermi sdraiare», disse con un filo di voce.
«Oh». Avevo ancora un disperato bisogno di fare pratica con gli
esseri umani. Non avevo nemmeno immaginato la possibilità della
cinetosi. «Scusa».
Aspettai che lasciasse la presa, ma non riusciva a rilassare i
muscoli.
«Ho bisogno di aiuto, credo», sussurrò.
Con movimenti lenti e delicati liberai prima le sue gambe, poi le
braccia, quindi la sollevai in modo da tenerla come se la cullassi.
Il colorito della sua carnagione all’inizio mi allarmò, ma avevo già
visto quel verde pallido. L’avevo già tenuta tra le braccia, quel
giorno, eppure ora era una cosa completamente diversa.
Mi inginocchiai e la adagiai su una morbida macchia di felci.
«Come va?».
«Credo di avere un po’ di nausea».
«Tieni la testa tra le ginocchia», suggerii.
Obbedì automaticamente, come se ormai fosse una risposta
consueta.
Mi sedetti accanto a lei. Sentendo il suo respiro regolare mi resi
conto che ero più ansioso di quanto la situazione non meritasse.
Sapevo che non era nulla di grave, solo un po’ di nausea, eppure...
vederla così sofferente e pallida mi disturbava più del normale.
Qualche istante dopo provò a sollevare la testa. Era ancora
pallida, ma non così verde. Una leggera patina di sudore le ricopriva
la fronte.
«Forse non è stata una grande idea», biascicai, sentendomi un
cretino.
Accennò un sorriso. «No, è stato parecchio interessante», mentì.
«Ma dai!», sbuffai in maniera stizzita. «Sei pallida come un
fantasma... anzi, sei pallida come me!».
Respirò lentamente. «Forse avrei dovuto chiudere gli occhi». A
queste parole le sue palpebre seguirono l’esempio.
«La prossima volta ricordatelo». Il suo colorito andò migliorando e
la mia tensione si allentò via via che le guance le ridiventavano rosa.
«Ma quale prossima volta?!», borbottò in maniera teatrale.
Si finse arrabbiata e la cosa mi fece ridere.
«Spaccone», bofonchiò.
Sporse il labbro inferiore, rotondo e pieno. Immaginai cosa
sarebbe successo se fossimo stati ancora più vicini.
Mi piegai sulle ginocchia e fui di fronte a lei. Mi sentivo nervoso,
irrequieto, impaziente e insicuro. Il desiderio di esserle vicino mi
ricordò la sete alla quale solitamente dovevo resistere. E anche
questo era difficile, impossibile da ignorare.
Sentivo il suo alito caldo sulla faccia. Mi feci più vicino.
«Apri gli occhi, Bella».
Obbedì muovendosi lentamente. Per un istante mi guardò da
dietro le ciglia folte, per poi sollevare il mento di modo che le nostre
facce fossero allineate.
«Mentre correvo, pensavo...», la mia voce calò all’improvviso;
non fu tra gli esordi più romantici.
Socchiuse gli occhi. «A non centrare gli alberi, spero».
Ridacchiai mentre lei provava a trattenere il sorriso. «Sciocca.
Correre per me è un gesto automatico, non è qualcosa a cui devo
stare attento».
«Spaccone», ripeté, ma con più enfasi questa volta.
Eravamo andati fuori traccia. E mi sorprese che ciò fosse perfino
possibile, tanto erano vicine le nostre facce. Sorrisi e ripresi il filo del
discorso.
«Dicevo... Pensavo a una cosa che vorrei provare». Le presi
delicatamente il viso tra le mani, lasciandole spazio per sottrarsi se
non avesse gradito.
Bloccò il respiro e inclinò automaticamente la testa più vicino alla
mia.
Impiegai una frazione di secondo per ricalibrare e verificare ogni
meccanismo del mio corpo e per assicurarmi completamente che
nulla potesse cogliermi di sorpresa. La mia sete era perfettamente
sotto controllo, sublimata al fondo dei miei bisogni fisici. Regolai la
pressione delle mani, delle braccia, il modo in cui inclinare il busto
verso di lei, in maniera tale che il mio tocco sulla sua pelle fosse più
leggero di una brezza. Sebbene fossi sicuro che si trattava di una
precauzione non necessaria, trattenni il respiro. Ma dopotutto la
prudenza non era mai troppa.
Le sue palpebre si chiusero.
Azzerai la distanza già minima che ci separava e premetti
dolcemente le mie labbra sulle sue.
Per quanto pensassi di essere pronto, non ero del tutto preparato
a quel tipo di combustione.
Che strana alchimia era mai quella, che un tocco delle labbra
potesse essere tanto più intenso di un tocco delle dita? Non aveva
alcun senso che il semplice contatto di quella zona specifica della
pelle fosse così tanto più potente di qualsiasi altra cosa avessi mai
sperimentato. Sembrava che un nuovo sole stesse esplodendo nel
punto esatto in cui le nostre bocche si erano incontrate e che il mio
intero corpo fosse riempito di questa luce folgorante fino a
frantumarsi in mille pezzi.
Ebbi solo una frazione di secondo per affrontare la potenza di
quel bacio prima che l’alchimia colpisse Bella.
Ansimò, le labbra leggermente aperte contro le mie, la febbre del
suo respiro che bruciava la mia pelle. Mi strinse le braccia al collo, le
dita intrecciate tra i capelli. Fece leva per schiacciare ancora di più le
sue labbra sulle mie. Le sue labbra divennero più calde di prima,
come se fossero state irrorate da sangue fresco. Si aprirono ancora,
un invito...
Un invito che non sarebbe stato prudente per me accettare.
Con cautela, esercitando la minore forza possibile, allontanai il
suo viso dal mio, tenendo però ferma la punta delle dita perché
rimanesse a distanza. Al di là di questo piccolo cambiamento, rimasi
immobile e cercai se non di ignorare la tentazione, almeno di
allontanarmi da essa. Notai il ritorno spiacevole di una reazione
predatoria – un travaso di veleno nella bocca, una specie di stretta
profonda – ma erano risposte superficiali. Per quanto forse fosse
scorretto affermare che la razionalità in quel momento avesse tutto
sotto controllo, alla fin fine non era una passione smodata ciò che
rendeva falsa questa affermazione. In realtà io ero preda di una
passione molto più gradevole. E nondimeno, la sua natura non
aveva eliminato la necessità di moderarla.
Bella fece un’espressione a metà tra il confuso e il dispiaciuto.
«Ops», disse.
Non potei fare a meno di pensare che cosa le sue azioni
innocenti avrebbero potuto scatenare solo qualche ora prima.
«“Ops” è troppo poco», concessi.
Non era a conoscenza dei progressi che avevo fatto quel giorno,
ma lei aveva sempre agito come se avessi il perfetto controllo di me
stesso, anche quando non era così. Fu un sollievo sentirmi
finalmente come se avessi meritato un po’ di quella fiducia.
Provò a farsi indietro, ma era come se le mie mani fossero
agganciate al suo viso.
«Devo...?».
«No», la rassicurai, «è sopportabile. Per favore, aspetta un
attimo».
Volevo essere sicuro che non mi sfuggisse nulla. I miei muscoli si
erano rilassati e l’afflusso di veleno era scomparso. Lo stimolo a
stringerla tra le braccia e riprendere l’alchimia del bacio era stato
l’impulso più difficile da respingere, ma feci ricorso a decenni di
pratica di autocontrollo per fare la scelta giusta.
«Ecco», dissi una volta completamente calmo.
Stava combattendo per trattenere un altro sorriso.
«Sopportabile?», chiese.
Risi. «Sono più forte di quanto pensassi». Non avrei mai creduto
di poter avere tutta quella capacità di controllo. Ma era stato un
progresso davvero rapido. «È una bella notizia».
«Mi piacerebbe poter pensare altrettanto di me».
«E dai, dopotutto sei soltanto un essere umano».
Sollevò gli occhi al cielo in risposta alla mia leggera presa in giro.
«Tante grazie».
La luce aveva pervaso il mio corpo mentre ci baciavamo. Provavo
una tale felicità che non sapevo se sarei riuscito a trattenerla. La
gioia travolgente e il generale senso di disorientamento mi fecero
preoccupare di non essere stato sufficientemente responsabile.
Avrei dovuto riaccompagnarla a casa. E poi, non era così difficile
pensare di mettere fine all’utopia di quel pomeriggio, perché
saremmo comunque ritornati insieme.
Mi alzai in piedi e le offrii la mano. Questa volta l’afferrò subito e
l’aiutai a sollevarsi. Barcollò un po’. Sembrava ancora poco stabile.
«Ti senti ancora indebolita dalla corsa?», chiesi. «O è stato il mio
bacio da maestro?». Scoppiai a ridere.
Mi strinse il polso con la mano per non cadere. «Non so», disse
scherzando. «Mi sento ancora imbambolata. L’uno e l’altro, penso».
Si fece vicinissima. Sembrava intenzionale e non una vertigine.
«Forse è meglio che guidi io».
Improvvisamente sembrò essersi completamente ristabilita.
Addrizzò la schiena. «Sei pazzo?».
Se avesse guidato lei, avrebbe dovuto tenere entrambe le mani
sul volante, e io non avrei potuto fare nulla per distrarla. Se avessi
guidato io, tuttavia, avrei avuto molto più margine di manovra.
«Sono un pilota migliore di te nella tua forma più smagliante. Hai i
riflessi molto più lenti dei miei». Sorrisi, in modo che lei capisse che
stavo scherzando. Più o meno.
Rispose senza argomentare. «Certo, ma non credo che i miei
nervi o il mio pick-up possano farcela a sostenerti».
Cercai di mettere in atto quella sorta di incantamento di cui mi
aveva già accusato. Ma non ero ancora sicuro di che cosa
intendesse esattamente. «E dai, Bella, un po’ di fiducia».
Non funzionò, forse perché stava guardando in basso. Tastò la
tasca dei jeans, poi estrasse la chiave del mezzo e la strinse forte
nella mano. Alzò nuovamente lo sguardo e scosse la testa. «No»,
disse. «Nemmeno per sogno».
Si avviò al pick-up, aggirandomi. Non sapevo se fosse ancora per
le vertigini o solo perché si muoveva goffamente, ma un passo dopo
barcollò e l’afferrai giusto in tempo prima che cadesse. La strinsi a
me.
«Bella», sospirai. Dai suoi occhi era scomparsa tutta la giocosità,
e si avvicinò, inclinando il viso verso il mio. Baciarla immediatamente
mi sembrò un’idea fantastica e terribile allo stesso tempo. Finii per
mantenermi cauto.
«Fino a questo momento il mio sforzo personale nel tentativo di
salvarti la vita è stato enorme», le ricordai in tono scherzoso. «Non
permetterò certo che tu ti metta al volante nel momento in cui non
riesci nemmeno a camminare in linea retta. Oltretutto, gli amici non
lasciano guidare chi ha bevuto, lo sai», conclusi, citando lo slogan
dell’Ad Council. Era un riferimento datato, per lei; doveva avere solo
tre anni quando era stata lanciata la campagna pubblicitaria.
«Pensi che sia ubriaca?».
Feci un mezzo sorrisetto. «Sei intossicata dalla mia presenza».
Sospirò, arrendendosi. «Non ti posso dare torto».
Tenendo il pugno sollevato lasciò cadere la chiave della
macchina nella mia mano.
«Vacci piano», mi avvertì. «Il pick-up è un pensionato».
«Molto ragionevole».
Fece una smorfia. «E tu, non sei nemmeno scalfito dalla mia
presenza?».
Scalfito? Mi aveva completamente trasformato. A stento mi
riconoscevo.
Per la prima volta in cento anni ero grato di essere quello che
ero. Ogni aspetto del mio essere un vampiro – tutto tranne il pericolo
che rappresentavo per lei – era improvvisamente diventato
accettabile, perché era ciò che mi aveva permesso di vivere
abbastanza per incontrare Bella.
Tutti quei decenni non sarebbero stati così difficili se avessi
saputo prima che cosa mi aspettava, che la mia esistenza stava
avanzando verso quanto di meglio potessi immaginare. Gli anni non
erano trascorsi ad ammazzare il tempo, come avevo pensato; erano
stati anni di progresso. Perfezionare, preparare, padroneggiare me
stesso per ottenere questo.
Non ero ancora sicuro di questa nuova versione di me; l’estasi
violenta che pervadeva ogni mia cellula sembrava insostenibile a
lungo andare. Eppure, non sarei mai voluto ritornare al vecchio me.
Quell’Edward sembrava incompiuto, incompleto. Come se ne
mancasse una metà.
Per lui sarebbe stato impossibile fare quello che avevo fatto io: mi
chinai e premetti le labbra sull’angolo della sua mascella, appena
sopra la sua arteria pulsante. Lasciai che le mie labbra la sfiorassero
dolcemente fino al mento e poi la baciai lungo la via che riportava
all’orecchio, sentendo il velluto cedevole della sua pelle calda sotto
la debole pressione delle mie labbra. Rabbrividì tra le mie braccia,
ricordandomi che quello che per me era un calore senza precedenti,
per lei era invece un inverno gelido. Lasciai la presa.
«E in ogni caso», le sussurrai all’orecchio, «i miei riflessi sono più
pronti dei tuoi».
18. RAGIONE E ISTINTO

Insistere perché guidassi io era stata un’ottima idea.


C’erano tante di quelle cose che non avremmo potuto fare se lei
avesse dovuto concentrare i suoi sensi umani sulla strada: tenerci la
mano, scambiarci gli sguardi, irradiare gioia in generale. Ma più di
tutto, la sensazione di essere colmo al punto da scoppiare di pura
luce non si era affatto attenuata. Sapevo quanto fosse travolgente
per me; non ero sicuro di quanto questo avrebbe potuto
compromettere un sistema umano. Molto più sicuro lasciare che a
badare alla strada fosse il mio sistema non umano.
Le nuvole si spostavano mentre il sole tramontava. Ogni tanto
una lancia di luce rossastra mi colpiva il viso. Chissà quale terrore
avrei provato fino al giorno prima a essere esposto in questa
maniera. Adesso avevo voglia di ridere. Mi sentivo colmo di risate,
come se la luce dentro di me avesse bisogno di quella via di fuga.
Curioso, accesi la sua autoradio e fui sorpreso nello scoprire che
non era sintonizzata su nulla in particolare, bensì statica.
Considerato il volume dell’apparecchio, ne dedussi che lei non
perdeva tempo con la musica da viaggio. Girai la manopola fino a
quando non trovai una stazione semiascoltabile. Davano una
canzone di Johnny Ace e sorrisi. Pledging My Love. Niente di più
appropriato.
Cominciai a cantare, sentendomi un po’ sdolcinato, ma ero
contento di avere la possibilità di dire quelle parole a lei. Sempre e
per sempre, amerò solo te.
Lei non staccava gli occhi dal mio viso, sorridendomi con
un’espressione che adesso potevo con certezza definire stupore.
«Ti piace la musica dei Cinquanta?», mi chiese quando finì la
canzone.
«La musica degli anni Cinquanta era buona. Di gran lunga meglio
che nei Sessanta o nei Settanta! Roba da brividi». Per quanto ci
fossero delle eccellenti eccezioni, gli artisti che mandavano allora
nelle poche stazioni radio non erano tra i miei preferiti. La musica
disco non mi aveva mai fatto impazzire. «Gli anni Ottanta erano
sopportabili».
Strinse le labbra per un momento, irrigidendo lo sguardo come se
qualcosa la preoccupasse. Poi mi chiese con calma: «Conoscerò
mai la tua vera età?».
Ah, aveva paura di rovinarmi l’umore. Le sorrisi tranquillo.
«Importa qualcosa?».
Sembrava sollevata dalla mia risposta leggera. «No, ma me lo
chiedo spesso... Sai, non c’è niente di meglio che un bel mistero
irrisolto per trascorrere una notte insonne».
Fu il mio turno di preoccuparmi. «Chissà se ne rimarresti
sconvolta...».
Non era rimasta disgustata dalla mia disumanità, ma avrebbe
avuto una reazione diversa nel conoscere gli anni di differenza tra
noi? Sotto diversi aspetti io avevo ancora diciassette anni. Lei mi
vedeva in quel modo?
Che cosa si era immaginata? Millenni dietro di me, castelli gotici
e accenti della Transilvania? Be’, nulla di tutto questo era
impossibile. Carlisle conosceva tipi così.
«Mettimi alla prova», mi disse a mo’ di sfida.
La guardai negli occhi frugando nelle loro profondità in cerca di
risposte. Sospirai. Non avrei dovuto avere un po’ più di coraggio
dopo gli eventi che ci erano capitati? Ma eccomi qui, ancora
timoroso di terrorizzarla. Ovviamente non c’era altra scelta che
essere del tutto sincero.
«Sono nato a Chicago nel 1901», ammisi. Rivolsi lo sguardo alla
strada per non farla sentire osservata mentre faceva i suoi calcoli
mentali, ma non potei evitare di lanciare uno sguardo con la coda
dell’occhio. Rimase artificiosamente composta e capii che stava
controllando le sue reazioni. Non voleva apparire terrorizzata più di
quanto io non volessi spaventare lei. Quanto più ci conoscevamo
tanto più sembravamo rispecchiare l’uno i sentimenti dell’altra.
Armonia.
«Carlisle mi trovò in un ospedale nell’estate del 1918. Avevo
diciassette anni e stavo morendo di spagnola».
A queste parole il suo autocontrollo vacillò ed ebbe un sussulto
sconcertato, con gli occhi sgranati.
«Ho qualche ricordo vago», continuai per rassicurarla. «È stato
tantissimo tempo fa, e la memoria umana tende a svanire».
Non sembrava del tutto rassicurata, ma annuì. Non disse nulla, in
attesa che continuassi il mio racconto.
Mi ero appena ripromesso di essere completamente sincero, ma
mi resi conto in quel momento che dovevo mettere dei limiti. C’erano
cose che lei doveva sapere... ma anche dettagli che non sarebbe
stato saggio comunicare. Forse Alice aveva ragione. Forse Bella, se
stava provando qualcosa di simile a quello che provavo io, avrebbe
voluto a tutti i costi prolungare quel sentimento. Stare con me, come
mi aveva detto nel prato. Sapevo che non sarebbe stato semplice
per me negare a Bella qualsiasi cosa avesse voluto. Scelsi le parole
con cura.
«Però ricordo bene quello che provai quando Carlisle mi salvò.
Non è una cosa facile; è impossibile da dimenticare».
«E i tuoi genitori?», mi chiese timidamente e io mi rilassai, felice
che avesse scelto di non fissarsi sull’ultima parte.
«Erano già stati uccisi dal morbo. Ero rimasto solo». Non c’era
altro da aggiungere. Questa parte della mia vicenda sembrava più
una storia che mi era stata narrata che non dei ricordi veri e propri.
«Perciò Carlisle scelse me. Nel caos dell’epidemia, nessuno si
sarebbe accorto della mia scomparsa».
«Come... ha fatto a salvarti?».
Giusto per evitare le domande difficili. Riflettei su ciò che era
meglio tacerle.
La mia risposta danzò ai confini della sua domanda. «Fu difficile.
Pochi di noi possiedono l’autocontrollo necessario a un atto del
genere. Ma Carlisle è sempre stato il più umano, il più
compassionevole di noi tutti... Non credo abbia eguali nella storia».
Ripensai a mio padre per un momento e mi domandai se quelle mie
parole gli rendessero giustizia. Poi continuai dicendole qualcosa che,
secondo me, lei avrebbe potuto sapere senza che le causasse
problemi. «Quanto a me... fu qualcosa di semplicemente doloroso,
molto doloroso».
Mentre gli altri ricordi potenzialmente dolorosi – la perdita di mia
madre, in particolare – erano confusi e sbiaditi, il ricordo di questo
dolore era straordinariamente vivido. Mi irrigidii leggermente. Se mai
fosse venuto un momento in cui Bella me l’avesse chiesto di nuovo,
con la piena consapevolezza di cosa significasse stare con me,
questo ricordo mi avrebbe aiutato certamente a dire di no. Rifiutavo
l’idea che lei dovesse affrontare questo dolore.
Lei registrò la mia risposta, con le labbra increspate e gli occhi
socchiusi in un’espressione meditabonda. Volevo conoscere la sua
reazione, ma sapevo che se avessi chiesto avrei dovuto affrontare
altre domande affilate. Continuai il mio racconto nella speranza di
distrarla.
«Fu la solitudine a spingerlo. Dietro scelte del genere c’è sempre
un motivo simile. Fui il primo a entrare nella famiglia di Carlisle,
anche se poco dopo trovò Esme. Era caduta da uno scoglio. La
portarono direttamente all’obitorio dell’ospedale, benché, chissà
come, il suo cuore battesse ancora».
«Perciò bisogna essere in punto di morte, per diventare...».
Non l’avevo distratta abbastanza. Cercava ancora di
comprendere il meccanismo. Mi affrettai a reindirizzare la
conversazione.
«No, è una scelta di Carlisle. Lo fa solo con chi non ha più
speranze, con chi non ha altre possibilità. Inoltre, secondo lui,
quando il sangue è debole è più facile».
Riportai lo sguardo sulla strada. Questa cosa non avrei dovuto
aggiungerla. Mi chiesi se non mi stessi avvicinando alle risposte che
lei cercava perché una parte di me voleva che lei sapesse, voleva
che lei trovasse un modo per stare con me. Avrei fatto meglio a
tenere a freno la lingua. A tenere imbrigliata la parte egoista di me.
«E Rosalie ed Emmett?».
Le sorrisi. Probabilmente aveva capito che ero evasivo, eppure
era disposta a lasciar perdere per farmi sentire a mio agio.
«Rosalie fu la terza a unirsi alla nostra famiglia. Carlisle sperava
che sarebbe diventata per me ciò che Esme era per lui – ha sempre
avuto un’attenzione particolare per me e chi avessi accanto, ma
questo lo capii soltanto molto tempo dopo».
Ricordai il mio disgusto quando alla fine rinunciò. All’inizio l’arrivo
di Rosalie non era stato molto gradito – a dire il vero, la vita era
diventata molto più complicata per tutti noi da quando era arrivata lei
–, e sapere che Carlisle aveva immaginato una relazione ancora più
intima tra me e lei era stato orribile. L’esatta entità della mia
avversione sarebbe stata scortese da comunicare. Una cosa non da
gentiluomini.
«Ma non è mai stata più che una sorella». Questa probabilmente
era la frase più gentile con cui chiudere quel capitolo della storia.
«Fu lei, due anni dopo, a trovare Emmett. Era a caccia – all’epoca
vivevamo sugli Appalachi – e lo vide in balia di un orso, mezzo
sbranato. Lo portò a Carlisle, a centinaia di chilometri di distanza,
perché temeva di non essere capace di fare ciò che voleva da sola».
All’epoca vivevamo fuori da Knoxville; non era un posto ideale
per noi, dal punto di vista climatico. Dovevamo rimanere in casa la
maggior parte del tempo. Non era una sistemazione a lungo termine
comunque: Carlisle stava conducendo degli studi di patologia alla
facoltà di medicina dell’Università del Tennessee. Qualche
settimana, qualche mese... non era una situazione particolarmente
gravosa. Avevamo accesso a numerose biblioteche, e la vita
notturna di New Orleans non era troppo lontana, non per creature
veloci come noi. Tuttavia Rosalie, che aveva già superato la fase
iniziale della nuova vita ma che ancora non si sentiva a suo agio in
una prossimità troppo stretta con gli umani, rifiutava di divertirsi. Al
contrario, teneva il muso e si lamentava, trovando da ridire su ogni
suggerimento per divertirsi o migliorarsi. A essere sinceri forse non
si lamentava poi tanto ad alta voce. Esme non era così irritata
quanto lo ero io.
Rosalie preferiva cacciare da sola e, benché in teoria avrei
dovuto vegliare su di lei, era un sollievo per entrambi che non
facessi troppe obiezioni. Lei sapeva come stare attenta. Tutti noi
avevamo imparato bene a trattenere i nostri sensi fino a quando
fossimo stati in aree spopolate. E anche se io ero restio a
riconoscere una qualsivoglia virtù a questa sgradita intrusa, dovevo
pur ammettere che era dotata di un autocontrollo straordinario.
Soprattutto per testardaggine e, secondo me, per il desiderio di
superarmi.
Così, quando i passi di Rosalie, risuonando più veloci e pesanti
del solito, ruppero la calma antelucana di quella estate a Knoxville –
il suo odore familiare preceduto dal forte aroma di sangue umano e i
suoi pensieri divenuti selvaggi e incoerenti –, la mia prima
congettura non fu che avesse commesso un errore.
Durante il primo anno della seconda vita di Rosalie, prima ancora
che partisse per le sue varie missioni di vendetta, i suoi pensieri me
l’avevano svelata chiaramente e completamente. Sapevo cosa stava
architettando e avevo informato Carlisle. La prima volta lui le parlò
gentilmente, esortandola a lasciar andare la sua vita passata, nella
convinzione che se lo avesse fatto avrebbe dimenticato, e allora il
suo dolore si sarebbe attenuato. La vendetta non poteva riportare
indietro tutto ciò che aveva perso. Ma dal momento che i consigli di
Carlisle si scontrarono con l’implacabilità della sua rabbia, le suggerì
il modo migliore per essere discreta nelle sue incursioni. Nessuno di
noi se la sentiva di sostenere che non meritasse vendetta. Ed
entrambi non potevamo fare a meno di credere che il mondo
sarebbe stato un posto migliore senza gli stupratori e gli assassini
che avevano posto fine alla sua vita.
Pensavo che li avesse presi tutti. I suoi pensieri si erano placati
da tempo, non più ossessionati dal desiderio di rompere e lacerare,
sfigurare e mutilare.
Ma non appena l’odore del sangue travolse la casa come uno
tsunami, pensai immediatamente che avesse scovato un altro
complice della sua morte. Sebbene in generale non avessi una
grande opinione di lei, avevo molta fiducia nella sua capacità di non
fare del male.
Tutte le mie aspettative si ribaltarono quando la sentii urlare in
preda al panico chiedendo l’aiuto di Carlisle. Poi, al di sotto dello
stridio acuto della sua angoscia, colsi il suono di un battito cardiaco
debolissimo.
Corsi fuori dalla mia stanza, e la trovai nel salotto prima ancora
che avesse finito di urlare. Carlisle era già lì. Rosalie, i capelli
insolitamente disordinati, il suo vestito preferito talmente intriso di
sangue che l’orlo della gonna era macchiato di un rosso intenso,
portava tra le braccia un uomo gigantesco. Era semincosciente, con
gli occhi che vagavano per la stanza fuori sincrono. La pelle era
lacerata in più punti da squarci uniformemente distanziati, e alcune
ossa sottostanti erano evidentemente rotte.
«Salvalo!», disse Rosalie a Carlisle, gridando. «Ti prego!».
Ti prego, ti prego, ti prego, implorava nei suoi pensieri.
Vedevo quanto le costavano quelle parole. Quando inspirò per
ricambiare l’aria che aveva usato, indietreggiò di fronte alla potenza
del sangue fresco, così vicino alla sua bocca. Teneva l’uomo lontano
da sé, distogliendo il viso.
Carlisle comprese la sua angoscia. Rapidamente tolse l’uomo
dalle sue braccia e lo adagiò con delicatezza sul tappeto. L’uomo era
troppo debole persino per gemere.
Rimasi lì a guardare sconcertato da quella strana scena,
trattenendo automaticamente il respiro. Avrei dovuto già lasciare la
casa. Riuscivo a sentire i pensieri di Esme, che rapidamente si
allontanavano. Non appena aveva colto l’odore del sangue era
riuscita a fuggire, nonostante fosse confusa quanto me.
È troppo tardi, constatò Carlisle esaminando l’uomo. Odiava
deludere Rosalie; sebbene fosse evidentemente infelice in quella
seconda vita che le aveva dato, raramente gli chiedeva qualcosa. Di
certo mai con tutta quella pena. Deve essere un familiare, pensò
Carlisle. Come posso sopportare di ferirla di nuovo?
L’uomo – non era molto più grande di me, ora che l’osservavo
bene in viso – chiuse gli occhi. Il respiro debole incespicò.
«Che cosa aspetti?», urlò Rosalie. Sta morendo! Sta morendo!
«Rosalie, io...». Carlisle tese le mani insanguinate con un gesto
d’impotenza.
In quel momento un’immagine affiorò nella mente di lei e io capii
esattamente che cosa stesse chiedendo.
«Non vuole che tu lo guarisca», tradussi rapidamente. «Vuole
che lo salvi».
Gli occhi di Rosalie balenarono su di me, e uno sguardo di
intensa gratitudine alterò i suoi lineamenti in un modo che non avevo
mai visto. Per un istante mi ricordai di quanto fosse bella.
Non dovemmo aspettare molto prima che Carlisle prendesse la
sua decisione.
Oh!, pensò Carlisle. Mi ravvidi di quanto avrebbe fatto per
Rosalie, quanto sentiva di doverle. Non ci fu quasi bisogno di
riflettere.
Si stava già inginocchiando sulla figura martoriata mentre ci
mandava via.
«Non è sicuro per voi rimanere qui», disse mentre inclinava il viso
sulla gola dell’uomo.
Afferrai il braccio insanguinato di Rosalie e corsi verso la porta.
Lei non fece resistenza. Scappammo entrambi, senza fermarci
finché non raggiungemmo il vicino fiume Tennessee e non ci
immergemmo nelle sue acque.
Lì, sdraiati nel fango freddo sulla sponda del fiume, mentre
Rosalie faceva colare via il sangue dal vestito e dalla pelle, avemmo
la nostra prima vera conversazione.
Lei non parlava spesso, si limitò a mostrarmi nella sua mente
dove aveva trovato l’uomo, un perfetto estraneo, che era sul punto di
morire, e di come qualcosa nel suo volto le avesse fatto apparire
intollerabile quel futuro. Non sapeva spiegare perché. Non aveva
parole per esprime come – come fosse riuscita a completare quel
viaggio straziante senza ucciderlo lei stessa. La vidi correre per
chilometri, più veloce di quanto avesse mai fatto, soffrendo
incredibilmente per non soddisfare la sua sete durante il tragitto.
Mentre riviveva tutto questo, la sua mente era indifesa e vulnerabile.
Anche lei cercava di capire, ed era confusa quasi quanto me.
Non ci tenevo ad avere un altro membro nella famiglia. Non mi
ero mai particolarmente preoccupato di cosa volesse o di cosa
avesse bisogno Rosalie.
Ma all’improvviso, scorgendo tutto questo nei suoi occhi, non
potei fare a meno di sperare nella sua felicità. Per la prima volta
eravamo dalla stessa parte.
Per un po’ non potemmo tornare, ma Rosalie era ansiosa di
sapere che cosa stesse accadendo. La rassicurai dicendole che
Carlisle sarebbe venuto a cercarci se non ci fosse riuscito. Quindi
per il momento non potevamo fare altro che aspettare finché non
fosse stato sicuro.
Quelle ore ci cambiarono entrambi. Quando alla fine Carlisle
venne a richiamarci, tornammo da fratello e sorella.
La pausa in cui ricordai di come ero arrivato ad amare mia sorella
non fu molto lunga. Bella aspettava ancora il resto della storia.
Ripensai al punto in cui mi ero interrotto: Rosalie, grondante di
sangue, che teneva il suo viso quanto più lontano possibile da
Emmett. La sua postura in quell’immagine mi fece affiorare un
ricordo più recente: io che lottavo con me stesso per portare Bella,
stordita, in infermeria. Un’associazione di idee interessante.
«Adesso comincio a immaginare quanto fu difficile quel viaggio»,
conclusi. Le nostre dita erano intrecciate. Sollevai le nostre mani e,
con il dorso della mia, le accarezzai la guancia. L’ultimo lampo di
luce rossastra nel cielo si trasformò in un viola intenso.
«Eppure, ci riuscì», disse Bella dopo un breve silenzio,
desiderosa che continuassi la storia.
«Sì. Qualcosa nel viso di Emmett le diede la forza necessaria».
Incredibile che avesse avuto ragione. Sorprendente come si
completassero alla perfezione, come due metà di un intero. Destino
o astronomica buona sorte? Non avevo mai saputo decidermi.
«Stanno assieme da quel giorno. Di tanto in tanto vivono isolati dal
nostro gruppo, come una coppia di sposi». E be’, quanto apprezzavo
quei periodi. Volevo bene a Emmett e Rosalie presi separatamente,
ma loro due insieme, ascoltati solo dalla mia ineludibile mente, erano
un calvario estenuante. «Ma più giovani fingiamo di essere, più a
lungo riusciamo a stabilirci nello stesso luogo. Forks sembrava
perfetta, perciò ci siamo iscritti tutti alla scuola superiore». Risi.
«Credo che tra qualche anno dovremo presenziare al loro
matrimonio, l’ennesimo».
Rosalie amava sposarsi. La possibilità di farlo più e più volte era
forse l’aspetto che preferiva dell’immortalità.
«Alice e Jasper?».
«Alice e Jasper sono due creature molto rare. Hanno entrambi
sviluppato una “coscienza”, come la chiamiamo noi, senza influenze
esterne. Jasper faceva parte di un’altra... famiglia». Evitai di usare la
parola più appropriata, trattenendo un brivido mentre ripensavo alle
sue origini. «Molto diversa dalla nostra. Cadde in depressione, se ne
distaccò e iniziò a vagare solitario. Fu scoperto da Alice. Come me,
lei possiede alcune qualità fuori della norma anche per la nostra
razza».
Questo sorprese Bella tanto da incrinare la sua facciata
imperturbabile. «Davvero? Hai detto però di essere l’unico capace di
leggere nel pensiero».
«È così. Lei è capace di altro: lei può vedere. Vede le possibilità e
gli eventi del futuro prossimo». Cose che adesso non sarebbero mai
accadute. Il peggio era passato. Eppure ancora... mi impensieriva
quanto fosse offuscata la nuova visione, l’unica con cui potessi
convivere. L’altra – Alice e Bella entrambe bianche e fredde – era
stata molto più nitida. Ma non importava. Non poteva. Avevo
soggiogato un futuro impossibile e avrei trionfato anche su questo.
«Ma è molto soggettivo», continuai, percependo il tono più duro nella
mia voce. «Il futuro non è inciso nella pietra. Tutto cambia».
Lanciai un’occhiata alla sua pelle color crema e albicocca, quasi
per rassicurarmi che fosse come doveva essere, e poi guardai
altrove quando lei catturò il mio sguardo. Non potevo mai essere
sicuro di quanto leggesse nei miei occhi.
«Che genere di cose vede?». Bella voleva sapere.
Le diedi le risposte sicure, le profezie comprovate.
«Vide Jasper, e sapeva che la stava cercando ancora prima che
lui se ne rendesse conto». La loro unione era stata magica. Ogni
volta che Jasper ci pensava, l’intera famiglia scivolava in una
contentezza trasognata, tanto potenti erano le emozioni che
condivideva. «Vide Carlisle e la nostra famiglia, e ci raggiunse
assieme a Jasper».
Mi ero perso le prime presentazioni, quando Alice e Jasper si
erano presentati a un Carlisle estremamente cauto, a un’Esme
spaventata e a una Rosalie ostile. Era stato l’aspetto guerriero di
Jasper a renderli tanto apprensivi, ma Alice sapeva esattamente
cosa dire per alleviare la loro ansia. Ovviamente sapeva
esattamente cosa dire. Aveva immaginato ogni possibile versione di
quell’incontro epocale e poi aveva scelto la migliore. Non era stato
un caso che Emmett e io fossimo via. Aveva preferito la scena più
tranquilla, senza i principali difensori della famiglia nei paraggi.
Quando Emmett e io tornammo, solo pochi giorni dopo,
stentammo a credere a quanto avessero messo radici in quel breve
lasso di tempo. Eravamo entrambi sconcertati, ed Emmett era pronto
a combattere nell’istante stesso in cui mise gli occhi su Jasper. Ma
Alice corse subito a cingermi con le sue braccia prima che potesse
essere pronunciata una parola.
Io non ero spaventato da quello che sarebbe potuto sfociare in un
attacco. I suoi pensieri erano così fiduciosi verso di me, così pieni di
amore per me, che pensai di avere la prima perdita di memoria della
mia seconda vita. Perché questa minuta immortale mi conosceva
alla perfezione, più di chiunque altro della mia famiglia attuale e di
quella di prima. Chi era?
Oh, Edward! Finalmente! Mio fratello! Finalmente siamo insieme!
Poi, con le sue braccia strette attorno alla mia vita – e le mie che
si andavano ad appoggiare timidamente attorno alle sue spalle –, lei
passò mentalmente in rassegna la sua vita dal primo ricordo fino a
quel preciso istante, e poi in avanti con alcuni momenti salienti dei
nostri successivi quattro anni insieme. Fu molto strano realizzare in
quell’istante che anche io conoscevo lei.
«Questa è Alice, Emmett», gli dissi, ancora abbracciando la mia
nuova sorella. Emmett passò da un atteggiamento aggressivo a uno
di totale confusione. «Fa parte della nostra famiglia. E questo è
Jasper. Lo amerai».
C’erano talmente tanti aneddoti su Alice, tanti miracoli e
fenomeni, paradossi ed enigmi, che avrei potuto trascorrere il resto
della settimana a raccontare a Bella la versione completa. Invece, la
misi a parte soltanto dei dettagli più semplici, meccanici.
«È la più sensibile alla presenza di non-umani. Per esempio,
percepisce l’arrivo di altri gruppi della nostra specie. E capisce se
rappresentano un pericolo o no». Anche Alice era diventata uno dei
guardiani della famiglia.
«Sono in tanti, quelli... come voi?», chiese Bella, apparentemente
un po’ scossa all’idea.
«No, siamo in pochi», la rassicurai. «E per giunta, è difficile che
viviamo a lungo nello stesso luogo. Solo quelli come noi, che hanno
rinunciato a cacciare gli umani», le lanciai un’occhiata e le strinsi la
mano, «riescono a convivere con voi. L’unica famiglia simile alla
nostra che conosciamo è in Alaska. Per un certo periodo abbiamo
vissuto assieme a loro, ma eravamo in troppi, davamo nell’occhio».
Anche Tanya, la matriarca di quel clan, era inflessibile sulla
questione delle aggressioni. «Quelli di noi che vivono...
diversamente tendono a stabilire un legame tra loro».
«E gli altri?».
Eravamo arrivati a casa sua. Era vuota, nessuna luce alle
finestre. Parcheggiai al solito posto e spensi il motore. Quella quiete
improvvisa dava un senso di intimità, lì nel buio.
«Perlopiù sono nomadi. Di tanto in tanto lo siamo stati anche noi.
Come tutte le cose, a un certo punto annoia. Ma a volte incrociamo
qualche nostro simile, dato che la maggior parte di noi predilige il
Nord».
«E perché?».
Ridacchiai e la spinsi delicatamente con il gomito. «Avevi gli
occhi aperti, questo pomeriggio? Pensi che potrei passeggiare
indisturbato nel sole pomeridiano senza causare incidenti stradali?
Ci siamo stabiliti nella Penisola di Olympia perché è uno dei posti
meno assolati del mondo. È bello poter uscire di giorno. Non puoi
credere quanto diventi pesante vivere di notte per ottant’anni e più».
«È da lì che nascono le leggende?».
«Probabilmente».
In realtà c’era un’origine ben precisa per quelle leggende, ma era
un argomento in cui non volevo entrare. I Volturi erano molto lontani
e molto assorbiti dalla loro missione di polizia del mondo dei vampiri.
Non avrebbero mai incrociato la vita di Bella oltre la leggenda che
avevano inventato per proteggere la privacy degli immortali.
«Anche Alice veniva da un’altra famiglia, come Jasper?».
«No, e questo è un mistero, anche per noi. Alice non ricorda
niente della sua vita da umana».
Avevo visto quel primo ricordo. La luce chiara del mattino, una
leggera foschia sospesa nell’aria. Circondata dall’erba aggrovigliata,
grandi querce facevano ombra sul punto nel quale si era svegliata.
Aveva guardato la sua pelle pallida, scintillante al sole, e non aveva
saputo chi o cosa fosse. Poi l’aveva colta la prima visione.
Il volto di un uomo, fiero ma irregolare, sfregiato ma bello.
Profondi occhi rossi e una criniera di capelli dorati. A quel viso si era
accompagnata una profonda certezza di appartenenza. Lei lo aveva
visto pronunciare un nome.
Alice.
Il suo nome, capì lei.
Erano state le visioni a dirle chi era, o a plasmarla facendola
diventare quella che era. Era l’unico aiuto che aveva avuto.
«Non sa chi l’abbia creata», spiegai a Bella. «Si è svegliata, ed
era sola. Chiunque le abbia ridato vita è sparito, e nessuno di noi
riesce a capire come e perché. Se non fosse stata provvista di quel
senso in più, se non avesse visto Jasper e Carlisle e capito che
sarebbe diventata una di noi, probabilmente si sarebbe trasformata
in una selvaggia fatta e finita».
Bella rifletteva in silenzio. Ero sicuro che fosse difficile per lei
capire. Anche alla mia famiglia ci era voluto un po’ per adattarsi. Mi
chiedevo quale sarebbe stata la prossima domanda.
Poi il suo stomaco brontolò e mi resi conto che eravamo stati
insieme tutto il giorno e che lei non aveva mangiato niente per tutto
quel tempo. Dovevo prestare più attenzione ai bisogni umani.
«Scusami, ti ho trattenuta; immagino che tu debba cenare».
«No, non c’è problema, davvero», rispose troppo velocemente.
«Non ho mai passato molto tempo in compagnia di qualcuno che
si nutre di cibo», mi scusai. «Me ne stavo dimenticando». Una scusa
piuttosto debole.
La sua espressione era completamente aperta quando mi
rispose, vulnerabile: «Voglio restare qui con te».
Ancora una volta, la parola restare sembrava avere un peso
molto maggiore di quello che solitamente aveva.
«Posso entrare?», le domandai gentilmente.
Sbatté le palpebre due volte, evidentemente turbata all’idea. «Ti
andrebbe?».
«Sì, se non è un problema».
Mi chiesi se pensasse che dovevo ricevere un invito esplicito per
poter entrare. Quel pensiero mi fece sorridere, poi aggrottai le
sopracciglia mentre provai un rigurgito di colpa. Dovevo essere
sincero con lei. Ancora. Ma come affrontare un’ammissione così
vergognosa?
Ci pensai su mentre scendevo per aprirle la portiera.
«Molto umano, direi».
«Sento che certe cose stanno tornando a galla».
Camminammo accanto a velocità umana nello spiazzo buio e
silenzioso come se fosse una cosa normale. Mentre procedevamo
lei mi lanciava delle rapide occhiate, sorridendo tra sé e sé. Allungai
la mano e presi la chiave di casa dal suo nascondiglio, quindi aprii la
porta al posto suo. Si fermò sulla soglia, guardando in fondo al
corridoio buio.
«Era aperta?».
«No, ho preso la chiave da sotto lo zerbino».
Rimisi a posto la chiave in questione mentre lei si spostava per
accendere la luce della veranda. Quando si voltò, la luce gialla
proiettava delle ombre nette sul suo viso mentre mi osservava con le
sopracciglia sollevate. Capivo che si sforzava di essere severa, ma
gli angoli della bocca erano increspati come se stesse lottando per
non sorridere.
«Ero curioso... di te», confessai.
«Mi hai spiata?».
In teoria era una faccenda seria, ma dal tono della sua voce
sembrava che stesse sul punto di ridere.
Avrei dovuto confessare tutto in quel momento, ma stetti al suo
tono scherzoso. «Cos’altro c’è da fare, di notte?».
Fu la scelta sbagliata, una scelta codarda. Lei percepì soltanto lo
scherzo, non capì che si trattava di un’ammissione. Ancora una volta
era strano constatare che, pur con tutti i possibili incubi ormai fugati,
ci fosse ancora tanto di cui aver paura. Naturalmente non era che
colpa mia, della mia pessima condotta.
Scrollò la testa lievemente, poi mi fece segno di entrare. La
precedetti all’ingresso, accendendo le luci per evitare che
inciampasse al buio. Presi una sedia dal tavolo della cucina e mi
guardai attorno, esaminando gli angoli che erano invisibili
dall’esterno. La cucina era ordinata e accogliente, risplendeva grazie
allo sgargiante intonaco giallo che in qualche modo riusciva
accattivante nel suo tentativo fallito di imitare il sole. Tutto era
pervaso dall’odore di Bella, il che avrebbe dovuto essere doloroso
ma io ne godevo per qualche strana ragione. Masochismo puro e
semplice.
Mi fissava con un’espressione impossibile da decifrare. Un po’ di
confusione, immaginai, e un po’ di meraviglia. Come se non fosse
sicura che io fossi reale. Le sorrisi e le indicai il frigorifero. Si girò di
scatto in quella direzione sorridendomi di rimando. Sperai che
avesse del cibo pronto da mangiare. Forse avrei dovuto portarla a
cena? Ma non sembrava una buona idea esporci a una folla di
estranei. La nostra comprensione reciproca era ancora troppo
particolare, troppo grezza. Qualsiasi ostacolo che ci avesse costretto
al silenzio sarebbe stato insopportabile. La volevo tutta per me.
Le ci volle un minuto per trovare una soluzione accettabile. Tagliò
un quadrato di lasagna e la riscaldò al microonde. Distinguevo
l’odore di origano, cipolle, aglio e pomodoro. Cibo italiano. Lei
continuava a fissare il piatto mentre girava nel forno.
Forse avrei potuto imparare a cucinare. Non apprezzare i sapori
come un essere umano sarebbe stato certamente un problema, ma
in quel processo sembrava esserci un bel po’ di calcolo matematico,
ed ero sicuro che avrei potuto imparare a riconoscere gli odori giusti.
Perché d’un tratto ebbi la certezza che quella sarebbe stata la
prima delle nostre seratine tranquille e non un evento straordinario.
Avremmo vissuto così per anni. Lei e io insieme, godendo
semplicemente della reciproca compagnia. Tante ore... sentii
espandersi e crescere la luce dentro di me, e ancora una volta
percepii che avrei potuto esplodere.
«Quante volte?», chiese senza guardarmi.
I miei pensieri erano talmente assorti in questa formidabile
immagine del futuro che lì per lì non udii cosa mi stava dicendo.
«Come?».
Lei non si voltò. «Quante volte sei venuto qui?».
Ah, ecco. Era il momento di avere coraggio. Il momento di essere
sincero, indipendentemente dalle conseguenze. Anche se dopo la
giornata trascorsa con lei, mi sentivo piuttosto sicuro che alla fine mi
avrebbe perdonato. Almeno lo speravo.
«Vengo a trovarti quasi tutte le notti».
Si voltò di scatto, stupita: «Perché?».
Sincerità.
«Sei interessante quando dormi. Parli nel sonno».
«No!», ansimò, con il sangue che le risaliva alle guance e oltre,
colorandole anche la fronte. La stanza divenne appena più calda
mentre il suo rossore riscaldava l’aria attorno a lei. Si appoggiò al
piano cottura alle sue spalle, con una presa talmente forte che le
nocche diventarono bianche. L’unica emozione che leggevo sul suo
viso era lo shock, ma ero sicuro che presto ne sarebbero arrivate
altre.
«Sei tanto arrabbiata con me?».
«Dipende!», sbottò senza fiato.
Dipende? Mi chiesi cosa potesse mitigare il mio delitto. Che cosa
lo avrebbe reso più o meno orribile? Ero disgustato all’idea che
stesse sospendendo il giudizio fino a quando non avesse saputo con
esattezza quanto scorretti erano stati i miei appostamenti. Pensava
forse che fossi depravato come un guardone qualsiasi? Che la
sbirciassi nell’ombra, nella speranza che si mostrasse tutta? Se il
mio stomaco avesse potuto rivoltarsi, lo avrebbe fatto.
Mi avrebbe creduto se avessi cercato di spiegarle il mio tormento
nello stare separato da lei? Qualcuno avrebbe creduto a quali
catastrofi immaginavo, figurandomi che lei potesse non essere al
sicuro? Erano tutte così inverosimili. Eppure, se adesso fossi stato
separato da lei, sapevo che quei pericoli impossibili sarebbero
tornati a tormentarmi.
Trascorsero dei lunghi secondi, il microonde squillò per
annunciare che il suo lavoro era compiuto, ma Bella ancora non
parlava.
«Da...», dissi io d’un tratto.
«Da quel che hai sentito!», strillò lei.
Provai un lampo di sollievo sapendo che lei non mi riteneva
capace di una ben più meschina forma di sorveglianza. La sua unica
preoccupazione era l’imbarazzo per quello che avevo potuto sentirle
dire? Be’, su quello potevo confortarla. Non aveva nulla di cui
vergognarsi, lei. Mi precipitai a prenderle le mani. Una parte di me
era contenta che me la cavassi così facilmente.
«Non esserne così sconvolta!», la supplicai. Lei abbassò lo
sguardo. Mi chinai in modo che i nostri volti fossero allo stesso livello
e aspettai finché non incontrò i miei occhi.
«Ti manca tua madre. Sei preoccupata per lei. E il rumore della
pioggia», mormorai, «ti innervosisce. All’inizio parlavi molto di casa
tua, ora lo fai più raramente. Una volta hai detto: “È troppo verde”».
Risi piano, nella speranza di strapparle un sorriso. Di sicuro
capiva che non c’era bisogno di sentirsi mortificata.
«E che altro?», domandò sollevando un sopracciglio. Il modo in
cui distolse il viso, abbassando gli occhi e poi riportandoli su, mi fece
intuire di cosa si preoccupava.
«Hai pronunciato il mio nome», ammisi.
Inspirò e poi fece un lungo sospiro: «Tante volte?».
«Quante sarebbero precisamente “tante”?».
Rivolse lo sguardo a terra. «Oh, no!».
Tesi le braccia e le avvolsi gentilmente attorno alle sue spalle. Si
poggiò al mio petto, ancora nascondendo il viso.
Pensava che provassi qualcos’altro se non felicità nell’udire il mio
nome sulle sue labbra? Era uno dei miei suoni preferiti, assieme al
suono del suo respiro, al suono del suo cuore...
Le sussurrai la mia risposta nell’orecchio: «Non prendertela con
te stessa. Se fossi capace di sognare, sognerei te. E non me ne
vergogno».
Quanto avevo desiderato di poterla sognare! Quanto avevo
sofferto per questo. E ora la realtà era migliore dei sogni. Non volevo
perdermene nemmeno un secondo per nessuna forma di
incoscienza.
Il suo corpo si rilassò. Un suono felice, quasi un mormorio o le
fusa di un gatto, uscì da lei.
Era possibile? Non avrei subito nessuna punizione per il mio
comportamento oltraggioso? Sembrava più una ricompensa. Sapevo
di esserle debitore di una penitenza più profonda.
Mi resi conto di un altro suono oltre al suo cuore che batteva tra
le mie braccia. Una macchina si stava avvicinando e i pensieri
dell’autista erano molto tranquilli. Stanco dopo una giornata piena.
Impaziente di trovare la promessa di cibo e ristoro offerta dalle luci
calde delle finestre. Ma non potevo sapere con certezza se fosse ciò
a cui stava effettivamente pensando.
Non volevo muovermi da lì. Premetti la guancia sui capelli di
Bella e aspettai fino a quando anche lei non udì l’auto del padre. Si
irrigidì.
«È il caso che tuo padre sappia che sono qui?».
«Non saprei...», esitò lei.
Le sfiorai lievemente i capelli con un bacio, poi la lasciai andare
con un sospiro.
«La prossima volta, allora...».
Filai via dalla stanza e volai su per le scale nell’oscurità del
minuscolo vano tra le camere da letto. Ci ero già stato una volta, a
cercare una coperta per Bella.
«Edward!», chiamò lei dalla cucina in un sussurro soffocato.
Lanciai una risatina quel tanto che bastava per farle sapere che
ero vicino.
Suo padre si avvicinò alla porta, sfregò gli stivali due volte sul
tappetino, inserì la chiave nella toppa e poi grugnì quando la
maniglia girò con la chiave, già sbloccata.
«Bella?», chiamò mentre apriva la porta. I suoi pensieri
registrarono l’odore del cibo nel microonde e il suo stomaco
brontolò.
Mi resi conto che anche Bella non aveva ancora mangiato.
Immaginai che fosse una cosa positiva che il padre ci avesse
interrotti. Di questo passo l’avrei fatta morire di fame.
Ma una piccola parte di me era solo un po’... malinconica.
Quando le avevo chiesto se voleva che suo padre sapesse che ero
qui, che eravamo insieme, avevo sperato che la sua risposta fosse
diversa. Certo, aveva tante cose da valutare prima di presentarmi a
lui. O forse non avrebbe voluto mai fargli sapere che uno come me si
era innamorato di lei, ed era giusto. Più che giusto.
E poi sarebbe stato sconveniente conoscere ufficialmente suo
padre così com’ero vestito in quel momento. O svestito. Immaginai
di dover esser grato a quella sua reticenza.
«Sono qua», diede voce Bella. Udii il suo lieve grugnito di
riconoscimento mentre chiudeva la porta e poi il rumore dei suoi
stivali che avanzavano verso la cucina.
«Me ne dai un po’?», chiese Charlie. «Sono a pezzi».
Decifravo facilmente i rumori di Bella che si muoveva in cucina
mentre Charlie si sistemava, pur non potendo individuare una serie
coerente di pensieri. Udivo masticare; Bella stava finalmente
mangiando qualcosa. Il frigorifero che si apriva e si chiudeva. Il
ronzio del microonde. Un liquido, troppo denso per essere acqua,
immaginai fosse latte, versato nei bicchieri. Un piatto posato
delicatamente sul tavolo di legno. Gambe della sedia che graffiavano
il pavimento mentre Bella si sedeva.
«Grazie», disse Charlie, poi entrambi masticarono per un lungo
momento.
Bella ruppe quel silenzio socievole. «Com’è andata oggi?», gli
chiese. Le parole le uscirono distratte, come se la sua mente fosse
altrove. Sorrisi.
«Bene. Pesci a frotte... E tu? Hai fatto tutto quello che dovevi?».
«Non proprio, con questa bella giornata non avevo voglia di
chiudermi in casa». La sua risposta casuale non era rilassata quanto
quella di lui. Non le veniva naturale nascondere le cose al padre.
«Sì, è stata una bella giornata», concordò Charlie,
apparentemente ignaro del tono nella voce di lei.
Una sedia si spostò di nuovo.
«Di fretta?», chiese Charlie.
Bella deglutì rumorosamente. «Sì, sono stanca. Vado a letto
presto». I suoi passi si spostarono verso il lavello e l’acqua cominciò
a scorrere.
«Sembri piuttosto su di giri», commentò Charlie. Non così
distratto come avevo pensato.
Queste cose non mi sarebbero sfuggite se i suoi pensieri non
fossero stati così difficili da decifrare. Cercai di dare loro un senso.
Gli occhi di Bella che brillavano nella stanza. Le sue guance che si
accendevano all’improvviso. Queste erano le uniche cose di cui
sembrava consapevole.
Poi un improvviso caos di immagini, nebulose e senza contesto.
Una Chevrolet Impala giallo senape del 1971. La palestra della
scuola superiore di Forks, decorata con carta crespa. Un’altalena
sotto a un portico e una ragazza con mollette verdi tra i capelli chiari.
Due sgabelli in vinile rosso alla sbarra cromata di una povera tavola
calda. Una ragazza con lunghi riccioli scuri, che cammina sulla
spiaggia sotto la luna.
«Davvero?», domandò Bella con studiata innocenza. L’acqua
scorreva nel lavello e sentivo il rumore delle setole sui piatti.
Charlie stava ancora pensando alla luna. «È sabato», annunciò
così a caso.
Bella sembrava non sapere cosa rispondere. Nemmeno io
sapevo dove volesse andare a parare.
Alla fine continuò: «Non hai programmi per stasera?».
Adesso mi parve di capire le immagini nella sua testa. I sabati
sera della sua giovinezza? Forse.
«No, papà, voglio soltanto dormire un po’». Sembrava tutto
fuorché stanca.
Charlie tirò su col naso. «Non hai trovato il tuo tipo in questa città,
eh?».
Era preoccupato che lei non avesse normali esperienze da
adolescente? Che si stesse perdendo qualcosa? Per un secondo
provai una fitta di dubbio. Dovevo preoccuparmi per questo? Ero io
che glielo stavo impedendo?
Ma poi fui pervaso dal senso di sicurezza e di giustezza che
avevo provato nel prato. Noi ci appartenevamo.
«No, non ho notato ancora nessun ragazzo interessante». Il tono
di Bella era leggermente condiscendente.
«Pensavo che Mike Newton... me ne avevi parlato».
Questo non me lo aspettavo. Una rasoiata di rabbia mi trafisse il
petto. No, non era rabbia. Gelosia. Forse non avevo mai disprezzato
tanto qualcuno quanto quell’inutile, insignificante ragazzo.
«Papà, è soltanto un amico».
Non avrei saputo dire se Charlie fosse irritato o sollevato dalla
sua risposta. Forse un misto delle due cose.
«Be’, tu sei di un altro livello. Aspetta l’università, prima di iniziare
la ricerca».
«Mi sembra una buona idea», concordò subito Bella. Girò
l’angolo e cominciò a salire le scale. I suoi passi erano lenti – forse
per enfatizzare il fatto che era stanca – e io avevo un sacco di tempo
per raggiungere camera sua prima di lei. Giusto nel caso in cui
Charlie l’avesse seguita. Non credo che a lei avrebbe fatto piacere
se lui mi avesse trovato lì, mezzo vestito, intento a origliare.
«’Notte, cara», le disse Charlie mentre lei andava via.
«Ci vediamo domattina, papà», rispose lei con una voce che
voleva suonare stanca ma senza successo.
Non mi sembrò giusto sedermi sulla sedia a dondolo come al
solito, invisibile nell’angolo buio. Era stato un buon nascondiglio
quando non volevo che lei sapesse che ero lì. Quando agivo con
l’inganno.
Mi stesi sul suo letto, il posto più ovvio nella stanza, dove non ci
poteva essere il sospetto che cercassi di nascondere la mia
presenza.
Sapevo che lì il suo profumo mi avrebbe travolto. L’odore del
detersivo era abbastanza fresco da suggerire che aveva lavato le
lenzuola di recente, ma non tanto da coprire la sua fragranza. Per
quanto travolgente, era anche dolorosamente piacevole essere
circondato in modo così acuto dalla prova tangibile della sua
esistenza.
Non appena entrò in camera, Bella smise di trascinare i piedi.
Chiuse la porta con forza, poi in punta di piedi corse alla finestra,
passandomi davanti senza degnarmi di uno sguardo. Aprì la finestra
e si sporse, scrutando nell’oscurità della sera.
«Edward?», bisbigliò.
Suppongo che il posto che avevo scelto non fosse così scontato,
dopotutto. Feci una risatina smorzata per il mio tentativo di essere
onesto, poi le risposi.
«Sì?».
Si voltò talmente di scatto che quasi perse l’equilibrio. Con una
mano si aggrappò al davanzale per mantenersi stabile. Con l’altra si
coprì la bocca.
«Oh», fu il suo commento soffocato. Quasi al rallentatore scivolò
lungo il muro dietro di lei finché non fu seduta sul pavimento di
legno.
Ancora una volta avevo l’impressione che tutto ciò che facessi
fosse sbagliato. Almeno questa volta era divertente più che
terrificante.
«Scusa».
Annuì. «Dammi solo un minuto per rimettere in moto il cuore». In
realtà il suo cuore batteva all’impazzata per lo shock che le avevo
appena procurato.
Mi tirai su a sedere, con voluta lentezza. Come un umano.
Lei mi osservava, gli occhi rapiti da ogni singolo movimento e un
sorriso che cominciava a spuntare agli angoli della bocca.
Guardando le sue labbra sentii che era troppo lontana da me. Mi
avvicinai e la sollevai delicatamente, con le mani salde sotto le
spalle, poi la poggiai al mio fianco, solo pochi centimetri tra di noi.
Molto meglio.
Misi la mia mano sulle sue, accogliendo la brace della sua pelle
con un certo sollievo. «Vieni a sederti qui».
Lei ridacchiò.
«Come va il cuore?», chiesi, anche se lo sentivo battere talmente
forte da percepirne le sottili vibrazioni che danzavano nell’aria
attorno a lei.
«Dimmelo tu», ribatté lei. «Di sicuro lo senti meglio di me».
Corretto. Feci una risatina soffocata mentre il suo sorriso si
allargava.
Quel tempo gradevole non era ancora cessato; le nuvole si
aprirono e la lucentezza argentea della luna le sfiorò la pelle,
facendola apparire come una creatura celestiale. Chissà che aspetto
avevo io ai suoi occhi. Sembravano pieni di meraviglia, come
dovevano essere anche i miei.
Di sotto, la porta principale si aprì e si richiuse. Non c’erano altri
pensieri nei dintorni della casa oltre alle ovattate immagini mentali di
Charlie. Mi chiesi dove stesse andando. Non lontano... Ci fu un
cigolio metallico, un rumore sordo. Una specie di schema grafico
balenò nella sua testa.
Ah, il furgoncino di Bella. Mi sorprese un po’ che Charlie
arrivasse al punto di sabotare qualsiasi cosa avesse in mente di fare
Bella.
Stavo per riferirle lo strano comportamento del padre, quando la
sua espressione mutò all’improvviso. I suoi occhi si volsero verso la
porta e poi tornarono di nuovo su di me.
«Posso essere umana per un minuto?», mi domandò.
«Senz’altro», risposi subito, divertito da quell’espressione.
D’un tratto abbassò le sopracciglia e mi rivolse uno sguardo
accigliato. «Resta lì», mi ordinò in tono severo.
Era la richiesta più facile che avessi mai ricevuto. Nulla al mondo
mi avrebbe costretto a lasciare quella stanza in quel momento.
Atteggiai la voce a un tono serio per adeguarmi al suo:
«Sissignora». Mi raddrizzai e serrai tutti i muscoli in quella posizione.
Lei sorrise compiaciuta.
Le ci volle un minuto per raccogliere la sua roba, poi uscì dalla
camera. Non si sforzò di attutire il rumore della porta che si
chiudeva. Un’altra porta sbatté più rumorosamente. Quella del
bagno. Supposi che questo fosse in parte per convincere Charlie
che non aveva intenzione di fare alcuna nefandezza. Era
improbabile che lui immaginasse cosa avesse intenzione di fare
realmente. In ogni caso sarebbe stato uno sforzo vano. Charlie tornò
dentro un momento dopo. Il suono della doccia in cima alle scale
sembrò confonderlo un po’, almeno così pensai.
Mentre aspettavo Bella, finalmente colsi l’occasione per
esaminare la sua piccola collezione di libri accanto al letto. Non
c’erano grandi sorprese, dopo i miei interrogatori. Trovai giusto una
copertina rigida nella sua libreria, troppo nuova per essere
un’edizione economica. Era una copia di Tooth and Claw, l’unico tra i
suoi preferiti che non avevo ancora letto. Non avevo ancora avuto il
tempo di colmare questa lacuna; ero stato troppo occupato a seguire
Bella come una folle guardia del corpo. Aprii il romanzo e cominciai.
Mentre leggevo mi resi conto che Bella ci stava impiegando più
del solito. Come sempre, l’ansia costante che lei alla fine vedesse in
me qualcosa per cui evitarmi fece di nuovo capolino. Cercai di
ignorarla. Ci potevano essere milioni di motivi per cui Bella
indugiava. Mi concentrai sul libro. Capivo come mai fosse uno dei
suoi preferiti; era strano e al tempo stesso affascinante. Certo,
qualsiasi storia d’amore trionfante sarebbe stata in sintonia con il
mio umore di quel giorno.
La porta del bagno si aprì.
Riposi il libro, annotandomi il numero di pagina, 166, in modo da
poterci tornare più tardi, e ripresi la mia posa da statua. Ma rimasi
deluso; invece di tornare, scese giù per le scale. I suoi passi si
fermarono all’ultimo gradino.
«’Notte, papà», disse lei ad alta voce.
I pensieri di Charlie sembravano un po’ confusi, ma non riuscii a
distinguere altro.
«’Notte, Bella», mormorò lui di rimando.
Poi risalì le scale, facendo i gradini due alla volta, di fretta. Aprì la
porta – i suoi occhi mi cercarono nell’oscurità prima ancora di
entrare – e poi la richiuse con cura dietro di sé.
Quando mi trovò esattamente nella posizione in cui si aspettava,
un largo sorriso le si aprì sul viso.
Ruppi la mia perfetta immobilità per ricambiarlo.
Lei per un secondo esitò – abbassando lo sguardo sul suo
pigiama consunto – poi incrociò le braccia in una posa quasi di
scuse.
Pensavo di aver capito il ritardo di prima. Non era paura dei
mostri, piuttosto una paura più comune. Timidezza. Potevo
facilmente immaginare come, lontano dal sole e dalla magia del
prato, si sentisse insicura. Del resto, mi trovavo in un terreno
sconosciuto.
Tornai alle vecchie abitudini, e provai a stuzzicarla un po’ per farle
passare l’insicurezza. Valutai la nuova tenuta con un sorriso e
commentai: «Carina».
Si accigliò, ma rilassò le spalle.
«No, sul serio, stai bene».
Forse era un apprezzamento troppo vago. Con i capelli bagnati
inanellati in lunghi grovigli come alghe attorno alle spalle, e il viso
che risplendeva al chiaro di luna, non stava solo bene. Bisognava
inventare una parola il cui significato fosse a metà strada tra una dea
e una naiade.
«Grazie», sussurrò, poi venne a sistemarsi al mio fianco, come
prima. Questa volta si sedette a gambe incrociate. Il suo ginocchio
toccava la mia gamba, un punto luminoso di calore.
Feci segno verso la porta e poi alla stanza sotto di noi, dove i
pensieri del padre erano ancora aggrovigliati.
«A che pro tutta questa preparazione e il resto?», le domandai.
Fece un sorrisino compiaciuto. «Charlie ha il sospetto che me ne
possa sgattaiolare via di nascosto».
«Ah». Mi chiesi quanto la mia lettura serale dei pensieri del padre
combaciasse con la sua. «E perché?».
Spalancò ancora di più gli occhi, fingendo ingenuità. «A quanto
pare, sono un po’ troppo su di giri».
Assecondando la sua battuta, misi la mano sotto al suo mento e
gentilmente le sollevai il viso verso la luce lunare come per
esaminarlo meglio. Anche se toccandole il viso ogni traccia di
scherzo svanì dalla mia mente.
«Ti trovo accaldata, in effetti», mormorai e, senza smettere di
pensare a tutte le possibili conseguenze, mi piegai verso di lei e
poggiai la mia guancia sulla sua. Gli occhi mi si chiusero di loro
volontà.
Respirai il suo profumo. La sua pelle divampò squisitamente
contro la mia.
La sua voce era roca quando parlò. «Mi sembra...», per un attimo
perse la voce, poi si schiarì la gola e continuò: «Mi sembra... che ora
starmi vicino sia molto più facile, per te».
«Ti sembra?».
Pensai a questa sua supposizione mentre facevo scorrere il mio
naso sul bordo della sua mandibola. Il dolore fisico in gola non si era
per niente attenuato, anche se non poteva nulla contro il piacere di
toccarla. C’erano parti della mia mente che erano perse nel miracolo
di quel momento, mentre altre non avevano mai smesso di calibrare
le azioni di tutti i muscoli, monitorando ogni singola reazione fisica.
In effetti mi ci volle un bel po’ delle mie facoltà mentali, ma una
mente immortale aveva parecchio spazio a disposizione. Nulla di
tutto questo guastò quel momento.
Le sollevai la cortina di capelli umidi, poi premetti leggermente le
labbra contro la pelle irresistibilmente morbida proprio dietro
l’orecchio.
Respirò a fatica. «Molto, molto più facile».
«Mmm», fu il mio unico commento. Ero troppo preso a esplorare
il suo collo illuminato dalla luna.
«Perciò, mi chiedevo...», riprese lei, ma si zittì nuovamente
quando le mie dita si misero a seguire il fragile profilo della sua
clavicola. Fece un altro respiro irregolare.
«Sì?», la incoraggiai, mentre i miei polpastrelli si immergevano
nella cavità dell’osso.
La voce era più alta e tremante quando mi chiese: «Secondo te
qual è il motivo?».
Ridacchiai. «La ragione domina sugli istinti».
Si allontanò da me e io mi bloccai, subito alzando la guardia.
Avevo superato qualche limite? Ero stato inopportuno? Mi fissò,
sembrava sorpresa quanto me. Aspettai che dicesse qualcosa, ma
lei mi osservò con occhi profondi quanto l’oceano. Nel frattempo, il
suo cuore batteva velocissimamente, come se avesse appena corso
una maratona. O forse era molto spaventata.
«Ho fatto qualcosa di male?».
«No... al contrario». Le sue labbra si incurvarono in un sorriso.
«Mi stai facendo impazzire».
Un po’ scioccato riuscii a chiedere soltanto: «Davvero?».
Il suo cuore continuava a battere all’impazzata... non di paura,
ma di desiderio. Questa consapevolezza mandò freneticamente
impulsi elettrici al mio corpo.
Il sorriso che le feci di rimando forse fu eccessivo.
Lei sogghignò in risposta. «Ti aspetti che parta un applauso?».
Pensava che fossi così sicuro di me? Non immaginava quanto mi
sentissi scombussolato? C’erano molte cose in cui eccellevo, la
maggior parte delle quali grazie alle mie doti extraumane. Sapevo
quando potevo essere sicuro di me. E quella non era certo una di
quelle volte.
«È solo che sono rimasto positivamente sorpreso. Nell’ultimo
centinaio di anni...», feci una pausa, e prima di continuare quasi mi
misi a ridere per la sua reazione un po’ compiaciuta – lei amava la
mia onestà, «...non ho mai immaginato che potesse succedermi
qualcosa del genere». Niente di nemmeno paragonabile. «Non
credevo che avrei desiderato stare con qualcuno... che non fosse
come fratello o sorella». Forse il romanticismo sembrava sempre
una cosa un po’ stupida, finché non ci si trovava in mezzo. «E poi,
scoprire che malgrado sia totalmente nuovo per me, sono bravo... a
stare con te...».
Raramente mi mancavano le parole, ma quella era un’emozione
che non avevo mai provato, per la quale non trovavo un nome.
«Tu sei bravo in tutto», disse lei con un tono che sottintendeva
che era una cosa talmente ovvia che non ci sarebbe stato bisogno di
specificarla.
Feci spallucce come per dargliene scherzosamente atto, poi risi
sottovoce insieme a lei, con gioia e stupore.
La sua risata si smorzò e un accenno di preoccupazione
comparve tra le sopracciglia. «Ma com’è possibile che adesso sia
così facile? Oggi pomeriggio...».
Sebbene fossimo in sintonia come mai prima, dovetti ricordare a
me stesso che il suo pomeriggio nel prato e il mio erano state
esperienze molto differenti. Come poteva comprendere i
cambiamenti che erano avvenuti in me in quelle ore in cui eravamo
stati insieme al sole? Nonostante questa nuova intimità, sapevo che
non le avrei mai spiegato esattamente com’ero giunto fin lì. Lei non
avrebbe mai saputo cosa avessi permesso a me stesso di
immaginare.
Sospirai, scegliendo con cura le parole. Volevo che lei capisse
tutto quello che potevo condividere con lei. «Non è facile». Non
sarebbe mai stato facile. Sarebbe stato sempre doloroso. Nulla di
tutto questo aveva importanza. Possibile era tutto ciò che potevo
chiedere. «Ma oggi pomeriggio, ero ancora... indeciso». Era la
parola più giusta per descrivere il mio improvviso attacco di
violenza? Non me ne veniva in mente un’altra. «Mi dispiace, è stato
un comportamento imperdonabile».
Mi sorrise con benevolenza. «No, non imperdonabile».
«Grazie», sussurrai prima di tornare alla mia spiegazione. «Vedi,
non ero sicuro di essere abbastanza forte...». Le presi la mano e me
la premetti sulla pelle, braci ardenti contro ghiaccio. Fu un gesto
istintivo, e fui sorpreso nel constatare che mi aiutava a parlare. «E
finché sentivo come ancora possibile che venissi... sopraffatto»,
respirai il suo profumo nel punto più fragrante all’interno del polso,
godendo di quel dolore potente, «ero... vulnerabile. Poi mi sono
convinto che sono abbastanza forte, che non ci sarebbe stato
nessun rischio di... di poter...».
La mia frase si interruppe, incompiuta, quando infine incontrai il
suo sguardo. Le presi le mani.
«Perciò, ora non corro più rischi?». Non avrei saputo dire se la
sua fosse una domanda o un’affermazione. Se era una domanda, lei
sembrava molto sicura della risposta. E io volevo cantare di gioia e
dirle che era nel giusto.
«La ragione domina sugli istinti», ripetei.
«Be’, è stato facile», si mise di nuovo a ridere.
Anche io risi, facendomi contagiare senza sforzo dalla sua
euforia.
«Facile per te!», scherzai. Liberai una mano per sfiorarle la punta
del naso con il dito.
Un attimo dopo quella giocosità mi sembrò strana, quasi irritante.
Tutte le mie ansie mi turbinarono in testa come un vortice. Il mio
buonumore svanì e mi ritrovai a soffocare un’altra paura.
«Ci sto provando. Se dovesse diventare... troppo, sono convinto
che riuscirei ad andarmene».
Il viso le si adombrò con un’inaspettata nota di indignazione.
Ma non avevo ancora finito di metterla in guardia. «E domani
sarà più difficile. Ora sono assuefatto alla presenza costante del tuo
odore. Se ti resto lontano troppo a lungo mi toccherà ricominciare da
capo. Non proprio da zero, però».
Si sporse verso il mio petto, poi ondeggiò di nuovo indietro, come
se si stesse cercando. Mi ricordò di come aveva piegato il mento
prima. Nessuna esposizione della gola.
«Allora non andartene».
«Sono d’accordo», feci un respiro regolare – regolare e infuocato
– e mi costrinsi a smettere di andare nel panico. Lo capiva che quel
suo invito corrispondeva al mio più grande desiderio?
Le sorrisi, cercando di mostrare altrettanta gentilezza nel mio
viso. A lei veniva così facile.
«Pronto per le manette: sono tuo prigioniero».
Mentre dissi questa frase strinsi i suoi polsi delicati, ridendo
mentalmente a quell’immagine. Avrebbero potuto legarmi con il
ferro, con l’acciaio o qualche altro metallo più potente ancora da
scoprire, ma niente mi avrebbe trattenuto quanto riusciva a fare un
solo sguardo di questa fragile ragazza umana.
«Sembri più... ottimista del solito. Non ti ho mai visto così di
buonumore», notò lei.
Ottimista... acuta osservazione.
Il mio vecchio, cinico io sembrava tutt’altra persona.
Mi avvicinai a lei, i suoi polsi ancora serrati tra le mie mani. «Non
dovrebbe essere così? La gloria del primo amore, e tutto il resto. È
incredibile quanta differenza passi tra apprendere le cose dai libri,
dai film, e viverle in prima persona nella realtà, vero?».
Lei annuì pensierosa. «Senza dubbio è tutto molto più intenso di
quanto avessi immaginato».
Ripensai alla prima volta che avevo sperimentato la differenza tra
emozioni di prima e di seconda mano. «Per esempio, il sentimento
della gelosia», dissi. «Ne avrò letto migliaia di volte, l’ho visto
interpretare in migliaia di drammi e film. Pensavo di comprenderlo
perfettamente. Ma sono rimasto stupito... Ricordi quando Mike ti ha
invitata al ballo?».
«È stato quando hai ricominciato a parlarmi». Disse lei per
correggermi, come se stessi dando priorità alla parte sbagliata del
ricordo.
Ma io ero immerso in ciò che era accaduto prima, rivivendo
nitidamente la prima volta che avevo provato quella specifica
passione.
«Sono rimasto sorpreso dall’ondata di irritazione, quasi di furia,
che ho sentito. Sulle prime non ho riconosciuto cosa fosse. A
innervosirmi più del lecito, poi, c’era che non riuscivo a leggerti nel
pensiero, non riuscivo a capire perché rifiutassi l’invito. Soltanto per
non dare un dispiacere alla tua amica? C’era qualcun altro? In ogni
caso, sapevo che non erano fatti miei, non dovevo badarci. Ho
cercato di non badarci». Il mio stato d’animo mutò mentre il racconto
procedeva. Mi sfuggì una risata. «E poi la fila si è allungata».
Come mi aspettavo, il suo accigliarsi di rimando mi fece venire
voglia di ridere ancora.
«Restai in ascolto, pieno di irrazionale nervosismo, ansioso di
sentire che risposta avresti dato loro, di leggere le espressioni sul
tuo viso. Non nascondo che nel vedere il fastidio che ti suscitavano
provavo sollievo. Ma non mi sentivo rassicurato. Così ho iniziato a
venire qui, proprio quella sera».
Una vampata le si fece lentamente strada sulle guance, ma si
avvicinò ancora, con espressione intensa più che imbarazzata.
L’atmosfera si trasformò di nuovo e mi ritrovai a fare una mezza
confessione per la centesima volta, quel giorno. Sussurrai più
gentilmente.
«Ho passato tutta la notte combattuto, mentre ti guardavo
dormire, diviso tra ciò che ritenevo giusto, morale, etico, e ciò che
desideravo. Sapevo che se avessi continuato a ignorarti, come avrei
dovuto, o se fossi sparito per qualche anno fino alla tua partenza da
Forks, avresti finito per dire di sì a Mike o a uno come lui. Che
rabbia».
Arrabbiato, miserabile, come se la vita stesse prosciugando via
tutti i suoi colori e il suo scopo. Con gesto forse inconscio, lei scosse
la testa, come per negare questa visione del suo futuro.
«E poi... nel sonno ti ho sentita pronunciare il mio nome».
Ripensandoci, mi sembrò che quei brevi secondi fossero stati la
svolta, lo spartiacque. Anche se nel frattempo avevo dubitato un
milione di volte, nel momento in cui le avevo sentito pronunciare il
mio nome non avevo avuto più altra scelta.
«Tanto chiaramente», continuai col fiato corto, «da farmi pensare
che ti fossi svegliata. Ti sei rigirata nel letto, hai mormorato di nuovo
il mio nome e sospirato. Quel momento mi ha sbalordito, e segnato.
Ho capito che non avrei più potuto ignorarti».
Il battito del suo cuore accelerò.
«La gelosia... che cosa strana. Molto più potente di quanto mi
aspettassi. E irrazionale! Anche poco fa, quando Charlie ti ha chiesto
di quel vile di Mike Newton...».
Non terminai la frase, ritenendo che non fosse il caso di rivelare
la reale portata dei miei sentimenti verso quel disgraziato ragazzo.
«Ecco, stavi ascoltando, avrei dovuto immaginarlo», bofonchiò.
Non è che potessi non ascoltare una cosa che accadeva così
vicino. «Certo che sì».
«Ti ha fatto ingelosire, eh?». Il tono della sua voce passò
dall’irritazione all’incredulità.
«Per me è una novità», le ricordai. «Stai resuscitando l’essere
umano che è in me, e tutto ciò che sento è più forte, perché nuovo».
Inaspettatamente, un sorrisino compiaciuto le increspò le labbra.
«Ma, sinceramente, come fai a preoccuparti tu, dopo essermi venuto
a dire che Rosalie – Rosalie, l’incarnazione della pura bellezza! –
doveva essere la tua compagna? Emmett o non Emmett, come
faccio a competere?».
Pronunciò quelle parole come se stesse giocando la sua carta
vincente. Come se la gelosia fosse una cosa tanto razionale da
poter soppesare l’avvenenza fisica di una terza persona per poi
provarla in maniera proporzionale.
«Non c’è confronto», le assicurai.
Lentamente e con delicatezza usai i polsi ancora imprigionati per
stringerla più vicino a me, fino a quando la sua testa non andò a
posarsi proprio sotto al mio mento. La sua guancia scottava contro la
mia pelle.
«Lo so bene che non c’è confronto. Questo è il problema»,
borbottò lei.
«Certo che Rosalie è bellissima, a suo modo». Non è che potessi
negare lo splendore di Rosalie, ma era un fatto innaturale,
intensificato, talvolta più inquietante che attraente. «Ma anche se
non fosse come una sorella, anche se Emmett non ci vivesse
insieme, lei non riuscirebbe a scatenare in me un decimo
dell’attrazione che mi lega a te. Per quasi novant’anni ho vissuto tra
quelli della mia specie, e della tua... sempre certo di bastare a me
stesso, senza sapere ciò che stavo cercando. E senza trovare nulla,
perché non eri ancora nata».
Sentii il suo respiro contro la mia pelle mentre mi sussurrava la
sua risposta. «Non mi sembra affatto giusto. Io non ho dovuto
aspettare nemmeno un secondo. Perché dovrebbe andarmi così
liscia?».
Nessuno aveva mai avuto più simpatia per il diavolo. Ma mi
domandavo come potesse prendere tanto alla leggera il suo
sacrificio.
«Hai ragione. Dovrei proprio rendertela più difficile. Una volta per
tutte». Strinsi entrambi i polsi nella sinistra così da liberare la destra
per accarezzarle delicatamente i capelli umidi dalla testa alle spalle.
La loro consistenza così scivolosa non era tanto lontana dalle alghe
che avevo immaginato prima. Ne attorcigliai una ciocca tra le dita
mentre elencavo le cose a cui doveva rinunciare. «Dopotutto sei
soltanto costretta a rischiare la vita ogni secondo che passi assieme
a me, e non è granché. Ti tocca soltanto voltare le spalle alla natura,
all’umanità... cosa vuoi che sia?».
«Pochissimo», alitò sulla mia pelle. «Non mi sembra di dover
sopportare una gran rinuncia».
Forse non era strano che mi comparisse il viso di Rosalie dietro
le palpebre. Negli ultimi sette decenni, mi aveva insegnato mille
aspetti diversi dell’umanità da rimpiangere.
«Non ancora».
Qualcosa nella mia voce la fece ribellare alla presa, scostandosi
dal mio petto per cercare di guardarmi in faccia. Stavo per liberarla
quando qualcosa di estraneo a quel nostro momento si intromise.
Dubbio. Imbarazzo. Preoccupazione. Le parole non erano più
chiare del solito, e non c’era tempo per le congetture.
«Cosa...», cominciò lei, ma prima che potesse fare la sua
domanda io mi ero già spostato. Si ritrovò sul materasso mentre
sfrecciavo nell’angolo buio dove abitualmente trascorrevo le mie
notti.
«Sdraiati!», sibilai quel tanto che bastava per farle percepire
l’urgenza nella mia voce. Ero stupito che lei non avesse notato i
passi di Charlie che saliva le scale. A essere sinceri, sembrava che
volesse essere furtivo.
Lei reagì immediatamente, avvolgendosi nella coperta e
rannicchiandosi come una palla. Charlie stava già girando la
maniglia. Mentre la porta si apriva, Bella fece un respiro profondo e
poi espirò lentamente. Il movimento era esagerato, un po’ teatrale.
Ah, fu l’unica reazione che riuscii a leggere nella mente di
Charlie. Mentre Bella recitava il suo nuovo respiro da dormiente,
Charlie chiuse la porta. Aspettai fino a quando anche la porta della
sua camera non fu chiusa e non ebbi sentito lo scricchiolio delle
molle del materasso prima di tornare da Bella.
Probabilmente aspettava il via libera, ancora rigidamente
raggomitolata, ancora amplificando il suo respiro lento e regolare. Se
Charlie l’avesse osservata attentamente per qualche secondo,
probabilmente si sarebbe accorto che fingeva. Bella non era molto
brava con l’inganno.
Seguendo questo strano, nuovo istinto – ancora non mi aveva
indotto in tentazione –, mi misi sul letto accanto a lei, poi scivolai
sotto le coperte e la cinsi con un braccio.
«Sei una pessima attrice», dissi in tono colloquiale, come se
fosse la cosa più normale del mondo stare steso così accanto a lei.
«Secondo me non farai mai carriera».
Il cuore le batteva di nuovo all’impazzata, ma il suo tono era
leggero come il mio. «Accidenti».
Si rannicchiò contro di me, ancora più vicina, poi rimase immobile
e sospirò contenta. Mi chiesi se si sarebbe addormentata così, tra le
mie braccia. Sembrava improbabile, dato il ritmo del suo cuore, ma
poi smise di parlare.
Spontaneamente mi vennero in mente le note di una canzone per
lei. Cominciai a canticchiare quasi in automatico. La musica
sembrava appartenere a questo momento, al posto che l’aveva
ispirata. Bella non commentava, ma il suo corpo si irrigidì, teso
nell’ascolto.
Mi fermai per chiederle: «Devo cantarti qualcosa per farti
addormentare?».
Fui sorpreso quando si mise a ridere sommessamente. «Ah,
certo. Come se potessi dormire con te accanto al letto!».
«Lo fai sempre».
Il suo tono si indurì. «Ma prima non sapevo che fossi qui».
Ero contento che sembrasse ancora turbata dalle mie
trasgressioni. Sapevo di meritare una sorta di punizione, che lei
avrebbe dovuto considerarmi colpevole. Eppure, non si scostò da
me. Non riuscivo a immaginare nessuna punizione che comportasse
un sacrificio finché mi avesse concesso di tenerla così.
«Be’, se non vuoi dormire...», le dissi. Era come per il cibo? Ero
un egoista a impedirle di svolgere una funzione vitale? Ma come
potevo lasciarla se lei voleva che restassi?
«Se non voglio dormire...», mi fece eco lei.
«Cosa preferisci fare?». Me l’avrebbe detto se fosse stata
esausta? O avrebbe fatto finta che andasse bene così?
Le ci volle un lungo momento prima di rispondere. «Non saprei»,
disse alla fine. E non potei fare a meno di chiedermi quali opzioni le
fossero passate per la mente. Mi ero spinto molto in là a stare con lei
a quel modo, ma mi sembrava stranamente naturale. Anche per lei
era lo stesso? O ero solo sfacciato? Le faceva immaginare, come
capitava a me, altre cose? Era quello a cui pensava da tanto tempo?
«Quando avrai deciso, dimmelo». Non avrei suggerito nulla. Avrei
lasciato che decidesse lei.
Più facile a dirsi che a farsi. Mentre taceva, non potei fare a meno
di avvicinarmi ancora di più a lei, sfiorandole il mento con il viso,
respirando il suo profumo e il suo calore. Quel fuoco faceva ormai
talmente parte di me che mi venne facile notare anche altre cose.
Avevo sempre pensato al suo odore con paura e desiderio. Ma
c’erano tante sfumature nella sua bellezza che non avevo ancora
avuto modo di apprezzare.
«Pensavo ti ci fossi abituato», sussurrò.
Ritornai alla mia metafora precedente per spiegarle. «Il fatto che
io resista al vino non significa che non ne possa apprezzare il
bouquet. Il tuo odore è molto floreale, sai di lavanda... o di fresia».
Feci una risata. «È dissetante».
Deglutì forte, poi parlò con studiata nonchalance. «Sì, è proprio
una giornataccia, se nessuno mi dice quanto sono mangiabile».
Ridacchiai di nuovo, poi tirai un sospiro. Rimpiangevo quella
parte della mia risposta, ma non era più un peso così gravoso. Una
piccola spina, irrilevante di fronte alla bellezza della rosa.
«Ho deciso», annunciò.
Attesi impaziente.
«Voglio sapere qualcos’altro di te».
Be’, non tanto interessante per me, ma poteva avere qualsiasi
cosa volesse.
«Chiedi pure».
«Perché lo fai?», il respiro le si fece più regolare. «Ancora non
capisco perché ti sforzi così tanto di resistere a ciò che... sei. Ti
prego, non fraintendermi, è ovvio che ne sono contenta. Ma non
capisco quale sia la causa scatenante».
Ero contento che me l’avesse chiesto. Era importante. Cercai il
modo migliore per spiegarglielo, ma le parole in qualche punto
furono insufficienti. «È una bella domanda, e non è la prima volta
che la sento. Anche gli altri – la maggior parte dei nostri simili, quelli
che non rinnegano la propria natura – si chiedono come facciamo a
vivere così. Ma vedi, il fatto che ci sia... toccata in sorte una certa
condizione... non significa che non possiamo scegliere di innalzarci,
di superare i confini di un destino che non abbiamo scelto noi.
Cercando di conservare il più possibile l’essenza di un’umanità».
Ero stato chiaro? Avrebbe capito ciò che intendevo?
Non fece nessun commento, rimase immobile.
«Ti sei addormentata?», bisbigliai piano in modo da non
svegliarla, in caso.
«No», rispose subito, senza aggiungere altro.
Era frustrante ed esilarante allo stesso tempo quanto nulla fosse
cambiato nonostante tutto stesse cambiando. Il silenzio dei suoi
pensieri mi avrebbe sempre fatto impazzire.
«È soltanto questo che volevi sapere?», la incoraggiai.
«No davvero!». Non vedevo il suo viso, ma sapevo che stava
sorridendo.
«Cos’altro?».
«Perché sei capace di leggere nel pensiero? Perché soltanto tu?
E Alice... com’è possibile che veda il futuro?».
Avrei voluto avere una risposta migliore. Mi strinsi nelle spalle e
ammisi: «Neanche noi lo sappiamo con precisione. Carlisle ha una
teoria... secondo lui ognuno di noi porta con sé, nella sua nuova vita,
una parte amplificata delle proprie caratteristiche umane. Io, per
esempio, probabilmente ero una persona molto sensibile all’umore di
chi mi stava attorno. E così Alice, ovunque fosse, forse aveva
capacità precognitive».
«Lui e gli altri cos’hanno portato di sé nella nuova vita?».
Questa era una domanda più facile; ci avevo già pensato
parecchie volte. «Carlisle la compassione. Esme la capacità di
amare appassionatamente. Emmett la forza, Rosalie...». Be’,
Rosalie aveva portato con sé la sua bellezza, ma sembrava una
risposta poco delicata alla luce della nostra precedente discussione.
Se la gelosia procurava a Bella anche solo una minima parte del
dolore che dava a me, non volevo darle motivo di provarla ancora.
«...la tenacia. Ma puoi chiamarla anche testardaggine», comunque
anche questo era vero. Ridacchiai, immaginando come doveva
essere Rosalie da umana. «Jasper è molto interessante. Nella sua
prima vita era molto carismatico, capace di convincere gli altri delle
sue opinioni. Adesso riesce a manipolare le emozioni di chi lo
circonda: calmare una folla inferocita, per esempio, o al contrario
suscitare entusiasmo in un pubblico apatico. È un dono molto
sottile».
Si fece di nuovo silenziosa. Non mi sorprese, erano molte le
informazioni da elaborare.
«Ma dov’è iniziato tutto?», domandò alla fine. «Voglio dire, a
cambiare te è stato Carlisle, ma qualcuno deve aver cambiato lui, e
così via...».
Un’altra risposta che era una pura congettura. «Be’, tu da dove
vieni? Evoluzione? Creazione? Non potremmo esserci evoluti come
le altre specie, predatori e prede? Oppure...». Sebbene non fossi
sempre d’accordo con la fede irremovibile di Carlisle, le sue risposte
erano plausibili quanto qualsiasi altra. A volte, forse perché la sua
mente era così solida, suonavano molto plausibili. «...se non credi
che questo mondo sia nato da sé, cosa che io stesso fatico ad
accettare, è così difficile pensare che la stessa forza che ha creato il
pesce angelo e lo squalo, il cucciolo di foca e l’orca assassina, abbia
creato la tua specie e la mia?».
«Fammi capire bene», cercava di suonare seria come prima, ma
percepii che stava arrivando la battuta, «io sarei il cucciolo di foca,
vero?».
«Esatto», approvai con una risata. Chiusi gli occhi e premetti le
mie labbra sui suoi capelli.
Si contorse, spostò il peso del corpo. Stava scomoda? Mi
preparai a liberarla, ma lei si sistemò di nuovo, stretta al mio petto. Il
suo respiro sembrava lievemente più profondo. Il cuore si era
rilassato a un ritmo più regolare.
«Sei pronta per addormentarti?», sussurrai. «O hai altre
domande?».
«Soltanto un milione o due».
«Ci sono ancora domani, e dopodomani, e il giorno dopo...». Giù
in cucina, questo pensiero mi aveva colto in maniera potente, l’idea
di tante altre serate trascorse in sua compagnia. Adesso si era fatto
ancora più potente, ora che eravamo rannicchiati insieme in quel
modo. Se lei lo avesse voluto, c’era ben poco tempo che avremmo
dovuto trascorrere separati. Meno tempo divisi che insieme. Anche
lei provava quella gioia sconvolgente?
«Mi prometti che non svanirai con l’arrivo del giorno? Dopotutto,
sei una creatura leggendaria». Fece questa domanda senza traccia
di ironia nella voce. La sua sembrava una preoccupazione sincera.
«Non ti lascerò», promisi. Voleva essere un voto, un giuramento
solenne. Sperai che lo cogliesse.
«Ancora una, allora, per stasera...».
Attesi la sua domanda, ma non arrivava. Rimasi sconcertato
quando il suo cuore ricominciò a battere in maniera irregolare. L’aria
attorno a me si riscaldò per il pulsare del suo sangue.
«Quale?».
«No, lasciamo perdere», disse in fretta. «Ho cambiato idea».
«Bella, puoi chiedermi qualsiasi cosa».
Non rispose. Non riuscivo a immaginare nulla che la spaventasse
fino a quel punto. Il suo cuore accelerò di nuovo e io sbuffai.
«Continuo a pensare che non poterti leggere nel pensiero col tempo
sarà meno frustrante. Invece è sempre peggio».
«Sono felice che tu non sia capace di leggermi nel pensiero»,
controbatté. «Già è grave che origli quando parlo nel sonno».
Strano che quella fosse la sua unica obiezione al mio stalking,
ma ero troppo curioso di conoscere la domanda mancante, quella
che le aveva fatto battere forte il cuore, per preoccuparmene in quel
frangente.
«Per favore», la supplicai.
I suoi capelli strusciarono contro il mio petto mentre lei faceva di
no con la testa.
«Se non me lo dici, darò per scontato che sia qualcosa di molto
peggio di ciò che è». Rimasi in attesa, ma il mio bluff non la smosse.
In verità non mi veniva in mente nulla, né di triviale né di tragico.
Provai a implorarla di nuovo. «Per favore».
«Be’...», esitò, ma almeno stava parlando. O forse no. Cadde di
nuovo il silenzio.
«Sì?», incalzai.
«Hai detto che Rosalie ed Emmett si sposeranno presto...». Si
interruppe, lasciandomi nuovamente sconcertato dal corso dei suoi
pensieri. Voleva una proposta?
«Il loro matrimonio è uguale a... quelli umani?».
Pur con tutta la rapidità con cui funzionava il mio cervello, mi ci
volle un secondo per afferrare. Avrebbe dovuto essere ovvio, in
effetti. Dovevo tenere bene a mente che nove volte su dieci –
almeno per quella che era la mia esperienza con lei – quando il suo
cuore cominciava ad accelerare, la paura non c’entrava nulla. Di
solito si trattava di attrazione. Del resto, questi pensieri erano forse
strani visto che mi ero appena infilato nel suo letto?
Risi per la mia ottusità. «È lì che vuoi arrivare?».
La mia domanda sembrava leggera, ma non potevo non
rispondere all’argomento in questione. L’elettricità si propagò nel mio
corpo e dovetti resistere all’impulso di riposizionarmi in modo che le
mie labbra trovassero le sue. Non era la risposta giusta. Non poteva
esserlo. Perché c’era una seconda domanda scontata dopo la prima.
«Sì, immagino che sia più o meno la stessa cosa», risposi. «Te
l’ho detto, molti degli istinti umani sopravvivono, sono solo nascosti
dietro altri e più potenti desideri».
«Ah».
Non disse altro. Forse mi sbagliavo.
«Che scopo aveva questa domanda?».
Sospirò.
«Be’, mi chiedevo, in effetti, se... io e te... un giorno...».
No, non mi sbagliavo. Quella pena improvvisa era come un peso
che mi premeva sul petto. Come avrei voluto avere una risposta
diversa da darle.
«Non penso che... che...», evitai la parola sesso perché lei non
l’aveva usata, «...per noi sarebbe possibile».
«Perché sarebbe troppo difficile per te», bisbigliò, «sentirmi
così... vicina?».
Era dura non immaginare... ritornai in me.
«Quello sarebbe senz’altro un problema», dissi piano. «Ma ora
pensavo ad altro. Il fatto è che sei così tenera, così fragile. Quando
mi sei accanto devo badare a ogni mio gesto, per non farti del male.
Potrei ucciderti senza sforzo, Bella, anche per sbaglio». Mi protesi
con cautela per posarle la mano sulla guancia. «Se avessi fretta... se
per un secondo non facessi attenzione, potrei sfondarti il cranio con
una carezza. Non ti rendi conto di quanto tu sia friabile. Non posso
mai, mai permettermi di perdere il controllo, se ci sei tu. In nessun
senso, mai».
Ammettere questo ostacolo sembrava meno vergognoso che
confessare la mia sete. Dopotutto, la mia forza era parte di ciò che
ero. Be’, anche la mia sete lo era, ma l’intensità con cui la sentivo
vicino a lei era innaturale. Quell’aspetto di me era indifendibile,
vergognoso. Anche ora che era sotto controllo, ero mortificato che
esistesse.
Rifletté a lungo sulla mia risposta. Forse il modo in cui l’avevo
posta era più terrorizzante di quanto avessi voluto. Ma come
avrebbe potuto capire se avessi edulcorato troppo la verità?
«Sei spaventata?», le domandai.
Altra pausa.
«No», rispose piano. «Tutto bene».
Rimanemmo in silenzio per un altro, meditabondo momento. Non
ero entusiasta della piega che avevano preso i miei pensieri durante
il suo silenzio. Anche se mi aveva raccontato così tanto del suo
passato che non si conformava... anche se aveva introdotto
l’argomento con tanta timidezza... non potevo fare a meno di farmi
delle domande. Ormai sapevo bene che se avessi messo a tacere la
mia invadente curiosità, questa non avrebbe fatto che peggiorare.
Provai a sembrare indifferente. «Adesso, però, sono curioso io...
Hai mai...».
«Certo che no», rispose subito, non arrabbiata ma incredula. «Te
l’ho già detto, nessuno mi ha mai fatto sentire così, nemmeno
lontanamente».
Pensava che non le prestassi attenzione?
«Lo so», la rassicurai. «Però conosco i pensieri delle altre
persone. E so che sentimento e sensualità non vanno sempre di pari
passo».
«Per me sì. Perlomeno adesso che li sento nascere».
Il fatto che usasse il plurale era una specie di ammissione.
Sapevo che mi amava.
Il fatto che entrambi sentissimo anche la sensualità avrebbe
decisamente complicato le cose.
Decisi di rispondere alla domanda successiva prima ancora che
me la facesse. «Bene. Se non altro, una cosa in comune l’abbiamo».
Sospirò, ma sembrava un sospiro compiaciuto.
«I tuoi istinti umani...», mi chiese lentamente. «Be’, mi trovi
minimamente attraente anche in quel senso?».
Risi di gusto a quella domanda. Esisteva una forma in cui non la
volessi? Mente, anima e corpo, e corpo non meno delle altre. Le
carezzai i capelli sul collo.
«Non sarò un essere umano, ma un uomo sì».
Sbadigliò, e io soffocai un’altra risata. «Ho risposto alle tue
domande, ora è meglio che tu dorma».
«Non so se ci riuscirò».
«Vuoi che me ne vada?», suggerii, anche se ero molto restio a
farlo.
«No!». Tanto era indignata la sua risposta che alzò la voce ben al
di sopra dei bisbigli che avevamo usato per tutta la sera. Nessun
danno; il russare di Charlie continuò imperterrito.
Risi di nuovo, poi mi avvicinai a lei. Con le labbra contro
l’orecchio, ricominciai a canticchiarle la sua canzone, così piano che
era poco più che un respiro.
Riuscii a percepire la differenza quando scivolò nell’incoscienza.
Ogni guizzo le sfuggì dai muscoli, finché non furono distesi e
languidi. Il suo respiro rallentò e le mani le si piegarono contro il
petto, come in preghiera.
Non avevo nessun desiderio di muovermi. Mai più, in effetti.
Sapevo che alla fine avrebbe iniziato a scuotersi e avrei dovuto
spostarmi per non svegliarla, ma per il momento niente avrebbe
potuto essere più perfetto. Non ero ancora abituato a questa gioia, e
davvero non capivo come ci si potesse abituare. Ne avrei goduto
fino a quando fosse stato possibile e sapevo che qualsiasi cosa
fosse successa in futuro, per il solo fatto di aver vissuto quella
giornata paradisiaca, sarebbe valsa la pena di patire qualsiasi dolore
fosse arrivato.
«Edward», sussurrò Bella nel sonno. «Edward... ti amo».
19. CASA

Mi chiedevo se avrei mai trascorso una notte più felice di quella.


Non lo credevo possibile.
Mentre dormiva, Bella aveva ripetuto più e più volte di amarmi.
Ancor più delle parole stesse, il massimo che avessi mai potuto
desiderare fu proprio il tono di perfetta beatitudine con cui le aveva
pronunciate. L’avevo resa davvero felice. Questo poteva bastare a
perdonare tutto il resto?
Alle primissime ore del mattino, cadde finalmente in un sonno più
profondo. Sapevo che non avrebbe detto più nulla. Finito di leggere il
suo libro – adesso, anche per me uno dei preferiti –, mi misi a
riflettere perlopiù sul giorno che ci attendeva, come pure sulla
visione di Alice dell’incontro tra Bella e la mia famiglia. Sebbene lo
avessi visto in modo nitido nella sua mente, era difficile da credere.
Davvero Bella avrebbe voluto questo? E io invece?
Passai a esaminare l’amicizia, avrei detto ben affiatata, tra Alice e
Bella, di cui quest’ultima era completamente ignara. Adesso che mi
sentivo rassicurato sul futuro che mi ero prefisso – e sulla possibilità
che si realizzasse –, sembrava in effetti un po’ crudele tenere Alice
lontano da lei. Che cosa avrebbe pensato Bella di Emmett? Non ero
affatto sicuro che lui si sarebbe comportato bene. Avrebbe trovato
troppo divertente dire qualcosa di sgradevole o di spaventoso.
Magari, se in cambio gli avessi promesso qualcosa che desiderava...
Un incontro di lotta? Una partita a football? Doveva pur esserci un
pegno che avrebbe accettato. Quanto a Jasper, avevo visto che si
sarebbe tenuto in disparte, ma perché aveva già provveduto ad
avvertirlo Alice oppure perché la sua visione dipendeva da ciò che
avrei fatto io? Ovviamente, Bella e Carlisle si erano già incontrati,
ma ora sarebbe stato diverso. Mi piacque l’idea che Bella potesse
trascorrere del tempo con lui. Tra noi, Carlisle era il migliore.
Conoscerlo meglio non avrebbe fatto altro che migliorare il modo in
cui Bella ci vedeva. Esme, poi, sarebbe stata felicissima di
incontrarla. E il pensiero della sua gioia riuscì quasi a convincermi.
In realtà, l’ostacolo vero era uno solo.
Rosalie.
Mi resi conto che, prima di poter anche solo immaginare di
portare Bella a casa mia, occorreva che attuassi dei preparativi. E
questo significava dovermi separare da lei.
La osservai, adesso era completamente immersa nei suoi sogni.
Mi ero spostato sul pavimento accanto al suo letto quando lei aveva
iniziato a rigirarsi come tutte le notti. Mi appoggiai al bordo del
materasso e allungai una mano avvolgendo al dito un ricciolo dei
suoi capelli. Emisi un sospiro e lo lasciai andare. Occorreva farlo. Lei
non avrebbe mai saputo che me n’ero andato. Io invece, seppure
per un tempo così breve, avrei sentito la sua mancanza.
Corsi a casa, sperando di poter concludere quanto dovevo il più
rapidamente possibile. Alice aveva già fatto la sua parte, come
sempre. A me toccava sistemare perlopiù i dettagli. Alice sapeva
quali erano i più importanti e, come previsto, quando salii correndo
fino a casa, Rosalie era già lì ad aspettare, sotto il portico
all’ingresso, accovacciata sul primo gradino delle scale.
Alice non le aveva detto più di tanto. A prima vista, l’espressione
sul volto di Rosalie sembrava alquanto confusa, come se non
avesse idea di che cosa stesse aspettando. Quando però mi vide, la
sua confusione si trasformò in un’occhiata torva.
Oh, che c’è adesso?
«Rose, per piacere», la chiamai per nome. «Possiamo parlare?».
Avrei dovuto capirlo che Alice stava aiutando te.
«E un po’ anche se stessa».
Rosalie si alzò in piedi, pulendosi i jeans.
«Te lo chiedo per piacere, Rose...».
E va bene! Va bene. Dimmi quello che hai da dire.
Aprii il braccio in segno di invito. «Facciamo due passi?».
Lei storse le labbra, annuendo. Feci io strada intorno alla casa,
fino al margine del fiume nero come la notte. Dapprincipio
rimanemmo in silenzio, camminando verso nord lungo la riva. A
esclusione dell’acqua che gorgogliava, non vi era alcun rumore.
Avevo scelto apposta quel sentiero. Speravo le avrebbe ricordato
il giorno a cui avevo pensato prima, quello in cui lei aveva portato a
casa Emmett. La prima volta in cui noi due avevamo trovato
un’intesa.
«Arriviamo al punto?», protestò lei.
Sebbene il suo tono sembrasse irritato, nella sua mente potevo
leggere dell’altro. Era nervosa. Temeva fossi ancora arrabbiato per
la sua scommessa? Pensai che se ne vergognasse un po’.
«Voglio chiederti un favore», dissi. «So che per te non sarà
facile».
Fu una mossa per lei inattesa. Tuttavia, il mio tono gentile non
fece altro che irritarla ulteriormente.
Vuoi che sia gentile con quell’umana, indovinò lei.
«Sì. Se non ti va, non devi fartela piacere a forza. Ma lei fa parte
della mia vita e questo la rende anche parte della tua. So che non
sei stata tu a chiederlo, e che non lo desideri».
No, non lo voglio, ammise.
«Tu non hai chiesto il mio permesso per portare Emmett a casa»,
le ricordai.
Inspirò forte con aria beffarda. È diverso.
«È una cosa più permanente, è chiaro».
Rosalie smise di camminare e anch’io mi fermai. Mi fissò,
sorpresa e sospettosa.
Che intendi dire con questo? Non stai parlando di una cosa
permanente?
I suoi pensieri furono talmente investiti da questi interrogativi, che
anch’io fui colto di sorpresa quando iniziò a parlare di tutt’altro.
«Ti sei sentito ferito quando ho scelto Emmett? La cosa ti ha fatto
stare in qualche modo male?».
«Certo che no. Hai fatto un’ottima scelta».
Ancora una volta inspirò forte, rimanendo indifferente alla mia
lusinga.
«Mi concedi l’opportunità di dimostrarti di averla fatta anch’io?».
Rosalie si allontanò da me, dirigendosi di nuovo verso nord per
intraprendere un sentiero che si addentrava nel folto della foresta.
Non posso guardarla. Quando lo faccio, non riesco a vedere una
persona. Vedo solo uno spreco.
Contro la mia volontà, sentii la rabbia divamparmi dentro.
Repressi un ringhio e cercai di ricompormi. Rosalie mi lanciò
un’occhiata oltre la spalla e notò il mio mutamento di espressione. Si
fermò ancora e si voltò, venendomi incontro.
Mi dispiace. Non era mia intenzione sembrare così crudele. È
solo che... È solo che non riesco a starmene a guardare mentre lei
fa questo. «Lei ha la possibilità di fare tutto, Edward», mormorò
Rosalie, con fermezza e irrigidendosi tutta. «Lei ha davanti a sé una
vita piena di possibilità e sta per sprecarle tutte. Tutte quelle che io
ho perduto. Non ce la faccio a rimanere a guardare».
La fissai, ero scosso.
La strana gelosia di Rosalie, che indubbiamente nasceva dalla
mia preferenza per Bella, mi aveva infastidito. Era infatti un aspetto
davvero meschino. Questa però era una cosa del tutto diversa,
molto più profonda. Per la prima volta da quando avevo salvato la
vita a Bella, adesso sentivo di riuscire a comprendere Rosalie. Con
cautela, allungai la mano per poggiarla sul suo braccio,
aspettandomi che l’avrebbe respinta. E invece lei rimase
perfettamente immobile.
«Non lascerò che accada», le promisi con altrettanta fermezza.
Per un lungo momento esaminò il mio viso. Dopodiché visualizzò
Bella nella sua mente. Non si trattava di una rappresentazione
perfetta come nelle visioni di Alice, quanto piuttosto di una
caricatura. Ma il suo significato era chiaro. La pelle di Bella era
diventata cerea, e i suoi occhi rossi. Era un’immagine connotata da
un forte disgusto.
Non è questo il tuo obiettivo?
Scossi la testa, in preda al medesimo disgusto. «No. No,
desidero che lei abbia tutto. Non le porterò via nulla, Rose. Lo
capisci? Non le farò del male in quel modo».
Anche lei adesso era turbata. Ma... come pensi che... potrà
funzionare?
Scrollai le spalle, fingendo una disinvoltura che non provavo.
«Quanto ci vorrà prima che si stufi di un diciassettenne? Credi che
riuscirò a interessarle ancora quando avrà ventitré anni? Forse
venticinque? Alla fine... volterà pagina». Cercai di controllare il mio
viso, di nascondere quanto mi costasse pronunciare quelle parole,
ma lei se ne accorse.
Quello che stai facendo è un gioco pericoloso, Edward.
«Troverò il modo di sopravvivere. Quando lei sarà andata via...».
Mentre la mia mano scivolava giù sul fianco, ebbi un trasalimento.
«Non era questo ciò che intendevo», ribatté lei. Senti,
personalmente non incarni di certo i miei gusti, però non c’è un
umano che regga il confronto con te, e questo lo sai.
Scossi il capo. «Un giorno lei vorrà più di quanto io possa
offrirle». Erano così tante le cose che non potevo darle. «Anche tu
avresti voluto di più, dico bene? Se ti trovassi tu nella sua posizione
ed Emmett nella mia?».
Rosalie prese sul serio la mia domanda, riflettendoci sopra.
Immaginò Emmett esattamente come era adesso, con il suo sorriso
disinvolto, e le mani tese verso di lei. Vide se stessa nuovamente
umana, sempre graziosa ma meno straordinaria, tendersi verso di
lui. Poi immaginò la sua versione umana che lo respingeva.
Nessuna delle due visioni sembrò soddisfarla.
Io però so che cosa ho perduto, pensò in maniera sommessa.
Invece non credo che lei vedrà le cose allo stesso modo. «Adesso
sembrerò un’ottantenne», continuò ad alta voce, nel suo tono un
lieve accenno di leggerezza improvvisa. «Ma... lo sai come sono i
ragazzi d’oggi». Accennò un debole sorriso. «Conta solo il qui e ora,
nessun pensiero a come sarà il futuro da qui a cinque anni, lasciamo
perdere poi tra cinquanta. Che farai quando ti chiederà di
trasformarla?».
«Le spiegherò perché è uno sbaglio. Le mostrerò tutte le cose
che perderebbe».
E se ti implorasse?
Ebbi un attimo di esitazione ripensando alla visione di Alice in cui
Bella era afflitta, con le guance scavate e il corpo ripiegato su se
stesso, in agonia. E se fosse stata la mia presenza, e non la mia
assenza, il motivo per cui si sentiva in quella maniera? La immaginai
colma dell’amarezza che provava Rosalie.
«Non accetterei».
Rose percepì la fermezza nel mio tono e vidi che finalmente
aveva compreso la mia determinazione. Assentì tra sé e sé.
Continuo a credere che sia troppo pericoloso. Non sono sicura
che tu sia così forte.
Si voltò e iniziò a camminare lentamente per tornare a casa. Mi
misi al passo con lei.
«La tua vita non è quella che volevi», cominciai a dirle con calma.
«Ma, diciamo negli ultimi settant’anni, potresti dire di aver avuto
quantomeno cinque anni di vera felicità?».
Nella sua mente affiorarono a sprazzi i momenti migliori della sua
vita, tutti incentrati su Emmett, anche se riuscivo a vedere che,
ostinata com’era, non voleva darmi ragione.
Accennai un blando sorriso. «Addirittura dieci anni?».
Non volle rispondere.
«Concedimi cinque anni, Rosalie», le mormorai. «Lo so che non
potrà durare. Lascia che io sia felice finché sarà possibile esserlo. Sii
parte di questa felicità. Comportati da sorella e, se proprio non riesci
a farti piacere questa scelta come io ho apprezzato la tua, puoi
almeno far finta di sopportarla?».
Le mie parole, calme e gentili, sembrarono colpirla come mattoni.
Di colpo, le sue spalle divennero rigide e nervose.
Non sono sicura di quello che posso fare. Vedere tutto ciò che io
vorrei... fuori della mia portata... È troppo doloroso.
Per lei sarebbe stato doloroso, questo lo sapevo. Ma sapevo pure
che il suo rimpianto e la sua pena non avrebbero eguagliato
nemmeno un briciolo dell’angoscia che attendeva me. La vita di
Rosalie sarebbe tornata a quella di adesso. Emmett sarebbe stato lì
per confortarla. Io invece... avrei perduto ogni cosa.
«Ci proverai?», le chiesi con voce più severa di prima.
Per qualche secondo rallentò il passo, fissandosi i piedi.
Alla fine, abbassò le spalle e fece di sì con la testa. Ci posso
provare.
«C’è una possibilità... Alice ha visto che Bella verrà a casa nostra
questa mattina».
Gli occhi le si accesero nuovamente di rabbia. Mi serve più
tempo.
Alzai le mani, in segno di pace. «Prenditi il tempo che ti occorre».
Vedendo che il suo sguardo era diventato ancora una volta
sospettoso, provai amarezza e stanchezza. Forse lei non era forte
abbastanza. Sembrò rendersi conto del giudizio nei miei occhi.
Distolse lo sguardo e, improvvisamente, corse verso casa. La lasciai
andare via.
Le altre faccende da sistemare non furono altrettanto lunghe né
difficili. Jasper acconsentì senza problemi alla mia richiesta. Mia
madre fu raggiante, già pregustando la gioia. Mentre non aveva più
importanza quel che avrei voluto chiedere a Emmett; era ovvio che
lui sarebbe rimasto con Rosalie e lei sarebbe andata da qualche
parte, lontano da qui.
Be’, era comunque un inizio. Almeno, ero riuscito a farmi
promettere da Rose che ci avrebbe provato.
Mi concessi anche un attimo per indossare dei vestiti puliti.
Sebbene la camicia a maniche corte che Alice mi aveva regalato
tempo addietro non avesse procurato nessuna delle temute
tribolazioni – procurandomi invece alcune gioie inattese –, la
ritenevo ancora un indumento stranamente sgradevole. Mi sentivo
più a mio agio con i miei abiti consueti.
Uscendo di casa incrociai Alice appoggiata a un pilastro, sul
margine della scalinata del portico, vicino al punto in cui prima
Rosalie era rimasta ad aspettare. Il suo sorriso era compiaciuto.
Sembra tutto perfetto per la visita di Bella. Proprio come avevo
previsto.
Mi venne voglia di puntualizzare con lei che anche quello che
stava vedendo adesso non era altro che una visione, suscettibile di
cambiamenti esattamente come quella avuta in precedenza, ma
perché disturbarsi a farlo?
«Non stai tenendo conto dei desideri di Bella», le ricordai.
Alzò gli occhi. Quando mai Bella ti ha detto di no?
Fu un’osservazione interessante.
«Alice, io...».
Mi interruppe, sapendo già che cosa volessi chiederle.
Guarda tu stesso.
Visualizzò i fili intrecciati del futuro di Bella. Alcuni erano concreti,
altri inconsistenti, altri ancora svanivano in una foschia. Adesso
apparivano più ordinati, non più aggrovigliati in un nodo caotico. Fu
un sollievo constatare che ormai non vi era più traccia del futuro più
angoscioso. Tra tutti i fili, però, il più robusto, quello in cui Bella
aveva gli occhi rosso sangue e una pelle di diamante, occupava
ancora una posizione preminente. Le visioni che stavo cercando io si
trovavano solo tra le linee vaghe e i filoni marginali. Bella a
vent’anni, Bella a venticinque anni. Immagini inconsistenti, dai
margini sfocati.
Alice si strinse le braccia attorno alle gambe. Non aveva bisogno
di leggere i pensieri o il futuro per cogliere la frustrazione nei miei
occhi.
«Questo non succederà mai».
Quando mai hai saputo dire di no a Bella?
Scendendo le scale le lanciai un’occhiata torva, dopodiché iniziai
a correre.
Pochi istanti dopo ero già in camera di Bella. Scacciai via il
pensiero di Alice e mi lasciai investire dalla calma del suo sonno
silenzioso. Sembrava non si fosse mossa affatto. Tuttavia, la mia
assenza – seppur breve – aveva cambiato le cose. Mi sentivo... di
nuovo insicuro. Anziché sedermi come prima accanto al suo letto, mi
rimisi sulla vecchia sedia a dondolo. Non volevo essere temerario.
Charlie si alzò poco dopo il mio rientro, quando i primi barlumi
dell’alba non avevano ancora acceso il cielo. Non avevo timore,
perché conoscevo le sue abitudini e sapevo dai suoi pensieri,
confusi ma allegri, che sarebbe andato nuovamente a pesca. Come
previsto, dopo una rapida sbirciata in camera di Bella, in cui la trovò
che dormiva in maniera più convincente della notte precedente,
scese le scale in punta di piedi e cominciò a rovistare tra gli attrezzi
di pesca nel sottoscala. Uscì di casa proprio nel momento in cui le
nuvole là fuori stavano assumendo una tenue luminosità grigiastra.
Ancora una volta, sentii scricchiolare il cofano arrugginito del pick-up
di Bella. Mi precipitai alla finestra per dare un’occhiata.
Charlie fissò il cofano con l’asta di sostegno, dopodiché rimise a
posto i cavi della batteria che aveva lasciato accanto a penzolare.
Non era un problema particolarmente difficile da risolvere, ma forse
aveva dato per scontato che Bella non avrebbe neppure cercato di
aggiustare il pick-up, non capendone nulla di motori. Mi chiesi dove
immaginasse che lei se ne volesse andare.
Dopo aver caricato velocemente le canne e gli attrezzi da pesca
sull’auto di pattuglia, andò via. Tornai al posto dov’ero prima e attesi
il risveglio di Bella.
Più di un’ora dopo, quando il sole era già alto dietro la spessa
coltre di nuvole, finalmente lei si mosse. Si mise un braccio sul viso,
come a volersi schermare dalla luce, quindi emise in tutta tranquillità
un mugolio e si girò su un fianco, tirandosi sulla testa il cuscino.
D’improvviso esclamò «Ah!» con un rantolo e, sbandando come
in preda alle vertigini, si mise seduta. La sua vista faticava a mettere
a fuoco, ed era ovvio che stesse cercando qualcosa.
«I tuoi capelli sembrano una balla di fieno... ma mi piacciono», la
informai e i suoi occhi si indirizzarono subito nel punto in cui mi
trovavo. L’espressione sul suo viso era colma di sollievo.
«Edward! Sei rimasto qui!». Impacciata nei movimenti dopo
essere rimasta immobile per così tanto tempo, fece uno sforzo per
alzarsi, quindi attraversò tutta la stanza per gettarsi direttamente tra
le mie braccia. Di colpo, i miei timori di essere temerario parvero
alquanto sciocchi.
L’afferrai facilmente, mettendola a sedere sulle mie ginocchia.
Sembrò stupirsi della sua stessa impulsività e non potei che ridere
della sua espressione mortificata.
«Certo», dissi.
Il cuore prese a batterle con un suono disordinato. Il tempo che
gli aveva concesso per passare dal sonno a uno scatto veloce era
stato troppo limitato. Le massaggiai le spalle, sperando così di
calmarlo.
Lei abbandonò la testa sulla mia spalla.
«Ero convinta di averti sognato», sussurrò.
«Non sei tanto creativa», dissi per prenderla in giro. Io non
ricordavo come fosse sognare, ma da quel che avevo percepito nelle
menti degli altri umani ritenevo fosse qualcosa di poco coerente e
dettagliato.
Bella scattò su improvvisamente. Ritirai le mani per lasciarla
libera di alzarsi in piedi.
«Charlie!», esclamò trattenendo il respiro.
«È uscito un’ora fa... dopo aver ricollegato la batteria del pick-up,
se proprio vuoi saperlo. Devo ammettere che un po’ mi ha deluso.
Basterebbe così poco per bloccarti, se fossi decisa a fuggire?».
Presa dall’indecisione, si mise a dondolare sui piedi mentre con
gli occhi saltava dal mio viso alla porta, e poi di nuovo indietro. Per
qualche secondo sembrò che lottasse per prendere una decisione.
«Di solito, la mattina non sei così confusa», le dissi, anche se in
realtà era una cosa che ignoravo. Non avevo mai visto com’era
quando non aveva tutto il tempo per svegliarsi. La mia speranza era
però che lei mi contraddicesse – come di solito faceva quando davo
per scontato qualcosa –, per poi spiegarmi quale fosse la natura del
suo dilemma. Le tesi le braccia per farle comprendere che, se
avesse desiderato tornare da me, sarebbe stata la benvenuta –
estremamente benvenuta.
Dondolò ancora una volta verso di me, dopodiché aggrottò la
fronte. «Ho bisogno di un altro minuto umano».
Ovviamente. Ero sicuro che in questo sarei migliorato.
«Ti aspetto», la rassicurai. Mi aveva chiesto di rimanere e, finché
non mi avesse chiesto di andare, l’avrei aspettata.
Stavolta non fu una lunga attesa. La sentii sbattere porte e
armadietti. Quella mattina era di corsa. Il suono della spazzola che
passava tra i suoi capelli mi fece trasalire.
Passarono solo pochi minuti prima che tornasse da me. Due
macchie di colore le segnavano in alto le guance, mentre gli occhi
erano luminosi e impazienti. Malgrado questo, ora avvicinandosi a
me si mosse con più cautela, e quando le sue ginocchia si trovarono
a un centimetro dalle mie, si bloccò incerta. Sembrava non
accorgersi di come si stesse torcendo le mani con aria circospetta.
Immaginai fosse stata colta ancora una volta dalla timidezza e
che, dopo la nostra separazione, si sentisse a disagio così come mi
ero sentito io quando ero rientrato in camera sua quella mattina.
Anche se – ed ero certo che questo valesse anche per me – non era
assolutamente il caso di esserlo.
La strinsi delicatamente tra le braccia. Lei si rannicchiò volentieri
contro il mio petto, lasciando ricadere le sue gambe sulle mie.
«Bentornata», le sussurrai.
Sospirò contenta. Le sue dita scendevano giù lungo il mio braccio
destro, lente e indagatrici, per poi risalire, mentre io dondolavo
pigramente avanti e indietro, muovendomi al ritmo del suo respiro.
I suoi polpastrelli presero a vagare sulla mia spalla finché, giunti
al colletto della camicia, non si arrestarono. Si tirò indietro, fissando
il mio viso in preda alla costernazione.
«Te ne sei andato?».
Le feci un gran sorriso. «Non potevo certo uscire di qui con gli
stessi abiti che avevo quando sono entrato... Cosa avrebbero
pensato i vicini?».
Questo non fece che renderla ancora più scontenta. Non volevo
spiegarle le faccende di cui mi ero dovuto occupare, perciò le dissi
l’unica cosa che ero certo l’avrebbe distratta.
«Stavi dormendo sodo; non mi sono perso niente. I discorsi li
avevi già fatti».
Come previsto, Bella protestò.
«Cos’hai sentito?», chiese.
Non riuscii a mantenere un tono scherzoso. Nel dirle la verità,
sentivo come se tutto dentro di me si fondesse in una gioia liquida.
«Hai detto che mi amavi».
Abbassò lo sguardo e nascose il viso premendolo contro la mia
spalla.
«Lo sapevi già», disse con un sussurro. Il calore del suo respiro
saturò il cotone della mia camicia.
«Però è stato bello sentirlo», mormorai tra i suoi capelli.
«Ti amo».
Quelle parole non avevano perduto il loro potere di
entusiasmarmi. Al contrario, adesso risultavano ancora più
travolgenti. Significava molto il fatto che lei avesse scelto di
pronunciarle sapendo che le avrei sentite.
Desideravo parole ancora più forti, parole che potessero
descrivere in maniera precisa quello che lei era diventata per me.
Dentro di me non vi era più nulla che non fosse interamente votato a
lei. Mi venne in mente la nostra prima conversazione, e come avessi
pensato di non avere davvero una vita. Non era più così.
«Tu sei la mia vita, adesso», sussurrai.
Sebbene il cielo fosse ancora coperto di nubi fitte, al di là
splendeva il sole, e la stanza, in qualche modo, si era colmata di una
luce dorata. L’aria si era fatta più tersa e pura di quanto non fosse di
solito. Noi dondolavamo lentamente, le mie braccia strette attorno a
lei, assaporando la perfezione di quel momento.
Come mi era già capitato di pensare spesso nelle ultime
ventiquattro ore, sapevo che, quand’anche non mi fossi più potuto
muovere, mi sarei sentito completamente in pace con l’universo
intero. E dal modo in cui il suo corpo si fondeva con il mio, pensai
che anche lei dovesse provare la stessa cosa.
Ah, ma avevo delle responsabilità. Dovevo tenere a bada la mia
gioia smodata ed essere pratico.
«È ora di fare colazione», suggerii.
Bella esitò per un attimo, forse contraria quanto me all’idea che
tra noi due si frapponesse dello spazio. Poi si scostò, tirando indietro
il busto così che potessi vederle il viso.
I suoi occhi erano spalancati dal terrore. Aveva la bocca aperta,
mentre le mani erano salite alla gola per proteggerla.
Caddi talmente in preda all’orrore per quella sua angoscia palese
che non riuscii a comprendere ciò che stava accadendo. I miei sensi
sbrigliati, come tentacoli, in cerca di un qualunque pericolo.
Finché poi, prima che potessi lanciarmi dalla finestra con lei tra le
braccia e portarla al sicuro, la sua espressione si distese in un
sorriso sornione. Alla fine, riuscii a cogliere il nesso tra le mie parole
e la sua reazione, comprendendo la beffa che mi aveva giocato.
Ridacchiò. «Scherzetto! E poi dici che non sono capace di
recitare!».
Mi occorse un secondo per riprendermi. Il sollievo mi diede un
senso di debolezza, ma lo shock mi rese inquieto. «Non è stato
divertente».
«Invece sì, tanto», insistette lei. «E lo sai anche tu».
Non ce la feci a non sorriderle. Pensai che se gli scherzi sui
vampiri dovevano diventare una consuetudine tra noi, sarei riuscito a
sopportarli. Per amor suo.
«Posso riformulare la frase? È ora di fare colazione, per gli
umani».
Mi sorrise tutta allegra. «Ah, d’accordo».
Benché intenzionato ad accettare un futuro a base di brutti
scherzi, non ero del tutto disposto a fargliela passare liscia.
Mi mossi con estrema cautela, ma rapido. Sperai che,
caricandomela sulle spalle per poi sfrecciare via dalla sua camera,
anche lei si impressionasse – ma assolutamente non che si
spaventasse – come avevo fatto io.
«Ehi!», protestò con la voce che sobbalzava a ogni mio
movimento, per cui rallentai leggermente mentre andavamo giù per
le scale.
«Fermo!», ansimò quando la rigirai, depositandola delicatamente
su una sedia in cucina.
Mi guardò sorridendo, ovviamente per nulla scossa. «Cosa c’è
per colazione?».
Increspai la fronte. Non avevo avuto tempo di badare alla
questione del cibo per gli umani. Diciamo che, quantomeno a grandi
linee, sapevo che aspetto dovesse avere, per cui probabilmente
sarei riuscito a improvvisare...
«Ehm», esitai. «Non saprei. Cosa ti piacerebbe mangiare?».
Speravo in qualcosa di semplice.
Di fronte alla mia incertezza, Bella scoppiò a ridere e scattò in
piedi allungando le braccia oltre la testa. «Benissimo», mi rassicurò.
«Posso cavarmela da sola senza problemi». Inarcò un sopracciglio e
– con un sorriso aperto – aggiunse: «Osservami mentre caccio».
Osservarla muoversi nel suo elemento fu illuminante e
seducente. Prima di allora non l’avevo mai vista così sicura di sé e a
proprio agio. Era ovvio che sarebbe riuscita a individuare tutto quel
che le serviva anche a occhi chiusi. Anzitutto una ciotola e poi da un
ripiano in alto – alzandosi sulle punte dei piedi – una scatola di
cereali di una marca anonima. Girò poi su se stessa per aprire il
frigo, tirando intanto fuori un cucchiaio da un cassetto che richiuse
con un colpo dell’anca. Fu solo dopo aver assemblato il tutto sul
tavolo che si bloccò incerta.
«Vuoi che procacci qualcosa anche per te?».
Alzai gli occhi al cielo. «Mangia e basta, Bella».
Prese un boccone di quella poltiglia immangiabile e la masticò
velocemente, con gli occhi puntati su di me. Dopo averlo ingoiato, mi
chiese: «Cos’abbiamo in programma oggi?».
«Mmm...». Avrei voluto prepararla a questo, ma se ora le avessi
detto che non ne avevo idea le avrei mentito. «Che ne dici di venire
a conoscere la mia famiglia?».
Sbiancò in viso. Be’, se la sua risposta era un no, la cosa finiva lì.
Mi chiesi come Alice si fosse potuta sbagliare.
«Hai paura, adesso?». La mia domanda suonò quasi come se
desiderassi che dicesse di sì. Credo stessi aspettando di trovare
qualcosa che per lei fosse davvero troppo.
La risposta nei suoi occhi era ovvia, ma disse: «In effetti, sì», con
una voce bassa e tremante, che mi colse di sorpresa. Non
ammetteva mai di avere paura. O perlomeno, non ammetteva mai
quando aveva paura di me.
«Non preoccuparti. Ti proteggerò io», la rassicurai con un tiepido
sorriso. Non volevo cercare di convincerla. C’erano mille altre cose
che potevamo fare assieme quel giorno, senza che dovesse temere
per la sua vita. Volevo però che sapesse che mi sarei sempre
frapposto tra lei e qualunque pericolo, meteora o creatura
mostruosa.
Scosse il capo. «Non ho paura di loro. Temo che non... gli
piacerò. Non credi che saranno sorpresi di vederti arrivare assieme
a una...», aggrottò la fronte, «come me... a casa loro, per
conoscerli? Sanno quel che so di loro?».
Improvvisamente, fui pervaso da una rabbia inattesa. Forse
perché aveva ragione lei, quantomeno su Rosalie. Detestavo il fatto
che Bella parlasse di sé in quel modo, come se il problema fosse lei
e non il contrario.
«Sanno già tutto», dissi, con la voce che tradiva la mia rabbia.
Cercai di sorriderle, ma si capiva che questo non aveva smorzato i
miei toni. «Ieri hanno persino scommesso su quante possibilità io
abbia di portarti a casa sana e salva, benché mi sembri una
stupidaggine scommettere contro Alice». Mi resi conto che così le
stavo instillando dei pregiudizi contro di loro, ma era giusto che
sapesse. Cercai di reprime l’ira. «E in ogni caso, nella mia famiglia
non ci sono segreti. Non sarebbe proprio concepibile, con me che
leggo nel pensiero, Alice che vede il futuro e tutto il resto».
Accennò un debole sorriso. «E Jasper che ti rende felice,
contento ed entusiasta di raccontargli i fatti tuoi, non
dimentichiamolo».
«Ah, vedo che quando parlo stai attenta».
«Di tanto in tanto capita anche a me». Corrugò la fronte come per
concentrarsi, dopodiché annuì. Quasi come se stesse accettando
l’invito.
«Perciò, Alice mi ha già vista arrivare?».
Bella parlava usando un tono pratico, come se stessimo
discutendo di un argomento del tutto banale. Io invece ero stupito,
perché sembrava davvero che stesse accettando di incontrare la mia
famiglia. Come se la visione di Alice mostrasse un evento inevitabile.
Il fatto che accettasse come oro colato le parole di Alice toccò in
me un nervo scoperto. Odiavo la possibilità che perfino in quel
momento stessi rovinando la vita di Bella.
«Qualcosa del genere», ammisi voltandomi come se dalla
finestra stessi osservando qualcosa nel giardino sul retro. Non
volevo notasse il mio turbamento. Sentivo i suoi occhi su di me e
dubitai di avergliela data a bere.
Mi sforzai di mantenere l’umore che mi ero imposto, ricambiai il
suo sguardo e le sorrisi nel modo più naturale possibile. «È buono
quel che mangi?», chiesi indicando i cereali. «Sinceramente, non
mette tanto appetito».
«Be’, di certo non è un grizzly permaloso...». Mentre esaminava
la mia reazione si fece silenziosa, quindi si concentrò sul cibo e
iniziò a mangiare velocemente.
Stava anche pensando intensamente a qualcosa, mentre
masticava fissando un punto a poca distanza, ma dubitai che in quel
momento i nostri pensieri fossero in sintonia.
Ripresi a guardare fuori dalla finestra, lasciandola mangiare in
pace. Guardai il cortiletto e mi ricordai del giorno in cui ero stato lì a
osservarla. Mi tornò in mente come era stata colta di sorpresa
dall’oscurità delle nuvole. Sarebbe stato troppo facile scivolare di
nuovo in quella disperazione, mettere in dubbio tutte le mie buone
intenzioni e considerarle solamente un atto di egoismo.
Mi voltai verso di lei in preda all’agitazione e mi accorsi che mi
stava osservando, impavida. Si fidava di me, come sempre aveva
fatto. Inspirai profondamente.
Sarei stato degno della sua fiducia. Sapevo di potercela fare.
Quando mi guardava in quel modo, non c’era nulla che non sarei
stato in grado di fare.
Diciamo quindi che Alice aveva dimostrato che questa sua
piccola e semplice profezia era corretta. Niente di sorprendente. Mi
domandai in che misura Bella avesse accettato per compiacermi.
Probabilmente in buona parte. C’era un’altra cosa che avrei voluto
chiederle e che era strettamente connessa a tutto questo, ma
temevo che lei avrebbe acconsentito di nuovo al solo fine di
compiacermi. Be’, perlomeno potevo comunicarle il mio pensiero e
vedere come avrebbe reagito.
«E immagino che poi toccherà a te, presentarmi a tuo padre»,
dichiarai con disinvoltura.
Fu colta alla sprovvista. «Ti conosce già».
«In quanto tuo ragazzo, dico».
I suoi occhi si strinsero. «Perché?».
«Non si usa?», sembravo a mio agio, ma la sua riluttanza mi
impensieriva.
«Ti confesso che non lo so», ammise. Quando ricominciò a
parlare, il tono della sua voce si era fatto più dimesso, meno sicuro.
«Non è necessario, ecco. Non mi aspetto che tu... Cioè, non sei
costretto a fingere per me».
Era forse convinta che fosse un compito ingrato a cui stavo
assolvendo unicamente per amor suo? «Non sto fingendo», la
rassicurai.
Abbassò lo sguardo sulla colazione, rimestando svogliatamente
quel che restava dei suoi cereali.
Forse era meglio arrivare a un no.
«Dirai o no a Charlie che sono il tuo ragazzo?».
Senza alzare gli occhi, chiese a bassa voce: «Lo sei?».
Non era il rifiuto che avevo temuto. Era chiaro che mi stava
sfuggendo qualcosa.
Pensava non fosse il caso che Charlie sapesse di me poiché io
non ero umano? Oppure il motivo era un altro?
«In effetti l’espressione “ragazzo” è qui intesa in senso lato».
«Avevo l’impressione che fossi qualcosa di più, a dir la verità»,
sussurrò tenendo il viso abbassato come se stesse parlando con il
tavolo.
La sua espressione mi fece tornare in mente la conversazione
intensa che avevamo avuto a pranzo, quando lei aveva creduto che i
nostri sentimenti fossero impari, che i miei fossero meno forti. Non
riuscivo a capire come la mia richiesta di incontrare suo padre
avesse potuto condurla a questa serie di riflessioni. A meno che...
era stata forse l’impertinenza della parola ragazzo? Non era che un
concetto davvero umano e labile. In realtà, quel termine non
racchiudeva neppure una frazione minima di tutto ciò che io volevo
essere per lei, ma era quella la parola che Charlie avrebbe
compreso.
«Be’, non so se sia il caso di descrivergli anche i dettagli più
sanguinolenti», dichiarai con voce sommessa. Allungai un dito per
sollevarle il viso, così che potessi rivedere i suoi occhi. «Ma
senz’altro dovremo giustificare in qualche modo il fatto che ti girerò
attorno tanto spesso. Non voglio che l’ispettore Swan ricorra a
misure cautelari per vietarmi formalmente di vederti».
«Ti vedrò spesso?», chiese impaziente, ignorando la mia battuta
bonaria. «Starai qui spesso, davvero?».
«Per tutto il tempo che vuoi». Finché non mi avesse chiesto di
andarmene, sarei stato suo.
Mi lanciò uno sguardo talmente intenso da ammaliarmi, quasi.
«Attento, perché ti vorrò sempre. Per sempre».
Sentii la convinzione di Alice: Quando mai hai saputo dire di no a
Bella?
E sentii le domande di Rosalie: Che farai quando ti chiederà di
trasformarla? E se ti implorasse?
Su una cosa, però, Rosalie aveva ragione. Quando Bella diceva
per sempre, per lei quelle parole non avevano lo stesso senso che
avevano per me. Per lei, infatti, indicavano semplicemente un
periodo lunghissimo. Vale a dire un arco di tempo del quale non
riusciva a vedere la fine. Ma una persona che aveva vissuto
diciassette anni appena, come poteva comprendere che cosa
significassero cinquant’anni, per non parlare poi dell’eternità? Lei era
un’umana, non un immortale di ghiaccio. Giusto qualche anno e
avrebbe già reinventato se stessa un mucchio di volte. Le sue
priorità sarebbero cambiate man mano che il suo mondo si fosse
allargato. Le cose che desiderava in quel momento non sarebbero
più state le stesse che avrebbe voluto in futuro.
Le andai vicino, lentamente, consapevole che il tempo a nostra
disposizione stesse per scadere. Con la punta del dito sfiorai il
profilo del suo viso.
Lei mi guardò, cercando di comprendere. «Quest’idea ti mette
tristezza?», chiese.
Non sapevo che cosa risponderle. Rimasi semplicemente a
osservare il suo volto, con la sensazione di poterne cogliere tutti i
minimi cambiamenti a ogni battito del suo cuore.
Lei non distolse mai lo sguardo. Mi domandai che cosa vedesse
nel mio viso. Se le fosse venuto in mente che sarebbe sempre
rimasto immutato.
La sensazione della sabbia che scorreva giù nella clessidra si
fece ancora più intensa. Non c’era tempo da perdere.
Vidi che la sua ciotola era quasi vuota. «Hai finito?».
Si alzò in piedi. «Sì».
«Vestiti. Ti aspetto qui».
Ubbidì senza fiatare.
Avevo bisogno di restare un minuto da solo. Non capivo perché
mi fossi perso appresso a pensieri così funesti. Occorreva che
recuperassi il controllo di me stesso. Dovevo cogliere ogni secondo
di felicità che mi era concesso, ancora di più visto che erano contati.
E io sapevo di possedere un gran talento per sciupare persino i
momenti migliori con i miei mesti dubbi e il mio eterno rimuginare. Se
davvero erano pochi gli anni a mia disposizione, sarebbe stato un
vero spreco trascorrerli nell’autocommiserazione.
Attraverso il soffitto riuscivo a sentire Bella che lottava con il
guardaroba. Il trambusto era meno intenso rispetto a due sere prima,
quando si era preparata per la nostra gita sul prato, ma non poi tanto
dissimile. Speravo non si facesse troppi problemi per l’impressione
che avrebbe suscitato sulla mia famiglia. Alice ed Esme l’amavano
già senza riserve. Gli altri non avrebbero fatto caso ai suoi vestiti;
avrebbero visto solamente una ragazza umana con coraggio a
sufficienza da far visita a una casa piena di vampiri. Persino Jasper
ne sarebbe rimasto colpito.
Quando corse giù dalle scale, io ormai ero riuscito a ricompormi.
La mia attenzione era rivolta unicamente alla giornata davanti a
noi. Alle successive dodici ore che avrei trascorso accanto a Bella.
Questo bastava certamente a farmi sorridere.
«Okay, sono presentabile», gridò scendendo due scalini alla
volta. La afferrai prima che, per poco, non mi finisse addosso. Alzò
lo sguardo aprendosi in un gran sorriso e in me svanirono tutti i
dubbi che ancora indugiavano.
Come avevo previsto, aveva scelto di mettersi la camicetta blu
che aveva già indossato a Port Angeles. Credo fosse la mia
preferita. Bella aveva un aspetto davvero grazioso. E mi piaceva il
modo in cui si era legata i capelli. Così non li poteva usare per
nascondersi.
D’impulso, la cinsi con le braccia stringendola a me. Inspirai il suo
profumo e sorrisi.
«Sbagliato», la stuzzicai. «Sei assolutamente impresentabile.
Nessuno dovrebbe essere così attraente: è una tentazione, non è
giusto».
Cercò di divincolarsi dalla mia presa e io allentai la stretta delle
braccia. Si tirò indietro quanto bastava per scrutare il mio viso.
«Attraente come?», chiese con aria circospetta. «Posso
cambiarmi...».
La sera prima mi aveva chiesto se, come donna, io la trovassi
attraente. Sebbene ciò mi sembrasse ridicolo talmente era ovvio,
forse, per qualche motivo, lei ancora non se ne capacitava.
«Sei davvero assurda». Scoppiai a ridere, dopodiché le diedi un
bacio sulla fronte, lasciando che la sensazione della sua pelle contro
le mie labbra fluisse come una scarica elettrica per tutto il mio corpo.
«Mi concedi di spiegarti come mi stai inducendo in tentazione?».
Lentamente lasciai correre le dita per tutta la lunghezza della sua
colonna vertebrale, alla scoperta della curva sul filo della schiena,
per poi fermarmi in cima al declivio dei suoi fianchi. La mia
intenzione era stata quella di canzonarla un po’, ma ben presto mi
ritrovai anch’io perduto in quel momento. Le mie labbra le sfiorarono
la tempia, e sentii il mio respiro accelerare accordandosi al battito
del suo cuore. Le sue dita tremarono sul mio petto.
Bastava solo che inclinassi la testa perché le sue labbra, così
calde e soffici, arrivassero a un soffio dalle mie. Delicatamente,
stando attento al potere dell’alchimia, poggiai le mie labbra sulle sue.
Mentre il mio corpo intero traboccava ancora una volta di luce ed
elettricità, rimasi in attesa della sua reazione, pronto a svincolarmi se
le cose fossero sfuggite di mano. Questa volta lei fu più prudente e
rimase quasi immobile. Aveva persino smesso di tremare.
Muovendomi con tutta l’accortezza di cui ero capace a fronte
delle emozioni che mi investivano, premetti ancora più forte le mie
labbra sulle sue, centellinandone la soffice arrendevolezza. Non
riuscii a mantenere il controllo quanto avrei dovuto. Schiusi le labbra
in preda al desiderio di sentire il suo alito nella mia bocca.
Proprio in quel momento, le gambe sembrarono cederle e lei
scivolò dalle mie braccia verso terra.
L’afferrai all’istante, reggendola in piedi. Con la sinistra le tenni su
la testa; questa le sballottò sul collo. Aveva gli occhi chiusi e le sue
labbra erano ceree.
«Bella?», gridai in preda al panico.
Ansimò inspirando sonoramente e le sue palpebre presero a
battere, nervose.
Mi resi conto che non l’avevo più sentita respirare da un po’; più
di quanto fosse opportuno.
Tirò un ulteriore respiro stremato e i suoi piedi fecero fatica a
toccare il pavimento.
«Mi hai...», mormorò con gli occhi ancora socchiusi, «fatta...
svenire».
Per baciarmi, aveva effettivamente smesso di respirare.
Probabilmente nel tentativo maldestro di rendermi le cose più
semplici.
«Ma cosa devo fare con te?!», quasi le ringhiai contro. «La prima
volta che ti bacio, mi assali! La seconda, mi svieni tra le braccia!».
Rise nervosamente, soffocando nella sua stessa risata mentre i
polmoni cercavano di inalare l’ossigeno necessario. Ero ancora io a
reggere buona parte del suo peso.
«E meno male che sono bravo in tutto», sospirai.
«Questo è il problema. Sei troppo bravo», tirò un altro respiro
profondo. «Troppo, troppo bravo».
«Ti senti male?». Quantomeno, le sue labbra non erano diventate
verdi. Mentre le osservavo, andavano acquistando una delicata
sfumatura di rosa.
«No», rispose con voce più forte. «Non è stato affatto come l’altro
svenimento. Non so cosa sia successo. Penso di aver dimenticato di
respirare».
Me n’ero accorto.
«Non posso portarti da nessuna parte, in queste condizioni»,
borbottai.
Inspirò nuovamente e poi si raddrizzò tra le mie braccia. Sbatté
rapidamente gli occhi per cinque volte e alzò il mento mettendo su la
sua espressione più ostinata.
«Guarda che sto bene». In effetti, la voce le era tornata più forte.
E il viso aveva già ripreso colore. «E poi, i tuoi penseranno
comunque che sono pazza, perciò... che differenza fa?».
La esaminai attentamente. Il respiro si era fatto regolare. Il cuore
le batteva più forte rispetto a un attimo prima. Sembrava potersi
reggere da sola, senza problemi. Ogni secondo, le sue guance
diventavano più rosa ed erano messe in risalto dal blu vivo della sua
camicetta.
«Ho un debole per come quel colore si sposa con la tua
carnagione», le dichiarai. Questo la fece arrossire ancora di più.
«Ascolta», annunciò interrompendo il mio esame. «Sto cercando
con tutte le mie forze di non pensare a ciò che sto per fare, perciò
possiamo andare?».
Anche la voce aveva riacquistato tutto il consueto vigore.
«E sei preoccupata, non perché stai per conoscere una famiglia
di vampiri, ma perché temi che questi vampiri non ti approveranno,
giusto?».
Sorrise. «Giusto».
Scossi la testa. «Sei incredibile».
Il suo sorriso divenne ancora più grande. Afferrò la mia mano e
mi trascinò alla porta.
Anziché chiederglielo, era meglio facessi finta che fossimo già
d’accordo su chi avrebbe guidato. Lasciai che facesse lei strada fino
al pick-up, ma poi le aprii prontamente la portiera del passeggero.
Bella non avanzò alcuna protesta; non levò nemmeno lo sguardo su
di me. Lo interpretai come un buon segno.
Mentre ero alla guida, lei rimaneva seduta in uno stato di allerta e
guardava fuori dal finestrino, osservando le case che ci scorrevano
accanto. Riuscivo a percepire la sua tensione, ma intuivo anche la
sua curiosità. Ogni volta che diveniva chiaro che non ci saremmo
fermati a una determinata casa, lei smetteva di interessarsi a questa
e passava a quella successiva. Mi chiedevo come si immaginasse
casa mia.
Usciti dalla città, sembrò farsi più ansiosa. Un paio di volte mi
lanciò un’occhiata come se fosse decisa a chiedermi qualcosa, ma
non appena si accorgeva che la stavo guardando, si voltava
rapidamente verso il finestrino, con la coda di cavallo che
ondeggiava da una parte all’altra. Malgrado non avessi acceso la
radio, lei iniziò a battere i piedi sul pianale del veicolo.
Quando svoltai sulla stradina sterrata, si raddrizzò sul sedile e le
ginocchia iniziarono a sobbalzare insieme alle punte dei piedi.
Premette così forte le dita contro il finestrino, che i polpastrelli
divennero tutti bianchi.
Dal momento che la stradina continuava a snodarsi, la sua fronte
iniziò a incresparsi. Sembrava davvero fossimo diretti in un luogo
remoto e disabitato, come la radura. Tra le sue sopracciglia
ricomparve la consueta ruga di turbamento.
Allungai la mano e le accarezzai la spalla; lei mi rivolse un sorriso
teso per poi girarsi nuovamente verso il finestrino.
Alla fine, la strada superò l’ultimo lembo di foresta e sbucò sul
prato. Siccome eravamo ancora all’ombra degli enormi cedri, il
passaggio non fu repentino.
Fu strano osservare quel luogo a me familiare e provare a
immaginare come dovesse apparire a degli occhi nuovi. Esme aveva
un gusto eccellente, perciò sapevo che la casa era oggettivamente
stupenda. Ma Bella si sarebbe accorta della struttura che, benché
indubbiamente nuova e solida, era tuttavia congelata nel tempo e
uscita da un’altra epoca? Come se, anziché essere invecchiata
prematuramente per noi, fossimo stati noi a tornare indietro nel
tempo per trovarla?
«Accidenti».
Spensi il motore e il silenzio che ne seguì aumentò la sensazione
che ci trovassimo in un periodo storico diverso.
«Ti piace?», le chiesi.
Mi lanciò un’occhiata con la coda dell’occhio, quindi tornò a
studiare la casa. «Ha... un certo fascino».
Mi misi a ridere e le tirai la coda, dopodiché saltai giù dall’auto.
Meno di un istante dopo le avevo già aperto la portiera.
«Pronta?».
«Nemmeno un po’», rise con il fiato sospeso. «Andiamo».
Si passò una mano tra i capelli per scioglierne i nodi.
«Sei molto carina», la rassicurai prendendole la mano.
Il palmo era umido e non caldo come al solito. Con il pollice le
accarezzai il dorso della mano per cercare di comunicarle, senza
parole, che era perfettamente al sicuro e che tutto sarebbe andato
bene.
Giunti ai gradini del portico, rallentò il passo per salirli e la mano
cominciò a tremarle.
Indugiare non avrebbe fatto altro che prolungare il suo disagio.
Aprii dunque la porta, sapendo già precisamente che cosa vi fosse
dall’altra parte.
I miei genitori si trovavano proprio lì dove gli occhi della mia
mente li avevano collocati in base ai loro pensieri, ed esattamente
come aveva previsto Alice. Erano a circa sei passi dalla porta, così
da dare a Bella un attimo per riprendersi. Esme era nervosa tanto
quanto sembrava esserlo Bella, anche se per lei questo significava
rimanere perfettamente immobile anziché essere in preda
all’agitazione. Carlisle aveva assunto una postura rassicurante, con
una mano dietro la schiena. Lui era abituato a interagire
disinvoltamente con gli umani, mentre Esme era timida. Era raro che
si avventurasse da sola per mescolarsi con il mondo dei mortali. Da
vera casalinga, era felice che fossimo noialtri a descriverle il mondo
secondo le sue necessità.
Man mano che vi si addentrava, lo sguardo di Bella si aggirava
per tutta la sala. Rimaneva leggermente alle mie spalle, come se
volesse usare il mio corpo come scudo. Io non potevo che sentirmi
rilassato a casa mia, mentre per lei era l’esatto opposto. Le strinsi la
mano.
Carlisle le sorrise cordialmente ed Esme seguì immediatamente il
suo esempio.
«Carlisle, Esme, vi presento Bella». Mi chiesi se lei avesse colto
nella mia voce la nota di orgoglio con cui la presentai.
Carlisle si fece avanti con studiata lentezza. Con un po’ di
esitazione, le tese la mano.
«Benvenuta, Bella».
Forse perché conosceva già Carlisle, tuttavia Bella sembrò di
colpo maggiormente a suo agio. Con aria sicura, fece un passo in
avanti – senza però sciogliere le sue dita dalle mie – e gli strinse la
mano senza trasalire quando ne percepì il freddo. Di certo, a questo
si era ormai abituata.
«È un piacere rivederla, dottor Cullen», lo disse come se lo
sentisse davvero.
Che ragazza coraggiosa, pensò Esme. Oh, è un vero amore.
«Chiamami pure Carlisle».
Lei sorrise radiosa e ripeté: «Carlisle».
A quel punto, Esme raggiunse Carlisle muovendosi con la stessa
lentezza e cautela. Poggiò una mano sul braccio di Carlisle e porse
l’altra a Bella. Lei la strinse senza esitazioni, sorridendo a mia
madre.
«È davvero un piacere fare la tua conoscenza», dichiarò Esme
con un’affettuosità che irradiava dal suo sorriso.
«Grazie», rispose Bella. «Anch’io ne sono lieta».
Sebbene le parole di entrambe fossero abbastanza
convenzionali, furono espresse con una sincerità tale che lo scambio
tra loro assunse un significato più profondo.
Edward, la trovo adorabile! Ti ringrazio per averla portata qui a
farmela conoscere!
Non potei che sorridere all’entusiasmo di Esme.
«Dove sono Alice e Jasper?», domandai, più che altro per dare
l’imbeccata. Li avevo infatti già sentiti che attendevano in cima alle
scale, con Alice che stava calcolando il momento giusto in cui fare il
suo ingresso.
La mia richiesta sembrò essere il segnale che stava attendendo.
«Ehi, Edward!», mi chiamò comparendo alla nostra vista.
Dopodiché, sfrecciò di corsa – sfrecciando per davvero, non come
fanno gli umani – giù dalle scale e si precipitò come un razzo
arrestandosi a pochi centimetri da Bella. Carlisle, Esme e io fummo
colti di sorpresa, ma Bella non si mosse di un millimetro, nemmeno
quando Alice balzò in avanti per darle un bacio sulla guancia.
Le lanciai uno sguardo di avvertimento, ma Alice non mi degnò di
alcuna attenzione. Stava vivendo sospesa a metà tra quel momento
e migliaia di momenti futuri, esultante dalla gioia di poter finalmente
dare inizio a quell’amicizia. I sentimenti che provava erano davvero
teneri, ma io non riuscivo a goderne. In oltre la metà dei suoi ricordi
ancora da venire, Bella era diafana e inanime, così fredda e perfetta.
Alice era incurante della mia reazione e interamente concentrata
su Bella.
«Hai davvero un buon odore», commentò. «Non me ne ero mai
accorta».
Bella arrossì, così tutti e tre distolsero lo sguardo.
Cercai di trovare un modo per smorzare l’imbarazzo, ma poi,
come d’incanto, quell’imbarazzo svanì. Mi sentivo perfettamente a
mio agio, e nel corpo di Bella era svanita ogni tensione.
Jasper seguì Alice giù per le scale, senza precipitarsi come lei,
ma neppure muovendosi con la cautela di Carlisle ed Esme. Non
aveva bisogno di una messinscena. Tutto quel che faceva sembrava
naturale e corretto.
A dire il vero, la stava tirando un po’ troppo per le lunghe.
Gli lanciai un’occhiata sardonica a cui lui rispose con un sorriso,
quindi si fermò all’inizio delle scale, creando tra sé e noialtri una
distanza che poteva apparire strana, ma questo ovviamente solo se
fosse stato lui a volerla far sembrare tale.
«Ciao Bella».
«Ciao Jasper». Gli sorrise prontamente, dopodiché rivolse lo
sguardo a Esme e Carlisle.
«Sono felice di conoscervi... la vostra casa è bellissima».
«Grazie», rispose Esme. «Siamo davvero contenti che tu sia
venuta».
È perfetta.
Bella lanciò nuovamente un’occhiata carica d’attesa verso la
scala. Io però sapevo che per quella mattina le presentazioni erano
terminate.
Anche Esme si accorse del suo sguardo.
Mi dispiace. Rosalie non era pronta. Emmett sta cercando di
calmarla.
Dovevo scusarmi per l’assenza di Rosalie? Prima che potessi
decidere sul da farsi, Carlisle richiamò la mia attenzione.
Edward.
Rivolsi su di lui lo sguardo, automaticamente. La sua serietà
contrastava con l’atmosfera rilassata creata da Jasper.
Alice ha visto alcuni ospiti. Dei forestieri. Alla velocità con cui si
muovono, ci troveranno domani notte. Ho pensato dovessi esserne
subito informato.
Annuii, serrando le labbra in una linea sottile. Che pessimo
tempismo. Be’, quantomeno il risvolto positivo era che adesso
potevo spiegare a Bella perché l’avrei rapita. Lei avrebbe compreso.
Charlie no. Dovevo concepire un piano che fosse assolutamente
sicuro e che creasse meno danni possibile. O meglio, noi dovevamo.
Di certo, lei avrebbe avuto da dire la sua.
Guardai Alice perché mi offrisse una delucidazione visiva, ma lei
era intenta a esaminare le condizioni meteorologiche.
«Suoni?», chiese Esme e io notai che Bella stava guardando il
mio pianoforte.
Bella scosse la testa. «No, per niente. Ma è bellissimo. È tuo?».
Esme rise. «No. Edward non ti ha detto che è un musicista?».
Bella mi rivolse uno sguardo davvero insolito, come se quella
notizia le desse fastidio. Mi chiesi il perché. Possedeva forse un
pregiudizio contro i pianisti di cui non ero ancora venuto a
conoscenza?
«No», rispose a Esme. «Immagino che avrei dovuto saperlo».
Che cosa intende dire, Edward?, si domandò Esme, come se io
dovessi conoscere la risposta. Fortunatamente, la sua espressione
fu abbastanza perplessa da indurre Bella a spiegarsi meglio.
«Edward è capace di fare tutto», chiarì lei. «Vero?».
Carlisle riuscì a reprimere un moto di ilarità, mentre Jasper rise
apertamente. Alice stava osservando la conversazione che si
sarebbe svolta di lì a venti secondi; per lei, era già una cosa
passata.
Esme mi rivolse il suo miglior sguardo da madre piena di
disapprovazione. «Spero che tu non ti sia vantato troppo, non è
educato».
«Soltanto un po’», ammisi, ridendo anch’io.
Sembra così felice, pensò Esme. Non l’ho mai visto in questo
modo. Grazie al cielo, alla fine è riuscito a trovarla.
«Per la verità, è stato fin troppo modesto», ribatté Bella. I suoi
occhi andarono nuovamente verso il pianoforte.
«Be’, dai Edward, suona per lei», incoraggiò Esme.
Lanciai a mia madre lo sguardo di chi si sente tradito. «Hai
appena detto che è maleducazione».
Esme trattenne una risata. «Ogni regola ha un’eccezione».
Se ancora non l’hai conquistata del tutto, con questo la farai
capitolare.
La fissai, impassibile.
«Mi piacerebbe sentirti suonare», propose Bella.
«Siamo d’accordo, allora». Esme mi mise una mano sulla spalla
e mi diede una spinta verso il piano.
D’accordo, se era quello che volevano. Afferrai la mano di Bella,
così anche lei sarebbe venuta con me.
Dopotutto, era stata sua l’idea.
Prima di allora, non avevo mai provato imbarazzo a suonare la
mia musica; a parte i familiari o gli amici intimi, non c’era mai
nessuno ad ascoltarmi e, fatta eccezione per Esme, nessuno di loro
sembrava accorgersi più di tanto che stessi suonando. Pertanto,
questa fu per me una sensazione alquanto inedita. Se prima Esme
non avesse menzionato il fatto di vantarsi, magari la cosa non
sarebbe sembrata così forzata.
Mi sedetti di lato sullo sgabello, trascinando Bella perché si
accomodasse accanto a me. Lei mi sorrise con entusiasmo.
Ricambiai il suo sguardo, un po’ accigliato, sperando che si
rendesse conto che lo stavo facendo unicamente perché era stata lei
a chiederlo.
Scelsi di suonare la canzone di Esme: era un brano gioioso, un
canto trionfale, adatto all’umore di quella giornata.
Non appena attaccai, con la coda dell’occhio notai la reazione di
Bella. Non avevo bisogno di guardare i tasti, ma non volevo che lei si
sentisse messa sotto esame.
Dopo un paio di battute soltanto, lei rimase a bocca aperta.
Jasper scoppiò di nuovo a ridere; stavolta Alice si unì a lui. Bella
si irrigidì nella sua postura, ma non si voltò. I suoi occhi si
contrassero senza mai perdere di vista le mie dita, rincorrendole
mentre queste scivolavano sulla tastiera.
Sentii Alice che se ne andava su per le scale nello stesso istante
in cui Carlisle pensò: Bene, credo che per il momento la nostra
presenza sia stata più che sufficiente. Non vorremmo che lei si
turbasse.
Sebbene fosse delusa, anche Esme seguì Alice al piano di sopra.
Tutti loro avrebbero fatto finta che quello fosse un giorno come gli
altri, che non vi fosse nulla di così epocale nel fatto di avere
un’umana dentro casa. Uno dopo l’altro, si allontanarono per seguire
le faccende di cui si sarebbero occupati se io non avessi portato a
casa quella mortale.
L’attenzione di Bella era ancora interamente concentrata sui
movimenti delle mie mani, ma a me pareva non fosse più...
entusiasta come prima? Aveva le sopracciglia inarcate all’ingiù, sugli
occhi.
Non riuscivo a cogliere il senso della sua espressione.
Cercai di rallegrarla, mi voltai per catturare la sua attenzione e le
strizzai un occhio. In genere, questo la faceva sorridere.
«Ti piace?», chiesi.
Piegò di lato la testa, poi, come se si fosse resa conto di
qualcosa, i suoi occhi si fecero nuovamente grandi.
«L’hai scritta tu?», esclamò con un tono curiosamente
accusatorio.
Annuii aggiungendo: «È la preferita di Esme», quasi a
giustificarmi, anche se non sapevo di che cosa.
Bella mi fissò con aria stranamente derelitta. Aveva gli occhi
chiusi, mentre lentamente dondolava la testa da una parte all’altra.
«Cosa c’è che non va?», chiesi implorando.
Aprì gli occhi e sorrise, finalmente, anche se non era un sorriso
felice.
«Mi sento estremamente insignificante», confessò.
Per un attimo rimasi di stucco. Pensai che il motivo potesse
essere quel che aveva detto prima Esme riguardo al vantarsi. L’idea
che si era fatta, ossia che la mia musica sarebbe riuscita a
conquistare ogni piega ancora titubante del cuore di Bella, era
ovviamente errata.
Come spiegarle che tutte le cose che ero in grado di fare, cose
che mi riuscivano ridicolmente facili per via di ciò che ero, erano
completamente insignificanti? Non mi rendevano affatto speciale o
superiore. Come dimostrarle che tutto ciò che io ero non era mai
stato abbastanza per rendermi degno di lei? Che era lei la somma
meta che per così tanto tempo avevo cercato di raggiungere?
Mi venne in mente un solo modo. Creai un passaggio musicale
semplice e cominciai a eseguire un nuovo brano. Lei adesso guardò
che espressione avesse assunto il mio viso, aspettandosi una
reazione da parte mia. Aspettai finché non fosse concluso il tema
principale della melodia, con la speranza che lei lo avrebbe
riconosciuto.
«Questa l’hai ispirata tu», le sussurrai.
Riusciva a sentire come quella musica sgorgasse dal profondo di
me? E che il mio essere, così come tutto il resto, ruotava
completamente attorno a lei?
Per qualche momento, lasciai che fossero le note di quel brano a
riempire gli spazi vuoti che le mie parole non riuscivano mai a
colmare. Mentre andavo avanti a suonare, la melodia continuava a
espandersi, abbandonando la chiave minore che l’aveva
caratterizzata prima per approdare adesso a una risoluzione più
lieta.
Pensai fosse meglio placare le sue paure precedenti. «Piaci a
tutti, lo sai? Soprattutto a Esme». Probabilmente, Bella era già
riuscita a comprenderlo da sola.
Si torse leggermente, per sbirciare oltre la spalla. «Dove sono
andati?».
«Immagino che, con molto buon senso, ci abbiano concesso un
po’ di privacy».
«A loro piaccio», sospirò. «Ma Rosalie ed Emmett...».
Scossi il capo con un moto d’impazienza. «Non preoccuparti di
Rosalie. Prima o poi si farà vedere».
Strinse le labbra con aria scettica. «Emmett?».
«Be’, secondo lui, in effetti, sono pazzo», feci una risata. «Ma non
ce l’ha affatto con te. Sta cercando di far ragionare Rosalie».
Gli angoli della sua bocca si incurvarono verso il basso. «Cos’è
che la innervosisce?».
Feci un respiro profondo ed espirai lentamente, temporeggiando.
Volevo comunicare solo le parti strettamente necessarie ed
esprimerle in maniera che la turbassero il meno possibile.
«Rosalie è quella più problematica, non si dà pace rispetto a... ciò
che siamo», spiegai. «Non è facile per lei pensare che qualcuno di
esterno alla famiglia conosca la verità. In più è un po’ gelosa».
«Rosalie è gelosa di me?». Mi guardò come se dubitasse che
non la stessi prendendo in giro.
Strinsi le spalle. «Sei umana. Vorrebbe esserlo anche lei».
«Ah». Per un attimo, fu sorpresa da questa rivelazione. Subito
dopo, però, la sua fronte tornò ad aggrottarsi. «Anche Jasper,
però...».
La sensazione che tutto fosse perfettamente naturale e semplice
era svanita non appena Jasper aveva smesso di concentrarsi su di
noi.
Probabilmente, Bella stava ripensando a come lui si era
presentato, ma stavolta senza essere sotto il suo influsso, e perciò
stava realizzando solo in quel momento la stranezza della distanza
che Jasper aveva frapposto tra loro due.
«Quella è colpa mia, in realtà. Te l’ho detto, è stato l’ultimo a
convertirsi al nostro stile di vita. L’ho avvertito di mantenere le
distanze».
Sebbene avessi pronunciato quelle parole in tono leggero, un
attimo dopo Bella fu percorsa da un brivido.
«Esme e Carlisle?», si affrettò a chiedere, ansiosa di cambiare
argomento.
«Sono felici che io sia felice. Anzi, credo che Esme ti
apprezzerebbe anche se avessi tre occhi e i piedi palmati. In tutti
questi anni si è preoccupata per me, ha sempre temuto che alla mia
essenza originale mancasse qualcosa, che fossi troppo giovane
quando Carlisle mi ha cambiato... È felicissima. Ogni volta che ti
sfioro, gongola di soddisfazione».
Lei strinse le labbra. «Anche Alice sembra molto... entusiasta».
Cercai di non perdere il contegno, ma avvertii comunque una
sfumatura di gelo nella risposta che le diedi. «Alice ha un modo tutto
suo di vedere le cose».
Lei era sembrata tesa quasi per l’intera durata del nostro
scambio, ma improvvisamente si aprì in un sorriso. «E tu non hai
intenzione di parlarmene, vero?».
Come ovvio, si era accorta di tutte le mie strane reazioni ogni
volta che Alice era stata menzionata; non ero stato molto accorto.
Ma almeno ora stava sorridendo, contenta di avermi colto in fallo.
Ero certo non immaginasse il motivo per cui ero irritato con Alice.
Per il momento, sembrava bastarle farmi sapere che lei era
consapevole del fatto che le stessi nascondendo qualcosa. Non le
diedi risposta, ma non credo neppure che se ne aspettasse una.
«E cosa ti stava dicendo Carlisle, prima?», riprese lei.
Io corrugai la fronte. «Ah, te ne sei accorta?». Be’, sapevo di
doverglielo dire.
«Certo».
Ripensai al piccolo brivido che l’aveva pervasa quando le avevo
detto di Jasper...
Non sopportavo l’idea di allarmarla ancora, ma lei doveva avere
paura.
«Aveva una notizia per me», ammisi. «E non sapeva se avrei
gradito condividerla».
Si tirò su dritta, all’erta. «E?».
«Sono obbligato a condividerla, perché nei prossimi giorni – o
settimane – sarò un po’... iperprotettivo nei tuoi confronti e non
voglio che tu pensi a me come a un despota».
Il mio minimizzare non servì a metterla a suo agio.
«Qual è il problema?», incalzò lei.
«Nessun problema, per ora. Alice, però, ha visto che presto
riceveremo ospiti. Sanno che siamo qui e sono curiosi».
Ripeté le mie parole con un sussurro. «Ospiti?».
«Sì... be’, ovviamente non sono come noi... quanto ad abitudini di
caccia, intendo. Probabilmente non entreranno a Forks, ma non
sono intenzionato a perderti di vista finché non se ne saranno
andati».
Ebbe un brivido talmente forte che sentii muoversi lo sgabello
sotto di noi.
«Finalmente una reazione normale!», la rimbrottai. Pensai a tutte
le cose orribili di me che aveva accettato senza alcun tremito di
paura. A quanto pareva, solo gli altri vampiri la spaventavano.
«Iniziavo a temere che non fossi dotata di istinto di sopravvivenza».
Lei fece finta di nulla e riprese a osservare le mie mani che
correvano sulla tastiera. Dopo qualche secondo, fece un respiro
profondo ed espirò lentamente. Era riuscita a elaborare un altro
incubo a occhi aperti con così tanta facilità?
Sembrava proprio di sì. Prese a esaminare la sala, girando
lentamente la testa mentre analizzava casa mia. Riuscivo a
immaginare che cosa stesse pensando.
«Non ti aspettavi questo, eh?», provai a indovinare.
I suoi occhi erano ancora intenti a catalogare. «In effetti, no».
Chissà che cosa l’aveva colpita maggiormente: i colori chiari,
l’ampiezza e l’apertura del salone, la parete a vetrata? Tutto era
stato progettato con cura – da Esme – perché non desse
l’impressione di una fortezza o di una sorta di rifugio. Potevo
supporre quel che si sarebbe aspettato un umano normale. «Niente
bare, niente teschi ammucchiati negli angoli; credo che non ci siano
nemmeno ragnatele... chissà che delusione, per te».
Lei non reagì alla mia battuta. «È così luminosa... così ariosa».
«È l’unico posto in cui non siamo costretti a nasconderci».
Mentre mi ero concentrato su di lei, la canzone che stavo
suonando aveva ripreso il tema iniziale. Mi ritrovai a vivere il
momento più nero in assoluto – quello in cui la verità era diventata
ineludibile in tutta la sua evidenza: Bella stava perfettamente bene
nella vita a cui apparteneva. Ogni interferenza da parte del mio
mondo avrebbe condotto a una tragedia.
Ormai era troppo tardi per cercare di salvare il mio brano. Lasciai
che si concludesse come prima, con quel dolore straziante.
A volte era così facile credere che Bella e io fossimo fatti per
stare insieme. In quei momenti, quando a dominare era l’impulsività,
e tutto accadeva così spontaneamente... ero portato a crederci. Ma
quando esaminavo la cosa in modo razionale, senza lasciare che le
emozioni ingannassero la mia mente, tutte le volte era chiaro che le
avrei solo fatto del male.
«Grazie», sussurrò.
I suoi occhi si erano riempiti di lacrime. Mentre la osservavo, si
passò rapida le dita sulle palpebre inferiori, per asciugarle.
Quella era la seconda volta che facevo piangere Bella. La prima
l’avevo ferita. Non intenzionalmente, ma in ogni caso, lasciandole
intendere che non saremmo mai potuti stare insieme, l’avevo fatta
soffrire.
Adesso invece stava piangendo perché era commossa dalla
musica che avevo composto per lei. Lacrime di gioia. Mi domandai in
che misura avesse compreso quel linguaggio privo di parole.
Nell’angolo di un occhio luccicava ancora una lacrima che brillava
nel chiarore della sala. Un suo limpido e minuscolo frammento, un
diamante effimero. In preda a un impulso bizzarro, allungai la punta
di un dito per raccoglierla. Questa, mentre muovevo la mano, si era
fatta rotonda sulla mia pelle, e scintillava. Portai subito il dito alla
lingua, per assaggiare la sua lacrima, per assorbire quella sua
piccolissima particella.
Carlisle aveva trascorso molti anni cercando di comprendere la
nostra anatomia immortale; era stata un’ardua impresa, basata
unicamente su ipotesi e osservazioni. Non c’erano cadaveri di
vampiri da poter studiare.
L’ipotesi migliore a cui era giunto sul funzionamento dei nostri
processi di sopravvivenza era che i nostri sistemi interni dovessero
essere microscopicamente porosi. Sebbene fossimo in grado di
ingerire ogni cosa, solo il sangue veniva accettato dal nostro corpo.
Veniva assorbito dalla nostra muscolatura, fornendole energia.
Quando l’energia si esauriva, la sete si faceva più intensa per indurci
a rifornire le nostre scorte. A parte il sangue, nulla sembrava poter
circolare all’interno del nostro organismo.
Inghiottii la lacrima di Bella. Forse, non avrebbe mai abbandonato
il mio corpo. Dopo che lei mi avrebbe lasciato, e dopo tutti gli anni
che avrei trascorso da solo, magari avrei sempre serbato dentro di
me quel suo frammento.
Lei mi fissava perplessa, ma io non avevo una spiegazione
sensata da offrirle. Decisi quindi di tornare alla sua curiosità di prima.
«Vuoi vedere il resto della casa?», le proposi.
«Niente bare?», chiese per accertarsi di nuovo.
Risi alzandomi in piedi e la tirai su dallo sgabello del piano.
«Niente bare, te lo prometto».
La portai con me al secondo piano; del primo aveva visto la
maggior parte, a eccezione della cucina e dalla sala da pranzo che
non usavamo e che si intravedevano dalla porta d’ingresso. Mentre
salivamo le scale, il suo interesse era tangibile. Esaminò ogni cosa:
il corrimano, il pavimento in legno chiaro, i riquadri dei pannelli che
componevano la boiserie e che rivestivano in alto le pareti del
corridoio. Era come se stesse studiando per un esame. Le indicai a
chi appartenesse ognuna delle stanze che superavamo, mentre lei
annuiva a ogni assegnazione come se si stesse preparando per il
questionario finale.
Proprio quando stavo per voltare l’angolo per imboccare la rampa
di scale successiva, lei si arrestò di colpo. Guardai per cercare di
capire che cosa stesse osservando con tanto sconcerto. Ah, sì.
«Puoi anche ridere», dissi. «È ironico, in un certo senso».
Non rise. Allungò invece la mano, come se desiderasse toccare
la spessa croce di quercia lì appesa, scura e austera contro la parte
di legno più chiaro, ma le sue dita non arrivarono a sfiorarla.
«Dev’essere antichissima», mormorò Bella.
Mi strinsi nelle spalle. «Anni Trenta del diciassettesimo secolo,
più o meno».
Mi fissò, piegando di lato la testa. «Perché la conservate qui?».
«Nostalgia. Apparteneva al padre di Carlisle».
«Era un collezionista?», provò a supporre, ma dal tono si capiva
che sapeva già di essersi sbagliata.
«No», le risposi. «L’ha costruita lui. Stava sopra il pulpito della
chiesa di cui era pastore».
Bella fissò la croce con uno sguardo intenso. Rimase così a
lungo immobile che tornò ad assalirmi l’ansia.
«Tutto bene?», mormorai.
«Quanti anni ha Carlisle?», replicò.
Feci un sospiro, cercando di sedare il vecchio panico. Sarebbe
stata quella la parte della storia che avrebbe segnato il limite? Nel
risponderle, passai al vaglio ogni minima contrazione nella
muscolatura del suo volto.
«Ha appena festeggiato il suo trecentosessantaduesimo
compleanno». O qualcosa di simile. Per amore di Esme, Carlisle
aveva scelto una data, ma si trattava unicamente della supposizione
migliore a cui era arrivato. «Carlisle è quasi certo di essere nato a
Londra, negli anni Quaranta del diciassettesimo secolo. All’epoca le
date non erano registrate con cura, non per la gente comune. Fu
poco prima dell’avvento di Cromwell. Era l’unico figlio di un pastore
anglicano. Sua madre morì di parto. Suo padre era un uomo
intollerante. Quando i protestanti presero il potere, fu molto attivo
nella persecuzione dei cattolici e dei seguaci di altre religioni.
Credeva anche molto nell’esistenza delle incarnazioni del male.
Guidava le cacce alle streghe, ai licantropi... e ai vampiri».
Durante quasi tutto il mio racconto, lei era riuscita a mantenere
un certo contegno, come se si stesse dissociando dai fatti che stava
apprendendo. Ma quando pronunciai la parola vampiri, le spalle le si
irrigidirono e trattenne il respiro per un attimo in più.
«Furono bruciate parecchie persone innocenti: di sicuro le vere
creature di cui andavano a caccia non erano così facili da stanare».
Carlisle era tuttora tormentato da questo: dagli innocenti che suo
padre aveva ucciso. E, cosa ancora peggiore, dagli omicidi in cui lui
stesso era stato suo malgrado coinvolto. Per il suo bene, ero
contento che questi ricordi stessero diventando sempre più vaghi e
sbiaditi.
Conoscevo nel dettaglio le vicende degli anni da umano di
Carlisle, proprio come quelle dei miei anni. Nel descrivere a Bella
come fosse avvenuta l’infelice scoperta di un clan di Londra, mi
domandai se tutto questo le sarebbe parso reale. Si trattava di una
vicenda a lei talmente estranea, avvenuta in un paese che non
aveva mai visto, separata dalla sua vita da un numero di anni
talmente grande che per lei non era nemmeno possibile
contestualizzarla.
Quando però le raccontai dell’assalto in cui Carlisle venne
infettato mentre i suoi compagni furono uccisi, omettendo con cura i
dettagli su cui preferivo non rimuginasse, lei sembrava avvinta. Nel
momento in cui il vampiro, spinto dalla sete, si voltò per scagliarsi sui
propri inseguitori, azzannò Carlisle solo due volte con i denti
avvelenati: la prima volta sul palmo della mano tesa e la seconda sul
bicipite. Ci fu una mischia, e il vampiro riuscì rapidamente a
sopraffare quattro uomini prima che il resto della folla si avvicinasse
troppo. A posteriori, Carlisle immaginò che il vampiro, benché
avesse sperato di poter succhiare il sangue di tutti loro, avesse
preferito l’autoconservazione a un lauto pasto, afferrando quindi
quanti più uomini poté per poi fuggire via. Ovviamente, non fece
questo per salvarsi dalla folla; quei cinquanta uomini, con le loro
rozze armi, per lui non costituivano una minaccia più di quanto non
lo fosse un gruppo variopinto di farfalle. I Volturi, invece, si trovavano
a circa millecinquecento chilometri di distanza. All’epoca, le loro
leggi erano già in vigore da un millennio e la loro richiesta che ogni
immortale agisse con discrezione per il bene di tutti era stata
universalmente accettata. La notizia dell’avvistamento di un vampiro
a Londra, confermata da cinquanta cadaveri drenati del sangue, a
Volterra non sarebbe stata accolta positivamente.
Il tipo di ferite riportate da Carlisle era particolarmente infausto.
Le lacerazioni alla mano erano lontane da tutti i principali vasi
sanguigni, mentre lo squarcio sul braccio aveva mancato sia l’arteria
brachiale che la vena basilica. Questo comportò una diffusione più
lenta del veleno e un periodo di transizione più lungo. Considerato
che il passaggio dalla condizione di mortale a quella di immortale era
stato l’esperienza più dolorosa che ciascuno di noi avesse mai
vissuto, una sua versione prolungata non fu certo l’ideale – per
usare un eufemismo.
Anch’io avevo conosciuto il dolore di quella versione prolungata.
Carlisle ebbe qualche... esitazione quando decise di trasformarmi
nel suo primo compagno. Aveva trascorso parecchio tempo con altri
vampiri dotati di maggiore esperienza – compresi i Volturi – e sapeva
che un morso assestato nel punto giusto avrebbe prodotto una
conversione più rapida. Tuttavia, non aveva mai incontrato un altro
vampiro come lui. Tutti gli altri erano ossessionati dal sangue e dal
potere. Nessuno di essi agognava una vita più mite e familiare come
invece desiderava lui. Si domandò quindi se la sua conversione
lenta e i punti di ingresso meno efficaci della sua infezione fossero
stati, in qualche modo, le cause di quella differenza. Perciò, quando
si trattò di creare il suo primo figlio, decise di replicare le stesse ferite
da lui subite. Si sarebbe sempre sentito in colpa per questo,
soprattutto poiché in seguito venne a scoprire che in realtà il metodo
di conversione non produceva alcun effetto sulla personalità e sui
desideri del nuovo immortale.
Quando trovò Esme, non aveva ancora avuto tempo di condurre
esperimenti. Lei era più prossima alla morte di quanto non lo fossi
stato io. Per salvarla, fu necessario iniettare quanto più veleno
possibile nel suo sistema e il più vicino possibile al suo cuore. Tutto
sommato, fu un’impresa molto più folle di quella attuata con me;
ciononostante, Esme era la più gentile tra tutti noi.
E Carlisle il più forte. Passai poi a raccontare a Bella quel che
potevo riguardo alla sua conversione straordinariamente disciplinata.
Alla fine, evitai alcuni dettagli che forse non avrei dovuto omettere,
ma non volevo soffermarmi troppo sul dolore straziante patito da
Carlisle. Forse, considerata l’ovvia curiosità che aveva per quel
processo, sarebbe stato meglio descriverglielo; magari questo
l’avrebbe dissuasa dal volerne sapere di più.
«A quel punto era finita», le spiegai, «e lui si rese conto di ciò che
era diventato».
In tutto quel frangente, mentre mi ero perso appresso alle mie
riflessioni nel raccontarle quella vicenda a me familiare, avevo tenuto
d’occhio le sue reazioni. Per la maggior parte del tempo, lei aveva
mantenuto sul viso la stessa espressione fissa; suppongo che, nelle
sue intenzioni, questa dovesse esprimere un interesse vigile,
completamente privo di ogni inutile ripercussione emotiva. La sua
postura, però, era troppo rigida perché il suo espediente potesse
risultare credibile. La curiosità che provava era autentica, ma io
desideravo sapere quel che pensava davvero, e non quel che voleva
farmi credere di pensare.
«Come va?», le chiesi.
«Bene», rispose in maniera automatica. Ma la maschera che
aveva messo su si incrinò. A ogni modo, quel che riuscii a leggere
sul suo viso era il desiderio di saperne di più. Quel racconto non era
bastato dunque a spaventarla.
«Immagino che tu abbia qualche altra domanda in serbo».
Lei sorrise, mostrando una totale padronanza di sé,
apparentemente priva di ogni timore. «Qualcuna».
Sorrisi anch’io. «Vieni, allora. Ti faccio vedere».
20. CARLISLE

Percorremmo lo stretto corridoio dello studio di Carlisle. Mi fermai


sulla soglia, in attesa che ci invitasse a entrare.
«Entrate», disse Carlisle.
Una volta dentro, osservai Bella esaminare con grande curiosità
questa nuova stanza. Rispetto al resto della casa era meno
luminosa; l’intenso color mogano del legno ricordava a Carlisle la
sua prima abitazione. Gli occhi di Bella corsero lungo le file di libri.
La conoscevo abbastanza bene per sapere che per lei vedere così
tanti libri in una sola stanza era una specie di sogno.
Carlisle mise il segno a una pagina che stava leggendo e si alzò
in piedi per darci il benvenuto.
«Posso esservi utile?», chiese.
Ovviamente aveva udito tutta la nostra conversazione nel
corridoio e sapeva che eravamo lì per il nuovo capitolo della storia.
Non era infastidito per il fatto che avessi parlato a Bella di lui, e
nemmeno sembrava sorpreso che le avessi detto tutto.
«Volevo mostrare a Bella un po’ della nostra storia. Be’, della tua,
a dir la verità».
«Non vorrei disturbare», disse Bella a bassa voce.
«Non preoccuparti», la rassicurò Carlisle. «Da dove vuoi
iniziare?».
«Dalla costellazione dell’Auriga», dissi.
Poggiai una mano sulla spalla di Bella e la feci voltare verso la
parete che era alle nostre spalle. Sentii il suo battito reagire al tocco
della mia mano e la risata quasi muta di Carlisle di fronte alla sua
reazione.
Interessante, pensò.
Vidi gli occhi di Bella sgranarsi osservando la galleria di quadri
disposta sulla parete dell’ufficio di Carlisle. C’era da immaginarsi
quanto potesse essere disorientante per chiunque la vedesse per la
prima volta. Vi campeggiavano settantatré opere di ogni dimensione,
tecnica e colore, stipate insieme come un puzzle grande quanto
l’intera parete fatto solo di pezzi rettangolari. Il suo sguardo non
riusciva a trovare nulla su cui fermarsi.
Le presi la mano e la portai in un punto da cui poteva cominciare.
Carlisle ci seguì. Come in un libro, la storia incominciava
sull’estrema sinistra. Non era un quadro appariscente, ma
monocromatico e simile a una carta geografica. E in effetti era
proprio la parte di una carta geografica, disegnata a mano da un
cartografo non professionista, una delle carte più originali
sopravvissute nel corso dei secoli.
Bella increspò la fronte.
«Londra nel 1650», spiegai.
«La Londra della mia giovinezza», aggiunse Carlisle alle nostre
spalle. Bella sobbalzò, non aspettandosi che Carlisle fosse così
vicino a noi. Chiaramente non aveva avvertito i suoi passi. Le strinsi
la mano per rassicurarla. Quella casa era per lei un posto strano, per
quanto nulla la infastidisse.
«Hai voglia di raccontare tu la storia?», gli chiesi, e Bella si girò
per ascoltare la sua risposta.
Mi spiace, vorrei poterlo fare.
Sorrise a Bella e le parlò ad alta voce. «Mi piacerebbe, ma
purtroppo sono in ritardo. Hanno chiamato dall’ospedale, stamattina
– il dottor Snow è rimasto a casa, in malattia. E poi», mi guardò, «tu
conosci la storia bene quanto me».
Uscendo dalla stanza, Carlisle rivolse un caloroso sorriso a Bella.
Una volta via, Bella si voltò verso la parete per esaminare di nuovo il
quadretto.
«E in seguito», chiese dopo poco, «quando si accorse di ciò che
gli era successo, cosa accadde?».
Guardai involontariamente un dipinto più grande, una colonna
dopo e una fila più in basso. Non era per nulla un’immagine allegra:
raffigurava un paesaggio cupo e deserto, il cielo carico di nuvole, i
colori sembravano suggerire che il sole non avrebbe più fatto
capolino. Carlisle aveva visto quest’opera attraverso una finestra di
un piccolo castello in Scozia. Gli ricordava così tanto la sua vita in
uno dei suoi momenti più bui che aveva voluto tenerlo, sebbene quel
vecchio ricordo fosse per lui doloroso. L’esistenza di quel paesaggio
devastato voleva dire che c’era qualcun altro che almeno una volta
nella vita aveva provato la stessa cosa.
«Quando scoprì cos’era diventato si ribellò. Cercò di
autodistruggersi. Ma non è impresa facile».
«Come?», disse, trattenendo il fiato.
Mentre descrivevo la scena del suo tentato suicidio tenni gli occhi
sul dipinto e su quel vuoto così evocativo che raffigurava.
«Si gettò da cime altissime. Tentò di annegarsi nell’oceano... ma
era all’inizio della sua nuova vita, era giovane e molto forte. La cosa
incredibile è che sia riuscito a evitare di... nutrirsi», le lanciai
un’occhiata mentre fissava il quadro. «Nei primi tempi l’istinto è più
potente, più forte di ogni altra cosa. Ma era talmente disgustato da
se stesso che trovò la forza per decidere di morire di fame».
«È possibile?», chiese con un filo di voce.
«No, ci sono pochissimi modi per ucciderci».
Stava aprendo la bocca per porre l’ovvia domanda che sarebbe
seguita, ma io parlai rapidamente per distrarla.
«Perciò divenne molto affamato, e infine si indebolì. Si allontanò il
più possibile dagli umani, rendendosi conto che anche la sua forza di
volontà si infiacchiva. Per mesi interi vagò di notte, alla ricerca dei
luoghi più solitari, pieno di repulsione per se stesso...».
Descrissi la notte in cui aveva scoperto che un altro modo di
vivere era possibile, il compromesso del sangue animale, e il suo
ritornare a essere una creatura razionale. E poi, quando era partito
per il continente...
«Arrivò in Francia a nuoto?», mi interruppe, incredula.
«C’è un sacco di gente che attraversa la Manica a nuoto, Bella»,
sottolineai.
«Immagino che tu abbia ragione. In questo contesto, però,
sembrava buffo».
«Siamo nuotatori provetti...».
«Voi siete provetti in tutto», protestò.
Sorrisi, aspettando di essere sicuro che avesse terminato.
Si accigliò. «Giuro che non t’interrompo più».
Il mio sorriso si fece più ampio, immaginando quale sarebbe stata
la sua reazione alla successiva rivelazione.
«Perché, tecnicamente, possiamo fare a meno di respirare».
«Voi...».
Risi e le misi un dito sulle labbra. «No, no, hai giurato. Vuoi
sentire la storia o no?».
Le labbra al mio tocco si mossero. «Non puoi buttare lì una
notizia del genere e aspettarti che io non apra bocca».
Lasciai scivolare la mano fino a toccarle il collo.
«Non dovete respirare?».
Feci spallucce. «No, non siamo obbligati. È soltanto
un’abitudine».
«Ma quanto tempo puoi restare... senza respirare?».
«Anche per sempre, immagino... non so». Il periodo più lungo per
me era stato qualche giorno, tutto il tempo sott’acqua. «È
leggermente fastidioso... non si sentono gli odori».
«Leggermente fastidioso», ripeté con una vocina, sussurrando
appena.
Inarcò entrambe le sopracciglia, socchiuse gli occhi e irrigidì le
spalle. Questo scambio, che fino a un momento prima era stato
divertente per me, improvvisamente aveva perso tutta la sua piega
umoristica.
Eravamo così differenti. Sebbene fossimo appartenuti un tempo
alla stessa specie, condividevamo ormai solo pochi tratti superficiali.
Alla fine, doveva avvertire il peso di questa alterazione, tutta la
distanza che ci divideva. Staccai la mano dal suo viso e la lasciai
cadere al mio fianco. Il mio tocco alieno avrebbe solo contribuito a
rendere questa enorme differenza ancora più palese.
Fissai la sua espressione turbata, aspettando di capire se si
fosse trattato di una verità di troppo. Dopo pochi lunghi secondi la
tensione nei suoi lineamenti si sciolse. Gli occhi si concentrarono sul
mio viso e un nuovo tipo di disagio segnò il suo sguardo.
Senza alcuna esitazione tese una mano per toccarmi una
guancia. «Cosa c’è?».
Ancora si preoccupava per me. Altro che il di troppo che temevo.
«Continuo a temere che prima o poi accada».
Sembrava confusa. «Accada cosa?».
Presi un profondo respiro. «So che prima o poi qualcosa di ciò
che ti dirò, o che vedrai, sarà troppo. E in quel momento fuggirai via
da me strillando». Provai a sorriderle, ma non mi venne granché
bene. «Non ti fermerò. Voglio che accada, perché solo così saresti
finalmente al sicuro. Io voglio che tu sia al sicuro. Eppure, voglio
anche stare con te. Conciliare i due desideri è impossibile...».
Scrollò le spalle e portò il mento in fuori. «Non ho intenzione di
scappare. Te lo prometto», disse.
Dovevo aver sorriso alla sua espressione audace. «Vedremo».
«Continua», insistette, un po’ imbronciata per la mia risposta
dubbiosa. «Carlisle arriva a nuoto in Francia».
Attesi un istante per valutare il suo umore, poi tornai alla galleria.
Decisi di deviare la sua attenzione verso il dipinto più appariscente di
tutti, il più variopinto e vistoso. Doveva raffigurare il giudizio
universale, ma metà dei personaggi sembrava dimenarsi come se
fosse coinvolta in una specie di orgia, l’altra metà in un
combattimento violento e sanguinario. Solo i giudici, protesi su quel
pandemonio da balaustre di marmo, si mostravano sereni.
Quel dipinto era un regalo. Se fosse stato per Carlisle, non
l’avrebbe scelto. Ma quando i Volturi avevano insistito perché
portasse con sé un ricordo del loro tempo trascorso insieme, fu
impossibile dire di no.
Nondimeno apprezzava quell’opera molto appariscente – e i
vampiri che vi erano raffigurati sullo sfondo –, quindi la conservava
tra le sue preferite. D’altronde, i Volturi si erano mostrati in vario
modo molto gentili con lui. E a Esme piaceva il piccolo ritratto di
Carlisle nascosto in mezzo a tutto quel caos.
Mentre le raccontavo dei primissimi anni di Carlisle in Europa,
Bella fissava il dipinto, cercando di dare un senso a tutte quelle
figure e a quel turbinio di colori. Avvertivo che la mia voce si era fatta
meno spontanea. Era difficile pensare al tentativo di Carlisle di
domare la sua natura, di diventare un bene per l’umanità piuttosto
che un parassita, senza provare di nuovo tutta l’ammirazione che il
suo viaggio meritava.
Avevo sempre invidiato il perfetto autocontrollo che aveva, ma,
allo stesso tempo, credevo che fosse impossibile per me imitarlo.
Avevo compreso che, ammirandolo in quel modo, io avevo scelto
una via più comoda, che prevedeva una minore resistenza, e che
altresì non mi sarei mai sforzato di diventare come lui. Questo corso
intensivo di autocontrollo a cui Bella mi stava sottoponendo sarebbe
stato meno faticoso se in quegli ultimi settant’anni mi fossi dato
maggiormente da fare in tal senso.
Bella mi stava fissando. Toccai sul quadro la scena saliente che
avevamo di fronte perché prestasse di nuovo attenzione alla storia.
«Studiava in Italia, quando scoprì gli altri. Erano molto più civili e
colti di quella specie di spettri che vivevano nelle fogne di Londra».
Bella si concentrò sul particolare che avevo indicato, e poi sorrise
all’improvviso, un po’ sorpresa. Aveva riconosciuto Carlisle
nonostante fosse raffigurato in una sorta di tunica.
«Francesco Solimena fu molto ispirato dagli amici di Carlisle. Li
raffigurava spesso come dèi. Aro, Marcus, Caius». Indicai ciascuno
di loro, a mano a mano che li nominavo. «Protettori notturni delle
arti».
Le sue dita sfiorarono appena la tela. «Che fine hanno fatto?».
«Sono ancora lì. Come da chissà quanti millenni. Carlisle restò
con loro per poco tempo, non più di qualche decennio. Ammirava
molto la loro civiltà, i loro modi raffinati, ma insistevano nel voler
curare la sua avversione alla “fonte naturale di nutrimento”, come la
chiamavano. Cercarono di persuaderlo, come lui cercò di
persuadere loro, senza risultato. A quel punto, decise di provare con
il Nuovo Mondo. Sognava di incontrare qualcuno come lui. Come
puoi immaginare, si sentiva molto solo».
Toccai solo di sfuggita i decenni successivi, quando Carlisle
dovette combattere contro il suo isolamento e alla fine cominciò a
prendere in considerazione un possibile piano. La storia cominciò a
diventare più personale, e anche più ripetitiva. Bella ne aveva già
sentito parlare prima: Carlisle che mi trovava moribondo e prendeva
la decisione che avrebbe cambiato il mio destino. E adesso quella
decisione riguardava anche Bella.
«Così, il cerchio si chiude», conclusi.
«Hai sempre vissuto con lui?», chiese.
Con infallibile istinto aveva trovato l’unica domanda a cui meno
volevo rispondere.
«Quasi».
Le misi una mano sul fianco per guidarla fuori dallo studio di
Carlisle, sperando così di allontanarla anche da quei pensieri. Ma
sapevo che non avrebbe lasciato perdere. Anzi, ne ero sicuro...
«Quasi?».
Sospirai, riluttante. Ma l’onestà ebbe la meglio sulla vergogna.
«Be’», confessai, «ho passato anch’io il mio periodo di ribellione
adolescenziale, più o meno dieci anni dopo la... nascita... o
creazione, chiamala come vuoi. La sua vita di astinenza non mi
convinceva, ce l’avevo con lui perché non faceva che soffocare il
mio appetito. Perciò, per qualche tempo, me ne andai per i fatti
miei».
«Davvero?». Non mi aspettavo quella intonazione. Ma non
sembrava infastidita, dava invece la sensazione di volerne sapere di
più. Non era per nulla simile alla sua reazione nel prato, quando
sembrò così sorpresa che io fossi un assassino, come se quella
possibilità non le fosse mai balenata prima. Forse si era abituata
all’idea.
Salimmo le scale. Sembrava indifferente a ciò che la circondava;
guardava solo me.
«Non ne sei disgustata?», chiesi.
Ci pensò su un istante. «No».
Mi colpì molto la sua risposta. «Perché no?», domandai.
«Perché... sembra una scelta ragionevole». Rispose salendo di
un tono verso la fine della frase, come se fosse una domanda.
Ragionevole. Risi, in modo quasi un po’ rude.
Ma invece di spiegarle tutte le ragioni per cui non era né
ragionevole né perdonabile, mi ritrovai a giustificarmi.
«Dal giorno della mia rinascita ho avuto il vantaggio di poter
leggere nel pensiero di chiunque mi si trovasse vicino, umano e non
umano. Perciò mi occorsero dieci anni per sfidare Carlisle: vedevo la
sua sincerità immacolata e capivo perfettamente cosa lo spingesse a
vivere così».
Mi chiesi se mi sarei mai potuto perdere se non avessi incontrato
Siobhan o altri come lei. Se non fossi stato consapevole del fatto che
ogni altra creatura come me – non ci eravamo ancora imbattuti in
Tanya e le sue sorelle – pensava che il modo in cui Carlisle vivesse
fosse assurdo. Se avessi conosciuto solo Carlisle, e non avessi mai
scoperto nessun altro codice di condotta, penso che sarei rimasto.
Provavo vergogna per il fatto che mi potessi far influenzare da altri
che non fossero come Carlisle. Ma invidiavo la loro libertà. E
pensavo che sarei stato in grado di vivere al di sopra dell’abisso
morale in cui tutti sprofondavano. Perché io ero speciale. A questo
pensiero così arrogante scossi la testa.
«Mi ci volle solo qualche anno per tornare da Carlisle e
riconoscere che aveva ragione. Pensavo che sarei rimasto immune
dalla... depressione... che la coscienza porta con sé. Dal momento
che leggevo nel pensiero delle mie prede, potevo risparmiare gli
innocenti e assalire soltanto i malvagi. Se seguivo un assassino
dentro un vicolo buio dove aveva intrappolato una ragazza... se
salvavo lei, allora certo non avevo motivo di sentirmi così
tremendo».
C’erano moltissimi umani che avevo salvato in questo modo,
eppure tutto quello non sembrava mai pareggiare il conto.
Balenarono nei miei ricordi così tante facce, i colpevoli che avevo
giustiziato e gli innocenti che avevo salvato.
Ma una faccia in particolare permaneva nella mia mente,
colpevole e innocente allo stesso tempo.
Settembre 1930. Era stato un anno terribile. Ovunque gli esseri
umani combattevano per sopravvivere ai fallimenti delle banche, alla
siccità, alle tempeste di sabbia. I contadini e le loro famiglie
migravano verso città che non volevano accoglierli. All’epoca mi
domandavo se quella disperazione e quel terrore così diffusi intorno
a me contribuissero alla malinconia che cominciava a tormentarmi.
Penso, però, che anche allora fossi consapevole che la mia
depressione era in gran parte il frutto delle mie scelte.
Andai a Milwaukee, così come a Chicago, Philadelphia, Detroit,
Columbus, Indianapolis, Minneapolis, Montreal, Toronto, città dopo
città, avanti e indietro, senza sosta, per la prima volta nella mia vita
senza una meta. Non mi spinsi più a sud – sapevo bene che non
dovevo cacciare vicino a quel focolaio di orde da incubo di vampiri
neonati – né più a est, poiché volevo evitare di incontrare Carlisle, in
quel caso più per vergogna che per istinto di autoconservazione.
Non rimanevo mai più di qualche giorno in un solo posto, e non
interagivo con gli esseri umani che cacciavo. Dopo oltre quattro anni
era diventato semplice scovare le menti che cercavo. Sapevo dove
avrei potuto trovarle e dove agivano di solito. Era inquietante quanto
fosse facile individuare le mie vittime ideali; ce n’erano tantissime.
Forse anche questo faceva parte della mia malinconia.
Le menti che cacciavo erano di solito insensibili alla pietà umana,
come anche alla gran parte delle altre emozioni, eccezion fatta per
l’avidità e la cupidigia. C’era in loro una freddezza e un’applicazione
che le distingueva dalle menti normali, e meno pericolose, che di
solito incontravo. Naturalmente, per molti di loro c’era voluto un po’
per arrivare a quel punto, ossia che si considerassero prima di tutto
come predatori. Di conseguenza c’era sempre una schiera di vittime
che non ero riuscito a salvare, potevo solo impedire che ne
uccidessero altre.
Scandagliando queste menti ero in grado di ignorare tutto ciò che
di più umano vi fosse rimasto. Ma quella sera a Milwaukee, mentre
mi muovevo lentamente nell’oscurità – passeggiando quando
c’erano testimoni e correndo quando non c’era nessuno – un tipo
differente di mente aveva attirato la mia attenzione.
Era un giovane, povero, viveva nei bassifondi alla periferia del
distretto industriale. Si trovava in uno stato di angoscia che in
qualche modo era riuscito a intrufolarsi nella mia coscienza,
sebbene l’angoscia non fosse un’emozione rara a quei tempi. Ma a
differenza degli altri, che temevano di morire di fame, di essere
sfrattati da casa, di patire il freddo o una malattia – e ogni forma di
indigenza –, quest’uomo temeva solo se stesso.
Non posso. Non posso. Non posso farlo. Non posso. Non posso.
Era come un mantra nella sua testa, che si ripeteva senza sosta.
Non riusciva a trovare la determinazione per qualcosa di più forte,
non riusciva a dire non voglio. Pensava a tutti gli aspetti negativi, ma
allo stesso tempo stava pianificando qualcosa.
L’uomo non aveva fatto nulla... ancora. Aveva solo sognato quello
che voleva fare. Aveva solo osservato la ragazza nel vialetto, ma
non le aveva mai parlato.
Ero un po’ confuso. Non avevo mai condannato alla morte
nessuno che avesse le mani pulite. Ma avevo la sensazione che
quell’uomo non le avrebbe avute pulite per molto ancora. E poi, la
ragazza a cui pensava era solo una bambina.
Non sapendo risolvermi, decisi di attendere. Forse non avrebbe
ceduto alla tentazione.
Ne dubitavo. I miei recenti studi sulla natura umana lasciavano
poco spazio all’ottimismo.
In fondo al vicolo in cui viveva, dove i palazzi pencolavano
pericolosamente, c’era una piccola casetta il cui tetto era da poco
crollato. Era troppo pericoloso salire al secondo piano, quindi fu lì
che per i giorni seguenti mi nascosi, immobile, in ascolto.
Esaminando i pensieri delle persone stipate in quegli edifici fatiscenti
non mi ci volle molto per individuare il piccolo volto di quella bambina
in una sequenza di pensieri differenti, più sani. Trovai la stanza in cui
viveva con la madre e due fratelli più grandi, e la osservai l’intero
giorno. Fu facile: doveva avere cinque o sei anni, per cui non si
allontanava tanto. Quando la madre la perdeva di vista, subito la
chiamava perché tornasse; il suo nome era Betty.
Anche l’uomo, quando non era occupato a rovistare per le strade,
teneva d’occhio la bambina. Ma di giorno se ne stava alla larga. La
notte, invece, si fermava fuori dalla sua finestra, nascosto
nell’ombra, mentre nella stanza ardeva una singola candela. Aveva
memorizzato l’orario in cui la candela veniva spenta. Aveva
osservato dove era collocato il letto della bambina; era un cuscino
imbottito di giornali sotto la finestra aperta. Di notte faceva freddo,
ma gli odori di quella casa affollata erano sgradevoli. Cosicché tutte
le finestre venivano lasciate aperte.
Non posso fare questo. Non posso. Non posso. Continuava con il
suo mantra, e intanto si preparava. Trovò un pezzo di corda in una
grondaia. Poi, durante la sua veglia notturna, strappò dei pezzi di
stoffa dal bucato steso ad asciugare. Gli sarebbero serviti da
bavaglio. Ironia della sorte, aveva scelto la stessa casa diroccata in
cui mi nascondevo io per conservare quegli oggetti. Sotto le scale
crollate c’era una specie di cantina. Era lì che avrebbe voluto portare
la bambina.
Restai ancora in attesa. Non volevo punirlo prima di essere sicuro
che avrebbe commesso un crimine.
La parte più difficile, quella che mi fece tribolare di più, fu quando
l’uomo decise che dopo avrebbe dovuto ucciderla. Era una cosa
ripugnante, e non voleva pensare a come lo avrebbe fatto. Ma alla
fine superò anche questo scrupolo. Passò un’altra settimana.
In quel periodo avevo una gran sete e i suoi pensieri ripetitivi
cominciavano ad annoiarmi. Eppure, sapevo che non avrei potuto
giustificare i miei omicidi se non avessi agito secondo le regole che
mi ero dato. Punire solo i colpevoli, solo coloro che avrebbero
danneggiato gli altri gravemente se li avessi risparmiati.
Rimasi stranamente deluso la notte in cui venne a prendere le
sue corde e il bavaglio. Contro ogni ragionevolezza, speravo ancora
che non si sarebbe macchiato di nessuna colpa.
Lo seguii fino alla finestra aperta dove dormiva la bambina. Non
sentì che ero alle sue spalle, e se si fosse girato non mi avrebbe
visto nell’ombra. Il ritornello nella sua mente era terminato. Ora
poteva, aveva capito. Lo poteva fare.
Attesi finché non raggiunse la finestra, finché le sue dita non le
sfiorarono il braccio, cercando la presa migliore...
Lo afferrai per il collo e balzai tre piani più su, sul tetto, dove
atterrammo con un tonfo.
Naturalmente era terrorizzato nel sentire le mie mani fredde come
il ghiaccio stringergli la gola, sconcertato dall’essersi trovato a
volare, confuso per tutto quello che stava accadendo. Ma quando lo
feci voltare per guardarlo in faccia, in qualche modo aveva
compreso. Non vide un uomo quando mi guardò. Vide i miei vuoti
occhi neri, la mia pelle pallida come la morte, e vide il giudizio.
Sebbene non si immaginasse neanche lontanamente chi io fossi
davvero, aveva perfettamente chiaro che cosa stesse accadendo.
Realizzò che io avevo salvato la bambina da lui, e fu sollevato.
Non era incallito come gli altri, non era insensibile e convinto.
Non l’ho fatto, pensò mentre mi scagliavo su di lui. Non erano
parole dette per difendersi. Era felice di essere stato fermato.
Tecnicamente, questa fu la mia unica vittima innocente, l’unica
che non era vissuta per diventare un mostro. Concludere il suo
cammino sulla strada per diventare un mostro era stata la sola cosa
giusta, la sola cosa da fare.
Se consideravo tutti, tutti coloro che avevo giustiziato, per
nessuna di quelle morti, prese individualmente, provavo pentimento.
La loro assenza aveva reso il mondo un posto migliore. Ma in un
certo senso tutto questo non aveva importanza.
E alla fine il sangue era solo sangue. Avevo placato la mia sete
per qualche giorno o settimana, niente di più. E il piacere fisico
doveva fare i conti con il dolore della mia mente. Per quanto
cocciuto, non avrei potuto evitare la verità. Senza sangue umano ero
più felice. Il conto complessivo delle morti era diventato troppo per
me. Dopo qualche mese rinunciai alla mia crociata egoistica,
rinunciai a cercare di trovare un significato in quella carneficina.
«Ma con il passare del tempo», dissi, chiedendomi quanto
avesse intuito di ciò che non avevo detto, «iniziai a vedere la
mostruosità nei miei occhi. Non riuscivo a sfuggire al peso di tutte
quelle vite umane strappate, che lo meritassero o no. Così tornai da
Carlisle ed Esme. Mi accolsero come il figliol prodigo. Non meritavo
così tanto». Ricordai le loro braccia intorno al mio corpo, la gioia
delle loro menti quando ritornai.
Il modo in cui Bella mi guardava era ben più di quanto meritassi.
Immaginai che il mio tentativo di difesa avesse funzionato, senza
preoccuparmi di quanto debole potesse sembrare ai miei occhi. Ma
ormai lei doveva essersi abituata a sentire le mie giustificazioni. Non
riuscivo a immaginare come potesse altrimenti sopportare di starmi
vicino.
Raggiungemmo l’ultima porta in fondo al corridoio.
«La mia stanza», la informai tenendole la porta aperta.
Attesi la sua reazione. Ritornò l’attenta indagatrice. Esaminò la
vista sul fiume, l’abbondanza di scaffali per i miei dischi, lo stereo,
l’assenza di mobili tradizionali. I suoi occhi saltellavano da un
particolare all’altro. Mi chiesi se la mia camera fosse interessante
per lei come lo era stata la sua per me.
I suoi occhi indugiarono sul modo in cui avevo sistemato le pareti.
«Migliora l’acustica?».
Risi e annuii, poi accesi lo stereo. Sebbene il volume fosse
basso, gli altoparlanti nascosti nelle pareti e nel soffitto davano
l’impressione di essere in una sala da concerto con i musicisti dal
vivo. Sorrise e si avvicinò poi allo scaffale di CD che aveva accanto.
Era straniante vederla nel bel mezzo di uno spazio che era
sempre stato per me quasi una sorta di rifugio isolato. Avevamo
trascorso la maggior parte del nostro tempo nel mondo umano –
scuola, città, la sua stanza – e questo mi aveva fatto sentire un
intruso, l’unico che era fuori posto. Meno di una settimana prima,
non avrei mai potuto credere che lei sarebbe stata così rilassata e a
suo agio nel mio mondo. Non era un’intrusa; non era per nulla fuori
posto. Era come se la stanza fino a quel momento non fosse mai
stata completa.
E lei non era lì grazie a qualche pretesto. Non avevo mentito, le
avevo confessato tutti i miei peccati. Sapeva tutto e desiderava
ancora stare in quella stanza, sola con me.
«In che ordine li hai sistemati?», chiese, cercando di dare un
senso alla mia collezione.
La mia mente era talmente catturata dal piacere di averla lì che
mi ci volle un po’ prima di rispondere.
«Uhm... sono divisi per anno, e poi per preferenze personali».
Bella sentì che la mia voce era distratta. Mi guardò, cercando di
capire perché la stessi fissando così intensamente.
«Cosa c’è?», chiese, portando nervosamente la mano ai capelli.
«Immaginavo che mi sarei sentito... sollevato. Farti sapere tutto,
non avere più bisogno di segreti. Ma non pensavo che sarebbe
andata ancora meglio. Mi piace. Mi fa sentire... felice».
Sorridemmo entrambi.
«Sono contenta», disse.
Si vedeva chiaramente che non stava dicendo altro che la verità.
Non c’erano ombre nei suoi occhi. Essere nel mio mondo le aveva
procurato altrettanto piacere quanto a me essere nel suo.
Un barlume di disagio mutò la mia espressione. Per la prima volta
da un po’ di tempo mi tornarono in mente i semi di melagrana. Mi
sembrava giusto averla lì, ma non è che avrei finito per essere
accecato dal mio egoismo? Niente l’aveva messa in fuga da me, ma
ciò non significava che non dovesse avere paura. Era sempre stata
troppo coraggiosa per pensare al suo bene.
Bella notò il cambiamento sulla mia faccia. «Sei sempre in attesa
degli strilli e della fuga a gambe levate, vero?».
Aveva fatto centro. Annuii.
«Scusa se ti smonto così», disse, con tono distaccato. «Ma non
sei terribile come pensi. Anzi, a dirla tutta non ti trovo affatto
spaventoso».
Era una bugia ben presentata, considerando soprattutto la sua
abituale incapacità nel fingere. Ma sapevo che quel modo di
scherzare serviva principalmente a impedirmi di sentirmi abbattuto o
preoccupato. Alla fine, riuscì a cambiare il mio umore, sebbene a
volte la profondità della sua clemenza nei miei confronti mi
rattristava. Era un modo di scherzare divertente, e non resistetti.
Sorrisi, scoprendo il più possibile i denti. «Questo non dovevi
dirlo».
Dopotutto non voleva vedermi cacciare?
Mi rannicchiai scimmiottando la mia reale posizione di caccia,
una versione blanda e giocosa. Mostrando ancora di più i denti,
cominciai a ringhiare. Erano quasi delle fusa.
Cominciò a indietreggiare, sebbene non vi fosse vera paura nel
suo viso. Se non altro, non paura di essere ferita.
Sembrava tuttavia più spaventata dal fatto che lo scherzo le si
fosse ritorto contro.
Deglutì rumorosamente. «Non provarci».
Scattai.
Non riuscì a vedere molto di quello che accadde; mi ero mosso
alla velocità di un immortale.
Sfrecciando attraverso la stanza, l’avevo presa tra le mie braccia
mentre volavo. Mi ero trasformato poi in una specie di armatura
stretta intorno al suo corpo, di modo che, sbattendo sul divano, non
avrebbe sentito alcun impatto.
Atterrai sulla schiena, come previsto. La strinsi contro il mio petto,
ancora raggomitolata tra le mie braccia. Sembrava un po’
disorientata, come se non sapesse che pesci prendere. Si dibatté
per sedersi, ma io non avevo ancora finito.
Cercò di lanciarmi un’occhiataccia, ma i suoi occhi erano troppo
spalancati per essere credibili.
«Dicevi?», chiesi con un ringhio giocoso.
Cercò di riprendere fiato. «Che sei un mostro molto... molto
terrificante».
Le sorrisi. «Così va molto meglio».
Alice e Jasper stavano risalendo le scale. Riuscivo a percepire
l’impazienza di Alice nel volerci fare una proposta. Era anche molto
incuriosita dai rumori della lotta che aveva sentito provenire dalla
mia stanza. Non era più stata a osservarmi, perciò adesso riusciva a
vedere solamente quello che avrebbe trovato al suo arrivo; il modo
in cui io e Bella avevamo messo tutto a soqquadro era un evento
che apparteneva ormai al passato.
Bella stava ancora cercando di liberarsi.
«Uhm. Adesso posso alzarmi?».
Risi perché restava continuamente senza fiato. Nonostante la sua
fiducia eccessiva, ero ancora in grado di coglierla di sorpresa.
«Possiamo entrare?», chiese Alice dal corridoio, ad alta voce, per
il bene di Bella.
Mi sedetti, tenendo Bella sulle gambe. Non c’era bisogno di
fingere, sebbene ritenessi che in presenza di Carlisle occorresse
mantenere la debita distanza.
Alice stava già entrando in camera quando risposi: «Avanti».
Mentre Jasper esitava sulla soglia, Alice andò a posizionarsi al
centro del tappeto, con un grande sorriso che le correva da guancia
a guancia. «Abbiamo sentito strani rumori... se stavi per mangiare
Bella per pranzo, sappi che ne vogliamo un po’ anche noi», disse
scherzando.
Bella si risistemò e i suoi occhi volarono alla mia faccia perché la
rassicurassi. Sorrisi e la strinsi più forte al mio petto.
«Scusate, ma non credo di potervene offrire».
Jasper seguì Alice nella stanza, senza sapere bene che fare.
Le emozioni all’interno di quello spazio erano per lui quasi
esaltanti.
In quel momento sapevo che Bella provava le stesse cose che
provavo io, perché niente faceva da contraltare a quell’atmosfera
beata di cui Jasper si stava inebriando.
«A dir la verità», disse, cambiando argomento. Riuscivo a vedere
che stava cercando di controllare le sue emozioni, che provava a
moderarle. L’atmosfera era travolgente. «Alice dice che stasera ci
sarà un temporale con i fiocchi ed Emmett vuole organizzare una
partita. Sei dei nostri?».
Rimasi in silenzio, guardando Alice.
In un lampo Alice passò in rassegna centinaia di immagini di quel
possibile futuro. Rosalie era assente, ma Emmett non si sarebbe
perso la partita. In alcuni casi la sua squadra avrebbe vinto, in altri la
mia. Bella se ne stava lì a guardare, estasiata da quella esibizione
ultraterrena.
«Ovviamente porta anche Bella», suggerì Alice, conoscendomi
abbastanza bene per comprendere la mia esitazione.
Oh. Jasper fu colto di sorpresa. Dentro di sé modificò l’idea di
quello che sarebbe accaduto. Non si sarebbe rilassato come aveva
in mente di fare. Ma poter sperimentare le emozioni che io e Bella
provavamo l’uno nei confronti dell’altra... era un compromesso per
lui accettabile.
«Vuoi venire?», chiesi a Bella.
«Certo», rispose subito. «Ehm, dove?», chiese poi, dopo una
breve pausa.
«Per giocare dobbiamo aspettare i tuoni», spiegai. «Il perché lo
capirai».
Ora sembrava più preoccupata. «Servirà l’ombrello?».
Mi fece ridere il fatto che fosse questa la sua preoccupazione, e
anche Alice e Jasper si unirono alla risata.
«Tu che dici?», chiese Jasper ad Alice.
Un altro lampo di immagini, ma questa volta riguardavano lo
sviluppo della tempesta.
«No. Il temporale colpirà la città. Nello spiazzo staremo
all’asciutto».
«Bene», disse Jasper. Trovava eccitante l’idea di trascorrere più
tempo con Bella e me. Il suo entusiasmo era palpabile, e ci
contagiava. Bella, che prima sembrava mostrare cautela, divenne
entusiasta.
Fantastico, pensò Alice, contenta che il suo programma fosse
stato accolto. Voleva anche trascorrere un po’ di tempo libero con
Bella. Ti lascio per organizzare i dettagli.
«Chiediamo a Carlisle se viene anche lui», disse, saltellando
verso la porta.
Jasper le diede un colpetto tra le costole. «Come se tu già non lo
sapessi».
Ma Alice era già uscita e Jasper la seguì più lentamente,
assaporando ogni istante vicino a noi. Si fermò per chiudere la porta
dietro di sé, ma era una scusa per indugiare ancora un po’.
«A cosa giochiamo?», chiese Bella non appena la porta si chiuse.
«Tu resti a guardare. Noi giochiamo a baseball».
Mi guardò con aria scettica. «I vampiri giocano a baseball?».
Le risposi in tono solenne. «È il passatempo americano per
eccellenza».
21. LA PARTITA

Il tempo passava sempre troppo in fretta. Di lì a poco, Bella


avrebbe avuto bisogno di consumare un nuovo pasto e a casa mia
non c’era davvero nulla da mangiare; a breve, avrei rimediato anche
a questo. Era tempo di tornare al mondo degli umani. Ma fintanto
che eravamo assieme, farlo non era per me un peso bensì una gioia.
Un pasto dunque, un breve lasso di tempo in cui mi sarei
impregnato della sua vicinanza, per poi lasciarla. Immaginavo
volesse parlare da sola con Charlie prima di presentarmelo. Tuttavia,
non appena svoltammo nella strada in cui abitava, divenne chiaro
che le mie aspettative per il pomeriggio sarebbero state deluse.
Parcheggiata al solito posto in cui Charlie metteva la sua auto
c’era invece una Ford Tempo del 1987 che aveva visto giorni
migliori. Nella veranda, sotto la misera protezione offerta dal tetto,
c’erano un uomo in sedia a rotelle e dietro di lui un ragazzo.
Bella è tornata a casa prima di lui, pensò il vecchio. Questa non
ci voleva.
Ehi, è Bella! I pensieri del ragazzo erano molto più carichi di
entusiasmo.
C’era solo un motivo per cui Billy Black potesse essere deluso
che Bella fosse rientrata prima del padre. E quel motivo aveva a che
fare con la violazione di un patto. Ne avrei avuto conferma molto
presto; Billy non si era ancora accorto della mia presenza.
«Si è forse scordato di chi tuteli effettivamente il patto?», sibilai.
Bella mi lanciò un’occhiata confusa, anche se ero certo di aver
parlato abbastanza velocemente perché le mie parole non fossero
state comprensibili.
Jacob mi vide seduto alla guida un istante prima di Billy.
Ancora lui. Allora lo sta frequentando. Il suo entusiasmo svanì.
No! Il pensiero di Billy arrivò come un grido seguito da un gemito
della sua mente. No.
Percepii le sue paure in parte sottaciute – doveva dire al figlio di
correre via? Era già troppo tardi? – e poi il suo senso di colpa.
Come l’ha saputo?
Capii di avere ragione, che quella non era un’innocente visita di
cortesia.
Dopo aver parcheggiato il pick-up lungo il marciapiede, incrociai
lo sguardo di quell’uomo spaventato.
«Stavolta hanno passato il segno», dichiarai, adesso in modo
chiaro. Sperai che lui riuscisse a leggermi le labbra.
Bella capì all’istante. «È venuto a mettere in guardia Charlie?».
L’idea sembrò atterrirla.
Annuii senza staccare gli occhi di dosso a Billy. Dopo un
secondo, lui abbassò lo sguardo.
«Lascia fare a me», suggerì Bella.
Sarei voluto scendere dal pick-up e avvicinarmi ai due soggetti
inermi – chinarmi su di loro, con aria intimidatoria, abbastanza vicino
perché sembrasse che ogni fibra del mio essere urlasse contro quel
vecchio, mostrargli i denti e ringhiargli un avvertimento con una voce
che suonasse tutto fuorché umana, vedere i suoi capelli rizzarsi e
sentire il cuore battergli all’impazzata per il panico –, ma sapevo che
sarebbe stata una pessima idea. Da una parte, Carlisle non lo
avrebbe gradito. Dall’altra, sebbene il ragazzo conoscesse le
leggende, non le avrebbe mai credute vere. A meno che non fossi
piombato davanti a loro, dando pieno sfoggio del mio lato meno
umano.
«Probabilmente è la scelta migliore», ammisi. «Però fai
attenzione. Il bambino non sa nulla».
Improvvisamente, il suo viso fu attraversato da un lampo di
irritazione. Rimasi incerto, finché lei non parlò.
«Jacob non è tanto più piccolo di me».
Era stata la parola bambino a farla risentire.
«Sì, lo so», la punzecchiai.
Bella tirò un sospiro, dopodiché afferrò la maniglia della portiera,
triste quanto me di doverci separare.
«Falli entrare, così potrò andarmene. Tornerò al tramonto», le
promisi.
«Vuoi che ti lasci il pick-up?».
«Ricorda che io a piedi sono molto più veloce del tuo pick-up».
Per un attimo sorrise, poi però si adombrò. «Non sei obbligato ad
andartene», mormorò.
«Invece sì». Lanciai un’occhiata a Billy Black. Anche lui mi stava
guardando, ma non appena incrociò i miei occhi distolse subito lo
sguardo. «Dopo che ti sarai liberata di loro...». Sentii un sorriso
diffondersi sul mio viso, forse un po’ troppo ampio. «Ti toccherà
preparare Charlie a conoscere il tuo nuovo ragazzo».
«Tante grazie, che bella notizia», protestò lei.
Ma benché indubbiamente preoccupata per la reazione di
Charlie, sapevo pure che era determinata a portare a termine la
faccenda. In qualche modo mi avrebbe etichettato come si
conveniva al suo mondo di umani, così da permettermi di farne
parte.
Il mio sorriso si addolcì. «Tornerò presto, lo prometto».
Lanciai un’ultima occhiata agli umani nella veranda. Jacob Black
si sentiva in imbarazzo per essere stato trascinato dal padre a spiare
Bella e il suo ragazzo. Billy Black, invece, era ancora in preda alla
paura che da un momento all’altro dessi inizio a una mattanza. Lo
trovai un pensiero offensivo.
Con queste impressioni nella mente, mi piegai per dare un bacio
di saluto a Bella. Giusto per indispettire quel vecchio, premetti le mie
labbra sulla sua gola anziché sulla bocca.
L’urlo agonizzante nella testa dell’uomo venne quasi sommerso
dai battiti del cuore di Bella, che iniziarono ad accelerare, mentre io
desiderai che quegli umani irritanti sparissero.
Ora, però, gli occhi di Bella si erano rivolti a Billy, valutandone
l’ansia.
«Presto», mi ordinò. Dopo un brevissimo sguardo in preda allo
sconforto, aprì la portiera e smontò dal pick-up.
Rimasi seduto tranquillo, mentre lei correva sotto la pioggerella
per raggiungere la porta. «Ehi, Billy. Ciao, Jacob», disse con
entusiasmo forzato. «Charlie è fuori fino a stasera... Spero che non
abbiate aspettato troppo».
«Non tanto», replicò l’uomo con calma. Lei continuava a lanciarmi
delle occhiate. Billy sollevò un sacchetto di carta marrone. «Volevo
solo portare questo».
«Grazie. Perché non entrate un minuto ad asciugarvi?».
Lei si comportò come se fosse del tutto inconsapevole del suo
sguardo penetrante. Aprì la porta e poi, con un gesto, li invitò a
entrare con il sorriso stampato sul viso. Attese che avessero varcato
la soglia, dopodiché li seguì.
«Faccio io», disse a Billy mentre si voltava per richiudere la porta.
Per un istante i suoi occhi incrociarono i miei, quindi l’uscio si chiuse.
Prima che potessero raggiungere una delle finestre che
affacciavano su quel lato del cortile, mi affrettai a scendere dal pick-
up di Bella e a salire sul mio albero consueto. Sarei rimasto lì finché i
Black non se ne fossero andati. Se i rapporti con la tribù erano
destinati a diventare tesi, dovevo sapere esattamente fino a che
punto Billy avesse intenzione di spingersi quel giorno.
«Va ancora a pesca? Giù al solito posto? Magari faccio un salto a
trovarlo». E anche più in fretta adesso. Non sapevo che le cose si
fossero messe così male. Povera Bella, non si rende conto...
«No», ribatté Bella bruscamente, nello stesso istante in cui io
digrignai i denti. «Ha detto che avrebbe provato un posto nuovo...
ma non ho idea di dove sia andato».
Persino attraverso i muri, riuscii a sentire che il tono della sua
voce era del tutto alterato. Anche Billy se ne accorse.
Perché fa così? Non vuole che veda Charlie. Non può sapere di
cosa lo voglio avvisare.
Mentre lui la analizzava, riuscivo a vedere l’espressione di Bella; i
suoi occhi brillavano e il mento era sollevato con ostinazione.
Questo ricordò a Billy una delle sue figlie, quella che non lo andava
mai a trovare.
Ho bisogno di parlare da solo con lei.
«Jake», disse lentamente, «perché non vai a prendere quella foto
nuova di Rebecca, in macchina? Voglio lasciarla a Charlie».
«Dov’è?».
I pensieri chiari e puri nella mente del ragazzo si rabbuiarono,
tornando ora al bacio nel pick-up. Lo aveva colpito in maniera del
tutto diversa rispetto al padre. Era consapevole che Bella era troppo
grande perché potesse pensare a lui come avrebbe desiderato,
tuttavia averne la conferma lo sconfortò. Fece un respiro profondo,
poi trasalì, distratto da qualcosa.
C’è qualcosa che è andato a male, pensò e mi domandai se la
sua reazione non fosse dovuta al regalo di suo padre chiuso in quel
sacchetto; quella mattina, infatti, non avevo avvertito nulla di strano.
«Mi sembra di averla vista sul cruscotto», Billy mentì con
disinvoltura. «Comunque se cerchi bene la trovi».
Né lui né Bella dissero altro finché Jacob non uscì dalla porta
d’ingresso, con le spalle ricurve e il muso lungo. Si trascinò verso
l’auto, incurante della pioggia, e – sospirando – iniziò a rovistare tra
una pila di abiti vecchi e cianfrusaglie dimenticate. Stava ancora
rimuginando su quel bacio, cercando di capire quanto Bella fosse
coinvolta.
Bella e Billy si trovavano l’una di fronte all’altro nel corridoio.
Da dove iniziare...?
Prima che potesse dire qualcosa, Bella si voltò e tornò in cucina.
Mentre lei si ritirava, lui rimase a guardarla per un secondo, quindi le
andò dietro.
La porta del frigo cigolò e partì il ronzio del motore.
Sotto lo sguardo fisso di Billy, lei richiuse con un colpo
l’elettrodomestico, dopodiché si girò per affrontare l’uomo. Dalla
smorfia sulla sua bocca, lui vide subito che era sulla difensiva.
Fu Bella la prima a parlare, e non lo fece in modo cordiale.
Evidentemente, aveva compreso che era inutile far finta di nulla.
«Charlie tornerà molto tardi».
Per qualche ragione, lo vuole tenere nascosto. Anche lei però ha
diritto di sapere. Magari riuscirò a dirle qualcosa senza violare
effettivamente il patto.
«Grazie ancora per la frittura». Le parole di Bella suonarono
come un chiaro commiato, ma quando lui non accennò a muoversi,
Billy non ebbe l’impressione che lei ne fosse rimasta sorpresa. Bella
sospirò e incrociò le braccia al petto.
«Bella», disse Billy con tono non più distaccato. La sua voce
adesso si era fatta più grave e profonda.
Lei rimase perfettamente immobile, ai limiti del possibile per un
essere umano, e attese che lui riprendesse a parlare.
«Bella», ripeté. «Charlie è uno dei miei migliori amici».
«Sì».
Scandì le parole molto lentamente. «Vedo che passi parecchio
tempo in compagnia di uno dei Cullen».
«Sì», disse lei di nuovo, stavolta celando a stento la propria
ostilità.
Lui non reagì al suo tono. «Forse non sono affari miei, ma non
penso sia una buona idea».
«Sì, hai ragione», ribatté lei. «Non sono affari tuoi».
È davvero arrabbiata.
Nel soppesare attentamente le parole, la sua voce si fece
nuovamente ponderosa.
«Probabilmente non lo sai, ma la famiglia Cullen gode di cattiva
reputazione nella riserva».
Una mossa davvero accorta. Si era spinto fino al limite, senza
oltrepassarlo.
«A dire la verità, lo so eccome». Le parole uscirono di bocca a
Bella in tono rapido e acceso, in netto contrasto con quello di Billy.
«Ma non se la sono affatto meritata, no? Dal momento che, a quanto
mi risulta, i Cullen non mettono mai piede nella riserva, o sbaglio?».
Questo lo colse di sorpresa. Lei sa! Lo sa? Ma come è successo?
E come è possibile che...? Non può essere. Non è possibile che
conosca tutta la verità. Il moto di avversione che attraversò i suoi
pensieri mi fece nuovamente digrignare i denti.
«È vero», finì per concedere. «Sembri... ben informata, a
proposito dei Cullen. Più di quanto mi aspettassi».
«Forse anche meglio informata di te».
Che cosa le avranno raccontato per renderla così protettiva nei
loro confronti? Non la verità. Di certo qualche storiellina romantica.
Bene, a quanto pare non c’è nulla che possa dire per convincerla.
«Può darsi», era infastidito di doverle dare ragione. «Anche
Charlie ne è informato?».
Notò che Bella aveva assunto un’aria più evasiva. «A Charlie i
Cullen piacciono molto».
Charlie non sa proprio nulla.
«Non sono affari miei», dichiarò Billy. «Ma forse di Charlie sì».
Bella lo osservò per un lungo istante, esaminandone
l’espressione.
Questa ragazza pare un avvocato.
«E penso che sia affar mio, decidere se sono suoi, o sbaglio?»,
chiese lei. In realtà non sembrava affatto una domanda.
Ancora una volta, i loro sguardi si incrociarono.
Alla fine, Billy emise un sospiro.
Charlie non mi crederebbe comunque. Non posso rompere di
nuovo i rapporti con lui. Ho bisogno di poter tenere d’occhio la
situazione.
«Sì. Immagino che anche questo sia affar tuo».
Bella tirò un sospiro e rilassò la postura. «Grazie, Billy», disse ora
in tono più gentile.
«Però stai attenta a quello che fai, Bella», le raccomandò Billy.
La sua risposta giunse troppo rapida. «Certo».
Un altro pensiero catturò la mia attenzione. Non avevo più badato
alla ricerca infruttuosa di Jacob, concentrandomi invece sul
confronto tra suo padre e Bella. Adesso però il ragazzo si era reso
conto che...
Oh accidenti, che idiota che sono. Voleva solo che mi levassi di
torno.
Sgomento all’idea che il padre potesse metterlo in imbarazzo, e
temendo che scoprisse da Bella che era stato lui a parlarle della
violazione del patto, Jacob sbatté il bagagliaio e si diresse a grandi
passi verso la porta di casa.
Billy sentì chiudere il portabagagli e comprese che il tempo a sua
disposizione era terminato. Lanciò un ultimo appello.
«Quel che voglio dirti è: non fare ciò che stai facendo».
Bella non rispose, ma la sua espressione si fece più gentile. Per
un attimo Billy ebbe la timida speranza che lei gli stesse dando
ascolto. Jacob spalancò la porta d’ingresso. Billy lanciò un’occhiata
da dietro la spalla, perciò non fui in grado di scorgere la reazione di
Bella.
«Non c’è nessuna foto in macchina», protestò Jacob a voce alta.
«Magari l’ho lasciata a casa», dichiarò Billy.
«Fantastico», ribatté il figlio con marcato sarcasmo.
«Be’, Bella, dillo a Charlie». Prima di continuare, Billy rimase in
attesa di un cenno da parte sua. «Che siamo passati».
«Certo», replicò lei con tono nuovamente aspro.
Jacob fu sorpreso. «Ce ne andiamo già?».
«Charlie arriva tardi», spiegò Billy, che già stava spingendo la
carrozzella verso la porta.
A che scopo venire, allora?, protestò dentro di sé Jacob. Il
vecchio inizia a rimbambirsi. «Be’, allora alla prossima, Bella».
«Certo», disse lei.
«Mi raccomando», aggiunse Billy con tono di avvertimento.
Bella non rispose.
Jacob aiutò il padre a varcare la soglia di casa e a scendere il
gradino della veranda. Bella li seguì sull’uscio. Lanciò un’occhiata al
pick-up vuoto, poi salutò Jacob con un gesto della mano e richiuse la
porta mentre Billy veniva ancora aiutato dal figlio a salire sull’auto.
Sarei voluto tornare da Bella e discutere con lei dell’accaduto, ma
sapevo di avere ancora del lavoro da fare. La sentii salire su per le
scale, mentre io scesi giù dall’albero e tagliai per i boschi dietro casa
sua.
Di giorno, a piedi, era molto più difficile seguire i Black. Non
potevo star loro dietro sull’autostrada. Entravo e uscivo dai tratti più
fitti della foresta, prestando ascolto ai pensieri di chiunque si
trovasse abbastanza vicino da potermi scorgere. Li anticipai allo
svincolo per La Push, azzardando uno scatto a tutta velocità lungo
l’autostrada piovosa in un momento in cui l’unico veicolo in vista era
un’auto che andava nella direzione opposta. Raggiunto il lato ovest
della carreggiata, fui completamente al riparo da ogni sguardo. Attesi
l’arrivo della vecchia Ford, dopodiché iniziai a correrle accanto
nell’oscurità degli alberi.
A bordo, quei due erano in silenzio. Mi domandai se poco prima
Jacob non avesse mosso qualche recriminazione che magari mi ero
perso. La mente del ragazzo era ancora intenta a rimuginare su quel
bacio, e la triste conclusione a cui stava giungendo era che Bella ne
fosse stata molto presa.
I pensieri di Billy erano rivolti invece al ricordo di un evento. Fui
sorpreso di averne anch’io memoria. Ma da tutt’altra prospettiva.
Era accaduto due anni e mezzo prima. All’epoca la mia famiglia si
trovava a Denali, giusto una breve visita di cortesia nel passaggio da
una residenza semipermanente all’altra. I preparativi per il
trasferimento nello Stato di Washington prevedevano anche una
seccatura davvero unica nel suo genere. Carlisle aveva già ottenuto
il suo incarico di lavoro, mentre Esme aveva acquistato la casa da
ristrutturare lontano da occhi indiscreti. E all’istituto superiore di
Forks era stata trasmessa la falsa documentazione scolastica, sia
per me che per i miei fratelli. Restava però l’ultimo preparativo, il più
importante – quantunque anche il più singolare. Sebbene in passato
fosse già successo che – dopo un congruo lasso di tempo – fossimo
tornati nelle case in cui avevamo abitato in precedenza, non era mai
stato necessario che dovessimo annunciare il nostro arrivo.
Dapprima, Carlisle si era mosso via Internet. Era entrato in
contatto con un’appassionata di genealogia di nome Alma Young,
che lavorava al di fuori della riserva Makah. Fingendosi curioso di
storie di famiglia, le aveva chiesto informazioni sugli eventuali
discendenti di Ephraim Black che vivessero ancora in quella zona.
La signora Young fu felicissima di comunicare a Carlisle la buona
notizia: il nipote e il bisnipote di Ephraim vivevano ancora a La Push,
proprio lungo la costa. Ovviamente, non ebbe problemi a fornirgli il
loro numero di telefono. Era certa che Billy Black sarebbe stato più
che lieto di sentire un suo lontanissimo cugino.
Io ero in casa quando, subito dopo, Carlisle si accinse a fare
quella chiamata, perciò potei ascoltare tutto ciò che disse. Adesso,
invece, era Billy a ricordare la sua versione di quella telefonata.
Era stata una giornata come tutte le altre. Le gemelle erano
uscite con gli amici, perciò in casa erano rimasti solo Billy e Jacob.
Quando squillò il telefono, Billy stava insegnando al ragazzo come
intagliare un leone marino su un pezzo di legno di madrone. Si era
spinto da solo fino in cucina, lasciando il ragazzino talmente intento
alla propria opera, che quasi non si accorse dell’assenza del padre.
Billy aveva pensato potesse essere Harry, o magari Charlie.
Rispose con un allegro «Pronto!».
«Pronto. Parlo con Billy Black?».
Non riconobbe la voce all’altro capo del filo, ma questa
possedeva un che di chiaro e acuto che per qualche ragione lo
infastidì.
«Sì, sono Billy. Con chi parlo?».
«Il mio nome è Carlisle Cullen», spiegò a Billy quella voce gentile
ma penetrante, e lui ebbe l’impressione che gli mancasse il terreno
da sotto i piedi. Per un istante andò fuori di sé e pensò di trovarsi in
un incubo.
Quel nome e quella voce tagliente appartenevano a una
leggenda, a un racconto dell’orrore. Benché fosse stato avvisato e
preparato, era una cosa che risaliva a molto tempo prima. Billy non
aveva mai creduto davvero che un giorno gli sarebbe toccato di
vivere proprio nel mondo che apparteneva a quella storia orribile.
«Il mio nome le dice qualcosa?», chiese quella voce, e Billy si
accorse di come suonasse giovane. Non vecchia di centinaia di anni,
come invece avrebbe dovuto essere.
Billy faticò a recuperare la propria voce. «Sì», disse infine in tono
stridulo.
Pensò di aver udito un debole sospiro.
«Bene», rispose quel mostro. «Questo ci renderà più semplice
compiere il nostro dovere».
La mente di Billy si intorpidì nel tentativo di comprendere che
cosa stesse dicendo il mostro. Dovere. Si stava riferendo al patto.
Billy fece uno sforzo per ricordare gli accordi segreti che aveva
memorizzato con cura. Se quell’essere mostruoso aveva detto che
lui aveva un dovere da adempiere, allora questo non poteva che
significare una sola cosa.
Billy sbiancò in viso e, sebbene fosse consapevole di essere
stabile e sicuro sulla propria sedia, ebbe l’impressione che le pareti
attorno a lui ondeggiassero.
«State tornando», disse con voce strozzata.
«Sì», confermò il mostro. «So che questo non sarà... piacevole
per lei da sentire. Ma le assicuro che la sua tribù non corre alcun
pericolo, e neppure gli abitanti di Forks. Non abbiamo cambiato le
nostre abitudini».
Billy non riuscì a trovare nulla da ribattere. Era stato vincolato a
quel patto prima ancora di nascere. Avrebbe voluto obiettare,
minacciare... ma patto o non patto, non c’era nulla che potesse fare.
«Andremo a vivere fuori Forks». La creatura mostruosa prese a
enunciare velocemente una serie di numeri e a Billy occorse un
momento per rendersi conto che erano delle coordinate, una
latitudine e una longitudine. Rovistò in cerca di qualcosa con cui
scrivere e trovò un pennarello nero, ma niente carta.
«Può ripetere?», chiese con voce roca.
Questa volta le cifre furono scandite più lentamente e Billy le
scarabocchiò sul proprio braccio.
«Non so se lei conosce esattamente i termini dell’accordo...».
«Li conosco», lo interruppe Billy. A ogni membro della tribù
sarebbe stata interdetta la zona entro un raggio di dieci chilometri
attorno al covo dei succhiasangue. Si trattava di un’area ristretta a
confronto del territorio che apparteneva alla tribù, ma in quel
momento sembrò davvero enorme.
Come avrebbero fatto a convincere tutti i loro ragazzi a obbedire
a quella regola? Pensò a quelle testarde delle figlie e al suo figliolo
allegro e spensierato. Nessuno di loro credeva ai suoi racconti. E se
invece qualcuno di loro avesse commesso uno sbaglio del tutto
innocente... sarebbe diventato un facile bersaglio.
«Certo», ribatté il mostro con fare gentile. «Anche noi lo
conosciamo molto bene. Non avete nulla di cui preoccuparvi. Sono
desolato per ogni eventuale difficoltà che questo potrà causarvi, ma
non daremo in alcun modo fastidio alla vostra gente».
Billy rimase ad ascoltare, ancora una volta frastornato.
«Al momento, la nostra intenzione è quella di vivere a Forks per
una decina d’anni».
Il cuore di Billy si arrestò. Dieci anni.
«I miei figli frequenteranno la scuola superiore locale. Non so se
qualcuno dei vostri ragazzi vada in quell’istituto...».
«No», sussurrò Billy.
«Bene, casomai qualcuno volesse farlo, posso assicurarle che
non ci sarà alcun pericolo».
La mente di Billy fu investita dai volti dei ragazzini di Forks. C’era
nulla che potesse fare per proteggerli?
«Lasci che le dia il mio numero. Saremmo lieti di poter avere un
più cordiale...».
«No», esclamò Billy, stavolta con tono più forte.
«Certo. Come ritiene opportuno».
Fu quindi assalito da un pensiero spaventoso. Il mostro aveva
parlato dei suoi figli...
«Quanti?», chiese Billy. La voce sembrava quella di qualcuno che
venisse strangolato.
«Come dice, scusi?».
«Quanti sarete?».
Per la prima volta, quella voce pacata e sicura di sé ebbe
un’esitazione. «Da molti anni ormai, altri due si sono uniti alla nostra
famiglia. Adesso siamo in sette».
Billy riattaccò il telefono con molta calma e lentezza.
A quel punto io dovetti interrompere la mia corsa. Non perché
avessi raggiunto il limite stabilito dal patto, ma poiché quel
particolare ricordo mi rese restio anche solo ad avvicinarmici. Girai a
nord, diretto verso casa.
Dai pensieri di Billy non avevo dunque ottenuto nulla di davvero
utile. Avevo ragione di credere che avrebbe seguito lo schema
consueto: sarebbe tornato nella sua riserva e avrebbe contattato i
propri compagni. Questi avrebbero diffuso la notizia – che era ben
poca cosa – e sarebbero giunti alla medesima conclusione. Non
c’era nulla che potessero fare. L’unica protezione per loro era il
patto.
Immaginai che la vecchia amicizia tra Billy e Charlie sarebbe
divenuta motivo di scontro. Billy avrebbe lottato strenuamente
perché gli venisse concesso di avvertire Charlie in maniera più
precisa. Uno dei freddi aveva scelto la sua unica figlia come... sua
vittima, bersaglio, pasto; riuscivo a indovinare le parole che lui
avrebbe scelto per descrivere il nostro rapporto.
Di certo gli altri, molto più obiettivi di Billy, avrebbero insistito
perché lui rimanesse in silenzio.
A dispetto di tutto ciò, già in passato aveva cercato di avvertire
Charlie del pericolo che Carlisle lavorasse in ospedale, ma il suo
tentativo non era andato a buon fine. E ricorrere, come misura
estrema, al sovrannaturale di certo non avrebbe aiutato le cose.
Questo Billy ormai lo aveva compreso.
Ero quasi arrivato a casa. Avrei riferito a Carlisle la notizia,
nonché la mia analisi della situazione. Non c’era molto altro da fare.
Ero sicuro che la sua reazione sarebbe stata pressoché identica.
Come i Quileutes, anche a noi non rimaneva altra scelta se non
quella di attenerci fedelmente al patto.
Sfruttando un momento in cui non passavano macchine, sfrecciai
nuovamente lungo l’autostrada. Ero giunto al viale verso casa,
quando dal garage sentii provenire il rombo di un motore a me
familiare. Mi arrestai al centro della carreggiata e rimasi ad
attendere.
Dalla curva sbucò la BMW rossa di Rosalie, che poi inchiodò.
Con la mano, accennai un saluto senza troppo slancio.
Lo sai che, se questo non mi rovinasse la macchina, ti investirei.
Feci di sì con la testa.
Rosalie mandò su di giri il motore, quindi sospirò.
«Suppongo tu abbia saputo della partita».
Fammi passare, Edward. Nella sua mente potevo vedere che non
era diretta da nessuna parte in particolare. Desiderava solo
andarsene lontano. Resterà Emmett. Non è già abbastanza?
«Te lo chiedo per piacere».
Chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Non capisco perché per te sia
così importante.
«Tu sei importante per me, Rose», risposi semplicemente.
Vi divertirete tutti molto di più senza di me.
Scrollai le spalle. Forse aveva ragione lei.
Non sarò gentile.
Sorrisi. «Non pretendo che tu sia gentile. Ti chiedo solo di essere
tollerante».
Esitò.
«Non sarà così male», le promisi. «Magari alla partita mi
straccerai, facendomi fare una figuraccia».
Cercando di reprimere un sorriso, inarcò un angolo della bocca.
Però Emmett e Jasper li prendo io.
Andava sempre sul sicuro, scegliendo i muscoli.
«Affare fatto».
Respirò ancora profondamente, pentendosi subito del nostro
accordo. Immaginò di trovarsi nello stesso posto insieme a Bella e...
dovette fare uno sforzo.
«Non accadrà nulla stasera, Rose. Non prenderà nessuna
decisione. Verrà solo a guardarci giocare, tutto qui. Vedilo come un
esperimento».
Ecco, a proposito... e se la situazione diventasse esplosiva?
Le lanciai un’occhiata di esasperazione. Lei alzò gli occhi.
«Se non dovesse funzionare, ci riorganizzeremo e troveremo
un’altra soluzione».
Rosalie aveva in mente una marea di soluzioni, perlopiù triviali,
ma era pronta a cedere. Ci avrebbe provato... ma potevo stare certo
che non si sarebbe impegnata più di tanto per essere cortese.
Comunque, era un inizio.
A questo punto, presumo mi debba cambiare. E con ciò, inserì la
retromarcia e lanciò la macchina a velocità sparata verso casa,
passando da zero a cento chilometri prima di scomparire del tutto
alla vista. Io presi la scorciatoia che tagliava dritto per la foresta.
Dentro casa, Emmett stava seguendo sul maxischermo quattro
partite di baseball diverse contemporaneamente. La sua testa, però,
era girata dall’altra parte per prestare ascolto allo stridio dell’auto di
Rosalie che rientrava in garage.
Io gli indicai il televisore. «Lì non troverai nulla che ti possa
aiutare a vincere stasera».
Hai convinto Rose a giocare?
Annuii e sul suo viso comparve un sorriso enorme.
Ti devo un favore.
Strinsi le labbra. «Dici davvero?».
Lo incuriosiva il fatto che desiderassi visibilmente qualcosa.
Sicuro, che ti serve?
«Che ti comporti al meglio con Bella?».
Rose attraversò di corsa la stanza e salì le scale, ignorandoci
entrambi ostentatamente.
Emmett rifletté sulla mia richiesta. Che cosa intendi dire
esattamente?
«Che non ti metterai a spaventarla di proposito».
Fece un’alzata di spalle. «Mi sembra giusto».
«Perfetto».
Sono contento che tu sia tornato. Quegli ultimi mesi erano
trascorsi in maniera insolita per Emmett, dapprima con i miei stati
d’animo e poi con la mia assenza.
Fui quasi sul punto di chiedergli scusa, ma sapevo che ora lui
non era arrabbiato con me. Emmett era il tipo che vive il presente.
«Dove sono Alice e Jasper?».
Emmett aveva ripreso a guardare le partite. A caccia. Jasper
vuole essere pronto. La cosa buffa è che... sembrava quasi eccitato
per stasera, più di quanto mi sarei aspettato.
«Buffo davvero», ammisi anch’io, sebbene ne intuissi un po’ di
più la ragione.
Edward, tesoro, sento che stai gocciolando sul pavimento. Per
piacere, mettiti degli abiti asciutti e passa uno straccio.
«Scusami, Esme!».
Stavolta mi vestii pensando a Charlie e tirai fuori una giacca da
pioggia che non passasse inosservata, una che indossavo giusto in
rare occasioni. Volevo apparire come il tipo che prende sul serio il
meteo, preoccupandosi di evitare il freddo e l’umido. Erano i piccoli
dettagli a mettere a proprio agio gli umani.
In automatico, infilai il tappo di bottiglia nella tasca dei jeans
nuovi.
Mentre asciugavo il pavimento, il mio pensiero andò al breve
viaggio di quella sera per raggiungere la radura in cui giocare a
baseball e mi resi conto che – dopo la giornata precedente – forse
Bella non era molto entusiasta all’idea di fare con me una nuova
corsa verso la nostra destinazione. Ci sarebbe stato comunque da
correre un po’, ma pensai sarebbe stato meglio ridurre il più
possibile la distanza da percorrere.
«Mi presti la tua jeep?», chiesi a Emmett.
Bella giacca. Ridacchiò. Cerca di rimanere al caldo e all’asciutto.
Rimasi in attesa, mettendo su un’espressione esagerata di chi
porta pazienza.
«Certo», acconsentì. «Ora però sei tu a dovermi un favore».
«Ben lieto di esserti debitore».
Mentre risuonava la sua risata, sfrecciai su per le scale.
Il colloquio con Carlisle fu rapido: come me, anche lui non vedeva
alternative rispetto al continuare a comportarci come stavamo
facendo. Fatto questo, mi precipitai nuovamente da Bella.
Per molti aspetti, la jeep di Emmett era la più appariscente tra le
nostre auto, già solo per le dimensioni. Ma con quell’acquazzone
c’erano poche persone in giro, e la pioggia avrebbe in ogni caso
reso difficile per chiunque distinguere chi fosse alla guida. La gente
avrebbe pensato che quell’enorme veicolo provenisse da un’altra
città.
Non ero certo di quanto tempo avrebbe avuto bisogno Bella,
perciò svoltai a un isolato di distanza da casa sua per assicurarmi
che fosse pronta a uscire con me.
Prima ancora di giungere in fondo alla strada, avvertii che i
pensieri di Charlie erano pervasi d’incertezza. Lei doveva aver
iniziato a parlare con lui. Nella sua mente, comparve la faccia di
Emmett. Di che si trattava?
Mi accostai a una propaggine di foresta tra alcune case e misi il
motore in folle.
Adesso ero abbastanza vicino da udire le loro voci. Nelle case
attorno non vi era silenzio, ma fu facile ignorare le voci degli altri,
tanto fisiche quanto mentali. Ormai ero talmente sintonizzato sul
suono della voce di Bella che sarei riuscito a coglierlo persino in uno
stadio pieno di gente urlante.
«Si chiama Edward, papà», gli stava dicendo.
«Allora?», le domandò il padre. Cercai di comprendere che cosa
stessero dicendo sul mio conto.
«Più o meno sì», ammise lei.
«Ieri sera hai detto che in città non c’erano ragazzi interessanti»,
rimarcò il padre.
«Be’, Edward non vive in città... E in ogni caso, siamo ancora alle
prime fasi. Non mettermi in imbarazzo con discorsi da fidanzati,
okay?».
A quel punto, fui in grado di ricostruire il filo del discorso.
Basandomi sulle emozioni di Charlie, cercai di comprendere quanto
la rivelazione di Bella potesse averlo turbato, ma quella sera lui
sembrava essere estremamente stoico.
«Quando arriva?».
«Tra qualche minuto dovrebbe essere qui». Questo sembrava
mettere in agitazione più Bella che suo padre.
«Dove ti porta?».
Bella brontolò in maniera esagerata. «Spero che abbandonerai
presto il tuo metodo da Tribunale dell’Inquisizione. Andiamo a
giocare a baseball con la sua famiglia».
Seguì un istante di silenzio, poi Charlie scoppiò a ridere. «Tu
giochi a baseball?».
Dal tono con cui lo disse si capiva che – malgrado la professione
del patrigno – Bella non era una grande appassionata di sport.
«Be’, probabilmente resterò a guardare».
«Deve piacerti davvero, eh?». Adesso sembrò più sospettoso. A
giudicare dai flash che attraversarono la sua mente, stava cercando
di mettere assieme i tasselli per ricostruire da quanto tempo andasse
avanti quella relazione. Ancora una volta, si sentì confermato nei
sospetti che aveva avuto la sera prima.
Diedi qualche giro al motore e feci inversione di marcia. Bella
aveva finito di prepararsi e io ero ansioso di stare di nuovo con lei.
Parcheggiai dietro il suo pick-up e mi precipitai sulla soglia
d’ingresso. Charlie le stava dicendo: «Tu mi coccoli troppo».
Suonai il campanello e tirai su il cappuccio del giaccone. Ero
bravo a passare per un umano, ma ora sentivo che riuscirci era più
importante che mai.
Udii i passi di Charlie avvicinarsi alla porta, immediatamente
seguiti da quelli di Bella. La mente del padre sembrava sospesa tra
l’ansia e l’umorismo. Credo si stesse ancora gustando l’idea di Bella
volontariamente coinvolta in una partita di baseball; ero quasi certo
di non sbagliare.
Charlie aprì la porta e i suoi occhi si concentrarono sull’altezza
delle mie spalle; si era aspettato una persona più bassa. Si
ricompose, dopodiché fece mezzo passo indietro.
Già in passato avevo sperimentato quella sensazione,
abbastanza da non aver più bisogno che i pensieri fossero
maggiormente chiari per poterla comprendere. Come a ogni umano
normale, il fatto di ritrovarsi a un passo da un vampiro avrebbe
generato una scarica di adrenalina nelle sue vene. La paura gli
avrebbe contratto lo stomaco giusto per una frazione di secondo, e
poi la razionalità avrebbe ripreso il controllo. Il suo cervello lo
avrebbe costretto a ignorare tutte le piccole discrepanze che mi
differenziavano dagli altri. I suoi occhi mi avrebbero messo
nuovamente a fuoco e non avrebbero visto nient’altro che un
adolescente.
Lo vidi giungere a quella conclusione, al fatto che ero
semplicemente un ragazzo come tutti gli altri. Sapevo che si sarebbe
domandato perché il suo corpo avesse reagito in quel modo così
strano.
Improvvisamente, nella sua mente balenò l’immagine di Carlisle,
probabilmente perché stava mettendo a confronto i nostri visi. Noi
due non ci assomigliavamo più di tanto, ma per molti poteva bastare
la somiglianza di colore del nostro incarnato. Per Charlie, però,
questo forse non era sufficiente. C’era decisamente qualcosa che
non gli tornava.
Da dietro le sue spalle, Bella assisteva nervosamente alla scena.
«Entra, Edward». Si fece indietro e con un gesto mi invitò a
seguirlo. Bella volteggiò via per liberare il passaggio.
«Grazie, ispettore».
Abbozzò una specie di sorriso, quasi involontario. «Chiamami
tranquillamente Charlie. Dammi il giaccone».
Lo sfilai velocemente. «Grazie, signore».
Charlie mi fece cenno di accomodarmi in soggiorno. «Siediti pure,
Edward».
Bella mi fece una smorfia per esprimermi chiaramente il suo
desiderio che ce ne andassimo.
Decisi di mettermi sulla poltrona. Mi sembrava un po’ troppo
sfacciato sedermi sul divano, dove avrei avuto accanto Bella...
oppure Charlie. Forse era meglio che, al primo appuntamento
ufficiale, la famiglia rimanesse unita. Bella non gradì la mia scelta.
Mentre Charlie prendeva posto, le feci un occhiolino.
«E allora, ho sentito che porti mia figlia a vedere una partita di
baseball», disse Charlie. Non riuscì a trattenere un’espressione
divertita.
«Sì, signore, quello è il programma».
Adesso scoppiò a ridere apertamente. «Be’, in bocca al lupo,
allora».
Anch’io risi con lui, per cortesia.
Bella scattò in piedi. «D’accordo. Smettetela di prendermi in giro.
Andiamo». Affrettandosi verso l’ingresso, infilò le braccia nella
giacca. Charlie e io la seguimmo. Lungo il tragitto, afferrai il mio
giaccone e lo indossai.
«Non fare tardi, Bell», si raccomandò Charlie.
«Non si preoccupi, Charlie. La porto a casa presto», dissi.
Per un attimo, mi scrutò intensamente. «Tratta bene mia figlia,
d’accordo?».
Bella si produsse in un altro lamento drammatico.
Per me risultò molto più gratificante del previsto pronunciare le
parole: «Le prometto che con me starà al sicuro, signore», con la
consapevolezza che erano vere.
Bella uscì fuori, insofferente.
Sia io che Charlie scoppiammo a ridere di nuovo, anche se
stavolta da parte mia la cosa fu più spontanea. Gli sorrisi e gli strinsi
la mano mentre uscivo di casa seguendo Bella.
Non andai molto lontano. Lei si era arrestata nella piccola
veranda con gli occhi sbarrati sulla jeep di Emmett. Charlie arrivò
alle mie spalle, per vedere che cosa avesse frenato la
determinazione della figlia a fuggire via.
Lanciò un fischio di stupore. «Allacciate le cinture», si
raccomandò in tono burbero.
Il suono della voce del padre la galvanizzò. Si precipitò fuori sotto
la pioggia battente. Mantenni una velocità umana, ma sfruttai le mie
gambe notevolmente più lunghe per anticiparla sul lato del
passeggero e aprirle la portiera. Lei ebbe un attimo di esitazione,
facendo correre lo sguardo dal sedile a terra, e poi di nuovo al
sedile. Prese un respiro profondo, dopodiché piegò le gambe come
per prepararsi a saltare. Fui io però a sollevarla sul sedile, dato che
Charlie non riusciva a vederci più di tanto attraverso i finestrini della
jeep. Lei fu colta alla sprovvista ed ebbe un sussulto.
Nel girare attorno al veicolo per raggiungere la mia portiera,
salutai ancora una volta suo padre. Lui ricambiò con un gesto
frettoloso.
All’interno, Bella stava lottando con la cintura. Stringendo una
fibbia in ciascuna delle mani, mi guardò e disse: «E questa cos’è?».
«Un’imbracatura da fuoristrada».
Aggrottò la fronte. «Mamma mia».
Dopo un attimo di ricerche, trovò una linguetta che però non
riuscì ad agganciare a nessuna delle due fibbie. Di fronte alla
perplessità sul suo viso non potei che ridacchiare, dopodiché inserii
correttamente tutti gli attacchi. Quando con le mani le sfiorai la pelle
sul collo, il cuore prese a batterle più forte della pioggia. Per un
attimo, lasciai che le mie dita scivolassero sulle sue clavicole, prima
di sistemarmi al mio posto e avviare il motore.
Mentre ci allontanavamo da casa sua, con voce un po’ allarmata
mi disse: «Questa jeep è davvero... grossa, non c’è che dire».
«È di Emmett. Immaginavo che non ti andasse di fartela tutta di
corsa», ammisi.
«Dove tenete questo coso?».
«Abbiamo trasformato in garage uno degli edifici accanto alla
casa».
Lanciò un’occhiata all’imbracatura vuota dietro la mia schiena.
«Non ti allacci la cintura?».
La guardai rimanendo in silenzio.
Aveva corrugato la fronte e iniziato ad alzare gli occhi al cielo,
quando la sua espressione si bloccò a metà.
«Tutta di corsa?». La voce le era salita di un’ottava. «Nel senso
che dovremo anche camminare?».
«Tu non correrai», le ricordai.
Ebbe un gemito. «Io starò di nuovo male».
«Se chiudi gli occhi andrà tutto bene».
Affondò gli incisivi nel labbro inferiore.
Volevo tranquillizzarla: con me, sarebbe stata al sicuro. Mi chinai
per baciarla sulla testa. Poi mi ritrassi.
Il suo odore aveva subito un effetto inatteso per via della pioggia
che aveva tra i capelli. Una vampa improvvisa mi ravvivò il fuoco in
gola, che fino a quel momento era parso perfettamente stabile.
Prima che lo potessi bloccare, dalle mie labbra uscì un lamento di
dolore.
Mi raddrizzai immediatamente, creando della distanza tra noi. Lei
mi fissò stranita. Cercai di spiegarle.
«Il tuo odore con la pioggia è buonissimo».
Con aria circospetta, mi chiese: «In senso buono o cattivo?».
Io sospirai. «In entrambi i sensi, come sempre».
La pioggia batteva forte e violenta, come grandine sul
parabrezza, e a sentirla sembrava più solida che liquida. Svoltai per
prendere il sentiero sterrato che ci avrebbe condotti all’interno della
foresta, fino al limite estremo raggiungibile con la jeep. Questo
avrebbe ridotto di qualche chilometro la nostra corsa.
Bella guardava fuori dal finestrino, apparentemente assorta nei
suoi pensieri. Mi chiedevo se la mia risposta non l’avesse infastidita.
Poi però mi accorsi che si teneva saldamente appoggiata al telaio
del finestrino, mentre con l’altra mano era aggrappata al sedile.
Decelerai, stando attento a superare il più dolcemente possibile gli
avvallamenti e le pietre.
Era come se, a parte quel dinosauro letargico del suo pick-up,
qualsiasi metodo di viaggio le risultasse sgradevole. Forse, quella
corsa accidentata l’avrebbe resa meno riluttante a viaggiare in modi
più confortevoli.
Il sentiero moriva in una piccola radura circondata da un fitto
gruppo di abeti; c’era giusto lo spazio sufficiente perché un veicolo
potesse fare inversione e tornare giù dalla montagna. Spensi il
motore e di colpo il silenzio fu quasi assoluto. Avremmo attraversato
la tempesta correndo; ormai, si era ridotta a una semplice
nebbiolina.
«Scusa, Bella», le annunciai dolente. «Ma ora ci tocca procedere
a piedi».
«Sai una cosa? Ti aspetto qui».
Sembrava fosse rimasta di nuovo senza fiato. Cercai di leggere il
suo viso per capire quanto facesse sul serio. Non riuscivo a
comprendere se fosse davvero spaventata oppure semplicemente
testarda.
«Dov’è finito il tuo coraggio?», le domandai. «Stamattina sei stata
straordinaria».
Gli angoli della sua bocca si sollevarono in un tenue sorriso.
«Non ho ancora dimenticato l’ultima volta».
Girai attorno all’auto per raggiungere il suo lato, e intanto
riflettevo su quel sorriso. Mi stava prendendo un po’ in giro?
Le aprii la portiera, ma lei non si mosse. A bloccarla doveva
essere ancora l’imbracatura. Mi misi all’opera per liberarla
velocemente.
«Ci penso io», protestò. Ma tutto era già stato sistemato prima
che potesse aggiungere: «Tu vai avanti».
Per un attimo mi fermai a valutare la sua espressione. Sembrava
un po’ nervosa, ma non spaventata. Non volevo che rinunciasse a
viaggiare con me. Anzitutto perché era il modo più semplice per
spostarsi. Ma ancor di più perché... prima di incontrare Bella, correre
era stata la mia passione. Volevo condividerla con lei.
Ma, per prima cosa, dovevo convincerla a fare un altro tentativo.
Magari, provando a mettere in atto una forma più dinamica di
incantamento.
Ripensai a tutte le interazioni avute con lei. I primi giorni avevo
spesso frainteso le sue reazioni nei miei confronti, ma adesso
riuscivo a vedere le cose sotto una luce diversa. Sapevo che, se la
fissavo con una certa intensità negli occhi, il più delle volte lei
perdeva il filo dei propri pensieri. Inoltre, quando la baciavo si
scordava di tutto il resto: del buon senso, dell’autoconservazione e
persino delle attività di sopravvivenza come la respirazione.
«Mmm...». Valutai come procedere. «A quanto pare mi toccherà
metter mano alla tua memoria».
La sollevai per tirarla fuori dalla jeep e porla delicatamente in
piedi. Lei mi guardò, un po’ nervosa, un po’ elettrizzata.
Inarcò le sopracciglia. «Mettere mano alla mia memoria?».
«Qualcosa del genere».
In passato, avevo ottenuto i risultati migliori quando mi ero
concentrato intensamente per sentire i suoi pensieri nascosti.
Lusingato dalla mia vanità, ci riprovai. La fissai profondamente nei
suoi occhi tersi e scuri. I miei si strinsero e feci uno sforzo accanito
in quel silenzio. Ovviamente, non c’era nulla da sentire.
Sbatté per quattro volte le ciglia, dopodiché la sua espressione
passò da nervosa a... attonita.
Sentivo di essere sulla strada giusta.
Mi piegai per avvicinarmi a lei e poggiai le mani al tettuccio
dell’auto, ai lati della sua testa. Lei fece un passo indietro,
stringendosi contro la portiera. Aveva forse bisogno di più spazio?
Inclinò il mento all’insù e il suo viso assunse l’angolazione perfetta
perché potessi baciarla. Probabilmente no, allora. Mi feci ancora più
vicino. Lei socchiuse gli occhi e le sue labbra si schiusero.
«Dimmi di cos’hai paura», sussurrai.
Riprese a sbattere velocemente le ciglia e inspirò ansimando –
non sapevo bene come regolarmi con queste sue frequenti apnee.
Dovevo ricordarle ogni tanto di respirare?
«Be’...». Deglutì, prendendo poi un altro respiro affannoso.
«Ecco, di sbattere contro un albero... e di morire. E poi, di avere la
nausea».
Mi venne da ridere per l’ordine con cui aveva elencato i suoi
timori, ma poi mi sforzai di assumere la stessa espressione intensa
di prima. Lentamente, mi abbassai per premere le labbra sulla
piccola fossetta alla base del suo collo. Lei trattenne il respiro e
iniziò a sussultarle il cuore.
Le mie labbra le sfiorarono la pelle all’altezza della gola. «Adesso
hai ancora paura?».
Le occorse un attimo per recuperare la voce. «Sì». Lo disse con
un sussurro, incerta. «Di sbattere contro gli alberi e di avere la
nausea».
Lentamente, tirai in su il viso seguendo con il naso e le labbra la
linea del suo collo. Sussurrai la mia domanda successiva nell’incavo
immediatamente sotto la sua mandibola. I suoi occhi si chiusero
completamente.
«E adesso?».
Il suo respiro si era fatto affannoso. «Alberi», ansimò. «Nausea
da movimento».
Sfiorandola con la bocca, risalii lungo il margine del suo viso,
quindi la baciai sulle palpebre, prima una e poi l’altra.
«Bella, non dirmi che credi davvero che potrei sbattere contro un
albero». Nella mia voce vi era un tono di gentile rimprovero.
Dopotutto, era lei quella che mi considerava bravo in tutto. Magari,
se mettevo in dubbio la fiducia che nutriva in me...
«Tu no», disse con un alito di voce. «Ma io sì».
Con calma e cautela, iniziai a baciarle la guancia fermandomi
proprio sull’angolo della bocca.
«Pensi che permetterei a un albero di farti del male?».
Esercitando la pressione più leggera che si potesse immaginare,
con il labbro superiore toccai il suo labbro inferiore.
«No», sospirò. Fu un suono delicato, quasi come un tubare
sommesso.
Le mie labbra si mossero leggere contro le sue e le sussurrai:
«Vedi. Non c’è niente di cui avere paura, no?».
«No», ammise con un sospiro tremolante.
Poi però, sebbene nelle mie intenzioni l’unica a essere travolta
avrebbe dovuto essere lei, anch’io fui completamente sopraffatto.
Sentii la mia mente andare fuori controllo. Il mio corpo aveva
assunto il comando, come quando andavo a caccia: gli impulsi e gli
appetiti avevano soverchiato la ragione. Solo che adesso il mio
desiderio non era rivolto a vecchie necessità, che avevo già avuto
tempo di dominare. Si trattava di passioni nuove, che non avevo
ancora imparato a governare.
La mia bocca urtò in modo troppo brusco contro la sua, le mie
mani portarono il suo viso eccessivamente vicino al mio. Volevo
sentire la sua pelle contro ogni parte di me. Volevo stringerla così
forte da non poterci più separare.
Questo fuoco nuovo – un fuoco privo di dolore, che devastava
solamente la mia capacità di riflettere – infuriò ancora più rovente
quando le sue braccia cinsero saldamente il mio collo e il suo corpo
si piegò sul mio. Il suo cuore e il suo polso si fusero con il mio corpo,
dal petto fino alle cosce. Ero sommerso dalle sensazioni.
Le sue labbra si schiusero sulle mie, con le mie, e fu come se
ogni parte di me non potesse pensare ad altro se non a rendere quel
bacio ancora più profondo.
Per ironia della sorte, fu proprio il mio istinto più primitivo a
salvarla.
Il suo alito caldo si levò nella mia bocca, facendo scattare i miei
riflessi involontari: affluì in me il veleno, e i muscoli si contrassero. Lo
shock fu sufficiente a ridestarmi.
Mi scostai da lei, sentendo le sue mani scivolarmi giù dal collo e
lungo il petto.
La mia mente fu investita dall’orrore.
Quanto ero arrivato vicino a farle del male? A ucciderla?
Proprio come in quel momento riuscivo a vedere davanti ai miei
occhi il suo viso in preda allo stupore, allo stesso modo ero in grado
di visualizzarlo perfettamente: un mondo senza di lei. Avevo
considerato così tante volte un simile destino, che ormai non avevo
più bisogno di immaginare la vastità di quel mondo vuoto, l’agonia
che lo pervadeva. Sapevo che sarebbe stato un mondo per me
insopportabile.
Oppure... un mondo in cui lei fosse infelice. Se, in totale
innocenza, avesse sfiorato con la lingua il margine di uno dei miei
denti, affilati come rasoi...
«Accidenti, Bella!», ansimai, riuscendo a sentire a malapena le
parole che, contorcendosi tra loro, mi uscivano di bocca. «Tu mi vuoi
morto, altroché!». Rabbrividii, provando disgusto per me stesso.
Ucciderla avrebbe di certo ucciso anche me. La sua vita era la
mia stessa vita; la mia fragile e limitata vita.
Lei si mise le mani contro le ginocchia, cercando di trattenere il
fiato.
«Tu sei indistruttibile», mormorò.
Non sbagliava poi tanto riguardo alla resistenza del mio fisico,
così diverso dal suo; ma non sapeva quanto la mia esistenza fosse
profondamente legata alla sua. E non si era resa conto di quanto,
davvero, fosse arrivata a un passo dallo svanire.
«Lo credevo anch’io, prima di conoscerti», gemetti tirando un
respiro profondo. «Adesso andiamocene da qui, prima che io
combini qualche grossa stupidaggine».
Le andai vicino e lei parve aver compreso la necessità di
sbrigarci. Non fece obiezioni quando la sollevai per caricarmela sulla
schiena. Si strinse attorno a me con le braccia e con le gambe e, per
un attimo, dovetti ancora lottare perché la mia mente potesse
mantenere il controllo sul corpo.
«Ricorda di non guardare», la avvisai.
Lei premette forte il viso contro la mia spalla.
La corsa fu breve, ma abbastanza lunga per avere il tempo di
ricompormi. A quanto pareva, quando erano in gioco i miei istinti non
c’era nulla di cui mi potessi fidare; il fatto che, riguardo a certi
aspetti, avessi fiducia nelle mie capacità di autocontrollo non voleva
dire che potessi darle per scontate in altre situazioni. Avrei dovuto
fare un passo indietro e tracciare un limite di sicurezza per
proteggerla. Avrei dovuto limitare i contatti fisici, così da non
compromettere la sua capacità di respirare e la mia di pensare. Fu
penoso dover anteporre la seconda preoccupazione alla prima.
Durante il breve tragitto, Bella rimase immobile. Sentivo il suo
respiro procedere uniforme, e i battiti del suo cuore sembravano
regolari, anche se un po’ accelerati. Lei si tenne stretta a me, anche
quando alla fine mi arrestai.
Allungai la mano dietro di me per darle un buffetto sui capelli. «Ci
siamo, Bella».
Dapprima, lei allentò la presa delle braccia prendendo un respiro
profondo, dopodiché rilassò le gambe contratte. Improvvisamente, il
calore del suo corpo era svanito.
«Ohi!», esclamò.
Mi voltai trovandola goffamente allungata a terra come una
bambola gettata via. Il turbamento nei suoi occhi mutò presto in
indignazione, come se non avesse idea di come potesse essere
finita laggiù, ma con la consapevolezza che qualcuno ne era stato
certamente il responsabile.
Non so perché trovai la cosa tanto divertente. Forse ero solo
sovreccitato. Magari era dovuto al forte sollievo che iniziavo a
provare adesso che mi ero lasciato alle spalle quel richiamo così
ravvicinato. O, semplicemente, avevo bisogno di rilassarmi.
Senza sapere perché, iniziai a ridere e non riuscivo a fermarmi.
Di fronte alla mia reazione, Bella alzò gli occhi al cielo
sospirando, quindi si tirò su in piedi. A quel punto, cercò di scrollarsi
il fango dalla giacca con un’aria talmente sofferta che non potei fare
a meno di ridere ancora più forte.
Mi guardò di sbieco, dopodiché iniziò a incamminarsi.
Soffocai la mia ilarità e le corsi appresso, afferrandola
delicatamente per la vita e provando a ricomporre il mio tono di voce
nel chiederle: «Dove vai, Bella?».
Non mi degnò di uno sguardo. «A vedere una partita di baseball»,
rispose. «Non mi sembra che tu abbia più tanta voglia di giocare, ma
sono certa che gli altri si divertiranno anche senza di te».
«Stai andando dalla parte sbagliata», la informai.
Inspirò dal naso, sollevò il mento con un’angolazione ancora più
ostinata, quindi si voltò di centottanta gradi e si mise in marcia nella
direzione opposta. La afferrai di nuovo. Aveva nuovamente
imboccato la via sbagliata.
«Non arrabbiarti», la pregai. «È stato più forte di me. Avresti
dovuto vederti in faccia». Nel farlo, mi sfuggì un’altra risata; cercai
quindi di reprimere quella successiva.
Alla fine, alzò lo sguardo incrociando il mio, con gli occhi che le
scintillavano di rabbia.
«Ah, l’unico a cui è permesso di arrabbiarsi sei tu?».
Mi ricordai di quanto poco amasse che si usassero due pesi e
due misure.
«Non ero arrabbiato con te», le assicurai.
La sua voce suonò quasi acida quando, citandomi, disse: «“Bella,
tu mi vuoi morto”?!».
Il mio buonumore si incupì, ma senza eclissarsi del tutto. In preda
a quelle emozioni selvagge avevo espresso la verità più di quanto
avessi voluto. «Quello è un semplice dato di fatto».
Si contorse nella mia presa, cercando di svincolarsi. Le misi una
mano sulla fronte, così che non mi nascondesse il suo viso.
Prima che potessi aggiungere altro, insistette a dire: «Eri
arrabbiato».
«Sì», ammisi.
«Ma se hai appena detto...».
«Non ero arrabbiato con te». Adesso non c’era più nulla di
divertente. Aveva incolpato se stessa. «Non capisci, Bella? Non
capisci?».
Colta dalla confusione e frustrazione, aggrottò la fronte. «Che
cosa?».
«Non sono mai arrabbiato con te», le spiegai. «Come potrei
esserlo? Sei sempre così coraggiosa, fiduciosa... calorosa».
Indulgente, gentile, sincera, buona... essenziale, cruciale,
vivificante... Sarei potuto andare avanti ancora a lungo, ma lei mi
interruppe.
«E allora, perché?», sospirò.
Immaginai che il pensiero da lei lasciato a metà si dovesse
concludere con qualcosa tipo: Perché mi hai aggredita in maniera
così crudele?
Le presi il viso tra le mani, cercando di comunicare tanto con gli
occhi quanto con le parole, provando a infondere maggiore enfasi in
entrambi.
«Ciò che mi fa infuriare», le dissi, «è l’impossibilità di proteggerti
dai rischi. La mia stessa esistenza è un rischio, per te. A volte mi
odio dal profondo. Dovrei essere più forte, capace di...».
Lei mi colse di sorpresa quando, con le dita, mi toccò le labbra
perché non continuassi a dire quel che volevo esprimere.
«No», sussurrò.
Dal suo volto era svanita ogni traccia di confusione, lasciando
unicamente spazio alla gentilezza.
Sollevai la sua mano dalla mia bocca per poggiarmela sulla
guancia.
«Ti amo», dissi. «È una giustificazione banale per quanto faccio,
ma sincera».
Lei mi fissò con tale calore, tale... adorazione. Una soltanto
sembrava essere la risposta a un simile sguardo.
Avrebbe dovuto essere una replica misurata. Non c’era più posto
per l’impulsività.
«Adesso, per favore, cerca di comportarti bene», le mormorai,
dicendolo più a me stesso che a lei.
Con gentilezza, premetti per un breve istante le mie labbra sulle
sue.
Lei rimase del tutto immobile, trattenendo persino il respiro. Mi
raddrizzai subito, attendendo che lei riprendesse a respirare.
Emise un sospiro.
«Hai promesso all’ispettore Swan che mi avresti portata a casa
presto, ricordi? È meglio che ci muoviamo».
Eccola ancora una volta ad aiutare me. Desiderai che la mia
debolezza non la costringesse a dover essere così forte.
«Sissignora».
La liberai dalla stretta, prendendole una mano per guidarla nella
direzione giusta. Ci restavano da percorrere solamente una decina
di metri prima di superare il limite del bosco e accedere a un’enorme
radura che la mia famiglia chiamava semplicemente “lo spiazzo”. Da
molto tempo ormai, gli alberi erano stati spazzati via da un ghiacciaio
e a ricoprire il letto di roccia sottostante era rimasto solo un sottile
strato di terra. Adesso le uniche cose che vi crescevano sopra erano
felci ed erbe selvatiche. Era un posto a noi congeniale per giocare.
Carlisle stava sistemando il diamante, mentre Alice e Jasper si
stavano esercitando su alcuni trucchetti che lei voleva perfezionare:
se Jasper decideva in anticipo di correre in una certa direzione, Alice
era in grado di prevedere la sua decisione e di fare un lancio verso
la sua nuova posizione, prima ancora che Jasper avesse iniziato a
muoversi. Questo non offriva loro un vantaggio poi così notevole, ma
considerato quanto eravamo in competizione tra noi, tutto in pratica
poteva renderli più agguerriti.
Esme stava aspettando me e Bella, e accanto a lei erano seduti
anche Emmett e Rosalie. Quando fummo in vista, notai che Rosalie
aveva ritirato la mano da quella di Esme, per poi voltarci le spalle e
andarsene via.
Be’, non aveva promesso di essere gentile. Sapevo che per lei
era stata già una grande concessione farsi trovare lì.
È davvero assurdo. Esme non la pensava come me. Per tutto il
pomeriggio aveva cercato, invano, di far cambiare umore a Rose e
ormai era esasperata.
Quando inizieremo a giocare si sistemerà tutto, stava pensando
Emmett. Come me, anche lui si sentiva sollevato dal fatto che Rose
fosse venuta.
Esme ed Emmett ci vennero incontro per accoglierci. Io gli lanciai
un’occhiata di avvertimento e lui mi sorrise. Sta’ tranquillo, te l’ho
promesso.
Osservò con interesse Bella. Una cosa era ritrovarsi in mezzo
agli umani quando noi visitavamo il loro mondo, ma che uno di loro
facesse visita al nostro era un evento completamente diverso. La
cosa era eccitante. Come pure il fatto che adesso un umano fosse
diventato, per come la vedeva lui, suppergiù uno di noi. Per lui, ogni
nuova aggiunta alla famiglia era stata un’esperienza positiva. Ed era
ansioso di includervi anche Bella.
Io mi sarei anche potuto unire al suo entusiasmo, ma al di là della
sua attrazione per le novità, notai che anche lui non dubitava di
come Alice vedesse le cose.
Sarei stato paziente. Con il tempo, tutti loro avrebbero compreso.
«Veniva da te il rumore che abbiamo sentito, Edward?», chiese
Esme. Parlò con tono più forte del necessario, così che Bella non
venisse esclusa.
«Sembrava un orso che tossiva», aggiunse Emmett.
Bella sorrise timidamente. «Era lui».
Emmett le fece un gran sorriso, felice che lei avesse voglia di
stare alle sue battute.
«Senza volerlo, Bella mi ha fatto ridere», spiegai loro.
Alice si precipitò a razzo verso di noi. Immaginai di non dovermi
preoccupare del fatto che fosse così liberamente se stessa. Era in
grado di vedere meglio di quanto potessi intuire io quel che avrebbe
spaventato Bella e ciò che non lo avrebbe fatto.
Si fermò giusto a un passo di distanza.
«È il momento», annunciò Alice in tono solenne, assumendo
un’aria da oracolo in onore di Bella. Un tuono proruppe infrangendo
la quiete nell’esatto momento da lei previsto. Io scossi la testa.
«Inquietante, eh?», mormorò Emmett a Bella, strizzandole un
occhio quando si accorse del suo stupore per il fatto che si stesse
rivolgendo proprio a lei. Con un minino di esitazione, Bella gli fece
un gran sorriso.
Lui mi lanciò un’occhiata. Mi piace la ragazza.
«Andiamo». Sollecitò Alice prendendo Emmett per mano. Sapeva
precisamente quanto tempo avremmo avuto a disposizione per
giocare senza freni e non voleva sprecare nemmeno un minuto.
Emmett era impaziente quanto lei di iniziare. Insieme, corsero verso
Carlisle.
Posso restare un momento con lei da sola? Vorrei che si sentisse
a suo agio con me, mi pregò Esme. Riuscivo a sentire quanto ci
tenesse che Bella la vedesse come una persona e un’amica, e non
come qualcuno da temere. Annuii, quindi mi rivolsi a Bella.
«Sei pronta per una bella partita?», le sorrisi sapendo che, come
era stato facile dedurre dai commenti di Charlie, per lei quella
sarebbe stata una serata davvero anomala. Quantomeno, la mia
speranza era di offrirle un po’ di svago.
«Forza ragazzi!».
Risi al suo entusiasmo forzato, dopodiché concessi a Esme lo
spazio che desiderava e seguii Emmett e Alice.
Nel raggiungere gli altri, rimasi in ascolto della conversazione tra
Esme e Bella. Non c’era nulla che Esme volesse comunicarle o
sapere da lei – aveva solo voglia di interagire con Bella –, ma la mia
attenzione era stata comunque catturata. Questa infatti si divideva
tra il seguire la conversazione tra loro due e quella che avveniva
intorno a me.
«Io e Edward abbiamo già scelto le squadre», stava dicendo
Rosalie. «Jasper ed Emmett stanno con me».
Alice non ne fu sorpresa. A Emmett piaceva essere tra i favoriti.
Jasper invece era meno entusiasta; preferiva giocare con Alice
anziché contro di lei. Quanto a Carlisle, anche lui era contento come
me che Rosalie partecipasse alla partita.
Esme si stava lamentando della nostra scarsa sportività,
ovviamente per preparare Bella al peggio.
Carlisle tirò fuori una monetina «Testa o croce, Rose?».
«Lei ha già scelto le squadre», obiettai io.
Carlisle mi lanciò un’occhiata e poi guardò direttamente Alice, la
quale aveva già visto che sarebbe uscito testa.
«Rose», disse di nuovo lui, lanciando in aria la monetina.
«Testa».
Io sospirai e lei sogghignò. Carlisle afferrò con cura la monetina e
se la pose sull’avambraccio.
«Testa», confermò.
«Tocca a noi battere», disse Rosalie.
Carlisle assentì col capo, dopodiché io, lui e Alice andammo a
occupare le nostre posizioni in campo.
Adesso Esme stava raccontando a Bella del suo primo figlio e io
fui sorpreso di come la loro conversazione avesse preso subito una
piega così intima. Quella era la ferita più dolorosa per Esme, ma nel
parlarne aveva modi gentili e composti. Mi chiesi perché avesse
deciso di condividere proprio quel ricordo.
O magari Esme non lo aveva affatto deciso. C’era qualcosa nel
modo in cui Bella ti dava ascolto... Non ero stato anch’io ansioso di
svelarle ogni mio oscuro segreto? E il giovane Jacob Black non
aveva tradito un antico patto semplicemente per compiacerla?
Probabilmente, lei produceva questo effetto su tutti.
Andai in fondo all’estremità sinistra del campo. Da lì riuscivo
ancora a sentire perfettamente la voce di Bella.
«Perciò non è un problema che io sia... così... sbagliata?», le
chiese Bella.
Povera figliola, pensò Esme. Tutta questa situazione deve essere
davvero sconvolgente per lei.
«No», rispose a Bella e potei sentire che stava dicendo la verità.
Esme non desiderava altro che la mia felicità. «Tu sei ciò che vuole.
In un modo o nell’altro, funzionerà».
Ma anche lei, come Emmett, non riusciva a vedere che un’unica
conclusione. Fui grato che Bella si trovasse troppo lontano per
riuscire a scrutare chiaramente il mio viso.
Alice attese finché Esme non ebbe raggiunto il posto dell’arbitro,
con Bella al suo fianco, dopodiché fece un passo avanti sul monte di
lancio improvvisato.
«D’accordo, prima battuta», gridò Esme.
Alice scagliò il primo lancio. Emmett, in preda a una smania
eccessiva, diede un colpo di mazza talmente esagerato da creare
uno spostamento d’aria vicinissimo alla palla, tanto forte che la
pressione fece deviare la traiettoria rettilinea del lancio. Jasper
afferrò la palla al volo, dopodiché la rilanciò ad Alice.
«Era uno strike?», sentii Bella sussurrare a Esme.
«Se il battitore non la colpisce, è strike», le rispose quest’ultima.
Alice scagliò un altro lancio dalla sua pedana. Emmett adeguò il
tiro. Io mi misi a correre ancor prima di sentire la detonazione
dell’urto tra la mazza e la palla.
Alice aveva già visto che direzione avrebbe preso quest’ultima e
che io sarei stato abbastanza veloce. Questo toglieva un po’ di
divertimento al gioco – detto sinceramente, Rose avrebbe dovuto
riflettere meglio prima di lasciare che io e Alice giocassimo nella
stessa squadra –, ma quella sera ero intenzionato a vincere la
partita. Corsi indietro con la palla e mentre riapparivo all’estremità
della radura sentii Esme annunciare che Emmett era eliminato.
«Emmett è il battitore più forte, ma Edward è il corridore più
veloce», spiegò Esme a Bella.
Feci loro un ampio sorriso, felice di vedere che Bella si stava
divertendo. I suoi occhi si erano fatti grandi, come pure il suo sorriso.
Sebbene ora toccasse a Rosalie fare da ricevitore, fu Emmett a
prendere il posto di Jasper dietro la casa base, mentre quest’ultimo
afferrò la mazza. La cosa fu irritante; di certo, trovarsi a tre metri di
distanza da Bella non era poi un fardello così gravoso. Cominciai a
pentirmi di aver convinto mia sorella a partecipare.
Jasper non aveva intenzione di saggiare la velocità della mia
corsa; sapeva bene di non poter rilanciare la palla così lontano come
Emmett. Al contrario, colpì il lancio di Alice con l’estremità della
mazza, deviando la palla abbastanza vicino a Carlisle da
costringerlo a doverla rincorrere. Carlisle si precipitò a destra per
recuperarla, quindi rincorse Jasper fino alla prima base. Gli fu quasi
addosso, ma col piede sinistro Jasper riuscì a toccare la base un
attimo prima che Carlisle entrasse in contatto con lui.
«Salvo», annunciò Esme.
Bella stava in punta di piedi, con le mani che le coprivano le
orecchie e la solita V ben visibile tra le sopracciglia, ma non appena
Carlisle e Jasper si rialzarono lei si rasserenò. Guardò nella mia
direzione e mi arrivò il suo sorriso.
Quando toccò a Rosalie andare alla battuta, la sua tensione era
palpabile. Sebbene Bella fosse al di fuori del suo campo visivo e di
fronte avesse Alice sul monte di lancio, le spalle di Rosalie
sembrarono curvarsi in avanti, come per allontanarsi da Bella. La
sua postura era rigida e aveva un’espressione dura, piena di
disgusto.
La fulminai con un’occhiata di biasimo e lei inarcò il labbro.
Sei stato tu a volermi qui.
Rose fu talmente distratta che il primo lancio di Alice le passò
accanto, finendo in mano a Emmett. Aggrottò intensamente la fronte
cercando di concentrarsi.
Alice lanciò di nuovo la palla verso di lei; stavolta Rose riuscì a
colpirla scagliandola oltre la terza base. Io le corsi appresso, ma
Alice l’aveva già afferrata. Anziché eliminare Rose, cosa per cui
c’era ancora tempo, Alice si voltò e scheggiò via verso la casa base.
Jasper si trovava già a metà tra la terza base e il piatto di casa.
Aveva abbassato la spalla come se fosse intenzionato a buttare
Alice fuori dal piatto come aveva fatto prima con Carlisle, ma Alice
non attese che lui facesse la sua carica. Eseguì invece una mossa
astuta, a metà tra una rotazione e una scivolata, sfuggendogli via
per poi eliminarlo toccandolo da dietro. Esme confermò la sua
eliminazione, ma Rosalie aveva approfittato di quel diversivo per
raggiungere la seconda base.
Riuscii a intuire la loro mossa successiva prima ancora che
Emmett scambiasse di nuovo il posto con Jasper. Emmett avrebbe
infatti battuto una volata di sacrificio per consentire a Rosalie di
arrivare fino al piatto di casa. Anche Alice lo aveva visto, ma a
quanto pareva ce l’avrebbero fatta. Indietreggiai fino alla linea degli
alberi, ma se fossi corso nel punto in cui Alice aveva visto finire la
palla prima che questa fosse stata effettivamente colpita da Emmett,
Esme ci avrebbe penalizzati per aver barato. Contrassi i muscoli,
pronto a rincorrere non tanto la palla, quanto la visione di Alice.
Ben sapendo che la gravità fosse più lenta di me, Emmett ribatté
la palla mandandola più in alto che lontano. La sua mossa ebbe
successo e io digrignai i denti mentre Rosalie toccava la casa base.
A ogni modo, Bella era contentissima. Batteva le mani con un
gran sorriso, davvero impressionata dal nostro gioco. Rosalie non
badò all’applauso spontaneo di Bella – non volle neppure guardare
nella sua direzione, e alzò invece gli occhi al cielo dopo averli rivolti
a me –, ma fui sorpreso nel sentire che lei si era giusto un minimo...
ammorbidita. Considerai che la cosa non era poi così straordinaria;
ero infatti consapevole di quanto Rosalie amasse essere ammirata.
Forse avrei dovuto riferirle alcuni dei complimenti che Bella aveva
rivolto alla sua bellezza... ma poi magari non mi avrebbe creduto. Se
solo avesse voluto guardare Bella, in quel momento avrebbe visto
l’indubbia meraviglia che lei stava provando. Questo avrebbe
probabilmente addolcito ancora di più Rose, ma lei si rifiutava di
guardarla.
Malgrado tutto, la cosa mi infondeva speranza. Con un po’ di
tempo e qualche complimento... insieme saremmo riusciti a
conquistare Rosalie.
Anche Emmett si stava godendo lo stupore misto a eccitazione di
Bella. Lei gli piaceva già più di quanto mi sarei aspettato e, con un
pubblico così animato, lui trovava il gioco ancora più divertente.
Emmett infatti amava il divertimento tanto quanto Rose l’essere
ammirata.
Carlisle, Alice e io ci avvicinammo alla casa base mentre la
squadra di Rosalie si distribuiva in campo. Bella mi accolse con due
occhi enormi e un ampio sorriso.
«Che te ne pare?», le domandai.
Scoppiò a ridere. «Di sicuro non riuscirò più a sopportare la
vecchia e noiosa Major League».
«Sembra quasi che tu ne fossi fanatica, prima».
Dopodiché strinse le labbra. «Sono un po’ delusa».
«Perché?».
«Be’, sarebbe carino se mi mostrassi almeno una cosa che non
sei capace di fare meglio di chiunque altro al mondo».
Puah.
Rosalie non fu l’unica a commentare con un gemito di
disapprovazione, ma il suo fu quello più forte.
Abbiamo finito di fare gli occhietti dolci?, chiese Rosalie. Il
temporale non durerà in eterno.
«Eccomi», dissi io. Recuperai la mazza da dove l’aveva lanciata
Emmett e mi diressi verso il piatto.
Carlisle era accovacciato dietro di me. Alice mi stava mostrando
la direzione del lancio di Jasper.
Colpii la palla smorzandola.
«Che codardo», ringhiò Emmett rincorrendo la palla che rimbalzò
in maniera imprevedibile. Rose mi stava aspettando in seconda
base, ma ebbi tutto il tempo per raggiungerla. Lei mi guardò in
cagnesco, mentre io le feci un sorriso a trentadue denti.
Carlisle si avvicinò al piatto e si piegò in posizione per battere.
Potevo sentire quali fossero le sue intenzioni, come pure la
previsione di Alice che quello sarebbe stato un colpo vincente.
Anche io andai al mio posto, con tutti i muscoli pronti a scattare.
Jasper lanciò una palla curva veloce, ma Carlisle riuscì ad angolare
perfettamente la sua battuta.
Avrei voluto avvisare Bella di coprirsi di nuovo le orecchie.
Il suono che si produsse quando Carlisle colpì la palla non era di
quelli che si potessero attribuire in maniera convincente a un tuono.
Era una fortuna che gli umani non avessero alcun sospetto, che non
volessero credere in nulla di innaturale.
Stavo superando tutte le basi, mentre nell’eco di quel boato
cercavo di ascoltare il suono prodotto dalla corsa di Rosalie nella
foresta. Se si fosse mossa abbastanza velocemente... ma no, Alice
vedeva che la palla sarebbe caduta a terra.
Riuscii a toccare la casa base prima che la palla arrivasse a metà
della sua destinazione finale. Carlisle stava già facendo il giro della
prima base. Bella sbatté velocemente le palpebre quando mi arrestai
a pochi passi da lei, come se non fosse stata del tutto in grado di
seguire la mia corsa.
«Jasper!», chiamò Rosalie dispersa da qualche parte nel folto
della foresta. Carlisle volò oltre la terza base. Il suono della palla che
sfrecciava nella nostra direzione sibilò tra gli alberi. Jasper si
precipitò verso il piatto, ma Carlisle scivolò sotto di lui un attimo
prima che la palla andasse a cozzare contro il palmo di Jasper.
Esme gridò: «Salvo».
«Magnifico», Alice si congratulò con noi, sollevando la mano per
battere il cinque. Entrambi le allungammo la nostra.
Tutti sentivamo Rosalie digrignare i denti.
Mi andai a mettere accanto a Bella, intrecciando le mie dita con le
sue. Lei sorrise, con le guance e il naso arrossati per il freddo, ma
con gli occhi che brillavano di eccitazione.
Nel prendere la mazza, Alice si era messa a esaminare un
centinaio di modi diversi in cui ribattere la palla, senza tuttavia
riuscire a trovarne uno che potesse superare Jasper ed Emmett.
Quest’ultimo si era piazzato in terza base, perché sapeva bene che
Alice non aveva forza a sufficienza per sorpassare la difesa di
Rosalie.
Jasper lanciò un tiro veloce e Alice lo ribatté verso la parte destra
del campo. Jasper rincorse la palla fino alla prima base, l’afferrò e
segnò la base prima che Alice fosse riuscita a raggiungerla.
«Eliminata».
Diedi una stretta alle dita di Bella, dopodiché tornai a mettermi in
posizione.
Stavolta cercai di fare una battuta che superasse Rosalie, ma
Jasper mi lanciò un tiro lento, privandomi dello slancio di cui avevo
bisogno. Colpii la palla verso terra, ma feci solo in tempo a
raggiungere la prima base, perché a quel punto venni bloccato da
Rosalie.
Carlisle colpì la palla verso il basso, schiacciandola contro il
terreno roccioso con la speranza che quella rimbalzasse abbastanza
in alto da consentirmi di fare il giro delle basi, ma Jasper saltò e la
rimise in gioco troppo presto. Emmett mi aveva chiuso in terza base.
Avvicinandosi al piatto, Alice passò al vaglio tutte le possibilità,
ma le previsioni non erano incoraggianti. A ogni modo, cercò di fare
del suo meglio, mandando la palla più forte che poté lungo la linea di
foul a destra. Jasper però non abboccò, e non cercò neppure di
eliminarla prima di rilanciare la palla a Emmett, il quale stava
piantato come un muro di fronte alla casa base. Le opzioni a mia
disposizione non erano molte. Non c’era modo che lo superassi ma,
se tutta la nostra squadra fosse rimasta bloccata nelle basi, questo –
stando alle regole adottate dalla nostra famiglia – avrebbe decretato
automaticamente la conclusione dell’inning.
Mi lanciai alla carica contro Emmett, il quale sembrava entusiasta
della mia scelta, ma prima ancora che potessi anche solo saltellargli
attorno nella mia corsa verso il piatto, Rosalie aveva già iniziato a
protestare.
«Esme... sta cercando di farsi eliminare apposta». Anche questo
andava contro le regole della nostra famiglia.
Ovviamente, Emmett mi eliminò, non c’era modo di evitarlo.
«Imbroglione», mi sibilò contro.
Esme mi lanciò uno sguardo di rimprovero. «Rose ha ragione.
Entra in campo».
Scrollai le spalle e mi diressi verso il campo esterno.
Stavolta fu la squadra di Rose ad avere la meglio. Sia lei che
Jasper fecero il giro delle basi grazie a un colpo da maestro di
Emmett, anche se ero quasi sicuro che lei avesse barato. La
traiettoria della palla si era deviata in volo, quasi come se qualcosa
di più piccolo l’avesse messa fuori rotta; ero però troppo in mezzo
agli alberi per riuscire a distinguere da dove fosse arrivato quel
proiettile. Ebbi almeno il tempo di buttare fuori Emmett. Poi Rosalie
eseguì una volata lunga bassissima; Alice riuscì a saltare per
prenderla. Jasper conquistò un’altra base, ma io fui in grado di
fermare la battuta tesa di Emmett prima che questa raggiungesse la
foresta, per cui Jasper rimase bloccato tra me e Carlisle nella sua
corsa verso la terza base.
Man mano che la partita procedeva, io controllavo che non vi
fossero segnali di noia da parte di Bella. Ogni volta che la guardavo,
però, lei mi sembrava completamente rapita dal gioco. Perlomeno, si
trattava di una cosa per lei del tutto inedita. Ero ben consapevole di
quanto poco assomigliassimo a degli umani che giocavano a
baseball. Tenevo d’occhio le sue espressioni, in attesa che svanisse
l’effetto novità. Il temporale sarebbe andato avanti ancora per ore,
ed Emmett e Jasper non volevano sprecarne neanche un minuto.
Tuttavia, se Bella si fosse sentita stanca o troppo infreddolita, mi
sarei congedato dagli altri. Interiormente, ebbi un sussulto al
pensiero di come avrebbe reagito Rosalie. Ah, pazienza, se ne
sarebbe fatta una ragione.
Con il variare del punteggio i nostri modi erano andati sempre
meno per il sottile e, malgrado Esme l’avesse avvertita, mi
domandavo che cosa avrebbe pensato di noi Bella. E invece,
quando Rosalie urlò che ero un «miserabile imbroglione incallito»
(perché avevo visto esattamente su quale albero arrampicarmi per
afferrare la sua palla alta) e poi un «suino lebbroso» (quando la
eliminai in terza base), Bella si era messa a ridere insieme a Esme.
Durante il gioco non era solamente Rosalie a lanciare insulti, ma
stavolta Carlisle non era l’unico a non farlo. Anch’io mi stavo
comportando al meglio, anche se vedevo che questo irritava Rosalie
molto di più che se le avessi risposto per le rime.
Insomma, stavano tutti bene.
Eravamo arrivati all’undicesimo inning – i nostri inning non
duravano mai più di qualche minuto; anziché fermarci una volta
raggiunto un determinato punteggio, avremmo smesso di giocare
semplicemente quando fosse finito il temporale – e toccava a
Carlisle battere per primo. Alice riuscì a presagire un altro colpo
clamoroso in arrivo e io desiderai che uno di noi fosse sulla base.
Come previsto, Emmett – che aveva preso posto sul monte del
lanciatore – non poté resistere alla tentazione di scagliare un lancio
veloce che superasse Carlisle, e ciò non fece altro che offrire a
quest’ultimo tutta la potenza di cui aveva bisogno per colpire la palla
così forte da farla schizzare lontanissimo, dove Rosalie non aveva
nessuna speranza di prenderla. Il boato si propagò per tutte le
montagne, più simile a un’esplosione che a un tuono.
Mentre risuonava ancora l’eco di quel fragore, un altro suono
catturò la mia attenzione.
«Oh!», esclamò Alice come se qualcuno le avesse dato un
pugno. Le immagini si stavano riversando nella sua testa come un
torrente. Una valanga di nuovi futuri prese a turbinare in maniera
incomprensibile, apparentemente scollegati l’uno dall’altro. Alcuni
erano di una chiarezza abbacinante, mentre altri talmente oscuri da
non riuscire a vederci nulla. Un migliaio di scenari differenti, la
maggior parte dei quali non mi erano familiari.
Non era rimasto nulla del futuro in cui lei era stata perfettamente
fiduciosa fino a quel momento. A prescindere dalla natura del
cambiamento intervenuto, questo era abbastanza grande da aver
mutato ogni singolo aspetto del nostro destino. Sia io che Alice
fummo pervasi da un brivido di panico.
Lei si concentrò. Agendo con rapidità, riuscì a ricostruire quelle
nuove visioni dal principio. Le immagini che si susseguivano
irradiavano tutte a partire da un momento esatto molto vicino al
presente, quasi nell’immediato.
Tre volti sconosciuti. Tre vampiri che vedeva correre verso di noi.
Mi precipitai verso Bella, valutando se fuggire subito via con lei.
Ma c’erano alcune previsioni del futuro più prossimo in cui noi due
eravamo soli, in inferiorità numerica...
«Alice?», chiese Esme.
Jasper corse a razzo accanto ad Alice, quasi con la stessa
velocità con cui io avevo raggiunto Bella.
«Non ho visto», sussurrò Alice. «Non sono riuscita a
distinguere».
Adesso era passata a confrontare le visioni. Quelle vecchie, in cui
l’indomani sera i tre forestieri si sarebbero avvicinati alla casa.
Quello era un futuro a cui ero preparato; in quella visione io e Bella
eravamo lontani.
Qualcosa aveva fatto cambiare i loro piani. Alice si mosse in
avanti, giusto di un paio di minuti, lungo quella nuova linea
temporale. Una possibilità prevedeva un incontro amichevole, delle
presentazioni e una richiesta. Alice si rese conto di quel che era
accaduto. La mia attenzione era però concentrata sul fatto che in
quella visione era presente anche Bella, in silenzio sullo sfondo.
A quel punto ci eravamo tutti riuniti in un cerchio stretto, con Alice
al centro.
Carlisle si piegò verso di lei, posandole una mano sul braccio.
«Cos’è, Alice?».
Alice scosse velocemente la testa, come se stesse cercando di
imporre un ordine alle immagini nella sua mente, così che
acquistassero un senso. «Si spostano molto più velocemente di
quanto pensassi. Ho capito soltanto ora di avere sbagliato
prospettiva».
«Cos’è cambiato?», Jasper stava ormai da così tanto tempo con
Alice che, a parte me, aveva compreso meglio di chiunque altro in
che modo funzionasse il suo potere.
«Ci hanno sentiti giocare», ci comunicò Alice; nelle varianti
amichevoli delle sue visioni, i forestieri ci avrebbero informati di
questo. «E hanno fatto una deviazione».
Tutti guardammo Bella.
«Tra quanto?», chiese Carlisle voltandosi verso di me.
Per me non era facile mettermi in ascolto per comprendere la
distanza.
Fu propizio il fatto che, essendo ormai tardi e in una serata di
tempesta come quella, le montagne attorno a noi fossero pressoché
prive di umani. E ancor più di aiuto fu che nella zona non ci fossero
altri vampiri. Le loro menti avevano infatti pensieri leggermente più
risonanti. Ero perciò in grado di udirle da una distanza maggiore e di
intercettarle molto più facilmente. Riuscii dunque a localizzarli –
anche grazie ai punti di riferimento che avevo visto nella visione di
Alice –, ma potei afferrarne solo i pensieri predominanti.
«Meno di cinque minuti», gli dissi io. «Stanno correndo... vogliono
giocare».
In un lampo, gli occhi di Carlisle tornarono su Bella. Devi portarla
via di qui.
«Puoi farcela?».
Alice si concentrò su una serie di possibilità a mia disposizione.
Cercare di fuggire via, con Bella sulle spalle.
Bella non mi avrebbe rallentato più di tanto – a ostacolarmi nei
movimenti non sarebbe stato il fardello del suo peso, quanto
piuttosto la necessità di muovermi con attenzione per non farle del
male –, ma non sarei stato abbastanza veloce. Questo filone si
ricollegava all’altro futuro che avevo già visto: noi due accerchiati e
in inferiorità numerica...
Quei forestieri non erano a tal punto eccitati all’idea di giocare a
baseball da commettere imprudenze. Alice vide che sarebbero
arrivati nella radura da tre direzioni diverse, in allerta, per poi riunirsi
e formare un fronte unico. Se uno di loro mi avesse sentito fuggire, si
sarebbe messo a indagare.
Scossi il capo. «No, non portandola...».
I pensieri di Carlisle si allarmarono.
«Inoltre», sibilai, «la cosa peggiore che ci possa capitare è che
sentano la scia e inizino a cacciare».
«Quanti?», chiese Emmett.
«Tre», ringhiò Alice.
Emmett sbuffò. Quel suono fu talmente in contrasto con la
tensione di quel momento che io riuscii solo a lanciargli uno sguardo
assente.
«Tre!», esclamò in tono di sberleffo. «Allora lascia che arrivino».
Carlisle stava valutando tra le varie opzioni, ma io vedevo già che
solo una era quella praticabile. Emmett aveva ragione: noi eravamo
talmente in tanti che per i forestieri sarebbe stato un suicidio
ingaggiare una lotta.
«Continuiamo a giocare», acconsentì Carlisle, sebbene non mi
occorresse poter leggere il pensiero per vedere quanto poco lo
soddisfacesse quella decisione. «Alice ha detto che sono soltanto
curiosi».
Adesso che era stata presa una decisione concreta, Alice iniziò a
vagliare tutte le possibilità di un incontro lì nella radura. La maggior
parte di esse sembravano pacifiche, sebbene tutte originassero da
un momento di tensione iniziale. Nello spettro degli esiti possibili
figuravano un paio di anomalie, in cui vi era un qualcosa che
avrebbe condotto a una situazione di stallo, ma queste immagini
risultavano meno chiare da decifrare. Alice non fu in grado di
comprendere che cosa avrebbe innescato il conflitto – una decisione
che doveva essere ancora presa. Non ebbe alcuna visione stabile
che si concludesse con uno scontro fisico su quel prato.
Tuttavia, erano tante le cose che non riusciva a interpretare. Vidi
nuovamente la luce accecante del sole, e nessuno di noi poteva
comprendere dove stesse guardando.
Sapevo che quella di Carlisle era l’unica decisione possibile, ma
dentro di me, nel profondo, mi sentivo male. Come avevo potuto
lasciare che accadesse?
«Edward», sospirò Esme. Sono assetati? Sono a caccia adesso?
La sete non era presente nei loro pensieri, e nella visione di Alice,
che ogni secondo diveniva più chiara, i loro occhi erano rossi per la
sazietà.
Le risposi scuotendo la testa.
Questo è già qualcosa. Era sconvolta quasi quanto me. Al pari
dei miei, anche i suoi pensieri ruotavano attorno all’idea che Bella
fosse in pericolo. Per quanto Esme non fosse una combattente,
sentivo la furia che questa situazione produceva in lei. Avrebbe
difeso Bella come se fosse stata sua figlia.
«Ricevi tu, Esme», fu la richiesta che le avanzai. «Io mi fermo
qui».
Esme si mise rapidamente al mio posto, ma la sua attenzione
rimase concentrata su Bella.
Nessuno di loro era ansioso di spingersi troppo oltre nel campo.
Indugiavano nelle vicinanze, con le orecchie tese verso la foresta.
Così come Esme, anche Alice non aveva intenzione di allontanarsi
da Bella. I suoi pensieri protettivi non erano esattamente uguali a
quelli di Esme – non così materni –, ma potevo vedere che anche lei
era determinata a difendere Bella a tutti i costi.
Malgrado il senso di malessere che mi stava consumando,
provavo un moto di gratitudine per il loro impegno.
«Sciogliti i capelli», sussurrai a Bella.
Non era un granché come travestimento, ma il tratto che più la
tradiva come umana – a parte il suo odore e il battito cardiaco – era
la pelle. Dovevamo nasconderla il più possibile...
Si tolse immediatamente l’elastico dalla coda e scosse la testa,
affinché i capelli le ricadessero sul viso. Naturalmente, si rendeva
conto della necessità di doversi nascondere.
«Gli altri stanno per arrivare», dichiarò lei. La sua voce era bassa,
ma uniforme.
«Sì», dissi io. «Rimani immobile, stai zitta e non allontanarti da
me, per favore».
Le sistemai alcuni riccioli, in modo che le camuffassero meglio il
viso.
«Non servirà», mormorò Alice. «Il suo odore si sente fin dall’altro
lato del campo».
«Lo so», scattai.
«Cosa ti ha chiesto Esme?», chiese Bella con un filo di voce.
Considerai se dirle una bugia. Doveva già essere abbastanza
terrorizzata. Ma le dissi comunque la verità. «Se sono assetati».
Il suo cuore ebbe un’aritmia, dopodiché prese a battere più
veloce di prima.
Avevo la vaga consapevolezza che gli altri avessero ripreso a far
finta di giocare, ma la mia mente era talmente concentrata su quello
che stava per accadere che non vedevo nulla della loro
messinscena.
Alice stava osservando le sue visioni concretizzarsi. Vedevo in
che modo si sarebbero separati, che direzioni avrebbero preso e
dove si sarebbero riuniti prima di presentarsi a noi. Fui sollevato nel
constatare che nessuno di loro avrebbe incrociato il sentiero
percorso da Bella prima di accedere alla radura. Forse era per
questo che la visione di Alice di un incontro cordiale, seppure
prudente, era rimasta costante. Certo, quando fossero arrivati
sarebbero stati centinaia i possibili sviluppi. Mi vidi a difendere Bella
molte volte, con gli altri sempre accanto a me – be’, Rosalie al fianco
di Emmett; sembrava che lei non avesse particolare interesse a
difendere nessun altro all’infuori di lui. In un paio di esili fili di futuro
si sarebbe arrivati a uno scontro, ma questi erano davvero
inconsistenti come il vapore. Non fui in grado di scorgere
chiaramente quale sarebbe stato l’esito.
Riuscivo a sentire le loro menti avvicinarsi, ancora distanti ma già
nitide. Era ovvio che nessuno di loro avesse intenzioni ostili nei
nostri confronti, sebbene quella che seguiva il branco – la donna dai
capelli rossi che Alice aveva visto – fosse turbata dall’ansia. Era
pronta a scappare via se avesse percepito un accenno di
aggressività da parte nostra. I due uomini, invece, erano
semplicemente eccitati alla prospettiva di svagarsi un po’.
Sembravano abituati ad approcciare un gruppo di estranei, perciò
dedussi che fossero dei nomadi che sapevano in che modo
funzionavano le cose qui al Nord.
Adesso si stavano dividendo, facendo le loro valutazioni prima di
mostrarsi.
Se solo Bella non fosse stata lì, se avesse rifiutato l’idea di
trascorrere la sua serata guardandoci giocare... Be’, probabilmente
io sarei rimasto con lei. E Carlisle mi avrebbe chiamato per
informarmi che i forestieri erano giunti prima del previsto. Certo, la
cosa mi avrebbe messo in ansia. Ma almeno avrei avuto la
consapevolezza di non aver fatto nulla di sbagliato.
Perché avrei dovuto prevedere quella possibilità. Il rumore dei
vampiri che giocavano era un suono estremamente particolare. Se
mi fossi dato tempo di riflettere su tutte le eventualità possibili, se
non avessi preso per oro colato la visione di Alice in cui l’arrivo dei
forestieri era previsto per l’indomani – se, per così dire, non vi avessi
sincronizzato su il mio orologio –, se avessi mantenuto un
atteggiamento cauto anziché farmi prendere dall’entusiasmo...
Provai a immaginare come mi sarei sentito se quell’incontro fosse
avvenuto sei mesi prima, quando ancora non avevo mai visto il viso
di Bella. Credo sarei rimasto... imperturbato. Dopo aver osservato le
menti di quei visitatori, sarei stato certo che non ci sarebbe stato
nulla di cui preoccuparsi. Probabilmente, sarei stato persino eccitato
per la novità e per le variazioni che avrebbero apportato ai nostri
soliti schemi di gioco.
Adesso, invece, non riuscivo a provare altro che non fosse paura,
panico... e senso di colpa.
«Mi dispiace, Bella», mormorai con un filo di voce per lei appena
percettibile. Data l’estrema vicinanza dei forestieri, non potevo
arrischiarmi a parlarle più forte. «È stato stupido, irresponsabile
esporti a questo rischio. Mi dispiace tanto».
Lei si limitò a fissarmi, con tutto il bianco degli occhi ben visibile
attorno alle iridi. Mi domandai se rimanesse in silenzio per via del
mio avvertimento, oppure semplicemente perché non aveva nulla da
dirmi.
I forestieri si riunirono nell’angolo a sud-ovest della radura.
Adesso i loro movimenti erano diventati udibili. Mi spostai in modo
che il mio corpo andasse a nascondere quello di Bella e iniziai a
battere tranquillamente il piede al ritmo del suo battito cardiaco, con
la speranza di poterlo mascherare il più a lungo possibile creando
una fonte plausibile per quel rumore.
Carlisle si voltò in direzione del fruscio dei loro passi in
avvicinamento, e così fecero pure gli altri. Non avremmo svelato
nessuno dei vantaggi a nostro favore, facendo finta invece di
possedere come unica guida i nostri sensi sviluppati di vampiri.
Immobili, inerti come se fossimo stati intagliati nelle rocce che ci
circondavano, restammo ad attendere.
22. LA CACCIA

Quando gli estranei entrarono nella radura, i loro volti mi erano


già talmente noti che era come se li riconoscessi, più che vederli per
la prima volta.
Il maschio più piccolo, meno prestante, entrò per primo ma poi
arretrò con una manovra ben rodata.
Era concentrato su quanti fossimo noi, per individuare le
minacce. Pensava che fossimo un clan di due o forse tre amici,
riunitisi per la partita. Era ben conscio della presenza di Emmett, che
torreggiava accanto a Carlisle. E poi di me, che ero agitato; era
strano per un vampiro fremere per l’ansia.
Nessuno di loro sapeva come interpretare i colpi cadenzati del
mio piede.
Per meno di un secondo lottai contro la consapevolezza che
mancava qualcosa nel suo conteggio, ma erano troppi i dettagli su
cui dovevo concentrarmi per potermi soffermare su
quell’impressione.
Il maschio che guidava era alto e più bello della media, persino
per un vampiro. Nei suoi pensieri leggevo grande fiducia. Il suo clan
non ravvisava nessun problema in quella situazione; benché,
ovviamente, si rendesse conto che questo raggruppamento di clan
era sorpreso di essere avvicinato da degli estranei, era sicuro che
avremmo sistemato le cose. Anche lui fu colpito dalle dimensioni di
Emmett e dalla mia tensione, ma poi fu distratto da Rosalie.
Chissà se è accoppiata? Mmm, sembrano in numero pari.
I suoi occhi vagarono su tutti noi, poi ritornarono su Rose.
La donna con i capelli rosso-arancio era la più agitata tra tutti noi,
il suo corpo quasi vibrava d’ansia. Faceva parecchia fatica a
distogliere il suo intenso sguardo da Emmett.
Ce ne sono troppi. Laurent è un cretino.
Aveva già catalogato un migliaio di diverse vie di fuga. In quel
momento percepiva che la migliore chance era scappare verso nord
fino al Mar dei Salish, dove non avremmo potuto seguire il suo
odore. Mi chiesi come mai non optasse per la costa del Pacifico,
molto più vicina, ma non potevo vederne le ragioni se non le
pensava nella sua mente.
Mi ritrovai a sperare che la femmina nervosa se ne andasse in
cerca di riparo e che gli altri la seguissero, ma Alice non vedeva
quell’opzione.
La rossa stava guardando il maschio più anonimo, in attesa che
si mettesse a correre per primo. Poi si concentrò nuovamente su
Emmett e si mosse con riluttanza, seguendo gli altri che si
avvicinavano.
Nemmeno i due uomini riuscivano a distogliere lo sguardo da
Emmett per troppo tempo. Così mi misi a valutare mio fratello.
Sembrava più mastodontico del solito quella sera, e c’era qualcosa
di snervante nella sua tesa immobilità.
Il leader, Laurent, sembrava ancora sicuro del suo piano. Se i
nostri clan erano in armonia tra loro, avrebbero potuto andare
d’accordo anche con il suo. Tutti si sarebbero calmati e avremmo
potuto giocare assieme. E lui avrebbe potuto conoscere quella
bionda splendente...
Sorrise in modo amichevole e rallentò il passo, fermandosi a
qualche centimetro da Carlisle. Il suo sguardo scivolò su Rosalie, su
Emmett, su di me e poi di nuovo su Carlisle.
«Ci sembrava di aver sentito giocare», disse. Aveva un leggero
accento francese, ma la voce interiore parlava in inglese. «Mi
chiamo Laurent, questi sono Victoria e James».
Non sembravano avere molto in comune, quel viaggiatore più
raffinato e i suoi due più selvatici compagni. La femmina fu irritata da
quella presentazione; era rosa dal bisogno di fuggire. L’altro
maschio, James, era un po’ divertito dall’atteggiamento fiducioso di
Laurent. Si stava godendo l’imprevedibilità dell’incontro ed era
curioso di vedere come avremmo reagito.
Vic non se l’è ancora squagliata, stava pensando. Quindi
probabilmente non se ne farà nulla.
Carlisle sorrise a Laurent, e il suo viso aperto, amichevole
disarmò per un momento persino la terrorizzata Victoria. Per un
secondo, tutti concentrarono la loro attenzione su di lui invece che
su Emmett.
«Io mi chiamo Carlisle», si presentò. «Questa è la mia famiglia:
Emmett e Jasper, Rosalie, Esme e Alice, Edward e Bella». Fece un
gesto vago nella nostra direzione per non attirare troppo l’attenzione
su di me o su Bella che era dietro di me. Laurent e James stavano
registrando l’informazione che non eravamo tribù separate, ma io
non ero del tutto concentrato.
Nell’istante in cui Carlisle pronunciò il nome di Jasper mi resi
conto di cosa non avevo notato.
Jasper – pieno di cicatrici su ogni porzione visibile di pelle, alto,
slanciato e ferino come un leone a caccia, gli occhi inferociti dal
ricordo delle uccisioni – avrebbe dovuto essere al centro delle loro
valutazioni. Il suo aspetto guerresco avrebbe dovuto dominare
l’incontro.
Gli lanciai un’occhiata con la coda dell’occhio, e provai... noia.
Sembrava non ci fosse nulla di meno interessante al mondo di
quell’anonimo vampiro che se ne stava docile in disparte nel nostro
gruppo.
Anonimo? Docile? Jasper?
Jasper si stava concentrando talmente tanto che, se fosse stato
umano, il suo corpo sarebbe stato grondante di sudore.
Non lo avevo mai visto comportarsi in quel modo prima, né avrei
mai immaginato che fosse possibile. Era qualcosa che aveva
sviluppato nei suoi anni al Sud? Era una copertura?
Lui intanto stava allentando la tensione che aleggiava nei nuovi
arrivati e stava facendo in modo che chiunque guardasse nella sua
direzione provasse disinteresse. Niente poteva essere più noioso
che esaminare quell’inutile, insignificante maschio alle spalle del
gruppo...
E non soltanto lui... Stava avvolgendo Alice, Esme e Bella nella
stessa coltre di tedio.
Era per questo che nessuno di loro si era ancora accorto di nulla.
Non per via dei capelli arruffati di Bella o del ridicolo tamburellare del
mio piede. Non riuscivano a penetrare quell’aria di estrema
mediocrità e osservarla da vicino. Era solo una tra tanti, non
meritevole di particolare attenzione.
Jasper stava davvero espandendo se stesso per proteggere i
membri vulnerabili della famiglia. Sentivo la sua totale
concentrazione. Non sarebbe stato in grado di mantenerla se le cose
fossero scivolate sul piano fisico, ma per il momento aveva avvolto
Bella in un’aura di protezione più intelligente di ciò che avrei potuto
immaginare io.
Fui di nuovo pervaso dalla gratitudine.
Sbattei le palpebre e mi concentrai nuovamente sugli estranei.
Erano colpiti dal fascino di Carlisle, sebbene non fossero indifferenti
alle dimensioni intimorenti di Emmett né alla mia intensità.
Cercai di assorbire la calma rilassante che trasudava Jasper, ma
anche se ne vedevo gli effetti sugli altri, non riuscivo ad accedervi.
Mi resi conto che Jasper stava presentando ciò che voleva lui, e
questo comprendeva mostrare me sulle spine, come una minaccia,
una distrazione.
Be’, quel ruolo mi andava più che bene.
«C’è posto per qualche altro giocatore?», chiese Laurent con lo
stesso tono cortese di Carlisle.
«A dir la verità, stavamo proprio finendo», rispose Carlisle con
gentilezza. «Ma la prossima volta potremmo averne bisogno. Avete
in programma di trattenervi molto da queste parti?».
«Siamo diretti a nord, ma eravamo curiosi di visitare il vicinato. È
da molto che non incontriamo nessuno».
«Questa regione di solito è disabitata, a parte noi e qualche
visitatore occasionale, come voi».
La spontanea cordialità di Carlisle, unita all’influenza di Jasper, li
stava infine conquistando. Persino la rossa cominciava a
tranquillizzarsi. I suoi pensieri si stavano interrogando su questo
senso di sicurezza, analizzandolo in una maniera che mi parve
strana. Mi chiesi se fosse cosciente della performance di Jasper, ma
non sembrava sospettosa. Piuttosto sembrava perplessa da quelle
sue sensazioni.
James parve un po’ deluso che non ci fosse in programma una
partita. E anche... che quel confronto si fosse disteso. Gli mancava
l’eccitazione dell’ignoto.
Laurent stava assorbendo la compostezza e la sicurezza di
Carlisle. Voleva sapere di più di noi. Si chiedeva quale sotterfugio
usassimo per camuffare i nostri occhi, e perché.
«Qual è il vostro territorio di caccia?», chiese Laurent. Era una
cosa normale, una domanda naturale tra nomadi, ma temetti che
potesse allarmare Bella. Qualsiasi cosa stesse provando, rimase
dietro di me immobile e silenziosa quanto poteva esserlo un umano.
Il ritmo del suo cuore, e quindi il battito del mio piede, non cambiò.
«La catena dei Monti Olimpici, qui vicino, o la costa, di tanto in
tanto», rispose Carlisle, senza mentirgli ma senza nemmeno
confutare la supposizione di Laurent. «Abbiamo una residenza fissa
nei dintorni. E c’è un altro insediamento permanente come il nostro,
nei pressi di Denali».
Questo li sorprese tutti. Laurent era solo confuso, mentre
qualsiasi cosa d’inaspettato sembrava trasformarsi in terrore nella
mente della femmina paurosa; in lei svanirono in un istante tutti gli
effetti degli sforzi di Jasper. James, al contrario, era incuriosito. In
quella situazione c’era qualcosa di nuovo e di diverso. Non soltanto il
nostro clan era immenso, ma a quanto pareva non eravamo
nemmeno nomadi. Forse quella deviazione non era stata uno spreco
totale.
«Permanente?», chiese Laurent sbalordito. «E come fate?».
James era contento che Laurent avesse parlato, così la sua curiosità
poteva essere soddisfatta senza nessuno sforzo da parte sua. In un
certo senso, la sua riluttanza ad attirare l’attenzione mi ricordava il
ben più efficace camuffamento di Jasper. Mi domandai perché
James volesse rimanersene così al sicuro. Non sembrava coerente
con il suo desiderio di divertimento.
O anche lui, come Jasper, aveva qualcosa da nascondere?
«Perché non venite a casa nostra e ne parliamo con calma?»,
propose Carlisle. «È una storia piuttosto lunga».
Victoria si contorse, e vidi che rimaneva ferma per pura forza di
volontà. Immaginava quale sarebbe stata la risposta di Laurent e,
oh, come avrebbe voluto correre via. James le lanciò uno sguardo
incoraggiante, ma questo non allentò la sua tensione. In ogni caso,
avrebbe seguito il suo esempio.
Poteva essere così facile? Sarebbe stato semplice separarsi se
quelli avessero accettato l’invito e Carlisle ed Emmett avessero
portato via gli estranei in totale sicurezza. Grazie a Jasper, quelli
probabilmente non si sarebbero mai resi conto di ciò che gli stavamo
tenendo nascosto.
Guardai nella visione del futuro di Alice – anche se mi riuscì un
po’ più difficile in quel momento, perché dovetti ignorare il potente
velo di tedio steso da Jasper, il quale cercava energicamente di
convincermi che ci doveva essere qualcosa di più interessante da
fare.
Alice era concentrata sui futuri più immediati. Mi sorprese che
tutti finissero con uno stallo. Qualcuna delle varianti con uno scontro
adesso era più nitida rispetto a prima.
Quindi non sarebbe stato così facile.
Nella mente di Laurent non udii altro che interesse e l’assenso
che stava per dare; James era d’accordo. Victoria era alla ricerca
della trappola, rigida per il terrore.
Nessuno di loro aveva intenzione di causare problemi o di
esaminarci più da vicino. Che cosa gli avrebbe fatto cambiare idea?
Mi veniva in mente un solo fattore che era tanto certo, tanto
scollegato da ogni decisione o capriccio.
Le condizioni meteorologiche.
Mi preparai, sapendo che non c’era niente che potessi fare. Gli
occhi di Jasper lampeggiarono su di me. Avvertiva la mia angoscia.
«Invito molto interessante, e ben accetto», stava dicendo
Laurent. «Siamo partiti per la caccia dall’Ontario e non ci diamo una
ripulita da un bel po’».
Victoria rabbrividì, cercando di catturare sottilmente l’attenzione
di James, ma lui la ignorò.
«Vi prego di non offendervi, ma siamo costretti a chiedervi di
astenervi dalla caccia, negli immediati dintorni», li avvisò Carlisle.
«Capirete bene che è meglio che nessuno si accorga di noi».
La voce di Carlisle era tranquilla. Gli invidiai quella sua sicurezza.
«Certo», annuì Laurent. «Non invaderemo il vostro territorio,
siatene certi. E comunque, abbiamo mangiato poco dopo aver
lasciato Seattle».
Laurent rise e il cuore di Bella fece un salto per la prima volta. Il
movimento del mio piede sobbalzò rapidamente, cercando di
mascherare quella variazione. Nessuno degli estranei sembrò farci
caso.
«Se volete seguirci, vi facciamo strada», si offrì Carlisle. Solo
Alice e io sapevamo che era troppo tardi perché il suo piano avesse
successo. Era così vicino; le sue visioni accelerarono per coincidere
con il presente. «Emmett e Alice, accompagnate Edward e Bella fino
alla jeep».
Accadde proprio nell’istante in cui pronunciò il nome di Bella.
Solo una brezza leggera, un delicato turbinio da una nuova
direzione, un’aberrazione provocata dalla coda di una tempesta che
soffiava a ovest. Così delicato. Così inevitabile.
Il profumo di Bella, fresco e immediato, soffiò direttamente sui
volti degli estranei.
Tutti loro ne furono colpiti, ma mentre Laurent e Victoria rimasero
soprattutto confusi da quel delizioso odore che spuntava dal nulla,
James si mise istantaneamente in modalità di caccia. Lo
stratagemma di Jasper non fu sufficiente a deviare quel tipo di
attenzioni.
Non aveva senso continuare a fingere. Come se mi avesse letto
nel pensiero, in quell’istante Jasper interruppe il suo camuffamento,
lasciando nascosti soltanto se stesso e Alice. Mi rendevo conto che
era la scelta migliore, che avrebbe solo attirato l’attenzione dei
nomadi sui suoi doni speciali se avesse continuato a nascondere
Bella. Ciononostante, provai una leggera fitta di tradimento.
Ma ciò occupava solo una piccolissima parte della mia coscienza.
La maggior parte delle mie facoltà erano sopraffatte dalla furia.
James si accucciò facendo un passo in avanti. La sua mente era
svuotata da qualsiasi pensiero che non fosse la caccia, tutto preso
dalla gratificazione immediata.
Gli diedi qualcos’altro a cui pensare.
Mi accovacciai davanti a Bella, pronto a lanciarmi sul cacciatore
prima che lui potesse avvicinarsi di più a lei, tutte le mie abilità
concentrate sui suoi pensieri. Ringhiai a mo’ di avvertimento,
consapevole che solo l’autoconservazione avrebbe forse potuto
distrarlo.
La mia rabbia era talmente forte che una parte di me avrebbe
voluto che lui ignorasse la mia minaccia.
Le pupille gli si dilatarono e distolse gli occhi da Bella per valutare
me. Uno strano tremolio di sorpresa gli balenò nella mente. Era
quasi... incredulo che io mi fossi mosso per fermarlo. Indovinai che
fosse abituato ad agire indisturbato. Esitò, vacillando tra prudenza e
desiderio. Sarebbe stato sciocco ignorare gli altri; non era una gara
fra noi due. Ma non poteva resistere alla sfida che gli avevo lanciato.
Non era sicuro di voler resistere.
«E questa cos’è?», esclamò Laurent. Non sprecai la mia
concentrazione per badare alla sua reazione.
Vidi lo schema nei pensieri di James prima che si spostasse. Ero
nella posizione giusta per bloccare la sua nuova angolazione prima
che il movimento fosse finito. Strinse gli occhi e modificò la sua
valutazione del pericolo da me rappresentato.
Più veloce di quanto pensassi. Troppo veloce?
Ora sospettava di me. Di tutti noi. Perché non aveva notato prima
la ragazza? Era così evidente la sua presenza, con quella pelle
d’albicocca morbida e opaca rispetto al luccichio di noialtri.
«È con noi», udii Carlisle intimare con tono diverso, senza più
nessuna traccia di cordialità.
James gli lanciò un’occhiata e fu di nuovo consapevole di Emmett
che torreggiava, massiccio e impaziente, accanto a Carlisle.
Fui sorpreso dalla sua frustrazione. James non voleva essere
prudente. Era smanioso di combattere. Tuttavia, ancora pronto a
colpire, dedicò parte della sua attenzione a captare qualche
movimento di Victoria, che però era congelata dalla paura.
La mia stessa concentrazione si indebolì quando alla fine Laurent
reagì.
«Vi siete portati uno spuntino?», chiese incredulo.
Come James, fece un passo verso Bella, per quanto il suo
movimento fosse più istintivo che aggressivo.
Ma la cosa non mi interessava. Mi girai leggermente, senza mai
distogliere lo sguardo dalla minaccia più grande e ringhiai
rabbiosamente in direzione di Laurent, mostrandogli i denti. A
differenza di James, Laurent arretrò immediatamente.
James si spostò di nuovo, mettendo alla prova la mia
concentrazione. Fui pronto a rispondere alla sua manovra prima che
il movimento fosse completo. Increspò le labbra mostrando i denti.
«Ho detto che è con noi», ribadì Carlisle con una voce simile a un
ruggito come non l’avevo mai sentita prima.
«Ma è umana», protestò Laurent. Non c’era ancora aggressività
nella sua mente. Era solo sconcertato e spaventato. Non vedeva
alcun senso in quella situazione, ma si rendeva conto che la
sconsiderata offensiva di James avrebbe potuto farli ammazzare
tutti. Lanciò uno sguardo a Victoria, controllando la sua reazione
come aveva fatto James. Come se fosse una specie di cartina di
tornasole.
Emmett fu l’unico a rispondere a Laurent. Non sapevo se fosse
stato Jasper a dare la sensazione che la terra tremasse mentre
Emmett si accingeva a entrare nello scontro, o se fosse Emmett che
era semplicemente Emmett.
«Sì», tuonò con un tono del tutto privo di emozione e di accento.
L’acciaio della sua voce sembrò arrivare dritto al cuore del conflitto,
evocando un brivido improvviso nell’aria.
Ero abbastanza sicuro che fosse opera di Jasper, ma non sprecai
parte della mia concentrazione per sincerarmene.
Feci bene. Il cacciatore si distese abbandonando la sua posizione
accovacciata.
Lessi minuziosamente le sue reazioni, mantenendo la mia
posizione difensiva nel caso di un tranello. Mi aspettavo rabbia,
frustrazione. Avevo già visto che era arrogante, non abituato a
essere ostacolato. Dover cedere a una forza più grande della sua,
sicuramente l’avrebbe fatto infuriare.
E invece un’improvvisa eccitazione percorse i suoi pensieri.
Benché il suo sguardo non lasciasse del tutto né Bella né me, nella
sua visione periferica adesso stava catalogando le minacce dinanzi
a lui. Non con paura o irritazione, ma con uno strano, selvaggio
piacere. I suoi occhi passarono su Jasper e su Alice, vedendoli
come semplici numeri di un censimento. La massa minacciosa di
Emmett d’un tratto gli parve esaltante.
«A quanto pare, dobbiamo imparare a conoscerci meglio»,
osservò Laurent per abbassare i toni.
A quel punto l’inspiegabile esaltazione di James lasciò il posto
alla pianificazione. Alla strategia. Al ricordo di vecchie vittorie. E per
la prima volta capii – con terrore e panico – che non era un semplice
cacciatore.
«Esattamente», concordò Carlisle, ancora con freddezza.
Volevo disperatamente sapere cosa stesse vedendo Alice in quel
momento, ma non potevo permettermi di perdere nessun dettaglio
dei pensieri del mio avversario.
Lo sentivo mentre ricordava tutte le prede che aveva messo
all’angolo, mentre riviveva nel dettaglio le sue imprese più difficili,
mentre catalogava gli ostacoli che aveva superato per accaparrarsi
la sua preda. Nessuna sfida precedente era stata impegnativa
quanto quella che affrontava ora. Otto, no, sette, si corresse. Un clan
di sette, certamente con qualche talento tra loro, più una ragazza
umana indifesa il cui odore era migliore di qualsiasi cibo avesse
assaggiato nell’ultimo secolo.
Elettrizzante.
Non poteva darsi da fare lì, con tanti a difenderla.
Aspetta che si separino. Sfrutta questo tempo per la ricognizione.
«Eppure, gradiremmo accettare il vostro invito», disse Laurent a
Carlisle.
James seguiva solo superficialmente la conversazione; era
assorbito dal suo piano.
Fino a quando Laurent non aggiunse: «Naturalmente, non faremo
del male all’umana. Come ho detto, non intendiamo cacciare nel
vostro territorio».
Questo infranse l’esaltazione di James e la sua vigile
concentrazione. Distolse lo sguardo da me per fissare Laurent con
stupore, ma Laurent guardava Carlisle, e non si accorse che lo
sconcerto si era trasformato in odio.
Osi parlare per mio conto?
La forza della sua reazione mi rese chiaro che quel clan non
sarebbe rimasto unito. Sentii la decisione di James di usare Laurent
fino a quando gli avesse fatto comodo; ma l’avrebbe ucciso piuttosto
che lasciarlo andare, una volta che quella convenienza fosse finita.
Sembrava che il desiderio di distruggere Laurent si basasse
esclusivamente su quel commento; non trovavo altre fonti di
risentimento. Capii che James era facilmente irritabile, e spietato.
Forse avrei potuto sfruttare questo aspetto.
James non pensava che Victoria avrebbe scelto Laurent. Mi
chiedevo se fossero una coppia, ma nei suoi pensieri non trovai
sentimenti speciali per lei. Probabilmente erano insieme da più
tempo rispetto all’alleanza con Laurent. Erano loro il clan originario,
e lui l’intruso. Spiegava la facilità con cui James contemplava la
possibilità di sbarazzarsi del nuovo arrivato.
«Vi facciamo strada», disse Carlisle, più come un comando che
come un’offerta. «Jasper, Rosalie, Esme?».
A Jasper non piaceva l’idea – separarsi da Alice, soprattutto
adesso che le cose non si mettevano bene. Ma non poteva discutere
con Carlisle in quel momento. Dovevamo presentare un fronte unito,
e inoltre non voleva attirare l’attenzione su di sé. Carlisle non aveva
idea della cortina che stava generando Jasper. Quest’ultimo si
rassegnò a mantenere l’occultamento finché fosse stato necessario;
se doveva scatenarsi una battaglia, voleva che fosse un’imboscata.
Guardò Alice, che gli annuì. Era sicura di non essere in pericolo.
Lui acconsentì ma sempre con riluttanza. Lei sgusciò al fianco di
Bella.
Senza bisogno di parlare, Jasper, Esme e Rose si mossero
insieme per nascondere Bella alla vista di James mentre si univano
a Carlisle.
James non ne fu turbato. Il suo desiderio di attaccare era
scomparso. Adesso stava pensando alle sue macchinazioni.
Emmett si ritirò per ultimo, senza staccare gli occhi da James
mentre si spostava indietro accanto a me.
Carlisle fece segno a Laurent e al suo clan di precederli fuori
dalla radura. Laurent acconsentì subito, e Victoria lo seguì subito
dopo. La sua mente era ancora affollata di vie di fuga.
James esitò per una frazione di secondo, e il suo sguardo si posò
di nuovo su di noi. Sapevo che Bella era invisibile dietro a Emmett,
ma questa volta non era lei che cercava. Fissò me direttamente negli
occhi e sorrise.
Qualcosa attirò la sua attenzione – Alice, rimasta scoperta
mentre Jasper si allontanava da lei. Vi fu un moto di sorpresa
quando la guardò in faccia per la prima volta, forse domandandosi
come mai non l’avesse valutata prima; ma quello stupore non si
risolse in parole, dopodiché si voltò e si precipitò dietro gli altri.
Carlisle e Jasper corsero subito dietro di lui, seguiti da Rose ed
Esme.
Dovetti sforzarmi perché la mia voce non uscisse come un ringhio
o un urlo. «Andiamo, Bella».
Sembrava paralizzata. I suoi grandi occhi erano così vacui che mi
chiesi se avesse capito cosa stessi dicendo. Ma non avevo tempo
adesso per tranquillizzarla o trattarla come se fosse sotto shock. In
quel momento l’unica priorità era la fuga.
La presi per il gomito e la strattonai nella direzione opposta a
quella in cui erano appena spariti gli altri. Dopo un passo
barcollante, lei trovò il ritmo e si mise quasi a correre insieme a me.
Emmett e Alice si mossero dietro di noi per nasconderla, per ogni
evenienza.
Ero sicuro che James non avrebbe seguito Laurent a casa
nostra. Appena avesse trovato un’opportunità, si sarebbe staccato e
sarebbe tornato a seguire le tracce di Bella. Non potevo sapere
quanto gli ci sarebbe voluto per trovare quell’opportunità, ma dovevo
agire come se lui fosse già in azione. Se fosse stato così, sarebbe
stato meglio fargli pensare che noi ci muovevamo alla velocità di
Bella. Dubitavo che sarebbe rimasto spiazzato per troppo tempo
quando il suo odore fosse diventato debole tra gli alberi, ma se
potevamo nascondere il modo in cui ci spostavamo, lui avrebbe
dovuto fare una pausa per valutare le nuove opzioni.
I suoi pensieri erano troppo lontani da me per individuarlo, anche
se immaginavo dove fosse il gruppo più grosso. Non potevo essere
sicuro che lui fosse ancora con loro. Se fosse salito su una di quelle
alture, avrebbe avuto una buona visuale dei nostri movimenti. Ero
infastidito dalla nostra velocità, o meglio dalla mancanza di essa.
Emmett e Alice non fecero commenti sul ritmo al quale
procedevamo. Sapevano entrambi che avremmo potuto avere uno
spettatore, tuttavia Alice non vedeva chiaramente cosa avrebbe fatto
James. Il suo cammino non avrebbe incrociato il nostro in quel
punto, e nemmeno nel prossimo futuro. Aveva visto gli estranei nella
radura soltanto perché avevano deciso di interagire con noi. Non era
facile per lei vedere dei forestieri se non erano con un membro della
sua famiglia. James sarebbe rimasto pressoché invisibile finché non
avesse deciso di avvicinare uno di noi.
Mi sembrò che fossero passate ore prima di raggiungere il limite
della radura, ma sapevo che in realtà si era trattato di pochi minuti.
Non appena fummo nel folto degli alberi, invisibili a qualsiasi
osservatore, sollevai Bella e la sistemai sulla schiena. Lei capì,
evidentemente non era del tutto sotto shock. Strinse le gambe
attorno alla mia vita e mi serrò le braccia attorno al collo. Poi
nascose di nuovo il viso contro la mia scapola.
Pensavo che mi sarei sentito meglio, più sicuro, quando mi fossi
messo a correre, quando ci fossimo allontanati dal pericolo a una
velocità accettabile, ma quello slancio non dissolse il solido blocco di
panico che sembrava appesantirmi. Sapevo che era un’illusione –
stavo volando tra gli alberi alla massima velocità che potevo tenere
senza farle del male – ma non riuscivo a scrollarmi di dosso la
sensazione che non mi stessi muovendo affatto.
Anche quando comparve la jeep, e in meno di un secondo posai
Bella sul sedile posteriore, mi sembrava di procedere con troppa
lentezza.
«Allacciale le cinture», sibilai a Emmett. Aveva scelto di sedersi
dietro con Bella, valutando che sarebbe stato meglio farle da guardia
del corpo finché io avessi guidato. Voleva, anzi desiderava farlo.
Per una volta la voglia di scherzare di Emmett era sopita; per
fortuna, visto che non l’avrei sopportata in quel momento. La sua
furia era all’erta, i suoi pensieri erano tutti rivolti verso la violenza.
Alice era seduta accanto a me, e senza che glielo chiedessi,
stava passando velocemente in rassegna tutti i futuri che avremmo
potuto incontrare in quel momento. Perlopiù c’era una strada buia
davanti a noi, che volava via sotto le ruote, senza una chiara
destinazione in mente. Ma c’erano altri futuri che andavano nella
direzione sbagliata, a Forks, nella casa di Bella e nella nostra, anche
se non riuscivo a immaginare cosa avrebbe potuto farmi cambiare
strada.
Sobbalzavamo sulla strada sconnessa e io procedevo quanto più
speditamente possibile senza rischiare di far ribaltare la jeep, ma
continuavo a sentirmi come se stessi perdendo una gara.
Mentre Alice continuava a esplorare – c’era di nuovo un’intensa
luce del sole, ma perché avremmo dovuto scegliere quel luogo che
ci intrappolava all’interno? –, mi concentrai sul percorso. Alla fine,
fummo di nuovo sulla strada principale e desiderai ardentemente
che ci trovassimo su un’altra auto, una qualsiasi: mia, di Rose, di
Carlisle. La jeep non era stata modificata per gareggiare. Ma non
potevo farci nulla.
Ero vagamente cosciente del suono della mia voce mentre
ringhiavo imprecazioni a mezza bocca, ma era come se fosse
distante da me, non del tutto sotto il mio controllo.
Quello era l’unico suono oltre al rombo del motore, le ruote che
scivolavano sulla strada bagnata, il respiro irregolare di Bella dal
sedile posteriore e il battito sordo del suo cuore.
Alice adesso visualizzava una stanza d’albergo, ma poteva
essere dovunque. Le tende erano chiuse.
«Dove andiamo?».
Anche la domanda di Bella sembrò arrivare da lontano. I miei
pensieri erano troppo assorbiti dalle visioni di Alice o congelati nel
terrore perché potessi articolare una risposta. Quasi che la domanda
non mi riguardasse.
Prima la sua voce era tremolante, poco più che un bisbiglio.
Adesso però si fece molto più dura.
«Accidenti, Edward! Dove diavolo mi stai portando?».
Mi allontanai dal vortice confuso delle visioni di Alice per ritornare
al presente. Bella doveva essere terrorizzata.
«Dobbiamo portarti lontano da qui – molto lontano – e subito!»,
spiegai.
Pensavo che l’idea di andare molto lontano sarebbe stata ben
accolta, ma lei all’improvviso si mise a gridare, armeggiando con le
cinture per cercare di liberarsi.
«Torna indietro! Devi riportarmi a casa!».
Come facevo a spiegarle che per il momento non ci sarebbe stata
nessuna casa, e che quel ripugnante cacciatore le aveva sottratto
anche altro per quella sera?
Ma la priorità, per il momento, era di impedirle che si gettasse
fuori dalla jeep.
Emmett si stava chiedendo se dovesse trattenerla. Io pronunciai il
suo nome, con voce bassa e dura, in modo che capisse che volevo
che lo facesse. Lui le prese i polsi tra le enormi mani e la
immobilizzò.
«No! Edward!», gemette lei. «No, non puoi farlo».
Non sapevo cosa pensasse che stessi facendo. Pensava forse
che avessi scelta? Il suono della sua rabbia, della sua disperazione
mi impediva di concentrarmi. Sembrava quasi che fossi io quello che
le faceva del male, e non il pericoloso segugio.
«Sono costretto, Bella», sibilai. «E adesso, per favore, stai
calma». Dovevo vedere ciò che stava visualizzando Alice.
«No!», mi urlò contro. «Devi riportarmi a casa. Charlie chiamerà
l’FBI! Scoveranno la tua famiglia. Carlisle ed Esme dovranno fuggire,
nascondersi per sempre!».
Era di questo che si preoccupava? Non avrebbe dovuto
sorprendermi che stesse perdendo la testa per la minaccia sbagliata.
«Calma, Bella. Ci siamo già passati». E poi avremmo dovuto
ricominciare daccapo. Ma pareva una cosa insignificante in quel
momento.
«Non per me, no!», gridò lei. «Non puoi rovinare tutto per salvare
me!».
Si dibatteva contro la presa di Emmett. L’unica parte di lei che
rimaneva immobile erano le mani intrappolate. Emmett la osservava
confuso.
Che cosa devo fare?
Prima che potessi spiegare a Bella perché si stava sbagliando o
dire a Emmett che stava facendo bene, Alice decise di unirsi a me
nel presente.
«Edward, accosta».
La calma nella sua voce mi irritò. Stava pensando a ciò che
diceva Bella, nonostante queste preoccupazioni non avessero
senso. Alice avrebbe dovuto saperlo bene.
Bella non coglieva ciò che era successo. E come poteva? Le
mancava il contesto.
Istintivamente diedi ancora più gas, rendendomi conto
all’improvviso che nemmeno Alice coglieva tutto il contesto. Con
tutta la sua preveggenza, c’erano cose che non riusciva a vedere.
«Edward», Alice era ancora calma, il tono della voce ragionevole.
«Ti prego, parliamone».
«Tu non capisci», sbottai. «È un segugio, Alice, non te ne sei
accorta? È un segugio!».
Emmett reagì più energicamente di quanto fece Alice. Perché
ovviamente lei lo aveva visto, nello stesso istante in cui avevo deciso
di urlarglielo contro.
Non avevamo grande dimestichezza con i segugi, a parte i
racconti su di loro. Il più potente di loro era molto lontano, prestava
servizio in Italia. Carlisle ne conosceva uno, ma poiché era tutt’altro
che socievole nessuno di noi aveva mai conosciuto Alistair. Emmett
e Alice dei segugi sapevano solo che avevano un talento speciale
per trovare le cose, e le persone. Non coglievano il concetto nel suo
significato più dinamico. James non aveva solo un talento per
trovare le persone; fare il segugio era tutto per lui.
«Accosta, Edward», ripeté Alice come se non avessi parlato.
Le lanciai un’occhiataccia mentre acceleravo ancora.
Stasera non andrà così, pensò lei con estrema sicurezza.
«Avanti, accosta».
«Ascolta, Alice», fremevo di rabbia, desiderando di potere, per
una volta, innestare tutto ciò che sapevo nella sua testa invece che il
contrario. Ma lei non colse. «Ho letto nella sua mente. Seguire una
scia è la sua passione, la sua ossessione. E vuole lei, Alice... lei, e
nessun altro. Intende iniziare la caccia stanotte».
Non fu turbata dal mio sfogo. «Ma lui non sa dove...».
La interruppi, spazientito dal suo rifiuto di vedere. «Quanto pensi
che ci vorrà prima che incroci la sua scia in città? Aveva un piano
pronto già prima che Laurent aprisse bocca».
Bella sobbalzò, poi si mise di nuovo a urlare. «Oh, no! Charlie!
Non puoi lasciarlo solo! Non puoi!».
«Ha ragione», disse Alice. Ancora troppo tranquilla.
Il mio piede si sollevò dall’acceleratore senza che glielo avessi
ordinato. Ovviamente non potevo lasciare Charlie in pericolo. Ma
come facevo a essere in due posti contemporaneamente?
«Consideriamo le alternative per un attimo», propose Alice.
Fui scioccato dall’immagine che comparve improvvisamente nella
sua mente. Non l’avevo vista valutare questo futuro – l’avrei
interrotto, e con violenza, se l’avessi visto – ma lei in qualche modo
aveva visto tutto. Completamente.
Alice visualizzò una versione del futuro in cui il segugio perdeva
interesse e abbandonava le ricerche.
Per lui non ha valore senza il premio, spiegò lei.
Somigliava alla vecchia visione, ma in un certo senso era nuova.
Generata ex novo. Bella, con gli occhi che brillavano di un rosso così
splendente da fiammeggiare quasi, i lineamenti talmente affilati che
sembravano cesellati nel diamante, la pelle più bianca del ghiaccio.
E gli occhi brillanti di Bella mi fissavano freddamente... con
sguardo accusatorio.
Certamente il segugio sarebbe scomparso in questa versione del
destino.
Indirizzai la macchina verso il ciglio della strada e affondai il piede
sul freno. Ci fermammo bruscamente.
«Non ci sono alternative», sibilai ad Alice.
«Non lascerò Charlie da solo!», mi strillò Bella.
«Dobbiamo riportarla a casa», intervenne Emmett.
«No».
Emmett mi guardò dallo specchietto retrovisore. «Tra noi e lui
non c’è confronto, Edward. Non riuscirà a torcerle un capello».
«Aspetterà». A lui piaceva l’attesa.
Emmett sorrise senza ombra di divertimento sul viso. «Anch’io so
aspettare».
Avrei voluto strapparmi i capelli per il senso di frustrazione. «Non
ti rendi conto... non capisci. Se uno come lui decide di impegnarsi in
una caccia, niente può fargli cambiare idea. Saremo costretti a
ucciderlo».
Emmett mi guardò come se fossi lento a capire.
Ovviamente dovremo ucciderlo, pensò, ma le parole che
pronunciò ad alta voce furono più pacate. Stava cercando di essere
insolitamente sensibile, consapevole della fragile umana che teneva
sotto custodia. «È una possibilità».
«La femmina», gli ricordai, «sta con lui». Questo non toccò
minimamente Emmett, così aggiunsi: «E se scoppia una guerra,
anche il capo sarà dalla loro parte». Anche se non ne ero sicuro.
«Siamo comunque in vantaggio».
Rientravano anche Rose ed Esme nel suo conteggio?
Ovviamente no. Lui pensava che avrebbe potuto fare da solo, che
avrebbero potuto affrontarlo direttamente, senza ricorrere a
stratagemmi.
«C’è un’alternativa», ripeté Alice.
Arriverà comunque. Perché non accettarlo e mettere al sicuro lei
adesso?
La furia che mi prese era pericolosa, tanto che avrei potuto fare
del male ad Alice in quel momento, sebbene le volessi bene. Provai
a contenerla, lasciando che si sfogasse solo a parole.
«Non-Ci-Sono-Alternative!», ringhiai a pochi centimetri dal suo
viso.
Alice non batté ciglio.
Non essere stupido. Ci sono troppi futuri, troppe variabili che non
riesco a sbrogliare. È troppo ampio. Hai ragione sul fatto che lui non
mollerà... A meno che non perda motivi per continuare.
Nella mente di Alice vidi James dare la caccia a Bella per decenni
mentre io cercavo di tenerla nascosta. Migliaia di trappole e
stratagemmi diversi. Chiaramente ammazzarlo sarebbe stato più
difficile di quanto pensava Emmett.
Be’, io non avevo problemi a rimanere vigile per decenni. Non
avrei barattato la vita di Bella per un futuro più semplice.
Una vocina tremolante ci interruppe.
«A nessuno interessa il mio piano?».
«No», tagliai corto continuando a fissare Alice. Lei mi guardò
torva di rimando.
«Ascolta», continuò Bella. «Tu mi riporti a casa».
«No».
«Tu mi riporti a casa», insistette con voce più dura e rabbiosa.
«Io dico a papà che voglio tornare a Phoenix. Faccio le valigie.
Aspettiamo che questo segugio si sia appostato in ascolto, poi
scappiamo. Così seguirà noi e lascerà stare Charlie, che non
chiamerà l’FBI né i tuoi genitori. E poi potrete portarmi dove diavolo
vi pare».
Dunque i suoi pensieri non erano del tutto irrazionali, si stava
offrendo in sacrificio per salvare la vita a Charlie e proteggere noi.
Aveva un piano.
«In effetti non è una cattiva idea», valutò Emmett. Aveva scarsa
fiducia nelle abilità del segugio; avrebbe preferito lasciare una
traccia da seguire piuttosto che non sapere da quale direzione
sarebbe arrivato il nemico. E poi pensava che in quel modo sarebbe
stato più veloce, e nonostante quello che aveva detto prima, Emmett
non era molto tagliato per la pazienza.
Alice rifletté sulla cosa, osservando come l’idea di Bella
modificasse le sue visioni future. Poteva vedere che, se non altro, il
segugio si sarebbe presentato per la messinscena.
«Potrebbe funzionare», concesse. Nuove visioni si affastellavano
sulle vecchie. Noi ci saremmo separati in tre diverse direzioni,
lasciando solo la traccia che volevamo lasciare. Vide Emmett e
Carlisle che cacciavano nella foresta. In qualche caso compariva
anche Rosalie, in altri c’erano Emmett e Jasper, ma nessun gruppo
stabile.
«Non possiamo lasciare suo padre senza protezione, lo sapete»,
aggiunse Alice ancora osservando le varie immagini. Di questa parte
era sicura. Saremmo tornati indietro e avremmo dato al segugio
qualcosa su cui concentrarsi a parte Charlie.
Ma in queste visioni nitide, il segugio era troppo vicino a Bella.
Quel pensiero scosse i miei nervi già provati.
«È troppo pericoloso», bofonchiai. «Non lo voglio nemmeno a
cento chilometri da lei».
«Edward, con noi non ha scampo». Emmett era frustrato da
quello che gli sembrava un mio tentativo di evitare lo scontro. Non
vedeva la posta in gioco.
Alice valutò i risultati immediati di questa decisione; un’iniziativa
che prese lei, vedendo che ero paralizzato dall’incertezza. Non c’era
nessuna versione che finisse con una battaglia in casa di Charlie.
Il segugio avrebbe solo aspettato e osservato.
«Non lo vedo attaccare», confermò. «Aspetterà che la lasciamo
sola».
«Capirà al volo che non lo faremo».
«Pretendo che tu mi porti a casa», ordinò Bella tentando di dare
un tono autoritario alla sua voce.
Cercai di riflettere in mezzo alla foschia di panico, disperazione e
senso di colpa. Aveva senso piazzare la nostra trappola invece che
aspettare che il segugio preparasse la sua? Suonava sensato, ma
quando provai a immaginare di lasciare che Bella fosse tanto vicina
a lui, sostanzialmente facendo da esca, non riuscii a ficcarmi
quell’immagine nella mente.
«Per favore», sussurrò lei, e si sentiva il dolore nella sua voce.
Pensai al segugio che trovava Charlie in casa da solo. Sapevo
che questo doveva essere in cima ai pensieri di Bella. Potevo solo
immaginare quanto questo la gettasse nel panico e nella
disperazione. Nessuno della mia famiglia era vulnerabile a quel
modo. Bella era la mia unica vulnerabilità.
Dovevamo portare il segugio lontano da Charlie. Questo era
ovvio. Era l’unica parte del suo piano che aveva un senso. Ma se
non avesse funzionato la prima volta, se il segugio non avesse
notato la nostra messinscena, non avrei sfidato la sorte. Avremmo
trovato un’altra versione. Emmett avrebbe badato a Charlie finché
fosse stato necessario. Sapevo che non aspettava altro che beccare
il segugio da solo. Ed ero anche sicuro, data l’opera di
potenziamento di Jasper nella radura, che il segugio non avrebbe
mai voluto trovarsi alla portata di Emmett.
«Te ne andrai stasera, che il segugio ti veda o no», dissi a Bella,
sentendomi troppo sconfitto per sollevare lo sguardo. «Vai a casa e
dici a Charlie che non intendi restare a Forks un minuto di più.
Raccontagli la scusa che preferisci. Poi prepari una valigia con le
prime cose che ti capitano e sali sul pick-up. Non m’interessa come
reagisce tuo padre. Hai quindici minuti». Guardai nello specchietto,
incrociando il suo sguardo. «Capito? Quindici minuti da quando
varchi la soglia di casa».
Riavviai il motore e feci inversione con una fretta diversa, adesso.
Volevo che la parte dell’esca finisse il prima possibile.
«Emmett?», domandò lei.
Vedevo nella mente di Emmett che lei stava guardando le sue
mani incatenate.
«Ah, scusa», mormorò Emmett e poi la liberò.
Lui aspettò che io obiettassi qualcosa, e si rilassò quando non lo
feci.
Ora che la decisione era presa, mi concentrai nuovamente sulle
visioni di Alice. Non c’erano moltissime opzioni, forse una trentina di
versioni stabili. Nella maggior parte di esse, il segugio si presentava
a casa di Charlie un paio di minuti dopo di noi, tenendosi a distanza
di sicurezza. In qualcuna, arrivava dopo che noi eravamo andati via.
Ma anche in quelle, ignorava Charlie e seguiva le nostre tracce.
Dopodiché le possibilità si assottigliavano ancora. Noi andavamo
a casa. Il segugio rimaneva ancora più a distanza, non volendo
rischiare lo scontro. La rossa lo aspettava lì. La mia famiglia si
separava. In nessuna versione Laurent aiutava James e Victoria.
Dunque dovevamo dividerci in tre gruppi.
L’unica cosa che non capivo era perché la composizione di quei
tre gruppi continuasse a cambiare. Non aveva senso.
A parte questo, il segmento successivo era molto chiaro.
«Le cose andranno così», spiegai a Emmett. «Arrivati a casa, se
il segugio non c’è, l’accompagno alla porta. Da quel momento ha
quindici minuti». Incrociai nuovamente lo sguardo di Bella nel
retrovisore. «Emmett, tu tieni d’occhio la casa dall’esterno. Alice, tu ti
occupi del pick-up. Io resto in casa con lei. Dopo che è uscita,
portate la jeep a casa e riferite tutto a Carlisle».
«Neanche per idea», obiettò Emmett. «Io resto con te». Me ne
devi uno, ricordi?
Non avrebbe dovuto sorprendermi che volesse questo.
Probabilmente era il motivo per cui i raggruppamenti nel futuro erano
così confusi.
«Pensaci bene, Emmett. Non so neanch’io quando potrei
tornare».
«Finché non sappiamo come finirà questa faccenda, io resto con
te».
Non c’era esitazione nella sua mente. Forse era meglio così.
Lasciai perdere.
Nella testa di Alice, Carlisle e Jasper cacciavano nella foresta,
adesso.
«Se il segugio è a casa di Charlie, invece, non ci fermiamo»,
continuai.
«Ci arriveremo prima di lui», insistette Alice.
Era certo al novantanove per cento, ma non avrei corso rischi con
qualche versione anomala meno chiara rispetto alle altre.
«Cosa facciamo con la jeep?», chiese Alice.
«La riporti a casa».
«Invece no», disse lei imperturbabile.
La visione di come ci saremmo dovuti dividere cambiò
nuovamente.
Ringhiai una sequela di imprecazioni arcaiche verso di lei.
Bella mi interruppe mormorando: «Non ci staremo tutti e quattro
sul pick-up».
Come se davvero avremmo potuto fuggire su quel bradipo
decrepito. Non dissi nulla, però, sapendo quanto tenesse al suo
furgoncino. Non avevo l’energia per discussioni inutili.
Poiché non rispondevo, disse a voce ancora più bassa:
«Secondo me è meglio che mi lasciate andare da sola».
Ancora una volta non coglievo il senso delle sue parole. Pensava
che fosse suo dovere sacrificare se stessa in modo che Charlie
potesse avere guardie del corpo in abbondanza.
«Bella, per favore, fai come dico io, almeno questa volta», la
pregai, anche se non suonava tanto come un’implorazione visto che
lo dissi a denti stretti.
«Stammi a sentire, Charlie non è uno stupido. Se domani
neanche tu sarai in città, si insospettirà».
C’erano tante cose che mi sfuggivano con lei. Era davvero quella
la vera ragione per cui voleva mettere in pericolo se stessa, creando
un alibi credibile per me?
«Non m’interessa», dissi con un tono che voleva essere
definitivo. «Faremo in modo di proteggerlo, e questo è ciò che
importa».
«E il segugio?», ribatté lei. «Si è accorto di come hai reagito,
stasera. Penserà che sei con me, ovunque ti trovi».
Ci paralizzammo tutti e tre, stupefatti da questa nuova
evoluzione. Persino Alice. Stava pensando ad altri futuri, diversi
dopo questa conversazione.
Emmett colse subito la logica delle sue parole. «Edward,
ascoltala. Secondo me ha ragione».
«Certo che sì», concordò Alice.
Vedeva che Bella aveva ragione: di qualsiasi gruppo facessi parte
io, sarebbe stato quello che il segugio avrebbe scelto di seguire.
Questo avrebbe rovinato il piano e reso quasi impossibile l’offensiva.
Peggio ancora, avrebbe fatto nuovamente di Bella una preda, e
questa volta non ci sarebbero stati molti futuri in cui lei fosse stata al
sicuro.
Ma l’alternativa qual era? Lasciare Bella?
«Non posso farlo».
Bella parlò di nuovo, con un tono pacato come se la sua prima
affermazione fosse stata già data per buona. «È meglio che
nemmeno Emmett mi segua. Ha osservato bene anche lui».
«Cosa?», domandò Emmett punto nel vivo.
Ma Alice sapeva a cosa davvero si stesse ribellando lui: «Se resti
a casa avrai qualche possibilità di rifarti con lui».
I raggruppamenti, che prima fluttuavano vorticosamente, adesso
parvero stabilizzarsi. Mi vide con Emmett e Carlisle, prima in fuga
nella foresta e poi a invertire la rotta per cacciare.
Dov’era Bella in questo futuro?
Fissai Alice. «Pensi che dovrei lasciarla scappare da sola?».
Vidi la risposta nelle sue visioni prima che me la desse ad alta
voce. Una camera ordinaria in un alberghetto mediocre, Bella
raggomitolata nel sonno, Alice e Jasper come sentinelle congelate
nell’altra stanza.
«Certo che no. La accompagneremo io e Jasper».
«Non posso», dissi ma stavolta con una nota di rassegnazione.
Non vedevo altra strada. Se davvero il segugio avrebbe scelto me
come pista da seguire, allora io dovevo essere molto lontano da
Bella. Avrei dovuto controllare il panico, l’angoscia ed essere io il
cacciatore. Provai a reprimere il piccolo piacere che mi dava l’idea di
distruggere il vampiro che aveva innescato questo incubo.
L’incolumità di Bella era l’unica cosa importante.
Bella non aveva finito con i suoi suggerimenti.
«Resta da queste parti per una settimana», disse con tranquillità.
La guardai nuovamente dallo specchietto. Quanto poco capiva di ciò
che si era innescato quella sera. «Anzi, solo qualche giorno»,
rilanciò, pensando che avessi qualcosa da obiettare al suo
cronoprogramma. Pregavo perché finisse tutto, in una settimana.
«Così Charlie avrà la certezza che non mi hai rapita e questo
James girerà a vuoto per un po’. Assicurati che perda
completamente le mie tracce. Poi raggiungimi. Ovviamente, sarà
meglio prenderla un po’ alla larga. A quel punto, Jasper e Alice
potranno tornare a casa».
Osservai la reazione di Alice al piano e provai sollievo per la
prima volta, quella sera, quando vidi che era fattibile. C’erano futuri
in cui io trovavo Bella con Alice e Jasper. Il destino da me individuato
si risolveva con la clandestinità a lungo termine. Il segugio mi era
scappato. Ma c’erano molti altri fili che si annodavano e si
scioglievano nella sua mente. In alcuni di questi, trovavo Bella e la
riportavo a casa. Anche stavolta compariva la luce del sole,
disorientandomi. Dove eravamo?
«Dove ti raggiungerei?», chiesi. Le decisioni di Bella erano quelle
che stavano orientando il futuro. Doveva conoscere già questa
risposta.
«A Phoenix», rispose con sicurezza.
Ma avevo visto il passo successivo nella mente di Alice. Avevo
sentito la storiella che Bella avrebbe raccontato a Charlie, e sapevo
ciò che avrebbe ascoltato il segugio.
«No. Se dici a Charlie che torni a Phoenix, lo sentirà anche il
segugio», le feci notare.
«E tu gli farai credere che è un imbroglio, ovviamente». Cavò
fuori quest’ultima parola come se fosse spazientita. «Lui sa che noi
sappiamo di essere spiati. Non crederà mai che io stia andando
davvero dove dico di andare».
«È diabolica», commentò Emmett con una risatina.
Non ero tanto convinto: «E se non funziona?».
«Phoenix ha milioni di abitanti», disse Bella con tono ancora
irritato. Mi domandai se fosse la paura a mettere alla prova la sua
pazienza. Di sicuro aveva fiaccato la mia.
«Non è difficile trovare una guida del telefono», borbottai.
Roteò gli occhi. «Non tornerò a casa di mia madre».
«Eh?».
«Sono abbastanza grande per vivere da sola».
Alice decise di interrompere il nostro inutile battibecco. «Edward,
ci saremo noi con lei».
«E voi cosa farete in giro per Phoenix?».
«Resteremo chiusi in casa».
Emmett non aveva accesso alle visioni di Alice, ma il quadro nella
sua testa era simile a quello che io sapevo si sarebbe delineato.
Emmett e io nella foresta, intenti a dare la caccia al segugio. «Il
piano mi piace», disse.
«Chiudi il becco».
«Ascolta, se cerchiamo di incastrarlo mentre lei è qui attorno, c’è
un rischio molto più alto che qualcuno si faccia del male, lei o te che
cerchi di proteggerla. Invece, se riuscissimo a isolarlo...». Il quadro
nella sua mente si modificò mentre immaginava il segugio
accerchiato e lui che si avvicinava.
Se ce l’avessimo fatta, se fossimo riusciti a risolvere la faccenda
con il segugio alla svelta, allora sarebbe stata la scelta giusta. Ma
perché compierla era così doloroso?
Mi sarei sentito meglio se Bella si fosse dimostrata preoccupata
per la sua incolumità. Se avesse dimostrato di comprendere a fondo
quello che rischiava. Che non c’era solo la sua vita in gioco.
Forse era questa la chiave. Lei non si preoccupava per sé... lei si
preoccupava per me. Se le avessi fatto capire la mia angoscia
piuttosto che il suo pericolo mortale, forse sarebbe stata più cauta.
Il mio autocontrollo era debole. Quando parlai mi uscì poco più di
un bisbiglio, perché temevo che altrimenti mi sarei messo a urlare.
«Bella».
Incontrò il mio sguardo nello specchietto. Il suo era più sulla
difensiva che spaventato.
«Se lasci che ti accada qualcosa – qualsiasi cosa – ti riterrò
direttamente responsabile», dissi con dolcezza. «Lo capisci?».
Le tremarono le labbra. Finalmente si era resa conto del
pericolo? Sospirò forte e mormorò: «Sì».
Bene.
La mente di Alice si trovava in milioni di posti, molti dei quali
erano su un’autostrada soleggiata vista da dietro i vetri oscurati.
Bella sedeva sempre sul sedile posteriore, con il braccio di Alice
attorno a lei e lo sguardo inespressivo davanti a sé. Jasper
osservava dal posto del guidatore. Pensai a mio fratello, intrappolato
in una piccola vettura con il profumo di Bella per tante ore.
«Jasper è in grado di gestire la situazione?», domandai.
«Fidati, Edward», mi redarguì Alice. «Tutto sommato, finora si è
comportato molto, molto bene».
Ma la sua mente passò rapidamente in rassegna una decina di
scenari futuri, per ogni evenienza. In nessuno di questi Jasper
perdeva la concentrazione.
Valutai Alice. L’aspetto esile la faceva sembrare fragile, ma
sapevo che era un’avversaria temibile. Il segugio o chiunque altro
l’avrebbe sottovalutata. Questo doveva pur contare qualcosa.
Eppure non ero tranquillo a pensare che avrebbe dovuto proteggere
fisicamente Bella.
«E tu, pensi di poterla gestire?», mormorai.
Strinse gli occhi indignata. Aveva visto arrivare la domanda.
Potrei prenderti con gli occhi bendati.
Mi ringhiò, a lungo e rumorosamente, un suono inquietante e
feroce che riecheggiò nella jeep e fece fare un balzo al cuore di
Bella.
Per mezzo secondo non potei fare a meno di sorridere alla
ridicola prova di forza di Alice, poi tutta l’ironia scomparve di nuovo.
Come era potuto succedere? Come avevo potuto lasciare che fossi
separato da Bella, indipendentemente da quanto fossero temibili i
suoi guardiani?
Un altro pensiero spiacevole mi balenò nella mente. Bella e Alice
da sole che avviavano la loro amicizia, già prevista, peraltro. Alice
avrebbe svelato a Bella la sua soluzione a questo incubo?
Annuii, un breve brontolio, giusto per farle sapere che avevo
accettato il suo ruolo di protettrice di Bella. «Ma le tue idee, tientele
per te», la avvisai.
23. ADDII

Furono le ultime parole mentre tornavamo di corsa a Forks.


Ovviamente, terrorizzato com’ero all’idea di arrivare, la strada era
sembrata molto più breve. Arrivammo fin troppo presto alla casa di
Bella; le luci erano accese in ogni finestra, al piano terra come al
primo piano. Dal salone giungevano i rumori di una partita di
pallacanestro della NCAA. Mi sforzai di sentire qualcosa di non
umano nelle vicinanze, ma il segugio non sembrava essere arrivato.
E Alice non aveva ancora visto nessun futuro in cui questa sosta si
trasformasse in un attacco.
Forse avremmo dovuto solo fermarci. Lasciare che Bella facesse
ritorno alla sua vita normale, e noi trasformarci in perpetui guardiani.
Sapevo che Emmett, Alice, Carlisle, Esme – ed ero abbastanza
sicuro anche Jasper – si sarebbero uniti a me in questa specie di
sorveglianza. Per il segugio sarebbe stato impossibile prenderla con
così tanti occhi – e menti – che la tenevano sotto controllo. Quale
sarebbe stata la soluzione migliore: restare uniti o dividerci in tre
gruppi?
Mentre facevo queste considerazioni, Alice vide che il segugio
sarebbe rimasto in attesa, e che si sarebbe adattato. E poi, quando
la noia avesse preso il sopravvento, avrebbe cominciato una guerra
di logoramento. Gli amici di Bella sarebbero scomparsi nottetempo.
Così anche i suoi insegnanti preferiti. I colleghi di Charlie. Persone a
caso che non avevano legami con lei. Il numero delle vittime
sarebbe cresciuto al punto da costringerci in ogni caso a sparire. E
avrei potuto immaginare come si sarebbe sentita Bella per questi
innocenti che avrebbero pagato con la loro vita per garantire la sua
incolumità.
Quindi il piano iniziale avrebbe dovuto essere l’unico.
Era difficile gestire la strana sensazione fisica che accompagnava
questa presa di coscienza. Non che mi si fosse aperta una vera e
propria ferita nel petto, ma la sensazione era paurosamente
realistica. Mi chiesi se non si trattasse di una reazione umana
rimossa ormai da tempo, che non avevo mai provato nella mia vita
immortale perché non avevo mai avuto occasione di sentirmi preda
del panico in quel modo.
Bisognava spostarsi. Sapevo che era necessario dare al segugio
una traccia da seguire, ma allo stesso tempo desideravo che Bella
andasse via prima che lui arrivasse.
«Non è qui», dissi a Emmett. Alice lo sapeva già. «Andiamo».
Io e Alice scivolammo silenziosamente fuori dalla jeep, con le
menti che vagavano attraverso il tempo e lo spazio. Alice aveva visto
arrivare il segugio mentre eravamo ancora dentro. Si sentì fortissimo
il rumore dei miei denti che stridevano.
«Non preoccuparti, Bella», stava dicendo Emmett – con un tono
di voce che trovai troppo fiducioso – mentre la liberavamo
dall’imbracatura. «Ce ne sbarazzeremo in fretta».
«Alice», sibilai.
Si lanciò verso il pick-up, poi si buttò a terra e scivolò sotto il
predellino. In una frazione di secondo si era sistemata sotto il telaio,
completamente invisibile anche a un vampiro.
«Emmett».
Si era già arrampicato sull’albero di fronte al cortile. Il suo peso
stava piegando considerevolmente il pino, ma passò rapidamente
all’albero accanto. Mentre noi restavamo dentro, lui avrebbe
continuato a muoversi, sarebbe stato molto più visibile rispetto ad
Alice, ma a sua volta avrebbe visto qualunque cosa si muovesse
intorno e, se non altro, sarebbe stato un valido deterrente.
Bella aspettava che le aprissi la portiera. Sembrava paralizzata
dal terrore; l’unica cosa che si muoveva erano le lacrime che le
scendevano lentamente lungo le guance. Si riebbe quando mi
avvicinai per aiutarla a smontare dalla macchina. Mi sorprese quanto
difficile fosse in quel momento toccarla, sapendo che avrei dovuto
lasciarla di lì a poco. Il calore della sua pelle bruciava in un nuovo,
doloroso modo. Ignorai questo dolore per me ancora ignoto e la
strinsi in un abbraccio, sperando che il mio corpo l’avrebbe protetta.
Poi la portai di corsa in casa.
«Quindici minuti», le ricordai. Era ancora troppo tempo. Volevo
solo essere il più lontano possibile da quel luogo esposto.
«Ce la posso fare», replicò, con una voce più dura di quello che
mi aspettassi. Aveva un’espressione di ferrea determinazione.
Giunti sotto il portico, Bella mi impedì di proseguire. Mi fermai
automaticamente, anche se i miei muscoli fremevano per
quell’ulteriore ritardo.
I suoi occhi scuri mi fissavano intensamente. Mi strinse la faccia
tra le mani.
«Ti amo», disse con un filo di voce, ma come se volesse urlare.
«Ti amerò sempre, succeda quel che succeda».
Nel mio stomaco si spalancò una voragine e fu come se mi stessi
spezzando in due.
«Non ti succederà niente, Bella», ringhiai.
«L’importante è che tu segua il piano», insistette. «Proteggi
Charlie, per favore. Dopo stasera ce l’avrà sicuramente con me, e
voglio avere la possibilità di scusarmi, quando tutto sarà finito».
Non capivo cosa volesse dire. In quel momento ero troppo
confuso e in preda al panico per provare a decifrare i suoi oscuri
processi mentali.
«Entra, Bella. Dobbiamo sbrigarci».
«Una cosa ancora. Non ascoltare una sola parola di ciò che sto
per dire!».
Prima che potessi capire le sue due richieste criptiche, Bella si
alzò in punta di piedi e spinse fortissimo le sue labbra contro le mie,
con il massimo della forza di cui era capace. Più di quanta avrei mai
osato pensare di usare io con lei.
E mentre si allontanava, le guance e la fronte le si infiammarono.
Le sue lacrime, che durante la nostra breve e incomprensibile
conversazione si erano arrestate, ricominciarono a venir giù copiose.
Non riuscivo a capire perché stesse sollevando una gamba, ma poi
vidi che stava dando un violento calcio alla porta, che si aprì
sbattendo.
«Vattene, Edward!», urlò ferocemente. Anche con la TV accesa
era impossibile che Charlie non la sentisse.
Mi sbatté la porta in faccia.
«Bella?», disse Charlie, allarmato.
«Lasciami stare!», gridò Bella. Udii il tonfo dei suoi passi pestare
le scale mentre saliva al piano di sopra e poi un’altra porta sbattere
forte.
Era chiaro che il silenzio di prima nella jeep non era dovuto al
fatto che fosse pietrificata dalla paura: si stava invece preparando a
questo. Aveva elaborato tutto un copione. E il mio ruolo consisteva
nel restare invisibile e in silenzio, ipotizzai.
Charlie corse su per le scale, con passo incerto e malfermo.
Forse era mezzo addormentato.
Scalai un muro della casa, aspettando dietro la finestra per
vedere se Charlie avrebbe seguito Bella nella sua stanza. All’inizio,
non vedendo Bella fui preso da un piccolo spasmo di panico, ma poi
capii che si stava alzando in piedi accanto al letto con in mano una
borsa da viaggio e una specie di piccola sacca lavorata a maglia.
Charlie picchiò forte contro la porta. Provò a girare la maniglia,
ma Bella nel frattempo aveva chiuso a chiave; poi ricominciò,
picchiando ancora più forte.
«Bella, stai bene? Che succede?».
Aprii la finestra e mi infilai in camera mentre Bella gridava: «Me
ne torno a casa!».
«Ti ha trattata male?», chiese Charlie dall’altro lato della porta, e
io sussultai mentre correvo verso la cassettiera per aiutarla a fare le
valigie. Charlie non aveva torto.
Nonostante ciò, Bella urlò: «No!». Mi raggiunse alla cassettiera,
come se si aspettasse di trovarmi lì. Tenne aperta la valigia e io vi
lanciai dentro i vestiti, cercando di variare il più possibile i capi.
Avere solo magliette non l’avrebbe aiutata a mimetizzarsi.
Le chiavi del suo pick-up erano in cima alla cassettiera.
«Ti ha lasciata?», chiese Charlie con un tono più calmo. Questa
domanda non mi ferì.
La risposta di Bella mi sorprese.
«No!», urlò di nuovo, anche se pensavo che l’ipotesi di una
rottura fosse la scusa più plausibile. Mi chiesi dove ci avrebbe portati
il copione.
Charlie batté nuovamente contro la porta in maniera impaziente.
«Cos’è successo, Bella?».
Bella provò a tirare inutilmente la cerniera della borsa ormai
strapiena di vestiti.
«Io ho lasciato lui!», strillò.
Chiusi io la cerniera scostandole la mano e presi la borsa. Era
troppo pesante per lei? Se la riprese, impaziente, e mi preoccupai di
aiutarla a sistemare bene la bretella sulla spalla.
Appoggiai la fronte contro la sua giusto per un istante prezioso.
«Ti aspetto sul pick-up». Il sussurro che feci non nascose la
disperazione della mia voce. «Vai!».
La spinsi verso la porta, quindi mi tuffai di nuovo fuori dalla
finestra, di modo che, una volta uscita di casa, mi avrebbe trovato
sul posto.
Emmett era sul prato e mi aspettava. Puntò il mento verso est.
Orientai la mia mente in quella direzione e, come mi aspettavo, il
segugio era a poco meno di un chilometro da noi.
Quello grosso sta giocando alla sentinella, stasera.
Aveva visto Emmett tra gli alberi. Non riusciva però a vedere
nessun altro di noi. Aveva immaginato che sarei stato lì o aspettava
il momento giusto per tenderci un agguato? Avrei voluto avere
Jasper con noi. Se avessimo potuto accerchiarlo da tre lati...
Edward, mi avvertì Alice dal suo nascondiglio. Vagliò le possibilità
che scaturivano dal mio flusso di pensiero. Il segugio era sfuggente.
Avremmo rischiato di lasciare Bella sguarnita.
«Ma cos’è successo? Mi sembrava che ti piacesse», stava
domandando Charlie mentre scendeva le scale.
Presi una decisione definitiva su ciò che sarebbe successo dopo.
A bordo, rispose Alice. Scivolò da sotto al pick-up e si infilò nella
jeep. Dopo aver messo in folle, spinse silenziosamente la macchina
fuori dal vialetto, una mano sulla portiera e l’altra sollevata il più
possibile per muovere il volante con due dita. Non volevo che il
rombo improvviso del motore della jeep distraesse Charlie dalla
performance di Bella. Era meglio che credesse che fossi già partito.
Emmett guardò un istante Alice, poi inarcò le sopracciglia verso
di me. Devo aiutarla?
Scossi la testa. Charlie, mossi le labbra senza parlare. Procedi a
piedi.
Annuì, poi saltò su un albero dove sarebbe stato di nuovo visibile.
Avrebbe tenuto a distanza il segugio. Ma quello non si tirò indietro,
nemmeno quando vide Emmett; era affascinato da tutta quella
messinscena allestita per lui ed era sicuro che sarebbe sfuggito a un
inseguimento improvviso. Mi fece venire voglia di dimostrargli che
aveva torto. Ma non potevo rischiare di cadere in una trappola con
Bella così vicino.
«Il problema è proprio che mi piace», stava spiegando Bella, il
suono delle sue parole giungeva attutito e smorzato. Piangeva a
dirotto, e io sapevo che non era un’attrice così brava da fingere le
lacrime. Il dolore nella sua voce era palpabile. La voragine nel mio
stomaco si contorse in risposta a quell’agonia. Non avrebbe dovuto
accadere questo. Bella stava pagando per un mio errore. Per una
mia idiozia.
«Non ce la faccio più. Non posso mettere radici qui. Non voglio
finire intrappolata in questa noiosa stupida cittadina, come la
mamma! Non intendo ripetere il suo stesso errore idiota. Odio
Forks... non voglio sprecarci più neanche un minuto del mio
tempo!».
La risposta mentale di Charlie fu più profonda e feroce di quanto
mi sarei atteso.
Sentii i passi pesanti di Bella spostarsi verso la porta d’ingresso.
Montai silenziosamente nell’abitacolo del pick-up e misi la chiave in
posizione, poi mi abbassai. Emmett era arrivato vicino alla porta
d’ingresso, nascosto nell’ombra. Nondimeno, la distanza tra la porta
e il pick-up sembrava lunga. Mi concentrai sul segugio. Non si era
mosso, intento ad ascoltare il dramma che si stava svolgendo in
casa.
Che cosa avrebbe sentito? Quanto bastava: Bella che si
preparava a scappare, a correre. Senza pianificare di ritornare nel
prossimo futuro.
Sapeva che Emmett lo aveva visto. Poteva presumere che Bella
fosse al corrente che lui poteva ascoltare. O magari no.
«Bells, non puoi andartene ora», disse Charlie con calma, ma
con insistenza. «È notte».
«Se mi stanco dormirò nel pick-up».
Charlie immaginò sua figlia priva di coscienza, nell’abitacolo buio
del suo pick-up, sul ciglio dell’autostrada in mezzo al nulla, mentre
intorno a lei figure scure e amorfe si avvicinano sempre di più,
muovendosi furtivamente. Non era una visione da incubo del tutto
coerente, ma il mio senso di panico, selvaggio e irrazionale, gli
faceva eco.
«Aspetta almeno una settimana», implorò. «Lascia almeno che
Renée torni a casa».
I passi di Bella si arrestarono di colpo. Si sentì un suono, giusto
appena: erano le sue scarpe che cigolavano mentre lei si voltava ad
affrontarlo?
«Cosa?».
Scivolai fuori dal pick-up e restai in attesa in mezzo al cortile
davanti casa. Cosa avrei dovuto fare se quelle parole l’avessero
confusa o ritardata? Aveva capito che il segugio era vicino?
«Ha chiamato mentre eri fuori». Charlie inciampò nelle sue
stesse parole, rincorrendole per farle uscire. «Le cose non stanno
andando granché bene in Florida, e se Phil non trova un contratto
entro la fine della settimana torneranno in Arizona. Il vice allenatore
dei Sidewinders dice che forse hanno bisogno di un altro interbase».
Sia io che Charlie restammo col fiato sospeso, in attesa di una
sua risposta.
«Ho la chiave», mormorò, e i suoi passi erano ormai arrivati alla
porta. La maniglia cominciò a girare. Tornai immediatamente in
macchina.
Le sue parole suonarono come una debole scusa. Il segugio
avrebbe potuto dedurre che si trattava di una storia inventata per
Charlie e che non vi fosse nulla di vero.
La porta non si apriva.
«Lasciami andare, Charlie, per favore», disse Bella.
Le sue parole avrebbero voluto essere rabbiose, ma il dolore
nella voce prevalse su ogni altra emozione.
Alla fine, la porta si aprì. Bella avanzò e Charlie la seguì da
presso, con una mano tesa verso di lei. Bella avvertì quella mano,
mentre se ne allontanava.
Mi accovacciai contro le assi del pianale, pressoché invisibile.
Non potei fare a meno di sbirciare un istante fuori dal finestrino.
Senza voltarsi, Bella ringhiò: «Non ha funzionato, punto e basta.
Odio Forks, la odio!».
Erano parole abbastanza semplici, ma una terribile angoscia
trafisse Charlie lasciandolo lì impalato. La sua mente ne fu
scombussolata, come se avesse le vertigini. Nei suoi pensieri c’era
un’altra faccia, molto simile a quella di Bella e con il viso rigato di
lacrime. Ma gli occhi di questa donna erano di un azzurro chiaro.
Sembrava che Bella avesse scritto questa scena con cura.
Charlie rimase in piedi, stordito e a pezzi, mentre Bella correva
goffamente sull’erba rasata, ostacolata dalla sua pesante valigia.
«Ti chiamo domani», urlò girandosi verso Charlie, mentre
lanciava la borsa sul pianale del pick-up.
Non si era ripreso a sufficienza per poterle rispondere.
Non avevo più dubbi sul fatto che Bella avesse compreso la
gravità della situazione. Sapevo che non avrebbe mai causato a
nessuno un simile dolore, e tantomeno al padre, se ci fosse stata
un’alternativa.
Ero stato io ad averla messa in quella situazione infernale.
Bella girò intorno al cofano del pick-up. I rapidi e timorosi sguardi
che lanciava girandosi indietro non erano per Charlie. Aprì la portiera
e si mise alla guida. Allungò la mano per girare la chiave
dell’accensione sicura di trovarla già lì. Il motore ruggì, infrangendo il
silenzio della notte. Il che avrebbe facilitato il compito al segugio.
Tesi la mano per accarezzare il dorso della sua, con l’intento di
confortarla, pur sapendo che non sarebbe servito a nulla.
Non appena uscimmo dal vialetto, Bella lasciò cadere la mano
dal volante di modo che potessi prenderlo io. Il pick-up era lanciato
lungo la strada alla massima velocità. Charlie era rimasto lì dove lo
avevamo lasciato, ma la strada curvò e in un istante lo perdemmo di
vista. Mi spostai sul sedile del passeggero.
«Accosta», dissi.
Sbatté le palpebre contro le lacrime che le scivolavano sul viso e
poi si liberò della giacca da pioggia che ancora indossava. Superò
Alice, ma diede l’impressione di non aver notato la jeep sul ciglio
della strada. Mi chiesi se non l’avesse proprio vista.
Alice, che stava ancora spingendo la jeep per evitare di allarmare
Charlie, ci raggiunse facilmente.
«So guidare», insistette Bella. Quelle parole le uscirono spezzate
e un po’ tirate. Sembrava esausta.
Non restò granché sorpresa quando la spostai delicatamente
sulle mie ginocchia e mi misi al posto di guida. La tenni accanto a
me, vicino. E lei si abbandonò sfinita sul sedile.
«Non saresti capace di ritrovare la casa», dissi come a scusarmi,
ma non sembrava che si aspettasse spiegazioni. Non le importava.
Eravamo abbastanza lontani da casa ora (per quanto potessi
ancora sentire i pensieri glaciali di Charlie, immobile sulla porta), e
così Alice montò in macchina e accese il motore. Quando
scorgemmo dietro di noi dei fari, Bella si irrigidì e si voltò per vedere
attraverso il lunotto posteriore, con il cuore che le batteva forte.
«Non preoccuparti, è Alice». Le presi la mano e gliela strinsi.
«E il segugio?», sussurrò.
Ci sta seguendo ora. Alice riuscì a sentire il sussurro di Bella oltre
lo sferragliamento del motore. Emmett sta aspettando che la casa
sia al sicuro.
«Ha assistito all’ultima parte della tua esibizione», le dissi.
«E Charlie?», la voce era tesa.
Alice mi aggiornò. Il segugio ha superato la casa. Non lo vedo
tornare indietro. Em ci sta raggiungendo.
«Il segugio ha seguito noi», la rassicurai. «È alle nostre spalle in
questo momento».
La cosa non la confortò. Trattenne il respiro e sussurrò:
«Possiamo seminarlo?».
«No», ammisi. Non con quel ridicolo pick-up.
Bella si girò per guardare dal lunotto posteriore, anche se ero
sicuro che i fari della jeep le avrebbero impedito di vedere alcunché.
Alice stava osservando tutti i futuri collegati a Charlie che riusciva a
percepire. Un essere umano che lei non aveva mai incontrato non
era un soggetto facile. Ma non sembrava che il cacciatore o la sua
ansiosa compagna avessero in progetto di tornare.
Emmett sfrecciava lungo la strada giusto dietro di noi. Rimasi
sorpreso dalle sue intenzioni. Mi sarei aspettato che volesse
catturare il segugio per chiudere la faccenda nel modo più rapido e
violento. Invece i suoi pensieri erano rivolti a Bella. I suoi pochi
momenti trascorsi da guardia del corpo sembravano averlo toccato
profondamente. L’incolumità di Bella era diventata la sua priorità,
ora.
Bella aveva fatto emergere in tutti il loro lato protettivo.
Emmett stava immaginando che il segugio ci stesse osservando:
solo io e Alice sapevamo che si stava prudentemente tenendo a
distanza, limitandosi a seguire il rumore del pick-up nella notte.
Quella sera non si sarebbe avvicinato più di tanto. Eppure, Emmett
voleva che fosse chiaro che il segugio avrebbe dovuto passare da lui
prima di arrivare a Bella. Mentre correva fece un salto e atterrò oltre
la jeep, direttamente sul pianale del pick-up. Dovetti lottare con il
volante per non far sbandare la macchina.
Bella strillò, e la sua voce per lo sforzo si fece stridula.
Le tappai la bocca, attutendo il suono di modo che potesse
sentirmi. «È Emmett».
Respirò col naso, abbandonandosi di nuovo sul sedile. Le liberai
la bocca e la strinsi forte a me. Ebbi la sensazione che ogni muscolo
del suo corpo stesse tremando.
«Va tutto bene, Bella. Ti portiamo al sicuro», mormorai.
Sembrava che non mi avesse nemmeno sentito parlare. Continuò a
tremare. Il suo respiro si fece veloce e corto.
Provai a distrarla. Parlando con voce normale, come se non ci
fossero pericoli o timori, dissi: «Non immaginavo che fossi così
annoiata dalla vita di provincia. Mi sembrava che ti ci stessi
abituando molto bene... soprattutto negli ultimi tempi. Ma forse mi
sono solo illuso di averti reso la vita un po’ più interessante».
Forse non era stata un’osservazione delicata in quel momento,
considerando quanto l’avesse turbata quella fuga, ma aveva se non
altro avuto il merito di distrarla dai suoi pensieri. Si dimenò un po’
per sedersi più dritta.
«Non sono stata carina», sussurrò, ignorando le mie futili parole e
andando dritta al punto dolente. Poi abbassò gli occhi, come se si
vergognasse di incontrare il mio sguardo. «Ho ripetuto le stesse
parole che disse mia madre quando se ne andò. È stato un colpo
davvero basso». Avevo immaginato che potesse trattarsi di qualcosa
del genere, vista l’immagine che era apparsa nella mente di Charlie.
«Non preoccuparti. Saprà perdonare», le dissi.
Mi guardò seria, incredula. Provai a sorriderle, ma la mia faccia
non voleva obbedire.
Riprovai. «Bella, andrà tutto bene».
Ebbe un tremito. «Non quando sarai lontano». Le sue parole
erano poco più che un respiro.
La strinsi più forte e il buco nello stomaco si fece ancora più
grande. Aveva ragione: tutto sarebbe andato male quando non fosse
stata più con me. Non sapevo davvero come avrei fatto.
Feci uno sforzo per rasserenare il viso e fare in modo che la mia
voce suonasse il più possibile lieve. «Ci rivedremo tra qualche
giorno». Nel momento in cui le dissi quelle parole sperai che fossero
anche vere. Ma continuavano a suonarmi false. Alice aveva visto
così tanti futuri diversi... «Non dimenticare», aggiunsi, «che l’idea è
stata tua».
Sbuffò forte dal naso. «Era l’idea migliore... per forza è stata
mia».
Provai di nuovo a sorridere, ma poi mi arresi.
«Perché è successo tutto questo? Perché io?». Sussurrò queste
domande in maniera categorica, come se fossero retoriche.
Tentai comunque di rispondere, ma la mia voce suonò spigolosa.
«È colpa mia. È stato stupido esporti in quella maniera».
Alzò lo sguardo su di me, sorpresa. «Non è ciò che intendevo»,
continuò. «Ero lì, certo. Ma non ho infastidito gli altri due. Perché
questo James avrebbe deciso di uccidere me? Con tutta la gente
che c’è, perché proprio io?».
Era una domanda corretta, perspicace. E conteneva più di una
risposta. Meritava una spiegazione approfondita.
«Stasera ho analizzato bene la sua mente. Temo che in ogni
caso non sarei riuscito a impedire tutto questo. In un certo senso, è
anche colpa tua». La mia voce si distorse e sperai che riuscisse a
cogliere lo humor nero, l’ironia. «Se il tuo odore non fosse così
straordinariamente delizioso, forse non ne sarebbe stato toccato. Ma
quando ti ho difesa...». Ricordai la sua incredulità, perfino la sua
indignazione, allorché avevo cercato di ostacolarlo. L’arroganza, l’ira.
«Be’, ho peggiorato le cose, e di molto. Non è abituato a essere
ostacolato, e non importa quanto insignificante sia la preda. Non si
ritiene altro che un cacciatore. La sua esistenza è fatta soltanto di
pedinamenti, è sempre alla ricerca di nuove sfide. All’improvviso,
gliene abbiamo fornita una su un piatto d’argento: un folto clan di
forti guerrieri che proteggono l’unico elemento vulnerabile del
gruppo. Non puoi immaginare quanto lui sia euforico in questo
momento. È il suo gioco preferito, e lo abbiamo appena invitato a
una partita più eccitante del solito».
Poco importavano le mie analisi, c’era poco da girarci intorno.
Una volta portata in quella radura non c’era altro che potessi fare. Se
non mi fossi opposto a lui, forse la sua voglia di giocare non si
sarebbe innescata.
«D’altro canto, se fossi rimasto impassibile», mormorai, rivolto in
particolare a me stesso, «ti avrebbe uccisa seduta stante».
«Pensavo...», sussurrò, «che sugli altri il mio profumo non avesse
lo stesso effetto», esitò un momento, «...che ha su di te».
«Infatti non ce l’ha». Ciò che lei era per me, anche solo
fisicamente, era qualcosa di più intenso di tutto quello che avessi
mai visto in qualunque altra mente immortale. «Ma ciò non significa
che tu non sia comunque una tentazione. Se il segugio – o uno degli
altri due – si fosse sentito attratto da te come lo sono io, sarebbe
stato inevitabile battersi immediatamente».
Sentii il suo corpo tremare contro il mio.
Sarebbe stato più semplice, però, mi resi conto in quel momento,
se fossi arrivato a combattere. La rossa sarebbe di sicuro scappata
via spaventata, e dubitavo che Laurent sarebbe rimasto al fianco del
segugio giacché era chiaro che non avevano speranze. Ma anche se
fossero rimasti uniti, non sarebbero mai potuti sopravvivere.
Soprattutto se Jasper avesse lanciato un attacco a sorpresa
dall’interno della cortina da lui creata mentre tutti gli occhi erano su
Emmett. Avevo visto abbastanza nei suoi ricordi da poter affermare
che Jasper avrebbe potuto gestirli tutti e tre insieme. Sempre che
Emmett glielo avesse lasciato fare.
E se fossimo stati un clan normale (anche se non avremmo mai
potuto essere considerati normali per via del nostro numero),
probabilmente avremmo attaccato al primo affronto.
Ma non eravamo normali, eravamo civilizzati. Provavamo a vivere
seguendo regole più elevate. Più miti e pacifiche. Per colpa di nostro
padre.
Per colpa sua avevamo esitato. Avevamo scelto la strada più
umana, perché questo era il nostro modo di vivere.
Questo ci aveva reso... più deboli?
Tremai al pensiero, ma subito dopo decisi che la nostra scelta era
ancora quella giusta, anche se ci rendeva più deboli. Era ciò che
sentivo. Risuonava in profondità nella mia mente, nel mio essere... o
nella mia anima, se fosse esistito un qualcosa del genere.
Qualunque cosa fosse, guidava questa forma corporea.
Ma non importava ora. Alice avrebbe anche potuto darci un
qualche vantaggio sul futuro, ma il passato per noi era ormai perduto
come per chiunque altro. Non avevamo attaccato, e ora davanti a
noi trovavamo l’eventualità più complicata.
«A questo punto credo di non avere altra scelta. Sarò costretto a
ucciderlo», mormorai. «E a Carlisle non piacerà».
Ma avrebbe capito, ne ero sicuro. Avevamo dato a quel segugio
la possibilità di scegliere se andarsene. Non aveva intenzione di
accettare la nostra offerta. Restava solo la scelta se ucciderlo o
essere uccisi.
«Come si uccide un vampiro?». La voce di Bella era un sospiro.
Riuscivo ancora a sentire il suono delle lacrime soffocate in essa.
Forse avrei dovuto anticipare quella domanda.
Mi fissò con una paura diversa rispetto a prima, quasi come se si
preoccupasse che il compito sarebbe toccato a lei. Non potevo mai
essere sicuro con Bella, ovviamente.
Non cercai di addolcire la realtà. «L’unica maniera possibile è
farlo a pezzi e bruciarne i resti».
«Gli altri due combatteranno con lui?».
«La donna sì». Se fosse riuscita a frenare il terrore, cioè. «Non
sono sicuro di Laurent. Il loro legame non è così forte... si è unito a
loro soltanto per convenienza. L’atteggiamento di James, nel prato,
lo metteva in imbarazzo». Per non parlare del fatto che James aveva
progettato di uccidere Laurent. Forse avrei potuto avvertirlo; avrebbe
sicuramente cambiato alleanza.
«Ma James e la donna... cercheranno di ucciderti?», sussurrò,
con la voce distorta dal dolore.
Fu allora che capii. Come al solito si stava facendo prendere dal
panico per il motivo sbagliato.
«Bella, non osare perdere tempo a preoccuparti per me. Ora devi
soltanto badare a proteggerti e – per favore, per favore – tenta di
non essere troppo temeraria».
Fece finta di nulla. «Ci segue ancora?».
«Sì. Però non attaccherà in casa. Non stanotte».
Non mentre eravamo insieme. Era la nostra separazione ciò che
il segugio voleva? Mi ricordai cosa Alice aveva visto succedere se
avessimo provato a proteggere Bella lì. Non mi piaceva Mike
Newton, ma né lui né nessun altro a Forks rappresentava un
sacrificio accettabile.
Una volta arrivati nel vialetto spensi il motore, considerando che
non ci sarebbe stato nessun sollievo nel raggiungere casa mia. Non
c’era un posto sicuro finché il segugio fosse rimasto in vita.
Emmett era ancora irritato. Avrei voluto comunicargli la posizione
del segugio per alleviare la sua agitazione, ma non potevo rischiare
di essere sentito. Il segugio aveva intuito che avevamo delle abilità
fuori dal comune: fornirgli degli indizi in merito lo avrebbe aiutato.
Mi accorsi che i suoi pensieri si stavano spostando alla periferia
del mio udito proprio mentre interveniva Alice.
Ha incontrato la femmina dall’altra parte del fiume. Si sono
separati di nuovo e vigilano. Lei prende la montagna; lui gli alberi.
Il fatto che fossero più lontani non mi fece sentire per nulla
meglio.
La mentalità iperzelante da guardia del corpo di Emmett aveva
ormai preso il sopravvento. Arrivati a casa, balzò giù dal pianale del
pick-up e s’incamminò con passo misurato verso il lato passeggero.
Aprì la portiera e prese Bella.
«Con gentilezza», gli ricordai quasi senza emettere suono.
Lo so.
Avrei potuto fermarlo. Non era necessario. Ma arrivati a quel
punto le precauzioni non erano mai abbastanza. Se fossi stato più
cauto non ci saremmo trovati in questa situazione.
Mi sentivo stranamente al sicuro nel vedere Emmett, massiccio e
indistruttibile, portare Bella tra le sue colossali braccia: era
praticamente invisibile nascosta dietro di esse. In un istante Emmett
aveva oltrepassato la porta d’ingresso. Un attimo dopo Alice e io gli
fummo accanto.
Il resto della famiglia era riunito in salotto. Erano tutti in piedi, in
circolo e al centro c’era Laurent.
Dai suoi pensieri emergeva spavento e dispiacere per quanto
stava accadendo. La paura si acuì solo quando Emmett mise con
delicatezza Bella in piedi dietro di me e avanzò verso di lui, con un
ringhio sordo nel petto. Laurent fece subito un mezzo passo indietro.
Carlisle lanciò uno sguardo di avvertimento a Emmett, che si
ritrasse stupito. Esme era in piedi accanto a Carlisle, i suoi occhi
guizzavano avanti e indietro dalla faccia di Bella a me. Anche
Rosalie stava fissando Bella, la stava fulminando, ma per quanto
possibile cercai di ignorarla. Avevo cose più importanti a cui
pensare.
Attesi finché gli occhi di Laurent non corsero a me.
«È sulle nostre tracce», gli dissi, sollecitando dei pensieri che
volevo ascoltare.
Ovviamente sta sulle tracce dell’umana. E la troverà. «Era ciò
che temevo», disse ad alta voce.
Devo togliermi di torno, continuò a pensare. James non penserà
che ho scelto l’altra parte. L’ultima cosa di cui ho bisogno è che lui
dopo si metta a cercare me. Laurent soffocò un brivido. Forse posso
dirgli che sto raccogliendo informazioni. La sua faccia, però, quando
si è separato da noi nel bosco... Meglio sparire mentre è in piena
caccia.
Digrignai di nuovo i denti.
Laurent mi guardò nervoso.
Conosceva abbastanza bene James da capire la spaccatura che
aveva generato nello spiazzo. Sebbene non avessi alcun desiderio
di fargli un favore, sapevo che ci sarebbe stato grato se avessimo
ucciso James.
«Vieni, amore», udii Alice sussurrare nell’orecchio di Jasper.
Quando eravamo entrati in casa non l’avevo notato; si stava ancora
mimetizzando. Jasper obbedì senza chiedere nulla, nemmeno nei
suoi pensieri. I due sfrecciarono su per le scale mano nella mano. Lo
sforzo di Jasper fu così efficace che Laurent nemmeno si preoccupò
di vederli andare via. Vidi che Alice avrebbe scritto le informazioni
necessarie, cosicché Laurent non potesse sentirle. Non ci sarebbe
voluto molto a mettere in valigia ciò di cui avevano bisogno.
«Cosa farà?», chiese Carlisle a Laurent, anche se avrei potuto
rispondere io a questa domanda.
«Mi dispiace», disse Laurent sforzandosi di sembrare sincero. Mi
dispiace se ho incontrato questi demoni. Avrei dovuto immaginarlo,
prima di scherzare con il fuoco. Quella maledetta noia mi ha fatto
impazzire. «Temevo proprio che tuo figlio, difendendo la ragazza,
l’avrebbe scatenato». Sì che l’avrebbe scatenato. Ha fatto in modo
che James non lascerà perdere finché non saranno morti entrambi.
È come se questi forestieri vivessero in un altro mondo. O almeno,
così credono. Ma il mondo reale sta per abbattersi su questa loro
fantasia.
«Lo puoi fermare?», incalzò Carlisle.
Oh! «Quando James si mette all’opera, niente può fermarlo».
«Lo fermeremo noi», ringhiò Emmett.
Laurent guardò Emmett quasi speranzoso. Se solo fosse
possibile. Mi renderebbe sicuramente la vita più facile.
«Non ci riuscirete», ci mise in guardia Laurent. Sembrava sicuro
che ci stesse facendo un grande favore a darci queste informazioni.
«In trecento anni non ho mai visto nessuno come lui. È
assolutamente letale. Per questo mi sono unito alla sua cricca».
Alcuni ricordi sparsi delle sue avventure con James e Victoria gli
attraversarono la mente, sebbene Victoria fosse sempre una figura
sullo sfondo, dietro le quinte. James aveva reso se non altro
interessante la vita di Laurent, ma il sadismo di quelle furie
scatenate negli ultimi anni aveva cominciato a stancarlo. A quel
punto, non c’era più un modo sicuro per lui di sottrarsi a loro.
Avrebbe voluto sentirsi ottimista ora, ma aveva visto James
trionfare oltre ogni aspettativa. Guardò Bella, e tutto ciò che vide fu
una ragazza umana, una tra tanti miliardi, del tutto simile alle altre.
Non pensò a queste parole prima di pronunciarle. «Sei sicuro che
ne valga la pena?».
Il ruggito che mi sfuggì dai denti fu come una detonazione.
Laurent passò subito in una posizione di sottomissione, mentre
Carlisle sollevò la mano.
Controllo, Edward. Non è lui il nostro nemico.
Cercai di placare la mia ira. Carlisle aveva ragione, per quanto
Laurent non fosse certo nemmeno nostro amico.
«Temo che sia il momento di fare una scelta», disse Carlisle.
Non mi sono rimaste molte scelte, pensò Laurent. Posso solo
tagliare la corda e sperare che James non pensi che valga la pena
darsi da fare per me. La sua mente tornò alla conversazione
leggermente meno tesa che avevano avuto prima del nostro arrivo e
si fissò su un’unica informazione. Ho chiaramente tagliato i ponti con
questa combriccola, ma forse posso circondarmi di altri amici. Amici
con dei poteri.
«Sono affascinato dallo stile di vita che conducete qui». Sentiva
che stava scegliendo le parole in modo molto diplomatico, cercando
di stabilire un contatto visivo con ognuno di noi. Poter ascoltare il
suo monologo interiore aveva rovinato tutto l’effetto del suo discorso.
«Ma non mi ci voglio immischiare. Non vi sono ostile, ma non voglio
mettermi contro James. Penso che mi dirigerò a nord, verso il clan di
Denali». Immaginò cinque forestieri come Carlisle, per nulla
attaccabrighe, ma con elementi tra loro dotati di grandi numeri e
poteri. Forse questo avrebbe fermato per un po’ James.
Preso da un sentimento di gratitudine, Laurent si girò verso
Carlisle, per metterlo di nuovo in guardia.
«Non sottovalutate James. È dotato di un cervello brillante e
sensi impareggiabili. Sa muoversi bene quanto voi nel mondo degli
umani, e non vi attaccherà mai a testa bassa...». Gli passarono
davanti agli occhi alcuni dei contorti stratagemmi di James. Il
segugio aveva pazienza... e senso dello humor. Humor nero.
«Mi dispiace per ciò che abbiamo scatenato», proseguì Laurent.
«Mi dispiace davvero».
Inclinò la testa, nuovamente in segno di sottomissione, ma i suoi
occhi guizzarono fermandosi un istante su Bella, e sembrava
confuso al pensiero del rischio che stavamo correndo per
proteggerla. Non si rendono conto di cosa sia James, concluse. Non
mi credono. Mi chiedo quanti di loro lascerà vivi.
Laurent pensava che fossimo deboli. Vide nel nostro apparente
addomesticamento una debolezza. Prima mi ero preoccupato della
stessa cosa, ma adesso non più. Deboli non era l’impressione che
avevo intenzione di lasciare a James. Ma Laurent credesse pure che
James avrebbe vinto. Poteva nascondersi nel terrore anche per i
prossimi cent’anni, non l’avrei compianto per il suo dolore.
«Vai in pace», disse Carlisle, in tono di offerta e di comando al
contempo.
Gli occhi di Laurent attraversarono la stanza, apprezzando un
tipo di vita che aveva lasciato tanti anni prima. Per quanto non fosse
un palazzo (lui ne aveva abitati svariati), la nostra casa trasmetteva
un senso di stabilità e di protezione che lui non provava da secoli.
Annuì alle parole di Carlisle, e per un momento avvertii uno
strano tipo di sentimento nel vampiro dai capelli neri verso mio
padre. Un senso di rispetto e un desiderio di appartenenza. Ma
represse l’emozione prima che potesse mettere radici, e stava già
correndo fuori dalla porta d’ingresso senza alcuna intenzione di
rallentare fino a che non si fosse sentito in salvo nell’oceano, certo
che il suo odore sarebbe stato irrintracciabile.
Esme si precipitò in soggiorno per abbassare la paratia di ferro
delle vetrate che si aprivano sul retro della casa.
«Quanto è vicino?», mi chiese Carlisle.
Laurent era ormai quasi fuori dalla mia portata e non accennava
a rallentare. Non aveva voglia di imbattersi in James una volta lì
fuori. Non avrebbe sentito nulla di quello che avremmo detto. Cercai
di raggiungere James. La visione di Alice mi aveva fornito le
coordinate. Era abbastanza lontano anche lui, non poteva sentire i
nostri piani.
«Circa cinque chilometri al di là del fiume. Ci sta girando attorno
per incontrare la femmina».
L’avrebbe incontrata su un’altura, da dove avrebbe potuto vedere
in che direzione ci saremmo mossi.
«Qual è il piano?», chiese Carlisle.
Sebbene sapessi che il segugio non poteva sentirci, e le paratie
stavano ancora stridendo, abbassai la voce. «Noi lo porteremo fuori
strada, Jasper e Alice accompagneranno Bella a sud».
«E poi?».
Sapevo che cosa mi stava chiedendo. Lo guardai dritto negli
occhi mentre rispondevo.
«Non appena Bella sarà al sicuro, gli daremo la caccia».
Anche se Carlisle sapeva che sarebbe successo, provò un lampo
improvviso di dolore. «Immagino che non ci sia altra scelta».
Carlisle aveva scrupolosamente protetto la vita per tre secoli. Era
sempre stato capace di trovare un compromesso con gli altri vampiri.
Non era stato facile per lui, ma era abituato alle difficoltà.
Dovevamo sbrigarci, non lasciare al segugio più tempo del
necessario prima di dargli una traccia da seguire. Ma c’erano degli
aspetti pratici che dovevamo risolvere prima di poter cominciare a
correre.
Attirai lo sguardo di Rose. «Portala di sopra e scambiatevi i
vestiti».
Confondere gli odori era un primo passo. Anch’io avrei preso
qualcosa di Bella per creare una scia che avrebbe spinto il segugio
ad avanzare.
Rosalie lo sapeva già, ma i suoi occhi fiammeggiarono di
incredulità.
Non vedi cosa ci ha fatto? Ha rovinato tutto! E tu vuoi che io la
protegga?
Il resto della risposta lo disse ad alta voce, sputando veleno,
intenzionata a farlo sentire anche a Bella. «Perché dovrei? Cos’è lei
per me? Nient’altro che una minaccia... un pericolo a cui tu hai
deciso di esporre tutti noi».
Bella sobbalzò, come se Rosalie l’avesse schiaffeggiata.
«Rose...», mormorò Emmett, mettendole una mano sulla spalla.
Lei la scrollò via. Emmett cercò il mio sguardo, aspettandosi quasi
che le saltassi addosso.
Ma nulla di tutto ciò contava. I capricci da bambina viziata di
Rose erano sempre stati irritanti, ma quell’ultimo meschino scoppio
d’ira era del tutto intempestivo e il tempo era proprio ciò che mi
mancava.
Se avesse deciso di smettere di essere mia sorella quella notte,
sarebbe stata una sua scelta e io l’avrei accettata.
«Esme?». Sapevo già quale sarebbe stata la sua risposta.
«Certo!».
Capì che non c’era tempo. Prese con delicatezza Bella in braccio,
come aveva fatto prima Emmett, sebbene l’effetto fosse differente, e
scappò via di corsa su per le scale con lei.
«Cosa facciamo?», sentii Bella chiedere dallo studio di Esme.
Lasciai andare Esme e cercai di concentrarmi. Il segugio e la sua
selvaggia compagna si erano spostati fuori dalla mia portata. Non
potevano sentirci ma ero sicuro che potevano vederci. Avrebbero
visto le nostre macchine. E ci avrebbero seguiti.
Di cosa abbiamo bisogno?, chiese Carlisle.
«I telefoni satellitari. La borsa sportiva grande. I serbatoi sono
pieni?».
Ci penserò io. Emmett corse fuori, verso il garage. Tenevamo
sempre delle riserve di benzina per le emergenze.
«La jeep, la Mercedes e anche il pick-up», gli dissi a bassa voce.
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Ci dividiamo in tre gruppi? Carlisle non era dell’avviso di dividere
le forze.
«Alice ha visto che è la scelta migliore».
Lo accettò.
Si farà male. Non riflette. Si lascia completamente prendere. È
tutta colpa della ragazza!
Rosalie continuava a tempestarmi con le sue proteste. Ma fu
facile ignorarla. Fu facile fingere che nemmeno fosse lì.
Esitai prima di parlare. «Alice ti ha visto con Emmett e me. Ma
non possiamo lasciare soltanto Esme a controllare Charlie».
Carlisle si voltò verso Rosalie con un’espressione severa.
«Rosalie, farai la tua parte per la nostra famiglia?».
«Per Bella?», disse, pronunciando il suo nome con irrisione.
«Sì», rispose Carlisle. «Per la famiglia, come ho detto».
Rosalie gli lanciò un’occhiata risentita, ma riuscii a sentirla
ragionare sulle possibili opzioni. Se avesse portato avanti questo
puntiglio, e ci avesse voltato le spalle, allora Carlisle sarebbe
sicuramente rimasto lì con Esme piuttosto che essere in prima linea,
il che avrebbe esposto Emmett a maggiori pericoli. Rose vedeva
solo il pericolo che poteva correre Emmett. Ma c’era una parte di lei
che si stava innervosendo per il mio palese distacco.
Alla fine sollevò gli occhi al cielo: «Ovviamente non lascerò che
Esme vada da sola. Ci tengo ancora alla famiglia».
«Grazie», rispose Carlisle – con più calore di quanto mi sarei
preoccupato di mostrare io – e poi schizzò fuori dalla stanza.
In quel momento, Emmett stava entrando dalla porta d’ingresso
con a tracolla un borsone in cui mettevamo le nostre attrezzature
sportive. Era abbastanza grande da contenere una persona. Per
quanto era stato riempito sembrava che contenesse già qualcuno al
suo interno.
Alice apparve in cima alle scale, giusto in tempo per incontrarsi
con Bella ed Esme che intanto stavano uscendo dallo studio di
Esme. Insieme sollevarono Bella per i gomiti e la portarono giù per le
scale. Jasper seguiva dietro. Era chiaramente teso, contratto, i suoi
occhi vagavano senza sosta dalla finestra alla parete anteriore della
casa. Provai a pensare al suo lato selvaggio per tranquillizzarmi.
Jasper era più letale delle migliaia di vampiri che avevano provato a
distruggerlo. Quel giorno aveva esibito nuove abilità che non avrei
mai immaginato possedesse, ed ero sicuro che avesse altri assi
nella manica. Il segugio non aveva idea contro cosa si stesse
mettendo. Con Jasper al suo fianco, Bella sarebbe stata più al sicuro
che con chiunque altro. E con Alice dietro, il segugio non avrebbe
potuto coglierli di sorpresa. O almeno così volevo credere.
Carlisle era già tornato con i telefoni. Ne diede uno a Esme, e poi
le sfiorò la guancia. Lei lo guardò con totale fiducia. Era sicura che
stavamo facendo la cosa giusta e che per questo avremmo avuto
successo. Avrei voluto avere la sua stessa fiducia.
Mi consegnò una pallina di stoffa. Calzini. L’odore di Bella era
fresco e pungente. Lo misi in tasca.
«Esme e Rosalie prenderanno il tuo pick-up, Bella», le disse
Carlisle, come se chiedesse il permesso. Era tipico di lui.
Bella annuì.
«Alice, Jasper: prendete la Mercedes. A sud i finestrini scuri vi
saranno necessari».
Jasper annuì. Alice lo sapeva già.
«Noi prendiamo la jeep. Alice, abboccheranno?».
Alice si concentrò, stringendo con forza i pugni. Non era un
processo semplice cercare di intuire le mosse di chi in effetti non era
mai entrato in contatto con nessuno di noi, ma stava cercando di
stabilire un contatto con questi nuovi nemici. Con il tempo, sarebbe
diventata più brava. Ma se tutto fosse andato bene, non ne avremmo
avuto bisogno. Se tutto fosse andato bene, l’indomani sarebbe tutto
finito.
Vidi il segugio lanciarsi dalla cima di un albero all’altra, tenendo
d’occhio la nostra jeep in fuga. La rossa si teneva a distanza,
seguendo il rumore del pick-up di Bella che scoppiettava diretto a
nord con qualche minuto di ritardo. Le variazioni possibili erano
minime.
Nel momento in cui si rilassò, entrambi potevamo dirci tranquilli.
«Il segugio pedinerà voi tre. La donna seguirà il pick-up. A quel
punto noi dovremmo avere via libera».
Carlisle annuì. «Andiamo».
Pensavo di essere pronto. I secondi scorrevano nella mia testa
martellanti come colpi di tamburo. Non lo ero.
Bella sembrava così infelice accanto a Esme, aveva uno sguardo
confuso, come se non riuscisse a capire in che modo fosse cambiato
tutto così in fretta. Solo un’ora prima eravamo completamente felici.
Ora invece era la preda in una battuta di caccia, affidata, per la sua
protezione, alle mani di vampiri che a malapena conosceva. Non era
mai apparsa così vulnerabile come in quel momento, lì in piedi, sola
in una stanza affollata da sconosciuti non umani.
Può spezzarsi un cuore morto?
Le ero accanto, le braccia erano strette intorno a lei, per
sollevarla da terra. Il suo calore era come sabbie mobili e io volevo
sprofondarci dentro per non risalire più in superficie. La baciai solo
una volta, preoccupato che il piano sarebbe andato in fumo se non
fossi riuscito ad allontanarmi da lei. A una parte di me non importava
se ogni vita umana di Forks, La Push e Seattle venisse sacrificata
perché restasse al mio fianco.
Ma dovevo essere più forte di così. Avrei messo fine a quella
storia. Avrei fatto sì che tornasse di nuovo al sicuro.
Era come se tutte le cellule del mio corpo si stessero spegnendo
una a una mentre la rimettevo in piedi. Le mie dita si soffermarono
sul suo viso, e cominciarono a pizzicare non appena mi costrinsi a
staccarle.
Più forte di così, mi dissi. Dovetti interrompere tutta quella agonia
per poter eseguire il mio compito. Annientare il pericolo.
Mi allontanai.
Pensavo di sapere cosa fosse il bruciore.
Carlisle ed Emmett mi seguirono da presso. Presi il borsone da
Emmett. Sapevo cosa si aspettava il segugio: che io sarei stato
troppo debole per perderla di vista. Mentre facevo di corsa i gradini
d’ingresso fiancheggiato da mio padre e mio fratello, imbracciavo il
borsone come se dentro vi fosse qualcosa di infinitamente più
prezioso che non dei palloni da calcio o delle mazze da hockey.
Emmett montò sul sedile posteriore della jeep e io misi il borsone
proprio accanto a lui, provando a dare l’impressione di avere un
atteggiamento circospetto. Un istante dopo ero al volante, Carlisle
era già accanto a me. Partimmo a un’andatura che avrebbe
terrorizzato Bella se fosse stata davvero lì con noi.
Ma non dovevo pensare in questo modo. Dovevo fidarmi di Alice
e Jasper e rimanere concentrato sul mio compito.
Il segugio era ancora troppo lontano perché potessi sentirlo. Ma
sapevo che ci stava guardando, che ci seguiva. Lo avevo visto nella
mente di Alice. Dopo aver svoltato verso nord per imboccare
l’autostrada, accelerai. La jeep era molto più veloce del pick-up, ma
non abbastanza per concederci un grande distacco, anche andando
alla massima velocità a cui potevo tirare l’auto senza rischiare di
danneggiare il motore. Ma non volevo superare il segugio. Volevo
solo che vedesse che stavo spingendo la jeep al massimo, di modo
che pensasse che eravamo in fuga. Speravo che non avrebbe capito
che avevo scelto la jeep proprio per questa ragione. D’altronde non
sapeva quali altre macchine avevo in garage.
Anche se si trattava solo di una lievissima traccia, avvertii che si
era avvicinato abbastanza perché lo sentissi.
...prendono un traghetto? Altrimenti dovrebbero fare un giro
troppo lungo. Potrei tagliare...
«Chiama», dissi senza quasi muovere le labbra, sebbene sapessi
che era alle nostre spalle e troppo distante da noi per vedere la mia
faccia.
Carlisle non portò il telefono all’orecchio, ma se lo tenne sulla
coscia, di modo che non fosse visibile, e compose con una mano il
numero. Sentimmo tutti il sordo clic mentre Esme rispondeva. Non
disse nulla.
«Via libera», disse Carlisle sussurrando. Riattaccò.
E anche io staccai. Non potevo vedere cosa stesse facendo Bella
ora. Non avevo modo di sentire la sua voce. Mi scrollai di dosso la
disperazione prima che potessi cominciare a crogiolarmici.
Avevo un compito da svolgere.
24. L’IMBOSCATA

Il segugio scelse di correrci dietro, senza preoccuparsi di quale


fosse il nostro itinerario. Ogni tanto coglievo il filo dei suoi pensieri,
ma solo poche parole, o una visione della jeep. Ci seguiva dall’alto,
sulle montagne, senza preoccuparsi che questo lo avrebbe
allontanato dalla strada di svariati chilometri. Riusciva ancora a
vederci.
Non volevo pensare a dove fosse Bella in quel momento, a cosa
stesse facendo e dicendo. Mi avrebbe distratto troppo. Ma erano
rimaste alcune cose in sospeso.
Sussurrai delle istruzioni a Carlisle e lui inviò messaggi al
cellulare di Alice. Probabilmente non era necessario, ma mi faceva
sentire meglio.
«Bella ha bisogno di mangiare almeno tre volte al giorno. E
l’idratazione è importante. Dovrebbe avere sempre acqua a
disposizione. L’ideale sono otto ore di sonno».
Carlisle, tenendo il cellulare basso, digitava alla stessa velocità
con cui io parlavo.
«E...». Esitai. «Di’ ad Alice di non parlare della nostra
conversazione di prima nella jeep. Se Bella fa domande, che
evitasse di rispondere. Dille che sono molto serio riguardo a
questo».
Carlisle mi guardò con curiosità, ma digitò il mio messaggio.
Immaginai Alice che, all’altro capo, roteava gli occhi.
Rispose con la lettera «S» a mo’ di assenso. Lo interpretai come
un segnale che Bella era ancora sveglia e che Alice avrebbe tenuto
le mie istruzioni per sé. Se la sarebbe vista brutta se non mi avesse
dato ascolto.
Emmett stava pensando a cosa avrebbe fatto quando avesse
avuto il segugio per le mani. Le immagini nella sua mente erano
piacevoli da guardare.
Quando dovemmo fare rifornimento, usai una delle grosse
taniche che Emmett aveva caricato sul retro. Nella mia tasca, i
calzini di Bella avrebbero lasciato una leggerissima traccia del suo
odore nell’aria. Mi mossi con uno scatto scomposto, come se il mio
unico obiettivo fosse di ripartire in tutta fretta, e fui soddisfatto
quando il segugio si avvicinò per guardare. Per un momento fu a
meno di un chilometro di distanza. Volevo volgere a mio favore la
situazione, trasformare la fuga in un’imboscata, ma era troppo
presto. Eravamo ancora troppo vicini all’acqua.
Non cercai di creare confusione rispetto al nostro itinerario,
seguendo in maniera il più lineare possibile le strade sinuose che mi
separavano dalla mia destinazione. Speravo che il segugio
interpretasse questo fatto come volevo io, e cioè che avevo una
meta ben precisa in mente, un luogo sicuro e difendibile. Conosceva
poco di noi, ma di sicuro sapeva questo: avevamo più risorse fisiche
a nostra disposizione rispetto a un normale nomade. Inoltre,
eravamo tanti. Magari poteva immaginare che ci fossero anche altri
alleati appostati nelle foreste a nord.
E comunque io avevo effettivamente preso in considerazione
l’idea di dirigermi verso la famiglia di Tanya. Ero sicuro che ci
avrebbero aiutato. Kate, in particolare, sarebbe stata un ottimo
acquisto per la nostra squadra di caccia. Ma anche loro si trovavano
troppo vicino all’acqua. Al segugio sarebbe bastata un’occhiata a
loro cinque per dirigersi verso l’oceano. Tutto quello che doveva fare
per scomparire era immergersi. Era impossibile seguire qualcuno
sott’acqua. E poi sarebbe potuto riemergere dovunque, a sei
chilometri dalla spiaggia o in Giappone. Non avremmo mai potuto
seguirlo. Avremmo dovuto riunirci e cominciare daccapo.
Ero diretto verso il parco nazionale nei pressi di Calgary, a quasi
mille chilometri dalla distesa d’acqua più vicina.
Una volta che ci fossimo messi dietro al segugio, lui avrebbe
saputo che era stato portato fuori strada, e che Bella non era con
noi. Sarebbe fuggito, e noi lo avremmo inseguito. Ero sicuro che
avrei potuto superarlo, ma avevo bisogno di un percorso abbastanza
lungo. Mille chilometri mi avrebbero dato un po’ di vantaggio.
Volevo farla finita alla svelta.
Viaggiammo per tutta la notte, rallentando solo di tanto in tanto
quando sentivo che eravamo vicini a qualche controllo di velocità. Mi
chiedevo che cosa ne pensasse il segugio. Aveva già intuito che
avevo delle capacità speciali. Era più di quanto volessi concedergli,
ma l’alternativa ci avrebbe rallentato troppo. In questo modo –
facendogli avere qualche informazione circa le mie doti – gli facevo
credere che fosse un altro indizio che avevamo una meta ben
precisa. Un rifugio sicuro? Questo lo avrebbe incuriosito.
Avrei voluto ascoltare le teorie che gli frullavano in testa, ma si
teneva a distanza quel tanto che bastava per farmi cogliere solo
qualche lampo sporadico. Doveva essersi fatto un’idea circa i miei
doni, e probabilmente non ci era andato troppo lontano.
Il segugio correva instancabilmente e, a giudicare da quel poco
che riuscivo a cogliere, si divertiva immensamente.
Il fatto che si divertisse tanto mi irritava, ma era una cosa
positiva. Fino a quando fosse stato soddisfatto di ciò che stava
facendo, io avrei avuto il tempo di arrivare al luogo da me prescelto
per l’imboscata.
Col passare del tempo, però, diventavo nervoso. Il sole era più
vicino all’orizzonte occidentale che non a quello orientale. Non
avevamo fatto nulla di interessante se non fermarci qualche volta per
fare benzina, sempre lasciando qualche traccia dell’odore di Bella.
Ma questo lo avrebbe annoiato alla lunga? Sarebbe stato disposto a
seguirci per giorni e giorni, nei territori del Nord e poi al Circolo
polare artico se avessimo continuato a viaggiare? O magari avrebbe
abbandonato l’inseguimento prima di essere assolutamente certo
che Bella non era nella jeep?
«Chiedi ad Alice se vede il cacciatore smettere prima che ci
organizziamo».
Carlisle eseguì alla svelta.
Qualche minuto dopo, arrivò la lettera «N».
Questo tranquillizzò i miei nervi.
Il sole si spostò lentamente verso le montagne occidentali mentre
ci approssimavamo al luogo da me prescelto. Volevo far avvicinare il
segugio quel tanto che bastava perché potessi ascoltare la sua
mente. Dovevo fare qualcosa per destare il suo interesse.
Eravamo su una statale diretta a Calgary. Avremmo potuto
continuare fino a Edmonton, in attesa che facesse buio, ma
diventavo sempre più irrequieto. Volevo smettere di scappare e
cominciare a cacciare.
Svoltai su una stradina laterale che portava al confine
meridionale del Parco Nazionale Banff. La strada poi curvava per
ritornare in direzione di Calgary, ma non era di certo il percorso più
veloce per arrivare da qualche parte. Era un comportamento nuovo
che fino a quel momento non avevamo tenuto. Questo avrebbe forse
suscitato la sua curiosità.
Carlisle ed Emmett capirono cosa significasse quel cambiamento.
All’improvviso entrambi divennero tesi. Emmett non era solo teso,
era elettrizzato, non vedeva l’ora di cominciare il combattimento.
Quella stradina ci allontanò rapidamente dai brulli terreni agricoli
d’inizio primavera che costeggiavano la strada per Calgary. Ci
eravamo inerpicati immediatamente e adesso eravamo di nuovo
circondati dagli alberi. La zona ricordava casa nostra, solo un po’ più
arida. Non sentivo i pensieri di nessuno nei dintorni. Il sole era sul
versante opposto dell’altura che stavamo salendo.
«Emmett», sospirai. «Ti comprerò una jeep nuova».
Si mise a ridacchiare. Tranquillo.
Avremmo potuto fingere di fermarci di nuovo per la benzina – era
quasi ora – ma questo cambio di andatura avrebbe innervosito il
segugio. Dovevamo muoverci rapidamente.
«Al mio segnale», dissi loro, in attesa di cogliere il primo barlume
della mente del segugio.
La mano di Emmett era pronta sulla maniglia della portiera.
Questa strada era molto più accidentata della precedente. Presi
una buca che fece andare fuori strada la jeep. Mentre mi davo da
fare per riprendere il controllo della vettura, all’improvviso udii il
segugio.
...deve avere un posto qui vicino...
«Via», ringhiai.
Ci lanciammo tutti e tre dalla jeep in corsa.
Atterrai in piedi e mi lanciai verso il rumore dei pensieri del
segugio prima che gli altri riacquistassero l’equilibrio.
Ah ah, ma è una trappola!
Il segugio non sembrava né irritato né spaventato dall’improvviso
ribaltamento dei ruoli. Si stava ancora divertendo.
Mi lanciai in corsa, svanendo tra gli alberi che avevamo appena
oltrepassato con l’auto. Sentivo Carlisle ed Emmett dietro di me,
Emmett che caricava nella boscaglia come un rinoceronte. Il suo
attacco più rumoroso forse avrebbe coperto i miei rumori.
Probabilmente il segugio avrebbe pensato che ero più indietro di
quanto non fossi.
Fu un grande sollievo correre, muovermi grazie alla mia stessa
spinta, dopo la lunga traversata costretto nella jeep. Fu un sollievo
non dover seguire la strada, ma prendere la via più breve per
raggiungere l’obiettivo.
Anche il segugio era veloce. Fui contento di essermi concesso
mille chilometri per acciuffarlo.
Curvò a ovest verso il lontano Pacifico mentre noi ci
inerpicavamo sul limite orientale delle Montagne Rocciose.
Carlisle ed Emmett rimanevano indietro. Era quello che sperava il
segugio? Separarci e prenderci uno alla volta? Io ero in allerta, in
attesa di un nuovo, improvviso capovolgimento. L’idea di un suo
attacco non mi dispiaceva. Una parte di me era piena di furia, l’altra
parte voleva solo farla finita.
Non udivo la sua mente – era un po’ distante – ma potevo
seguirne facilmente l’odore.
Si diresse a nord.
Lui correva e io correvo. Passarono i minuti e poi le ore.
Virammo a nord-est.
Mi domandai se avesse un piano o se stesse correndo senza
meta per depistarmi.
Sentivo a malapena la carica di Emmett nella foresta. Dovevano
essere rimasti indietro di svariati chilometri. Mi sembrò invece di
udire qualcosa davanti a me. Il segugio si muoveva di soppiatto, ma
potevo sentirlo. Mi stavo avvicinando.
Poi il rumore della sua corsa svanì.
Si era fermato? Era in attesa di attaccare?
Accelerai, ansioso di far scattare la trappola.
Poi sentii un tuffo in lontananza proprio nel momento in cui salivo
su per un crinale innevato che precipitava in una ripida scarpata.
Molto al di sotto, un profondo lago glaciale, lungo e stretto, quasi
un fiume.
Acqua, ovviamente.
Avrei voluto immergermi per seguirlo, ma sapevo che questo gli
avrebbe dato un vantaggio. C’erano chilometri di margine sul quale
lui sarebbe potuto riemergere. Dovevo essere metodico, e questo
richiedeva tempo. Lui non aveva questo tipo di impedimenti.
L’approccio lento era di percorrere il perimetro del lago, alla
ricerca di tracce del segugio. Dovevo stare attento a non perdere
l’istante in cui fosse uscito dall’acqua. Non si sarebbe arrampicato
sulla sponda per poi mettersi di nuovo a correre. Avrebbe cercato di
saltare, mettendo un po’ di distanza tra il bordo dell’acqua e il suo
odore.
L’approccio un po’ più rapido era di ripartire il percorso tra me,
Emmett e Carlisle; avremmo potuto dividere il perimetro del lago per
tre.
Ma c’era anche la via più veloce di tutte.
Emmett e Carlisle si stavano avvicinando. Ritornai correndo
verso Carlisle, con la mano tesa davanti a me. Gli ci volle un
secondo per capire cosa volessi. Mi lanciò il cellulare. Mi voltai
nuovamente e corsi insieme a loro, mentre intanto scrivevo un
messaggio ad Alice.
Dimmi chi di noi trova la pista.
Raggiungemmo la sommità del lungo lago.
«Emmett», dissi in un sussurro lievissimo. «Tu prendi la sponda
sud da questo punto e percorrila verso est. Carlisle, tu vai a nord
lungo questa sponda. Io percorrerò la parte più lontana».
Immaginai la cosa nel dettaglio: mi sarei immerso nell’acqua blu
scuro, raggiungendo come un razzo la riva opposta e poi correndo a
nord per ricongiungermi con Carlisle alla punta estrema del lago.
Il cellulare vibrò silenziosamente.
Em, aveva scritto Alice. Punta meridionale.
Mostrai loro il messaggio, poi restituii il telefono a Carlisle. Aveva
una custodia impermeabile per proteggerlo dall’acqua. Mi immersi e
sentii Emmett venirmi dietro. Rimasi diritto come una lama,
determinato a fendere l’acqua con il minor rumore possibile.
L’acqua era cristallina e con una temperatura di pochi gradi al di
sopra del congelamento. Nuotai per diversi metri sotto la superficie,
invisibile nella notte. Dietro di me potevo indovinare il rumore di
Emmett, che comunque era silenziosissimo. Carlisle non lo sentivo
proprio.
Scivolai fuori dall’acqua nel punto più a sud. Gli unici suoni dietro
di me erano le gocce che cadevano da Emmett e colpivano la
sponda pietrosa.
Andai a destra ed Emmett a sinistra.
Quando emerse Carlisle, udii un mormorio. Guardai indietro.
Aveva di nuovo il telefono in mano e stava facendo cenno a Emmett.
Avevo scelto la via giusta. Come previsto, qualche metro più avanti
percepii l’odore del segugio. Era sopra di noi; era saltato tra i rami di
un alto pino. Mi arrampicai sull’albero e sentii che la sua traccia
portava sugli alberi circostanti.
Mi lanciai di nuovo all’inseguimento.
Mi usciva il fumo dalla bocca mentre volavo tra i rami. Avevamo
perso tempo lì al lago, e adesso lui era in vantaggio di svariati
chilometri.
Stava doppiando a ritroso il percorso dal quale eravamo arrivati.
Avrebbe scelto di andare a sud? Forse indietro verso Forks, per
trovare la pista di Bella? Era un cammino di sette ore buone,
andando dritto. Voleva forse darmi una chance di raggiungerlo?
Ma mentre la notte si trascinava all’infinito, cambiò direzione una
decina di volte. Si muoveva prevalentemente a ovest, aprendosi,
così immaginavo, un varco verso il Pacifico. Trovava sempre nuovi
modi per accumulare vantaggio, e per rallentarci.
Una volta fu su un vasto dirupo. Ognuno di noi decise la direzione
da seguire, ma Alice continuava a scrivere «N», «N», «N», «N». La
sua visione del segugio era molto limitata, poteva visualizzare solo il
modo in cui reagivamo noi al suo itinerario. Mi ci volle troppo tempo
per cogliere lo svantaggio sulla parete del dirupo, dove lui aveva
interrotto la sua discesa a metà strada e poi era risalito sul fianco
pietroso.
Un’altra volta fu nei pressi di un fiume. Di nuovo, immaginammo
tutte le possibili piste da seguire. Lui percorse un lungo tratto
nell’acqua. Perdemmo quasi quindici minuti prima che Alice vedesse
che Carlisle avrebbe ritrovato la traccia del segugio sessanta
chilometri a sud-ovest.
Era esasperante. Correvamo, nuotavamo e volavamo tra gli
alberi il più velocemente possibile, ma lui stava giocando con noi, e
intanto continuava ad accumulare vantaggio. Era molto esperto e
intuivo che era sicuro del suo successo. Il vantaggio era tutto suo
ormai. Saremmo rimasti indietro e alla fine ci avrebbe pedinato.
Le migliaia di chilometri tra Bella e me mi agitavano. Quel piano,
cioè portarlo lontano da lei, si stava rivelando nient’altro che un
piccolo diversivo rispetto alla vera ricerca del segugio.
Ma cos’altro potevamo fare? Dovevamo continuare a inseguirlo e
sperare di acciuffarlo in qualche modo. Quella era la nostra unica
chance di fermarlo senza mettere in pericolo Bella. Stavamo facendo
un pessimo lavoro.
Lui disperse nuovamente le sue tracce in un altro lago glaciale
lungo alcuni chilometri. Ce n’erano decine così, tutti si estendevano
da nord a sud attraverso le valli canadesi come se un gigante
avesse affondato le dita al centro di quella terra. Il segugio arrivava
prima di noi, che dovevamo fare ipotesi e poi decidere, aspettando
che Alice ci scrivesse «C», o «EM» o «ED», oppure una «S» o una
«N». Eravamo veloci riguardo alla parte mentale, ma ogni pausa
dava un vantaggio a lui.
Albeggiò, ma quel giorno c’erano delle spesse nubi, per cui il
segugio non rallentò. Mi chiesi cosa avrebbe fatto se ci fosse stato il
sole. Eravamo sul versante occidentale delle montagne, adesso, e ci
dirigevamo nuovamente verso paesi abitati. Probabilmente avrebbe
ammazzato alla svelta qualsiasi testimone, se si fosse reso
necessario.
Ero certo che si stesse dirigendo verso l’oceano, una via di fuga
sicura. Eravamo molto più vicini a Vancouver che a Calgary. Non
sembrava interessato ad andare a sud, di nuovo verso Forks.
Sembrava più orientato verso nord.
Onestamente, non aveva più bisogno di altri stratagemmi. Aveva
sufficiente vantaggio per correre verso la costa senza alcuna
possibilità che lo raggiungessimo.
Poi però le sue tracce portarono all’ennesimo lago. Ero certo al
novanta per cento che stesse giocando con noi per puro
divertimento. Avrebbe potuto fuggire, ma era più divertente farci
girare come trottole.
Potevo solo sperare che tutta questa arroganza gli si ritorcesse
contro, che facesse un passo falso che ci avrebbe consentito di
raggiungerlo, ma ne dubitavo. Era troppo bravo a questo gioco.
E noi continuavamo a inseguirlo. Rinunciare non era un’opzione
valida.
A metà mattinata scrisse Esme. Puoi parlare?
C’è la possibilità che mi senta?, voleva sapere Carlisle.
«Magari», sospirai io.
Carlisle telefonò a Esme e parlarono mentre correvamo. Lei non
aveva grosse novità, più che altro era preoccupata per noi. La rossa
era ancora in quella zona, ma non si sarebbe avvicinata più di dieci
chilometri a Esme e Rosalie. Rosalie aveva fatto un po’ di ricerche e
a quanto pareva la rossa si era recata alla scuola superiore durante
la notte, e in molti edifici pubblici della città. Non era tornata a nord
verso la nostra casa, e si era spinta a sud solo fino alla pista di
atterraggio municipale, ma forse si nascondeva a est, probabilmente
rimanendo vicina a Seattle per avere un territorio di caccia più
ampio. Aveva provato ad avvicinarsi a casa di Charlie una volta, ma
non prima che lui fosse uscito per andare al lavoro. Esme era
rimasta per tutto il tempo a pochi metri da Charlie, il che era
impressionante dal momento che lui non aveva idea che lei fosse lì.
Non c’era altro, nessun altro indizio. Lei e Carlisle si scambiarono
dei ti amo accorati, poi ritornammo all’inseguimento forsennato. Il
segugio puntò di nuovo verso nord, rinunciando a prendere la via di
fuga più facile perché si stava divertendo troppo.
Era metà pomeriggio quando arrivammo a un altro lago a forma
di mezzaluna e non così grande come gli altri da lui sfruttati per
rallentarci. Senza nemmeno discuterne, ciascuno di noi decise di
seguire le nostre consuete piste. Dopo poco, Alice rispose «Em».
Marcia indietro verso sud, quindi.
Una volta che avemmo ritrovato il suo odore, questo ci condusse
a un piccolo paese nascosto in un passo di montagna. Era
abbastanza grande perché vi fosse un piccolo flusso di macchine tra
le strade strette. Dovemmo rallentare, con mio grande disappunto,
anche se sapevo che non sarebbe cambiato granché: eravamo
troppo indietro perché la nostra velocità facesse la differenza. Ma mi
tranquillizzava pensare che probabilmente anche lui doveva
muoversi a velocità umana. Mi chiesi perché si prendesse tanto
fastidio. Forse aveva sete. Sapevo che era consapevole di avere
tutto il tempo di fermarsi per un boccone.
Sfrecciavamo di edificio in edificio, fidandoci dei miei sensi per
sapere se qualcuno ci stava osservando e correndo quando era
possibile. Non indossavamo vestiti sufficientemente caldi per la
temperatura locale – e se qualcuno ci avesse osservato da vicino
avrebbe notato che eravamo anche bagnati fradici –, così cercai di
aggirare i punti di ritrovo degli umani per evitare di attirare
l’attenzione.
Arrivammo alla periferia senza trovare nessun cadavere fresco,
quindi forse non aveva tentato di placare la sua sete. Che cosa
cercava allora?
Andammo verso sud.
Seguimmo le sue tracce fino a un grande capannone in mezzo a
un campo aperto, immerso tra rovi spinosi ancora spogli per
l’inverno. I portelloni del capannone erano aperti. All’interno era
quasi vuoto, c’erano solo cumuli di ferraglia meccanica e
automobilistica addossati alle pareti. L’odore portava nel capannone
e qui trasudava maggiormente dal terreno, come se si fosse
soffermato per un po’. Mi venne in mente solo un motivo per questo,
così annusai per sentire se c’era odore di sangue. Niente. Tutto
quello che percepivo era benzina...
Mi sentii male quando mi resi conto di ciò di cui non mi ero
accorto sulle prime. Con un mormorio di imprecazione, mi precipitai
fuori dal capannone e svoltai verso gli arbusti. Emmett e Carlisle mi
seguirono, ancora all’erta dopo ore di clamorosi buchi nell’acqua.
Lì, dalla parte opposta, c’era una lunga striscia di terra battuta,
spianata alla meglio, larga circa sessanta metri e che si stendeva
per almeno un chilometro e mezzo verso ovest.
Era una pista di decollo privata.
Imprecai di nuovo.
Mi ero concentrato troppo sulla fuga via acqua. Ce n’era anche
una via aria.
Il velivolo sarà stato sicuramente piccolo e lento, non molto più
veloce di un’automobile. Non più di duecentoquaranta chilometri
l’ora, se era in buone condizioni. Lo scalcagnato piccolo hangar mi
induceva a pensare che probabilmente non lo era. Avrebbe dovuto
fermarsi a fare rifornimento parecchie volte, se voleva arrivare
lontano.
Tuttavia, sarebbe potuto andare in qualsiasi direzione e noi non
avevamo modo di seguirlo.
Guardai Carlisle e dai suoi occhi trasparivano lo stesso
disappunto e la frustrazione che provavo io.
Tornerà a Forks per riprendere la pista di Bella?
Aggrottai le sopracciglia. «Avrebbe senso, ma mi sembra troppo
scontato. Non è nel suo stile».
Dove altro possiamo andare?
Sospirai.
Devo...?
Annuii. «Fai quella telefonata».
Premette il tasto della richiamata. Squillò solo una volta.
«Alice?».
«Carlisle», le sentii dire in un soffio.
Mi avvicinai ansioso, anche se riuscivo già a udire la sua voce.
«Siete al sicuro?», domandò lui.
«Sì».
«Lo abbiamo perso duecentocinquanta chilometri a nord-est di
Vancouver. Ha preso un piccolo aeroplano. Non abbiamo idea di
dove sia diretto».
«Mi è apparso poco fa», disse con tono d’urgenza e per niente
stupita dal nostro buco nell’acqua. «Era diretto a una stanza da
qualche parte, non ho idea del luogo, ma era insolito. Specchi alle
pareti, una linea dorata che corre lungo il centro della stanza, tipo
una boiserie; era quasi vuota, a parte un vecchio videoregistratore in
un angolo. C’era anche un’altra stanza, buia; l’unica cosa che sono
riuscita a vedere è che stava guardando delle videocassette. Non ho
idea di cosa significhi. Qualunque motivo l’abbia spinto a prendere
quell’aereo... lo porterà a quelle stanze».
Quelle informazioni non bastavano. Il segugio poteva aver deciso
di prendersi una pausa da qualche parte, per quel che ne sapevamo.
Forse voleva farci aspettare, tenerci sulle spine. Alimentare la nostra
ansia. Sembrava in linea con la sua personalità. Me lo immaginai in
una casa vuota da qualche parte, a guardare vecchi film mentre noi
impazzivamo in attesa che si rifacesse vivo. Era esattamente ciò che
volevamo evitare.
La buona notizia era che adesso Alice lo vedeva
indipendentemente da noi. Potevo solo sperare che continuando a
prendere confidenza, lo visualizzasse meglio. Mi domandavo se
quelle stanze avessero un significato che ci sarebbe tornato utile.
Forse voleva dire che alla fine lo avremmo beccato in uno di quei
posti. Se Alice avesse avuto una migliore visuale dei dintorni,
sarebbe stato possibile. Era un pensiero confortante.
Tesi la mano per avere il telefono, e Carlisle me lo consegnò.
«Posso parlare con Bella per favore?».
«Sì», allontanò la bocca dal cellulare: «Bella?».
Sentii i passi pesanti di Bella che correva goffamente nella
stanza, e se non fossi stato così demoralizzato avrei sorriso.
«Pronto?», disse senza fiato.
«Bella». Il sollievo saturò la mia voce. Quella breve separazione
mi aveva già messo a dura prova.
«Oh, Edward! Ero preoccupatissima!».
Naturale. «Bella, ti ho detto di preoccuparti solo di te stessa».
«Dove sei?».
«Appena fuori Vancouver. Bella, mi dispiace: l’abbiamo perso».
Non volevo raccontarle di come lui si fosse preso gioco di noi.
L’avrebbe innervosita sapere che ci aveva battuti con tanta facilità.
Sicuramente innervosiva me. «Si muove con prudenza, riesce
sempre a starci lontano quel tanto che basta perché mi sia
impossibile sentire ciò che pensa. Ma adesso è sparito... sembra
che abbia preso un aereo. Probabilmente tornerà a Forks per
ricominciare la caccia da capo». Be’, in ogni caso non avevamo altre
teorie.
«Lo so. Alice l’ha visto altrove», disse imperturbabile.
«Tu però non devi preoccuparti», la rassicurai, benché la sua
voce non suonasse preoccupata. «Non troverà niente che lo porti a
te. Devi soltanto restare lì e aspettare che lo ritroviamo».
«D’accordo. Esme è da Charlie?».
«Sì. La femmina è tornata in città. È passata da casa tua, ma
Charlie era al lavoro. Non gli si è avvicinata, perciò non preoccuparti.
È al sicuro, guardato a vista da Esme e Rosalie».
«E lei cosa fa?».
«Probabilmente sta cercando la scia giusta. Stanotte ha battuto la
città intera. Rosalie l’ha seguita in aeroporto...». La pista di
atterraggio a sud della città. Forse non sbagliavamo circa le
intenzioni del segugio, dopotutto. Continuai, prima che Bella notasse
che mi ero distratto: «...lungo le strade della periferia, a scuola... Sta
scavando, Bella, ma non troverà niente».
«E tu sei certo che Charlie sia al sicuro?».
«Sì, Esme non lo perde di vista. E presto la raggiungeremo
anche noi». In effetti eravamo diretti lì. «Se il segugio si avvicina a
Forks, lo prenderemo».
Cominciai a muovermi, correndo verso sud. Carlisle ed Emmett
seguirono il mio esempio.
«Mi manchi», sussurrò.
«Lo so, Bella. Credimi, lo so». Non riuscivo a credere che mi
sentissi così incompleto lontano da lei. «È come se ti fossi portata
via metà di me stesso».
«E allora vieni a riprendertela», suggerì lei.
«Presto, il più presto possibile. Prima ti salverò», le giurai.
«Ti amo», disse lei in un soffio.
«Ci credi se ti dico che, malgrado tutto quello che ti sto facendo
subire, ti amo anch’io?».
«Sì, certo che sì». Mi sembrò di cogliere un sorriso in questa sua
risposta.
«Verrò a prenderti presto».
«Ti aspetto», promise lei.
Mi fece male chiudere la telefonata, staccarmi nuovamente da lei.
Ma adesso andavo di fretta. Ripassai il telefono a Carlisle senza
guardarlo, poi mi lanciai nella corsa. In base alla difficoltà con cui il
segugio avrebbe trovato un posto dove fare benzina, noi avremmo
avuto la chance di arrivare prima di lui a Forks, se era lì che stava
andando.
Carlisle ed Emmett cercavano di starmi dietro.

Fummo di ritorno a Forks in tre ore e mezzo, facendo il tragitto


più veloce attraverso il Mar dei Salish. Andammo direttamente a
casa di Charlie, dove Esme e Rosalie erano di guardia, Esme sul
retro e Rosalie sull’albero nel cortile anteriore. Emmett si precipitò da
lei mentre Carlisle e io andammo da Esme.
Ora che ero lì e potevo ascoltare le loro menti, percepii che
Rosalie stava formulando pensieri spiacevoli su quanto fossi egoista
a mettere in pericolo la vita di tutti loro. Non le prestai attenzione.
La casa di Bella era tetramente silenziosa, anche se c’erano
diverse luci accese al piano di sotto. Capii che cosa non mi tornava:
non udivo il suono di una partita alla televisione nel soggiorno.
Trovai la mente di Charlie al suo solito posto, lui era seduto sul
divano davanti al televisore spento. I suoi pensieri erano muti, come
se fosse completamente inebetito. Feci una smorfia, contento che
Bella non lo vedesse in quello stato.
Ci volle qualche secondo di organizzazione, poi ci
sparpagliammo. Carlisle rimase con Esme, e mi sollevò il fatto che
lui fosse lì con lei. Emmett e Rosalie fecero un giro in centro
dopodiché ispezionarono l’area attorno alla pista di atterraggio, alla
ricerca di un aereo a elica abbandonato.
Io corsi verso est, seguendo le tracce della rossa. Non mi
interessava intrappolarla. Ma il suo odore portava esclusivamente
allo Stretto di Puget. Non voleva correre dei rischi.
Passai dal Parco Nazionale di Olympic mentre tornavo a casa di
Charlie, solo per vedere se la rossa era andata da qualche parte di
interessante, ma a quanto pareva era filata dritta verso lo stretto.
Non era il tipo da rischiare uno scontro frontale.
Di ritorno a casa di Bella, montai io il turno di guardia mentre
Esme e Carlisle controllavano a nord per vedere se la rossa fosse
emersa dall’acqua nei pressi di Port Angeles e stesse cercando di
tornare da Charlie da un’altra angolazione. Ne dubitavo, ma non
avevamo niente di meglio da fare. Se il segugio non stava tornando
a Forks – come a questo punto sembrava evidente – e la rossa era
andata a incontrarsi con lui, allora ci saremmo dovuti ricongiungere
ed elaborare un nuovo piano. Speravo che qualcun altro avesse
un’idea, perché mi sentivo la testa svuotata.
Erano quasi le due e mezzo del mattino quando il mio cellulare
vibrò. Presi la chiamata senza controllare chi fosse, aspettandomi un
aggiornamento da Carlisle.
La voce di Alice trillò dal telefono, le parole le uscivano di bocca
convulsamente.
«Sta venendo qui, sta venendo a Phoenix, se non è già qui. Ho
visto di nuovo la seconda stanza, e Bella ha riconosciuto lo schizzo,
è casa di sua madre, Edward... seguirà Renée. Non può sapere che
noi siamo qui, ma non mi piace che Bella sia così vicina a lui. È
troppo sfuggente; non riesco a vederlo con sufficiente chiarezza.
Dobbiamo portarla via di qui, ma qualcuno deve trovare Renée... ci
sta facendo disperdere, Edward!».
Mi sembrava di avere le vertigini, mi sentivo stralunato, anche se
sapevo che era un’illusione. Non c’era nulla che non andasse nella
mia mente o nel mio corpo. Ma il segugio mi aveva di nuovo
schivato, mi aveva aggirato spingendomi in un vicolo cieco. Forse
volontariamente o per pura fortuna, lui si sarebbe trovato nello
stesso luogo in cui era Bella, mentre io ero a duemilacinquecento
chilometri da lei.
«Tra quanto sarà lì?», sibilai. «Riesci a vederlo?».
«Non perfettamente, ma so che accadrà tra poco. Non più di
qualche ora».
Stava volando dritto lì? Ci stava allontanando ancora di più da lei
di proposito?
«Nessuno di voi è stato nei pressi della casa di Renée?».
«No. Non abbiamo messo piede fuori da questo albergo. Non ci
siamo avvicinati minimamente alla casa».
C’era troppa distanza perché arrivare lì correndo fosse
un’opzione praticabile. Dovevamo volare. E un grosso aereo era il
modo più veloce.
«Il primo volo per Phoenix parte da Seattle alle sei e quaranta»,
mi disse Alice, che era già un passo avanti. «Dovrai coprirti bene.
Qui c’è un sole pazzesco».
«Lasceremo di nuovo qui Esme e Rosalie. La rossa non si
avvicinerà a loro. Fai preparare Bella. Manterremo gli stessi gruppi.
Emmett, Carlisle e io la porteremo lontano da qualche parte, una a
caso, fino a quando non capiremo cosa fare dopo. Tu troverai la
madre».
«Saremo lì quando atterrerete».
Alice riattaccò.
Cominciai a correre, telefonando a Carlisle mentre mi precipitavo
a Seattle. Mi avrebbero raggiunto.
25. LA CORSA

La mia impazienza non accennò a placarsi neppure quando il


carrello dell’aereo ebbe toccato l’asfalto. Ricordai a me stesso che
adesso Bella era solo a un chilometro di distanza, e che nel giro di
pochi minuti avrei rivisto il suo viso, ma ciò non fece che acuire in
me il desiderio di scardinare i portelloni delle uscite di emergenza e
di correre verso il terminal, anziché attendere la fine di
quell’interminabile rullaggio. Sebbene fossi completamente
immobile, Carlisle riuscì a percepire la mia agitazione e mi diede una
leggera gomitata per ricordarmi di fare qualche movimento.
Le tendine ai finestrini della nostra fila erano abbassate, ma
nell’aereo penetrava ugualmente la luce diretta del sole. Io tenevo le
braccia conserte per nascondere le mani, e avevo tirato su il
cappuccio della felpa acquistata in aeroporto, di modo che il viso
rimanesse in ombra. Agli occhi degli altri passeggeri dovevamo
apparire ridicoli – soprattutto Emmett, i cui muscoli guizzavano fuori
da una felpa di parecchie taglie più piccola – o forse ci
consideravano delle celebrità che volevano proteggere il proprio
anonimato dietro cappelli e occhiali scuri. Più probabile che ci
vedessero come dei provincialotti del Nord del tutto ignari di quali
fossero le temperature nel Sud-ovest in primavera. Intercettai il
pensiero di un uomo il quale era convinto che ci saremmo tolti le
felpe prima ancora di arrivare alla fine del manicotto d’imbarco.
L’aereo mi era già parso insopportabilmente lento quando
eravamo in volo; ma l’attesa di quel rullaggio avrebbe potuto
addirittura uccidermi.
Ancora un po’ di pazienza, mi dissi per rassicurarmi. Alla fine di
tutto ci sarebbe stata lei. L’avrei portata via, e ci saremmo nascosti
insieme per cercare una soluzione. Quel pensiero riuscì a
procurarmi un minimo di sollievo.
A dire il vero, l’aereo impiegò pochissimo tempo a trovare il gate
che gli era stato assegnato e che era già pronto e aperto. Avrebbero
potuto essere milioni, gli imprevisti. Dovevo quindi essere grato che
fosse filato tutto liscio.
Fummo anche abbastanza fortunati da capitare in un gate sul lato
nord dell’aeroporto, che a tarda mattina veniva nascosto dall’ombra
proiettata dal terminal più grande. Questo ci avrebbe reso più
semplice muoverci con rapidità.
Per tutto il tempo in cui il personale di bordo fu occupato a
eseguire i controlli, Carlisle tenne le dita leggermente poggiate sul
mio gomito. Fuori dall’aereo, riuscivo a sentire il rumore meccanico
del manicotto che veniva messo in posizione, come pure l’urto
contro la fusoliera una volta ultimata l’operazione. L’equipaggio
sembrò non badare a quel suono, e i due steward che si trovavano
in testa alla cabina continuarono a esaminare la lista dei passeggeri.
Carlisle mi diede un altro colpettino e io feci finta di respirare.
Alla fine, l’assistente di volo si avvicinò al portellone e cominciò
ad armeggiare per aprirlo. Provai l’impulso disperato di correre a
dargli una mano, ma le dita di Carlisle sul mio braccio mi aiutarono a
non perdere la concentrazione.
Il portellone si schiuse con un sibilo e l’aria calda proveniente
dall’esterno si unì a quella viziata della cabina. Come uno sciocco,
mi misi in cerca di qualche traccia dell’odore di Bella, anche se
sapevo che ero ancora troppo distante. Lei doveva essere dentro il
terminal in mezzo all’aria condizionata, oltre i controlli di sicurezza, e
per arrivare laggiù doveva essere partita da un parcheggio in
qualche garage lontano. Dovevo calmarmi.
Un leggero scampanellio annunciò lo spegnimento del segnale
delle cinture, dopodiché tutti e tre iniziammo a muoverci. Ci
spostammo con cautela in mezzo agli umani e arrivammo dinanzi
all’uscita talmente in fretta che lo steward arretrò per lo stupore. Così
facendo, liberò il passaggio e noi cogliemmo la palla al balzo.
Da dietro, Carlisle mi tirò la felpa e, benché riluttante, lo feci
passare avanti. Con lui a marcare il passo, tra noi si sarebbe creato
uno scarto di pochi secondi, ma di certo Carlisle si sarebbe mosso
con maggiore prudenza rispetto a me. A prescindere da come
avrebbe agito il segugio, noi avevamo delle regole da rispettare.
Grazie a un dépliant presente a bordo, avevo memorizzato la
piantina del terminal e sapevo già che ci avevano fatti sbarcare nel
settore più vicino all’uscita. Una fortuna ancora maggiore.
Ovviamente, non ero in grado di percepire i pensieri di Bella, ma
quantomeno potevo intercettare quelli di Alice e Jasper. Dovevano
essere in mezzo agli altri familiari pronti ad accogliere i passeggeri,
proprio davanti a noi sulla destra.
In preda all’ansia di poter finalmente rivedere Bella, avevo ripreso
a scalpitare per superare Carlisle.
Le menti di Alice e Jasper si stagliavano su quelle degli umani
come le luci di due riflettori circondate da falò. Sarei stato capace di
sentirle in qualsiasi...
Fu in quel momento che il caos e l’agonia nei pensieri di Alice mi
investirono come un vortice improvviso che, erompendo dalle acque
tranquille, mi trascinava in fondo al mare.
Barcollai, poi rimasi immobile, come paralizzato. Non sentivo
quello che Carlisle mi stava dicendo, e a malapena riuscivo a
percepire i suoi tentativi di farmi avanzare. Avevo una vaga
coscienza della sua consapevolezza del fatto che gli umani addetti
alla sicurezza ci stavano guardando con sospetto.
«No, ce l’ho qui io il tuo telefono», stava esclamando Emmett con
voce troppo forte, a mo’ di scusa.
Mi afferrò da sotto il gomito e iniziò a spingermi in avanti. Mentre
Emmett mi trascinava via reggendomi per metà, faticai a mantenere
l’equilibrio. Quasi non riuscivo a sentire il pavimento sotto i piedi. I
corpi attorno a me sembravano trasparenti. L’unica cosa che riuscivo
a vedere davvero erano i ricordi di Alice.
Bella, pallida e distante, in preda agli spasmi nervosi. Bella che si
allontanava con Jasper, con gli occhi colmi di disperazione.
Il ricordo di una visione: Jasper che si precipitava da Alice,
agitato.
Lei non aveva aspettato che lui tornasse. Con il volto rabbuiato
dalla preoccupazione, aveva già seguito l’odore di Jasper fuori dai
bagni dove lui era rimasto in attesa.
Adesso Alice si era messa sulle tracce dell’odore di Bella,
trovando l’uscita secondaria e sfrecciando a una velocità che aveva
dato un po’ troppo nell’occhio. Il corridoio pieno di gente, l’ascensore
affollato, le porte scorrevoli sull’esterno. Un marciapiede brulicante di
taxi e navette.
La pista finiva lì.
Bella era svanita nel nulla.
Emmett mi trascinò nell’enorme spazio simile a un atrio in cui,
all’ombra di un pilastro gigantesco, Alice e Jasper stavano
aspettando in preda alla tensione. Attraverso un lucernario il sole
irradiava su di noi la sua luce, perciò, con la mano, Emmett mi
abbassò la testa, affinché tenessi il viso all’ombra.
Alice riuscì a vedere Bella di lì a qualche secondo, seduta a
bordo di un taxi che correva su un’autostrada sotto il sole
splendente. Gli occhi di Bella erano chiusi.
E ancora, dopo un paio di minuti appena: una stanza con degli
specchi, al soffitto dei tubi luminosi al neon e un pavimento con
lunghe assi di pino.
Il segugio, in attesa.
Poi il sangue. Tantissimo sangue.
«Perché non le sei andata dietro?», le sibilai contro.
Noi due non siamo bastati. È morta.
Dovetti fare violenza su me stesso per continuare a muovermi a
dispetto di quel dolore che voleva paralizzarmi ancora.
«Cos’è successo, Alice?», sentii che le chiedeva Carlisle.
Mentre eravamo diretti al garage in cui avevano parcheggiato,
tutti e cinque ci eravamo già schierati in formazione offensiva. Per
fortuna, il soffitto di vetro aveva ceduto il passo a un’architettura più
essenziale, per cui eravamo fuori pericolo che il sole ci colpisse. Ci
muovemmo più rapidi di qualsiasi altro gruppo di umani, persino dei
ritardatari che dietro di noi correvano per prendere le loro
coincidenze, ma malgrado questo la nostra velocità mi spazientiva.
Andavamo troppo lenti.
Perché fingere ormai?
Che importanza aveva?
Resta con noi, Edward, mi avvertì Alice. Avrai bisogno di tutti noi.
Nella sua mente: il sangue.
Per rispondere alla domanda di Carlisle, Alice gli infilò in mano un
pezzo di carta.
Era piegato in tre. Carlisle gli diede un’occhiata e si ritrasse.
Vidi tutto nella sua mente.
La grafia di Bella. Una spiegazione. Un ostaggio. Delle scuse.
Una supplica.
Mi passò la lettera... la accartocciai nella mano, dopodiché la
infilai in tasca.
«Sua madre?», ringhiai piano.
«Non l’ho vista. Non sarà nella stanza. Lui potrebbe averla
già...». Alice non concluse la frase.
Si ricordò della voce della madre di Bella al telefono, del panico
che trasudava.
Bella era andata nella stanza accanto per calmarla. Poi però
Alice era stata colta di sorpresa da quella visione. Non aveva
collegato tra loro i tempi. Non aveva visto.
Cadde in preda al senso di colpa. Sibilai con voce bassa e dura.
«Ora non è il momento, Alice».
In un bisbigliare quasi impercettibile, Carlisle comunicò quanto
necessario a Emmett, il quale cominciava a scalpitare. Sentii il suo
orrore quando comprese l’accaduto, come sentisse di aver fallito.
Nulla in confronto a ciò che provavo io.
Adesso non potevo permettermi di cedere a quello stato d’animo.
Alice intravide lo spiraglio più stretto in assoluto. Forse impraticabile.
Non era assolutamente possibile che potessimo raggiungere Bella
prima che il suo sangue iniziasse a scorrere. Una parte di me era
consapevole di che cosa volesse dire questo, che ci sarebbe stato
un intervallo di tempo tra quando il segugio l’avrebbe trovata e la sua
morte. Un ampio intervallo. Non era quello il momento di mettersi a
fare supposizioni.
Dovevo agire in maniera sufficientemente rapida.
«Sappiamo dove siamo diretti?».
Alice mi mostrò una mappa nella sua testa. Sentii il suo sollievo
per essere riuscita a cogliere in tempo l’informazione più vitale.
Quando aveva avuto la prima visione, e la madre di Bella non aveva
ancora telefonato, Bella le aveva indicato l’incrocio vicino al luogo in
cui il segugio aveva scelto di aspettarla. Si trattava di trenta
chilometri appena, e la maggior parte del tragitto sarebbe stata in
autostrada. Occorrevano giusto pochi minuti.
Ma Bella non aveva tutto quel tempo.
Avevamo superato l’area per il ritiro bagagli ed eravamo arrivati
agli ascensori. Diversi gruppi con i carrelli carichi di valigie erano in
attesa che si aprissero le porte per la corsa successiva. Agendo in
perfetta sincronia, ci dirigemmo verso la tromba delle scale. Non
c’era nessuno. Partimmo come razzi lungo la rampa che saliva e in
meno di un secondo raggiungemmo il garage. Jasper stava per
avviarsi verso il posto in cui avevano lasciato l’auto, ma Alice lo
trattenne per un braccio.
«Qualunque macchina useremo, la polizia ne cercherà il
proprietario».
Nella sua mente splendeva luminosa l’autostrada, che si
confondeva con la velocità. C’erano luci blu e rosse che
lampeggiavano, un blocco stradale, una specie di incidente... non
era ancora del tutto chiaro.
Tutti si fermarono, incerti su cosa volesse dire.
Non c’era tempo.
Mi mossi con rapidità eccessiva accanto alle auto in fila, mentre
gli altri si ricomposero e mi vennero dietro a passo più giudizioso.
Nel garage non c’erano molte persone, e nessuna poteva vedermi
distintamente.
Sentii Alice che dava istruzioni a Carlisle perché recuperasse la
sua valigetta dal bagagliaio della Mercedes. In tutte le auto che
guidava, infatti, portava con sé un kit di pronto intervento, giusto in
caso di emergenza.
Non volli neanche pensarci.
Non c’era tempo per cercare la soluzione ottimale. La maggior
parte delle macchine erano SUV ingombranti o berline funzionali, ma
erano poche le candidate un po’ più veloci delle altre. Ero indeciso
tra una Ford Mustang nuova e una Nissan 350Z, e speravo che Alice
avrebbe visto quale delle due sarebbe andata meglio per noi,
quando la mia attenzione fu catturata dalla traccia di un sentore
inatteso.
Non appena avvertii l’odore di azoto, Alice presagì quel che stavo
cercando.
Mi precipitai in fondo al garage, fino al limite estremo oltre il quale
penetrava la luce del sole e dove qualcuno aveva lasciato, lontano
dagli ascensori, una Subaru WRX STI truccata, nella speranza che
nessuno le parcheggiasse accanto e ne graffiasse la vernice.
La verniciatura era terrificante: delle bolle di un arancione acceso,
grandi quanto la mia testa, che emergevano da quella che sembrava
essere una lava di un viola intenso. In un secolo, non avevo mai
visto un’auto così appariscente.
Ma ovviamente era ben tenuta, come una figlia. Non aveva nulla
di convenzionale, tutto era concepito per farla correre, dallo splitter
all’enorme spoiler acquistato all’aftermarket. I vetri erano talmente
oscurati che dubitavo fossero legali, persino in quello Stato pieno di
sole.
La visione di Alice sulla strada che ci attendeva si era fatta ora
più chiara.
Era già arrivata al mio fianco, con in mano un’antenna strappata
via dall’auto di qualcun altro. L’aveva appiattita tra le dita,
piegandone un’estremità a forma di gancio. Fece saltare la serratura
ancora prima che Jasper, Emmett e Carlisle, con in mano la sua
valigetta di pelle nera, ci raggiungessero.
Mi infilai al posto del conducente e strappai via la scatola del
piantone dello sterzo, dopodiché attorcigliai i fili dell’accensione.
Accanto al cambio c’era un’altra leva, con in cima due pulsanti rossi
su cui era scritto «EVVAI 1» e «EVVAI 2» – se non il suo senso
dell’umorismo, quantomeno apprezzai la passione del proprietario
per le migliorie. Speravo solo che le bombole di azoto fossero piene.
Il serbatoio del gas era a tre quarti, più di quanto mi occorresse.
Anche gli altri salirono a bordo, Carlisle sul sedile del passeggero e i
restanti dietro, e il motore emise un rombo d’impazienza quando feci
retromarcia per accedere alla corsia di marcia. Non c’era nessuno a
bloccare il passaggio. In un istante, percorremmo tutta la lunghezza
di quell’enorme garage fino all’uscita. Premetti il pulsante di
riscaldamento sul cruscotto. L’azoto avrebbe impiegato un attimo per
passare dallo stato gassoso a quello liquido.
«Alice, dammi trenta secondi di anticipo».
Okay.
La discesa era una rampa a spirale stretta che si snodava giù per
quattro piani. Come previsto da Alice, a metà strada piombai dietro a
una Cadillac Escalade che stava uscendo. Il passaggio era talmente
angusto che non ebbi altra scelta se non quella di attaccarmi all’auto
e cercare di spaventare il conducente con un lungo colpo di clacson.
Alice aveva già visto che la cosa non avrebbe funzionato, ma non
riuscii a trattenermi.
Compiuta l’ultima curva sbucammo in un’ampia area di pedaggio
illuminata dal sole. Delle sei corsie, due erano vuote e l’Escalade era
diretta a quella più vicina. Io ero già all’ultima cassa.
Il passaggio era bloccato da una sbarra sottile, a strisce bianche
e rosse. Non feci neppure in tempo a valutare concretamente se
sfondarla, che sentii Alice urlarmi contro nella sua testa.
Se la polizia inizia a inseguirci ora, non ce la faremo!
Le mie mani strinsero ancora più forte il volante arancione
fluorescente. Feci uno sforzo per rilassare le dita avvicinandomi al
finestrino automatico. Carlisle prese il biglietto che si intravedeva
dietro l’aletta parasole e me lo allungò.
Fu Alice ad afferrarlo. Aveva visto che non avrei avuto la calma
per infilarlo nella fessura, né tantomeno per attendere
pazientemente che la macchinetta facesse il suo dovere. Avanzai di
un altro mezzo metro, in modo che Jasper potesse abbassare il
vetro e pagare con una delle carte senza nome che utilizzavamo per
mantenere l’anonimato.
Si era tirato giù la manica scura fin sulla punta delle dita. Quando
allungò la mano fuori dal finestrino per inserire il biglietto nella
fessura, c’era solo un piccolo sprazzo di luce.
Mi concentrai sulla sbarra a strisce. Era la bandiera a scacchi.
Non appena si fosse sollevata, sarebbe partita la corsa.
La cassa automatica emise un ronzio. Jasper spinse un bottone.
La sbarra si alzò e io pestai l’acceleratore.
Conoscevo la strada. Alice aveva visto quanto sarebbe stata
lunga e tutto quello che avremmo incontrato. Eravamo a metà
giornata e il traffico non era infernale. Mi erano chiari tutti i varchi
nelle maglie dello schema.
Mi occorsero venti secondi per portare la marcia in sesta. Non
avevo più intenzione di scalare.
Il primo tratto di autostrada risultò pressoché vuoto, ma davanti a
noi si profilava un restringimento di corsie. Non c’era tempo a
sufficienza per utilizzare appieno una bombola di NOS. Sterzai tutto a
sinistra per aggirare le macchine che affluivano.
Una cosa era certa riguardo all’Arizona: poteva anche esserci un
sole assurdo, ma le autostrade erano eccezionali. Sei corsie ampie e
spianate, con delle banchine su entrambi i lati abbastanza larghe da
farle salire a otto. Adesso utilizzai quella di sinistra per superare due
pick-up convinti di trovarsi sulla corsia di sorpasso.
Attorno all’autostrada, tutto era piatto e riarso dal sole, aperto e
senza spazi in cui ripararsi dalla luce, e il cielo era un’enorme cupola
di un azzurro pallido, che in quel caldo torrido appariva quasi bianco.
L’intera vallata era esposta al sole come cibo su una griglia. Gli unici
elementi a interrompere quelle monotone distese di ghiaia erano
alcuni alberi simili a dei fuscelli, che a malapena si tenevano
aggrappati alla vita. Non riuscii a cogliere la bellezza che Bella
vedeva in quei luoghi. Non avevo tempo per farlo.
Avevo superato i centonovanta chilometri orari. Era probabile che
con la STI ne avrei potuti raggiungere una cinquantina in più, ma
ancora non volevo spingere l’auto al massimo. Non c’era modo di
sapere se il motore era stato messo a punto per la seconda o per la
terza fase del tuning; sarebbe stato instabile e rischioso. L’unica
cosa che potevo fare era tenere d’occhio la pressione e la
temperatura dell’olio, e ascoltare attentamente per capire quanto il
motore fosse sotto sforzo.
Ci stavamo avvicinando all’enorme cavalcavia ad arco che ci
avrebbe immessi nell’autostrada diretta a nord, ed era a una corsia
sola. Con a destra una banchina molto larga.
Feci slittare l’auto attraverso le sei corsie per raggiungere l’uscita.
Alcune macchine furono colte di sorpresa e sterzarono, ma nel
tempo che impiegarono a reagire le avevo già superate.
Alice vide che la banchina non era abbastanza larga.
«Oh, accidenti, mi salteranno gli specchietti laterali», ringhiai.
«Ditemi voi cosa vedete».
Si voltarono dai propri posti per guardare la strada a sinistra, a
destra e dietro. Quel che vedevo nelle loro menti mi offriva
comunque una panoramica migliore di quella degli specchietti.
Sfrecciai accanto al traffico che avanzava più lento, non
riuscendo però a mantenere la velocità sopra i centossessanta. Nel
raschiare contro il furgone che stava percorrendo la corsia di destra,
digrignai i denti e strinsi ancor di più la presa sul volante. Si sentì
uno stridio di metallo e lo specchietto di sinistra saltò via contro la
fiancata del furgone, mentre quello di destra esplose contro la
barriera di cemento.
Bella correva inciampando su un marciapiede arroventato. O così
avrebbe fatto di lì a poco.
«Solo la strada, Alice», dissi stizzito a denti stretti.
Scusa, ci sto provando.
Il panico stillava dai suoi pensieri. Bella stava andando di corsa
verso un parcheggio. O stava per farlo.
«Smettila!».
Chiuse gli occhi e cercò di vedere solo la strada davanti a sé.
Sapevo che quelle immagini potevano mettermi fuori gioco. Le
cacciai via dalla mia mente.
Riuscirci fu meno dura del previsto.
La strada era tutto. Riuscivo a vederla a trecentosessanta gradi e
nel futuro con trenta secondi di anticipo. Quando mi immisi
nell’autostrada verso nord, spostandomi di nuovo tra le corsie per
raggiungere la banchina di sinistra, e sfiorando ora i duecento
chilometri orari, fu come se le menti di noi tutti si fossero unite in un
unico organismo perfettamente organizzato, più grande della somma
delle sue parti. Vedevo gli schemi del traffico davanti a noi, il modo in
cui cambiavano e si concretizzavano, e riuscivo a intravedere la via
giusta per superare ogni intralcio.
Sfrecciammo talmente di corsa all’ombra di due viadotti, che i
lampi di oscurità ebbero quasi un effetto stroboscopico.
Duecentotrenta.
Quindici secondi davanti a me e si sarebbe aperto il varco
perfetto. Sterzai verso la corsia al centro e sollevai il coperchio
trasparente che proteggeva il pulsante rosso con su scritto «EVVAI
1».
Il tempismo era perfetto. Nel momento esatto in cui mi sentii
sicuro, pigiai il bottone, l’afflusso del NOS diede la sua sferzata e
l’auto partì a razzo come se fosse stata sparata da un cannone.
Duecentocinquanta.
Duecentosettanta.
Bella stava aprendo una porta a vetri che dava su una stanza
vuota e buia. O lo avrebbe fatto a breve.
Alice recuperò la concentrazione, meravigliandosi per la facilità
con cui ci stava riuscendo. I suoi pensieri si soffermarono un attimo
su Jasper e a quel punto capii tutto.
Jasper aveva qualche difficoltà a comportarsi da uomo di pace.
Ma nel fare l’uomo di guerra era migliore di quanto avessi
immaginato.
Adesso stava condividendo con noi tutti la sua concentrazione in
battaglia, una tecnica che aveva utilizzato durante gli anni di guerra
per tenere sotto controllo i suoi neonati. Sebbene ci trovassimo in
uno scenario completamente diverso, la cosa stava funzionando alla
perfezione, unendoci in un’unica macchina iperefficiente.
Non opposi alcuna resistenza e lasciai che la mia mente fosse a
capo della nostra offensiva.
La sferzata data dall’azoto iniziava già a svanire.
Duecentoquaranta.
Cercai l’occasione successiva.
Stanno preparando il primo posto di blocco, mi fece notare Alice.
Nessuno di noi due era preoccupato. Lo stavano costruendo troppo
vicino per poterci intercettare. Lo avremmo superato prima che
fossero riusciti a completarlo.
E anche il secondo. Mi mostrò il punto sulla mappa che aveva in
testa. Abbastanza avanti a noi da costituire un problema, e questo
anche se nel giro di quattro secondi si fosse aperto un nuovo varco.
Riflettei sulle alternative a mia disposizione, mentre Alice me ne
illustrava le conseguenze. Il tempo a noi concesso era troppo poco:
non potevamo far altro che cambiare macchina.
Senza pensarci, sollevai il coperchio di sicurezza e pigiai anche il
pulsante «EVVAI 2». La STI schizzò avanti obbediente.
Duecentosettanta.
Duecentonovanta.
Alice mi fece vedere quali erano i veicoli disponibili davanti a noi
e io valutai le nostre opzioni.
La Corvette sarebbe stata angusta e il nostro peso complessivo
avrebbe rappresentato un problema più di quanto non avesse fatto
con l’auto da corsa su cui viaggiavamo. Mentalmente, misi una croce
sopra un altro paio di veicoli. Fu allora che Alice la vide: una moto
BMW S1000 RR nero brillante. Velocità massima oltre trecento
chilometri orari.
Edward, non è fattibile.
L’immagine di me in sella a quella moto nera lucente era così
accattivante, che per un attimo non le prestai ascolto.
Edward, avrai bisogno di tutti noi.
Di colpo, i suoi pensieri si erano riempiti di caos e di sangue, di
urla umane e disumane, e del suono del metallo in frantumi. Al
centro c’era Carlisle, con le mani tinte di un rosso brillante.
Fu Jasper a impedire che uscissi di strada. In quel momento, la
sua presa sulle mie emozioni fu talmente forte che sentii come un
pugno stretto intorno alla gola.
Insieme, costringemmo la mia mente a concentrarsi di nuovo
sulle corsie davanti a me.
Ormai restava da compiere solo la parte più breve del viaggio;
l’auto non contava più molto. Alice passò in rassegna berline,
minivan e SUV.
Eccola! Una Porsche Cayenne Turbo nuova di zecca, talmente
nuova da non avere ancora le targhe – velocità massima trecento
chilometri orari – ma con il lunotto già decorato dagli adesivi di una
famiglia stilizzata. Due figlie e tre cani.
Una famiglia ci avrebbe rallentati. Alice intuì la mia intenzione di
prendere quell’auto e scrutò nel futuro per vedere che cosa questo
avrebbe comportato. Fortunatamente, a bordo c’era solo il
conducente. Una donna sulla trentina con i capelli scuri raccolti in
una coda.
Alice non vedeva più Bella sul marciapiede. Quella parte era già
diventata il passato. Così come il parcheggio. Bella era ormai dentro
con il segugio.
Lasciai che Jasper mi mantenesse concentrato.
«Cambieremo auto sotto il prossimo cavalcavia», li avvisai.
Con voce trillante, e con le parole che le uscivano più veloci del
battito d’ali di un colibrì, Alice assegnò a ciascuno il proprio compito.
Carlisle si mise a cercare nella sua valigetta.
Emmett si contrasse inconsciamente.
Raggiunsi e superai il SUV bianco, stizzito per il fatto di dover
rallentare per prendere il suo passo. Ogni secondo che perdevo,
Bella l’avrebbe pagato con la propria sofferenza. Andando contro
ogni mio istinto, scalai in quarta.
La motocicletta BMW sfrecciò via. Dovetti reprimere un sospiro.
Il viadotto si trovava a un chilometro davanti a noi. L’ombra che
proiettava era lunga appena sedici metri; adesso il sole ci veniva
quasi direttamente addosso.
Iniziai ad accostarmi alla Cayenne per spingerla verso sinistra. La
donna al volante cambiò corsia. Le andai dietro rapidamente,
mettendomi a metà tra le corsie, così da occupare per metà la sua.
Lei cominciò a rallentare e io feci altrettanto.
Alice mi aiutò a cronometrare i tempi. Superai leggermente la
Cayenne e poi sterzai ancora a sinistra, invadendo la sua corsia
mentre la donna decelerò bruscamente. A quel punto lei inchiodò.
Subito dietro di noi, la Corvette che avevo valutato prima deviò
repentinamente su un’altra corsia, e nel superarci si attaccò al
clacson. Per non finirci addosso, tutto il traffico, simile a un’ameba, si
spostò all’unisono sulla destra.
Eravamo riusciti a fermarci entro gli ultimi tre metri d’ombra.
Uscimmo tutti fuori, contemporaneamente. Accanto a noi, i volti
incuriositi degli altri automobilisti sfrecciavano a cento chilometri
orari.
Anche la donna a bordo della Cayenne stava scendendo
dall’auto, con il volto accigliato e la coda che ondeggiava per la
rabbia. Carlisle le volò incontro. Lei ebbe un istante appena per
realizzare che a farla uscire di strada era stato l’uomo più bello che
avesse mai visto, dopodiché svenne tra le sue braccia.
Probabilmente non fece nemmeno in tempo a sentire l’ago che la
pungeva.
Carlisle adagiò con cautela il suo corpo privo di sensi su un rialzo
di cemento posto accanto alla banchina. Io salii al posto di guida.
Jasper e Alice si erano già messi dietro. Alice stava tenendo aperta
la portiera per Emmett. Quest’ultimo si era accovacciato accanto alla
STI, in attesa che Alice gli desse il comando. Lei osservava il traffico
che correva verso di noi per cogliere il momento in cui limitare al
massimo i danni.
«Ora», gridò.
Emmett ribaltò l’auto sgargiante sui veicoli in arrivo.
La STI rotolò sulla seconda e terza corsia da destra. Partì lo
stridio prolungato dei freni man mano che, una dopo l’altra, le
macchine iniziarono a inchiodare, per poi finire comunque in un
tamponamento. Si sentì il fragore degli airbag che scoppiavano dalle
plance. Alice vide che ci sarebbero stati dei feriti, ma nessuna
vittima. La polizia, che già ci stava inseguendo, era a qualche
secondo di distanza.
I rumori si attenuarono. Carlisle ed Emmett si erano messi ai loro
posti e io avevo ripreso la mia corsa, con il desiderio disperato di
recuperare il tempo perduto.
Il segugio incombeva su Bella. Le sue dita le accarezzavano il
collo. Mancavano solo pochi secondi.
Duecentosessanta.
Sulla carreggiata opposta dell’autostrada, quattro pattuglie si
dirigevano a sirene spiegate verso l’incidente che avevamo causato.
Non badarono al SUV da mammina perfetta che sfrecciava diretto a
nord.
Ancora due uscite.
Duecentonovanta.
Non avvertivo alcuno sforzo da parte del SUV, ma ero
consapevole che ora il pericolo maggiore non era tanto un guasto al
motore – ce ne voleva per danneggiare quel carro armato tedesco –,
quanto la tenuta degli pneumatici. Non erano stati progettati per quel
tipo di velocità. Non potevo rischiare che ne scoppiasse anche uno
solo, ma provai un dolore fisico nel rilasciare il pedale
dell’acceleratore.
Duecentosessanta.
La nostra uscita ci stava correndo incontro. Dribblai un camion e
poi sterzai a destra.
Alice mi mostrò lo scenario. C’era un incrocio lungo quanto tutto il
cavalcavia. In cima a quell’uscita, un semaforo stava diventando
giallo proprio in quel momento. Nel giro di un secondo, sarebbe stato
verde per quelli a ovest dell’incrocio e due corsie di veicoli avrebbero
invaso il centro strada.
Dentro di me, raccomandai agli pneumatici di rimanere integri e
affondai il piede sull’acceleratore.
Duecentosettanta.
Imboccammo l’uscita a velocità sparata, passando a pochi
centimetri dalle auto ferme al semaforo.
Sbandando a sinistra, raggiunsi il semaforo che ormai era
diventato rosso, e nel prendere la curva stretta il SUV derapò a
destra, evitando per un pelo di urtare contro la barriera di cemento
del viadotto.
Le macchine dirette alla rampa di accesso avevano già occupato
metà dell’incrocio. Non potei fare altro che mantenere stabile la mia
traiettoria.
Come un fulmine, sfrecciai a meno di un centimetro dalla Lexus
in testa agli altri veicoli.
La Cactus Road non si dimostrò una via agevole quanto
l’autostrada: solo due corsie con dozzine di vie residenziali che vi si
immettevano e persino alcuni vialetti privati. Non restavano che
quattro semafori tra noi e la stanza con gli specchi. Alice vide che ne
avremmo superati due con il rosso.
Un limite di velocità – sessanta chilometri orari – scomparve alle
nostre spalle.
Centonovanta.
Quella strada mi offrì però un piccolo vantaggio: proprio al centro,
marcata con delle strisce di un giallo acceso, una corsia di
emergenza correva per quasi tutta la sua lunghezza.
Bella stava strisciando sulle assi del pavimento. Il segugio aveva
sollevato il piede destro.
Alice recuperò la concentrazione, ma la mia mente aveva
cambiato direzione.
Per un decimo di secondo, mi ritrovai a Forks nella mia Volvo,
intento a meditare su come uccidermi.
Emmett non me l’avrebbe mai permesso... ma forse Jasper. Solo
lui poteva sentire ciò che provavo. Magari lui avrebbe voluto porre
fine alla mia vita, unicamente per fuggire da quel dolore. Ma
probabilmente si sarebbe rifiutato. Non avrebbe mai desiderato far
soffrire Alice. Perciò, sarebbe rimasto solo il lungo viaggio fino in
Italia.
Jasper si allungò in avanti e poggiò le dita sulla mia nuca. Fu
come se della novocaina avesse scacciato via tutta la mia angoscia.
Mi precipitai sulla corsia al centro della strada, percorrendola
ininterrottamente per quasi due chilometri, dopodiché sterzai di
nuovo nelle corsie regolari per superare in volata il primo semaforo
verde. Davanti a me si approssimava l’incrocio successivo. La corsia
di emergenza cedette il passo a una corsia di svolta a sinistra, con
tre macchine già in fila e in attesa di girare. La corsia a destra era
invece pressoché vuota. C’era solo una motocicletta che riuscii a
evitare salendo per un attimo sul marciapiede, lottando perché il SUV
non si ribaltasse.
Lanciai un’occhiata al tachimetro: centotrenta. Inammissibile.
Bruciai il semaforo superando il traffico – fortunatamente, alcuni
automobilisti mi avevano visto arrivare e si erano fermati a metà
incrocio –, dopodiché tornai sulla corsia di emergenza.
Centosessanta.
Il crocevia successivo era ancora più grande del precedente, più
largo e con il doppio del traffico.
«Alice, mostrami tutte le alternative!».
Nella sua mente, tutti i veicoli sulla strada erano bloccati. Lei li
fece muovere a ritroso nel tempo e poi di nuovo in avanti. Li vidi
arrivare dapprima lungo l’asse verticale e poi quello orizzontale. Le
maglie dello schema erano strette, ma, per quanto minuscoli,
c’erano alcuni varchi. Li memorizzai.
Centonovanta.
A quella velocità, se avessimo urtato un’altra macchina entrambi i
veicoli si sarebbero distrutti. Non avevamo altra scelta se non quella
di sfrecciare sotto quel sole accecante e correre da Bella. La gente
avrebbe visto... qualcosa. Nessun altro era veloce quanto me. Non
sapevo che storia si sarebbero inventati – alieni o demoni, o magari
delle armi segrete del Governo –, ma di certo ne avrebbero tirata
fuori una. E poi che sarebbe successo? Come avrei potuto salvare
Bella se si fossero presentate le autorità immortali per chiedere
spiegazioni? Non potevo coinvolgere i Volturi, sempre che non fossi
arrivato troppo tardi.
Bella però stava urlando.
Jasper mi aumentò la dose di novocaina. Il torpore penetrò nella
mia pelle arrivando al cervello.
Incollai il piede sull’acceleratore e sterzai invadendo le corsie
della carreggiata opposta.
C’era giusto lo spazio sufficiente per infilarmi tra le altre
macchine. Stavano tutte avanzando a una velocità talmente inferiore
alla mia che mi sembrò di schivare degli oggetti immobili.
Duecentodieci.
Avanzai serpeggiando in mezzo all’incrocio bloccato e raggiunsi il
lato destro della strada nel momento stesso in cui si liberò.
«Fico», sibilò Emmett.
Duecentoventicinque.
L’ultimo semaforo sarebbe stato verde.
Alice però ebbe un’altra idea.
«Gira qui a sinistra», disse mostrandomi una stretta via
residenziale che correva dietro la zona commerciale in cui si trovava
la scuola di danza. La strada era fiancheggiata da giganteschi alberi
di eucalipto, le cui foglie tremolanti più che verdi sembravano
d’argento. Le macchie d’ombra erano quasi sufficienti a farci passare
inosservati. In giro non c’era anima viva. Faceva troppo caldo.
«Adesso rallenta».
«Non siamo ancora abbastanza...».
Se lui ci sente, lei morirà!
Controvoglia, spostai il piede sul pedale del freno e iniziai a
decelerare. L’angolo della curva era talmente stretto che, se non
l’avessi fatto, il SUV si sarebbe ribaltato. Imboccai la svolta sfiorando
appena i cento chilometri orari.
Va’ più piano.
Scesi a sessanta e serrai la mascella.
«Jasper», sibilò Alice a tutta velocità, con parole quasi
impercettibili malgrado il suo fervore. «Gira attorno all’edificio ed
entra dall’ingresso principale. Noi altri passeremo dal retro. Carlisle,
tu tieniti pronto».
Sangue su tutti gli specchi infranti, a formare una pozza sul
pavimento di legno.
Accostai la Cayenne all’ombra di uno di quegli alberi svettanti e
quando la parcheggiai si sentì solo un leggerissimo rumore di
pneumatici che smuovevano il brecciolino sull’asfalto. A marcare il
confine tra la zona residenziale e quella commerciale c’era un muro
a blocchi alto due metri e mezzo. Il lato opposto della strada era
costeggiato da case tutte stipate tra loro, con le tende parasole
abbassate per mantenere freschi gli interni.
Muovendoci con sincronismo perfetto grazie a Jasper, balzammo
fuori dall’auto lasciando le portiere solamente accostate, per evitare
rumori inutili. Il traffico impazzava sia a nord che a ovest dell’edificio
commerciale; questo avrebbe sicuramente coperto ogni suono da
noi eventualmente prodotto.
Era trascorso forse un quarto di secondo. Oltrepassammo il
muro, saltando sufficientemente lontano da evitare il letto di ghiaia
immediatamente al di sotto e atterrando quasi in silenzio sull’asfalto.
C’era un vicoletto dietro l’edificio. Un cassonetto, delle cassette di
plastica impilate e un’uscita di emergenza.
Non ebbi esitazioni. Riuscivo già a vedere quel che c’era oltre la
porta. O quel che ci sarebbe stato di lì a un attimo. Inarcai il corpo in
modo che non potessero esserci errori, nessun varco minuscolo
attraverso cui il segugio potesse sfuggire, dopodiché mi lanciai verso
l’ingresso.
26. SANGUE

Attraversai la porta.
Si frantumò. Pezzi di muro schizzarono via.
Il ruggito che mi esplose dal profondo fu del tutto istintivo. Il
segugio sollevò di scatto la testa e si tuffò per aggredire la sagoma
color rosso bruno che giaceva sul pavimento sotto di lui. Vidi una
mano pallida protesa nel vano tentativo di difendersi.
L’ostacolo della porta non aveva frenato il mio slancio. Mi fiondai
a mezz’aria sul segugio, trascinandolo lontano dalla sua preda e
scaraventandolo sul pavimento con tanta forza da squarciare le assi
di legno.
Mi rotolai e lo spinsi sopra di me, poi lo calciai al centro della
sala. Dove lo aspettava Emmett.
Per l’intera frazione di secondo in cui avevo lottato con il segugio
ero stato a malapena consapevole che fosse una creatura vivente.
Era piuttosto un oggetto che mi intralciava. Sapevo che in un certo
punto del prossimo futuro sarei stato invidioso di Emmett e Jasper.
Avrei voluto avere la possibilità di ghermire, lacerare e recidere. Ma
adesso non aveva più senso. Mi girai.
Come avevo immaginato, Bella era accartocciata contro il muro,
circondata da schegge di vetro. Rosso tutt’intorno.
Tutto il terrore e il dolore che mi avevano oppresso fin da quando
avevo avvertito per la prima volta lo spavento di Alice all’aeroporto
mi travolsero come un’ondata inarrestabile.
I suoi occhi erano chiusi. La mano giaceva esangue accanto a lei.
I battiti erano deboli, incerti.
Decisi di non muovermi. Ero lì, proprio accanto a lei,
inginocchiato nel suo sangue. Il fuoco mi bruciava in petto e nella
testa, ma non riuscivo a separare i due tipi di dolore. Avevo paura di
toccarla. Si stava frantumando in così tanti pezzi. Potevo solo
peggiorare le cose.
Sentii la mia voce che continuava a ripetere sempre le stesse
parole. Il suo nome. No. Per favore. Ancora e ancora, come un disco
incantato. Ma non riuscivo a controllare il suono.
Mi sentii urlare il nome di Carlisle, ma lui era già lì, a tamponare il
sangue dall’altra parte del suo corpo.
Le parole che mi uscivano dalla bocca non erano più parole, ma
solo suoni deformati, conati. Singhiozzi.
Le mani di Carlisle passavano dal cuoio capelluto alla caviglia, su
e giù, così rapidamente che si confondevano. Premette con
entrambe le mani sulla sua testa, per vedere se ci fossero fratture.
Con due dita fece pressione in un punto dietro l’orecchio destro. Non
riuscii a vedere cosa stesse facendo, i capelli di Bella erano pieni di
sangue.
Un debole grido le attraversò le labbra. La sua faccia si contrasse
dal dolore.
«Bella», supplicai.
La voce calma di Carlisle era l’antitesi del mio aspro grido. «Ha
perso sangue, ma la ferita alla testa non è profonda. Attento alla
gamba, è rotta».
Un ululato di pura rabbia lacerò la sala, e per un’istante pensai
che Emmett e Jasper fossero in pericolo. Mi misi in contatto con la
loro mente – stavano già raccogliendo i pezzi del corpo sparsi in giro
– e compresi che quel suono proveniva da me.
«Anche qualche costola, credo», aggiunse Carlisle, ancora
incredibilmente calmo.
I suoi pensieri erano impassibili, e molto pragmatici. Sapeva che
lo avrei ascoltato. Ma era anche incoraggiato da ciò che vedeva.
Eravamo in tempo. La situazione non era critica.
Notai però tutti i se nelle sue valutazioni. Se fosse riuscito a
tenere le ferite sotto controllo. Se una costola non avesse perforato il
polmone. Se i danni interni fossero stati inferiori a quello che
sembrava. Se, se, se. In tutti quegli anni trascorsi nel tentativo di
tenere in vita i corpi umani aveva accumulato una grande quantità di
conoscenze su ciò che poteva andare storto.
I miei jeans erano intrisi del sangue di Bella. Ce l’avevo
dappertutto sulle braccia. Ne ero completamente imbrattato.
Il dolore fece gemere Bella.
«Bella, andrà tutto bene». Le mie parole erano un’implorazione,
una supplica. «Mi senti, Bella? Ti amo».
Un altro gemito, o forse no... stava cercando di parlare.
«Edward», ansimò.
«Sì, sono qui».
«Fa male», sussurrò.
«Lo so, Bella, lo so».
Emerse un sentimento di invidia, come un pugno che mi colpiva
in pieno petto. Desideravo così tanto fare a pezzi il segugio,
strapparlo lentamente in lunghi brandelli. Tutto quel dolore e quel
sangue, e io non avrei più potuto fargliela pagare. Non bastava che
stesse morendo, che stesse bruciando. Non sarebbe mai stato
abbastanza.
«Non puoi farci niente?», ringhiai rivolto a Carlisle.
«La valigetta, per favore», disse freddamente ad Alice.
Alice emise un lieve suono soffocato.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal viso ferito e pieno di
sangue di Bella. Sotto lo strato di sangue rappreso, la sua pelle era
pallida come non l’avevo mai vista. Le sue palpebre a stento
sbattevano.
Ma mi misi in contatto con la mente di Alice e vidi quali
complicazioni ci sarebbero state.
Dovevo ancora davvero rendermi conto del lago di sangue in cui
ero inginocchiato. Dentro di me, da qualche parte, sapevo che il mio
corpo probabilmente stava reagendo a questa cosa. Ma, di
qualunque reazione si trattasse, era qualcosa che si trovava così al
di sotto del livello del dolore, che non era ancora emersa.
Ad Alice piaceva Bella, ma non era fisicamente preparata a tutto
questo. Era lì, esitante, i denti serrati, cercando di ingoiare veleno.
Anche Emmett e Jasper stavano lottando. Avevano gettato fuori
dalla sala i pezzi del corpo del segugio, sperai con tutte le mie forze
che quei brandelli fossero ancora in grado di sentire dolore. Emmett
teneva d’occhio Jasper per controllarne ogni minima variazione.
Emmett aveva un controllo ammirevole. La sua preoccupazione per
Bella era ben più forte di quella che il suo stato d’animo spensierato
in genere gli consentiva di avere.
«Trattieni il respiro, Alice», disse Carlisle. «Sarà meglio».
Lei annuì, smise di respirare e saettò per prendere la valigetta,
lasciandola accanto alla gamba di Carlisle. Si era mossa con così
tanta attenzione che non aveva nemmeno le scarpe sporche di
sangue. Alla fine, si rifugiò verso la porta d’emergenza sfondata,
bisognosa di respirare aria fresca.
Dalla porta aperta penetrarono suoni di sirene in lontananza, in
cerca dell’auto che aveva sfrecciato per le strade in maniera così
sconsiderata. Non credevo che avrebbero trovato l’auto rubata
parcheggiata in un punto poco visibile di una tranquilla strada
laterale, ma se anche ci fossero riusciti non mi interessava granché.
«Alice?», ansimò Bella.
«È qui», balbettai. «Sapeva dove ti avremmo trovata».
Bella gemette. «Mi fa male la mano».
Mi sorprese che fosse così specifica. Aveva così tante ferite.
«Lo so, Bella. Carlisle ti darà qualcosa per calmare il dolore».
Carlisle stava suturando i tagli sulla testa in maniera così rapida
che il movimento delle sue mani aveva ricominciato a confondersi.
Non c’era emorragia che gli sfuggisse. Era capace di riparare i vasi
sanguigni più grandi con piccoli punti di sutura in un modo che un
qualunque altro chirurgo non sarebbe stato in grado di ripetere
nemmeno in condizioni ideali e con l’ausilio di strumentazioni
meccaniche. Avrei voluto che si prendesse una pausa e che le
desse degli antidolorifici, ma sotto la sua apparente calma avvertivo
il timore che alla testa di Bella ci fossero più danni di quanti
pensasse. Aveva perso tantissimo sangue...
Con uno scatto improvviso, Bella si contorse sollevando il busto.
Carlisle le fermò la testa con la mano sinistra per bloccarla con la
sua presa d’acciaio. Bella spalancò gli occhi – erano iniettati di
sangue – e strillò con più forza di quanta avrei mai immaginato le
fosse rimasta.
Pensai che non ce l’avrebbe fatta.
«La mano sta andando a fuoco».
«Bella?», dissi in lacrime. Stupidamente, per un istante pensai
solo al fuoco che infuriava nel mio corpo. Le stavo facendo male?
I suoi occhi tremolavano, accecati dal sangue e dai capelli
impregnati di sangue.
«Il fuoco!», urlò, inarcando la schiena nonostante il dolore alle
costole. «Qualcuno spenga il fuoco!».
Il volume della sua agonia mi agghiacciò. Sapevo di aver capito
quello che stava dicendo, ma il panico non mi permetteva di
comprenderne il significato. Mi sentii come se qualcuno mi stesse
costringendo a non guardare la sua faccia e mi forzasse a
concentrare lo sguardo sulla sua mano segnata da alcuni fori color
rosso scuro, che stava spingendo lontano da sé e le cui dita tese si
contorcevano dal dolore.
Un piccolo pezzo di carne era stato reciso alla base del palmo
della mano. Niente in confronto alle altre ferite. Il sangue si era
subito rappreso...
Conoscevo quello che stavo vedendo, ma non riuscivo a trovare
le parole giuste.
Tutto quello che riuscii a fare fu dire a fatica: «Carlisle! La
mano!».
Carlisle sollevò malvolentieri lo sguardo da ciò che stava facendo
e per la prima volta le sue mani si fermarono. Ma poi anche lui
rimase sconcertato da ciò che vide.
La sua voce suonò vuota. «L’ha morsa».
Quelle parole: l’ha morsa. Il segugio aveva morso Bella. Il fuoco
era il veleno.
Rividi al rallentatore la scena nella mia mente. Avevo sfondato la
porta. Il segugio si era avventato. La mano di Bella protesa in avanti.
Avevo sbattuto contro di lui, spingendolo via di lì. Ma i suoi denti
erano scoperti, il collo teso...
Ero stato un millesimo di secondo troppo lento.
Le mani di Carlisle erano ancora immobili. Aggiustala, volevo
gridargli, ma sapevo, come lui, che sarebbe stato tutto inutile ora.
Ogni cosa che dentro di lei era rotta si sarebbe ricomposta da sola.
Ogni osso rotto, ogni squarcio, ogni piccola ferita aperta sotto la sua
pelle, tutto sarebbe tornato integro.
Il suo cuore si sarebbe fermato per non battere più.
Bella urlò e si contorse dal dolore.
Edward.
Alice era ritornata, con una nuova risolutezza che ora le
permetteva di inginocchiarsi accanto a Carlisle col sangue che le
impregnava le scarpe. Spostò delicatamente i capelli dagli occhi
insanguinati di Bella.
Non puoi lasciare che succeda in questo modo, stava pensando
rivolta a Carlisle.
Anche Carlisle stava ricordando, in quel momento. I segni dei
denti sul palmo della mano e la lunga, prolungata sofferenza della
sua trasformazione.
Poi Carlisle pensò a me.
L’immagine di un’ustione che correva lungo la mia mano, il mio
braccio. Anch’io ricordai.
«Edward, devi farlo», insistette Alice.
Avrei potuto renderlo più semplice e veloce, a Bella. Non avrebbe
dovuto soffrire così come era capitato a me.
Avrebbe sofferto comunque. Un dolore inimmaginabile. Il fuoco
l’avrebbe torturata per giorni. Solo... non così tanti giorni.
E alla fine...
«No!», strillai, ma sapevo che era inutile.
La visione di Alice era così forte ora da sembrare inevitabile. Era
storia, non futuro. Bella, bianca come una pietra, i suoi occhi che
brillavano cento volte più luminosi della scena da macello che
avevamo intorno.
Si intrufolarono dei ricordi miei, sospingendo una nuova
immagine che si giustappose alla visione di Alice: Rosalie. Il
risentimento, il rimpianto. Sempre a dolersi per ciò che aveva perso.
Mai rassegnata per ciò che le era stato fatto. Non aveva avuto scelta
e non ci aveva perdonato.
Avrei potuto sopportare Bella che mi fissava per i successivi mille
anni con lo stesso rimpianto?
Sì!, disse la parte più egoista di me. Meglio che vederla
scomparire e scivolare via da me.
Ma era davvero meglio? Se avesse potuto comprendere ogni
conseguenza e ogni perdita, lei avrebbe scelto così?
E io, ne comprendevo appieno il prezzo? Ero consapevole di tutto
ciò che avevo dato via in cambio della mia immortalità? Il segugio
aveva appena incontrato lo stesso muro nero del nulla a cui ero
destinato anche io un giorno? O ci sarebbero state le fiamme eterne
per entrambi?
«Alice», gemette Bella, chiudendo gli occhi. Aveva capito che
Alice era tornata o stava solo rinunciando al mio aiuto? Non stavo
facendo altro se non crollare.
Bella riprese a urlare, un lungo, interminabile ululato di dolore.
Edward!, gridò Alice. Di fronte alla mia esitazione, la sua
impazienza si stava trasformando in frenesia, ma non si fidava
abbastanza di se stessa per agire.
Alice vide che stavo affondando. Vide i miei futuri trasformarsi in
mille diversi tipi di disperazione. Al limite estremo, mi vide perfino
fare una cosa inimmaginabile che non avevo ancora preso in
considerazione in maniera cosciente. Una cosa su cui ero sicuro di
essere troppo debole. Finché non lo vidi nella sua mente e non mi
resi conto che quella versione esisteva anche nella mia testa.
Ora potevo vederlo.
Uccidere Bella.
Era la cosa giusta? Per non farla più soffrire? Per darle, nella sua
totale e perfetta innocenza, la possibilità di un destino diverso da
quello inevitabile che io sapevo di dover affrontare? Un diverso tipo
di vita nell’aldilà rispetto a quella fredda e assetata di sangue per cui
adesso stava bruciando.
Il dolore era troppo forte e non potevo fidarmi dei miei pensieri,
che erano fuori controllo perché Bella stava urlando.
Rivolsi il mio sguardo e la mia mente a Carlisle, sperando che
potesse rassicurarmi, o assolvermi, ma incontrai qualcosa di
completamente diverso.
Nella sua mente c’era una vipera del deserto avvolta a spirale, le
cui squame color sabbia scorrevano l’una sull’altra emettendo un
suono secco e stridulo.
Quell’immagine fu così inattesa che mi raggelai, stordito.
«Potrebbe esserci ancora una possibilità», disse Carlisle.
C’era appena un barlume di speranza nella sua mente.
Carlisle vedeva che cosa la sofferenza di Bella mi stava
provocando; anche lui temeva cosa avrebbe procurato, sia a lei che
a me, essere costretta a quella vita. Eppure, un barlume di
speranza...
«Quale?», lo implorai. Qual era la possibilità?
Carlisle ricominciò a ricucire le ferite sulla sua testa. Credeva così
tanto in quell’idea che ritenne necessario terminare prima il lavoro.
«Prova a succhiarle il veleno», disse, di nuovo calmo. «Il taglio è
piuttosto pulito».
Ogni muscolo del mio corpo si contrasse.
«Funzionerà?», chiese Alice. Osservò il futuro per rispondere alla
sua stessa domanda. Non era chiaro. Non era stata presa alcuna
decisione. La mia decisione non era stata presa.
«Non lo so. Ma dobbiamo sbrigarci», disse Carlisle senza
sollevare gli occhi da Bella.
Sapevo come si sarebbe diffuso il veleno. Aveva sentito solo
pochi momenti prima il divampare del bruciore. Il veleno si sarebbe
arrampicato lentamente lungo il polso, nel braccio. Poi sempre più
veloce. Non c’era tempo.
Ma!, volevo gridare. Ma io sono un vampiro!
Avrei assaggiato il sangue e mi avrebbe preso la frenesia. Tanto
più se era il suo. Solo il bruciore che in quel momento stava
sentendo lei superava quello che infiammava la mia gola, il mio
petto. Se avessi ceduto anche solo un po’ a quel bisogno...
«Carlisle, io...», la mia voce venne meno per la vergogna. Aveva
minimamente capito che cosa mi stava chiedendo? «Non so se ce la
faccio».
Le dita di Carlisle muovevano l’ago da sutura a una velocità tale
che divennero invisibili. Ora da dietro si era spostato al lato sinistro
della testa. C’erano così tante ferite.
La sua voce era piatta ma dura. «La decisione spetta a te».
Vita o morte, o una pseudovita. Ma anche la vita era in mio
potere? Non avrei mai avuto una simile forza.
«Non posso aiutarti», si giustificò. «Se tu succhierai il sangue
dalla mano, io dovrò fare in modo che smetta di sanguinare qui,
dalla testa».
Bella si dibatteva, investita da una nuova ondata di dolore che la
scuoteva tutta, facendole contorcere la gamba.
«Edward!», urlò.
I suoi occhi pieni di sangue si spalancarono e questa volta si
concentrarono completamente su di me, in maniera penetrante.
Imploravano, supplicavano.
Bella stava bruciando.
«Alice», scattò Carlisle, «portami qualcosa per tenerle la gamba
ferma».
Alice schizzò via dal mio campo visivo; potevo sentirla strappare
le assi dal pavimento e ridurle nelle dimensioni utili al caso.
«Edward», la voce di Carlisle aveva perso il controllo. Affiorò il
dolore. Dolore per me, per Bella. «Devi farlo subito, o sarà troppo
tardi».
Lo sguardo di Bella era implorante e alla disperata ricerca di un
sollievo.
Stava bruciando e io ero la persona peggiore per aiutarla.
Assolutamente e letteralmente la persona peggiore in tutto l’universo
per questo compito.
Ma ero l’unico lì per portarlo a termine.
Lo devi fare, mi imposi. Non ci sono altre strade. Non puoi fallire.
Le afferrai la mano che si contorceva, distendendole le dita e
tenendole ferme. Trattenni il respiro e mi gettai con la bocca sulla
mano.
La pelle ai bordi della ferita era già più fredda rispetto al resto
della mano. Si stava trasformando. Si stava irrigidendo.
Chiusi le labbra intorno al piccolo squarcio, chiusi gli occhi, e
cominciai.
C’era solo qualche rivolo di sangue, il veleno aveva già
incominciato a guarire la ferita. Solo qualche goccia da cui partire.
Quel tanto per bagnarmi la lingua.
Fu come una deflagrazione. Una bomba che esplodeva dentro il
mio corpo e la mia mente. La prima volta che avevo sentito l’odore di
Bella avevo avuto la sensazione che mi disgregasse. Ma quello in
confronto era solo un taglietto superficiale. Questa era una
decapitazione. Il mio cervello era stato reciso dal corpo.
Ma non era dolore. Il sangue di Bella era l’opposto del dolore.
Cancellava ogni bruciore che avevo patito. Ed era molto di più di una
semplice assenza di dolore. Era uno stato di appagamento, di
beatitudine. Mi sentivo soffocato da una strana specie di gioia: una
gioia tutta corporea. Ero guarito e vivo, ogni terminazione nervosa
pulsava di gioia.
Mentre succhiavo dalla ferita, gli effetti del veleno si invertivano. Il
sangue cominciava a fluire stabilmente, riversandosi sulla mia lingua
e nella gola. Il sapore pungente e gelido del veleno era un debole
contrappunto. Non feci nulla per interferire con il potere del suo
sangue.
Rapimento, estasi.
Il mio corpo sapeva che c’era ancora molto da prendere, e per di
più a portata di mano. Di più, fremeva il mio corpo, di più.
Ma il mio corpo non poteva muoversi. L’avevo obbligato a restare
immobile e così fu. Riuscivo a stento a capire perché, ma mi rifiutavo
di lasciare la presa.
Dovevo pensare. Dovevo smettere di sentire e pensare.
C’era altro al di là della beatitudine.
Dolore, c’era un dolore che il piacere non poteva raggiungere. Un
dolore che era sia fuori che dentro la mia mente.
Il dolore era acuto e dissonante. Procedeva in un crescendo.
Bella stava urlando.
Cercai mentalmente qualcosa a cui aggrapparmi, e trovai un
salvagente che mi aspettava.
Sì, Edward. Tu puoi farlo. Vedi? La stai salvando.
Alice mi mostrò migliaia di scorci di futuro. Bella che sorrideva,
Bella che rideva, Bella che mi tendeva la mano, Bella che allargava
le braccia verso di me, Bella che mi fissava rapita, Bella che
camminava vicino a me per andare a scuola, Bella seduta accanto a
me nel pick-up, Bella che dormiva tra le mie braccia, Bella che mi
premeva la mano sulla guancia, Bella che mi afferrava la faccia e
poggiava delicatamente le sue labbra sulle mie. Migliaia di scene
diverse in cui Bella era forte e sana, viva e felice, e con me.
La beatitudine, la gioia fisica, si attenuò.
Il sapore del veleno si fece più forte. Era ancora troppo presto.
Ti mostrerò quando, promise Alice.
Ma sentivo che mi stavo spingendo oltre il limite dove potevo
fermarmi. Mi stavo perdendo. La stavo per uccidere, non c’era
istante in cui il mio corpo non vibrasse di gioia.
Le urla di Bella si chetarono, allentando così la mia connessione
a un dolore che avevo necessità di sentire.
La stavo per uccidere.
«Edward», disse con un filo di voce.
«È qui, Bella», disse Alice per tranquillizzarla.
Proprio qui per ucciderti.
Non avevo quasi più coscienza di nulla. I suoni si smorzarono, la
luce dietro le palpebre sembrava affievolita, non c’era più nulla, solo
sangue. Anche i pensieri di Alice, che quasi urlavano, erano muti e
lontani.
Adesso, mi disse Alice. Ora, Edward.
Attraverso il quasi totale rapimento, potei sentirne il sapore. Il
ghiaccio pungente era sparito. Un nuovo sapore chimico prese il suo
posto e una parte di me realizzò che Carlisle aveva agito
velocemente.
Fermati, Edward! Adesso!
Ma Alice si accorse che mi ero perso. La sentii chiedere
freneticamente se poteva strapparmi da Bella o se quel gesto
avrebbe potuto ferire Bella ancora di più.
«Resta, Edward», sospirò Bella, adesso tranquilla. «Resta con
me...».
La sua voce calma scivolò nella mia testa, in qualche modo era
più forte del panico di Alice, ma più debole del caos che avevo
dentro e intorno a me. Sentire nella sua voce quella fiducia fu per me
un punto di svolta, come se avesse riconnesso il mio cervello al mio
corpo. Mi fece ridiventare una sola cosa.
Così, lasciai semplicemente cadere la sua mano dalle mie labbra.
Sollevai la testa e guardai la sua faccia. Era ancora macchiata di
sangue, ancora cinerea, gli occhi chiusi, ma era tranquilla ora. Il
dolore si era placato.
«Sì, resto», le promisi, con le labbra macchiate di sangue.
La sua bocca si contrasse in un debole sorriso.
«È uscito tutto?», chiese Carlisle. Temeva di essere stato troppo
veloce con l’antidolorifico, che avrebbe coperto il bruciore del veleno.
«Il sangue mi sembra pulito». Il suono della mia voce era aspro,
ruvido. «Sentivo il sapore della morfina».
«Bella?», chiese Carlisle con voce bassa e chiara.
«Mmm», rispose.
«Il fuoco è spento?».
«Sì», disse in un soffio, un po’ più chiaramente ora. «Grazie,
Edward».
«Ti amo».
Sospirò, gli occhi ancora chiusi. «Lo so».
La risatina che gorgogliò dal mio petto mi sorprese. Avevo il suo
sangue sulla lingua. Probabilmente stava tingendo i bordi delle mie
iridi anche in quel momento. Stava impregnando i miei vestiti e mi
macchiava la pelle. Ma lei sapeva ancora farmi ridere.
«Bella?», chiese di nuovo Carlisle.
«Cosa c’è?», il tono della sua voce era scontroso ora. Sembrava
mezza addormentata e impaziente di trovare l’altra metà.
«Dov’è tua madre?».
Sbatté un istante gli occhi, e poi disse in un respiro: «In Florida.
Mi ha imbrogliata, Edward. Ha guardato le nostre cassette».
Sebbene fosse quasi incosciente per il trauma subito e per la
morfina, era chiaro che fosse profondamente offesa da questa
violazione della sua privacy. Sorrisi.
«Alice». Bella lottò per tenere gli occhi aperti, ma poi desistette, e
le sue parole, in quelle condizioni, avevano assunto un carattere di
urgenza. «Alice, il video... Ti conosceva, Alice, sapeva da dove
vieni... Sento puzza di benzina».
Emmett e Jasper erano tornati con la benzina di cui avevamo
bisogno. Le sirene stavano ancora gemendo in lontananza, ma in
un’altra direzione. Non ci avrebbero trovati.
Con un’espressione cupa, Alice guizzò lungo il pavimento
devastato verso le apparecchiature vicino alla porta. Afferrò il piccolo
registratore portatile che stava ancora girando. Lo spense.
Nell’istante in cui decise di recuperare la telecamera, centinaia di
frammenti di futuro le balenarono in mente: immagini di quella
stanza, di Bella, del segugio, del sangue. Era tutto quello che
avrebbe visto se avesse riavvolto il nastro, troppo veloce e
disordinato perché qualcuno di noi potesse assimilare granché.
I suoi occhi scattarono verso i miei.
Ci occuperemo di questo dopo. Abbiamo moltissime cose da fare
adesso per dare un senso a questo incubo.
Si capiva che stava intenzionalmente allontanando i suoi pensieri
dalla telecamera mentre cominciava a esaminare le faccende
piuttosto complicate che avevamo da risolvere, così non insistetti.
Dopo.
«Possiamo portarla via», disse Carlisle. L’odore di benzina che
Emmett e Jasper stavano gettando sulle pareti stava diventando
asfissiante.
«No», mormorò Bella, «voglio dormire».
«Puoi dormire, cara», le sussurrai in un orecchio. «Ti porto io».
La sua gamba era legata stretta all’asse del pavimento che aveva
procurato Alice, e Carlisle aveva trovato il tempo per fasciarle le
costole. Muovendomi con la massima attenzione, la sollevai dal
pavimento ricoperto di sangue, cercando di sostenere ogni parte del
suo corpo.
«Adesso dormi, Bella», le sussurrai.
27. INCOMBENZE

«Abbiamo tempo per...», esordì Alice.


«No», la interruppe Carlisle. «Bella ha immediatamente bisogno
di sangue».
Alice sospirò. Andare subito all’ospedale sarebbe stato più
complicato.
Carlisle sedette accanto a me sul sedile posteriore della
Cayenne, con le dita appoggiate alla carotide di Bella e una mano
che le reggeva la testa. La gamba fasciata era distesa oltre me sulle
cosce di Emmett. Lui non respirava. Guardava fuori dal finestrino
cercando di non pensare al sangue che si stava rapprendendo su
Bella, Carlisle e me. Cercava anche di non pensare a ciò che avevo
appena fatto. Al fatto che fosse impossibile. Alla forza che sapeva di
non avere.
Piuttosto, rimuginava sull’insoddisfazione che gli aveva lasciato lo
scontro con il segugio. Perché, onestamente, aveva sopraffatto il
segugio. Lo aveva contenuto totalmente, sebbene il segugio avesse
lottato, si fosse dimenato e avesse provato a divincolarsi per evitare
la devastante presa di Emmett. Ma non era servito a nulla tutto quel
dimenarsi, Emmett lo stava già facendo a pezzi quando Jasper era
piombato nella sala piena di sangue.
Jasper, stravolto e inferocito, aveva uno sguardo acuto e vuoto
allo stesso tempo, sembrava una specie di dio dimenticato o
un’incarnazione della guerra, che emanava un’aura di pura violenza.
Il segugio aveva smesso di provare a reagire. In quella frazione di
secondo in cui aveva visto Jasper (per la prima volta, ma Emmett
non lo sapeva), si era arreso al suo destino. Non importava che il
suo destino fosse già segnato allorché Emmett aveva messo le mani
su di lui, in realtà era stato quella vista a demoralizzarlo.
E tutto questo stava facendo impazzire Emmett.
Un giorno o l’altro avrei dovuto raccontare a Emmett come era
apparso nella radura, e perché. Credo che solo questo avrebbe
potuto lenire la ferita.
Jasper intanto era alla guida dell’auto. Dal finestrino rotto entrava
l’aria secca e calda della sera e, come Emmett, anche lui non
respirava. Alice sedeva accanto a lui, dirigendo tutto: dove curvare,
quale corsia prendere, a che velocità massima andare senza attirare
attenzioni indesiderate. Voleva che andasse non oltre i cento
chilometri orari. Io avrei accelerato, ma Alice era sicura che ci
avrebbe portato in ospedale più velocemente di quanto potessi fare
io. Dover schivare le pattuglie della polizia ci avrebbe solo rallentato
e avrebbe complicato tutto.
Anche se Alice stava monitorando ogni aspetto del tragitto, la sua
mente si trovava in una dozzina di posti diversi: cercava di capire
come affrontare le varie incombenze che si sarebbero presentate e
di valutare le conseguenze di ogni possibile decisione.
Alcune cose di cui era sicura.
Prese il telefono. Chiamò la compagnia aerea – quella che già
sapeva avrebbe avuto il volo che faceva al caso nostro – e prenotò
un biglietto per le due e mezzo per Seattle. Eravamo stretti coi
tempi, ma riusciva a vedere Emmett sull’aereo.
Vide in anticipo cosa sarebbe accaduto dopo, e anche io potei
vederlo.
Innanzitutto, Jasper avrebbe lasciato Carlisle, Bella e me al St
Joseph. C’erano ospedali più vicini, ma Carlisle aveva insistito. Lì
conosceva un chirurgo che avrebbe garantito per lui, e poi era un
centro traumatologico di eccellenza riconosciuto a livello nazionale.
La situazione di urgenza e il colorito livido di Bella – per quanto il
battito continuasse a essere regolare e forte – non mi permettevano
di fare altro che starmene silenziosamente nel panico e maledire
l’andatura troppo cauta.
«Si rimetterà», grugnì piano Alice rivolta a me, quando vide che
stavo per riprendere a lamentarmi. Mi mostrò un’immagine di Bella
seduta in un letto d’ospedale che sorrideva, sebbene fosse piena di
lividi ovunque. Ma avevo scoperto il suo piccolo inganno.
«E quando sarebbe esattamente?».
Tra un giorno o due, okay? Tre al massimo. Va bene. Rilassati.
Mentre ci riflettevo il mio panico salì alle stelle. Tre giorni?
Carlisle non aveva avuto bisogno di leggere nel pensiero per
comprendere la mia espressione.
«Ha bisogno solo di tempo, Edward», mi rassicurò. «Il suo corpo
ha bisogno di riposo per riprendersi, e anche la sua mente. Starà
bene».
Provai ad accettarlo, ma sentii il panico crescere ulteriormente.
Mi concentrai su Alice. La sua metodica pianificazione era meglio
della mia inutile agitazione.
Per l’ospedale, Alice vide che sarebbe stato complicato. Eravamo
in un’auto rubata collegata a un’altra auto rubata e a un
tamponamento a catena di ventisette macchine sulla 101. C’erano
svariate telecamere nei pressi dell’ingresso dell’ospedale. Se
avessimo potuto semplicemente fermarci e prendere un’auto
migliore, qualcosa di abbastanza simile alla macchina a noleggio
che Alice avrebbe preso dopo... Si trattava di una quindicina di
minuti o giù di lì, solo una breve deviazione, e poi Alice sapeva
esattamente dove cercare...
Ringhiai e lei respirò profondamente col naso, ma senza
guardarmi.
È sempre più insopportabile, borbottò Emmett dentro di sé.
Quindi niente cambio macchina. Alice accettò la cosa e lasciò
perdere.
Dovevamo parcheggiare fuori dal raggio delle telecamere, perché
altrimenti saremmo stati troppo visibili. Perché non spingerci allora
fino alla pensilina di metallo con la nostra paziente priva di sensi?
Perché portarla più lontano del necessario? Almeno per me e
Carlisle ci sarebbe stata abbastanza oscurità per correre, altrimenti
avremmo dovuto affrontare le telecamere e Alice avrebbe poi dovuto
trovare il modo di entrare in una di quelle camere di sicurezza dove
si conservano le registrazioni. E semplicemente non c’era tempo per
questo. Era necessario passare all’accettazione in un hotel e
ricreare la scena di un grave infortunio. E c’era bisogno che tutto
questo accadesse prima che arrivassimo in ospedale.
Insomma, era urgente. Ma avevamo innanzitutto necessità di
sangue.
Il sangue ci serviva subito. Se mi fossi precipitato nella sala del
pronto soccorso come se qualcuno mi avesse lanciato addosso una
secchiata di vernice rossa e con in braccio il corpo privo di sensi di
Bella, la cosa avrebbe suscitato scalpore. Ogni membro del
personale disponibile nell’arco di un centinaio di metri dall’ingresso
dell’ospedale sarebbe corso da noi in pochi secondi. Allora sarebbe
stato abbastanza semplice per Alice intrufolarsi al seguito di Carlisle
e passare senza esitazione davanti alla reception. Nessuno le
avrebbe chiesto nulla, da quello che poteva vedere. Un paio di
copriscarpe blu da una scatola appesa al muro avrebbero coperto le
impronte delle sue scarpe, e così sarebbe stato semplice sfrecciare
nella stanza in cui venivano raccolte le sacche di sangue attraverso
una porta che stava per chiudersi.
«Em, dammi la tua felpa».
Facendo attenzione a non urtare la gamba di Bella, Emmett si
sfilò la felpa e la passò ad Alice. Era decisamente pulita, soprattutto
in confronto ai vestiti di Carlisle e ai miei.
Emmett aveva pensato di chiedere a cosa le servisse, ma non
osò aprire bocca per evitare di assaggiare o annusare l’ambiente
circostante. Alice se la infilò. Le si ammassava intorno al corpo
minuto, eppure, in un certo senso, le dava un’aria alla moda.
Alice poteva indossare qualunque cosa.
Si vide nuovamente nella banca del sangue mentre riempiva le
ampie tasche della felpa.
«A quale gruppo sanguigno appartiene Bella?», chiese a Carlisle.
«Zero positivo», rispose lui.
Quindi qualcosa di buono era venuto fuori dall’incidente con il
furgone di Tyler. Se non altro sapevamo il suo gruppo sanguigno.
Alice probabilmente stava esagerando. Chi si sarebbe
preoccupato del gruppo sanguigno che avrebbe lasciato sulla scena
dell’“incidente”? Forse, se fosse stata troppo simile a una scena del
crimine... Ma poi pensai che non vi fosse nulla di male a essere così
meticolosi.
«Lasciane abbastanza per Bella», la avvertii.
Si girò sul sedile così che la potessi vedere sollevare gli occhi al
cielo. Poi si rimise a sedere, riprendendo a pianificare.
Jasper ed Emmett sarebbero rimasti nell’auto rubata, con il
motore accesso. Alice avrebbe avuto bisogno di due minuti e mezzo
per entrare e uscire di lì.
Avrebbe scelto un hotel nei pressi dell’ospedale per ridurre i
tempi. Mentre decideva queste cose, vide l’hotel che cercava a soli
pochi isolati più a sud. Ovviamente era un posto in cui non sarebbe
mai stata, ma per ricreare una scena raccapricciante andava
benissimo.
Mi sembrò di vederla in tempo reale correre per fare il check-in.
Alice si avvia a grandi passi nella piccola reception dell’hotel. Su
di lei le scarpe marrone scuro e la lunga felpa annodata in vita
sembrano una scelta di stile. La donna al banco dell’accettazione è
da sola. Alza lo sguardo, non con grande interesse all’inizio, ma poi
esamina lo splendido viso di Alice. La guarda meravigliata, a stento
nota che Alice ha le mani libere.
Ma Alice non è soddisfatta.
La visione si riavvolge. È di nuovo in ospedale, sta uscendo dalla
banca del sangue con le tasche piene di quattro sacche di sangue
fredde e gelatinose. Prende una scorciatoia, infilandosi in un reparto
di terapia intensiva isolato da tendoni. C’è una donna che dorme, e
dietro di lei il monitor di rilevamento che emette un segnale acustico.
C’è una borsa con gli effetti personali della donna, e accanto un
borsone da viaggio blu. Alice prende il borsone e ritorna nel
corridoio. Questa deviazione prenderà due secondi in più. Alice
torna nella hall dell’hotel. Non indossa la felpa, e ha il borsone in
spalla. La donna dietro al bancone la guarda meravigliata. Non c’è
nulla che non vada nella scena, ora. Alice chiede due camere, una
doppia e una singola. Mette sul bancone la patente – quella vera –
con la carta di credito intestata a lei. Parla degli altri ospiti, suo padre
e suo fratello, che sono andati a parcheggiare. La donna inizia a
registrare i nomi al computer. Alice si guarda il polso; è nudo.
La visione si interrompe.
«Jasper, ho bisogno del tuo orologio».
Jasper tese il braccio e lei gli tolse il Breguet su misura, un suo
regalo... Non si preoccupò di chiedere perché; era abituato a queste
cose. L’orologio penzolava dalla mano di Alice. Lo indossò come un
braccialetto e sembrò perfetto. Poteva inaugurare una nuova moda.
La visione riprende.
Alice guarda l’orologio che le pende in maniera così elegante dal
polso.
«Sono solo le dieci e cinquanta», dice alla donna. «Il suo orologio
va avanti».
La donna annuisce distrattamente mentre scrive l’ora della
prenotazione.
C’è molto da aspettare mentre la donna termina la registrazione.
Ci mette più tempo del dovuto, ma non si può fare altrimenti.
Alla fine, la donna le consegna due mazzi di chiavi, e annota i
numeri delle stanze. Iniziano entrambi con un uno: 106 e 108.
La visione si riavvolge.
Alice cammina nella sala. La donna dietro il bancone guarda
meravigliata. Alice chiede due camere, una doppia e una singola.
«Secondo piano, prego, se non è troppo disturbo». Mette i
documenti sul bancone. Alice parla delle persone che sono con lei.
La donna comincia a scrivere al computer. Alice corregge l’ora, e
aspetta.
La donna le consegna due mazzi di chiavi. Annota i numeri, 209
e 211. Alice sorride e prende le chiavi. Poi si muove a velocità
umana fino alla tromba delle scale.
Si infila in entrambe le stanze, lasciando cadere il borsone nella
prima. Accende le luci, chiude le tende, mette fuori il cartello «NON
DISTURBARE». Con le sacche di sangue in mano si lancia nel
corridoio vuoto verso le altre scale. Nessuno la vede. Si ferma sul
pianerottolo a metà della rampa. In fondo alle scale c’è un’uscita.
Accanto alla porta c’è un finestrone a tutta parete. Fuori, vicino
all’uscita, non c’è nessuno.
Compone un numero sul telefono.
«Suona il clacson per tre secondi».
Dal parcheggio sale il suono fastidiosissimo di un clacson che
copre il rumore dell’intenso traffico che scorre sull’autostrada
(un’autostrada diversa da quella che avevamo fatto praticamente
chiudere).
Alice, raggomitolandosi come una palla da bowling, si lancia dalle
scale e impatta al centro del finestrone. Il vetro va in frantumi e le
schegge cadono sul marciapiede e sulla ghiaia, alcune arrivano fino
all’area parcheggio. Si crea una specie di forma a raggiera, che vista
dall’alto brilla di un luccichio bianco. Alice si nasconde all’ombra
della porta, e – una dopo l’altra – lacera le sacche di sangue
utilizzando gli spuntoni di vetro rimasti attaccati alla cornice del
finestrone, lasciando che il sangue ne macchi i bordi. Versa il
contenuto di una sacca di modo che schizzi e si sparpagli sulle
schegge. Le altre due le riversa sul marciapiede, così che il sangue
formi una pozza e impregni l’asfalto, scorrendo in rivoli sul
marciapiede.
Il clacson smette.
Alice richiama. «Vienimi a prendere».
La Cayenne sbuca quasi immediatamente. Alice sfreccia sotto la
luce del sole per infilarsi nell’auto, stringendo in mano l’ultima sacca
di sangue.
E poi ritornai alla realtà con lei. Alice era soddisfatta di come si
era concluso quel capitolo. Spostò la sua attenzione sulle parti
successive. Nessuna di esse altrettanto divertente, ma tutte altresì
vitali.
«Divertente», la schernii. Mi ignorò.
Torniamo all’aeroporto. Sceglie un Suburban bianco
dall’autonoleggio. Non assomiglia molto alla Cayenne, ma è un’auto
grande e bianca e qualunque testimone con una storia che non
combaci verrà scartato. Non vede simili testimoni, ma vuole essere
scrupolosa.
Alice guida la Cayenne. Rispetto a Jasper ed Emmett se la passa
meglio, con l’odore. Per quanto Bella non abbia più nulla da temere
da loro, il suo odore continua a bruciare quando respirano. Nel
Suburban loro la seguono a distanza. Alice trova un autolavaggio, il
Deluxe Detail. Paga in contanti e avverte il ragazzo al bancone – che
la fissa incantato – che sua nipote ha vomitato un po’ di succo al
pomodoro sul sedile posteriore. Indica poi le sue scarpe. Il ragazzo
completamente rapito promette che l’auto sarà immacolata quando
avranno finito. (Nessuno metterà in dubbio questa storia. L’addetto
alla pulizia, temendo che la puzza di vomito potrebbe nausearlo,
respirerà con la bocca). Lascia il nome Mary. Pensa di pulirsi le
scarpe in bagno ma vede che non sarebbe di grande aiuto.
La macchina sarà pronta nel giro di un’ora. Dopo quindici minuti
chiama l’hotel. Ma decide di passare da una porta sul retro e di
mettersi in una zona riparata per evitare che i rumori degli aspiratori
e dei nebulizzatori impediscano a chi l’ascolta di cogliere le sue
parole.
Si scusa con la stessa donna con cui aveva parlato al bancone,
ha un tono agitato. La visita di un’amica, un orribile incidente nella
tromba delle scale. La finestra... il sangue... (Alice non è lucida). Sì,
è all’ospedale con la sua amica ora. Ma la finestra! Il vetro! Qualcun
altro potrebbe farsi male. Per favore, la zona dovrebbe essere
isolata finché non viene ripulita. Deve andare, la stanno chiamando
per vedere come sta la sua amica. Grazie. Sono davvero spiacente.
Alice vede che la donna al bancone non chiamerà la polizia.
Chiamerà la direzione. Le diranno di ripulire tutto prima che qualcun
altro si possa far male. Sarà questa la storia quando verranno
pubblicati i documenti legali: hanno eliminato le prove, ma per motivi
di sicurezza. Attenderanno in una straziante incertezza una causa
che non arriverà mai. Passerà più di un anno prima che
cominceranno a credere a un incredibile colpo di fortuna.
Dopo i dettagli, Alice passa a esaminare i sedili posteriori. Non ci
sono prove visibili. Dà la mancia all’addetto alla pulizia. Entra nella
Cayenne e tira un profondo respiro. Be’, l’auto non passerà il test del
Luminol, ma lei vede che non ce ne sarà bisogno.
Jasper ed Emmett la seguono in un centro commerciale nel
centro di Scottsdale. Parcheggia la Cayenne al terzo piano di un
enorme parcheggio. Ci vorranno quattro giorni prima che l’addetto
alla sicurezza segnali un veicolo abbandonato.
Alice e Jasper fanno un giro per negozi, mentre Emmett aspetta
nell’auto noleggiata. Alice compra un paio di scarpe da tennis in un
negozio Gap molto affollato. Nessuno guarda i suoi piedi. Paga in
contanti.
A Emmett compra una felpa con cappuccio che gli sta alla
perfezione. Compra sei grandi buste di vestiti della taglia sua, di
Carlisle, di Emmett e della mia. Ha usato un’identità e carte di
credito differenti rispetto a quelle dell’hotel. Jasper le fa da sherpa.
Alla fine, acquista quattro valigie diverse. Lei e Jasper le portano
alla macchina a noleggio, tolgono la targhetta e le riempiono con i
vestiti nuovi.
Uscendo getta le scarpe insanguinate in un cassonetto.
Non ci sono riavvolgimenti o replay. Tutto procede liscio.
Jasper e Alice lasciano Emmett all’aeroporto. Lui prende una
delle valigie da imbarcare come bagaglio a mano; dà meno
nell’occhio rispetto al volo della mattina.
Trovano la Mercedes di Carlisle nel parcheggio, là dove
l’avevano lasciata. Jasper bacia Alice e si avvia a partire per il lungo
viaggio di ritorno a casa.
Una volta che i ragazzi sono andati via, Alice svuota quel che
resta del sangue sui sedili posteriori e sul pianale della macchina a
noleggio. Poi va in un autolavaggio self-service appena fuori dalla
stazione di benzina. Non fa lo stesso buon lavoro di chi pulisce le
macchine. Le applicheranno una penale quando restituirà la
macchina.
All’atterraggio a Seattle, mezz’ora prima del tramonto, Emmett
troverà pioggia. Un taxi lo porterà al traghetto. Sarà semplice per lui
passare lo Stretto di Puget, gettare a mare la valigia e poi – a nuoto
e correndo – arrivare a casa in una trentina di minuti. Prenderà
quindi il pick-up di Bella e farà subito ritorno a Phoenix.
Tornando alla realtà, Alice si accigliò e scosse la testa. Questo
piano avrebbe impiegato troppo tempo. Il pick-up di Bella era
terribilmente lento.
Eravamo a soli quattro minuti dall’ospedale. Bella respirava
ancora debolmente e in maniera regolare tra le mie braccia, ed
eravamo tutti ricoperti di sangue. Emmett e Jasper trattenevano
ancora il respiro. Sbattei le palpebre e cercai di riorientarmi. Quando
le visioni di Alice erano così dettagliate, era facile perdere traccia di
ciò che stava accadendo in quel momento. Lei era molto più brava di
me ad abituarsi a questo andirivieni dalla realtà.
Alice aprì nuovamente il telefono e compose un numero. Nella
felpa di Emmett ci ballava, e l’orologio di Jasper le pendeva al polso.
«Rose?».
In quello spazio ristretto e silenzioso potemmo tutti udire la voce
angosciata di Rosalie.
«Che cosa succede? Emmett...».
«Emmett sta bene. Ho bisogno...».
«Che fine ha fatto il segugio?».
«Il segugio è fuori dai giochi».
Si sentì chiaramente Rosalie ansimare.
«Ho bisogno che noleggi un carro attrezzi», la istruì Alice. «O
comprane uno, qualunque cosa che vada più veloce... qualcosa con
un po’ di sprint. Caricaci sopra il pick-up di Bella e vai incontro a
Emmett a Seattle. Il suo volo atterra alle cinque e mezza».
«Emmett sta tornando? Che cosa è successo? Perché devo
rimorchiare quel ridicolo pick-up?».
Per un istante mi chiesi perché Alice volesse mandare Emmett a
casa. Perché non lasciare che Rosalie portasse il pick-up da noi?
Era la soluzione più ovvia. Ma poi capii che Alice non poteva vedere
che Rosalie ci avrebbe aiutato in quel modo, e avvertii una gelida
ondata di amarezza. Rosalie aveva fatto la sua scelta.
Emmett voleva prendere il telefono per calmare Rose, ma non
era ancora in grado di aprire la bocca.
Era incredibile come se la stessero cavando bene sia lui che
Jasper. Immaginai che ancora sentissero gli effetti
dell’iperstimolazione da combattimento, il che li aiutava a ignorare
l’odore del sangue.
«Non preoccuparti di questo», disse Alice seccamente. «Sto
appunto sistemando le questioni in sospeso, Emmett ti spiegherà
ogni cosa. Fai sapere a Esme che è tutto finito, ma che ne avremo
ancora per un po’. Deve restare vicino al padre di Bella nel caso la
rossa...».
La voce di Rosalie si affievolì. «Sta venendo per Charlie?».
«No, non l’ho visto», disse Alice rassicurandola. «Ma meglio non
rischiare, no? Carlisle la chiamerà non appena potrà. Su, Rose, non
c’è tempo da perdere».
«Sei insopportabile».
Alice riattaccò.
Bene, Emmett almeno potrà tenersi i vestiti. Sono contenta. Gli
staranno benissimo.
Emmett era contento della telefonata. Era felice di sapere che
avrebbe rivisto Rose nel giro di poche ore. Le avrebbe potuto
raccontare come erano andate le cose dal suo punto di vista. Non
c’era ragione di menzionare poi quella storia ridicola con Jasper. Se
Alice non vedeva problemi con la rossa, allora Rose poteva tornare
a Phoenix con lui. Magari lei non avrebbe voluto... Abbassò lo
sguardo sul viso esangue di Bella, sulla gamba fratturata. Un’ondata
di profondo affetto fraterno e di preoccupazione lo investì.
È una così brava ragazza. Rose dovrà superarlo, pensò. In fretta.
Alice corrugò la fronte. Passò in rassegna tutte le cose che
c’erano da sbrigare e guardò le conseguenze delle centinaia di
scelte che aveva fatto. Si vide in ospedale, ci portava i vestiti che
avevamo in valigia di modo che potessimo liberarci di quelli
insanguinati. Aveva pensato a tutto? Aveva vagliato ogni dettaglio
nella sua mente?
Andava tutto bene. O così sarebbe andato.
«Ben fatto, Alice», dissi sussurrando, in segno di approvazione.
Sorrise.
Jasper si fermò al pronto soccorso, tenendosi a distanza dalla
telecamera puntata su quel lato dell’ingresso, cercando di tenerci al
riparo.
Sistemai bene Bella tra le mie braccia e mi preparai per
ricominciare tutto daccapo per la prima volta.
28. TRE CONVERSAZIONI

La presenza del dottor Sadarangani, un amico di Carlisle, rese


tutto più semplice. Carlisle lo aveva fatto chiamare mentre stavano
ancora portando la barella. Dopo pochi minuti, il dottor Sadarangani
aveva già iniziato a somministrare a Bella la prima trasfusione.
Quando lei iniziò a ricevere il sangue, Carlisle si poté finalmente
rilassare. Era abbastanza sicuro che il resto fosse tutto a posto.
Per me non fu facile trovare la calma. Avevo certamente fiducia in
Carlisle, e Sadarangani mi sembrava un dottore competente.
Riuscivo a sentire la loro sincera valutazione delle sue condizioni.
Avevo percepito lo stupore di Sadarangani e degli altri medici
dell’équipe nell’esaminare i punti di sutura perfetti che erano stati
applicati alle ferite di Bella, e per come la sua gamba era stata
ricomposta sul posto in maniera impeccabile. Al di là delle porte
chiuse, riuscii ad ascoltare il dottor Sadarangani mentre intratteneva
i propri collaboratori raccontando le prodezze compiute quattordici
anni prima dal dottor Cullen, quando entrambi lavoravano
nell’ospedale in centro a Baltimora. Sentii pure lo stupore che aveva
manifestato di fronte all’aspetto immutato di Carlisle, nonché i suoi
sospetti sottaciuti che quest’ultimo – malgrado sostenesse che l’aria
fresca e umida del Nord-ovest del Pacifico fosse una fonte naturale
di giovinezza – avesse subito qualche intervento estetico. Il caso di
Bella non destava in lui particolari preoccupazioni, tanto che pregò
Carlisle di dare un’occhiata ad alcuni pazienti per i quali non era
stata ancora formulata una diagnosi, annunciando ai suoi tirocinanti
che non avrebbero mai conosciuto un diagnosta migliore del dottor
Cullen. Anche Carlisle era sufficientemente fiducioso delle condizioni
di Bella, perciò acconsentì a prestare il suo aiuto ad altri malati.
Ma per nessuno dei due si trattava di una questione di vita o di
morte come invece lo era per me. Su quella barella c’era la mia vita.
La mia vita, pallida e priva di sensi, coperta di tubi, nastri e cerotti. Io
cercavo di reggere come meglio potevo.
Essendo il medico di turno, spettò al dottor Sadarangani fare la
prima chiamata a Charlie, una telefonata per me penosa da
ascoltare. Quasi subito la parola passò a Carlisle, il quale raccontò
in estrema sintesi la versione che avevamo preparato per giustificare
la nostra presenza in ospedale. Rassicurò Charlie che tutto stava
procedendo bene e promise che lo avrebbe richiamato presto per
fornirgli maggiori dettagli. Riuscii ad avvertire il panico nella voce di
Charlie ed ero certo che anche lui, come me, non fosse troppo
convinto.
Non passò molto prima che le condizioni di Bella venissero
giudicate stabili e che fosse trasferita in una sala risveglio. Alice
intanto non era ancora tornata dalle sue faccende.
Dovevo aspettarmi che il sangue nuovo che pulsava nel corpo di
Bella ne avrebbe alterato l’odore, tuttavia fui colto di sorpresa.
Sebbene percepissi una netta attenuazione della mia dolorosa sete,
non gradii quel cambiamento. Quel sangue sconosciuto sembrava
un intruso, un alieno. Non apparteneva a lei e, per quanto fosse
irrazionale una reazione del genere, provai stizza per quella
violazione. Il suo odore sarebbe tornato nell’arco di ventiquattro ore,
ancora prima che lei si risvegliasse. Ma le sarebbero occorse molte
settimane per recuperarne l’intensità perduta. In ogni caso, quella
temporanea anomalia era un potente memento del fatto che, a un
certo punto nel futuro, l’odore che per così tanto tempo mi aveva
avvinto sarebbe svanito per sempre.
Era stato fatto tutto il possibile. Adesso non rimaneva che
attendere.
Durante quella stasi interminabile, giusto poche cose riuscirono a
catturare la mia attenzione. Comunicai a Esme tutti gli
aggiornamenti. Tornò Alice, ma andò via quasi subito perché aveva
compreso che preferivo stare da solo. Rimasi a fissare fuori da una
finestra che affacciava a est, su una strada trafficata e su un paio di
grattacieli senza pretese. Per conservare la mia sanità mentale,
prestavo ascolto al battito regolare del suo cuore.
Ci furono però un paio di conversazioni che per me ebbero una
certa importanza.
Prima di richiamare Charlie, Carlisle attese di essere in camera di
Bella con me. Sapeva che avrei voluto ascoltare.
«Pronto, Charlie».
«Carlisle? Che succede?».
«Le hanno fatto una trasfusione e una risonanza magnetica.
Finora, tutto procede molto bene. Non sembrano esserci lesioni
interne di cui non ci siamo accorti».
«Posso parlare con lei?».
«Per un po’ la terranno sedata. È una prassi assolutamente
normale. Se fosse sveglia sarebbe in preda a un dolore eccessivo».
Mentre Carlisle continuava a parlare, ebbi un sussulto. «Le
occorrerà qualche giorno per rimettersi».
«Sei sicuro che vada tutto bene?».
«Te lo assicuro, Charlie. Se ci dovesse essere qualcosa di cui
preoccuparsi, te lo farò sapere immediatamente. Starà benone. Per
un po’ dovrà usare le stampelle, ma a parte questo tutto tornerà alla
normalità».
«Grazie, Carlisle. Sono contento che tu sia lì».
«Anch’io».
«Immagino che questo ti starà causando qualche disagio...».
«Neanche per sogno, Charlie. Sono davvero felice di poter stare
con Bella finché non sarà pronta a tornare a casa».
«Ammetto che questo mi fa sentire molto più sollevato. Rimarrà...
rimarrà lì pure Edward? Insomma, con la scuola e tutto il resto...».
«Ha già parlato con i suoi insegnanti», disse Carlisle, anche se
sarebbe stata Alice a sistemare ogni cosa, «e potrà studiare da
remoto. Sta anche prendendo nota di tutti i compiti di Bella, anche se
sono convinto che i professori le concederanno una pausa». Carlisle
abbassò un po’ il tono di voce. «Sai, lui è sconvolto da quanto è
accaduto».
«Io non credo di aver capito. È stato lui... È stato Edward a
chiederti di andare fino a Phoenix?».
«Sì. Era molto preoccupato quando Bella è partita. Si sentiva
responsabile. Pensava di dover rimediare».
«Ma che è successo?», chiese Charlie, la cui voce sembrò
disorientata. «Un attimo prima tutto è normale, poi Bella si mette a
gridare che le piace tuo figlio e che è proprio quello il problema, e poi
se ne va via nel cuore della notte. Il tuo ragazzo ti ha forse dato
qualche spiegazione un po’ più chiara?».
«Sì, venendo qui abbiamo avuto modo di parlarne. Immagino che
Edward abbia detto a Bella quanto tiene a lei. Mi ha detto che lei
all’inizio sembrava felice, ma poi ci deve essere stato un qualcosa
che ha iniziato chiaramente a turbarla. Si è arrabbiata e ha detto che
voleva tornarsene a casa. E quando sono arrivati, lei gli ha detto di
andare via».
«Sì, c’ero anch’io quando è successo».
«Edward non ha ancora capito qual è stato il problema. Non
avevano avuto occasione di parlarne prima che...».
Charlie sospirò. «Io penso di saperlo. È tutta una roba complicata
con sua madre. Comunque, credo che lei abbia reagito
semplicemente in maniera un po’ esagerata».
«Sono certo che avrà avuto i suoi buoni motivi».
Charlie si raschiò la gola con un po’ di imbarazzo: «Ma tu che ne
pensi di tutta questa storia, Carlisle? Voglio dire, non sono che dei
ragazzini. Non ti pare tutto un po’... troppo intenso?».
Con una risata spensierata, Carlisle rispose: «Non te lo ricordi più
com’era a diciassette anni?».
«No, non proprio».
Carlisle rise di nuovo. «Non ti ricordi la prima volta in cui ti sei
innamorato?».
Charlie rimase in silenzio per un minuto. «Sì, eccome. Difficile
scordarsela».
«Sì, infatti». Sospirò Carlisle. «Mi dispiace tanto, Charlie. Se noi
non fossimo venuti qui, lei non sarebbe mai caduta in quella tromba
delle scale».
«Ma no, non dirlo neanche per sogno, Carlisle. Anche senza di
voi, lei magari sarebbe comunque volata giù sfondando una finestra.
E non sarebbe stata così fortunata se voi non vi foste trovati lì
vicino».
«Sono solo felice che sia fuori pericolo».
«Il fatto di non poter essere lì con lei mi sta uccidendo».
«Sarei davvero lieto di poterti prenotare un volo...».
«No, non è questo il problema». Sospirò Charlie. «Lo sai che qui
in genere non avvengono molti crimini efferati, ma finalmente ci sarà
il processo per quel brutto caso di aggressione accaduto l’estate
scorsa e se non sarò presente a testimoniare, questo non farà altro
che avvantaggiare la difesa».
«Certo, Charlie. Non ti devi preoccupare. Fa’ il tuo dovere, togli
dalla circolazione quel delinquente e io farò in modo che Bella si
rimetta in forma e torni da te molto presto».
«Non riuscirei a rimanere tranquillo se tu non fossi lì con lei.
Perciò ti ringrazio ancora. Farò venire Renée. Questo probabilmente
renderà felice Bella».
«Splendida idea. Sarà un piacere per me conoscere la madre di
Bella».
«Però ti avviso: farà un gran casino».
«Immagino sia una prerogativa delle madri».
«Grazie ancora, Carlisle. Grazie di prenderti cura della mia
bambina».
«Figurati, Charlie».
Conclusa la chiamata, Carlisle rimase con me solo pochi istanti.
Per lui era sempre difficile starsene seduto in un ospedale pieno di
umani che soffrivano. Avrei dovuto sentirmi più sollevato dal fatto
che non avesse timore di lasciare Bella. Ma non era così.

Un altro evento significativo fu l’arrivo della madre di Bella. Era


quasi mezzanotte quando Alice mi fece sapere che Renée sarebbe
entrata in camera della figlia nel giro di un quarto d’ora.
Nel bagno attiguo, provai a darmi un po’ una ripulita. Alice aveva
comprato per noi dei vestiti nuovi, perciò quantomeno non avrei
avuto un’aria lugubre. Per fortuna, quando mi venne in mente di
controllarmi gli occhi, questi erano di un ocra scuro. Con tutto quello
che stava accadendo, un circoletto rosso non sarebbe stato certo la
cosa più lampante; ma ero io a non volerlo vedere.
Quando ebbi finito, tornai a rimuginare. Mi chiesi se la madre di
Bella mi avrebbe ritenuto responsabile più di quanto non avesse
fatto il padre. Se entrambi avessero saputo come erano andate
realmente le cose...
A strapparmi dalla mia autocommiserazione fu qualcosa di
inatteso. Qualcosa che non avevo mai udito prima, il che in effetti
accadeva di rado: una voce talmente chiara e forte che per un attimo
credetti che qualcuno fosse entrato nella stanza senza che me ne
fossi accorto.
Mia figlia. Per piacere, qualcuno mi aiuti. Dove devo andare? La
mia bambina...
Il pensiero che mi si affacciò subito dopo fu quello di qualcuno
che, al piano di sotto, gridava o strillava nell’atrio dell’ospedale – e
ora che mi concentravo meglio, sembrava proprio quello il punto da
cui proveniva la voce –, ma nessuno aveva udito degli schiamazzi.
Tutti, invece, avevano notato qualcos’altro.
Una donna, forse sulla trentina, magari qualcosa in più. Attraente,
ma visibilmente sconvolta. La sua angoscia era palese, lampante,
anche se lei se ne stava tranquilla in un angolo appartato, con
un’aria incerta. Diversi inservienti e due infermiere, benché
affaccendati, avevano trovato un momento per fermarsi a vedere di
che cosa avesse bisogno.
Ovviamente, si trattava della madre di Bella. L’avevo già vista
nella mente di Charlie e con la figlia condivideva una somiglianza
straordinaria. Avevo creduto che quello di Charlie fosse un ricordo di
Renée da giovane, e invece poteva essere molto più recente. Non
era invecchiata poi tanto. Supposi che lei e Bella venissero
scambiate spesso per sorelle.
«Sto cercando mia figlia. È stata ricoverata questo pomeriggio.
Ha avuto un incidente. È caduta e ha sfondato una finestra...».
Il tono di voce di Renée sembrava perfettamente normale, simile
a quello di Bella, giusto un po’ più acuto. Ma la voce della sua mente
era perforante.
Era affascinante vedere come reagissero le menti degli altri.
Nessuno sembrava prestare attenzione ai messaggi mentali che lei
lanciava, eppure tutti si sentivano indotti ad aiutarla. In qualche
modo, captavano il suo bisogno e non riuscivano a ignorarlo. Mi misi
in ascolto, affascinato dall’interazione tra la sua mente e quella degli
altri. Un inserviente e un’infermiera la condussero attraverso i
corridoi, portandole la sua piccola valigia, ansiosi di aiutarla.
Mi ricordai delle prime congetture che avevo fatto sulla madre di
Bella: la mia curiosità di comprendere che genere di mente si fosse
unita a quella di Charlie per generare un essere così unico e
singolare come Bella.
Renée era l’opposto di Charlie. Mi chiesi se all’inizio non fosse
stato proprio questo a farli finire in qualche modo assieme.
Con tutte quelle guide a sua disposizione, Renée non impiegò
molto a trovare la camera di Bella. Lungo il tragitto riuscì a reclutare
un’altra persona pronta ad accompagnarla: l’infermiera specializzata
a cui Bella era stata affidata e che si interessò immediatamente
all’urgenza di Renée.
Per un momento, immaginai se lei fosse stata una vampira. I suoi
pensieri sarebbero stati forse come delle urla udibili da tutti,
impossibili da ignorare? Supposi che non sarebbe stata
particolarmente apprezzata. Mi sorpresi a sorridere a un’idea del
genere: realmente e completamente distratto da quel pensiero.
Renée si precipitò dentro, lasciando il bagaglio sulla porta e con
l’infermiera stretta al suo fianco. I suoi occhi erano rivolti unicamente
alla figlia, quindi sulle prime non si accorse di me che stavo poggiato
contro la finestra. Bella giaceva immobile e sul viso iniziavano a
comparirle dei lividi. Le avevano fasciato la testa – anche se Carlisle
era riuscito a evitare che le rasassero i capelli – e aveva tubi e
monitor attaccati ovunque. La gamba rotta era ingessata dalle dita
del piede fino alla coscia ed era tenuta sollevata grazie a un
supporto sagomato in poliuretano espanso.
Bella, oh piccina, guarda come ti sei ridotta. Oh cielo.
Un’altra somiglianza con Bella: il sangue di Renée era dolce. Non
allo stesso modo della figlia. Quello di Renée era troppo dolce, quasi
stucchevole. Per quanto non del tutto invitante, era un profumo
interessante. Non avevo mai percepito nulla di insolito nell’odore di
Charlie, ma unito a quello di Renée era riuscito a creare qualcosa di
potente.
«È sotto sedativi», la informò subito l’infermiera, mentre Renée si
accostava al letto tendendo le mani. «Per un po’ sarà priva di
coscienza, ma tra qualche giorno potrà parlare con lei».
«La posso toccare?». Fu un sussurro e un grido.
«Certo, se lo desidera le può accarezzare il braccio proprio in
quel punto. Solo, lo faccia con delicatezza».
Renée rimase in piedi accanto alla figlia e poggiò con leggerezza
due dita sulla fronte di Bella. Le lacrime iniziarono a venirle giù sulle
guance come una fontana e, con fare materno, l’infermiera la cinse
con un braccio. Fu dura per me rimanere al mio posto. Anch’io avrei
voluto offrirle il mio conforto.
Mi dispiace tanto, piccola. Mi dispiace tanto, tanto.
«Su, su, cara. Vedrà che starà bene, okay? Quel bel dottore le ha
messo dei punti perfetti come non ne avevo mai visti. Non pianga,
tesoro. Perché non viene qui a sedersi e a rilassarsi un po’?
Scommetto che ha fatto un lungo viaggio. È arrivata qui dalla
Georgia?».
Renée tirò su col naso. «Florida».
«Sarà sfinita. Sua figlia non andrà da nessuna parte e non ci farà
nessuno scherzo. Perché non prova a dormire un po’, cara?».
Renée si lasciò condurre verso la poltrona reclinabile in finta pelle
blu che si trovava in un angolo della stanza.
«Le serve qualcosa? Se lo desidera, al bancone del reparto
abbiamo alcuni articoli per rinfrescarsi», le offrì l’infermiera. Era il
genere di persona simile a una nonna, con i lunghi capelli grigi
raccolti a crocchia in cima alla testa. Sulla sua targhetta c’era scritto
il nome «GLORIA». L’avevo già incontrata prima ma senza prestarle
più di tanto attenzione, mentre adesso provavo per lei un senso di
affetto. Era per via della sua gentilezza, oppure perché stavo
reagendo alla riconoscenza di Renée? Com’era strano trovarsi
vicino a qualcuno che proiettava – a quanto pareva,
nell’inconsapevolezza più assoluta – i propri pensieri in quel modo.
Pensai che fosse un po’ come Jasper, sebbene, al confronto, in una
maniera più rozza e rudimentale. E non si trattava della proiezione di
emozioni, erano senza dubbio i suoi pensieri. Soltanto che ero io
l’unico consapevole di percepirli.
Questo poneva in una prospettiva nuova la vita che Bella doveva
aver trascorso con la madre. Non sorprendeva che fosse stata così
protettiva, così premurosa. Non c’era da stupirsi che avesse
rinunciato alla propria infanzia per prendersi cura di quella donna.
«Ho tutto ciò che mi occorre». Renée indicò stancamente la
piccola valigia vicino alla porta.
Io mi sentivo un po’ come l’elefante nella stanza. Malgrado fossi
ben visibile, nessuna delle due si era ancora accorta di me. Le luci
erano state abbassate per la notte, ma erano abbastanza forti
perché le infermiere potessero svolgere le loro attività.
Decisi di annunciare la mia presenza.
«Lasci che gliela prenda io».
Mi mossi rapido per sistemare il suo bagaglio su un mobiletto a
portata di mano dalla poltrona.
Come con Charlie, anche per Renée la prima reazione fu un
improvviso sussulto di paura e di adrenalina. Lei fu lesta a scacciarlo
via, supponendo di essere semplicemente esausta e che a
spaventarla fosse stato il mio movimento inatteso.
Sono davvero tesa. Ma chi sarà mai questo ragazzo? Uhm,
mmm... È forse lui il bel dottore? Sembra così giovane.
«Oh, salve figliolo», disse Gloria con tono un po’ di rimprovero.
Aveva avuto tempo di abituarsi alla mia presenza e a quella di
Carlisle. «Pensavo fossi tornato a casa».
«Mio padre mi ha chiesto di tenere d’occhio Bella mentre lui è
impegnato ad aiutare il dottor Sadarangani. Mi ha lasciato precise
istruzioni su cosa monitorare». Era una scusa che avevo già usato
più volte quel giorno. Lo avevo detto con fare disinvolto e le
infermiere non avevano opposto obiezioni.
«Non hanno ancora finito? Di questo passo si addormenteranno
in piedi».
Ovviamente, il dottor Sadarangani era già tornato a casa da un
pezzo. Tuttavia, aveva presentato Carlisle all’ematologo di turno
quella notte, perciò lui era in giro a fare diagnosi su alcuni dei casi
più complessi.
La madre di Bella stava trasmettendo la propria confusione.
Gloria si affrettò a fare le presentazioni.
«Questo è il figlio del dottor Cullen. Il dottor Cullen è il medico
che ha salvato la vita a sua figlia».
«Sei Edward», comprese Renée.
È lui il ragazzo? Oh miseria. Bella non ha nessuna speranza.
«Ho solo una poltrona, tesoro», disse Gloria, «e credo che la
signora Dwyer ne abbia più bisogno di te».
«Certamente. Io ho già riposato. Posso tranquillamente stare in
piedi».
«È molto tardi...».
Voglio parlare con lui.
«È tutto a posto», disse Renée ad alta voce. «Vorrei sapere come
è avvenuto l’incidente, se non è un problema. Faremo molto piano».
A sentirlo mi venne da ridere.
«Certo. Allora farò giusto i miei giri visita e ripasserò a controllare
più tardi. Cerchi di riposare un po’, cara».
Feci un sorriso quanto più possibile caloroso a quella donna e lei
si ammorbidì un pochino.
Povero ragazzo. È davvero preoccupato. Non farà nulla di male
se resta, tanto più se qui c’è pure la mamma.
Mi avvicinai a Renée e le porsi la mano. Lei la strinse debolmente
senza alzarsi in piedi, sfinita. Si ritrasse leggermente per il freddo; fu
attraversata da un’eco dell’adrenalina provata in precedenza.
«Oh, mi scusi, qui dentro l’aria condizionata è gelida. Mi chiamo
Edward Cullen. Sono molto lieto di conoscerla, signora Dwyer,
anche se avrei preferito che questo avvenisse in circostanze
migliori».
Sembra molto maturo. La sua approvazione risuonò per tutta la
stanza.
«Chiamami Renée», disse in modo automatico. «Sono... sono
desolata, sono un po’ fuori di me».
Accidenti, ma è bellissimo.
«Certo, lo immagino. Dovrebbe riposare, come le ha detto
l’infermiera».
«No», obiettò lei tranquillamente – quantomeno la sua voce
fisica. «Ti spiace se parliamo giusto un minuto?».
«Ovviamente no», risposi. «Sono sicuro che avrà mille
domande». Presi la sedia di plastica accanto al letto di Bella e la
spostai più vicino a sua madre.
«Non mi ha parlato di te», mi annunciò Renée. I suoi pensieri
suonarono offesi.
«Mi... mi dispiace. Non ci stiamo... frequentando da molto».
Renée assentì col capo, dopodiché sospirò. «Credo sia colpa
mia. È diventato tutto molto stressante con gli impegni di Phil, e io,
be’, non sono stata proprio la migliore delle ascoltatrici».
«Sono certo che glielo avrebbe detto presto». Poi, di fronte
all’insicurezza sul suo viso, mentii. «Per un po’, anch’io non l’avevo
detto ai miei genitori. Suppongo che entrambi, per scaramanzia, non
volessimo parlarne troppo presto. È un po’ sciocco».
Renée sorrise. Che cosa tenera. «Non è sciocco».
Ricambiai il suo sorriso.
Che sorriso rubacuori. Oh, spero che non stia giocando con lei.
Ebbi qualche tentennamento nel rassicurarla. «Mi dispiace per
quanto è accaduto. Mi sento tremendamente responsabile e farei
qualsiasi cosa per sistemare le cose. Se potessi essere io al posto di
Bella, non esiterei». Non era altro che la verità.
Lei allungò la mano per accarezzarmi il braccio. Fui contento che
la manica fosse abbastanza spessa da non rivelare la temperatura
della mia pelle. «Non è colpa tua, Edward».
Avrei tanto voluto che avesse ragione lei.
«Charlie mi ha raccontato un po’ come è andata, ma era piuttosto
confuso», disse.
«Penso lo siamo stati tutti. Anche Bella». Ripensai a quella sera,
un inizio così innocente, pieno di gioia e piacere. Com’era precipitato
tutto velocemente. Mi sentivo come se stessi cercando ancora di
riprendermi.
«È colpa mia», dichiarò Renée, improvvisamente rattristata.
«Temo di aver incasinato io la mia bambina. Il fatto che sia scappata
via perché ci tiene a te... è tutta colpa mia».
«No, non lo pensi neanche». Sapevo quanto Bella avesse
sofferto nel dover dire a Charlie quelle cose. Potevo immaginare
come si sarebbe sentita se avesse saputo che sua madre se ne
stava assumendo la colpa. «Bella è una ragazza con molta forza di
volontà. Fa quello che decide lei. In ogni caso, probabilmente aveva
solo bisogno di un po’ di sole».
Questo la fece sorridere leggermente. «Forse».
«Vuole che le racconti dell’incidente?».
«No, lo stavo giusto dicendo all’infermiera. Bella è caduta dalle
scale, la cosa non è poi così strana». Ero stupito di come entrambi i
suoi genitori accettassero quella storia. «La finestra, invece, è stata
una sfortunata coincidenza».
«Molto sfortunata».
«Desideravo solo conoscerti un poco. Bella non si sarebbe
comportata in questo modo se i suoi sentimenti non fossero stati
forti. Prima d’ora non aveva mai avuto seriamente a cuore nessuno.
Non sono sicura che sappia come comportarsi».
Le sorrisi di nuovo. «Sia lei che io».
Sicuro di sé, bella presenza, pensò dubbiosa. È davvero garbato.
«Sii gentile con la mia piccola», mi ordinò in tono più energico.
«Lei è profondamente sensibile».
«Le prometto che non farò mai nulla per ferirla». Pronunciai
quelle parole sentendole con una forza assoluta – avrei fatto di tutto
perché Bella continuasse a essere felice e al sicuro –, ma il mio
timore era che non fossero vere. Perché che cosa più di tutto
avrebbe fatto del male a Bella? Non potevo sottrarmi alla più onesta
delle risposte.
I chicchi della melagrana e il mio mondo infernale. Non ero
appena stato testimone di un brutale esempio di quanto il mio
mondo potesse essere sbagliato per lei? E lei giaceva lì, spezzata,
per colpa di questo. Di certo, il più grande male possibile sarebbe
stato tenerla con me.
Mmm, è convinto di fare sul serio. Be’, la gente si ritrova con il
cuore spezzato, e poi guarisce. È la vita. Poi però le venne in mente
il volto di Charlie e provò inquietudine. Non riesco a pensare, sono
troppo stanca. Domani mattina mi sarà tutto più chiaro.
«Dovrebbe dormire. È molto tardi in Florida». Riuscivo a sentire
come il dolore avesse distorto la mia voce, ma lei non la conosceva
così bene.
Fece di sì con la testa, mentre gli occhi le si chiudevano. «Mi
svegli se lei ha bisogno di qualcosa?».
«Sì, lo farò».
Si rannicchiò nella poltrona scomoda e scivolò rapidamente in
uno stato di incoscienza.
Rimisi a posto la mia sedia accanto a Bella. Era strano vederla
così tranquilla nel sonno. Più di ogni altra cosa, avrei voluto che lei
iniziasse a farfugliare qualcosa nei suoi sogni. Mi chiesi se ci fossi
anch’io con lei, in quella oscurità. Non sapevo se fosse giusto
sperare di esserci.

Mentre osservavo madre e figlia respirare, per la prima volta da


quando mi aveva lasciato solo, il mio pensiero andò ad Alice. A
prescindere da quanto disperato potesse essere il mio stato d’animo,
non era da lei lasciarmi così tanto per i fatti miei. Mi resi conto che
già da un pezzo ormai avrebbe dovuto controllare come stavamo io
e Bella. E che soltanto una poteva essere la ragione per cui invece
mi stava evitando.
Avevo avuto tutto il tempo per rielaborare gli eventi di quella
giornata, ma non l’avevo fatto. Ero rimasto semplicemente a
guardare Bella rammaricandomi, in modo del tutto sterile, di non
aver fatto di più, di non essere stato migliore. Di non essere riuscito
a trovare la cosa giusta da fare e di non averla fatta prima che
quell’incubo si abbattesse su di lei.
Adesso mi resi conto che c’era dell’altro che dovevo fare. Sapevo
che sarebbe stato doloroso, ma sapevo pure che non lo sarebbe
stato abbastanza. Meritavo di peggio. Non volevo lasciare Bella, ma
non era quello il luogo più adatto. Avrei chiamato Alice. Non ero però
sicuro di dove si fosse andata a nascondere da me. Andai nel
corridoio – destando il vivo interesse di due infermiere, le quali si
erano domandate se avrei mai lasciato la stanza – e prima che
potessi prendere il mio telefono, avvertii i pensieri di Alice che
provenivano dalle scale. Uscii dal reparto per incontrarla proprio
sulla porta del pianerottolo.
Aveva qualcosa in mano, qualcosa di piccolo e nero, avvolto in
dello spago sottile, e lo stringeva come se desiderasse poterlo
stritolare con le sue mani per distruggerlo.
In parte, ero sorpreso che non lo avesse ancora fatto.
Ne abbiamo già discusso trecento volte, ma mai che sia riuscita a
convincerti.
«No, infatti. Lo devo vedere».
Non sono d’accordo, ma ci rinuncio. Eccola. Mi allungò la
telecamera e vidi che era felice di sbarazzarsene. La presi
controvoglia. Averla tra le mani mi instillò una sensazione bieca e
riprovevole. Va’ da qualche parte in cui puoi restare solo.
Annuii. Era un buon consiglio.
Terrò d’occhio io Bella. Non è necessario, ma so che ti farà stare
meglio.
«Grazie».
Alice filò via dalle scale.
Iniziai a vagare per i corridoi, che a quell’ora tarda erano tranquilli
ma non deserti. Valutai se infilarmi in qualche stanza vuota, ma non
mi sembrava una soluzione abbastanza appartata. Giunsi fino
all’ingresso principale e uscii nel parco. Lì mi sentii più isolato, ma
intravedevo ancora gli addetti alla sicurezza che facevano i loro giri
di ronda. Finché avessi continuato a procedere per i fatti miei, non si
sarebbero curati di me, ma se fossi rimasto fermo a indugiare, di
certo sarebbero venuti a fare domande.
Cercavo uno spazio che fosse vuoto e provai sollievo nel cogliere
un punto privo di pensieri umani, subito oltre il grande viale ad
anello.
Ironia della sorte, quell’edificio deserto era giusto la cappella del
campus, aperta e illuminata malgrado l’ora. Sapevo che per Carlisle
quel luogo sarebbe stato di conforto, io invece ero alquanto sicuro
che nulla in quel momento avrebbe potuto essermi di aiuto.
Una volta dentro non trovai un modo per chiudere la porta, perciò
mi diressi nella parte anteriore della sala, il più lontano possibile
dall’ingresso. Al posto dei banchi c’erano delle sedie pieghevoli di
legno. Ne trascinai una contro il muro, all’ombra dell’organo.
Alice mi aveva lasciato degli auricolari. Li infilai nelle orecchie.
Chiusi gli occhi e feci un respiro profondo. Una volta visto,
sarebbe rimasto nella mia mente per sempre. Non sarei mai riuscito
a liberarmene. Mi sembrò giusto. Bella lo aveva vissuto. Io dovevo
semplicemente guardarlo.
Aprii gli occhi e accesi la telecamera. Lo schermo era grande
appena due pollici. Non sapevo se essere grato per questo, oppure
se meritassi di vederlo su uno schermo più grande.
Il video cominciava con un primo piano sul viso del segugio.
James... quel nome era fin troppo gentile per l’essere che era. Mi
stava sorridendo e sapevo che era quello che lui voleva: sorridere a
me. Tutto questo era per me. Quel che sarebbe seguito non sarebbe
stato altro che una conversazione tra noi due. A senso unico, ma di
tutto ciò che sarebbe accaduto, Bella non sarebbe mai stata il
destinatario. Quello ero io.
«Salve», disse in tono affabile. «Benvenuto allo spettacolo. Spero
gradirai quel che ho preparato per te. Sono desolato che il tutto sia
stato approntato un po’ di corsa, in maniera raffazzonata. Chi
l’avrebbe mai detto che ci avrei messo solo un paio di giorni a
vincere? Ma prima, diciamo così, di alzare il sipario, ti vorrei
ricordare che tutto questo sta accadendo proprio per colpa tua. Se tu
non ti fossi messo di mezzo, sarebbe stato tutto più rapido. Però
così è più divertente, non credi? Di nuovo, goditi lo spettacolo!».
La registrazione si interruppe, dopodiché partì una nuova
“scena”. Riconobbi l’angolazione della telecamera. Era stata posta
sopra il televisore e puntata verso la lunga parete di specchi. Il
segugio era accovacciato. Quando poi sfrecciò all’estrema destra
della ripresa, la sua velocità risultò quasi invisibile per la telecamera;
venne registrato solo uno sfarfallio confuso. Si era piazzato laggiù,
vicino all’uscita d’emergenza, immobile e con una mano tesa. In
essa stringeva un rettangolo nero. Un telecomando. Aveva la testa
leggermente inclinata su un lato, in ascolto. Udì qualcosa di troppo
basso per essere registrato, e sorrise direttamente in camera. A me.
Poi anch’io riuscii a sentire. Dei piedi che correvano e
inciampavano. Un respiro affannoso. Una porta che si apriva, quindi
una pausa.
Il segugio alzò il telecomando e pigiò un bottone.
Più forte di qualunque altra cosa sentita finora, dagli altoparlanti
subito sotto la telecamera partì la voce della madre di Bella che
gridava in preda al panico.
«Bella! Bella!».
Nell’altra stanza il rumore di passi si trasformò di nuovo in una
corsa.
«Bella, mi hai spaventata!», diceva Renée.
Bella entrò di soprassalto nella sala, angosciata e in cerca della
madre.
«Non farlo mai più!», proseguì Renée con una risata.
Bella si voltò al suono della voce, adesso aveva girato il viso
verso di me e i suoi occhi si erano concentrati subito sotto la
telecamera. La osservai nell’attimo in cui fu colta dalla
consapevolezza. Ancora non aveva realizzato del tutto l’inganno, ma
vidi che iniziava a provare sollievo. La madre non era in pericolo.
Gli altoparlanti divennero silenziosi. Bella si mosse con riluttanza.
Non voleva guardare, ma sapeva che lui era lì. Quando lo vide si
irrigidì e attese, immobile. Del viso di Bella riuscivo a scorgere solo
un lato, mentre notai chiaramente che lui le aveva sorriso.
Le andò vicino e io dovetti rilassare le dita. Per poco non
fracassai la videocamera. La oltrepassò e si diresse al televisore per
poggiarvi il telecomando. Quando lo fece, guardò in camera e mi
strizzò un occhio. Poi si voltò verso di lei. Adesso lui mi dava le
spalle, ma riuscivo a vedere Bella perfettamente. La telecamera
aveva un’angolazione tale per cui lo potevo scorgere attraverso gli
specchi. Questo doveva essere stato un errore che non aveva
calcolato. Suppongo che lui volesse farmi assistere unicamente alla
sua esibizione.
«Spiacente, Bella, di tutta questa messinscena. Tuttavia è molto
meglio che in realtà non abbia dovuto coinvolgere tua madre, non
credi?».
Lei lo guardò con un’espressione strana, direi quasi rilassata.
«Sì».
«Non sembri in collera con me, anche se ti ho ingannata».
«Non lo sono». La sua voce irradiava sincerità.
Il segugio ebbe un attimo di esitazione. «Che strano. Dici sul
serio». Piegò di lato la testa, ma potevo indovinare la sua
espressione. «Devo ammettere che la tua congrega aveva ragione,
voi umani potete essere piuttosto interessanti, a volte. Capisco che
osservare un esemplare come te sia piacevole. È incredibile... alcuni
di voi sembrano totalmente privi di egoismo».
Si era piegato verso di lei come se fosse in attesa di una risposta,
ma lei rimase in silenzio. Gli occhi di Bella erano opachi, non
tradivano alcun sentimento.
«Immagino che tu stia per dirmi che prima o poi il tuo ragazzo si
vendicherà», chiese in tono sarcastico. Ma quel sarcasmo non era
diretto a lei.
«No, non credo», replicò tranquilla Bella. «Gli ho chiesto di non
farlo».
«E lui cosa ti ha risposto?».
«Non lo so. Gli ho scritto una lettera».
Per favore, per favore, non venire a cercarlo, aveva scritto in
quella lettera. Ti amo. Perdonami.
I suoi modi erano quasi disinvolti. Il segugio sembrò esserne
infastidito, perché la sua voce si era fatta ora più stridula, e il tono
aveva assunto un che di minaccioso.
«Che romantica», il suo sarcasmo era palpabile. «L’ultima lettera.
E pensi che onorerà la tua volontà?».
I suoi occhi erano ancora indecifrabili, ma il viso era tranquillo
quando disse: «Lo spero».
«Mmm, bene. Abbiamo prospettive diverse, vedo». Il tono della
sua voce si era inasprito. L’autocontrollo di Bella stava rovinando la
messinscena che lui aveva architettato. «Capirai anche tu che fin qui
è stato tutto troppo facile, troppo veloce. A dire la verità, sono
piuttosto deluso. Mi aspettavo una sfida molto più difficile. E in fondo
mi sarebbe servita soltanto un po’ di fortuna».
Bella aveva assunto adesso un’aria paziente, come quella di un
genitore che sa già che il racconto del suo bambino sarà lungo e
sconclusionato, ma che comunque ha intenzione di assecondarlo.
Per reazione, la voce del segugio divenne ancora più dura.
«Dopo che Victoria non è riuscita ad arrivare a tuo padre, le ho
chiesto di trovare informazioni su di te. Non aveva senso correrti
dietro per l’intero pianeta quando potevo aspettarti comodo comodo
nel posto che preferivo...».
Il segugio andò avanti, cercando di pronunciare le parole in modo
lento e compiaciuto, ma riuscivo a cogliere il suo fondo di
frustrazione. Aveva iniziato a parlare più velocemente. Bella non
reagiva. Aspettava, paziente e garbata. Era evidente che questo lo
irritava.
Non mi ero soffermato più di tanto a riflettere su come il segugio
fosse riuscito a rintracciare Bella – non c’era stato tempo di fare altro
se non agire –, ma questo chiariva tutto. Nulla mi sorprese. Ebbi un
piccolo sussulto quando mi resi conto che era stato proprio il nostro
volo per Phoenix a far scattare la sua ultima mossa. Ma era solo uno
dei mille sbagli che avevo sulla coscienza.
Stava terminando il suo monologo – mi chiesi se pensasse che
ne sarei rimasto colpito – e cercai di prepararmi a quel che sarebbe
venuto dopo.
«Tutto facilissimo, vedi», concluse. «Molto al di sotto dei miei
standard. Per questo spero che ti sbagli, riguardo al tuo ragazzo. Si
chiama Edward, no?». Che cosa stupida far finta di aver dimenticato
il mio nome. Non lo avrebbe mai potuto scordare, così come io il
suo.
Bella non gli rispose. Adesso sembrava un po’ confusa. Come se
non afferrasse il senso di tutto questo. Non si era resa conto che lo
spettacolo non era destinato a lei.
«Ti dispiacerebbe se lasciassi una letterina scritta di mio pugno
per il tuo Edward?».
Il segugio fece un passo indietro uscendo dall’inquadratura.
Improvvisamente, l’immagine si strinse in un primo piano solo del
viso di Bella.
La sua espressione mi era perfettamente chiara. Stava
osservando per cercare di comprendere. Sapeva che l’avrebbe
uccisa. Ma non aveva mai considerato che prima l’avrebbe torturata.
Per la prima volta da quando aveva scoperto che la madre era al
sicuro, i suoi occhi furono attraversati dal panico.
La mia paura e il mio orrore crebbero insieme ai suoi. Come sarei
sopravvissuto a tutto questo? Non ne avevo idea. Ma lei ci era
riuscita, perciò io dovevo farlo.
Quando il segugio fu certo che io avessi avuto il tempo di
assorbire la paura che in lei stava affiorando, allargò di nuovo
l’inquadratura, girandone leggermente l’angolazione, così che
adesso potessi vedere il suo riflesso nello specchio alle spalle di
Bella.
«Scusami, ma credo davvero che non sarà capace di resistere,
dopo aver visto questa scena». Era di nuovo soddisfatto della sua
esibizione. «E non potrà che darmi la caccia. E poi non vorrei che si
perdesse qualcosa. La mia vera preda è lui, ovviamente. Tu sei
soltanto un’umana, che sfortunatamente si è trovata nel posto
sbagliato al momento sbagliato e senza dubbio in compagnia delle
persone sbagliate, se me lo concedi».
Entrò nuovamente nell’inquadratura, avvicinandosi a lei. Il suo
sorriso era deformato dagli specchi. «Prima di cominciare...».
Le labbra di Bella erano bianche.
«...gradirei solo dilungarmi un momento per ficcarti bene una
cosa in testa». I suoi occhi incrociarono i miei attraverso lo specchio.
«La soluzione per voi era a portata di mano, e temevo proprio che
Edward la intuisse e mi rovinasse il divertimento. È successo una
volta sola... una vita fa. L’unica occasione in cui una preda mi sia
sfuggita».
Alice mi aveva mostrato il modo in cui far perdere ogni interesse
al segugio. Lui non aveva capito che ero stato io a oppormi a un’idea
del genere. Non sarebbe mai riuscito a comprenderne il motivo.
Diede inizio a un nuovo monologo e, benché mi rendessi conto
che era stato proprio questo suo bisogno di autocompiacersi ciò che
aveva consentito a Bella di sopravvivere fino al nostro arrivo, ancora
una volta digrignai i denti in preda alla frustrazione finché lui non
pronunciò le parole “sua amichetta”, e allora compresi che c’era
dell’altro. Era questo quello che Bella aveva cercato di comunicarci.
Alice, il video... Ti conosceva, Alice, sapeva da dove vieni.
«...la poveretta non diede mostra di sentire nemmeno il dolore»,
stava spiegando il segugio. «Era rimasta troppo a lungo chiusa in
quel buco nero di cella. Cento anni prima l’avrebbero bruciata su un
rogo, per colpa delle sue visioni. Invece erano gli anni Venti del
ventesimo secolo, perciò le toccarono il manicomio e l’elettroshock.
Quando riaprì gli occhi, forte della gioventù riconquistata, era come
se non avesse mai visto il sole prima di allora. Il vampiro anziano
l’aveva trasformata in una giovane e valente vampira, e a quel punto
non avevo più motivo di importunarla. Per vendicarmi, distrussi il
vecchio».
«Alice», disse Bella con un filo di voce. Quella rivelazione non
ravvivò in alcun modo i colori sul suo viso. Le labbra, adesso, le
erano diventate persino un po’ verdognole. Sarebbe svenuta? Iniziai
a sperare che potesse esserci una pausa, un momento di fuga,
sebbene fossi consapevole che non sarebbe potuto durare a lungo.
Erano molte le cose su cui riflettere, e prima o poi avrei voluto
sapere che cosa provasse Alice, ma non ora. Non adesso.
«Sì, la tua amica. È stata una bella sorpresa ritrovarla nel campo
dove ci siamo incontrati». Puntò ancora il suo sguardo nell’obiettivo,
in cerca del mio. «Così ho pensato che la sua congrega avrebbe
potuto imparare qualcosa da tutto questo. Io prendo te, loro si
tengono lei. L’unica vittima che mi sia mai sfuggita, un bell’onore.
E il suo odore era così delizioso. Rimpiango ancora di non averla
assaggiata... Il suo profumo era anche meglio del tuo. Scusa, senza
offesa. Tu sai di buono. Di fiori, direi...».
Le andò sempre più vicino finché non fu sopra di lei, quindi
allungò una mano e io, ancora una volta, fui sul punto di distruggere
la telecamera. Per il momento non le aveva fatto del male, stava
semplicemente giocherellando con una ciocca dei suoi capelli, per
prolungare in lei il terrore. Facendolo stillare goccia a goccia.
Scivolai giù dalla sedia, a terra, e adagiai la telecamera accanto a
me sul pavimento. Serrai con forza i pugni. Feci bene a farlo. Il
segugio aveva poi spinto oltre la mano per accarezzarle
delicatamente la guancia, e io mi domandai se le mie mani non
avrebbero finito per spezzarsi.
«No, non capisco», aveva concluso il segugio. «Be’, immagino
che saremo costretti a farla finita così». Mi lanciò un’altra occhiata,
accennando un sorriso. Voleva che vedessi quanto fosse smanioso,
quanto si sarebbe gustato quel momento. «Poi chiamerò i tuoi amici
e gli dirò dove trovare te e il mio messaggio».
Bella iniziò a tremare. Aveva il volto talmente cereo che mi
sorprendeva riuscisse ancora a reggersi in piedi. Il segugio prese a
girarle intorno, sorridendomi nello specchio. Si acquattò, i suoi occhi
si spostarono sul viso di Bella e quel sorriso si trasformò in un
ghigno a denti scoperti.
Terrorizzata, lei scattò verso la porta sul retro. Intuii fosse quello il
suo obiettivo, che non avesse fatto altro che stuzzicarla perché lei
reagisse. I suoi denti ora scoperti si disposero in un sorriso
compiaciuto nel momento in cui le balzò davanti e, con un rovescio
pieno di disprezzo, la scaraventò contro la parete di specchi.
Per un attimo, fuggevole e interminabile, Bella fece un volo e poi,
con un fragore metallico, uno scricchiolio di ossa e un frantumarsi di
vetri, andò a sbattere contro la sbarra d’ottone e lo specchio
immediatamente dietro. La sbarra uscì fuori dalle staffe e si schiantò
contro le assi sottostanti. Seguita subito dopo dal corpo di Bella,
completamente afflosciato mentre ricadeva a terra, tra le schegge di
vetro che, simili a lustrini, riflettevano la luce attorno a lei. Ancora
una volta sperai che avesse perso i sensi. Poi però vidi i suoi occhi.
Tramortiti, indifesi, pietrificati.
Avevo male alle mani da quanto era violenta la pressione con cui
le stringevo, ma non le riuscivo a rilassare.
Il segugio le girò attorno con gli occhi puntati, attraverso lo
specchio, sull’obiettivo della telecamera, per fissare me.
«Bell’effetto», mi fece notare, sperando che non stessi dando per
scontato nulla di quanto aveva in programma. «Avevo pensato che
come scenografia per il mio piccolo film, questa stanza avesse un
effetto visivo sensazionale. Perciò l’ho scelta. Perfetta, vero?».
Non avrei saputo dire se Bella si fosse accorta che lui si era
distratto, oppure se avesse agito unicamente per istinto, tuttavia in
preda al dolore si rigirò per mettere le mani sul pavimento e iniziò a
strisciare verso l’ingresso.
Il segugio rise tranquillamente del suo tentativo patetico,
dopodiché fu sopra di lei.
Alice mi aveva già mostrato quella scena. Desiderai di poter
distogliere lo sguardo. Ma non ci riuscii e il piede del segugio piombò
giù secco contro il suo polpaccio. Sentii entrambi gli schiocchi
mentre lui le spezzava la tibia e il perone.
Tutto il corpo di Bella scattò con violenza, dopodiché il suo urlo
riempì la piccola sala, rimbalzando sui vetri e sul legno tirato a
lucido. Sembrò un trapano che mi perforava le orecchie attraverso
gli auricolari. Aveva il viso sconvolto dall’agonia e negli occhi le
erano esplosi dei minuscoli capillari.
«Gradiresti ritrattare le tue ultime volontà?», chiese a Bella
rivolgendo ora a lei tutta la sua attenzione. Sistemò la punta del
piede e la premette con cura meticolosa su tutta la sequenza di
fratture.
Bella gridò ancora, con quel suono che le raschiava e dilaniava la
gola.
«Non preferiresti ora che Edward mi trovasse?», la incalzò il
segugio, come un regista a lato del palcoscenico.
Lui avrebbe continuato a torturarla finché lei non mi avesse
scongiurato di dargli la caccia. Bella doveva sapere che io avrei
compreso come quella risposta le fosse stata estorta. Di sicuro, a
breve gli avrebbe concesso ciò che lui desiderava.
«Digli quello che vuole sentirsi dire», le sussurrai inutilmente.
«No!», gridò con voce roca. Per la prima volta guardò verso
l’obiettivo, con il sangue e la supplica negli occhi, rivolgendosi
direttamente a me. «No, Edward, non...».
Lui le tirò un calcio in piena faccia.
Avevo già visto i segni di quel colpo prendere forma sul lato
sinistro del suo volto. Sullo zigomo aveva due piccole fessure. Ci era
andato cauto, ben sapendo che se le avesse tirato un calcio con
anche solo un minimo della sua forza, questo l’avrebbe uccisa,
mentre lui non aveva ancora finito. In realtà, non era stato che un
colpetto.
Bella volò di nuovo in aria.
Osservando la sua traiettoria, compresi immediatamente l’errore
commesso dal segugio.
Il vetro era già rotto, e i suoi margini contorti puntavano verso
l’esterno come dei denti d’argento frastagliati. La testa di Bella urtò
quasi nello stesso punto di prima, ma stavolta gli spuntoni di vetro le
lacerarono lo scalpo mentre la gravità la trascinava giù a terra. Fu
impossibile non udire il suono della pelle che si apriva.
Lui si voltò a guardare, e nello specchio vidi la sua espressione
irrigidirsi quando si rese conto di quel che aveva fatto.
Il sangue le stava già colando dai capelli, stillando ai lati del viso
in rivoli cremisi che correvano giù verso il collo, andandosi a
raccogliere nell’incavo sopra le clavicole. La sola vista mi risvegliò il
fuoco in gola e il ricordo del sapore di quel sangue.
Il sangue era arrivato al pavimento, gocciolando rumorosamente
mentre iniziava a formare delle pozze intorno ai suoi gomiti.
C’era tanto sangue, e scorreva davvero in fretta. Fu
sconvolgente. Continuai a guardare, scioccato da come lei fosse
potuta sopravvivere a tutto questo. Anche il segugio stava
osservando, mentre tutti i suoi programmi e tutta la sua arroganza
svanivano. Il volto gli divenne feroce, disumano. Una piccola parte di
lui desiderava combattere la propria sete – riuscivo a coglierlo nei
suoi occhi –, ma lui non era predisposto al controllo. Era a malapena
in grado di ricordarsi del suo pubblico e del suo spettacolo.
Tra i denti gli sfuggì un ringhio da belva a caccia. Istintivamente,
Bella sollevò una mano per proteggersi. Aveva già chiuso gli occhi,
mentre la vita stingeva via dal suo viso.
Uno scricchiolio fragoroso, un ruggito. Il segugio si lanciò con uno
scatto. Attraverso la sequenza si vide balenare una sagoma
smorzata, talmente rapida da essere impossibile da distinguere. Il
segugio era svanito dalla scena. Vidi il segno color cremisi lasciato
dai suoi denti sul palmo di Bella, dopodiché, con un tonfo silenzioso,
la sua mano cadde, esanime, in quel lago di sangue.
Rimasi a guardare completamente inebetito, mentre la mia
immagine sullo schermo era in preda ai gemiti e Carlisle era
all’opera per salvarla. I miei occhi erano attratti dalla porzione in
basso a destra dell’inquadratura dove, di tanto in tanto, alcuni
brandelli del segugio comparivano nelle immagini. Il gomito di
Emmett, il retro della testa di Jasper. Da quei piccoli flash era
impossibile fare una ricostruzione sensata della lotta. Un giorno avrei
chiesto a Emmett o a Jasper di raccontarmela. Dubito che questo
avrebbe placato la rabbia che provavo. Se anche fossi stato io a
smembrare e a bruciare il segugio, ciò non sarebbe stato
abbastanza. Nulla avrebbe più rimesso a posto le cose.
Alla fine, Alice andò verso l’obiettivo. I suoi lineamenti furono
attraversati da uno spasmo di dolore, e io seppi che stava avendo
una visione della registrazione come pure, ne ero certo, una di me
che adesso la stavo guardando. Afferrò la telecamera e lo schermo
si fece nero.
Presi lentamente la telecamera e poi, con altrettanta lentezza, la
ridussi metodicamente in un cumulo di polvere di plastica e metallo.
Quando tutto fu concluso, dal taschino della camicia estrassi il
piccolo tappo di bottiglia che avevo tenuto con me per settimane. Il
mio ricordo di Bella: il mio talismano, il mio sciocco ma rassicurante
legame fisico con lei.
Per un attimo mi luccicò in mano, quindi lo polverizzai tra le dita e
lasciai che quei frammenti di acciaio cadessero sui resti della
telecamera.
Non meritavo alcun legame, alcuna pretesa su di lei.
Rimasi a lungo seduto nella cappella vuota. A un certo punto, gli
altoparlanti iniziarono a diffondere dolcemente una musica, ma non
era entrato nessuno e non c’erano segni che qualcuno mi avesse
notato lì dentro. Immaginai che la musica fosse partita con un timer
automatico. Era l’Adagio sostenuto dal secondo concerto per
pianoforte di Rachmaninov.
Rimasi ad ascoltare, freddo e insensibile, cercando di
rammentare a me stesso che Bella si sarebbe rimessa. Che mi
potevo alzare in quel momento e tornare accanto a lei. Che Alice
aveva visto che i suoi occhi si sarebbero riaperti tra solo trentasei
ore. Un giorno, una notte e un altro giorno ancora.
Adesso, nulla di tutto questo sembrava avere più importanza.
Perché era colpa mia, ogni cosa che lei aveva patito.
Guardai fuori attraverso le alte finestre davanti a me, osservando
come l’oscurità della notte stesse lentamente cedendo il passo a un
cielo grigio pallido.
Dopodiché, feci una cosa che non avevo più fatto da un secolo.
Rannicchiato sul pavimento, immobile e colmo di dolore... mi misi
a pregare.
Non pregai il mio Dio. Avevo sempre saputo, istintivamente, che
non esisteva una divinità per quelli come noi. Non aveva senso che
gli immortali avessero un dio; ci eravamo sottratti al potere di ogni
divinità. Eravamo stati noi a darci le nostre vite, e l’unica potenza
abbastanza forte da potercele sottrarre di nuovo era un altro di noi. I
terremoti non potevano distruggerci, i diluvi non potevano
sommergerci, gli incendi erano troppo lenti per investirci. Lo zolfo e
le fiamme eterne erano ininfluenti. Eravamo noi gli dèi del nostro
universo alternativo. All’interno del mondo mortale, ma al di sopra di
esso, mai schiavi delle sue leggi, ma unicamente delle nostre.
Non esisteva alcun Dio a cui io appartenessi. Nessuno a cui
potessi rivolgere la mia supplica. Carlisle la pensava diversamente,
e forse, dico forse, per uno come lui si sarebbe potuto fare
un’eccezione. Ma io non ero come lui. Io ero macchiato dall’infamia
come tutti gli altri della nostra specie.
Pregai invece il Dio di Bella. Poiché se nel suo universo esisteva
una potenza superiore e benevola, allora di sicuro, di sicuro, lui o lei
o esso si sarebbe preoccupato della sua figlia più gentile e
coraggiosa. In caso contrario, un’entità del genere sarebbe stata
davvero priva di qualunque scopo. Dovevo credere che lei fosse
importante per quel Dio distante, ammesso che ne esistesse uno.
Mi misi dunque a pregare il suo Dio perché mi desse la forza di
cui avevo bisogno. Sapevo di non possederne abbastanza dentro di
me – un simile potere mi sarebbe dovuto arrivare dall’esterno. Con
chiarezza assoluta, ricordai le visioni di Alice in cui Bella era stata
abbandonata – il suo volto tetro, adombrato, vuoto, incavato. La sua
sofferenza e i suoi incubi. Non ero mai riuscito a immaginare che la
mia determinazione non si sarebbe incrinata, che non avrebbe
ceduto di fronte alla consapevolezza della sua afflizione. E non ero
in grado di immaginarlo neppure adesso. Ma dovevo farlo. Dovevo
imparare a essere forte.
Pregai il suo Dio con tutto il tormento della mia anima perduta e
dannata, affinché lui – o lei o esso – mi aiutasse a proteggere Bella
da me stesso.
29. INELUTTABILITÀ

Alice aveva visto il momento in cui Bella avrebbe aperto


finalmente gli occhi. C’erano delle ragioni pratiche sul perché avessi
bisogno di restare da solo con lei prima che potesse parlare con
altre persone; Bella non sapeva nulla delle nostre manovre di
copertura. Ovviamente, Alice e Carlisle avrebbero saputo come
gestire la situazione, e Bella era abbastanza sveglia da fingere
un’amnesia finché non avesse messo a punto la sua versione; ma
Alice sapeva che non avevo solo bisogno di chiarire tutta la storia.
Durante quelle ore di attesa, Alice si era presentata a Renée, e
l’aveva così tanto affascinata via via che parlavano da essere
entrate in confidenza; se non altro nella testa di Renée. Era stata
Alice a convincere Renée ad andare a pranzo al momento giusto.
Era poco dopo le tredici. Precedentemente avevo chiuso le
veneziane per evitare che entrasse troppa luce, ma avrei potuto
anche riaprirle, ormai. Il sole era dall’altra parte dell’ospedale.
Quando Renée andò via, accostai la sedia al letto di Bella,
appoggiando i gomiti sul bordo del materasso vicino la sua spalla.
Non sapevo se avesse avvertito lo scorrere del tempo, o se la sua
mente fosse tornata in quella maledetta sala degli specchi. Aveva
bisogno di essere rassicurata, e io la conoscevo abbastanza bene
da sapere che vedere la mia faccia l’avrebbe confortata. Nel bene e
nel male la mettevo a suo agio.
Cominciò ad agitarsi proprio nei tempi previsti. Si era mossa
anche prima, ma questo sembrò uno sforzo più concentrato. La
fronte le si increspò a causa del dolore che sentì muovendosi, e la
piccola v di tensione le apparve in mezzo alla fronte. Come avevo
sempre desiderato fare, passai l’indice delicatamente sopra quella V,
provando a cancellarla. Svanì piano piano, e i suoi occhi
cominciarono a muoversi freneticamente. Il bip del
cardiofrequenzimetro accelerò leggermente.
Aprì gli occhi, poi li richiuse. Provò un’altra volta, socchiudendoli
contro la luce che proveniva dalla stanza. Spostò lo sguardo verso la
finestra, mentre i suoi occhi si ricomponevano. Il cuore batteva più
forte, ora. Le mani armeggiavano con i fili del monitor e cercò di
raggiungere il tubo che aveva sotto il naso, per provare ovviamente
a rimuoverlo. Le presi la mano.
«Ferma lì», dissi con voce calma.
Non appena udì la mia voce, il suo cuore rallentò.
«Edward?». Non poteva girare la testa come voleva. Mi avvicinai
di più a lei. I nostri occhi si incontrarono, e i suoi, ancora macchiati di
rosso, iniziarono a riempirsi di lacrime. «Oh, Edward, mi dispiace
tanto!».
Le sue scuse mi provocarono un dolore del tutto particolare e
penetrante.
«Sssh...», insistei. «Adesso è tutto a posto».
«Cos’è successo?», chiese, corrugando la fronte come se stesse
cercando di risolvere un indovinello.
Avevo già elaborato una risposta. Avevo pensato al modo più
gentile di spiegarle quanto era accaduto. E invece, sulle mie labbra
affiorarono le paure e il rimorso che provavo.
«Era quasi troppo tardi. Stavo per arrivare troppo tardi».
Mi fissò per un lungo momento, e mi sembrò che le stessero
riaffiorando i ricordi. Ebbe un sussulto e il respiro accelerò. «Sono
stata una stupida, Edward. Pensavo avesse preso mia madre».
«Ci ha imbrogliati tutti».
L’urgenza che avvertì le fece inarcare le sopracciglia. «Devo
chiamare Charlie e la mamma».
«Li ha chiamati Alice». Alice aveva preso il posto di Carlisle, e ora
parlava con Charlie parecchie volte al giorno. Come era successo
per Renée, anche lui ne fu completamente rapito. Sapevo che Alice
aveva programmato una telefonata post risveglio. «Renée è qui...
be’, è in ospedale. È andata proprio ora a mangiare qualcosa».
Bella spostò il peso del corpo come se volesse scappare
improvvisamente dal letto. «Qui?».
La afferrai per le spalle, cercando di tenerla ferma. Lei sbatté le
palpebre diverse volte, guardandosi intorno stordita.
«Tornerà presto», la rassicurai. «Stai tranquilla. Non muoverti».
Queste parole non la calmarono come avrei voluto. I suoi occhi
erano pieni di panico. «Ma cosa le avete detto? Che cosa le avete
raccontato?».
Accennai un sorriso. «Che sei caduta da due rampe di scale e hai
sfondato una finestra».
Visto come entrambi i genitori avevano accettato la nostra storia
– e non solo che fosse possibile, ma che bisognasse in qualche
modo aspettarselo – mi sentii giustificato nell’aggiungere: «Devi
ammettere che ne saresti capace».
Sospirò, ma adesso che conosceva l’alibi sembrava più calma.
Fissò il suo corpo ricoperto dal lenzuolo per qualche secondo.
«Quanto male mi sono fatta?», chiese.
Le elencai le ferite più importanti. «Hai una gamba rotta, quattro
costole incrinate, un trauma cranico, ferite superficiali e contusioni
dappertutto, e hai perso molto sangue. Ti hanno fatto qualche
trasfusione. Non ho gradito, per un po’ hanno alterato il tuo odore».
Sorrise e poi fece una smorfia. «Dev’essere stato un bel fuori
programma, per te».
«No, il tuo odore mi piace».
Mi guardò con dolcezza, come se cercasse qualcosa. Dopo
qualche secondo, chiese: «Come hai fatto?».
Non sapevo perché questo argomento fosse così sgradevole.
C’ero riuscito. Sapevo che Emmett, Jasper e Alice erano rimasti
colpiti dal mio risultato. Ma io non riuscivo a vederla nello stesso
modo. C’era mancato così poco. Ricordai con una vividezza
insopportabile con quale intensità il mio corpo avesse desiderato
restare in quella beatitudine per sempre.
Non riuscii più a sostenere il suo sguardo. Abbassai gli occhi
sulla sua mano, prendendola delicatamente nella mia. I fili si
sparsero su entrambi i lati.
«Non lo so nemmeno io», sussurrai.
Lei non disse nulla, e io potei sentire i suoi occhi su di me, in
attesa di una risposta migliore. Sospirai.
Il volume della mia voce era a malapena più alto di un respiro.
«Era impossibile... trattenersi. Impossibile. Ma ce l’ho fatta».
Provai a sorridere e poi a incontrare il suo sguardo. «È evidente
che ti amo».
«Il sapore non è buono come il profumo?». Sorrise alla sua
battuta, poi sussultò, sentendo dolore alla ferita che aveva allo
zigomo.
Non provai ad assecondare il suo tono allegro. Era meglio che
non sorridesse, ovviamente.
«È anche meglio», risposi con onestà, anche se con un po’ di
amarezza. «Meglio di quanto immaginassi».
«Scusa».
Alzai gli occhi al cielo. «Come se di questo dovessi scusarti».
Esaminò la mia espressione, e sembrò insoddisfatta da quello
che vi trovò.
«E per cosa dovrei scusarmi?».
Niente, volevo dire, ma poi mi accorsi che era in vena di scuse,
così le diedi qualcosa su cui riflettere. «Per avere rischiato di sparire
dalla mia vita per sempre».
Annuì assente, accettando la cosa. «Scusa».
Le accarezzai il dorso della mano, chiedendomi se potesse
sentire il mio tocco sotto tutti quegli strati di stoffa. «So perché l’hai
fatto. È stata comunque una decisione irrazionale, va da sé. Avresti
dovuto aspettarmi, avresti dovuto dirmelo».
Per lei questo non aveva senso. «Non mi avresti lasciata
andare».
«In effetti no», dissi tra i denti, «non ti avrei lasciata».
Il suo sguardo si fece distante per un momento e il suo cuore
accelerò. Fu scossa da un brivido ed emise un sibilo di dolore.
«C’è qualcosa che non va?».
Piagnucolò. «Che fine ha fatto James?».
Bene, su questo avrei potuto rassicurarla. «Dopo che te l’ho tolto
di dosso, se ne sono occupati Emmett e Jasper».
Si accigliò, fece una smorfia, ma poi addolcì la sua espressione.
«Ma non ho visto né Emmett né Jasper, lì».
«Sono stati costretti a uscire dalla stanza... troppo sangue». Un
fiume. Per un istante, mi sentii come se fossi ancora tutto macchiato.
«Ma tu sei rimasto», sussurrò.
«Sì».
«E Alice, e Carlisle...». La sua voce era piena di stupore.
Accennai un sorriso.
«Ricorda che anche loro ti vogliono bene».
La sua espressione diventò improvvisamente ansiosa. «Alice ha
visto il nastro?».
«Sì». Era un argomento che stavamo cercando di evitare.
Sapevo che stava facendo le sue ricerche e lei sapeva che non ero
pronto a discuterne.
«Era rimasta confinata sempre al buio», disse Bella con irruenza,
«perciò non ricorda nulla».
Era così Bella, anche in momenti come quelli tutta la sua
preoccupazione andava a qualcun altro.
«Lo so. Ora ha capito».
Non ero consapevole di che espressione avesse il mio viso, ma
dovette mettere in agitazione Bella. Provò ad allungare la mano, a
toccarmi la guancia, ma la fermai quando l’ago della flebo si tese
sulla sua mano.
«Ugh...», gemette.
L’ago si era estratto? Il suo movimento non era stato così brusco,
ma non potevo verificare da vicino.
«Cosa c’è?», chiesi.
«Aghi», disse.
Fissava in alto, concentrandosi come se avesse visto qualcosa di
più interessante nel soffitto insonorizzato sopra di lei. Prese un
profondo respiro, e notai con stupore che intorno alle sue labbra
c’era un’ombra verde chiaro.
«Ha paura di un ago», mormorai. «Finché si tratta di un vampiro
sadico intenzionato a torturarla, nessun problema, scappa a
conoscerlo. Una flebo, invece...».
Roteò gli occhi. Il verde era quasi sparito.
Poi il suo sguardo si posò su di me e mi chiese in tono
preoccupato: «E tu, cosa ci faresti, qui?».
Avevo pensato... ma che importava. «Vuoi che me ne vada?».
Forse quello che dovevo fare era più facile di quanto pensassi. Il
dolore pervase la zona in cui si trovava il mio vecchio cuore.
«No!», protestò; e fu quasi un grido. Ma poi abbassò il volume
della voce fino a renderla un sussurro. «No... volevo dire, come hai
giustificato a mia madre la tua presenza? Devo preparare un alibi
prima che torni».
«Ah».
Ovviamente non sarebbe stato così facile. Troppe volte avevo
pensato che avrebbe chiuso con me, ma non lo aveva fatto mai.
«Sono venuto a Phoenix per farti ragionare», dissi, usando la
stessa voce sincera e inoffensiva che usavo quando avevo bisogno
che le infermiere credessero che sarei dovuto restare nella stanza.
«E convincerti a tornare a Forks. Tu hai accettato di incontrarmi, sei
uscita per raggiungere l’albergo in cui alloggiavo assieme a Carlisle
e Alice». Sgranai gli occhi, per rendere il mio sguardo ancora più
innocente. «Ovviamente sono venuto qui con il permesso e la guida
dei miei genitori... Ma salendo le scale per raggiungere la mia
camera hai messo un piede in fallo, e... be’, il resto lo sai. Non c’è
bisogno che ricordi altri dettagli: hai un’ottima scusa per essere un
po’ confusa sui particolari».
Ci ragionò su per qualche secondo. «Ma c’è qualcosa che non
torna. Per esempio, nessuna finestra rotta».
Non potei fare a meno di sorridere. «Non proprio. Alice si è
lasciata un po’ prendere la mano, mentre fabbricava le prove. Ci
siamo occupati di tutto con molto scrupolo; se volessi, potresti
addirittura denunciare l’albergo».
La sola idea ovviamente la scandalizzò.
Le accarezzai dolcemente la guancia senza lividi. «Non devi
preoccuparti di nulla. Devi badare soltanto a guarire, ora».
A quel punto il suo cuore cominciò a battere forte. Cercai di
capire se stesse sentendo dolore da qualche parte o se avessi detto
qualcosa che l’aveva turbata, ma quando mi accorsi che le sue
pupille erano dilatate, capii. Stava rispondendo alla mia carezza.
I suoi occhi, concentrati sul macchinario a cui era collegata e che
emetteva un segnale acustico quando i battiti cardiaci aumentavano,
si rimpicciolirono. «Sarà davvero imbarazzante».
Accennai un sorriso. Un lieve rossore stava colorando le sue
guance.
«Mmm, chissà se...».
Ero già a poca distanza dalla sua faccia. Lentamente la ridussi
del tutto. Il suo cuore cominciò a battere più veloce. Quando la
baciai, le mie labbra a malapena sfiorarono le sue, e quel ritmo si
arrestò. Il suo cuore letteralmente saltò un battito.
Mi allontanai da lei, preoccupato, finché il suo cuore non riprese a
battere in maniera normale.
«A quanto pare dovrò prestare molta più attenzione del solito».
Si accigliò, fece una smorfia, poi disse: «Io non avevo finito di
baciarti. Non costringermi ad alzarmi».
Sorrisi e la baciai di nuovo dolcemente, staccandomi non appena
sentii che il suo cuore ricominciava a battere forte. Fu un bacio
brevissimo.
Sembrava che stesse per protestare, ma dovevamo in ogni caso
interrompere l’esperimento.
Spostai la sedia a qualche centimetro dal suo letto. «Credo di
aver sentito tua madre».
Renée stava salendo le scale, doveva andare a prendere dei
soldi dalla borsa, era preoccupata per quello che aveva mangiato
negli ultimi giorni. Voleva trovare tempo per andare in palestra, ma
per ora bastavano le scale.
La faccia di Bella si contorse. Immaginai che fosse per il dolore.
Mi avvicinai di nuovo, cercando di capire cosa potessi fare.
«Non andartene», disse Bella, con la voce quasi rotta dal pianto.
Strinse gli occhi per la paura.
Non volevo pensare a quella sua reazione.
Avevo in testa una visione di Alice che mi tormentava. Bella,
raggomitolata su se stessa dal dolore, che boccheggiava in cerca
d’aria...
Mi ricomposi un momento e poi provai a rispondere in maniera
disinvolta. «Non me ne andrò. Farò un sonnellino».
Feci un gran sorriso e mi gettai sulla poltrona turchese,
reclinandola il più possibile. Dopotutto, Renée mi aveva detto di
usarla ogni volta avessi avuto bisogno di riposarmi.
Chiusi gli occhi.
«Non dimenticarti di respirare», sussurrò Bella. Mi ricordai di
quando aveva finto di dormire per non far preoccupare suo padre, e
trattenni un sorriso. Esagerai, prendendo un lunghissimo respiro.
Renée stava passando davanti all’infermeria.
«Novità?», chiese all’infermiera di turno, una donna giovane e
robusta di nome Bea. Dal tono assente con cui aveva fatto questa
domanda era chiaro che si aspettava una risposta negativa. Riprese
a camminare.
«In realtà c’era stata un’oscillazione sul monitor e stavo per
entrare».
Oh no, non avrei dovuto andarmene.
Renée aveva accelerato il passo, preoccupata. «Vado a vedere e
le faccio sapere...».
L’infermiera fece per alzarsi, ma poi tornò a sedersi, arrendendosi
al volere di Renée.
Bella si agitò un po’ e il letto scricchiolò. Era evidente quanto
l’angoscia di sua madre la turbasse.
Renée aprì la porta delicatamente. Ovviamente voleva che Bella
si svegliasse, ma sembrava brutto fare rumore.
«Mamma!», sussurrò Bella con gioia.
Non potevo vedere l’espressione di Renée mentre fingevo di
dormire, ma i suoi pensieri erano in subbuglio. Udii i suoi passi
avanzare in maniera incerta e poi notò me, steso sulla poltroncina a
dormire.
«Non se ne va mai, eh?», borbottò in tono calmo, ma urlando nel
pensiero. Mi ero abituato al volume dei suoi pensieri, non mi
sorprendeva più come una volta. Ma si era un po’ calmata. Cominciò
a chiedersi se avessi sempre dormito.
«Mamma, che bello vederti!», esclamò Bella.
Per un istante, Renée rimase sorpresa nel vedere gli occhi
iniettati di sangue di Bella. Di fronte a questa nuova prova di
sofferenza a cui era sottoposta la figlia, non riuscì a trattenere le
lacrime.
Sbirciai attraverso le palpebre e vidi Renée che abbracciava Bella
con cautela. Le lacrime cominciarono a scenderle sulle guance.
«Bella, ero così agitata!».
«Mi dispiace, mamma. Adesso è tutto a posto, tutto okay».
Era fastidioso sentire Bella, nelle sue condizioni, rassicurare la
madre in piena salute, ma immaginai che il loro rapporto fosse
sempre stato così. Forse il modo in cui la mente davvero unica di
Renée interagiva con gli altri l’aveva trasformata in una specie di
narcisista. Era una cosa difficile da evitare, quando tutti si
adoperavano per rispondere a ogni tuo bisogno inespresso.
«Sono contenta di vedere che apri gli occhi, finalmente».
Sebbene interiormente avesse avuto un moto di fastidio nel vedere
in che condizioni raccapriccianti erano.
Ci fu un momento di silenzio, poi Bella chiese in tono dubbioso:
«Quanto a lungo sono rimasti chiusi?».
Realizzai che era qualcosa di cui non avevamo ancora parlato.
«È venerdì, cara», disse Renée. «Non sei stata in te per un bel
po’».
Bella era sbalordita. «Venerdì?».
«Hanno dovuto riempirti di sedativi, piccola... eri piena di ferite».
«Lo so», concordò Bella con enfasi. Mi chiesi quanto dolore
provasse in quel momento.
«Per fortuna il dottor Cullen era lì. È davvero un brav’uomo...
anche se è molto giovane, certo. E somiglia più a un modello che a
un medico...».
«Hai conosciuto Carlisle?».
«E Alice, la sorella di Edward. Che cara ragazza».
«Lo è davvero!».
I pensieri assordanti di Renée si rivolsero di nuovo a me.
«Non mi avevi detto di avere amici così cari, a Forks».
Ottimi, davvero ottimi amici.
All’improvviso Bella gemette.
I miei occhi si aprirono involontariamente. Ma non mi avevano
tradito, anche Renée stava guardando Bella.
«Cosa ti fa male?», chiese.
«Tutto bene», la rassicurò Bella, sebbene sapessi che la
rassicurazione era rivolta a me. I nostri sguardi si incrociarono per
un istante prima che richiudessi gli occhi. «Devo solo ricordarmi di
restare immobile».
Renée si affannò inutilmente sul corpo inerte della figlia. Quando
Bella riprese a parlare, la sua voce era vivace. «Dov’è Phil?».
Renée era completamente svagata, ed era proprio quello il punto,
pensai.
Non le ho detto la bella notizia. Oh, ne sarà così felice.
«In Florida. Ah, Bella, non indovinerai mai! Proprio quando
stavamo per andarcene è arrivata la buona notizia!».
«Ha firmato un contratto?», chiese Bella. Potei sentire nella sua
voce un accenno di sorriso, sicura della risposta.
«Sì, come hai fatto a indovinare? Con i Suns, ci credi?».
«Grande», disse Bella, ma il suo tono sembrava un po’ vuoto, il
che mi fece pensare che non sapesse esattamente cosa fossero i
Suns.
«E vedrai che Jacksonville ti piacerà». Renée quasi scoppiava
dalla gioia. I suoi pensieri accompagnavano le parole urlando, ed ero
sicuro che quei pensieri avrebbero agito su Bella come agivano su
tutti gli altri. Cominciò a sproloquiare sul tempo, sull’oceano,
sull’adorabile casa gialla con le finiture bianche, senza mai
domandarsi se Bella sarebbe stata entusiasta quanto lei.
Conoscevo ogni aspetto dei progetti futuri di Renée. Mentre
aspettavamo che Bella si svegliasse, Renée, nella sua mente, si era
entusiasmata per quella notizia centinaia di volte. Sotto molti aspetti,
il suo progetto era esattamente la risposta che stavo cercando.
«Aspetta, mamma!», disse Bella, confusa. Immaginai che
l’entusiasmo di Renée la stesse soffocando come un pesante
piumone invernale. «Cosa stai dicendo? Non verrò in Florida. Io vivo
a Forks».
«Ma non c’è più motivo, sciocca», rise Renée. «Phil sarà molto
più presente, d’ora in poi. Ne abbiamo parlato molto e abbiamo
deciso che nelle trasferte faremo un compromesso: passerò metà
del tempo con te e metà con lui».
Renée attese che l’entusiasmo di Bella si palesasse.
«Mamma», disse Bella lentamente, «io voglio vivere a Forks. A
scuola mi sono ambientata, ho un paio di amiche...».
Gli occhi di Renée mi sbirciarono di nuovo.
«E Charlie ha bisogno di me», proseguì Bella. «È tutto solo,
lassù, e non sa neanche cucinare».
«Vuoi restare a Forks?», chiese Renée come se le parole non
avessero senso in quell’ordine. «Perché?».
Il ragazzo è il vero motivo.
«Te l’ho detto... la scuola, Charlie. Ahi!».
Di nuovo, mi ritrovai a guardare. Renée si librò su Bella, le sue
mani volevano toccarla, ma non sapevano dove. Finì per metterle
una mano sulla fronte.
«Bella, piccola mia, tu odi Forks», sembrava preoccupata che
Bella avesse potuto dimenticare.
La voce di Bella virò sulla difensiva. «Non è così male».
Renée fu toccata nel vivo.
«È per lui?», sussurrò. Era più un’accusa che una domanda.
Bella esitò, poi ammise: «C’entra anche lui. Sei riuscita a parlarci
un po’?».
«Sì. E vorrei discuterne con te».
«Di cosa?», rispose Bella con fare innocente.
«Penso che quel ragazzo sia innamorato di te», disse sottovoce.
«Lo penso anch’io».
Bella è innamorata? Quanto mi sono persa? Come ha potuto non
dirmelo? Cosa dovrei fare?
«E tu, cosa provi per lui?».
Bella sospirò, e poi disse con finto distacco: «Direi che sono
pazza di lui».
«Be’, sembra un bravo ragazzo, e santo cielo, è incredibilmente
bello. Ma sei così giovane, Bella...».
E sei troppo simile a Charlie. È troppo presto.
«Lo so, mamma», confermò Bella seraficamente. «Non
preoccuparti. È soltanto una cotta».
«Va bene», disse Renée.
Bene. Quindi la cosa non la sta prendendo troppo e non si sta
charlizzando. Oh, si è fatto tardi. Sono in ritardo.
Bella notò l’improvvisa distrazione di Renée.
«Devi andare?».
«Phil dovrebbe chiamare tra poco... Non sapevo che ti saresti
svegliata...».
Probabilmente a casa ora il telefono sta squillando. Avrei dovuto
dare il numero di qui.
«Non c’è problema, mamma». Bella non riuscì a nascondere
completamente il sollievo. «Non sarò sola».
«Torno presto. Ho dormito qui, sai», aggiunse Renée, ostentando
un comportamento da brava mammina.
«Oh, mamma, lascia perdere!», Bella era sconvolta all’idea che la
madre si sacrificasse per lei. Non era quello il modo in cui procedeva
il loro rapporto. «Puoi dormire a casa, non me ne accorgerei
neppure».
«Ero troppo nervosa», ammise Renée, abbastanza consapevole
da mostrarsi imbarazzata dopo essersi vantata. «Sono successe
brutte cose nel quartiere e non sto tranquilla a casa da sola».
«Brutte cose?», si preoccupò subito Bella.
«Qualcuno ha fatto irruzione nella scuola di danza dietro casa
nostra e l’ha incendiata: non è rimasto niente! E di fronte hanno
lasciato un’auto rubata. Ti ricordi quando andavi a lezione lì,
tesoro?».
Non eravamo i soli a rubare le macchine. Evidentemente il
segugio aveva parcheggiato vicino al lato sud della scuola di danza.
Non avevamo pensato di coprire i suoi reati oltre ai nostri. E poi
faceva gioco al nostro alibi, poiché quella macchina era stata rubata
un giorno prima del nostro arrivo a Phoenix.
«Ricordo», disse Bella con voce tremula.
Ebbi difficoltà a restare fermo. Anche Renée si commosse.
«Se c’è bisogno di me, posso restare».
«No, mamma. Andrà tutto bene. Edward starà qui con me».
Certo che lo farà. Bene, devo fare un po’ di bucato e
probabilmente svuotare il frigorifero. Quel latte è vecchio di mesi.
«Torno stasera».
«Ti voglio bene, mamma».
«Anch’io, Bella. Cerca però di stare più attenta a dove metti i
piedi, non voglio perderti».
Cercai di trattenere il sorriso che si formò sul mio volto.
Bea entrò per fare il suo giro, aggirando abilmente Renée per
raggiungere il monitor a cui era attaccata Bella.
Renée diede alla figlia un bacio sulla fronte, una pacca sulla
mano, e poi scappò via, ansiosa di comunicare a Phil la notizia che
Bella stava meglio.
«Sei un po’ agitata, piccola?», le chiese Bea. «Qui vedo un
bell’aumento di intensità».
«No, tutto bene», la rassicurò Bella.
«Dirò alla caporeparto che ti sei svegliata. Tra un minuto verrà a
controllarti».
Prima che la porta si richiudesse dietro Bea, mi ero già spostato
accanto a Bella.
Le sue sopracciglia erano sollevate, come se fosse preoccupata
e impressionata al contempo. «Hai rubato un’auto?».
Sapevo che l’auto a cui si riferiva era quella nel parcheggio, ma
non aveva torto. Tranne il fatto che si trattava di due macchine. «Era
una bella macchina, molto veloce», le dissi.
«Dormicchiato bene?», chiese.
Tutto il tono giocoso della nostra conversazione svanì. «Sì. È
stato interessante».
Il cambio di umore la confuse. «Che cosa?».
Fissai la montagnola che si ergeva sulla sua gamba, incerto su
cosa avrebbe visto nei miei occhi. «Sono sorpreso», dissi
lentamente. «Pensavo che la Florida... e tua madre... be’, pensavo
fosse ciò che volevi».
«Ma a te toccherebbe restare chiuso in casa tutto il giorno»,
sottolineò, cambiando argomento. «Potresti uscire soltanto di notte,
come un vero vampiro».
Il modo in cui pronunciò la frase mi fece sorridere, ma feci di tutto
per non farlo.
«Sarei rimasto a Forks, Bella. O in un posto del genere.
Ovunque, pur di non farti più soffrire».
Mi guardò con un’espressione vuota, come se le avessi risposto
in latino. Aspettai che elaborasse quello che le avevo detto. Poi il
suo cuore cominciò a battere più forte e andò in iperventilazione.
Sussultava a ogni respiro e i suoi polmoni espandendosi spingevano
contro le costole rotte.
Sul suo viso balenò un’eco di quella che avrebbe potuto essere
una futura Bella addolorata.
Era difficile da guardare. Volevo dire qualcosa per alleviare la sua
sofferenza, il suo terrore, ma quella era la cosa giusta da fare. Non
mi sembrava giusto; e poi non potevo affidarmi all’egoismo delle mie
emozioni.
Gloria entrò nella stanza, per attaccare il turno pomeridiano.
Esaminò Bella con occhio esperto.
Direi un sei. È bello però vedere i suoi poveri occhi aperti.
«Prendiamo un po’ di tranquillanti, piccola?», chiese gentilmente,
picchiettando sul flacone della flebo.
«No, no», rispose Bella, senza fiato. «Sto bene così».
«Non è il caso di essere coraggiosi, cara. È meglio che non ti
stressi troppo: hai bisogno di riposo».
Gloria attese che cambiasse idea, ma Bella scosse piano la testa
con un’espressione che era un misto di dolore e di sfida.
Gloria sospirò. «D’accordo. Suona il campanello quando ti senti
pronta».
Mi lanciò un’occhiata, non sapeva cosa pensare della mia veglia
costante. Poi guardò il monitor di Bella ancora una volta prima di
andare via.
Gli occhi di Bella erano ancora spaventati. Le misi le mani sul
viso, sfiorando appena la guancia sinistra piena di ferite. «Sssh,
Bella... calmati».
«Non lasciarmi», mi implorò, con voce rotta.
Era questo il motivo per cui da solo non ero abbastanza forte.
Come avrei potuto causarle altra sofferenza? Giaceva lì davanti a
me, come se l’avessero riattaccata con lo scotch, a lottare con il
dolore, e la sua unica preghiera era che restassi.
«No, te lo prometto», le dissi, mentre dentro di me specificavo
meglio la risposta. Non finché non sarai tutta intera. Non finché non
sarai pronta. Non finché non troverò le forze. «Adesso rilassati, così
chiamo l’infermiera con i tranquillanti».
Era come se potesse sentire i miei ammonimenti interiori. Prima –
prima della caccia e dell’orrore – le avrei promesso mille volte che
sarei rimasto. Era quello che avevo sempre detto e lei ci aveva
sempre creduto. Ma ora mi aveva guardato dentro. Il ritmo del suo
cuore non si normalizzava.
Le accarezzai le guance. «Bella, non andrò da nessuna parte.
Sarò al tuo fianco ogni volta che avrai bisogno di me».
«Giura che non mi lascerai», sussurrò. Le sue mani si spostarono
sulle costole. Doveva sentire dolore.
Era troppo fragile per questo, ora. Avrei dovuto saperlo, e
aspettare. Anche se Renée le aveva appena offerto una splendida
alternativa per una vita senza vampiro.
Le presi di nuovo il viso tra le mani, lasciando che l’amore
struggente che provavo per lei mi riempisse gli occhi, e mentii con
tutta l’esperienza accumulata in cento anni di quotidiani inganni.
«Lo giuro».
La tensione nei suoi arti si allentò. I suoi occhi non si staccavano
dai miei, ma dopo qualche secondo il cuore ricominciò a battere a un
ritmo normale.
«Va meglio?».
Aveva uno sguardo circospetto e la voce incerta quando rispose:
«Credo di sì».
Doveva aver intuito che stavo trattenendo qualcosa.
Avevo bisogno che mi credesse, il tempo necessario che si
ristabilisse. Non volevo essere responsabile di complicarle anche la
guarigione.
Così provai a comportarmi come se non avessi nulla da
nascondere. Come se fossi esasperato dalla sua risposta agitata.
Feci un’espressione seccata e mormorai: «Una reazione un po’
esagerata, non trovi?».
Lo dissi troppo velocemente; probabilmente non capì.
«Perché hai detto una cosa del genere, prima?», sussurrò, con
un tremore nella voce. «Sei stanco di dovermi salvare in
continuazione? Vuoi davvero che me ne vada?».
La sola idea che lei mi avesse potuto stancare mi fece venire
voglia di non smetterla più di ridere. O di piangere.
Ma sarebbe venuto il momento, ora ne ero certo, in cui avrei
dovuto convincerla del contrario. Così provai ad ammorbidire la mia
risposta, a renderla più tiepida, moderata.
«No, non voglio stare senza te, Bella, certo che no. Sii razionale.
Neanche doverti salvare è un problema. Ma il fatto è che sono io
stesso a metterti in pericolo... in fondo è colpa mia se sei qui».
La verità si era fatta strada alla fine della mia risposta.
Bella si incupì. «Sì, se non fosse stato per te non sarei qui...
viva».
Non riuscii a mantenere il tono tiepido. Sussurrai per nascondere
il dolore. «A malapena. Coperta di bende e cerotti, nemmeno in
grado di muoverti».
«Non parlo dell’ultima volta in cui ho rischiato di morire», mi
aggredì. «Ce ne sono altre, scegline una. Se non ci fossi stato tu,
sarei finita a marcire nel cimitero di Forks».
Allontanai l’immagine, e ritornai sul punto della questione, senza
permetterle di distogliere l’attenzione dal mio rimorso.
«Non è questa la parte peggiore, comunque. Non è stato averti
vista là, sul pavimento... sottomessa e picchiata». Cercai in tutti i
modi di mantenere il controllo della voce. «Non è stato temere che
fossi arrivato davvero troppo tardi. Nemmeno sentirti urlare di
dolore... o tutti quei ricordi insopportabili che porterò con me per
l’eternità. No, la parte peggiore è stata sentire... sapere che non
sarei riuscito a fermarmi. Essere convinto che sarei stato io a
ucciderti».
Si accigliò. «Ma non l’hai fatto».
«Avrei potuto. Senza sforzo».
Il suo cuore cominciò di nuovo a battere forte.
«Prometti», sibilò.
«Cosa?».
Mi stava fissando. «Lo sai, cosa».
Bella aveva capito la direzione che stavano prendendo le mie
parole. E poteva capire che cercavo di controllarmi per trovare la
forza di cui avevo bisogno. Dovevo ricordarmi che lei riusciva a
leggere nella mia mente mille volte meglio di quanto io non facessi
con la sua. Dovevo mettere via il mio bisogno di confessare. La cosa
più importante ora era la sua guarigione.
Provai a dire solo cose vere, di modo che non leggesse le mie
emozioni come prima. «A quanto pare non sono abbastanza forte da
poterti stare lontano, perciò immagino che alla fine farai a modo
tuo... anche a costo di farti uccidere».
«Bene». Ma capivo che non era convinta. «Hai detto che ti sei
fermato... adesso voglio sapere perché».
«Perché?», feci eco, senza intonazione.
«Perché l’hai fatto. Perché non hai lasciato che il veleno entrasse
in circolo? A quest’ora sarei uguale a te».
Io non glielo avevo mai spiegato. Avevo accuratamente girato
intorno alla questione. Sapevo che non aveva scoperto questa verità
su Internet. Vidi rosso, e al centro di questo rosso la faccia di Alice.
«Sono la prima ad ammettere di non essere esperta di relazioni».
Le sue parole vennero fuori velocemente, era preoccupata di quello
che avrebbero rivelato e provava a distrarmi. «Ma mi sembra
quantomeno logico... tra un uomo e una donna deve esserci una
certa parità... per esempio, non può toccare sempre a uno solo dei
due salvare l’altro. Devono potersi salvare a vicenda».
C’era del vero in quello che aveva detto, ma stava perdendo di
vista il punto centrale. Non avrei potuto mai essere uguale a lei. Non
c’era modo di tornare indietro. E quella era l’unica uguaglianza che
l’avrebbe lasciata indenne.
Incrociai le braccia sul bordo del materasso e vi poggiai su il
mento. Era il momento di placare il fervore di quella discussione.
«Ma tu mi hai salvato», le dissi con calma. Ed era vero.
«Non posso essere sempre Lois Lane», mi avvertì. «Voglio
essere anche Superman».
Cercai di mantenere la mia voce morbida, rassicurante, ma
dovetti distogliere lo sguardo da lei. «Non sai cosa mi stai
chiedendo».
«Invece credo di sì».
«Bella, non te ne rendi conto», mormorai, con un tono ancora
delicato. «Ci penso da quasi novant’anni e non mi sono ancora fatto
un’idea».
«Vorresti che Carlisle non ti avesse salvato?».
«No, non è così». Non l’avrei mai incontrata se lui non l’avesse
fatto. «Ma la mia vita era giunta al termine. Non stavo rinunciando a
niente». Se non all’anima.
«La mia vita sei tu. Soffrirei davvero soltanto se perdessi te».
Stava descrivendo per filo e per segno la nostra relazione dal mio
punto di vista.
E se ti implorasse? Mi tornò in mente il sussurro di Rosalie.
«Non posso farlo, Bella, e non lo farò».
«Perché no?», la sua voce era ruvida, alterata della rabbia. «E
non dirmi che è troppo difficile! Dopo oggi, o qualche giorno fa,
quando è stato... be’, dopo tutto questo, dovrebbe essere una
passeggiata!».
Mi sforzai di mantenere la calma.
«E il dolore?», le ricordai. Non volevo pensarci. Sperai che
nemmeno lei volesse.
Sbiancò.
Era dura guardarla. Lottò con i ricordi per qualche secondo, poi
sollevò il mento.
«È un problema mio. Posso cavarmela».
«A volte capita di trascinare il coraggio fino al punto in cui diventa
pazzia», mormorai.
«Poco importa. Tre giorni. Cosa vuoi che siano».
Alice! Probabilmente era un bene che non sapessi dove si
trovasse in quel momento. Mi resi conto che era voluto. Mi avrebbe
evitato finché non mi fossi calmato, così era. Avrei voluto chiamarla
e dirle che cosa pensavo di questa vile fuga, ma ci avrei scommesso
che non mi avrebbe risposto.
Mi riconcentrai. Se Bella voleva continuare questa discussione io
avrei continuato a sottolineare le cose che non aveva preso in
considerazione.
«E Charlie?», chiesi all’improvviso. «Renée?».
Non era facile prendere anche questo alla leggera. Passarono
diversi minuti prima che trovasse una risposta. Aprì la bocca per
cominciare a parlare, ma poi la richiuse di nuovo. Non distolse mai
gli occhi da me, ma il tono di sfida che c’era nel suo sguardo
lentamente si trasformò in sconfitta.
Alla fine mentì. Era ovvio, come sempre.
«Senti, nemmeno quello è un problema. Renée ha sempre scelto
ciò che le sembrava più giusto; non si opporrebbe se mi comportassi
nello stesso modo. E Charlie si riprenderebbe, è flessibile, e si era
abituato a stare da solo. Non posso badare a loro per sempre. Io
voglio vivere la mia vita».
«Appunto», dissi. Il tono della mia voce era duro. «E non sarò io
a farla terminare».
«Se aspettavi che fossi sul letto di morte, sappi che ci sono stata
eccome!».
Attesi di essere sicuro che il tono della mia voce fosse pacato.
«Sì, però ti rimetterai».
Prese un respiro profondo, fece una smorfia e poi parlò
lentamente, a voce bassa. «Invece no».
Mica pensava che le stessi mentendo sulle sue condizioni?
«Certo che sì», dissi seriamente. «Al massimo ti resteranno un paio
di cicatrici...».
«Ti sbagli. Morirò».
Non riuscii a mantenere la calma. Avvertii salire la tensione nella
mia voce. «Sul serio, Bella. Tra qualche giorno ti dimetteranno. Due
settimane al massimo».
Mi fissò abbattuta. «Forse non morirò subito... ma prima o poi
succederà. Ogni giorno, ogni minuto, quel momento si avvicina. E
diventerò vecchia».
L’ansia si tramutò in disperazione non appena compresi il
significato delle sue parole. Pensava che era una cosa che non
avessi considerato? Che mi fossi perso in qualche modo questo fatto
così eclatante, che non notassi i minuscoli cambiamenti nel suo
volto, ancor più evidenti se confrontati alla mia rigida e costante
immutabilità? Che, pur senza il dono di Alice, non fossi in grado di
vedere quell’ovvio futuro?
Mi presi la faccia tra le mani. «È così che succederà. Come
dovrebbe succedere. Come sarebbe successo se io non fossi
esistito... e io non sarei dovuto esistere».
Sbuffò.
Sollevai gli occhi e fui sorpreso dal cambiamento del suo umore.
«Che stupidaggine», disse. «Mi sembra di sentire il vincitore di
una lotteria che, dopo avere riscosso il premio, dice: “Ehi, torniamo
indietro alla normalità, è meglio così”. Non me la dai a bere, sai».
«Sono tutt’altro che il premio di una lotteria», borbottai.
«È vero. Sei molto meglio».
Alzai gli occhi al cielo, ma poi cercai di recuperare un certo
contegno.
Non fu una cosa buona per lei, come attestò il monitor.
«Bella, non voglio più parlarne. Mi rifiuto di condannarti a
un’eternità di notti e buio, punto e basta».
Non appena pronunciai quelle parole mi resi conto di quanto
suonassero sprezzanti. Sapevo come avrebbe risposto prima di
socchiudere gli occhi.
«Se pensi che possa finire qui, vuol dire che non mi conosci
bene. Non sei l’unico vampiro che conosco», mi ricordò.
Vidi di nuovo rosso. «Alice non oserebbe».
«Alice ha già visto tutto, vero?», disse Bella, sicura di sé, anche
se, a quanto pareva, Alice aveva tenuto per sé certe cose. «Per
questo ce l’hai con lei. Sa che un giorno... diventerò come te».
«Si sbaglia», questa volta ero io a essere sicuro di me. Prima
avevo evitato di parlare di Alice. «Se è per questo, ti ha anche vista
morta, ma non è accaduto».
«Per quel che mi riguarda, non scommetterò mai contro di lei».
Mi fissò, nuovamente con aria di sfida. Avvertii i tratti del mio viso
irrigidirsi e cercai di addolcirli. Era stata una perdita di tempo, e ce
n’era rimasto così poco.
«Dunque la conclusione è...?», domandò esitante.
Sospirai, e poi risi senza troppa convinzione. «Mi sembra che si
chiami impasse».
Un’impasse che porta a un’ineluttabilità.
Il suo pesante sospiro fece eco al mio. «Ahi!».
Guardai la sua faccia e poi l’interfono.
«Come ti senti?».
«Bene», disse in maniera poco convincente.
Le sorrisi. «Non ti credo».
Spinse il labbro in fuori. «Non ho intenzione di rimettermi a
dormire».
«Hai bisogno di riposo. Tutto questo discutere non ti fa bene».
Colpa mia, ovviamente, sempre colpa mia.
«Allora arrenditi», suggerì.
Premetti il pulsante. «Bel colpo».
«No!», protestò.
«Sì?», la voce di Bea risuonò debole attraverso il piccolo
altoparlante.
«Credo che siamo pronti per un’altra dose di tranquillanti», dissi.
Bella si accigliò e poi fece una smorfia.
«Mando un’infermiera».
«Non li prendo», minacciò Bella.
Guardai espressamente la sacca della flebo. «Non credo che ti
chiederanno di ingoiare nulla».
Il suo cuore riprese a battere forte.
«Bella, tu stai male. Hai bisogno di rilassarti per guarire. Perché
sei così ostinata? Non serviranno altri aghi né cose del genere».
Sul suo viso tutta la testardaggine era scomparsa e aveva
lasciato posto al turbamento. «Non ho paura degli aghi, ho paura di
chiudere gli occhi».
Allungai la mano per prenderle il viso e le sorrisi con totale
sincerità. Non era difficile. Tutto quello che volevo – quello che
avevo sempre voluto – era solo guardarla eternamente negli occhi.
«Ti ho detto che non andrò da nessuna parte. Non avere paura. Fino
a quando lo vorrai, io starò qui».
Finché non sarai guarita, finché non sarai pronta. Finché non
troverò le forze necessarie.
Sorrise nonostante il dolore. «Stai parlando dell’eternità, lo sai».
«Oh, te la farai passare...», la presi in giro. «È soltanto una
cotta».
Provò a scuotere la testa, ma dovette arrendersi dopo aver fatto
una smorfia di dolore. «Quando Renée se l’è bevuta ci sono rimasta
quasi male. Sai bene che non è così».
«È il bello di essere umani», dissi con calma. «Le cose
cambiano».
«Non trattenere il respiro, mentre aspetti che accada».
Avrei dovuto mettermi a ridere. Lei sapeva quanto a lungo potevo
trattenere il respiro.
Gloria fece irruzione nella stanza con la siringa in mano.
Ha bisogno di darle un po’ di pace e tranquillità, poveretta.
Mi allontanai prima che potesse finire di dire «Mi scusi». Mi
appoggiai al muro, dall’altra parte della stanza, per fare spazio a
Gloria. Non volevo innervosirla al punto da farmi cacciare dalla
stanza. Non ero sicuro di dove fosse Carlisle.
Bella mi fissava con ansia, preoccupata che potessi uscire subito.
Provai ad assumere un’espressione rassicurante. Volevo essere lì
quando si sarebbe svegliata. Finché aveva bisogno di me.
Gloria iniettò l’antidolorifico nel tubo. «Ecco fatto, cara. Adesso
starai meglio».
Il «grazie» di Bella non fu così riconoscente.
«Così dovrebbe andare», mormorò Gloria.
Mi lanciò un’occhiataccia, ma finsi di fissare la finestra. Poi
uscendo chiuse delicatamente la porta alle sue spalle.
Tornai a guardare Bella, accogliendo nella mia mano il lato illeso
del suo viso.
«Resta», biascicò.
«Sì, te lo prometto», affermai. Si stava assopendo e sentivo di
poterle dire la verità. «Come ho detto, finché lo desideri... finché è la
cosa migliore per te».
Sospirò, solo in parte cosciente. «...’n è la stessa cosa».
«Non preoccuparti di questo adesso, Bella. Possiamo
ricominciare a discutere quando ti svegli».
Gli angoli della sua bocca si arricciarono in un debole sorriso.
«...’a bene».
Mi chinai su di lei e le baciai la tempia. Poi le sussurrai
all’orecchio: «Ti amo».
«Anch’io», disse in un respiro.
Risi senza entusiasmo. «Lo so». Era questo il problema.
Lottò contro l’effetto del sedativo, voltandosi dalla mia parte...
cercandomi.
Baciai dolcemente le sue labbra illividite.
«Grazie».
«Di niente».
«Edward?». Riusciva a malapena a dire il mio nome.
«Sì?».
«Io scommetto su Alice», mormorò.
Il suo viso si rilassò completamente, mentre sprofondava in uno
stato di incoscienza.
Affondai la faccia nell’incavo del suo collo e respirai la sua
essenza bruciante, desiderando di nuovo, come avevo fatto all’inizio,
di poter sognare insieme a lei.
EPILOGO: UN’OCCASIONE

La trattennero in ospedale ancora per sei giorni. Sapevo come a


lei il tempo sembrava non passare mai. Era ansiosa di riprendere la
sua vita normale, libera dai dottori che la picchiettavano e
punzecchiavano, niente più aghi nella pelle.
Per me invece, malgrado il costante tormento di vederla in quel
letto d’ospedale, di sapere che soffriva e che non potevo fare nulla
per alleviare minimante la sua sofferenza, quei giorni volarono via.
Erano il tempo a me garantito; sarebbe stato infatti indiscutibilmente
sbagliato abbandonarla mentre era ancora così debilitata.
Desideravo che ognuno di quei secondi si allungasse, anche se
facevano male. Loro però correvano via da me.
Odiavo i minuti in cui dovevo allontanarmi da lei, mentre i dottori
si consultavano con Bella e Renée, anche se era abbastanza facile
origliare dalle scale. A volte, però, forse era meglio; non riuscivo
sempre a controllare le mie espressioni.
Ad esempio, il primo giorno dopo il suo risveglio, quando il dottor
Sadarangani esternò il proprio entusiasmo per le radiografie, felice di
come si fossero ricomposte le fratture e di come sarebbero guarite
pienamente, l’unica cosa che riuscii a visualizzare fu il piede del
segugio che piombava sulla sua gamba. Tutto ciò che riuscii a
sentire fu lo scricchiolio delle sue ossa che si spezzavano. Fu un
bene che in quel momento nessuno potesse vedere il mio viso.
Bella si era accorta che la madre era irrequieta – ansiosa per un
incarico di supplenza a lungo termine presso la scuola elementare di
Jacksonville, che sarebbe stato assegnato a qualcun altro se lei non
si fosse resa presto disponibile –, ma era comunque determinata a
stare con la figlia finché fosse rimasta a Phoenix. Bella non ebbe
difficoltà a convincerla che stava benissimo e che quindi Renée
poteva tornarsene in Florida. Sua madre partì due giorni prima di
noi.
Bella parlava spesso al telefono con Charlie, soprattutto dopo la
partenza di Renée e, ora che il peggio era passato, ora che aveva
avuto modo di riflettere sull’accaduto sotto tutti i punti di vista, lui
iniziava a essere arrabbiato. Non con Bella, certo che no. La sua
rabbia era rivolta nella direzione giusta. Dopotutto, nulla di tutto
questo sarebbe accaduto se non fosse stato per me. A complicargli
un po’ le cose c’era l’amicizia che stava nascendo con Alice, ma ero
sicuro di ciò che al mio rientro avrei letto nella sua mente riservata.
Con Bella, cercai di evitare tutti gli argomenti più seri. La cosa si
rivelò meno complicata del previsto. Di rado eravamo soli – persino
dopo la partenza di Renée, al suo posto subentrò un flusso continuo
di infermieri e dottori – e spesso Bella giaceva in un sopore indotto
dai farmaci. Sembrava che a renderla contenta bastasse il semplice
fatto che io le stessi vicino. Non mi aveva più chiesto rassicurazioni.
Ma a volte ero certo di intravedere il dubbio nei suoi occhi. Avrei
voluto poterlo cancellare, poter tenere fede alle mie promesse, ma
era meglio tacere piuttosto che mentire ancora.
E poi, davvero in un soffio, arrivò il momento di organizzare il
ritorno a casa.
Il programma di Charlie prevedeva che Bella e Carlisle volassero
fino a Forks, mentre io e Alice avremmo riportato il pick-up nello
Stato di Washington. Carlisle gestì bene la telefonata di Charlie; non
aveva bisogno di parlare con me per sapere come la pensassi.
Convinse Charlie che io e Alice avevamo già perso troppi giorni di
scuola, un argomento a cui Charlie non poté obiettare. Saremmo
quindi tornati tutti insieme con l’aereo. Carlisle avrebbe fatto spedire
il pick-up. Assicurò a Charlie che la spedizione non sarebbe stata
difficile da organizzare e per nulla costosa.
Fu così diverso tornare allo stesso aeroporto dove era iniziato il
mio incubo peggiore. Partimmo dopo il tramonto, per cui il soffitto a
vetri non costituì per noi una minaccia. Mi chiesi cosa vedesse Bella
mentre posava lo sguardo su quegli ambienti enormi; ripensava
anche lei all’angoscia e al terrore dell’ultima volta che c’era stata?
Senza più la necessità di correre, ci muovevamo lentamente, con
Alice che spingeva Bella sulla sedia a rotelle così che io potessi
camminarle accanto, stringendole la mano. Come avevo previsto, a
Bella non piacque aver bisogno della sedia e tantomeno gradì gli
sguardi incuriositi che riceveva. Di quando in quando lanciava delle
occhiatacce alla sua ingessatura, bianca e massiccia, come se
volesse farla a pezzi con le sue mani, ma non se ne lamentava mai
ad alta voce.
Dormì durante il volo, mormorando tranquillamente il mio nome
nei suoi sogni. Sarebbe stato così facile ignorare il passato e
abbandonarmi a rivivere quel nostro unico giorno perfetto, indugiare
in un tempo in cui il suono del mio nome sulle sue labbra non ardeva
di colpa e presagi. Ma la separazione che incombeva su di noi era
troppo concreta per concedere spazio alle fantasie.
Sebbene fossero le ventitré passate e benché lui avrebbe
impiegato circa quattro ore per tornare a Forks, Charlie ci venne
incontro all’aeroporto SeaTac. Carlisle e Alice avevano cercato di
dissuaderlo, ma io comprendevo le sue ragioni. E malgrado i suoi
pensieri fossero nebulosi come erano sempre stati, era ovvio che
non mi sbagliavo. Alla fine aveva trovato il colpevole giusto.
In lui non covava alcun oscuro sospetto che fossi stato io a
spingerla giù dalle scale, tuttavia aveva la sensazione che, se non
l’avessi indotta io, Bella non avrebbe mai agito in quella maniera
così impulsiva. Per quanto sbagliata fosse l’idea che si era fatto sui
motivi che avevano portato la figlia a Phoenix, la sua congettura di
fondo era corretta. Fondamentalmente, la colpa era mia.
Avrebbe dovuto essere un lungo viaggio quello al seguito
dell’auto di pattuglia di Charlie, procedendo nel rispetto più assoluto
dei limiti di velocità, e invece il tempo continuò a fuggire via troppo
rapido. Anche il ritrovarmi momentaneamente separato da lei non
rallentò in alcun modo lo scorrere di quelle ore.
Chi prima, chi dopo, alla fine tutti ci adattammo alla nuova
routine. Alice aveva assunto il ruolo di infermiera e di dama di
compagnia, e Charlie non riusciva a esprimerle appieno tutta la
propria gratitudine. Anche Bella, seppure nell’imbarazzo di aver
bisogno che qualcuno la aiutasse nelle sue necessità più intime ed
essenziali, era grata che quel qualcuno fosse Alice. Era come se,
durante i pochi giorni trascorsi a Phoenix, la visione di Alice su Bella
come sua migliore amica si fosse avverata completamente. Si
sentivano davvero a proprio agio l’una con l’altra – condividevano
già un mucchio di battute e confidenze intime –, come se anziché da
poche settimane fossero grandi amiche da anni. Talvolta Charlie le
osservava confuso, domandandosi come mai Bella non gli avesse
mai rivelato il loro stretto legame, ma si sentiva talmente grato, come
pure affascinato, nei confronti di Alice, che evitava di fare domande
inquisitorie. Era contento così, era il modo migliore per accudire una
figlia gravemente ferita. Alice era spesso a casa degli Swan, quasi
quanto me, soltanto che il tempo che lei vi trascorreva era molto più
visibile agli occhi di Charlie.
Bella era stata combattuta su cosa fare con la scuola.
«Da una parte», mi aveva detto, «vorrei che le cose tornassero
alla normalità. E non voglio rimanere ancora più indietro». Era stato
di primissimo mattino, il secondo giorno che eravamo tornati –
durante il primo aveva dormito così tanto che i suoi orari si erano
invertiti. «Dall’altra però, il pensiero che tutti mi fissino sopra
quell’affare...». Lanciò un’occhiata minacciosa alla sedia a rotelle
che, innocente, era piegata accanto al letto.
«Se potessi, ti porterei io a scuola, ma...».
Emise un sospiro. «Ma questo non aiuterebbe a non avere tutti gli
occhi puntati addosso».
«Probabilmente no. Però, anche se tu non ti sei mai voluta
rendere conto che io faccio davvero paura, ti prometto che per gli
occhi puntati addosso potrò fare qualcosa».
«E come?».
«Lo vedrai».
«Adesso sono curiosa. Allora, vada per il ritorno a scuola il prima
possibile».
«Tutto quello che vuoi tu».
Dentro di me ebbi un sussulto nel pronunciare quelle parole.
Avevo fatto attenzione a non dire nulla che potesse riaprire il
discorso fatto in ospedale, ma questa volta lei lasciò cadere il mio
commento.
In effetti, come me, anche lei sembrava non avere intenzione di
parlare del futuro. Pensai che probabilmente era questo il motivo per
cui pareva allettata dall’idea che le cose “tornassero alla normalità”.
Forse sperava che potessimo scordarci di quell’episodio, come se
fosse stato solo un brutto capitolo, anziché il presagio dell’unica
conclusione possibile.
Fu facile tenere fede a quella piccola promessa. Il primo giorno
che rientrò a scuola, mentre la spingevo da una classe all’altra sulla
sedia a rotelle, non dovetti fare altro che guardare negli occhi
chiunque dimostrasse un interesse eccessivo. Un leggero
inarcamento degli occhi, una minuscola increspatura del labbro
superiore e tutti i curiosi erano prontamente indotti a fissare altrove.
Bella rimase scettica. «Non sono convinta che tu stia facendo
davvero qualcosa. Semplicemente, sono io a non essere poi così
interessante. Non mi sarei dovuta preoccupare tanto».
Non appena Carlisle le diede il permesso, sostituì l’ingessatura
intera con un gesso da carico e un paio di stampelle. Io preferivo la
sedia a rotelle. Era dura starla a guardare mentre si sforzava sulle
grucce senza poterle offrire aiuto, ma lei sembrava sollevata di
essere nuovamente in grado di muoversi secondo la propria volontà.
Passati pochi giorni, divenne meno goffa.
La storia che iniziò a circolare a scuola era sbagliata sotto tutti i
punti di vista. Per bocca dei vice di Charlie, che per primi avevano
diffuso in città la notizia, tutti avevano saputo della rovinosa caduta
di Bella attraverso il finestrone dell’albergo. In compenso, Charlie
aveva mantenuto un riserbo maggiore sul perché Bella si trovasse a
Phoenix. A colmare la lacuna aveva quindi provveduto Jessica
Stanley: Bella mi aveva portato a Phoenix a conoscere sua madre.
Jessica aveva insinuato che questo fosse accaduto perché la nostra
relazione stava diventando seria. La sua versione fu accolta da tutti;
la maggior parte aveva già dimenticato da dove avesse avuto origine
la diceria.
Jessica dovette ricorrere alla propria inventiva per creare quel
pettegolezzo, visto che di rado Bella trascorreva molto tempo con lei
oltre l’orario di lezione. Non fu poi così diverso rispetto a quando,
proprio all’inizio di tutto, avevo bloccato il furgoncino; quando voleva,
Bella sapeva tenere la bocca sigillata. E ora stava seduta al nostro
tavolo, con me, Alice e Jasper. Anche senza Emmett e Rosalie –
loro adesso facevano finta di mangiare all’aperto, nascondendosi in
auto quando la luce del sole diventava una minaccia –, nessuno
degli umani si arrischiava ad affrontare la nostra presenza per unirsi
a Bella. Non mi faceva piacere che si stesse allontanando dai suoi
vecchi amici, soprattutto da Angela, ma pensai che alla fine le cose
sarebbero tornate a come erano prima che io mi insinuassi nella sua
vita.
Una volta che noi ce ne saremmo andati.
Benché il tempo non fosse mai davvero rallentato, quella routine
iniziò a sembrare la normalità e io dovetti tenere alzata la guardia. A
volte sgusciavo in camera sua; lei mi sorrideva e io venivo investito
dalla sensazione di essere nel giusto, che fossimo fatti per stare
l’uno con l’altra. Era arduo tenere a mente che quella sensazione,
così forte e pura, era una bugia. Arduo finché lei non girava il busto
con un movimento troppo brusco e non faceva una smorfia di dolore
per le costole ancora in via di guarigione, oppure finché non
poggiava il piede con troppa violenza e non rimaneva senza fiato, o
ancora finché non muoveva appena il polso e la nuova cicatrice,
pallida e lucida, sul palmo della sua mano non rifletteva la luce.
Bella guarì e il tempo passò. Io mi aggrappavo a ogni istante.
Alice se n’era uscita con una nuova pensata che, secondo lei,
avrebbe interrotto piacevolmente quella routine. Sapendo già quanto
Bella avrebbe disapprovato, all’inizio mi ero opposto. Poi però, più
andavo avanti a rifletterci, più le cose iniziavano ad apparirmi da una
prospettiva diversa.
Non quella di Alice. Probabilmente, le sue motivazioni erano
dettate almeno per un buon settanta per cento dall’egoismo; lei
adorava i cambi di look. Nelle mie invece l’egoismo si riduceva, a
parer mio, a un dieci per cento. In effetti sì, era un ricordo che volevo
avere. Con me stesso, lo avevo ammesso. Tuttavia, il mio scopo
principale era quello di modificare un particolare capitolo del futuro di
Bella. Fu dunque per il suo bene che assecondai il piano bizzarro di
Alice.
Avevo avuto una visione; non come quelle di Alice, non una
profezia vera e propria. Era piuttosto uno scenario probabile. Quella
visione produsse in me una sorta di dolore intenso, che si propagò in
tutto il corpo; era a metà tra l’agonia e il piacere.
Immaginai Bella di lì a vent’anni, avviata con grazia verso la
mezza età. Come la madre, anche lei avrebbe conservato
l’immagine della giovinezza più a lungo della maggior parte degli
umani e le rughe, quando fossero comparse, non avrebbero
offuscato la sua bellezza. Me la figurai in una qualche località
assolata, in una casa semplice ma graziosa e piena di disordine,
sempre che nel frattempo non avesse cambiato profondamente le
sue abitudini. Magari un figlio, con i capelli ricci e il sorriso di Charlie,
e una figlia che, come Bella, aveva preso dalla madre.
Non cercai di immaginare il padre, o di pensare a come il suo
viso si sarebbe potuto riflettere in quello dei bambini; era già fin
troppo doloroso.
Un giorno, quando fossero diventati adolescenti, ma più giovani
di Bella adesso, magari sulla scia di una commedia sentimentale per
ragazzi vista in TV (e questo anche se Alice mi aveva annunciato
che nel decennio a venire la fruizione dei media sarebbe cambiata
profondamente; lei infatti stava aspettando la costituzione di alcune
compagnie per investirvi), uno dei figli le avrebbe chiesto come era
stato il suo ballo dell’ultimo anno.
Bella avrebbe sorriso dicendo: «A dire il vero, non amavo molto
ballare. Perciò non sono andata al ballo di fine anno». I figli
sarebbero rimasti quindi delusi. La madre non aveva mai nulla di
carino da raccontare sulla sua adolescenza. Aveva mai fatto
qualcosa di interessante?
Anziché aneddoti leggeri e divertenti, Bella avrebbe avuto da
condividere solo una manciata di esperienze normali, soltanto
segretezza e pericoli, e racconti talmente bizzarri che un giorno,
forse, si sarebbe domandata se non fossero stati unicamente frutto
della sua immaginazione.
Oppure... quando sua figlia glielo avesse chiesto, forse Bella
sarebbe scoppiata a ridere, lo sguardo distante.
«È stato pazzesco», avrebbe detto. «In realtà, io non ci volevo
andare; lo sai, non sono una ballerina provetta. Ma quella pazza
della mia migliore amica mi aveva sequestrata per rifarmi il look e il
mio ragazzo mi ci ha portata nonostante le mie proteste. Alla fine,
non è stato poi così male. Sono felice di esserci andata.
Quantomeno per ammirare le decorazioni: sembravano quelle di
Carrie – Lo sguardo di Satana in versione economica. No, non puoi
vedere Carrie. Non ancora».
Fu dunque per quel momento nel futuro di Bella che diedi ad
Alice il mio consenso a portare avanti il suo piano audace e, per certi
versi, importuno. Più che darle la mia approvazione, le offrii il mio
aiuto e la mia complicità.
E fu così che mi ritrovai in fondo alle scale con indosso uno
smoking – scelto da Alice, ovviamente; perlomeno, non mi toccò
dovermi preoccupare di nessun acquisto – e con in mano un
bouquet di fresie, in attesa della grande entrata in scena orchestrata
da Alice.
Io avevo già visto tutto nella sua testa, ma per lei questo non
contava. Il ballo di fine anno degli umani era una cerimonia alquanto
teatrale, e lei voleva celebrarne ogni trito passaggio.
Alice aveva avvertito Charlie che Bella avrebbe fatto tardi,
mettendo in chiaro che lei, Alice, sarebbe stata parte integrante della
serata, dall’inizio fino alla fine. Charlie non contestava mai nulla in
cui fosse coinvolta anche lei. Spesso, aveva invece da ridire con ciò
che richiedeva la mia, di presenza, anche se in genere lo faceva
solo nella sua mente.
Rimasi in ascolto mentre Alice aiutava Bella che zoppicava verso
le scale, Alice la cingeva con un braccio intorno alla vita, Bella
teneva un braccio sulla spalla di Alice, abbarbicandosi a lei. Ormai
Bella era diventata abbastanza abile con le grucce, ma per quella
serata Alice gliele aveva requisite. Non sapevo quanto l’avesse fatto
per ragioni estetiche e quanto per impedire a Bella ogni tentativo di
fuga. Poi, arrivate a qualche passo dal margine delle scale, Alice si
divincolò dalla presa di Bella e la invitò a continuare da sola.
«Cosa?», protestò Bella. «Come faccio a camminare in questo
coso».
«Sono solo pochi passi. Ce la farai. Io non sono ancora pronta,
rovinerei l’immagine».
«Che immagine?». La voce di Bella era salita di mezza ottava.
«Sarà meglio che nessuno si metta a farmi una fotografia!».
«Nessuno scatterà foto. Intendevo dire l’immagine mentale.
Calmati».
«Immagine mentale? E chi la vedrà?».
«Soltanto Edward».
Bene, ha funzionato. Alice si era accorta di come gli occhi di Bella
si fossero illuminati al solo menzionare il mio nome, e di come si
fosse mossa con un fervore del tutto assente durante l’intera fase
del trucco e dell’acconciatura. Di questo era un po’ seccata.
Bella comparve muovendosi lentamente e in modo maldestro,
mentre con gli occhi cercava me.
Avevo già visto il vestito nella testa di Alice, ma non in quel modo.
Lo chiffon leggero era increspato e plissettato così da conferirle
un’aria di semplicità, ciononostante aderiva alla sua pelle in un modo
da far perdere ogni concentrazione. Il modello lasciava scoperte le
sue spalle d’alabastro, per poi ricadere con grazia e scendere giù
dritto lungo le braccia andando a stringersi sui polsi. Il corpetto del
vestito era raccolto in una linea asimmetrica che dava al suo corpo
la silhouette sottile di una clessidra.
Ovviamente, era di un blu intenso; Alice aveva notato la mia
preferenza.
A un piede, Bella indossava una scarpa di satin blu con un tacco
a spillo tenuto fermo da lunghi nastrini avvolti alla gamba. All’altro
piede, l’ingessatura per camminare, ormai sudicia. Fui alquanto
stupito dal fatto che Alice non l’avesse colorata di blu per abbinarla
alla scarpa.
Rimasi a fissare Bella mentre lei, con gli occhi sgranati, fissava
me.
«Caspita!», disse.
«Davvero», concordai, soffermandomi a esaminare con uno
sguardo eloquente il suo vestito.
Anche lei gli diede un’occhiata e arrossì. Poi scrollò le spalle
come a dire: Be’, sono in un abito da ballo.
Sapevo che Alice avrebbe gradito che Bella scendesse le scale
con un portamento maestoso, ma si era anche già rassegnata al
fatto che la sua non fosse altro che una fantasia. Come un fulmine
salii le scale per raggiungerla. Dopo averle appuntato i fiori tra i
capelli – a tal fine, Alice aveva già lasciato libero un punto in quella
cascata di riccioli –, sollevai Bella tra le mie braccia. Lei ormai si era
abituata. Quando non c’erano umani che potessero vederci, la
portavo in tanti posti.
In quel modo saremmo stati più veloci, chiaro, ma l’avevo fatto
anche semplicemente per sentire il sollievo di averla tra le mie
braccia. Per sentire che era protetta e al sicuro per quel momento.
«Divertitevi!», esclamò Alice tornando di corsa in camera sua.
Era già pronta nel suo vestito prima ancora che fossi arrivato in
fondo alle scale con Bella. Riuscivo a sentire Rosalie e gli altri che la
stavano aspettando – alcuni pazientemente, altri un po’ meno – in
garage. Alice si era attardata per farsi due vistose righe con
l’eyeliner.
Portai Bella fino alla Volvo e la sistemai con cura sul sedile del
passeggero, assicurandomi che tutto lo chiffon e i nastrini di satin
non rimanessero incastrati nella portiera. Ero sorpreso del suo
silenzio. Tanto di adesso quanto di prima. Con Alice si era lamentata
per il fatto di doversi truccare, ma non aveva mai espresso alcuna
obiezione in merito al ballo.
Montai al posto del guidatore e ci dirigemmo verso il vialetto.
«Posso sapere quando ti prenderai la briga di rivelarmi cosa sta
succedendo?», domandò assumendo un tono più infastidito di
quanto non lo fosse la sua espressione.
Scrutai il suo viso, in cerca dei segni di una battuta. A parte il finto
atteggiamento scontroso, sembrava seria. Non riuscivo a credere
che fosse davvero così all’oscuro di tutto.
«È assurdo che tu non abbia ancora capito», le risposi con un
sorriso, stando al suo gioco. Perché non poteva che essere uno
scherzo.
Lei tirò un respiro improvviso e io la guardai per comprenderne il
motivo.
Mi stava fissando.
«Ti ho informato del fatto che sei molto carino, vero?», chiese.
Ritenni che il suo «caspita!» di prima fosse verosimilmente
riuscito nell’intento.
«Sì».
Aggrottò ancora la fronte, riassumendo la sua aria brontolona.
«Non verrò mai più da nessuna parte con te, se mi toccherà di
nuovo farmi trattare da Alice come Barbie-cavia-da-laboratorio».
Prima che potessi difendere o condannare Alice, in tasca mi
squillò il telefono. Lo estrassi velocemente, pensando che fosse
Alice con qualche altra istruzione da darmi, e invece era Charlie.
In genere, il padre di Bella non mi chiamava mai. Perciò risposi
con un po’ di apprensione. «Pronto, Charlie».
«Charlie?», sussurrò Bella, anche lei divenuta ansiosa.
Charlie si era schiarito la voce, e all’altro capo della linea riuscivo
ad avvertire il suo impaccio.
«Uh, ehi, Edward. Mi spiace interrompere la tua, uhm, serata, ma
non sapevo bene come... Vedi, si è appena presentato qui Tyler
Crowley con un abito da sera e, a quanto pare, è convinto che sarà
lui a portare Bella al ballo di fine anno».
«Sta scherzando!», scoppiai a ridere.
Era raro che qualcuno, all’infuori di Bella, mi cogliesse di
sorpresa.
Mentre eravamo a scuola, non mi ero assolutamente accorto che
Tyler avesse in mente una simile trovata, ma è pur vero che ero
stato così preso dal centellinare ogni attimo con Bella, che
probabilmente mi ero perso molti dettagli insignificanti.
«Che c’è?», chiese lei tra i denti.
«Non so davvero che dire», continuò Charlie, sentendosi a
disagio.
«Posso parlargli io?», mi offrii.
Avvertii il sollievo nella voce di Charlie quando rispose: «Certo».
Dopodiché, si allontanò dall’apparecchio per dire: «Ehi, Tyler, ti
vogliono al telefono».
Bella fissava il mio viso, preoccupata per quello che stava
succedendo tra me e suo padre. Non fece caso all’auto rosso
brillante che all’improvviso ci aveva sorpassato. Io ignorai la
soddisfazione di Rosalie nel superarmi – ormai la ignoravo
completamente – e mi concentrai sulla telefonata.
La voce del ragazzo era rotta mentre diceva: «Chi parla?».
«Ciao Tyler, sono Edward Cullen». La mia voce era
assolutamente gentile, anche se dovetti metterci un po’ d’impegno
per mantenerla tale. Proprio come fino a un attimo prima mi ero
divertito, adesso fui investito dalla vampa improvvisa di un senso di
territorialità. Per quanto immatura, era una reazione che non potevo
disconoscere.
Bella inspirò affannosamente. Le lanciai un’occhiata in tralice,
quindi tornai a guardare la strada. Se prima – in qualche modo –
aveva parlato sul serio, adesso invece non era più all’oscuro di
quanto stesse accadendo.
«Mi dispiace che ci sia stato un fraintendimento, ma Bella è
occupata, stasera», comunicai a Tyler.
«Oh», rispose lui.
In me perduravano la gelosia e l’istinto di protezione, perciò la
mia replica fu più dura di quanto non avrebbe dovuto.
«Anzi, per la verità è occupata tutte le sere, per chiunque,
escluso il sottoscritto. Senza offesa. Spiacente se la tua serata non
andrà come speravi».
Benché fossi consapevole che avevo sbagliato a pronunciare
quelle parole, non riuscii a trattenere un sorriso al pensiero di come
Tyler le avrebbe incassate. E come si sarebbe sentito quando l’avrei
rivisto a scuola il lunedì successivo. Terminai la chiamata e mi voltai
per soppesare la reazione di Bella.
Si era fatta tutta rossa in viso e aveva messo su un’espressione
furiosa.
«Credi che abbia esagerato un po’?», le chiesi preoccupato.
«Non volevo essere offensivo riguardo a te».
Era stato un atto davvero dispotico dichiarare una cosa del
genere e, sebbene fossi assolutamente sicuro che Bella non nutrisse
alcun interesse per Tyler, in ogni caso non spettava certo a me
prendere una simile decisione.
Quel che avevo detto era stato inopportuno anche sotto altri
aspetti, ma non nel modo in cui credevo l’avrebbe irritata.
Sebbene dopo l’ospedale non mi avesse più chiesto di farle altre
promesse, in lei continuava a persistere la tensione del dubbio. Mi
ero visto costretto a trovare un modo per bilanciare il suo bisogno di
rassicurazioni con la mia incapacità di ingannarla.
Stavo vivendo la nostra relazione giorno per giorno, ora per ora.
Non guardavo al futuro. Era già abbastanza riuscire a sentire che si
stava approssimando. Ormai, quando le promettevo qualcosa per
sempre, intendevo dire fin dove riuscivo a vedere. E non stavo
guardando.
«Mi stai portando al ballo di fine anno!», strillò.
Non l’aveva capito davvero. Non sapevo come prenderla. Che
altro motivo potevamo avere per essere tutti in tiro quella sera a
Forks?
E adesso nei suoi occhi c’erano delle lacrime pronte a
traboccare, e con una mano aveva afferrato la maniglia della
portiera, come se preferisse lanciarsi dall’auto piuttosto che
affrontare l’orrore di un ballo scolastico.
Senza farmi notare, bloccai tutte le serrature.
Non sapevo che dire; non avevo immaginato che potesse
equivocare. Per cui me ne uscii con la cosa probabilmente più
stupida da dire in quelle circostanze.
«Non fare la difficile, Bella».
Guardò fuori dal finestrino come se stesse ancora meditando di
lanciarsi.
«Perché mi stai facendo questo?», gemette.
Indicai il mio smoking. «Sinceramente, Bella, dove credevi che ti
volessi portare?».
Con il viso in preda all’orrore, strofinò via le lacrime che le
scendevano sulle guance. Era come se le avessi appena annunciato
di aver ucciso tutti i suoi amici e che lei sarebbe stata la prossima.
«È ridicolo», le feci notare. «Perché piangi?».
«Perché mi hai fatta arrabbiare!», strillò.
Valutai se non fosse il caso di tornare indietro. Alla fine, quel ballo
non significava nulla e io detestavo irritarla in quel modo. Ma
ripensai a quella remota conversazione nel suo futuro e tenni duro.
«Bella», dissi dolcemente.
Incrociò il mio sguardo e parve allentare la presa sulla propria
furia. Se non altro, avevo ancora il potere di incantarla.
«Cosa?», chiese completamente turbata.
«Assecondami. Per piacere», la supplicai.
Lei mi fissò ancora per un momento, con uno sguardo che
sembrava più d’adorazione che d’ira, dopodiché scosse il capo in
segno di resa.
«Bene. Te la do vinta», esclamò, rassegnandosi al proprio
destino. «Ma vedrai. È un bel po’ che non m’imbatto in una vera
disgrazia. Come minimo mi romperò l’altra gamba. Guarda la
scarpa! È una trappola mortale!».
Rivolse verso di me la punta del piede.
Il contrasto tra gli spessi nastrini di satin legati attorno all’esile
polpaccio, a mo’ di scarpa da balletto, e la sua pelle d’avorio era di
una bellezza che trascendeva ogni forma di stile. In quel luogo, in cui
non c’era altro da vedere che una serie infinita di capi invernali, fu
ammaliante riuscire a scorgere alcuni dettagli di lei che non avevo
mai notato prima. Quella era la parte in cui entrava in gioco il mio
dieci per cento di egoismo.
«Mmm», feci un lungo respiro. «Stasera voglio ringraziare Alice,
ricordamelo».
«Ci sarà anche lei?».
A giudicare dal suo tono, la cosa doveva esserle più confortante
della mia presenza.
Sapevo di doverle dire tutto. «Assieme a Jasper, Emmett... e
Rosalie».
In mezzo alle sue sopracciglia ricomparve la consueta V di
preoccupazione.
Emmett ci aveva provato, tutti lo avevano fatto – tutti tranne me.
Non avevo più parlato con Rosalie dalla notte in cui si era rifiutata di
aiutarci a salvare la vita di Bella. Adesso stava dando prova della
sua cocciutaggine sovrannaturale. Le rare volte in cui si ritrovavano
nella stessa stanza, con Bella non era mai apertamente ostile,
sempre che ignorare aggressivamente l’esistenza di un’altra persona
non significasse nutrire dell’ostilità.
Bella scrollò di nuovo la testa, evidentemente per scacciare via il
pensiero di Rosalie.
«Charlie è al corrente di questo?».
«Certo», risposi, lasciando da parte il fatto che tutta Forks e
probabilmente la maggior parte della contea fossero al corrente del
segreto che quella sera si sarebbe tenuto il ballo di fine anno.
Avevano persino attaccato dei poster e degli striscioni top secret in
tutta la scuola. Quindi soffocai una risata: «A quanto pare, solo Tyler
non sapeva nulla»».
Digrignò rumorosamente i denti, ma supposi che quella reazione
infuriata fosse diretta a Tyler piuttosto che a me.
Arrivammo nel parcheggio della scuola e stavolta Bella notò la
macchina di Rosalie, piazzata proprio al centro, di fronte all’ingresso.
Le lanciò un’occhiata nervosa mentre io parcheggiavo nella corsia
successiva, per poi scendere e raggiungere il suo lato a velocità
umana. Le aprii la portiera e le porsi la mano.
Le sue braccia erano incrociate al petto. Aveva stretto le labbra.
Evidentemente si era resa conto che, con tutti quei testimoni umani
attorno, non me la sarei potuta caricare in spalla per costringerla ad
andare in quel terrificante antro di orrore e terrore che era divenuta
la mensa della nostra scuola.
Lanciai un profondo sospiro, ma lei non accennò a muoversi.
«Di fronte a un assassino sei coraggiosa come un leone...»,
protestai. «Ma basta che qualcuno parli di ballare...». Scossi la testa
con disapprovazione.
Tuttavia, sembrava sinceramente atterrita dalla parola ballare.
«Bella, ti terrò lontana da tutti i pericoli», la rassicurai. «Compresa
te stessa. Non ti mollerò un attimo, lo prometto».
Ci pensò su e la cosa sembrò placare in parte il suo terrore.
«Forza, adesso», insistetti per convincerla. «Non sarà così
male».
Mi chinai nell’auto e con un braccio le cinsi la vita. La sua gola fu
sulle mie labbra, il suo profumo forte come l’incendio di una foresta,
ma più delicato dell’olezzo dei fiori tra i suoi capelli. La estrassi dalla
macchina senza che lei opponesse resistenza.
Desideravo dimostrarle quanto fossi seriamente deciso a
mantenere la mia promessa, perciò tenni il braccio saldamente
stretto attorno a lei mentre, reggendola per metà, la accompagnavo
verso la scuola. Fu frustrante non poterla semplicemente sollevare.
Raggiungemmo abbastanza in fretta la mensa. Le porte erano
state spalancate. Tutti i tavoli erano stati rimossi dalla sala. Le
lampade al soffitto erano spente ed erano state sostituite da
chilometri di lucine di Natale prese in prestito e fissate alle pareti per
formare degli smerli irregolari. L’ambiente era alquanto buio, ma non
abbastanza da nascondere l’obsolescenza delle decorazioni. Da
quanto erano sbiaditi e spiegazzati, si capiva che i festoni di carta
crespa erano già stati usati. In compenso, gli archi di palloncini
erano nuovi.
Bella non riuscì a trattenere un risolino.
Anch’io risi con lei.
«Sembra l’inizio di un film dell’orrore», mi fece osservare.
«Be’, in effetti i vampiri non mancano», le confermai.
Continuai a farla procedere lungo la fila per i biglietti, ma la sua
attenzione ora era catturata dalla pista da ballo.
I miei fratelli stavano dando spettacolo.
Suppongo fosse una sorta di liberazione. Eravamo sempre così...
trattenuti. Non potevamo impedire che in qualche modo ci notassero,
con le nostre facce inumane era inevitabile, tuttavia stavamo quanto
più possibile attenti a non offrire motivi ulteriori per cui fissarci.
Quella sera Rosalie, Emmett, Jasper e Alice stavano ballando sul
serio. Avevano fuso tra loro centinaia di stili di altre epoche,
creandone di nuovi che avrebbero potuto appartenere a qualunque
tempo. Come ovvio, si muovevano con una grazia al di là di ogni
umana capacità. Bella non era l’unica a guardarli con meraviglia.
Alcuni umani armati di coraggio stavano anch’essi ballando, ma
tenendosi a distanza dai vampiri in pieno sfoggio di sé.
«Vuoi che blocchi le uscite, così potete massacrare gli ignari
cittadini?», sussurrò Bella. L’idea di un omicidio di massa le appariva
nettamente più allettante della realtà di un ballo scolastico.
«E tu da che parte stai?», domandai io.
«Con i vampiri, ovvio».
Non potei non ridere. «Qualsiasi cosa, pur di non ballare».
«Qualsiasi cosa».
Si voltò a guardare ancora i miei fratelli, mentre io compravo i
biglietti. Una volta presi, iniziai a spingerla verso la pista da ballo.
Meglio levarsi subito il dente. Finché non l’avessimo fatto non si
sarebbe mai riuscita a rilassare.
Prese a zoppicare più lentamente di prima, ricalcitrante.
«Ho tutta la serata», le ricordai.
«Edward», sussurrò con la voce colma di orrore. Alzò lo sguardo
su di me con gli occhi in preda al panico. «Sinceramente, non so
ballare!».
Ma era davvero convinta che l’avrei abbandonata in mezzo alla
pista e che poi mi sarei messo in disparte a osservarla, in attesa che
si lanciasse in una esibizione da solista?
«Sciocca, non preoccuparti», dissi dolcemente. «Io sì».
Le alzai le braccia e me le misi intorno al collo. Piazzai le mani
attorno alla sua vita e la sollevai di alcuni centimetri da terra.
Stringendo il suo corpo contro il mio, la lasciai ricadere dimodoché le
sue punte dei piedi, quello avvolto dal satin e quello rivestito dal
gesso, poggiassero sulle mie scarpe.
Si aprì in un grande sorriso.
Reggendo quasi per intero il suo peso tra le mie mani, iniziammo
a volteggiare fino al centro della pista, dove i miei fratelli erano
circondati dagli altri in ammirazione. Non cercai di stare al passo con
loro, semplicemente mi tenni stretto a lei girando in un valzer
tranquillo al suono della musica.
Lei teneva le braccia strette al mio collo, riducendo ancora di più
la distanza tra noi.
«Mi sembra di avere cinque anni», disse ridendo.
La strinsi sollevandola, i suoi piedi volarono a trenta centimetri da
terra e, nell’orecchio, le sussurrai: «Non li dimostri».
Rise ancora, mentre io adagiavo nuovamente i suoi piedi sulle
mie scarpe. Le brillavano gli occhi, come i luccichii delle luminarie di
Natale.
La musica cambiò. E anch’io mutai il tempo del nostro valzer. La
melodia si era fatta ora più lenta, più sognante. Il suo corpo era fuso
con il mio. Avrei voluto poter fermare il tempo e rimanere così per
sempre, in quel ballo.
«Okay», mormorò. «Non è così male, lo ammetto».
Erano quasi le parole che avevo sperato avrebbe detto ai suoi
figli. Fu incoraggiante vedere che non le erano occorsi vent’anni per
giungere a tale conclusione.
No, non lo farò. Restituirò i soldi. Uff, è così imbarazzante. Ma
perché il padre pazzo deve essere proprio il mio? Non poteva essere
quello di Quil?
Quei pensieri limpidi che indugiavano nel corridoio mi erano
molto familiari. Persino nell’imbarazzo e nell’apprensione, la sua
mente irradiava comunque una sorta di purezza. Era molto più
onesto con se stesso della maggior parte delle persone.
«Che c’è?». Bella si era accorta che mi ero improvvisamente
distratto.
Non ero pronto a risponderle. Sentivo la gola stretta da una
rabbia profonda. I Quileutes avrebbero quindi continuato a tirare la
corda, forzando il patto che loro avevano ideato, il patto che non
faceva altro che tutelare loro. Era come se, finché noi non avessimo
ucciso qualcuno, loro non avrebbero potuto trovare pace. Volevano
che fossimo dei mostri.
Bella si voltò tra le mie braccia per comprendere che cosa stessi
guardando.
Jacob Black entrò con riluttanza dalla porta, sbattendo le
palpebre mentre i suoi occhi si adattavano alla luce fioca. Non
impiegò molto a scorgere ciò che stava cercando.
Cavoli, lei è qui! Non posso credere che lo sto facendo. Non
posso credere che mio padre sia convinto che quel ragazzo sia
davvero un vampiro. È un’idiozia totale.
Malgrado l’imbarazzo, comunque non ebbe esitazioni. Ignorando
il banco per i biglietti, marciò verso di noi come un soldato,
superando la cerchia dei ballerini. Persino nella mia collera non potei
non ammirare il suo coraggio schietto.
Suppongo che avrei dovuto mettermi addosso dell’aglio.
Sbuffò.
Non mi resi conto di aver ringhiato in maniera udibile finché Bella
non mi sibilò: «Controllati!».
«Vuole fare due chiacchiere con te». Non c’era modo di evitarlo.
Come per il primo ballo, anche in questo caso era meglio togliersi
subito il dente. Non dovevo farmi prendere dalla rabbia. Aveva
davvero importanza se quel gruppo di vecchi sdentati infrangeva il
patto? Non avrebbe fatto granché differenza, neppure se avessero
pagato per mettere un manifesto sulla 101 con su scritto: «IL MEDICO
LOCALE E I SUOI FIGLI SONO DEI VAMPIRI. FATE ATTENZIONE!».
Nessuno ci avrebbe creduto. Persino suo figlio non ci credeva.
Rimasi immobile mentre Jacob si avvicinava. Teneva gli occhi
perlopiù su Bella, con un’espressione talmente riluttante da risultare
comica.
«Ehi, Bella, speravo proprio di trovarti». Era ovvio che quello
fosse l’esatto contrario di ciò che aveva sperato.
Bella gli rispose con voce affettuosa. Ero certo che anche lei
riuscisse a notare il suo disagio e, per come era fatta Bella, avrebbe
cercato di alleviarlo. «Ciao, Jacob. Tutto bene?».
Lui le sorrise, dopodiché guardò me. Per farlo, non ebbe bisogno
di alzare lo sguardo. Dall’ultima volta che l’avevo visto, era cresciuto
di parecchi centimetri. Non sembrava più il ragazzino di prima.
«Mi concedi un ballo?», chiese. Lo fece con un tono rispettoso;
aveva intenzione di stare al proprio posto.
Sapevo che la mia rabbia era inutile, e di certo non era diretta a
quel ragazzo che non ne aveva colpa, ma non riuscivo a controllarla.
Piuttosto che lasciarla trasparire nella mia voce e renderla palese,
preferii far scendere delicatamente Bella dai miei piedi e ritrarmi di
un passo.
«Grazie», disse Jacob con quel tono cordiale che sembrava
essere la sua prerogativa.
Io assentii con il capo, esaminai il viso di Bella per assicurarmi
che anche lei fosse a suo agio, quindi mi allontanai.
Uh, pensò Jacob. Bella si è messa un profumo davvero orrendo.
Strano. A parte i fiori tra i capelli, Bella non aveva addosso alcun
profumo. Ma forse, adesso che io mi ero allontanato, un’altra coppia
si era fatta più vicino.
«Accidenti, Jake, quanto sei alto adesso?», la sentii chiedere.
«Più di un metro e ottanta». Era un dettaglio di cui andava fiero.
A me sembra stia assolutamente bene, a parte quel gesso. Come
al solito, Billy sta esagerando le cose.
Raggiunsi il lato nord della mensa e mi voltai, appoggiandomi alla
parete. Proprio alle spalle di Jacob, rigidi come ciocchi di legno,
Lauren Mallory e il suo cavaliere stavano girando in cerchio. Mi
domandai se non fosse suo quel profumo cattivo.
Jacob e Bella non stavano esattamente ballando. Lui le aveva
messo le mani attorno alla vita, mentre lei poggiava con leggerezza
le proprie braccia sulle sue spalle. Bella ondeggiava un po’ al suono
della musica, ma sembrava avere timore di fare un passo, anche
minimo. Jacob invece strisciava i piedi da una parte all’altra restando
fermo.
«Come sei finito qui, stasera?». Nella sua voce non vi era una
curiosità sincera. Aveva già capito a che cosa era dovuta
quell’intrusione.
Jacob non vedeva l’ora di chiarire di chi fosse la colpa. «Ci credi
se ti dico che mio padre mi ha dato venti verdoni per venire al tuo
ballo di fine anno?».
«Sì, ci credo», replicò con voce ancora gentile, sebbene dovesse
essere irritante avere un estraneo, o quasi, che cercava di
sorvegliare la sua vita.
La sta prendendo bene. È la ragazza più gentile che conosca.
«Be’, se non altro spero che tu ti stia divertendo», continuò Bella.
«Hai visto qualcuna che ti piace?». Con un cenno del capo, aveva
indicato scherzosamente un gruppo di ragazze allineate al muro, alla
mia sinistra.
«Sì», disse Jacob, «una, ma è occupata».
Questa informazione non mi giunse nuova; in più occasioni avevo
già colto i segnali della sua cotta per Bella. La franchezza della sua
onestà fu però inattesa. Bella non sapeva che rispondere. Dopo aver
lanciato un’occhiata al suo viso per capire se fosse una battuta – e
non lo era –, abbassò lo sguardo sui propri piedi inchiodati al
pavimento.
Probabilmente non avrei dovuto dirglielo, ma al diavolo. Non ho
nulla da perdere.
«A proposito, sei molto carina stasera», aggiunse.
La fronte di Bella si increspò. «Ehm, grazie». Cambiò discorso,
spostando la conversazione proprio sull’argomento che più di tutti lui
voleva evitare, quello che lo avrebbe costretto ad andarsene. «Ma
perché Billy ti avrebbe pagato per venire qui?».
Sentendosi a disagio, Jacob iniziò a spostare il peso da un piede
all’altro. «Secondo lui era un posto “sicuro” per parlare con te. Mi sa
tanto che il vecchio ha perso qualche rotella».
Penserà che sono pazzo anch’io.
Bella si unì alla risata di Jacob, ma la sua suonò forzata.
«E comunque», aveva ripreso a dire Jacob, facendo un sorriso
per smorzare la tensione. «Mi ha detto che se ti riferisco un certo
messaggio, mi procurerà il cilindro freni che cerco».
Stavolta il sorriso di Bella fu sincero. «Allora parla. Ci tengo a
vedere la tua macchina finita».
Jacob sospirò, emozionato da quel sorriso. Come vorrei che lui
fosse davvero un vampiro. Questo mi darebbe qualche chance.
«Non arrabbiarti, okay?». È già stata molto più gentile di quanto
mi aspettassi.
«Non sono capace di arrabbiarmi con te, Jacob», lo rassicurò
Bella. «E non mi arrabbierò con Billy. Dimmi pure».
«Be’... scusa, Bella, mi sembra talmente stupido...». Prese un
lungo respiro. «Vuole che lasci il tuo ragazzo. Mi ha pregato di
chiedertelo “per favore”».
Jacob scosse la testa, come a voler prendere le distanze da quel
messaggio insolente.
Bella gli sorrise piena di comprensione. «È ancora superstizioso,
eh?».
«Sì. Ha... perso la bussola, quando ti sei fatta male a Phoenix.
Non ha creduto che...». Che non siano stati loro a farlo. Ha pensato
che loro ti abbiano succhiato il sangue o qualcosa del genere.
Per la prima volta, la voce di Bella assunse un tono asciutto.
«Sono caduta».
«Lo so», si affrettò a precisare Jacob.
«Pensa che Edward abbia a che fare con ciò che mi è
successo?». E adesso, la voce si era fatta acuta.
Entrambi erano perfettamente immobili, come se non vi fosse la
musica.
Jacob distolse gli occhi dallo sguardo truce di Bella.
Adesso l’ho fatta incavolare davvero. Avrei dovuto dire a Billy di
farsi gli affari suoi o di non coinvolgermi.
Accortasi del suo turbamento, Bella addolcì il proprio contegno.
«Senti, Jacob», disse nuovamente gentile. «So che Billy stenterà a
crederci, ma te lo dico lo stesso. Edward mi ha davvero salvato la
vita. Se non fosse stato per lui e suo padre, a quest’ora sarei
morta». Era impossibile dubitare della sua sincerità.
«Lo so», confermò subito Jacob. Voleva scacciare via il pensiero
della morte di Bella. In cuor suo iniziò a montare un’ondata di
gratitudine. La prossima volta che suo padre avesse fatto qualche
commento infamante su Carlisle, lui non gli avrebbe dato retta.
Lei gli sorrise.
Era strano come quella sera lui sembrasse più grande. Parevano
coetanei, forse per via della sua altezza. Malgrado la gamba
ingessata di Bella rendesse goffi i loro movimenti in quella specie di
ballo, con lui lei sembrava sentirsi a proprio agio ben più che con
molti altri suoi amici umani. Forse, era l’animo puro e schietto di
Jacob ad avere questo effetto sulla gente.
La mia mente fu attraversata da uno strano pensiero, frutto in
parte della mia immaginazione e in parte della mia paura.
E se quella piccola casetta, graziosa e disordinata, fosse stata a
La Push?
Allontanai quell’idea. Non era altro che una gelosia irrazionale. La
gelosia era un’emozione così umana, potente ma del tutto inutile;
scaturita unicamente dalla visione di lei che faceva finta di ballare
con un amico. Non avrei permesso che il futuro mi turbasse.
«Senti, mi dispiace che tu sia venuto fin qui solo per questo,
Jacob», gli stava dicendo Bella. «Se non altro, vedi di rimediare il tuo
pezzo mancante, eh?».
«Sì», bofonchiò lui.
Mio padre se ne accorgerà se gli racconto una frottola? Mica
posso dirle anche il resto. Già così basta e avanza.
Bella riuscì a leggere la sua espressione. «C’è dell’altro?», gli
chiese sospettosa.
«Lascia perdere», borbottò distogliendo lo sguardo. «Mi troverò
un lavoro e metterò da parte qualche soldo».
Lei restò in attesa che lui incrociasse nuovamente i suoi occhi.
«Sputa il rospo, Jacob».
«Non ce la faccio».
Non sarei dovuto venire. È tutta colpa mia che ho accettato di
farlo.
«Non m’importa», insistette lei. «Parla».
«Va bene... però, uffa, non è una bella cosa». Jacob fece un
respiro profondo. «Ha detto di dirti, no, di avvertirti – guarda che il
plurale è suo, non mio – che...». Jacob sollevò la mano destra e
mimò delle virgolette con le dita. «“Ti terremo d’occhio”».
Attese la sua reazione, pronto a fuggire via.
Bella scoppiò a ridere fragorosamente, come se lui le avesse
raccontato la barzelletta più divertente che avesse mai sentito. Non
riusciva a darsi un freno. Le parole le uscirono in mezzo agli spasmi
delle risate.
«Mi dispiace che ti sia toccato farlo, Jake».
Lui provò un immenso sollievo. Ha ragione lei. È davvero comico.
«A me non dispiace granché». È così carina. Se non fossi venuto
qui, non l’avrei mai vista con questo vestito. Ne è valsa davvero la
pena, tolto il profumo nauseante. «Quindi devo dirgli di farsi gli
affaracci suoi?».
Bella fece un sospiro. «No. Ringrazialo. So che lo fa per il mio
bene».
La canzone finì, e Bella ritrasse le braccia. Era il segnale che
stavo attendendo. Non sapendo se lei fosse in grado di reggersi in
piedi da sola, Jacob continuava a tenerle una mano attorno alla vita.
«Vuoi ballare ancora? O vuoi che ti aiuti a spostarti?».
«Tutto a posto. La riprendo io».
Al sentire la mia voce, inaspettatamente vicina, Jacob ebbe un
sussulto. Fece un passo indietro, mentre un forte brivido di paura gli
attraversò tutta la schiena.
«Ehi, non ti avevo visto», mormorò. Non posso credere di
essermi fatto condizionare fino a questo punto da Billy. «Allora ci
vediamo, Bella».
«Sì, ci rivediamo presto», gli rispose lei, con entusiasmo tale da
fargli recuperare immediatamente la calma.
«E scusami», disse ancora una volta, prima di dirigersi verso
l’uscita.
Presi Bella tra le braccia, facendo di nuovo scivolare i miei piedi
sotto i suoi. Attesi che il calore del suo corpo cancellasse il gelo che
avvolgeva il mio. Non avrei pensato al futuro. Ma solo a quella
serata, a quel minuto.
Bella poggiò la guancia al mio petto, canticchiando a bocca
chiusa per la gioia.
«Ora va meglio?», bisbigliò.
Di certo era in grado di leggere il mio umore.
«Non proprio», sospirai.
«Non prendertela con Billy. È preoccupato per me perché Charlie
è suo amico. Niente di personale», mi rassicurò.
«Non ce l’ho con Billy. È suo figlio a irritarmi».
Era fin troppo vero. Anche se il ragazzo non mi aveva irritato sul
serio; un animo così espansivo sarebbe stato sempre una boccata
d’ossigeno ben accetta rispetto alla media degli esseri umani. Ad
amareggiarmi era ciò che lui rappresentava. Una persona buona,
gentile e umana.
Dovevo sforzarmi di recuperare lo spirito giusto.
Lei indietreggiò, fissandomi con curiosità e un po’ di
preoccupazione. «Perché?».
Scacciai via dall’animo il mio avvilimento e le risposi in modo
giocoso. «Prima di tutto, mi ha costretto a violare la mia promessa».
L’aveva dimenticata. Mi obbligai a sorriderle. «Avevo promesso che
stasera non ti avrei mollata neanche per un secondo».
«Ah. Be’, sei perdonato», annunciò lei con disinvoltura.
«Grazie». Aggrottai le sopracciglia, sperando che la mia
sembrasse un’aria scherzosa. «Ma c’è dell’altro».
Aspettava che le fornissi una spiegazione.
«Ha detto che sei carina». Pronunciai quella parola facendola
apparire sgradevole. «Il che è praticamente un insulto, stasera. Sei
molto più che bellissima».
A quel punto si rilassò e si mise a ridere, fugando ogni timore per
il suo amico. «Forse il tuo è un giudizio di parte».
Stavolta riuscii a sorridere meglio. «Non credo. Inoltre, la mia
vista è perfetta».
Si mise a guardare le luci scintillanti che giravano intorno a noi. Il
battito del suo cuore era più lento rispetto al tempo della canzone
che stavano suonando, perciò mi accordai al suo ritmo. Davanti a
noi scorrevano centinaia di voci, parlate e pensate, ma in realtà non
vi prestavo ascolto. L’unico suono che per me contava era quello del
suo cuore.
«Allora», mi disse al nuovo cambio di canzone. «Mi spieghi il
perché di tutto questo?».
Quando vide che non riuscivo a seguirla, lanciò un’occhiata
allusiva ai festoni di carta crespa.
Pensai a cosa potessi raccontarle. Non della mia visione;
sarebbero state troppe le obiezioni che lei avrebbe mosso. E poi
quella si collocava davvero tanto in là nel futuro, un futuro a cui
stavo cercando tenacemente di non pensare. Ma magari potevo
parlarle un po’ delle riflessioni da cui era scaturita. Anche se quello
non era un argomento di cui potevamo discutere in presenza di altri.
Cambiai direzione al nostro ballo, volteggiando con lei fino
all’uscita posteriore. Girammo attorno ad alcuni dei suoi amici.
Jessica accennò un saluto con la mano, scontenta del confronto tra
il suo vestito e quello di Bella, e lei le rispose con un sorriso. La
serata non sembrava soddisfare pienamente nessuno dei suoi
compagni di classe eccetto Angela e Ben, i quali si fissavano negli
occhi al culmine della gioia. Questo strappò anche a me un sorriso.
Senza smettere di ballare, aprii la porta spingendola con la
schiena. Benché fosse una sera molto mite, fuori non c’era nessuno.
Le nubi a occidente trattenevano ancora le ultime schegge dorate
del sole che stava morendo.
Dal momento che non c’era qualcuno che potesse guardarci, la
sollevai tra le braccia. La portai lontano dalla mensa, all’ombra dei
madroni, dove il buio rasentava quello della mezzanotte. Andai a
sedermi sulla stessa panchina da cui, ormai molte settimane prima,
ero rimasto a osservarla in un mattino di sole, e intanto la cullavo
stretta al mio petto. A oriente, dietro il velo sottile delle nuvole,
splendeva tenue la luna. Era un momento particolare, con il cielo
sospeso in equilibrio perfetto tra la sera e la notte fonda.
Lei era ancora in attesa di una spiegazione. «Allora?», chiese
con calma.
«Di nuovo il crepuscolo», dissi tra me e me. «Un’altra fine. Ogni
giorno deve finire, anche il più perfetto».
Erano quelli i giorni che contavano di più, e che si chiudevano
così in fretta.
Bella divenne tesa. «Non è detto che tutto abbia una fine».
Non potevo in alcun modo ribattere. Aveva ragione, ma sapevo
che le cose permanenti a cui pensava lei non erano quelle che
avevo in mente io. Cose come il dolore. Il dolore non sarebbe mai
finito.
Sospirai, dopodiché risposi alla sua domanda. «Ti ho portata al
ballo perché desidero che tu non ti perda niente. Non voglio che la
mia presenza ti privi di nulla, finché mi è possibile. Voglio che tu sia
umana. Voglio che la tua vita prosegua come se fossi morto nel
1918, come era mio destino».
Bella tremò e per due volte scosse il capo con violenza, come a
voler scacciare le mie parole. Ma quando parlò, la sua voce era
scherzosa. «In quale strana dimensione parallela pensi che sarei
mai venuta al ballo di mia spontanea volontà? Se tu non fossi mille
volte più forte di me, non ti avrei mai lasciato fare».
Le sorrisi. «Non è andata così male, l’hai ammesso anche tu».
I suoi occhi erano limpidi e profondissimi. «Perché ero con te».
Io guardai di nuovo la luna. Riuscivo a sentire il suo sguardo su di
me. Adesso non c’era tempo per preoccuparsi del futuro. Il presente
era di gran lunga più piacevole. Ripensai al passato appena
trascorso, e al suo strano smarrimento di quella sera. Anziché la
risposta più ovvia, che idea si era insinuata nella sua testa?
Chinai il capo e le sorrisi. «Mi dici una cosa?».
«Non ti dico sempre tutto?».
«Promettilo», insistetti.
«D’accordo», accettò controvoglia.
«Mi sei sembrata sinceramente sorpresa quando hai capito che ti
stavo portando qui...».
«Sì, lo ero», mi interruppe.
«Appunto», dissi. «Ma certo sospettavi qualcos’altro... Sono
curioso: per quale occasione pensavi che ti avessi fatto vestire
così?».
Sembrava una domanda semplice, fatta per gioco e legata al
presente. Nulla che potesse portarmi ancora una volta nel futuro.
Lei però ebbe un momento di esitazione e divenne più seria di
quanto mi aspettassi. «Non te lo dico».
«Hai promesso».
Si accigliò. «Lo so».
Quando la vidi accendersi di quella curiosità e impazienza che
conoscevo, per poco non mi scappò un sorriso. Certe cose non
cambiavano mai. «Che problema c’è?».
«Non vorrei farti arrabbiare», disse in tono grave. «O intristire».
Non riuscivo a collegare la sua espressione seria alla mia
domanda un po’ sciocca. Adesso ero io a temere la sua risposta, a
temere che avrebbe risvegliato il dolore che così faticosamente
avevo cercato di evitare, ma sapevo pure che non sarei mai riuscito
a sopportare che la mia curiosità rimanesse inappagata.
«Non m’importa. Per favore, dimmelo».
Lei sospirò. I suoi occhi seguivano il profilo delle nuvole
d’argento.
«Be’...», cominciò dopo un lungo momento. «Davo per scontato
che fosse un’occasione... speciale. Ma non immaginavo che fosse
una mediocre faccenda umana... Il ballo di fine anno!». Nel dirlo,
fece un verso sprezzante.
Attesi giusto un attimo per avere il controllo della mia reazione.
«Umana?», chiesi.
Abbassò lo sguardo sul suo splendido vestito, giocherellando
distrattamente con una balza di chiffon. Sapevo già cosa stava per
succedere. Lasciai che trovasse le parole che cercava.
«Va bene», dichiarò finalmente. «Ecco, speravo che avessi
cambiato idea... e che ti fossi deciso a cambiare me, dopotutto».
Davanti a me avevo così tanti anni per sentire quel dolore. Avrei
preferito che lei non mi costringesse a provarlo proprio adesso. Non
mentre era ancora tra le mie braccia. Non mentre indossava quel
vestito incantevole, il chiaro di luna splendeva sulle sue spalle
d’avorio e le ombre, simili a frammenti della notte, si incastonavano
nelle sinuosità delle sue clavicole.
Scelsi di ignorare il dolore e di concentrarmi unicamente sulle
implicazioni più immediate della sua risposta.
Mi toccai il bavero della giacca. «E secondo te quella sarebbe
stata un’occasione da vestito da sera, eh?».
Colta dall’imbarazzo, increspò la fronte. «Non so come
funzionano queste cose. A me, però, sembra più logico che per un
ballo di fine anno».
Io cercavo di sorridere, ma questo non fece altro che irritarla.
«Non c’è niente da ridere», protestò.
«No, hai ragione, certo che no. Però preferisco prenderla a
ridere, piuttosto che credere che tu possa dire sul serio».
«Ma io dico sul serio».
«Lo so», sospirai.
Era uno strano dolore. Assolutamente privo di qualunque
tentazione. Benché ciò che lei desiderava corrispondesse al futuro
per me ideale, all’annullamento di decenni di agonia, la cosa non mi
attirava. Non sarei mai stato in grado di ottenere la mia felicità a
discapito della sua.
Quando avevo aperto il mio cuore al suo Dio distante, lo avevo
supplicato di donarmi la forza. E questo era ciò che lui mi aveva
concesso: non provavo il benché minimo desiderio di vedere Bella
immortale. La mia unica brama, il mio unico bisogno, era che la sua
vita rimanesse inviolata dall’oscurità, e quel bisogno mi struggeva.
Ero consapevole che il futuro incombeva, ma ignoravo quanto
tempo avessi esattamente a disposizione. Mi ero impegnato a
rimanere con lei finché non fosse guarita completamente, perciò mi
restavano ancora alcune settimane prima che lei potesse
quantomeno ricominciare a camminare sulle proprie gambe. Una
parte di me si domandava se non sarebbe stato giusto attendere
finché lei non fosse diventata più vecchia di me, come avevo
progettato di fare all’inizio. Non sarebbe stata questa la soluzione
meno dolorosa per lei? Sarebbe stato così facile cedere a quella
visione. Ma non ero sicuro di poter disporre di tutto quel tempo. Il
futuro sembrava sempre più vicino. Ero all’oscuro di quale sarebbe
stato il segnale, ma sapevo che quando fosse arrivato lo avrei
riconosciuto.
Avevo cercato così strenuamente di evitare quel discorso, ma
vedevo che affrontarlo adesso l’avrebbe resa più felice. Soffocai
tutto il mio dolore e la mia pena, e con uno sforzo mi calai
interamente in quel momento. Sarei stato con lei finché avrei potuto.
«E ci terresti davvero?», le chiesi.
Si morse il labbro e annuì.
«E allora preparati alla fine», sospirai, accarezzando con un dito
un lato del suo viso. «Preparati al crepuscolo della tua vita appena
iniziata. Preparati a rinunciare a tutto».
«Non è la fine, è l’inizio», sussurrò.
«Non ne sono degno».
Sapevo già che non teneva conto delle perdite umane a cui
sarebbe andata incontro. E sicuramente non aveva mai preso in
considerazione quelle che avrebbe subito sul fronte dell’eternità.
Nessuno poteva essere degno di un simile sacrificio.
«Ricordi quando mi hai detto che non avevo una percezione
chiara di me stessa?», mi domandò. «Evidentemente tu sei cieco
allo stesso modo».
«Io so ciò che sono».
Alzò gli occhi al cielo, contrariata dalle mie obiezioni a qualunque
cosa dicesse.
Improvvisamente, mi venne spontaneo sorriderle. Era così
ansiosa, così impaziente di barattare qualsiasi cosa pur di stare con
me. Era impossibile non essere commossi da un simile amore.
Pensai che giocare un po’ non avrebbe guastato.
«Perciò, ti senti pronta?». Le chiesi alzando un sopracciglio.
«Ehm. Sì». Deglutì in preda alla tensione.
Mi piegai per avvicinarmi a lei, muovendomi con assoluta calma.
Alla fine, le mie labbra toccarono la pelle sul suo collo.
Lei deglutì ancora.
«Adesso?», sussurrai.
Ebbe un brivido. Dopodiché il suo corpo si tese, le mani si
strinsero in due pugni e il suo cuore iniziò a battere più forte della
musica lontana che proveniva dal ballo.
«Sì», sussurrò.
Il mio scherzo non era riuscito. Risi di me stesso e mi raddrizzai.
«Secondo te cederei così facilmente?».
Lei si rilassò. Il suo cuore rallentò. «Sognare non costa niente»,
disse.
«Questo sarebbe il tuo sogno? Diventare un mostro?».
«Non proprio». Non aveva gradito il termine che avevo usato.
Assunse un tono più grave. «Più che altro, sogno di restare con te
per sempre».
Nella sua voce si avvertiva sofferenza, dubbio. Credeva forse che
io non la desiderassi quanto lei desiderava me? Avrei voluto
alleviare il suo animo, ma non potevo farlo.
Con le dita, tracciai il contorno delle sue labbra e sussurrai il suo
nome. «Bella». Sperai riuscisse a sentire quanta devozione c’era
nella mia voce. «Starò sempre con te». Finché potrò, finché mi sarà
concesso, finché non ti farà del male. Finché non giungerà quel
segnale, finché non mi sarà impossibile ignorarlo. «Non ti basta?».
Sorrise, ma non era soddisfatta. «Mi basta, per ora».
Bella non si rendeva conto che ora era tutto ciò che avevamo. Il
mio respirò uscì fuori simile a un ruggito.
Mi carezzò il contorno del viso, sfiorando con la punta delle dita la
mia mascella. «Stammi a sentire», disse. «Ti amo più di qualsiasi
altra cosa al mondo, senza eccezioni. Non ti basta?».
A quel punto potei sorriderle in tutta sincerità. «Sì, mi basta», le
assicurai. «Mi basta, per sempre».
E stavolta intendevo il vero per sempre.
Il mio eterno per sempre.
Quando infine la notte trionfò sul giorno che moriva, mi chinai di
nuovo e baciai la calda pelle del suo collo.
RINGRAZIAMENTI

Questo libro è stato la mia nemesi per così tanti anni, che ormai è
difficile ricordare tutti quelli che mi hanno aiutata lungo il percorso,
ma ecco chi se ne è assunto il fardello maggiore:

I miei tre figli meravigliosi, Gabriel, Seth ed Eli (oggi tre uomini
adulti!), che negli ultimi quindici anni si sono comportati in maniera
talmente lodevole che tutto il tempo che avrei dovuto trascorrere in
apprensione per le scelte sbagliate che loro non hanno compiuto l’ho
potuto investire nel preoccuparmi per le scelte sbagliate compiute
dai miei familiari immaginari.

Il mio marito superpratico, che gestisce la maggior parte degli


aspetti numerici e tecnologici della mia vita.

Mia madre, Candy, che tacitamente si è sempre opposta all’idea


che rinunciassi a portare a termine questo libro.

La mia socia, Meghan Hibbett, che ha retto le redini della Fickle


Fish Productions mentre io, per lunghi periodi, abbandonavo il
mondo reale. Come pure la mia migliore amica, Meghan Hibbett, che
è la mia valvola di sfogo primaria quando ho bisogno di urlare, di
piangere e di arrabbiarmi per le malefatte dei miei personaggi.

La mia agente, Jodi Reamer, che mi ha lasciato tutto il tempo che


mi occorreva, tenendosi all’erta per entrare in azione non appena
fossi stata pronta.
La mia agente cinematografica, Kassie Evashevski, il cui sereno
buonsenso mi ha tenuta lontano dai guai.

Tutte le splendide persone della Little, Brown Books for Young


Readers, che mi hanno sostenuta in modo davvero straordinario; in
particolare Megan Tingley, che è stata al mio fianco nei diciassette
anni (!) della mia carriera di scrittrice, e Asya Muchnick, la redattrice
più gentile e sagace che ci sia.

Roger Hagadone, il fotografo che ha scattato le immagini per le


nostre magnifiche e memorabili copertine. Non riesco a immaginare
che atmosfera avrebbe questa saga se non ci fosse la tua creatività.

Le incantevoli signore della Method Agency, Nikki e Bekah, che


accettano sempre di buon grado tutte le stranezze che chiedo loro di
fare.

I tantissimi creativi pieni di talento che hanno realizzato gli


incredibili siti Internet e fanart sulla saga di Twilight.

I tantissimi autori che hanno dato vita ai mondi incredibili in cui


sono potuta fuggire.

I tantissimi musicisti che, senza saperlo, sono stati la mia colonna


sonora mentale.

E infine, i lettori che, anche se non vedevano l’ora di stringere tra


le mani questo libro, lo hanno aspettato con pazienza. Senza il
vostro aiuto non sarei mai riuscita a ultimarlo. Il vostro posto è su
questa pagina. Per piacere, scrivete il vostro nome nella riga qui
sotto e datevi il cinque.

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