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Ferdinando Guarino

Essenze
Poesie, racconti e Canzone Napoletana

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Essenze - Poesie, racconti e Canzone Napoletana
Ferdinando Guarino
Copyright 2020
ISBN 9788832098051
Edizione marzo 2020

EDIZIONI
Il Quaderno Edizioni
Via Croce 112 cap. 80041
Boscoreale (NA)– IT
Contatti: 3317648489
Mail: ilquadernoedizioni@libero.it
www.ilquadernoedizioni.it

Il prezzo di copertina è a totale copertura dei costi di produzione, di-


stribuzione e mantenimento dell’associazione Il quaderno edizioni, il cui
obiettivo è consentire alla stessa la divulgazione della cultura del libro in
tutti gli ambiti sociali così come previsto dall’articolo 3 dello statuto.

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Introduzione

Essenze è un viaggio letterario insolito, che non segue un percorso


preciso, né traccia una meta predefinita attraverso la prosa – in italiano
ed in vernacolo – e la poesia in lingua napoletana.
Si tratta di un excursus che ho inteso realizzare attraverso una nar-
razione “straniata” ed una prosa che, a differenza dei testi poetici, è
lontana dal coinvolgimento diretto ed in prima persona: il libro è una
summa delle esperienze, degli incontri più significativi e della tratta-
zione di tematiche spesso eterogenee, non suddivise in aree contrad-
distinte: dalla solitudine alla sfuresteria – concetto cardine del testo
– dalla famme all’identità, alla Fede, passando, immancabilmente, per
la sfera sentimentale.
Il testo, inoltre, è caratterizzato dalla presenza di citazioni tratte da
alcuni degli autori e dei personaggi che possono ritenersi precipui per
la mia formazione professione ed umana.
Lontana dall’essere un “citazionismo” fine a se stesso, i riferimenti
a Eduardo, Pirandello, Camilleri, Sarah (ed altri) fungono da intro-
duzione a temi che ho ritenuto opportuno trattare nel testo ed a cui si
riferiscono gran parte dei miei interventi.
Essenze, infine, vuole rimarcare il senso perduto di questo tempo;
la ricerca della felicità nelle cose dimenticate, accantonate; il recupero
e la valorizzazione della tradizione, inserendo, quindi, Canzoni Napo-
letane che ho ritenuto più esplicative per la comprensione del testo.

Ferdinando Guarino

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Chesta nun è ’na storia, né nu racconto,
né ’na fiaba, né nu cuncierto.
Sentarraje parla’ ’e canzone,
diece, ciente, mille vierse;
putarraje ridere o chiagnere,
ma, pienzece, ’nchiude ll’uocchie
e siente.

Si t’allicuorde ’e suonne,
pierdete, pecché ’e nu suonno se parla:
nun tene né primma, né doppo,
né ogge, né ajere.

’Nchiudele ’st’uocchie e suonne,


si t’allicuorde ’e chello ca è stato.
’E chello ca sî….

…ai tempi vissuti nel cuore.


A chi ha raccontato ieri e, ancora oggi, non muore.

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Rumorosa tempesta
Ci portiamo dentro una rumorosa tempesta
In ogni singolo angolo dell’esistenza lasciamo che il turbinio di
idee, parole, cose, idiozie e malinconie, renda così frammentaria que-
sta nostra vita.
Lasciamo che il divenire dei giorni sia scandito da una libertà che
non ci appartiene, che sentiamo lontana, ma che pur ci attrae, ci ipno-
tizza.
Dove comincia il senso di libertà e termina la parte più “pura”, più
nascosta di ciò che siamo?
Entrambe soccombono nella consolidata prassi di azzeramento di
ogni singola individualità.
Quando questa massificazione si manifesta ogni giorno, nella scelta
del cibo, del vestiario e persino delle idee, allora questa tempesta ru-
morosa, sottaciuta con sforzo e sofferenza, comincia a palesarsi nella
coscienza di ciascuno.
Barattiamo il nostro essere irripetibile con quello che i modelli ci
propinano dall’alba al tramonto.
Ecco che io si annienta dinanzi al tutti: la mia vita diventa patrimo-
nio condiviso; il mio essere azzerato.
Una tirannia feroce, quindi, imposta dal più insospettabile degli es-
seri: noi stessi.

Penziere mieje

Penziere mieje,
p’ ’e monte ve ne jate:
fujenno pe ll’arbere,
p’ ’o friddo d’ ’a matina,
Luce jate ascianno1,
e ragge ʼe sole cercate,
comme fosse pane
pe chi nun tene pane,
acqua pe chi tene sete.
Ammore pe chi sulo se sente…
1. ascianno: da asciare, cercare.

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Sunnaje ’a rivoluzzione

…cu ’e piede chin’ ’e rena,


ll’acqua mmiez’ê mmane,
sunnaje ’a rivoluzzione,
e nu core senza affanno…

Chiusi, narcotizzati da un rettangolo luminoso che attesta il livello


della nostra esistenza a seconda di quante volte si illumina, di quan-
te volte squilla, costruiamo involucri sfavillanti e dentro noi non è
rimasto più nulla.
Esiste, ancora, un’umanità silente e fedele, sommessa e pudica e
l’abbiamo bandita, scacciata, pestata.
Il ripudio della censura ha generato la violenta censura della di-
gnità, della vergogna: bisogna (!) essere ottimisti e buonisti, eppure
guardiamo in aria, non in basso; avanti e non indietro.
Abbiamo velocizzato la comunicazione, ma non sappiamo più par-
lare.

Chi sȋ?

…te vene ’o ppoco ’e freva,


astrigne forte mane e aria
e vaje cercanno ’a Dio chi sî…
Statte zitto,
strigne core e pietto,
nun jetta’ cchiù tiempo,
fà ’na vrasera2 d’ ’e malepenziere,
allucche forte, senza parla’:
tuorne â casa, sí, senza pietà,
e ancora zitto, pienze qual è ’a Via,
quala strata porta ô sole,
pecché ’a pacienza,
’o ssaje, pure ll’acqua fà fernì …

2. vrasera: braciere.

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Pomeriggi d’estate
Il tempo si dilata, si sgretola in un ammasso informe di ore sospese,
nascoste in un altro tempo, invisibile, parallelo: capita di perdersi, di
viaggiare verso mete fisicamente sconosciute, eppure così vicine, per-
ché a lungo immaginate, sognate.
Uno straniamento dal presente, da quello che è tangibile, uguale
ed immobile, corroso dal torrido caldo, verso un tempo ideale, forse
anacronistico, ma certamente più vicino all’anima che al corpo; emo-
zionante fino alla commozione.
Ecco l’immancabile penna, compagna fedele di una vita: il caldo lo
dimentichi, perché in quel mondo sei e la mano è amorevole schiava
di questo sentire e vivere oltre:

Nu balcone

Nu balcone,
mmiez’â campagna.
Cu ll’addore ’e resedà,
me perdarrìa ’int’â vigna
senza vulè cchiù turna’:
e cu tte passarrìano ’e ppene,
mente adacque rose e gesummine3,
addò mo so’ tutte viole e susine...

3. gesummine: gelsomini.

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Chello che voglio

’Int’a ’na taverna,


cu ’na spase ’e amice,
spartenno pane e canzone,
llà me ne starrìa ’npace.

Miranno chi voglio bbene,


cantarrìa allero e redenno,
cuntento ’e chello che voglio,
lassanno tutt’ ’e ’mbruoglie.

Luntano ’a ’stu munno,


me ne starrìa ’int’â taverna,
spezzanno, ancora, core e suonno …

Eternità

...ccà me ’ncontro.
Addò tutto se ferma
e ll’anema assomma,
’a vita perde ’e cunte:
Ll’eternità deventa nu mumento,
tutto chello ca è stato, è stato,
e nu surriso, quieto, mme sponta,
pecché parlanno ô mare,
’ncontro pure a tte...

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Sfuresteria
Termine ormai in disuso nell’odierna lingua parlata napoletana.
Eppure, questo stato dell’anima, questo scontro tra essere e appari-
re di pirandelliana memoria, caratterizza lo status quo del napoletano
autentico, anzitutto se incline alla creazione, all’arte.
Secondo alcuni dizionari di lingua napoletana, il termine starebbe
ad indicare un particolare stato emotivo di tristezza e malessere psi-
cofisico.
L’accezione più consona, però, è riferibile ad uno stato di “grazia
creativa” che, se da un lato è comunque sorretta da un velato stato di
melanconia, dall’altro essa spinge alla realizzazione di cose e/o fatti
che non si verificherebbero nell’usuale modus vivendi.
È giusto, quindi, parlare di due tipi di sfuresteria:

negativa, che rispecchia il significato originale del termine;


positiva, rappresentata dall’ultima modalità citata.

Ogni napoletano, in fondo, è un po’ sfuresto, non si scopre nulla di


nuovo in questo.
Basterebbe soltanto lasciarsi andare a questa benedetta sfuresteria,
lasciare da parte le ansie, le inquietudini di questo tempo ed avvicinar-
si, attraverso essa, alla Bellezza.

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Io ho sempre avuto amici vecchi.
Quando ero piccolo, amavo i vecchi; in età giovanile frequentavo
loro e non i giovani perché apprendevo la saggezza, stavo a sentire
quello che dicevano.
All’epoca i vecchi erano più altruisti 4…

Eduardo De Filippo

4. https://www.youtube.com/watch?v=C7f9kNaXu94

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Ascoltare i vecchi
Accovacciarsi e creare immagini singolari, scaturite dai loro rac-
conti, è un’esperienza essenziale per la creazione di una fantasia pro-
pria: buffe e spesso bislacche, le immagini che creiamo riescono ad
attualizzare il senso profondo di un qualsiasi racconto.
C’era un signore, con le mani spaccate per il troppo lavoro nei cam-
pi ed un cuore ancor più grande della fatica quotidiana, che spesso rac-
contava una storiella umoristica dal retrogusto amaro, che chiamava
’A storia d’ ’o nepote d’ ’o prevete:
un gruppo di giovani amici – raccontava – erano soliti dare quattro
calci ad una palla di pezza nel cortile adiacente alla Chiesa, suscitando
l’immancabile e severo rimbrotto del prete.
Un giorno, uno di quei ragazzi, seccato per il sequestro della palla
da parte del prelato, si recò in Chiesa e furtivamente cominciò a far
risuonare le campane a festa: il prete, accortosi dello scherzo, senza
batter ciglio, si recò a casa di quel piccolo diavolo redarguendo aspra-
mente i genitori di quest’ultimo per la sconcezza e l’indecenza del suo
gesto.
Il padre del ragazzo malmenò pubblicamente il figlio, impartendo-
gli la più umiliante delle punizioni.
Passato qualche giorno, al gruppo di amici si aggiunse un nuovo
ragazzo, benvestito e dall’aria borghese: il nipote del prete.
Improvvisamente, come d’incanto, finirono i rimproveri ed i seque-
stri della palla di pezza.
Non solo: il nipote, che beffeggiava lo zio in sua assenza, combinò
al sacerdote lo stesso scherzo attuato qualche giorno prima:
s’intrufolò in Chiesa e fece risuonare la campane a lutto per diversi
minuti.
Uno dei ragazzi chiese:« E mo che succede quanno zì prevete sente
’e campane senza permesso?!», ed un altro sentenziò: «C’ha dda suc-
cedere?! L’ha fatto ’o nepote d’ ’o prevete. Tutto è permesso!».
Eliminare le tradizioni, annullare il ricordo, vivere di solo presente,
è il (non) senso di questi anni.
La velocità diminuisce le distanze e brucia il tempo.
Caos e violenza, corpo e invidia: l’umanità perde la sua essenza
perché non crede più nelle fiabe; perché ha venduto la sua innocenza.

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…Che mme dicisse?

…chi ’o ssa’ che mme dicisse?


Chi ’o ssa’ qua’ ditto antico cuntarrisse5?
Chi ’o ssa’ si mo mme vide,
si ’na carezza mme daje ’nzuonno?
Si ancora ’e mmane ce stregneno
mo ca nun ’e vveco cchiù…
E torno piccerillo, ovvì,
cu ’a speranza ’e chillu suono,
’a smania ’e nu criaturo,
’o spasso, ’e rrise,
’a cosa bbella.

Te cerco

Te cerco.
’Int’ê parole ca dicive,
pe dint’ê suspire ca mme facive.
Te cerco!
Mo ca ’e llacreme so’ fenute,
mo ca saccio ched’è ’o bbene.
Te parlo,
mente me siente e nun rispunne
e mente te chiammo,
me parla sulo ll’eco,
pecché nun te tengo cchiù…

5. cuntarrisse: da cuntare, raccontare.

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Nervosa, naturale, spontanea o stuzzicata,
’a famme è famme!
Non la puoi definire “appetito”, “languore”, “senso di vuoto”:
quanno ’o stommaco pare ’na ferrriera solo di famma si può parlare:
perché ’a famma non la puoi relegare ad orari regolari e standardiz-
zati, precisi e cronometrati, comme fanno a Milano.
Con tutti il rispetto per i milanesi che si saziano con queste mo-
derne forme di nutrizione, come l’apericena, ma per Grazia di Dio la
fame nostra è altra storia.
È una forma virale, che ti colpisce nei momenti più disparati; è
inattesa, fulminea, ti coglie di sorpresa ed altro non puoi fare che
assecondarla, perché se la sfidi è vendicativa, non ti dà pace ed allora
si accontenta quando l’hai servita e riverita.
Me le salutate le diete e le ’nzepetezze che la modernità, ostinata-
mente, ci vuole propinare: a famme è dispettosa e furba, si accorge
subito quando cerchi di fuorviarla e ti castiga, ti irrequieta, non ti
lascia dormire e ti fa diventare una pezza…

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’A credenza

’E ttre:
me giro, m’avoto,
m’avoto e me giro,
nun pozzo durmi’.
Son’ ’a campana
d’ ’a Chiesa â ’Mmaculata
e ll’uocchie se sgranano,
nun se vonno ’nzerra’.
Sarranno ’e penziere,
sarranno ’e suspire?
Sarranno ’e spaseme,
sarranno ’e ppaure?!
Mente ce penzo,
e addimmanno,
me trovo ’int’â cucina,
accussì, quase pe sbaglio.
’O penziero m’assilla:
nun pozzo durmi’.
Arapo ’a credenza:
’o ppane è d’ajere,
nu pizzeco ’e sale,
’na vutata ’e chell’uoglio,
nu miezo bicchiere
e mme scord’ ’e penziere.
Me cocco appaciato,
aggio miso ’a supponta,
e mo sona campana!
Ca m’avoto e mm’addormo!

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La domenica a tavola, poi, è una storia a sé
Tutte le aspettative, i desideri, le ambizioni, si concentrano a tavola.
In quelle ore, qualsiasi cosa assume un senso diverso, pure ’a bom-
ba atomica pare nu bengale e persino la pace nel mondo ti sembra a
portata di mano, perché immancabilmente pensi:
ma se po’ maje fa ’a guerra quanno po’ nu piezzo ’e raù t’appacia
cu ’o munno?
Signori della guerra, fate pietà!
Poveri voi, che v’alimentate con le bombe, mentre c’è chi, pacifica-
mente, l’unico conflitto che conosce è quello di guardare la porzione
più abbondante del commensale più vicino e combatterlo!

Dummeneca

’O piezzo ’e carne d’ ’a dummenca


è comme fosse ’na preghiera:
addenucchiàte stanno
’a cepolluzza e ’a carota tagliata,
appujàte ‘ncopp’a ll’uoglie,
’nzieme ’o ssedano
e ’o rosmarino,
d’’o vino janco aspettano ’a benedizione.

E quanno tutto s’ammesca,


siente che profumo!
E cu ll’addore d’ ’a pietanza
tu te ’mbriache
e cride ancora â speranza…

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Felicità
In un’intervista ad una giovane e già straordinaria Oriana Fallaci,
il Principe de Curtis, Totò, dichiarò che «la felicità è fatta di attimi di
dimenticanza».
Quale definizione migliore?
Cos’è la felicità se non uno stato dell’anima che trascende ogni
cosa?
La felicità è certamente anche un fatto terreno e come tale porta con
sé la paura della perdita, il terrore del suo essere effimero.
La dimenticanza la depaupera, appunto, da questo suo essere terre-
na, dalle ansie dell’ostinazione alla forzata felicità:
abbandonare finanche se stessi, dunque, spalancando le porte ad
una grazia sempre nuova che non lascia il tempo di viverla appieno, di
lasciarla invadere lo spazio vitale.
La felicità, in questo tempo di menzogne, in fondo fa paura.
Si ricerca nel volere degli altri, accantonando le legittime aspettati-
ve, i desideri più intimi.
Quando poi sopraggiunge, ci coglie increduli, impreparati, tanto da
lasciarci pensare: «Possibile che io mi senta felice? Perché a me? Le
tasse, il lavoro, il tempo che manca ed io proprio adesso sono felice?».
Lo stesso signore di prima, quello vecchio – non c’è nulla di vergo-
gnoso nel termine vecchio! – spesso raccontava che da ragazzo la sua
più grande felicità era alla sera, quando andava a fare l’amore – non
quello carnale, che pure avrebbe avuto voglia di farlo! – a casa della
fidanzata con tutta la famiglia a tavola che li spiava costantemente e
l’unico sguardo appassionato, amorevole, era quando la bella ragazzi-
na l’accompagnava alla porta, con l’ordine tassativo di trattenersi per
pochi secondi.
Non certo nella nostalgia e/o nella copia sbiadita di quel tempo, ma
nell’essenza del tempo rubato, dell’atteso desiderio, della lotta per un
fine più alto, la scoperta della felicità, la voglia di accoglierla senza
pretenderla, diventa qualcosa di estremamente felice …

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Vurria Reventa’

…vurria reventa’, saje, nu police,


comm’a chille ca ’int’â staggiona che coce,
nun te danno né quiete, né pace:
lento e ddoce ’sti ccarne spezzarrìa
e ’ncore cuntento me ne jarrìa6;

lesto, llà i’ rummarrìa,


senza sentere cchiù nniente,
senza spaseme e lamiente,
senza cchiù vacantaria,
i’ llà, quieto, restarrìa…

Cuntento

’Na vrasera,
ddoje noce,
’a tammorra:
’o ppoco ’e pace.

Tanno me putarrìa dì cuntento,


c’ ’o suono d’ ’e zampogne e ciaramelle7;
’o spasso doppo magnato,
e nu surzo ’e vino, chello nuviello.

Llà me scurdarrìa d’ ’o mmale,


jettarrìa tutt’ ’e ppene,
chiagnenno, alleramente, p’ ’o bbene…

6. jarrìa: da ire, andare.


7. ciaramelle: cennamella.

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’O treno d’ ’a felicità

Dice ca ce sta nu treno,


’a ggente ’o chiamma «Felicità»,
ma senza salute e ddenare,
nun t’ ’o fanno piglia’.

E si niente mo tiene,
ma sulo tiempo ’int’ê mmane,
che ffà, si passa te vuò ’nguita’8…?!

Lass’ ’o passà.

’A pressa è ’na bbona nemmica


pure pe chi pass’ ’o tiempo a penza’.
E si passa, tra n’anno
o pure tra nu juorno,
allora, sicuro può dì:
«Mo fermate ccà!
Oje treno d’ ’a felicità!».

8. ’nguita’: da’nguitare, agitare.

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«… tu me lasse e io conto ll’ore,
chi sa quanno turnarraie»9.

L’attesa
Nel sentimento dell’attesa è possibile scorgere un’infinità di sensa-
zioni, di odori, modi di dire, urla, canzoni, sentimenti contrastanti, odi
e amori (che poi tanto distanti non sono), poesia ed apparente vacuità.
Tutto e niente.
In quegli istanti si contempla la natura di ciò che si “è”, di ciò che
si pensa del mondo: di quello che ci si aspetta dalla vita.
Più di vent’anni prima del capolavoro di Marcel Proust, Alla ricer-
ca del tempo perduto, nella straordinaria lirica di Salvatore Di Giaco-
mo ci si confronta con il mistero più grande: il tempo.
«Era de maggio e te cadeano nzino a schiocche a schiocche li cce-
rase rosse», ieri o forse un secolo fa «fresca era ll’aria e la canzona
doce», ma è ora che «tu me lasse e io conto ll’ore, chi sa quanno
turnarraie!», in un’oscillazione vorticosa di un tempo che può essere
secolare, eppure immobile, fermo in un attimo che diventa, appunto,
senza tempo:
una lontananza che, apparentemente, svuota il trascorrere delle ore,
dei giorni, ma che in realtà si fissa in un indefinito conto alla rovescia
che può terminare tra un giorno o tra un secolo.
I versi che precedono il termine dell’attesa, fissato in quel maggio
«quanno tornano li rrose», rappresentano non solo una formidabile
intuizione poetica, ma altresì l’estasi, la capacità di vivere intensamen-
te ogni attimo, sentir librare ogni singola, minuscola particella.

9. Salvatore Di Giacomo, Era de maggio in Le poesie e le novelle, a cura di France-


sco Flora e Mario Vinciguerra, Milano, Mondadori editore, 1946, cit. p. 176.

21
Tiempo

...è ccà 
ca ’o tiempo nun me pare passato,
ca tutto pare fermato.
È ccà ca ’e penziere se ’ncontrano,
ca tutto se mmesca:
tutto cagne e tutto è sempe eguale.

E me porta llà, ’o ppoco ’e viento,


addò ll’anne se ’ncontrano
e tutto se ferma, forse mo,
pe ’stu mumento addò tutto pare scurdato
e niente me pare perduto...

Te Saluto!

Tiempo bbello ’e pizzo a rriso,


’e vase scurnuse e squase,
cu ’e suspire te manno nu saluto,
e ’a buonanotte, cu ’na lacrema, te canto…

Addò nasce ʾo mare

… me ne vurrìa ì’ llà.
addò nasce ’o mare:
me mettarrìa a canta’
senza cunta’ cchiù ll’ore.

Me scurdarrìa d’ ’o tiempo,
me perdarrìa p’ ’o sole,
senza cchiù nu core cupo,
senza paura, senza male.

E corrono ’e penziere,
nfino addò nasce ’o mare
e ll’ammore maje more.

22
Luna

Luna,
padrona e cumpagna d’ ’a notte,
mo ca nun è cchiù mezzanotte,
a meza voce te manno ’o saluto.

Ogge ca è luglio,
’sta vita se ’mbroglia:
quanno è matina,
mme sceta ’o surdiglino10;
quanno po’ è sera
me cunforta sulo ’o mare.

Aspetto ll’ora,
’o mumento ca cumpare,
e te dò ’a bonasera,
quanno è scuro e ’o cielo schiare…

Ddoje note

...cu ’na chitarra,


’na chitarra sulamente,
me ne sto cuntento,
scansanno ogni paura.
’Ntono ddoje note,
e ’a musica se ne stenne,
se sperde pe dint’â notte,
se ne fuje ’a dint’ê mmane.
«Era de maggio e te cadeano ’nzino»11
e volo luntano, fore d’ ’o munno,
addò so’, pe nu mumento,
chello che sonno, che canto...

10. surdiglino: fischio per il richiamo di una donna.


11. Salvatore Di Giacomo, Era de maggio in Le poesie e le novelle, cit. 176.

23
Amicizia
Tre giovani. Tre buoni mascalzoni.
Se ne stavano chiusi in un retrobottega a parlare di musica, futuro,
calcio, donne.
Non esisteva una scelta senza un consulto, un parere, una risata.
In materie di donne, appunto, manco a dirlo: ognuno di questi cre-
ava un appuntamento ad hoc per sottoporre la malcapitata di turno ad
una sorta di vivisezione, di esame meticoloso di corpo, pensieri, paro-
le, atteggiamenti, sguardi.
Quando si sentenziava, non era ammessa possibilità di replica, sol-
tanto laconiche spiegazioni con poche, ma precise, motivazioni: «nun
te guarda ’int’a ll’uocchie quanno parla», «troppo smurfiosa», «va’
truvanno una cosa…», «leva mano», «nun le piace Pino Daniele!», «è
’na pimmice12» ed altre frasi di questo genere o peggio.
Tre simpatiche e sfureste canaglie che di sogni ne avevano da ven-
dere: una macchina gialla – l’unica nella città – e queste tre cape di
bomba che vi viaggiavano all’interno con poca benzina nel serbatoio
e senza un soldo in tasca;
tre cataclismi che irrompevano nelle strade cittadine e cercavano di
pavoneggiarsi con occhiali da sole di seconda o terza mano.
Anche la scuola diventava un mero luogo d’incontro, di baldorie
condivise: assemblee d’istituto, occupazione, fantomatici ratti, erano
il tarlo di quel povero e arreso preside, costretto a dover “subire” quo-
tidianamente il vigore delle bugie di quei tre diavoli.
Tre sognatori. Tre visionari. Tre muort’ ’e famme:
perché, sempre con pochi spiccioli in tasca, al pomeriggio metteva-
no insieme quel misero gruzzolo e, a malapena, condividevano olive e
lupini, oppure zeppole e panzerotti.
Ancora assemblee, tempo di sorrisi e tressette tra i banchi. Tempo
d’amore.
Tre innamorati. Tre gelosie. Tre scassambrelle13:
povere ragazze, sfortunate diciottenni costrette alla sopportazione

12. pimmice: cimice; un individuo cinico e spregiudicato.


13. scassambrelle: pedanti.

24
di costanti scenate di gelosia e mancate risposte a telefono.
Tre marpiuncielle14 che farneticavano scuse, pretesti con fidanzate
e famiglia, per poter stare insieme, magari in silenzio, dinanzi al mare,
in attesa che la vita – quella vera, con i tonfi e i trionfi, la disperazione
e i sorrisi – bussasse la porta.

Eramo tre

...eramo tre.
Piccerille,
sfurestielle,
poche lire dint’â sacca,
tanta suonne dint’ê mmane.

Nun se cunusceva notte,


né juorno, né sera senza parla’,
senza cunta’ ’e furmelle15,
senza penza’ a dimane,
penziere, risa e femmene.

Ll’acqua ce ’nfunneva,
’a musica cumpagna c’asciuttava;
e ll’alba nun spuntava senza dì:
«bonnì16!».

Eramo tre,
poche lire dint’â sacca,
tanta suonne dint’ê mmane...

14. marpiuncielle: furbetti.


15. furmelle: in riferimento a piccole monete.
16. bonnì: buongiorno.

25
Frato mio

«...Frato mio, te voglio bbene -


lle dicette ’na matina  - 
ca si i’ vaco pe mmare,
tu deviente marenaro;
ca si tu te vuò stà ’nterra,
cu tte faccio pure ’a guerra!
E mme strujo, turmento ’e mmane,
alluccanno, ’nzieme: “Serra Serra17!”»

A nuje

Chiove ’a luntano,
siente,
lampe e tuonele18 sperciono19 ’sti nnuvole
e io guardo ll’uocchi’ ’e fratemo,
e penzo chi ero, chi so’.

Nun c’è acqua,


nun c’è mmare ca po’ ’nfonnere ’o sango
stritto, vuluto e penzato;
nun c’è viento ca po’ sfrunna’20 ’e mille parole
’e ’na giuventù passata a sunna’,
a ce cunta’21 risa22, lacreme e gioie.

E mo, fa chiovere!
Scinne acqua a zeffunno23!

17. Serra Serra!: urlo di battaglia dei lazzari napoletani contro l’invasore francese
nel 1799.
18. Tuonele: tuoni.
19. sperciono: da sperciare, trapassare.
20. sfrunna’: sfrondare.
21. cunta’: da cuntare, raccontare.
22. risa: risate.
23. zeffunno: grande quantità.

26
Stennimme ’sti vvite p’ ’e logge
ca, si pure se ’nfonneno24,
Cielo mio, fa tu:
lava ’e peccate fatte
e ’na mane, a nuje ca simme frate,
dacce a campa’!

24. se ’nfonneno: si bagnano.

27
«Napule è nu paese curiuso…»25

Nun m’arrenno!

«A Napule sta ’a Camorra»,


ca fa rima cu “ammore”?
Napule mo è senza scugnizze,
a Napule sanno fa ’e pizze.
A Napule cummann’’a paranza,
a Napule se parla ’e speranza.
Napule se po’ ddì “munno”,
Napule ha tuccat”o funno.
A Napule te piglie ’o ccafè,
a Napule hanno tradut’ ’o Rre.
Napule è nu Paraviso,
Napule è meglio ’e Paris.
A Napule tenimmo pacienza,
Napule stà perdenno ’a cuscienza.
A Napule parlano ’e “napulise”,
Napule s”a venneno ê piemuntise.
A Napule se fanno ’e ccanzone,
Napule chiagne ’e passione.
A Napule può ddì “dimane”,
a Napule te tremmano ’e mmane.
A Napule te cunsuole,
a Napule tu vuole.
« A Napule t’arrobbano»,
a Napule te vasano. 

Napul’è nu “jammo”,
Napul’è ’na famma!
Napul’è dulore,

25. Eduardo De Filippo, Le poesie, Torino, Giulio Einaudi Editori, 2004, cit. p. 192.

28
Napul’è nu core!

Napule ca spara,
Napule ca spera!
Napule, me siente?
Napule, mme pento!
Napule, te voglio,
Napule nn’ me ’mbruoglie!

Napul’è ’o sango,
Napule, ce stongo!

Napule, nun te cundanno,


Napule, te staje stracquanno.

Napule, i’ mme ne vanto,


Napule, i’ mme te canto!
Napule, sto sbattenno,
Napule, nun m’arrenno!

Napule, te cerco

«Chist’è ’o Paese d’ ’o sole»,


e i’ te cerco pure mo ca chiove;
te chiammo p’ ’a via ca ce rummane sule;
te vurrìa cu ll’anema ’ntempesta,
e te darrìa vase, farrìa mille feste,
alluccanno ciente, mille vote,
’o nomme scritt’a Dio contr’ô mmale:
Napule!

29
Napolitano

Scusatemi se amo questa terra;


scusatemi se non mi rassegno;
scusatemi se è «mille culure».
Scusatemi se sono napolitano
e la ritengo ancora Capitale.
Scusatemi se mi perdo,
scusatemi se non mi arrendo.
Scusatemi se ancora rido,
scusatemi pecché nun me ne fido.
Scusatemi se la canto,
scusatemi se me ne vanto.
Scusatemi se offro un caffè,
scusatemi si nun bevo ’o thè.
Scusatemi dei luoghi comuni,
delle pizze e dei mandolini,
della camorra e dei traffichini.
Scusatemi se guardo il mare,
scusatemi si credo ’ammore.
Scusatemi, qui ci vedo Dio,
scusatemi, ma nun me ne vogl’ì.
Scusatemi se dinanzi alla fine
i’ canto e me faccio ’o surdiglino.
Scusatemi se c’è ancora Bellezza,
addò se parla sulo ’e munnezza!
Scusatemi di tutto lo sproloquio,
ma ch’aggi’ ’a fà? So’ nnapulitano,
credo a Dio e quacche ccosa accocchio…

30
Io amo Napoli
È la città meno americanizzata d’Italia, anzi d’Europa:
nonostante le truppe americane rimaste per tanto tempo, a parte
qualche moretto che hanno lasciato lì, tutto ciò che era americano è
stato cancellato.
La forza del napoletano è in questo: nel loro carattere, nella loro
natura, nelle loro tradizioni […] il loro umorismo, la loro capacità di
risolvere con una battuta i problemi di una giornata.
Io ho fatto cinque o sei film a Napoli, grazie a De Sica, a Ettore
Scola con “Maccheroni” insieme a Jack Lemon. Persino lui era sba-
lordito:
aveva portato con lui una valigia di medicinale per quello che gli
avevano detto ad Hollywood sul colera o, vai a sapere, cosa poteva
prendere a Napoli … invece, si rese conto che non era così, che era
una città amorevole, piena di simpatia per lo straniero, non ruffiana,
neanche furba … ma intelligente.
A Roma, in via del Corso – io la percorrevo a piedi un po’ imba-
razzato anche perché è diventato un mercato arabo, pieno di gente
coi blue jeans strappati che fanno avanti e indietro, secondo me non
sanno neanche loro dove stanno andando – sentì uno dietro di me uno
che disse:«Ammazza le rughe, hai visto come s’è invecchiato?», detto
forte perché io potessi sentire.
La stessa cosa mi è accaduta a Napoli:«Marcellì, ce simme fatte
vicchiarielle … ’o vulite nu cafè…?». La vedete la differenza? Che
garbo, che gentilezza d’animo.
Io amerei vivere su un pianeta tutto napoletano, perché so che ci
starei bene.
Napoli va presa come una città unica. Napoli è troppo speciale!
Non la possono capire tutti26 …

Marcello Mastroianni

26. https://www.youtube.com/watch?v=4tZLSo5X9bM&t=1s

31
… tante cose avvengono che tutti quanti vorremmo non avvenisse-
ro, e a cui a malincuore ci rassegniamo!
Ecco: quando non ci rassegniamo, vengono fuori le velleità.
Una donna che vuol essere uomo … un vecchio che vuole esser
giovine …
˗ Nessuno di noi mente o finge! ˗
C’è poco da dire: ci siamo fissati tutti in buona fede in un bel con-
cetto di noi stessi. […] la vita! E sono sorprese, quando ve la vede-
te d’improvviso consistere davanti così sfuggita da voi; dispetti o ire
contro voi stesso; o rimorsi; anche rimorsi.
Ah, se sapeste, io me ne son trovati tanti davanti! Con una faccia
che era la mia stessam ma così orribile, che non ho potuto fissarla…27

Luigi Pirandello

27. Luigi Pirandello, Enrico IV, a cura di Roberto Alonge, Milano, Arnoldo Mon-
dadori Editore S.p.A., 2010, cit. p. 37.

32
Ombre
In quelle mattine d’estate, dove il caldo elimina il ritegno e l’umi-
dità scalfisce la parte più rude ed animalesca di ogni essere umano, tra
la richiesta di una bibita ghiacciata, il tanfo di chi ancora oggi ignora
l’esistenza del sapone, in un momento di stasi, di immobilità nel ten-
tativo di non sudare, ci si trova a guardare in terra ed a scorgere una
lunga – o corta, dipende dalla statura del soggetto – macchia nera, che
accompagna, emula, spia: l’ombra.
L’esigenza di pensare a qualcosa di diverso rispetto ai litri di sudore
che sgorgano da ogni poro ed i postumi del caldo instaurano una cu-
riosa forma di dialogo con la propria ombra, fatto silenziosamente o
a gesti: «Ma davvero sono così largo? No… sarà la luce che ingrossa
… che capa che tengo… da domani dieta ferrea!», oppure «comme so’
bbello! Che spalle, che corpo! Pare nu bronzo ’e Riace…».
Eppure, al di là delle paranoiche conseguenze estive, esistono altre
ombre, invisibili, ma altrettanto presenti:
cos’è la solitudine dinanzi al mare se non l’ombra della vita che si
specchia nell’acqua cristallina? Cosa sono i pensieri, le ambizioni, i
desideri, le piccole, squallide miserie umane, la ricerca del benessere,
il rifuggire dalle responsabilità, se non l’ombra di quello che l’anima
vuole, di quello che “è”?
Indaffarati, frenetici, ricercatori seriali di caos che albergano un
mondo vuoto, senza scrupoli: cieco e materialista; sazio delle sue va-
cuità.
Personaggi in cerca d’autore – per dirla con Pirandello – che tro-
vano nel più bello, nel più forte la strada da percorrere, essendo total-
mente incapaci di guardare, cercare le proprie ombre.
Ascoltare la propria coscienza.
Un’incapacità alla solitudine che diventa impossibilità di rimedio,
inabilità nel trovare risposte.
A riguardo, ecco cosa ebbe a dire Fabrizio De Andrè durante la
presentazione di Elogio alla solitudine:

Non tutti possono permettersi la solitudine: non se la possono per-

33
mettere i vecchi, i malati. Non se la può permettere il politico […]
però, quando si può rimanere soli con se stessi io credo che si riesca
ad avere più facilmente contatto con il circostante, che non è fatto
soltanto di nostri simili, ma direi che è fatto di tutto l’universo: dalla
foglia che spunta di notte in un campo, fino alle stelle. Ci si riesce ad
accordare meglio con questo circostante, si riesce a pensare meglio ai
propri problemi … credo, addirittura, si riescano a trovare le migliori
soluzioni.
Siccome siamo simili ai nostri simili, credo che si possano trovare
soluzioni anche per gli altri. Con questo non voglio fare un panegirico
dell’eremitismo, è che ho costatato nella mia esperienza di vita […]
che un uomo solo non mi ha mai fatto paura, invece l’uomo organiz-
zato mi ha sempre fatto molta paura28.

Ll’ombra mia

Mmiez’ô vverde e ll’addore ’e giuventù,


ll’ombra mia se stenne ’ncopp’ê viole,
tra ’na chiorma29 ’e susine e ô janco d’ ’e margarite:
ma pur’essa, scuntenta, me dà tuorto:
capuzzea30, avot’ ’e spalle
e se ne va …

28. https://www.youtube.com/watch?v=mk9vw5SAITI
29. chiorma: ciurma
30. capuzzea: scuote la testa.

34
Anema sola

...anema sola,
anema gentile;
anema sicura,
anema senza paura.

Core ’ntrestuto,
core cchiù cupo;
core ’int’ê lampe,
core avveluto.

Faccia stracciata,
faccia scippata,
faccia vasata,
faccia ’e resata.

Mane senza affanno,


mane senza malanno31;
mane ca te ’mbrogliano
mane cu cciente scuorne.

Senza parole,
sulo canzone:
parlame ’e bbene,
portate ’o mmale.

Chiammame sempe,
pure senza voce,
quanno ’o sole assaje coce
e, aspettannote, campo.

Anema sola,
anema gentile:
anema sicura,
anema senza paura...

31. malanno: malattia.

35
Sulo

Sulo.
Fermo c’ ’o silenzio ’e mille penziere,
stanotte, sulo cu mme, aggi’ ’a stà.
E si, tremmanno, canta ’stu core,
sempe zitto, cchiù ’nzisto, ’o faccio acquita’.

Sulo.
Fermo cu ’e suspire ’e ciento turmiente,
dint’ô scuro parlo, squieto, c’ ’a notte:
lle conto e lle spio qual è ’a verità;
lle cerco ’a Via comme ’na carità,

ma sulo,
’sta mia signora me ce manna ’sti nnuvole,
’sti parole ca se perdono a ddiece, a mille,
cu ll’ummeto ca mme strazzia ’sti ccarne
e a tte chiammo, chiagnenno, c’ ’o penziero...

Luntano d’ ’o munno
Sulo cu chi voglio,
comme voglio, aggi’ ’a sta.
Nun fa niente si mme ’mbroglio,
nu minuto zitto e torno a canta’.
Comme a tanno32,
senza malanno,
cu ’o core cumpagno,
mille vase lle manno.
E mo, luntano d’ ’o munno,
’nzuocolo, vaco sulagno33,
cu ’na rosa, ’na spina
e ’na canzone cantanno…

32. comme a tanno: come all’epoca.


33. sulagno: solitario.

36
Fermo

... me ne sto fermo,


’int’a nu tiempo senza tiempo,
’int’a juorne ca nun so’ ’e mieje.

Po’ vaco sbattenno,


’a ccà e ’a llà,
pe ll’onne stracquannome34,
cu n’umanità senza pietà,
mise e anne senza raggione,
e ll’ore volano, senza sunna’ ...

34. stracquannome: da stracquare, stancare.

37
Tammurriate
Musica di gioia e sangue, lacrime e fatica, meglio del sudore può
immortalare l’eterno magma di un popolo secolare, figlio di tanti padri
e, nel contempo, padre di tante Bellezze, di un’infinità di storie, di
migliaia di leggende.
Il ritmo della tammorra segna l’incalzante tempo dell’amore e del
sangue, del sesso e del lavoro, di una vita passata mmiez’â terra a
zappare con i calli alle mani ed un senso di libertà sconosciuto ai con-
temporanei.
Un tempo che diventa largo e non più lungo – secondo la geniale
intuizione del compianto Luciano De Crescenzo – dove l’incontro di-
venta festa e qualunque occasione è adatta per danzare e stigmatizzare
i guai, allontanare ogni discordia, creare e cercare l’utopia della giu-
stizia.

Tammurriata a lu tiempo d’’a vennegna

A lu tiempo d’ ’a vennegna,
me ne jette a la campagna,
la campagna verde e bbella
e ’ncuntraje a Chiarastella;

Chiarastella, nomme antico,


che bellizze, bbenedico!
Te purtaje ’na palomma
e ’na pullanca35 te fuje mamma.

Chiarastè, che bella sî,


mo te veco, ovvi’, purzì36,
cu zì Luca ’o stongo a ddi’,
che hê ’a essere sol’ ’a mì!

Nun me ’mporta d’’e varrate,


35. pullanca: pollastra.
36. purzì: peraltro.

38
lasso ’a zappa e pure ’e pute37
e cu ’sta musica a dispietto
me te dongo ’o core ’a pietto!

Chiarastè, tu nun t’affacce


ma i’ nun t’ ’a scippo ’a faccia
e cu pateto, ’Ngiulillo,
jamme a Casavetiello!38

E lle dico:«Oje ’Ngiulillo,


tiene tu n’angelo ’e figlia
si m’ ’a daje, i’ m’ ’a piglio,
nun me curo d’ ’e cunziglie.

E cu ’na vestella ’e sposa


me te mengo mmiez’ê rrose,
e cu suone, balle e cante
ce facimme ’a Santa notte…

Tammurriata sott’â pianta ’e noce

Sott’â pianta ’e noce te ’ncuntraje,


vino nuovo e pignatella39 te purtaje,
tu allèra pastenave40, tu allèra pastenave,
cu ’na zappa ’stu core ’nce ‘nchiantaje.

Bella Rusina mmiez’â terra staje,


bella comm’ô sole ca Dio purtaje,
viàto chi ’ncuntrava, viàto chi ’ncuntrava,
’sta vocca, ’sta resella ca purtaje…

“Tammurriata palazzola” te cantaje,


37. pute: strumento che serve per potare.
38. casavetiello: una strada antica del comune di Boscotrecase.
39. pignatella: pentolina.
40. pastenave: da pastenare, coltivare.

39
nu tamburo e cciento rose me carriaje41
’o cavero de Marzo mm’acquitava,
ma ll’aucielle, mmiez’ê fronne t’alluccaje:
«Neh, Rusì, che vaje facenno?!
Tu che diavule cumbine?
Core ’nfame, oje culumbrina!
’O core tujo a mme tu haje prummiso!»

«Chisto affronto nun l’îva fà!


Auciello ’nzisto e tradetore!
Mo t’ ’o straccio ’o core ’a pietto
e bonasera!»

E Rusina po’ svenette


doppo acciso chill’auciello
ddoje guardie e ’na manette
me purtajeno a San Francisco42…

Tammurriata a la sorella de ’sto core

È morta la surella,
la surella de ’sto core,
la chiammavano “Vitèlla”,
vitella de ’st’ammore.
È morta mmieze’ê mmane,
mmiez’ê mmane chi l’ha amata,
e nne mannaje ’stu bbene,
e ’o scrivette dint’ê ccarte.
È partuta ’sta “Vitella”
S’ ’a chiammata ’a nas’ ’e cane,
e mo se stenne a la Madonna,
la Madonna Santa e bella!
I’ m’ ’a chiagno ’sta surella,
41. carriaje: da carriare, caricare.
42. San Francisco: complesso San Francesco di Paola che nel XIX secolo divenne
carcere.

40
la surella de sto core,
e me struje chist’ammore
pe ’sta vita mariola.
E me vene sempe ’nzuonno
Mo ca ’e llacreme so’ stracque
Ma Ll’ammore nun è acqua
Ca te dà ‘mmano ’stu munno.
«So’ viva! Mia surella –
Me dice ancora ‘nzuonno –
Mo ca parlo cu ’a Madonna
Te faccio dì comme so’ bella!»
Ma stu suonno po’ fernette,
cchiù me manca la surella,
ma ll’ammore sempe è nuviello.
Nun ’o spezza manco ’a morte!

Zì Giannì

Zì Giannì,
cu ’o bastone cammenate,
dicite: ’sta voce addò ’a pigliate?
Ca viecchio e stanco vuje parite
e cu ciente vutate ve ne ascite,
pe chi sà: n’ata fronna43 ce ’a menate?

Zì Giannì,
chesta è ’a tammorra e ccà stà ’o vino,
che ddicite, ’o chiammammo ’o cuncertino?
Ca ’sta vita chesto tene, chesto manna
e, cantanno, priammo ’a Madonna,
pe chello ca jamme cercanno.

Zì Giannì,
si cantate, nun tutto è perduto!
Pure si c’hanno arrubbato;
43. Fronna: canto a distesa della tradizione campana.

41
pure si c’hanno stracquato,
rispunnimme, ’gnorsì, cuntente,
cu ’e ciaramelle e ’o canto a dispietto!

Tammurriata amara

Mmiez’â terra,
aggio pusato ’a zappa
e mo pigli’ ’a tammorra,
sunanno chello ca è ccaro:

pe nu perduto ammore,
ca m’ha sceppat’ ’o core,
cu n’anema sola e cupa,
meno ’na fronna a primm’ora.

Essa va ’ncoppa,
spampana44 ’st’ammore
e ’a tammurriata se fa amara:

lacreme, ch’ ’a terra adacquate45,


ve dongo ’stu core vacante46,
c’ ’o suono ’e ’na stesa i ’e n’ata vutata47 ...

44. spamapana: sfiorisce.


45. adacquate: da adacquare, innaffiare.
46. vacante: vuoto.
47. stesa i ’e n’ata vutata: due momenti topici della tammurriata.

42
Ave, Maria, grátia plena,
Dóminus tecum.
Benedícta tu in muliéribus,
et benedíctus fructus ventris tui, Iesus.
Sancta María, Mater Dei,
ora pro nobis peccatóribus,
nunc et in hora mortis nostrae.
Amen

43
Nu palpito

...’int’ô cammarone,
nu core vatte ancora:
mente se pente, prìa â Maronna
e spera, chiagne, ’nziem’â paura.
Ll’ommo cundanna,
Ddio perdona:
chello ch’ ’a vita leva,
’o Cielo manna.
Mmiez’a ’mbrugliune e malandrine,
nu palpito se sente
e tutto nun è cchiù vacanto,
e ’o mmale se ne va c’ ’a turmenta...

Madonna ’e Pozzano

Madonna ’e Pozzano,
mo ch’ ’a terra è assaje ’nfosa,
te prego, te cerco ’na mano,
senza scuonceco, senza scusa:
chello ch’ ’a vita leva,
tu, Mamma, dallo;
chella ca mo è ’na freva,
fallo vulà ’nfin’ê stelle.
E si Tu tiene pacienza,
me pòzzo chimma’ “Speranza”...

Mamma d’ ’e mamme

Aggio purtato ’a Madonna ’ncopp’ê spalle,


e mo, ovvì, me fanno male ’e bracce.
Cu ’stu dulore beneditto,
avarrìa cerca’ ’na grazia,
’na sporta ’e bbene putarrìa vule’?

44
E, invece, teccate ccà:
dint’a ’sta mano sta ’o bbene,
pe chest’ata sta ’o mmale
e Mamma d’ ’e mamme, fà tu:
si te dò ’stu ppoco ’e forza,
Tu miettece ’nu surriso,
pure piccerillo,
e ’st’anema a galla sagliarra’
e p’ ’o munno, cuntenta, vularra’…

Muntevergene

Oje Muntagna,
ca mme puorte a Muntevergene,
struje ogni ppena, ogni lagno,
e addenucchiato arrivo â Madonna.

Mamma Schiavona,
spacco ’stu core e te dongo ’stu bbene;
Vergene Santa,
pure si me cundanne, i’ so’ cuntento.

E saglie, allèro, ’a Muntagna!


Ogni passo ’na resella:
ogni suspiro alluntana ’o mmale…

45
Cuntento

Na vrasera,
ddoje noce,
’a tammora 
e ’o ppoco ’e pace.
Tanno me putarrìa dì cuntento,
c’ ’o suono d’ ’a zampogna e ’a ciaramella;
’o spasso doppo magnato,
e nu surzo ’e vino, chello nuviello.
Llà me scurdarrìa d’ ’o mmale,
me perdarrìa cu ’na nuvena,
jettarrìa tutt’ ’e ppene,
chiagnenno, alleramente, p’ ’o bbene...

46
Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi
vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei
tempi odierni.
Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce
nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio
io e le sue voglie48.

Papa Benedetto XVI


Joseph Ratzinger

48.http://www.vatican.va/gpII/documents/homily-pro-eligendo-pontifi-
ce_20050418_it.html

47
«… stanotte ammore e Dio song’una cosa»49.

Lontano dal tempo della frenesia, della velocità e del tangibile, il


verso di Ernesto Murolo rappresenta un manifesto (contro)rivoluzio-
nario.
Amore – Dio: un binomio rifiutato, accantonato dalla tecnologia e
dalla pornografia emotiva.
Il poeta si spinge però oltre: il binomio si trasforma in un’unica,
indissolubile, entità.
L’amore non ha ragion d’esistere senza la presenza di Dio, da inten-
dere non solo in una chiave fideistica, ma come espressione sublime
di purezza.
L’amore, quindi, che supera se stesso, lascia la “materia” e travalica
in un immortale attimo di Bellezza inarrivabile, di “sospensione”.
Vivere “sospesi”, quindi, in un equilibrio precario tra l’onirico, il
divino e la vita, con i suoi giorni, le sue ansie, il suo ritmo.
Vivere sospesi è un rifugio, il riparo segreto di ognuno rispetto alla
banalità, all’essere per avere ed avere come unico, disperato essere.
Sospesi e “persi”, sin da piccoli, quando la maestra, nell’impeto
della sua insoddisfazione, urla: «Ma staje sempe cu ’a capa ’int’ê nu-
vole? Ma a che pienze? Scetate ’a ’stu suonno!».
Svegliarsi e perché?
Per apprendere la matematica in una vita che sottrae e la letteratura
in un’esistenza priva di poesia.
Vivere sospesi, vivere poetando.
Vivere eliminando il “superfluo”, tutto quello che rallenta la perce-
zione dell’unico, irrinunciabile, senso dell’esistenza: la poesia.

49. Mandulinata a Napule (E. Murolo – E. Tagliaferri) 1921

48
Zitto

...si ’a ggente allucca,


i’ me ne sto zitto:
’nchiudo ’o core ’int’â ’mmillocca50
e m’ ’o ’stipo pe quanno passa ’o viento.

Pe mo parlo sulo,
luntano d’ ’o munno,
cu mme e nisciuno,
pe paura d’ ’o male.

Dimane, forse, torno,


e si ne so’ sicuro,
cu Dio si cummanna,
cumbatto pure ’int’ô scuro...

’Na casarella

... ’na casarella mmiez’â campagna,


cu ll’addore, ll’aria e muntagna,
mente ’o sole c’ ’o viento se lagna,
i’ cantanno abbruscio ’a crianza,
cu ’stu suono ca me chiamm’ ’a speranza,
e p’ ’o vverde me ne vaco sulagno.

È ll’ora d’ ’a cuntrora:
nisciuno parla, nisciuno dice,
’auciello canta felice
e io, squieto, aspetto ll’ora….

50. Ammillocca: busta per lettere.

49
Dorme ’o paese

’E quatte.
Dorme ’nsilenzio ’o paese,
mente già è scetato, già chi se stracqua51, 
chi ha dda penza’ â jurnata.

Dorme ’arillo, nun se move,


manco ’o ffrisco smove ’e penziere:
sulo ’na voce, pe dint’ô chiarore,
freme e canta luntano:
’a sento ma nun stenno ’a voce,
lle risponno cu ’o silenzio,
cu chest’aria ca se ferma
e me ’ncanta, scetato,
a sunna’ ...

51. stracqua: stanca.

50
Sergio Bruni

È l’incontro tra aria e sangue, anima e pulsione erotica, che si materia-


lizza nella sua Voce.
Non è solo canto, è qualcosa che trascende la superficiale compren-
sione umana;
è un “oltre” tutto quello che è tangibile.
In questo “oltre”, c’è lui.
C’è la sua Voce. 

N’atu munno

...dint’ô munno 
n’atu munno campo;
dint’ô bbene
vita overa veco,
mmiez’a chi parla
senza parla’,
ride senza penza’...
Ma, oje uocchie gentile,
vedennove me veco,
penzannove ve sonno
e, p’ ’a vacantaria d’ ’a ggente,
luce nova purtate,
sunanno e ccorde
’e ’na chitarra ’nnammurata...

51
Lavoro
Mezzo, strumento, fine, obbligo, senso. Tutto il contrario di tutto.
«Andare a lavorare» assume, spesso, una diversificazione di
significati a seconda del momento, delle situazioni e soprattutto del
lavoro stesso:
può rappresentare una maledizione per chi ama stare a spasso, un
augurio per chi si è appena laureato, una speranza per chi è stanco di
vedere nu candelabbro52 che gira per casa ad oziare.
Al di là delle differenze sopraccitate, quella più tangibile è possi-
bile riscontrarla nella formulazione della frase in napoletano. Già nel
suono della stessa è possibile verificare tutto il peso, l’aggravio del
sudore e dello stress psicofisico.
Se si prova a dire:«Vaco a fatica’…» è impossibile non avvertire
nella voce, addirittura sulla pelle, l’intolleranza, l’idiosincrasia verso
un’attività lontana dal proprio essere, dalla propria vita.
’A fatica non ha nulla in comune col lavoro:
quest’ultimo rappresenta il completamento dell’uomo, un mezzo
che permette allo stesso di vivere e sostenersi; la prima, invece, rap-
presenta una forma subdola che mescola routine, noia, stanchezza già
prima di cominciare, lacrime, insoddisfazione, avvilimento, depres-
sione, annientamento, distruzione, devastazione, fine.
Tutto in una frase:«Vaco a fatica’…», detta magari il lunedì mattina,
dopo una domenica passata a guerreggiare con i ziti spezzati53, la carne
del ragù ed un pomeriggio passato ad asciugare le lacrime con le len-
zuola, pensando alla fatica del giorno successivo.
È il rispetto, però, che supporta il Lavoro e/o fatica.
Senza voler scivolare nella retorica, non può esistere lavoro senza
solidarietà, senza garanzie, senza il diritto di svolgere il proprio do-
vere verso se stessi e verso il mondo serenamente, senza ricatti, senza
giocare con la vita.

52. candelabbro: un candeliere. Usato per definire una persona fastidiosa e nullafa-
cente.
53. ziti spezzati: particolare forma di pasta spezzata, usata tipicamente con il ragù
napoletano.

52
Non può esistere lavoro laddove la giusta ripartizioni dei ruoli sfo-
cia nella tirannia, nel sopruso, nel giudizio inalienabile e senza replica.
Il lavoro si trasforma in fatica quando la vita stessa è incanalata in
un unico binario, senza alternative, che non lascia scelta, perché oltre
di esso c’è l’esclusione dalla società, il rigetto da parte della stessa.
Il binomio lavoro/vita trova un suo senso, infine, quando qualsiasi
essere umano trova nell’esistenza la voglia, il desiderio di completarsi
e di poter esser al mondo (anche) col lavoro.

’Na jurnata a fatica’

Vaco ’na jurnata a fatica’;


si nun fatico nun se magna,
si nun fatico nun esisto.
Si ogge mangio maccarune,
dimane faccio ddoje scorz’ ’e pane,
doppodimane vaco mman’ô padrone
e lle porto ’sti quatt’osse,
ca si passa n’atu juorno
songh’io ca ’e jetto a mmare,
calamm’ ’o sipario e bonasera!

53
’O cane d’ ’o padrone

’O cane d’ ’o padrone,
ca pure era padrone,
mo ch’ ’a fabbreca è falluta
mmiez’â via se n’è caduto...
Mmiez’â via sulagna54 e scura
va abbrucanno ’a carità 
pe chi nun tene ’nfamità
e nun tene maje paura.
E a miezejuorno, senza speranza,
se ne va, stracquato55,
e senza jenchere ’a panza...

’E guarattelle56
.
..chi ’o ssa’ addò va’
’stu pover’ommo cu ttre figlie
e cu ’sta sporta chiena ’e cianfrusaglie.

Chi ’o ssa qua’ penziere


’mmesca ’nziem’ê pazzielle,
ê ritrattielle,
ê surrise d”e criature.

Chi ’o ssa’ quanto lle costano


’sti reselle e ’sti vvoce ’e vennetore;
quanta lacreme amare areto
ê guarattelle.

E cammina, poveru pate,


a fforza ’e stiente, ’e speranza,
pe nu dimane ca vo’ a Dio,
54. sulagna: solitaria.
55. stracquato: sfinito.
56. guarattelle: burattini.

54
mmiez’a ttanta “ggente onesta”,
ca guarda, ride
e se ne va...

Nannina

Nannina,
passa ’a vita faticanno:
senza lamiente e senza lagne,
campa poco e a stiento magna.

Cu ’na criatura e nu pesone,


qua’ sfizzio mme vaje ascianno?

Struje ’e mise, ll’anne, ’e juorne 


cu ’a trista legge d’ ’a fatica,
ca te sbatte ’a llà e ’a ccà
e te cunzuma ’a vita, arrabbattanno57...

Dduje amice

«...che ffaje ccà, Ninù?»


- addimannaje ’o primmo ’e dduje amice -
«Niente. Guardo».
«Guarde? »
«’Gnorsì, guardo».
«Te repuose. Ogge nun fatiche? ».
«Se...Proprio... ».
Chillo ch’addimannava capuzziava58,
sfruculiava:
«Ninù, pe sape’, che fatica faje?»
«Addetto alla cuntabbilità dei genero alimentaro e della

57. arrabbattanno: da arrabattare, fare le cose velocemente ed a stento.


58. capuzziava: da capuzziare, scuotere la testa.

55
dissoccupaziona... »
«E ched’è?! »
«Tu mo, vuò sape’ i’ che ddico, eh?
Guarda ccà, vicino a mme:
i’ tengo mente ’a ggente che nn’accatte magna’ e me ricordo ’e chel-
lo ca nun tengo,
chello ca mme serve e chello ca nu’ pozzo ave’. 
E sto aspettanno a chi dice ca “chi nun fatica magne e beve”,
quanno torno â casa
e ’o pizzo friddo è ’o fuculare 59...».

’A legge d’ ’a fatica

I’ cunosco ’a legge d’ ’a fatica,


ca nun sape né feste, né vita:
c’ ’o martiello e ’o scalpiello 
magno pane e semmenzelle.
Faticamme pe campa’,
’o destino è ’na fatalità,
e vance ’o spia60 che sarra’ d’ ’e figlie:
cu ’sta legge d’ ’a fatica 
nun c’è tiempo, nun c’è chianto,
te ce resta ’o ppoco ’e forza,
e ’a voglia d’allucca’...

59. ’o pizzo friddo è ’o fuculare: il luogo della casa più freddo è il focolare. Rappre-
senta un paradosso che esprime la povertà di una casa dove non c’è possibilità di
cucinare.
60. vance ’o spia: vallo a sapere; chissà.

56
’O padrone

...fatica dicenno:«grazie!»,
pure si â casa puorte sul’ ’o ppane!
’O padrone, ovvì,
cchiù te guarda e cchiù se ’ngrassa:

è ’na specie ’e prerecatore


ca se mette ’ncopp’ ’altare d’ ’a miseria,
e tu le puorte ’o sango,
comme fosse ’na preghiera…

Viene, primmavera!

Viene, Primmavera!
Ca c’arape ogni ffenesta,
e ce scanze d’ ’e ppaure,
cu ’na smania ca è ’na festa!

Viene, senza fermarte,


porta luntano vierno,
cu tutta ll’acqua e ’o viento;
trase cantanno ’na canzone:

’Na canzone doce e antica,


ca mm’alluntana d’ ’a fatica,
e mme ’nchianta61 ancora ccà,

addò pure ’o ggelo ’e febbrare,


mme dà pace e ’o ppoco ‘ammore,
e mme dice: «Terra mì, i’ pe tte moro!»

61.’nchianta: da ’nchiantare, impiantare.

57
Pascale!

Doppo Pasca, vattele pesca


’sta mesata ca vene, corre e nun vide.
E, comme fosse nu malanno,
’o padrone vene e fa ’a lemmosena;
ne straccia a mìlle ’e carte ’e ciento,
ma quanno tuzzulie62, 
che nne aspiette? 

Haje voglia ’e chiagnere miseria?!


Si ll’addimanne, 
te risponne cu ’e pparole arrepezzate63.

Pascale, Pasca’!
Vance ’o spia chi ll’ha criato
’stu munno ca è ’na rota ca nun gira,
e chi nasce c’ ’a cammisa,
pure si sputa ’nterra, cresceno ’e margarite
e a tte, ca jette fatica, sangue e sudore,
manco ’na scorza ’e limone 
te fanno ’nchianta’!

Girda

Girda:
mo ca ’o sole ’nfoca
e ll’aria nun ce sta,
’na palomma janca pare
aret’ô bancone ’e nu cafè.
D’ ’e gioie te sì scurdata 
pecché semp’ ’e fatiche campaste.

62. tuzzulie: da tuzzuliare, bussare sommessamente.


63. arrepezzate: rattoppate.

58
E mo, ca mme guarde,
t’arricuord’ ’e tiempe antiche,
’e suspire, ’e serenate,
e te scuorde, nu mumento,
d’ ’e dulure,
d’ ’a fatica...

’O presebbio te piace?

«’O presebbio te piace?»


«E aspetta ca è ambressa,
tengo ’e tasse, ’e ricatte,
nu prutesto e nu sfratto,
qua’ Natale m’aspetta?»
«E nun chiagnere famma,
quatt’ova d’ ’a chianca,
nu pezzullo ’e furmaggio
t’’o può ancora mangia’:
«’O presebbio te piace...?»

«Me piace ’o presebbio,


ma si nun tengo fatica,
’o padrone me caccia
e po’ ’e famme me moro,
qua’ pasture e Benino,
San Giuseppe o Bammino,
me po’ cchiù salva’?»

«Nun dà aurienza a ’sti ccose,


nun ’nguitarte64 p’ ’a via,
’a famm’è ’na bestia
ca se ferma p’ ’a via,
sparagnanno ’a cuscienza
e vennenote ’a vita»

64. ’nguitarte: da ’nguitare, allarmare; dare fastidio.

59
«Ma qua’ vita me vengo
si mo sulo  p’ ’o mare,
p’ ’a riva e p’ ’e scoglie
i’ me pozzo mena’»
«Senza mare e né scoglie,
lasse ’onore p’ ’a via,
jett’ ’o core ’a ’sta vita
e p’ ’e strade vattene,
ca si uno te dice:
“’O presebbio te piace?”
Tu fà ’na resata
e tira a campa’...»

60
La vera, grande Capitale nella penisola italiana è Napoli.
È stata la Capitale di un grande regno.
Nel Settecento, quando si parlava delle grandi Capitali dal punto
di vista culturale, economico, commerciale, ci si riferiva a Napoli,
Madrid, Parigi, Londra, Vienna, San Pietroburgo65.

Riccardo Muti

65. https://www.youtube.com/watch?v=sl4lDOYRuNg

61
«Ll’Italia s’accresciarra’66
cu ll’arte d’ ’a rraggia 67 e ’o rancore!»68

Né taliane, né cammurriste!

...’o sango ’a dinto volle!


Nun simme taliane e cammurriste,
ma zumpammo c’ ’o tamburo
e facimme ’a tammurriata:
’a tammorra se fà ‘nzista
pe chi mo cchiù nun resiste
e smaledice ’stu Sissanta69.
’O cuverno e ’o Parlamento
’nce ’o facimme c’ ’a ’nzalata,
â salute d’ ’a ’Mbriana 
ca sona e abball’ ’a tammurriata!

Armì

Armì,
è ’o ’915, lasso ’a terra
e me ne vaco pur’i’ ’nguerra.

’Stu rre ’taliano,


ce manna ô fronte,
me ne fà partì.

Armì,
quanto te costa ’stu “sì”,
e pure a mme ca me te chiagno,
pure si me ne vaco a murì…
66. accresciarra’: da accrescere, crescere.
67. rraggia: rabbia.
68. Pasquale Squitieri, Li chiamarono … Briganti, 1999.
69. Sissanta: in riferimento al 1860, anno della fine del Regno Delle Due Sicilie.

62
’A fascia triculore

’A figlia d’ ’o padrone,
m’ha chiammato:«terrone!
Streppegna70 fetente de ll’Italia,
ruvina della Nazzione!

Uh mannaggia chell’Amalia
ca te facette ’ncopp’Antignano!

Ll’aggio ditto: «Mia signò!


Chesto ’o jate a dì ô padrone,
c ape ’sta fascia triculore,
se vennette ’a mugliera ô Chiatamone71
e vuje site nata figlia ’e … gran signore!

Oilà

Oilì oilà,
’e ’st’unità nun avimmo che ffà.
Oinè oinì,
Manuele e Garibbà72 vedite addò ’ita ì’!

E chi ogge parla ’e Nazziona


ajere era ’o primmo ’mbruglione;
chi mo nce parla’ ’e tasse
c’ha sempe ’stipato ’e salasse!

E mo ca ’e strate stanno a nomme ê fetiente,


d’ ’o sangue e d’ ’a Patria se songhe scurdate 
e cchi, ancora ogge nun tremma, è chiamato “Brigante”!

70. streppegna: radice.


71. chiatamone: strada di Napoli, situata nel Borgo Santa Lucia.
72. Manuele e Garibbà: Vittorio Emanuele II e Garibaldi.

63
Addò ’a terra ha tremmato

…e mente ce ’nguitamme73
p’ ’o cuverno74 ’e ’sti taliane,
a Terzigno, addò ’e ccase so’ cadute,
pure mo Natale vene:
mmiez’ê llacreme, ê jastemme,
ê prumesse e â supirchiaria,
’stu Ninno llà va a nascere
e pe capanna ’na Chiesa abbandunata,
addò ll’alba n’ata vota spuntarra’
e ’sta speranza, cu Dio,
mo cchiù ’e primma
nasciarrà…

73. ’nguitamme: da ’nguitare, agitare.


74. Cuverno: governo.

64
Nemo profeta in Patria75
Raffaele Viviani in Campanilismo riuscì a sintetizzare quella velata
e radicata maledizione che attanaglia, da sempre, il talento di questa
terra:

Qualunque cosa fa, siente: ˗ «E ched’è?»


˗ «’O ssaccio fa’ pur’io». – «Senza pretese».
E chesto simme nuie. Dopo di che
nun se fa niente ’e buono a stu paese?76

Avvilire il talento altrui per quest’innato immobilismo; per la vi-


gliaccheria di non fare appello alla propria onestà intellettuale; per
l’incomprensibile avvilimento della riconoscenza e della capacità di
confessare il merito altrui, in nome dell’egoismo, dell’invidia, del be-
cero pregiudizio.
Nel tempo della mediocrità, del nulla pubblicizzato come oro ’e
Franza77 – per dirla con l’antico detto – il talento vive una costrizione
di silenzio, un forzato isolamento ad opera, spesso, degli “approssima-
ti”, di chi parla per sentito dire, o peggio, pe fa piglia’ aria â vocca.
Piccoli e grandi centri urbani avviliti dal nulla di fatto, dall’estre-
mismo dell’ignoranza che, come la malerba, cresce anche tra i fiori.

Paese

Paese mio,
addò ogni mura è nu ricordo,
ogni fenesta nu suspiro,
te do ’a bonanotte,
pure mo, ca tutto pare perduto,

75. Nemo profeta in Patria: nessuno è profeta nella propria Patria.


76. R. Viviani, Poesie, a cura di Antonia Lezza, Napoli, Alfredo Guida editore,
2010, cit. p. 255.
77. oro ’e Franza: oro di Francia.

65
ca pure ll’aria è stata arrubbata.
Bonanotte a chi pensa ’e fuì,
a chi dorme e annascon’ ’e pensiere,
a chi tra n’ora se sceta;
Bonanotte a chi suonno chiamma
e a chi lietto nun tene.
Bonanotte, paese mio:
ricordo ’e nu piccerillo perduto,
ca dint’â casa cerca calore ...

66
Un balcone, un grembiule striminzito
Il suono di un motore che s’avvicina e dei capelli bianchi, eco di una
voce enorme, roboante.
Risate acute e contadine, aria pura.
Anni Novanta, tutto era più semplice e tutto cominciava a complicarsi.
Un giocattolo, una moto rossa, pianti di gioia, soldatini sparsi in ter-
ra: ancora “pazzielle”, ancora “cose bbelle”,
ancora noi, come ieri.
Come sempre.

67
Ricorde

...nu salone, gruosso;


’na cucina aperta ô cielo;
’na faccella tonna78 e rossa
e nu core senza male.

Piccerillo turnarrìa:
cu ’e penziere ’int’a ’na sporta,
pure cu ’e mmane redarrìa,
e tutt’ ’e vacantarie79 for’â porta
mettarrìa...

Nonna
.
..nu palmo ’e femmena,
nu spruoccolo80;
’na chiorma janca,
nu cielo ’e neve;
’na voce fina,
chiara e liggera:

p’ ’e mmane ce passava ’o bbene,


e cu fforza ce scansava ’o mmale,
pe chell’anema c’astipavo ’e vase,
cu nu surriso me scansava ’e peccate.

E mo, ca tutto pare fernuto,


cu ’e penziere te sento,
cu ’e suspire te chiamme

e cu ’e llacreme m’astrigne ’mpietto,


comme a tanno.
Comm’a mo...
78. tonna: tonda.
79. Vacantarie: vacuità.
80. Spruoccolo: stecco.

68
’O Princepe

T’aggio visto ’int’â fantasia,


cu ’e llente grosse e ’a vavara81 spartuta:
mme guardave senza arrassusìa82,
sturcive ’o naso p’ ’e nnote stunate.

T’aggio visto e aggio chiagnuto, 


 cu ’na mano p’ ’e capille nargentate83,
nu poco ’e scuorno è passato cu nu vaso,
ca primma ’e mo maje ha truvato passo.

E mente te scrivo, ovvì,


cu Attanasio ’ntuone “Tutta pe mme”,
e redenno, ’nfatasia, te stongo a sentì...

’A cosa bbella

...chi ’o ssa’ che mme dicisse?


Chi ’o ssa’ qua’ parole cuntarrise84;
qua’ ditto antico me spuntarrisse?
Chi ’o ssa’ si mo mme vide,

si ’na carezza  mme daje ’nzuonno?


Si ancora ’e mmane ce stregneno
mo ca nun ‘e vveco cchiù...

E torno piccerillo, ovvì,


cu ’a speranza ’e chillu suono,
’a smania ’e nu criaturo,
’o spasso, ’e rrise,
’a cosa bella...

81. vavara: mento.


82. arrassusìa: letteralmente, “lontano sia”.
83. nargentate: color argento.
84. cuntarrisse: da cuntare, raccontare.

69
E penzo a tte …

... e penso a tte,


ca ’o sole ’e tant’anne
vierno’int’ê capille t’ha purtato.

E cammine, pe ’st’urdema riva,


vedenno chillu mare sempe blu,
comm’ ’e capille ’e tante sole fa:

nire, lucente ’e nu chiarore 


ca vide sulo ’int’a ll’uocchie,
ca mo se ’nfonneno 
pe ’na Luce cchiù lucente d’ ’a luce...

Una voce

Vaco sbattenno,
sbarianno p’ ’o munno,
stracquanno ’e pprete d’ ’e paise.
Eppure, si mme fermo,
si ’o silenzio d’ ’e suone, d’ ’a ggente,
d’ ’e parole se stuta,
una è ’a voce, uno è ’o suono 
ca mm’acquieta, accussì,
pure senza parlà.

E mente zitta se ne sta,


’mpruvvisamente parla,
cu ’na mano,
franca e liggera,
t’asciutta ’e llacreme 
e ’nfin’ê stelle
’sti suspire fà tremma’ ...

70
Te sento

Tu, forse, nun ’o ssaje,


ma te sento. 
Quann’ ’o male buss’â porta,
’a vacantaria d’ ’e parole sona,
io te sento.
E si ’e llacreme scenneno fino
a ’nterra,
’na mano
ll’uocchie m’asciutta 
e doce me vasa 
e ’a mano m’astregna, 
accussì, senza parla’ ...

’Na casarella

...e ce sta ’na casarella:


ddoje stanze, ’na cucina,
’na Madunnella p’ ’a curtina,
’o ppoco ’e loggia, ’e scale,
e quanno ll’aria è matutina
siente ‘addor’ ’arance,
’e spas’ ’e ciardino.

E p’ ’e scalelle,
tante e piccerelle,
ce ’nchiantaje ’sta vita;
’nfunne ê ggrare85
’nce lassaj’ ’e surrise,
’e chiant’ ’e criatura,
’e spasse, ’e ccose belle.

85. ggrare: gradini.

71
E mo,
ca so’ gruosso
e piccerillo cchiù nun so’,
ce passo e trovo ancora ’e rrise,
’e llacreme, ‘addor’ ’arance.
’E ccose overe..

N’angolo

N’angolo nascuso86,
sperduto ’int’a ll’uocchie,
’int’ê viche
’e chi ’o ssa’ qua’ penziere,
’e chi ’o ssa’ qua’ ricorde.

’E chi ’o ssa’ qua’ vita


campata, sunnata.
Lassata.
’E chi ’o ssa’ qua’ core
ca, forse, campa pure mo,
senza campa’…

P’ ’a via

So’ crisciuto llà,


p’ ’a via.
’O mmale ll’aggio visto,
m’ha ’mmitato87 a lle dà ‘o “tu”:
ll’aggio guardato, ll’aggio temuto
e ancora mo mme fà paura,
ma nun m’ha affatturato;
ll’aggio cumbattuto,
ll’aggio vinciuto
cu nu «statte accorto»

86. nascuso: nascosto.


87. ’mmitato: invitato.
72
’e mamma mia.
’O Bbene, ogni juorno,
cumbatte ’a Croce,
mmiez’ê mmane ’e chi tremma,
e lle fà paura ‘a vita.
Ma ’o Bbene nun se cerca,
nun se chiamma:
’o Bbene se prega.
 Se fà. 

73
«Primma ’e mangia’ nu frutto nuovo,
fatt’ ’o segno ’e Croce!».

Tardo pomeriggio a studiare.


Tra una perdita di tempo per far correre le maledette lancette d’o-
rologio – che, proprio durante quelle ore, somigliano a due maci-
gni sollevati da un ometto emaciato, scheletrico – lo stomaco suona il
campanello e chiede aiuto.
La voglia è poca, la famme – sempre la stessa di prima, non cambia
– diventa un pretesto per recarti nella dispensa della cucina e rovistare
come un ladro in cerca d’argento.
È ottobre, la mamma è impegnata in altre faccende domestiche,
nel “cambio di stagione”, il rossore dei melograni appena raccolti è
un richiamo troppo succulento per potergli resistere. Per un momento
pensi:«si, so’ bbuone, ma nun me sazziano!
Cu ’sta famme ca tengo ’sti ’ranate88 me sciacquano ’o stommaco».
Poi, il pensiero dei libri, dell’algebra che bisogna studiare anche se
si è in difficoltà con le tabelline, il tempo da perdere per sbucciare il
melograno, lascia pochi dubbi:
si prende il coltello e lo si comincia a spaccare.
Mentre lo si sta gustando beatamente, ecco la mamma con la cuc-
chiarella89 ˗ è ignoto alla scienza come facciano le mamme napoletane
ad avere sempre questa benedetta cucchiarella con loro, pronta ad es-
sere utilizzata – avvicinarsi ed intimare:«Chiste è ’o primmo ’ranato
’e chist’anno ca te mange … primma ’e mangia’ nu frutto nuovo, fatt’
’o segno ’e Croce!».
Dietro l’apparente mistero ed incomprensibile prassi, si manifesta
invece l’ennesimo segno di Fede, di Ringraziamento.
Il segno della Croce prima di mangiare un frutto “nuovo”, rac-
colto quindi per la prima volta durante l’anno solare, significa senso
di profonda gratitudine verso Dio che ha dato la forza ai contadini
di piantarlo e raccoglierlo, con il suo soffio l’ha fatto germogliare
ed a chi lo mangia la possibilità di farlo: significa, inoltre, che no-
nostante tutto un altro anno è passato e si è ancora in vita, pronti a
raccogliere i Suoi frutti, ad accogliere questi piccoli-grandi miracoli.

88. ’ranate: melograni.


89. cucchiarella: mestolo da cucina.

74
Comm’a nu ’ranato

...se spacca
e, a cciente, cadeno ’sti lacreme rosse
’ncopp’â terra già ’nfosa d’ ’o ’nfuso.
E comm’a nu ’ranato,
’stu core se spacca e spampana90
’ncopp’a n’atu core
’nfuso, pur’isso,
ma ’e nu chianto
fatto ’e aria, lacreme
e suonno ...

N’ato anno

...è fernuto aùsto,


vene settembre:
piglia ’e libbre,
torna â scola,
n’ato anno accumencia
e, lentamente, va a ferni’.

Se stenne p’ ’e llogge,
se spanne p’ ’e ccase
’stu mese ca sperd’ ’o calore,
e p’ ’o mare, po’, sarrà n’ata vernata:

ll’acqua fredda turnarrà;


e settembre, piatuso, 
ddoje lacreme,
lente e doce, farrà spunta’...

90. spampana: da spampanare, sfiorire.

75
Melannurca

Melannurca,
rossa comm’a ’na vocca,
d’ ’o sapore ’e mille vase,
’nzuccarata comm’ê squase.
Melannurca,
i’ mo rummango ccà:
addò chiove e friddo fà,
comme faccio a te truva’?
Melannurca,
nu muorzo, ’nfì, te dò
ascianno, cu tte, chella vocca.

76
« … doc’è ’o suonno ca mme sonno.
Ah, putesse, sunnanno, muri’»91

Spesso nella Canzone Napoletana si è fatto riferimento al verbo, appa-


rentemente tragico, muri’.
Inutile redigere il significato letterale, è chiaro che ci si trova di-
nanzi a qualcosa di “altro”, di estraneo rispetto all’accezione usuale.
Quel genio di Libero Bovio dà prova di cosa esprime murire nella
canzone e, quindi, nella poesia napoletana: un ossimoro apparente,
un’estasi così profonda e irraggiungibile che persino la morte può di-
ventare parte di essa, continuo di un ciclo di gioia infinita e, nel con-
tempo, chiusa in un istante, in un attimo che vale una vita.
«’E vvote nu minuto è tutt’ ’a vita», scrive il poeta Cioffi nella
sua Vasammece ’na vota, riassumendo magnificamente il significato
dell’istante eterno che può indurre alla felicità irripetibile ed al «sun-
nanno, murì».
Un sogno che trasforma finanche la morte nella continuazione eter-
na di quell’attimo, per il quale vita e fine si congiungono nella so-
spensione, in una dimensione che abbandona la materia e trascende la
poesia:

Vicin’ô mare, facimme ’ammore,


a core a core pe ce spassa’.
So’ marenaro e tiro ’a rezza,
ma p’allerezza, stongo a muri’92 …

I versi di Ottaviano esemplificano ulteriormente il concetto:


per quell’attimo di allerezza vale la pena spendere un’intera esi-
stenza, perché in quell’istante si abbandona il “terreno” e s’incontra il
“divino”, lo spirito che giustifica e sublima il miracolo della vita.

91. ’Ncopp’a ll’onna: Libero Bovio – Vittorio Fassone, 1918.


92. ’O marenariello: Gennaro Ottaviano – Salvatore Gambardella, 1893.

77
Notte

È notte.
Son’ ’a campana luntana,
saglie ’addor’ ’arancio,
e nu rummore se stenne,
se sfronna p’ ’e fronne:
palpite e suspire se ’mmescano 
e luntano vanno,
forse ’ncielo,
forse a tte...

Suonno

Suonno,
ca ’e me nun t’adduone,
mente te cerco, dannote ’a voce,
tu nun me siente, nu’ stienne ’sti bracce.

Notte ’e settembre,
cielo ’e mille nuvole,
sulo ’nzieme a ll’ombre,
parlo senza parole.

Suonno,
ca squieto te chiammo,
portame purzì93 luntano!
Parlame, stunannome, ’e bbene...

93. Purzì: peraltro.

78
Ccà, mmiez’ê mmane

Sta ccà,
mmiez’ê mmane,
’st’anema ca se scioglie
comm’a neve ô sole
e acqua addeventa,
ca tu bive ’nsilenzio,
comme fosse ’na surgente...

79
Non demordete mai dalle vostre idee.
Devo citare Julien Benda:
«Che le vostre risposte siano: si - no.
Soprattutto, non cercate di spiegare il “si” o il “no”, perché ogni
spiegazione è già un compromesso»94.

Andrea Camilleri

94. https://www.youtube.com/watch?v=g2gcrj6tWs4

80
Essere ciò che si è, ciò che si sente, è tremendamente faticoso ed
implica la sofferenza di una “diversità” tangibile, eppure appagante.
Sentirsi Vivi, rispettarsi e vivere ogni giorno nell’irripetibilità
dell’istante significa saper accettare, discretamente, l’unicità della
propria esistenza. 

’Nzerra!

’Nzerra. 
Tutt’ ’o bbuono,
tutt’ ’o mmalamente,
tienelo chiuso, ’nzerrato.
Viestete ’a fesso,
curre p’ ’o paese,
e ddì  sempe: «’gnorsì!»

’A ggente è fatt’ ’e pparole 


e si nu’ lle daje pane,
chella  corre a s’ ’o cercà:
dà nu miezo sord’ô panettiere
e chillo pure figli’a essa se dichiara.

E si te ne struje,
p’ ’a via cchiù te lagne
pe ’sta vita ca leva e niente dà,
’nzerrate ‘a causa e ’a corpa95,
pecché p’ ’o munno sì ttu,
sulo tu, chillo ca tutto vo’ e niente fà...

95. Corpa: colpa.

81
Sciorta
Comunemente tradotta con l’italiana fortuna.
La fortuna è di stampo tipicamente nordico: fredda, distaccata, ac-
colta con effimero piacere, praticamente ’na cosa ’e niente, rispetto
alla sciorta.
È impossibile, quindi, comparare la forza, il vigore della seconda
con la timidezza della prima.
«Che fortuna!» non potrà mai avere il fragore di «Uà e che scior-
ta!». Non ci si riferisce soltanto alla “dimensione” dell’una e dell’altra
espressione ma, ancora una volta, è la musicalità, propria della lingua
napoletana, a fare la differenza ed a paventare una serie di interpreta-
zioni a seconda dell’intonazione:
piacere, invidia, godimento, disapprovazione, ira, dubbio, perples-
sità, sorriso, pianto, avvilimento, sorpresa, meraviglia, etc.
Tutto a seconda della modulazione della voce.
La fortuna è occasionale, fulminea, difficilmente può ripetersi nel
tempo. La sciorta, invece, è innata, innestata da chissà quale entità nel
DNA di alcuni.
Arride, costantemente, a quest’ultimi e spesso si diverte a beffarsi
del destino dei comuni poveri cristi, come il personaggio vivianeo di
Rafele in ’A morte ’e Carnevale, il quale, in un impeto di sconforto,
dice:

«Io si me metto a fa’ ’e scazzettelle96 p’ ’e ccriature nasceno ’e gua-


gliune senza capa!»97.

96. scazzettelle: berrettini.


97. Raffaele Viviani, Teatro vol. V, a cura di Guido Davico Bonino, Antonia Lezza,
Pasquale Scialò, Napoli, Guida editori, 1991, cit. p. 231.

82
Ogge, dimane, ajere

Uh mannaggia ’a vicchiaia fetente!


Nu’ bastava ’na mala giuventù,
’nce vuleva pure ’sta sciorta malenata!
Ogge cu ’e diebbete, dimane cu ’e tasse,
ca simme tutte reprobbe98 pe ’sti salasse99!
Ogge, dimane, ajere,

’sta rota se scorda comme gira,


se ’mbroglia, se perde, se ferma,
â faccia ’e chi magna e se ’ngrassa
e a cchi a tavula cucina prumesse!

Sciorta o furtuna

Oje sciorta o furtù100,


t’aspetto ’ncopp’â sagliuta,
quanno ll’aria nun c’è cchiù,
e pe currivo deviente malasciorta101!

T’aggi’ ’a piglia’ cu nu scurriato102,


te nn’aggi’ ’a da’ ddiec’ ’e mazziate103,
fino a quanno, senza cchiù ’nganno104,
te ne puorte ogni malanno!105

98. reprobbe: reprobi.


99. salasse: salassi.
100. furtù: fortuna.
101. malasciorta: sfortuna.
102. scurriato: frusta.
103. te nn’aggi’ ’a da’ ddiec’ ’e mazziate: devo sonoramente picchiarti.
104.’nganno: inganno.
105. malanno: malattia, avversità.

83
Il silenzio non è un’assenza. Al contrario, è la manifestazione di una
presenza, più intensa di qualsiasi altra presenza. Il discredito gettato
sul silenzio dalla società moderna è il sintomo di una malattia grave
e inquietante. Le vere domande della vita si pongono nel silenzio. Il
nostro sangue scorre nelle nostre vene senza fare alcun rumore e non
riusciamo a sentire i battiti del nostro cuore se non nel silenzio106.

Cardinale Robert Sarah

106. Robert Sarah, La forza del silenzio, contro la dittatura del rumore, prefazione
Benedetto XVI, Edizioni Cantagalli s.r.l., Siena, 2017, cit. p. 34.

84
I’ resto ccà

...i’ resto ccà, ovvì, nun esco.


For’è nu scuncuasso107, ’na supirchiaria108.
Nun me move, avarrìa allucca’109, ma sto’ zitto.

Fore sta ’o sole?


Ma hê visto maje
maggio accussì?
«Fore sa ’o sole?»
Tu overo dice?

E nun fà niente.
I’ resto ccà.
Pe chi sa’,
pass’ ’alleria,
nun me faccio truva’?

E nun sta bbene.


’Sta mia signora
nun aspetta:
ca si bussa
e nun me trova,
chella sa’ che ffà?
Ride,
avot’ ’e spalle,
e se ne va …

107. Scuncuasso: confusione.


108. supirchiarìa: inutilità.
109. allucca’: da alluccare, gridare.

85
Canzona mia

Ferma è ’a via;
cchiù scura se fà ll’aria:
nu cammino senza passe se ’ncontra p’ ’e penziere,
pe dint’ê spaseme ’e ’sti mmane
e ’nfino â Luna arriva ’sta canzona mia,
’sta notte senza stelle ca, ’nfunne,
nu suono sona, nu silenzio chiamma.
’Na voce cerca...

Anema nova

Sole ca nasce,
chiarore ca t’affacce,
scurda’ me vurrìa d’’a notte,
straccia’ vurrìa ’sti ppene
e maleditte siano chelli feneste,
ch’auciello cantatore me fanno deventare:

ogni palpito ’na nota,


ogni surriso ’na mullechella110
amara e for’ô cielo volano ’e penziere,
addò tutt’è silenzio
e ’n’anema nova sento ...

110. Mullechella: piccola mollica di pane.

86
[…] la pubblicizzazione del privato è l’arma più efficace impiegata
nelle società conformiste per togliere agli individui il loro tratto di-
screto, singolare, intimo.
Allo scopo vengono solitamente impiegati i mezzi di comunicazione
che, dalla televisione ai giornali, con sempre più insistenza irrompono
con “indiscrezione” nella parte “discreta” dell’individuo, per otte-
nere non solo attraverso test, questionari, campionature, statistiche,
sondaggi d’opinione, indagini di mercato, ma anche e soprattutto con
intime confessioni, emozioni in diretta, storie d’amore, trivellazioni di
vite private, che sia lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità,
la sua parte intima, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emo-
zini, le sue sensazioni, secondo quei tracciati di “spudoratezza” che
vengono acclamati come espressioni di “sincerità”, perché in fondo:
“Non si ha nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi.
“Vergogna” viene infatti da “vereor gognam” che significa “temo
la gogna, la mia esposizione pubblica” […]
Quando dico: “Non ho nulla di cui vergognarmi” non sto dicen-
do solo: “Non mi vergogno, quindi non sono colpevole”, ma anche:
“Non mi vergogno, quindi non temo l’esposizione agli altri. Ho ol-
trepassato quello che per chiunque sarebbe il pudore, e ho fatto della
spudoratezza non solo la mia virtù, ma la prova della mia sincerità e
della mia innocenza”111.
Umberto Galimberti

111. Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano,


Feltrinelli Editore, 2007, cit. pp. 61-2.

87
Ci hanno sempre detto, superata l’età infantile, che il cattivo Mam-
mone non esiste: era un’invenzione delle mamme per incutere il giusto
timore dopo una qualsiasi marachella. 
Appena adolescenti, quindi, la scoperta dell’inesistenza di questo
essere ci fa sentire più liberi, più sicuri di commettere qualsiasi azione
sgradita. 
In realtà, è in questo momento che la sua condotta diventa più per-
fida, perniciosa:
il Mammone esiste. 
S’annida nell’aridità di chi sfrutta, di chi radica false speranze, di
chi gioca con la fame del prossimo, di chi circuisce per “amor pro-
prio”. 
Il vero dramma è che non sappiamo più riconoscerlo:
ci hanno chiuso in una campana di vetro che può crollare con uno
spillo; ci hanno protetto con la tecnologia e non hanno più permesso
il confronto.
Il Mammone esiste e noi gli spalanchiamo le porte, gli offriamo il
caffè e ci facciamo abbindolare con la speranza di un futuro migliore.
Tenetele chiuse quelle porte, ermeticamente.
Il Mammone viene, compra le vostre paure e le rivende al migliore
offerente: se stesso.

’Na scorza ’e pane

Quann’ ’o putere te dà ’na scorza ’e pane,


’o povero, primma ’e fà ’a rivoluzzione,
spezza pe dduje.
’A guerra tra miserie serve a chi cumanna;
chi sta sempe sotto sputa ’nfaccia ô cuverno,
ê fessarìe i ê tasse,
s’arma ’e pacienza, core e forza
e v’ascianno ’a speranza.

88
’O ccafé
Si provi ad immaginare, per un momento, cosa sarebbero le ore, i
giorni, gli anni senza la possibilità di poter sorbire un caffè:
un tempo ancor più vorticoso, ansimante, scandito dal fare, dal su-
bito, dall’indispensabile avere. Un tempo senza vita, insomma.
Certo, fare questo discorso a Milano – capitale di progresso, lavoro
e velocità – risulterebbe di un’utopia senza precedenti, ma per chi ha la
fortuna di nascere, crescere e formarsi nella terra delle utopie ’o ccafé
rappresenta un momento di stasi, di ennesima sospensione rispetto a
quello che l’economia ha imposto alla vita.
Come per le precedenti differenze tra fatica e lavoro, sciorta e for-
tuna, anche in questo caso, la lingua napoletana fornisce tutti gli stru-
menti che avvalorano la naturale ed implicita differenza che c’è tra ’o
ccafé ed il caffè:
la rapidità della pronuncia di quest’ultimo rappresenta chiaramen-
te l’esigenza della fretta: lo scontrino prima della consumazione, la
macchina col pulsante che aziona velocemente l’ingranaggio, il bic-
chiere di plastica perché la tazza scotta, il cellulare in mano per fissare
l’ennesimo appuntamento di lavoro, l’indifferenza verso il barista che
è intento solo a fare il suo lavoro, lo scooter posteggiato in quarta fila,
le macchine, i semafori, il traffico, le bollette di acqua, luce e gas e ’na
vocca amara perché quella fetentissima macchina veloce tutto ha fatto
fuorché il caffè…
’O ccafé, invece, è altra storia.
Già nella doppia “c” è possibile sottolineare la volontà di vivere
in modo “largo” e non “lungo” – parafrasando il grande Luciano De
Crescenzo – l’incontro con l’altro, il desiderio del confronto, l’indi-
spensabile esperienza gustativa per cominciare la giornata :
è il «consumate prima e poi pagate»; il saluto al barista che parla
del Napoli; è la sua maestria nel manovrare la macchina storica; è
il bicchiere d’acqua nell’attesa che il caffè «scenda»; è guardare se
lo zucchero affonda lentamente verso il basso – segno che il caffè
è denso, “cremoso” e quindi di ottima qualità – è girare lentamente
il cucchiaino e con esso “perdersi” nel proprio mondo, nella propria

89
fantasia; è pagare alla casa e lasciare il resto al barista quale ricono-
scimento della sua bravura e riconoscenza per aver donato qualche
attimo di felicità.
È, infine, l’atto rivoluzionario di voler vivere la vita come «uomini
d’amore»112, stoicamente fedeli al quotidiano miracolo dell’esistenza.

112. Così parlò Bellavista, di Luciano De Crescenzo, Endiscope Productione Rete


Quattro, 1984.

90
Eduardo

La grandezza dell’uomo Eduardo, prima ancora del drammaturgo,


attore e regista è nelle sue parole, prima ancora che nelle sue gesta:
si rende partecipe, promotore e testimone che è nella necessità, nel
bisogno collettivo e singolo, nella crisi morale, economica e sociale,
che l’uomo ha il dovere di dare vita vera al divenire dei giorni sten-
dendo la mano dell’operosità ai suoi simili.
È appunto nella crisi stessa che l’umanità deve rendere onore al suo
nome. 

Totò

Anima gentile,
camuffata da roboanti risate,
i tuoi occhi tradiscono i sorrisi:
sapore d’un tempo andato,
ricordi di un’allegria nata,
cresciuta, prima di nascere
e con sé la malinconica comicità,
sottesa, fugacemente, in un lazzo:
Totò.

91
Viviani

Nu fascio ’e nierve,
’na voce sporca e liggera,
’na malìa comm’a ’na freva,
e ll’uocchie scavate ’int’ô dulore.
Viviani.

92
«… ll’aucielle cantano a coro,
mentr’io suspiro113»

Luoghi oltre il tempo, impassibili alle mode, ai cambiamenti dei


costumi, allo sviluppo iperveloce della tecnologia.
Luoghi immersi in una poetica fissità che si sintetizza nell’entità di
un sospiro.
A questo sospiro, appunto, è possibile ricondurre l’assenza del tem-
po e la presenza di luoghi arcadici, insiti in buona parte della Canzone
Napoletana.
Veri quadri d’autore che, senza rasentare l’oleografia, descrivono
la Bellezza del viver sospesi – cui si è già fatto riferimento in prece-
denza – immersi «sott’a ’stu bellu grillaggio (pergolato)»114.

Luoghi descritti magnificamente da Salvatore Di Giacomo, Ernesto


Murolo:

Quann’ ’a luna affacciannese ncielo,


passa e splenne e ’int’a ll’acqua se mmira,
e ce stenne d’argiento nu velo,
mentre ’o viento d’ ’a sera suspira115 …

oppure:

’Ncopp’ô capo ’e Pusilleco addiruso,


addò ’stu core se n’è ghiuto ’e casa,
ce sta ’nu pergulato d’uva rosa,
e nu balcone cu ’e mellune appise,
’ncopp’ô capo ’e Pusilleco addiruso116…

113. Rusella ’e maggio, Arturo Trusiano ed Enrico Cannio, 1939.


114. Ibid.
115. Francesco Flora e Mario Vinciguerra (a cura di), Salvatore Di Giacomo, Le po-
esie e le novelle, Milano, Mondadori editore, 1946, cit. p. 201; ’A sirena, Salvatore
Di Giacomo e Vincenzo Valente, 1897.
116. Pusilleco addiruso, Ernersto Murolo e Salvatore Gambardella, 1904.

93
I versi esemplificano la ricerca continua di luoghi “altri”, lontani
dalla metropoli, dal caos e più vicini alla dimensione “intima” dell’e-
sistenza che, ancora oggi, è possibile trovare nel silenzio e nella mera-
viglia di strade, mura, balconi di città senza tempo, perché intrise del
mistero più grande: poesia.

’Ncoppe Ravello

Mme ne vurrìa ì’ ’ncoppe Ravello,


addò ll’aria è ancora fina e bbella,
e quieto me ne jarrìa ’nzuocolo117
cu ’na chitarra e ’na cunnulella118:

spezzarrìa ogni catena,


cu nu suspiro o surdiglino119,
senza penza’ cchiù ’e ppene,
senza paura p’ ’o bbene...

Nuttata

Uno suono ’e campana


sona ’a Chiesia antica.
È ll’una ô paese sulagno120 e scuro.
Cane e gatte fanno ’a guerra,
e p’ ’o rifrisco ’e ’sta nuttata 
’o viento ’nzuocolo se ne stenne:
se sbraccia pe copp’ê tittule121,

117. ’nzuocolo: a dondolo.


118. cunnulella: culla.
119. surdiglino: fischio per il richiamo di una donna.
120. sulagno: solitario.
121. tittule: tetti.

94
pe mmiez’a ’st’evera stracquata122.
Abbrile, 
dorce dormire,
ma i’ mo nu’ ddormo
e ’mbraccio ’a chitarra,
fedela cumpagna,
e ’ntunamme, c’ ’o viento,
ddoje note â luna...

Ô Celiento123

Me ne vogl’ì’ ô Celiento,
addò ’o è mare è assaje cchiù blu,
scurdannome d’ ’e lamiente,
’nzieme â chitarra e ttu.

Me voglio scurda’ ’e chello ca è stato,


purtannome ’nzino124 sulo ’o bbene,
senza cchiù ’a sciorta malenata125,
senza cchiù turmiente e ppene.

Me ne jarrìa126 p’ ’a campagna
e ’nzieme a tte, sa’ che spasso!
Cu nu canisto ’e core e ’na pianta ‘e vase...

122. stracquata: indebolita.


123. Celiento: Cilento.
124. ’nzino: in braccio.
125. malenata: nata male.
126. me ne jarrìa: me ne andrei.

95
Fravule rosse

Fravule rosse,
sciure addiruse, 
p’ ’o vverde d’ ’a campagna spase,
p’ ’o viento e p’ ’a tempesta spampanate127,
mo ca ’o sole scarfa e ’a primmavera trase
’ncopp’a ll’arbere parite turna’, 
comme si ll’acqua nun ce fosse stata,
comme sì vierno nun fosse maje venuto...

Baia

...mmiez’ô mare d’ ’a baia,


mme vurrìa scurda’ d’ ’e guaje;
p’ ’o cielo, ’e mille stelle e ’a luna,
vurrìa sperdere, quieto, ’e ppene;
a mille passe me ne jarrìa luntano,
cu nu core ’ncore 
e nu vaso mmiez’ê mmane…

Nu quartino c’ ’a loggia

Aggi’ affittato ’na casa,


nu quartino c’ ’a loggia,
nu balcone a ffenesta,
pe puterla guarda’;
pe puterla mira’
mente spiccia ’sta folla,
chesta chiorma ’e guagliune
ca ’a puteca128 mo affolla.
E nne spengo denare,
mme ruvino ’sti sacche,

127. spampanate: sfiorite


128. puteca: salumeria

96
pe ’sta femmena bruna,
ca mme fa cchiù pena’! 

’A curtina d’ ’e Pennino

A curtina d’ ’e Pennino 
era nu spasso, pure senza vino:
quann’era ’a staggione,
tutte for’ô balcone;
quann’era vierno
era uno lamiento 
e nu sbattere ’e feneste...

Loggia ’e Vico Equense

Loggia ’e Vico Equense


ca daje calore a tutte ’e squase129,
ccà mme sento cchiù sicuro,
nun m’arricordo d’ ’e paure:
e addò ’o mare se fa scuro,
llà mme perdo:
tra carezze, vase e sciure130 …
«Vuie me site figlie!»131

129. squase: carezze.


130. sciure: fiori.
131. Eduardo De Filippo, Filumena Marturano, Torino, Giulio Einaudi editore,
1979, cit. p. 46.

97
26 anni
Ho 26 anni.
Sono bella, simpatica, un corpo invidiabile.
Sono una “influencer”: in pratica, la gente guarda cosa mangio,
cosa indosso, quello che faccio ogni giorno e si ispira a me. Sono un
modello, insomma. 
Il mio fidanzato è un imprenditore importante, viviamo in giro per
il mondo, ci piace viaggiare, fare nuove esperienze. Abbiamo una vita
frenetica che ci invidiano tutti.
Da quasi tre mesi, però, abbiamo un piccolo problema: sono rima-
sta incinta e la pancia comincia a crescere, che tragedia! 
Sono ancora in tempo però e ho deciso di abortire.
Non posso permettermi di compromettere la carriera per un figlio,
non sono pronta, voglio ancora godermi la vita.
In fondo, poi, non si è ancora sviluppato...
Anche le amiche mi hanno consigliato di farlo, non è ancora un
bambino, è solo un ammasso di cellule.
Procedo. 
È tutto pronto, il dottore mi rassicura che non durerà molto, è un
esperto.
Ritornerò, finalmente, alla mia vita, il mio fisico sarà ancora sta-
tuario!
Eppure, sto tremando.
Eppure, sto piangendo. 
Eppure – che strano – in questo momento ricordo quando dissi alla
mamma che avrei voluto essere come lei, avevo quattro anni. 
Assurda la vita: giocavo con dei bimbi, finti, in miniatura ed ora
uno della stessa dimensione lo rifiuto … o forse lo uccido?
Un «ammasso di cellule» può farmi pensare così tanto?
Cosa sono questi scrupoli?
Ho un contratto che può cambiarmi la vita ed in questo momento
mi sento così banale, una specie di antagonista di Dio:
Lui mi ha dato la vita e, come se avessi il suo potere, io la tolgo. 
Questa creatura minuscola può diventare grande, può chiamarmi

98
“mamma”: io ritornerei, con lui, bambina ed ora lo sradico dalla mia
vita. Una vita che toglie un’altra vita...
Ho deciso. Mi rivesto.
Per la prima volta nella mia esistenza voglio sentirmi veramente
donna, voglio sentirmi veramente viva.
Tra qualche mese stringerò tutto il mio senso tra le mani, fatto di
cellule ed anima, di carne e di vita.

99
Chi sta int’ ’o peccato,
ha dda tene’ ’o ’nnamurato,
ch’appena doppo assucciato132
s’ha dda sape’ appicceca’133.

E tutte ’e sserate,
chillo m’accide ’e mazzate!
Me vò nu bene sfrenato,
ma nun ’o dà a pare’!134

Raffaele Viviani,
So’ Bammenella ’e copp’ ’e Quartiere135

132. ch’appena doppo assucciato: appena dopo aver provocato.


133. s’ha dda sape’ appicceca’: deve essere in grado di sostenere lo scontro.
134. Raffaele Viviani, Poesie, a cura di Antonia Lezza, Napoli, Alfredo Guida edi-
tore, 2010, cit. p. 88.
135. So’ Bammenella ’e copp’ ’e Quartiere: Sono Bambinella dei Quartieri Spagnoli.

100
’Na piccerella

A vi’136? ’na piccerella:


si e nno tene vint’anne,
è smaledetta pecché bella,
e ’sta sciorta , mmiez’â via, è nu malanno137.

Aspetta e guard’ô nniente,


’nnanz’a ’na Chiesia prega mo a Dio,
mente ce sta chi prummette 
e nun trovo pace manch’io.

Passate, ggente!
Perduto è ll’ammore,
vennuto è ’stu core,
stracciata138 mo è ’a vita ...

’Int’ê funtanelle

’Int’ê Funtanelle,
abbascio â Sanità,
’na guagliona ha vist’ ’o mmale:
ha cunusciuto ’a ’nfamità.

Lle diceva: «Te voglio bbene,


si mme lasse, me ne moro!»:
comm’a ’na pezza mo ’a cumanna,
e ’a dignità è gghiuta a mmare.

136. ’A vi’?: la vedi?.


137. malanno: malattia.
138. stracciata: strappata.

101
Ô cammarone139

... ’int’ô cammarone,


nu core vatte ancora:
mente se pente, prìa â Maronna
e spera, chiagne, ’nziem’â paura.

Ll’ommo cundanna,
Ddio perdona:

chello ch’ ’a vita leva,


’o Cielo manna.
Mmiez’a ’mbrugliune e malandrine,
nu palpito se sente
e tutto nun è cchiù vacanto,
e ’o mmale se ne va c’ ’a turmenta ...

Perduto

… sì, è overo!
Bbene lle vulevo.
Nu bbene ca nun dà pace,
ca nun te fà campa’.
N’ammore ca te struje
e t’accide cu ’e juorne.

E me mettette ’ncroce:
«È mmaretata140, cagnate strata!»,
n’amico mme dicette.
Ch’avev’ ’a fà?
Cu ’sti mmane ll’aggi’accisa,
’gnorsì, ma nun me ne pento.
Ch’avev’ ’a fà?

139. Ô Cammarone: una cella grande del carcere di Poggioreale.


140. mmaretata: sposata.

102
I’ ero già muorto.
Ero già perduto…

Femmena, ca ire bbella

Femmena, ca ire bbella,


ca te chiammavano “Madonna”,
“luna luntana” e “rosa piccerella”,
viole e sciure te vasavano ’e mmane,

fuste avveluta ’a chi te cantava;


fuste traduta ’a chi te vasava
e c’ ’o curtiello ’nfame te tuccava:
Addio rosa ch’a maggio schiuppava141!

De te è rummas’ ’o nomme,
d’ ’e sciure sul’’addore
e d’ ’ammore sulo ’a famme!

141. schiuppava: da schiuppare, sbocciare.

103
È vero… è vero… ma io non volevo questo…
L’ho detto anche anche a lui che ho parlato, che ho mentito, perché
credevo che tutto fosse finito.
Non sono cose che si possono dire! Troppo brutte!
Ce le siamo potute dire noi – così, ora – perché vergogna comune.
[…] sì, ancora un altro pugno di fango addosso, a finire d’insu-
diciarmi. – Dio, che schifo! Che nausea! – E allora… e allora volli
farmela per la morte, almeno una vestina decente. Non avevo potuto
averne mai una per la vita, da poter figurare in qualche modo, che non
mi fosse strappata dai tanti cani… dai tanti cani che mi sono saltati
sempre addosso, per ogni via, che non mi fosse imbrattata da tutte le
miserie più basse e più vili142…

Luigi Pirandello,
Vestire gli ignudi

142. Luigi Pirandello, Vestire gli ignudi, , a cura di Roberto Alonge, Milano, Arnoldo
Mondadori Editore S.p.A., 2010, cit. pp. 231-48.

104
Solitudine
… stevo ’int’a n’angolo, nisciuno me parlava,  nisciuno me vedeva.
Era addeventata carne viva la mia solitudine.
I’ quase ’a tuccavo, ce parlavo.
La mia pelle così grossa da poter diventare la prigione della mia
fedele compagna:
solitudine era ’sta faccia tonna; ’sti braccia tozze; ’sti piede pesan-
te. Solitudine era chella ca ogni matina guardavo ’int’ô specchio; era
’a cumpassione d’ ’a ggente.
Solitudine era negli occhi di chi guardavo vivere dentro me, quan-
do a sera mi perdevo nei giorni felici di un passato che m’isolava.
Ora sono qui, guardami solitudine!
Guarda il frutto del tuo peccato, guarda la vita che hai vissuto in
quella cella di carne!
Guarda questi occhi, terra di conquista di infamie e tradimenti,
portano il tuo nome, li hai stuprati con la tua bellezza, li hai avvin-
ghiati con la tua malìa, ma sono ancora qui, guardali, la carne non
c’è più, lascia la mia prigione, lasciala! Lascia queste esili mura e va
via. Vai!
Oje specchio, ca me guarde e tiene mente, ’nnammurato sincero ca
me parle e mme dice ’a verità, vasame ancora e nun te ferma’;
dimme ca so’ bella, ca tutte me vonno,
e no comme a tant’anne fa...

105
Ferma

...i’ me ne stevo, accussì, ferma.


Nun tenevo cchiù né mmane,
né braccia, né forza, né pacienza. 
I’ me ne stevo, accussì, zitta.
Nun tenevo cchiù vvoce,
né p’allucca’, né pe parla’
e manco ’o cantà me faceva canta’.

’A ccà ’na via,


’a chest’ata n’ata via
e qua’ pigliaje?

Addò jevo sì pure ’a via d’ ’a casa m’ero scurdata?!


E sempe ferma, 
muta comme sulo ’e stelle ’inte maggio sanno essere,
me truvavo perza senza cammena’.
’O suonno e ’a vita s’erano ’mmiscate:

I’ sunnavo credenno ’e campa’ e campanno credevo ’e muri’.


 
’Nnanze a mme semp’ ’e ddoje strade,
e nun erano ’o bbene e ’o mmale,
janco143 o niro, chiaro o scuro...
erano longhe, scanusciute, sulagne144
e ’a paura nun m’hê faceva tucca’...

143. janco: bianco.


144. sulagne: solitarie.

106
Le rondini
...sai, quando ero piccola guardavo le rondini.
Me ne stavo ore ed ore affacciata a quel piccolo balcone al sesto
piano:
quei piccoli miracoli volanti squarciavano le nuvole e io ridevo,
mi divertivo e sognavo di raggiungerle.
Un giorno lo dissi alla mamma, ma rise. Le sembrò troppo vana e
stupida la mia voglia di volare.
Allora, con la feroce incoscienza di una dolce bambina dai capelli
ricci e il fiocco rosso, decisi di mostrarle la mia smania: aspettai che
le rondini mi salutassero e salì su di una vecchia sedia:
erano lì, mi salutavano, mi chiedevano di volare, mi pregavano di
far presto e allora risi, il vento scompigliò quei riccioli, baciò l’ane-
lito che mi spingeva, chiusi gli occhi:«Arrivo! Amiche mie, volo con
voi!»
...ma una voce, quella voce, nell’attimo in cui i pensieri stavano
per mischiarsi all’aria, mi fermò.
Una voce ferma, paziente, mi tese la mano e dischiusi gli occhi:
una rondine, piccola, accanto alla mia volontà mi disse di aspet-
tare, di star ferma e poi sparì, insieme alle altre...quella dolce bam-
bina che guardava le rondini capì che non avrebbe mai volato...

107
«A ttavula nun se dice “magna”
e a lietto nun se dice “duorme”!».

Nonostante i cibi in scatola, le insalate pronte, i friarielli145 già la-


vati e solo da condire – si è arrivati finanche a questo – è possibile
ancora oggi sedere a tavola con qualche vecchio contadino dell’area
vesuviana e condividere i frutti del suo lavoro.
In una direzione diametralmente opposta alla velocità, al ritmo for-
sennato ed all’immancabile fa ’e pressa146, i contadini hanno la sacra
abitudine di raccontare tutta la “storia” di un frutto e/o una verdura che
servono in tavola:
dall’inseminatura alla raccolta, passando per le inevitabili intempe-
rie che avrebbero potuto comprometterne la “crescita”.
Arrivati al momento culminante, quando si è pronti ad imboccare
quel ben di Dio, ecco la magia il tocco di classe l’assist di Maradona:
una spezia, nu poco ’e vasenicola147, qualche goccia di limone, ap-
pena raccolto e tutto assume un sapore completo, inarrivabile e nell’at-
timo che il buon contadino scorge il palese godimento delle papille gu-
stative, festanti come un gol del Napoli al novantacinquesimo minuto,
ecco il suo sorriso sornione, come a dire:
«neh, fesso! I’ chesto ’o magno ogni juorno e tu te magne ’a pós-
ema148».
Guai, poi, a chiedere permesso per poter mangiare, equivale ad un
insulto e la risposta è repentina:
«A ttavula nun se dice “magna” e a lietto nun se dice “duorme”!».
Secondo qualsiasi contadino, infatti, non si può invogliare a man-
giare a tavola, perché il frutto del lavoro va rispettato e non ha biso-
gno di chiedere permesso a nessuno per poterne godere, così come a
letto non c’è bisogno che qualcuno invogli a dormire perché ’ammore
coce149…

145. friarielli: broccoli.


146. fa ’e pressa: fare velocemente.
147. vasenicola: basilico.
148. pósema: spreg., soluzione d’amido per stirare.
149.’ammore coce: l’amore brucia di passione.

108
’Ntiempo ’e vennegna

’Ntiempo ’e vennegna,
oje bella, te ’ncuntraje
e marturianno150 ’st’uva
ca vino nuovo deventaje,
te dicette:

«Gioia, ’nfra nu canto


e nu suspiro,
’stu core spriemme
e vino fallo deventare
lesto bive,
e ’nfino a ll’anema
fallo arrivare...»

150. marturianno: da martoriare, martoriare

109
L’uomo mimetico
Rappresentazione del sé, falso involucro dell’anima.
L’adattamento forzoso che porta alla “scomparsa” dell’uomo, del-
la sua individualità.
Il vero e proprio assoggettamento di ciò che si “vuole essere” a
danno a ciò che “si è” determina quello che Luigi Pirandello aveva
già trattato nel secolo scorso, attraverso la celebre metafora della ma-
schera nel teatro e in un romanzo come Uno, nessuno e centomila.
Sulla disgregazione dell’Io si fonda il capolavoro pirandelliano151.
Nel testo, l’autore siciliano mette in evidenza il contrasto tra l’Io
per se stesso e quello per gli altri.
L’immagine sociale di Vitangelo Moscarda, protagonista della vi-
cenda, non solo frantuma la consistenza dell’ Io «ma, come un ospite
inopportuno e invadente, pretende di vivere sempre con noi, e addirit-
tura in noi»152.
Scrive Pirandello:
Come sopportare in me quest’estraneo? Quest’estraneo che ero io
stesso per me? Come non vederlo? Come non conoscerlo? Come re-
stare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista
dagli altri e fuori intanto dalla mia?153
I monologhi del protagonista del romanzo rimandano, quindi,
ad una serie di riflessioni inerenti al tema dell’immagine sociale
che tradisce e deruba l’Io.
Non sorprende poi che Pirandello, attraverso i Quaderni di Serafino
Gubbio operatore, si interessi al rapporto tra le immagini e il cinema,
quale strumento di alienazione, sottolineando come l’attore di cinema
si differenzi da quello di teatro perché, privato del rapporto vivente con
il pubblico, gli interpreti cinematografici sono doppiamente alienati, in
quanto «la loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là sulla tela
dei cinematografi, non c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in

151. Cfr. Carlo Vecce, Piccola storia della letteratura italiana, Napoli, Liguori edi-
tore, 2009, p. 398.
152. Barbara Carnevali, Le apparenze sociali, Bologna, Il Mulino, 2012 , p.9.
153. L. Pirandello, Uno nessuno e centomila, in Id., Tutti i romanzi, Milano. Monda-
dori, 1973, Vol. II, cit. p.752.

110
un momento, in un gesto, in un’espressione che guizza e scompare».154
Un processo di alienazione che riguarda non soltanto l’attore di
cinema, ma anche l’operatore cinematografico, depauperato della sua
individualità al punto di ridursi ad un uomo che gira la manovella,
metafora dell’uomo asservito alle macchine.
Questa tematica, non a caso, rappresenta l’essenza del capolavoro
di Charlie Chaplin, Tempi moderni, dove in una celebre sequenza è
possibile vedere il protagonista che tenta affannosamente di non inter-
rompere la catena di montaggio fino ad essere letteralmente risucchia-
to dalla macchina155.
L’uomo, quindi, diventa mimetico, come alcune specie animali,
con la differenza che, mentre quest’ultime assumono a scopo protet-
tivo colori e forme dell’ambiente in cui vivono, l’uomo si adatta, fino
a scomparire, attraverso un mimetismo che conduce alla progressiva
cancellazione della sua individualità.
A tal proposito scrive Pierre Zaoui:
Provate, un giorno, a socchiudere con delicatezza la porta della ca-
mera dei vostri bambini. Li vedete in fondo alla stanza giocare per una
volta tranquillamente fra loro, lontani dal sostegno e dal giudizio degli
adulti, forse liberi, forse estraniati, poco importa […] si divertono con
se stessi, interamente votati all’ immanenza del loro gioco o del loro
sonno. Dovessero all’improvviso accorgersi di voi, sarebbe la fine,
perché in un batter d’occhio tutto rientrerà nel circo ordinario della
vanità degli ego, della rivalità degli sguardi, della dialettica mediocre
del riconoscimento o della seduzione. Ma finché questo non avviene,
si guadagna qualcosa di straordinario: un istante d’ amore privo di
reciprocità, non necessariamente molto intenso, ma di una serenità
senza eguali156.
L’apparenza, sottoforma spesso di maschera, diventa il punto d’in-
contro tra entità originariamente incompatibili.
La maschera nel mostrarsi si nasconde, perché nel contempo mo-
stra uno o più aspetti, ma ne nasconde degli altri che spesso non corri-

154. L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in Id., Tutti i romanzi,


Milano. Mondadori, 1973, Vol. II, cit. p. 585.
155. https://www.youtube.com/watch?v=I37VtQbOa7M
156. Pierre Zaoui, L’arte di scomparire, Milano, il Saggiatore, 2015, cit. p.9

111
spondono alla realtà effettiva dell’Io. L’apparire, attraverso l’utilizzo
della maschera, ha la duplice funzione di esporre e, nello stesso tempo,
di proteggere.
Il ruolo dell’apparenza può essere considerato mediale e mezzo con
cui si calibrano e si determinano i rapporti tra le persone157.
Quelle che noi forniamo sono, appunto, immagini sociali che rap-
presentano «insiemi o agglomerati di sembianze che mediano i rap-
porti tra soggetti, e che compongono, come frammenti ineguali la so-
stanza estetica del sociale»158.
Nel rapporto dicotomico che esiste nell’incontro/scontro tra l’Io e
l’immagine sociale,
la menzogna, la pubblicizzazione di falsi modelli e falsi miti, tro-
vano il suo acme e la sua materializzazione nel momento in cui si
scambia l’identità con la pubblicità dell’immagine, comportando la
profonda metamorfosi dell’individuo che non solo tradisce se stesso,
ma crea addirittura un dialogo con la pubblicità che va a costruire della
sua immagine.
Nella società consumistica coeva per esserci bisogna apparire.
La menzogna, in questo contesto, assume un significato ed una va-
lenza ancora più infide: non si tratta, quindi, di mostrare soltanto ciò
che si vuole mostrare e/o che non si è in virtù di un’immagine sociale,
ma di mentire a ciò che si è e dare credito alla più fallace forma di
pubblicità dell’immagine.
Tutto questo nell’ottica prepotenetemente funzionale al processo
di omologazione totale della società fin nell’intimità dei singoli indi-
vidui, abbindolati dall’idea che la spudoratezza possa rappresentare
esempio di coraggio e sincerità:
Di qui la necessità di rivendicare i diritti del pudore: non solo per
sottrarre la sessualità a quella genericità in cui si celebra il piacere nel
misconoscimento dell’individuo, ma anche e soprattutto per sottrarre
l’individuo a quei processi di omologazione in cui ciascuno di noi ri-
schia di perdere il proprio nome159

157. Cfr. Barbara Carnevali, Le apparenze sociali, Bologna, Il Mulino, 2012 , p.9.
158. Ivi, p.37.
159. Umberto Galimberti, L’ospite inquietante, Milano, Feltrinelli, 2007, cit. p.64.

112
1905

Altra epoca, altre storie.


Altre poesie, altre canzoni.
Forse era l’aria, forse il pudore;
forse era il tempo, forse l’amore.
Amore,
che dimentica l’avere,
che si priva dell’umano
e banchetta con l’eterno.
Amore,
in una mano la vergogna,
nell’altra i suoi sospiri
e la dolce paura della gogna.

Salvatore Di Giacomo è in quegli anni un Poeta affermato, un intellet-


tuale di riferimento.
Ha quarantacinque anni, Elisa la metà.
La giovane è determinata a diventare insegnante.
Si reca dal poeta per raccogliere del materiale idoneo a redigere una
tesi incentrata proprio sull’autore napoletano.
Oltre la morale, Elisa s’innamora perdutamente del poeta.
Di Giacomo, a sua volta, ricambia, ma il pudore lo frena, gli ingabbia
il cuore:
l’amore per la giovane studentessa è così grande da volervi rinunciare
per il timore di rovinarne la reputazione.
Elisa è testarda, perché innamorata. Rompe gli indugi e scrive al poeta:

Prima di incontrarVi, vi ho amato nel verso.


Ora, che Vi ho visto,
Vi amo nella carne e nel sorriso.

Di qui la risposta del poeta nei versi di Palomma ’e notte:

113
Tiene mente sta palomma – comme gira, comm’avota,
comme torna n’ata vota – sta ceroggena160 a tentà!
Palummè, chisto è nu lume – nun è rosa o è giesummino161
e tu a fforza ccà vicino – te vuo’ mettere a vulà!162...

Dopo undici anni d’amore geloso e furtivo, si sposano.


Restano insieme fino al 1934.
Di Giacomo muore.
Elisa, straziata dal dolore, brucia tutte le lettere, le canzoni, i mano-
scritti, due inediti.
Anni Cinquanta:
il cassetto della camera da letto è venduto ed in un angolo si scopre
un fascio di lettere, miracolosamente sfuggito al dolore di Elisa.
Tra le lettere c’è quella della giovane al poeta e la minuta di Palom-
ma ’e notte, con un angolo del foglietto bruciato:

’O bbi’ ca i’ pure
mm’abbaglio chiano chiano,
e, pe te ne caccià,
mm’abbruscio ’a mano?...
Ma… te n’aggia caccià!...
Vola, vola, palomma! E vola! Va!...163

160. ceroggena: candela.


161. giesummino: gelsomino.
162. Salvatore Di Giacomo, Palomma ’e notte, in Le poesie e le novelle, a cura di
Francesco Flora e Mario Vinciguerra, Milano, Mondadori editore, 1946, cit. p. 233.
163. Ibid.

114
’O ccafé cu ll’annese 164

Cinque del mattino


È inverno, piove.
Una luce s’accende nel mezzo di un cortile antico e familiare.
Due mani, dopo aver scandito il risveglio, preparano la colazione.
Il suono grave degi infissi è attutito dalla paterna gentilezza di chi
rimbocca le coperte ed ecco la zuppa ’e latte di eduardiana memoria.
Quattro chiacchiere su quello che bisogna fare, i conti per il salu-
miere, il macellaio che, inspiegabilmente, ha aumentato il prezzo della
carne ed ecco che, magicamente, quel profumo di caffè invade ogni
stanza, accarezza le figliole dormienti e segna l’inizio di un nuovo
giorno.
Il tocco d’artista, la goccia d’anice che riscalda, un ombrello mal-
messo, ’o segno ’e Croce, un bacio e lentamente s’allontana l’uomo
gentile con le mani incallite …

’Addor’ ’e café

Mme sceta ‘addor’ ’e café,


’stu muorzo165 ’e jurnata
e ’o ppoco ’e speranza
ca male nun fà …

164. annese: anice.


165. muorzo: morso.

115
Ninì,
’st’uocchie tuoje che sanno fà!
Pur’ ’o sole adacquano166,
accussì comm’a ’stu core,
ca cchiù acqua lle daje,
e cchiù de fuoco addeventa167 …

166. Adacquano: da adacquare, innaffiare.


167. Ferdinando Guarino, Tiempo e penziere, Boscoreale, Il Quaderno edizioni,
2016, cit. p. 79.

116
Cu tte

Cu ’e giusemmin168’ ’e Spagna,
pe ll’aria d’ ’a campagna
cu ll’addore d’ ’a vennegna,
te veco sora e cumpagna.

Cu nu ramillo ’e viole,
me ne vaco p’ ’e vvie ô sole,
addò nun sì cchiù sulo,
manco pe copp’ê tittule169.  

E mo ca ’e ’stu bbene campo,


sta’ quieta ch’a tte chiammo,
a tte voglio. Cu tte sonno.

I’ te vurria parla’

...i’ te vurria parla’,


mo ca tutt’ ’e capito,
mo ca ll’alba ’e n’atu juorno 
te pare ’na benedizione.

I’ te vurria sentì,
mente guarde ’nterra
e pienze a ’sta vita.
I’ me vurria perdere,
comme mo faje tu,
ca pure ’o viento te piace sentì.

I’ vurria penza’, vurria campa’,


comme mo pienze e campe tu,
ca daje cchiù culore
ô culore d’ ’e vviole ...

168. giesummine: gelsomini.


169. Tittule: tetti.

117
Abbrile170, abbrile!

Abbrile,
ca faje male,
p’ ’o calore ca nu’ vene
e pe ll’aria ancora vierno,

fenute so’ ’e squase,


mo bramo ’e ccerase,
cu ’a primmavera ca trase,
e ’o sole ca perce p’ ’e ccase.

Viene, luce!
Damme pace:
’O bbene te chiamma. Nun tace...

’Na furcina171

...mmiez’ô scuro d’ ’a nuttata


’na furcina aggio truvato,
piccerella, vicchiarella,
vuje pensate, saputielle:
«’Na furcina che po’ ffà?!».

Abbadate, 
nun è d’oro, ’argiento,
né de principe o rignante:
è ’na cosa ca si’’a vedite
nun ce penzate, nn’ ’a curate
e, pe carità, ve credo, mme credite?

Ma i’ ca saccio ’o fattariello

170. abbrile: aprile.


171. furcina: forcina per i capelli.

118
e aggio vista a chella brunettella172,
qua’ tesoro o perle mme cuntate?!

I’ m’ ’a gguardo, ’astipo173 e vaso


a ddiece, a cciente, a mille pezzechille174 
’sta furcina ca, dint’ô scuro d’ ’a nuttata,
nun credenno, aggio truvato...

P’ ’o mare

...comm’a ’na varca p’ ’o mare,


oj’ suonno, vieneme a truvare
e luntano porta ’sti penziere.
Cunnulianno175, vocame176 luntano,
p’ ’a terra senza terra d’ ’e suspire,
addò chello ca nasce, ’nchiuso rummane...

’O sapore d’ ’e ccerase177

Lampe, tuonele178
e fronne a mille a mille cadono
’ncopp’a ’stu vverde nuovo e scanusciuto,
p’ ’o viento ca luntano porta ’sti surrise
e primmavera siente sulo p’ ’o sapore d’ ’e ccerase...

172. brunettella: ragazza dai capelli bruni.


173. astipo: da astipare, conservare.
174. pezzechille: baci piccoli e intensi.
175. cunnullianno: da cunnuliare, cullare.
176. vocame: da vucare, vogare.
177. ccerase: ciliegie.
178. tuonele: tuoni.

119
Vola, palomma!

Vola, palomma,
ca t’appuoje179 ’ncopp’â spalla
comm’a ’na carezza ’e mamma,
ca te cunforta e te cunzola.

Vola pe ll’aria ’e ciardino,
ca, zitto, te tengo mente,
comme fosse fatto a vino:
allero, quieto e senza lamiente.

Oje palummella,
palummella amata,
te voglio fà cuntenta:
canto tutt’ ’e canzone bbelle.

Ma tu, sentenno,
vola vicino a chi dorme,
e dille ca è ll’unico bbene...

Aiza180 ll’uocchie!

... e quanno pur’ ’e parole mie so’ ppoche,


tu, senza paura, aiza ll’uocchie,
pecché ’ncielo truov’ ’e suspire
nascuse mmiez’ê ccarte, 
’e parole ca nun te dico.

Zitta, cont’ ’e stelle:


ovvì, so’ migliare181 
e ognuna ’e lloro 

179. appuoje: da appuojare, appoggiare.


180. aiza: da aizare, alzare.
181. migliare: migliaia.

120
sa’ che dice?
«Te voglio bene»,
e ancora s’arrobbano  
’e parole ca nun te dico...

In vino veritas!

In vino veritas,
e ’sta smania nun passa!
Te voglio bbene
e me faje scurda’ d’ ’e ppene.
Jett’ ’o vino ’a tavula,
nun me serve, tengo a tte,
ca luntano puorte ’o mmale,
e canto, ch’ ’ammore: «Nina, Ninè!»

Bonnì182

...che nne sape ’a ggente, Ninì,


’e quanno dicimme: «bonnì»?
Comme cunte ’stu bbene,
’sti ciente canzone,
e ’sta smania ca se spanne p’ ’e mmane?
Nun c’è pittore ca putarrìa pitta’,
nun c’è libbro ca po’ sapè dì,
’stu bbene, ’sta freva ca se chiamma: Ninì.

182. bonnì: buongiorno.

121
’A fine d’ ’a vernata183

Sott’a n’albero ’ngialluto,


cchiù p’ ’e guaje ca p’ ’o scurore,
ddoje frunnelle184, piccerelle,
fanno squase a pezzechille185.
E si ’e vvide, tiene mente,
nun ’e smove manco ’o viento:
s’arreparano, se mmescano,
s’astregneno, se scartano,
se cummogliano ll’uno cu n’ato,
cercanno ’o sole, ’a fine d’ ’a vernata...

183. vernata: inverno.


184. frunnelle: piccole foglie.
185. Squase a pezzechille: carezze come fossero piccoli baci.

122
Le canzoni

Canzoni dell’esser sospesi

Era de maggio ’ Ncopp’a ll’onna

Sfuresteria

’A primma ’nnammurata

Canzoni dipinte

Rusella ’e maggio Quann’ ’ammore vo’ fila’

123
Canzoni per Sergio Bruni

Lusingame Suonno a Marechiaro Che lle conto

124
Ringraziamenti

Ci sono incontri che segnano il tuo percorso, che ti permettono di


vedere le cose in un’ottica diversa, più “umana”, meno cinica e ma-
terialista come quest’epoca, ostinatamente, vuole imporci.
Per questo, oltre che per motivi più spiccatamente professionali, il
mio ringraziamento va al mio amico fraterno, maestro Filippo Vitiel-
lo, uomo di incredibile valore e di bontà infinita.

Ringrazio, inoltre, il maestro Giovanni Vitiello per la pazienza e


competenza .
Infine, il mio “grazie” va alla carissima dott.ssa Stefania Spisto
che, ancora una volta, ha aperto il suo cuore ai miei progetti.

125
Bibliografia
CARNEVALI B., Le apparenze sociali, Bologna, Il Mulino, 2012 , p. 9;
DE FILIPPO E., Filumena Marturano, Torino, Giulio Einaudi editore, 1979,
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VIVIANI R., Poesie, a cura di Antonia Lezza, Napoli, Alfredo Guida edito-
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ZAZZERA S., Dizionario Napoletano, Roma, Newton Compton editor s.r.l.,
2007.
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http://www.vatican.va/gpII/documents/homily-pro-eligendo-pontifi-
ce_20050418_it.html
https://www.youtube.com/watch?v=sl4lDOYRuNg
https://www.youtube.com/watch?v=g2gcrj6tWs4
https://www.youtube.com/watch?v=I37VtQbOa7M

126
INDICE

INTRODUZIONE................................................................................3
RUMOROSA TEMPESTA..................................................................7
POMERIGGI D’ESTATE....................................................................9
SFURESTERIA..................................................................................11
ASCOLTARE I VECCHI...................................................................13
’AFAMME.........................................................................................15
FELICITÀ..........................................................................................18
L’ATTESA..........................................................................................21
AMICIZIA.........................................................................................24
NAPULE, NUN M’ARRENNO!.......................................................28
OMBRE..............................................................................................33
TAMMURRIATE...............................................................................38
AVE, MARIA ...................................................................................43
ZITTO ...............................................................................................49
SERGIO BRUNI................................................................................51
LAVORO............................................................................................52
NÉ TALIANE, NÉ CAMMURRISTE...............................................62
NEMO PROFETA IN PATRIA..........................................................65
RICORDE..........................................................................................68
N’ATO ANNO...................................................................................75
NOTTE..............................................................................................78
’NZERRA!.........................................................................................81
SCIORTA...........................................................................................82
I’ RESTO CCÀ..................................................................................85
’NA SCORZA ’E PANE....................................................................88
’O CCAFÉ.........................................................................................89
EDUARDO, TOTÒ, VIVIANI..........................................................91
’NCOPPE RAVELLO .......................................................................94
26 ANNI............................................................................................98
’NA PICCERELLA..........................................................................101
SOLITUDINE .................................................................................105

127
LE RONDINI...................................................................................107
’NTIEMPO ’E VENNEGNA...........................................................109
L’UOMO MIMETICO.....................................................................110
1905.................................................................................................113
CINQUE DEL MATTINO...............................................................115
NINÌ.................................................................................................116
LE CANZONI .................................................................................123
RINGRAZIAMENTI.......................................................................125
BIBLIOGRAFIA.............................................................................126

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129
Finito di stampare
marzo 2020

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