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Raymond Chandler

Addio, mia amata


Traduzione di Gianni Pannofino

Adelphi eBook
TITOLO ORIGINALE:

Farewell, My Lovely

Quest’opera è protetta
dalla legge sul diritto d’autore
È vietata ogni duplicazione,
anche parziale, non autorizzata

In copertina: Los Angeles di notte (1951)


Fotografia di Ralph Crane
© RALPH CRANE/THE LIFE PICTURE COLLECTION
VIA GETTY IMAGES

Prima edizione digitale 2020

© 1940 RAYMOND CHANDLER

© 2020 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO


www.adelphi.it

ISBN 978-88-459-8313-9
ADDIO, MIA AMATA
1

Era uno degli isolati meticci di Central Avenue, quelli cioè


non ancora del tutto neri. Ero appena uscito da una sala da
barbiere a tre poltrone dove secondo un’agenzia
d’investigazioni un certo Dimitrios Aleidis lavorava come
avventizio. Forse. Comunque era una roba da niente – Mrs.
Aleidis era disposta a spendere qualche spicciolo pur di
veder tornare a casa il marito, tutto qui.
Aleidis non l’avevo trovato, ma va anche detto che non
avevo visto un centesimo.
Era una giornata calda, fine marzo o giù di lì, e io, davanti
al negozio, guardavo un’insegna al neon che sporgeva più
in alto, ad annunciare la presenza, al piano superiore, di un
posto dove si mangiava e si giocava a dadi: il Florian’s.
Eravamo in due, a interessarci all’insegna. L’altro guardava
le finestre impolverate con una specie di fissità estatica,
come un immigrato grande e grosso che veda per la prima
volta la Statua della Libertà. Era un bestione, sì, ma non
esageriamo: alto massimo un metro e novantacinque, e
meno largo di un camion della birra. Sarà stato a tre metri
da me. Le braccia gli penzolavano lungo i fianchi, e da
dietro le enormi dita di una mano si levava il fumo di un
sigaro dimenticato.
I neri smilzi e silenziosi di passaggio gli lanciavano
fulminee occhiate di sguincio a ogni vasca, e si poteva
anche capirli. Portava un borsalino infeltrito, una giacca
sportiva grigia e ruvida con bottoni a forma di palline da
golf, camicia marrone, cravatta gialla, pantaloni di flanella
grigi con le pinces, e scarpe di coccodrillo con esplosioni
bianche sulle punte. Dal taschino eruttava un fazzoletto
dello stesso giallo acceso della cravatta. Aveva un paio di
piume colorate infilate nella fascia del cappello, ma
avrebbe anche potuto farne a meno. Persino in Central
Avenue, che se parliamo di vestiti non è il regno della
sobrietà, passava inosservato come una tarantola su una
torta paradiso.
Era pallido e avrebbe avuto bisogno di una passata di
rasoio. Probabilmente, aveva sempre bisogno di una
passata di rasoio. I capelli erano neri e ricci, e le folte
sopracciglia quasi congiunte in cima al nasone. Aveva
orecchie piccole e ben formate, per uno di quelle
dimensioni, e negli occhi il luccichio quasi lacrimoso di
quelli con gli occhi grigi. Di molti, quantomeno. Se ne stava
lì come una statua, e dopo un po’ ha sorriso.
Con calma, si è mosso verso la doppia porta a vento che
dava sulla scala interna. L’ha aperta, ha lanciato
un’occhiata disinvolta e inespressiva a destra e a sinistra,
ed è sparito. Fosse stato più piccolo, o vestito in maniera
meno vistosa, l’avrei creduto sul punto di fare una rapina.
Ma conciato in quel modo, con quel cappello e quella
stazza, no.
I due battenti hanno oscillato verso l’esterno, ma ancor
prima di fermarsi si sono riaperti con violenza. Qualcosa ha
sorvolato il marciapiede, atterrando nel canale di scolo tra
due auto parcheggiate. È atterrato su mani e ginocchia,
emettendo il suono acuto e funereo di un topo in trappola.
Poi, a fatica, si è rimesso in piedi, ha raccolto il cappello e
riguadagnato il marciapiede. Era un ragazzotto scuro di
pelle, magro, con le spalle strette, in completo lilla e
garofano all’occhiello. Aveva i capelli neri impastati di
brillantina. Dalla bocca aperta gli è sfuggito una specie di
lamento, che gli è valso qualche occhiata distratta dei
passanti. Ma subito si è risistemato il cappello, anche con
un certo stile, e si è allontanato lungo il muro, un piede
piatto dopo l’altro.
Silenzio. Il viavai è ripreso. Mi sono avvicinato alla doppia
porta, fermandomici davanti. I battenti erano immobili. Non
erano fatti miei. Quindi ho aperto e guardato all’interno.
Una mano su cui avrei potuto sedermi è sbucata dalla
penombra e mi ha afferrato una spalla, sgretolandomela.
Poi mi ha trascinato oltre i battenti facendomi salire di
slancio su un gradino. Il faccione mi ha fissato. Una voce
profonda e morbida mi ha detto, piano: «Cosa ci fanno tutti
’sti negretti? Ti va di spiegarmelo?».
C’era buio. Tutto taceva, a parte vaghi suoni d’umanità
provenienti dal piano di sopra, ma ai piedi di quella scala
eravamo soli. Il bestione mi fissava con aria solenne,
continuando a demolirmi la spalla.
«Uno l’ho appena sbattuto fuori. Hai visto che l’ho
sbattuto fuori?».
Mi ha lasciato andare la spalla. Forse l’osso era integro,
ma avevo il braccio indolenzito.
«È un posto di quelli» ho detto, massaggiandomi la spalla.
«Cosa ti aspettavi?».
«Non dire così, bello» ha suggerito il bestione facendo le
fusa, mansueto come quattro tigri dopo cena. «Ci lavorava
Velma, qui. La piccola Velma».
Di nuovo quella manaccia sulla spalla. Ho cercato di
scansarmi, ma era svelto come un gatto. Ha ricominciato a
sbriciolarmi i muscoli con le sue dita d’acciaio.
«Già» ha detto. «La piccola Velma. Non la vedo da otto
anni. Così, secondo te, questo è un posto per negri?».
Ho grugnito. Secondo me sì.
Mi ha sollevato di un altro paio di gradini. Ho provato a
divincolarmi per mettere un po’ di distanza tra noi. Non ero
armato. Per cercare Dimitrios Aleidis non mi serve la
pistola, avevo pensato. Comunque, se anche l’avessi avuta,
non ci avrei fatto niente. Probabilmente il bestione me
l’avrebbe sfilata per divorarsela intera.
«Va’ su e controlla di persona» ho detto, cercando di non
fargli capire quanto male mi stesse facendo.
Ha mollato di nuovo la presa. Credo che quella luce nei
suoi occhi grigi fosse tristezza. «Sono di buon umore» ha
detto. «Spero che nessuno cerchi rogne. Saliamo a
scolarcene un paio».
«Non ti daranno da bere. Te l’ho detto: è un posto per
gente di colore».
«Non vedo Velma da otto anni» ha ripetuto con quella
voce profonda e malinconica. «Otto lunghi anni, dall’ultima
volta. E non mi scrive da sei. Ma avrà le sue ragioni.
Lavorava qui. Quant’era carina. Dài, andiamo su».
«Va bene» ho detto alzando la voce. «Vengo con te. Però
smettila di strattonarmi. Ce la faccio, a camminare. Sono
maggiorenne. Vado in bagno da solo e tutto quanto. Non
serve che mi trascini».
«La piccola Velma lavorava qui». Aveva un tono gentile, e
non mi stava ascoltando.
È salito su per le scale, lasciandomi camminare. Mi
faceva male una spalla. E il collo, dietro, era tutto sudato.
2

In cima alla scala un’altra doppia porta a vento, e dietro


va’ a sapere. Il bestione ha aperto delicatamente i battenti
con i pollici, e siamo entrati nella sala. Era un locale
angusto, non tanto pulito, non tanto illuminato, non tanto
allegro. Nell’angolo, un gruppo di neri cantava e
chiacchierava in un cono di luce intorno a un tavolo da
craps. C’era un bancone a ridosso della parete destra. Il
resto del locale era occupato perlopiù da tavolini rotondi.
Con alcuni clienti, sia uomini che donne. Tutti neri.
Quelli al tavolo da craps hanno immediatamente smesso
di cantare. Qualcuno ha spento il cono di luce. È sceso un
silenzio pesante come una barca piena d’acqua. C’erano
occhi che ci guardavano, occhi castani su facce che
andavano dal grigio al nero profondo. Le teste si sono
voltate lentamente, e gli occhi hanno mandato un luccichio,
scrutando nel silenzio alieno di un’altra razza.
A un’estremità del bancone era appoggiato un nero
enorme, con un collo grosso così, elastici rosa alle maniche
della camicia e bretelle bianche e rosa incrociate al centro
della schiena massiccia. Un buttafuori, ovvio. Ha posato
lentamente a terra il piede sollevato e si è voltato a
guardarci, divaricando un po’ le gambe e passandosi una
gran lingua sulle labbra. Senza fretta. Era sfigurato, come
avesse preso in faccia di tutto tranne la pala di una ruspa.
Era sfregiata, appiattita, gonfia, butterata, bitorzoluta. Una
faccia che non aveva niente da temere, avendo già patito
tutto l’immaginabile.
Fra i capelli corti e crespi brillava qualche filo bianco. A
un orecchio mancava il lobo.
Era un uomo pesante, largo. Aveva gambe abnormi e,
strano per uno di loro, piuttosto arcuate. Prima ha mosso
un’altra volta la lingua, e poi tutto il corpo, avanzando
verso di noi con una vaga postura da lottatore. Il bestione
lo aspettava in silenzio.
L’altro gli ha appoggiato il manone sul petto. Era
smisurato, ma lì sopra pareva una spilla. Il bestione non si
è mosso. Il buttafuori ha sorriso, gentile.
«Niente bianchi, qui, fratello. Solo... ci siamo capiti: solo
noi. Mi spiace».
Il bestione si è guardato intorno con i suoi tristi occhi
grigi. Le guance gli si sono arrossate, ma giusto un poco.
«Un covo di negri...» ha sibilato rabbioso. Poi, più forte:
«Dov’è Velma?».
Il buttafuori non l’ha presa esattamente sul ridere. Ha
studiato ben bene i vestiti di quell’altro: la camicia
marrone, la cravatta gialla, la ruvida giacca grigia con le
palline da golf bianche. Muoveva piano la testa di qua e di
là come volesse osservare tutto da diverse angolazioni. Poi
ha abbassato gli occhi sulle scarpe di coccodrillo,
ridacchiando piano. Sembrava divertito. Faceva un po’
pena. Quando ha ripreso a parlare, era molto calmo.
«Velma, dici? Non c’è nessuna Velma, qui, fratello. Niente
alcol, niente ragazze, niente di niente. Solo andarsene,
ragazzo bianco. C’è solo da andarsene».
«Velma lavorava qui» ha detto il bestione con voce quasi
sognante, manco fosse tutto solo tra i boschi a raccoglier
violette. Ho preso il fazzoletto per darmi un’altra asciugata
dietro il collo.
Improvvisamente il buttafuori è scoppiato a ridere.
«Certo» ha detto, lanciando un rapido sguardo dietro di sé,
al suo pubblico. «Velma lavorava qui. Ma adesso non ci
lavora più. Se n’è andata in pensione. Ah ah».
«Vedi di togliermi quella manaccia dalla camicia» ha
detto il bestione.
Il buttafuori si è incupito. Di solito non gli parlavano in
quel tono. Ha tolto la mano dalla camicia, poi l’ha chiusa: il
pugno aveva le dimensioni, e il colore, di una grossa
melanzana. C’erano il suo lavoro, la sua reputazione da
duro e un’immagine pubblica da proteggere. Deve aver
considerato la cosa per un attimo, e ha commesso un
errore. Ha sferrato il pugno con forza, senza movimenti
ampi, con un brusco scarto laterale del gomito, colpendo il
bestione alla mandibola. La sala ha rumoreggiato, piano.
Mica male, nel suo genere. Aveva abbassato la spalla e
accompagnato il colpo con tutto il corpo. Ci aveva messo
sostanza, segno di una certa pratica. L’altro ha mosso la
testa sì e no di due dita. Non ha cercato di parare il colpo.
Lo ha incassato e basta. Una leggera scrollata, un piccolo
suono gutturale, poi ha afferrato il buttafuori per il collo.
Il buttafuori ha cercato di mollargli una ginocchiata nelle
parti basse. Il bestione lo ha rigirato alzandolo di peso e ha
divaricato i piedi, vistosamente calzati, sul linoleum
screpolato. Ha piegato il buttafuori all’indietro, e con la
destra lo ha afferrato alla cintura, che si è rotta come lo
spago di un arrosto. Ha piazzato quelle mostruosità di mani
sulla spina dorsale del buttafuori e lo ha sollevato,
scaraventandolo dall’altra parte del locale in un volo
scomposto e brancolante. Tre uomini che erano sulla
traiettoria si sono scansati. Il buttafuori ha travolto un
tavolo, atterrando contro il battiscopa con un frastuono che
credo si sia sentito fino a Denver. Per un attimo le sue
gambe hanno sussultato. Poi è rimasto immobile.
«Certi tizi fanno i duri con le persone sbagliate» ha detto
il bestione voltandosi verso di me. «Dài, facciamoci ’sto
goccetto».
Ci siamo avvicinati al bancone. In solitaria, a coppie o a
terzetti, i clienti si sono trasformati in ombre silenziose,
scivolando sul pavimento e oltre la doppia porta in cima
alle scale. Senza rumore, come ombre su un prato. Non
hanno neppure fatto oscillare i battenti.
Ci siamo appoggiati al bancone. «Whisky sour» ha detto il
bestione. «Tu?».
«Anch’io».
Ce li siamo bevuti.
Il bestione ha sorbito il drink impassibile, inclinando
appena il bicchiere tozzo e massiccio. Intanto guardava
solenne il barman, un nero smilzo con una giacca bianca e
un’aria preoccupata, che si muoveva come se gli facessero
molto male i piedi.
«Sai dov’è Velma?».
«Velma, dici?» ha piagnucolato il barman. «È un pezzo
che non si fa vedere. Proprio un bel pezzo, sa?».
«Da quanto tempo sei qui?».
«Vediamo» ha detto il barman. Posato lo strofinaccio e
corrugata la fronte, si è messo a contare sulle dita. «Dieci
mesi, credo. Più o meno un anno. Circa...».
«Deciditi».
Il poveraccio ha strabuzzato gli occhi, mentre il pomo
d’Adamo gli schizzava di qua e di là come una gallina
decapitata.
«Da quanto tempo ’sto pollaio sarebbe un posto per
negri?» ha chiesto il bestione, non proprio con le buone.
«Come? Quale?».
Il pugno se l’inghiottiva quasi tutto, il bicchiere.
«Da cinque anni» sono intervenuto. «Il nostro amico non
può saperne niente, di una ragazza bianca come Velma.
Nessuno qui può saperne niente».
Il bestione mi ha guardato come fossi appena sbucato da
un uovo. Il whisky sour non sembrava avergli migliorato
l’umore.
«Chi diavolo ti ha chiesto di impicciarti?».
Gli ho fatto un sorriso. Un gran sorriso, caloroso e
amichevole. «Sono quello che è venuto qui con te,
ricordi?».
In risposta, mi ha rivolto un sorriso piatto e bianco, senza
significato. «Whisky sour» ha detto al barman. «Muovi le
chiappe. Sbrigati a servirmi».
Il barman si è messo all’opera, facendo roteare il bianco
degli occhi. Io mi sono appoggiato di schiena al bancone,
guardando il locale. Ormai era vuoto, a parte il barman, il
bestione, il sottoscritto e il buttafuori scaraventato contro il
muro, che ricominciava a muoversi con uno sforzo che
sembrava enorme. Si trascinava lentamente lungo il
battiscopa, come una mosca con un’ala sola. Strisciava
dietro i tavoli, a stento, un uomo improvvisamente vecchio,
improvvisamente disilluso. Studiavo i suoi movimenti. Il
barman ha posato sul bancone altri due whisky sour. Mi
sono voltato. Dopo un’occhiata distratta al buttafuori, che
continuava ad arrancare a terra, il bestione aveva deciso di
disinteressarsene.
«Non è rimasto niente del locale» ha detto con
rammarico. «C’era un piccolo palco per la band e stanzette
dove uno poteva divertirsi. Velma si dava un po’ ai
gorgheggi. Una rossa. Graziosa come una mutandina di
pizzo. Dovevamo sposarci, ma poi mi hanno incastrato».
Ho preso il mio secondo whisky sour. Cominciavo ad
averne abbastanza di quella storia. «Incastrato come?» ho
chiesto.
«Dove li ho passati gli ultimi otto anni, secondo te?».
«A caccia di farfalle».
L’indice che si è premuto sul petto pareva una banana.
«Al gabbio. Mi chiamo Malloy, ma certi mi chiamano Moose
Malloy, perché sono grosso come un alce. Il lavoretto in
banca a Great Bend. Quarantamila dollari. Da solista.
Niente male, eh?».
«E adesso cosa pensi di fare, spendere e spandere?». Mi
ha rifilato un’occhiataccia. Alle nostre spalle qualcosa si è
mosso. Il buttafuori era di nuovo in piedi, più o meno.
Aveva una mano sulla maniglia di una porta scura dietro il
tavolo da craps. L’ha aperta e ci è quasi caduto dentro. Poi
la porta si è richiusa di scatto. La serratura anche.
«Cosa c’è lì dietro?» ha chiesto Moose Malloy.
Gli occhi del barman, benché schizzassero da tutte le
parti, cercavano faticosamente di concentrarsi sulla porta
dietro cui era appena scomparso il buttafuori.
«C’è... c’è l’ufficio di mistah Montgomery, signore. È il
capo. Ha l’ufficio lì».
«Magari lui lo sa» ha detto il bestione, vuotando il
bicchiere in un sorso. «E non gli conviene fare il furbo. Altri
due».
Ha attraversato il locale con calma, con passo leggero,
come avesse tutto il tempo del mondo. La sua schiena
gigantesca nascondeva la porta chiusa a chiave. L’ha
scossa, facendo volar via un pezzo dello stipite. Quindi l’ha
oltrepassata, e se l’è richiusa alle spalle.
Non volava una mosca. Io guardavo il barman, il barman
guardava me, con un’aria piuttosto pensierosa. Nel pulire il
bancone, con un sospiro, ha allungato il braccio destro
verso il basso.
Mi sono sporto sul bancone per bloccarlo. Un braccio
sottile, fragile. Gliel’ho stretto, sorridendo.
«Cos’hai lì sotto, ragazzo?».
Si è passato la lingua sulle labbra, arrendendosi subito.
La faccia lucida gli si era ingrigita di colpo.
«Quel tizio è un duro» ho detto. «Basta un niente e si
incattivisce, per via dell’alcol. Sta cercando una ragazza
che conosceva. Questo posto era un locale per bianchi. Mi
spiego?».
Il barman si è passato la lingua sulle labbra.
«È stato via per molto tempo. Otto anni. Non sembra
rendersi conto di quanto sono lunghi otto anni, anche se
devono essergli sembrati una vita. Secondo lui dovreste
saperlo, dov’è finita la ragazza. Mi spiego?».
«Pensavo che eravate insieme». Lo ha detto quasi
scandendo le parole.
«Non ho avuto scelta. Mi ha fatto una domanda, qui sotto,
e poi mi ha trascinato su. Non l’ho mai visto prima. Ma non
avevo voglia di farmi strapazzare più di tanto. Cos’hai lì?».
«Un fucile a canne mozze».
«Bah, non è legale» ho detto sottovoce. «Sta’ a sentire, tu
e io siamo soci. Hai nient’altro?».
«Una pistola. In una scatola di sigari. Mollami il braccio».
«D’accordo. Ora spostati un po’. Piano. Di lato. Non è il
momento di tirar fuori l’artiglieria».
«Lo dici tu». Ha fatto una smorfia, tirandomi il braccio
con il suo debole peso. «Lo dici...».
Si è fermato lì. In compenso ha girato occhi e testa, di
scatto.
Dal fondo della stanza oltre la porta era arrivato un
rumore sordo e secco. Poteva anche essere una porta
sbattuta, ma mi pareva improbabile. E il barman la pensava
come me.
Era come di pietra. Dalle labbra gli colava un rivolo di
saliva. Ho teso l’orecchio. Nessun altro rumore. Mi sono
mosso svelto verso l’estremità del bancone. Avevo ascoltato
fin troppo.
La porta in fondo al locale si è aperta con un botto, e
Moose Malloy, immane e agile, è schizzato fuori,
fermandosi con i piedi piantati per terra e un gran sorriso
pallido in faccia.
La Colt Army calibro 45 sembrava una pistola giocattolo,
in mano sua.
«Non fatevi venire strane idee» ha detto, pacioso. «Posate
le zampe sul bancone».
Abbiamo eseguito.
Moose Malloy ha perlustrato il locale con lo sguardo.
Aveva un sorriso fisso, come inchiodato in faccia. Un piede
dopo l’altro, si è mosso in silenzio per la sala. Guardandolo
meglio, sì, sarebbe stato in grado di rapinare una banca da
solo – anche vestito così.
È tornato al bancone. «Su le mani, negro» ha detto
tranquillo. Il barman ha alzato le mani. Il bestione si è
fermato alle mie spalle e mi palpato ben bene con la
sinistra. Sentivo il suo alito caldo sul collo. Poi si è spostato.
«Neanche Mr. Montgomery sapeva niente di Velma. Ha
provato a spiegarmelo... con questa». Con la mano libera
dava dei buffetti alla Colt. Mi sono voltato, lentamente.
«Già» ha detto. «Avrai mie notizie, amico. Non ti
dimenticherai di me. Ma di’ agli sbirri di non prendermi
sottogamba». Ha agitato la pistola. «Be’, vi saluto, balordi.
Devo correre a prendere il tram».
Si è avviato all’uscita.
«Non hai pagato la consumazione» ho detto.
Si è fermato, fissandomi.
«Mi sa che hai ragione. Ma fossi in te non la farei tanto
lunga».
Ed è sparito oltre la doppia porta. I suoi passi sono
risuonati sempre più fiochi giù per le scale.
Intanto il barman si era chinato. Ho scavalcato il bancone
e l’ho spinto via. Su una mensola c’era un fucile a canne
mozze nascosto da uno strofinaccio. Accanto al fucile, una
scatola da sigari. Nella scatola da sigari, una 38
automatica. Ho preso tutto. Il barman si era appiattito
contro la schiera di bicchieri.
Ho fatto il giro del bancone e mi sono infilato nella porta
spalancata. Subito dietro c’era un corridoio a L quasi
completamente buio. Il buttafuori era a terra in una posa
scomposta, privo di sensi, con un coltello in mano. Mi sono
chinato, gliel’ho preso, e l’ho buttato giù dalla scala sul
retro. Rantolava, e la mano era inerte.
Oltre il suo corpaccione c’era una porta. La vernice nera
della scritta «Ufficio» cominciava a scrostarsi.
Vicino a una finestra parzialmente oscurata da pannelli in
legno c’era una piccola scrivania tutta graffiata. Dietro, su
una sedia con lo schienale dritto che arrivava giusto
all’osso del collo, un torso eretto. La testa era piegata
all’indietro sullo schienale, con il naso rivolto verso la
finestra semisbarrata. Piegata come un fazzoletto, o la
cerniera di un’anta.
Alla destra dell’uomo c’era un cassetto della scrivania
aperto. All’interno, un giornale con una macchia di grasso
al centro. Ecco da dove era uscita la Colt. Sul momento gli
sarà sembrata un’ideona, a Mr. Montgomery, ma a
giudicare dalla posizione della testa si era rivelata tutto il
contrario.
Sulla scrivania c’era un telefono. Prima di chiamare la
polizia ho posato il fucile a canne mozze e sono andato a
chiudere a chiave la porta. Mi sentivo più sicuro così, e Mr.
Montgomery sembrava abbastanza d’accordo.
Quando i ragazzi della volante sono saliti di corsa dalle
scale, buttafuori e barman erano scomparsi, e avevo il
locale tutto per me.
3

Il caso era stato assegnato a un certo Nulty, un virtuoso


del mugugno con la mandibola affilata e lunghe mani
giallastre che, durante il nostro colloquio, erano rimaste
perlopiù intrecciate sulle rotule. Nulty era un viceispettore
distaccato presso il commissariato di polizia della 77th
Street, e la nostra conversazione si era svolta in una stanza
spoglia con due piccole scrivanie una di fronte all’altra, fra
le quali c’era un po’ di spazio per muoversi, ma non più di
uno alla volta. Il pavimento era coperto da un sudicio
linoleum marrone, e nell’aria ristagnava un gran puzzo di
sigaro stantio. La camicia di Nulty era lisa, e i polsini della
giacca erano rivoltati all’interno. Era talmente scalcinato
che poteva persino essere onesto, ma non sembrava uno in
grado di tenere testa a Moose Malloy.
Si è acceso un mezzo sigaro e ha gettato a terra il
fiammifero, che non avrebbe sofferto di solitudine là sotto,
anzi. Poi, con una voce amara: «Negri. Un altro negro
ammazzato. Ecco quanto valgo, dopo diciotto anni in
polizia. Niente foto sul giornale, niente pubblicità, neanche
quattro righe nella pagina delle inserzioni».
Visto che non commentavo, ha preso il mio biglietto da
visita dalla scrivania, dove lo ha posato dopo averlo riletto.
«Philip Marlowe, investigatore privato. Uno di quelli, eh?
Cristo, ce l’hai proprio, l’aria del duro. Cos’hai fatto per
tutto quel tempo?».
«Quale tempo?».
«Il tempo che Malloy ha impiegato per tirare il collo al
negro».
«Ah, quello è successo di là. Malloy non mi aveva
preannunciato che avrebbe spezzato il collo a qualcuno».
«Ma certo, sfottimi. Accomodati pure. Lo fanno tutti. Uno
più uno meno, casa cambia? Il povero vecchio Nulty.
Andiamo su a farci due risate alle sue spalle. Si va a colpo
sicuro, con Nulty».
«Non sto sfottendo proprio nessuno. È la verità: è
successo in un’altra stanza».
«Ah, sicuro» ha detto Nulty da dietro un ventaglio di
fumo fetido. «Sono andato a vedere. Ma tu vai in giro senza
ferro?».
«Per certi lavori non serve».
«Quali lavori?».
«Stavo cercando un barbiere che ha lasciato la moglie.
Lei credeva di poterlo convincere a tornare a casa».
«Un negro?».
«No, un greco».
«Okay» ha detto Nulty, sputando nel cestino dei rifiuti.
«Okay. E il bestione, com’è che l’hai incontrato?».
«L’ho già detto. Mi trovavo lì per caso. Lui ha
scaraventato un negro fuori dal Florian’s, e io,
stupidamente, ho ficcato il naso per vedere cosa stava
succedendo. È stato lui a portarmi al piano di sopra».
«Ti ha puntato contro una pistola?».
«No, non ce l’aveva ancora, la pistola. O, perlomeno, a me
non l’ha mostrata. La pistola l’ha tolta a Montgomery,
probabilmente. Mi ha soltanto rimorchiato. Sai, certe volte
sono abbastanza carino».
«Non mi pare. Comunque ti sei fatto rimorchiare un po’
troppo facilmente, secondo me».
«D’accordo. Inutile discutere. Io ho visto il tipo, tu no.
Potrebbe usarci tutti e due come cinturini del suo orologio.
Ho capito che aveva ucciso qualcuno solo dopo che se n’era
andato. Ho sentito uno sparo, ma ho pensato che qualcuno
si fosse spaventato e avesse cercato di sparare a Malloy, e
che poi Malloy l’avesse disarmato».
«E come ti è venuta un’idea del genere?». Ora Nulty era
quasi sereno. «Per rapinare quella banca ha usato la
pistola, no?».
«Considera com’era vestito. Non era lì per uccidere. Non
si sarebbe conciato così. Era lì perché cercava una certa
Velma, una che doveva essere la sua ragazza quando
l’hanno pizzicato per la rapina. Lei lavorava al Florian’s,
ammesso che quel posto si chiamasse così anche quando
era un posto per bianchi. È proprio lì che l’hanno beccato.
Lo prenderai, ne sono sicuro».
«Certo. Grosso com’è, e con quei vestiti. Facile».
«Magari ha altri vestiti. E un’auto e un nascondiglio e
soldi e amici. Ma lo prenderai».
Nulty ha sputato di nuovo nel cestino. «Certo, lo
prenderò, come no. Quando mi spunterà la terza fila di
denti. Quanti uomini si occuperanno del caso? Uno. E vuoi
sapere perché? Perché non ha pubblicità, ecco perché. Una
volta, sulla East 84th Street, cinque negri si sono incisi a
vicenda sulla buccia un tramonto di Harlem. Uno era già
freddo. C’era sangue sui mobili, sangue sulle pareti,
persino sul soffitto. Vado a vedere, e quando arrivo c’è uno
che lavora al “Chronicle”, uno scribacchino, che scende
dalla veranda e sta per risalire in auto. Ci fa una smorfia e
dice: “Al diavolo, sono negri”. Sale sul suo catorcio e se ne
va. Non ci ha neanche messo piede, in casa».
«Forse Malloy ha violato la libertà vigilata» ho detto. «Se
così fosse, magari una mano te la danno. Ma andateci
piano, se non volete che stenda un paio di agenti. Certo, a
quel punto avresti tutta la pubblicità che vuoi».
«Ma non avrei più il caso» ha risposto Nulty con un
mezzo ghigno.
Il telefono sulla sua scrivania si è messo a squillare.
Mentre ascoltava, Nulty sorrideva malinconico. Dopo aver
riagganciato, ha scritto qualcosa su un blocco con un fioco
bagliore nello sguardo, come una luce in fondo a un
lunghissimo e polveroso corridoio.
«Accidenti, l’hanno identificato. Era l’archivio. Hanno
impronte, foto segnaletica e tutto quanto. Bel tipino, eh?».
Mi ha letto gli appunti. «Un vero uomo, perdio. Due metri
per centoventi chili, senza la cravatta. Cristo, che
marcantonio. Be’, al diavolo. L’hanno messo in lista, forse
per quando avranno finito con i furti d’auto. Possiamo solo
aspettare». Ha gettato il sigaro in una sputacchiera.
«Magari è il caso di cercare la ragazza» ho buttato lì.
«Velma, dico. Malloy la starà cercando. È così che è
cominciato tutto. Bisogna trovarla».
«Pensaci tu. Io sarà vent’anni che non entro in un
bordello».
Mi sono alzato in piedi. «D’accordo» ho detto avviandomi
alla porta.
«Ehi, aspetta un attimo» ha detto Nulty. «Scherzavo. Tu
non sei presissimo, o sì?».
Mi sono fermato sulla porta e l’ho guardato, rigirandomi
una sigaretta tra le dita.
«Insomma, di sicuro hai un po’ di tempo per dare
un’occhiata in giro e vedere se la trovi. È una buona idea,
la tua. Magari scopri qualcosa. Puoi muoverti in incognito».
«Cosa me ne viene?».
Ha spalancato quelle sue mani giallastre, con tristezza.
Aveva un sorriso astuto – quanto una trappola per topi
guasta, più o meno. «Hai già avuto più di un problema con
noialtri. Inutile che neghi. Qualche voce mi è arrivata. La
prossima volta potrebbe servirti un amico su cui contare,
qui dentro».
«Non vorrei ripetermi. Cosa me ne viene?».
«Sta’ a sentire». Stava perdendo la pazienza. «Io sono
uno qualunque. Ma una persona amica all’interno del
dipartimento potrebbe tornarti molto utile».
«Ma è solo una cosa di affetto... o parliamo di soldi?».
«Di soldi no» ha detto Nulty, arricciando il naso giallastro.
«Però, dopo quello che è successo, ho un gran bisogno che
qualcuno mi faccia credito. La situazione si è messa
davvero male. Non me ne dimenticherò, amico. Puoi
fidarti».
Ho guardato l’orologio. «Bene, se mi viene in mente
qualcosa mi faccio vivo. E quando arriverà la foto
segnaletica, posso passare a identificarlo. Dopo pranzo». Ci
siamo stretti la mano. Ho imboccato il corridoio e le scale
color fango, e appena fuori ho recuperato la macchina.
Erano passate due ore da quando Moose Malloy era
uscito dal Florian’s con la Colt in pugno. Ho pranzato in un
drugstore, mi sono portato via una pinta di bourbon e, una
volta in auto, mi sono mosso in direzione est. Arrivato in
Central Avenue ho svoltato a nord. Il presentimento che
avevo era vago come la caligine che danzava sui
marciapiedi.
Non mi riguardava, in teoria, ma ero curioso. E, a dirla
tutta, era da un mese che non si batteva chiodo. Anche un
lavoretto gratuito andava bene, tanto per cambiare.
4

Il Florian’s era chiuso, ovviamente. Davanti al locale, al


volante di un’auto, c’era un tizio, senza dubbio un poliziotto
in borghese, che leggeva il giornale con un occhio solo.
Non capivo perché si fossero presi la briga: lì nessuno
sapeva niente di Moose Malloy. Il buttafuori e il barman
erano spariti. E nessuno in zona li conosceva o aveva voglia
di parlare.
Ho proseguito lentamente in auto, ho parcheggiato nella
prima traversa, e sono rimasto seduto a guardare un
albergo per neri sul lato opposto della strada, all’angolo. Si
chiamava Hotel Sans Souci. Sono sceso, ho attraversato e
sono entrato. Due file di sedie rigide e vuote si
fronteggiavano ai lati di una passatoia marroncina. In
fondo, nella penombra, c’era un banco, e dietro il banco un
tizio pelato con gli occhi chiusi e le mani brune
pacificamente incrociate davanti a sé. Sonnecchiava, credo.
Portava una cravatta a foulard che sembrava essere stata
annodata l’ultima volta verso il 1880. La spilla che la
teneva ferma aveva una pietra verde grande poco meno di
una mela. Il mento largo e ciondolante ricadeva con grazia
sulla cravatta, e le mani erano placide e pulite, con unghie
curate e mezzelune grigie nel violetto delle unghie.
Su una targa di metallo accanto al suo gomito era incisa
una scritta: «Questo Hotel è protetto dell’International
Consolidated Agencies Ltd. Inc.».
Quando quell’essere serafico ha aperto un occhio per
guardarmi, gli ho indicato la targa.
«HPD. Sono venuto a dare un’occhiata. Avete guai?».
HPD sta per Hotel Protective Department, il dipartimento
di una grande agenzia di investigazioni che si occupa di
assegni scoperti o di gente che se ne va dalla scala sul
retro senza pagare il conto e lasciando valigie di seconda
mano piene di mattoni.
«I guai, fratello,» ha detto l’impiegato con voce squillante
«li abbiamo appena passati». Poi ha abbassato il tono di
cinque o sei tacche: «Come hai detto che ti chiami?».
«Marlowe. Philip Marlowe».
«Bel nome, fratello. Pulito e allegro. Stai proprio un fiore,
oggi». Ha abbassato la voce di nuovo. «Però non sei
dell’HPD. Sono anni che non si fanno vedere». Si è
sbrogliato le dita per indicare la targa. Non che ne avesse
voglia. «L’ho comprata di seconda mano, fratello, solo per
fare scena».
«Benone» ho detto, appoggiandomi al banco e
mettendomi a far girare un mezzo dollaro sul ripiano di
legno graffiato.
«Hai saputo cos’è successo stamattina al Florian’s?».
«Me ne sono scordato, fratello». Aveva aperto anche
l’altro occhio, e osservava la luce sfocata prodotta dalla
moneta.
«Hanno fatto fuori il capo, stamattina. Tale Montgomery.
Qualcuno gli ha spezzato il collo».
«Che il Signore possa accogliere la sua anima, fratello».
Di nuovo ha abbassato il tono di voce. «Sei uno sbirro?».
«Investigatore privato, in incognito. E so riconoscere uno
capace di tenere un segreto, se lo vedo».
Mi studiava. Per pensarci meglio ha richiuso gli occhi. Poi
li ha riaperti, con cautela. Si è rimesso a fissare la moneta.
Non poteva fare a meno di guardarla.
«Chi è stato?» ha chiesto sommessamente. «Chi ha ucciso
Sam?».
«Un duro, uno appena uscito di galera: si è innervosito
perché non è più un locale per bianchi. Un tempo lo era,
pare. Magari te ne ricordi».
Non sembrava. La moneta è ricaduta con un lieve
tintinnio vibrante e si è fermata.
«Scegli» gli ho detto. «Preferisci che ti legga un capitolo
della Bibbia o che ti offra da bere?».
«Fratello, la Bibbia mi piace leggerla in raccoglimento
con la mia famiglia». Aveva occhi brillanti, da rospo,
fermissimi.
«Magari hai appena pranzato».
«Il pranzo è una cosa che quelli come me, con le mie
inclinazioni, cercano di evitare». Poi, di nuovo a voce
bassissima: «Fa’ il giro. Vieni da questa parte del banco».
Avvicinandomi, ho tirato fuori dalla tasca la bottiglia
piatta di bourbon pregiato, posandola sul ripiano dietro il
banco. Quindi ho fatto marcia indietro. Lui si è chinato per
esaminarla, soddisfatto.
«Fratello, con questa non ti ci compri niente. Ma non mi
spiace l’idea di farmi un goccetto con te».
Ha aperto la bottiglia e posato sul banco due bicchierini,
riempiendoli in silenzio fino all’orlo. Ne ha sollevato uno, e
dopo averlo annusato con attenzione se l’è tracannato, col
mignolo in su.
Ci ha anche riflettuto, bevendolo. Poi ha annuito: «Questo
viene dalla botte giusta, fratello. Come posso esserti
d’aiuto? Dei marciapiedi qui intorno conosco ogni crepa per
nome e cognome. Sissignore, questa roba tiene proprio
compagnia». Si è riempito un altro bicchierino, lasciandosi
raccontare cos’era successo al Florian’s e perché. Intanto
mi fissava con aria solenne, scuotendo la pelata.
«Aveva un bel posticino tranquillo, Sam» ha detto. «Era
un mese che non c’erano accoltellamenti».
«Quando il Florian’s era un posto per bianchi, otto anni fa
o sei o anche meno, come si chiamava?».
«Le insegne luminose costano, fratello».
Ho annuito. «Immaginavo che il nome non fosse
cambiato, se no Malloy avrebbe detto qualcosa. Ma chi lo
gestiva?».
«Mi meraviglio di te, fratello. Quel povero peccatore si
chiamava Florian. Mike Florian».
«E che fine ha fatto?».
Il nero ha spalancato le mani brune e gentili. La voce
adesso era stentorea, e triste. «Morto, fratello. Chiamato
dal Signore. Nel ’34, forse nel ’35. Non so di preciso. Una
vita sciupata, fratello, e un problema di reni sott’aceto. Così
ho sentito dire. L’uomo empio va incontro alla fine come un
vitello, ma la misericordia lo attende nell’alto dei cieli». Ha
abbassato di nuovo la voce, al tono con cui trattava gli
affari. «Mi venga un colpo se so il motivo».
«Ha lasciato qualcuno? Versati un altro bicchiere».
Ha chiuso per bene la bottiglia e l’ha spinta sul banco.
«Due possono bastare, fratello... prima del tramonto. Ti
ringrazio. I tuoi modi sono di conforto per la dignità di un
uomo. Era sposato. La vedova si chiama Jessie».
«Dov’è finita?».
«Chi è in cerca della conoscenza, fratello, deve fare molte
domande. Non lo so. Prova sull’elenco del telefono».
Nell’angolo più buio dell’atrio c’era una cabina. Ci sono
entrato, e ho richiuso la porta quanto bastava per far
accendere la luce. Ho cercato il nome sull’elenco sgualcito
appeso a una catenella. Non c’era neanche un Florian.
Sono tornato al banco.
«Niente da fare».
Il nero si è piegato controvoglia, ha preso uno stradario e
l’ha posato sul banco, spingendolo verso di me. Cominciava
a scocciarsi. Nell’elenco, in effetti, c’era una Jessie Florian,
vedova. Abitava al civico 1644 di West 54th Place. Chissà
cosa avevo usato, per tutta la vita, al posto del cervello.
Trascritto l’indirizzo su un pezzo di carta ho spinto lo
stradario sul banco. Il nero lo ha riposto dove l’aveva
trovato, mi ha stretto la mano e si è rimesso nella posizione
iniziale, con le dita intrecciate sul banco. Le palpebre
hanno cominciato a calare, piano.
La faccenda, per lui, era conclusa. A metà strada verso la
porta mi sono voltato. Aveva gli occhi chiusi e respirava
piano, con un ritmo regolare e un piccolo sbuffo dalle
labbra ogni volta che espirava. La testa pelata luccicava.
Sono uscito dal Sans Souci e ho attraversato per tornare
alla macchina. Era stato facile. Troppo.
5

Al 1644 di West 54th Place c’era una casa marrone


rinsecchita con davanti un praticello marrone rinsecchito
anche lui. Un’ampia zona di terreno completamente spoglio
circondava una palma dall’aria proterva. Sulla veranda,
solitaria, c’era una sedia a dondolo in legno, e il vento del
pomeriggio agitava i rami non potati delle poinsettie, che
ticchettavano contro il muro a stucco pieno di crepe. Su un
lato della casa, indumenti più o meno lavati, ingialliti e
rigidi oscillavano sopra un filo arrugginito.
Ho proseguito in auto per un tratto, prima di
parcheggiare lì di fronte e tornare indietro a piedi.
Siccome il campanello non funzionava, ho bussato sul
telaio della zanzariera. Passi strascicati, senza fretta.
Quando si è aperta la porta mi sono trovato davanti, in
penombra, una donna sciatta, che si stava soffiando il naso.
Aveva una faccia grigia e gonfia. I capelli erano erbacce, né
castani né biondi, non abbastanza vivaci da sembrare
rossicci né abbastanza puliti da passare per grigi. Era
grassa, sotto una vestaglia di cotonina che da molte lune
aveva perso colore e motivi stampati. Un semplice straccio
per coprirsi. Nelle logore ciabatte da uomo in pelle
marrone, i piedi, sformati, si vedevano molto bene.
«Mrs. Florian? La signora Jessie Florian?».
«A-ha» ha risposto, con una voce che le è uscita di gola
come un malato che cerchi di alzarsi dal letto.
«La moglie di quel Mike Florian che un tempo gestiva un
locale in Central Avenue?».
Si è ravviata una ciocca di capelli dietro un orecchio non
tanto piccolo. Un luccichio di sorpresa le ha attraversato gli
occhi. La voce era pesante, e impastata: «Co... cosa? Santo
cielo. Mike se n’è andato da cinque anni. Come ha detto
che si chiama?».
La zanzariera era ancora agganciata.
«Sono un detective. Avrei bisogno di qualche
informazione».
Mi ha fissato per un lungo, uggioso minuto. Poi, con
fatica, ha sganciato la zanzariera e si è voltata.
«Venga avanti, allora. Non ho ancora avuto tempo di
pulire» ha piagnucolato. «Uno sbirro, eh?».
Sono entrato e ho richiuso la zanzariera. Col gancio.
Un’enorme radio, piuttosto bella, suonicchiava in un
angolo. Era l’unico arredo decente. Sembrava nuova di
zecca. Tutto il resto era spazzatura: roba lercia e troppo
imbottita, una sedia a dondolo che faceva il paio con quella
in veranda, un arco quadrato che portava in una sala da
pranzo con il tavolo macchiato e, in fondo, la porta a vento
della cucina, piena di ditate. Un paio di lampade sbilenche
con paralumi un tempo sgargianti, ma ormai allegri quanto
certe professioniste in là con gli anni.
La donna si è accomodata sulla sedia a dondolo ed è
rimasta a fissarmi, facendo ciondolare le ciabatte. Senza
togliere gli occhi dalla radio, sono andato a sedermi
all’estremità di un divano. Ha capito cosa stavo osservando.
Aveva una cordialità fasulla, insapore come il tè di un
cinese: «È la mia unica compagnia». Risatina: «Mike non
ne ha combinata un’altra, vero? È un pezzo che gli sbirri
non vengono a trovarmi».
La sua risatina aveva una vaga sfumatura alcolica.
Appoggiandomi allo schienale del divano ho sentito
qualcosa di duro. Ho allungato una mano senza guardare.
Una bottiglia di gin da un litro. Vuota. Altra risatina.
«Scherzavo. Spero ci siano abbastanza bionde senza tante
pretese dove si trova ora Mike. Quand’era qui non ne aveva
mai abbastanza».
«Io pensavo a una rossa, veramente».
«Sì, una rossa ogni tanto non gli faceva schifo». I suoi
occhi non erano più così distratti. «Non ricordo bene.
Aveva in mente qualche rossa in particolare?».
«Sì. Una certa Velma. Non so che cognome usasse, certo
non quello vero. Sto cercando di rintracciarla per conto dei
suoi genitori. Il vostro locale sulla Central è diventato un
posto per gente di colore, anche se il nome è sempre
quello, ma lì, ovviamente, nessuno ha mai sentito parlare di
lei. Perciò ho pensato di venire qui».
«I suoi si svegliano adesso?». Sembrava perplessa.
«Ci sono in ballo un po’ di soldi. Non tanti. Credo
debbano rintracciarla per poterli incassare. Il denaro
rinfresca la memoria».
«Anche l’alcol» ha aggiunto la donna. «Caldo, oggi, eh?
Prima però hai detto di essere uno sbirro». Occhi furbi,
espressione attenta. I piedi, nelle ciabatte, avevano smesso
di muoversi.
Ho dato una sgrullata alla bottiglia defunta, poi l’ho
buttata e ho infilato una mano nella tasca dove tenevo la
bottiglia di bourbon pregiato, che col nero in albergo
avevamo appena assaggiato. Me la sono appoggiata su un
ginocchio. Gli occhi della donna la fissavano increduli. Ora
aveva l’espressione di una gatta sospettosa, con poca voglia
di giocare.
«Non sei uno sbirro» ha detto, pacata. «Nessuno sbirro
ha mai offerto un bicchiere di quella roba. Cosa c’è sotto?».
Si è soffiata il naso, di nuovo, in uno dei fazzoletti più
lerci che avessi mai visto. Non staccava gli occhi dalla
bottiglia. Nel braccio di ferro fra sospetto e sete, la sete
sembrava avere la meglio. Come sempre.
«Velma era un’intrattenitrice, una cantante. L’ha
conosciuta? Immagino che lei, signora, non frequentasse
tanto il locale».
Gli occhi color alga non si spostavano dalla bottiglia. La
lingua impastata faceva il periplo delle labbra.
«Bello, quello sì che è liquore» ha sospirato. «Non mi
interessa chi sei, sai. Ma quello trattalo bene. Non è il caso
di farlo cadere».
Si è alzata ed è uscita ciabattando dalla stanza, per poi
tornare con due bicchieri spessi e impolverati.
«Niente aggiunte. Quella roba va bene com’è».
Gliene ho versata una dose che mi avrebbe fatto planare
all’indietro contro la parete. Lei ha allungato una mano
avida e l’ha trangugiata come fosse aspirina effervescente,
per poi tornare a fissare la bottiglia. Gliene ho versata
un’altra dose, e un po’ meno per me. Si è portata il
bicchiere alla sedia a dondolo. Aveva gli occhi di due
gradazioni più castani.
«Be’, con me questa roba fa una fine indolore» ha detto,
rimettendosi a sedere. «Non fa neanche in tempo ad
accorgersene. Di cosa stavamo parlando?».
«Di una rossa che si chiama Velma e che lavorava nel
vostro locale in Central Avenue».
«Giusto». Ha tracannato anche il secondo bicchiere.
Appena ho posato la bottiglia sul tavolino che aveva
accanto, se l’è presa. «Giusto. Chi hai detto che sei?».
Le ho allungato un biglietto da visita, che ha letto in
silenzio, sillabando. Poi lo ha fatto cadere sul tavolino, e ci
ha posato sopra il bicchiere vuoto.
«Okay, un investigatore privato. Questo non l’avevi detto,
bello». Il suo dito verso di me voleva essere una specie di
rimprovero, scherzoso. «La roba che hai portato, però, mi
dice che sei un tipo a posto. Brindiamo al crimine». Via col
terzo bicchiere. Io mi sono rimesso a sedere in attesa,
rigirandomi una sigaretta tra le dita. Forse sapeva
qualcosa, forse no. Posto che sapesse, forse avrebbe
parlato, forse no. Semplice.
«Una rossa carina, minuta» ha biascicato. «Sì, me la
ricordo. Cantava e ballava. Belle gambe, e non le
nascondeva. Se n’è andata non so dove. Va’ a sapere cosa
fanno, quelle lì».
«Be’, avevo messo in conto che non ne sapesse niente. Ma
è naturale che io sia venuto a domandarglielo, Mrs. Florian.
Si riempia pure il bicchiere, prego: posso procurarmene
altro, se serve».
«Tu non stai bevendo» ha detto all’improvviso.
Ho sorseggiato il bourbon lentamente, avvolgendo il
bicchiere con la mano, per farlo sembrare di più di quanto
me n’ero realmente versato.
«Dove stanno i suoi?» mi ha chiesto all’improvviso.
«Che importanza ha?».
«Okay» ha ghignato. «Voi sbirri siete tutti uguali. Okay,
bello. Uno che mi offre da bere è un amico». Ha ripreso la
bottiglia e si è versata il numero 4. «Non dovrei
spettegolare con te. Ma quando un tipo mi piace, non
riesco a tirarmi indietro». Sorriso fasullo. Era carina come
una vasca da bagno. «Resta lì dove sei. Mi è venuta
un’idea».
Si è alzata dalla sedia a dondolo con uno starnuto,
facendosi quasi scivolare l’accappatoio dalle spalle. Se lo è
fermato con una mano all’altezza dello stomaco e mi ha
guardato, fredda.
«Non si sbircia». Ha lasciato di nuovo la stanza, urtando
lo stipite con una spalla.
Ho sentito i suoi passi scomposti allontanarsi verso il
retro della casa.
I rami della poinsettia continuavano a ticchettare
monotoni contro la facciata. Il filo del bucato cigolava piano
su un lato della casa. È passato un gelataio ambulante col
suo campanello. La sontuosa radio nuova di zecca,
nell’angolo, sussurrava di balli e storie romantiche su una
nota vibrante, languida e profonda, come una voce
incrinata in una canzone d’amore non corrisposto.
Poi, nelle viscere della casa, è successo qualcosa. Come
se una sedia fosse caduta all’indietro, o il cassetto di un
comò estratto troppo bruscamente si fosse schiantato sul
pavimento. E dopo qualcuno che rovistava, qualcosa che
sbatteva. Il lento scatto di una serratura e il cigolio del
coperchio di un baule che si apriva. Un vassoio che
atterrava sul pavimento. Mi sono alzato dal divano e mi
sono avventurato di soppiatto nella sala da pranzo, quindi
in un breve corridoio. Ho guardato dietro l’angolo di una
porta aperta.
Vacillava davanti al baule, tirando fuori cianfrusaglie e
scostandosi i capelli dalla faccia, con rabbia. Era più
ubriaca di quanto credeva. Si è piegata in avanti e si è
appoggiata al baule, tossendo e ansimando. Poi si è
inginocchiata e ha affondato entrambe le mani nel baule.
Sono riemerse malcerte, reggendo qualcosa. Un
pacchetto abbastanza spesso, avvolto da un nastro rosa
sbiadito. Lentamente, e con qualche difficoltà, la donna ha
sciolto il nastro. Ha estratto una busta dal pacchetto, e si è
piegata di nuovo per nasconderla sul lato destro del baule.
Quindi, con lo stesso impaccio di prima, ha riavvolto il
nastro.
Tornato alla svelta in soggiorno, ho ripreso il mio posto
sul divano. Tra borbottii rauchi e indecifrabili, la donna è
tornata, barcollando sulla soglia con il pacchetto avvolto
nel nastro rosa.
C’era un’aria di trionfo nel modo in cui mi ha lanciato il
pacchetto fra i piedi, prima di ciabattare fino alla sedia a
dondolo. Una volta risistematasi, ha allungato la mano
verso il bourbon.
Ho raccolto il pacchetto e sciolto il nastro un tempo rosa.
«Da’ un’occhiata» ha grugnito lei. «Sono foto. Ritagli di
giornale. Non che certe sgualdrine ci finiscano spesso, sui
giornali, se non passando per lo schedario della polizia. È
tutta gente del locale. Il bastardo non mi ha lasciato niente,
a parte quella cartaccia e i suoi vestiti vecchi».
Ho sfogliato il mazzo di foto patinate di uomini e donne in
pose professionali. Gli uomini avevano facce appuntite da
volpi ed erano vestiti come per andare alle corse, o truccati
da clown. Ballerini e comici del circuito delle stazioni di
servizio. Pochi sarebbero mai migrati a ovest di Main
Street. Più facile trovarli, ripuliti, in un vaudeville di
provincia o in quei buchi fetidi dove mettevano su
burlesque osceni ma a norma di legge, almeno finché non
esageravano, guadagnandosi un’irruzione, un processino e
un po’ di baccano. Dopo di che tornavano ai loro spettacoli,
ghignanti, sordidi e sadici, schifosi come la puzza di sudore
rancido. Le donne avevano belle gambe e ne mostravano le
rotondità interne più di quanto Will Hays avrebbe gradito. I
visi, però, erano consunti, come gatti nell’ufficio di un
contabile. Contadine bionde, more, con grandi occhi bovini,
ottusi. Oppure occhi piccoli e acuminati, da carognette
scaltre e avide. Un paio di facce chiaramente perfide. E un
paio potevano avere i capelli rossi, anche se dalle foto non
si capiva bene. Gli ho dato un’occhiata veloce, poi ho rifatto
il pacchetto, nastro incluso.
«Non saprei riconoscere nessuno. Non so neanche perché
le ho guardate, queste foto».
Osservando la bottiglia che faticava a reggere, la donna
ha fatto una smorfia lasciva. «Non ti interessava Velma?».
«È una di queste?».
Ha tentato di stamparsi in faccia un’espressione
particolarmente astuta, ma visto che non attaccava, ha
rinunciato subito. «Non hai una sua foto? I suoi non te
l’hanno data?».
«No».
Si è insospettita. Tutte le ragazze hanno una foto da
qualche parte, foss’anche soltanto di quelle col vestitino
corto e un fiocco tra i capelli. Avrei dovuto averla.
«Ricominci a non piacermi per niente» ha detto, con un
filo di voce.
Mi sono alzato con il bicchiere e sono andato a posarlo
sul tavolino, accanto al suo.
«Prima di finirlo versamene un goccio».
Appena si è allungata verso il bicchiere mi sono voltato,
ho attraversato di corsa l’arco quadrato della sala da
pranzo, il corridoietto, e mi sono infilato nella stanza in
disordine con il baule spalancato e il vassoio per terra. Ho
sentito un grido alle mie spalle. Mi sono quasi tuffato sul
baule. Ho riconosciuto la busta al tatto, e me la sono presa.
In soggiorno la donna si era alzata, ma aveva fatto solo
due o tre passi. I suoi occhi erano di un vitreo speciale.
Quello degli omicidi.
«Si sieda» ho ringhiato. «Guardi che non ha davanti un
fessacchiotto come Moose Malloy».
Era un tentativo alla cieca, e ha mancato il bersaglio. Lei
ha sbattuto un paio di volte le palpebre, sollevando il
labbro superiore a mostrare i denti sporchi in un ghigno da
coniglio.
«Moose? Che cosa c’entra Moose?» ha chiesto lei,
deglutendo.
«È uscito. Libero. Gira con una calibro 45. Ha ucciso un
nero in Central Avenue, stamattina, perché non ha voluto
dirgli dov’è Velma. Ora sarà in cerca del canarino che l’ha
tradito otto anni fa».
Uno sguardo vacuo le ha macchiato la faccia. Si è portata
la bottiglia alle labbra. Parte del bourbon le è colato giù per
il mento.
«E gli sbirri lo cercano?» ha chiesto, scoppiando a ridere.
«Bleah».
Ma che tesoro di vecchietta. Mi piaceva stare con lei. Mi
piaceva farla ubriacare per i miei subdoli fini. Ero un bel
tipo anch’io, mi facevo i complimenti da solo. Nel mio
mestiere è quasi tutto a portata di mano, ma cominciavo a
stare un po’ male di stomaco.
Dalla busta che avevo in mano ho estratto una foto
patinata. Era come le altre, ma diversa, più carina. La
ragazza, dalla cintola in su, indossava un costume da
Pierrot. Sotto il cono con in cima un pompon nero, i capelli
scompigliati avevano una sfumatura scura che poteva
essere rossa. Il viso era di profilo, ma l’occhio visibile dava
un’impressione di vivacità. Non era né uno splendore né la
perfezione fatta ragazza, ma non sono tanto bravo a
giudicare le facce. Niente male, comunque. Molta gente
doveva essere stata gentile con quel faccino, almeno per gli
standard dell’ambiente. Tuttavia, era una faccia piuttosto
comune: una bellezza decisamente ordinaria. In città, a
mezzogiorno, se ne vedevano decine, come lei.
Sotto la cintola, la foto era quasi tutta gambe – belle,
niente da dire. Nell’angolo in basso a destra si leggeva:
«Sempre tua, Velma Valento».
L’ho mostrata a Mrs. Florian, tenendola fuori dalla sua
portata. Ha tentato l’affondo, ma senza successo.
«Perché nasconderla?».
Non una sillaba, solo il suo respiro faticoso. Ho infilato la
foto nella busta, e la busta in una tasca.
«Perché nasconderla? Cos’ha di diverso dalle altre? Dov’è
Velma?».
«È morta. Era una brava ragazza, ma è morta, sbirro.
Sparisci».
Le fulve sopracciglia spelacchiate hanno sobbalzato, la
mano si è aperta e la bottiglia è finita sul tappeto, versando
il bourbon. Quando mi sono chinato, ha tentato di darmi un
calcio in faccia. Schivato.
«Questo però non spiega perché ha nascosto la foto.
Quando è morta? Come?».
«Io sono una povera vecchia malata. Vattene, figlio d’un
cane».
Sono rimasto a guardarla in silenzio, senza neanche
sforzarmi di dire qualcosa. Dopo un po’ mi sono avvicinato
da un lato e ho messo la bottiglia piatta, ormai quasi vuota,
sul tavolino accanto alla sedia a dondolo.
Aveva gli occhi fissi sul tappeto. La radio canticchiava
piacevolmente nell’angolo. Fuori è passata una macchina.
Una mosca ronzava davanti a una finestra. A un certo punto
Mrs. Florian, strusciando le labbra fra loro, si è rivolta al
pavimento, bofonchiando qualcosa di incomprensibile. Poi è
scoppiata a ridere e ha rovesciato la testa all’indietro.
Penso avesse sete di nuovo. Con la destra si è portata la
bottiglia alla bocca, anzi, sui denti, e l’ha scolata fino
all’ultimo goccio. Quindi me l’ha tirata addosso. Mancato,
di nuovo. La bottiglia è finita in un angolo, scivolando sul
tappeto e andando a fermarsi con un tonfo contro il
battiscopa.
Un altro di quei ghigni lascivi, poi ha chiuso gli occhi e si
è messa a russare.
Poteva anche essere una messinscena, ma non mi
importava. All’improvviso tutta quella buffonata mi
sembrava noiosa. C’era un limite, e lo avevamo superato.
Ho preso il cappello dal divano e ho superato porta e
zanzariera. La radio continuava a canticchiare nell’angolo,
e Mrs. Florian russava piano nella sua sedia. Mi sono
voltato per darle un’altra occhiata. Poi ho chiuso la porta e
l’ho riaperta senza farmi sentire, per guardare di nuovo.
Aveva gli occhi ancora chiusi, ma qualcosa luccicava sotto
le palpebre. Ho sceso i gradini, seguendo il vialetto pieno di
crepe fino in strada.
Nella casa accanto qualcuno ha scostato una tenda, e da
dietro la finestra è comparsa la faccia sottile e attenta di
una vecchia, con i capelli bianchi e il naso aguzzo.
La vecchia ficcanaso che controlla i vicini. C’è n’è una in
ogni isolato. L’ho salutata con la mano. La tenda è ricaduta
all’istante.
Tornato alla macchina ho guidato fino al commissariato
sulla 77th Street, e sono salito al fetido ufficio di Nulty, al
primo piano.
6

Forse Nulty non si era proprio mosso. Era seduto sulla


sua sedia con la stessa aria paziente e acida. Nel
portacenere, però, c’erano due mozziconi di sigaro in più, e
sul pavimento i fiammiferi usati erano un po’ più fitti.
Mi sono seduto alla scrivania vuota. Nulty ha girato una
foto che era posata a faccia in giù davanti a lui, e me l’ha
passata. Era una foto segnaletica, di fronte e di profilo, con
sotto le impronte digitali. Era Malloy, in una luce così forte
che non sembrava avere più sopracciglia di uno sfilatino.
«È lui». Gliel’ho restituita.
«Ci è arrivato un telegramma su di lui dal penitenziario di
Stato dell’Oregon. Pena espiata per intero, a parte lo
sconto per buona condotta. La situazione, però, ha preso
una bella piega. È con le spalle al muro. Una pattuglia ha
parlato con un tramviere al capolinea della 7th Street. Il
tramviere si ricordava un tizio di quella stazza e con
quell’aspetto. È sceso all’incrocio fra la 3rd e Alexandria.
Finirà sicuramente per entrare in una di quelle grandi case
vuote. Ce ne sono tante, vecchio stile, un po’ troppo
downtown ormai, difficili da affittare. Forzerà una porta e si
caccerà in trappola da solo. Dove sei stato?».
«Aveva un cappello curioso e i bottoni della giacca a
forma di palline da golf?».
Nulty si è incupito, contraendo le mani sulle rotule. «No,
un completo blu. O marrone».
«Siamo sicuri che non indossasse un sarong?».
«Eh? Ah, certo, spiritoso. Ricordami di ridere la prima
volta che ho un giorno libero».
«Non era Moose. Non avrebbe mai preso un tram. È in
soldi. Pensa a com’era agghindato. Vestiti di quella taglia
non si trovano nei negozi. Dev’esserseli fatti fare su
misura».
«Okay, continua pure a sfottere» ha detto Nulty, torvo.
«Dove sei stato?».
«Dove saresti dovuto andare tu. Quel locale, il Florian’s,
si chiamava così anche quand’era per bianchi. Ho parlato
con un nero, un portiere d’albergo, uno che conosce il
quartiere. Le insegne costano, perciò i neri nuovi hanno
tenuto quella che c’era. Il padrone si chiamava Mike
Florian. È morto da qualche anno, ma la vedova campa
ancora. Abita al 1644 di West 54th Place. Si chiama Jessie
Florian. Nell’elenco del telefono non c’è, ma sullo stradario
sì».
«E io cosa dovrei farci? Chiederle un appuntamento?».
«Ci ho già pensato io. Mi sono portato dietro una pinta di
bourbon. È un’affascinante signora di mezza età con la
faccia che sembra un secchio di fango, e se si è lavata i
capelli dopo il secondo mandato di Coolidge mi mangio la
mia gomma di scorta con tutto il cerchione».
«Lascia perdere le spiritosaggini».
«Le ho chiesto se sapeva qualcosa di Velma. Hai
presente? Velma, la rossa di cui Moose Malloy era in cerca.
Non la sto annoiando, Mr. Nulty, vero?».
«Cos’è che ti rode?».
«Non puoi capire. Mrs. Florian diceva di non ricordarsi di
Velma. Ha una casa piuttosto squallida, a parte una radio
nuovissima che varrà settanta, ottanta dollari».
«Non mi hai ancora detto per quale ragione dovrei saltare
di gioia».
«Mrs. Florian – Jessie per me – diceva che suo marito non
le ha lasciato niente a parte i suoi vecchi abiti e un mazzo
di foto di gente che lavorava saltuariamente al locale. L’ho
blandita con il bourbon, e la ragazza è di quelle che bevono
anche se per avere la bottiglia devono metterti al tappeto.
Dopo il terzo o quarto bicchiere è andata nella sua modesta
camera da letto, e dopo aver buttato un po’ di roba all’aria
ha tirato fuori il mazzo di foto dal fondo di un vecchio
baule. Io però, senza che se ne accorgesse, l’ho tenuta
d’occhio, e l’ho vista sfilare dal mazzo una busta, che poi ha
nascosto. Insomma, dopo un po’ mi sono intrufolato nella
camera e le ho fregato la busta».
Ho infilato una mano in tasca e ho posato la giovane
Pierrot sulla scrivania di Nulty. Lui ha preso la foto e l’ha
osservata, con un piccolo fremito agli angoli della bocca.
«Carina. Un tempo avrei gradito un piccolo assaggio. Ah
ah ah. Velma Valento, eh? Che fine ha fatto questa
bambola?».
«Secondo Mrs. Florian è morta. Ma questo non spiega
perché ne ha nascosto la foto».
«Non lo spiega, in effetti. Perché l’ha nascosta?».
«Non ha voluto dirmelo. Alla fine, quando le ho detto che
Malloy era in giro, ho avuto l’impressione di non piacerle
più tanto. Pare impossibile, vero?».
«Va’ avanti».
«Tutto qui. Ho riferito i fatti e consegnato il reperto. Se
non riesci a fare progressi su queste basi, è inutile che io
aggiunga altro».
«Che progressi dovrei fare? È pur sempre l’omicidio di un
negro. Aspetta che prendiamo Malloy. Cristo, sono otto anni
che non vede la ragazza, a meno che non sia andata a
trovarlo in galera».
«Come preferisci. Ma tieni presente che lui la sta
cercando, e che è molto determinato. A proposito, Malloy
era dentro per una rapina in banca. Ci sarà stata in ballo
una ricompensa. Chi l’ha intascata?».
«Non lo so. Potrei cercare di scoprirlo. Perché?».
«Qualcuno lo ha tradito. E forse lui sa anche chi è stato.
Questo è un altro lavoro a cui Malloy potrebbe dedicare un
po’ di tempo». Mi sono alzato. «Be’, tanti saluti e buona
fortuna».
«Mi molli così?».
Mi sono avviato alla porta. «Devo andare a casa a farmi
un bagno, un gargarismo e un po’ di manicure».
«Non sei malato, vero?».
«Solo sporco» ho risposto. «Lurido».
«Be’, che fretta c’è? Siediti un attimo». Si è appoggiato
all’indietro agganciando i pollici al gilè: un gesto che lo ha
fatto assomigliare un po’ di più a un poliziotto, ma senza
renderlo più magnetico. Neanche un po’.
«Nessuna fretta. Solo che non posso fare più niente.
Questa Velma, a quanto pare, è morta, se dobbiamo
credere a Mrs. Florian. E al momento non vedo perché
dovrebbe avermi mentito. Io non nutro altro interesse per
la vicenda».
«Già» ha detto Nulty, sospettoso: la forza dell’abitudine.
«Voi, oltretutto, avete già Moose Malloy. Questione
risolta. Io corro a casa e provo a darmi un po’ da fare per
guadagnarmi da vivere».
«Malloy potrebbe sfuggirci» ha detto Nulty. «Certi a volte
la fanno franca. Anche se sono grandi e grossi». Pure lo
sguardo era sospettoso, sempre che gli si potesse attribuire
un’espressione. «Quanto ti ha sganciato?».
«In che senso?».
«Quanto ti ha sganciato la vecchia per convincerti a
mollare?».
«A mollare cosa?».
«Quello che stai mollando in questo momento». Ha tolto i
pollici dal gilè e li ha premuti uno contro l’altro.
Sorridendo.
«Senti, fammi il piacere» ho detto, lasciandolo lì a bocca
aperta.
A un metro dalla porta sono tornato indietro e l’ho
riaperta, tanto così. Nulty era ancora seduto nella stessa
posizione, con i pollici premuti l’uno contro l’altro. Aveva
smesso di sorridere, però. Sembrava preoccupato. La bocca
era ancora aperta.
Non si è mosso, non ha alzato lo sguardo. Impossibile
capire se mi avesse sentito. Ho richiuso e me ne sono
andato.
7

Avevano messo Rembrandt, sul calendario di quell’anno:


un autoritratto decisamente sbavato a causa dell’imperfetta
registrazione delle lastre. Reggeva la tavolozza impiastrata
con un pollice sporco e aveva in testa un copricapo che,
come il resto, non pareva particolarmente pulito. L’altra
mano, sospesa a mezz’aria, reggeva un pennello, e lui
aveva l’aspetto di chi avrebbe quasi lavorato un po’, se solo
qualcuno gli avesse dato un anticipo. La faccia da anziano,
floscia, cadente, ispessita dall’alcol, esprimeva disgusto per
la vita. Però c’era anche dell’altro: un rude buon umore,
che mi piaceva, e gli occhi brillanti come gocce di rugiada.
Lo stavo guardando, sulla parete di fronte alla mia
scrivania, alle quattro e mezza, quando ha squillato il
telefono. La voce dall’altra parte era elegante, snob,
convinta della sua bellezza, e un po’ strascicata: «Parlo con
l’investigatore privato Philip Marlowe?».
«Centro».
«Ah... quindi sì. Mi hanno detto che sulla sua discrezione
si può contare senza riserve. Sarei felice di riceverla questa
sera alle sette a casa mia. Avrei una questione da
sottoporle. Mi chiamo Lindsay Marriott e abito al 4212 di
Cabrillo Street, a Montemar Vista. Sa dov’è?».
«So dov’è Montemar Vista, Mr. Marriott».
«Sì. Bene. Cabrillo Street è un po’ difficile da trovare. Le
vie, in questa zona, sono un groviglio di curve interessante,
ma complicato. Le consiglio di salire per la scalinata che
parte dal bar con i tavolini all’aperto. In tal caso, Cabrillo
Street è la terza via che si incontra, e la mia casa è l’unica
dell’isolato. Alle sette, allora?».
«È possibile sapere la natura della questione, Mr.
Marriott?».
«Preferirei non parlarne al telefono».
«Non potrebbe darmi un’idea? Montemar Vista non è
esattamente dalle mie parti».
«Sarò ben felice di pagarle le spese, se non troveremo un
accordo. C’è qualche tipo di incarico che non accetta?».
«No, purché sia legale».
La temperatura della voce è precipitata sottozero. «Non
avrei chiamato lei, se così non fosse».
Laurea a Harvard. Padronanza dei congiuntivi. Avevo un
prurito alla punta del piede, ma il mio conto in banca
poteva passare sotto la pancia di una papera. Ho messo un
tantino di miele nel mio tono di voce: «La ringrazio della
chiamata, Mr. Marriott. Verrò senz’altro».
Ha riagganciato senza aggiungere altro. Adesso Mr.
Rembrandt sembrava sogghignare. Ho preso la bottiglia
dell’ufficio dall’ultimo cassetto della scrivania e mi sono
versato un goccio. Rembrandt ha smesso di sogghignare.
Un cuneo di luce scivolava oltre il bordo della scrivania,
ricadendo silenziosamente sul tappeto. I semafori, sul
boulevard, facevano dong-dong, gli autobus passavano con
fragore, una macchina da scrivere ticchettava nell’ufficio
dell’avvocato al di là della parete divisoria. Il tempo di
riempire e accendere la pipa, e di nuovo ha squillato il
telefono.
Nulty. Sembrava avesse la bocca piena di patate lesse.
«Vabbe’, lo ammetto, non sono ’sto genio. Ho toppato.
Malloy è andato a trovare Mrs. Florian».
Ho talmente stretto la cornetta che a momenti la
rompevo. Un freddo improvviso al labbro superiore. «Va’
avanti. Pensavo l’aveste messo con le spalle al muro».
«Era un altro. Malloy non c’è mai stato, da quelle parti. Ci
ha telefonato una vecchia impicciona, da West 54th Place.
Dice che Mrs. Florian ha ricevuto due uomini. Il primo ha
parcheggiato di fronte alla casa con certi modi circospetti,
dice lei. Ha dato una bella occhiata alla catapecchia, poi è
entrato e ci è rimasto più o meno un’ora. Un metro e
ottanta, capelli scuri, corporatura media. È andato via
tranquillo».
«Con l’alito che puzzava di alcol».
«Ah, certo. Eri tu, giusto? Be’, il secondo era Malloy. Un
tizio grosso come una casa e dall’abbigliamento vistoso,
dice. È arrivato anche lui in macchina, ma la vecchia non
ha preso la targa, perché non riesce a leggere da così
lontano. Tu eri andato via da circa un’ora, dice. È entrato
deciso e si è fermato cinque minuti al massimo. Appena
prima di risalire in auto ha tirato fuori una grossa rivoltella
e ha fatto girare il tamburo. Questo, almeno, è quanto dice
la vecchia. È per questo che ha chiamato. Non ha sentito
spari, però, mentre lui era dentro».
«Chissà che delusione».
«Già. Un’altra perla, eh? Ricordami di ridere anche per
questa, nel mio giorno libero. Comunque, pure la vecchia
ha perso un colpo. I ragazzi della pattuglia sono andati sul
posto, ma siccome nessuno rispondeva, e la porta non era
chiusa a chiave, sono entrati. Niente cadaveri sul tappeto.
La casa era deserta. Mrs. Florian era uscita. Così vanno
dalla vecchia, che quando si rende conto di non averla vista
uscire fa una smorfia manco avesse i calli. I ragazzi si
presentano per fare rapporto, e poi tornano al lavoro.
Un’ora, un’ora e mezza dopo, la vecchia ritelefona per dire
che Mrs. Florian è rientrata. Al che mi passano la chiamata,
e quando le domando cosa ci trovasse di tanto importante,
mi sbatte il telefono in faccia».
Nulty ha fatto una pausa per riprendere un po’ fiato e
lasciare spazio ai miei commenti. Non ne avevo. Dopo un
po’, contrariato, ha ripreso a parlare.
«Cosa ne deduci?».
«Poco o niente. Che Malloy andasse a trovare Mrs.
Florian era prevedibile. Doveva conoscerla piuttosto bene.
E ovvio che non si sia trattenuto a lungo. Aveva motivo di
temere che la polizia tenesse d’occhio Mrs. Florian».
«Secondo me,» ha detto Nulty, con calma «forse devo
andare a trovarla. E magari farmi dire dov’è andata».
«Buona idea. Sempre che qualcuno riesca a farti alzare
da quella sedia».
«Come? Ah, un’altra perla. Ormai, però, non fa più molta
differenza. Perciò mi sa che lascerò perdere».
«D’accordo. Sputa, su».
Ha sghignazzato. «Abbiamo Malloy nel mirino. Stavolta
davvero. L’abbiamo individuato a Girard, diretto a nord su
una carretta a noleggio. Si è fermato a fare benzina, e il
ragazzo della pompa, che aveva sentito la descrizione
diffusa poco prima, l’ha riconosciuto. Dice che tutto
coincide, a parte che Malloy dev’essersi cambiato, perché
indossava un abito scuro. Ha alle costole gli uomini della
contea e quelli dello Stato. Se prosegue verso nord lo
becchiamo al confine della contea di Ventura, mentre se si
sposta verso la Ridge Route dovrà fermarsi a Castaic. E se
non si ferma, telefoniamo a qualcuno più avanti e facciamo
bloccare la strada. Preferiamo evitare che uno dei nostri si
becchi una pallottola, se possibile. Che te ne pare?».
«Bene, dico. Ammesso che sia davvero Malloy, e che
faccia esattamente quello che avete previsto».
Nulty si è schiarito educatamente la voce. «Già. E tu cosa
faresti, nel caso?».
«Niente. Perché mai dovrei fare qualcosa?».
«Te la sei cavata piuttosto bene con Mrs. Florian. Magari
lei ha qualche altra idea».
«Basta portarsi dietro una bottiglia piena».
«Te la sei lavorata come si deve. Magari potresti
dedicarle ancora un po’ di tempo».
«Credevo toccasse alla polizia».
«Sì, certo, ma l’idea della ragazza è tua».
«Quella pista mi sembra fredda. A meno che Mrs. Florian
non abbia mentito».
«Le signore mentono sempre, anche solo per tenersi in
esercizio» ha detto Nulty, mesto. «Tu non sei presissimo,
vero?».
«Ho un lavoro. Mi è arrivato dopo il nostro ultimo
incontro. Pagano, mi spiace».
«Ti arrendi, eh?».
«Non la metterei in questi termini. È che devo lavorare,
per vivere».
«E va bene, se la pensi così, va bene».
Ancora un po’ gridavo. «Io non penso proprio niente. Solo
non ho tempo di fare da spalla a te o ad altri sbirri».
«Va bene, continua pure a rosicare». E ha riattaccato.
Prima di riagganciare il telefono ci ho ringhiato dentro:
«Ci sono millesettecentocinquanta poliziotti in città, ma
vogliono che il lavoro sporco lo faccia io».
Ho sbattuto giù la cornetta e mi sono versato un altro
bicchiere.
Dopo un po’ sono sceso nell’atrio per comprare un
giornale della sera. Su una cosa, quantomeno, Nulty ci
aveva azzeccato: l’omicidio di Montgomery, al momento,
non si era meritato neanche un trafiletto nella pagina delle
brevi.
Sono uscito presto. Volevo almeno avere il tempo di
cenare.
8

Quando sono arrivato a Montemar Vista cominciava a


imbrunire, ma sull’acqua c’era ancora un leggero luccichio,
e i flutti si frangevano al largo formando lunghe e morbide
curve. Appena sotto la cresta spumosa di un’onda volava
uno stormo di pellicani in formazione da bombardamento.
Uno yacht solitario stava rientrando in porto a Bay City. Al
di là della barca, il vuoto immenso del Pacifico era di un
colore tra il grigio e il viola.
Montemar Vista consisteva di poche decine di case di
varie forme e dimensioni, aggrappate con le unghie e con i
denti a uno sperone roccioso, e con l’aria di potersi
staccare al primo starnuto per finire tra i cestini da picnic
sulla spiaggia.
Al di sopra della spiaggia la strada passava sotto un
ampio arco di cemento che era un sovrappasso pedonale, e
dalla sua estremità interna una scalinata in cemento, con
un robusto corrimano galvanizzato su un lato, saliva dritta
come un fuso su un fianco della montagna. Oltre l’arco, il
bar con i tavolini all’aperto di cui aveva parlato il mio
cliente era illuminato, e dentro l’atmosfera era allegra, ma
all’esterno, sotto il tendone a strisce, i tavolini con gambe
di ferro e piano in ceramica erano deserti, a eccezione di
un’unica donna dalla pelle scura, in braghe larghe di tela,
che fumava assorta guardando il mare, davanti a una
bottiglia di birra. Un fox-terrier aveva scambiato una delle
sedie di ferro per un lampione. Quando le sono passato
davanti diretto al bar, o meglio al suo parcheggio, la donna
lo stava rimproverando, distrattamente.
Sono ripassato a piedi sotto l’arco e mi sono avviato su
per la scalinata. Era una bella passeggiata, se uno aveva il
gusto del fiatone. Per arrivare in Cabrillo Street bisognava
farsi duecentottanta gradini. Erano velati di sabbia
trasportata dal vento, e il corrimano era freddo e umido
come la pancia di un rospo.
Quando sono arrivato in cima, l’acqua non luccicava più,
e un gabbiano con una zampa ferita e penzolante arrancava
contro la brezza di mare. Mi sono seduto sull’ultimo
gradino, umido e freddo, e mentre mi toglievo la sabbia
dalle scarpe ho aspettato che le pulsazioni scendessero
almeno a duecento. Quando il respiro è tornato più o meno
normale, mi sono staccato la camicia dalla schiena e ho
proseguito verso la casa illuminata, l’unica a tiro di voce da
lì.
Era una bella casetta, con una scala a chiocciola intaccata
dalla salsedine che portava all’ingresso, dove un finto
fanale da carrozza illuminava la veranda. Il garage era più
in basso, su un lato, con la serranda alzata e rientrante, e la
luce cadeva di taglio su una specie di enorme corazzata
nera a quattro ruote: profili cromati, una coda di coyote
legata a una Vittoria Alata sul tappo del radiatore, iniziali
incise al posto dello stemma. Aveva la guida a destra, e
doveva essere costata più della casa.
Ho salito la scala a chiocciola e cercato un campanello,
ma alla fine ho dovuto rassegnarmi a usare un battente a
forma di testa di tigre. Il rumore è stato inghiottito dalla
nebbia della sera. La camicia umida sulla schiena era come
un impacco di ghiaccio. Quando la porta si è aperta in
silenzio, mi sono ritrovato di fronte un uomo alto con un
completo bianco di flanella e una sciarpa di satin violetto al
collo.
Il fiordaliso all’occhiello della giacca bianca gli sbiadiva
un po’ l’azzurro degli occhi. Siccome sotto la sciarpa
violetta molto lasca non portava la cravatta, il collo tozzo e
abbronzato, da signora in carne, era in bella vista.
Nonostante i tratti fossero un po’ sul pesante, era un
bell’uomo, due o tre centimetri più del mio metro e ottanta.
Non so se per volere dell’uomo o della natura, i capelli
biondi erano acconciati in tre ondulazioni simmetriche. Non
mi piacevano perché mi ricordavano gli scalini, ma forse
non mi sarebbero piaciuti lo stesso. A parte tutto,
comunque, aveva l’aria di uno che può permettersi un
completo bianco di flanella con sciarpa violetta al collo e
fiordaliso all’occhiello.
Si è schiarito educatamente la voce e ha guardato oltre le
mie spalle, verso il mare sempre più scuro. Poi mi ha fatto
una domanda, con la sua voce elegante e snob:
«Desidera?».
«Sono le sette. In punto».
«Ah, sì. Dunque lei è...». Si è interrotto aggrottando la
fronte, nello sforzo di ricordare. Tutto fasullo come il
pedigree di un’auto usata. L’ho lasciato fare per un po’, poi
gli ho dato una mano.
«Philip Marlowe. Stesso nome di oggi pomeriggio».
Per un attimo mi ha guardato come si stesse ripetendo
che doveva pur esserci un’uscita, da quel pasticcio. Quindi
ha fatto un passo indietro e mi ha detto, freddo: «Ah, sì,
giusto. Venga avanti, Marlowe. Il mio giovane domestico ha
la serata libera».
Ha spalancato la porta con la punta di un dito, quasi
avesse paura di sporcarsi.
Passandogli accanto ho sentito una nuvola di profumo. Ha
chiuso la porta. L’ingresso si apriva su una bassa balconata
con ringhiera metallica che correva su tre lati di un grande
soggiorno, o studio che fosse. Sul quarto lato, un grande
caminetto e due porte. Nel caminetto, un fuoco. Alle pareti,
dietro la balconata, librerie e sculture che parevano di
metallo invetriato, su piedistalli.
Abbiamo sceso i tre gradini che portavano alla zona
principale della sala. Il tappeto mi faceva quasi il solletico
alle caviglie. C’era una gran pianoforte a coda da concerto,
chiuso. Su un’estremità del pianoforte, sopra una striscia di
velluto color pesca, un alto vaso d’argento, con un’unica
rosa gialla. Era tutto un tripudio di dettagli giusti, con molti
cuscini sul pavimento, con e senza nappe dorate. Una bella
sala, se non ci si agitava troppo. In un angolo in penombra
c’era un grande divano foderato di damasco, di quelli su cui
i produttori fanno i casting. Era il genere di sala in cui la
gente si siede a gambe incrociate e sorseggia assenzio con
zollette di zucchero e parla con un vocino insopportabile,
sempre che non si limiti a pigolare. Un posto dove si poteva
fare di tutto, fuorché lavorare.
Mr. Lindsay Marriott si è comodamente appoggiato
nell’ansa del pianoforte a coda allungando il collo ad
annusare la rosa gialla, poi ha aperto un astuccio francese
smaltato e si è acceso una lunga sigaretta marrone col
filtro dorato. Io mi sono seduto su una poltrona rosa,
sperando di non lasciarci l’impronta. Accesa una Camel e
buttato fuori il fumo dal naso, mi sono concentrato su un
pezzo di lucido metallo nero su un piedistallo. Disegnava
una curva liscia e piena con una piega al centro, e sulla
parte curva aveva due protuberanze. Ho continuato a
fissarlo finché Marriott non ha ritenuto di intervenire.
«Un pezzo interessante» ha detto con noncuranza. «L’ho
comprato proprio l’altro giorno: Spirito dell’alba, di Asta
Dial».
«Credevo fosse Due verruche sulle chiappe di Klopstein».
Forse Marriott aveva inghiottito una vespa, ho pensato.
Cercava di darsi un contegno.
«Lei ha un senso dell’umorismo un po’ originale».
«No, non trovo. Soltanto franco».
«Già» ha detto lui, con estrema freddezza. «Già, come
no... Be’, la ragione per cui ho chiesto di incontrarla, in
pratica, è davvero un’inezia. Quasi non valeva la pena
venire fin qui. Stasera incontrerò un paio di persone a cui
dovrei consegnare del denaro. Pensavo di farmi
accompagnare da qualcuno. Lei è armato?».
«A volte» ho detto. Ho guardato la fossetta sul suo mento
ampio e carnoso: se ci avessi messo una biglia non era
detto che l’avresti recuperata.
«Non voglio che lei sia armato. Assolutamente. Sarà una
semplice transazione d’affari».
«Non sparo quasi mai» ho detto. «Un ricatto?».
Si accigliò. «Certo che no. Non sono solito offrire pretesti
per ricattarmi».
«Capita anche ai migliori. Anzi, soprattutto ai migliori».
Ha agitato la sigaretta. Gli occhi acquamarina avevano
un’espressione vagamente pensierosa, ma le labbra
sorridevano. Il tipo di sorriso che fa pendant con un cappio
di seta.
Ha sbuffato un po’ di fumo rovesciando la testa
all’indietro, con un movimento che ha messo in evidenza le
morbide, robuste linee del collo. Poi ha posato lo sguardo
su di me, per studiarmi.
«Dovrò incontrare questi signori – credo – in un posto
abbastanza isolato. Non so ancora dove, sto aspettando che
telefonino per dirmelo. Devo essere pronto a muovermi
all’istante, e non sarà molto lontano da qui. Questo è
l’accordo».
«È da molto che ha in ballo questo affare?».
«Tre o quattro giorni, in pratica».
«Ha pensato un po’ tardi a una guardia del corpo».
Ci ha riflettuto, e con un gesto della mano ha fatto cadere
un po’ di cenere scura dalla sigaretta. «Ha ragione. Ci ho
messo un po’ a decidermi. Forse sarebbe meglio che
andassi da solo, anche se nessuno mi ha espressamente
vietato di presentarmi con qualcuno. D’altra parte, non
sono proprio un eroe».
«Questi signori la conoscono di vista, immagino».
«Io... non ne sono sicuro. Avrò con me molti soldi, e non
miei. Faccio da tramite per un’amica. Naturalmente se me
li rubassero non mi sentirei a posto con la coscienza».
Ho spento la sigaretta e mi sono appoggiato all’indietro
sulla poltrona rosa, rigirandomi i pollici. «Quanti soldi? E
per cosa?».
«Be’, a dire la verità...». Il sorriso stavolta era un po’
meglio, ma continuava a non piacermi. «Non posso entrare
nei particolari».
«Vuole solo che l’accompagni e le tenga il cappello?».
Altro gesto, e stavolta la cenere gli è caduta sul polsino
bianco. Se l’è tolta con la mano, poi ha studiato da vicino il
punto dell’impatto.
«Temo di non gradire le sue maniere» ha detto con la sua
voce più tagliente.
«Non è il primo che se ne lamenta. A quanto sembra,
però, invano. Vediamo un po’ questo lavoro. Lei vuole una
guardia del corpo, ma disarmata. Vuole che qualcuno la
aiuti, ma non vuole spiegare cosa c’è da fare. Vuole che io
rischi senza sapere il perché o il percome, senza sapere
cosa rischio davvero. Cosa mi offre in cambio?».
«Non ho ancora avuto il tempo di pensarci». Gli zigomi
avevano preso un rossore crepuscolare.
«Crede di trovare il tempo, prima o poi?».
Si è sporto in avanti con grazia, e ha sorriso a denti
stretti. «Che ne direbbe se le tirassi un pugno sul naso?».
Ho sorriso a mia volta e mi sono alzato, col cappello già
sugli occhi. Mi sono avviato sul tappeto verso la porta, ma
senza fretta.
Ho sentito la sua voce alle mie spalle, come un colpo di
frusta. «Le offro cento dollari per poche ore del suo tempo.
Se non le bastano, non ha che da dirlo. Non ci sono
pericoli. A una mia amica hanno rubato alcuni gioielli, a
mano armata, e io glieli sto ricomprando. Si sieda, e non sia
così permaloso».
Ho fatto come diceva.
«D’accordo. Sentiamo».
Siamo rimasti a guardarci negli occhi per almeno dieci
secondi. «Ha mai sentito parlare della giada Fei Tsui?» ha
scandito molto lentamente, prima di accendersi un’altra
sigaretta.
«No».
«È l’unico tipo di giada veramente pregiato. Anche le
altre varietà hanno un certo valore, ma dovuto alla
lavorazione artigianale, più che al materiale. La giada Fei
Tsui, invece, ha valore in quanto tale. Tutti i suoi depositi
conosciuti sono esauriti da centinaia di anni. La mia amica
possiede una collana di sessanta perle da circa sei carati
ciascuna, tutte minutamente intagliate. Varrà ottantamila
dollari, forse novanta. Lo Stato cinese ne possiede una poco
più grande, ed è valutata sui centoventicinquemila. La
collana della mia amica le è stata sottratta durante una
rapina, alcune sere fa. Io ero presente, ma non ho potuto
far molto. Eravamo stati a una festa, e poi al Trocadero. Da
lì ci siamo mossi verso casa della mia amica, ma un’auto ci
ha graffiato il paraurti anteriore e si è fermata. Per
scusarsi, credevo io. Invece è stata una rapina, molto svelta
e pulita. Tre o quattro uomini. Io in realtà ne ho visti solo
due, ma uno di sicuro è rimasto al volante, e per un attimo
mi è parso di scorgerne un quarto dietro il lunotto. La mia
amica aveva addosso la collana. Le hanno portato via
quella, due anelli e un braccialetto. Quello che sembrava il
capo ha esaminato il bottino alla luce di una piccola torcia,
senza la minima fretta, in apparenza. Dopo di che le ha
restituito uno degli anelli. Ha detto che questo ci avrebbe
dato un’idea del genere di persone con cui avevamo a che
fare, e ci ha invitato ad aspettare una telefonata prima di
avvertire la polizia o la compagnia di assicurazioni. Ed è
quello che abbiamo fatto. Casi del genere sono piuttosto
frequenti, naturalmente. Si rinuncia ad avvertire la polizia
e si paga un riscatto; altrimenti, si può dire addio ai gioielli.
Se sono assicurati magari si può sporgere denuncia, ma se
per caso sono pezzi rari, di solito è meglio pagare».
Ho annuito. «E questa collana non è di quelle che si
vedono in giro tutti i giorni».
Con aria sognante ha passato un dito sulla superficie
lucida del pianoforte, come se toccare cose lisce gli
procurasse piacere.
«Proprio così. È un pezzo inestimabile. Non avrebbe
dovuto indossarla in pubblico, mai e poi mai. La mia amica,
però, è una donna temeraria. Le altre cose erano di valore,
ma nulla di particolare».
«A-ha. E quanto dovrà pagare?».
«Ottomila dollari. Una sciocchezza. D’altra parte, se è
vero che la mia amica faticherebbe a trovarne un’altra
simile, neanche per quei delinquenti sarebbe facile
smerciarla. Credo sia un pezzo noto a tutti i potenziali
acquirenti del paese».
«Questa sua amica... ha un nome?».
«Sì, ma al momento preferirei non rivelarglielo».
«Quali sono gli accordi?».
Mi guardava di traverso, con quegli occhi chiarissimi.
Poteva sembrare un po’ spaventato, ma non lo conoscevo
abbastanza. Magari erano i postumi di una sbronza. La
mano con cui teneva la sigaretta non stava ferma un
attimo.
«Per alcuni giorni abbiamo negoziato al telefono. Io ho
fatto da intermediario. È tutto deciso, a parte ora e luogo.
Sarà stasera. Dovrebbero telefonare tra poco per dirmi il
resto. Non sarà molto lontano, dicono, e devo tenermi
pronto a uscire all’istante. Immagino sia per evitare
possibili trappole. Sa, la polizia».
«A-ha. Le banconote sono segnate? Immagino si parli di
banconote».
«Ovvio, banconote da venti. Però no, perché mai
dovrebbero essere segnate?».
«Si può fare in modo che il segno sia visibile solo con la
luce nera, ma non c’è ragione di farlo, a parte il fatto che la
polizia ci gode a sgominare queste bande. Sempre che si
trovi qualcuno disposto a collaborare. Parte di quei soldi
potrebbe uscire dalle tasche di un pregiudicato».
Ha sollevato le sopracciglia, perplesso. «Temo di non
sapere cosa sia, la luce nera».
«Luce ultravioletta. Al buio fa risaltare certi inchiostri
metallici. Potrei trovare qualcuno in grado di farlo».
«Temo manchi il tempo, ormai» ha tagliato corto Mr.
Marriott.
«Questa è una delle cose che mi preoccupano».
«Perché?».
«Perché mi ha chiamato soltanto oggi pomeriggio? Perché
ha scelto proprio me? Chi le ha fatto il mio nome?».
È scoppiato a ridere. Aveva una risata da ragazzo, ma non
giovanissimo. «Be’, devo confessare che ho scelto il suo
nome a caso, sull’elenco. Non volevo farmi accompagnare.
Poi oggi pomeriggio ho pensato: perché no?».
Accendendo un’altra delle mie sigarette spiegazzate, ho
osservato i muscoli della sua gola. «Qual è il piano?».
Mi ha mostrato le mani aperte. «Semplice: andare dove
mi dicono, consegnare il pacco di soldi e recuperare la
collana».
«A-ha».
«È proprio innamorato di quest’espressione».
«Quale?».
«“A-ha”».
«E io dove starò? Sul sedile posteriore?».
«Direi di sì. È un’auto piuttosto grossa. Sul sedile
posteriore c’è spazio sufficiente per nascondersi».
«Ricapitoliamo» ho detto, lentamente. «Lei ha intenzione
di andare in auto, portandosi dietro anche me, nel luogo
che le indicheranno stasera al telefono. Avrà con sé
ottomila dollari in contanti, necessari a riscattare una
collana di giada che vale dieci o dodici volte tanto.
Probabilmente, le daranno un pacchetto che non potrà
aprire, ammesso e non concesso che le diano qualcosa. Ma
può anche darsi che si facciano consegnare i soldi, vadano
a contarli in un luogo sicuro e poi le facciano avere la
collana per posta, se sono in vena di essere particolarmente
generosi. Nulla, comunque, gli impedisce di tirarle una
fregatura. E io non potrei fare nulla per impedirlo. Sono
rapinatori di professione. Gente tosta. Potrebbero perfino
darle una botta in testa – non forte –, giusto per ritardare la
sua reazione e avere il tempo di filarsela».
«Be’, a dire il vero questa cosa mi spaventa un po’» ha
detto piano, con un lampo negli occhi. «Immagino sia il
motivo per cui ho deciso di farmi accompagnare».
«Durante la rapina le hanno puntato una luce in faccia?».
Ha scosso la testa. No.
«Non fa differenza. Dopo quella sera, avranno avuto
decine di occasioni di osservarla. Anzi, probabilmente di lei
sapevano tutto fin dall’inizio. Questi sono lavori curati nei
minimi dettagli, come quando il dentista deve farle
un’otturazione d’oro. Esce spesso con la signora?».
«Be’, non di rado» ha detto, rigido.
«Sposata?».
«Senta» ha sbottato. «Facciamo che la signora la
lasciamo fuori, eh?».
«Bene. Più so, però, meno rischio di far danni. Questo
lavoro dovrei rifiutarlo, Marriott. Davvero. Se i ragazzi
hanno intenzione di rispettare le regole, lei non avrà
bisogno di me. Se invece non le rispetteranno, io non potrò
comunque farci nulla».
«Io voglio solo che lei mi accompagni» ha detto lui,
prontamente.
Mi sono stretto nelle spalle, mostrando le mani aperte.
«Bene. Però io guido e tengo il denaro, e lei se ne sta
nascosto sul sedile posteriore. Abbiamo più o meno la
stessa statura. Se saltano fuori problemi, diremo
semplicemente la verità. Non abbiamo nulla da perdere».
«No». Si mordicchiò un labbro.
«Io intascherei cento dollari senza far niente. Se
qualcuno deve prendersi una botta sul cranio, è giusto che
sia io».
Lui si è incupito, ma per poco. Mi ha subito sorriso.
«Benissimo» ha detto lentamente. «Non credo abbia poi
tanta importanza. Saremo insieme. Gradisce un dito di
brandy?».
«A-ha. E magari anche i cento dollari. Mi piace la
consistenza dei soldi».
Marriott si è allontanato come danzando, con il corpo
pressoché immobile dalla cintola in su.
Mentre lasciava la sala ha squillato il telefono.
L’apparecchio era su un lato del salotto, in una piccola
alcova che interrompeva la balconata. Non era la telefonata
che aspettavamo, però. Il tono era troppo affettuoso.
Dopo un po’ è ricomparso. Danzava ancora, con una
bottiglia di Martell Cinq Étoiles e cinque belle e fruscianti
banconote da venti. La serata volgeva al bello, per il
momento.
9

La casa era sprofondata nel silenzio. Da lontano giungeva


un rumore come di risacca, o di auto che sfrecciano in
autostrada, o di vento tra i pini. Erano le onde del mare,
naturalmente, che si rompevano sotto di noi. Sono rimasto
per un po’ ad ascoltare, assorto in lunghi e attenti pensieri.
Nell’ora e mezza successiva il telefono ha squillato
quattro volte. La telefonata giusta è arrivata otto minuti
dopo le dieci. Marriott ha parlato brevemente, a bassa
voce, ha riattaccato senza fare rumore e si è alzato in piedi
con un movimento felpato. Sembrava teso. Si era messo un
abito scuro, per l’occasione. Tornato in silenzio nella sala,
si è preparato un drink, forte, in un bicchiere da brandy.
Per un attimo lo ha sollevato in controluce con uno strano
sorriso infelice, gli ha impresso con un rapido gesto un
moto rotatorio e, rovesciata la testa all’indietro, lo ha
mandato giù in un sorso.
«Bene. Ci siamo, Marlowe. È pronto?».
«È tutta la sera che sono pronto. Dove si va?».
«In un posto chiamato Purissima Canyon».
«Mai sentito».
«Vado a prendere una carta». Al ritorno l’ha aperta alla
svelta, e quando si è chinato a studiarla i suoi capelli
d’ottone hanno mandato un luccichio. Marriott mi ha
indicato un punto: era uno dei tanti canyon che si
diramavano dal boulevard ai piedi delle colline, quando
dalla costiera a nord di Bay City si devia verso la città.
Sapevo solo vagamente dov’era. A quanto pareva, in fondo
a una strada chiamata Camino de la Costa.
«Da qui ci si arriva in dodici minuti al massimo» ha detto
Marriott, concitato. «Conviene muoversi. Abbiamo solo
venti minuti».
Con l’impermeabile chiaro che mi ha dato ero un ottimo
bersaglio. Mi stava a meraviglia. Come cappello, ho usato il
mio. Avevo una pistola sotto l’ascella, ma non gliel’avevo
detto.
Mentre infilavo l’impermeabile Marriott continuava a
parlare nervosamente e a rigirarsi tra le mani irrequiete la
busta di carta marroncina con gli ottomila dollari.
«Hanno detto che nel punto più interno del Purissima
Canyon c’è una specie di piattaforma, chiusa da uno
steccato di assi di legno dipinte di bianco che si può
facilmente superare. Lì c’è una sterrata che scende in
fondo a una piccola conca, dove dovremo aspettare a fari
spenti. Non ci sono case nei dintorni».
«Dovremo?».
«Be’, insomma, io... in teoria».
«Ah».
Mi ha passato la busta marroncina, e ci ho guardato
dentro. I soldi c’erano, come previsto: un enorme mazzo di
banconote. Non li ho contati. Ho rimesso l’elastico intorno
all’involto, che poi ho infilato in una tasca interna
dell’impermeabile. Per poco non mi incrinavo una costola.
Ci siamo avviati alla porta, e Marriott ha spento tutte le
luci. Ha aperto e scrutato circospetto nell’aria fosca. Poi
siamo scesi in garage per la scala a chiocciola.
Da quelle parti, di notte, c’è sempre una leggera foschia.
Ho dovuto accendere il tergicristallo e farlo andare un po’.
La grossa auto straniera si guidava da sola, ma per
salvare le apparenze tenevo lo stesso una mano sul volante.
Dopo un paio di minuti di otto sul pendio della montagna,
siamo sbucati proprio accanto al bar con i tavolini
all’aperto. Lì ho capito perché Marriott mi avesse
consigliato di fare la scalinata. In quelle viuzze tortuose
avrei potuto guidare per ore senza fare più strada di un
verme in una scatoletta portaesche.
Sulla strada principale, i fanali delle auto proiettavano
fasci di luce quasi tangibili in entrambe le direzioni. I grossi
camion filavano verso nord ringhiando, decorati da festoni
di luci verdi e gialle. Tre minuti, poi abbiamo svoltato verso
l’interno in corrispondenza di una grande stazione di
servizio, procedendo lungo il fianco delle prime colline.
C’era soltanto silenzio e desolazione, oltre all’odore delle
alghe e a quello della salvia che arrivava dalle colline. Ogni
tanto una finestra gialla sospesa nel buio, tutta sola, come
l’ultima arancia rimasta. Le auto di passaggio irroravano
l’asfalto di fredda luce bianca, per poi allontanarsi nel buio
con un ruggito. Volute di foschia inseguivano le stelle.
Marriott si è sporto dal sedile posteriore: «Le luci sulla
destra sono il Belvedere Beach Club. Il prossimo canyon si
chiama Las Pulgas, subito dopo c’è il Purissima. Alla fine
della seconda salita dobbiamo girare a destra». La voce era
sommessa, tesa.
Ho grugnito in segno di assenso, continuando a guidare.
«Tenga giù la testa» ho detto girandomi leggermente verso
di lui. «Non è escluso che ci stiano tenendo d’occhio.
Questa macchina si fa notare come un paio di ghette a un
picnic nell’Iowa. Magari ai ragazzi non piace che lei abbia
un gemello».
Siamo scesi in un avvallamento all’estremità più interna
di un canyon, per poi salire di nuovo, ridiscendere e
risalire. Ho sentito in un orecchio la voce nervosa di
Marriott: «La prossima a destra. La casa con quella torretta
squadrata. Ci giri intorno».
«Non è che per caso ha detto la sua sulla scelta del
posto?».
«Non direi proprio» ha risposto, con una risatina
preoccupata. «Ma si dà il caso che io conosca questi
canyon piuttosto bene».
Superata una casa d’angolo con una torretta bianca, ho
svoltato a destra. I fanali hanno illuminato per un attimo
l’indicazione «Camino de la Costa». Siamo scesi per un
ampio viale fiancheggiato da lampioni non funzionanti e
marciapiedi invasi dalle erbacce. Il sogno di qualche
costruttore si era trasformato nei postumi di una sbronza.
Al di là dei marciapiedi infestati, i grilli frinivano e le rane
toro saltavano nel buio. L’auto di Marriott non faceva il
minimo rumore.
Gli isolati ospitavano una casa ciascuno, poi neanche più
quella. Da una finestra o due filtrava ogni tanto una vaga
luce, ma da quelle parti la gente sembrava andare a letto
con le galline. A un certo punto del viale l’asfalto finiva
all’improvviso, lasciando il posto a una strada sterrata che,
quando non pioveva, era altrettanto dura. Si restringeva e
digradava lentamente tra muraglie di arbusti. Le luci del
Belvedere Beach Club erano sospese a mezz’aria sulla
destra, mentre più in là si intravedeva il luccichio
dell’acqua. L’odore intenso della salvia saturava la notte.
Poi ci si è parata davanti una barriera dipinta di bianco, e
Marriott: «Non credo si possa superare. Non c’è
abbastanza spazio».
Ho spento il motore – non che si sentisse la differenza – e
abbassato i fari. Sono rimasto in ascolto. Niente. Ho spento
i fari e sono sceso. I grilli avevano smesso di frinire. C’era
un tale silenzio che sentivo il rumore di pneumatici sulla
strada principale, a un paio di chilometri. Poi, poco alla
volta, i grilli hanno ricominciato, fino a riempire la notte di
quel suono.
«Stia lì buono. Vado giù a dare un’occhiata» ho detto
sottovoce, avvicinandomi al finestrino posteriore.
Una controllata al calcio della pistola sotto
l’impermeabile, e mi sono mosso. Tra la muraglia di arbusti
e il fianco della barriera bianca c’era più spazio di quel che
mi era parso dalla macchina. Qualcuno aveva sfrondato la
vegetazione, e a terra c’erano tracce di pneumatici.
Giovani, probabilmente, che andavano lì a pomiciare nelle
serate tiepide. Ho superato la barriera. La stradina
scendeva ripida e curvava. In basso, solo il buio, e un fioco,
remoto rumore di onde. E i fanali delle auto sulla strada
principale. Ho proseguito. La stradina terminava in una
conca poco profonda interamente circondata da arbusti.
Non c’era nessuno. L’unica via d’accesso era quella che
avevo percorso. Sono rimasto in silenzio ad ascoltare.
I minuti passavano lenti.
Niente. A quanto pareva, la piccola conca era tutta per
me.
Ho guardato più oltre, verso le finestre illuminate del
Belvedere, sulla spiaggia. Da quelle superiori un uomo con
un binocolo decente avrebbe tranquillamente potuto tenere
tutto sotto controllo, notare auto in arrivo o in sosta, e
vedere chi ne usciva, se solo o accompagnato. Da una
stanza buia, con un buon binocolo si possono scoprire più
particolari di quel che generalmente si crede.
Mi sono voltato per risalire. Dalla base di un cespuglio,
un grillo ha frinito così forte da farmi sobbalzare. Ho
proseguito, seguendo la curva, fin oltre la barriera bianca.
Ancora niente. L’auto nera baluginava fioca in un grigiore
che non era né luce né tenebre. Mi ci sono avvicinato,
salendo sul predellino accanto al posto di guida.
«Forse è una prova» ho detto a mezza voce, ma
abbastanza forte da farmi sentire da Marriott sul sedile
posteriore. «Giusto per vedere se sta ai patti».
L’unica risposta è stato un leggero movimento sul sedile.
Continuavo a osservare, per capire se ci fosse qualcosa a
parte i cespugli.
Per chiunque sia stato, prendermi alle spalle e colpirmi
alla testa non dev’essere stata un’impresa. A posteriori, mi
è parso forse di aver sentito lo spostamento d’aria di un
manganello. Si pensano sempre cose così, a posteriori.
10

«Quattro minuti» ha detto la voce. «Cinque. Magari


anche sei. Devono essersi mossi alla svelta e in silenzio.
Non ha avuto nemmeno il tempo di gridare».
Aperti gli occhi, ho visto tremolare una stella fredda. Ero
steso sulla schiena. Mi sentivo male.
La stessa voce: «Magari ci è voluto qualcosa di più. Otto
minuti al massimo, diciamo. Dovevano essere nascosti tra
gli arbusti, proprio dove c’è l’auto. Quello era uno facile da
spaventare. Gli avranno puntato una luce in faccia, e sarà
svenuto dalla paura. La mammoletta».
C’era silenzio. Mi sono rialzato su un ginocchio. Dalla
nuca, le fitte mi arrivavano fino alle caviglie.
«Poi uno di loro è salito in auto e ha aspettato che
ritornassi. E gli altri si sono nascosti di nuovo. Dovevano
aver previsto che non se la sarebbe sentita di presentarsi
da solo. Magari si sono insospettiti anche solo parlandogli
al telefono».
Mi sono appoggiato sui palmi, tendendo le orecchie. Ero
stordito.
«Sì, dev’essere andata così».
Era la mia voce. Stavo parlando da solo, mentre
riprendevo i sensi. Tentavo di capire cosa fosse successo.
«Zitto, idiota». Ha funzionato. Ho smesso.
In lontananza, le fusa dei motori; più vicino, il frinire dei
grilli e il caratteristico ii-ii-ii prolungato delle raganelle.
Quei rumori non mi sarebbero mai più piaciuti, ho pensato.
Ho sollevato una mano da terra scuotendola per liberarla
dall’umidità appiccicosa della salvia, poi me la sono passata
su un fianco dell’impermeabile. Bel lavoro, per cento
dollari. Ho infilato una mano nella tasca interna
dell’impermeabile. La busta con i soldi era sparita, ovvio.
Ho infilato una mano nella giacca. Il portafoglio c’era
ancora. Non sapevo i miei cento dollari, ma dubitavo. C’era
qualcosa che mi pesava sulle costole a sinistra. La pistola
nella fondina.
Che gentili. Mi avevano lasciato la pistola. Era un tocco
elegante, come abbassare le palpebre di una persona dopo
averla accoltellata.
Mi sono tastato la nuca. Avevo ancora il cappello. Me lo
sono tolto per sentire il cranio. La mia cara, vecchia testa:
ce l’avevo da tanto. Era un po’ più tenera del solito, un po’
sanguinolenta, un po’ molle. La manganellata, però, non
era stata così violenta. Il cappello, inoltre, aveva aiutato.
Riuscivo ancora a usarla, la testa. Per un altro po’, almeno,
mi sarebbe tornata utile.
Ho riappoggiato la destra a terra per guardare l’ora sulla
sinistra. Una volta messo faticosamente a fuoco, il
quadrante illuminato dell’orologio segnava le 10.56.
La telefonata era arrivata alle 10.08. Marriott aveva
parlato un paio di minuti, altri quattro ed eravamo usciti. Il
tempo passa lentamente, quando si fa qualcosa. Intendo: si
possono fare molti movimenti in pochissimi minuti. Intendo
davvero questo? Ma a chi può fregare di quel che intendo?
Be’, uomini di gran lunga migliori di me hanno inteso anche
meno. Insomma, quel che intendo è che potevano essere le
10.15. La nostra meta distava dalla casa una dozzina di
minuti. 10.27. Scendo dall’auto arrivo in fondo alla conca,
resto lì a cincischiare e poi torno su a farmi curare il
cranio: altri otto minuti al massimo. 10.35. Datemi un
minuto per cadere e sbattere la faccia a terra. So che l’ho
sbattuta perché ho il mento graffiato. Fa male. Lo sento
graffiato. Ecco come faccio a sapere che è graffiato. No,
non riesco a vederlo. Magari vi interessava saperlo. Bene,
fate silenzio e lasciatemi pensare. Con che cosa, volete
sapere?...
L’orologio segnava le 10.56.
Venti minuti di sonno. Proprio un bel pisolino. Intanto la
missione era andata in fumo, e gli ottomila dollari spariti.
Be’, niente di strano. In venti minuti puoi affondare una
nave da guerra, abbattere tre o quattro aerei, giustiziare
due persone. Puoi morire, sposarti, farti licenziare e
trovare un nuovo lavoro, farti cavare un dente o le tonsille.
In venti minuti puoi riuscire persino ad alzarti dal letto la
mattina. Puoi farti servire un bicchiere d’acqua in un locale
notturno, forse.
Venti minuti di sonno. È un tempo lunghissimo.
Soprattutto in una nottata fresca, all’aperto. Cominciavo ad
avere i brividi.
Ero ancora sulle ginocchia. L’odore della salvia
cominciava a infastidirmi. La linfa appiccicosa con cui le
api selvatiche fanno il miele. Il miele è dolce, troppo. Il mio
stomaco si rivoltava. Serrando i denti sono riuscito a non
vomitare. Avevo la fronte madida di sudore freddo e
continuavo ad avere i brividi. Ho messo un piede a terra e
mi sono rialzato raddrizzando la schiena, un po’ vacillante.
Mi sentivo come una gamba amputata.
Mi sono voltato, piano. L’auto non c’era più. Lo sterrato in
direzione del saliscendi e della strada asfaltata, dove
terminava il Camino de la Costa, era deserto. Sulla sinistra,
la barriera di assi bianche spiccava nel buio. Dietro la
bassa muraglia di arbusti, il pallido chiarore in cielo
dovevano essere le luci di Bay City. Più a destra, più vicino,
c’erano quelle del Belvedere.
Raggiunto il punto preciso in cui ci eravamo fermati, ho
sganciato dal taschino una stilografica, puntando verso il
basso la luce incorporata. Il terreno, argilloso e rosso, era
di quelli che si compattano, ma il clima non era così secco.
C’era foschia, e il terreno era abbastanza umido. A guardar
bene, si vedevano i segni degli pneumatici Vogue a dieci
tele. Chinandomi ho sentito una fitta che mi ha fatto girare
la testa. Mi sono messo a seguire le tracce. Proseguivano
per quattro o cinque metri, dopo di che deviavano
bruscamente a sinistra. Non avevano fatto inversione. Si
erano infilati nel varco sul lato sinistro della barriera. E lì le
tracce si perdevano.
Mi sono avvicinato alla barriera e ho indirizzato la luce
sugli arbusti. Rametti spezzati di fresco. Superato il varco
ho preso la strada curva. Il terreno, lì, era ancora più
soffice. Altre tracce di pneumatici. Ho continuato a
scendere e mi sono ritrovato al margine della conca,
circondato dalla vegetazione.
Ed era lì, infatti: i profili cromati e la vernice luccicavano
anche al buio, come il catarifrangente di coda quando l’ho
illuminato. Era lì, immersa nel silenzio, al buio, con le
portiere chiuse. Mi sono avvicinato lentamente,
digrignando i denti a ogni passo. Ho aperto una delle
portiere posteriori puntando la luce all’interno. Vuota.
Anche davanti. Il motore era spento. La chiave, con una
catenella, era inserita nel quadro. I rivestimenti erano
intatti, i vetri anche, e non c’erano tracce di sangue, né
cadaveri. Tutto pulito e in perfetto ordine. Richiusa la
portiera ho fatto il giro dell’auto in cerca di tracce, ma
senza riuscire a trovarne.
Un rumore mi ha gelato il sangue.
Dietro gli arbusti ronzava un motore. Ho sobbalzato, ma
non più di una spanna, e ho spento la luce. A quel punto ho
visto i fasci dei fanali inclinarsi verso il cielo, e poi verso
terra. A giudicare dal motore, doveva trattarsi di un’auto
piccola. Faceva il suono soddisfatto di quando l’aria è
umida.
Le luci hanno di nuovo puntato verso il basso, più intense.
L’auto stava scendendo lungo lo sterrato. A due terzi si è
fermata. Qualcuno ha acceso una torcia, muovendola di lato
per illuminare la zona. A lungo. Poi l’ha spenta. La
macchina ha proseguito un altro po’. Ho estratto la pistola
e mi sono nascosto dietro l’auto di Marriott.
È apparso un piccolo coupé, anonimo per dimensioni e
colore, che ha girato in modo da illuminare per intero una
fiancata della berlina. Ho buttato giù la testa. I fasci di luce
mi sono passati sopra come una spada. Il coupé si è
fermato, il motore spento. Anche i fanali, spenti. Silenzio.
Poi qualcuno ha aperto una portiera e posato a terra un
piede leggero. Ancora silenzio. Persino i grilli tacevano. Un
raggio orizzontale ha squarciato il buio a pochi centimetri
dal suolo. La luce ha sventagliato così rapida che non ho
avuto il tempo di spostare le caviglie. Il raggio si è fermato
sui miei piedi. Silenzio. Poi la luce è risalita, passando di
nuovo sopra il cofano dell’auto di Marriott.
E, a quel punto, una risata di ragazza. Tirata, tesa come
una corda di mandolino. Un suono strano, in un posto come
quello. Il raggio ha fatto come prima: sotto l’auto e poi sui
miei piedi.
La voce non era esattamente tremula: «Ehi, tu. Vieni fuori
di lì con le mani in alto, e vediamo di fare in modo che
siano vuote. Sei sotto tiro».
Non mi sono mosso.
La luce ha avuto un piccolo fremito, come se la mano che
reggeva la torcia avesse tremato. È ripassata lentamente
sul cofano. Di nuovo la voce, fastidiosa.
«Senti, straniero. Ho un’automatica a dieci colpi. E so
sparare. I tuoi piedi sono scoperti. Cosa scegli?».
«Mettila via, o te la faccio saltare dalle mani!» ho
ringhiato. La mia voce era il rumore di qualcuno che svelle
assi di legno da un pollaio.
«Oh, un gentiluomo, ma duro». Adesso sì che nella sua
voce c’era una piccola e bella vibrazione. Poi, però, le è
uscita tesa un’altra volta. «Vieni fuori o no? Conto fino a
tre. Considera la situazione: hai davanti dodici grossi
cilindri, forse anche sedici. I piedi, però, ti faranno male. E
le ossa delle caviglie ci mettono anni a guarire, quando
guariscono».
Mi sono alzato in piedi, lentamente, e ho guardato in
direzione della luce.
«Anch’io parlo troppo, quando sono spaventato».
«Fermo! Non fare un altro millimetro! Chi sei?».
Ho fatto il giro del cofano, avvicinandomi. A un paio di
metri dall’esile e scura sagoma dietro la torcia mi sono
fermato. Ero in piena luce.
«Sta’ fermo dove sei» ha detto secca la ragazza, quando
ormai mi ero fermato. «Chi sei?».
«Fa’ vedere la pistola».
L’ha illuminata con la torcia. Me la teneva puntata allo
stomaco. Era una pistoletta. Forse una piccola Colt
automatica da taschino.
«Ah, quella. Un giocattolo. Non ha dieci colpi: ne ha sei. È
minuscola, una scacciafarfalle. Giusto a quelle puoi
sparare. Dovresti vergognarti: non si dicono certe bugie».
«Sei pazzo?».
«Io? Sono appena stato manganellato da un rapinatore.
Può essere che sia un po’ suonato».
«Quella... è la tua macchina?».
«No».
«Chi sei?».
«Cosa stavi guardando lassù, con la torcia?».
«Ho capito. Sei tu quello che vuole risposte. Un uomo
vero. Stavo guardando un tizio».
«Uno con i capelli biondi ondulati?».
«Non più» ha detto lei, a bassa voce. «Forse li aveva...
prima».
Ci sono rimasto. Chissà perché, non me l’aspettavo. «Non
l’ho visto» ho detto, confuso. «Stavo seguendo tracce di
pneumatici. È messo molto male?». Ho fatto un altro passo
verso di lei. La piccola pistola è scattata contro di me, la
luce della torcia non si è mossa.
«Vacci piano» ha detto a bassa voce. «Molto piano. Il tuo
amico è morto».
Ci ho messo un attimo, prima di reagire: «Bene, andiamo
a vedere».
«Resteremo qui fermi, invece, e tu mi dirai chi sei e cos’è
successo». La voce era frizzante. La ragazza non aveva
paura. Faceva sul serio.
«Marlowe. Philip Marlowe. Investigatore. Privato».
«Ora so chi sei, ammesso che tu abbia detto la verità.
Dimostramelo».
«Devo tirare fuori il portafoglio».
«Meglio di no. Tieni le mani dove sono. Tralasciamo la
dimostrazione, per il momento. Racconta».
«Quell’uomo potrebbe non essere morto».
«È morto, fidati. Con tutto il cervello sulla faccia. La tua
storia, signorino. Sbrigati».
«Dicevo... potrebbe non essere morto. Andiamo a
controllare». Ho mosso un piede.
«Muoviti ancora e ti riduco un colabrodo!» ha sbottato.
Ho mosso anche l’altro piede. La torcia ha avuto un
piccolo sobbalzo. Probabilmente la ragazza aveva fatto un
passo indietro.
«Rischi grosso» ha detto a bassa voce. «D’accordo, va’
avanti, io ti seguo. Sembri messo male. È la tua fortuna, se
no...».
«Mi avresti sparato. È che dopo certe passate di
manganello mi vengono sempre un po’ di occhiaie».
«Abbiamo un umorista, qui. Un po’ da obitorio, ma
pazienza».
Non appena mi sono incamminato la torcia ha illuminato
il terreno davanti a me. Ho superato il coupé, una piccola e
comunissima automobile, ma luccicante nella foschia, sotto
le stelle. Ho risalito la curva dello sterrato. Alle mie spalle, i
passi della ragazza erano vicini, e la luce della torcia mi
guidava. Non c’erano rumori, a parte i nostri passi e il suo
respiro. Il mio non lo sentivo.
11

Circa a metà salita, sulla destra, ho visto un piede. La


ragazza lo ha illuminato. Avrei dovuto vederlo già prima,
scendendo, ma ero chinato a seguire le tracce di
pneumatici con una stilo che faceva una luce grande come
un quarto di dollaro.
«Dammi la torcia» le ho detto, allungando una mano.
Me l’ha posata sul palmo senza una parola. Mi sono
inginocchiato. Il terreno era freddo e umido.
Era disteso tutto sporco, sulla schiena, sotto un cespuglio,
in quella posizione da sacco di stracci che significa sempre
e solo una cosa. Aveva una faccia diversa. I capelli erano
più scuri, le belle ondulazioni bionde impiastricciate di
sangue e di una specie di sostanza densa e grigia, come
una poltiglia primordiale.
La ragazza alle mie spalle respirava affannosamente,
senza aprire bocca. Gli ho puntato la luce in faccia.
L’avevano pestato selvaggiamente. Una mano era ferma in
un gesto largo, con le dita arricciate. L’impermeabile era
attorcigliato sotto di lui, come se dopo la caduta fosse
rotolato. Aveva le gambe una sopra l’altra. Da un angolo
della bocca gli colava un rivolo nero come la terra.
«Tieni la torcia su di lui» ho detto, restituendogliela. «Se
non ti fa impressione».
Non solo lo ha fatto, ma lo ha fatto con una presa salda,
da professionista. Con la luce della mia stilo gli ho frugato
in tasca, cercando di non muoverlo.
«Non dovresti farlo» ha detto lei, nervosa. «Non dovresti
toccarlo prima che arrivi la polizia».
«Giusto» ho detto. «E neanche i poliziotti della pattuglia
dovrebbero toccarlo finché non arrivano quelli in borghese,
che non possono toccarlo finché non viene esaminato dal
coroner, e fotografato dai fotografi, e finché non gli hanno
preso le impronte digitali. Hai idea di quanto potrebbe
volerci? Un paio d’ore, almeno».
«D’accordo. Immagino tu abbia sempre ragione. Sembri
uno di quelli. Dovevano odiarlo per spaccargli la testa in
questo modo».
«Non credo sia stata una cosa personale» ho borbottato.
«C’è gente a cui piace spaccare teste a prescindere».
«Be’, non sapendone niente, non potevo indovinare» ha
detto, stizzita.
L’ho perquisito. In una tasca anteriore dei pantaloni aveva
monete e banconote, nell’altra un portachiavi in pelle
lavorata, insieme a un piccolo coltello. Nella tasca
posteriore sinistra c’era un piccolo portafoglio con altre
banconote, tessere dell’assicurazione sanitaria, patente e
un paio di scontrini. Nella giacca, pacchetti di fiammiferi,
una penna d’oro agganciata al taschino, due eleganti
fazzoletti di batista, finissimi e bianchi come neve asciutta
e farinosa. Poi l’astuccio smaltato da cui l’avevo visto
prendere quelle sigarette marroni col filtro dorato. Erano
sudamericane, di Montevideo. E nell’altra tasca interna un
secondo portasigarette, che invece non avevo mai visto. Era
rivestito di seta ricamata, con un drago su entrambi i lati, e
una struttura in finta tartaruga così sottile da risultare
quasi impalpabile. È bastato sfiorare la chiusura per
aprirlo. All’interno, sotto l’elastico, tre smisurate sigarette
russe. Ne ho pizzicata una. Avevano l’aria di essere vecchie
e secche e un po’ vuote. Il filtro era cavo.
«Le altre le ha fumate» ho detto girando un po’ la testa.
«Queste, probabilmente, le teneva per qualche amica. Non
credo le amiche gli mancassero».
La ragazza era chinata, tanto che ormai mi respirava sul
collo. «Non lo conoscevi?».
«Non prima di stasera. Mi ha ingaggiato come guardia
del corpo».
«Niente male, come guardia del corpo».
Non ho commentato.
«Scusa» ha quasi sussurrato. «Ovviamente non conosco le
circostanze. Pensi che siano spinelli? Posso vedere?».
Le ho passato il portasigarette.
«Una volta conoscevo uno che fumava spinelli. Tre
cocktail e tre sigarette di erba, e per staccarlo dal
lampadario ci voleva la chiave inglese».
«Tieni ferma la luce».
Dopo una pausa, con un fruscio in sottofondo, la ragazza
ha ricominciato a parlare.
«Scusa». Mi ha passato il portasigarette, che ho rimesso
nella tasca. Non c’era altro. Evidentemente, non l’avevano
ripulito.
Mi sono rialzato e ho tirato fuori il portafoglio. I cinque
biglietti da venti erano ancora lì.
«Ragazzi di mondo. Hanno preso solo i soldi grossi».
La torcia elettrica puntava verso terra. Ho messo via il
portafoglio, riagganciato al taschino la mia piccola luce e
mi sono buttato in avanti per afferrare la pistoletta che la
ragazza reggeva con la stessa mano della torcia. La torcia
le è caduta a terra, ma la pistola gliel’ho tolta. Ha fatto un
rapido passo indietro, e io mi sono chinato a raccogliere la
torcia. Gliel’ho puntata in faccia per un attimo, poi l’ho
spenta.
«Non c’era bisogno di usare queste maniere» ha detto,
affondando le mani nelle tasche di un lungo soprabito di
tela grezza con le spalline imbottite. «Non penso l’abbia
ucciso tu».
La sua voce tranquilla e serena mi piaceva. Anche la sua
tempra. Siamo rimasti per un attimo al buio, faccia a faccia,
senza dire niente. Si vedevano i cespugli e la luce in cielo.
Le ho riacceso la torcia in faccia, facendole sbattere le
palpebre. Aveva un bel faccino vivace e gli occhi grandi. Un
viso con le ossa subito sotto la pelle, dai tratti eleganti
come un violino di Cremona. Una faccia davvero carina.
«Hai i capelli rossi» ho detto. «Irlandese?».
«E mi chiamo Riordan. Con questo? Spegni quella torcia.
Comunque i capelli non sono rossi. Sono ramati».
Ho spento la luce. «Hai anche un nome proprio?».
«Anne. Ma non chiamarmi Annie».
«Che ci fai a zonzo da queste parti?».
«A volte di sera me ne vado in giro. Sono un po’
irrequieta. Vivo da sola. Sono orfana. Conosco questa zona
come le mie tasche. Passavo di qui e ho notato una luce
nella conca. Mi pareva un po’ freddo, per dei giovani
innamorati. E poi i giovani non le usano, le luci, giusto?».
«Io non le usavo. Rischia grosso, Miss Riordan».
«Mi pare di aver detto la stessa cosa su di te. Ero armata.
Non avevo paura. Nessuna legge mi vietava di scendere».
«A-ha. A parte quella dell’autoconservazione. Ecco, tieni.
Stasera non mi daranno certo il premio di intelligentone
dell’anno. Immagino tu abbia il porto d’armi, per questa».
Le ho restituito la pistola, con il calcio in avanti.
L’ha presa e l’ha fatta sparire in tasca. «Incredibile
quanto a volte possa essere curiosa la gente, vero? Scrivo
un po’. Per i giornali».
«Ti pagano?».
«Poco o niente, purtroppo. Tu cosa cercavi, nelle sue
tasche?».
«Niente di preciso. Sono bravo a curiosare. Avevamo
ottomila dollari con cui riscattare gioielli rubati per una
signora. Ci hanno fregato. Perché l’abbiano ucciso, però, è
un mistero. Non mi pareva uno che oppone resistenza. E
non ho sentito zuffe. Ero nella conca, quando l’hanno
aggredito. Lui era rimasto più su, in auto. Avevamo
intenzione di scendere in auto fino alla conca, ma non c’era
spazio per passare senza graffiare la fiancata. Quindi io
sono sceso a piedi, e mentre ero giù devono avergli fatto la
pelle. Dopo di che, uno si è nascosto sul sedile e mi ha
aspettato. Io, ovviamente, credevo che in macchina ci fosse
ancora lui».
«Messa così, non pare che tu sia stato del tutto un
babbeo».
«C’era qualcosa di strano fin dall’inizio, in questo lavoro.
Me lo sentivo. Però avevo bisogno di soldi. Ora dovrò
andare dagli sbirri e sopportare l’umiliazione. Ti andrebbe
di accompagnarmi a Montemar Vista? Ho lasciato la
macchina lì, vicino a casa sua».
«Certo. Ma non sarebbe meglio se qualcuno rimanesse
qui? Puoi andare con la mia. Oppure posso avvertire io la
polizia».
Ho guardato l’orologio. Le lancette appena un po’
fosforescenti stavano per segnare mezzanotte.
«No».
«Perché no?».
«Non lo so. Mi gira così, e basta. Mi arrangio».
Non ha detto niente. Siamo tornati alla sua macchina, in
fondo alla conca. Ha messo in moto, fatto manovra a fari
spenti e siamo risaliti, superando la barriera. Dopo un
tratto di strada ha acceso i fari.
La testa mi faceva male. Siamo rimasti in silenzio fino
all’altezza della prima casa, dove la strada diventava
asfaltata. Poi ha parlato: «Hai bisogno di un drink. Perché
non vieni a berti un bicchiere da me? Puoi telefonare alla
polizia da lì. Devono comunque arrivare da West Los
Angeles. Quassù non c’è niente, a parte la caserma dei
pompieri».
«Continua a scendere fino alla costa. Mi arrangio».
«Ma perché? Io non ho paura. La mia testimonianza
potrebbe esserti d’aiuto».
«Non ho bisogno d’aiuto. Devo pensare. Devo starmene
da solo per un po’».
«Io... okay».
Ha fatto un rumorino di gola, svoltando sul boulevard. Al
distributore sulla costiera abbiamo girato a nord, verso
Montemar Vista e il bar con i tavolini all’aperto. Era
illuminato come una nave da crociera. La ragazza ha
accostato, e sono sceso. Sono rimasto lì, con la portiera
aperta.
Non sapendo bene che fare, ho pescato dal portafoglio un
biglietto da visita. «Se magari un giorno ti servisse
qualcuno con le spalle grosse, fammi sapere. Ma se è un
lavoro di cervello, lascia perdere».
«Mi trovi sull’elenco telefonico di Bay City, all’819 della
25th Street. Passa ad appuntarmi una medaglia di latta per
essermi fatta gli affari miei. Mi sa che sei ancora stordito
dalla botta in testa». L’aveva detto con calma, picchiettando
il biglietto da visita sul volante.
Poi è tornata indietro verso la costiera, quasi sgommando.
Sono rimasto a guardarla finché i fanalini di coda non sono
svaniti nel buio.
Superato l’arco e il bar, ho ripreso la macchina. Avevo
davanti un bar e stavo ancora tremando. La cosa più
intelligente da fare mi sembrava andare al commissariato
di West Los Angeles. Ci sono arrivato venti minuti dopo,
freddo come una rana e verde come il retro di una
banconota da un dollaro nuova.
12

Un’ora e mezza dopo, il cadavere era stato portato via, la


scena del delitto passata al setaccio, e io avevo già
raccontato la mia storia tre o quattro volte. Nella stanza del
capitano di turno eravamo in quattro. L’unico rumore in
tutto l’edificio era il richiamo aborigeno di un ubriaco, che
aspettava di essere portato in città all’alba per un
interrogatorio informale.
Dall’alto, un faretto illuminava il tavolo su cui erano
sparsi gli oggetti trovati nelle tasche di Marriott – cose che
parevano morte e senza più dimora come il loro
proprietario. L’uomo seduto di fronte a me si chiamava
Randall ed era della Omicidi di Los Angeles: un tipo smilzo
e taciturno sulla cinquantina, con i capelli tra il grigio e il
crema, occhi freddi, modi per niente cordiali. Portava una
cravatta rosso scuro, con pois neri che continuavano a
ballarmi davanti agli occhi. Dietro di lui, fuori dal cono di
luce bianca, due armadi in posa da guardaspalle. Ognuno
mi fissava un orecchio.
Non sapendo che fare, mi rigiravo una sigaretta tra le
dita. Poi l’ho accesa, ma era pessima. L’ho guardata
consumarsi da sola. Mi pareva di avere ottant’anni e di
stare invecchiando alla svelta.
Randall, freddo: «Più me la racconti, la tua storia, più mi
pare ridicola. Questo Marriott deve aver negoziato per
giorni. Poi, a poche ore dall’incontro decisivo, chiama un
perfetto sconosciuto e lo ingaggia come guardia del corpo».
«Non esattamente come guardia del corpo» ho precisato.
«Non gli avevo neanche detto che ero armato. Solo per
fargli compagnia».
«Dove ha trovato il tuo nome?».
«Prima ha detto che gliel’aveva dato un amico comune.
Poi che l’aveva scelto a caso dall’elenco».
Randall ha rovistato con delicatezza tra la roba sul tavolo,
pescando un cartoncino bianco con l’aria di chi tocca
qualcosa di non pulitissimo e spingendolo verso di me.
«Aveva questo: il tuo biglietto da visita».
Gli ho dato giusto un’occhiata. Era uscito dal suo
portafoglio, insieme a una serie di altri biglietti da visita
che giù nel Purissima Canyon non mi ero curato di
controllare. Era uno dei miei biglietti da visita, non c’era
dubbio. E aveva un aspetto più sporco del normale, per uno
come Marriott. C’era una chiazza tondeggiante su un
angolo.
«Be’, quando mi capita li faccio girare, chiaro».
«Marriott ti ha chiesto di tenergli i soldi. Ottomila dollari.
Era uno che si fidava, eh?».
Ho dato un tiro, sbuffando il fumo verso il soffitto. La luce
mi feriva gli occhi, e la testa mi faceva ancora male.
«Gli ottomila dollari non li ho. Mi spiace».
«No. Se li avessi non saresti qui, o sbaglio?». Aveva
messo su un sogghigno gelido, che tuttavia risultava
forzato.
«Sarei disposto a fare diverse cose per ottomila dollari.
Ma se avessi voluto uccidere uno a manganellate, ce l’avrei
fatta con un paio di colpi al massimo. Alla nuca».
Ha annuito in modo quasi impercettibile. Uno degli
armadi ha sputato nel cestino della carta straccia.
«Questo è uno degli aspetti che mi lasciano perplesso.
Sembra un lavoro da dilettanti. O forse volevano che lo
sembrasse. I soldi non erano di Marriott, giusto?».
«Non ne sono certo, ma credo di no. Non ha voluto dirmi
il nome della signora coinvolta».
«Non sappiamo niente, di Marriott... non ancora» ha
detto Randall, lentamente. «È quantomeno possibile che lui
stesso avesse pensato di intascare gli ottomila».
«Eh?». Ero sorpreso. E probabilmente si vedeva. La faccia
di Randall è rimasta impassibile.
«Hai contato i soldi?».
«No, ovvio. Mi ha soltanto consegnato l’involto. Dentro
c’erano soldi. Tanti. Ottomila, stando a quanto mi ha detto.
Perché avrebbe dovuto rubarmeli, se li aveva già in mano
prima che entrassi in scena?».
Randall ha guardato un angolo del soffitto, abbassando
gli angoli della bocca. Poi ha scrollato le spalle.
«Proviamo a ricominciare. Qualcuno aveva rapinato
Marriott e la signora che era con lui, portandosi via questa
collana di giada e altra roba, ma offrendo poi di restituirla
in cambio di una somma decisamente modesta, se si
considera il presunto valore della collana. Della transazione
doveva occuparsi Marriott. Lui inizialmente aveva pensato
di fare tutto da solo, e noi non sappiamo se i rapinatori
avessero posto questa condizione, o se ne avessero parlato.
Di solito, in casi del genere, la gente è molto pignola. Alla
fine, però, Marriott ha deciso che poteva farsi
accompagnare da te. Pensavate entrambi di avere a che
fare con una banda organizzata che avrebbe rispettato le
regole, per quanto possibile. Marriott aveva paura. Cosa
abbastanza naturale. Voleva compagnia, e tu l’hai
accompagnato. Il fatto, però, è che tu eri un perfetto
sconosciuto, per lui: un nome su un biglietto da visita
datogli da chissà chi, diciamo un amico comune. Poi,
all’ultimo minuto, Marriott decide che sarai tu a tenere i
soldi e a occuparti dello scambio, mentre lui resterà
nascosto in auto. Mi hai detto che è stata una tua idea, ma
lui forse ci sperava, che la tirassi fuori. E se tu non l’avessi
fatto, l’avrebbe suggerita lui».
«All’inizio non gli piaceva».
Randall si è di nuovo stretto nelle spalle. «Ha fatto finta...
ma poi ha ceduto. Alla fine la telefonata arriva, e voi uscite
per raggiungere questo posto, che lui ti descrive. È la tua
unica fonte. Tutte le tue informazioni provengono da lui.
Quando arrivate a destinazione sembra non esserci
nessuno. L’intenzione era scendere in auto fino in fondo alla
conca, ma poi vedete che quel macchinone non ci passa. E
infatti non ci passava, visto che è tutto graffiato sulla
fiancata sinistra. Insomma, tu esci dalla macchina e scendi
a piedi, non vedi e non senti niente, aspetti qualche minuto,
torni alla macchina, e a quel punto qualcuno che era a
bordo ti dà una manganellata alla nuca. Supponiamo che
Marriott volesse quei soldi e avesse intenzione di usarti
come capro espiatorio: non si sarebbe comportato
esattamente così?».
«È una teoria elegante» ho detto. «Marriott mi ha colpito,
ha preso i soldi, ma poi gli è dispiaciuto e si è aperto il
cranio con le sue stesse mani, non senza aver prima sepolto
i soldi sotto un cespuglio».
Randall mi ha guardato con una faccia di legno. «Aveva
un complice, ovviamente. E il complice, secondo i piani,
doveva stordirvi tutt’e due e poi filarsela coi soldi. Solo che
il complice ha tradito Marriott, uccidendolo. Non aveva
bisogno di uccidere anche te, visto che tu non lo
conoscevi».
Ero ammirato. Ho spento il mozzicone in un portacenere
di legno che un tempo doveva avere avuto un profilo in
vetro, ormai scomparso.
«Si adatta ai fatti... quelli che conosciamo, almeno» ha
detto Randall, calmo. «Non è la teoria più assurda che
potremmo concepire, al momento».
«C’è una cosa che non quadra: il fatto che chi mi ha
colpito si trovasse a bordo dell’auto. O no? Se anche tutto il
resto fosse andato come dici, io avrei potuto sospettare di
Marriott. Ma poi, certo, quando l’ho visto morto, di sospetti
non ne ho più avuti».
«Il modo in cui sei stato colpito quadra più di tutto il
resto. Tu non avevi detto a Marriott di essere armato, ma
lui potrebbe avere notato qualcosa sotto l’ascella, o anche
solo sospettato che avessi una pistola. In tal caso, è
normale che ti abbia colpito proprio quando non sospettavi
nulla. E dal sedile posteriore dell’auto non pensavi di certo
che potessero arrivare minacce».
«Giusto. Hai vinto. È un’ottima teoria, sempre
ammettendo che i soldi non fossero di Marriott, che volesse
rubarli e che avesse un complice. Il suo piano, insomma,
prevedeva che ci svegliassimo tutt’e due con un bernoccolo
e senza soldi, al che ci saremmo dispiaciuti un po’ e io me
ne sarei tornato a casa, dimenticandomi di tutto. È così che
finisce? Cioè, era così che secondo lui doveva finire?
Dev’essere sembrata una buona idea anche a lui, eh?».
Randall ha sorriso beffardo. «A me non piace. È solo
un’ipotesi. Si adatta ai fatti... per quel che ne so, che non è
poi tanto».
«Non abbiamo abbastanza elementi neanche per fare
ipotesi» ho detto. «Perché escludere che abbia detto la
verità, e che poi magari abbia riconosciuto uno dei
rapinatori?».
«L’hai detto tu che non hai sentito rumori né grida».
«Sì, ma potrebbero averlo preso alla sprovvista, alla gola.
O forse, quando gli sono saltati addosso, si è preso un tale
spavento da non riuscire a gridare. Supponiamo che
fossero appostati dietro i cespugli e mi abbiano visto
scendere verso il fondo del canyon. Avrò fatto almeno
trenta metri. Si avvicinano all’auto e vedono che dentro c’è
Marriott. Gli puntano la pistola in faccia e gli fanno segno
di scendere, in silenzio. A quel punto lo manganellano. Ma
da qualcosa che ha detto, o magari da come lo ha detto, si
convincono che Marriott abbia riconosciuto qualcuno».
«Al buio?».
«Sì. Dev’essere successo qualcosa del genere. Certe voci
ti restano in testa. La gente si riconosce anche al buio».
Randall ha scosso la testa. «Una banda di ladri di gioielli
come si deve non uccide, se non in caso di gravi
provocazioni». Si è fermato. Gli si sono velati gli occhi. Ha
richiuso lentamente le labbra fino a serrarle. Gli era venuta
un’idea. «Lo hanno fregato».
Ho annuito. «Direi che è una possibilità».
«C’è un’altra cosa» ha detto lui. «Come sei arrivato fin
qui?».
«In macchina».
«Dove ce l’avevi?».
«A Montemar Vista, nel parcheggio vicino al bar».
Mi ha guardato con una punta di sospetto. Anche i due
armadi, con qualcosa di più. L’ubriaco in cella ha azzardato
uno jodel, ma la voce gli si è rotta, e questo lo ha
scoraggiato fino a farlo piangere.
«Sono tornato a piedi sulla strada principale» ho
continuato. «Ho fermato un’auto. Alla guida c’era una
ragazza che viaggiava da sola. Si è fermata e mi ha dato un
passaggio».
«Però» ha detto Randall. «Una ragazza sola a notte fonda,
su una strada deserta, e si è fermata».
«Sì, ci sono ragazze così. Non ho avuto modo di
conoscerla bene, ma sembrava simpatica». Li fissavo.
Sapevo che non mi avrebbero creduto, e si sarebbero
chiesti perché stessi mentendo.
«Era un’auto piccola» ho detto. «Una Chevy coupé. Non
ho preso il numero di targa».
«Non ha preso il numero di targa» ha detto uno degli
armadi, sputando di nuovo nel cestino.
Randall si è sporto in avanti, piantandomi gli occhi
addosso. «Se mi stai nascondendo qualcosa con l’intenzione
di indagare su questo caso per farti un po’ di pubblicità,
lascia perdere, Marlowe. Ci sono aspetti della tua versione
che non mi convincono, quindi ti lascio la nottata per
pensarci su. È probabile che domani ti chieda una
testimonianza giurata. Nel frattempo, permettimi di darti
un consiglio. Questo è un caso di omicidio, e se ne occupa
la polizia. Non vorremmo il tuo aiuto neanche se ci fosse
utile. Da te non vogliamo altro che fatti. Mi sono
spiegato?».
«Certo. Posso andare a casa, ora? Non mi sento un
granché».
«Puoi andare a casa». Aveva gli occhi di ghiaccio.
Mi sono alzato diretto alla porta, in un silenzio di tomba.
Dopo avermi fatto fare quattro passi, Randall si è schiarito
la voce: «Ah, un’ultima piccola cosa. Hai mica notato che
sigarette fumava Marriott?».
Mi voltai. «Sì. Erano marroni. Sudamericane. Le teneva in
un portasigarette francese smaltato».
Ha pescato dal mucchio di roba sulla scrivania il
portasigarette ricamato, tirandolo verso di sé.
«Questo l’hai visto?».
«Sì, lo vedo, ora».
«In precedenza, dico».
«Credo di sì. Posato da qualche parte. Perché?».
«Non hai perquisito il cadavere?».
«Va bene, lo ammetto, gli ho frugato nelle tasche. E in
una c’era quello. Mi spiace. Semplice curiosità
professionale. Non ho messo niente fuori posto. In fondo,
era un mio cliente».
Randall ha preso a due mani il portasigarette ricamato, e
lo ha aperto. Era vuoto. Le tre sigarette erano sparite.
Ho serrato i denti, tentando di mantenere la mia
espressione stanca. Non facile.
«L’hai visto fumare sigarette prese da qui?».
«No».
Randall ha annuito, impassibile. «È vuoto, come vedi.
Però ce l’aveva in tasca. Ci sono dei rimasugli. Li farò
esaminare al microscopio. Non ne sono certo, ma ho una
mezza idea che si tratti di marijuana».
«Posto che le avesse con sé, questa era la serata giusta
per fumarsene un paio. Aveva bisogno di qualcosa che lo
tirasse su».
Randall ha richiuso con cura il portasigarette,
spingendolo lontano.
«È tutto. Ma non ficcare il naso dove non devi».
Sono uscito.
La nebbia si era dissolta, e le stelle brillavano come
lucine artificiali cromate su un cielo di velluto nero.
Guidavo veloce. Dovevo bere, e i bar erano chiusi.
13

Mi sono alzato alle nove, ho bevuto tre tazze di caffè, ho


messo la nuca sotto l’acqua gelata e letto i due giornali del
mattino che erano stati lasciati davanti alla porta del mio
appartamento. Nella cronaca locale c’era un trafiletto, un
paragrafo o poco più, che parlava di Moose Malloy, ma
Nulty non veniva menzionato. Su Lindsay Marriott, invece,
nulla. A meno che non fosse nella pagina degli eventi
mondani.
Mi sono vestito, ho mangiato due uova alla coque, bevuto
una quarta tazza di caffè e mi sono guardato allo specchio.
Ancora un po’ di occhiaie. Avevo già aperto la porta per
uscire quando ha squillato il telefono.
Era Nulty. Furioso.
«Marlowe?».
«Sì. L’avete preso?».
«Ah, certo. L’abbiamo preso». Si è interrotto per ringhiare
meglio. «Al confine della contea di Ventura, come dicevo.
C’è stato da divertirsi. Due metri di altezza, corporatura da
armadio a sei ante, diretto a San Francisco per incontrare
la Fata. Era su un’auto presa a nolo, con una bottiglia
ancora chiusa, sul sedile accanto a sé, e un’altra aperta da
cui stava bevendo, tranquillo come una pasqua a centoventi
all’ora. Per fermarlo avevamo solo due agenti della contea
con pistole e manganelli».
Ha fatto una pausa, durante la quale ho pensato a
qualcosa di spiritoso da dire, ma non mi è venuto in mente
nulla all’altezza. Così ha ripreso: «Insomma, ha fatto un po’
di esercizio coi due poliziotti. Poi, quando questi hanno
deciso che era ora di andare a letto, lui gli ha divelto una
portiera, ha scaraventato la radio in un fosso, ha aperto
un’altra bottiglia e si è addormentato. Dopo un po’ i due si
sono ripresi e lo hanno manganellato per dieci minuti,
senza che lui nemmeno se ne accorgesse. Quando ha
cominciato a lamentarsi, lo hanno ammanettato. È stato
facile. È al fresco, adesso: guida in stato di ebbrezza,
resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale nell’esercizio
delle funzioni, con tentativo di fuga e aggressione senza
lesioni personali, danneggiamento volontario, disturbo
della quiete pubblica e sosta in divieto su una strada
statale. Divertente, eh?».
«In che senso? Cosa stai cercando di dirmi?».
«Che non era lui». Schiumava. «Il fringuello si chiama
Stoyanoffsky, abita a Hemet e aveva appena finito di
lavorare al tunnel di San Jacinto. Ha moglie e quattro figli.
Cristo, dovresti sentirla. Che cos’hai intenzione di fare per
la faccenda di Malloy?».
«Niente. Ho mal di testa».
«Se dovesse capitarti di avere del tempo libero...».
«Non credo. Grazie lo stesso. Quand’è che ci sarà
un’inchiesta sul nero ammazzato?».
«A chi vuoi che freghi?» ha detto con un ghigno. E ha
riattaccato.
Ho preso la macchina e, dopo aver percorso un tratto
dell’Hollywood Boulevard, ho parcheggiato nell’apposito
spazio accanto al palazzo del mio ufficio. Al piano ho spinto
la porta della piccola anticamera che lascio sempre aperta,
casomai arrivino clienti disposti ad aspettare.
Miss Anne Riordan ha alzato gli occhi da una rivista e mi
ha sorriso.
Indossava un completo color tabacco con sotto un
maglioncino bianco a collo alto. I capelli, alla luce del
giorno, erano rame purissimo, ed erano sormontati da un
cappello la cui sommità era grande quanto un bicchiere da
whisky, mentre la tesa era tanto larga da poterci avvolgere
il bucato di una settimana. Lo portava inclinato a circa
quarantacinque gradi, così che il bordo della tesa le
toccava quasi la spalla. Nonostante questo, o forse proprio
per questo, le stava benissimo.
Avrà avuto ventotto anni. La fronte era stretta e più alta
dello standard di eleganza allora in voga. Il naso era
piccolo e indagatore. Il labbro superiore forse un filo troppo
lungo, la bocca più di un filo troppo larga. Gli occhi erano
grigio-azzurri, con scaglie dorate. Un bel sorriso. Dava
l’impressione di aver dormito bene. Aveva una faccia
carina, una faccia che finisce per piacere. Bella, ma non da
doversi portar dietro il tirapugni ogni volta che si esce.
«Non sapevo che orario facessi, perciò ho aspettato. La
tua segretaria dev’essersi presa una giornata libera».
«Non ho una segretaria».
Attraversata l’anticamera e aperta la porta interna, ho
messo in funzione il campanello di quella esterna.
«Andiamo nel mio pensatoio privato».
Mi è passata davanti con una vaga fragranza di sandalo
extra-dry. Si è fermata a guardare i cinque schedari verdi,
lo scialbo tappeto color ruggine, la mobilia mezzo
impolverata e le tende non troppo pulite.
«Direi che avresti bisogno di qualcuno che risponde al
telefono per te» ha detto. «E che ogni tanto mandi le tende
in lavanderia».
«Ce le mando a ottobre. Prego. Magari mi perdo qualche
lavoro poco importante, ma risparmio un mucchio di
scarpinate, per non parlare dei soldi».
«Capisco» ha detto lei, timida, posando una grande borsa
di camoscio su un angolo della scrivania col piano ricoperto
di vetro. Si è appoggiata all’indietro e ha preso una delle
mie sigarette. Mi sono ustionato un dito con un cerino, per
accendergliela.
Ha sbuffato un ventaglio di fumo, sorridendo tra le volute.
Bei denti, grandi.
«Forse non ti aspettavi di rivedermi così presto. Come va
la testa?».
«Non tanto bene. In effetti, non me l’aspettavo».
«Sono stati carini, i poliziotti?».
«Più o meno come sempre».
«Non ti sto distogliendo da impegni importanti, vero?».
«No».
«Eppure non sembri troppo felice di vedermi».
Ho caricato una pipa allungandomi verso il pacchetto di
fiammiferi. L’ho accesa con cura. Lei mi ha osservato con
aria di approvazione. I fumatori di pipa sono uomini
affidabili. Sarebbe rimasta delusa da me.
«Ho cercato di tenerti fuori da questa storia» ho detto.
«Non so perché, di preciso. In ogni caso, non riguarda più
neanche me. Ho subito la mia umiliazione, stanotte, e mi
sono stampato a letto con una bottiglia. Adesso se ne
occupa la polizia: mi hanno suggerito di non ficcare il
naso».
«Mi hai tenuta fuori» ha detto con calma «perché pensavi
che la polizia non ci avrebbe creduto, che ieri sera ero in
fondo a quella conca per pura curiosità. Avrebbero
sospettato qualcosa e mi avrebbero torchiata fino a ridurmi
uno straccio».
«Chi ti dice che non abbia anch’io qualche sospetto?».
«I poliziotti sono persone come le altre» ha buttato lì.
«Sì, quando cominciano. Così si dice, almeno».
«Ah... Ci siamo svegliati cinici, stamattina». Ha dato
un’occhiata in giro, indolente ma minuziosa. «Te la cavi
bene, qui? Dal punto di vista finanziario, intendo. Insomma,
tiri su abbastanza, con questo tipo di arredi?».
Ho grugnito.
«Dici che è meglio se mi occupo degli affari miei invece di
fare domande impertinenti?».
«Ci riusciresti, sforzandoti?».
«Adesso siamo in due, a farlo. Di’ un po’: perché mi hai
coperta, stanotte? C’entra col fatto che ho i capelli rossi e
una bella presenza?».
Non ho commentato.
«Proviamo in quest’altro modo» ha detto lei, divertita. «Ti
piacerebbe sapere a chi appartiene la collana di giada?».
Ho sentito la faccia irrigidirmisi. Ho tentato di ricostruire,
ma non ricordavo con precisione. Poi, però, all’improvviso i
dubbi si sono dissolti. Non gliel’avevo neanche mai
nominata, la collana di giada.
Mi sono allungato per prendere i fiammiferi e riaccendere
la pipa. «Non particolarmente. Perché?».
«Perché io lo so».
«A-ha».
«Quando diventi loquace cosa fai? Muovi le dita dei
piedi?».
«Va bene. Sei venuta qui per dirmelo. Allora forza,
dimmelo».
Ha spalancato quegli occhi azzurri, che per un attimo mi
sono sembrati un po’ lucidi. Continuando a fissare la
scrivania si è presa il labbro inferiore tra gli incisivi. Poi si
è stretta nelle spalle e lo ha lasciato andare, sorridendomi
con aria sincera.
«Sì, lo so, sono una ragazzetta un po’ troppo curiosa, ma
ce l’ho nel sangue. Mio padre era un poliziotto. Si chiamava
Cliff Riordan, ed è stato per sette anni il capo della polizia
di Bay City. Credo che il problema sia questo».
«Mi pare di ricordare. Che cosa gli è capitato?».
«Lo hanno fatto fuori. E lui ne ha sofferto. Il racket del
gioco d’azzardo, capeggiato da un certo Laird Brunette, si è
eletto il sindaco che voleva. Papà lo hanno trasferito
all’archivio anagrafico, che a Bay City ha le dimensioni di
una bustina di tè. A quel punto si è dimesso, ha tirato
avanti un paio di anni e poi è morto. Mia madre è morta
subito dopo di lui. E così sono sola da due anni».
«Mi dispiace».
Ha spento la sigaretta, senza lasciare rossetto sul filtro.
«Ti annoio con questa storia solo perché spiega come mai
ci capiamo, io e i poliziotti. Forse avrei dovuto dirtelo già
ieri sera. Stamattina, insomma, ho scoperto a chi era stato
affidato il caso e sono andata a trovarlo. Era un po’
arrabbiato con te, all’inizio».
«Fa niente. Non mi avrebbe comunque creduto, neanche
se gli avessi detto tutto. Si limiterà a staccarmi a morsi un
orecchio».
Forse si era offesa. Mi sono alzato per aprire la finestra.
Dal boulevard il rumore del traffico arrivava a ondate,
come la nausea. Mi sentivo uno schifo. Ho aperto l’ultimo
cassetto della scrivania. La bottiglia dell’ufficio era lì, ne ho
approfittato.
Miss Riordan disapprovava. Non ero più un uomo
affidabile. Però non ha detto nulla. Dopo aver bevuto e
rimesso via la bottiglia, mi sono seduto.
«Non me ne hai offerto».
«Scusami. Sono solo le undici di mattina. Non mi parevi il
tipo».
Le si sono arricciati gli angoli degli occhi. «È un
complimento?».
«Nel mio giro sì».
Ci ha pensato un po’ su, senza sapere come prenderla. E
neanch’io, a pensarci bene. Il drink, però, mi aveva fatto
sentire molto meglio.
Si è sporta in avanti, strofinando i guanti sul vetro della
scrivania. «Non ti va di assumere una segretaria, vero?
Neanche se ti costasse soltanto una parola gentile ogni
tanto?».
«No».
Ha annuito. «Lo immaginavo. Va bene: ti dico quel che so
e poi me ne torno a casa».
Io non ho detto nulla, ho solo riacceso la pipa. È un gesto
che ti fa sembrare riflessivo, anche quando non stai
riflettendo.
«Per cominciare, ho pensato che su una collana come
quella, praticamente un pezzo da museo, qualcuno doveva
sapere qualcosa».
Ho tenuto il fiammifero acceso a mezz’aria, guardando la
fiamma avvicinarsi alle mie dita. Poi l’ho spento con un
soffio e l’ho lasciato cadere nel portacenere: «Io non ho mai
parlato di collane».
«Tu no, ma il viceispettore Randall sì».
«Qualcuno dovrebbe cucirgli dei bottoni sulla faccia».
«Conosceva mio padre. E io gli ho promesso di non
parlarne con nessuno».
«Però ne stai parlando con me».
«Tu lo sapevi già, stupidino».
Ha sollevato una mano di scatto, come per portarsela
davanti alla bocca, ma a metà strada l’ha lasciata ricadere
lentamente, sgranando gli occhi. Bella sceneggiata, se solo
non avessi saputo qualcosa che la rendeva poco plausibile.
«Tu lo sapevi, vero?». Era passata al sussurro.
«Credevo si trattasse di diamanti. Un braccialetto, un
paio di orecchini, un pendente, tre anelli, uno dei quali con
smeraldo».
«Non fa ridere. E non sei stato abbastanza rapido».
«Giada Fei Tsui. Molto rara. Sessanta perle, intagliate, da
circa sei carati l’una. Per un valore sugli ottantamila
dollari».
«Che begli occhi che hai. Castani. E credi di essere un
duro».
«Allora, a chi appartiene? E come l’hai scoperto?».
«È stato facile. Ho pensato che il gioielliere più noto in
città dovesse saperne qualcosa, così sono andata da Block’s
e ho chiesto al direttore. Mi sono spacciata per una
giornalista che doveva scrivere un articolo sui tipi di giada
più rari. Hai presente come si fa, no?».
«E lui ha creduto ai tuoi capelli rossi e alla tua bella
presenza».
Lei è avvampata, fino alle tempie. «Be’, sta di fatto che
me l’ha detto. La collana appartiene a una ricca signora di
Bay City, che abita in una tenuta sul canyon: Mrs. Lewin
Lockridge Grayle. Il marito ha una banca d’investimento o
qualcosa del genere: è incredibilmente ricco, un patrimonio
stimato sui venti milioni. Un tempo aveva una stazione
radio a Beverly Hills, la KFDK, e Mrs. Grayle lavorava lì.
Sono sposati da cinque anni. Lei è una bionda da paura. Mr.
Grayle è più anziano, se ne sta a casa e prende il
calomelano, mentre Mrs. Grayle va in giro a divertirsi».
«Uomo di mondo, il direttore di Block’s, eh?».
«Oh, non è stato lui a dirmi tutte queste cose. Solo della
collana, stupidino. Il resto l’ho saputo da Giddy Gertie
Arbogast».
Ho allungato la mano verso l’ultimo cassetto. Urgeva un
rinforzo.
«Non è che finisci per diventarmi il solito detective
alcolizzato?» mi ha chiesto ansiosa.
«Perché no? Risolvono i casi senza versare una stilla di
sudore. Va’ avanti».
«Giddy Gertie è il caporedattore della pagina mondana
del “Chronicle”. Lo conosco da anni. Pesa un quintale e
sfoggia baffetti alla Hitler. Ha tirato fuori dal suo archivio il
dossier sui Grayle. Guarda».
Ha estratto dalla borsa una stampa dieci per quindici.
Era una bionda. Una bionda di quelle che potrebbero
indurre un vescovo a prendere a calci le vetrate della
chiesa. Indossava abiti da passeggio che parevano bianchi
e neri e un cappello in tinta, e aveva l’aria di tirarsela, ma
non troppo. Di qualunque cosa uno potesse aver bisogno,
comunque, lei ce l’aveva. Sulla trentina.
Mi sono versato un drink veloce, e a momenti mi brucio la
gola. «Metti via quella foto» ho detto. «Altrimenti comincio
a saltare».
«In che senso? L’ho presa per te. Vorrai incontrarla, no?».
Ho dato un’altra occhiata alla foto, prima di coprirla col
sottomano. «Potremmo fare per stasera alle undici».
«Sta’ a sentire, Marlowe, questa non è un’antologia di
battute comiche. Le ho telefonato. È disposta a incontrarti.
Per affari».
«Magari si comincia così, e poi...».
Ho visto che stava perdendo la pazienza, così ho smesso
di scherzare e ho preso la mia aria truce, da battaglia. «E
per quali affari vorrebbe incontrarmi?».
«Per la collana, ovviamente. È andata così. Le ho
telefonato, e ho fatto una gran fatica per riuscire a parlare
con lei, ovviamente, ma alla fine ci sono riuscita. Le ho
rifilato la stessa solfa che si era bevuto il gentilissimo
direttore di Block’s, ma non ha attaccato. Ho avuto
l’impressione che si stesse riprendendo da una sbronza.
Farfugliando, mi ha detto di parlare con la sua segretaria,
ma io sono riuscita a tenerla al telefono e le ho domandato
se fosse vero che possedeva una collana di giada Fei Tsui.
Dopo qualche esitazione, lo ha ammesso. A quel punto le ho
chiesto di mostrarmela, e lei ovviamente ha voluto sapere
perché. Le ho ripetuto la manfrina, ma non è andata meglio
della prima volta. La sentivo sbadigliare, dopo di che,
allontanando la cornetta dalla bocca, se l’è presa con chi le
aveva passato la telefonata. Lì le ho detto che lavoravo per
Philip Marlowe. E lei: “E allora?”. Testuali parole».
«Incredibile. È proprio vero che al giorno d’oggi anche le
signore perbene parlano come quelle di strada».
«Non saprei» ha detto suadente Miss Riordan.
«Probabilmente alcune sono di strada. Comunque, le ho
domandato se aveva un telefono diretto, e lei mi ha chiesto
perché glielo chiedevo. La cosa buffa, però, è che non ha
riagganciato».
«Stava pensando alla collana di giada, non capiva dove
volessi andare a parare. Inoltre, magari, Randall si era già
fatto vivo con lei».
Ha scosso la testa. «No, l’ho chiamato, dopo, e lui ha
scoperto di chi era la collana solo quando gliel’ho detto io.
Era decisamente sorpreso che l’avessi scoperto».
«Finirà per abituarcisi. Non ha scelta. E poi?».
«A Mrs. Grayle ho detto: “È sempre interessata a
rientrarne in possesso, vero?”. Testuali parole. Non sapevo
come altro mettergliela. Dovevo dire qualcosa che la
scuotesse un po’. E ho fatto centro. Mi ha dato subito un
altro numero. L’ho chiamata e le ho detto che mi sarebbe
piaciuto incontrarla. Siccome non capiva, le ho dovuto
raccontare tutta la storia, che non le è piaciuta. Ha detto
che si era domandata come mai Marriott non si fosse più
fatto sentire. Probabilmente, pensava se la fosse filata in
Messico coi soldi, o qualcosa del genere. Insomma, la vedo
oggi alle due. Intendo parlarle di te e dirle quanto sei
carino e discreto, e che secondo me sei l’uomo giusto per
aiutarla a recuperare la collana, ammesso che sia possibile,
eccetera eccetera. È già interessata».
Non ho aperto bocca, l’ho soltanto fissata. Sembrava di
nuovo offesa. «Cosa c’è? Ho fatto male?».
«Vuoi capirlo o no che il caso è ormai nelle mani della
polizia e che mi hanno intimato di tenermi alla larga?».
«Mrs. Grayle ha tutto il diritto di assumerti, se vuole».
«Per fare cosa?».
Ha chiuso e riaperto più volte la borsa, impaziente. «Oh,
santo cielo... una donna come quella... che si presenta
così... non capisci?». Si è fermata per mordicchiarsi un
labbro. «Che tipo d’uomo era Marriott?».
«L’avevo appena conosciuto. Mi è sembrato un po’ una
mammola. Non tanto simpatico».
«Ma attraente?».
«Per certe donne, magari. Ad altre avrebbe fatto schifo».
«Be’, per Mrs. Grayle credo fosse attraente, visto che ci
usciva».
«Mrs. Grayle esce probabilmente con un centinaio di
uomini. Sarà molto difficile recuperare la collana, a questo
punto».
«Perché?».
Mi sono alzato, sono andato in fondo all’ufficio e ho tirato
una gran manata contro la parete. La macchina da scrivere,
al di là del muro, ha smesso per un attimo di ticchettare.
Ma giusto un attimo. Mi sono affacciato alla finestra per
guardare il cavedio che separava il mio palazzo dal
Mansion House Hotel. L’odore di caffè era abbastanza forte
da poterci costruire su un garage. Sono tornato alla
scrivania, ho messo via la bottiglia, richiuso il cassetto e
guardato con attenzione, al di sopra del piano di vetro
impolverato, il faccino serio e onesto di Miss Riordan.
Poteva finire per piacere anche un bel po’, quella faccia.
Le bionde in ghingheri si sprecavano, ma quella era una
faccia che durava nel tempo. Le ho sorriso.
«Ascolta, Anne. Uccidere Marriott è stato un errore
stupido. La banda che ha organizzato la rapina non avrebbe
mai agito così. Un pivello strafatto che si saranno portati
dietro come guardaspalle avrà dato di matto. Marriott ha
fatto una mossa falsa, e un balordo gli ha spaccato la testa,
così all’improvviso che nessuno è potuto intervenire. Questi
sono gangster organizzati, con informazioni riservate sui
gioielli e sui movimenti delle donne che li indossano.
Chiedono riscatti moderati: è gente che sta alle regole. E
invece abbiamo un omicidio da bassifondi che non quadra
per niente. Secondo me l’assassino, chiunque sia, ora si
trova sul fondo del Pacifico con dei pesi alle caviglie. E la
giada potrebbe avercelo accompagnato, a meno che i
rapinatori non fossero al corrente del suo reale valore, nel
qual caso l’avranno nascosta in un posto sicuro, dove
rimarrà per un bel pezzo. Magari passeranno anni, prima
che trovino il coraggio di ritirarla fuori. Oppure, se la
banda è abbastanza strutturata, la collana ricomparirà
dall’altra parte del mondo. Gli ottomila dollari che hanno
chiesto sono una bazzecola, se davvero conoscono il valore
di quella giada. Ma è anche vero che voglio vederli, a
venderla. Di una cosa sono sicuro, però: non intendevano
ammazzare nessuno».
Anne mi ascoltava con la bocca leggermente schiusa e
un’espressione rapita, neanche avesse di fronte il Dalai
Lama.
Ha richiuso la bocca lentamente e ha annuito, una sola
volta. «Sei meraviglioso» ha detto con dolcezza. «Ma
completamente pazzo».
Si è alzata in piedi e ha preso la borsa. «La incontrerai o
no?».
«Randall non può impedirmelo, se me lo chiede lei».
«D’accordo. Sto andando a un appuntamento con un altro
giornalista mondano per raccogliere più informazioni sui
Grayle, se possibile. Sulla vita amorosa di lei. Ne avrà una,
no?».
Il viso incorniciato dai capelli ramati aveva un’aria
pensierosa.
«Chi non ce l’ha?» ho detto, sarcastico.
«Io non l’ho mai avuta. Niente di serio, almeno».
Ho alzato una mano per chiudermi la bocca. Con
un’occhiataccia, Anne si è avviata alla porta.
«Hai dimenticato qualcosa».
Si è voltata. «Cosa?». Guardava la scrivania.
«Lo sai benissimo».
È tornata alla scrivania e ci si è sporta sopra, seria. «Se
non sono assassini, perché mai dovrebbero eliminare
l’uomo che ha ammazzato Marriott?».
«Perché doveva essere il classico tipo che, una volta
preso, avrebbe cantato, se solo gli avessero tolto la droga.
Quello che intendevo dire è che non ucciderebbero mai un
cliente».
«Come fai a essere così sicuro che l’assassino fosse un
drogato?».
«Non ne sono sicuro. È un’ipotesi. Quasi tutti i balordi si
drogano».
«Ah». Si era raddrizzata, con un sorriso. «Immagino
alludessi a queste». Lo ha detto infilando svelta una mano
nella borsa. Ha tirato fuori un piccolo involto fatto con la
carta velina, che poi ha gettato sulla scrivania.
Ho tolto l’elastico che lo teneva chiuso e l’ho srotolato.
Dentro c’erano tre lunghe sigarette russe col filtro in
cartoncino. L’ho guardata senza dire niente.
«So che non avrei dovuto portarle via» ha detto lei, quasi
senza prendere fiato. «Però lo sapevo che erano spinelli. Di
solito sono fatti con semplici cartine, ma da qualche tempo,
dalle parti di Bay City, li spacciano anche così. Ne avevo già
visti. Non mi andava che quel poveraccio fosse ritrovato
morto con le tasche piene di marijuana».
«Avresti dovuto prendere anche la custodia. C’erano dei
rimasugli, all’interno. E il fatto che fosse vuota ha destato
sospetti».
«Non potevo: c’eri lì anche tu. Io... ho pensato di tornare
indietro a prenderla, ma non ne ho avuto il coraggio. Ti ha
dato problemi?».
«No, ho mentito. Nessun problema».
«Mi fa piacere» ha detto lei, assorta.
«Perché non le hai buttate via?».
Ci ha pensato su un attimo, stringendo un fianco della
borsa, con la tesa di quel cappello assurdo che le
nascondeva un occhio.
«Forse perché sono figlia di un poliziotto» ha detto a un
certo punto. «Non si eliminano le prove». Aveva un sorriso
fragile e colpevole, e le guance appena un po’ arrossite. Ho
scrollato le spalle.
«Be’...». L’esclamazione è fluttuata nell’aria, come fumo in
una stanza chiusa. L’ho lasciata fluttuare. Le labbra da cui
era sfuggita sono rimaste aperte per un po’. Le guance
erano più rosse di prima.
«Mi spiace da morire. Non avrei dovuto farlo».
Ho lasciato passare anche questa.
E lei, svelta, è uscita.
14

Ho rigirato con un dito una delle lunghe sigarette russe,


per poi allinearle l’una accanto all’altra, facendo stridere il
cuoio della mia poltroncina. Non si eliminano le prove.
Erano prove, dunque: ma di cosa? Del fatto che un uomo
ogni tanto si fumava una canna, un uomo attratto da tutto
ciò che aveva un tocco esotico. D’altra parte, la marijuana
la fumavano anche i malavitosi, e tanti musicisti e liceali e
brave ragazze che si erano arrese. Hashish americano.
Un’erba che cresce dappertutto. Illegale da coltivare,
ormai. Ma figurarsi se questo conta qualcosa, in un paese
grande come gli Stati Uniti.
Lì seduto, aspiravo dalla pipa ascoltando il ticchettio della
macchina da scrivere oltre la parete e il dong-dong dei
semafori che scattavano sull’Hollywood Boulevard e la
primavera che frusciava nell’aria, come un sacchetto di
carta sospinto dal vento su un marciapiede d’asfalto.
Erano grosse, per essere sigarette, ma non è così raro
con le sigarette russe. Inoltre, la marijuana è una pianta a
foglia ruvida. Canapa indiana. Hashish americano. Prove.
Cristo, che cappelli portano le donne! Mi faceva male la
testa. Completamente pazzo.
Ho preso il mio coltellino e mi sono messo al lavoro con la
piccola lama affilata, non quella con cui pulivo la pipa. Da lì
avrebbe cominciato un chimico della polizia: ne avrebbe
aperta una per esaminare il contenuto al microscopio.
Poteva sempre esserci qualcosa di insolito. Improbabile, ma
va be’, tanto lo stipendio a fine mese l’avrebbe preso lo
stesso.
Ne ho aperta una per il lungo. Tagliare il filtro non era
uno scherzo, d’accordo, ma sono un duro. Se non ci
credete, provate a fermarmi.
Il filtro si è srotolato parzialmente, mostrando diversi
pezzi di un sottile cartoncino arrotolato con stampato sopra
qualcosa. Mi sono tirato su e ho cominciato a maneggiarli.
Cercavo di appiattirli sulla scrivania e metterli in ordine,
ma scivolavano da tutte le parti. Ho preso un’altra delle
sigarette e ho provato a guardare all’interno del filtro. Mi
sono rimesso al lavoro col coltellino, ma cambiando
metodo. Ho preso tra indice e pollice la sigaretta all’inizio
del filtro. La cartina era sottile, e sotto, al tatto, si sentiva
la consistenza dell’erba. Ho staccato con cura il filtro e l’ho
tagliato con estrema attenzione per il lungo, il minimo
necessario. Quando si è srotolato, ho visto che era fatto con
un altro biglietto da visita: intatto, stavolta.
L’ho aperto con la massima delicatezza. Era il biglietto da
visita di un uomo. Sottile, color avorio chiaro, quasi bianco.
C’erano incise parole graziosamente ombreggiate.
Nell’angolo in basso a sinistra, un numero di telefono di
Stillwood Heights. Nell’angolo in basso a destra, la
dicitura: «Solo su appuntamento». Al centro, in corpo più
grande, ma neanche troppo: «Jules Amthor», e sotto, un po’
più piccolo: «Esperto in parapsicologia».
Ho preso la terza sigaretta. Questa volta sono riuscito a
estrarre il filtro senza tagliare niente. Era identico agli
altri. L’ho rimesso al suo posto.
Ho guardato l’orologio, posato la pipa nel portacenere, e
guardato di nuovo l’orologio. Quindi ho impacchettato le
due sigarette rotte, con i pezzetti di cartoncino, in una
parte della carta velina, e la sigaretta ancora intera, filtro
incluso, nella parte restante. Poi ho chiuso entrambi i
pacchetti in un cassetto della scrivania.
Mi sono seduto a esaminare il biglietto da visita. Jules
Amthor. Esperto in parapsicologia. Solo su appuntamento.
Numero telefonico di Stillwood Heights, senza indirizzo.
Tre biglietti da visita identici arrotolati a mo’ di filtro
dentro altrettanti spinelli, tenuti in un portasigarette
rivestito di seta ricamata, cinese o giapponese, dalla
struttura in finta tartaruga: un articolo che poteva costare
dai trentacinque ai settantacinque centesimi in qualsiasi
negozio orientale, tipo Hooey Phooey Sing, Long Sing Tung
o qualcosa del genere, dove un giappo tutto educato parla
sussurrando e, quando gli dici che l’incenso Moon of Arabia
ha l’odore delle ragazze che frequentano la sala sul retro
da Sadie’s a San Francisco, ride come un matto.
Il tutto nella tasca di un uomo decisamente morto, che le
sigarette da fumare le teneva in un altro portasigarette,
molto prezioso.
Doveva essersele dimenticate. Quella cosa non aveva
senso. Forse non era nemmeno roba sua. Forse aveva
trovato il portasigarette nell’atrio di un hotel, e si era
dimenticato di averlo, o di consegnarlo alla reception. Jules
Amthor, esperto in parapsicologia.
Ha squillato il telefono, e ho risposto distrattamente. La
voce all’altro capo aveva la durezza dei poliziotti quando
pensano di essere bravi. Era Randall. Non ha alzato la
voce. Era piuttosto il tipo gelido.
«Dunque non sapevi chi fosse, la ragazza di ieri sera, eh?
E ti ha dato un passaggio sulla strada principale, dove sei
arrivato a piedi. Sei un bel bugiardo, Marlowe».
«Magari hai una figlia, nel qual caso non saresti contento
di saperla in balìa di fotografi che spuntano dai cespugli e
le sparano i flash in faccia».
«Mi hai mentito».
«È stato un piacere».
È rimasto un attimo in silenzio, come se stesse prendendo
una decisione. «Lasciamo correre» ha detto. «L’ho
incontrata. È venuta qui e mi ha raccontato la sua versione.
È la figlia di un uomo che conoscevo e rispettavo».
«Lei ha raccontato a te, e tu hai raccontato a lei».
«Le ho raccontato qualcosa» ha detto, sempre più freddo.
«Ho i miei motivi, che poi sono gli stessi per cui ti sto
chiamando. Questa indagine si svolgerà in segreto.
Abbiamo l’occasione di smantellare una banda di ladri di
gioielli, e lo faremo».
«Ah, adesso cerchiamo una banda, per l’omicidio? Buono
a sapersi».
«A proposito, quella nel portasigarette coi draghi era
marijuana. Sei sicuro di non averlo visto fumare quella
roba?».
«Abbastanza sicuro. In mia presenza ha fumato solo le
altre. Ma non siamo stati insieme tutto il tempo».
«Capisco. Be’, non c’è altro. Ricordati di quello che ti ho
detto stanotte. Non farti venire idee su questo caso. La sola
cosa che vogliamo da te è il silenzio. Altrimenti...».
Ha fatto una pausa. Ho sbadigliato nel microfono.
«Ti ho sentito» ha sbottato. «Forse credi che nella mia
posizione io non possa fare niente. Ti sbagli. Una mossa
falsa, e ti sbatto dentro come testimone oculare».
«Vuoi dire che i giornali non verranno a sapere
dell’indagine?».
«Verranno a sapere dell’omicidio, ma non di quello che
c’è sotto».
«Certo, quello non lo sai neanche tu».
«Ti ho già avvertito due volte. Non ce ne sarà una terza».
«Certo che chiacchieri, per essere uno che ha tutti gli
assi in mano».
Mi è costato il telefono in faccia. Al diavolo, che ci
lavorasse lui, a quel caso.
Per sbollire ho fatto qualche giro dell’ufficio e mi sono
versato un altro bicchiere. Poi, stanco di guardare
l’orologio senza neanche vedere che ora fosse, sono tornato
alla scrivania.
Jules Amthor. Esperto in parapsicologia. Solo su
appuntamento. Con tempo e denaro a sufficienza avrebbe
trovato un rimedio per qualsiasi cosa, dal marito stufo
all’invasione delle cavallette. Doveva intendersene di storie
d’amore infelici, di donne che dormivano da sole
malvolentieri, di ragazzi e ragazze che avevano smesso di
mandare notizie a casa; doveva essere uno che consigliava
se vendere una proprietà o tenerla per un altro anno, se un
certo ruolo in un film avrebbe rischiato di pregiudicare
l’immagine di una star o viceversa ne avrebbe messo in
luce la versatilità. Doveva avere anche clienti maschi,
omoni virili che ruggivano come leoni nei rispettivi uffici,
ma che sotto il vestito erano pappemolli. Ma la sua
specialità dovevano essere le donne, grasse e ansimanti o
magre e focose, vecchie sognanti e giovani convinte di
soffrire del complesso di Elettra, donne di tutte le
dimensioni e forme ed età, ma con una cosa in comune: i
soldi. Niente turni all’ospedale della contea, per Mr. Jules
Amthor. Soldi a palate, per lui. Veniva mantenuto da ricche
mignotte, di quelle che senza sollecito non saldavano il
conto del lattaio.
Un artista della fregatura, uno spacciatore di fregnacce,
uno il cui biglietto da visita era stato usato come filtro per
delle sigarette di marijuana trovate addosso a un morto.
C’era da divertirsi. Ho chiesto al centralino di mettermi in
contatto con il numero di Stillwood Heights.
15

Ha risposto una voce di donna, una voce asciutta e roca


dall’accento straniero. «Allò».
«Posso parlare con Mr. Amthor?».
«Ah, temo di no. Mi spiace molto. Amthor non parla mai
al telefono. Io sono la sua segretaria. Vuole lasciargli un
messaggio?».
«Può darmi l’indirizzo? Vorrei incontrarlo».
«Ah, dunque si tratta di un consulto? Ne sarà ben felice,
ma è molto impegnato. Quando vorrebbe incontrarlo?».
«Subito. Oggi, a qualsiasi ora».
«Ah» ha detto la voce, rammaricata. «Oggi è impossibile.
La prossima settimana, magari? Mi faccia dare un’occhiata
all’agenda».
«Senta, lasci perdere l’agenda. Ha una matita?».
«Ma certo che ho una matita. Io...».
«Prenda nota. Mi chiamo Philip Marlowe. Il mio indirizzo
è 615 Cahuenga Building, Hollywood. È sull’Hollywood
Boulevard, vicino all’Ivar Avenue. Il mio numero di telefono
è Glenview 7537». Ho scandito bene le consonanti, e ho
atteso.
«D’accordo, Mr. Marlowe. Ho preso nota».
«Voglio incontrare Mr. Amthor per sapere di un certo
Marriott». Ho scandito di nuovo. «È molto urgente.
Questione di vita o di morte. Devo vederlo presto. P-r-e-s-t-
o. Prestissimo. Adesso, in pratica. Mi sono spiegato?».
«Lei parla in un modo molto strano» ha detto la voce
straniera.
«No» ho detto, afferrando la base del telefono e
scuotendola. «È tutto a posto. Parlo sempre così. È l’affare
in questione che è molto bizzarro. Sono sicuro che Mr.
Amthor vorrà incontrarmi. Sono un investigatore privato, e
preferisco non rivolgermi alla polizia senza aver prima
parlato con lui».
«Ah». La voce è diventata fredda come una cena in un
bar. «Lei è della polizia?».
«Stia a sentire. Ho detto che no, non sono della polizia.
Sono un investigatore privato. Confidenziale. Ma è
comunque una questione molto urgente. Mi richiamerà,
vero? Il mio numero di telefono l’ha preso?».
«Sì. Mr. Marriott... non sta bene?».
«Be’, diciamo che in forma non è. Dunque lo conosce?».
«Ma no. Lei ha parlato di una questione di vita o di morte.
Amthor cura molte persone...».
«Stavolta dovrà disdire qualche appuntamento» ho detto.
«Aspetto la sua chiamata».
Appena riagganciato ho ripreso la bottiglia. Mi sentivo
come se mi avessero passato nel tritacarne. Una decina di
minuti, ed ecco il telefono. Era la voce di prima: «Amthor la
incontrerà stasera alle sei».
«Benissimo. Indirizzo?».
«Manderà un’auto a prenderla».
«Posso venire con la mia. Mi dia...».
«Manderà un’auto» ha ripetuto la voce, di ghiaccio. E poi
un clic.
Ho guardato di nuovo l’orologio. Era più che ora di
pranzo. Dopo l’ultimo bicchiere avevo lo stomaco in
fiamme. E niente fame. Ho acceso una sigaretta. Sapeva di
uno straccio da idraulico. Dopo un cenno di saluto a Mr.
Rembrandt, dall’altra parte dell’ufficio, ho preso il cappello
e sono uscito. Il tempo di arrivare all’ascensore e mi ha
colpito un pensiero. Mi ha colpito senza ragione né senso,
come un mattone caduto dall’alto. Mi sono fermato
appoggiandomi al muro di marmo, mi sono calcato il
cappello in testa, e sono scoppiato a ridere.
Una ragazza, appena uscita dall’ascensore e pronta per
riprendere il lavoro, mi è passata accanto lanciandomi una
di quelle occhiate che ti smagliano la spina dorsale come
fosse una calza da donna. Le ho fatto un cenno e sono
rientrato in ufficio, dove ho chiamato un mio conoscente
che lavorava sui registri del catasto per una compagnia di
assicurazioni immobiliari.
«Riesci a risalire al nome del proprietario di una casa
sulla base del solo indirizzo?» gli ho chiesto.
«Certo. Abbiamo un indice che ci consente gli incroci.
Qual è l’indirizzo?».
«1644 West 54th Place. Mi piacerebbe sapere a chi è
intestata la casa».
«Ti richiamo. Lasciami il numero».
Neanche dieci minuti e mi ha richiamato.
«Hai carta e penna?» ha detto. «È l’ottavo lotto
dell’undicesimo isolato di Caraday’s Addition, nel
Maplewood Tract numero 4. La proprietà, a certe
condizioni, è intestata a Jessie Pierce Florian, vedova».
«Quali condizioni?».
«Tasse del secondo semestre, due bond decennali per
migliorie viarie, un bond per la manutenzione degli scarichi
pluviali, decennale anche quello, tutto in regola, e
un’ipoteca da duemilaseicento dollari».
«Una di quelle cose per cui possono sbatterti in mezzo a
una strada con un preavviso di dieci minuti?».
«Non così alla svelta, ma molto più alla svelta che con un
mutuo normale. Non ci sarebbe nulla di strano, non fosse
per quella cifra. È alta, per il quartiere, a meno che non sia
una casa nuova».
«È una casa vecchissima e fatiscente. Con
millecinquecento dollari te la compri, secondo me».
«Allora è davvero insolito, perché il rifinanziamento risale
ad appena quattro anni fa».
«Bene, e a chi è l’intestata l’ipoteca? A una società di
investimenti?».
«No, a un privato. Un certo Lindsay Marriott, celibe. Ti
dice niente?».
Non ricordo come mi sono sdebitato. A parole, credo. Per
un po’ sono rimasto seduto a fissare la parete, poi sono
sceso al bar del Mansion House e ho mangiato qualcosa.
Dopo di che ho preso la macchina.
Mi sono diretto a sud-est, verso West 54th Place. Niente
alcol, stavolta.
16

L’isolato era identico a come mi era apparso il giorno


precedente. La strada era deserta, se si escludevano un
camion del ghiaccio, due Ford nei rispettivi vialetti
d’accesso, e un mulinello di polvere che si apprestava a
girare l’angolo. Sono passato in macchina davanti al 1644 e
ho parcheggiato un po’ oltre, osservando le case su
entrambi i lati della via. Tornando indietro a piedi, ho visto
la palma proterva e lo spiazzo marrone di prato rinsecchito.
La casa sembrava vuota, ma probabilmente non lo era, ne
aveva solo l’aria. La sedia a dondolo solitaria era nella
stessa posizione del giorno prima. Appallottolato a terra
c’era un pezzo di carta. L’ho raccolto e l’ho appiattito su
una gamba, ma in quell’attimo si è scostata la tendina di
una finestra della casa accanto.
La vecchia, sempre lei. Con uno sbadiglio mi sono
abbassato il cappello sugli occhi. Un naso a punta si è
schiacciato contro il vetro. Da quella distanza gli occhi
erano soltanto occhi, con sopra dei capelli bianchi. Mi
seguivano, mentre avanzavo lungo il marciapiede. Poi ho
svoltato verso la casa della vecchia, ho salito i gradini di
legno e suonato il campanello.
La porta si è aperta di scatto, manco avesse una molla.
Era una donna alta, con un’aria da uccello e il mento da
coniglio. Da vicino, gli occhi erano acuminati come luci su
uno specchio d’acqua immobile. Mi sono cavato il cappello.
«È lei la signora che ha chiamato la polizia a proposito di
Mrs. Florian?».
Da come mi ha squadrato non deve essersi persa niente
di me, neanche il neo sulla scapola destra.
«Non lo nego, giovanotto, ma non lo confermo neanche.
Chi è lei?». Aveva una voce acuta e squillante, fatta per
tener banco al telefono su una linea multipla.
«Un detective privato».
«Oh, diamine, doveva dirlo subito. Cos’altro ha fatto
quella donna, stavolta? Io non ho visto niente, e non mi
sono persa un solo minuto. Ho sempre mandato Henry a
fare la spesa al negozio. Da quella casa non è arrivato
neanche un rumore».
Ha sganciato il fermo della zanzariera e mi ha tirato in
casa. L’anticamera odorava di olio paglierino. Era piena di
mobili scuri che un tempo dovevano anche essere stati di
moda. Roba con pannelli intarsiati e smerlature sugli
spigoli. La vecchia mi ha preceduto in una sala dove
c’erano poggiatesta di pizzo ovunque si potesse puntare
uno spillo.
«Dica un po’, non l’ho già vista, io?» mi ha chiesto
all’improvviso, con una nota di sospetto. «Certo che l’ho
vista. Lei è quel tale che...».
«Esatto. Ma resto sempre un detective. Chi è Henry?».
«Oh, un bambinetto di colore che va a farmi delle
commissioni ogni tanto. Be’, che cosa vuole, giovanotto?».
Si è lisciata il grembiule bianco e rosso, pulitissimo, e mi ha
di nuovo guardato storto. Per tenersi in esercizio ha
sbattuto un paio di volte i denti finti.
«Gli agenti che sono passati ieri da Mrs. Florian sono
stati anche qui da lei?».
«Quali agenti?».
«I poliziotti in divisa» ho risposto, paziente.
«Sì, sono stati qui un minuto. Non sapevano niente».
«Mi descriva un po’ il bestione... quello che aveva la
pistola e per cui ha chiamato la polizia».
Lo ha descritto alla perfezione. Era Malloy, senza dubbio.
«Che macchina guidava?».
«Una macchina piccola. Ci entrava a malapena».
«Non sa proprio dirmi altro? Vede, quell’uomo è un
assassino».
Ha spalancato la bocca, ma gli occhi erano compiaciuti.
«Diamine, la aiuterei volentieri, giovanotto, ma non ci ho
mai capito granché, di auto. Omicidio, eh? Non si sta
tranquilli un attimo in questa città. Quando sono arrivata
qui ventidue anni fa nemmeno chiudevamo a chiave la
porta. Adesso ci sono solo banditi e poliziotti corrotti e
politici che si combattono a raffiche di mitra, dicono. È uno
scandalo, giovanotto, ecco cos’è».
«Già. Che cosa mi dice di Mrs. Florian?».
La bocca già piccola si è raggrinzita. «Non è per niente
socievole. Tiene la radio ad alto volume fino a tardi. Canta.
Non parla con nessuno». Si è sporta un po’ in avanti. «Non
ne sono sicura, ma secondo me beve».
«Viene molta gente a trovarla?».
«Nessuno».
«In caso contrario, lei ovviamente lo saprebbe, Mrs...».
«Morrison. Diamine, sì. Cos’altro potrei fare, a parte
guardar fuori dalla finestra?».
«Scommetto che è divertente. Mrs. Florian abita qui da
tanto?».
«Una decina d’anni, credo. Aveva un marito, una volta.
Un brutto ceffo, secondo me. È morto». Ci ha pensato su.
«Credo per cause naturali. O almeno, nessuno ha mai detto
il contrario».
«Le ha lasciato dei soldi?».
Gli occhi hanno indietreggiato, seguiti dal mento. Poi la
donna ha inspirato a fondo. «Ha bevuto anche lei, eh?» ha
detto, severa.
«Mi sono appena tolto un dente. Ordine del dentista».
«Lo disapprovo».
«L’alcol è robaccia, tranne quando serve da medicina».
«Lo disapprovo anche come medicina».
«Credo che lei abbia ragione. Dicevo, le ha lasciato dei
soldi? Il marito di Mrs. Florian, intendo».
«Non saprei». La bocca di quella donna era grande come
una prugna secca, e altrettanto liscia. Ero in un vicolo
cieco.
«Dopo la polizia, è venuto qualcun altro a trovare Mrs.
Florian?».
«Non ho visto».
«La ringrazio molto, Mrs. Morrison, per l’aiuto prezioso.
Non la disturberò più. È stata molto gentile».
Tornato in anticamera, ho aperto la porta. Lei mi ha
seguito, schiarendosi la gola e sbattendo un altro paio di
volte la dentiera.
«Che numero devo chiamare, nel caso?» ha domandato,
abbassando appena un po’ la guardia.
«University 4-5000. Chieda del viceispettore Nulty. Di che
cosa vive, la sua vicina? Sussidi pubblici?».
«Questo non è un quartiere da sussidi». Che gelo.
«Scommetto che quel mobile era l’invidia di tutta Sioux
Falls, un tempo» ho detto, indicando un buffet lavorato che
si trovava in anticamera, visto che in sala da pranzo non
sarebbe mai entrato. Aveva i fianchi arrotondati, gambe
sottili e intagliate, era coperto di intarsi, e sul davanti
aveva una cesta di frutta dipinta.
«Mason City» ha detto, addolcendosi. «Sissignore,
avevamo proprio una bella casetta, io e George. La più
bella di tutte».
Ho aperto la zanzariera e l’ho ringraziata. Ora sorrideva.
Aveva il sorriso acuminato come gli occhi.
«Ogni primo del mese riceve una raccomandata» ha detto
all’improvviso.
Mi sono voltato. Lei ha fatto un passo verso di me. «Vedo
il postino che suona alla porta e le fa firmare qualcosa. Il
primo di ogni mese. E ogni primo del mese quella si mette
in ghingheri ed esce. Torna a casa a tarda ora e va avanti a
cantare fino a notte fonda. Certe volte stavo per chiamare
la polizia, tant’era il frastuono».
Ho dato un buffetto a un suo perfido braccino.
«Saranno una su mille, le donne come lei, Mrs.
Morrison». Col che mi sono messo il cappello, ho sfiorato la
tesa in segno di saluto e me ne sono andato. A metà del
vialetto mi è venuta in mente una cosa. Mrs. Morrison era
ancora lì in piedi dietro la zanzariera, con la porta di casa
aperta. Sono tornato indietro, fino ai gradini.
«Domani è il primo del mese. Primo aprile. Il giorno del
pesce d’aprile. Mi farà la cortesia di controllare se arriva la
raccomandata?».
Le sono brillati gli occhi, e le è scappata una risata
stridula, da vecchia. «Il pesce d’aprile» ha detto. «Magari
non la riceve».
Ho lasciato che ridesse. Sembrava il verso di una gallina
con il singhiozzo.
17

Ho suonato, bussato, niente. Un’altra volta. La zanzariera


era sganciata. Ho provato la porta d’ingresso. Non era
chiusa a chiave. Sono entrato.
Era tutto uguale, persino l’odore di gin. Anche questa
volta, niente cadaveri. Sul tavolino accanto alla sedia dove
il giorno prima si era seduta Mrs. Florian c’era un bicchiere
sporco. La radio era spenta. Mi sono avvicinato al divano e
ho infilato una mano sotto i cuscini. La stessa bottiglia
stecchita, insieme a un’altra nel medesimo stato.
Ho chiamato ad alta voce. Nessuna risposta. Poi, però, mi
è parso di sentire un lungo e penoso respiro, quasi un
rantolo. Ho oltrepassato l’arco e infilato il breve corridoio.
La porta della camera da letto era semiaperta; il rantolo
proveniva da lì. Ho messo dentro il naso.
Mrs. Florian era a letto, supina, con una trapunta di
cotone tirata fino al mento. Uno dei piccoli pompon della
trapunta le stava praticamente in bocca. Aveva la faccia
giallognola floscia, mezzo morta, e i capelli sporchi sparsi
sul cuscino. Ha aperto gli occhi e mi ha guardato
inespressiva. L’odore di sonno, liquore e panni sporchi
prendeva alla gola. Una sveglia da sessantanove centesimi
ticchettava sulla vernice bianca superstite dello scrittoio.
Ticchettava così forte da far vibrare le pareti. Sopra lo
scrittoio, uno specchio mostrava distorta la faccia di Mrs.
Florian. Il baule da cui aveva preso le fotografie era ancora
aperto.
«Buon pomeriggio, Mrs. Florian. Non si sente bene?».
Ha strofinato appena le labbra l’una contro l’altra per
inumidirle, e ha tirato fuori la lingua muovendo le
mandibole. La voce le è uscita di bocca come il suono di un
disco per fonografo. Gli occhi mi avevano riconosciuto, ma
non erano contenti di vedermi.
«L’avete preso?».
«Malloy?».
«Sì».
«Non ancora. Presto, spero».
Ha serrato le palpebre, poi le ha riaperte di scatto, come
volesse togliersi un velo dagli occhi.
«Farebbe meglio a tenere la porta chiusa a chiave.
Potrebbe tornare».
«Non crederai che abbia paura di Malloy, eh?».
«Ieri, quando ne abbiamo parlato, mi è sembrato di sì».
Ci ha pensato su. Una faticaccia. «Hai da bere?».
«No, oggi no. Ero un po’ a corto di contanti».
«Il gin costa poco. E funziona».
«Magari più tardi vado a comprargliene un po’. Quindi lei
non ha paura di Malloy?».
«Perché dovrei?».
«D’accordo, non dovrebbe. E di che cosa ha paura,
invece?».
Gli occhi le si sono illuminati, ma giusto per un attimo.
«Oh, al diavolo, voialtri sbirri siete una piaga incurabile».
Non ho obiettato. Mi sono appoggiato allo stipite,
cacciandomi una sigaretta tra le labbra e cercando di farle
toccare il naso solo muovendo la bocca. È più difficile di
quel che possa sembrare, sapete?
«Gli sbirri» ha quasi sillabato, come parlasse tra sé «non
lo prenderanno mai. Ci sa fare, e ha soldi e amici. Stai
perdendo il tuo tempo, sbirro».
«Tanto per cambiare. Comunque, è praticamente un caso
di legittima difesa. Dove potrebbe essere?».
Ha sogghignato, strusciando la bocca sulla trapunta di
cotone.
«Passiamo alle lusinghe, eh? Non attacca. Furbate da
sbirri. Solo voialtri credete ancora che funzioni».
«Malloy l’ho trovato simpatico».
Un guizzo di curiosità nei suoi occhi. «Lo conosci?».
«Ero con lui, ieri, quando ha ammazzato il negro in
Central Avenue».
Ha riso come una matta, a bocca aperta, ma il rumore
non è stato più forte di un grissino che si sbriciola. Però le
guance erano rigate di lacrime.
«Un bestione,» ho detto «ma con il cuore anche un po’
tenero. Voleva a tutti i costi trovare la sua Velma».
Gli occhi le si sono velati. «Credevo fossero i suoi
genitori, che la stavano cercando» ha detto, tranquilla.
«Infatti. Solo che lei è morta, come mi diceva ieri. Non c’è
nulla da fare. Dov’è morta?».
«A Dalhart, in Texas. S’è buscata un raffreddore che le ha
preso i polmoni, e addio».
«Lei era presente, Mrs. Florian?».
«No, no. L’ho solo sentito dire».
«Ah, e da chi?».
«Una ballerina. Non ricordo più come si chiamava. Ma
magari un bel bicchiere di qualcosa di forte mi
rinfrescherebbe la memoria. Mi sento come la Valle della
Morte».
E hai tutto l’aspetto di un mulo stecchito, ho pensato,
senza dirlo. «Un’ultima cosa» ho detto. «Poi, forse, faccio
un salto a prendere un po’ di gin. Sono andato a controllare
l’atto di proprietà della sua casa. Non so nemmeno
perché».
Si è irrigidita sotto la coperta, come una donna di legno.
Persino le palpebre le si sono bloccate a mezz’asta sulle
iridi impastate. Ha smesso di respirare.
«C’è sopra una bella ipoteca, considerato lo scarso valore
delle proprietà nei dintorni. È intestata a un certo Lindsay
Marriott».
Ha sbattuto le palpebre, ma è stato l’unico movimento. Mi
fissava.
«Lavoravo per lui. Ero la cameriera di famiglia. Si prende
un po’ cura di me».
Ho fatto l’unica cosa che mi è venuta: mi sono tolto la
sigaretta spenta dalle labbra e l’ho studiata a lungo. Poi
l’ho rimessa in bocca.
«Ieri pomeriggio, poche ore dopo il nostro incontro, Mr.
Marriott mi ha telefonato in ufficio. Mi ha offerto un
lavoro».
«Che genere di lavoro?». La sua voce era un gracidio, per
niente piacevole.
Ho alzato le spalle. «Non posso rivelarlo. Segreto
professionale. L’ho incontrato ieri sera».
«Sei sveglio. Che figlio d’un cane!» ha detto con voce
impastata, muovendo una mano sotto la coperta.
L’ho fissata e basta.
«Furbizia da sbirro» ha ghignato.
Muovevo la mano su e giù lungo lo stipite. Era viscido.
Avevo voglia di un bel bagno.
«Be’, tutto qui» ho detto, tranquillo. «Mi sono soltanto
domandato come mai. Magari non c’è sotto niente. Una
pura coincidenza. Ma mi sa di no».
«Furbizia da sbirro» ha detto, vacua. «E neanche un vero
sbirro, un detective privato da quattro soldi».
«Per servirla. Be’, addio, Mrs. Florian. A proposito:
secondo me, niente raccomandata, domattina».
Ha gettato la coperta da un lato e si è alzata a sedere di
scatto, con occhi di fuoco. Qualcosa le luccicava nella mano
destra. Una piccola rivoltella, una Banker’s Special. Era
vecchia e un po’ consunta, ma faceva la sua figura.
«Spiegati meglio. E sbrigati».
Guardavo la pistola, e la pistola guardava me. Con
qualche esitazione. Mrs. Florian continuava a guardarmi
con quegli occhiacci, ma la mano tremava. Aveva un po’ di
schiuma agli angoli della bocca.
«Noi due potremmo collaborare» ho detto.
Pistola e mascella le sono cadute insieme. Ero a pochi
centimetri dalla porta. Come ho visto la pistola abbassarsi
sono uscito.
«Ci rifletta» ho detto ad alta voce dal corridoio.
Silenzio. Assoluto.
Ho superato la sala da pranzo e la porta di casa. Sul
vialetto ho avvertito una strana sensazione alla schiena, e i
muscoli tesi.
Non è successo nulla. Ho proseguito sul marciapiede fino
alla mia auto, e via.
Era l’ultimo giorno di marzo, e faceva caldo come
d’estate. Avevo voglia di togliermi la giacca, mentre
guidavo. Davanti al commissariato di polizia della 77th
Street due agenti di una volante esaminavano con
preoccupazione un paraurti anteriore ammaccato.
All’interno, dietro una balaustra, un tenente in divisa
consultava il foglio dei turni. Gli ho chiesto se Nulty fosse
di sopra. Credeva di sì, e mi ha chiesto se fossi suo amico.
Certo, ho risposto. Mi ha detto di andare pure. Mi sono
fatto le scale consunte, il corridoio, e ho bussato. Avanti, ha
gridato Nulty.
Era al lavoro con uno stuzzicadenti, seduto su una sedia e
con i piedi appoggiati a un’altra. Stava scrutandosi il
pollice sinistro, che teneva all’altezza degli occhi con il
braccio teso. A me sembrava a posto, ma dalla
preoccupazione che lui aveva negli occhi doveva ritenerlo
incurabile.
Ha abbassato la mano su una coscia, e con una piccola
rotazione ha poggiato i piedi a terra. Finalmente dal pollice
è passato a me. Indossava un completo grigio scuro, e sulla
scrivania un mozzicone di sigaro masticato attendeva il suo
turno, dopo lo stuzzicadenti.
Sulla seconda sedia c’era una copertura di feltro con le
cordicelle slacciate. L’ho rigirata e mi ci sono seduto,
mettendomi in bocca una sigaretta.
«Ah, sei tu» ha detto Nulty, tornando a guardare lo
stuzzicadenti, per sincerarsi di averlo ciancicato a
sufficienza.
«Novità?».
«Su Malloy? Non sono più fatti miei».
«E di chi sono?».
«Di nessuno. Perché? Perché se l’è filata. Abbiamo
diramato i dati via telescrivente. E hanno diffuso i volantini.
Al diavolo, ormai sarà in Messico da un pezzo».
«In fondo ha solo ammazzato un negro» ho detto. «Un
reato minore».
«Sei ancora interessato? Credevo lavorassi ad altro». I
suoi occhi chiari, umidi, mi esploravano il volto.
«Avevo un lavoro, ieri sera, ma non è durato. Hai ancora
quella foto di Pierrot?».
L’ha estratta dal sottomano e me l’ha passata. Era sempre
carina. L’ho fissata un bel po’.
«Questa, in realtà, sarebbe mia. Se non ti serve per il
dossier, mi piacerebbe tenerla».
«Dovrebbe stare nel dossier, in effetti. Ma me ne sono
dimenticato. Tienila pure, ma acqua in bocca. Il dossier l’ho
restituito».
Ho infilato la foto nella tasca interna della giacca e mi
sono alzato. «Be’, non c’è altro, mi pare» ho detto, con tutta
la disinvoltura possibile.
«Sento puzza di qualcosa» mi ha risposto Nulty, piatto.
Ho guardato il mozzicone di sigaro in equilibrio sul bordo
della scrivania. Nulty ha seguito il mio sguardo. Forse per
questo ha gettato lo stuzzicadenti a terra e si è cacciato il
mozzicone in bocca.
«E non mi riferivo al sigaro» ha detto.
«È solo una sensazione vaga. Se prende corpo, mi
ricorderò di te».
«Tempi duri... Ho bisogno di una pausa, direi».
«Un lavoratore come te se la merita».
Ha sfregato un fiammifero con l’unghia di un pollice,
accendendolo al primo tentativo. Non doveva averci
contato, da quanto gli ha fatto piacere. Ha dato una
boccata.
«Sto ridendo» ha detto mesto, mentre uscivo.
Il corridoio era tranquillo, come peraltro tutto l’edificio.
Fuori, i due della volante stavano ancora guardando il
paraurti ammaccato. Ho preso la macchina e sono tornato a
Hollywood.
Appena messo piede in ufficio mi sono avventato sul
telefono, che stava squillando: «Sì?».
«Parlo con Mr. Philip Marlowe?».
«Sì, sono io».
«Qui è la residenza di Mrs. Grayle. Mrs. Lewin Lockridge
Grayle. La signora vorrebbe incontrarla, qui, appena
possibile».
«Qui dove?».
«862 Aster Drive, Bay City. Posso annunciare il suo arrivo
entro un’ora?».
«Lei è Mr. Grayle?».
«Certo che no, signore. Sono il maggiordomo».
«Quel campanello che sente suonare sono io».
18

L’oceano era vicino e lo si sentiva nell’aria, ma


dall’ingresso della tenuta l’acqua non si vedeva. Proprio in
quel punto Aster Drive faceva un’ampia curva. Quelle sul
lato interno erano belle case, come tante. Affacciate sul
canyon, invece, sorgevano dimore imponenti e silenziose,
con muri di cinta alti quattro metri, cancelli in ferro battuto
e siepi ornamentali; all’interno, per chi aveva il permesso di
entrare, un sole tutto particolare, placidissimo, come
chiuso in una scatola insonorizzata a esclusivo beneficio
delle classi alte.
Un uomo con una casacca azzurra alla russa, lucidi
gambali neri e braghe a sbuffo piantonava il cancello
semiaperto. Era un ragazzo bruno, di bella presenza, con le
spalle abbondanti, i capelli lisci e lucidi, e la visiera
dell’elegante berretto a fargli un po’ d’ombra sugli occhi.
Aveva una sigaretta all’angolo della bocca e teneva la testa
leggermente inclinata, come se preferisse non inalare il
fumo dal naso. Una mano era coperta da un guanto nero e
liscio, l’altra era nuda. All’anulare portava un anello
massiccio.
Non c’erano numeri in vista, ma l’862 doveva essere
quello. Ho fermato la macchina, mi sono sporto dal
finestrino e gliel’ho chiesto. Prima di rispondermi ha dovuto
squadrarmi per bene. Sia me che la macchina. Mi si è
avvicinato, e già che c’era ha portato con noncuranza la
mano nuda in prossimità del fianco. Quel genere di
noncuranza che vuole farsi notare.
A meno di un metro si è arrestato e mi ha dato un’altra
bella occhiata.
«Sto cercando la residenza dei Grayle».
«È questa. Non c’è nessuno».
«Mi stanno aspettando».
Ha annuito, gli occhi che scintillavano come acqua.
«Nome?».
«Philip Marlowe».
«Aspetti qui». È andato al cancello come se il tempo non
fosse un suo problema e ha aperto uno sportello di ferro
incorporato in una delle colonne. All’interno c’era un
telefono. Ha parlato brevemente, richiuso lo sportello ed è
tornato da me.
«Ha un documento d’identità?».
L’ho invitato a esaminare la patente di guida attaccata al
piantone dello sterzo. «Quella non prova niente. Come
faccio a sapere che l’auto è sua?».
Ho tirato fuori la chiave dal quadro, ho aperto la portiera
e sono sceso, ritrovandomi a una spanna da lui. Aveva
l’alito profumato. Haig and Haig, come minimo.
«Ti sei fatto un altro giro al mobile bar, eh?».
Sorriso, e altro sguardo.
«Sta’ a sentire» gli ho detto. «Ho parlato al telefono col
maggiordomo: riconoscerà senz’altro la mia voce. Può
bastare, per entrare, o devo passarti sulla schiena?».
«Sto solo facendo il mio lavoro» ha detto suadente.
«Altrimenti...». Ha lasciato la frase in sospeso, continuando
a sorridere.
«Sei un bravo ragazzo» ho detto, dandogli una pacca
sulle spalle. «Da dove sei uscito, Dartmouth o
Dannemora?».
«Cristo. Perché non l’hai detto subito che sei uno
sbirro?».
Abbiamo sorriso entrambi, un po’ tesi. Mi ha fatto cenno
di entrare e io ho varcato il cancello semiaperto. Il vialetto
d’accesso curvava, completamente schermato da siepi
verde scuro ben potate, invisibile sia dalla casa sia dalla
strada. Al di là di un cancello verde, un giardiniere giappo
strappava erbacce da un enorme prato. Ne stava
estirpando una da quella distesa di velluto, e sogghignava
come tutti i giardinieri giappo. Poi le alte siepi sono tornate
a incombere, e per un’altra trentina di metri non ho visto
più nulla, fin quando non si sono interrotte, lasciando il
posto a un’ampia rotonda dov’erano parcheggiate cinque o
sei auto.
Un piccolo coupé. Due bellissime Buick bicolori ultimo
modello, buone per andarci all’ufficio postale. Una
limousine nera con griglie di nichel opaco e coprimozzi
grossi come cerchi di bicicletta. Una lunga Phaeton
sportiva con il tettuccio abbassato. Da lì, un breve e
larghissimo vialetto in cemento portava all’entrata laterale
della casa.
Sulla sinistra, oltre lo spazio adibito a parcheggio, c’era
un giardino ribassato con una fontana a ogni angolo.
L’ingresso era sbarrato da un cancello in ferro battuto con
al centro un Cupido in volo. C’erano busti su sobrie
colonne, una panchina in pietra con grifoni acquattati alle
due estremità, e una vasca oblunga con ninfee in pietra, su
una delle quali era posata una grossa rana toro, in pietra
anch’essa. Ancora più in là, un colonnato rosa conduceva a
una sorta di altare fiancheggiato da siepi, ma non al punto
da impedire al sole di disegnare arabeschi sui gradini
dell’altare. In fondo, sempre sulla sinistra, un giardino
selvatico non grandissimo, con una meridiana vicino a due
pezzi di muro ad angolo retto, che dovevano sembrare una
rovina. E fiori. Milioni di fiori.
La residenza vera e propria non era granché: più piccola
di Buckingham Palace, piuttosto grigia per essere in
California, e con meno finestre del Chrysler Building,
credo.
Mi sono avvicinato quatto quatto all’ingresso laterale e ho
premuto un pulsante: all’interno, una serie di campanelle
ha prodotto un suono dolce e profondo, come di chiesa.
Ad aprire è venuto un uomo in gilè a righe con bottoni
dorati, che fatto un inchino e preso in consegna il cappello
si è guadagnato la giornata. Alle sue spalle, in penombra,
un uomo con pantaloni a righe freschi di stiro, giacca nera,
camicia dal colletto ampio e cravatta grigia a righe ha
allungato di un centimetro la testa canuta: «Mr. Marlowe,
se vuole seguirmi, da questa parte, prego».
Mi ha fatto strada lungo un corridoio in cui non volava
una mosca. Il pavimento era coperto di tappeti orientali, e
le pareti di quadri. Girato un angolo, il corridoio
proseguiva. Una porta-finestra rivelava uno scorcio di
acqua azzurra, in lontananza. Con sgomento, mi sono
ricordato che l’Oceano Pacifico non era lontano, e che la
casa era sull’orlo di un canyon.
Giunto all’altezza di una porta, il maggiordomo l’ha
aperta su un brusio di voci, poi si è fatto da parte per
lasciarmi passare. Era una bella sala con grandi divani e
comode poltrone in pelle gialla sistemati intorno a un
caminetto, davanti a cui, sul pavimento – lucido, ma non
scivoloso –, era adagiato un tappeto fine come seta e
vecchio come la zia di Esopo. Un getto di fiori sfolgorava in
un angolo, un altro su un tavolino basso. Le pareti erano
color pergamena opaca. C’erano comodità, spazio,
atmosfera accogliente, un tocco di estrema modernità e
uno di antico. Le tre persone sedute mi guardavano in
silenzio.
Una era Anne Riordan, identica a come l’avevo vista
l’ultima volta, eccezion fatta per il bicchiere pieno di
liquido ambrato in mano. Poi c’era un lungagnone con la
faccia triste, il mento di pietra, occhi profondi e un colorito
giallognolo piuttosto malsano. Doveva avere sessant’anni
buoni – o, più probabilmente, non tanto buoni. Indossava un
completo scuro da uomo d’affari, con garofano rosso
all’occhiello. Non proprio il ritratto della vitalità.
La terza persona era la bionda. Era vestita per uscire, di
verde acqua. Ma non mi sono concentrato più di tanto, sui
suoi vestiti. Sembravano disegnati apposta per lei, e dalla
persona giusta. Facevano sembrare lei giovanissima, e i
suoi occhi ancor più due lapislazzuli. I capelli erano dell’oro
dei dipinti antichi e abbastanza acconciati, ma non troppo.
Aveva una dotazione di curve impossibile da migliorare. A
parte il collier di diamanti, la mise era piuttosto semplice.
Le mani non erano piccole, ma ben formate, e le unghie
erano la solita nota vistosa: quasi magenta. Mi stava
dedicando uno dei suoi sorrisi. Aveva l’aria di sorridere
facilmente, ma gli occhi erano fermi, come se stesse
pensando con calma e attenzione. E la bocca era sensuale.
«È stato molto gentile a venire» ha detto. «Le presento
mio marito. Offri da bere a Mr. Marlowe, tesoro».
Mr. Grayle mi ha stretto la mano. La sua era fredda e un
po’ umida. Gli occhi, tristi. Mi ha versato un whisky e soda
e me lo ha porto.
Poi è andato a sedersi in un angolo, in silenzio. A metà
bicchiere ho sorriso a Miss Riordan. Lei mi ha guardato con
espressione un po’ assente, come se stesse pensando ad
altro.
«Crede di poterci aiutare?» ha domandato con calma la
bionda, guardando dentro il bicchiere. «Ne sarei
felicissima. Il danno, però, è niente in confronto al fastidio
di avere a che fare con banditi e gente orribile».
«Se devo essere sincero, non lo so».
«Oh, spero proprio che potrà aiutarci». Mi ha rivolto un
sorriso che ho sentito fin nella tasca dei pantaloni.
Vuotato il bicchiere, cominciavo a sentirmi a mio agio.
Mrs. Grayle ha suonato un campanello incorporato in un
bracciolo del divano in pelle, e subito è comparso un
valletto. La signora ha indicato il vassoio. Il valletto si è
guardato intorno e ha preparato due drink. Miss Riordan
stava ancora coccolando il suo primo bicchiere, e Mr.
Grayle, a quanto pareva, era astemio. Il valletto è uscito di
quinta.
Mrs. Grayle e io abbiamo brindato, lei accavallando le
gambe con un po’ di noncuranza.
«Non sono sicuro di poter fare qualcosa. Anzi, ne dubito.
Cos’abbiamo in mano?».
«Lei può sicuramente fare qualcosa». Altro sorriso.
«Quanto le ha raccontato Lin Marriott?».
Si è voltata verso Miss Riordan, che però non se ne è
accorta: era sempre al suo posto, ma guardava altrove.
Mrs. Grayle si è rivolta al marito: «Sicuro di volerti
trattenere, tesoro?».
Mr. Grayle si è alzato, ha detto che era molto contento di
aver fatto la mia conoscenza e che sarebbe andato un po’ a
coricarsi. Non si sentiva tanto bene. Sperava che lo
scusassi. È stato così cortese che quasi lo accompagnavo
fuori in segno di apprezzamento.
Invece se n’è andato da solo. Ha chiuso piano la porta,
come temesse di svegliare qualcuno. Mrs. Grayle ha
guardato la porta per un po’, quindi si è stampata di nuovo
in faccia il suo sorriso e mi ha guardato.
«Miss Riordan gode della sua totale fiducia,
naturalmente».
«Nessuno gode della mia totale fiducia, Mrs. Grayle. Miss
Riordan conosce i dettagli del caso. Entro certi limiti,
perlomeno».
«Già». Ha bevuto due sorsetti, poi si è scolata di botto il
bicchiere e lo ha posato lì accanto. «Al diavolo la
moderazione. Veniamo al sodo. Lei è un uomo molto bello
per il mestiere che fa. Strano».
«È il mestiere che è schifoso».
«Non volevo dire questo. Si guadagna bene? O la
domanda è impertinente?».
«Non ci si arricchisce. E si ingoia parecchia robaccia.
Però a volte ci si diverte. E può sempre capitare un caso
importante».
«Come si diventa investigatori privati? Non le dispiace se
la interrogo un po’, vero? E mi avvicini quel vassoio, per
cortesia. Così posso servirmi da bere».
Mi sono alzato e ho spinto sul pavimento lucido il carrello
su cui era posato il grande vassoio d’argento, in modo che
l’avesse vicino. Mrs. Grayle ha preparato altri due drink. Io
avevo ancora il secondo.
«Molti sono ex poliziotti. Anch’io ho lavorato per il
procuratore distrettuale, per un certo periodo. Poi mi
hanno licenziato».
Ha sorriso, graziosa. «Non certo per incapacità».
«No, infatti. Ho avuto da ridire. Ha ricevuto altre
telefonate?».
«Be’...». Ha guardato Anne, in modo molto eloquente.
Anne si è alzata in piedi, posando il bicchiere ancora
pieno sul vassoio. «Di sicuro non rimarrà a corto, ma nel
caso... La ringrazio molto per aver accettato di incontrarmi,
Mrs. Grayle. Terrò per me le informazioni che mi ha dato.
Ha la mia parola».
«Oh, santo cielo, non vorrà andarsene, vero?» ha detto
Mrs. Grayle, col solito sorriso.
Anne si è presa il labbro inferiore tra i denti e se l’è
tenuto così per un po’, come stesse decidendo se staccarlo
con un morso e sputarlo o lasciarlo al suo posto, per il
momento.
«Mi spiace, temo di dovere. Non lavoro per Mr. Marlowe,
in realtà. È soltanto un amico. Arrivederla, Mrs. Grayle».
La bionda le ha fatto un sorriso da qui a lì, stavolta.
«Spero tornerà presto. Quando vuole». Ha premuto due
volte il campanello, e il maggiordomo è comparso, tenendo
la porta aperta.
Miss Riordan è uscita subito, e la porta si è richiusa. Per
un lungo istante Mrs. Grayle è rimasta a guardarla con un
vago sorriso sulle labbra. «Così va molto meglio, non
trova?» ha detto, quando ha deciso di rompere il silenzio.
Ho annuito. «Si starà probabilmente domandando come
mai la nostra amica è così informata, essendo solo
un’amica. Ecco, è una ragazza molto curiosa. Certe cose le
ha scoperte da sola. Ad esempio il suo nome, e il fatto che
la collana appartenesse a lei. Altre cose sono
semplicemente successe: si trovava in fondo a quella conca,
dove Marriott è stato ucciso. Era in giro, così. Ha visto una
luce ed è scesa a controllare».
«Ah». Mrs. Grayle ha sollevato in fretta il bicchiere, con
una smorfia. «È orribile quello che è capitato al povero Lin.
Era un tipo un po’ scialbo. Come quasi tutti i miei amici.
Morire così, però, è terribile». Ho visto un brivido, e i suoi
occhi si sono fatti grandi e cupi.
«Di Miss Riordan ci si può fidare. Non parlerà. Suo padre
è stato a lungo il capo della polizia di questa città».
«Sì, me l’ha detto. Lei non sta bevendo, Marlowe».
«Bevo, ma a modo mio».
«Noi due dovremmo andare d’accordo. Lin le ha spiegato
com’è andata la rapina?».
«So che è successo tra qui e il Trocadero. Non mi ha
detto di preciso. Ha parlato di tre o quattro uomini».
La luminosa testa d’oro ha fatto cenno di sì. «Già. È stata
una rapina decisamente strana. Mi hanno restituito un
anello, anche piuttosto prezioso».
«Marriott me l’aveva detto».
«C’è anche da dire che quella collana non la indossavo
quasi mai. Del resto, è un pezzo da museo: non devono
essercene molte al mondo, quel tipo di giada è decisamente
raro. Loro, però, ci si sono tuffati. Non pensavo potessero
attribuirle tanto valore. Non è strano?».
«Forse sapevano che lei non l’avrebbe indossata, se non
fosse stata preziosa. Chi altri era al corrente del suo
valore?».
Ci ha pensato su. Era bello, guardarla pensare. Aveva
ancora le gambe accavallate, con la stessa noncuranza di
prima.
«Molta gente, immagino».
«Ma non tutti potevano sapere che lei l’avrebbe indossata
quella sera. Chi lo sapeva?».
Ha scrollato le spalle verde acqua. Facevo il possibile per
tenere gli occhi al loro posto.
«La mia cameriera, ma avrebbe avuto centinaia di altre
occasioni. E poi mi fido di lei».
«Perché?».
«Non lo so. Di certe persone mi fido e basta. Come di lei,
Marlowe».
«E di Marriott?».
La faccia le si è fatta più tesa, gli occhi un po’ guardinghi.
«Per certe cose, no. Per altre, sì. Questione di gradi». Aveva
un bel modo di parlare: sicura di sé, un po’ cinica, ma non
dura. Arrotondava le parole, come andrebbe fatto sempre.
«D’accordo. E a parte la cameriera? L’autista?».
Scosse la testa. «No. Quella sera guidava Lin: eravamo
con la sua auto. Credo che George non ci fosse neanche,
quella sera. Non era giovedì?».
«Io non c’ero. Ieri sera Marriott diceva che erano passati
quattro o cinque giorni. Se fosse come dice lei, arriviamo a
una settimana giusta».
«Be’, era giovedì». Mentre allungava la mano verso il mio
bicchiere, le sue dita liscissime hanno sfiorato le mie.
«George non c’è il giovedì. È la sua serata libera». Mi ha
versato una dose di quel whisky pastoso e ci ha spruzzato
un po’ di seltz. Era il genere di liquore che uno pensa di
poter bere senza limiti, solo che poi si diventa imprudenti.
Se n’è versato altrettanto.
«Lin le ha fatto il mio nome?». La voce adesso era
suadente, l’occhiata sempre cauta.
«Se ne è guardato bene».
«Allora può darsi che abbia cercato di sviarla anche sulla
tempistica. Facciamo un po’ il punto. Cameriera e autista li
escludiamo. Come possibili complici, intendo».
«Io non li escludo».
«Be’, mi lasci provare» ha detto, ridendo. «Ci sarebbe
anche Newton, il maggiordomo. Potrebbe avermela vista al
collo quella sera. La collana però è molto lasca, e io
indossavo una stola di volpe... No, non credo possa averla
vista».
«Doveva essere un incanto».
«Non sta esagerando con l’alcol, vero?».
«Sono stato più sobrio altre volte».
Ha rovesciato la testa all’indietro, ridendo senza freni. Ho
conosciuto solo quattro donne capaci di ridere in quel modo
senza imbruttirsi. Una era Mrs. Grayle.
«Newton lo escluderei. Non mi sembra il tipo che se la fa
coi delinquenti. È solo una congettura, però. Cosa mi dice
del valletto?».
Ci ha pensato su finché non si è ricordata. «No, non mi ha
vista».
«Qualcuno le ha per caso chiesto di indossare la
collana?».
Adesso camminava sulle uova. «Non creda di fregarmi».
Mi ha preso il bicchiere, e anche se ne avevo ancora due
dita abbondanti l’ho lasciata fare. Intanto studiavo le
incantevoli linee del suo collo.
Riempiti i bicchieri, con cui ci siamo rimessi a
giocherellare, ho detto: «Quando mi avrà raccontato tutto
per bene, le dirò una cosa. Mi descriva la serata».
Ha guardato l’orologio che aveva al polso, scoprendo il
braccio fino alla spalla. «Dovrei andare...».
«Lo lasci aspettare».
Negli occhi le è passato un lampo. Piuttosto bello. «Oltre
un certo limite si finisce per essere un po’ troppo diretti».
«Non nel mio campo. Mi descriva la serata. Oppure mi
faccia sbattere fuori di peso. Una cosa o l’altra. Sta alla sua
deliziosa testolina decidere».
«Venga a sedersi qui accanto a me. Sarà meglio».
«Era da un po’ che ci stavo pensando. Da quando ha
accavallato le gambe, se ricordo bene».
Si è tirata un po’ giù il vestito. «Accidenti, questi affari te
li ritrovi sempre intorno al collo».
Sono andato a sedermi accanto a lei, sul divano giallo.
«Non perde tempo, eh?» mi ha chiesto a bassa voce.
Non ho risposto.
«Fa spesso così?» mi ha domandato, guardandomi in
tralice.
«Praticamente mai. Nel tempo libero sono un monaco
tibetano».
«Peccato che di tempo libero lei non ne abbia».
«Concentriamoci» ho detto. «Prendiamo il poco che resta
della nostra mente – o della mia – e cerchiamo di mettere a
fuoco il problema. Quanto ha intenzione di pagarmi?».
«Ah, questo è il problema. Credevo volesse recuperare la
mia collana. O almeno provarci».
«Io lavoro a modo mio. Così». Il lungo sorso mi ha quasi
ribaltato. Ho deglutito aria. «E poi c’è un omicidio, su cui
indagare».
«L’omicidio non c’entra. Se ne sta occupando la polizia,
ormai, no?».
«Già. Solo che quel poveraccio mi ha pagato cento dollari
perché mi prendessi cura di lui... e non l’ho fatto. Mi sento
in colpa. Mi viene da piangere. Lo faccio? Piango?».
«Beva un goccio». Mi ha versato altro scotch. Su di lei
sembrava avere l’effetto che ha l’acqua sulla diga di
Hoover.
«Be’, dov’eravamo arrivati?» ho chiesto, cercando di
tenere il bicchiere in modo da non rovesciare il liquore.
«Niente cameriera, né autista. Niente maggiordomo, niente
valletto. Tra un po’ toccherà farci il bucato da soli. Come si
è svolta la rapina? Magari la sua versione ha qualche
dettaglio in più, rispetto a quella di Marriott».
Si è sporta verso di me, appoggiando il mento al palmo di
una mano. Riusciva a sembrare seria, senza esagerare e
cadere nel ridicolo.
«Siamo andati a una festa a Brentwood Heights. Poi Lin
mi ha proposto di fare un salto al Troc a bere qualcosa e
ballare un po’. E così abbiamo fatto. Siccome sul Sunset
Boulevard c’erano lavori in corso, e molta polvere, al
ritorno Lin ha deciso di scendere sul Santa Monica
Boulevard. Siamo passati davanti a un albergo sciatto,
l’Indio, che mi ha colpito per ragioni che non sto a dirle. Di
fonte c’era una birreria, con una macchina parcheggiata
davanti».
«Una sola auto, davanti a una birreria?».
«Sì, una sola. Era un posto decisamente sordido. La
macchina comunque ci ha seguiti, ma all’inizio, come può
immaginare, non le ho dato importanza. Non ce n’era
ragione. Poi, prima di arrivare dove il Santa Monica diventa
Arguello, Lin fa: “Prendiamo l’altra strada”. E imbocca una
via tutta curve in una zona residenziale. All’improvviso una
macchina ci supera, ci graffia il paraurti e poi si ferma sul
ciglio della strada. Scende un tale in impermeabile, sciarpa
e cappello sugli occhi che si avvicina come per scusarsi.
Era completamente avvolto nella sciarpa, questo l’ho
notato subito. Di lui in pratica non ho visto altro, a parte il
fatto che era alto e magro. Quando ci ha raggiunto... Ah,
dopo mi è venuto in mente che si era tenuto lontano dai
nostri fanali».
«Naturale. A nessuno piacciono i fanali negli occhi. Beva
un goccio. Offro io, stavolta».
Era protesa in avanti, e le sue finissime sopracciglia –
vere, non disegnate – si erano contratte in un’espressione
pensosa. Ho riempito tutti e due i bicchieri, poi ha
continuato.
«È arrivato dal lato di Lin, si è tirato la sciarpa anche sul
naso e ci ha puntato addosso una pistola. “Su le mani” ha
detto. “Se fate i bravi, andrà tutto bene”. Intanto era
arrivato un secondo uomo, dalla parte opposta».
«Tutto questo a Beverly Hills, i dieci chilometri quadrati
più sorvegliati della California» ho commentato.
Si è stretta nelle spalle. «Comunque sia, è successo.
Hanno chiesto i gioielli e la borsa. Quello con la sciarpa,
per la precisione. Quello dal mio lato non ha mai aperto
bocca. Allungandomi sopra Lin ho consegnato le mie cose
al tizio con la sciarpa, che mi ha restituito la borsa e un
anello. Ci ha detto di aspettare, di non chiamare la polizia o
quelli dell’assicurazione, perché ci avrebbero fatto una
bella proposta, molto vantaggiosa. Ha detto che per loro
era molto più comodo lavorare a percentuale. Dava
l’impressione di non avere la minima fretta. Ha detto che
avrebbero potuto trattare anche con quelli delle
assicurazioni, se necessario, ma così avrebbero dovuto
pagare anche un avvocato. E loro preferivano evitare.
Sembrava una persona istruita».
«Poteva essere Eddie l’Elegantone. Cioè, se non
l’avessero fatto fuori a Chicago».
Altra scrollata di spalle, altro goccetto. Ha proseguito.
«A quel punto se ne sono andati, e io ho detto a Lin di non
parlarne con nessuno. Il giorno dopo ho ricevuto una
telefonata. Abbiamo due telefoni: il primo è collegato in
derivazione; il secondo, nella mia camera, è una linea
diretta. La chiamata l’ho ricevuta su quest’ultimo, che
ovviamente non compare sull’elenco».
«È un’informazione che si può comprare per pochi dollari.
C’è gente del cinema costretta a cambiare numero una
volta al mese».
Altro giro di whisky.
«Ho detto al tizio di parlare con Lin, che se ne sarebbe
occupato per me, e se le loro richieste non fossero state
irragionevoli avremmo trovato un accordo. Lui ha detto che
andava bene, dopo di che credo abbiano aspettato un po’
per osservare il nostro comportamento. Alla fine, come sa,
ci siamo accordati per ottomila dollari».
«Saprebbe riconoscere qualcuno?».
«No, ovvio».
«Randall ne è al corrente?».
«Certo. Dobbiamo proprio continuare a parlare di questo?
Mi annoio». Mi ha fatto un altro sorriso. E che sorriso.
«Randall ha fatto commenti?».
Sbadiglio. «Credo di sì, ma li ho dimenticati».
Ero lì seduto col bicchiere vuoto in mano, e pensavo. Lei
me l’ha tolto e l’ha riempito.
L’ho ripreso con la destra e l’ho passato nell’altra mano,
mentre con quella appena liberata le ho preso la sinistra.
Era liscia e morbida e calda e piacevole da stringere. Lei ha
ricambiato la stretta. Aveva muscoli forti: non era un
fiorellino di carta.
«Credo si sia fatto una sua idea. Ma non ha voluto
parlarmene».
«Chiunque si sarebbe fatto un’idea».
Si è voltata, piano: «È una cosa di cui non si può fare a
meno, eh?».
«Da quanto tempo conosceva Marriott?».
«Oh, da anni. Lavorava come speaker alla radio di mio
marito, la KFDK. L’ho conosciuto lì, dove ho conosciuto
anche mio marito».
«Questo lo sapevo, ma Marriott viveva come se soldi ne
avesse. Non una montagna, ma da starci comodo».
«Ne ha fatti un po’ e ha smesso con la radio».
«Lo sa per certo, o gliel’ha detto lui?».
Non sapendo bene, mi ha stretto di nuovo la mano.
«Magari ne ha fatti, ma non troppi, e li ha finiti alla
svelta». Ho stretto anch’io. «A lei ne ha mai chiesti?».
«Lei è un tipo un po’ antiquato, eh?». Guardava la mano
che le stavo tenendo.
«Sto ancora lavorando. E il suo scotch è così buono che
sono ancora mezzo sobrio. Non che io debba per forza
essere ubriaco...».
«Già». Ha ritratto la mano per massaggiarsela. «Deve
avere una certa presa... nel tempo libero. Lin Marriott era
un ricattatore d’alto bordo, naturalmente. Questo è ovvio.
Campava alle spalle delle donne».
«Anche alle sue?».
«Vuole che glielo dica?».
«Non sarebbe una cosa tanto saggia, credo».
È scoppiata a ridere. «Glielo dico lo stesso. Una volta, a
casa di Marriott, mi sono ubriacata un po’ troppo. Mi capita
di rado. Lui ne ha approfittato per scattarmi alcune foto...
con i vestiti tirati su».
«Che porco. Non ne avrebbe qualcuna a portata di
mano?».
Mi sono preso uno schiaffetto su un polso. Poi mi ha
chiesto, in un soffio, come mi chiamavo.
«Phil. E tu?».
«Helen. Baciami».
Mi si è appoggiata dolcemente addosso, mentre mi
chinavo a perlustrare il suo viso. Strusciandomi sulle
guance, le ciglia davano piccoli baci da farfalla. Quando
l’ho raggiunta, la bocca era socchiusa e incandescente, con
la lingua che guizzava tra i denti come una serpe.
Si è aperta la porta, e nella sala ha fatto il suo silenzioso
ingresso Mr. Grayle. Avevo sua moglie tra le braccia, e non
c’era modo di negarlo. Ho alzato la testa e l’ho guardato.
Mi sentivo freddo come i piedi di Finnegan al momento
della sepoltura.
La bionda non solo non si è mossa, non ha neppure chiuso
la bocca. Aveva un’espressione per metà sognante e per
metà sarcastica.
Mr. Grayle si è schiarito leggermente la voce: «Chiedo
scusa» ha detto. Poi è uscito senza aggiungere altro. Nei
suoi occhi c’era una tristezza infinita.
L’ho scostata e mi sono alzato in piedi, asciugandomi col
fazzoletto.
Mrs. Grayle è rimasta come l’avevo lasciata: semidistesa
sul divano, e con un bel tratto di pelle in mostra al di sopra
della calza.
«Chi era?» ha chiesto con voce impastata.
«Mr. Grayle».
«Ignoralo».
Mi sono allontanato, tornando alla poltrona su cui mi ero
seduto al mio arrivo.
Un attimo dopo si è rimessa a sedere, guardandomi con
aria curiosa.
«Va tutto bene. È comprensivo. Che diavolo può
aspettarsi, del resto?».
«Lui secondo me lo sa».
«Be’, ti assicuro che va tutto bene. Non ti basta? È un
uomo malato. Che diavolo...».
«Non metterti a strillare con me. Non mi piacciono le
scene».
Da una borsa posata accanto a lei ha preso un piccolo
fazzoletto con cui si è pulita le labbra, per poi controllarsi
in uno specchietto.
«Credo tu abbia ragione. Troppo scotch. Stasera al
Belvedere. Alle dieci». Non mi stava guardando. Aveva il
respiro leggermente affannoso.
«È un bel posto?».
«Il padrone è Laird Brunette. Lo conosco piuttosto bene».
«D’accordo». Ero di nuovo freddo. Mi sentivo perfido,
manco avessi borseggiato un poveraccio.
Ha tirato fuori un rossetto, si è ritoccata leggermente le
labbra e mi ha guardato di traverso. Poi mi ha lanciato lo
specchietto, che ho preso al volo. Ho cercato di riparare col
fazzoletto per quanto potevo, e gliel’ho restituito.
Era reclinata all’indietro, con il collo completamente
scoperto, e mi guardava languida.
«Cosa c’è?».
«Niente. Alle dieci al Belvedere. Non vestirti troppo. Io ho
a malapena qualcosa da mettermi per andare a cena. Al
bar?».
Ha annuito, lo sguardo sempre languido.
Ho attraversato la stanza e sono uscito, senza voltarmi. Il
valletto mi è venuto incontro in anticamera e mi ha passato
il cappello, con una faccia che sembrava intagliata nella
pietra.
19

Ho preso il vialetto curvo e mi sono perso fra le ombre


delle alte siepi ben modellate, ma alla fine ho guadagnato il
cancello. L’uomo di guardia al fortino era cambiato: ci ha
avevano messo un tipo massiccio, in borghese, chiaramente
una guardia del corpo. Mi ha scortato fuori con un cenno
del capo.
Ho sentito il suono di un clacson. Il coupé di Miss Riordan
era parcheggiato dietro di me. Mi sono avvicinato e ho
messo il naso dentro. Anne aveva un’espressione non
amichevole, e sarcastica.
Era lì con le mani sul volante. Mani inguantate,
affusolate. Mi ha sorriso.
«Ho pensato di aspettare. Forse non sono affari miei, ma
sarei curiosa di sapere che impressione ti ha fatto».
«Scommetto che è tremenda, quando si sfila le
giarrettiere».
«Devi per forza parlare sempre in questo modo?». È
arrossita appena. «Voi uomini, a volte, vi odio. Vecchi,
giovani, quarterback, tenori, milionari brillanti, begli
uomini che fanno i gigolò e altri un po’ più malmessi che
fanno... che fanno gli investigatori».
Stavolta le ho sorriso io, un po’ imbarazzato. «A volte
sono troppo sboccato, lo so, ma è un segno dei tempi. Chi ti
ha detto che era un gigolò?».
«Chi?».
«Non fare la finta tonta. Marriott».
«Oh, era una semplice supposizione. Scusami. Non volevo
essere scortese. Immagino che potresti sfilargliele anche
tu, le giarrettiere. Però una cosa devi saperla: sei solo
l’ultimo arrivato».
La via ampia e tortuosa sonnecchiava placida al sole. Un
furgoncino dipinto di fresco si è fermato senza far rumore
davanti a una delle case di fronte, poi ha imboccato in retro
il vialetto d’accesso che conduceva a un ingresso laterale.
Sulla fiancata si leggeva la scritta: «Bay City Infant
Service».
Anne si è sporta verso di me, gli occhi grigio-azzurri di
qualche tonalità più cupi. Ha cacciato fuori quel labbro
leggermente troppo lungo, poi come al solito se l’è preso
fra i denti. Nel suo respiro c’era una nota lieve, ma acuta.
«Preferisci che mi faccia i fatti miei, vero? E che non mi
vengano idee che non sono venute prima a te. Ti chiedo
scusa, volevo solo darti una mano».
«Non ne ho bisogno. E la polizia non ha bisogno che
gliene dia una io. Non posso fare niente per Mrs. Grayle.
Ha raccontato di una birreria con davanti un’auto
parcheggiata che li ha seguiti, ma cosa se ne deduce? Era
un posto scalcinato lungo il Santa Monica Boulevard,
eppure i rapinatori erano tutt’altro che scalcinati. Qualcuno
di loro era persino in grado di riconoscere la giada Fei Tsui
a prima vista».
«Ammesso che non gliel’abbia suggerito qualcun altro».
«C’è anche questa possibilità» ho ammesso, trafficando
col pacchetto di sigarette per tirarne fuori una. «In ogni
caso, io non posso farci niente».
«Neanche per quanto riguarda la parapsicologia?».
L’ho guardata abbastanza inespressivo.
«Parapsicologia?».
«Mio Dio» ha detto sottovoce. «E io che ti credevo un
detective».
«Su una parte di questa storia hanno messo la sordina.
Devo stare attento a come mi muovo. Grayle è impaccato di
soldi. E in questa città così tanti soldi li puoi fare solo con
la protezione della legge. Basta guardare come si comporta
la polizia. Nessuna reazione, nessuna notizia passata ai
giornali, nessuna possibilità per un fesso che viene da fuori
di scovare l’indizio marginale che finisce per rivelarsi
risolutivo. Un muro di silenzio, e il chiaro invito a lasciar
perdere. Non mi piace per niente».
«Il rossetto sei riuscito a togliertelo quasi del tutto» ha
detto Anne. «Io, comunque, parlavo di parapsicologia. Be’,
addio. È stato un piacere conoscerti... entro un certo
limite».
Ha premuto il pulsante di avviamento, innestato
bruscamente la prima e se n’è andata in un turbine di
polvere.
L’ho guardata allontanarsi. Quando è scomparsa ho
osservato il marciapiede di fronte. L’autista del furgoncino
è uscito dall’ingresso laterale in un’uniforme così bianca e
inamidata e smagliante che ti faceva sentire pulito solo a
guardarla. Aveva in mano una scatola di cartone. L’ha
depositata nel retro del veicolo e se n’è andato anche lui.
Ho immaginato che avesse appena cambiato un
pannolino.
Sono salito in macchina, e prima di partire ho dato
un’occhiata all’orologio. Quasi le cinque.
Lo scotch, come sempre quando è di buona qualità, mi ha
tenuto compagnia per tutto il tragitto fino a Hollywood.
Non riuscivo neppure a prendermela coi semafori rossi.
«Ci sarebbe una bella ragazzina,» mi sono detto ad alta
voce, seduto al volante «se uno fosse interessato alle belle
ragazzine». Nessuno ha risposto. «Io, però, non sono
interessato» ho continuato. Di nuovo, nessun commento.
«Alle dieci al Belvedere» ho detto. Stavolta qualcuno ha
risposto: «Puah».
Pareva proprio la mia voce.
Mancava un quarto alle sei quando sono arrivato nel mio
ufficio. Che pace. La macchina da scrivere era a riposo. Ho
acceso la pipa e mi sono seduto ad aspettare.
20

L’indiano puzzava. Quando ho sentito il campanello sulla


strada e ho aperto per vedere chi fosse, l’odore ha subito
invaso la piccola anticamera. L’indiano si è fermato dopo un
passo: pareva una statua di bronzo. Era grande e grosso,
dalla vita in su, con un petto enorme. Aveva l’aria di un
barbone.
Portava un completo marrone con giacca troppo piccola e
pantaloni un po’ troppo stretti, sotto le ascelle. Il cappello
era di almeno due taglie troppo piccolo, oltre che
impregnato del sudore di qualcuno cui calzava molto
meglio che a lui. Lo aveva sistemato nel punto in cui, in una
casa, si sistema la banderuola. Il colletto gli stava come un
finimento da cavallo e aveva la stessa sfumatura
marroncina. Una cravatta penzolava tra le falde della
giacca aperta: una cravatta nera, annodata con un paio di
tenaglie a formare un nodo piccolo come una lenticchia.
Intorno al collo nudo e poderoso, sopra il colletto sudicio,
aveva un ampio nastro nero, come una vecchia che cerchi
di sembrare più giovane.
Sul faccione piatto spiccava un naso carnoso
dall’attaccatura alta, solido come la prua di un incrociatore.
Occhi che parevano senza palpebre, mento un po’ cadente,
spalle da fabbro, gambe che parevano reggerlo male, ma
che a guardar meglio erano solo corte.
Con una bella ripulita, e una tunica bianca addosso,
sarebbe sembrato un crudelissimo senatore dell’antica
Roma.
Puzzava di terra, non di quelle schifezze di cui puzziamo
noi in città.
«Oh» ha detto. «Tu devi venire. Molto svelto».
Sono entrato in ufficio camminando all’indietro,
facendogli cenno con un dito di seguirmi. Ha eseguito, con
lo stesso rumore di una mosca che zampetta su una parete.
Mi sono seduto alla scrivania facendo stridere la
poltroncina girevole come un vero professionista, e
indicandogli allo stesso tempo la sedia riservata al cliente.
Ma lui ha declinato. I suoi occhi neri avevano
un’espressione ostile.
«Venire dove?» ho provato a chiedergli.
«Oh. Io Second Planting. Io indiano di Hollywood».
«Si accomodi, Mr. Planting».
Quando sbuffava, le narici gli diventavano enormi. E sì
che già prima sarebbero andate bene come tane per topi.
«Mio nome Second Planting. No Mr. Planting».
«Che cosa posso fare per te, Second?».
Mi ha risposto con una specie di tuono, che gli arrivava
dalle profondità del petto. «Aspetta. Lui dice vieni svelto.
Grande vecchio bianco, dice vieni svelto. Dice a me porta te
in carro. Dice...».
«Sì, guarda che non siamo al carnevale di New Orleans».
«Tu sei pazzo» ha detto l’indiano.
Ci siamo guardati per un attimo, sogghignando tutti e
due. Devo ammettere che sogghignava meglio di me. Poi si
è cavato il cappello con enorme fastidio e lo ha capovolto.
Ha passato un dito sotto la fascetta tergisudore
facendomela inevitabilmente vedere, e anche capire perché
si chiama così. Quindi ha tolto una graffetta appuntata sul
bordo della fascia e ha gettato sulla scrivania un pezzo di
carta velina ripiegato. Lo ha indicato con un’unghia ben
masticata, e una certa rabbia. Per via del cappello troppo
stretto, i capelli impiastricciati gli avevano formato uno
strano cornicione sulla sommità della testa.
Dentro la carta velina c’era un biglietto da visita. Non mi
giungeva nuovo. Era identico a quelli usati come filtri per le
tre sigarette similrusse.
Ho giocherellato con la pipa, fissandolo per vedere se
riuscivo a domarlo con lo sguardo. Mi sembrava nervoso
come un muro di mattoni.
«D’accordo. Cosa vuole il grande vecchio bianco?».
«Vuole che vieni svelto. Vieni subito. Vieni con il carro...».
«Sei pazzo» ho detto.
Ah, questa gli era proprio piaciuta. Ha chiuso la bocca un
millimetro alla volta, poi ha strizzato con enorme solennità
un occhio. Ha persino sorriso.
«Inoltre, gli costa un cento sull’unghia» ho aggiunto,
come stessi parlando di spiccioli.
«Eh?». Ecco, lo avevo di nuovo allarmato. Forse era
meglio parlare come un cristiano.
«Cento dollari» ho detto. «Cento banconote da uno, cento
pezzi, capito? Io niente soldi, io non viene. Chiaro?».
Casomai non lo fosse, mi sono messo a contare cento a due
mani.
«Oh. Tu persona molto molto importante» ha detto
Second, sarcastico.
Ha infilato due dita sotto la fascia bisunta del cappello e
gettato sulla scrivania un altro pezzo di carta velina. L’ho
preso e aperto. Conteneva una banconota da cento nuova di
zecca.
Second si è rimesso in testa il cappello senza
preoccuparsi di risistemare la fascetta. Così sembrava solo
un po’ più ridicolo. Intanto fissavo la banconota.
«Abbiamo un chiaroveggente qui, eh?» ho detto dopo un
po’. «Furbo come il diavolo. Ho quasi paura».
«Sì, e io non ho tutto giorno» ha detto lui, cordialmente.
Ho preso dal cassetto della scrivania la 38 automatica,
del tipo noto comunemente come Super Match. Per andare
dai Grayle non me l’ero portata. Mi sono tolto la giacca, ho
indossato fondina e pistola, stretto le cinghie – tutta la
cerimonia.
Per Second era come se mi fossi grattato il collo.
«Io ho auto» ha detto solo. «Grande auto».
«Non mi piace grande auto. Io ho mia auto».
«Tu vieni con mia auto». Era minaccioso.
«D’accordo».
Ho chiuso il cassetto della scrivania e anche l’ufficio, poi
ho disinserito il campanello della porta esterna, che come
sempre ho lasciato aperta.
Ci siamo fatti tutto il corridoio fino all’ascensore.
L’indiano puzzava. Se n’è accorto persino il lift.
21

L’auto era una berlina blu scuro a sette posti, l’ultima


fuoriserie Packard, pezzo unico. La classica auto in cui di
solito si sfoggia una collana di perle. Era parcheggiata
accanto a un idrante, e alla guida c’era un autista dalla
pelle scura e l’aria straniera, che pareva scolpito nel legno.
Gli interni erano rivestiti di ciniglia grigia trapuntata.
Second mi ha fatto accomodare sul sedile posteriore, dove
mi sentivo una specie di cadavere di lusso affidato a un
impresario di pompe funebri di un certo livello.
Second si è sistemato al posto del passeggero. A metà
isolato abbiamo fatto inversione. Un poliziotto, dall’altra
parte della strada, ha lanciato un «ehi», ma debole, quasi
che gli fosse sfuggito, per poi occuparsi immediatamente di
una stringa slacciata.
Ci siamo diretti a ovest, lungo il Sunset. Filavamo
abbastanza veloci, anche se la macchina sembrava
insonorizzata. Second sedeva immobile. Ogni tanto mi
arrivava sentore della sua personalità. L’autista pareva in
coma vigile, ma sorpassava le decappottabili più sportive
neanche le stessero trainando con il carro attrezzi. I
semafori sembravano diventare verdi apposta per lui. Certa
gente è così. Non ne ha mancato uno.
Per due o tre luminosi chilometri abbiamo seguito il
tracciato curvilineo dello Strip, oltre negozi di antiquariato
dai nomi di famose star del cinema, oltre vetrine piene di
pizzi e antichi oggetti in peltro, oltre i nuovi night club con
gli chef famosi e le non meno famose sale da gioco gestite
dai membri più presentabili della Purple Gang, oltre case in
stile georgiano coloniale che nessuno oggi avrebbe più
voluto anche solo vedere, oltre begli edifici modernisti dove
gli spacciatori di carne per Hollywood non smettono mai di
parlare di soldi, oltre un ristorante drive-in che pareva
chissà perché fuori posto, anche se le ragazze indossavano
camicette di seta bianca, sciaccò da majorette e, al di sotto
dei fianchi, solo lucidi stivali assiani di capretto. Dopo lo
stradone che curvava fino al sentiero per cavalli di Beverly
Hills, ci siamo diretti a sud, verso le luci di tutti i colori
dello spettro, terse nella serata senza nebbia, oltre le
sontuose residenze ombreggiate sulle colline a nord, e poi
oltre Beverly Hills, su per il boulevard ai piedi delle colline,
con il crepuscolo improvviso e fresco e le folate di vento dal
mare.
La calura del pomeriggio era solo un ricordo. Siamo
sfrecciati davanti a un lontano accrocco di edifici con tutte
le luci accese e a un’interminabile serie di dimore
sfolgoranti, nessuna troppo vicina alla strada. Quindi siamo
scesi di nuovo per aggirare un gigantesco e verdissimo
campo da polo con accanto un altro campo d’allenamento
non meno grande, e poi siamo risaliti fino in cima a una
collina e abbiamo preso un nastro di cemento che
attraversava alcuni aranceti – probabilmente piantati per
scherzo da un creso, poiché non era zona. Finalmente sono
terminate anche le case dei cresi, e la strada si è ristretta:
eravamo a Stillwood Heights.
Il profumo di salvia che saliva da un canyon mi ha fatto
pensare a un morto e a un cielo senza luna. Sul fianco della
collina c’erano case a stucco simili a bassorilievi. Poi solo le
colline immobili e buie ai piedi dei monti, sovrastate da un
paio di stelle precoci. Su un lato del nastro di cemento, un
ripido burrone coperto da un intrico di arbusti di quercia e
uva ursina – uno di quelli dove a volte, se ci si ferma
restando in silenzio, si sente il richiamo delle quaglie.
Sull’altro lato c’era un terrapieno di argilla grezza, al quale
alcuni fiori selvatici si aggrappavano come mocciosi che
non vogliono saperne di andare a dormire.
Dopo una curva a gomito i grossi pneumatici hanno
cominciato a gracchiare sui sassolini, e addio silenzio. La
macchina ha imboccato un lungo vialetto d’accesso
fiancheggiato da gerani selvatici. In cima al vialetto,
debolmente illuminato, solitario come un faro, si ergeva un
nido d’aquila, un rifugio inaccessibile, uno squadrato
edificio in vetrocemento, grezzo e modernista, ma non
brutto. Giusto il posto dove avrei aperto bottega, se fossi
stato un parapsicologo. Nessuno avrebbe mai potuto
sentire le urla.
Quando l’auto ha girato un angolo dell’edificio, si è
accesa una luce sopra una porta nera ritagliata in un muro
massiccio. Protestando a bassa voce, Second è sceso per
aprirmi la portiera. Un odore di tabacco bruciato proveniva
dall’autista, che si era acceso una sigaretta con un
accendino elettrico. Sono sceso.
Ci siamo avvicinati alla porta nera, che si è aperta da
sola, con una lentezza quasi minacciosa. Oltre la porta, un
angusto corridoio si inoltrava nelle viscere della casa. Una
luce soffusa giungeva dalle pareti in vetrocemento.
Second ha sibilato: «Oh. Persona importante, entra».
«Dopo di lei, Mr. Planting».
Aggrottando le sopracciglia, ha eseguito. La porta si è
richiusa dietro di noi, silenziosamente e misteriosamente
come si era aperta. In fondo al corridoio ci siamo infilati in
un minuscolo ascensore. Second ha premuto un pulsante e
siamo saliti, scivolando come sulla seta. Il puzzo che aveva
emanato fino a quel momento era solo un’ombra lunare in
confronto a quello che si sentiva adesso.
Quando l’ascensore si è fermato, la porta si è aperta da
sola. C’era luce. Il giorno, nella stanza a torretta, cercava
di lasciare un ultimo ricordo. C’erano finestre tutt’intorno.
Il mare brillava, in lontananza, mentre le tenebre
avanzavano di soppiatto sulle colline. Dove non c’erano
finestre c’erano pareti perlinate, e sul pavimento vecchi
tappeti persiani dai colori tenui. C’era anche una scrivania
che sembrava fatta con intagli trafugati da una chiesa
antica. Doveva essere la reception. Da dietro la scrivania,
una donna mi ha rivolto un sorriso tirato e avvizzito che si
sarebbe tramutato in polvere solo a toccarlo.
Aveva un’elegante acconciatura a boccoli e un viso scuro,
magro e sciupato, dai tratti asiatici. Alle orecchie portava
pesanti pietre colorate, e alle dita anelli altrettanto pesanti,
tra cui una pietra di luna e uno smeraldo in un castone
d’argento che poteva anche essere vero, pur riuscendo in
qualche modo a sembrare falso quanto un bracciale alla
schiava trovato da un rigattiere. Aveva mani secche, scure,
non giovani, inadatte agli anelli.
Quella voce e quell’accento straniero li avevo già sentiti.
«Ah, Mr. Marlowe, è stato molto gentile a venire. Amthor
ne sarà felicissimo».
Ho posato sulla scrivania la banconota da cento che mi
aveva dato l’indiano. A proposito... Mi sono voltato, ma
aveva ripreso l’ascensore.
«Mi spiace. È un pensiero gentile, ma non posso
accettarli».
«Amthor... vorrebbe ingaggiarla. Non va bene?». Mi ha
sorriso di nuovo. Le sue labbra frusciavano come carta
velina.
«Preferirei prima capire di che lavoro si tratta».
Ha annuito e si è alzata, prendendosi il suo tempo. Mi è
passata davanti in un vestito aderente che la fasciava come
una coda di sirena, mettendone in evidenza le forme. Belle,
per chi apprezza fianchi quattro taglie più larghi del
girovita.
«Prego, le faccio strada».
Ha premuto un pulsante incorporato nel rivestimento
della parete, e una porta si è aperta scorrendo. Subito oltre
c’era una luce lattea. Prima di procedere mi sono voltato a
guardare il suo sorriso: più antico dell’antico Egitto. La
porta si è richiusa, felpata, alle mie spalle.
Nella stanza non c’era nessuno.
Era ottagonale e drappeggiata di velluto nero dal
pavimento al soffitto, che era altissimo, nero, forse
anch’esso rivestito di velluto. Al centro di un tappeto opaco
color carbone c’era un tavolino ottagonale bianco, grande
appena a sufficienza per appoggiarci due paia di gomiti, e
al centro del tavolino una sfera bianco latte su un supporto
nero. La luce proveniva dalla sfera. Come, non era chiaro. A
due lati opposti del tavolino, due sgabelli ottagonali bianchi
che parevano versioni ridotte del tavolino stesso. Contro
una parete, un altro sgabello identico. Niente finestre.
Nient’altro, in realtà, niente di niente. Alle pareti, neanche
una lampada. Altre porte, ammesso che ve ne fossero, non
ne ho viste. E quando mi sono voltato verso quella da cui
ero entrato non ho visto nemmeno quella.
Sono rimasto in piedi per una quindicina di secondi con la
vaga e oscura sensazione di essere osservato.
Probabilmente doveva esserci uno spioncino, da qualche
parte, ma non riuscivo a capire dove. A un certo punto ho
rinunciato a cercarlo. Ascoltavo il mio respiro: la stanza era
così silenziosa che lo sentivo passare per le narici,
sommesso, come un lieve fruscio di tende.
Poi, sul lato più lontano da me, si è aperta una porta a
scomparsa, che ha lasciato passere un tale e si è richiusa. Il
nuovo arrivato è andato dritto verso il tavolo, a capo chino,
si è seduto su uno sgabello ottagonale e ha fatto un ampio
gesto con una delle mani più belle che avessi visto in vita
mia.
«Prego, si accomodi. Di fronte a me. Non fumi e stia
fermo. Cerchi di rilassarsi, completamente. Mi dica: come
posso servirla?».
Mi sono seduto, ho infilato una sigaretta tra le labbra e
l’ho fatta ballare per un po’, senza accenderla. L’ho studiato
con estrema attenzione. Era magro, alto e dritto come un
tondino d’acciaio. Aveva i capelli più bianchi, più chiari e
più sottili che avessi mai visto. Sarebbero facilmente
passati attraverso una garza di seta. La pelle era fresca
come un petalo di rosa. Poteva avere trentacinque anni, o
sessantacinque. Era senza età. I capelli tirati all’indietro
mettevano in risalto un profilo non meno affascinante di
quello di Barrymore. Le sopracciglia erano nero carbone,
cioè come le pareti, il soffitto e il pavimento. Gli occhi
erano profondi, persino troppo. Erano gli occhi drogati e
insondabili di un sonnambulo. Assomigliavano a un pozzo di
cui avevo letto tempo prima, vecchio novecento anni, al
centro di un antico castello. Ci si getta una moneta e poi si
attende con le orecchie dritte, fino a quando, con una
risata, si decide di lasciar perdere. E a quel punto, quando
uno sta per andarsene, dal fondo del pozzo giunge un
flebile rumore liquido, talmente impercettibile e remoto da
far dubitare che un pozzo così profondo possa esistere.
Ecco, i suoi occhi avevano quella profondità. E inoltre
erano privi di espressione, di anima. Credo potessero
assistere impassibili allo strazio di un uomo dato in pasto ai
leoni, o impalato, o senza più palpebre sotto un sole
rovente.
Indossava un doppiopetto nero da uomo d’affari, tagliato
e cucito da un maestro. Mi ha fissato distrattamente le dita.
«Stia fermo, per cortesia. Il suo movimento interrompe le
onde, disturba la mia concentrazione».
«Fa sciogliere il ghiaccio, colare il burro e spaventare il
gatto».
Mi ha rivolto il sorriso più debole di tutti i tempi. «Non
credo sia venuto qui per mancarmi di rispetto».
«Forse le sfugge il motivo della mia visita. A proposito, ho
restituito i cento dollari alla sua segretaria. Sono venuto
qui per via di certe sigarette, magari le dicono qualcosa.
Sigarette russe piene di marijuana. Con il suo biglietto da
visita come filtro».
«Vuole sapere come sia potuto accadere?».
«Già. Sono io che dovrei dare cento dollari a lei».
«Non sarà necessario. La risposta è semplice. Ci sono
cose che ignoro. Questa è una».
Stavo quasi per credergli. Aveva la faccia liscia come l’ala
di un angelo.
«Allora perché mi ha mandato i cento dollari, e
quell’indiano cattivo e fetente, e la macchina? A proposito,
l’indiano deve per forza fetere a quel modo? Visto che
lavora per lei, non potrebbe convincerlo a farsi un bagno?».
«È un medium naturale. Sono molto rari, come i diamanti,
e come i diamanti si trovano talvolta in posti poco puliti. Se
ho capito bene, lei è un investigatore privato».
«Ha capito bene».
«Penso che lei sia una persona molto stupida. Ha l’aria
dello stupido. Fa un lavoro stupido. Ed è venuto qui con un
obiettivo stupido».
«Ho capito. Sono stupido. Sa, dopo un po’ lo afferro, il
concetto».
«E penso che non sia il caso di trattenerla oltre».
«Ma non mi sta trattenendo. Sono io che trattengo lei.
Voglio sapere come mai i suoi biglietti da visita sono finiti
in quelle sigarette».
Ha scrollato le spalle, il meno possibile. «I miei biglietti
da visita sono a disposizione di chiunque. Non distribuisco
sigarette di marijuana ai miei amici. La sua domanda resta
comunque stupida».
«Chissà se questo particolare le rinfresca la memoria: le
sigarette erano in un dozzinale portasigarette cinese o
giapponese in finta tartaruga. Mai visto nulla del genere?».
«No, che io ricordi».
«Proverò a rinfrescarle la memoria un altro po’. Il
portasigarette lo aveva in tasca un certo Lindsay Marriott.
Mai sentito?».
Ci ha pensato. «Sì. Una volta è venuto da me per un
problema di timidezza davanti alla cinepresa. Voleva
lavorare per il cinema. Ma il cinema non lo voleva».
«Immagino. Sarebbe sembrato una specie di Isadora
Duncan. Resta ancora una domanda, più importante:
perché quei cento dollari?».
«Mio caro Marlowe,» ha detto con freddezza «non sono
uno sprovveduto. Faccio un mestiere molto delicato. Sono
uno stregone. In altre parole, faccio cose che i medici,
nell’ambito della loro meschina, paurosa ed egoistica
corporazione, non sono in grado di fare. Mi trovo
continuamente in pericolo... per colpa di gente come lei. E
prima di affrontare un pericolo mi serve una stima».
«Un pericolo trascurabile, nel mio caso, eh?».
«Pressoché inesistente» ha risposto, con cortesia. Poi ha
fatto uno strano movimento con la sinistra, che ho seguito
con gli occhi. Ha posato con estrema lentezza la mano sul
tavolo bianco, ed è rimasto a osservarla. Alla fine mi ha
piantato addosso quegli occhi insondabili, incrociando le
braccia.
«Il suo udito...».
«Sento la puzza, adesso» ho detto. «Mi ero quasi
dimenticato di lui».
Mi sono voltato verso sinistra. Second era seduto sul
terzo sgabello bianco, contro la parete di velluto nero.
Sopra i soliti vestiti portava una specie di grembiule
bianco. Era immobile, con gli occhi chiusi, la testa
leggermente china in avanti, come stesse dormendo da
un’ora. La faccia scura e marcata era piena di ombre.
Sono tornato su Amthor. Aveva stampato in faccia un
sorriso quasi invisibile.
«Scommetto che alle vedove questa scena fa cascare la
dentiera. Cosa fa quando in ballo ci sono soldi veri? Si siede
sulle sue ginocchia e si mette a cantare in francese?».
Amthor si è fatto sfuggire un gesto di stizza.
«Venga al sodo, la prego».
«Ieri sera Marriott mi ha chiesto di accompagnarlo a
consegnare una busta piena di soldi a certi delinquenti, in
un certo posto scelto da loro. Io mi sono preso una botta in
testa. Quando mi sono svegliato, Marriott era stato
assassinato».
Non è che Amthor abbia cambiato espressione. Non si è
messo a strillare né si è arrampicato sulle pareti. Per uno
come lui, però, la reazione è stata vistosa. Ha sciolto le
braccia conserte, poi le ha incrociate al contrario. La bocca
aveva una piega torva. Stava seduto come un leone di
pietra davanti alla biblioteca pubblica.
«Le sigarette gli sono state trovate addosso» ho
continuato.
Mi ha guardato senza scomporsi. «Ma non dalla polizia,
deduco: qui non si è vista».
«Esatto».
«Cento dollari erano pochi» ha detto molto
sommessamente.
«Dipende da quello che sperava di comprarci».
«Ha con sé le sigarette?».
«Una. Ma le sigarette non provano niente. Come ha detto,
chiunque può entrare in possesso dei suoi biglietti da visita.
Mi domando solo come mai fossero lì. Ha qualche
suggerimento?».
«Conosceva bene Mr. Marriott?» mi ha chiesto tranquillo.
«Per niente. Ma mi sono fatto qualche idea su di lui: certe
cose saltavano all’occhio».
Amthor ha dato un colpetto sul tavolo bianco. Second
continuava a dormire con il mento appoggiato sul grosso
torace e le palpebre serrate.
«A proposito, conosce per caso Mrs. Grayle, una ricca
signora di Bay City?».
Ha annuito con distacco. «Sì. Ho curato le sue aree del
linguaggio. Aveva un lievissimo impedimento».
«L’ha curata alla perfezione. Ora parla bene almeno
quanto me».
Non l’ho fatto ridere. Ha ripreso a tamburellare. Quei
colpetti avevano qualcosa che non mi piaceva. Sembravano
un messaggio in codice. Ha smesso, è tornato a incrociare
le braccia e si è piegato all’indietro, senza schienale a
sostenerlo.
«Il bello di questo incarico è che tutti conoscono tutti» ho
detto. «Anche Mrs. Grayle conosceva Marriott».
«Come lo ha saputo?» mi ha chiesto, quasi si sforzasse di
interessarsi.
Non ho risposto.
«Dovrà parlare con la polizia... per quelle sigarette» ha
detto.
Mi sono stretto nelle spalle.
«Immagino che si starà domandando come mai non
l’abbia già fatta sbattere fuori» ha ripreso Amthor, tutto
contento. «Second Planting potrebbe spezzarle il collo
come un gambo di sedano. Me lo sto domandando anch’io,
a dire il vero. Lei sembra avere una qualche teoria. Ai
ricatti, però, non cedo. Pagare non serve a niente, e poi ho
molti amici. Ma, naturalmente, ci sono anche soggetti che
vorrebbero mettermi in cattiva luce. Psichiatri, sessuologi,
neurologi, perfidi omuncoli con i loro martelletti di gomma
e gli scaffali carichi di tomi sulle aberrazioni. Com’è ovvio,
sono tutti dottori. Mentre io rimango uno stregone. Qual è
la sua teoria?».
L’ho fissato cercando di fargli abbassare lo sguardo, ma
niente. Mi sono scoperto a leccarmi le labbra.
Lui si è stretto impercettibilmente nelle spalle. «Non
posso biasimarla, se vuole tenersela per sé. Forse lei è un
uomo molto più intelligente di quanto credessi. Anch’io
posso sbagliarmi. Intanto...». Si è piegato in avanti,
posando entrambe le mani sul globo latteo.
«Credo che Marriott ricattasse le donne,» ho detto «e
imbeccasse una banda di rapinatori. Ma chi gli segnalava le
donne giuste, in modo da scoprire i loro movimenti, entrare
nelle loro grazie, amoreggiarci, e poi prendere di nascosto
un telefono e dire ai ragazzi dove colpire?».
«È questa, dunque, l’idea che si è fatto sul conto di
Marriott, e sul mio? Sono leggermente disgustato».
Mi sono sporto in avanti, piazzando la faccia a non più di
una spanna dalla sua. «Lei fa parte di un’associazione a
delinquere. Può condirla come le pare, ma la sostanza non
cambia. Non l’ho capito soltanto dai biglietti da visita.
Come dicevamo, chiunque potrebbe entrarne in possesso. E
nemmeno dalla marijuana. Lei non si sporcherebbe mai le
mani in traffici così infimi, viste le opportunità che ha. Sul
retro di ogni biglietto da visita, però, c’è uno spazio vuoto.
E in spazi del genere, ma anche in quelli pieni di scritte, a
volte ci sono parole che non si vedono».
Ha sorriso torvo, ma ho fatto appena in tempo a vederlo.
Le sue mani si sono mosse sopra la sfera.
La luce si è spenta. La stanza è sprofondata in un nero
più nero della cuffia di Carrie Nation.
22

Sono schizzato in piedi scalciando all’indietro lo sgabello,


e a fatica ho estratto la pistola dalla fondina. Inutile. Avevo
la giacca abbottonata, e ci ho messo troppo. Ci avrei messo
troppo comunque, se si fosse trattato di sparare a
qualcuno.
Subito dopo sono arrivati un silenzioso spostamento
d’aria e quella puzza di terra. Nel buio totale, Second mi è
piombato addosso da dietro e mi ha bloccato le braccia
lungo i fianchi. Poi mi ha sollevato. Avrei ancora potuto
puntare la pistola e sventagliare a casaccio per la stanza,
ma non avevo amici nelle vicinanze. Ho pensato che
sarebbe stata una mossa insensata.
Ho mollato la presa sulla pistola e ho afferrato i polsi
dell’indiano. Erano viscidi, difficili da stringere. Un respiro
gutturale, e Second mi ha posato al suolo con tale violenza
da farmi sobbalzare la calotta cranica. A quel punto me li
ha presi lui, i polsi, e me li ha torti dietro la schiena, contro
la quale, un attimo dopo, mi sono ritrovato un ginocchio
non diverso da una pietra angolare, che mi ha piegato. Mi
si può piegare. Non sono il palazzo della City Hall. E infatti
mi ha piegato.
Chissà perché, ho provato a gridare, senza alcuna
ragione. Il fiato mi raspava in gola, ma senza uscire.
Second mi ha girato su un fianco, e mentre cadevo mi ha
immobilizzato con una forbice. Ero bloccato. Mi ha messo
le mani al collo. A volte mi sveglio in piena notte e le sento
ancora lì, insieme al fetore. Sento il respiro che combatte e
perde, e le dita unte che affondano nella gola. Al che mi
alzo, mi faccio un bicchiere e accendo la radio.
Quando ormai ero più di là che di qua, si è riaccesa la
luce, rossa, per via di tutto il sangue che avevo agli occhi.
Ho intravisto una faccia e sentito due mani addosso, anche
se avevo ancora quelle di prima strette intorno al collo.
Una voce ha detto, con calma: «Lascialo respirare un
po’».
La presa si è allentata, e sono riuscito a divincolarmi.
Qualcosa di lucido mi ha colpito a una mandibola.
La voce di prima: «Rimettilo in piedi».
Second ha eseguito. Mi ha spinto contro una parete,
sempre torcendomi i polsi dietro la schiena.
«Dilettante». La voce era sempre la stessa, e quella cosa
lucente, dura e amara come la morte, mi ha colpito di
nuovo in faccia. Ho sentito colare qualcosa di caldo: ho
tirato fuori la lingua, e ho percepito in bocca un sapore di
ferro e sale.
Una mano mi ha frugato prima nel portafoglio, poi in
tutte le tasche. Ha estratto l’involto di carta velina che
conteneva la sigaretta e l’ha aperto. Un attimo dopo l’ho
vista sparire non so dove, nella foschia che mi circondava.
«Non erano tre, le sigarette?» ha chiesto la voce con
gentilezza, mentre la cosa lucente mi colpiva ancora nello
stesso punto.
«Sì» ho risposto con un singulto.
«Dove hai detto che sono le altre due?».
«Nella mia scrivania, in ufficio».
La cosa lucente, di nuovo. «Probabilmente stai mentendo,
ma posso controllare». Un mazzo di chiavi mi si è mosso
davanti, con strani riflessi rossi. La voce ha detto:
«Soffocalo un altro po’».
Le dita di ferro mi hanno serrato la gola. Ero curvo contro
di lui, il suo tanfo, i suoi addominali tesi. Allungando una
mano gli ho preso un dito e ho cercato di storcerglielo.
La voce ha detto con calma: «Fantastico. Sta imparando».
L’oggetto luccicante ha tagliato l’aria per l’ennesima
volta. Mi ha colpito di nuovo alla mandibola, o a quel che
ne restava.
«Lascialo andare. È inoffensivo» ha detto la voce.
Le braccia forti e massicce hanno mollato la presa e mi
sono ritrovato sbilanciato in avanti, ma facendo un passo
sono riuscito a non cadere. Amthor mi stava di fronte, in
piedi, con un sorriso quasi sognante. La sua delicata,
bellissima mano impugnava la mia pistola. Me la puntava al
petto.
«Potrei insegnarti alcune cose» ha detto con la sua voce
suadente. «Ma a che pro? Un piccolo uomo sudicio in un
piccolo mondo sudicio. E un po’ di luce su di te non
servirebbe a cambiare la situazione. Sbaglio?». Mi ha fatto
un meraviglioso sorriso.
Mi ci sono scagliato contro, con tutta la forza che mi
restava.
Date le circostanze, poteva andar peggio: Amthor ha
barcollato, ha addirittura perso un po’ di sangue dal naso.
Ma si è ricomposto subito, tornando a puntarmi addosso la
pistola.
«Siediti, figliolo» ha detto. «Aspetto visite. Sono felice che
tu mi abbia colpito. Mi tornerà molto utile».
Ho cercato a tentoni lo sgabello bianco, mi ci sono seduto
e ho appoggiato la testa sul tavolino bianco, accanto alla
sfera che aveva ripreso a baluginare fioca. La fissavo con la
coda dell’occhio, e la testa appoggiata al tavolo. Quella luce
mi affascinava. Bella, soffusa.
Alle mie spalle e intorno a me, tutto era silenzio.
Credo di essermi addormentato, così, con la faccia
sanguinante sul tavolo, mentre un demonio slanciato e
bellissimo mi guardava e sorrideva, con la mia pistola in
mano.
23

«Okay» ha detto quello grosso. «Può bastare. Riprenditi,


adesso».
Ho aperto gli occhi e mi sono raddrizzato.
«Su, si va di là, zucchero».
Mi sono tirato in piedi, ancora nel mondo dei sogni.
Siamo andati in un’altra stanza, e ho capito subito dove
eravamo: nella reception con le finestre tutt’intorno. Fuori
era buio pesto.
La donna a cui non stavano bene gli anelli era alla sua
scrivania. In piedi accanto a lei c’era un uomo.
«Siediti qui, zucchero».
Mi ha spinto giù. Una bella sedia – schienale dritto, ma
comodo –, solo che io non ero dell’umore giusto. La donna
alla scrivania aveva un taccuino aperto e stava leggendo
qualcosa ad alta voce. Un uomo anziano, espressione
impenetrabile e baffi grigi, la stava ascoltando.
Amthor era in piedi davanti a una finestra, di spalle, e
fissava la placida linea dell’oceano in lontananza, oltre le
luci dei moli, al di là del mondo. Credo si stesse divertendo.
Ha girato la testa di novanta gradi, per un attimo, e mi ha
guardato. Il naso gli era cresciuto di un paio di misure.
Nonostante le labbra spaccate e tutto il resto, non ce l’ho
fatta a non sorridere.
«Ti diverti, zucchero?».
Ho guardato verso l’origine del suono, cioè l’uomo che mi
stava di fronte e che mi aveva aiutato a sedermi. Era un
bocciolo d’uomo sui cento chili, con le lentiggini fin sui
denti e la voce melliflua di uno strillone da circo. Era
robusto e svelto, uno che mangiava carne rossa. A lui non
la si faceva. Era il classico poliziotto che la sera, invece di
dire le preghiere, sputa sul suo manganello. Gli occhi, però,
erano spiritosi.
Era in piedi davanti a me a gambe divaricate, con in mano
il mio portafoglio aperto. Graffiava la pelle con l’unghia del
pollice destro, come si divertisse semplicemente a rovinare
le cose. Anche piccole, in mancanza meglio. Ma con le
facce doveva divertirsi di più.
«Un curiosone, vero, zucchero? Dalla grande città brutta
e cattiva, eh? Con un piccolo debole per i ricatti, eh?».
Portava il cappello praticamente dietro la testa. Sulla
fronte i capelli castano cenere erano scuriti dal sudore. Gli
occhi spiritosi erano venati di rosso.
Mi sentivo la gola come se l’avessero passata in uno
strizzatoio. Ho alzato una mano e me la sono toccata.
Quell’indiano. Al posto delle dita aveva ganasce d’acciaio.
La donna asiatica ha smesso di leggere e ha chiuso il
taccuino. Il piccoletto anziano dai baffi grigi ha annuito e si
è mosso verso di me, piazzandosi accanto a quell’altro.
«Poliziotti?» ho chiesto, massaggiandomi il mento.
«Secondo te, zucchero?».
Humour da sbirri. Il piccoletto aveva un occhio strabico e
pareva mezzo guercio.
«Non di Los Angeles» ho detto, guardandolo. «A Los
Angeles, con quell’occhio, l’avrebbero mandato in
pensione».
Quello grande e grosso mi ha restituito il portafoglio, che
ho subito aperto. Sorpresa. C’erano ancora i soldi, i
documenti, tutto.
«Dicci qualcosa, zucchero» ha detto lui. «Così magari ci
affezioniamo a te».
«Ridatemi la pistola».
Si è sporto un po’ in avanti, per rifletterci. Si vedeva che
stava pensando: gli faceva male ai calli. «Ah, rivuoi la tua
pistola, zucchero?». Ha guardato Baffetti, accanto a lui.
«Vuole la sua pistola» gli ha detto. È tornato su di me. «E
cosa ci vuoi fare, con la tua pistola, zucchero?».
«Voglio sparare a un indiano».
«Ah, vuoi sparare a un indiano».
«Sì, soltanto a un indiano... bang!».
Ha guardato di nuovo Baffetti. «Questo qui è un duro.
Vuole sparare a un indiano».
«Sta’ a sentire, Hemingway, non ripetere tutto quello che
dico».
«Secondo me è pazzo» ha detto quello grosso. «Mi ha
appena chiamato Hemingway. Voi cosa dite? È pazzo?».
Baffetti ha mordicchiato un sigaro senza dire nulla. Il
bell’uomo alto alla finestra, invece, si è voltato verso di noi:
«Un po’ squilibrato mi sembra, in effetti».
«Non capisco perché mi abbia chiamato Hemingway» ha
detto quello grosso. «Io non mi chiamo Hemingway».
«Io pistole non ne ho viste» ha detto Baffetti.
È intervenuto Amthor: «È di là. Ce l’ho io. Gliela
consegno subito, Mr. Blane».
Quello grosso si è chinato in avanti, piegando anche un
po’ le ginocchia. Forse per alitarmi meglio in faccia.
«Perché mi hai chiamato Hemingway, zucchero?».
«Ci sono delle signore».
Si è tirato su. «Sentito?». Si è voltato verso Baffetti, che
ha fatto cenno di sì, prima di avviarsi verso la porta
scorrevole, che si stava aprendo, e oltrepassarla, seguito da
Amthor.
È sceso il silenzio. L’asiatica ha abbassato lo sguardo sulla
scrivania. Non sembrava di buon umore. Quello grosso si è
concentrato sul mio sopracciglio destro e ha scosso
lentamente la testa, perplesso.
La porta si è riaperta, ed ecco di nuovo Baffetti. Da non
so dove ha preso un cappello, che mi ha porto. Poi ha
cavato di tasca la mia pistola e mi ha porto anche quella.
Dal peso, ho capito che era scarica. L’ho sistemata nella
fondina e mi sono alzato.
Quello grosso: «Su, zucchero, ora si va. Un po’ d’aria può
solo farti bene».
«Come vuoi, Hemingway».
«E dài co’ ’sto Hemingway» ha detto lui, piccato.
«Continua a chiamarmi Hemingway perché ci sono delle
signore. Sarà per via di qualche battutaccia? Ce ne sono,
nel libro di Hemingway?».
«Sbrighiamoci» ha detto Baffetti.
Quello grosso mi ha trascinato per un braccio fino al
piccolo ascensore. Quand’è arrivato al piano, ci siamo
entrati.
24

L’ascensore, il corridoio angusto, poi la porta nera.


Eravamo fuori. L’aria era limpida e frizzante: eravamo
abbastanza in alto, sopra lo strato di nebbiolina che saliva
dall’oceano. Ho inspirato a fondo.
Hemingway mi teneva ancora per il braccio. Davanti alla
casa c’era una macchina: una comunissima berlina scura,
con targa civile.
Sempre Hemingway mi ha aperto la portiera anteriore
destra. Sembrava desolato. «Non è un’auto alla tua altezza,
zucchero, lo so, ma un po’ d’aria ti farà bene. Che te ne
pare? Si fa tutto, per te, zucchero».
«Dov’è l’indiano?».
Ha scosso un po’ la testa, mentre mi spingeva sul sedile.
«Ah, già, l’indiano. Dovrai sparargli con l’arco e le frecce.
Così vuole la legge. È dietro».
Mi sono voltato. Nessuno.
«Accidenti, non c’è» ha detto Hemingway. «Qualcuno se
lo sarà fregato. Non si può più lasciare niente in macchina,
senza chiudere».
«Sbrighiamoci» ha detto Baffetti, sistemandosi sul sedile
posteriore. Hemingway ha fatto il giro, ha incastrato la sua
pancia soda dietro il volante e ha messo in moto.
Lentamente, abbiamo disceso il vialetto fiancheggiato dai
gerani selvatici. Dal mare saliva un vento fresco. Le stelle
erano troppo lontane. Non hanno detto nulla.
Alla fine del vialetto abbiamo svoltato sulla strada di
cemento, senza fretta.
«Come mai non sei venuto con la tua macchina,
zucchero?».
«Amthor ha mandato qualcuno a prendermi».
«E perché mai?».
«Immagino che volesse incontrarmi».
«Questo è uno in gamba» ha detto Hemingway. «Uno che
capisce al volo».
Ha sputato fuori dal finestrino, preso molto bene una
curva, e poi ha lasciato che l’auto scendesse per inerzia la
collina. «Lui dice che gli hai telefonato per cercare di
ricattarlo, così ha pensato fosse meglio vedere di persona
con chi doveva trattare... o se, eventualmente, trattare. Per
questo ha mandato una macchina».
«E siccome aveva già in mente di chiamare certi sbirri di
sua conoscenza, ha pensato che comunque, per tornare a
casa, la macchina non mi sarebbe servita. Come no,
Hemingway».
«Ancora... Okay. Be’, lui ha un dittafono sotto il tavolo, e
la sua segretaria prende nota di tutto. Quando siamo
arrivati, ha letto il resoconto al qui presente Mr. Blane».
Mi sono voltato a guardare Mr. Blane. Stava fumando un
sigaro. Era perfettamente a suo agio, come fosse in
pantofole. Non mi ha neanche guardato.
«Col cavolo» ho detto. «Saranno stati appunti preparati
apposta per casi del genere».
«Magari ti va di raccontarci come mai volevi incontrare
Amthor» ha suggerito cortesemente Hemingway.
«Finché ho ancora un pezzo di faccia, intendi?».
«Oh, non siamo quel genere di ragazzacci» ha detto, con
un ampio gesto.
«Amthor lo conoscete piuttosto bene, vero,
Hemingway?».
«Mr. Blane lo conosce un po’. Io faccio solo quello che mi
ordinano».
«Chi diavolo è Mr. Blane?».
«È il signore seduto alle nostre spalle».
«Sì, ma a parte questo chi diavolo è?».
«Oh, Gesù! Mr. Blane lo conoscono tutti».
«D’accordo». All’improvviso mi sentivo uno straccio.
Poi, altro silenzio, altre curve, altri tornanti di cemento,
altro buio e altro dolore.
Il silenzio lo ha rotto Hemingway: «Ora che siamo tra
amici e non ci sono signore, il motivo per cui sei andato
lassù non è poi tanto importante, ma la storia di
Hemingway mi ha proprio spezzato il cuore».
«È una gag» ho detto. «Una vecchia, vecchissima gag».
«Ma in che senso “Hemingway”?».
«Nel senso di uno che continua a ripetere sempre la
stessa cosa, finché non cominci a credere che sia vera».
«Deve volerci un’eternità. Certo che per essere un
detective privato hai una testa un po’ strana. Hai ancora
tutti i tuoi denti?».
«Sì, con qualche otturazione».
«Be’, sei un fortunello, zucchero».
È intervenuto Baffetti: «Va bene. Prendi la prossima a
destra».
«Ricevuto».
Hemingway ha sterzato per imboccare uno stretto
sterrato che correva sul fianco di una montagna. Abbiamo
fatto più di un chilometro, in un fortissimo odore di salvia.
«Ci siamo» ha detto Baffetti.
Hemingway si è fermato e ha tirato il freno a mano. Poi
mi è quasi passato sopra per aprire la portiera.
«Be’, è stato un piacere conoscerti, zucchero. Ma non
tornare più. Non per lavoro, almeno. Su, fila».
«Devo andare a casa a piedi da qui?».
«Sbrighiamoci» ha detto Baffetti.
«Sì, te ne vai a casa da qui, zucchero. Qualcosa in
contrario?».
«No, anzi. Avrò il tempo per pensare ad alcune cose. Ad
esempio, voialtri non siete poliziotti di Los Angeles. Ma uno
di voi è sicuramente uno sbirro, forse tutti e due. A occhio,
siete della polizia di Bay City. Mi domando come mai siate
intervenuti fuori dal vostro territorio».
«Non sarà un po’ difficile da dimostrare, zucchero?».
«Buonanotte, Hemingway».
Non ha replicato. Neanche l’altro. Ero quasi sceso, avevo
un piede sul predellino. La testa mi girava ancora un po’.
All’improvviso Baffetti si è mosso, così veloce che più che
vederlo l’ho captato. Sotto i piedi mi si è spalancata una
pozza buia e profonda, più di una notte senza luna.
Mi ci sono tuffato. Era senza fondo.
25

La stanza era piena di fumo.


Il fumo era sospeso nell’aria, dal soffitto al pavimento,
sotto forma di cordicelle sottili, come una tenda di perline
trasparenti. Sulla parete in fondo c’erano due finestre che
sembravano aperte, ma il fumo non si muoveva. La stanza
non l’avevo mai vista. C’erano sbarre alle finestre.
Ero intontito, non riuscivo a pensare. Mi pareva di aver
dormito un anno. Il fumo, però, mi dava fastidio. Mi sono
steso sulla schiena a pensarci su. Dopo un bel po’ ho
respirato a fondo. Ho sentito male ai polmoni.
Ho gridato: «Al fuoco!».
Mi è venuto da ridere. Non so cosa ci trovassi di tanto
divertente, ma ho cominciato a ridere. Stavo lì disteso e
ridevo. Però non mi piaceva, il suono di quella risata. Era la
risata di un pazzo.
Quell’unico grido è bastato. Ho sentito un rumore di passi
veloci fuori dalla stanza, poi una chiave che girava nella
serratura. La porta si è aperta di scatto. Un uomo è entrato
con un balzo di lato e l’ha richiusa. Ha portato la mano
destra al fianco.
Era un tipino tarchiato in camice bianco. Gli occhi
avevano un’espressione bizzarra: erano neri e scialbi, e agli
angoli esterni avevano come due bolle di pelle grigia.
Mi sono voltato dall’altra parte con uno sbadiglio.
«Non farci caso, Jack. Mi è scappato» ho detto.
È rimasto lì ingrugnito, con la destra penzoloni. Aveva
una faccia livida e perfida, la pelle sul grigio e un naso che
pareva una conchiglia.
«Magari vuoi che ti rimetta la camicia di forza» ha detto,
sprezzante.
«Sto bene, Jack. Benissimo. Ho fatto una lunga dormita.
Ho sognato un po’, credo. Dove mi trovo?».
«Nel posto che fa per te».
«Sembra un bel posto. Bella gente, bell’atmosfera. Mi sa
che farò un altro pisolino».
«Ti conviene».
È uscito. La porta si è richiusa, poi lo scatto della
serratura. I passi sono svaniti nel nulla.
Quanto al fumo, non era cambiato niente: era ancora
sospeso in mezzo alla stanza, come una tenda. Non si
dissolveva, non si disperdeva, non si muoveva. C’era aria,
nella stanza: la sentivo sulla faccia. Ma il fumo non si
muoveva. Una ragnatela grigia tessuta da migliaia di ragni.
Chissà come li avevano convinti a lavorare per loro.
Pigiama di cotone. Di quelli usati al County Hospital.
Senza aperture sul davanti, e neanche una cucitura in più
del necessario. Tessuto ruvido, grezzo. Lo sentivo sfregare
intorno al collo. La gola era ancora dolorante. Cominciavo a
ricordare qualcosa. Ho sollevato una mano per tastare i
muscoli della gola. Male. Soltanto a un indiano... bang! Va
bene, Hemingway. Insomma, vorresti fare il detective...
Guadagnare bei soldi. In nove facili lezioni. Distintivo in
omaggio. E con una spesa aggiuntiva di cinquanta
centesimi ti spediamo anche la fondina.
La gola mi faceva male, ma le dita non sentivano niente.
Praticamente un casco di banane. Le guardavo.
Sembravano dita. Di scarsa qualità, però. Forse le avevo
acquistate per corrispondenza. Dovevano avermele
mandate con il distintivo e la fondina. E il diploma.
Era notte. Il mondo fuori dalle finestre era tenebroso.
Una coppa di vetro, finta porcellana, pendeva al centro
della stanza, appesa a tre catene d’ottone. All’interno c’era
una luce. Sul bordo, piccoli grumi arancioni e blu, alternati.
Li fissavo. Il fumo mi aveva stancato. Mentre li fissavo, i
grumi avevano cominciato ad aprirsi come piccoli
boccaporti, da cui ora sbucavano delle teste. Testoline
minuscole, ma vive, simili a quelle delle bambole. C’era un
uomo con berretto alla marinara e naso alla Johnnie Walker,
e una bionda vaporosa con un cappello da film, e un tizio
magro con un farfallino tutto storto. Sembrava il classico
cameriere da locale acchiappacitrulli di una località
balneare. Ha schiuso le labbra con una smorfia: «La
bistecca la preferisce al sangue o ben cotta?».
Ho strizzato gli occhi, e quando li ho riaperti mi sono
ritrovato davanti un semplice lampadario in finta
porcellana appeso a tre catene d’ottone.
Il fumo continuava a non muoversi, l’aria sì.
Ho preso l’angolo di un lenzuolo ruvidissimo e mi sono
asciugato il sudore dalla faccia, usando le dita che mi aveva
spedito la scuola per corrispondenza dopo le nove facili
lezioni, metà pagate in anticipo, casella postale
duemilioniquattrocentosessantottomilanovecentoventiquatt
ro, Cedar City, Iowa. Follia. Follia totale.
Mi sono messo a sedere, e dopo un po’ sono riuscito a
toccare terra con i piedi. Erano nudi e come pieni di spilli.
Strumenti da cucito a sinistra, Madame. Spille da balia
giganti a destra. I piedi, ora, sentivano il pavimento. Mi
sono alzato. Troppo in alto. Non riuscivo quasi a respirare.
Reggendomi al bordo del letto ho provato a piegarmi. Una
voce che secondo me veniva da sotto il letto continuava a
ripetere: «Hai il delirium tremens. Hai il delirium tremens.
Hai il delirium tremens».
Ho provato a fare qualche passo. Barcollavo come un
ubriaco. Su un tavolino bianco smaltato tra le due finestre
c’era una bottiglia di whisky. Aveva una bella forma.
Sembrava mezzo piena. Mi sono avvicinato. C’è tanta brava
gente al mondo, nonostante tutto. Uno si lamenta, quando
legge il giornale del mattino, poi prende a calci negli
stinchi il vicino al cinema, e non ne può più dei politici che
gli fanno schifo, ma al mondo c’è comunque tanta brava
gente. Ad esempio, il tizio che aveva lasciato lì quella
mezza bottiglia: quello aveva un cuore grande come un
fianco di Mae West.
Mi sono allungato afferrandola con le mani semintorpidite
e me la sono portata alla bocca, sudando come stessi
sollevando un’estremità del Golden Gate.
Dopo un sorso lungo e scomposto, l’ho posata con una
cura infinita. Poi ho provato a leccarmi il mento.
Il whisky aveva un sapore strano. Nell’istante stesso in
cui me ne sono reso conto, ho visto un lavandino in un
angolo della stanza. L’ho raggiunto appena in tempo. Con
che violenza ho vomitato. Neanche Dizzy Dean lanciava
così forte.
Non so quanto sia durata quell’agonia di nausea e
capogiri e stordimento. Stavo aggrappato al bordo del
lavandino, invocando aiuto con versi da animale.
Quando è passata mi sono trascinato al letto, e sono
rimasto steso ad ansimare osservando il fumo. La cosa del
fumo non era molto chiara: non sembrava del tutto reale.
Forse era nei miei occhi. E all’improvviso si è dissolto quasi
del tutto. Ora gli oggetti nella stanza erano come
nettamente tratteggiati dal lampadario in finta porcellana.
Mi sono rimesso a sedere. Contro la parete accanto alla
porta c’era una pesante sedia di legno. Ma le porte erano
due. Una doveva essere di un ripostiglio. Magari ci avevano
messo i miei vestiti. Il pavimento era di linoleum a scacchi
verdi e grigi, le pareti dipinte di bianco. Una stanza pulita.
Ero seduto su un lettino in ferro da ospedale, ma più basso
del solito, e ai lati erano attaccate robuste cinghie di cuoio
con tanto di fibbia, più o meno all’altezza di polsi e caviglie.
Era un’ottima stanza... da cui evadere.
Provavo ogni tipo di sensazione, ma soprattutto dolore
alla testa e alla gola e a un braccio. Non ricordavo di
essermi fatto male al braccio. Ho tirato su la manica di
quella specie di pigiama. Dal gomito alla spalla la pelle era
coperta di punture come di spillo. Intorno a ognuna, un
cerchietto di pelle scolorita grande come un quarto di
dollaro.
Droga. Mi avevano imbottito di droga per tenermi buono.
E forse anche di scopolamina per farmi parlare. Troppa
roba, in così poco tempo. Mi stava scendendo, ecco perché
avevo il delirium tremens. A certi succede, ad altri no.
Dipende dalla costituzione. Droga.
Questo spiegava il fumo e le testoline intorno al bordo del
lampadario e le voci e i pensieri sconclusionati e le cinghie
e le sbarre e le mani e i piedi intorpiditi. Il whisky,
probabilmente, faceva parte della cura di disintossicazione
di qualcuno. L’avevano lasciato lì perché non mi facessi
mancare niente.
Mi sono alzato, e quasi andavo a sbattere con lo stomaco
contro la parete di fronte. Il che mi ha suggerito di
sdraiarmi di nuovo e respirare piano per un tempo
interminabile. Mi formicolava tutto. Sudavo. Sentivo le
goccioline formarsi sulla fronte e poi scivolare lentamente e
con precisione ai lati del naso fino agli angoli della bocca. E
la lingua, quell’idiota, le leccava.
Ho riprovato a sedermi sul letto, poi ad alzarmi.
«D’accordo, Marlowe» mi dicevo, a denti stretti. «Sei un
duro. Un metro e ottanta di acciaio. Ottantacinque chili
svestito e con la faccia lavata. Muscoli sodi e la mandibola
non certo di vetro. Puoi farcela. Sei stato manganellato due
volte, strozzato e colpito ripetutamente in faccia con la
canna di una pistola. Ti hanno drogato fino a mandarti fuori
come un davanzale, anzi due. Risultato? Nessuno: ordinaria
amministrazione. E ora cerchiamo di fare una cosa da veri
duri, tipo mettersi i pantaloni».
Sono tornato a stendermi sul letto.
È passato altro tempo. Non so quanto. Non avevo
l’orologio. E comunque quel tipo di tempo non si misura
con l’orologio.
Mi sono rimesso a sedere. Cominciavo a stufarmi. Mi
sono alzato di nuovo, provando a camminare. Per nulla
divertente. Il cuore mi saltava nel petto come un gatto
spaventato. Meglio stendersi e rimettersi a dormire. Meglio
prendersela comoda ancora per un po’. Sei in pessima
forma, zucchero. Va bene, Hemingway, mi sento debole.
Non saprei abbattere neanche un vaso di fiori. Non saprei
spezzare un’unghia.
Niente da fare. Si cammina. Sono un duro. Devo uscire di
qui. Aspetta, fammi coricare un attimo.
Mi sono ridisteso sul letto.
Al quarto tentativo è andata un po’ meglio. Ho fatto la
stanza avanti e indietro un paio di volte. Ho raggiunto il
lavandino, l’ho sciacquato e mi sono chinato per bere acqua
dal palmo della mano. Una pausa, quindi un altro po’
d’acqua. Molto meglio.
Ho camminato. E camminato. E camminato.
Dopo mezz’ora mi tremavano le ginocchia, ma la mente
era limpida. Ho bevuto altra acqua, molta acqua. Mi veniva
quasi da piangere, mentre bevevo.
Sono tornato al letto. Era stupendo, fatto di petali di rosa.
Era il letto più bello del mondo. Gliel’aveva dato Carole
Lombard, era troppo soffice per lei. Due minuti lì disteso
valevano il resto della mia vita. Bel letto soffice, bel sonno,
begli occhi che si chiudono e ciglia che si abbassano e il
suono delicato del respiro e buio e riposo fra quei soffici
cuscini...
Camminavo, ancora.
Hanno costruito le piramidi e se ne sono stancati e le
hanno abbattute e hanno sbriciolato la pietra facendone
cemento per la diga di Hoover e l’hanno costruita e hanno
portato l’acqua nella Sunny Southland e l’hanno utilizzata
per allagare tutto.
Intanto camminavo. Non mi importava di nient’altro.
Alla fine ho smesso. Ero pronto per parlare con qualcuno.
26

La porta del ripostiglio era chiusa. La sedia era troppo


pesante, per me. Era così apposta. Ho tolto lenzuola e
cuscino e ho spostato il materasso. Sotto c’era una rete
metallica, fissata al telaio da molle metalliche smaltate di
nero lunghe poco meno di una spanna. Mi sono messo al
lavoro su una. Credo di non aver mai fatto niente di così
faticoso. Dieci minuti, e mi sono ritrovato con due dita
sanguinanti e una molla in mano. L’ho fatta oscillare.
Bell’equilibrio. Pesante. Aveva un suo potenziale.
Fatto questo ho guardato la bottiglia. In realtà sarebbe
andata bene anche quella, ma mi ero dimenticato della sua
esistenza.
Un altro po’ d’acqua, poi qualche attimo sulla rete del
letto. Quindi alla porta. Ho appoggiato la bocca alla fessura
vicino ai cardini: «Al fuoco! Al fuoco! Al fuoco!».
L’attesa è stata breve e piacevole. Ho sentito i passi in
corridoio avvicinarsi di corsa, la chiave girare con rabbia
nella serratura e farla scattare.
La porta si è spalancata. Io ero appiattito contro la
parete, sul lato dell’apertura. Stavolta aveva un
manganello, un bell’oggettino di almeno quindici
centimetri, coperto da un intreccio di cuoio marrone.
Vedendo il letto sfatto ha strabuzzato gli occhi, e ha iniziato
a girarsi.
Con che gusto gli ho sbattuto la grossa molla su un lato
della faccia. L’ho anche aiutato a cadere, e a mettersi in
ginocchio. Poi l’ho colpito altre due volte. Ha mugolato. Gli
ho sfilato il manganello dalla mano esanime. Credo fosse un
lamento, quello che gli è uscito.
Ho usato un ginocchio, sulla sua faccia. Io al ginocchio mi
sono fatto male, lui alla faccia non so. Mentre era ancora lì
che rantolava, l’ho messo definitivamente a dormire con
un’altra manganellata.
Ho preso la chiave dalla toppa esterna, mi sono chiuso
dentro e l’ho perquisito. Aveva altre chiavi, fra cui quella
del ripostiglio. Dentro, appesi, c’erano i miei vestiti. Ho
frugato nelle tasche. Il portafoglio era vuoto. Sono tornato
dal mio amico in camice. Aveva in tasca un po’ troppo, per
il lavoro che faceva. Gli ho preso quelli che mi mancavano.
Quindi l’ho tirato sul letto, gli ho stretto le cinghie a polsi e
caviglie e gli ho ficcato in bocca un mezzo metro di
lenzuolo. Aveva il naso rotto. Ho aspettato di essere sicuro
che riuscisse a respirare.
Ero dispiaciuto per lui. Un omino come tanti, che
lavorava sodo e si teneva stretto il suo posto. Magari aveva
moglie e figli. Peccato. E gli avevano dato solo un
manganello. Non mi sembrava giusto. Gli ho messo a tiro la
bottiglia di whisky adulterato. Se avesse avuto le mani
libere, avrebbe potuto arrivarci.
Gli ho dato una pacca su una spalla. Ancora un po’, e
versavo una lacrima.
I miei vestiti erano tutti nel ripostiglio, persino la fondina
e la pistola, ma senza pallottole. Con mani incerte ho
indossato tutto, sbadigliando di continuo.
L’omino riposava. L’ho lasciato lì, sottochiave.
Sull’ampio corridoio silenzioso si affacciavano tre porte
chiuse. Da dietro non provenivano rumori. Una passatoia
color vinaccia si srotolava al centro, silenziosa come tutto il
resto. In fondo, una brusca svolta ad angolo retto dava su
un altro corridoio, che conduceva fino alla sommità di una
grande scala all’antica, con le ringhiere in quercia. La scala
scendeva con una morbida curva fino a un salone in
penombra, in fondo al quale c’erano due porte con i vetri
dipinti. Il parquet era coperto di spessi tappeti. Dalla
fessura di una porta quasi chiusa filtrava un raggio di luce.
Ma nessun suono.
Una casa vecchia, come se ne costruivano un tempo. Si
trovava quasi sicuramente in una via tranquilla, con un
roseto su un lato e molti fiori sul davanti. Graziosa, fresca e
tranquilla, al sole radioso della California. E dentro,
chissenefrega, basta che non urlino troppo.
Quando stavo per scendere, ho sentito un colpo di tosse.
Mi sono voltato di scatto. In fondo a un altro corridoio c’era
una porta socchiusa. Mi sono avvicinato di soppiatto, e ho
aspettato senza farmi vedere. Ai miei piedi, sulla passatoia,
un cuneo di luce. Un altro colpo di tosse. Un suono molto
basso, prodotto da un petto massiccio. Tranquillo, però,
sereno. In teoria non mi riguardava, l’unica cosa che mi
riguardava era andarmene di lì. Ma forse no, forse anche
una porta aperta, in quella casa, mi riguardava. Dentro
doveva esserci un uomo importante, davanti al quale
togliersi il cappello. Ho affrontato il cuneo di luce. Un
fruscio di giornale.
Buttando un occhio all’interno, ho visto che la stanza era
arredata normalmente, non come una cella. Uno scrittoio
scuro con sopra un cappello e alcune riviste. Finestre con
tendine di pizzo, un bel tappeto.
Le molle di un letto hanno cigolato forte. Un uomo
poderoso, come la sua tosse. Allungando una mano ho
scostato la porta di qualche centimetro. Non è successo
niente. Mi sono sporto oltre il bordo della porta con il
movimento più lento mai compiuto al mondo. Sono riuscito
a vedere la stanza, il letto, e l’uomo coricato sopra, il
portacenere stracarico di mozziconi che traboccava su un
comodino e, di lì, sul tappeto. Sul letto, una decina di
quotidiani accartocciati. Uno, tenuto da due mani enormi,
nascondeva una faccia che si intuiva in proporzione. Dal
giornale verdognolo spuntavano i capelli: ricci, scuri – neri,
addirittura – e folti. Una sottile striscia di pelle bianca
subito sotto. Il giornale si è mosso un altro po’. Ho
trattenuto il respiro, ma l’uomo sul letto ha continuato a
leggere.
Avrebbe avuto bisogno di una passata di rasoio.
Probabilmente, aveva sempre bisogno di una passata di
rasoio. Lo avevo già visto, in Central Avenue, al Florian’s.
Allora portava un abito pacchiano con delle palline da golf
sulla giacca e beveva un whisky sour. Lo avevo visto
sbucare da una porta scardinata impugnando una Colt
Army, che in mano a lui sembrava un giocattolo. Avevo visto
un certo suo lavoretto, di quelli a titolo definitivo.
Ha tossito di nuovo. Poi, piuttosto seccato, ha fatto uno
sbadiglio e si è allungato per prendere dal comodino un
pacchetto di sigarette tutto sgualcito. Se ne è cacciata una
tra le labbra. All’estremità di un pollice si è accesa una
luce. Dalle narici è sbuffato un po’ di fumo.
«Ah» ha detto, tornando a nascondersi dietro il giornale.
L’ho lasciato dov’era, e ho ripercorso il corridoio a ritroso.
Moose Malloy mi sembrava in ottime mani. Ho raggiunto la
grande scala e sono sceso.
Dietro una porta socchiusa qualcuno ha mormorato. Mi
aspettavo che qualcun altro rispondesse, ma niente. La
voce stava parlando al telefono. Mi sono fermato a
origliare, ma era appunto un mormorio, indistinto. Alla fine,
un clic secco. Nient’altro, neanche un suono.
Era il momento di andarsene, il più lontano possibile. Ho
spinto la porta e sono entrato.
27

Era uno studio, né piccolo né grande, con una bella


atmosfera professionale. Una libreria a vetrina piena di
volumoni. Alla parete, un armadietto di pronto soccorso. Un
altro armadietto in vetro e smalto pieno di aghi ipodermici
e siringhe in fase di sterilizzazione. Una scrivania ampia e
semplice, con un sottomano, un tagliacarte di bronzo, un
set di penne, un’agenda e poco altro, a eccezione dei gomiti
di un uomo seduto lì a macerarsi, con la testa fra le mani.
Tra le dita giallastre divaricate si vedevano capelli color
sabbia bagnata, così lisci da sembrare dipinti sul cranio. Ho
fatto altri tre passi, e i suoi occhi, credo puntati oltre il
bordo della scrivania, devono aver visto le mie scarpe
muoversi. Ha alzato la testa e mi ha guardato. Occhi
infossati e incolori in una faccia di cartapecora. Ha sciolto
le mani incrociate e si è appoggiato lentamente all’indietro,
fissandomi con aria totalmente inespressiva.
Quindi ha allargato le braccia in un gesto di
disapprovazione e, quando le ha abbassate, una mano si è
posata molto vicino all’angolo della scrivania.
Ho fatto due passi avanti e gli ho mostrato il manganello.
Indice e medio della sua mano continuavano a muoversi
verso l’angolo.
«Il campanello è inutile. Il tuo secondino l’ho messo a
dormire».
Ha preso un’aria sonnolenta. «Lei è stato molto male.
Malissimo. Le consiglio vivamente di rimettersi a letto».
Ho detto solo: «La mano destra». Poi ho fatto il gesto di
colpirla con il manganello, e lui si è ritratto come un
serpente ferito.
Anche se non c’era niente di cui sorridere, ho fatto il giro
della scrivania con una specie di sorriso. Ovviamente nel
cassetto c’era una pistola. Ce l’hanno tutti, ma ci arrivano
sempre troppo tardi, se ci arrivano. L’ho presa. Era una 38
automatica standard, non bella come la mia, ma le
munizioni potevano servirmi. Ho estratto il caricatore.
Si è mosso appena, gli occhi sempre infossati e cupi.
«Magari ha un altro pulsante sotto il tappeto» gli ho
detto. «Magari, è collegato con l’ufficio del capo in
centrale. Be’, lasci perdere. Per la prossima ora sarò
cattivissimo. Se qualcuno entra da quella porta finisce
direttamente in una bara».
«Non ci sono pulsanti sotto il tappeto» ha detto. La sua
voce aveva un lievissimo accento straniero.
Ho estratto il caricatore dalla sua pistola e l’ho infilato
nella mia, lasciandogli quello vuoto. Ho tolto anche la
pallottola che aveva in canna e ho rimesso l’arma dove
l’avevo presa. Quando sono tornato dall’altra parte della
scrivania, il colpo in canna ce l’avevo io.
La porta aveva una serratura a scatto. Sono
indietreggiato e l’ho chiusa. C’era anche un catenaccio. Ho
chiuso anche quello.
Tornato alla scrivania mi sono seduto, sacrificando
l’ultima stilla di energia.
«Whisky» ho detto.
Lui ha cominciato a muovere le mani.
«Whisky» ho ripetuto.
Si è avvicinato all’armadietto delle medicine e ha preso
una bottiglia piatta e un bicchiere.
«Due bicchieri» gli ho detto. «L’ho già provato il suo
whisky, e ci è mancato poco che mi spedisse sull’isola di
Santa Catalina».
Ne ha presi due. Ha rotto il sigillo della bottiglia e li ha
riempiti.
«Prego, prima lei».
Con un sorrisetto ha preso il suo bicchiere.
«Alla sua salute... o a quel che ne resta». Ha bevuto. Ho
bevuto anch’io. Poi ho preso la bottiglia e me la sono
sistemata accanto, in attesa che la vampata mi arrivasse al
cuore. Batteva forte, il cuore, ma perlomeno era di nuovo al
suo posto, e non più appeso alla stringa di una scarpa.
«Ho avuto un incubo» ho attaccato. «Una sciocchezza. Ho
sognato che mi legavano a una branda, mi imbottivano di
droga e mi rinchiudevano in una stanza con le sbarre alle
finestre. Mi sentivo debolissimo. Dormivo. Non avevo
niente da mangiare. Stavo male. Mi avevano dato una botta
in testa e mi avevano portato lì, dove mi facevano tutto
questo. Un gran bordello, eppure non sono così
importante».
Non reagiva. Mi guardava. Qualcosa però si stava
chiedendo, si capiva dagli occhi. Quanto mi restava da
vivere, credo.
«Poi mi sono svegliato, e la stanza era piena di fumo. Era
solo un’allucinazione, o un’irritazione del nervo ottico,
scelga lei. Anziché serpenti rosa, vedevo il fumo. Allora ho
gridato, e un duro in camice bianco è accorso e mi ha
mostrato un manganello. Ci è voluto un po’prima che mi
sentissi pronto a toglierglielo. Gli ho preso le chiavi e anche
i miei soldi, che aveva ancora in tasca. Ed eccomi qui.
Perfettamente guarito. Cosa stava dicendo?».
«Non ho proferito verbo».
«I verbi, però, vanno proferiti» ho detto. «Sono lì che
aspettano sulla punta della lingua. Non chiedono altro.
Quest’affare, ad esempio,» ho tamburellato un po’ col
manganello sul palmo «dovrebbe convincerla. Pensi, me lo
sono fatto prestare da un tale».
«La prego di consegnarmelo immediatamente» ha detto
con un sorriso che, in fondo, rischiava di essere
accattivante. Un po’ come quello del boia che viene a
trovarti in cella a prendere le misure per la corda. Mezzo
amichevole, mezzo paterno, mezzo cauto. Magari, se uno
restava vivo abbastanza a lungo, ci cascava.
Ho lasciato cadere il manganello nel palmo di una sua
mano, la sinistra.
«Ora la pistola, prego» ha detto piano. «Lei è stato molto
male, Mr. Marlowe. Temo di dover insistere: torni a letto».
Lo fissavo.
«Sono il dottor Sonderborg, e non tollero certe fesserie».
Ha posato il manganello sul tavolo davanti a sé. Aveva un
sorriso rigido come un pesce surgelato. Le sue dita
affusolate si muovevano come una farfalla in agonia.
«La pistola, prego» ha ripetuto piano. «Le consiglio
vivamente di...».
«Che ora è, guardia?».
Un pochino l’avevo sorpreso. Avevo l’orologio al polso, ma
si era scaricato.
«Quasi mezzanotte. Perché?».
«E che giorno è?».
«Be’, mio caro signore... Domenica sera, naturalmente».
Mi sono appoggiato alla scrivania sforzandomi di pensare.
Tenevo la pistola abbastanza vicino a lui da indurlo a
tentare di togliermela.
«Sono più di quarantott’ore. Non c’è da stupirsi che
avessi il delirium tremens. Chi mi ha portato qui?».
Mentre continuava a fissarmi, muoveva lentissimamente
la sinistra verso la pistola. Un socio del Club della Mano
Vagante. Le ragazze dovevano avere il loro bel daffare, con
lui.
«Non mi faccia diventare cattivo» mi sono lagnato. «Non
mi costringa a rinunciare alle mie buone maniere e al mio
eloquio forbito. Mi dica come sono arrivato qui».
Era coraggioso. Ci ha provato, a prenderla. Ma è andato a
vuoto. Mi sono rimesso a sedere, con la pistola sulle gambe.
Era arrossito, molto. Ha preso la bottiglia per versarsi un
altro drink, e se l’è scolato. Ha inspirato a fondo, scosso da
un brivido. Non gli piaceva, l’alcol. Non piace mai, ai
drogati.
«Come esce di qui, la arrestano» ha detto, secco. «Lei è
stato fermato nel rispetto della legge da agenti regolari».
«Gli agenti regolari non fanno certe cose».
Colpito, almeno un po’. La faccia giallastra cominciava a
smuoversi.
«Avanti, su. Chi mi ha portato qui? Perché? Come? Sono
di un umore instabile, stasera. Voglio andare a ballare tra
le onde. Sento le banshees che mi chiamano. Sarà almeno
una settimana che non ammazzo nessuno. La ascolto,
dottor Fell. Metta mano all’antica viola, lasci fluire la dolce
musica».
«Lei soffre di intossicazione da narcotici» ha detto,
freddamente. «Ha rischiato di morire. Ho dovuto
somministrarle tre volte la digitale. Si dimenava, urlava:
hanno dovuto contenerla». Parlava così veloce che le parole
saltavano come rane. «Se lascia il mio ospedale in queste
condizioni, si mette in guai seri».
«Lei diceva di essere un dottore. Nel senso... in
medicina?».
«Certo, sono il dottor Sonderborg, gliel’ho detto».
«In una crisi da intossicazione non ci si dimena e non si
urla, dottore. Si sta lì e basta, in coma. Ricominciamo da
capo. E cerchi di scremare. Solo l’essenziale. Chi mi ha
messo nel suo manicomio privato?».
«Ma...».
«Niente ma. O la inzuppo come un biscotto. La annego in
una botte di malvasia. Piacerebbe anche a me, avere una
botte di malvasia in cui affogare. Shakespeare. Se ne
intendeva anche di alcolici. Prendiamo un altro po’ di
medicina». Mi sono allungato verso il suo bicchiere e ho
versato altri due drink. «Sbrighiamoci, Karloff».
«È stata la polizia a portarla qui».
«Quale polizia?».
«La polizia di Bay City, quale altra?». Si rigirava il
bicchiere tra le dita irrequiete e giallastre. «Qui siamo a
Bay City».
«E questi poliziotti avevano un nome?».
«C’era un certo sergente Galbraith, mi pare. Non un
agente di pattuglia. Lui e un altro agente l’hanno vista
aggirarsi in questi paraggi in stato confusionale, venerdì
sera. L’hanno accompagnata qui perché era il posto più
vicino. Ho pensato che lei fosse un tossicomane in
overdose. Ma forse mi sbagliavo».
«È una buona storia. Non posso smentirla. Ma perché
trattenermi?».
Ha aperto le mani inquiete. «Gliel’ho già detto più volte:
lei è stato molto male, e non si è ancora ristabilito. Che
altro potevo fare?».
«Le dovrò dei soldi, allora».
Non poteva negarlo. «Come no. Sono duecento dollari».
Ho spinto un po’ indietro la sedia. «Cosa vuole che siano.
Venga a prenderseli, se ci riesce».
«Se va via, la arresteranno».
Sono tornato a incombere sulla scrivania e gli ho alitato
in faccia. «Non solo per l’evasione da qui, Karloff. Apra
quella cassaforte».
È scattato in piedi con un movimento svelto e agile.
«Questa storia è andata avanti fin troppo».
«Non la aprirà?».
«Certo che no».
«Ma io ho in mano una pistola».
Mi ha sorriso, ma poco, e a denti stretti.
«È una cassaforte enorme. Nuova, per giunta. E questa è
una bella pistola. Insiste a non volerla aprire?».
Aveva la stessa espressione di prima.
«Maledizione. Se uno ha una pistola in mano, si presume
che gli altri facciano quello che dice. Non è così?».
Ha sorriso. Stavolta con un po’ di piacere sadico. Stavo
perdendo colpi. Stavo per crollare.
Barcollavo. E lui aspettava, con le labbra leggermente
schiuse.
Sono rimasto lì a lungo, a fissarlo. Poi mi è venuta una
specie di ghigno. Il sorriso gli è scivolato via dalla faccia
come uno straccio liso. Aveva la fronte imperlata di sudore.
«Addio. La lascio in mani più sporche delle mie».
Sono indietreggiato fino alla porta, l’ho aperta e sono
uscito.
La porta d’ingresso non era chiusa a chiave. Fuori c’era
una veranda coperta. Il giardino era tutto un fruscio di
fiori. C’era uno steccato bianco, con un cancello. La casa
faceva angolo. Era una notte fresca, umida e senza luna.
La targa all’angolo diceva Descanso Street. Le case,
lungo l’isolato, erano illuminate. Ho teso l’orecchio:
nessuna sirena. L’altra targa diceva 23rd Street. Ho
arrancato fino alla 25th Street, e poi verso l’isolato coi
numeri civici sopra l’800. All’819 abitava Anne Riordan.
Rifugio.
Camminavo ormai da un pezzo, quando mi sono reso
conto di avere ancora la pistola in mano. Sempre nessuna
sirena.
Ho continuato. L’aria mi faceva bene, ma il whisky stava
morendo, provocandomi spasmi. L’isolato era tutto abeti e
case in mattoni. Sembrava più Capitol Hill a Seattle che la
California del Sud.
All’819 la luce era ancora accesa. C’era una porte
cochère bianca, minuscola, schiacciata contro un’alta siepe
di cipresso, e cespugli di rose sul davanti. Ho imboccato il
vialetto. Prima di suonare, ho teso l’orecchio. Sirene,
ancora nessuna. Dopo uno scampanellio, una voce ha
gracchiato da uno di quegli aggeggi elettrici che
permettono di parlare con la porta chiusa.
«Chi è?».
«Marlowe».
Forse le è mancato il respiro, o forse era solo il rumore
dell’aggeggio quando si riattaccava.
La porta si è spalancata, e sulla soglia è comparsa Anne,
con un tailleur pantalone verde chiaro. Ha strabuzzato gli
occhi, spaventata. Sotto la luce del portico il suo volto era
pallidissimo.
«Mio Dio» ha detto. «Sembri il padre di Amleto».
28

In salotto c’era un tappeto marroncino a disegni


figurativi, poltrone bianche e rosa, un caminetto in marmo
nero con altissimi alari d’ottone, grosse librerie incorporate
nelle pareti e tendaggi crema in tela grezza davanti alle
veneziane abbassate.
Non c’era nulla di femminile nella stanza, tranne uno
specchio a grandezza naturale che rifletteva un lungo tratto
di pavimento sgombro.
Ero mezzo seduto e mezzo sdraiato in una soffice
poltrona, con le gambe appoggiate su uno sgabello. Avevo
bevuto prima due tazze di caffè forte, poi un drink. Avevo
mangiato due uova alla coque, con dentro una fetta di pane
tostato sbriciolata, e bevuto altro caffè forte corretto al
brandy. Tutto questo era avvenuto nella sala della prima
colazione, ma non ricordavo più com’era. Era passato
troppo tempo.
Mi sentivo di nuovo in ottima forma. Ero quasi sobrio, e il
mio stomaco stava puntando verso la terza base, non più
verso il palo della bandiera.
Anne mi stava seduta di fronte, china in avanti, con il
mento grazioso poggiato nel palmo della mano graziosa, gli
occhi scuri e ombreggiati dalla chioma fulva scompigliata.
Aveva una matita infilata tra i capelli. L’espressione era
preoccupata. Le avevo raccontato qualcosa, ma non tutto.
Di Moose Malloy, in particolare, non le avevo parlato.
«Ho pensato che fossi ubriaco. Ho pensato che solo da
ubriaco saresti potuto venire a trovarmi. Ho pensato che
fossi uscito con quella bionda. Ho pensato... Non so bene
neanch’io, cos’ho pensato».
«Scommetto che non ti sei fatta tutto questo scrivendo»
ho detto, guardandomi intorno. «Neanche se ti pagassero
per tutto quello che pensi di pensare».
«E mio padre non l’ha ottenuto a suon di mazzette come
quel lurido porco che oggi comanda la polizia di qui».
«Non mi riguarda».
«Avevamo dei terreni a Del Rey, appezzamenti di terra
sabbiosa che gli hanno portato via per quattro soldi. E poi
si è scoperto che c’era il petrolio».
Ho annuito e bevuto dal bel bicchiere di cristallo che
avevo in mano. Il liquore aveva un gusto caldo e piacevole.
«Ci sarebbe posto per un uomo, qui. È tutto pronto».
«Dovrebbe essere quel tipo di uomo. E qualcuno
dovrebbe volercelo».
«Manca il maggiordomo. Questo è un problema».
È arrossita. «Tu, invece... preferisci farti spappolare il
cranio e sforacchiare il braccio dalle siringhe e lasciare che
usino il tuo mento come tabellone di un canestro da basket.
Dio solo sa quanti ce n’è».
Non ho detto niente. Ero troppo stanco.
«Perlomeno hai avuto l’intelligenza di guardare quei filtri.
Da come avevi parlato in Aster Drive, credevo che la cosa ti
fosse completamente sfuggita».
«I biglietti da visita non significano niente».
Mi ha quasi fulminato. «C’è uno che ti fa pestare da due
poliziotti corrotti e ti rinchiude in una clinica per alcolisti in
modo da convincerti a farti gli affari tuoi, e tu liquidi così la
questione? Anche a tagliarne via un metro, qui c’è roba che
spunta per farne almeno una mazza da baseball».
«Questa battuta avrei dovuto dirla io. È il mio stile.
Crudo. Cos’è che spunta?».
«Questo elegante parapsicologo non è altro che un
delinquente d’alto bordo. Trova le persone giuste, le plagia,
e poi dice alla manovalanza come fare per rubare i gioielli».
«Ne sei davvero convinta?».
Mi fissava. Finito il bicchiere, ho ripreso la mia
espressione fiacca. Inutilmente.
«Certo che ne sono convinta. E lo sai bene anche tu».
«Secondo me, la questione è più complicata di così».
Quando voleva, aveva un sorriso grazioso e acido allo
stesso tempo. «Chiedo scusa, dimenticavo che il detective
sei tu. Deve essere più complicata, vero? Immagino ci sia
qualcosa di indecente in un caso semplice».
«È più complicata di così».
«D’accordo. Ti ascolto».
«Non lo so. È un’impressione. Posso averne un altro?».
Si è alzata in piedi. «Sai una cosa? Dovresti assaggiare
l’acqua, una volta o l’altra. Così, tanto per provare». Si è
avvicinata e mi ha preso il bicchiere. «Questo è l’ultimo». È
uscita dalla stanza, e dopo un po’ ho sentito un tintinnio di
cubetti. Ho chiuso gli occhi, concentrandomi sui piccoli
rumori irrilevanti. Avevo fatto male a presentarmi da Anne.
Se come sospettavo erano informati sul mio conto, c’era il
rischio che venissero a controllare. Sarebbe stato un guaio.
È tornata con il bicchiere, e le sue dita, fredde per il
ghiaccio, hanno toccato le mie. L’ho trattenuta per un
attimo e poi l’ho lasciata andare lentamente, come si lascia
scivolar via un sogno quando ci si sveglia con il sole in
faccia, mentre prima si era in una valle incantata.
È arrossita di nuovo ed è tornata in poltrona, dove si è
accomodata con una quantità di cerimonie.
Si è accesa una sigaretta, guardandomi bere.
«Amthor è un personaggio piuttosto spregiudicato» le ho
detto. «Però, non so perché, non me lo vedo come il
cervello di una banda di rapinatori di gioielli. Potrei
sbagliarmi. Ma se lo fosse e mi avesse sospettato di avere
informazioni compromettenti su di lui, non sarei uscito
vivo, da quella clinica. Qualcosa però gli fa paura. Quando
ho buttato lì una frase su certe scritte invisibili, si è
davvero innervosito».
Mi ha guardato seria. «Ce n’erano?».
Le ho sorriso. «Se c’erano, non le ho viste».
«È un modo ben strano di nascondere informazioni
compromettenti su una persona, non trovi? Nei filtri degli
spinelli, dico. E se nessuno li avesse trovati?».
«Secondo me, il punto è che Marriott aveva qualche
timore, ma era sicuro che, se gli fosse accaduto qualcosa, i
biglietti da visita sarebbero stati trovati. La polizia gli
avrebbe passato le tasche al setaccio. È questo che mi
lascia perplesso: se Amthor fosse un delinquente serio, non
avrebbe lasciato tracce del genere».
«Se Amthor avesse ucciso – o fatto uccidere – Marriott,
vuoi dire? Magari, però, quello che Marriott sapeva su
Amthor non è direttamente legato all’omicidio».
Ho appoggiato la schiena contro la poltrona per scolarmi
il bicchiere, fingendo di pensarci su. Poi ho annuito.
«Il furto dei gioielli, però, è legato all’omicidio. E noi
siamo partiti dal presupposto che Amthor sia implicato nel
furto».
Nel suo sguardo c’era una punta di malizia. «Scommetto
che ti senti uno straccio. Non sarebbe il caso di metterti a
letto?».
«Qui?».
È arrossita fino alla radice dei capelli. Ha proteso un po’
il mento. «L’idea era quella. Non sono una bambina. A chi
diavolo importa quello che faccio, o quando, o come?».
Ho posato il bicchiere e mi sono alzato in piedi. «Sento
che mi sta venendo uno dei miei rari momenti di
delicatezza. Mi accompagneresti a un taxi, se non sei
troppo stanca?».
«Sei davvero un cretino» ha detto con rabbia. «Ti hanno
pestato a sangue e imbottito di Dio solo sa quante sostanze
diverse. Hai bisogno di una bella nottata di sonno per
svegliarti domattina presto, in forma e pronto per
ricominciare a fare il detective».
«Pensavo di tirare un po’ tardi».
«Dovresti essere in ospedale, idiota».
Sentii un brivido. «Ascolta» ho detto. «Non sono
lucidissimo, stasera, e non credo che dovrei trattenermi qui
tanto a lungo. Non ho nessuna prova su quella gente, ma
pare non mi trovino tanto simpatico. Qualunque cosa io
possa dire, sarebbe la mia parola contro quella della legge,
e la legge, in questa città, mi sembra decisamente marcia».
«È una bella città» ha detto lei all’improvviso, con il fiato
un po’ corto. «Non puoi giudicare...».
«D’accordo, è una bella città. Come Chicago. Può capitare
di viverci a lungo senza mai vedere un mitra. Certo, è una
bella città. Probabilmente non è più corrotta di Los
Angeles. Di una grande città, però, puoi comprarti solo un
pezzo. Una città così piccola, invece, puoi comprartela tutta
intera, nella confezione originale e impacchettata in carta
velina. Questa è la differenza. Ed è questo che mi induce a
lasciar perdere».
Si è alzata, spingendo il mento verso di me. «Tu, adesso,
ti metti a letto qui. Ho una stanza degli ospiti. Puoi andare
a coricarti e...».
«Mi prometti di chiudere a chiave la tua porta?».
È arrossita, mordicchiandosi un labbro. «Certe volte pari
un fuoriclasse. Certe altre sembri il peggior cialtrone che
abbia mai conosciuto».
«In ogni caso, mi accompagneresti a un taxi?».
«Tu resti qui» ha tagliato corto. «Non sei in condizione di
andartene. Non stai bene».
«Neanche così male da prendere ordini» ho detto, con
una punta di cattiveria.
È corsa fuori, e per poco non inciampa nei due gradini
che portavano in corridoio. Si è ripresentata un attimo
dopo con un lungo soprabito verde di flanella sopra il
tailleur pantalone, senza cappello, con i capelli non meno
elettrici del volto. Ha aperto una porta laterale, l’ha
allontanata da sé e l’ha varcata in un balzo. Ho sentito i
suoi passi risuonare sul vialetto, la serranda di un garage
sollevarsi con un rumore fioco, e una portiera aprirsi e
richiudersi sbattendo. Poi l’avviamento, il motore acceso, e
i fasci di luce dei fanali che passavano davanti alla porta-
finestra del salotto.
Ho preso il cappello da una sedia, e spento un paio di
lampade, e notato che la porta-finestra aveva una serratura
Yale. Prima di chiudere la porta l’ho riguardata: era una
bella casa. Doveva essere mica male, girarsela in pantofole.
Ho chiuso, e la piccola auto mi si è fermata davanti. Ho
fatto il giro e sono salito.
Per tutta la strada non ha fiatato. Guidava come una furia.
Quando siamo arrivati mi ha dato la buonanotte con una
voce di ghiaccio, ed è ripartita bruscamente prima ancora
che potessi tirar fuori le chiavi di tasca.
Il portone veniva chiuso alle undici. L’ho aperto e ho
attraversato l’atrio, che come sempre sapeva di muffa.
Sono salito in ascensore. Nel corridoio al mio piano c’era
una luce tetra. Bottiglie di latte davanti alle porte di
servizio. In fondo incombeva la porta antincendio rossa,
con una finestrella aperta per lasciar filtrare un pigro
refolo d’aria che non bastava mai a portar via del tutto gli
odori di cucina. Ero a casa, in un mondo addormentato, un
mondo innocuo come un gatto addormentato.
Ho aperto la porta del mio appartamento e ne ho
inspirato l’odore, lì sulla soglia, restando per un po’ così,
prima di accendere la luce. Odore di casa, odore di polvere
e fumo di tabacco, odore di un posto abitato da uomini
ancora vivi.
Mi sono spogliato e messo a letto. Ho avuto non so quanti
incubi da cui mi svegliavo madido, ma al mattino ero di
nuovo in forma.
29

Ero seduto sul bordo del letto, in pigiama, e meditavo di


alzarmi, ma senza impegno. Non mi sentivo benissimo, ma
neanche male come avrei dovuto, e comunque un lavoro
salariato sarebbe stato peggio. La testa mi faceva male. Me
la sentivo enorme, bollente. La lingua era secca e come
cosparsa di ghiaia, la gola indolenzita e la mandibola di
carta velina. Ma avevo avuto risvegli peggiori.
Era una mattinata grigia, con la foschia alta: ancora non
faceva caldo, ma sarebbe arrivato. Mi sono tirato su dal
letto strofinandomi lo stomaco. Avevo vomitato a tal punto
che mi faceva male. Il piede sinistro, invece, era a posto.
Nessun dolore. Dev’essere per questo che ho pensato di
sbatterlo contro uno spigolo del letto.
Stavo ancora imprecando quando ho sentito bussare alla
porta – quel tipo di colpi imperiosi che ti fa venir voglia di
aprire di qualche centimetro, modulare una grassa
pernacchia e richiudere di botto.
Ho aperto un po’ più di qualche centimetro. Era il
viceispettore Randall, in un completo di gabardine
marrone, con un pork pie di feltro leggero in testa.
Ordinato, pulito, serissimo, con una luce feroce negli occhi.
Ha spinto piano la porta, facendomi indietreggiare. È
entrato, ha richiuso e si è guardato intorno. «Sono due
giorni che ti cerco». Non guardava me. Stava misurando la
stanza con gli occhi.
«Sono stato male».
Ha gironzolato per la stanza con passo lieve e agile e il
cappello sotto il braccio, i capelli grigio crema lucidi e le
mani in tasca. Non era tanto grosso, per essere un
poliziotto. Si è tolto una mano di tasca e ha posato il
cappello sopra una pila di riviste.
«Non qui, però».
«In una clinica».
«Quale clinica?».
«Una clinica veterinaria».
Ha sussultato, come gli avessi dato uno schiaffo in faccia.
Sotto la pelle si intravedeva un colore grigiastro.
«Un po’ presto, no, per certa roba?».
Non ho detto nulla. Ho acceso una sigaretta, fatto un tiro
e mi sono rimesso a sedere sul letto.
«Per quelli come te non c’è cura, vero?» ha detto. «A
parte la galera».
«Sono stato molto male e non ho ancora preso il caffè,
stamattina. Non puoi aspettarti da me un umorismo di alto
livello».
«Credevo di averti detto di non impicciarti di questo
caso».
«Non sei Dio, Randall. E neanche Gesù Cristo». Ho dato
un altro tiro di sigaretta. Sentivo bruciare un po’, da
qualche parte dentro di me, ma il gusto stava migliorando.
«Non hai idea di quanti guai potrei farti passare».
«Può darsi».
«Sai perché non l’ho ancora fatto?».
«Sì».
«Perché?». Si era sporto leggermente in avanti, in punta
come un terrier, con lo sguardo di pietra che viene a tutti
quelli come lui, prima o poi.
«Perché non sei riuscito a trovarmi».
Si è ritratto, dondolando sui talloni. La faccia gli si è
distesa un po’. «Credevo avresti risposto un’altra cosa. Che
ti sarebbe costata un cazzotto sul naso».
«Venti milioni di dollari ti lascerebbero indifferente. Ma ti
può capitare di obbedire agli ordini».
Adesso il suo respiro era più concitato, la bocca appena
aperta. Ha preso un pacchetto di sigarette da una tasca e lo
ha liberato dall’involucro. Ci ha messo qualcosa come una
settimana. Le dita gli tremavano lievemente. Con la
sigaretta tra le labbra si è avvicinato al tavolino con le
riviste per prendere i fiammiferi. Si è acceso la sigaretta
con cura, ha gettato il fiammifero nel portacenere, non sul
pavimento, e ha aspirato a fondo.
«Ti avevo dato un consiglio l’altro giorno, al telefono.
Giovedì».
«Venerdì».
«Sì, venerdì. Parole al vento. Posso capirti. Allora, però,
non sapevo che avevi nascosto un indizio. Ti avevo anche
raccomandato una certa linea di condotta, che mi pareva la
più adatta in questo caso».
«Quale indizio?».
Mi fissava in silenzio.
«Ti va un po’ di caffè?» gli ho chiesto. «Potrebbe fare di te
un essere umano».
«No».
«Io lo preparo». Mi sono alzato, diretto al cucinino.
«Siediti» ha ordinato Randall. «Non ho ancora finito».
Sono andato a riempire il bollitore e ho acceso il fornello.
Ho bevuto un bicchiere d’acqua fresca dal rubinetto, poi un
altro. Ho riempito il bicchiere per la terza volta e sono
tornato indietro, fermandomi sulla soglia della cucina per
osservarlo. Non si era mosso. Il velo di fumo davanti a un
lato della sua faccia pareva qualcosa di solido. Teneva gli
occhi a terra.
«Per quale ragione non sarei dovuto andare da Mrs.
Grayle, visto che è stata lei a convocarmi?».
«Non stavo parlando di questo».
«Sì, ma ne stavi parlando un attimo fa».
«Non è stata lei a convocarti». Gli occhi, ora che mi
guardava, avevano di nuovo quell’espressione di pietra. Il
rossore continuava a tingergli gli zigomi appuntiti. «L’hai
aggredita e hai parlato di scandali, costringendola
praticamente con il ricatto ad affidarti un lavoro».
«Strano. Per quel che ricordo io, non abbiamo neanche
parlato di lavoro. Non mi è parso che la sua storia avesse
sostanza. Qualcosa in cui affondare i denti, intendo. Non
avrei saputo da dove cominciare. E, ovviamente, presumevo
ne avesse già parlato a te».
«Infatti. Quella birreria sul Santa Monica Boulevard è un
covo di delinquenti, ma questo non significa nulla. Non ho
trovato indizi, lì. Anche l’albergo di fronte ha un’aria losca.
Ma non c’era nessuno di interessante. Balordi da quattro
soldi».
«Mrs. Grayle ha detto che l’ho aggredita?».
Ha abbassato un po’ lo sguardo. «No».
Ho sorriso, compiaciuto. «Un po’ di caffè?».
«No».
Sono tornato nel cucinino, ho preparato il caffè e
aspettato che finisse di colare. Stavolta Randall mi ha
seguito, ed è stato lui a fermarsi sulla soglia.
«Questa banda lavora a Hollywood ed è in giro da una
decina d’anni abbondante, per quel che ne so» ha detto.
«Stavolta, però, hanno passato il segno. Hanno ammazzato
un uomo. E credo di sapere perché».
«Be’, se è opera di una banda, e li incastri, sarà il primo
omicidio del genere che viene risolto da quando abito in
città. E potrei descriverne nei particolari almeno una
decina».
«Sei molto gentile a ricordarmelo, Marlowe».
«Correggimi se sbaglio».
«Al diavolo» ha detto, irritato. «Non ti sbagli. Per la
cronaca, un paio di casi sono stati risolti, ma era roba da
straccioni. Pesci piccoli che hanno pagato per quelli
grossi».
«Già. Caffè?».
«Se ne bevo un po’, prometti di parlarmi decentemente,
da uomo a uomo, senza battute sarcastiche?».
«Ci provo. Ma non prometto di rivelare tutte le mie idee».
«Di quelle posso fare a meno» ha detto, acido.
«Gran bel vestito. Elegantissimo».
È arrossito di nuovo. «Mi è costato venti dollari e
settantacinque» mi ha risposto, teso.
«Oh, Cristo, uno sbirro suscettibile» ho detto, tornando in
cucina.
«Ha un buon profumo. Come lo prepari?».
L’ho versato. «Alla francese. Caffè macinato grosso. Senza
filtri di carta». Ho preso lo zucchero dalla dispensa e la
panna dal frigorifero. Ci siamo seduti nella nicchia, uno di
fronte all’altro.
«Cos’era quella gag sulla clinica e sul fatto che sei stato
male?».
«Non era una gag. Ho avuto un po’ di guai, giù a Bay City.
Mi hanno rinchiuso. Non in galera: in un posto privato dove
curano alcolisti e drogati».
Il suo sguardo era perso in lontananza. «Bay City, eh? Ti
piace il gioco duro, Marlowe?».
«No, non mi piace per niente. Il fatto è che tutti giocano
duro con me. Una cosa così, però, non mi era mai capitata.
Mi hanno manganellato due volte, e la seconda è stato un
poliziotto – o, almeno, uno che sembrava e si dichiarava
tale. Sono stato picchiato con la mia pistola e strozzato da
un indiano, uno tosto. Mi hanno gettato privo di sensi nella
clinica per drogati che ti dicevo, mi hanno tenuto
sottochiave e forse, per un po’, persino legato al letto.
Ovviamente non ho modo di provare nulla, se escludiamo la
collezione di lividi e il braccio tutto sforacchiato dalle
siringhe».
Adesso fissava un angolo del tavolo. «A Bay City...» ha
detto, lentamente.
«Un nome che risuona come una canzone. Cantata in una
vasca d’acqua lercia».
«Cosa ci facevi laggiù?».
«Non ci sono andato di mia iniziativa. Mi ci hanno portato
quei poliziotti. Io ero andato a trovare un tale a Stillwood
Heights, che è ancora Los Angeles».
«Un certo Jules Amthor» ha detto, a mezza voce. «Perché
ti sei imboscato quelle sigarette?».
Ho guardato dentro la mia tazza. Cacchio, che stupida.
«Mi è sembrato strano che lui – Marriott – avesse quel
portasigarette in più. Con dentro degli spinelli. Pare che da
qualche tempo a Bay City li vendano sotto forma di
sigarette russe, con il filtro cavo, lo stemma dei Romanov e
tutto quanto».
Ha spinto verso di me la tazza vuota, che gli ho riempito.
Mi stava guardando in faccia, studiandomi riga per riga, un
corpuscolo alla volta, come Sherlock Holmes con la lente
d’ingrandimento o Thorndyke con il monocolo.
«Avresti dovuto parlarmene». Sembrava amareggiato. Ha
bevuto un sorso e si è pulito la bocca con una di quelle cose
sbrindellate che negli appartamenti come il mio fungono da
tovaglioli. «So che non sei stato tu a portarle via. La
ragazza me l’ha detto».
«Ah, però, vedo che in questo paese gli uomini non hanno
più modo di fare niente. Pensano a tutto le donne».
«Le piaci» ha detto Randall, come uno di quei federali
gentili dei film, un po’ triste, ma molto virile. «Suo padre
era il poliziotto più pulito che abbia mai perso il lavoro. Lei
non doveva prendere quelle sigarette. Le piaci».
«È carina, ma non è il mio tipo».
«Non ti piacciono le ragazze carine?». Aveva acceso
un’altra sigaretta. Con una mano si è fatto aria davanti alla
faccia per disperdere il fumo.
«Mi piacciono quelle vistose, dure e che grondano
peccato».
«Così si finisce al manicomio» ha detto Randall con
noncuranza.
«Certo. Non sono mai stato altrove. Come la definiresti,
altrimenti, questa conversazione?».
Si è concesso il primo sorriso della giornata. Non doveva
andare oltre i quattro al giorno, probabilmente.
«Non mi sei granché d’aiuto».
«Ti regalo un’ipotesi, anche se tu sarai di sicuro molto più
avanti di me. Questo Marriott era uno che ricattava le
donne, Mrs. Grayle me l’ha praticamente confessato. Ma
non è tutto: faceva anche la talpa per la banda dei gioielli.
Quello inserito nella buona società, il bellone che coltivava
le vittime e preparava il terreno. Coltivava le donne con cui
aveva modo di uscire, arrivando a conoscerle molto bene.
Pensiamo alla rapina di due giovedì fa. C’è del marcio. Se
alla guida non ci fosse stato Marriott, o non avesse portato
Mrs. Grayle al Trocadero, o non avesse deciso di passare
davanti alla birreria, la rapina, quella sera, non sarebbe
stata possibile».
«Alla guida avrebbe potuto esserci l’autista» ha obiettato
Randall, ragionevolmente. «Ma questo non avrebbe fatto
una gran differenza. Gli autisti non rischiano di farsi
sparare in faccia da un rapinatore... per novanta dollari al
mese. Marriott, però, non può essere stato coinvolto in
troppe rapine, altrimenti la voce si sarebbe sparsa».
«Il punto fondamentale, in un traffico di questo tipo, è
che di quel che avviene non si parla con nessuno. A queste
condizioni, la refurtiva viene restituita a buon prezzo».
Randall si è appoggiato all’indietro, scuotendo la testa.
«Se vuoi suscitare il mio interesse, devi impegnarti di più.
Le donne parlano di tutto. Se è vero che le uscite con
Marriott tendevano a finire in quel modo, la voce sarebbe
girata».
«Probabilmente stava girando. Proprio per questo l’hanno
fatto fuori».
Randall mi ha fissato con la sua faccia di legno.
Mescolava l’aria col cucchiaino in una tazza vuota. Ho fatto
per riempirgliela, ma l’ha spostata. «Va’ avanti» mi ha
detto.
«Lo hanno spremuto. La sua funzione era esaurita. Come
dicevi tu stesso, cominciavano a girare voci, sul suo conto.
Da certi giri, però, non si esce. E non ti concedono tempo.
Quest’ultima rapina, perciò, è stata... l’ultima, appunto.
Hanno chiesto davvero una miseria per la collana,
considerando quanto vale. E i contatti sono stati gestiti da
Marriott. Eppure era nervoso. All’ultimo momento ha
pensato fosse meglio non andare da solo all’appuntamento.
E ha concepito un piccolo stratagemma: se qualcuno gli
avesse fatto del male, una cosa che aveva addosso avrebbe
permesso di risalire a una persona ben precisa, un uomo
piuttosto spietato e abbastanza intelligente da essere il
cervello di una banda di quel tipo, nonché nella posizione
ideale per raccogliere informazioni su donne facoltose. Uno
stratagemma abbastanza infantile, ma che ha funzionato».
Randall ha scosso la testa. «Dei gangster come si deve gli
avrebbero ripulito le tasche e forse si sarebbero persino
presi la briga di andare a scaricarlo nell’oceano».
«No. Volevano che il lavoro sembrasse dilettantesco.
Volevano continuare il loro business. Probabilmente
avevano già pronta un’altra talpa».
Randall ha di nuovo scosso la testa. «L’uomo a cui
riconducono le sigarette non è il tipo. Ha già il suo bel
racket. Ho indagato. Che impressione ti ha fatto?».
Aveva un’aria svagata, un po’ troppo. Ho continuato: «A
me è sembrato uno decisamente pericoloso. E i soldi non
sono mai troppi, dico bene? Inoltre, come parapsicologo
non vai avanti troppo a lungo nello stesso posto. Viene il
momento che sei di moda, e c’è la fila, ma dopo un po’ la
moda cambia e va tutto a rotoli. Ammesso che sia solo un
parapsicologo. Come le star del cinema. Cinque anni glieli
concedo. Cinque puoi durare. Ma offrigli un paio di modi
per utilizzare le informazioni estorte a quelle donne, e me
lo immagino capace di uccidere».
«Approfondirò la questione» ha detto Randall
mantenendo l’espressione svagata. «Al momento, però,
sono più interessato a Marriott. Facciamo un passo
indietro... all’inizio. Come lo hai conosciuto?».
«Mi ha telefonato. Ha trovato il mio numero sull’elenco.
Almeno, così ha detto».
«Aveva un tuo biglietto da visita».
L’ho guardato, sorpreso. «Sì, certo. Me n’ero
dimenticato».
«Vuoti di memoria a parte, ti sei mai domandato perché
abbia scelto proprio te?».
Lo fissavo da sopra il bordo della mia tazza di caffè.
Cominciava a starmi simpatico. C’era parecchio sotto il
gilè, oltre alla camicia.
«Quindi sei venuto per questo?».
Ha annuito. «Sì. Le altre, be’... erano semplici
chiacchiere». Mi ha rivolto un sorriso gentile, e ha
aspettato.
Mi sono versato un altro po’ di caffè.
Randall si è piegato su un fianco, per studiare la
superficie color crema del tavolo. «C’è un po’ di polvere»
ha concluso. Poi si è tirato su, e mi ha guardato negli occhi.
«Forse mi conviene provare ad arrivarci da un altro punto.
Ad esempio, la tua intuizione sul conto di Marriott è
probabilmente corretta, secondo me. Ci sono ventitremila
dollari in contanti nella sua cassetta di sicurezza. Che, fra
l’altro, abbiamo fatto molta fatica a trovare. Poi ci sono dei
bei bond e un’ipoteca su una proprietà in West 54th Place».
Con un sorriso, ha fatto tintinnare piano il cucchiaino sul
bordo del piattino. «Ti può interessare?» mi ha chiesto a
bassa voce. «L’indirizzo preciso è 1644 West 54th Place».
«Sì» ho detto, roco.
«Ah, nella cassetta di Marriott c’erano anche parecchi
gioielli. Roba decisamente di valore. Non credo rubata,
però. È molto probabile che gliel’abbia data qualcuno.
Questo è un punto a tuo favore. Aveva paura di venderla...
per via delle sue associazioni mentali più o meno consce».
Ho annuito. «Per lui era come fosse refurtiva».
«Appunto. All’inizio la questione dell’ipoteca non mi era
sembrata interessante, ma succede sempre così. È il solito
ostacolo che si incontra nel lavoro d’indagine. Riceviamo i
verbali sugli omicidi e sulle morti sospette dai distretti
periferici. E si presume che li leggiamo il giorno stesso. È
una regola, come quella per cui non si può perquisire una
casa senza mandato, o qualcuno per possesso di armi senza
validi motivi. Ma alcune regole le violiamo. Siamo costretti.
Ecco perché una parte dei verbali l’ho letta solo stamattina.
In uno si parla dell’uccisione di un nero in Central Avenue,
giovedì scorso. Opera di un duro, uscito da poco di galera,
un certo Moose Malloy. Nel verbale si cita anche un
testimone oculare. Che mi pigli un colpo se il testimone non
sei tu». Un altro sorriso, tranquillo. Era il terzo. «Ti
piace?».
«Sono tutt’orecchi».
«Ripeto, parliamo di stamattina. Cerco il nome di chi
aveva compilato il rapporto e scopro di conoscerlo. Nulty.
Capisco subito che l’indagine sarebbe stata un buco
nell’acqua. Nulty è il classico... Sei mai stato a Crestline?».
«Sì».
«Be’, su da quelle parti c’è un posto dove hanno
trasformato un mucchio di carri merci in bungalow. Ho
anch’io un bungalow, lassù, ma non in un carro merci. I
carri merci li hanno trasportati sul posto con i camion, che
tu ci creda o no, e lì sono rimasti, senza le ruote. Ecco,
Nulty è il classico tipo che andrebbe bene come frenatore
su uno di quei carri».
«Non è una cosa carina da dire. È pur sempre un
collega».
«Insomma, chiamo Nulty, e lui prima farfuglia non so cosa
tra uno sputacchio e l’altro, dopo di che mi dice che tu
avevi un’idea a proposito di una ragazza, una certa Velma,
per cui Malloy perdeva le bave molto tempo fa, e che quindi
sei andato a trovare la vedova dell’ex proprietario del
locale in cui è avvenuto l’omicidio, che anni fa era ancora
per bianchi ed era il posto in cui questa Velma e Malloy
lavoravano, tutti e due. E la vedova abita al 1644 di West
54th Place, nella casa su cui Marriott aveva l’ipoteca».
«E...?».
«E ho pensato che come coincidenze potevano bastare,
per una sola mattinata, per cui eccomi qui. E finora ci sono
andato piuttosto piano».
«Il problema è che sembra chissà cosa, ma non lo è.
Velma è morta, secondo Mrs. Florian. Ho una sua foto».
Sono andato in soggiorno e ho infilato una mano nella
giacca del completo. Sollevandola mi era sembrata strana e
vuota, invece le foto erano ancora lì. Le ho portate in
cucina, lanciando la giovane Pierrot sul tavolo davanti a
Randall, che l’ha studiata per bene.
«Mai vista. E quell’altra?».
«No, questa è una foto di Mrs. Grayle, scattata per un
giornale. Ce l’aveva Anne Riordan».
L’ha guardata, annuendo. «Per venti milioni la sposo
anch’io».
«Ancora una cosa» ho detto. «Ieri sera, infuriato com’ero,
pensavo di andare all’attacco da solo. La clinica è all’angolo
fra la 23rd e Descanso Street, a Bay City. È diretta da un
certo Sonderborg, che dice di essere un medico. Come
attività parallela, gestisce un nascondiglio per delinquenti.
Sai chi ho visto, in una stanza? Moose Malloy».
Randall mi ha fissato, immobile. «Ne sei sicuro?».
«Impossibile sbagliarsi. È un bestione, enorme. Uno così
non lo incontri tutti i giorni».
Randall mi fissava senza muovere un muscolo. Poi,
lentissimamente, ha tolto le gambe da sotto il tavolo e si è
alzato.
«Andiamo a trovare Mrs. Florian».
«E Malloy?».
Si è rimesso a sedere. «Raccontami bene tutta la storia».
L’ho fatto. Mi ha ascoltato senza staccarmi gli occhi di
dosso. Credo non abbia mai neanche sbattuto una palpebra.
Respirava con la bocca leggermente aperta. Era immobile.
Le dita tamburellavano piano sul bordo del tavolo. Alla fine
ha detto: «Questo dottor Sonderborg... che aspetto
aveva?».
«Sembrava un drogato, e probabilmente è uno che
spaccia». L’ho descritto meglio che potevo.
Senza fare commenti, Randall è andato di là e si è seduto
accanto al telefono. Dopo una lunga conversazione, è
tornato in cucina. Io avevo appena finito di preparare altro
caffè, due uova e qualche fetta di pane tostato. Intendevo
mangiare, e mi sono seduto.
Anche Randall, appoggiando il mento a una mano. «Ho
mandato alla clinica uno della Narcotici. Gli ho chiesto di
dare un’occhiata in giro, con la scusa di una finta
segnalazione. Magari salta fuori qualcosa. Di sicuro non
troverà Malloy, che se la sarà filata dieci minuti dopo di te,
ieri sera. Puoi scommetterci».
«Perché non hai mandato la polizia di Bay City?». Ho
messo un po’ di sale sulle uova.
Randall non mi ha risposto. Quando ho alzato gli occhi, ho
visto che era viola, e a disagio.
«Sei il poliziotto più sensibile che abbia mai conosciuto».
«Sbrigati a finire. Dobbiamo andare».
«Devo farmi la doccia, radermi e vestirmi».
«Non puoi venire così come sei, in pigiama?» mi ha
chiesto, acido.
«Dunque Bay City è così marcia?».
«È territorio di Laird Brunette. Pare abbia investito
trentamila dollari per eleggere il sindaco».
«È il proprietario del Belvedere Beach Club?».
«E dei due casinò sull’acqua».
«Ma è territorio americano» ho detto.
Si è concentrato sulle sue unghie pulite e lucenti.
«Passiamo dal tuo ufficio a prendere gli altri due spinelli,
ammesso che ci siano ancora». Ha schioccato le dita. «Se
mi dai le chiavi, posso andarci io mentre fai le tue
abluzioni».
«Ci andiamo insieme. Così guardo se c’è posta».
Ha annuito, e un attimo dopo era già seduto con in bocca
un’altra sigaretta. Dopo barba e doccia, siamo saliti sulla
sua macchina.
C’era posta, ma niente che valesse la pena leggere. Le
due sigarette tagliuzzate nel cassetto della scrivania non
erano state toccate. L’ufficio non aveva l’aria di essere stato
perquisito.
Randall ha preso le due sigarette russe, ha annusato la
mistura e se le è messe in tasca.
«Tu gli hai dato un biglietto da visita» ha detto. «Sul retro
non doveva esserci scritto niente, per cui degli altri non si è
preoccupato. Credo che Amthor non sia tanto in ansia.
Deve aver pensato che stessi cercando di fregarlo.
Andiamo».
30

La vecchia ficcanaso ha cacciato fuori dalla porta


d’ingresso soltanto la pinna, ha annusato con attenzione
come per capire se fosse fiorita qualche precoce violetta,
poi ha perlustrato la strada con lo sguardo, a destra e a
sinistra, e alla fine ha fatto un cenno con la testa canuta.
Randall e io ci siamo tolti il cappello, gesto che in quel
quartiere fa di te un Rodolfo Valentino. La signora
sembrava ricordarsi di me.
«Buongiorno, Mrs. Morrison» ho detto. «Possiamo
entrare un minuto? Le presento il viceispettore Randall,
della polizia».
«Oh, diamine, sono presissima. Ho una montagna di roba
da stirare».
«Ci vorrà meno di un minuto».
La signora ha fatto un passo indietro, lasciandoci entrare
nell’anticamera con il buffet di Mason City o vattelappesca,
e di lì nell’ordinato soggiorno con le tendine di pizzo. Dal
retro della casa arrivava l’odore di roba stirata. Mrs.
Morrison ha chiuso la porta d’accesso a quella zona con la
delicatezza che in genere si riserva alla pasta frolla.
Aveva addosso un grembiule bianco e azzurro, quella
mattina. Il suo sguardo era sempre molto acuto, e il mento,
nel frattempo, non le era cresciuto. Si è piazzata a non più
di una spanna da me e ha proteso la faccia, guardandomi
negli occhi.
«Non l’ha ricevuta».
Tentando di fare quello che la sa lunga, ho annuito e
guardato Randall, il quale ha annuito a sua volta, prima di
accostarsi a una finestra affacciata su un lato della casa di
Mrs. Florian. È tornato indietro con passo felpato, tenendo
il suo pork pie sotto il braccio, bonario come un conte
francese in una recita studentesca.
«Non l’ha ricevuta» ho ripetuto.
«Esatto, non è arrivata. Sabato era il primo del mese. Il
primo aprile. Eheheh!». La signora si è interrotta e ha fatto
per asciugarsi gli occhi col grembiule, ma si è resa conto
che era di plastica. Non l’ha presa bene. La bocca le è
diventata una prugna secca.
«Quando è passato, il postino non è andato a suonarle,
allora lei è corsa fuori per chiamarlo, ma lui le ha fatto
segno di no e ha tirato dritto. Lei è rientrata. Ha sbattuto la
porta così forte che a momenti sfonda le finestre. Sembrava
impazzita».
«Lo credo bene!» ho detto.
La vecchia ficcanaso ha guardato Randall in cagnesco:
«Mi faccia vedere il distintivo, giovanotto. Il suo collega,
qui, l’altro giorno aveva il fiato che sapeva di whisky. Non
mi pare uno di cui fidarsi».
Randall ha tirato fuori un distintivo dorato e smaltato di
blu.
«Un poliziotto vero, si direbbe. Be’, domenica non è
successo niente. È uscita a comprare da bere ed è tornata
con due bottiglie squadrate».
«Gin» ho detto. «Già questo la dice lunga. La gente
perbene non beve gin».
«La gente perbene non beve affatto» ha precisato la
vecchia.
«Be’» ho detto. «Arriva il lunedì, che è oggi, ma il postino
ripassa senza fermarsi. E stavolta lei la prende male sul
serio».
«Il giovanotto legge nel pensiero, eh? Non si fa quasi in
tempo ad aprir bocca».
«Chiedo scusa, Mrs. Morrison. È una questione molto
importante, per noi».
«Quest’altro giovanotto non sembra aver problemi a
tenere la lingua al suo posto».
«È sposato» ho detto. «Fa esercizio».
La faccia le è diventata di una sfumatura violacea, che
per quanto malvolentieri ho associato alla cianosi. «Uscite
da casa mia prima che chiami la polizia!» ha strillato.
«La polizia è già qui, signora» ha detto Randall, conciso.
«Lei non corre alcun pericolo».
«D’accordo» ha detto, un po’ meno viola. «Il suo amico,
però, non mi piace per niente».
«Non è l’unica, signora. Mrs. Florian, dunque, non ha
ricevuto la raccomandata neanche oggi. Dico bene?».
«Esatto». La voce le è uscita secca, tesa. Lo sguardo era
furtivo. Ha cominciato a parlare in fretta, troppo. «Ieri sera
qualcuno è stato da lei. Non l’ho visto arrivare perché ero
andata al cinema in compagnia. Quando siamo tornati – no,
quando i miei amici se n’erano già andati –, dalla casa
accanto è partita un’auto. A tutta velocità e a fari spenti.
Non ho visto la targa».
Mi ha guardato di traverso con quei suoi occhi sfuggenti.
Non capivo cosa sfuggissero. Sono andato alla finestra e ho
scostato una tendina. Un uomo in divisa grigio-azzurra
stava avvicinandosi alla porta. Portava una pesante sacca di
cuoio a tracolla e aveva un berretto con visiera.
Mi sono allontanato dalla finestra con un sorriso
furbastro.
«Lei mi perde colpi, signora» ho detto senza tanti
complimenti. «Il prossimo anno finirà a giocare come
interbase in serie C».
«Non esagerare» è intervenuto Randall, severo.
«Guarda un po’ fuori».
Lo ha fatto, e l’ho visto irrigidirsi. Ha squadrato Mrs.
Morrison. Stava aspettando qualcosa, un rumore
inconfondibile. Che un attimo dopo è arrivato.
Era il rumore di qualcosa spinto attraverso la buca delle
lettere. Poteva essere un volantino, ma non lo era. Quando
ha sentito i passi allontanarsi, prima lungo il vialetto e poi
per strada, Randall è andato alla finestra. Il postino non si è
fermato da Mrs. Florian. La schiena grigio-azzurra,
composta e tranquilla, ha portato altrove il peso della sacca
di cuoio.
Randall si è voltato e ha chiesto, con una gentilezza
micidiale: «Quanti giri fa il postino di mattina, in questa
zona, Mrs. Morrison?».
Lei ha provato a reggere la commedia. «Uno» ha detto,
piccata. «Uno al mattino e uno al pomeriggio».
I suoi occhi guizzavano inquieti di qua e di là. Il mento da
coniglio tremava come sull’orlo di qualcosa. Le mani
stringevano lo svolazzo di plastica che bordava il grembiule
bianco e azzurro.
«Il postino della mattina è appena passato» ha detto
Randall. «Le raccomandate arrivano con la posta
ordinaria?».
«Lei la riceve sempre con consegna speciale» ha detto la
vecchia con la voce incrinata.
«Ah. Sabato, però, Mrs. Florian è corsa fuori per
chiamare il postino, quando ha visto che non le aveva
suonato. Non ci aveva parlato di consegne speciali».
Era bello vederlo lavorare... sugli altri.
La bocca della signora si è aperta, e i suoi denti avevano
quel bell’aspetto lucente che deriva dall’immersione
notturna in un bicchiere di disinfettante. Poi,
all’improvviso, ha lanciato un grido strozzato, si è sfilata il
grembiule da sopra la testa ed è corsa fuori dalla stanza.
Randall ha guardato al di là della porta oltre la quale lei
era sparita, oltre l’arco del corridoio, e ha sorriso. Un
sorriso decisamente stanco.
«Clinico, senza il minimo fronzolo» ho detto. «La
prossima volta lo sbirro cattivo lo fai tu. Non mi piace
maltrattare le signore anziane, per quanto pettegole e
bugiarde».
Randall continuava a sorridere: «La solita vecchia storia».
Si è stretto nelle spalle. «Il mestiere del poliziotto... bah!
Aveva cominciato con i fatti, perché ne sapeva. Ma poi non
gliene venivano in mente abbastanza alla svelta, o di
abbastanza eccitanti. Così ha provato a romanzarli un po’».
Ci siamo spostati in anticamera. Dalla stanza in fondo
giungeva un flebile suono di singhiozzi. Per un qualche
uomo paziente, morto da un pezzo, quella doveva essere
stata l’arma della sconfitta definitiva. Per me era solo una
vecchia che singhiozzava. Nulla di cui andar fieri,
comunque.
Siamo usciti in silenzio, abbiamo chiuso piano la porta
d’ingresso e ci siamo assicurati che la zanzariera non
sbattesse. Randall si è messo il cappello con un sospiro. Poi
si è stretto nelle spalle e ha spalancato le mani eleganti e
ben curate, allontanandole dal corpo. Dall’interno della
casa giungeva ancora qualche fioco singulto.
La schiena del postino era due case più avanti.
«Il mestiere del poliziotto» ha ripetuto piano Randall, a
mezza voce, con una smorfia.
Abbiamo coperto il breve tratto fino alla casa adiacente.
Mrs. Florian non aveva neanche ritirato il bucato.
Penzolava ancora rigido e giallastro sul filo, nel giardino
accanto alla casa. Abbiamo salito i gradini e suonato.
Nessuna risposta. Abbiamo bussato. Niente, di nuovo.
«L’ultima volta non era chiusa a chiave» ho detto.
Randall ha provato la maniglia, schermando cautamente
con il corpo i propri movimenti. Era chiusa a chiave. Siamo
scesi dalla veranda e abbiamo fatto il giro della casa,
portandoci sul lato invisibile alla vecchia ficcanaso. La
veranda sul retro era chiusa da una zanzariera agganciata
dall’interno. Randall ha bussato sul telaio. Niente. Ha sceso
i due scalini di legno quasi sverniciati e seguito il vialetto
invaso dalle piante per andare ad aprire un garage di
legno. Le porte cigolavano. Il garage era pieno di nulla.
C’erano alcuni vecchi bauli malconci che non valevano
neanche la fatica di farli a pezzi per bruciarli. Attrezzi da
giardinaggio arrugginiti, vecchie lattine dentro scatoloni.
Appena oltre la soglia due vedove nere belle grasse, una a
ogni angolo, sedevano al centro delle loro disordinate e
asimmetriche ragnatele. Randall ha raccolto un pezzo di
legno e le ha fatte fuori entrambe, con noncuranza. Poi ha
richiuso il garage, ripercorso in senso inverso il vialetto, ed
è tornato sul davanti della casa, risalendo i gradini. Ha
bussato e suonato di nuovo. Niente.
È tornato indietro con molta calma, guardando verso la
strada da sopra una spalla.
«La porta sul retro è più facile. In ogni caso, la vecchia
gallina non farà niente, stavolta. Ha mentito troppo».
Saliti i due scalini, ha infilato la lama di un coltello nella
fessura della zanzariera, per sollevare il gancio che la
teneva chiusa. Ora ci trovavamo nella veranda posteriore.
Era piena di scatolette, alcune delle quali piene di mosche.
«Cristo, come si fa a vivere così?» ha detto Randall.
La porta sul retro non ha resistito a un passe-partout da
cinque centesimi. C’era anche un catenaccio, però.
«Questa cosa mi fa pensare» ho detto. «Mi sa che se l’è
filata. Non avrebbe mai chiuso così, altrimenti. È troppo
sciatta».
«Il tuo cappello è più vecchio del mio» ha detto Randall.
Stava guardando la lastra di vetro della porta. «Prestamelo
per rompere il vetro. O dobbiamo fare un lavoro pulito?».
«Sfondala a calci. A chi vuoi che importi, da queste
parti?».
«Okay, vado».
Ha fatto un passo indietro per sferrare un calcio
all’altezza della serratura. Qualcosa si è rotto, e la porta ha
ceduto di qualche centimetro. Abbiamo finito di aprirla e
abbiamo raccolto dal pavimento di linoleum un pezzo di
metallo divelto, appoggiandolo educatamente sulla
superficie scanalata del lavandino in marmo woodstone,
accanto a una decina di bottiglie di gin vuote.
Le mosche ronzavano contro le finestre chiuse della
cucina. C’era una puzza tremenda. Randall si è piazzato al
centro della stanza dando un’occhiata attenta in giro.
Quindi ha oltrepassato la porta a vento senza toccarla se
non con la punta di una scarpa, e spingendola abbastanza
da farla restare aperta. Il soggiorno era molto simile a
come me lo ricordavo. La radio era spenta.
«Bella, la radio» ha detto Randall. «Dev’essere costata
cara. Ammesso che sia stata pagata. Qui c’è qualcosa».
Ha posato un ginocchio sul pavimento e chinato la testa
quasi rasoterra per guardare lungo il tappeto. Poi si è
spostato su un lato della radio e ha smosso con un piede un
cavo staccato, fino a recuperare la spina. Si è chinato di
nuovo e ha studiato le manopole.
«Sì. Di lusso, e anche piuttosto grossa. Niente male,
davvero. Non si riescono a prendere le impronte su un cavo
elettrico, dico bene?».
«Prova a infilare la presa per vedere se è accesa».
Ha allungato una mano dietro la radio e infilato la spina
nella presa sopra il battiscopa. La luce si è accesa
all’istante. Abbiamo atteso. Dopo un breve ronzio,
dall’altoparlante è deflagrata un’enorme onda sonora.
Randall ha staccato la spina, e la musica si è interrotta.
Quando Randall si è tirato su, aveva gli occhi accesi.
Siamo corsi nella camera. Jessie Pierce Florian giaceva in
diagonale sul materasso, con una vestaglietta di cotone
tutta stropicciata, e la testa non lontana dai piedi del letto.
Uno dei montanti d’angolo aveva chiazze scure di una cosa
che piaceva alle mosche.
Era morta da un po’. Randall non l’ha toccata. È rimasto a
fissarla per un pezzo, poi mi ha guardato, mostrando i denti
con un’espressione da lupo.
«Il cervello sulla faccia» ha detto. «A quanto pare, è il
tema portante di questa indagine. Solo che stavolta è stato
fatto tutto a mani nude. Però, Cristo, che mani! Guarda i
lividi sul collo, la distanza tra i segni delle dita».
«Guardali tu» ho detto, voltandomi. «Povero Nulty, non è
più soltanto l’omicidio di un negro».
31

Uno scarabeo nero e lucente con la testa rosa e puntini


rosa sulla corazza avanzava sul ripiano lucido della
scrivania di Randall, agitando le due antenne come per
sondare il vento in vista del decollo. Arrancava un po’,
come una donna anziana che stia trasportando troppi
pacchetti. Un anonimo poliziotto sedeva a un’altra scrivania
e continuava a parlare nel silenziatore attaccato al
microfono di un vecchio telefono, così che la sua voce
suonava come un prolungato bisbiglio in un tunnel. Teneva
gli occhi semichiusi, e una manona sfregiata sulla scrivania,
con una sigaretta accesa tra indice e medio.
Arrivato al bordo della scrivania di Randall, lo scarabeo
ha continuato a camminare. È precipitato a terra con il
ventre all’insù. Ha agitato debolmente le zampette esili e
logore, dopo di che si è finto morto. Siccome nessuno gli
prestava attenzione, ha ricominciato ad agitare le
zampette, ed è riuscito a girarsi. Quindi è avanzato
lentamente in direzione di un angolo, verso nulla, diretto da
nessuna parte.
L’altoparlante appeso alla parete ha diramato un
bollettino su una rapina in San Pedro Street, a sud della
54th Street. Il rapinatore era un uomo di mezza età in
completo grigio scuro e cappello di feltro grigio. Era stato
visto l’ultima volta infilarsi tra due case. «Avvicinarsi con
cautela» ha detto l’altoparlante. «Il sospetto è armato di
una rivoltella calibro 32 e ha appena rapinato il gestore di
un ristorante greco al 3966 della South San Pedro».
C’è stato un clic, al termine del bollettino, ma subito
un’altra voce monotona ha attaccato con un elenco di auto
rubate, ripetendo ogni cosa due volte.
Randall è entrato con un fascicolo di fogli da lettera
scritti a macchina. Ha attraversato l’ufficio quasi di corsa e
si è seduto alla scrivania di fronte a me, porgendomeli.
«Firmane quattro copie» ha detto.
Ne ho firmate quattro copie.
Intanto lo scarabeo dalla testa rosa aveva guadagnato un
angolo della stanza, e protendeva le antenne in cerca di un
buon posto da cui levarsi in volo. Sembrava un po’
scoraggiato. È ripartito lungo il battiscopa verso un altro
angolo. Io ho acceso una sigaretta, e il poliziotto che
parlava al telefono silenziato si è alzato di colpo ed è uscito
dall’ufficio.
Randall si è appoggiato all’indietro sulla poltroncina, con
la sua solita aria rilassata, pronto a essere carino o feroce a
seconda delle necessità.
«Ti spiego un paio di cose, così non ti metti in testa
strane idee, e soprattutto non cerchi di ordire qualche
piano. E magari lasci perdere questo caso, se Dio vuole».
Ho aspettato.
«Non hanno trovato impronte, nella discarica. Sai bene a
quale alludo. La radio è stata spenta staccando la spina, ma
probabilmente l’aveva accesa lei. Mi pare ovvio, gli
ubriachi tengono sempre le radio ad alto volume. Se
qualcuno si fosse messo i guanti per uccidere, e poi avesse
acceso e alzato il volume per coprire il rumore di spari o
altro, l’avrebbe spenta allo stesso modo. Ma non è andata
così. E la donna ha il collo spezzato. Quando l’assassino ha
cominciato a sbatacchiarle la testa di qua e di là, era già
morta. Viene da domandarsi: come mai ha infierito?».
«Sono tutt’orecchi».
Si è incupito. «Probabilmente non si era reso conto di
averle rotto il collo. Doveva avercela un po’ con lei. Che
deduzione, eh?». Stavolta il sorriso era amaro.
Ho sbuffato un po’ di fumo, che ho allontanato dalla
faccia agitando una mano.
«Be’, vuoi sapere perché ce l’aveva con lei? Quando
hanno arrestato Malloy al Florian’s, dopo la rapina in banca
nell’Oregon, è stata pagata una ricompensa di mille dollari.
L’ha incassata un avvocato corrotto morto da un pezzo, ma
è probabile che i Florian ne abbiano ricevuta una parte.
Malloy deve averne avuto sentore, o forse lo sapeva. E
forse ha solo cercato di farglielo confessare».
Ho fatto un cenno di assenso. Mi pareva meritato. Randall
ha continuato.
«L’ha presa per il collo e non l’ha mollata più. Se lo
becchiamo, potremmo provare che è stato lui
semplicemente misurando gli spazi tra i segni delle dita. Il
medico ritiene che sia accaduto ieri sera, sul presto. All’ora
del primo spettacolo al cinema, comunque. Al momento non
abbiamo prove che Malloy sia stato in quella casa: nessuno
dei vicini l’ha visto. Ma l’impressione è che sia stato lui».
«Già. Dev’essere stato Malloy. Anche se probabilmente
non intendeva ucciderla. Ha soltanto una forza che non
controlla».
«Questo non lo giustifica» ha detto Randall, torvo.
«No, certo. Volevo solo dire che Malloy non mi pare il
classico assassino. Se non ha scelta è capace di uccidere,
ma non per il gusto di farlo, né per denaro. E, comunque,
non le donne».
«Ti pare un dettaglio importante?» mi ha chiesto secco.
«Credo tu sappia decidere da solo cos’è importante e
cosa non lo è. Io no».
Mi ha fissato abbastanza a lungo da dare il tempo
all’altoparlante di diramare un nuovo bollettino circa la
rapina al ristorante greco sulla South San Pedro. Il
ricercato era stato fermato. Si era scoperto che si trattava
di un quattordicenne messicano con una pistola ad acqua.
A proposito di testimoni oculari.
Randall ha aspettato che l’altoparlante si zittisse:
«Stamattina siamo riusciti ad andare d’accordo. Cerchiamo
di continuare così. Va’ a casa e stenditi. Hai un’aria
stravolta. Le indagini sull’omicidio di Marriott, le ricerche
di Malloy e così via lasciale a noi».
«Io sono stato pagato da Marriott. E non ho portato a
termine il lavoro. Poi mi ha ingaggiato Mrs. Grayle. Che
faccio, secondo te? Vado in pensione e vivo di rendita?».
È tornato a fissarmi. «Lo so. Sono un essere umano
anch’io. Vi danno la licenza, e si presume che ne facciate
qualcosa, oltre ad appenderla in ufficio. D’altra parte, basta
che diate sui nervi al primo capitano di passaggio e siete
rovinati».
«A meno che uno non abbia alle spalle i Grayle».
Ci ha riflettuto. Detestava ammettere che potessi avere
ragione anche solo a metà. Da qui il malumore, e le dita
che tamburellavano sulla scrivania.
«Tanto per capirci» ha detto, dopo una pausa. «Se
continui a occuparti di questo caso ti ficcherai nei pasticci.
Magari in qualche modo riuscirai a sfangarla, questa volta.
Non lo so. Però qui dentro finiranno per odiarti, e allora sì
che lavorare diventerà difficile. Molto».
«Tutti gli investigatori privati, ogni giorno, fanno i conti
con questa realtà... a meno che non si occupino di divorzi».
«Non puoi occuparti di omicidi».
«Hai detto la tua, e ti ho ascoltato. Non pretendo di fare
cose di cui neppure un grande dipartimento di polizia è
capace. Ammesso che riesca ad avere una piccola idea
personale, rimane questo: una piccola idea personale».
Si è sporto sulla scrivania. Le dita sottili e inquiete
continuavano a tamburellare, come i rami della poinsettia
contro la facciata della casa di Jessie Florian. I capelli
grigio crema risplendevano, gli occhi immobili e freddi
fissavano i miei.
«Procediamo con quello che resta da dire. Amthor è
andato in gita. Sua moglie – nonché segretaria – non sa o
non vuole dire dove. Anche l’indiano è scomparso. Hai
intenzione di sporgere denuncia contro di loro?».
«No, le accuse non reggerebbero».
Mi è parso sollevato. «La moglie dice che non ha mai
sentito parlare di te. Quanto a quei due poliziotti di Bay
City, sempre che lo fossero... non mi compete. Preferirei
che la questione non si complicasse oltre. Di una cosa,
però, sono abbastanza sicuro: Amthor non ha niente a che
fare con la morte di Marriott. Le sigarette con il suo
biglietto da visita come filtro sono un depistaggio».
«E il dottor Sonderborg?».
Randall ha allargato le braccia. «Da Sonderborg hanno
levato le tende. C’è andata gente della procura distrettuale,
in incognito. Senza avvertire la polizia di Bay City. La casa
era chiusa e deserta. Sono entrati, ovviamente. Avevano
tentato di ripulire in fretta e furia, ma c’erano impronte
dappertutto. Ci vorrà una settimana per capire cosa ne
salterà fuori. Hanno trovato una cassaforte a muro su cui
stanno lavorando. Dentro c’è probabilmente droga, e altro.
La mia ipotesi è che Sonderborg abbia precedenti – non in
California, da qualche altra parte – per aborto, o per aver
curato di nascosto ferite da arma da fuoco, o per aver
alterato le impronte digitali di qualcuno, o magari per
traffico di droga. Se è roba che ricade sotto la legge
federale, otterremo sicuramente un grande aiuto».
«Sosteneva di essere un medico».
Randall si è stretto nelle spalle. «Lo sarà anche stato,
molto tempo fa. Magari non ha precedenti. C’è un tizio che
pratica tuttora la professione, dalle parti di Palm Springs, e
che è stato condannato per spaccio di droga a Hollywood
cinque anni fa. C’era dentro fin qui, ma le protezioni hanno
funzionato. L’ha fatta franca. C’è altro che ti preoccupa?».
«Così, per curiosità... cosa puoi dirmi di Laird Brunette?».
«Brunette si occupa di gioco d’azzardo. Sta facendo soldi
a palate. Soldi facili».
«Va bene» ho detto, cominciando ad alzarmi. «Mi pare
ragionevole. Questo però non ci avvicina di un passo ai
rapinatori che hanno fatto fuori Marriott».
«Non posso dirti tutto, Marlowe».
«Né me lo aspetto. A proposito, Jessie Florian mi aveva
rivelato – alla mia seconda visita – di aver lavorato come
cameriera per la famiglia di Marriott, tempo fa. E che per
questo lui le mandava denaro. Ci sono conferme?».
«Sì. Lettere, nella cassetta di sicurezza di Marriott, in cui
lei lo ringrazia e dice esattamente questo». Sembrava sul
punto di perdere la pazienza. «Ora fammi un favore,
perdio: tornatene a casa e pensa agli affari tuoi».
«Carino, da parte di Marriott, tenere così da conto quelle
lettere, eh?».
Prima ha alzato gli occhi sopra la mia testa, poi ha
abbassato le palpebre fino a coprire una metà dell’iride. Mi
ha guardato in quel modo per una decina di secondi. Poi ha
sorriso. Stava esagerando con i sorrisi, quel giorno. Mi sa
che si stava giocando tutta la scorta della settimana.
«Ho una mia teoria, al riguardo. È assurda, ma così è la
natura umana. Marriott, vista la vita che conduceva, si
sentiva minacciato. Tutti i delinquenti sono giocatori
d’azzardo, in qualche misura, e tutti i giocatori d’azzardo
sono superstiziosi, in qualche misura. Ho idea che Jessie
Florian fosse la portafortuna di Marriott: finché si fosse
preso cura di lei, non gli sarebbe accaduto nulla di male».
Mi sono girato per cercare lo scarabeo dalla testa rosa.
Dopo aver provato due angoli della stanza, stava
procedendo sconsolato verso il terzo. Mi sono avvicinato,
l’ho raccolto nel fazzoletto e l’ho riportato sulla scrivania.
«Guarda un po’. Questa stanza è a diciotto piani da terra,
e questo scarabeo si è arrampicato fin quassù per fare
amicizia. Con me. Il mio portafortuna».
Ho avvolto delicatamente lo scarabeo nel fazzoletto e me
lo sono infilato in tasca. Randall era allibito. Ha mosso le
labbra, ma non gli è uscito niente.
«Marriott, invece, di chi sarà stato il portafortuna?».
«Di certo non il tuo». Non era solo acido. Era acido e
gelido.
«Forse neanche il tuo». La mia voce era semplicemente
una voce. Sono uscito e ho chiuso la porta.
Con l’ascensore rapido sono uscito su Spring Street, sotto
il portico antistante la City Hall. Ho sceso i gradini, mi sono
avvicinato alle aiuole fiorite e con cura ho posato lo
scarabeo dalla testa rosa dietro un cespuglio.
Chissà quanto ci avrebbe messo a tornare nell’ufficio
della Omicidi, mi sono chiesto in taxi.
Tirata fuori l’auto dal garage dietro casa, ho mangiato
qualcosa a Hollywood prima di andare a Bay City. Era un
bel pomeriggio fresco, giù in spiaggia. Ho lasciato
l’Arguello Boulevard all’altezza della 3rd Street, e ho
puntato verso la City Hall locale.
32

Era un edificio fin troppo dozzinale, per una cittadina così


prospera. Sembrava di essere finiti nella Bible Belt. I
barboni se ne stavano tranquilli in una lunga fila, seduti sul
muretto di contenimento che impediva al prato antistante –
ormai coperto perlopiù di gramigna rossa – di traboccare
sulla strada. La City Hall era una palazzina a due piani
sormontata da un vecchio campanile, che ai bei tempi in cui
si masticava tabacco serviva probabilmente per convocare
la brigata dei pompieri volontari.
In fondo al vialetto pieno di crepe, alcuni gradini
conducevano a una porta a due battenti aperta, oltre la
quale un gruppo di uomini – faccendieri, evidentemente –
ciondolava in attesa che succedesse qualcosa per poterne
ricavare qualcos’altro. Avevano tutti un aspetto florido,
occhi attenti, bei vestiti e modi stereotipati. Mi hanno
lasciato sì e no dieci centimetri per entrare.
All’interno c’era un lungo corridoio buio il cui pavimento
doveva essere stato lavato l’ultima volta per l’insediamento
di McKinley. Una targa in legno indicava lo sportello
informazioni del dipartimento di polizia. Un uomo in divisa
sonnecchiava dietro il pannello di un minuscolo centralino
sistemato a un’estremità di un bancone di legno pieno di
sfregi. Un agente in borghese, senza giacca e con
appoggiata alle costole una sputafuoco che pareva un
idrante, ha sollevato un occhio dal giornale della sera,
centrato una sputacchiera a tre metri di distanza, e
sbadigliato. Poi mi ha detto che l’ufficio del capo era al
primo piano, in fondo.
Il primo piano era più luminoso e più pulito, ma ciò non
significa che fosse luminoso e pulito. Su una porta, lato
oceano, quasi alla fine del corridoio, c’era una targa: «John
Wax. Capo della polizia. Avanti».
Al di là della porta c’era una balaustra di legno, dietro la
quale un uomo in divisa scriveva a macchina usando i due
indici e un pollice. Ha preso il mio biglietto da visita, ha
sbadigliato anche lui, quindi mi ha detto che sarebbe
andato a vedere, riuscendo poi a trascinarsi oltre una porta
di mogano su cui c’era scritto: «John Wax. Capo della
polizia. Privato». Quando è tornato, mi ha aperto il
cancelletto della balaustra.
Sono entrato nell’ufficio privato e ho richiuso la porta.
Era elegante e grande, con finestre su tre lati. In fondo allo
stanzone, stile Mussolini, c’era una scrivania di legno tinta
a mordente, e per arrivarci si era costretti a percorrere un
lungo tratto su una passatoia blu, dando modo al padrone
dell’ufficio di squadrare per bene chiunque arrivasse.
Ho guadagnato la scrivania, su cui una piccola targa
inclinata, con le lettere incise, recitava: «John Wax. Capo
della polizia». Tutto sommato sarei riuscito a ricordarmelo,
quel nome, ho pensato. Intanto guardavo l’uomo seduto
davanti a me. Non aveva un pelo fuori posto.
Era un peso massimo tarchiato, con capelli rosacei
cortissimi che lasciavano intravedere un cranio roseo anche
lui, e lustro. Gli occhi piccoli, affamati e dalle palpebre
pesanti, erano irrequieti come pulci. Indossava un completo
di flanella fulvo chiaro, camicia e cravatta color caffè,
anello con diamante, spilla con diamante e simbolo di una
loggia sul risvolto della giacca, e le immancabili tre punte
rigide del fazzoletto, che sbucavano dal taschino un po’
oltre i dieci centimetri regolamentari.
In una mano paffuta aveva il mio biglietto da visita. Lo ha
letto, girato, ha visto che sul retro non c’era scritto niente,
quindi lo ha riletto sul davanti, lo ha posato sulla scrivania
e ci ha messo sopra un fermacarte di bronzo a forma di
scimmia, come per essere sicuro di non perderlo.
Alla fine mi ha allungato una zampa rosa. Quando gliel’ho
restituita, l’ha usata per indicarmi una sedia.
«Si accomodi, Marlowe. Vedo che è un collega, più o
meno. Cosa posso fare per lei?».
«Ho un piccolo problema, capo. Lei saprà senz’altro
risolverlo in un attimo, se vorrà».
«Un problema» ha ripetuto, pacato. «Un piccolo
problema».
Ha fatto ruotare un po’ la poltroncina e accavallato i
gamboni, volgendo lo sguardo pensieroso verso una delle
coppie di finestre. Ciò mi ha permesso di apprezzare sia i
calzini in filo di Scozia tessuti a mano, sia le brogues inglesi
che parevano marinate nel vino di Porto. Contando quel che
non si vedeva, ed escludendo il portafoglio, doveva avere
addosso almeno cinquecento dollari. Magari aveva una
moglie ricca.
«I problemi» ha proseguito, con la stessa pacatezza «sono
una cosa con cui nella nostra cittadina non abbiamo molta
familiarità, Mr. Marlowe. La nostra cittadina è piccola, ma
pulita, anzi pulitissima. Guardo fuori dalle mie finestre a
ovest e vedo l’Oceano Pacifico. Non c’è niente di più pulito,
dico bene?». Ha sorvolato sui due casinò galleggianti
all’ancora tra le onde di ottone appena oltre le tre miglia
del limite delle acque territoriali.
Anch’io. «Dice benissimo, capo».
Ha spinto il petto in avanti di qualche centimetro.
«Guardo fuori dalle mie finestre a nord e vedo il brulichio
operoso dell’Arguello Boulevard e le deliziose colline della
California, mentre in primo piano c’è uno dei quartieri
commerciali più belli che si possano desiderare. Guardo
fuori dalle mie finestre a sud, come sto facendo ora, e vedo
il più bel porticciolo per yacht al mondo, nonostante le sue
dimensioni ridotte. Non ho finestre rivolte a est, ma se le
avessi vedrei un quartiere residenziale da far venire
l’acquolina in bocca. Nossignore, non abbiamo tanti
problemi per le mani, nella nostra cittadina».
«Il mio problema viaggia con me, capo. Almeno in parte.
C’è per caso un certo Galbraith che lavora per lei? Un
sergente in borghese».
«Be’, certo che c’è» ha detto, riportando lo sguardo su di
me. «Perché me lo domanda?».
«E per lei lavora anche un altro uomo fatto più o meno
così?». Gli ho descritto l’altro uomo, il piccoletto baffuto
che parlava poco o niente e che mi aveva colpito col
manganello. «Fa coppia con Galbraith, molto
probabilmente. Qualcuno lo ha chiamato Mr. Blane, ma
sembra un nome fasullo».
«Al contrario» ha detto il capo, con la massima rigidità
concessa a un uomo così grasso. «Il capitano Blane è il mio
ispettore capo».
«Potrei incontrarli, tutt’e due, qui nel suo ufficio?».
Ha preso il mio biglietto da visita e lo ha riletto. Poi lo ha
posato, e ha fatto un vago cenno con la sua manona lucida.
«Non senza una ragione migliore di quella che mi ha
fornito finora» ha detto, suadente.
«Lo immaginavo, capo. Ha mai sentito nominare un certo
Jules Amthor? Un sedicente parapsicologo. Abita in cima a
una collina a Stillwood Heights».
«No. E Stillwood Heights non rientra nella mia
giurisdizione». I suoi occhi, ormai, erano quelli di uno che
ha altro a cui pensare.
«Proprio questa è la stranezza. Io, vede, sono andato a far
visita a Mr. Amthor per conto di una mia cliente. Mr.
Amthor deve aver creduto che volessi ricattarlo. È facile,
per gente che lavora in quel campo, farsi certe idee. Aveva
una guardia del corpo, un indiano tosto che mi ha
sopraffatto. E Amthor, mentre l’indiano mi teneva fermo, mi
ha picchiato con la mia pistola. Dopo di che ha mandato a
chiamare un paio di poliziotti, che, guarda caso, erano
proprio Galbraith e Mr. Blane. La cosa può interessare?».
Wax – basta chiamarlo capo – ha intrecciato le mani sulla
scrivania con estrema grazia. Poi ha abbassato le palpebre
pesanti, ma non del tutto, e i suoi occhi hanno emesso un
freddo luccichio proprio nella mia direzione. È rimasto
perfettamente immobile, come in ascolto. Quindi ha
riaperto gli occhi e ha sorriso.
«E cosa è accaduto, a quel punto?» mi ha chiesto, cortese
come un buttafuori allo Stork Club.
«Mi hanno torchiato un po’, e poi mi hanno portato via
con la loro auto. A un certo punto mi hanno fatto scendere
su una strada di montagna, e mentre scendevo mi hanno
tramortito con un manganello».
Ha annuito, come se quel che gli avevo appena detto
fosse la cosa più naturale al mondo. «E tutto questo
sarebbe successo a Stillwood Heights» ha detto, sereno.
«Già».
«Sa cosa penso di lei?». Si è sporto un po’ sulla scrivania,
quanto gli consentiva la pancia.
«Sì, lei pensa che io sia un bugiardo».
«Quella è la porta» ha detto, indicandola con il mignolo
della mano sinistra.
Non mi sono mosso. Continuavo a guardarlo. Sono
intervenuto giusto un attimo prima che la furia montante
gli facesse premere il campanello: «Non commettiamo
tutt’e due lo stesso errore. Lei pensa che io sia un
investigatore privato da quattro soldi convinto di poter
competere con gente dieci volte più grossa, intenzionato ad
accusare un agente di polizia che, se anche fosse davvero
colpevole, farebbe sicuramente di tutto perché nessuno
possa dimostrarlo. Be’, si sbaglia. Non sono venuto qui a
reclamare. Credo che il suo errore sia perfettamente
naturale. Io vorrei soltanto porgere le mie scuse a Mr.
Amthor, e vorrei che il suo sottoposto, Galbraith, mi desse
una mano. Non ci sarà bisogno di disturbare Mr. Blane.
Basterà Galbraith. E non sono venuto qui senza una
protezione: ho dietro gente importante».
«Dietro, ma a che distanza?» ha chiesto Wax, con una
risatina arguta.
«Quanto dista da qui l’862 di Aster Drive, dove abita Mr.
Lewin Lockridge Grayle?».
La faccia gli si è trasfigurata al punto che mi sembrava di
avere davanti un’altra persona. «Si dà il caso che Mrs.
Grayle sia la mia cliente».
«Chiuda le porte a chiave» ha detto. «Lei è più giovane di
me, Marlowe. Giri quelle manopole per bene. Discuteremo
la questione da buoni amici. Lei ha una faccia onesta».
Ho fatto come diceva. Quando sono tornato alla scrivania
percorrendo la passatoia blu, Wax aveva tirato fuori una
bottiglia niente male e due bicchieri. Ha gettato un po’ di
semi di cardamomo sul sottomano, e versato da bere.
Abbiamo bevuto. Lui ha rotto alcuni semi di cardamomo
che abbiamo masticato in silenzio, guardandoci negli occhi.
«Buono» ha detto, riempiendo di nuovo i bicchieri. Ora
toccava a me darmi da fare con i semi di cardamomo: lui
spazzava le bucce dal sottomano, gettandole a terra. Dopo
di che ha sorriso, appoggiandosi all’indietro.
«Ora, sentiamo. Il lavoro che sta svolgendo per conto di
Mrs. Grayle ha qualcosa a che fare con Amthor?».
«C’è un nesso, ma le conviene verificare che io le stia
dicendo la verità».
«Giusto» ha detto, allungando una mano verso il telefono.
Quindi ha preso un’agendina da una tasca del gilè e si è
messo a cercare un numero. «Finanziatori della campagna
elettorale» ha detto, strizzando un occhio. «Il sindaco
raccomanda sempre di trattarli con tutti i riguardi. Sì,
ecco». Ha messo via l’agendina e composto il numero.
Con il maggiordomo ha avuto le mie stesse difficoltà,
avvampando fino alle orecchie. Alla fine gliel’hanno
passata, ma il rossore alle orecchie non si è attenuato.
Doveva aver ricevuto una risposta molto secca.
«La signora vuole parlare con lei, Marlowe» ha detto
Wax, spingendo il telefono sulla scrivania verso di me.
«Pronto? Sono Phil» ho detto, rivolgendo a Wax una
strizzatina d’occhio lasciva.
La risata era compiaciuta, e provocante. «Cosa ci fai da
quel maiale?».
«Stavamo bevendo qualcosa».
«Devi per forza farlo con lui?».
«Al momento, sì. Affari. Mi domandavo: ci saranno
novità? Immagino tu sappia a cosa alludo».
«No. Ti sei reso conto, mio caro, di avermi fatto aspettare
per un’ora, l’altra sera? Ti sembro il genere di ragazza che
si fa trattare così?».
«Ho avuto un problema. Che ne diresti di vederci
stasera?».
«Fammi pensare... stasera... oddio, che giorno è?».
«Ti richiamo, è meglio. Non sono sicuro di farcela.
Comunque, venerdì».
«Bugiardo». Di nuovo quella sua risata morbida e roca
insieme. «È lunedì. Stesso posto, stessa ora. E niente
scherzi, stavolta».
«Ti richiamo, è meglio».
«Ti conviene farti trovare».
«Non sono sicuro di fare in tempo. Ti richiamo».
«Sei difficile da acciuffare, vedo. Forse sono una stupida a
preoccuparmi di te».
«Direi di sì, in effetti».
«Perché?».
«Io sono povero, ma a modo mio lo pago, quello che devo.
È un modo meno comodo di quello che piace a te,
purtroppo».
«Al diavolo, se non ti fai vedere...».
«Ho detto che ti richiamo».
Ha sospirato. «Sono tutti uguali, gli uomini».
«Anche le donne, dalla decima in poi».
Mi ha mandato di nuovo al diavolo e ha riagganciato. Wax
aveva gli occhi così fuori dalla testa che sembravano
sospesi nel vuoto.
Ha riempito i due bicchieri e ne ha spinto uno verso di
me. Gli tremavano le mani.
«Dunque, così stanno le cose» ha detto, molto ingrugnito.
«Al marito non importa, quindi non ci faccia troppo caso».
Già. Però aveva un’aria offesa. Ha rotto altri semi,
sprofondato nei suoi pensieri, e abbiamo brindato l’uno ai
begli occhi azzurri dell’altro. Poi, sfortunatamente, ha fatto
sparire bottiglia e bicchieri, e premuto un pulsante
sull’interfono.
«Fa’ venire Galbraith, se è qui. Se non c’è, mettiti in
contatto con lui e digli che lo sto cercando».
Mi sono alzato per sbloccare le porte e sono tornato a
sedermi. Non abbiamo aspettato a lungo. Abbiamo sentito
bussare alla porta laterale, Wax ha detto avanti, e nella
stanza è comparso Hemingway.
Si è avvicinato a passo di marcia alla scrivania,
fermandosi accanto al lato corto più vicino. Guardava Wax
con virile umiltà.
«Ti presento Mr. Philip Marlowe» ha detto Wax, cordiale.
«Un detective privato di Los Angeles».
Hemingway si è voltato quanto bastava per inquadrarmi.
Niente, nella sua reazione, dava l’impressione che mi
avesse già visto. Mi ha teso la mano e io gliel’ho stretta. Poi
è tornato a guardare Wax.
«Mr. Marlowe mi ha raccontato una strana storia» ha
detto Wax con aria astuta, come un Richelieu dietro un
arazzo. «A proposito di un certo Amthor, che abita a
Stillwood Heights. È una specie di chiaroveggente. Pare
che Marlowe sia andato a trovarlo, e che, proprio in quella
circostanza, siate arrivati tu e Blane e abbiate avuto una
piccola discussione, di cui ora mi sfuggono i particolari».
Ha guardato fuori da una finestra proprio con
quell’espressione, di uno che dimentica i particolari.
«Dev’esserci un errore» ha detto Hemingway.
«Quest’uomo non l’ho mai visto prima d’ora».
«C’è stato un errore, infatti» ha detto Wax, con voce
sognante. «Da nulla, ma pur sempre un errore. Marlowe
non lo considera granché importante».
Hemingway mi ha guardato, con la solita faccia di pietra.
«Anzi, non ha il minimo interesse per quell’errore. Ma
vorrebbe far visita a questo Amthor, a Stillwood Heights, e
gli piacerebbe essere accompagnato da qualcuno. Ho
pensato a te. Gli serve qualcuno che possa garantirgli una
condizione di parità. A quanto sembra, questo Amthor ha
come guardia del corpo un indiano decisamente tosto, e Mr.
Marlowe è incline a dubitare della sua capacità di gestire la
situazione senza aiuto. Pensi di poter scoprire dove abita,
questo Amthor?».
«Sì, ma Stillwood Heights è fuori dal nostro territorio,
capo. Devo farlo a titolo di favore per un suo amico?».
«Puoi metterla così, se vuoi» ha detto Wax, guardandosi il
pollice sinistro. «Lungi da noi l’idea di fare qualcosa che
non rientri nei limiti della legge, naturalmente».
«Già» ha detto Hemingway. «Infatti». Ha tossicchiato.
«Quando si parte?».
Wax mi ha guardato benevolo. «Anche subito,» ho detto
«se per Mr. Galbraith va bene».
«Come volete voi» ha detto Hemingway.
Wax lo ha squadrato da capo a piedi, con l’aria di dire: ci
siamo intesi. «Come sta il capitano Blane, oggi?» ha
domandato, masticando un seme di cardamomo.
«In pessima forma. Appendice perforata. Situazione molto
critica».
Wax ha scosso mestamente la testa. Poi ha afferrato i
braccioli della poltroncina e si è alzato in piedi a fatica,
protendendo una zampa rosa al di sopra della scrivania.
«Galbraith avrà per lei ogni riguardo, Marlowe. Può
starne certo».
«Be’, molto gentile da parte sua, capo. Non so proprio
come ringraziarla».
«Bah! Non c’è bisogno di ringraziare. È sempre un
piacere aiutare un amico di un amico, per così dire».
Occhiolino. Hemingway lo ha visto, ma non ha commentato.
Siamo usciti, quasi sulle ali dei cortesi mormorii di Wax in
fondo all’ufficio. La porta si è chiusa. Hemingway ha
guardato da una parte e dall’altra del corridoio, e poi ha
guardato me.
«Te la sei giocata alla grande, zucchero. A quanto pare,
avevi un asso nella manica».
33

L’auto avanzava piano per una via residenziale. Gli alberi


di falso pepe, sui due lati, si inarcavano fin quasi a
incontrarsi sopra la strada, formando un tunnel verde. Il
sole luccicava filtrando tra i rami più alti e le foglie
affusolate e chiare. A leggere la targa sull’angolo, eravamo
sulla 18th Street.
Hemingway guidava e io ero seduto accanto a lui.
Guidava molto lentamente, con un’espressione turbata.
«Cosa gli hai raccontato?» ha domandato, uscendo dal
mutismo.
«Che tu e Blane siete arrivati, mi avete portato via, mi
avete sbattuto fuori dall’auto e mi avete stordito con una
manganellata alla nuca. Il resto l’ho tenuto per me».
«Non hai parlato della casa all’angolo tra la 23rd e
Descanso Street?».
«No».
«Perché?».
«Ho pensato che se non l’avessi fatto saresti stato più
incline a cooperare».
«Un pensiero molto carino. Vuoi davvero andare a
Stillwood Heights o era solo una scusa?».
«Solo una scusa. Quello che voglio è che tu mi dica
perché mi avete rinchiuso in quel manicomio».
Hemingway ci ha pensato su. Così intensamente che i
muscoli delle guance gli formavano piccoli nodi sotto la
pelle grigiastra.
«Quel Blane è una gran rogna. Non era previsto che ti
manganellasse. E non avevo davvero intenzione di farti
tornare a casa a piedi. Era solo una messinscena, perché
siamo amici di quella specie di santone e facciamo in modo
che la gente non gli dia fastidio. Resteresti stupito se ti
dicessi quanta gente cerca di infastidirlo».
«Stupitissimo».
Si è voltato verso di me. I suoi occhi grigi erano due pezzi
di ghiaccio. Poi è tornato a guardare la strada attraverso il
parabrezza impolverato e si è fatto un’altra pensatina.
«Certi vecchi poliziotti, a volte, hanno la smania del
manganello. Non possono fare a meno di rompere qualche
testa. Cristo, che strizza. Sei caduto come un sacco di
cemento. Gliele ho cantate, a Blane. Poi ti abbiamo portato
di corsa da Sonderborg, perché era vicino e perché è uno in
gamba, e si sarebbe preso cura di te».
«Amthor lo sa che mi avete portato lì?».
«Certo che no. È stata un’idea nostra».
«Perché Sonderborg è uno in gamba, e si sarebbe preso
cura di me. E non c’erano controindicazioni. Nessun
medico che potesse avvalorare una mia denuncia se avessi
deciso di presentarla. Non che una denuncia sarebbe
servita a molto, in una bella cittadina come la vostra, dico
bene?».
«Hai intenzione di fare il duro?» ha chiesto Hemingway,
quasi assorto.
«Io no. E neanche tu, stavolta. Perché il tuo lavoro è
appeso a un filo. Hai guardato il capo negli occhi e l’hai
capito. Non sono andato da lui senza credenziali, a questo
giro».
«Okay» ha detto Hemingway, sputando fuori dal
finestrino. «Non avevo intenzione di fare il duro, se non a
chiacchiere. Ora?».
«Blane sta male davvero?».
Hemingway ha annuito, ma, chissà perché, senza riuscire
a sembrare triste. «Sì, certo. Sentiva male al basso ventre,
l’altro ieri, e l’appendice si è perforata prima che gliela
potessero togliere. Ha qualche speranza, ma non molte».
«Sarebbe proprio un peccato perderlo. Uno come lui è
una risorsa per qualsiasi forza di polizia».
Hemingway ci ha ruminato su, prima di sputare dal
finestrino.
«Okay, prossima domanda» ha sospirato.
«Mi hai detto perché mi avete portato da Sonderborg. Ma
non mi hai detto perché mi ha trattenuto per più di
quarantott’ore, sottochiave e imbottito di droga fino agli
occhi».
Hemingway ha frenato dolcemente, accostando. Poi ha
posato le manone sulla parte bassa del volante, strofinando
tra loro i pollici.
«Non ne ho la più pallida idea» ha detto, con un tono
distante.
«I documenti che avevo addosso erano più che sufficienti
a dimostrare che ero un detective privato. Chiavi, qualche
soldo, un paio di fotografie. Se non vi avesse conosciuto
bene, avrebbe potuto pensare che la botta in testa fosse
solo una messinscena per entrare da lui e curiosare in giro.
Ora, però, so che vi conosce bene. Perciò sono perplesso».
«Resta perplesso, zucchero. È sempre la cosa più sicura».
«Questo è certo. Ma così non c’è gusto».
«La polizia di Los Angeles ti copre le spalle, su questa
storia?».
«Quale storia?».
«Queste tue domande su Sonderborg».
«Non esattamente».
«Né sì né no?».
«Non sono così importante. La polizia di Los Angeles,
però, può intervenire in questa faccenda quando vuole. Due
terzi della polizia, almeno: gli uomini dello sceriffo e quelli
del procuratore distrettuale. Ho un amico in procura. Ci ho
lavorato per un po’. Si chiama Bernie Ohls. È ispettore
capo».
«Ne hai parlato con lui?».
«No. Non lo sento da un mese».
«Hai in mente di parlargliene?».
«No, se c’è la possibilità che interferisca con un lavoro
che sto facendo».
«Come detective privato?».
«Sì».
«Okay. Cosa vuoi?».
«Di cosa si occupa veramente Sonderborg?».
Hemingway ha tolto le mani dal volante, sputando di
nuovo fuori dal finestrino. «Siamo in una bella via, eh?
Belle case, bei giardini, bel clima. Senti parlare spesso di
poliziotti corrotti, vero?».
«Ogni tanto».
«Okay, quanti poliziotti trovi che abitano in un posto bello
come questo, con questi bei prati e i fiori? Io ne conoscerò
quattro o cinque, tutti della Buoncostume. Il grasso che
cola è tutto per loro. Quelli come me vivono in prefabbricati
cadenti, dalla parte sbagliata della città. Vuoi vedere dove
abito?».
«Cosa vorresti dimostrare?».
«Ascolta, zucchero» ha detto, serissimo. «Mi tieni al
guinzaglio, ma il guinzaglio può spezzarsi. I poliziotti non
diventano corrotti per denaro. Non sempre. Non tanto
spesso. Si ritrovano coinvolti nel sistema. Vengono messi in
una condizione in cui o fanno quel che gli dicono o è peggio
per loro. E quello che se ne sta comodo nell’ufficio più
grande e più bello, con il suo vestito elegante e la bella
fiatata alcolica, e crede – a torto – che quei semi gli
profumino l’alito... be’, non è lui a dare gli ordini. Mi
spiego?».
«Che tipo è il sindaco?».
«Che tipo è un sindaco? Un politico. Pensi che sia lui a
dare gli ordini? Balle. Sai qual è il problema di questo
paese, zucchero?».
«Troppi capitali congelati, ho sentito dire».
«Che uno non può restare onesto neanche a volerlo. Ecco
qual è il problema di questo paese. Si ritrova in mutande,
se solo ci prova. O giochi sporco, o non mangi. Secondo
certa gentaglia, basterebbero novantamila uomini dell’FBI
coi loro bei colletti puliti e le loro valigette. Balle. La
percentuale avrebbe effetto su di loro come su noialtri. Sai
cosa penso? Penso che questo piccolo mondo dovremmo
rifarlo tutto da capo. Pensa al Moral Re-Armament. Quella
sì che è una buona idea, zucchero. MRA. Quella sì che è
un’idea».
«Se Bay City è un campione rappresentativo di tutto il
resto, meglio prendere un’aspirina».
«Magari si finisce per esagerare, con la furbizia» ha
continuato lui, pacato. «Non ci si pensa, ma può capitare.
Sei così furbo che pensi solo a fare il furbo. Io sono soltanto
uno stupido poliziotto. Eseguo gli ordini. Ho moglie e due
figli, e faccio quello che i miei superiori mi dicono di fare.
Blane potrebbe spiegarti delle cose. Io sono un ignorante».
«Sicuro che Blane abbia l’appendicite? Sicuro che non si
sia sparato nella pancia per cattiveria?».
«Non fare così» ha protestato Hemingway, tamburellando
con le mani sul volante. «Prova a pensare bene delle
persone, ogni tanto».
«Di Blane?».
«È un essere umano anche lui, come tutti. Un peccatore,
ma un essere umano».
«Di cosa si occupa veramente Sonderborg?».
«Okay, stavo appunto per dirtelo. Magari mi sbaglio, ma
sembri uno a cui si può venderla, una buona idea».
«Non lo sai, ho capito».
Hemingway ha tirato fuori un fazzoletto per asciugarcisi
la faccia. «Zucchero, mi spiace ammetterlo, ma dovresti
arrivarci da solo: se io o Blane avessimo saputo che
Sonderborg gestiva un suo giro illegale, o non ti avremmo
scaricato da lui o non saresti mai uscito di lì. Non sulle tue
gambe, almeno. Un giro seriamente illegale, intendo,
ovviamente. Non robetta tipo predire il futuro alle
vecchiette con la sfera di cristallo».
«Non credo fosse previsto che uscissi sulle mie gambe.
C’è una sostanza, la scopolamina o siero della verità, che a
volte fa parlare le persone senza che ne abbiano coscienza.
Non è un metodo infallibile, un po’ tipo l’ipnosi. A volte,
però, funziona. Ho l’impressione di essere stato spremuto,
là dentro, nel tentativo di scoprire cosa so. Ma sono solo tre
i modi in cui Sonderborg può aver concluso che io avessi
informazioni compromettenti su di lui: o Amthor lo ha
messo in guardia; o Moose Malloy gli ha detto che sono
andato a far visita a Jessie Florian; o magari ha pensato per
i fatti suoi che chiudermi lì fosse una messinscena della
polizia».
Hemingway mi fissava triste. «Non ti sto dietro. Chi
diavolo è Moose Malloy?».
«Un bestione che ha ammazzato un uomo in Central
Avenue qualche giorno fa. Lo trovi sulla telescrivente, se ti
prendi la briga di leggerla. E a questo punto avrete già
sicuramente i volantini con la sua faccia».
«E allora?».
«Sonderborg lo stava nascondendo. L’ho visto lì, su un
letto, mentre leggeva i giornali, la sera in cui me la sono
filata».
«Come hai fatto a uscire? Non ti tenevano sottochiave?».
«Ho steso l’infermiere con la molla di un letto. Fortuna».
«E il bestione ti ha visto?».
«No».
Hemingway ha rimesso in moto, allontanandosi dal
marciapiede con un gran sorriso compiaciuto stampato in
faccia. «Andiamo a riscuotere. I conti tornano. Eccome.
Sonderborg nasconde latitanti. Se hanno i soldi,
ovviamente. La sua copertura è perfetta. E si guadagna
bene, per giunta!».
Ha svoltato alla prima strada.
«Cristo, io pensavo spacciasse erba» ha detto, schifato.
«Con le giuste protezioni alle spalle. Solo che quello, certo,
è un racket da ridere. Noccioline».
«Hai mai sentito parlare della lotteria clandestina? Anche
quello è un racket da ridere, se lo consideri separato dal
resto».
Hemingway ha di nuovo sterzato bruscamente, scuotendo
il testone. «Giusto. Poi ci sono il flipper e il bingo e le
agenzie ippiche. Ma se metti tutto insieme e dai il controllo
a una sola persona, la cosa ha senso».
«Quale persona?».
Ancora una volta si è trasformato in legno. Aveva le
labbra serrate, ma si capiva che stava digrignando i denti.
Eravamo in Descanso Street, diretti a est. Era una via
tranquilla anche nel tardo pomeriggio. Dalle parti della
23rd Street la situazione si è fatta vagamente meno
tranquilla, per certi versi. C’erano due uomini accanto a
una palma e la studiavano come dovessero decidere il modo
migliore per sradicarla. C’era un’auto parcheggiata non
lontano dalla casa del dottor Sonderborg, apparentemente
con nessuno a bordo. Più avanti, a metà isolato, un uomo
leggeva i contatori dell’acqua.
Alla luce del giorno, la casa aveva un aspetto molto
allegro. Le begonie Tea Rose formavano una massa chiara e
compatta sotto le finestre anteriori, e le viole del pensiero
erano una chiazza di colore indefinita intorno alla base di
una mimosa in fiore. Una rosa rampicante scarlatta stava
appena aprendo i boccioli su un graticcio a forma di
ventaglio. C’era un’aiuola di piselli odorosi, da cui un
colibrì verde bronzo piluccava delicato. Sembrava la casa di
una coppia di anziani appassionati di giardinaggio. Il sole
del tardo pomeriggio le dava un’immobilità silenziosa e
inquietante.
Hemingway è passato lentamente davanti alla casa con
un abbozzo di sorriso sulle labbra. Ha tirato su col naso. Ha
svoltato al primo angolo, e con un’occhiata allo specchietto
retrovisore ha accelerato all’improvviso.
Dopo tre isolati ha di nuovo accostato, voltandosi a
guardarmi serissimo.
«Polizia di Los Angeles. Uno dei tizi accanto alla palma è
un certo Donnelly. Lo conosco. Stanno sorvegliando la casa.
E così non avresti detto niente al tuo amico, eh?».
«Ti ho detto di no».
«Il capo ne sarà felicissimo» ha ringhiato Hemingway.
«Vengono in missione sul nostro territorio e non passano
neanche a salutare».
Non ho detto nulla.
«L’hanno preso, questo Moose Malloy?».
Ho scosso la testa. «Per quanto ne so, non ancora».
«Ma tu quanto ne sai, zucchero?» mi ha chiesto,
suadente.
«Non abbastanza. C’è qualche collegamento tra Amthor e
Sonderborg?».
«No, che io sappia».
«Chi comanda qui a Bay City?».
Silenzio.
«Ho saputo che un certo Laird Brunette, che è nel giro
del gioco d’azzardo, ha investito trentamila dollari per
eleggere il sindaco. Ho saputo che è anche il proprietario
del Belvedere Beach Club e di tutt’e due i casinò
galleggianti».
«Può darsi» ha detto Hemingway, con cortesia.
«Dov’è che lo si può trovare, questo Brunette?».
«Perché lo domandi a me, zucchero?».
«Dove cercheresti di andare, se ti trovassi senza più un
rifugio in città?».
«In Messico».
Spiritoso. «D’accordo, ti va di farmi un grosso favore?».
«Ne sarei felice».
«Riportami in città».
È ripartito e ha guidato tranquillo per una via
ombreggiata in direzione dell’oceano. Arrivati alla City Hall
di Los Angeles, ha aggirato l’edificio fin dentro il
parcheggio della polizia e mi ha fatto scendere.
«Passa a trovarmi, qualche volta» mi ha detto. «Sarò lì a
pulire le sputacchiere, probabilmente».
Mi ha teso la mano. «Senza rancore?».
«Moral Re-Armament» gli ho detto, stringendogli la
mano.
Era tutto un sorriso. Mi stavo già allontanando, quando
mi ha richiamato. Guardandosi bene intorno, ha avvicinato
la bocca al mio orecchio.
«Quei casinò galleggianti sono fatti apposta per essere
fuori dalla giurisdizione della città e dello Stato. Sono
registrati a Panama. Se fossi io, quello sarebbe...». Ha
taciuto di colpo, con uno sguardo molto preoccupato.
«Avevo avuto più o meno la stessa idea. Non so perché mi
sono preso la briga di farla venire anche a te. Ma non
funzionerà. Un uomo da solo non può farcela».
Ha annuito, sorridendo. «Moral Re-Armament» ha detto.
34

Mi sono steso sul letto in un hotel sul lungomare ad


aspettare che facesse buio. Era una piccola stanza sul
davanti, con un letto scomodo e un materasso appena più
spesso del lenzuolo di cotone che lo copriva. La rete aveva
una molla rotta che premeva contro la parte sinistra della
schiena. L’ho lasciata fare.
Il riflesso di un’insegna al neon rossa illuminava il
soffitto. Stavo aspettando che la stanza diventasse
completamente rossa: a quel punto, sarebbe stato
abbastanza buio per uscire. Fuori, le auto suonavano il
clacson lungo il nastro d’asfalto chiamato Speedway. Dai
marciapiedi sotto la mia finestra saliva un rumore di passi
strascicati. L’aria trasportava il fruscio e il brusio del viavai.
Quella che filtrava dalle zanzariere arrugginite puzzava di
grasso fritto stantio. In lontananza, una voce di quelle che
si sentono in lontananza gridava: «Non sentite il
languorino, gente? Non lo sentite? Hot dog di prima classe!
Venite a rimpinzarvi!».
Adesso era più buio. Il pensiero si muoveva nella mia
mente con una specie di indolente circospezione, come si
sentisse osservato da occhi rancorosi e sadici. Pensavo a
occhi senza vita rivolti al cielo senza luna, con rivoli di
sangue scuro poco più in basso, agli angoli della bocca.
Pensavo a vecchie con la testa rotta contro il montante del
loro sudicio letto. Pensavo a un tale dai capelli biondissimi
che aveva paura e non sapeva esattamente di cosa,
abbastanza sensibile da capire che qualcosa non andava,
ma troppo vanitoso o troppo tonto per indovinare quale
fosse il problema. Pensavo a donne ricche e bellissime che
si potevano avere. Pensavo a ragazze magre, carine e
curiose che vivevano da sole e si potevano avere anche
loro, ma in modo diverso. Pensavo a poliziotti, poliziotti
duri che si potevano corrompere, anche se questo non
faceva di loro persone del tutto malvage, come Hemingway.
Poliziotti grassi e pieni di soldi con l’inflessione da Camera
di Commercio, come Wax. Poliziotti smilzi, intelligenti e
letali, come Randall, che, per quanto intelligenti e letali,
non potevano fare un lavoro pulito in modo pulito. Pensavo
a vecchi caproni inaciditi, come Nulty, che avevano perfino
smesso di provarci. Pensavo a indiani e a parapsicologi e a
medici che curano i drogati.
Pensavo a tante cose. Adesso era proprio buio. Il bagliore
dell’insegna al neon rossa si spandeva sempre di più sul
soffitto. Mi sono messo a sedere sul letto, ho posato i piedi
a terra e mi sono massaggiato il dietro del collo.
Una volta alzato, ho preso dell’acqua gelida dalla
bacinella nell’angolo e me la sono gettata in faccia.
Cominciavo a sentirmi un po’ meglio, ma pochissimo. Avevo
bisogno di un drink, di una grossa assicurazione sulla vita,
di una vacanza, di una casa in campagna. E invece avevo
una giacca, un cappello e una pistola. Ho indossato tutto e
sono uscito.
Non c’era ascensore. I corridoi puzzavano e le ringhiere
delle scale erano lerce. Sono sceso nell’atrio, ho gettato le
chiavi sul banco della reception e ho detto che me ne
andavo. Un impiegato con una verruca sulla palpebra
sinistra ha annuito, mentre un garzone messicano con la
giacca della livrea sfilacciata è sbucato da dietro il ficus più
polveroso di tutta la California per occuparsi delle valigie.
Non ne avevo, di valigie, ma lui, essendo un messicano, mi
ha aperto la porta e mi ha sorriso lo stesso, gentilissimo.
Fuori, la stretta via esalava fumo, e i marciapiedi erano
affollati di panze decisamente rispettabili. Al di là della
strada, una sala bingo lavorava a pieno ritmo, e lì accanto
due marinai con rispettive ragazze stavano uscendo dal
negozio di un fotografo, dove probabilmente si erano fatti
scattare una foto in groppa a cammelli. La voce del
venditore di hot dog fendeva il crepuscolo come un’ascia.
Un Big Blue Bus scendeva strombazzando per la strada
verso la piccola rotonda dove un tempo il tram invertiva la
marcia grazie a una piattaforma rotante. Mi sono diretto
anch’io da quella parte.
Dopo un po’, ho sentito il vago profumo dell’oceano. Non
tanto intenso, come se ne avessero conservata solo una
piccola parte per ricordare alla gente che lì, una volta,
c’era una spiaggia libera e pulita, dove le onde facevano
avanti e indietro schiumando e il vento soffiava e gli odori
che si sentivano non erano soltanto quelli del grasso caldo
e del sudore freddo.
Sull’ampio marciapiede di cemento è passata lentamente
una vettura elettrica. L’ho presa fino al capolinea, dove
sono sceso per andare a sedermi su una panchina
tranquilla, al fresco, con un grosso mucchio di alghe
marroni che mi arrivava praticamente ai piedi. Al largo si
sono accese le luci dei casinò galleggianti. Ho ripreso la
prima vettura elettrica di passaggio e sono tornato fin quasi
all’altezza dell’hotel da cui ero partito. Posto che qualcuno
mi stesse tenendo d’occhio, lo stava facendo da fermo. Mi
pareva improbabile, però. Quella cittadina era troppo
piccola e pulita: non c’erano abbastanza delinquenti per
imparare davvero a pedinare qualcuno.
I moli neri erano punteggiati di luci da un capo all’altro, e
si perdevano poi nello sfondo scuro della notte e dell’acqua.
Si sentiva ancora l’odore del grasso caldo, insieme a quello
dell’oceano. L’uomo degli hot dog continuava a ripetere:
«Non sentite il languorino, gente?».
Era in un chiosco bianco con barbecue, e stuzzicava i
würstel con una lunga forchetta. Stava facendo affari,
benché non fosse ancora alta stagione. Per potergli parlare
a quattr’occhi ho dovuto aspettare.
«Come si chiama quella più al largo?» ho chiesto,
indicando col naso.
«Montecito». Mi ha rivolto il classico sguardo teso e
fermo.
«Uno che abbia una ragionevole quantità di grana ha
qualche possibilità di passarci un po’ di tempo?».
«Che genere di tempo?».
Gli ho fatto una risata sguaiata, da duro.
«Hot dog» ha intonato. «Hot dog di prima classe, gente».
Ha abbassato la voce. «Donne?».
«Nah, pensavo piuttosto a una cabina con un bel
venticello, del buon cibo e nessuno che dia fastidio. Una
specie di vacanza».
Si è scostato. «Non ho sentito una parola» ha detto, prima
di riprendere la litania.
Si è dedicato ad altri clienti. Chissà perché mi era venuto
in mente di interpellarlo. Forse aveva semplicemente la
faccia giusta. Una giovane coppia in pantaloncini si è
fermata a comprare due hot dog e poi si è allontanata: lui
cingeva lei con un braccio all’altezza del reggiseno, mentre
mangiavano l’uno l’hot dog dell’altro.
Il venditore ha fatto scivolare verso di me un bicchiere di
birra e mi ha squadrato. «Ora dovrei mettermi a
fischiettare Roses of Picardy» ha detto. Pausa. Poi: «Ti
costerà».
«Quanto?».
«Cinquanta. Non meno. Sempre che tu non sia ricercato».
«Questa, un tempo, era una cittadina come si deve. Un
posto di villeggiatura».
«Credevo lo fosse ancora» ha biascicato lui. «Ma perché
domandare proprio a me?».
«Non ne ho idea» ho detto, gettando una banconota da un
dollaro sul bancone. «Mettili sul libretto del piccolino.
Oppure mettiti a fischiettare Roses of Picardy».
Ha preso la banconota, l’ha piegata per il lungo e poi due
volte nell’altro senso. Quindi l’ha posata sul bancone e,
facendo scattare l’unghia del medio da dietro il polpastrello
del pollice, me l’ha tirata addosso. Mi ha colpito
debolmente al petto ed è caduta a terra senza rumore. Mi
sono chinato a raccoglierla, e subito dopo mi sono voltato
di scatto. No, alle mie spalle non c’era nessuno con l’aria
da poliziotto.
Mi sono appoggiato al bancone e di nuovo ci ho posato
sopra la banconota. «Nessuno mi ha mai tirato addosso dei
soldi. Di solito me li porgono. Ti spiace?».
L’ha ripresa, aperta, stirata sul bancone e se l’è pulita sul
grembiule. Dopo di che ha premuto un tasto sul
registratore di cassa e ci ha lasciato cadere dentro il
dollaro.
«Dicono che il denaro non puzza. Ho dei dubbi, a volte».
Non ho detto nulla. Altri clienti sono andati e venuti. La
notte rinfrescava alla svelta.
«Io lascerei perdere la Royal Crown» ha detto il
venditore. «Quella va bene per i bravi scoiattolini che
badano alle loro nocciole. Tu hai l’aria dello sbirro, ma sono
fatti tuoi. Spero tu sappia nuotare bene».
Me ne sono andato, continuando a chiedermi cosa mi
avesse spinto a rivolgermi proprio a lui. Un presentimento.
Ma i presentimenti ti fregano. Dopo un po’, ti svegli con la
bocca piena di presentimenti. Non riesci neanche più a
ordinare un caffè, senza chiudere gli occhi e indicare alla
cieca il menù. A forza di dar retta ai presentimenti.
Ho fatto un giro a piedi per vedere se qualcuno con aria
sospetta mi stesse seguendo. Poi ho cercato un ristorante
che non puzzasse di fritto, e ne ho trovato uno con
l’insegna viola e un cocktail bar dietro una tenda di vimini.
Un bell’uomo che aveva fatto il bagno nell’henné se ne
stava curvo e lascivo sul pianoforte, cantando Stairway to
the Stars con una voce a cui mancava la metà dei gradini.
Ho buttato giù un martini dry e sono tornato nella sala da
pranzo, oltrepassando di nuovo la tendina di vimini.
La cena da ottantacinque centesimi, al gusto di sacco di
posta abbandonato, mi è stata servita da un cameriere che
aveva l’aria di potermi stendere per un quarto di dollaro,
tagliarmi la gola per settantacinque centesimi, e gettarmi
in mare dentro a un barile di cemento per un dollaro e
mezzo, tasse escluse.
35

Per un quarto di dollaro, devo dire, abbiamo navigato un


bel po’. Il taxi acquatico, una vecchia lancia ridipinta e
coperta di vetro per tre quarti della lunghezza, è scivolato
tra gli yacht all’ancora aggirando un gran mucchio di pietre
che segnava la fine del frangiflutti. Le onde ci hanno
investito senza preavviso e hanno fatto sobbalzare la barca
come un tappo di sughero. Era ancora presto, però, e a
bordo c’era spazio in abbondanza per vomitare. Oltre a me,
c’erano solo tre coppie più l’uomo al timone, un cittadino
dall’aria indurita che sedeva leggermente sbilanciato a
sinistra perché sul fianco destro aveva una fondina nera di
cuoio. Le tre coppie avevano cominciato a sbaciucchiarsi
non appena la barca si era staccata dalla costa.
Mi sono voltato a guardare le luci di Bay City, cercando di
non pensare troppo alla mia cena. I punti di luce
sparpagliati si radunavano, a formare un bracciale
tempestato di gemme in esposizione nella vetrina della
notte. Poi la luce è sfumata, trasformandosi in un tenue
bagliore arancione che compariva e scompariva dietro le
onde. Le onde erano lunghe e lisce, senza schiuma sulle
creste, ma il su e giù bastava a rendermi contento di non
aver marinato la cena nel whisky di quel bar. Il taxi
acquatico saliva e scendeva con una regolarità inquietante,
come un cobra che insceni la sua danza. C’era freddo,
nell’aria, il freddo umido che tormenta le articolazioni dei
marinai. I neon rossi che disegnavano il profilo della Royal
Crown sbiadivano in lontananza sulla sinistra e si
smorzavano tra i grigi e fluttuanti fantasmi marini, per poi
tornare a risplendere, lucidi come biglie nuove di zecca.
Ci siamo tenuti a una certa distanza. Da molto lontano
era una bella nave. La sua musica arrivava fino a noi
sull’acqua, e la musica sull’acqua è sempre una delizia. Con
le sue quattro gomene tese, la Royal Crown sembrava
stabile come un molo. Il pontile d’imbarco era illuminato
come la passerella coperta all’ingresso di un teatro. Poi è
sbiadita in lontananza, e un’altra nave, più vecchia e più
piccola, è sbucata dalla notte, facendosi sempre più vicina.
Questa non era granché. Un mercantile riconvertito con lo
scafo incrostato e arrugginito, la sovrastruttura rasa al
livello del ponte su cui si stagliavano soltanto due monconi
di albero, alti quanto bastava per reggere un’antenna radio.
C’era luce anche sulla Montecito, e altra musica che
fluttuava sulle acque cupe dell’oceano. I pomicioni hanno
staccato i denti dal collo dei rispettivi partner e si sono
messi a ridere guardando la nave.
Il taxi ha disegnato un’ampia curva intorno alla
Montecito, inclinandosi di quel tanto che bastava a dare un
brivido ai passeggeri, e si è fermato accanto ai parabordo
di canapa lungo il pontile d’imbarco. Il motore scoppiettava
in folle nella nebbia. Il pigro fascio di un riflettore ha
illuminato una cinquantina di metri intorno alla nave.
Il taxista si è ormeggiato al pontile, e un tizio dagli occhi
a mandorla in giacchetta blu da cerimonia con bottoni
abbaglianti, un sorriso anch’esso abbagliante e una bocca
da gangster ha aiutato le ragazze a scendere dal taxi. Io
sono rimasto per ultimo. L’aria disinvolta e tranquilla con
cui mi squadrava diceva parecchio di lui. Il resto me lo ha
confidato la disinvoltura con cui mi ha tastato la fondina.
«No» ha detto, tranquillissimo. «No».
Aveva una voce rauca ma gentile, un duro che si sforzava
di presentarsi con il fazzoletto di seta. Ha fatto un cenno al
taxista, che ha lasciato cadere una corta cima su una bitta,
ha girato leggermente il volante ed è sbarcato sul pontile,
alle mie spalle.
«Niente armi sulla nave. Mi spiace, eccetera eccetera» ha
detto il tizio in giacchetta.
«Posso lasciarla al guardaroba. Fa parte del mio
completo. Sono venuto a incontrare Brunette, per affari».
Sembrava divertito. Appena appena. «Mai sentito
nominare. Sparisci».
Il taxista mi ha preso sottobraccio.
«Voglio parlare con Brunette» ho provato a insistere. La
mia voce è risuonata debole e fragile, da vecchia signora.
«Non facciamo discussioni» ha detto il tizio con gli occhi
a mandorla. «Qui non siamo a Bay City, e nemmeno in
California. Secondo gente autorevole, non saremmo
neanche negli Stati Uniti. Vattene».
«Torna sulla barca» ha ringhiato il taxista. «Ti devo un
quarto di dollaro. Andiamo».
Sono risalito in barca. Il tizio in giacchetta mi ha
guardato con il suo sorriso più smagliante e silenzioso. Ho
continuato a fissarlo fino a che non è diventato una sagoma
scura circonfusa dalle luci del pontile. Giusto quello, potevo
fare.
Il viaggio di ritorno mi è sembrato più lungo. Al taxista
non ho rivolto parola, né lui l’ha rivolta a me. Arrivati al
molo, mi ha restituito il quarto di dollaro.
«Sarà per un’altra volta,» ha detto stancamente «quando
avremo più tempo per darti una ripassata».
Sentendolo, cinque o sei clienti in attesa di imbarcarsi mi
hanno guardato con tanto d’occhi. Gli sono passato accanto
e ho superato la soglia della piccola sala d’attesa sulla
piattaforma galleggiante, diretto ai bassi gradini che
portavano a terra.
Un tizio con l’aria da duro e i capelli rossi, in scarpe da
ginnastica sudice, pantaloni incatramati e quel che restava
di un logoro maglione blu da marinaio, e con una striscia
nera su un lato della faccia, si è mosso dalla ringhiera cui
era appoggiato e mi ha urtato come per caso.
Mi sono fermato. Era troppo grosso. Mi superava di una
decina di centimetri e di una quindicina di chili. Per me,
però, cominciava a essere l’ora di piantare un pugno nei
denti di qualcuno, anche se rischiavo di ricavarne soltanto
un braccio di legno.
La luce era fioca e quasi tutta alle sue spalle. «Che
succede, socio?» ha biascicato. «Niente trippa su quella
maledetta nave?».
«Va’ a farti... uhm... rammendare la camicia. Hai la panza
di fuori».
«Potrebbe andare peggio. La tua pistola fa un po’ fagotto,
sotto il vestito chiaro».
«Di che t’impicci?».
«Cristo, di niente. Semplice curiosità. Senza offesa, eh?».
«Be’, levati dai piedi, allora».
«Certo, me ne sto qui a riposare, nient’altro».
Mi ha rivolto un sorriso stanco. Aveva una voce gentile,
sognante, di una delicatezza sorprendente in un bestione
della sua stazza. Mi ha fatto ripensare a un altro bestione
dalla voce suadente, che per qualche ragione mi aveva
suscitato una certa simpatia.
«Sei partito male» ha detto, mesto. «Mi chiamo Red».
«Togliti di mezzo, Red. Anche i migliori sbagliano, e io
sento che un errore mi sta salendo per la spina dorsale».
Ha guardato pensieroso da una parte e dall’altra. Mi
aveva chiuso in un angolo del gabbiotto sopra la
piattaforma. Eravamo soli, più o meno.
«Vuoi salire sulla Monty? Si può fare. Se hai una
ragione».
Un gruppo di allegroni con vestiti allegri ci è passato
accanto, diretto al taxi. Mi sono fatto da parte.
«Quant’è la ragione?».
«Cinquanta dollari. Sessanta se mi sanguini sulla barca».
Mi sono guardato intorno.
«Venticinque» ha detto, gentile. «Quindici se torni
indietro con qualche amico».
«Io non ho amici» ho detto, e mi sono allontanato. Non ha
cercato di fermarmi.
Ho svoltato a destra sul marciapiede di cemento su cui
vanno e vengono le vetture elettriche, avanzando
lentamente come trenini per bambini e suonando trombette
che non spaventerebbero una donna in dolce attesa.
All’imbocco del primo molo c’era una fiammeggiante sala
bingo, già strapiena. Appena dentro, mi sono appoggiato
alla parete, alle spalle dei giocatori, insieme a quelli che
aspettavano il primo posto libero.
Ho guardato i numeri illuminarsi sul tabellone elettrico,
ascoltato le chiamate degli uomini del banco, ho persino
provato a riconoscere i giocatori della casa, senza successo.
Potevo anche andarmene.
Un’enorme ombra blu ha preso forma accanto a me. «Non
hai la grana... o sei tirchio?» mi ha sussurrato all’orecchio
la voce gentile.
L’ho guardato di nuovo. Aveva occhi che non si vedono in
giro; al massimo, se ne legge. Erano quasi viola. Da
ragazza. Da bella ragazza. E la pelle era liscia come seta.
Leggermente arrossata, ma refrattaria all’abbronzatura:
troppo delicata. Era più grosso di Hemingway e molto più
giovane. Non grosso come Moose Malloy, ma aveva l’aria di
essere svelto di gambe. I capelli erano di un punto di rosso
con riflessi dorati. A parte gli occhi, però, aveva una faccia
normalissima, da contadino, non una bellezza da
palcoscenico.
«Che mestiere fai?» mi ha chiesto. «Investigatore
privato?».
«Perché dovrei dirtelo?» ho ringhiato.
«L’avevo immaginato. Venticinque è troppo? Niente
rimborsi?».
«No».
Ha sospirato. «La mia, comunque, era un’idea balorda.
Sono capaci di farti a pezzi, su quella nave».
«Non mi sorprenderebbe. Tu che mestiere fai?».
«Un dollaro qua, un dollaro là. Ero in polizia, una volta.
Mi hanno cacciato».
«Perché me lo racconti?».
Mi è parso sorpreso. «È vero».
«Forse volevi semplicemente ricambiare la cortesia».
Ha sorriso, tanto per.
«Conosci un certo Brunette?».
Ancora quel sorriso fiacco. Intanto avevano annunciato
tre bingo uno dopo l’altro. Si davano da fare, lì dentro. Uno
spilungone con la faccia da uccello, le guance giallastre e
l’abito spiegazzato si è appoggiato alla parete vicino a noi
senza guardarci. Red si è sporto gentilmente verso di lui e
gli ha domandato: «C’è qualcosa che possiamo dirti,
socio?».
Lo spilungone ha sorriso e si è allontanato. Red ha sorriso
anche lui, poi si è appoggiato alla parete facendo tremare il
palazzo.
«Conosco uno che potrebbe ingaggiarti» ho detto.
«Vorrei ce ne fossero di più. Mantenere uno come me
costa. Non c’è niente che sia fatto per quelli così grossi.
Costa mangiare, vestirsi, e in un letto normale non ci si sta.
Ecco come vanno le cose. Tu penserai che questo non sia
un buon posto per parlare, invece lo è. Se arriva qualche
spione lo riconosco subito, mentre gli altri sono interessati
soltanto ai numeri. Ho un entrobordo che scarica
sott’acqua. O meglio, posso farmelo prestare. C’è un
piccolo molo, più avanti, senza luci. So come arrivare a un
boccaporto di carico della Monty e so come aprirlo.
Trasporto merce, ogni tanto. Non c’è molta gente
sottocoperta».
«Hanno un riflettore e le vedette».
«Possiamo farcela».
Ho preso dal portafoglio un biglietto da venti e uno da
cinque e me li sono ripiegati sulla pancia per ridurne
l’ingombro. Gli occhi viola mi guardavano senza darlo a
vedere.
«Solo andata?».
Ho annuito.
«Si era detto quindici».
«Il mercato ha avuto un’impennata».
Una mano incatramata ha fatto sparire le banconote. Red
si è allontanato in silenzio, svanendo nel buio torrido fuori
dalle porte. L’uomo col naso a becco si è materializzato alla
mia sinistra. E mi ha bisbigliato: «Ho l’impressione di
conoscerlo, quel tizio vestito da marinaio. È tuo amico?
Devo averlo già visto».
Mi sono staccato dalla parete, allontanandomi senza
dirgli nulla. Fuori dal locale ho seguito una testa che si
muoveva da un lampione all’altro, una trentina di metri più
avanti. Dopo un paio di minuti mi sono nascosto nello
spazio tra due chioschi, e poco dopo ho visto comparire il
tizio col naso a becco, che camminava a testa bassa. Sono
uscito allo scoperto e l’ho affiancato.
«Buonasera. Posso indovinare il suo peso per un quarto di
dollaro?». Mi sono appoggiato a lui. Sotto la giacca
spiegazzata aveva una pistola.
Non ha battuto ciglio. «Devo forse arrestarti, figliolo?
Presto servizio in zona per far rispettare la legge e
mantenere l’ordine».
«E chi mai li mette in pericolo?».
«Il tuo amico aveva una faccia familiare».
«Lo credo bene. È un poliziotto».
«Ah, diamine. Ecco dove l’avevo visto. Le auguro una
buona serata».
Si è voltato, tornando da dov’era venuto. La testa che
stavo seguendo era scomparsa. Pazienza. Non avrei mai
avuto preoccupazioni, da quel ragazzo.
Mi sono rimesso lentamente in cammino.
36

Oltre i lampioni elettrici, oltre il rumore delle vetture sul


marciapiede, oltre l’odore di grasso bollente e di popcorn e
i bambini e gli strilloni dei peepshow, oltre tutto questo,
solo l’odore dell’oceano e la linea improvvisamente
sgombra della costa e le onde che ricadevano schiumose
tra i ciottoli. Non c’era anima viva. I rumori erano lontani,
la luce di tutte quelle illusioni solo un bagliore incerto. Poi
il dito nero di un molo buio, che si protendeva verso il
largo, nelle tenebre. Doveva essere quello. L’ho preso.
Red si è alzato da una cassa appoggiata contro uno dei
primi pali di sostegno. «Bene» ha detto. «Va’ in fondo, fino
ai gradini che scendono in acqua. Io vado a prendere la
barca e scaldo un po’ il motore».
«Un poliziotto mi ha seguito sul lungomare. Il tizio che
c’era nella sala bingo. Mi sono dovuto fermare a parlargli».
«Olson. È della Squadra Antiborseggio. Uno bravo. Se
non fosse che ogni tanto frega un portafoglio e lo piazza
addosso a qualcuno, per mantenere la sua media di arresti.
Forse un po’ troppo bravo, no?».
«Dato che siamo a Bay City, direi che è nella norma.
Andiamo. Comincio a essere in ansia. E voglio approfittare
della nebbia. Non sembra molta, ma potrebbe darci una
mano».
«Durerà abbastanza da ingannare un riflettore» ha detto
Red. «Hanno i mitra, sul ponte della nave. Va’ in fondo al
molo. Ci vediamo lì».
È sparito nell’oscurità, e io mi sono avviato nel buio del
molo, sull’assito viscido per via del pesce. In fondo c’era
una ringhiera bassa e sudicia. Due fidanzatini se ne stavano
appoggiati in un angolo. Se ne sono andati, anche se l’uomo
non l’ha presa bene.
Per dieci minuti ho ascoltato l’acqua schiaffeggiare i pali
di sostegno. Un uccello notturno ha frusciato nel buio: il
vago grigiore di un’ala ha attraversato per un attimo il mio
campo visivo. Un aereo ronzava alto. Poi, in lontananza, un
motore ha latrato, e ha continuato a ruggire come una
mezza dozzina di camion. Dopo un po’, il fragore si è
attenuato, fino a spegnersi del tutto, all’improvviso.
Sono passati altri minuti. Ho cominciato a scendere i
gradini con la cautela di un gatto su un pavimento bagnato.
Una sagoma scura si è materializzata nella notte, insieme
al rumore sordo di un urto. «Tutto a posto. Monta» ha detto
Red.
Sono salito in barca, sistemandomi accanto a lui dietro il
parabrezza. La barca ha cominciato a scivolare sull’acqua.
Lo scarico non faceva alcun rumore, eccetto un rabbioso
ribollire su entrambi i lati dello scafo. Di nuovo, le luci di
Bay City sono diventate una luminescenza lontana, oltre il
saliscendi delle onde aliene. Di nuovo, le luci sgargianti
della Royal Crown sono sfilate da un lato, con la nave che
sembrava pavoneggiarsi come un’indossatrice su una
piattaforma rotante. E, di nuovo, i boccaporti della
Montecito si sono stagliati sulle acque nere del Pacifico,
mentre il lento e costante movimento del riflettore
circondava la nave come la luce di un faro.
«Ho paura» ho detto all’improvviso. «Sono paralizzato
dalla paura».
Red ha messo in folle, lasciando che dondolassimo su e
giù fra le onde: sembrava che l’acqua scorresse sotto lo
scafo, e che la barca restasse sempre nello stesso punto.
Poi si è voltato verso di me.
«Ho paura della morte e della disperazione» ho detto.
«Dell’acqua scura e delle facce degli annegati e dei teschi
con le orbite vuote. Ho paura di morire, di essere niente, di
non trovare questo Brunette».
Ha ridacchiato. «Per un attimo hai messo paura anche a
me. Certo che sei bravo, a farti i discorsetti. Brunette
potrebbe essere ovunque. Su una di queste due navi, al suo
club, oppure più a est, a Reno, in pantofole a casa sua. È il
tuo unico obiettivo?».
«Cerco anche un certo Malloy, un energumeno uscito da
poco dal penitenziario di Stato dell’Oregon dopo essersi
fatto otto anni per una rapina in banca. Si stava
nascondendo a Bay City». Gli ho raccontato di Malloy,
dicendogli più di quanto volessi. Saranno stati i suoi occhi.
Quando ha detto la sua, dopo un po’, le parole gli sono
uscite di bocca tra piccoli sbuffi di nebbia, simili a perline
sulle punte di un paio di baffi. Forse questo lo faceva
sembrare più saggio di quanto non fosse, o forse no.
«Alcune cose quadrano. Altre no. Di certe cose non so
niente, di altre sì. Se questo Sonderborg gestiva un
nascondiglio e vendeva spinelli e mandava in giro gente a
rubare gioielli a donne ricche dallo sguardo selvaggio, ci
sta che avesse entrature con le autorità, anche se questo
non vuol dire che le autorità fossero al corrente di tutto
quello che faceva o che tutti i poliziotti in servizio
sapessero delle sue entrature. Può darsi che Blane lo
sapesse e Hemingway no. Blane è corrotto, l’altro è solo un
poliziotto, un duro, né bravo né cattivo, né corrotto né
onesto, coraggioso e abbastanza stupido, come me, da
pensare che arruolarsi nella polizia sia un modo intelligente
di guadagnarsi da vivere. Quello che non mi spiego è il
parapsicologo. Si è comprato una protezione sul migliore
dei mercati, Bay City, e in un momento di necessità ne ha
fatto uso. Non si può mai sapere cosa stia tramando uno
come lui, quindi non si può mai sapere cos’abbia sulla
coscienza o di che cosa abbia paura. Magari è anche lui un
essere umano e una volta ogni tanto gli capita di invaghirsi
di una cliente. Certe ricche signore puoi fartele più
facilmente dei cartamodelli. Stando così le cose, la mia idea
sul tuo soggiorno da Sonderborg è semplice: Blane sapeva
che Sonderborg si sarebbe preoccupato, una volta scoperto
chi eri – e la storia che hanno raccontato a Sonderborg è
probabilmente la stessa che ti ha raccontato lui, cioè che ti
avevano trovato da quelle parti in stato confusionale –, e
immaginava che Sonderborg non avrebbe saputo cosa
farne, di te. Lasciarti andare, eliminarti: in ogni caso, prima
o poi Blane si sarebbe ripresentato e avrebbe alzato la
posta. Tutto qui, secondo me. Hanno avuto l’opportunità di
usarti, e lo hanno fatto. Però può darsi che Blane sappia, di
Malloy. A giudicare dal tipo, non lo escluderei».
Lo ascoltavo, osservando il lento ruotare del fascio di luce
del riflettore e l’andirivieni dei taxi acquatici, lontano, sulla
destra.
«So come ragiona certa gente» ha detto Red. «Il
problema con i poliziotti non è che sono stupidi o disonesti
o cattivi, ma soltanto che credono, per il solo fatto di essere
poliziotti, di avere quel qualcosa in più che prima gli
mancava. Un tempo, forse, poteva anche essere vero, ma
oggi non è più così. C’è in giro troppa gente meglio di loro.
E con questo arriviamo a Brunette. Lui non governa la
città, non potrebbe fregargliene di meno. Ha speso un botto
di soldi per eleggere un sindaco in modo che i suoi taxi
acquatici non abbiano problemi. Se avesse qualche
desiderio particolare, verrebbe esaudito. Com’è successo
qualche tempo fa con uno dei suoi amici, un avvocato, che è
stato arrestato per guida in stato di ebbrezza: Brunette ha
fatto derubricare l’accusa a guida pericolosa. Hanno
modificato i registri per accontentarlo, e anche questo è un
reato. Dovrebbe bastare, per farti un’idea. Il suo racket è il
gioco d’azzardo, ma di questi tempi tutti i racket sono
collegati. Perciò potrebbe anche trafficare in spinelli, o
prendere la percentuale da qualcuno che lavora per lui e a
cui ha messo in mano tutto. Magari conosce Sonderborg,
magari no. La rapina a mano armata per una collana, però,
la escluderei. Pensa al lavoro che ha fatto quella gente per
soli ottomila dollari. L’idea che c’entri Brunette è ridicola».
«Già. Ma c’è stato anche un omicidio. Ricordi?».
«Neanche quello è opera sua, e non ha nemmeno dato
l’ordine. Se fosse stato Brunette, non avresti trovato nessun
cadavere. Non si può mai sapere quello che uno si porta
cucito sotto la fodera della giacca. Perché rischiare? Pensa
a quello che sto facendo io per venticinque dollari. Che
cosa potrebbe pagarsi Brunette con tutti i soldi che lui ha
da spendere?».
«Sarebbe o non sarebbe capace di commissionare un
omicidio?».
Red ci ha pensato su. «Ne sarebbe capace, e
probabilmente lo ha anche fatto, ma non è un violento.
Questi sono malavitosi di un nuovo tipo. Noi siamo abituati
ai rapinatori da quattro soldi o ai balordi strafatti. Certi
palloni gonfiati della polizia, alla radio, li descrivono come
topi di fogna codardi, che ammazzano donne e bambini e
che come vedono una divisa implorano pietà. Non
dovrebbero essere tanto ingenui da cercare di spacciare
certe balle all’opinione pubblica. Ci sono poliziotti codardi
come ci sono assassini codardi, ma sono pochissimi. Quanto
ai pezzi grossi come Brunette, non è ammazzando che
arrivano dove arrivano. Hanno fegato e cervello... e non
hanno nemmeno il coraggio del branco, come invece i
poliziotti. Soprattutto, sono uomini d’affari. Quello che
fanno, lo fanno per soldi. Come tutti gli uomini d’affari. A
volte, qualcuno si mette pericolosamente di traverso. Okay,
lo si elimina. Tuttavia ci pensano bene, prima di farlo. Ma
che cosa te lo spiego a fare?».
«Uno come Brunette non nasconderebbe uno come
Malloy, che ha appena ammazzato due persone».
«No, infatti. A meno che sotto non ci sia una ragione
diversa dai soldi. Vuoi tornare indietro?».
«No».
Red ha mosso le mani sul volante, e la barca ha ripreso
velocità. «Non pensare che quei bastardi mi siano
simpatici» ha detto. «Li odio con tutte le mie forze».
37

Il fascio del riflettore sembrava un pallido dito di nebbia


che ruotando sfiorava le onde in un raggio di una trentina
di metri. Probabilmente, era più scena che altro.
Soprattutto a quell’ora della sera. Una persona
intenzionata a rubare l’incasso di uno dei casinò
galleggianti avrebbe avuto bisogno di parecchio aiuto, e
comunque avrebbe lanciato l’assalto verso le quattro del
mattino, quando la clientela si riduce a pochi giocatori
amareggiati, e l’equipaggio è intorpidito dalla stanchezza.
E anche così sarebbe stato un modo stupido di fare soldi.
Qualcuno ci aveva provato, una volta.
Un taxi, virando, ha raggiunto il pontile d’imbarco, ha
scaricato i passeggeri ed è tornato verso riva. Red teneva la
barca in folle appena fuori dal raggio del riflettore. Se lo
avessero alzato anche di poco, per il semplice gusto di
farlo... ma non l’hanno fatto: la luce è passata languida, e
l’acqua opaca ha brillato per un attimo. Subito dopo, la
barca ha oltrepassato la linea e si è avvicinata in fretta alla
nave, riparandosi sotto la sporgenza dello scafo, oltre le
due enormi e luride gomene di poppa. Ci siamo accostati
cautamente alle lamiere viscide, come il sorvegliante di un
hotel che si prepari a sbatter fuori dall’atrio un individuo
losco.
I portelloni a due battenti incombevano alti, troppo, sopra
di noi, e comunque troppo pesanti, se anche fossimo riusciti
a raggiungerli. La nostra barca sfiorava la decrepita
murata della Montecito, e le onde schiaffeggiavano il
guscio sotto i nostri piedi. Una grossa ombra si è levata nel
buio accanto a me, mentre una cima arrotolata schizzava
verso l’alto, urtava qualcosa e si agganciava, e l’altra
estremità finiva in acqua. Dopo averla ripescata con un
mezzo marinaio, Red l’ha tesa, legandola a qualcosa che
sporgeva sulla cappottatura del motore. C’era abbastanza
nebbia da rendere la scena irreale. L’aria umida era fredda
come le ceneri dell’amore.
Red si è sporto verso di me, e il suo respiro mi ha
solleticato l’orecchio. «Pesca poco. Se arriva l’onda giusta,
le volano via le viti. In ogni caso, non possiamo far altro che
arrampicarci».
«Non vedo l’ora» ho detto con un brivido.
Mi ha messo le mani sul volante, ha regolato sia quello
che la cloche, e mi ha detto di tenere la barca nella
posizione in cui era. Sulle lastre della murata c’era una
scala di ferro che curvava seguendo la forma dello scafo,
con i pioli probabilmente scivolosi come l’albero della
cuccagna.
L’idea di arrampicarsi su quei gradini era allettante
quanto quella di sistemarsi sul cornicione di un grattacielo.
Red si è passato le mani sui pantaloni per incatramarsele e
si è sporto in avanti. È salito senza far rumore, senza
nemmeno uno sbuffo, con le sue scarpe da ginnastica che
facevano presa sui pioli di metallo.
Ormai il fascio del riflettore spazzava l’oceano ben al di là
di noi. Credo che la luce, rimbalzando sull’acqua,
illuminasse la mia faccia come un bengala, ma non è
successo nulla. Poi ho sentito un sordo cigolio di cardini
sopra la mia testa. Il labile fantasma di una luce giallastra
si è dissolto nella nebbia. Ho intravisto il profilo di una
metà del portellone di carico. A quanto pare, non doveva
essere chiuso dall’interno. Chissà perché.
Il sussurro era un suono indistinto, senza significato. Ho
mollato il volante e ho cominciato ad arrampicarmi. È stato
il tragitto più faticoso della mia vita. Mi sono ritrovato
ansimante, spompato, in una stiva fetida e ingombra di
casse, barili, cumuli di cordame e ammassi di catene
arrugginite. I ratti strillavano negli angoli bui. La luce
gialla proveniva da una porticina sul lato opposto.
Red ha accostato le labbra al mio orecchio. «Da qui
prendiamo un passaggio fino alla passerella sospesa sopra
il locale caldaie. Useranno il vapore di una caldaia
ausiliaria, perché su questa bagnarola non c’è il diesel.
Sotto, ci sarà probabilmente un solo uomo. I membri
dell’equipaggio fanno anche da personale nelle sale da
gioco, come finti giocatori, sorveglianti, camerieri e così
via. Devono dichiarare di saper fare qualcosa di
marinaresco. Nel locale caldaie ti mostrerò un condotto
d’aerazione senza grata che sale fin sul ponte della nave,
dove l’accesso è vietato. Ma sarà tutto tuo... finché
sopravvivi».
«Devi avere parenti a bordo».
«Sono capitate cose più strane. Torni a breve?».
«Dovrei fare un bel rumore, cadendo dal ponte» ho detto
tirando fuori il portafoglio. «Credo che il tuo servizio meriti
un supplemento. Ecco. Abbi cura del mio cadavere come
fosse il tuo».
«Non mi devi nient’altro, socio».
«Mi pago il viaggio di ritorno, anche se non userò il
biglietto. Prendi i soldi, prima che scoppi in singhiozzi. Non
voglio bagnarti la camicia».
«Hai bisogno di una mano, lassù?».
«Mi servirebbe solo una lingua di fuoco: quella che ho è
fredda come il dorso di una lucertola».
«Metti via ’sti soldi» ha detto Red. «Mi hai già pagato
anche il ritorno. Secondo me, sei solo spaventato». Mi ha
preso la mano. Era forte, coraggioso, affettuoso, e giusto un
po’ appiccicoso. «Anzi, sei sicuramente spaventato».
«Mi passerà. In un modo o nell’altro».
Sì è voltato, con una strana espressione che in quella luce
non sono riuscito a decifrare. L’ho seguito tra le casse e i
barili, oltre il rialzo in ferro della porta, in un lungo
passaggio semibuio che odorava di nave. Siamo sbucati su
una grata viscida di petrolio, e abbiamo sceso una scala
d’acciaio a cui era difficile restare attaccati. Il lento sibilo
dei bruciatori riempiva l’aria, coprendo ogni altro rumore.
Passando tra montagne di ferro ci siamo diretti verso
l’origine di quel sibilo.
Dietro l’angolo c’era un mangiaspaghetti buzzurro in
camicia di seta viola, seduto su una poltrona da ufficio
tenuta insieme da corde. Leggeva il giornale della sera
sotto un bulbo di lampadina, aiutandosi con un dito sudicio
e un paio di occhiali dalla montatura in metallo
probabilmente appartenuti a suo nonno.
Red si è fatto avanti in silenzio. Ha detto, gentile: «Ehi,
Shorty, come stanno i bambini?».
L’italiano ha aperto la bocca con uno schiocco e ha fatto
per infilare la mano nell’apertura della camicia viola. Red lo
ha colpito all’angolo della mandibola, tramortendolo, quindi
lo ha steso con cura sul pavimento e ha cominciato a fargli
a brandelli la camicia viola.
«Questo gli farà più male del pugno in faccia» ha detto
Red sottovoce. «Il fatto è che una persona che sale per la
scala di un condotto di aerazione fa un frastuono
incredibile in basso, mentre in alto non si sente niente».
Ha legato e imbavagliato l’italiano, ma sistemandogli gli
occhiali in un posto sicuro. Sopra di noi c’era il condotto
senza grata. Guardando in alto non vedevo altro che buio.
«Addio» ho detto.
«Magari hai bisogno di un po’ d’aiuto».
Mi sono scrollato come un cane zuppo. «Ho bisogno di
una compagnia di marine, se è per questo, ma o lo faccio da
solo o non lo faccio. Addio».
«Quanto pensi di metterci?». Ora sembrava preoccupato.
«Un’ora. Anche meno».
Mi ha guardato, mordicchiandosi un labbro. Poi ha
annuito. «A volte uno deve. Fatti vedere alla sala bingo, se
trovi il tempo».
Ha fatto quattro passi felpati, allontanandosi, poi è
tornato indietro. «Quel boccaporto di carico aperto
potrebbe tornarti utile. Ricordatene». Ed è sparito.
38

Nel condotto di aerazione soffiava aria fredda dall’alto.


L’uscita sembrava lontana. Dopo tre minuti che mi sono
sembrati un’ora, ho fatto timidamente capolino
dall’apertura a tromba. Le scialuppe coperte da teli, poco
lontano, erano chiazze grigie indistinte. Voci sommesse
mormoravano nel buio. La luce del riflettore ruotava lenta.
Veniva da un punto più in alto, probabilmente una
piattaforma in cima a uno dei monconi di albero. Doveva
esserci un uomo con un mitra, forse persino con una
mitragliatrice leggera. Lavoro ingrato e risultati miseri, se
qualcuno lascia gentilmente aperto un boccaporto di carico.
Una musica pulsava lontana come i bassi distorti di una
radio da quattro soldi. In alto, una luce fissata a un albero
e, attraverso gli strati superiori della nebbia, poche, ciniche
stelle che guardavano giù.
Appena uscito dal condotto, ho tirato fuori la 38 dalla
fondina e l’ho tenuta appoggiata al petto, nascosta dentro
la manica. Ho fatto tre passi in silenzio, e sono rimasto in
ascolto. Nulla. Il mormorio si era interrotto, ma non per
colpa mia. Sono riuscito a localizzarlo: tra due scialuppe. E
nel buio della notte e nella nebbia, come talvolta
misteriosamente accade, una quantità di luce sufficiente si
è concentrata in un punto preciso, brillando sulla scura
massa di una mitragliatrice montata su un treppiede e
puntata verso il basso. Due uomini se ne stavano immobili
accanto all’arma, senza fumare, e dopo un po’ hanno
ripreso quel mormorio incomprensibile.
L’ho ascoltato fin troppo a lungo. Fino a quando non ho
sentito un’altra voce, stavolta molto chiara.
«Spiacente, ma gli ospiti non sono ammessi sul ponte
della nave».
Mi sono voltato, con calma, e gli ho guardato le mani.
Erano chiare macchie indistinte, ed erano vuote.
Mi sono fatto di lato, dietro l’estremità di una scialuppa.
L’uomo mi ha seguito, gentilmente. Le sue scarpe, sul ponte
umido, non facevano alcun rumore.
«Credo di essermi perso».
«Lo credo anch’io». Aveva una voce abbastanza giovanile,
né dura né fredda. «In fondo al corridoio d’accesso alle
cabine, però, c’è una porta. Ha una serratura a molla. Una
bella serratura. Prima, davanti alla scala, c’era soltanto una
catena con una targa d’ottone, ma abbiamo scoperto che gli
elementi più vivaci tendevano a scavalcarla».
Chiacchierava tanto, forse per cortesia, forse soltanto in
attesa. Non riuscivo a decidere. «Qualcuno deve aver
lasciato la porta aperta».
La testa in ombra ha annuito. Era più in basso della mia.
«Questo, però, ci mette in una situazione complicata. Se
qualcuno ha lasciato la porta aperta, il capo non ne sarà
per niente contento. Se invece la porta era chiusa,
vogliamo sapere come sei riuscito ad arrivare qui. Mi sono
spiegato, vero?».
«Mi pare un concetto semplice. Andiamo a discuterne da
lui».
«Sei venuto in compagnia?».
«In ottima compagnia».
«Avresti dovuto restare in compagnia».
«Sai come vanno le cose... Ti giri un attimo, e qualcun
altro le sta offrendo da bere».
Ha ridacchiato. Poi, con il mento, ha fatto un cenno a
un’ombra lunga.
Mi sono abbassato scartando di lato, e il sibilo del
manganello si è spento come un sospiro nell’aria silenziosa.
Sembrava che tutti i manganelli nelle mie vicinanze
dovessero automaticamente provare a colpirmi. Dall’ombra
lunga è giunta un’imprecazione.
«Dài, vediamo un po’ se fate gli eroi».
Ho tolto la sicura alla pistola, facendo in modo che si
sentisse.
A volte, anche una brutta scena può far venir giù il teatro.
Quello lungo è rimasto sul posto, con il manganello appeso
a un polso. L’altro, quello con cui avevo parlato, rifletteva.
«Non ti servirà a niente» ha detto poi, in tono grave.
«Non riuscirai mai a lasciare la nave».
«Ci ho pensato. Poi ho pensato che per te farebbe poca
differenza».
La scena continuava a essere pessima.
«Che cosa vuoi?» ha chiesto a bassa voce.
«Ho una pistola che fa molto rumore. Ma non sono
obbligato a usarla. Voglio parlare con Brunette».
«È a San Diego, per affari».
«Parlerò con il suo vice».
«Certo che sei un bell’elemento» ha detto quello gentile.
«Ora scendiamo, ma prima di entrare devi mettere via la
pistola».
«La metterò via quando sarò sicuro di aver superato
quella porta».
Ha ridacchiato. «Torna pure al tuo posto, Slim. Ci penso
io».
Mi ha preceduto con una certa flemma, mentre il lungo
svaniva nel buio.
«Su, seguimi».
Ci siamo avviati, in fila indiana, giù per una fila di gradini
profilati d’ottone e molto viscidi. In fondo alla scala c’era
una porta pesante. L’ha aperta, controllando la serratura.
Poi me l’ha tenuta, facendomi cenno di entrare, con un
sorriso. A quel punto mi sono messo la pistola in tasca.
La porta si è richiusa alle nostre spalle con uno scatto.
«Serata tranquilla, finora» ha detto.
Avevamo davanti un arco dorato, e subito oltre una sala
da gioco non molto affollata. Sembrava come ogni sala da
gioco. In fondo c’era un piccolo banco di vetro con alcuni
sgabelli, che penso fosse il bar. Al centro, una scala da cui
arrivava, a ondate, una musica. E un rumore di roulette. Un
croupier distribuiva carte a un unico cliente che giocava a
faro. Ci saranno state sì e no sessanta persone, nella sala.
Sul tavolo del faro c’era un tale mucchio di quattrini da
poterci aprire una banca. Il giocatore era un uomo anziano
e canuto che osservava il croupier con cortese attenzione,
ma nulla di più.
Due uomini silenziosi in abito da sera hanno attraversato
l’arco con un certo piglio, e lo sguardo nel vuoto. C’era da
aspettarselo. Ci sono venuti incontro, e il tizio basso e
magro che era con me li ha aspettati. Solo quando l’arco
era ormai da un bel po’ alle loro spalle, hanno messo le
mani in tasca: in cerca di sigarette, ovvio.
«Prima di continuare» ha detto il tizio basso «sarà meglio
che ci organizziamo un po’, qui. Spero non ti dispiaccia».
«Tu sei Brunette» ho detto, improvvisamente.
Ha alzato le spalle. «Certo che sì».
«Non hai tanto l’aria da duro».
«Lo spero bene».
I due elegantoni mi hanno spinto, ma con delicatezza.
«Da questa parte» ha detto Brunette. «Potremo parlare
più comodamente».
Brunette ha aperto la porta, e mi hanno scortato dentro.
La stanza sembrava e non sembrava una cabina. Due
lampade di ottone oscillavano agganciate a sospensioni
cardaniche sopra una scrivania scura che non era di legno,
ma forse di plastica. Di legno, venato, erano le due cuccette
sul fondo. La più bassa era stata risistemata, mentre su
quella superiore c’erano svariate pile di dischi per
fonografo nelle loro custodie. In un angolo, un grosso
apparecchio che era insieme radio e fonografo. C’erano un
divano rosso di pelle, un tappeto rosso, portacenere a
piantana, un tavolinetto con sigarette, decanter e vari
bicchieri, nonché un piccolo bar nell’angolo opposto alle
cuccette.
«Prego» ha detto Brunette, piazzandosi dietro la scrivania
ingombra di fogli pieni di cifre incolonnate, stampate da
una macchina contabile. Si è seduto su una poltrona
dirigenziale dallo schienale alto dondolandosi un po’,
mentre mi studiava un centimetro alla volta. Poi si è
rialzato, si è tolto impermeabile e sciarpa e li ha gettati da
una parte. Tornato a sedere, ha preso una penna, con cui si
è titillato il lobo di un orecchio. Aveva un sorriso felino, ma
a me i gatti piacciono.
Non era né giovane né vecchio, né magro né grasso.
Passando tanto tempo sull’oceano, o nei paraggi, aveva una
carnagione sana. I capelli erano castani e con
un’ondulazione naturale, che in mare si faceva ancor più
pronunciata. La fronte era stretta, da pensatore, e gli occhi
avevano un che di lievemente minaccioso. L’iride tendeva al
giallo. Le mani erano belle, curate, ma non tanto da
sembrare ridicole. Il suo abito da sera doveva essere blu
notte, perché era scurissimo. Mi pareva che la perla fosse
un po’ troppo grossa, ma forse la mia era solo invidia.
Mi ha studiato un bel po’, prima di dire: «Ha una pistola».
Uno dei due guardaspalle dai modi vellutati ha
appoggiato alla mia spina dorsale una cosa che
probabilmente non era una canna da pesca. E le mani che
mi tastavano, trovata la pistola, hanno continuato a
cercare.
«C’è altro?» ha chiesto una voce.
Brunette ha scosso la testa. «Per ora no».
Uno dei guardaspalle ha fatto scivolare la mia automatica
sulla scrivania. Posata la penna, Brunette ha preso un
tagliacarte, con cui ha iniziato a far ruotare la pistola sul
sottomano.
«Be’,» ha detto piano, guardando oltre la mia spalla
«devo spiegarti che cosa voglio, adesso?».
Uno dei due gorilla è uscito, e ha richiuso la porta. L’altro
era tanto immobile che non sembrava neanche essere lì.
C’è stato un lungo e sereno silenzio, rotto dal lontano
brusio di voci e dalla musica d’atmosfera e da una sorda e
quasi impercettibile pulsazione dal basso.
«Un drink?».
«Grazie».
Il gorilla ne ha preparati un paio al piccolo bar, in bella
vista. Quando ha finito, ha sistemato i bicchieri ai lati
opposti della scrivania, su due piattini di vetro neri.
«Sigaretta?».
«Grazie».
«Egiziana va bene?».
«Certo».
Abbiamo acceso. Bevuto. Sapore di ottimo scotch. Il
gorilla si è astenuto.
«Quello che voglio...» ho cominciato.
«Perdonami, ma non ha tanta importanza, dico bene?».
Il rilassato sorriso felino, il pigro abbassarsi delle
palpebre sugli occhi gialli.
La porta si è aperta, lasciando entrare il secondo
guardaspalle e il tizio in giacchetta, con la bocca da
gangster e tutto il resto. Come mi ha visto, è diventato
bianco ostrica.
«Non l’ho fatto passare io» ha detto subito, arricciando
un angolo delle labbra.
«Aveva una pistola» ha detto Brunette, spingendo l’arma
con il tagliacarte. «Questa. Me l’ha persino puntata alla
schiena, più o meno, sul ponte».
«Non l’ho fatto passare io, capo» ha detto Giacchetta,
solerte come prima.
Brunette ha sollevato appena gli occhi gialli, e mi ha
sorriso. «Dunque?».
«Portatelo via» ho detto. «Andate a spiaccicarlo da
qualche altra parte».
«Il taxista può confermarlo» ha ringhiato Giacchetta.
«Ti sei mai mosso dal pontile dopo le quattro e mezza?».
«Neanche per un minuto, capo».
«Non è una risposta. Può crollare un impero, in un
minuto».
«Neanche per un secondo, capo».
«Uno così lo freghi facile» ho detto, scoppiando a ridere.
Giacchetta è scattato in avanti come un pugile, e il suo
pugno aveva il suono di una frustata. Per poco non mi
arrivava alla tempia. Dopo un rumore sordo, però, si è
come sciolto a mezz’aria. Giacchetta si è accasciato di lato,
e nonostante il tentativo di aggrapparsi a uno spigolo della
scrivania è caduto a terra di schiena. Bello che le
manganellate se le prendesse qualcun altro, una volta
tanto.
Brunette continuava a sorridermi.
«Spero che tu non lo stia calunniando. Comunque, c’è
ancora da risolvere la questione della porta d’accesso alle
cabine».
«Casualmente era aperta».
«Non ti vengono in mente altre idee?».
«Non in mezzo a questa folla».
«Allora parliamo a quattr’occhi» ha detto Brunette,
guardando solo me.
Il gorilla ha preso Giacchetta sotto le ascelle e lo ha
trascinato per la cabina, mentre il suo collega apriva una
porta interna. Sono usciti da quella, e l’hanno richiusa.
«Bene» ha detto Brunette. «Chi sei e che cosa vuoi?».
«Sono un detective privato e voglio parlare con Moose
Malloy».
«Dimostrami che sei un detective privato».
Fatto. Mi ha restituito il portafoglio gettandolo sulla
scrivania. Le sue labbra abbronzate al vento continuavano
a sorridere, e il sorriso cominciava a diventare un po’
forzato.
«Sto indagando sull’omicidio di un uomo di nome
Marriott. L’hanno ammazzato in una conca dalle parti del
Belvedere Beach Club, la notte di giovedì scorso.
L’omicidio, per inciso, è collegato a un altro, di una donna,
commesso da Malloy, che è un pregiudicato con precedenti
per una rapina in banca, un vero duro».
Brunette annuiva. «Per ora non ti domando cosa ha a che
fare tutto questo con me. Immagino ci arriverai. Facciamo
che mi dici, invece, come sei salito sulla mia nave».
«L’ho già detto».
«Mentivi» ha detto con cortesia. «Ti chiami Marlowe,
vero? Be’, mentivi, Marlowe. Lo sai anche tu. Il ragazzo del
pontile ha detto la verità. Li scelgo con molta cura, i miei
uomini».
«Tu sei proprietario di un pezzo di Bay City. Non so
quanto grande, ma di certo sufficiente per le tue necessità.
C’è un certo Sonderborg che gestisce un covo. Vende erba,
organizza rapine e nasconde latitanti. Ovviamente, non
potrebbe farlo senza gli agganci giusti. Cioè senza il tuo
benestare. Malloy stava da Sonderborg, ma ora se n’è
andato. È sui due metri e passa, difficile da nascondere. Ho
pensato che un casinò galleggiante potesse essere un buon
posto per uno come lui».
«Troppo facile» ha detto Brunette, tranquillo. «Anche
supponendo che volessi nasconderlo, perché correre il
rischio di tenerlo qui?». Ogni tanto beveva un sorso. «In
fondo, io lavoro in un altro settore. È già abbastanza
difficile gestire un servizio taxi senza troppi problemi. Il
mondo è pieno di posti dove nascondersi, per un
delinquente. Se ha qualche soldo. Non riesci a farti venire
un’idea migliore?».
«Ci riuscirei, ma non ne ho voglia».
«Non posso fare niente per te. Allora, come hai fatto a
salire a bordo?».
«Non mi va di dirlo».
«Temo che sarò costretto a fartelo dire, Marlowe». I suoi
denti scintillavano alla luce delle lampade di ottone. «In
fondo, non è impossibile».
«Se te lo dico, tu farai arrivare la voce a Malloy?».
«Quale voce?».
Ho preso il mio portafoglio dalla scrivania e ho tirato
fuori un biglietto da visita, voltandolo. Poi ho messo via il
portafoglio e mi son fatto dare una matita. Ho scritto
cinque parole sul retro del biglietto e l’ho spinto verso
Brunette, che lo ha raccolto e letto. «Non significa niente,
per me».
«Significherà qualcosa per Malloy».
Si è appoggiato all’indietro. «Non riesco a inquadrarti.
Rischi la pelle per venire qui a darmi un biglietto da
passare a un assassino che nemmeno conosco. Non ha
senso».
«Non ha senso solo se non conosci Malloy».
«Perché non hai lasciato la pistola all’ingresso principale
e non sei venuto normalmente, come tutti gli altri?».
«La prima volta me ne sono dimenticato. E sapevo che il
duro in giacchetta non mi avrebbe mai fatto salire a bordo.
A quel punto, mi sono imbattuto in qualcuno che conosceva
un’altra via».
Gli occhi gialli si sono riaccesi, come se la fiamma avesse
ripreso vita. Ha sorriso, senza dire nulla.
«Questo qualcuno non è un delinquente: soltanto uno che
bazzica la spiaggia e tiene gli occhi ben aperti. Hai un
boccaporto di carico che non è chiuso dall’interno, e un
condotto di aerazione a cui qualcuno ha tolto la grata. C’è
un uomo da mettere fuori combattimento per arrivare al
ponte. Fossi in te farei l’appello dell’equipaggio, Brunette».
Ha mosso lentamente un labbro sopra l’altro, mentre
guardava di nuovo il biglietto da visita. «A bordo non c’è
nessun Malloy. Se però hai detto la verità a proposito del
boccaporto, ti aiuterò».
«Va’ a vedere».
Aveva ancora gli occhi bassi. «Se avrò modo di
trasmettere il messaggio a Malloy, lo farò. Non so perché
mi prendo questa briga».
«Va’ a dare un’occhiata al boccaporto».
È rimasto immobile per un istante, poi si è sporto in
avanti e ha spinto verso di me la mia pistola.
«Quante cose faccio. Gestisco città, eleggo sindaci,
corrompo la polizia, spaccio droga, nascondo latitanti,
rapino vecchie signore strangolate dalle perle. Ne ho di
tempo, eh? Tantissimo». Risatina.
Ho preso la pistola e l’ho rimessa al suo posto.
Brunette si è alzato. «Non prometto niente» ha detto,
guardandomi fisso. «Però ti credo».
«D’accordo, lo capisco».
«Hai corso rischi enormi, per così poco».
«Già».
«Be’...». Non so perché, mi ha teso la mano sopra la
scrivania. «Stringi la mano a uno stupido» ha detto,
cordiale.
Gliel’ho stretta. Era piccola e soda e un po’ calda.
«Non vuoi proprio dirmi come hai fatto a sapere del
boccaporto?».
«Non posso. Ma chi me l’ha detto non è un delinquente».
«Potrei costringerti a confessare» ha detto, scuotendo
subito la testa. «No. Ti ho creduto una volta. Ti crederò
ancora. Siediti e bevi un altro bicchiere».
Ha premuto un pulsante. La porta in fondo alla cabina si
è aperta, e uno dei damerini si è ripresentato.
«Resta qui. Offrigli da bere, se lo desidera. Trattalo
bene».
Mentre il damerino si accomodava, con un gran sorriso
amichevole, Brunette è uscito quasi di corsa. Io ho fumato e
bevuto. Quando sono arrivato alla fine del bicchiere, il
damerino me ne ha servito un altro. Finito anche quello, mi
sono fumato un’altra sigaretta.
Brunette è rientrato, è andato a lavarsi le mani e si è
seduto di nuovo alla scrivania. Un cenno col mento, e il
guardaspalle ha preso la porta.
Gli occhi gialli mi studiavano. «Hai vinto, Marlowe. E io
avevo centosessantaquattro uomini di equipaggio. Be’...».
Si è stretto nelle spalle. «Puoi tornare a terra in taxi.
Nessuno ti darà fastidio. Quanto al tuo messaggio, ho
alcuni agganci. Li userò. Buonanotte. Probabilmente,
dovrei dirti anche grazie. Per la dimostrazione».
«Buonanotte». Mi sono alzato, e via.
Sul pontile d’imbarco c’era un uomo diverso. Anche il taxi
era diverso. Giunto a riva, sono entrato nella sala bingo e
ho preso posto contro il muro. Era piena.
Pochi minuti dopo, Red si è appoggiato al muro accanto a
me.
«È stato facile, eh?» ha detto, tranquillo. Sullo sfondo, le
voci stentoree degli uomini del banco che chiamavano i
numeri.
«Merito tuo. Brunette ha accettato di aiutarmi. È
preoccupato».
Red ha guardato da una parte e dall’altra, poi ha
avvicinato le labbra al mio orecchio. «Hai trovato il tuo
uomo?».
«No, ma spero che Brunette trovi il modo di recapitargli
un messaggio».
Red ha guardato di nuovo verso i tavoli. Con uno
sbadiglio si è staccato dal muro. È ricomparso anche il tizio
col naso a becco. Red gli si è avvicinato: «Ehilà, Olson».
Ancora un po’ e lo butta a terra.
Olson lo ha seguito con uno sguardo acido e si è
risistemato il cappello. Quindi ha sputato ferocemente sul
pavimento.
Sono uscito subito dopo di lui, diretto al parcheggio alla
fine dei binari, dove avevo lasciato la macchina.
Tornato a Hollywood, l’ho parcheggiata e sono salito nel
mio appartamento.
Mi sono tolto le scarpe e ho camminato un po’, giusto per
sentire il contatto con il pavimento. I piedi mi si
intorpidivano ancora, ogni tanto.
Poi mi sono seduto sul bordo del letto già pronto all’uso e
ho provato a calcolare il tempo. Impossibile. Per arrivare a
Malloy potevano volerci ore, oppure giorni. E forse solo la
polizia, prima o poi, sarebbe riuscita a trovarlo. Forse, e
non necessariamente vivo.
39

Erano all’incirca le dieci di sera quando ho fatto il


numero di Mrs. Grayle, a Bay City. Pensavo fosse troppo
tardi per trovarla, ma mi sbagliavo. Superato lo
sbarramento di una cameriera e del maggiordomo, alla fine
ho sentito la sua voce. Sembrava su di giri, e carica per la
serata.
«Avevo promesso di chiamarti. È un po’ tardi, ma ho
avuto parecchio da fare».
«Mi tiri un altro bidone?». La voce era più fredda.
«Forse no. Il tuo autista lavora ancora a quest’ora
tarda?».
«Lavora a qualsiasi ora io gli dica di farlo».
«Che ne diresti di passare a prendermi? Vedo se entro nel
vestito della laurea».
«Che proposta carina» ha detto, sarcastica. «Dici che ne
vale la pena?». Amthor aveva fatto un gran lavoro sulle sue
aree del linguaggio, posto che avessero mai avuto qualcosa
che non andava.
«Ti posso mostrare la mia acquaforte».
«Una sola?».
«Sto in un monolocale».
«Ho sentito dell’esistenza di posti del genere». Era di
nuovo sarcastica, ma ha cambiato subito tono. «Non fare
così il prezioso. Sei ben piazzato, lo sai. E non permettere a
nessuno di dire il contrario. Ripetimi l’indirizzo».
Le ho dato l’indirizzo e il numero dell’appartamento. «Il
portone è chiuso. Ma posso scendere a togliere il fermo».
«Bene. Così non dovrò portarmi il grimaldello».
Ha riagganciato. Avevo la bizzarra sensazione di aver
parlato con una persona inesistente.
Sono sceso nell’atrio e ho sbloccato il portone. Ho fatto
una doccia, mi sono infilato un pigiama e via, a letto. Avrei
potuto dormire ininterrottamente per una settimana. Mi
sono trascinato fuori dal letto per sbloccare la serratura,
dato che senza pensarci avevo chiuso a chiave, e, come
attraversando una furibonda tempesta di neve, ho
raggiunto la cucina e apparecchiato due bicchieri e una
bottiglia di scotch che avevo tenuto da parte per una
seduzione di un certo livello.
Mi sono rimesso a letto. «Prega» ho detto ad alta voce.
«Non resta che pregare».
Ho chiuso gli occhi. Le quattro mura della stanza
sembravano vibrare come un motoscafo, l’aria immobile
sembrava grondare nebbia e frusciare per via della brezza
marina. Sentivo l’odore acre e stantio di una stiva in disuso.
Sentivo puzza di gasolio, e vedevo un mangiaspaghetti
buzzurro in camicia viola che leggeva alla luce di un bulbo
di lampadina con indosso gli occhiali di suo nonno. Mi sono
arrampicato a lungo su per un condotto di aerazione. Ho
scalato le montagne dell’Himalaya e una volta in cima mi
sono ritrovato circondato da uomini armati di mitra. Ho
parlato con un tizio dagli occhi gialli, un piccoletto per certi
versi molto umano che gestiva un suo racket illegale, se
non peggio. Ripensavo al gigante coi capelli rossi e gli
occhi viola, probabilmente l’uomo migliore che avessi mai
incontrato in vita mia.
Poi ho smesso di pensare. Dietro le mie palpebre chiuse
c’erano luci in movimento. Ero perso nello spazio. Ero un
idiota di prim’ordine, di ritorno da un’insulsa avventura.
Ero un pacco di dinamite da cento dollari esploso facendo il
rumore di un prestatore su pegno che osservi un orologio
da un dollaro. Ero uno scarabeo dalla testa rosa che
strisciava su un muro esterno della City Hall.
Mi sono addormentato.
Mi sono svegliato lentamente, senza volerlo, con gli occhi
fissi sulla luce del lampadario appeso al soffitto. Qualcosa si
muoveva adagio per la stanza.
Era un movimento furtivo e silenzioso, ma pesante. Sono
rimasto in ascolto. Poi mi sono voltato, piano, e ho visto
Moose Malloy. Per muoversi sfruttava le ombre della
stanza, silente come già una volta mi aveva dimostrato di
saper essere. La pistola che aveva in mano, lustra e scura e
lubrificata, era roba da professionisti. Dal cappello
appoggiato sul cucuzzolo sbucavano i capelli neri e ricci.
Annusava l’aria come un segugio.
Mi aveva visto aprire gli occhi. Si è avvicinato al letto con
calma e mi ha guardato.
«Ho ricevuto il tuo messaggio» ha detto. «Vedo che il
posto è pulito. E fuori non c’erano sbirri. Se è una trappola,
due persone usciranno di qui nella bara».
Mi sono rigirato un po’ nel letto, e lui ha tastato sotto i
cuscini. Aveva la solita faccia grande e pallida, con gli occhi
infossati che riuscivano chissà come a farlo sembrare
buono. Portava l’impermeabile, quella sera: dove aderiva al
corpo, gli stava stretto, e la cucitura di una spalla era
esplosa, probabilmente nell’infilarselo. Doveva essere la
taglia più grande in commercio, ma non abbastanza grande
per Moose Malloy.
«Speravo che passassi» ho detto. «Nessuno sbirro sa
niente del mio messaggio. Volevo semplicemente vederti».
«Parla».
Si è avvicinato a un tavolo, ha posato la pistola e si è tolto
l’impermeabile, per poi sedersi nella mia poltrona migliore,
che ha scricchiolato, ma senza cedere. Moose si è
appoggiato lentamente all’indietro, facendo in modo di
avere la pistola a portata di mano. Ha preso un pacchetto di
sigarette da una tasca e ne ha fatta spuntare una,
mettendosela poi tra le labbra senza toccarla con le dita.
Un fiammifero ha brillato sopra l’unghia di un pollice.
L’odore intenso del fumo ha invaso la stanza.
«Non sei malato o altro, vero?».
«Stavo solo riposando. Ho avuto una giornataccia».
«La porta era aperta. Aspettavi qualcuno?».
«Una signora».
Mi ha guardato, in allarme.
«Forse non viene» ho detto. «Comunque, se arriva, la
mando via».
«Chi è questa signora?».
«Una signora. Se si presenta, me ne libero. Preferisco
parlare con te».
Un vaghissimo sorriso gli ha increspato appena la bocca.
Ha dato un tiro di sigaretta, che sembrava troppo piccola e
scomoda per le sue dita.
«Chi ti ha messo in testa che potessi essere sulla Monty?»
ha chiesto.
«Uno sbirro di Bay City. È una storia lunga e piena di
supposizioni».
«La polizia di Bay City mi sta cercando?».
«Perché? La cosa ti preoccuperebbe?».
Di nuovo quel suo debole sorriso. Ha scosso la testa
leggermente.
«Hai ucciso una donna. Jessie Florian. È stato un errore».
Ci ha pensato su. Poi ha annuito. «Lasciamo perdere» ha
detto in un soffio.
«Così, però, hai rovinato tutto. Io non ho paura di te. Non
sei un assassino. Non volevi ucciderla. Per quell’altro – in
Central Avenue – te la saresti potuta cavare. Ma se sbatti la
testa di una donna sul montante di un letto fino a che il
cervello non le ricopre la faccia, è un altro discorso».
«Rischi grosso, fratello» ha detto tranquillo.
«Ne ho passate così tante che neanche me ne accorgo
più. È che non riconosco più la differenza. Non volevi
ucciderla, vero?».
Aveva gli occhi inquieti e la testa inclinata, come in
ascolto.
«Sarebbe ora che imparassi a controllare la tua forza».
«È troppo tardi».
«Volevi che lei ti dicesse qualcosa. L’hai presa per il collo
e le hai dato una scrollata. Era già morta quando le hai
spaccato la testa sul montante del letto».
Mi fissava.
«So che cosa volevi che ti dicesse».
«Va’ avanti».
«C’era un poliziotto con me, quando è stata trovata. Ho
dovuto parlare».
«Parlare... fino a che punto?».
«Fino a un buon punto. Ma non ho detto niente di
stasera».
Continuava a fissarmi. «Okay. Come facevi a sapere che
ero sulla Monty?». Me l’aveva già domandato. Forse se
n’era dimenticato.
«Non ne ero sicuro, ma il modo migliore per filarsela mi
pareva fosse via mare. Con la situazione che c’è a Bay City,
non avresti avuto difficoltà a raggiungere uno dei casinò
galleggianti. Da lì saresti potuto andar via tranquillo. Con
l’aiuto delle persone giuste».
«Laird Brunette è una persona gentile» ha detto, piatto.
«Così ho sentito. Con lui direttamente non ho mai parlato».
«Ti ha fatto arrivare il messaggio».
«Be’, erano almeno in dieci a potermelo portare. Quand’è
che facciamo quel che hai scritto sul biglietto da visita?
Pensavo volessi parlare. Non avrei corso il rischio di venire
qui, altrimenti. Dove si va?».
Dopo avere ammazzato la sigaretta mi ha guardato. La
sua ombra incombeva sulla parete, l’ombra di un gigante.
Era così enorme da non sembrare vero.
«Cosa ti fa credere che sia stato io a uccidere Jessie
Florian?» mi ha chiesto all’improvviso.
«Lo spazio tra i segni delle dita sul suo collo. Il fatto che
tu avessi qualche informazione da cavarle. E il fatto che sei
talmente forte da poter ammazzare qualcuno senza
volerlo».
«Gli sbirri sospettano di me?».
«Non lo so».
«Che cosa volevo da lei?».
«Che ti dicesse dov’è Velma».
Ha annuito in silenzio, senza smettere di fissarmi.
«Solo che non lo sapeva» ho detto. «Velma è troppo più
intelligente di lei».
Qualcuno ha bussato alla porta, delicatamente.
Malloy si è sporto un po’ in avanti e, sorridendo, ha
impugnato la pistola. Non bussavano più, tentavano di
aprire. Malloy si è alzato in piedi e si è avvicinato alla porta
con l’orecchio teso. Poi mi ha guardato.
Mi sono rialzato a sedere e sono sceso dal letto. Malloy
mi guardava in silenzio, senza muoversi. Mi sono accostato
alla porta.
«Chi è?» ho chiesto con le labbra appoggiate al legno.
Era lei, non c’era dubbio. «Apri, stupido. È la duchessa di
Windsor».
«Un secondo».
Ho guardato Malloy. Si era incupito. Mi sono avvicinato,
per potergli parlare sottovoce: «Non c’è un’altra uscita.
Nasconditi nello stanzino dietro il letto, e aspetta. La
mando via».
Ci ha pensato su. Aveva un’espressione indecifrabile. Non
aveva più niente da perdere, ormai. E non avrebbe mai
conosciuto la paura: persino in quel corpo gigantesco, non
aveva trovato spazio. Alla fine ha annuito, e dopo aver
preso cappello e impermeabile ha aggirato in silenzio il
letto ed è entrato nello stanzino, richiudendo la porta, ma
non del tutto.
Ho dato un’occhiata in giro, per vedere se avesse lasciato
qualche traccia. Nient’altro che una sigaretta, che poteva
essere stata fumata da chiunque. Sono andato ad aprire.
Malloy aveva chiuso a chiave, dopo essere entrato.
Era lì, con un mezzo sorriso e la stola da sera a collo alto
in volpe bianca di cui mi aveva parlato. Alle orecchie aveva
pendenti di smeraldo, seminascosti dalla soffice pelliccia.
Le sue dita morbide stringevano una borsetta.
Appena mi ha visto, il sorriso è svanito. Mi ha squadrato
da capo a piedi. Era un pezzo di ghiaccio.
«Ah... così» ha detto, demoralizzata, come tra sé.
«Pigiama e vestaglia. Per mostrarmi la sua deliziosa
acquaforte. Che scema!».
Mi sono fatto da parte e le ho tenuto aperta la porta. «No,
ti sbagli. Mi stavo vestendo, ma mi è piombato in casa un
poliziotto. Se n’è andato un attimo fa».
«Randall?».
Non ho detto niente. Una bugia silenziosa resta sempre
una bugia, ma è più facile. Lei ha esitato un attimo, poi un
vortice di pelliccia profumata mi è sfilato davanti.
Ho richiuso. Ha attraversato lentamente la stanza,
fissando inespressiva la parete. Poi si è voltata di scatto.
«Cerchiamo di capirci» ha detto. «Non sono una tanto
facile. Non sono in cerca di romanticherie da poveracci. C’è
stato un periodo della mia vita in cui ne ho avute fin troppe.
Mi piacciono le cose fatte in un certo modo».
«Bevi qualcosa prima di andare?». Io ero ancora
appoggiato alla porta, sul lato opposto della stanza rispetto
a lei.
«Me ne sto andando?».
«Avevo l’impressione che il posto non ti piacesse».
«Volevo solo mettere in chiaro le cose, e per riuscirci
devo andarci giù un po’ dura. Non sono una di quelle
puttanelle promiscue. Mi si può avere, ma non basta
allungare la mano. Comunque, sì, bevo qualcosa».
Sono andato nel cucinino a riempire due bicchieri. Non
avevo le mani fermissime. Sono tornato di là e gliene ho
porto uno.
Dallo stanzino non arrivava il minimo rumore, neanche un
fiato.
Ha preso lo scotch e l’ha assaggiato, fissando la parete al
di sopra del bicchiere. «Non mi piace che gli uomini mi
ricevano in pigiama» ha detto. «Strano. Mi piacevi. Mi
piacevi parecchio. Ma potrei anche lasciar perdere. Non
sarebbe la prima volta».
Ho annuito, bevendo un goccio.
«Gli uomini sono perlopiù animali schifosi» ha detto. «Ma
è il mondo in generale che fa decisamente schifo, se vuoi
saperlo».
«I soldi probabilmente aiutano».
«Si tende a crederlo, se non si è ricchi di nascita. In
pratica, però, i soldi creano solo ulteriori problemi». Ha
fatto un sorriso strano. «E ci si dimentica di quant’erano
gravi i problemi di un tempo».
Ha tirato fuori un portasigarette dorato dalla borsa, e io
mi sono avvicinato con un fiammifero per farla accendere.
Ha esalato una specie di pennacchio di fumo, che è rimasta
a guardare con gli occhi socchiusi.
«Siediti qui, accanto a me» ha detto all’improvviso.
«Parliamo un po’, prima».
«Di che cosa? Ah... della mia giada?».
«Di omicidi».
Non ha fatto una piega. Ha sbuffato altro fumo, questa
volta con più attenzione, più lentamente. «È un brutto
argomento. Dobbiamo proprio?».
Mi sono stretto nelle spalle.
«Lin Marriott non era un santo. Ma non ho comunque
voglia di parlarne».
Mi ha guardato a lungo, tranquilla, poi ha infilato la mano
nella borsetta per prendere un fazzoletto.
«Non credo fosse un complice della banda di rapinatori»
ho detto. «La polizia fa finta di crederci, come spesso
succede. Secondo me, non era neanche un ricattatore. Non
in senso stretto, almeno. Buffo, eh?».
«Lo trovi buffo?». La voce adesso era diventata fredda,
freddissima.
«Be’, non proprio» ho ammesso, finendo il mio drink.
«Davvero gentile da parte sua, Mrs. Grayle, passare di qui
stasera, ma forse non siamo così in sintonia. Ad esempio,
non credo neanche che Marriott sia stato ucciso da una
banda di malviventi. Non credo sia andato in fondo a quel
canyon per riscattare una collana di giada. Credo, anzi, che
quella collana di giada non sia neppure mai stata rubata.
Credo sia andato lì per essere ucciso, anche se lui credeva
che la ragione fosse collaborare a un omicidio. Solo che
Marriott era un pessimo assassino».
Si è sporta leggermente in avanti, e il suo sorriso si è
fatto appena un po’ vitreo. All’improvviso, senza un reale
cambiamento, non era neanche più bella. Sembrava
semplicemente una che un secolo prima poteva essere
pericolosa – e, vent’anni prima, audace, forse –, ma ormai
era merce hollywoodiana, e non di prima scelta.
Non ha detto nulla, ma si è messa a tamburellare con le
dita sulla chiusura della borsetta.
«Un pessimo assassino» ho detto. «Come il secondo
assassino nella scena del Riccardo III. Quello che aveva
qualche scrupolo di coscienza, ma voleva pur sempre il
denaro, e alla fine, a causa dell’indecisione, non è riuscito a
fare quel che doveva. Questi assassini sono pericolosi.
Vanno eliminati... anche a manganellate, se capita».
Lei ha sorriso. «E chi mai avrebbe dovuto uccidere?».
«Me».
«Che qualcuno possa odiarti al punto di ucciderti mi pare
molto difficile da credere. Inoltre, l’hai detto tu che la mia
collana di giada non è mai stata neanche rubata. Hai
qualche prova di quello che dici?».
«Non ho mai detto di averne. Sono solo mie
supposizioni».
«Perché allora sei così imprudente da parlarne?».
«Una prova è sempre una cosa relativa. È una probabilità
che prevale sulle altre. E questo dipende da come uno
osserva le cose. Le ragioni per uccidere me erano
decisamente tenui: semplicemente il fatto che stessi
cercando di rintracciare l’ex cantante di un night club in
Central Avenue proprio nel momento in cui anche Moose
Malloy, appena uscito di galera, si era messo a cercarla.
Poteva darsi che lo stessi aiutando nelle ricerche. A quanto
pare, la possibilità di trovarla c’era, perché altrimenti non
ci sarebbe stato bisogno di fingere con Marriott che io
dovessi essere ucciso, e alla svelta. Se non fosse stato
possibile trovarla, lui non avrebbe abboccato. Il motivo per
uccidere Marriott, invece, era più consistente, ma lui, per
vanità o per amore o per avidità, o per una combinazione di
queste tre cose, non l’ha preso in considerazione. Aveva
paura, ma non per la sua vita. Aveva paura della violenza in
cui era coinvolto, e anche di poter essere scoperto e
condannato. D’altra parte, lottava per il suo buono pasto. E
così ha deciso di correre il rischio».
Mi sono fermato. Lei ha annuito: «Molto interessante, se
qualcuno sapesse di cosa stai parlando».
«Qualcuno lo sa».
Ci fissavamo. Lei aveva infilato la mano destra nella
borsetta, io avevo una mezza idea di cosa potesse aver
impugnato. Ancora, però, non aveva cominciato a estrarla.
Ogni cosa a suo tempo.
«Finiamola di giocare» ho detto. «Siamo soli, qui. Nulla di
quel che ognuno di noi può dire ha la forza per prevalere su
quel che dice l’altro. Ci annulliamo a vicenda. Una ragazza
partita dai bassifondi sposa un milionario. Nel corso della
sua ascesa, una vecchia sciattona la riconosce – magari l’ha
sentita cantare alla radio, ha riconosciuto la voce ed è
andata a verificare –, per cui va messa a tacere. La si
compra con poco, vuol dire che non sa molto. L’uomo che
tiene i contatti con lei, invece, lo stesso che si occupa dei
versamenti mensili, e a cui è intestata un’ipoteca sulla casa
di questa donna, e che dunque potrebbe buttarla in mezzo
a una strada se lei dovesse comportarsi male, be’... lui sa
tutto. Il suo prezzo è più alto. Neanche questo ha
importanza, purché nessun altro venga a sapere. Un
giorno, però, un certo Moose Malloy, un duro, esce di
galera e comincia a scoprire cose sulla sua ex fiamma.
Perché lo scemone la amava, e la ama ancora. Questo è
l’aspetto comico, o tragicomico. E proprio quando Malloy
esce di galera, anche un detective privato comincia a
ficcare il naso. L’anello debole della catena, Marriott, che
prima era un lusso, ora diventa un pericolo. Arriveranno a
lui e lo spremeranno. Marriott è uno così: non regge la
pressione. Perciò viene assassinato prima che possa
cedere. Con un manganello. Da te».
Non ha fatto niente, ha solo estratto dalla borsa la mano
armata di pistola e me l’ha solo puntata contro, sorridendo.
Neanch’io ho fatto niente.
Ma non è successo solo questo. Moose Malloy è sbucato
dallo stanzino con una Colt 45, che come al solito nella sua
zampona irsuta pareva un giocattolo.
Non mi ha neanche guardato. Fissava Mrs. Lewin
Lockridge Grayle. Si è sporto in avanti, ha sorriso e le ha
parlato con dolcezza.
«Mi pareva di aver riconosciuto la tua voce. L’ho ascoltata
per otto anni... per come me la ricordavo, almeno. I capelli
rossi mi piacevano, però. Ehi, piccola, quanto tempo!».
Lei gli ha puntato contro la pistola.
«Stammi lontano, brutto figlio d’un cane».
Lui si è bloccato, lasciando ricadere la mano con la
pistola lungo il fianco. Sarà stato a neanche mezzo metro
da lei. Ansimava.
«Non ci avevo mai pensato» ha detto, a bassa voce. «L’ho
capito adesso. Sei stata tu a consegnarmi alla polizia. Tu.
La piccola Velma».
Ho lanciato un cuscino, ma troppo lentamente. Gli ha
sparato cinque colpi allo stomaco. Le pallottole non hanno
fatto più rumore di cinque dita che si infilino in un guanto.
Poi ha puntato la pistola contro di me e ha sparato di
nuovo, ma aveva finito i colpi. Si è gettata in avanti per
raccogliere da terra la pistola di Malloy. Il secondo cuscino
è andato a bersaglio. Ho girato intorno al letto e, prima che
potesse togliersi il cuscino dalla faccia, l’ho spinta via. Ho
raccolto la pistola e sono tornato dietro il letto.
Malloy era ancora in piedi, ma cominciava a vacillare.
Aveva la bocca spalancata e con le mani si toccava lo
stomaco. Quando le ginocchia hanno ceduto, è caduto sul
letto di fianco a lui, a faccia in giù. Il suo rantolo riempiva
la stanza.
Prima che lei potesse muoversi, ho preso la cornetta.
Aveva gli occhi di un grigio funereo, come acqua
semighiacciata. È corsa verso la porta, spalancandola, e io
non ho cercato di fermarla. Quando ho finito la telefonata,
sono andato a chiudere. Ho girato un po’ la testa di Malloy
sul letto, per evitare che soffocasse. Era ancora vivo, ma
con cinque pallottole nello stomaco neanche un Moose
Malloy sopravvive a lungo.
Sono tornato al telefono e ho chiamato Randall a casa.
«Malloy è qui nel mio appartamento, con cinque pallottole
nello stomaco, sparate da Mrs. Grayle. Ho chiamato il
Receiving Hospital. Lei è scappata».
«Insomma, hai voluto fare il furbo» mi ha detto prima di
riagganciare.
Sono tornato al letto. Malloy aveva le ginocchia a terra e
stava cercando di alzarsi in piedi, con un lenzuolo
appallottolato in una mano. La faccia grondava sudore. Le
palpebre fremevano piano. I lobi delle orecchie erano scuri.
Era ancora così quando è arrivata l’ambulanza. Ci sono
voluti quattro uomini per metterlo sulla barella.
«Se sono calibro 25, ha una remota possibilità di farcela»
ha detto il medico dell’ambulanza, prima di andarsene.
«Dipende dalle lesioni interne. Ma una possibilità c’è».
«Non credo che abbia voglia di farcela» ho detto.
E infatti. È morto nella notte.
40

«Avresti dovuto organizzare un pranzo di gala» ha detto


Anne, guardandomi dal lato opposto del tappeto
marroncino a disegni. «Sfavillio di argenti e cristalli,
tovaglia candida e inamidata – ammesso che chi dà ancora
pranzi di gala usi la tovaglia –, lume di candela, donne che
sfoggiano i loro gioielli migliori, uomini in cravatta bianca,
e la servitù che si aggira discreta con bottiglie di vino
avvolte nei tovaglioli. I poliziotti vagamente a disagio negli
abiti da sera presi a nolo – e chi non lo sarebbe? –, gli
indiziati con i loro fragili sorrisi e le mani irrequiete, e poi
tu, a un capo della lunga tavola, che sveli tutto, con il tuo
sorriso pacato e affascinante e un accento inglese fasullo
alla Philo Vance».
«Già. Che ne diresti di darmi qualcosa da tenere in mano,
prima di ricominciare a sfottermi?».
È andata in cucina e ha fatto un po’ di rumore con il
ghiaccio. Al ritorno aveva un paio di bicchieri da cocktail, e
si è rimessa a sedere.
«Le tue amiche devono spendere una fortuna in alcolici»
ha detto, sorseggiando.
«E all’improvviso il maggiordomo sviene. Ma non è lui
l’assassino. Sviene solo per fare scena». Ho inspirato a
fondo il profumo del mio drink. «Non è quel genere di
storia» ho detto. «Non è leggera e arguta. È soltanto cupa e
piena di sangue».
«Insomma, lei è sparita?».
«Per ora. Non è tornata a casa. Doveva avere pronto un
piccolo nascondiglio per cambiare vestiti e aspetto. In
fondo, conviveva con il pericolo, come i marinai. Da me è
venuta sola. Senza autista. È arrivata con una piccola auto
che ha abbandonato qualche dozzina di isolati più in là».
«La prenderanno... se si impegnano».
«Non dire così. Wilde, il procuratore distrettuale, è un
tipo a posto. Ho lavorato per lui, tempo fa. Se anche la
prendono, però, che cosa possono fare? Si ritroveranno
contro venti milioni di dollari e un bel faccino, nonché uno
a scelta tra Lee Farrell e Rennenkamp. Sarà molto difficile
dimostrare che è stata lei a uccidere Marriott. Hanno
soltanto un movente e il passato di Mrs. Grayle, sempre che
riescano a ricostruirlo. Lei avrà cancellato ogni traccia,
altrimenti non se la sarebbe giocata così».
«E Malloy? Se me ne avessi parlato per tempo, avrei
capito subito chi era lei veramente. A proposito, come hai
fatto tu a capirlo? Quelle due foto sono di due donne
diverse».
«Infatti. E ho idea che neanche la vecchia Mrs. Florian
sapesse che la foto era stata scambiata. Quando le ho
messo sotto il naso la foto autografata di Velma, mi è
sembrata abbastanza sorpresa. Può anche darsi che
sapesse, però. Forse l’aveva nascosta con l’intenzione di
vendermela in un secondo momento, sapendo che era
innocua, la foto di una ragazza qualsiasi infilata da Marriott
in quella busta».
«Questa è solo una supposizione».
«Dev’essere andata così. Marriott può avermi telefonato,
rifilandomi la storia del riscatto per i gioielli, solo perché
sono andato a casa di Mrs. Florian a far domande su Velma.
E può essere stato ucciso solo perché era l’anello debole
della catena. Mrs. Florian non sapeva neanche che Velma
fosse diventata la signora Grayle. Non poteva saperlo.
L’hanno comprata con troppo poco. Mr. Grayle dice che
sono andati a sposarsi in Europa, e che lei ha usato il suo
nome vero. Non intende dire né dove né quando, né quale
sia il vero nome della moglie, né dove si trova adesso.
Secondo me non lo sa, ma la polizia non ci crede».
«Perché non intende dirlo?». Anne mi fissava col mento
appoggiato alle dita intrecciate e gli occhi velati da
un’ombra.
«È pazzo di lei, e non gli importa che lei vada a sedersi in
braccio a chi capita».
«Spero le sia piaciuto sedersi in braccio a te» ha detto
acida.
«Voleva intortarmi. Aveva un po’ paura di me. Non voleva
uccidermi, perché non conviene mai ammazzare una specie
di sbirro. Alla fine, però, l’avrebbe anche fatto, così come
avrebbe ucciso Jessie Florian, se Malloy non le avesse
risparmiato il disturbo».
«Immagino sia divertente essere intortati da una bella
bionda. Un po’ rischioso, forse, ma c’è sempre qualche
rischio».
Sono rimasto zitto.
«Immagino non possano farle niente per aver ucciso
Malloy, visto che era armato».
«No, infatti. Senza contare le leve che ha a disposizione».
I suoi occhi picchiettati d’oro mi studiavano con aria
solenne. «Pensi che avesse premeditato di uccidere
Malloy?».
«Aveva paura di lui. Otto anni fa lo aveva consegnato alla
polizia. E lui, alla fine, sembra essersene reso conto. Ma
non le avrebbe mai fatto del male. Anche lui era
innamorato di lei. Sì, credo fosse decisa a commettere tutti
gli omicidi necessari. Aveva molto da difendere. Una
copertura del genere, però, non può reggere all’infinito. Ha
provato a sparare anche a me, ma aveva finito i colpi.
Avrebbe dovuto uccidermi nel canyon, la sera che ha ucciso
Marriott».
«Era innamorato di lei» ha detto Anne, piano. «Malloy,
intendo. Non gli importava che lei non gli avesse scritto per
sei anni, o che non fosse mai andata a trovarlo in carcere.
Non gli importava che lei lo avesse tradito per una
ricompensa. Appena uscito, è andato a comprarsi dei bei
vestiti e si è messo a cercarla. E lei, come bentornato, gli
ha piazzato cinque pallottole in corpo. Anche lui aveva due
cadaveri sulla coscienza, però la amava. Che mondo».
Finito il mio drink ho fatto la faccia di uno che ha sete.
Niente da fare. Anne ha continuato: «Al marito aveva
sicuramente raccontato da dove veniva, e lui non ha fatto
una piega. È andato via per sposarla sotto un altro nome,
ha venduto la sua stazione radio per tagliare i ponti con
chiunque potesse conoscerla, e le ha dato tutto quello che i
soldi possono comprare. Lei, invece, gli ha dato... che
cosa?».
«Difficile a dirsi». Ho agitato i cubetti di ghiaccio rimasti
in fondo al mio bicchiere. Niente, di nuovo. «Sai, un uomo
anziano come lui, con una moglie così bella e affascinante.
Uno si inorgoglisce. E comunque la amava. Che cosa ne
parliamo a fare? Succede in continuazione. Non gli
importava quello che lei aveva fatto, o che faceva. La
amava».
«Come Moose Malloy» ha detto Anne, a mezza voce.
«Andiamo a fare due passi sul lungomare».
«Non mi hai raccontato di Brunette, né dei biglietti da
visita negli spinelli, né di Amthor, né di Sonderborg, e
neanche del piccolo indizio che ti ha aperto la strada verso
la grande soluzione».
«Avevo dato a Mrs. Florian uno dei miei biglietti da visita.
Lei ci aveva appoggiato sopra un bicchiere bagnato. Un
biglietto del genere, con tanto di segno del bicchiere, era
nelle tasche di Marriott. E Marriott non era un uomo
trasandato. Quello è stato un indizio, per così dire.
L’importante è il primo sospetto, il resto viene da sé; ad
esempio, l’ipoteca di Marriott sulla casa di Mrs. Florian,
che serviva a farla rigare dritto. Quanto ad Amthor, è un
delinquente incallito. Lo hanno scovato in un hotel di New
York, e dicono sia un truffatore internazionale. A Scotland
Yard hanno le sue impronte digitali, e anche a Parigi. Come
diavolo abbiano fatto a procurarsi tutte queste informazioni
nel giro di un giorno o due non lo so. I ragazzi sono svelti,
quando ne hanno voglia. Credo che Randall avesse
preparato la cosa da giorni, e temeva che potessi rovinargli
l’operazione. Amthor, comunque, non c’entra niente con gli
omicidi. E nemmeno con Sonderborg, che non è ancora
stato trovato. Credono che anche lui abbia precedenti, ma
non possono esserne certi finché non lo prendono. Per quel
che riguarda Brunette, è impossibile avere prove su uno
come lui. Magari lo porteranno davanti a un gran giurì, e
lui si rifiuterà di rispondere, come la Costituzione gli
consente di fare. Della reputazione può anche fregarsene.
Qui a Bay City, però, c’è un bel bordello. Il capo della
polizia è stato costretto a dimettersi, e una metà degli
ispettori è finita a fare lavoro di pattuglia, mentre un certo
Red Norgaard, un tizio molto in gamba che mi ha aiutato a
salire sulla Montecito, è stato reintegrato. Tutta opera del
sindaco, che finché dura la crisi si cambierà le mutande
una volta all’ora».
«Devi per forza dire certe cose?».
«È il tocco shakespeariano. Andiamo a fare un giro, ma
non prima di un altro drink».
«Bevi il mio». Si è alzata e mi ha portato il suo bicchiere
ancora intatto. Mi si è fermata davanti porgendomelo, con
gli occhi grandi e un po’ spaventati.
«Sei incredibile. Così coraggioso, così determinato, e per
così pochi soldi. Ti prendono a bastonate in testa, ti
strozzano, ti gonfiano la faccia e ti riempiono di morfina,
ma tu insisti, dài e dài, finché non si stancano. Come fai a
essere così meraviglioso?».
«Va’ avanti» ho mormorato. «Dilla tutta».
E Anne, con aria pensosa, l’ha detta: «Baciami, accidenti
a te».
41

Ci sono voluti più di tre mesi per trovare Velma. La polizia


non aveva creduto a Grayle, che sosteneva di non sapere
dove fosse la moglie e di non averla aiutata a fuggire. Tutti
i poliziotti e i giornalisti del paese, quindi, avevano
cominciato a cercarla ovunque il denaro potesse
nasconderla. In realtà, non era il denaro a nasconderla.
Anche se, a posteriori, il nascondiglio era il più ovvio.
Una sera, a Baltimora, un detective con una memoria
fotografica rara quanto una zebra rosa entra in un night, e
mentre ascolta la musica dal vivo nota la bella cantante con
capelli e sopracciglia neri che interpreta il repertorio con
grande sentimento. Qualcosa in quel suo volto tocca una
corda, che continua a vibrare.
Il poliziotto torna in centrale, tira fuori il dossier dei
latitanti e si mette a consultare il mazzo di volantini.
Quando trova quello che cercava, se lo studia per bene. Poi
si sistema la paglietta in testa e torna al night club, dove
riesce a parlare con il direttore. Vanno insieme nei
camerini, e il direttore bussa a una porta che non è chiusa
a chiave. Il poliziotto congeda il direttore, entra nel
camerino e si richiude la porta alle spalle.
È probabile senta odore di marijuana, ma non ci bada. La
donna seduta davanti a uno specchio a tre ante si sta
studiando la radice dei capelli e delle sopracciglia. Le
sopracciglia sono le sue. Il poliziotto le si avvicina
sorridendo e le porge il volantino.
Lei si sofferma su quella faccia quasi quanto il poliziotto
in centrale. Le vengono in mente un sacco di cose,
guardando la foto. Il poliziotto si siede, accavalla le gambe
e si accende una sigaretta. Ha occhio, ma è un po’ troppo
specializzato. Di donne non sa quasi nulla.
Dopo un po’, lei scoppia a ridere: «Sei un ragazzo in
gamba, agente. Sapevo di avere una voce che resta
impressa. Un’amica, una volta, mi ha riconosciuto
semplicemente sentendomi alla radio. In realtà, però, canto
con questa band da un mese – due volte la settimana, per
un’emittente – e nessuno mi si è mai filato».
«Non avevo mai sentito la tua voce» dice il poliziotto,
continuando a sorridere.
Lei fa: «Immagino che ci si possa mettere d’accordo,
comunque. C’è tanta roba in ballo, se gestiamo la
situazione come si deve».
«Con me non attacca. Mi spiace».
«Allora andiamo» dice lei. Si alza in piedi, raccoglie la
borsetta e prende la giacca da un attaccapanni. Si avvicina
a lui e gliela porge, per farsi aiutare a infilarla. Lui, da vero
gentiluomo, si alza in piedi e gliela regge.
Lei si volta, estrae una pistola dalla borsetta e gli spara
tre volte attraverso la giacca.
Ha ancora due colpi quando qualcuno sfonda la porta, e li
usa. Li usa entrambi, ma il secondo, probabilmente, parte
solo per riflesso. La prendono prima che possa cadere a
terra, ma la testa ormai penzola come uno straccio.
«Il poliziotto ha resistito fino al giorno dopo» mi ha detto
Randall, quando mi ha raccontato tutto. «Ha parlato, anche
se un po’ a fatica. Per questo siamo riusciti ad avere le
informazioni. Non mi spiego la sua imprudenza, a meno che
non avesse davvero intenzione di lasciarsi convincere da lei
a stringere un qualche accordo. Questo potrebbe avergli
annebbiato il giudizio. Ma, come immagini, non mi piace
pensarlo».
Gli ho detto che probabilmente aveva ragione.
«Si è sparata al cuore, due volte. E questa, secondo gli
esperti in materia, è una cosa impossibile, anche se lo
sapevo già di mio. E vuoi sapere un’altra cosa?».
«Cosa?».
«È stata stupida, a sparare a quel poliziotto. Non
saremmo mai riusciti a condannarla, bella e ricca com’è e
con la storia di persecuzione che chissà quali costosissimi
avvocati avrebbero messo in piedi: una povera giovinetta
da un locale dei bassifondi fa il gran salto e diventa moglie
di un riccone, e tutti gli avvoltoi che la conoscevano non la
lasciano in pace. Qualcosa del genere. Rennenkamp
avrebbe pagato una decina di vecchie artiste del burlesque
per testimoniare in tribunale che per anni l’avevano
ricattata, avendo cura che la giuria credesse alla loro storia
senza che le testimoni potessero essere incriminate. Aveva
fatto bene a fuggire da sola, senza coinvolgere Grayle, ma
sarebbe stata ancora più furba se, una volta scoperta, fosse
tornata a casa».
«Dunque vi siete convinti che Grayle non c’entra?» ho
chiesto.
Randall ha annuito.
E ancora: «Credi che lei potesse avere qualche ragione
particolare per non coinvolgerlo?».
Lui mi ha fissato. «Dimmi la tua, qualunque sia».
«Lei era un’assassina» ho detto. «Ma anche Malloy, se è
per questo. E lui era una persona tutt’altro che
disprezzabile. Forse il poliziotto di Baltimora non era così
puro come sembrano indicare i documenti ufficiali. Forse
lei ha intravisto un’opportunità: non di farla franca –
perché a quel punto era stanca di giocare a rimpiattino –,
ma di lasciare in pace l’unico uomo che avesse mai lasciato
in pace lei».
Randall mi fissava a bocca aperta, con gli occhi per nulla
convinti.
«Cristo, per farlo non era necessario sparare a un
poliziotto».
«Non dico che lei fosse una santa o anche solo una
ragazza brava a metà. Non è questo. Non si sarebbe mai
uccisa se non si fosse sentita in trappola. Ma quello che ha
fatto, e il modo in cui l’ha fatto, le ha evitato di dover
tornare qui per il processo. Pensaci. Chi sarebbe stata la
persona più danneggiata dal processo? Chi avrebbe fatto
più fatica a sopportarlo? E che finisse con una vittoria, con
una sconfitta o con un pareggio, chi avrebbe pagato il
prezzo più alto per quello spettacolo? Un vecchio che si era
dimostrato capace di amare, un uomo non saggio, ma fin
troppo perbene».
Randall, secco: «Questo è sentimentalismo».
«Hai ragione. È sembrato anche a me, mentre lo dicevo.
In ogni caso, probabilmente mi sbaglio. Saluti. Il mio
scarabeo dalla testa rosa è per caso riuscito a tornare
quassù?».
Non capiva di cosa stessi parlando.
Sceso al piano terra, sono uscito sui gradini della City
Hall. Era una giornata fresca e limpidissima. Si poteva
vedere lontano... ma non fino a dove si trovava ormai
Velma.

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