LO STRANO CASO
DEL DOTTOR JEKYLL
E DEL SIGNOR HYDE
Traduzione di Michele Mari
–80 classici
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ISBN 978-88-17-14751-4
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«Tendo all’eresia di Caino», soleva dire argu-
tamente: «Lascio che mio fratello vada al diavo-
lo a modo suo». Con un carattere simile, gli ca-
pitava di essere l’ultimo riferimento decoroso e
l’ultima risorsa per chi stava per toccare il fon-
do: con costoro, finché si presentavano nel suo
studio, non modificava in nulla il suo modo di
fare. Non c’è dubbio che per il signor Utterson
non fosse difficile riuscirci, perché era l’uomo
più discreto del mondo, e anche le sue amicizie
sembravano fondarsi su un principio di benevo-
la ecumenicità. È tipico dell’uomo modesto ac-
cogliere nella cerchia dei propri amici quanti gli
vengano offerti dal caso; e questo era appunto
lo stile dell’avvocato. I suoi amici erano suoi
congiunti, o le persone che conosceva da più
tempo; i suoi affetti, come l’edera, crescevano
con le stagioni, indipendentemente dalle qualità
dell’oggetto. Da qui, senza dubbio, il legame che
lo univa al signor Richard Enfield, suo lontano
parente, uomo ben noto in società. Per molti era
un mistero cosa quei due trovassero l’uno nell’al-
tro, o cosa potessero avere in comune. Chi li in-
contrava nelle loro passeggiate domenicali rife-
riva che rimanevano in silenzio, che sembravano
piuttosto apatici, e che avrebbero salutato con
palese sollievo l’arrivo di un terzo conoscente.
Ciò nonostante, quei due tenevano moltissimo a
quelle escursioni, considerandole la perla della
settimana, e pur di non interrompere quel pia-
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cere non solo rinunciavano ad altre occasioni di
svago, ma resistevano anche ai richiami del la-
voro.
In occasione di uno di quei giri il caso li portò
nella strada secondaria di un operoso quartiere
di Londra. La stradina era stretta e abbastanza
tranquilla, ma durante la settimana brulicava di
fervidi commerci. Gli abitanti se la passavano be-
ne, a quanto pareva, tutti impegnati a emularsi
per migliorare la propria condizione e a investire
i propri guadagni in abbellimenti: sicché le vetri-
ne dei negozi si allineavano con un’aria invitante,
come una schiera di commesse sorridenti. Anche
di domenica, quando celava le sue attrattive più
floride ed era in proporzione deserta, la strada
spiccava rispetto all’uggioso circondario come un
fuoco in una foresta; e con le sue imposte verni-
ciate di fresco, gli ottoni lucidi e un senso genera-
le di lindore e gaiezza, catturava immediatamen-
te e seduceva lo sguardo del viandante.
A due porte di distanza da un incrocio, a sini-
stra per chi va verso est, le facciate erano inter-
rotte dall’accesso a un cortile; proprio in quel
punto un cupo edificio protendeva il suo fronto-
ne sulla via. Era un edificio a due piani senza fi-
nestre, con solo una porta al piano inferiore,
mentre a quello superiore c’era la superficie cieca
di una muratura scolorita; e in ogni suo aspetto
esibiva i tratti di un prolungato e squallido ab-
bandono. La porta, che non aveva né campanello
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né batacchio, era tutta screpolata e stinta. I bar-
boni bivaccavano nell’andito sfregando i loro
fiammiferi contro i battenti; i bambini facevano il
mercatino sui gradini; gli scolari provavano i loro
temperini sulle modanature; e per una genera-
zione o più non era arrivato nessuno a cacciar via
questi visitatori occasionali o a riparare i loro
danni.
Il signor Enfield e l’avvocato erano sull’altro
lato della strada; ma quando giunsero all’altezza
di quell’ingresso, il primo sollevò il suo bastone e
lo puntò.
«Avete mai fatto caso a quella porta?» chiese;
e quando il suo compagno rispose affermativa-
mente, aggiunse: «Nella mia testa è collegata a
una storia davvero strana».
«Davvero?» disse il signor Utterson, con un
leggero mutamento nel tono di voce. «E di cosa si
tratta?»
«Beh, è andata così», rispose il signor Enfield.
«Stavo tornando a casa da qualche posto in capo
al mondo, circa alle tre di un buio mattino inver-
nale, e il mio itinerario attraversava una parte
della città dove non c’era letteralmente niente da
vedere al di fuori dei lampioni. Strada dopo stra-
da e tutta la gente a dormire… Strada dopo stra-
da, tutto illuminato come per una processione, e
tutto vuoto come una chiesa… finché caddi nello
stato d’animo di quando si tende l’orecchio e si
incomincia a desiderare la vista di un poliziotto.
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All’improvviso, vidi due figure: una di un ometto
che avanzava di buon passo verso est, e l’altra di
una bambina di otto o dieci anni che correva più
in fretta che poteva lungo una traversa. Ebbene,
signore, all’incrocio i due finirono quasi inevita-
bilmente l’uno addosso all’altra; e allora accadde
la parte orribile della cosa, perché l’uomo calpe-
stò senza scrupoli il corpo della bambina lascian-
dola urlante al suolo. A sentirlo raccontare non
è granché, ma a vederlo fu infernale. Più che
un uomo quel tale sembrava un maledetto
Juggernaut1. Lanciai un breve grido d’allarme,
scattai all’inseguimento, agguantai quel gentiluo-
mo alla collottola, e lo ricondussi indietro dove si
era già formato un crocchio attorno alla bambina
che strillava. Mantenne una calma assoluta senza
opporre resistenza, ma mi rifilò un’occhiata così
maligna che mi inzuppò di sudore come dopo
una lunga corsa. Le persone che erano uscite in
strada erano i parenti della bambina; di lì a poco
comparve un dottore, che, risultò, la bambina era
stata mandata a chiamare.
Questa non era conciata troppo male: stando a
quel medicastro era più terrorizzata che altro; e
con ciò la cosa poteva considerarsi chiusa. Ma
una circostanza era curiosa. Il mio gentiluomo
mi aveva disgustato a prima vista, e lo stesso,
1
Qui con il significato di demone; propriamente la parola, di origine
sanscrita, corrispondeva a uno degli epiteti del dio Krishna.
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com’è naturale, dicasi per la famiglia della bam-
bina: ma ciò che mi colpì fu l’atteggiamento del
dottore. Si trattava del solito farmacista rinsec-
chito, senza età né carattere, con un forte accento
edimburghese e la stessa sensibilità di una corna-
musa. Ebbene signore, si comportava come tutti
noi; ogni volta che guardava il mio prigioniero,
vedevo che impallidiva dalla voglia di ucciderlo.
Sapevo cosa c’era nella sua testa, esattamente co-
me lui sapeva cosa c’era nella mia; ma essendo
fuori discussione un omicidio, cercammo di siste-
mare la faccenda per il meglio. Dicemmo all’uo-
mo che avremmo sollevato un tale scandalo da
rendere esecrabile il suo nome da un capo all’al-
tro di Londra. Se avesse avuto degli amici o una
reputazione, gli garantimmo che li avrebbe persi.
E per tutto il tempo, mentre gliene dicevamo di
cotte e di crude, dovemmo tenere le donne lonta-
no da lui con ogni nostro mezzo, perché erano
furiose come arpie. Non ho mai visto un cerchio
di facce così piene d’odio; e in mezzo c’era
quell’uomo, con un ghigno di torvo disprezzo:
era anche spaventato, si vedeva, ma in grado di
gestire la situazione come Satana in persona. “Se
volete sfruttare questo incidente per chiedermi
del denaro”, disse, “non posso oppormi. Qualsia-
si gentiluomo si augura di evitare uno scandalo,
quindi ditemi quanto volete.” Insomma, gli scu-
cimmo un centinaio di sterline per la famiglia
della bambina; avrebbe chiaramente voluto ca-
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varsela con meno, ma c’era qualcosa in tutti noi
che minacciava guai seri, e alla fine cedette. Il
passo successivo era ottenere i denari: e dove
pensate che ci abbia portato se non a questa por-
ta? Estrasse una chiave, entrò, e subito dopo fece
ritorno con la somma di dieci sterline in oro e un
assegno della banca Coutts, pagabile al portatore
e firmato con un nome che non posso rivelare,
anche se è uno dei punti salienti della mia storia,
un nome comunque piuttosto ben noto che ricor-
re spesso nelle gazzette.
La somma era cospicua, soprattutto se garan-
tita da quella firma, purché fosse autentica. Mi
presi la libertà di far notare al mio gentiluomo
che l’intera faccenda puzzava di truffa, e che
nella vita di tutti i giorni un uomo non si infila
nella porta di uno scantinato alle quattro del
mattino per uscirsene con un assegno di quasi
cento sterline firmato da un altro. Ma quello
continuò a ghignare senza scomporsi. “Tran-
quillizzatevi”, disse, “rimarrò con voi fino a
quando aprono le banche e incasserò l’assegno
io stesso.” Così ci avviammo tutti insieme, il
dottore, il padre della bambina, il nostro amico
ed io, e passammo il resto della notte a casa mia;
l’indomani, subito dopo colazione, ci recammo
in gruppo alla banca. Presentai l’assegno io stes-
so, dicendo che avevo motivo di credere che si
trattasse di una truffa. Nemmeno per idea: l’as-
segno era autentico.»
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«Ahi ahi», fece il signor Utterson.
«Vedo che la pensate come me», riprese il si-
gnor Enfield. «Già, proprio una brutta storia.
Perché il mio uomo era un tipo con cui nessuno
dovrebbe avere a che fare, un uomo davvero abo-
minevole; mentre la persona che aveva firmato
l’assegno è un modello di probità, anche celebra-
to, e (peggio ancora) uno di quei vostri amici de-
diti a fare il bene, per così dire. Un ricatto, sup-
pongo; un onest’uomo che si svena a furia di pa-
gare per qualche imprudenza di gioventù. Ecco
perché chiamo quella casa dietro la porta la Casa
del Ricatto. Benché anche questo sia lungi dallo
spiegare tutto», aggiunse, e così dicendo sembrò
perdersi nei propri pensieri.
Ne fu distolto da una repentina domanda del
signor Utterson: «E pensate che il titolare dell’as-
segno viva lì?».
«Un luogo grazioso, non è vero?» rispose il si-
gnor Enfield. «Ma ho notato di sfuggita l’indiriz-
zo: abita in una piazza da qualche altra parte.»
«E non avete mai investigato su… sulla casa
dietro quella porta?» disse il signor Utterson.
«Nossignore; mi sarebbe sembrato indiscreto»
fu la risposta. «Mi pesa molto fare domande; è
una cosa che assomiglia troppo al giorno del giu-
dizio. Fare una domanda è come far rotolare una
pietra. Ve ne state tranquillamente in cima a una
collina e la pietra precipita, colpendone altre; e
alla fine qualche mite vecchietto (l’ultimo essere
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a cui avreste pensato) è colpito in testa mentre
lavora nell’orto, e la famiglia è costretta a cam-
biare nome. Nossignore, me ne faccio una regola
di vita: più c’è puzza di bruciato, meno chiedo.»
«Ottima regola, in effetti», disse l’avvocato.
«Però ho studiato il posto per conto mio», pro-
seguì il signor Enfield. «Sembra a malapena una
casa. Non c’è un’altra porta, e nessuno entra o
esce tranne, molto di rado, il gentiluomo della
mia storia. Al primo piano ci sono tre finestre
che danno sul cortile, e nessuna a pianterreno; le
finestre sono sempre chiuse, ma in buono stato.
Poi c’è un camino che di solito fuma, sicché qual-
cuno deve pur viverci. Eppure nemmeno questo
è così sicuro, perché gli edifici sono talmente as-
siepati attorno al cortile che è difficile dire dove
uno finisca e l’altro incominci.»
La coppia continuò a camminare in silenzio;
poi il signor Utterson disse: «Enfield, quella vo-
stra regola è sacrosanta».
«Sì, credo anch’io», rispose Enfield.
«E tuttavia», seguitò l’avvocato, «c’è una cosa
che vorrei chiedervi. Vorrei conoscere il nome
dell’uomo che ha calpestato la bambina.»
«Beh», disse il signor Enfield, «non vedo cosa
c’è di male. Si chiama Hyde.»
«Uhm», fece il signor Utterson. «Che tipo di
uomo è?»
«Non è facile da descrivere. C’è qualcosa di
sbagliato nel suo sembiante; qualcosa di sgrade-
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vole, di più: qualcosa di detestabile. Non ho mai
incontrato nessuno che mi spiacesse tanto, anche
se non so nemmeno perché. Ci dev’essere in lui
qualcosa di deforme, sì, trasmette una forte im-
pressione di deformità, anche se non saprei speci-
ficarne i termini. Ha un aspetto sconcertante,
eppure non so indicare in lui nulla di anormale.
Nossignore: non ne vengo a capo, non riesco a
descriverlo. E non si tratta di un vuoto di memo-
ria, perché vi assicuro che è come l’avessi davanti
agli occhi in questo stesso momento.»
Il signor Utterson riprese a camminare in si-
lenzio, come oppresso dai propri pensieri.
«Siete sicuro che abbia usato una chiave?»
chiese alla fine.
«Mio caro signore…», incominciò Enfield,
preso alla sprovvista.
«Sì, lo so», disse Utterson, «so che sembra
strano. Il fatto è che se non vi chiedo il nome
dell’altro uomo è perché lo conosco già. Vedete,
Richard, il vostro racconto ha trovato in me l’a-
scoltatore giusto, in un certo senso. Se su qualche
punto siete stato impreciso fareste meglio a cor-
reggerlo.»
«Penso che avreste dovuto avvertirmi», repli-
cò l’altro con un pizzico di risentimento. «Ma so-
no stato esatto fino alla pedanteria, come avete
detto. Il tizio aveva una chiave; e soprattutto ce
l’ha ancora: l’ho visto usarla meno di una setti-
mana fa.»
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Il signor Utterson sospirò profondamente ma
non disse una parola; e il giovane subito riprese:
«Acqua in bocca, ecco un’altra lezione», disse.
«Mi vergogno della mia lingua lunga. Facciamo
un patto: non parliamone più.»
«Con tutto il cuore», disse l’avvocato. «Vi do la
mia parola, Richard.»
IN CERCA DEL SIGNOR HYDE
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M.D., D.C.L., L.D., F.R.S.2 ecc., tutti i suoi beni
dovessero andare al suo «amico e benefattore
Edward Hyde», ma che in caso di «scomparsa o
inesplicabile assenza» del dottor Jekyll «per un
periodo superiore a tre mesi», il suddetto Edward
Hyde sarebbe subentrato in tutto e per tutto al
suddetto Henry Jekyll senza ulteriori indugi e li-
bero da qualsiasi onere o debito al di là del paga-
mento di alcune modeste somme al personale
domestico del dottore.
Da tempo questo documento era per l’avvoca-
to un motivo di cruccio: lo offendeva sia come le-
gale sia come uomo amante di una condotta di
vita sana e regolare e convinto dell’inopportunità
di qualsiasi stravaganza. Fino a quel momento
era stata la sua ignoranza circa il signor Hyde a
suscitare la sua indignazione: ora, per un improv-
viso capovolgimento delle cose, era ciò che cono-
sceva di lui. Era già abbastanza spiacevole quan-
do quel nome non era altro che un nome di cui
non sapeva niente; ma fu peggio quando inco-
minciò ad essere associato a quegli odiosi conno-
tati; e dalle fluttuanti e vaghe nebbie che a lungo
avevano intralciato il suo sguardo, ora balzava
fuori all’improvviso la nitida sembianza di un de-
monio.
«Pensavo che si trattasse di pazzia», disse ripo-
2
Dottore in Medicina, Dottore in Legge (Common Law Doctor e
Doctor of Laws), Membro (Fellow) della Royal Society.
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nendo lo sgradevole incartamento nella cassafor-
te, «ma adesso incomincio a temere che ci sia di
mezzo un’infamia.»
Con ciò spense la candela con un soffio, indos-
sò un cappotto e uscì in direzione di Cavendish
Square, la cittadella medica, dove un suo amico,
il celebre dottor Lanyon, abitava e riceveva i suoi
numerosi pazienti. «Se c’è qualcuno che può sa-
perne qualcosa», pensava, «è Lanyon.»
Il solenne maggiordomo lo riconobbe e lo sa-
lutò; senza dover fare anticamera fu introdotto
direttamente nella sala da pranzo, dove il dottor
Lanyon sedeva in solitudine sorseggiando del vi-
no. Era un gentiluomo cordiale, vivace, vigoroso,
con le guance rosse e una zazzera precocemente
imbiancata, e modi chiassosi ed energici. Alla vi-
sta del signor Utterson balzò in piedi tendendogli
entrambe le mani. Tanta cordialità, tipica del suo
modo di fare, poteva sembrare un po’ teatrale,
ma nasceva da un sentimento genuino. Quei due
infatti erano vecchi amici, compagni sia a scuola
sia al college, entrambi fortemente rispettosi di se
stessi e l’uno dell’altro, e, cosa non sempre scon-
tata, godevano intensamente della reciproca
compagnia. Dopo qualche chiacchiera interlocu-
toria l’avvocato arrivò al punto che lo preoccupa-
va così penosamente.
«Suppongo, Lanyon», disse, «che noi due sia-
mo gli amici più vecchi rimasti a Henry Jekyll…»
«Vorrei che questi amici fossero più giovani»,
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ridacchiò il dottor Lanyon. «Ma penso che sia co-
sì. E con ciò? Ormai lo vedo pochissimo.»
«Davvero?», disse Utterson. «Pensavo che ave-
ste interessi comuni.»
«Li avevamo», fu la replica. «Ma sono più di
dieci anni che Henry Jekyll è diventato troppo
fantasioso per me. Ha preso una strada sbagliata,
sbagliata intellettualmente dico; e anche se conti-
nuo ad essere legato a lui per amore dei vecchi
tempi, come si suol dire, lo vedo e l’ho visto po-
chissimo. Queste sciocchezze pseudoscientifi-
che», aggiunse il dottore, diventando improvvisa-
mente rubizzo, «avrebbero allontanato perfino
Damone e Pizia.»
Quel breve accesso d’ira fu di un certo sollievo
per il signor Utterson. «Devono avere avuto delle
divergenze giusto su qualche questione scientifi-
ca», pensò; ed essendo un uomo privo di passioni
scientifiche (tranne che in materia di passaggi di
proprietà), si spinse a concludere: «Nulla di gra-
ve, allora!». Diede al suo amico pochi secondi
perché recuperasse la sua compostezza, quindi
affrontò l’argomento per il quale era venuto. «Vi
siete mai imbattuto in un suo protégé… un certo
Hyde?» chiese.
«Hyde?» ripeté Lanyon. «No, mai sentito in vi-
ta mia.»
Fu tutto quello che l’avvocato poté riportare
con sé al grande e scuro letto sul quale si rivoltò
da una parte e dall’altra senza posa, fino a quan-
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do le ore piccole del mattino incominciarono ad
ingrandirsi. Fu una notte di scarso riposo per la
sua mente in subbuglio, brancolante nella tene-
bra più fitta e assediata dagli interrogativi. Quan-
do le campane della chiesa, così comodamente
vicina all’abitazione del signor Utterson, suona-
rono le sei, egli stava ancora rimuginando sul
problema. Fino ad allora questo lo aveva interes-
sato solo dal punto di vista intellettuale, ma ora
vi era coinvolta – per non dire asservita – anche
la sua immaginazione; e mentre giaceva a letto
rivoltandosi nella spessa tenebra della notte, resa
ancora più fitta dai cortinaggi della camera, il
racconto del signor Enfield si dispiegò alla sua
mente in una successione di quadri luminosi. Ve-
deva la lunga fuga dei lampioni nella città nottur-
na; poi la sagoma di un uomo che camminava ve-
locemente; quindi una bambina che andava di
corsa a chiamare un dottore, finché i due si scon-
travano, e quello Juggernaut umano proseguiva
calpestandola, incurante delle sue grida. Oppure
vedeva una stanza in una casa lussuosa, dove il
suo amico dormiva sognando e sorridendo ai
propri sogni: poi però la porta di quella stanza si
apriva, le cortine del letto venivano scostate, il
dormiente veniva svegliato, e… ahi! accanto a lui
un personaggio a cui era stato concesso ogni po-
tere, e ai cui ordini egli doveva alzarsi anche a
quell’ora morta, e obbedirgli! In queste due ver-
sioni la figura ossessionò l’avvocato tutta la notte,
23
e se ogni tanto ci sonnecchiava sopra era solo per
vederla insinuarsi ancora più furtivamente per le
case addormentate, o muoversi sempre più rapi-
damente, sempre più rapidamente fino alla verti-
gine, attraverso i più vasti labirinti della città illu-
minata dai lampioni, e a ogni incrocio travolgere
una bambina e lasciarla a terra urlante. Ma anco-
ra la figura non aveva un volto dal quale potesse
essere riconosciuta; anche nei suoi sogni non ave-
va faccia, oppure ne aveva una che lo eludeva dis-
solvendosi davanti ai suoi occhi; fu così che nac-
que e montò nella mente dell’avvocato una fortis-
sima e quasi spasmodica curiosità di vedere le
fattezze del vero signor Hyde. Era convinto che,
se avesse potuto dargli anche una sola occhiata,
l’enigma si sarebbe chiarito e forse anche dissol-
to, come succede alle cose misteriose una volta
esaminate a fondo. Avrebbe trovato una spiega-
zione per quella strana predilezione – o legame,
chiamatelo come volete – e anche per le sconcer-
tanti disposizioni del testamento. Come minimo
sarebbe stata una faccia che valeva la pena di es-
sere vista: la faccia di un uomo incapace di com-
passione, la faccia a cui era bastato mostrarsi un
attimo per suscitare un senso di inestinguibile
odio nell’animo di un uomo poco impressionabi-
le come Enfield.
Da quel momento in poi, il signor Utterson in-
cominciò a tener d’occhio la porta nella stradina
dei negozi. Lo si poteva sorprendere alla sua po-
24
stazione di mattina prima dell’orario d’ufficio, a
mezzogiorno quando il lavoro urgeva e il tempo
scarseggiava, di notte al raggio della fosca luna di
città, con ogni luce e in ogni ora di solitudine o di
affollamento.
«Se lui è il signor Hyde», pensava, «io sarò il
signor Seek.»3
Alla fine la sua pazienza fu ripagata. Era una
bella serata serena, l’aria gelida, le strade pulite
come il pavimento di una sala da ballo; i lampio-
ni, immobili nell’aria senza vento, gettavano una
trama regolare di luce e ombra. Alle dieci, con i
negozi chiusi, la stradina era completamente de-
serta, e, a dispetto del sordo brusio di Londra
tutt’intorno, assolutamente silenziosa. Si coglie-
vano di lontano i suoni più lievi; ad entrambi i lati
della via si distinguevano chiaramente i rumori
domestici dalle case; e il suono dei passi precede-
va di un bel po’ chi si stesse avvicinando. Il signor
Utterson era in attesa da qualche minuto alla sua
postazione, quando sentì approssimarsi uno stra-
no scalpiccio. Nel corso dei suoi pattugliamenti
notturni si era abituato al curioso effetto per cui i
passi di un viandante, quando è ancora lontano,
emergono improvvisamente dal vasto mormorio e
brusio della città; eppure la sua attenzione non
era mai stata catturata in modo così perentorio e
deciso: si ritrasse nell’ingresso del cortile con il
3
Gioco di parole: to hide = nascondere, nascondersi, to seek = cercare.
25
netto e superstizioso presentimento che si trattas-
se della volta buona. I passi si avvicinavano velo-
cemente, e appena imboccarono la strada si fece-
ro improvvisamente più forti. Sporgendosi dall’in-
gresso, l’avvocato poteva ormai vedere con che
tipo d’uomo avrebbe avuto a che fare: era minuto,
vestito in modo ordinario; e il suo aspetto, anche
a quella distanza, contrastava fortemente con i
gusti dell’osservatore. Andò dritto verso la porta,
tagliando la strada per guadagnare tempo; e men-
tre si avvicinava estrasse di tasca una chiave come
fa chi sta per arrivare a casa.
Il signor Utterson si fece avanti, e mentre quel-
lo passava gli toccò una spalla. «Il signor Hyde,
dico bene?»
Il signor Hyde fece un balzo all’indietro ingo-
iando aria con un sibilo. Ma la sua paura durò
solo un attimo; e anche se non guardò in faccia
l’avvocato rispose alquanto freddamente: «È il
mio nome, sì. Cosa volete?».
«Vedo che state rientrando», rispose l’avvoca-
to. «Sono un vecchio amico del dottor Jekyll, il
signor Utterson di Gaunt Street, dovreste aver
già sentito il mio nome; e avendo avuto la ventu-
ra di incontrarvi pensavo che poteste farmi en-
trare.»
«Non trovereste il dottor Jekyll, non è in ca-
sa», replicò il signor Hyde infilando la chiave. Poi
di colpo, ma sempre senza guardarlo, chiese:
«Come fate a conoscermi?».
26
«In cambio», rispose il signor Utterson, «mi
fareste un favore?»
«Con piacere», replicò l’altro. «Di cosa si tratta?»
«Posso vedervi in faccia?» chiese l’avvocato.
Il signor Hyde sembrò esitare, poi, come per
un’improvvisa risoluzione, gli si mise di fronte
con aria di sfida; e per qualche secondo ciascuno
dei due tenne fisso lo sguardo sull’altro. «Ora vi
potrò riconoscere», disse il signor Utterson. «Po-
trebbe venir buono.»
«Sì», rispose il signor Hyde. «È un bene che ci
si sia incontrati; e à propos, tenete il mio indiriz-
zo.» E gli diede il numero di una via a Soho.
«Buon Dio!» pensò il signor Utterson, «che
anche lui abbia pensato al testamento?» Ma ten-
ne il sospetto per sé, limitandosi a bofonchiare
qualcosa per prendere atto dell’indirizzo.
«Allora», disse l’altro, «come mi conoscete?»
«Da una descrizione», fu la risposta.
«Una descrizione fatta da chi?»
«Abbiamo degli amici in comune», disse il si-
gnor Utterson.
«Amici comuni…», fece eco il signor Hyde
con la voce un po’ più roca. «Sarebbero?»
«Jekyll, per esempio», disse l’avvocato.
«Non può avervi detto niente, lui!» esclamò il
signor Hyde in un empito di rabbia. «Non vi cre-
devo capace di mentire!»
«Suvvia», disse il signor Utterson, «vi pare il
linguaggio adatto?»
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L’altro scoppiò in una risata selvaggia; e in un
baleno, con straordinaria rapidità, aprì la porta e
scomparve all’interno della casa.
Dopo essere stato piantato in asso dal signor
Hyde l’avvocato rimase un attimo fermo, il ritrat-
to vivente dell’inquietudine. Poi incominciò lenta-
mente a risalire la strada, arrestandosi ogni due o
tre passi e portandosi la mano alla fronte come
chi sia preda di un angoscioso rovello. Il problema
che stava affrontando sulla via del ritorno era di
un genere difficilmente risolvibile. Il signor Hyde
era pallido e rattrappito, dava un’impressione di
deformità pur non avendo nessuna particolare
malformazione, aveva un sorriso sgradevole, si
era comportato con l’avvocato con un misto de-
linquenziale di timidezza e arroganza, e parlava
con una voce roca, una specie di sussurro farfu-
gliante: tutti punti a suo sfavore, nessuno dei quali
però poteva spiegare il disgusto (di un’intensità
mai conosciuta prima), l’odio e la paura che il si-
gnor Utterson aveva provato guardandolo.
«Dev’esserci dell’altro», disse il gentiluomo,
perplesso. «C’è dell’altro, se solo potessi dargli
un nome! Dio mi perdoni, quell’uomo non sem-
bra nemmeno umano! Che abbia qualcosa di tro-
gloditico, diciamo? O si tratta della vecchia storia
del dottor Fell4? O è la mera emanazione di uno
4
Riferimento a una filastrocca satirica scritta dall’adolescente Tom
Browne nel 1680 contro il reverendo John Fell: «I do not like thee, doctor
Fell, / the reason why I cannot tell; / but this I know, and know full well, / I
28
spirito immondo che traspira dal proprio involu-
cro d’argilla, trasfigurandolo? L’ultima ipotesi,
credo; perché, mio povero vecchio Henry Jekyll,
se mai ho visto il marchio di Satana su un volto,
l’ho visto su quello del vostro nuovo amico!»
Svoltando l’angolo della stradina ci si trovava in
una piazza contornata da antiche e belle case, per-
lopiù decadute rispetto al loro prestigio, e affittate
per piano o per camera a ogni tipo di persone: car-
tografi, architetti, avvocatucoli e agenti di oscure
società. Una casa comunque, la seconda dall’ango-
lo, era ancora occupata nella sua originale interez-
za; giunto alla sua porta, che esibiva un’aria di pro-
sperità e di agio, anche se ora era immersa nell’o-
scurità a eccezione della lunetta sopra l’ingresso, il
signor Utterson si fermò e bussò. Venne ad aprire
un anziano servitore, vestito con eleganza.
«Il dottor Jekyll è in casa, Poole?», chiese l’av-
vocato.
«Vado a vedere, signor Utterson», rispose
Poole, e così dicendo introdusse il visitatore in
una grande e accogliente sala dal soffitto basso,
con il pavimento a mattonelle e riscaldata (come
usa in campagna) da un bel fuoco scintillante, e
arredata da una pregevole mobilia di quercia.
«Volete aspettare vicino al fuoco, signore? O vi
accendo un lume in sala da pranzo?»
do not like thee, doctor Fell» («Non mi piaci, dottor Fell, / non saprei dire
perché; / so sol che, e lo so ben, / non mi piaci, dottor Fell»).
29
«Va bene qui, grazie», disse l’avvocato, e si av-
vicinò al camino sporgendosi sull’alto parafuoco.
La sala in cui ora si trovava da solo era l’orgoglio
del suo amico dottore: lo stesso Utterson ne par-
lava come della stanza più accogliente di Londra.
Ma quella sera un brivido gli scorreva nelle vene;
la faccia di Hyde era pesantemente installata nel-
la sua memoria; sentiva (cosa rara in lui) nausea e
disgusto della vita; e con la sua cupezza credeva
di leggere una minaccia nel riflesso delle fiamme
sui lucidi arredi e nell’inquieto palpito dell’ombra
sul soffitto. Quando Poole tornò di lì a poco per
annunciare che il dottor Jekyll era uscito, si ver-
gognò del proprio sollievo.
«Ho visto il signor Hyde entrare nel vecchio
laboratorio anatomico, Poole», disse. «È norma-
le, quando il dottor Jekyll non è in casa?»
«Abbastanza normale, signor Utterson», ri-
spose il servitore. «Il signor Hyde ha una chiave.»
«Il vostro padrone sembra riporre molta fidu-
cia in quel giovanotto, Poole», riprese il dottore,
meditabondo.
«Sì signore, è così», disse Poole. «Tutti noi ab-
biamo l’ordine di obbedirgli.»
«Non credo di aver mai incontrato qui il signor
Hyde, o sbaglio?» chiese Utterson.
«Oh no, signore. Lui non pranza mai qui», re-
plicò il maggiordomo. «Di fatto in questa parte
della casa lo si vede pochissimo; perlopiù va e
viene dal laboratorio.»
30
«Bene, buonanotte Poole.»
«Buonanotte signor Utterson.»
L’avvocato uscì diretto a casa con il cuore ap-
pesantito. «Povero Henry Jekyll», pensò, «ho
paura che si trovi in un brutto pasticcio! Quando
era giovane ne avrà fatte di sciocchezze, sicura-
mente molto tempo fa; ma la legge di Dio non
prevede prescrizione... Sì, dev’essere così: lo spet-
tro di un antico peccato, il tormento di un’infa-
mia nascosta, e la punizione che arriva, pede
claudo5, anni dopo che la memoria ha dimentica-
to e l’amor proprio ha perdonato la colpa.»
Spaventato da questo pensiero, l’avvocato pre-
se a rimuginare sul proprio passato, frugando in
ogni angolo della memoria, non fosse mai che
un’antica colpa dovesse balzargli innanzi di col-
po come un pupazzo a molla. Ma il suo passato
era abbastanza immacolato: pochi uomini pote-
vano leggere nel libro della propria vita con mi-
nore apprensione; nondimeno riuscì ad avvilirsi
per l’ombra di tante azioni sbagliate, provando il
sollievo di una sobria e trepida gratitudine per
tutte quelle che era stato lì lì per fare e non aveva
fatto. Quindi, tornando all’argomento principale,
concepì un barlume di speranza.
«Se si indagasse sul suo conto», pensò, «anche
questo signor Hyde rivelerebbe dei segreti; segre-
5
«Con piede zoppo», «zoppicando». Citazione oraziana (Odi, III 2, 32-33):
Raro antecedentem scelestum deseruit pede / poena claudo («raramente la
giustizia, benché zoppicante, smette di inseguire il delinquente che fugge»).
31
ti neri, torbidi come lui; segreti in confronto ai
quali anche i peggiori del povero Jekyll sarebbe-
ro puri come un raggio di sole. Le cose non pos-
sono continuare ad andare avanti così. Mi gela il
sangue pensare a quell’essere che si insinua come
un ladro fino al capezzale di Henry; povero Hen-
ry, che risveglio! E che pericolo: perché se solo
Hyde sospetta l’esistenza del testamento, può di-
ventare impaziente di ereditare. Sì, devo metter-
mi all’opera… Sempre che Jekyll me lo permet-
ta», aggiunse, «sempre che Jekyll me lo permet-
ta.» Perché ancora una volta gli erano tornate in
mente, trasparenti come cristalli, le strane dispo-
sizioni del testamento.
IL DOTTOR JEKYLL
ERA ALQUANTO TRANQUILLO
33
grande competenza e gentilezza – avreste visto
dal suo sguardo quanto sincero e cordiale fosse il
suo affetto per il signor Utterson.
«Volevo parlarvi, Jekyll», incominciò quest’ul-
timo. «Avete presente il vostro testamento?»
Un attento osservatore avrebbe intuito che lo
spunto non era gradito; ma il dottore ne uscì con
disinvoltura. «Mio povero Utterson», disse, «siete
sfortunato ad avere un cliente così. Non ho mai vi-
sto nessuno preoccuparsi tanto del mio testamento
come voi; forse solo quel bigotto pedante di Lan-
yon, a proposito di quelle che definisce le mie ere-
sie scientifiche. Lo so, lo so, è una brava persona,
non guardatemi storto, un’ottima persona, e vorrei
vederlo più spesso; ma resta sempre un bigotto pe-
dante: un retrivo e sfacciato pedante. Non sono
mai stato deluso da qualcuno come da Lanyon.»
«Sapete che non l’ho mai approvato», proseguì
Utterson, troncando senza troppi riguardi l’ulti-
mo argomento.
«Il mio testamento? Sì, lo so», replicò il dotto-
re leggermente seccato. «Me lo avete già detto.»
«Ebbene ve lo ripeto», continuò l’avvocato.
«Sono venuto a sapere qualcosa del giovane
Hyde.»
Il bel viso del dottor Jekyll impallidì fino alle
labbra, e sui suoi occhi scese un’ombra. «Non vo-
glio ascoltare una parola di più», disse. «È una
questione che avevamo deciso di lasciar perdere,
mi sembra.»
34
«Quello che ho appreso è abominevole», disse
Utterson.
«Non cambia nulla. Voi non vi rendete conto
della mia posizione», rispose il dottore, con una
certa incoerenza. «Sono in una situazione peno-
sa, Utterson, una situazione molto strana, davve-
ro molto strana. È uno di quei casi che non si ri-
solvono certo parlandone.»
«Jekyll», disse Utterson, «voi mi conoscete, sa-
pete che potete fidarvi. Liberatevi di questo peso
confidandovi con me, e non dubitate che ve ne
tirerò fuori.»
«Mio caro Utterson», disse il dottore, «que-
sto è molto bello da parte vostra, davvero molto
bello, e non trovo le parole per ringraziarvi. Vi
credo in tutto e per tutto; mi affiderei a voi piut-
tosto che a qualsiasi altro, piuttosto che a me
stesso, se potessi scegliere; ma in ogni caso le
cose non stanno come immaginate, e non sono
così brutte; e giusto per tranquillizzare il vostro
buon cuore, vi dirò una cosa: mi potrei liberare
del signor Hyde nel momento stesso in cui lo vo-
lessi. Vi do la mia parola; e vi ringrazio ancora e
ancora; e aggiungerò solo una piccola cosa, Ut-
terson, che sono sicuro prenderete in senso buo-
no: è una questione privata, e vi prego di lasciar
perdere.»
Utterson rifletté un attimo, guardando il fuo-
co. «Sono sicuro che avete perfettamente ragio-
ne», disse alla fine alzandosi in piedi.
35
«Bene, ma dal momento che abbiamo accen-
nato a questa faccenda, spero per l’ultima volta»,
continuò il dottore, «c’è ancora un punto che vor-
rei farvi capire. Il povero Hyde mi sta molto a
cuore. So che lo avete visto: me lo ha detto; e ho
paura che sia stato sgarbato. Ma quel giovane mi
sta davvero molto a cuore; e quando io venissi a
mancare, Utterson, dovete promettermi di asse-
condarlo e di difendere i suoi diritti. Penso che lo
fareste, se conosceste tutto; e la vostra promessa
sarebbe un gran sollievo per me.»
«Non posso fingere che potrà mai piacermi»,
disse l’avvocato.
«Non chiedo tanto», supplicò Jekyll, posando
la mano sul braccio dell’altro. «Chiedo solo ciò
che è giusto. Vi chiedo solo di aiutarlo per amor
mio, quando non ci sarò più.»
Utterson emise un insopprimibile sospiro. «E
sia», disse, «lo prometto.»
IL CASO DEL DELITTO CAREW
37
che gli andava incontro; a quest’ultimo fece ini-
zialmente poca attenzione. Quando i due si tro-
varono a distanza da potersi parlare (cosa che
avvenne proprio sotto gli occhi della donna),
l’uomo più anziano accennò un inchino rivolgen-
dosi all’altro in modo estremamente educato.
Non sembra che l’argomento del colloquio fosse
molto importante: dai suoi gesti pareva che stesse
chiedendo un’indicazione stradale. Mentre parla-
va la luna gli illuminava il volto, e la ragazza lo
osservò con piacere, perché emanava una pacifi-
ca gentilezza d’altri tempi, con anche qualcosa di
aristocratico, come una fondata opinione di sé.
Subito dopo la donna spostò lo sguardo sull’al-
tro uomo, e si sorprese di riconoscere in lui un
certo signor Hyde, che una volta aveva fatto visita
al suo padrone, e per il quale aveva subito prova-
to avversione. Teneva in mano un pesante basto-
ne, con il quale stava giocherellando; ma non ri-
spose nemmeno una parola, e anzi sembrava
ascoltare con un’impazienza mal trattenuta. Poi
all’improvviso esplose in una vampata di rabbia,
battendo i piedi per terra, brandendo il bastone e
comportandosi, a quanto riferì la donna, come
un pazzo. L’anziano gentiluomo arretrò di un
passo, con l’aria molto sorpresa e leggermente of-
fesa; al che il signor Hyde perse il lume della ra-
gione e lo stese a terra con una bastonata. Un at-
timo dopo, con furia scimmiesca, stava calpe-
stando la sua vittima colpendola con una gra-
38
gnuola di colpi, sotto i quali si sentivano distinta-
mente le ossa che si rompevano e il corpo che
sobbalzava sulla via. All’orrore di quelle immagi-
ni e di quei suoni la donna svenne.
Quando riprese i sensi e chiamò la polizia era-
no le due. L’omicida si era già allontanato da
tempo, ma la sua vittima giaceva ancora in mez-
zo al vicolo, straziato in modo incredibile. Il ba-
stone con cui era stato commesso lo scempio, per
quanto fosse di un legno molto raro e molto soli-
do, era stato spezzato in due dal furore di quella
crudeltà insensata: un moncone scheggiato era
rotolato nel vicino canale di scolo, mentre l’altro
pezzo era stato sicuramente portato via dall’as-
sassino. Sulla vittima furono trovati un portamo-
nete e un orologio d’oro: ma nessun documento o
biglietto da visita, tolta una busta sigillata e af-
francata che il morto aveva verosimilmente l’in-
tenzione di imbucare, e sulla quale c’erano il no-
me e l’indirizzo del signor Utterson.
La busta fu consegnata all’avvocato il mattino
seguente, ancor prima che si alzasse dal letto.
Non appena la vide e gli furono riferite le circo-
stanze assunse un’aria grave. «Non dirò niente
finché non avrò visto il corpo», avvertì. «Può es-
sere una cosa molto seria. Abbiate la cortesia di
attendere che mi vesta.» E con la stessa inquietu-
dine si sbrigò a fare colazione e a recarsi alla sta-
zione di polizia, dove era stata trasferita la salma.
Appena entrò nella cella annuì.
39
«Sì», disse, «lo riconosco. Sono dolente di
dovervi informare che si tratta di sir Danvers
Carew.»
«Buon Dio, signore», esclamò l’ufficiale, «pos-
sibile?». Un attimo dopo il suo sguardo brillava
di ambizione professionale. «La cosa farà molto
rumore», disse. «E forse potete aiutarci a prende-
re quell’uomo.» Poi riferì succintamente cosa
aveva visto la donna, ed esibì il bastone spezzato.
Al nome di Hyde il signor Utterson era già trasa-
lito; ma quando gli fu fatto vedere il bastone, non
ebbe più dubbi: per quanto spezzato e pieno di
ammaccature, lo riconobbe come quello che egli
stesso aveva regalato a Henry Jekyll tanti anni
prima.
«Questo signor Hyde è di bassa statura?» chiese.
«Singolarmente minuto e con un’aria singolar-
mente malvagia, così lo descrive la donna», disse
l’ufficiale.
Il signor Utterson rifletté; poi, sollevando la te-
sta, disse: «Se volete seguirmi nella mia carrozza,
penso di potervi condurre alla sua abitazione».
Erano circa le nove di mattina, e c’era la prima
nebbia stagionale. Una cappa color cioccolato
gravava sul cielo, ma il vento sferzava in conti-
nuazione quelle vaporose falangi scagliandole
via; cosicché, mentre la carrozza arrancava da
strada a strada, il signor Utterson poté contem-
plare una meravigliosa varietà di tinte e sfumatu-
re di luce crepuscolare; qui infatti era scuro come
40
la sera che muore, mentre là c’era una spettrale e
livida incandescenza, e come la luce di una stra-
na conflagrazione; e ancora più in là, per un mo-
mento, la nebbia si dissolveva, e un pallido raggio
di luce balenava fra le sue vorticanti volute. Visto
sotto questi barlumi cangianti, il tetro quartiere
di Soho, con le sue strade fangose e i suoi sudici
viandanti, e i suoi lampioni, che non erano anco-
ra stati spenti o erano stati riaccesi per contrasta-
re quel luttuoso ritorno delle tenebre, sembrava,
agli occhi dell’avvocato, come il distretto di una
città da incubo. I suoi pensieri, inoltre, erano dei
più cupi; e quando sbirciò il suo compagno di
viaggio, percepì un po’ di quel terrore della legge
e dei suoi esecutori che a volte assale anche le
persone più oneste.
Quando la carrozza raggiunse l’indirizzo indi-
cato, la nebbia si alzò un poco e gli mostrò una
strada squallida, uno spaccio di gin, una modesta
trattoria francese, una rivendita di cianfrusaglie
e di ortaggi per pochi spiccioli, crocchi di ragaz-
zini cenciosi rannicchiati negli anditi, e molte
donne di differenti nazionalità uscite con le chia-
vi in mano per andare a farsi il primo goccio del-
la giornata; ma un attimo dopo, marrone come
terra bruciata, la nebbia ridiscese sul quartiere
tagliandolo fuori da quel circondario di malaffa-
re. Così era quella la casa del protetto di Henry
Jekyll; la casa di un uomo che avrebbe ereditato
un quarto di milione di sterline!
41
Aprì la porta una vecchia con la faccia gialla-
stra come l’avorio e i capelli argentei. Aveva un’a-
ria malvagia, mascherata dall’ipocrisia: ma i suoi
modi erano impeccabili. Sì, disse, era l’abitazione
del signor Hyde, ma non era in casa; quella notte
era rientrato molto tardi, ma nemmeno un’ora
dopo se n’era andato di nuovo; non c’era nulla di
strano in questo: le sue abitudini erano parecchio
irregolari, ed era spesso assente; per esempio,
prima di ieri erano quasi due mesi che non si fa-
ceva vedere.
«Molto bene; in tal caso, vorremmo dare
un’occhiata al suo appartamento», disse l’avvoca-
to; e quando la donna incominciò a protestare
che non era possibile, aggiunse: «Avrei fatto me-
glio a dirvi chi è questa persona. È l’ispettore
Newcomen, di Scotland Yard».
Un lampo di gioia velenosa apparve sul volto
della donna. «Ah!», fece, «è nei guai! Cos’ha
combinato?»
Il signor Utterson e l’ispettore si scambiarono
uno sguardo. «Non sembra godere di molte sim-
patie», osservò il secondo. «Ma adesso, brava
donna, lasciate che io e questo gentiluomo diamo
un’occhiata in giro.»
Di tutta l’estensione della casa, che tolta la
vecchia rimaneva per il resto vuota, il signor
Hyde occupava solo un paio di stanze: ma queste
erano arredate con lusso e buon gusto. Uno stipo
era pieno di bottiglie di vino; il vasellame era
42
d’argento, la tovaglia elegante; a una parete era
appeso un bel quadro, un dono (suppose Utter-
son) di Henry Jekyll, che era un intenditore; e i
tappeti erano folti e di colori gradevoli. In quel
momento, comunque, le stanze davano mostra di
essere state messe sottosopra in fretta e di recen-
te: gli abiti erano gettati sul pavimento con le ta-
sche rivoltate; i cassettoni a molla erano aperti; e
nel camino c’era un mucchio di cenere grigia, co-
me se vi fossero state bruciate molte carte. Dalla
cenere l’ispettore recuperò la matrice di un li-
bretto d’assegni verdastro, che aveva resistito
all’azione del fuoco; l’altra metà del bastone fu
rinvenuta dietro una porta; e poiché questo con-
fermava i suoi sospetti, l’ufficiale andò in solluc-
chero. Una visita alla banca, dove si scoprì che
sul conto dell’assassino c’erano diverse migliaia
di sterline, completò il suo compiacimento.
«Potete starne certo», disse al signor Utterson,
«ce l’ho in pugno. Deve aver perso la testa, altri-
menti non avrebbe lasciato lì il bastone né, so-
prattutto, bruciato il libretto degli assegni, per-
ché per quell’uomo il denaro è di vitale impor-
tanza. Non dobbiamo fare altro che aspettare che
torni in banca, e intanto distribuire i volantini
segnaletici.»
Questo piano, in ogni caso, non era di così fa-
cile esecuzione, perché il signor Hyde aveva po-
chi conoscenti, e anche il padrone della donna di
servizio lo aveva visto solo due volte; la sua fami-
43
glia non poteva essere rintracciata da nessuna
parte; lui non era mai stato fotografato; e i pochi
che potevano descriverlo dissentivano ampia-
mente, come capita agli osservatori casuali. Solo
su un punto concordavano: e cioè sull’ossessio-
nante senso di indefinibile deformità con cui il
fuggiasco aveva impressionato chi lo aveva visto.
L’EPISODIO DELLA LETTERA
45
laggio, e la luce scialba che scendeva dall’opaco
lucernario. In fondo, una rampa di scale portava
a una porta foderata di panno rosso, attraverso la
quale il signor Utterson fu finalmente ricevuto
nel gabinetto del dottore. Si trattava di una gran-
de stanza piena di teche, e dotata, fra le altre co-
se, di uno specchio basculante e un tavolo da la-
voro; tre finestre polverose munite di inferriata
davano sul cortile interno. Il fuoco ardeva sulla
grata; sulla mensola del camino c’era una lampa-
da accesa, perché la foschia incominciava ad ad-
densarsi perfino negli interni. Là, vicino al calo-
re, sedeva il dottor Jekyll, con l’aspetto di un uo-
mo mortalmente prostrato. Non si alzò a salutare
il suo visitatore, ma gli tese una mano fredda
dandogli il benvenuto con una voce che non sem-
brava la sua.
«Allora», disse il signor Utterson appena Poo-
le uscì, «avete sentito le novità?»
Il dottore rabbrividì. «Le urlavano in strada»,
disse. «Le ho sentite dalla sala da pranzo.»
«Solo una cosa», disse l’avvocato. «Carew era
mio cliente, ma lo siete anche voi, e vorrei sapere
come regolarmi. Non avrete fatto la follia di na-
scondere quel tipo?»
«Utterson, giuro davanti a Dio», esclamò il
dottore, «giuro davanti a Dio che non lo vedrò
più. Vi do la mia parola d’onore che ho chiuso
per sempre con lui. È tutto finito. In ogni caso
non ha bisogno del mio aiuto; voi non lo conosce-
46
te come lo conosco io; se è al sicuro, lo è definiti-
vamente; fidatevi di quel che dico, non si sentirà
più parlare di lui.»
L’avvocato ascoltava mestamente; non gli
piacevano i modi febbrili del suo amico. «Sem-
brate molto sicuro sul suo conto», disse, «e per
amor vostro spero che abbiate ragione. Se si ar-
riverà a un processo, potrebbe venir fuori il vo-
stro nome.»
«Sono sicurissimo», replicò Jekyll. «Ho degli
elementi di certezza che non posso condividere
con nessuno. Ma c’è una cosa sulla quale potete
aiutarmi. Io ho… ho ricevuto una lettera; e sono
indeciso se mostrarla o no alla polizia. Preferisco
affidarla alle vostre mani, Utterson; deciderete
voi per il meglio, ne sono sicuro; nutro per voi la
massima fiducia.»
«Avete paura che possa portare a rintracciar-
lo, immagino», chiese l’avvocato.
«No», disse l’altro. «Non posso certo dire che
mi importi di cosa può succedere a Hyde: ho
chiuso con lui. Stavo pensando alla mia reputa-
zione, che questa odiosa faccenda ha esposto non
poco.»
Utterson rifletté per qualche istante. Era sor-
preso e al tempo stesso sollevato dall’egoismo del
suo amico. «Bene», disse finalmente, «fatemi ve-
dere la lettera.»
La lettera era scritta con una strana grafia
verticale, e firmata «Edward Hyde»: e comuni-
47
cava, piuttosto succintamente, che il benefatto-
re del mittente, il dottor Jekyll, le cui mille ge-
nerosità erano state ripagate così indegnamen-
te, non doveva preoccuparsi per la sua salvezza,
dato che aveva delle vie di fuga sulle quali pote-
va contare con certezza. All’avvocato la lettera
fece molto piacere; metteva quella frequenta-
zione sotto una luce migliore di quanto avesse
giudicato; e si biasimò per qualche suo prece-
dente sospetto.
«Avete la busta?», chiese.
«L’ho bruciata», rispose Jekyll, «prima ancora
che mi rendessi conto di quel che facevo. Ma non
aveva francobollo: la lettera è stata recapitata a
mano.»
«Posso tenerla e dormirci sopra?», chiese Ut-
terson.
«Voglio che decidiate in tutto e per tutto al po-
sto mio», fu la risposta. «In me ormai ho perso
ogni fiducia.»
«Bene, ci penserò», disse l’avvocato. «Ma
adesso un’altra cosa: è stato Hyde a dettarvi la
disposizione testamentaria relativa alla vostra
sparizione?»
Il dottore sembrò colto da un mancamento;
tenne le labbra serrate e annuì.
«Lo sapevo», disse Utterson. «Aveva l’inten-
zione di uccidervi: l’avete scampata bella!»
«Se è per quello ho avuto ben altro», rispose il
dottore solennemente. «Ho avuto una lezione…
48
Buon Dio, Utterson, che lezione ho avuto!» Poi si
coprì la faccia con le mani per qualche istante.
Uscendo, l’avvocato si fermò a scambiare due
parole con Poole. «A proposito», disse «oggi han-
no recapitato una lettera: che aspetto aveva il la-
tore?» Ma Poole escluse categoricamente che fos-
se arrivato qualcos’altro oltre alla posta, e ag-
giunse: «E solo circolari».
Queste notizie fecero sì che il visitatore se ne
andasse nuovamente in preda ai timori. Evidente-
mente la lettera era passata per la porta del labo-
ratorio; forse era addirittura stata scritta nel gabi-
netto: se era così doveva essere valutata diversa-
mente, e trattata con la maggior prudenza possi-
bile. Mentre camminava, gli strilloni si sgolavano
a gridare lungo i marciapiedi: «Edizione speciale:
sconvolgente assassinio di un Membro del Parla-
mento!». Era l’orazione funebre di un amico e
cliente, e Utterson non poté evitare il timore che
il buon nome di un’altra persona fosse risucchiato
nel vortice dello scandalo. Doveva prendere una
decisione quantomeno scabrosa; e nonostante per
abitudine fosse un uomo sicuro di sé, incominciò
a sentire il bisogno di un consiglio. Non che lo si
potesse avere direttamente, ma forse, pensava, lo
si poteva provocare indirettamente.
Poco dopo sedeva a un lato del camino di casa
sua, con all’altro il signor Guest, il suo primo assi-
stente, e a metà strada, a una ponderata distanza
dal fuoco, una bottiglia di uno speciale vino in-
49
vecchiato che aveva a lungo riposato al buio nella
cantina di casa sua. La nebbia aleggiava ancora
sulla città sommersa, dove i lampioni brillavano
come rubini; mentre quelle nuvole cadute attuti-
vano e smorzavano la processione della vita citta-
dina che scorreva lungo le grandi arterie con il
suono di un vento potente. Ma la stanza era ralle-
grata dalla luce del fuoco. Nella bottiglia gli acidi
si erano sciolti da un pezzo; la tinta imperiale si
era ammorbidita con il tempo, così come diventa
più ricco il colore nelle vetrate istoriate; e la luce
dei caldi pomeriggi autunnali sui vigneti collinari
era pronta a sprigionarsi e a dissolvere le nebbie
di Londra. A poco a poco l’avvocato si rilassò.
Non c’era nessuno con il quale mantenesse meno
segreti del signor Guest, e anzi non era nemmeno
sicuro di averne mantenuti quanti credeva. Guest
si era spesso occupato degli affari del dottore; co-
nosceva Poole; era difficile che non avesse udito
della familiarità del signor Hyde con quella casa,
ed era dunque in grado di trarre delle conclusioni:
non era dunque il caso di mostrargli una lettera
che poteva chiarire quel mistero? Soprattutto per-
ché Guest, essendo un grande studioso ed esperto
di grafologia, avrebbe considerato quel passo co-
me naturale e dovuto. L’assistente, inoltre, era
una persona giudiziosa; difficilmente avrebbe let-
to un documento così strano senza fare un com-
mento; e da quel commento il signor Utterson si
sarebbe regolato sul da farsi.
50
«È una triste faccenda questa di sir Danvers»,
disse.
«Sì signore, indubbiamente. Ha scosso profon-
damente l’opinione pubblica», replicò Guest.
«Ovviamente quell’uomo era pazzo.»
«Mi piacerebbe avere la vostra opinione», se-
guitò Utterson. «Ho qui un documento scritto di
suo pugno; è una cosa che resta fra di noi, perché
non so ancora cosa farne; è veramente un brutto
affare. Ma eccolo qui, tutto per voi: l’autografo di
un assassino.»
Gli occhi di Guest brillarono: si sedette subito
e lo esaminò con grande interesse. «No signore»,
disse, «pazzo no; ma la grafia è strana.»
«E da tutti i punti di vista è molto strano an-
che lo scrivente», aggiunse l’avvocato.
Proprio in quel momento il domestico entrò
con una busta.
«È del dottor Jekyll, signore?» chiese l’assi-
stente. «Mi è parso di riconoscere la scrittura.
Qualcosa di privato, signor Utterson?»
«Solo un invito a pranzo, perché? Volete ve-
derlo?»
«Solo un momento. Grazie, signore.» L’im-
piegato dispose i due fogli di carta l’uno di fian-
co all’altro e ne confrontò il contenuto con dili-
genza. «Grazie, signore», disse alla fine, resti-
tuendoli entrambi. «È un autografo molto inte-
ressante.»
Ci fu una pausa, durante la quale il signor
51
Utterson combatté con se stesso. «Perché li avete
confrontati, Guest?» chiese all’improvviso.
«Ebbene, signore», rispose l’assistente, «c’è
una somiglianza molto singolare; in molti tratti la
mano è identica: cambia solo l’inclinazione.»
«Piuttosto strano.»
«Sì, come avete detto, è piuttosto strano», ri-
peté Guest.
«Capite che non vorrei divulgare questa lette-
ra», disse il titolare.
«Certo signore» disse l’assistente, «capisco.»
Quella sera, non appena rimase solo, il signor
Utterson chiuse la lettera nella sua cassaforte,
dove rimase da quel momento in poi. «Ma co-
me!», pensò, «Henry Jekyll che fa un falso a favo-
re di un assassino?» E il sangue gli si gelò nelle
vene.
IL GRAVE EPISODIO
DEL DOTTOR LANYON
53
nuova vita. Uscì dal proprio isolamento, riallac-
ciò le relazioni con gli amici, tornò ad essere il
loro cordiale ospite e intrattenitore. E mentre era
stato sempre conosciuto per la sua caritatevolez-
za, ora non si distingueva di meno per il fervore
religioso. Era sempre indaffarato, trascorreva
molto tempo all’aperto, faceva del bene; il suo
volto sembrava aprirsi e illuminarsi, come per
un’intima consapevolezza dei suoi doveri; e per
oltre due mesi il dottore visse in pace.
L’8 gennaio Utterson aveva pranzato dal dotto-
re insieme a pochi intimi, fra cui anche Lanyon. Lo
sguardo del padrone di casa si era spostato dall’u-
no all’altro come ai vecchi tempi, quando il terzet-
to era inseparabile. Il 12, e di nuovo il 14, l’avvocato
trovò la porta chiusa. «Il dottore è confinato in ca-
sa», disse Poole, «e non riceve nessuno.»
Il 15 tentò di nuovo, ma ancora gli fu negata la
visita; e avendo ormai preso l’abitudine, negli ul-
timi due mesi, di vedere il suo amico quasi ogni
giorno, questo ritorno alla solitudine gli pesava.
La quinta sera ebbe Guest a cena, e la sesta si
recò dal dottor Lanyon. Almeno là non gli sa-
rebbe stato negato l’ingresso; ma quando entrò,
rimase sconvolto dal cambiamento avvenuto
nell’aspetto del dottore. Gli si leggeva in volto la
sua sentenza di morte. Lui, solitamente così ro-
seo, era diventato pallido; la sua carne si era af-
flosciata; era visibilmente più calvo e più vec-
chio; eppure non furono tanto questi segni di un
54
rapido decadimento fisico a colpire l’attenzione
dell’avvocato, quanto una luce nello sguardo e
un modo di fare che sembravano testimoniare
un terrore profondamente insediato nella sua
mente. Era improbabile che il dottore temesse la
morte; eppure fu ciò che Utterson era portato a
sospettare. «Sì», pensò, «è un dottore, deve co-
noscere la propria condizione e sapere che ha i
giorni contati; e questa consapevolezza è più di
quanto possa sopportare.» Tuttavia quando Ut-
terson fece un commento sul suo brutto aspetto,
fu con grande dignità che Lanyon si dichiarò un
uomo condannato.
«Ho subìto un duro colpo», disse, «e non mi
riprenderò. È questione di settimane. Beh, la vita
è stata gradevole; mi piaceva; sì, vivere mi piace-
va. Ma a volte penso che se conoscessimo ogni
cosa, ce ne andremmo più volentieri.»
«Anche Jekyll è ammalato», osservò Utterson.
«Lo avete visto?»
Lanyon cambiò espressione, e sollevò una ma-
no tremebonda. «Non voglio più vedere il dottor
Jekyll o sentirne parlare», disse a voce alta ma
incerta. «Ho chiuso con quella persona; e vi pre-
go di risparmiarmi qualsiasi allusione a chi consi-
dero come morto.»
«Via, via», disse il signor Utterson; quindi, do-
po una considerevole pausa: «Posso fare qualco-
sa?» chiese. «Siamo tre vecchi amici, Lanyon;
non vivremo abbastanza per farcene degli altri.»
55
«Non c’è niente da fare», rispose Lanyon.
«Chiedete a lui.»
«Non mi riceverà», disse l’avvocato.
«Non mi sorprende», fu la replica. «Forse un
giorno, Utterson, quando sarò morto, verrete a
conoscenza di come stanno davvero le cose. Io
non posso dirvelo. Nel frattempo, se volete seder-
vi e parlare con me di altro, rimanete e fatelo, per
amor di Dio. Ma se non riuscite a evitare questo
maledetto argomento, allora andatevene, in no-
me di Dio, perché non posso sopportarlo.»
Appena rientrato a casa, Utterson si sedette a
scrivere a Jekyll, lamentando la propria esclusio-
ne da casa sua, e chiedendogli il motivo di
quell’incresciosa rottura con Lanyon. L’indomani
ricevette una lunga risposta, scritta con accenti
spesso molto patetici, e a tratti oscura e misterio-
sa. Lo screzio con Lanyon era insanabile. «Non
biasimo il nostro vecchio amico», scriveva Jekyll,
«ma condivido la sua decisione di non incontrarci
mai più. D’ora in poi ho intenzione di condurre
una vita estremamente appartata; non dovete
stupirvi, né dubitare della mia amicizia, se la mia
porta rimane spesso chiusa anche per voi. Dove-
te rassegnarvi a lasciarmi andare per la mia stra-
da di tenebra. Ho attirato su di me una punizione
e un pericolo che non posso nominare. Se sono il
primo dei peccatori, sono anche il primo dei dan-
nati. Non avrei mai pensato che sulla Terra ci fos-
se posto per patimenti e terrori così stremanti; e
56
per alleviare il mio destino potete fare una cosa
sola, Utterson, e cioè rispettare il mio silenzio.»
Utterson era sbalordito; la tetra influenza di
Hyde era scomparsa, il dottore era tornato alle
sue vecchie occupazioni e frequentazioni; solo
una settimana prima il futuro gli sorrideva con
tutte le promesse di una lieta e onorata vecchiaia;
e adesso in un attimo l’amicizia, e la tranquillità
della mente, e tutto il suo tenore di vita erano an-
dati in malora. Un cambiamento così vistoso e
repentino faceva pensare alla pazzia; ma alla luce
dei modi e delle parole di Lanyon doveva avere
una causa più profonda.
Una settimana dopo il dottor Lanyon si mise a
letto, e in poco meno di due altre settimane era
morto. La notte dopo il funerale, durante il quale
aveva provato una grande tristezza, Utterson
chiuse a chiave la porta del suo studio, e sedendo
alla luce di una malinconica candela tirò fuori e
pose davanti a sé una busta indirizzata dalla ma-
no dell’amico scomparso e chiusa con il suo sigil-
lo. «PERSONALE: da consegnare nelle mani
SOLO di G.J. Utterson, e in caso di suo pre-de-
cesso da distruggersi senza venir letta», così c’era
scritto sopra solennemente. L’avvocato aveva pau-
ra di leggerne il contenuto. «Oggi ho seppellito un
amico», pensò: «e se adesso questo passo dovesse
costarmene un altro?» Poi condannò quel timore
come una forma di slealtà, e ruppe il sigillo.
All’interno c’era un’altra busta, parimenti sigilla-
57
ta, sulla quale era scritto «Da non aprirsi fino alla
morte o alla sparizione del dottor Jekyll». Utter-
son non credeva ai propri occhi. Sì, si parlava di
sparizione: ancora una volta, come nel folle testa-
mento che già da tempo aveva restituito al suo au-
tore, ancora una volta l’idea di una sparizione as-
sociata al nome di Henry Jekyll! Ma nel testa-
mento quell’idea era stata suscitata dalla sinistra
suggestione di Hyde; vi era stata inserita con uno
scopo allo stesso tempo evidente ed orribile. Ma
scritta dalla mano di Lanyon, cosa poteva signifi-
care? Il curatore fu preso da una grande curiosità
di trasgredire al divieto e immergersi subito in
fondo a quei misteri; ma l’onore professionale e la
lealtà verso l’amico scomparso erano obblighi
stringenti; così l’involto tornò a riposare nell’an-
golo più riposto della sua cassaforte privata.
Ma un conto è resistere alla curiosità, un altro
sconfiggerla; e si può dubitare che da quel giorno
in avanti desiderasse con la stessa impazienza la
compagnia dell’amico sopravvissuto. Utterson
pensava a lui con affetto, ma i suoi pensieri erano
inquieti e spaventati; andava comunque a fargli
visita, ma era in qualche modo sollevato dal non
essere ricevuto; forse, in cuor suo, preferiva par-
lare con Poole sulla soglia, circondato dall’aria
aperta e dai rumori della città piuttosto che esse-
re introdotto in quella casa di confinamento vo-
lontario, e sedersi a conversare con il suo imper-
scrutabile eremita.
58
Poole, a dire il vero, non aveva belle notizie da
riferire. Il dottore, a quanto sembrava, rimaneva
chiuso più di prima nel gabinetto sopra il labora-
torio, dove a volte si fermava perfino a dormire;
era giù di corda, si era fatto taciturno, non legge-
va più; sembrava che avesse qualcosa in mente.
Utterson si abituò talmente all’immutabile teno-
re di questi bollettini, che a poco a poco diradò la
frequenza delle sue visite.
L’EPISODIO DELLA FINESTRA
61
anche da fuori la presenza di un amico gli giove-
rebbe.»
Il cortile era molto freddo e leggermente umi-
do, invaso com’era da un prematuro crepuscolo,
anche se il cielo, in alto, era ancora illuminato dal
tramonto. Delle tre finestre quella centrale era
semiaperta; dietro di essa, seduto a prendere una
boccata d’aria con un’infinita tristezza nell’e-
spressione, come un prigioniero sconsolato,
Utterson vide il dottor Jekyll.
«Oh, Jekyll!» gridò. «Spero che stiate meglio.»
«Sono sfinito, Utterson», rispose il dottore te-
tramente, «veramente sfinito. Non durerà a lun-
go, grazie a Dio.»
«State troppo chiuso in casa», disse l’avvocato.
«Dovreste uscire, stimolare la circolazione come
facciamo io e il signor Enfield (questi è mio cugi-
no; signor Enfield, il dottor Jekyll). Venite, pren-
dete il cappello e fatevi un giretto con noi.»
«Siete molto gentile», sospirò l’altro. «Mi pia-
cerebbe molto; ma no, no, no, è impossibile; non
oso. In ogni caso, Utterson, sono proprio conten-
to di vedervi; è davvero un grande piacere. Vi in-
viterei a salire con il signor Enfield, ma il luogo
non è dei più adatti.»
«Beh, allora», disse l’avvocato con cordialità,
«la cosa migliore che possiamo fare è rimanere
da basso e parlare con voi da qui.»
«È proprio quello che stavo per proporvi», ri-
spose il dottore con un sorriso. Ma non ebbe fini-
62
to di dirlo che il sorriso gli scomparve dalla fac-
cia per essere rimpiazzato da un’espressione di
tale abietto terrore e tale disperazione da gelare
il sangue dei due gentiluomini sottostanti. Fu
questione di un lampo, perché la finestra venne
chiusa all’istante, ma quel lampo era stato suffi-
ciente. Si voltarono e lasciarono il cortile senza
dire una parola. Sempre in silenzio attraversaro-
no la stradina; e non fu prima di arrivare ad un
viale adiacente, dove anche di domenica c’era
una certa animazione, che il signor Utterson si
girò finalmente verso il suo compagno e lo guar-
dò. Erano entrambi pallidi; e i loro sguardi si ri-
mandavano il medesimo orrore.
«Che Dio ci perdoni, che Dio ci perdoni», dis-
se il signor Utterson.
Il signor Enfield si limitò ad assentire molto
gravemente con un cenno del capo; quindi ripre-
se a camminare in silenzio.
L’ULTIMA NOTTE
65
Il suo aspetto confermava pienamente le sue
parole; i suoi modi erano cambiati, e in peggio; e
tolto il momento in cui aveva annunciato per la
prima volta il proprio terrore, non aveva mai
guardato in faccia l’avvocato. Anche adesso stava
seduto con il bicchiere di vino sulle sue ginocchia
senza berlo, lo sguardo fisso a un angolo del pavi-
mento. «Non ce la faccio più», ripeté.
«Su», disse l’avvocato, «capisco che avete dei
buoni motivi, Poole; capisco che c’è qualcosa
che proprio non va. Cercate di dirmi di cosa si
tratta.»
«Penso che ci sia stato un delitto», disse Poole
con voce roca.
«Un delitto!?» esclamò l’avvocato assai spa-
ventato, e dunque piuttosto incline ad irritarsi.
«Quale delitto? Cosa volete dire?»
«Non oso dirvelo, signore», fu la risposta. «Ma
perché non venite con me e vedete da voi stes-
so?»
Per tutta risposta il signor Utterson si alzò e
prese cappello e cappotto; ma si stupì nel vedere
un grande sollievo diffondersi sul volto del mag-
giordomo, e con altrettanto stupore notò che il
vino, quando quello mise giù il bicchiere per se-
guirlo, non era stato nemmeno toccato.
Era una tipica sera di marzo fredda e ventosa,
con una luna pallida, coricata sul dorso come se
il vento l’avesse inclinata, e una nuvolaglia che
sembrava fatta del tessuto più ondeggiante e leg-
66
gero. Il vento rendeva difficile parlare e arrossa-
va le guance. Sembrava anche che avesse spazza-
to le strade, insolitamente prive di passanti, e il
signor Utterson pensò che non aveva mai visto
così deserta quella parte di Londra. Avrebbe de-
siderato che non fosse così: mai in vita sua aveva
provato un desiderio così acuto dei suoi simili,
perché, per quanto avesse cercato di contrastarlo,
allignava nella sua mente l’opprimente presagio
di una catastrofe.
La piazza, quando vi arrivarono, era invasa
dal vento e dalla polvere, e gli esili alberi del giar-
dino sferzavano la cancellata con i rami. Poole,
che per tutto il cammino era stato avanti di un
passo o due, si fermò in mezzo al marciapiede, e
a dispetto del freddo pungente si tolse il cappello
e si asciugò la fronte con un fazzoletto rosso. Ma
nonostante la fretta della camminata, non erano
le gocce dello sforzo ad essere asciugate, ma il
madore di un’angoscia soffocante, perché la sua
faccia era bianca e la sua voce, quando parlò, ar-
rochita e rotta. «Bene signore», disse, «siamo ar-
rivati, e Dio non voglia che sia successo qualcosa
di brutto.»
«Amen, Poole», disse l’avvocato.
Dopodiché il domestico bussò in modo molto
guardingo; la porta si socchiuse fermata dalla ca-
tenella, e una voce domandò: «Poole, siete voi?».
«È tutto a posto», disse Poole, «aprite la porta.»
Quando entrarono, la sala era ben illuminata;
67
le fiamme erano alte; e tutta la servitù al comple-
to, uomini e donne, stava attorno al camino pi-
giata assieme come un gregge di pecore. Alla vi-
sta del signor Utterson, la cameriera scoppiò in
singhiozzi isterici; e la cuoca, esclamando «Bene-
detto Iddio, è il signor Utterson!» corse verso di
lui come se volesse abbracciarlo.
«Ma, ma…? Com’è che siete tutti qui?» disse
l’avvocato stizzito. «Molto bizzarro, molto scon-
veniente, il vostro padrone non ne sarebbe con-
tento!»
«Sono tutti spaventati», disse Poole.
Calò un silenzio di tomba, nessuno fiatava; so-
lo la cameriera faceva sentire la sua voce pian-
gendo sonoramente.
«Chiudi la bocca!» le disse Poole, con un tono
così duro che testimoniava quanto fossero scoper-
ti i suoi nervi; di fatto, quando la ragazza aveva
improvvisamente alzato il volume del suo lamen-
to, erano tutti sobbalzati voltandosi verso la porta
interna con l’espressione di chi si aspetta qualcosa
di terrificante. «E adesso», seguitò il maggiordo-
mo, rivolgendosi a un garzone, «portami una can-
dela, e vediamo di sistemare questa faccenda una
volta per tutte.» Poi chiese al signor Utterson di
seguirlo, e lo condusse al giardino sul retro.
«Ora, signore», disse, «fate più piano che pote-
te. Voglio che sentiate senza farvi sentire. E mi
raccomando, signore, se per caso vi chiedesse di
entrare, non lo fate.»
68
A questa imprevista conclusione i nervi del si-
gnor Utterson furono così scossi che quasi gli fe-
cero perdere l’equilibrio; ma recuperò il coraggio
e seguì il maggiordomo nel laboratorio passando
attraverso il teatro chirurgico, con il suo ammas-
so di casse e di bottiglie, fino ai piedi della scala.
Qui Poole gli fece cenno di mettersi a un lato del-
la scala e di ascoltare; quanto a lui, appoggiata
per terra la candela e con un grande e palese
sforzo di volontà, salì i gradini e bussò con mano
incerta sul panno rosso della porta del gabinetto.
«C’è il signor Utterson, signore, che chiede di
vedervi», disse; e mentre lo diceva fece ancora
cenni energici all’avvocato perché ascoltasse.
Dall’interno rispose una voce: «Riferitegli che
non posso ricevere nessuno», disse lamentosa-
mente.
«Grazie signore», disse Poole, quasi con una
nota di trionfo nella voce; e sollevando la cande-
la, ricondusse il signor Utterson attraverso il cor-
tile fino alla grande cucina, dove il fuoco era
spento e le blatte scorrazzavano sul pavimento.
«Signore», disse guardando il signor Utterson
negli occhi, «era la voce del mio padrone?»
«Sembrava molto cambiata», rispose l’avvoca-
to molto pallido, ma restituendo lo sguardo.
«Cambiata? Beh, direi proprio di sì!», disse il
maggiordomo. «Sono stato vent’anni in questa
casa, e potrei sbagliarmi sulla sua voce? No si-
gnore; il padrone è stato fatto fuori, è stato fatto
69
fuori otto giorni fa, quando lo abbiamo sentito
gridare il nome di Dio; ma chi c’è là dentro al
posto suo, e perché sta lì, è una cosa che grida
vendetta, signor Utterson!»
«È una storia davvero strana, Poole; anzi ami-
co mio, più che strana è folle», disse il signor Ut-
terson mordendosi un dito. «Poniamo che sia co-
me dite, poniamo che il dottor Jekyll sia stato…
va bene, sia stato ucciso, cosa può indurre l’assas-
sino a rimanere? È una cosa che non sta in piedi,
una cosa del tutto illogica.»
«Beh, signor Utterson, siete un uomo difficile
da convincere, ma ci riuscirò», disse Poole. «Per
tutta la settimana scorsa (sappiatelo) lui, o esso,
qualsiasi cosa sia a vivere in quel gabinetto, ha
continuato a gridare chiedendo giorno e notte un
certo farmaco che poi non gli andava mai bene.
A volte aveva l’abitudine – il padrone, dico – di
scrivere le sue richieste su un foglio di carta che
poi lasciava cadere sulle scale. Questa settimana
non c’è stato altro; nulla che non fossero i fogliet-
ti, la porta chiusa e giusto i pasti lasciati lì perché
li ritirasse quando nessuno poteva guardarlo. Eb-
bene signore, ogni giorno, ahimè, e anche due o
tre volte nella stessa giornata, ci sono stati ordi-
nativi e lamentele, e io sono stato spedito da tutti
i grossisti di forniture chimiche. Ogni volta che
riportavo il prodotto, un altro foglietto mi ingiun-
geva di tornare indietro perché la sostanza non
era pura, con un altro ordinativo a una ditta di-
70
versa. A qualsiasi cosa gli serva, vuole quel far-
maco ad ogni costo.»
«Avete qualcuno di quei foglietti?» chiese il si-
gnor Utterson.
Poole si cercò in tasca e tirò fuori un biglietto
tutto spiegazzato, che l’avvocato, chinandosi sulla
candela, esaminò con cura. Recitava così: «Il dot-
tor Jekyll porge i suoi saluti ai signori Maw. Li
assicura che il loro ultimo campione è impuro e
al tutto inutile per i suoi attuali scopi. Nell’anno
18.. il dottor J. ne acquistò un discreto quantitati-
vo dai signori M. Ora li prega di cercare con la
cura più meticolosa, e nel caso rimanga qualcosa
della stessa qualità, di farglielo avere immediata-
mente. Il prezzo non è un problema. L’importan-
za della fornitura per il dottor J. difficilmente
può essere sopravvalutata». Fin qui il testo era
stato scritto abbastanza ordinatamente, ma a
questo punto, con un’improvvisa sbavatura della
penna, l’emozione dello scrivente aveva preso il
sopravvento. «Per l’amor di Dio», aggiungeva,
«trovatemene un po’ di quella dell’altra volta.»
«È uno strano biglietto», disse il signor
Utterson; poi, seccamente: «Com’è che lo avete
aperto?».
«Il commesso dei Maw era furibondo, e me lo
ha tirato dietro come fosse carta straccia», rispo-
se Poole.
«Questa è fuor di dubbio la grafia del dottore,
no?», riprese l’avvocato.
71
«Pensavo che le assomigliasse», disse il dome-
stico un po’ scontrosamente; poi, con un altro to-
no di voce: «Ma cosa importa la grafia?» disse.
«Io l’ho visto!»
«Visto?» ripeté il signor Utterson. «E allora?»
«E allora ecco!» disse Poole. «È andata in
questo modo. Dal giardino sono entrato di colpo
nel teatro anatomico. A quanto pare era sguscia-
to fuori per vedere se arrivava questo farmaco o
che altro fosse, perché la porta del gabinetto era
aperta, e lui si trovava in fondo allo stanzone in-
tento a frugare tra le casse. Quando entrai alzò lo
sguardo, emise una specie di strillo, e si lanciò su
per le scale infilandosi nel suo gabinetto. L’avrò
visto per non più di un minuto, ma i capelli mi si
rizzarono sulla testa come aculei. Signore, se
quello era il mio padrone, perché aveva una ma-
schera in faccia? Se era il mio padrone, perché ha
squittito come un topo correndo via da me? L’ho
servito per tanto tempo, e adesso…» L’uomo si
interruppe e si passò la mano sul volto.
«Queste circostanze sono veramente strane»,
disse il signor Utterson, «ma credo di incomin-
ciare a intravedere la luce. È ovvio che il vostro
padrone, Poole, è afflitto da una di quelle malat-
tie che tormentano e deformano il paziente; da
qui, a quanto capisco, l’alterazione della sua voce;
da qui la maschera e la fuga dai suoi amici; da qui
la sua impazienza di avere quel farmaco, nel qua-
le il disgraziato ripone le sue ultime speranze di
72
guarigione… Voglia Dio che non si inganni! Ec-
co la mia spiegazione: è piuttosto triste, Poole, sì,
e molto dolorosa da prendere in considerazione;
ma è semplice e naturale, dà conto di tutto, e ci
libera da allarmi ingiustificati.»
«Signore», disse il maggiordomo, diventando
pallido a chiazze, «quella cosa non era il mio pa-
drone, questa è la verità. Il mio padrone» – qui si
guardò intorno e ridusse la voce a un bisbiglio –
«è alto, ben fatto, e quello era poco più di un na-
no.» Utterson fece per protestare. «Signore»,
esclamò Poole, «pensate che dopo vent’anni io
non riconosca il mio padrone? Pensate che non
sappia a che altezza arriva la sua testa quando
passa per la porta del gabinetto, dove l’ho visto
ogni mattina della mia vita? No signore, quella
cosa mascherata non poteva in alcun modo esse-
re il dottor Jekyll… Sa Dio cos’era, ma non era il
dottor Jekyll; e sono fermamente convinto che ci
sia stato un omicidio.»
«Poole», replicò l’avvocato, «se dite così, sarà
mio dovere accertarmene. Pur desiderando ri-
spettare i sentimenti del vostro padrone, pur
sconcertato da questo biglietto che sembra dimo-
strare che è ancora vivo, considererò mio dovere
forzare quella porta.»
«Ah, signor Utterson, questo sì che è parlare!»
esclamò il maggiordomo.
«Così siamo alla domanda successiva», riprese
Utterson: «Chi lo farà?».
73
«Beh, voi ed io, signore», fu l’impavida risposta.
«Ben detto», replicò l’avvocato. «E qualunque
cosa succeda, mi impegno perché non dobbiate
pentirvene.»
«Nel teatro anatomico c’è un’ascia», continuò
Poole. «E per voi potete prendere l’attizzatoio
della cucina.»
L’avvocato afferrò quel rudimentale e pesante
strumento, e lo bilanciò. «Sapete, Poole», disse,
alzando la testa, «che voi ed io rischiamo di tro-
varci in una situazione pericolosa?»
«Potete ben dirlo, signore, certo», rispose il
maggiordomo.
«Bene, allora dobbiamo essere franchi», disse
l’altro. «Tutti e due abbiamo in mente più di
quanto ci siamo detti; parliamoci chiaro: questa
figura mascherata di cui parlate, l’avete ricono-
sciuta?»
«Beh, signore, è successo tutto così in fretta, e
quell’essere era tutto ingobbito in avanti, che fa-
rei fatica a giurarlo», fu la risposta. «Ma se inten-
dete dire che fosse il signor Hyde… allora sì, era
lui! Vedete, aveva la stessa corporatura; e la stes-
sa velocità e leggerezza; e poi, chi altri poteva en-
trare qui passando dalla porta del laboratorio?
Non avrete dimenticato, signore, che all’epoca
del delitto aveva ancora la chiave? E non è tutto.
Io non so, signor Utterson, se abbiate mai incon-
trato questo signor Hyde.»
«Sì», disse l’avvocato, «una volta gli ho parlato.»
74
«Allora dovreste sapere come tutti noi che c’e-
ra in lui qualcosa di bizzarro – qualcosa che ti
sconvolgeva – non so bene come dirlo, signore, se
non così: che vi sentivate una puntura fredda e
sottile nelle ossa.»
«Ammetto di aver provato qualcosa di simile
a quello che descrivete», disse il signor Utterson.
«Proprio così», proseguì Poole. «Bene, quando
quella cosa mascherata si è lanciata nel gabinetto
saltando come una scimmia fra le apparecchiatu-
re chimiche, mi si è gelata la spina dorsale. Oh, lo
so che non è una prova, signor Utterson, sono ab-
bastanza istruito per saperlo; ma un uomo ha le
proprie sensazioni, e vi giuro sulla Bibbia che era
il signor Hyde!»
«Sì», disse l’avvocato. «Le mie paure mi porta-
no alla stessa conclusione. Temo che il male su
cui quella relazione si fondava abbia portato altro
male. Sì, in verità vi credo; credo che il povero
Harry sia stato ucciso; e credo che il suo assassi-
no (a quale scopo, solo Dio può dirlo) sia ancora
rintanato nella stanza della sua vittima. Bene,
che il nostro nome sia Vendetta. Chiamate
Bradshaw.»
Il cameriere rispose alla chiamata: era molto
pallido e nervoso.
«Calmatevi, Bradshaw», disse l’avvocato. «Lo
so, quest’attesa vi opprime tutti; ma ora è nostra
intenzione darci un taglio. Poole ed io stiamo per
fare irruzione nel gabinetto. Se tutto va bene, le
75
mie spalle sono abbastanza larghe da sopportare
il biasimo. Intanto, nel caso qualcosa dovesse an-
dar male, o qualche delinquente cercasse di scap-
pare dal retro, voi e il ragazzo girate l’angolo e
appostatevi alla porta del laboratorio con un pa-
io di buoni randelli. Vi diamo dieci minuti per
raggiungere la vostra postazione.»
Appena Bradshaw uscì, l’avvocato guardò il
proprio orologio. «E ora, Poole, ai nostri posti»,
disse; e tenendo l’attizzatoio sotto il braccio fece
strada attraverso il cortile. Le nuvole avevano co-
perto la luna, ed ora era quasi buio. Il vento, che si
ingolfava nelle profondità dell’edificio a soffi e a
folate, agitava la luce della candela di qua e di là
davanti ai loro passi, finché arrivarono al riparo
nel teatro, dove rimasero in silenzio ad aspettare.
Tutt’intorno Londra brusiva solennemente; ma
più vicino il silenzio era rotto solo da uno scalpic-
cio avanti e indietro sul pavimento del gabinetto.
«Cammina così tutto il giorno, signore», bisbi-
gliò Poole. «Sì, e la maggior parte della notte. C’è
un attimo di requie solo quando arriva un nuovo
campione dalla farmacia. È la cattiva coscienza
che non gli dà tregua! Ah, signore, ognuno dei
suoi passi è macchiato di sangue scelleratamente
versato! Ma ascoltate ancora, un po’ più vicino,
ascoltate con il cuore, signor Utterson, e ditemi
se è l’andatura del dottore.»
I passi avevano una leggera e strana cadenza,
come una specie di dondolio, benché si susseguis-
76
sero lentamente; certo erano diversi dalla pesante
e rumorosa andatura di Henry Jekyll. Utterson
sospirò. «Non c’è nient’altro?» chiese.
Poole annuì. «Una volta», disse, «una volta
l’ho sentito piangere.»
«Piangere? In che modo?» disse l’avvocato,
provando un immediato brivido di orrore.
«Piangeva come una donna o un’anima per-
sa», disse il maggiordomo. «Me ne sono andato
con quel pianto nel cuore, tanto che stavo per
piangere anch’io.»
Ma ora i dieci minuti stavano scadendo. Poole
tirò fuori l’ascia da sotto un mucchio di paglia da
imballaggio; la candela fu posta sul tavolo più vi-
cino per far luce al momento dell’attacco; e si av-
vicinarono trattenendo il fiato a dove quegli in-
stancabili passi continuavano ad andare avanti e
indietro, avanti e indietro nella quiete notturna.
«Jekyll», gridò Utterson in tono imperioso,
«vorrei vedervi». Rimase un attimo in silenzio,
ma non giunse risposta. «Vi avverto lealmente,
abbiamo dei sospetti, io devo vedervi e vi vedrò»,
riprese. «Se non con le buone, con le cattive… Se
non con il vostro consenso, con la forza!»
«Utterson», disse una voce, «per l’amor di Dio,
abbiate pietà!»
«Ah, questa non è la voce di Jekyll… è quella di
Hyde!» esclamò Utterson. «Giù la porta, Poole!»
Poole roteò l’ascia sopra le sue spalle; il col-
po fece rintronare l’edificio, e la porta foderata
77
di panno rosso sobbalzò contro la serratura e i
cardini. Dal gabinetto provenne un grido ango-
sciato, come di terrore animale allo stato puro.
L’ascia fu sollevata un’altra volta, e ancora i
pannelli si creparono e il telaio vacillò; quattro
volte il colpo si abbatté; ma il legno era duro e
la ferramenta di ottima fattura; e non fu prima
del quinto che la serratura cedette e i frantumi
della porta rovinarono all’interno sul tappeto.
Sgomentati dalla loro stessa violenza e dalla
calma che ne seguì, gli assalitori si ritrassero
per un attimo sbirciando all’interno. Ai loro
occhi apparve il gabinetto nella luce ferma di
una lampada, un fuoco che ardeva vigoroso e
crepitava nel camino, il bollitore che emetteva
il suo sibilo acuto, due o tre cassetti aperti, del-
le carte disposte in buon ordine sulla scrivania,
e accanto al fuoco l’occorrente per il tè; la più
tranquilla delle stanze, avreste detto, e, se non
fosse stato per le teche ricolme di apparecchi
chimici, il luogo più normale in quella notte
londinese.
Proprio nel mezzo c’era il corpo di un uomo
orribilmente contorto, ma ancora fremente. Si
avvicinarono in punta di piedi, lo voltarono sulla
schiena e videro il volto di Edward Hyde. Indos-
sava un abito troppo grande per lui, un abito del-
la taglia del dottore; i muscoli della sua faccia si
muovevano ancora con una parvenza di vita, ma
la vita se n’era già andata; e dalla fiala spezzata in
78
una mano e dal forte odore di mandorle stagnan-
te nell’aria, Utterson capì che stava osservando il
corpo di un suicida.
«Siamo arrivati troppo tardi», disse gravemen-
te, «sia per salvare sia per punire. Hyde è andato
a render conto dei suoi peccati: ci resta da trovare
il corpo del vostro padrone.»
La maggior parte del fabbricato era occupata
dal teatro anatomico, che prendeva quasi tutto il
pianterreno ed era illuminato da un lucernario,
e dal gabinetto, che a un’estremità formava un
soppalco e guardava sul cortile. Partendo dalla
porta sulla strada, dopo alcuni gradini un corri-
doio immetteva al teatro anatomico, e tramite
una seconda rampa di scale comunicava separa-
tamente con il gabinetto. C’erano poi alcuni ri-
postigli ciechi e un ampio scantinato. Tutti que-
sti spazi vennero perlustrati accuratamente.
Ogni ripostiglio non richiese più di un’occhiata,
perché erano tutti vuoti, e tutti, stando alla pol-
vere che veniva giù aprendone le porte, erano
stati chiusi per lungo tempo. Lo scantinato, in-
vece, era stracolmo delle più incredibili cianfru-
saglie, perlopiù risalenti all’epoca del chirurgo
che aveva preceduto Jekyll; ma appena ne apri-
rono la porta, la caduta di una vera e propria
coltre di ragnatele che per anni avevano sigillato
l’entrata li convinse dell’inutilità di ulteriori ri-
cerche. Da nessuna parte traccia di Henry
Jekyll, né vivo né morto.
79
Poole batté i piedi sulle mattonelle del corri-
doio. «Dev’essere sepolto qui sotto», disse, facen-
do attenzione al suono.
«Oppure è fuggito», disse Utterson, e andò ad
esaminare la porta sulla stradina. Era chiusa a
chiave; lì vicino, sulle mattonelle, trovarono la
chiave, già macchiata di ruggine.
«Non sembra che sia stata usata», commentò
l’avvocato.
«Usata!» fece eco Poole. «Signore, non vedete
che è rotta? Proprio come se qualcuno ci avesse
pestato sopra.»
«Ahi», seguitò Utterson, «è arrugginita an-
che sulla rottura.» I due uomini si scambiarono
uno sguardo spaventato. «Questo è troppo per
me, Poole», disse l’avvocato. «Torniamo nel ga-
binetto.»
Salirono le scale in silenzio, e dopo aver getta-
to un’occhiata sgomenta al cadavere procedette-
ro a esaminare con più cura quello che il gabinet-
to conteneva. Su un tavolo, dove c’erano tracce di
operazioni chimiche, diverse dosi di un sale bian-
castro erano disposte su piattini di vetro, come
per un esperimento che l’infelice dottore non
avesse potuto portare a termine.
«Questo è lo stesso preparato che gli portavo
sempre», disse Poole; e proprio mentre lo diceva
l’acqua traboccò dal bollitore facendoli trasalire.
Istintivamente quindi si avvicinarono al camino,
dove la poltrona era sistemata comodamente, con
80
l’occorrente per il tè a portata di mano di chi si
fosse seduto, lo zucchero già nella tazza. Su uno
scaffale c’erano diversi libri; uno di essi era aper-
to accanto al servizio da tè, e Utterson fu sorpre-
so nello scoprire che si trattava di un testo devo-
zionale, per il quale Jekyll aveva più volte espres-
so grande considerazione, postillato di suo pugno
con le più atroci bestemmie. Poi, nel corso della
loro esplorazione della stanza, arrivarono allo
specchio basculante, nelle cui profondità guarda-
rono con involontario orrore. Ma era inclinato in
modo da mostrar loro solo i rosei giochi di luce
sul soffitto, il bagliore del fuoco moltiplicato cen-
tinaia di volte sul vetro delle teche, e il pallido e
spaventato sembiante di loro due protesi in avanti
per guardare.
«Questo specchio deve averne viste di cose
strane, signore», bisbigliò Poole.
«Di sicuro nessuna più strana dello specchio
stesso», fece eco l’avvocato nello stesso tono. «Ma
Jekyll…» A questa parola ebbe un sussulto; poi,
vincendo la propria debolezza, aggiunse: «Ma co-
sa poteva farsene Jekyll?».
«Potete ben dirlo!» commentò Poole.
Si dedicarono quindi alla scrivania. Sul piano,
sopra a una gran quantità di carte bene ordinate,
c’era una grossa busta sulla quale, di mano del
dottore, era scritto il nome del signor Utterson.
L’avvocato la aprì, e ne caddero per terra diversi
allegati. Il primo era un testamento, redatto negli
81
stessi termini stravaganti di quello che aveva re-
stituito sei mesi prima: stabiliva le ultime volontà
in caso di morte, e valeva da lascito in caso di
scomparsa; ma al posto del nome di Edward
Hyde l’avvocato, con indescrivibile stupore, lesse
il nome di Gabriel John Utterson. Guardò Poole,
poi di nuovo il foglio, e per ultimo il malvivente
morto riverso sul tappeto.
«Mi scoppia la testa», disse. «Ne è stato in pos-
sesso tutti questi giorni; non poteva certo avere
simpatie per me; dev’essersi infuriato non poco a
vedersi rimpiazzato: eppure non ha distrutto que-
sto documento.»
Prese il foglio successivo; si trattava di un bre-
ve biglietto di pugno del dottore, con in cima la
data. «Oh Poole!» esclamò l’avvocato. «Oggi era
vivo ed era qui! Non può essere stato fatto spari-
re in così poco tempo; dev’essere ancora vivo,
dev’essere fuggito! Ma poi, perché fuggire? E co-
me? E in tal caso, possiamo azzardarci a definire
questo un suicidio? Oh, dobbiamo esser cauti.
Temo che potremmo coinvolgere il vostro padro-
ne in una tremenda sciagura.»
«Perché non lo leggete, signore?» chiese Poole.
«Perché ho paura», rispose l’avvocato grave-
mente. «Voglia Dio che non ne abbia motivo!» E
con ciò si portò il foglio davanti agli occhi e lesse
quanto segue:
82
Mio caro Utterson, quando questa mia sarà
nelle vostre mani, io sarò scomparso, in quali cir-
costanze non sono in grado di prevedere, ma l’i-
stinto e ogni frangente della mia innominabile
situazione mi dicono che la fine è certa e che ar-
riverà presto. Coraggio allora, e prima leggete il
resoconto che Lanyon mi ha assicurato di volervi
rimettere; se poi vi preme saperne di più, passate
alla confessione del vostro indegno e infelice
amico
HENRY JEKYLL
10 dicembre 18..
Caro Lanyon,
siete uno dei miei amici di più vecchia data; e an-
che se a volte possiamo avere avuto delle diver-
genze in campo scientifico, non ricordo, almeno
da parte mia, crepe nel nostro affetto. Non c’è
stato un solo giorno in cui, se mi aveste detto
85
«Jekyll, la mia vita, il mio onore, il mio senno di-
pendono da voi», io non mi sarei tagliato una ma-
no per aiutarvi. Lanyon, la mia vita, il mio onore,
il mio senno, tutto è alla vostra mercé; se questa
notte mi viene meno il vostro aiuto sono finito.
Dopo questo esordio potreste pensare che sto
per chiedervi qualcosa di ignobile. Giudicate voi.
Vorrei che per questa sera rimandiate ogni al-
tro impegno, sì, foste anche chiamato al capezza-
le di un imperatore; che prendiate una carrozza,
a meno che il vostro calesse non sia già in strada;
e veniate direttamente a casa mia con in mano
questa lettera perché vi sia di istruzione. Poole, il
mio maggiordomo, è già stato avvisato; al vostro
arrivo lo troverete con un fabbro. La porta del
mio gabinetto dovrà essere forzata, e dovrete en-
trarci da solo; quindi dovrete aprire la teca sulla
sinistra (lettera E), e se fosse chiusa romperne la
serratura; e prelevarne, con tutto il suo contenuto
così come si trova, il quarto cassetto dall’alto o,
che è lo stesso, il terzo dal basso. Nel mio stato di
angoscia estrema ho una paura morbosa di darvi
indicazioni sbagliate; ma anche se mi sbagliassi,
potrete riconoscere il cassetto giusto dal suo con-
tenuto: alcune polveri, una fiala e un quaderno.
Vi prego di portare con voi questo cassetto a Ca-
vendish Square esattamente come si trova.
Questa è la prima parte del favore che vi chie-
do: vengo ora alla seconda. Se uscite appena rice-
vuta questa lettera, dovreste essere di ritorno
86
molto prima di mezzanotte; ma vi lascerò questo
margine, non solo per paura di quei contrattempi
che non possono essere né prevenuti né previsti,
ma anche perché per quel che rimane da fare è
preferibile un’ora in cui la vostra servitù sia a
dormire. A mezzanotte, dunque, vi devo chiede-
re di trovarvi da solo nel vostro ambulatorio, di
ricevere personalmente l’uomo che si presenterà
a mio nome, e di consegnare nelle sue mani il
cassetto che avrete portato con voi dal mio gabi-
netto. Così avrete svolto il vostro compito e vi sa-
rete guadagnata tutta la mia gratitudine. Cinque
minuti dopo, se insistete per una spiegazione, ca-
pirete che queste misure sono di capitale impor-
tanza; e che trascurandone anche una sola, per
quanto stramba vi possa sembrare, potreste avere
sulla coscienza la mia morte o il naufragio della
mia ragione.
Fiducioso come sono che non prenderete que-
sta richiesta alla leggera, sento un tuffo al cuore e
mi trema la mano solo a pensare a questa even-
tualità. Pensate a me in questo momento, in uno
strano luogo, oppresso da un’angoscia così nera
che nessuna immaginazione potrebbe ingigantir-
la, eppure consapevole che, se mi soccorrerete
con puntualità, i miei guai si dilegueranno come
una storia appena raccontata. Aiutatemi, mio ca-
ro Lanyon, e salvate il vostro amico
H. J.
87
P.S. Avevo già sigillato questa lettera quando un
nuovo terrore mi ha ghermito l’anima. È possibi-
le che l’ufficio postale mi tradisca, e che questa
lettera non arrivi in mano vostra prima di doma-
ni mattina. In tal caso, caro Lanyon, eseguite la
commissione quando sarà più conveniente per
voi nel corso della giornata; e ancora una volta
aspettate il mio inviato a mezzanotte. Potrebbe
comunque essere troppo tardi; e se anche
quest’altra notte passa senza che succeda nulla,
saprete di aver già visto Henry Jekyll per l’ultima
volta.
88
te) si accede più comodamente al gabinetto pri-
vato di Jekyll.
La porta era molto robusta, la serratura eccel-
lente; il falegname ammise che avrebbe avuto il
suo bel daffare e avrebbe dovuto fare molti dan-
ni, se si fosse usata la forza; quanto al fabbro, si
mise le mani nei capelli: ma era uno che sapeva il
fatto suo, e dopo due ore di lavoro la porta era
aperta. Forzammo la teca contrassegnata con la
E e ne estrassi il cassetto; poi, riempitolo di pa-
glia e avvoltolo in un telo, me ne tornai a Caven-
dish Square portandomelo dietro. Qui incomin-
ciai ad esaminarne il contenuto. Le polveri erano
confezionate abbastanza accuratamente, ma non
con la perizia di un farmacista, sicché era chiaro
che si trattava di bustine preparate artigianal-
mente da Jekyll; quando aprii uno degli involucri
trovai quello che mi sembrò un semplice sale cri-
stallino di colore bianco. La fiala, cui dedicai la
mia successiva attenzione, sarà stata piena a metà
di un liquido rosso sangue assai pungente all’ol-
fatto; mi parve contenere fosforo e qualche etere
volatile, ma sugli altri ingredienti non potei fare
supposizioni. Il quaderno era un normale taccui-
no da appunti, e conteneva poco più di una serie
di date. Queste coprivano un periodo di molti
anni, ma notai che le registrazioni cessavano di
colpo un anno fa. Qua e là c’era una breve anno-
tazione riferita a una data, di solito non più di
una sola parola, «doppio», che ricorreva forse sei
89
volte su un totale di svariate centinaia di annota-
zioni; e in un caso, verso l’inizio della serie e se-
guite da più punti esclamativi, le parole «falli-
mento totale!!!».
Tutto questo, per quanto stuzzicasse la mia cu-
riosità, mi diceva poco di decisivo. C’erano una
fiala di liquido colorato, alcune bustine di qual-
che sale, un taccuino, e la registrazione di esperi-
menti che, come troppe delle ricerche di Jekyll,
non erano stati di alcuna utilità pratica. Come
poteva la presenza di queste cose in casa mia ave-
re a che fare con l’onore, la salute o la vita del
mio volubile collega? Se il suo inviato poteva rag-
giungere un posto, perché non poteva raggiun-
gerne un altro? E anche tenendo conto di qual-
che impedimento, perché quel gentiluomo dove-
va essere ricevuto da me in segreto? Più ci pensa-
vo più mi convincevo di trovarmi di fronte a un
caso di malattia mentale; e pur avendo mandato
la servitù a dormire, caricai un vecchio revolver,
in modo da essere in condizioni di difendermi in
qualche modo.
Erano appena scoccati su Londra i rintocchi
della mezzanotte, che il batacchio risuonò molto
discretamente sulla porta. Risposi di persona al
richiamo, e trovai un ometto rannicchiato contro
una colonna del portico.
«Venite da parte del dottor Jekyll?» doman-
dai.
Annuì con un gesto impacciato; e quando lo
90
invitai ad entrare, non obbedì prima di essersi
scrutato alle spalle nell’oscurità della piazza. Non
molto lontano c’era un poliziotto che si avvicina-
va con la sua lanterna accesa; ebbi l’impressione
che a quella vista il mio visitatore trasalisse e fos-
se preso da una gran fretta. Confesso che questi
dettagli mi colpirono sfavorevolmente: seguendo-
lo nella luce chiara dell’ambulatorio tenni la ma-
no pronta sulla mia arma. Là, finalmente, ebbi la
possibilità di osservarlo distintamente. Non lo
avevo mai visto prima, almeno questo era certo.
Come ho detto, era di piccola statura; mi colpì
inoltre la conturbante espressione della sua fac-
cia, per una notevole combinazione di grande vi-
goria muscolare ed evidente debolezza di costitu-
zione, e, ultima cosa ma non meno importante,
per lo strano, soggettivo disagio causatomi dalla
sua vicinanza, simile a un principio di irrigidi-
mento accompagnato da un vistoso calo delle
pulsazioni. Al momento lo considerai come
un’avversione idiosincratica e personale, e mi
stupii solo all’intensità dei sintomi; ma in seguito
ebbi ragione di credere che la causa risiedesse
molto più in profondità nella natura umana, e di-
pendesse da cause più nobili del semplice odio.
Quest’uomo (che pertanto, fin dal primo mo-
mento del suo ingresso, aveva suscitato in me
quel che posso definire solo come una disgustata
curiosità) era vestito in un modo che avrebbe re-
so ridicolo il più normale degli individui. Intendo
91
dire che il suo abito, benché di elegante e costosa
fattura, era enormemente troppo grande per lui: i
calzoni gli pendevano dalle gambe ed erano ar-
rotolati per non farli strusciare per terra, la vita
della giacca gli arrivava sotto le anche, e l’ampio
bavero gli si allargava sulle spalle. Strano a dirsi,
questo grottesco abbigliamento era ben lungi
dall’indurmi al riso. Al contrario, poiché nell’es-
senza stessa della persona che avevo di fronte c’e-
ra qualcosa di abnorme e di contraffatto – qual-
cosa che colpiva, che sorprendeva e che disgusta-
va – quest’ulteriore incongruenza sembrava esse-
re coerente con quell’anomalia e rafforzarla; sic-
ché al mio interesse per la natura e il carattere di
quell’uomo si aggiungeva la curiosità circa la sua
origine, la sua vita, la sua fortuna e la sua posi-
zione nella società. Queste considerazioni, ben-
ché abbiano preso un buono spazio per essere
messe su carta, furono cosa di pochi secondi. Di
fatto il mio visitatore era preso da una grande
frenesia.
«Ce l’avete?» gridò. «Ce l’avete?» La sua im-
pazienza era così acuta che egli giunse a metter-
mi una mano sul braccio come per scuotermi.
Lo respinsi, avvertendo al suo tocco un brivi-
do gelato nelle vene. «Insomma, signore», dissi.
«Dimenticate che non ho ancora il piacere di co-
noscervi. Sedetevi, per favore.» E dandogli l’e-
sempio mi sedetti al mio solito posto, mimando
abbastanza naturalmente il mio consueto modo
92
di trattare un paziente, per quanto me lo conce-
dessero l’ora tarda, la natura delle mie preoccu-
pazioni e il ribrezzo che avevo del mio visitatore.
«Vi chiedo scusa, dottor Lanyon», replicò ab-
bastanza educatamente. «Ciò che dite è più che
giusto: la mia impazienza ha prevalso sulle buone
maniere. Sono qui su istanza del vostro collega, il
dottor Henry Jekyll, per un affare di una certa
importanza; e a quanto ho capito…» Fece una
pausa e si portò una mano alla gola, e potei vede-
re, a dispetto dei suoi modi controllati, che stava
lottando contro l’approssimarsi di una crisi isteri-
ca. «A quanto ho capito, un cassetto…»
A quel punto ebbi pietà dell’impazienza del
mio visitatore, e forse anche della mia crescente
curiosità.
«Eccolo, signore», dissi, indicandogli il casset-
to là dove stava, ancora coperto dal telo, sul pavi-
mento dietro a un tavolo.
Fece un balzo, poi si fermò e si mise una mano
sul cuore; potei udire i suoi denti digrignare sotto
l’azione convulsa delle mascelle; la sua faccia era
così spaventosa da vedere che mi preoccupai sia
per la sua vita sia per il suo senno.
«Ricomponetevi», dissi.
Mi lanciò un sorriso spaventoso, e con la riso-
lutezza della disperazione strappò via il telo. Alla
vista del contenuto emise un forte singulto,
espressione di un sollievo così grande da lasciar-
mi di sasso. Un attimo dopo, tornando a padro-
93
neggiare discretamente la voce, mi chiese: «Ave-
te una provetta graduata?».
Mi alzai con insofferenza e gli diedi ciò che
chiedeva. Mi ringraziò con un cenno sorridente,
misurò qualche goccia del liquido rosso e vi ag-
giunse una delle polveri. Man mano che i cristalli
si scioglievano la miscela, inizialmente di una
tinta rossastra, incominciò a diventare più bril-
lante, a farsi così effervescente da sentirne lo sfri-
golio e a rilasciare sottili esalazioni di vapore. Poi
l’ebollizione cessò all’improvviso e il composto
virò al viola scuro, che più lentamente sbiadì
quindi in un verde acqua. Il mio visitatore, che
aveva seguito con attenzione queste metamorfo-
si, sorrise, pose il misurino sul tavolo, quindi si
girò guardandomi con aria indagatrice.
«E adesso», disse, «decidiamo il da farsi. Vole-
te essere ragionevole? Volete lasciarvi consiglia-
re? Lascerete che io prenda questo contenitore
ed esca da casa vostra senza ulteriori spiegazio-
ni? O siete dominato dal demone della curiosità?
Riflettete prima di rispondere, perché poi fare-
mo come avrete deciso. A seconda della vostra
decisione potete rimanere come prima, né più
ricco né più sapiente, a meno che la consapevo-
lezza del favore reso a un uomo mortalmente an-
gosciato possa considerarsi come una forma di
arricchimento dello spirito. Oppure, se preferite
scegliere in questo senso, qui, in questa stanza,
all’istante, si dispiegherà davanti a voi un nuovo
94
regno del sapere insieme a nuove strade per la fa-
ma e il potere; e il vostro sguardo sarà folgorato
da un prodigio in grado di far vacillare l’incredu-
lità di Satana.»
«Signore», dissi, affettando una freddezza che
in verità ero ben lontano dal possedere, «voi par-
late per enigmi, e forse non vi meraviglierete se
vi ascolto senza molta convinzione. Ma mi sono
spinto troppo in là sulla strada di questi inespli-
cabili servigi per fermarmi prima di vedere la
conclusione.»
«Bene», replicò il mio visitatore. «Lanyon, ri-
cordatevi della vostra promessa: quel che seguirà
è sotto il nostro segreto professionale. E ora, voi
che siete rimasto attaccato alle vedute più angu-
ste e più materiali, voi che avete negato i poteri
della medicina trascendentale, voi che avete deri-
so chi vi era superiore… mirate!»
Si portò la provetta alle labbra e bevve d’un
fiato. Si udì un grido: vacillò, barcollò, si aggrap-
pò al tavolo guardando con gli occhi iniettati di
sangue, ansimando a bocca aperta; mentre lo
guardavo mi parve che si verificasse un muta-
mento: l’uomo incominciò a gonfiarsi, la sua fac-
cia si annerì di colpo, e i lineamenti parvero scio-
gliersi e alterarsi… Un attimo dopo ero schizzato
in piedi arretrando verso la parete, le braccia tese
per proteggermi da quel prodigio, la mente tra-
volta dall’orrore.
«Dio!» urlai. «Dio!», ancora e ancora; perché
95
davanti ai miei occhi, pallido e tremante, e mezzo
svenuto, e annaspando in avanti con le mani, co-
me un uomo resuscitato dalla morte, c’era Henry
Jekyll!
Non posso risolvermi a mettere per iscritto
quello che mi disse nell’ora successiva. Ho visto
ciò che ho visto, ho sentito ciò che ho sentito, e la
mia anima ne è stata infettata; eppure anche ora
che quella vista si è dileguata, mi chiedo se debba
crederci, e non so rispondere. La mia vita è stata
scossa fin dalle radici; il sonno mi ha abbandona-
to; ogni ora del giorno e della notte il terrore più
mortale è al mio fianco; sento che ho i giorni con-
tati, e che devo morire: eppure morirò incredulo.
Quanto alla turpitudine morale che quell’uomo
mi ha rivelato, anche fra le lacrime di pentimen-
to, non posso soffermarmici con la memoria sen-
za un brivido di orrore. Vi dirò una cosa sola,
Utterson, e se vi disponete a crederci, sarà più
che sufficiente. L’essere che si è insinuato a casa
mia quella notte, per confessione dello stesso
Jekyll, era conosciuto con il nome di Hyde, ed era
ricercato in ogni angolo della terra per l’omicidio
di Carew.
HASTIE LANYON
PIENA CONFESSIONE DEL CASO
RILASCIATA DA HENRY JEKYLL
97
morboso. Fu quindi l’esosa natura delle mie aspi-
razioni, più che un particolare accentuarsi dei
miei difetti, a far di me quel che ero, separando
in me, con un solco più profondo che nella mag-
gioranza degli uomini, quelle regioni del male e
del bene che dividono e formano la duplice natu-
ra del composto umano. Di conseguenza, fui por-
tato a riflettere profondamente e incessantemen-
te su quella dura legge di vita che è alle radici
della religione ed è una delle più copiose fonti di
angoscia.
Pur essendo così profondamente scisso, non
ero affatto un ipocrita; entrambe le mie compo-
nenti erano sincere; quando perdevo ogni ritegno
e sprofondavo nell’onta ero me stesso non meno
di quando mi dedicavo, alla luce del giorno,
all’accrescimento della conoscenza o a lenire il
dolore e la sofferenza. Andò così che il tenore
delle mie ricerche scientifiche, che puntavano in-
teramente al mistico e al trascendentale, reagisse
diffondendo una forte luce sulla consapevolezza
del perenne conflitto fra le mie parti. Ogni gior-
no di più, e con entrambi gli aspetti della mia in-
telligenza, quello morale e quello intellettuale,
mi avvicinavo risolutamente a quella verità, dalla
cui parziale scoperta sono stato condannato a un
naufragio così spaventoso: e cioè che l’uomo non
è veracemente uno, ma veracemente due. Dico
due, perché il livello della mia conoscenza non va
oltre questa soglia.
98
Altri verranno, altri mi supereranno sulla stes-
sa strada; io mi limito ad azzardare che alla fine
l’uomo sarà visto come una mera aggregazione di
inquilini multiformi, incongrui e indipendenti.
Per parte mia, data la natura della mia esistenza,
ho infallibilmente progredito in una direzione e
in una soltanto. È stato dal lato morale, e nella
mia stessa persona, che imparai a riconoscere la
radicale e primitiva dualità dell’uomo. Capii che,
fra le due nature che combattevano nel campo
della mia coscienza, se potevo ritenermi a pari
diritto l’una o l’altra era solo perché io ero fonda-
mentalmente entrambe; e da moltissimo tempo,
ben prima che il corso delle mie scoperte scienti-
fiche incominciasse a suggerirmi la mera ipotesi
di un simile miracolo, mi abituai a indugiare con
piacere al pensiero della separazione di quegli
elementi, come si trattasse di un delizioso sogno
ad occhi aperti. Se ognuno di essi, mi dissi, potes-
se albergare in un’identità separata, la vita sareb-
be alleggerita di quanto è insopportabile; l’ingiu-
sto potrebbe andare per la sua strada, libero dalle
aspirazioni e dai rimorsi del suo gemello più ret-
to; e il giusto potrebbe procedere sicuro e tran-
quillo nel suo cammino verso l’alto, facendo quel
bene su cui fonda il proprio diletto, e non più
esposto alla vergogna e al pentimento a causa di
un male che gli è estraneo. Era la maledizione
dell’umanità che quelle incompatibili fascine fos-
sero legate assieme così strettamente; che nel
99
grembo tormentato della coscienza quei poli ge-
melli fossero sempre in lotta fra di loro. E allora,
come riuscire a dissociarli?
Mi ero spinto fin qui nelle mie riflessioni, co-
me ho detto, quando dalle mie ricerche di labora-
torio una luce trasversale incominciò a illumina-
re la questione. Gradualmente, più in profondità
di quanto fosse mai stato asserito da alcuno, per-
cepii la tremolante immaterialità, la vaporosa
transitività di questo corpo apparentemente soli-
do dal quale siamo rivestiti. Scoprii che certi
agenti hanno il potere di scuotere e rimuovere
l’involucro corporeo, come un colpo di vento sol-
leva le cortine di un padiglione.
Non approfondirò questa parte scientifica del-
la mia confessione per due buoni motivi. Primo,
perché ho imparato a mie spese che il destino e il
fardello della nostra vita gravano per sempre sul-
le spalle dell’uomo, e che quando si cerca di libe-
rarsene ritornano su di noi con un peso ancora
più estraneo e spaventoso. Secondo, perché, co-
me il mio racconto, ahimè, renderà fin troppo
evidente, le mie scoperte erano incomplete.
Basterà dire allora che non solo considerai il
mio corpo naturale come mera aura ed emana-
zione di determinati poteri che costituivano il
mio spirito, ma anche che riuscii a preparare una
sostanza grazie alla quale quei poteri avrebbero
perso la loro supremazia per essere rimpiazzati
da una seconda forma e da un secondo aspetto
100
non meno naturali per me perché, recandone
l’impronta, erano l’espressione degli elementi più
infimi del mio spirito. Esitai a lungo prima di sot-
toporre questa teoria a una verifica pratica. Sa-
pevo bene di rischiare la morte; perché una droga
che controlla così potentemente e scuote lo stesso
baluardo dell’identità poteva, per un impercetti-
bile sovradosaggio o per il minimo errore al mo-
mento dell’esperimento, cancellare del tutto l’im-
materiale tabernacolo che io stavo cercando di
modificare.
Ma alla fine la tentazione di una scoperta così
singolare e rivoluzionaria prevalse sulle remore
della prudenza. Già da tempo avevo preparato la
mia soluzione; acquistai subito, da una ditta di
forniture chimiche all’ingrosso, un cospicuo
quantitativo di un sale speciale che sapevo esse-
re, in seguito ai miei esperimenti, l’ultimo ingre-
diente necessario; e una notte maledetta, a tarda
ora, mescolai gli elementi, li guardai bollire e fu-
mare nel bicchiere, e finita l’ebollizione, ricorren-
do a tutto il mio coraggio, trangugiai la pozione.
Provai delle fitte lancinanti: uno scricchiolio nel-
le ossa, una nausea mortale, e un orrore dello
spirito che non può essere maggiore nemmeno al
momento della nascita o della morte. Poi quelle
sofferenze incominciarono a diminuire veloce-
mente, e mi ripresi come dopo una grave malat-
tia. C’era qualcosa di strano nelle mie sensazioni,
qualcosa di indescrivibilmente nuovo e, per la
101
sua stessa assoluta novità, incredibilmente dolce.
Mi sentivo più giovane, più leggero, più tonico
nelle membra; al contempo avvertivo una poten-
te irrequietezza, un flusso di disordinate immagi-
ni sensuali che correvano nella mia fantasia come
la gora di un mulino, uno scioglimento dalle pa-
stoie del dovere, una sconosciuta ma non per
questo innocente libertà di spirito. Al primo re-
spiro di questa nuova vita mi accorsi di essere più
malvagio, dieci volte più malvagio, venduto come
uno schiavo al mio male originale; ma tale pen-
siero, in quel momento, mi rassicurò e deliziò co-
me fosse vino. Tesi le braccia, esultando nell’e-
brezza di quelle sensazioni; e così facendo, mi
accorsi improvvisamente di essere diventato più
basso.
A quell’epoca non c’era uno specchio nel mio
studio; quello che ho di fianco mentre scrivo fu
portato in seguito proprio in funzione di queste
trasformazioni. In ogni caso alla notte stava già
succedendo l’alba – anche scura com’era, era ma-
tura per la concezione del giorno – e gli inquilini
di casa mia erano immersi nelle ore più pesanti
del sonno; e decisi, inondato com’ero da un senso
di speranza e trionfo, di avventurarmi fino alla
mia camera da letto nella mia nuova forma. At-
traversai il cortile, dove mi parve che le costella-
zioni guardassero stupite verso di me, la prima
creatura di quel genere svelata alla loro veglia in-
cessante. Strisciai per i corridoi, straniero in casa
102
mia; e arrivato in camera da letto, vidi per la pri-
ma volta l’aspetto di Edward Hyde.
Qui devo parlare solo in termini teorici, dicen-
do non ciò che so ma ciò che ritengo più probabi-
le. La parte malvagia della mia natura, alla quale
avevo ora trasferito il potere di plasmarmi, era
meno robusta e meno sviluppata di quella onesta
appena dismessa. Del resto nel corso della mia
vita, che dopo tutto era stata per nove decimi una
vita di sacrifici, di virtù e di disciplina, essa era
stata molto meno esercitata e molto meno sfrut-
tata. Da qui, credo, il fatto che Edward Hyde fos-
se molto più piccolo, più leggero e più giovane di
Henry Jekyll. E mentre il bene riluceva nell’a-
spetto dell’uno, il male era ampiamente ed espli-
citamente scritto sulla faccia dell’altro. Inoltre il
male (che devo continuare a ritenere il lato mor-
tale dell’uomo) aveva lasciato su quel corpo
un’impronta di deformità e di corruzione. Eppu-
re quando osservai allo specchio quell’orrendo
simulacro non avvertii alcuna ripugnanza, ma al
contrario uno slancio di benvenuto.
Anche quello ero io. Sembrava naturale e
umano. Ai miei occhi rappresentava una più viva
immagine dello spirito, sembrava più semplice e
definito rispetto all’espressione imperfetta e divi-
sa che fino a quel momento ero abituato a consi-
derare come la mia. E in questo avevo senza dub-
bio ragione. Ho notato che quando avevo l’aspet-
to di Edward Hyde, nessuno poteva avvicinarsi a
103
me senza una palese e fisiologica diffidenza.
Questo, per come la vedo, perché tutti gli esseri
umani che incontriamo sono commisti di bene e
di male: Edward Hyde, unico nelle fila dell’uma-
nità, era puro male.
Indugiai davanti allo specchio solo un attimo:
il secondo e conclusivo esperimento doveva an-
cora essere effettuato, perché restava ancora da
vedere se avessi perso la mia identità al di là della
possibilità di ripristinarla, e dovessi fuggire pri-
ma del giorno da una casa che non era più la mia.
Affrettatomi al mio gabinetto, preparai un’altra
volta la pozione e la bevvi, un’altra volta soffrii lo
spasmo della dissoluzione, e un’altra volta tornai
a me stesso con il carattere, la statura e il volto di
Henry Jekyll.
Quella notte ero arrivato al crocevia fatale. Se
mi fossi accostato alla mia scoperta con uno spiri-
to più nobile, se avessi corso il rischio dell’esperi-
mento sotto la spinta di aspirazioni generose o
pie, sarebbe stato tutto diverso, e da quelle agonie
di morte e di vita sarei uscito come angelo e non
come demone. La droga non aveva un potere di-
scriminante, non era né diabolica né divina; si li-
mitava a scardinare le porte della prigione in cui
erano rinchiusi i miei desideri: e come i prigionie-
ri di Filippi, chi era dentro poteva fuggire via6.
6
Allusione a un passo degli Atti degli Apostoli (XVI, 16-33) in cui, in
seguito a un terremoto suscitato dalle preghiere di Paolo e Silas, tutti gli
ebrei prigionieri nel carcere di Filippi poterono evadere.
104
A quell’epoca la mia virtù sonnecchiava, men-
tre il male, tenuto sveglio dall’ambizione, era
all’erta e pronto a cogliere l’occasione: e la cosa
che ne venne fuori era Edward Hyde. Pertanto
avevo ora due personalità così come avevo due
aspetti, una interamente malvagia, mentre l’altra
era ancora il vecchio Henry Jekyll, quell’incon-
gruo composto della cui riforma e del cui miglio-
ramento avevo già imparato a disperare. Così il
cambiamento andava per intiero verso il peggio.
A quel tempo non avevo ancora vinto la mia av-
versione per l’aridità di una vita di studio. A volte
avevo ancora voglia di divertirmi, ma poiché i
miei piaceri erano a dir poco disdicevoli, e io non
solo ero ben conosciuto e altamente considerato,
ma andavo anche verso un’età rispettabile, que-
sta incoerenza di vita mi stava diventando giorno
dopo giorno sempre più pesante.
Fu sotto questo aspetto che il mio nuovo pote-
re mi tentò fino a farmi cadere in schiavitù. Mi
bastava bere la soluzione per abbandonare subito
il corpo del rispettabile professore e rivestire, co-
me uno spesso mantello, quello di Edward Hyde.
Sorridevo al solo pensarci; mi sembrava anche
una cosa divertente; e facevo i miei preparativi
con la massima cura. Presi e arredai la casa di
Soho, dove la polizia sarebbe venuta a cercare
Hyde; e assunsi come custode una creatura che
sapevo bene sarebbe stata silenziosa e priva di
scrupoli.
105
Sull’altro fronte, annunciai alla mia servitù
che un certo signor Hyde (che descrissi) aveva
piena libertà e facoltà di movimento nella mia ca-
sa sulla piazza; e, per evitare imprevisti, feci delle
visite a me stesso per rendermi familiare anche
nella mia seconda personalità. Successivamente
stilai il testamento sul quale avete avuto tanto da
ridire, in modo che se mi fosse successo qualcosa
nella persona del dottor Jekyll sarei potuto su-
bentrare in quella di Edward Hyde senza perdita
di denaro. Così, premunito per ogni evenienza
(almeno pensavo), incominciai ad avvalermi del-
le singolari impunità della mia posizione. In pas-
sato gli uomini ingaggiavano degli sgherri per
compiere i loro crimini, mentre la loro persona e
reputazione rimanevano al riparo. Io fui il primo
a potermi procurare personalmente i miei piace-
ri. Fui il primo a potere incedere in pubblico con
il proprio carico di affabile rispettabilità, e in un
momento, come uno scolaretto, spogliarsi di quel
prestito e gettarsi a capofitto nel mare della liber-
tà. Ma per me, sotto il mio impenetrabile mantel-
lo, la salvezza era certa. Pensateci… Non esistevo
nemmeno! Mi bastava rifugiarmi nel mio labora-
torio, darmi due o tre secondi per mescolare la
pozione che tenevo sempre pronta; e qualsiasi co-
sa avesse fatto, Edward Hyde scompariva come
un alone di fiato su uno specchio; mentre al suo
posto, tranquillamente a casa, intento a regolare
la lampada notturna del suo studio, ci sarebbe
106
stato un uomo in grado di ridere di ogni sospetto:
ci sarebbe stato Henry Jekyll.
I piaceri che mi affrettavo a procurarmi sotto
il mio mascheramento erano, come ho detto, di-
sdicevoli; non riuscirei ad usare un termine più
duro. Ma in mano a Edward Hyde, incominciaro-
no a diventare mostruosi. Quando tornavo indie-
tro da quelle escursioni ero spesso pervaso da
una specie di meraviglia per la depravazione del
mio alter ego. Questo personaggio familiare che
avevo evocato dalla mia stessa anima, e mandato
in giro da solo a soddisfare i propri piaceri, era
un essere intimamente maligno ed infame; tutte
le sue azioni, tutti i suoi pensieri erano egoistici;
con bestiale avidità trovava piacere in ogni tipo
di tortura inflitta agli altri, spietato come un uo-
mo di pietra. A volte Henry Jekyll rimaneva
inorridito alle gesta di Edward Hyde; ma la situa-
zione esulava talmente dalla legislazione ordina-
ria, da rilassare subdolamente la presa della co-
scienza. Dopo tutto era Hyde, e solo Hyde, a es-
sere colpevole. Jekyll non era peggiorato; al suo
risveglio ritrovava le proprie buone qualità, ap-
parentemente intatte; anzi si affrettava, quando
possibile, a rimediare al male fatto da Hyde. Così
la sua coscienza sonnecchiava.
Non ho intenzione di entrare nei dettagli delle
infamie di cui fui corresponsabile (perché ancora
adesso non riesco ad ammettere di averle com-
messe). Voglio solo evidenziare le avvisaglie e i
107
passi successivi con i quali il mio castigo si avvici-
nava. Mi capitò un incidente cui, non avendo avu-
to conseguenze, mi limiterò ad accennare. Un
atto di crudeltà verso una bambina sollevò contro
di me l’ira di un passante, che giorni dopo rico-
nobbi come un vostro parente; un dottore e la fa-
miglia della bambina lo raggiunsero; ci furono
attimi in cui temetti per la mia vita; e alla fine,
per placare il loro più che giusto risentimento,
Edward Hyde dovette portarli fino alla porta
d’ingresso, e pagarli con un assegno firmato da
Henry Jekyll. Per il futuro tuttavia questo perico-
lo fu facilmente eliminato, grazie all’apertura, in
un’altra banca, di un conto intestato allo stesso
Edward Hyde. E quando, inclinando all’indietro
la mia mano, ebbi fornito il mio doppio di una
firma, pensai di essermi messo al riparo dalla
sorte.
Circa due mesi prima dell’omicidio di sir
Danvers, dopo essere uscito per una delle mie av-
venture, ero rientrato a tarda ora, e l’indomani
mi ero svegliato nel mio letto con delle sensazioni
piuttosto strane. Invano mi guardavo intorno; in-
vano osservavo il bell’arredamento e le ampie di-
mensioni della mia camera che dava sulla piazza;
invano riconoscevo la trama delle cortine del let-
to e il disegno della struttura di mogano: qualco-
sa insisteva a dirmi che non ero dov’ero, che non
mi ero svegliato dove sembrava che fossi, ma nel-
la stanzetta di Soho dove avevo l’abitudine di
108
dormire nel corpo di Edward Hyde. Sorrisi di me
stesso, e assecondando i miei interessi psicologici
incominciai pigramente a indagare gli elementi
di quell’illusione, e però intanto, a tratti, ripiom-
bando nel piacevole dormiveglia del mattino. Ero
così impegnato quando, in uno dei miei momenti
più vigili, lo sguardo mi cadde sulla mano. Ora,
la mano di Henry Jekyll (come avete spesso os-
servato) aveva qualcosa di professionale nella
forma e nelle dimensioni; era grande, salda, chia-
ra, ben fatta. Ma la mano che adesso stavo guar-
dando distintamente nella luce giallognola di una
metà mattina londinese, abbandonata semichiusa
sulle coltri, era minuta, nervosa, nocchiuta, di un
pallore grigiastro e fittamente ombreggiata da
una selva di peli: era la mano di Edward Hyde!
Devo averla fissata per quasi mezzo minuto, spro-
fondato com’ero nel mero stupore della sorpresa,
prima che in petto mi si svegliasse un terrore su-
bitaneo e sconcertante come un frastuono di
cembali; balzando dal letto mi precipitai allo
specchio. Alla vista che apparve ai miei occhi il
sangue mi si cambiò in qualcosa di pungente e
ghiacciato. Sì, ero andato a letto come Henry
Jekyll e mi ero svegliato come Edward Hyde! Co-
me si poteva spiegarlo? Mi interrogai; e poi, con
un altro sussulto di terrore: come vi si poteva
porre rimedio? Il mattino era già inoltrato, la ser-
vitù in piedi; tutte le mie droghe erano nel gabi-
netto; rispetto a dove mi trovavo in preda all’or-
109
rore, era un lungo percorso giù per due rampe di
scale, poi il passaggio sul retro, quindi il cortile
all’aperto e ancora il teatro anatomico. Certo era
possibile coprire la mia faccia; ma a cosa sarebbe
servito, se non ero in grado di nascondere l’alte-
razione nella mia statura? Poi, con una dolcissi-
ma ondata di sollievo, mi ricordai che la servitù
era già abituata all’andirivieni del mio secondo
io. Mi vestii subito, per quanto riuscii, con un abi-
to della taglia di Jekyll: poco dopo attraversai la
casa, dove Bradshaw sgranò gli occhi e arretrò al
vedere il signor Hyde a un’ora simile e acconciato
in modo così strano. Dieci minuti dopo, il dottor
Jekyll aveva recuperato la propria forma ed era
seduto, con la fronte accigliata, a fingere di far
colazione.
Ma certo avevo ben poco appetito. Quell’in-
spiegabile incidente, quel ribaltamento della mia
precedente esperienza sembrava, come il dito ba-
bilonese sul muro7, scandire le parole della mia
sentenza; e incominciai a riflettere più seriamen-
te che mai sugli esiti e sulle conseguenze della
mia doppia esistenza. La parte di me che avevo il
potere di esplicitare, di recente era stata molto
esercitata e alimentata; ultimamente mi era sem-
brato che il corpo di Edward Hyde fosse cresciu-
to in statura, come se (quando avevo quella for-
7
Allusione alla scritta misteriosa (Mane, Tekel, Fares) apparsa su un
muro della reggia babilonese, e interpretata da Daniele come profezia della
fine del regno di Babilonia.
110
ma) fossi conscio di una più vigorosa circolazione
sanguigna; e incominciai a intravedere il pericolo
che mi minacciava, perché se quello stato di cose
si fosse prolungato la mia natura avrebbe perso
definitivamente il proprio equilibrio, il potere di
cambiare secondo la mia volontà sarebbe venuto
meno, e la personalità di Edward Hyde sarebbe
diventata per sempre la mia.
Il potere della droga non si era manifestato
sempre allo stesso modo, anzi in un caso, proprio
all’inizio dei miei esperimenti, mi aveva tradito
completamente. Sicché in più di un’occasione fui
costretto a raddoppiare la dose, e una volta, con
grandissimo rischio di morte, a triplicarla: fino a
quel momento quelle sporadiche incertezze era-
no state le uniche ombre sulla mia soddisfazione.
Ora comunque, e alla luce dell’incidente di quel
mattino, fui portato a considerare che laddove,
all’inizio, la difficoltà era stata di liberarmi del
corpo di Jekyll, successivamente, in modo gra-
duale ma inequivocabile, si era a poco a poco
cambiata nel problema opposto. Ogni cosa per-
ciò sembrava portare a questo: che stavo lenta-
mente perdendo il controllo del mio io originale
e migliore, per incorporarmi lentamente nella
mia seconda e peggiore identità.
Sentivo che ora dovevo scegliere fra quei due.
Le mie due nature avevano la memoria in comu-
ne, ma tutte le altre facoltà erano distribuite fra
loro in modo assai disuguale. Jekyll (che era com-
111
posto), ora con la più sensibile apprensione, ora
con un godimento avido, pregustava e condivide-
va i piaceri e le avventure di Hyde; ma Hyde era
indifferente a Jekyll, o al massimo lo ricordava
come il brigante di montagna si ricorda della ca-
verna in cui si nasconde quando è braccato. Jekyll
provava più dell’interessamento di un padre;
Hyde aveva più dell’indifferenza di un figlio.
Schierarmi con Jekyll significava morire ai piace-
ri che mi concedevo in segreto da lungo tempo e
cui ultimamente stavo sempre più indulgendo.
Schierarmi con Hyde significava morire a mille
interessi e aspirazioni, e diventare in un attimo e
per sempre disprezzato e senza amici.
La scelta poteva sembrare scontata; ma c’era
ancora un’altra considerazione sul piatto della bi-
lancia; perché mentre Jekyll avrebbe sofferto
atrocemente fra le fiamme dell’astinenza, Hyde
non si sarebbe nemmeno accorto di tutto quello
che avrebbe perduto. Per quanto mi trovassi in
circostanze singolari, i termini di questo dibattito
erano vecchi e risaputi come l’uomo; sono sem-
pre le stesse tentazioni e gli stessi timori a gettare
il dado per ogni peccatore tentato e tremante; e
capitò anche a me ciò che capita alla gran parte
dei miei simili, e cioè che scegliessi la parte mi-
gliore, ma mi mancassero poi le forze per mante-
nere il mio proposito. Sì, scelsi l’anziano e insod-
disfatto dottore, circondato dagli amici e carico
di oneste speranze; e diedi un risoluto addio alla
112
libertà, alla relativa giovinezza, al passo leggero,
ai repentini impulsi e ai piaceri segreti di cui ave-
vo goduto nelle vesti di Hyde. Forse feci questa
scelta con qualche inconscia riserva, perché non
rinunciai alla casa di Soho, né distrussi gli abiti di
Edward Hyde, che sono ancora pronti nel mio ga-
binetto.
Per due mesi, in ogni caso, tenni fede alla mia
determinazione; per due mesi condussi una vita
di un’austerità cui non ero mai giunto prima, e mi
godetti il compenso dell’approvazione della mia
coscienza. Ma alla fine il tempo incominciò ad
attenuare l’acutezza della mia apprensione; le lo-
di della coscienza diventarono una cosa scontata;
incominciai ad essere torturato dagli spasmi e
dalle bramosie, come se Hyde stesse lottando per
liberarsi; e alla fine, in un momento di debolezza
morale, preparai ancora e trangugiai la pozione
che mi trasformava.
Non credo che nemmeno una volta su cinque-
cento, quando ragiona con se stesso del proprio
vizio, un ubriacone si renda conto dei pericoli
che corre con la sua bruta e fisica insensibilità;
così nemmeno io, per quanto avessi considerato a
lungo la mia situazione, avevo dato sufficiente
credito alla totale mancanza di moralità e all’in-
sensata propensione al male che erano i tratti do-
minanti di Edward Hyde. Eppure fu da esse che
venni punito. Il mio demone era stato chiuso in
gabbia a lungo, ed ora ne venne fuori ruggendo.
113
Già assumendo la pozione ero conscio di un’in-
clinazione al male più sfrenata e furiosa. Dev’es-
sere stato questo, credo, a suscitare nella mia ani-
ma quella tempesta di impazienza con cui accolsi
le parole cortesi della mia sfortunata vittima.
Perlomeno dichiaro davanti a Dio che nessun uo-
mo moralmente integro si sarebbe macchiato di
quel crimine con un pretesto così inconsistente; e
che lo colpii con uno spirito non più ragionevole
di quello con cui un bambino annoiato rompe un
giocattolo. Tuttavia è vero che mi ero volontaria-
mente sottratto a quegli istinti inibitorii grazie ai
quali anche il peggiore fra gli uomini continua a
incedere con una certa fermezza fra le tentazioni;
e nel mio caso essere tentato, ancorché legger-
mente, significava cadere.
In un attimo lo spirito infernale si risvegliò in
me imperversando. Con un empito di voluttà in-
fierii su quel corpo che non faceva resistenza,
provando piacere a ogni colpo; e fu solo dopo es-
sere stato colto dalla stanchezza che all’improvvi-
so, al culmine del mio delirio, venni trafitto al
cuore da un brivido freddo di terrore. Una neb-
bia si dissolse; vidi che la mia vita era perduta; e
fuggii dalla scena di quell’efferatezza, compiaciu-
to e insieme tremante, il gusto del male gratifica-
to e stimolato, l’amore della vita issato al penno-
ne più alto. Corsi alla casa di Soho, e (per mag-
gior sicurezza) distrussi le mie carte; poi uscii
nelle strade illuminate dai lampioni, nella stessa
114
estasi contraddittoria, compiaciuto del mio cri-
mine e programmandone altri alla leggera, e al
tempo stesso affrettandomi e tendendo l’orec-
chio ai passi del vendicatore. Hyde preparò la po-
zione canticchiando, e bevendo brindò al morto.
Gli spasmi della trasformazione non avevano fi-
nito di tormentarlo che Henry Jekyll, versando
fiumi di lacrime di gratitudine e di rimorso, cade-
va in ginocchio levando a Dio le mani giunte. Il
velo dell’autoindulgenza era lacerato dalla testa
ai piedi.
Vidi tutta in una volta la mia vita: la ripercorsi
dai giorni dell’infanzia, quando camminavo te-
nuto per mano da mio padre, e poi lungo le fati-
che e le privazioni della mia vita professionale,
per arrivare ancora ed ancora, con lo stesso sen-
so di irrealtà, ai maledetti orrori di quella sera.
Avrei voluto urlare; cercai con le lacrime e le pre-
ghiere di cacciar via la folla di immagini e suoni
spaventosi con i quali la memoria mi assaliva; ma
sempre, fra una supplica e l’altra, l’orrendo volto
della mia iniquità mi fissava nel fondo dell’ani-
ma. Quando l’intensità di questo rimorso inco-
minciò a scemare, fui preso da un senso di esul-
tanza: il problema della mia condotta era risolto.
Da quel momento sarebbe stato impossibile tor-
nare ad essere Hyde; che lo volessi o no, ora ero
confinato nella parte migliore della mia esisten-
za; e oh, quanto mi sollevò pensarci! Con quale
spontanea umiltà salutai di nuovo le restrizioni
115
della vita naturale! Con quale sincera rinuncia
sprangai la porta per cui ero spesso andato e ve-
nuto, e ne calpestai la chiave con il tacco!
Il giorno dopo si diffuse la notizia che l’assas-
sinio aveva avuto dei testimoni, che la colpevo-
lezza di Hyde era sulla bocca di tutti, e che la vit-
tima era un personaggio altamente stimato. Non
si trattava solo di un delitto, ma di una tragica
follia. Credo che mi facesse piacere venirne a co-
noscenza; penso che fossi contento che i miei im-
pulsi migliori fossero così rafforzati e preservati
dai terrori del patibolo. Jekyll era adesso la citta-
della del mio rifugio; ma bastava che Hyde si af-
facciasse un istante, e le braccia di tutti si sareb-
bero protese per prenderlo e ucciderlo.
Stabilii di riscattare il passato con la mia con-
dotta a venire; e posso dire in tutta onestà che la
mia risoluzione diede i suoi buoni frutti. Sapete
da voi quanto seriamente, negli ultimi mesi
dell’anno scorso, mi sono dato da fare per alle-
viare le sofferenze; sapete quanto ho fatto per gli
altri, e che le mie giornate scorrevano tranquille
e quasi felici. Né potrei dire che questa vita be-
nefica e innocente mi pesasse; al contrario credo
che la apprezzassi ogni giorno di più. Ma pativo
ancora la maledizione della mia doppiezza; e ap-
pena il mio pentimento perse di mordente, la
mia parte più bassa, così a lungo assecondata, e
di recente così incatenata, incominciò a ruggire
per la smania di liberarsi. Non che sognassi di
116
resuscitare Hyde, anzi questa sola idea mi getta-
va nel panico: no, era nella mia stessa persona
che ancora una volta ero tentato di giocare con
la mia coscienza; e alla fine fu come un comune
peccatore clandestino che cedetti all’assalto del-
le tentazioni.
Tutte le cose finiscono, e prima o poi anche la
misura più capace è colma; e quella breve accon-
discendenza al male distrusse definitivamente
l’equilibrio del mio spirito. Eppure non ero in al-
larme; la caduta sembrava naturale, come un ri-
torno ai giorni antichi prima della mia scoperta.
Era una giornata di gennaio bella e limpida, sot-
to le scarpe si sentiva l’umido dove il ghiaccio si
era sciolto, ma non c’erano nuvole in cielo; e
Regent’s Park era pieno di cinguettii invernali e
addolcito dai sentori della primavera. Me ne sta-
vo seduto al sole su una panchina; l’animale che
era in me assaporava frammenti di memoria; la
componente spirituale, un po’ assopita, si ripro-
metteva un successivo pentimento, ma non ci
provava ancora. Dopo tutto, riflettevo, non ero
diverso dagli altri uomini; poi sorrisi, paragonan-
domi a loro, confrontando la mia attiva buona
volontà con la pigra crudeltà della loro negligen-
za. E proprio nel momento di quel pensiero vana-
glorioso venni colto da uno spasmo, da un’orribi-
le nausea e da un brivido mortale. Poi passò tut-
to, lasciandomi fiacco; dopodiché, mentre a sua
volta la debolezza scompariva, incominciai a per-
117
cepire un cambiamento nell’indole dei miei pen-
sieri, una maggiore spavalderia, uno sprezzo del
pericolo, uno scioglimento dai vincoli del dovere.
Guardai in basso: il vestito pendeva senza forma
dalle mie membra rattrappite, la mano appoggia-
ta al ginocchio era nervosa e pelosa. Ancora una
volta ero Edward Hyde!
Un attimo prima confidavo nel rispetto uni-
versale, ricco, amato, la tavola apparecchiata che
mi aspettava a casa nella sala da pranzo; e adesso
ero la preda di chiunque, braccato, senza dimora,
un riconosciuto assassino, un pendaglio da forca.
La mia ragione vacillò, ma non mi abbandonò
del tutto. Più di una volta ho osservato che nella
mia seconda personalità le mie facoltà sembra-
vano più affilate e il mio spirito più reattivo; ac-
cadde così che, laddove Jekyll si sarebbe forse
perduto, Hyde fu all’altezza della situazione. Le
mie droghe erano in una delle teche del mio ga-
binetto: come avrei potuto recuperarle? Era que-
sto il problema che (premendomi le mani sulle
tempie) mi accinsi a risolvere. La porta del labo-
ratorio l’avevo chiusa. Se avessi cercato di entra-
re passando per la casa, i miei servitori mi avreb-
bero consegnato alla giustizia. Capivo che dove-
vo servirmi di un altro, e mi sovvenni di Lanyon.
Come potevo raggiungerlo? Come convincerlo?
Ammettendo di evitare di essere catturato per
strada, come riuscire a farmi ricevere da lui? E
come avrei potuto, io, un visitatore sconosciuto e
118
sgradevole, convincere l’illustre medico a violare
lo studio del suo collega dottor Jekyll? Poi mi ri-
cordai che mi rimaneva una parte della mia per-
sonalità originale: potevo scrivere con la mia
grafia; una volta concepita quella scintilla, la
strada che dovevo seguire mi apparve chiara
dall’inizio alla fine.
Dunque mi sistemai il vestito alla bell’e me-
glio, e facendo cenno a una carrozza di passaggio
mi recai in Portland Street, fino a un albergo di
cui casualmente ricordavo il nome. Vedendo il
mio aspetto (indubbiamente piuttosto comico,
per quanto tragico fosse il destino che quei panni
coprivano) il guidatore non poté nascondere il
suo divertimento. Gli digrignai i denti in uno
scoppio di furia diabolica, e il sorriso si dileguò
dalla sua faccia: fortunatamente per lui, e ancora
più fortunatamente per me, perché in un altro
momento l’avrei certamente scaraventato giù di
cassetta. Nell’albergo, quando entrai, mi guardai
intorno con un’aria così truce che fece tremare il
personale; non si scambiarono in mia presenza
nemmeno un’occhiata, ascoltarono i miei ordini
con ossequio, mi condussero a una saletta privata
e mi portarono l’occorrente per scrivere.
Hyde in pericolo di vita era una creatura nuo-
va per me; scosso da una rabbia convulsa, pronto
a commettere un omicidio, bramoso di infliggere
dolore. Eppure la creatura era astuta; padroneg-
giò la sua furia con un grande sforzo di volontà;
119
scrisse le due lettere decisive, una a Lanyon e
una a Poole; e per avere la prova materiale del
loro invio, ordinò di spedirle per raccomandata.
Dopodiché rimase seduto per tutto il giorno ac-
canto al fuoco nella saletta privata, mordendosi
le unghie; quindi cenò lì, seduto da solo con le
sue paure, con il cameriere che tremava quando
incontrava il suo sguardo; e alla fine, a notte fon-
da, si rannicchiò nell’angolo di una carrozza e si
fece condurre avanti e indietro lungo le strade
della città.
Lui, dico… Non riesco a dire io. Quel figlio
dell’inferno non aveva nulla di umano; in lui non
allignava altro che paura e odio. E quando alla
fine, pensando che il conducente incominciasse a
insospettirsi, congedò la carrozza e si avventurò
a piedi, abbigliato con un vestito fuori misura e
ritrovandosi oggetto di commenti da parte dei
passanti notturni, quelle due passioni basilari in-
furiarono in lui come un uragano. Camminava
in fretta, inseguito dalle sue paure, parlottando
fra sé e sé, sgattaiolando lungo le vie meno fre-
quentate, contando i minuti che ancora lo sepa-
ravano dalla mezzanotte. A un certo punto una
donna gli rivolse la parola, credo per vendergli
una scatola di fiammiferi. La colpì sul viso, e
quella fuggì via.
Quando ritornai me stesso davanti a Lanyon,
l’orrore del mio vecchio amico ebbe forse qual-
che effetto su di me: non saprei dirlo; era comun-
120
que solo una goccia nel mare rispetto all’orrore
con cui riandavo alle ore precedenti. Si era verifi-
cato in me un mutamento: non era più la paura
del patibolo a torturarmi, era l’orrore di essere
Hyde. Ascoltai le parole di condanna da parte di
Lanyon come in sogno; e come in sogno giunsi a
casa mia e mi misi a letto. Dopo la prostrazione
della giornata dormii di un sonno pesante e pro-
fondo che nemmeno gli incubi che mi opprime-
vano riuscirono a interrompere. Al mattino mi
svegliai scosso, indebolito, ma ritemprato. Odia-
vo e temevo ancora l’idea del bruto che dormiva
dentro di me, e naturalmente non avevo dimenti-
cato gli stremanti pericoli della vigilia; ma ero di
nuovo da me, in casa mia e con le droghe a porta-
ta di mano; e il sollievo per averla scampata
splendeva così forte nel mio spirito da rivaleggia-
re quasi con la luce della speranza. Stavo oziosa-
mente passeggiando nel cortile dopo colazione,
inalando con piacere l’aria frizzante, quando
venni ancora colto dalle indescrivibili sensazioni
che annunciavano la metamorfosi; ed ebbi appe-
na il tempo di guadagnare il riparo del mio gabi-
netto prima di ritrovarmi di nuovo incendiato e
agghiacciato dalle passioni di Hyde. Questa volta
ci volle una dose doppia per restituirmi a me
stesso; e ahimè! sei ore dopo, mentre guardavo
mestamente il fuoco, le fitte si ripresentarono, e
mi dovetti risomministrare la droga.
A farla breve, da quel giorno in avanti sembrò
121
che solo con un grande sforzo, quasi atletico, e
solo sotto lo stimolo immediato della droga, riu-
scissi a mantenere l’aspetto di Jekyll. Il brivido
premonitore poteva cogliermi a qualsiasi ora del
giorno o della notte; e soprattutto, se mi addor-
mentavo, o sonnecchiavo anche solo un momento
in poltrona, era sempre come Hyde che mi risve-
gliavo. Sotto la tensione di questa perenne mi-
naccia, e per l’insonnia cui io stesso mi condan-
nai, sì, anche oltre quanto ritenevo possibile per
un essere umano, divenni, nella mia stessa perso-
na, una creatura divorata e svuotata dalla febbre,
indebolita sia nel corpo sia nella mente, e occupa-
ta da un solo pensiero: l’orrore del mio altro io.
Ma quando dormivo, o quando il potere della
medicina veniva meno, balzavo quasi senza tran-
sizione (perché le fitte della metamorfosi diven-
tavano ogni giorno meno forti) nelle spire di una
fantasia ricolma di immagini di terrore, di un’a-
nima ribollente di odi immotivati e di un corpo
che non sembrava abbastanza forte per contene-
re le rabbiose energie della vita.
I poteri di Hyde sembravano crescere con l’in-
debolimento di Jekyll. E certamente l’odio che
ora li divideva era uguale da ambo le parti. Per
Jekyll era una questione di istinto vitale. Ora ave-
va visto l’assoluta deformità della creatura che
condivideva con lui alcuni fenomeni della co-
scienza, e insieme alla quale avrebbe ereditato la
morte: e al di là di quei legami in comune, che già
122
di per sé erano l’elemento più acuto della sua an-
goscia, pensava a Hyde, a dispetto di tutta la sua
energia vitale, come a qualcosa non solo di infer-
nale ma anche di inorganico. Questa era la cosa
sconvolgente: che la melma in fondo al pozzo
sembrasse emettere grida e voci; che la polvere
amorfa gesticolasse e peccasse; che ciò che era
morto e non aveva forma usurpasse le funzioni
della vita. E questo, anche: che quell’orrore ribel-
le gli fosse cucito addosso più di una moglie, più
di un occhio; che fosse ingabbiato nella sua car-
ne, dove lo sentiva brontolare e ne percepiva lo
sforzo di venire alla luce; e in ogni momento di
debolezza, e nell’abbandono del sonno, prevales-
se su di lui, e lo escludesse dalla vita.
L’odio di Hyde per Jekyll era di tipo differen-
te. Il terrore del patibolo lo spingeva in continua-
zione a commettere un suicidio temporaneo per
tornare al ruolo subordinato di parte anziché di
individuo; ma odiava questa necessità, odiava lo
sconforto in cui Jekyll era ora caduto, e ricambia-
va l’avversione con cui egli stesso era considera-
to. Di qui tutti gli scherzi scimmieschi che mi fa-
ceva, scarabocchiando con la mia grafia bestem-
mie sulle pagine dei miei libri, bruciando le lette-
re e distruggendo il ritratto di mio padre; e certo,
se non fosse stato per la sua paura della morte, si
sarebbe rovinato da un pezzo pur di trascinarmi
con sé. Ma il suo attaccamento alla vita è prodi-
gioso: dico di più: io, che mi sento male e mi ag-
123
ghiaccio al solo pensare a lui, quando considero
l’abiezione e la passione di un simile attaccamen-
to, e quando mi rendo conto di quanto egli tema
il mio potere di eliminarlo per mezzo del suici-
dio, in fondo al mio cuore provo pietà per lui.
È inutile – e me ne manca spaventosamente il
tempo – prolungare questo resoconto; basti dire
che nessuno ha mai patito tormenti simili; eppure
anche ad essi ho fatto l’abitudine: non parlo di
sollievo, ma di un certo indurimento dello spirito,
di una certa familiarità con la disperazione; e il
mio castigo sarebbe potuto andare avanti per an-
ni, non fosse stato per la sciagura che ora mi è
piombata addosso, separandomi definitivamente
dal mio aspetto e dalla mia natura.
La mia scorta di sali, che non era più stata rin-
novata dai tempi del primo esperimento, inco-
minciò a scarseggiare. Mandai a cercarne una
nuova fornitura e preparai la pozione: c’è stata
l’ebollizione, poi il primo cambiamento di colore,
ma non il secondo; l’ho bevuta e non ha fatto ef-
fetto. Apprenderete da Poole quanto io abbia ro-
vistato per tutta Londra: tutto inutile. E ora mi
sono persuaso che la mia prima scorta fosse im-
pura, e che sia stata quella sconosciuta impurità a
dare efficacia alla pozione.
È passata circa una settimana, e sto conclu-
dendo questa confessione sotto l’azione dell’ulti-
mo rimasuglio delle vecchie polveri. Questa,
dunque, a meno di un miracolo, è l’ultima volta
124
che Henry Jekyll può articolare i propri pensieri
o vedere nello specchio il proprio volto (quanto
tristemente devastato!). Non posso ritardare ulte-
riormente la conclusione del mio scritto; perché
se il mio racconto ha eluso fin qui la distruzione,
è stato solo per una combinazione di grande pru-
denza e di buona sorte. Se gli spasmi del cambia-
mento dovessero sorprendermi mentre scrivo,
Hyde farebbe la mia confessione a pezzetti; ma
se dopo che la avrò messa da parte sarà passato
un po’ di tempo, il suo prodigioso egocentrismo e
la sua concentrazione sul presente probabilmente
la salverebbero ancora una volta dai suoi dispetti
scimmieschi. E certo il destino che incombe su di
noi ha già cambiato e schiacciato anche lui. Fra
mezz’ora, quando sarò ancora e per sempre tor-
nato a quell’odiosa personalità, so che mi ritrove-
rò a rabbrividire e a piagnucolare seduto sulla
mia poltrona, o continuerò, tendendo l’orecchio
con il più snervato e atterrito parossismo, a cam-
minare avanti e indietro in questa stanza (mio ul-
timo rifugio terreno) prestando orecchio a ogni
suono minaccioso.
Morirà sul patibolo, Hyde? O all’ultimo mo-
mento troverà il coraggio di liberarsi? Dio solo lo
sa; a me non importa; il vero momento della mia
morte è questo, e ciò che seguirà riguarda un al-
tro. Qui allora, mentre depongo la penna e pro-
cedo a sigillare la mia confessione, pongo fine
alla vita dell’infelice Henry Jekyll.
CRONOLOGIA DELLA VITA
E DELLE OPERE
127
dal contatto con il mondo esterno, prosegue
gli studi sotto la guida di un tutore. Il padre,
che sempre si disinteresserà della carriera sco-
lastica del figlio, coltiva comunque la radicata
convinzione che sarà comunque la Provviden-
za a guidare Robert verso la sua stessa profes-
sione, di ingegnere progettista di fari marini
per il «Board of Northern Lights».
128
rea nel 1875, ma non intraprende l’esercizio
della professione.
129
racche abbandonate dai minatori nelle monta-
gne a nord di San Francisco; è tra crotali e
piante velenose che nasce The Silverado
Squatters. Per probabile intercessione di alcu-
ni amici e grazie all’opera di mediazione di
Fanny, riceve dal padre aiuti economici che gli
permettono di tornare in Scozia con la moglie
e il figliastro Lloyd.
La pubblicazione a fascicoli di The Silverado
Squatters e la vendita in America dei diritti di
un romanzo per ragazzi, Treasure Island, scrit-
to prendendo spunto da una mappa disegnata
per gioco con Lloyd, rendono meno precarie
le condizioni economiche della famiglia, che
soggiorna ininterrottamente, a partire dal
1880, tra Nizza e Marsiglia.
In questi anni Stevenson lavora a Prince Otto
e pubblica a fascicoli in «Young Folks» The
Black Arrow. Nel 1886 escono Kidnapped e
The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde.
Stringe amicizia con Henry James; ne nascerà
un nutrito e celebre epistolario.
130
che tocca le Isole Marchesi, Tahiti, Honolulu e
le Isole Gilbert.
131
BIBLIOGRAFIA
Opere
133
Fra le principali traduzioni italiane delle ope-
re di Stevenson, si possono citare: Opere, Milano
1929, traduttori vari; Romanzi e racconti, Roma
1950, con intr. di L. Cecchi; Tutte le opere, Mila-
no 1967, a cura di U. Mursia. Pregevoli alcune
traduzioni di singoli romanzi come L’isola del te-
soro, a cura di A.S. Novaro, Milano 1932 e quella
a cura di P. Jahier, Torino 1963 o il Dottor Jekyll
e il Signor Hyde, Torino 1967; Nei mari del sud,
Roma 1944 a cura di C. Alvaro. Da segnalare an-
che le edizioni a cura di S. Rossi (edizione bilin-
gue), Milano 1982; di Fruttero e Lucentini, Tori-
no 1983; di A. Brilli, Milano 1985 e di L. Ferruta,
Milano 1987.
Biografie
134
Saggi critici
135
niana, si vedano: M. Praz, Successo di Stevenson,
in Cronache letterarie anglosassoni, vol. I, Roma
1950; M. Praz, Introduzione a Weir di Hermiston,
Saggi di letteratura e d’arte, Milano 1952; C. Pa-
vese, Robert L. Stevenson, in La letteratura ame-
ricana e altri saggi, Torino 1953; E. Cecchi, Scrit-
tori inglesi e americani, Milano 1962; S. Rosati,
Introduzione a Tutte le opere di Robert Louis
Stevenson, Milano 1967; G. Almansi, Robert
Louis Stevenson: L’isola del romanzo, Palermo
1987; G. Fink, Robert Louis Stevenson. Lo stra-
no caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde, Tori-
no 1990; C. de Stasio, Introduzione a Stevenson,
Bari 1991; R. Ambrosini, Robert Louis Steven-
son: La poetica del romanzo, Roma 2001; R.
Ambrosiani, Robert Louis Stevenson, Joseph
Conrad, e la nascita del romanzo coloniale, Ro-
ma 2003; C. Pagetti e E. Orestano (a cura di), Il
gioco dei cerchi concentrici, Milano 2003, pp.
105-111.
136
1999; F. Cleto, Lo “strano” caso di Dr Jekyll e Mr
Hyde, in Percorsi del dissenso nel secondo otto-
cento britannico, Genova 2001, pp. 195-212; id.,
La strategia del finale in “The strange case of Dr
Jekyll and Mr Hyde” di Robert Louis Stevenson,
«Strumenti critici», maggio 2004, pp. 171-188;
R. Kobetts Miller, Recent Reinterpretations of
Stevenson’s Dr Jekyll and Mr Hyde. Why and
How This Novel Continues to Affect Us, Lewiston
2005; T. L. Reed, Jr., The Transforming Draught:
Jekyll and Hyde, Robert Louis Stevenson and the
Victorian Alcohol Debate, Jefferson 2006; D.
Nunnari, Dalla parte del bene e del male. Note a
margine di una lettura, Enter 2012.
137
INDICE