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JEFFERY DEAVER

LA LACRIMA DEL DIAVOLO


(The Devil's Teardrop, 1999)

Per Madelyn

I
L'ULTIMO
GIORNO
DELL'ANNO

L'analisi accurata di una lettera anonima può ridurre enormemente


il numero di autori possibili e può al tempo stesso escludere alcu-
ni sospetti autori della medesima. L'uso di un punto e virgola o
l'uso corretto di un apostrofo possono eliminare un intero gruppo
di autori.

OSBORN & OSBORN


QUESTIONED DOCUMENT PROBLEMS

1
08,55

Il Becchino è in città.
Il Becchino assomiglia a te, il Becchino assomiglia a me. Cammina lun-
go le strade fredde e tristi proprio come camminerebbe chiunque altro, le
spalle strette a difendersi dall'aria umida di dicembre.
Non è alto e non è basso, non è grasso e non è magro. Le sue dita, nei
guanti scuri, potrebbero essere grassocce, ma potrebbero anche non esser-
lo. I suoi piedi sembrano grandi, ma forse è soltanto la misura delle scarpe.
Se lo guardassi negli occhi, non ne noteresti la forma e il colore, ma ti
accorgeresti solo che non sembrano del tutto umani, e se il Becchino guar-
dasse te mentre tu lo stai guardando, i suoi occhi potrebbero tranquilla-
mente essere l'ultima cosa che vedi in vita tua.
Indossa un lungo impermeabile nero, oppure blu scuro, e nemmeno u-
n'anima per la strada lo nota nonostante ci siano molti testimoni - le strade
di Washington, D.C., sono affollate perché è l'ora di punta del mattino.
Il Becchino è in città ed è l'ultimo dell'anno.
Portando una borsa della spesa di Fresh Fields, il Becchino devia intorno
a coppiette e famiglie e continua a camminare. Davanti a sé vede la stazio-
ne della metropolitana. Gli è stato detto di arrivare lì alle nove del mattino
in punto, e lui ci sarà. Il Becchino non arriva mai in ritardo.
La borsa che tiene in mano (forse grassoccia, forse no) è pesante. Pesa
cinque chili e mezzo, anche se quando il Becchino farà ritorno nella sua
stanza d'albergo peserà decisamente meno.
Un uomo gli sbatte contro e dice: «Mi scusi», ma il Becchino non lo
guarda. Il Becchino non guarda mai nessuno e non vuole che nessuno
guardi lui.
«Non permettere che nessuno...» Click. «... che nessuno veda la tua fac-
cia. Guarda da un'altra parte. Te lo ricorderai?»
Me lo ricorderò.
Click.
Guarda le luci, pensa, guarda le... click... le decorazioni per la notte di
Capodanno. Bimbi cicciottelli sugli striscioni. L'Anno Vcchio.
Buffe decorazioni. Buffe luci. Buffo come siano belle.
Quella è DuPont Circle, casa del denaro, casa dell'arte, casa dei giovani
e degli chic. Il Becchino lo sa, ma lo sa unicamente perché l'uomo che gli
dice le cose gli ha parlato di DuPont Circle.
Il Becchino pensa a sua moglie, in giorni come quello. Pamela non ama-
va il buio e il freddo, così lei... click... lei... Che cosa faceva Pamela? Ah,
sì, giusto. Piantava fiori rossi e fiori gialli.
Guarda la metropolitana e pensa a un'immagine che ha visto una volta.
Lui e Pamela erano in un museo. Avevano visto una vecchia incisione.
E Pamela aveva detto: «Mi fa paura. Andiamo via».
Era l'immagine dell'entrata dell'inferno.
Il tunnel della metropolitana scompare venti metri sottoterra. Passeggeri
che salgono, passeggeri che scendono. Assomiglia proprio a quell'immagi-
ne.
L'entrata dell'inferno.
Ci sono giovani donne con i capelli tagliati corti e valigette nelle mani.
Ci sono uomini giovani con i loro telefoni cellulari e le loro borse sportive.
E c'è il Becchino con la sua borsa della spesa.
Forse è grasso, forse è magro. Assomiglia a te, assomiglia a me. Nessu-
no si accorge mai del Becchino, e questo è uno dei motivi per cui è tanto
bravo a fare ciò che fa.
«Sei il migliore», gli ha detto l'anno prima l'uomo che gli dice le cose.
Tu sei il... click, click... il migliore.
Alle 8,59 il Becchino avanza fino alla sommità della scala mobile che
scende, piena di persone che scompaiono lentamente nel pozzo.
Infila una mano nella borsa e posiziona il dito intorno alla comoda im-
pugnatura del fucile, che potrebbe essere un Uzi o un Mac-10 o magari an-
che un Intertech, ma che pesa senza dubbio cinque chili e mezzo ed è
completato da un caricatore con cento proiettili da fucile calibro 22.
Il Becchino ha fame di minestra, ma ignora la sensazione.
Perché lui è il... click... il migliore.
Non guarda la folla, ma guarda verso la folla che aspetta il proprio turno
per salire sulla scala mobile che li porterà tutti all'inferno. Non guarda le
coppie o i single o gli uomini con i cellulari o le donne con il taglio di ca-
pelli di Supercuts, che era il posto dove andava Pamela. Non guarda le fa-
miglie. Si tiene la borsa della spesa stretta al petto, nel modo in cui la ter-
rebbe chiunque se fosse piena di regali. Una mano sull'impugnatura del fu-
cile - quale esso sia - l'altra mano ripiegata fuori dalla borsa intorno a quel-
la che qualcuno potrebbe scambiare per una forma di pane di Fresh Fields
che si sposerebbe alla perfezione con la minestra, ma che in realtà è un
massiccio silenziatore, imbottito di cotone minerale e di deflettori di
gomma.
Il suo orologio emette un doppio bip.
Le nove.
Il Becchino preme il grilletto.
Si sente un suono sibilante quando il torrente di proiettili comincia a far-
si largo fra le persone sulla scala mobile, e loro si piegano in avanti sotto
l'impatto. Il sommesso hush hush hush del fucile automatico viene im-
provvisamente sommerso dalle grida.
«Oh Dio state attenti Gesù Gesù cosa sta succedendo sono ferito sto ca-
dendo», e cose del genere.
Hush hush hush.
E tutti i clangori terribili dei colpi mancati - i proiettili che colpiscono il
metallo e le piastrelle. Quel rumore è molto forte. Il rumore dei colpi anda-
ti a segno è molto più tenue.
Tutti si guardano intorno, senza capire cosa sta succedendo.
Anche il Becchino si guarda intorno. Tutti sono perplessi. Anche lui è
perplesso.
Nessuno pensa che gli stiano sparando. Credono che qualcuno sia caduto
e abbia innescato un meccanismo a catena di persone che rotolano giù per
la scala mobile. Clangori e schianti di cellulari, valigette e borse sportive
che cadono dalle mani delle vittime.
I cento proiettili finiscono in un secondo.
Nessuno nota il Becchino che si guarda intorno come chiunque altro.
Accigliato.
«Chiamate un'ambulanza la polizia mio Dio questa bambina ha bisogno
di aiuto ha bisogno di aiuto qualcuno venga qualcuno è morto oh Gesù Si-
gnore la sua gamba guardate la sua gamba la mia bambina la mia bambi-
na...»
Il Becchino abbassa la borsa della spesa, che ora ha un piccolo foro sul
fondo nel punto in cui sono usciti i proiettili. La borsa trattiene in sé l'otto-
ne bollente dei bossoli.
«Spegnete spegnete fermate la scala mobile oh Gesù qualcuno la fermi
qualcuno fermi la scala mobile li sta schiacciando...»
Cose del genere.
Il Becchino guarda. Perché tutti stanno guardando.
Ma è difficile riuscire a vedere dentro l'inferno. Sotto di lui c'è soltanto
una massa di corpi che si va impilando, sempre più alta, brulicante... Alcu-
ni sono vivi, altri sono morti, altri ancora stanno lottando per uscire da sot-
to la massa che si sta ammucchiando alla base della scala mobile.
Il Becchino indietreggia lentamente tra la folla. Poi scompare.
È molto bravo a scomparire. «Quando te ne vai devi comportarti come
un camaleonte», gli ha detto l'uomo che gli dice le cose. «Sai cos'è un ca-
maleonte?»
«Una lucertola.»
«Esatto.»
«Che cambia colore. L'ho visto alla televisione.»
Il Becchino sta camminando lungo i marciapiedi affollati di gente che
corre da una parte e dall'altra. Buffo.
Buffo...
Nessuno si accorge di lui.
Lui che assomiglia a te e assomiglia a me e assomiglia alle porte delle
case. Il cui volto è bianco come il cielo del mattino. Oppure scuro come
l'entrata dell'inferno.
Mentre cammina - lentamente, lentamente, non correre, non correre mai
- pensa al suo albergo. Dove ricaricherà il suo fucile e ricompatterà il si-
lenziatore con il cotone minerale e poi si siederà sulla sua poltrona con una
bottiglia d'acqua e una ciotola di minestra accanto a sé. Si siederà e si ri-
lasserà fino a quel pomeriggio e poi - se l'uomo che gli dice le cose non gli
lascia un messaggio per dirgli di non farlo - indosserà una volta ancora il
suo lungo impermeabile nero o blu scuro e uscirà di nuovo.
E lo farà un'altra volta.
È l'ultimo dell'anno. E il Becchino è in città.

Mentre le ambulanze sfrecciavano verso DuPont Circle e gli uomini dei


reparti di soccorso scavavano nella miniera di corpi alla stazione della me-
tropolitana, Gilbert Havel camminava verso il Municipio, a tre chilometri
di distanza.
All'angolo tra la Quarta e la D, accanto a un acero, Havel si fermò, aprì
la busta che portava con sé e lesse la lettera un'ultima volta.

Quella era, decise Havel, l'idea più perfetta che si potesse pensare. Mesi
di pianificazione. Ogni possibile risposta della polizia o dell'FBI anticipata
in ogni particolare. Una partita a scacchi.
Reso euforico da quel pensiero, rimise la lettera nella busta, la chiuse
senza sigillarla e riprese a camminare lungo la strada. Procedeva curvo, lo
sguardo basso, in una posa atta a diminuire agli occhi dei passanti il suo
metro e ottantotto di altezza. Gli riusciva difficile, però: preferiva cammi-
nare diritto e guardare le persone dall'alto in basso.
La sicurezza al Municipio era ridicola. Havel oltrepassò l'ingresso del-
l'ordinario edificio di pietra al numero uno di Judiciary Square e si fermò
davanti a un distributore automatico di giornali. Fece scivolare la busta
sotto la macchina e si voltò lentamente, camminando verso la E Street.
Faceva caldo per essere l'ultimo dell'anno, stava pensando. L'aria aveva
un odore autunnale: foglie marce e fumo umido. A quell'odore avvertì una
fitta di nostalgia indefinita. Si fermò a una cabina telefonica all'angolo, in-
serì qualche moneta e compose un numero.
«Municipio. Sicurezza», rispose una voce.
Havel avvicinò al telefono un piccolo registratore con una cassetta inse-
rita e premette il tasto PLAY. Una voce generata da un computer disse:
«Busta di fronte all'edificio. Sotto la macchina che vende il Post. Leggete-
la subito. Riguarda la sparatoria della metropolitana». Riagganciò e attra-
versò la strada, lasciando cadere il registratore in un bicchiere di carta e
poi gettando il tutto in un cestino.
Entrò in un bar e si sedette di fronte alla vetrina, da dove poteva osserva-
re facilmente il distributore automatico di giornali e l'entrata laterale del
Municipio. Voleva assicurarsi che la busta fosse raccolta - e fu così, prima
ancora che Havel avesse il tempo di togliersi la giacca. Voleva anche vede-
re chi sarebbe arrivato a consigliare il sindaco. E se fossero arrivati anche i
giornalisti.
La cameriera si fermò accanto al suo tavolo. Havel ordinò del caffè e,
nonostante fosse ancora ora di colazione, un panino alla carne, il piatto più
costoso del menu. E perché no? Stava per diventare un uomo molto ricco.

2
10,00

«Papà, parlami del Barcaiolo.»


Parker Kincaid si fermò e posò a terra il secchio di metallo che stava la-
vando.
Aveva imparato a non allarmarsi mai per qualcosa che chiedevano i
bambini - o meglio, a non apparire mai allarmato - e così sorrise al piccolo
mentre si asciugava le mani con dei fazzoletti di carta.
«Il Barcaiolo?» domandò al figlio di nove anni. «Ci puoi scommettere.
Cosa vuoi sapere?»
La cucina di casa Kincaid a Fairfax, in Virginia, era profumata dagli o-
dori di un pranzo festivo in via di preparazione. Cipolle, salvia, rosmarino.
Il bambino guardò fuori dalla finestra e non disse nulla.
«Continua», lo incoraggiò Parker. «Dimmi.»
Robby era biondo e aveva gli occhi azzurri come quelli di sua madre.
Indossava una maglietta viola e un paio di pantaloni marroni, stretti in vita
da una cintura di Ralph Lauren. Il ciuffetto ribelle quella mattina pendeva
verso sinistra.
«Voglio dire», cominciò il bambino, «lo so che è morto e tutto il re-
sto...»
«Esattamente», disse Parker. Non aggiunse altro. («Mai dire ai bambini
più di ciò che hanno chiesto.» Questa era una delle regole del Manuale per
genitori single di Parker Kincaid, una guida che esisteva soltanto nella sua
mente ma a cui Parker faceva riferimento praticamente ogni giorno.)
«È solo che fuori... a volte sembra che sia lui. Voglio dire, ho guardato
fuori ed è come se lo potessi vedere.»
«E cosa facciamo quando hai questi pensieri?»
«Prendo il mio scudo e l'elmo, e se è buio accendo le luci.»
Parker rimase in piedi. Solitamente, quando aveva conversazioni serie
con i suoi figli, preferiva l'approccio alla stessa altezza. Ma quando emer-
geva il soggetto del Barcaiolo, il terapeuta si era raccomandato che Parker
restasse in piedi... per far sentire il bambino al sicuro alla presenza di un
adulto forte e protettivo. E c'era qualcosa, in Parker Kincaid, che ispirava
un senso di sicurezza. Aveva soltanto quarant'anni, era alto - poco più di
un metro e ottanta - ed era in buona forma fisica, quasi come ai tempi del-
l'università. E questo non grazie all'aerobica o alle palestre, ma ai suoi due
figli e alle loro partite di calcio e di basket, ai loro tornei di frisbee e alle
consuete corse familiari della domenica mattina (be', la corsa di Parker, in
realtà: generalmente era lui a correre dietro alle loro biciclette nel parco
del quartiere).
«Andiamo a dare un'occhiata, okay? Nel punto in cui pensi di averlo vi-
sto.»
«Okay.»
«Hai l'elmo e lo scudo?»
«Proprio qui.» Il bambino si picchiettò la testa e sollevò il braccio sini-
stro come un cavaliere d'altri tempi.
«Niente male. Ho anch'io i miei», disse Parker imitando i gesti del figlio.
Camminarono fino alla veranda posteriore.
«Vedi, quei cespugli», indicò Robby.
Parker osservò il terreno che si stendeva per mezzo acro in un vecchio
lotto trenta chilometri a ovest di Washington, D.C. La sua proprietà consi-
steva per la maggior parte di erba e di aiuole fiorite. Ma, in fondo, c'era un
agglomerato di forsythia e di cespugli di edera e kudzu che si riprometteva
di tagliare da quasi un anno. In effetti, se si socchiudevano le palpebre, una
parte della vegetazione in quel punto assomigliava davvero a una forma
umana.
«Certo che ha un aspetto inquietante», concesse Parker. «Senza dubbio.
Ma tu sai che il Barcaiolo è venuto tanto tempo fa.» Non aveva alcuna in-
tenzione di minimizzare la paura del bambino facendogli notare che si era
spaventato a causa di qualche cespuglio incolto, ma comunque voleva tra-
smettere a Robby un senso di lontananza dall'incidente.
«Lo so. Ma...»
«Quanto tempo è passato?»
«Quattro anni», rispose Robby.
«E non è molto tempo?»
«Sì. Credo di sì.»
«Fammi vedere.» Allargò le braccia. «Tanto così?»
«Forse.»
«Io credo che sia ancora di più.» Parker allargò ulteriormente le braccia.
«Un tempo lungo come quel pesce che abbiamo pescato sul lago di Brad-
dock?»
«Quello era lungo così», disse il bambino cominciando a sorridere e al-
largando a sua volta le braccia.
«No, era lungo così», ribatté Parker accompagnando al gesto una smor-
fia esagerata.
«No, no, era lungo così.» Il bambino saltellò da un piede all'altro, solle-
vando le braccia.
«Era più lungo!» scherzò Parker. «Più lungo.»
A quel punto, Robby corse fino al lato opposto della casa, alzando un
braccio. Poi corse indietro e alzò l'altro. «Era lungo così!»
«Gli squali sono così lunghi», strillò Parker. «No, una balena, no, una
medusa gigante. Ah, no, aspetta, lo so... una Mazurka col Ciuffo!» Una
creatura del programma Se lo Zoo fosse mio. Robby e Stephie adoravano il
dottor Seuss. Parker aveva soprannominato i bambini «i Chi», dagli anima-
li di Horton sente un Chi, che era la loro storia preferita in assoluto, ancor
di più di Winnie the Pooh.
Parker e Robby giocarono a rincorrersi in casa per qualche minuto,
quindi Parker prese il bambino tra le braccia per una breve ma intensa dose
di solletico.
«Sai una cosa?» disse poi, ansimando.
«Cosa?»
«Che ne dici se domani tagliamo quei cespugli?»
«Posso usare io la sega?» domandò immediatamente il bambino.
Oh, sono sempre pronti a raccogliere qualsiasi opportunità, pensò Par-
ker ridendo tra sé.
«Vedremo», disse.
«Perfetto!» Robby uscì danzando dalla cucina, i ricordi del Barcaiolo
perduti nell'euforia della promessa. Corse al piano di sopra e Parker udì
qualche frammento di bonaria discussione tra fratello e sorella per decidere
quale gioco Nintendo usare. A quanto pareva, fu Stephanie a vincere e po-
co dopo il tema orecchiabile di SuperMario echeggiò nella casa.
Lo sguardo di Parker si soffermò sui cespugli in fondo al giardino.
Il Barcaiolo...
Scosse il capo.
Suonarono alla porta. Parker lanciò un'occhiata in soggiorno, ma i bam-
bini non avevano sentito. Camminò fino alla porta e la aprì.
La donna, attraente, gli rivolse un ampio sorriso. Gli orecchini le pende-
vano al di sotto dei capelli tagliati corti, ancora più biondi del solito a cau-
sa del sole (Robby aveva lo stesso colore, mentre Stephanie si avvicinava
di più al castano di Parker). L'abbronzatura era perfetta.
«Be', ciao», salutò Parker in tono esitante.
Guardò alle spalle della donna e fu sollevato nel vedere che il motore
della Cadillac beige parcheggiata nel vialetto d'accesso era ancora acceso.
Richard era al volante, intento a leggere il Wall Street Journal.
«Ciao, Parker. Siamo appena arrivati a Dulles.» La donna lo abbracciò.
«Dove... dove eravate?»
«A St. Croix. È stato meraviglioso. Oh, rilassati. Il tuo linguaggio del
corpo... mi fermo soltanto un minuto.»
«Hai un bell'aspetto, Joan.»
«Mi sento bene, infatti. Mi sento proprio bene. Ma non so se posso dire
lo stesso di te, Parker. Mi sembri pallido.»
«I bambini sono di sopra...» Si voltò per chiamarli.
«No, va bene così», cominciò Joan.
«Robby, Stephie! C'è vostra madre.»
Tonfi sulle scale. I Chi voltarono l'angolo a rotta di collo e corsero da
Joan, che sorrise, anche se Parker vide chiaramente che avrebbe preferito
che lui non li avesse chiamati.
«Mamma, sei tutta abbronzata!» disse Stephie, ravviandosi i capelli in
perfetto stile Spice Girls. Robby era un cherubino; Stephanie aveva un viso
lungo e serio che, sperava Parker, avrebbe cominciato a sembrare intellet-
tuale e intimidatorio ai suoi coetanei maschi quando avesse avuto dodici o
tredici anni.
«Dov'eri, mamma?» volle sapere Robby, accigliato.
«Nei Caraibi. Papà non ve l'ha detto?» Un'occhiata a Parker. Sì, gliel'a-
veva detto. Joan non riusciva a capire che ciò per cui i bambini erano in-
quieti non era la mancanza di comunicazione, ma il fatto che lei non fosse
stata in Virginia nel periodo di Natale.
«Avete passato delle belle vacanze?» domandò Joan.
«Ci hanno regalato un hockey ad aria e stamattina ho battuto Robby tre
volte.»
«Ma io ho buttato dentro il dischetto quattro volte di fila!» protestò
Robby. «Non ci hai portato niente dal tuo viaggio?»
Parker vide subito, dall'espressione di Joan, che se n'era dimenticata. Jo-
an guardò verso la macchina. «Certo che sì. Ma, sapete, ho lasciato i regali
in valigia. Sono passata soltanto per un attimo per salutarvi e per parlare
un minuto con vostro padre. Ve li porterò domani quando verrò a trovar-
vi.»
Con dei regali che avrebbe comprato in uno dei pochi negozi aperti la
mattina del primo dell'anno.
«Ah», continuò Stephie, «e io ho ricevuto un pallone da calcio e il nuo-
vo gioco di SuperMario e il set completo di Wallace e Gromit...»
«Che carino.»
«E a me hanno regalato una Stella della Morte e un Millennium Falcon.
E poi siamo andati a vedere Lo Schiaccianoci.»
«E avete ricevuto i miei regali?» domandò Joan.
«Uh-uh», disse Stephie. «Grazie.» La bambina fu assolutamente educa-
ta, ma le Barbie vestite da sera per lei non avevano più alcun interesse. Le
bambine di otto anni di adesso non erano uguali a quelle dell'infanzia di
Joan.
«Papà ha riportato indietro la mia camicia», spiegò Robby, «e ne ha pre-
sa una della taglia giusta.»
«Gli ho detto io di farlo nel caso non ti fosse andata bene», si affrettò a
dire Joan. «Volevo soltanto che aveste qualcosa.»
«Non siamo riusciti a parlare con te, a Natale», disse Stephie.
«Oh», rispose Joan alla figlia. «Era così difficile telefonarvi da dove e-
ravamo. Era come l'Isola di Gilligan. I telefoni non funzionavano mai.»
Accarezzò i capelli del bambino. «E, dopotutto, voi non eravate a casa.»
Stava incolpando loro. Joan non aveva ancora imparato che la colpa non
era mai dei bambini, non a quell'età. Se facevi qualcosa di sbagliato, la
colpa era tua. E, se erano loro a fare qualcosa di sbagliato, la colpa era u-
gualmente tua.
Oh, Joan... Erano le sottigliezze come quella - il leggero spostamento del
senso di colpa - che lei, semplicemente, non riusciva a capire. Potevano fe-
rire come uno schiaffo. Ciò nonostante, Parker non disse nulla. («Mai
permettere che i bambini vedano i loro genitori litigare.»)
Joan si alzò. «Adesso io e Richard dobbiamo andare a prendere Elmo e
Saint al canile. Quei poveri cuccioli sono rimasti in gabbia tutta la settima-
na.»
Robby si animò ancora una volta. «Stasera faremo una festa e guardere-
mo i fuochi d'artificio in televisione e poi giocheremo al Monopoli di
Guerre stellari.»
«Oh, sarà davvero divertente», disse Joan. «Io e Richard andremo al
Kennedy Center. C'è un'opera. Vi piace l'opera, vero?»
Stephie si strinse nelle spalle con quell'espressione enigmatica che nel-
l'ultimo periodo usava spesso, quando le veniva posta una domanda.
«È una commedia dove le persone cantano la storia», spiegò Parker ai
bambini.
«Magari una volta o l'altra io e Richard vi porteremo. Vi piacerebbe?»
«Credo di sì», rispose Robby. Il che era forse il massimo che un bambi-
no di nove anni poteva esprimere nei confronti della cultura di un certo li-
vello.
«Aspetta», sbottò Stephie, quindi si voltò e salì le scale di corsa.
«Tesoro, non ho molto tempo. Noi...»
La bambina tornò un attimo dopo e le porse la sua nuova divisa da cal-
cio.
«Oh», disse sua madre. «È proprio carina.» Non sapendo esattamente
che cosa fare, Joan la tenne goffamente fra le mani, come un bambino che
ha appena pescato un pesce e non è sicuro di volerlo.
Prima il Barcaiolo, adesso Joan, pensò Parker. Il passato si intromette,
oggi. Be', e perché no? Dopotutto, era l'ultimo dell'anno.
Un buon momento per guardarsi indietro.
Joan fu visibilmente sollevata quando i bambini tornarono in camera di
Stephie, rallegrati dalla promessa di altri regali.
Quando Parker si voltò a guardarla, il sorriso di Joan era scomparso. I-
ronicamente, a quell'età - aveva trentanove anni - era molto più bella con
un'espressione severa sul viso. Si strofinò i denti con la punta di un dito
per vedere se erano macchiati di rossetto. Un gesto abitudinario che Parker
ricordava da quando erano sposati. «Parker, non avrei dovuto farlo...» Si
stava frugando nella sacca.
Diavolo, pensò Parker, mi ha comprato un regalo di Natale. E io non le
ho preso niente. Pensò rapidamente: aveva per caso qualche regalo extra
che aveva comprato ma non aveva dato a nessuno? Qualcosa che poteva...
Ma poi vide la mano di lei emergere dalla sacca con un fascio di carte.
«Avrei potuto benissimo lasciare che fosse il messo del tribunale a oc-
cuparsene lunedì.»
Il messo del tribunale?
«Ma volevo parlarti prima che tu ti infuriassi.»
Sul documento era scritto: Mozione per modificare l'ordinanza di custo-
dia dei figli.
Parker si sentì come se qualcuno gli avesse sferrato un pugno allo sto-
maco.
A quanto pareva Joan e Richard non erano arrivati direttamente dall'ae-
roporto: prima avevano fatto una capatina dall'avvocato.
«Joan», sbottò, disperato, «non vorrai...»
«Li voglio, Parker, e riuscirò ad averli. Vediamo di non litigare per que-
sto. Possiamo trovare un accordo.»
«No», sussurrò lui. «No.» Sentiva le forze che lo abbandonavano, la-
sciando il posto a un'acuta sensazione di panico.
«Quattro giorni con te, i venerdì e i fine-settimana con me. Forse i lune-
dì, a seconda di ciò che io e Richard abbiamo in programma... ultimamente
stiamo viaggiando parecchio. Senti, avrai anche più tempo per te stesso.
Secondo me non vedresti l'ora di...»
«Assolutamente no.»
«Sono i miei figli...» cominciò lei.
«Tecnicamente.» Parker li aveva in custodia esclusiva da quattro anni.
«Parker», riprese Joan in tono ragionevole, «la mia vita è stabile. Me la
sto cavando bene. Ho ricominciato a lavorare, sono sposata.»
Con un impiegato statale del governo della contea che, stando a quanto
diceva il Washington Post, l'anno prima aveva scampato per miracolo u-
n'accusa di corruzione. Richard era soltanto un uccellino mangia-vermi nel
pollaio della politica della Beltway. Ed era anche l'uomo con cui Joan era
andata a letto durante l'ultimo anno del suo matrimonio con Parker.
Preoccupato che i bambini potessero sentire, Parker sussurrò con fero-
cia: «Sei stata un'estranea per Robby e Stephie fin dal giorno in cui sono
nati». Sbatté una mano sui fogli di carta e la collera ebbe definitivamente il
sopravvento. «Stai pensando a loro, oppure non ci pensi proprio? Hai pen-
sato a cosa causerebbe loro tutto questo?»
«Hanno bisogno di una madre.»
No, pensò Parker, Joan ha bisogno di qualcos'altro da collezionare. Di-
versi anni prima erano stati cavalli. Poi barche a vela. Antiquariato. E an-
che case in quartieri di lusso: lei e Richard si erano spostati da Oakton a
Clifton, da McLean ad Alexandria. Ci muoviamo nel mondo, diceva lei,
anche se Parker sapeva benissimo che si era semplicemente stancata di o-
gni casa e di ogni quartiere precedente non appena aveva capito di non es-
sere riuscita a farsi nessun amico nel posto nuovo. Pensò alle conseguenze
che i continui spostamenti avrebbero avuto sui bambini.
«Perché mai vuoi fare una cosa del genere?»
«Voglio una famiglia.»
«Fa' dei bambini con Richard. Siete giovani.»
Ma lei non avrebbe voluto quello, Parker lo sapeva. Per quanto avesse
amato essere incinta - non era mai stata tanto bella come quando era in at-
tesa - era letteralmente caduta a pezzi una volta messa di fronte alla fatica
di occuparsi dei neonati. È difficile essere in grado di avere bambini quan-
do, emotivamente, sei un bambino anche tu.
«Sei assolutamente inadatta», sentenziò Parker.
«Ehi, certo che hai imparato davvero a come non usare il tatto, eh? Be',
forse ero inadatta. Ma si tratta del passato.»
No, è nella tua natura.
«Lotterò, Joan», fece Parker in tono piatto. «Lo sai.»
«Sarò qui domattina alle dieci», sbottò lei. «E porterò con me un'assi-
stente sociale.»
«Come?» Parker era sbalordito.
«Soltanto per parlare con i bambini.»
«Joan... in un giorno festivo?» Evidentemente Richard si era servito del-
le sue conoscenze.
«Se sei un buon padre come pensi di essere, allora non avrai nessun pro-
blema a farli parlare con lei.»
«Io non avrò nessun problema. Sto pensando a loro. Aspetta almeno la
prossima settimana. Una sconosciuta che parla con loro in un giorno di fe-
sta? È ridicolo. Loro vogliono vedere te.»
«Parker», sbottò lei, esasperata, «è una professionista. Non li turberà.
Senti, ora devo proprio scappare. Il canile sta per chiudere per le feste.
Quei poveri cuccioli... Oh, avanti, Parker. Non è la fine del mondo», con-
cluse.
Ma sì, pensò lui, invece è proprio la fine del mondo.
Fece per sbattere la porta, ma a metà si fermò, sapendo che il rumore a-
vrebbe spaventato i Chi.
Chiuse la porta con un secco click. Poi tirò il chiavistello e mise la cate-
na, come in un vano tentativo di bloccare quel ciclone di cattive notizie
fuori di casa. Piegò i documenti senza nemmeno guardarli, poi andò in
studio e li mise in un cassetto della scrivania. Passeggiò nervosamente per
qualche minuto, poi salì le scale e infilò la testa nella stanza di Robby. I
bambini stavano ridacchiando, tirandosi addosso modellini Micro Machi-
nes.
«Nessun bombardamento all'ultimo dell'anno», disse Parker.
«Allora possiamo bombardare domani?» domandò Robby.
«Molto divertente, ragazzino.»
«È stato lui a cominciare!» sbottò Stephie, poi tornò a leggere il suo li-
bro. La piccola casa nella prateria.
«Chi vuole venire a darmi una mano nello studio?» propose Parker.
«Io!» gridò Robby in risposta.
Insieme, padre e figlio scesero le scale fino all'ufficio che si trovava in
cantina. Qualche minuto dopo, Parker sentì nuovamente la musica elettro-
nica echeggiare dal piano superiore: Stephie era passata dalla letteratura al-
le scienze informatiche, mandando ancora una volta in missione l'intrepido
SuperMario.

Il sindaco Gerald Kennedy - del partito democratico, sì, ma non di quei


Kennedy - guardò il foglio di carta sulla sua scrivania.

Allegato al foglio c'era un memorandum dell'FBI che recava l'intestazio-


ne: Il documento allegato è una copia. Caso SPARMETRO, 31/12.
SPARMETRO, pensò Kennedy. La sparatoria della metropolitana. Quelli
dell'FBI adoravano i loro acronimi, rammentò. Seduto curvo come un orso
sulla sua elaborata scrivania nel suo ufficio in stile georgiano nel Munici-
pio di Washington, D.C., Kennedy lesse la lettera ancora una volta. Poi
sollevò lo sguardo sulle due persone sedute di fronte a lui. Un'attraente
donna bionda e un uomo alto e magro dai capelli grigi. Kennedy, che stava
diventando calvo, pensava spesso alla gente in termini di capelli.
«Siete sicuri che ci sia lui dietro la sparatoria?»
«Quello che ha detto dei proiettili», rispose la donna, «ha presente? Il
fatto che fossero verniciati di nero... Corrisponde. Siamo sicuri che la lette-
ra sia autentica.»
Kennedy, un uomo grosso a proprio agio con la sua mole, spinse la lette-
ra sulla scrivania con le grandi mani.
La porta dell'ufficio si aprì, e ne entrò un individuo che indossava un
completo doppiopetto di sartoria italiana e un paio di occhiali dalla monta-
tura ovale. Kennedy gli fece cenno di avvicinarsi alla scrivania.
«Questo è Wendell Jefferies», lo presentò. «Il mio assistente.»
La donna annuì. «Margaret Lukas.»
L'altro agente si strinse brevemente nelle spalle. «Cage.» Ci fu un rapido
scambio di strette di mano.
«Sono dell'FBI», aggiunse Kennedy.
Jefferies accolse quell'ovvietà con un cenno di assenso.
Il sindaco spinse la copia della lettera verso il suo assistente.
Jefferies si aggiustò gli occhiali sul naso e guardò il foglio di carta.
«Merda. Lo farà di nuovo?»
«Così sembra», disse la donna dell'FBI.
Kennedy guardò gli agenti. Cage veniva dalla Nona Strada - il quartier
generale dell'FBI - e Lukas stava facendo le veci dell'agente speciale inca-
ricato dell'ufficio di Washington, D.C. Il suo capo era fuori città, quindi
era lei a occuparsi del caso della sparatoria nella metropolitana. Cage era
più anziano e sembrava essere ben introdotto nell'FBI; Lukas era più gio-
vane e dava l'idea di essere più cinica ed energica. Jerry Kennedy era sin-
daco del distretto di Columbia da tre anni, ormai, e aveva mantenuto a gal-
la la città non con l'esperienza e le conoscenze, ma con il cinismo e l'ener-
gia. Era felice che Lukas fosse incaricata del caso.
«Lo stronzo non sa nemmeno la grammatica», borbottò Jefferies, chi-
nando leggermente il capo per rileggere il biglietto. I suoi occhi erano
messi malissimo, una malattia comune a tutta la sua famiglia. Una buona
parte del suo stipendio andava a sua madre, ai suoi due fratelli e alle sue
due sorelle che vivevano nella zona sud-est del distretto. Una buona azione
di cui Jefferies non parlava mai; non ne parlava esattamente come non par-
lava del fatto che suo padre fosse stato ucciso sulla Terza Strada Est men-
tre comprava eroina da uno spacciatore.
Per Kennedy, il giovane Wendell Jefferies rappresentava la parte miglio-
re del distretto di Columbia.
«Qualche pista?» domandò l'assistente.
«Niente», ribatté Lukas. «Abbiamo coinvolto il VICAP, la polizia di-
strettuale, la sezione Comportamentale a Quantico... più le forze di polizia
delle contee di Prince William, Fairfax e Montgomery. Ma non abbiamo
ancora niente di concreto.»
«Gesù», gemette Jefferies controllando l'orologio.
Kennedy guardò quello di ottone sulla sua scrivania. Erano passate da
poco le dieci del mattino.
«Dodici e zero-zero... mezzogiorno», rifletté a voce alta, chiedendosi per
quale motivo l'estorsore avesse adoperato l'orario militare o europeo basato
sulle ventiquattro ore. «Abbiamo due ore di tempo.»
«Dovrai rilasciare una dichiarazione, Jerry», lo informò Jefferies. «Al
più presto.»
«Lo so.» Kennedy si alzò in piedi.
Perché doveva capitare proprio ora? Perché proprio lì?
Lanciò un'occhiata a Jefferies; il suo assistente era ancora giovane, ma
aveva una promettente carriera politica davanti a sé. Era accorto e molto
rapido: il bel volto di Jefferies si contorse in un'espressione amara e Ken-
nedy si rese conto che stavano pensando esattamente la stessa cosa: Perché
proprio adesso?
Kennedy diede un'occhiata al memorandum sulla partecipazione specia-
le ai fuochi d'artificio dell'ultimo dell'anno quella sera al Mall. Lui e Clai-
re, sua moglie, sarebbero stati sul palco d'onore con il deputato Paul Lanier
e gli altri membri-chiave del Congresso per il distretto.
O ci sarebbero stati se tutto ciò non fosse accaduto.
Perché proprio adesso?
Perché proprio nella mia città?
«Che cosa state facendo per catturarlo?» domandò ai due agenti.
Fu Lukas a rispondergli, e lo fece senza alcuna esitazione. «Stiamo con-
trollando i nostri IC - sono gli informatori confidenziali - e chiunque possa
aver avuto un qualsiasi contatto con cellule terroristiche americane o stra-
niere. Fino a questo momento non abbiamo ottenuto niente, e la mia ipote-
si è che non si tratti di un profilo di terrorista classico. Ho degli agenti che
stanno confrontando schemi di estorsione passati nel tentativo di trovare
qualche punto in comune. Stiamo esaminando tutte le altre minacce che il
distretto e i suoi impiegati hanno ricevuto negli ultimi due anni. Finora
nessuna corrispondenza.»
«Il sindaco ha ricevuto delle minacce personali, sa», intervenne Jeffe-
ries. «Riguardo la situazione Moss.»
«Ovvero?» domandò Cage.
Fu Lukas a rispondere. «Quello che ha cantato sul Comitato di Istruzio-
ne Pubblica. Il tipo a cui ho fatto da balia.»
«Ah, lui.» Cage si strinse nelle spalle.
L'agente Lukas si rivolse a Jefferies. «Sono al corrente delle minacce. Le
ho esaminate tutte. Ma non credo ci sia una connessione. Erano soltanto
minacce anonime di routine effettuate da un telefono pubblico. Non si par-
lava di soldi e non c'erano richieste.»
Insomma, le vostre minacce anonime di routine, pensò cinicamente
Kennedy.
Ma non sembrano tanto di routine quando tua moglie risponde al telefo-
no alle tre del mattino e una voce le dice: «Non proseguite con l'indagine
Moss. Altrimenti morirai con quel tuo cazzo di marito».
«In termini di investigazione standard», proseguì Lukas, «non appena
abbiamo saputo della lettera, ho messo un gruppo di agenti a controllare
tutte le targhe di quelle macchine parcheggiate intorno al Municipio. Stia-
mo anche esaminando le targhe delle auto parcheggiate intorno a DuPont
Circle questa mattina. Stiamo controllando la zona vicino alla Beltway
menzionata nel biglietto e tutti gli alberghi, gli appartamenti, le roulotte e
le case nelle vicinanze.»
«Non mi sembra ottimista.»
«Non lo sono. Non ci sono testimoni. O, almeno, nessun testimone su
cui si possa fare affidamento. In un caso come questo, abbiamo bisogno di
testimoni.»
Kennedy esaminò la lettera ancora una volta. Sembrava strano che un
folle, un killer, avesse una calligrafia tanto piacevole. «Devo pagare?»
Ora Lukas guardò Cage, e fu quest'ultimo a rispondere. «Riteniamo che,
a meno che non paghiate il riscatto o un informatore si faccia avanti con
qualche dritta consistente sull'ubicazione del Becchino, non saremo in gra-
do di fermarlo entro le quattro di questo pomeriggio. Semplicemente, non
abbiamo indizi sufficienti.»
«Non le sto raccomandando di pagare», disse Lukas. «È soltanto la mia
opinione ufficiale su ciò che accadrà se non pagate.»
«Venti milioni di dollari», borbottò Kennedy.
Senza preavviso, la porta dell'ufficio si aprì e ne entrò un uomo alto sulla
sessantina, che indossava un completo grigio.
Oh, grandioso, pensò Kennedy. Di quante persone abbiamo bisogno?
Il deputato Paul Lanier strinse la mano del sindaco e poi si presentò ai
due agenti dell'FBI, ignorando Wendell Jefferies.
«Paul», disse Kennedy ai due agenti, «è a capo del Comitato per il Go-
verno del distretto.»
Nonostante il distretto di Columbia avesse un margine di autonomia, re-
centemente il Congresso aveva preso saldamente nelle proprie mani i cor-
doni della borsa e ne lasciava uscire soldi come un genitore che dà la man-
cia al figlio. E, soprattutto dopo lo scandalo del Comitato di Istruzione
Pubblica, Lanier era stato per Kennedy ciò che un revisore di conti è per
una pila di libri contabili.
Lanier non fece caso al tono denigratorio della voce di Kennedy - anche
se Lukas parve accorgersene - e disse: «Potete darmi un aggiornamento
della situazione?»
Lukas ripeté ancora una volta la propria opinione. Lanier rimase in piedi,
tutti e tre i bottoni del suo completo Brooks Brothers rigorosamente allac-
ciati.
«Perché proprio qui?» domandò poi. «Perché Washington?»
«Non lo sappiamo», rispose Lukas.
«Credete davvero che lo rifarà?» continuò Kennedy.
«Sì.»
Ma Lanier aveva un'espressione dubbiosa.
«Che c'è?» gli domandò Kennedy. «Dillo.»
«Sei sicuro di voler pagare?» domandò Lanier.
«Perché non dovrei?»
«Be', non ti preoccupi di ciò che sembrerà?»
«No, non mi interessa per niente», sbottò Kennedy.
Ma il deputato continuò imperterrito, con la sua perfetta voce baritonale
da politicante: «Il gesto invierà il segnale sbagliato. Piegarsi al volere dei
terroristi».
Kennedy guardò Lukas, che disse: «È una cosa a cui pensare. La teoria
delle dighe. Si cede a un estorsore, ce ne saranno altri».
«Ma nessuno è al corrente di questa cosa, vero?» domandò Kennedy in-
dicando il biglietto con un cenno del capo.
«Certo che lo sanno», rispose Cage. «E tra poco lo saprà ancora più gen-
te. Non si può tenere una cosa del genere sotto silenzio a lungo. Lettere
come queste hanno le ali. Ci può scommettere.»
«Hanno le ali», ripeté Kennedy. L'espressione non gli piaceva affatto, ed
era sempre più contento che Lukas fosse a capo delle operazioni. «Cosa
potete fare per trovarlo, se paghiamo?» domandò alla donna.
«I nostri tecnici inseriranno un trasmettitore nella borsa del denaro», ri-
spose Lukas. «Venti milioni di dollari peseranno un centinaio di chili»,
spiegò. «Non è qualcosa che si può semplicemente nascondere sotto il se-
dile di una macchina. Cercheremo di risalire al nascondiglio dell'estorsore.
Se saremo fortunati, prenderemo sia lui che l'esecutore... questo Becchi-
no.»
«'Se saremo fortunati'», ripeté Kennedy in tono scettico. Margaret Lukas
era una bella donna, pensò, anche se sapeva - lui che era sposato con sua
moglie da trentasette anni e non aveva pensato nemmeno una volta di tra-
dirla - che la bellezza è dovuta nella maggior parte dei casi alla postura e
all'espressione degli occhi e delle labbra, non alla struttura fisica. E il volto
di Margaret Lukas non si era ammorbidito neanche per un attimo da quan-
do era entrata nel suo ufficio. Nessun sorriso, nessuna simpatia.
«Non possiamo fornirle delle percentuali di riuscita», disse ora con voce
dura.
«No, certo che no.»
«Venti milioni», fece Lanier, che controllava i cordoni della borsa.
Kennedy si alzò, spinse indietro la poltrona e si avvicinò a una finestra.
Guardò fuori, il prato scuro e gli alberi costellati di foglie marroni. Nelle
ultime settimane, l'inverno della Virginia era stato stranamente caldo.
Quella sera, stando alle previsioni del tempo, ci sarebbe stata la prima vera
nevicata dell'anno, ma al momento l'aria era tiepida e umida e l'odore della
vegetazione in decomposizione entrava lieve nella stanza. Era inquietante.
Dall'altra parte della strada c'era un parco, al centro del quale sorgeva una
grande scultura moderna che a Kennedy ricordava vagamente un fegato.
Si voltò a guardare Wendell Jefferies, che raccolse il segnale e gli si av-
vicinò. Il suo assistente usava il dopobarba; doveva averne in almeno venti
profumazioni diverse. «E così, Wendy, siamo sotto pressione, eh?» sussur-
rò Kennedy.
L'aiutante, conosciuto per non avere peli sulla lingua, rispose: «La palla
è in mano tua, capo. Se la fai cadere, entrambi, sia io che te, siamo fuori. E
non è tutto».
E non è tutto.
E lui che aveva pensato che la situazione non potesse peggiorare dopo lo
scandalo del Comitato di Istruzione Pubblica.
«E finora», ripeté Kennedy, «niente.»
«Niente.»
Fino a quel momento, ventitré persone morte.
Fino a quel momento, tutto ciò che sapevano era che questo psicopatico
avrebbe tentato di uccidere altre persone alle quattro del pomeriggio, e poi
altre, e poi altre ancora.
Fuori dalla finestra, l'aria stranamente tiepida si mosse, agitata da una
leggera brezza. Cinque foglie marroni si adagiarono lentamente sul prato.
Il sindaco tornò a voltarsi verso la propria scrivania, su cui campeggiava
l'orologio di ottone. Erano le 10,25.
«Io suggerisco di non pagare», fece Lanier. «Voglio dire, penso che
quando scoprirà che l'FBI è coinvolto nell'indagine... be', potrebbe benis-
simo spaventarsi e darsi alla macchia.»
«È probabile che abbia immaginato il coinvolgimento dell'FBI prima
ancora di mettere in atto il suo piano», azzardò educatamente l'agente Lu-
kas.
Kennedy colse il sarcasmo nella voce della donna. Lanier, ancora una
volta, non se ne rese conto e continuò, parlando direttamente con lei: «Non
pensavo che lei fosse favorevole al pagamento, agente Lukas».
«Non lo sono.»
«Ma crede anche che quello continuerà a sparare, se non paghiamo.»
«Sì», rispose lei.
Lanier alzò le mani. «Non è un'incongruenza? Lei non crede che do-
vremmo pagare... ma lui continuerà a uccidere.»
«Esattamente.»
«Questo non ci è di molto aiuto.»
«Si tratta di un uomo pronto e preparato a uccidere tutte le persone che
gli servono soltanto per avere i soldi», dichiarò Lukas. «Non si può nego-
ziare con una persona simile.»
«Pagare renderebbe il vostro lavoro più difficile?» domandò Kennedy.
«Vi renderebbe più difficile catturarlo?»
«No», rispose Lukas, e non aggiunse altro. «Quindi», continuò poi, «a-
vete intenzione di pagare oppure no?»
La lampada sulla scrivania illuminava la copia della lettera. Al sindaco
Kennedy sembrava che il pezzo di carta brillasse come fuoco al calor bian-
co.
«No, non pagheremo», disse Lanier. «Adotteremo la linea dura. Non ci
pieghiamo al terrorismo. Noi...»
«Io pago», ribatté Kennedy.
«Ne è sicuro?» gli domandò Lukas. Apparentemente non le importava
che lui, in un modo o nell'altro, non stesse seguendo il suo consiglio.
«Ne sono sicuro. Fate del vostro meglio per prenderlo. Ma la città pa-
gherà i venti milioni.»
«Aspetta un attimo», intervenne il deputato, «non avere fretta.»
«Non ho fretta per niente», sbottò Kennedy. «Ci sto pensando fin da
quando ho ricevuto questa maledetta lettera», disse indicando il foglio sul-
la scrivania.
«Jerry», cominciò Lanier, «non hai il diritto di prendere questa decisio-
ne.»
«In realtà ce l'ha», sbottò Wendell Jefferies, che avrebbe potuto fregiarsi
del titolo di dottore in legge anche se preferiva non farlo.
«La giurisdizione è del Congresso», puntualizzò Lanier in tono petulan-
te.
«No», gli obiettò Cage, «non lo è. È di competenza esclusiva del distret-
to. L'ho domandato al procuratore generale mentre stavamo venendo qui.»
«Ma siamo noi ad avere il controllo dei quattrini», ribatté Lanier. «E io
non ho intenzione di autorizzare la spesa.»
Kennedy lanciò un'occhiata a Wendy Jefferies, che rifletté per un mo-
mento. «Venti milioni? Possiamo intaccare la nostra linea di credito per i
fondi discrezionali.» Rise brevemente, «Ma dovranno venir fuori dalla ri-
serva per il Comitato di Istruzione Pubblica. Il loro è l'unico conto che di-
spone di una tale liquidità.»
«L'unico?»
«Esatto. Da qualsiasi altra parte, o sono debiti o sono spiccioli.»
Kennedy scosse il capo. Che ironia: il denaro che occorreva per salvare
la città era disponibile soltanto perché qualcuno aveva giocato sporco e a-
veva trascinato l'amministrazione nel pieno di uno scandalo senza prece-
denti.
«Jerry, questo è ridicolo», disse Lanier. «Se anche riuscissero a catturare
questi criminali, qualcuno saprà che eravamo disposti a pagare. Mai tratta-
re con i terroristi. Non leggi mai le circolari di indirizzo del dipartimento
di Stato?»
«No, mai», concluse Kennedy. «Nessuno me le manda. E, agente Lu-
kas... fermatelo.»

Il panino era okay.


Non buono, ma okay.
Gilbert Havel decise che, una volta ottenuti i soldi, sarebbe andato al Jo-
ckey Club e si sarebbe fatto una bistecca come si deve. Un filet mignon. E
una bottiglia di champagne.
Terminò il suo caffè e fissò lo sguardo sull'ingresso del Municipio.
Il capo della polizia del distretto era entrato e uscito rapidamente. Qual-
che giornalista e qualche operatore televisivo erano stati allontanati dalla
porta principale e mandati a un ingresso sul lato dell'edificio. Non sembra-
vano felici. Poi, due persone erano scomparse nel Municipio un po' di
tempo prima. Un uomo e una donna, fin troppo chiaramente agenti del-
l'FBI. Non erano ancora usciti. Si trattava senz'ombra di dubbio di un'ope-
razione del Bureau, allora. Be', Havel sapeva che sarebbe stato così.
Fino a quel momento, nessuna sorpresa.
Guardò l'orologio. Era ora di tornare al rifugio e telefonare all'impresa di
noleggio degli elicotteri. C'erano tante cose da preparare. I piani per recu-
perare i venti milioni erano elaborati, e i piani per riuscire a fuggire dopo
erano ancora più complessi.
Havel pagò il conto, poi uscì dal bar, svoltò sul marciapiede e si inoltrò
rapidamente in un vicolo, tenendo gli occhi bassi. La fermata della metro-
politana di Judiciary Square era esattamente sotto il Municipio, ma Havel
sapeva che era controllata a vista da poliziotti e agenti in borghese, quindi
si diresse verso Pennsylvania Avenue, dove avrebbe preso un autobus che
lo avrebbe portato nella zona sud-est della città.
Un uomo bianco in un quartiere di neri.
La vita è strana, a volte.
Gilbert Havel uscì dal vicolo e imboccò una strada laterale che l'avrebbe
condotto fino alla Pennsylvania Avenue. Il semaforo passò al verde. Havel
attraversò. Improvvisamente, un lampo nero di movimento alla sua sini-
stra. Si voltò di scatto. Merda, non mi ha visto! pensò. Non mi ha visto,
non mi ha visto non mi ha...
«Ehi!» gridò.
Il guidatore del grosso furgone stava guardando una bolla di accompa-
gnamento ed era passato con il rosso. Sollevò lo sguardo, terrorizzato. Con
un acuto stridio di freni, il furgone investì Havel in pieno, con il guidatore
che gemeva: «Cristo, no! Cristo...»
Il furgone prese Havel tra il paraurti anteriore e un'automobile parcheg-
giata, schiacciandolo come un insetto. Il guidatore scese e lo guardò, gli
occhi sgranati per lo choc. «Non stava attento! Non è colpa mia!» Poi si
guardò intorno e vide che il semaforo gli dava torto. «Oh, Gesù.» Notò due
persone che correvano verso di lui dall'angolo della via. Rimase incerto per
un lunghissimo istante, poi il panico prese il sopravvento. Balzò nel furgo-
ne. Accese il motore e si allontanò in retromarcia. Havel si afflosciò a ter-
ra. Il furgone prese velocità, voltando l'angolo e scomparendo alla vista.
Le due persone - due uomini sulla trentina - corsero verso Havel. Uno
dei due si chinò per sentirgli il polso. L'altro rimase in piedi, fissando la
grossa pozza di sangue. Sembrava che ci fosse sangue ovunque.
«Quel furgone», bisbigliò, sconvolto. «Quel bastardo se ne è andato! Se
ne è andato!» Poi chiese al suo amico: «È morto?»
«Oh, sì», gemette l'altro. «Oh, sì, è morto.»

3
12,45

Dove?
Margaret Lukas era sdraiata a pancia in giù su una piccola altura che
dominava la Beltway.
Il flusso senza fine del traffico scorreva sotto di lei.
Guardò nuovamente l'orologio. E pensò: Dove sei?
Lo stomaco le faceva male, la schiena le faceva male, i gomiti le faceva-
no male.
Non c'era stato modo di far arrivare una postazione di comando mobile
nelle vicinanze della zona di pagamento del riscatto - nemmeno un furgone
camuffato - senza correre il rischio di essere visti dall'estorsore, se fosse
stato nei paraggi. E così eccola lì, in jeans, giubbotto e berretto voltato al-
l'indietro, come un cecchino o un teppista, sdraiata sul terreno duro come
roccia. Dove si trovava ormai da un'ora.
«Fa un rumore come di acqua», disse Cage.
«Cosa?»
«Il traffico.»
Anche lui era sdraiato sulla pancia, accanto a lei. Le loro gambe quasi si
sfioravano, come due amanti sulla spiaggia verso l'ora del tramonto. Scru-
tavano il campo a un centinaio di metri di distanza. Erano sulla Gallows
Road.
«Sai come succede?» continuò Cage. «Qualcosa ti entra nella pelle e tu
cerchi di non pensarci. Ma non puoi farne a meno. Voglio dire, fa proprio
lo stesso rumore dell'acqua.»
A Lukas non sembrava affatto acqua. Le sembrava il rumore di automo-
bili e camion.
Dov'era l'estorsore? C'erano venti milioni di dollari pronti per essere
raccolti e lui non veniva a raccoglierli.
«Dove diavolo è quel bastardo?» borbottò un'altra voce. Apparteneva a
un uomo sulla trentina, dall'aria grave, con un taglio di capelli di tipo mili-
tare. Leonard Hardy apparteneva alla polizia del distretto di Columbia e
faceva parte della squadra perché, nonostante fosse l'FBI a occuparsi del-
l'operazione, non sarebbe stato politicamente opportuno non avere a bordo
un poliziotto cittadino. In una situazione normale, Lukas avrebbe protesta-
to vigorosamente all'idea di avere nella propria squadra del personale non-
FBI, ma conosceva casualmente Hardy per gli incarichi che aveva svolto
presso l'ufficio locale dell'FBI e la sua presenza non la infastidiva - almeno
finché Hardy si limitava a fare ciò che aveva fatto fino a quel momento:
starsene seduto buono buono in un angolo senza dar fastidio ai grandi.
«Perché è in ritardo?» domandò Hardy, apparentemente senza aspettarsi
alcuna risposta. Le sue mani immacolate, con le unghie curate alla perfe-
zione, continuavano a prendere appunti per il rapporto che avrebbe dovuto
presentare al sindaco e al capo della polizia del disnetto.
«Ancora niente?» sussurrò J ukas a Tobe Geller, un giovane agente dai
capelli ricci vestito anch'egli con un paio di jeans e lo stesso giubbotto
double-face che indossavano Lukas e Cage.
Geller, anche lui aveva superato di poco la trentina, aveva il volto inten-
samente gioioso di un ragazzino che si sente del tutto soddisfatto ogni vol-
ta che ha a che fare con un prodotto contenente dei microchip. Scrutò uno
dei tre monitor portatili che aveva di fronte. Poi digitò qualcosa sulla ta-
stiera di un computer portatile e lesse lo schermo. «Niente», rispose. Se ci
fosse stata una forma di vita più grande di un procione in un raggio di cen-
to metri dal luogo in cui erano state depositate le sacche con i soldi, la sua
attrezzatura di sorveglianza l'avrebbe rivelata.
Quando il sindaco aveva dato il benestare per il pagamento del riscatto,
il denaro contante aveva fatto una piccola deviazione. Lukas e Geller ave-
vano fatto portare i soldi dall'aiutante di Kennedy a un indirizzo della No-
na Strada - una piccola autofficina senza insegne di fronte al quartier gene-
rale dell'FBI. Tobe Geller aveva risistemato il contante in due enormi sac-
che Burgess Security Systems KL-19, che sembravano fatte di una norma-
lissima tela. In realtà, erano stati inseriti sottilissimi filamenti di rame ossi-
dato, un'antenna estremamente efficiente. I circuiti di trasmissione erano
nascosti nei manici di nylon e le batterie erano montate al posto dei bottoni
di plastica sul fondo. Le borse trasmettevano un segnale GPS più chiaro
del se gnale portante della CBS e che non poteva essere schermato se non
mediante lastre di metallo spesse diversi centimetri.
Inoltre, Geller aveva riavvolto quaranta mazzette di banconote con nastri
che aveva progettato lui stesso, all'interno dei quali si trovavano dei wafer
trasmittenti ultrasottili. Se anche il soggetto avesse trasferito il denaro dal-
le sacche o se l'avesse diviso con dei complici, Geller sarebbe riuscito u-
gualmente a rintracciare le banconote in un raggio di novanta chilometri.
Le borse erano state piazzate nel campo esattamente dove il soggetto a-
veva indicato nella lettera. Tutti gli agenti si erano ritirati. Ed era iniziata
l'attesa.
Lukas conosceva le basi del comportamento criminale. Gli estorsori e i
rapitori spesso si fanno prendere dall'ansia appena prima di ritirare il ri-
scatto. Ma chiunque fosse disposto a uccidere ventitré persone non si sa-
rebbe certo tirato indietro proprio ora. Lei non riusciva a capire per quale
motivo il criminale non si fosse ancora avvicinato ai soldi.
Stava sudando: la temperatura era stranamente calda per essere l'ultimo
giorno dell'anno e l'aria aveva un sentore dolciastro. Come se fosse autun-
no. Margaret Lukas odiava l'autunno. Avrebbe preferito di gran lunga stare
sdraiata nella neve, piuttosto che in quella stagione-purgatorio.
«Dove sei?» borbottò. «Dove?» Si dondolò leggermente, sentendo il do-
lore della pressione nelle ossa del bacino. Era muscolosa ma magra, con
ben poca imbottitura naturale a proteggere le sue ossa dalle asperità del
terreno. Scrutò il campo per l'ennesima volta, nonostante i complicati sen-
sori di Geller potessero rilevare la presenza del soggetto molto prima dei
suoi occhi grigio-azzurri.
«Hmmm.» C.P. Ardell, un agente dalla corporatura massiccia con cui di
tanto in tanto Lukas lavorava, si strinse la cuffia e rimase in ascolto. Poi
annuì con la testa calva e guardò Margaret. «Era la postazione Charlie.
Nessuno è uscito dalla strada verso gli alberi.»
Lukas grugnì. Quindi si era sbagliata. Aveva pensato che il soggetto si
sarebbe avvicinato al denaro da ovest attraverso una fila di alberi a circa
settecento metri di distanza dalla superstrada. Immaginava che sarebbe sta-
to al volante di una Hummer o di una Range Rover.
«La postazione Bravo?» domandò.
C.P., che lavorava molto in incognito per la sua sfortunata somiglianza
con un trafficante di droga di Manassas o con un membro di prim'ordine
degli Hell's Angels, sembrava essere il più paziente degli agenti appostati.
Non aveva mosso i suoi centodieci chili di un solo centimetro da quando
erano arrivati. Fece la chiamata e contattò la postazione di sorveglianza più
a sud.
«Niente. Ragazzini che giocano. Nessuno maggiore di dodici anni.»
«Non li hanno mandati via, vero?» domandò Lukas.
«No.»
«Bene.»
Passò altro tempo. Hardy continuava a prendere appunti. Geller digitava
sul suo computer. Cage non riusciva a stare fermo, C.P. sì.
«Tua moglie è incazzata?» domandò Lukas a Cage. «Perché lavori oggi
che è festa?»
Cage si strinse nelle spalle. Era il suo gesto preferito. Possedeva un inte-
ro vocabolario di strette di spalle. Era un agente esperto al quartier genera-
le dell'FBI e, nonostante gli incarichi lo portassero in tutti gli stati dell'U-
nione, di solito si dedicava principalmente ai casi che riguardavano il di-
stretto: lui e Lukas lavoravano spesso insieme. E generalmente c'era anche
il capo di Lukas, l'agente speciale incaricato dell'ufficio di Washington,
D.C. Quella settimana, però, l'ASI Ron Cohen si trovava nella foresta plu-
viale brasiliana a farsi la prima vacanza da sei anni a quella parte e Lukas
aveva preso le redini del caso. In gran parte per merito della raccomanda-
zione di Cage.
Le dispiaceva che Cage, Geller e C.P. dovessero lavorare proprio quel
giorno. Avevano impegni per quella sera, oppure erano sposati. Invece, per
quanto riguardava Len Hardy, era felice che fosse lì: aveva degli ottimi
motivi per tenersi occupato nei giorni di festa, e quella era una delle ragio-
ni principali per cui Margaret gli aveva dato il benvenuto nel team
SPARMETRO.
Lukas aveva una bella casa a Georgetown, un luogo pieno di mobili an-
tichi, ricami, pizzi all'uncinetto e coperte patchwork create da lei, una con-
sistente collezione di vini pregiati, più o meno cinquecento libri e più di
mille CD. E il suo incrocio di labrador, Jean-Luc. Era un gran bel posto
per trascorrere una sera di festa, anche se, in tre anni che ci abitava, Lukas
non l'aveva mai fatto. Fino a quando il suo cercapersone non l'aveva in-
formata del suo incarico di responsabile della squadra SPARMETRO, era
rimasta occupata a sorvegliare la talpa del Comitato di Istruzione Pubblica,
Gary Moss, la persona che aveva fatto scoppiare lo scandalo degli appalti
per la costruzione delle scuole. L'uomo aveva acconsentito a farsi dotare di
registratore e aveva raccolto una grande quantità di conversazioni incrimi-
nanti. Ma la sua copertura era saltata e due giorni prima la sua casa a
Roslyn era stata squarciata da un'esplosione. Le sue due figlie si erano sal-
vate per miracolo. Moss aveva mandato la famiglia nella Carolina del
Nord e aveva passato il fine-settimana sotto la protezione dei federali. Lu-
kas era responsabile della sua incolumità, così come dell'indagine relativa
all'attentato alla casa di Moss. Poi però era arrivato il Becchino e Moss,
almeno per il momento, non era altro che un inquilino annoiato nel co-
stosissimo condominio che gli agenti delle forze dell'ordine chiamavano
semplicemente «la Nona Strada», il quartier generale dell'FBI.
Scrutò nuovamente il campo. Nessun segno dell'estorsore.
«Potrebbe essere lui a cercare di stanare noi», disse un agente accovac-
ciato dietro un albero. «Vuole una perlustrazione del perimetro?»
«No.»
«È la procedura standard», insistette l'agente. «Possiamo usare cinque,
sei auto prive di contrassegni. Non ci vedrebbe mai. Ne è sicura?»
«Troppo rischioso», disse Lukas.
Risposte brusche come quella le avevano fatto guadagnare nell'FBI la
reputazione di donna arrogante. Ma Margaret era convinta che l'arroganza
non fosse una cosa necessariamente negativa. Ispira fiducia nelle persone
con cui lavori. Inoltre, ti fa notare.
Guardò il suo Seiko. Mancavano poco più di tre ore alla sparatoria suc-
cessiva.
Sbatté le palpebre quando una voce gracchiò nella sua cuffia, pronun-
ciando il suo nome.
«Continua», disse nel microfono, riconoscendo la voce del vicedirettore
dell'FBI.
«Abbiamo un problema», le comunicò l'uomo con la sua voce perfetta-
mente impostata.
Lukas detestava i drammi inutili. «Di che si tratta?» chiese, senza curarsi
minimamente della ruvidità del suo tono di voce.
«Hanno investito un uomo vicino al Municipio, poco fa», continuò il vi-
cedirettore. «È morto. Non aveva documenti di identità. Niente di niente,
soltanto la chiave di un appartamento - niente indirizzo - e qualche soldo.
Il poliziotto che è arrivato sul posto aveva sentito parlare del ricatto e, dal
momento che era accaduto nelle vicinanze del Municipio, ha pensato che
potesse esserci un collegamento.»
Margaret capì immediatamente. «Hanno confrontato le impronte?» do-
mandò. «Le sue e quelle sulla lettera minatoria?»
«Esatto. L'uomo morto è l'autore della lettera, il socio di quello che spa-
ra.»
Lukas rammentò una parte della lettera. Diceva qualcosa del tipo:
Se mi uccidete, continuerà a uccidere.
Niente può fermare il Becchino...
«Dovete trovarlo, Margaret», disse il vicedirettore. Ci fu una pausa men-
tre, probabilmente, l'uomo consultava l'orologio. «Dovete trovarlo entro tre
ore.»

È autentica? si domandò Parker Kincaid.


Chinandosi sul rettangolo di carta, sbirciò attraverso la sua lente di in-
grandimento. Joan se n'era andata da diverse ore, ma l'effetto della sua vi-
sita - lo sgomento - persisteva ancora, per quanto lui stesse provando a di-
strarsi con il lavoro.
La lettera che stava esaminando, su carta ingiallita, era racchiusa in una
sottile ma resistente guaina di plastica; ciò nonostante, quando la avvicinò
a sé, Parker lo fece con estrema cautela. Come si toccherebbe il viso arros-
sato di un neonato. Aggiustò la luce e si tuffò nell'occhiello della y in cor-
sivo.
È autentica?
Sembrava esserlo. Ma, nella sua professione, Parker Kincaid non si fi-
dava mai troppo delle apparenze.
Desiderava ardentemente di poter toccare il documento, sentire la consi-
stenza ruvida della carta, fabbricata con così poco acido da poter durare a
lungo come acciaio. Voleva sentire la materia infinitesimale dell'inchiostro
ferroso che, sotto le sue dita sensibili, sarebbe sembrata in rilievo come
braille. Ma non osava togliere il foglio di carta dalla custodia; anche la mi-
nima traccia di unto sulle sue mani avrebbe iniziato a corrodere il foglio
sottile. Il che sarebbe stato un disastro, dal momento che quella lettera va-
leva almeno cinquantamila dollari.
Se era autentica.
Al piano di sopra, Stephie stava pilotando Mario nei meandri del suo u-
niverso surreale. Robby era ai piedi di Parker, accompagnato da Han Solo
e Chewbaca. Lo studio nel seminterrato era un posto confortevole, le pareti
rivestite di legno di teak, moquette in pile verde foresta. Sulle pareti cam-
peggiavano centinaia di documenti incorniciati - gli articoli meno preziosi
della collezione di Parker. Lettere di Woodrow Wilson, Franklin Delano
Roosevelt, Bobby Kennedy, l'artista del Vecchio West Charles Russell.
Centinaia di altri. Su una parete c'era una sorta di galleria dei reietti: falsi
in cui Parker si era imbattuto nel corso del suo lavoro.
La parete preferita di Parker, tuttavia, era quella di fronte allo sgabello
su cui era seduto in quel momento. Lì c'erano i disegni e le poesie dei
bambini, a partire da otto anni prima. Da scarabocchi e lettere maiuscole
illeggibili a campioni della loro scrittura in corsivo. Parker amava fermarsi
durante il lavoro e guardarla. E, facendolo, aveva cominciato a pensare di
scrivere un libro su come la calligrafia rispecchi lo sviluppo dei bambini.
Era seduto sul suo comodo sgabello, di fronte all'immacolato tavolo
bianco su cui esaminava i documenti. La stanza era immersa nel silenzio.
Solitamente accendeva la radio, ascoltando jazz o musica classica. Ma c'e-
ra stata una terribile sparatoria in città e tutte le stazioni trasmettevano ser-
vizi speciali sul massacro. Parker non voleva che Robby sentisse quelle
storie, non dopo il suo recentissimo flashback sul Barcaiolo.
Si chinò sulla lettera, ansioso, allo stesso modo in cui un gioielliere po-
trebbe apprezzare una splendida pietra gialla, pronto a dichiararla falsa se
l'avesse ritenuta tale, ma sperando segretamente che si rivelasse un raris-
simo topazio.
«Che cos'è?» domandò Robby, alzandosi in piedi e guardando la lettera.
«È la cosa che è arrivata ieri con il furgone», disse Parker, stringendo le
palpebre mentre esaminava la C maiuscola che, nell'analisi della calligra-
fia, era una lettera molto distintiva e, di conseguenza, molto utile.
«Ah. Il furgone blindato. Interessante.»
E lo era. Ma non aveva risposto alla domanda del bambino. «Conosci
Thomas Jefferson?» continuò Parker.
«Il terzo presidente degli Stati Uniti.»
«Bravo. Questa è una lettera che qualcuno pensa sia stata scritta da lui.
Vogliono che io controlli per essere sicuri.»
Una delle conversazioni più difficili che aveva sostenuto con Robby e
Stephie era stato spiegare loro che cosa faceva per vivere. Non la parte
tecnica implicita nell'essere un esaminatore di documenti dubbi, no. Ma
tentare di far loro capire che alcune persone falsificavano lettere e docu-
menti per poi cercare di spacciarli per veri.
«Che cosa dice?» domandò Robby.
Parker non rispose subito. Oh, le risposte erano importanti, per lui. Do-
potutto, era un maestro degli enigmi. L'hobby della sua vita, fin da quando
era bambino, erano gli indovinelli, i giochi di parole e le sciarade. Credeva
nelle risposte e tentava sempre di non rinviare le risposte alle domande dei
suoi figli. Quando un padre o una madre dicevano «Più tardi», general-
mente era per loro convenienza, nella speranza che il bambino si dimenti-
casse la domanda. Ma il contenuto di quella lettera lo turbava, rendendolo
prudente. Dopo un lungo istante, disse: «È una lettera che Jefferson ha
scritto alla sua figlia più grande». Fin lì era vero. Ma Parker non continuò.
Non disse al bambino che l'oggetto della lettera era Mary - la seconda fi-
glia di Thomas Jefferson - che era morta per complicazioni durante il par-
to, proprio come era toccato qualche anno prima alla moglie di Jefferson.
Qui a Washington vivo oppresso da una cappa di dolore, ossessionato
come sono da visioni di Polly a cavallo, o che corre sulla veranda in alle-
gra sfida alle mie raccomandazioni di esercitare maggior prudenza...
Parker, perito calligrafo esperto, lottò per ignorare la tristezza che pro-
vava nel leggere quelle parole, sforzandosi di restare obiettivo e analitico.
Concentrati, disse a se stesso, anche se il pensiero di un padre privato di
uno dei suoi figli continuava a insinuarsi nella sua mente.
Concentrati...
Notò che il soprannome della ragazza era quello che Jefferson avrebbe
usato - nata Mary, la ragazza veniva chiamata Polly dalla sua famiglia - e
che la scarsa punteggiatura era in stile tipicamente jeffersoniano. Quei due
elementi propendevano per l'autenticità, così come alcuni degli eventi a cui
la lettera faceva riferimento: erano realmente accaduti nella vita di Thomas
Jefferson, e più o meno intorno all'epoca in cui si supponeva fosse stata
scritta la lettera.
Sì, almeno testualmente, la lettera sembrava autentica.
Ma quella era soltanto metà della partita. Ora Parker doveva effettuare
l'esame fisico della lettera.
Ma, proprio mentre stava per far scivolare il documento sotto uno dei
suoi microscopi Bausch & Lomb, il campanello della porta suonò di nuo-
vo.
Oh, no...
Parker chiuse gli occhi. Era Joan. Lo sapeva. Era andata a prendere i
suoi cani ed era tornata per complicargli ulteriormente la vita. Forse aveva
portato l'assistente sociale. Era un raid a sorpresa...
«Vado io», disse Robby.
«No», si affrettò a rispondere Parker. Troppo alla svelta. Il bambino
sembrò quasi spaventato dalla sua brusca reazione.
Parker gli sorrise. «Andrò io.» Scese dallo sgabello e salì le scale.
Ora era veramente furioso. Era deciso a dare ai Chi un capodanno diver-
tente e piacevole nonostante Joan. Spalancò la porta di scatto.
Be'...
«Salve, Parker.»
Gli ci volle un secondo per ricordarsi il nome dell'uomo dai capelli grigi.
Non vedeva l'agente da forse cinque anni. Poi rammentò. «Cage.»
Non riconobbe la donna che lo accompagnava.

4
13,15

«Come te la passi, Parker? Non ti saresti mai aspettato di vedermi nem-


meno in un mese tutto di lunedì, vero? Aspetta, sto facendo un po' di casi-
no con i modi di dire, ma ci siamo capiti, no?»
L'agente non era molto cambiato. Un po' più grigio. Un po' più magro.
Sembrava più alto. Parker ricordò che Cage aveva esattamente quindici
anni più di lui. Entrambi erano nati in giugno. Segno dei gemelli. Yin e
Yang.
Con la coda dell'occhio, Parker vide Robby apparire in corridoio con la
sua compagna di cospirazione, Stephie. La notizia dell'arrivo di visitatori si
diffondeva sempre con estrema rapidità. Si avvicinarono cautamente alla
porta, guardando incuriositi Cage e la donna.
Parker si voltò e si chinò. «Voi due non avete qualcosa da fare su nelle
vostre camere? Qualcosa di molto importante?»
«No», rispose Stephie.
«No», confermò Robby.
«Be', io invece credo di sì.»
«Cosa?»
«Quanti dei vostri Lego sono sul pavimento? E quante Micro Machi-
nes?»
«Un paio», tentò Robby.
«Un paio di centinaia?»
«Oh, be'», disse il bambino, sorridendo.
«Di sopra, adesso... Di sopra, di sopra, altrimenti il mostro verrà a pren-
dervi qui e subito. Volete vedere il mostro? Lo volete vedere davvero?»
«No!» strillò Stephie, divertita.
«Andate», li esortò Parker, ridendo. «Lasciate che papà parli con i suoi
amici, qui.»
Quando i due bambini si allontanarono sulla scala, Cage disse: «Oh, non
proprio un amico. Vero, Parker?»
Parker non rispose. Si chiuse la porta alle spalle e si voltò, guardando la
donna. Era sulla trentina, con un viso levigato e sottile. Pallido, per nulla
simile alla spietata abbronzatura di Joan. Lei non lo stava guardando: i
suoi occhi seguirono Robby che saliva le scale dietro la tendina di pizzo
della finestra accanto alla porta. Poi rivolse a Parker la propria attenzione e
gli porse una mano forte, con dita lunghe e sottili. La sua stretta era decisa.
«Sono Margaret Lukas. AASI dell'ufficio di Washington.»
Parker ricordò che, nell'FBI, gli assistenti agenti speciali incaricati veni-
vano chiamati con l'acronimo, aa-si, mentre i capi degli uffici non veniva-
no mai chiamati «ASI». Ecco un altro aspetto della sua vita precedente a
cui non pensava da anni.
«Potremmo entrare un momento?» continuò la donna.
Un allarme paterno cominciò a suonare nella sua mente. «Vi dispiace se
restiamo qui fuori?» disse. «I bambini...»
Gli occhi della donna ebbero un sussulto, e Parker si chiese se non con-
siderasse la cosa un affronto. Comunque, non gli importava: gli unici con-
tatti dei bambini con l'FBI erano limitati a qualche occasionale sbirciata a
Scully e Mulder nelle puntate di X-Files che guardavano quando passava-
no la notte a casa di amici. E aveva intenzione di non cambiare le cose.
«Per noi va bene», rispose Cage per tutti e due. «Ehi, l'ultima volta che ti
ho visto, amico... be', è stato un bel po' di tempo fa. Eravamo a quella cosa
per Jimmy, sai, alla Nona Strada.»
«Esatto.»
E, infatti, era stata l'ultima volta in cui Parker era stato al quartier gene-
rale dell'FBI. In piedi nell'ampio cortile interno, circondato dal severo edi-
ficio in pietra. Un caldo giorno di luglio di due anni prima. Di tanto in tan-
to riceveva ancora qualche e-mail di complimenti per il bel discorso che
aveva pronunciato al servizio commemorativo per Jimmy Yan, uno dei
suoi ex assistenti. Yan era rimasto ucciso in una sparatoria durante il primo
giorno di servizio come agente operativo.
Cage annuì verso il punto in cui erano scomparsi i bambini. «Stanno
crescendo.»
«I bambini lo fanno», rispose Parker. «Di che cosa si tratta esattamente,
Cage?»
L'agente si strinse nelle spalle, lasciando la parola a Lukas.
«Abbiamo bisogno del suo aiuto, signor Kincaid», disse molto rapida-
mente la donna, prima ancora che la condensa prodotta dal fiato della do-
manda di Parker avesse il tempo di evaporare.
Parker reclinò il capo.
«È bello da queste parti», considerò Cage sollevando lo sguardo. «Aria
fresca. Linda e io dovremmo deciderci a traslocare. Comprare un po' di ter-
reno. Magari nella contea di Loudon. Guardi i notiziari, Parker?»
«Li ascolto.»
«Eh?»
«Alla radio. Non guardo la televisione.»
«Ah, già. Giusto. Non l'hai mai fatto», fece Cage, poi si rivolse a Lukas.
«'Terra di nessuno', ecco come chiamava la televisione. Legge molto. Le
parole sono il regno di Parker. Il suo pallino. Una volta mi dicesti che tua
figlia leggeva moltissimo. Lo fa ancora?»
«Il tizio della metropolitana», disse Parker. «Ecco perché siete venuti.»
«SPARMETRO», precisò Lukas. «È questo l'acronimo che abbiamo da-
to al caso. Quell'uomo ha ucciso ventitré persone», aggiunse. «Ne ha ferite
trentasette. Sei bambini sono rimasti gravemente feriti. C'è stato un...»
«Che cosa volete?» la interruppe Parker, preoccupato che i suoi figli po-
tessero sentirla.
«È una cosa molto importante», riprese Lukas. «Abbiamo bisogno del
suo aiuto.»
«Che cosa diavolo potreste mai volere da me? Sono in pensione.»
«Uh-uh», ironizzò Cage. «Certo. In pensione.»
Lukas si accigliò, guardando prima l'uno e poi l'altro.
Se l'erano provata? Era una scena poliziotto bravo/poliziotto confuso?
Non sembrava. Ciò nonostante, un'altra regola di fondamentale importanza
nel suo invisibile Manuale di genitore diceva: «Abituati a essere raddop-
piato». Ora Parker era sulla difensiva.
«Ti occupi ancora dell'analisi di documenti. Sei sulle Pagine Gialle. E
hai un sito web. Bello. Mi piace lo sfondo azzurro.»
«Sono un perito calligrafo civile», precisò Parker con fermezza.
Lukas riprese: «Cage mi ha detto che lei è stato a capo della divisione
Documenti per sei anni. Sostiene che lei sia il miglior esaminatore di do-
cumenti dell'intera nazione».
Che occhi stanchi ha, pensò Parker. Probabilmente ha solo trentasei o
trentasette anni. Splendida forma, snella, atletica, bellissimo viso. Eppure,
ciò che ha visto... Guarda quegli occhi. Come pietre grigio-azzurre. Parker
sapeva fin troppo di occhi come quelli.
Papà, parlami del Barcaiolo.
«Svolgo soltanto lavori civili. Sa, cose del tipo: questa lettera di Ken-
nedy è autentica o è un falso? Non eseguo alcuna perizia criminale.»
«Era anche candidato al posto di agente speciale incaricato del distretto
orientale, già, già, non sto scherzando.» Cage lo disse come se non avesse
udito le parole di Parker. «Solo che ha rinunciato.»
Lukas inarcò le sopracciglia chiare.
«Ed è stato molti anni fa», ribatté Parker.
«Sì, è vero», confermò Cage. «Ma non ti sei arrugginito, vero, Parker?»
«Cage, vieni al punto.»
«Sto tentando di sfiancarti», disse l'agente.
«Non ce la farai.»
«Ah, ma io sono l'uomo dei miracoli. Ricordi?» Poi, rivolto a Lukas,
spiegò: «Vedi, non si limitava soltanto a smascherare i falsi. Parker riusci-
va a rintracciare le persone per mezzo di ciò che avevano scritto, dove a-
vevano comprato la carta, le penne... cose del genere. Il migliore, nel suo
campo».
«Ha detto che gliel'hai già detto», commentò Parker in tono aspro.
«Déjà-vu», sentenziò Cage.
Parker stava rabbrividendo. Non per il freddo, ma per i guai che quelle
due persone rappresentavano. Pensò ai Chi. Pensò alla loro festa di quella
sera. Pensò alla sua ex moglie. Aprì la bocca per dire allo smilzo Cage e a
Lukas dagli occhi morti di uscire di corsa dalla sua vita. Ma la donna arri-
vò per prima. «Ascolti, mi stia solo a sentire», disse. «Il sosco...»
Parker ricordò: abbreviazione di soggetto sconosciuto. Un criminale non
identificato.
«... e il suo socio... quello che spara... hanno questo schema di estorsio-
ne. Il sicario bersaglia una folla di persone con un'arma automatica ogni
quattro ore a partire dalle quattro di oggi pomeriggio, a meno che l'ammi-
nistrazione cittadina non paghi. Il sindaco decide di pagare e noi lasciamo i
soldi dove ci è stato indicato. Ma il sosco non si fa vedere. Perché? Perché
è morto.»
«Pensa che fortuna, Parker, ci credi?» esclamò Cage. «Mentre sta an-
dando a prendere venti milioni di dollari, viene steso dal furgone di una
ditta di consegne.»
«E perché non è andato il sicario a prendere i soldi?» domandò Parker.
«Perché le sue uniche istruzioni sono di uccidere. Non ha nulla a che fa-
re con il denaro. Classico schema mano destra/mano sinistra.» Lukas sem-
brava sorpresa che Parker non ci fosse arrivato da solo. «Il sosco fa partire
il sicario con l'istruzione di continuare a uccidere se non riceve una chia-
mata che gli dice di smettere. In questo modo, sa che esiteremo a catturarlo
con un'operazione tattica. E, se lo becchiamo, ha comunque abbastanza po-
tere contrattuale da ottenere un patteggiamento in cambio della fine degli
omicidi.»
«Quindi», proseguì Cage, «dobbiamo trovarlo. Il sicario.»
La porta alle sue spalle cominciò ad aprirsi.
«Si allacci il giubbotto», disse rapidamente Parker a Lukas.
«Cosa?» si accigliò lei.
Mentre Robby usciva, Parker allungò una mano verso la donna e le
chiuse il giubbotto con uno strattone, nascondendo la grossa pistola che
portava alla cintura. Lei gli rivolse un'occhiata perplessa, e Parker le sus-
surrò: «Non voglio che veda la sua pistola».
Passò un braccio intorno alle spalle del figlio. «Ehi, Chi. Come te la pas-
si?»
«Stephie ha nascosto il controller.»
«Non è vero», gridò la bambina dal piano di sopra. «Non è vero, non è
vero.»
«Io stavo vincendo e lei l'ha nascosto.»
«Aspetta», disse Parker con una smorfia, «non è attaccato a un cavo?»
«L'ha staccato.»
«Stephie-effie. Non è che quel controller sta per riapparire magicamente
in cinque secondi? Quattro, tre, due...»
«L'ho trovato!» disse la voce della bambina.
«Tocca a me!» strillò Robby, e si precipitò nuovamente su per le scale.
Ancora una volta, Parker notò lo sguardo di Margaret Lukas seguire il
bambino che saliva al piano superiore.
«Come si chiama?» gli domandò lei.
«Robby.»
«Ma come l'ha chiamato poco fa?»
«Ah. 'Chi.' È il soprannome che ho dato ai bambini.»
«Ispirato a Yahoo?» domandò Lukas. «La squadra della sua università?»
«No. È preso da un libro del dottor Seuss.» Parker si chiese come faceva
a sapere che aveva frequentato l'Università della Virginia. «Senti, Cage, mi
dispiace. Davvero. Ma non posso proprio aiutarvi.»
«Capisci qual è la portata del problema, qui, ragazzo?» insistette Cage.
«L'unica connessione che abbiamo - l'unico indizio - è la lettera di estor-
sione.»
«Fatela esaminare al PERT.»
Il Physical Evidence Response Team, ovvero la squadra scientifica di
pronto intervento dell'FBI.
Le labbra sottili di Lukas si assottigliarono ancor di più. «Se saremo ob-
bligati, lo faremo. E faremo arrivare un esperto di psicolinguistica da
Quantico. E manderemo agenti in ogni stramaledetta fabbrica di carta e di
penne della nazione. Ma...»
«... questo è ciò di cui speravamo ti occupassi tu», terminò Cage per lei.
«Puoi dargli un'occhiata, puoi dirci delle cose. Roba che nessun altro sa-
rebbe in grado di capire. Magari dove viveva. Magari il luogo dove il sica-
rio colpirà la prossima volta.»
«Che mi dici di Stan?» domandò Parker.
Stanley Lewis era l'attuale capo della divisione Documenti dell'FBI.
Parker lo conosceva bene: era stato lui stesso ad assumerlo come esamina-
tore, anni prima. Ricordò una sera che avevano trascorso tentando di supe-
rarsi l'un l'altro nella falsificazione della firma di John Hancock. Aveva
vinto Lewis.
«È in California per il processo Sanchez. Nemmeno con un Tomcat riu-
sciremmo a riportarlo indietro prima che scada il prossimo ultimatum.»
«È alle quattro di oggi», ripeté Lukas.
«Non sarà come l'ultima volta, Parker», continuò Cage. «Non succederà
mai più.»
Lo sguardo di Lukas passò nuovamente da un uomo all'altro. Ma Parker
non le spiegò le parole di Cage. Non aveva intenzione di parlare del passa-
to. Aveva già avuto la sua dose di passato, quel giorno.
«Mi dispiace. In qualsiasi altro momento, forse. Ma adesso proprio non
posso.» Stava immaginando che cosa sarebbe accaduto se Joan avesse
scoperto che stava partecipando attivamente a un'indagine in corso.
«Merda, Parker, che cosa devo fare?»
«Non abbiamo in mano niente», sbottò Lukas con rabbia. «Nessuna pista
da seguire. Abbiamo poche ore prima che questo pazzo spari su altra gen-
te. Ci sono stati dei bambini che sono rimasti feriti...»
Parker agitò bruscamente la mano per zittirla. «Adesso devo chiedervi di
andarvene. Buona fortuna.»
Cage si strinse nelle spalle e rivolse un cenno a Margaret Lukas. Lei
diede a Parker il suo biglietto da visita, su cui campeggiava in rilievo il
simbolo dorato del dipartimento di Giustizia. Un tempo Parker aveva bi-
glietti da visita molto simili a quello. Il carattere era Cheltenham conden-
sed. Corpo nove.
«Il numero del cellulare è in basso... Senta, se abbiamo qualche proble-
ma, possiamo almeno chiamarla?»
Parker esitò un istante, poi disse: «Va bene».
«Grazie.»
«Addio», si congedò Parker, tornando in casa.
La porta si chiuse. Robby era in cima alle scale.
«Chi erano, papà?»
«Un tempo lavoravo insieme a quell'uomo», rispose Parker.
«Lei aveva una pistola?» domandò Robby. «Quella signora bionda...»
«Tu hai visto una pistola?» gli chiese Parker.
«Sì.»
«Allora immagino che ne avesse una.»
«Hai lavorato anche con lei?» domandò il bambino.
«No, soltanto con l'uomo.»
«Oh. Era molto carina, papà.»
Parker stava per dire: Sì, per essere una donna poliziotto. Ma non lo fe-
ce.

Qui a Washington vivo oppresso da una cappa di dolore, ossessionato


come sono da visioni di Polly a cavallo...
Parker, nuovamente nel suo studio nel seminterrato, ora da solo, si sco-
prì a pensare alla presunta lettera di Jefferson come al reperto D1. Nel la-
boratorio dell'FBI nella Nona Strada, i documenti sulla cui autenticità esi-
steva qualche dubbio venivano chiamati D, dubbi. I documenti autentici e i
campioni di calligrafia, chiamati anche «conosciuti», erano contraddistinti
dalla lettera C, certi. Erano passati anni dall'ultima volta in cui aveva pen-
sato ai testamenti e ai contratti sospetti che analizzava nel suo lavoro con
la lettera D. Quell'intrusione del mestiere poliziesco nella sua vita persona-
le era inquietante. Quasi quanto la visita di Joan.
Dimenticati di Cage, dimenticati di Lukas.
Concentrati...
Tornò a studiare la lettera.
Notò che l'autore, che si trattasse o meno di Thomas Jefferson, aveva
adoperato una penna d'acciaio: poteva vedere chiaramente il flusso unico
dell'inchiostro nelle fibre lacerate dalla punta del pennino. Molti falsari ri-
tengono che tutti i vecchi documenti siano stati scritti con penne d'oca, e
utilizzano esclusivamente quelle. Ma nell'Ottocento i pennini d'acciaio e-
rano molto popolari, e Jefferson se ne serviva per sbrigare la maggior parte
della sua corrispondenza.
Un altro piccolo elemento a favore dell'autenticità della lettera.
Penso spesso anche a tua madre in questi tempi difficili e nonostante,
mia cara, io non voglia aggiungere ulteriore peso al tuo fardello mi chie-
do se posso impormi a te chiedendoti di trovare quel ritratto di Polly e di
tua madre insieme, lo rammenti? Quello che il signor Chabroux ha dipinto
raffigurandole accanto al pozzo. Avevo intenzione di portarlo con me af-
finché i loro volti potessero sostenermi nei miei momenti più bui.
Si obbligò a non pensare al contesto della lettera ed esaminò una linea di
inchiostro nel punto in cui attraversava una piega del foglio. Osservò l'as-
senza di travasi nella piega. Il che significava che la lettera era stata scritta
prima che il foglio fosse piegato. Sapeva che Thomas Jefferson era molto
pignolo per ciò che riguardava le sue abitudini di scrittura, e che non a-
vrebbe mai scritto una lettera su un foglio di carta piegato. Un altro punto
a favore del documento...
Sollevò lo sguardo e si stiracchiò. Allungò una mano e accese la radio.
La National Public Radio aveva interrotto il programma regolare di musica
classica per un altro servizio speciale sulla sparatoria della metropolitana.
«... il bilancio delle vittime è salito a ventiquattro. LaVelle Williams, di
cinque anni, è morta per ferita da arma da fuoco. ha madre della bambina
è rimasta ferita durante la sparatoria e ora versa in condizioni critiche...»
Spense la radio.
Guardò la lettera, facendo scorrere lentamente la lente di ingrandimento.
Si immerse nell'analisi di un sollevamento, il punto in cui l'autore aveva
finito di scrivere una parola e aveva staccato la penna dalla superficie del
foglio. Quel tratto era tipico del modo in cui Jefferson terminava le parole.
E la dispersione dell'inchiostro sulla carta?
Il modo in cui l'inchiostro viene assorbito può dire molte cose sul tipo di
materiali e su quando il documento è stato stilato. Con il passare degli an-
ni, l'inchiostro viene trascinato sempre più all'interno della carta. La di-
spersione del documento che stava esaminando lasciava intendere che fos-
se stato scritto molto tempo prima, con tutta probabilità anche duecento
anni prima. Ma, come sempre, Parker Kincaid prese l'informazione con le
molle: c'erano modi per falsificare anche la dispersione.
Udì il tonfo dei piedi dei bambini sulle scale. La pausa, poi i tonfi più
forti quando prima l'uno e poi l'altra superarono gli ultimi tre scalini in un
sol balzo.
«Papà, abbiamo fame», gridò Robby dalla sommità delle scale del se-
minterrato.
«Arrivo subito.»
«Possiamo mangiare il formaggio alla griglia?»
«Per favore!»
Parker spense la brillante luce bianca sulla scrivania. Rimise la lettera in
cassaforte. Restò immobile per un istante nello studio in penombra, illumi-
nato soltanto da una falsa lampada Tiffany nell'angolo, accanto al vecchio
divano.
Avevo intenzione di portarlo con me affinché i loro volti potessero so-
stenermi nei miei momenti più bui.
Lentamente, salì le scale.

5
13,45

«L'arma», disse bruscamente Margaret Lukas. «Voglio i det sull'arma


del sicario.»
«Cos'è che vuoi?» le domandò Cage.
«Det. Det-ta-gli.» Era abituata al suo personale regolare, che conosceva
le sue espressioni. E le sue idiosincrasie.
«Arriveranno da un momento all'altro», rispose C.P. Ardell. «Almeno,
questo è quello che mi stanno dicendo.»
Erano in una delle stanze senza finestre nel nuovo Centro strategico per
le informazioni e le operazioni dell'FBI al quinto piano del quartier genera-
le nella Nona Strada. L'intero centro era grande quasi come un campo da
football ed era stato ampliato di recente per permettere all'agenzia di gesti-
re fino a cinque casi di grande importanza contemporaneamente.
Cage superò Lukas e, quando le passò accanto, sussurrò: «Te la stai ca-
vando benissimo».
Lei non rispose. Vide la propria immagine riflessa in uno degli schermi
video sulla parete, su cui campeggiava l'immagine della lettera di estorsio-
ne. Davvero? pensò. Me la sto cavando davvero bene? Lo sperava. Dio,
quanto lo sperava. Nell'FBI si diceva che ogni agente si trova nel corso
della sua carriera di fronte alla sua grande opportunità. La possibilità di es-
sere notato, la possibilità di muoversi verso l'alto nella gerarchia.
Be', quella sicuramente era la sua. Un AASI che gestisce un caso come
quello. Non capitava mai. Non in un... come aveva detto Cage? Neanche in
un mese tutto di lunedì.
Guardò oltre il proprio riflesso. Sull'enorme schermo, la lettera brillava
bianca, solcata da lettere nere simili a ragni giganteschi. A che cosa non sto
pensando? si domandò Lukas. Ripassò mentalmente ciò a cui aveva pensa-
to. Aveva inviato le impronte del sosco morto a ogni maggior database di
impronte digitali del mondo. Aveva messo venti poliziotti del distretto alla
ricerca del furgone che l'aveva investito nell'eventualità che il sosco, in
punto di morte, avesse detto qualche parola al guidatore (e si era già assi-
curata che il testimone avesse l'immunità per l'omissione di soccorso per
indurlo a parlare). Aveva inviato altri venticinque agenti alla ricerca di
possibili testimoni. Altri stavano controllando centinaia di numeri di targa.
Gli agenti in borghese stavano mungendo gli informatori di tutta la nazio-
ne. Altri agenti ancora stavano controllando i tabulati delle telefonate in
entrata e in uscita dal Municipio delle ultime due settimane. Lei stava...
Arrivò una telefonata. Len Hardy fece per sollevare il ricevitore, ma Ca-
ge lo anticipò. Hardy si era tolto il trench, rivelando una camicia di tessuto
sintetico bianco a righine marroni, un paio di pantaloni con la piega affila-
ta come la lama di un rasoio e una cravatta marrone. Nonostante fosse ri-
masto sdraiato per oltre un'ora nei campi della Virginia, i suoi capelli era-
no ancora perfettamente a posto, e su di lui non c'era un solo granello di
polvere. Più che un detective, sembrava un testimone di Geova pronto a
offrire qualche opuscolo sulla salvezza eterna. Lukas, che portava una
Glock calibro 10, pensava che il piccolo revolver Smith & Wesson calibro
38 che Hardy portava al fianco fosse decisamente da checca.
«Tutto bene, detective?» gli domandò, vedendo la sua espressione con-
trariata quando Cage gli portò via il telefono da sotto il naso.
«Diritto come la pioggia», borbottò Hardy, senza nemmeno troppo sar-
casmo.
Lukas rise sommessamente a quell'espressione che non sentiva da anni.
«Vieni dal Midwest?»
«Non si sente dall'accento? Fuori Chicago. Giù in fondo. Be', è così che
dicono, anche se il paesino da cui provengo è a nord-ovest della città.»
Hardy si sedette. Il sorriso di Lukas scomparve. Diritto come la piog-
gia...
Cage riagganciò. «Ho i tuoi det. Era la sezione Armi da Fuoco. Era un
Uzi. Vecchio di circa un anno. C'era un sacco di allargamento della canna.
Quell'arma ha sparato più volte, e in modo serio. Cotone minerale nel si-
lenziatore. Fatto a mano, sembra. Niente di commerciale. Il tipo sa quello
che fa.»
«Benissimo!» esclamò Lukas. Chiamò C.P. Ardell, dall'altra parte della
stanza. «Fa' controllare a qualcuno i siti internet che forniscono istruzioni
su come fabbricare silenziatori. Vedi se riesci a farti dare gli indirizzi e-
mail di qualche contatto recente.»
«Sono obbligati a darmeli?»
«Non senza un mandato. Ma tu fagli credere di sì. E sii persuasivo.»
L'agente fece la sua telefonata e parlò per qualche secondo. «Se ne stan-
no occupando i Servizi Tecnici», riferì.
Lukas si rivolse a Cage. «Ehi, ho un'idea.»
L'agente inarcò un sopracciglio.
«Quello che possiamo fare», continuò lei, «è far venire quel tipo delle
Risorse Umane.»
«Chi?» domandò Cage.
«Il tipo che esamina la calligrafia di quelli che fanno domanda e compila
il loro profilo psicologico.»
«Lo fa anche il distretto», disse Len Hardy. «Si ritiene che possa tenere
lontani gli squilibrati.»
«Cosa intendi dire?» domandò C.P. a Lukas. «L'abbiamo già mandata a
Quantico.»
L'agente si riferiva a una copia della lettera che era stata inviata alla se-
zione Comportamentale per un profilo psicolinguistico. Tobe Geller era
seduto di fronte a un computer in attesa dei risultati.
«No, no, quello serve a fare qualche collegamento con altri modus ope-
randi simili e ad avere un profilo della sua educazione e della sua intelli-
genza», spiegò Lukas. «Sto parlando di ottenere un profilo della sua per-
sonalità. Grafoanalisi.»
«Non sprecate tempo», disse una voce alle loro spalle.
Lukas si voltò e vide un tipo in jeans e giubbotto di pelle. L'uomo entrò
nel laboratorio. Portava un tesserino da visitatore appeso al collo e aveva
con sé una grossa valigetta. Le ci volle un momento per riconoscerlo.
Cage fece per dire qualcosa, ma si fermò. Forse temeva di spaventarlo
tanto da fargli cambiare idea di nuovo.
«Artie mi ha lasciato salire», fece Parker Kincaid. Artie era la guardia di
sicurezza notturna dell'edificio. «Si ricorda ancora di me. Dopo tutti questi
anni.»
Quello era un lato decisamente diverso di Kincaid, pensò Lukas. A casa
era sembrato sciatto, e di sicuro l'orribile felpa e i pantaloni sformati che
aveva indosso non gli erano stati d'aiuto. Il maglione grigio a V che indos-
sava ora sopra una camicia nera sembrava molto più consono alla sua per-
sona.
«Salve, signor Kincaid», lo salutò Lukas. «Non sprecare tempo con co-
sa?»
«Con la grafoanalisi. Non si può analizzare la personalità dalla calligra-
fia.»
Lukas rimase momentaneamente disorientata dal suo tono perentorio.
«Credevo che un sacco di gente lo facesse.»
«La gente legge anche i tarocchi e parla con i propri cari defunti. Sono
idiozie.»
«Ho sentito dire che può essere d'aiuto», insistette lei.
«Perdita di tempo», ribatté Parker in tono piatto. «Ci concentreremo su
altri elementi.»
«Bene. D'accordo.» Tra sé e sé, Lukas pregò di non arrivare a detestarlo
troppo.
«Ehi, Parker, conosci Tobe Geller?» gli domandò Cage. «Oggi fa il dop-
pio turno: si occupa sia dei computer sia delle comunicazioni. Siamo riu-
sciti a rintracciarlo mentre stava andando a farsi una settimana bianca nel
Vermont.»
«Era il New Hampshire», disse l'agente, offrendo uno dei suoi sorrisi
aperti. «Per la paga dei giorni festivi farei qualunque cosa. Darei persino
buca a una ragazza. Ciao, Parker. Ho sentito parlare di te.»
I due si strinsero la mano.
Cage gli indicò un'altra scrivania. «Questo è C.P. Ardell. È dell'ufficio di
Washington. Nessuno sa cosa significhi C.P., ma è così che lo chiamano.
Non credo che lo sappia nemmeno lui.»
«Qualche tempo fa lo sapevo», disse C.P., laconico.
«E questo è Len Hardy, il nostro contatto con il dipartimento di Polizia
del distretto.»
«Piacere di conoscerla, signore», fece il detective.
Kincaid gli strinse la mano. «Non c'è davvero nessun bisogno del 'signo-
re'.»
«Certo.»
«Sei della Scientifica?»
Hardy ebbe un attimo di esitazione, poi disse: «In realtà sono del reparto
Ricerche e Statistiche. Tutti gli altri erano impegnati, così sono stato desi-
gnato io a fare da collegamento».
«Dov'è la lettera?» domandò Parker a Lukas. «L'originale, intendo.»
«In Identificazione. Volevo vedere se riuscivamo a prendere qualche al-
tra impronta.»
Kincaid si accigliò, ma prima che potesse dire qualcosa Lukas aggiunse:
«Gli ho raccomandato di usare soltanto il laser. Niente ninidrina».
Parker era stupito. «Ha lavorato nella Scientifica?»
Nonostante sapesse che aveva fatto bene a non adoperare agenti chimici,
Margaret aveva la sensazione che Parker la stesse sfidando. «Ricordi del-
l'Accademia», gli rispose, poi prese il telefono.
«Di che si tratta?» domandò Hardy. «Nin...?»
«La ninidrina è la sostanza che si usa di solito per rilevare le impronte
sulla carta», gli rispose Lukas.
«Ma», finì per lei Kincaid, «rovina le scritte incise. Non bisogna mai u-
sarla su un documento sospetto.»
Lukas continuò a fare la sua telefonata al reparto Identificazione. Il tec-
nico le disse che non c'erano altre impronte sul documento, e che avrebbe
mandato immediatamente qualcuno a portare la lettera al centro operativo.
Lukas lo riferì al resto della squadra.
Parker annuì.
«Perché hai cambiato idea?» gli domandò Cage.
Parker rimase in silenzio per un istante. «Ricordi quei bambini di cui mi
avete parlato? Quelli rimasti feriti nella metropolitana? Uno di loro è mor-
to: era una bambina...»
Con altrettanta solennità, Lukas precisò: «LaVelle Williams. Ho senti-
to».
Parker si rivolse a Cage. «Sono qui a una condizione. Nessuno, tranne i
membri della squadra operativa, deve sapere che sono coinvolto nell'inda-
gine. Se si viene a sapere e salta fuori il mio nome, a qualsiasi punto del-
l'indagine, me ne vado. E negherò anche di conoscervi.»
«Se questo è ciò che vuole, signor Kincaid», disse Lukas. «Ma...»
«Diamoci del tu. È meglio.»
«Okay», si intromise Cage. «Possiamo chiederti perché?»
«I miei figli...»
«Se sei preoccupato per la loro sicurezza, possiamo mandare una mac-
china a casa tua. Tutti gli agenti che vuoi.»
«Sono preoccupato della mia ex moglie.»
Lukas gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«Da quando io e lei abbiamo divorziato, quattro anni fa, ho la custodia
dei miei figli», le spiegò Parker. «E una delle ragioni per cui l'ho ottenuta è
che lavoro a casa e che non faccio nulla che possa mettere in pericolo me
stesso o loro. È per questo motivo che eseguo soltanto lavori commerciali.
Ora sembra che mia moglie abbia intenzione di riaprire la causa di custo-
dia. Non deve assolutamente venire a sapere di questa cosa.»
«Nessun problema, Parker», lo rassicurò Cage. «Sarai qualcun altro. Chi
vuoi essere?»
«Non mi importa se mi fai diventare John Doe o Thomas Jefferson, mi
basta che il mio vero nome non risulti. Joan arriverà domattina alle dieci a
casa mia con qualche regalo per i bambini. Sicuramente farà loro delle
domande, e se scopre che sono stato fuori casa la sera dell'ultimo dell'anno
per lavorare a un caso dell'FBI... non sarà una buona cosa.»
«Che cosa hai detto ai bambini?» gli chiese Lukas.
«Che un mio amico stava male e che dovevo andare a trovarlo in ospe-
dale.» Puntò un dito contro il petto di Cage. «È stato orribile mentire ai
miei figli. Orribile.»
Ricordando il suo bellissimo bambino, Lukas tentò di rassicurarlo: «Fa-
remo del nostro meglio».
«Non si tratta di fare del vostro meglio», ribatté Kincaid, sostenendo
fermamente lo sguardo di Margaret. Una cosa che pochissimi uomini era-
no in grado di fare. «Il punto è: o mi tenete fuori dalla faccenda, o me ne
vado.»
«Allora lo faremo», disse semplicemente Lukas, guardandosi intorno.
C.P., Geller e Hardy annuirono in silenzio.
«D'accordo.» Parker si tolse il giubbotto e lo appoggiò allo schienale di
una sedia. «Ora, qual è il piano?»
Lukas lo informò sullo stato dell'indagine. Kincaid annuì senza dire nul-
la. Lei tentò di leggergli in viso, cercando di capire se approvava o meno
ciò che stava facendo. Si domandò se le importava poi così tanto che lui la
approvasse. Poi disse: «Il sindaco sta per andare in onda tra poco per ri-
volgere un appello al sicario. Ha intenzione di lasciargli credere che dare-
mo i soldi a lui. Non intende dirlo esplicitamente, ovvio, ma butterà lì
qualche accenno velato. Speriamo che il sicario si metta in contatto con
noi. Abbiamo il denaro giù al piano di sotto, in un paio di borse trasmitten-
ti. Le lasceremo ovunque lui voglia».
Cage prese la parola. «Poi Tobe lo rintraccerà nel suo nascondiglio. La
squadra tattica di Jerry Baker è già all'erta, pronta a intervenire. Lo inchio-
deremo al suo ritorno a casa. Oppure per la strada.»
«Quali sono le probabilità che scelga di prendere i soldi?»
«Non lo sappiamo», fece Lukas. «Quando darai un'occhiata alla lettera,
vedrai che il sosco - l'uomo che è rimasto ucciso nell'incidente - era un tipo
piuttosto lento di cervello. Se il suo socio, questo Becchino, è stupido
quanto lui, potrebbe benissimo non accettare i soldi.» Stava pensando ai
fondamenti di psicologia criminale che aveva imparato all'Accademia. I
criminali più ottusi erano molto più sospettosi dei loro colleghi più intelli-
genti. Avevano la tendenza a non improvvisare nemmeno quando le circo-
stanze cambiavano repentinamente. «Il che significa», aggiunse, «che po-
trebbe tranquillamente continuare a sparare come gli è stato detto di fare.»
«E non sappiamo nemmeno», continuò Cage, «se ascolterà la trasmis-
sione di Kennedy. Ma il fatto è che non abbiamo nemmeno uno straccio di
pista.»
Lukas notò che Parker stava guardando il Bollettino dei crimini gravi.
Parlava dell'attentato all'abitazione di Gary Moss, la talpa che aveva scate-
nato lo scandalo degli appalti per la costruzione delle scuole. Bollettini
come quello descrivevano il crimine in ogni particolare e venivano adope-
rati per mettere al corrente gli agenti dei turni successivi sulle specifiche di
un caso. Quel bollettino, in particolare, riferiva di come le due figlie di
Moss erano riuscite a scampare alla bomba.
Parker Kincaid consultò il bollettino più a lungo di quanto volesse, appa-
rentemente turbato dal linguaggio freddo del resoconto dell'attentato.
Le due figlie del soggetto sono riuscite a evadere dalla struttura ripor-
tando soltanto ferite di poco conto.
Finalmente lo spinse da parte. Si guardò intorno, osservando le file di te-
lefoni, i computer, le scrivanie del centro di controllo. Il suo sguardo si
fermò sui monitor che mostravano la lettera dell'estorsore.
«Possiamo approntare la stanza operativa da qualche altra parte?»
«Questo è il Centro strategico», ribatté Lukas.
«Non stiamo usando tutto lo spazio a disposizione», le fece notare Kin-
caid. «E sicuramente non tutta l'attrezzatura.»
Lukas ci pensò. «Immagino che non faccia alcuna differenza. Dove vor-
resti andare?»
«Di sopra», rispose Parker in tono assente, gli occhi fissi sulla riprodu-
zione della lettera. «Andiamo di sopra.»

Parker entrò nel laboratorio per i documenti della divisione Scientifico-


criminale, osservando l'attrezzatura che conosceva tanto bene.
Due microscopi stereo binoculari Leitz con una sorgente di luce a fibre
ottiche Volpi Intralux, un vecchio video comparatore di spettro Foster +
Freeman VSC4 e il modello più recente - il VSC2000, equipaggiato con
una PoliLight Rofin e basato sul sistema operativo Windows NT su cui gi-
rava un software QDOS. Inoltre, in un angolo del laboratorio, c'era un
ESDA - apparecchio di rilevamento elettrostatico - sempre della Foster +
Freeman, e accanto un gascromatografo di precisione per l'analisi dell'in-
chiostro e delle tracce residue.
Vide la grande vetrata dietro cui i visitatori passavano tutti i giorni, dalle
nove alle quattro, durante le loro visite guidate al quartier generale del-
l'FBI.
Guardò nuovamente l'ufficio di Stan Lewis. Vide i libri che lui stesso
aveva usato quando lavorava in quel dipartimento. Documenti sospetti di
Harrison, Introduzione all'identificazione della calligrafia di Housely e
Farmer, L'esame scientifico dei documenti di dubbia provenienza di Albert
S. Osborn. Guardò il mobile alle spalle della poltroncina girevole di Lewis
e riconobbe i quattro bonsai che lui stesso aveva coltivato e poi lasciato in
eredità al suo successore.
Accese diversi macchinari. Alcuni ronzarono, altri ticchettarono. E altri
ancora rimasero in silenzio, le spie e gli indicatori a scintillare come occhi
prudenti.
In attesa, in attesa...
Aspettava, tentando di non pensare alla conversazione con i due bambini
avvenuta un'ora prima. Quando aveva detto loro che i progetti per la festa
erano cambiati.
Entrambi i Chi erano nella stanza di Robby, il pavimento ancora ricoper-
to di Lego e Micro Machines.
«Ehilà, Chi.»
«Sono arrivata al terzo livello», disse Stephie, indicando il Nintendo.
«Poi sono stata buttata fuori.»
Robby aveva in corso un'invasione in piena regola del suo letto con eli-
cotteri e mezzi da sbarco.
Parker si era seduto sul letto. «Vi ricordate quelle due persone che sono
venute qui poco fa?»
«Quella bella signora che continuavi a guardare», aveva detto furbesca-
mente suo figlio.
(«Sono molto più furbi di quanto tu possa mai immaginare», recita il
Manuale.)
«Be', mi hanno detto che un mio amico è ammalato e che devo andare a
trovarlo per un po'. Chi volete che venga a farvi da babysitter?»
Oltre al gruppetto standard di babysitter liceali o universitarie, Parker
aveva un certo numero di amici nel vicinato - altri genitori con cui socia-
lizzava - che sarebbero stati contenti di tenere i bambini per la serata. E
c'era anche la sua amica Lynne, che viveva nel distretto. Sarebbe andata
fino a Fairfax per aiutarlo, ma Parker era sicuro che avesse già un impegno
per quella sera (era impossibile immaginare Lynne senza un appuntamento
per la notte di Capodanno), e i loro rapporti non erano più al livello in cui
avrebbe osato chiederle un sacrificio simile.
«Devi proprio andare?» gli aveva chiesto Robby. «Stasera?»
Quando era deluso, il bambino diventava praticamente immobile, l'e-
spressione del viso inalterata. Non si imbronciava mai, non faceva mai i
capricci - cosa che Parker, in realtà, avrebbe preferito. Semplicemente, si
immobilizzava, come se la tristezza minacciasse di sopraffarlo da un mo-
mento all'altro. Quando il bambino sollevò lo sguardo su di lui, immobile,
tenendo in mano un piccolo elicottero, Parker sentì la delusione di suo fi-
glio scavargli un vuoto nel cuore.
Stephie mostrava meno le proprie emozioni, e l'unica sua reazione era
stata di spostarsi i capelli dalla fronte e di guardarlo perplessa, chiedendo-
gli: «Guarirà il tuo amico?»
«Sono sicuro di sì. Ma sarebbe bello, da parte mia, se andassi a trovarlo.
Volete che chiami Jennifer? O la signora Cavanaugh?»
«La signora Cavanaugh!» risposero i bambini, praticamente all'unisono.
Robby dimenticò il proprio dolore. La signora Cavanaugh, una sorta di
nonna ideale, si occupava dei bambini al martedì - quando Parker parteci-
pava alla partita settimanale di poker con i suoi vicini, solitamente vincen-
do - giocando con loro a Monopoli e a backgammon, avendo la gentilezza
di perdere quasi sempre.
Parker si era alzato, circondato dal mare di giocattoli.
«Ma tornerai prima di mezzanotte», aveva domandato Robby, «vero?»
(«Mai fare promesse se esiste anche una sola possibilità che tu non pos-
sa mantenerle.»)
«Cercherò di fare tutto il possibile.»
Poi aveva abbracciato tutti e due i bambini e si era diretto verso la porta.
«Papà?» l'aveva fermato Stephie, il ritratto dell'innocenza nei suoi jeans
troppo grandi e la sua maglietta di Hello Kitty. «Al tuo amico piacerebbe
che io gli scrivessi un biglietto di auguri?»
Parker aveva sentito tutto il peso del proprio tradimento. «Non preoccu-
parti, tesoro. Credo che sarebbe più contento se questa sera ti divertissi.»
In quel momento, interrompendo quel difficile corso di pensieri, la porta
del laboratorio si aprì. Un agente alto e magro, di bell'aspetto, con lunghi
capelli biondi pettinati all'indietro, entrò nella stanza. «Jerry Baker», si
presentò, avvicinandosi a Parker. «E tu sei Parker Kincaid.»
Si strinsero la mano.
L'uomo guardò dall'altra parte del laboratorio. «Margaret», salutò. Lukas
gli rispose con un cenno del capo.
«Sei l'esperto tattico?» gli domandò Parker.
«Esatto.»
«Jerry ha preparato una squadra di R&S», lo informò Lukas.
Ricerca e Sorveglianza, rammentò Parker.
«Ho anche degli ottimi cecchini», fece Baker. «Stanno morendo dalla
voglia di avere una possibilità di far secco quell'animale.»
Parker si accomodò sulla poltroncina grigia e la ruotò lentamente. «Ave-
te esaminato il corpo del sosco?» domandò a Lukas.
«Sì», rispose la donna.
«Avete l'inventario?»
«Non ancora.»
Parker aveva idee molto precise su come condurre indagini centrate sul-
l'analisi dei documenti, e si domandò che tipo di problemi avrebbe avuto
con Margaret Lukas. Doveva occuparsene con tatto oppure no? Ma, guar-
dando il viso duro della donna, pallido come marmo chiaro, decise che non
c'era tempo per le gentilezze. Era determinato a inchiodare il sicario e tor-
nare a casa prima di mezzanotte. Avevano bisogno del maggior numero
possibile di C - aspetti conosciuti del sosco. «Faremmo meglio a farcelo
mandare subito.»
«Ho dato disposizione di mandarlo qui il più presto possibile», rispose
freddamente lei.
Parker decise di non impuntarsi. Guardò Baker. «Quante persone ab-
biamo?»
«Trentasei dei nostri, più cinquanta agenti del dipartimento di Polizia.»
Parker si accigliò. «Ne avremo bisogno di più.»
«Questo è un problema», disse Cage. «A causa del giorno di festa. In cit-
tà ci sono duecentomila persone. E un sacco di agenti del Tesoro e della
Giustizia sono impegnati in operazioni di sicurezza, con tutti i diplomatici
e i membri del governo che ci sono in giro.»
«È una sfortuna che sia capitato proprio oggi», borbottò Len Hardy.
Parker fece una breve risata. «Non poteva succedere in nessun altro
giorno.»
Il giovane detective gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Cosa intendi
dire?»
Parker stava per rispondere, ma Lukas lo precedette. «Il sosco ha scelto
questo giorno perché sapeva che saremmo stati a corto di personale.»
«E a causa dell'affollamento in città», aggiunse Parker. «Il sicario avrà a
disposizione un poligono di tiro maledettamente vasto. Lui...»
Si interruppe, ascoltando se stesso. Non gli piacque ciò che sentì. Vi-
vendo con i bambini, lavorando principalmente da solo, si era ammorbidito
da quando aveva lasciato l'FBI: le asperità del suo carattere erano scom-
parse. Non imprecava mai, e temperava ogni sua parola pensando ai Chi.
Ora si ritrovava trasportato di peso nella sua vita precedente, la sua vita
dura. Come linguista, Parker sapeva che la prima cosa che un outsider fa
per adattarsi a un nuovo gruppo è parlare come parlano gli altri.
Aprì la sua valigetta, che conteneva un kit portatile per l'esame dei do-
cumenti. E, a quanto pareva, conteneva anche un pupazzetto raffigurante
Darth Vadar.
«Che la Forza sia con voi», disse Cage. «La nostra mascotte per la sera-
ta. I miei nipotini adorano quei film.»
Parker depose la figura sul ripiano della scrivania. «Preferirei che fosse
Obi Wan Kenobi.»
«Chi?» Lukas si accigliò, scuotendo la testa.
«Non lo sai?» sbottò Hardy, poi arrossì quando lei lo gelò con un'occhia-
ta.
Anche Parker era sorpreso. Com'era possibile che qualcuno non sapesse
nulla di Guerre stellari?
«È soltanto il personaggio di un film», spiegò C.P. Ardell a Lukas.
Senza alcuna reazione, la donna tornò a rivolgere la propria attenzione a
un documento che stava leggendo.
Parker trovò la sua lente di ingrandimento, che teneva avvolta in un
panno di velluto nero. Era una Leitz, 12x, e costituiva l'utensile primario e
più importante per un perito calligrafo. Gliel'aveva regalata Joan per il loro
secondo anniversario di matrimonio. L'aveva trovata in un negozio di anti-
quariato a Londra.
Hardy notò anche un libro nella valigetta. Parker si accorse dello sguar-
do del poliziotto e glielo porse. Rompicapi Volume 5. Hardy lo passò a
Lukas.
«Un hobby», spiegò Parker, guardando gli occhi della donna che scorre-
vano rapidamente le pagine.
«Oh, quest'uomo ama i suoi rompicapi», fece Cage. «Era così che lo
chiamavamo. Il signore degli enigmi.»
«Sono esercizi di pensiero laterale», volle precisare Parker. Guardò so-
pra la spalla di Lukas e lesse: «Un uomo ha tre monete per un totale di set-
tantasei centesimi. Le monete sono state coniate negli Stati Uniti nel corso
degli ultimi vent'anni, sono in circolazione, e una di esse non è un penny.
Che monete sono?»
«Aspetta, una deve essere un penny», disse Cage.
Hardy guardò il soffitto. Parker si chiese se la mente del giovane detec-
tive fosse ordinata e metodica come il suo aspetto esteriore. L'agente riflet-
té per un istante. «Sono monete commemorative?»
«No, ricorda: sono in circolazione.»
«Giusto», disse il detective.
Lo sguardo di Lukas era fisso sul pavimento. La sua mente sembrava es-
sere da qualche altra parte. Parker non riusciva a capire a che cosa stesse
pensando.
Geller ci pensò per un minuto buono. «Non ho intenzione di sprecare le
mie cellule cerebrali per questa cosa», disse infine, tornando a dedicarsi al
suo computer.
«Vi arrendete?» domandò Parker.
«Qual è la risposta?» chiese Cage.
«L'uomo ha una moneta da cinquanta centesimi, un quarto di dollaro e
un penny.»
«Aspetta un attimo», protestò Hardy, «avevi detto che non aveva un
penny.»
«No. Non ho detto questo. Ho detto che una delle monete non era un
penny. Il mezzo dollaro e il quarto non lo sono. Ma una di esse sì.»
«Questo è barare», brontolò Cage.
«Sembra così facile», considerò Hardy.
«Gli enigmi sono sempre facili quando si conosce la risposta», fece Par-
ker. «Proprio come la vita, no?»
Lukas voltò la pagina e lesse: «Tre falchi stanno uccidendo le galline di
un contadino. Un giorno, l'uomo li vede tutti e tre appollaiati sul tetto del
suo pollaio. Ha soltanto un proiettile nel suo fucile, e i falchi sono così lon-
tani tra di loro che può colpirne uno solo. Mira il falco più a sinistra, spara
e lo uccide. Il proiettile non rimbalza. Quanti falchi rimangono sul tetto?»
«È troppo ovvio», osservò C.P.
«Aspetta», disse Cage. «Forse il trucco è proprio questo. Tu pensi che
debba per forza essere complicato, ma in realtà la risposta è proprio quella
più ovvia. Ne uccidi uno e ne rimangono due. Fine dell'enigma.»
«È questa la tua risposta?» domandò Parker.
«Non ne sono sicuro», fece Cage, incerto.
Lukas guardò le ultime pagine del libro.
«Questo è barare», disse Parker.
Lukas continuò a sfogliare. Poi si accigliò. «Dove sono le soluzioni?»
«Non ci sono.»
«Che razza di libro di indovinelli è questo?» considerò lei.
«Una risposta a cui non arrivi da solo non è una risposta.» Parker guardò
l'orologio. Dove diavolo era finita la lettera?
Lukas tornò a dedicarsi all'indovinello, studiandolo. Aveva davvero un
bel viso. Joan era bellissima, con i suoi zigomi rilevati, i fianchi ampi e il
seno sodo e ben sostenuto. Margaret Lukas, con indosso una felpa attillata,
era più piccola di seno e in perfetta forma. Aveva cosce sottili e muscolo-
se, svelate da un paio di jeans stretti. Alla caviglia, Parker intravide un
lampo di calze bianche - probabilmente quelle alte fino al ginocchio che
Joan indossava sotto i pantaloni.
Era molto carina, papà.
Sì, per essere una donna poliziotto...
Un giovane magro con un completo grigio troppo stretto entrò nel labo-
ratorio. Uno dei giovani uscieri che lavoravano alla distribuzione della po-
sta interna, immaginò Parker.
«Agente Cage...» disse.
«Timothy, che cos'hai per noi?»
«Sto cercando l'agente Jefferson.»
Parker venne salvato dal chiedere «Chi?» e dal guardarsi intorno. «Tom
Jefferson?» precisò Cage.
«Sissignore.»
Cage indicò Parker. «Eccolo.»
Parker esitò soltanto un istante, poi prese la busta e firmò la ricevuta,
scrivendo attentamente «Th. Jefferson» allo stesso modo in cui firmava lo
statista, anche se con mano meno attenta.
Timothy se ne andò e Parker guardò perplesso Cage, che disse: «Volevi
essere anonimo. Puff. Sei anonimo».
«Ma come...»
«Sono l'uomo dei miracoli. Te lo dico sempre.»
Il Becchino è in piedi nell'ombra fuori dal suo hotel da trentanove dollari
al giorno con cucina e televisione via cavo gratis e camere libere.
Quella è una zona pidocchiosa della città. Gli ricorda... click... dove do-
ve?
Boston, no. White Plains... click... che è vicino a New... New York.
Click.
È in piedi vicino a un cassonetto dell'immondizia puzzolente e sta osser-
vando la porta della sua stanza.
Sta guardando la gente che va e che viene, come l'uomo che gli dice le
cose gli ha detto di fare. Osservando la porta della sua stanza. Osservando
la stanza attraverso le tendine lasciate aperte.
Va e viene.
Le macchine passano veloci sulla strada sporca, la gente passa sul mar-
ciapiede. Il Becchino assomiglia a loro, il Becchino non assomiglia a nes-
suno. Nessuno vede il Becchino.
«Mi scusi», dice una voce. «Ho fame. Non mangio da...»
Il Becchino si volta. L'uomo guarda gli occhi vuoti del Becchino e non
riesce a terminare la frase. Il Becchino gli spara con due colpi attutiti dal
silenziatore. L'uomo cade e il Becchino solleva il corpo e lo butta nel cas-
sonetto, pensando che il silenziatore ha bisogno di essere ricompattato:
non è più tanto... click... non è più tanto silenzioso.
Ma nessuno ha sentito. Troppo traffico.
Raccoglie i bossoli e se li mette in tasca.
Il cassonetto è di un bell'azzurro.
Al Becchino piacciono i colori. Sua moglie coltivava fiori rossi e sua
moglie coltivava fiori gialli. Ma nessun fiore blu, crede.
Si guarda intorno. Nessun altro nelle vicinanze.
«Se qualcuno ti guarda in faccia, uccidilo», ha ordinato l'uomo che gli
dice le cose. «Nessuno può vedere la tua faccia. Ricordatelo.»
«Me lo ricorderò», ha risposto lui.
Ascolta il cassonetto. Silenzio.
È strano come quando sei... click... come quando sei morto non fai nes-
sun rumore.
Strano...
Riprende a osservare la porta, scrutando la finestra, scrutando la gente
sul marciapiede.
Controlla l'orologio. Ha aspettato per quindici minuti.
Ora può anche entrare.
Ora può farsi un po' di minestra, ricaricare il suo fucile automatico, ri-
compattare il silenziatore. Ha imparato a farlo in un bel giorno d'autunno
dell'anno scorso - ma era l'anno scorso? Si erano seduti su dei tronchi e
l'uomo che gli dice le cose gli aveva spiegato come ricaricare la sua arma e
ricompattare il silenziatore, e tutt'intorno a loro c'erano foglie dai bei colo-
ri. Poi aveva fatto pratica di tiro, roteando su se stesso come un girotondo,
roteando con l'Uzi in pugno, con le foglie e i rami che cadevano tutt'intor-
no. Ricorda ancora l'odore caldo delle foglie morte.
La foresta gli piaceva di più del posto dove è ora.
Apre la porta. Entra.
Chiama la sua casella vocale e inserisce metodicamente il codice. Uno
due due cinque. Non ci sono messaggi da parte dell'uomo che gli dice le
cose. Il Becchino pensa che è un po' triste non avere sue notizie. È da quel-
la mattina che l'uomo che gli dice le cose non gli dice nemmeno una paro-
la. O almeno crede di essere triste. Ma non è sicuro di che cosa voglia dire.
Nessun messaggio, nessun messaggio.
Ciò significa che deve ricompattare il silenziatore e ricaricare l'arma e
prepararsi a uscire di nuovo.
Ma prima si farà un po' di minestra e accenderà la televisione.
Un po' di buona minestra calda.

6
14,05

I documenti hanno una personalità. La lettera di Thomas Jefferson cu-


stodita nella cassaforte dello studio di Parker - che fosse o meno un falso -
era regale. Sovrascritta, e ricca come ambra. Ma la lettera di estorsione che
in quel momento era posata sul tavolo d'esame dell'FBI, di fronte a lui, era
zoppicante e rozza.
Ciò nonostante, Parker la stava esaminando nel modo in cui affrontava
ogni enigma: senza dare nulla per scontato, senza preconcetti. Quando ri-
solve indovinelli, la mente è simile a uno stucco a presa rapida: le prime
impressioni rimangono. Parker avrebbe resistito alla tentazione di trarre
delle conclusioni prima di aver analizzato completamente la lettera. Rin-
viare il giudizio finale era uno degli aspetti più difficili del suo lavoro.
Tre falchi stanno uccidendo le galline di un contadino...
«I proiettili della metropolitana», disse. «Ne avete trovato qualcuno ver-
niciato?»
«Sì», fece Jerry Baker. «Una decina, più o meno. Vernice nera.»
Parker annuì. «Sbaglio, o avete ordinato una perizia psicolinguistica?»
«Esatto», disse Geller, indicando lo schermo del suo computer. «Sto an-
cora aspettando i risultati da Quantico.»
Parker guardò la busta che aveva contenuto la lettera. Era stata riposta in
una guaina di acetato a cui era allegato un modulo di custodia intestato
SPARMETRO. Sulla parte anteriore della busta, con la stessa calligrafia
della lettera, era scritto:

Parker si infilò un paio di guanti di gomma. Non era preoccupato di la-


sciare impronte, ma piuttosto di contaminare eventuali tracce che potevano
essere rinvenute sulla carta. Tolse il panno di velluto dalla sua lente di in-
grandimento Leitz. Aveva un diametro di quindici centimetri, con l'impu-
gnatura di palissandro e uno scintillante anello d'acciaio intorno alla perfet-
ta lente di cristallo. Parker esaminò il bordo colloso della busta.
«Che cosa abbiamo, che cosa abbiamo, abbiamo qualcosa?» borbottò fra
sé. Parlava spesso da solo quando stava analizzando dei documenti. Se i
Chi si trovavano nel suo studio mentre stava lavorando, immaginavano che
i suoi commenti fossero rivolti a loro ed erano felici di essere inclusi nel
lavoro di papà.
I deboli rilievi prodotti dalla macchina che applicava la colla durante la
fabbricazione erano intatti.
«Nessuna traccia di saliva sulla colla», disse, facendo schioccare nervo-
samente la lingua. Dai residui di saliva sui bordi delle buste si potevano ri-
cavare informazioni sierologiche e relative al DNA. «Non l'ha sigillata.»
Lukas scosse la testa, come se Parker avesse trascurato qualcosa di ov-
vio. «Ma non ne abbiamo bisogno. Abbiamo prelevato un po' di sangue dal
cadavere e l'abbiamo mandato a un database del DNA. Niente.»
«Immaginavo che aveste esaminato il sangue del sosco», disse Parker
con voce piatta. «Ma speravo che fosse stato il Becchino a leccare la bu-
sta.»
«Vero», concesse Lukas. «Non ci avevo pensato.»
Non è così piena di sé da non scusarsi, notò Parker. Spinse di lato la bu-
sta e guardò nuovamente la lettera vera e propria. «E che cos'è esattamente
questa storia del 'Becchino'?»
«Già», gli fece eco C.P. Ardell. «Abbiamo per le mani un pazzo?»
«E se fosse un altro Figlio di Sam?» ipotizzò Cage. «Quel tipo, Leonard
Bernstein?»
«David Berkowitz», lo corresse Lukas prima di accorgersi che si trattava
di una battuta. C.P. e Hardy risero. Non si riusciva mai a capire quando
Cage ti stava prendendo in giro. Parker ricordò che Cage era spesso in ve-
na di battute quando le indagini erano al punto più basso. Era una sorta di
scudo invisibile - come quello di Robby - per proteggere l'uomo nascosto
dentro l'agente. Parker si chiese se anche Lukas avesse degli scudi protetti-
vi. Forse, come lui, Lukas a volte indossava l'armatura in piena vista, a
volte la teneva nascosta. Come Robby, anche lui aveva i suoi scudi imma-
ginari.
«Chiamiamo la Comportamentale», disse Parker, «e vediamo se hanno
qualcosa su questo nome. Il Becchino.»
Lukas si disse d'accordo e subito Cage fece la telefonata a Quantico.
«Qualche descrizione del sicario?» domandò Parker senza distogliere lo
sguardo dalla lettera.
«Niente», rispose Cage. «È stato inquietante. Nessuno ha visto un'arma,
nessuno ha visto il lampo della canna, tutti non hanno sentito altro che i
proiettili che colpivano la parete. Be', che colpivano anche le vittime.»
Incredulo, Parker domandò: «Nell'ora di punta? Nessuno ha visto nien-
te?»
«Un attimo prima era lì e un attimo dopo era scomparso», continuò C.P.
«Come uno spettro», aggiunse Hardy. Parker guardò il detective. Era pu-
lito, i capelli tagliati corti, in forma, di bell'aspetto. Portava la fede al dito.
Aveva in sé tutti gli indizi di una vita piena e soddisfacente. Ma intorno a
lui sembrava aleggiare un'aura di malinconia. Parker ricordò che, quando
stava per lasciare l'FBI, il consulente gli aveva spiegato quanto fosse alta
la percentuale di depressi tra gli agenti delle forze dell'ordine.
Si chinò nuovamente sulla lettera, studiando la carta e le parole scritte
con l'inchiostro nero. La rilesse diverse volte.
La fine è in minente...
Notò che non c'era nessuna firma. Il che poteva anche sembrare un'os-
servazione inutile, se non fosse stato che Parker aveva assistito a diversi
casi in cui i criminali avevano firmato davvero le loro richieste di riscatto.
In un caso la firma era falsa, posta appositamente per metterli su una pista
sbagliata (anche se dalla firma scarabocchiata erano stati ricavati dei cam-
pioni di calligrafia che alla fine avevano inchiodato il colpevole). In un al-
tro caso, il rapitore aveva firmato proprio con il suo vero nome, forse but-
tato giù automaticamente nella confusione del momento. Era stato arresta-
to diciassette minuti dopo che la famiglia della vittima aveva ricevuto la
richiesta di riscatto.
Parker avvicinò la potente lente di ingrandimento alla lettera. Si chinò, e
sentì schioccare una vertebra.
Parlami, disse in silenzio al pezzo di carta. Svelami i tuoi segreti.
Il contadino ha soltanto un proiettile nel suo fucile, e i falchi sono così
lontani tra di loro che può colpirne uno solo...
Si chiese se il sosco avesse tentato di alterare la propria scrittura. Diversi
criminali - principalmente rapitori che scrivevano lettere di riscatto - tenta-
vano di camuffare la loro scrittura per rendere più difficili gli eventuali
confronti. Adoperavano strane inclinazioni e insolite formazioni di lettere.
Ma generalmente non lo facevano molto bene: è piuttosto difficile riuscire
a sopprimere la propria mano, e gli esaminatori di documenti riescono
quasi sempre a rilevare il «tremito» - un'incertezza nel tratto - tipico di chi
sta tentando di alterare la propria calligrafia. Ma lì non c'era traccia di tre-
mito. Quella era proprio la scrittura del sosco.
Normalmente, il passo successivo in un caso riguardante una lettera a-
nonima sarebbe stato quello di confrontare il documento sospetto con altri
documenti certi, mandando agenti agli uffici dell'anagrafe con una copia
della lettera di estorsione e dicendo loro di setacciare gli archivi in cerca di
una corrispondenza. Sfortunatamente per la squadra che si occupava del
caso SPARMETRO, la maggior parte dei documenti dell'anagrafe sono
scritti in stampatello o a macchina («Si prega di scrivere in stampatello»
ammoniscono sempre le istruzioni) e la lettera di estorsione era stata scritta
in corsivo. Persino un esaminatore di documenti con l'abilità di Parker
Kincaid non sarebbe stato in grado di confrontare lo stampatello con il cor-
sivo...
Ma c'era una cosa che avrebbe potuto permettere loro di consultare gli
archivi pubblici. La scrittura di ogni individuo presenta caratteristiche sia
personali sia generali. Le caratteristiche generali sono gli elementi di abili-
tà con la penna che derivano dal metodo di scrittura imparato a scuola.
Anni prima esistevano diversi metodi per insegnare a scrivere, e i tratti e-
rano molto distintivi; un perito calligrafo poteva ridurre il luogo di prove-
nienza di un sospetto a uno stato o a una regione. Ma questi sistemi di
scrittura - il fiorito Ladies Hand, per esempio - erano caduti in disuso, e
ora ne restavano soltanto pochi, perlopiù il sistema Zaner-Bloser e il meto-
do Palmer. Ma erano troppo generici per poter permettere l'identificazione
dell'autore.
Le caratteristiche personali, però, sono una questione completamente di-
versa. Sono quei tratti di penna che sono unici per ognuno di noi - arzigo-
goli, la mescolanza di stampatello e corsivo, l'aggiunta di tratti gratuiti
(come, per esempio, l'aggiunta di una piccola barra sulla sezione diagonale
della Z o del 7). Era stata una di queste caratteristiche a dare agli esami-
natori i primi sospetti che i Diari di Hitler «scoperti» qualche anno prima
fossero in realtà degli abili falsi. Hitler firmava il proprio cognome con
una H maiuscola molto insolita, ma la usava soltanto nella firma, non
quando scriveva normalmente. Il falsario aveva usato l'ornata H maiuscola
in tutto il diario, cosa che Hitler non avrebbe mai fatto.
Parker continuò a esaminare la lettera di estorsione con la lente d'in-
grandimento, cercando di capire se il sosco avesse qualche tratto distintivo
personale nella sua calligrafia.
Papà, sei buffo. Sembri Sherlock Holmes...
Finalmente notò qualcosa.
Il puntino sopra la i minuscola.
La maggior parte dei puntini sulle i o sulle j viene fatta o picchiettando
la penna direttamente sulla carta o, se la persona sta scrivendo velocemen-
te, tracciando una linea diagonale con un puntino di inchiostro sulla sini-
stra e una coda verso destra.
Ma il sosco del caso SPARMETRO aveva tracciato un segno insolito
sopra le sue i minuscole - la coda del puntino andava diritta verso l'alto, in
modo da assomigliare a una goccia d'acqua nell'atto di cadere. Parker ave-
va già visto dei puntini simili, anni prima, in una serie di lettere minatorie
inviate a una donna da parte di un uomo che alla fine l'aveva uccisa. L'as-
sassino aveva scritto le lettere con il proprio sangue. Parker aveva battez-
zato quel tratto insolito «la lacrima del diavolo» e ne aveva acclusa una de-
scrizione accurata in uno dei suoi libri di testo sulla scienza dell'analisi dei
documenti.
«Ho trovato qualcosa», disse.
«Cosa?» chiese subito Cage.
Parker spiegò loro la faccenda del puntino sulle i.
«La lacrima del diavolo?» si stupì Lukas. Il suo viso rimase immobile
per un lungo istante. Sembrava che il nome non le piacesse. Parker imma-
ginò che si trovasse più a suo agio con la scienza e con i dati. Rammentò
che Margaret aveva avuto una reazione del tutto simile quando, poco pri-
ma, Hardy aveva paragonato il Becchino a uno spettro. Lukas si sporse
verso la lettera. I suoi corti capelli biondi caddero in avanti, coprendole
parzialmente il volto. «Qualche connessione con quell'uomo di cui parla-
vi?» domandò.
«No, no», disse Parker. «È stato giustiziato anni fa. Ma questa...» indicò
il foglio con un cenno del capo «... potrebbe essere la chiave per scoprire
dove viveva il nostro amico.»
«E come?» domandò Jerry Baker.
«Se riusciamo a ridurre l'area a una contea o, meglio ancora, a un quar-
tiere, allora potremo passare al setaccio gli archivi pubblici.»
Hardy emise una breve risata senza allegria. «Riuscite davvero a trovare
qualcuno in questo modo?»
«Oh, ci puoi scommettere. Conosci Michele Sindona?»
C.P. scosse il capo.
«Chi?» domandò Hardy.
Lukas cercò nel suo immenso archivio mentale di storia criminale e dis-
se: «Il finanziere? Quello che gestiva i soldi del Vaticano?»
«Esatto. Doveva andare sotto processo per bancarotta fraudolenta, ma è
svanito nel nulla prima dell'udienza. È tornato qualche mese dopo dicendo
di essere stato rapito, gettato in una macchina e portato da qualche parte.
Ma circolavano voci che non fosse stato rapito affatto e che in realtà fosse
volato in Italia. Credo che sia stato un esaminatore del distretto meridiona-
le a ottenere dei campioni della scrittura di Sindona e a scoprire che la sua
calligrafia aveva una strana caratteristica: Sindona metteva un puntino nel-
l'occhiello quando scriveva il numero 9. Gli agenti hanno setacciato mi-
gliaia di dichiarazioni doganali dei voli dall'Italia a New York. Hanno tro-
vato un puntino nel cerchio del numero 9 in un indirizzo su un modulo
compilato da un passeggero che, come si è scoperto in seguito, aveva
viaggiato sotto falso nome. Dal modulo hanno preso le impronte di Sindo-
na.»
«Ragazzi», disse C.P. con un fischio di stupore, «beccato a causa di un
puntino. Una cosa così piccola.»
«Oh», commentò Parker. «Di solito sono sempre le piccole cose a essere
determinanti. Non sempre, ma a volte capita.»
Sistemò la lettera sotto lo scanner del VSC. L'apparecchiatura utilizzava
differenti fonti di luce - dall'ultravioletto all'infrarosso - per permettere agli
esaminatori di vedere attraverso le cancellature e di visualizzare le lettere
cancellate con gomme o simili. Parker era incuriosito dalla cancellatura
che precedeva la parola «fermate». Studiò l'intera lettera e non trovò altre
cancellature oltre a quella. Poi esaminò la busta, ma non ne trovò nemme-
no lì.
«Che cosa hai scoperto?»
«Te lo dico tra un minuto. Non starmi sul collo, Cage.»
«Sono le due e venti», gli rammentò l'agente.
«Sono capace di leggere l'ora», borbottò Parker. «Me l'hanno insegnato i
miei figli.»
Si avvicinò all'apparecchio di rilevamento elettrostatico. L'ESDA viene
usato per controllare i documenti alla ricerca di scrittura impressa - parole
o segni incisi sulla carta da qualcuno che scrive su pagine poste sopra il
documento sospetto. Originariamente l'ESDA era stato sviluppato come
mezzo per visualizzare le impronte digitali sui documenti, ma si era rivela-
to quasi completamente inutile a questo scopo proprio perché mostrava la
scrittura impressa, che interferiva con il disegno delle impronte. Nei tele-
film, per visualizzare questo genere di scrittura, il detective di turno strofi-
na una matita sul foglio. Nella vita reale sarebbe un grave errore fare una
cosa simile: con ogni probabilità distruggerebbe ogni traccia di incisione.
La macchina ESDA, che funziona con lo stesso principio di una fotocopia-
trice, è in grado di rivelare lettere scritte fino a dieci fogli di distanza dal
documento che viene esaminato.
Non si sa con esattezza per quale motivo l'ESDA sia tanto efficiente, ma
nessun perito calligrafo ne è sprovvisto. Una volta, dopo la morte di un
ricco banchiere, Parker era stato assunto per analizzare un testamento che
diseredava i figli dell'uomo e lasciava l'intero patrimonio a una giovane
cameriera. Parker era andato veramente vicino a dichiarare il documento
autentico. Le firme sembravano perfette, le date del testamento e dei codi-
cilli erano congruenti. Ma l'ultimo esame, eseguito con l'ESDA, aveva ri-
velato una frase impressa che diceva: «Questo dovrebbe fregare quegli
stronzi». La cameriera aveva confessato di aver pagato qualcuno per falsi-
ficare il testamento.
Parker passò la lettera del sosco nella macchina. Sollevò un foglio di
plastica dalla sommità e lo studiò attentamente.
Nulla.
Provò con la busta. Sollevò il foglio sottile e lo tenne in controluce. Sen-
tì una morsa nelle viscere quando vide le linee grigie e delicate della scrit-
tura.
«Sì!» esclamò in tono eccitato. «Abbiamo qualcosa.»
Lukas si sporse in avanti e Parker avvertì un vago sentore floreale. Pro-
fumo? No. La conosceva da poco più di un'ora, ma aveva già capito che
Margaret Lukas non era proprio il tipo da profumo. Probabilmente si trat-
tava semplicemente di sapone profumato.
«Abbiamo un paio di incisioni», disse Parker. «Il sosco ha scritto qual-
cosa su un pezzo di carta che stava sopra la busta.»
Parker tenne il foglio elettrostatico con entrambe le mani e lo ruotò per
riuscire a vedere meglio la scrittura. «D'accordo, qualcuno prenda nota.
Prima parola, c l e minuscole, poi uno spazio. M maiuscola, e minuscola.
Poi più niente.»
Cage scrisse le lettere su un taccuino giallo e le guardò. «E che cosa si-
gnificano?» domandò perplesso.
C.P. si pizzicò l'orecchino che aveva al lobo destro e disse: «Non ne ho
la minima idea».
Poi fu la volta di Geller: «Se non si tratta di bit e di bytes, mi sa che non
posso esservi di aiuto».
Anche Lukas scosse il capo.
Ma Parker diede un'occhiata alle lettere e capì immediatamente. Era sor-
preso che nessun altro fosse riuscito a vederlo.
«È il luogo della prima sparatoria.»
«Cosa intendi dire?» domandò Jerry Baker.
«Sicuro», esclamò Lukas. «DuPont C-i-r-c-1-e, la M maiuscola di Me-
tro.»
«Ma certo!» esclamò a sua volta Hardy.
Gli enigmi sono sempre facili quando si conosce la risposta.
«Il primo sito», rifletté Parker. «Ma c'è qualcosa scritto più sotto. Riusci-
te a vederlo? Riuscite a leggere?» Spostò nuovamente il foglio elettrostati-
co, tenendolo di fronte a Lukas. «Gesù, è difficile.»
Margaret si sporse in avanti e lesse. «Soltanto tre lettere. Non riesco a
distinguere altro. Sono una t, una e e una l minuscole.»
«Nient'altro?»
Parker strinse le palpebre, sforzando la vista. «No, niente.»
«T-e-l», rifletté Lukas.
«Telefoni, compagnia telefonica, telecomunicazioni?» domandò Cage.
«Televisione?»
«No, no», fece Parker. «Guarda la posizione delle lettere in relazione a
'c-l-e Me'. Se stava scrivendo anche vagamente in colonna, allora il 't-e-l'
viene in fine di parola.» Poi ci arrivò. «È un...»
«Hotel», sbottò Lukas. «Il secondo bersaglio è un hotel.»
«Esatto.»
«Oppure un motel», suggerì Hardy.
«No», disse Parker. «Non credo che sia possibile. Il Becchino mira alla
folla. I motel non hanno grandi strutture. Tutti gli eventi più importanti di
questa sera si terranno nelle sale dei grandi alberghi.»
«E», aggiunse Lukas, «probabilmente il Becchino si muove a piedi o
con i mezzi pubblici. I motel sono nelle zone periferiche. Il traffico sarà
molto intenso questa sera per potersi affidare a un'automobile.»
«Grandioso», disse Cage. Poi aggiunse: «Ma devono esserci almeno
duecento alberghi, in città».
«Come possiamo ridurre il numero dei bersagli possibili?» domandò
Baker.
«Io direi di pensare ai grandi alberghi...» Parker annuì in direzione di
Lukas. «Hai ragione... probabilmente in aree servite dai trasporti pubblici
in zone ad alta densità di popolazione.»
Baker fece cadere un volume delle Pagine Gialle sul tavolo con uno
schianto. «Soltanto il distretto di Columbia?» Iniziò a sfogliare. C.P. Ar-
dell si avvicinò al tavolo e cominciò a guardare insieme all'agente tattico.
Parker sembrò soppesare la domanda. «È il distretto che sta ricattando,
non lo stato della Virginia. Io mi atterrei al distretto, quindi.»
«Sono d'accordo», disse Lukas. «Dovremmo anche eliminare ogni posto
con la parola 'Hotel' prima del nome, come per esempio 'Hotel New York'.
A causa della disposizione delle lettere sul foglio. E niente 'Inn' o 'Lodge'.»
Cage e Hardy si unirono a C.P. e a Baker, chinandosi sull'elenco telefo-
nico. Cominciarono a contrassegnare i bersagli possibili, discutendo se la
scelta fosse logica o meno.
Dopo dieci minuti, avevano una lista di ventidue alberghi. Cage li tra-
scrisse con la sua calligrafia precisa e porse la lista a Jerry Baker.
«Prima che mandiate qualcuno lì», suggerì Parker, «chiamate e chiedete
se i servizi previsti per questa sera sono riservati a politici o diplomatici.
Possiamo tranquillamente eliminarli dall'elenco.»
«Perché?» chiese Baker.
Fu Lukas a rispondere. «Guardie del corpo armate, vero?»
Parker annuì. «E Servizi Segreti.»
«Giusto», concordò Baker, poi corse fuori dalla stanza, aprendo il suo
telefono cellulare.
Ma, anche eliminando questi ultimi, quanti luoghi sarebbero rimasti?
Tanti. Troppi.
Troppe soluzioni possibili...
Tre falchi stanno uccidendo le galline di un contadino...

7
14,45

Miei cari concittadini...


Gli spolverarono la fronte di cipria, gli inserirono un auricolare nell'o-
recchio, accesero le luci accecanti.
Attraverso il bagliore, il sindaco Jerry Kennedy riusciva appena a distin-
guere alcune facce nell'oscurità dello studio del notiziario della WPLT, si-
tuato poco distante da DuPont Circle.
C'era sua moglie, Claire. C'era il suo addetto stampa. C'era Wendell Jef-
feries.
Miei cari concittadini, provò mentalmente Kennedy. Sono qui per assi-
curarvi che la nostra polizia cittadina e l'FBI... no... le autorità federali
stanno facendo tutto quanto è in loro potere per trovare il criminale... no...
la persona responsabile del terribile eccidio di questa mattina.
Uno dei produttori della stazione televisiva, un uomo magro con la barba
bianca e curata, si avvicinò a lui e gli disse: «Le farò un conto alla rovescia
di sette secondi. Al quattro, resterò in silenzio e userò soltanto le dita. Al-
l'uno, guardi nella telecamera. L'ha già fatto».
«L'ho già fatto, sì.»
Il produttore abbassò lo sguardo e vide che Kennedy non aveva alcun
foglio davanti a sé. «Non ha niente per il gobbo?»
«Tutto nella testa.»
Il produttore emise una breve risatina. «Non lo fa più nessuno, al giorno
d'oggi.»
Kennedy brontolò una risposta.
... responsabile di questo crimine terribile. E alla persona là fuori... le
sto chiedendo, per favore, per favore... no, soltanto un per favore. Non ho
intenzione di implorare, maledizione... le chiedo per favore di stabilire un
contatto per poter continuare il nostro dialogo. In questo giorno, l'ultimo
giorno di un anno difficile, gettiamoci alle spalle la violenza e lavoriamo
insieme affinché non ci siano più vittime. La prego di contattarmi perso-
nalmente... No... Per favore, mi telefoni o mi faccia pervenire un messag-
gio...
«Cinque minuti», dichiarò il produttore.
Kennedy mandò via la truccatrice e fece cenno a Jefferies di avvicinarsi.
«Hai avuto qualche notizia dall'FBI? Qualsiasi cosa?
«Niente. Nemmeno una parola.»
Non poteva crederci. L'operazione era iniziata da ore, l'ultimatum si sta-
va avvicinando, e l'unico contatto che aveva avuto con i federali era stata
una rapida telefonata da parte di un detective della polizia del distretto di
nome Hardy che chiamava per conto di quella donna, Margaret Lukas, per
chiedergli di andare in onda con il suo appello. Lukas, rifletté Kennedy
con rabbia, non si era nemmeno presa il disturbo di fare personalmente la
telefonata. Hardy, un poliziotto che dal tono di voce sembrava intimidito
dai federali con cui avrebbe dovuto collaborare attivamente, non era al cor-
rente di nessun particolare dell'indagine - o, più probabilmente, non aveva
il permesso di fornirne alcuno. Kennedy aveva tentato di chiamare Lukas,
ma la donna era sempre troppo occupata per parlare con lui. Stesso discor-
so per Cage. Aveva parlato brevemente con il comandante del dipartimen-
to di Polizia del distretto di Columbia ma, a parte fornire automobili e a-
genti che lavorassero sotto la supervisione dell'agente incaricato dell'FBI,
il capo non aveva nulla a che fare con il caso.
Kennedy era furioso. «Non ci prendono sul serio. Cristo. Voglio fare
qualcosa. Voglio dire, qualcosa oltre a questo», sbottò indicando la tele-
camera con un cenno irato della mano.
«È un problema, è vero», concesse Wendy Jefferies. «Ho annunciato la
conferenza stampa, ma metà delle emittenti e dei giornali non manderà
nessuno. Si sono accampati tutti davanti alla Nona Strada, aspettando che
qualcuno dell'FBI si degni di parlare con loro.»
«Quindi è come se l'amministrazione cittadina non esistesse, come se me
ne stessi seduto con le mani in mano.»
«È più o meno quello che sembra.»
Il produttore fece per avvicinarsi, ma il sindaco lo bloccò con un gesto
educato. «Tra un minuto.»
«Devo riscuotere qualche favore», gli sussurrò Jefferies. «Posso farlo.
Chirurgicamente. So come occuparmene.»
«Non credo...»
«Nemmeno io vorrei agire in questo modo, ma non abbiamo altra scelta.
Hai sentito l'editoriale sulla WTGN?»
Kennedy l'aveva sentito. La stazione, una radio popolare con circa mez-
zo milione di ascoltatori nell'area metropolitana, aveva appena mandato in
onda un commento su come Kennedy e la sua amministrazione avessero
promesso di liberare le strade dai criminali e al tempo stesso erano stati più
che pronti a pagare ai terroristi una somma multimilionaria. Il commenta-
tore, un vecchio giornalista esperto, aveva proseguito ridicolizzando l'altra
promessa elettorale di Kennedy di ripulire il distretto dalla corruzione, fa-
cendo notare come fosse stato del tutto inconsapevole - se non ne era addi-
rittura coinvolto - del recente scandalo del Comitato di Istruzione Pubbli-
ca.
La cittadinanza aveva ascoltato, Kennedy lo sapeva. Con tutta probabili-
tà aveva anche annuito in segno di approvazione.
«Non abbiamo davvero altra scelta, Jerry», ripeté Jefferies.
Kennedy ci pensò su per un istante. Come al solito, il suo assistente ave-
va ragione. Kennedy l'aveva assunto perché, come sindaco bianco, aveva
bisogno di un assistente di colore. Ma era rimasto sbalordito nello scoprire
che il giovane possedeva un senso politico che trascendeva le banali que-
stioni dei rapporti tra le diverse comunità.
«È il momento di giocare duro, Jerry», insistette Jefferies. «La posta in
gioco è troppo alta.»
«Okay, fa' ciò che devi fare.» Non si preoccupò di aggiungere: e sta' at-
tento. Sapeva già che Jefferies avrebbe agito con prudenza.
«Tre minuti», avvertì una voce dall'alto.
Dove sei? Kennedy sollevò lo sguardo su una telecamera oscurata e la
fissò come se potesse vedere attraverso le lenti, i cavi e gli apparecchi te-
levisivi fino a raggiungere il Becchino. Chi sei? pensò, rivoltò al killer. E
perché tu e il tuo socio avete scelto proprio la mia città per fare gli angeli
della morte?
... nello spirito della pace, in quest'ultimo giorno dell'anno, si metta in
contatto con me e vedremo di arrivare a una soluzione... Per favore...
Jefferies si chinò all'orecchio del sindaco. «Ricorda», sussurrò, indican-
do con la mano lo studio televisivo, «se il killer è in ascolto, questa po-
trebbe essere la fine di tutta la storia. Forse si deciderà a prendere i soldi e
quelli lo beccheranno. Sarà tutto finito. E tu sarai la star.»
Prima che Kennedy avesse il tempo di rispondere, la voce dall'alto di-
chiarò: «Un minuto».

Il Becchino ha una nuova borsa della spesa.


Tutta scintillante e rossa e natalizia, coperta da figure di cuccioli con dei
nastrini intorno al collo. L'ha comprata da Hallmark per tre dollari e no-
vantanove. È il tipo di borsa di cui sarebbe orgoglioso, anche se non sa be-
ne che cosa voglia dire orgoglioso. Non è più sicuro di un sacco di cose da
quando il proiettile gli ha attraversato il cranio l'anno prima, portandosi via
un po' delle sue cellule cerebrali e lasciandone altre.
Strano come funzionano le cose. Strano come...
Strano...
Il Becchino è seduto in una comoda poltrona nel suo motel, con un bic-
chiere d'acqua e la ciotola vuota della minestra accanto.
Sta guardando la televisione.
C'è qualcosa sullo schermo. È una pubblicità. Come una pubblicità che
ricorda di aver visto dopo che il proiettile gli ha fatto un buco sopra l'oc-
chio e si è fatto un giro dentro il suo cra cra cranio. (Qualcuno aveva de-
scritto così il proiettile. Non ricorda chi. Forse il suo amico, l'uomo che gli
dice le cose. Sì, probabilmente era lui.)
Qualcosa barbaglia sullo schermo del televisore. Gli riporta alla mente
uno strano ricordo.
Stava guardando uno spot pubblicitario - cani che mangiavano cibo per
cani, cuccioli che mangiavano cibo per cuccioli, come i cuccioli sulla bor-
sa della spesa. Stava guardando la pubblicità quando l'uomo che gli dice le
cose l'aveva preso per mano e l'aveva portato a fare una lunga passeggiata.
Gli aveva detto che quando Ruth era da sola... «Conosci Ruth?»
«Io... uh... conosco Ruth.»
Quando Ruth era da sola, il Becchino doveva rompere uno specchio e
trovare un pezzo di vetro con la punta e infilare il pezzo di vetro nella gola
di Ruth.
«Vuoi dire...» Il Becchino non aveva finito la frase.
«Voglio dire che devi rompere lo specchio e trovare un lungo pezzo di
vetro con la punta e poi devi infilarlo nella gola di Ruth. Che cosa ho det-
to?»
«Devo rompere lo specchio e trovare un lungo pezzo di vetro con la pun-
ta e poi devo infilarlo nella gola di Ruth.»
Ci sono cose che il Becchino ricorda come se Dio stesso le avesse scritte
nel suo cervello.
«Bene», aveva concluso l'uomo.
«Bene», aveva ripetuto lui. E aveva fatto ciò che gli era stato detto di fa-
re. E la cosa aveva reso felice l'uomo che gli dice le cose, anche se il Bec-
chino non sa bene che cosa voglia dire felice.
E ora se ne sta seduto tenendo sulle ginocchia la borsa con i cuccioli di-
segnati nella sua stanza al motel, con cucina e televisione via cavo gratis e
prezzi modici. Guarda la sua ciotola di minestra. La ciotola è vuota, quindi
non deve essere affamato. Pensa di avere sete, così beve un po' d'acqua.
Alla televisione comincia un altro programma. Lui legge le parole, le
borbotta a voce alta. «'Servizio Speciale.' Hmmm. Hmmmmm. Questo
è...»
Click. «È familiare.»
Click.
«Un notiziario speciale della WPLT.»
«Dovrei ascoltare.»
Un uomo che il Becchino riconosce compare sullo schermo. Ha visto
delle fotografie di quell'uomo. È il...
Gerald D. Kennedy, sindaco di Washington, D.C. Ecco che cosa c'è
scritto sullo schermo.
Sta parlando, e il Becchino ascolta.
«Miei cari concittadini, buona sera. Come ormai tutti già saprete, questa
mattina, alla stazione della metropolitana di DuPont Circle, è stato com-
messo un terribile crimine. In questo momento, l'assassino - o gli assassini
- sono ancora a piede libero. Ma voglio assicurarvi che la polizia cittadina
e le autorità federali stanno facendo tutto ciò che è in loro potere per assi-
curarsi che la cosa non si ripeta.
«Alle persone responsabili di questo massacro io chiedo dal profondo
del cuore, per favore, per favore, contattatemi. Dobbiamo stabilire un con-
tatto per poter continuare il nostro dialogo. In questo giorno, l'ultimo gior-
no dell'anno, buttiamoci alle spalle la violenza e lavoriamo insieme affin-
ché non ci siano altre vittime e altri feriti. Possiamo...»
Noioso...
Il Becchino spegne la televisione. A lui piacciono le pubblicità del cibo
per cani con quei cuccioli così carini, gli piacciono molto di più di quella
roba. Anche le pubblicità delle macchine. Allunga una mano verso il tele-
fono e chiama la sua casella vocale. Digita il codice, uno due due cinque.
La data di Natale.
La donna, che non ha la stessa voce di Pamela sua moglie, ma ha la voce
che assomiglia a quella di Ruth - prima che il vetro le entrasse nella gola,
ovviamente - gli dice che non ci sono messaggi per lui.
E ciò significa che è il momento che lui faccia quello che l'uomo che gli
dice le cose gli ha detto di fare.
Se fai quello che la gente ti dice di fare è una buona cosa. Gli piacerai.
Resteranno per sempre con te.
Ti ameranno.
Qualunque cosa sia l'amore.
Buon Natale, Pamela, ho preso questo per te... E tu hai preso qualcosa
per me! Oh cielo cielo... Un regalo.
Click click.
Che bel fiore giallo tieni in mano, Pamela. Grazie per l'impermeabile.
Ora il Becchino si mette l'impermeabile, che forse è nero e forse è blu.
Adora il suo impermeabile.
Porta la ciotola vuota della minestra nella piccola cucina e la mette nel
lavandino.
Si domanda ancora una volta per quale motivo l'uomo che gli dice le co-
se non si è fatto sentire. L'uomo gli ha detto che lui non poteva chiamarlo,
ma il Becchino sente un piccolo fremito in fondo alla mente e gli dispiace
tanto di non aver sentito la voce dell'uomo. Sono triste? Hmmmm.
Hmmmm.
Trova i guanti e sono dei guanti molto belli, con le cuciture sul dorso
delle dita. L'odore gli fa venire in mente qualcosa del suo passato, anche se
non riesce a ricordare che cosa. Indossa dei guanti di lattice quando inseri-
sce i proiettili nei caricatori del suo Uzi. Ma la gomma non ha un bell'odo-
re. Porta i guanti di pelle quando apre le porte e tocca cose che sono vicine
al punto in cui spara con l'Uzi e guarda la gente che cade come foglie in
una foresta.
Il Becchino si abbottona l'impermeabile scuro, che forse è blu e forse è
nero.
Annusa di nuovo i guanti.
Strano.
Mette l'arma nella borsa con i cuccioli disegnati sopra e poi ci mette an-
che altri proiettili.
Quando esce dalla sua stanza, si chiude la porta alle spalle. La chiude
accuratamente a chiave, proprio come si dovrebbe fare sempre. Il Becchi-
no sa perfettamente come si fanno le cose nel modo giusto.
Come infilare un pezzo di vetro nella gola di una donna, per esempio.
Come comprare un regalo a tua moglie. Mangiare la minestra. Chiudere la
porta. Trovare una bella borsa nuova nuova. Una con dei cuccioli disegnati
sopra.
«Perché proprio dei cuccioli?» aveva chiesto all'uomo che gli dice le co-
se.
«Perché sì», gli aveva risposto lui.
Ah.
E così aveva comprato quella.

8
15,00

Parker Kincaid, seduto nella stessa poltroncina girevole che lui stesso
aveva requisito alla GSA diversi anni prima, eseguì un test che troppo po-
chi esaminatori eseguivano normalmente.
Lesse il documento.
E poi lo rilesse. E lo rilesse altre dieci volte. Riponeva molta fiducia nel-
le possibilità che la sostanza del documento stesso potesse svelare elementi
importanti su chi l'aveva scritto. Una volta gli era stato chiesto di autenti-
care una lettera che si supponeva fosse stata scritta da Abraham Lincoln a
Jefferson Davis, nella quale Lincoln suggeriva che, se la Confederazione si
fosse arresa, avrebbe acconsentito alla secessione di alcuni stati.
Il direttore dell'Associazione Storica Americana, visibilmente scosso,
aveva inviato la lettera a Parker. Il documento, se autentico, avrebbe scon-
volto l'intera storia degli Stati Uniti. Gli scienziati avevano già stabilito che
la carta era stata fabbricata intorno al 1860 e che l'inchiostro adoperato era
a base di ferro, congruente con l'epoca. Il documento presentava un as-
sorbimento di inchiostro appropriato nelle fibre cartacee ed era stato scritto
con quella che sembrava chiaramente la calligrafia di Lincoln.
Ciò nonostante, Parker non aveva dovuto nemmeno prendere la lente di
ingrandimento per controllare gli inizi e i sollevamenti dei tratti di penna.
Aveva letto la lettera una volta, una volta sola, e nel suo rapporto aveva
scritto: «Il documento in questione è di origine dubbia».
Il motivo? La lettera era firmata «Abe Lincoln». Il sedicesimo presidente
aborriva il diminutivo Abe e non avrebbe mai permesso che venisse ado-
perato in riferimento a se stesso, tantomeno l'avrebbe usato per firmare un
documento importante come quello. Il falsario era stato arrestato, impri-
gionato e - come è spesso il caso con questo genere di crimini - messo in
libertà sulla parola.
Mentre rileggeva per l'ennesima volta la lettera di estorsione, Parker pre-
se attentamente nota della sintassi del sosco - l'ordine delle frasi e dei
frammenti delle frasi - e della sua grammatica, le costruzioni generali che
aveva utilizzato nella composizione della lettera.
E, lentamente, cominciò a emergere l'immagine dell'anima dell'uomo
che aveva scritto la lettera, l'uomo il cui cadavere giaceva freddo e immo-
bile nell'obitorio dell'FBI.
«Eccoci», esclamò Tobe Geller. Si chinò verso lo schermo del suo com-
puter. «È il profilo psicolinguistico da Quantico.»
Parker guardò lo schermo. Quando era a capo della divisione Documen-
ti, aveva usato spesso quel tipo di analisi computerizzata. L'intero testo di
un documento minatorio - frasi, frammenti, punteggiatura - viene immesso
in un computer, che analizza il messaggio e lo confronta con i dati presenti
in un immenso «dizionario delle minacce» che contiene più di duecento-
cinquantamila parole e, in seguito, con un dizionario standard di più di
quindici milioni di parole. Un esperto, lavorando al computer, confronta la
lettera con le altre presenti nel database e decide se sono state scritte dalla
stessa persona. In questo modo si riescono a determinare anche alcune ca-
ratteristiche dell'autore.
«Profilo psicolinguistico del sosco 12-31 A, SPARMETRO», lesse Tobe
Geller. «I dati suggeriscono che il succitato soggetto sconosciuto sia nato
all'estero, ma che viva nel nostro paese da due o tre anni. Possiede un gra-
do di istruzione basso e probabilmente non ha passato più di due anni nel-
l'equivalente di una scuola superiore americana. Il probabile QI è di 100,
con un margine di 11 punti in difetto o in eccesso. Le minacce contenute
nel documento in oggetto non corrispondono ad alcuna minaccia conosciu-
ta presente nei database correnti. Ciò nonostante, il linguaggio è congruo
con minacce concrete espresse nel corso di crimini di stampo sia terroristi-
co sia estorsivo e quindi si raccomanda che il soggetto sconosciuto in que-
stione venga considerato estremamente pericoloso.»
Geller ne stampò una copia e la passò a Parker.
«Straniero», disse Lukas. «Lo sapevo.» Prese una fotografia del cadave-
re del sosco, scattata sul luogo dell'incidente. «A me sembra mitteleurope-
o. Serbo, ceco, slovacco.»
«Ha telefonato alla Sicurezza del Municipio», fece Len Hardy. «Non re-
gistrano le telefonate in arrivo? Potremmo vedere se aveva un accento par-
ticolare.»
«Probabilmente», disse Parker, «ma scommetto che si è servito di un
sintetizzatore vocale.»
«Esatto», confermò Margaret Lukas. «Simile a quelli delle caselle voca-
li.»
«Dovremmo chiamare la DITO», suggerì Tobe Geller.
Si trattava della Divisione Internazionale Terrorismo e Omicidi dell'FBI.
Ma Parker appallottolò il foglio del profilo psicolinguistico e lo lanciò
nel cestino della carta straccia.
«Cosa?» sbottò Lukas.
Dalla gola di C.P. Ardell uscì un suono che non poteva che essere una
risata.
«L'unica cosa che hanno azzeccato è la parte in cui dicono che è estre-
mamente pericoloso», esclamò Parker. «Ma questo lo sapevamo già da so-
li, no?»
Senza alzare lo sguardo dalla lettera di estorsione, continuò: «Non sto
dicendo che la DITO non debba essere coinvolta, però posso dire con cer-
tezza che il sosco non era straniero e che sicuramente era molto intelligen-
te. A occhio e croce direi che aveva un QI di centosessanta».
«Dove lo vedi?» domandò Cage, indicando la lettera. «Il mio nipotino
scrive meglio di così.»
«Vorrei tanto che fosse stato stupido», disse Parker. «La cosa sarebbe
molto meno spaventosa.» Picchiettò l'indice sulla fotografia del sosco.
«Certo, discendenza europea... ma probabilmente di quarta generazione.
Era molto intelligente, istruzione di grado elevato in una scuola privata, e
credo che passasse molto tempo davanti a un computer. Il suo vero indiriz-
zo era da qualche parte fuori da questa zona; qui aveva soltanto affittato
qualcosa. Ah, ed era il classico sociopatico.»
La risata di Lukas fu quasi una risata di scherno. «E questo dove l'hai vi-
sto?»
«Me l'ha detto lei», rispose semplicemente Parker. E indicò la lettera.
Anche Parker era un perito linguista. Aveva analizzato documenti senza
l'aiuto di software psicolinguistico per anni, basandosi sulle parole che le
persone sceglievano di usare e sulle frasi che costruivano. Alcuni anni
prima aveva testimoniato al processo di un giovane arrestato per omicidio.
L'imputato e un suo amico stavano rubando della birra in un negozio quan-
do il commesso li aveva sorpresi e li aveva assaliti con una mazza da base-
ball. L'amico dell'imputato aveva afferrato la mazza e stava minacciando il
commesso. L'imputato aveva gridato: «Dagliela!» L'amico aveva sollevato
la mazza e aveva ucciso l'uomo.
Il pubblico ministero sosteneva che la frase «Dagliela» significava
«Colpiscilo». La difesa sosteneva che l'imputato intendesse «Ridagliela
indietro». Parker aveva testimoniato che l'espressione «Dare a», a un certo
punto della storia dello slang americano, aveva assunto il significato di fa-
re del male, sparare, pugnalare, colpire. Ma il significato era caduto in di-
suso, insieme ad altre espressioni gergali. L'opinione di Parker era che
probabilmente l'imputato stesse dicendo al suo amico proprio di restituire
la mazza. La giuria aveva creduto alla testimonianza di Parker e, nonostan-
te il ragazzo fosse stato condannato per rapina, aveva scampato la condan-
na per omicidio.
«Ma è così che parlano gli stranieri», fece notare Cage. «'Io sono cono-
scente di come.' 'Pagate a me i soldi.' Ricordi il rapimento Lindbergh? Al-
l'Accademia?»
Tutti gli allievi agenti a Quantico avevano sentito quella storia durante le
lezioni di criminologia. Prima che Bruno Hauptmann fosse arrestato e
condannato per il rapimento del piccolo Lindbergh, i periti calligrafi del-
l'FBI avevano dedotto dalle espressioni usate nelle richieste di riscatto che
la persona che aveva scritto le lettere era un immigrato tedesco che si tro-
vava negli Stati Uniti con tutta probabilità da non più di due o tre anni - il
che descriveva accuratamente Hauptmann. L'esame aveva contribuito a ri-
durre il campo di ricerca del rapitore, che era stato condannato principal-
mente sulla base della comparazione tra un campione riconosciuto della
sua scrittura e la calligrafia delle lettere in cui chiedeva il riscatto.
«Bene, esaminiamo la lettera allora», disse Parker. Prese il foglio e lo
mise su un vecchio proiettore a parete.
«Non vuoi metterla sullo schermo video?» gli domandò Tobe Geller.
«No», fu la risposta perentoria di Parker. «No, non mi piace il digitale.
Dobbiamo restare il più vicino possibile all'originale.» Sollevò lo sguardo
e sorrise brevemente. «Dobbiamo andarci a letto insieme.»
La lettera comparve su un ampio schermo montato su una parete del la-
boratorio. Il documento biancastro sembrava stare di fronte a loro come un
sospetto sotto interrogatorio. Parker si avvicinò e fissò le grandi lettere
scure che aveva davanti.
Mentre parlava, Parker indicò i punti della lettera a cui si stava riferen-
do. «'Io sono conoscente' e 'pagate a me' suonano stranieri, certo. Ma la
forma con il verbo essere associato al participio presente è tipica delle lin-
gue mitteleuropee o germaniche di radice indoeuropea. Il tedesco, o il ce-
co, o il polacco, per esempio. Ma l'uso della preposizione 'a' associata a
'me' non è qualcosa che si trova in queste lingue. Loro lo dicono come noi,
'pagatemi'. Questo tipo di costruzione è più comune nelle lingue asiatiche.
Quindi, il nostro soggetto sta soltanto buttando a casaccio frasi che suoni-
no straniere. Cercava di fregarci facendoci credere che fosse straniero. Per
metterci su una falsa pista.»
«Non saprei», cominciò Cage.
«No, no», insistette Parker. «Guardate come ha tentato di farlo. Quelle
due espressioni sono vicine l'una all'altra, come se si fosse voluto liberare
dei falsi indizi per poi continuare con le cose serie. Se una lingua straniera
fosse davvero la sua lingua madre, sarebbe stato più coerente. E guardate
l'ultima frase della lettera. Qui torna alla costruzione tipica dell'inglese:
'Questo lo so soltanto io'. A proposito, questo è il motivo per cui ritengo
che passasse molto tempo davanti a un computer. Anch'io sono collegato
praticamente sempre, spulciando i siti internet dei commercianti di docu-
menti rari e partecipando ai gruppi di discussione sull'argomento. Molte
persone sono straniere, ma scrivono in inglese. Si vedono tonnellate di ba-
stardizzazioni dell'inglese simili a queste.»
«Sono d'accordo», gli disse Lukas. «Non lo sappiamo con certezza, ma è
probabile che abbia imparato a compattare silenziatori e ad automatizzare
l'Uzi sul web. È così che tutti imparano le cose, oggi.»
«Ma che mi dici dell'orario in ventiquattro ore?» domandò Hardy. «Ha
chiesto il riscatto per le ore dodici e zero zero. Questo è europeo.»
«Un'altra falsa pista. Non si riferisce all'ora allo stesso modo, in prece-
denza, quando scrive l'ora in cui il Becchino colpirà di nuovo. Ecco qui,
dice: 'Alle quattro, alle 8 e a Mezzanotte'.»
«Be'», disse C.P., «se non è straniero deve essere stupido. Guarda tutti
quegli errori.» Si rivolse a Lukas. «Sembra di sentire uno di quei bifolchi
che abbiamo beccato nel Manassas Park il mese scorso.»
«Tutti fasulli», rispose Parker.
«Ma», protestò Lukas, «guarda la primissima riga. 'La fine è in minente.'
Vuol dire 'la fine è imminente'. Non ha...»
«Ah, ma non è un errore logico», considerò Parker. «La gente dice 'in-
sieme a' anche se l'espressione corretta è 'insieme con' perché c'è una certa
logica nell'adoperare la preposizione 'a' invece della preposizione 'con'. Ma
'La fine è in minente' non ha senso, quale che sia il suo livello di istruzio-
ne.»
«E cosa mi dici delle parole scritte male?» domandò Hardy. «E degli er-
rori di punteggiatura e maiuscole?» Gli occhi del detective stavano scru-
tando attentamente la lettera.
«Ah, ma ci sono molti più errori di quelli», disse Parker. «Guarda come
usa il segno del dollaro e la parola 'dollari'. Una ridondanza. Poi, quando
parla dei soldi, usa per la frase un oggetto improprio.» Parker toccò una
porzione dello schermo, muovendo le dita lungo le parole:

«Vedi, dice 'la lascerete', ma il doppio complemento 'la' non è necessa-


rio. Solo che non si tratta del tipo di errore che ha senso - la maggior parte
degli errori grammaticali sono il frutto di errori nel parlato comune. E noi
non aggiungiamo complementi oggetti non necessari, perché la tendenza
nel parlato è quella di eliminare parole, non di aggiungerne.»
«E le parole scritte in modo scorretto?» continuò poi. Si mise a cammi-
nare avanti e indietro di fronte alla proiezione della lettera; le parole si
muovevano sul suo viso e sulle sue spalle come insetti scuri. «Guardate la
frase 'non cè modo di fermarlo'. La maggior parte della gente fa questo ge-
nere di errore quando scrive rapidamente, di solito quando è al computer o
a una macchina per scrivere. La mente invia le lettere foneticamente e non
visivamente. Con la scrittura a mano sono errori estremamente rari.»
«Le maiuscole?» Guardò Hardy. «Si riscontrano maiuscole poste erro-
neamente soltanto quando c'è una base logica per farlo - concetti come ar-
te, amore od odio. A volte con i titoli di studio o le professioni. No, sono
convinto che sta soltanto cercando di farci credere che è stupido. Ma non
lo è affatto.»
«E te lo dice la lettera?» domandò Lukas, fissando la proiezione come se
stesse guardando un documento completamente diverso da quello che sta-
va guardando Parker.
«Ci puoi scommettere», rispose lui. «Per esempio, usa correttamente la
virgola nelle proposizioni avverbiali. Una proposizione che dà inizio a una
frase deve terminare con una virgola. Guarda la proposizione con il 'se'.»
La toccò sullo schermo.

«Ma, con una proposizione alla fine di una frase, non c'è bisogno della
virgola.»

«Inoltre, ha usato una virgola prima della relativa.»

«È una regola grammaticale standard, la virgola prima della relativa, ma


generalmente solo gli scrittori professionisti e le persone che hanno fre-
quentato ottime scuole la seguono ancora.»
«Dev'esserci una virgola prima del 'che'?» brontolò C.P. Ardell. «E a chi
importa?»
A noi, rispose Parker tra sé. Perché sono le piccole cose come questa che
ci conducono alla verità.
«Sembra che abbia tentato di scrivere 'fermate' e abbia sbagliato. Che
cosa pensi di questo?» chiese Hardy.
«Sembra così», rispose Parker. «Ma sai cosa ha scritto prima? L'ho esa-
minato con un visore all'infrarosso.»
«Cosa?»
«Pinzillacchere.»
«Pinzillacchere?» domandò Lukas.
«Un termine del mestiere», spiegò Parker con voce asciutta. «Non ha
scritto proprio niente. Voleva semplicemente farci credere di aver avuto
dei problemi a scrivere correttamente la parola.»
«Ma perché prendersi tutti questi fastidi per farci credere di essere stupi-
do?»
«Per spingerci a cercare un americano stupido o uno straniero un po'
meno stupido», disse Parker, poi aggiunse: «E per indurci a sottovalutarlo.
È ovvio che è intelligente. Basta guardare al luogo per la consegna dei sol-
di».
«In che senso?» domandò Lukas.
«Vuoi dire Gallows Road?» intervenne C.P. Ardell. «Perché ti sembra
tanto intelligente?»
«Be'...» Parker sollevò gli occhi e li guardò, esitante. «Gli elicotteri.»
«Quali elicotteri?» domandò Hardy.
Parker si accigliò. «Non avete controllato le compagnie che noleggiano
elicotteri?»
«No», disse Lukas. «Perché avremmo dovuto?»
Parker rammentò una regola aurea dei tempi in cui lavorava all'FBI. Mai
dare nulla per scontato. «Il campo dove voleva che mettessimo i soldi era
vicino a un ospedale, giusto?»
«Sì, il Fairfax», annuì Geller.
«Merda», sbottò Lukas. «Ha un eliporto.»
«E allora?» domandò Hardy.
Lukas scosse la testa, furiosa con se stessa. «Il sosco ha scelto il posto
perché la squadra di sorveglianza si abituasse all'arrivo degli elicotteri. Ne
ha noleggiato uno e aveva intenzione di atterrare, prendere i soldi e decol-
lare subito dopo. Probabilmente volando radente agli alberi fino a un'au-
tomobile pronta per la fuga.»
«Non ci ho pensato», disse amaramente Hardy.
«Nessuno di noi ci aveva pensato», considerò C.P. Ardell.
«Ho un amico alla FAA», aggiunse Cage. «Gli chiederò di fare qualche
telefonata.»
Parker guardò l'orologio. «Nessuna risposta dopo il passaggio televisivo
di Kennedy?»
Lukas fece una telefonata. Parlò con qualcuno, poi riagganciò.
«Sei chiamate. Tutti mitomani. Nessuno di loro sapeva nulla dei proietti-
li verniciati, quindi erano chiamate fasulle. Abbiamo i nomi e i numeri di
telefono. Li inchioderemo in seguito per aver interferito con un'indagine in
corso.»
«Sei convinto che il sosco non sia di queste parti?» domandò Hardy a
Parker.
«Esatto. Se fosse esistita una sola possibilità che confrontassimo la sua
calligrafia con gli archivi pubblici della zona, avrebbe alterato la scrittura o
avrebbe utilizzato lettere ritagliate da un giornale. Ma non l'ha fatto. Quin-
di non è del distretto, della Virginia o del Maryland.»
La porta si spalancò. Era Timothy, l'uscere che aveva portato la lettera.
«Agente Lukas? Ho i risultati della perizia medico-legale.»
Era ora, pensò Parker.
Lukas prese il rapporto e, mentre lo leggeva, Cage domandò: «Parker,
hai detto che era un sociopatico. Perché?»
«Perché», rispose Parker, «chi farebbe una cosa del genere se non un so-
ciopatico?»
Lukas finì di leggere e porse il rapporto a Hardy. «Vuoi che lo legga?»
domandò lui.
«Sì», rispose Lukas.
Parker si accorse che la cupezza del giovane poliziotto sembrava essersi
attenuata. Forse perché, per un attimo, si sentiva parte della squadra.
Il detective si schiarì la voce. «Maschio bianco, età approssimativa qua-
rantacinque anni. Altezza un metro e ottantotto. Peso ottantaquattro chili.
Nessun segno particolare. Nessun gioiello né oggetto a parte un orologio
Casio con allarmi multipli.» Hardy li guardò. «Sentite questa. Gli allarmi
erano regolati per suonare alle quattro, alle otto e a mezzanotte.» Tornò a
leggere il rapporto. «Indossava un paio di jeans senza marca, vecchi di cir-
ca un anno. Giacca a vento in poliestere. Camicia da lavoro J.C. Penney.
Boxer. Calze di cotone. Scarpe da tennis Walmart. Centododici dollari in
banconote più qualche moneta.»
Parker fissava le lettere proiettate sullo schermo di fronte a loro, come se
le parole che Hardy stava leggendo descrivessero non il sosco ma la lettera
stessa.
«Tracce residuali minori. Polvere di mattone nei capelli, polvere di argil-
la sotto le unghie. Il contenuto dello stomaco rivela caffè e carne, proba-
bilmente di qualità scadente, consumati nel corso delle otto ore precedenti
il decesso. Nient'altro.» Hardy lesse un altro memorandum intestato
SPARMETRO allegato al rapporto del medico legale. «Nessun indizio an-
cora riguardo il furgone - quello che l'ha investito.» Guardò Parker. «È co-
sì frustrante... abbiamo il criminale al piano di sotto e non può dirci nien-
te.»
«Lui non può», rispose Parker. «Ma lei sì.» Lo sguardo sempre fisso sul-
la lettera.
La fine è in minente...
Lanciò un'occhiata a un'altra copia del Bollettino dei crimini gravi, quel-
lo che aveva visto prima. Quello che parlava dell'attentato all'abitazione di
Gary Moss. La descrizione austera della quasi-morte delle figlie di Moss
l'aveva scosso profondamente. Vedendo quel bollettino, era stato davvero
sul punto di voltarsi e di uscire dal laboratorio.
Spense il proiettore e rimise la lettera sul tavolo.
Cage guardò l'orologio e si mise il soprabito. «Abbiamo tre quarti d'ora.
Faremmo meglio ad andare.»
«Cosa intendi dire?» chiese Lukas.
L'agente più anziano porse a lei la giacca a vento e a Parker il giubbotto
di pelle. Parker lo prese senza dir nulla.
«Usciamo», disse Cage. «Andiamo ad aiutare Jerry a controllare gli al-
berghi.»
Parker stava scuotendo la testa. «Credo che dovremmo continuare il la-
voro qui in laboratorio. Con la lettera. Non abbiamo ancora finito. Possia-
mo scoprire altro.»
«Hanno bisogno di tutte le persone che possono avere», insistette Cage.
Ci fu un attimo di silenzio.
Parker rimase con la testa china, di fronte a Lukas, dalla parte opposta
del tavolo intensamente illuminato. Tra loro c'era la macchia bianca della
lettera di estorsione. Sollevò lo sguardo e, con voce piatta, disse: «Non
credo che riusciremo a trovarlo in tempo. Non in quarantacinque minuti.
Detesto doverlo dire, ma il modo migliore per impiegare le nostre risorse è
di restare qui. E continuare a lavorare sulla lettera».
«Vuoi dire che hai intenzione semplicemente di darle già per morte?»
domandò C.P. «Le vittime?»
Parker tacque per un lunghissimo istante. Poi: «Immagino di sì. Sì».
«Tu cosa ne pensi?» domandò Cage a Lukas.
La donna fissò Parker. I loro sguardi si incontrarono. «Sono d'accordo
con Parker. Restiamo qui. Continuiamo con la lettera.» Poi lasciò cadere la
giacca a vento su una sedia.

9
15,15

Con la coda dell'occhio Lukas vide Len Hardy in piedi, immobile, in un


angolo del laboratorio. Dopo un istante, il giovane detective si ravviò i ca-
pelli, prese l'impermeabile e si avvicinò a lei.
Diritto come la pioggia...
«Lascia andare almeno me», le disse. «Per aiutare gli altri con gli alber-
ghi.»
Lukas guardò il volto giovane e ansioso di Hardy. Teneva il trench con
la mano destra, le unghie perfettamente curate.
«Non posso. Mi dispiace.»
«L'agente Cage ha ragione. Hanno bisogno di tutti gli uomini che posso-
no avere.»
Lukas lanciò un'occhiata a Parker Kincaid, ma lui si era smarrito nuo-
vamente nel documento, intento a toglierlo con cura dalla guaina di aceta-
to.
«Vieni qui, Len», disse Lukas, facendo cenno al poliziotto di seguirla in
un angolo del laboratorio. Cage fu l'unico ad accorgersene e non disse nul-
la. Nella sua lunga militanza nell'FBI aveva avuto diverse conversazioni
con i suoi sottoposti, e sapeva che era una cosa delicata almeno quanto in-
terrogare un sospettato. Forse anche di più, perché si trattava di persone
con cui si doveva convivere quotidianamente, giorno dopo giorno. E dalle
quali poteva anche dipendere la tua vita nel corso di qualche operazione.
«Parlamene», disse Lukas.
«Voglio fare qualcosa», rispose il detective. «So che sono in secondo
piano, qui. Sono soltanto un poliziotto. Un semplice agente del reparto Ri-
cerche e Statistiche.»
«Sei qui soltanto per fare da collegamento. È tutto ciò per cui sei auto-
rizzato. Questa è un'operazione federale. Non è una task force.»
Hardy rise amaramente. «Collegamento? Sono qui come stenografo. E
lo sappiamo benissimo entrambi.»
Certo che Lukas lo sapeva. Be', Hardy era il collegamento con la polizia
- incaricato di stilare il rapporto - ma ciò non avrebbe fermato Margaret
Lukas, se soltanto avesse pensato che Hardy poteva essere utile da qualche
altra parte. Lukas non era certo il tipo che segue pedissequamente il rego-
lamento e, se Hardy fosse stato il miglior cecchino del mondo, l'avrebbe
spedito fuori a calci in una delle squadre di tiratori scelti di Jerry Baker,
quali che fossero i dettami della procedura. Dopo un istante, disse: «D'ac-
cordo, vuoi la verità?»
«Certo.»
«Perché sei qui?» gli domandò.
«Perché?»
«Ti sei offerto volontario, vero?»
«Sì.»
«A causa di tua moglie, giusto?»
«Emma?» Hardy tentò di sembrare confuso, ma Lukas capì immediata-
mente di aver colto nel segno. Il poliziotto sospirò e abbassò lo sguardo.
«Lo capisco, Len. Ma fa' un favore a te stesso. Prendi i tuoi appunti e
aiutaci a farci venire qualche idea. Poi, quando avremo inchiodato quello
stronzo, va' a casa. Non fare niente di stupido.»
«Ma è... difficile», disse Hardy, guardandosi intorno.
«Stare a casa?»
Hardy annuì.
«Lo so», rispose Lukas con sincerità.
Hardy si aggrappò al suo impermeabile come un bambino alla sua coper-
ta.
In realtà, se fosse stato chiunque altro e non Len Hardy a presentarsi nel
primo pomeriggio come collegamento con il corpo di polizia del distretto,
Margaret l'avrebbe rispedito immediatamente al dipartimento. Non aveva
certo la pazienza di sopportare lo scaricabarile o le dispute territoriali tra
un'agenzia e l'altra. Quella era un'operazione dell'FBI ed era la sua opera-
zione. Non aveva tempo per coccolare gli impiegati di una città corrotta e
quasi in bancarotta. Ma Margaret Lukas conosceva un segreto della vita di
Hardy: la moglie del poliziotto era in coma da quando la sua Jeep Chero-
kee era uscita di strada dalle parti di Middleburg, in Virginia, e si era
schiantata contro un albero.
Hardy era stato diverse volte nell'ufficio dell'FBI di Washington per
compilare dati statistici relativi al crimine nel distretto ed era entrato in
confidenza con Betty, l'assistente di Lukas. Inizialmente, Margaret credeva
che Hardy avesse un interesse per la donna, ma poi l'aveva sentito parlare
in tono triste di sua moglie e delle terribili condizioni in cui versava.
Hardy non aveva molti amici, a quanto pareva, proprio come Lukas. Co-
sì Margaret era uscita dal suo personaggio e gli aveva fatto qualche do-
manda personale su Emma. Avevano preso il caffè insieme diverse volte al
Policemen's Memorial Park, accanto all'ufficio dell'FBI. Hardy si era aper-
to leggermente ma, come Lukas, era una persona che teneva le proprie
emozioni ben nascoste dentro di sé.
Conoscendo la sua tragedia personale, sapendo quanto sarebbe stato dif-
ficile per lui restarsene a casa da solo in un giorno di festa, si sentiva di-
sposta a dargli un po' di corda. Ma non aveva intenzione di fare assoluta-
mente nulla che potesse mettere a repentaglio il buon esito dell'operazione.
Diritto come la pioggia...
«Voglio fare qualcosa. Non posso starmene seduto immobile. Voglio un
pezzo di quello stronzo.»
Quello che voleva in realtà era un pezzo di Dio, o del Destino, o di qual-
siasi forza della natura fosse responsabile di aver rovinato la vita di Emma
Hardy e quella di suo marito. Lukas lo capiva perfettamente.
«Len, non posso permettermi di avere qualcuno sul campo che è...» Cer-
cò una parola gentile. «Distratto.» «Senza pace» sarebbe stata una defini-
zione più pertinente, e «suicida» era ciò che pensava in realtà.
Hardy annuì. Era arrabbiato. Gli tremavano le labbra. Ma lasciò cadere
l'impermeabile su una sedia e tornò a sedersi alla scrivania.
Poverino, pensò Lukas. Ma, vedendo come l'intelligenza del poliziotto,
la sua proprietà e la sua perfezione brillavano nel suo aspetto, capì che ce
l'avrebbe fatta. Sarebbe riuscito a venir fuori da quel periodo terribile.
Cambiato, sì, ma cambiato allo stesso modo in cui il ferro si cambia in ac-
ciaio, temprandosi sui carboni ardenti del fabbro.
Cambiato...
Proprio come era cambiata lei stessa.
Se si guardava il certificato di nascita di Jacqueline Margaret Lukas, il
documento avrebbe rivelato che era nata l'ultimo giorno di novembre del
1963. Ma, nel profondo del suo cuore, Margaret sapeva di essere poco più
che una bambina di cinque anni, perché era nata nel giorno in cui si era di-
plomata all'Accademia.
Ricordò un libro che aveva letto molto tempo prima, una storia per bam-
bini. La bambina scambiata dei Wyckham. Il disegno di un elfo felice sulla
copertina non lasciava affatto intuire il carattere lugubre della storia. Il li-
bro parlava di un elfo che arrivava nel bel mezzo della notte e scambiava
bambini: rapiva i bambini umani e lasciava un sostituto, un piccolo elfo.
La storia raccontava di due genitori che scoprivano che la loro bambina era
stata scambiata e si mettevano alla ricerca della figlia vera.
Lukas ricordava di aver letto il libro raggomitolata in un divano nel suo
comodo soggiorno a Stafford, in Virginia, vicino a Quantico. Aveva ri-
mandato un'uscita a causa di un temporale inaspettato. Non era riuscita a
deporre il libro - sì, i genitori alla fine avevano ritrovato la bambina e l'a-
vevano barattata con l'altra - ma Margaret era rabbrividita per lo spiacevo-
le retrogusto del racconto e l'aveva buttato via.
Si era dimenticata di quella storia finché non si era diplomata all'Acca-
demia ed era stata assegnata all'ufficio FBI di Washington. Poi, una matti-
na, mentre si recava a piedi al lavoro con la sua Colt Python appoggiata al
fianco e la cartelletta di un caso sotto il braccio, si era resa conto: È questo
che sono... una bambina scambiata. Jackie Lukas era stata bibliotecaria
part-time per la sezione ricerche dell'FBI di Quantico, stilista dilettante che
si divertiva a disegnare vestiti per le sue ex compagne di stanza del college
e i loro bambini durante il weekend, una donna che ricamava e faceva la
maglia, collezionista di vini (che beveva anche con gusto), sempre nelle
prime posizioni nelle corse locali di Five-K. Ma quella donna era scompar-
sa da molto tempo, sostituita dall'agente speciale Margaret J. Lukas, una
donna che eccelleva in criminologia, tecniche investigative, esperta di e-
splosivi al plastico e dotata di grande abilità nella gestione e nell'uso degli
informatori confidenziali.
«Un agente dell'FBI?» le aveva chiesto suo padre, perplesso, durante una
delle sue visite alla casa dei genitori nel quartiere Pacific Heights di San
Francisco. Era andata appositamente per dar loro la notizia. «Hai intenzio-
ne di diventare un agente? Non di quelli con la pistola, spero. Voglio dire,
lavorerai in un ufficio o qualcosa del genere?»
«Con la pistola. Ma scommetto che mi daranno anche una scrivania.»
«Non capisco», aveva commentato l'uomo, dipendente della Bank of
America in pensione. «Eri così brava a scuola.»
Margaret aveva riso all'apparente illogicità del commento, ma sapeva
benissimo che cosa intendeva dire suo padre. Studente modello alla St.
Thomas High di Russian Hill e poi anche a Stanford. Ragazza esile che ac-
cettava appuntamenti troppo di rado e alzava la mano in classe troppo
spesso era destinata a una carriera universitaria, o a Wall Street, o all'edito-
ria. No, no, quello che dispiaceva a suo padre non era il fatto che Jackie
avrebbe maneggiato pistole e dato la caccia ad assassini - pietà per il pove-
ro criminale che sarebbe finito sotto le sue grinfie - no, no, era il fatto che
non avrebbe usato il suo cervello.
«Ma si tratta dell'FBI, papà. Loro sono i poliziotti che pensano.»
«Già, immagino di sì. Ma... è questo quello che vuoi fare?»
No, era quello che doveva fare. C'era un'enorme differenza tra i due ver-
bi, volere e dovere. Ma non sapeva se suo padre l'avrebbe capito. Quindi
rispose con un semplice: «Sì».
«Allora per me va bene», aveva concluso lui, poi si era voltato verso sua
moglie e aveva detto: «La nostra bambina ha della tempra. Sai cos'è la
tempra? T-E-M-P-R-A».
«Lo so», aveva gridato la madre di Margaret dalla cucina. «Faccio le pa-
role crociate. Ma starai attenta, Jackie? Promettimi che starai attenta.»
Come se dovesse attraversare una strada trafficata.
«Starò attenta, mamma.»
«Bene. Ho fatto la carne con il vino bianco. Ti piace, vero?»
E Jackie aveva abbracciato sua madre e suo padre, e due giorni dopo era
tornata a Washington, D.C., per diventare Margaret.
Dopo il diploma, era stata assegnata all'ufficio della capitale. Aveva co-
minciato a conoscere il distretto e aveva preso a lavorare con Cage, che era
il miglior padre che potesse esserci per una bambina scambiata... e doveva
aver fatto qualcosa di buono, perché l'anno prima era stata promossa al
grado di assistente agente speciale incaricato. E ora, con il suo capo occu-
pato a fotografare scimmie e lucertole in una foresta pluviale brasiliana, si
trovava a dirigere il più grosso caso che fosse capitato a Washington da
parecchi anni a quella parte.
Finché non uccideva se stesso o qualcun altro a causa della sua inquietu-
dine, Len Hardy ne sarebbe uscito.
Margaret Lukas sapeva che poteva capitare.
Bastava chiedere a un bambino scambiato...
«Ehi.» Una voce maschile si intromise nei suoi pensieri.
Lukas guardò dall'altra parte della stanza e si rese conto che Parker Kin-
caid stava parlando con lei.
«Scusa.»
«Abbiamo fatto l'esame linguistico. Ora voglio fare l'esame fisico della
lettera. A meno che tu non abbia in mente qualcos'altro.»
«È il tuo campo, Parker», disse Lukas. Poi si sedette accanto a lui.

Per prima cosa, Parker esaminò la carta su cui era stata scritta la lettera.
Il foglio misurava quindici centimetri per ventitré e la busta corrispon-
deva. Le misure dei fogli erano cambiate nel corso della storia, ma il for-
mato ventun centimetri e mezzo per ventotto era stato il formato standard
in America per quasi duecento anni. Il quindici per ventitré era il secondo
formato più diffuso. Troppo comune. Da solo, il formato del foglio non a-
vrebbe detto nulla a Parker sulla sua provenienza.
Per quanto riguardava la composizione della carta, Parker notò che era
carta di bassa qualità, fabbricata con un processo di omogeinizzazione
meccanico, non con il metodo Kraft tipico delle carte di alta qualità.
«La carta non ci sarà di nessun aiuto», annunciò infine. «È carta generi-
ca. Non riciclata, alto contenuto di acido, polpa grezza con bassa lumine-
scenza e apporto minimo di schiarenti ottici. Venduta in grandi quantità
dai fabbricanti alle catene di distribuzione all'ingrosso. La impacchettano
come carta comune. Non c'è traccia di marchio e non c'è modo di farla ri-
salire a un fabbricante o a un venditore in particolare e poi a un punto ven-
dita definito. Adesso guardiamo l'inchiostro.»
Sollevò attentamente la lettera e la pose sotto le lenti di uno dei micro-
scopi del laboratorio. La esaminò prima ingrandita dieci volte e poi cin-
quanta. Dalla tacca che la punta della penna aveva prodotto nella carta, da-
gli scivolamenti occasionali e dalla consistenza irregolare del colore, Par-
ker dedusse che il soggetto aveva usato una penna a sfera da poco prezzo.
«Probabilmente una AWI - American Writing Instruments. Venduta a
trentanove centesimi praticamente ovunque.» Guardò i suoi compagni di
squadra. Nessuno sembrava aver colto il significato di ciò che aveva appe-
na detto.
«E...?» lo sollecitò Lukas.
«È una cosa pessima», spiegò enfaticamente Parker. «Impossibile da rin-
tracciare. Vengono vendute praticamente in ogni negozio e in ogni centro
commerciale degli Stati Uniti. Proprio come la carta. E la AWI non adope-
ra targhe.»
«Targhe?» domandò Hardy.
Parker gli spiegò che alcuni fabbricanti inseriscono una targa chimica
nei loro inchiostri per identificare i prodotti e per aiutare a rintracciare do-
ve e quando sono stati fabbricati. La American Writing Instruments, però,
non lo faceva.
Parker cominciò a togliere la lettera da sotto il microscopio, ma si fermò,
notando un particolare strano. Parte del foglio era sbiadita. Non credeva
che si trattasse di un difetto di fabbricazione. Gli schiarenti ottici venivano
aggiunti alla carta da quasi cinquant'anni ed era insolito, anche in carta di
bassa qualità come quella, che ci fosse una disparità nella porosità.
«Potresti passarmi la PoliLight?» domandò a C.P. Ardell.
«Cosa?»
«Quella lì.»
L'agente sollevò una delle unità FLA - una fonte di luce alternativa. Il-
luminava una varietà di sostanze altrimenti invisibili all'occhio umano.
Parker indossò un paio di occhiali protettivi e accese la luce giallo-
verde.
«Mi arriveranno delle radiazioni o qualcosa del genere?» gli domandò
C.P. Ardell. Non stava scherzando del tutto.
«Ah, ah», gli rispose Parker, quindi fece scorrere la bacchetta della Po-
liLight sulla busta. Sì, la porzione di destra era più chiara del resto. Fece lo
stesso con la lettera e scoprì che c'era un disegno a forma di L sulla som-
mità e sul lato del foglio.
Interessante. Lo studiò ancora.
«Vedete come gli angoli sono sbiaditi? Credo che sia dovuto al fatto che
la carta e parte della busta siano state schiarite dal sole.»
«Dove, a casa sua o in negozio?» domandò Hardy.
«Potrebbe essere l'una o l'altro», rispose Parker. «Ma, data la coesione
della polpa, direi che la carta è rimasta sigillata fino a poco tempo fa. Il che
farebbe pensare al negozio.»
«Ma», disse Lukas, «dovrebbe essere un posto esposto a nord.»
Sì, pensò Parker. Ottimo. Non ci aveva pensato.
«Perché?» domandò Hardy.
«Perché siamo in inverno», gli disse Parker. «In qualsiasi altra direzione
non c'è abbastanza luce solare da schiarire la carta.»
Parker riprese a passeggiare. Era una sua abitudine. Quando la moglie di
Thomas Jefferson era morta, la figlia più grande, Martha, aveva scritto che
suo padre camminava avanti e indietro «quasi incessantemente, giorno e
notte, stendendosi solo di tanto in tanto, quando la sua energia si era com-
pletamente esaurita». Quando Parker lavorava su un documento o stava
lottando con un enigma particolarmente difficile, i Chi lo prendevano
spesso in giro dicendo «Ecco che ricomincia il girotondo».
La disposizione del laboratorio gli stava lentamente tornando alla mente.
Si avvicinò a un armadietto, lo aprì e ne estrasse una tavola da esame e
qualche foglio di carta per la raccolta delle tracce. Tenendo la lettera per
un angolo, vi fece scorrere sulla superficie un pennello di setole di cam-
mello per dislocare eventuali elementi microscopici. Non c'era praticamen-
te nulla. Non ne fu sorpreso. La carta è uno dei materiali più assorbenti che
esistono: trattiene la maggior parte delle sostanze dei posti in cui è stata,
ma solitamente queste restano saldamente ancorate alle fibre.
Parker prese una grossa siringa dalla sua valigetta e se ne servì per to-
gliere minuscoli dischi di inchiostro e carta dalla lettera e dalla busta. «Sai
come funziona?» domandò a Geller, indicando il gascromatogra-
fo/spettrometro di massa nell'angolo.
«Oh, certo», rispose Geller. «Una volta ne ho smontato uno. Così, per
divertimento.»
«Esami separati... per la lettera e per la busta», istruì Parker, porgendogli
i campioni appena prelevati.
«Non c'è problema.»
«A che serve?» domandò di nuovo C.P. Ardell. Gli agenti tattici solita-
mente non hanno molta pazienza con le questioni prettamente scientifiche.
Parker glielo spiegò. Il gascromatografo/spettrometro di massa separava
le sostanze chimiche rinvenute sulla scena di un crimine nei loro compo-
nenti di base e quindi le identificava. La macchina rombò minacciosamen-
te - in realtà, bruciava i campioni e analizzava i vapori risultanti.
Parker prelevò altre tracce dalla lettera e dalla busta e montò i vetrini
sotto due diversi microscopi Leitz. Guardò prima in uno, poi nell'altro, vol-
tando le manopole della messa a fuoco che si mossero con la lenta sensua-
lità dei meccanismi di precisione perfettamente lubrificati.
Fissò per un lunghissimo istante ciò che vedeva, poi sollevò lo sguardo e
disse a Geller: «Ho bisogno di digitalizzare le immagini di queste tracce».
Indicò il microscopio più vicino. «Come possiamo fare?»
«Ah, non c'è davvero nessun problema.» Il giovane agente inserì dei ca-
vi ottici nella base dei due microscopi. I cavi terminavano in un grosso pa-
rallelepipedo grigio, dal quale ne partivano altri. Geller prese questi ultimi
e li inserì in uno dei dieci computer del laboratorio. Lo accese e, un attimo
dopo, un'immagine delle particelle comparve sullo schermo. Geller ri-
chiamò un menu.
«Non devi far altro che cliccare qui», disse poi a Parker. «Sono imma-
gazzinate come file JPEG.»
«E posso mandarli per posta elettronica?»
«Dimmi soltanto a chi devono arrivare.»
«Tra un attimo... dovrò trovare l'indirizzo. Prima però voglio fare diversi
ingrandimenti.»
Parker e Geller catturarono tre immagini da ognuno dei microscopi,
quindi le salvarono sull'hard disk del computer.
Proprio mentre stavano finendo, il gascromatografo/spettrometro di
massa emise un lungo bip e i dati cominciarono ad apparire sullo schermo
del computer collegato all'unità.
«Ho un paio di esaminatori in attesa alla Materiali e alla Elementi», lo
informò Lukas. Erano le due sezioni dell'FBI dedicate all'analisi delle trac-
ce.
«Mandali a casa», disse Parker. «C'è una persona che voglio usare, per
questo.»
«Ma non sai nemmeno chi ho scelto», ribatté Lukas, accigliandosi.
«Intendo dire che non voglio qualcuno dell'FBI. È a New York.»
«Al dipartimento di Polizia?» domandò Cage.
«Un tempo. Adesso è civile.»
«Perché non qualcuno di qui?» domandò Lukas.
«Perché», rispose Parker, «il mio amico è il miglior criminalista della
nazione. È lui che ha progettato il PERT.»
«La nostra squadra delle prove?» domandò C.P.
«Esatto.» Parker cercò un numero e fece una telefonata.
«Ma», gli fece notare Hardy, «è la sera dell'ultimo dell'anno. Probabil-
mente non sarà in casa.»
«No», disse Parker. «Non esce praticamente mai.»
«Nemmeno nei giorni di festa?»
«Nemmeno nei giorni di festa.»

«Parker Kincaid», disse la voce nell'altoparlante del telefono. «Mi stavo


proprio chiedendo se avresti chiamato.»
«Hai sentito del nostro problema, vero?» domandò Parker a Lincoln
Rhyme.
«Ah, io sento tutto», ironizzò Rhyme, e Parker rammentò che il crimina-
lista era in grado di dare le cattive notizie come nessun altro. «Non è vero,
Thom? Non è vero che sento tutto? Parker, ti ricordi di Thom, vero? Il po-
vero Thom?»
«Salve, Parker.»
«Salve, Thom. Ti sta facendo ammattire?»
«Certo che sì», rispose burbero Lincoln. «Credevo che ti fossi ritirato a
vita privata, Parker.»
«Lo ero, infatti. Fino a circa due ore fa.»
«Strano il nostro mestiere, eh? Strano come non ti lascino mai riposare
in pace.»
Parker aveva incontrato Rhyme una sola volta. Era un bell'uomo, all'in-
circa della sua età, con i capelli scuri. Era anche completamente paralizza-
to. Svolgeva la mansione di consulente della polizia dalla sua casa in Cen-
tral Park West. «Mi è piaciuto il tuo intervento al seminario, Parker», disse
Rhyme. «L'anno scorso.»
Parker ricordò Rhyme, seduto su una sedia a rotelle motorizzata color
rosso fuoco nella prima fila della sala conferenze della John Jay School of
Criminal Justice di New York. L'argomento era la linguistica applicata al-
l'indagine scientifica.
«Sai che abbiamo ottenuto una condanna grazie a te?» continuò Rhyme.
«Non lo sapevo.»
«C'era un testimone di un omicidio. Non era riuscito a vedere l'assassi-
no, che era nascosto. Ma aveva sentito l'uomo dire qualcosa alla vittima un
attimo prima di sparargli. Aveva detto: 'Se ero in te, brutto stronzo, direi le
mie preghiere'. Poi... è interessante, Parker, davvero. Mi stai ascoltando?»
«Ci puoi scommettere.» Quando parlava Lincoln Rhyme, si ascoltava
sempre.
«Poi, nel corso dell'interrogatorio alla centrale di polizia, ha detto a uno
dei detective: 'Se ho voglia di confessare non lo farò certo con te'. Sai co-
me l'abbiamo beccato?»
«Come, Lincoln?»
Rhyme rise come un adolescente. «A causa del congiuntivo! Se ero, non
se fossi. Se ho, non se avessi. Statisticamente, soltanto il sette per cento
della popolazione usa questa forma. Lo sapevi?»
«In realtà sì», disse Parker. «Ed è stato sufficiente per ottenere una con-
danna?»
«No. Ma è bastato per ottenere una confessione in cambio di un patteg-
giamento», annunciò Rhyme. «Ora, lasciami indovinare. Avete questo so-
sco che spara alla gente in metropolitana e l'unico indizio che avete su di
lui è... cosa? Una lettera minatoria? Una lettera di estorsione?»
«Come fa a saperlo?» domandò Lukas.
«L'ho sentito dire!» esclamò Rhyme. «No, no... per rispondere alla do-
manda: so che ci deve essere una lettera o un biglietto perché è l'unico mo-
tivo logico per cui Parker Kincaid telefoni a me... A chi... scusami, Par-
ker... a chi ho appena risposto?»
«Agente speciale Margaret Lukas», si presentò lei.
«È assistente agente speciale incaricato dell'ufficio FBI del distretto. Di-
rige le indagini.»
«Ah, l'FBI, naturalmente. Fred Dellray è appena stato lì», disse Rhyme.
«Conosce Fred? Dell'ufficio di Manhattan?»
«Lo conosco», rispose Lukas. «Si è occupato di alcuni nostri agenti in
incognito l'anno scorso. Una faccenda di traffico d'armi.»
«Quindi, un soggetto sconosciuto», continuò Rhyme, tornando all'ogget-
to della chiamata. «Una lettera. Adesso ditemi, uno di voi...»
Fu Lukas a parlare. «Ha ragione, signor Rhyme. È un'estorsione. Ab-
biamo tentato di pagare, ma il sosco primario è rimasto ucciso. Ora siamo
praticamente sicuri che il suo socio - il sicario - possa continuare a uccide-
re.»
«Oh, brutta faccenda. Un bel problema. Avete esaminato il cadavere?»
«Niente», gli disse Lukas. «Nessun documento di identità, nessuna trac-
cia significativa.»
«E il mio regalo di Natale in ritardo è un pezzettino del caso da risolve-
re.»
«Ho passato al gascromatografo un frammento della busta e della lette-
ra...»
«Hai fatto bene, Parker. Brucia pure le prove. Quelli vogliono che tu le
conservi per costruire il caso, ma tu devi sempre adoperare quelle che ti
servono per risolverlo.»
«Vorrei mandarti i dati. E alcune immagini delle tracce. Posso inviarti
tutto per posta elettronica?»
«Sì, sì, naturalmente. A che ingrandimento?»
«Dieci, venti e cinquanta.»
«Bene. Quando scade l'ultimatum?»
«Ogni quattro ore, a partire dalle quattro fino a mezzanotte.»
«Le quattro del pomeriggio? Di oggi?»
«Esatto.»
«Cielo!»
«Abbiamo una pista per la sparatoria delle quattro», continuò Lukas.
«Crediamo che colpirà in un albergo. Ma non sappiamo nulla di più speci-
fico.»
«Le quattro, le otto e le dodici. Il vostro sosco era un uomo con il senso
del drammatico.»
«Non si attaglia al suo profilo?» domandò Hardy, prendendo altri appun-
ti. Probabilmente avrebbe passato tutto il fine-settimana a stilare un rap-
porto per il sindaco, il capo della polizia e il consiglio comunale, un rap-
porto che altrettanto probabilmente non sarebbe stato letto per mesi e mesi.
«Chi ha parlato?» domandò Rhyme.
«Len Hardy, signore. Dipartimento di Polizia di Washington.»
«È un esperto di profili psicologici, detective?»
«In realtà sono del reparto Ricerche e Statistiche. Ma ho seguito dei cor-
si di profilazione all'Accademia e ho svolto un seminario post laurea in
psicologia all'American University.»
«Mi ascolti», gli disse Rhyme. «Io non credo nei profili psicologici. Io
credo nelle prove fisiche. La psicologia è scivolosa come un'anguilla. Pen-
si a me. Sono un coacervo di nevrosi. Vero, Amelia?... La mia amica, qui,
non parla, ma è d'accordo con me. Okay. Dobbiamo sbrigarci. Mandami le
cose, Parker. Ti richiamerò il più presto possibile.»
Parker prese nota dell'indirizzo di posta elettronica di Rhyme e lo passò
a Geller. Un attimo dopo, l'agente inviò le immagini e i profili chimici ela-
borati dal gascromatografo/spettrometro di massa.
«Lui è il miglior criminalista della nazione?» domandò Cage scettico.
Parker non rispose. Stava fissando l'orologio. Non si era reso conto che
fosse così tardi. Da qualche parte nel distretto di Columbia, alle persone
che lui e Margaret Lukas erano disposti a sacrificare restavano soltanto
trenta minuti di vita.

10
15,30

Questo albergo è bellissimo, questo albergo non è niente male. Il Bec-


chino entra, con i cuccioli disegnati sulla sua borsa della spesa, e nessuno
si accorge di lui. Entra nel bar e chiede un'acqua minerale frizzante. Gli
pizzica il naso. Buffo... la beve e lascia sul banco i soldi e una mancia,
proprio come gli ha detto di fare l'uomo che gli dice le cose.
Nell'atrio la folla conversa. Ci sono delle cerimonie lì. Feste di aziende.
Un sacco di decorazioni. Altri di quei bambini grassocci che ci sono in tut-
ti gli striscioni di Capodanno. Ehi, non sono... non sono... non sono carini?
E poi c'è l'Anno Vecchio, che assomiglia al tristo mietitore.
Lui e Pamela... click... lui e Pamela sono andati a qualche festa in posti
simili a quello.
Il Becchino compra una copia di USA Today. Si siede nell'atrio e la leg-
ge, la borsa con i cuccioli accanto a sé.
Guarda l'orologio.
Legge gli articoli.
USA Today è un bel giornale. Gli dice un sacco di cose interessanti. Il
Becchino guarda le previsioni del tempo su tutta la nazione. Gli piacciono
i colori dei fronti di alta pressione. Legge la sezione sportiva. È convinto
di aver fatto dello sport, molto tempo fa. No, quello era il suo amico Wil-
liam. Al suo amico William piaceva lo sport. Anche a qualche altro suo
amico. E anche a Pamela.
Il giornale ha tante belle fotografie di bei giocatori di basket. Sembrano
molto grossi e molto forti e quando schiacciano la palla nel canestro vola-
no nell'aria come se avessero le ali. Il Becchino non è grosso e non è alto,
così si convince di non aver fatto dello sport. Non è sicuro di sapere per
quale motivo Pamela o William o chiunque altro possa aver voglia di fare
dello sport. È più divertente mangiare minestra e guardare la televisione.
Un bambino gli passa davanti e si ferma.
Guarda giù, verso la borsa. Il Becchino chiude la sommità della borsa,
così il bambino non vedrà l'Uzi che sta per uccidere cinquanta o sessanta
persone.
Il bambino avrà più o meno nove anni. I suoi capelli sono scuri e hanno
la riga di lato. Sono molto curati. Indossa un completo che non gli va mol-
to bene. Le maniche sono troppo lunghe. E l'allegra cravatta rossa natalizia
gli sta goffamente intorno al colletto. Sta guardando la sua borsa.
Sta guardando i cuccioli.
Il Becchino guarda da un'altra parte.
«Se qualcuno ti guarda in faccia, uccidilo... Ricordatelo.»
Me lo ricordo.
Ma non può farci niente. Con la coda dell'occhio guarda il bambino. Il
bambino sorride. Il Becchino no. Sa riconoscere un sorriso, ma non sa che
cosa sia esattamente.
Il bambino, con gli occhi castani e quel mezzo sorriso sulla faccia, guar-
da la borsa, guarda i cuccioli. I loro bei nastrini colorati. Come i nastri che
portano i bambini grassocci del capodanno. Nastri verdi e dorati sulla bor-
sa. Anche il Becchino guarda la sua borsa della spesa.
«Ehi, vieni», chiama una donna. È in piedi accanto a un vaso di poinse-
zie, rosse come la rosa che Pamela portava sul vestito lo scorso Natale.
Il bambino guarda ancora una volta la faccia del Becchino. Il Becchino
sa che dovrebbe guardare da un'altra parte, ma si limita a fissarlo a sua vol-
ta. Poi il bambino se ne va e si mescola ai gruppi di persone che stanno in-
torno ai tavoli imbanditi. Un sacco di crackers, tartine con gamberetti e ca-
rote. Niente minestra, nota il Becchino.
Il bambino si avvicina a una ragazzina che probabilmente è sua sorella.
Deve avere più o meno tredici anni.
Il Becchino guarda l'orologio. Le quattro meno venti. Si toglie di tasca il
cellulare e fa una telefonata alla sua casella vocale. Rimane in ascolto.
«Non ci sono nuovi messaggi.» Spegne il telefono.
Si mette la borsa sulle ginocchia e guarda la folla. Il bambino ha indosso
un blazer blu e sua sorella porta un vestito rosa. Sul vestito c'è una fusciac-
ca.
Il Becchino stringe la borsa fra le mani.
Diciotto minuti.
Il bambino è di fronte al tavolo del cibo. La ragazzina sta parlando con
una donna più vecchia.
Altre persone si uniscono a loro. Passano camminando proprio davanti
al Becchino, che se ne sta lì con la sua borsa della spesa e il suo bel giorna-
le che mostra le previsioni del tempo di tutta la nazione.
Ma nessuno lo nota.

Il telefono del laboratorio cominciò a squillare.


Come sempre, quando un telefono suonava e lui era da qualche parte
senza i Chi, Parker avvertiva una breve scarica di panico a basso voltaggio,
anche se, naturalmente, la signora Cavanaugh avrebbe chiamato sul suo
cellulare e non l'FBI qualora uno dei bambini avesse avuto un incidente.
Guardò sul display per individuare il chiamante e vide un numero di
New York. Afferrò il ricevitore. «Lincoln... Sono Parker. Abbiamo quindi-
ci minuti. Trovato qualcosa?»
La voce del criminalista era preoccupata. «Oh, non molto, Parker. Met-
timi in viva voce.»
Parker premette il bottone che accendeva l'altoparlante.
«Qualcuno prenda una penna», esordì Rhyme. «Vi dirò cosa ho scoper-
to. Siete pronti? Siete pronti?»
«Siamo pronti, Lincoln», confermò Parker.
«La traccia più evidente presente sulla lettera è polvere di granito.»
«Granito», fece eco Cage.
«Ci sono segni di lucidatura e di cesellatura sulla pietra. E anche un po'
di vernice.»
«Da dove pensi che provenga?» domandò Parker.
«Non lo so. E come faccio a saperlo? Non conosco Washington. Io co-
nosco New York.»
«E se fosse a New York?» domandò Lukas.
«Palazzi di nuova costruzione», continuò Rhyme, «ristrutturazioni di
vecchi edifici o demolizioni, stanze da bagno, fabbricanti di cucine, mar-
misti di pietre tombali, studi di scultori, giardinieri... La lista è infinita.
Avete bisogno di qualcuno che conosca la disposizione del terreno di quel-
le parti. Capito? Non tu, vero, Parker?»
«No, purtroppo no. Io...»
«... tu conosci i documenti», lo interruppe il criminalista. «Conosci an-
che i criminali. Ma non la geografia.»
«È vero.»
Parker guardò Lukas. La donna stava fissando l'orologio. Si voltò verso
di lui con un'espressione priva di qualsiasi emozione. Cage era diventato
un maestro nella stretta di spalle. La specialità di Lukas era la maschera di
pietra.
«Ci sono anche tracce di argilla rossa e di polvere di vecchi mattoni»,
continuò Rhyme. «Poi c'è zolfo. E moltissimo carbonio... cenere e fuliggi-
ne, compatibile con la cottura di carne o con l'incendio di rifiuti contenenti
carne. Ora... i dati della busta mostrano una piccola quantità delle stesse
sostanze che ho trovato sulla lettera. C'è dell'altro... quantità significative
di acqua salata, kerosene, olio raffinato, petrolio greggio, burro...»
«Burro?» domandò Lukas.
«È quello che ho detto», sbottò Rhyme. Poi aggiunse brusco: «Non sa-
prei dire la marca. E poi c'è del materiale organico non dissimile da mollu-
schi. Quindi, tutte le tracce conducono a Baltimora».
«Baltimora?» domandò Hardy.
«Per quale motivo lo pensa?» gli chiese Lukas.
«L'acqua di mare, il kerosene, l'olio combustibile e il petrolio greggio
indicano un porto. Giusto? Che altro potrebbe essere? Be', il porto più vi-
cino a Washington in cui transitano grosse quantità di greggio è Baltimora.
E Thom mi dice - il mio amico conosce bene il cibo - che ci sono migliaia
di ristoranti di specialità di mare proprio sulla baia. Bertha's. Continua a
parlare dei molluschi di Bertha's.»
«Baltimora», borbottò Lukas. «Così ha scritto la lettera a casa ed è anda-
to a cena sul molo la sera prima. È venuto a Washington per lasciare la let-
tera in Municipio. E poi...»
«No, no, no», fece Rhyme.
«Cosa c'è?» chiese Lukas.
Parker, il signore degli enigmi, disse: «È una messinscena, vero, Lin-
coln?»
«Proprio come l'Amleto», rispose Rhyme. Sembrava compiaciuto che
Parker ci fosse arrivato da solo.
«Come fa a dirlo?» domandò Cage.
«C'è un detective con cui collaboro - Roland Bell - del dipartimento di
Polizia di New York. Un brav'uomo. Viene dalla Carolina del Nord. E ha
questo modo di dire: 'Sembra un po' troppo facile e troppo rapido'. Be', tut-
te quelle tracce... Le quantità degli elementi riscontrati sono troppo eleva-
te. Davvero troppo elevate. Il sosco ha infilato le mani dove voleva e ha
impregnato la busta. Soltanto per mandarci fuori pista.»
«E le tracce sulla lettera?» domandò Hardy.
«Ah, no. Quelle sono legittime. Le quantità di materiale nelle fibre sono
compatibili con la densità ambientale delle stesse sostanze. No, no, sarà la
lettera a dirci dove stava. Ma la busta... ah, la busta ci dice qualcos'altro.»
«Che quell'uomo era molto più astuto di quanto sembrava», intervenne
Parker.
«Esattamente», confermò il criminalista.
Parker fece un rapido riassunto. «Quindi, nel luogo dove abitava ci sono
granito, polvere di argilla, polvere di mattone, zolfo, fuliggine e cenere de-
rivante dalla combustione di rifiuti.»
«Tutta quella polvere... potrebbe trattarsi di un cantiere di demolizioni»,
azzardò Cage.
«Sembra molto probabile», commentò Hardy.
«Probabile? Come potrebbe essere probabile? È una possibilità. Ma, a
questo punto, ogni cosa non è forse una possibili?
lità finché qualcos'altro non si dimostra vero? Pensate a questo...» La
voce di Rhyme si abbassò leggermente mentre parlava con qualcun altro
nella sua stanza. «No, Amelia, non sono pomposo. Sono soltanto accura-
to... Thom! Thom! Portami dell'altro whisky. Per favore.»
«Signor Rhyme», intervenne Lukas. «Lincoln... Quello che ha fatto è
notevole, e lo apprezziamo molto. Ma mancano soltanto dieci minuti al
prossimo attacco del sicario. Non ha nessuna idea su quale albergo il sosco
potrebbe avere scelto?»
Rhyme rispose con una gravità che fece gelare Parker. «Temo di no»,
disse. «Dovete cavarvela da soli.»
«D'accordo.»
«Grazie, Lincoln», disse Parker.
«Buona fortuna a tutti voi. Buona fortuna.» Con un click, il criminalista
interruppe la telefonata.
Parker guardò gli appunti. Polvere di granito... zolfo... Oh, erano indizi
splendidi, indizi solidi. Ma la squadra non aveva abbastanza tempo per se-
guirli.
Si immaginò il sicario già in piedi in mezzo alla folla, con l'arma pronta
a sparare. Sul punto di premere il grilletto. In quanti sarebbero morti que-
sta volta?
Quante famiglie?
Quanti altri bambini come LaVelle Williams?
Bambini come Robby e Stephie?
Tutti, nel laboratorio in penembra, rimasero in silenzio, come paralizzati
dalla propria incapacità di vedere attraverso il sudario che oscurava la veri-
tà.
Parker guardò nuovamente la lettera, ed ebbe la sensazione che lo stesse
silenziosamente prendendo in giro.
Il telefono di Lukas squillò. Lei ascoltò per qualche secondo, poi sulle
sue labbra spuntò il primo sorriso genuino che Parker le avesse visto quel
giorno.
«Ce l'abbiamo!» annunciò Margaret.
«Come?» chiese Parker.
«Due dei ragazzi di Jerry hanno appena trovato due proiettili verniciati
di nero sotto una poltrona del Four Seasons Hotel a Georgetown. Tutti gli
agenti e i poliziotti disponibili stanno andando lì.»

11
15,50

«È affollato?»
«L'albergo?» disse Cage in risposta alla domanda di Parker. Parlava an-
che lui al cellulare. «Eccome se è affollato, accidenti. Il nostro uomo dice
che il bar dell'atrio è pieno, dev'esserci una specie di ricevimento. Poi, nel-
le sale per i banchetti al piano di sotto sono in corso ben quattro feste di
Capodanno. Un sacco di aziende e di uffici chiude prima. Devono esserci
almeno mille persone.»
Parker pensò a che cosa poteva fare un'arma automatica in uno spazio
chiuso come un salone da pranzo.
Tobe Geller aveva trasferito agli altoparlanti la frequenza radio operati-
va. Nel laboratorio, la squadra poteva udire la voce di Jerry Baker. «Qui
Leader Capodanno Due, a tutte le unità. Codice Dodici al Four Seasons
sulla Strada M. Codice Dodici. Il sosco è sul posto, nessuna descrizione.
Presumibilmente armato di un Uzi completamente automatico e silenzia-
tore. Avete via libera. Ripeto, avete via libera.»
Il che significava che erano liberi di sparare al Becchino invece di arre-
starlo.
Decine di agenti sarebbero stati all'interno dell'albergo nel giro di pochi
minuti. L'avrebbero preso? Se anche non ci fossero riusciti, immaginò Par-
ker, l'avrebbero spaventato abbastanza da farlo fuggire prima che avesse il
tempo di far male a qualcuno.
Ma potevano anche prenderlo. Arrestarlo. O, se avesse opposto resisten-
za, ucciderlo. L'orrore di quella sera sarebbe finito, e lui sarebbe potuto
tornare a casa dai suoi figli.
Chissà cosa stanno facendo adesso, pensò.
Suo figlio si stava ancora preoccupando per il Barcaiolo?
Oh, Robby, come faccio a dirti di non preoccuparti? Il Barcaiolo è mor-
to da anni. Ma guarda qui... adesso, stasera, ce ne abbiamo un altro. Un
altro Barcaiolo, che è anche peggio. È questo il problema delle cose mal-
vage, figliolo. Il male continua a uscire strisciando dalla sua tomba e non
c'è modo di fermarlo...
La radio era in silenzio.
La cosa più difficile era aspettare. Ecco di che cosa si era dimenticato
Parker nei quattro anni che erano trascorsi da quando si era ritirato dall'at-
tività. Non ci si abituava mai all'attesa.
«Le prime auto stanno arrivando sul posto», segnalò Cage, ascoltando il
suo cellulare. Poi annunciò: «Non riuscirà a fuggire».
Parker si chinò ancora una volta a osservare la lettera di estorsione.

Poi lanciò un'occhiata alla busta.


Stava guardando le sbavature lasciate dalle tracce. Guardò di nuovo i fo-
gli dell'ESDA, le fievoli immagini della scrittura impressa.
Gli tornarono in mente le parole di Lincoln Rhyme.
Ma la busta ci dice qualcos'altro.
Era molto più astuto di quanto sembrava...
E Parker sentì le parole che lui stesso aveva pronunciato poco prima -
quando aveva detto a Lukas che il profilo psicolinguistico era sbagliato,
che il sosco era molto intelligente.
Alzò la testa di scatto. Guardò Margaret Lukas.
«Che c'è?» domandò lei, allarmata dalla sua espressione.
«Ci stiamo sbagliando», fece Parker con voce piatta. «Abbiamo sbaglia-
to. Non colpirà al Four Seasons.»
Gli altri nella stanza si immobilizzarono, fissandolo con gli occhi sgra-
nati.
«Fermate gli agenti. I poliziotti... ovunque siano... fermateli.»
«Cosa?» sbottò Lukas.
«La lettera... ci sta mentendo.»
Cage e Lukas si guardarono, perplessi.
«Ci sta conducendo lontano dal vero obiettivo.»
«Davvero?» domandò C.P. Ardell incerto. Poi guardò Lukas. «Cosa sta
dicendo?»
Parker lo ignorò completamente. «Fermateli!» gridò.
Cage prese il telefono. Lukas gli fece cenno di fermarsi.
«Fallo!» gridò Parker. «Le squadre di intervento devono restare mobili.
Non possiamo bloccarle all'albergo.»
«Parker, lui è lì», disse Hardy. «Hanno trovato i proiettili. Non può esse-
re una coincidenza.»
«Certo che non è una coincidenza. È stato il Becchino a lasciarli lì. Poi è
andato da qualche altra parte... al vero bersaglio. Un posto che non è un al-
bergo.» Guardò Cage. «Ferma le auto!»
«No», disse Lukas. Il suo volto era contratto in una maschera di rabbia.
Ma Parker, fissando la lettera, continuò imperterrito. «È troppo furbo per
lasciare accidentalmente un riferimento all'albergo. Ha tentato di fregarci
con le tracce sulla busta. E lo stesso vale per la scrittura impressa. Il 't-e-
1'.»
«Ci è mancato poco che non scoprissimo nemmeno la scrittura impres-
sa», ribatté Lukas. «Non l'avremmo trovata se tu non fossi venuto ad aiu-
tarci.»
«Lei lo sa...» Parlare della lettera come fosse una persona sembrava in-
quietarli. Parker si corresse. «Il sosco sapeva con che cosa avrebbe avuto a
che fare. Ricordate il mio profilo linguistico?» Indicò la fotografia del ca-
davere dell'uomo. «Era intelligente. Era uno stratega. Doveva per forza
rendere gli indizi sottili, difficili da trovare. Altrimenti non ci avremmo
creduto. No, no, dobbiamo fermare le squadre tattiche. Ovunque siano. E
aspettare finché non riusciamo a capire qual è il vero bersaglio.»
«Aspettare?» disse Hardy, esasperato, alzando le braccia.
«Mancano cinque minuti alle quattro!» sussurrò C.P. Ardell.
Cage si strinse nelle spalle e guardò Lukas. Spettava a lei.
«Devi farlo», sbottò Parker.
Vide Lukas sollevare i suoi occhi gelidi sull'orologio alla parete. La lan-
cetta dei minuti era avanzata di un altro scatto.

L'albergo era più bello di quel posto.


Il Becchino si guarda intorno, e in quel teatro c'è qualcosa che non gli
piace.
La sua borsa con i cuccioli disegnati sopra sembrava al posto giusto,
quando era in quel bell'albergo.
Qui invece no.
Questo è il... questo è il... click... è il Mason Theater, appena a est di
Georgetown. Il Becchino è nell'atrio e sta guardando le incisioni nei pan-
nelli di legno. Vede fiori che non sono gialli né rossi ma sono di legno, le-
gno scuro come sangue scuro. Oh, e questi cosa sono? Serpenti. Serpenti
intagliati nel legno. E donne con tette grandi come quelle di Pamela.
Hmmm.
Ma niente animali.
Nessun cucciolo, qui. No, no.
Era entrato nel teatro senza che nessuno lo fermasse. Lo spettacolo era
quasi finito. «Si può entrare nella maggior parte dei teatri quando manca
poco alla fine dello spettacolo», gli ha detto l'uomo che gli dice le cose, «e
nessuno si accorge di te. Credono che tu sia lì perché sei venuto a prendere
qualcuno.»
Tutti gli uscieri lo ignorano. Stanno parlando di sport e di ristoranti.
Cose così.
Sono quasi le quattro.
Sono diversi anni che il Becchino non va a un concerto o a una recita.
Pamela e lui erano andati... click... andati da qualche parte a sentire della
musica. Non una commedia. Non un balletto. Che cos'era? Un posto dove
c'era gente che ballava. Ascoltando musica... Gente con buffi cappelli tipo
cowboy. Suonavano la chitarra, cantavano. Il Becchino ricorda una can-
zone. La canticchia tra sé.

Quando provo ad amarti di meno,


alla fine ti amo sempre più.

Ma oggi non c'è nessuno che canta. Questo spettacolo è un balletto. Una
matinée.
Il Becchino guarda la parete: c'è un poster. Vede un'immagine spavento-
sa che non gli piace. Più spaventosa ancora dell'immagine dell'entrata del-
l'inferno. È l'immagine di un soldato con una mascella enorme, e porta un
cappello blu e alto alto. Strano. No... click... no, no, non mi piace proprio
per niente.
Attraversa l'atrio, pensando che Pamela preferirebbe sicuramente vedere
degli uomini con cappelli da cowboy piuttosto che soldati con la mascella
grande come questo qui. Si vestirebbe con colori brillanti come fiori e u-
scirebbe per andare a vedere cantare gli uomini con i cappelli da cowboy.
L'amico del Becchino, William, portava cappelli così, a volte. Uscivano
tutti insieme. Crede che si divertissero anche, ma non ne è molto sicuro.
Il Becchino entra nel bar dell'atrio, che adesso è chiuso, e trova la porta
di servizio, la oltrepassa e sale le scale che hanno un odore dolciastro di
bibite rovesciate. Oltrepassa scatole di cartone piene di bicchieri di plastica
e tovaglioli di carta e caramelle gommose e barrette di cioccolato.
Ti amo sempre più...
Di sopra, davanti alla porta che dice «Galleria», il Becchino entra in cor-
ridoio e si incammina lentamente sulla spessa moquette rossa.
«Va' nel palco numero cinquantotto», gli ha detto l'uomo che gli dice le
cose. «Ho comprato tutti i posti del palco, così sarà vuoto. È a livello della
galleria. Sul lato destro del ferro di cavallo.»
«Cavallo?» ha domandato il Becchino. Cosa intende dire... cavallo?
«La galleria è a forma di ferro di cavallo. Va' in un palco.»
«Andrò...» Click. «... in un palco. Che cos'è un palco?»
«Sarà dietro le tende. È una piccola stanzetta sopra il palcoscenico.»
«Ah.»
Ora, pochi minuti alle quattro, il Becchino cammina lentamente verso il
palco e nessuno si accorge di lui.
Una famiglia al completo sta passando davanti al guardaroba, il padre
sta guardando l'orologio. Se ne vanno prima. La madre sta aiutando la fi-
glia a indossare l'impermeabile mentre camminano, e tutte e due sembrano
contrariate. C'è un fiore tra i capelli della bambina, ma non è né rosso né
giallo: è bianco. L'altro figlio, un bambino di circa cinque anni, guarda il
bar e si ferma. Al Becchino ricorda il bambino nel bell'albergo di poco
prima. «No, è chiuso», dice il padre. «Andiamo. Altrimenti salteranno le
prenotazioni per la cena.»
Il bambino fa una smorfia come se stesse per piangere e viene trascinato
via da suo padre senza caramelle morbide e senza barrette di cioccolato.
Il Becchino è da solo nel corridoio. Crede di sentirsi dispiaciuto per il
bambino, ma non ne è molto sicuro. Cammina verso il lato destro del ferro
di cavallo. C'è una giovane donna con una camicetta bianca che gli cam-
mina incontro. Ha in mano una torcia elettrica.
«Salve», gli dice. «Si è perso?»
Lo guarda in faccia.
Il Becchino le spinge il lato della borsa contro il seno.
«Cosa...?» comincia a dire lei.
Phut, phut...
Le spara due volte e quando lei cade sulla moquette lui la afferra per i
capelli e la trascina dentro il palco vuoto.
Si ferma appena oltre la tenda.
Ehi, questo è... click... questo è proprio carino. Hmmm.
Guarda il teatro sotto di lui. Il Becchino non sorride, ma decide che, do-
potutto, anche questo posto gli piace. Legno scuro, fiori, stucchi alle pareti,
oro e un lampadario grandissimo. Hmmm. Guarda quello. Più bello del
bell'albergo di prima. Anche se pensa che non è il posto migliore per spa-
rare. Pareti di cemento o di granito sarebbero meglio: così i proiettili rim-
balzerebbero di più e i frammenti di piombo acuminato correrebbero felici
dentro l'edificio e farebbero un sacco oh un sacco di danni in più.
Guarda le persone che ballano sul palcoscenico. Ascolta la musica del-
l'orchestra. Ma non è che la senta davvero. Sta ancora canticchiando tra sé.
Non riesce a togliersi quella canzone dalla testa.

Guardo il futuro.
Mi chiedo cos'ha in serbo per me.
Penso alla vita,
e ti amo sempre più.

Spinge il corpo della donna contro la tenda di velluto. Lì dentro fa caldo,


e il Becchino si slaccia l'impermeabile anche se l'uomo che gli dice le cose
gli ha detto di non farlo. Ma così si sente meglio.
Infila una mano nella borsa con i cuccioli disegnati sopra e stringe l'im-
pugnatura dell'arma. Prende il silenziatore con la mano sinistra.
Abbassa lo sguardo sulla folla. Guarda le ragazze vestite di raso rosa, i
ragazzi con i loro blazer blu, le donne che mostrano la pelle negli scolli a
v, uomini calvi e uomini con i capelli folti. La gente punta i binocoli verso
le persone sul palcoscenico come fossero degli Uzi. Al centro del soffitto
del teatro c'è un immenso lampadario, con un milione di luci. Il soffitto
stesso è dipinto con immagini di angeli grassocci che volano attraverso
nubi gialle. Come i bambini di Capodanno...
Non ci sono molte porte, e questa è una buona cosa. Anche se non spare-
rà a più di trenta o quaranta persone, molte altre moriranno calpestate e
schiacciate all'uscita. Questo è un bene.
Questo è un bene...
Le quattro. Il suo orologio suona. Anche altri orologi suonano. Il Bec-
chino fa un passo avanti, afferra il silenziatore dentro la borsa, guarda il
muso dei cuccioli disegnati. Un cucciolo ha un nastro rosa, un altro ha un
nastro blu. Niente nastri rossi, niente nastri gialli, pensa il Becchino men-
tre comincia a premere il grilletto.
Poi sente la voce.
Viene dalle sue spalle, in corridoio, dietro la bella tenda di velluto. «Ge-
sù Cristo», sussurra l'uomo. «L'abbiamo trovato! È qui.» Poi l'uomo apre
la tenda e solleva la sua pistola nera.
Ma il Becchino l'ha sentito appena in tempo e si butta contro il muro, e
quando l'agente spara manca il bersaglio. Il Becchino lo taglia praticamen-
te in due con una raffica di due secondi dell'Uzi. Un altro agente, dietro il
primo, viene ferito dal torrente di proiettili incandescenti. Guarda la faccia
del Becchino e il Becchino ricorda ciò che deve fare, così uccide anche lui.
Non si fa prendere dal panico. Non gli succede mai. La paura per lui è
solo un ricordo polveroso. Però sa che alcune cose vanno bene e altre no, e
non fare ciò che gli è stato detto di fare è una cosa che non va assoluta-
mente bene. Vuole sparare tra la folla, ma non può. Ci sono altri agenti che
si stanno riversando di corsa nella galleria. Indossano giacche a vento del-
l'FBI, giubbotti antiproiettile, alcuni hanno gli elmetti, altri hanno mitra-
gliatori che con tutta probabilità sparano velocemente come il suo Uzi.
Una decina di agenti. Altri dieci. Molti di loro voltano l'angolo e corrono
verso il punto in cui giacciono i corpi dei loro colleghi. Il Becchino spinge
la borsa fuori dalla tenda di velluto e preme il grilletto per un momento.
Vetro che si rompe, specchi che vanno in pezzi, barrette di cioccolato e ca-
ramelle volano nell'aria.
Dovrebbe... click... dovrebbe sparare tra il pubblico. È questo che do-
vrebbe...
Che dovrebbe... Lui...
Per un momento la sua mente si cancella.
Dovrebbe... click.
Altri agenti, altri poliziotti. Grida.
C'è così tanta confusione... Ma ben presto altri agenti saranno nel corri-
doio appena fuori dal palco. Butteranno dentro una bomba a mano e lo
stordiranno e forse gli spareranno e lo uccideranno e questa volta i proietti-
li non si faranno un giro dentro di lui, andranno diritti a conficcarsi nel suo
cuore e il suo cuore smetterà di battere.
Oppure lo riporteranno nel Connecticut e lo spingeranno oltre i cancelli
dell'inferno. E questa volta ci resterà per sempre. Non vedrà mai più l'uo-
mo che gli dice le cose.
Vede persone che saltano dalla galleria sulla folla sottostante. Non è poi
così in alto.
Grida degli agenti e dei poliziotti.
Sono dappertutto.
Il Becchino svita il silenziatore e punta l'arma contro il lampadario.
Preme il grilletto. Si sente un rombo come di una sega a motore. I proiettili
recidono il cavo di sostegno e l'immenso groviglio di vetro e metallo pre-
cipita al suolo, intrappolando le persone sotto di sé. Cento grida, urla, stril-
li. Tutti sono in preda al panico.
L'arma è scarica, ma lui non ha tempo di ricaricarla. Si lascia penzolare
oltre la balaustra e cade sulle spalle di un uomo robusto cinque metri più
sotto. Cadono a terra e il Becchino si rialza subito, è in piedi, si lascia so-
spingere verso l'uscita di emergenza insieme al resto della folla. Tiene an-
cora salda fra le mani la sua borsa della spesa con i cuccioli disegnati so-
pra.
Fuori, all'aperto, all'aria fresca.
Viene accecato dai riflettori e dalle luci lampeggianti delle cinquanta,
sessanta macchine e furgoni della polizia. Ma fuori non ci sono molti a-
genti. Sono quasi tutti nel teatro, immagina.
Trotterella insieme a una coppia di mezza età in un vicolo, allontanando-
si dal teatro. È dietro di loro. Loro non si accorgono di lui. Si chiede se de-
ve ucciderli, ma ciò significherebbe dover rimontare di nuovo il silenziato-
re, e i fili sono difficili da allineare. E, a parte questo, loro non lo guardano
in faccia, così non è necessario che li uccida. Svolta in un altro vicolo e nel
giro di cinque minuti si ritrova a camminare lungo la strada di una tran-
quilla zona residenziale.
Con la borsa infilata perfettamente sotto il braccio del suo impermeabile
nero o blu.
Il cappello scuro premuto fino alle orecchie.

Ti amerei anche se fossi ammalata.


Ti amerei anche se fossi povera.

Il Becchino sta canticchiando tra sé.

Anche quando sei a mille miglia di distanza


Io ti amo sempre più...

«Ehi, Parker», disse Len Hardy, scuotendo la testa con ammirazione.


«Bel lavoro, bel lavoro davvero, amico. L'hai inchiodato.»
C.P. Ardell voleva dire la stessa cosa quando commentò: «Non si scher-
za con quest'uomo, ehi, proprio no».
Margaret Lukas, che stava parlando al telefono, non disse nulla a Parker.
Il suo volto era ancora privo di emozioni, ma gli lanciò un'occhiata e annuì
brevemente. Era il suo modo di ringraziare.
Ma Parker Kincaid non voleva gratitudine. Voleva i fatti. Voleva sapere
quanto era stata grave la sparatoria.
E se nel bilancio delle vittime c'era anche il Becchino.
Gli altoparlanti gracchiarono mentre Jerry Baker e gli altri delle squadre
di emergenza accavallavano le trasmissioni radio. Parker riusciva a capire
ben poco di ciò che stavano dicendo.
Lukas era sempre in ascolto al telefono. Poi sollevò lo sguardo e comu-
nicò a Parker e agli agenti: «Due agenti morti, due feriti. Una maschera
uccisa. Un uomo tra il pubblico è stato ucciso dal crollo del lampadario.
Una decina di feriti, alcuni in modo grave. Alcuni bambini sono rimasti fe-
riti nel fuggi-fuggi generale. Calpestati. Ma sopravviveranno».
Sopravviveranno, pensò cupamente Parker. Ma le loro vite non saranno
più le stesse.
Papà, parlami del Barcaiolo...
«E lui è scappato?» domandò.
«Sì, è riuscito a fuggire», rispose Lukas con un sospiro.
«Descrizione?»
Lukas scosse la testa e guardò Cage, anche lui al telefono. «No», borbot-
tò l'uomo, «nessuno è riuscito a vederlo. Be', due agenti sì. Ma sono quelli
che ha ucciso.»
Parker chiuse gli occhi e lasciò ricadere la testa contro l'imbottitura della
poltroncina. Doveva essere quella che aveva ordinato lui anni prima; aveva
un vago odore di plastica e muffa che gli risvegliava molti ricordi - alcuni
dei numerosi ricordi che quel giorno stavano salendo alla superficie della
sua coscienza.
Ricordi che non aveva alcun desiderio di rivivere.
«La Scientifica?» chiese.
«Il PERT sta setacciando il posto al microscopio», disse Cage. «Ma...
non capisco... spara con un'arma automatica, eppure non ci sono bossoli.»
«Maledizione», imprecò Parker, «la tiene in una borsa o in qualcosa del
genere. Così i bossoli non cadono.»
«Come fai a saperlo?» gli chiese Hardy.
«Non lo so. Ma è quello che farei io se fossi in lui. Nessuno all'albergo
l'ha visto mentre lasciava i proiettili?»
«No», borbottò Cage. «E hanno interrogato tutti. Un bambino ha detto di
aver visto l'Uomo Nero. Ma non riusciva a ricordare assolutamente nulla di
lui.»
L'Uomo Nero, pensò amaramente Parker. Grandioso.
Era stato un fotofinish.
Alla fine, Lukas aveva acconsentito a dar retta a Parker, dicendo fred-
damente: «D'accordo, d'accordo, fermeremo le squadre. Ma che Dio ti aiuti
se ti stai sbagliando, Kincaid». Aveva ordinato alle squadre di mantenere
le posizioni. Poi avevano trascorso quattro minuti frenetici tentando di
immaginare dove potesse essere andato il Becchino. Il ragionamento di
Parker era che, avendo lasciato i proiettili all'albergo non molto prima del-
le quattro, doveva aver avuto al massimo dieci minuti per arrivare al vero
bersaglio. Non poteva fidarsi di prendere un taxi in un giorno di festa, e gli
autobus di Washington erano decisamente imprevedibili. Avrebbe dovuto
arrivarci a piedi. E ciò significava un raggio di circa cinque isolati.
Parker e gli altri della squadra avevano studiato una cartina di George-
town.
Improvvisamente, Parker aveva guardato l'orologio. «Ci sono spettacoli
pomeridiani oggi nei teatri?» aveva chiesto.
Lukas l'aveva afferrato per un braccio. «Sì. Ne ho visto qualcuno nel
Post di stamattina.»
Tobe Geller era un appassionato di musica e aveva pensato al Mason
Theater, a soli cinque minuti a piedi dal Four Seasons.
Parker aveva aperto una copia del Washington Post e aveva scoperto che
c'era Lo Schiaccianoci. Lo spettacolo era iniziato alle due e sarebbe finito
intorno alle quattro. Un teatro affollato sarebbe stato il bersaglio perfetto
per il Becchino. Aveva domandato a Lukas di chiamare Jerry Baker e di
fargli mandare là tutti i suoi uomini.
«Tutti?»
«Tutti.»
Che Dio ti aiuti se ti stai sbagliando, Kincaid...
Ma non si era sbagliato. Ciò nonostante, aveva corso un bel rischio... E
nonostante molte vite fossero state salvate, alcune erano andate perdute. E
il killer era riuscito a fuggire.
Parker guardò la lettera di estorsione. L'uomo che l'aveva scritta era
morto, ma la lettera stessa sembrava essere molto viva. Sembrava che lo
stesse prendendo in giro. Parker avvertì il folle impulso di afferrare una
sonda da analisi e conficcarla nel cuore del foglio.
Il telefono di Cage squillò di nuovo. L'agente parlò per qualche secondo;
quali che fossero le notizie che gli stavano riferendo sembravano incorag-
gianti, a giudicare dalla sua faccia. Riagganciò. «Era uno strizzacervelli.
Insegna a Georgetown. Ha fatto qualche lavoro per la Comportamentale.
Dice che ha delle informazioni sul nome.»
«Il 'Becchino'?» domandò Parker.
«Esatto. Sta venendo qui.»
«Bene», disse Lukas. Poi domandò a Parker: «E adesso?» Esitò per un
attimo, poi proseguì: «Non devi limitare le tue riflessioni al documento».
Parker ci pensò per qualche istante. «Be', io cercherei di scoprire se il
palco da cui ha sparato era vuoto e, se lo era, allora il sosco aveva compra-
to tutti i posti... in modo da avere una buona posizione di tiro. E, se l'ha
fatto, ha utilizzato una carta di credito?»
Lukas rivolse un cenno a C.P., che aprì il suo cellulare e chiamò Jerry
Baker, girandogli la domanda. Attese qualche secondo la risposta, poi
chiuse la comunicazione. «Bel tentativo.» Fece roteare gli occhi.
«Ma», disse Parker, «li ha comprati due settimane fa e ha pagato in con-
tanti.»
«Tre settimane fa», borbottò l'agente, strofinandosi la testa con il palmo
della mano.
«Maledizione», sbottò Parker, frustrato. Non c'era nient'altro da fare se
non continuare. Si voltò a guardare gli appunti che aveva preso ascoltando
le osservazioni di Lincoln Rhyme. «Abbiamo bisogno di alcune mappe
della città. Mappe decenti. Non come questa.» Batté la mano sulla cartina
stradale che avevano adoperato per cercare di capire dove fosse andato il
Becchino dopo essere stato al Four Seasons. «Voglio scoprire da dove
provengono le tracce trovate sulla lettera», proseguì. «Forse riusciremo a
isolare una zona della città.»
Lukas rivolse un cenno a Hardy. «Se ci riuscissimo, potremmo mandare
lì la squadra di Jerry e alcuni dei vostri per fare una perlustrazione. Mo-
strare la sua fotografia e vedere se qualcuno l'ha mai visto in una casa o in
un appartamento.» Porse a Geller una copia della fotografia scattata nell'o-
bitorio al cadavere del sosco. «Tobe, fanne un centinaio di copie.»
«Subito.»
Parker studiò la lista di sostanze che Rhyme era riuscito a identificare.
Granito, argilla, polvere di mattone, zolfo, cenere organica... Da dove ve-
nivano?
Sulla porta comparve il giovane usciere che aveva portato la lettera -
Timothy, ricordò Parker.
«Agente Lukas?»
«Sì?»
«Ci sono un paio di cose che dovrebbe sapere. Per prima cosa, Moss.»
Quello che aveva cantato. Gary Moss. Parker ricordò il memorandum
sulle due figlie che erano state quasi fatte saltare in aria insieme alla casa.
«È come impazzito. Ha visto un uomo delle pulizie e ha creduto che fos-
se un sicario.»
Lukas si accigliò. «Chi era? Uno dei nostri?»
«Sì. Uno degli addetti alle pulizie. Abbiamo controllato. Ma Moss è
completamente in paranoia. Vuole che lo portiamo fuori città. È convinto
che sarà più al sicuro.»
«Be', non possiamo portarlo fuori città. Al momento non è una delle no-
stre priorità.»
«Ho pensato che era comunque meglio che lo sapesse, agente Lukas»,
rispose il giovane.
Lei si guardò intorno. Sembrava incerta. Poi si rivolse a Len Hardy. «Ti
spiacerebbe occupartene tu per qualche tempo?»
«Io?»
«Lo faresti?»
Hardy non sembrava affatto contento. Era un altro piccolo schiaffo mo-
rale, come chiedergli di andare a prendere il caffè. Parker rammentò che la
parte più difficile del suo lavoro, quando era a capo della divisione, non
era avere a che fare con i misteriosi documenti da esaminare, ma con gli
ego delicati dei suoi sottoposti.
«Immagino di sì», rispose Hardy.
«Grazie.» Lukas gli fece un sorriso. Poi si rivolse all'agente sulla porta:
«Hai detto che c'era qualcos'altro».
«La Sicurezza mi ha detto di metterla al corrente. C'è un tipo, di sotto. È
entrato.»
«E?»
«Dice di sapere qualcosa sulla sparatoria della metropolitana.»
Ogni qual volta si verificava un crimine grave come quello, ricordò Par-
ker, i pazzi e i mitomani strisciavano fuori dai loro nascondigli, a volte per
confessare i crimini, a volte per aiutare a risolverli. C'erano diverse stanze
di «accoglienza» vicino all'ingresso principale del palazzo per gente come
quella. Erano tutte attrezzate con microfoni e videocamere. Quando una
persona a conoscenza dei particolari di un crimine arrivava all'FBI, veniva
condotta in una di quelle stanze e interrogata da un agente esperto in que-
sto genere di cose.
«Credenziali?» domandò Lukas.
«Dice di essere un giornalista che sta scrivendo un libro su una serie di
omicidi irrisolti. La patente e il numero di previdenza sociale corrispondo-
no. Nessun precedente. Giù si sono fermati alla fase due.»
«Cosa ha detto del Becchino?»
«Tutto ciò che ha detto è che l'ha già fatto prima... in altre città.»
«In altre città?» domandò C.P. Ardell.
«Così dice.»
Lukas guardò Parker, che disse: «Credo che faremo meglio a parlare con
lui».

II
LA BAMBINA
SCAMBIATA

Il primo passo per ridurre la gamma di autori possibili di uno


scritto di dubbia provenienza è l'identificazione delle caratteristi-
che di nazionalità, classe e gruppo. Un'ulteriore eliminazione dei
sospetti viene ottenuta quando palesi caratteristiche individuali
vengono identificate, classificate e valutate.

EDNA W. ROBERTSON
FONDAMENTI DI ANALISI DEI DOCUMENTI

12
16,15

«E così adesso è a D.C., vero?» domandò l'uomo.


Erano al pianterreno, nell'Area di accoglienza B, come diceva l'insegna
elegante appesa alla porta. All'interno dell'FBI, però, veniva chiamata
stanza degli interrogatori azzurra, a causa del colore pastello delle pareti.
Parker, Lukas e Cage erano seduti di fronte all'uomo, dalla parte opposta
del tavolo. Era un uomo grosso con una folta chioma scomposta di capelli
grigi. Dall'analisi linguistica della sua frase Parker capì che non era di
quelle parti. I locali chiamano la città «il distretto», mai «D.C.».
«Di chi sta parlando?» domandò Lukas.
«Sapete benissimo di chi», rispose l'uomo. «Io lo chiamo il Macellaio. E
voi, come lo chiamate?»
«Chi?»
«Quello con la mente di un uomo e il cuore di un demonio», fu la
drammatica risposta.
Quel tipo poteva anche essere fuori di testa, ma Parker decise che le sue
parole descrivevano molto bene il Becchino.
Henry Czisman indossava vestiti lisi ma puliti. Una camicia bianca, tesa
sul ventre prominente, una cravatta a righe. La giacca non era sportiva, ma
sembrava più la giacca di un completo a righe. Parker sentiva nei suoi ve-
stiti l'aspro odore del fumo di sigaretta. Sul tavolo era posata una valigetta
malconcia. L'uomo teneva fra le mani una tazza di acqua gelata posata ac-
canto alla valigetta.
«Mi sta dicendo che l'uomo coinvolto nelle sparatorie della metropolita-
na e del teatro viene chiamato il Macellaio?»
«Quello che ha sparato materialmente sì. Non conosco il nome del suo
complice.»
Lukas e Cage rimasero in silenzio per un istante. Margaret stava scru-
tando attentamente l'uomo, e di certo si stava chiedendo come facesse a
sapere quelle cose sul Becchino e i suoi crimini e, soprattutto, sul suo
complice. La notizia del soggetto morto in un incidente non era stata anco-
ra rilasciata alla stampa.
«Qual è il suo interesse in tutta questa storia?» domandò Parker.
Czisman aprì la valigetta e ne tirò fuori diversi vecchi giornali. Copie
del News-Times di Hartford. Erano datate l'anno prima. Indicò articoli
scritti da lui. Czisman era - o almeno era stato - un cronista di nera.
«Mi sono preso un periodo di aspettativa per scrivere un libro-verità sul
Macellaio. Sto seguendo la sua pista di distruzione», aggiunse in tono
drammatico.
«Un libro-verità?» domandò Cage. «Alla gente piacciono questi libri,
eh?»
«Oh, li adora. Sono dei best-seller. Ann Rule. Quel libro su Ted Bundy...
ne ha mai letti?»
«Potrei anche», rispose Cage.
«La gente si divora letteralmente i libri-verità sui criminali. Dicono
qualcosa sulla società, non pensate? Forse qualcuno dovrebbe scrivere un
libro su questo. Sul perché piacciono così tanto alla gente.»
«Questo Macellaio di cui stava parlando...»
«Era il suo soprannome a Boston», continuò Czisman. «All'inizio del-
l'anno. Be', credo che un giornale l'abbia chiamato il Diavolo.»
La lacrima del Diavolo, pensò Parker. Lukas lo stava guardando, e Par-
ker si chiese se non stesse pensando la stessa cosa. «Cosa è successo a Bo-
ston?» domandò.
Czisman lo guardò. Diede un'occhiata al suo tesserino da visitatore. Non
c'era nessun nome sulla tessera. Parker era stato presentato da Cage come
signor Jefferson, consulente.
«C'è stata una sparatoria in un fast-food vicino a Faneuil Hall. Lucy's
Tacos.»
Parker non ne aveva sentito parlare - o forse se ne era dimenticato, se
l'incidente aveva raggiunto i notiziari locali. Ma Lukas annuì. «Quattro
morti, sette feriti. Il criminale si è avvicinato al ristorante in macchina e ha
sparato con un fucile automatico nella vetrina. Senza movente.»
Parker immaginò che Lukas avesse letto tutti i bollettini del VICAP, il
Programma di cattura dei criminali violenti.
«Se ricordo bene», continuò la donna, «anche allora nessuno fu in grado
di descrivere quel soggetto.»
«Oh, è la stessa persona. Ci potete scommettere. E no, non c'è stata nes-
suna descrizione. Soltanto ipotesi. Probabilmente è di razza bianca. Ma
non necessariamente. Età? Dai trenta ai cinquanta. Altezza? Media. Corpo-
ratura? Media. Potrebbe essere chiunque. Non come quei cattivi con la co-
da di cavallo e il corpo palestrato dei film per la televisione. Quelli è facile
vederli. Ma il Macellaio... è soltanto un uomo qualunque per la strada.
Spaventoso, eh?»
Lukas stava per fargli un'altra domanda, ma Czisman la interruppe. «Po-
co fa ha detto che non c'era movente per la sparatoria del ristorante, agente
Lukas?»
«Non stando al VICAP.»
«Be', sa che dieci minuti dopo che il Macellaio aveva finito di sparare
proiettili nel vetro temprato del ristorante uccidendo donne e bambini, una
gioielleria è stata rapinata a cinque chilometri di distanza?»
«No. Non c'era nel rapporto.»
«E sapeva che ogni agente tattico nel raggio di tre chilometri era al risto-
rante?» continuò Czisman. «Così, anche quando il proprietario della
gioielleria ha fatto scattare l'allarme silenzioso, la polizia non è riuscita ad
arrivare in tempo al negozio. Il rapinatore ha ucciso il proprietario e un
cliente. Erano gli unici testimoni.»
«Era il complice del Macellaio?»
«E chi altri poteva essere?» disse Czisman.
Lukas sospirò. «Abbiamo bisogno di tutte le informazioni che può darci.
Ma ho la sensazione che lei non sia qui per mero senso civico.»
Czisman scoppiò a ridere.
«Che cosa vuole, esattamente?» continuò Lukas.
«Accesso», disse rapidamente lui. «Soltanto accesso.»
«Alle informazioni.»
«Esattamente.»
«Aspetti qui», disse lei, alzandosi. Fece cenno a Parker e a Cage di se-
guirla.

Appena fuori dalla stanza azzurra al pianterreno del quartier generale,


Tobe Geller era seduto in una piccola stanza buia di fronte a un complicato
pannello di controllo.
Aveva seguito tutto l'interrogatorio di Henry Czisman su sei monitor dif-
ferenti.
Czisman non poteva avere idea di essere osservato perché l'FBI non a-
doperava falsi specchi nelle sue stanze per gli interrogatori - il tipo di
specchi che si possono vedere nelle stazioni di polizia cittadine. Invece,
sulle pareti della stanza c'erano tre stampe di altrettanti dipinti impressioni-
sti. E non erano state scelte da un architetto della GSA e nemmeno da un
arredatore d'interni civile, ma da Tobe Geller stesso insieme a diverse altre
persone della sezione tecnologica dell'FBI. Erano stampe di dipinti di Ge-
orges Seurat, un pioniere della tecnica divisionista. Sei dei minuscoli pun-
tini in ognuno dei tre dipinti erano in realtà videocamere in miniatura, pun-
tate con tanta precisione da coprire ogni centimetro quadrato della stanza
dell'interrogatorio.
Anche la conversazione veniva registrata su tre diversi registratori digi-
tali, uno dei quali era collegato a un computer programmato per rilevare la
sequenza di suoni di qualcuno che estrae un'arma. Czisman, come tutti gli
interrogati, era stato perquisito e sottoposto al metaldetector, ma nel loro
mestiere le precauzioni non bastavano mai.
Ma, aveva detto Lukas a Geller, il suo lavoro principale non concerneva
la sicurezza, quanto piuttosto l'analisi dei dati. Czisman avrebbe parlato di
qualche fatto concreto - per esempio la rapina di Boston - e Geller avrebbe
dovuto passare istantaneamente l'informazione a Susan Nance, una giova-
ne agente speciale della sezione Comunicazioni pronta a intervenire al pia-
no di sopra. A sua volta, Susan Nance avrebbe contattato l'ufficio centrale
per verificare l'informazione.
Czisman non aveva mai bevuto dalla tazza d'acqua gelata che Cage gli
aveva messo davanti, ma l'aveva stretta fra le mani nervosamente, ed era
ciò che facevano tutti quando si trovavano seduti in una stanza di interro-
gatorio dell'FBI. La superficie della tazza era sensibile alla pressione e nel
manico erano nascosti un microchip, una batteria e un trasmettitore. Il chip
aveva digitalizzato le impronte di Czisman e le aveva trasmesse al compu-
ter di Geller, che a sua volta le aveva inviate al database del sistema auto-
matico di identificazione delle impronte per un confronto immediato.
Una delle videocamere - posta nella riproduzione del famoso dipinto
Una domenica pomeriggio nell'isola della Grande Jatte, un dipinto com-
plesso che ogni interrogato aveva la tendenza a guardare - era puntata sugli
occhi di Czisman ed effettuava scansioni della retina per l'apparecchiatura
preposta alla «analisi delle probabilità di veridicità» o, in altre parole, la
macchina della verità. Contemporaneamente, Geller aveva effettuato un'a-
nalisi dello stress vocale per lo stesso motivo.
Cage, Lukas e Parker entrarono quasi di corsa nella saletta di osserva-
zione.
«Ancora niente?» domandò Lukas a Geller.
«Ha priorità massima», rispose lui, digitando rapidamente sul computer.
Un attimo dopo squillò il telefono, e immediatamente Lukas inserì il vi-
va voce.
«Tobe?» chiese una voce di donna.
«Continua», disse Geller. «Siamo qui.»
«Sono Nance. Ho delle info sul tizio.»
«Ciao, Susan», la salutò Lukas. «Sono Margaret. Continua. Che cosa hai
ottenuto?»
«Okay, le impronte sono tornate indietro. Risultato negativo per con-
danne, arresti, mandati di cattura. Il nome Henry Czisman è legittimo, re-
sidenza a Hartford, nel Connecticut. L'immagine che mi avete mandato
corrisponde al novantacinque per cento alla fotografia della sua patente del
Connecticut.»
«È una buona percentuale?» la interruppe Parker.
«La mia fotografia attuale corrisponde al novantadue per cento», rispose
Susan Nance. «Adesso ho i capelli più lunghi.» Poi continuò. «La storia
lavorativa controllata negli archivi della Sicurezza Sociale e dell'IRS dice
che fa il giornalista dal 1971 ma che per qualche anno non ha avuto prati-
camente alcun reddito. In quel periodo ha dichiarato come professione
quella di scrittore free-lance. Quindi ha preso diverso tempo libero, nella
sua carriera. Quest'anno non dovrebbe pagare le tasse, quindi non ha avuto
alcun reddito. Dieci anni fa ha presentato deduzioni di spese mediche per
grosse somme. Sembra che fossero dovute a un trattamento riabilitativo
per abuso di alcolici. Si è messo a lavorare in proprio un anno fa, si è li-
cenziato da un impiego da cinquantunmila dollari l'anno al giornale di Har-
tford e a quanto pare sta vivendo dei suoi risparmi.»
«Si è licenziato, è stato buttato fuori o ha preso un periodo di aspettati-
va?» domandò Parker.
«Non ne sono sicura.» Nance fece una pausa. «Non siamo riusciti a tro-
vare tanti conti di carte di credito come avremmo voluto a causa delle fe-
ste», continuò. «Ma sta al Renaissance sotto il suo nome. E si è registrato
dopo un volo di mezzogiorno da Hartford. Nessuna prenotazione. Ha pre-
notato alle dieci di questa mattina.»
«E così è partito appena dopo la prima sparatoria», rifletté Lukas.
«Sola andata?» domandò Parker.
«Sì.»
«Che cosa ne pensate?» fece Lukas.
«È solo un maledetto giornalista, tutto qui», concluse Cage.
«E tu, Kincaid?» Margaret lo guardò.
«Cosa ne penso io? Io dico: mettiamoci d'accordo con lui. Quando ana-
lizzo un documento ho bisogno di tutte le informazioni che posso ottenere
sull'autore.»
«Se sai che si tratta del vero autore», puntualizzò Lukas, scettica. Fece
una pausa, poi aggiunse: «A me sembra una fregatura. Siamo così dispera-
ti?»
«Sì», disse Kincaid, lanciando un'occhiata all'orologio digitale appeso
alla parete sopra il monitor del computer di Tobe Geller. «Lo siamo.»

Nella stanza dell'interrogatorio Lukas disse a Czisman: «Se parliamo in


modo informale, adesso... e se riusciamo a portare questa faccenda a una
soluzione positiva...»
Czisman rise all'eufemismo e fece cenno all'agente di continuare.
«Se ci riusciamo, allora le daremo accesso a materiali e a testimonianze
per il suo libro. Non sono ancora sicura in che misura. Ma avrà un margine
di esclusiva.»
«Ah. La mia parola preferita. Esclusiva. Sì, è tutto ciò che chiedo.»
«Ma tutto quello che le diremo ora», proseguì Lukas, «sarà assolutamen-
te confidenziale.»
«D'accordo», fece Czisman.
Lukas rivolse un cenno a Parker, che domandò all'uomo: «Il nome 'Bec-
chino' significa qualcosa per lei?»
«Becchino?» Czisman scosse la testa. «In che senso?»
«Non lo sappiamo. È il nome del killer... quello che lei chiama il Macel-
laio. Becchino è il nome che gli ha dato il suo socio», disse Lukas.
«Io lo chiamo Macellaio soltanto perché lo chiamavano così i giornali di
Boston. Il New York Post lo chiamava il Diavolo. A Philadelphia era il
Creatore di Vedove.»
«Anche New York e Philadelphia?» domandò Lukas, preoccupata per
quella novità.
«Gesù», borbottò Cage. «Un criminale seriale.»
Czisman disse: «Sono scesi lungo la costa. Diretti dove? Possiamo im-
maginarlo. In Florida per passare la vecchiaia? Più probabilmente in qual-
che isola sperduta a godersi i soldi».
«Cos'è successo nelle altre città?» domandò Parker.
«Avete presente il caso dell'International Beverage?» rispose Czisman.
«Ne avete mai sentito parlare?»
Ancora una volta Lukas si dimostrò preparata nella storia criminale più
recente. «Il presidente della compagnia, vero? È stato rapito.»
«Particolari?» volle sapere Parker.
Czisman guardò Lukas, che gli fece cenno di continuare. «La polizia ha
dovuto ricostruire il caso ma sembra - nessuno lo sa con esattezza - ma
sembra che il Macellaio abbia preso in ostaggio la famiglia del presidente.
Sua moglie gli ha detto di mettere insieme un po' di soldi. Lui ha accon-
sentito...»
«C'era una lettera?» domandò Parker, pensando che ci potesse essere un
altro documento da esaminare. «Un biglietto? Una richiesta scritta?»
«No. È stato fatto tutto per telefono. Be', allora il presidente dice al rapi-
tore che pagherà. Poi chiama la polizia e loro circondano la casa, soccor-
rono gli ostaggi, hip hip hurrà e tutto il resto mentre il presidente va alla
sua banca a prendere i soldi del riscatto. Ma, non appena gli hanno aperto
la porta del caveau per farglieli prendere, un cliente tira fuori una pistola e
comincia a sparare. Ha ucciso tutti quelli che erano dentro la banca: il pre-
sidente della International Beverage, due guardie, tre clienti, tre commessi,
due vicedirettori in servizio. La videocamera mostra un altro uomo che en-
tra con lui nel caveau ed esce con una sacca piena di soldi.»
«Quindi in casa non c'era nessuno?» domandò Lukas, che aveva capito
lo schema.
«Nessuno vivo. Il Macellaio - il Becchino - aveva già ucciso la famiglia
del presidente.»
«Li ha colpiti nel punto più debole di ogni rapimento», disse Parker. «La
polizia avrebbe avuto una posizione di vantaggio durante un negoziato o in
uno scambio con i soldi. Lui li ha prevenuti.» Non disse a voce alta ciò che
stava pensando, ovvero che era la soluzione perfetta di un enigma difficile
da risolvere - se non ti importava di uccidere qualcuno.
«Niente nella registrazione video della banca che possa esserci d'aiuto?»
domandò Cage.
«Vuol dire tipo di che colore erano i loro passamontagna?»
Cage si strinse nelle spalle, e il significato del gesto fu chiarissimo. Do-
vevo chiederlo comunque.
«E a Philadelphia?» domandò Lukas.
«Oh, quella non è stata niente male», disse cinicamente Czisman. «Il
Macellaio comincia prendendo l'autobus. Sale a bordo, si siede accanto a
un passeggero e spara un colpo con il silenziatore da dentro la tasca. Ha
ucciso tre persone, dopo di che il suo complice ha fatto la richiesta di ri-
scatto. La città ha acconsentito a pagare, però ha approntato un piano di
sorveglianza per inchiodarlo. Ma il Macellaio e il suo complice hanno im-
maginato da quale banca l'amministrazione cittadina stava prendendo i
quattrini e, non appena gli agenti che scortavano i soldi hanno messo piede
fuori dalla banca, il Macellaio gli ha sparato alla nuca e i due sono fuggi-
ti.»
«Non ho mai sentito parlare di questa faccenda», disse Lukas.
«No, hanno fatto di tutto per passarla sotto silenzio. Sei morti.»
«Massachusetts, New York, Pennsylvania, Washington», fece Parker.
«Ha ragione a dire che era diretto a sud.»
Czisman si accigliò. «Era?»
Parker lanciò un'occhiata a Lukas. Fu lei a dirlo a Czisman. «È morto.»
«Cosa?» L'uomo sembrava sinceramente sconvolto.
«Il complice... non il Macellaio.»
«Cos'è successo?» sussurrò Czisman.
«È stato investito appena dopo aver recapitato la lettera di estorsione. E
prima che potesse prendere i soldi.»
Il volto di Czisman si immobilizzò per un lunghissimo istante. Parker
immaginò che cosa stesse pensando: Così svanisce la mia intervista. Gli
occhi dell'uomo si mossero frenetici nella stanza. Si spostò sulla sedia.
«Qual era il suo piano, questa volta?»
Lukas era riluttante a dirglielo, ma Czisman ci arrivò da solo. «Il Macel-
laio spara alla gente finché la città non paga... Ma adesso non c'è più nes-
suno a cui consegnare i soldi, quindi il Macellaio continuerà a sparare.
Sembra proprio il loro modus operandi. Avete qualche idea di dove possa
essere il suo covo?»
«L'indagine è tuttora in corso», lo informò Lukas in tono prudente.
Czisman chinò il capo.
«Come ha fatto a seguirlo fin qui?» gli domandò Parker.
«Ho letto tutto ciò che potevo trovare su crimini in cui qualcuno non si
faceva problemi a uccidere. La maggior parte se ne fa eccome, sapete. A
meno che la loro raison d'être sia proprio l'omicidio - come per Bundy o
Gacy o Dahmer. No, la maggior parte esiterà a premere il grilletto. Ma il
Macellaio? Mai. E così, quando scoprivo che era successo, andavo nella
città dove era avvenuto il crimine e intervistavo le persone.»
«Perché nessuno ha collegato le cose?» domandò Lukas.
Czisman si strinse nelle spalle. «Crimini isolati, poche vittime. Oh, io
l'ho detto alla polizia di White Plains, a Philadelphia. Ma nessuno mi ha
prestato attenzione.» Rise, poi indicò la stanza con un ampio cenno della
mano. «Quanti morti ci sono voluti? Venticinque, prima che qualcuno
drizzasse le orecchie e mi ascoltasse.»
«Cosa ci può dire del Becchino?» domandò Parker. «Non c'è proprio
nessuno che gli abbia dato anche solo un'occhiata?»
«No», rispose Czisman, «è come se fosse fatto di fumo. Un attimo prima
è lì, un attimo dopo è scomparso. È uno spettro. È...»
Lukas non aveva pazienza per quel genere di cose. «Qui stiamo cercan-
do di risolvere un crimine. Se può aiutarci, lo apprezzeremo. In caso con-
trario, faremo meglio a continuare con la nostra indagine.»
«Certo, scusate, scusate. È solo che ho vissuto con quest'uomo nell'ulti-
mo anno. È come scalare una rupe... può essere anche alta un chilometro,
ma tutto ciò che riesci a vedere è un piccolo pezzettino di roccia a venti
centimetri dalla tua faccia. Sapete, ho una teoria sul perché la gente non lo
vede.»
«Ovvero?» domandò Parker.
«Perché i testimoni ricordano le emozioni. Ricordano il rapinatore frene-
tico che sta sparando a qualcuno per disperazione, il poliziotto in preda al
panico che risponde al fuoco, la donna che strilla perché è stata pugnalata.
Ma la calma non si ricorda.»
«E il Becchino è sempre molto calmo?»
«Calmo come la morte», continuò Czisman.
«Sa nulla delle sue abitudini? Abiti, cibo, vizi?»
«No, nulla.» Czisman si distrasse. «Posso chiedervi cosa avete scoperto
voi del complice? Dell'uomo morto?»
«Niente nemmeno su di lui», disse Lukas. «Non aveva documenti di i-
dentità. Le impronte digitali non hanno dato alcun esito.»
«Potreste... andrebbe bene per voi se dessi un'occhiata al corpo? È all'o-
bitorio?»
Cage scosse il capo.
«Mi dispiace», disse Lukas. «È contro la procedura.»
«Una fotografia, magari», insistette Czisman. «Per favore?» La parola
suonò rigida, come se non la adoperasse da molto tempo.
Lukas aprì la cartelletta e ne estrasse la foto del sosco scattata sul sito
dell'incidente vicino al Municipio.
Czisman la prese e la fissò per un lunghissimo istante. Poi annuì. «Posso
tenerla?»
«Alla fine delle indagini.»
«Certo.» La restituì. «Mi piacerebbe venire con voi.»
Lukas scosse la testa. «Mi dispiace. Devo dirle di no anche su questo.»
«Potrei esservi d'aiuto», fece Czisman. «Potrei avere delle intuizioni.
Delle idee.»
«No», disse fermamente Cage.
Dopo aver dato un'altra occhiata alla fotografia, Czisman si alzò. Strinse
la mano di tutti e disse: «Sto al Renaissance... quello in centro. Intervisterò
dei testimoni. Se scoprirò qualcosa di utile, ve lo farò sapere immediata-
mente».
Lukas lo ringraziò, poi lo riaccompagnarono al posto di guardia.
«Un'ultima cosa», disse Czisman. «Non so che genere di ultimatum
lui...» annuì in direzione della cartelletta di Lukas, riferendosi all'uomo
morto nell'incidente «... abbia preparato. Ma ora che non c'è più nessuno
che controlli il Macellaio... il Becchino. Capite cosa significa, vero?»
«Cosa?» domandò Lukas.
«Che lui potrebbe benissimo continuare a uccidere. Anche dopo la sca-
denza dell'ultimatum.»
«Perché pensa una cosa del genere?»
«Perché è l'unica cosa che sa fare bene. Uccidere. E tutti amano fare ciò
che riescono a fare bene. È una regola di vita, no?»

Si riunirono ancora una volta nella saletta di sorveglianza, in cerchio in-


torno a Tobe Geller e al suo equipaggiamento.
«E degli altri crimini di cui ha parlato?» disse Lukas nel microfono del
viva voce.
«Non sono riuscita a mettermi in contatto con nessuno degli agenti che
se ne sono occupati a Boston, White Plains o Philadelphia», rispose Susan
Nance. «Ma il personale in servizio ha confermato che i casi sono ancora
tutti aperti. Nessuno ha usato il termine 'Macellaio', però.»
«La Scientifica?» chiese Parker, proprio mentre Lukas stava domandan-
do: «La Scien...?»
«I rapporti dei casi in questione?» aggiunse.
«Niente. Niente impronte, nessuna traccia. E i testimoni... be', quelli che
sono sopravvissuti hanno dichiarato di non aver visto praticamente niente e
nessuno. Né il sosco, né il Becchino... sempre che fosse proprio lui. Ho in-
viato richieste di maggiori informazioni sulle sparatorie. Stanno chiaman-
do a casa gli agenti e i detective che se ne sono occupati.»
«Grazie, Susan», le disse Lukas.
Susan chiuse la comunicazione.
«Sto ricevendo le altre analisi», avvertì Tobe Geller. Guardò lo schermo.
«Okay... stress vocale e scansioni retiniche... risultati normali. Il livello di
stress è maledettamente basso, specialmente per una persona che viene in-
terrogata contemporaneamente da tre agenti dell'FBI. Ma gli darei la mia
fiducia. Non c'è nulla che possa far pensare a un inganno.»
Il telefono di Lukas squillò. Dopo aver ascoltato per qualche secondo,
Margaret sollevò lo sguardo e disse: «È la Sicurezza. È quasi fuori dal
primo raggio di sorveglianza. Lo lasciamo andare?»
«Io direi di sì», fece Parker.
«Sono d'accordo», confermò Cage.
Lukas annuì. «Nessuna detenzione per il soggetto», disse al telefono.
Riagganciò e guardò l'orologio. «Lo strizza? Quello di Georgetown?»
«Sta arrivando», disse Cage.
La porta si aprì. Entrò Len Hardy.
«Come sta Moss?» gli domandò Margaret.
«Sta bene. Hanno riattaccato due volte sulla sua segreteria telefonica, e
lui pensava che potessero essere minacce di morte.»
«Dovremmo chiamare qualcuno delle Comunicazioni...» fece Lukas.
Hardy, con gli occhi fissi sui complicati pannelli di controllo, la inter-
ruppe. «Ho chiesto a uno dei vostri di controllare. Una telefonata era del
fratello di Moss. L'altra era di un addetto al telemarketing dello Iowa. Li
ho richiamati entrambi e ho verificato.»
«Era proprio quello che stavo per chiedere, detective», disse Lukas.
«Lo immaginavo.»
«Grazie.»
«Il distretto di Columbia al vostro servizio», disse Hardy.
Parker pensò che l'ironia nel suo tono di voce fosse ben celata: Lukas
non sembrò nemmeno accorgersene.
«Che cosa abbiamo intenzione di fare per quella mappa?» domandò Par-
ker. «Dobbiamo analizzare le tracce.»
«Le mappe migliori a cui riesco a pensare», disse Tobe Geller, «sono
quelle degli Archivi topografici.»
«Gli Archivi?» domandò Lukas, scuotendo la testa. «Non c'è modo di
entrarci.»
Parker riusciva soltanto a immaginare la difficoltà di trovare degli im-
piegati civili disposti ad aprire un edificio governativo la sera dell'ultimo
dell'anno.
Lukas aprì il suo cellulare.
«Non c'è modo», comunicò Cage.
«Ah», disse lei, «non hai l'esclusiva sui miracoli, sai?»

13
16,50

L'orologio di ottone.
Significava così tanto, per lui.
Il sindaco Jerry Kennedy lo stava guardando.
Era un regalo che aveva ricevuto dai bambini della scuola elementare
Thurgood Marshall, che sorgeva nel bel mezzo della zona di guerra del
Ward 8, nella parte sud-orientale della città.
Kennedy era stato molto toccato dal gesto. Nessuno prendeva seriamente
l'amministrazione cittadina di Washington. Washington era lo snodo poli-
tico, Washington era il governo federale, Washington era il luogo degli
scandali: oh, questo era ciò che catturava l'attenzione di tutti. Ma nessuno
sapeva, o si curava, di come la città stessa venisse governata o chi fosse re-
sponsabile dell'amministrazione.
I bambini della Thurgood Marshall sì, invece. Aveva parlato agli scolari
dell'onore e del lavoro duro e dell'importanza di stare lontani dalla droga.
Demagogia, certo. Ma alcuni di loro, seduti nell'auditorium umido e puz-
zolente di muffa, l'avevano guardato con un'espressione di sincera ammi-
razione. Poi gli avevano regalato l'orologio per ringraziarlo del suo discor-
so.
Kennedy lo sfiorò con la punta delle dita. Lo guardò di nuovo. Le quat-
tro e cinquantacinque.
E così, quelli dell'FBI erano arrivati vicini a fermare quel pazzo. Ma non
ci erano riusciti. C'erano stati dei morti, dei feriti. E sempre più panico in
città. Isteria. Si erano già verificate tre sparatorie accidentali da parte di
persone che portavano pistole illegali per protezione personale. Avevano
creduto di aver visto il Becchino per la strada o nei loro giardini, così ave-
vano affrontato le loro povere vittime e avevano cominciato a sparare.
E poi c'era la stampa che maltrattava Kennedy e la polizia del distretto
accusandoli di non essere all'altezza della sfida portata da un criminale di
quel tipo. Di essere morbidi con il crimine e di nascondersi. Un servizio
aveva suggerito addirittura che Kennedy fosse al telefono a tentare di otte-
nere dei biglietti per una delle sue amate partite di football mentre stava
avvenendo la sparatoria al teatro. Nemmeno gli articoli sulla sua appari-
zione televisiva erano positivi. Un commentatore politico aveva addirittura
riportato la frase del deputato Lanier: «Piegarsi al terrorismo».
Squillò il telefono. Wendell Jefferies, seduto di fronte al sindaco, arrivò
per primo al ricevitore. «Uh-uh. Okay...» Chiuse gli occhi, poi scosse
sconsolato il capo. Ascoltò ancora. Quindi riappese.
«Ebbene?»
«Hanno setacciato il teatro da cima a fondo e non hanno trovato nem-
meno uno straccio di prova. Nessuna impronta digitale. Nessun testimo-
ne... nessun testimone attendibile, comunque.»
«Gesù, ma cos'è questo tipo... invisibile?»
«Hanno ottenuto qualche indicazione da questo ex agente...»
«Un ex agente?» domandò Kennedy, perplesso.
«Un esperto di documenti. Ha scoperto qualcosa, ma non molto.»
Il sindaco si lamentò. «Abbiamo bisogno di soldati, abbiamo bisogno di
polizia a ogni angolo di strada, non ci servono dei manipolatori di scartof-
fie.»
Jefferies reclinò cinicamente il capo. L'idea di avere la polizia a ogni an-
golo di strada del distretto di Columbia era affascinante, ma era pura fanta-
sia.
«Potrebbe non avermi sentito», sospirò Kennedy. «Potrebbe non aver vi-
sto la trasmissione.»
«È una possibilità.»
«Ma sono venti milioni di dollari!» protestò Kennedy con il suo nemico
invisibile. «Perché diavolo non si mette in contatto con noi? Potrebbe ave-
re venti milioni di dollari!»
«L'hanno quasi preso, Jerry. Magari la prossima volta ci riusciranno.»
Kennedy si alzò e si fermò davanti alla finestra. Guardò il termometro
che segnalava la temperatura esterna. Zero gradi. Erano cinque soltanto
mezz'ora prima.
La temperatura stava precipitando...
Il cielo era appesantito da nubi cariche di neve.
Sollevò lo sguardo e guardò la cupola del Campidoglio. Quando Pierre
L'Enfant aveva presentato il «Progetto della città di Washington» nel 1792
aveva fatto tracciare a uno dei suoi geometri una linea da sud a nord e poi
un'altra esattamente perpendicolare alla prima, dividendo la città nei quat-
tro quadranti che rimangono ancor oggi. Il Campidoglio sorgeva sul punto
di intersezione di quelle due linee.
«Il centro del mirino», aveva detto un fautore delle armi libere a un'au-
dizione del Congresso.
Ma l'immaginario mirino telescopico poteva benissimo essere puntato
diritto al petto di Kennedy.
La città stava precipitando, e il sindaco era fortemente determinato a non
lasciarla sprofondare del tutto. Era nato a Washington, esemplare di una
specie in via di estinzione. La popolazione della città era calata da più di
ottocentomila abitanti a circa mezzo milione. E continuava a diminuire di
anno in anno.
Strano ibrido di politica di decentramento, la città aveva goduto di am-
ministrazione autonoma soltanto a partire dagli anni Settanta (fatta ecce-
zione per un periodo di qualche anno un secolo prima, durante il quale la
corruzione e l'incompetenza l'avevano trascinata sull'orlo della bancarotta).
Negli altri duecento anni trascorsi da quando era diventata capitale della
nazione, il distretto era stato governato dal Congresso.
Ma, venticinque anni prima, il potere legislativo aveva riconsegnato alla
città le redini del proprio destino. Da quel momento in avanti, un sindaco e
i tredici membri del consiglio comunale avevano lottato per tenere il cri-
mine sotto controllo (per diversi periodi Washington aveva avuto il tasso
di criminalità più elevato degli Stati Uniti), le scuole in funzione (con gli
studenti che ottenevano risultati più bassi di quelli di tutte le altre città
principali), le finanze in regola (sempre in rosso) e le tensioni razziali sopi-
te (il quadrante nero a sud-est contro il quadrante bianco a nord-ovest, e
un'alta percentuale dei crimini commessi in città avevano motivazioni raz-
ziali).
Esisteva una vaga possibilità che il Congresso entrasse in gioco ancora
una volta prendendo nuovamente in mano il governo della città. Una legge
aveva già abolito il potere di spesa del sindaco e persino i più ardenti so-
stenitori del distretto avevano rinunciato da tempo all'idea di formare uno
stato distinto.
Ma, per Kennedy, il governo della città non era la cosa più importante.
Maledizione, non gli importava se la città diventava parte della Virginia o
del Maryland, finché la sua amministrazione resisteva abbastanza a lungo
da aiutare la città stessa prima che esplodesse in un vulcano di crimini, di
povertà e di famiglie distrutte. Più del quaranta per cento dei giovani uo-
mini di colore del distretto era da qualche parte «nel sistema» - in prigione
o in libertà vigilata o ricercato. Negli anni Settanta un quarto delle famiglie
era guidato da un solo genitore; ora la percentuale si avvicinava ai tre quar-
ti.
Jerry Kennedy aveva avuto un assaggio personale di ciò che sarebbe po-
tuto accadere. Nel 1975, allora avvocato alle dipendenze del comitato sco-
lastico del distretto, era andato al Mall - la striscia di erba e di alberi intor-
no al monumento a George Washington - per la Giornata della gentilezza
umana, un evento di unità razziale, ed era stato tra le centinaia di persone
rimaste ferite quando disordini razziali erano scoppiati tra la folla. Quel
giorno aveva rinunciato ai suoi piani di trasferirsi in Virginia e tentare di
farsi eleggere al Congresso. Aveva deciso di diventare il sindaco della ca-
pitale della nazione. Per dio, aveva intenzione di sistemare la città.
Ma lo aspettava una battaglia titanica.
Aveva promesso al suo elettorato un'amministrazione libera dalla corru-
zione. Ma poi quel dipendente comunale - Gary Moss - si era fatto avanti e
Kennedy aveva scoperto un immenso schema di fondi neri che riguardava
la costruzione degli edifici scolastici. Molte delle scuole più nuove erano
state costruite così male da restare a malapena in piedi. E sembrava che di-
verse persone nominate personalmente da Kennedy, alcune di esse addirit-
tura suoi amici personali da tempo, fossero i responsabili. Kennedy stesso
si era fatto avanti lodando pubblicamente Moss e si era gettato anima e
corpo nella lotta alla corruzione. Ciò nonostante, per quanti sforzi facesse
per dimostrare la sua volontà di ripulire il distretto dal marciume, la stam-
pa proseguiva la sua campagna denigratoria e tentava continuamente di
collegarlo ai crimini.
E tutto era molto difficile, perché lo scandalo della corruzione e gli altri
che sarebbero potuti nascere nel tempo che restava del suo mandato lo di-
stoglievano dalla sua missione. Una missione che l'aveva assorbito com-
pletamente fin da quando aveva assunto la carica. Kennedy sapeva come
salvare quei chilometri quadrati di terra paludosa che aveva cominciato ad
amare non perché erano il luogo in cui sorgeva il governo federale, ma per
la gente che li abitava e per il fatto che erano così trascurati dal resto della
nazione. Per Kennedy, la risposta era semplicissima. Educazione. Non c'e-
rano vie più brevi. Bisognava far sì che i ragazzi continuassero a stare a
scuola; se ciò fosse avvenuto, allora sarebbero seguite la stima in se stessi
e la consapevolezza di poter scegliere la propria vita. (Sì, il sapere può sal-
vare. Aveva salvato lui. L'aveva strappato alla povertà, spingendolo di
prepotenza alla William & Mary Law School. Gli aveva dato una moglie
bella e intelligente, gli aveva dato due figli di successo.)
Nessuno nega il concetto basilare che l'istruzione possa salvare le perso-
ne, naturalmente. Ma come riuscirci era una questione completamente di-
versa. I conservatori protestavano, dicendo che se le persone non amavano
i loro vicini e non vivevano secondo i valori della famiglia, allora era un
problema loro. Noi insegnamo a casa, allora perché non lo fanno tutti? I li-
berai piagnucolavano e pompavano più soldi nel sistema di istruzione, ma
tutto ciò che il denaro riusciva a fare era rallentare il decadimento delle in-
frastrutture. Non riusciva a convincere gli studenti a rimanere all'interno
degli edifici scolastici.
Quella era la sfida di Gerald David Kennedy. Non poteva agitare una
bacchetta magica e riportare i padri in famiglia, non poteva inventare un
antidoto al crack e alla cocaina, non poteva togliere le armi dalle mani di
persone che vivevano a soli cinquanta chilometri di distanza dal quartier
generale dell'Associazione Nazionale Fucili. Ma aveva un'idea di come as-
sicurarsi che i bambini del distretto continuassero la loro istruzione. Il suo
piano poteva tranquillamente riassumersi in un verbo: comprarli, però lui e
Wendell Jefferies lo chiamavano in un'altra maniera: Progetto 2000.
Nel corso dell'ultimo anno Kennedy, aiutato da Jefferies, da sua moglie
e da poche altre persone fidate, aveva trattato con vari membri del comita-
to del distretto del Congresso l'imposizione di un'altra tassa sulle aziende
che facevano affari a Washington. I soldi sarebbero finiti in un fondo che
sarebbe servito a pagare gli studenti in contanti per finire la scuola con l'u-
nica condizione che restassero lontani dalla droga e non fossero condannati
per nessun crimine.
In un sol colpo Kennedy era riuscito a scatenare l'odio dell'intero schie-
ramento politico. I liberai avevano scartato l'idea definendola una fonte po-
tenziale di corruzione e avevano sollevato problemi riguardo il test obbli-
gatorio antidroga definendolo un attentato alla libertà civile del singolo in-
dividuo. I conservatori si erano semplicemente limitati a ridere. Le com-
pagnie che avrebbero dovuto essere tassate avevano la loro opinione, natu-
ralmente. La forza con cui Kennedy aveva tentato di esporre lo scandalo
del Comitato di Istruzione aveva prodotto le terribili minacce di cui era
stata messa al corrente l'agente Lukas; il suo Progetto 2000 ne aveva pro-
dotte altre: la minaccia da parte delle compagnie più importanti di cessare
le proprie attività produttive nel distretto, la riduzione dell'afflusso di do-
nazioni da parte delle lobbies, persino velati accenni a rendere pubbliche
passate indiscrezioni a sfondo sessuale, del tutto prive di fondamento, sì,
ma provate a dirlo ai mass media una volta che hanno messo le mani su
qualche videocassetta confusa di uomini e donne che entrano in sordidi
motel di periferia.
Ciò nonostante Kennedy era determinato a rischiare il tutto per tutto. E,
dopo mesi di trattative con il Congresso per far approvare il suo provvedi-
mento, sembrava che questo alla fine potesse davvero passare, grazie prin-
cipalmente al grande sostegno popolare di cui godeva il sindaco.
Adesso, però, Kennedy temeva che quel sostegno potesse scemare. Se
fosse inciampato oggi, se il Becchino avesse ucciso altri cittadini, se lui
fosse apparso debole e inefficace, non ci sarebbe più stata alcuna speranza
per il suo Progetto 2000. Perché lui non ci sarebbe stato più. Si sarebbe ri-
trovato di nuovo alla William & Mary a insegnare scienze politiche.
Il mirino telescopico di L'Enfant al centro del suo petto...
Sollevò lo sguardo e si rese conto che Jefferies era nuovamente al tele-
fono. L'assistente mise una mano sulla cornetta.
«È qui», disse.
«Dove?» domandò Kennedy.
«Proprio qui fuori. In corridoio», rispose Jefferies. Poi guardò il sindaco.
«Hai di nuovo dei dubbi?»
Com'è in ordine, pensò Kennedy. Sembra perfetto con quel doppiopetto,
la testa rasata, la cravatta di seta annodata in alto. Il sindaco aveva un bi-
sogno disperato di credibilità tra la popolazione nera ed era grato che quel-
l'uomo fosse al suo fianco.
«Certo che ho dei dubbi.»
Guardò fuori da un'altra finestra - una che non offriva una vista della ca-
pitale. In lontananza poteva vedere la torre dell'Università di Georgetown.
La sua bistrattata alma mater. Lui e Claire vivevano non lontano dalla
scuola. Ricordò che l'autunno prima erano saliti sulla ripida scalinata da
cui cadeva il sacerdote alla fine dell'Esorcista.
Il prete che sacrificava se stesso per salvare la bambina posseduta dal
demonio.
Ecco un bel presagio.
Annuì. «D'accordo. Va' a parlare con lui.»
Jefferies annuì a sua volta. «Ce la caveremo, Jerry. Usciremo da questa
storia. Ce la faremo.» Poi, al telefono, disse: «Esco immediatamente».
Nel corridoio all'esterno dell'ufficio del sindaco, un uomo decisamente
di bell'aspetto era appoggiato alla parete, esattamente sotto il ritratto di un
uomo politico del XIX secolo.
Wendell Jefferies gli si avvicinò.
«Ehi, Wendy.»
«Slade.» Era il nome dell'uomo - il suo vero nome di battesimo, per
quanto incredibile potesse sembrare - e, con il cognome Phillips, si poteva
quasi pensare che i suoi genitori sapessero in anticipo che un giorno sareb-
be diventato l'anchorman di un'emittente televisiva locale.
«Ho visto una schermata. Il tipo ha fatto secchi due sbirri, poi ha fatto il
Fantasma dell'Opera su una dozzina di poveri bastardi giù in platea.»
In onda, con il cavo di un auricolare che gli correva lungo il collo perfet-
to, Phillips parlava in modo diverso. In pubblico parlava in modo diverso.
Con i bianchi parlava in modo diverso. Ma Jefferies era nero e Slade vole-
va che pensasse che lui conosceva il gergo.
«Ne ha seccato uno, credo», continuò Phillips.
Jefferies non gli disse che, nel gergo della «mala», il verbo «seccare» si-
gnificava «uccidere con la pistola» e non «uccidere con un lampadario».
«Aveva quasi beccato il bastardo, ma non ce l'ha fatta.»
«Così ho sentito», disse Jefferies.
«E così l'amico ha intenzione di strofinarci un po' per farci stare me-
glio?» Quello era un riferimento all'imminente conferenza stampa di Ken-
nedy.
Ma Jefferies quel giorno non aveva pazienza per gli uomini come Slade
Phillips. Non sorrise. «Ecco la faccenda. Questo tipo continuerà a uccide-
re. Nessuno sa quanto è pericoloso.»
«E quanto è peri...?»
Jefferies lo zittì con un cenno. «Non può andare peggio di così.»
«Questo lo so.»
«Tutti avranno gli occhi puntati su di lui.»
Lui con la L maiuscola. Jerry Kennedy. Phillips l'avrebbe capito sicura-
mente.
«Certo.»
«Così abbiamo bisogno di un po' di aiuto», continuò Jefferies, abbassan-
do la voce con un'eco che risuonò insieme al rumore di soldi che passava-
no di mano.
«Avete bisogno di aiuto.»
«Possiamo arrivare a venticinque...»
«Venticinque.»
«Vuoi trattare?» domandò Jefferies.
«No, no. È solo che... be', è tanto. Che cosa vuoi che faccia?»
«Voglio che lui...»
«Kennedy.»
Jefferies sospirò. «Sì. Lui. Voglio che ne esca come se fosse un eroe. E
intendo l'eroe della situazione. Sono morte delle persone, e probabilmente
ne moriranno altre. Focalizza lui che si reca in visita alle vittime e sfida i
terroristi e... non lo so, se ne viene fuori con qualcosa di intelligente su
come catturare il killer. E distogli l'attenzione da lui per le cose che vanno
storte.»
«Distogliere...?»
«Il sindaco», disse Jefferies. «Kennedy non è...»
«No, lui non è la persona che si occupa del caso.» Phillips si schiarì la
voce. «È questo che stavi per dire?»
«Esatto», confermò Jefferies. «Qualsiasi cosa vada storta, deve apparire
che lui non ne sapeva nulla e che ha fatto del suo meglio per raddrizzarla.»
«Be', è un'operazione dell'FBI, giusto?»
«E vero, Slade, ma non vogliamo dare la colpa all'FBI di niente.»
«No? E perché, esattamente?»
«Non vogliamo e basta.»
Alla fine Slade Phillips, abituato a leggere le notizie sul gobbo, decise di
averne avuto abbastanza. «Non capisco, Wendy. Che cosa vuoi che fac-
cia?»
«Voglio che tu faccia il giornalista vero, Slade, tanto per cambiare.»
«Certo. Quindi...» cominciò Phillips, dando inizio alla sceneggiatura
nella sua mente. «Ha adottato la linea dura. Sta tenendo i poliziotti sotto
pressione. È andato negli ospedali... Aspetta, senza sua moglie?»
«Con sua moglie», disse Jefferies in tono paziente.
Phillips indicò la sala stampa con un cenno del capo. «Ma, aspetta... loro
stavano dicendo... voglio dire, quel tipo del Post ha detto che Kennedy non
è andato a visitare proprio nessuno. Avevano intenzione di torchiarlo ben
bene, per questo.»
«No, no, è andato da alcune famiglie che vogliono rimanere anonime.
L'ha fatto per tutto il giorno.»
«Oh, davvero?»
Era stupefacente che cosa ci si poteva comprare con venticinquemila
dollari, pensò Jefferies.
«È stato un bel gesto da parte sua», aggiunse Phillips. «Davvero un bel
gesto.»
«Non esagerare», lo avvertì Jefferies.
«Ma cosa mando come filmato? Voglio dire, se la storia è su di lui che
va negli ospedali...»
«Fa' semplicemente vedere gli stessi cinque secondi di nastro ripetuti»,
sbottò Jefferies. «Come fate sempre voi della televisione. Non lo so, mo-
stra le ambulanze alla fermata della metropolitana.»
«Ah. D'accordo. E che mi dici della parte dei fallimenti? Perché pensi
che ci sarà un fallimento?»
«Perché in situazioni come questa capita sempre.»
«Okay, hai bisogno di qualcuno su cui puntare il dito. Ma non...»
«Non i federali.»
«Okay», fece il giornalista. «Ma io come faccio a trovarlo, esattamen-
te?»
«Questo è il tuo lavoro. Ricordi? Chi, cosa, quando, dove e perché. Sei
tu il giornalista.» Prese Phillips sottobraccio e lo accompagnò fino alla fine
del corridoio. «Quindi va' a fare il giornalista.»

14
17,00

«Non ha un bell'aspetto, agente Lukas.»


«È stata una giornata molto lunga.»
Gary Moss era vicino ai cinquanta, di corporatura pesante, con capelli
tagliati corti che avevano appena cominciato a ingrigire. Era seduto sul let-
to nell'Abitazione Due, un piccolo appartamento al primo piano del quar-
tier generale. Nell'edificio c'erano diversi appartamenti, adoperati princi-
palmente per i capi delle agenzie governative in visita e nelle occasioni in
cui il direttore o i direttori dei dipartimenti avevano bisogno di fermarsi la
notte durante le operazioni più importanti. C'era la sensazione che, dato ciò
che sapeva e le persone contro cui stava per testimoniare, se Moss fosse
stato messo sotto la custodia del distretto, sarebbe sopravvissuto circa due
ore.
Il posto non era male. Governativo, ma con un letto matrimoniale con-
fortevole, una scrivania, una poltrona, dei tavoli, una cucina, una televisio-
ne con i principali canali via cavo.
«Dov'è quel giovane detective? Mi piace.»
«Hardy? È nella stanza operativa.»
«È arrabbiato con lei.»
«Perché? Perché non l'ho lasciato giocare a fare il poliziotto?»
«Sì.»
«Non è un investigativo.»
«Sì, sì, me l'ha detto. È uno che si occupa di scartoffie, proprio come
me. Ma vuole soltanto un po' di azione. State cercando di prendere quel-
l'assassino, vero? Ho visto i telegiornali. È per questo che vi siete dimenti-
cati tutti di me.»
«Nessuno si è dimenticato di lei, signor Moss.»
L'uomo sorrise, ma aveva un'aria da derelitto e Lukas era dispiaciuta per
lui. Questo era uno dei motivi per cui era andata a trovarlo. L'altro motivo
era di ordine pratico. I testimoni che si sentono infelici o che non si sento-
no protetti a volte dimenticano le cose che hanno visto e sentito. Il procu-
ratore che si occupava del caso voleva essere sicuro che Gary Moss fosse
un testimone molto, molto felice.
«Come se la passa?»
«Mi manca la mia famiglia. Mi mancano le mie bambine. Non mi sem-
bra giusto, dopo che hanno preso uno spavento come quello, che io non
possa essere con loro. Mia moglie farà un ottimo lavoro. Ma un uomo do-
vrebbe essere con la sua famiglia, in circostanze come queste.»
Lukas ricordò le bambine, gemelle, di circa cinque anni. Mollettine di
plastica a ornare i loro capelli. La moglie di Moss era una donna minuta,
con lo sguardo cauto che ci si aspetta di vedere in qualcuno che ha appena
visto la propria casa rasa al suolo da un incendio.
«Sta festeggiando?» gli chiese indicando un cappello dorato decorato
dalla scritta Felice anno nuovo. C'erano anche un paio di fischietti.
Moss prese il cappellino. «Qualcuno l'ha portato per me. E gli ho detto:
che cosa dovrei farci con metà del reggiseno di Madonna?»
Lukas rise. Poi tornò subito seria. «Ho appena chiamato da una linea si-
cura. La sua famiglia sta bene. Ci sono tante persone che stanno badando
ai suoi cari.»
«Non ho mai pensato che qualcuno potesse tentare di far loro del male.
Voglio dire, quando ho deciso di rivolgermi all'FBI. Dicendo ciò che ave-
vo scoperto alla mia compagnia. Ma non ho mai pensato che qualcuno po-
tesse volermi fare del male.»
Lo scandalo riguardava un giro di decine e decine di milioni di dollari e
probabilmente avrebbe portato al rinvio a giudizio di decine di impiegati
della compagnia e di ufficiali amministrativi. Lukas era parzialmente sor-
presa che Moss fosse riuscito a sopravvivere abbastanza a lungo da finire
sotto la protezione dei federali.
«Che cosa avrebbe fatto stasera?» gli domandò. «Con la sua famiglia?»
«Saremmo andati al Mall a vedere i fuochi d'artificio. Le bambine a-
vrebbero avuto il permesso di stare alzate fino a tardi. Gli sarebbe piaciuto
più questo dello spettacolo. E lei, agente Lukas? Che cosa aveva in pro-
gramma?»
Niente. Non aveva nessun programma per la sera di capodanno.
Ma non l'aveva detto a nessuno. Aveva pensato a un po' di amici - una
donna poliziotto di Fairfax, un pompiere di Burke, qualche vicino di casa,
un uomo che aveva conosciuto a un assaggio di vini, un altro che aveva
conosciuto alla scuola di addestramento dei cani, quando ci aveva portato
Jean-Luc ottenendo ben scarsi risultati. Era più o meno intima con tutte
queste persone, e con poche altre. Qualcuno con cui di tanto in tanto spet-
tegolava, qualcun altro con cui aveva bevuto del vino. Uno degli uomini
con cui di tanto in tanto andava a letto. L'avevano invitata tutti alle loro fe-
ste di Capodanno. E a tutti aveva detto che sarebbe andata a una grossa fe-
sta nel Maryland. Ma era una bugia. Voleva passare l'ultimo dell'anno da
sola. E non voleva che nessuno lo sapesse, principalmente perché non a-
vrebbe saputo spiegarne il motivo. Ma, per qualche ragione, guardò Gary
Moss, un uomo coraggioso, un uomo intrappolato nella tempesta di fuoco
della politica di Washington, D.C., e gli disse la verità. «Avevo intenzione
di passare la serata con il mio cane e un film preso a noleggio.»
Lui non le offrì alcuna comprensione fasulla. Invece le disse allegramen-
te: «Oh, ha un cane?»
«Certo. Un labrador nero. È bello come una top model ma stupido.»
«Da quanto tempo ce l'ha?»
«Due anni. Li compie il giorno del Ringraziamento.»
«L'anno scorso ho preso un cane alle mie bambine. Un cucciolo. Pensa-
vamo di averlo perso nell'attentato, ma era uscito di casa. Ha avuto il buon
senso di lasciarci lì e di andarsene, di fuggire dalle fiamme. Che film a-
vrebbe visto?»
«Non ne sono sicura. Un film di qualche anno fa, probabilmente. Qual-
cosa di bello e malinconico che mi avrebbe fatto piangere.»
«Non credevo che agli agenti dell'FBI fosse permesso piangere.
«Soltanto quando non siamo in servizio. Ciò che faremo, signor Moss, è
tenerla qui fino a lunedì. Quindi verrà trasferito in una casa sicura gestita
dagli sceriffi degli Stati Uniti.»
«Ah! Tommy Lee Jones. Il fuggitivo. Non era un bel film?»
«Non l'ho visto.»
«Se lo noleggi, una volta o l'altra.»
«Forse le darò retta.»
Moss stava cercando di mostrarsi allegro. Ma Lukas poteva vedere chia-
ramente la sua paura, era come se pulsasse attraverso le vene in rilievo sul-
la sua fronte ossuta. Paura per se stesso e per la sua famiglia.
«Le porteremo una buona cena. Fatta arrivare da fuori.»
«Con una birra, magari?»
«Vuole una confezione da sei?»
«Diavolo, sì.»
«Qual è la sua marca preferita.»
«Be'... Sam Adams», fece Moss. Poi domandò incerto: «Rientra nel bu-
dget?»
«Se me ne posso bere una anch'io.»
«La terrò in fresco per lei. Venga a bersela quando avrete beccato quel
pazzo.»
Si mise a giocherellare con il cappellino. Per un attimo Margaret pensò
che stesse per indossarlo... ma dovette rendersi conto che il gesto sarebbe
sembrato patetico e lo rimise giù.
«Tornerò più tardi», gli disse.
«Dove sta andando?»
«A guardare qualche mappa della città.»
«Mappe. Buona fortuna, agente Lukas.»
Margaret uscì dalla stanza. Né lei né Moss si fecero gli auguri per l'anno
nuovo.

Fuori, all'aria fresca, Parker, Cage e Lukas si incamminarono sul mar-


ciapiede fiocamente illuminato, diretti agli Archivi topografici, a sei isolati
di distanza dal quartier generale.
Washington è una città di bellezza improvvisa e di splendore architetto-
nico. Ma al crepuscolo, in inverno, si trasforma in un luogo cupo. Le deco-
razioni natalizie non facevano nulla per allietare la strada grigia. Mentre si
avvicinavano agli Archivi, Parker alzò lo sguardo verso il cielo. Era coper-
to da uno spesso strato di nubi. Ricordò che era prevista una nevicata e che
i Chi l'indomani avrebbero voluto uscire con la slitta.
Avrebbero potato i cespugli in giardino, così aveva promesso a Robby, e
poi si sarebbero diretti a ovest, verso le Massanutten Mountains, con le
slitte e un paio di thermos di cioccolata calda.
Lukas interruppe i pensieri di Parker chiedendogli: «Come hai comincia-
to a fare questo lavoro?»
«Thomas Jefferson», rispose lui.
«In che senso?»
«Volevo diventare uno storico. Volevo specializzarmi nella storia del
periodo di Jefferson. È per questo che sono andato all'Università della Vir-
ginia.»
«È stato lui a progettarla, vero?»
«Il campus originario, sì. Avrei passato un sacco di tempo negli archivi
dell'università e alla biblioteca del Congresso qui a Washington.»
«L'aula magna porta il suo nome, vero?» gli domandò ancora Lukas.
«Esatto», confermò Parker. «Un giorno ero a Charlottesville, nella bi-
blioteca», continuò, «a studiare una lettera che Jefferson aveva scritto a sua
figlia Martha. Parlava della schiavitù. Jefferson aveva degli schiavi, ma
non credeva nella schiavitù. Fondamentalmente, voleva abolirla. Ma quella
lettera, scritta appena prima della sua morte, era chiaramente a favore della
schiavitù e ritrattava le sue precedenti opinioni sull'opportunità di rimanda-
re gli schiavi in Africa. Nella lettera diceva che la schiavitù era una delle
pietre miliari dell'economia della nazione e doveva essere mantenuta. Mi
sembrava strano, e soprattutto mi sembrava strano che l'avesse scritto a sua
figlia. L'amava con tutto il cuore, ma la loro corrispondenza riguardava
principalmente faccende domestiche e familiari. Più leggevo quella lettera
e più pensavo che nella scrittura c'era qualcosa che non andava. Ho con-
frontato la calligrafia con quella di un documento certo... è così che chia-
miamo un campione di scrittura genuino.»
«Ed era falsa?»
«Esatto. L'ho portata da un perito calligrafo del posto e lui l'ha analizza-
ta. Il fatto sollevò un certo scalpore. Voglio dire... qualcuno aveva infilato
un falso negli archivi Jefferson. E un falso di quel genere, poi.»
«Chi era stato?»
«Nessuno lo sa. Era stata falsificata negli anni Sessanta, l'abbiamo capito
dal tasso di assorbimento dell'inchiostro nella carta. Gli archivisti pensano
che il falsario fosse un sudista conservatore che aveva piazzato la lettera
per creare un po' di problemi al movimento per i diritti civili. Comunque
sia, da quel momento in avanti non ho più smesso.»
Parker raccontò a Lukas il suo curriculum vitae. Si era laureato in scien-
za legale alla George Washington University. Era riconosciuto dall'Albo
degli esaminatori scientifici di documenti con sede a Houston. Era anche
membro della Società americana degli esaminatori di documenti dubbi,
dell'Associazione nazionale degli esaminatori di documenti e dell'Associa-
zione mondiale dei periti calligrafi.
«Ho lavorato come free lance per un po' di tempo, poi ho sentito dire che
l'FBI stava cercando degli esaminatori. Così sono andato a Quantico. Il re-
sto è storia.»
«Che cosa ti affascinava così tanto di Jefferson?» gli chiese Lukas.
Parker non ci pensò su nemmeno per una frazione di secondo. «Era un
eroe», rispose.
«Non se ne vedono molti, al giorno d'oggi», intervenne Cage.
«Ah, adesso la gente non è diversa da come era prima», ribatté Parker.
«Non ci sono mai stati molti eroi. Ma Jefferson lo era.»
«Perché era un uomo di cultura?» domandò Lukas.
«Per il suo carattere, credo. Sua moglie è morta durante il parto. La cosa
l'ha quasi distrutto. Ma è riuscito a superarla. E ha allevato le sue figlie.
Metteva lo stesso impegno nel decidere che tipo di vestito comprare a
Mary di quello che ci metteva nel progettare un sistema di irrigazione per
la fattoria o per interpretare la Costituzione. Ho letto quasi tutte le sue let-
tere. Nessuna sfida era troppo difficile, per lui.»
Lukas si fermò per guardare alcuni vestiti di lusso esposti in una vetrina.
I suoi occhi si soffermarono su un abito nero firmato con la stessa intensità
con cui avevano esaminato la lettera di estorsione: non ammirati, ma atten-
ti e meticolosi.
Parker era sorpreso che una cosa del genere potesse distrarla. Ma Cage
spiegò: «Margaret è una bravissima... come dire... cucitrice. Una sarta coi
fiocchi. Si fa i vestiti da sola».
«Cage», disse lei in tono assente.
«Conosci qualcun altro che lo fa?»
No, Parker non conosceva nessuno.
Lukas distolse lo sguardo dalla vetrina e insieme continuarono lungo la
Pennsylvania Avenue, con il Campidoglio di fronte a loro.
«E hai davvero rifiutato un ASI?» gli domandò Lukas.
«Sì», rispose Parker.
Una risatina incredula.
Parker ricordava benissimo il giorno in cui Cage e l'allora vicedirettore
erano entrati nel suo ufficio per chiedergli se fosse disposto a lasciare il
dipartimento e prendersi in carico un ufficio operativo. Parker era bravo ad
analizzare documenti, ma era anche bravo a catturare i criminali.
Un agente o un viceprocuratore andava da lui con una semplice doman-
da su un documento. Forse un presunto falso, forse un possibile collega-
mento tra un criminale e la scena di un delitto. E, seduto nel suo ufficio
costellato di bonsai, Parker cominciava a fare il terzo grado al malcapitato,
che voleva soltanto qualche informazione tecnica sul documento in que-
stione. Ma questo a Parker non bastava.
Dove avete trovato la lettera? No, no... in quale cassetto? Il sosco ha
una moglie? Dove vive sua moglie? Ma un cane? In quali circostanze è
stato arrestato l'ultima volta?
E, via via che una domanda portava a un'altra domanda, ecco che ben
presto Parker si ritrovava a parlare sempre meno del fatto che la calligrafia
del documento corrispondesse oppure no a una firma su un modulo dell'a-
nagrafe e sempre più di dove era più logico che il sosco se ne stesse nasco-
sto. E aveva quasi sempre ragione.
Ma aveva dovuto rinunciare all'offerta di Cage e del vicedirettore. Un
agente speciale incaricato lavora moltissimo e, in quel periodo della sua vi-
ta, Parker aveva bisogno di stare a casa. Per il bene dei suoi figli.
Ma non voleva condividere con Lukas nulla di tutto ciò.
Si chiese se gli stesse per chiedere qualcos'altro, ma la donna non lo fe-
ce. Margaret prese il suo cellulare e fece una telefonata.
Parker era incuriosito dagli Archivi topografici. «Che cosa esattamen-
te...?» cominciò a dire.
«Silenzio», sussurrò bruscamente Lukas.
«Cosa...?»
«Fa' silenzio. Continua a camminare. E non voltarti.»
Parker si rese conto che Margaret non stava affatto parlando al telefono.
Stava solo facendo finta.
«L'hai visto anche tu?» le domandò Cage. «Venti metri dietro a noi.»
«Quasi trenta. Nessuna arma visibile. Ed è bravo. Movimenti irregolari.»
Parker si rese conto che era per quel motivo che Lukas si era fermata a
guardare il vestito in vetrina: aveva il sospetto che qualcuno li stesse se-
guendo. Anche lui guardò in una vetrina, passando, e vide un uomo che
stava attraversando rapidamente la strada per portarsi sullo stesso marcia-
piede su cui erano loro. Era distante circa trenta metri.
Si accorse che sia Cage sia Lukas avevano impugnato le pistole. Non li
aveva visti estrarre le armi. Erano grosse automatiche nere e sul mirino c'e-
rano tre piccoli puntini verdi che brillavano al buio. La sua pistola di servi-
zio, all'epoca, era un revolver poco efficiente, e ciò che Parker ricordava
meglio sull'argomento era il suo odio per il regolamento che gli imponeva
di girare sempre armato; il pensiero di avere una pistola carica nelle vici-
nanze dei Chi lo turbava terribilmente.
Lukas borbottò qualcosa a Cage e l'agente annuì. Poi si rivolse a Parker:
«Comportati in modo naturale».
Parker pensò a come avrebbe risposto Stephie: Come se...
«Credi che sia il Becchino?» domandò.
«Potrebbe essere», rispose Lukas.
«Qual è il piano?» sussurrò Cage.
«Lo becchiamo», rispose lei con calma.
Signore Iddio, pensò Parker. Il Becchino era dietro di loro! Con la sua
mitragliatrice. Evidentemente era rimasto appostato vicino al quartier ge-
nerale ed era riuscito in qualche modo a scoprire chi si stava occupando
del caso. Erano quasi riusciti a inchiodarlo nel teatro. Forse il sosco gli a-
veva detto di uccidere gli investigatori, se avesse avuto l'impressione che si
stessero avvicinando troppo.
«Tu prendi la strada», disse Lukas a Cage. «Kincaid, tu copri il vicolo.
Nell'eventualità che non sia da solo.»
«Io...»
«Shhh. Al mio tre. Uno... due...»
«Ma io...» tentò nuovamente Parker.
«Tre.»
Si separarono rapidamente. Cage scese in strada, guardando le macchi-
ne.
Lukas si voltò e partì rapida nella direzione da cui erano venuti. «Sono
un agente federale!» gridò. «Tu, laggiù. Fermo, le mani sopra la testa!»
Parker lanciò un'occhiata nel vicolo e si domandò che cosa avrebbe do-
vuto fare se avesse visto qualcuno. Tirò fuori il cellulare, digitò il numero
della polizia e appoggiò il pollice sul pulsante di invio della chiamata. Era
tutto ciò che gli veniva in mente.
Si guardò alle spalle. Vide Lukas. Davanti a lei, l'uomo si fermò bru-
scamente, poi si voltò e cominciò a correre all'impazzata verso il centro
della strada.
«Fermo!»
Lukas stava correndo sul marciapiede. L'uomo voltò a destra e scompar-
ve nel traffico. Margaret tentò di seguirlo, ma un'automobile svoltò l'ango-
lo proprio in quel momento: il guidatore non la vide, e ci mancò poco che
la investisse. Lei fece un balzo indietro e tornò sul marciapiede, evitando il
paraurti di pochi centimetri.
Quando ricominciò a correre, l'uomo era scomparso. Parker la vide
prendere il cellulare e parlare rapidamente al telefono. Un attimo dopo, tre
automobili prive di contrassegni, con i lampeggiatori rossi in funzione sul
cruscotto, arrivarono all'incrocio accompagnate da uno stridio di pneuma-
tici. Lukas parlò con uno degli autisti, poi le macchine si allontanarono a
tutta velocità.
Tornò verso di lui al piccolo trotto. Cage li raggiunse subito dopo. Lukas
sollevò le mani in un gesto esasperato.
Cage si strinse nelle spalle. «Siete riusciti a vederlo in faccia?»
«No», rispose Parker.
«Nemmeno io», borbottò Lukas. Poi guardò le mani di Parker. «Dov'è la
tua arma?»
«La mia cosa?»
«Dovevi coprire il vicolo. C'era un inseguimento in corso e non hai e-
stratto l'arma?»
«Be', non ce l'ho. Era quello che stavo cercando di dirti.»
«Non sei armato?» gli chiese lei, incredula.
«Sono un civile», fece Parker. «Perché dovrei avere una pistola?»
Lukas guardò sdegnosamente Cage, che disse: «Ehi, credevo che ce l'a-
vesse».
Lei si chinò e si sollevò l'orlo dei jeans. Prese una piccola pistola auto-
matica da una fondina legata alla caviglia e la porse a Parker.
Lui scosse la testa. «No, grazie.»
«Prendila», insistette lei.
Parker guardò la pistola nella mano della donna. «Non mi sento a mio
agio con le armi. Ero della Scientifica, non ero un agente tattico. E, in ogni
modo, la mia ultima pistola di ordinanza era un revolver, non un'automati-
ca. L'ultima volta che ho sparato è stato al poligono di Quantico. Sei, sette
anni fa.»
«Tutto quello che devi fare è puntare e tirare il grilletto», sbottò Lukas,
ora visibilmente arrabbiata. «La sicura è disinserita. Il primo colpo è a
doppia azione, il secondo ad azione singola. Quindi regola la mira di con-
seguenza.» Parker si domandò da dove venisse la sua rabbia.
Non prese la pistola.
Lei sospirò, e il fiato le uscì dalle labbra in un lungo ricciolo di vapore.
La temperatura si era abbassata ancora. Non disse nulla, ma spinse la pi-
stola verso di lui con decisione.
Parker pensò che non valeva la pena di litigare. Allungò una mano e pre-
se la pistola. La guardò brevemente, poi se la fece scivolare in tasca. Lukas
si voltò senza dir nulla e, insieme, ripresero a camminare lungo la strada.
Cage gli rivolse un'occhiata dubbiosa, si strinse nelle spalle e fece una tele-
fonata con il suo cellulare.
Mentre camminavano, Parker sentì il peso della pistola nella sua tasca,
un peso immenso, molto più grande dei tre o quattro etti che pesava in re-
altà l'arma. Non gli dava alcun conforto averla con sé. Si domandò perché.
Ci volle un momento prima che se ne rendesse conto. Non era perché quel
pezzo di metallo gli ricordava che fino a pochi minuti prima probabilmente
avevano avuto il Becchino alle loro spalle e lui era quasi morto. E nemme-
no perché gli ricordava la storia del Barcaiolo di quattro anni prima.
No, era perché la pistola sembrava possedere una sorta di potere oscuro,
come l'anello magico di uno dei libri di J.R.R. Tolkien, un potere che ave-
va preso possesso di lui e lo stava allontanando sempre più dai suoi figli
man mano che i minuti passavano.

Il Becchino è in un vicolo.
È immobile, e si guarda intorno.
Adesso intorno a lui non ci sono né agenti federali né poliziotti. Non ci
sono testimoni, non c'è nessuno che può catturarlo e rimandarlo nel Con-
necticut, dove gli piacciono le foreste, ma dove odia le stanze con le sbarre
in cui lo fanno stare seduto per ore e ore a far niente, dove ci sono persone
che gli portano via la sua minestra e cambiano i canali della televisione
quando ci sono gli spot pubblicitari con i cowboy e i cuccioli per poter
guardare lo sport.
Pamela diceva: «Sei grasso. Sei fuori forma. Perché non cominci a cor-
rere? Va' a comprarti un paio ài...» click... «... un paio di scarpe da corsa
della Nike. Va' a comprarle. Va' al centro commerciale. Io ho altro da fa-
re».
Per un attimo, il Becchino pensa di vedere Pamela. Strizza le palpebre.
No, no, è soltanto un muro bianco nel vicolo.
Prometti di amarla, onorarla, rispettarla e... click... obbedirle?
Stava correndo con Pamela, un giorno, un giorno d'autunno, tra le foglie
rosse e le foglie gialle. Tentava di mantenere il passo, sudando, il cuore
che gli faceva male come gli aveva fatto male il cervello dopo che il
proiettile si era fatto un giro nel suo cranio. Pamela aveva accelerato il
passo e lui si era ritrovato a fare jogging da solo. E alla fine era tornato a
casa da solo, camminando.
Il Becchino è preoccupato di ciò che è andato storto nel teatro. È preoc-
cupato di tutti i poliziotti e gli agenti e ha paura che l'uomo che gli dice le
cose non sarà felice perché lui non è riuscito a uccidere tutte le persone che
avrebbe dovuto uccidere.
Il Becchino sente delle sirene in lontananza. Molte sirene.
Rallenta ancor di più. Lascia che la borsa gli penzoli dal braccio. L'arma
è dentro la borsa e pesa di nuovo cinque chili da quando lui ha tranciato il
cavo del... click... del lampadario in mille pezzi, perché ha ricaricato.
Davanti a lui, nel vicolo, vede un movimento. Si ferma. C'è un ragazzi-
no. È nero e magro magro, pelle ossa. Ha circa dieci anni. Sta ascoltando
qualcuno che parla con lui. Qualcuno che il Becchino non riesce a vedere.
Improvvisamente, il Becchino sente la voce di Pamela: «Avere... avere...
avere... dei bambini con te? Avere... avere... avere... un figlio tuo?»

Se facessimo un figlio oppure tre o magari quattro


sai che ti amerei sempre di più.

Poi il ricordo della canzone svanisce perché si sente un suono come di


strappo e l'Uzi e il silenziatore cadono dal fondo della borsa. Lui si china a
raccogliere l'arma e, mentre lo fa, solleva lo sguardo.
Hmmm.
Questo non è divertente.
Il ragazzino e un uomo più vecchio, che porta dei vestiti sporchi, sì,
l'uomo che sta parlando con il ragazzino, stanno camminando nel vicolo.
L'uomo tiene il braccio del ragazzino piegato verso l'alto. Il ragazzo perde
sangue dal naso.
Tutti e due stanno guardando il Becchino. Il bambino sembra sollevato.
Si allontana dall'uomo con uno strattone e si massaggia la spalla dolorante.
L'uomo gli afferra nuovamente il braccio.
Poi si ferma. Abbassa lo sguardo sull'Uzi. Rivolge al Becchino un sorri-
so obliquo e dice: «Qualunque cosa tu stia facendo, amico, non sono fatti
miei. Io vado per la mia strada».
«Lasciami il braccio», piagnucola il bambino.
«Sta' zitto.» L'uomo alza il pugno chiuso. Il ragazzino si ritrae spaventa-
to.
Il Becchino spara due volte al petto dell'uomo. L'uomo cade all'indietro.
Al rumore assordante degli spari, il ragazzino fa un salto indietro. Il silen-
ziatore è ancora per terra.
Il Becchino punta l'arma sul ragazzo, che sta fissando il corpo dell'uomo
con gli occhi sgranati.
«Se qualcuno ti guarda in faccia...»
Il Becchino inizia a premere sul grilletto.
«Avere... avere... avere... dei figli con te?» Le parole gli riecheggiano
nel cranio.
Il ragazzino sta ancora guardando il corpo senza vita dell'uomo che lo
stava picchiando. Il Becchino preme di nuovo sul grilletto. Poi abbassa
l'arma. Il bambino si volta e lo guarda. Poi sussurra: «Ehi, l'hai steso! Ehi,
come fosse niente, l'hai seccato».
Lo sta guardando diritto in faccia. A meno di tre metri di distanza.
Parole che riecheggiano. Uccidilo ti ha visto in faccia uccidilo,
uccidilouccidilouccidilouccidilo.
E cose del genere.
«Hmmm», dice il Becchino. Poi si china, raccoglie i bossoli e il silenzia-
tore, quindi avvolge il tutto insieme all'arma nella borsa squarciata ed esce
dal vicolo, lasciando il ragazzino in piedi tra il cadavere e un mucchio di
immondizia.
Torna all'albergo e... click... torna all'albergo e aspetta.
Mangerà un po' di minestra e aspetterà. Ascolterà i messaggi per lui.
Vedrà se l'uomo che gli dice le cose l'ha chiamato per dirgli che può smet-
tere di sparare.

Quando ti sento entrare dalla porta...

Un po' di minestra sarebbe perfetto, ora.

So che ti amo sempre più.

Faceva sempre la minestra per Pamela. Stava facendo la minestra per


Pamela la sera che lei... click. Era la sera di Natale. Una sera come quella.
Fredda. Luci colorate.
Ecco una croce d'oro per te. E questa scatola è per me? ... Un regalo?
Oh, è un impermeabile! Grazie grazie grazie...
Il Becchino è fermo a un semaforo, aspettando il verde.
Improvvisamente, sente qualcosa toccargli la mano.
Non si allarma. Il Becchino non si allarma mai.
Si immobilizza e afferra l'impugnatura dell'Uzi dentro la borsa rotta. Si
volta lentamente.
Il ragazzino è lì, e gli tiene la mano sinistra. Guarda diritto davanti a sé.

Ti amo ti amo ti amo ti amo...

Il semaforo diventa verde.


Il Becchino non si muove.

Sempre più...

«Ehi, possiamo attraversare», dice il ragazzino, fissando i cuccioli dise-


gnati sulla borsa lacerata. Il Becchino vede la piccola sagoma verde dentro
il semaforo.
La piccola sagoma verde sembra felice.
Qualsiasi cosa voglia dire essere felici.
Tenendosi per mano, i due attraversano la strada.

15
17,15

Gli Archivi geologici e topografici del distretto di Columbia sono allog-


giati in un vecchio edificio tra la Settima Strada e la Strada E.
E, tutt'altro che casualmente, sorgono vicino a un'installazione poco co-
nosciuta dei Servizi Segreti e all'ufficio delle Operazioni speciali del con-
siglio di sicurezza nazionale.
Nelle guide turistiche non viene fatta menzione degli Archivi, e qualsiasi
visitatore che noti l'insegna sulla facciata dell'edificio viene cortesemente
accolto da una delle tre guardie armate alla reception che gli comunica che
l'istituto non è aperto al pubblico e che non ci sono mostre né visite guida-
te. «Comunque la ringraziamo per il suo interessamento. Buona giornata.
Arrivederci.»
Cage, Parker e Lukas - sempre al telefono - rimasero in attesa nell'atrio.
Finalmente, la donna spense il cellulare. «Niente. È semplicemente scom-
parso.»
«Nessun testimone?»
«Un paio di automobilisti ha visto un uomo vestito di scuro che correva.
Dicono che fosse bianco. Di media corporatura. Ma nessuno è disposto a
giurarlo. Cristo.»
Cage si guardò intorno. «Come hai fatto a farci entrare qui, Lukas? Io
non ci sarei riuscito.»
Fu la volta di Lukas di stringersi nelle spalle. A quanto pareva, la sera di
Capodanno era il momento giusto per riscuotere debiti e favori.
Vennero raggiunti da Tobe Geller, che entrò nell'edificio con passo deci-
so. Rivolse un cenno di saluto agli altri membri della squadra. Poi un iden-
ti-scanner controllò le loro impronte digitali e le loro armi vennero chiuse
a chiave in un armadietto. Una guardia li condusse verso un ascensore che,
a quanto pareva, non saliva oltre il primo piano. Lukas premette il pulsante
B7 e la cabina cominciò a scendere. Continuò per quella che a Parker par-
ve un'eternità.
Finalmente uscirono negli Archivi veri e propri. E non si trovarono di
fronte a pile e pile di mappe e vecchi volumi polverosi - che Parker, esa-
minatore di documenti riconosciuto, non vedeva l'ora di esaminare - bensì
in un immenso stanzone pieno di scrivanie high-tech, telefoni, microfoni e
file e file di monitor NEC a ventiquattro pollici. Anche quella sera, la sera
dell'ultimo dell'anno, una ventina di uomini e donne erano seduti di fronte
agli schermi, sui quali spiccavano mappe dettagliatissime, intenti a digitare
sulle tastiere e a parlare rapidamente nei microfoni collegati alle cuffie.
Dove diavolo sono finito? pensò Parker, guardandosi intorno e arrivando
immediatamente alla conclusione che la difficoltà di accesso agli Archivi
non aveva proprio nulla a che fare con un dipendente pubblico svogliato in
possesso della chiave del portone.
«Che cos'è?» domandò a Geller.
Il giovane agente lanciò un'occhiata tattica a Cage, che con un cenno gli
fece capire che poteva parlare tranquillamente. A quel punto Geller rispo-
se: «È un database topografico e cartografico dei duecento chilometri qua-
drati intorno al distretto. Il Punto Zero è la Casa Bianca, anche se non gli
piace che venga chiamata così. In caso di disastro naturale, attacco terrori-
stico, minaccia nucleare - insomma, qualsiasi cosa - questo è il posto in cui
decidono se per il nostro governo è meglio starsene buono al suo posto op-
pure lasciare la città, e in questo caso decidono come e quando ciò deve
accadere. Quali strade sono più sicure, quanti membri del Congresso so-
pravviveranno, quanti senatori. Questo genere di cose. Come la stanza dei
bottoni in Fail Safe. Niente male, eh?»
«E noi che ci facciamo qui?»
«Volevi delle mappe», disse Geller, guardando le attrezzature elettroni-
che con lo sguardo eccitato che soltanto un hacker poteva avere, «e questo
è il database più completo di qualsiasi zona del mondo. Lincoln Rhyme di-
ceva che avremmo dovuto conoscere la zona. Be', forse noi non la cono-
sciamo. Ma loro sì», disse annuendo con affetto verso una lunga fila di
computer maxi-tower.
«Ci lasciano usare il posto dietro richiesta», spiegò Lukas, «a patto che
non portiamo con noi né stampe né dischetti contenenti dati.»
«Verremo perquisiti all'uscita», disse Geller.
«Come fai a saperne così tanto?» gli domandò Parker.
«Oh, diciamo che ho dato una mano a costruirlo.»
«Ah, a proposito, Parker», aggiunse Lukas, «tu non hai mai sentito par-
lare di questo posto.»
«Non è un problema», rispose lui, osservando le due guardie armate di
mitra accanto alle porte dell'ascensore.
«Ora», continuò Lukas, «quali sono i materiali che ha scoperto Rhyme?»
Parker guardò gli appunti che aveva preso durante la telefonata e lesse a
voce alta: «Granito, zolfo, fuliggine, cenere, argilla e polvere di mattone».
Tobe Geller si sedette di fronte a un monitor, lo accese e premette qual-
che tasto. Immediatamente, un'immagine della zona di Washington com-
parve sullo schermo. La risoluzione era sbalorditiva. Sembrava tridimen-
sionale. Parker pensò assurdamente a come Robby e Stephie sarebbero
impazziti di gioia giocando a SuperMario su uno schermo come quello.
«Da dove cominciamo?» gli domandò Lukas.
«Un indizio alla volta», rispose Parker. «Proprio come si fa quando si
tenta di risolvere un enigma.»
Tre falchi stanno uccidendo le galline di un contadino...
«Per prima cosa, granito, polvere di mattone e argilla», rifletté. «Indi-
cherebbero un cantiere edile, un sito di demolizione...» Si rivolse a Geller.
«Ci sono su questo database?»
«No», rispose il giovane agente. «Ma possiamo svegliare qualcuno alle
Concessioni edilizie.»
«Allora fallo», ordinò Parker.
Geller fece una telefonata su una linea di terra; nessun cellulare poteva
funzionare così in profondità nel sottosuolo e, a parte questo, come in tutti
gli edifici di massima sicurezza di Washington, immaginò Parker, le pareti
erano schermate.
«Poi, che altro c'è?» domandò Parker. «Vediamo... zolfo e fuliggine...
Questo ci dice che è una zona industriale. Tobe, puoi evidenziare le zone
sulla base dell'inquinamento atmosferico?»
«Certo. C'è un file dell'EPA.» Poi aggiunse allegramente: «Serve a cal-
colare i livelli di penetrazione dei gas nervini e delle armi chimiche».
Altri comandi.
L'occupazione principale del distretto di Columbia è il governo, non
l'industria, e i quartieri commerciali erano destinati principalmente all'im-
magazzinaggio e alla distribuzione dei prodotti. Ciò nonostante, sullo
schermo alcune zone della città cominciarono a evidenziarsi in un appro-
priato colore giallastro. La maggior parte era situata nel quadrante sud-est.
«Abita da quelle parti», ricordò Lukas. «Quali zone industriali sono vi-
cine a zone residenziali o a palazzi abitati?»
Geller continuò a digitare, effettuando un riferimento incrociato tra le
zone industriali appena evidenziate e quelle residenziali. La ricerca elimi-
nò una parte dell'area industriale, ma non abbastanza: la maggior parte del-
le zone evidenziate era circondata da complessi abitativi.
«Sono ancora troppe», fece Lukas.
«Aggiungiamo un altro indizio. La cenere organica», precisò Parker.
«Principalmente, cenere di carne animale bruciata.»
Le mani di Geller si fermarono sulla tastiera.
Lukas scosse il capo, poi chiese: «C'è qualche impianto di lavorazione
della carne in una di queste zone?»
Era un ottimo suggerimento. Parker stesso stava per farlo.
«Nessuno in elenco», rispose Geller.
«Ristoranti?» suggerì Cage.
«Ce ne sono troppi», intervenne Parker.
«Dove altro potrebbe esserci della carne bruciata?» domandò Lukas non
rivolgendosi a qualcuno in particolare.
Enigmi...
«I veterinari», rifletté Parker. «I veterinari si liberano dei resti degli ani-
mali?»
«Probabilmente», fece Cage.
Geller digitò il comando appropriato, poi guardò lo schermo. «Ce ne so-
no a decine. Dappertutto.»
In quel momento Lukas guardò Parker e quest'ultimo vide che la rabbia
e il gelo di poco prima erano scomparsi: negli occhi della donna la fred-
dezza era stata sostituita da qualcos'altro. Poteva anche essere eccitazione.
I suoi occhi azzurri erano immobili come pietre, forse, ma ora erano pietre
preziose e brillanti. «Che mi dici di resti umani?» domandò.
«Un crematorio!» esclamò Parker. «Sì! E il granito levigato... potrebbe
provenire da pietre tombali. Cerchiamo un cimitero.»
Cage guardò la mappa. Poi indicò un punto. «Arlington?»
Il cimitero nazionale occupava una vastissima area sulla sponda occiden-
tale del fiume Potomac. La zona circostante doveva essere satura di polve-
re di granito.
Ma Parker fece notare: «Non è vicino a nessuna zona industriale. Nulla
che presenti un livello di inquinamento significativo».
Poi Lukas lo vide. «Eccolo!» Puntò un dito sormontato da un'unghia non
smaltata ma perfettamente limata. «Gravesend.»
Tobe Geller evidenziò la zona sulla mappa e la ingrandì.
Gravesend...
Il quartiere faceva parte del quadrante sud-est del distretto di Columbia.
Parker lo conosceva vagamente. Era una mezzaluna decrepita di palazzoni,
fabbriche ed edifici abbandonati intorno al Memorial Cemetery, un cimite-
ro di schiavi che risaliva ai primi dell'Ottocento. Parker indicò un'altra zo-
na della mappa. «C'è una fermata della metropolitana proprio qui. Il sosco
potrebbe averla presa per andare a Judiciary Square, al Municipio. E vicino
c'è anche un autobus che fa lo stesso percorso.»
Lukas ci pensò. «Ho preso dei criminali, da quelle parti. Ci sono molte
demolizioni in corso, un sacco di cantieri in funzione. È anche un quartiere
decisamente anonimo. Nessuno fa domande su nessuno. E molte persone
pagano l'affitto in contanti. Sarebbe il posto perfetto per un rifugio.»
Un giovane tecnico accanto a loro rispose al telefono e passò la chiamata
a Tobe Geller. Mentre l'agente ascoltava, il suo viso si allargò in un sorriso
entusiasta. «Benissimo», disse al telefono. «Mandala immediatamente al
laboratorio.» Riappese. «Sentite questa... Qualcuno ha girato una video-
cassetta della sparatoria al Mason Theater.»
«Una videocassetta del Becchino?» domandò Cage, non riuscendo a trat-
tenere l'entusiasmo.
«Non sanno di cosa si tratti esattamente. La qualità è pessima. I Servizi
Tecnici me la mandano immediatamente. Voi andate a Gravesend?»
«Sì», rispose Parker. Guardò l'orologio. Mancavano due ore e mezza al
prossimo attacco.
«PMC?» domandò Geller a Lukas.
«Sì. Fammene avere una.»
Parker rammentò: una postazione mobile di comando. Un furgone dotato
di impianti di comunicazione e di dispositivi di sorveglianza altamente
tecnologici. Era stato in furgoni come quello diverse volte, esaminando
documenti rinvenuti sulle scene dei crimini.
«Farò installare un analizzatore di dati video», disse Geller, «e comince-
rò a studiare il nastro. Dove sarete?»
Lukas e Parker risposero simultaneamente: «Qui». Si guardarono e si re-
sero conto che stavano indicando lo stesso terreno abbandonato accanto al
cimitero.
«Niente male», commentò Cage.
«Ma è vicino ai negozi e ai ristoranti», disse Parker.
Lukas lo guardò e annuì. «Dobbiamo ridurre il campo di ricerca chie-
dendo prima ai proprietari e ai gestori. Sono loro ad avere maggiori contat-
ti con gli abitanti del posto.»
«Tobe», disse Lukas, «va' a prendere C.P. e Hardy e portali con te nella
PMC.»
L'agente esitò. «Margaret... Hardy? Abbiamo davvero bisogno di lui?»
Parker si stava domandando la stessa cosa. Hardy sembrava un ragazzo a
posto, un poliziotto in gamba. Ma non era nel suo elemento, in quell'inda-
gine, e ciò significava che lui stesso, o qualcun altro, poteva farsi male.
«Se non è lui, il distretto ci metterà a bordo qualcun altro», disse Lukas.
«Almeno Hardy possiamo controllarlo. Non sembra importargli molto di
stare in secondo piano.»
«Al diavolo la politica», borbottò Cage.
Mentre Geller si metteva il giubbotto, Lukas gli chiese: «E quello striz-
zacervelli? Il tipo che doveva arrivare da Georgetown? Se non è ancora ar-
rivato al quartier generale, fallo accompagnare da qualcuno a Gravesend».
Geller andò all'ascensore dove, proprio come aveva predetto, venne per-
quisito accuratamente.
Lukas fissò la mappa di Gravesend. «È così maledettamente grande.»
«Ho un'altra idea», intervenne Parker. Stava ripensando a ciò che sape-
vano del sosco, a quello che aveva capito di lui dalla lettera. «Avevamo
pensato che passasse un bel po' di tempo al computer, ricordi?»
«Giusto», disse Lukas.
«Procuriamoci una lista di tutte le persone di Gravesend che sono abbo-
nate a un provider internet.»
«Potrebbero essere migliaia», protestò Cage.
«No», gli fece notare Lukas, «ne dubito. È una delle zone più povere
della città. I computer sono l'ultima cosa per cui quella gente spenderebbe
dei soldi.»
«Vero», ammise Cage. «Okay. Farò stilare una lista dai Servizi Tecni-
ci.»
«Ci saranno comunque molti nomi», disse Lukas dubbiosa. «Un vasto
territorio da coprire.»
«Ho qualche altra idea», fece Parker, e si incamminò verso l'ascensore
dove venne anch'egli perquisito dalle guardie armate come un sospetto tac-
cheggiatore.

Kennedy camminava lentamente in cerchio sulla moquette verde scuro


del suo ufficio.
Jefferies stava parlando al cellulare. Poco dopo lo spense.
«Slade si sta dando da fare, ma non sarà una cosa veloce.»
Kennedy indicò la radio con un gesto rabbioso. «Be', loro sono stati ma-
ledettamente veloci a dire che io me ne sto seduto a scaldare la sedia men-
tre la città viene messa a ferro e fuoco. Hanno fatto in fretta a dire che non
ho lavorato abbastanza per risolvere il blocco delle assunzioni al diparti-
mento di Polizia perché volevo tenere i fondi disponibili per il Progetto
2000. Cristo, i media stanno trattando la faccenda come se io fossi un
complice dell'assassino.»
Kennedy si era recato in tre ospedali a visitare le persone ferite dagli at-
tacchi del Becchino. A nessuno importava. Tutti gli domandavano perché
non stava facendo qualcosa di più per prendere il killer.
«Perché non è al quartier generale dell'FBI?» gli aveva domandato una
donna ferita.
Perché non mi hanno invitato, ecco il cazzo di perché, aveva pensato
Kennedy, furioso. Invece aveva risposto: «Sto lasciando che gli esperti
facciano il loro lavoro».
«Ma loro non stanno facendo il loro lavoro. E nemmeno lei.»
Quando si era alzato dalla sedia accanto al letto della donna non aveva
nemmeno tentato di stringerle la mano: il braccio destro della donna era
stato amputato in seguito alle ferite riportate nella sparatoria.
«Slade troverà qualcosa», disse Jefferies.
«Troppo poco, troppo tardi. E poi quell'uomo è troppo dannatamente
bello», sbottò Kennedy. «Le persone belle hanno troppo da perdere. Non
mi fido mai di loro.» Poi sentì la paranoia delle parole che aveva appena
pronunciato e scoppiò a ridere. Rise anche Jefferies. «Sto diventando paz-
zo, Wendy?»
«Sissignore. È mio dovere informarla che il suo cervello è andato in
pappa.»
Il sindaco si sedette sulla sua poltrona. Guardò l'agenda che teneva sulla
scrivania. Non fosse stato per il Becchino, quella sera avrebbe dovuto pre-
senziare a quattro cerimonie. Una festa all'ambasciata francese, una alla
sua alma mater, l'Università di Georgetown, un'altra nella sala convegni
dell'Associazione dei lavoratori cittadini e l'ultima - la più importante, do-
ve avrebbe festeggiato la mezzanotte del nuovo anno - alla sede dell'Asso-
ciazione degli insegnanti afro-americani nel cuore del quadrante sud-est
della città. Quello era il gruppo di persone che si stava impegnando mag-
giormente per far accettare il suo Progetto 2000 agli insegnanti di ogni
rango e ruolo di tutto il distretto. Lui e Claire dovevano assolutamente es-
sere là quella sera, come dimostrazione di sostegno. Ma gli sarebbe stato
impossibile presenziare a qualsiasi festa, celebrazione o altro, con quel
pazzo ancora a piede libero.
Un'ondata di rabbia passò dentro di lui. Afferrò il telefono.
«Cos'hai intenzione di fare?» gli domandò prudentemente Jefferies.
«Qualcosa», rispose Kennedy. «Ho intenzione di fare uno stramaledetto
qualcosa.» Cominciò a comporre un numero che aveva trovato sul suo Ro-
lodex.
«E cosa, con precisione?» insistette Jefferies, adesso ancora più preoc-
cupato.
Ma la linea con il quartier generale dell'FBI era già stata stabilita, e
Kennedy non gli rispose.
Venne passato a diversi uffici. Finalmente gli rispose una voce maschile.
«Sono il sindaco Jerry Kennedy. Con chi parlo?»
Una pausa. Kennedy, che faceva spesso personalmente le telefonate uf-
ficiali, era abituato al silenzio che seguiva la sua presentazione. «Agente
speciale C.P. Ardell. Cosa posso fare per lei?»
«L'agente Lukas è ancora a capo dell'operazione SPARMETRO?»
«Sì.»
«Posso parlare con lei?»
«Non è qui in questo momento, signore. Posso passare la chiamata al
suo telefono cellulare, però.»
«Non c'è problema. In realtà volevo parlare con l'agente di collegamento
con la polizia.»
«Il detective Hardy», precisò l'agente Ardell. «È proprio qui. Vuole par-
lare con lui?»
«Me lo passi.»
Un attimo dopo, una voce disse incerta: «Pronto?» Kennedy pensò con
un vago senso di inquietudine che la voce sembrava maledettamente gio-
vane.
«Lei è Hardy?»
«Len Hardy.»
«Sono il sindaco.»
«Ah. Be'. Come sta, signore?» Ora alla giovinezza della voce si era ag-
giunta la prudenza.
«Può mettermi al corrente degli ultimi sviluppi del caso? Non ho sentito
nemmeno una parola dall'agente Lukas o dall'agente Cage. Avete idea di
dove colpirà il Becchino la prossima volta?»
Un'altra pausa. «Nossignore.»
«Nessuna idea?»
«Diciamo che non mi tengono molto aggiornato.»
«Be', il suo lavoro è di fungere da collegamento, giusto?»
«I miei ordini sono semplicemente di stilare un rapporto dettagliato del-
l'operazione. L'agente Lukas ha detto che contatterà direttamente il co-
mandante Williams.»
«Un rapporto? Questo è uno scaricabarile. Stronzate, figliolo. Mi ascolti
bene. Io mi fido moltissimo dell'FBI. I federali si occupano di questo gene-
re di cose tutto il tempo. Ma quanto sono vicini a fermare l'assassino?»
Hardy sembrava a disagio. «Hanno qualche pista da seguire. Sono con-
vinti di sapere dove si trova il rifugio del sosco, l'uomo che è stato investi-
to dal furgone.»
«E dove?»
Un'altra pausa. Kennedy immaginò il povero Hardy con la faccia da
bambino che si contorceva sulla sedia. Che peccato.
«Non dovrei diffondere informazioni tattiche a nessuno, signore. Mi di-
spiace.»
«È la mia città che è sotto assedio, e sono i miei concittadini che vengo-
no massacrati. Voglio delle risposte.»
Un altro silenzio. Kennedy sollevò lo sguardo su Wendell Jefferies, che
scosse il capo.
Kennedy represse la propria collera e tentò di sembrare ragionevole.
«Lasci che le dica quello che ho in mente, figliolo. Per quegli uomini, l'u-
nico scopo di questa faccenda è far soldi. Tanti soldi. Non è di uccidere.»
«Credo che abbia ragione, signore.»
«E allora penso che, se soltanto avessi una possibilità di parlare con il
killer, in questo covo o nel posto dove colpirà alle otto, credo di poterlo
convincere a smettere. Tratterò con lui. Posso farlo.»
Kennedy ci credeva davvero. Perché uno degli aspetti principali della
sua personalità, in questo caso proprio come il suo omonimo degli anni
Sessanta, era il suo fascino personale. Maledizione, era riuscito a convin-
cere una ventina degli amministratori delegati e dei presidenti di compa-
gnia più duri del distretto ad accettare di pagare la tassa che avrebbe finan-
ziato il Progetto 2000. Aveva convinto il povero Gary Moss a fare i nomi
dello scandalo del Comitato di Istruzione.
Venti minuti con quel killer, anche guardando fisso la canna della sua
mitragliatrice, sarebbero stati sufficienti. Sarebbe riuscito a trovare un ac-
cordo.
«Da come lo descrivono, non credo che sia il tipo di persona con cui si
può trattare.»
«Lasci che sia io a giudicarlo, detective. Ora, dove si trova il covo?»
«Io...»
«Me lo dica.»
La linea ronzava. Il poliziotto continuava a tacere.
Kennedy abbassò la voce e passò a dargli del tu. «Tu non gli devi nulla,
ragazzo mio. Sai benissimo cosa pensano del fatto che ti trovi lì. Del fatto
che tu sei del distretto e loro sono federali.»
«La questione è più complessa... l'agente Lukas mi ha fatto entrare nella
squadra.»
«Davvero?»
«Direi di sì.»
«Non ti senti l'ultima ruota del carro? Te lo chiedo perché anch'io mi
sento così. Se Lanier avesse mano libera... conosci Lanier?»
«Sissignore.»
«Se avesse mano libera, la mia unica occupazione questa sera sarebbe
quella di starmene seduto nel palco d'onore al Mall a guardare i fuochi
d'artificio. Quindi suvvia, figliolo, dov'è quel maledetto covo?»
Kennedy guardò Jefferies incrociare le dita. Ti prego... sarebbe stato
perfetto. Mi faccio vedere lì, arrivo insieme a camionate di giornalisti, e
tento di convincere quell'uomo a uscire con le mani in alto. A quel punto,
o si arrende oppure lo uccidono. E, in un modo o nell'altro, la mia credibi-
lità sopravvive. Comunque vada a finire, non sarò più il sindaco che è ri-
masto a guardare alla CNN la sua città che veniva decimata mentre si
scolava una birra.
Kennedy udì il suono di alcune voci all'altro capo del filo. Poi Hardy
tornò in linea. «Mi dispiace, sindaco, adesso devo andare. Qui ci sono del-
le persone. Sono sicuro che l'agente Lukas si metterà in contatto con lei.»
«Detective...»
La comunicazione si interruppe.

Gravesend.
L'automobile che trasportava Parker e Cage sussultò sui tombini scon-
nessi e si fermò accanto a un marciapiede da cui macerie e immondizia si
riversavano sulla strada. La carcassa bruciata di una Toyota giaceva, ironi-
camente, contro un idrante.
Scesero dalla macchina. Lukas era venuta con la sua, una Ford Explorer
rossa, ed era già nel lotto abbandonato che era stato scelto come punto di
incontro. Era in piedi con le mani sui fianchi e si stava guardando intorno.
L'odore di urina, di feci, di spazzatura e di legno bruciato era molto for-
te.
I genitori di Parker, che si erano dati ai viaggi intorno al mondo dopo
che suo padre era andato in pensione, una volta si erano ritrovati in una ba-
raccopoli di Ankara, in Turchia. Parker ricordava ancora la lettera che ave-
va ricevuto da sua madre, con cui manteneva una fitta corrispondenza. Era
l'ultima lettera che aveva ricevuto da loro prima che morissero. L'aveva in-
corniciata e l'aveva appesa alla parete del suo studio, nel seminterrato di
casa, accanto alla sala della gloria dei Chi.
Sono impoverite, le persone di qui, ed è questo, molto più delle differen-
ze razziali, molto più della cultura, della politica, della religione, a tra-
sformare in pietra i loro cuori.
In quel momento, guardando la desolazione della zona, ripensò alle pa-
role di sua madre.
Due adolescenti di colore, che erano appoggiati contro un muro decorato
da una serie di graffiti sovrapposti, guardarono gli uomini che stavano ar-
rivando - chiaramente forze dell'ordine - e si allontanarono lentamente, i
volti che esprimevano un misto di disagio e di arroganza. Parker era preoc-
cupato, non per la pericolosità, ma per le dimensioni del posto. Erano cin-
que o sei chilometri quadrati di baracche e di casermoni, di piccole fabbri-
che e di edifici abbandonati. Come potevano riuscire a trovare il covo del
sosco in quel groviglio suburbano?
C'erano degli enigmi che Parker non era mai riuscito a risolvere.
Tre falchi...
Un ricciolo di fumo gli arrivò alle narici. Veniva dai fuochi che i senza-
tetto e i ragazzi delle bande accendevano nei bidoni di metallo, bruciando
legna e rifiuti per riscaldarsi. Vide altre carcasse di automobili. Dalla parte
opposta della strada c'era un edificio che sembrava deserto: l'unico segno
che ci vivesse qualcuno era una singola lampadina nuda accesa dietro un
asciugamano appeso a una finestra rotta.
Appena oltre la fermata della metropolitana, al di sopra di un muro di
mattoni semidiroccato, il fumaiolo del crematorio si innalzava contro il
cielo scuro della sera. Non ne usciva fumo, ma il cielo sopra l'apertura era
increspato dal calore. Forse i forni erano sempre accesi. Parker rabbrividì.
Quella vista gli ricordava vecchie immagini del...
«L'inferno», borbottò Lukas. «Sembra l'inferno.»
Parker la guardò. Lei incrociò il suo sguardo.
Cage si strinse nelle spalle in segno d'assenso.
Arrivò una macchina. Era Jerry Baker, con indosso una voluminosa
giacca a vento. Parker vide che, oltre all'uniforme da agente tattico, porta-
va anche un giubbotto antiproiettile e un paio di stivali da cowboy. Cage
gli consegnò la pila di fotografie computerizzate del sosco - la maschera
della morte. «Le useremo per chiedere in giro. Vedi quello che c'è scritto
in fondo? È l'unica descrizione che abbiamo del Becchino.»
«Non molto.»
Cage si strinse nelle spalle.
Altre automobili e furgoni cominciavano ad arrivare, i lampeggianti sui
cruscotti che si riflettevano sulle file di finestre. Automobili governative
dell'FBI. Autopattuglie bianche e nere della polizia del distretto, con i
lampeggianti in funzione. C'erano circa venticinque uomini e donne in to-
tale, la metà agenti federali, l'altra metà poliziotti in uniforme. Baker fece
loro cenno di avvicinarsi. Si riunirono intorno al furgone di Lukas. Distri-
buì le fotografie.
«Vuoi istruirli?» chiese Lukas a Parker.
«Certo.»
Lukas si voltò. «Se volete ascoltare il signor Jefferson, per favore...»
Parker impiegò un secondo a capire che stava parlando di lui. Decise che
sarebbe stato un fallimento totale come agente in incognito. «L'uomo nella
fotografia che vi è stata consegnata», disse, «è il criminale responsabile
delle sparatorie della metropolitana e del teatro. Crediamo che lavorasse in
un covo da qualche parte qui a Gravesend. Adesso è morto, ma il suo
complice - l'esecutore materiale delle stragi - è ancora a piede libero.
Quindi, abbiamo bisogno di trovare il covo, e di trovarlo alla svelta.»
«Avete un nome?» domandò uno dei poliziotti.
«Il sosco - quello morto - è un John Doe», disse Parker, tenendo alta la
fotografia. «Il killer ha un soprannome. Il Becchino. Tutto qui. La descri-
zione del killer è in fondo alla pagina.»
«Potete ridurre leggermente l'area di perlustrazione», continuò poi. «Il
covo, con ogni probabilità, si trova vicino a un cantiere edile o a un sito di
demolizioni, ed è più probabile che sia vicino al cimitero, non lontano. I-
noltre, il sosco ha comprato di recente della carta come questa...» Parker
sollevò le custodie che contenevano la lettera di estorsione e la busta. «O-
ra, la carta era sbiadita dal sole, quindi è possibile che l'abbia comprata in
un negozio che espone la merce in una vetrina rivolta verso nord. Quindi,
entrate in ogni cartoleria, in ogni drogheria, in ogni edicola che vende car-
ta. Ah, e cercate anche il tipo di penna che ha adoperato. Era una penna a
sfera AWI nera. Probabilmente costa trentanove o quarantanove centesi-
mi.»
Era tutto ciò a cui riusciva a pensare. Con un cenno del capo cedette la
parola a Lukas. Margaret si mise di fronte agli agenti e li guardò per un
lungo istante. «Adesso ascoltatemi. Come vi ha detto l'agente Jefferson, il
sosco è morto, ma il killer non lo è affatto. Non sappiamo se si trova a
Gravesend, e non sappiamo se vive nel covo. Ma voglio che vi comportiate
come se fosse tre metri dietro di voi con la pistola in pugno. Non ha nessun
problema a uccidere le forze dell'ordine. Quindi, mentre vi aggirate per il
quartiere, voglio che tutti - e dico tutti - stiate attenti ai luoghi di possibili
imboscate. Voglio la mano con cui sparate sempre libera, voglio giacche e
giubbotti sbottonati, voglio le fondine aperte.»
Tacque per un istante, guardando gli agenti che aveva di fronte. Aveva
la loro completa attenzione.
«Alle otto in punto - sì, avete sentito bene, tra poco più di due ore - il
killer andrà in un posto affollato di gente e scaricherà su quelle persone la
sua arma. Di nuovo. Ora, io non voglio dovermi trovare a lavorare sul luo-
go della sparatoria e non voglio guardare negli occhi di qualcuno che ha
appena perso un genitore o un figlio. Non voglio dover dire: Mi dispiace
ma non siamo riusciti a trovare questo animale prima che uccidesse anco-
ra. Questo non accadrà. Non permetterò che accada. E, soprattutto, voi non
lo permetterete.»
Parker si ritrovò trascinato dalle sue parole, pronunciate con voce ferma
e decisa. Pensò al discorso dei Fratelli nell'Enrico V di Shakespeare, che
era stata l'introduzione di Robby al teatro. Il bambino l'aveva imparato a
memoria il giorno dopo essere tornati dal Kennedy Center.
«D'accordo», disse Lukas. «Ci sono domande?»
«Qualche particolare in più sul suo armamento?»
«Ha adoperato un Uzi completamente automatico con caricatori lunghi e
silenziatore. Non abbiamo ulteriori informazioni.»
«Abbiamo via libera?» domandò un agente.
«Di uccidere il killer?» rispose Lukas. «Completamente. C'è altro?»
Nessuno alzò la mano. «Benissimo. Siamo su una frequenza di emergenza.
Non voglio chiacchiere. Non chiamate per dire che non avete trovato nulla.
Non mi interessa. Se vedete un probabile sospetto, chiamate rinforzi, guar-
datevi le spalle e affrontatelo. E adesso andate e trovate quel covo.»
Parker stesso si sentiva stranamente toccato da quelle parole. Erano pas-
sati anni da quando aveva usato un'arma da fuoco, ma improvvisamente si
scoprì a volere un pezzo del Becchino.
Lukas diresse le squadre di agenti e di poliziotti nelle zone di Gravesend
che voleva fossero controllate. Parker era sinceramente impressionato:
Margaret Lukas aveva un senso notevole della geografia del quartiere. Ci
sono persone, rifletté, che sono nate per fare questo mestiere.
La metà degli agenti se ne andò a piedi, altri entrarono in macchina e si
allontanarono rapidamente. Cage, Lukas e Parker rimasero in piedi sul
marciapiede. Cage fece una telefonata. Parlò per qualche secondo, poi
riagganciò.
«Tobe ha una PMC. Stanno arrivando. Sta analizzando il videotape del
teatro. Ah, e sta arrivando anche quello psicologo di Georgetown.»
La maggior parte dei lampioni era rotta: alcuni sembravano essere stati
rotti da proiettili. I pochi negozi ancora aperti illuminavano la strada di un
bagliore verde chiaro. Due agenti stavano setacciando il lato opposto della
strada. Cage si guardò intorno e vide due giovani che si sfregavano le mani
sopra un bidone in cui era acceso un fuoco. «Vado a parlare con loro», dis-
se. Entrò nel lotto abbandonato. Sembrò che i due volessero andarsene, ma
sicuramente pensarono che così avrebbero destato ancora più sospetti.
Mentre Cage si avvicinava, i loro sguardi rimasero fissi sul fuoco. Smisero
di parlare.
Lukas indicò una pizzeria a mezzo isolato di distanza. «Io prendo quel-
la», comunicò a Parker. «Vuoi restare qui ad aspettare Tobe e lo psic?»
«Certo.»
Lukas si allontanò lungo la strada, lasciandolo solo.
La temperatura continuava ad abbassarsi. Ora nell'aria c'era una punta di
gelo: quel freddo che lui amava così tanto in autunno - gli evocava ricordi
di quando accompagnava i bambini a scuola dopo aver bevuto una tazza di
cioccolata calda, di quando andava a fare la spesa per il giorno del Ringra-
ziamento, di quando sceglieva le zucche per Halloween. Ma quella sera era
consapevole soltanto della fitta dolorosa del freddo nelle narici, sulle orec-
chie e sulla punta delle dita: la sensazione era simile al taglio di un rasoio.
Si infilò le mani in tasca.
Forse a causa del fatto che la maggior parte degli agenti se n'era andata,
gli abitanti del luogo stavano lentamente tornando a occupare le strade. A
due isolati di distanza, un uomo grassottello con un impermeabile scuro
uscì da un bar, si incamminò lentamente lungo la strada, poi si infilò nella
nicchia buia di uno sportello Bancomat - per pisciare, immaginò Parker.
Una donna molto alta, o forse un travestito, chiaramente una prostituta,
uscì dal vicolo dove si era rintanata ad aspettare che la folla di agenti si di-
sperdesse.
Tre giovani di colore uscirono da una sala giochi e aprirono una bottiglia
di Colt 45 doppio malto, ridendo di gusto mentre scomparivano in un vico-
lo.
Parker si voltò e, per caso, guardò dall'altra parte della strada.
C'era un negozio di merce a buon mercato. Era chiuso, e inizialmente
Parker non vi prestò molta attenzione. Poi, però, notò alcune risme di carta
di poco prezzo sugli scaffali accanto al registratore di cassa. E se fosse sta-
to quello il negozio in cui il sosco aveva comprato la carta e la busta per la
sua lettera?
Si avvicinò alla vetrina del negozio e guardò oltre il vetro sporco, met-
tendosi le mani a coppa intorno agli occhi per sconfiggere il riflesso dell'u-
nico lampione ancora funzionante e sforzandosi di vedere meglio i pacchi
di carta. Le mani gli tremavano per il freddo. Accanto a lui, un topo di fo-
gna fece capolino da un cumulo di rifiuti. Questa è pura follia, pensò Par-
ker Kincaid. Non c'è motivo per cui io sia qui.
Ciò nonostante sollevò un braccio e, adoperando il polsino elastico del
suo bomber, ripulì la vetrina di fronte a sé con la stessa cura di un lavavetri
professionista per poter guardare meglio.

16
17,55

«Forse l'ho visto. Già, forse.»


Margaret Lukas sentì il cuore accelerare. Spinse la fotografia del sosco
più vicina all'uomo e il pizzaiolo della pizzeria di Gravesend - un latino-
americano tarchiato con indosso un grembiule macchiato di salsa di pomo-
doro - continuò a studiarla attentamente.
«Si prenda tutto il tempo che le serve», disse lei. Ti prego, pensò. Fa'
che sappia qualcosa...
«Forse. Non sono tanto sicuro. Sa com'è, qui viene un sacco di gente. Lo
sa?»
«È molto importante», ribadì Lukas.
Ricordò che il medico legale aveva trovato della carne nello stomaco del
cadavere. Sul menu di quel posto non c'erano bistecche. Ciò nonostante,
era l'unico ristorante aperto ventiquattr'ore su ventiquattro sulla strada vi-
cino alla fermata della metropolitana, e Margaret pensava che il sosco po-
tesse esservisi fermato nel corso delle ultime settimane. Magari aveva ad-
dirittura pianificato lì la sua estorsione, forse si era seduto sotto quella luce
malata, a uno dei tavoli malconci, e si era messo a scrivere la brutta copia
della lettera di ricatto mentre guardava intorno a sé quelle persone tristi
che mangiavano cibo unto, pensando arrogante a quanto era più furbo di
loro. E a quanto sarebbe diventato ricco di lì a pochi giorni.
Rise tra sé. Forse era arrogante e intelligente come lei. O come Kincaid.
Tre di loro, simili l'uno all'altro.
Tre falchi su un tetto. Uno è morto: ne rimangono due. Io e te, Parker.
Gli occhi nocciola del pizzaiolo si sollevarono e incontrarono i suoi,
quindi ricaddero timidamente sulla fotografia. Sembrò quasi una sconfitta
personale quando, alla fine, scosse la testa. «No, non credo di averlo visto.
Mi dispiace. Ehi, vuole una fetta di pizza? Quella con doppia mozzarella è
fresca fresca. L'ho appena fatta.»
Margaret scosse il capo. «Ci lavora qualcun altro, qui?»
«No, stasera solo io. Faccio il turno festivo. Anche lei, a quanto pare.»
Si sforzò di cercare qualcosa da dire. «Lavora spesso nei giorni di festa?»
«A volte», rispose Lukas. «Grazie.»
Si diresse verso la porta. Si fermò e guardò fuori.
Gli agenti dell'ufficio di Washington intanto operavano dall'altra parte
della strada. Cage stava parlando con altri teppisti nel lotto abbandonato e
Kincaid stava scrutando una bottega come se in vetrina fossero esposti i
gioielli della corona.
Gli altri agenti erano dove lei li aveva mandati. Ma aveva fatto la cosa
giusta? si chiese. E chi poteva saperlo? Si possono leggere tutti i libri del
mondo sulle tecniche di investigazione, ma alla fine quello che conta dav-
vero è l'improvvisazione. Era proprio come risolvere uno degli enigmi di
Kincaid. Era necessario saper guardare oltre le formule e oltre le regole.
Di fronte a lei, oltre la vetrina unta della pizzeria, poteva vedere le strade
desolate di Gravesend che scomparivano nel fumo e nell'oscurità. Quel po-
sto sembrava tanto grande e impenetrabile...
Voleva Tobe Geller, voleva lo psicologo di Georgetown, voleva la lista
degli abbonati ai servizi internet... Ogni cosa ci stava mettendo troppo
tempo per arrivare, e c'erano così pochi indizi! Chiuse la mano a pugno,
conficcandosi un'unghia nel palmo.
«Signorina?» disse la voce alle sue spalle. «Signorina agente? Tenga.»
Lukas si voltò. La rabbia si dissolse come vapore. Il pizzaiolo le stava
offrendo una tazza di plastica ricolma di caffè. Nell'altra mano aveva due
bustine di zucchero, un piccolo contenitore di plastica con del latte e un
cucchiaino anch'esso di plastica.
Si era ravviato i capelli con le mani, e ora la stava guardando con un'e-
spressione da cucciolo spaventato. «Fuori fa freddo», disse semplicemente.
Toccata dall'ammirazione obliqua dell'uomo, Margaret sorrise, prese la
tazza e vi versò una bustina di zucchero.
«Spero che potrà festeggiare un po', stanotte», fece lui.
«Grazie. Altrettanto a lei», rispose Lukas. Poi uscì dalla pizzeria.
Si incamminò lungo le fredde strade di Gravesend, chiedendosi dove
Margaret, la bambina scambiata, avesse nascosto Jackie Lukas, la giovane
donna soddisfatta che passava pomeriggi e pomeriggi a chiacchierare nei
giardini degli amici e dei vicini di casa.
Sorseggiò il pessimo caffè, sentendo il vapore caldo riempirle la bocca.
Faceva sempre più freddo.
Fa' pure, pensò. Sempre più freddo. Quel giorno era stato fin troppo si-
mile a un giorno d'autunno, per lei. Ti prego... voglio la neve.
Scrutò la strada. I due agenti non si vedevano più, probabilmente erano
nell'isolato adiacente. Anche Cage era sparito. E Kincaid era ancora inten-
to a guardare la vetrina del negozio.
Kincaid...
Chissà qual era la sua vera storia. Rinunciare a un posto di agente spe-
ciale incaricato... Lukas non riusciva a capirlo: un ASI era la destinazione
successiva sulla sua personale rotta verso un posto da direttore di sezione.
E poi oltre. Eppure, nonostante non capisse per quale motivo Kincaid a-
vesse rinunciato, lo rispettava di più proprio perché aveva detto di no inve-
ce di accettare il lavoro senza averne davvero voglia.
Ma che cosa giustificava le barriere che aveva eretto intorno alla sua vi-
ta? Non riusciva a immaginarlo, ma le poteva vedere chiaramente: Marga-
ret Lukas era una donna che conosceva molto bene le barriere. Pensò a se
stessa - o, piuttosto, alle sue se stesse, plurale. Jackie e Margaret. E, ripen-
sando alla favola della bambina scambiata che aveva letto anni prima, si
chiese che genere di libri Kincaid leggesse ai suoi figli. Il dottor Seuss, na-
turalmente - a causa del soprannome che aveva dato loro. E probabilmente
Winnie the Pooh. E poi tutte le favole di Disney. Se lo immaginò in quella
sua comoda casa nei sobborghi, molto simile alla casa in cui Jackie aveva
vissuto, seduto in soggiorno, il fuoco acceso nel caminetto, intento a legge-
re per i suoi figli sdraiati accanto a lui.
Il suo sguardo si soffermò casualmente su una giovane coppia ispanica
che camminava sul marciapiede verso la zona operativa. La moglie avvolta
in una pesante sciarpa nera, il marito con una giacca leggera con il logo
della Texaco sul davanti. Spingeva un passeggino, all'interno del quale
Lukas intravide per un attimo un bambino piccolo avvolto in fasce, soltan-
to il faccino esposto. Pensò istintivamente a che tipo di flanella avrebbe
comprato per cucire un paio di Dr. Dentons per quel neonato.
Poi la coppia passò oltre.
Oh, Kincaid, ti piacciono gli indovinelli, vero?
Be', eccone uno per te. Quello della moglie e della madre.
Come si può essere una moglie senza un marito? Come si può essere
una madre senza un bambino?
È insidioso da risolvere. Ma tu sei intelligente, tu sei arrogante, tu sei il
terzo falco. Ce la puoi fare a trovare la soluzione, Parker.
Lukas, sola nella strada deserta, si appoggiò a un lampione, lo circondò
con un braccio - il braccio destro, ignorando i suoi stessi ordini di tenere la
mano che spara sempre libera. Afferrò il metallo con forza, con dispera-
zione. Lottò con se stessa per non scoppiare in singhiozzi.
Una moglie senza marito, una madre senza bambino...
Ti arrendi, Parker?
Io sono la risposta all'indovinello. Perché sono la moglie di un uomo
che giace nella terra fredda dell'Alexandria Cemetery. Perché sono la ma-
dre di un bambino che giace accanto a lui.
L'indovinello della moglie e della madre...
Eccone un altro: come può bruciare il ghiaccio?
Quando un aereo precipita dal cielo in un campo in una buia mattina di
novembre, due giorni prima del Ringraziamento, un caldo giorno d'autun-
no, ed esplode in un milione di fragili frammenti di metallo, plastica e
gomma.
E carne.
Ecco come può bruciare il ghiaccio.
Ed ecco come sono stata scambiata. Come sono diventata quella che so-
no. Una bambina scambiata.
Oh, sì, gli enigmi sono davvero facili quando conosci la risposta, Par-
ker.
Così semplici, così semplici...
Calmati, pensò, lasciando la presa sul lampione. Trasse un respiro pro-
fondo. Scacciò il bisogno di piangere. Non c'era tempo.
Una cosa che l'agente speciale Lukas non tollerava era la distrazione.
Aveva due regole che ripeteva incessantemente alle nuove reclute dell'uf-
ficio. La prima era: «I particolari non sono mai abbastanza». La seconda
era: «Focalizzare».
E «focalizzare» fu ciò che in quel momento ordinò a se stessa di fare.
Un altro respiro profondo. Si guardò intorno. Vide un movimento in un
lotto abbandonato nelle vicinanze, un ragazzino con i colori di una banda.
Era accanto a un bidone di metallo, in attesa di qualcuno dei suoi amici.
Aveva un atteggiamento tipico da teen ager, un atteggiamento che era mol-
to più pericoloso di quello di un trentenne, Lukas lo sapeva per esperienza.
Il ragazzino la guardò diritta negli occhi.
Poi, più oltre sulla strada, a un isolato di distanza, credette di scorgere
qualcuno nella nicchia dello sportello Bancomat. Strizzò gli occhi per ve-
dere meglio. C'era davvero qualcuno? Qualcuno che si nascondeva nel-
l'ombra?
No, nessun altro movimento. Doveva essere stata la sua immaginazione.
Be', d'altra parte quello era il posto giusto per entrare in agitazione.
Gravesend...
Buttò via ciò che restava del caffè e si diresse verso il ragazzino per ve-
dere se sapeva qualcosa del sosco. Si tolse dalla tasca la fotografia stampa-
ta a computer e aggirò facilmente i pezzi di automobile arrugginiti e le pile
di rifiuti che ingombravano la strada allo stesso modo in cui Jackie Lukas
era solita spostarsi tra i banchi dei profumi da Macy's mentre si dirigeva a
una svendita al reparto abbigliamento femminile.

Parker si allontanò dalla vetrina, deluso.


La carta che aveva visto all'interno del negozio non era la stessa della
lettera di estorsione, e nemmeno le buste corrispondevano. Guardò le stra-
de deserte intorno a sé. Dov'era la PMC? Aveva i brividi. Pensò: Il giub-
botto invernale di Stephie è diventato troppo piccolo. Dovrò comprarglie-
ne uno nuovo. E Robby? Aveva il piumino sintetico, quello rosso, ma forse
gli avrebbe comprato un giubbotto di pelle come il suo, che gli piaceva
tanto.
Rabbrividì, cercando di scaldarsi.
Dove diavolo era quel furgone? Avevano bisogno della lista degli abbo-
nati ai servizi on line. E delle informazioni sui permessi di costruzione e
demolizione della zona. Si domandò anche cosa avrebbe rivelato la video-
cassetta della sparatoria.
Si guardò intorno ancora una volta. Lukas e Cage non si vedevano da
nessuna parte. Osservò una giovane coppia - sembravano ispanici - che
spingeva un passeggino verso di lui. Erano a circa quindici metri di distan-
za. Ripensò ai tempi in cui, Robby appena nato, lui e Joan andavano a farsi
una passeggiata dopo cena con il passeggino, proprio come quei due.
Poi, d'un tratto, vide con la coda dell'occhio l'uomo nascosto nella nic-
chia del Bancomat. Si chiese distrattamente che cosa ci facesse ancora li.
Poi decise di rendersi utile e sfilò dalla tasca una fotografia dell'uomo mor-
to. Avrebbe chiesto anche a lui.
Ma stava succedendo qualcosa di strano...
L'uomo sollevò lo sguardo e, nonostante Parker non fosse in grado di
vedere chiaramente nell'ombra, sembrava che lo stesse fissando. Poi si in-
filò una mano dentro l'impermeabile e ne tirò fuori qualcosa, un oggetto
nero e lucido, e si incamminò verso di lui.
Parker si immobilizzò. Era l'uomo che li aveva seguiti vicino agli Archi-
vi!
Era il Becchino!
Parker si mise una mano in tasca, in cerca della pistola.
Ma la pistola non c'era.
Ricordò l'arma che gli premeva contro il fianco mentre era seduto nella
macchina di Cage. Se l'era sistemata nella tasca. Doveva essergli caduta
sul sedile anteriore.
L'uomo lanciò un'occhiata alla coppia, che ora era tra lui e Parker, e sol-
levò l'oggetto che aveva in mano.
«State giù!» gridò Parker alla coppia. I due smisero di camminare e lo
guardarono, incerti.
«Giù!» gridò di nuovo Parker, tentando di balzare nell'ombra di un vico-
lo, ma inciampò su un cumulo di spazzatura e cadde pesantemente a terra.
L'impatto gli tolse il fiato. Rimase sdraiato su un fianco, annaspando, inca-
pace di muoversi mentre l'uomo si avvicinava sempre più. Tentò di chia-
mare la coppia ancora una volta, ma la voce gli uscì in un ansito privo di
forza.
Dov'era Cage? Parker non riusciva a vederlo. Né lui, né Lukas, né nes-
suno degli altri agenti.
«Cage!» chiamò, ma la sua voce era poco più di un sussurro.
L'uomo si voltò verso la coppia, che si trovava a meno di cinque metri
da lui. I due continuarono a non voltarsi.
Parker tentò di rialzarsi, agitando disperatamente le braccia per far capi-
re ai due di buttarsi a terra. Il Becchino fece un passo in avanti, il viso una
maschera priva di qualsiasi emozione. Una pressione sul grilletto e la gio-
vane coppia sarebbe morta all'istante insieme al bambino.
L'uomo sollevò l'arma.
«State... giù!» ringhiò Parker, accovacciandosi al suolo.
L'uomo avanzò ancora.
Poi una voce femminile gridò brusca: «Fermo! Siamo agenti federali!
Lascia cadere l'arma, altrimenti spariamo!»
L'uomo si voltò ed emise un grido strozzato.
«Buttala giù, buttala giù, buttala giù!» continuò Lukas. Stava urlando,
ora, avanzando con passo deciso, la mano distesa davanti a sé e la pistola
puntata perfettamente sul petto dell'uomo.
L'uomo lasciò cadere ciò che aveva in mano e alzò di scatto le braccia.
Cage stava attraversando di corsa la strada con la pistola in pugno.
«Faccia a terra!» gridò Lukas. «Faccia a terra!»
Il suo tono di voce era tanto primitivo, così crudo, che Parker faticava a
riconoscerla.
L'uomo cadde come un tronco.
Cage stava parlando al telefono, chiedendo rinforzi. Parker vide altri a-
genti che arrivavano di corsa. Si alzò faticosamente da terra.
Lukas era accovacciata a terra, la pistola premuta contro l'orecchio del
killer.
«No, no, no», si stava lamentando lui. «Vi prego...»
Lukas lo ammanettò usando solo la mano sinistra, senza mai togliere la
pistola dal suo bersaglio.
«Che cosa diavolo sta...» ansimò l'uomo.
«Sta' zitto!» sbottò Lukas, rossa in volto come il suo prigioniero. Gli
spinse la pistola contro la testa con maggior forza. Dal ventre dell'uomo si
sollevò una nuvola di vapore: per la paura, se l'era fatta addosso.
Parker si teneva il fianco, lottando per riprendere fiato.
Lukas, anch'essa ansimante, indietreggiò e rimise la pistola nella fondi-
na. Andò al centro della strada, gli occhi contratti e gelidi. Guardò prima
Parker, poi il sospetto. Si avvicinò alla giovane coppia e parlò con loro per
qualche istante. Scrisse i loro nomi su un taccuino e li fece proseguire. Il
padre guardò incerto verso Parker, poi spinse la moglie in una strada se-
condaria, lontana dall'accaduto.
Mentre Cage perquisiva l'uomo, uno degli altri agenti si avvicinò all'ar-
ma e la raccolse.
«Non è una pistola. È una videocamera.»
«Cosa?!» esclamò Cage.
Parker si accigliò. Era vero. Era soltanto una videocamera. Si era rotta
cadendo sull'asfalto.
Cage si alzò. «È pulito.» Guardò nel portafogli in pelle di serpente del-
l'uomo. «Andrew Sloan. Vive a Rockville.»
Uno degli altri agenti prese la radio e richiese un controllo penale, fede-
rale, per il Maryland e per la Virginia.
«Non potete...» iniziò a protestare Sloan.
Lukas fece un passo avanti. «Tu tieni la bocca chiusa finché non ti di-
ciamo che puoi aprirla», ringhiò. «Capito?» La sua rabbia era quasi imba-
razzante. Si accovacciò e gli sussurrò all'orecchio: «Ci siamo capiti?»
«Capito», rispose Sloan a bassa voce.
Cage prese uno dei biglietti da visita di Sloan dal portafogli e lo mostrò
a Lukas e Parker. C'era scritto Northeast Security Consultants. «È un inve-
stigatore privato», fece Cage.
«Nessun mandato di cattura a suo nome», riferì l'agente che aveva parla-
to via radio.
Lukas rivolse un cenno a Cage.
«Chi è il tuo cliente?» domandò Cage.
«Non sono tenuto a rispondere.»
«Eh no, Andy, devi rispondere proprio, mi sa», disse Cage.
«L'identità del mio cliente è confidenziale», recitò Sloan.
Arrivarono altri due agenti. «Tutto sotto controllo?» domandò il primo.
«Sì», borbottò Cage. «Tiratelo su.»
I due agenti misero l'investigatore a sedere senza troppe cerimonie e lo
lasciarono sul marciapiede. Sloan si guardò il davanti dei pantaloni. La
chiazza bagnata non parve imbarazzarlo più di tanto, ma solo aumentare la
sua collera. «Stronzo», disse a Cage. «Ho una laurea in legge. Conosco i
miei diritti. Se voglio girare un video di voi che fate qualsiasi cosa, posso
farlo. Siamo su una strada pubblica e...»
Lukas gli arrivò alle spalle e si abbassò. «Chi... è... il tuo... cliente?»
Ma Parker si chinò in avanti e fece cenno a Cage di togliersi da sotto il
lampione per poter guardare meglio. «Aspetta», disse, «lo conosco.»
«Davvero?» domandò Lukas.
«Sì. L'ho visto da Starbucks seduto vicino a me. E credo anche in un al-
tro paio di posti, negli ultimi giorni.»
Cage diede un calcetto sulla gamba dell'uomo. «Stai seguendo il mio
amico, eh? L'hai seguito negli ultimi giorni?»
Oh, no, pensò Parker. Finalmente aveva capito. Oh, Gesù...
«Il suo cliente è Joan Marel», disse.
«Chi?»
«La mia ex moglie.»
Il viso di Sloan non mostrò alcuna reazione.
Parker era disperato. Chiuse gli occhi. Merda, merda, merda... Fino a
quella sera, ogni singolo centimetro di nastro che l'investigatore poteva a-
ver girato avrebbe mostrato Parker come un padre attento e diligente. Un
padre che andava agli incontri con gli altri genitori, che si faceva trenta
chilometri al giorno per accompagnare i figli a scuola e a fare sport, che
cucinava, faceva la spesa, puliva la casa, asciugava le lacrime e suonava un
pianoforte Suzuki.
Ma quella sera... proprio quella sera... Sloan era testimone oculare del
fatto che Parker si trovava nel bel mezzo di una delle azioni di polizia più
pericolose della città. In pericolo, dopo aver mentito ai suoi figli e averli
affidati a una babysitter in un giorno di festa...
Signor Kincaid, come lei sa bene, i servizi sociali sarebbero disposti a
piegarsi in due pur di sistemare i bambini con la loro madre naturale. In
questo caso, però, siamo inclini ad affidarli a lei, alla condizione che lei
possa assicurare alla Corte che non vi è possibilità alcuna che la sua car-
riera possa mettere a repentaglio in alcun modo il benessere di Robby e
Stephanie...
«È vero?» chiese Cage a Sloan con voce minacciosa.
«Sì, sì, sì», confermò Sloan. «È stata lei ad assumermi.»
Cage vide l'espressione di Parker e gli chiese: «È un problema?»
«Sì, è un problema.»
È la fine del mondo...
Cage scrutò l'investigatore privato. «Quella faccenda della custodia dei
figli?» domandò a Parker.
«Esatto.»
Disgustata, Lukas disse: «Portatelo via di qui. Ridategli la sua videoca-
mera».
«È rotta», sbottò Sloan. «Me la ripagherete. Oh, ci potete scommettere
che mi risarcirete.»
Cage gli levò le manette. Sloan si rimise in piedi, barcollando. «Credo di
essermi rotto il pollice. Mi fa un male cane.»
«Mi dispiace davvero, Andy», disse Cage. «E i tuoi polsi come stanno?»
«Mi fanno male. Ve lo devo proprio dire, inoltrerò un reclamo formale.
Quella me le ha messe troppo strette. Ho ammanettato anch'io della gente.
Non c'è bisogno di stringerle così tanto.»
Che cosa farò adesso? stava pensando Parker. Fissava l'asfalto, le mani
conficcate in fondo alle tasche.
«Andy», domandò Cage, «eri tu quello che ci seguiva sulla Nona Stra-
da? Un'ora fa, più o meno?»
«Forse. Ma anche lì non stavo infrangendo nessuna legge. Pensaci bene,
amico. In pubblico posso fare tutto ciò che voglio.»
Cage si avvicinò a Lukas e le sussurrò qualcosa. Lei fece una smorfia,
guardò l'orologio e poi annuì.
«Senta, signor Sloan», esordì Parker. «C'è la possibilità che io e lei si
possa parlarne?»
«Parlare? E di cosa? Io consegno il nastro alla mia cliente, le dico ciò
che ho visto. Non c'è altro. Potrei fare causa anche a lei.»
«Andy, qui c'è il tuo portafogli.» Cage gli si avvicinò e glielo riconse-
gnò. Poi abbassò la testa e cominciò a sussurrare qualcosa all'orecchio del-
l'uomo. Sloan fece per parlare, ma l'agente sollevò un dito. L'investigatore
continuò ad ascoltare. Due minuti dopo, Cage smise di parlare. Guardò
l'altro diritto negli occhi. Sloan gli fece una domanda. Cage scosse il capo,
sorridendo.
Poi tornò da Lukas e Parker, con l'investigatore alle sue spalle.
«Ora, Andy», lo esortò Cage, «di' al signor Kincaid chi è il tuo datore di
lavoro.»
Parker, ancora in preda alla disperazione, ascoltò distrattamente.
«La Northeast Security Consultants», rispose l'investigatore privato, le
mani giunte sul davanti come se avesse ancora le manette.
«E qual è la tua posizione nell'azienda?»
«Sono uno specialista di sicurezza.»
«E per quale cliente stai lavorando questa sera?» domandò Cage.
«Per la signora Joan Marel», dichiarò Sloan con voce piatta.
«Per fare cosa?» domandò Cage, come un avvocato durante un controin-
terrogatorio.
«Per seguire suo marito. Voglio dire, il suo ex marito. E per trovare delle
prove da usare contro di lui nella causa di affidamento dei figli.»
«E hai visto qualcosa che la signora Marel potrebbe usare a proprio van-
taggio nel corso della causa?»
«No, niente.»
Quest'ultima frase richiamò l'attenzione di Parker.
«In realtà», continuò l'uomo, «il signor Kincaid mi sembra un padre...»
La sua voce esitò.
«Senza difetti», lo incalzò Cage.
«Un padre senza difetti...» Sloan esitò nuovamente. Poi disse: «Sapete,
probabilmente io direi 'perfetto'. Mi sentirei più a mio agio dicendolo».
«D'accordo», concesse Cage. «Puoi dire 'perfetto'.»
«Un padre perfetto. E non ho mai visto nulla... ehm.» Ci pensò su per un
momento. «Non gli ho mai visto fare nulla che potesse mettere a repenta-
glio l'incolumità o la felicità dei suoi figli.»
«E non hai girato nessuna videocassetta con lui che fa qualcosa di peri-
coloso?»
«Nossignore. Non ho filmato proprio niente. Non ho visto nulla che po-
tesse essere utile alla mia cliente.»
«Che cosa dirai alla tua cliente quando la vedrai? A proposito di questa
sera, voglio dire...»
«Le dirò la verità», fece Sloan.
«Ovvero?»
«Che il signor Kincaid è andato a trovare un amico in ospedale.»
«Quale ospedale?» domandò Cage a Sloan.
«Quale ospedale?» chiese Sloan a Parker.
«Fair Oaks.»
«Sì», fece Sloan con voce contrita, «è lì che sono andato.»
«Te la ripasserai?» domandò Cage. «Non è venuta molto bene.»
«Sì. Me la studierò bene. Sarà perfetta.»
«Okay, e adesso sparisci.»
Sloan tolse la videocassetta da ciò che restava della videocamera e la
porse a Cage, che la gettò tra le fiamme di un bidone.
L'investigatore si allontanò, voltandosi indietro a guardare come per ve-
dere quale degli agenti gli avrebbe sparato alle spalle.
«Come diavolo ci sei riuscito?» borbottò Parker.
Cage si strinse nelle spalle. Parker immaginò che significasse: Non chie-
dermelo.
Cage, l'uomo dei miracoli...
«Grazie», gli disse Parker. «Non sai cosa sarebbe successo se...»
«Kincaid, dove accidenti era la tua arma?» lo interruppe la voce brusca
di Lukas.
Parker si voltò verso di lei. «Credevo di averla. Dev'essere in macchi-
na.»
«Non ricordi la procedura? Ogni volta che si arriva sulla scena di una
possibile azione si controlla di avere con sé la propria arma e che sia per-
fettamente funzionante. Te l'hanno insegnato alla prima settimana di Ac-
cademia!»
«Io...»
Il volto di Lukas era nuovamente contratto in una gelida smorfia di col-
lera. «Cosa credi che stiamo facendo qui?» sbottò in un sussurro irato.
«Continuo a dirtelo che non sono un agente tattico», ribatté Parker.
«Non penso in termini di armi.»
«'Pensare in termini'?» sibilò lei, cinica. «Senti, Kincaid, negli ultimi
cinque anni hai vissuto nel Paese dei balocchi. Puoi tornarci anche subito e
che Dio ti benedica e grazie per l'aiuto. Ma se resti con noi, allora ti porti
dietro la tua arma e ti becchi la tua parte di carico. Tu potrai anche essere
abituato a fare il babysitter, ma noi no. Allora che fai, resti o te ne vai?»
Cage era immobile. Nemmeno la più piccola stretta di spalle.
«Resto.»
«Okay.»
Lukas non sembrò né soddisfatta dell'accondiscendenza di Parker né
mortificata per il tono che aveva usato. «Adesso rimettiamoci al lavoro»,
disse. «Non abbiamo molto tempo.»

17
18,15

Il grosso camper Winnebago sussultava sulle strade sconnesse di Grave-


send.
Era la PMC. La postazione mobile di comando. Il camper era costellato
di adesivi.
NORTH CAROLINA AKC DOG SHOW
ATTENZIONE: FRENO DAVANTI A UN CANE
I BRACCHI SONO LA NOSTRA PASSIONE
Parker si domandò se gli adesivi fossero intenzionali - sistemati per in-
gannare i criminali - o se l'FBI avesse comprato il furgone di seconda ma-
no da un vero allevatore.
Il camper si accostò al marciapiede e Lukas fece cenno a Cage e a Par-
ker di entrare. Una zaffata proveniente dall'interno della PMC confermò a
Parker che il furgone era appartenuto davvero a dei proprietari di cani. Ciò
nonostante, dentro era caldo e comodo; Parker aveva i brividi per il freddo
e per lo spavento causato dall'investigatore privato, e fu felice di lasciarsi il
gelo alle spalle.
Tobe Geller era seduto alla consolle di un computer e stava fissando il
monitor. L'immagine sullo schermo era frammentata in migliaia di pixel
squadrati, e assomigliava a un mosaico astratto. Geller digitava sulla tastie-
ra, muoveva il mouse, inseriva righe di comando.
Vicino a lui era seduto il detective Len Hardy. C.P. Ardell, con i suoi je-
ans taglia extralarge, era infilato in una delle cabine contro la parete inter-
na. Lo psicologo di Georgetown non era ancora arrivato.
«È il video della sparatoria al Mason Theater», disse Tobe Geller senza
mai staccare gli occhi dallo schermo.
«Niente di utile?» gli domandò Lukas.
«Non molto», borbottò il giovane agente. «Non ancora, almeno. Ecco
com'è l'immagine a pieno schermo, in tempo reale.»
Premette qualche tasto e l'immagine si rimpicciolì, facendosi distinta.
Era una vista semibuia dell'interno del teatro, molto sfocata e traballante.
La gente stava scappando in cerca di riparo.
«Quando il Becchino ha cominciato a sparare», spiegò C.P., «un turista
tra il pubblico ha acceso la videocamera.»
Geller digitò qualcos'altro e l'immagine si fece leggermente più chiara.
Poi fermò il nastro.
«Quello?» domandò Cage toccando lo schermo. «Quello è lui?»
«Sì», rispose Geller. Fece ripartire il nastro, ora al rallentatore.
Parker non riusciva a vedere praticamente nulla di chiaro. La scena era
già buia di per sé, e la videocamera continuava a sobbalzare seguendo i
movimenti frenetici del suo possessore. Via via che i fotogrammi scorre-
vano al rallentatore, una luce debole, proveniente dall'arma, sbocciò al
centro della chiazza scura che Tobe Geller aveva identificato come il Bec-
chino.
«Fa quasi più paura», disse Hardy, «non vedere esattamente cosa sta
succedendo.»
Parker assentì in silenzio. Lukas, chinata in avanti, fissava intensamente
lo schermo.
«Ora, questo fotogramma è il più chiaro», continuò Geller. L'immagine
si fermò. Geller azionò lo zoom, ma quando i pixel si allargarono persero
tutta la definizione, e ben presto la scena si ridusse a un guazzabuglio di
quadratini luminosi e di quadratini bui. «Ho tentato di incrementare la de-
finizione per vedere la faccia. Sono sicuro al novanta per cento che sia un
bianco. Ma questo è press'a poco tutto ciò che siamo in grado di dire.»
Parker aveva visto qualcosa. «Riduci lo zoom», disse. «Piano.»
Quando Geller digitò i comandi appropriati, i quadratini si fecero più
piccoli, riacquistando coerenza.
«Stop», ordinò Parker.
L'immagine mostrava il Becchino dal torace in su.
«Guardate quello.»
«Cosa?» domandò Lukas.
«Io non vedo niente», fece Hardy strizzando le palpebre.
Parker puntò un dito sullo schermo. Al centro di quello che con tutta
probabilità era il petto del Becchino c'erano alcuni pixel più brillanti, cir-
condati da altri più scuri a forma di V che, a loro volta, erano attorniati da
pixel molto più scuri.
«È solo un riflesso», disse Lukas, distratta e impaziente. Guardò l'orolo-
gio.
Parker insistette. «Vero. Ma su cosa si riflette la luce?»
Rimasero in silenzio per un attimo. Poi Geller esclamò: «Ah!» con un
sorriso. «Credo di aver capito.»
«Cos'è, Tobe?» gli chiese Parker.
«Non sei un buon cattolico, Parker?»
«Non io, no.» Era un presbiteriano non praticante che riteneva la teolo-
gia di Guerre stellari più appetibile della maggior parte delle religioni esi-
stenti.
«Io sono andato a scuola dai gesuiti», disse Hardy. «Se può essere d'aiu-
to.»
In realtà Geller non era interessato alla storia spirituale di nessuno dei
suoi colleghi. Si mosse verso un ripiano spingendo la sua poltroncina gire-
vole. «Proviamo questo.» Aprì un cassetto, prese una piccola videocamera
digitale e la passò a Parker. La collegò a un computer, quindi piegò una
graffetta a forma di croce, si slacciò due bottoni della camicia e si tenne la
graffetta contro il petto. «Filmami», disse. «Devi soltanto premere quel
bottone.»
Parker lo fece, poi gli restituì la videocamera. Geller si voltò verso il
computer, premette qualche tasto e sullo schermo comparve la sua imma-
gine. «Che bel tipo», disse Geller con un sorriso. Digitò un altro comando
e azionò lo zoom, mantenendo il colore argenteo e brillante della graffetta
al centro dello schermo. L'immagine si dissolse assumendo esattamente la
stessa disposizione di pixel luminosi dell'immagine del Becchino.
«L'unica differenza», fece notare Geller, «è che la sua croce ha una tinta
giallastra. Quindi il nostro ragazzo porta un crocifisso d'oro.»
«Aggiungi il particolare alla nostra descrizione del killer e mandalo agli
altri», ordinò Lukas. «E di' loro che abbiamo la conferma che è di razza
bianca.» Cage passò l'informazione via radio a Jerry Baker e gli disse di
comunicarlo a tutti gli agenti.
L'unica caratteristica identificativa del Becchino: portava un crocifisso.
Era religioso?
Si trattava soltanto di un portafortuna?
O magari l'aveva strappato dal collo di una delle sue vittime come trofe-
o?
Il telefono di Cage squillò. L'agente rimase in ascolto. Riagganciò. Si
strinse nelle spalle, scoraggiato. «Il mio contatto alla FAA. Hanno chiama-
to tutti gli operatori della zona per il noleggio degli elicotteri. Un uomo
corrispondente alla descrizione del sosco ha stipulato un contratto per un
elicottero con una compagnia di Clinton, nel Maryland. Ha dato il nome
Gilbert Jones.»
«Jones?» commentò sarcastico C.P. Ardell. «Merda, questo sì che è ori-
ginale.»
«Ha pagato in contanti», continuò Cage. «Il pilota doveva raccogliere un
carico non specificato a Fairfax, dopo di che ci sarebbe stato un altro volo
di un'ora. Ma Jones non gli ha detto dove. Avrebbe dovuto comunicare le
istruzioni al pilota alle dieci e mezza di questa mattina, ma non l'ha mai
fatto. Il pilota è a posto.»
«Jones gli ha dato un indirizzo o un numero di telefono?»
Cage si strinse nelle spalle. L'aveva fatto, ma erano entrambi falsi.
Il portellone posteriore si aprì. Un uomo con una giacca a vento dell'FBI
rivolse un cenno a Margaret Lukas.
«Ciao, Tom», disse lei.
«Agente Lukas, c'è il dottor Evans.»
Lo psicologo.
L'uomo entrò nel furgone. «Buonasera», disse. Il dottor John Evans era
più minuto di quanto potesse far pensare la sua voce profonda e suadente. I
capelli neri erano striati di grigio, e portava una barba accuratamente tenu-
ta. A Parker piacque immediatamente. Aveva un sorriso tranquillo e rassi-
curante come i suoi vecchi pantaloni e la felpa grigia che indossava e, al
posto di una valigetta, portava un grosso zaino. I suoi occhi erano rapidi e,
prima ancora di essere entrato del tutto nel camper, aveva già esaminato
tutti i presenti.
«La ringrazio per essere venuto fin qui», gli disse Lukas. «Questi sono
gli agenti Cage e Geller. Quello laggiù è l'agente Ardell. Il detective
Hardy. Io mi chiamo Lukas. E questo è Parker Kincaid, è un perito calli-
grafo che un tempo lavorava per l'FBI.» Poi aggiunse: «La presenza di
Parker Kincaid qui è strettamente confidenziale, e apprezzeremmo molto
se lei non menzionasse per alcun motivo il suo coinvolgimento nell'inda-
gine».
«Capisco», disse Evans. «Anch'io svolgo molto lavoro in forma anoni-
ma. Avevo intenzione di metter su un sito web, ma temo di beccarmi trop-
pe fregature.» Si sedette. «Ho sentito dell'incidente al Mason Theater. Che
cosa sta succedendo esattamente?»
Cage gli fece un rapido riassunto, riferendo dettagliatamente delle spara-
torie, della morte del mandante, della lettera di estorsione e del killer.
Evans esaminò la fotografia del cadavere. «E così state cercando di capi-
re dove il suo socio colpirà la prossima volta.»
«Esattamente», confermò Lukas. «Tutto ciò che ci serve è un quarto d'o-
ra di preavviso. Possiamo mandare una squadra tattica sul posto per fer-
marlo. Ma abbiamo bisogno di quei quindici minuti.»
«Ha sentito già il nome, prima?» domandò Parker. «Il Becchino?»
«Ho fatto qualche ricerca quando ho sentito parlare di quanto è accadu-
to. C'era un uomo in California, negli anni Cinquanta. Veniva chiamato il
Tombarolo. È stato ucciso in prigione qualche mese dopo il suo arrivo. Il
carcere maschile di Obispo. Non faceva parte di una setta o roba del gene-
re, comunque. Poi c'era una banda di motociclisti a Scottsdale; si facevano
chiamare i Tombaroli. Ma si sono sciolti a metà degli anni Settanta, e non
ho alcun elemento su nessuno di loro.»
«Chiama il dipartimento di Polizia di Scottsdale», disse Lukas a Geller,
«e vedi se hanno qualcosa su di loro.»
L'agente fece la telefonata.
«Ora, l'unico riferimento specifico a un Becchino è un uomo nell'Inghil-
terra degli anni Trenta. John Barnstall. Era un nobile - un visconte o qual-
cosa del genere. Viveva a Devon. Diceva di avere una famiglia, ma appa-
rentemente viveva da solo nella sua tenuta. Alla fine si è scoperto che Bar-
nstall aveva ucciso sua moglie e i suoi figli e due o tre contadini del luogo.
Aveva scavato sotto la casa una serie di tunnel dove teneva i corpi. Li ave-
va imbalsamati.»
«Accidenti», commentò Hardy.
«Così i giornalisti l'hanno chiamato il Becchino perché scavava i tunnel.
Una gang di Londra ha preso il nome da lui negli anni Settanta, ma era po-
ca cosa.»
«C'è qualche possibilità», gli chiese Lukas, «che il sosco o il Becchino
stesso abbiano sentito parlare di Barnstall? Usandolo come una sorta di
modello?»
«Non posso dirlo, davvero. Ho bisogno di più informazioni. Dobbiamo
identificare degli schemi nel loro comportamento.»
Schemi, rifletté Parker. Scoprire schemi ricorrenti nei documenti di dub-
bia provenienza era l'unico modo per smascherare un falso: l'angolo delle
oblique nella costruzione delle lettere, i punti di pressione e di sollevamen-
to della penna, la forma delle discendenti nelle y, g e q minuscole, il grado
di tremito. Non si poteva mai giudicare un falso in modo isolato. «Do-
vrebbe sapere una cosa», disse a Evans. «Questa potrebbe non essere la
prima volta che il Becchino e il suo complice hanno fatto una cosa del ge-
nere.»
«Uno scrittore free lance si è messo in contatto con noi», disse Lukas.
«È convinto che le sparatorie facciano parte di uno schema di crimini simi-
li.»
«Dove?»
«A Boston, nei sobborghi di New York e a Philadelphia. Sempre la stes-
sa modalità: l'estorsione era il crimine principale, con omicidi tattici per
sostenerla.»
«Sempre soldi?» domandò Evans.
«Esatto», gli rispose Parker. «Be', una volta ha preso dei gioielli.»
«Allora non sembra che ci sia alcun collegamento con Barnstall. Nel suo
caso, la diagnosi probabile era schizofrenia paranoide, non comportamento
antisociale generalizzato come il vostro criminale. Ma vorrei sapere di più
dei crimini commessi nelle altre città. E scoprire qualcos'altro sul suo
modus operandi di oggi.»
«Quello che stiamo cercando di fare qui», intervenne Hardy, «è tentare
di trovare il suo rifugio. Potrebbe contenere molte informazioni.»
Lukas scosse il capo, delusa. «Speravo che il nome 'Becchino' signifi-
casse qualcosa. Pensavo potesse essere la chiave.»
«Oh, ma è ancora possibile che lo sia», sbottò Evans. «La buona notizia
è che non è un nome molto comune. Se è stato il complice, l'uomo morto, a
trovare il nome, ciò ci dice qualcosa di lui. Se invece fosse stato il Becchi-
no stesso a battezzarsi così... be', questo ci dice qualcosa di lui. Vedete,
l'atto di nominare - designare - è molto importante per l'ottenimento di un
profilo psicologico.»
Guardò Parker. «Quando io e lei ci autodefiniamo 'consulenti', ci sono
delle implicazioni psicologiche. In realtà, stiamo dicendo che siamo dispo-
sti a rinunciare a una certa quantità di controllo sulla situazione in cambio
di un certo isolamento dai rischi e dalle responsabilità.»
Ha ragione al cento per cento, pensò Parker.
«Sapete», continuò Evans, «sarei contento di restare qui intorno per un
po'. Per vedere se trovate qualche altra informazione.» Rise di nuovo, indi-
cando la fotografia presa all'obitorio. «Non ho mai fatto il profilo a un ca-
davere, prima. Sarà una bella sfida professionale.»
«Il suo aiuto ci farebbe comodo», disse Lukas.
Evans aprì lo zaino e ne estrasse un thermos metallico decisamente di
grosse proporzioni. Aprì il coperchio-tazza e vi versò del caffè nero. «Sono
dipendente», disse, poi sorrise. «È una cosa che uno psicologo non do-
vrebbe ammettere, suppongo. Qualcuno ne vuole?»
Rifiutarono tutti, ed Evans rimise a posto il thermos. Poi prese il cellula-
re e chiamò sua moglie per informarla che avrebbe fatto tardi.
La qual cosa rammentò a Parker i Chi. Prese anch'egli il cellulare e
chiamò a casa.
«Pronto?» rispose la voce da nonna buona della signora Cavanaugh.
«Sono io», disse Parker. «Come va il fortino?»
«Mi stanno portando alla bancarotta. E poi, tutte queste banconote di
Guerre stellari, non riesco proprio a capire. I piccoli mi confondono di
proposito.» Rise insieme ai bambini, che dovevano essere nelle vicinanze.
«Come se la cava Robby?» domandò Parker. «È ancora scombussola-
to?»
La voce della signora Cavanaugh si abbassò. «Di tanto in tanto diventa-
va pensieroso e taciturno, ma io e Stephie l'abbiamo aiutato a distrarsi.
Vorrebbero tantissimo che lei fosse a casa per mezzanotte.»
«Ci sto provando. Sul serio. Joan ha telefonato?»
«No.» La signora Cavanaugh rise. «Le dirò una cosa buffa, Parker... Se
per caso Joan telefonasse e io dovessi per caso vedere il suo nome sul
display, potrei anche essere troppo occupata per rispondere, in quel mo-
mento. E lei potrebbe pensare che siete andati al cinema oppure al Ruby
Tuesday. Che ne pensa di questa cosa?»
«La trovo assolutamente perfetta, signora Cavanaugh.»
«Immaginavo che la pensasse così. La possibilità di leggere sul display
il nome di chi chiama è una bella invenzione, vero?»
«Vorrei averla brevettata io», le disse Parker. «Richiamerò più tardi.»
Riagganciarono.
Cage aveva sentito. «Il tuo ragazzo? Tutto bene?»
Parker sospirò. «Sta bene. Ha solo qualche brutto ricordo di... sai, di
qualche anno fa.»
Evans inarcò un sopracciglio e Parker gli disse: «Quando ero nell'FBI un
sospetto si è introdotto a casa nostra». Si accorse che anche Lukas lo stava
ascoltando.
«E suo figlio l'ha visto?» domandò Evans.
«Quell'individuo ha tentato di forzare la finestra della sua camera», con-
tinuò Parker. «E i miei figli hanno sentito gli spari. Non hanno visto, ma
hanno sentito.»
«Gesù», borbottò C.P. «Detesto queste cose quando capitano ai bambini.
Le detesto proprio.»
«DSPT?» chiese Lukas.
Disordine da stress post-traumatico. Parker aveva temuto che il bambino
ne soffrisse e l'aveva portato da uno specialista. Il medico, però, l'aveva as-
sicurato che, dal momento che Robby era molto giovane e che il Barcaiolo
non gli aveva fatto male, probabilmente il bambino non avrebbe sofferto di
DSPT.
Parker lo spiegò e aggiunse: «Ma l'incidente è accaduto appena prima di
Natale. Così, in questo periodo dell'anno, è più facile che mio figlio abbia
dei ricordi. Voglio dire, ha superato bene la cosa, ma...»
«Ma lei avrebbe dato qualunque cosa perché non fosse accaduta», con-
cluse Evans.
«Esattamente», fece Parker a bassa voce.
«Ma sta bene. E questa sera?»
«Sta bene. Si è solo spaventato un po' qualche ora fa.»
«Ho anch'io dei figli», disse Evans. Guardò Lukas. «E lei?»
«No», rispose Margaret. «Non sono sposata.»
«Quando hai dei figli è come se perdessi una parte della tua mente», le
disse Evans. «Loro te la portano via, e non te la restituiscono più. Sei sem-
pre preoccupato che stiano male, che si perdano, che siano tristi. A volte
mi stupisco del fatto che i genitori riescano a continuare a vivere.»
«Davvero?» chiese lei, nuovamente distratta.
Evans tornò a dedicarsi alla lettera e ci fu un lungo momento di silenzio.
Geller stava digitando al computer. Cage era chino su una mappa del quar-
tiere. Lukas giocherellava con una ciocca di capelli biondi. Il gesto sarebbe
stato anche attraente se il suo sguardo non fosse stato di pietra.
Geller si raddrizzò sulla sedia, guardando lo schermo del suo computer.
«È arrivato il rapporto da Scottsdale.» Lesse il monitor. «Okay, vediamo...
quelli del dipartimento erano a conoscenza della banda dei Tombaroli, ma
non hanno alcun contatto con gli ex membri. In ogni caso non ci sono cri-
mini gravi, né adesso né prima. I componenti della banda ora sono tran-
quilli padri di famiglia.»
Un altro vicolo cieco, pensò Parker.
Evans notò un altro foglio di carta e lo tirò verso di sé. Era il Bollettino
dei crimini gravi, quello che parlava dell'attentato a casa di Gary Moss.
«È il testimone, vero?» domandò. «Quello dello scandalo delle costru-
zioni scolastiche.»
Lukas annuì.
Evans scosse la testa mentre leggeva. «A quelli non importava niente se
uccidevano anche le sue figlie... terribile.» Guardò Lukas. «Spero che sia-
no protetti in modo adeguato.»
«Moss è in custodia protettiva al quartier generale qui a Washington, i
suoi familiari sono in un altro stato», lo informò Cage.
«Uccidere dei bambini», borbottò lo psicologo rimettendo a posto il
memorandum.
Poi, quasi senza preavviso, il caso cominciò a muoversi. Parker lo ricor-
dava dai giorni in cui era nell'FBI. Ore e ore, a volte addirittura giorni, di
attesa: poi, tutt'a un tratto, le piste cominciavano a dare dei risultati. Un fo-
glio di carta uscì lentamente dal fax. Hardy lo lesse: «Viene dalle Conces-
sioni edilizie. I siti di costruzione e demolizione di Gravesend».
Geller richiamò una mappa della zona sul suo ampio monitor ed eviden-
ziò i luoghi in rosso via via che Hardy glieli elencava. Ce n'erano una de-
cina.
Lukas chiamò Jerry Baker e gli trasmise l'elenco. Baker disse che avreb-
be mandato immediatamente delle squadre.
Dieci minuti dopo, una voce gracchiò dall'altoparlante della postazione
mobile di comando. Era Baker. «Leader Capodanno Due a Leader Capo-
danno Uno.»
«Continua», disse Lukas.
«Una delle mie squadre ha trovato una cartoleria. Tra la Mockingbird e
la Diciassettesima.»
Tobe Geller evidenziò immediatamente l'incrocio sulla mappa della zo-
na.
Ti prego, stava pensando Parker. Ti prego...
«Vende carta e penne come quelle che ci avete descritto. E l'espositore è
di fronte alla vetrina. Alcuni pacchi di carta sono sbiaditi dal sole.»
«Sì!» sussurrò Parker.
Si voltarono tutti a guardare la mappa sul computer di Geller.
«Jerry», disse Parker, senza prendersi la briga di utilizzare i nomi in co-
dice che gli agenti tattici amavano così tanto, «uno dei siti di demolizione
di cui ti abbiamo parlato è soltanto a due isolati dal negozio. Sulla Mo-
ckingbird. Manda gli uomini in quella direzione.»
«Roger. Capodanno Leader Due. Passo e chiudo.»
Subito dopo arrivò un'altra telefonata. Fu Lukas a rispondere. «Ditelo a
lui», disse dopo aver ascoltato, quindi passò il telefono a Tobe Geller.
Geller ascoltò e annuì. «Grande. Mandatela qui, sulla linea fax priorita-
ria della PMC. Avete il numero? Bene.» Riappese e disse agli altri: «Era il
Com-tech». Si trattava del gruppo tecnico di Computer e Comunicazioni
dell'FBI, nel Maryland. «Hanno la lista degli ISP di Gravesend.»
«Che?» domandò Cage.
«Gli abbonati agli Internet Service Provider», rispose Geller.
Il fax squillò e produsse un altro foglio. Parker lo guardò, scoraggiato.
C'erano più abbonati a Gravesend di quanto avesse sospettato: erano circa
cinquanta.
«Dimmi gli indirizzi a voce alta», fece Geller. «Io li metto nel compu-
ter.» Hardy obbedì. Geller era rapidissimo sulla tastiera e, non appena il
detective gli comunicava un indirizzo, un puntino rosso appariva sullo
schermo.
In due minuti erano tutti evidenziati. Parker vide che la sua preoccupa-
zione era infondata. C'erano soltanto quattro abbonati nel raggio di mezzo
chilometro dalla cartoleria e dal cantiere di demolizioni.
Lukas chiamò Jerry Baker e gli diede gli indirizzi. «Concentratevi su
questi quattro. Ci incontriamo di fronte alla cartoleria. Sarà il nostro punto
di riferimento.»
«Ricevuto. Passo e chiudo.»
«Andiamo», fece Lukas all'autista della PMC, un giovane agente.
«Aspetta», disse Geller. «Passate per questo lotto abbandonato.» Indicò
un punto sullo schermo. «A piedi. Ci arriverete più alla svelta. Noi vi rag-
giungeremo con il furgone.»
Hardy indossò il giubbotto, ma Lukas scosse la testa. «Scusa, Len. Pre-
ferirei che tu restassi.»
Il giovane poliziotto sollevò le mani e guardò Parker e Cage. «Voglio fa-
re qualcosa.»
«Len, questa potrebbe essere una situazione tattica. Abbiamo bisogno di
negoziatori e di tiratori scelti.»
«Lui non è un tiratore scelto», sbottò Hardy indicando Parker.
«Ma è della Scientifica. Sarà nella squadra che andrà a perlustrare la
scena.»
«E quindi io me ne sto qui seduto a girarmi i pollici, giusto?»
«Mi dispiace. Ma è così.»
«Come vuoi.» Si tolse il giubbotto e si sedette.
«Grazie», disse Lukas. «C.P., tu sta' qui. A tenere d'occhio la situazio-
ne.»
«Okay.»
Lukas aprì il portellone del camper. Cage uscì. Parker indossò il bomber
e seguì l'agente. Mentre stava uscendo, Lukas domandò: «Hai preso...»
«Ce l'ho in tasca», la interruppe lui bruscamente, battendo una mano sul-
la pistola per assicurarsene, poi accelerò il passo e raggiunse Cage che sta-
va già attraversando lo spiazzo abbandonato.

Henry Czisman prese un piccolo sorso dalla birra che aveva di fronte.
Non era certo estraneo agli alcolici, ma in quel momento particolare vo-
leva essere il più sobrio possibile. Ma un uomo in un bar di Gravesend la
sera dell'ultimo dell'anno avrebbe fatto meglio a bere se non voleva incor-
rere nei sospetti di tutti gli altri.
Era più di mezz'ora che si trastullava con il boccale di Budweiser.
Il bar si chiamava Joe Higgins' e Czisman pensò con irritazione che era
grammaticamente scorretto. Soltanto i sostantivi plurali prendono l'apo-
strofo della s per formare il possessivo. Quel posto avrebbe dovuto chia-
marsi Joe Higgins's.
Un altro sorso di birra.
La porta si aprì e Czisman vide entrare diversi agenti. Si aspettava che
qualcuno entrasse a fare domande e temeva che fossero Lukas o Cage o il
finto «Jefferson», che l'avrebbero riconosciuto e si sarebbero sicuramente
chiesti per quale motivo li stava seguendo. Ma non aveva mai visto prima
gli uomini che erano appena entrati.
Il vecchio seduto accanto a lui continuò: «E così faccio: 'Ehi, il blocco è
rotto. Che cosa me ne faccio di un blocco rotto? Dimmi un po', che cazzo
me ne faccio?' E lui non mi risponde, hai capito? Che cosa cazzo si crede-
va, che non me ne accorgevo?»
Czisman guardò l'uomo, che indossava un paio di pantaloni grigi strap-
pati e una maglietta scura. Il 31 dicembre e quello se ne andava in giro
senza soprabito. Viveva vicino? Di sopra. L'uomo stava bevendo whisky
che puzzava di antigelo.
«Non ti ha risposto, eh?» disse Czisman, gli occhi fissi a scrutare gli a-
genti.
«No. E io gli dico che me lo inculo se non me ne dà uno nuovo. Hai ca-
pito?»
«Ma certo.»
Aveva offerto un drink all'uomo di colore perché avrebbe avuto un'aria
meno sospetta vedere un bianco e un nero con le teste chinate su una birra
e un whisky in un bar come il Joe Higgins', con o senza apostrofo, piutto-
sto che un uomo bianco da solo.
E quando offri da bere a qualcuno devi lasciare che ti parli.
Gli agenti stavano mostrando un pezzo di carta - probabilmente la foto-
grafia del complice morto del Becchino - a un tavolo a cui erano sedute tre
tardone locali truccate come puttane di Harlem.
Czisman guardò oltre gli agenti e vide il Winnebago parcheggiato dal-
l'altro lato della strada. Era rimasto di guardia al quartier generale dell'FBI
sulla Nona Strada e finalmente aveva visto tre agenti uscire di corsa insie-
me a una decina di altri. Be', dal momento che non erano disposti a portar-
lo con loro, si era arrangiato da solo. Grazie a Dio c'era stata una carovana
di una decina di automobili: Czisman non aveva dovuto fare altro che se-
guirle, passando con il rosso, guidando veloce e sportivo proprio come do-
vrebbe fare un poliziotto quando sta inseguendo qualcuno e non ha il lam-
peggiatore sul cruscotto. Avevano parcheggiato in gruppo vicino al bar e,
dopo un rapido briefing, si erano divisi alla ricerca di informazioni. Czi-
sman aveva parcheggiato in fondo alla strada ed era scivolato nel bar senza
farsi notare. Aveva la sua videocamera digitale in tasca e aveva filmato
qualche secondo del briefing degli agenti. Non c'era altro da fare che se-
dersi e aspettare, ora.
«Ehi», disse il tipo, che si era accorto soltanto allora degli agenti. «Chi
sono? Sbirri?»
«Stiamo per scoprirlo.»
Un attimo dopo uno degli uomini si avvicinò al bancone. «Salve. Siamo
agenti federali.» Il tesserino venne mostrato come da regolamento. «Avete
per caso visto quest'uomo da queste parti?»
Czisman guardò la fotografia del morto che aveva già visto al quartier
generale dell'FBI e scosse il capo. «No.»
Il suo compagno di bevute disse: «Sembra morto. È morto?»
«Non avete visto nessuno che possa assomigliargli?» domandò l'agente.
«Nossignore.»
Czisman scosse nuovamente il capo.
«Stiamo cercando anche qualcun altro. Un maschio bianco, sui trenta o
quarant'anni. Porta un impermeabile scuro.»
Ah, il Becchino, pensò Henry Czisman. Strano sentir descrivere qualcu-
no che era arrivato a conoscere tanto bene da una prospettiva tanto distan-
te. «Ci sono molte persone così, da queste parti.»
«Sissignore. L'unica caratteristica identificativa di cui siamo a cono-
scenza è che porta un crocifisso d'oro. E che probabilmente è armato. Po-
trebbe aver parlato di armi, vantandosi di conoscerle.»
Il Becchino non farebbe mai una cosa del genere, pensò Czisman. Ma
non corresse gli agenti. «Mi spiace», si limitò a dire, scuotendo di nuovo la
testa.
«Se lo vedete, potete per favore chiamare questo numero?» L'agente
diede a entrambi un biglietto da visita.
«Ma certo.»
«Come no.»
Quando gli agenti se ne andarono, il compagno di bevute di Czisman
disse: «Che cos'è tutta questa storia?»
«Boh.»
«Qui succede sempre qualcosa. Droga. Scommetto che è una storia di
droga. Comunque, ecco che mi ritrovo questo camion con un blocco fuso.
Aspetta. Ti ho detto del mio camion?»
«Avevi cominciato.»
«Devo proprio parlarti del mio camion.»
Improvvisamente Czisman guardò con attenzione l'uomo che aveva ac-
canto, e dentro di sé avvertì la stessa fitta di curiosità che anni prima l'ave-
va spinto a fare il giornalista. Il desiderio di conoscere le persone. Non di
sfruttarle, non di usarle, non di esporle. Ma di capirle e spiegarle.
Chi era quell'uomo? Dove viveva? Quali erano i suoi sogni? Quali cose
coraggiose aveva fatto? Aveva una famiglia? Che cosa gli piaceva mangia-
re? Era forse un musicista o un pittore?
Era la cosa migliore, la cosa giusta per lui, vivere quella vita squallida?
O forse era meglio che morisse ora, prima che la sofferenza, prima che il
dolore, lo risucchiasse sul fondo come un peso morto?
Poi, però, Czisman vide con la coda dell'occhio il portellone del Winne-
bago che si apriva e Jefferson e Cage che si preipitavano fuori e correvano
via. Quella donna, l'agente Lukas, uscì un attimo dopo.
Avevano una gran fretta.
Czisman lanciò i soldi sul bancone e si alzò.
«Ehi, non vuoi sentire del mio camion?»
Senza dire una parola, Czisman si avvicinò rapidamente alla porta, la
spalancò e si mise a correre dietro agli agenti nelle strade desolate di Gra-
vesend.

18
18,25

Quando la squadra raggiunse Jerry Baker, due dei suoi uomini avevano
già trovato il rifugio del sosco.
Risultò essere una squallida casa bifamiliare a poca distanza da un vec-
chio edificio in corso di demolizione - uno dei cantieri che avevano trovato
sulla cartina. Argilla e polvere di mattone erano praticamente ovunque.
«Ho mostrato a una coppia che sta dall'altra parte della strada la foto del
soggetto», disse Baker. «L'avevano visto due o tre volte nell'ultima setti-
mana. Teneva sempre la testa bassa, camminava alla svelta. Non si è mai
fermato e non ha mai rivolto la parola a nessuno.»
Una ventina di agenti e poliziotti erano già disposti intorno all'edificio.
«Qual era il suo appartamento?» domandò Lukas.
«Al pianterreno. Abbiamo già ripassato il piano superiore.»
«Avete parlato con il proprietario? Avete un nome?» volle sapere Par-
ker.
«L'agenzia immobiliare dice che l'inquilino è un certo Gilbert Jones»,
disse un agente.
Maledizione... ancora il nome falso.
«E il numero di previdenza sociale», continuò l'agente, «è stato attribuito
a un uomo morto diversi anni fa. Il sosco si è abbonato al servizio Internet
- usando ancora il nome Gilbert Jones - con una carta di credito intestata
allo stesso nome, ma è una di quelle carte di credito a rischio totale. Si
mettono dei soldi in una banca per coprire il limite di spesa e la carta è va-
lida soltanto finché ci sono soldi. I documenti della banca indicano questo
come il suo indirizzo.»
«Entriamo ora?» chiese Baker.
Cage guardò Lukas. «Dopo di te.»
Baker confabulò con Tobe Geller, che stava scrutando attentamente lo
schermo del suo computer portatile. Diversi sensori erano puntati sull'ap-
partamento al pianterreno.
«Freddo come un pesce morto», riferì Tobe. «Gli infrarossi non stanno
rilevando niente, e gli unici rumori che registro sono l'aria nei caloriferi e il
compressore del frigorifero. Dieci a uno che l'appartamento è sgombro, ma
tenete presente che, se proprio si vuole farlo, è possibile schermare il calo-
re corporeo. E alcuni criminali sanno essere molto, molto silenziosi.»
«Ricordate», aggiunse Lukas, «che questo tipo si fabbrica i silenziatori
da solo: è uno che sa perfettamente quello che fa.»
Baker annuì, poi indossò l'elmetto e il giubbotto antiproiettibile e chia-
mò accanto a sé altri cinque agenti operativi. «Ingresso dinamico. Taglie-
remo i fili della luce ed entreremo simultaneamente dalla porta principale e
dalla finestra della camera da letto sul retro. Avete luce verde, via libera di
neutralizzare se esiste anche il minimo rischio di una minaccia concreta. Io
sarò il primo a entrare dalla porta. Ci sono domande?»
Non ce ne furono. Gli agenti si misero rapidamente in posizione. L'unico
rumore che producevano era il flebile tintinnio del loro equipaggiamento.
Parker rimase dietro, osservando Margaret Lukas, di profilo, che fissava
intensamente la porta principale. Lei si voltò all'improvviso e lo sorprese
mentre la stava guardando. Gli rivolse un'occhiata fredda e si voltò di nuo-
vo verso la porta.
Al diavolo, pensò Parker. Era furioso per la ramanzina che Lukas gli a-
veva rifilato a proposito della pistola. Era stata del tutto superflua, pensava
Parker.
Poi le luci dell'appartamento si spensero e si udì un forte tonfo quando
gli agenti fecero saltare la porta principale con grossi proiettili Shok-Lok.
Parker osservò i fasci di luce delle torce elettriche agganciate alle estremità
dei loro mitragliatori illuminare l'interno.
Si aspettava di sentire delle grida da un momento all'altro. Fermi dove
siete, faccia a terra, siamo agenti federali... ma ci fu soltanto silenzio.
Qualche istante dopo Jerry Baker uscì dall'appartamento togliendosi l'el-
metto. «Via libera.»
Le luci si riaccesero.
«Stiamo soltanto controllando la presenza di ordigni antiuomo. Dateci
qualche minuto.»
Finalmente, un agente si affacciò alla porta e confermò: «Il luogo è sicu-
ro».
Mentre Parker correva in avanti, si scoprì a recitare mentalmente una
preghiera laica. Ti prego, facci trovare qualcosa - delle tracce, un'impron-
ta digitale, un biglietto che descrive il sito del prossimo attacco. O, perlo-
meno, qualcosa che ci dia una vaga idea di dove viveva il sosco in modo
da permetterci di analizzare i documenti pubblici alla ricerca della lacri-
ma del diavolo sopra una i o una j... Lasciaci finire questo duro, durissimo
lavoro e permettici di tornare a casa dalle nostre famiglie.
Cage entrò per primo, seguito da Parker e da Lukas. I due procedettero
fianco a fianco. In silenzio.
L'appartamento era freddo. Le luci abbagliavano. Era un posto depri-
mente, le pareti dipinte di smalto verde pallido. Il pavimento era marrone,
ma lì la maggior parte della vernice si era scrostata. Le quattro stanze era-
no perlopiù vuote. In soggiorno Parker vide un computer su un tavolo, una
scrivania, una poltrona ammuffita da cui fuoriusciva una lingua di im-
bottitura e altri tavolini bassi. Ma, con suo enorme disappunto, non vide
alcun biglietto, nessun frammento di carta o altro tipo di documento.
«Abbiamo trovato dei vestiti», disse un agente dalla camera da letto.
«Controllate le etichette», ordinò Lukas.
Parker lanciò un'occhiata dalla finestra del soggiorno e si domandò quali
fossero le abitudini alimentari del sosco. A raffreddarsi sul davanzale della
finestra semiaperta c'erano quattro o cinque grosse bottiglie di succo di
mela Mott's e un vecchio secchio di ferro pieno di mele e di arance.
Cage li indicò. «Forse il bastardo soffriva di costipazione. Spero che
fosse dolorosa.»
Parker ridacchiò.
Lukas chiamò Tobe Geller via radio e gli chiese di raggiungerli per con-
trollare il computer e tutti i file e i messaggi di posta elettronica che il so-
sco poteva avervi immagazzinato.
Geller arrivò qualche minuto dopo, si sedette al tavolo e si passò le mani
tra i capelli ricci, esaminando attentamente l'unità centrale. Poi sollevò lo
sguardo e si guardò intorno. «Questo posto puzza», disse. «Perché una vol-
ta, tanto per cambiare, non ci capita qualche criminale dell'alta società?... E
questo cos'è?»
Anche Parker sentiva l'odore. Qualcosa di chimico e dolciastro. Lo smal-
to da quattro soldi sui caloriferi caldi, immaginò.
Il giovane agente afferrò il cavo di alimentazione elettrica del computer
e se lo avvolse intorno alla mano sinistra. Poi spiegò: «Potrebbe contenere
una bomba a formattazione - se non ti registri nel modo giusto, fa partire
un programma di formattazione che cancella tutto il contenuto del disco
fisso. L'unica cosa che si può fare, se la bomba parte, è togliere la corrente
e tentare di aggirare il virus in seguito, in laboratorio. Okay, ora vedia-
mo...»
Premette il pulsante di accensione.
L'unità di sistema ronzò sommessamente. Geller era pronto a strappare il
cavo dalla presa di corrente, ma subito sorrise. «Passato il primo ostacolo»,
disse, mollando il cavo. «Ma adesso ci serve il codice di accesso.»
«Non ci vuole un sacco di tempo per queste cose?» borbottò Lukas, con-
trariata.
«No. Ci vorrà...» Geller svitò la parte esterna del computer, mise una
mano dentro e tolse un piccolo chip. Improvvisamente, sullo schermo
comparve la scritta Loading Windows95. «Più o meno un paio di secondi»,
concluse Geller sorridendo.
«Questo è tutto ciò che serve per sconfiggere una password?»
«Già.» Geller aprì la sua valigetta e prese un'unità ZIP. La collegò alla
porta parallela e la installò nel sistema. «Adesso scarico il suo hard disk su
questi.» Gettò una decina di dischetti ZIP sul tavolo. «Mi ci vorrà soltanto
qualche minuto.»
Il cellulare di Lukas squillò. Margaret rispose. Rimase in ascolto. Poi
disse: «Grazie». Riagganciò, tutt'altro che contenta. «Ecco i tabulati della
linea telefonica. Da qui ha chiamato soltanto il numero del collegamento
internet. Nient'altro. Né in entrata, né in uscita.»
Maledizione. Quell'uomo era veramente furbo, rifletté Parker. Un signo-
re degli enigmi con tutti i crismi.
Tre falchi stanno uccidendo le galline di un contadino...
«Ho trovato qualcosa in camera da letto», disse una voce. Un agente con
indosso un paio di guanti di lattice entrò in soggiorno. Teneva tra le mani
un taccuino giallo con sopra delle scritte e degli scarabocchi. Il cuore di
Parker accelerò immediatamente.
Aprì la valigetta e indossò anche lui un paio di guanti di lattice. Poi pre-
se il taccuino e lo posò sul tavolo accanto a Geller, piegando la lampada in
modo che la luce vi cadesse direttamente sopra. Con la lente di ingrandi-
mento studiò la prima pagina e capì subito che era stata scritta dal sosco:
aveva fissato tanto a lungo la lettera di estorsione da conoscere la sua cal-
ligrafia bene come la propria e quella dei Chi.
La lacrima del diavolo sopra la i minuscola...
Parker scrutò il foglio. Per la maggior parte si trattava di ghirigori. In
qualità di esperto esaminatore di documenti, Parker Kincaid credeva nella
connessione psicologica tra la nostra mente e le nostre mani: la personalità
non viene rivelata da come componiamo le lettere (quelle cose senza senso
sulla grafoanalisi che Lukas sembrava amare così tanto), ma attraverso la
sostanza di ciò che scriviamo e disegniamo quando siamo sovrappensiero.
Il modo in cui prendiamo appunti, che tipo di piccoli disegni tracciamo ai
margini del foglio quando la nostra mente è occupata altrove.
Parker aveva visto migliaia di immagini sui documenti che aveva esami-
nato: coltelli, pistole, uomini impiccati, donne pugnalate, genitali strappati,
demoni, zanne snudate, omini stilizzati, aeroplani, occhi, ma non aveva
mai visto ciò che il sosco aveva disegnato su quel taccuino.
Labirinti.
Quindi era davvero un signore degli enigmi.
Parker ne tentò un paio. Per la maggior parte erano molto complicati.
C'erano altre annotazioni sulla pagina, ma continuava a lasciarsi distrarre
dai labirinti. Era come se i suoi occhi fossero calamitati. Si sentiva quasi
obbligato a risolverli. Quella era la sua natura: non poteva controllarla.
Sentì qualcuno accanto a sé. Era Margaret Lukas. Stava fissando il tac-
cuino.
«Sono intricati», disse.
Parker sollevò lo sguardo su di lei, sentì la sua gamba sfiorargli la spalla.
I muscoli delle sue cosce erano molto forti. Sicuramente era una che corre-
va, pensò. Se la immaginò la domenica mattina con la tuta attillata, sudata
e arrossata per lo sforzo, che rientrava in casa dopo aver percorso cinque
chilometri...
Tornò a dedicarsi al labirinto.
«Deve averci messo un sacco di tempo per farlo», disse Lukas, indican-
do il disegno con un cenno del capo.
«No», rispose Parker. «I labirinti sono difficili da risolvere, ma sono tra
gli enigmi più semplici da costruire. Prima disegni il percorso della solu-
zione e, una volta finito, non devi fare altro che continuare ad aggiungere
strati e strati di false piste.»
Gli enigmi sono sempre facili quando si conosce la risposta...
Lukas lo guardò ancora una volta e poi si allontanò, aiutando un tecnico
della Scientifica a tagliare il materasso in cerca di altre prove.
Proprio come la vita, vero?
Gli occhi di Parker tornarono al taccuino giallo. Sollevò il primo foglio
e, su quello seguente, trovò una pagina fitta di appunti, centinaia e centi-
naia di parole tracciate con grafia minuscola. Verso il fondo della pagina
vide una colonna. Le prime due voci erano:
Metropolitana di DuPont Circle, in cima alla scala mobile, ore 9
George Mason Theater, palco N. 58, ore 16
Mio Dio, pensò, su questo foglio ci sono i bersagli veri! Non è un depi-
staggio! Sollevò lo sguardò e chiamò Cage. «Vieni qui!»
Nel medesimo istante, Lukas entrò dalla porta e gridò: «Sento odore di
gas! Gasolio. Da dove viene?»
Gas? Parker si voltò verso Tobe, che si stava guardando intorno perples-
so. E si rese conto che sì, quello era l'odore che avevano sentito poco pri-
ma.
«Oh, Cristo.» Parker guardò le bottiglie di succo di mela.
Era una trappola nel caso che gli agenti fossero riusciti a penetrare nel ri-
fugio.
«Cage! Tobe! Tutti fuori!» Parker balzò in piedi. «Le bottiglie!»
Ma Geller le guardò e disse. «È tutto okay... guarda: non c'è nessun de-
tonatore. Puoi...»
E in quel momento la grandine di proiettili esplose attraverso la finestra,
riducendo il tavolo in frammenti di legno chiaro, frantumando le bottiglie e
spruzzando gasolio rosa sul pavimento e sulle pareti.

19
18,45

Mille proiettili invisibili, un milione. Più proiettili di quanti Parker aves-


se mai visto o sentito in tutte le settimane che aveva passato al poligono di
Quantico.
Vetro, legno, frammenti di metallo schizzavano ovunque nel soggiorno.
Parker si accovacciò sul pavimento, con il prezioso taccuino giallo anco-
ra sulla scrivania. Tentò di afferrarlo, ma un gruppo di schegge tempestò il
pavimento di fronte a lui e Parker fece un balzo all'indietro contro la pare-
te.
Lukas e Cage strisciarono fino alla porta d'ingresso e crollarono nel cor-
ridoio, le armi in pugno, in cerca di un bersaglio. Grida che chiedevano
rinforzi, altre grida di aiuto. Tobe Geller si allontanò dal tavolo, ma le
gambe della sedia si bloccarono contro un'irregolarità del pavimento e il
giovane agente cadde all'indietro. Il monitor del computer implose, colpito
da una mezza dozzina di pallottole. Parker si sdraiò sul ventre mentre una
raffica percuoteva le pareti con un frastuono. Evitò la grandinata mortale e
rimase appiattito sul pavimento.
E pensò, come aveva già pensato prima, che aveva paura di restare ferito
quasi quanta ne aveva di morire. Non poteva sopportare il pensiero dei Chi
che lo vedevano dolorante in ospedale. E il pensiero di se stesso incapace
di badare a loro.
Ci fu una pausa nelle raffiche, e Parker si mosse verso Tobe Geller.
Poi il Becchino, da qualche parte all'esterno, forse su un tetto, abbassò il
tiro e sparò verso il secchio metallico che conteneva la frutta. Anche quello
era stato sistemato in quel punto con uno scopo preciso. I proiettili vi rim-
balzarono contro e alcune scintille raggiunsero il gasolio. Con un ruggito,
il liquido prese fuoco.
L'esplosione scaraventò Parker fuori dalla porta, fino in corridoio. Rima-
se a terra su un fianco accanto a Cage.
«No, Tobe!» gridò, tentando di rientrare nella stanza. Ma una cortina di
fiamme bloccò la porta e lo obbligò a tornare indietro.
Rimasero accovacciati nel corridoio senza finestre. Lukas attaccata al
cellulare, Cage anche. «... forse sul tetto! Non sappiamo... Chiamate il di-
partimento... Un agente caduto. Anzi, fai due... È ancora là fuori. Dove
cazzo è?»
E il Becchino continuava a sparare.
«Tobe!» gridò nuovamente Parker.
«Qualcuno!» gridò Geller da dentro. «Qualcuno mi aiuti!»
Parker riuscì a intravedere brevemente il giovane dalla parte opposta
delle fiamme. Era raggomitolato sul pavimento, come se fosse stato colpi-
to. L'appartamento era invaso dal fuoco, ma il Becchino continuava a spa-
rare. Continuava a pompare proiettile dopo proiettile da quel suo terribile
mitragliatore nel soggiorno avvolto dalle fiamme. Ben presto Parker non
riuscì più a vedere niente. Sembrava che il tavolo su cui era posato il tac-
cuino giallo venisse consumato dalle fiamme. No, no! Gli indizi che pote-
vano portare agli ultimi luoghi si stavano riducendo in cenere!
Voci da qualche parte:
«... Dov'è?»
«... succedendo? Dove? Ha un silenziatore e un soppressore di luce. Non
riusciamo a trovarlo... Non lo vediamo, non lo vediamo!»
«Cazzo, no, sta ancora sparando. Dobbiamo mandare giù qualcuno. Ge-
sù...»
«Tobe!» gridò Cage. Tentò di tornare nell'appartamento, che ora era
completamente avvolto in riccioli di fiamme arancioni mescolati a un fu-
mo denso e nero come fuliggine. Ma anche lui venne ricacciato indietro
dalla violenza del calore e da un'altra terrificante raffica di buchi neri che
si andarono ad aprire nella parete accanto.
Altri spari. E altri ancora.
«... quella finestra... No, prova quell'altra.»
«Mandate i pompieri!» gridò Cage. «Li voglio qui ora!»
«Stanno arrivando!» gridò Lukas.
Poco dopo, il rumore delle radio venne sepolto dal ruggito del fuoco.
Nel frastuono riuscivano comunque a udire la voce del povero Tobe Gel-
ler. «Aiutatemi! Vi prego! Aiutatemi...» E diventava sempre più debole.
Lukas fece un ultimo tentativo di entrare nell'appartamento, ma riuscì a
percorrere soltanto qualche metro quando una trave del soffitto crollò,
mancandola per un pelo. Lei lanciò un urlo e fece un balzo all'indietro.
Barcollando, semiasfissiato dal fumo, Parker l'aiutò a raggiungere la porta
mentre un tornado di fiamme nere e arancioni si riversava in corridoio e
avanzava inesorabilmente nella loro direzione.
«Tobe, Tobe...» gemette lei, tossendo convulsamente.
«Dobbiamo uscire», gridò Cage. «Subito!»
Passo dopo passo, riuscirono a raggiungere il portone.
Nel panico e nell'ipossia dell'aria bollente Parker continuò a desiderare
di essere sordo per non udire le grida che provenivano dall'interno dell'ap-
partamento. Continuò a desiderare di essere cieco per non vedere il dolore
e il lutto che il Becchino aveva scatenato su di loro, su tutte quelle brave
persone, persone che avevano famiglia, persone che avevano bambini co-
me i suoi.
Ma Parker Kincaid non era né sordo né cieco ed era proprio lì, nel cuore
del terrore, la piccola pistola automatica stretta nella mano destra e il brac-
cio sinistro intorno alle spalle di Margaret Lukas mentre la aiutava ad a-
vanzare nel corridoio pieno di fumo.
Senti, Kincaid, negli ultimi cinque anni hai vissuto nel Paese dei baloc-
chi...
«... nessuna locazione... nessun lampo visibile... Gesù, cos'è questa...»
stava gridando Jerry Baker. O forse qualcun altro.
Vicino alla porta, Cage inciampò. O forse era qualcun altro.
Un attimo dopo Parker e gli agenti uscirono barcollando sulle scale e-
sterne, all'aria fredda. Nonostante gli accessi devastanti di tosse e la vista
offuscata dalle lacrime, Cage e Lukas si misero istintivamente in posizione
difensiva, come il resto degli agenti là fuori. Si asciugarono gli occhi e
scrutarono i tetti degli edifici, in cerca di un bersaglio. Parker, accovaccia-
to dietro un albero, fece come loro.
C.P. Ardell si teneva un M-16 vicino alla guancia, e Len Hardy brandiva
il suo piccolo revolver, con la testa che si muoveva da una parte all'altra e
negli occhi un'espressione mista di confusione e paura. Non riuscivano a
trovare nessuno.
Lukas incrociò lo sguardo di Jerry Baker e, in un sussurro frenetico, gli
disse: «Dove? Dove diavolo è quel bastardo?»
Baker le indicò un vicolo alle loro spalle, poi tornò a parlare alla radio.
Cage stava tossendo penosamente a causa del fumo che aveva respirato.
«Leader Capodanno Due...» stava dicendo Baker nel suo Motorola, «il
soggetto era a est rispetto a noi, sembrava sparare dall'alto con angolo non
eccessivo. Okay... Dove?... Okay. State molto attenti.» Non disse nulla per
un lunghissimo istante, gli occhi sempre fissi a scrutare gli edifici vicini.
Abbassò il capo quando qualcuno tornò in linea. Rimase in ascolto per
qualche secondo, poi disse: «Sono morti? Oh, maledizione... Se n'è anda-
to?»
Si alzò in piedi e rimise l'arma nella fondina. Si avvicinò a Cage, che si
stava asciugando la bocca con un Kleenex. «È entrato nell'edificio dietro di
noi. Ha ucciso la coppia che viveva al piano di sopra. È scomparso nel vi-
colo. Se n'è andato. Nessuno l'ha visto in faccia.»
Parker guardò verso la postazione mobile di comando e vide il dottor
Evans al finestrino. Lo psicologo stava osservando quello spettacolo orri-
bile con un'espressione quasi stordita. Poteva anche essere un esperto nella
teoria della violenza criminale ma, proprio come Parker, probabilmente
non ne aveva mai visto di persona l'applicazione pratica.
Parker si voltò di nuovo verso l'edificio, che ora era avvolto dalle fiam-
me. Nessuno sarebbe riuscito a sopravvivere a quell'inferno.
Oh, Tobe...
L'urlo delle sirene lacerò l'aria della sera. Parker vide le luci lampeggian-
ti riflettersi sulle pareti a entrambe le estremità della strada. Le autopompe
arrivarono a gran velocità. Tutte le prove erano scomparse. Maledizione, le
aveva avute tra le mani! Il taccuino giallo con scritti i luoghi dei due pros-
simi bersagli. Perché non l'aveva guardato dieci secondi prima? Perché a-
veva sprecato secondi preziosi a fissare i labirinti? Ancora una volta ebbe
la sensazione che il nemico fosse il documento stesso, e che l'avesse di-
stratto di proposito per dare al Becchino il tempo di attaccarli...
Maledizione. Se solo...
«Ehi» gridò qualcuno. «Ehi, da questa parte! C'è bisogno di aiuto!»
Parker, Lukas e Cage si voltarono e videro un agente con una giacca a
vento dell'FBI. Stava correndo verso un vicolo angusto accanto all'edificio
in fiamme.
«C'è qualcuno qui», gridò.
Una sagoma giaceva sul terreno, distesa su un fianco e circondata da u-
n'aura di fumo azzurrognolo.
Parker pensò che l'uomo fosse morto ma, improvvisamente, la figura
sollevò una mano e gridò: «Spegnetelo!» in un sussurro rauco. «Maledi-
zione, spegnetelo!»
Parker si asciugò le lacrime dagli occhi irritati.
L'uomo che giaceva a terra era Tobe Geller!
«Spegnetelo!» gridò di nuovo Geller. La sua voce si dissolse in un ac-
cesso di tosse.
«Tobe!» Lukas corse verso di lui. Parker era accanto a lei.
Il giovane agente doveva essere riuscito a saltare tra le fiamme fino alla
finestra. Era rimasto sotto il tiro del Becchino, lì nel vicolo, ma forse il
killer non l'aveva visto. O forse non si era preso la briga di sparare a un
uomo che era evidentemente ferito in modo molto grave.
Un infermiere gli si avvicinò e gli chiese: «Dove è ferito? Ha sbattuto da
qualche parte?»
Ma tutto ciò che Geller rispose fu il suo grido quasi frenetico. «Spegne-
telo! Spegnete il fuoco!»
«Ci puoi scommettere che lo faranno, ragazzo. Le autopompe sono già
qui. Lo spegneranno in un attimo.» L'infermiere si chinò. «Ma adesso dob-
biamo...»
«No, maledizione!» Geller spinse via l'infermiere con forza sorprendente
e guardò Parker diritto negli occhi. «Il taccuino! Spegnete il fuoco!» Stava
indicando un piccolo focolaio di incendio vicino alla sua gamba. Era quel-
lo che intendeva il giovane agente, non l'edificio.
Parker lo guardò. E vide uno degli elaborati labirinti andare a fuoco.
Era il taccuino giallo. In una frazione di secondo Tobe Geller aveva la-
sciato perdere i dischetti del computer e aveva afferrato gli appunti del so-
sco.
Ma ora erano in fiamme, la pagina con gli appunti si stava arricciando in
un grumo di cenere nera. Parker si tolse il giubbotto di pelle e lo posò deli-
catamente sul taccuino per spegnere il fuoco.
«Attenzione!» gridò qualcuno. Parker alzò lo sguardo proprio mentre un
grosso frammento di intonaco in fiamme si abbatteva al suolo a meno di
un metro da lui. Nell'aria si sollevò uno sciame di scintille arancioni. Par-
ker le ignorò e tolse delicatamente il giubbotto dal taccuino, valutando il
danno che aveva subito la carta.
Una lingua di fiamma eruttò dalla parete alle loro spalle. L'intero edifi-
cio parve spostarsi e affondare.
«Dobbiamo andarcene di qui», disse l'infermiere. Fece un cenno al suo
collega, che arrivò con una barella. Deposero Geller sul lenzuolo bianco e
si allontanarono rapidamente con lui, evitando le macerie che cadevano dal
palazzo.
«Dobbiamo andar via!» gridò un uomo con indosso un impermeabile ne-
ro da pompiere. «Stiamo per perdere la parete. Ci crollerà addosso.»
«Tra un attimo», rispose Parker. Guardò Lukas. «Vattene da qui!»
«Non puoi restare qui, Parker.»
«La cenere è troppo fragile! Non posso muoverla.» Se avesse sollevato il
taccuino, avrebbe ridotto la cenere in polvere e non avrebbero avuto più
alcuna possibilità di ricostruire i fogli. Pensò alla valigetta rimasta dentro
l'appartamento ora distrutto, e alla boccetta di parylene che conteneva; a-
vrebbe potuto usarla per indurire la carta danneggiata e proteggerla. Ma
ora tutto ciò che poteva fare era coprire con cautela la cenere e sperare di
riuscire a riassemblarla in laboratorio. Una grondaia cadde dal tetto e si
conficcò nel marciapiede a mezzo metro da lui.
«Subito, gente!» gridò il pompiere.
«Parker!» chiamò nuovamente Lukas. «Andiamo!» Indietreggiò di qual-
che metro, poi si fermò, guardandolo.
Parker ebbe un'idea. Corse verso le finestre della cantina del palazzo ac-
canto e ruppe il vetro con un calcio. Ne raccolse quattro grossi pezzi. Tor-
nò al taccuino, che giaceva sul marciapiede come un soldato ferito, e si in-
ginocchiò. Con estrema cautela tentò di infilare i due fogli di carta annerita
- gli unici su cui era scritto qualcosa - tra i pezzi di vetro. Era così che gli
esaminatori di documenti dell'FBI erano soliti proteggere i campioni che
venivano loro inviati per l'analisi prima dell'invenzione dei fogli di plastica
trasparente.
Intorno a lui era una pioggia di frammenti di legno in fiamme. Parker
sentì il freddo dell'acqua quando i pompieri puntarono i getti sulle fiamme
sopra di lui.
«Smettetela!» gridò loro, agitando un braccio. Temeva che l'acqua po-
tesse causare danni ulteriori al prezioso taccuino.
Nessuno gli prestò la minima attenzione.
«Parker!» gridò Lukas. «Subito! Le pareti stanno per crollare!»
Altri frammenti di intonaco si abbatterono al suolo. Ciò nonostante Par-
ker rimase immobile, in ginocchio, infilando con estrema delicatezza i
frammenti di cenere tra i vetri.
Poi, mentre le travi e i mattoni cominciavano a precipitare, si alzò len-
tamente in piedi e, tenendo le lastre di vetro di fronte a sé, si allontanò dal-
l'edificio in fiamme, perfettamente eretto e procedendo a piccoli passi.
Proprio come un maggiordomo che porta un vassoio di champagne durante
un cocktail party molto elegante.

Un'altra fotografia.
Snap.
Henry Czisman era in un vicolo dalla parte opposta della strada rispetto
all'edificio in fiamme. Le scintille svolazzavano pigramente nel cielo come
fuochi d'artificio visti a chilometri di distanza.
Era veramente importante tutto ciò. Registrare l'evento.
La tragedia è sempre così rapida, così sfuggente. Ma il dolore no. Il do-
lore dura per sempre.
Snap.
Scattò un'altra fotografia con la sua macchina fotografica digitale.
Un poliziotto sdraiato a terra. Forse morto, forse ferito.
Forse fingeva di fare il morto; quando arriva il Becchino, la gente fa tut-
to ciò che può per restare viva. Nasconde il proprio coraggio e si raggomi-
tola in un angolo finché non è nuovamente sicura di alzarsi. Henry Czi-
sman aveva già visto tutto questo.
Fotografia: la parete dell'edificio che crolla in un'esplosione di meravi-
gliosi tizzoni ardenti.
Fotografia: un agente con tre dita di sangue che gli cadono lungo il lato
del viso.
Fotografia: la luce delle fiamme riflessa nel metallo cromato delle auto-
pompe.
Czisman era deluso per essere arrivato troppo tardi - aveva sentito gli
sbirri dire che il Becchino era fuggito. Aveva seguito gli agenti ma, dal
momento che le strade erano deserte, aveva dovuto per forza di cose man-
tenersi a notevole distanza. Non poteva permettersi di farsi vedere di nuo-
vo. Aveva già rischiato molto andando al quartier generale dell'FBI.
Snap...
Troppo tardi. Quando era arrivato all'edificio, l'incendio era già comin-
ciato e gli agenti e i poliziotti stavano fuggendo dall'appartamento. Tutto
ciò che poteva fare ora era scattare fotografie.
Snap, snap, snap... Gli sembrava che non fossero mai abbastanza. Aveva
intenzione di registrare su pellicola ogni minimo particolare del dolore.
Guardò in fondo alla strada e vide alcuni agenti che parlavano con i pas-
santi.
Perché prendersi la briga? Il Becchino era arrivato e se n'era andato.
E anche lui doveva sparire, ora. Non poteva davvero farsi vedere lì. Così
cominciò a infilarsi la macchina fotografica nella tasca della giacca. Poi,
però, lanciò un'occhiata all'edificio in fiamme e vide qualcosa.
Sì, sì. Voglio quest'immagine. Ne ho bisogno.
Sollevò la macchina fotografica, la puntò e premette il pulsante.
Fotografia: l'uomo che si faceva chiamare Jefferson - l'uomo che ora era
così coinvolto nel caso - stava posando qualcosa sul cofano di una macchi-
na, chino in avanti nel tentativo di leggerla. Un libro? Una rivista? No,
scintillava come una lastra di vetro. Tutto ciò che si poteva vedere era la
rigida attenzione dell'uomo mentre si toglieva il giubbotto di pelle e lo av-
volgeva intorno al vetro allo stesso modo in cui un padre potrebbe coprire
il proprio neonato prima di portarlo a passeggio nell'aria fresca della sera.
Snap.

Quindi. Proteggere il sindaco.


E non dare addosso ai federali.
Slade Phillips era in un bar a DuPont Circle. C'erano ancora diversi vei-
coli di emergenza parcheggiati nelle vicinanze, con le luci che lampeggia-
vano nel grigiore della sera. Il nastro giallo della polizia era ovunque.
Phillips aveva mostrato il suo tesserino di giornalista ed era riuscito a ol-
trepassare la linea. Era ancora terribilmente scosso da ciò che aveva visto
ai piedi della scala mobile. Le macchie di sangue che si stavano ancora a-
sciugando. Frammenti di ossa e di capelli. Lui...
«Mi scusi», domandò la voce della ragazza. «Lei è Slade Phillips, della
WPLT?»
I conduttori televisivi erano condannati a essere sempre riconosciuti con
entrambi i nomi. Nessuno diceva mai «signor Phillips». Sollevò lo sguardo
sulla giovane biondina. Voleva un autografo. Glielo diede.
«Lei è così... bravo», disse la ragazza.
«Grazie.»
Vattene.
«Anch'io voglio fare della televisione, un giorno.»
«Buon per lei.»
Vattene.
La ragazza rimase immobile per un istante e, quando vide che lui non le
chiedeva di sedersi, si allontanò sui suoi tacchi alti, con un'andatura che a
Phillips ricordò quella di un'antilope.
Sorseggiò il suo decaffeinato. Tutto quel massacro nella metropolitana.
Non riusciva a toglierselo dalla mente. Gesù... c'era sangue ovunque. Le
piastrelle smangiate e le tacche e i buchi nel metallo... Frammenti di carne
e frammenti d'osso.
E scarpe. Sei o sette scarpe giacevano insanguinate ai piedi della scala
mobile. Per qualche motivo erano lo spettacolo più orribile, più di qualsia-
si altra cosa.
Quello era il tipo di storia che la maggior parte dei giornalisti sogna di
poter raccontare nel segreto del proprio cuore ambizioso.
Sei tu il giornalista... va' a fare il giornalista.
Nonostante ciò, Phillips aveva scoperto di non avere alcun desiderio di
occuparsi di quel crimine. La violenza lo disgustava. La mente malata del
killer lo spaventava. Aspetta, aveva pensato. Io non sono un giornalista.
Avrebbe tanto voluto dirlo a quel viscido bastardo di Wendy Jefferies. Io
sono un intrattenitore. Sono una star da soap opera. Sono un personaggio.
Ma era anche profondamente intrappolato nel portafogli di Jefferies.
E così stava facendo ciò che gli era stato detto di fare.
Si domandò se il sindaco Kennedy fosse al corrente del suo accordo con
Jefferies. Probabilmente no. Kennedy era un onesto figlio di puttana. Me-
glio di tutti i sindaci del distretto che l'avevano preceduto. Perché, se anche
Slade - okay, okay, Stanley - Phillips non era Peter Arnett o Tom Brokaw,
almeno conosceva la gente. E sapeva che Kennedy voleva avere la possibi-
lità di sistemare quanto più poteva la città prima che l'elettorato gli sbattes-
se il culo giù dalla poltrona. Il che sarebbe accaduto senza dubbio alle
prossime elezioni.
E quel suo Progetto 2000... ehi, bisognava davvero avere le palle per tas-
sare le multinazionali della città più ancora di quanto non fossero già tassa-
te. E lì aveva creato cattivo sangue. Inoltre, Kennedy si stava abbattendo
come il grande inquisitore su quello scandalo delle costruzioni scolastiche.
Le voci dicevano che avrebbe voluto pagare a quel Gary Moss un bonus
aggiuntivo per convincerlo a uscire allo scoperto e a rischiare la vita testi-
moniando (una spesa che il deputato Lanier si era rifiutato di approvare,
naturalmente). E si vociferava anche che Kennedy avesse intenzione di
crocifiggere chiunque fosse coinvolto nella corruzione, compresi alcuni
suoi amici di vecchia data.
Quindi Phillips poteva razionalizzare il fatto di togliere un po' di fuoco
da sotto la sedia di Kennedy. Era per un bene maggiore.
Altro decaffeinato. Convinto che il caffè vero avrebbe incrinato la sua
splendida voce baritonale, Phillips viveva di quella bevanda senza caffei-
na.
Guardò fuori dalla vetrina e vide l'uomo che stava aspettando. Un tipo
snello, basso. Faceva l'usciere al quartier generale dell'FBI e Phillips se lo
coccolava da un anno. Era una delle «fonti che preferiscono restare anoni-
me» di cui si sente sempre parlare, fonti la cui relazione con l'onestà pro-
fessionale era quanto meno dubbia. Ma che importanza aveva? Quello era
il giornalismo televisivo, e veniva giocato con regole completamente di-
verse.
L'usciere, che si chiamava Timothy, vide Phillips ed entrò nel bar, guar-
dandosi intorno come una spia da film.
Era principalmente un fattorino, anche se aveva detto a Phillips di essere
«a parte» (sì, aveva adoperato proprio quel termine obsoleto) di quasi tutte
le «attività decisive dell'FBI».
L'ego è una cosa incredibile, pensò Phillips.
«Buon anno», disse Timothy sedendosi. Aveva l'aria di una farfalla in-
chiodata a una parete.
«Sì, sì, certo», rispose Phillips.
«Allora, che c'è di buono stasera? Hanno la moussaka? Io adoro la
moussaka.»
«Non hai tempo per mangiare. Hai tempo per parlare.»
«Qualcosina da bere?»
Phillips chiamò una cameriera e ordinò dell'altro decaffeinato per sé e un
caffè normale per Timothy.
«Be'...» L'usciere sembrava deluso.
Phillips si sporse in avanti e sussurrò: «Quel pazzo. Quello che ha spara-
to in metropolitana. Che cosa sta succedendo?»
«Non ne sanno molto. È una faccenda davvero strana. C'è qualcuno che
parla di una cellula di terroristi. Altri parlano di milizie di estrema destra.
Un paio di agenti pensa che si tratti semplicemente di un'estorsione. Ma
non c'è accordo.»
«Ho bisogno di localizzare», disse Phillips.
«Focalizzare? Che cosa intendi dire?» Timothy lanciò un'occhiata a un
tavolo vicino, dove un uomo stava mangiando un piatto di moussaka.
«Kennedy sta finendo in croce per questa storia. Non è giusto.»
«E perché no? È uno stronzo.»
Phillips non era lì per discutere. Quale che fosse stato il responso dei po-
steri sul mandato di Gerald D. Kennedy, Slade Phillips era stato pagato
venticinquemila dollari per suggerire al mondo che il sindaco non era uno
stronzo. Così proseguì: «Come la sta gestendo la Nona Strada?»
«L'FBI? È un caso difficile», disse Timothy, che aspirava a diventare un
agente dell'FBI ma che era condannato per sempre a fallire qualsiasi meta
si fosse prefissato nella vita. «Stanno facendo del loro meglio. Hanno tro-
vato il rifugio del mandante. L'hai sentito?»
«Ho sentito. Vi ha fatto il culo un'altra volta.»
«Non abbiamo mai affrontato niente di simile, prima d'ora.»
Abbiamo?
Phillips annuì comprensivo. «Senti, sto tentando di aiutare voi ragazzi a
uscirne bene. Non voglio andare in onda con la storia che l'emittente ha
preparato. È per questo che ho voluto parlarti stasera.»
Gli occhi porcini di Timothy ebbero un sussulto. «Una storia?» doman-
dò. «Hanno in mente di trasmettere una storia?»
«Esatto», confermò Phillips.
«Be', di che si tratta?» domandò Timothy.
«Del fallimento al Mason Theater.»
«Di quale fallimento stai parlando? Sono riusciti a fermarlo. Non è rima-
sto ucciso praticamente nessuno.»
«No, no, no», disse Phillips. «Il punto è che avrebbero potuto catturarlo.
Invece se lo sono lasciati scappare.»
«L'FBI non ha fallito», ribatté Timothy sulla difensiva. «Era una tac-op
ad alta densità. Sono le peggiori. Non è colpa loro se è riuscito a fuggire.»
Una tac-op ad alta densità. Operazione tattica, Phillips conosceva il si-
gnificato. E sapeva anche che probabilmente Timothy aveva imparato il
termine non al quartier generale dell'FBI ma da un romanzo di Tom
Clancy.
«Sicuro. Ma se lo aggiungi all'altra voce che circola...»
«Quale altra voce?»
«Che Kennedy voleva pagare i criminali ma l'FBI ha preparato una spe-
cie di trappola. Solo che ha sbagliato un'altra volta, il killer ha capito tutto
e adesso sta uccidendo la gente soltanto per il gusto di farlo.»
«Sono stronzate.»
«Non sto dicendo che...» cominciò Phillips.
«Non è giusto», lo interruppe Timothy, ora in tono quasi piagnucolante.
«Voglio dire, abbiamo agenti sparsi in tutta la città a lavorare quando do-
vrebbero essere a casa con le loro famiglie. È un giorno di festa. Ho porta-
to caffè tutta la notte...» La sua voce si spense quando si rese conto che il
velo che copriva la sua vera funzione al quartier generale dell'FBI si era
lacerato.
«Non sto dicendo che penso sia vero», si affrettò a dire Phillips. «Ti sto
solo dicendo che questa è la storia che hanno intenzione di mandare in on-
da. Questo stronzo sta uccidendo della gente. Hanno bisogno di puntare il
dito su qualcuno.»
«Maledizione.»
«Non c'è qualcos'altro su cui focalizzarsi? Qualcosa di diverso dal-
l'FBI?»
«Ah, allora è questo che intendi quando parli di focalizzare.»
«Ho detto così?»
«Sì, prima sì... Che mi dici della polizia del distretto? Potrebbero essere
loro il fattore fallimentare.»
Fattore fallimentare?
Phillips si chiese quanti soldi sarebbe stato disposto a pagare Wendy Jef-
feries per una storia in cui la polizia del distretto, che in fin dei conti face-
va riferimento al sindaco Kennedy, era il... aperte virgolette... fattore falli-
mentare... chiuse virgolette.
«Continua. Questa idea non mi eccita per niente.»
Timothy ci pensò su per un attimo. Poi sorrise. «Aspetta. Ho un'idea.»
«È una buona idea?» domandò Phillips.
«Be'...» Timothy si accigliò.
«Ehi, quella moussaka non sembra niente male», disse il conduttore te-
levisivo. «Che ne pensi se ne prendiamo un po'?»
«Okay», rispose Timothy. «E sì, credo proprio sia una buona idea.»

III
TRE FALCHI

Lo studio delle variazioni nella calligrafia è particolarmente im-


portante. Queste qualità devono essere tutte esaminate accu-
ratamente. Le parole ripetute devono essere comparate e bisogna
prestare particolare attenzione alla variazione naturale o all'uni-
formità innaturale delle medesime.
OSBORN & OSBORN
QUESTIONED DOCUMENT PROBLEMS

20
19,00

La capitale del mondo libero.


Il cuore dell'ultima superpotenza della Terra.
E Cage, ancora una volta, rischiò di rompere un semiasse quando la sua
Crown Victoria governativa prese un altro tombino sconnesso.
«Maledetta città», borbottò.
«Attento», ordinò Parker da dietro, annuendo per indicare le lastre di ve-
tro accuratamente avvolte che teneva sulle ginocchia. Guardò brevemente i
fogli gialli. Ma erano malamente danneggiati e non riuscì a distinguere al-
cun riferimento al terzo e al quarto obiettivo del killer. Avrebbe dovuto a-
nalizzarli in laboratorio.
Procedettero sull'asfalto sconnesso, sotto i lampioni guasti da mesi e mai
sostituiti, oltre i pali nudi che un tempo sorreggevano cartelli stradali che
da tempo erano stati rubati o abbattuti.
Altri tombini.
«Non so proprio perché mi ostino a vivere qui.»
Accompagnato da Parker e dal dottor Evans, l'agente stava guidando di-
retto al quartier generale attraverso le strade scure del distretto di Colum-
bia.
«E se nevica siamo fottuti», aggiunse Cage.
La rimozione della neve non era certo uno dei punti d'onore del distretto,
e una nevicata improvvisa avrebbe potuto rallentare notevolmente gli sfor-
zi tattici di Jerry Baker, nel caso avessero scoperto il nascondiglio del
Becchino o il luogo del prossimo attacco.
Evans era al cellulare, apparentemente con la propria famiglia. La sua
voce era melodiosa, come se stesse parlando con un bambino, ma dai
frammenti di conversazione sembrava proprio che all'altro capo della linea
ci fosse sua moglie. Parker considerò che era piuttosto strano che uno psi-
cologo parlasse a quel modo con un altro adulto. Ma chi era lui per espri-
mere opinioni in proposito? Quando Joan era ubriaca o di cattivo umore,
Parker si era trovato spesso a comportarsi con lei come avrebbe fatto con
una bambina di dieci anni.
Cage prese il suo telefono e chiamò l'ospedale, chiedendo notizie di To-
be Geller.
Quando riagganciò, si voltò verso Parker. «Un ragazzo fortunato, il no-
stro Tobe. Principio di asfissia da fumo e un alluce incrinato per essersi
buttato dalla finestra. Nient'altro. Lo terranno lì questa notte in osservazio-
ne. Ma è soltanto una precauzione.»
«Dovrebbe ottenere una nota di merito», suggerì Parker.
«Oh, ci puoi scommettere.»
Anche Parker stava tossendo un po'. Il sapore acre del fumo era nausean-
te.
Continuarono in silenzio per un'altra decina di isolati prima che Cage ri-
volgesse a Parker un significativo: «Allora».
«Allora», gli fece eco Parker. «Che significa?»
«Uauh... non ci stiamo ancora divertendo?» disse l'agente picchiando
una mano aperta sul volante.
Parker lo ignorò e infilò un minuscolo frammento di carta bruciata sotto
la lastra di vetro che proteggeva gli appunti del sosco.
Cage accelerò per superare una macchina troppo lenta. Dopo qualche i-
stante, domandò: «Com'è la tua vita sentimentale di questi tempi? Ti vedi
con qualcuno?»
«Non attualmente.»
Erano passati nove mesi, rifletté, da quando aveva frequentato qualcuno
con regolarità. Sentiva molto la mancanza di Lynne. Aveva dieci anni me-
no di lui, carina, atletica. Si erano divertiti molto insieme - jogging la mat-
tina, cene, viaggi lampo a Middleburg. Gli mancavano la sua vivacità, il
suo senso dell'umorismo (la prima volta che era stata a casa sua aveva dato
un'occhiata a un autografo di Franklin Delano Roosevelt e, con voce per-
fettamente seria, gli aveva detto: «Oh, ho sentito parlare di lui. È il tipo
che ha fondato la Franklin Mint»). Ma, come accade ad alcune donne, il
suo senso materno non era ancora sbocciato, nonostante fosse ormai vicina
ai trenta. Si divertiva ad andare al museo e al cinema con i bambini, ma
Parker poteva vedere chiaramente che un qualsiasi legame maggiore con i
Chi - e con lui - per Lynne sarebbe diventato ben presto un fardello. Parker
era convinto che l'amore, come l'umorismo, sta tutto nella scelta dei tempi.
Alla fine si erano separati con la reciproca promessa che tra qualche anno,
quando lei fosse stata pronta ad avere dei bambini, avrebbero preso in con-
siderazione qualcosa di più definitivo, sapendo entrambi, ovviamente, che
come amanti si stavano dando l'addio per sempre.
«Uh-uh», considerò Cage. «Così te ne stai seduto a casa tua?»
«Già», rispose Parker. «Con la testa nella sabbia come Ozzie lo Struz-
zo.»
«Chi?»
«È un libro per bambini.»
«Non hai la sensazione che intorno a te stiano accadendo delle cose e tu
te le stai perdendo?»
«No, Cage, non direi. Ho la sensazione che i miei figli stanno crescendo
e io non me lo sto perdendo.»
«Questo è importante, certo. Uh-uh. Posso capire che sia una cosa im-
portante, certo.»
«Molto importante.»
Evans, che era ancora al telefono, stava dicendo a sua moglie che l'ama-
va. Parker smise di ascoltare. Quelle parole lo deprimevano.
«Che cosa pensi di Lukas?» domandò finalmente Cage.
«Cosa penso di lei? È brava. Andrà molto lontano. Magari fino in cima.
Se prima non implode.»
«Esplode?»
«No, implode. Come una lampadina.»
«Niente male», rise Cage. «Ma non era questo che ti stavo chiedendo.
Che cosa pensi di lei come donna?»
Parker tossì, rabbrividendo al ricordo dei proiettili e delle fiamme. «Stai
cercando di combinare ta noi? Tra me e Lukas?»
«Certo che no.» Poi: «È solo che vorrei che avesse qualche amico in più.
E mi ero dimenticato che tu sei un tipo simpatico. Potreste anche uscire in-
sieme, qualche volta».
«Cage...»
«Non è sposata. Non ha il ragazzo. E, non so se te ne sei accorto», pro-
seguì l'agente con sguardo furbo, «ma è veramente carina. Non credi?»
Certo che lo credo. Naturalmente Parker era attratto da lei - e da qualco-
sa in più del suo aspetto fisico. Ricordò una certa espressione che le aveva
visto nello sguardo quando l'aveva sorpresa a osservare Robby correre su
per le scale, quella mattina. La via per raggiungere il cuore di un uomo
passa attraverso i suoi figli...
Ma ciò che disse a Cage fu: «Non vede l'ora che questo caso sia chiuso
perché così non sarà più costretta a incontrarmi».
«Lo credi davvero?» domandò Cage, ma questa volta in tono scettico.
«L'hai sentita prima... quella storia della mia arma.»
«Accidenti, è solo che non voleva rispedirti dai tuoi bambini con il culo
su una barella.»
«No, c'è di più. Le sto pestando i piedi, e a lei la cosa non piace. Ma ho
buone notizie per Margaret. Se sono convinto di aver ragione, continuerò a
pestarle i piedi senza esitare.»
«Ehi, eccoti qui.»
«Cosa intendi dire?»
«Che è esattamente ciò che direbbe lei. Non siete una coppia...?»
«Cage, dacci un taglio.»
«Senti, l'unico pensiero di Margaret è di catturare criminali. Certo, in lei
c'è una tonnellata di ego, ma è un ego buono. È il secondo miglior investi-
gatore che io abbia mai conosciuto.» Parker ignorò l'occhiata che aveva
accompagnato quell'ultima frase. Cage parve riflettere per un momento.
«Sai cos'ha di buono Lukas? Si prende cura di se stessa.»
«Che significa?»
«Te lo dirò io. Un paio di mesi fa sono entrati in casa sua.»
«Dove abita?»
«A Georgetown.»
«Sì, da quelle parti capita», commentò Parker. Per quanto gli piacesse il
distretto non ci avrebbe mai abitato, non con i bambini.
«E così se ne torna a casa dall'ufficio di Washington», continuò Cage, «e
vede che la porta è stata forzata. Ci siamo? Il suo cane è nel giardino sul
retro.»
«Ha un cane? Che tipo di cane?»
«Non lo so. E come faccio a saperlo? Un grosso cane nero. E fammi fi-
nire. Si assicura che il suo cane stia bene e poi, invece di chiamare la poli-
zia o l'ufficio, torna al furgone, indossa il giubbotto antiproiettile, prende il
suo MP-5 e controlla la casa da sola.»
Parker scoppiò a ridere. Il pensiero di qualsiasi altra sottile biondina at-
traente che si aggirava in una casa armata di un mitragliatore a mirino laser
sarebbe sembrato semplicemente assurdo. Ma, per qualche motivo, con
Lukas sembrava perfettamente naturale. «Non capisco comunque dove
vuoi arrivare, Cage.»
«Da nessuna parte. Sto solo dicendo che Lukas non ha bisogno di nessu-
no che si prenda cura di lei. Come quando si sta insieme, Parker. Sai, uo-
mini e donne... non credi che funzioni meglio così? Nessuno che si prende
cura di nessuno. È una regola. Prendi nota.»
Parker immaginò che l'agente stesse parlando di Joan. Aveva visto Par-
ker e Joan insieme un discreto numero di volte. E, sicuramente, Parker era
stato attratto dalla sua ex moglie proprio perché Joan stava cercando qual-
cuno che si prendesse cura di lei, e lui - rimasto da poco orfano dei genitori
quando si erano incontrati - aveva un bisogno disperato di prendersi cura
di qualcuno. Ripensò a un paio d'ore prima, quando Lukas si era rivolta a-
gli agenti riuniti a Gravesend davanti al furgone. Forse era stato quello a
sconvolgerlo così tanto, ascoltarla parlare; non tanto la sua esperienza,
quanto la sua indipendenza.
Proseguirono in silenzio per un momento.
«Un MP-5?» domandò poi Parker.
«Già. Ha detto che la sua preoccupazione più grande era che, se per caso
avesse dovuto far secco il ladro, avrebbe potuto rovinare qualcuna delle
decorazioni alle pareti. E cuce, anche. Fa questi patchwork incredibili.»
Patchwork?
«L'ha beccato?»
«No. Era già andato via.»
Parker ricordò la sua rabbia a Gravesend e domandò a Cage: «E allora
cosa pensi che sia? Perché ce l'ha tanto con me?»
Dopo un lungo istante di riflessione, l'agente rispose: «Forse perché ti
invidia».
«Mi invidia? Cosa intendi dire?»
Ma Cage non aveva intenzione di rispondere. «Questo non spetta a me
dirlo. Tu tienitelo a mente, e quando se la prende con te non andarci giù
troppo duro.»
«Quello che dici non ha senso, Cage. Lukas mi invidia?»
«Consideralo come uno dei tuoi piccoli enigmi. I casi sono due: o ci ar-
rivi da solo, oppure sarà lei a darti la risposta. Spetta a lei e soltanto a lei.
Ma io non ti dirò proprio nulla.»
«E perché dovrei aver voglia di sapere la risposta all'enigma Margaret
Lukas?»
Cage sterzò per evitare un altro tombino e non aggiunse altro.
Evans chiuse il telefono, si versò un'altra tazza di caffè dal thermos, che
doveva contenerne almeno un litro. Questa volta Parker accettò la tazza
che gli venne offerta e bevve diversi sorsi della forte bevanda scura.
«Come sta la famiglia?» domandò Parker.
«Ho un sacco di tempo arretrato con i figli.» Lo psicologo sorrise ama-
ramente.
«Quanti ne ha?»
«Due.»
«Anch'io», fece Parker. «Quanti anni hanno?»
«Adolescenti.» Esitò. «Sono difficili da trattare.» Non fornì altri partico-
lari. «I suoi?»
«Nove e dieci.»
«Ah, allora ha ancora qualche anno di pace davanti a sé, signor Parker.»
«Senta, perché non ci diamo del tu? È più semplice.»
«Ma certo.»
«I nipotini sono la cosa migliore», intervenne Cage. «Lasciatevelo dire
da me. Giochi con loro, li fai sporcare tutti, lasci che si versino il gelato
addosso, li vizi da morire e poi li rimandi a casa dai genitori, ti prendi una
birra in frigorifero e guardi la partita. Cosa c'è di meglio?»
Continuarono per qualche minuto in silenzio. Alla fine, Evans domandò
a Parker: «Quell'incidente di cui hai parlato prima. Con tuo figlio. Cos'è
successo?»
«Hai mai sentito parlare del Barcaiolo?» domandò Parker.
Cage guardò attentamente il suo ex collega, poi tornò a fissare la strada.
«Ricordo di aver letto qualcosa sui giornali», rispose Evans. «Ma non ne
sono sicuro.»
«Era un serial killer che operava nella parte settentrionale della Virginia
e nel sud del Maryland», spiegò Parker. «Quattro anni fa. Rapiva una don-
na, la stuprava, la uccideva e poi lasciava il corpo in un gommone o in una
barchetta a remi. Sul Potomac un paio di volte. Sullo Shenandoah. Una
volta nel Burke Lake, a Fairfax. Avevamo delle piste che conducevano a
questo tizio che abitava ad Arlington, ma non erano sufficienti per costrui-
re un caso contro di lui. Alla fine sono riuscito a collegarlo a uno degli o-
micidi per mezzo di un campione di calligrafia. Lo SWAT l'ha arrestato. È
stato condannato, ma è fuggito mentre lo stavano portando nel carcere fe-
derale. Be', a quell'epoca ero nel bel mezzo della causa con la mia ex mo-
glie per la custodia dei bambini. Il tribunale mi aveva affidato la custodia
temporanea. I bambini, la governante e io vivevamo in una casa a Falls
Church. Poi, una notte, più o meno a mezzanotte, Robby comincia a grida-
re. Mi precipito nella sua stanza. E lì c'è il Barcaiolo che sta tentando di
forzare la finestra della sua cameretta.»
Evans annuì, accigliato per la concentrazione.
Ancora adesso, anni e anni dopo, il cuore di Parker tremava al ricordo:
non soltanto ripensando all'immagine della grossa faccia inespressiva che
guardava da dietro il vetro della finestra, ma al ricordo del terrore assoluto
di suo figlio. Le lacrime che gli cadevano copiose dagli occhi sbarrati, le
mani che gli tremavano. Non raccontò a Cage e a Evans dei cinque minuti
- gli erano sembrati ore - di assoluto orrore: condurre i propri figli nella
camera della governante, osservando la porta mentre sentiva il Barcaiolo
muoversi nella casa. Alla fine, dato che la polizia della contea di Fairfax
non era ancora arrivata, era uscito in corridoio con il suo revolver d'ordi-
nanza in pugno.
Si rese conto che Evans lo stava guardando attentamente, quasi lo stesse
studiando. Si sentì come un paziente. Lo psicologo si accorse dell'espres-
sione di Parker e distolse lo sguardo. «E gli hai sparato?» chiese.
«Sì. Gli ho sparato.»
Il rumore è troppo forte! aveva pensato freneticamente Parker mentre
sparava, sapendo benissimo come il fragore delle esplosioni avrebbe peg-
giorato il terrore di Robby e Stephanie.
Il rumore è troppo forte!
Quando Cage si fermò di fronte al quartier generale, Evans infilò il
thermos nello zaino, posò una mano sul braccio di Parker e gli rivolse u-
n'altra occhiata attenta. «Sai cosa faremo?»
Parker inarcò un sopracciglio.
«Prenderemo questo figlio di puttana e poi tutti e due ce ne torneremo a
casa dalle nostre famiglie. Dove dovremmo essere.»
Amen, pensò Parker Kincaid.

La squadra si riformò nel laboratorio al quartier generale.


Margaret Lukas era al telefono.
Parker la osservò. Lo sguardo criptico con cui rispose alla sua occhiata
gli fece tornare in mente i commenti di Cage in macchina.
Forse perché ti invidia...
Lukas tornò a guardare gli appunti che stava scarabocchiando rapida-
mente. Parker osservò la sua calligrafia. Il metodo Palmer. Precisione in-
vidiabile ed economia massima. Nessuno spazio all'inutilità.
Hardy e C.P. Ardell erano lì vicino. Stavano parlando entrambi al cellu-
lare.
Parker depose le lastre di vetro sul tavolo d'esame.
Lukas spense il cellulare, poi guardò Cage e gli altri. «Il rifugio è com-
pletamente distrutto. Il PERT lo sta passando al setaccio, ma non è rimasto
niente. Il computer e i dischetti sono andati perduti.»
«E l'edificio da cui ha sparato il Becchino?» domandò Cage.
«Pulito come una sala operatoria», fece lei con amarezza. «Questa volta
hanno trovato dei bossoli, ma il Becchino portava...
«Guanti di gomma», concluse la frase Parker con un sospiro.
«Esatto. E di pelle quando era nell'appartamento. Non c'è la minima
traccia.»
Un telefono squillò e Lukas rispose. «Pronto?... Ah, va bene.» Sollevò lo
sguardo. «È Susan Nance. Ha trovato altre informazioni da Boston, White
Plains e Philadelphia sugli altri attacchi di cui ci ha parlato Czisman. La
metto in viva voce.»
Premette un pulsante.
«Continua pure, Susan.»
«Sono riuscita a rintracciare i detective che si erano occupati dei casi. Mi
dicono che era come se non ci fosse la minima traccia. Nessuna impronta.
Nessun testimone. Tutti i casi sono ancora aperti. Hanno ricevuto le foto-
grafie del sosco che abbiamo mandato e nessuno lo riconosce. Ma hanno
detto tutti qualcosa di simile. Una cosa strana.»
«Ovvero?» domandò Parker.
«Principalmente che la violenza era del tutto spropositata rispetto al cri-
mine stesso. Avete presente Boston, la gioielleria? Tutto ciò che ha preso è
stato un orologio.»
«Soltanto un orologio?» domandò C.P. Ardell. «Non è riuscito a prende-
re nient'altro?»
«No, no... sembra che fosse tutto ciò che voleva. Era un Rolex, ma co-
munque... Valore circa duemila dollari. A White Plains si è portato via
trentamila dollari. Philadelphia, avete presente lo schema di omicidi? Il ri-
scatto era soltanto di centomila dollari.»
E adesso ne sta chiedendo venti milioni alla città di Washington, pensò
Parker. Il sosco continuava ad aumentare le sue pretese. Prese una boccetta
di ammoniaca diluita e cominciò a pulire il vetro che proteggeva la cenere.
Apparentemente, Lukas stava pensando la stessa cosa. «Reo progressi-
vo?» domandò a Evans.
I rei progressivi erano i criminali seriali che commettevano crimini via
via più gravi.
Ma Evans stava scuotendo la testa. «No. Sembra esserlo, ma i progressi-
vi sono sempre spinti dalla lussuria. Principalmente si tratta di assassini
sado-sessuali.» Si passò il dorso della mano ossuta contro la barba. I peli
erano corti - come se avesse deciso di farsela crescere soltanto di recente -
e sicuramente gli prudevano. «La violenza dei loro crimini si incrementa
perché il crimine non soddisfa i loro bisogni. Ma è molto raro incontrare
un comportamento progressivo nei crimini a scopo di lucro.»
Parker aveva la sensazione che l'enigma fosse un po' più complicato di
quanto potesse sembrare.
O molto semplice.
In un modo o nell'altro, si sentiva addosso la frustrazione di non essere
in grado di vedere alcuna soluzione possibile.
Parker smise di pulire il vetro e rivolse la propria attenzione alle prove
vere e proprie. Studiò ciò che restava delle due pagine di taccuino. Con
enorme disappunto vide che la maggior parte della cenere si era disintegra-
ta. Il danno prodotto dal fuoco era peggiore di quanto avesse pensato.
Ciò nonostante, sarebbe stato possibile leggere una parte della calligrafia
del sosco sui frammenti di cenere più grandi. Ciò viene ottenuto proiettan-
do luce infrarossa sulla superficie della cenere. L'inchiostro bruciato o i
segni di matita riflettono una lunghezza d'onda diversa da quella della car-
ta, e solitamente si riesce a decifrare la maggior parte delle parole.
Parker sistemò attentamente l'una accanto all'altra nel visore all'infraros-
so Foster + Freeman le lastre di vetro che contenevano i fogli di carta gial-
la. Si chinò e prese una lente d'ingrandimento che trovò sul ripiano del ta-
volo (pensando con rabbia: Quel maledetto Becchino ha appena distrutto
la mia Leitz d'antiquariato da cinquecento dollari).
Hardy guardò il foglio a sinistra. «Labirinti. Ha disegnato dei labirinti.»
Parker esaminò i pezzi di cenere l'uno dopo l'altro, focalizzando la pro-
pria attenzione sul foglio che conteneva il riferimento al Mason Theater.
Sperava che il sosco avesse scritto anche gli ultimi due bersagli: quello
delle otto e quello di mezzanotte. Ma quei frammenti erano malamente
mescolati tra loro e quasi del tutto bruciati.
«Be', qualcosa di visibile ce l'ho», borbottò. Strizzò gli occhi, puntò la
lente d'ingrandimento su un'altra sezione del foglio. «Cristo», sbottò poi.
Scosse il capo.
«Che c'è?» domandò C.P.
«Oh, i bersagli che il Becchino ha già colpito sono perfettamente leggi-
bili. La metropolitana e il Mason Theater. Ma i prossimi due... non riesco a
distinguerli. L'ultimo... questo è più facile da leggere del terzo. Prendi no-
ta», disse a Hardy.
Il giovane detective prese una penna e un taccuino. «Continua.»
Parker strinse le palpebre. «Sembra 'Il posto dove ti...' Vediamo. 'Posto
dove ti... ho portato.' Poi una barra. Poi la parola 'nero'. No, 'il nero.' Poi c'è
un buco nel foglio. Il resto è andato completamente perduto.»
Hardy rilesse. «Posto dove ti ho portato, barra, il nero...»
«Non c'è altro.»
Parker sollevò lo sguardo. «Di che accidenti di posto sta parlando?»
Ma, ovviamente, nessuno ne aveva la più pallida idea.
Cage guardò l'orologio. «Che mi dici dell'attacco delle otto? È su quello
che dovremmo concentrarci. Ci resta meno di un'ora.»
Parker scrutò la terza riga scritta, appena sotto il riferimento al Mason
Theater. La studiò per un minuto, chino sul foglio. Poi dettò: «... 'tre chi-
lometri a sud. Il R...' È una R maiuscola. Ma dopo la R la cenere è mischia-
ta. Riesco a vedere un sacco di segni, ma sono tutti frammentati». .
Parker prese la trascrizione e si avvicinò a una lavagna montata alla pa-
rete del laboratorio. Vi copiò le parole affinché tutti potessero leggerle:
... tre chilometri a sud. Il R...
... posto dove ti ho portato / il nero...
«Cosa significa?» domandò Cage. «Di cosa accidenti sta parlando?»
Parker non ne aveva la minima idea.
Voltò le spalle alla lavagna e si sporse di nuovo sulle lastre di vetro,
guardandole come avrebbe guardato un bulletto prepotente nel cortile della
scuola.
Ma il frammento di carta vinse facilmente la sfida.
«Tre chilometri a sud di cosa?» borbottò. «'R'... Cosa vuol dire 'R'?»
Sospirò.
La porta si aprì e Parker ebbe un sussulto. «Tobe!»
Tobe Geller entrò con passo incerto nella stanza. Si era cambiato d'abito
e sembrava essersi fatto una doccia, ma aveva ancora addosso l'odore del
fumo e di tanto in tanto veniva colto da violenti attacchi di tosse.
«Ehi, ragazzo, non dovresti essere qui», disse Cage.
«Sei impazzito?» intervenne Lukas. «Va' a casa.»
«Nel mio patetico appartamentino da scapolo? Dopo aver tirato il bidone
a quella che con ogni probabilità da questa sera è la mia ex ragazza? Non
credo. Non credo proprio.» Cominciò a ridere, ma subito la sua risata si
trasformò in tosse. Controllò l'accesso e prese a respirare profondamente.
«Come te la passi, compare?» gli chiese C.P. Ardell, abbracciandolo con
fermezza. Nel grosso viso dell'agente si poteva vedere la preoccupazione
sentita e gioviale che gli agenti tattici e in incognito non si fanno problemi
a mostrare.
«Non hanno nemmeno un grado per classificare le mie ustioni», spiegò
Geller. «È come se avessi preso un po' di sole della California. Sto bene.»
Tossì di nuovo. «Be', a parte i polmoni. Al contrario di certi presidenti, io
ho aspirato il fumo. Bene, adesso... dove siamo rimasti?»
«Hai presente quel taccuino giallo?» disse Parker amareggiato. «Detesto
dovertelo dire, ma non riusciamo a ricavarci molto.»
«Acc...» imprecò l'agente.
«Esatto.»
Lukas si avvicinò al tavolo mettendosi di fianco a Parker. Questi ora non
sentiva più l'odore del sapone di poco prima, ma soltanto il sentore acre del
fumo.
«Hmmm», fece la donna dopo un istante.
«Cosa?»
Indicò i frammenti sparpagliati di cenere. «Qualcuno di questi piccoli
pezzi potrebbe adattarsi dopo la lettera R, giusto?»
«Potrebbe.»
«Be', che cosa ti fanno venire in mente?»
Parker abbassò lo sguardo sul foglio. «Un puzzle», sussurrò.
«Esatto», disse lei. «Quindi, sei tu il signore degli enigmi. Riesci a ri-
mettere i pezzi al loro posto?»
Parker osservò le centinaia di minuscoli frammenti di cenere. Potevano
volerci ore, se non giorni; al contrario di un vero puzzle (che comunque
era il tipo di rompicapo che Parker amava meno in assoluto) i bordi dei
pezzi di cenere erano danneggiati e non corrispondevano necessariamente
a quelli dei pezzi adiacenti.
Poi, però, ebbe un'idea. «Tobe?»
«Sì?» Il giovane agente tossì e si sfregò un sopracciglio strinato.
«Esistono programmi per computer che fanno anagrammi, vero?»
«Anagrammi, anagrammi? Di che si tratta?»
Fu C.P. Ardell a rispondere, un uomo la cui maggiore attività intellettua-
le si supponeva potesse essere confrontare i prezzi delle diverse marche di
birra. «Assemblare parole diverse partendo dalle stesse lettere. Come r-a-
m-o a-m-o-r.»
«Oh», disse Geller, «certo che ce ne sono. Ma tu non useresti mai un
software per risolvere un enigma, vero, Parker?»
«No, vorrebbe dire barare.» Sorrise a Lukas... ma il viso di pietra dell'a-
gente non offrì nulla più che un'occhiata momentanea per poi tornare a de-
dicarsi allo studio della lavagna.
«Dopo la sequenza...» continuò Parker «... 'tre chilometri a sud. Il R...'
Vedi tutti quei frammenti di cenere? Riesci a rimetterli insieme?»
Geller scoppiò a ridere. «È un'idea brillante», fece. «Passeremo allo
scanner campioni di calligrafia presi dalla lettera. Ciò ci darà degli stan-
dard di costruzione per le singole lettere. A quel punto fotograferò i fram-
menti di cenere con la macchina fotografica digitale e un filtro all'infraros-
so ed eliminerò il valore tonale della carta bruciata. Questo ci lascerà con
dei frammenti di lettere. E li farò assemblare dal computer.»
«Funzionerà?» domandò Hardy.
«Oh, sì che funzionerà», asserì Geller con sicurezza. «Solo che non so
quanto tempo ci vorrà.»
Agganciò la fotocamera digitale e scattò diverse fotografie della cenere e
una della lettera di estorsione. Poi collegò la macchina fotografica alla por-
ta seriale di un computer e cominciò a caricare le immagini.
Le sue dita volarono sulla tastiera. Tutti rimasero in silenzio.
Un silenzio che, un attimo dopo, rese il suono lacerante del cellulare di
Parker particolarmente improvviso.
Parker balzò per la sorpresa e aprì il telefono. Il numero del chiamante
corrispondeva a quello di casa sua.
«Pronto?» rispose.
Il suo cuore smise di battere quando udì la signora Cavanaugh che dice-
va con voce tirata: «Parker».
In sottofondo udiva i singhiozzi di Robby.
«Di che si tratta?» domandò, cercando di non farsi prendere dal panico.
«Stanno tutti bene», si affrettò a spiegargli la signora Cavanaugh.
«Robby sta bene. Solo che si è spaventato un po'. Ha creduto di aver visto
quell'uomo in giardino. Il Barcaiolo.»
Oh, no...
«Non c'era nessuno. Ho acceso le luci del corridoio. Il cane del signor
Johnson si è liberato ancora una volta e stava saltellando tra i cespugli.
Tutto qui. Ma il bambino è spaventato. Molto spaventato.»
«Me lo passi.»
«Papà? Papà!» La voce di Robby era incrinata dalla paura. Nulla aveva
il potere di sconvolgere Parker come quel suono.
«Ehi, Robby!» esclamò con voce squillante. «Che è successo?»
«Ho guardato fuori.» Pianse ancora per un momento. Parker chiuse gli
occhi. La paura di suo figlio era come la sua. Il bambino continuò: «E ho
creduto di averlo visto. Il Barcaiolo. Era... mi sono spaventato».
«Ricordati, sono solo i cespugli. Domani li taglieremo insieme.»
«No, questa volta era il garage.»
Parker si infuriò con se stesso. Aveva dimenticato la porta aperta, e den-
tro la rimessa c'erano tante di quelle cianfrusaglie che potevano far imma-
ginare a un bambino la presenza di un intruso.
«Ricordi cosa facciamo di solito?» disse ora a suo figlio.
Nessuna risposta.
«Robby? Ti ricordi?»
«Ho il mio scudo.»
«Bene. E l'elmo?» Parker sollevò lo sguardo e vide che Lukas lo stava
guardando con espressione rapita. «Hai il tuo elmo sulla testa?»
«Sì», rispose il bambino.
«E dimmi delle luci.»
«Le accendiamo.»
«Quante luci?» domandò Parker.
«Tutte, fino all'ultima», recitò Robby.
Oh, era così difficile ascoltare la voce di suo figlio. E sapere ciò che a-
vrebbe dovuto fare ora. Si guardò intorno nel laboratorio, vide le facce del-
le persone che quella sera erano diventate i suoi fratelli. E pensò: Si può,
con un po' di forza e di fortuna, staccarsi dalle mogli e dalle amanti o dai
colleghi. Ma non dai tuoi figli. Mai dai tuoi figli. Loro hanno il tuo cuore
in mano per sempre.
Al telefono disse: «Verrò subito a casa. Non preoccuparti».
«Davvero?» domandò il bambino.
«Più veloce che posso.»
Chiuse il cellulare. Tutti lo stavano guardando, immobili.
«Devo andare», annunciò con gli occhi fissi su Cage. «Tornerò. Ma a-
desso devo andare assolutamente.»
«C'è niente che io possa fare?» domandò Hardy.
«No, grazie, Len», rispose Parker.
«Cristo, Parker», cominciò Cage, sollevando gli occhi all'orologio. «Mi
dispiace che Robby sia spaventato, ma...»
Margaret Lukas alzò una mano e zittì l'agente più anziano. «Non c'è al-
cuna possibilità che il Becchino possa sapere di te, Parker», disse. «Ma
manderò lo stesso un paio di agenti davanti a casa tua.»
Parker immaginò che fosse un preambolo a un tentativo di convincerlo a
restare, ma Lukas aggiunse: «È il tuo bambino? Va' a casa. Fallo felice.
Non preoccuparti di quanto tempo ci vorrà».
Parker la fissò per un lungo istante, chiedendosi se non avesse per caso
trovato un indizio per risolvere il labirinto dell'agente speciale Lukas.
O si trattava soltanto di una falsa pista?
Invidia...
Fece per ringraziarla, ma improvvisamente ebbe la sensazione che un
qualsiasi segno di gratitudine, una qualsiasi risposta, avrebbero messo a
repentaglio l'instabile equilibrio tra loro due. Così si limitò ad annuire e
uscì rapidamente dalla porta.
Quando se ne andò, l'unico suono nel laboratorio era quello della voce
rauca di Geller che parlava con il suo computer. «Andiamo, andiamo, an-
diamo.» Allo stesso modo in cui un fantino disperato sprona un cavallo
perdente sulla pista.

21
19,20

Pixel dopo pixel. Osservando le immagini comporsi sullo schermo del


computer di Tobe Geller. Ancora frastagliate.
Margaret Lukas camminava avanti e indietro, pensando a Parker Kin-
caid.
Quando sarebbe arrivato a casa, avrebbe confortato suo figlio? L'avrebbe
abbracciato? Gli avrebbe letto qualcosa? Avrebbe guardato la televisione
con lui? Era il tipo di padre che parlava con suo figlio per affrontare i vari
problemi? Oppure avrebbe tentato di distrarre il bambino, di distogliere la
sua mente dallo spettro della paura? Gli avrebbe portato un regalo per
comprare l'allontanamento del dolore?
Non ne aveva idea. Tutto ciò che Margaret Lukas sapeva era che ora a-
vrebbe voluto Kincaid lì, accanto a sé.
Be', una parte di lei lo voleva. Il resto di lei voleva che lui non tornasse
mai più, che restasse per sempre nascosto nella sua piccola fortezza subur-
bana. Così lei avrebbe potuto...
No, no... smettila. Focalizza.
Lukas si voltò verso il dottor Evans, lo osservò esaminare attentamente
la lettera di ricatto, sfregandosi la barba con la mano. L'uomo sorseggiò
dell'altro caffè che si era appena versato dal thermos, poi si alzò e annun-
ciò: «Ho qualche idea sul sosco».
«Continui.»
«Prendetele cum grano salis», avvertì lo psicologo. «Per farlo bene avrei
bisogno di una tonnellata di dati in più e di un paio di settimane per analiz-
zarli.»
«È così che lavoriamo qui», fece Lukas. «Confrontiamo le idee. Non le
daremo la responsabilità di niente.»
«Credo, da ciò che ho visto, che il Becchino sia soltanto una macchina.
Noi psicologi lo chiameremmo 'un soggetto a prova di profilo'. È del tutto
inutile analizzarlo. Sarebbe come tentare di fare il profilo psicologico di un
fucile. Ma il mandante, l'uomo che ora sta all'obitorio... be', lui è tutta u-
n'altra storia. Conoscete i rei organizzati?»
«Naturalmente», rispose Lukas. Psicologia Criminale 101.
«Be', lui era un criminale altamente organizzato.»
Lo sguardo di Lukas andò alla lettera di estorsione, mentre Evans ne de-
scriveva l'autore.
«Ha pianificato tutto alla perfezione», continuò lo psicologo. «I tempi, i
luoghi. Conosce la natura umana; sapeva che il sindaco sarebbe stato di-
sposto a pagare, tanto per cominciare, anche se la maggior parte delle auto-
rità non sarebbe stata d'accordo. Aveva una serie praticamente infinita di
piani di riserva. Sto pensando alla bomba nel rifugio, per esempio. E ha
trovato l'arma perfetta: un essere umano funzionante e funzionale che non
fa altro che uccidere. Ha intrapreso un compito impossibile e probabilmen-
te sarebbe anche riuscito a farcela se non fosse rimasto ucciso in quell'in-
cidente.»
«Avevamo riempito le borse di trasmettitori, quindi no, probabilmente
non sarebbe riuscito a fuggire», fece notare Lukas.
«Ah», commentò Evans, «scommetto che aveva un piano anche per que-
sto.»
Lukas si rese conto che con tutta probabilità lo psicologo aveva ragione.
«Ora», proseguì Evans, «ha chiesto venti milioni di dollari. Ed era di-
sposto a uccidere centinaia di persone per ottenerli. Non era un reo pro-
gressivo, ma ha comunque alzato la posta in gioco perché sapeva - be',
perché era convinto - di potercela fare. Era convinto di essere in gamba,
ma lo era davvero. In altre parole, la sua arroganza era supportata dal ta-
lento.»
«Il che lo rende ancora più pericoloso», borbottò C.P. Ardell.
«Esattamente. Nessun falso senso dell'ego su cui farlo incespicare. Era
intelligente...»
«Kincaid ha detto che aveva un alto grado di istruzione», aggiunse Lu-
kas, scoprendosi nuovamente a desiderare che Parker fosse lì a confrontare
le idee con loro. «Ha tentato di nasconderlo nella lettera, ma Parker l'ha
capito ugualmente.»
Evans ci pensò su per un momento. «Che cosa indossava quando l'hanno
portato all'obitorio?»
C.P. trovò la lista e la lesse allo psicologo.
«Quindi, vestiti da poco prezzo», riassunse Evans.
«Già.»
«Non esattamente il tipo di abbigliamento che ci si aspetta da qualcuno
che possiede l'intelligenza necessaria per escogitare un piano elaborato
come questo e che stava chiedendo venti milioni di dollari.»
«Vero», disse Cage.
«Il che significa?» domandò Lukas.
«Io qui vedo una questione di classe sociale», spiegò Evans. «Credo che
preferisse uccidere gente ricca piuttosto che gente povera.»
«Però», fece notare Hardy, «nel primo attacco ha mandato il Becchino a
far fuori tutti, non soltanto i ricchi.»
«Ma pensate a dove è successo», fece Evans. «DuPont Circle. Il centro
di Yuppie-ville. Non certo il sud-est. E il Mason Theater? I biglietti per lo
spettacolo dovevano costare almeno sessanta dollari l'uno. E poi c'era an-
che il terzo bersaglio, il Four Seasons. Anche se non ha colpito, ci ha co-
munque mandati lì. Era un luogo a lui familiare. È di prima categoria. Ve-
dete, ovviamente è abbastanza furbo da avere successo in tutto ciò che fa.
Ma ha scelto di sollevare un putiferio enorme minacciando di uccidere
gente ricca.»
Lukas annuì. Ora le sembrava perfettamente ovvio, e la turbava il fatto
di non esserci arrivata prima. Pensò ancora a Parker, a come affrontava gli
enigmi. Guardava oltre l'ovvio. Pensava a tutto tondo. Era così difficile, a
volte...
Focalizza...
«Ritengo che fosse arrabbiato con i ricchi. Con l'élite della società.»
«Perché?» domandò Cage.
«Non lo so ancora. Non con i pochi fatti concreti di cui disponiamo. Ma
li odiava, li odiava eccome. Oh, era pieno d'odio. E dovremmo ricordarce-
lo mentre cerchiamo di immaginare quale sarà il suo prossimo bersaglio.»
Lukas prese la fotografia del cadavere e la fissò intensamente.
Che cosa aveva avuto in mente? Quali erano stati i motivi che lo aveva-
no spinto ad agire in quel modo sanguinario?
Evans la guardò e ridacchiò brevemente.
«Che c'è?» gli chiese Lukas.
Lo psicologo annuì in direzione della lettera di ricatto. «Ho la sensazio-
ne di aver analizzato la lettera. Come se fosse lei il criminale.»
Lukas ricordò di aver pensato la stessa cosa.
Esattamente ciò che aveva detto anche Parker Kincaid.
Focalizza...
«Un attimo, gente», intervenne Geller. «Abbiamo qualcosa.» Tutti si
sporsero verso lo schermo su cui potevano vedere chiaramente le parole
«... tre chilometri a sud. Il R...»
Dopo quella frase il computer stava inserendo combinazioni di lettere
prese dai frammenti di cenere. Li respingeva se il tratto di penna di una let-
tera non corrispondeva al tratto di un'altra. Ma il sistema era riuscito ad
aggiungere la lettera i dopo la R. E un'altra lettera si stava lentamente for-
mando dopo quella.
«È quella strana i con il puntino di cui parlava Parker», disse Geller.
«La lacrima del diavolo», sussurrò Lukas.
«Esatto», confermò Geller. «Poi, dopo di quella... la lettera t. Ma è una
t? Maledette lacrime. Non riesco a vedere niente.»
«Sì», confermò Lukas, «è sicuramente R-i-t.»
«Qual è la lettera successiva?» domandò Hardy in un sussurro, chinan-
dosi verso lo schermo.
«Non riesco a capire», disse Lukas. «È troppo indistinta. Una lettera cor-
ta, senza nessuna... come le chiamava Parker? Ascendente o discendente.»
Si sporse oltre la spalla di Geller. L'odore di fumo su di lui era molto
forte. Sul monitor le lettere erano piuttosto deboli, ma... sì, erano sicura-
mente una i e una t. Quella successiva, però, era soltanto una macchia indi-
stinta.
«Maledizione», sbottò Geller. «Il computer dice che è proprio questa la
lettera giusta. I tratti di penna corrispondono. Ma non riesco a leggerla.
Qualcuno ci vede meglio di me?»
«Sembra uno zig-zag o qualcosa del genere», ipotizzò Lukas. «Una x
forse?»
Cage sollevò la testa di scatto. «Uno zig-zag? Potrebbe essere una z?»
«Ritz», disse Hardy. «Forse il Ritz Carlton?»
«Dev'essere quello!» esclamò Lukas. «Ha intenzione di uccidere altra
gente ricca?»
«Certo!» assentì vigorosamente Evans. «E ha senso. Data la sua tenden-
za a trarci in inganno, avrà sicuramente immaginato che avremmo elimina-
to gli alberghi perché ne aveva già usato uno in precedenza... una specie di
finta.»
Geller si spostò a un altro computer. In cinque secondi aveva sul moni-
tor l'elenco telefonico. «Ci sono due Ritz nella zona. Uno a Tyson's Cor-
ner. E l'altro a Pentagon City.»
«Ma sono entrambi fuori dal distretto», continuò Lukas. «Parker ha detto
che sarebbe rimasto nei confini.»
«Forse all'inizio», disse Evans. «Ma avrà sicuramente immaginato che
avremmo cominciato a capire, quindi è normale che abbia pensato di cam-
biare le regole.»
«Ma quale albergo?» domandò Cage. «Dice tre chilometri a sud di qual-
cosa. Un'autostrada? Un qualche punto di riferimento?»
«Non rischieremo assolutamente», sentenziò Lukas. «Copriremo en-
trambi gli alberghi.»
Chiamò Jerry Baker e lo mise al corrente dell'ultimo bersaglio. «Voglio
ogni agente operativo del distretto e della Virginia settentrionale mobilita-
to e pronto a intervenire.» Poi aggiunse: «Non ti piacerà, Jerry, ma niente
caschi e niente elmetti». Senza i caschi Nomex e senza gli elmetti in kevlar
- l'equivalente dell'FBI per le operazioni in borghese.
«Sei sicura?» domandò Baker, incerto. Quando gli agenti si vestono per
la sorveglianza in incognito non possono indossare protezioni come in u-
n'operazione tattica aperta.
«Dev'essere così, Jerry. L'abbiamo quasi inchiodato la volta scorsa, e ora
sarà prudente come un cervo in una radura. Se vede qualcosa, qualsiasi co-
sa, fuori dall'ordinario, sparisce. Mi assumo io ogni responsabilità.»
«Okay, Margaret. Farò così.»
Lukas riagganciò.
E trovò Len Hardy che la fissava. La faccia del poliziotto sembrava più
vecchia, indurita. «Andate in borghese?» domandò.
«Sì. Ci sono dei problemi, detective?»
«Significa che non avete intenzione di evacuare gli alberghi?»
«Esattamente», rispose Lukas.
«Ma ci saranno mille persone lì, questa sera.»
«Sarà come sempre. Non possiamo permetterci che sospetti qualcosa. È
l'unica possibilità che abbiamo di prenderlo.»
«Ma se ci passa sotto il naso... voglio dire, non sappiamo nemmeno che
aspetto ha.»
«Lo so, Len.»
Hardy scosse il capo. «Non puoi farlo.»
«Non abbiamo altra scelta.»
«No», sbottò il detective. «Sai bene qual è il mio mestiere - compilo sta-
tistiche. Vuoi sapere quante persone innocenti, quanti passanti muoiono
nel corso di operazioni tattiche in incognito? Esiste una probabilità dell'ot-
tanta per cento di perdite significative tra persone innocenti, se decidete di
prenderlo in una situazione come questa.»
«E tu cosa suggerisci?» sbottò Lukas, lasciando intravedere una punta di
irritazione.
«Teniamo pure i nostri in borghese, ma facciamo uscire tutti gli invitati.
Puoi tener dentro gli inservienti e gli uscieri, ma gli altri tutti fuori.»
«E così avremo al massimo cinquanta o sessanta persone dentro l'alber-
go», gli fece notare lei. «Il Becchino entra dalla porta principale, aspettan-
dosi di trovare cinquecento o seicento persone, e cosa fa? Va a sparare a
qualcun altro di cui non abbiamo la minima idea. No.»
«Per l'amor di Dio, Lukas», sussurrò Hardy, «almeno fa' uscire i bambi-
ni.»
Lukas rimase in silenzio, gli occhi fissi sulla lettera.
«Ti prego», insistette il detective.
Lukas lo guardò diritto negli occhi. «No. Se tentiamo di evacuare tutti i
presenti, la voce si spargerà e si creerà il panico.
«Quindi hai intenzione di andare là e sperare che vada tutto bene?»
Margaret guardò la lettera.
La fine è in minente.
Sembrava prendersi gioco di lei.
«No», disse Lukas. «Andremo dentro e lo fermeremo.» Guardò Evans.
«Dottore, lei può stare qui.» Poi guardò Hardy: «Tu ti occuperai delle co-
municazioni».
Hardy sospirò e si voltò verso il pannello di controllo.
«Andiamo», fece Lukas rivolgendosi a Cage. «Devo fermarmi un attimo
nel mio ufficio.»
«Per cosa?» domandò lui, indicando la fondina vuota alla caviglia di
Margaret. «Un'arma di riserva?»
«No, per prendere un vestito della festa. Dobbiamo mescolarci agli invi-
tati.»

«Dice che ha qualcosa di buono per noi», fece Wendell Jefferies, le ma-
niche della camicia arrotolate in alto sui bicipiti muscolosi.
Si riferiva a Slade Phillips. Gerald Kennedy lo sapeva.
I due erano nell'ufficio del sindaco. Kennedy aveva appena tenuto un'al-
tra imbarazzante conferenza stampa, a cui aveva assistito soltanto una de-
cina di giornalisti che ricevevano chiamate ai cellulari e ai cercapersone,
anche mentre lui stava parlando, nella speranza di altre notizie, di notizie
migliori provenienti da altre fonti. E come si poteva biasimarli? Cristo, lui
non aveva proprio niente da dire. Tutto ciò di cui poteva parlare era il mo-
rale di alcune delle vittime che era andato a trovare negli ospedali della cit-
tà.
«Andrà in onda alle dieci», fece Jefferies al sindaco.
«Con cosa?»
«Non ha voluto dirmelo», rispose Jefferies. «In qualche modo, pensa che
dirmelo non sarebbe etico.»
Kennedy si stiracchiò sul divano - un falso sofà georgiano che era stato
acquistato dal suo predecessore. La fodera si stava staccando dai braccioli.
E il poggiapiedi su cui il sindaco teneva appoggiate le sue scarpe numero
quarantacinque traballava, sostenuto da un pezzetto di cartone ripiegato
sotto una delle gambe.
Un'occhiata all'orologio di ottone.
«Egregio sindaco, grazie molte per essere venuto a parlare con noi og-
gi. È stato un onore poterla ascoltare. Lei è una persona buona con noi
bambini e noi studenti e vorremmo commem... commem... commemorare
la sua visita con questo regalo, che speriamo le faccia piacere...»
La lancetta dei minuti avanzò di una tacca. Tra un'ora, pensò Kennedy,
quante altre persone moriranno?
Squillò il telefono. Kennedy lo guardò pigramente e lasciò che fosse Jef-
feries a rispondere.
«Pronto?»
Una pausa.
«Certo. Resti in linea.» Passò la cornetta a Kennedy, dicendo: «Una cosa
interessante».
Kennedy prese il telefono. «Sì?»
«Sindaco Kennedy?»
«Sono io.»
«Sono Len Hardy.»
«Il detective Hardy?»
«Esatto. C'è... c'è qualcuno che ci ascolta?»
«No. Questa è la mia linea privata.»
Il poliziotto ebbe un attimo di esitazione, poi proseguì: «Ho pensato
molto... a quello di cui abbiamo parlato».
Kennedy si drizzò a sedere, posando i piedi a terra.
«Continua, figliolo. Dove sei?»
«Nona Strada. Al quartier generale.»
Ci fu una pausa di silenzio. «Continua», lo incoraggiò il sindaco.
«Non posso più starmene qui seduto senza fare niente. Dovevo fare
qualcosa. Credo che Margaret stia commettendo un errore.»
«Lukas?»
«Hanno scoperto dove colpirà questa sera...» proseguì Hardy. «Il Bec-
chino. Il killer.»
«Davvero?» La mano di Kennedy si strinse spasmodicamente sul ricevi-
tore. Fece cenno a Jefferies di passargli carta e penna. «Dove?»
«Al Ritz Carlton.»
«A Pentagon City?»
«Non ne sono sicuri. Probabilmente quello. O forse quello a Tyson's
Corner. Ma Lukas non ha intenzione di farli evacuare.»
«Lei cosa?» sbottò Kennedy.
«Lukas non ha intenzione di far evacuare gli alberghi. Lei...»
«Aspetta», disse Kennedy. «Vuoi dirmi che sanno dove colpirà e non lo
stanno dicendo a nessuno?»
«Esatto. Hanno intenzione di usare la gente come esca, credo. Voglio di-
re... è l'unico modo per dirlo.»
Una pausa. Poi Hardy continuò. «In ogni modo, ho pensato a quello che
mi aveva detto, sindaco. E ho deciso di chiamarla.»
«Hai fatto la cosa giusta.»
«Lo spero, lo spero davvero.»
«È per le otto?»
«Alle otto, sì. Non posso più parlare, sindaco. Dovevo semplicemente
dirglielo.»
«Grazie.» Kennedy riagganciò e si alzò in piedi.
«Di che si tratta?» gli chiese Jefferies.
«Sappiamo dove colpirà alle otto. Al Ritz. Probabilmente a Pentagon
City. Chiama Reggie, voglio la mia macchina subito. E una scorta della
polizia.»
Mentre si avvicinava alla porta, Jefferies gli chiese: «Che ne pensi di una
troupe televisiva? Posso portarmi uno dei cameramen che lavorano con
Phillips».
Kennedy si fermò. Poi annuì. «Chiamalo.»
Sono tutti e due impacciati, fianco a fianco, sul divano nella stanza d'al-
bergo del Becchino.
Stanno guardando la televisione.
Divertente.
Al Becchino, le immagini sullo schermo sembrano familiari.
Sono immagini del teatro. Il posto dove avrebbe dovuto roteare su se
stesso come aveva fatto nella foresta del Connecticut e mandare proiettili a
far cadere un milione di foglie. Dove aveva voluto roteare, dove avrebbe
dovuto roteare ma non ha potuto.
Il teatro dove... click... dove l'uomo spaventoso con le mascelle grandi e
il cappello è venuto per ucciderlo.
Guarda il ragazzo mentre il ragazzo guarda la televisione. Poi il ragazzo
dice: «Merda». Per nessun particolare motivo, sembra.
Proprio come Pamela.
Il Becchino chiama la sua casella vocale e sente la voce della donna che
dice: «Non ci sono nuovi messaggi».
Riappende.
Il Becchino non ha molto tempo. Guarda l'orologio. Il ragazzo fa la stes-
sa cosa.
È magro e fragile. La zona intorno al suo occhio destro è leggermente
più scura della sua pelle scura, e il Becchino sa che l'uomo che ha ucciso
nel vicolo ha picchiato il bambino tante volte. Pensa di essere felice di aver
sparato a quell'uomo. Ma non sa bene che cosa voglia dire felice.
Si chiede che cosa penserebbe del bambino l'uomo che gli dice le cose.
L'uomo gli ha detto di uccidere chiunque l'avesse guardato in faccia. E il
bambino l'ha guardato in faccia. Ma non sembra... click... non sembra...
click... non sembra giusto ucciderlo.

Ah, mi sembra proprio che ogni giorno che passa


Io ti amo sempre più.

Entra nella piccola cucina e apre una scatoletta di minestra. Ne versa un


po' in una ciotola. Poi guarda le braccia pelle e ossa del bambino e ne versa
ancora un po'. Raviolini. La scalda nel forno a microonde esattamente per
sessanta secondi, che è quello che le istruzioni sulla scatoletta gli dicono di
fare per avere la minestra «calda al punto giusto». Mette la ciotola davanti
al bambino. Gli porge un cucchiaio.
Il bambino ne prende un boccone. Poi un altro. Poi smette di mangiare.
Sta guardando lo schermo della televisione. La sua testa piccola, ovale,
ciondola da una parte all'altra, le sue palpebre ricadono, e il Becchino capi-
sce che è stanco. È così che fanno i suoi occhi e la sua testa quando è lui a
essere stanco.
Lui e il ragazzo sono molto simili, decide.
Il Becchino gli indica il letto. Ma il bambino lo guarda impaurito e non
dà alcuna risposta. Il Becchino allora gli indica la brandina e il bambino si
alza e va alla brandina. Si stende. Continua a fissare la televisione. Il Bec-
chino prende una coperta e gliela avvolge intorno al corpo.
Guarda la televisione. Ancora notiziari. Trova un canale che trasmette
pubblicità. Vendono hamburger e automobili e birra e Tampax.
Cose così.
Dice al ragazzo: «Come...» Click. «Come ti chiami?»
Il ragazzo lo guarda con gli occhi semichiusi. «Tye.»
«Tye.» Il Becchino lo ripete diverse volte tra sé. «Io sto...» Click. «Sto
uscendo.»
«Ma tornerai?»
Cosa intende dire? Il Becchino scuote la testa, la sua grossa testa con
quella piccola ammaccatura sopra la tempia.
«Tornerai?»
«Tornerò.»
Il ragazzino chiude gli occhi.
Il Becchino pensa a qualcos'altro che potrebbe dirgli. C'è una cosa che
sente di aver voglia di dire, ma non ricorda cosa. Non ha comunque impor-
tanza, perché ora il ragazzino dorme. Il Becchino gli rimbocca la coperta.
Va all'armadio, apre con la chiave e prende una delle scatole di muni-
zioni. Si infila i guanti di plastica e riempie due caricatori per l'Uzi, poi
passa quindici minuti a rimpacchettare il silenziatore. Alla fine richiude a
chiave l'armadio.
Il ragazzino continua a dormire. Il Becchino può sentire il suo respiro
regolare e profondo.
Guarda la borsa con i cuccioli, strappata. Sta per accartocciarla e buttarla
via, ma poi si ricorda che Tye la guardava e che sembrava piacergli. Allora
il Becchino la liscia e gliela mette accanto, così, se si sveglierà mentre lui è
ancora fuori, vedrà i cuccioli e non avrà paura.
Il Becchino ha una borsa nuova.
«Usa una borsa marrone qualsiasi per la terza volta», gli ha detto l'uomo
che gli dice le cose.
E così il Becchino ha una borsa marrone di carta, come quelle della spe-
sa.
Il ragazzino si rigira sulla brandina, ma è sempre addormentato.
Il Becchino mette l'Uzi nella borsa marrone, si infila i guanti e l'imper-
meabile scuro e lascia la stanza.
Da basso entra nella sua bellissima macchina, una Toyota Corolla.
Gli piacciono tanto quelle pubblicità.
Ohhhhh, gente di tutti i giorni...
Gli piacciono di più di quelle che dicono Oh, che sensazione...
Il Becchino sa come si guida. È un guidatore veramente bravo. Con Pa-
mela, di solito, guidava sempre lui. Quando guidava lei andava veloce, lui
invece andava piano.
Il Becchino rispetta tutti i segnali stradali e non va mai troppo forte.
Apre il vano portaoggetti. Dentro ci sono diverse pistole. Ne prende una
e se la mette in tasca. «Dopo il teatro», l'ha avvertito l'uomo che gli dice le
cose, «ci saranno molti più poliziotti che ti cercheranno. Dovrai stare mol-
to attento. E ricorda, se qualcuno vede la tua faccia...»
Me lo ricordo.

Di sopra, nella cameretta di Robby, Parker era con suo figlio. Il bambino
era seduto sul letto, Parker sulla vecchia sedia a dondolo di legno che ave-
va comprato e tentato di rifinire lui stesso.
Sul pavimento erano sparsi dei giocattoli. Il Nintendo 64 era collegato al
televisore, alle pareti erano appesi poster di Guerre stellari. Luke Skywal-
ker. E Darth Vadar...
La nostra mascotte per la serata.
Era stato Cage a dirlo. Ma Parker stava tentando di non pensare a Cage.
O a Margaret Lukas. O al Becchino. Stava leggendo per suo figlio. Un
pezzo dello Hobbit.
Robby era smarrito nella storia, nonostante avesse sentito suo padre leg-
gergliela un numero imprecisato di volte. Ogni volta che Robby era spa-
ventato finivano con l'aprire quel libro a causa della scena dell'uccisione
del drago Smeagol. Quella parte del libro riusciva sempre a infondere co-
raggio a Robby.
Quando Parker era entrato in casa, non molto tempo prima, il viso del
bambino si era illuminato. Parker aveva preso il figlioletto per mano e in-
sieme erano andati sulla veranda sul retro. Gli aveva fatto vedere ancora
una volta che non c'era nessuno, né in giardino, né in garage. Alla fine a-
vevano deciso che il vecchio signor Johnson aveva lasciato libero il suo
cane ancora una volta senza ricordarsi di chiudere il cancello.
Anche Stephie aveva abbracciato suo padre. Poi gli aveva chiesto come
stava il suo amico, quello malato.
«Sta bene», aveva risposto Parker, cercando senza trovarlo un briciolo di
verità a cui aggrappare la propria affermazione. Ah, il senso di colpa dei
genitori... è come un ferro rovente nel cuore.
Stephie era rimasta a osservare comprensiva Robby e Parker che anda-
vano di sopra per leggere una storia. Sarebbe potuta andare anche lei, ma
per istinto sapeva che era il caso di lasciarli soli. Quella era una cosa che
Parker aveva imparato presto sui suoi figli. Bisticciavano come tutti i bam-
bini sani della loro età, cercavano di superarsi l'uno l'altra, si immergevano
nel tipico, reciproco sabotaggio tra fratelli. Ma, quando qualcosa turbava
uno dei due - come accadeva con il Barcaiolo - l'altro sapeva immediata-
mente, per puro istinto, che cosa era necessario. Stephie era scomparsa in
cucina dicendo: «Preparerò a Robby una sorpresa per dessert».
Mentre leggeva, di tanto in tanto Parker osservava il viso di suo figlio.
Gli occhi del bambino erano chiusi, e Robby sembrava completamente a
proprio agio. (Dal Manuale: «A volte il tuo compito non è quello di ragio-
nare con i tuoi figli o di insegnargli qualcosa, e nemmeno di offrirgli un
adamantino esempio di maturità. A volte, semplicemente, devi essere lì
con loro. Non occorre altro».)
«Vuoi che continui a leggere?» domandò a Robby.
Il bambino non rispose.
Parker abbandonò il libro sulle proprie ginocchia e rimase seduto sulla
vecchia sedia a dondolo, cullandosi avanti e indietro. E osservando suo fi-
glio.
La moglie di Thomas Jefferson, Martha, era morta poco tempo dopo la
nascita della loro terza figlia (la bambina stessa era morta all'età di due an-
ni). Jefferson, che non si era mai risposato, aveva lottato per allevare da
solo le altre due figlie. In qualità di politico e statista era spesso obbligato
a essere un padre assente, una situazione che detestava con tutto il cuore.
Aveva scritto migliaia di pagine alle bambine, offrendo sostegno, consi-
glio, amore, confidenza. Parker conosceva Jefferson bene quanto conosce-
va suo padre, e alcune di quelle lettere le sapeva a memoria. In quel mo-
mento pensò a una di esse, scritta quando Jefferson era vicepresidente e nel
mezzo di una feroce battaglia politica tra Repubblicani e Federalisti.
La tua lettera del 21 gen., mia cara Mary, è stata da me ricevuta due
giorni fa. È stata per me come i raggi lucenti della luna sulla terra
desolata. Racchiuso come sono qui in scenari di costante tormento,
malizia e sotterfugio, esausto e in uno stato tale da vanificare qualsia-
si mio sforzo di rendere servizio al paese, l'unico momento in cui rie-
sco a pensare che l'esistenza è una benedizione è quando qualcosa mi
riporta la mente alla mia famiglia.

Guardando suo figlio, sentendo sua figlia che sbatteva le pentole al pia-
no di sotto, Parker si domandò preoccupato, come spesso faceva, se stesse
crescendo i suoi figli nel modo giusto.
Quante volte era rimasto sveglio di notte, sdraiato, senza riuscire a pren-
dere sonno, pensando alla loro situazione.
Dopotutto, aveva allontanato due bambini dalla madre. Il fatto che i tri-
bunali e tutti i suoi amici (e la maggior parte degli amici di Joan) fossero
d'accordo nel dire che era l'unica cosa sensata da fare non faceva molta dif-
ferenza per lui. Non era diventato un padre single per un capriccio della
morte come Jefferson: no, Parker aveva preso personalmente quella deci-
sione.
Ma era veramente per i suoi figli che l'aveva fatto? O era stato per sfug-
gire alla propria infelicità? Era questa domanda che lo tormentava così
spesso. Joan sembrava tanto dolce, tanto affascinante prima che si sposas-
sero. Ma quasi tutto, si era reso conto in seguito, era una recita. In realtà
Joan era chiusa e calcolatrice. Il suo umore era instabile: allegra per un po',
precipitava poi in giorni di rabbia e sospetto e paranoia.
Quando aveva conosciuto Joan, Parker stava imparando quanto la vita
sembri diversa quando sei ancora giovane e i tuoi genitori non ci sono più.
La zona demilitarizzata che ti separa dall'idea della tua mortalità non esiste
più. E allora cerchi come compagno o qualcuno che si prenda cura di te
oppure - come aveva fatto lui - qualcuno di cui prenderti cura.
«Sai, uomini e donne... non credi che funzioni meglio così? Nessuno che
si prende cura di nessuno. È una regola. Prendi nota.»
Quindi non era affatto sorprendente che lui avesse cercato una donna
che, nonostante fosse bella ed energica, aveva un lato inquieto e umorale.
Naturalmente, poco dopo la nascita dei Chi, quando la loro vita matri-
moniale richiedeva responsabilità e a volte puro e semplice duro lavoro e
sacrificio, Joan aveva lasciato che le sue insoddisfazioni e i suoi sbalzi
d'umore prendessero il sopravvento.
Parker aveva tentato di tutto. Era andato con lei in terapia, si era preso
cura dei bambini più di quanto gli spettasse, aveva tentato di farla star me-
glio organizzando feste, facendo viaggi a sorpresa, preparando la cena tutte
le sere.
Nessuno che si prende cura di nessuno. È una regola. Prendi nota.
Certo, Cage, hai ragione. Ma a quell'epoca io volevo qualcuno di cui
prendermi cura. Ne avevo bisogno.
Ma tra le cose che Joan gli aveva tenuto nascoste c'era una storia fami-
liare di alcolismo e Parker un giorno si era sorpreso scoprendo che Joan
beveva molto più di quanto lui ritenesse. Di tanto in tanto faceva la cura
dei dodici punti e tentava altri approcci terapeutici. Ma ci ricadeva sempre.
Si era allontanata sempre più da lui e dai bambini, occupando il suo
tempo con hobby e capricci. Aveva frequentato corsi di alta cucina, aveva
comprato una macchina sportiva, andava a fare shopping tutti i giorni, fati-
cava come un'atleta olimpica nella palestra di lusso - dove, tra l'altro, ave-
va conosciuto il suo futuro marito Richard.
E poi c'era stato l'incidente.
Giugno, quattro anni prima.
Parker era tornato a casa dal suo lavoro al laboratorio dell'FBI e aveva
scoperto che Joan non era con i bambini. A curare i Chi c'era una
babysitter, il fatto in sé, non era né preoccupante né insolito. Ma, quando
era andato di sopra a giocare con loro, aveva notato immediatamente che
c'era qualcosa che non andava. Stephie e Robby, che allora avevano ri-
spettivamente quattro e cinque anni, erano seduti nella loro cameretta a
giocare con i Lego. Ma Stephanie sembrava stordita. Il suo sguardo non
era a fuoco e aveva il viso madido di sudore. Parker aveva scoperto che
Stephie aveva vomitato prima di riuscire ad arrivare in bagno. L'aveva
messa a letto e le aveva misurato la febbre, ma la temperatura era normale.
Non si era stupito che la babysitter non si fosse accorta del malessere della
piccola: i bambini si vergognano quando vomitano o se la fanno addosso, e
spesso tentano di nascondere quel tipo di incidente. Ma Stephie e suo fra-
tello sembravano molto più evasivi di quanto Parker si aspettasse.
Lo sguardo di Robby continuava a posarsi sul baule dei giocattoli.
(«Guarda prima gli occhi», recitava il suo Manuale. «E poi, soltanto poi,
ascolta le parole.») Parker si era mosso verso il baule e Robby aveva co-
minciato a piangere, supplicandolo di non aprirlo. Ma, naturalmente, Par-
ker l'aveva aperto. Ed era rimasto immobile, come paralizzato, a guardare
le bottiglie di vodka che Joan vi aveva nascosto.
Stephanie era ubriaca. Aveva tentato di imitare la mamma, bevendo Ab-
solut con la sua tazza di Winnie the Pooh.
«La mamma ha detto di non dire niente del suo segreto», gli aveva spie-
gato Stephie, piangendo, la voce impastata dall'alcool. «Ha detto che ti sa-
resti arrabbiato con noi se lo avessi scoperto. Ha detto che ci avresti sgri-
dato.»
Due giorni dopo Parker aveva dato inizio alle procedure per il divorzio.
Aveva ingaggiato un buon avvocato e aveva coinvolto il Servizio di prote-
zione dei minori prima che Joan avesse il tempo di formulare la falsa accu-
sa di abuso che l'avvocato aveva previsto.
Joan aveva combattuto, e aveva combattuto duramente, ma era il modo
in cui lotta una persona che non vuole perdere la propria collezione di
francobolli o la propria macchina sportiva, non qualcosa che ama più di se
stessa.
E alla fine, dopo lunghi mesi di agonia e decine di migliaia di dollari,
Parker era riuscito ad avere i bambini per sé.
Aveva pensato di concentrarsi nello sforzo di rimettere insieme i pezzi
della sua esistenza, nello sforzo di dare ai bambini una vita normale.
E ci era riuscito - negli ultimi quattro anni. Ma ora era di nuovo al punto
di partenza.
Oh, Joan, perché stai facendo tutto questo? Non pensi proprio mai a lo-
ro? Non riesci a capire che i nostri ego - i nostri ego di genitori - devono
per forza dissolversi in vapore benefico quando si tratta dei nostri figli?
Se avesse pensato davvero che per Robby e Stephie sarebbe stato meglio
dividere il tempo tra lui e Joan avrebbe acconsentito in un batter d'occhio:
la cosa avrebbe distrutto una parte di lui, certo, e l'avrebbe distrutta per
sempre. Ma l'avrebbe fatto.
Invece era convinto che per loro sarebbe stato un disastro. E così avreb-
be lottato strenuamente in tribunale con la sua ex moglie e nel frattempo
avrebbe tentato di tener lontani i bambini dall'animosità del processo. Ci
sono volte in cui è necessario combattere su due fronti. Devi lottare contro
il nemico e, contemporaneamente, devi lottare contro il desiderio sover-
chiante di essere tu stesso bambino e condividere il tuo dolore con i tuoi
figli. Ma questa è una cosa che non si può fare, che non si deve mai fare.
«Papà», disse Robby all'improvviso. «Hai smesso di leggere.»
«Credevo che ti fossi addormentato.» Rise.
«Mi stavo solo riposando. Le mie palpebre sono stanche. Ma io no.»
Parker guardò l'orologio. Le otto meno un quarto. Ancora quindici minu-
ti prima del...
No, non pensarci adesso.
«Hai lo scudo?» domandò a suo figlio.
«Proprio qui.»
«Anch'io.»
Prese il libro e ricominciò a leggere.

22
19,45

Margaret Lukas stava guardando le famiglie che affollavano il Ritz Car-


lton Hotel collegato alla Pentagon City Mall.
Lei e Cage erano in piedi vicino all'ingresso principale, dove centinaia di
persone si stavano radunando per il cenone di capodanno. Lukas indossava
un vestito blu-marine che si era disegnata e cucita da sola. Era aderente,
realizzato in costoso tessuto pettinato, e aveva una lunga gonna a portafo-
glio. Margaret aveva cucito una tasca speciale nella giacca per assicurarsi
che la Glock calibro 10 che portava al fianco non rovinasse la linea dell'a-
bito. Sarebbe stato perfetto per l'opera o per un ristorante di lusso ma, co-
me spesso accade, lei l'aveva indossato soltanto per matrimoni e funerali.
Lo chiamava il suo vestito da sposata-sepolta.
Quindici minuti alle otto.
«Niente, Margaret», disse la voce rauca nella cuffia. Era la voce di C.P.
Ardell, che si trovava all'ingresso sotterraneo del Ritz, il garage, fingendo
di essere un invitato leggermente ubriaco. Portava un travestimento assai
più ordinario di quello di Lukas - jeans scoloriti e un giubbotto di pelle da
motociclista. Sulla testa aveva un berretto dei Washington Redskins; non
lo portava per proteggersi dal freddo, ma perché non aveva abbastanza ca-
pelli per nascondere il cavo della cuffia collegato alla radio. C'erano altri
sessantacinque agenti in borghese dentro e intorno all'albergo e nel centro
commerciale vicino, con addosso più armi di quelle che si possono trovare
a una mostra di fucili di El Paso.
E tutti stavano cercando un uomo di cui praticamente non possedevano
alcuna descrizione.
Probabilmente di razza bianca, probabilmente di corporatura media.
Probabilmente con un crocifisso d'oro al collo.
Nell'atrio, Lukas e Cage osservavano attentamente gli invitati, gli uscie-
ri, gli inservienti. Nessuno si avvicinava alla loro pur fragile descrizione
del Becchino. Lukas si rese conto di tenere le braccia incrociate e capì che
lei e Cage sembravano proprio un paio di agenti federali durante un appo-
stamento. «Dimmi qualcosa di divertente.»
«Come?»
«Ci stiamo facendo notare. Fa' finta che stiamo parlando.»
«Okay», disse Cage con un ampio sorriso. «Allora, che ne pensi di Kin-
caid?»
La domanda la colse di sorpresa. «Kincaid? Cosa intendi dire?»
«Sto facendo conversazione.» Una stretta di spalle. «Cosa pensi di lui?»
«Non lo so.»
«Certo che lo sai.»
Silenzio.
Cage insistette. «Allora?»
«È bravo con i criminali, non sulla strada.»
Questa volta, la stretta di spalle di Cage era accondiscendente. «Bene.
Mi piace la definizione.» Per un istante non disse altro.
«Dove vuoi arrivare?» domandò lei.
«Da nessuna parte, non voglio arrivare da nessuna parte. Stiamo solo fa-
cendo finta di parlare, tutto qui.»
Bene, pensò Lukas.
Focalizza...
Studiarono un'altra decina di possibili sospetti. Lukas li lasciò perdere
per motivi che conosceva istintivamente, ma che non avrebbe saputo spie-
gare.
Un attimo dopo Cage riprese: «È una brava persona».
«Lo so. Ci è stato molto utile.»
Cage rise con la sua risata sorpresa, una risata che significava: ti sto ad-
dosso. E ripeté: «Utile».
Altro silenzio.
«Ha perso entrambi i genitori appena terminata l'università», continuò
Cage. «Poi c'è stata la causa di affidamento qualche anno fa. La moglie era
pazza.»
«Dev'essere stato difficile», fece Lukas, poi avanzò tra la folla. Strisciò
contro un ospite che aveva un rigonfiamento sospetto sotto il braccio. Ri-
conobbe immediatamente un telefono cellulare e tornò da Cage. Si ritrovò
a chiedere, incapace di trattenersi: «Cos'è successo? Ai suoi genitori?»
«Un incidente d'auto. Una di quelle cose strane che capitano di tanto in
tanto. A sua madre era appena stato diagnosticato un cancro e sembrava
che l'avessero preso appena in tempo. Ma sono stati schiacciati da un ca-
mion sulla I-95 mentre andavano al Johns Hopkins per la chemio. Il padre
era un professore. L'ho incontrato un paio di volte. Un tipo simpatico.»
«Davvero?» borbottò Lukas, nuovamente distratta.
«Storia.»
«Cosa?»
«Il padre di Kincaid insegnava storia.»
«Credo che l'abbia detto.»
Altro silenzio.
«Ho bisogno soltanto di un po' di conversazione leggera, Cage», disse
infine Lukas, «non che tu mi faccia da sensale.»
«Ti sembra che lo stia facendo?» si difese lui. «Lo farei mai? Ti sto solo
dicendo che non si incontra molta gente come Kincaid.»
«Già. Dobbiamo restare focalizzati qui, Cage.»
«Io lo sono. Tu lo sei. Kincaid non sa perché sei così arrabbiata con lui.»
«È molto semplice. Non si stava prendendo cura di sé. Gliel'ho detto.
Abbiamo sistemato la cosa. Fine della storia.»
«È un uomo dignitoso», continuò Cage. «Un tipo speciale. Ed è intelli-
gente - la sua mente è qualcosa di strano. Dovresti vederlo all'opera con
quei suoi enigmi.»
«Già. Sono sicura che è fantastico.»
Focalizzare.
Ma lei non stava focalizzando affatto. Stava pensando a Kincaid.
E così anche lui aveva avuto i suoi Incidenti con la I maiuscola - lutti e
divorzio. Una moglie difficile e una lotta ancor più difficile per crescere da
solo i propri figli.
Kincaid...
E, pensando a lui, all'esperto esaminatore di documenti, Margaret Lukas
pensò nuovamente alla cartolina.
Alla cartolina di Joey.
Nel viaggio da cui non avevano mai fatto ritorno, Tom e Joey erano an-
dati a trovare i suoi suoceri nell'Ohio. Era poco prima del giorno del Rin-
graziamento. Il suo bambino di sei anni le aveva mandato una cartolina
dall'aeroporto mentre stavano partendo. Probabilmente meno di mezz'ora
prima che il 737 si schiantasse sul ghiaccio.
Ma il bambino non sapeva che ci voleva un francobollo per spedire una
cartolina. Doveva averla infilata nella casella della posta senza che suo pa-
dre si accorgesse di che cosa stava facendo.
Era arrivata una settimana dopo il funerale. Tassata. Margaret aveva pa-
gato la tassa e aveva impiegato le tre ore successive a rimuovere con caute-
la l'adesivo dell'ufficio postale che ricopriva parzialmente la scrittura di
suo figlio.
Ci stiamo divertendo mammina. Io e la nonna abbiamo fatto i biscotti.
Mi manchi. Ti voglio bene mamma...
Una cartolina dal fantasma di suo figlio.
L'aveva nella borsetta anche in quel momento, l'immagine variopinta di
un tramonto del Midwest. La fede nuziale era al sicuro nello scrigno dei
gioielli, ma quella cartolina era sempre con lei e con lei sarebbe rimasta fi-
no alla sua morte.
Sei mesi dopo la sciagura, Lukas aveva portato una copia della cartolina
a una grafologa e aveva fatto esaminare la calligrafia di suo figlio.
«Chiunque abbia scritto questa cartolina», le aveva detto la donna, «è
una persona creativa e affascinante. Crescerà e diventerà un bell'uomo. E
intelligente, senza la pazienza necessaria a ingannare il prossimo. Ha an-
che una grande capacità di amare. Se è suo figlio, allora lei è una donna
molto fortunata.»
Per dieci dollari extra, la grafologa aveva registrato su nastro i suoi
commenti e Lukas di tanto in tanto riascoltava la cassetta. Si metteva sedu-
ta da sola nel suo appartamento buio, accendeva una candela, si preparava
qualcosa da bere e ascoltava ciò che suo figlio sarebbe stato.
Poi ecco che arriva Parker Kincaid al quartier generale dell'FBI e annun-
cia con la sua voce arrogante che la grafoanalisi è una stupidaggine.
La gente legge anche i tarocchi e parla con i propri cari estinti. Sono i-
diozie.
Non è vero! si infuriò mentalmente Margaret. Lei credeva a quello che le
aveva detto la grafologa.
Doveva crederci. Altrimenti sarebbe impazzita.
Quando hai dei figli è come se perdessi una parte della tua mente. Loro
te la portano via e non te la restituiscono più... A volte mi stupisco del fat-
to che i genitori riescano a continuare a vivere.
Era stato il dottor Evans a dirlo. Lukas non aveva approfondito, ma sa-
peva che era la pura verità.
E lì c'era Cage che tentava di combinare tra lei e Kincaid. E così erano
simili. Erano intelligenti - e sì, arroganti come falchi. E a entrambi manca-
va una parte di vita. Avevano tutti e due le loro barriere protettive: quella
di Parker per tenere fuori il pericolo, la sua per impedire a se stessa di ri-
trarsi al proprio interno, dove il pericolo aspettava. Eppure, lo stesso istinto
che la rendeva un ottimo agente le diceva - per nessun motivo che sarebbe
stata in grado di spiegare - che tra loro non c'era futuro. Lei si era riavvici-
nata alla vita «normale» il più possibile. Aveva il suo cane, Jean-Luc. A-
veva qualche amico. Aveva i suoi CD. Il suo club di atletica. Ma Margaret
Lukas era emotivamente arrivata al suo top, per usare la definizione in uso
nell'FBI per indicare un agente non più destinato ad alcuna promozione.
No, sapeva benissimo che, dopo quella sera, non avrebbe mai più rivisto
Parker Kincaid. E la cosa le andava benissimo...
L'auricolare gracchiò. «Margaret... Gesù Cristo.» Era C.P. Ardell, di
stanza al piano inferiore.
Margaret estrasse immediatamente l'arma.
«Hai un soggetto?» sussurrò ferocemente nel microfono agganciato al
bavero del vestito.
«No», rispose l'agente. «Ma abbiamo un problema. Un grosso problema.
Quaggiù è un casino totale.»
Anche Cage stava ascoltando. Avvicinò la mano al fianco e guardò Lu-
kas, accigliato.
«È il sindaco», continuò C.P. «È qui con una decina di poliziotti e, caz-
zo, con una troupe televisiva.»
«No!» sbottò Lukas, attirando l'attenzione di un vicino gruppo di invita-
ti.
«Hanno le luci e tutto quanto. Se il killer li vede, se ne va veloce come
un lampo. È come stare al circo.»
«Arrivo subito.»

«Vostro onore, questa è un'operazione federale, e devo chiederle di an-


darsene immediatamente.»
Erano nel parcheggio sotterraneo. Lukas notò immediatamente che le
entrate e le uscite erano controllate - per accedere al complesso era neces-
sario esibire un invito. Il che significava che le targhe venivano registrate e
questo, a sua volta, significava che il Becchino probabilmente non sarebbe
arrivato da quella parte: ne sapeva abbastanza da non lasciare un segno
tangibile della sua visita. Ma il sindaco Kennedy e il suo maledetto
entourage erano diretti all'entrata principale del centro commerciale, dove
lui e le sue guardie del corpo in uniforme potevano essere visti dal Becchi-
no in qualsiasi momento.
E poi, Dio del cielo, una troupe televisiva?
Kennedy guardò Lukas. Era più alto di lei di almeno venti centimetri.
«Deve far uscire questa gente. E anche a Tyson's Corner. Evacuare gli al-
berghi. E quando il killer si fa vivo, mi faccia parlare con lui.»
Lukas lo ignorò e disse a C.P.: «Qualcuno è entrato nel centro?»
«No, li abbiamo fermati qui. E da quel lato non si vede all'esterno.»
«Evacuateli!» continuò Kennedy. «Portateli fuori!»
«Non possiamo farlo», rispose Lukas. «Il killer capirà che c'è qualcosa
che non quadra.»
«Be', almeno fateli tornare nelle loro camere.»
«Ci pensi un po', sindaco», sbottò lei. «La maggior parte di loro non so-
no ospiti dell'albergo. Sono qui soltanto per le cene e i festeggiamenti.»
Si guardò intorno, soffermandosi a osservare l'ingresso del centro. Non
era affollato perché i negozi erano tutti chiusi per la festività. «Il killer po-
trebbe arrivare da un momento all'altro», sussurrò con ferocia. «È mia in-
tenzione chiederle di andarsene.» Pensò di aggiungere «signore». Non lo
fece.
«Allora mi costringe a scavalcarla. Chi è il suo supervisore?»
«Io», intervenne Cage. Nessuna stretta di spalle, ora. Soltanto uno
sguardo gelido. «Siamo in Virginia, vostro onore. Lei non ha alcuna giuri-
sdizione qui.»
«Allora mi dica chi è il suo supervisore», sbottò il sindaco, furioso.
«Qualcuno che lei preferirebbe non chiamare, mi creda.»
«Lasci che sia io a giudicarlo.»
«No», fece Lukas con fermezza guardando l'orologio. «Il killer potrebbe
essere già nell'edificio. Non ho tempo di discutere con lei. Voglio che lei e
i suoi uomini andiate via subito.»
Kennedy guardò il suo assistente - come si chiamava? Jefferies, le sem-
brava di ricordare. Un reporter era nei pressi e stava filmando la scena.
«Non ho intenzione di permettere all'FBI di rischiare la vita di questa
gente. Adesso...»
«Agente Ardell», disse Lukas, «prenda il sindaco in custodia.»
«Non può arrestarlo», sibilò Jefferies.
«Sì che può», ribatté rabbiosamente Cage, stringendosi nelle spalle.
«Portalo immediatamente fuori di qui», ordinò Lukas.
«In cella?»
Lukas ci pensò su. «No», disse poi. «Sta' semplicemente con lui e tieni-
celo fuori dai piedi finché l'operazione non è terminata.»
«Chiamerò il mio avvocato e...»
Dentro di lei si accese un lampo di collera improvvisa, abbagliante come
quello che l'aveva fatta esplodere contro Kincaid a Gravesend. Sollevò lo
sguardo su Kennedy e gli puntò un dito contro il petto. «Sindaco, questa è
la mia operazione. Lei sta interferendo. La lascerò andar via con l'agente
Ardell, oppure la farò mettere in detenzione alla centrale. A lei la scelta.»
Ci fu una pausa. Lukas non stava nemmeno più guardando il sindaco: i
suoi occhi stavano perlustrando freneticamente il parcheggio fuori dal cen-
tro commerciale, i marciapiedi, le ombre. Nessun segno di qualcuno che
potesse essere il Becchino.
«D'accordo», abbozzò Kennedy. Indicò l'albergo con un cenno del capo.
«Ma se questa sera ci sarà uno spargimento di sangue, la responsabilità sa-
rà sua. E ne risponderà personalmente.»
«È una questione di territorio», precisò Lukas. «Procedi, C.P.»
L'agente ricondusse il sindaco alla sua limousine. I due uomini entraro-
no. Jefferies guardò Lukas con aria di sfida per un momento, ma lei si vol-
tò subito e, insieme a Cage, tornò verso l'albergo.
«Merda», imprecò Cage.
«No, credo che sia tutto okay. Non penso che il Becchino abbia visto
qualcosa.»
«Il problema non è questo. Pensaci... se Kennedy ha scoperto che siamo
qui, significa che abbiamo una fuga di notizie. Chi diavolo pensi che sia?»
«Oh, ma io lo so chi è.» Prese il cellulare e fece una telefonata.

«Detective», disse, lottando per controllare la propria collera, «sai benis-


simo che le informazioni concernenti le operazioni tattiche sono riservate.
Vuoi darmi un motivo perché io non debba riferire ciò che hai fatto al pro-
curatore distrettuale?»
Si aspettava che Len Hardy negasse o almeno che tentasse di offrire una
qualche scusa, dicendo che era stato un errore o che era stato tratto in in-
ganno. Ma lui la sorprese dicendo in tono brusco: «Riferisci pure ciò che
vuoi, ma Kennedy voleva una possibilità di negoziare con il killer. E io
gliel'ho data».
«Perché?»
«Perché voi avevate intenzione di lasciar morire... quante persone? Die-
ci? Venti?»
«Se significa fermare il killer allora, sì, è esattamente ciò che sono di-
sposta a fare.»
«Kennedy dice di poter ragionare con lui. Di poterlo convincere a pren-
dere i soldi. Lui...»
«Sai che è arrivato con una stramaledetta troupe televisiva?»
La voce di Hardy perse un bel po' della propria sicurezza. «Lui... cosa?»
«Una troupe televisiva. Stava recitando a beneficio dei media. Se il Bec-
chino avesse visto le luci, le guardie del corpo della polizia... che cosa ac-
cidenti pensi che avrebbe fatto? Se ne sarebbe andato via di corsa e avreb-
be trovato un altro bersaglio.»
«Mi ha detto che voleva solamente parlare con lui», spiegò Hardy. «Non
pensavo che avesse intenzione di farlo per PR.»
«Be', l'ha fatto.»
«E il Becchino...?»
«Abbiamo mandato via Kennedy immediatamente. Non credo che il
Becchino possa aver visto nulla.»
Un attimo di silenzio. Poi: «Mi dispiace, Margaret». Hardy sospirò.
«Volevo soltanto fare qualcosa. Non volevo che morisse altra gente. Mi
dispiace.»
Lukas serrò tra le mani il telefono. Sapeva che avrebbe dovuto licenziar-
lo, sbatterlo fuori a calci dalla squadra. E probabilmente anche stilare un
rapporto per la commissione affari interni della polizia del distretto. Ciò
nonostante, alla mente le si presentò l'immagine del giovane che tornava a
casa, una casa silenziosa come quella in cui tornava lei nell'anno che era
seguito alla morte di Tom e Joey - un silenzio che fa male come la rabbia
inferocita di un amante. Avrebbe passato le feste da solo, obbligato a sof-
frire per un lutto fasullo, per una moglie che non era né viva né morta.
Hardy parve accorgersi della sua debolezza e disse: «Non succederà più.
Voglio ancora essere d'aiuto».
«D'accordo, Len. Ne riparleremo più tardi.»
«Grazie, Margaret.»
Lukas spense bruscamente il telefono e, se anche Hardy disse qualcos'al-
tro, non lo sentì. Andò rapidamente all'ascensore e salì nell'atrio del Ritz
Carlton.
Ancora una volta, si tolse l'arma dalla fondina sul fianco tenendola ac-
canto a sé, e cominciò a circolare tra la folla. Mancavano cinque minuti al-
le otto.

Guardavano l'acqua scura oltre la balaustra e facevano battute sul Tita-


nic, mangiavano i gamberi e lasciavano sul tavolo del buffet i fegatini di
pollo, parlavano di vino e di tassi di interesse e delle elezioni imminenti e
degli scandali del Congresso e delle sit-com più in voga.
La maggior parte degli uomini era in smoking o in giacca scura, la mag-
gior parte delle donne portava abiti da sera scuri i cui orli si libravano a
pochi centimetri dal pavimento rilucente del ponte.
«Non è qualcosa di speciale? Guarda che vista.»
«Riusciremo a vedere i fuochi d'artificio?»
«Dove si è cacciato Hank? Ha la mia birra.»
Le centinaia di invitati si erano radunate sul lungo cabinato. C'erano tre
ponti e quattro bar, e tutti, alla festa di capodanno, si sentivano benissimo.
Gente bella, gente ricca. Avvocati e medici che si godevano qualche ora
di tranquillità lontano dai guai dei loro clienti e dei loro pazienti. Genitori
che si rilassavano per qualche ora senza i figli. Amanti che tolleravano la
compagnia di altra gente per qualche ora e pensavano soltanto a trovare
una cabina vuota.
«E così cosa farà ho sentito che ha intenzione di presentarsi ma i son-
daggi sono negativi perché dovrebbe oh dove sono Sally Claire Tom sono
riusciti a prendere quella casa a Warrenton be' non saprei proprio come lui
se la possa permettere...»
I minuti passavano e le otto di sera si avvicinavano sempre di più.
Tutti erano felici.
Persone piacevoli a una festa, tra amici.
Grati per la splendida visuale che avrebbero goduto dei fuochi artificiali
a mezzanotte, grati per la possibilità di festeggiare e di starsene lontani per
una sera dalle pressioni della capitale della nazione.
Grati per le comodità e i comfort che venivano offerti loro dall'equipag-
gio e dai camerieri a bordo dello yacht di lusso, il Ritzy Lady, che galleg-
giava regalmente al suo attracco sul fiume Potomac, esattamente tre chi-
lometri a sud del ponte della Quattordicesima Strada.

23
20,05

Robby era passato da J.R.R. Tolkien al Nintendo.


Lo spavento era svanito, e Parker non riuscì più a trattenersi; doveva sa-
pere qualcosa del Becchino, doveva scoprire che cos'era successo durante
l'ultimo attacco. Lukas e Cage ce l'avevano fatta? L'avevano trovato?
L'avevano ucciso?
Si fece strada tra i giocattoli sparsi sul pavimento e scese al piano di sot-
to. Stephie era in cucina con la signora Cavanaugh. La piccola era concen-
tratissima nell'atto di pulire una delle pentole d'acciaio inossidabile di Par-
ker. Aveva fatto un albero di Natale di caramello, costellato di zucchero
verde, che ora giaceva, graziosamente sbilenco, in un vassoio sul ripiano
della cucina.
«Bellissimo, Chi», le disse Parker.
«Ho tentato di metterci delle palline d'argento, ma cadevano.»
«A Robby piacerà moltissimo.»
Fece per prendere il telefono, ma vide l'espressione di Stephie e si fer-
mò.
Passò un braccio intorno alle spalle della bambina. «Tuo fratello sta be-
ne, sai?»
«Lo so.»
«Mi dispiace che questa serata sia andata a gambe all'aria.»
«Non c'è problema.»
Il che, ovviamente, significava che di problemi ce n'erano.
«Ci divertiremo insieme domani... Ma, tesoro, hai presente il mio ami-
co? Può darsi che io debba tornare da lui.»
«Oh, lo so», disse Stephie.
«Lo sai?»
«Me ne accorgo. A volte tu sei tutto qui con noi e a volte sei qui solo un
pochino. E prima, quando sei tornato, eri qui solo un pochino.»
«Domani sarò tutto il giorno qui. Dovrebbe nevicare, lo sapevi? Vuoi
che andiamo da qualche parte con le slitte?»
«Sì! Posso fare la cioccolata calda?»
«Speravo che lo dicessi.» Abbracciò sua figlia, poi si alzò ed entrò nello
studio per fare la telefonata. Non voleva che Stephie sentisse la conversa-
zione.
Ma si fermò. Attraverso le tende della finestra vide del movimento sul
marciapiede. Qualcuno con un abito scuro. Si avvicinò rapidamente alla
finestra e guardò fuori. Non riuscì a vedere nessuno, soltanto una macchi-
na che non conosceva.
Si infilò la mano in tasca. E strinse le dita sul freddo metallo della pisto-
la di Margaret Lukas.
Oh, non un'altra volta... Ripensò al Barcaiolo, ricordò quella notte terri-
bile.
La pistola fa troppo rumore...
Suonarono alla porta.
«Vado io!» disse bruscamente, guardando in cucina. Vide Stephie batte-
re le palpebre, sorpresa. Ancora una volta, i suoi modi avevano spaventato
uno dei suoi figli. Ma non c'era tempo per confortarla, ora.
Con la mano in tasca guardò dalla finestra accanto alla porta d'ingresso e
vide un agente dell'FBI che riconobbe per averlo già visto qualche ora
prima. Si rilassò e appoggiò la fronte alla porta. Respirò profondamente
per calmarsi, poi aprì. Un secondo agente salì gli scalini dietro al primo.
Parker ricordò che Lukas aveva detto che avrebbe mandato qualcuno a
sorvegliare la casa.
«Agente Kincaid?»
Annuì. Si guardò alle spalle per assicurarsi che Stephie non potesse sen-
tire.
«L'ASI Lukas ci ha mandato a dare un'occhiata alla sua famiglia.»
«Grazie. Vi chiedo soltanto di parcheggiare fuori vista, se non vi dispia-
ce. Non voglio turbare i bambini.»
«Certamente, signore.»
Parker guardò l'orologio. E ne fu sollevato. Se il Becchino avesse colpito
di nuovo, Cage e Lukas l'avrebbero chiamato. Forse erano riusciti davvero
a catturare quel figlio di puttana.
«Il killer della sparatoria in metropolitana», disse. «Il Becchino. L'hanno
preso?»
Lo sguardo che si scambiarono i due uomini gli gelò il sangue nelle ve-
ne.
Oh, no...
«Be', signore...»
In casa il telefono cominciò a squillare. Parker vide la signora Cava-
naugh che rispondeva.
«Il killer... be', è salito a bordo di uno yacht sul Potomac. Undici morti,
ventinove feriti. Credevo lo sapesse.»
Oh, Dio. No...
Si sentì assalire da un'ondata di nausea.
Io ero qui a leggere favole per bambini mentre delle persone stavano
morendo...
«L'agente Lukas?» domandò. «Sta bene? E l'agente Cage?»
«Sissignore. Non erano nemmeno dalle parti dello yacht. Hanno trovato
qualche indizio che diceva 'Ritz', così hanno pensato che il Becchino aves-
se intenzione di colpire uno degli alberghi Ritz. Invece non è stato così. Lo
yacht si chiamava Ritzy Lady. Una sfortuna nera, eh?»
«La guardia di sicurezza», disse l'altro agente, «ha sparato un paio di
colpi e ha spaventato il killer. Così non è stato grave come avrebbe potuto
essere. Ma non l'hanno colpito. Almeno non credono.»
Sfortuna nera, eh?
No, la fortuna non c'entrava nulla. Quando non si risolvono gli enigmi
non è mai a causa della sfortuna.
Tre falchi...
Sentì la voce della signora Cavanaugh. «Signor Kincaid?»
Guardò in casa.
Undici morti...
«Al telefono per lei.»
Parker entrò in cucina. Prese il telefono, aspettandosi di sentire la voce
di Lukas o di Cage.
Ma era una voce profonda e levigata, una voce che non conosceva. «Si-
gnor Kincaid?»
«Sì... Chi parla?»
«Mi chiamo Slade Phillips, del notiziario della WPLT. Signor Kincaid,
stiamo realizzando un servizio speciale sulle sparatorie di Capodanno. Una
fonte anonima ci ha riferito che lei ha preso parte attivamente alle indagini
e può essere responsabile dell'errore che ha mandato l'FBI al Ritz Carlton
Hotel, mentre in realtà il killer ha preso di mira tutt'altro luogo. Man-
deremo in onda il servizio alle nove, ma vogliamo darle la possibilità di di-
re la sua. Ha qualche commento da fare?»
Parker inspirò bruscamente. Per un attimo, fu assolutamente convinto
che il suo cuore avesse smesso di battere.
Quella era la fine... Joan avrebbe scoperto tutto. Tutti l'avrebbero saputo.
«Signor Kincaid?»
«Non ho nessun commento.» Riagganciò, mancando la forcella. Osservò
il telefono spiraleggiare verso il pavimento e colpire le piastrelle con uno
schianto secco.

Il Becchino torna nella sua stanza d'albergo.


La barca - dove ha roteato come... click... come una trottola tra le foglie
rosse e gialle e ha sparato con il suo Uzi e ha sparato e sparato e sparato...
E dove ha guardato la gente cadere e cadere e cadere.
Non è stato come nel teatro. No, no, questa volta ne ha fatti cadere tanti.
E la cosa avrebbe fatto felice l'uomo che gli dice le cose. Qualsiasi cosa
voglia dire felice.
Il Becchino chiude a chiave la porta della camera e la prima cosa che fa
è camminare fino alla brandina e guardare Tye. Il ragazzino sta ancora
dormendo. La coperta gli è scivolata via, e il Becchino la rimette al suo
posto.
Accende la televisione e vede immagini dello yacht, il Ritzy Lady.
Ancora una volta vede quell'uomo che riconosce - il... click... il sindaco.
Il sindaco Kennedy. È in piedi di fronte alla barca. Ha indosso un bel vesti-
to e una bella cravatta ed è strano vederlo con un vestito così elegante in
mezzo a tutte le buste di plastica gialla che racchiudono i cadaveri. Sta par-
lando in un microfono, ma il Becchino non può sentire ciò che dice: non
ha alzato il volume del televisore perché non vuole svegliare Tye.
Continua a guardare per un po', ma non arriva la pubblicità e lui è deluso
e così spegne il televisore, pensando: Buonanotte, sindaco.
Comincia a impacchettare i suoi effetti, prendendosi tutto il tempo che
occorre.
Gli alberghi sono belli, gli alberghi sono divertenti.
Vengono e ti puliscono la stanza ogni giorno e portano via le ciotole
vuote della tua minestra e te ne riportano di pulite. Nemmeno Pamela fa-
ceva quelle cose. Era brava con i fiori e brava a fare quelle cose che si fan-
no a letto. Quelle... click, click... quelle cose.
La testa che balla, proiettili che rimbalzano intorno alle pareti del cra...
cra... cranio.
Per qualche motivo, pensa a Ruth.
«Oh, Dio, no», ha detto Ruth. «Non farlo.»
Ma gli era stato detto di farlo - di infilare il pezzo di vetro nella sua gola
- e così l'ha fatto. Ruth ha rabbrividito mentre moriva. Il Becchino se lo ri-
corda. Ruth che rabbrividisce.
Rabbrividisce come quel giorno di Natale quando ha fatto la minestra
per Pamela e poi le ha dato il suo regalo.
Guarda Tye. Porterà il ragazzino... click... a ovest con lui. L'uomo che
gli dice le cose lo chiamerà dopo che avranno finito a Washington, D.C., e
gli dirà quale sarà la prossima tappa.
«Dove sarà?» gli ha chiesto il Becchino.
«Mm, non lo so. Forse all'ovest.»
«Dov'è l'ovest?» ha chiesto lui.
«California. Magari nell'Oregon.»
«Ah», ha risposto il Becchino, che non aveva idea di dove fossero quei
posti.
Ma a volte, a tarda notte, pieno di minestra e sorridendo davanti alle
pubblicità divertenti, pensa di andare all'ovest e immagina che cosa farà
quando sarà lì.
Ora, mentre mette via le sue cose, decide che si porterà anche il ragazzi-
no. A ovest, a... click.
A ovest.
Sì, sarebbe bello. Sarebbe proprio bello. Sarebbe davvero divertente.
Avrebbero potuto mangiare minestra e chili insieme e guardare la televi-
sione. Avrebbe potuto parlare al ragazzino delle sue pubblicità preferite.
Pamela, la moglie del Becchino, con un fiore nella mano e una croce
d'oro tra i seni, una volta guardava le pubblicità insieme a lui.
Ma non avevano mai avuto un bambino come Tye con cui guardare la
pubblicità.
«Io? Avere un bambino con te? Sei forse impazzito, ti sei bevuto il cer-
vello...» Click. «... fottuto il cervello? Perché non te ne vai via? Perché sei
ancora qui? Prendi il tuo cazzo di regalo e vattene. Va' via. Ma ti...»
Click...

Ma io ti amo sempre...

«Te lo devo sillabare? Mi sto scopando William da un anno. È una novi-


tà per te? Tutti quanti in città lo sanno tranne te. Se mai avessi voglia di
avere un bambino, sarebbe il suo bambino.»

Ma io ti amo sempre più.

«Che cosa stai facendo? Oh Gè...»


Click.
«...sù. Mettilo giù!»
I ricordi stanno correndo come piccoli lemming nel cranio del Becchino.
«No, non farlo!» ha gridato lei, fissando il coltello nelle sue mani. «Non
farlo!»
Ma lui l'aveva fatto.
Le aveva infilato tante volte il coltello nel petto, appena sotto la croce
d'oro che le aveva regalato quella mattina, la mattina di Natale. Che splen-
dida rosa rossa sul suo petto! Aveva infilato il coltello ancora una volta e
la rosa era diventata più grande.
E sanguinando sanguinando sanguinando Pamela era corsa... Dove? Do-
ve? All'armadio, sì, l'armadio. Sanguinando e gridando: «Oh Gesù Gesù
Gesù...»
Pamela che gridava, sollevava la pistola, gliela puntava alla testa, la sua
mano che sbocciava in uno splendido fiore giallo mentre lui sentiva un
tonfo alla tempia.
Il Becchino si era risvegliato qualche tempo dopo.
La prima cosa che aveva visto erano stati gli occhi gentili dell'uomo che
gli avrebbe detto le cose.
Click, click...
Telefona alla sua casella vocale. Nessun messaggio.
Ma dov'è finito l'uomo che gli dice le cose?
Non c'è tempo per pensarci, non c'è tempo per essere felice o triste,
qualsiasi cosa vogliano dire quelle due parole. C'è tempo soltanto per pre-
pararsi.
Il Becchino apre l'armadio. Prende una seconda pistola automatica, un
altro Uzi. Indossa i guanti e comincia a riempire i caricatori.
Due armi, questa volta. E nessuna borsa della spesa. Due armi e tanti,
tanti, tantissimi proiettili. L'uomo che gli dice le cose gli ha detto che que-
sta volta deve sparare a più persone di tutte le altre volte messe insieme.
Perché quello sarà l'ultimo minuto dell'ultima ora dell'ultima sera del-
l'anno.

24
20,55

Parker Kincaid, sudato e ansimante, entrò di corsa nel laboratorio della


divisione Documenti dell'FBI. Lukas gli andò incontro. Il viso della donna
era più pallido di quanto Parker ricordasse. «Ho sentito il tuo messaggio»,
gli disse. «Quel giornalista - Phillips - è arrivato a uno dei fattorini che
smistano la posta. In qualche modo è riuscito a scoprire il tuo vero nome.»
«Avevate promesso», si infuriò Parker.
«Mi dispiace, Parker», rispose lei. «Mi dispiace davvero. L'informazione
non è uscita da qui. Non so cosa sia successo.»
Il dottor Evans e Tobe Geller non parlavano. Sapevano che cosa stava
succedendo ma, forse vedendo l'espressione dello sguardo di Parker, non
volevano immischiarsi. Cage non era nella stanza.
Parker li aveva chiamati con il cellulare mentre - con un lampeggiante
da cruscotto rosso che aveva preso a prestito dagli agenti di fronte a casa
sua - guidava a gran velocità da Fairfax al centro di Washington. La sua
mente non aveva pace. Come poteva arginare il disastro? Voleva soltanto
dare una mano per salvare qualche vita umana. Quello era il suo unico
scopo, salvare qualche bambino. E guarda cos'era successo...
Ora i suoi bambini gli sarebbero stati portati via.
La fine del mondo...
Immaginava fin troppo chiaramente l'incubo divenire realtà, se solo Joan
avesse ottenuto la custodia parziale. Sua moglie avrebbe ben presto perso
interesse nel ruolo di madre. Se non fosse riuscita a trovare una babysitter,
avrebbe lasciato i figli soli al centro commerciale. Avrebbe perso la pa-
zienza con loro. I due piccoli avrebbero dovuto prepararsi il pranzo, avreb-
bero dovuto lavarsi i vestiti da soli. Era disperato.
Perché diavolo aveva preso in considerazione la richiesta di aiuto di Ca-
ge per quella sera?
Un piccolo televisore era posato su un tavolo vicino. Parker lo accese e
lo sintonizzò sul notiziario. Stava per cominciare. Uno spot pubblicitario
finì, lasciando il posto sullo schermo alle fotografie sorridenti della «squa-
dra TG» della WPLT.
«Dov'è Cage?» domandò irato.
«Non lo so», rispose Lukas. «Di sopra, da qualche parte.»
Potevano lasciare lo stato? si domandò freneticamente Parker. Ma no,
Joan si sarebbe opposta, e comunque i tribunali della Virginia avrebbero
mantenuto la giurisdizione.
Sullo schermo, quel figlio di puttana di Phillips sollevò lo sguardo da
una pila di carte e fissò la telecamera con un'espressione grottescamente
sincera.
«Buonasera a tutti da Slade Phillips.»
Sul piccolo schermo: «Undici persone sono state uccise e ventinove so-
no rimaste ferite un'ora fa nella terza sparatoria che oggi ha terrorizzato la
città di Washington. Nel servizio speciale che stiamo per mandare in onda
abbiamo interviste esclusive con i feriti e con la polizia presente sulla sce-
na. Inoltre, la WPLT ha ottenuto un filmato esclusivo della scena degli ul-
timi omicidi su uno yacht ancorato sulle acque del fiume Potomac».
Parker, con le mani serrate, osservava in silenzio.
«Non si sa chi ci sia dietro le stragi», continuò Phillips. «Fonti bene in-
formate asseriscono che lo schema dell'estorsione - la richiesta è di venti
milioni di dollari - è opera di terroristi, ma nessun gruppo, finora, si è fatto
avanti per rivendicare le stragi.
«La WPLT ha anche scoperto che agenti dell'FBI e della polizia cittadi-
na sono stati mandati nel luogo in cui si riteneva erroneamente che il killer
avrebbe colpito. Non si sa con certezza chi sia il responsabile di questo
gravissimo errore, ma fonti bene informate hanno detto...»
La voce di Phillips si attenuò. Il conduttore sbatté ripetutamente le pal-
pebre. Reclinò il capo, probabilmente ascoltando qualcuno che gli stava
parlando nell'auricolare color carne che portava nell'orecchio destro. Guar-
dò diritto nella telecamera e un'espressione perplessa gli passò sul viso. Ci
fu una breve pausa. Quando riprese a parlare, le sue labbra erano contratte
in una smorfia. «Fonti bene informate ci dicono che il sindaco del distretto
di Columbia, Gerald D. Kennedy, è attualmente tenuto in custodia dalle
autorità federali, probabilmente a seguito dell'appostamento fallito di cui
accennavo poco fa... Ma adesso c'è Cheryl Vandover, in diretta per noi dal
luogo dell'ultima sparatoria. Cheryl, potresti dirci...»
Cage entrò nel laboratorio. Aveva indosso un impermeabile. Spense il
televisore. Parker chiuse gli occhi e lasciò uscire il fiato che aveva tratte-
nuto. «Gesù.»
«Mi dispiace, Parker», si scusò Cage. «A volte le cose sfuggono tra le
dita. Ma ho fatto un patto con te, e noi manteniamo la nostra promessa.
Ah, una cosa - non chiedermi mai come ho fatto. Ti assicuro che preferire-
sti non saperlo. Ora... abbiamo un'altra possibilità. Inchiodiamo lo stronzo.
E questa volta sul serio.»

La limousine accostò di fronte al municipio come uno yacht all'ormeg-


gio.
A Kennedy non piaceva il paragone, ma non poté fare a meno di pensar-
lo. Era appena stato sulle rive del Potomac, tentando di dare conforto ai
sopravvissuti e constatando la devastazione che il Becchino aveva provo-
cato. Con la moglie Claire al fianco, era rimasto sbalordito vedendo come i
proiettili avevano ridotto a brandelli il ponte, le cabine e i tavolini. Poteva
soltanto immaginare in quale stato fossero i corpi delle vittime.
Si sporse in avanti e spense il televisore.
«Come possono fare una cosa simile?» sussurrò Claire, riferendosi al
fatto che il conduttore avesse lasciato intendere che Kennedy fosse, in
qualche misterioso modo, responsabile dei morti sullo yacht.
Wendell Jefferies si chinò in avanti, tenendosi la testa lucida fra le mani.
«Phillips... l'ho già pagato. Io...»
Kennedy gli fece cenno di tacere. Apparentemente il suo assistente si era
dimenticato della presenza del grosso agente federale sul sedile anteriore.
Corrompere i mass media era sicuramente un reato federale di una certa
importanza.
Sì, Jefferies aveva dato a Slade Phillips i suoi venticinquemila dollari. E
no, non li avrebbero avuti indietro.
«Qualsiasi cosa accada», disse Kennedy solennemente a Jefferies e a sua
moglie, «non fatemi mai assumere Phillips come addetto stampa.»
Il suo tono di voce era come sempre imperturbabile, e ci vollero un paio
di secondi prima che si rendessero conto che era una battuta. Claire rise.
Jefferies sembrava ancora sotto choc.
L'ironia era che Kennedy non avrebbe avuto mai più bisogno di un ad-
detto stampa. Gli ex politici non ce li hanno. Avrebbe voluto gridare, a-
vrebbe voluto piangere.
«Cosa facciamo adesso?»
«Ci beviamo qualcosa e aspettiamo. Il Becchino potrebbe ancora farsi
avanti e volere i soldi. E io sono l'unico che può autorizzare il pagamento.
Maledizione, ho ancora una possibilità di incontrarlo faccia a faccia.»
Claire scosse il capo. «Dopo quello che è successo sullo yacht? Non
puoi fidarti di lui. Ti ucciderà.»
Non più di quanto mi abbia già ucciso la stampa questa sera, pensò
Kennedy.
Claire si sistemò i capelli con uno spruzzo di lacca profumata. Kennedy
adorava quel profumo. Gli dava conforto. Quella donna di cinquantanove
anni, brillante e vivace, snella, lo sguardo acuto, era stata il suo mentore e
consigliere fin dai primi giorni del mandato, anni prima. Era soltanto per-
ché era bianca ed era una donna che non era diventata il suo assistente
principale: due caratteristiche che lei stessa riteneva potessero svantaggiar-
lo nei confronti del sessanta per cento di popolazione di colore del distretto
di Columbia. «Siamo veramente messi male?» domandò Claire.
«Non potremmo stare peggio.»
Claire Kennedy annuì e posò una mano sulla gamba del marito.
Rimasero entrambi in silenzio per un istante.
«C'è dello champagne, qui dentro?» domandò Kennedy all'improvviso,
indicando il minibar.
«Champagne?»
«Certo. Cominciamo a festeggiare da subito la mia sconfitta ignominio-
sa.»
«Volevi insegnare», disse Claire. Poi, con una strizzata d'occhio, ag-
giunse: «Professor Kennedy».
«E anche tu, professoressa Kennedy. Diremo alla William & Mary Law
School che vogliamo delle aule adiacenti.»
Lei gli sorrise e apri il minibar della limousine.
Ma Jerry Kennedy non stava sorridendo. Insegnare sarebbe stato un fal-
limento. Un impiego di successo in uno studio legale di DuPont Circle sa-
rebbe stato un fallimento. Kennedy sapeva che lo scopo della sua vita, il
vero scopo della sua vita, era di trasformare quell'informe pezzo di terra
paludosa in un posto migliore per i giovani che avevano la sventura di es-
serci nati, e che il suo Progetto 2000 era l'unica cosa alla sua portata che
avrebbe potuto permettere che ciò accadesse. E ora anche quelle speranze
erano andate distrutte.
Guardò sua moglie.
Claire stava ridendo. «Gallo e Budweiser», disse indicando il minibar.
E che altro si poteva trovare nel distretto di Columbia?
Kennedy sollevò la maniglia della portiera e uscì nell'aria fresca della
notte.

Finalmente le armi sono cariche.


Il silenziatore che ha utilizzato è stato ricompattato e quello nuovo è
montato sulla seconda automatica.
Il Becchino, nella sua comoda stanza d'albergo, si controlla le tasche.
Vediamo... ha con sé una pistola e ne ha altre due nel vano portaoggetti
della macchina. E tante, tante, tante munizioni.
Il Becchino porta la sua valigetta alla macchina. L'uomo che gli dice le
cose gli ha detto che la stanza era già pagata. Quando fosse arrivata l'ora di
andarsene, tutto ciò che doveva fare era andarsene. Nient'altro.
Mette via in uno scatolone le sue lattine di minestra e i suoi piatti e porta
lo scatolone alla Toyota.
Poi torna nella stanza e guarda il corpo fragile di Tye per qualche minu-
to, chiedendosi ancora una volta dove... click... dov'è la California, poi gli
avvolge intorno la coperta. È leggero come un cucciolo. Lo porta in brac-
cio fino alla macchina e lo mette sul sedile posteriore.
Si siede al volante, ma non avvia subito la macchina. Si volta e guarda
ancora il ragazzino. Gli sistema la coperta intorno ai piedi. Tye porta un
paio di scarpe da tennis tutte rovinate.
Il ricordo di qualcuno che parla. Chi? Pamela? William? L'uomo che gli
dice le cose?
«Dormi...»
Click, click.
Aspetta, aspetta, aspetta.
«Voglio che tu...» Click, click.
Improvvisamente non c'è più Pamela, non c'è più Ruth con il vetro nella
gola, non c'è più l'uomo che gli dice le cose. C'è soltanto Tye.
«Voglio che tu dorma bene», dice il Becchino alla sagoma immobile del
ragazzo.
Non sa da dove vengono quelle parole - qualche ricordo - e non sa con
certezza che cosa vogliano dire. Ma le dice comunque.

Quando vado a dormire la sera


Ti amo, ti amo sempre più.

Mette in moto la macchina. Aziona la freccia e controlla nello specchiet-


to come un allievo all'esame della patente, poi si immette diligentemente
nel traffico.

25
22,15

Il terzo bersaglio.
... posto dove ti ho portato/il nero...
Parker Kincaid era di fronte alla lavagna nel laboratorio della divisione
Documenti. Le mani sui fianchi. Gli occhi fissi sull'enigma che aveva da-
vanti... posto dove ti ho portato/il nero...
«Il nero cosa?» rifletté il dottor Evans.
Cage si strinse nelle spalle. Lukas era al telefono con il PERT a bordo
del Ritzy Lady. Riagganciò e disse alla squadra che c'erano pochi indizi
concreti. Avevano trovato alcuni bossoli con delle impronte. Le stavano
sottoponendo all'AFIS, il sistema di identificazione automatico delle im-
pronte digitali, e il reparto Identificazione stava inviandole i risultati via
posta elettronica. Non c'erano altre prove fisiche. I testimoni parlavano di
un uomo di razza bianca di età indeterminata con un impermeabile scuro.
Portava una borsa di carta marrone, dentro la quale probabilmente c'era
l'arma.
Parker si guardò intorno. «Dov'è Hardy?»
Cage gli raccontò dell'incidente al Ritz.
«L'ha sbattuto fuori?» disse Parker indicando Lukas.
«No, anche se avrebbe dovuto. Gli ha fatto passare l'inferno e poi gli ha
dato una seconda possibilità. Adesso Hardy è nella biblioteca al piano di
sotto a fare delle ricerche. Penitenza.»
Parker guardò Geller. Il giovane agente fissava lo schermo che aveva di
fronte mentre il computer tentava vanamente di assemblare altre lettere
dopo la parola 'nero'. La cenere dopo quella parola, però, era molto più
danneggiata di quella vicino alla nota che parlava del Ritzy Lady.
Parker cominciò a camminare avanti e indietro, ma si fermò subito. Sol-
levò lo sguardo sulla lavagna. Avvertì la sensazione odiosa di essere vicino
alla soluzione ma di non averla ancora sottomano. Sospirò.
Si ritrovò accanto a Lukas. «Tuo figlio?» gli domandò lei. «Robby? Sta
bene?»
«Sta bene. Soltanto un po' spaventato.»
Lukas annuì. Un computer annunciò con voce sintetizzata: «È arrivata
posta». Lukas si avvicinò e lesse il messaggio. Scosse il capo. «Le impron-
te sui bossoli sono di uno dei passeggeri dello yacht che raccoglieva sou-
venir. Salvò il messaggio su disco.
Parker guardò lo schermo. «Questa cosa mi fa sentire obsoleto.»
«Cosa?»
«La posta elettronica», disse. Guardò Lukas e aggiunse: «Obsoleto come
esaminatore di documenti, voglio dire. Oh, la gente scrive molto più di
prima a causa della posta elettronica».
«Ma c'è meno calligrafia?» domandò Lukas, continuando il pensiero di
lui.
«Esatto.»
«Sarà un problema», considerò lei. «Così si perdono molte prove.»
«Vero. Ma per me non è questa la cosa triste.»
«Triste?» Lukas lo guardò. I suoi occhi non erano più di pietra, ma sem-
brava ancora una volta sulla difensiva, quasi che quel termine inadeguato
al luogo in cui si trovavano la mettesse a disagio.
«Per me», spiegò Parker, «la calligrafia è parte della persona. Pensaci: è
una delle poche cose delle persone che sopravvive alla loro morte. Può du-
rare centinaia di anni. Migliaia. È la cosa più vicina all'immortalità che
possiamo avere.»
«Parte della persona?» domandò lei. «Ma prima hai detto che la grafoa-
nalisi è una stupidaggine.»
«No, voglio dire che qualsiasi cosa abbia scritto qualcuno è e resta un ri-
flesso di ciò che è o di ciò che era. Non importa quali sono le parole, anche
se non hanno senso o sono scritte in modo errato. Il semplice fatto che una
persona le abbia pensate e che abbia ordinato alle proprie mani di trasferir-
le su carta... ecco tutto ciò che conta. Per me è quasi un miracolo.»
Lukas stava guardando il pavimento, a testa bassa.
«Ho sempre pensato alla scrittura come a una specie di impronta digitale
del cuore e della mente», proseguì Parker. Rise tra sé a quella frase, pen-
sando che Lukas potesse avere la stessa reazione brusca che aveva mostra-
to poco prima di fronte a concetti sentimentali come quello che aveva ap-
pena espresso. Invece accadde qualcosa di strano. Margaret Lukas distolse
rapidamente lo sguardo. Parker pensò, per un momento, che un altro mes-
saggio fosse comparso su uno dei computer; ma non era così. Margaret a-
veva la testa girata dall'altra parte, ma Parker poteva vedere il riflesso del
suo viso sullo schermo, e sembrava che i suoi occhi fossero pieni di lacri-
me. Era una cosa che non si sarebbe mai aspettato da Lukas, ma sì, Marga-
ret si stava proprio asciugando gli occhi.
Stava per chiederle se c'era qualcosa che non andava, ma Lukas si avvi-
cinò bruscamente alle lastre di vetro che contenevano i resti dei fogli bru-
ciati. Senza dargli la possibilità di dir nulla gli chiese: «I labirinti che ha
disegnato... Credi che ci sia qualcosa? Un indizio, forse?»
Parker non rispose. Si limitò a guardarla. Lei si voltò brevemente verso
di lui e ripeté: «I labirinti?»
Dopo un istante Parker abbassò lo sguardo. Soltanto gli psicopatici han-
no la tendenza a lasciare crittogrammi come indizi, e anche tra di essi è
qualcosa di molto raro. Ma Parker decise che non era una cattiva idea con-
trollare comunque: avevano così poco a cui aggrapparsi per continuare
l'indagine. Sollevò i pannelli di vetro e li sistemò sotto il proiettore.
Lukas era accanto a lui. Entrambi avevano le braccia incrociate.
«Che cosa stiamo cercando?» domandò Cage.
«Le linee formano delle lettere?» chiese Lukas.
«Bella domanda», fece Parker. Lukas stava cominciando a capire l'ap-
proccio giusto agli enigmi. Esaminarono attentamente le linee che forma-
vano i labirinti. Ma non trovarono nient'altro che una decina di L - non cer-
to una sorpresa, dal momento che i percorsi dei labirinti erano perpendico-
lari l'uno all'altro.
«Forse», suggerì Margaret, «è una mappa.»
Un'altra ottima idea.
Tutti fissarono le linee. In qualità di capo dell'ufficio FBI del distretto,
Lukas era un'esperta della topografia cittadina. Ma non riuscì a trovare
nessun quartiere o strada a cui far corrispondere i labirinti.
Geller guardò il suo computer e scosse la testa. «Gli anagrammi non
stanno funzionando. Non c'è abbastanza cenere per formare delle lettere.»
«Allora dovremo arrivarci come si faceva una volta», commentò Parker,
camminando avanti e indietro senza mai distogliere lo sguardo dalla lava-
gna. «... il nero...»
«Un'organizzazione afro-americana?» suggerì Evans.
«Possibile», rispose Parker. «Ma ricordiamoci che il sosco era intelli-
gente. Istruito.»
Cage si accigliò. «Che cosa intendi dire?»
Fu Lukas a rispondere. «La parola 'nero' è minuscola. Se facesse parte
del nome di un gruppo probabilmente l'avrebbe scritta con la maiuscola.»
«Esattamente», disse Parker. «Io direi che è una descrizione. Ci sono
buone probabilità che si riferisca davvero alla razza, ma dubito che sia un
riferimento specifico a qualche organizzazione.»
Nero...
Parker si avvicinò al tavolo e fissò la lettera di estorsione. Mise le mani
accanto al foglio. Fissò la lacrima del diavolo sopra le i. Fissò l'inchiostro
nero.
Che cosa sai? domandò silenziosamente al documento. Che cosa non ci
stai dicendo? Quali segreti nascondi? Cosa?
«Ho trovato qualcosa», annunciò una voce dalla porta.
Si voltarono tutti.
Len Hardy entrò nel laboratorio con un fascio di carte sotto il braccio.
Riprese fiato. «Okay, Margaret, avevi ragione. Io non sparo e non indago.
Ma nessuno può fare ricerche meglio di me. Così ho deciso, perché non fa-
re proprio questo? Ho trovato qualcosa sul nome. Il Becchino.» Lasciò ca-
dere i fogli sulla scrivania e cominciò a scartabellarli. Poi guardò tutti gli
altri. «Mi dispiace per prima. Ho sbagliato. Volevo soltanto fare qualcosa
per impedire che degli innocenti morissero.»
«Non c'è problema, Len», disse Lukas. «Cos'hai trovato?»
Hardy domandò al dottor Evans: «Quando stava controllando il nome,
che database ha adoperato?»
«Be', quelli soliti», rispose lo psicologo. Sembrava sulla difensiva.
«Archivi criminali?» domandò Hardy. «VICAP, NYPC, Criminali vio-
lenti, John Jay?»
«Quelli, certo», confermò Evans.
«Andava bene... ma a un certo punto ho cominciato a pensare: perché
non tentare con fonti non criminali? E alla fine l'ho trovato. Il database del
dipartimento di Storia delle Religioni dell'Università di Cambridge.»
Hardy aprì un taccuino. All'interno c'erano decine e decine di pagine, or-
ganizzate e indicizzate. Come rivelavano le sue scarpe lucidissime e la sua
camicia immacolata, il poliziotto era davvero un perfezionista. «Ora, que-
sto è interessante», disse in tono eccitato. «In Inghilterra, nel XVII secolo,
c'era un gruppo di stampo comunista chiamato i Becchini. Il loro scopo era
di abolire la proprietà privata della terra. Ecco il punto saliente. Operavano
principalmente sul piano economico e sociale, ma a un certo punto si sono
alleati con un altro gruppo assai più attivo politicamente - a volte in modo
militante. Si facevano chiamare 'i Veri Livellatori'.»
«Livellatori», commentò Cage. «Anche questo è un nome che mette i
brividi.»
«Erano contrari al controllo delle persone da parte dell'élite aristocratica
e del governo centrale», proseguì Hardy. Guardò Parker. «Tu non c'eri
prima, quando stavamo esponendo le nostre idee. Ma il dottor Evans pen-
sava che il sosco stesse mirando di proposito a bersagli delle classi sociali
più alte.»
«Qualche riferimento moderno al gruppo?» domandò Lukas.
«No. Soltanto storico.»
«Ma cosa significa per noi?» chiese Lukas.
«Il suo movente», rispose Hardy. «Il sosco voleva livellare la nostra so-
cietà capitalistica.»
«Ma perché?» domandò nuovamente Lukas.
«Un fanatico religioso?» intervenne Geller. «Ricordate il crocifisso?»
«Può essere», disse Evans. «Ma la maggior parte dei fanatici religiosi
non vorrebbe soldi; chiederebbe piuttosto mezz'ora di spazio alla CNN.»
«Forse nutriva del rancore», disse Parker.
«Certo. Desiderio di vendetta», aggiunse Lukas.
«Qualcuno gli ha fatto del male», continuò Parker, «e lui vuole pareg-
giare i conti.»
Evans annuì. «Ha senso.»
«Ma chi? Chi gli ha fatto del male?» rifletté Hardy, guardando nuova-
mente la lettera di ricatto.
«È stato licenziato?» suggerì Cage. «Un dipendente incattivito?»
«No», disse Evans, «uno psicopatico può uccidere per questo motivo,
ma il nostro soggetto non era psicopatico. Era troppo intelligente e control-
lato.»
«Grandi affari, grandi multinazionali, pezzi grossi...» fece Geller.
«Aspettate», intervenne Hardy, «se erano quelli i suoi bersagli, non se la
sarebbe presa con New York?»
«L'ha fatto», gli rammentò Cage. «White Plains.»
Parker scosse il capo. «No, ricordate... White Plains, Boston, Philadel-
phia? Quelle erano soltanto delle prove, per lui.»
«E allora qual è il suo bersaglio qui?» domandò Hardy.
«Be'», disse Lukas. «Cosa c'è a Washington?»
«Il governo», rispose Parker. «Praticamente non c'è altro.»
Hardy annuì. «E i Becchini si opponevano al governo centralizzato.»
«Sì. Dev'essere questo», confermò Lukas.
Evans: «Il governo è responsabile di qualcosa che gli ha fatto del male».
Guardò il resto della squadra. «Qualche idea?»
«Motivi ideologici?» rifletté Cage a voce alta. «È un comunista, oppure
fa parte di un gruppo di estrema destra.»
Evans scosse il capo. «No, a quest'ora avremmo una specie di manifesto
o qualcosa del genere. Si tratta di qualcosa di più personale.»
Lukas e Hardy incrociarono lo sguardo. Parker ebbe l'impressione che
avessero pensato la stessa cosa nello stesso momento. Fu il poliziotto a di-
re: «La morte di qualcuno che amava».
Lukas annuì.
«Potrebbe essere», fece lo psicologo.
«Okay», disse Cage. «Quale potrebbe essere lo scenario? Chi è morto?
Perché?»
«Un'esecuzione?» suggerì Hardy.
Cage scosse la testa. «È difficile trovare crimini federali puniti con la
pena di morte. Sono quasi sempre reati statali.»
«Un soccorso della guardia costiera andato male», suggerì Geller.
«Improbabile», ribatté Lukas.
Hardy tentò di nuovo. «Una macchina o un camion governativo coinvol-
to in un incidente, una rapina a un ufficio postale, Park Service... corpo di-
plomatico...»
«Qualcosa di militare», suggerì Evans. «La maggior parte delle morti
che coinvolgono il governo federale sono relative all'attività militare.»
«Qualcuno che amava è rimasto ucciso in battaglia», ipotizzò Parker.
«E pensateci bene», continuò Hardy. «Nelle classi sociali più basse - le
vittime tradizionali del capitalismo - ci sono perlopiù soldati semplici,
quelli che rischiano maggiormente. Ciò spiegherebbe per quale motivo i
bersagli del Becchino sono principalmente le classi sociali più alte.»
«Ma», disse Lukas, «ci devono essere centinaia di morti all'anno, nelle
forze armate. È stato un incidente? È avvenuto durante un addestramento?
In combattimento?»
«Tempesta nel Deserto?» suggerì Cage.
«Quanti anni aveva il sosco?» domandò Parker.
Lukas afferrò il rapporto preliminare del medico legale. Lo lesse. «Poco
oltre i quaranta», disse.
Poi, finalmente, Parker capì. «Il Muro nero!» esclamò.
Lukas annuì. «Il monumento in memoria dei caduti del Vietnam.»
«Qualcuno che conosceva è rimasto ucciso in Vietnam», disse Evans.
«Un fratello, una sorella. Magari sua moglie era un soldato, o un'infermie-
ra.»
«Ma si parla di trent'anni fa», fece Cage. «È possibile che qualcosa del
genere torni in superficie dopo tanto tempo?»
«Oh, certo che sì», disse Evans. «Se il soggetto non ha esplorato la pro-
pria rabbia in terapia, essa non ha fatto altro che alimentarsi. E la sera del-
l'ultimo dell'anno è un momento particolare per le decisioni, il momento in
cui le persone tendono a compiere azioni coraggiose, persino azioni di-
struttive. Ci saranno più suicidi stanotte che in qualsiasi altro giorno del-
l'anno.»
«Oh, Gesù», esclamò Lukas.
«Che c'è?»
«Mi sono appena resa conto... il monumento è al Mall. Questa sera a
mezzanotte ci saranno duemila, tremila persone lì. Per i fuochi d'artificio.
Dobbiamo chiudere quella zona del parco.»
«È già piena come un uovo», intervenne Parker. «La gente è accampata
lì da ore. Baker dovrà occuparsene con molta cautela. Altrimenti ci sarà
panico, e un fuggi-fuggi generale.»
«Ma, Cristo», imprecò Cage. «Abbiamo bisogno di altri uomini.» Chia-
mò Artie, la guardia notturna dell'edificio, che fece un annuncio all'altopar-
lante dicendo che tutti gli agenti disponibili erano attesi nell'atrio per un
incarico di emergenza.
Lukas si mise in contatto con Jerry Baker e gli disse di portare i propri
agenti alla sezione nord-ovest del Mall. Poi chiamò il vicedirettore di turno
sul cercapersone. Venne richiamata immediatamente. Gli parlò per qualche
minuto, poi riappese.
Guardò la squadra. «Il vicedirettore sta arrivando. Lo incontrerò di sotto
e lo metterò al corrente degli sviluppi. Con voi ci vedremo al monumen-
to.»
Cage indossò il soprabito. Geller si alzò e controllò la sua arma. La pi-
stola sembrava aliena nelle sue mani, che erano indubbiamente più abituate
a tenere il mouse di un computer.
«Aspetta, Tobe», disse Lukas. «Tu vai a casa.»
«Posso...»
«È un ordine. Hai già fatto abbastanza.»
Geller protestò ancora. Ma alla fine Lukas riuscì a spuntarla, anche se
solo dopo aver promesso che l'avrebbe chiamato se avesse avuto bisogno
di assistenza tecnica. «Avrò con me il mio portatile», disse Geller, come se
non potesse immaginare di trovarsi a più di tre metri di distanza da un
computer.
Lukas si avvicinò a Hardy. «Grazie, detective. Hai fatto veramente un
ottimo lavoro.»
Hardy sorrise. «Mi dispiace di aver combinato quel casino con il sinda-
co. Lui...»
Lukas agitò una mano, accettando le scuse. Poi gli chiese: «Vuoi sempre
far parte dell'azione, questa sera?»
«Oh, ci puoi scommettere.»
«Okay, ma stai nelle retrovie. Dimmi la verità... Sai davvero come si
spara?»
«Certo che sì. E sono anche abbastanza bravo... se non c'è troppo ven-
to.» Il giovane detective, sempre sorridendo, indossò il suo trench imma-
colato.
Parker, sentendo il peso della pistola in tasca, indossò il giubbotto. Lu-
kas lo guardò dubbiosa. «Vengo», disse lui in risposta alla sua occhiata.
«Non devi, Parker», obiettò lei. «Va tutto bene. Hai già fatto abbastanza
anche tu.»
Lui le sorrise. «Mirare e sparare, giusto? Nient'altro.»
Lukas ebbe un'esitazione, poi disse: «Mirare e sparare. Nient'altro».

Ecco che arriva, ecco che arriva...


Mio Dio, guardali!
Dieci, venti, trenta agenti che correvano fuori dal quartier generale del-
l'FBI. Alcuni con i giubbotti antiproiettile, altri senza.
Henry Czisman bevve un ultimo sorso di Jim Beam e appoggiò la botti-
glia sul sedile posteriore della sua automobile a noleggio, che puzzava di
tabacco e di whisky. Spense la Marlboro nel posacenere traboccante.
Correvano verso le automobili. L'una dopo l'altra, le macchine partirono
e si allontanarono.
Czisman non le seguì. Non era ancora il momento. Attese, paziente co-
me una serpe.
Poi, finalmente, vide l'agente con i capelli grigi, Cage, uscire dalla porta
principale. E guardarsi alle spalle. E, sì! Eccolo: Parker Kincaid.
Nonostante Czisman non avesse detto tutto agli agenti dell'FBI, era stato
davvero un giornalista per la maggior parte della sua vita. E un bravo gior-
nalista. Era in grado di capire le persone con la stessa sensibilità di un po-
liziotto di strada. E, mentre loro senza dubbio stavano eseguendo su di lui i
loro test retinici e le analisi di stress vocale, lui stava facendo i suoi test.
Meno high-tech e più intuitivi, erano comunque accurati come quelli del-
l'FBI. E una delle cose che alla fine aveva capito era che Jefferson non era
affatto Jefferson. Quando l'uomo era uscito dal quartier generale in tutta
fretta, qualche ora prima, ed era salito sulla sua macchina, Czisman aveva
inviato il numero di targa a un investigatore privato di Hartford, nel Con-
necticut, e aveva scoperto la sua vera identità. Parker Kincaid. Una sem-
plicissima ricerca gli aveva poi rivelato che fino a qualche anno prima
Kincaid era stato a capo della divisione Documenti dell'FBI.
E, se l'FBI si stava servendo di un ex agente come consulente, ciò voleva
dire che era davvero in gamba. Il che significava che era lui quello che va-
leva la pena di seguire. Non il burocrate Cage. Non l'insensibile Lukas.
Fermandosi per allacciarsi il giubbotto, Kincaid si guardò intorno per o-
rientarsi, poi salì su un'automobile priva di contrassegni con Cage e con un
altro giovane agente, un uomo con i capelli a spazzola e un trench. Accese-
ro il lampeggiatore rosso sul cruscotto e partirono rapidamente verso ovest
e poi a sud, verso il Mall.
Czisman si infilò con facilità nella carovana di auto. Procedevano tanto
freneticamente che nessuno si accorse di lui. In prossimità della Diciotte-
sima Strada, però, vicino a Constitution Avenue, la folla e il traffico erano
così densi che i veicoli dell'FBI furono costretti a fermarsi. Gli agenti sce-
sero dalle macchine e partirono di corsa verso il Mall. Czisman li seguì da
vicino. Cage e Kincaid erano insieme, e scrutavano la folla. Kincaid indicò
il lato occidentale del monumento ai caduti del Vietnam e Cage indicò l'al-
tro lato. I due si separarono e si allontanarono nelle rispettive direzioni,
mentre l'uomo con il trench si allontanava da entrambi, diretto verso Con-
stitution Avenue.
Czisman era pesante e fuori forma. Il respiro gli usciva a scatti dai pol-
moni torturati dal fumo e il cuore gli martellava come un pistone impazzito
nel petto. Ciò nonostante, riuscì facilmente a tenere il passo di Parker Kin-
caid, fermandosi soltanto un istante per prendere la pistola dalla cintura dei
pantaloni e infilarsela nella tasca del soprabito.

26
23,20

L'impermeabile del Becchino è pesante.


Pesante per il peso delle due pistole automatiche.
Per il peso dei quattro caricatori, quattrocento proiettili calibro 22...
Click, click...
... di munizioni per fucile a canna lunga che possono arrivare a due chi-
lometri di distanza... non lasciate che i bambini sparino senza la supervi-
sione di un adulto.
Ma il Becchino non avrebbe mai fatto una cosa del genere: permettere
che un bambino sparasse senza la sua supervisione.
Non Tye. Mai, mai, mai Tye.
Due silenziatori accuratamente compattati. Cotone e gomma, cotone e
gomma.
Tu sei tu sei tu sei tu sei il migliore...
I mitragliatori sono nelle tasche interne del suo bell'impermeabile blu o
nero, regalo di Natale di Pamela. Una delle pistole del vano portaoggetti
della Toyota è nella tasca destra esterna della sua giacca. Altri quattro cari-
catori per gli Uzi sono nella tasca sinistra.
Se ne sta nell'ombra e nessuna delle persone lì vicino si accorge di lui. Si
guarda intorno in cerca di poliziotti o di agenti federali e non ne vede nes-
suno.
Tye sta dormendo sul sedile posteriore della macchina, a un isolato di
distanza. Quando il Becchino l'ha lasciato, il ragazzino aveva le piccole
braccia ripiegate sul petto.
Quella è la cosa che preoccupa di più il Becchino: se la polizia comincia
a sparare o se lui sarà costretto a sparare con le pistole prive di silenziatore,
Tye potrebbe svegliarsi per il rumore. E poi non dormirebbe bene.
È anche preoccupato che il ragazzino possa avere freddo. La temperatura
continua a calare. Ma il Becchino ricorda di aver avvolto tre volte la coper-
ta sul corpo di Tye. Starà bene. Sta dormendo. I bambini stanno sempre
bene quando stanno dormendo.
Se ne sta da solo osservando alcune delle persone che fra poco moriran-
no. Chiama l'ultima volta con il suo cellulare e la donna che ha la stessa
voce di Ruth prima del pezzo di vetro gli dice: «Non ci sono nuovi mes-
saggi».
Così è okay uccidere quella gente.
Gente che cadrà a terra come foglie secche in autunno.
Chop chop chop chopchopchop...
E lui... click... roteerà su se stesso, come una trottola, come un giocattolo
che potrebbe piacere a Tye, e sprizzerà una fontana di proiettili in mezzo
alla folla. Proiettili sparati da due mitragliatori.
Poi entrerà in macchina e controllerà la sua casella vocale e se l'uomo
che gli dice le cose non l'avrà ancora chiamato allora lui e Tye guideranno
finché non riusciranno a trovare... click... riusciranno a trovare la Califor-
nia.
Qualcuno gli dirà dov'è.
Non può essere poi tanto difficile da trovare. È da qualche parte a ovest.
Questo se lo ricorda bene.

Il Becchino è dietro di lui?


Davanti?
Di fianco?
Parker Kincaid, separato dagli altri agenti, stava percorrendo un cerchio
frenetico intorno al monumento ai caduti del Vietnam, smarrito in un oce-
ano di persone. In cerca di un uomo con un impermeabile o un soprabito
scuro. Con una borsa della spesa. E un crocifisso al collo.
C'era troppa gente. Migliaia. Decine di migliaia di persone.
Cage era dalla parte opposta del monumento. Len Hardy era in Constitu-
tion Avenue. Baker e gli altri agenti tattico-operativi stavano effettuando
una perlustrazione a ventaglio dalla parte opposta del Mall.
Parker stava per fermare un gruppo di persone dirette verso il monumen-
to vero e proprio per mandarle verso la sicurezza offerta da un gruppo di
agenti, ma si bloccò.
D'un tratto si rese conto di non aver pensato chiaramente.
Enigmi. Ricorda gli enigmi.
Tre falchi stanno uccidendo le galline di un contadino...
Poi si rese conto dell'errore. Aveva guardato nei posti sbagliati. Fece un
passo di lato, lontano dalla folla, e studiò il terreno adiacente al monumen-
to. Pensò ai labirinti del sosco e si rese conto che l'uomo doveva aver pre-
visto che, dopo il terzo attacco, gli agenti avrebbero avuto una qualche de-
scrizione del Becchino. Doveva aver detto al Becchino di non avvicinarsi
al monumento lungo uno dei marciapiedi, dove poteva essere visto con
maggior facilità; doveva arrivare passando attraverso gli alberi.
Si voltò rapidamente e scomparve in un boschetto di aceri e ciliegi. Il
boschetto era ancora affollato di persone che si stavano dirigendo verso il
Mall, ma Parker non si prese la briga di convincerle a lasciare la zona del
monumento. Non era il suo lavoro; proprio come quella sera di tanti anni
prima quando si era aggirato armato a casa sua in cerca del Barcaiolo, Par-
ker Kincaid aveva abbandonato la sua vita pacifica per trasformarsi in un
cacciatore. E stringeva saldamente la pesante pistola che aveva in tasca.
Cercando la sua preda.
Cercando un uomo senza volto con un impermeabile scuro.
Un uomo che portava un crocifisso al collo.

Henry Czisman era dieci metri dietro Kincaid e stava oltrepassando il


monumento ai caduti del Vietnam quando Parker svoltò bruscamente e si
infilò in una macchia d'alberi.
Czisman lo seguì, guardando il mare di persone che gli stava intorno.
Che bersaglio avrebbe avuto il Becchino!
Poteva falciarli come fossero erba secca.
Czisman aveva la pistola in mano, puntata verso il terreno. Nessuno po-
teva vederla. La folla si stava chiedendo che cosa stava succedendo con
tutti quei poliziotti e agenti federali che dicevano loro di lasciare la zona.
Kincaid camminava con passo spedito attraverso gli alberi, Czisman ora
era a sette od otto metri di distanza. Ciò nonostante, c'era ancora gente pra-
ticamente ovunque - decine di persone lo separavano da Kincaid - e il peri-
to calligrafo non aveva assolutamente idea di essere pedinato.
Quando si trovarono a circa venti metri dal solenne muro nero del mo-
numento, Czisman vide un uomo con un impermeabile scuro uscire da die-
tro un albero. Fu un movimento prudente, furtivo, e lasciava intendere che
l'uomo fosse rimasto nascosto. E, quando si incamminò verso il monumen-
to, il suo passo era troppo deliberato, la testa china, lo sguardo fisso a terra
senza alcun motivo apparente, come se stesse tentando di non farsi notare.
Scomparve tra la folla non molto lontano da Kincaid.
Czisman gli andò dietro.
Improvvisamente Kincaid si voltò. Lanciò un'occhiata a Czisman, di-
stante, poi lo guardò meglio, accigliato, come se si fosse reso conto di aver
già visto quella faccia ma non riuscisse a ricordare dove. Czisman si na-
scose dietro un gruppo di uomini robusti che portavano una grossa borsa
frigorifera piena di bibite. Era convinto di aver perso Kincaid. Tornò alla
sua impresa, cercando nuovamente l'uomo con l'impermeabile scuro.
Dove?...
Sì, sì, eccolo lì! Un uomo sulla quarantina, assolutamente ordinario. Si
stava sbottonando l'impermeabile, guardando con occhi privi di espressio-
ne la folla intorno a lui.
E poi, improvvisamente, Czisman vide il lampo. Un lampo dorato sul
collo dell'uomo.
Porta un crocifisso d'oro...
Gli agenti nel bar a Gravesend gli avevano detto che il Becchino portava
un crocifisso.
E così è lui, pensò Czisman. Eccolo. Il Macellaio, il Diavolo.
Il Becchino.
«Ehi!» gridò una voce.
Czisman si voltò. Era Kincaid. Dopo che lo aveva visto doveva averlo
seguito tra la folla.
Ora, pensò Czisman. Ora!
Czisman sollevò il revolver e lo puntò sul suo bersaglio.
«Aspetta!» gridò Kincaid vedendo la pistola. «No!»
Ma Czisman non aveva abbastanza spazio. C'era troppa gente. Si spostò
di lato e si infilò in una breccia in mezzo alla folla, spingendo via diverse
persone. E perse Kincaid.
A dieci metri di distanza, il Becchino - ignorandoli entrambi - osservava
la folla come un cacciatore che osserva un immenso stormo di anatre.
Czisman spinse di lato un gruppo di studenti universitari.
«Che cosa cazzo stai facendo, amico?»
«Ehi...»
Li ignorò.
Continuava a non avere bersaglio! Troppa gente, troppa gente...
L'impermeabile del Becchino si aprì. In una delle tasche interne c'era un
grosso mitragliatore nero.
Ma nessuno lo vede! pensò Czisman. È come se fosse invisibile!
Nessuno lo sa. Famiglie, bambini, a pochi metri dall'assassino...
La folla era immensa. La polizia stava dirigendo tutti verso Constitution
Avenue, ma molti riuscivano a passare ugualmente, attraversando il bo-
schetto di alberi, immaginò Czisman, in modo da non perdersi il meglio
dei fuochi d'artificio.
Il Becchino si stava guardando intorno, in cerca di una buona posizione
da cui sparare. Si spostò e salì su una piccola cunetta.
Kincaid uscì dalla folla.
Czisman armò il cane della sua pistola.

27
23,40

La limousine parcheggiò accanto al Mall, vicino alle poltrone riservate


ai diplomatici e ai membri del Congresso. Il Sindaco Kennedy e sua mo-
glie uscirono dalla lunga macchina nera, accompagnati da C.P. Ardell.
«Deve starci appiccicato a questo modo?» domandò Claire all'agente.
«Sono gli ordini», rispose Ardell. «Spero capisca, signora.»
La donna si strinse nelle spalle.
Capire? pensò Kennedy. Quello che lui capiva era di trovarsi pratica-
mente in stato di arresto, e che non poteva nemmeno evitare l'umiliazione
di apparire in pubblico nella sua città senza un agente a fargli da
babysitter.
Ogni dubbio residuo che la sua carriera politica fosse finita venne defini-
tivamente messo a tacere con qualche rapida occhiata alle persone che sta-
vano vicino al palco d'onore. L'ambiguità del servizio di Slade Phillips era
completamente dimenticata, e sembrava che tutti i presenti pensassero che
lui fosse il complice del Becchino.
E dire che tutto ciò che aveva desiderato fare era salvare la città che a-
mava.
Arrivarono le telecamere e i flash dei fotografi a catturare le immagini
che l'indomani sui giornali sarebbero apparse con la didascalia «Il sindaco
Kennedy e signora». Kennedy salutò alcune delle persone sul palco e, con
molto tatto, accolse i commenti fintamente cortesi, come per esempio «Do-
ve ti eri nascosto?» e «Come te la passi, Jerry?»
L'altra domanda che sentì era: «Mi avevano detto che non saresti venuto
a vedere i fuochi d'artificio stasera, Jerry. Che cosa ti ha convinto?»
Be', ciò che l'aveva convinto era Claire.
Oh, sì, sarebbe stato più che contento di restarsene a casa. Ma, seduta
accanto a lui sul divano dell'ufficio, Claire aveva avuto un'idea completa-
mente diversa. «Ubriachiamoci e andiamo a vedere quei maledetti fuochi
d'artificio.»
«Non so», aveva risposto Kennedy, dubbioso.
«Be', io lo so, invece. Tu non sei il tipo che si tira indietro, tesoro. Esci
con la testa alta.»
E lui ci aveva pensato per qualche secondo e aveva deciso quasi subito
che quella era la cosa più intelligente che aveva sentito in tutta la sera.
Claire aveva recuperato una bottiglia di Moet e se l'erano bevuta insieme
durante il tragitto.
Mentre si facevano strada tra la folla sul palco, Kennedy strinse la mano
al deputato Lanier, che ovviamente riconobbe l'agente Ardell per ciò che
era - una guardia.
Probabilmente Lanier non riuscì a pensare a niente da dire che non sem-
brasse sfacciato, così si limitò a chinare leggermente il capo e a offrire un
assai poco convinto: «Claire, sei bellissima questa sera».
«Paul», rispose lei e, annuendo in direzione della silenziosa signora La-
nier, completò il saluto: «Mindy».
«Jerry», domandò Lanier, «quali sono le ultime notizie sulle sparato-
rie?»
«Sono ancora in attesa di saperle.»
«C'è posto per lei da questa parte, sindaco», disse un giovane assistente
indicando una fila vuota di poltroncine pieghevoli arancioni alle spalle de-
gli altri spettatori. «E anche per il suo amico», aggiunse lanciando un'oc-
chiata a C.P. Ardell.
«No, no», fece Kennedy, «ce ne staremo seduti sui gradini.»
«No, la prego...»
Ma, almeno per il momento, Kennedy aveva ancora una certa quantità di
autonomia sociale, se non fiscale, e allontanò Lanier e il suo assistente con
un cenno. Si sedette accanto a Claire sul gradino più alto, lasciando cadere
la giacca sul legno perché lei potesse sedervisi sopra. C.P. Ardell sembrava
ottuso, ma a quanto pareva era abbastanza furbo da sapere che tipo di im-
barazzo il sindaco avrebbe provato alla presenza di un agente federale, così
si sedette accanto a lui e alla moglie e non rimase in piedi dietro di loro
come un carceriere.
«Quando ero bambino venivo spesso qui», disse al sindaco.
«Vive nel distretto, agente Ardell?» gli domandò Claire.
«Diavolo... sì, signora. Vicino allo zoo. Appena giù dalla parkway. Non
vivrei in nessun altro posto.»
Kennedy ridacchiò debolmente. Se doveva essere in stato di arresto in-
formale, almeno era contento che il suo secondino fosse un cittadino leale.
Sentendo il calore dello champagne, si avvicinò a Claire e le prese la
mano. Insieme, guardarono il Mall. Guardarono le decine di migliaia di
persone che passeggiavano. Kennedy fu contento di vedere che non c'era-
no microfoni sul palco d'onore. Non voleva ascoltare nessun discorso. Non
voleva che nessuno gli offrisse il microfono per qualche commento im-
provvisato. Tutto ciò che desiderava era restarsene seduto accanto a sua
moglie e guardare i fuochi d'artificio sbocciare multicolori sopra la sua cit-
tà. E dimenticare la lenta agonia di quella giornata terribile. Nel suo appel-
lo via radio al Becchino ne aveva parlato definendolo l'ultimo giorno del-
l'anno. Ma, apparentemente, era la fine di tante altre cose: della sua possi-
bilità di aiutare la città, delle vite di molti dei suoi residenti, uccisi in modo
tanto orribile.
E forse la fine del suo mandato di sindaco: Lanier e gli altri membri del
Congresso che volevano sottrarre il distretto alla sua gente sarebbero pro-
babilmente riusciti a usare l'incidente del Becchino come leva per un
impeachment, forse accusandolo di interferenza con un'indagine della po-
lizia o qualcosa del genere. Se a questo si aggiungeva lo scandalo del Co-
mitato di Istruzione, Kennedy poteva essere definitivamente fuori nel giro
di un paio di mesi. Wendell Jefferies e tutti gli altri assistenti sarebbero
stati spazzati via insieme a lui. E quella sarebbe stata la fine del Progetto
2000.
La fine di tutte le sue speranze per il distretto. La sua povera città sareb-
be tornata indietro di altri dieci anni. Forse il prossimo sindaco...
In quel momento notò qualcosa di strano. Gli spettatori sembravano
muoversi verso est di proposito, come se venissero spinti da quella parte.
Perché? si domandò. Da lì la visuale era perfetta.
Si voltò verso Claire e fece per dirglielo, ma improvvisamente la donna
si irrigidì.
«Cos'è?» domandò.
«Cosa?»
«Spari», disse Claire. «Sento degli spari.»
Kennedy guardò in alto, chiedendosi se il rumore non potesse magari es-
sere già quello dei fuochi d'artificio. Ma no, era troppo presto. Tutto ciò
che riusciva a vedere era il cielo scuro e coperto di nubi, lacerato dall'obe-
lisco bianco del monumento a Washington.
Poi udirono le grida.
Gli spari di Czisman ottennero lo scopo sperato.
Quando si era reso conto che nessuno aveva visto il Becchino, e quando
aveva capito di non aver modo di sparare al killer, Czisman aveva fatto
fuoco due volte in aria per disperdere la folla e procurarsi un bersaglio
chiaro.
Le esplosioni avevano scatenato il panico tra la gente. Strillando, gri-
dando, tutti si dispersero, facendo cadere il Becchino in ginocchio. In cin-
que secondi, la zona immediatamente di fronte al monumento ai caduti del
Vietnam era praticamente vuota.
Czisman vide Kincaid che si gettava a terra ed estraeva dalla tasca una
piccola pistola automatica. Kincaid non aveva visto il Becchino perché tra
loro si ergeva un folto cespuglio di sempreverdi.
E a Czisman andava benissimo. Voleva essere lui a uccidere il killer.
Il Becchino si stava alzando lentamente, cercando con lo sguardo il mi-
tra che gli era caduto dall'impermeabile. Mentre cercava, vide Czisman e si
immobilizzò, fissandolo con gli occhi più strani che il giornalista avesse
mai visto in vita sua.
In quegli occhi c'era meno sentimento che in quelli di un animale. Quale
potesse essere stata la mente dietro le stragi di quella giornata, l'uomo che
ora giaceva su un ripiano nell'obitorio dell'FBI non era pura malvagità. Si-
curamente aveva avuto emozioni e pensieri e desideri. Avrebbe potuto re-
dimersi, avrebbe potuto forse sviluppare il barlume di coscienza che si-
curamente era sepolto dentro di lui.
Ma il Becchino? No. Non c'era redenzione possibile per quella macchi-
na. C'era soltanto la morte.
La mente di un uomo, ma il cuore di un demonio...
Il Becchino guardò la pistola nella mano di Czisman. Poi il suo sguardo
si sollevò ancora un po' e si posò sul volto del giornalista.
Kincaid si alzò. «Metti giù la pistola», gridò a Czisman. «Metti giù la pi-
stola!»
Czisman lo ignorò e puntò l'arma contro il Becchino. Con voce tremante
cominciò a dire: «Tu...»
Ma poi ci fu un'esplosione attutita sul fianco del Becchino. Un brandello
dell'impermeabile balzò all'infuori. Czisman sentì il pugno violentissimo
colpirgli il petto e cadde in ginocchio. Sparò, ma il colpo mancò comple-
tamente il bersaglio.
Il Becchino si tolse la mano dalla tasca, impugnando una piccola pistola.
La puntò di nuovo al petto di Czisman e fece fuoco due volte.
Czisman cadde all'indietro sotto l'impatto dei proiettili.
Mentre rotolava sulla terra fredda, vedendo le luci lontane riflettersi sul
muro nero del monumento ai caduti del Vietnam, sussurrò: «Tu...»
Tentò di prendere la pistola... ma dov'era? Gli era caduta dalla mano.
Dove, dove?...
Kincaid stava correndo al riparo, guardandosi intorno confuso. Czisman
vide il Becchino camminare lentamente verso il suo mitra, raccoglierlo e
sparare una raffica in direzione di Kincaid, che si tuffò dietro un albero. Il
Becchino, piegato in avanti, si allontanò rapidamente, in mezzo ai ce-
spugli, verso la folla in fuga.
Czisman stava ancora tastando il terreno in cerca della pistola. «Tu...
tu... tu...» Ma la sua mano cadde a terra come un sasso e poi ci fu solo la
tenebra.

Un po' di gente...
Click, click...
Qualcuno era lì vicino, accovacciato a terra, si guardava intorno. Spa-
ventato. Il Becchino avrebbe potuto facilmente sparargli, ma poi la polizia
l'avrebbe visto.
«L'ultima volta uccidine più che puoi», gli ha detto l'uomo che gli dice
le cose.
Ma quante persone sono «più che puoi»?
Una, due, tre, quattro, cinque...
Il Becchino non crede che l'uomo che gli dice le cose parlasse di una
semplice decina di persone.
E così corre dietro a quella gente, corre un po' come sta correndo la fol-
la, piegato in avanti, guardandosi intorno. Cose così.
Loro hanno l'aria spaventata. Lui tenta di sembrare spaventato. Proprio
come gli ha detto di fare l'uomo che gli dice le cose.
Tu sei... tu sei... tu sei il migliore.
Chi era l'uomo di prima? si chiede. Non era un poliziotto. Perché stava
tentando di spararmi?
Il Becchino ha nascosto... click, click... ha nascosto l'Uzi sotto l'imper-
meabile, l'impermeabile che gli piace tanto perché gliel'ha regalato Pame-
la.
Sente delle grida lì vicino, ma non sembrano dirette a lui, quindi il Bec-
chino non vi presta alcuna attenzione. Nessuno si accorge di lui. Si sta
muovendo tra l'erba, vicino agli alberi e ai cespugli, lungo quella strada
larga, la Constitution Avenue. Ci sono autobus e automobili e migliaia e
migliaia di persone. Se riesce ad arrivare fino a loro potrà ucciderne a cen-
tinaia.
Vede i musei come quelli che hanno il disegno con l'entrata dell'inferno.
I musei sono divertenti, pensa. A Tye piacerebbero i musei. Forse, quando
saranno in California, a ovest, potranno andare insieme a visitarne uno.
Altre grida. La gente corre. Ci sono uomini e donne e bambini dapper-
tutto. Poliziotti e agenti federali. Hanno Uzi o Mac-10 o... click... o pistole
come le sue e come quella dell'uomo grasso che aveva appena tentato di
sparargli. Però quegli uomini non stanno sparando, perché non sanno a chi
sparare. Il Becchino è soltanto una persona tra la folla.
Click, click.
Quanta strada deve fare ancora per arrivare dove c'è più gente?
Una cinquantina di metri, immagina.
Sta correndo verso di loro. Ma il suo percorso lo sta allontanando da
Tye, dalla macchina parcheggiata sulla Ventiduesima Strada. Quell'idea
non gli piace proprio. Vuole finire alla svelta la sparatoria e tornare dal ra-
gazzino. Quando arriverà tra la folla roteerà su se stesso come una trottola,
osservando la gente cadere come le foglie nella foresta del Connecticut, e
poi tornerà dal ragazzino.

Quando viaggio sulla strada,


Io ti amo sempre più.

Roteare, roteare, roteare...


Cadranno come è caduta Pamela con la rosa rossa sul petto e la rosa
gialla barbagliante nella mano.
Cadere, cadere, cadere...
Altre persone armate che corrono sull'erba.
Improvvisamente, vicino vicino, sente delle esplosioni, tonfi e colpi e
schianti.
Gli stanno sparando?
No, no... Ah, guarda!
Sopra di lui fiori enormi stanno sbocciando nell'aria. C'è fumo e ci sono
fiori accecanti, rossi e gialli. Anche blu e bianchi.
Fuochi d'artificio.
Il suo orologio comincia a suonare.
È mezzanotte.
Ora di sparare.
Ma il Becchino non può ancora farlo. Non c'è abbastanza gente.
Continua a muoversi verso la folla. Può sparare a qualcuno. Ma non è
abbastanza per far felice l'uomo che gli dice le cose.
Crack!
Un proiettile lo sfiora.
Ora sì che qualcuno gli sta sparando.
Grida.
In mezzo al prato alla sua destra due uomini con indosso giubbotti del-
l'FBI l'hanno visto. Sono in piedi di fronte a una piattaforma di legno deco-
rata con splendidi striscioni bianchi rossi e blu, come quelli che indossano
i bambini vestiti da anno nuovo.
Il Becchino si volta verso di loro e spara con l'Uzi attraverso l'imperme-
abile. Non vuole farlo - non vuole fare dei buchi nel bellissimo impermea-
bile scuro che Pamela gli ha regalato - ma deve. Non può permettere a nes-
suno di vedere il mitra.
I due uomini si afferrano la faccia e il collo come se delle api li stessero
pungendo, poi cadono a terra.
Il Becchino si gira e continua a muoversi verso la folla. Nessuno l'ha vi-
sto mentre sparava ai due uomini.
Deve soltanto camminare per altri trenta o quaranta metri e finalmente
sarà circondato da un sacco di gente, si guarderà in giro come tutti gli altri,
in cerca del killer, in cerca di un posto dove trovare la salvezza. E a quel
punto potrà sparare e sparare e sparare.
Roteando su se stesso come una trottola in una foresta del Connecticut.

28
24,00

Quando i primi proiettili si conficcarono nel legno intorno a lui, Jerry


Kennedy spinse Claire giù dalla piattaforma, sul freddo terreno sottostante.
Saltò dopo di lei e giacque al suo fianco, facendole da scudo per proteg-
gerla dalle pallottole. «Tesoro...» gridò.
«Sto bene!» La voce di Claire era incrinata dal panico. «Cosa sta succe-
dendo?»
«Qualcuno sta sparando. Dev'essere lui! Il killer... dev'essere qui!»
Rimasero sdraiati l'uno accanto all'altra, abbracciati, raggomitolati, nelle
narici l'odore della terra, dell'erba e della birra rovesciata.
Una persona sulla piattaforma era stata colpita: il giovane assistente, che
era stato ferito al braccio quando il deputato Lanier era saltato dietro di lui
per trovare riparo. Ma nessun altro sembrava essere ferito. La maggior par-
te dei colpi era andata a vuoto. Il killer aveva mirato ai due agenti di fronte
al palco d'onore, non alle persone sulla piattaforma.
Kennedy guardò e vide che i due agenti erano morti.
Sollevò lo sguardo e vide C.P. Ardell, con la pistola in pugno, che scru-
tava il prato sottostante. Era in piedi, diritto, non era nemmeno accovaccia-
to.
«Agente Ardell!» gridò Kennedy. «È lì! Laggiù!»
Ma l'agente non sparò. Kennedy si arrampicò fino a metà della gradinata
e lo tirò per una manica. «Sta scappando. Spari!»
L'uomo teneva la pistola davanti a sé come un tiratore al poligono.
«Ardell!»
«Ahnnn», stava dicendo l'agente.
«Che cosa sta aspettando?» gridò Kennedy.
Ma C.P. Ardell continuò a dire: «Ahnnn, ahnnn», fissando il prato sotto
di sé.
Poi cominciò a voltarsi, lentamente, guardando prima a nord, poi a est,
poi a sud... Guardando verso il muro nero del monumento ai caduti del
Vietnam, poi gli alberi, poi il monumento a George Washington, poi la
bandiera che decorava lo sfondo del palco d'onore.
«Ahnnn.»
L'agente si voltò di nuovo, facendo il giro completo, e cadde riverso sul-
la schiena, gli occhi fissi rivolti al cielo. Kennedy vide con orrore che gli
mancava la parte superiore del cranio.
«Oh, Gesù!»
Claire gemette quando un fiotto del sangue dell'uomo cadde lungo i gra-
dini e si raccolse in una pozza a pochi centimetri dal suo viso.
L'agente disse «Ahnnn» ancora una volta, mentre sulle sue labbra si
formava una bolla rossastra. Kennedy gli prese la mano. Tremava legger-
mente. Un attimo dopo divenne perfettamente immobile.
Kennedy si alzò. Guardò oltre il podio, dietro il quale Lanier e altri
membri del Congresso si erano nascosti. Il Mall era in penombra - non c'e-
rano luci a causa dei fuochi d'artificio - ma i fari dei veicoli di emergenza
diedero modo a Kennedy di vedere il caos. Si mise a cercare la sagoma
scura del Becchino.
«Che cosa cazzo stai facendo nella mia città?» sussurrò. Poi la sua voce
si alzò in un grido: «Cosa cazzo stai facendo qui?»
«Jerry, sta' giù!» lo implorò Claire.
Ma Kennedy rimase dove si trovava, scrutando il prato, tentando di sco-
vare la forma scura del killer tra la folla.
Dov'era? Dove?
Poi vide un uomo nell'ombra che camminava rapidamente lungo una fila
di ciliegi, non lontano da Constitution Avenue.
Stava tentando di raggiungere la folla a est del Mall.
Kennedy si chinò e tolse la pistola dalla mano dell'agente morto.
«Oh, Jerry, no», implorò Claire. «No! Chiamali con il cellulare.»
«Non c'è tempo.»
«No...» Claire stava piangendo sommessamente.
Kennedy si fermò, si voltò verso di lei. Le sfiorò una guancia con la ma-
no sinistra e le baciò la fronte come faceva tutte le volte quando spegneva-
no la luce e si mettevano a dormire. Poi balzò oltre le sagome raggomitola-
te e tremanti di una coppia di politici e cominciò a correre sull'erba.
Per un lungo istante non pensò assolutamente a nulla, poi cominciò a
pensare: Mi verrà un attacco di cuore, mi verrà un attacco di cuore e mo-
rirò... Ma non rallentò.
Il panorama familiare della città era tutt'intorno a lui. Il bianco del mo-
numento a Washington, il rosa carico dei ciliegi, il grigio degli edifici neo-
gotici dei musei, i pullman dei turisti...
Kennedy annaspò e continuò a correre, ansimò e continuò a correre.
Il Becchino era a trenta metri da lui. Poi a venti...
Quindici...
Kennedy osservò il killer avvicinarsi alla folla. Lo vide togliersi da sotto
l'impermeabile un mitragliatore nero.
Ci fu uno sparo alla sinistra di Kennedy, proveniente dagli alberi. Poi un
altro e poi altri due.
Sì! pensò Kennedy. L'hanno beccato!
Ma improvvisamente un ciuffo d'erba accanto a lui volò nell'aria e un
quinto proiettile sibilò poco sopra la sua testa.
Gesù! Stavano sparando a lui. Avevano visto un uomo armato correre
verso la folla e avevano pensato che si trattasse del killer.
«No, no!» Si accovacciò, quindi indicò il Becchino. «È lui!»
Il killer era vicino agli alberi e stava girando intorno alla folla. Entro un
minuto o poco più sarebbe stato a meno di dieci metri da loro, e avrebbe
potuto ucciderne a centinaia.
Al diavolo. Speriamo che quei poliziotti non siano dei tiratori scelti,
pensò Kennedy, e ricominciò a correre.
Ci fu un altro sparo nella sua direzione, ma poi qualcuno lo riconobbe.
Grida al megafono ordinarono agli agenti di cessare il fuoco.
«State indietro!» stava gridando Kennedy alla folla.
Ma per loro non c'era nessun posto dove andare. Erano ammassati in-
sieme come una mandria. Diecimila persone. Alcuni con gli occhi rivolti ai
fuochi d'artificio, altri che si guardavano intorno, confusi e a disagio.
Kennedy voltò verso gli alberi, con il petto in fiamme, correndo verso il
punto in cui aveva visto scomparire il Becchino.
Sto morendo, pensò. Si immaginò sdraiato sull'erba, tossendo e sputando
mentre il suo cuore cessava di battere.
E, a parte questo, che cosa diavolo sto facendo? Che idiozia è mai que-
sta? L'ultima volta che aveva usato una pistola era stata in un campeggio
estivo con suo figlio, trent'anni prima. Aveva sparato tre colpi e aveva
mancato completamente il bersaglio, per la vergogna del ragazzo.
Corri, corri...
Più vicino agli alberi, ora... più vicino al Becchino.
Gli agenti avevano capito dov'era diretto e dovevano aver immaginato
che stesse inseguendo il killer. Una fila composta da una decina di uomini
e donne in uniforme da sommossa stava correndo verso di lui.
Il Becchino uscì da dietro i cespugli, puntando il mitra contro la folla.
Annuì brevemente.
Kennedy smise di correre, sollevò la pistola di Ardell e la puntò verso il
killer. Non era nemmeno sicuro di dove mirare, non sapeva come funzio-
navano i tre mirini della grossa pistola. Se mirare alto o basso. Ma Ken-
nedy era un uomo forte, e tenne la pistola saldamente tra le mani. Ricordò
come lui e il suo figlio maggiore fossero stati in piedi l'uno accanto all'al-
tro nel campeggio estivo, ascoltando le parole dell'istruttore: «Non muove-
tela». I ragazzi avevano riso nervosamente. «Premete il grilletto.»
E così, quella notte, Jerry Kennedy premette il grilletto.
Il fragore fu assordante. Kennedy non si aspettava che la pistola saltasse
così verso l'alto.
La abbassò di nuovo. Strinse le palpebre per vedere meglio nella pe-
nombra. E rise.
Cristo, ce l'ho fatta! L'ho preso!
Il Becchino era a terra, il viso contratto in una smorfia. Si stava tenendo
il braccio sinistro.
Kennedy sparò di nuovo. Questa volta mancò il bersaglio. Sparò un altro
colpo, poi un altro ancora.
Il Becchino si alzò lentamente in piedi. Fece per prendere la mira su
Kennedy, ma il sindaco sparò di nuovo. Anche quest'ultimo colpo andò a
vuoto, ma di pochissimo, e il Becchino barcollò all'indietro, inciampando.
Mentre si rialzava sparò una raffica verso Kennedy, ma nessuno dei proiet-
tili lo colpì.
Il killer guardò alla propria sinistra, dove la fila di agenti e di poliziotti
stava avanzando verso di lui. Puntò l'arma contro di loro e premette il gril-
letto. Kennedy non sentì nulla, non vide nessun lampo dalla canna della pi-
stola. Ma un agente cadde a terra e frammenti d'erba e di terriccio si solle-
varono nell'aria. Gli altri agenti assunsero immediatamente la posizione di-
fensiva, accovacciati a terra. Puntarono le armi contro il killer, ma nessuno
sparò... e Kennedy capì immediatamente perché. La folla era direttamente
alle spalle del Becchino. Se gli agenti avessero sparato, sicuramente a-
vrebbero colpito qualche innocente.
Soltanto Kennedy aveva il campo libero.
Si alzò e sparò altre cinque volte contro la sagoma accovacciata a terra,
spingendo il Becchino indietro, lontano dalla folla.
Poi la pistola scattò a vuoto. Aveva finito i colpi.
Kennedy aguzzò la vista, guardando oltre la canna argentea dell'arma
ormai inutile, oltre l'impugnatura bianca come il monumento a Washin-
gton.
La sagoma scura del Becchino era scomparsa.

Ansima, ora.
Qualcosa dentro il Becchino scatta e lui dimentica tutto ciò che gli ha
detto l'uomo che gli dice le cose. Si dimentica di uccidere più persone che
può e si dimentica che la gente non deve vederlo in faccia e si dimentica di
roteare come una trottola in una foresta del Connecticut. Vuole soltanto
andar via da lì e tornare da Tye.
I proiettili che gli ha sparato quell'uomo sono arrivati così vicini... Mi
hanno quasi ucciso, pensa. E, se lui rimane ucciso, cosa succederà al ra-
gazzino?
Si accovaccia e poi si dirige di corsa verso un pullman di turisti. Il moto-
re del bus è al minimo, una nube di fumo acre si solleva dalla marmitta.
Il braccio gli fa così male. Dolore...
Guarda guarda, c'è una rosa rossa sul suo braccio.
Ma, oh, quanto fa... click... quanto fa male.
Spera di non sentire mai più un dolore come quello. Spera che Tye non
sentirà mai un dolore come quello.
Cerca l'uomo che gli ha sparato. Perché l'ha fatto? Il Becchino non capi-
sce. Lui sta solo facendo quello che gli hanno detto di fare.

E anche se tu mi amassi di meno


Io, io, io ti amerei sempre più.

I fuochi d'artificio sbocciano sopra il Mall.


Una fila di agenti federali e di poliziotti si sta avvicinando. Cominciano
a sparare. Il Becchino sale i gradini del pullman e si volta, sprizzando una
fontana di proiettili contro il gruppo di agenti che lo insegue.
In cielo c'è un'immensa esplosione arancione.
«Oh oh», dice il Becchino, e pensa: A Tye piacerebbe tanto.
Rompe un finestrino del pullman e punta accuratamente il mitra sugli
agenti che avanzano verso di lui.

29
00,15

Parker e Cage erano accovacciati al riparo di un'autopattuglia.


Nessuno dei due aveva sufficiente addestramento tattico ed entrambi sa-
pevano che era più prudente lasciare il combattimento nelle mani degli a-
genti più giovani e più esperti.
A parte questo, come Cage aveva gridato a Parker meno di un minuto
prima, erano in una stramaledetta zona di guerra. Proiettili fischiavano o-
vunque. Il Becchino aveva un'ottima protezione all'interno del pullman e
stava sparando raffiche mirate dal finestrino rotto. Len Hardy era a terra
con numerosi altri poliziotti del distretto sul lato opposto di Constitution
Avenue.
Cage si premette il fianco e fece una smorfia. Non era stato colpito, ma
una raffica di proiettili aveva lacerato la lamiera dell'auto che stavano u-
sando come riparo e Cage si era gettato a terra, colpendo duramente l'asfal-
to.
«Stai bene?» gli domandò Parker.
«Costola», ansimò Cage. «Sembra rotta. Merda.»
Gli agenti federali erano riusciti a sgomberare la zona intorno al pullman
e ora lo stavano crivellando di colpi ogni volta che ritenevano di avere un
bersaglio. Avevano sparato alle gomme così da impedire al Becchino di
servirsi dell'autobus per fuggire, ma Parker poteva vedere chiaramente che
non ce ne sarebbe stata comunque la possibilità: l'ampio viale alberato era
bloccato da un ingorgo che si estendeva per almeno un chilometro in tutte
le direzioni.
Sentì dei frammenti di comunicazioni via radio.
«Nessun bersaglio... Buttate dentro un lacrimogeno. Chi ha una bomba a
mano? Due vittime sulla Constitution. Abbiamo... qualcuno mi sente? Ab-
biamo due vittime sulla Constitution... Tiratori scelti in posizione.»
Poi Cage guardò da sopra il cofano dell'automobile. «Cristo», annaspò,
«che cosa sta facendo il ragazzo?»
Anche Parker si alzò a guardare verso Constitution Avenue, seguendo lo
sguardo di Cage. E vide Len Hardy, con la sua piccola pistola in pugno,
che avanzava strisciando da un albero all'altro verso il pullman, sollevando
la testa e sparando un colpo di tanto in tanto.
«È impazzito», disse Parker. «Non ha nemmeno il giubbotto antiproietti-
le.»
«Len!» gridò Cage con una smorfia di dolore.
Parker lo sostituì. «Len!... Len Hardy! Torna indietro. Lascia che ci pen-
sino loro.»
Ma Hardy li ignorò. O fece finta di ignorarli.
«È quasi come se avesse voglia di morire», ansimò Cage.
Hardy si alzò in piedi e si mise a correre verso il pullman, scaricando
l'arma mentre avanzava. Persino Parker sapeva che non era il comporta-
mento giusto da tenere nel corso di un'operazione tattica.
Parker vide il Becchino spostarsi verso la coda del pullman, dove avreb-
be potuto sparare comodamente a Hardy. Il detective non se ne accorse. Si
accovacciò a terra, ricaricando la pistola.
«Len!» gridò Parker. «Mettiti al riparo.»
«Non ha nemmeno gli Speedloaders», borbottò Cage. Il poliziotto stava
infilando i proiettili nel tamburo del revolver uno alla volta.
Il Becchino si avvicinò ulteriormente alla parte posteriore del pullman.
«No!» gridò Parker, sapendo benissimo che di lì a poco avrebbe visto il
ragazzo morire.
«Cristo», gemette Cage.
Poi Hardy sollevò lo sguardo ed evidentemente si rese conto di ciò che
stava accadendo. Alzò la pistola e sparò altre tre o quattro volte - tutti i
proiettili che era riuscito a ricaricare - e poi balzò all'indietro, cercando un
riparo. Tutti i suoi colpi erano andati a vuoto.
«È morto», sussurrò Cage. «È morto.»
Parker non riuscì a vedere con esattezza ciò che accadde dopo. Vide la
sagoma del Becchino vicino all'uscita di sicurezza sul retro del pullman.
Un agente uscì da dietro un'auto e si accovacciò, sparando una raffica di
proiettili verso il Becchino, che balzò di lato sotto l'impatto dei colpi. Il
sangue schizzò contro i finestrini. Si udì un soffio sordo, e un istante dopo
un incendio scoppiò all'interno del pullman. Un torrente di carburante in
fiamme fluì verso il marciapiede.
Illeso, Hardy si alzò lentamente da terra e corse al riparo dietro un'auto-
pattuglia della polizia.
Si udì un grido straziante quando l'interno del pullman scomparve in una
massa infuocata arancione. Parker vide il Becchino, ridotto a un ammasso
di fiamme ribollenti, alzarsi una volta e poi ricadere nel corridoio tra i se-
dili.
Dall'interno si udirono degli schiocchi sommessi - come i popcorn che
Stephie aveva fatto qualche ora prima preparando il dolce a sorpresa per
suo fratello. Erano i proiettili rimasti addosso al Becchino che esplodevano
tra le fiamme. Un albero in Constitution Avenue prese fuoco e illuminò il
macabro spettacolo con una luce calda e stranamente confortante.
Lentamente, gli agenti uscirono dai ripari e si avvicinarono al pullman.
Si fermarono a prudente distanza mentre esplodevano anche le ultime mu-
nizioni. Arrivarono le autopompe e cominciarono a spruzzare schiuma sul-
la carcassa bruciacchiata del veicolo.
Quando le fiamme si spensero, due agenti in tenuta antiproiettile rag-
giunsero la porta del pullman e guardarono dentro.
Improvvisamente, una serie di tonfi secchi scosse il parco.
Ogni agente e ogni poliziotto nelle vicinanze si gettò al riparo, assumen-
do la posizione di difesa con le armi in pugno.
Ma era soltanto il fragore dei fuochi d'artificio - ragni arancioni, stelle
bluastre, ogive bianche abbaglianti. Il glorioso finale dello spettacolo.
I due agenti uscirono dalla porta del bus e si tolsero gli elmetti.
Un attimo dopo Parker udì la comunicazione di uno dei due gracchiare
nella radio di Cage. «Il veicolo è sicuro», disse l'uomo. «Il soggetto è con-
fermato morto», fu il freddo epitaffio per il killer.
Mentre tornavano verso il monumento ai caduti del Vietnam Parker rac-
contò a Cage di Czisman e di come era iniziata la sparatoria.
«Ha sparato dei colpi d'avvertimento. Se non l'avesse fatto, il Becchino
avrebbe potuto uccidere cento persone lì, sul momento. E magari avrebbe
ucciso anche me.»
«Che cosa diavolo aveva in mente di fare Czisman?»
Di fronte a loro, un poliziotto stava coprendo il corpo privo di vita del
giornalista.
Cage si chinò, il viso contratto in una smorfia di dolore. Un infermiere
gli aveva tastato l'addome e aveva dichiarato che la caduta aveva prodotto,
come previsto, la rottura di una costola. L'agente era stato bendato stretta-
mente e aveva preso qualche pastiglia di Tylenol 3. La conseguenza peg-
giore della frattura era che, almeno per il momento, le strette di spalle per
cui andava famoso gli erano impossibili.
Cage scostò l'incerata gialla dal cadavere. Frugò nelle tasche del giorna-
lista. Prese il portafogli. Poi trovò qualcos'altro.
«Cos'è questo?» Estrasse un libro dalla tasca della giacca dell'uomo.
Parker vide che si trattava di un libro di lusso: rilegatura di pelle, pagine
cucite con punti manuali - non le pagine incollate dei libri destinati al mer-
cato di massa. La carta era vellum, che ai tempi di Thomas Jefferson era
pelle di animale pressata ma che, al giorno d'oggi, era carta filigranata di
alta qualità. I bordi delle pagine erano marmorizzati in rosso e oro.
E, dentro, la calligrafia - presumibilmente quella di Czisman - era splen-
dida come quella di un artista. Parker non poté fare a meno di ammirarla.
Cage sfogliò il libro, soffermandosi su alcune pagine. Le lesse, scosse il
capo. Poi porse il libro a Parker. «Guarda un po' questa roba.»
Parker si accigliò leggendo il titolo inciso in oro sulla copertina. Reso-
conto di un dolore.
Aprì il libro. Lesse a voce alta. «Alla memoria di mia moglie, Anne, la
prima vittima del Macellaio.»
Il libro era diviso in sezioni. «Boston.» «White Plains.» La prima si inti-
tolava «Hartford». Parker voltò la pagina e lesse. «Dal News-Times di Har-
tford.» Czisman aveva copiato il testo dell'articolo. Era datato novembre
dell'anno precedente.
Parker continuò a leggere a voce alta. «'Tre uccisi a Holdup... la polizia
di Hartford sta ancora cercando l'uomo che sabato scorso è entrato negli
uffici del News-Times e ha aperto il fuoco con un fucile automatico, ucci-
dendo tre impiegati della sezione annunci economici riservati.
«'L'unica descrizione del killer parla di un uomo di corporatura media
con indosso un impermeabile scuro. Un portavoce della polizia afferma
che il movente può essere stato quello di distrarre le forze dell'ordine men-
tre il suo complice rapinava un furgone blindato che stava effettuando una
consegna di denaro contante a una banca dall'altra parte della città. Il se-
condo assassino ha sparato al conducente del furgone e al suo collega, uc-
cidendoli entrambi, ed è fuggito con quattromila dollari in contanti.'»
«Ha ucciso tre persone per quattromila dollari! È lui», borbottò Cage.
Parker sollevò lo sguardo. «Una delle persone uccise al giornale era An-
ne Czisman. Sua moglie.»
«Così voleva inchiodare il bastardo almeno quanto noi», commentò Ca-
ge.
«Czisman ci stava usando per arrivare al sosco e al Becchino. Ecco per-
ché ha insistito tanto per poter vedere il cadavere all'obitorio. Ed ecco per-
ché mi stava seguendo. Un'esca. Mi stava usando come esca.»
Vendetta...
Parker si chinò e rimise rispettosamente l'incerata sul volto del giornali-
sta.
«Chiamiamo Lukas», disse poi a Cage. «E diamole la notizia.»

Al quartier generale dell'FBI Margaret Lukas era nell'atrio degli impie-


gati sulla Pennsylvania Avenue, riferendo i particolari al vicedirettore, un
bell'uomo con una folta chioma di capelli grigi. Aveva sentito via radio
che il Becchino era al Mall e che c'era in corso una sparatoria. Era dispera-
tamente ansiosa di raggiungere il parco ma, in qualità di responsabile del
caso, il protocollo le richiedeva di tenere informati i suoi superiori.
Il suo cellulare ronzò. E Lukas rispose immediatamente, non permetten-
dosi per scaramanzia di sperare che l'avessero catturato.
«Lukas.»
«Margaret», disse Cage.
E, dal suo tono, Lukas capì immediatamente che avevano inchiodato il
killer. Quello era un suono particolare nella voce di un poliziotto che si
imparava a riconoscere con l'esperienza.
«Catturato o ucciso?»
«Ucciso», rispose Cage.
Lukas arrivò vicina a recitare una preghiera di ringraziamento più di
quanto non lo fosse stata nel corso degli ultimi cinque anni.
«E senti un po' questa... il sindaco l'ha preso in trappola.»
«Cosa?»
«Esatto. Kennedy. Ha sparato qualche colpo con la pistola della sua
guardia del corpo. E ha salvato diverse vite.»
Lukas riferì la notizia al vicedirettore.
«Tu stai bene?» domandò a Cage.
«Tutto a posto», rispose Cage. «Una costola rotta mentre mi coprivo il
culo, tutto qui.»
Ma il cuore di Lukas ebbe una stretta. Aveva sentito qualcosa nella sua
voce, una nota stonata, un vuoto.
Jackie, sono la madre di Tom... Jackie, devo dirti una cosa. Ha appena
chiamato la compagnia aerea... Oh, Jackie...
«Ma?» domandò, con il cuore in gola. «Che c'è, Cage? Kincaid?»
«No, Kincaid sta bene», rispose l'agente con un filo di voce.
«Dimmi.»
«Ha preso C.P., Margaret. Mi dispiace.»
«Oh, no.»
Silenzio.
Poi: «È grave?»
«È morto.»
Margaret chiuse gli occhi. Sospirò. La collera ribollì nuovamente dentro
di lei, collera dovuta al fatto di non aver avuto la possibilità di piantare lei
stessa un proiettile nel cuore del Becchino.
«Non c'è stata nemmeno una sparatoria», proseguì Cage. «Il Becchino
ha sparato una raffica verso il punto in cui era seduto il sindaco. C.P. era al
posto sbagliato nel momento sbagliato.»
Un posto in cui l'avevo mandato io. Cristo.
Conosceva Ardell da tre anni... Oh, no...
«Il Becchino ha ucciso altri quattro dei nostri, ne abbiamo tre feriti.
Sembra che i feriti tra i civili siano sei. Ci sono ancora sette dispersi, ma i
corpi non sono stati trovati. Probabilmente sono semplicemente scappati e
le loro famiglie non li hanno ancora ritrovati. Oh, e hai presente Czi-
sman?»
«Chi, lo scrittore?»
«Sì. Il Becchino l'ha ucciso.»
«Cosa?»
«Non era affatto uno scrittore. Voglio dire, lo era, ma non era per questo
motivo che era venuto qui. Il Becchino ha ucciso sua moglie, e Czisman ci
stava usando per arrivare a lui. Il Becchino l'ha ucciso prima, però.»
E così è stata la notte dei dilettanti, pensò Lukas. Kincaid, il sindaco,
Czisman.
«E Hardy?»
Cage le raccontò di come il giovane poliziotto avesse tentato di assalire
da solo il pullman in cui si era asserragliato il Becchino. «Ci è arrivato
molto vicino, aveva un'ottima posizione di tiro. Possono benissimo essere
stati i suoi colpi a far fuori il Becchino. Nessuno era in grado di capire co-
sa stava succedendo.»
«Quindi non si è sparato sui piedi?» domandò Lukas.
«Te lo dico io», rispose Cage, «sembrava proprio che fosse determinato
al suicidio, ma quando è arrivato in faccia alla morte si è girato e ha cerca-
to un riparo. Immagino che abbia deciso che era meglio restare nei paraggi
ancora qualche anno.»
Proprio come me, pensò Lukas.
Len Hardy, un altro bambino scambiato... E forse il fatto che lei gli a-
vesse permesso di restare nella squadra dopo l'incidente del Ritz, che lei
gli avesse permesso di unirsi all'operazione tattica al Mall, gli aveva dato
l'opportunità di capire che poteva ancora emergere dalle macerie della sua
vita personale.
«Evans è lì?» domandò Cage.
Lukas si guardò intorno e notò con sorpresa che lo psicologo non c'era.
Era convinta che Evans scendesse nell'atrio per raggiungerla. «Non sono
sicura di dove sia», rispose. «Dev'essere ancora di sopra. Nel laboratorio.
O forse nel centro operativo.»
«Trovalo e dagli la buona notizia. E ringrazialo. E digli di mandarci una
parcella molto salata.»
«Lo farò. E chiamerò anche Tobe.»
«Parker e io saremo con il PERT a setacciare la scena del crimine, ma
torneremo lì fra tre quarti d'ora, più o meno.»
Quando Lukas riagganciò, il vicedirettore disse: «Io vado al Mall. Chi è
l'agente in carica?»
Ci mancò poco che Lukas dicesse Parker Kincaid. Ma si fermò appena
in tempo. «Agente speciale Cage. È vicino al monumento ai caduti del
Vietnam con il PERT.»
«Ci dovrà essere una conferenza stampa. Darò l'okay al direttore. Magari
anche lui vorrà rilasciare una dichiarazione. Ma mi dica, ha dovuto rinun-
ciare a una festa questa sera, Lukas?»
«È questo il bello delle feste, signore. Ce ne sarà sempre un'altra il pros-
simo anno.» Rise. «Forse dovremmo far confezionare delle magliette con
questa frase.»
L'uomo sorrise appena. «Come sta il nostro testimone? Ha ricevuto altre
minacce?»
«Moss? Non ho controllato. Ma lo farò immediatamente.»
«Crede ci siano problemi?» si accigliò il vicedirettore.
«Oh, no. Ma mi deve una birra.»

Nel laboratorio, il dottor Evans chiuse il suo cellulare e spense il televi-


sore.
E così erano riusciti a uccidere il Becchino.
I servizi dei telegiornali erano ancora incompleti, ma da quel poco che
aveva sentito Evans sapeva che non c'erano state molte vittime - non come
la sparatoria in metropolitana e non come sullo yacht. Ciò nonostante, dal-
le immagini televisive, Constitution Avenue sembrava un campo di batta-
glia. Fumo, centinaia di ambulanze e macchine della polizia, gente nasco-
sta dietro le auto parcheggiate, dietro gli alberi, tra i cespugli.
Evans indossò il suo giubbotto e andò nell'angolo del laboratorio. Infilò
il thermos nel suo zaino che poi si mise in spalla, oltrepassò la doppia por-
ta e si incamminò nel corridoio deserto.
Il Becchino... che creatura affascinante. Una delle poche persone al
mondo a essere davvero, come aveva detto agli agenti, a prova di profilo
psicologico.
Si fermò davanti all'ascensore e guardò l'elenco degli uffici del palazzo,
tentando di orientarsi. C'era una cartina. La studiò. Il quartier generale del-
l'FBI era molto più complicato di quanto avesse immaginato.
Allungò il dito verso il bottone di discesa ma, prima che avesse il tempo
di premerlo, una voce lo salutò. «Salve.» Evans si voltò. Vide qualcuno
che camminava verso di lui dall'altra fila di ascensori.
«Ehilà, dottore», esclamò la voce. «Ha sentito?»
Era quel giovane poliziotto. Len Hardy. Il suo trench non era più perfet-
tamente stirato. Era macchiato e sporco. Il giovane aveva un taglio su una
guancia.
Evans sorrise, ma si sentiva a disagio. Ricordava i commenti del poli-
ziotto nel laboratorio poco più di un'ora prima - le sue considerazioni sul
nome del Becchino. Sembrava quasi voler suggerire che Evans avesse oc-
cultato di proposito informazioni di vitale importanza sul killer. Premette il
bottone di discesa. Due volte.
«L'ho appena visto alla televisione», gli disse Evans. Si tolse lo zaino
dalla spalla e abbassò la cerniera lampo.
Hardy lanciò un'occhiata assente allo zaino malconcio. Poi disse: «Ehi,
glielo dico io, ho parlato troppo presto prima, quando mi sono offerto vo-
lontario per andare a prendere quel tipo. Ho avuto un attimo di follia. Una
specie di isteria da combattimento».
«Già», disse Evans. Infilò una mano nello zaino e prese il thermos.
Hardy continuò a chiacchierare a ruota libera. «Mi ha quasi ucciso. E la
cosa mi ha davvero scosso. Ero a meno di dieci metri da lui. Gli ho visto
gli occhi, ho visto la canna del suo mitra. Ehi... improvvisamente ero mol-
to felice di essere vivo.»
«Capita», fece Evans. Dove diavolo era finito l'ascensore?
Hardy guardò il cilindro di metallo cromato. «Senta, sa dov'è l'agente
Lukas?» domandò, dando un'occhiata al corridoio.
«Credo che sia di sotto», rispose Evans, svitando il coperchio del ther-
mos. «Doveva mettere al corrente qualcuno. La lobby della Nona Strada.
Non è arrivato anche lei da lì?»
«No, sono passato dal garage.»
Evans tolse il coperchio dal thermos. Si voltò verso il detective.
Abbassò lo sguardo.
E vide la sagoma nera della pistola con il silenziatore che Hardy gli sta-
va puntando contro.
«Mi dispiace», disse Hardy. Ma dalla voce sembrava che non gli dispia-
cesse affatto.
Evans lasciò cadere il thermos. Il caffè si sparse sul pavimento. L'ultima
cosa che vide fu il lampo di luce gialla che eruttava dalla canna della pisto-
la.

IV
IL SIGNORE DEGLI ENIGMI

«Quel campione della mia scrittura è stata la prova peggiore con-


tro di me.»

BRUNO HAUFOVIANN,
RIFERENDOSI ALLE PROVE PRESENTATE
AL PROCESSO PER IL RAPIMENTO DEL
PICCOLO LlNDBERGH
30
00,30

L'agente era sufficientemente giovane da essere ancora eccitato all'idea


di lavorare per l'FBI, e così non gli importava minimamente di essere stato
assegnato al turno di guardia da mezzanotte alle otto la sera dell'ultimo
dell'anno nel Centro di Sicurezza dell'FBI al terzo piano del quartier gene-
rale.
Inoltre Louise, la donna con cui stava lavorando, indossava una camicet-
ta azzurra attillata e una minigonna nera e stava flirtando con lui.
Sì, stava decisamente flirtando, decise.
Be', d'accordo, stava parlando del suo gatto. Ma il suo linguaggio corpo-
reo gli diceva che stava proprio flirtando. E il suo reggiseno era nero e ben
visibile sotto la camicetta. Anche quello era un messaggio.
L'agente continuò a guardare i dieci monitor video che erano sotto la sua
responsabilità. Louise, alla sua sinistra, ne aveva altri dieci. Erano collegati
a più di sessanta telecamere di sicurezza situate dentro e fuori l'edificio. Le
inquadrature sugli schermi cambiavano ogni cinque secondi, passando da
una telecamera all'altra.
Louise stava annuendo con aria assente mentre lui le parlava della casa
dei suoi genitori a Chesapeake Bay. Poi il citofono ronzò.
Non potevano essere Sam o Ralph, i due agenti che lui e Louise avevano
sostituito venti minuti prima: avevano le tessere e, nel caso, sarebbero en-
trati senza problemi.
L'agente premette il pulsante dell'intercom. «Sì?»
«Sono il detective Hardy. Dipartimento di Polizia del distretto.»
«Chi è Hardy?» domandò l'agente a Louise.
Lei si strinse nelle spalle e tornò a guardare gli schermi.
«Sì?»
«Sto lavorando con Margaret Lukas», gracchiò la voce dell'uomo.
«Ah, il caso della sparatoria nella metropolitana?»
«Esatto.»
La leggendaria Margaret Lukas. Il giovane non era nell'FBI da molto
tempo, ma anche lui sapeva che un giorno Lukas sarebbe diventata la pri-
ma donna della storia a dirigere l'FBI. Premette il pulsante di ingresso e si
voltò verso la porta.
«Posso esserle d'aiuto?»
«Temo di essermi perso», disse Hardy.
«Sissignore. Capita spesso, da queste parti.» Sorrise. «Dov'è diretto?»
«Sto tentando di trovare il laboratorio della divisione Documenti. Mi so-
no perso mentre cercavo una macchinetta del caffè.»
«La divisione Documenti? È al settimo piano. Volti a sinistra. Non può
sbagliare.»
«Grazie.»
«Cos'è questo?» chiese improvvisamente Louise. «Ehi, cos'è questa ro-
ba?»
L'agente si voltò verso di lei. Louise fermò la sequenza sugli schermi e
ne indicò uno. Mostrava un uomo che giaceva riverso sulla schiena non
molto distante dalla loro postazione, su quello stesso piano. I monitor era-
no in bianco e nero, ma un'ampia pozza di un liquido che non poteva esse-
re altro che sangue si stava formando sotto la testa dell'uomo.
«Oh, Cristo», sibilò lei e si allungò verso il telefono. «Sembra Ralph.»
Dalle loro spalle venne un tonfo sordo. Louise ebbe un sussulto improv-
viso e gemette, mentre il davanti della sua camicetta azzurra scompariva in
una nube di sangue.
«Oh», annaspò lei. «Cosa...?»
Un altro schiocco sommesso. Il proiettile la colpì alla nuca e la donna
cadde in avanti.
Il giovane agente di guardia si voltò verso la porta, alzando le mani.
«No, no», gridò.
Con voce calma, Hardy gli disse: «Rilassati».
«La prego!»
«Rilassati», ripeté. «Devo farti solo qualche domanda.»
«Non mi uccida. La prego...»
«Ora dimmi», proseguì Hardy con voce piatta. «I vostri computer usano
programmi Secure-Chek?»
«Io...»
«Ti lascerò vivere se risponderai a tutte le mie domande.»
«Sì», disse il ragazzo. Cominciò a piangere. «Secure-Chek.»
«Quindi, se non ti colleghi a intervalli regolari, parte un Codice 42 nel
sistema Inter-Gov?»
«Esatto... Oh, senta, signore.» Guardò accanto a lui il corpo di Louise
che sussultava di tanto in tanto. Il sangue fluiva sul pannello di controllo.
«Oh, Dio...»
Parlando lentamente, Hardy aggiunse: «Hai iniziato il turno a mezzanot-
te?»
«La prego, io...»
«A mezzanotte?» ripeté Hardy, con il tono di un insegnante che incalza
un allievo stupido.
L'agente annuì.
«A che ora ti sei collegato al sistema la prima volta?»
Ora il ragazzo stava piangendo senza controllo. «Alle dodici e ventuno.»
«Quando dovresti collegarti la prossima volta?»
«Una e zero sette.»
Hardy guardò l'orologio alla parete e annuì con una punta di soddisfa-
zione.
Con il panico nella voce, il giovane agente di guardia continuò a parlare.
«Nei giorni festivi adoperiamo un sistema a incrementi di intervallo, quin-
di dopo quel collegamento do...»
«Va bene così.» Hardy gli sparò due volte alla testa e premette il pulsan-
te per aprire la porta.
L'uomo che non era Len Hardy - un nome fittizio, in realtà si chiamava
Edward Fielding - raggiunse l'ascensore.
Aveva tempo fino all'una e sette minuti prima che scattasse l'allarme au-
tomatico. Un sacco di tempo.
L'edificio era praticamente deserto, ma Fielding continuava a camminare
come avrebbe dovuto. Con un'aria non di urgenza, ma di gravità. Così, se
uno dei pochi agenti rimasti nel palazzo si fosse imbattuto in lui, non a-
vrebbe fatto altro che chiedergli il tesserino e poi, giudicando il suo atteg-
giamento, avrebbe deciso di lasciarlo proseguire verso i suoi importantis-
simi compiti.
Inspirò profondamente, sentendo gli odori del laboratorio, degli uffici,
dell'obitorio. Provava un'eccitazione profonda all'idea di trovarsi proprio lì,
al centro dell'universo delle forze dell'ordine. I corridoi del quartier gene-
rale dell'FBI. Ricordò, un anno prima, il Becchino che insisteva per andare
a visitare un museo di Hartford. Fielding aveva acconsentito e il folle era
rimasto un'ora di fronte a un'illustrazione di Doré della Divina Commedia:
Beatrice e Virgilio in procinto di scendere all'Inferno. Era proprio così che
si sentiva Fielding in quel momento: come se stesse facendo un giro turi-
stico del mondo sotterraneo.
Mentre camminava lungo i corridoi, rifletté. No, agente Lukas, Parker
Kincaid, povero John Evans... No, il mio movente non era la vendetta con-
tro i politici, il mio movente non era il terrorismo, il mio scopo non era di
sottolineare l'ingiustizia sociale. Né l'avidità. Venti milioni di dollari? Cri-
sto, avrei potuto chiedere dieci volte tanto.
No, il suo movente era la perfezione.
Vero, l'idea del delitto perfetto era un cliché. Ma Fielding aveva impara-
to qualcosa di interessante mentre studiava linguistica, cercando le parole e
le frasi giuste da adoperare nella lettera di estorsione. In un articolo sul-
l'American Journal of Linguistics, un filologo - un esperto di linguaggio -
aveva scritto che, nonostante agli scrittori seri venga detto di evitare i cli-
ché, essi hanno valore perché descrivono verità fondamentali con termini
universalmente comprensibili.
Il delitto perfetto.
Il Santo Graal di Fielding.
La perfezione... per lui era come una droga. La perfezione era tutto: il
modo in cui si stirava le camicie e si lucidava le scarpe e si tagliava i peli
nelle orecchie, il modo in cui progettava i suoi crimini, il modo in cui ve-
nivano eseguiti.
Se Fielding avesse avuto vocazione per la legge sarebbe diventato avvo-
cato e avrebbe dedicato la propria esistenza a creare difese perfette per
clienti assolutamente colpevoli. Se avesse avuto la passione per l'aria aper-
ta avrebbe imparato tutto ciò che c'era da imparare sull'alpinismo e avreb-
be compiuto la perfetta scalata in solitario alla cima dell'Everest.
Ma quelle attività non lo eccitavano.
Il crimine invece sì.
Era soltanto un caso, immaginava, che fosse nato senza alcun senso mo-
rale. Allo stesso modo in cui alcuni uomini sono calvi e alcuni gatti hanno
sei dita nelle zampe. Era la natura, non l'educazione. I suoi genitori erano
brave persone, gli volevano bene, il loro unico peccato era la pigrizia. Il
padre di Fielding era stato un agente assicurativo a Hartford, sua madre
una casalinga. Fielding non aveva sperimentato alcuna privazione, nessun
abuso di nessun genere. Fin da piccolo, però, aveva sempre pensato che la
legge non fosse per lui. Le leggi non avevano senso. Aveva trascorso ore
interminabili pensando: Ma perché un uomo deve porsi dei limiti? Perché
non possiamo andare ovunque la nostra mente e i nostri desideri ci vo-
gliono portare?
Nonostante ci fossero voluti diversi anni prima che riconoscesse questo
semplice fatto, era nato con una personalità criminale pura, un sociopatico
da manuale.
E così, mentre studiava algebra e calcolo e biologia alla St. Thomas
High School, aveva cominciato a lavorare alla sua vera vocazione.
E, come capita in ogni disciplina, la sua educazione aveva conosciuto al-
ti e bassi.
Fielding, in riformatorio per aver dato fuoco al fidanzato di una ragazza
per cui si era preso una cotta (avrebbe dovuto parcheggiare la macchina a
tre o quattro isolati di distanza).
Fielding, picchiato quasi a morte da due agenti di polizia che stava ricat-
tando con fotografie di travestiti che li spompinavano nell'autopattuglia (a-
vrebbe dovuto avere con sé un complice forte e brutale).
Fielding che riesce con successo a estorcere denaro a un grosso fabbri-
cante di cibi in scatola dando da mangiare alle mandrie un enzima in grado
di far risultare il bestiame falsamente positivo al botulismo (ma non riesce
a prendere i soldi nel luogo prestabilito perché non è stato capace di pensa-
re a come fuggire con il denaro senza farsi beccare).
Vivi e impara...
L'università non gli interessava molto. Gli studenti di Bennington ave-
vano soldi, ma lasciavano le porte delle loro camere aperte tutto il tempo e
quindi rapinarli non rappresentava alcuna sfida per lui. Di tanto in tanto si
godeva qualche aggressione criminale sulle compagne - era davvero una
sfida stuprare qualcuno in modo tale che la vittima non si rendesse conto
di essere molestata. Ma la vera brama di Fielding era il crimine, non il ses-
so, e durante il suo secondo anno di università si stava già dedicando a
quelli che chiamava «crimini puliti», come la rapina. Non più ai «crimini
sporchi» come lo stupro. Aveva preso la laurea in psicologia e aveva co-
minciato a sognare di fuggire dalla terra dell'accademia e di entrare nel
mondo reale, dove avrebbe potuto mettere in pratica la propria abilità.
Nei dieci anni successivi Fielding, tornato nel natio Connecticut, aveva
fatto proprio questo: si era perfezionato e aveva fatto pratica. Rapine, prin-
cipalmente. Aveva evitato crimini finanziari come assegni a vuoto e frodi a
causa delle tracce cartacee che si lasciavano inevitabilmente dietro. Aveva
evitato la droga e i relativi traffici perché non si poteva lavorare da soli e
lui non aveva mai incontrato qualcuno di cui potersi fidare.
Aveva ventisette anni quando aveva ucciso per la prima volta.
Un crimine dettato dall'impulso e dall'opportunità, molto insolito per lui.
Stava bevendo un cappuccino nel bar di un centro commerciale appena
fuori Hartford quando aveva visto una cliente uscire da una gioielleria con
un pacchetto in mano. C'era qualcosa, nel modo in cui la donna cammina-
va - vagamente paranoico - che gli aveva lasciato intendere che il pac-
chetto conteneva qualcosa di molto costoso.
Era salito in macchina e l'aveva seguita. Su un tratto di strada deserto
aveva accelerato e l'aveva costretta ad accostare. Terrorizzata, la donna gli
aveva consegnato la borsetta e l'aveva supplicato di lasciarla andare.
E, mentre era lì, accanto alla Chevy di lei, Fielding si era reso conto di
non aver indossato una maschera e di non aver cambiato la targa della sua
auto. Era convinto che avesse inconsciamente mancato di prendere queste
precauzioni perché voleva sapere che cosa si provava a uccidere qualcuno.
Aveva estratto la pistola dal vano portaoggetti e, prima ancora che la don-
na avesse tempo di urlare, le aveva sparato due volte.
Era risalito in macchina, era tornato al Juice 'n' Java e si era bevuto un
altro cappuccino. Era singolare, aveva pensato, che la maggior parte dei
criminali non uccidesse. Avevano paura di commettere omicidi perché
pensavano che, se l'avessero fatto, era più probabile la polizia li avrebbe
arrestati. In realtà, se avessero ucciso avrebbero avuto più possibilità di
farla franca.
Ciò nonostante, la polizia di tanto in tanto poteva essere davvero in
gamba, e Fielding era stato fermato diverse volte. Era stato sempre rila-
sciato tranne che in un caso. In Florida era stato arrestato per rapina a ma-
no armata, e le prove contro di lui erano schiaccianti. Ma aveva un buon
avvocato, che era riuscito a ottenere una condanna ridotta a condizione che
Fielding si facesse curare in un ospedale psichiatrico.
Era terrorizzato all'idea di passare del tempo in un luogo simile, ma alla
fine si erano rivelati due anni stupefacenti. Al Dade City Mental Health,
Fielding aveva avuto l'opportunità di sentire il vero sapore del crimine. Po-
teva percepirne l'odore. Molti, se non addirittura la maggior parte, dei de-
tenuti erano lì perché i loro avvocati erano stati bravi a invocare l'infermità
mentale. I criminali stupidi stanno in prigione, quelli furbi negli ospedali.
Dopo due anni e un'apparizione esemplare di fronte alla commissione
medica di revisione, Fielding era tornato in Connecticut.
E la prima cosa che aveva fatto era stata trovarsi un lavoro come assi-
stente in un manicomio criminale di Hartford.
Lì aveva conosciuto un uomo di nome David Hughes, una creatura affa-
scinante. Fielding aveva deciso che probabilmente Hughes era sempre sta-
to un uomo bravo e onesto prima di pugnalare la moglie durante un acces-
so di gelosia. L'atto in sé era stato una cosa da giornale scandalistico, nien-
te di speciale, ma quello che era davvero interessante era ciò che era acca-
duto dopo che il maritino aveva perforato i polmoni di Pamela con un col-
tello. Lei era andata nel ripostiglio e aveva trovato una pistola e, prima di
morire, aveva sparato a Hughes colpendolo alla testa.
Fielding non sapeva con esattezza che cosa fosse accaduto, neurologi-
camente parlando, nel cranio di David Hughes, ma, forse perché l'assisten-
te era stato la prima persona che Hughes aveva visto quando si era sveglia-
to dopo l'operazione, uno strano legame si era formato tra i due. Hughes
faceva tutto ciò che Fielding gli chiedeva. Gli portava il caffè, faceva le
pulizie per lui, gli stirava le camicie, cucinava. E, a un certo punto, Fiel-
ding aveva scoperto che Hughes era disposto a fare qualcosa di più delle
semplici faccende domestiche. L'aveva scoperto una sera, pochi minuti
dopo che l'infermiera del turno di notte, Ruth Miller, gli aveva allontanato
la mano con cui lui la stava toccando fra le gambe e gli aveva detto: «Ti
faccio rapporto, stronzo».
Poco dopo l'episodio, Fielding, preoccupato, aveva detto a Hughes:
«Quella Ruth Miller... qualcuno dovrebbe uccidere quella puttana».
E Hughes aveva detto: «Hmmm, d'accordo».
«Cosa?» aveva chiesto Fielding.
«Hmmm, d'accordo.»
«La uccideresti per me?»
«Uhmm... io... certo.»
Fielding l'aveva zittito e l'aveva portato a fare una passeggiata intorno
all'ospedale. Avevano parlato a lungo.
Il giorno seguente Hughes era arrivato nell'ufficetto di Fielding coperto
di sangue e con in mano un pezzo di vetro acuminato, e gli aveva chiesto
se poteva avere un po' di minestra.
Fielding l'aveva ripulito, pensando che David era stato un po' impruden-
te sul luogo e l'ora dell'omicidio e sull'allontanamento successivo. Decise
che Hughes era troppo prezioso per essere sprecato in piccole cose come
quella e così gli disse come fuggire e come arrivare a un cottage lì vicino
che Fielding aveva in affitto per i suoi incontri sessuali occasionali con al-
cune pazienti ritardate dell'ospedale.
Fu quella sera che decise come avrebbe potuto sfruttare al meglio quel-
l'uomo.
Hartford, poi Boston, poi White Plains, poi Philadelphia. Delitti perfetti.
E ora era a Washington.
A commettere quello che si stava rivelando il delitto più perfetto di tutti
(anche se, pensò, un linguista come Parker Kincaid si sarebbe preoccupato
per il superlativo scorretto).
Negli ultimi sei mesi aveva trascorso quasi diciotto ore al giorno pianifi-
cando il ricatto. Lentamente era riuscito a penetrare la barriera di sicurezza
dell'FBI, fingendosi il giovane detective Len Hardy del reparto Ricerche e
Statistiche del dipartimento di Polizia. Inizialmente si era infiltrato nell'uf-
ficio operativo dell'FBI di Washington perché era l'ufficio che aveva la
giurisdizione sui crimini più gravi commessi nel distretto. Aveva conosciu-
to Ron Cohen, l'agente speciale incaricato, e i suoi assistenti. Aveva sco-
perto quando Cohen sarebbe andato in vacanza e quale dei suoi sottoposti
sarebbe stato responsabile del caso del Becchino. E si trattava, ovviamen-
te, di Margaret Lukas, la cui vita aveva invaso con inesorabile determina-
zione mentre si faceva strada all'interno dell'FBI.
Passando la maggior parte del tempo nelle sale riunioni e a copiare vo-
luminose statistiche sui crimini per i suoi rapporti fasulli, di tanto in tanto
si allontanava verso le macchinette distributrici di bevande e gli spogliatoi,
lanciando occhiate furtive ai memorandum interni, agli elenchi telefonici e
ai manuali delle procedure. Nel frattempo, a casa e nel suo covo di Grave-
send passava il tempo navigando in Internet nei siti delle istituzioni gover-
native, esaminando le procedure della polizia e i sistemi di sicurezza (e sì,
caro Parker, anche i dialetti stranieri).
Aveva effettuato centinaia di chiamate ad arredatori d'interni che aveva-
no lavorato al quartier generale dell'FBI, alla GSA, agli uscieri in pensio-
ne, ai titolari degli appalti esterni, agli specialisti della sicurezza facendo
domande innocenti, parlando di finte riunioni di impiegati, discutendo di
fatture immaginarie. E solitamente riusciva a ricavarne un'informazione
importante: per esempio sulla disposizione del palazzo del quartier genera-
le, sul personale presente durante i giorni festivi, sulle entrate e sulle uscite
dell'edificio. Aveva scoperto la marca e l'ubicazione generale delle teleca-
mere di sorveglianza. Il numero e la posizione delle guardie. I sistemi di
comunicazione.
Era stato un lavoro duro, durissimo. Ma la perfezione richiede pazienza.
E, quando aveva creduto di avere informazioni sufficienti, era arrivata la
parte davvero rischiosa, quella dell'inganno. Si era presentato alla porta
dell'FBI quella mattina dopo la sparatoria nella metropolitana, assumendo
un'aria indignata per essere l'ultima ruota del carro delle indagini. Altri a-
genti avrebbero controllato e ricontrollato le sue credenziali e avrebbero
chiamato la centrale di polizia. Ma non Margaret Lukas, la povera vedova
senza bambino. Perché lì c'era Len Hardy, che di lì a poco sarebbe diventa-
to un vedovo senza bambini, schiacciato dallo stesso dolore con cui lei a-
veva lottato cinque anni prima.
Ovvio che l'avesse accettato nella squadra senza dire una parola.
E non avevano mai sospettato niente di lui.
Proprio come aveva immaginato.
Perché Edward Fielding sapeva che la lotta al crimine era ormai di perti-
nenza degli scienziati. Persino gli psicologi che stilavano i profili delle
menti criminali adoperavano formule per categorizzare le loro prede. No-
nostante ciò, il criminale in persona - l'essere umano - veniva spesso preso
in scarsa considerazione. Oh, sapeva benissimo che gli agenti avrebbero
concentrato tutti i loro sforzi sulla lettera di estorsione, sulla linguistica,
sulla calligrafia, sulle prove materiali, sui programmi dei loro computer e
sulle loro attrezzature di lusso... e non si sarebbero mai accorti che l'uomo
che stavano cercando era letteralmente a un passo da loro.
Arrivò all'ascensore. La cabina giunse al piano e Fielding entrò. Ma non
premette il pulsante del settimo piano per andare al laboratorio della divi-
sione Documenti. Premette il tasto 1B.
La cabina cominciò a scendere.

La sala delle prove dell'FBI è il magazzino medico-legale più grande


della nazione.
Viene gestita ventiquattr'ore su ventiquattro e solitamente ci sono un
paio di civili sempre in servizio per collaborare con gli agenti nella catalo-
gazione delle prove e a volte per aiutarli a portare gli oggetti più pesanti
nell'area interna o per guidare le automobili e i furgoni confiscati e persino
imbarcazioni e rimorchi nel grosso magazzino comunicante.
Quella notte, però, gli agenti in servizio erano tre, una decisione che era
stata presa dal vicedirettore e da Margaret Lukas. A causa del valore di una
particolare prova custodita momentaneamente nel sotterraneo.
Ma, essendo un giorno di festa, i due uomini e la donna erano decisa-
mente su di giri. Se ne stavano comodamente seduti dietro il vetro dell'uf-
ficio registrazioni, bevendo caffè e parlando del campionato di pallacane-
stro. I due uomini erano di spalle.
«A me Rodman piace», disse uno dei due.
«Oh, per favore!» esclamò l'altro.
«Salve», li salutò Edward Fielding, avvicinandosi al vetro.
«Ehi, ha sentito cos'è successo con quel tizio al Mall?» gli chiese la don-
na.
«No», rispose Fielding, e le sparò in testa.
Gli altri due morirono mentre tentavano di prendere le armi. Soltanto
uno dei due era riuscito a estrarre la sua Sig-Sauer dalla fondina.
Fielding allungò una mano oltre il vetro e si aprì la porta.
Contò otto telecamere puntate verso il vetro, verso gli scaffali e verso il
caveau. Ma inviavano le loro immagini alla postazione di guardia del terzo
piano, dove non c'era nessuno abbastanza vivo da poter assistere allo svol-
gimento del delitto perfetto.
Fielding prese le chiavi dalla cintura della donna morta e aprì il caveau.
Era un locale molto ampio, circa sette metri per dieci, in cui gli agenti im-
magazzinavano la droga e il denaro sequestrati nel corso delle azioni. Nei
mesi di ricerche per preparare l'estorsione, Fielding aveva scoperto che i
pubblici accusatori sono obbligati a presentare alla giuria proprio il denaro
sequestrato durante un blitz antidroga o un rapimento. Quello era uno dei
motivi per cui gli agenti avrebbero portato lì i soldi del riscatto. L'altro mo-
tivo era una cosa che Fielding aveva previsto; ossia che il sindaco Ken-
nedy, di cui lui aveva steso un accurato profilo psicologico, avrebbe voluto
tenere il denaro disponibile nel caso che il Becchino lo contattasse e deci-
desse di accettare l'offerta.
E infatti, eccoli. I soldi.
Perfetto...
Un'enorme borsa di tela verde. Dalla cinghia pendeva un'etichetta rossa:
«Prova federale. Non rimuovere».
Guardò l'orologio. Calcolò di avere venti minuti di tempo prima che Ca-
ge, Kincaid e gli altri agenti tornassero dal Mall dopo lo scontro a fuoco
con il Becchino.
Molto tempo. Se si fosse mosso alla svelta.
Fielding aprì la cerniera della borsa - non era chiusa a chiave - e rove-
sciò il contante sul pavimento. La borsa era stata trattata con diversi dispo-
sitivi di puntamento, proprio come lui aveva immaginato. Anche le fascet-
te delle banconote, aveva scoperto - un trucco a cui non aveva pensato. Si
domandò se per caso anche qualche banconota singola fosse stata modifi-
cata. Ne dubitava: Geller non aveva mai detto nulla in proposito. Ciò no-
nostante, per essere sicuro, si infilò una mano in tasca e prese un piccolo
strumento argenteo - un Trans-detect, uno scanner in grado di rilevare an-
che il più debole segnale di trasmissione, di qualsiasi lunghezza d'onda es-
so fosse, dalla luce visibile all'infrarosso alle onde radio. Lo fece scorrere
sulla pila di denaro, nel caso che i tecnici dell'FBI fossero riusciti a piazza-
re un trasmettitore dentro la filigrana di una delle banconote. Ma non c'era
alcun segnale in uscita.
Fielding gettò via il sensore - non ne aveva più bisogno - e prese uno
zaino di seta da sotto la camicia. Era fatto con stoffa per paracadute, e l'a-
veva cucito lui stesso. Cominciò a infilarci il denaro.
Aveva chiesto venti milioni di dollari perché era una somma credibile
per un piano come quello, e anche per dare una qualche plausibilità al mo-
vente assurdo della vendetta per la guerra del Vietnam. Fielding, però, sa-
rebbe stato in grado di portare soltanto quattro milioni, il cui peso era di
circa trentacinque chili. Essendo poco atletico, si era allenato in una pale-
stra di Bethesda, nel Maryland, per sei settimane dopo essere arrivato nella
zona in modo da essere abbastanza forte da trasportare il denaro.
Le banconote da cento dollari erano tutte rintracciabili, naturalmente (ri-
salire al denaro era facile, ora, grazie agli scanner e ai computer). Ma Fiel-
ding ci aveva pensato. In Brasile, dove sarebbe stato di lì a pochi giorni, i
quattro milioni in banconote rintracciabili sarebbero diventati tre milioni e
duecentomila dollari in oro. Che, a loro volta, si sarebbero ritrasformati in
tre milioni e duecentomila dollari americani ed Euro non più rintracciabili.
E, nei pochi anni seguenti, sarebbero tornati a essere quattro milioni e
anche di più, tassi bancari permettendo.
Fielding non aveva alcun rimpianto a lasciare lì il resto dei soldi. Il cri-
mine non può essere spinto dall'avidità; dev'essere una questione di abilità,
nient'altro.
Infilò il contante nello zaino e se lo gettò sulla spalla.
Imboccò il corridoio, barcollando sotto il peso delle banconote, diretto
verso l'ascensore.
Avrebbe dovuto uccidere la guardia alla porta principale, pensò, così
come qualunque altro membro della squadra che si fosse trovato ancora lì.
Tobe Geller era andato a casa. Ma Lukas era ancora all'interno dell'edifi-
cio. Lei doveva proprio morire. In altre circostanze, ucciderla o meno sa-
rebbe stato irrilevante - era stato molto cauto a nascondere la propria vera
identità e il luogo in cui abitava. Ma gli agenti erano stati molto più bravi
di quanto si fosse aspettato. Mio Dio, erano davvero riusciti a trovare il
suo covo a Gravesend e la cosa l'aveva scosso profondamente. Non aveva
mai immaginato che potessero riuscirci. Aveva fatto in modo di restare nel
furgone insieme a Geller ed Evans e di non uscire per nessun motivo: un
passante avrebbe potuto riconoscere in lui l'uomo che abitava nell'appar-
tamento. Fortunatamente, l'uomo che aveva pagato per consegnare la lette-
ra - Gilbert Havel - era stato nel covo svariate volte, così i vicini avrebbero
visto la sua fotografia in mano ai poliziotti e avrebbero dato per scontato
che fosse lui l'affittuario dell'appartamento, rafforzando la convinzione de-
gli agenti che fosse Havel il genio del crimine.
E poi avevano quasi scoperto che il Ritzy Lady era il luogo del terzo at-
tacco... Era rimasto seduto in preda all'orrore mentre il computer assem-
blava i frammenti del biglietto trovato nel covo. Aveva aspettato il mo-
mento giusto e poi aveva detto: «Ritz. Forse il Ritz Carlton?» E, non appe-
na gli altri avevano sentito le sue parole, la soluzione dell'enigma non era
più stata cercata. Sarebbe stato praticamente impossibile pensare a un'al-
ternativa.
È così che si risolvono gli enigmi, vero Parker?
E lui? Parker Kincaid?
Oh, lui era davvero troppo furbo, troppo per rischiare di tenerlo in vita.
Con un po' di fortuna, magari, Kincaid poteva essere una delle vittime del
Becchino al Mall. Fielding aveva detto al killer di passare dagli alberi e di
arrivare al monumento ai caduti da ovest. Ovvero il punto esatto in cui si
aspettava che fossero Parker, Cage e gli altri agenti.
Mentre camminava lentamente nei corridoi deserti pensò che, se lui era
il criminale perfetto, Kincaid era il perfetto investigatore.
Che cosa succede quando due perfetti opposti si incontrano?
Ma quella era una domanda retorica, non un enigma da risolvere, e Fiel-
ding non perse tempo a cercare una risposta. Giunse all'ascensore e pre-
mette il pulsante di salita.

31
00,45

Margaret Lukas spalancò la porta del laboratorio. Guardò dentro. «Ehi-


là? Dottor Evans?» Nessuna risposta.
Dov'era lo psicologo? si domandò.
Si fermò davanti al tavolo e guardò la lettera di estorsione.
La fine...
E pensò: Forse Parker Kincaid non aveva del tutto ragione quando ha
detto che nessuno farebbe un errore del genere.
In un certo qual modo, la fine è la notte. Oscurità e sonno e pace.
Notte, prendimi. Oscurità, prendimi...
Ecco che cosa aveva pensato tempo prima quando aveva ricevuto la tele-
fonata di sua suocera che le comunicava dell'incidente in cui Tom e Joey
avevano perso la vita. Sdraiata sul letto in quella ventosa notte di novem-
bre, o due o tre notti dopo - ora era tutto confuso - da sola, incapace di re-
spirare, incapace di gridare.
Ripetendo tra sé continuamente, come un mantra: Notte, prendimi, ti
prego. Notte, prendimi...
Ora era china sul tavolo, fissando la lettera, le corte ciocche bionde che
le ricadevano sul viso come i paraocchi di un cavallo. Fissava le parole nel
loro insieme, gli arzigogoli delle singole lettere. Ricordò di aver osservato
Kincaid mentre studiava la lettera, le labbra che si muovevano impercetti-
bilmente come se stesse interrogando un sospettato.

Scuotendo il capo per il suo stesso umore morbosamente filosofico, si


voltò e uscì dal laboratorio.
Si incamminò verso l'ascensore. Forse il dottor Evans stava aspettando
al posto di guardia. Guardò distrattamente la luce dell'indicatore che se-
gnalava l'ascensore in salita.
I corridoi erano deserti e Margaret era consapevole dei piccoli rumori ti-
pici di ogni edificio vuoto di notte. L'ufficio operativo, dove lavorava, era
situato vicino al Municipio, ad alcuni isolati di distanza, e lei non veniva lì
molto spesso. Il quartier generale non le piaceva. Era troppo grande. E,
quella notte, il palazzo era buio e inquietante. Ricordò Kincaid che proiet-
tava la lettera su uno schermo nel laboratorio, e ricordò che cosa aveva
pensato lei in quel momento: Assomiglia a un fantasma.
E ora sentiva la presenza di altri fantasmi, proprio lì in quei corridoi. I
fantasmi degli agenti uccisi in servizio. I fantasmi delle vittime dei crimini
su cui lì si investigava.
E i suoi fantasmi personali? pensò. Oh, quelli erano con lei sempre. Tut-
to il tempo. Suo marito e suo figlio. Non l'abbandonavano mai. Né lei vo-
leva che l'abbandonassero. La bambina scambiata aveva bisogno di qual-
cosa che le ricordasse Jackie.
Abbassò lo sguardo sul pavimento di fronte all'ascensore. C'era una
macchia scura. Che cos'era? Sentì odore di caffè. Doveva essere quello.
La luce dell'ascensore si accese e un campanello risuonò nel silenzio. Le
porte della cabina si aprirono. Qualcuno uscì.
«Oh, ciao», disse Lukas. «Ho delle novità per te.»
«Ehilà, Margaret», fece Susan Nance. Aveva sottobraccio una decina di
cartellette. «Che succede?»
«L'hanno appena inchiodato. L'hanno beccato al Mall.»
«Il killer del metro?»
«Già.»
La donna alzò i pollici. «Fantastico. Ah, buon anno.»
«Anche a te.»
Lukas prese l'ascensore e scese al pianoterra.
Al posto di guardia di fronte all'ingresso degli impiegati, Artie sollevò lo
sguardo, la vide e la salutò con un sorriso.
«Quel dottor Evans», domandò lei, «ha firmato per uscire?»
«No. Non l'ho visto», rispose Artie.
Margaret sospirò. L'avrebbe aspettato li. Si sedette in una delle comode
poltrone dell'atrio. Vi si lasciò affondare. Si sentiva esausta. Voleva andare
a casa. Sapeva che, alle sue spalle, la gente diceva che doveva essere pro-
prio triste - una donna che viveva da sola. Ma non era triste per niente.
Tornare nel grembo accogliente della sua casa era molto, ma molto meglio
che starsene seduta in un bar con le amiche o uscire per un appuntamento
con un membro della schiera pressoché infinita di uomini disponibili di
Washington.
Casa...
Pensò al rapporto che avrebbe dovuto scrivere sulla faccenda.
Pensò a Parker Kincaid.
Focalizza, disse a se stessa.
Poi si ricordò che non era più necessario che lo facesse.
Parker voleva chiederle di uscire. Margaret lo sapeva. Lo sapeva per i-
stinto.
Ma aveva già deciso di dirgli di no. Era un uomo piacente, energico,
pieno di amore per i bambini e per la vita domestica. L'idea era davvero al-
lettante. Ma no, non poteva infliggergli se stessa, non poteva infliggergli il
dolore che era convinta di irradiare intorno a sé come fumo da un pezzo di
carbone bagnato.
Forse Jackie Lukas avrebbe avuto una possibilità con un uomo come
Kincaid. Ma una bambina scambiata come Margaret no, non l'avrebbe avu-
ta mai.
Artie sollevò lo sguardo dal giornale che stava leggendo. «Ah, quasi di-
menticavo... Buon anno, agente Lukas.»
«Buon anno anche a te, Artie.»
Mentre il Becchino fumava spandendo intorno un odore acre e terribile e
i pompieri spruzzavano schiuma sul ciliegio bruciacchiato, mentre la folla
circondava il pullman incendiato, Parker e Cage erano l'uno accanto all'al-
tro.
Il Becchino è andato. Meno male.
I versi del dottor Seuss si rincorrevano nella mente di Parker come le sue
creature bizzarre.
Diede la colpa di quella ossessione a un cocktail di stanchezza e adrena-
lina.
Chiamò i Chi e promise loro che sarebbe stato a casa entro mezz'ora.
Robby raccontò a suo padre della tromba ad aria compressa che Drew ave-
va suonato a mezzanotte, svegliando i Bradley in fondo alla strada e pro-
vocando una piccola rivolta fra i vicini. Stephie descrisse le girandole in
giardino con aggettivi ansimanti e assonnati.
«Ti voglio bene, Chi», disse Parker. «Sarò a casa presto.»
«Anch'io ti voglio bene, papino», rispose la bambina. «Come sta il tuo
amico?»
«Si rimetterà presto.»
Cage stava parlando con un tecnico del PERT e Parker si stava spostan-
do per evitare il fumo del pullman che il vento gli spingeva addosso. C'era
un odore spiacevole, peggiore di quello della gomma bruciata dei pneuma-
tici. Parker sapeva di che si trattava e il pensiero di inalare anche una sola
particella del cadavere del Becchino gli dava la nausea.
Con uno psicopatico morto che fumava di fronte a lui, Parker si trovava
alla fine di una serata come mai ne aveva vissute. Ciò nonostante, erano le
cose più ordinarie quelle che passavano per la sua mente. Maledizione,
pensò in quel momento, non ho abbastanza contante per pagare la signora
Cavanaugh. Si frugò in tasca e prese un piccolo fascio di banconote. Ven-
tidue dollari. Non erano sufficienti. Avrebbe dovuto fermarsi a un Banco-
mat prima di tornare a casa.
Guardò un pezzo di carta mescolato alle banconote. Era la trascrizione
delle parole del sosco che avevano trovato qualche ora prima sul taccuino
giallo bruciato. I riferimenti agli ultimi due bersagli del killer che Tobe
Geller aveva salvato dall'incendio dell'appartamento.
... tre chilometri a sud. II R...
... posto dove ti ho portato/il nero...
«Che cos'è?» gli domandò Cage, tenendosi la costola rotta.
«Un ricordo», rispose Parker, guardando attentamente le parole. «Sol-
tanto un ricordo.»

Edward Fielding si fermò alla fine del corridoio, ansimando sotto il peso
del denaro che aveva sulla schiena.
Guardò verso la reception a dieci metri di distanza e vide i corti capelli
biondi di Margaret Lukas. Alle spalle della donna, la guardia notturna sta-
va leggendo il giornale. Nel corridoio le luci erano spente, e, se anche si
fossero voltati verso di lui, sarebbe stato difficile vederlo con chiarezza.
Dopo essersi sistemato il denaro sulle spalle in una posizione più como-
da, strinse la pistola con la mano destra e si incamminò verso l'atrio. Le
sue suole di cuoio picchiettavano debolmente le piastrelle. Notò che Lukas
era girata dall'altra parte. Le avrebbe piazzato una pallottola nella nuca.
Poi, quando la guardia avesse sollevato lo sguardo, avrebbe ucciso anche
lui.
E poi, finalmente a casa, libero.
Tap top tap.
Diminuì la distanza tra sé e i suoi bersagli.
Perfetto...

32
00,55

Margaret Lukas, fissando l'albero di Natale nell'atrio, si stiracchiò come


una gatta. Ascoltò distrattamente i passi che si avvicinavano dal corridoio
alle sue spalle.
Due settimane prima, l'entrata era stata riempita dai regali che gli agenti
e gli impiegati civili avevano donato per le famiglie di senzatetto. Marga-
ret si era offerta volontaria per consegnare alcuni giocattoli il giorno di Na-
tale, ma all'ultimo minuto aveva disdetto l'impegno e, invece, aveva lavo-
rato dodici ore, indagando sull'uccisione di un uomo di colore da parte di
due bianchi nel quadrante sud-est di Washington.
Tap, tap, tap...
Ora rimpiangeva di aver cancellato l'impegno. Quel giorno aveva pensa-
to che donare giocattoli fosse una cosa frivola se paragonata al lavoro «se-
rio». Ora, però, era in grado di ammettere con se stessa che il pensiero di
incontrare dei bambini durante le feste natalizie era più difficile da affron-
tare per lei dell'irruzione in casa di un pazzo razzista a Manassas Park.
Codarda, disse a se stessa.
Tap, tap, tap...
Guardò fuori dall'ampia vetrata. Folla, gente che tornava dal Mall. Pensò
al Becchino. Si chiese com'era andata la sparatoria, chi aveva sparato i
colpi che l'avevano ucciso. Era stata coinvolta in due scontri a fuoco, nella
sua carriera, e ciò che ricordava era principalmente la confusione. Era così
diverso da quello che si vedeva nei film. Non c'era mai nessuna sensazione
di vivere al rallentatore: una sparatoria in tempo reale erano cinque secondi
confusi di caos terrificante e poi niente.
Le immagini più vivide appartenevano al dopo: preoccuparsi dei feriti e
rimuovere i cadaveri.
Un telefono ronzò, distraendola dai suoi pensieri.
Di fronte a lei, Artie rispose e Margaret rimase a guardare distratta la sua
faccia da orso.
«Reception... Oh, salve, agente Cage.»
Improvvisamente, la guardia si accigliò. Guardò Lukas, poi alle sue
spalle. Sgranò gli occhi. «Be'», disse a disagio. «Il detective Hardy?... Lui
è chi? Cosa intende dire?... Ma è proprio qui, è... Oh, Cristo.»
Artie lasciò cadere il telefono, annaspando nel tentativo di estrarre la pi-
stola.
Tap tap taptaptaptap...
Istintivamente Lukas si rese conto che i passi - che ora correvano verso
di loro - erano quelli di un aggressore. Si buttò in avanti proprio mentre i
colpi sparati con il silenziatore si conficcavano nello schienale della pol-
trona su cui era seduta fino a un istante prima, strappando la fodera e man-
dando lembi di imbottitura a volare nell'aria.
Si guardò alle spalle, voltandosi mentre arrancava in cerca di riparo die-
tro una pianta.
Era... Aspetta, non era possibile! Era Hardy.
Sparando all'impazzata, Artie gridò: «È lui! È lui il killer... Lui... Oh,
mio... Oh, no...» L'uomo si guardò il petto. Era stato colpito. Crollò in gi-
nocchio e cadde dietro la scrivania.
Un altro proiettile si piantò nello schienale della poltrona, vicino alla te-
sta di Lukas. Margaret si raggomitolò, cercando di rifugiarsi dietro il tron-
co asfittico della palma che così tanti agenti deridevano ogni mattina.
Strinse i denti quando un proiettile venne deviato sonoramente dal vaso
metallico.
Si muoveva automaticamente. Non tentò nemmeno di immaginare che
cosa era accaduto o chi fosse in realtà l'uomo che aveva di fronte. Sollevò
rapidamente lo sguardo in cerca di un bersaglio, ma dovette abbassarsi
immediatamente quando un altro proiettile tranciò le spesse foglie verdi a
pochi centimetri dalla sua testa. Rotolò alla propria sinistra, contro il muro,
si alzò e prese la mira. In una frazione di secondo controllò il corridoio alle
spalle di Hardy e sparò tre colpi in rapida successione.
I pesanti proiettili calibro 10 lo mancarono di un soffio, staccando grossi
pezzi di intonaco dalle pareti. Hardy sparò altre due volte, quindi svanì nel
buio.
Margaret corse alla parete accanto al corridoio e vi si appoggiò contro
con la schiena.
I passi si stavano allontanando.
Un'altra voce all'estremità opposta del corridoio chiamò: «Cosa sta suc-
cedendo? Che succede?»
Da qualche parte lungo il corridoio buio una porta sbatté.
Lukas guardò rapidamente oltre l'angolo e tornò al riparo. Aveva visto la
sagoma di un uomo in fondo al corridoio. Si sdraiò sulla pancia, prese di
mira la sagoma e gridò: «Sono un agente federale! Identificatevi o sparo!»
«Ted Yan», gridò l'uomo. «Analisi Software.»
Lukas lo conosceva. Era un amico di Tobe Geller, un agente. Ma pensò:
Grandioso, ho un maniaco dei computer come rinforzo.
«Sei solo?» gridò.
«Io...»
Silenzio.
«Ted?»
«No. Siamo in due... Susan Nance è qui con me.»
«Oh, Margaret», disse la voce di Susan, incrinata dalla tensione. «Ha
colpito Louise al Centro di Sicurezza. È morta. E anche Phelps.»
Cristo. Che cosa stava succedendo?
Ted disse: «Siamo vicino a...»
«Okay, fate silenzio», latrò Lukas. «Non date la vostra posizione. Qual-
cuno vi ha oltrepassato?»
«No», rispose Ted. «Non può essermi passato vicino. Ho sentito una
porta sbattere qui in corridoio. È da qualche parte tra noi e lei, agente Lu-
kas.»
«Copritemi», gridò Margaret.
Guardandosi alle spalle, Lukas corse alla postazione di guardia. Artie era
privo di sensi, ma non stava perdendo molto sangue. Margaret prese il tele-
fono, ma Cage non era più in linea. Premette il 911, si identificò come a-
gente del dipartimento di Giustizia e chiamò un Codice 42 al quartier ge-
nerale dell'FBI.
A quanto ne sapeva, nessuno aveva mai fatto una cosa del genere in tutta
la storia dell'FBI. Significava un assalto al quartier generale. Era diventata
una battuta nel corso degli anni: quando qualcuno «faceva un quaranta-
due» significava che aveva combinato un casino di quelli seri.
«Siete armati?» gridò.
«Ordinanza», rispose Ted. «Entrambi.»
Voleva dire che avevano la loro Glock o Sig-Sauer di servizio. Lukas
pensò all'MP-5 che aveva nel retro del furgone. Avrebbe dato qualunque
cosa per avere l'arma con sé, ma ora non c'era il tempo per andare a pren-
derla.
Scrutò il corridoio, che era sempre deserto.
Otto porte. Cinque sulla destra, tre sulla sinistra.
Lui era dietro una di esse.
Ecco un enigma per te, Parker. Qual è la porta che conduce al nostro
Giuda?
Tre falchi stanno uccidendo le galline di un contadino...
Tenendo la pistola davanti a sé, cominciò lentamente ad avanzare. Vide
le sagome dei due agenti all'altra estremità del corridoio. Facendo segnali
con la mano, fece loro capire di spostarsi di lato, dietro l'angolo. Se Hardy
fosse uscito da una delle porte, lei avrebbe avuto dei problemi a prendere
la mira con Ted e Nance sulla linea di tiro. Anche loro avrebbero avuto lo
stesso problema... potevano esitare prima di sparare a Hardy per timore di
colpire lei. Se fosse stata da sola, avrebbe perso il vantaggio del fuoco in-
crociato, ma avrebbe potuto sparare liberamente se Hardy avesse tentato di
fuggire.
Avanzò lungo il corridoio.
Quale porta? si chiese.
Pensa... avanti! Pensa!
Se Hardy aveva un buon senso dell'orientamento avrebbe saputo che i
cinque uffici alla sua destra erano quelli più esterni: non avrebbe scelto
nessuno di quelli a sinistra perché avrebbe rischiato di restare intrappolato
all'interno dell'edificio.
Okay, pensò Margaret, ci limiteremo alle porte sul lato destro.
Di quelle, due erano contrassegnate dalla scritta «Accoglienza» - l'eufe-
mismo per le stanze da interrogatorio simili a quella in cui avevano incon-
trato Henry Czisman. Hardy poteva logicamente dubitare che l'FBI avesse
stanze di accoglienza; poteva immaginare che avessero qualcosa a che fare
con la sicurezza e che, di conseguenza, non avessero accesso all'esterno -
infatti erano prive di finestre.
La porta di mezzo era contrassegnata dalla scritta «Manutenzione». Lu-
kas non sapeva esattamente dove conducesse, ma supponeva che fosse il
ripostiglio di un inserviente senza altre uscite e immaginò che Hardy fosse
arrivato alla stessa conclusione.
Quindi restavano due porte. Entrambe senza targa ed entrambe - questo
lo sapeva - appartenenti a uffici destinati temporaneamente a operatori di
computer. Tutte e due le stanze avevano finestre che davano sulla strada.
Uno era l'ufficio più vicino alla zona della reception. L'altro era il più vici-
no a Ted e Nance.
Perché tanta fretta? pensò. Non devo fare altro che aspettare i rinforzi.
Ma Hardy poteva già essere al lavoro nel tentativo di aprire una delle fi-
nestre, poteva essere vicino alla fuga. Lukas non poteva rischiare che gli
sfuggisse.
Quale delle due porte?
Fece la sua scelta: la porta più vicina all'atrio d'ingresso. Aveva senso.
Hardy non avrebbe corso dieci o dodici metri lungo il corridoio con un a-
gente armato alle spalle prima di trovare riparo.
Una volta presa la decisione, Margaret dimenticò tutte le altre opzioni.
Gli enigmi sono sempre facili quando si conosce la risposta. Proprio
come la vita, no?
Tentò di abbassare la maniglia. Ma la porta era chiusa a chiave.
Erano sempre chiuse? si domandò. O era stato lui a chiuderla dall'inter-
no?
No, era stato lui. Doveva essere là dentro. Dove altro sarebbe potuto an-
dare? Corse al posto di guardia, prese le chiavi dalla cintura di Artie, tornò
sui propri passi. Infilò la chiave nella serratura il più silenziosamente pos-
sibile.
Abbassò la maniglia.
Che scattò con un rumore allarmante.
Maledizione. A questo punto potevo anche gridare: Eccomi, sto arri-
vando!
Uno, due...
Respira profondamente.
Pensò a suo figlio, a suo marito.
Ti voglio bene mamma...
E spinse rapidamente la porta.
Accovacciata, la pistola davanti a sé, il dito premuto sul duro grilletto
della Glock.
Niente...
Lui non c'era.
Aspetta... la scrivania... era l'unico pezzo di arredamento dietro cui a-
vrebbe potuto nascondersi.
Lukas vi girò intorno, muovendo la pistola davanti a sé.
Niente.
Maledizione, aveva sbagliato. Hardy era entrato nell'altra porta, quella
più lontana.
Poi, con la coda dell'occhio, una sensazione di movimento.
La porta di fronte a quella in cui era entrata - un'altra porta con la targa
«Manutenzione» - si era leggermente socchiusa. La canna di una pistola
con il silenziatore si stava abbassando verso di lei.
«Margaret!» gridò la voce di Susan Nance dal fondo del corridoio. Poi:
«Tu! Fermo dove sei!»
Lukas si gettò a terra, mentre la pistola di Hardy sparava due volte.
Ma non stava mirando a lei. I proiettili erano diretti alla vetrata alle sue
spalle. La finestra si frantumò in mille pezzi.
Nance sparò tre colpi, ma mancò il bersaglio, mentre Hardy, che correva
in modo strano a causa di un grosso zaino che aveva sulle spalle, attraver-
sava il corridoio ed entrava nell'ufficio in cui era Margaret. Sparò alla cie-
ca nella sua direzione, obbligandola a ripararsi dietro la scrivania. Lukas
rotolò sul pavimento. I proiettili si conficcarono nella scrivania e Hardy
saltò fuori dalla finestra sulla tettoia che dava sulla Nona Strada. Da lì bal-
zò sul marciapiede. Lukas rispose al fuoco, ma non riuscì a colpirlo.
Si alzò e corse alla finestra.
Aveva capito che cosa era successo: Hardy aveva tentato di aprire la
porta sul lato esterno dell'edificio e l'aveva trovata chiusa. Aveva aspettato
nel ripostiglio dall'altro lato del corridoio, anticipando le sue mosse - aveva
immaginato che probabilmente lei avrebbe scelto proprio quella porta. L'a-
veva usata per farsela aprire.
Si era sbagliata completamente.
Mira il falco più a sinistra, spara e lo uccide...
In piedi vicino al vetro accanto alla balconata, Margaret guardò la strada,
ma non vide nessuna traccia di Hardy.
Il proiettile non rimbalza...
Tutto ciò che vide fu un'immensa folla che tornava dai fuochi d'artificio
e fissava sorpresa la finestra in frantumi che incorniciava la bella donna
bionda con la pistola in mano.
Quanti falchi rimangono sul tetto?

33
01,10

Parker e Cage erano di nuovo nel laboratorio della divisione Documenti.


Questa volta con loro c'era anche il vicedirettore.
«Sei morti», mormorò quest'ultimo. «Dio onnipotente. Dentro il quartier
generale.»
Il dottor John Evans, colpito da due proiettili al volto, era stato trovato in
un ripostiglio del settimo piano. Artie, la guardia all'ingresso, era ferito
gravemente, ma sarebbe sopravvissuto.
«Chi diavolo è?» domandò il direttore.
L'uomo che aveva finto di essere Hardy aveva lasciato delle impronte
digitali che in quel momento erano sottoposte a confronto con il database
AFIS. Se le sue impronte erano schedate da qualche parte l'avrebbero sa-
puto al più presto.
Lukas aprì la porta. Parker si allarmò vedendo uno schizzo di sangue
sulla sua guancia.
«Stai bene?» le domandò.
«È sangue di Artie», rispose lei con un filo di voce. «Non è mio.» Guar-
dò Parker e Cage per un lungo istante. Le pietre non erano più nei suoi oc-
chi, ma Parker non riusciva a capire a che cosa avessero lasciato il posto.
«Come facevate a saperlo?»
Cage guardò Parker. «È stato lui a capirlo.»
«Il tremito», rispose Parker. Le mostrò il foglio di carta che si era trova-
to in tasca quando aveva cercato i soldi per pagare la signora Cavanaugh.
«Ho notato del tremito nella sua calligrafia. È quello che succede quando
qualcuno tenta di camuffare la propria scrittura. Mi sono ricordato che era
stato Hardy a scrivere ciò che io dettavo, ma perché avrebbe dovuto altera-
re la sua calligrafia? C'era soltanto un motivo: perché era stato lui a scrive-
re la lettera di estorsione. Ho controllato le i minuscole in 'tre chilometri' e
il puntino era una lacrima del diavolo. Il che significava che era stato pro-
prio Hardy a scrivere la lettera.»
«Cos'è successo?» domandò il vicedirettore. «Il direttore vuole saperlo.
Immediatamente.»
«È stata tutta una messinscena», spiegò Parker, camminando avanti e in-
dietro. Da qualche parte nella sua mente, tutto lo schema stava andando al
suo posto, fino al minimo particolare. «Come ha fatto a farsi coinvolgere
nel caso?» domandò a Lukas.
«Lo conoscevo», rispose lei. «Negli ultimi due o tre mesi veniva spesso
nel mio ufficio. Mostrava il tesserino e diceva di aver bisogno di qualche
statistica sui crimini nel distretto per un rapporto da presentare al Congres-
so. Il reparto Ricerche e Statistiche del dipartimento di Polizia del distretto
lo fa un paio di volte l'anno. Sono tutte informazioni di dominio pubblico -
nessuna investigazione in corso - cosi nessuno si è preso la briga di con-
trollare. Stamattina è arrivato e ha detto che era stato assegnato al caso in
qualità di collegamento.»
«Ed è uno di quei reparti oscuri», commentò Parker. «Così, se anche il
sindaco o il capo della polizia avessero mandato davvero qualcuno dalla
Omicidi o dalla Investigativa per fare da collegamento era probabile che
non conoscessero comunque Len Hardy.»
«Quindi erano due mesi che stava progettando la cosa», intervenne Lu-
kas.
«Probabilmente sei», commentò Parker. «Ha pianificato ogni particola-
re. Era davvero un maledetto perfezionista. Le sue scarpe, le unghie, i ve-
stiti... impeccabile.»
«Ma il tipo all'obitorio», domandò Cage, «quello che credevamo fosse la
mente. Chi è?»
«Un fattorino», rispose Parker. «Qualcuno che Hardy - o come si chiama
- ha assunto per consegnare la lettera.»
«Ma è stato ucciso in un incidente», disse Cage.
«Non è stato un incidente», precisò Lukas, togliendo le parole di bocca a
Parker.
Annuendo, Parker disse: «Hardy l'ha investito con un furgone rubato».
«Così», continuò Lukas, «avremmo pensato che il mandante era morto e
avremmo riportato il denaro nella sala delle prove processuali. Hardy sa-
peva che avevamo messo dei segnalatori nelle banconote. O che avremmo
tentato di catturarlo mentre le ritirava.»
Cage, con una smorfia di dolore per la costola rotta, disse: «Ha lasciato
la borsa trasmittente di sotto. Ha messo i soldi da un'altra parte. E ha anche
tolto le fascette preparate da Geller».
«Ma ci ha dato le informazioni sul Becchino, no?» domandò il vicediret-
tore. «È stato per merito suo che abbiamo fermato il killer prima che po-
tesse fare dei danni gravi.»
«Be', naturalmente», disse Parker, sorpreso che gli altri non ci fossero
arrivati.
«Cosa intende dire?» domandò il vicedirettore.
«È per questo motivo che ha scelto il monumento ai caduti del Vietnam.
Non è lontano da qui. Sapeva che saremmo stati a corto di uomini e che
avremmo praticamente svuotato l'edificio per mandare tutti fuori a cercare
il Becchino.»
«Così avrebbe potuto tranquillamente entrare nel magazzino delle prove
e prendere i soldi», disse Lukas in tono amaro. «È proprio come aveva det-
to Evans. Aveva previsto tutto. Gli ho fatto presente che avevamo messo
dei trasmettitori nelle borse, ma Evans ha detto che sicuramente aveva un
piano anche per quello.»
Un computer suonò. Cage si chinò e lesse. «È un rapporto AFIS, archivi
VICAP e della polizia del Connecticut. Ci siamo...» Fece scorrere le in-
formazioni. Sullo schermo comparve una fotografia. Era Hardy. «Il suo
vero nome è Edward Fielding, ultimo indirizzo conosciuto Blakesly, Con-
necticut, alle porte di Hartford. Oh, il nostro amico non è certo un bravo
ragazzo. Quattro arresti, una condanna. Ha fatto anche del carcere minori-
le, ma sono informazioni riservate. Ripetuti trattamenti per comportamento
antisociale. È stato prima assistente e poi infermiere al manicomio crimi-
nale di Hartford. Ha lasciato il posto dopo che un'infermiera, che era stato
accusato di aver molestato, è stata trovata pugnalata.»
«L'amministrazione dell'ospedale», continuò Cage leggendo sullo
schermo, «ritiene che Fielding abbia convinto un paziente, David Hughes,
a ucciderla. Hughes aveva subito gravi danni cerebrali in seguito a un col-
po d'arma da fuoco ed era molto suggestionabile. Fielding l'ha aiutato a
fuggire. La commissione ospedaliera e la polizia avevano intenzione di in-
terrogarlo, ma Fielding è scomparso subito dopo. Era l'ottobre dell'anno
scorso.»
«Hughes è il Becchino», annunciò Parker a bassa voce.
«Credi?»
«Ne sono sicuro», continuò lui. «E la sparatoria al giornale di Hartford -
il fatto che ha messo Czisman sulle tracce di Fielding - è avvenuta in no-
vembre.» Ricordò il ritaglio nel libro di Czisman. «È stato il loro primo
crimine. Non hanno perso tempo, eh?»
Resoconto di un dolore...
«Ma perché così tanti morti?» domandò il vicedirettore. «Non può esse-
re soltanto per il denaro. Deve avere qualche inclinazione terroristica.»
«No», disse Parker in tono definitivo. «Il terrorismo non c'entra per nul-
la. Ma lei ha assolutamente ragione. Non ha nulla a che fare con il denaro.
Oh, lo riconosco.»
«Conosce Fielding?»
«No, intendo dire che riconosco il tipo. È come un falsificatore di docu-
menti.»
«Un falsario?»
«I falsari seri si considerano artisti, non criminali. A loro non interessa il
denaro. Il punto è di riuscire a creare un falso tanto perfetto da ingannare
tutti. È questo il loro unico scopo: creare un falso perfetto.»
Lukas annuì. «Quindi gli altri crimini - a Hartford e a Boston e a Phila-
delphia - erano soltanto esercizi. Rubare un orologio, qualche migliaio di
dollari. Era soltanto per perfezionare la sua tecnica.»
«Esattamente. E questo era l'apice. Questa volta ha preso un bel po' di
soldi e si ritirerà a vita privata.»
«Perché lo pensi?» domandò Cage.
Ma Lukas conosceva la risposta. «Perché ha sacrificato il suo tuttofare
per poter fuggire. Ci ha detto dov'era il Becchino.»
«Potrebbe essere stato proprio lui a sparare al Becchino al Mall», ag-
giunse Parker. «Se l'avessero preso vivo, avrebbe potuto parlare.»
«Hardy stava ridendo alle nostre spalle», sbottò Cage, picchiando il pu-
gno sul ripiano della scrivania. Poi fece una smorfia per il dolore che il ge-
sto aveva provocato alla sua cassa toracica. «È rimasto per tutto il tempo
qui seduto con noi, ridendo alle nostre spalle.»
«Ma dov'è ora?» domandò il vicedirettore.
«Oh, avrà sicuramente pianificato la fuga in ogni particolare», fece Par-
ker. «Ha anticipato ogni nostro passo. Sicuramente non inciamperà ora.»
«Possiamo prendere la sua fotografia dai nastri video dell'atrio», li in-
formò Cage. «E mandarla a tutte le emittenti televisive.»
«Alle due del mattino?» si stupì Parker. «E chi guarderà le trasmissioni?
E abbiamo già oltrepassato la chiusura dei giornali. In ogni modo, sarà
fuori dal paese prima dell'alba e sul tavolo operatorio di un chirurgo plasti-
co nel giro di un paio di giorni.»
«Gli aeroporti sono chiusi», fece notare il vicedirettore. «Non può pren-
dere nessun volo fino a domattina. Li faremo sorvegliare.»
«Andrà in macchina a Louisville, o New York, o Atlanta», intervenne
Lukas. «Ma manderemo un bollettino a tutti gli uffici operativi. Agenti in
tutti gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e quelle degli autobus. Anche alle
compagnie di autonoleggio. Controlleremo i DMV in cerca di un indirizzo.
E chiameremo la polizia di stato del Connecticut.» Si interruppe, guar-
dando Parker. E quest'ultimo capì che stavano pensando la stessa cosa.
«Ci ha già pensato», disse. «Non sto dicendo che non dobbiamo farlo.
Ma lui sa già che lo faremo.»
«Lo so», fece Margaret. Sembrava sempre più furiosa a causa della loro
impotenza. «Ma dobbiamo ugualmente fare tutto il possibile.»
«Autorizzerò lo stato di priorità assoluta», comunicò il vicedirettore.
Ma Parker non stava ascoltando. Stava fissando la lettera di estorsione.
«Un falso perfetto», sussurrò tra sé.
«Come?» domandò Lukas.
Parker guardò l'orologio. «Vorrei andare a trovare una persona.»
«Vengo con te», propose Lukas.
Parker esitò. «Sarebbe meglio di no.»
«No, vengo.»
«Non ho bisogno di aiuto.»
«Vengo con te», insistette lei con fermezza.
E Parker la guardò negli occhi grigio-azzurri: pietra o non pietra?
Non lo sapeva.
«Okay», concluse infine.

Guidarono per le strade ormai quasi deserte di Washington. Parker era al


volante.
Un'automobile si fermò all'incrocio, perpendicolare rispetto a loro, e
Parker guardò i fari alla propria destra. Nel bagliore colse il profilo di Lu-
kas, la sua bocca sottile, il naso rotondo, il collo lungo.
Si voltò verso la strada ed entrò nelle vie di Alexandria, in Virginia.
Forse... ti invidia.
Avrebbe tanto voluto prenderle la mano, sedersi con lei su una sdraio o
sul divano di casa sua. O sdraiarsi con lei in un letto.
E parlare. Parlare di tutto.
Magari del segreto di Margaret Lukas, quale potesse essere.
Oppure fare ciò che lui e i Chi a volte facevano - parlare di niente. Parla-
re scemo, lo chiamavano i bambini. Di cartoni animati e dei vicini di casa
o di ricette di cucina o di vacanze passate e vacanze future.
O forse lui e Lukas avrebbero condiviso i racconti di guerra che i poli-
ziotti - federali o statali che fossero - amavano raccontare.
Il segreto poteva aspettare.
Avrebbe anni a disposizione per raccontarmelo, pensò Parker.
Anni...
Improvvisamente si rese conto che stava pensando a una connessione
con lei che potesse durare più di una sola notte o una settimana o un mese.
Che elementi aveva per dar corpo alle sue fantasie? Niente, in realtà. Era
un pensiero ridicolo.
Qualsiasi connessione potesse esserci tra di loro - lei il soldato, lui la
hausfrau - era pura illusione.
O no? Ricordò i Chi nel libro del dottor Seuss, una razza di creature che
viveva su un granello di polvere, tanto piccole che nessuno poteva vederle.
Ma c'erano ugualmente, con tutti i loro sogghigni folli e la loro pazza ar-
chitettura e i loro bizzarri macchinari. Perché l'amore non poteva essere
trovato in qualcosa di invisibile, allora?
Guardò di nuovo Lukas e lei guardò lui. Spontaneamente, Parker allungò
timidamente una mano e toccò il liscio nylon bianco delle calze che le co-
privano il ginocchio. La mano di lei si chiuse sulla sua, senza alcuna esita-
zione.
Erano arrivati all'indirizzo che stavano cercando. Parker tolse la mano e
parcheggiò la macchina. Nemmeno una parola, tra di loro, nemmeno uno
sguardo.
Lukas scese. Parker anche. Girò intorno alla macchina e rimasero in pie-
di l'uno di fronte all'altra. Avrebbe voluto disperatamente abbracciarla.
Stringerla, far scivolare le mani sulla sua schiena, attirarla a sé. Lei lo
guardò e lentamente si sbottonò il giubbotto. Lui intravide per un attimo la
camicia di seta. Fece un passo avanti per baciarla.
Margaret abbassò lo sguardo, tolse la pistola dalla fondina e si riabbot-
tonò il giubbotto. Strinse le palpebre guardando alle spalle di lui, control-
lando la zona.
Parker fece un passo indietro.
Ah.
«Dove?» domandò lei.
Parker esitò, guardò i suoi occhi gelidi. Poi le indicò con un cenno un
sentiero che conduceva a un vicolo. «Da questa parte.»
Si incamminarono lungo il marciapiede. Parker guardò la sua pistola.
«Non credo che ne avrai bisogno», le disse.
«Ma», rispose lei, «tutto considerato...»
«Hai ragione», concesse lui.
E continuarono a camminare.

L'uomo era alto poco più di un metro e sessanta.


Aveva una barba incolta e i capelli cespugliosi. Indossava un vecchio
accappatoio consunto e Parker l'aveva chiaramente svegliato quando aveva
bussato con forza alla porta malconcia.
Guardò Parker e Lukas per un lungo istante e poi, senza dire una parola,
tornò nell'appartamento, come se fosse stato tirato da un elastico.
Lukas precedette Parker nella casa. Si guardò intorno, poi rimise la pi-
stola nella fondina. Le stanze erano ingombre, piene fino a traboccare di
libri e mobili e carte. Sulle pareti erano appese un centinaio di lettere fir-
mate, accanto a frammenti di documenti storici. Una decina di scaffali era-
no stracolmi di altri libri e portfolio. Un tavolo da disegno, che troneggiava
nel soggiorno, era coperto di boccette d'inchiostro e da decine e decine di
pennini.
«Come te la passi, Jeremy?»
L'uomo si stropicciò gli occhi. Guardò un vecchio orologio a cucù alla
parete. «Ehi, Parker, è tardi», disse. «Senti, guarda che cosa ho qui. Ti pia-
ce?»
Parker prese il foglio di acetato che Jeremy gli stava porgendo.
La punta delle dita dell'uomo era ingiallita dal fumo delle sigarette. Par-
ker rammentò che Jeremy fumava soltanto fuori casa: non voleva rischiare
di contaminare il proprio lavoro. Come tutti i geni, anche Jeremy piegava i
propri vizi alle esigenze del talento.
Parker sollevò la cartelletta trasparente verso la luce. Poi prese una lente
d'ingrandimento ed esaminò il documento all'interno. Dopo un attimo dis-
se: «L'ampiezza del tratto... È molto buono».
«Più che molto buono, Parker.»
«Okay, te lo concedo. Gli attacchi e i sollevamenti dei tratti sono eccel-
lenti. Sembra anche che i margini siano giusti, e le dimensioni del foglio
corrispondono. La carta è dell'epoca?»
«Ovviamente.»
«Ma dovrai ricreare l'invecchiamento dell'inchiostro con il perossido di
idrogeno. E non è difficile da scoprire.»
«Forse. Forse no.» Jeremy sorrise. «Forse ho qualcosa di nuovo nella
manica. Sei venuto ad arrestarmi, Parker?»
«Non sono più uno sbirro, Jeremy.»
«No, ma lei sì, vero?»
«Sì, lei sì.»
Jeremy si riprese il foglio. «Non l'ho venduta. Non l'ho nemmeno offerta
in vendita.» Poi si rivolse a Lukas: «È soltanto un hobby. Un uomo può
avere un hobby, vero?»
«Che cos'è?» domandò Lukas.
«Una lettera di Robert E. Lee a uno dei suoi generali», spiegò Parker.
Poi aggiunse: «O meglio, dovrei dire una lettera che pretende di essere di
Robert E. Lee».
«Lui l'ha falsificata?» domandò Lukas, guardando Jeremy.
«Esatto.»
«Non ho ammesso nulla. Mi appello al Quinto emendamento.»
«Vale forse quindicimila dollari», continuò Parker.
«Se qualcuno la vendesse. Cosa che io non farò mai. Parker mi ha arre-
stato, una volta», disse Jeremy a Lukas, tormentandosi la barba tra il polli-
ce e l'indice. «È stato l'unico al mondo a scoprirmi. Sa come ci è riuscito?»
«Come?» domandò lei. L'attenzione di Parker non era più rivolta all'ec-
cellente falso, ma a Margaret Lukas, che sembrava sia divertita che affa-
scinata da Jeremy. La sua collera era momentaneamente scomparsa, e Par-
ker fu molto felice di notarlo.
«La filigrana dell'intestazione», continuò Jeremy con una smorfia. «So-
no stato fregato dalla filigrana.»
«Qualche anno fa», spiegò Parker, «Jeremy... diciamo... è venuto in pos-
sesso di un pacchetto di lettere di John Kennedy.»
«A Marilyn Monroe?» domandò Lukas.
Jeremy fece una smorfia di disgusto. «Quelle? Oh, quelle erano ridicole.
Roba da dilettanti. E poi a chi importa? No, queste erano tra Kennedy e
Kruscev. Stando alle lettere, Kennedy aveva intenzione di raggiungere un
compromesso su Cuba. Che interessante svolta avrebbe rappresentato per
gli storici, eh? Lui e Kruscev si sarebbero divisi l'isola. I russi se ne sa-
rebbero presi una metà e gli Stati Uniti l'altra.»
«Era vero?» domandò Lukas.
Jeremy rimase in silenzio, osservando la lettera di Robert E. Lee con un
mezzo sorriso.
«Jeremy inventa le cose», comunicò Parker. Era il modo delicato con cui
definiva le menzogne quando parlava con i Chi. «Aveva falsificato le lette-
re. E aveva intenzione di venderle per cinquemila dollari.»
«Quattromilaottocento», lo corresse Jeremy.
«Tutto qui?» Lukas era sinceramente sorpresa.
«Jeremy non fa questo mestiere per i soldi», continuò Parker.
«E tu l'hai beccato?»
«La mia tecnica era impeccabile, Parker, questo devi ammetterlo.»
«Oh, eccome se lo era», confermò Parker. «La realizzazione era perfetta.
L'inchiostro, gli attacchi della calligrafia, i sollevamenti, la fraseologia, i
margini... Sfortunatamente, il GPO aveva cambiato l'intestazione presiden-
ziale nell'agosto del 1963. Jeremy è riuscito a mettere le mani su diversi
fogli di quella carta intestata e li ha utilizzati per i suoi falsi. Un vero pec-
cato che le lettere fossero datate Maggio 1963.»
«Sono stato poco intelligente», borbottò Jeremy. «Tu che ne dici? Quin-
di, Parker, si tratta di manette, se non sbaglio. Cosa ho fatto questa volta?»
«Oh, credo di sapere cosa hai fatto, Jeremy. Credo proprio di saperlo.»
Parker prese una sedia per Lukas e una per sé. Si sedettero entrambi.
«Oh, Signore», gemette Jeremy.
«Oh, Signore», gli fece eco Parker.

34
01,25

Finalmente stava nevicando.


Grossi fiocchi cadevano lentamente a terra. Già tre centimetri, che attu-
tivano i rumori della notte.
Edward Fielding, con il pesante zaino di seta sulle spalle e con una pi-
stola munita di silenziatore nella mano destra, avanzava in una macchia
d'alberi e cespugli a Bethesda, nel Maryland. Dal quartier generale dell'FBI
era arrivato fin lì per mezzo di due «macchine scambio», automobili per la
fuga che i ladri professionisti nascondono lungo la strada per ingannare gli
inseguitori. Era rimasto sulle autostrade principali per tutto il tragitto, man-
tenendosi esattamente al limite di velocità consentito. Aveva parcheggiato
dalla parte opposta del boschetto e aveva percorso a piedi il resto della
strada. Il peso del denaro lo rallentava, ma di certo non avrebbe lasciato
quel tesoro in macchina, nonostante la relativa sicurezza di quel placido,
lussuoso sobborgo di Washington, D.C.
Entrò dal giardino laterale e si fermò accanto al recinto che separava la
casa che aveva preso in affitto da quella accanto.
Sulla strada non c'erano automobili che non conosceva.
In casa le luci erano accese proprio come le aveva lasciate. Nessun mo-
vimento, nessuna ombra all'interno.
Dall'altra parte della strada, le luci delle abitazioni di fronte alla sua era-
no tutte spente tranne quelle degli Harkins. Era una cosa normale. Fielding
aveva osservato nel corso del tempo che raramente gli Harkins andavano a
letto prima delle due o delle tre.
Posò lo zaino con i soldi accanto a un albero sulla proprietà della casa
accanto alla propria. E si drizzò, lasciando che i suoi muscoli si godessero
la libertà dal pesante carico. Avanzò lungo la recinzione, controllando il
giardino di fronte, di lato e dietro la casa. Nessuna impronta nella neve lì o
sul marciapiede davanti alle abitazioni.
Riprese lo zaino con i soldi e continuò lungo il vialetto. C'erano diversi
dispositivi di sicurezza che aveva sistemato per sapere se c'erano visitatori
inattesi - trucchi casalinghi, rudimentali ma efficaci: un filo di nylon attra-
verso il cancello, la maniglia della porta allineata con una scaglia di verni-
ce sulla zanzariera, l'angolo dello zerbino di vimini appoggiato allo stipite.
Li aveva imparati sul sito Internet di un movimento politico di destra. Lì
erano elencati per proteggersi dai negri, dagli ebrei e dal governo federale.
Nonostante la neve, che avrebbe rivelato la presenza di qualsiasi intruso,
Fielding li controllò accuratamente. Perché era quello che si doveva fare
quando si commetteva il delitto perfetto.
Aprì la porta con la chiave, pensando a ciò che avrebbe fatto successi-
vamente. Sarebbe rimasto lì soltanto cinque o dieci minuti, il tempo suffi-
ciente per mettere i soldi in alcune scatole di giocattoli, raccogliere le altre
valigie e andarsene, per mezzo di altre tre macchine sicure sistemate lungo
la strada, a Ocean City, nel Maryland. Lì sarebbe salito a bordo della barca
che aveva affittato e sarebbe stato a Miami in due giorni. Dalla Florida un
aereo - noleggiato anch'esso - l'avrebbe portato in Costa Rica e poi in Bra-
sile la notte stessa.
Poi avrebbe...
Non sapeva dove si fosse nascosta. Forse dietro la porta. Forse nell'ar-
madio. Prima ancora che Fielding avesse il tempo di avvertire lo choc del-
l'adrenalina che gli fluiva nelle vene, la pistola gli era stata strappata di
mano e Margaret Lukas stava gridando: «Fermo, fermo, agenti federali!»
Fielding non si fermò affatto, ma inciampò e rotolò in avanti, cadendo di
faccia sotto la stretta salda della donna. La pistola premuta contro l'orec-
chio. Gli venne tolto dalla schiena lo zaino con i soldi e le mani gli venne-
ro ammanettate da due grossi agenti. Venne perquisito.
Lo tirarono in piedi e lo spinsero su una poltrona.
Cage e diversi altri uomini e donne in uniforme entrarono dalla porta
principale, mentre un altro agente controllava il denaro.
Fielding aveva un'espressione completamente sbalordita. «Oh, stai pen-
sando a quei fili e agli altri trucchetti?» gli domandò Lukas. «Ti rendi con-
to che controlliamo gli stessi siti Internet? Come fa chiunque altro? La mi-
lizia ariana e roba del genere.»
«Ma la neve?» domandò Fielding, che ora tremava per il flusso di adre-
nalina. «Non c'erano impronte. Come siete entrati?»
«Oh, abbiamo preso a prestito un gancio e una scala dai vigili del fuoco
di Bethesda. La squadra SWAT e io siamo entrati dalle finestre del piano
di sopra.»
In quel momento Parker Kincaid fece il suo ingresso dalla porta princi-
pale. Lukas annuì verso di lui e spiegò a Fielding: «Il camion dei pompieri
è stata un'idea sua».
Fielding non ne dubitava affatto.

Parker si sedette di fronte a Fielding e incrociò le braccia. Il detective -


Parker non riusciva ancora a pensare a lui in altri termini - ora sembrava
più vecchio e indebolito. Parker ricordò di aver sperato, qualche ora prima,
che il cervello di quel crimine fosse ancora vivo in modo da poter osserva-
re come funzionava la sua mente. Un signore degli enigmi contro un altro.
Ma ora non sentiva alcuna curiosità professionale, soltanto repulsione.
Gli enigmi sono sempre facili quando si conosce la risposta.
E diventano anche noiosi.
«Come ci si sente a sapere che tra poco sarai in una cella di tre metri per
tre finché non ti faranno l'iniezione letale?» gli domandò Lukas.
«Non dureresti molto in un carcere normale», gli spiegò Cage. «Spero
che ti piaccia la compagnia di te stesso.»
«La preferisco a quella di molti altri», rispose Fielding.
Cage continuò come se non l'avesse sentito. «Ti vorranno anche a Bo-
ston e a White Plains e a Philadelphia. Immagino anche a Hartford.»
Fielding inarcò un sopracciglio, sorpreso.
«Il Becchino era il paziente nel tuo ospedale, vero?» domandò Parker.
«Il manicomio criminale. David Hughes.»
Fielding non voleva sembrare impressionato, ma lo era. «Esatto. Era un
tipo strano, vero?» Sorrise a Parker. «Una specie di Uomo Nero fatto per-
sona.»
Improvvisamente Parker capì qualcos'altro e il suo cuore si raggelò.
L'Uomo Nero...
«Nella postazione di comando mobile... stavo parlando di mio figlio. E,
poco dopo... Gesù, poco tempo dopo Robby ha visto qualcuno nel garage.
Era il Becchino!... L'hai chiamato tu, l'hai mandato tu a casa mia! Per spa-
ventare mio figlio!»
Fielding si strinse nelle spalle. «Eri troppo bravo, Kincaid. Dovevo to-
glierti dal caso per un po'. Quando siete partiti per introdurvi nel mio covo
- a proposito, complimenti - sono sceso dal furgone per fare una telefonata
e lasciare un messaggio al mio amico, dicendogli di dare una sbirciatina
dalla finestra del tuo bambino. Ho pensato anche di uccidervi - be', loro e
anche tu, ovviamente - ma avevo bisogno che tu fossi al quartier generale
intorno a mezzanotte. Per rendere più credibili le mie deduzioni sul luogo
dell'ultimo attacco.»
Parker scattò in avanti, il pugno chiuso. Lukas gli afferrò il braccio un
attimo prima che si abbattesse sul sogghigno di Fielding.
«No», disse Cage.
«Ti capisco», sussurrò Lukas. «Ma non farebbe bene a nessuno.»
Tremando di rabbia, Parker abbassò la mano, si avvicinò alla finestra e
guardò la neve. Si sforzò di ritrovare la calma. Era convinto che, se fosse
stato da solo con Fielding, avrebbe potuto ucciderlo. Non per le morti che
aveva causato, ma perché poteva ancora sentire la paura nella voce di suo
figlio.
Lukas gli sfiorò un braccio. Lui la guardò. Margaret aveva in mano un
taccuino. «Per quello che può valere», disse a Parker, «ha fatto la stessa
cosa anche con me.» Sfogliò le pagine del blocco e gli indicò diverse voci.
«Qualcuno si è introdotto a casa mia qualche mese fa. Era lui.»
Fielding non disse nulla.
Lukas continuò, rivolgendosi direttamente all'assassino. «Hai scoperto
tutto su di me. Hai scoperto di Tom...»
Tom? si domandò Parker. Forse era un altro indizio per capire Margaret
Lukas. Ma non disse nulla.
«Ti sei tagliato i capelli come lui, hai letto le lettere che mi scriveva...»
Chiuse gli occhi e scosse la testa. «'Diritto come la pioggia.' Hai rubato la
sua espressione. E poi mi hai raccontato di avere una moglie in coma. Per-
ché? Perché così ti avrei tenuto nella squadra - quando chiunque altro, me
compresa, non voleva che tu interferissi con l'indagine.»
«Avevo bisogno di penetrare le tue difese, Lukas. Ti ho parlato, ho sco-
perto che tipo di avversario saresti stata. Dovevo farlo.»
«Hai rubato il mio passato, Fielding.»
«E a cosa serve il passato se non a essere usato?» replicò lui con voce
piatta.
«Ma come hai potuto uccidere tanta gente?» domandò Lukas in un sus-
surro.
«Disgustata?» le chiese di rimando Fielding. Sembrava esasperato. «Ma
perché no? Voglio dire, Cristo, perché no? Perché un morto è meno terrifi-
cante di un milione di morti? O uccidi, o non uccidi. Se lo fai, allora la
morte è soltanto una questione di grado e, se ha senso, se è efficace, allora
uccidi chi devi uccidere. Chiunque non accetti questo concetto è uno stu-
pido ingenuo.»
«Chi è il tipo all'obitorio?» domandò Cage.
«Si chiama Gill Havel.»
«Ah, il misterioso Gilbert Jones», fece Parker. «È stato lui a noleggiare
l'elicottero, giusto?»
«Dovevo lasciarvi credere che avevo davvero intenzione di tentare di
fuggire con i soldi prendendoli da Gallows Road.»
«Dove l'hai trovato?»
«In un bar a Baltimora.»
«Chi era? Havel, voglio dire.»
«Un perdente qualsiasi. Un barbone, più o meno. Gli ho promesso cen-
tomila dollari per consegnare una lettera al Municipio e aiutarmi con l'eli-
cottero e con l'affitto dell'appartamento. Gli ho fatto credere che fosse mio
socio.»
«E gli hai detto di tornare alla metropolitana o alla fermata dell'autobus
seguendo un percorso preciso», continuò Parker. «Dove lo stavi aspettando
con il furgone per investirlo.»
«Dovevate credere che la mente di tutta la faccenda fosse morta. Così
avreste riportato i soldi nel quartier generale.»
«E Kennedy? Quando l'hai mandato al Ritz?»
«Il sindaco?» domandò Fielding. «È stata una sorpresa. E un rischio. Ma
ha funzionato alla perfezione.» Annuì con aria analitica. «Per prima cosa,
dovevo mantenere la vostra attenzione focalizzata sul Ritz Carlton, non sul
Kitzy Lady. E poi la mia penitenza per il tradimento è stata quella di darvi
l'informazione sul nome del Becchino... Sai, sei veramente in gamba, Kin-
caid. Come ci sei arrivato?»
«Come ho scoperto che eri tu la mente?» continuò Parker. «A causa del-
la tua scrittura. Ne avevo un campione - quando ti ho dettato cosa scrivere
dal taccuino che Tobe era riuscito a salvare dall'incendio.»
«Ero preoccupato», ammise Fielding. «Ma non potevo certo tirarmi in-
dietro proprio in quel momento, no? Tu che mi chiedi di scrivere qualcosa
mentre tutti mi stanno guardando? Ma ho tentato di improvvisare... ho ten-
tato di camuffare la mia calligrafia.»
«Sono stati i puntini sulle tue i a tradirti.»
Fielding annuì. «Oh, certo. La lacrima del diavolo. Non ci avevo pensa-
to... Che cos'è che hai detto oggi? Sono sempre le piccole cose...»
«Non sempre. Ma di solito sì.»
«Le informazioni sul Becchino», domandò Lukas. «Le avevi sempre a-
vute, vero? Non sei andato in biblioteca.»
«No. Maledizione, è per questo che l'ho chiamato Becchino. Così avre-
ste pensato che aveva qualche ridicolo piano di vendetta nei confronti del
governo. Ma...» Si guardò intorno. «Come avete fatto ad arrivare qui?»
«A questa casa?» Parker non riuscì a resistere. «Perfezione», disse, e os-
servò il sorriso arrogante scomparire dalla faccia del killer. Continuò: «Per
scappare dopo il delitto perfetto era ovvio che avresti voluto il passaporto
perfetto. E avresti cercato il miglior falsario in circolazione. Capita che sia
un mio amico. Be', diciamo che siamo piuttosto legati tra noi: una volta
l'ho messo in galera».
Per un attimo Fielding rimase senza parole. «Ma non conosceva il mio
vero nome, né il mio indirizzo.»
«No, ma gli hai telefonato», ribatté Parker.
«Non da qui», disse Fielding in tono polemico, ma quasi piagnucoloso.
Anche Lukas voleva contribuire a distruggerlo. «Dalla cabina in fondo
alla strada.» Annuì verso l'angolo del marciapiede. «Abbiamo passato i
numeri al registro della Bell Atlantic.» Poi gli mostrò una sua immagine
computerizzata. «L'abbiamo presa dal video delle telecamere di sicurezza
del quartier generale. È bastato mostrarla a una decina di persone nel quar-
tiere per avere la strada di casa tua.»
«Merda.» Fielding chiuse gli occhi.
Le piccole cose...
«Tra i falsari c'è questo detto che recita che la frase 'Non si può pensare
a tutto' non conta assolutamente nulla. Devi pensare a tutto.»
«Sapevo che tu eri l'anello forte della catena, Parker», sibilò Fielding. «Il
rischio più grande. Avrei dovuto dire al Becchino di liberarsi di te fin dal-
l'inizio.»
«Non hai avuto nessun problema nemmeno a sacrificare il tuo amico?»
gli chiese Cage.
«Il Becchino? Difficile definirlo un amico.» Poi aggiunse: «Era una per-
sona pericolosa da mantenere in vita. In ogni modo, come sicuramente a-
vrete già immaginato, questo sarebbe stato il mio ultimo colpo. Non avevo
più bisogno di lui».
Un agente entrò dalla porta principale. «Okay, Fielding. È arrivata la
carrozza.»
Si mossero per portarlo fuori. Fielding si fermò sulla porta. Si voltò.
«Ammettilo, Parker, sono bravo», disse con orgoglio. «Dopotutto, ce
l'ho quasi fatta.»
Parker scosse il capo. «La risposta a un enigma o è giusta o è sbagliata.
Non esiste il quasi.»
Ma, mentre lo portavano via, Fielding stava sorridendo.

35
02,20

Gli operai stavano sgombrando la strada dai resti bruciati del pullman.
Gli uomini dell'ufficio del medico legale avevano portato via il corpo del
Becchino, nelle cui mani era fusa orribilmente una mitragliatrice nera.
Edward Fielding era detenuto in una prigione federale.
Mentre Parker augurava la buonanotte a Cage, guardandosi intorno in
cerca di Margaret Lukas, notò il sindaco Gerald Kennedy che stava andan-
do verso di loro. Era rimasto lì, con un gruppo di giornalisti, a sorvegliare i
danni e a parlare con i poliziotti e gli infermieri dei mezzi di soccorso. Si
avvicinò a loro.
«Eccellenza», lo salutò Cage.
«Devo ringraziarla per quella piccola storia che ha raccontato al tele-
giornale, Cage.»
Una stretta di spalle.
«L'indagine aveva la priorità, signore. Probabilmente sarebbe stato me-
glio tener fuori la politica.»
«Probabilmente ha ragione.»
Silenzio.
«E così ho sentito che avete catturato l'uomo che ha escogitato tutto que-
sto», disse il sindaco.
«Esatto, signore.»
Kennedy si voltò verso Parker. «E lei è l'agente...»
«Jefferson, signore. Tom Jefferson.»
«Oh, lei è quello di cui ho sentito parlare. L'esaminatore di documenti?»
«Esatto», rispose Parker. «L'ho vista sparare mica male, qui, questa se-
ra.»
«Non abbastanza bene», disse il sindaco indicando tristemente il pul-
lman fumante. «Ma mi dica, ha qualche parentela con Thomas Jefferson?»
«Io?» Parker rise. «No, no. È un nome molto comune.»
«Il mio assistente si chiama Jefferies.» Lo disse con il tono di chi vuol
fare conversazione.
Poi arrivò Lukas. Salutò il sindaco con un cenno e Parker vide la tensio-
ne sul suo viso, come se si aspettasse un confronto dopo l'arresto virtuale
al Ritz Carlton.
Ma tutto ciò che Kennedy disse fu: «Mi dispiace per il suo amico, l'a-
gente Ardell».
Lukas non rispose. Continuò a fissare i resti del pullman.
«Sindaco», intervenne un giornalista, «si dice che lei non abbia voluto
chiamare la Guardia Nazionale perché pensava potesse interferire con il
traffico dei turisti. Può fornire un suo commento?»
«No, non posso.» Continuò a guardare il pullman.
«Non è finita molto bene per nessuno questa notte, eh?» considerò Lu-
kas.
«No, agente Lukas», disse lentamente Kennedy. «Ho il sospetto che co-
se come questa non finiscano mai bene.»
Poi prese per mano sua moglie e insieme si incamminarono verso la li-
mousine in attesa.
Margaret Lukas consegnò a Cage alcuni documenti - forse i rapporti del-
le prove o i resoconti degli arresti. Poi, con gli occhi ancora fissi sul pul-
lman, si allontanò verso la sua quattro per quattro. Parker si domandò:
Perché se ne va senza salutare?
Margaret aprì la portiera, mise in moto il motore e accese il riscaldamen-
to - la temperatura era calata ancora e il cielo era coperto da una spessa
coltre di nubi da cui ancora cadevano grossi fiocchi di neve. Lasciò la por-
tiera del furgone aperta e si abbandonò contro lo schienale.
Cage strinse la mano a Parker e poi borbottò: «Cosa posso dire?» Poi,
cogliendolo di sorpresa, lo abbracciò forte, con una smorfia di dolore, e si
allontanò lungo la strada. «Buonanotte, Lukas», gridò. «Anche a te, Par-
ker. Ragazzi, mi fa male il fianco. Buon anno a tutti. Merda, fa un male
cane.»
Parker si tirò su la cerniera del giubbotto e si incamminò verso il furgo-
ne di Lukas. Si accorse che lei stava guardando qualcosa che aveva in ma-
no. Parker non era sicuro di che cosa fosse. Sembrava una vecchia cartoli-
na ripiegata. Lukas la fissava. Guardò Parker e parve avere un istante di e-
sitazione. Un attimo prima che lui arrivasse al furgone mise via la cartolina
e chiuse la borsetta.
Prese una bottiglia di birra dalla tasca della giacca, una Sam Adams, e la
aprì con un apribottiglie che teneva sul cruscotto.
«Le vendono alle macchinette del quartier generale, adesso?»
«Un regalo del mio testimone. Gary Moss.» Gliela offrì.
Parker ne bevve un lungo sorso e gliela ridiede. Lukas rimase nel furgo-
ne, ma si voltò su un fianco, guardandolo direttamente. «Che notte, eh?»
«Che notte», ripeté lui. Si allungò verso di lei e le offrì la mano.
Lei gliela strinse con fermezza. Si erano tolti entrambi i guanti e, nono-
stante avessero le mani arrossate dal freddo, la loro pelle aveva la stessa
temperatura. Parker non sentiva né freddo né caldo provenire dalla mano
di lei.
Nessuno dei due lasciò la presa. Lui le racchiuse la mano con la sinistra.
«Come stanno i bambini?» gli domandò lei. «Com'è che li chiami?»
«I Chi.»
«Chi. Giusto. Hai parlato con loro?»
«Stanno bene.» Con riluttanza lasciò andare la presa. Era dispiaciuto an-
che a lei? Non riusciva a capirlo. Poi le chiese: «Hai bisogno di un rappor-
to, presumo». Ricordò tutte le scartoffie da preparare per i processi. Mon-
tagne di carta. Non gli importava molto: dopotutto, i documenti scritti era-
no il suo mestiere.
«Lo faremo», rispose Lukas. «Ma non c'è fretta.»
«Ne farò uno lunedì. Questo fine-settimana ho da portare a termine un
lavoro.»
«Su un documento? O un lavoro di casa?»
«Intendi un lavoro di casa tipo riparazione o qualcosa del genere?»
Scoppiò a ridere. «Oh, no, non ne faccio. In cucina me la cavo. Con il fai
da te... non direi. No, è un possibile falso. Una lettera che dovrebbe essere
stata scritta da Thomas Jefferson. Un commerciante di New York vuole
che la esamini.»
«È autentica?»
«Istintivamente direi di sì. Ma ho altri esami da fare. Ah, ecco.» Le por-
se la pistola.
Lukas, con la gonna, non era più vestita per poterla nascondere alla ca-
viglia. La infilò nel vano portaoggetti. Lo sguardo di Parker si soffermò
sulla curva delicata delle sue gambe sottili e muscolose avvolte nelle calze
bianche.
Sapeva che lei lo stava guardando, ma questa volta non gli importava di
essere sorpreso.
Perché mai dovresti invidiarmi, Margaret? si domandò silenziosamente.
A volte gli enigmi si rispondono da soli, a tempo debito.
E a volte, semplicemente, non trovi mai la risposta. E questo perché, a-
veva scoperto Parker, non la dovevi scoprire.
Ti sto solo dicendo che Lukas non ha bisogno di nessuno che si prenda
cura di lei... Non credi che funzioni meglio così? Nessuno che si prende
cura di nessuno. È una regola. Prendi nota.
«Ehi, hai impegni domani sera?» le domandò. «Vuoi partecipare a una
ridicola cena nei sobborghi?»
Lukas esitò. Senza muovere un muscolo. Sembrava che non respirasse
nemmeno. Neanche lui si mosse, si limitò a mantenere un debole sorriso
sulle labbra, gli occhi soddisfatti, esattamente come quando aspettava che i
Chi gli confessassero qualcosa.
Alla fine anche lei sorrise, ma Parker si accorse subito che era un sorriso
fasullo - il sorriso di pietra, quello che si intonava ai suoi occhi. E seppe
quale sarebbe stata la risposta.
«Mi dispiace», disse lei in tono formale. «Ho già un impegno. Magari
qualche altra volta.»
Il che significava mai. Il Manuale per genitori single di Parker Kincaid
aveva un intero capitolo dedicato agli eufemismi.
«Certo», disse lui, tentando di mascherare la delusione. «Qualche altra
volta.»
«Dov'è la tua macchina?» gli chiese Lukas. «Ti do un passaggio.»
«No, non c'è problema. È vicina.»
Le strinse di nuovo la mano e resistette all'impulso di abbracciarla.
«Buonanotte», disse lei.
Parker annuì.
Mentre camminava verso la macchina sentì partire il motore del furgone.
La guardò e vide che lei lo stava salutando. Era un gesto strano, visto
che non stava sorridendo.
Ma poi Parker si accorse che non era affatto un saluto. Lukas stava to-
gliendo la condensa dal finestrino, senza nemmeno guardarlo. Dopo aver
pulito il vetro, Margaret Lukas inserì la marcia e si allontanò al centro del-
la strada.

Sulla strada di casa, guidando lungo le vie silenziose e vuote, Parker si


fermò a un 7-Eleven per bere un caffè, mangiare un hamburger e prelevare
del contante al Bancomat. Quando entrò a casa trovò la signora Cavanaugh
addormentata sul divano.
La svegliò e le diede il doppio di quanto lei aveva chiesto. Poi la accom-
pagnò alla porta e rimase sul primo gradino, osservandola camminare sotto
la neve finché non scomparve oltre la porta di casa sua dall'altra parte della
strada.
I bambini si erano addormentati nel suo letto, la sua stanza aveva il tele-
visore e il videoregistratore. Lo schermo era di un azzurro brillante, una
prova inconfutabile che avevano guardato un film. Parker aveva paura di
scoprire quale film li avesse cullati nel sonno - aveva una collezione di
thriller e film di fantascienza non adatti ai bambini - ma ciò che venne fuo-
ri quando premette il pulsante EJECT fu Il Re Leone. Il che era abbastanza
un problema - Robby avrebbe odiato per sempre le iene - ma almeno aveva
un finale nobile e non era quasi mai violento.
Si sentiva esausto. Più che esausto. Ma aveva la sensazione che il sonno
fosse ancora lontano.
Nonostante avesse insistito perché non lo facesse, la signora Cavanaugh
aveva lavato i piatti e pulito la cucina e lui non poteva scaricare l'energia in
quel modo. Allora raccolse la spazzatura per la casa e la portò fuori in
giardino, trascinando i sacchi sulle spalle come Babbo Natale. E pensando:
Che vita folle: puntare una pistola contro qualcuno un'ora fa, avere qual-
cuno che ti spara addosso, e ora ritrovarsi nel tranquillo sobborgo intento
a sbrigare faccende domestiche.
Mentre sollevava il coperchio del bidone dell'immondizia, Parker guardò
il giardino. Si fermò, accigliato. C'erano delle impronte sulla neve.
Impronte recenti.
Soltanto di qualche minuto prima, giudicò osservandole. I bordi erano
ancora netti, per nulla ammorbiditi dal vento e dalla neve che continuava a
cadere. L'intruso si era avvicinato alla finestra della stanza degli ospiti, poi
si era allontanato verso la facciata della casa.
Il cuore di Parker cominciò a martellare.
Depose l'immondizia con cautela e, in silenzio, tornò in casa.
Chiuse a chiave la porta della cucina dietro di sé. Controllò la porta
principale. Era chiusa. A causa del suo lavoro - il valore dei campioni e il
rischio causato dall'inquinamento atmosferico - le finestre della casa erano
sigillate e non potevano essere aperte: non era necessario controllarle.
Ma quelle impronte?
Soltanto dei ragazzini, forse.
O il signor Johnson che cercava il suo cane.
Ecco cos'era. Certo...
Però dieci secondi dopo era al telefono con la prigione federale di Wa-
shington, D.C.
Si identificò subito come agente speciale Parker Kincaid dell'FBI, una
dichiarazione che era menzognera soltanto da qualche anno. «Stavo lavo-
rando su quel caso, stanotte, con Margaret Lukas.»
«Certo. Le sparatorie.»
«Esatto. Mi sono fatto prendere da un po' di paranoia», disse Parker.
«Ma il sospetto... Edward Fielding. Non è fuori su cauzione, vero?»
«Cauzione? Nossignore. L'udienza è fissata per lunedì.»
«È rinchiuso?»
«Sì. Lo posso vedere sul monitor.»
«Sta dormendo?»
«No, è seduto sul letto. Sta facendo il bravo. Ha parlato con il suo avvo-
cato, circa un'ora fa, poi è entrato nella sua cella e non si è più mosso. Per-
ché?»
«Mi sono soltanto spaventato, immagino. Ho creduto di vedere l'Uomo
Nero.»
«L'Uomo Nero. Ah. Ehi, buon anno.»
Parker riagganciò, sentendosi sollevato. Una sensazione che durò circa
cinque secondi.
Con il suo avvocato?
Parker non conosceva nessun avvocato della nazione che sarebbe stato
sveglio a quell'ora di un giorno di festa, e soprattutto disposto a parlare con
un cliente la cui udienza era fissata per il lunedì successivo.
Poi pensò: Perfezione.
«Oh, Gesù», sussurrò.
Fielding, l'uomo che aveva un piano per ogni cosa. Doveva avere anche
un piano per fuggire se per caso l'avessero catturato.
Sollevò la cornetta e premette il primo tasto del 911.
La linea si interruppe.
Un movimento fuori dalla porta della cucina.
Parker alzò lo sguardo.
In piedi sulla veranda posteriore c'era un uomo che lo stava guardando
da dietro la finestra. Era pallido. Indossava un impermeabile scuro. Nero o
blu. C'era del sangue sul suo braccio sinistro, ma non molto. Ustioni sul
suo viso, ma non gravi.
L'uomo sollevò il suo mitra munito di silenziatore e premette il grilletto,
mentre Parker balzava di lato, colpendo il muro e cadendo sul pavimento.
La maniglia e la serratura della porta saltarono in aria sotto la grandinata di
proiettili. Nella stanza esplose una pioggia di schegge di vetro.
Con calma, il Becchino aprì la porta ed entrò in cucina, come un vicino
di casa invitato a bere un caffè.

36
03,00

Il Becchino ha freddo, il Becchino vuole farla finita con quella storia e


andarsene. Preferirebbe essere fuori. Gli piace la... click... la... la... la neve.
Gli piace la neve.
Oh, guarda, un bel vischio di Natale e un bell'albero di Natale nella casa
di Parker.
Strano...
Niente cuccioli, niente nastri colorati qui. Ma un bel vischio e un bell'al-
bero.
Spara ancora mentre Kincaid corre verso la porta.
L'ha colpito? Il Becchino non lo sa.
Ma, no, immagina di no. Vede Kincaid che striscia in un'altra stanza,
spegnendo le luci, rotolando sul pavimento.
Facendo cose così.
Il Becchino crede di essere felice. L'uomo che gli dice le cose gli ha tele-
fonato ancora, un'ora fa. Non un messaggio dalla signora della casella vo-
cale che ha la voce come quella di Ruth, ma una vera telefonata sul suo
cellulare. Gli ha detto che la notte non era ancora finita anche se il Becchi-
no era andato al muro nero e aveva fatto ciò che doveva fare.
Non... click... non ancora finita.
«Ascoltami», gli ha detto l'uomo che gli dice le cose, e così il Becchino
ha ascoltato. Doveva uccidere altre tre persone. Qualcuno di nome Cage e
qualcuno di nome Lukas. E Parker Kincaid. «Uccidi lui per primo. D'ac-
cordo?»
«Hmmm. Certo.»
Il Becchino conosce Kincaid. È già stato a casa sua qualche ora prima.
Kincaid ha un bambino simile a Tye, solo che al Becchino non piace il
bambino di Kincaid perché Kincaid vuole che il Becchino torni nell'ospe-
dale del Connecticut. Kincaid vuole portarlo via da Tye.
«Poi, alle quattro e trenta», gli ha detto l'uomo che gli dice le cose, «vo-
glio che vieni al centro di detenzione federale, Io sarò in infermeria. È al
primo piano, sul retro. Farò finta di stare male. Uccidi tutti quelli che vedi
e fammi uscire.»
«Okay.»
Entrando in soggiorno, il Becchino vede Kincaid rotolare fuori da sotto
il tavolo e correre in corridoio. Spara un'altra raffica di proiettili. La faccia
di Kincaid è una maschera di puro terrore, come la faccia di Ruth quando
stava per piantarle il pezzo di vetro nella gola e come quella di Pamela
quando le ha conficcato il coltello nel petto sotto il crocifisso d'oro ecco il
tuo regalo di Natale ti amo ti amo sempre più...
Kincaid scompare in un'altra parte della casa.
Ma non se ne andrà. Il Becchino lo sa benissimo. I bambini sono lì, da
qualche parte. Un padre non fuggirebbe mai lasciando in pericolo i suoi
bambini.
Il Becchino lo sa perché lui non lascerebbe Tye. Kincaid non lascerebbe
mai in pericolo la piccola bambina dai capelli castani e il bambino biondo.
Se Parker Kincaid sopravvive, lui non andrà mai in Cal-ifornia.
Entra in soggiorno, tenendo l'arma di fronte a sé.

Parker rotolò lontano dal Becchino, strisciando sul pavimento, con i go-
miti sbucciati e la testa che gli pulsava nel punto in cui aveva colpito lo
spigolo del tavolo della cucina quando si era tuffato per evitare i proiettili.
I Chi! pensò disperato, arrancando verso le scale. Non avrebbe permesso
al Becchino di salire. Sarebbe morto con le mani strette intorno alla gola
del bastardo, se fosse stato necessario, ma avrebbe salvato i bambini.
Un'altra raffica. Si voltò dalle scale e si tuffò in soggiorno.
Un'arma... Quale poteva usare? Ma non ne aveva. Non poteva entrare in
cucina e afferrare un coltello. Non poteva andare in garage a prendere l'a-
scia.
Perché diavolo aveva restituito la pistola a Lukas?
Saltò dietro il divano. Poi vide qualcosa: uno dei regali per Robby, una
mazza da baseball di alluminio. La prese, strinse l'impugnatura e tornò
strisciando verso le scale.
Dov'è? Dove?
Poi un rumore di passi. Attutiti. Lo scricchiolio del Becchino che cam-
minava sopra i frammenti di vetro e di ceramica.
Ma Parker non riusciva a capire dove fosse.
Nel corridoio?
In sala da pranzo? Nello studio del primo piano?
Che cosa doveva fare?
Se avesse gridato ai bambini di saltare dalla finestra, sarebbero venuti a
vedere che cosa voleva. Doveva riuscire a salire lui, prenderli e saltare con
loro. Avrebbe tentato di attutire la caduta come meglio poteva. La neve li
avrebbe aiutati, e avrebbe potuto dirigersi verso i cespugli.
Sì, doveva farlo!
Passi, molto vicini. Uno scricchiolio. Una pausa. Un altro scricchiolio.
Parker sollevò lo sguardo.
No! Il Becchino era ai piedi della scala, e stava per salire. Guardava in
alto. Il volto privo di espressione.
È a prova di profilo psicologico...
Parker non poteva correre verso di lui: sarebbe stato in piena vista e sa-
rebbe morto prima di avere il tempo di fare due passi. Così lanciò la mazza
da baseball in sala da pranzo. L'oggetto infranse la vetrina delle porcellane.
Il Becchino si fermò, sentendo il rumore. Si voltò rigidamente e cammi-
nò in quella direzione. Come il mostro alieno di quel vecchio film dell'or-
rore, La cosa.
Quando fu vicino alla porta ad arco, Parker uscì da dietro il divano e si
preparò a saltargli addosso.
Era a meno di due metri dalla sua preda quando mise un piede su uno
dei giocattoli di Robby, che si spezzò con uno schianto secco. Il Becchino
si voltò di scatto proprio mentre Parker gli precipitava addosso, facendogli
perdere l'equilibrio. Lo colpì al volto con un pugno. Il colpo era stato forte,
ma il Becchino si scostò e Parker, trascinato dalla forza d'inerzia del suo
stesso movimento, cadde su un fianco. Crollò sul pavimento e tentò di
prendere l'arma del Becchino. Ma l'uomo era troppo veloce per lui e ci ar-
rivò per primo, poi si alzò in piedi. Parker non poté fare nulla se non riti-
rarsi nuovamente nello spazio angusto dietro il divano.
Con la faccia ricoperta di sudore e le mani che gli tremavano, rimase
raggomitolato lì.
Nessun altro posto in cui andare.
Non aveva nessun altro posto in cui andare.
Il Becchino indietreggiò, stringendo gli occhi nell'oscurità. Parker vide
qualcosa di acuminato sul pavimento di fronte a lui. Acuminato e scintil-
lante. Una lunga scheggia di vetro. La spinse verso di sé.
Il killer lo localizzò. Parker sollevò lo sguardo sugli occhi dell'uomo e
pensò: No, gli occhi di Margaret Lukas non sono affatto morti: in essi c'è
mille volte la vita che c'è negli occhi di questa creatura.
Il Becchino fece un passo avanti, cominciando a girare intorno al divano.
Parker si tese. Poi guardò, dietro le spalle dell'uomo, l'albero di Natale. Ri-
cordò loro tre - lui e i Chi - che aprivano i regali la mattina del 25 dicem-
bre.
È un bel pensiero con cui morire, decise.
Ma, se anche fosse morto, si sarebbe assicurato che i bambini sopravvi-
vessero. Afferrò la scheggia di vetro, vi avvolse intorno un fazzoletto. A-
vrebbe tranciato la giugulare dell'uomo. E pregato che quel bastardo mo-
risse dissanguato prima di riuscire ad andare di sopra, dove i bambini sta-
vano dormendo. Non osava pensare a ciò che avrebbero visto i Chi la mat-
tina dopo.
Sarebbe andato tutto bene. Sarebbero sopravvissuti. Era l'unica cosa che
importava.
Si preparò a saltare.
Il Becchino girò intorno al divano e cominciò a sollevare l'arma.
Parker si tese.
Poi, improvvisamente, lo schianto assordante di un unico colpo di pisto-
la.
Il Becchino ebbe un sussulto. Il mitra gli cadde dalle mani. Il suo sguar-
do si mise a fuoco alle spalle di Parker. Poi la sua testa ricadde in avanti e
lui si accasciò sul pavimento, con un foro di proiettile nella nuca.
Parker afferrò l'Uzi e lo tirò verso di sé, guardandosi intorno.
Cosa? si domandò freneticamente. Cos'era successo?
Poi vide qualcuno nel riquadro della porta.
Un ragazzino... com'era possibile? Era poco più di un bambino. Di colo-
re. Aveva in mano una pistola. Avanzava lentamente, fissando il cadavere.
Come il poliziotto di un film teneva la grossa pistola puntata sulla schiena
del Becchino. Aveva bisogno di entrambe le mani per riuscire a tenerla e
lottava contro il peso dell'arma.
«Ha ucciso il mio papà», disse il bambino a Parker, senza guardarlo.
«L'ho visto che lo faceva.»
«Dammi la pistola», sussurrò Parker.
Il bambino continuava a fissare il Becchino. Aveva le guance rigate di
lacrime. «Ha ucciso il mio papà. Mi ha portato qui. Mi ha portato qui con
una macchina.»
«Dammi la pistola. Come ti chiami?»
«L'ho visto che lo faceva. L'ha ucciso proprio davanti a me. Stavo aspet-
tando il momento per farlo fuori. Ho trovato questa nella macchina. Tre
cinque sette.»
«Va tutto bene», disse Parker. «Come ti chiami?»
«È morto. Merda.»
Parker fece un passo avanti, ma il ragazzino gli puntò minacciosamente
la pistola contro. Parker si immobilizzò e indietreggiò lentamente. «Mettila
giù. Lo faresti? Per favore?»
Il ragazzino lo ignorò. I suoi occhi stanchi perlustrarono la stanza. Si
fermarono per un attimo sull'albero di Natale. Poi tornarono al Becchino.
«Ha ucciso il mio papà. Perché l'ha fatto?»
Parker avanzò lentamente ancora una volta, le mani in alto, i palmi sco-
perti. «Non preoccuparti. Non ti farò del male.»
Guardò le scale. Ma, apparentemente, lo sparo non aveva svegliato i Chi.
«Vado lì un attimo», disse, indicando l'albero di Natale.
Evitò il ragazzino - e la macchia di sangue che circondava la testa del
Becchino - e raggiunse l'albero. Si chinò, prese qualcosa e tornò. Si ingi-
nocchiò. Fece vedere la mano destra vuota al ragazzino, con il palmo rivol-
to verso l'alto. Poi, con la sinistra, gli offrì l'astronave Millennium Falcon
di Robby, quella di Guerre stellari.
«Facciamo uno scambio.»
Il ragazzino studiò il giocattolo di plastica. La pistola si abbassò. Il bam-
bino era alto dieci centimetri meno di Robby e doveva pesare soltanto tren-
ta o trentacinque chili. Il suo sguardo era vent'anni più vecchio di quello
del figlio di Parker.
«Dammi la pistola, per favore.»
Il bambino studiò il giocattolo. «Ehi», disse in tono riverente. Poi diede
la pistola a Parker e prese l'astronave giocattolo.
«Aspettami qui», fece Parker. «Torno subito. Vuoi qualcosa da mangia-
re? Hai fame?»
Il bambino non rispose.
Parker prese il mitra e lo portò di sopra insieme alla pistola. Mise le armi
nell'ultimo ripiano del ripostiglio e chiuse la porta a chiave.
Un movimento accanto a lui. Robby stava arrivando in corridoio.
«Papà?»
«Ehilà, Robby.» Parker lottò per non far sentire il tremito che gli incri-
nava la voce.
«Ho fatto un sogno. Ho sentito uno sparo. Ho paura.»
Parker lo intercettò prima che arrivasse alle scale, lo abbracciò e lo indi-
rizzò nuovamente verso la camera. «Probabilmente erano soltanto dei fuo-
chi d'artificio.»
«Possiamo averli anche noi l'anno prossimo?» domandò il bambino con
voce assonnata.
«Vedremo.»
Senti dei passi fuori, passi pesanti sulla strada di fronte a casa. Guardò
all'esterno. Vide il bambino che attraversava di corsa il vialetto, tenendo
stretta l'astronave. Dopo qualche secondo scomparve in fondo alla strada.
Dov'era diretto? si domandò Parker. Il distretto? La Virginia?
Ma non riuscì a pensarci nemmeno per un momento. Suo figlio richie-
deva tutta la sua attenzione.
Parker mise a letto Robby, accanto a sua sorella. Doveva trovare il cellu-
lare e chiamare il 911. Ma il bambino non aveva nessuna intenzione di la-
sciargli andare la mano.
«È stato un brutto sogno?» domandò Parker.
«Non lo so. Ho soltanto sentito quel rumore», rispose Robby.
Parker si sdraiò accanto a lui. Guardò l'orologio. Erano le tre e mezza.
Joan sarebbe arrivata alle dieci con l'assistente sociale... Gesù, che incubo.
C'erano almeno una ventina di buchi di proiettile nelle pareti. I mobili era-
no danneggiati, la veranda rovinata. E la porta posteriore era distrutta.
E, come se non bastasse, in mezzo al tappeto c'era un cadavere insangui-
nato.
«Papà», disse Stephie, borbottando con voce assonnata.
«Va tutto bene, tesoro.»
«Ho sentito un petardo. Petey Whelan aveva i petardi. Sua madre gli a-
veva detto che non poteva, ma lui ce li aveva lo stesso. Li ho visti.»
«Non c'è problema. Non sono affari nostri.»
Parker si lasciò andare, chiuse gli occhi. Sentì il dolce peso della bambi-
na sul petto.
Pensava ai buchi dei proiettili, ai bossoli, ai mobili fatti a pezzi. Al ca-
davere.
Immaginò la testimonianza di Joan in tribunale.
Che cosa poteva fare? Quale scusa poteva trovare?
Che cosa...?
Un attimo dopo Parker Kincaid stava respirando profondamente. Immer-
so nel sonno di un genitore che ha i suoi bambini tra le braccia, e non esi-
ste sonno migliore di questo.

Quando aprì gli occhi, erano le dieci meno cinque del mattino.
Era stato svegliato dal rumore della portiera di un'auto che sbatteva, e
dalla voce di Joan che diceva: «Siamo un po' in anticipo, ma sono sicura
che non se la prenderà. E guardi: sapeva che saremmo arrivate e non si è
nemmeno preoccupato di spazzare il vialetto. Tipico. Tipico».

37
09,55

Rotolò giù dal letto.


Aveva la nausea, la testa gli pulsava. Guardò fuori dalla finestra.
Joan stava camminando verso la casa. Richard era con lei, cupo, in re-
troguardia. Avrebbe voluto essere da qualche altra parte. E c'era anche u-
n'altra donna - l'assistente sociale. Piccola, con i tacchi alti, intenta a osser-
vare la casa.
Arrivarono alla porta. Suonarono il campanello.
Non c'è speranza...
Rimase nel corridoio al piano di sopra, guardandosi le dita dei piedi. Be',
non farla entrare, si disse. Avrebbe fatto muro. L'avrebbe costretta a pro-
curarsi un'ordinanza del tribunale. Con quello avrebbe guadagnato un paio
d'ore.
Poi si fermò, guardando i bambini addormentati. Voleva prenderli con
sé, e uscire dalla porta posteriore, e scappare in Virginia con la sua auto-
mobile.
Ma non avrebbe mai funzionato, lo sapeva.
Il campanello suonò un'altra volta.
Cosa posso fare? Come posso guadagnare tempo?
Ma Joan avrebbe capito comunque che c'era qualcosa che non andava.
Guadagnare tempo l'avrebbe resa ancora più sospettosa. E che cosa pote-
vano risolvere due o tre ore in più?
Trasse un respiro profondo e scese le scale.
Che cosa poteva dire per spiegare i fori di proiettile sulle pareti? Il san-
gue? Forse sarebbe riuscito a...
Si fermò sul pianerottolo.
Sbalordito.
Una donna bionda e minuta con una lunga gonna nera e una camicetta
bianca stava aprendo la porta, voltata di spalle.
Il che era già abbastanza sorprendente. Ma ciò che lo sconvolse davvero
furono le condizioni della casa.
Impeccabili.
Non c'era un solo pezzo di vetro o di porcellana da nessuna parte. Nes-
sun foro di proiettile sulle pareti. I muri erano stati stuccati e ridipinti; i
secchi di vernice erano nell'angolo del soggiorno, posati su fogli di plastica
bianca. La sedia che era stata frantumata dai proiettili la notte prima era
stata sostituita da una uguale. C'era una nuova zanzariera sulla veranda.
E il cadavere del Becchino... scomparso. Nel punto in cui era caduto c'e-
ra un nuovo tappeto orientale.
Joan, Richard e l'assistente sociale erano sulla porta. La donna con la
gonna nera si voltò. «Oh, Parker», disse Margaret Lukas.
«Sì», rispose lui dopo un momento.
Lei gli stava sorridendo in modo strano.
Lui tentò di nuovo. «Buongiorno.»
«Come è stato il tuo sonnellino?» gli domandò lei. Poi suggerì: «Buo-
no?»
«Sì», rispose Parker. «Molto buono, grazie.»
Lukas si voltò di nuovo e rivolse un cenno di saluto ai nuovi arrivati. Poi
disse a Joan: «Lei dev'essere la moglie di Parker».
«Ex moglie», puntualizzò Joan. L'assistente sociale - una mora cicciot-
tella - entrò dopo Joan, seguita dall'impeccabile e depresso Richard.
Parker finì di scendere le scale e non riuscì a resistere alla tentazione di
toccare una parete dove sapeva di aver visto infilarsi una raffica di proietti-
li la notte prima. L'intonaco era liscio come la guancia di Stephie.
La spalla e la testa gli dolevano ferocemente, nei punti in cui aveva sbat-
tuto mentre cercava di sfuggire al Becchino. Ma, se non fosse stato per
quello, avrebbe potuto pensare di aver soltanto sognato.
Si rese conto che Joan lo stava fissando con un sorriso di circostanza.
«Ho detto 'Ciao, Parker'.»
«Buongiorno, Joan», la salutò lui. «Ciao, Richard.» Parker entrò in sog-
giorno e baciò Joan su una guancia, poi strinse la mano di suo marito. Ri-
chard aveva una borsa piena di animaletti di peluche.
Joan non presentò Parker all'assistente sociale, ma fu la donna a farsi a-
vanti. Parker le strinse le mano. Non sapeva se la donna gli aveva detto il
nome oppure no. Era ancora troppo stordito per poterlo notare.
Joan si rivolse a Lukas. «Non credo ci siamo mai conosciute. Lei è...»
«Jackie Lukas. Un'amica di Parker.»
Jackie? Parker inarcò un sopracciglio. L'agente se ne accorse, ma non
disse nulla.
Joan guardò la sagoma atletica di Lukas con espressione neutrale. Poi i
suoi occhi - il colore così simile a quello degli occhi di Robby, l'espressio-
ne cinica così diversa - osservarono il soggiorno.
«Hai?... Che hai fatto? Hai messo in ordine o qualcosa del genere? Non
me ne sono accorta, ieri.»
«Avevo del tempo libero. Ho pensato di sistemare un po'.»
La sua ex lo studiò attentamente. «Hai un aspetto orribile, Parker. Non
hai dormito bene?»
Lukas scoppiò a ridere. Joan la guardò.
«Parker mi ha invitata a colazione», spiegò Lukas, offrendo alle due
donne uno sguardo di complicità femminile. «Poi che fa? Se ne va di sopra
per svegliare i bambini e si addormenta.»
Il grugnito di Joan confermò ciò che Parker le aveva sentito dire prima:
Tipico.
Dov'era il sangue? C'era un sacco di sangue. E tutti i vetri rotti?
«Volete un po' di caffè?» domandò Lukas agli ospiti. «Una pasta? Le fa
Parker.»
«Io prenderò un po' di caffè», disse l'assistente sociale. «E magari anche
mezza pasta.»
«Sono piccole», fece Lukas. «Ne prenda una intera.»
«Sì, forse lo farò.»
Lukas scomparve in cucina e tornò un attimo dopo con un vassoio.
«Parker è un ottimo cuoco», disse.
«Lo so», rispose Joan, irritata dalla situazione.
Lukas versò il caffè per tutti, poi domandò a Parker: «A che ora sei tor-
nato dall'ospedale ieri sera?»
«Mmm.»
«L'ospedale? I bambini stanno male?» domandò Joan con preoccupazio-
ne fin troppo drammatica, lanciando un'occhiata all'assistente sociale.
«No, è andato a trovare un suo amico», rispose Lukas.
«Non so a che ora», rispose Parker. «Era tardi?» La risposta era pratica-
mente una domanda. Era stata Lukas a creare la scena e Parker sentiva di
doversi attenere al suo copione.
«Quale amico?» domandò Joan.
«Harold Cage», rispose Lukas. «Ma si rimetterà. Ha soltanto una costola
incrinata. Non è così che si dice?»
«Costola incrinata, certo.»
«È scivolato ed è caduto, no?» Lukas continuò la sua recitazione da O-
scar.
«Esatto», ripeté Parker. «È scivolato e si è incrinato una costola.»
Prese la tazza di caffè che Lukas gli stava porgendo.
L'assistente sociale finì il suo caffè e mangiò un'altra pasta. «Senta, pos-
so avere la ricetta di queste?»
«Certamente», rispose Parker.
Joan mantenne sulle labbra un sorriso benevolo. Fece il giro del sog-
giorno, esaminandolo attentamente. «Questo posto sembra diverso.»
Quando passò accanto al suo ex marito sussurrò: «E così, Parker, vai a let-
to con la piccola Jackie pelle e ossa, vero?»
«No, Joan, siamo soltanto amici.»
«Ah.»
«Andrò a prendere dell'altro caffè», disse Lukas.
«Ti do una mano», si offrì Parker.
In cucina, chiuse la porta e si voltò verso di lei. «Come hai fatto?» sus-
surrò. «Come hai...?»
Lei rise - indubbiamente per l'espressione di lui. «Hai chiamato la pri-
gione, la notte scorsa. Hai detto di essere spaventato. Il guardiano notturno
mi ha telefonato. Ho tentato di chiamarti. La Bell Atlantic ha detto che la
tua linea telefonica era stata tagliata. La squadra SWAT della contea di
Fairfax è arrivata qui alle tre e mezza, senza far rumore, e ha trovato un
cadavere al piano di sotto e tu a letto che schiacciavi un pisolino. Chi è sta-
to a far secco il Becchino? Non sei stato tu, vero?»
«Un ragazzino. Ha detto che il Becchino aveva ucciso suo padre. Il Bec-
chino l'ha portato qui con sé. Non chiedermi perché. Il ragazzino è scappa-
to. Ora rispondi tu a una domanda per me: di chi era il corpo sul pullman?»
«Dell'autista. Crediamo che il Becchino l'abbia tenuto in vita e poi l'ab-
bia fatto correre verso l'uscita posteriore. Gli ha sparato, poi ha sparato al
serbatoio e, quando è scoppiato l'incendio, è uscito da uno dei finestrini.
Ha usato il fumo come copertura. Si è allontanato nel caos. Più furbo di
quanto sembrava.»
Parker scosse la testa. «No, è stato Fielding. Ha detto lui al Becchino di
fare così. Non aveva nessuna intenzione di sacrificare il suo pupillo, dopo-
tutto. Questo non sarebbe stato il loro ultimo colpo. Probabilmente aveva-
no anni e anni di queste cose in mente... Ma la casa?» Parker agitò le brac-
cia. «Come...?»
«È stato Cage. Ha fatto qualche telefonata.»
L'uomo dei miracoli.
«Non so davvero cosa dire.»
«Siamo stati noi a cacciarti in questo casino. Era il minimo che potessi-
mo fare.»
Parker non disse nulla: Lukas aveva ragione.
«Aspetta... com'è che ti sei presentata? Jackie?»
Lei esitò. «Un soprannome», disse infine. «È così che mi chiama la mia
famiglia. Non lo uso molto.»
Si udirono dei passi sulle scale, i tonfi attutiti dei piedi nudi dei bambini
che scendevano in soggiorno. Parker e Lukas sentirono le voci oltre la por-
ta. «Mamma! Ehi!»
«Ciao a tutti e due», disse Joan. «Ecco... questi sono per voi.»
Rumore di carta.
«Vi piacciono?» domandò Joan. «Vi piacciono?»
«Oh, è Barney», disse la voce dubbiosa di Stephie.
Robby scoppiò a ridere.
Parker scosse il capo all'incompetenza di sua moglie e rivolse un sorriso
a Lukas. Ma lei non se ne accorse. Era voltata verso il soggiorno, come at-
tratta ipnoticamente dal suono delle voci dei bambini. Dopo un momento
guardò fuori dalla finestra e fissò la neve che continuava a cadere. «E così
quella è tua moglie», disse infine. «Sembrate molto simili.»
Parker scoppiò a ridere. Perché il vero significato delle parole di Lukas
era: Come diavolo sei finito insieme a lei?
Era una domanda legittima, una domanda a cui sarebbe stato felice di ri-
spondere. Ma farlo avrebbe richiesto molto più tempo di quanto avessero a
disposizione in quel momento. E sarebbe stato anche parte di un complica-
to rituale che avrebbe costretto lei a condividere almeno un po' delle rispo-
ste all'enigma di Margaret - o Jackie - Lukas.
E che enigma era! Parker la guardò attentamente: il trucco, i gioielli, la
morbidezza della camicetta di seta bianca, il pizzo delicato della biancheria
che si intravedeva sotto la stoffa. E aveva anche messo il profumo quel
giorno, non aveva usato soltanto sapone. Che cosa gli ricordava? Non riu-
sciva a capirlo.
Lukas vide il suo sguardo indagatore.
Era stato sorpreso ancora una volta. Ma non gli importava.
«Non sembri un agente dell'FBI», disse Parker.
«Sono in incognito», rispose Lukas, e finalmente rise. «Ero molto brava.
Una volta ho fatto la parte della moglie di un sicario della mafia.»
«Italiana? Con quei capelli?»
«Ho usato la tinta.» Nessuno dei due disse nulla per un momento. «Ri-
marrò finché non se ne vanno. Ho pensato che un accenno di vita domesti-
ca potesse aiutarti con l'assistente sociale.»
«È più di quanto sei tenuta a fare», replicò lui.
Lukas si strinse nelle spalle... un gesto degno di Cage.
«Senti», continuò Parker, «so che hai detto di avere già degli impegni.
Ma io e i Chi faremo qualcosa in giardino.»
«Sotto la neve?»
«Sì. Taglieremo un po' di cespugli sul retro. Poi andremo a slittare da
qualche parte? Sai com'è, non cade molta neve da queste parti?» Smise di
parlare. Terminare frasi affermative in tono interrogativo? E aveva davve-
ro cominciato una frase con 'sai com'è'? Il linguista che era in lui non era
per nulla compiaciuto. Tutt'altro. Sono nervoso, eh? «Non so se saresti in-
teressata», proseguì, «ma...» Si interruppe di nuovo.
«È un invito?» domandò Lukas.
«Uhm. Sì, lo è.»
«Hai presente gli impegni che avevo?» disse lei. «Dovevo pulire la casa
e finire di cucire una camicia per la figlia di una mia amica.»
«È un sì?»
Un sorriso incerto. «Credo che lo sia.» Un attimo di silenzio. Poi: «Sen-
ti, com'era il caffè? Non lo faccio molto spesso. Solitamente vado a pren-
derlo da Starbucks».
«Era buono», rispose lui.
Lei stava guardando la finestra. Ma i suoi occhi continuavano a spostarsi
verso la porta: stava ascoltando le voci dei bambini. Si voltò verso Parker.
«Oh, ci sono arrivata.»
«A cosa?»
«L'enigma.»
«L'enigma?»
«Quanti falchi restano sul tetto. Stamattina, mentre ero seduta qui. Ci
sono arrivata.»
«Okay. Continua.»
«È una domanda trabocchetto. C'è più di una risposta.»
«Ottimo», disse Parker, «ma ciò non significa che sia una domanda tra-
bocchetto. Significa soltanto che stai pensando nel modo giusto; ti sei resa
conto che una risposta legittima è che ci sono diverse soluzioni possibili. È
la prima cosa che gli esperti di enigmi imparano.»
«Vedi», continuò lei, «tu tendi a pensare che tutti i fatti che hai bisogno
di sapere siano nell'enigma stesso, ma ce ne sono alcuni che invece non
vengono detti.»
Aveva assolutamente ragione. Parker annuì.
«E questi fatti hanno a che fare con la natura dei falchi.»
«Ah», disse Parker, «e cosa c'entra la natura di un falco con l'enigma?»
«Perché», continuò lei, puntando un dito verso di lui e rivelando una
punta di fanciullezza che Parker non aveva mai visto prima, «i falchi pos-
sono spaventarsi per un colpo di fucile. Ma possono anche non farlo. Per-
ché - ricordi? - sono distanti tra loro, sul tetto del pollaio. Questo era un
indizio, vero?»
«Vero. Continua.»
«Okay, allora il contadino spara a un falco sul tetto, ma noi non sappia-
mo che cosa fanno gli altri due. Potrebbero restare entrambi. E allora la ri-
sposta sarebbe che ne restano due. Oppure uno potrebbe volare via e l'altro
no, e allora ne resterebbe uno. Oppure potrebbero volare via entrambi, e la
risposta sarebbe nessuno. Quindi, le risposte possibili sono tre.»
«Be'», commentò Parker, «eri nel giusto considerando i fatti impliciti.»
Lei si accigliò. «E questo che significa? Ho ragione oppure no?»
«Ti sbagli.»
«Ma», protestò Lukas. «Devo aver ragione.»
«No, non devi.» Parker rise.
«Be', almeno ho ragione in parte, no?»
«Non esiste il concetto di avere ragione in parte, quando si tratta di e-
nigmi. Vuoi sapere la risposta?»
Un'esitazione. «No. Sarebbe barare. Continuerò a lavorarci sopra.»
Era un buon momento per baciarla e Parker lo fece, brevemente. Poi,
mentre Lukas versava dell'altro caffè, Parker tornò in soggiorno per ab-
bracciare i suoi figli e salutarli nella prima mattina dell'anno nuovo.

NOTA DELL AUTORE


Tentando di risolvere l'enigma di Parker, l'errore di Jackie Lukas è stato
quello di dare per scontato un assunto: che il falco a cui il contadino ha
sparato cadesse dal tetto del pollaio. Può benissimo non cadere. La do-
manda non chiede quanti «falchi vivi» rimangono sul tetto, ma soltanto
quanti «falchi». Quindi, la risposta è la seguente: ne restano tre, se il falco
morto non cade dal tetto e gli altri due non volano via. Due, se il falco
morto non cade e uno degli altri due vola via, o se il falco morto cade e gli
altri due restano. Uno, se il falco morto cade e uno degli altri vola via op-
pure se il falco morto non cade e gli altri due scappano. Nessuno, se il fal-
co morto cade dal tetto e gli altri due volano via.

RINGRAZIAMENTI

L'Autore desidera ringraziare Vernon Geberth, il cui bellissimo libro,


Practical Homicide Investigation, è una pietra miliare nelle procedure po-
liziesche di indagine e ha fornito basi solidissime nelle richerche che l'Au-
tore ha effettuato per questo e per gli altri suoi romanzi. Gli enigmi descrit-
ti in questo libro sono variazioni di diversi indovinelli contenuti nel volu-
me Perplexing Lateral Thinking Puzxles di Paul Sloane e Des MacHale.

FINE

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