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I
L'ULTIMO
GIORNO
DELL'ANNO
1
08,55
Il Becchino è in città.
Il Becchino assomiglia a te, il Becchino assomiglia a me. Cammina lun-
go le strade fredde e tristi proprio come camminerebbe chiunque altro, le
spalle strette a difendersi dall'aria umida di dicembre.
Non è alto e non è basso, non è grasso e non è magro. Le sue dita, nei
guanti scuri, potrebbero essere grassocce, ma potrebbero anche non esser-
lo. I suoi piedi sembrano grandi, ma forse è soltanto la misura delle scarpe.
Se lo guardassi negli occhi, non ne noteresti la forma e il colore, ma ti
accorgeresti solo che non sembrano del tutto umani, e se il Becchino guar-
dasse te mentre tu lo stai guardando, i suoi occhi potrebbero tranquilla-
mente essere l'ultima cosa che vedi in vita tua.
Indossa un lungo impermeabile nero, oppure blu scuro, e nemmeno u-
n'anima per la strada lo nota nonostante ci siano molti testimoni - le strade
di Washington, D.C., sono affollate perché è l'ora di punta del mattino.
Il Becchino è in città ed è l'ultimo dell'anno.
Portando una borsa della spesa di Fresh Fields, il Becchino devia intorno
a coppiette e famiglie e continua a camminare. Davanti a sé vede la stazio-
ne della metropolitana. Gli è stato detto di arrivare lì alle nove del mattino
in punto, e lui ci sarà. Il Becchino non arriva mai in ritardo.
La borsa che tiene in mano (forse grassoccia, forse no) è pesante. Pesa
cinque chili e mezzo, anche se quando il Becchino farà ritorno nella sua
stanza d'albergo peserà decisamente meno.
Un uomo gli sbatte contro e dice: «Mi scusi», ma il Becchino non lo
guarda. Il Becchino non guarda mai nessuno e non vuole che nessuno
guardi lui.
«Non permettere che nessuno...» Click. «... che nessuno veda la tua fac-
cia. Guarda da un'altra parte. Te lo ricorderai?»
Me lo ricorderò.
Click.
Guarda le luci, pensa, guarda le... click... le decorazioni per la notte di
Capodanno. Bimbi cicciottelli sugli striscioni. L'Anno Vcchio.
Buffe decorazioni. Buffe luci. Buffo come siano belle.
Quella è DuPont Circle, casa del denaro, casa dell'arte, casa dei giovani
e degli chic. Il Becchino lo sa, ma lo sa unicamente perché l'uomo che gli
dice le cose gli ha parlato di DuPont Circle.
Il Becchino pensa a sua moglie, in giorni come quello. Pamela non ama-
va il buio e il freddo, così lei... click... lei... Che cosa faceva Pamela? Ah,
sì, giusto. Piantava fiori rossi e fiori gialli.
Guarda la metropolitana e pensa a un'immagine che ha visto una volta.
Lui e Pamela erano in un museo. Avevano visto una vecchia incisione.
E Pamela aveva detto: «Mi fa paura. Andiamo via».
Era l'immagine dell'entrata dell'inferno.
Il tunnel della metropolitana scompare venti metri sottoterra. Passeggeri
che salgono, passeggeri che scendono. Assomiglia proprio a quell'immagi-
ne.
L'entrata dell'inferno.
Ci sono giovani donne con i capelli tagliati corti e valigette nelle mani.
Ci sono uomini giovani con i loro telefoni cellulari e le loro borse sportive.
E c'è il Becchino con la sua borsa della spesa.
Forse è grasso, forse è magro. Assomiglia a te, assomiglia a me. Nessu-
no si accorge mai del Becchino, e questo è uno dei motivi per cui è tanto
bravo a fare ciò che fa.
«Sei il migliore», gli ha detto l'anno prima l'uomo che gli dice le cose.
Tu sei il... click, click... il migliore.
Alle 8,59 il Becchino avanza fino alla sommità della scala mobile che
scende, piena di persone che scompaiono lentamente nel pozzo.
Infila una mano nella borsa e posiziona il dito intorno alla comoda im-
pugnatura del fucile, che potrebbe essere un Uzi o un Mac-10 o magari an-
che un Intertech, ma che pesa senza dubbio cinque chili e mezzo ed è
completato da un caricatore con cento proiettili da fucile calibro 22.
Il Becchino ha fame di minestra, ma ignora la sensazione.
Perché lui è il... click... il migliore.
Non guarda la folla, ma guarda verso la folla che aspetta il proprio turno
per salire sulla scala mobile che li porterà tutti all'inferno. Non guarda le
coppie o i single o gli uomini con i cellulari o le donne con il taglio di ca-
pelli di Supercuts, che era il posto dove andava Pamela. Non guarda le fa-
miglie. Si tiene la borsa della spesa stretta al petto, nel modo in cui la ter-
rebbe chiunque se fosse piena di regali. Una mano sull'impugnatura del fu-
cile - quale esso sia - l'altra mano ripiegata fuori dalla borsa intorno a quel-
la che qualcuno potrebbe scambiare per una forma di pane di Fresh Fields
che si sposerebbe alla perfezione con la minestra, ma che in realtà è un
massiccio silenziatore, imbottito di cotone minerale e di deflettori di
gomma.
Il suo orologio emette un doppio bip.
Le nove.
Il Becchino preme il grilletto.
Si sente un suono sibilante quando il torrente di proiettili comincia a far-
si largo fra le persone sulla scala mobile, e loro si piegano in avanti sotto
l'impatto. Il sommesso hush hush hush del fucile automatico viene im-
provvisamente sommerso dalle grida.
«Oh Dio state attenti Gesù Gesù cosa sta succedendo sono ferito sto ca-
dendo», e cose del genere.
Hush hush hush.
E tutti i clangori terribili dei colpi mancati - i proiettili che colpiscono il
metallo e le piastrelle. Quel rumore è molto forte. Il rumore dei colpi anda-
ti a segno è molto più tenue.
Tutti si guardano intorno, senza capire cosa sta succedendo.
Anche il Becchino si guarda intorno. Tutti sono perplessi. Anche lui è
perplesso.
Nessuno pensa che gli stiano sparando. Credono che qualcuno sia caduto
e abbia innescato un meccanismo a catena di persone che rotolano giù per
la scala mobile. Clangori e schianti di cellulari, valigette e borse sportive
che cadono dalle mani delle vittime.
I cento proiettili finiscono in un secondo.
Nessuno nota il Becchino che si guarda intorno come chiunque altro.
Accigliato.
«Chiamate un'ambulanza la polizia mio Dio questa bambina ha bisogno
di aiuto ha bisogno di aiuto qualcuno venga qualcuno è morto oh Gesù Si-
gnore la sua gamba guardate la sua gamba la mia bambina la mia bambi-
na...»
Il Becchino abbassa la borsa della spesa, che ora ha un piccolo foro sul
fondo nel punto in cui sono usciti i proiettili. La borsa trattiene in sé l'otto-
ne bollente dei bossoli.
«Spegnete spegnete fermate la scala mobile oh Gesù qualcuno la fermi
qualcuno fermi la scala mobile li sta schiacciando...»
Cose del genere.
Il Becchino guarda. Perché tutti stanno guardando.
Ma è difficile riuscire a vedere dentro l'inferno. Sotto di lui c'è soltanto
una massa di corpi che si va impilando, sempre più alta, brulicante... Alcu-
ni sono vivi, altri sono morti, altri ancora stanno lottando per uscire da sot-
to la massa che si sta ammucchiando alla base della scala mobile.
Il Becchino indietreggia lentamente tra la folla. Poi scompare.
È molto bravo a scomparire. «Quando te ne vai devi comportarti come
un camaleonte», gli ha detto l'uomo che gli dice le cose. «Sai cos'è un ca-
maleonte?»
«Una lucertola.»
«Esatto.»
«Che cambia colore. L'ho visto alla televisione.»
Il Becchino sta camminando lungo i marciapiedi affollati di gente che
corre da una parte e dall'altra. Buffo.
Buffo...
Nessuno si accorge di lui.
Lui che assomiglia a te e assomiglia a me e assomiglia alle porte delle
case. Il cui volto è bianco come il cielo del mattino. Oppure scuro come
l'entrata dell'inferno.
Mentre cammina - lentamente, lentamente, non correre, non correre mai
- pensa al suo albergo. Dove ricaricherà il suo fucile e ricompatterà il si-
lenziatore con il cotone minerale e poi si siederà sulla sua poltrona con una
bottiglia d'acqua e una ciotola di minestra accanto a sé. Si siederà e si ri-
lasserà fino a quel pomeriggio e poi - se l'uomo che gli dice le cose non gli
lascia un messaggio per dirgli di non farlo - indosserà una volta ancora il
suo lungo impermeabile nero o blu scuro e uscirà di nuovo.
E lo farà un'altra volta.
È l'ultimo dell'anno. E il Becchino è in città.
Quella era, decise Havel, l'idea più perfetta che si potesse pensare. Mesi
di pianificazione. Ogni possibile risposta della polizia o dell'FBI anticipata
in ogni particolare. Una partita a scacchi.
Reso euforico da quel pensiero, rimise la lettera nella busta, la chiuse
senza sigillarla e riprese a camminare lungo la strada. Procedeva curvo, lo
sguardo basso, in una posa atta a diminuire agli occhi dei passanti il suo
metro e ottantotto di altezza. Gli riusciva difficile, però: preferiva cammi-
nare diritto e guardare le persone dall'alto in basso.
La sicurezza al Municipio era ridicola. Havel oltrepassò l'ingresso del-
l'ordinario edificio di pietra al numero uno di Judiciary Square e si fermò
davanti a un distributore automatico di giornali. Fece scivolare la busta
sotto la macchina e si voltò lentamente, camminando verso la E Street.
Faceva caldo per essere l'ultimo dell'anno, stava pensando. L'aria aveva
un odore autunnale: foglie marce e fumo umido. A quell'odore avvertì una
fitta di nostalgia indefinita. Si fermò a una cabina telefonica all'angolo, in-
serì qualche moneta e compose un numero.
«Municipio. Sicurezza», rispose una voce.
Havel avvicinò al telefono un piccolo registratore con una cassetta inse-
rita e premette il tasto PLAY. Una voce generata da un computer disse:
«Busta di fronte all'edificio. Sotto la macchina che vende il Post. Leggete-
la subito. Riguarda la sparatoria della metropolitana». Riagganciò e attra-
versò la strada, lasciando cadere il registratore in un bicchiere di carta e
poi gettando il tutto in un cestino.
Entrò in un bar e si sedette di fronte alla vetrina, da dove poteva osserva-
re facilmente il distributore automatico di giornali e l'entrata laterale del
Municipio. Voleva assicurarsi che la busta fosse raccolta - e fu così, prima
ancora che Havel avesse il tempo di togliersi la giacca. Voleva anche vede-
re chi sarebbe arrivato a consigliare il sindaco. E se fossero arrivati anche i
giornalisti.
La cameriera si fermò accanto al suo tavolo. Havel ordinò del caffè e,
nonostante fosse ancora ora di colazione, un panino alla carne, il piatto più
costoso del menu. E perché no? Stava per diventare un uomo molto ricco.
2
10,00
3
12,45
Dove?
Margaret Lukas era sdraiata a pancia in giù su una piccola altura che
dominava la Beltway.
Il flusso senza fine del traffico scorreva sotto di lei.
Guardò nuovamente l'orologio. E pensò: Dove sei?
Lo stomaco le faceva male, la schiena le faceva male, i gomiti le faceva-
no male.
Non c'era stato modo di far arrivare una postazione di comando mobile
nelle vicinanze della zona di pagamento del riscatto - nemmeno un furgone
camuffato - senza correre il rischio di essere visti dall'estorsore, se fosse
stato nei paraggi. E così eccola lì, in jeans, giubbotto e berretto voltato al-
l'indietro, come un cecchino o un teppista, sdraiata sul terreno duro come
roccia. Dove si trovava ormai da un'ora.
«Fa un rumore come di acqua», disse Cage.
«Cosa?»
«Il traffico.»
Anche lui era sdraiato sulla pancia, accanto a lei. Le loro gambe quasi si
sfioravano, come due amanti sulla spiaggia verso l'ora del tramonto. Scru-
tavano il campo a un centinaio di metri di distanza. Erano sulla Gallows
Road.
«Sai come succede?» continuò Cage. «Qualcosa ti entra nella pelle e tu
cerchi di non pensarci. Ma non puoi farne a meno. Voglio dire, fa proprio
lo stesso rumore dell'acqua.»
A Lukas non sembrava affatto acqua. Le sembrava il rumore di automo-
bili e camion.
Dov'era l'estorsore? C'erano venti milioni di dollari pronti per essere
raccolti e lui non veniva a raccoglierli.
«Dove diavolo è quel bastardo?» borbottò un'altra voce. Apparteneva a
un uomo sulla trentina, dall'aria grave, con un taglio di capelli di tipo mili-
tare. Leonard Hardy apparteneva alla polizia del distretto di Columbia e
faceva parte della squadra perché, nonostante fosse l'FBI a occuparsi del-
l'operazione, non sarebbe stato politicamente opportuno non avere a bordo
un poliziotto cittadino. In una situazione normale, Lukas avrebbe protesta-
to vigorosamente all'idea di avere nella propria squadra del personale non-
FBI, ma conosceva casualmente Hardy per gli incarichi che aveva svolto
presso l'ufficio locale dell'FBI e la sua presenza non la infastidiva - almeno
finché Hardy si limitava a fare ciò che aveva fatto fino a quel momento:
starsene seduto buono buono in un angolo senza dar fastidio ai grandi.
«Perché è in ritardo?» domandò Hardy, apparentemente senza aspettarsi
alcuna risposta. Le sue mani immacolate, con le unghie curate alla perfe-
zione, continuavano a prendere appunti per il rapporto che avrebbe dovuto
presentare al sindaco e al capo della polizia del disnetto.
«Ancora niente?» sussurrò J ukas a Tobe Geller, un giovane agente dai
capelli ricci vestito anch'egli con un paio di jeans e lo stesso giubbotto
double-face che indossavano Lukas e Cage.
Geller, anche lui aveva superato di poco la trentina, aveva il volto inten-
samente gioioso di un ragazzino che si sente del tutto soddisfatto ogni vol-
ta che ha a che fare con un prodotto contenente dei microchip. Scrutò uno
dei tre monitor portatili che aveva di fronte. Poi digitò qualcosa sulla ta-
stiera di un computer portatile e lesse lo schermo. «Niente», rispose. Se ci
fosse stata una forma di vita più grande di un procione in un raggio di cen-
to metri dal luogo in cui erano state depositate le sacche con i soldi, la sua
attrezzatura di sorveglianza l'avrebbe rivelata.
Quando il sindaco aveva dato il benestare per il pagamento del riscatto,
il denaro contante aveva fatto una piccola deviazione. Lukas e Geller ave-
vano fatto portare i soldi dall'aiutante di Kennedy a un indirizzo della No-
na Strada - una piccola autofficina senza insegne di fronte al quartier gene-
rale dell'FBI. Tobe Geller aveva risistemato il contante in due enormi sac-
che Burgess Security Systems KL-19, che sembravano fatte di una norma-
lissima tela. In realtà, erano stati inseriti sottilissimi filamenti di rame ossi-
dato, un'antenna estremamente efficiente. I circuiti di trasmissione erano
nascosti nei manici di nylon e le batterie erano montate al posto dei bottoni
di plastica sul fondo. Le borse trasmettevano un segnale GPS più chiaro
del se gnale portante della CBS e che non poteva essere schermato se non
mediante lastre di metallo spesse diversi centimetri.
Inoltre, Geller aveva riavvolto quaranta mazzette di banconote con nastri
che aveva progettato lui stesso, all'interno dei quali si trovavano dei wafer
trasmittenti ultrasottili. Se anche il soggetto avesse trasferito il denaro dal-
le sacche o se l'avesse diviso con dei complici, Geller sarebbe riuscito u-
gualmente a rintracciare le banconote in un raggio di novanta chilometri.
Le borse erano state piazzate nel campo esattamente dove il soggetto a-
veva indicato nella lettera. Tutti gli agenti si erano ritirati. Ed era iniziata
l'attesa.
Lukas conosceva le basi del comportamento criminale. Gli estorsori e i
rapitori spesso si fanno prendere dall'ansia appena prima di ritirare il ri-
scatto. Ma chiunque fosse disposto a uccidere ventitré persone non si sa-
rebbe certo tirato indietro proprio ora. Lei non riusciva a capire per quale
motivo il criminale non si fosse ancora avvicinato ai soldi.
Stava sudando: la temperatura era stranamente calda per essere l'ultimo
giorno dell'anno e l'aria aveva un sentore dolciastro. Come se fosse autun-
no. Margaret Lukas odiava l'autunno. Avrebbe preferito di gran lunga stare
sdraiata nella neve, piuttosto che in quella stagione-purgatorio.
«Dove sei?» borbottò. «Dove?» Si dondolò leggermente, sentendo il do-
lore della pressione nelle ossa del bacino. Era muscolosa ma magra, con
ben poca imbottitura naturale a proteggere le sue ossa dalle asperità del
terreno. Scrutò il campo per l'ennesima volta, nonostante i complicati sen-
sori di Geller potessero rilevare la presenza del soggetto molto prima dei
suoi occhi grigio-azzurri.
«Hmmm.» C.P. Ardell, un agente dalla corporatura massiccia con cui di
tanto in tanto Lukas lavorava, si strinse la cuffia e rimase in ascolto. Poi
annuì con la testa calva e guardò Margaret. «Era la postazione Charlie.
Nessuno è uscito dalla strada verso gli alberi.»
Lukas grugnì. Quindi si era sbagliata. Aveva pensato che il soggetto si
sarebbe avvicinato al denaro da ovest attraverso una fila di alberi a circa
settecento metri di distanza dalla superstrada. Immaginava che sarebbe sta-
to al volante di una Hummer o di una Range Rover.
«La postazione Bravo?» domandò.
C.P., che lavorava molto in incognito per la sua sfortunata somiglianza
con un trafficante di droga di Manassas o con un membro di prim'ordine
degli Hell's Angels, sembrava essere il più paziente degli agenti appostati.
Non aveva mosso i suoi centodieci chili di un solo centimetro da quando
erano arrivati. Fece la chiamata e contattò la postazione di sorveglianza più
a sud.
«Niente. Ragazzini che giocano. Nessuno maggiore di dodici anni.»
«Non li hanno mandati via, vero?» domandò Lukas.
«No.»
«Bene.»
Passò altro tempo. Hardy continuava a prendere appunti. Geller digitava
sul suo computer. Cage non riusciva a stare fermo, C.P. sì.
«Tua moglie è incazzata?» domandò Lukas a Cage. «Perché lavori oggi
che è festa?»
Cage si strinse nelle spalle. Era il suo gesto preferito. Possedeva un inte-
ro vocabolario di strette di spalle. Era un agente esperto al quartier genera-
le dell'FBI e, nonostante gli incarichi lo portassero in tutti gli stati dell'U-
nione, di solito si dedicava principalmente ai casi che riguardavano il di-
stretto: lui e Lukas lavoravano spesso insieme. E generalmente c'era anche
il capo di Lukas, l'agente speciale incaricato dell'ufficio di Washington,
D.C. Quella settimana, però, l'ASI Ron Cohen si trovava nella foresta plu-
viale brasiliana a farsi la prima vacanza da sei anni a quella parte e Lukas
aveva preso le redini del caso. In gran parte per merito della raccomanda-
zione di Cage.
Le dispiaceva che Cage, Geller e C.P. dovessero lavorare proprio quel
giorno. Avevano impegni per quella sera, oppure erano sposati. Invece, per
quanto riguardava Len Hardy, era felice che fosse lì: aveva degli ottimi
motivi per tenersi occupato nei giorni di festa, e quella era una delle ragio-
ni principali per cui Margaret gli aveva dato il benvenuto nel team
SPARMETRO.
Lukas aveva una bella casa a Georgetown, un luogo pieno di mobili an-
tichi, ricami, pizzi all'uncinetto e coperte patchwork create da lei, una con-
sistente collezione di vini pregiati, più o meno cinquecento libri e più di
mille CD. E il suo incrocio di labrador, Jean-Luc. Era un gran bel posto
per trascorrere una sera di festa, anche se, in tre anni che ci abitava, Lukas
non l'aveva mai fatto. Fino a quando il suo cercapersone non l'aveva in-
formata del suo incarico di responsabile della squadra SPARMETRO, era
rimasta occupata a sorvegliare la talpa del Comitato di Istruzione Pubblica,
Gary Moss, la persona che aveva fatto scoppiare lo scandalo degli appalti
per la costruzione delle scuole. L'uomo aveva acconsentito a farsi dotare di
registratore e aveva raccolto una grande quantità di conversazioni incrimi-
nanti. Ma la sua copertura era saltata e due giorni prima la sua casa a
Roslyn era stata squarciata da un'esplosione. Le sue due figlie si erano sal-
vate per miracolo. Moss aveva mandato la famiglia nella Carolina del
Nord e aveva passato il fine-settimana sotto la protezione dei federali. Lu-
kas era responsabile della sua incolumità, così come dell'indagine relativa
all'attentato alla casa di Moss. Poi però era arrivato il Becchino e Moss,
almeno per il momento, non era altro che un inquilino annoiato nel co-
stosissimo condominio che gli agenti delle forze dell'ordine chiamavano
semplicemente «la Nona Strada», il quartier generale dell'FBI.
Scrutò nuovamente il campo. Nessun segno dell'estorsore.
«Potrebbe essere lui a cercare di stanare noi», disse un agente accovac-
ciato dietro un albero. «Vuole una perlustrazione del perimetro?»
«No.»
«È la procedura standard», insistette l'agente. «Possiamo usare cinque,
sei auto prive di contrassegni. Non ci vedrebbe mai. Ne è sicura?»
«Troppo rischioso», disse Lukas.
Risposte brusche come quella le avevano fatto guadagnare nell'FBI la
reputazione di donna arrogante. Ma Margaret era convinta che l'arroganza
non fosse una cosa necessariamente negativa. Ispira fiducia nelle persone
con cui lavori. Inoltre, ti fa notare.
Guardò il suo Seiko. Mancavano poco più di tre ore alla sparatoria suc-
cessiva.
Sbatté le palpebre quando una voce gracchiò nella sua cuffia, pronun-
ciando il suo nome.
«Continua», disse nel microfono, riconoscendo la voce del vicedirettore
dell'FBI.
«Abbiamo un problema», le comunicò l'uomo con la sua voce perfetta-
mente impostata.
Lukas detestava i drammi inutili. «Di che si tratta?» chiese, senza curarsi
minimamente della ruvidità del suo tono di voce.
«Hanno investito un uomo vicino al Municipio, poco fa», continuò il vi-
cedirettore. «È morto. Non aveva documenti di identità. Niente di niente,
soltanto la chiave di un appartamento - niente indirizzo - e qualche soldo.
Il poliziotto che è arrivato sul posto aveva sentito parlare del ricatto e, dal
momento che era accaduto nelle vicinanze del Municipio, ha pensato che
potesse esserci un collegamento.»
Margaret capì immediatamente. «Hanno confrontato le impronte?» do-
mandò. «Le sue e quelle sulla lettera minatoria?»
«Esatto. L'uomo morto è l'autore della lettera, il socio di quello che spa-
ra.»
Lukas rammentò una parte della lettera. Diceva qualcosa del tipo:
Se mi uccidete, continuerà a uccidere.
Niente può fermare il Becchino...
«Dovete trovarlo, Margaret», disse il vicedirettore. Ci fu una pausa men-
tre, probabilmente, l'uomo consultava l'orologio. «Dovete trovarlo entro tre
ore.»
4
13,15
5
13,45
6
14,05
7
14,45
8
15,00
Parker Kincaid, seduto nella stessa poltroncina girevole che lui stesso
aveva requisito alla GSA diversi anni prima, eseguì un test che troppo po-
chi esaminatori eseguivano normalmente.
Lesse il documento.
E poi lo rilesse. E lo rilesse altre dieci volte. Riponeva molta fiducia nel-
le possibilità che la sostanza del documento stesso potesse svelare elementi
importanti su chi l'aveva scritto. Una volta gli era stato chiesto di autenti-
care una lettera che si supponeva fosse stata scritta da Abraham Lincoln a
Jefferson Davis, nella quale Lincoln suggeriva che, se la Confederazione si
fosse arresa, avrebbe acconsentito alla secessione di alcuni stati.
Il direttore dell'Associazione Storica Americana, visibilmente scosso,
aveva inviato la lettera a Parker. Il documento, se autentico, avrebbe scon-
volto l'intera storia degli Stati Uniti. Gli scienziati avevano già stabilito che
la carta era stata fabbricata intorno al 1860 e che l'inchiostro adoperato era
a base di ferro, congruente con l'epoca. Il documento presentava un as-
sorbimento di inchiostro appropriato nelle fibre cartacee ed era stato scritto
con quella che sembrava chiaramente la calligrafia di Lincoln.
Ciò nonostante, Parker non aveva dovuto nemmeno prendere la lente di
ingrandimento per controllare gli inizi e i sollevamenti dei tratti di penna.
Aveva letto la lettera una volta, una volta sola, e nel suo rapporto aveva
scritto: «Il documento in questione è di origine dubbia».
Il motivo? La lettera era firmata «Abe Lincoln». Il sedicesimo presidente
aborriva il diminutivo Abe e non avrebbe mai permesso che venisse ado-
perato in riferimento a se stesso, tantomeno l'avrebbe usato per firmare un
documento importante come quello. Il falsario era stato arrestato, impri-
gionato e - come è spesso il caso con questo genere di crimini - messo in
libertà sulla parola.
Mentre rileggeva per l'ennesima volta la lettera di estorsione, Parker pre-
se attentamente nota della sintassi del sosco - l'ordine delle frasi e dei
frammenti delle frasi - e della sua grammatica, le costruzioni generali che
aveva utilizzato nella composizione della lettera.
E, lentamente, cominciò a emergere l'immagine dell'anima dell'uomo
che aveva scritto la lettera, l'uomo il cui cadavere giaceva freddo e immo-
bile nell'obitorio dell'FBI.
«Eccoci», esclamò Tobe Geller. Si chinò verso lo schermo del suo com-
puter. «È il profilo psicolinguistico da Quantico.»
Parker guardò lo schermo. Quando era a capo della divisione Documen-
ti, aveva usato spesso quel tipo di analisi computerizzata. L'intero testo di
un documento minatorio - frasi, frammenti, punteggiatura - viene immesso
in un computer, che analizza il messaggio e lo confronta con i dati presenti
in un immenso «dizionario delle minacce» che contiene più di duecento-
cinquantamila parole e, in seguito, con un dizionario standard di più di
quindici milioni di parole. Un esperto, lavorando al computer, confronta la
lettera con le altre presenti nel database e decide se sono state scritte dalla
stessa persona. In questo modo si riescono a determinare anche alcune ca-
ratteristiche dell'autore.
«Profilo psicolinguistico del sosco 12-31 A, SPARMETRO», lesse Tobe
Geller. «I dati suggeriscono che il succitato soggetto sconosciuto sia nato
all'estero, ma che viva nel nostro paese da due o tre anni. Possiede un gra-
do di istruzione basso e probabilmente non ha passato più di due anni nel-
l'equivalente di una scuola superiore americana. Il probabile QI è di 100,
con un margine di 11 punti in difetto o in eccesso. Le minacce contenute
nel documento in oggetto non corrispondono ad alcuna minaccia conosciu-
ta presente nei database correnti. Ciò nonostante, il linguaggio è congruo
con minacce concrete espresse nel corso di crimini di stampo sia terroristi-
co sia estorsivo e quindi si raccomanda che il soggetto sconosciuto in que-
stione venga considerato estremamente pericoloso.»
Geller ne stampò una copia e la passò a Parker.
«Straniero», disse Lukas. «Lo sapevo.» Prese una fotografia del cadave-
re del sosco, scattata sul luogo dell'incidente. «A me sembra mitteleurope-
o. Serbo, ceco, slovacco.»
«Ha telefonato alla Sicurezza del Municipio», fece Len Hardy. «Non re-
gistrano le telefonate in arrivo? Potremmo vedere se aveva un accento par-
ticolare.»
«Probabilmente», disse Parker, «ma scommetto che si è servito di un
sintetizzatore vocale.»
«Esatto», confermò Margaret Lukas. «Simile a quelli delle caselle voca-
li.»
«Dovremmo chiamare la DITO», suggerì Tobe Geller.
Si trattava della Divisione Internazionale Terrorismo e Omicidi dell'FBI.
Ma Parker appallottolò il foglio del profilo psicolinguistico e lo lanciò
nel cestino della carta straccia.
«Cosa?» sbottò Lukas.
Dalla gola di C.P. Ardell uscì un suono che non poteva che essere una
risata.
«L'unica cosa che hanno azzeccato è la parte in cui dicono che è estre-
mamente pericoloso», esclamò Parker. «Ma questo lo sapevamo già da so-
li, no?»
Senza alzare lo sguardo dalla lettera di estorsione, continuò: «Non sto
dicendo che la DITO non debba essere coinvolta, però posso dire con cer-
tezza che il sosco non era straniero e che sicuramente era molto intelligen-
te. A occhio e croce direi che aveva un QI di centosessanta».
«Dove lo vedi?» domandò Cage, indicando la lettera. «Il mio nipotino
scrive meglio di così.»
«Vorrei tanto che fosse stato stupido», disse Parker. «La cosa sarebbe
molto meno spaventosa.» Picchiettò l'indice sulla fotografia del sosco.
«Certo, discendenza europea... ma probabilmente di quarta generazione.
Era molto intelligente, istruzione di grado elevato in una scuola privata, e
credo che passasse molto tempo davanti a un computer. Il suo vero indiriz-
zo era da qualche parte fuori da questa zona; qui aveva soltanto affittato
qualcosa. Ah, ed era il classico sociopatico.»
La risata di Lukas fu quasi una risata di scherno. «E questo dove l'hai vi-
sto?»
«Me l'ha detto lei», rispose semplicemente Parker. E indicò la lettera.
Anche Parker era un perito linguista. Aveva analizzato documenti senza
l'aiuto di software psicolinguistico per anni, basandosi sulle parole che le
persone sceglievano di usare e sulle frasi che costruivano. Alcuni anni
prima aveva testimoniato al processo di un giovane arrestato per omicidio.
L'imputato e un suo amico stavano rubando della birra in un negozio quan-
do il commesso li aveva sorpresi e li aveva assaliti con una mazza da base-
ball. L'amico dell'imputato aveva afferrato la mazza e stava minacciando il
commesso. L'imputato aveva gridato: «Dagliela!» L'amico aveva sollevato
la mazza e aveva ucciso l'uomo.
Il pubblico ministero sosteneva che la frase «Dagliela» significava
«Colpiscilo». La difesa sosteneva che l'imputato intendesse «Ridagliela
indietro». Parker aveva testimoniato che l'espressione «Dare a», a un certo
punto della storia dello slang americano, aveva assunto il significato di fa-
re del male, sparare, pugnalare, colpire. Ma il significato era caduto in di-
suso, insieme ad altre espressioni gergali. L'opinione di Parker era che
probabilmente l'imputato stesse dicendo al suo amico proprio di restituire
la mazza. La giuria aveva creduto alla testimonianza di Parker e, nonostan-
te il ragazzo fosse stato condannato per rapina, aveva scampato la condan-
na per omicidio.
«Ma è così che parlano gli stranieri», fece notare Cage. «'Io sono cono-
scente di come.' 'Pagate a me i soldi.' Ricordi il rapimento Lindbergh? Al-
l'Accademia?»
Tutti gli allievi agenti a Quantico avevano sentito quella storia durante le
lezioni di criminologia. Prima che Bruno Hauptmann fosse arrestato e
condannato per il rapimento del piccolo Lindbergh, i periti calligrafi del-
l'FBI avevano dedotto dalle espressioni usate nelle richieste di riscatto che
la persona che aveva scritto le lettere era un immigrato tedesco che si tro-
vava negli Stati Uniti con tutta probabilità da non più di due o tre anni - il
che descriveva accuratamente Hauptmann. L'esame aveva contribuito a ri-
durre il campo di ricerca del rapitore, che era stato condannato principal-
mente sulla base della comparazione tra un campione riconosciuto della
sua scrittura e la calligrafia delle lettere in cui chiedeva il riscatto.
«Bene, esaminiamo la lettera allora», disse Parker. Prese il foglio e lo
mise su un vecchio proiettore a parete.
«Non vuoi metterla sullo schermo video?» gli domandò Tobe Geller.
«No», fu la risposta perentoria di Parker. «No, non mi piace il digitale.
Dobbiamo restare il più vicino possibile all'originale.» Sollevò lo sguardo
e sorrise brevemente. «Dobbiamo andarci a letto insieme.»
La lettera comparve su un ampio schermo montato su una parete del la-
boratorio. Il documento biancastro sembrava stare di fronte a loro come un
sospetto sotto interrogatorio. Parker si avvicinò e fissò le grandi lettere
scure che aveva davanti.
Mentre parlava, Parker indicò i punti della lettera a cui si stava riferen-
do. «'Io sono conoscente' e 'pagate a me' suonano stranieri, certo. Ma la
forma con il verbo essere associato al participio presente è tipica delle lin-
gue mitteleuropee o germaniche di radice indoeuropea. Il tedesco, o il ce-
co, o il polacco, per esempio. Ma l'uso della preposizione 'a' associata a
'me' non è qualcosa che si trova in queste lingue. Loro lo dicono come noi,
'pagatemi'. Questo tipo di costruzione è più comune nelle lingue asiatiche.
Quindi, il nostro soggetto sta soltanto buttando a casaccio frasi che suoni-
no straniere. Cercava di fregarci facendoci credere che fosse straniero. Per
metterci su una falsa pista.»
«Non saprei», cominciò Cage.
«No, no», insistette Parker. «Guardate come ha tentato di farlo. Quelle
due espressioni sono vicine l'una all'altra, come se si fosse voluto liberare
dei falsi indizi per poi continuare con le cose serie. Se una lingua straniera
fosse davvero la sua lingua madre, sarebbe stato più coerente. E guardate
l'ultima frase della lettera. Qui torna alla costruzione tipica dell'inglese:
'Questo lo so soltanto io'. A proposito, questo è il motivo per cui ritengo
che passasse molto tempo davanti a un computer. Anch'io sono collegato
praticamente sempre, spulciando i siti internet dei commercianti di docu-
menti rari e partecipando ai gruppi di discussione sull'argomento. Molte
persone sono straniere, ma scrivono in inglese. Si vedono tonnellate di ba-
stardizzazioni dell'inglese simili a queste.»
«Sono d'accordo», gli disse Lukas. «Non lo sappiamo con certezza, ma è
probabile che abbia imparato a compattare silenziatori e ad automatizzare
l'Uzi sul web. È così che tutti imparano le cose, oggi.»
«Ma che mi dici dell'orario in ventiquattro ore?» domandò Hardy. «Ha
chiesto il riscatto per le ore dodici e zero zero. Questo è europeo.»
«Un'altra falsa pista. Non si riferisce all'ora allo stesso modo, in prece-
denza, quando scrive l'ora in cui il Becchino colpirà di nuovo. Ecco qui,
dice: 'Alle quattro, alle 8 e a Mezzanotte'.»
«Be'», disse C.P., «se non è straniero deve essere stupido. Guarda tutti
quegli errori.» Si rivolse a Lukas. «Sembra di sentire uno di quei bifolchi
che abbiamo beccato nel Manassas Park il mese scorso.»
«Tutti fasulli», rispose Parker.
«Ma», protestò Lukas, «guarda la primissima riga. 'La fine è in minente.'
Vuol dire 'la fine è imminente'. Non ha...»
«Ah, ma non è un errore logico», considerò Parker. «La gente dice 'in-
sieme a' anche se l'espressione corretta è 'insieme con' perché c'è una certa
logica nell'adoperare la preposizione 'a' invece della preposizione 'con'. Ma
'La fine è in minente' non ha senso, quale che sia il suo livello di istruzio-
ne.»
«E cosa mi dici delle parole scritte male?» domandò Hardy. «E degli er-
rori di punteggiatura e maiuscole?» Gli occhi del detective stavano scru-
tando attentamente la lettera.
«Ah, ma ci sono molti più errori di quelli», disse Parker. «Guarda come
usa il segno del dollaro e la parola 'dollari'. Una ridondanza. Poi, quando
parla dei soldi, usa per la frase un oggetto improprio.» Parker toccò una
porzione dello schermo, muovendo le dita lungo le parole:
«Ma, con una proposizione alla fine di una frase, non c'è bisogno della
virgola.»
9
15,15
Per prima cosa, Parker esaminò la carta su cui era stata scritta la lettera.
Il foglio misurava quindici centimetri per ventitré e la busta corrispon-
deva. Le misure dei fogli erano cambiate nel corso della storia, ma il for-
mato ventun centimetri e mezzo per ventotto era stato il formato standard
in America per quasi duecento anni. Il quindici per ventitré era il secondo
formato più diffuso. Troppo comune. Da solo, il formato del foglio non a-
vrebbe detto nulla a Parker sulla sua provenienza.
Per quanto riguardava la composizione della carta, Parker notò che era
carta di bassa qualità, fabbricata con un processo di omogeinizzazione
meccanico, non con il metodo Kraft tipico delle carte di alta qualità.
«La carta non ci sarà di nessun aiuto», annunciò infine. «È carta generi-
ca. Non riciclata, alto contenuto di acido, polpa grezza con bassa lumine-
scenza e apporto minimo di schiarenti ottici. Venduta in grandi quantità
dai fabbricanti alle catene di distribuzione all'ingrosso. La impacchettano
come carta comune. Non c'è traccia di marchio e non c'è modo di farla ri-
salire a un fabbricante o a un venditore in particolare e poi a un punto ven-
dita definito. Adesso guardiamo l'inchiostro.»
Sollevò attentamente la lettera e la pose sotto le lenti di uno dei micro-
scopi del laboratorio. La esaminò prima ingrandita dieci volte e poi cin-
quanta. Dalla tacca che la punta della penna aveva prodotto nella carta, da-
gli scivolamenti occasionali e dalla consistenza irregolare del colore, Par-
ker dedusse che il soggetto aveva usato una penna a sfera da poco prezzo.
«Probabilmente una AWI - American Writing Instruments. Venduta a
trentanove centesimi praticamente ovunque.» Guardò i suoi compagni di
squadra. Nessuno sembrava aver colto il significato di ciò che aveva appe-
na detto.
«E...?» lo sollecitò Lukas.
«È una cosa pessima», spiegò enfaticamente Parker. «Impossibile da rin-
tracciare. Vengono vendute praticamente in ogni negozio e in ogni centro
commerciale degli Stati Uniti. Proprio come la carta. E la AWI non adope-
ra targhe.»
«Targhe?» domandò Hardy.
Parker gli spiegò che alcuni fabbricanti inseriscono una targa chimica
nei loro inchiostri per identificare i prodotti e per aiutare a rintracciare do-
ve e quando sono stati fabbricati. La American Writing Instruments, però,
non lo faceva.
Parker cominciò a togliere la lettera da sotto il microscopio, ma si fermò,
notando un particolare strano. Parte del foglio era sbiadita. Non credeva
che si trattasse di un difetto di fabbricazione. Gli schiarenti ottici venivano
aggiunti alla carta da quasi cinquant'anni ed era insolito, anche in carta di
bassa qualità come quella, che ci fosse una disparità nella porosità.
«Potresti passarmi la PoliLight?» domandò a C.P. Ardell.
«Cosa?»
«Quella lì.»
L'agente sollevò una delle unità FLA - una fonte di luce alternativa. Il-
luminava una varietà di sostanze altrimenti invisibili all'occhio umano.
Parker indossò un paio di occhiali protettivi e accese la luce giallo-
verde.
«Mi arriveranno delle radiazioni o qualcosa del genere?» gli domandò
C.P. Ardell. Non stava scherzando del tutto.
«Ah, ah», gli rispose Parker, quindi fece scorrere la bacchetta della Po-
liLight sulla busta. Sì, la porzione di destra era più chiara del resto. Fece lo
stesso con la lettera e scoprì che c'era un disegno a forma di L sulla som-
mità e sul lato del foglio.
Interessante. Lo studiò ancora.
«Vedete come gli angoli sono sbiaditi? Credo che sia dovuto al fatto che
la carta e parte della busta siano state schiarite dal sole.»
«Dove, a casa sua o in negozio?» domandò Hardy.
«Potrebbe essere l'una o l'altro», rispose Parker. «Ma, data la coesione
della polpa, direi che la carta è rimasta sigillata fino a poco tempo fa. Il che
farebbe pensare al negozio.»
«Ma», disse Lukas, «dovrebbe essere un posto esposto a nord.»
Sì, pensò Parker. Ottimo. Non ci aveva pensato.
«Perché?» domandò Hardy.
«Perché siamo in inverno», gli disse Parker. «In qualsiasi altra direzione
non c'è abbastanza luce solare da schiarire la carta.»
Parker riprese a passeggiare. Era una sua abitudine. Quando la moglie di
Thomas Jefferson era morta, la figlia più grande, Martha, aveva scritto che
suo padre camminava avanti e indietro «quasi incessantemente, giorno e
notte, stendendosi solo di tanto in tanto, quando la sua energia si era com-
pletamente esaurita». Quando Parker lavorava su un documento o stava
lottando con un enigma particolarmente difficile, i Chi lo prendevano
spesso in giro dicendo «Ecco che ricomincia il girotondo».
La disposizione del laboratorio gli stava lentamente tornando alla mente.
Si avvicinò a un armadietto, lo aprì e ne estrasse una tavola da esame e
qualche foglio di carta per la raccolta delle tracce. Tenendo la lettera per
un angolo, vi fece scorrere sulla superficie un pennello di setole di cam-
mello per dislocare eventuali elementi microscopici. Non c'era praticamen-
te nulla. Non ne fu sorpreso. La carta è uno dei materiali più assorbenti che
esistono: trattiene la maggior parte delle sostanze dei posti in cui è stata,
ma solitamente queste restano saldamente ancorate alle fibre.
Parker prese una grossa siringa dalla sua valigetta e se ne servì per to-
gliere minuscoli dischi di inchiostro e carta dalla lettera e dalla busta. «Sai
come funziona?» domandò a Geller, indicando il gascromatogra-
fo/spettrometro di massa nell'angolo.
«Oh, certo», rispose Geller. «Una volta ne ho smontato uno. Così, per
divertimento.»
«Esami separati... per la lettera e per la busta», istruì Parker, porgendogli
i campioni appena prelevati.
«Non c'è problema.»
«A che serve?» domandò di nuovo C.P. Ardell. Gli agenti tattici solita-
mente non hanno molta pazienza con le questioni prettamente scientifiche.
Parker glielo spiegò. Il gascromatografo/spettrometro di massa separava
le sostanze chimiche rinvenute sulla scena di un crimine nei loro compo-
nenti di base e quindi le identificava. La macchina rombò minacciosamen-
te - in realtà, bruciava i campioni e analizzava i vapori risultanti.
Parker prelevò altre tracce dalla lettera e dalla busta e montò i vetrini
sotto due diversi microscopi Leitz. Guardò prima in uno, poi nell'altro, vol-
tando le manopole della messa a fuoco che si mossero con la lenta sensua-
lità dei meccanismi di precisione perfettamente lubrificati.
Fissò per un lunghissimo istante ciò che vedeva, poi sollevò lo sguardo e
disse a Geller: «Ho bisogno di digitalizzare le immagini di queste tracce».
Indicò il microscopio più vicino. «Come possiamo fare?»
«Ah, non c'è davvero nessun problema.» Il giovane agente inserì dei ca-
vi ottici nella base dei due microscopi. I cavi terminavano in un grosso pa-
rallelepipedo grigio, dal quale ne partivano altri. Geller prese questi ultimi
e li inserì in uno dei dieci computer del laboratorio. Lo accese e, un attimo
dopo, un'immagine delle particelle comparve sullo schermo. Geller ri-
chiamò un menu.
«Non devi far altro che cliccare qui», disse poi a Parker. «Sono imma-
gazzinate come file JPEG.»
«E posso mandarli per posta elettronica?»
«Dimmi soltanto a chi devono arrivare.»
«Tra un attimo... dovrò trovare l'indirizzo. Prima però voglio fare diversi
ingrandimenti.»
Parker e Geller catturarono tre immagini da ognuno dei microscopi,
quindi le salvarono sull'hard disk del computer.
Proprio mentre stavano finendo, il gascromatografo/spettrometro di
massa emise un lungo bip e i dati cominciarono ad apparire sullo schermo
del computer collegato all'unità.
«Ho un paio di esaminatori in attesa alla Materiali e alla Elementi», lo
informò Lukas. Erano le due sezioni dell'FBI dedicate all'analisi delle trac-
ce.
«Mandali a casa», disse Parker. «C'è una persona che voglio usare, per
questo.»
«Ma non sai nemmeno chi ho scelto», ribatté Lukas, accigliandosi.
«Intendo dire che non voglio qualcuno dell'FBI. È a New York.»
«Al dipartimento di Polizia?» domandò Cage.
«Un tempo. Adesso è civile.»
«Perché non qualcuno di qui?» domandò Lukas.
«Perché», rispose Parker, «il mio amico è il miglior criminalista della
nazione. È lui che ha progettato il PERT.»
«La nostra squadra delle prove?» domandò C.P.
«Esatto.» Parker cercò un numero e fece una telefonata.
«Ma», gli fece notare Hardy, «è la sera dell'ultimo dell'anno. Probabil-
mente non sarà in casa.»
«No», disse Parker. «Non esce praticamente mai.»
«Nemmeno nei giorni di festa?»
«Nemmeno nei giorni di festa.»
10
15,30
11
15,50
«È affollato?»
«L'albergo?» disse Cage in risposta alla domanda di Parker. Parlava an-
che lui al cellulare. «Eccome se è affollato, accidenti. Il nostro uomo dice
che il bar dell'atrio è pieno, dev'esserci una specie di ricevimento. Poi, nel-
le sale per i banchetti al piano di sotto sono in corso ben quattro feste di
Capodanno. Un sacco di aziende e di uffici chiude prima. Devono esserci
almeno mille persone.»
Parker pensò a che cosa poteva fare un'arma automatica in uno spazio
chiuso come un salone da pranzo.
Tobe Geller aveva trasferito agli altoparlanti la frequenza radio operati-
va. Nel laboratorio, la squadra poteva udire la voce di Jerry Baker. «Qui
Leader Capodanno Due, a tutte le unità. Codice Dodici al Four Seasons
sulla Strada M. Codice Dodici. Il sosco è sul posto, nessuna descrizione.
Presumibilmente armato di un Uzi completamente automatico e silenzia-
tore. Avete via libera. Ripeto, avete via libera.»
Il che significava che erano liberi di sparare al Becchino invece di arre-
starlo.
Decine di agenti sarebbero stati all'interno dell'albergo nel giro di pochi
minuti. L'avrebbero preso? Se anche non ci fossero riusciti, immaginò Par-
ker, l'avrebbero spaventato abbastanza da farlo fuggire prima che avesse il
tempo di far male a qualcuno.
Ma potevano anche prenderlo. Arrestarlo. O, se avesse opposto resisten-
za, ucciderlo. L'orrore di quella sera sarebbe finito, e lui sarebbe potuto
tornare a casa dai suoi figli.
Chissà cosa stanno facendo adesso, pensò.
Suo figlio si stava ancora preoccupando per il Barcaiolo?
Oh, Robby, come faccio a dirti di non preoccuparti? Il Barcaiolo è mor-
to da anni. Ma guarda qui... adesso, stasera, ce ne abbiamo un altro. Un
altro Barcaiolo, che è anche peggio. È questo il problema delle cose mal-
vage, figliolo. Il male continua a uscire strisciando dalla sua tomba e non
c'è modo di fermarlo...
La radio era in silenzio.
La cosa più difficile era aspettare. Ecco di che cosa si era dimenticato
Parker nei quattro anni che erano trascorsi da quando si era ritirato dall'at-
tività. Non ci si abituava mai all'attesa.
«Le prime auto stanno arrivando sul posto», segnalò Cage, ascoltando il
suo cellulare. Poi annunciò: «Non riuscirà a fuggire».
Parker si chinò ancora una volta a osservare la lettera di estorsione.
Ma oggi non c'è nessuno che canta. Questo spettacolo è un balletto. Una
matinée.
Il Becchino guarda la parete: c'è un poster. Vede un'immagine spavento-
sa che non gli piace. Più spaventosa ancora dell'immagine dell'entrata del-
l'inferno. È l'immagine di un soldato con una mascella enorme, e porta un
cappello blu e alto alto. Strano. No... click... no, no, non mi piace proprio
per niente.
Attraversa l'atrio, pensando che Pamela preferirebbe sicuramente vedere
degli uomini con cappelli da cowboy piuttosto che soldati con la mascella
grande come questo qui. Si vestirebbe con colori brillanti come fiori e u-
scirebbe per andare a vedere cantare gli uomini con i cappelli da cowboy.
L'amico del Becchino, William, portava cappelli così, a volte. Uscivano
tutti insieme. Crede che si divertissero anche, ma non ne è molto sicuro.
Il Becchino entra nel bar dell'atrio, che adesso è chiuso, e trova la porta
di servizio, la oltrepassa e sale le scale che hanno un odore dolciastro di
bibite rovesciate. Oltrepassa scatole di cartone piene di bicchieri di plastica
e tovaglioli di carta e caramelle gommose e barrette di cioccolato.
Ti amo sempre più...
Di sopra, davanti alla porta che dice «Galleria», il Becchino entra in cor-
ridoio e si incammina lentamente sulla spessa moquette rossa.
«Va' nel palco numero cinquantotto», gli ha detto l'uomo che gli dice le
cose. «Ho comprato tutti i posti del palco, così sarà vuoto. È a livello della
galleria. Sul lato destro del ferro di cavallo.»
«Cavallo?» ha domandato il Becchino. Cosa intende dire... cavallo?
«La galleria è a forma di ferro di cavallo. Va' in un palco.»
«Andrò...» Click. «... in un palco. Che cos'è un palco?»
«Sarà dietro le tende. È una piccola stanzetta sopra il palcoscenico.»
«Ah.»
Ora, pochi minuti alle quattro, il Becchino cammina lentamente verso il
palco e nessuno si accorge di lui.
Una famiglia al completo sta passando davanti al guardaroba, il padre
sta guardando l'orologio. Se ne vanno prima. La madre sta aiutando la fi-
glia a indossare l'impermeabile mentre camminano, e tutte e due sembrano
contrariate. C'è un fiore tra i capelli della bambina, ma non è né rosso né
giallo: è bianco. L'altro figlio, un bambino di circa cinque anni, guarda il
bar e si ferma. Al Becchino ricorda il bambino nel bell'albergo di poco
prima. «No, è chiuso», dice il padre. «Andiamo. Altrimenti salteranno le
prenotazioni per la cena.»
Il bambino fa una smorfia come se stesse per piangere e viene trascinato
via da suo padre senza caramelle morbide e senza barrette di cioccolato.
Il Becchino è da solo nel corridoio. Crede di sentirsi dispiaciuto per il
bambino, ma non ne è molto sicuro. Cammina verso il lato destro del ferro
di cavallo. C'è una giovane donna con una camicetta bianca che gli cam-
mina incontro. Ha in mano una torcia elettrica.
«Salve», gli dice. «Si è perso?»
Lo guarda in faccia.
Il Becchino le spinge il lato della borsa contro il seno.
«Cosa...?» comincia a dire lei.
Phut, phut...
Le spara due volte e quando lei cade sulla moquette lui la afferra per i
capelli e la trascina dentro il palco vuoto.
Si ferma appena oltre la tenda.
Ehi, questo è... click... questo è proprio carino. Hmmm.
Guarda il teatro sotto di lui. Il Becchino non sorride, ma decide che, do-
potutto, anche questo posto gli piace. Legno scuro, fiori, stucchi alle pareti,
oro e un lampadario grandissimo. Hmmm. Guarda quello. Più bello del
bell'albergo di prima. Anche se pensa che non è il posto migliore per spa-
rare. Pareti di cemento o di granito sarebbero meglio: così i proiettili rim-
balzerebbero di più e i frammenti di piombo acuminato correrebbero felici
dentro l'edificio e farebbero un sacco oh un sacco di danni in più.
Guarda le persone che ballano sul palcoscenico. Ascolta la musica del-
l'orchestra. Ma non è che la senta davvero. Sta ancora canticchiando tra sé.
Non riesce a togliersi quella canzone dalla testa.
Guardo il futuro.
Mi chiedo cos'ha in serbo per me.
Penso alla vita,
e ti amo sempre più.
II
LA BAMBINA
SCAMBIATA
EDNA W. ROBERTSON
FONDAMENTI DI ANALISI DEI DOCUMENTI
12
16,15
13
16,50
L'orologio di ottone.
Significava così tanto, per lui.
Il sindaco Jerry Kennedy lo stava guardando.
Era un regalo che aveva ricevuto dai bambini della scuola elementare
Thurgood Marshall, che sorgeva nel bel mezzo della zona di guerra del
Ward 8, nella parte sud-orientale della città.
Kennedy era stato molto toccato dal gesto. Nessuno prendeva seriamente
l'amministrazione cittadina di Washington. Washington era lo snodo poli-
tico, Washington era il governo federale, Washington era il luogo degli
scandali: oh, questo era ciò che catturava l'attenzione di tutti. Ma nessuno
sapeva, o si curava, di come la città stessa venisse governata o chi fosse re-
sponsabile dell'amministrazione.
I bambini della Thurgood Marshall sì, invece. Aveva parlato agli scolari
dell'onore e del lavoro duro e dell'importanza di stare lontani dalla droga.
Demagogia, certo. Ma alcuni di loro, seduti nell'auditorium umido e puz-
zolente di muffa, l'avevano guardato con un'espressione di sincera ammi-
razione. Poi gli avevano regalato l'orologio per ringraziarlo del suo discor-
so.
Kennedy lo sfiorò con la punta delle dita. Lo guardò di nuovo. Le quat-
tro e cinquantacinque.
E così, quelli dell'FBI erano arrivati vicini a fermare quel pazzo. Ma non
ci erano riusciti. C'erano stati dei morti, dei feriti. E sempre più panico in
città. Isteria. Si erano già verificate tre sparatorie accidentali da parte di
persone che portavano pistole illegali per protezione personale. Avevano
creduto di aver visto il Becchino per la strada o nei loro giardini, così ave-
vano affrontato le loro povere vittime e avevano cominciato a sparare.
E poi c'era la stampa che maltrattava Kennedy e la polizia del distretto
accusandoli di non essere all'altezza della sfida portata da un criminale di
quel tipo. Di essere morbidi con il crimine e di nascondersi. Un servizio
aveva suggerito addirittura che Kennedy fosse al telefono a tentare di otte-
nere dei biglietti per una delle sue amate partite di football mentre stava
avvenendo la sparatoria al teatro. Nemmeno gli articoli sulla sua appari-
zione televisiva erano positivi. Un commentatore politico aveva addirittura
riportato la frase del deputato Lanier: «Piegarsi al terrorismo».
Squillò il telefono. Wendell Jefferies, seduto di fronte al sindaco, arrivò
per primo al ricevitore. «Uh-uh. Okay...» Chiuse gli occhi, poi scosse
sconsolato il capo. Ascoltò ancora. Quindi riappese.
«Ebbene?»
«Hanno setacciato il teatro da cima a fondo e non hanno trovato nem-
meno uno straccio di prova. Nessuna impronta digitale. Nessun testimo-
ne... nessun testimone attendibile, comunque.»
«Gesù, ma cos'è questo tipo... invisibile?»
«Hanno ottenuto qualche indicazione da questo ex agente...»
«Un ex agente?» domandò Kennedy, perplesso.
«Un esperto di documenti. Ha scoperto qualcosa, ma non molto.»
Il sindaco si lamentò. «Abbiamo bisogno di soldati, abbiamo bisogno di
polizia a ogni angolo di strada, non ci servono dei manipolatori di scartof-
fie.»
Jefferies reclinò cinicamente il capo. L'idea di avere la polizia a ogni an-
golo di strada del distretto di Columbia era affascinante, ma era pura fanta-
sia.
«Potrebbe non avermi sentito», sospirò Kennedy. «Potrebbe non aver vi-
sto la trasmissione.»
«È una possibilità.»
«Ma sono venti milioni di dollari!» protestò Kennedy con il suo nemico
invisibile. «Perché diavolo non si mette in contatto con noi? Potrebbe ave-
re venti milioni di dollari!»
«L'hanno quasi preso, Jerry. Magari la prossima volta ci riusciranno.»
Kennedy si alzò e si fermò davanti alla finestra. Guardò il termometro
che segnalava la temperatura esterna. Zero gradi. Erano cinque soltanto
mezz'ora prima.
La temperatura stava precipitando...
Il cielo era appesantito da nubi cariche di neve.
Sollevò lo sguardo e guardò la cupola del Campidoglio. Quando Pierre
L'Enfant aveva presentato il «Progetto della città di Washington» nel 1792
aveva fatto tracciare a uno dei suoi geometri una linea da sud a nord e poi
un'altra esattamente perpendicolare alla prima, dividendo la città nei quat-
tro quadranti che rimangono ancor oggi. Il Campidoglio sorgeva sul punto
di intersezione di quelle due linee.
«Il centro del mirino», aveva detto un fautore delle armi libere a un'au-
dizione del Congresso.
Ma l'immaginario mirino telescopico poteva benissimo essere puntato
diritto al petto di Kennedy.
La città stava precipitando, e il sindaco era fortemente determinato a non
lasciarla sprofondare del tutto. Era nato a Washington, esemplare di una
specie in via di estinzione. La popolazione della città era calata da più di
ottocentomila abitanti a circa mezzo milione. E continuava a diminuire di
anno in anno.
Strano ibrido di politica di decentramento, la città aveva goduto di am-
ministrazione autonoma soltanto a partire dagli anni Settanta (fatta ecce-
zione per un periodo di qualche anno un secolo prima, durante il quale la
corruzione e l'incompetenza l'avevano trascinata sull'orlo della bancarotta).
Negli altri duecento anni trascorsi da quando era diventata capitale della
nazione, il distretto era stato governato dal Congresso.
Ma, venticinque anni prima, il potere legislativo aveva riconsegnato alla
città le redini del proprio destino. Da quel momento in avanti, un sindaco e
i tredici membri del consiglio comunale avevano lottato per tenere il cri-
mine sotto controllo (per diversi periodi Washington aveva avuto il tasso
di criminalità più elevato degli Stati Uniti), le scuole in funzione (con gli
studenti che ottenevano risultati più bassi di quelli di tutte le altre città
principali), le finanze in regola (sempre in rosso) e le tensioni razziali sopi-
te (il quadrante nero a sud-est contro il quadrante bianco a nord-ovest, e
un'alta percentuale dei crimini commessi in città avevano motivazioni raz-
ziali).
Esisteva una vaga possibilità che il Congresso entrasse in gioco ancora
una volta prendendo nuovamente in mano il governo della città. Una legge
aveva già abolito il potere di spesa del sindaco e persino i più ardenti so-
stenitori del distretto avevano rinunciato da tempo all'idea di formare uno
stato distinto.
Ma, per Kennedy, il governo della città non era la cosa più importante.
Maledizione, non gli importava se la città diventava parte della Virginia o
del Maryland, finché la sua amministrazione resisteva abbastanza a lungo
da aiutare la città stessa prima che esplodesse in un vulcano di crimini, di
povertà e di famiglie distrutte. Più del quaranta per cento dei giovani uo-
mini di colore del distretto era da qualche parte «nel sistema» - in prigione
o in libertà vigilata o ricercato. Negli anni Settanta un quarto delle famiglie
era guidato da un solo genitore; ora la percentuale si avvicinava ai tre quar-
ti.
Jerry Kennedy aveva avuto un assaggio personale di ciò che sarebbe po-
tuto accadere. Nel 1975, allora avvocato alle dipendenze del comitato sco-
lastico del distretto, era andato al Mall - la striscia di erba e di alberi intor-
no al monumento a George Washington - per la Giornata della gentilezza
umana, un evento di unità razziale, ed era stato tra le centinaia di persone
rimaste ferite quando disordini razziali erano scoppiati tra la folla. Quel
giorno aveva rinunciato ai suoi piani di trasferirsi in Virginia e tentare di
farsi eleggere al Congresso. Aveva deciso di diventare il sindaco della ca-
pitale della nazione. Per dio, aveva intenzione di sistemare la città.
Ma lo aspettava una battaglia titanica.
Aveva promesso al suo elettorato un'amministrazione libera dalla corru-
zione. Ma poi quel dipendente comunale - Gary Moss - si era fatto avanti e
Kennedy aveva scoperto un immenso schema di fondi neri che riguardava
la costruzione degli edifici scolastici. Molte delle scuole più nuove erano
state costruite così male da restare a malapena in piedi. E sembrava che di-
verse persone nominate personalmente da Kennedy, alcune di esse addirit-
tura suoi amici personali da tempo, fossero i responsabili. Kennedy stesso
si era fatto avanti lodando pubblicamente Moss e si era gettato anima e
corpo nella lotta alla corruzione. Ciò nonostante, per quanti sforzi facesse
per dimostrare la sua volontà di ripulire il distretto dal marciume, la stam-
pa proseguiva la sua campagna denigratoria e tentava continuamente di
collegarlo ai crimini.
E tutto era molto difficile, perché lo scandalo della corruzione e gli altri
che sarebbero potuti nascere nel tempo che restava del suo mandato lo di-
stoglievano dalla sua missione. Una missione che l'aveva assorbito com-
pletamente fin da quando aveva assunto la carica. Kennedy sapeva come
salvare quei chilometri quadrati di terra paludosa che aveva cominciato ad
amare non perché erano il luogo in cui sorgeva il governo federale, ma per
la gente che li abitava e per il fatto che erano così trascurati dal resto della
nazione. Per Kennedy, la risposta era semplicissima. Educazione. Non c'e-
rano vie più brevi. Bisognava far sì che i ragazzi continuassero a stare a
scuola; se ciò fosse avvenuto, allora sarebbero seguite la stima in se stessi
e la consapevolezza di poter scegliere la propria vita. (Sì, il sapere può sal-
vare. Aveva salvato lui. L'aveva strappato alla povertà, spingendolo di
prepotenza alla William & Mary Law School. Gli aveva dato una moglie
bella e intelligente, gli aveva dato due figli di successo.)
Nessuno nega il concetto basilare che l'istruzione possa salvare le perso-
ne, naturalmente. Ma come riuscirci era una questione completamente di-
versa. I conservatori protestavano, dicendo che se le persone non amavano
i loro vicini e non vivevano secondo i valori della famiglia, allora era un
problema loro. Noi insegnamo a casa, allora perché non lo fanno tutti? I li-
berai piagnucolavano e pompavano più soldi nel sistema di istruzione, ma
tutto ciò che il denaro riusciva a fare era rallentare il decadimento delle in-
frastrutture. Non riusciva a convincere gli studenti a rimanere all'interno
degli edifici scolastici.
Quella era la sfida di Gerald David Kennedy. Non poteva agitare una
bacchetta magica e riportare i padri in famiglia, non poteva inventare un
antidoto al crack e alla cocaina, non poteva togliere le armi dalle mani di
persone che vivevano a soli cinquanta chilometri di distanza dal quartier
generale dell'Associazione Nazionale Fucili. Ma aveva un'idea di come as-
sicurarsi che i bambini del distretto continuassero la loro istruzione. Il suo
piano poteva tranquillamente riassumersi in un verbo: comprarli, però lui e
Wendell Jefferies lo chiamavano in un'altra maniera: Progetto 2000.
Nel corso dell'ultimo anno Kennedy, aiutato da Jefferies, da sua moglie
e da poche altre persone fidate, aveva trattato con vari membri del comita-
to del distretto del Congresso l'imposizione di un'altra tassa sulle aziende
che facevano affari a Washington. I soldi sarebbero finiti in un fondo che
sarebbe servito a pagare gli studenti in contanti per finire la scuola con l'u-
nica condizione che restassero lontani dalla droga e non fossero condannati
per nessun crimine.
In un sol colpo Kennedy era riuscito a scatenare l'odio dell'intero schie-
ramento politico. I liberai avevano scartato l'idea definendola una fonte po-
tenziale di corruzione e avevano sollevato problemi riguardo il test obbli-
gatorio antidroga definendolo un attentato alla libertà civile del singolo in-
dividuo. I conservatori si erano semplicemente limitati a ridere. Le com-
pagnie che avrebbero dovuto essere tassate avevano la loro opinione, natu-
ralmente. La forza con cui Kennedy aveva tentato di esporre lo scandalo
del Comitato di Istruzione aveva prodotto le terribili minacce di cui era
stata messa al corrente l'agente Lukas; il suo Progetto 2000 ne aveva pro-
dotte altre: la minaccia da parte delle compagnie più importanti di cessare
le proprie attività produttive nel distretto, la riduzione dell'afflusso di do-
nazioni da parte delle lobbies, persino velati accenni a rendere pubbliche
passate indiscrezioni a sfondo sessuale, del tutto prive di fondamento, sì,
ma provate a dirlo ai mass media una volta che hanno messo le mani su
qualche videocassetta confusa di uomini e donne che entrano in sordidi
motel di periferia.
Ciò nonostante Kennedy era determinato a rischiare il tutto per tutto. E,
dopo mesi di trattative con il Congresso per far approvare il suo provvedi-
mento, sembrava che questo alla fine potesse davvero passare, grazie prin-
cipalmente al grande sostegno popolare di cui godeva il sindaco.
Adesso, però, Kennedy temeva che quel sostegno potesse scemare. Se
fosse inciampato oggi, se il Becchino avesse ucciso altri cittadini, se lui
fosse apparso debole e inefficace, non ci sarebbe più stata alcuna speranza
per il suo Progetto 2000. Perché lui non ci sarebbe stato più. Si sarebbe ri-
trovato di nuovo alla William & Mary a insegnare scienze politiche.
Il mirino telescopico di L'Enfant al centro del suo petto...
Sollevò lo sguardo e si rese conto che Jefferies era nuovamente al tele-
fono. L'assistente mise una mano sulla cornetta.
«È qui», disse.
«Dove?» domandò Kennedy.
«Proprio qui fuori. In corridoio», rispose Jefferies. Poi guardò il sindaco.
«Hai di nuovo dei dubbi?»
Com'è in ordine, pensò Kennedy. Sembra perfetto con quel doppiopetto,
la testa rasata, la cravatta di seta annodata in alto. Il sindaco aveva un bi-
sogno disperato di credibilità tra la popolazione nera ed era grato che quel-
l'uomo fosse al suo fianco.
«Certo che ho dei dubbi.»
Guardò fuori da un'altra finestra - una che non offriva una vista della ca-
pitale. In lontananza poteva vedere la torre dell'Università di Georgetown.
La sua bistrattata alma mater. Lui e Claire vivevano non lontano dalla
scuola. Ricordò che l'autunno prima erano saliti sulla ripida scalinata da
cui cadeva il sacerdote alla fine dell'Esorcista.
Il prete che sacrificava se stesso per salvare la bambina posseduta dal
demonio.
Ecco un bel presagio.
Annuì. «D'accordo. Va' a parlare con lui.»
Jefferies annuì a sua volta. «Ce la caveremo, Jerry. Usciremo da questa
storia. Ce la faremo.» Poi, al telefono, disse: «Esco immediatamente».
Nel corridoio all'esterno dell'ufficio del sindaco, un uomo decisamente
di bell'aspetto era appoggiato alla parete, esattamente sotto il ritratto di un
uomo politico del XIX secolo.
Wendell Jefferies gli si avvicinò.
«Ehi, Wendy.»
«Slade.» Era il nome dell'uomo - il suo vero nome di battesimo, per
quanto incredibile potesse sembrare - e, con il cognome Phillips, si poteva
quasi pensare che i suoi genitori sapessero in anticipo che un giorno sareb-
be diventato l'anchorman di un'emittente televisiva locale.
«Ho visto una schermata. Il tipo ha fatto secchi due sbirri, poi ha fatto il
Fantasma dell'Opera su una dozzina di poveri bastardi giù in platea.»
In onda, con il cavo di un auricolare che gli correva lungo il collo perfet-
to, Phillips parlava in modo diverso. In pubblico parlava in modo diverso.
Con i bianchi parlava in modo diverso. Ma Jefferies era nero e Slade vole-
va che pensasse che lui conosceva il gergo.
«Ne ha seccato uno, credo», continuò Phillips.
Jefferies non gli disse che, nel gergo della «mala», il verbo «seccare» si-
gnificava «uccidere con la pistola» e non «uccidere con un lampadario».
«Aveva quasi beccato il bastardo, ma non ce l'ha fatta.»
«Così ho sentito», disse Jefferies.
«E così l'amico ha intenzione di strofinarci un po' per farci stare me-
glio?» Quello era un riferimento all'imminente conferenza stampa di Ken-
nedy.
Ma Jefferies quel giorno non aveva pazienza per gli uomini come Slade
Phillips. Non sorrise. «Ecco la faccenda. Questo tipo continuerà a uccide-
re. Nessuno sa quanto è pericoloso.»
«E quanto è peri...?»
Jefferies lo zittì con un cenno. «Non può andare peggio di così.»
«Questo lo so.»
«Tutti avranno gli occhi puntati su di lui.»
Lui con la L maiuscola. Jerry Kennedy. Phillips l'avrebbe capito sicura-
mente.
«Certo.»
«Così abbiamo bisogno di un po' di aiuto», continuò Jefferies, abbassan-
do la voce con un'eco che risuonò insieme al rumore di soldi che passava-
no di mano.
«Avete bisogno di aiuto.»
«Possiamo arrivare a venticinque...»
«Venticinque.»
«Vuoi trattare?» domandò Jefferies.
«No, no. È solo che... be', è tanto. Che cosa vuoi che faccia?»
«Voglio che lui...»
«Kennedy.»
Jefferies sospirò. «Sì. Lui. Voglio che ne esca come se fosse un eroe. E
intendo l'eroe della situazione. Sono morte delle persone, e probabilmente
ne moriranno altre. Focalizza lui che si reca in visita alle vittime e sfida i
terroristi e... non lo so, se ne viene fuori con qualcosa di intelligente su
come catturare il killer. E distogli l'attenzione da lui per le cose che vanno
storte.»
«Distogliere...?»
«Il sindaco», disse Jefferies. «Kennedy non è...»
«No, lui non è la persona che si occupa del caso.» Phillips si schiarì la
voce. «È questo che stavi per dire?»
«Esatto», confermò Jefferies. «Qualsiasi cosa vada storta, deve apparire
che lui non ne sapeva nulla e che ha fatto del suo meglio per raddrizzarla.»
«Be', è un'operazione dell'FBI, giusto?»
«E vero, Slade, ma non vogliamo dare la colpa all'FBI di niente.»
«No? E perché, esattamente?»
«Non vogliamo e basta.»
Alla fine Slade Phillips, abituato a leggere le notizie sul gobbo, decise di
averne avuto abbastanza. «Non capisco, Wendy. Che cosa vuoi che fac-
cia?»
«Voglio che tu faccia il giornalista vero, Slade, tanto per cambiare.»
«Certo. Quindi...» cominciò Phillips, dando inizio alla sceneggiatura
nella sua mente. «Ha adottato la linea dura. Sta tenendo i poliziotti sotto
pressione. È andato negli ospedali... Aspetta, senza sua moglie?»
«Con sua moglie», disse Jefferies in tono paziente.
Phillips indicò la sala stampa con un cenno del capo. «Ma, aspetta... loro
stavano dicendo... voglio dire, quel tipo del Post ha detto che Kennedy non
è andato a visitare proprio nessuno. Avevano intenzione di torchiarlo ben
bene, per questo.»
«No, no, è andato da alcune famiglie che vogliono rimanere anonime.
L'ha fatto per tutto il giorno.»
«Oh, davvero?»
Era stupefacente che cosa ci si poteva comprare con venticinquemila
dollari, pensò Jefferies.
«È stato un bel gesto da parte sua», aggiunse Phillips. «Davvero un bel
gesto.»
«Non esagerare», lo avvertì Jefferies.
«Ma cosa mando come filmato? Voglio dire, se la storia è su di lui che
va negli ospedali...»
«Fa' semplicemente vedere gli stessi cinque secondi di nastro ripetuti»,
sbottò Jefferies. «Come fate sempre voi della televisione. Non lo so, mo-
stra le ambulanze alla fermata della metropolitana.»
«Ah. D'accordo. E che mi dici della parte dei fallimenti? Perché pensi
che ci sarà un fallimento?»
«Perché in situazioni come questa capita sempre.»
«Okay, hai bisogno di qualcuno su cui puntare il dito. Ma non...»
«Non i federali.»
«Okay», fece il giornalista. «Ma io come faccio a trovarlo, esattamen-
te?»
«Questo è il tuo lavoro. Ricordi? Chi, cosa, quando, dove e perché. Sei
tu il giornalista.» Prese Phillips sottobraccio e lo accompagnò fino alla fine
del corridoio. «Quindi va' a fare il giornalista.»
14
17,00
Il Becchino è in un vicolo.
È immobile, e si guarda intorno.
Adesso intorno a lui non ci sono né agenti federali né poliziotti. Non ci
sono testimoni, non c'è nessuno che può catturarlo e rimandarlo nel Con-
necticut, dove gli piacciono le foreste, ma dove odia le stanze con le sbarre
in cui lo fanno stare seduto per ore e ore a far niente, dove ci sono persone
che gli portano via la sua minestra e cambiano i canali della televisione
quando ci sono gli spot pubblicitari con i cowboy e i cuccioli per poter
guardare lo sport.
Pamela diceva: «Sei grasso. Sei fuori forma. Perché non cominci a cor-
rere? Va' a comprarti un paio ài...» click... «... un paio di scarpe da corsa
della Nike. Va' a comprarle. Va' al centro commerciale. Io ho altro da fa-
re».
Per un attimo, il Becchino pensa di vedere Pamela. Strizza le palpebre.
No, no, è soltanto un muro bianco nel vicolo.
Prometti di amarla, onorarla, rispettarla e... click... obbedirle?
Stava correndo con Pamela, un giorno, un giorno d'autunno, tra le foglie
rosse e le foglie gialle. Tentava di mantenere il passo, sudando, il cuore
che gli faceva male come gli aveva fatto male il cervello dopo che il
proiettile si era fatto un giro nel suo cranio. Pamela aveva accelerato il
passo e lui si era ritrovato a fare jogging da solo. E alla fine era tornato a
casa da solo, camminando.
Il Becchino è preoccupato di ciò che è andato storto nel teatro. È preoc-
cupato di tutti i poliziotti e gli agenti e ha paura che l'uomo che gli dice le
cose non sarà felice perché lui non è riuscito a uccidere tutte le persone che
avrebbe dovuto uccidere.
Il Becchino sente delle sirene in lontananza. Molte sirene.
Rallenta ancor di più. Lascia che la borsa gli penzoli dal braccio. L'arma
è dentro la borsa e pesa di nuovo cinque chili da quando lui ha tranciato il
cavo del... click... del lampadario in mille pezzi, perché ha ricaricato.
Davanti a lui, nel vicolo, vede un movimento. Si ferma. C'è un ragazzi-
no. È nero e magro magro, pelle ossa. Ha circa dieci anni. Sta ascoltando
qualcuno che parla con lui. Qualcuno che il Becchino non riesce a vedere.
Improvvisamente, il Becchino sente la voce di Pamela: «Avere... avere...
avere... dei bambini con te? Avere... avere... avere... un figlio tuo?»
Sempre più...
15
17,15
Gravesend.
L'automobile che trasportava Parker e Cage sussultò sui tombini scon-
nessi e si fermò accanto a un marciapiede da cui macerie e immondizia si
riversavano sulla strada. La carcassa bruciata di una Toyota giaceva, ironi-
camente, contro un idrante.
Scesero dalla macchina. Lukas era venuta con la sua, una Ford Explorer
rossa, ed era già nel lotto abbandonato che era stato scelto come punto di
incontro. Era in piedi con le mani sui fianchi e si stava guardando intorno.
L'odore di urina, di feci, di spazzatura e di legno bruciato era molto for-
te.
I genitori di Parker, che si erano dati ai viaggi intorno al mondo dopo
che suo padre era andato in pensione, una volta si erano ritrovati in una ba-
raccopoli di Ankara, in Turchia. Parker ricordava ancora la lettera che ave-
va ricevuto da sua madre, con cui manteneva una fitta corrispondenza. Era
l'ultima lettera che aveva ricevuto da loro prima che morissero. L'aveva in-
corniciata e l'aveva appesa alla parete del suo studio, nel seminterrato di
casa, accanto alla sala della gloria dei Chi.
Sono impoverite, le persone di qui, ed è questo, molto più delle differen-
ze razziali, molto più della cultura, della politica, della religione, a tra-
sformare in pietra i loro cuori.
In quel momento, guardando la desolazione della zona, ripensò alle pa-
role di sua madre.
Due adolescenti di colore, che erano appoggiati contro un muro decorato
da una serie di graffiti sovrapposti, guardarono gli uomini che stavano ar-
rivando - chiaramente forze dell'ordine - e si allontanarono lentamente, i
volti che esprimevano un misto di disagio e di arroganza. Parker era preoc-
cupato, non per la pericolosità, ma per le dimensioni del posto. Erano cin-
que o sei chilometri quadrati di baracche e di casermoni, di piccole fabbri-
che e di edifici abbandonati. Come potevano riuscire a trovare il covo del
sosco in quel groviglio suburbano?
C'erano degli enigmi che Parker non era mai riuscito a risolvere.
Tre falchi...
Un ricciolo di fumo gli arrivò alle narici. Veniva dai fuochi che i senza-
tetto e i ragazzi delle bande accendevano nei bidoni di metallo, bruciando
legna e rifiuti per riscaldarsi. Vide altre carcasse di automobili. Dalla parte
opposta della strada c'era un edificio che sembrava deserto: l'unico segno
che ci vivesse qualcuno era una singola lampadina nuda accesa dietro un
asciugamano appeso a una finestra rotta.
Appena oltre la fermata della metropolitana, al di sopra di un muro di
mattoni semidiroccato, il fumaiolo del crematorio si innalzava contro il
cielo scuro della sera. Non ne usciva fumo, ma il cielo sopra l'apertura era
increspato dal calore. Forse i forni erano sempre accesi. Parker rabbrividì.
Quella vista gli ricordava vecchie immagini del...
«L'inferno», borbottò Lukas. «Sembra l'inferno.»
Parker la guardò. Lei incrociò il suo sguardo.
Cage si strinse nelle spalle in segno d'assenso.
Arrivò una macchina. Era Jerry Baker, con indosso una voluminosa
giacca a vento. Parker vide che, oltre all'uniforme da agente tattico, porta-
va anche un giubbotto antiproiettile e un paio di stivali da cowboy. Cage
gli consegnò la pila di fotografie computerizzate del sosco - la maschera
della morte. «Le useremo per chiedere in giro. Vedi quello che c'è scritto
in fondo? È l'unica descrizione che abbiamo del Becchino.»
«Non molto.»
Cage si strinse nelle spalle.
Altre automobili e furgoni cominciavano ad arrivare, i lampeggianti sui
cruscotti che si riflettevano sulle file di finestre. Automobili governative
dell'FBI. Autopattuglie bianche e nere della polizia del distretto, con i
lampeggianti in funzione. C'erano circa venticinque uomini e donne in to-
tale, la metà agenti federali, l'altra metà poliziotti in uniforme. Baker fece
loro cenno di avvicinarsi. Si riunirono intorno al furgone di Lukas. Distri-
buì le fotografie.
«Vuoi istruirli?» chiese Lukas a Parker.
«Certo.»
Lukas si voltò. «Se volete ascoltare il signor Jefferson, per favore...»
Parker impiegò un secondo a capire che stava parlando di lui. Decise che
sarebbe stato un fallimento totale come agente in incognito. «L'uomo nella
fotografia che vi è stata consegnata», disse, «è il criminale responsabile
delle sparatorie della metropolitana e del teatro. Crediamo che lavorasse in
un covo da qualche parte qui a Gravesend. Adesso è morto, ma il suo
complice - l'esecutore materiale delle stragi - è ancora a piede libero.
Quindi, abbiamo bisogno di trovare il covo, e di trovarlo alla svelta.»
«Avete un nome?» domandò uno dei poliziotti.
«Il sosco - quello morto - è un John Doe», disse Parker, tenendo alta la
fotografia. «Il killer ha un soprannome. Il Becchino. Tutto qui. La descri-
zione del killer è in fondo alla pagina.»
«Potete ridurre leggermente l'area di perlustrazione», continuò poi. «Il
covo, con ogni probabilità, si trova vicino a un cantiere edile o a un sito di
demolizioni, ed è più probabile che sia vicino al cimitero, non lontano. I-
noltre, il sosco ha comprato di recente della carta come questa...» Parker
sollevò le custodie che contenevano la lettera di estorsione e la busta. «O-
ra, la carta era sbiadita dal sole, quindi è possibile che l'abbia comprata in
un negozio che espone la merce in una vetrina rivolta verso nord. Quindi,
entrate in ogni cartoleria, in ogni drogheria, in ogni edicola che vende car-
ta. Ah, e cercate anche il tipo di penna che ha adoperato. Era una penna a
sfera AWI nera. Probabilmente costa trentanove o quarantanove centesi-
mi.»
Era tutto ciò a cui riusciva a pensare. Con un cenno del capo cedette la
parola a Lukas. Margaret si mise di fronte agli agenti e li guardò per un
lungo istante. «Adesso ascoltatemi. Come vi ha detto l'agente Jefferson, il
sosco è morto, ma il killer non lo è affatto. Non sappiamo se si trova a
Gravesend, e non sappiamo se vive nel covo. Ma voglio che vi comportiate
come se fosse tre metri dietro di voi con la pistola in pugno. Non ha nessun
problema a uccidere le forze dell'ordine. Quindi, mentre vi aggirate per il
quartiere, voglio che tutti - e dico tutti - stiate attenti ai luoghi di possibili
imboscate. Voglio la mano con cui sparate sempre libera, voglio giacche e
giubbotti sbottonati, voglio le fondine aperte.»
Tacque per un istante, guardando gli agenti che aveva di fronte. Aveva
la loro completa attenzione.
«Alle otto in punto - sì, avete sentito bene, tra poco più di due ore - il
killer andrà in un posto affollato di gente e scaricherà su quelle persone la
sua arma. Di nuovo. Ora, io non voglio dovermi trovare a lavorare sul luo-
go della sparatoria e non voglio guardare negli occhi di qualcuno che ha
appena perso un genitore o un figlio. Non voglio dover dire: Mi dispiace
ma non siamo riusciti a trovare questo animale prima che uccidesse anco-
ra. Questo non accadrà. Non permetterò che accada. E, soprattutto, voi non
lo permetterete.»
Parker si ritrovò trascinato dalle sue parole, pronunciate con voce ferma
e decisa. Pensò al discorso dei Fratelli nell'Enrico V di Shakespeare, che
era stata l'introduzione di Robby al teatro. Il bambino l'aveva imparato a
memoria il giorno dopo essere tornati dal Kennedy Center.
«D'accordo», disse Lukas. «Ci sono domande?»
«Qualche particolare in più sul suo armamento?»
«Ha adoperato un Uzi completamente automatico con caricatori lunghi e
silenziatore. Non abbiamo ulteriori informazioni.»
«Abbiamo via libera?» domandò un agente.
«Di uccidere il killer?» rispose Lukas. «Completamente. C'è altro?»
Nessuno alzò la mano. «Benissimo. Siamo su una frequenza di emergenza.
Non voglio chiacchiere. Non chiamate per dire che non avete trovato nulla.
Non mi interessa. Se vedete un probabile sospetto, chiamate rinforzi, guar-
datevi le spalle e affrontatelo. E adesso andate e trovate quel covo.»
Parker stesso si sentiva stranamente toccato da quelle parole. Erano pas-
sati anni da quando aveva usato un'arma da fuoco, ma improvvisamente si
scoprì a volere un pezzo del Becchino.
Lukas diresse le squadre di agenti e di poliziotti nelle zone di Gravesend
che voleva fossero controllate. Parker era sinceramente impressionato:
Margaret Lukas aveva un senso notevole della geografia del quartiere. Ci
sono persone, rifletté, che sono nate per fare questo mestiere.
La metà degli agenti se ne andò a piedi, altri entrarono in macchina e si
allontanarono rapidamente. Cage, Lukas e Parker rimasero in piedi sul
marciapiede. Cage fece una telefonata. Parlò per qualche secondo, poi
riagganciò.
«Tobe ha una PMC. Stanno arrivando. Sta analizzando il videotape del
teatro. Ah, e sta arrivando anche quello psicologo di Georgetown.»
La maggior parte dei lampioni era rotta: alcuni sembravano essere stati
rotti da proiettili. I pochi negozi ancora aperti illuminavano la strada di un
bagliore verde chiaro. Due agenti stavano setacciando il lato opposto della
strada. Cage si guardò intorno e vide due giovani che si sfregavano le mani
sopra un bidone in cui era acceso un fuoco. «Vado a parlare con loro», dis-
se. Entrò nel lotto abbandonato. Sembrò che i due volessero andarsene, ma
sicuramente pensarono che così avrebbero destato ancora più sospetti.
Mentre Cage si avvicinava, i loro sguardi rimasero fissi sul fuoco. Smisero
di parlare.
Lukas indicò una pizzeria a mezzo isolato di distanza. «Io prendo quel-
la», comunicò a Parker. «Vuoi restare qui ad aspettare Tobe e lo psic?»
«Certo.»
Lukas si allontanò lungo la strada, lasciandolo solo.
La temperatura continuava ad abbassarsi. Ora nell'aria c'era una punta di
gelo: quel freddo che lui amava così tanto in autunno - gli evocava ricordi
di quando accompagnava i bambini a scuola dopo aver bevuto una tazza di
cioccolata calda, di quando andava a fare la spesa per il giorno del Ringra-
ziamento, di quando sceglieva le zucche per Halloween. Ma quella sera era
consapevole soltanto della fitta dolorosa del freddo nelle narici, sulle orec-
chie e sulla punta delle dita: la sensazione era simile al taglio di un rasoio.
Si infilò le mani in tasca.
Forse a causa del fatto che la maggior parte degli agenti se n'era andata,
gli abitanti del luogo stavano lentamente tornando a occupare le strade. A
due isolati di distanza, un uomo grassottello con un impermeabile scuro
uscì da un bar, si incamminò lentamente lungo la strada, poi si infilò nella
nicchia buia di uno sportello Bancomat - per pisciare, immaginò Parker.
Una donna molto alta, o forse un travestito, chiaramente una prostituta,
uscì dal vicolo dove si era rintanata ad aspettare che la folla di agenti si di-
sperdesse.
Tre giovani di colore uscirono da una sala giochi e aprirono una bottiglia
di Colt 45 doppio malto, ridendo di gusto mentre scomparivano in un vico-
lo.
Parker si voltò e, per caso, guardò dall'altra parte della strada.
C'era un negozio di merce a buon mercato. Era chiuso, e inizialmente
Parker non vi prestò molta attenzione. Poi, però, notò alcune risme di carta
di poco prezzo sugli scaffali accanto al registratore di cassa. E se fosse sta-
to quello il negozio in cui il sosco aveva comprato la carta e la busta per la
sua lettera?
Si avvicinò alla vetrina del negozio e guardò oltre il vetro sporco, met-
tendosi le mani a coppa intorno agli occhi per sconfiggere il riflesso dell'u-
nico lampione ancora funzionante e sforzandosi di vedere meglio i pacchi
di carta. Le mani gli tremavano per il freddo. Accanto a lui, un topo di fo-
gna fece capolino da un cumulo di rifiuti. Questa è pura follia, pensò Par-
ker Kincaid. Non c'è motivo per cui io sia qui.
Ciò nonostante sollevò un braccio e, adoperando il polsino elastico del
suo bomber, ripulì la vetrina di fronte a sé con la stessa cura di un lavavetri
professionista per poter guardare meglio.
16
17,55
17
18,15
Henry Czisman prese un piccolo sorso dalla birra che aveva di fronte.
Non era certo estraneo agli alcolici, ma in quel momento particolare vo-
leva essere il più sobrio possibile. Ma un uomo in un bar di Gravesend la
sera dell'ultimo dell'anno avrebbe fatto meglio a bere se non voleva incor-
rere nei sospetti di tutti gli altri.
Era più di mezz'ora che si trastullava con il boccale di Budweiser.
Il bar si chiamava Joe Higgins' e Czisman pensò con irritazione che era
grammaticamente scorretto. Soltanto i sostantivi plurali prendono l'apo-
strofo della s per formare il possessivo. Quel posto avrebbe dovuto chia-
marsi Joe Higgins's.
Un altro sorso di birra.
La porta si aprì e Czisman vide entrare diversi agenti. Si aspettava che
qualcuno entrasse a fare domande e temeva che fossero Lukas o Cage o il
finto «Jefferson», che l'avrebbero riconosciuto e si sarebbero sicuramente
chiesti per quale motivo li stava seguendo. Ma non aveva mai visto prima
gli uomini che erano appena entrati.
Il vecchio seduto accanto a lui continuò: «E così faccio: 'Ehi, il blocco è
rotto. Che cosa me ne faccio di un blocco rotto? Dimmi un po', che cazzo
me ne faccio?' E lui non mi risponde, hai capito? Che cosa cazzo si crede-
va, che non me ne accorgevo?»
Czisman guardò l'uomo, che indossava un paio di pantaloni grigi strap-
pati e una maglietta scura. Il 31 dicembre e quello se ne andava in giro
senza soprabito. Viveva vicino? Di sopra. L'uomo stava bevendo whisky
che puzzava di antigelo.
«Non ti ha risposto, eh?» disse Czisman, gli occhi fissi a scrutare gli a-
genti.
«No. E io gli dico che me lo inculo se non me ne dà uno nuovo. Hai ca-
pito?»
«Ma certo.»
Aveva offerto un drink all'uomo di colore perché avrebbe avuto un'aria
meno sospetta vedere un bianco e un nero con le teste chinate su una birra
e un whisky in un bar come il Joe Higgins', con o senza apostrofo, piutto-
sto che un uomo bianco da solo.
E quando offri da bere a qualcuno devi lasciare che ti parli.
Gli agenti stavano mostrando un pezzo di carta - probabilmente la foto-
grafia del complice morto del Becchino - a un tavolo a cui erano sedute tre
tardone locali truccate come puttane di Harlem.
Czisman guardò oltre gli agenti e vide il Winnebago parcheggiato dal-
l'altro lato della strada. Era rimasto di guardia al quartier generale dell'FBI
sulla Nona Strada e finalmente aveva visto tre agenti uscire di corsa insie-
me a una decina di altri. Be', dal momento che non erano disposti a portar-
lo con loro, si era arrangiato da solo. Grazie a Dio c'era stata una carovana
di una decina di automobili: Czisman non aveva dovuto fare altro che se-
guirle, passando con il rosso, guidando veloce e sportivo proprio come do-
vrebbe fare un poliziotto quando sta inseguendo qualcuno e non ha il lam-
peggiatore sul cruscotto. Avevano parcheggiato in gruppo vicino al bar e,
dopo un rapido briefing, si erano divisi alla ricerca di informazioni. Czi-
sman aveva parcheggiato in fondo alla strada ed era scivolato nel bar senza
farsi notare. Aveva la sua videocamera digitale in tasca e aveva filmato
qualche secondo del briefing degli agenti. Non c'era altro da fare che se-
dersi e aspettare, ora.
«Ehi», disse il tipo, che si era accorto soltanto allora degli agenti. «Chi
sono? Sbirri?»
«Stiamo per scoprirlo.»
Un attimo dopo uno degli uomini si avvicinò al bancone. «Salve. Siamo
agenti federali.» Il tesserino venne mostrato come da regolamento. «Avete
per caso visto quest'uomo da queste parti?»
Czisman guardò la fotografia del morto che aveva già visto al quartier
generale dell'FBI e scosse il capo. «No.»
Il suo compagno di bevute disse: «Sembra morto. È morto?»
«Non avete visto nessuno che possa assomigliargli?» domandò l'agente.
«Nossignore.»
Czisman scosse nuovamente il capo.
«Stiamo cercando anche qualcun altro. Un maschio bianco, sui trenta o
quarant'anni. Porta un impermeabile scuro.»
Ah, il Becchino, pensò Henry Czisman. Strano sentir descrivere qualcu-
no che era arrivato a conoscere tanto bene da una prospettiva tanto distan-
te. «Ci sono molte persone così, da queste parti.»
«Sissignore. L'unica caratteristica identificativa di cui siamo a cono-
scenza è che porta un crocifisso d'oro. E che probabilmente è armato. Po-
trebbe aver parlato di armi, vantandosi di conoscerle.»
Il Becchino non farebbe mai una cosa del genere, pensò Czisman. Ma
non corresse gli agenti. «Mi spiace», si limitò a dire, scuotendo di nuovo la
testa.
«Se lo vedete, potete per favore chiamare questo numero?» L'agente
diede a entrambi un biglietto da visita.
«Ma certo.»
«Come no.»
Quando gli agenti se ne andarono, il compagno di bevute di Czisman
disse: «Che cos'è tutta questa storia?»
«Boh.»
«Qui succede sempre qualcosa. Droga. Scommetto che è una storia di
droga. Comunque, ecco che mi ritrovo questo camion con un blocco fuso.
Aspetta. Ti ho detto del mio camion?»
«Avevi cominciato.»
«Devo proprio parlarti del mio camion.»
Improvvisamente Czisman guardò con attenzione l'uomo che aveva ac-
canto, e dentro di sé avvertì la stessa fitta di curiosità che anni prima l'ave-
va spinto a fare il giornalista. Il desiderio di conoscere le persone. Non di
sfruttarle, non di usarle, non di esporle. Ma di capirle e spiegarle.
Chi era quell'uomo? Dove viveva? Quali erano i suoi sogni? Quali cose
coraggiose aveva fatto? Aveva una famiglia? Che cosa gli piaceva mangia-
re? Era forse un musicista o un pittore?
Era la cosa migliore, la cosa giusta per lui, vivere quella vita squallida?
O forse era meglio che morisse ora, prima che la sofferenza, prima che il
dolore, lo risucchiasse sul fondo come un peso morto?
Poi, però, Czisman vide con la coda dell'occhio il portellone del Winne-
bago che si apriva e Jefferson e Cage che si preipitavano fuori e correvano
via. Quella donna, l'agente Lukas, uscì un attimo dopo.
Avevano una gran fretta.
Czisman lanciò i soldi sul bancone e si alzò.
«Ehi, non vuoi sentire del mio camion?»
Senza dire una parola, Czisman si avvicinò rapidamente alla porta, la
spalancò e si mise a correre dietro agli agenti nelle strade desolate di Gra-
vesend.
18
18,25
Quando la squadra raggiunse Jerry Baker, due dei suoi uomini avevano
già trovato il rifugio del sosco.
Risultò essere una squallida casa bifamiliare a poca distanza da un vec-
chio edificio in corso di demolizione - uno dei cantieri che avevano trovato
sulla cartina. Argilla e polvere di mattone erano praticamente ovunque.
«Ho mostrato a una coppia che sta dall'altra parte della strada la foto del
soggetto», disse Baker. «L'avevano visto due o tre volte nell'ultima setti-
mana. Teneva sempre la testa bassa, camminava alla svelta. Non si è mai
fermato e non ha mai rivolto la parola a nessuno.»
Una ventina di agenti e poliziotti erano già disposti intorno all'edificio.
«Qual era il suo appartamento?» domandò Lukas.
«Al pianterreno. Abbiamo già ripassato il piano superiore.»
«Avete parlato con il proprietario? Avete un nome?» volle sapere Par-
ker.
«L'agenzia immobiliare dice che l'inquilino è un certo Gilbert Jones»,
disse un agente.
Maledizione... ancora il nome falso.
«E il numero di previdenza sociale», continuò l'agente, «è stato attribuito
a un uomo morto diversi anni fa. Il sosco si è abbonato al servizio Internet
- usando ancora il nome Gilbert Jones - con una carta di credito intestata
allo stesso nome, ma è una di quelle carte di credito a rischio totale. Si
mettono dei soldi in una banca per coprire il limite di spesa e la carta è va-
lida soltanto finché ci sono soldi. I documenti della banca indicano questo
come il suo indirizzo.»
«Entriamo ora?» chiese Baker.
Cage guardò Lukas. «Dopo di te.»
Baker confabulò con Tobe Geller, che stava scrutando attentamente lo
schermo del suo computer portatile. Diversi sensori erano puntati sull'ap-
partamento al pianterreno.
«Freddo come un pesce morto», riferì Tobe. «Gli infrarossi non stanno
rilevando niente, e gli unici rumori che registro sono l'aria nei caloriferi e il
compressore del frigorifero. Dieci a uno che l'appartamento è sgombro, ma
tenete presente che, se proprio si vuole farlo, è possibile schermare il calo-
re corporeo. E alcuni criminali sanno essere molto, molto silenziosi.»
«Ricordate», aggiunse Lukas, «che questo tipo si fabbrica i silenziatori
da solo: è uno che sa perfettamente quello che fa.»
Baker annuì, poi indossò l'elmetto e il giubbotto antiproiettibile e chia-
mò accanto a sé altri cinque agenti operativi. «Ingresso dinamico. Taglie-
remo i fili della luce ed entreremo simultaneamente dalla porta principale e
dalla finestra della camera da letto sul retro. Avete luce verde, via libera di
neutralizzare se esiste anche il minimo rischio di una minaccia concreta. Io
sarò il primo a entrare dalla porta. Ci sono domande?»
Non ce ne furono. Gli agenti si misero rapidamente in posizione. L'unico
rumore che producevano era il flebile tintinnio del loro equipaggiamento.
Parker rimase dietro, osservando Margaret Lukas, di profilo, che fissava
intensamente la porta principale. Lei si voltò all'improvviso e lo sorprese
mentre la stava guardando. Gli rivolse un'occhiata fredda e si voltò di nuo-
vo verso la porta.
Al diavolo, pensò Parker. Era furioso per la ramanzina che Lukas gli a-
veva rifilato a proposito della pistola. Era stata del tutto superflua, pensava
Parker.
Poi le luci dell'appartamento si spensero e si udì un forte tonfo quando
gli agenti fecero saltare la porta principale con grossi proiettili Shok-Lok.
Parker osservò i fasci di luce delle torce elettriche agganciate alle estremità
dei loro mitragliatori illuminare l'interno.
Si aspettava di sentire delle grida da un momento all'altro. Fermi dove
siete, faccia a terra, siamo agenti federali... ma ci fu soltanto silenzio.
Qualche istante dopo Jerry Baker uscì dall'appartamento togliendosi l'el-
metto. «Via libera.»
Le luci si riaccesero.
«Stiamo soltanto controllando la presenza di ordigni antiuomo. Dateci
qualche minuto.»
Finalmente, un agente si affacciò alla porta e confermò: «Il luogo è sicu-
ro».
Mentre Parker correva in avanti, si scoprì a recitare mentalmente una
preghiera laica. Ti prego, facci trovare qualcosa - delle tracce, un'impron-
ta digitale, un biglietto che descrive il sito del prossimo attacco. O, perlo-
meno, qualcosa che ci dia una vaga idea di dove viveva il sosco in modo
da permetterci di analizzare i documenti pubblici alla ricerca della lacri-
ma del diavolo sopra una i o una j... Lasciaci finire questo duro, durissimo
lavoro e permettici di tornare a casa dalle nostre famiglie.
Cage entrò per primo, seguito da Parker e da Lukas. I due procedettero
fianco a fianco. In silenzio.
L'appartamento era freddo. Le luci abbagliavano. Era un posto depri-
mente, le pareti dipinte di smalto verde pallido. Il pavimento era marrone,
ma lì la maggior parte della vernice si era scrostata. Le quattro stanze era-
no perlopiù vuote. In soggiorno Parker vide un computer su un tavolo, una
scrivania, una poltrona ammuffita da cui fuoriusciva una lingua di im-
bottitura e altri tavolini bassi. Ma, con suo enorme disappunto, non vide
alcun biglietto, nessun frammento di carta o altro tipo di documento.
«Abbiamo trovato dei vestiti», disse un agente dalla camera da letto.
«Controllate le etichette», ordinò Lukas.
Parker lanciò un'occhiata dalla finestra del soggiorno e si domandò quali
fossero le abitudini alimentari del sosco. A raffreddarsi sul davanzale della
finestra semiaperta c'erano quattro o cinque grosse bottiglie di succo di
mela Mott's e un vecchio secchio di ferro pieno di mele e di arance.
Cage li indicò. «Forse il bastardo soffriva di costipazione. Spero che
fosse dolorosa.»
Parker ridacchiò.
Lukas chiamò Tobe Geller via radio e gli chiese di raggiungerli per con-
trollare il computer e tutti i file e i messaggi di posta elettronica che il so-
sco poteva avervi immagazzinato.
Geller arrivò qualche minuto dopo, si sedette al tavolo e si passò le mani
tra i capelli ricci, esaminando attentamente l'unità centrale. Poi sollevò lo
sguardo e si guardò intorno. «Questo posto puzza», disse. «Perché una vol-
ta, tanto per cambiare, non ci capita qualche criminale dell'alta società?... E
questo cos'è?»
Anche Parker sentiva l'odore. Qualcosa di chimico e dolciastro. Lo smal-
to da quattro soldi sui caloriferi caldi, immaginò.
Il giovane agente afferrò il cavo di alimentazione elettrica del computer
e se lo avvolse intorno alla mano sinistra. Poi spiegò: «Potrebbe contenere
una bomba a formattazione - se non ti registri nel modo giusto, fa partire
un programma di formattazione che cancella tutto il contenuto del disco
fisso. L'unica cosa che si può fare, se la bomba parte, è togliere la corrente
e tentare di aggirare il virus in seguito, in laboratorio. Okay, ora vedia-
mo...»
Premette il pulsante di accensione.
L'unità di sistema ronzò sommessamente. Geller era pronto a strappare il
cavo dalla presa di corrente, ma subito sorrise. «Passato il primo ostacolo»,
disse, mollando il cavo. «Ma adesso ci serve il codice di accesso.»
«Non ci vuole un sacco di tempo per queste cose?» borbottò Lukas, con-
trariata.
«No. Ci vorrà...» Geller svitò la parte esterna del computer, mise una
mano dentro e tolse un piccolo chip. Improvvisamente, sullo schermo
comparve la scritta Loading Windows95. «Più o meno un paio di secondi»,
concluse Geller sorridendo.
«Questo è tutto ciò che serve per sconfiggere una password?»
«Già.» Geller aprì la sua valigetta e prese un'unità ZIP. La collegò alla
porta parallela e la installò nel sistema. «Adesso scarico il suo hard disk su
questi.» Gettò una decina di dischetti ZIP sul tavolo. «Mi ci vorrà soltanto
qualche minuto.»
Il cellulare di Lukas squillò. Margaret rispose. Rimase in ascolto. Poi
disse: «Grazie». Riagganciò, tutt'altro che contenta. «Ecco i tabulati della
linea telefonica. Da qui ha chiamato soltanto il numero del collegamento
internet. Nient'altro. Né in entrata, né in uscita.»
Maledizione. Quell'uomo era veramente furbo, rifletté Parker. Un signo-
re degli enigmi con tutti i crismi.
Tre falchi stanno uccidendo le galline di un contadino...
«Ho trovato qualcosa in camera da letto», disse una voce. Un agente con
indosso un paio di guanti di lattice entrò in soggiorno. Teneva tra le mani
un taccuino giallo con sopra delle scritte e degli scarabocchi. Il cuore di
Parker accelerò immediatamente.
Aprì la valigetta e indossò anche lui un paio di guanti di lattice. Poi pre-
se il taccuino e lo posò sul tavolo accanto a Geller, piegando la lampada in
modo che la luce vi cadesse direttamente sopra. Con la lente di ingrandi-
mento studiò la prima pagina e capì subito che era stata scritta dal sosco:
aveva fissato tanto a lungo la lettera di estorsione da conoscere la sua cal-
ligrafia bene come la propria e quella dei Chi.
La lacrima del diavolo sopra la i minuscola...
Parker scrutò il foglio. Per la maggior parte si trattava di ghirigori. In
qualità di esperto esaminatore di documenti, Parker Kincaid credeva nella
connessione psicologica tra la nostra mente e le nostre mani: la personalità
non viene rivelata da come componiamo le lettere (quelle cose senza senso
sulla grafoanalisi che Lukas sembrava amare così tanto), ma attraverso la
sostanza di ciò che scriviamo e disegniamo quando siamo sovrappensiero.
Il modo in cui prendiamo appunti, che tipo di piccoli disegni tracciamo ai
margini del foglio quando la nostra mente è occupata altrove.
Parker aveva visto migliaia di immagini sui documenti che aveva esami-
nato: coltelli, pistole, uomini impiccati, donne pugnalate, genitali strappati,
demoni, zanne snudate, omini stilizzati, aeroplani, occhi, ma non aveva
mai visto ciò che il sosco aveva disegnato su quel taccuino.
Labirinti.
Quindi era davvero un signore degli enigmi.
Parker ne tentò un paio. Per la maggior parte erano molto complicati.
C'erano altre annotazioni sulla pagina, ma continuava a lasciarsi distrarre
dai labirinti. Era come se i suoi occhi fossero calamitati. Si sentiva quasi
obbligato a risolverli. Quella era la sua natura: non poteva controllarla.
Sentì qualcuno accanto a sé. Era Margaret Lukas. Stava fissando il tac-
cuino.
«Sono intricati», disse.
Parker sollevò lo sguardo su di lei, sentì la sua gamba sfiorargli la spalla.
I muscoli delle sue cosce erano molto forti. Sicuramente era una che corre-
va, pensò. Se la immaginò la domenica mattina con la tuta attillata, sudata
e arrossata per lo sforzo, che rientrava in casa dopo aver percorso cinque
chilometri...
Tornò a dedicarsi al labirinto.
«Deve averci messo un sacco di tempo per farlo», disse Lukas, indican-
do il disegno con un cenno del capo.
«No», rispose Parker. «I labirinti sono difficili da risolvere, ma sono tra
gli enigmi più semplici da costruire. Prima disegni il percorso della solu-
zione e, una volta finito, non devi fare altro che continuare ad aggiungere
strati e strati di false piste.»
Gli enigmi sono sempre facili quando si conosce la risposta...
Lukas lo guardò ancora una volta e poi si allontanò, aiutando un tecnico
della Scientifica a tagliare il materasso in cerca di altre prove.
Proprio come la vita, vero?
Gli occhi di Parker tornarono al taccuino giallo. Sollevò il primo foglio
e, su quello seguente, trovò una pagina fitta di appunti, centinaia e centi-
naia di parole tracciate con grafia minuscola. Verso il fondo della pagina
vide una colonna. Le prime due voci erano:
Metropolitana di DuPont Circle, in cima alla scala mobile, ore 9
George Mason Theater, palco N. 58, ore 16
Mio Dio, pensò, su questo foglio ci sono i bersagli veri! Non è un depi-
staggio! Sollevò lo sguardò e chiamò Cage. «Vieni qui!»
Nel medesimo istante, Lukas entrò dalla porta e gridò: «Sento odore di
gas! Gasolio. Da dove viene?»
Gas? Parker si voltò verso Tobe, che si stava guardando intorno perples-
so. E si rese conto che sì, quello era l'odore che avevano sentito poco pri-
ma.
«Oh, Cristo.» Parker guardò le bottiglie di succo di mela.
Era una trappola nel caso che gli agenti fossero riusciti a penetrare nel ri-
fugio.
«Cage! Tobe! Tutti fuori!» Parker balzò in piedi. «Le bottiglie!»
Ma Geller le guardò e disse. «È tutto okay... guarda: non c'è nessun de-
tonatore. Puoi...»
E in quel momento la grandine di proiettili esplose attraverso la finestra,
riducendo il tavolo in frammenti di legno chiaro, frantumando le bottiglie e
spruzzando gasolio rosa sul pavimento e sulle pareti.
19
18,45
Un'altra fotografia.
Snap.
Henry Czisman era in un vicolo dalla parte opposta della strada rispetto
all'edificio in fiamme. Le scintille svolazzavano pigramente nel cielo come
fuochi d'artificio visti a chilometri di distanza.
Era veramente importante tutto ciò. Registrare l'evento.
La tragedia è sempre così rapida, così sfuggente. Ma il dolore no. Il do-
lore dura per sempre.
Snap.
Scattò un'altra fotografia con la sua macchina fotografica digitale.
Un poliziotto sdraiato a terra. Forse morto, forse ferito.
Forse fingeva di fare il morto; quando arriva il Becchino, la gente fa tut-
to ciò che può per restare viva. Nasconde il proprio coraggio e si raggomi-
tola in un angolo finché non è nuovamente sicura di alzarsi. Henry Czi-
sman aveva già visto tutto questo.
Fotografia: la parete dell'edificio che crolla in un'esplosione di meravi-
gliosi tizzoni ardenti.
Fotografia: un agente con tre dita di sangue che gli cadono lungo il lato
del viso.
Fotografia: la luce delle fiamme riflessa nel metallo cromato delle auto-
pompe.
Czisman era deluso per essere arrivato troppo tardi - aveva sentito gli
sbirri dire che il Becchino era fuggito. Aveva seguito gli agenti ma, dal
momento che le strade erano deserte, aveva dovuto per forza di cose man-
tenersi a notevole distanza. Non poteva permettersi di farsi vedere di nuo-
vo. Aveva già rischiato molto andando al quartier generale dell'FBI.
Snap...
Troppo tardi. Quando era arrivato all'edificio, l'incendio era già comin-
ciato e gli agenti e i poliziotti stavano fuggendo dall'appartamento. Tutto
ciò che poteva fare ora era scattare fotografie.
Snap, snap, snap... Gli sembrava che non fossero mai abbastanza. Aveva
intenzione di registrare su pellicola ogni minimo particolare del dolore.
Guardò in fondo alla strada e vide alcuni agenti che parlavano con i pas-
santi.
Perché prendersi la briga? Il Becchino era arrivato e se n'era andato.
E anche lui doveva sparire, ora. Non poteva davvero farsi vedere lì. Così
cominciò a infilarsi la macchina fotografica nella tasca della giacca. Poi,
però, lanciò un'occhiata all'edificio in fiamme e vide qualcosa.
Sì, sì. Voglio quest'immagine. Ne ho bisogno.
Sollevò la macchina fotografica, la puntò e premette il pulsante.
Fotografia: l'uomo che si faceva chiamare Jefferson - l'uomo che ora era
così coinvolto nel caso - stava posando qualcosa sul cofano di una macchi-
na, chino in avanti nel tentativo di leggerla. Un libro? Una rivista? No,
scintillava come una lastra di vetro. Tutto ciò che si poteva vedere era la
rigida attenzione dell'uomo mentre si toglieva il giubbotto di pelle e lo av-
volgeva intorno al vetro allo stesso modo in cui un padre potrebbe coprire
il proprio neonato prima di portarlo a passeggio nell'aria fresca della sera.
Snap.
III
TRE FALCHI
20
19,00
21
19,20
«Dice che ha qualcosa di buono per noi», fece Wendell Jefferies, le ma-
niche della camicia arrotolate in alto sui bicipiti muscolosi.
Si riferiva a Slade Phillips. Gerald Kennedy lo sapeva.
I due erano nell'ufficio del sindaco. Kennedy aveva appena tenuto un'al-
tra imbarazzante conferenza stampa, a cui aveva assistito soltanto una de-
cina di giornalisti che ricevevano chiamate ai cellulari e ai cercapersone,
anche mentre lui stava parlando, nella speranza di altre notizie, di notizie
migliori provenienti da altre fonti. E come si poteva biasimarli? Cristo, lui
non aveva proprio niente da dire. Tutto ciò di cui poteva parlare era il mo-
rale di alcune delle vittime che era andato a trovare negli ospedali della cit-
tà.
«Andrà in onda alle dieci», fece Jefferies al sindaco.
«Con cosa?»
«Non ha voluto dirmelo», rispose Jefferies. «In qualche modo, pensa che
dirmelo non sarebbe etico.»
Kennedy si stiracchiò sul divano - un falso sofà georgiano che era stato
acquistato dal suo predecessore. La fodera si stava staccando dai braccioli.
E il poggiapiedi su cui il sindaco teneva appoggiate le sue scarpe numero
quarantacinque traballava, sostenuto da un pezzetto di cartone ripiegato
sotto una delle gambe.
Un'occhiata all'orologio di ottone.
«Egregio sindaco, grazie molte per essere venuto a parlare con noi og-
gi. È stato un onore poterla ascoltare. Lei è una persona buona con noi
bambini e noi studenti e vorremmo commem... commem... commemorare
la sua visita con questo regalo, che speriamo le faccia piacere...»
La lancetta dei minuti avanzò di una tacca. Tra un'ora, pensò Kennedy,
quante altre persone moriranno?
Squillò il telefono. Kennedy lo guardò pigramente e lasciò che fosse Jef-
feries a rispondere.
«Pronto?»
Una pausa.
«Certo. Resti in linea.» Passò la cornetta a Kennedy, dicendo: «Una cosa
interessante».
Kennedy prese il telefono. «Sì?»
«Sindaco Kennedy?»
«Sono io.»
«Sono Len Hardy.»
«Il detective Hardy?»
«Esatto. C'è... c'è qualcuno che ci ascolta?»
«No. Questa è la mia linea privata.»
Il poliziotto ebbe un attimo di esitazione, poi proseguì: «Ho pensato
molto... a quello di cui abbiamo parlato».
Kennedy si drizzò a sedere, posando i piedi a terra.
«Continua, figliolo. Dove sei?»
«Nona Strada. Al quartier generale.»
Ci fu una pausa di silenzio. «Continua», lo incoraggiò il sindaco.
«Non posso più starmene qui seduto senza fare niente. Dovevo fare
qualcosa. Credo che Margaret stia commettendo un errore.»
«Lukas?»
«Hanno scoperto dove colpirà questa sera...» proseguì Hardy. «Il Bec-
chino. Il killer.»
«Davvero?» La mano di Kennedy si strinse spasmodicamente sul ricevi-
tore. Fece cenno a Jefferies di passargli carta e penna. «Dove?»
«Al Ritz Carlton.»
«A Pentagon City?»
«Non ne sono sicuri. Probabilmente quello. O forse quello a Tyson's
Corner. Ma Lukas non ha intenzione di farli evacuare.»
«Lei cosa?» sbottò Kennedy.
«Lukas non ha intenzione di far evacuare gli alberghi. Lei...»
«Aspetta», disse Kennedy. «Vuoi dirmi che sanno dove colpirà e non lo
stanno dicendo a nessuno?»
«Esatto. Hanno intenzione di usare la gente come esca, credo. Voglio di-
re... è l'unico modo per dirlo.»
Una pausa. Poi Hardy continuò. «In ogni modo, ho pensato a quello che
mi aveva detto, sindaco. E ho deciso di chiamarla.»
«Hai fatto la cosa giusta.»
«Lo spero, lo spero davvero.»
«È per le otto?»
«Alle otto, sì. Non posso più parlare, sindaco. Dovevo semplicemente
dirglielo.»
«Grazie.» Kennedy riagganciò e si alzò in piedi.
«Di che si tratta?» gli chiese Jefferies.
«Sappiamo dove colpirà alle otto. Al Ritz. Probabilmente a Pentagon
City. Chiama Reggie, voglio la mia macchina subito. E una scorta della
polizia.»
Mentre si avvicinava alla porta, Jefferies gli chiese: «Che ne pensi di una
troupe televisiva? Posso portarmi uno dei cameramen che lavorano con
Phillips».
Kennedy si fermò. Poi annuì. «Chiamalo.»
Sono tutti e due impacciati, fianco a fianco, sul divano nella stanza d'al-
bergo del Becchino.
Stanno guardando la televisione.
Divertente.
Al Becchino, le immagini sullo schermo sembrano familiari.
Sono immagini del teatro. Il posto dove avrebbe dovuto roteare su se
stesso come aveva fatto nella foresta del Connecticut e mandare proiettili a
far cadere un milione di foglie. Dove aveva voluto roteare, dove avrebbe
dovuto roteare ma non ha potuto.
Il teatro dove... click... dove l'uomo spaventoso con le mascelle grandi e
il cappello è venuto per ucciderlo.
Guarda il ragazzo mentre il ragazzo guarda la televisione. Poi il ragazzo
dice: «Merda». Per nessun particolare motivo, sembra.
Proprio come Pamela.
Il Becchino chiama la sua casella vocale e sente la voce della donna che
dice: «Non ci sono nuovi messaggi».
Riappende.
Il Becchino non ha molto tempo. Guarda l'orologio. Il ragazzo fa la stes-
sa cosa.
È magro e fragile. La zona intorno al suo occhio destro è leggermente
più scura della sua pelle scura, e il Becchino sa che l'uomo che ha ucciso
nel vicolo ha picchiato il bambino tante volte. Pensa di essere felice di aver
sparato a quell'uomo. Ma non sa bene che cosa voglia dire felice.
Si chiede che cosa penserebbe del bambino l'uomo che gli dice le cose.
L'uomo gli ha detto di uccidere chiunque l'avesse guardato in faccia. E il
bambino l'ha guardato in faccia. Ma non sembra... click... non sembra...
click... non sembra giusto ucciderlo.
Di sopra, nella cameretta di Robby, Parker era con suo figlio. Il bambino
era seduto sul letto, Parker sulla vecchia sedia a dondolo di legno che ave-
va comprato e tentato di rifinire lui stesso.
Sul pavimento erano sparsi dei giocattoli. Il Nintendo 64 era collegato al
televisore, alle pareti erano appesi poster di Guerre stellari. Luke Skywal-
ker. E Darth Vadar...
La nostra mascotte per la serata.
Era stato Cage a dirlo. Ma Parker stava tentando di non pensare a Cage.
O a Margaret Lukas. O al Becchino. Stava leggendo per suo figlio. Un
pezzo dello Hobbit.
Robby era smarrito nella storia, nonostante avesse sentito suo padre leg-
gergliela un numero imprecisato di volte. Ogni volta che Robby era spa-
ventato finivano con l'aprire quel libro a causa della scena dell'uccisione
del drago Smeagol. Quella parte del libro riusciva sempre a infondere co-
raggio a Robby.
Quando Parker era entrato in casa, non molto tempo prima, il viso del
bambino si era illuminato. Parker aveva preso il figlioletto per mano e in-
sieme erano andati sulla veranda sul retro. Gli aveva fatto vedere ancora
una volta che non c'era nessuno, né in giardino, né in garage. Alla fine a-
vevano deciso che il vecchio signor Johnson aveva lasciato libero il suo
cane ancora una volta senza ricordarsi di chiudere il cancello.
Anche Stephie aveva abbracciato suo padre. Poi gli aveva chiesto come
stava il suo amico, quello malato.
«Sta bene», aveva risposto Parker, cercando senza trovarlo un briciolo di
verità a cui aggrappare la propria affermazione. Ah, il senso di colpa dei
genitori... è come un ferro rovente nel cuore.
Stephie era rimasta a osservare comprensiva Robby e Parker che anda-
vano di sopra per leggere una storia. Sarebbe potuta andare anche lei, ma
per istinto sapeva che era il caso di lasciarli soli. Quella era una cosa che
Parker aveva imparato presto sui suoi figli. Bisticciavano come tutti i bam-
bini sani della loro età, cercavano di superarsi l'uno l'altra, si immergevano
nel tipico, reciproco sabotaggio tra fratelli. Ma, quando qualcosa turbava
uno dei due - come accadeva con il Barcaiolo - l'altro sapeva immediata-
mente, per puro istinto, che cosa era necessario. Stephie era scomparsa in
cucina dicendo: «Preparerò a Robby una sorpresa per dessert».
Mentre leggeva, di tanto in tanto Parker osservava il viso di suo figlio.
Gli occhi del bambino erano chiusi, e Robby sembrava completamente a
proprio agio. (Dal Manuale: «A volte il tuo compito non è quello di ragio-
nare con i tuoi figli o di insegnargli qualcosa, e nemmeno di offrirgli un
adamantino esempio di maturità. A volte, semplicemente, devi essere lì
con loro. Non occorre altro».)
«Vuoi che continui a leggere?» domandò a Robby.
Il bambino non rispose.
Parker abbandonò il libro sulle proprie ginocchia e rimase seduto sulla
vecchia sedia a dondolo, cullandosi avanti e indietro. E osservando suo fi-
glio.
La moglie di Thomas Jefferson, Martha, era morta poco tempo dopo la
nascita della loro terza figlia (la bambina stessa era morta all'età di due an-
ni). Jefferson, che non si era mai risposato, aveva lottato per allevare da
solo le altre due figlie. In qualità di politico e statista era spesso obbligato
a essere un padre assente, una situazione che detestava con tutto il cuore.
Aveva scritto migliaia di pagine alle bambine, offrendo sostegno, consi-
glio, amore, confidenza. Parker conosceva Jefferson bene quanto conosce-
va suo padre, e alcune di quelle lettere le sapeva a memoria. In quel mo-
mento pensò a una di esse, scritta quando Jefferson era vicepresidente e nel
mezzo di una feroce battaglia politica tra Repubblicani e Federalisti.
La tua lettera del 21 gen., mia cara Mary, è stata da me ricevuta due
giorni fa. È stata per me come i raggi lucenti della luna sulla terra
desolata. Racchiuso come sono qui in scenari di costante tormento,
malizia e sotterfugio, esausto e in uno stato tale da vanificare qualsia-
si mio sforzo di rendere servizio al paese, l'unico momento in cui rie-
sco a pensare che l'esistenza è una benedizione è quando qualcosa mi
riporta la mente alla mia famiglia.
Guardando suo figlio, sentendo sua figlia che sbatteva le pentole al pia-
no di sotto, Parker si domandò preoccupato, come spesso faceva, se stesse
crescendo i suoi figli nel modo giusto.
Quante volte era rimasto sveglio di notte, sdraiato, senza riuscire a pren-
dere sonno, pensando alla loro situazione.
Dopotutto, aveva allontanato due bambini dalla madre. Il fatto che i tri-
bunali e tutti i suoi amici (e la maggior parte degli amici di Joan) fossero
d'accordo nel dire che era l'unica cosa sensata da fare non faceva molta dif-
ferenza per lui. Non era diventato un padre single per un capriccio della
morte come Jefferson: no, Parker aveva preso personalmente quella deci-
sione.
Ma era veramente per i suoi figli che l'aveva fatto? O era stato per sfug-
gire alla propria infelicità? Era questa domanda che lo tormentava così
spesso. Joan sembrava tanto dolce, tanto affascinante prima che si sposas-
sero. Ma quasi tutto, si era reso conto in seguito, era una recita. In realtà
Joan era chiusa e calcolatrice. Il suo umore era instabile: allegra per un po',
precipitava poi in giorni di rabbia e sospetto e paranoia.
Quando aveva conosciuto Joan, Parker stava imparando quanto la vita
sembri diversa quando sei ancora giovane e i tuoi genitori non ci sono più.
La zona demilitarizzata che ti separa dall'idea della tua mortalità non esiste
più. E allora cerchi come compagno o qualcuno che si prenda cura di te
oppure - come aveva fatto lui - qualcuno di cui prenderti cura.
«Sai, uomini e donne... non credi che funzioni meglio così? Nessuno che
si prende cura di nessuno. È una regola. Prendi nota.»
Quindi non era affatto sorprendente che lui avesse cercato una donna
che, nonostante fosse bella ed energica, aveva un lato inquieto e umorale.
Naturalmente, poco dopo la nascita dei Chi, quando la loro vita matri-
moniale richiedeva responsabilità e a volte puro e semplice duro lavoro e
sacrificio, Joan aveva lasciato che le sue insoddisfazioni e i suoi sbalzi
d'umore prendessero il sopravvento.
Parker aveva tentato di tutto. Era andato con lei in terapia, si era preso
cura dei bambini più di quanto gli spettasse, aveva tentato di farla star me-
glio organizzando feste, facendo viaggi a sorpresa, preparando la cena tutte
le sere.
Nessuno che si prende cura di nessuno. È una regola. Prendi nota.
Certo, Cage, hai ragione. Ma a quell'epoca io volevo qualcuno di cui
prendermi cura. Ne avevo bisogno.
Ma tra le cose che Joan gli aveva tenuto nascoste c'era una storia fami-
liare di alcolismo e Parker un giorno si era sorpreso scoprendo che Joan
beveva molto più di quanto lui ritenesse. Di tanto in tanto faceva la cura
dei dodici punti e tentava altri approcci terapeutici. Ma ci ricadeva sempre.
Si era allontanata sempre più da lui e dai bambini, occupando il suo
tempo con hobby e capricci. Aveva frequentato corsi di alta cucina, aveva
comprato una macchina sportiva, andava a fare shopping tutti i giorni, fati-
cava come un'atleta olimpica nella palestra di lusso - dove, tra l'altro, ave-
va conosciuto il suo futuro marito Richard.
E poi c'era stato l'incidente.
Giugno, quattro anni prima.
Parker era tornato a casa dal suo lavoro al laboratorio dell'FBI e aveva
scoperto che Joan non era con i bambini. A curare i Chi c'era una
babysitter, il fatto in sé, non era né preoccupante né insolito. Ma, quando
era andato di sopra a giocare con loro, aveva notato immediatamente che
c'era qualcosa che non andava. Stephie e Robby, che allora avevano ri-
spettivamente quattro e cinque anni, erano seduti nella loro cameretta a
giocare con i Lego. Ma Stephanie sembrava stordita. Il suo sguardo non
era a fuoco e aveva il viso madido di sudore. Parker aveva scoperto che
Stephie aveva vomitato prima di riuscire ad arrivare in bagno. L'aveva
messa a letto e le aveva misurato la febbre, ma la temperatura era normale.
Non si era stupito che la babysitter non si fosse accorta del malessere della
piccola: i bambini si vergognano quando vomitano o se la fanno addosso, e
spesso tentano di nascondere quel tipo di incidente. Ma Stephie e suo fra-
tello sembravano molto più evasivi di quanto Parker si aspettasse.
Lo sguardo di Robby continuava a posarsi sul baule dei giocattoli.
(«Guarda prima gli occhi», recitava il suo Manuale. «E poi, soltanto poi,
ascolta le parole.») Parker si era mosso verso il baule e Robby aveva co-
minciato a piangere, supplicandolo di non aprirlo. Ma, naturalmente, Par-
ker l'aveva aperto. Ed era rimasto immobile, come paralizzato, a guardare
le bottiglie di vodka che Joan vi aveva nascosto.
Stephanie era ubriaca. Aveva tentato di imitare la mamma, bevendo Ab-
solut con la sua tazza di Winnie the Pooh.
«La mamma ha detto di non dire niente del suo segreto», gli aveva spie-
gato Stephie, piangendo, la voce impastata dall'alcool. «Ha detto che ti sa-
resti arrabbiato con noi se lo avessi scoperto. Ha detto che ci avresti sgri-
dato.»
Due giorni dopo Parker aveva dato inizio alle procedure per il divorzio.
Aveva ingaggiato un buon avvocato e aveva coinvolto il Servizio di prote-
zione dei minori prima che Joan avesse il tempo di formulare la falsa accu-
sa di abuso che l'avvocato aveva previsto.
Joan aveva combattuto, e aveva combattuto duramente, ma era il modo
in cui lotta una persona che non vuole perdere la propria collezione di
francobolli o la propria macchina sportiva, non qualcosa che ama più di se
stessa.
E alla fine, dopo lunghi mesi di agonia e decine di migliaia di dollari,
Parker era riuscito ad avere i bambini per sé.
Aveva pensato di concentrarsi nello sforzo di rimettere insieme i pezzi
della sua esistenza, nello sforzo di dare ai bambini una vita normale.
E ci era riuscito - negli ultimi quattro anni. Ma ora era di nuovo al punto
di partenza.
Oh, Joan, perché stai facendo tutto questo? Non pensi proprio mai a lo-
ro? Non riesci a capire che i nostri ego - i nostri ego di genitori - devono
per forza dissolversi in vapore benefico quando si tratta dei nostri figli?
Se avesse pensato davvero che per Robby e Stephie sarebbe stato meglio
dividere il tempo tra lui e Joan avrebbe acconsentito in un batter d'occhio:
la cosa avrebbe distrutto una parte di lui, certo, e l'avrebbe distrutta per
sempre. Ma l'avrebbe fatto.
Invece era convinto che per loro sarebbe stato un disastro. E così avreb-
be lottato strenuamente in tribunale con la sua ex moglie e nel frattempo
avrebbe tentato di tener lontani i bambini dall'animosità del processo. Ci
sono volte in cui è necessario combattere su due fronti. Devi lottare contro
il nemico e, contemporaneamente, devi lottare contro il desiderio sover-
chiante di essere tu stesso bambino e condividere il tuo dolore con i tuoi
figli. Ma questa è una cosa che non si può fare, che non si deve mai fare.
«Papà», disse Robby all'improvviso. «Hai smesso di leggere.»
«Credevo che ti fossi addormentato.» Rise.
«Mi stavo solo riposando. Le mie palpebre sono stanche. Ma io no.»
Parker guardò l'orologio. Le otto meno un quarto. Ancora quindici minu-
ti prima del...
No, non pensarci adesso.
«Hai lo scudo?» domandò a suo figlio.
«Proprio qui.»
«Anch'io.»
Prese il libro e ricominciò a leggere.
22
19,45
23
20,05
Ma io ti amo sempre...
24
20,55
25
22,15
Il terzo bersaglio.
... posto dove ti ho portato/il nero...
Parker Kincaid era di fronte alla lavagna nel laboratorio della divisione
Documenti. Le mani sui fianchi. Gli occhi fissi sull'enigma che aveva da-
vanti... posto dove ti ho portato/il nero...
«Il nero cosa?» rifletté il dottor Evans.
Cage si strinse nelle spalle. Lukas era al telefono con il PERT a bordo
del Ritzy Lady. Riagganciò e disse alla squadra che c'erano pochi indizi
concreti. Avevano trovato alcuni bossoli con delle impronte. Le stavano
sottoponendo all'AFIS, il sistema di identificazione automatico delle im-
pronte digitali, e il reparto Identificazione stava inviandole i risultati via
posta elettronica. Non c'erano altre prove fisiche. I testimoni parlavano di
un uomo di razza bianca di età indeterminata con un impermeabile scuro.
Portava una borsa di carta marrone, dentro la quale probabilmente c'era
l'arma.
Parker si guardò intorno. «Dov'è Hardy?»
Cage gli raccontò dell'incidente al Ritz.
«L'ha sbattuto fuori?» disse Parker indicando Lukas.
«No, anche se avrebbe dovuto. Gli ha fatto passare l'inferno e poi gli ha
dato una seconda possibilità. Adesso Hardy è nella biblioteca al piano di
sotto a fare delle ricerche. Penitenza.»
Parker guardò Geller. Il giovane agente fissava lo schermo che aveva di
fronte mentre il computer tentava vanamente di assemblare altre lettere
dopo la parola 'nero'. La cenere dopo quella parola, però, era molto più
danneggiata di quella vicino alla nota che parlava del Ritzy Lady.
Parker cominciò a camminare avanti e indietro, ma si fermò subito. Sol-
levò lo sguardo sulla lavagna. Avvertì la sensazione odiosa di essere vicino
alla soluzione ma di non averla ancora sottomano. Sospirò.
Si ritrovò accanto a Lukas. «Tuo figlio?» gli domandò lei. «Robby? Sta
bene?»
«Sta bene. Soltanto un po' spaventato.»
Lukas annuì. Un computer annunciò con voce sintetizzata: «È arrivata
posta». Lukas si avvicinò e lesse il messaggio. Scosse il capo. «Le impron-
te sui bossoli sono di uno dei passeggeri dello yacht che raccoglieva sou-
venir. Salvò il messaggio su disco.
Parker guardò lo schermo. «Questa cosa mi fa sentire obsoleto.»
«Cosa?»
«La posta elettronica», disse. Guardò Lukas e aggiunse: «Obsoleto come
esaminatore di documenti, voglio dire. Oh, la gente scrive molto più di
prima a causa della posta elettronica».
«Ma c'è meno calligrafia?» domandò Lukas, continuando il pensiero di
lui.
«Esatto.»
«Sarà un problema», considerò lei. «Così si perdono molte prove.»
«Vero. Ma per me non è questa la cosa triste.»
«Triste?» Lukas lo guardò. I suoi occhi non erano più di pietra, ma sem-
brava ancora una volta sulla difensiva, quasi che quel termine inadeguato
al luogo in cui si trovavano la mettesse a disagio.
«Per me», spiegò Parker, «la calligrafia è parte della persona. Pensaci: è
una delle poche cose delle persone che sopravvive alla loro morte. Può du-
rare centinaia di anni. Migliaia. È la cosa più vicina all'immortalità che
possiamo avere.»
«Parte della persona?» domandò lei. «Ma prima hai detto che la grafoa-
nalisi è una stupidaggine.»
«No, voglio dire che qualsiasi cosa abbia scritto qualcuno è e resta un ri-
flesso di ciò che è o di ciò che era. Non importa quali sono le parole, anche
se non hanno senso o sono scritte in modo errato. Il semplice fatto che una
persona le abbia pensate e che abbia ordinato alle proprie mani di trasferir-
le su carta... ecco tutto ciò che conta. Per me è quasi un miracolo.»
Lukas stava guardando il pavimento, a testa bassa.
«Ho sempre pensato alla scrittura come a una specie di impronta digitale
del cuore e della mente», proseguì Parker. Rise tra sé a quella frase, pen-
sando che Lukas potesse avere la stessa reazione brusca che aveva mostra-
to poco prima di fronte a concetti sentimentali come quello che aveva ap-
pena espresso. Invece accadde qualcosa di strano. Margaret Lukas distolse
rapidamente lo sguardo. Parker pensò, per un momento, che un altro mes-
saggio fosse comparso su uno dei computer; ma non era così. Margaret a-
veva la testa girata dall'altra parte, ma Parker poteva vedere il riflesso del
suo viso sullo schermo, e sembrava che i suoi occhi fossero pieni di lacri-
me. Era una cosa che non si sarebbe mai aspettato da Lukas, ma sì, Marga-
ret si stava proprio asciugando gli occhi.
Stava per chiederle se c'era qualcosa che non andava, ma Lukas si avvi-
cinò bruscamente alle lastre di vetro che contenevano i resti dei fogli bru-
ciati. Senza dargli la possibilità di dir nulla gli chiese: «I labirinti che ha
disegnato... Credi che ci sia qualcosa? Un indizio, forse?»
Parker non rispose. Si limitò a guardarla. Lei si voltò brevemente verso
di lui e ripeté: «I labirinti?»
Dopo un istante Parker abbassò lo sguardo. Soltanto gli psicopatici han-
no la tendenza a lasciare crittogrammi come indizi, e anche tra di essi è
qualcosa di molto raro. Ma Parker decise che non era una cattiva idea con-
trollare comunque: avevano così poco a cui aggrapparsi per continuare
l'indagine. Sollevò i pannelli di vetro e li sistemò sotto il proiettore.
Lukas era accanto a lui. Entrambi avevano le braccia incrociate.
«Che cosa stiamo cercando?» domandò Cage.
«Le linee formano delle lettere?» chiese Lukas.
«Bella domanda», fece Parker. Lukas stava cominciando a capire l'ap-
proccio giusto agli enigmi. Esaminarono attentamente le linee che forma-
vano i labirinti. Ma non trovarono nient'altro che una decina di L - non cer-
to una sorpresa, dal momento che i percorsi dei labirinti erano perpendico-
lari l'uno all'altro.
«Forse», suggerì Margaret, «è una mappa.»
Un'altra ottima idea.
Tutti fissarono le linee. In qualità di capo dell'ufficio FBI del distretto,
Lukas era un'esperta della topografia cittadina. Ma non riuscì a trovare
nessun quartiere o strada a cui far corrispondere i labirinti.
Geller guardò il suo computer e scosse la testa. «Gli anagrammi non
stanno funzionando. Non c'è abbastanza cenere per formare delle lettere.»
«Allora dovremo arrivarci come si faceva una volta», commentò Parker,
camminando avanti e indietro senza mai distogliere lo sguardo dalla lava-
gna. «... il nero...»
«Un'organizzazione afro-americana?» suggerì Evans.
«Possibile», rispose Parker. «Ma ricordiamoci che il sosco era intelli-
gente. Istruito.»
Cage si accigliò. «Che cosa intendi dire?»
Fu Lukas a rispondere. «La parola 'nero' è minuscola. Se facesse parte
del nome di un gruppo probabilmente l'avrebbe scritta con la maiuscola.»
«Esattamente», disse Parker. «Io direi che è una descrizione. Ci sono
buone probabilità che si riferisca davvero alla razza, ma dubito che sia un
riferimento specifico a qualche organizzazione.»
Nero...
Parker si avvicinò al tavolo e fissò la lettera di estorsione. Mise le mani
accanto al foglio. Fissò la lacrima del diavolo sopra le i. Fissò l'inchiostro
nero.
Che cosa sai? domandò silenziosamente al documento. Che cosa non ci
stai dicendo? Quali segreti nascondi? Cosa?
«Ho trovato qualcosa», annunciò una voce dalla porta.
Si voltarono tutti.
Len Hardy entrò nel laboratorio con un fascio di carte sotto il braccio.
Riprese fiato. «Okay, Margaret, avevi ragione. Io non sparo e non indago.
Ma nessuno può fare ricerche meglio di me. Così ho deciso, perché non fa-
re proprio questo? Ho trovato qualcosa sul nome. Il Becchino.» Lasciò ca-
dere i fogli sulla scrivania e cominciò a scartabellarli. Poi guardò tutti gli
altri. «Mi dispiace per prima. Ho sbagliato. Volevo soltanto fare qualcosa
per impedire che degli innocenti morissero.»
«Non c'è problema, Len», disse Lukas. «Cos'hai trovato?»
Hardy domandò al dottor Evans: «Quando stava controllando il nome,
che database ha adoperato?»
«Be', quelli soliti», rispose lo psicologo. Sembrava sulla difensiva.
«Archivi criminali?» domandò Hardy. «VICAP, NYPC, Criminali vio-
lenti, John Jay?»
«Quelli, certo», confermò Evans.
«Andava bene... ma a un certo punto ho cominciato a pensare: perché
non tentare con fonti non criminali? E alla fine l'ho trovato. Il database del
dipartimento di Storia delle Religioni dell'Università di Cambridge.»
Hardy aprì un taccuino. All'interno c'erano decine e decine di pagine, or-
ganizzate e indicizzate. Come rivelavano le sue scarpe lucidissime e la sua
camicia immacolata, il poliziotto era davvero un perfezionista. «Ora, que-
sto è interessante», disse in tono eccitato. «In Inghilterra, nel XVII secolo,
c'era un gruppo di stampo comunista chiamato i Becchini. Il loro scopo era
di abolire la proprietà privata della terra. Ecco il punto saliente. Operavano
principalmente sul piano economico e sociale, ma a un certo punto si sono
alleati con un altro gruppo assai più attivo politicamente - a volte in modo
militante. Si facevano chiamare 'i Veri Livellatori'.»
«Livellatori», commentò Cage. «Anche questo è un nome che mette i
brividi.»
«Erano contrari al controllo delle persone da parte dell'élite aristocratica
e del governo centrale», proseguì Hardy. Guardò Parker. «Tu non c'eri
prima, quando stavamo esponendo le nostre idee. Ma il dottor Evans pen-
sava che il sosco stesse mirando di proposito a bersagli delle classi sociali
più alte.»
«Qualche riferimento moderno al gruppo?» domandò Lukas.
«No. Soltanto storico.»
«Ma cosa significa per noi?» chiese Lukas.
«Il suo movente», rispose Hardy. «Il sosco voleva livellare la nostra so-
cietà capitalistica.»
«Ma perché?» domandò nuovamente Lukas.
«Un fanatico religioso?» intervenne Geller. «Ricordate il crocifisso?»
«Può essere», disse Evans. «Ma la maggior parte dei fanatici religiosi
non vorrebbe soldi; chiederebbe piuttosto mezz'ora di spazio alla CNN.»
«Forse nutriva del rancore», disse Parker.
«Certo. Desiderio di vendetta», aggiunse Lukas.
«Qualcuno gli ha fatto del male», continuò Parker, «e lui vuole pareg-
giare i conti.»
Evans annuì. «Ha senso.»
«Ma chi? Chi gli ha fatto del male?» rifletté Hardy, guardando nuova-
mente la lettera di ricatto.
«È stato licenziato?» suggerì Cage. «Un dipendente incattivito?»
«No», disse Evans, «uno psicopatico può uccidere per questo motivo,
ma il nostro soggetto non era psicopatico. Era troppo intelligente e control-
lato.»
«Grandi affari, grandi multinazionali, pezzi grossi...» fece Geller.
«Aspettate», intervenne Hardy, «se erano quelli i suoi bersagli, non se la
sarebbe presa con New York?»
«L'ha fatto», gli rammentò Cage. «White Plains.»
Parker scosse il capo. «No, ricordate... White Plains, Boston, Philadel-
phia? Quelle erano soltanto delle prove, per lui.»
«E allora qual è il suo bersaglio qui?» domandò Hardy.
«Be'», disse Lukas. «Cosa c'è a Washington?»
«Il governo», rispose Parker. «Praticamente non c'è altro.»
Hardy annuì. «E i Becchini si opponevano al governo centralizzato.»
«Sì. Dev'essere questo», confermò Lukas.
Evans: «Il governo è responsabile di qualcosa che gli ha fatto del male».
Guardò il resto della squadra. «Qualche idea?»
«Motivi ideologici?» rifletté Cage a voce alta. «È un comunista, oppure
fa parte di un gruppo di estrema destra.»
Evans scosse il capo. «No, a quest'ora avremmo una specie di manifesto
o qualcosa del genere. Si tratta di qualcosa di più personale.»
Lukas e Hardy incrociarono lo sguardo. Parker ebbe l'impressione che
avessero pensato la stessa cosa nello stesso momento. Fu il poliziotto a di-
re: «La morte di qualcuno che amava».
Lukas annuì.
«Potrebbe essere», fece lo psicologo.
«Okay», disse Cage. «Quale potrebbe essere lo scenario? Chi è morto?
Perché?»
«Un'esecuzione?» suggerì Hardy.
Cage scosse la testa. «È difficile trovare crimini federali puniti con la
pena di morte. Sono quasi sempre reati statali.»
«Un soccorso della guardia costiera andato male», suggerì Geller.
«Improbabile», ribatté Lukas.
Hardy tentò di nuovo. «Una macchina o un camion governativo coinvol-
to in un incidente, una rapina a un ufficio postale, Park Service... corpo di-
plomatico...»
«Qualcosa di militare», suggerì Evans. «La maggior parte delle morti
che coinvolgono il governo federale sono relative all'attività militare.»
«Qualcuno che amava è rimasto ucciso in battaglia», ipotizzò Parker.
«E pensateci bene», continuò Hardy. «Nelle classi sociali più basse - le
vittime tradizionali del capitalismo - ci sono perlopiù soldati semplici,
quelli che rischiano maggiormente. Ciò spiegherebbe per quale motivo i
bersagli del Becchino sono principalmente le classi sociali più alte.»
«Ma», disse Lukas, «ci devono essere centinaia di morti all'anno, nelle
forze armate. È stato un incidente? È avvenuto durante un addestramento?
In combattimento?»
«Tempesta nel Deserto?» suggerì Cage.
«Quanti anni aveva il sosco?» domandò Parker.
Lukas afferrò il rapporto preliminare del medico legale. Lo lesse. «Poco
oltre i quaranta», disse.
Poi, finalmente, Parker capì. «Il Muro nero!» esclamò.
Lukas annuì. «Il monumento in memoria dei caduti del Vietnam.»
«Qualcuno che conosceva è rimasto ucciso in Vietnam», disse Evans.
«Un fratello, una sorella. Magari sua moglie era un soldato, o un'infermie-
ra.»
«Ma si parla di trent'anni fa», fece Cage. «È possibile che qualcosa del
genere torni in superficie dopo tanto tempo?»
«Oh, certo che sì», disse Evans. «Se il soggetto non ha esplorato la pro-
pria rabbia in terapia, essa non ha fatto altro che alimentarsi. E la sera del-
l'ultimo dell'anno è un momento particolare per le decisioni, il momento in
cui le persone tendono a compiere azioni coraggiose, persino azioni di-
struttive. Ci saranno più suicidi stanotte che in qualsiasi altro giorno del-
l'anno.»
«Oh, Gesù», esclamò Lukas.
«Che c'è?»
«Mi sono appena resa conto... il monumento è al Mall. Questa sera a
mezzanotte ci saranno duemila, tremila persone lì. Per i fuochi d'artificio.
Dobbiamo chiudere quella zona del parco.»
«È già piena come un uovo», intervenne Parker. «La gente è accampata
lì da ore. Baker dovrà occuparsene con molta cautela. Altrimenti ci sarà
panico, e un fuggi-fuggi generale.»
«Ma, Cristo», imprecò Cage. «Abbiamo bisogno di altri uomini.» Chia-
mò Artie, la guardia notturna dell'edificio, che fece un annuncio all'altopar-
lante dicendo che tutti gli agenti disponibili erano attesi nell'atrio per un
incarico di emergenza.
Lukas si mise in contatto con Jerry Baker e gli disse di portare i propri
agenti alla sezione nord-ovest del Mall. Poi chiamò il vicedirettore di turno
sul cercapersone. Venne richiamata immediatamente. Gli parlò per qualche
minuto, poi riappese.
Guardò la squadra. «Il vicedirettore sta arrivando. Lo incontrerò di sotto
e lo metterò al corrente degli sviluppi. Con voi ci vedremo al monumen-
to.»
Cage indossò il soprabito. Geller si alzò e controllò la sua arma. La pi-
stola sembrava aliena nelle sue mani, che erano indubbiamente più abituate
a tenere il mouse di un computer.
«Aspetta, Tobe», disse Lukas. «Tu vai a casa.»
«Posso...»
«È un ordine. Hai già fatto abbastanza.»
Geller protestò ancora. Ma alla fine Lukas riuscì a spuntarla, anche se
solo dopo aver promesso che l'avrebbe chiamato se avesse avuto bisogno
di assistenza tecnica. «Avrò con me il mio portatile», disse Geller, come se
non potesse immaginare di trovarsi a più di tre metri di distanza da un
computer.
Lukas si avvicinò a Hardy. «Grazie, detective. Hai fatto veramente un
ottimo lavoro.»
Hardy sorrise. «Mi dispiace di aver combinato quel casino con il sinda-
co. Lui...»
Lukas agitò una mano, accettando le scuse. Poi gli chiese: «Vuoi sempre
far parte dell'azione, questa sera?»
«Oh, ci puoi scommettere.»
«Okay, ma stai nelle retrovie. Dimmi la verità... Sai davvero come si
spara?»
«Certo che sì. E sono anche abbastanza bravo... se non c'è troppo ven-
to.» Il giovane detective, sempre sorridendo, indossò il suo trench imma-
colato.
Parker, sentendo il peso della pistola in tasca, indossò il giubbotto. Lu-
kas lo guardò dubbiosa. «Vengo», disse lui in risposta alla sua occhiata.
«Non devi, Parker», obiettò lei. «Va tutto bene. Hai già fatto abbastanza
anche tu.»
Lui le sorrise. «Mirare e sparare, giusto? Nient'altro.»
Lukas ebbe un'esitazione, poi disse: «Mirare e sparare. Nient'altro».
26
23,20
27
23,40
Un po' di gente...
Click, click...
Qualcuno era lì vicino, accovacciato a terra, si guardava intorno. Spa-
ventato. Il Becchino avrebbe potuto facilmente sparargli, ma poi la polizia
l'avrebbe visto.
«L'ultima volta uccidine più che puoi», gli ha detto l'uomo che gli dice
le cose.
Ma quante persone sono «più che puoi»?
Una, due, tre, quattro, cinque...
Il Becchino non crede che l'uomo che gli dice le cose parlasse di una
semplice decina di persone.
E così corre dietro a quella gente, corre un po' come sta correndo la fol-
la, piegato in avanti, guardandosi intorno. Cose così.
Loro hanno l'aria spaventata. Lui tenta di sembrare spaventato. Proprio
come gli ha detto di fare l'uomo che gli dice le cose.
Tu sei... tu sei... tu sei il migliore.
Chi era l'uomo di prima? si chiede. Non era un poliziotto. Perché stava
tentando di spararmi?
Il Becchino ha nascosto... click, click... ha nascosto l'Uzi sotto l'imper-
meabile, l'impermeabile che gli piace tanto perché gliel'ha regalato Pame-
la.
Sente delle grida lì vicino, ma non sembrano dirette a lui, quindi il Bec-
chino non vi presta alcuna attenzione. Nessuno si accorge di lui. Si sta
muovendo tra l'erba, vicino agli alberi e ai cespugli, lungo quella strada
larga, la Constitution Avenue. Ci sono autobus e automobili e migliaia e
migliaia di persone. Se riesce ad arrivare fino a loro potrà ucciderne a cen-
tinaia.
Vede i musei come quelli che hanno il disegno con l'entrata dell'inferno.
I musei sono divertenti, pensa. A Tye piacerebbero i musei. Forse, quando
saranno in California, a ovest, potranno andare insieme a visitarne uno.
Altre grida. La gente corre. Ci sono uomini e donne e bambini dapper-
tutto. Poliziotti e agenti federali. Hanno Uzi o Mac-10 o... click... o pistole
come le sue e come quella dell'uomo grasso che aveva appena tentato di
sparargli. Però quegli uomini non stanno sparando, perché non sanno a chi
sparare. Il Becchino è soltanto una persona tra la folla.
Click, click.
Quanta strada deve fare ancora per arrivare dove c'è più gente?
Una cinquantina di metri, immagina.
Sta correndo verso di loro. Ma il suo percorso lo sta allontanando da
Tye, dalla macchina parcheggiata sulla Ventiduesima Strada. Quell'idea
non gli piace proprio. Vuole finire alla svelta la sparatoria e tornare dal ra-
gazzino. Quando arriverà tra la folla roteerà su se stesso come una trottola,
osservando la gente cadere come le foglie nella foresta del Connecticut, e
poi tornerà dal ragazzino.
28
24,00
Ansima, ora.
Qualcosa dentro il Becchino scatta e lui dimentica tutto ciò che gli ha
detto l'uomo che gli dice le cose. Si dimentica di uccidere più persone che
può e si dimentica che la gente non deve vederlo in faccia e si dimentica di
roteare come una trottola in una foresta del Connecticut. Vuole soltanto
andar via da lì e tornare da Tye.
I proiettili che gli ha sparato quell'uomo sono arrivati così vicini... Mi
hanno quasi ucciso, pensa. E, se lui rimane ucciso, cosa succederà al ra-
gazzino?
Si accovaccia e poi si dirige di corsa verso un pullman di turisti. Il moto-
re del bus è al minimo, una nube di fumo acre si solleva dalla marmitta.
Il braccio gli fa così male. Dolore...
Guarda guarda, c'è una rosa rossa sul suo braccio.
Ma, oh, quanto fa... click... quanto fa male.
Spera di non sentire mai più un dolore come quello. Spera che Tye non
sentirà mai un dolore come quello.
Cerca l'uomo che gli ha sparato. Perché l'ha fatto? Il Becchino non capi-
sce. Lui sta solo facendo quello che gli hanno detto di fare.
29
00,15
IV
IL SIGNORE DEGLI ENIGMI
BRUNO HAUFOVIANN,
RIFERENDOSI ALLE PROVE PRESENTATE
AL PROCESSO PER IL RAPIMENTO DEL
PICCOLO LlNDBERGH
30
00,30
31
00,45
Edward Fielding si fermò alla fine del corridoio, ansimando sotto il peso
del denaro che aveva sulla schiena.
Guardò verso la reception a dieci metri di distanza e vide i corti capelli
biondi di Margaret Lukas. Alle spalle della donna, la guardia notturna sta-
va leggendo il giornale. Nel corridoio le luci erano spente, e, se anche si
fossero voltati verso di lui, sarebbe stato difficile vederlo con chiarezza.
Dopo essersi sistemato il denaro sulle spalle in una posizione più como-
da, strinse la pistola con la mano destra e si incamminò verso l'atrio. Le
sue suole di cuoio picchiettavano debolmente le piastrelle. Notò che Lukas
era girata dall'altra parte. Le avrebbe piazzato una pallottola nella nuca.
Poi, quando la guardia avesse sollevato lo sguardo, avrebbe ucciso anche
lui.
E poi, finalmente a casa, libero.
Tap top tap.
Diminuì la distanza tra sé e i suoi bersagli.
Perfetto...
32
00,55
33
01,10
34
01,25
35
02,20
Gli operai stavano sgombrando la strada dai resti bruciati del pullman.
Gli uomini dell'ufficio del medico legale avevano portato via il corpo del
Becchino, nelle cui mani era fusa orribilmente una mitragliatrice nera.
Edward Fielding era detenuto in una prigione federale.
Mentre Parker augurava la buonanotte a Cage, guardandosi intorno in
cerca di Margaret Lukas, notò il sindaco Gerald Kennedy che stava andan-
do verso di loro. Era rimasto lì, con un gruppo di giornalisti, a sorvegliare i
danni e a parlare con i poliziotti e gli infermieri dei mezzi di soccorso. Si
avvicinò a loro.
«Eccellenza», lo salutò Cage.
«Devo ringraziarla per quella piccola storia che ha raccontato al tele-
giornale, Cage.»
Una stretta di spalle.
«L'indagine aveva la priorità, signore. Probabilmente sarebbe stato me-
glio tener fuori la politica.»
«Probabilmente ha ragione.»
Silenzio.
«E così ho sentito che avete catturato l'uomo che ha escogitato tutto que-
sto», disse il sindaco.
«Esatto, signore.»
Kennedy si voltò verso Parker. «E lei è l'agente...»
«Jefferson, signore. Tom Jefferson.»
«Oh, lei è quello di cui ho sentito parlare. L'esaminatore di documenti?»
«Esatto», rispose Parker. «L'ho vista sparare mica male, qui, questa se-
ra.»
«Non abbastanza bene», disse il sindaco indicando tristemente il pul-
lman fumante. «Ma mi dica, ha qualche parentela con Thomas Jefferson?»
«Io?» Parker rise. «No, no. È un nome molto comune.»
«Il mio assistente si chiama Jefferies.» Lo disse con il tono di chi vuol
fare conversazione.
Poi arrivò Lukas. Salutò il sindaco con un cenno e Parker vide la tensio-
ne sul suo viso, come se si aspettasse un confronto dopo l'arresto virtuale
al Ritz Carlton.
Ma tutto ciò che Kennedy disse fu: «Mi dispiace per il suo amico, l'a-
gente Ardell».
Lukas non rispose. Continuò a fissare i resti del pullman.
«Sindaco», intervenne un giornalista, «si dice che lei non abbia voluto
chiamare la Guardia Nazionale perché pensava potesse interferire con il
traffico dei turisti. Può fornire un suo commento?»
«No, non posso.» Continuò a guardare il pullman.
«Non è finita molto bene per nessuno questa notte, eh?» considerò Lu-
kas.
«No, agente Lukas», disse lentamente Kennedy. «Ho il sospetto che co-
se come questa non finiscano mai bene.»
Poi prese per mano sua moglie e insieme si incamminarono verso la li-
mousine in attesa.
Margaret Lukas consegnò a Cage alcuni documenti - forse i rapporti del-
le prove o i resoconti degli arresti. Poi, con gli occhi ancora fissi sul pul-
lman, si allontanò verso la sua quattro per quattro. Parker si domandò:
Perché se ne va senza salutare?
Margaret aprì la portiera, mise in moto il motore e accese il riscaldamen-
to - la temperatura era calata ancora e il cielo era coperto da una spessa
coltre di nubi da cui ancora cadevano grossi fiocchi di neve. Lasciò la por-
tiera del furgone aperta e si abbandonò contro lo schienale.
Cage strinse la mano a Parker e poi borbottò: «Cosa posso dire?» Poi,
cogliendolo di sorpresa, lo abbracciò forte, con una smorfia di dolore, e si
allontanò lungo la strada. «Buonanotte, Lukas», gridò. «Anche a te, Par-
ker. Ragazzi, mi fa male il fianco. Buon anno a tutti. Merda, fa un male
cane.»
Parker si tirò su la cerniera del giubbotto e si incamminò verso il furgo-
ne di Lukas. Si accorse che lei stava guardando qualcosa che aveva in ma-
no. Parker non era sicuro di che cosa fosse. Sembrava una vecchia cartoli-
na ripiegata. Lukas la fissava. Guardò Parker e parve avere un istante di e-
sitazione. Un attimo prima che lui arrivasse al furgone mise via la cartolina
e chiuse la borsetta.
Prese una bottiglia di birra dalla tasca della giacca, una Sam Adams, e la
aprì con un apribottiglie che teneva sul cruscotto.
«Le vendono alle macchinette del quartier generale, adesso?»
«Un regalo del mio testimone. Gary Moss.» Gliela offrì.
Parker ne bevve un lungo sorso e gliela ridiede. Lukas rimase nel furgo-
ne, ma si voltò su un fianco, guardandolo direttamente. «Che notte, eh?»
«Che notte», ripeté lui. Si allungò verso di lei e le offrì la mano.
Lei gliela strinse con fermezza. Si erano tolti entrambi i guanti e, nono-
stante avessero le mani arrossate dal freddo, la loro pelle aveva la stessa
temperatura. Parker non sentiva né freddo né caldo provenire dalla mano
di lei.
Nessuno dei due lasciò la presa. Lui le racchiuse la mano con la sinistra.
«Come stanno i bambini?» gli domandò lei. «Com'è che li chiami?»
«I Chi.»
«Chi. Giusto. Hai parlato con loro?»
«Stanno bene.» Con riluttanza lasciò andare la presa. Era dispiaciuto an-
che a lei? Non riusciva a capirlo. Poi le chiese: «Hai bisogno di un rappor-
to, presumo». Ricordò tutte le scartoffie da preparare per i processi. Mon-
tagne di carta. Non gli importava molto: dopotutto, i documenti scritti era-
no il suo mestiere.
«Lo faremo», rispose Lukas. «Ma non c'è fretta.»
«Ne farò uno lunedì. Questo fine-settimana ho da portare a termine un
lavoro.»
«Su un documento? O un lavoro di casa?»
«Intendi un lavoro di casa tipo riparazione o qualcosa del genere?»
Scoppiò a ridere. «Oh, no, non ne faccio. In cucina me la cavo. Con il fai
da te... non direi. No, è un possibile falso. Una lettera che dovrebbe essere
stata scritta da Thomas Jefferson. Un commerciante di New York vuole
che la esamini.»
«È autentica?»
«Istintivamente direi di sì. Ma ho altri esami da fare. Ah, ecco.» Le por-
se la pistola.
Lukas, con la gonna, non era più vestita per poterla nascondere alla ca-
viglia. La infilò nel vano portaoggetti. Lo sguardo di Parker si soffermò
sulla curva delicata delle sue gambe sottili e muscolose avvolte nelle calze
bianche.
Sapeva che lei lo stava guardando, ma questa volta non gli importava di
essere sorpreso.
Perché mai dovresti invidiarmi, Margaret? si domandò silenziosamente.
A volte gli enigmi si rispondono da soli, a tempo debito.
E a volte, semplicemente, non trovi mai la risposta. E questo perché, a-
veva scoperto Parker, non la dovevi scoprire.
Ti sto solo dicendo che Lukas non ha bisogno di nessuno che si prenda
cura di lei... Non credi che funzioni meglio così? Nessuno che si prende
cura di nessuno. È una regola. Prendi nota.
«Ehi, hai impegni domani sera?» le domandò. «Vuoi partecipare a una
ridicola cena nei sobborghi?»
Lukas esitò. Senza muovere un muscolo. Sembrava che non respirasse
nemmeno. Neanche lui si mosse, si limitò a mantenere un debole sorriso
sulle labbra, gli occhi soddisfatti, esattamente come quando aspettava che i
Chi gli confessassero qualcosa.
Alla fine anche lei sorrise, ma Parker si accorse subito che era un sorriso
fasullo - il sorriso di pietra, quello che si intonava ai suoi occhi. E seppe
quale sarebbe stata la risposta.
«Mi dispiace», disse lei in tono formale. «Ho già un impegno. Magari
qualche altra volta.»
Il che significava mai. Il Manuale per genitori single di Parker Kincaid
aveva un intero capitolo dedicato agli eufemismi.
«Certo», disse lui, tentando di mascherare la delusione. «Qualche altra
volta.»
«Dov'è la tua macchina?» gli chiese Lukas. «Ti do un passaggio.»
«No, non c'è problema. È vicina.»
Le strinse di nuovo la mano e resistette all'impulso di abbracciarla.
«Buonanotte», disse lei.
Parker annuì.
Mentre camminava verso la macchina sentì partire il motore del furgone.
La guardò e vide che lei lo stava salutando. Era un gesto strano, visto
che non stava sorridendo.
Ma poi Parker si accorse che non era affatto un saluto. Lukas stava to-
gliendo la condensa dal finestrino, senza nemmeno guardarlo. Dopo aver
pulito il vetro, Margaret Lukas inserì la marcia e si allontanò al centro del-
la strada.
36
03,00
Parker rotolò lontano dal Becchino, strisciando sul pavimento, con i go-
miti sbucciati e la testa che gli pulsava nel punto in cui aveva colpito lo
spigolo del tavolo della cucina quando si era tuffato per evitare i proiettili.
I Chi! pensò disperato, arrancando verso le scale. Non avrebbe permesso
al Becchino di salire. Sarebbe morto con le mani strette intorno alla gola
del bastardo, se fosse stato necessario, ma avrebbe salvato i bambini.
Un'altra raffica. Si voltò dalle scale e si tuffò in soggiorno.
Un'arma... Quale poteva usare? Ma non ne aveva. Non poteva entrare in
cucina e afferrare un coltello. Non poteva andare in garage a prendere l'a-
scia.
Perché diavolo aveva restituito la pistola a Lukas?
Saltò dietro il divano. Poi vide qualcosa: uno dei regali per Robby, una
mazza da baseball di alluminio. La prese, strinse l'impugnatura e tornò
strisciando verso le scale.
Dov'è? Dove?
Poi un rumore di passi. Attutiti. Lo scricchiolio del Becchino che cam-
minava sopra i frammenti di vetro e di ceramica.
Ma Parker non riusciva a capire dove fosse.
Nel corridoio?
In sala da pranzo? Nello studio del primo piano?
Che cosa doveva fare?
Se avesse gridato ai bambini di saltare dalla finestra, sarebbero venuti a
vedere che cosa voleva. Doveva riuscire a salire lui, prenderli e saltare con
loro. Avrebbe tentato di attutire la caduta come meglio poteva. La neve li
avrebbe aiutati, e avrebbe potuto dirigersi verso i cespugli.
Sì, doveva farlo!
Passi, molto vicini. Uno scricchiolio. Una pausa. Un altro scricchiolio.
Parker sollevò lo sguardo.
No! Il Becchino era ai piedi della scala, e stava per salire. Guardava in
alto. Il volto privo di espressione.
È a prova di profilo psicologico...
Parker non poteva correre verso di lui: sarebbe stato in piena vista e sa-
rebbe morto prima di avere il tempo di fare due passi. Così lanciò la mazza
da baseball in sala da pranzo. L'oggetto infranse la vetrina delle porcellane.
Il Becchino si fermò, sentendo il rumore. Si voltò rigidamente e cammi-
nò in quella direzione. Come il mostro alieno di quel vecchio film dell'or-
rore, La cosa.
Quando fu vicino alla porta ad arco, Parker uscì da dietro il divano e si
preparò a saltargli addosso.
Era a meno di due metri dalla sua preda quando mise un piede su uno
dei giocattoli di Robby, che si spezzò con uno schianto secco. Il Becchino
si voltò di scatto proprio mentre Parker gli precipitava addosso, facendogli
perdere l'equilibrio. Lo colpì al volto con un pugno. Il colpo era stato forte,
ma il Becchino si scostò e Parker, trascinato dalla forza d'inerzia del suo
stesso movimento, cadde su un fianco. Crollò sul pavimento e tentò di
prendere l'arma del Becchino. Ma l'uomo era troppo veloce per lui e ci ar-
rivò per primo, poi si alzò in piedi. Parker non poté fare nulla se non riti-
rarsi nuovamente nello spazio angusto dietro il divano.
Con la faccia ricoperta di sudore e le mani che gli tremavano, rimase
raggomitolato lì.
Nessun altro posto in cui andare.
Non aveva nessun altro posto in cui andare.
Il Becchino indietreggiò, stringendo gli occhi nell'oscurità. Parker vide
qualcosa di acuminato sul pavimento di fronte a lui. Acuminato e scintil-
lante. Una lunga scheggia di vetro. La spinse verso di sé.
Il killer lo localizzò. Parker sollevò lo sguardo sugli occhi dell'uomo e
pensò: No, gli occhi di Margaret Lukas non sono affatto morti: in essi c'è
mille volte la vita che c'è negli occhi di questa creatura.
Il Becchino fece un passo avanti, cominciando a girare intorno al divano.
Parker si tese. Poi guardò, dietro le spalle dell'uomo, l'albero di Natale. Ri-
cordò loro tre - lui e i Chi - che aprivano i regali la mattina del 25 dicem-
bre.
È un bel pensiero con cui morire, decise.
Ma, se anche fosse morto, si sarebbe assicurato che i bambini sopravvi-
vessero. Afferrò la scheggia di vetro, vi avvolse intorno un fazzoletto. A-
vrebbe tranciato la giugulare dell'uomo. E pregato che quel bastardo mo-
risse dissanguato prima di riuscire ad andare di sopra, dove i bambini sta-
vano dormendo. Non osava pensare a ciò che avrebbero visto i Chi la mat-
tina dopo.
Sarebbe andato tutto bene. Sarebbero sopravvissuti. Era l'unica cosa che
importava.
Si preparò a saltare.
Il Becchino girò intorno al divano e cominciò a sollevare l'arma.
Parker si tese.
Poi, improvvisamente, lo schianto assordante di un unico colpo di pisto-
la.
Il Becchino ebbe un sussulto. Il mitra gli cadde dalle mani. Il suo sguar-
do si mise a fuoco alle spalle di Parker. Poi la sua testa ricadde in avanti e
lui si accasciò sul pavimento, con un foro di proiettile nella nuca.
Parker afferrò l'Uzi e lo tirò verso di sé, guardandosi intorno.
Cosa? si domandò freneticamente. Cos'era successo?
Poi vide qualcuno nel riquadro della porta.
Un ragazzino... com'era possibile? Era poco più di un bambino. Di colo-
re. Aveva in mano una pistola. Avanzava lentamente, fissando il cadavere.
Come il poliziotto di un film teneva la grossa pistola puntata sulla schiena
del Becchino. Aveva bisogno di entrambe le mani per riuscire a tenerla e
lottava contro il peso dell'arma.
«Ha ucciso il mio papà», disse il bambino a Parker, senza guardarlo.
«L'ho visto che lo faceva.»
«Dammi la pistola», sussurrò Parker.
Il bambino continuava a fissare il Becchino. Aveva le guance rigate di
lacrime. «Ha ucciso il mio papà. Mi ha portato qui. Mi ha portato qui con
una macchina.»
«Dammi la pistola. Come ti chiami?»
«L'ho visto che lo faceva. L'ha ucciso proprio davanti a me. Stavo aspet-
tando il momento per farlo fuori. Ho trovato questa nella macchina. Tre
cinque sette.»
«Va tutto bene», disse Parker. «Come ti chiami?»
«È morto. Merda.»
Parker fece un passo avanti, ma il ragazzino gli puntò minacciosamente
la pistola contro. Parker si immobilizzò e indietreggiò lentamente. «Mettila
giù. Lo faresti? Per favore?»
Il ragazzino lo ignorò. I suoi occhi stanchi perlustrarono la stanza. Si
fermarono per un attimo sull'albero di Natale. Poi tornarono al Becchino.
«Ha ucciso il mio papà. Perché l'ha fatto?»
Parker avanzò lentamente ancora una volta, le mani in alto, i palmi sco-
perti. «Non preoccuparti. Non ti farò del male.»
Guardò le scale. Ma, apparentemente, lo sparo non aveva svegliato i Chi.
«Vado lì un attimo», disse, indicando l'albero di Natale.
Evitò il ragazzino - e la macchia di sangue che circondava la testa del
Becchino - e raggiunse l'albero. Si chinò, prese qualcosa e tornò. Si ingi-
nocchiò. Fece vedere la mano destra vuota al ragazzino, con il palmo rivol-
to verso l'alto. Poi, con la sinistra, gli offrì l'astronave Millennium Falcon
di Robby, quella di Guerre stellari.
«Facciamo uno scambio.»
Il ragazzino studiò il giocattolo di plastica. La pistola si abbassò. Il bam-
bino era alto dieci centimetri meno di Robby e doveva pesare soltanto tren-
ta o trentacinque chili. Il suo sguardo era vent'anni più vecchio di quello
del figlio di Parker.
«Dammi la pistola, per favore.»
Il bambino studiò il giocattolo. «Ehi», disse in tono riverente. Poi diede
la pistola a Parker e prese l'astronave giocattolo.
«Aspettami qui», fece Parker. «Torno subito. Vuoi qualcosa da mangia-
re? Hai fame?»
Il bambino non rispose.
Parker prese il mitra e lo portò di sopra insieme alla pistola. Mise le armi
nell'ultimo ripiano del ripostiglio e chiuse la porta a chiave.
Un movimento accanto a lui. Robby stava arrivando in corridoio.
«Papà?»
«Ehilà, Robby.» Parker lottò per non far sentire il tremito che gli incri-
nava la voce.
«Ho fatto un sogno. Ho sentito uno sparo. Ho paura.»
Parker lo intercettò prima che arrivasse alle scale, lo abbracciò e lo indi-
rizzò nuovamente verso la camera. «Probabilmente erano soltanto dei fuo-
chi d'artificio.»
«Possiamo averli anche noi l'anno prossimo?» domandò il bambino con
voce assonnata.
«Vedremo.»
Senti dei passi fuori, passi pesanti sulla strada di fronte a casa. Guardò
all'esterno. Vide il bambino che attraversava di corsa il vialetto, tenendo
stretta l'astronave. Dopo qualche secondo scomparve in fondo alla strada.
Dov'era diretto? si domandò Parker. Il distretto? La Virginia?
Ma non riuscì a pensarci nemmeno per un momento. Suo figlio richie-
deva tutta la sua attenzione.
Parker mise a letto Robby, accanto a sua sorella. Doveva trovare il cellu-
lare e chiamare il 911. Ma il bambino non aveva nessuna intenzione di la-
sciargli andare la mano.
«È stato un brutto sogno?» domandò Parker.
«Non lo so. Ho soltanto sentito quel rumore», rispose Robby.
Parker si sdraiò accanto a lui. Guardò l'orologio. Erano le tre e mezza.
Joan sarebbe arrivata alle dieci con l'assistente sociale... Gesù, che incubo.
C'erano almeno una ventina di buchi di proiettile nelle pareti. I mobili era-
no danneggiati, la veranda rovinata. E la porta posteriore era distrutta.
E, come se non bastasse, in mezzo al tappeto c'era un cadavere insangui-
nato.
«Papà», disse Stephie, borbottando con voce assonnata.
«Va tutto bene, tesoro.»
«Ho sentito un petardo. Petey Whelan aveva i petardi. Sua madre gli a-
veva detto che non poteva, ma lui ce li aveva lo stesso. Li ho visti.»
«Non c'è problema. Non sono affari nostri.»
Parker si lasciò andare, chiuse gli occhi. Sentì il dolce peso della bambi-
na sul petto.
Pensava ai buchi dei proiettili, ai bossoli, ai mobili fatti a pezzi. Al ca-
davere.
Immaginò la testimonianza di Joan in tribunale.
Che cosa poteva fare? Quale scusa poteva trovare?
Che cosa...?
Un attimo dopo Parker Kincaid stava respirando profondamente. Immer-
so nel sonno di un genitore che ha i suoi bambini tra le braccia, e non esi-
ste sonno migliore di questo.
Quando aprì gli occhi, erano le dieci meno cinque del mattino.
Era stato svegliato dal rumore della portiera di un'auto che sbatteva, e
dalla voce di Joan che diceva: «Siamo un po' in anticipo, ma sono sicura
che non se la prenderà. E guardi: sapeva che saremmo arrivate e non si è
nemmeno preoccupato di spazzare il vialetto. Tipico. Tipico».
37
09,55
RINGRAZIAMENTI
FINE