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Brunella Gasperini

A scuola si muore

1975 Rizzoli editore, Milano


qui 1980 seconda edizione BUR
1.

Vorrei provare a raccontarla io, questa storia. Per molti motivi.


Primo, sono un esperto di gialli. Ne ho letti un finimondo, anche se non avrei mai
creduto, fino a quel momento dei miei diciotto anni, di doverne vivere uno in prima
persona, di vederlo nascere e mostruosamente crescere sotto i miei occhi, tra i miei
compagni, nel mio liceo. Si pensa sempre che queste cose succedono solo nei libri,
finché non cominciano a succedere a te.
Secondo motivo, conosco a menadito tutti i protagonisti della storia: dalla vittima
a ogni potenziale assassino (me compreso). Nessuno, oso dire, li conosce meglio di
me. Sono un buon osservatore e mi considero un discreto psicologo.
Terzo motivo: sono stato io a scoprire il cadavere. Sembra ancora terribile
chiamare Sandra «il cadavere». Ma quando la vidi quel mattino, là sul pavimento
della vecchia palestra, non c'era dubbio che lo fosse.

Era distesa in una posa assurda, contorta, come se le fosse preso un crampo
mentre faceva un'impossibile ginnastica sul pavimento. Gli occhi sbarrati, di vetro, il
colore terrificante della faccia, le labbra rialzate a scoprire i denti — non sembrava
neanche più Sandra. Sembrava che un'altra orribile persona si fosse infilata nelle
spoglie di Sandra.
Per un momento non riuscii a muovermi. Non riuscivo a smettere di guardarla.
Sandra, chiamavo dentro di me. Non fare così. Ti prego, Sandra.
Erano le stesse parole che le avevo detto il giorno prima. Le ultime. Non fare
così. Ti prego, Sandra. Lei mi aveva sorriso con la sua aria provocatoria e insieme
elusiva (doveva essersi bucata da poco). Con voce petulante, cattiva, aveva detto:
«Vuoi levarti dai piedi, porco giuda? Piantala di rompere! Sono stufa». Poi, mentre mi
guardava, il sorriso le si era spento e anche la voce. Voltandosi verso la finestra,
aveva sussurrato: «Per piacere, Stefano, lasciami perdere».
Erano le ultime parole che avevo sentito da lei. Ed era anche l'ultima volta che
l'avevo vista viva, là nell'inquadratura della finestra, con le spalle voltate: i capelli neri
lucenti tirati su con l'elastico, le linee del suo corpo noto, la nuca esile, ancora
infantile. Sandra. Così bella, così dolce, così spaventosamente capace di distruggere
e di distruggersi.
Ecco, adesso era distrutta definitivamente. Non l'avrei più vista, più sentita, più
toccata. Chiuso. Non c'era più. Non era Sandra quel cadavere squinternato, con gli
occhi di vetro e quel colore orrendo. Era solo un cadavere.
Inaspettatamente ebbi un conato di vomito. Ma mi ripresi subito. Dovevo
osservare bene tutto prima dì filare. Su, svelto.
Non c'erano tracce di lotta, sangue o altro. Forse alla prima occhiata poteva
anche sembrare un suicidio, eccesso di droga o altro. Balle. Alla seconda occhiata si
sarebbero accorti che non lo era. Anche nei gialli succede così.
La borsetta di Sandra era sul pavimento lì accanto. Mi mossi in fretta, anche se
mi sembrava di essere anchilosato. So che queste cose non si fanno, anche il più
scalcinato lettore di gialli lo sa, ma io lo feci: con sommaria cautela, presi la borsa e
ne esaminai il contenuto. Sigarette, fazzoletto, una biro blu, una siringa di plastica,
un piccolo portafogli: niente rossetto o altro, Sandra non si trucca. Non si truccava.
Nella tasca interna della borsa trovai una pallottola di carta. La spianai in un
baleno : era un mezzo foglio di quaderno a quadretti, malamente strappato. Da una
parte c'era una scritta in biro verde, illeggibile perché cancellata da furiosi
(sembrava) fregacci di biro blu. Dall'altra parte c'erano cinque parole scritte nello
stesso blu: «Vi prego aiutatemi vi prego». La scrittura era la scrittura sgangherata
tipica di Sandra dopo i buchi (o in attesa dei medesimi).
Vi prego aiutatemi... Mi sembrò di sentirne la voce. Nella mia testa esplose un
furore muto e assordante. Porci, maledetti, bastardi... Tremavo tutto. Me ne accorsi e
smisi subito. Niente isterismi.
Esaminai il portafogli. Piccolo, consunto, lo conoscevo benissimo. Non c'era
dentro niente che non dovesse esserci. Pochi soldi, la carta di identità, qualche
tesserino, qualche vecchio biglietto di cinema e di metrò. Solo per caso, tra il cuoio e
la fodera scucita, sentii quel cartoncino. Lo tirai fuori.
Gesù, era una foto mia e di Sandra. Due ragazzini sorridenti, sulla prua di una
barca a vela. Sembrava spaventosamente lontana, quell'estate. Che ne era stato di
quei due ragazzini? Morti. Morti tutti e due.
Scoprire adesso che lei aveva tenuto quella foto così, gelosamente nascosta
nella scucitura del portafogli per tutto quel tempo, mi metteva voglia di rotolarmi per
terra a piangere. Ma non sono uno che piange. E poi piangere ora non serviva a
niente.
Presi la fotografia e me la ficcai nella tasca posteriore dei blue-jeans, insieme al
foglietto. Rischioso? Cavolo, non mi avrebbero mica perquisito seduta stante, no?
Giacché c'ero, presi anche la siringa di plastica e me la infilai nella tasca interna del
blusotto. Cosa abbastanza imbecille da fare, ma fu un gesto istintivo.
In una specie di flash back vedevo la faccia grigia del padre di Sandra che
diceva: Meglio morta che drogata. Cose che si dicono: ma lui le pensava, povero
cristo. Era un maresciallo dell'esercito, aveva la fissa dell'onorabilità e così via.
Meglio al cimitero che al manicomio o in prigione, col nome sui giornali... Adesso il
nome sui giornali non glielo poteva evitare nessuno. Ma se almeno si fosse potuto
evitare che parlassero della droga...
Solo più tardi mi resi conto che, siringa o meno, l'avrebbero capito subito
comunque, che Sandra si bucava: bastava un'occhiata alle braccia. Ma in quel
momento le rotelline del mio cervello funzionavano a modo loro.
Mi sentivo lucido e insieme sonnambulo. Andai verso la porta a ritroso. Gli occhi
di vetro mi guardavano. Per piacere, Stefano, lasciami perdere. Mi sembrava di
nuovo di sentire la sua voce, ma contraffatta, come se uscisse dal cadavere.
Inghiottendo un fiotto di saliva, uscii e mi richiusi la porta alle spalle. Ero sudato
dalla testa ai piedi.
Mi ficcai nella cosiddetta toilette, buttai la siringa in un gabinetto e tirai lo
sciacquone per farla andar giù, ma restava a galla. Fregatene, mi dissi. Ci sono
mucchi di siringhe di plastica al mondo, forse anche in questo stesso liceo. Una
siringa di plastica è uguale a un'altra siringa di plastica.
Mi sciacquai faccia e mani e uscii nel corridoio. Guardai l'orologio: le otto e
cinque. Erano passati sei minuti da quando ero entrato nella palestra. Avrei detto sei
mesi.
Più tardi, qualcuno dei trecentomila sbirri che invasero la scuola come un sol
uomo alla chiamata isterica del Pogliani (il Pogliani è il preside, ed è isterico anche in
situazioni meno critiche) avrebbe trovato strano che io fossi capitato in palestra a
quell'ora prima ancora che il bidello facesse le pulizie (posto che mai le faccia); e
ancora più strano che non ne fossi uscito urlando come una sirena, ma avessi
aspettato quasi dieci minuti per decidermi a comunicare che avevo semplicemente
trovato un cadavere in palestra.
Invece non era strano, per chi mi conosce bene. Ma chi mi conosce bene?
Cavolo, io.
2.

Percorsi il lungo corridoio scuro, svoltai a destra e fui nell'atrio. Le gambe non mi
reggevano molto bene, ma suppongo che non si notasse.
Le porte del liceo erano completamente aperte, adesso, ma nell'atrio non c'era
ancora nessuno. Era presto: i primi arrivati erano ancora fuori, sui vecchi gradini
scaldati dal sole, come in qualsiasi altra mattina di primavera.
Immaginai la mia voce che urlava: hanno ammazzato Sandra! Le parole mi
rimbombarono in testa senza uscire. Impalato sulla porta, zitto, osservai tutto
cercando di mettermi dal punto di vista di un investigatore. Anche questo succede
spesso nei gialli: il dilettante superdotato che si mette a indagare per conto suo,
scopre un sacco di cose grazie al suo sommo intuito psicologico e le racconta ai
lettori a modo suo. E magari, come in quel celebre romanzo di Agatha Christie, alla
fine si scopre che il colpevole è lui.
Balle. Qui non c'era molto da scoprire. Solite facce, soliti discorsi, non mancava
neanche il solito guardone sul marciapiede di fronte: un ometto di mezza età e di
aspetto insignificante, che usava gironzolare attorno al liceo per guardare le ragazze
e mormorare porcherie al loro passaggio. Ogni tanto c'era una protesta dei genitori, il
preside sdegnato e impaurito (lo è sempre) prometteva di provvedere, e per un po' il
guardone scompariva. Ma solo per un po'. Ormai non ci faceva più caso nessuno:
era un'istituzione, il guardone del liceo. Adesso però... Be', un maniaco è sempre un
maniaco, e i delitti sessuali sono all'ordine del giorno, no? Ma qualcosa mi diceva
che la polizia non avrebbe puntato sul guardone. Avrebbe puntato dritto su di noi.
Noi dei liceo. In particolare, noi della 5a B.
Uno era Dario Pizzi: ecco lì, seduto su un gradino, intento a spiegare ai presenti
(inascoltato) come si fa a fare la rivoluzione. Alto, piazzato, sciarpa rossa, un diluvio
di capelli barba baffi neri cresputi, sembrava la caricatura del gruppettaro di sinistra.
Anche il suo linguaggio (zeppo di «al limite», «a livello di», «nella misura in cui»)
sembrava la caricatura del linguaggio studentesco "impegnato". Dario era
impegnatissimo, almeno credeva. Sapeva tutto sulla lotta di classe, pochissimo di
ogni altra cosa. Nel complesso, un innocuo rompiballe: così lo consideravo un
tempo. Adesso non più.
Un rapido, crudele flash back mi traversò la testa. Sai che ho avuto un intrallazzo
erotico col Dario?, mi aveva detto una volta Sandra: disgraziatamente per me, era
abituata a raccontarmi tutto. Quasi tutto. Abbiamo fatto l'amore avvolti nella bandiera
rossa, aveva detto, non è da ridere? Forse era da ridere. Ma non per me. E neanche
per lei. Non era cinica — almeno lo fosse stata. Aveva semplicemente smarrito il
senso delle cose: di qualsiasi cosa che non fosse la droga. Chiaro che molti ne
approfittavano. Maledetti sciacalli. Ecco cos'era diventato Dario per me, da allora:
uno sciacallo. La sua vista mi scatenava dentro una specie di odio. Il che era
abbastanza illogico: se avessi dovuto odiare tutti quelli che intrallazzavano con
Sandra, ci sarebbe stata troppa gente da odiare.
Comunque, dal punto di vista dell'investigatore, Dario era un estremista, un
fanatico, immischiato in «episodi di intolleranza politica» come dicono i giornali:
sarebbe stato un vero piacere, per la polizia, incastrare Dario. Anche i delitti politici
sono all'ordine del giorno, no? Solo che era un po' difficile supporre che Sandra
avesse qualcosa a che fare con la politica. E altrettanto difficile supporre che Dario
l'avesse ammazzata per amore o simili. Ma non si può mai dire, con la polizia.
«Ciao» disse Dario vedendomi lì impalato sulla porta. «Da dove esci? Non ti ho
visto arrivare.» Non aspettò risposta e riprese a concionare. Conciona, conciona,
pensai. Vedrai che gusto tra poco.
Una macchina sportiva, piccola, rincagnata, molto scenosa, si fermò al
parcheggio lungo il marciapiedi di fronte, tra la selva dei motorini. Ne scese una
ragazza bionda pettinata dai Vergottini.
«Consumista! Sporca capitalista!» le gridò allegramente Dario.
«Stronzo marxista!» rispose altrettanto allegramente la ragazza. Era
Mariantonietta Salvi, detta Marianto. Allegra, estroversa, caciarona, la battuta
romanesca sempre pronta (era vissuta a Roma molti anni) diceva parolacce peggio
dei ragazzi ed era molto popolare al liceo. A me dava un po' fastidio. Mi sembrava
che recitasse una parte, la parte della simpaticona, e che la recitasse con troppo
impegno. Non era molto carina, questa Marianto, ma era quel che si dice un bel
pezzo di ragazza, ben carrozzata, bionda naturale (diceva), passo sportivo e così
via. Era anche elegantissima: cosa che non andava gran che d'accordo col suo ruolo
di maschiaccia alla mano. Si mostrava molto amica di Sandra, e Sandra ci credeva
(credeva a tutti). Io no. Secondo me, Marianto non era amica di nessuno e in
particolare non lo era di Sandra. Ne era invidiosa.
Invidiosa di “me”?, aveva detto una volta Sandra con un sorriso. Ricordo ancora
quel sorriso e quel me detto in quel modo. Come se dicesse : me nullità, me rottame,
me spazzatura. Sandra, Sandra, non fare così. Sei la più bella, la più dolce, la più...
Ma era inutile dirle queste cose. Era anche inutile dirle di non fidarsi di Marianto.
Adesso sul marciapiede di fronte, Marianto stava chiudendo la macchina. Il
guardone le si avvicinò con occhio lubrico. Senza degnarlo di uno sguardo, lei disse
con voce squillante: «Va' a fa'...» con quel che segue, e traversò la strada. I ragazzi
sui gradini risero. Giorgio Zardini (media statura, bene in carne, occhi pungenti dietro
gli occhiali) le andò incontro.
Giorgio Zardini, detto il Pingue, secondo Dario era «un qualunquista di
Cambronne» secondo me, era semplicemente uno che si diverte a sfottere la gente:
tutta la gente, ma in particolare i tipi come Dario. A differenza di Dario, il Pingue era
molto intelligente (un asso a scuola) e molto spiritoso: aveva un umorismo di tipo
sadico. Mi faceva spesso ridere, ma non mi era molto simpatico. Non che avesse
intrallazzato con Sandra: non mi risultava. I motivi erano altri. Sfotteva troppo
(spesso slealmente). Ma guai se qualcuno sfotteva lui: non gliela perdonava più. E
Sandra lo sfotteva spesso: era lei che per prima l'aveva apostrofato: «Ehi tu,
pingue!», e il soprannome gli era rimasto appiccicato. Certo sarebbe stato eccessivo
per chiunque supporre che questo potesse essere un movente per un omicidio.
Comunque, a parer mio il Pingue era un tipo pericoloso, con la sua lingua malefica e
i suoi malefici scherzi. Poi era avido e scroccone: forse per questo stava sempre alle
costole di Marianto, che era ostentatamente prodiga.
Per un po' di soldi, aveva detto una volta Sandra, il Pingue passerebbe sul
cadavere di chiunque.
Era un modo di dire, naturalmente.
3.

Cominciavano ad arrivare ragazzi a frotte, e io guardai l'orologio. Le mie


riflessioni, coi relativi flash back, erano durate esattamente quattro minuti. Tra poco
sarebbero entrati tutti, dovevo decidermi.
In quel momento, con passo elastico, arrivò Giussani, detto Scattare, il nostro
professore di ginnastica. Lui sì che era fascista, ma un fascista di tipo folkloristico,
tutto mens sana in corpore sano, petto in fuori pancia in dentro, figli forti alla patria e
così via. Difficile prenderlo sul serio. Comunque, lui era l'unico che fosse in grado,
volendo, di usare la porta posteriore della palestra: il che poteva metterlo in una
posizione critica agli occhi della polizia. Non ai miei. Di intrallazzi con Sandra lui non
ne aveva avuti. Cavolo, ero pronto a giurarlo: non lui!
«Dove va così di fretta, professore?» chiese col suo tono insinuante Giorgio il
Pingue. «In palestra a preparare il golpe?»
Invece di ridere bonariamente come al solito. Giussani prese un'aria spaventata.
«Devo andare su dal signor preside.» Era l'unico in tutto il liceo che dicesse "signor"
preside anche in assenza del medesimo. Mi passò davanti, il faccione rubizzo
insolitamente scuro. Lo guardai salire la scala in fretta.
Era anche strano che il preside non fosse nell'atrio come ogni mattina a
sorvegliare l'entrata col suo occhio d'aquila miope. Lo fa tutte le mattine, di solito.
«Dov'è il preside?» chiesi al bidello Gaetano, che posteggiava nei pressi
appoggiato alla scopa.
«Su. E arrivato prestissimo stamattina. Tutto intraversato.»
Questo era interessante.
«Che ora era?» chiesi, senza molte speranze: Gaetano è vecchio, distratto,
svanito, non sa mai chi vede e chi non vede (massima virtù ai nostri occhi). Con mia
somma sorpresa, stavolta rispose senza un attimo di esitazione:
«Le sette e quarantacinque». (Un quarto d'ora prima di me.) «Cinque minuti dopo
è arrivato il Gerli: tutto intraversato anche lui. Mah!».
Questo era "molto" interessante. Gerli, il nostro affascinante professore di lettere
(affascinante per le ragazze) è un tipo che non si intraversa mai: la sua arma è la
sottile ironia. Inoltre, arriva regolarmente in ritardo: forse per far capire che lui ha ben
altri e più elevati interessi che distribuire briciole del suo raffinato sapere a dei rozzi
ragazzotti come noi.
E quella mattina, proprio quella mattina, era arrivato con mezz'ora di anticipo.
Intraversato. Poteva essere una coincidenza: ma la polizia avrebbe creduto a una
coincidenza? Malignamente, speravo di no.
Una volta Gerli era il mio idolo, avrei voluto somigliargli: ero solo un ragazzino
idiota. Adesso le cose stavano in un altro modo.
Quel povero Gerli, aveva detto una volta Sandra, con tutte le sue arie vissute e
raffinate, dal lato erotico è una frana.
Anche dentro di me c'era stata una specie di frana. Sentivo male dappertutto.
Anche lui, pensavo tra i miei calcinacci. Sciacallo anche lui. Dio, facci morire tutti.
Ignara della mia frana interna, Sandra aveva continuato: Adesso deve avere una
paura tremenda che lo venga a sapere il preside... Non è da ridere?
Uscii da quel flash back e da quel sapore di cenere per chiedere a Gaetano: «Sa
dov'è andato, Gerli?».
E lui rispose: «Mi pare che sia andato in palestra».
Lo guardai, muto.
Lui si batté una mano sulla fronte: «Ma no, che stupido! Mi sono confuso. Sei tu
che sei andato in palestra».
Gesù, mi aveva visto. E se ne ricordava, pure. Be', per strano che fosse, questo
tagliava la testa al toro.
«Devo andare dal preside» mi sentii dire.
E le cose, che da dieci minuti (o anni) sembravano immobili, sospese sopra di
me, improvvisamente si misero a camminare. Anzi, a correre.
Feci le scale come un razzo, come un razzo svoltai nel corridoio tamponando
violentemente Giussani, che emise un gridolino di paura, poi un risolino sforzato:
«Che diamine!». Scattare dice sempre "diamine". «Dove diamine corri?»
«Dal preside» dissi.
«E occupato, non ti riceverà.»
«Oh, sì» dissi, trattenendolo per il braccio. «È meglio che venga anche lei,
professore.»
«Io?» chiese spaventato. «Perché? Cos'è successo?»
Senza rispondere, me lo tirai dietro fino alla porta della presidenza. Dentro si
sentiva la voce del preside, nasale e agitatissima, e quella di Gerli, ironica e
flemmatica.
Bussai.
«Chi è?» gridò la voce nasale del Pogliani. «Non disturbate!»
«Te l'avevo detto!» disse Giussani.
Spalancò la bocca mentre io spalancavo la porta.
«Fuori!» gridò il Pogliani imbestialito.- «Come ti permetti!»
«Spiacente» dissi. «C'è un cadavere in palestra.»
«Come ti permetti!» urlò di nuovo il Pogliani (quando è incavolato non ascolta mai
quel che gli si dice). «Fuori! Fuori immediat...» La voce gli si spense.
Alto, snello, brizzolato, molto pallido, il professor Gerli gli aveva toccato
gentilmente il braccio : «Lo lasci parlare, signor preside».
Il preside mi guardò stranito. Adesso era pallido anche lui, e anche Giussani.
Eravamo tutti molto pallidi, credo.
«Cos'hai detto?» mormorò il preside.
4.

«In palestra c'è un cadavere» ripetei : «Il cadavere di Sandra Biagi.» Dire il nome
mi fece un effetto tremendo.
Lo fece anche a loro.
Il preside si sedette: più che sedersi, sembrò che gli fossero mancate le gambe di
sotto. Si coprì la faccia con le mani, e tra le dita lanciò un'occhiata da affogato a
Gerli.
Il quale, fedele al suo stile britannico, rimase in piedi. Appoggiò soltanto una
mano — lunga, sottile, ben curata, la mano che aveva carezzato Sandra — sullo
schienale di una sedia. Non ricambiò lo sguardo del Pogliani: gli occhi fatali (fatali
per le ragazze) guardavano un punto imprecisato della parete di fronte.
Giussani, immobile, aprì e richiuse più volte la bocca senza emettere suoni:
povero Scattare, sembrava un pesce. Gli occhi gli scivolavano di qui e di là come se
ne avesse perso il comando.
Per qualche secondo si sentirono soltanto, lontano, come provenienti da un altro
mondo, le voci dei ragazzi che entravano a scuola. Sbrighiamoci, pensai.
Il preside si tolse le mani dalla faccia per chiedere con un filo di voce:
«Sei sicuro che sia morta? Morta come?».
Rividi la figura contorta sul pavimento, la punta della lingua sporgente tra i denti
scoperti, gli occhi di vetro che mi fissavano. Inghiottii saliva, poi risposi freddamente :
«Strangolata, direi».
Il preside emise un verso che stava tra il rantolo e il belato. Gerli sbatté soltanto
le ciglia : ma le nocche delle sue dita, sullo schienale della sedia, divennero bianche.
Giussani, superato l'attimo di smarrimento, drizzò le spalle, rientrò i muscoli
addominali e fece un passo avanti, con l'aria di quello che prende in mano la
situazione. Non disse «Scattare!», ma l'effetto era quello.
«Sarà meglio scendere a controllare,» disse «prima di chiamare la polizia.»
Alla parola polizia, il preside lanciò un'occhiata al telefono. Aveva chiamato gli
sbirri un sacco di volte in quegli anni; a ogni minimo incidente, protesta, assemblea,
dimostrazione da sinistra o da destra, lui prendeva e chiamava la polizia: sapete
come sono questi presidi sedicenti di ferro, se la fanno sotto per ogni mosca che
vola. Ma un cadavere! Un cadavere nel suo liceo doveva sembrargli un sopruso
perpetrato ai suoi danni dagli enti divini.
«Certo, bisogna controllare» disse smarrito. «Vada lei, Scattare.» Non si
accorgeva neanche di chiamarlo "Scattare" anche lui.
«Un momento» disse Gerli. «Bisogna impedire che i ragazzi vadano in palestra.
Meglio che nessuno sappia niente, finché non arriva la polizia.»
«Sì, certo, bisogna evitare di spargere il panico» disse il Pogliani, che era
immerso nel panico fino al collo.
«Ci penso io» disse Scattare. Sembrava molto ansioso di andarsene. «Provvedo
io a controllare la... il... la cosa, a tener lontani i ragazzi e a badare che non si
inquinino le prove.» (Ma che prove? In teoria non sapeva neanche come e se fosse
davvero morta...)
«Senta, Sc... Giussani,» lo richiamò il preside «lei non lasci la palestra per
nessuna ragione, ma mi mandi su subito un messaggio da un bidello: non Gaetano,
per amor del cielo, è troppo svanito, mi mandi uno più giovane, mi mandi
Comesichiama, quello nuovo.»
«Che messaggio?» chiese Scattare. Adesso si sentiva 007.
Il preside si agitò sulla sedia: «Dovrò pur sapere se devo chiamare un'ambulanza
o la polizia o che altro!».
Gesù, mi sembravano tutti idioti.
«Sissignore» disse Scattare, battendo moralmente i tacchi.
L'eco della sua corsa marziale rimbombò nel corridoio. Potevo immaginare la
falcata.
Il preside si prese la testa tra le mani come se se la sentisse volar via.
«Lo sapevo che quella ragazza mi avrebbe procurato delle grane» gemette.
La grana di farsi ammazzare: che indelicatezza! Gerli mi guardò come se si
aspettasse di sentirmelo dire. Così non lo dissi. Mi ficcai i pugni in tasca, mentre il
Pogliani continuava la sua geremiade in un crescendo stridente:
«Bisognava allontanarla! come una mela marcia! Io lo dicevo: espelliamola,
espelliamola... Ma i signori professori» calcò amaramente sui signori «erano di idee
diverse... E stata colpa sua!» sbottò in un acuto sorprendente, puntando il dito contro
Gerli. «E stato lei a...»
«Dovrebbe controllarsi» lo interruppe freddamente Gerli.
«Controllarmi? Ah, io dovrei controllarmi! Come si permette! Non mi provochi,
Gerli, altrimenti...»
Altrimenti? Avanti, pensai: concludete questa bella scenetta in famiglia.
Di nuovo ebbi l'impressione che Gerli indovinasse quel che pensavo. Ebbe un
pallido sorriso, e con la sua profonda, bellissima voce, la voce che mandava in
catalessi le ragazze, disse al preside:
«Se le è di conforto sfogarsi su di me, sono lieto di prestarmi. Suggerirei però di
lasciare andare in classe Ferrucci.»
Ferrucci sono io. Da come il Pogliani girò gli occhi su di me, si capiva che s'era
dimenticato della mia presenza.
«Rimandarlo in classe?» disse incerto. «E se sparge il panico?»
«Non spargerà il panico» disse Gerli, con un altro pallido sorriso. «Ferrucci sa
tacere. Va' pure in classe, Stefano.»
Mi dava fastidio che mi chiamasse per nome, mi dava fastidio che si fidasse di
me. Un tempo ne ero stato fiero: il tempo in cui lo amavo come un modello, come un
amico, come il padre che non avevo avuto. Era passato, quel tempo. Non avevo più
padre, non avevo più modelli, non avevo più amici. Va' pure in classe, Stefano.
Grazie della concessione. Non avevo voglia di andare in classe. E neanche di stare
lì. Non avevo voglia di niente.
Passi precipitosi nel corridoio. Toc toc.
«Avanti!» latrò il Pogliani.
Comparve il bidello che il preside chiamava Comesichiama e quindi anche noi.
Era eccitato, ma non stravolto. Non ha visto il cadavere, dedussi. Scattare teneva
fede al suo impegno: mi pareva di vederlo, petto in fuori e braccia aperte, difendere
la porta della palestra. a costo della vita.
«Il professor Sc... Giussani dice di chiamare la polizia» annunciò Comesichiama.
Il preside afferrò la cornetta con mano tremante: «E Ì ragazzi?» chiese con voce
querula. «Cosa facciamo coi ragazzi?»
«Deciderà la polizia» disse Gerli, «Per ora cercheremo di tenerli in classe.» Fece
per avviarsi, ma il Pogliani lo fermò con uno strillo:
«No! Lei non si muove! Lei sta qui con me, intesi? Chiamate i bidelli!» ordinò, non
si capiva bene a chi. «Metteteli di guardia nei corridoi! Che nessuno scenda! E
mandate qui tutti i professori! Subito!»
Comesichiama prese gli ordini su di sé e si precipitò fuori.
Il Pogliani guardò con furore la cornetta che aveva in mano, se l'appoggiò
all'orecchio e formò il numero con dita frenetiche. «Vai, vai» mi disse intanto,
facendo il gesto di scacciare un insetto.
Mentre uscivo, la sua voce isterica stava gridando nel microfono:
«Pronto! Polizia? Parla il preside del...».
5.

Nel corridoio incrociai il primo drappello di professori che andavano in


presidenza, parlando tra loro con aria interrogativa. Qualcuno rideva.
Anche i ragazzi erano in gran parte usciti nei corridoi: sostavano davanti alle
rispettive classi facendo un baccano d'inferno. Non c'era traccia di panico, ma molta
curiosità. Per un momento pensai di ficcarmi in un gabinetto, ma quelli della 5 a B mi
videro e mi chiamarono a gran voce.
Li raggiunsi, controvoglia. Mentre mi si affollavano intorno assordandomi, io li
guardavo: la mia amata 5a B. Un sacco di flash back mi traversavano la testa,
facendomi un male cane: le risate, le studiate, i giochi, le assemblee, i filarini, le
risse, le gite scolastiche. I miei compagni di adolescenza. Uno di loro poteva essere
il colpevole. Il "mio" colpevole. Non quello che aveva stretto le mani attorno al collo di
Sandra: quello aveva solo compiuto l'opera. Il vero assassino, per me, era quello che
aveva portato Sandra all'eroina.
Un flash back si fece strada tra gli altri, trapanandomi la testa:
Ieri abbiamo fatto un viaggio, a casa di Marianto , aveva detto Sandra una volta.
Viaggio a mezzo droga, intendeva.
Vuoi dire che anche Marianto si buca? , avevo chiesto incredulo.
No, sei matto? Lei ha preso una briciola di LSD. Il Pingue fumava marijuana, o
così diceva. Per me faceva finta: voleva solo godersi lo spettacolo. E c'è stato, lo
spettacolo: Marianto ha avuto un brutto viaggio. Ha detto delle cose... Sandra, aveva
corrugato la fronte, come una che ricorda cose che preferirebbe dimenticare. Un
gran brutto viaggio, aveva concluso, assorta. E non le avevo cavato altro.
Quando è stato? mi chiesi. Dovevo ricordarmene. Forse non c'entrava niente, ma
dovevo cercare di ricordarmene lo stesso.
Il flash back si dissolse, le facce e le voci dei ragazzi si rimisero a fuoco con tutte
le loro domande (Perché eri in presidenza? Dove correva Scattare? Perché è venuto
su Comesichiama? Perché il Pogliani ha convocato i professori?). Superando con la
sua voce comiziesca le voci degli altri, Dario chiese gridando:
«Insomma, cosa cacchio succede?». (Cacchio è un gentile eufemismo: quando è
agitato, Dario dimentica il linguaggio impegnato per passare al più sbracato
turpiloquio studentesco). «C'è stato qualche casino? Io non ne so niente, cacchio!».
«E perché dovresti saperne qualcosa?» chiesi, guardandolo fisso. Fanno così
anche nei gialli.
Mi guardò interdetto, poi allarmato. Nonostante le arie gradasse, Dario si allarma
facilmente: ha la coda di paglia politica, per così dire.
«Ehi, un momento!» gridò. «Di che cacchio stai parlando? Qualunque cosa sia, io
non c'entro per niente! E una manovra provocatoria!»
Gesù, se era fissato. Un tempo mi avrebbe intenerito, oppure mi avrebbe fatto
ridere. O tutte e due le cose. Ma adesso erano altri tempi. Lo guardavo e pensavo a
Sandra che faceva l'amore sulla bandiera rossa.
«La politica non c'entra» dissi.
«Ce la faranno entrare!» pronosticò lui angosciato. «Mi incastreranno comunque,
quei fetenti!»
Gli occhi di Giorgio il Pingue . brillavano sadicamente dietro gli occhiali:
«Ecco il martire ideologico» disse con voce ossequiosa, inchinandosi a Dario. «Il
capro espiatorio. La vittima innocente della reazione in agguato.»
«Ma va' a fa...» lo interruppe brusca Marianto, «Lascia parlare Stefano.»
«La reazione non c'entra» dissi. «Ma una vittima in effetti c'è.»
Andai a mettermi nei vano di una finestra e con l'indice a uncino chiamai
Marianto, Dario e il Pingue. Pensandoci adesso, stavo facendo un po' di scena. Non
me ne accorgevo, però. Volevo quei tre, e solo quei tre. I miei amici. Gli amici di
Sandra. Ex amici.
«Dai, parla» disse Marianto, lisciandosi nervosamente quella specie di pentolino
biondo che era la sua raffinata pettinatura. «Chi sarebbe la vittima?»
Non so se fu per come lo disse, O per la sua faccia tirata. O per il suo sguardo
vacuo, o per che altro. Ma in quel momento fui certo che lo sapeva.
Premeditatamente (non dal mio punto di vista, ma da quello della polizia) le fissai le
mani: mani grandi, forti, un po' mascoline. Lei se ne accorse e se le guardò smarrita.
Di colpo, quei giocare al gatto col topo mi disgustò.
«Si tratta di Sandra» dissi piatto. «L'ho trovata mezz'ora fa in palestra. Morta.»
Curioso come possano cambiare le facce. Per un momento sembrarono tre
ragazzini sconvolti — diversamente sconvolti. Subito dopo sembrarono tre nemici —
diversamente nemici.
Lontano si sentiva un suono di sirene.
Il primo a ritrovare la voce fu Dario: «Se è una storia di droga io sono a posto».
Disse proprio così. «Lo sanno tutti che con la droga io non c'entro, il mio gruppo mi
avrebbe già sbattuto fuori se no.» Se ne frega che Sandra sia morta, pensai. Gli
importa solo di essere "a posto".
«Be', Dario,» disse il Pingue con voce insinuante «tu però hai avuto altri rapporti
con Sandra, o sbaglio? Il movente...»
«Movente?» Dario sbarrò gli occhi. «Ci ho fatto l'amore, cacchio! E con questo?
Ci hanno marciato in trecento, con Sandra...» qui si interruppe e mi diede
un'occhiata: triste, scontrosa, un'occhiata di scusa. I pugni in tasca, le orecchie
ronzanti, io non feci una piega. Lui tornò a rivolgersi al Pingue: «Voglio dire... era una
cosa così, una cosa sportiva...». (Una cosa sportiva!) «Non ce ne fregava niente, né
a lei né a me... Cacchio, non vorrai insinuare, che si è riempita di droga per
dimenticare o roba del genere...»
Nessuno rispose, e Dario impallidì fin nelle labbra. «Vuoi dire che non è morta,
per droga?»
«E stata assassinata» dissi con voce quieta. «Ma tu, Pingue, come lo sai?» Di
nuovo facevo il gatto coi topi, mio malgrado: erano le mie rotelline che andavano
cosi.
«Io non ne so niente!» gridò il Pingue, mollando di colpo il tono insinuante.
Adesso sembrava lui il più spaventato di tutti. «Cosa vuoi che ne sappia! Ho detto
così per... Volevo solo sfottere Dario, maledizione!»
In quel momento l'urlo delle sirene riempì la strada, il liceo e, mi parve, il mondo
intero.
«Cristo, i pulotti» disse Dario.
6.

Mi fecero le prime sommarie domande che si fanno a uno scopritore di cadavere.


Poi ci fu un frettoloso interrogatorio collettivo, caotico al massimo, dal quale
venne fuori ben poco: almeno ai miei occhi. Dopo di che la polizia sgombrò la scuola,
ossia mandò a casa tutti i ragazzi riservandosi di «risentirli eventualmente più
avanti».
Trattennero solo me, Dario, Marianto e il Pingue, risultati i compagni «più vicini
alla vittima».
Mentre interrogavano gli altri, io aspettavo nell'aula dei professori, in piedi vicino
alla finestra. Le mie rotelline continuavano a lavorare per conto loro, senza la mia
partecipazione emotiva. Avrei solo voluto appoggiare la fronte sul vetro, chiudere gii
occhi e smettere di esistere.
Invece guardavo giù. La strada era piena di sbirri. Sul marciapiedi di fronte, il
guardone era scomparso. Vidi uscire Dario, poi Marianto, poi il Pingue; uno per uno li
vidi entrare nel bar di fronte, poi uscirne insieme e allontanarsi in fretta. Dario
gesticolava.
Subito dopo vidi fermarsi davanti al liceo un'auto della polizia: ne scese un tizio in
borghese (ma poliziotto, lo si fiutava a un miglio) che sorreggeva con rispetto un
uomo in divisa di maresciallo. Gesù, il padre di Sandra.
La frase classica sarebbe: era un uomo distrutto. Ma scrivere, leggere, dire che
un uomo è distrutto è un conto. Vederlo, è un altro conto. Era insopportabile. Tanto
più insopportabile in quanto non riuscivo a provare la pietà che avrei dovuto provare.
Non potevo fare a meno di chiedermi quanto di quello sfacelo fosse dovuto alla
morte di sua figlia, e quanto all'idea dello scandalo, del nome sui giornali, del «fango
sulla divisa». Certo in qualche modo doveva averla amata, sua figlia (non quanto la
divisa). Certo aveva fatto del suo meglio con lei (un meglio militaresco). Certo dopo
la morte di sua moglie ne aveva passate tante con Sandra, povero cristo.
Ma non avrebbe mai saputo quante ne aveva passate Sandra per lui. Io lo
sapevo.
Lo guardai entrare, curvo, malfermo, tutto grigio: divisa, capelli, faccia. Distrutto.
Come Sandra.
Avrei tanto voluto provare solo pietà.
«Ferrucci Stefano» disse un agente dalla soglia, dopo non so quanto. «È
desiderato dal commissario.»
Questo commissario, certo dottor Criscuolo, era un tipo abbastanza giovane
(meno di quaranta, avrei detto), meridionale ovviamente, pelle olivastra, capelli neri
piuttosto lunghi (per un poliziotto), scuri occhi mediterranei che pretendevano di
essere penetranti. O magari lo erano. Non me ne fregava niente. Penetrasse pure.
«Dunque, secondo il bidello tu sei andato in palestra alle otto in punto» cominciò
questo astuto poliziotto terrone. Io non ce l'ho coi poliziotti e tanto meno coi terroni,
però mi dava fastidio che questo poliziotto terrone mi desse confidenzialmente del tu.
Non so perché: mi dava fastidio e basta.
«Confermi l'ora?» mi chiese.
Confermai.
«Come mai sei andato in palestra, così presto, venti minuti prima dell'inizio delle
lezioni?»
«Ci avevo dimenticato un accendino» risposi.
«L'hai ritrovato?»
«No. Devo averlo perso da qualche altra parte.»
«Di che marca era questo accendino?»
Gesù, c'era Sandra morta là in fondo alla palestra, col macabro balletto dei
fotografi e della scientifica intorno, e questo voleva sapere la genealogia dei miei
accendini. I poliziotti sono imperscrutabili. O vogliono sembrarlo. Fanno così anche
nei gialli.
«Non so la marca» risposi. «Era piccolo, quadrato, svizzero. Blu. Me l'aveva dato
ieri mia madre, cioè gliel'avevo preso io in prestito: per questo mi scocciava averlo
perso.»
Lui annotò qualcosa su un blocco. Ma cosa annoti!, pensai. Sfido io che i criminali
ve la fanno sotto il naso: badate agli accendini, voialtri.
«Perché quando hai scoperto il cadavere non hai dato subito l'allarme?»
«Era morta» dissi. «Non c'era fretta.»
«Come sapevi che era morta?»
Inghiottii. «Lei l'ha vista, no?» dissi freddamente. «Le pare che qualcuno potesse
pensare che era ancora viva?»
Cambiò discorso: «Era una tua compagna di classe» osservò, fingendo di
controllare il suo blocco. «Era anche tua amica?»
Era Sandra. «Sì, era mia amica» risposi.
«Intima?»
«Se intende dire che ci facevo l'amore, la risposta è no.» Non io, pensavo. Non
sono uno sciacallo, io. Io l'amavo. Ma se speri che te lo dica stai fresco.
«Comunque mi dicono che eri il suo più caro amico. Dunque: tu vai in palestra a
cercare un accendino, ci trovi una tua cara amica assassinata, torni fuori come se
niente fosse, vedi i tuoi compagni e non ne fai parola...»
«Sarebbe successo un cas... un pandemonio» dissi. «Ho riflettuto, e poi ho
deciso di andare dal preside.»
Lui mi diede una delle sue occhiate superastute: «Non eri molto sconvolto, a
quanto pare. Come mai?»
«Sono uno che si controlla» risposi.
«Già» disse lui, con un'aria quasi triste. «Vedo.»
Fece un cenno a uno dei suoi scagnozzi, che gli porse una specie di fazzoletto
appallottolato. Lui lo svolse lentamente (la suspense!) e mi mostrò sul palmo aperto
il contenuto.
7.

«L'abbiamo trovato vicino al cadavere» disse con voce noncurante. «Lo


riconosci?»
Era un accendino. Piccolo, quadrato, svizzero, ma rosso: e lo riconoscevo. Non
era il mio. Era l'accendino di Dario.
Non potevo sbagliarmi. L'ultima volta che avevo visto quell'accendino in mano a
Dario era stato il giorno prima, in palestra, durante l'assemblea del pomeriggio.
C'eravamo tutti. I cosiddetti oratori si avvicinavano al microfono tra urla pernacchie
fischi e rumoreggiamenti immani: come sempre. Nessuno ascoltava nessuno: come
sempre. Marianto e il Pingue erano seduti su un cavalletto accostato alla parete di
fondo, io e Dario seduti per terra, con le schiene tra le loro gambe. Dario, aspettando
il suo turno per andare a blaterare al microfono, fumava in continuazione. E un
fumatore accanito. Io sono un fumatore moderato; quando avevo acceso la prima
sigaretta col "mio" accendino, Dario aveva detto:
«Toh, è uguale al mio, colore a parte. Dove l'hai preso?».
«L'ho fregato temporaneamente a mia madre» avevo detto.
E lui:
«Io l'ho fregato permanentemente a mia sorella. E l'ultimo grido in fatto di
accendini: elettronico e tutto, e mia sorella...».
A questo punto mi ero distratto, perché avevo visto Sandra entrare in palestra,
con la sua aria remota e insieme ansiosa, farsi strada tra la ressa e defilarsi nel vano
di una finestra, dietro una fitta siepe di teste, facce, capelli, barbe e sciarpe
multicolori. Sta aspettando qualcuno, avevo pensato. Con la solita sofferenza e la
solita ostinazione, l'avevo raggiunta, dimenticando tutto il resto.
Solo la sera, a casa, m'ero accorto che non avevo più l'accendino. «Possibile che
perdi sempre tutto» aveva detto mia madre, ma senza rimprovero. Erano mesi che
non mi rimproverava più. Avrei preferito che lo facesse. Che non mi trattasse sempre
come un malato a cui non si vuol far capire quanto sia grave. «Se lo ritrovi bene, se
no pazienza» aveva detto allegramente. «Un accendino vale l'altro.»
E adesso il commissario Criscuolo mi mostrava questo "altro" accendino, e
diceva di averlo trovato vicino al cadavere. Balle.
«Allora, non è tuo?» chiese il commissario. «Il mio era blu, gliel'ho detto» risposi.
«Comunque non c'era nessun accendino vicino al cadavere.»
Lui mi diede un'occhiata tipo pensosa: «Forse non l'hai visto» disse tipo casuale.
«Stava sotto la borsetta della vittima.»
Cosa? Che balle andava raccontando questo sbirro? Io avevo preso in mano la
borsetta di Sandra, e sotto non c'era un cavolo dì niente. E allora?
Cristo!, pensai folgorato: stanno incastrando Dario.
In quel momento fu come se il rancore e la gelosia che mi avevano offuscato la
vista in quei mesi si sollevassero, come un sipario: e la scena era cambiata. Non
vedevo più Dario che faceva l'amore con Sandra sulla bandiera rossa, vedevo Dario
che studiava con me, che litigava con me, che giocava con me, che cantava con me,
che cresceva con me: anno dopo anno. Dario. Il mio amico, il mio compagno di
sempre. Di colpo, attraverso gli strati di macerie che mi si erano accumulati dentro, si
fece strada qualcosa di caldo, limpido e furioso. Non lo incastrerete, brutti fetenti.
«Non so di chi sia questo accendino» dissi. Il che era imbecille, e lo sapevo:
decine di persone, in pratica tutte quelle presenti all'assemblea del giorno prima,
potevano riconoscere quell'accendino. Be', imbecille o meno, non sarei stato io a
dirlo. Curiosamente (a me succedono sempre cose del genere nei momenti cruciali)
mi venne in mente una vecchia canzone della Resistenza che cantavamo in coro, io,
Dario e mia madre, ai vecchi tempi (cioè fino a pochi mesi prima):

E quando mi portarono alla tortura


chiedendo se conosco il mio compagno
si sì che lo conosco, ma non dirò chi sia
io sono un partigiano, non una spia!

Be', io non ero un partigiano. E nessuno mi metteva alla tortura. Ma non avrei
fatto la spia. A nessuno. Ma meno che tutti a Dario, il mio compagno.
«Ci sono in giro un sacco di accendini come quello» dissi al commissario.
«Non proprio un sacco: io non ne ho mai visti, per esempio» rispose. Avrei
giurato che c'era una traccia di sorriso in fondo ai suoi begli occhi scuri da terrone.
«Comunque,» disse poi con indifferenza, restituendo l'involto con l'accendino allo
scagnozzo, «noi sappiamo già a chi appartiene.» Quando usava il tono ufficiale
diceva "noi", come il papa. «E di quel tuo amico...» sfogliò il suo blocco «Pizzi
Dario.»
Così, qualcuno gliel'aveva già detto. «E allora, se lo sa, perché mi ha fatto tutte
queste domande? Scherzi da poliziotto, immagino.»
Lui sorrise apertamente, stavolta: «Esatto. Volevo essere certo che non l'avessi
messo là tu, quell'accendino».
«Perché avrei dovuto farlo?» chiesi, cautamente.
Lui non mi guardava, «Chi l'ha fatto, avrà avuto un motivo.»
«Incastrare Dario» dissi, «Dario è facile da incastrare.»
«Già. L'ho notato.» C'era di nuovo quella traccia di sorriso in fondo ai suoi occhi.
«Ma chi avrebbe interesse a incastrare Dario Pizzi, secondo te?»
«Voi» dissi. «Voi poliziotti.»
Mi guardò esterrefatto, poi esilarato:
«Se la squadra politica dovesse andare in giro a seminare accendini per
incastrare tutti i ragazzini ricchi che giocano alla rivoluzione, dovrebbe avere una
fabbrica di accendini. E di tempo». Si credeva anche spiritoso, questo sbirro.
«Comunque io non sono della politica» disse. «Sono della mobile. E ripeto la
domanda: conosci qualcuno, all'infuori dei cattivi poliziotti reazionari, che avrebbe
interesse a incastrare questo Dario Pizzi?»
Ci pensai. Be', Dario aveva un sacco di avversari politici al liceo: compresi il
Pingue e Marianto, tanto per dirne due. Ma erano avversari puramente accademici,
per così dire. Lo sfottevano, lo insultavano, ma poi restavano amici come prima.
Anche durante i tafferugli, Dario era sì uno che menava, ma lealmente, solo coi pugni
intendo (peraltro robusti). E a rissa finita, andava in giro a chiedere: «Ehi, ti ho mica
fatto male sul serio, eh? Cacchio, non m'ero accorto che ti avevo preso l'occhio!». Gli
dispiaceva veramente. Questo era Dario: non esattamente una cima, e per di più
attaccabrighe e rompiballe, ma incapace di fingere, di mentire, di fregare la gente.
Solo Giussani, poveretto, mostrava di ritenerlo un pericoloso sovversivo. Giussani-
Scattare amava ostentare nostalgie fasciste (era nel suo ruolo), ma in realtà, come
ben diceva il Pingue, era soltanto «un pirla che crede di essere fascista».
Comunque, secondo me, la sua avversione per Dario Pizzi non era dovuta tanto a
motivi politici, quanto agli scherzi spesso feroci di cui Giussani era continuamente
vittima, come accade in qualsiasi liceo a qualsiasi professore di ginnastica non
troppo svelto di mente. Da notare che l'ideatore degli scherzi più perfidi era sempre il
sadico Pingue (che però si teneva prudentemente nell'ombra), mentre Dario era
l'imprudente esecutore (io facevo il palo, all'occorrenza). Ma Giussani era e sarebbe
sempre stato certo che Dario, e solo Dario, fosse il suo "nemico naturale", il suo
bieco persecutore. «Dario Pizzi! Figlio di un cane! Io ti faccio espellere!», «Dario
Pizzi! Figlio di un cane! Ti sospendo per quindici giorni!», «Dario Pizzi! Figlio di un
cane! Domani verrai accompagnato da tuo padre». E noi tutti a latrare. Ormai
l'invettiva era diventata proverbiale: quando Dario parlava al microfono durante
un'assemblea, prima o poi c'era sempre qualcuno che gridava : «Dario Pizzi! Figlio di
un cane!», e tutta l'assemblea si metteva a latrare. Dario in principio si incavolava:
diceva che i latrati nuocevano al suo prestigio politico. Poi ci si era abituato, e
adesso latrava anche lui: così anche questa indiretta e involontaria vendetta di
Giussani aveva mancato il bersaglio, come tutte le altre. Le sue terribili minacce non
avevano mai seguito, le sue escandescenze finivano sempre in niente. Non era
cattivo, era solo stupido. Così pensavo.
«No, nessuno di noi avrebbe interesse a incastrare Dario, ch'io sappia» dissi a
Criscuolo. «E poi nessuno di noi ha potuto andare in palestra dopo...»
Mi fermai di botto: le mie rotelline avevano avuto uno scarto. E Giussani?, pensai.
Giussani era andato in palestra dopo di me e prima della polizia {«Provvedo io a
badare che non si inquinino le prove» aveva detto). "Lui" poteva averle inquinate. Lui
poteva aver messo l'accendino di Dario sotto la borsetta di Sandra. Era l'unico che
ne avesse avuta la possibilità materiale. Ma l'interesse?
Mi venne in mente Giussani che diceva: Meglio morti che rossi. Era una frase
standard, faceva parte della sua messinscena. Non potevo immaginare Giussani che
voleva "veramente" morto qualcuno. Neppure Dario. A parte che Dario non era morto
affatto. Sandra era morta : e Sandra non era né rossa né nera, non aveva più
nessuna ideologia o idea o sentimento che non fosse connesso alla droga. No, non
c'era senso. Giussani era Giussani, niente di più e niente di meno. Stupido,
complessato, fascista, va bene; ma non lo credevo capace dì una manovra così
assurda: e compromettente, pure. A meno che...
Basta!, dissi alle mie roteliine. Mettetevi un po' calme, per piacere.
«Ti è venuto in mente qualcosa?» chiese il commissario. Voce noncurante,
occhiata superacuta.
«No, niente» dissi. Il tono non convinceva neanche me.
Stranamente, non insistette. Si mise a sfogliare il suo blocco, poi disse:
«Questa Mariantonietta Salvi... Mi dicono che è una simpaticona, socievole,
generosa, sempre pronta a offrire sigarette, a pagare da bere, a prestar soldi anche
a chi non li restituisce mai... È di famiglia ricca, mi dicono». (Quante cose ti dicono,
pensai.) «Non c'è per caso un po' di ostentazione? La Triumph a diciotto anni... non ti
sembra eccessivo?»
(Flash back: Hai un padre munifico, avevo detto a Marianto, la prima volta che
era arrivata a scuola con la Triumph.
No, mi aveva risposto, ho un padre cretino. Il tono, piatto e duro, non era
esattamente da simpaticona.)
«Lo chieda a lei» risposi al commissario.
«Grazie» disse compito, di nuovo con quei sorriso in fondo agli occhi. «La Salvi
era amica della vittima?»
«Marianto è amica di tutti.» Perciò di nessuno: così pensavo.
«E innamorata di qualcuno?»
(Marianto ha una cotta terribile , aveva detto una volta Sandra. Ma non posso dirti
per chi, sarebbe una vigliaccata. La faccenda le è venuta fuori durante quel viaggio a
tre. Quel viaggio a mezzo droga, quel "brutto viaggio" di Marianto: dovevo cercare dì
saperne di più.)
«Non lo so» risposi.
«Non era per caso gelosa della vittima? La vittima era molto bella e molto...
disponibile, mi dicono.»
Strinsi i pugni nelle tasche.
«Chi lo dice?» chiesi tra i denti. «È morta, non potete lasciarla stare?»
Lui non rispose. Per un momento mi parve che mi guardasse come se gii fossi
simpatico. Il che non mi rallegrava affatto. Non ci tengo a essere simpatico ai
poliziotti.
Sospirò, prima di chinare di nuovo gli occhi sul suo blocco: «E il mio mestiere»
disse a mezza voce. Poi, in tono professionale: «Zardini Giorgio: altro amico tuo e
della vittima: me lo descrivono come un tipo furbo, interessato...».
(Per un po' di soldi, il Pingue passerebbe sul cadavere di chiunque , aveva detto
Sandra. Scherzava, naturalmente: fino a che punto?)
Rimasi zitto.
«E per questo che sta sempre con la Mariantonietta Salvi?» chiese lui.
«Sono amici» risposi. Dove voleva arrivare? Forse da nessuna parte. Faceva
domande a vanvera, così, per far vedere quanto era intelligente. Era il suo mestiere,
appunto.
«Mi risulta che questo Zardini prende in giro tutti, fa scherzi malvagi, si diverte a
giocare sulle debolezze degli altri... Però non tollera che si prenda in giro lui, mi
sembra, e potrebbe essere molto vendicativo.» Gesù, pensai, c'è capitato uno sbirro
psicologo. Si salvi chi può. «Ti risulta che Zardini abbia avuto degli screzi con la
vittima?»
«Be', è lei che l'ha soprannominato il Pingue» dissi. «Ma non credo che l'abbia
strangolata per questo.»
«Strangolata?» disse lui socchiudendo gli occhi. «Noi non sappiamo ancora se è
stata strangolata. Tu sì?»
Sentii un brivido venirmi su per la spina dorsale.
«Mi sembrava» dissi, con le labbra aride: che cos'altro potevo dire?
8.

Bruscamente lui cambiò discorso e tono: «La vittima faceva uso quotidiano di
eroina» ne parlava come di una cosa scontata. «Ti risulta che il padre lo sapesse?»
Pensai a quel terribile colloquio tra il padre di Sandra e mia madre, circa un anno
prima. Mia madre aveva preso l'argomento molto alla larga, in tono discorsivo,
parlando dei ragazzi drogati in generale. Ma la reazione del maresciallo era stata
immediata e violentissima: Se avessi una figlia che si droga, preferirei vederla morta
e la sua non era una messinscena, tipo quella di Giussani quando diceva: Meglio
morti che rossi. Lui pensava davvero quel che diceva. Meglio il cimitero che il
disonore, aveva detto ancora. Poi, passandosi la lingua sulle labbra, aveva cercato
di sorridere: Per fortuna in casa mia non ci sono e non ci saranno mai problemi di
questo genere. Mia madre non aveva più avuto il coraggio di continuare. Solo mesi
più tardi, dopo molti colloqui coi professor Gerli, aveva provato di nuovo, tastando il
terreno con cautela: Sandra è un po' giù da qualche tempo , aveva detto al
maresciallo, guardandolo con un'espressione supplichevole negli occhi grigio-verdi.
Anche il professor Gerli pensa che sia esaurita. Se lei crede, c'è un mio amico
medico che...
Ho anch 'io degli amici medici, signora Ferrucci , aveva risposto gelidamente il
maresciallo. Lei sarà un'esperta di giovani, ma con "mia" figlia lo so io quello che
devo fare.
Quando era stato? Molti mesi prima. Da quella volta il maresciallo aveva
praticamente rotto i rapporti con noi. Io non l'avevo più visto: fino a stamattina. E
Sandra aveva continuato a bucarsi, sempre di più e sempre peggio: prima con tutto
quel che trovava, poi con l'eroina in dosi sempre più massicce. Sembrava che
volesse punirlo e punirsi. Distruggerlo e distruggersi. Era una vecchia storia, iniziata
alla morte della madre e finita così.
Ma le braccia tuo padre non te le vede?, le chiedevo.
Porto sempre le maniche lunghe.
E le mani? (negli ultimi tempi aveva segni di buchi anche sulle mani).
Gli ho detto che è uno sfogo, un'allergia , rispondeva lei col sorriso tirato.
E lui ci crede?
Certo: vuole crederci, e ci crede. È uno struzzo, il maresciallo. Uno struzzo
vestito da militare.
C'era rancore, nella sua voce, ma c'era anche un rabbioso, contorto,
misconosciuto amore.
Lui non sapeva, povero cristo, quel che le aveva fatto.
«Allora?» mi sollecitò il commissario, ma con gentilezza.
«Il padre non capiva perché non voleva capire» risposi.
«Sì» disse Criscuolo, pensosamente. «Molti genitori fanno così. Forse lo farei
anch'io, chi può dirlo.Ma i soldi?» chiese cambiando tono. «La ragazza aveva
bisogno di parecchi soldi, per l'eroina. Sai dove li trovasse?»
(Solo per questa volta, Stefano, solo per questa volta , disse dentro di me la voce
angosciata di Sandra. Poi non te ne chiederò più, giuro che non te ne chiederò più.
Anche se li avessi avuti, non glieli avrei mai dati: non l'avrei aiutata a distruggersi,
non io.
Sandra, ascoltami...
Non voglio sentire niente!, gridava lei con le mani sulle orecchie. Li chiederò a
qualcun altro. A chi?)
«Non lo so» risposi al commissario.
«Ti risulta che si prostituisse?» Tranquillo come l'acqua.
«No!» risposi. Un no che sembrò un morso. Mordeva anche me ( Tanto varrebbe
che andassi a battere, diceva dentro di me la voce remota di Sandra. Una volta o
l'altra lo farò... Tanto che differenza c'è? Quando una è fottuta è fottuta ).
«...e naturalmente non sai chi le procurasse la droga» stava dicendo Criscuolo.
Scossi la testa. (Non posso dirtelo!, diceva Sandra, ancora con le mani sulle
orecchie. Non posso, non posso, non capisci che non posso? Se insistevo si metteva
a piangere. Non sopportavo di vederla piangere.) «Trovate chi le dava l'eroina e
troverete chi l'ha uccisa» mi sentii dire. Suonava melodrammatico, ma era la verità:
la "mia" verità.
«Lo spacciatore non fa fuori il cliente» disse il commissario, e questa era la "sua"
verità. «A meno che non ne sia minacciato, ricattato... Pensi che la vittima ricattasse
qualcuno?»
«No» risposi. «Non era il tipo. Non ne sarebbe stata capace.»
«La droga disgrega le persone» disse tristemente il commissario. «Specie le
persone giovani.»
Era vero. La Sandra degli ultimi tempi non era più la Sandra che avevo amato,
che avevo baciato all'ombra dei tigli in quell'antica estate: sotto la tenera, struggente
bellezza di un tempo c'era un'estranea disfatta, disgregata, già morta. Ma io non
volevo ammetterlo.
«No,» ridissi, ostinato, «sono sicuro che non ricattava nessuno.»
Lui rifletté, o fece finta. Poi disse: «Allora, non resterebbe che il movente
passionale, a quanto sembra».
Mi guardava, e io lo guardavo. Vuoi che scoppi in lacrime e confessi che l'ho
ammazzata io? Spiacente, non ti renderò questo servizio,
«E il movente sessuale?» dissi, con un'aria d'ironia molto cretina a pensarci
adesso. «C'è un guardone che gira sempre intorno al liceo a dar fastidio alle
ragazze... C'era anche stamattina.»
«Lo sappiamo» disse il commissario, di nuovo col plurale majestatis. «Ma all'ora
presumibile del delitto il guardone, come dici tu, era sul marciapiedi di fronte al liceo:
l'ha visto il bidello Gaetano.»
Gaetano aveva visto proprio tutto,, quella mattina. Croce sul guardone.
«E quale sarebbe l'ora presumibile del delitto?»
«Diciamo intorno alle otto.»
La mia ora : ovvio. «E naturalmente,» dissi, ancora con quel tono cretino di sfida,
«io sono l'unico che sia stato visto andare in palestra a quell'ora.»
Lui allargò le mani come a dire: non so che farci.
«Piuttosto incauto, non trova?» dissi, superironico.
Lui sporse le labbra, senza commenti.
«A meno che non si pensi a un raptus improvviso, senza premeditazione...» dissi,
ironico triplo.
Lui si strinse nelle spalle. Stava facendomi diventare nervoso.
«Comunque,» mi sentii dire con una voce da pura carogna, «qualcun altro era
arrivato a scuola molto presto, stamattina, contrariamente alle sue abitudini. Non è
stato visto andare direttamente in palestra, lui, ma potrebbe benissimo aver salito la
scala per poi scendere dal...»
Mi azzittii di colpo, allibito: stavo accusando Gerli! Gesù., pensai con un urto di
nausea, che razza di verme son diventato? Inghiottendo saliva amara, rividi Gerli che
discuteva con me i miei temi, Gerli che mi insegnava ad amare Marquez e Neruda,
Gerli che mi chiedeva della mia infanzia e del mio lago e del padre che non avevo
conosciuto e di mia madre e delle mie idee e dei miei problemi; Gerli che mi parlava,
Gerli che mi ascoltava, Gerli che mi aiutava a capire, a scoprire, a crescere... Quanto
tempo fa? Pochi mesi, soltanto pochi mesi. Per anni mi era stato amico, fratello,
esempio, padre, tutto ciò che avrei voluto diventare, e adesso stavo per accusarlo (in
malafede) di omicidio. Dio, vorrei essere morto,
«Ti senti bene?» chiese la voce del commissario.
Inghiottendo altra saliva amara, risposi : «Benissimo, perché?».
«Ti sei interrotto,» disse Crisaiolo «di chi stavi parlando?»
«Di nessuno» risposi, «Stavo facendo lo spiritoso.»
Alzò gli occhi al cielo. Poi disse: «La porta posteriore della palestra era chiusa?».
Gesù: avevo completamente dimenticato la porta posteriore della palestra. Il
giallista superdotato! Mi rividi là sul luogo del delitto, impegnatissimo a fotografare
mentalmente tutti i particolari, come fanno appunto i superdotati dei gialli. E la porta
posteriore, la prima cosa di cui avrei dovuto occuparmi, phffft! Uscita di testa. Lo
choc, immagino.
«Non lo so» risposi. «Suppongo che fosse chiusa come sempre.»
«E da dove "supponi" che sia entrata la vittima?» adesso era lui che faceva
l'ironico. «Visto che dalla porta principale non è passata, e che le ali non le aveva,
pare che i casi siano due : o è rimasta in palestra dal giorno prima e ci ha passato la
notte, oppure è entrata dalla porta posteriore.»
Il che sembrava portare di nuovo a Giussani, amministratore unico di quella
chiave. Solo che non c'era senso.
«Supposizioni?» chiese il commissario, sempre sull'ironico.
«Il poliziotto è lei» risposi sullo stesso tono.
Di colpo sembrò stufo di me. «Puoi andare» disse. «Resta in casa tua, a
disposizione. E tieni la bocca chiusa.»
«Su che cosa?»
«Su tutto» disse in tono iracondo. «Se ti pesco a fare lo spiritoso, come dici tu, a
tampinare la gente e pasticciare con gli indizi, ti sbatto dentro: chiaro?» Non era mica
tanto stupido, questo commissario. «Chiaro» sogghignai.
«Non scherzo!» per la prima volta alzò la voce. «Non voglio altri ragazzini
cadaveri in questo liceo.» Così disse.
9.

Passando davanti alla presidenza, sentii delle voci concitate all'interno (una del
preside, una di Giussani, probabilmente discutevano della chiave); ma chi non era
concitato quella mattina? Non ci feci caso, immerso nelle mie riflessioni.
Mi chiedevo perché il commissario avesse detto quella frase su possibili ulteriori
«ragazzini cadaveri». Probabilmente voleva solo farmi colpo, spaventarmi e farmi
così passare la voglia di «fare lo spiritoso e pasticciare con gli indizi». Be', aveva
sbagliato sistema. Se c'è un modo sicuro per indurmi a fare una cosa, è proibirmi di
farla.
Mi portai una mano alla tasca posteriore dei blue-jeans per sentire sotto le dita il
cartoncino liscio della foto mia e di Sandra che avevo tolto dalla borsetta, e il fruscio
leggero del primo «indizio pasticciato»; quel mezzo foglio a quadretti che portava da
un lato l'invocazione di Sandra Vi prego aiutatemi vi prego, forse la sua ultima
invocazione. E forse, anzi di certo, la risposta stava dall'altro lato del foglio, in quella
misteriosa scritta verde cancellata da fregacci blu. Finora non ero mai rimasto solo
un minuto, ma adesso sentivo l'urgenza di esaminarla meglio.
Mi guardai rapidamente intorno: sbirri in ogni dove. Non restava che la toilette: mi
ci stavo dirigendo, quando dal fondo del corridoio vidi arrivare, accompagnata da un
agente, una ragazza. Non era del liceo, e pure aveva qualcosa di familiare... Solo
quando fu a pochi passi e le vidi gli occhi, la riconobbi.
Gesù, era Roberta. La sorellina di Sandra. Ma non era in collegio? Non la vedevo
da quasi due anni.
Mi tornò incontro quella mitica estate, l'estate mia e di Sandra, l'estate della
fotografia, l'ultima estate felice della mia vita. Il maresciallo Biagi, dopo lunghe
insistenze di mia madre, aveva acconsentito a lasciar venire Sandra al lago con noi,
solo a patto che ci venisse anche la sorellina. Aveva quattordici anni, allora: una
specie di lungo ragnetto, tutto braccia, gambe, acne e occhi. Non ci aveva dato molto
fastidio: stava sempre zitta, tra l'altro.
(Un flash-back mi restituì, nitidissimo, un pomeriggio di luglio, in barca. Sandra
stava parlando di suo padre :
Il maresciallo, lo chiamava sempre così, non mi ha mai perdonato di essere una
femmina, invece che un futuro militare.
E tua sorella, allora? aveva detto mia madre, sorridendo a Roberta, che però non
aveva restituito il sorriso.
Oh, Roberta è diversa, aveva detto Sandra. Lo crede un grand'uomo. E non le
importa di essere trattata come un soldato. È come mia madre, lei: sempre agli ordini
del maresciallo. Quando mia madre è morta dopo l'ennesimo tentativo di dare al
maresciallo il figlio maschio, Roberta era troppo piccola per capire, e poi era sempre
in collegio, non scappava come me. Ma io avevo tredici anni, e capivo. Anche
mentre stava morendo, lei gli chiedeva scusa, scusa di non aver eseguito gli ordini.
Scusa di non aver fatto il maschio. Scusa di morire senza il suo consenso. Io non lo
dimenticherò mai. Roberta è diversa. È piccola. Non può capire.
Rannicchiata a prua, le braccia magre strette intorno alle ginocchia aguzze,
Roberta guardava il lago coi grandi occhi celesti fissi, e sembrava non sentisse
niente. L'acne risaltava impietosamente sulla faccetta impallidita.)
Strano come ti restino impressi certi momenti: era come vedere una diapositiva.
Chissà se se ne ricordava anche lei. Speravo di no. Era passato tanto tempo, e
Sandra era morta, e niente aveva più senso. Avrei voluto andar via, nascondermi,
sparire. Ma lei mi aveva già visto.
Non aveva più acne e non era più un ragnetto. Era una ragazza. Tutta diversa da
Sandra. Magari carina, se vi piace il genere: lunga lunga, sottile sottile,
presumibilmente piatta piatta (difficile dirlo, con quel camicione che portava), capelli
castani lisci divisi nel mezzo, tipo madonna. Soli gli occhi erano gli stessi di allora:
larghi, celesti, assorti. Adesso erano arrossati agli angoli. Perché l'hanno portata
qui?, mi chiesi furioso.
«Ciao, Stefano» disse sottovoce, fermandosi.
«Ciao» risposi. Mi fermai anch'io, incerto. «Non eri in collegio?»
«Sono venuta per le vacanze di Pasqua, e dopo ho avuto la bronchite. Dovevo
tornare in collegio domani.»
Mi guardava ansiosamente, come se avesse qualcos'altro da dirmi, qualcosa di
urgente. Ma non lo disse.
Eravamo fermi davanti all'aula dei professori.
«E lì dentro, signorina» disse il poliziotto che l'accompagnava, accennando alla
porta. Lei chiuse un momento gli occhi, come una che sta raccogliendo le forze. O
pregando.
E fu allora che accadde quella cosa buffa: al momento mi sembrò buffa. Giussani
arrivò col suo passo marziale, chiese «con permesso» e ci passò davanti, entrando
nell'aula dei professori. Si fermò di botto, la mano ancora sulla maniglia,
apparentemente incapace di andare avanti o indietro. Dalla porta semiaperta io
guardai dentro: seduto vicino al tavolo c'era il maresciallo Biagi, vicino a un poliziotto
in borghese che gli parlava con aria sollecita. Lui pareva non lo sentisse. I suoi occhi
grigi, assenti, guardavano in direzione della porta, cioè di Giussani. Il quale, dopo
quella improvvisa paralisi, fece un passo avanti. Sentii la sua voce che diceva, con
un tono fasullo:
«Lei è il padre di... è il maresciallo Biagi? Non credo che ci siamo mai visti... Sono
il professor Giussani, l'insegnante di educazione fisica dei maschi».
Gesù, sembrava una presentazione mondana. Solo che non lo era. Era
qualcos'altro, anche se non riuscivo a capire cosa.
Il maresciallo non cambiò espressione, non aprì bocca, e Giussani disse in fretta,
sempre più fasullo:
«Come le dicevo, sua figlia non era mia allieva... Ma accetti le mie
condoglianze».
Le condoglianze! Gesù, che idiota. Mi venne quasi da ridere.
Bruscamente Giussani gli voltò le spalle e tornò fuori. Stravolto. Dimenticò di
richiudere la porta e ci passò davanti senza neanche vederci, urtandomi come se
fosse ubriaco.
Il maresciallo continuò a guardare la porta coi suoi occhi assenti. Forse non
l'aveva né sentito né visto. Tutto era durato pochi secondi.
Il poliziotto toccò il braccio di Roberta : «Può entrare, signorina».
«Sì» disse Roberta riaprendo gli occhi dopo quella specie di raccoglimento o di
muta preghiera. «Grazie.» Entrò.
Prima di andarmene vidi che s'era inginocchiata davanti a suo padre,
circondandolo teneramente con le braccia.
«Papà» diceva, e sembrava una madre che rassicura il bambino spaventato. «Ci
sono qua io, papà.»
Sopra la sua testa, il maresciallo fissava il muro di fronte con fissi, aridi occhi di
pietra grigia.

Portando di nuovo la mano alla tasca posteriore dei blue-jeans, mi ficcai nel
gabinetto presidenziale, voglio dire nella toilette riservata al preside e, in casi
eccezionali, al corpo insegnante. Non intendevo commettere sacrilegio: era
semplicemente la toilette più vicina. Dopo una breve esitazione, scartai l'idea, più
prudente, di chiudermi in uno dei cosiddetti stanzini (non avrei avuto abbastanza
luce) e puntai dritto alla finestra di fianco ai lavabi.
Tirai fuori il foglietto e lo appoggiai al vetro, tenendolo ben teso con le dita. Mi
dolevano gli occhi per lo sforzo di vedere, sotto quelle cancellature blu, le cinque
righe scritte in verde. Neanche così controluce riuscivo a decifrarle, potevo solo
indovinarne qua e là qualcuna ( basta, mi pareva, e poi ricatt ) ma quello stampatello
verde, regolare, leggermente inclinato a sinistra, non mi era nuovo.
Gesù. Io conoscevo chi aveva scritto quelle parole. Per uno strano scherzo (o
difesa?) del subconscio non riuscivo a ricordare chi fosse, ma sapevo che lo
conoscevo bene. Benissimo.
Di colpo, per la prima volta, ebbi paura. Intorno a me il liceo, il mio vecchio, noto,
amato liceo divenne una mostruosa gabbia piena di agguati, di corruzione, di morte
(«non voglio altri ragazzini cadaveri in questo liceo»).
Chiusi gli occhi, stringendo forte il foglietto nel pugno. Non voglio più sapere
niente. Voglio distruggerlo. Voglio andare via di qua.
Non feci in tempo. Qualcosa, o qualcuno, stava dietro di me.
10.

Riaprii gli occhi. Sulla mia spalla era comparsa una mano: grossa, tozza, con le
unghie squadrate. Respirai fondo e mi voltai.
Gesù, era Giussani. Mi venne quasi da ridere. Mi era impossibile aver paura di
Giussani, era troppo stupido. E poi di cosa cavolo potevo aver paura, io? Era stato
solo un momento di... boh! Comunque era passato.
«Era nello stanzino, professore?» chiesi piacevolmente. «Chiedo scusa: sono
entrato qui perché era la toilette più vicina.»
Lui fissava la mia mano chiusa sul foglietto. «Cosa stavi facendo?» ansimò.
Mi ficcai il foglietto in tasca e risposi impudentemente: «Cosa si fa di solito in una
toilette?».
Di colpo la faccia gli si trasformò: l'avevo visto altre volte fuori dai gangheri, ma
adesso era abbastanza repellente.
«Volete fregarmi, eh, figli di cani?» non gridava per non farsi sentire fuori, ma
quel rauco bisbiglio era più impressionante di un urlo. Solo che non mi
impressionava. Non me. Chissà di quale bieco raggiro temeva di esser vittima: aveva
sempre sofferto di mania di persecuzione, e adesso era al punto di rottura. «Cos'è
quel foglietto?» Sentivo il suo alito sulla faccia. Sgradevole.
«Quale foglietto?» chiesi con innocenza.
«Quello che hai messo in tasca! Dammelo!» adesso mi scrollava violentemente la
spalla. «Dammelo subito o te lo toglierò con la forza.»
Mi resi conto, guardandolo, che l'avrebbe fatto. Lui era molto più grosso di me,
ma io ero molto più giovane. In più, lui era spaventato e io no. Con calma studiata gli
presi la mano e la spinsi via dalla mia spalla.
«Non ci si provi» dissi. Una frase da bullo, la dicono molto nei western. Come
appunto nei western, ero pronto all'eventuale scazzottatura. Ma la sceneggiatura
ebbe una svolta imprevista.
La porta della toilette si spalancò con fracasso e due poliziotti, uno in borghese
l'altro in divisa, vennero dentro come due palle di cannone. Se avessi visto due
dinosauri sarei stato meno sorpreso.
«Cosa succede qua dentro?» disse quello in borghese.
«Non ne ho la minima idea» risposi. Era la pura verità.
La faccia di Giussani attraversò una serie di rapide trasformazioni. Per un
momento sembrò sul punto di piangere, poi mi diede un'occhiata di falsa intesa
(poco mancava che strizzasse l'occhio), indi si rivolse ai poliziotti con espressione e
tono deferente:
«Stavo rimproverando il nostro Ferrucci... Questa è la toilette del signor preside,
e gli studenti non devono entrarci: è una questione di disciplina interna, che...».
«Mi dichiaro colpevole» dissi. «Di leso gabinetto, intendo.»
Il poliziotto in borghese ci guardò entrambi con malcelato disgusto.
A me disse: «Ti era stato ordinato di andartene a casa: fuori dai piedi, marsch!».
E a Giussani: «Lei, professore, è desiderato dal commissario».
«Sissignore» disse ossequiosamente Giussani.

Scendendo le scale, mi chiedevo perché fossero zompati dentro in quel modo.


Poco mancava che avessero la rivoltella in pugno. Non potevano aver sentito da
fuori i rauchi bisbigli di Giussani. E allora? Boh! Le mie roteliine giravano
vorticosamente, ma a vuoto.
Capitai nell'atrio mentre stavano portando via il corpo. (Adesso Sandra era "il
corpo".) I fotografi scattavano come pazzi. Traversai un momento di irrealtà. Non
c'era Sandra su quella barella, sotto quel lenzuolo, e queste cose non stavano
succedendo a me.
Fu solo un momento. La barella uscì dall'atrio, scomparve in un furgone, il
furgone partì, e tutto fu di nuovo reale e orribile e accaduto a me.
Fuori c'era un mucchietto dì giornalisti tenuti a bada dai poliziotti. Gesù, c'era
anche mia madre. Cosa cavolo faceva qui? Mia madre lavora per un quotidiano, ma
non si occupa di morti ammazzati. Scrive articoli cosiddetti di costume, con
particolare riguardo ai problemi delle donne e dei ragazzi. Sandra era una ragazza,
d'accordo, per di più drogata, e mia madre la conosceva bene: avrebbe potuto farci
su un bel pezzo, con un sacco di particolari istruttivi, eccitanti o patetici. Ma non
l'avrebbe fatto. Non mia madre. Non su Sandra.
Un po' staccata dal mucchio, col suo vecchio tailleur grigio e i capelli rossi come i
miei che non stavano mai a posto, stava parlando con Gerli.
Gesù, perché proprio con Gerli? Be', erano abbastanza amici: o almeno Io erano
stati. Un tempo, cioè fino a pochi mesi fa, mi piaceva parlare di Gerli con mia madre,
raccontarle quanto fosse bravo intelligente colto spiritoso sensibile geniale e bla bla
bla, e a lei piaceva ascoltarrni, gli occhi brillanti di interesse. Poi, di colpo, io avevo
smesso di parlare di Gerli, se si eccettua qualche battuta sarcastica sul fascino, gli
occhi fatali, la voce vellutata e così via. Lei aveva smesso di fare domande, e gli
occhi non le brillavano più. Aveva anche smesso di andare a parlargli al liceo («Cosa
ci vai a fare?» le dicevo. «Tanto si sa che in lettere vado bene»).
E adesso, in questa orribile mattina, eccoli lì a colloquio sulla gradinata. Non si
trattava di un'intervista. La faccia di mia madre non aveva niente di professionale. In
verità non ne ha mai: a quarantanni, con diciassette di vedovanza e altrettanti di
professione sulle spalle, e me, mia madre ha l'anima di una ragazza. Adesso però
sembrava una ragazza invecchiata. Gli occhi grigio-verdi, alzati verso Gerli, erano
smarriti, tristi, ansiosi e qualcos'altro. Quando mi avvicinai, e lei girò gli occhi su di
me, vidi che cos'era. Paura, ecco cos'era.
«Stefano» disse soltanto.
Sapevo che avrebbe voluto abbracciarmi e piangere con me, e anch'io avrei
voluto. Ma non l'avremmo fatto. Io e lei siamo uguali: niente sdolcinature, tra noi.
«Cos'è, fai la cronaca nera, adesso?» le chiesi. Il tono insolente era dovuto alla
presenza di Gerli.
«Ero al giornale quando è arrivata la notizia» lei disse, come se si giustificasse.
«Volevo... volevo vederti» confessò timidamente.
Da molti mesi mia madre è timida con me. Non sa da che parte prendermi : da
qualsiasi parte mi prenda, ha paura di farmi male. E più io me ne accorgo, più
divento difficile da prendere.
Adesso poi, oltre ai suoi occhi, sentivo su di me gii occhi di Gerli: seri, attenti,
niente affatto fatali. Irritati e insieme affettuosi: gli occhi di un padre. Non sei mio
padre!, pensai furioso. Sei uno sporco individuo che intrallazza con le allieve, un
lurido sciacallo che ha messo le sue zampe su Sandra quando...
Non funzionava. Non so perché. Ma per quanto mi sforzassi, non riuscivo più a
vederlo in quel modo. Il mio rancore rimbalzava via da lui ritorcendosi su di me. Me
che poco prima, per una mia meschina vendetta personale ero stato sul punto di
accusarlo, di tradirlo, di indicarlo come possibile assassino. Anche se poi non l'avevo
fatto, mi sentivo una specie di Giuda.
E come sempre quando mi sento in colpa, reagivo con l'arroganza:
«Sono vivo e vegeto, come vedi» dissi a mia madre, ma era lui che sfidavo. «Ti
hanno già detto che sono il principale indiziato?»
«Piantala, Stefano» disse mia madre. Gli occhi le erano diventati del tutto verdi,
come sempre fanno quando è molto incavolata o spaventata o altro. Anche i miei
fanno così.
«Andiamo via di qui» disse Gerli, dandosi un'occhiata rapida alle spalle (cioè ai
poliziotti). «Vi accompagno alla macchina.»
«Senza scherzi» continuai, mentre camminavamo. Ed enumerai sulle dita:
«Avevo il movente. Ho avuto la possibilità. Le mani le ho magre ma robuste. E
Gaetano mi ha visto entrare in palestra all'ora del delitto.»
«Il più sospettabile è sempre il meno sospettabile» disse Gerli serafico. «Non è
questa la regola dei gialli? Comunque,» aggiunse in tono casuale «la palestra ha due
porte.»
11.

Gesù, m'ero dimenticato di nuovo della porta posteriore: le mie rotelline


dovevano avere qualche dado difettoso.
«E si dà il caso,» disse Gerli «che la chiave della porta posteriore sia
scomparsa.» Blocco totale di rotelline.
«Eh?» dissi. «Il commissario non me l'ha detto!» Gerli si strinse nelle spalle,«Le
vie della polizia sono misteriose» disse. Cercavo di riflettere, senza molti risultati.
Adesso si capiva, comunque, perché Giussani fosse cosi stravolto.
«Giussani era il detentore della chiave» dissi, quasi tra me.
«Ma non la usava mai, dice. La lasciava sempre a scuola: pesava troppo, dice. E
tutti potevano sapere dove la teneva.»
«Io no» dissi.
«Chiaro segno di innocenza.» Gerli sorrise. «Neanch'io lo sapevo. Quanto al
movente, comunque, pare che ne avessi avuto uno anch'io. Pare che avessi avuto
rapporti inconfessabili con la vittima» lo disse con la massima tranquillità,« E pare
che la vittima mi ricattasse.»
«Pare?» chiesi, inghiottendo. «Pare a chi?»
«Non a rne, se è questo che intendi» rispose Gerli, sempre tranquillo. «Io non ho
avuto rapporti che non possa confessare. E in quanto ai presunti ricatti... La mia
versione è che qualcuno voleva spaventarmi. O farmi degli scherzi, se così vogliamo
chiamarli. O mettermi nei guai col preside, e farmi trasferire. Non so chi fosse questo
qualcuno, ma non certo la vittima, la quale era l'unica a sapere di che tipo fossero i
nostri rapporti extrascolastici.»
Cioè? Dal lato erotico Gerli è una frana, ripete dentro di me la voce di Sandra in
quel crudele flash-back. Deve avere una paura terribile che lo venga a sapere il
preside. Quella volta, e poi sempre nei mesi successivi, non avevo avuto dubbi
sull'interpretazione di quelle parole. Eppure... Eppure sapevo bene che negli ultimi
tempi Sandra a volte deformava le cose, anche senza volerlo, solo perché non
sapeva più distinguere tra immaginazione e realtà: era un altro effetto della droga. E
allora? Gesù, pensai, a cosa devo credere? A chi?
Gerli non mi aiutava affatto. E neanche mia madre, che guardava aggrottata di
fronte a sé, come se non sentisse. O non volesse sentire.
Con una fatica bestiale, una fatica da seccarmi le labbra, mi sentii chiedere: «Che
tipo di rapporti?».
«Non erotici, se è questo che intendi» rispose Gerli, semplicemente. «Volevo
convincerla a farsi disintossicare e a... Ma non mi sento di spiegartelo adesso. Tanto
più che si tratterebbe sempre della mia versione. Che potrebbe essere vera come
potrebbe essere falsa. Che potrebbe contrastare con la versione della polizia, o del
preside... O di molta altra gente.» Il suo sguardo, ironico e triste, sostenne il mio.
E di colpo, irrazionalmente, io gli credetti. Non sapevo perché: gli credevo e
basta. Lui se ne accorse di certo, perché i suoi occhi si illuminarono dall'interno. Ma
non ci furono altri segni: né da parte mia, né da parte sua.
Con la stessa voce tranquilla, lui continuò: «Quello che volevo dire è che tutti
potremmo avere avuto un movente, tutti la possibilità, tutti l'occasione. Nessuno di
noi è al di sopra di ogni sospetto.»
Eravamo arrivati alla macchina di mia madre. L'aveva mollata vicino al bar di
fronte, tutta di sghimbescio e in sosta vietata: doveva essere arrivata al liceo in uno
stato pietoso, anche se esteriormente non lo dimostrava. Mentre lei cercava le
chiavi, rovistando nervosamente nella borsa, Gerli disse:
«Certo è che questo colpevole si comporta in modo curioso: fa sparire chiavi,
semina accendini, butta via siringhe...».
«Siringhe?» chiesi bruscamente.
«Alla polizia sembrava strano che una tossicomane, alla ricerca urgente di droga,
non avesse con sé una siringa. Si dà il caso che ne sia stata trovata una in un water,
nella toilette vicino alla palestra. Niente prova che sia la siringa della vittima, ma la
polizia...»
Gesù.
«Forse il tizio che ha buttato via la siringa non c'entra niente col delitto» dissi,
guardandomi i piedi. «Forse voleva solo evitare che i giornali parlassero di droga...»
«Piuttosto ingenuo» disse Gerli, senza guardarmi. «Comunque, siringa a parte,
tutto farebbe pensare a un colpevole molto impulsivo, o molto spaventato, o molto
stupido: quindi pericoloso. Oppure intelligentissimo, ma lo escluderei : a meno che
non sia uno di noi due.»
«Forse non ho molto senso umoristico» disse aggressivamente mia madre «ma
questi scherzi mi sembrano idioti.» Stava sempre rovistando nella borsa.
Lui smise di sorridere. «Scusami» disse con dolcezza. (Da quando si davano del
tu?) «Sono un po' fuori fase anch'io, tutto sommato. Tu, Stefano, cerca di non
imitarmi, se puoi: lavorare di fantasia è pericoloso. Questo commissario Criscuolo
conosce il suo mestiere: lasciamoglielo fare e stiamo calmi. D'accordo? Ci vediamo
più tardi. Adesso devo rientrare al liceo: a disposizione, come si dice. In verità, non
dovrei neanche essere uscito» si voltò a dare un'occhiata divertita agli agenti che
piantonavano l'ingresso. «Ma ogni criminale ha i suoi trucchi.»
Questa volta sorrise anche mia madre.
Lui disse «ciao» e andò verso il liceo.
Mia madre aveva finalmente trovato le chiavi: le aveva in tasca.
«Se non c'era Gerli diventavo matta» borbottò. «Gli agenti non mi facevano
entrare, nessuno voleva dirmi niente...» Armeggiava con le chiavi nella portiera,
senza guardarmi.
«Mamma,» dissi alle sue spalle «vuoi che ti dica che non ho ammazzato
Sandra?»
Lei si voltò con gli occhi spalancati, verdissimi. «Voglio che tu la smetta dì dire
cavolate!» rispose brusca. Poi sorrise, scostandosi la ciocca rossa dalla fronte. «Dai,
deficiente, andiamo a casa» disse salendo in macchina.
È bello, quando non si è avuto un padre, avere una madre così. Le mie rotelline
ebbero un momento di sosta. Mentre guidava avrei voluto metterle la testa in
grembo, e lei avrebbe voluto che io ce la mettessi. Ma queste cose noi non le
facciamo. Quello che conta è saperlo.
12.

Quando entrammo in casa, il telefono di mia madre stava suonando. Noi abbiamo
due telefoni, con due numeri distinti ; uno serve a lei (per il suo lavoro ci passa un
mucchio di tempo), uno serve a me (anch'io ce ne passo parecchio. Ce ne passavo).
Mia madre aprì e corse nel suo studio a rispondere. Io entrai nella mia stanza. Mi
sembrava strano che tutto fosse come prima. Il caos familiare della scrivania, lo
scaffale pieno di libri letti, l'impianto stereo con pile di dischi noti, il registratore con
pile di cassette, i cuscini sparsi sulla vecchia moquette, il telefono vicino al letto, i
muri tappezzati di manifesti, tazebao, slogan, ritagli, fotografie... Meglio non
guardarle adesso. Gesù, dove guardo?
Il gatto Saul venne a strofinarsi contro le mie caviglie, col motore acceso. Mi
accucciai per carezzarlo.
«Sandra è morta, Saul» dissi sotto voce. Lui ronfava.
Mi buttai sul letto, i piedi sulla spalliera, il gatto sullo stomaco, gli occhi al soffitto.
Di là il telefono dì mia madre squillò altre volte, due, tre, quattro volte... Sandra è
morta, la vita continua, il telefono suona, il gatto ronfa... Chiusi gli occhi.
Subito le rotelline mi si rimisero in moto. Non mi davano tregua, le maledette. Mi
sembrava di sentirmele cigolare in testa mentre arrancavano lungo il cammino già
fatto, sostando qua e là sui fatti nuovi. La chiave scomparsa (boh). La siringa
ritrovata (fregarsene). Giussani paralizzato davanti al padre di Sandra (pietà o che
altro?). La crisi di Giussani nella toilette. Quasi per conto proprio, la mia mano si
infilò nella tasca, si chiuse sul foglietto accartocciato. Avanti, riguardalo, di cos'hai
paura? Mia madre comparve sulla soglia e il foglietto rimase dov'era.
«Continuano a telefonarmi genitori della 5 a B» disse mia madre. «Col fatto che
sono una giornalista, si immaginano che sia informata di tutto...»
«Sei anche mia madre» dissi. «La madre del sospettato numero uno.»
Come se non mi avesse sentito (ma con gli occhi più verdi) lei continuò: «Specie i
genitori delle ragazze, sono in piena psicosi. Mi fanno discorsi assurdi... Mi chiedono
se non penso che anche le loro figlie siano in pericolo e roba del genere...».
«Di' loro che mi impegno formalmente a non strangolare altre ragazze.»
Di nuovo lei ignorò l'interruzione. «Ha telefonato anche il Pizzi padre» disse.
Questa volta ci fu possibile sorridere insieme: il padre di Dario, grosso
imprenditore edile e bravissimo uomo, è sempre in agitazione per quel figlio
degenere e amatissimo. Sempre a consultare avvocati per tirarlo fuori da guai in cui
non s'è ancora messo, o psicologi per curarlo delle sue patologiche tendenze a
sinistra. Ideologie a parte, è identico a suo figlio: irascibile, rompiscatole e non
proprio una cima, ma incapace di cattiverie o di meschinità.
«Ha già mandato a chiamare il suo avvocato, naturalmente,» stava dicendo mia
madre «e aspetta che Dario li raggiunga in ufficio. Sentivo l'avvocato che lo prendeva
in giro, dietro, mentre lui mi raccontava tutta una storia di accendini di cui non ho
capito un accidente... no, non cercare di spiegarmela, per carità» disse sporgendo le
mani come a ripararsi. «Non voglio sapere più niente finché non ho preso un paio di
aspirine.»
Mia madre mangia aspirine come caramelle: sono la sua panacea universale.
«Il Pizzi padre dice che Dario sta per venire qui» mi informò prima di andarsene.
«Così gli ha detto l'avvocato, a cui Dario avrebbe telefonato da fuori, se ho ben
capito: ha fatto un tale macello... Comunque dice di spedirglielo appena arriva.» Mi
guardò : «Vuoi un'aspirina anche tu?».
Dissi di no. Mentre lei se ne andava, il mio telefono si mise a suonare.
Macchinalmente presi il ricevitore, macchinalmente dissi pronto.
«Stefano?» appena un bisbiglio. Fu una frazione di secondo, ma agghiacciante:
la voce di Sandra.
«Stefano, sono Roberta... la sorella di Sandra.»
Chiusi gli occhi. Roberta, sicuro: solo la voce avevano uguale. Il bisbiglio si fece
affannoso: «Non posso parlare più forte, il papà è di là in bagno e può uscire da un
momento all'altro... Stefano, mi senti?».
«Sì» dissi finalmente.
«Rispondi svelto: sai se c'era qualcosa nella borsa di Sandra?»
«Vuoi dire la siringa?» a lei potevo dirlo, «L'ho tolta io.»
«No, no, parlo di un gioiello, una spilla... Sai se l'hanno trovata? Stefano! L'hanno
trovata?»
«No» dissi, «Ma spiegami meglio.»
Lei non mi dava retta:«Forse la spilla c'era e tu non lo sai» suggerì con affanno.
«No» dissi,«Io ho guardato nella borsa di Sandra prima che arrivasse la polizia.
Non c'era niente. Nessuna spilla.»
La sentii gemere piano:« O Dio, o Dio...».
«Non puoi spiegarmi?» dissi,« Se mi spieghi ti aiuto.»
«Non adesso, non posso, non faccio in tempo... C'è il papà che sta per... Ti
richiamo quando posso. Non dire niente a nessuno: prometti, giura! O Dio eccolo,
devo riappendere...» Di colpo la sentii dire con voce forte, impersonale: «No, mi
dispiace signora, ci deve essere un contatto». Clic.
Riagganciai anch'io, adagio. Cos'era questa storia del gioiello? Sandra non
portava e non aveva gioielli. Allora di chi era quella spilla? E se c'era e poi non c'era
più, chi l'aveva presa, quando, perché? E perché Roberta era così agitata?
Gesù, ero stanco.
Mia madre si riaffacciò, senza fare domande.
«Era Roberta» dissi, «La sorellina di Sandra. L'ho vista stamattina... è diventata
grande. Somiglia un po' a Joan Baez, ma con gli occhi azzurri.»
«Credevo che fosse in collegio» disse mia madre.
«Anch'io credevo. Era venuta a casa per le vacanze di Pasqua, e poi si è
ammalata. Doveva ripartire domani. E invece adesso sarà tirata dentro anche lei in
questa storia.» C'era già dentro fino al collo, pensai. E io non potevo aiutarla per
niente. «Dammi quell'aspirina, adesso» dissi a mia madre.
Mentre prendevo l'aspirina col tè, arrivò Dario.
«Marianto e il Pingue non si son visti?» chiese stupito. «Hanno detto che
venivano qui anche loro...» fece un gesto. «Saranno di nuovo in qualche bar a tirarsi
su. Finiranno sbronzi. Marianto è stravolta al massimo e il Pingue... be', secondo me
il Pingue se la sta facendo letteralmente sotto: mai stato un eroe, si sa» commentò
con indulgenza, dall'alto del suo indiscusso eroismo.
Nascondendo un sorriso, mia madre prese la mia tazzina vuota e se ne andò: il
telefono del suo studio squillava di nuovo.
Dario diventò serio di colpo.
Si tolse il giubbotto e la sciarpa rossa, buttandoli dove gli capitava, e sedette sulla
moquette vicino al mio letto, guardandomi con occhi ansiosi.
«Stefano, senti» attaccò subito. «Non pensano mica che l'hai ammazzata tu,
vero?»
La delicatezza non è la specialità di Dario.
«Non ne ho idea» risposi, carezzando Saul che ronfava. «Perché?»
«Be', ho paura di aver fatto un casino bestiale» disse angosciato.
Questo era normale: fare casino è la specialità di Dario. «In che senso?» chiesi.
Come uno che si butta col paracadute e non è certo che si aprirà, lui sporse ia
mano aperta verso di me: «Ecco qua il tuo accendino del cacchio!» disse.
13.

Senza prenderlo, chiesi: «Di dove è uscito?».


«Dalla mia tasca. Ieri pomeriggio, in quel casotto di assemblea, dobbiamo
esserceli scambiati. Ero già in metrò quando me ne sono accorto, pensavo di
telefonarti la sera da casa, ma poi m'è uscito di testa. E stamattina, con tutto quel
cas... sì, col delitto e tutto, chi ci ha pensato più. E poi quello sbirro del cacchio mi fa
vedere il "mio" accendino e mi dice che è stato trovato vicino al cadavere: per poco
non ci resto secco! Mi stanno incastrando, ho pensato subito, e prima di poter
riflettere avevo già tirato fuori il ''tuo" accendino e stavo raccontando tutta la storia,
cioè che ce li eravamo scambiati il giorno prima e così via... Lo sbirro ci ha creduto: e
solo dopo m'è venuto in mente che stavo facendo una stronzata, cacchio, sembrava
che ti stessi accus... voglio dire, cacchio, forse era meglio che non glielo dicessi che
il mio accendino l'avevi preso tu, ma ormai...»
«Non l'avevo preso io. Dev'essere rimasto in palestra, suppongo.»
Forse era rimasto in terra vicino al cavalletto, dove eravamo stati seduti vicini...
Forse era ancora là stamattina mentre guardavo il cadavere e fotografavo con la
mente i particolari... Ma quali? Non avevo guardato la porta posteriore, non avevo
guardato per terra sotto il cavalletto... La mia famosa mente fotografica aveva fatto
cilecca su tutti i fronti. Non sarei andato bene in un giallo: né come investigatore, né
come assassino.
«Sicuro, è rimasto di sicuro là per terra...» stava dicendo Dario «e chiunque può
averlo visto e preso e messo vicino al cadavere... Non m'è venuto in mente. Bel
pistola, cacchio! Ma quando il commissario me l'ha fatto vedere mi sono talmente
incasinato che...» Mi guardò di nuovo con ansia: «Dico, non ti sospettano mica, vero
Stefano?».
«Me l'hai già chiesto» risposi, pazientemente. Dario è così: bisogna aver
pazienza, «E ti ho già risposto che non lo so. Comunque, se mi sospettano, non è
per via dell'accendino.»
«Dici? Anche l'avvocato di mio padre lo dice. Appena fuori, dopo aver parlato con
Marianto e il Pingue, gli ho telefonato e gli ho detto tutta la storia, di quel che era
successo, e di te e di me e dei sacrati accendini, e di quel che aveva detto lo sbirro,
e allora lui...»
«Falla corta, Dario» dissi.
«Be', lui dice che se non l'abbiamo ammazzata possiamo stare tranquilli.»
Più. corta di così. Mi venne da ridere, Dario mi guardò incerto:
«Comunque questo commissario sembra un tipo meno fetente degli altri, anzi
direi simpatico nei limiti di uno sbirro, non credo che ti pianterà grane per... voglio
dire che...»
Con le dita gli feci segno di stringere.
«Non ce l'hai con me, vero Stefano?» concluse.
Pazientemente, gli dissi di no. Lui sembrò sollevato. Ma aveva ancora qualcosa
sullo stomaco. Senza guardarmi, grattandosi la testa sotto la criniera arruffata,
improvvisamente disse, senza nesso apparente:
«Anche per la storia di Sandra... cacchio, Stefano, lo so che non avrei dovuto
farci l'amore, non io...».
Non ne avevamo mai fatto parola: non l'avrei sopportato, prima. Adesso era
diverso. Soffrivo da cane, ma lasciai che andasse avanti:
«Lo so che è stata una stronzata! Ma lei diceva che tu non ci facevi più l'amore e
che lei andava con tutti e... Be', lei era giù di giri e io ero su di giri e... cacchio,
insomma è successo! E dopo lei si è bucata sotto i miei occhi, le mani le ballavano
da matti, e anche mentre si bucava parlava di te e io... Cristo, Stefano, mi sarei
sputato addosso da solo».
Sì, potevo capirlo. Non sentivo più rancore, non sentivo più nausea. Solo una
tristezza bestiale. Ma ci sono cose che non si possono dire. Almeno, io non posso. E
Dario non è uno che capisca molto le cose, se non gliele dici. Così continuò a
grattarsi la testa con aria scoraggiata, e poi, per disperazione, si rifugiò di nuovo
nell'argomento iniziale:
«Comunque,» disse, ma sembrava che non gli interessasse più molto, «vorrei
proprio sapere chi è quel fetente che ha messo il mio accendino vicino al cadavere».
Fossi stato il Pingue, avrei detto: la reazione in agguato. Ma non ero il Pingue. E
non ero in vena di sfottere Dario.
«Non hai pensato che potrei essere stato io?» dissi.
Mi guardò un momento senza capire. Poi, afferrando l'idea, scrollò le spalle:
«Non dire cacchiate» disse semplicemente.
Era chiaro che l'idea non gli era mai neanche passata per la testa. Eppure
sapeva che amavo Sandra, che ero geloso, che ero disperato, e che gli portavo
rancore. Perché si fida di me?, mi chiesi. E guardandolo trovai la semplice, definitiva
risposta: per la stessa ragione per cui io, nonostante tutto, mi fido di lui. L'amicizia è
amicizia. Non si spiega: si sente.
«Dario Pizzi, figlio di un cane!» dissi, col tono di un tempo.
Lui si illuminò tutto, e latrò felice in risposta.
Il gatto Saul se ne andò con un miagolio indignato, e mia madre riapparve sulla
soglia, forse non credendo alle sue orecchie. Non fece commenti.
Sorrise e disse:
«Dario, sei ancora qui? Tuo padre ha richiamato un minuto fa e gli ho detto che
eri già in strada».
«Vado» disse, saltando in piedi. Fece un ultimo breve latrato al mio indirizzo e
partì di corsa, sciarpa al vento.
Mia madre tornò nel suo studio con un'aria contenta: Dario le è sempre stato
molto simpatico.
Il mio telefono squillò di nuovo.
Roberta, pensai prendendo il ricevitore.
«Pronto» dissi sottovoce.
«Sono Giorgio» disse la voce educata, guardinga del Pingue. «Sono qui in un bar
con Marianto. Dario è ancora lì?»
«No, è andato via adesso.»
«Fra un momento verremo lì noi, ti dispiace? Scusa un attimo...»
Lo sentii parlottare sottovoce, con Marianto evidentemente.
Poi parlò di nuovo a me: «Scusa... ti richiamiamo». Clic.
Boh! Riagganciai corrugando la fronte.
Sì, pensai, forse se la sta proprio facendo sotto, come dice Dario. O forse...
Quella voce guardinga mi aveva ricordato qualcosa.
Facendo forza a me stesso, infilai di nuovo la mano nella tasca, tirai fuori quel
foglietto accartocciato, lo spiegai, e riosservai attentamente, sotto le cancellature blu,
lo stampatello verde, regolare, leggermente inclinato a sinistra.
14.

Di nuovo quella paura indefinibile, impalpabile...


La sentivo strisciare verso di me dai muri della stanza, dalle fotografie, dai ricordi
di quegli anni di adolescenza. Forse non era paura, forse era qualcosa di peggio.
Qualsiasi cosa fosse, ormai era inutile difendersene.
Tesi il braccio, presi dallo scaffale un libro di fisica che m'ero fatto prestare pochi
giorni prima. Sulla copertina stava scritto il nome del proprietario: Giorgio Zardini,
5aB. Era stato scritto a caratteri stampatelli regolari, leggermente inclinati a sinistra.
Con una biro verde.
Mi alzai dal letto, rigidamente, e mi sedetti alla scrivania. Accesi la lampada a
braccio e sollevai il foglietto contro il fascio di luce bianca abbagliante. Con uno
sforzo doloroso degli occhi e del cervello, riuscii a captare qua e là, sotto le
cancellature blu, brandelli di parole in verde: FINIR (finire, finirla?), RICAT (ricatto,
ricattare?) poi una parola che cominciava in G e finiva in I (Gerli?), un'altra che
terminava in SIDE (preside?) e infine una che era sicuramente, inesorabilmente
MARIANTO.
Spensi la lampada. M'era venuto mal di testa. E nausea.
L'impulso, di nuovo, era quello di distruggere il foglietto, cancellarlo dal mio
cervello, dimenticare tutto. Ma non potevo. Dall'altro lato del foglio, dietro la scritta in
verde, c'era l'appello di Sandra: Vi prego aiutatemi vi prego , la sua ultima, inutile,
mortale invocazione. La "sentivo": era come la sua voce che chiamasse.
Accartocciai di nuovo il foglietto nel pugno, e mi sembrò di accartocciare
l'adolescenza, i ricordi di scuola, gli esami, i giochi, la solidarietà, lo spirito liceale.
Perduto, finito, morto. Mi sentivo diseredato.
Il telefono squillò. «Stefano, non possiamo venire, adesso» la voce di Marianto,
tipo raffreddore: doveva aver pianto. «Dobbiamo... Giorgio deve andare...» si
interruppe, la voce incrinata, «Verremo appena possibile.»
Dove doveva andare il Pingue?
Riagganciai. Le rotelline mi si rimisero in moto, disordinatamente.
Le fotografie mi guardavano dai muri. Mucchi di fotografie: gite scolastiche,
assemblee, partite di pallone, gare di sci, picchettaggi, scazzottature, gruppi di fine
anno. C'erano tutti: allegri, ridenti, il Pingue, Marianto, Dario, Gerli, Giussani, il
preside, il bidello Gaetano. Io. E Sandra. Le due Sandre: quella tenera e intatta che
avevo cominciato ad amare tra i banchi, e quella degli ultimi tempi, col sorriso
provocatorio e gli occhi da animale inseguito. Porci, maledetti, bastardi... voi l'avete
ridotta così. Voi l'avete ammazzata, giorno su giorno,
«La Rita ha preparato le lasagne» disse la voce di mia madre. La Rita è la nostra
colf a ore. Non pulisce molto, ma a richiesta sa fare delle lasagne meravigliose. Mia
madre non ha che accendere il forno all'ora che vuole. «È la una, vieni a mangiare»
disse.
La sola idea mi metteva la nausea. Ma non volevo far scena: né davanti a mia
madre né davanti a me stesso. Così andai a mangiare, come in ogni altro giorno.
Appena assaggiate le lasagne mi scoppiò una fame bestiale. Mangiai voracemente
tutto e bevvi anche tre bicchieri di vino: che per me sono una dose da sbronza. Ma
non mi sbronzai. Non molto. Solo mi salì da dentro, proprio tipo fiume in piena,
l'urgenza di comunicare con mia madre.
Mi tolsi dal taschino la foto mia e di Sandra e la spinsi verso di lei sulla tovaglia.
Mia madre chinò gli occhi a guardarla.
«Me ne ricordo» disse semplicemente. «Ve l'ha scattata Roberta quell'estate.»
Non chiese dove l'avessi trovata e perché gliela mostrassi. Mia madre è mia
madre, sa che le domande mi bloccano.
Così glielo dissi io spontaneamente:
«L'ho trovata stamattina nel portafogli di Sandra, nascosta tra il cuoio e la
fodera».
Gli occhi di mia madre diventarono un po' più verdi, e fu tutto da parte sua.
Fossero i suoi occhi, o fossero i tre bicchieri di vino, di colpo fu come se mi si
fosse aperto un rubinetto, o guastata una guarnizione, non so. So che mi trovai a
raccontarle tutto quanto, dal principio alla fine. Il cadavere, la borsa (niente
accendino), la foto, la siringa, il foglietto con l'appello di Sandra (non parlai dei
messaggio in verde sul retro). Il mio ingresso in presidenza, il battibecco tra il preside
e Gerli, Giussani che scattava a presidiare la palestra. Io che davo la notizia ai
ragazzi. L'arrivo della polizia. Le prime domande. L'arrivo del padre di Sandra. Il mio
colloquio col commissario Criscuolo, botta e risposta, da cima a fondo. Il suo
congedo minatorio («non voglio altri ragazzini cadaveri in questo liceo»). L'arrivo di
Roberta che si fermava come se volesse parlarmi ma poi non mi parlava (c'era il
poliziotto con lei). Cercavo di riferire tutto come un cronista scrupoloso e distaccato,
senza esprimere opinioni personali, senza confidare sensazioni e ricordi: una
semplice, accurata esposizione di fatti.
Mia madre taceva, ma vedevo tutto quanto riflettersi nei suoi occhi cangianti:
anche quello che non dicevo. Eravamo di nuovo in contatto, come ai bei tempi.
La prima volta che aprì bocca per interrompermi fu mentre stavo riferendo dello
strano fulmineo incontro tra Giussani e il padre di Sandra, nell'aula dei professori.
«Si conoscevano già?» chiese bruscamente mia madre.
«Non credo» dissi. «Anzi, no di sicuro. Giussani è professore solo dei maschi,
infatti gli ha detto subito: "Sua figlia non era mia allieva..."»
«Il che voleva significare che non poteva averla ammazzata lui?» chiese mia
madre.
Non feci caso al tono. Stavo riflettendo. «No, voleva solo dire che gli faceva le
condoglianze, "anche" se Sandra non era sua allieva... Giussani è un tale idiota.
Comunque sono sicuro che non si conoscevano. Adesso che ci penso, la prima cosa
che ha detto Giussani è stata: "Non credo che ci siamo mai visti".»
«Uhm» disse mia madre. «E il maresciallo cos'ha detto?»
«Niente. Sembrava... di sasso. Lo guardava e basta.»
«Non come se lo riconoscesse?» chiese mia madre.
«Non mi pare. Non so neanche se lo vedesse. Ti dico che era... Boh! Sembrava
completamente fuori. Certo però qualcosa tra quei due non girava giusto. Giussani è
tornato fuori a razzo, completamente sul pallone. Mi è perfino venuto addosso,
camminandomi sui piedi senza neanche accorgersene...» Le mie riflessioni non
portavano a nessun risultato apprezzabile. «Forse era stravolto per la pietà verso il
povero padre e via dicendo...» opinai dubbioso,
«Non mi sembra un tipo tanto sensibile» disse mia madre, più dubbiosa di me.
Dopo un momento chiese: «Ha figli?».
«Chi, Giussani? Non è neanche sposato, ch'io sappia. Ormai è più di un anno
che è al liceo, ma non è che parli molto della sua vita privata... Se non per decantare
le sue .passate glorie atletiche, la sua strapotente virilità e così via...»
«Maschio fallocrate» disse mia madre con una smorfia. Se c'è una cosa che la
manda sulle furie sono i maschi fallocrati. «Conosceva bene Sandra?» chiese.
15.

Ricordai il giudizio di Sandra, quando Giussani era arrivato al liceo l'anno prima:
Vecchio bavoso, aveva detto. Sessuorepresso e scemo. Sandra era lapidaria,
quando voleva. Poi non ne aveva parlato più.
«La conosceva come conosceva tutte le altre ragazze del liceo» risposi a mia
madre. «Aria da supergallo, ma niente di concreto. No, nessun rapporto con
Sandra.»
«Forse gli sarebbe piaciuto averne.»
«Mamma,» dissi con un sorriso «stai cercando di incriminare Giussani?»
«Meglio lui che un altro» rispose tranquilla. «Giussani m'è antipatico. È stupido. È
fascista. Fa lo scivoloso con le madri dei suoi allievi. Ha l'alito cattivo. Come
colpevole mi andrebbe benissimo.»
Mia madre è un tipo fantastico, certe volte. Mi faceva ridere, adesso.
«Grave indizio per un assassino, l'alito cattivo» dissi ridendo.
Ma lei non decampava: «Ce ne sono altri. La chiave della porta posteriore della
palestra, per esempio. E l'accendino di Dario. Se tu non hai trovato l'accendino sotto
la borsa, e se invece la polizia poi ce l'ha trovato, qualcuno nel frattempo deve
avercelo messo. Chi, se non Giussani?».
«Ma perché l'avrebbe fatto?»
«Per confondere le tracce, per pasticciare gli indizi, come dice il tuo commissario
Criscuolo. Fossi in lui, l'avrei già arrestato.»
Mi faceva proprio ridere: stava diventando una specie di gioco.
Sandra era morta in quel modo, e io sapevo tutto quel che sapevo, e peggio
ancora quel che non sapevo, e stavo lì a giocare con mia madre. Il vino, suppongo.
In vino veritas? Be', mica sempre.
«Ma se l'avesse ammazzata lui,» dissi, sempre tipo gioco, «e se avesse voluto
pasticciare gli indizi, l'avrebbe fatto subito dopo il delitto, no? Perché aspettare che io
scoprissi il cadavere e poi andar giù a fare i giochetti con gli accendini?»
«Forse prima non ne ha avuto il tempo» disse mia madre, cocciuta. «O non ci ha
pensato, nel raptus del momento. Dopo invece, mentre faceva la guardia al cadavere
in attesa della polizia, ha avuto tutto il tempo. Magari ha visto per caso l'accendino
per terra e, zac, l'ha spedito con un calcio vicino al cadavere. Così, tanto per
confondere un po' le cose. Per me è andata così. Ricordati cos'ha detto Gerli:
"abbiamo a che fare con un colpevole molto spaventato o molto stupido". Calza:
Giussani è entrambe le cose.»
Non che, tecnicamente fosse una tesi tanto sballata: ma non reggeva
psicologicamente. Non ci credevo, ecco.
Giussani assassino? Ma dai!
Era solo un gioco. E sempre per stare al gioco, continuai :
«Be', a conforto della tua tesi, senti questa, allora: Giussani mi ha quasi
aggredito, nella toilette. Se non entravano i poliziotti, mi avrebbe fatto a pezzi pur di
carpirmi il foglietto con...».
Mi fermai di colpo, sudando. Non volevo parlare del foglietto. Non so se fosse
paura, o un residuo di omertà nei confronti di chi era pur stato per anni mio
compagno di scuola e di adolescenza. Fu come se l'effetto del vino svanisse di
colpo. Mi sentivo di nuovo malissimo.
Mia madre (il mio specchio) mi guardava: di riflesso, stava male anche lei. Non
era più un gioco, se mai lo era stato.
«Stefano,» disse, come se le faticasse muovere le labbra, «ti ho visto guardare
quel foglietto, prima. E ho visto la faccia che avevi. Ti prego, non lavorare di fantasia,
come dice Gerli: è pericoloso. Di qualsiasi cosa si tratti, non fare di testa tua. C'è un
assassino di mezzo.»
«Mamma, io non ce l'ho con quello che l'ha ammazzata stamattina» mi sentii dire.
Gli occhi di mia madre erano così uguali ai miei; era come parlare a me stesso. «Non
era più Sandra, quella, era... era una povera marionetta infilata dentro Sandra, con la
droga che le muoveva i fili. Io... non potevo neanche più baciarla. Mi sarebbe
sembrato... Non potevo! E neanche lei. Tante volte in questi mesi ho pensato che
avrei voluto ammazzarla, e lei avrebbe voluto che lo facessi... Per liberarla e per
liberarmi. Ogni volta che eravamo vicini e ci guardavamo come disperati e non
potevamo toccarci... Cristo, mamma, era meglio esser morti. E certe volte lei mi
diceva: "ammazzami, Stefano, perché non mi ammazzi tu, io non sono capace, sono
vigliacca, fallo tu per piacere, fallo tu se mi ami... ti prego Stefano ammazzami".»
La voce mi era diventata rauca. Vidi gli occhi di mia madre lottare con le lacrime e
allora mi resi conto che anch'io stavo lottando con le lacrime. Ma non volevo
piangere, e neanche lei. Inghiottii e andai avanti.
«Lei desiderava morire e tante volte anch'io ho desiderato che morisse. E quando
stamattina l'ho vista morta... Mi capisci, mamma? Io non ce l'ho con quello che l'ha
ammazzata stamattina... ce l'ho soltanto perché l'ha ammazzata male» e mi guardai
le mani e anche mia madre le guardò. «Ma gli altri? Sono gli altri che odio. Quelli che
l'hanno ammazzata prima, giorno su giorno. Porci, maledetti, bastardi...» Mi accorsi
che stavo tremando, e smisi.
«Stefano,» disse mia madre, tremava anche lei, «di spacciatori ce ne sono tanti...
Non puoi vendicarti di tutti.»
«Me ne basta uno» dissi, «Sandra non andava in giro, a Brera o negli ambienti
hippies o altro. Io so che è stato uno di noi. Uno dentro il liceo. Uno che lo faceva per
soldi. E lo incastrerò.»
«Potrebbe essere lo stesso che l'ha strangolata» disse mia madre: gli occhi le
stavano diventando molto verdi. «Stefano, se c'entra quel foglietto... per amor del
cielo, di qualsiasi cosa di tratti, bisogna dirlo alla polizia! Stefano, ti prego, dammi
quel foglietto!» quasi gridava, alzandosi. «Lo porto io al commissario. Subito... Ho
paura.»
Anch'io avevo paura. Ma un'altra paura. Scossi la testa:
«E una faccenda mia» dissi.
In quel momento squillò il campanello dell'ingresso.
«Resta lì!» disse mia madre impallidendo. «Vado io.»
«Ti è presa la psicosi» la informai, sogghignando.
Lei mi diede un'occhiataccia, si scostò la ciocca dalla fronte e corse in
anticamera.
Nello stesso momento il telefono nel suo studio si mise a suonare.
«Rispondi tu!», mi gridò dall'anticamera. E poi: «Chi è? Chi è?» la sentii chiedere
prima di aprire. Proprio in piena psicosi.
Andai nello studio e presi il ricevitore:
«Pronto».
«C'è tua madre? Sono Gigi Scanferla.»
Questo Gigi Scanferla è uno che lavora nel quotidiano della sera per cui lavora
mia madre. Lui lavora in cronaca. Cronaca nera.
«C'è qualcosa di nuovo?» gli chiesi. Questo Scanferla è un tipo sveltissimo. Se
c'era qualcosa di nuovo, garantito che lui lo sapeva.
«Dammi tua madre» ripetè senza scomporsi un filo.
Stavo per incavolarmi quando lei arrivò e mi tolse la cornetta di mano. «Pronto,
Gigi? Cosa? Un momento!» coprì il microfono con la mano. «In camera tua c'è
Marianto.»
«Senza Pingue?»
«Senza. Sbrigati: è in crisi.»
«E se è venuta per ammazzarmi?» le chiesi con voce cavernosa.
Lei fece il gesto di tirarmi un portacenere.
La lasciai che parlava con Scanferla, gli occhi di nuovo brillanti. Per qualche
motivo, le era passata la psicosi.
16.

Marianto stava seduta sulla moquette, le gambe rannicchiate, la schiena


appoggiata al bordo del letto. Saul le si strusciava contro ronfando, come sempre fa
con gli ospiti seduti per terra, ma lei non gli badava. Gli occhi gonfi, la faccia tirata, il
trucco a ramengo, guardava davanti a sé fumando accanitamente, con lunghe voraci
boccate che le incavavano le guance. Bella non lo era mai stata: discreta figura,
gambe pregevoli, ma una faccia da ranocchia. Ben truccata e ben pettinata, poteva
essere una ranocchia piacevole. Adesso era una ranocchia e basta.
Mi sedetti anch'io sulla moquette, di fronte a lei, le braccia intorno alle ginocchia
rialzate.
«Il Pingue?» chiesi.
Fu come se avessi girato un interruttore: scoppiò in singhiozzi inauditi. Senza il
minimo tentativo di controllo. Guarda lì: la forte, allegra, strafottente Marianto, guarda
lì che frana. Avrei dovuto essere contento. Invece non lo ero. Più che altro, ero
imbarazzato. Non sapevo dove guardare e cosa dire.
Ma disse tutto lei: tipo torrente in piena. A tocchi e bocconi, con grande
accompagnamento di lacrime e soffiamenti immani di naso, mi rovesciò addosso
tutto un discorso sconnesso, e a tratti assai poco pertinente. Fosse stata Dario, le
avrei fatto segno di stringere. Ma non era Dario, era Marianto. Una Marianto mai
supposta: meglio lasciarla sfogare.
«Giorgio non c'entra!» singhiozzava. Notai che non diceva più il Pingue, ma
sempre e rispettosamente Giorgio. «Giorgio l'ha fatto per aiutarmi! E adesso è nei
guai per colpa mia! È stata colpa mia fin dal principio... Però io volevo bene a
Sandra, nonostante tutto...».
Mi irrigidii. Ci siamo, pensai. Devo stare bene attento. E invece, l'impulso più forte
era quello di turarmi .e orecchie. Ma lei andava avanti:
«Io le volevo bene davvero, e invece lei non ne voleva a me, le servivo soltanto.
Le servivo per cavarmi soldi... Si sa che io ne ho tanti, di soldi, i miei non mi danno
altro, qualsiasi cosa abbia o faccia o dica, loro non fanno che tirar fuori i loro
stramaledetti assegni, e mi dicono: "ma cosa vuoi di più?". Voglio essere amara,
porco diavolo! Invece niente...». Stava andando di nuovo fuori dal seminato, ma non
avevo il coraggio di interromperla. «Lo stesso coi ragazzi,» diceva «cosa sono io per
i ragazzi? Una simpatica bruttona che ha tanti soldi in tasca, perciò avanti,
spremiamola, visto che non ha altro!»
Fortuna che io non l'avevo mai spremuta. Ma mi sentivo a disagio per gli altri,
adesso.
«Dai, Marianto!» protestai. «Per i ragazzi scroccare è una specie di sport... Non
vuol mica dire che non si è amici.»
Ma lei, trascinata dalla pietà di se stessa, non mi dava retta per niente.
Probabilmente manco mi sentiva. «... anche Sandra se ne fregava di me!» stava
dicendo. «Mi stava dietro solo per sfruttarmi. Come tutti, peggio di tutti... Quando
aveva bisogno di soldi per la droga da chi andava? Da me! E dai e dai, finiva sempre
che io glieli davo.»
Si fermò di colpo. Forse per la mia faccia.
«Ma che amica generosa» il tono della mia voce spaventò anche me. «Volevi che
si fregasse, eh? Che si distruggesse: per questo le davi i soldi, per distruggerla!
Perché eri invidiosa, perché la odiavi, perché...»
«Non è vero, non è vero!» gridò lei, sporgendo le mani avanti come per ripararsi.
«Stefano, non dire così, non guardarmi così... Sarò stronza, ma non fino a quel
punto! Ero gelosa di Sandra, questo è vero, mi faceva una rabbia tremenda perché
era bella, amata, desiderata, perché aveva tutto quello che a me mancava e lo
buttava via così... Ma mi faceva anche pietà. Una pietà insopportabile, certe volte. E
lei insisteva, insisteva... lo sai come sapeva insistere Sandra quando era a secco...».
Sì, lo sapevo. Per questa volta, Stefano, solo per questa volta , disse dentro di me
la voce di Sandra, poi non te ne chiederò più... giuro che non te ne chiederò più...
Anche se li avessi, pensavo allora, non glieli darei mai. Ma il fatto era che non li
avevo. Se li avessi avuti, mi chiedevo adesso, avrei resistito? Anche quando diceva:
Finirò per andare a battere, tanto quando una è fottuta è fottuta , avrei resistito?
Pensavo di sì. Ma non ne ero più sicuro al cento per cento. Come non ero più sicuro
di voler punire Marianto. Punire... a che serve? Sandra è morta. Non c'è più senso.
«Certe volte non resistevo proprio» stava dicendo Marianto «e per levarmela di
torno glieli davo... Lo sapevo che era sbagliato, ma era difficile vederla star male e
dirle di no... Certe volte non ero capace, ecco. Poi però, quando ho visto in che stato
si stava riducendo, ho detto basta. Basta sul serio. Ne ho discusso anche con
Giorgio, lui diceva che non avrei mai dovuto dargliene, che non gliene dovevo dare
più, abbiamo anche litigato... perché avevo il sospetto che lui parlasse per i soldi,
solo per i soldi, e non per me o per lei...» Alzò gli occhi: «Mi sbagliavo. Non era così.
Lui parlava proprio per lei e per me... forse tu non ci credi, anche a me era difficile
credergli... Ma era così. E quando l'ho capito... be', ho capito anche che aveva
ragione, e avrei avuto la forza di dire no a Sandra. E no è stato. Non le ho più dato
soldi fino a quel maledetto pomeriggio a casa mia...».
Il "brutto viaggio", pensai. Ci avevo tanto pensato sopra, e adesso non avevo
voglia di saperne più niente. Basta, era tutto talmente triste e talmente inutile e
vuoto.
Ma ormai lei era lanciata, chi la teneva più:
«I miei non c'erano, avevo fatto venire Giorgio e Sandra. Lei si era bucata come
al solito, ma aveva portato LSD e marijuana per noi due... roba leggera, diceva, solo
per compagnia, io ero più a terra del solito e ho voluto provare l'LSD, una dose
minima, solo per vedere... Anche Giorgio ha fumato marijuana, ma a lui non ha fatto
nessuno effetto...».
(Secondo me il Pingue faceva solo finta di fumare , disse dentro di me la voce
lontana di Sandra. Secondo me voleva solo godersi lo spettacolo. E spettacolo c'è
stato, infatti... Marianto ha dato letteralmente i numeri... )
«A me quella roba ha fatto un effetto bestiale» stava dicendo Marianto. «Prima
vedevo tutto bello e poi di colpo tutto è diventato orribile... Ho avuto anche una crisi
tipo isterica, non so... so che urlavo e che m'è venuto fuori tutto... della fissa di
essere brutta e di non essere amata da nessuno, e poi della cotta tremenda che
avevo e della gelosia... Se ci penso adesso... Dio santo, che vergogna! Ma del resto
Sandra te l'avrà raccontato» disse sogguardandomi in fretta. «A te diceva tutto...
Infatti da quel giorno mi vergognavo come una ladra ogni volta che ti vedevo...»
Gesù, pensai con un acuto desiderio di nascondermi da qualche parte: sta' a
vedere che la cotta tremenda l'aveva per me.
«Sandra non mi ha mai detto niente» risposi senza guardarla. «Non ti avrebbe
mai fatto una vigliaccata simile, lei.»
17.

«Dici sul serio, Stefano?» disse Marianto con una voce sottile. Di colpo sembrava
di nuovo sul punto di piangere. «Povera Sandra, povera Sandra... lo so che in fondo
era buona, lo so che era solo la droga a renderla così... Ma io avevo paura... Da quel
giorno, ogni volta che cercavo di rifiutarle i soldi faceva allusioni, mi punzecchiava,
mi lasciava capire che avrebbe potuto raccontare tutto a "lui"...»
Lui, pensai. Ha detto: "a lui", non "a te". Gesù ti ringrazio, io non c'entro. Mi
veniva quasi da ridere, mentre lei continuava affannata, quasi rabbiosa:
«Tu non puoi capire! Lo so che sembra idiota, e magari lo è, ma io avrei fatto
qualsiasi cosa purché "lui" non venisse a saperlo... L'idea di entrare in classe e
vedere i suoi occhi ironici che mi guardavano dalla cattedra e "sapevano"... cacchio,
mi sentivo male solo a pensarci».
Cattedra, occhi ironici... Gerli! Santissimo Gesù, sentite questa: la rude, spiccia,
drastica Marianto, che diceva parolacce peggio dei ragazzi e mollava sberle come
niente, la realistica Marianto innamorata a distanza del bel professore, come una
qualsiasi ragazzina esaltata e romantica... Ma è una ragazzina esaltata e romantica,
pensai guardando la sua buffa faccia da ranocchia chiazzata dalle lacrime. E sola, e
non capita... Be', s'era camuffata bene, se non altro. Ci aveva imbrogliato tutti per un
sacco di tempo. Con uno sforzo tornai in tema, chiedendo:
«E non avevi paura che fosse il Pingue, invece, a spettegolare in giro? Lui ci
sguazza, in queste cose».
«No, ti sbagli. Vi sbagliate tutti sul suo conto. Giorgio con me è stato...
meraviglioso, Non solo non ha detto una parola a nessuno, ma ha cercato di
aiutarmi. Sul serio. In tutti i modi... Anche per la storia di Sandra: lui non voleva che
le dessi soldi, si arrabbiava...»
Per un po' di soldi, disse dentro di me la voce di Sandra, il Pingue passerebbe sul
cadavere di chiunque...
«Litigavamo per questo» continuava Marianto. «Lui non voleva che mi lasciassi
ricattare, diceva che Sandra voleva solo spaventarmi... "Lascia che vada a battere,
piuttosto che farti sua complice" diceva. E non lo faceva per i soldi. Lo faceva per
me. Adesso lo so. Io lo credevo cinico e materialista, come del resto lui credeva
me... Ma dopo... dopo ci siamo capiti» sorrise debolmente nel dirlo, e debolmente
arrossì. Buffo, Marianto che arrossiva: e per il Pingue! Ma no, non era affatto buffo, in
fondo.
Avevo la testa confusa, e le rotelline in difficoltà.
«Dov'è adesso il Pingue?» chiesi con sforzo.
«È andato a parlare con Gerli. Gli deve delle spiegazioni... Vedi, lui ce l'aveva su
a morte con Gerli per... be', per causa mia, insomma. Gerli non ne aveva nessuna
colpa, d'accordo, ma lui era... era geloso» arrossi di nuovo. «E in più credeva che
avesse degli intrallazzi con Sandra... Così gli ha fatto dei brutti scherzi... molto
brutti.»
Risentii la voce di Gerli: Dicono che la vittima mi ricattasse... La mia versione è
che qualcuno voleva spaventarmi. O farmi degli, scherzi, se così vogliamo chiamarli.
O mettermi nei guai col preside, o farmi trasferire... Non so chi fosse questo
qualcuno, ma non certo la vittima, la quale era l'unica a sapere di che tipo fossero i
nostri rapporti extrascolastici... anche se forse si divertiva a ricamarci su, faceva
parte della sua autodistruzione. No, certo non era lei a ricattarmi, ma qualcuno che
credeva alle sue fantasie e che sapeva imitare la sua calligrafia e che ce l'aveva con
me per motivi suoi...
Anch'io avevo creduto alle fantasie di Sandra, anch'io sapevo imitare la sua
calligrafia, e anch'io ce l'avevo su con Gerli in quel periodo... E Gerli lo sapeva.
Avrebbe potuto supporre che ero io l'autore dei messaggi minatori, pensai adesso,
con un brivido di orrore retrospettivo. Ma Gerli non l'aveva mai supposto. Io non sono
uno che può fare delle cose come quelle... Magari posso ammazzare qualcuno, non
è escluso. Ma non scrivo lettere anonime, Gerli lo sa.
«Ma adesso Giorgio si è pentito da morire, e così ha deciso di andare subito a
raccontargli tutto.»
«Pentimento tempestivo» dissi, «Non sarebbe meglio dire che ha avuto paura?»
«Certo che ha paura! Ma non di Gerli! Il guaio peggiore è un altro...» si soffiò il
naso per l'ennesima volta e continuò angosciata: «È stato ieri, il guaio. Sandra era a
secco e chiedeva soldi a tutti...» (era vero, li aveva chiesti anche a me ed era stato
terribile) «ma soprattutto con me insisteva da morire, io a dire di no e lei a insistere, a
insistere... Non ne potevo più. Mi ha perfino detto che se le davo i soldi lei in cambio
mi avrebbe dato un pegno... figurati cosa me ne fregava a me del pegno, e anche dei
soldi... ma lei non voleva capire».
«Che pegno?» chiesi.
«Ma, non so, non la stavo neanche a sentire... Mi pare che parlasse di un gioiello,
una cosa che era stata di sua madre, diceva che me l'avrebbe portata stamattina e
me l'avrebbe data in pegno se io...»
«Una spilla?» chiesi, il respiro sospeso.
«Sì, mi pare... una spilla o qualcosa del genere. L'ha offerta anche a te?».
«No» dissi, le labbra improvvisamente secche. La spilla. La spilla di cui parlava
Roberta. La spilla scomparsa. Come, quando, perché? Le rotelline andavano,
andavano: mi sentivo in testa un rumor di ferraglia. «Va' avanti» dissi.
«Be', naturalmente io ho rifiutato, non volevo pegni di sorta, non volevo più farmi
sua complice in nessun modo e chiuso, ma lei non capiva e insisteva, e io ho
continuato a dire no, no, no in maniera sempre più rude, anche perché c'era Giorgio
che ci sorvegliava, non volevo neanche più che lei mi venisse vicina... "Basta, m'hai
rotto l'anima", sono le ultime parole che le ho detto. Oh, Stefano, vorrei non
avergliele dette. Credimi, vorrei...»
«Va' avanti» dissi.
«Siccome non riusciva più a parlarmi, durante l'assemblea mi ha mandato un
biglietto.»
«Aiutatemi vi prego aiutatemi » dissero le mie labbra secche.
18.

Marianto alzò gli occhi:


«L'hai visto anche tu? Io no, l'ha intercettato Giorgio. E le ha risposto lui, sul retro
dello stesso foglio. Io non ne ho saputo niente fino a stamattina...».
«Che cosa le ha risposto, il Pingue?» chiesi.
«Che la smettesse di ricattarmi con quella storia, che mi lasciasse in pace una
volta per tutte, se no l'avrebbe avuta a che fare con lui. Che lui sapeva molte cose di
lei e del suo fornitore, e che se non la smetteva sarebbe finita molto male.»
«Conosceva il suo fornitore?» chiesi adagio.
«Ma no, era tutto un bluff... Voleva solo spaventarla. Farla smettere una volta per
tutte. Per questo ha scritto quelle cose. Ha visto Sandra leggere la sua risposta e
scarabocchiarci rabbiosamente sopra e poi ficcarsela nella borsa... Questo ieri
pomeriggio tardi. E stamattina Sandra era morta. E aveva quella stessa borsa... Non
capisci, Stefano? Giorgio è in un guaio grosso... Se la polizia ha preso quel biglietto,
può fraintendere le minacce e sospettare lui come assassino... E se invece il biglietto
l'ha preso l'assassino, può pensare che Giorgio sa molto di più di quello che in realtà
non sappia, e sentirsene minacciato, e allora... E allora Giorgio è in pericolo,
Stefano! abbiamo paura... Capisci, adesso?...»
Capivo solo che tutto il mio rancore mi stava cadendo di dosso, lasciandomi
come nudo: libero, ma anche inerme. Eravamo solo dei ragazzini, tutti quanti.
Tirai fuori quel tribolato foglietto e lo porsi a Marianto :
«Non l'ha preso la polizia» dissi. «L'ho preso io.»
Spalancò gli occhi, afferrandolo:
«O porco diavolo» diceva con voce strozzata, ridendo e piangendo. «O porco
diavolo, l'avevi preso tu... Sei un amico, Stefano.»
Mica tanto, pensai con vergogna. Mica tanto.
«A rigor di logica,» dissi «potrei anche essere l'assassino.»
«Ma va' in quel posto!» disse con la voce brusca di sempre.
Il suo sorriso fu un'altra trafittura. Tutti si sono sempre fidati di me, pensai:
nessuno di loro ha mai avuto l'ombra di un dubbio sul mio conto. E io invece ho
diffidato di tutti, li ho sospettati, mal capiti, a volte detestati — l'amore per Sandra mi
ha deformato la vista. Con una sensazione cocente di colpa e insieme di sollievo,
alzai gli occhi verso le fotografie sui muri. I ricordi tornavano intatti al loro posto, il
liceo riprendeva la sua fisionomia e il suo senso. Non era più una mostruosa gabbia
piena di agguati, di corruzione e di morte, era di nuovo il mio vecchio, scassato,
contestato, amato liceo di sempre: con le sue cose giuste e le sue cose sbagliate,
come ogni liceo e ogni posto e ogni persona.
Solo che non c'era più Sandra.
Rimanevano le sue fotografie, e questo stupore, e questa voglia di piangere.
Perché anch'io piango, qualche volta: quando sono solo. Adesso non lo ero.
Il campanello d'ingresso suonò.
«Vai tu!» gridò la voce di mia madre dallo studio: era ancora al telefono.
Andai ad aprire. Erano il Pingue e Gerli. Il Pingue nervoso, Gerli flemmatico come
sempre.
«Quante visite, oggi» dissi stupidamente.
«Facile che ne vengano delle altre» disse Gerli. «È la regola dei gialli
tradizionali : i protagonisti riuniti nell'ora della verità.»
L'ora della verità sembrava ancora molto lontana, pensai. O forse no? Forse era
vicinissima, ci stava già sfiorando e ancora non lo sapevamo. Rabbrividii. Dovevo
essere molto stanco.
Entrammo in camera mia. Marianto tese subito il foglietto al Pingue, col gesto di
chi regge una reliquia. Gli occhi del Pingue per poco non cascarono fuori dagli
occhiali. Aprì la bocca ma nessun suono ne uscì.
«L'ho trovato stamattina nella borsa di Sandra» dissi.
Mi guardò ancora un momento a bocca aperta, poi finalmente ricuperò la favella:
«Maledizione, ho passato delle ore d'inferno! Perché non me l'hai detto subito
che l'avevi tu?».
«Sandra ci aveva scarabocchiato sopra: non avevo capito che l'avessi scritto tu.»
Era quasi la verità.
Il Pingue afferrò il biglietto e lo fece in minutissimi pezzi. Così andò in pezzi,
senza suono, anche l'ultimo, inutile appello di Sandra: Aiutatemi vi prego aiutatemi .
Mi sentivo di nuovo molto male.
«Giuro che non scriverò mai più un bigliettino in vita mia» disse il Pingue con
fervore. Diede un'occhiata di sfuggita a Gerli, che disse tranquillo:
«Ottimo proposito», e fu tutto. Ma io ricordai dì nuovo le sue parole di poche ore
(ore?) prima: Qualcuno ce l'ha con me e vuol mettermi nei guai. Non so chi sia
questo qualcuno... Be', adesso sapeva chi era. Lo sapevo anch'io. Lo sapevamo
tutti.
Girai gli occhi sul Pingue, che adesso si stava guardando le scarpe con aria
infelice. Il caustico, astuto, pericolosissimo Pingue, eccolo lì: un ragazzino frustrato,
malignetto, pieno di complessi fin qui, come Marianto del resto. Se adesso si
mettono in coppia come sembra, pensai, speriamo che i loro complessi si elidano,
perché se invece si sommano, sai che casino.
Come se avesse intuito i miei pensieri (eravamo di nuovo in contatto) Gerli mi
sorrise, stringendosi nelle spalle: non ci resta che sperare, diceva quel sorriso. Poi
cambiò espressione:
«Noi stiamo qui a cianciare, come direbbe il preside, e intanto l'assassino è
ancora in libertà».
«Sembra proprio di no» disse la voce di mia madre. Stava entrando col carrello
delle bibite e un'aria di controllata eccitazione. «Hanno arrestato Giussani»
annunciò. Molto soddisfatta di sé, pareva.
«Arrestato per assassinio?» chiese Gerli con voce incredula.
«La notizia non è ufficiale» disse mia madre. «Ma sembra che ci sia un teste
oculare. Gigi Scanferla sa anche chi è, ma non può dirlo. Comunque Giussani è
stato prelevato al liceo e portato in centrale.»
«Con le manette?» chiese il Pingue eccitato.
19.

«È un particolare che non ho chiesto» si scusò mia madre con un breve sorriso.
«Ad ogni modo tra poco ci sarà in edicola il giornale col servizio di Scanferla, le
fotografie e tutto.»
Giussani arrestato. Giussani assassino? Ma dai! E chi cavolo era questo teste
oculare che saltava fuori dal nulla al momento buono? Non mi girava giusta, ecco.
Dalle facce degli altri, più ancora che dai loro disorientati commenti, mi sembrava
di intuire che non girava molto giusta neanche a loro. Solo mia madre sembrava
aliena da ogni dubbio: con aria efficiente, si dava un gran da fare a stappare bottiglie
e bottigliette e dar da bere a tutti.
«Che cosa festeggiamo?» le chiesi. «Il tuo assassino assicurato alla giustizia?»
Lei smise di sorridere.
«Non intendevo festeggiare» disse, scostandosi la ciocca rossa dalla fronte.
«Pensavo solo che aveste sete.»
«Certo che abbiamo sete» disse Gerli con un sorriso incoraggiante.
Ma lei non lo ricambiò. Distribuì in giro i bicchieri con aria assente, gli occhi quasi
completamente verdi. Così mi accorsi che non era affatto sicura e tranquilla come
sembrava. Cercava di darla a intendere, ma aveva ancora paura. Di che cosa?
Poco dopo, annunciato da una scampanellata da giudizio universale, arrivò Dario
esaltatissimo, sciarpa in agitazione, un pacco di giornali in mano.
«Cacchio, hanno preso Scattare!» gridò distribuendo in giro le copie. «Guardate
che roba, cacchio!»
Le foto mi fecero un effetto bestiale. C'era la barella che portava via Sandra sotto
il lenzuolo. C'era la facciata del liceo, così familiare, con gli agenti davanti. C'era la
facciata interna, con la porta posteriore della palestra indicata da una lugubre freccia.
C'era il preside che parlava con dei giornalisti (mi sembrava di sentire le sue nasali
geremiadi di educatore integerrimo colpito a tradimento nell'esercizio delle sue
funzioni). E c'era Giussani che scendeva la gradinata tra due agenti, il braccio alzato
a ripararsi la faccia dai fotografi.
Anche i titoli erano bestiali: si sa come sono i giornali del pomeriggio, BELLISSIMA
STUDENTESSA ASSASSINATA NELLA PALESTRA DEL LICEO in caratteri alti mezzo metro. E poi:
ARRESTATO UN INSEGNANTE, LA VITTIMA ERA UNA TOSSICOMANE. NELLA DROGA IL MOVENTE DEL DELITTO?
NON SI ESCLUDE IL MOVENTE PASSIONALE. E COSÌ via.
E io che m'ero preoccupato, povero idiota, di buttare via la siringa. Pensai al
maresciallo Biagi, alla sua faccia grigia ai suoi occhi grigi alla sua divisa grigia, e alla
sua voce lontana che diceva: Meglio morire che infangare questa divisa . Lui aveva
un sacco di colpe, ma non potevano risparmiarlo, povero cristo? Naturalmente no,
non potevano. C'era un assassino di mezzo, e c'era uno spacciatore. Due assassini.
Se ci aggiungevamo un padre ottuso, facevano tre assassini.
Intorno a me i ragazzi, immersi nei giornali, si scambiavano ogni tanto opinioni e
commenti..
«Vorrei proprio sapere chi cacchio è questo teste oculare! E che cacchio ha
osculato!» Dario era molto insospettito. «Nessuno dice un cacchio! Magari se lo sono
inventato per incastrare Giussani... Ma perché?»
«La trama nera» suggerì tenebrosamente il Pingue.
Dario non afferrò l'ironia (mai una volta che l'afferri). Per un momento considerò
con serietà estrema la trama nera. Poi, suo malgrado, scosse la testa.
«Sandra non faceva politica... E neanche Giussani: era solo un pirla... Ma allora,
dove cacchio sta 'sto movente?»
«Ci siamo sbizzarriti su un sacco di moventi falsi» disse Gerli. «Potrebbe esserci
sfuggito il movente vero.»
La spilla?, pensai. Possibile che l'abbia ammazzata per una spilla? Giussani? Ma
dai!
«Non era un tipo violento» rifletté il Pingue, «Irascibile, ma non violento. Piuttosto
un pavido, direi.»
«Pavido!» La parola sembrava molto buffa a Dario. «Era un cagasotto, ecco
cos'era! Vi ricordate quella volta del golpe?»
Fu come un tuffo in un altro mondo, in un'altra storia, in un'altra epoca. Gesù,
possibile che fosse passato solo un anno? Era stato nel febbraio scorso, durante
quella inenarrabile gita scolastica a Bormio per le gare di sci del liceo: patrocinate da
Giussani, ovviamente. Lui era il deus ex machina della situazione: allenatore, arbitro,
cronometrista, e chaperon. Chiaro che gliene avevamo fatte di tutte. Ma il culmine
era stato la sera del sabato, in albergo: durante la cena, Dario era furtivamente
penetrato nella camera-con-bagno di Giussani e aveva sistemato un potentissimo
petardo (preparato dal Pingue) nella cassetta del water: così quando verso
mezzanotte, dopo grandi discorsi sciistici e congrue bevute, Giussani era andato in
bagno prima di coricarsi e aveva tirato lo sciacquone, l'albergo intero era stato
scosso da una detonazione immane. Mentre tutti i clienti si affacciavano allarmati nei
corridoi e noi ci buttavamo via dal ridere dietro le nostre porte socchiuse, («il golpe! il
golpe!» gridava il Pingue con voce acuta) Giussani era zompato fuori dalla sua
stanza senza neanche allacciarsi il pigiama e dopo alcune grida inintelligibili s'era
accasciato in mezzo al corridoio, dando di stomaco sulla passatoia rossa. Parola.
Una cosa storica. Poi, appena s'era un po' rimesso e s'era visto intorno le nostre
facce falsamente impietosite aveva afferrato l'idea. Drizzandosi in tutta la sua mole,
con la faccia paonazza e il dito teso, aveva cominciato a urlare: «Dario Pizzi! Figlio di
un cane!» e noi tutti a latrare.
Be', il giorno dopo se n'era già dimenticato; pensava solo alle finali, all'agonismo,
ai suoi giovani baldi campioni. I quali, essendosi per metà sbronzati durante la notte,
avevano fatto delle finali una cosa ignominiosa, brancolando sulle piste come
fantasmi, scontrandosi e cadendo di continuo, usando i paletti dello slalom come
giavellotti e così via. Ma lui ci aveva perdonato anche quello. C'era una fotografìa, lì
sul muro della mia stanza, che lo eternava, completo di giacca a vento, berretto di
lana e sguardo fiero, in mezzo ai suoi stralunati e sghignazzanti campioni.
Tutti stavamo guardando quella foto, adesso. E tutti ne distogliemmo lo sguardo
con un senso di incredulità e di disagio.
«Figurati se quello lì è capace di ammazzare qualcuno» borbottò Dario. «Gli sbirri
avranno fatto uno dei loro soliti casini.»
Il mio telefono squillò.
20.

«Stefano,» disse la voce di Roberta «mio padre ha visto i giornali. Sta venendo
lì... Vuole parlare con tua madre, credo. Non ha voluto che venissi anch'io.»
«Perché?»
«Non lo so, non lo so! Io volevo venire, ma lui...» Si interruppe, la voce cambiò:
«Stefano, senti... credi che sia vero quello che dicono i giornali?»
«Non so» risposi. «Non ho mica letto tutto.»
«Ma quel professore... credi che sia stato lui?»
«Non lo so» dissi di nuovo. «Non ci credo molto.»
Silenzio.
«Pronto?» dissi.
«Sì, sono qui... Stefano, perché non ci credi?»
«Perché non era il tipo... ma potrei sbagliarmi. E perché non c'era un movente...
ma potrei sbagliarmi anche qui. Comunque non ci credo molto» ridissi.
Di colpo si mise a parlare in fretta, affannosamente:
«Stefano, senti, la cosa che ti ho detto stamattina... la cosa della spilla... be', non
era vero niente! M'ero sbagliata, capito?».
Mentiva malissimo. Si faceva capire lontano un miglio. Non dissi niente.
«Stefano, hai sentito?» fu quasi un grido. «Dimenticati quella storia! La spilla è
sempre stata qui. Ero io che non avevo guardato bene. Prometti che non ne parlerai
con nessuno! Giura!»
Continuavo a non capire. Ma ascoltarla mi inteneriva. Prometti, giura... una
bambina. Mi pareva di rivedere la ragazzina di due anni prima, rannicchiata sulla
prua della barca, con la faccetta pallida segnata dall'acne, e gli occhi celesti infelici.
Mi venne, improvviso, un desiderio fortissimo di aiutarla, di proteggerla: ma da che
cosa e in che modo? Non capivo niente, non potevo far niente. Non adesso. Risposi
soltanto:
«Va bene: giuro». Pianissimo, per non farmi sentire dagli altri. Riagganciai e dissi
a mia madre: «Era Roberta. Sta arrivando qua il maresciallo Biagi. Vuole parlare con
te».
«Oh, mio Dio» mormorò mia madre sgomenta, una ruga sottile tra le sopracciglia.
«Io non... io non saprò cosa dirgli.» Girò gli occhi su Gerli : «Resti con me?».
Lui si alzò lentamente, sorridendole solo con gli occhi: «Certo che resto con te»
rispose con gravità. «Ogni volta che vuoi.»
Lei respirò profondamente e si scostò la ciocca dalla fronte. Sembrava più che
mai una ragazza. Mi chiesi da quanto tempo si amavano, e quanto le era costato
rinunciare a parlare di lui con me, rinunciare a lui per me, e quanto tutti e due
dovevano aver sofferto, tacendo, per le mie fìsime di ragazzino idiota. Mamma, avrei
voluto dirle adesso, anch'io ti amo. Solo che ti amo come un figlio. Sono contento
che lui ti ami come un uomo.
Mai le avrei detto una cosa del genere. Ma I'importante è saperle, le cose.
«Sarà meglio che andiamo nel tuo studio, Giuliana» disse Gerli a mia madre,
«Questa stanza è già troppo gremita. E non credo che il maresciallo Biagi sarebbe
entusiasta di trovarsi in mezzo a tutti questi ragazzi. Su, vieni.»
«Sì» disse mia madre. Aveva un'aria smarrita. Mettendole la mano sul braccio,
Gerli la guidò nello studio.
«Chi è Roberta?» chiese Dario.
«La sorella minore di Sandra» risposi.
«Mai saputo che avesse una sorella» disse il Pingue.
«Stava sempre in collegio».
La tiene in collegio perché ha paura che io la guasti , diceva Sandra. S'era
provato a mettere in collegio anche me, quando ero più piccola, ma ha dovuto
rinunciarci presto: scappavo sempre. Prima scappava perché non poteva star
lontana da sua madre, e dopo perché non poteva restar lontana da lui, nonostante
tutto. Quel che suo padre non aveva mai capito, e forse neanche Sandra stessa, era
che lei lo amava: lo amava col rancore, la rabbia, il dolore di chi si sente respinto.
Forse anche lui la amava così.
«Le somiglia?» chiese la voce di Marianto.
«Chi?» dissi. Ero andato molto lontano di lì.
«La sorella: somiglia a Sandra?»
«No» dissi. «E tutta diversa. Non sembra neanche sua sorella. A parte la voce.»
«Non è bella?»
«Non lo so» dissi, improvvisamente infastidito. O intimidito? Boh! So che non
avevo voglia di parlare di Roberta. Non adesso, non così.
Il campanello d'ingresso suonò, e andai ad aprire.
Per un momento quasi non lo riconobbi: s'era messo in borghese. Un soprabito
scuro, antiquato, in mano un cappello nero. Sembrava così spaesato, indifeso senza
la divisa. Forse la riteneva infangata, per questo non se l'era messa.
Non disse una parola, né la dissi io. Gli presi il soprabito e il cappello, li appoggiai
in anticamera e lo accompagnai nello studio. Chiusi la porta alle sue spalle e tornai in
camera dai ragazzi.
Dario stava guardando fuori dalla finestra, la sua coca cola in mano, mentre
Marianto diceva:
«Aveva ragione Gerli, prima: i protagonisti riuniti nell'ora della verità, come nella
miglior tradizione gialla...».
«Qui mancano i personaggi più importanti» disse il Pingue.
«Chi?» chiese Dario con la sua consueta sveltezza di mente. «Il preside?»
«Sai com'è importante il preside!» lo schernì Marianto.
«Mancano» gli spiegò il Pingue «l'investigatore e l'assassino.»
Dario scrollò le spalle:
«Se vuoi dire lo sbirro e Giussani...» si interruppe di botto, gli occhi sbarrati verso
la finestra, il dito puntato sulla strada: «Cristo, lo sbirro!» esalò. «Sta venendo qua.»
«Allora» disse il Pingue «ci dovrebbe esser anche l'assassino...»
Doveva essere uno scherzo, ma nessuno rise.
21.

«Chiedo scusa» disse il commissario, quando gli aprii la porta. Era senza
cappello e aveva l'aria stanca. «Ero andato dal maresciallo Biagi per riferire... Sua
figlia mi ha detto che era qui.»
Fece un gesto alle proprie spalle: Roberta stava dietro di lui. Aveva lo stesso
maglione informe del mattino, gli stessi lisci capelli castani divisi in mezzo tipo
madonna, gli stessi timidi ma anche caparbi occhi celesti. «Ha voluto venire anche
lei» sospirò il commissario, entrando. «Non è una visita ufficiale, comunque...»
Passando davanti alla mia stanza si fermò un momento sulla soglia. I ragazzi
erano in piedi, le facce serie, tese. Guardarono lui, poi Roberta, poi ancora lui. Il
commissario agitò una mano: «Comodi, comodi» disse, con quella traccia di sorriso
in fondo agli occhi scuri. Uno sbirro a cui piacciono i ragazzi, pensai. Non avrei
creduto che ne esistessero, di questi tempi. «Non sono venuto per farvi domande...
In verità ne avrei voglia. Ma non ho molto tempo. Sarà per un'altra volta.» Il sorriso
scomparve. «Non vuoi stare di qui coi ragazzi?» chiese a Roberta.
Lei scosse la testa. «Voglio stare col papà.» Una frase infantile, un tono materno.
Lui si strinse nelle spalle, «Allora vieni anche tu» mi disse: non era un ordine,
però. «Lascia un po' i tuoi amici a divertirsi con tutti quei giornali...» Di nuovo il
sorriso apparve e scomparve. «Non credo che sarà una cosa lunga.»

Non fu una cosa lunga. Fu fin troppo breve.


Seduto in una poltrona nello studio, un mezzo bicchiere di whisky davanti, il
commissario ripeté: «Non è una visita ufficiale. Ma mi è sembrato doveroso
informarvi...» fece una smorfia impaziente. «Il professor Giussani ha confessato.»
Ci fu un momento di silenzio assoluto. Poi, guardando con apparente antipatia il
proprio bicchiere, il commissario continuò: «Se le cose non fossero precipitate,
sarebbe stato comunque arrestato molto presto. Come spacciatore».
Gesù, pensai. Era Giussani, lo spacciatore. Lo è sempre stato, in tutto questo
tempo... è possibile? Tanti piccoli fulminei flash back mi traversarono la testa.
Sì, era possìbile. Non era neanche così difficile da capire. Solo che non ci avevo
pensato. Il "mio" assassino, non quello che l'aveva strangolata, ma quello che aveva
assassinato Sandra giorno su giorno per pochi luridi soldi... Giussani! Il nostro
zimbello, quel povero pirla di Giussani...
«Era un pesce piccolo, naturalmente» disse Cri- scuoio con amarezza. «Ma
speravamo, sorvegliandolo, di...»
«E intanto lasciavate che continuasse a insegnare in un liceo, in mezzo ai
ragazzini?» disse bellicosamente mia madre.
«Signora,» disse seccamente il commissario «lei fa il suo mestiere, noi facciamo
il nostro. Ci pensiamo anche noi, ai ragazzini. Anche se non lo scriviamo sui
giornali.» La voce si abbassò. «Abbia pazienza, signora: sono molto stanco. Capita
che anche gli sbirri abbiano un sistema nervoso: non sempre totalmente di ferro.»
«Mi scusi» disse lei, sinceramente. Mia madre è impulsiva, ma anche obiettiva.
«Non la interromperò più» promise. E mantenne.
«Prendere subito un pesce piccolo può significare a volte perderne due o quattro
o dieci più grossi» disse Criscuolo. «Comunque io non mi occupo di droga. Io sono
della squadra mobile. E mi sto occupando di un omicidio.» Sospirò. «Per nostra
fortuna, se così vogliamo dire, Giussani ha fatto un sacco di fesserie, stamattina:
fesserie tipiche del soggetto. Ma in sostanza, che cos'avevo contro di lui? Sapevo,
pur senza prove definitive, che era uno spacciatore: il che non significava affatto che
fosse un omicida. Sapevo anche che aveva pasticciato con gli indizi» (qui mi diede
un'occhiata) «accendini e altro: ma questo significava solo che era spaventato e che,
avendo la coda di paglia per la droga, cercava di confondere le tracce, così a
vanvera... Mi chiedevo: perché, se l'ha ammazzata lui, non ha pasticciato gli indizi
subito dopo il delitto? Perché aspettare l'annuncio di Stefano per tornar giù in
palestra a fare imbrogli idioti?»
Io guardai mia madre: era la stessa domanda che le avevo fatto io poche ore
prima. E la risposta sembrava la stessa: perché non l'ha ammazzata lui
«Tutto questo, unito al carattere del soggetto mi lasciava molto in dubbio»
continuò Criscuolo. C'era la strana scomparsa della chiave, è vero: ma non c'erano
prove di sorta che fosse stato lui a farla scomparire. E poi, perché l'avrebbe fatto? SÌ
sarebbe tirato addosso ancor più sospetti. Come lui stesso mi ha fatto giustamente
notare. No, non avevo molto contro di lui. O meglio, non avrei avuto molto, se non
fosse saltato fuori il teste oculare» Mi lanciò un'altra breve occhiata, vagamente
divertita stavolta. «Si tratta di un nostro informatore, e a volte informatore anche dei
cronisti: un balordo che ci era già stato utile per individuare Giussani come probabile
spacciatore, uno che sta sempre a bighellonare attorno al liceo per motivi suoi...»
Gesù, pensai folgorato, il guardone! Il "nostro" guardone, un informatore della
polizia... Quando lo sa Dario gli viene un colpo.
«Stamattina,» continuava Criscuolo «questa persona, che teneva d'occhio
Giussani, l'ha visto allontanarsi di furia dalla porta posteriore della palestra, all'ora
presumibile del delitto. Con questa testimonianza, incastrare quel disgraziato è stato
facile.» Fece una smorfia di disgusto. «Fin troppo facile. Giussani non è un
delinquente incallito. È un ometto meschino, complessato, molto solo, che è arrivato
a questo traffico di recente, per una forma quasi di rivalsa, dopo tutta una serie di
frustrazioni. Tra l'altro si sentiva perseguitato dagli studenti e roba del genere...
Intendiamoci: furbo alla sua maniera. Ma anche stupido. Davanti al sospetto di
omicidio, è andato letteralmente in pezzi. Ha sputato fuori anche l'anima. Ormai
sappiamo tutto. Quasi tutto.»
Finì di bere e appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolino.
«Maresciallo Biagi,» chiese senza alzare gli occhi «lei sapeva che sua figlia si
drogava?»
22.

Il maresciallo si passò la lingua sulle labbra :


«Ero stato messo sull'avviso, tempo fa...». Diede un'occhiata a mia madre e a
Gerli, poi tornò a guardare il vuoto. «Ma non volevo crederci... sarebbe stata una
vergogna troppo grande. E poi non mi sembrava possibile. La ragazza era ribelle,
indisciplinata, insolente, ma appunto per questo io la facevo filare, la sorvegliavo, le
controllavo ogni passo si può dire... Non le ho mai permesso di uscire di sera, mai
una volta. Se non era a casa era a scuola. Non credevo possibile che al liceo... Non
potevo crederci. Non ci ho mai creduto, fino a...»
«Fino a stamattina» disse per lui il commissario. «Credo di sapere come è
andata.» Sospirò e riprese, controvoglia: «Sappiamo che ieri Sandra era alla ricerca
disperata di droga. Sappiamo che Giussani gliel'aveva negata più volte: primo
perché sapeva che non aveva soldi per pagarla, secondo perché cominciava a
sentirsi sospettato: dagli studenti, credeva. Non sapeva di essere sospettato dalla
polizia. Sandra ha insistito disperatamente, gli ha anche offerto come pegno un
gioiello, una cosa che valeva molto più dei soldi, diceva... Ma lui ha rifiutato. L'ha
lasciata a secco». Alzò gli occhi tristi, rabbiosi: «Quella povera ragazza deve aver
passato una notte d'inferno. Tu dormivi con lei, Roberta, non ti sei accorta di
niente?».
«Stava male» mormorò Roberta. «Ha preso dei tranquillanti e poi dell'altra roba...
non droga vera... aveva un bottiglino di quell'altra roba nel cassetto, s'è bucata con
quello, ha anche sporcato di sangue per terra, ho lavato io perché il papà non si
accorgesse... E dopo lei è venuta nel mio letto a piangere.» Adesso le lacrime le
scendevano agli angoli degli occhi celesti e lei le asciugava rabbiosamente,
continuando a parlare: «Mi teneva abbracciata e piangeva e chiamava la mamma...
E io non sapevo cosa fare, sapevo solo dirle: "zitta, zitta, se no ti sente il papà..."».
Adesso anche sulla faccia del maresciallo scendevano le lacrime, senza che lui
le asciugasse, senza che se ne accorgesse: stava lì con quegli occhi grigi spalancati,
privi d'espressione, e le lacrime venivano giù come se fossero di un altro.
«Poi ha preso ancora dei tranquillanti e alla fine, erano quasi le quattro, si è
addormentata» continuava Roberta. «E anch'io. Ma stamattina quando mi sono
svegliata lei non era già più in camera, e...»
«E ha telefonato a Giussani» disse il commissario. «Ce l'ha detto lui. Gli ha
telefonato al mattino presto e gli ha dato appuntamento in palestra: lei aveva preso la
chiave il giorno avanti... non era la prima volta. Gli ha detto che gli avrebbe portato
quel gioiello, e che se lui non veniva con la roba lei avrebbe detto la verità a Stefano
e a tutti, avrebbe detto che era lui il suo fornitore, quello che l'aveva portata dall'LSD
all'eroina... Forse era un bluff, e forse no: comunque Giussani ha avuto paura. E
andato all'appuntamento. Ma, stando a quel che dice lui, non ha potuto entrare in
palestra dalla porta posteriore: era chiusa a chiave e. la chiave non c'era. Lui ha
guardato dentro da una finestra, ha visto Sandra per terra e si è allontanato di furia,
entrando subito dopo dalla porta principale del liceo. Così lui dice: e il nostro
informatore lo conferma: ha visto Giussani tentare la porta, poi guardar dentro dalla
finestra e venir via di corsa. E a questo punto ci fermiamo. Sandra deve essere
arrivata con la spilla. Ma la spilla non è saltata fuori. Stefano non l'ha trovata, noi non
l'abbiamo trovata...»
Sentii gli occhi celesti di Roberta su di me. «Forse Sandra non l'aveva. Forse
aveva cambiato idea» dissi, senza crederci.
«E così!» disse disperatamente Roberta. «La spilla è al suo posto, è sempre stata
al suo posto! Perché non me l'ha chiesto, quando è venuto a casa?» disse al
commissario. «Gliel'avrei fatta vedere!»
«Sono convinto che la spilla è al suo posto, adesso» disse il commissario,
tristemente. «Ma tu sai bene che stamattina non c'era, vero, Roberta?»
«La lasci stare, commissario» disse la voce del maresciallo. «Lei non c'entra.»
«Lo so» disse il commissario. Senza alzare gli occhi, come se gli ripugnasse
andare avanti, chiese: «Maresciallo Biagi, lei aveva sentito quella telefonata,
stamattina?».
«Sì» disse il maresciallo.
«Ha sentito che sua figlia voleva dare la spilla di sua madre in cambio di un po' di
droga?»
«Sì» disse ancora il maresciallo.
«E che cos'ha fatto, dopo?»
Il maresciallo cominciò a parlare con una voce atona, indifferente, come se
raccontasse la storia di qualcun altro:
«Subito dopo la telefonata Sandra è uscita di corsa, io ho guardato nel cassetto e
ho visto che la spilla non c'era più. Ho preso un taxi e sono andato al liceo. Quando
ho visto Sandra che girava l'angolo, le sono andato dietro. Lei ha aperto con la
chiave, ci ha messo un po' di tempo perché le tremavano molto le mani... Siamo
entrati insieme. Lei non voleva darmi la spilla. Lei...» la voce cominciò ad alzarsi di
tono, divenne gradatamente affannosa: «lei che era il ritratto vivente della mia
povera moglie, era lì davanti a me in quello stato... drogata e ladra... Mia figlia! L'ho
presa per il collo: la scrollavo, e lei tremava e piangeva e diceva: "ammazzami, oh
papà ammazzami una buona volta, ammazzami, ammazzami...".» Chiuse gli occhi, li
riaprì. «Io non volevo. Volevo solo portarle via la spilla, portarla via di là, e farla stare
zitta... Ma quando è stata zitta era morta.» Si guardò le mani, mani vecchie, con le
vene rilevate. «Dovevo essere stato io. Non mi sembrava di aver stretto tanto... Ma
lei era morta. Ero stato io. Non so bene cosa ho fatto dopo... cioè sì, lo so. Ho
pensato alla divisa, ai miei superiori, e ho pensato a quest'altra mia figlia...»
Roberta gli si inginocchiò davanti, come già aveva fatto quel mattino e lo circondò
con le braccia, in silenzio.
Lui continuò a parlare carezzandole goffamente i lisci capelli castani. «Così mi
sono messo in tasca la spilla, ho chiuso a chiave la palestra, ho messo in tasca
anche la chiave, e sono andato via. All'angolo ho incontrato quel professore... ma
non sapevo che fosse lui. Ho preso il tram e sono andato in caserma, come tutti i
giorni. Dopo siete venuti voi della polizia a prendermi. Tutti erano gentili con me. Non
mi pareva... non mi pareva di essere stato io. Ma ero stato io.»
Si frugò in tasca e appoggiò sul tavolinetto una chiave. Grossa, vecchia,
arrugginita, la chiave della palestra.
«Più tardi, quando sono andato a casa, ho rimesso a posto la spilla. Poi... nel
pomeriggio ho visto i giornali. Allora sono venuto qui. Avevo bisogno di parlarne con
qualcuno. Ancora non mi pare di essere stato io. Ma sono stato io. Dovevo dirlo, solo
che non ci riuscivo. Ecco, adesso ho finito.»
«Non ti faranno niente, papà» mormorò Roberta, e sembrava di nuovo una
mamma che rassicura un bambino. «Non aver paura, papà.»
Dopo un momento, in tono avvilito, il dottor Criscuolo disse:
«Maresciallo, le dispiacerebbe venire con me alla Centrale?».
Sembrava quasi che il colpevole fosse lui.
23.

Così è finita la storia. Non credo di averla raccontata molto bene, tutto sommato.
Non sono un gran che come giallista. E neanche come investigatore: non ne ho
azzeccata una.
Comunque questa storia, con tutto il male che mi ha fatto, mi ha insegnato un
mucchio di cose, credo. Sui ragazzi e sui grandi. Sui genitori e sui figli. Sui professori
e sugli allievi. Sui poliziotti, anche. E sull'amicizia. E sull'amore. E sulla solitudine. E
sulla pietà. E su altre cose che non saprei spiegare adesso.
I genitori di Marianto (l'avreste mai detto?) si sono offerti di pagare la cauzione
per la libertà provvisoria. E l'avvocato del padre di Dario, che ha assunto la difesa del
maresciallo, spera di fargliela ottenere. Dice che sosterrà la tesi dell'omicidio
preterintenzionale, e che il maresciallo avrà comunque una condanna molto blanda:
lo difende lui, che diavolo!
Roberta non è più andata in collegio. Per ora frequenta una scuola privata e
l'anno prossimo si iscriverà a un liceo pubblico, qui a Milano. Vuole stare vicina a suo
padre. Intanto lo va a trovare continuamente in carcere. Dice che è tranquillo. Che
piange molto, adesso, ma che è tranquillo. Forse sta solo piangendo le lacrime che
non ha pianto prima, quando stava perdendo sua figlia e voleva ignorare la realtà per
evitare il cosiddetto disonore. La cosiddetta opinione pubblica, comunque, non lo
ritiene affatto disonorato. Non è che dicano che ha fatto bene ad ammazzare sua
figlia (c'è anche qualche stronzo che lo dice: ma non di fronte a me). In genere
pensano che bisogna compatirlo. Povero uomo, dicono, era fuori di sé.
Ma prima?, dico io. Quando parlava di disciplina e faceva lo struzzo e lasciava
che Sandra si distruggesse sotto i suoi occhi giorno su giorno?
«Di questo,» dice mia madre «siamo colpevoli tutti.»
È vero: questa è la morale della storia, così come la vedo io. Siamo tutti colpevoli.
E tutti vittime.
«E allora,» dice Gerli «bisogna pur perdonarsi in qualche modo.»
Ma non dimenticare.
Io ho perdonato. A me stesso. Agli altri. Non ancora del tutto a Giussani.
Neanche la cosiddetta opinione pubblica gli ha perdonato, si sa. Il fellone della storia
rimane sempre lui, anche se sbiadisce di settimana in settimana. Certe volte mi
vengono in mente le parole del commissario: "Un ometto meschino, frustrato e solo".
Nessuno di noi l'ha aiutato molto. L'abbiamo solo preso in giro, gli abbiamo fatto
scherzi bestiali, gli abbiamo messo i petardi nel bagno... Abbiamo giocato con lui,
mentre lui non sapeva giocare. Chissà com'era quando aveva la nostra età? Certe
volte ci penso.
Sono passati quasi due mesi, ormai, io sto preparando l'esame di maturità, e vivo
pressappoco come prima: mia madre, i miei amici, i miei libri, i miei dischi, la mia
politica. E i miei ricordi. Belli e brutti.
Quasi ogni sera, coi piedi sulla spalliera del letto e il gatto sullo stomaco, telefono
a Roberta; lei mi parla di suo padre e della sua scuola, io le parlo del liceo e dei
ragazzi, qualche volta siamo tristi, qualche volta ridiamo molto. Ma non è che stiamo
dimenticando Sandra.
E difficile da spiegare, questa cosa.
Quella sera, dopo che il maresciallo e il commissario e gli altri furono andati e
tutto fu finito, io me ne andai dritto a letto: senza pranzare stavolta. Non stavo male,
ero solo stanco e non avevo fame. Di là il telefono di mia madre suonava ancora,
Saul s'era infilato sotto le coperte come un morbido leggero scaldaletto ronfante, e
Sandra mi sorrideva da tutte quelle fotografie sui muri: dolce, perduta, e al sicuro.
All'improvviso, o forse a poco a poco, attraverso il dolore si faceva strada un'altra
sensazione, sempre più forte, inequivocabile: era sollievo. Non avrei più dovuto
passare le ore a chiedermi dov'era Sandra, e cosa faceva e quanto sarebbe durato
quell'assurdo martirio... Ecco, adesso era finito. Lei era morta. Io ero vivo: e liberato.
Questa fu la sensazione.
Gesù, mi dissi, ma di che cosa son fatto? E di cosa è fatto l'amore, di cosa è fatta
la vita, se io mi sento liberato perché Sandra è morta?
Mia madre si affacciò sulla soglia della mia stanza.
«Vuoi un'aspirina?» mi chiese.
Mentre prendevo l'aspirina col tè (la panacea universale) lei stette a guardarmi
seduta sulla moquette» zitta, coi suoi occhi uguali ai miei, e di nuovo fu come se mi
si fosse aperto un rubinetto o guastata una guarnizione: confusamente,
affannosamente le dissi tutto, di me e di Sandra e di quel lungo martirio: cose che lei
sapeva già, ma avevo bisogno di parlarne adesso. Adesso che il martirio era finito e
mi lasciava con quel sollievo e quel senso di colpa. Le ultime parole che Sandra mi
aveva detto erano state: per piacere, Stefano, lasciami perdere . E adesso lei era
morta in quel modo, e io la stavo "già" lasciando perdere.
«Non la stai lasciando perdere» disse mia madre,« Stai imparando a vivere
senza di lei. Anch'io ho imparato, quando ho perso tuo padre.»
«Ma io mi sento... mi sento liberato, mamma!» mi accusai angosciato.
«E quello che lei voleva, non ricordi? Me l'hai detto tu; avrebbe perfino voluto
morire, per liberarsi e per liberarti.»
«Io non voglio dimenticarla!» dissi con furia,« No, certo. Neanch'io ho dimenticato
tuo padre. Ho solo accettato di vivere senza di lui. Avevo te. Avevo il mio lavoro. E
amavo la vita. Ti sembra una colpa?» I suoi occhi avevano dentro le mie stesse
domande. Ma anche la risposta che cercavo. Una risposta d'amore. No, non era una
colpa. «Lui non avrebbe voluto che io soffrissi troppo» disse. «Che smettessi di
amare la vita. Neanche Sandra vorrebbe. Ti ricordi Neruda?»
Sapevo che poesia intendeva.

Se io muoio, sopravvivimi con tanta forza pura...

Chiusi gli occhi, voltando la faccia contro il guanciale.


Mia madre raccolse la tazzina vuota e spense la luce. Semplicemente,
serenamente, mentre se ne andava, la sua voce disse nel buio per me l'ultimo verso:

«E se tu soffri, amore, morirò di nuovo».

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