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PROLOGO
FACCIAMO FINTA CHE
(1932)
PARTE PRIMA
MAGGIE ROSE E GOLDBERG IL TAPPO
(1992)
Quella mattina del 21 dicembre 1992 ero il ritratto della felicità. Mi tro-
vavo nella veranda della nostra casa sulla 5 Street a Washington. Quel lo-
cale piccolo e angusto era ingombro di cappotti ammuffiti, stivali da lavo-
ro e giocattoli rotti. Che importanza aveva? Era casa mia.
Stavo suonando Gershwin sul nostro pianoforte, un tempo superbo, ora
leggermente scordato. Erano appena passate le cinque e faceva un freddo
da ghiacciaia. Ero disposto a qualche sacrificio per amore di Un americano
a Parigi.
Il telefono strillò dalla cucina. Magari avevo vinto la lotteria del Distret-
to di Columbia, o della Virginia, o del Maryland, e si erano dimenticati di
chiamarmi la sera prima. Tento regolarmente la fortuna in tutte e tre queste
lotterie.
«Nana? Rispondi tu?» gridai dalla veranda.
«È per te. Potresti anche rispondere tu», mi rispose gridando la mia stiz-
zosa nonna. «Perché devo alzarmi anch'io?»
Non è esattamente ciò che ci dicemmo, ma il senso era quello. Come
sempre.
Entrai zoppicando in cucina, cercando di non calpestare altri giocattoli
con le gambe ancora irrigidite per l'ora mattutina. Avevo trentotto anni. Se
avessi immaginato di raggiungere quest'età avrei avuto più cura di me stes-
so.
La chiamata era del mio socio della omicidi, John Sampson; sapeva che
sarei stato già in piedi: mi conosce meglio dei miei figli.
«'giorno, cioccolatino. Sei alzato, vero?» mi salutò. Non erano necessa-
rie ulteriori presentazioni. Sampson e io siamo amici da quando, a nove
anni, cominciammo a fare piccoli furti nel negozio di Park vicino ai cantie-
ri. Allora non sapevamo che il vecchio Park era capace di spararci per il
furto di un pacchetto di Chesterfield. Nana Mama ci avrebbe fatto di peg-
gio se avesse saputo delle nostre attività criminose.
«Se non ero alzato, adesso lo sono», risposi. «Dimmi qualcosa di bello.»
«C'è stato un altro omicidio. Sembra che sia ancora il nostro ragazzo»,
m'informò. «Ci stanno aspettando. Ormai saranno già tutti là.»
«È ancora troppo presto per vedere il furgone dell'obitorio», borbottai.
Mi sembrava già di sentire le contrazioni del mio stomaco. Non era quello
il modo in cui volevo iniziare la giornata. «Oh, merda. Cazzo.»
Nana Mama sollevò gli occhi dal tè fumante e dalle uova in camicia. Mi
lanciò uno dei suoi sguardi sprezzanti da padrona di casa. Era già pronta
per andare a scuola, dove alla bella età di settantanove anni prestava servi-
zio volontario. Sampson continuava a snocciolare dettagli cruenti sui primi
omicidi della giornata.
«Modera il linguaggio, Alex», disse Nana. «Modera il linguaggio se
vuoi restare in questa casa.»
«Sarò lì tra una decina di minuti», congedai Sampson. «Sono io il pro-
prietario di questa casa», replicai a Nana.
Lei gemette come se udisse quella terribile notizia per la prima volta.
«C'è stato un altro omicidio a Langley Terrace. Sembrerebbe l'opera di
un maniaco omicida. Temo che lo sia», la informai.
«Che orrore», commentò Nana Mama. Puntò i suoi dolci occhi castani
nei miei. I capelli bianchi ricordavano i centrini che lei metteva su tutte le
seggiole del nostro soggiorno. «Questo orrore è solo una delle tante conse-
guenze di ciò che i politici han fatto a questa città! A volte penso che do-
vremmo andarcene da Washington, Alex.»
«A volte penso la stessa cosa», dissi, «ma probabilmente resisteremo.»
«Sì, i neri resistono sempre. Noi perseveriamo. Sopportiamo sempre in
silenzio.»
«Non sempre in silenzio», precisai.
Avevo già deciso d'indossare la mia vecchia giacca di tweed. Era un
giorno di omicidi, e questo significava che avrei visto dei bianchi. Sopra la
giacca sportiva misi il mio piumino stile Georgetown. E più adatto al mio
vicinato.
Sul cassettone, vicino al letto, c'era la foto di Maria Cross. Tre anni pri-
ma, mia moglie era stata assassinata nel mezzo di una sparatoria. Il caso,
come la maggior parte degli omicidi della zona sud-est della città, non era
mai stato risolto.
Baciai mia nonna avviandomi verso la porta della cucina. Lo facciamo
da quando avevo otto anni. Ci diciamo anche «addio», nel caso non doves-
simo rivederci. Va avanti così da quasi trent'anni, da quando Nana Mama
mi ha accolto e ha stabilito che avrebbe potuto cavare qualcosa di buono
da me.
Ne ha cavato un detective della omicidi, con un dottorato in psicologia,
che lavora e vive nei ghetti di Washington, nel Distretto di Columbia.
Da quando aveva tre o quattro anni, Maggie Rose Dunne era sempre sta-
ta osservata dalla gente. Adesso, a nove anni, era abituata a essere oggetto
di una speciale attenzione; non badava più agli estranei che la guardavano
con aria sciocca come se fosse Maggie Mani-di-Forbice o la figlia di Fran-
kenstein.
Quella mattina qualcuno la stava osservando, e lei non lo sapeva: ma
questa volta le sarebbe importato. In questo caso, era molto importante.
Maggie Rose si trovava alla Washington Day School di Georgetown,
dove tentava di confondersi con gli altri centotrenta studenti. In quel mo-
mento stavano cantando entusiasti tutti insieme.
Confondersi con gli altri non era facile per lei, benché lo desiderasse di-
speratamente. Del resto, era la figlia di Katherine Rose. Non poteva passa-
re davanti a un negozio di videocassette senza trovare esposta la foto di sua
madre. Sembrava che i film di sua madre fossero programmati in TV quasi
ogni sera. La mamma aveva ricevuto più nominations per l'Oscar di quanto
la maggior parte delle altre attrici vedesse la propria foto sulla rivista
People.
Per tutte queste ragioni, Maggie Rose tentava di mimetizzarsi il più pos-
sibile. Quella mattina indossava una maglietta Fido Dido in stato pietoso,
con buchi in posizione strategica davanti e sulla schiena. Aveva scelto dei
jeans Guess, consumati e sciupati. Ai piedi un paio di vecchie Reebok rosa
- le sue preferite - e i calzini Fido presi dal fondo dell'armadio. Di proposi-
to non si era lavata i lunghi capelli biondi prima di andare a scuola.
Quando la madre la vide in quella tenuta, per poco non le cascarono gli
occhi, ma la lasciò ugualmente andare a scuola conciata così. Era un tipo
che non perdeva la calma. Capiva quanto fosse duro per Maggie vivere
nella sua situazione.
I ragazzi di quell'affollato consesso, che comprendeva le classi dalla
prima alla sesta, stavano cantando Fast Car di Tracy Chapman.
Prima di suonare la canzone accompagnandosi al nero e lucente piano
Steinway dell'auditorium, la signora Kaminsky cercò di spiegare il mes-
saggio che conteneva.
«Questa commovente canzone scritta da una giovane nera del Massa-
chusetts parla della condizione dei miserabili nel Paese più ricco del mon-
do. Parla di che cosa significa essere neri negli anni '90.»
La minuscola e sottile insegnante di musica e arti visive dimostrava
sempre grande sensibilità; credeva che fosse dovere di un buon insegnante
non solo informare, ma dare delle convinzioni ai giovani e importanti vir-
gulti di quella scuola prestigiosa.
Ai bambini piaceva la signora Kaminsky, per cui essi si sforzarono
d'immaginare la triste condizione dei poveri e dei diseredati. Dato che la
retta della Washington Day School era di dodicimila dollari, occorreva da
parte loro una buona dose d'immaginazione.
«You got a fast car», cantavano insieme con la signora Kaminsky e il
suo piano.
«And I got a plan to get us out of here.»
Mentre cantava Fast Car, Maggie cercava davvero d'immaginarsi come
sarebbe stato essere così povera. Aveva visto abbastanza diseredati dormi-
re al freddo nelle strade di Washington e, concentrandosi, poteva raffigu-
rarsi scene terribili dalle parti di Georgetown e di Dupont Circle. Soprat-
tutto gli uomini che, a ogni semaforo, lavavano con gli stracci sporchi i pa-
rabrezza, e ai quali sua madre dava sempre un dollaro, a volte di più. Al-
cuni mendicanti la riconoscevano e sembravano impazzire dalla gioia: sor-
ridevano come se avessero vinto una scommessa, e Katherine trovava
sempre qualcosa di carino da dire.
«You got a fast car», cantava ad alta voce Maggie Rose. Aveva vera-
mente voglia di far salire in alto la sua voce.
«But is it fast enough so we can fly away? We gotta make a decision: we
leave tonight or live and die this way.»
La canzone terminò fra gli applausi e le grida di tutti i bambini radunati.
La signora Kaminsky accennò un buffo inchino verso il piano.
«Sai che fatica», borbottò Michael Goldberg, a fianco di Maggie. Era il
suo migliore amico a Washington, dove da meno di un anno lei si era tra-
sferita coi genitori. Venivano da Los Angeles.
Michael faceva dell'ironia, naturalmente. Come sempre. Era il suo modo
- tipico della gente della East Coast - di trattare la gente che non era in
gamba quanto lui, cioè praticamente tutto il resto dell'umanità.
Era un vero cervellone, Maggie lo sapeva bene: leggeva di tutto, colle-
zionava di tutto, sapeva fare un sacco di cose; riusciva anche a essere di-
vertente, con chi gli andava a genio. Però era nato con un soffio al cuore e,
non avendo ancora un fisico alto né molto robusto, si era guadagnato il so-
prannome di «Tappo», che in qualche modo lo strappava dal suo piedistal-
lo di piccolo genio.
Maggie e Michael andavano insieme a scuola in macchina, quasi tutti i
giorni, e quella mattina erano arrivati con un'auto dei servizi segreti. Il pa-
dre di Michael era il ministro del Tesoro. Nessun bambino era veramente
«normale» alla Washington Day, ma cercavano tutti di confondersi in
qualche modo con gli altri.
Mentre uscivano in fila dall'adunata del mattino, a ognuno di loro veniva
chiesto chi sarebbe venuto a prenderli nel pomeriggio: le misure di sicu-
rezza erano una cosa tremendamente importante in quella scuola.
«Il signor Devine...» cominciò a dire Maggie all'insegnante-sorvegliante
piazzato all'uscita dall'auditorium. Si chiamava Guestier ed era professore
di lingue, cioè francese, russo e cinese. Il suo soprannome era «Testa di
rapa».
«E Jolly Charlie Chakely», finì la frase per lei Michael Goldberg. «Ser-
vizi segreti reparto diciannove. Automobile Lincoln. Targa numero SC-59.
Uscita nord, Pelham Hall. Sono addetti a moi perché il cartello di Medellin
ha minacciato di morte mio padre. Au revoir, mon professeur.»
Sul registro della scuola, alla data del 22 dicembre, fu annotato: Michael
Goldberg e Maggie Rose Dunne - a cura dei servizi segreti. Uscita nord,
Pelham, alle tre.
«Dai, sapientona.» Michael Goldberg diede una gomitata nelle costole a
Maggie Rose. «Ho una macchina veloce. Uh huh, uh huh. E ho in mente di
andarcene via da qui.»
Non c'era da stupirsi che lui le piacesse, pensò Maggie. Chi altri l'avreb-
be chiamata «sapientona»? Chi altri se non Goldberg il Tappo?
Mentre uscivano dall'auditorium, qualcuno stava tenendo d'occhio i due
amici, ma essi non notarono nulla di strano o di anormale. Non se l'aspet-
tavano. L'idea era tutta lì. Era la parte principale del piano.
Una lucente moto BMW K-1 nera s'infilò sotto il basso portone in pietra
della Washington Day School. Il conducente si fece identificare, poi la
moto percorse a velocità elevata una stradina che portava verso un gruppo
di edifici scolastici grigi. Erano le undici.
La BMW K-1 raggiunse i novanta all'ora nei pochi secondi necessari ad
arrivare all'edificio dell'amministrazione. Poi frenò con dolcezza, senza
quasi sollevare la ghiaia, e il conducente la fece scivolare dietro una Mer-
cedes limousine grigio perla con targa diplomatica DP101.
Restando seduta sulla moto, Jezzie Flanagan si tolse il casco nero e sco-
prì i capelli biondi piuttosto lunghi. Dall'aspetto le si poteva attribuire un'e-
tà di circa trent'anni, e in effetti ne aveva compiuti trentadue l'estate prece-
dente. La vita minacciava di passare oltre e lei aveva la sensazione di esse-
re ormai una reliquia, storia antica. Veniva direttamente alla scuola dal cot-
tage che possedeva sul lago, dove aveva trascorso la sua prima vacanza
dopo ventinove mesi.
Questo spiegava il suo abbigliamento di quella mattina: la giacca in pel-
le da motociclista, i jeans neri scoloriti con scaldamuscoli, una grossa cin-
tura in pelle, la camicia a scacchi rossi e neri da boscaiolo, e gli scarponi
da cantiere consumati.
Due poliziotti si portarono di corsa ai suoi fianchi.
«Tutto a posto, agenti», disse la donna, «ecco il mio tesserino di ricono-
scimento.»
Dopo aver guardato il documento, i poliziotti indietreggiarono immedia-
tamente e divennero premurosi. «Può entrare», disse uno di loro, «c'è una
porta laterale proprio dietro quelle siepi, signora Flanagan.»
Jezzie riuscì a offrire un sorriso amichevole ai due poliziotti dall'aria co-
sì seria e impegnata. «Lo so che oggi non ho un'aria molto regolamentare.
Ero in vacanza. Corro in moto, e così sono venuta qui di corsa.»
Tagliò per un prato ricoperto di brina e sparì all'interno dell'edificio del-
l'amministrazione.
Nessuno dei due poliziotti le tolse gli occhi di dosso finché non fu
scomparsa. I suoi capelli biondi volavano come strisce di carta nel forte
vento invernale. Era senz'altro stupenda, anche con quei jeans sporchi e gli
scarponi da lavoro. Inoltre, come dichiarava il suo tesserino, faceva un la-
voro molto tosto. Era una figura di primo piano.
Mentre passava per il corridoio, qualcuno fece l'atto di afferrarla. Qual-
cuno agguantò un pezzo di Jezzie Flanagan, il che era una costante della
sua vita nel Distretto di Columbia.
Era Victor che si era agganciato al suo braccio. Una volta, e ormai face-
va fatica a immaginarselo, era stato il suo partner. Il primo, in effetti. Ora
lui era stato assegnato alla protezione di uno degli studenti della Day
School.
Basso e calvo, era un tipo che vestiva con molta ricercatezza, ed era
spocchioso pur senza avere alcun valido motivo. Le aveva sempre dato
l'impressione che nei servizi segreti lui fosse fuori posto; forse era più a-
datto per i gradi inferiori del corpo diplomatico.
«Jezzie, come va?» chiese a mezza voce, quasi bisbigliando. Dava l'im-
pressione di non fare mai niente per intero. Questo le era sempre seccato.
La donna esplose. In seguito capì che, quando Schmidt l'aveva fermata,
aveva già i nervi a fior di pelle. Non che avesse bisogno di una giustifica-
zione per quello scoppio d'ira. Non quella mattina, e non in quelle circo-
stanze.
«Vic, lo sai che due bambini sono stati portati via da questa scuola, e che
forse sono stati rapiti?» gli chiese bruscamente. «Uno è il figlio del mini-
stro del Tesoro. L'altra è la figlia di Katherine Rose. L'attrice Katherine
Rose Dunne. Come credi che mi senta? Ho un leggero mal di stomaco.
Sono arrabbiata. Sono anche sbalordita.»
«Volevo dirti solo ciao. Come va, Jezzie? Lo so che qui si è scatenato
l'inferno.»
Ma lei si era già allontanata, se non altro per risparmiarsi di dover parla-
re con Victor. Si sentiva davvero nervosa. E stava male. E soprattutto era
molto tesa. Non stava cercando volti familiari nell'atrio affollato della
scuola, bensì i volti giusti. In quel momento ce n'erano due.
Charlie Chakely e Mike Devine. I suoi agenti. I due uomini che lei ave-
va assegnato alla scorta del giovane Michael Goldberg e anche di Maggie
Rose Dunne, dato che andavano e tornavano insieme da scuola.
«Com'è potuto accadere?» domandò quasi gridando. Non le importò che
lì vicino avessero smesso di parlare e che la gente la guardasse. Poi abbas-
sò la voce quasi in un bisbiglio quando chiese ai suoi agenti un rapporto su
tutto quanto era avvenuto fino a quel momento.
Ascoltò tranquilla lasciando che spiegassero. Ma si vedeva che quello
che udiva non le andava a genio.
«Levatevi di torno», esplose di nuovo. «Fuori di qua subito. Non voglio
più vedervi!»
«Non potevamo farci niente», tentò di protestare Charlie Chakely. «Che
diavolo potevamo fare? Cristo!» Poi lui e Devine se la filarono quatti quat-
ti.
Chi conosceva Jezzie Flanagan avrebbe potuto comprendere la sua rea-
zione. Erano scomparsi due bambini. Era accaduto sotto la sua sorveglian-
za. Lei era il superiore diretto degli agenti dei servizi segreti, che proteg-
gevano quasi tutti a eccezione del presidente: membri chiave del governo e
le loro famiglie, una mezza dozzina di senatori, compreso Ted Kennedy.
Lei rispondeva al ministro del Tesoro stesso.
Aveva lavorato in modo incredibilmente duro per ottenere tutta quella
fiducia ed era una persona responsabile. Settimane di lavoro di cento ore;
nessuna vacanza per anni e anni; nessuna vita privata di cui valesse la pena
di parlare.
Sentiva già il rumore della tempesta in arrivo. Due dei suoi agenti ave-
vano combinato un tremendo pasticcio. Ci sarebbe stata un'inchiesta, una
caccia alle streghe del buon tempo antico. Jezzie Flanagan era seduta su
una sedia arroventata. Dato che era la prima donna a occupare quel posto,
l'eventuale caduta sarebbe stata rovinosa e dolorosa, e largamente pubbli-
cizzata.
Finalmente scorse l'unica persona che stava cercando in mezzo alla folla
(con la speranza di non trovarla): il ministro del Tesoro Jerrold Goldberg
era già arrivato alla scuola di suo figlio.
Insieme col ministro c'erano il sindaco Carl Monroe, un agente speciale
dell'FBI che conosceva, di nome Roger Graham, e due neri che non rico-
nobbe subito, entrambi alti, uno addirittura enorme.
La donna inspirò profondamente e si diresse con passo rapido verso il
ministro e gli altri.
«Mi spiace molto, Jerrold», sussurrò quando gli fu accanto. «Sono certa
che ritroveremo i bambini.»
«Un insegnante.» Fu tutto ciò che Jerrold Goldberg riuscì a proferire.
Scosse la testa. Aveva gli occhi umidi e luccicanti. «Un insegnante dei
bambini più piccoli. Com'è potuto accadere?»
Straziato dal dolore, dimostrava dieci anni di più dei suoi quarantanove.
Il suo viso era bianco come il gesso delle pareti della scuola.
Prima di venire a Washington, aveva lavorato alla Salomon Brothers di
Wall Street. Si era fatto un patrimonio di venti o trenta milioni di dollari
durante i ricchi e folli anni '80. Era brillante, accorto e assennato. Pragma-
tico quanto bastava.
Però quel giorno egli era solamente il padre di un ragazzino rapito, e a-
veva un'aria estremamente fragile.
Un po' più tardi, quella stessa mattina, Sampson e io eravamo seduti sul
parquet di abete della sala giochi della Day School con alcuni bambini.
Eravamo lì con Luisa, Jonathan, Stuart, Mary-Berry e sua sorella Brigid:
non era ancora passato nessuno a prenderli e loro erano spaventati. Alcuni
bambini della scuola avevano bagnato le mutandine e uno aveva vomitato.
Dovevamo fare in modo che il trauma non avesse conseguenze troppo gra-
vi.
Sul liscio parquet c'era anche l'insegnante, Vivian Kim. Volevamo parla-
re con lei a proposito della visita di Soneji nella sua classe e, in generale,
di Soneji.
«Siamo nuovi bambini della vostra scuola», scherzò Sampson. Si era tol-
to gli occhiali da sole, anche se forse non era il caso: di solito i bambini lo
prendono in simpatia, perché s'inserisce bene nel loro drappello di «amici
mostri».
«No, non è vero!» replicò Mary-Berry. Sampson era già riuscito a farla
sorridere. Un buon segno.
«Esatto, in realtà siamo dei poliziotti», ammisi. «Siamo qui per assicu-
rarci che ora tutti stiano bene. Cioè... accidenti... dopo una mattinata del
genere.»
La signora Kim mi sorrise. Capì che stavo cercando di rassicurare i
bambini: c'era la polizia ed era tutto di nuovo sicuro, nessuno poteva far
loro del male. L'ordine era ristabilito.
«Sei un bravo poliziotto?» mi domandò Jonathan. Aveva un'aria seria e
convinta, pur essendo così piccolo.
«Sì. E anche il mio collega, il detective Sampson.»
«Tu sei grande. Tremendamente grande. Grande, grande, grande come
casa mia!» esclamò Luisa.
«Così possiamo proteggere meglio tutti voi», rispose Sampson alla pic-
cola. Aveva fatto presto a entrare nelle loro simpatie.
«Hai dei figli?» mi chiese Brigid. Prima di parlare ci aveva attentamente
studiato coi suoi occhi vivacissimi, e già mi piaceva.
«Ho due figli», le dissi. «Un bambino e una bambina.»
«E come si chiamano?» chiese Brigid. Aveva addirittura ribaltato i ruoli.
«Janelle e Damon», risposi. «Janelle ha quattro anni e Damon sei.»
«Come si chiama tua moglie?» chiese allora Stuart.
«Non ho una moglie.»
«Perbacco, perbacco», disse sottovoce Sampson.
«Sei divorziato?» mi chiese Mary-Berry. «È così, vero?»
La signora Kim rise. «Ma che domande fai al nostro simpatico amico,
Mary?»
«Faranno del male a Maggie Rose e a Michael Goldberg?» volle sapere
Jonathan il Serio. Era una buona domanda, e meritava una risposta.
«Spero di no, Jonathan. Ma ti dirò una cosa. Nessuno farà del male a te.
Io e il detective Sampson siamo qui proprio per impedirlo.»
«Siamo dei duri, nel caso non si veda», sogghignò Sampson. «Grrr!
Nessuno farà mai del male a questi bambini. Grrr!»
Alcuni minuti dopo, Luisa cominciò a piangere. Era una bambina carina
e avrei voluto stringermela tra le braccia, ma non potevo.
«Che c'è, Luisa?» chiese la signora Kim. «La mamma e il papà presto
saranno qui.»
«No, non verranno.» La ragazzina scuoteva il capo. «Non verranno. Non
vengono mai a prendermi a scuola.»
«Qualcuno verrà», dissi con voce calma. «E domani sarà di nuovo tutto
a posto.»
La porta della sala giochi si aprì lentamente, facendomi distogliere lo
sguardo dai bambini: era il sindaco, che veniva a far visita alla scuola dei
ragazzini privilegiati della città.
«Ti tieni lontano dai guai, Alex?» Fece un cenno col capo e sorrise nello
scorgere l'insolita scenetta. Monroe, sui quarantacinque anni, era dotato di
una rude bellezza. Aveva una bella chioma e folti baffi neri. Vestito blu,
camicia bianca e cravatta giallo acceso gli conferivano un'impressione di
efficienza.
«Ah, sì. Sto cercando di far qualcosa di buono nel mio tempo libero. Io e
Sampson.»
La risposta si meritò una risatina del sindaco. «Sembra che tu ci sia riu-
scito. Facciamo un giretto. Vieni con me, Alex. Dobbiamo parlare di alcu-
ne cosette.»
Alle dieci e venticinque, in perfetto orario rispetto alle prove che aveva
fatto, Gary Soneji svoltò col furgone in una stradina laterale, piena di bu-
che e coperta di erbacce, con rovi di more su ciascun lato.
Dopo essersi inoltrato per cinquanta metri, non riusciva a vedere altro
che la strada in terra battuta e un groviglio di cespugli sopra di lui. Dalla
strada principale nessuno poteva scorgere il suo furgone.
Il veicolo superò sobbalzando una bianca fattoria in rovina. L'edificio
sembrava sul punto di crollare su se stesso. A non più di quaranta metri
dalla casa c'era quanto restava di un granaio nelle stesse condizioni di de-
grado.
Soneji vi entrò col furgone. Era finita, ce l'aveva fatta.
Nel granaio era parcheggiata una Saab nera del 1985. A differenza del
resto di quella fattoria abbandonata, il granaio dava la sensazione di essere
abitato.
Il pavimento era in terra battuta. Tre finestre rotte erano chiuse in qual-
che modo con tela e nastro adesivo. Non c'erano trattori ad arrugginire né
altri macchinari agricoli. Il granaio odorava di terra umida e di benzina.
Gary prese due lattine di Coca-Cola da un contenitore sul sedile di fian-
co. Se le tracannò entrambe ed emise un rutto soddisfatto.
«Voi ragazzi volete una Coca?» gridò verso i due bambini drogati e as-
sonnati. «No? Va bene, presto però avrete molta sete.»
Non c'è alcuna certezza nella vita, pensava, ma non riusciva a immagi-
nare in che modo un poliziotto potesse sorprenderlo ora. Avere una tale fi-
ducia in se stesso era stupido e pericoloso? si chiese. Certo che no, perché
lui era anche realistico. Non c'era alcun modo di rintracciarlo ora. Non a-
vevano alcuna pista da seguire.
Progettava di rapire una persona famosa da... be', da sempre. Nei suoi
progetti, la vittima era cambiata parecchie volte, ma non l'obiettivo che a-
veva in mente. Aveva lavorato alla Washington Day School per mesi. Ora,
quel preciso momento dimostrava che ogni maledetto minuto che vi aveva
passato ne era valso la pena.
Mister Chips. Ripensava al suo nomignolo a scuola, Mister Chips! Che
deliziosa commedia aveva messo in scena. Roba da Oscar. Meglio di qual-
siasi altra cosa che aveva visto dopo Robert De Niro in Re per una notte. E
quell'interpretazione era un classico. Anche De Niro doveva essere uno
psicopatico, nella vita reale.
Infine Gary Soneji aprì la portiera scorrevole del furgone. Rimettiamoci
al lavoro, rituffiamoci a corpo morto nel lavoro.
Tirò fuori i due bambini, uno alla volta, e li sistemò nel granaio. La pri-
ma fu Maggie Rose Dunne. Poi il piccolo Goldberg. Li posò svenuti l'uno
accanto all'altra sul pavimento. Li spogliò, lasciandoli vestiti della sola
biancheria. Preparò con molta attenzione le dosi di sodio secobarbital. Ec-
co il vostro simpatico farmacista al lavoro. Si trattava di una dose a metà
tra la pillola di sonnifero e l'anestetico ospedaliero. Avrebbe fatto effetto
per circa dodici ore.
Tirò fuori delle siringhe monouso e i due lacci emostatici che aveva pre-
parato. Doveva stare molto attento: coi bambini non era facile azzeccare la
dose giusta.
Quindi spostò di due metri la Saab nera, in modo da scoprire una buca di
un metro e mezzo per un metro e venti nel pavimento del granaio.
Aveva scavato la fossa nel corso delle numerose visite precedenti nella
fattoria abbandonata. Dentro la cavità era sistemato uno scomparto in le-
gno di fattura artigianale, una specie di rifugio. C'era anche un serbatoio
con la riserva di ossigeno. Mancava solo un televisore a colori per riveder-
si i vecchi film.
Per primo sistemò Goldberg nello scomparto di legno. In braccio a lui
non pesava quasi niente; esattamente quello che provava nei suoi confron-
ti: niente. Poi toccò alla principessina, l'orgoglio e la gioia della mamma,
Maggie Rose Dunne. Direttamente dal paese delle favole.
Infilò gli aghi nel braccio di ciascuno. Fu attentissimo a somministrare
lentamente il liquido, impiegando tre minuti.
Le dosi erano calcolate secondo il peso: 25 milligrammi per chilo corpo-
reo. Controllò il respiro di entrambi. Dormite sodo, tesorucci miei da qual-
che milione di dollari.
Richiuse la botola con un tonfo, coprendola poi con una spanna di terra.
Dentro quel fienile abbandonato. Nel mezzo della campagna del Maryland
dimenticata da Dio. Proprio come era stato sotterrato il piccolo Lindbergh
sessant'anni prima.
Laggiù nessuno li avrebbe ritrovati. Finché non lo avesse voluto lui. Se
lui voleva farli ritrovare. Un grosso se.
Ripercorse stancamente il tratto di strada in terra battuta verso ciò che
restava della vecchia fattoria. Voleva darsi una lavata. Desiderava pure di-
vertirsi un po'. Si era addirittura portato un minitelevisore per vedersi in
TV.
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I notiziari andavano in onda ogni quindici minuti circa. Gary Soneji era
proprio lì, nell'onnipotente televisione. Vide le foto di Mister Chips in ogni
notiziario. Però l'annunciatore non poteva fornire alcun indizio di quello
che stava realmente accadendo.
Era questa allora la fama! Era questa la sensazione che si prova a essere
famosi! Gli piacque moltissimo. Era per questo che si era allenato in tutti
quegli anni. «Ciao, mamma! Guarda chi c'è in TV. Il Bambino Cattivo!»
Una sola cosa andò storta in tutto il pomeriggio: la conferenza stampa
dell'FBI. Aveva parlato un agente di nome Roger Graham, che evidente-
mente si credeva un pezzo grosso. Anche lui voleva un po' di gloria. «Cre-
di di essere tu il protagonista del film, Graham? Ti sbagli, piccolo!» gridò
Soneji alla TV. «Qui di star ce n'è una sola, e sono io!»
Si era aggirato parecchie ore nella fattoria, a osservare la notte che scen-
deva lentamente. Distinse le varie sfumature di buio che avvolgevano quel
posto. Erano le sette, ed era ora di andare avanti col piano.
«Avanti, sbrighiamoci.» Camminava impettito per la fattoria come un
pugile professionista prima di un incontro. «Andiamo avanti.»
Per un po' pensò a Charles e Anne Morrow Lindbergh, la sua coppia pre-
ferita in senso assoluto. Questo lo calmò un po'. Pensò al piccolo Charles,
e a quel povero stupido di Bruno Hauptmann che, innocente, era stato evi-
dentemente incastrato per quel delitto progettato ed eseguito in modo così
brillante. Era convinto che il caso Lindbergh fosse il delitto più elegante
del secolo, non solo perché era rimasto insoluto - molti, moltissimi delitti
restavano insoluti -, ma perché era importante e insoluto.
Soneji aveva fiducia in se stesso, ma era anche realista nei confronti del
proprio capolavoro. Un colpo di fortuna era sempre possibile. Un caso for-
tunato da parte della polizia poteva accadere. La consegna dei soldi poteva
essere un momento critico. Implicava un contatto, e un contatto è sempre
una cosa molto pericolosa nella vita.
Per quanto ne sapeva - e la sua conoscenza era enciclopedica -, nessun
rapitore dei tempi moderni aveva risolto in modo soddisfacente il proble-
ma del pagamento del riscatto. Almeno se voleva essere pagato in modo
equo per le proprie fatiche (e lui aveva bisogno di un enorme compenso in
cambio dei suoi ragazzini multimiliardari).
Aspetta che sentano quanti soldi voglio.
Quel pensiero gli fece affiorare un sorriso sulle labbra. Naturalmente, i
famosissimi Dunne e i potentissimi Goldberg potevano pagare, e volevano
pagare. Non era un caso che avesse scelto quelle due famiglie, potenti e
ricche sfondate com'erano, coi loro mocciosi viziati.
Soneji accese una delle candele che teneva in una tasca della giacca e
aspirò l'odore piacevole di cera d'api. Poi si portò nel piccolo bagno che
dava sulla cucina.
Si ricordava una vecchia canzone dei Chambers Brothers, Time. Era ar-
rivata l'ora... l'ora di togliere il tappeto da sotto i piedi di tutti quanti. Era
arrivata l'ora... l'ora di fare la prima sorpresina, la prima di tante. L'ora...
l'ora di costruire la propria leggenda. Questo era il suo film.
In quel fine dicembre la stanza, l'intera casa, era gelida. Gary Soneji po-
teva vedere il proprio fiato uscirgli dalla bocca mentre s'installava in ba-
gno.
Fortunatamente la casa disponeva dell'acqua di un pozzo, che arrivava
ancora in bagno. L'acqua era gelida. Soneji accese alcune candele e si mise
al lavoro. Avrebbe impiegato almeno mezz'ora per finire.
Per prima cosa, si tolse la mezza parrucca scura da calvo. L'aveva acqui-
stata tre anni prima, in un negozio di costumi teatrali a New York. Era la
sera in cui aveva visto Il fantasma dell'Opera. Quel musical gli era piaciu-
to moltissimo. Si era identificato a tal punto col fantasma da esserne spa-
ventato. Aveva poi letto il romanzo originale, prima in francese poi in in-
glese.
«Bene, bene, che cosa abbiamo qui?» disse rivolto al viso nello spec-
chio.
Una volta tolta la colla e le altre porcherie, si scoprì una folta capigliatu-
ra bionda, lunga e ondulata.
«Signor Soneji? Mister Chips? Sei tu, amico?»
Era un tipo mica male. Aveva qualche speranza? Magari di trovare un
posto a stipendio fisso? Sì, certamente, a stipendio fisso...
Non era per nulla simile a Chips. Per nulla simile al nostro signor Sone-
ji!
Vennero via i folti baffi che aveva portato fin dal giorno in cui aveva so-
stenuto un colloquio alla Washington Day School. Poi si tolse le lenti a
contatto. Il colore degli occhi, da verde, ritornò marrone scuro.
«Ecco, guardati un po'. Guardati un po' ora. La genialità sta nei dettagli,
no?»
L'insulso topo di biblioteca della scuola privata era quasi completamente
scomparso. Quell'ingenuo imbecille di Mister Chips era morto e sepolto
per sempre.
Che stupenda messinscena. Che piano audace, e che impeccabile esecu-
zione. Peccato che nessuno avrebbe mai saputo quello che era veramente
successo. Ma a chi avrebbe potuto dirlo?
Lasciò la fattoria verso le undici e trenta della sera, come da tabella di
marcia, e s'incamminò verso il garage, a nord della casa.
In un posto speciale - molto speciale - del garage aveva nascosto i suoi
risparmi: cinquemila dollari. Era il nascondiglio segreto dei soldi rubati nel
corso degli anni. Anche quello faceva parte del piano. Un programma a
lungo respiro.
Poi si diresse verso il granaio dove c'era l'auto. Una volta entrato nel
granaio, diede un'occhiata per controllare i bambini.
Fino a quel momento andava tutto a gonfie vele. Nessuna lamentela da
parte dei ragazzini.
La Saab partì immediatamente. Si diresse verso la strada principale, con
le sole luci di posizione.
Quando vi arrivò accese i fari. Aveva ancora del lavoro da fare, quella
notte. Il suo capolavoro teatrale proseguiva.
Cavoli!
11
12
• Aldo Moro, rapito a Roma. Cinque agenti della scorta uccisi durante il
sequestro. Il corpo di Moro ritrovato in un'auto parcheggiata.
• Jack Teich, liberato dopo il pagamento di 750.000 dollari.
• J. Reginald Murphy, direttore dell'Atlanta Constitution, liberato dopo il
pagamento di 700.000 dollari.
• J. Paul Getty III, liberato in Italia dopo il pagamento di un riscatto di
2.800.000 dollari.
• Virginia Piper di Minneapolis, liberata dopo che il marito ha pagato un
milione di dollari.
• Victor F. Samuelson, liberato in Argentina dopo il pagamento di
14.200.000 dollari.
13
Maggie Rose Dunne si era risvegliata dal più strano sonno della sua vita.
Aveva fatto brutti sogni, orribili e indescrivibili.
Le sembrava che intorno a lei tutto si muovesse al rallentatore. Aveva
sete e aveva un terribile bisogno di fare pipì.
Sono troppo stanca questa mattina, mamma. Per favore! Non voglio al-
zarmi. Non voglio andare a scuola oggi. Per favore, mamma. Non mi sento
bene. Veramente, non mi sento bene, mamma.
Maggie Rose aprì gli occhi. O almeno credette di aver aperto gli occhi,
ma non vide nulla. Ma proprio nulla.
«Mamma! Mamma! Mamma!» urlò infine Maggie, e non smise di urlare.
Dopo, per almeno un'ora, fluttuò tra coscienza e incoscienza. Si sentiva
addosso una gran debolezza. Galleggiava come una foglia sopra le acque
di un fiume immenso. Le correnti la portavano dove volevano.
Pensava alla mamma. Lo sapeva che Maggie era scomparsa? Ora la sta-
va cercando? Doveva essere già alla sua ricerca!
Forse qualcuno le aveva amputato braccia e gambe. Non le sentiva. Do-
veva essere successo molto tempo prima.
Era tutto nero. Doveva essere sepolta sottoterra. Doveva essere in de-
composizione e forse stava per diventare uno scheletro. Era quella la ra-
gione per cui non sentiva più le braccia e le gambe?
Sarebbe sempre stato così? Non poteva sopportare una cosa simile e si
mise di nuovo a piangere. Si sentiva così confusa. Non riusciva a pensare.
Però Maggie Rose riusciva ad aprire e chiudere gli occhi. O almeno
pensava di riuscirvi. Ma non vi era alcuna differenza tra il tenere gli occhi
chiusi o aperti. Era tutto buio, in entrambi i casi.
Se continuava ad aprire e chiudere gli occhi molto velocemente, vedeva
il colore.
Ora, in quel buio, vedeva striature e macchie di colore. Per lo più rosse e
giallo brillante.
Maggie si chiese se era immobilizzata o legata a qualcosa. Era quello
che ti facevano dentro una bara? Ti legavano giù? Perché avrebbero dovu-
to fare una cosa del genere? Per impedirti di uscire dalla terra? Per tenere il
tuo spirito sottoterra per sempre?
D'improvviso si ricordò di una cosa. Il signor Soneji. Per un attimo, un
po' della nebbia che vorticava intorno a lei si dissipò.
Il signor Soneji l'aveva portata via da scuola. Quando era accaduto? Per-
ché? Dov'era il signor Soneji ora?
E Michael? Che era accaduto a Michael? Erano usciti insieme dalla
scuola. Almeno quello se lo ricordava.
Allora si mosse, e accadde la cosa più stupefacente. Scoprì di poter roto-
lare su se stessa.
E fu ciò che fece Maggie Rose. Rotolò su se stessa, e d'improvviso urtò
contro qualcosa.
Riusciva a sentire di nuovo tutto il suo corpo. Aveva ancora un corpo da
sentire. Era assolutamente certa di avere il proprio corpo e di non essere
uno scheletro.
E Maggie urlò.
Rotolando aveva urtato contro qualcosa o qualcuno.
C'era qualcun altro lì al buio con lei.
Michael?
Doveva essere Michael.
«Michael?» La voce di Maggie era sommessa, quasi un sussurro. «Mi-
chael? Sei tu?»
Rimase in attesa di una risposta.
«Michael?» bisbigliò più forte. «Michael, su. Per favore, parlami.»
Chiunque fosse non rispose. Era ancora più spaventoso che essere lì da
sola.
«Michael... sono io... Non spaventarti... Sono Maggie... Michael, per fa-
vore, svegliati. Oh, Michael, per favore... Per favore, Tappo. Stavo solo
scherzando su quelle tue stupide scarpe. Su, Michael. Parlami, Tappo. So-
no la tua Sapientona.»
14
La casa della famiglia Dunne era del tipo che gli esperti delle agenzie
immobiliari locali definivano di stile neoelisabettiano. Né io né Sampson
ne avevamo viste molte del genere nella zona sud-est del Distretto di Co-
lumbia.
All'interno, dava quella sensazione di serenità e di varietà che credo sia
normale tra i ricchi. C'erano moltissime cose costose, incisioni in stile art
déco, paraventi orientali, una meridiana francese, un tappeto del Turkestan,
un affare che sembrava un tavolo d'altare cinese o giapponese. Mi ricordai
di una cosa che aveva detto una volta Picasso: «Datemi un museo, e io ve
lo riempirò».
C'era un bagnetto con accesso da una delle sale di soggiorno. Pochi mi-
nuti dopo il mio arrivo il comandante Pittman mi afferrò e mi ci spinse
dentro. Erano circa le otto: troppo presto per una cosa del genere.
«Che cosa credi di fare?» mi domandò. «Che cos'hai in mente di fare,
Cross?»
La stanza era veramente angusta, non c'era abbastanza posto per due a-
dulti della nostra stazza. Ma non era neppure la solita stanzetta da bagno. Il
pavimento era rivestito da un tappeto di William Morris. E in un angolo
era piazzata una sedia firmata.
«Pensavo di bermi un caffè. Poi intendevo partecipare alla riunione della
mattina», dissi a Pittman. Volevo con tutte le mie forze andarmene da quel
bagno.
«Non prendermi per il culo.» Cominciò ad alzare la voce. «Non provarti
a farlo con me.»
Hmm, non farlo, pensai. Non fare scenate qua dentro. Ebbi l'idea di met-
tergli la testa sott'acqua dentro la tazza del cesso, così, tanto per calmarlo.
«Abbassa la voce, o me ne vado», gli dissi. Io cerco quasi sempre di agi-
re in modo ponderato e ragionevole. È uno dei miei peggiori difetti.
«A me non lo dici di abbassare la voce. Chi cazzo ti ha detto di andarte-
ne a casa ieri sera? Tu e Sampson. Chi ti ha detto di andare nell'apparta-
mento di Soneji stamattina?»
«Tutta 'sta storia per questo? È per questo che ora noi due siamo qua
dentro?» gli chiesi.
«Ci puoi scommettere. Sono io che mi occupo di queste indagini. Ciò si-
gnifica che se voi due volete allacciarvi le scarpe, prima lo dovete chiedere
a me.»
Feci un largo sorriso, non potei farne a meno: «Dove l'hai presa questa
battuta? La diceva Lou Gossett in Ufficiale e gentiluomo».
«Pensi che stia scherzando o che mi diverta, Cross?»
«No. Non credo che sia divertente. Non venire più a rompermi le palle,
altrimenti rischi le tue», lo avvertii.
Uscii dal bagno. Pittman non mi seguì. Sì, quello stronzetto a volte può
irritarmi. Ma non riuscirà a fregarmi.
15
Finalmente, nel tardo pomeriggio del terzo giorno, Don Manning, uno
dei luogotenenti di Pittman, mi assegnò un compito. Mi venne chiesto di
esaminare e valutare Katherine Rose Dunne e suo marito. Avevo già cerca-
to di farmi ricevere per conto mio dai Dunne, ma mi era stato opposto un
rifiuto.
Incontrai Katherine e Thomas Dunne nel cortile di casa loro. Un muro di
pietra grigia alto più di tre metri e una fila di enormi tigli lo separavano dal
mondo esterno. In effetti il cortile era costituito da parecchi giardini sepa-
rati da muri in pietra e da un ruscello serpeggiante. C'erano i giardinieri,
naturalmente, una giovane coppia che, a quanto si vedeva, guadagnava be-
ne con quel mestiere. Guadagnavano senz'altro più di me.
Katherine Rose si era messa un vecchio maglione di cammello sopra i
jeans e un pullover dal collo a V. Probabilmente stava bene con qualunque
straccio, pensai quando la vidi.
Veniva ancora considerata una delle più belle donne del mondo. Aveva
fatto solo pochi film da quando era nata Maggie Rose, ma non aveva per-
duto nulla della sua bellezza, almeno a quanto potevo vedere io. Neppure
in quel momento di angoscia.
Suo marito, Thomas Dunne, era stato un importante avvocato del mondo
dello spettacolo a Los Angeles, dove si erano conosciuti. Laggiù si era av-
vicinato a Greenpeace e ad altri movimenti di ecologisti. La famiglia si era
trasferita a Washington dopo che lui era diventato direttore della Croce
Rossa americana.
«Si è occupato di altri sequestri di bambini?» volle sapere Thomas Dun-
ne. Cercava di capire quale fosse la mia collocazione professionale. Ero
importante? Potevo essere di qualche aiuto alla loro bambina? Fu un po'
brusco, ma non lo biasimai, date le circostanze.
«Una dozzina circa», gli risposi. «Può parlarmi un po' di Maggie? Po-
trebbe servire. Più ne sappiamo, e maggiori saranno le nostre possibilità di
trovarla.»
Katherine Rose annuì. «Certo, signor Cross. Abbiamo cercato di cresce-
re Maggie nel modo più normale possibile», disse. «Questa è una delle ra-
gioni per cui ci siamo decisi a trasferirci sulla East Coast.»
«Non so se definirei Washington un posto normale in cui crescere. Non
è esattamente come abitare in una tranquilla cittadina svizzera.» Sorrisi.
Per una qualche ragione, quella frase iniziò a rompere il ghiaccio.
«A confronto con Beverly Hills è molto normale», ribatté Tom Dunne.
«Non sono neppure sicura di che cosa significhi 'normale', oggi come
oggi», osservò Katherine. Gli occhi di lei sembravano grigio-azzurri. Da
vicino il suo sguardo era molto penetrante. «Credo che 'normale' corri-
sponda a una qualche immagine antiquata rimasta nel ripostiglio della no-
stra mente, mia e di Tom. Maggie non è viziata. Non è una bambina del ti-
po 'Susy ha questo', oppure 'i genitori di Casey le hanno comprato questo'.
Non è presuntuosa. Ecco che cosa intendo per 'normale'. È semplicemente
una bambina, agente.»
Mentre parlava con affetto della figlia, mi ritrovai a pensare ai miei, di
figli, ma soprattutto a Janelle. Anche Jannie era «normale». Con questo in-
tendo dire che era equilibrata, senz'altro non viziata, adorabile in ogni sen-
so. Li ascoltai con attenzione ancora maggiore mentre parlavano di Maggie
Rose.
«Assomiglia moltissimo a Katherine.» Thomas Dunne propose un ar-
gomento che riteneva importante farmi conoscere. «Katherine è la persona
meno egocentrica che io abbia mai conosciuto. Mi creda, sopravvivere al-
l'adulazione e agli insulti odiosi che una stella del cinema può ricevere a
Hollywood, e rimanere una persona come lei, è molto difficile.»
«Come mai l'avete chiamata Maggie Rose?» chiesi a Katherine.
«Questo è opera mia.» Gli occhi di Thomas Dunne brillarono. Si capiva
che gli piaceva parlare a nome della moglie. «Era un soprannome che poi
ha attecchito subito. La cosa è cominciata quando ho visto loro due in o-
spedale.»
«Tom ci chiama 'le ragazze Rose', 'le sorelle Rose'», proseguì Katherine.
«Facciamo ginnastica e corriamo qui, nel 'Giardino delle Rose'. Quando io
e Maggie litighiamo, è 'la guerra delle Rose'. E via di seguito.»
Amavano molto la loro bambina. Lo avvertivo da ogni parola che dice-
vano su Maggie.
Soneji, o comunque si chiamasse in realtà, nel loro caso aveva fatto una
scelta oculata. Si trattava di un'altra mossa perfetta da parte sua. Si era
preparato bene. Una grande stella del cinema e un avvocato famoso. Geni-
tori molto affezionati. Soldi. Prestigio. Forse gli piacevano i film di lei.
Cercai di ricordare se Katherine Rose avesse interpretato un ruolo che po-
teva averlo spinto ad agire. Non ricordavo di aver visto foto sue nell'appar-
tamento di Soneji.
«Sapreste immaginare in che modo Maggie potrebbe reagire in una simi-
le circostanza?» domandai.
«Perché fa questa domanda?» mi chiese a sua volta Katherine.
«Da quanto ci hanno raccontato i suoi insegnanti, sappiamo che si com-
porta molto bene. Questa potrebbe essere una ragione per cui Soneji l'ha
scelta.» Ero schietto con loro. «Che altro vi può venire in mente? Esprime-
te ogni possibile associazione di idee.»
«Maggie oscilla tra un atteggiamento serio - è molto severa e ligia ai do-
veri - e uno molto fantasioso», disse Katherine. «Lei ha figli?» mi chiese.
Trasalii. Stavo pensando di nuovo a Jannie e Damon. «Due figli. E poi
lavoro per i ragazzi dei quartieri poveri», risposi. «Maggie ha molti amici a
scuola?»
«Decine e decine», disse suo padre. «A lei piacciono i ragazzi che hanno
tante idee, ma non sono troppo egocentrici. Salvo Michael, che è molto at-
tento alle esigenze del proprio io.»
«Mi racconti di loro due, Maggie e Michael.»
Katherine Rose sorrise per la prima volta da quando stavamo parlando.
Era così strano quel sorriso, che avevo visto in tanti film e ora vedevo di
persona. Ne fui ipnotizzato. Mi sentii intimidito, e anche imbarazzato dalla
mia stessa reazione.
«Sono inseparabili fin da quando ci siamo trasferiti qui. Sono una coppia
stranissima, ma non si lasciano mai. A volte li chiamiamo 'i fidanzati'.»
«Come pensa che Michael reagirebbe in queste circostanze?»
«Difficile a dirsi.» Thomas Dunne scosse il capo. Dava l'impressione di
essere un uomo molto impaziente. Probabilmente era abituato a ottenere
quello che voleva e quando lo voleva. «Michael ha la necessità di seguire
un piano. La sua vita è molto ordinata, ben organizzata.»
«Che cosa mi può dire dei suoi disturbi fisici?» Sapevo dei problemi che
aveva avuto alla nascita. Aveva ancora un soffio al cuore.
Katherine Rose scrollò le spalle. «Sembrava non fosse un grosso pro-
blema. A volte si stanca. È un po' piccolo per la sua età. Maggie è più alta
di Michael.»
«Lo chiamano 'Tappo', un nomignolo che credo gli piaccia. Lo fa sentire
parte del gruppo», aggiunse Tom Dunne. «È una specie di bambino super-
dotato. Maggie lo chiama 'cervellone'. Questa è una descrizione abbastanza
esauriente di Michael.»
«Michael è senz'altro un cervellone.»
«Com'è quando si stanca?» Ritornai su un punto sollevato da Katherine,
forse un punto importante. «Diventa irascibile?»
Soppesò la domanda prima di rispondere. «Si sente solamente stanco
morto. A volte, schiaccia un pisolino. Una volta... Mi ricordo che si sono
addormentati entrambi vicino alla piscina. Quella strana coppia era stesa
nell'erba. Proprio come due bambini.»
Mi fissò coi suoi grandi occhi grigi e cominciò a piangere. Ce l'aveva
messa tutta per controllarsi, ma alla fine aveva ceduto.
Per quanto fossi riluttante, ora mi sentivo tirato dentro fino al collo. Pro-
vavo compassione per i Dunne e i Goldberg. Se pensavo a Maggie Rose
mi venivano in mente i miei figli. Mi sentivo coinvolto in un modo che
non sempre è utile. La rabbia che provavo nei confronti dell'assassino di
Mustaf si stava trasferendo sul rapitore di questi due bambini innocenti: il
signor Soneji, Mister Chips.
Volevo arrischiarmi a dire loro che sarebbe andato tutto bene, convince-
re me stesso che sarebbe andato tutto bene. Ma non ne ero affatto sicuro.
16
Maggie Rose credeva ancora di trovarsi nella propria tomba. Era ben più
che raccapricciante e spaventoso. Era un milione di volte peggio di qua-
lunque altro incubo avesse mai avuto. E Maggie sapeva di avere un'imma-
ginazione molto fervida. Era capace di orripilare o sbalordire i suoi ami-
chetti, quasi a suo piacere.
Era notte? Oppure era giorno?
Emise un debole gemito: «Michael?» In bocca, soprattutto sulla lingua,
sentiva un forte sapore di tamponi di cotone. La sua bocca era incredibil-
mente secca. Aveva una gran sete. A volte si mordeva la lingua. Continua-
va a immaginarsi d'ingoiare la lingua. Nessuno aveva mai provato una tale
sete. Neppure nei deserti dell'Iraq e del Kuwait.
Maggie Rose continuava a fluttuare tra il sonno e la veglia. I sogni si
susseguivano l'uno dopo l'altro. Ne era appena iniziato uno nuovo.
Lì vicino qualcuno stava picchiando su una pesante porta di legno.
Chiunque fosse gridò il suo nome. «Maggie Rose... Maggie Rose, di'
qualcosa!»
Poi Maggie non fu più sicura che si trattasse di un sogno.
C'era davvero qualcuno.
Qualcuno voleva penetrare nella sua tomba? Erano forse la mamma e il
papà? O finalmente la polizia?
D'improvviso fu accecata da una luce che veniva dall'alto. Maggie Rose
era sicura che si trattava di luce.
Era come se davanti al suo viso si fosse acceso un centinaio di flash.
Il cuore le batteva così forte e veloce che Maggie Rose capì di essere vi-
va. Nel posto orribile in cui qualcuno l'aveva messa, ma viva.
Maggie Rose sussurrò verso l'alto, verso la luce: «Chi è? Chi c'è? Chi c'è
lassù? Vedo un viso!»
La luce era così violenta che Maggie Rose non riusciva a vedere niente.
Per la seconda - o terza - volta il buio completo si era trasformato in un
bianco accecante.
Poi la sagoma di qualcuno nascose alla vista gran parte della luce. Mag-
gie non riusciva a vedere chi c'era lì. La luce s'irradiava da dietro la perso-
na.
Maggie serrò forte gli occhi. Poi li aprì. Ripeté l'azione più volte.
Non riusciva a vedere niente. Non riusciva a mettere a fuoco chi o che
cosa ci fosse lì. Dovette continuare a strabuzzare gli occhi. Chiunque si
trovasse lassù doveva vedere che lei li strabuzzava, doveva capire che lei
era viva.
«Signor Soneji? Mi aiuti», cercò di urlare. La sua gola era così asciutta.
La sua voce era così stridula e irriconoscibile.
«Zitta! Zitta!» gridò una voce dall'alto.
C'era qualcuno là sopra! C'era davvero qualcuno là sopra che poteva ti-
rarla fuori. Sembrava la voce di una vecchia.
«Per favore, mi aiuti. La prego», implorò Maggie.
Una mano calò rapida e la colpì al volto con violenza.
Maggie scoppiò in pianto. Provò più spavento che dolore, ma lo schiaffo
le fece male. Non era mai stata schiaffeggiata prima. La testa le rimbom-
bava con violenza.
«Smettila-di-piangere!» Quella voce lugubre si era fatta più vicina.
Poi quella persona scese nella tomba, e fu proprio sopra di lei. Maggie
sentì una forte puzza di sudore e un alito cattivo. Qualcuno la teneva in-
chiodata al suolo, e lei era troppo debole per reagire.
«Non fare resistenza, piccola bastarda! Non fare mai resistenza! Chi cre-
di di essere, piccola bastarda?»
Dio, ti prego, che stava accadendo?
«Tu sei la famosa Maggie Rose, vero? Una marmocchia ricca e viziata!
Adesso ti dirò un segreto. Il nostro segreto. Ragazzina ricca, tu morirai. Tu
morirai!»
17
18
Jezzie Flanagan ritornò a casa solo verso l'alba del giorno di Natale. Le
girava la testa, quasi le scoppiava sotto la spinta delle idee riguardo al se-
questro che le turbinavano dentro.
Doveva assolutamente far cessare quelle immagini ossessive.
Doveva spegnere i motori, altrimenti sarebbe esplosa. Doveva smetterla
di fare il poliziotto. La differenza tra lei e gli altri poliziotti era che lei sa-
peva staccare.
Jezzie viveva ad Arlington con la madre. Dividevano un piccolo appar-
tamento in un condominio vicino alla fermata della metropolitana di
Crystal City. Jezzie lo considerava un «appartamento da suicidi». Quella
sistemazione avrebbe dovuto essere provvisoria, solo che ormai abitava lì
da quasi un anno, da quando aveva divorziato da Dennis Kelleher.
Dennis, detto «la Peste», si trovava nel Jersey settentrionale in quel pe-
riodo, a cercare ancora di entrare al New York Times. Non sarebbe mai riu-
scito nell'impresa, Jezzie ne era profondamente convinta. L'unica cosa in
cui si era dimostrato bravo era stato il tentativo di scuotere la fiducia di
Jezzie in se stessa. Era un vero asso in quella specialità, ma alla fine lei
non gli aveva permesso di distruggerla.
Aveva lavorato troppo duro ai servizi segreti per trovare il tempo di tra-
slocare dall'appartamento di sua madre. O almeno questo era ciò che con-
tinuava a ripetersi. Non c'era stato il tempo di avere una vita privata. Stava
risparmiando in vista di qualcosa di grosso, di un importante cambiamento
nella sua vita. Faceva il computo dei suoi beni almeno un paio di volte alla
settimana, ogni settimana. Possedeva ventiquattromila dollari. Quello era
tutto. Aveva trentadue anni. Sapeva di essere carina, quasi bella, nella stes-
sa misura in cui Dennis Kelleher era un buono scrittore.
Poteva essere competitiva, pensava spesso. Ce l'aveva quasi fatta. Aveva
bisogno solo di un'occasione, e alla fine aveva capito che quell'occasione
doveva crearla lei. Si sentiva impegnata a fondo in quell'obiettivo.
Si bevve una Smithwich, una birra chiara veramente ottima, il veleno
preferito da suo padre. Mordicchiò una fetta di formaggio fresco. Poi si
bevve una seconda birra sotto la doccia, nella cupa scala numero uno a ca-
sa di sua madre. Il visino di Michael Goldberg le balenò di nuovo davanti
agli occhi.
Non avrebbe più permesso che l'immagine del piccolo Goldberg le guiz-
zasse nella mente. Non avrebbe avvertito alcun senso di colpa, anche se ne
era lacerata. Basta con quelle immagini! Basta con tutto, adesso.
Sua madre tossiva nel sonno. Aveva lavorato trentanove anni per l'a-
zienda dei telefoni. Era la proprietaria dell'appartamento di Crystal City ed
era una formidabile giocatrice di bridge. Nient'altro da dire su Irene Flana-
gan.
Il padre era stato poliziotto nel Distretto di Columbia per ventisette anni.
L'ultima partita la giocò sul suo amato posto di lavoro: un infarto aveva
colpito Terry Flanagan tra la folla di Union Station, con centinaia di estra-
nei a guardarlo morire, indifferenti. Perlomeno, quello era il resoconto che
lei dava dell'accaduto.
Jezzie decise, per la millesima volta, che doveva andarsene dalla casa di
sua madre. A qualunque costo. Basta coi pretesti. Sgomberare, sgombera-
re... sgombra da qui con la tua vita.
Aveva perso la nozione del tempo in cui era rimasta sotto la doccia, con
la bottiglia di birra mezza vuota al suo fianco, sfregandosi il vetro freddo
contro la coscia. «Drogata di disperazione», bisbigliò a se stessa. «Che pe-
na!» Era comunque rimasta sotto la doccia abbastanza da finire la Smi-
thwich e da avere di nuovo voglia di un'altra birra. Aveva voglia di qualco-
sa.
Era riuscita per un po' a evitare di pensare al piccolo Goldberg. Ma non
per davvero. Come avrebbe potuto? Il piccolo Michael Goldberg.
Però, nel corso degli ultimi anni, Jezzie era diventata brava a dimentica-
re, per evitare a qualunque costo di soffrire. Era stupido soffrire, se si po-
teva farne a meno.
Naturalmente ciò obbligava anche a evitare rapporti troppo stretti, evita-
re persino i dintorni dell'amore, evitare la maggior parte delle emozioni
umane. Bene. Poteva essere un baratto accettabile. Aveva scoperto di poter
sopravvivere senza amore. Sembrava una cosa terribile, ma era la verità.
Sì, al momento, soprattutto in quel momento, quel baratto era un buon
affare, pensò Jezzie. La aiutava a superare i giorni e le notti di crisi. E co-
munque riusciva in tal modo ad arrivare fino all'ora del cocktail.
Ci riusciva bene. Se ce la faceva come donna-poliziotto, poteva farcela
in qualsiasi cosa. Gli altri agenti dei servizi segreti dicevano che lei aveva i
cojones. Era il loro modo di farle un complimento, e quindi Jezzie lo ac-
cettava come tale. Poi precisavano che aveva dei cojones di ferro. E quan-
do non li aveva, era abbastanza in gamba da far finta di averli.
All'improvviso, sentì il bisogno di prendere la moto per fare un giro; do-
veva uscire dal minuscolo e soffocante appartamento di Arlington.
Doveva, doveva assolutamente, farlo.
Sua madre la chiamò. «Jezzie, dove vai così tardi? Jezzie, sei tu?»
«Vado qui vicino, mamma.» Una battuta cinica le rimbalzò dentro la te-
sta: vado a fare gli acquisti di Natale al centro commerciale. Come al soli-
to se la tenne dentro. Desiderava che il Natale se ne andasse via. Aveva
paura del giorno successivo.
Poi partì nella notte sulla sua BMW K-1, sfuggendo ai suoi incubi per-
sonali, oppure inseguendoli. Inseguendo i suoi demoni.
Era Natale. Michael Goldberg era morto per i nostri peccati? Era di que-
sto che si trattava?
Rifiutò di sentire su di sé tutta la colpa. Era Natale e Cristo era già morto
per i peccati di tutti. Anche per i peccati di Jezzie Flanagan. Si sentiva un
po' pazza. No, si sentiva molto pazza, ma poteva riprendere il controllo
della situazione. Sempre sotto controllo. Ecco quello che avrebbe fatto ora.
Cantava Winter Wonderland, mentre a centottanta chilometri all'ora per-
correva l'autostrada che usciva da Washington. Di solito non aveva paura,
ma quella volta sì.
19
20
Il nostro albergo era situato di fronte all'ufficio dell'FBI. Non era gran
che secondo i parametri di Miami Beach, ma disponeva di una grande pi-
scina sul lato rivolto verso l'oceano.
Intorno alle undici, la maggior parte di noi aveva staccato per andarsene
a dormire. La temperatura superava ancora i trenta gradi. Il cielo era tra-
punto di stelle lucenti e ogni tanto veniva solcato da qualche jet provenien-
te da nord.
Sampson e io attraversammo a passo da turisti la Collins Avenue.
«Vuoi mangiare oppure preferisci stordirti di whisky?» mi chiese a metà
strada.
«Sono già abbastanza stordito. Stavo pensando a una nuotatina. Quando
si è a Miami Beach...»
«Stasera non ti prenderai un'abbronzatura degna del luogo», disse roto-
landosi tra le labbra una sigaretta spenta.
«Una ragione in più a favore della nuotatina notturna.»
«Io mi piazzerò nella hall», disse Sampson quando svoltammo nell'atrio.
«A rimorchiare qualche bella ragazza.»
«Buona fortuna», gli gridai. «È Natale. Spero che ti facciano un regali-
no.»
Indossai un costume da bagno e mi avviai verso la piscina dell'albergo.
Sono giunto alla conclusione che il segreto per restare in salute è fare sport
e quindi mi alleno ogni giorno, ovunque mi trovi. Pratico molto assidua-
mente anche lo stretching, che si può fare a qualunque ora e in qualunque
posto.
La grande piscina era chiusa, ma non per questo mi scoraggiai. Noi poli-
ziotti siamo famosi per attraversare le strade senza guardare, parcheggiare
in doppia fila e, in generale, non osservare le regole. È la nostra unica for-
ma di tracotanza.
Qualcun altro aveva avuto la mia stessa idea e stava nuotando in modo
così silenzioso e tranquillo che non me ne accorsi finché non passai tra le
sedie a sdraio, avvertendo sotto i piedi una sensazione di freddo e umido.
Il nuotatore era una donna snella e atletica, con un costume blu e nero.
Aveva braccia lunghe e gambe ancora più lunghe. Era un bello spettacolo
in quel giorno non troppo bello. Le sue bracciate erano potenti, ritmiche e
senza sforzo. Sembrava che si trovasse nella sua piscina privata e non volli
disturbarla.
Quando virò, vidi che si trattava di Jezzie Flanagan. Questo mi sorprese.
Mi sembrava che nuotare non si addicesse a un supervisore dei servizi se-
greti.
Scesi rapidamente nell'estremità opposta della piscina e iniziai le mie
vasche. Non avevano niente di bello né di ritmico, ma le mie bracciate fa-
cevano un buon lavoro; di solito riesco a fare lunghe nuotate.
Portai facilmente a termine trentacinque vasche. Mi sentivo finalmente
sciolto come non mi capitava da alcuni giorni. Le ragnatele cominciavano
a cadere. Potrei farne un'altra ventina, e poi andare a coricarmi. Oppure
potrei prendermi una birra con Sampson per festeggiare il Natale.
Quando mi fermai per una rapida boccata d'aria, Jezzie Flanagan era se-
duta proprio lì, sull'orlo di una sedia a sdraio.
Teneva un morbido asciugamano gettato sulle spalle nude. Era molto ca-
rina al chiaro di luna di Miami: sottile, biondissima... I suoi luminosi occhi
azzurri mi fissavano.
«Venti vasche, detective Cross?»
Sorrise, in un modo che rivelava una persona diversa da quella che ave-
vo visto al lavoro nei giorni precedenti. Sembrava molto più rilassata.
«Trentacinque», la corressi. «Non appartengo esattamente alla sua stessa
categoria, e neppure a quella vicina. Ho imparato il mio stile nella piscina
della parrocchia.»
«Insista.» Conservò quel suo grazioso sorriso. «È in buona forma.»
«Comunque si definisca il mio stile, stasera si sta proprio bene. Dopo
tutte le ore passate al chiuso in quella stanza, con quelle finestrelle che non
si aprono mai.»
«Se avessero grandi finestre, tutti penserebbero di scappare in spiaggia.
Qui in Florida non si combinerebbe niente.»
«Perché, noi stiamo combinando qualcosa?» chiesi a Jezzie.
Rise. «Avevo un amico la cui teoria sul lavoro nella polizia era: 'fa' del
tuo meglio'. Io sto facendo del mio meglio. In circostanze impossibili. E
lei?»
«Anch'io faccio del mio meglio», confermai.
«Dio sia lodato.» Sollevò allegramente entrambe le braccia. La sua esu-
beranza mi sorprendeva. La scena era divertente, e faceva bene ridere, una
volta tanto. Faceva veramente bene. Era veramente necessario.
«Date le circostanze, sto facendo del mio meglio», aggiunsi.
«Date le circostanze, Dio sia lodato!» Alzò di nuovo la voce. Era diver-
tente, oppure era tardi, o entrambe le cose.
«Vuole fare uno spuntino?» le chiesi. Volevo sentire che cosa ne pensa-
va del caso. Non ne avevo ancora parlato con lei.
«Vorrei mangiare qualcosa», rispose. «Ho già saltato due pasti oggi.»
Concordammo di trovarci nella sala da pranzo dell'albergo, uno di quegli
affari all'ultimo piano che girano lentamente su se stessi.
Si cambiò in cinque minuti, altra cosa che m'impressionò. Calzoni beige
larghi. Una maglietta con collo a V, pantofole cinesi nere. I suoi capelli
biondi erano ancora umidi. Li aveva pettinati all'indietro e le stavano bene.
Non era truccata, ma non ne aveva bisogno. Sembrava così diversa da co-
me si presentava sul lavoro: molto più sciolta e a suo agio.
«In tutta franchezza e onestà, devo dirle una cosa.» Rideva.
«Quale cosa?»
«Be', lei è un forte nuotatore ma il suo stile è goffo. D'altra parte, in co-
stume da bagno fa la sua bella figura.»
Ridemmo tutti e due. Un po' della tensione di quella lunga giornata co-
minciava ad allentarsi.
Ci dimostrammo bravi entrambi a far parlare l'altro mentre bevevamo
una birra o mangiavamo qualcosa. Un fatto da mettere in rapporto alle cir-
costanze particolari e alla tensione dei giorni passati. E poi fa parte del mio
mestiere far parlare la gente, e la cosa mi stimola.
Riuscii a farle confessare che era stata eletta Miss Washington quando
aveva diciott'anni. Aveva fatto parte di un'associazione goliardica femmi-
nile all'università della Virginia, ma l'avevano buttata fuori per «compor-
tamento sconveniente», frase che mi piacque molto.
Però, mentre chiacchieravamo, fui sorpreso dal fatto che anch'io le stessi
raccontando più di quanto avessi messo in conto. Era un tipo con cui era
facile lasciarsi andare.
Jezzie m'interrogò sui miei primi tempi di psicologo a Washington.
«Più che altro è stato un brutto sbaglio», le dissi, senza riferirle la rabbia
che mi aveva procurato, e ancora mi procurava. «Un sacco di gente non
vuole saperne di uno strizzacervelli nero, e pochi neri possono permetter-
sene uno.» Mi fece parlare di Maria, ma solo un po'.
Lei mi raccontò come si sentiva una donna nei servizi segreti dove il no-
vantanove per cento sono uomini del genere macho. «A loro piace metter-
mi alla prova, oh, sì, almeno una volta al giorno. Mi chiamano 'l'Uomo'.»
Conosceva alcune divertenti storielle sulla Casa Bianca. Aveva conosciuto
i Bush e i Reagan. Tutto sommato fu un'ora piacevole che passò troppo ve-
locemente.
In effetti era passata più di un'ora. Forse addirittura due. Infine Jezzie
notò la nostra cameriera che si aggirava tutta sola vicino al bar. «Acciden-
ti. Siamo gli ultimi clienti del ristorante.»
Pagammo il conto e prendemmo l'ascensore per scendere dal ristorante
girevole. La stanza di Jezzie si trovava quattro piani sopra la mia. Proba-
bilmente dalla sua suite godeva anche della vista sull'oceano.
«È stata veramente una serata simpatica», le dissi quando l'ascensore si
arrestò al suo piano. Credo che si tratti di una battuta elegante di una
commedia di Noel Coward. «Grazie della compagnia e buon Natale.»
«Buon Natale, Alex», mi disse sorridendo. Si sistemò i capelli biondi
dietro l'orecchio. Era un tic che avevo già notato.
Mi diede un bacetto sulla guancia e si diresse verso la sua camera. «Ti
sognerò in costume da bagno», mi disse mentre si chiudevano le porte del-
l'ascensore.
Scesi quattro piani, e mi feci la mia doccia fredda di Natale, da solo nel-
la mia stanza d'albergo di Natale. Pensai a Jezzie Flanagan. Sciocche fan-
tasie in una solitaria stanza d'albergo di Miami Beach. Di certo tra noi due
non ci sarebbe mai stato niente di serio, però mi piaceva. Mi sembrava
quasi di poter parlare di qualunque cosa con lei. Lessi ancora un po' del
mio libro contro la depressione, finché non mi addormentai. Feci qualche
sogno in cui c'era la mia bella.
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PARTE SECONDA
IL FIGLIO DI LINDBERGH
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Quando Gary era molto agitato, si rifugiava nelle amate fantasie della
sua adolescenza. Ora era molto agitato. Il piano geniale che aveva concepi-
to sembrava sfuggito al suo controllo. Non voleva neppure pensarci.
Quasi sussurrando, ripeteva a memoria le parole magiche: «La fattoria
di Charles Lindbergh era illuminata da vivaci luci arancione. Sembrava
un castello in fiamme... Ma adesso il rapimento di Maggie Rose era il De-
litto del Secolo. Proprio così!»
Secondo una delle sue fantasticherie, era lui che aveva eseguito da ra-
gazzo il rapimento Lindbergh.
Era quello l'inizio di tutto: una storia che aveva inventato all'età di dodici
anni. Una storia che si ripeteva continuamente per non impazzire. Il sogno
a occhi aperti di un delitto commesso venticinque anni prima di nascere.
Ormai era buio pesto nel seminterrato di casa sua. Lui si era abituato al
buio. Ci si poteva vivere. Poteva perfino essere stupendo.
Erano le sei e un quarto di mercoledì 6 gennaio a Wilmington, nel De-
laware.
Ora Gary lasciava vagare la mente, la lasciava volare. Era in grado di
vedere ogni segreto particolare della fattoria di Lindy il Fortunato e di An-
ne Morrow Lindbergh a Hopewell.
Per tanto tempo era stato ossessionato da quel celebre rapimento. Fin da
quando la matrigna l'aveva mandato per la prima volta in cantina. «Dove i
bambini cattivi vanno a meditare su ciò che hanno fatto di sbagliato.»
Ne sapeva più di qualunque altra persona vivente su quel rapimento. Il
piccolo Lindbergh era stato ritrovato infine in una tomba poco profonda a
soli sei chilometri dalla casa del New Jersey. Ah, ma era davvero il piccolo
Lindbergh? Il cadavere che avevano trovato era troppo alto di statura: ot-
tantaquattro centimetri, invece dei settantaquattro di Charles Junior.
Nessuno aveva capito quel sensazionale sequestro irrisolto. A tutt'oggi.
E sarebbe andata così anche con Maggie Rose e Michael Goldberg.
Nessuno sarebbe mai riuscito ad arrivarne a capo. Era una promessa!
Nessuno era mai riuscito a risolvere neppure uno degli altri omicidi che
aveva commesso, no? Avevano catturato John Wayne Gacy Junior, dopo
più di trenta omicidi a Chitown. Jeffrey Dahmer fu beccato dopo diciasset-
te a Milwaukee. Gary ne aveva uccisi più di tutti e due messi insieme. Ma
nessuno sapeva chi fosse, o dove si trovasse, o che altro avesse in mente di
fare dopo.
Era buio in quella cantina, ma Gary c'era abituato. «La cantina è un'abi-
tudine acquisita», aveva detto una volta alla matrigna per farla arrabbiare.
La cantina era come la mente una volta che si è morti. Poteva essere una
cosa raffinata, se si possedeva una mente veramente grande, come la sua.
Gary stava pensando al piano operativo, e la sua idea era semplice: il
bello doveva ancora venire.
Era meglio che non chiudessero occhio.
Ai piani superiori della casa, Missy Murphy stava facendo del suo me-
glio per non arrabbiarsi troppo con Gary. Stava preparando i biscotti per la
loro figlia, Roni, e per gli altri ragazzi del vicinato. Missy cercava vera-
mente di essere comprensiva e costruttiva. Ancora una volta.
Aveva cercato di non pensare a Gary. Di solito quando cucinava al forno
ci riusciva. Ma stavolta no. Gary era incorreggibile. Era anche simpatico,
dolce e brillante come una lampadina da mille watt. Quella era la principa-
le ragione per cui lei si era sentita attratta da lui.
L'aveva conosciuto all'università del Delaware. Lui si era trasferito lì da
Princeton. Non aveva mai parlato con uno così in gamba in tutta la sua vi-
ta, neppure i suoi professori stavano alla pari con Gary.
La parte adorabile di lui era quella che l'aveva portata a sposarselo nel
1982. Contro il parere di tutti. La sua migliore amica, Michelle Lowe, cre-
deva nei tarocchi, nella reincarnazione, in tutta quella roba insomma. Lei
aveva fatto il loro oroscopo, quello di Gary e quello di Missy. «Mandalo
via, Missy», le aveva consigliato. «Non lo guardi mai negli occhi?» Ma
Missy era andata avanti, sposandolo contro il parere di tutti. Forse era per
quello che lei gli era rimasta attaccata nel bene, nel male e nel peggio.
Sopportò ben più di quanto chiunque si sarebbe aspettato da lei. A volte
era come se ci fossero due Gary da sopportare. Gary e i suoi incredibili
giochi mentali.
Doveva esserci sicuramente una brutta notizia in arrivo, pensava mentre
stava versando un sacchetto pieno di briciole. Uno di quei giorni lui le a-
vrebbe rivelato che l'avevano licenziato dal lavoro. La solita brutta storia
che ricominciava.
Gary le aveva già detto che era «più in gamba di chiunque altro» sul la-
voro (senza dubbio ciò era vero). Le aveva detto che lui stava superando
tutti quanti. Le aveva detto che piaceva ai suoi principali. (Questo proba-
bilmente era stato vero all'inizio.) Le aveva detto che tra breve intendevano
nominarlo direttore vendite. (Questa era senz'altro una delle storie di
Gary.) Poi, nacquero dei problemi. Gary le aveva raccontato che il suo ca-
po aveva cominciato a essere geloso di lui. L'orario di lavoro era im-
possibile. (Questo era abbastanza vero. Stava lontano da casa tutta la set-
timana e anche qualche weekend.) Il ciclo era avviato. La cosa penosa era
che se non ce la faceva in questo lavoro, con questo principale, come pote-
va farcela da qualunque altra parte?
Missy Murphy era sicura che uno di quei giorni Gary sarebbe venuto a
casa e le avrebbe detto che avevano chiesto le sue dimissioni. I suoi giorni
come commesso viaggiatore della Atlantic Heating Company erano conta-
ti. Dove avrebbe trovato lavoro, dopo? Chi poteva essere più comprensivo
del suo attuale principale, il fratello di lei, Marty?
Perché doveva essere tutto sempre così difficile? Come mai lei si faceva
sempre mettere nel sacco dai tipi come Gary Murphy?
Missy Murphy si chiese se quella sera sarebbe stata la sera del fattaccio.
Gary era stato di nuovo licenziato? Glielo avrebbe detto quella sera, torna-
to a casa dal lavoro? Come poteva una persona così intelligente essere un
fallito? si chiedeva. La prima lacrima le cadde nella pasta dei biscotti, poi
Missy si sfogò. Tutto il suo corpo prese a tremare e a sussultare.
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Non avevo mai avuto difficoltà a ridere delle mie frustrazioni di poliziot-
to e di psicologo, ma stavolta era molto più dura. Soneji ci aveva sconfitto
giù nel Sud, in Florida e in Carolina. Non avevamo avuto indietro Maggie
Rose. Non sapevamo se era viva o morta.
Dopo essere stato interrogato per cinque ore dall'FBI, venni spedito in
aereo a Washington a rispondere alle stesse domande nel mio dipartimen-
to. Uno degli ultimi inquisitori fu il comandante Pittman. Il capo apparve a
mezzanotte. Era fresco di doccia e di rasatura, apposta per il nostro incon-
tro speciale.
«Hai un aspetto assolutamente spaventoso», esordì.
«Sono in piedi da ieri mattina. Lo so che aspetto ho. Dimmi qualcosa
che non so.»
Ancor prima che mi uscissero di bocca quelle parole capii che stavo
commettendo un errore. Di solito affronto le sconfitte con coraggio, ma
ormai ero intontito, stanco e completamente fuori di testa.
Il capo si chinò verso di me da una delle seggiole di metallo della sala
riunioni. Gli vedevo i denti d'oro mentre parlava. «Certo, Cross. Ti devo
sbattere fuori di questo caso di sequestro. Giusto o sbagliato che sia, la
stampa sta addossando gran parte della responsabilità di questo disastro a
te, e a noi. L'FBI non viene messo sotto accusa. Per giunta Thomas Dunne
sta facendo una gran cagnara. Il che mi sembra giusto. I soldi del riscatto
sono spariti, e non abbiamo recuperato sua figlia.»
«Sono tutte stronzate», obiettai al comandante Pittman. «Soneji ha chie-
sto di me come intermediario. Nessuno sa ancora perché. Forse non avrei
dovuto andarci, e invece ci sono andato. È stato l'FBI che non ha saputo
garantire la sorveglianza, non io.»
«Adesso dimmi qualcosa che io già non so», ricominciò Pittman. «In
ogni caso tu e Sampson ritornate a occuparvi degli omicidi Sanders e Tur-
ner. Proprio come volevate all'inizio. Non m'interessa se, non ufficialmen-
te, continuate a lavorare al sequestro. Questo è tutto.» Il capo, dopo aver
recitato la sua bella tirata, se ne andò. Passo e chiudo. Nessuna discussio-
ne.
Sampson e io eravamo stati rispediti al nostro posto: il settore sud-est di
Washington. Ora ognuno tornava a occuparsi del proprio orticello. L'omi-
cidio di sei neri diventava di nuovo importante.
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Due giorni dopo il mio ritorno dal South Carolina, venni svegliato dal
baccano di una folla riunitasi all'esterno di casa nostra.
Ero apparentemente al sicuro fra le lenzuola, quando udii un ronzare di
voci. In testa mi rimbombava una frase: «Oh, no, è di nuovo domani».
Infine aprii gli occhi. Vidi altri occhi. Damon e Janelle mi stavano fis-
sando. Il fatto che stessi ancora dormendo a quell'ora pareva divertirli.
«Ragazzi, è la TV che fa tutto questo fracasso?»
«No, papà», rispose Damon. «La TV è spenta.»
«No, papà», ripeté Janelle. «È meglio della TV.»
Mi rizzai su un gomito. «Be', state facendo una festa coi vostri amici?»
Entrambi scossero il capo con serietà. Poi Damon sorrise, mentre la
bambina rimase seria e un po' timorosa.
«No, papà, non stiamo facendo una festa», assicurò Damon.
«Hmm. Non ditemi che sono ritornati i giornalisti e quelli della TV. So-
no appena stati qui... solo ieri sera.»
Damon se ne stava in piedi con le mani sopra la testa. Lo fa quando è
nervoso o eccitato.
«Sì, papà, sono di nuovo i giornalisti.»
«Smammate», borbottai tra me.
«Smamma tu», replicò Damon con sguardo torvo. In parte capiva quel
che stava accadendo.
Un pubblico linciaggio. Il mio.
Di nuovo quei maledetti giornalisti. Mi rigirai a fissare il soffitto. Aveva
bisogno di una mano di bianco. Quando si è proprietari di una casa, il lavo-
ro non finisce mai.
La notizia che ero stato io a combinare un gran casino al momento della
consegna del riscatto era arrivata ai giornali. Qualcuno, forse l'FBI, forse
George Pittman, aveva provveduto a sputtanarmi. Qualcuno della polizia
aveva lasciato trapelare l'informazione falsa secondo cui il nostro operato a
Miami derivava dalle mie valutazioni psicologiche su Soneji.
Un settimanale a diffusione nazionale intitolava: POLIZIOTTO DI
WASHINGTON HA PERSO MAGGIE ROSE! Thomas Dunne aveva det-
to in un'intervista in TV che mi riteneva personalmente responsabile della
mancata liberazione della figlia in Florida.
Da quel momento divenni l'oggetto di parecchi articoli e editoriali. Nes-
suno di essi era particolarmente positivo e neppure si avvicinava alla realtà
dei fatti.
Se fosse stato vero che in qualche modo avevo mandato a monte l'opera-
zione, avrei accettato le critiche. Riesco ad accettare una lavata di capo se
me la merito. Ma io non avevo affatto combinato pasticci. Avevo rischiato
la vita in Florida.
Avevo bisogno più che mai di sapere perché Gary Soneji aveva voluto
me per lo scambio in Florida. Perché mi aveva coinvolto nei suoi piani?
Finché non l'avessi scoperto non sarei riuscito a staccarmi dal sequestro.
Non importava ciò che il capo diceva, pensava o faceva di me.
«Damon, vai subito sulla veranda», dissi a mio figlio. «Di' ai cronisti di
andare a spasso. Di' loro di filarsela. D'accordo?»
«Sì. Di andare a spasso!» disse Damon.
Feci un largo sorriso a Damon, il quale capiva che stavo facendo del mio
meglio in quella situazione. Mi ricambiò il sorriso. Infine Janelle fece una
smorfia e prese Damon per mano. Mi stavo alzando. Avvertivano che sta-
vo per mettermi in azione. Potevano contarci.
Sbirciai all'esterno verso la veranda. Avrei parlato coi giornalisti.
Non mi curai di mettermi le scarpe, né la camicia. Mi vennero in mente
le immortali parole di Tarzan: Aaeeyaayaayaa!
«Come state in questa bella mattina d'inverno?» chiesi con indosso un
paio di pantaloni color kaki. «Qualcuno vuole un caffè o delle paste?»
«Detective Cross, Katherine Rose e Thomas Dunne danno a lei la colpa
per gli errori commessi in Florida. Il signor Dunne ha fatto un'altra dichia-
razione ieri sera.» In un certo senso mi stava fornendo le notizie del matti-
no, oltretutto gratis. Sì, ero ancora il capro espiatorio della settimana.
«Posso capire la delusione della famiglia Dunne per i risultati dell'opera-
zione in Florida», commentai con tono sereno. «Buttate pure i bicchierini
del caffè sul prato, come avete già fatto. Li raccoglierò dopo.»
«Allora lei riconosce di aver fatto un errore», disse qualcuno. «Passare i
soldi del riscatto senza prima vedere Maggie Rose?»
«Non riconosco un bel niente. Non ho avuto scelta né in Florida né nel
South Carolina. L'unica scelta che ho avuto era di non seguire l'intermedia-
rio. Vede, se uno è ammanettato, e l'altro ha una pistola, ci si trova in gros-
so svantaggio. Se poi i soccorsi arrivano in ritardo, quello è un altro pro-
blema ancora.»
Sembrava che non avessero ascoltato una sola parola di quello che avevo
detto. «Le nostre fonti dicono che è stato lei a prendere la decisione di pa-
gare il riscatto», disse qualcuno.
Cercai di ribattere a quelle sciocchezze.
«Perché avete piantato le tende sul mio prato? Perché venite qui a spa-
ventare la mia famiglia? A mettere sottosopra il quartiere? Non m'interessa
quello che stampate su di me, ma vi dico questo: non avete la minima idea
di quanto sta succedendo. Potreste mettere in pericolo la piccola Dunne.»
«È viva, Maggie Rose Dunne?» gridò qualcuno.
Mi voltai e ritornai in casa. Così imparavano. Ora sapevano che cosa si-
gnificava rispettare la privacy della gente.
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Dopo che Jezzie Flanagan ebbe esaurito i suoi impegni nella zona sud-
est, si diresse verso la fattoria in cui Gary Soneji aveva sepolto i due bam-
bini. Era già stata lì un paio di volte, ma c'erano ancora molte cose in quel-
la fattoria del Maryland che non la convincevano. In ogni caso, lei era un
tipo maledettamente ostinato. Pensava che nessuno avesse voglia di cattu-
rare Soneji più di lei.
Ignorò il cartello con scritto LUOGO DEL DELITTO e s'inoltrò a tutta
velocità nella strada in terra battuta fino a un gruppo di costruzioni diroc-
cate. Ricordava con precisione tutti i particolari. C'erano la fattoria, un ga-
rage per le macchine e il granaio in cui erano stati nascosti i bambini.
Ma perché questo posto? si chiese. Perché qui, Soneji? Che cosa poteva
dirle quel posto riguardo alla sua vera identità?
Jezzie Flanagan si era rivelata un vero genio delle indagini fin dal primo
giorno in cui era entrata nei servizi segreti. Era uscita col massimo dei voti
e con la lode dalla facoltà di giurisprudenza dell'università della Virginia, e
il ministero del Tesoro aveva cercato di spingerla a entrare nell'FBI, dove
quasi la metà degli agenti erano laureati in legge. Ma Jezzie aveva esami-
nato la situazione e aveva scelto di entrare nei servizi segreti, dove comun-
que la laurea avrebbe costituito un titolo in più.
Fin dagli inizi aveva lavorato dalle ottanta alle cento ore alla settimana.
Era l'astro nascente del dipartimento perché era più intelligente e tenace
degli uomini con cui e per cui lavorava. Aveva più grinta. Ma Jezzie aveva
pure capito subito che al primo passo falso la sua stella sarebbe precipitata.
Lo aveva sempre saputo.
C'era una sola soluzione: trovare Gary Soneji. Doveva essere lei a tro-
varlo.
Percorse a palmo a palmo i campi intorno alla fattoria finché non so-
praggiunse il buio. Poi ricominciò con l'aiuto di una torcia elettrica. Prese
appunti, cercando di trovare l'anello mancante. Forse era qualcosa che a-
veva a che fare col vecchio caso Lindbergh, il cosiddetto delitto del secolo,
che risaliva agli anni '30.
Il Figlio di Lindbergh?
Anche la casa di Lindbergh a Hopewell, nel New Jersey, era una fatto-
ria.
Il piccolo Lindbergh era stato sepolto non lontano dal luogo del seque-
stro.
Bruno Hauptmann, il rapitore del piccolo Lindbergh, era originario di
New York City. Che il rapitore di Washington fosse un qualche lontano
parente? Che fosse di qualche località vicina a Hopewell? Magari Prince-
ton? Come mai non era ancora saltato fuori niente a proposito di Soneji?
Prima di lasciare la fattoria, Jezzie rimase seduta in auto. Avviò il moto-
re, accese il riscaldamento e se ne restò lì, ossessionata, persa nei suoi pen-
sieri.
Dov'era Gary Soneji? Come aveva fatto a sparire? Al giorno d'oggi nes-
suno può sparire così. Nessuno è così in gamba.
Poi pensò a Maggie Rose Dunne e a Goldberg il Tappo, e le lacrime
cominciarono a scenderle lungo le guance. Non riusciva a smettere di sin-
ghiozzare. Capì che era quella la vera ragione per cui era venuta alla fatto-
ria. Jezzie Flanagan doveva sfogarsi.
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La notte dell'11 gennaio, Gary Murphy se ne stava al sicuro nel suo se-
minterrato. Nessuno sapeva che si trovava laggiù, ma se quella ficcanaso
di Missy avesse aperto la porta, lui avrebbe semplicemente acceso la lam-
pada del suo banco di lavoro. Stava ripassando tutto il piano nella propria
mente. Ancora una volta per essere sicuro.
Era ossessionato dall'idea di assassinare Missy e Roni, ma pensava di
aspettare ancora. Eppure, quella fantasticheria era allettante. Uccidere la
propria famiglia aveva un certo sapore casereccio. Non richiedeva molta
immaginazione, ma l'effetto sarebbe stato molto chiaro: il gelo avrebbe
percorso quella comunità urbana così serena e perbene. E tutte le altre fa-
miglie si sarebbero messe a fare le cose più ridicole, come chiudere a chia-
ve la porta di casa e starsene barricati tutti insieme.
Verso mezzanotte si accorse che la sua famigliola era andata a letto sen-
za di lui. Nessuno si era neppure preoccupato di dargli una voce. Non glie-
ne fregava niente di lui. Un rombo sordo stava montando dentro la sua te-
sta. Aveva bisogno di una mezza dozzina di pastiglie di Nuprin per far ces-
sare per un po' quel rumore che lui solo sentiva.
Forse avrebbe incendiato quella casa così perfetta sulla Central Avenue.
Bruciare le case faceva bene all'anima. Lo aveva già fatto in precedenza, lo
avrebbe fatto di nuovo. Dio, gli doleva il cranio come se qualcuno lo aves-
se colpito con un martello. Che avesse qualche problema fisico? Possibile
che stavolta impazzisse?
Cercò di pensare all'Aquila Solitaria, Charles Lindbergh. Neppure quello
funzionò. Nella sua mente rivisitò la fattoria allo svincolo di Hopewell.
Niente. Anche quel viaggio mentale non funzionava più.
Anche lui aveva raggiunto una fama mondiale, Cristo! Adesso era famo-
so. Lo conoscevano nel mondo intero. Era un divo dei telegiornali in tutto
il pianeta Terra.
Infine uscì dalla cantina, e poi dalla casa di Wilmington. Erano le cinque
e mezzo di mattino. Mentre s'incamminava verso l'auto, si sentiva come un
animale che avesse riacquistato la libertà.
Ritornò in auto nel Distretto di Columbia. Là c'era altro lavoro da fare.
Non voleva deludere il suo pubblico, vero?
Avrebbero avuto pane per i loro denti. Non abbassate la guardia con
me!
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Gary Murphy rientrò a casa poco dopo le cinque del pomeriggio succes-
sivo, il 14 gennaio. Era stato in ufficio, appena fuori Wilmington. C'erano
poche persone e aveva in mente di sbrigare alcune pratiche inutili. Doveva
cercare di far sembrare le cose in ordine ancora per un po'.
Aveva finito col pensare ad argomenti più vasti. Al piano generale. Gary
non riusciva proprio a prendere sul serio quel turbinio cartaceo di fatture e
conti che ricoprivano la sua scrivania. Continuò a raccogliere fatture spie-
gazzate di clienti, dando un'occhiata ai nomi, alle somme e agli indirizzi. A
quale persona sana di mente potevano mai interessare tutte quelle fatture?
pensava. Era tutto così banale, stupido e insignificante. E quella era la ra-
gione per cui quel lavoro e il Delaware costituivano un buon nascondiglio.
Quindi non concluse assolutamente nulla in ufficio, se non sprecare al-
cune ore. Se non altro, sulla via del ritorno, aveva preso un regalo per Ro-
ni. Aveva acquistato una bici rosa con le ruotine e le banderuole. Aggiunse
una Casa di Sogno di Barbie. La sua festa di compleanno era per le sei.
Missy lo accolse alla porta di casa con un abbraccio e un bacio. La tec-
nica dell'appoggio costruttivo era il suo punto forte. La festa le aveva dato
qualcosa cui pensare. Se l'era scrollata di dosso per qualche giorno.
«Giornata favolosa, tesoro. Non scherzo. Per la settimana prossima, ho
fissato tre visite a casa di clienti. Contale, tre», le disse Gary. Accidenti.
Sapeva essere affascinante, quando lo voleva. Mister Chips va nel Dela-
ware.
Seguì Missy nella sala da pranzo, dove stava preparando la tavola per la
festa con piatti colorati in plastica e tovaglioli di carta. Aveva già appeso
un lenzuolo dipinto alla parete, del tipo di quelli che vengono sollevati dai
tifosi alle partite di football dell'università degli Scemi. Questo diceva:
FORZA RONI - SETTE o SCHIATTA!
«È semplicemente geniale, tesoro. Riesci a far miracoli con niente. È tut-
to fantastico», esclamò Gary. «Le cose ora stanno senz'altro migliorando.»
In verità lui cominciava a sentirsi depresso. Era stufo e voleva schiaccia-
re un pisolino. L'idea della festa di compleanno di Roni d'improvviso gli
apparve spossante. Di certo non c'erano state festicciole quando lui era
bambino.
I vicini cominciarono ad arrivare alle sei in punto. Bene, pensò. Ciò si-
gnificava che i bambini volevano proprio venire. Trovavano Roni simpati-
ca. Lo si vedeva su tutte le loro facce da luna piena.
Parecchi genitori rimasero alla festa. Erano amici suoi e di Missy. Ligio
al dovere, ricoprì il ruolo di barman mentre Missy intratteneva i bambini
coi giochi.
Si divertivano tutti. Lui guardò Roni: sembrava una trottola.
Gary aveva una fantasia ricorrente: uccideva tutti quelli che partecipava-
no a una festa di compleanno. Una festa di compleanno, o magari una cac-
cia all'uovo di Pasqua per bambini. Questo lo fece sentire un po' meglio.
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La casa a due piani, rivestita di mattoni verniciati di bianco, era situata
su un appezzamento alberato. Era già circondata da auto: station-wagon,
jeep, familiari.
«Non è possibile che sia casa sua», osservò Sampson mentre parcheg-
giava in una strada laterale. «La Belva non vive qui. Questo è un posto da
James Stewart.»
Avevamo trovato Gary Soneji, ma non provavamo la sensazione di aver
fatto centro. La casa del mostro era un perfetto esempio di casa suburbana,
una casa pretenziosa in una strada ben curata di Wilmington, nel Delaware.
Erano passate poco meno di ventiquattr'ore da quando avevamo parlato
con la signora Scott nel Distretto di Columbia. In quel lasso di tempo ave-
vamo rintracciato la Atlantic Heating di Wilmington e rimesso insieme la
squadra antisequestri originale.
Le luci erano accese in quasi tutte le stanze della casa. Un furgone della
Domino's Pizza arrivò più o meno contemporaneamente a noi. Un ragazzo
smilzo e biondo corse verso la casa portando sulle braccia quattro grandi
scatole. Il fattorino venne pagato, poi il furgone partì rapidamente come
era arrivato.
Il fatto che fosse una bella casa di un bel quartiere mi rendeva nervoso, e
persino più diffidente nei confronti dei prossimi minuti. Soneji, in un mo-
do o nell'altro, aveva sempre avuto due caselle di vantaggio rispetto a noi.
«Muoviamoci», dissi all'agente speciale Scorse. «Ci siamo. Ecco la porta
dell'inferno.»
Ci precipitammo nella casa in nove: Scorse, Reilly, Craig e altri due a-
genti dell'FBI, Sampson, io, Jeb Klepner e Jezzie Flanagan. Eravamo ar-
mati fino ai denti e indossavamo giubbotti antiproiettile. Volevamo farla
finita, lì e subito.
Entrai dalla porta della cucina. Io e Scorse arrivammo dentro insieme.
Sampson era un passo indietro. Neanche lui aveva l'aria di un papà del vi-
cinato che arrivava tardi alla festa.
«Chi siete voi? Che succede?» urlò una donna presso il bancone della
cucina quando irrompemmo.
«Dov'è Gary Murphy?» chiesi ad alta voce. E contemporaneamente tirai
fuori il mio distintivo. «Sono Alex Cross della polizia. Siamo qui per il se-
questro di Maggie Rose Dunne.»
«Gary si trova nella sala da pranzo», c'informò con voce tremante una
seconda donna in piedi davanti a un frullatore. «Per di qua», indicò con la
mano.
Percorremmo di corsa il corridoio. Alle pareti erano appese le foto di
famiglia. Una pila di regali ancora da aprire giaceva sul pavimento. Ave-
vamo i revolver in pugno.
Era un momento terribile. I bambini che ci vedevano erano spaventati. E
lo erano anche i loro padri e le loro madri. C'erano lì tante persone inno-
centi. Proprio come a Disney World, pensavo, proprio come alla Washin-
gton Day School.
Gary Soneji non si trovava nella sala da pranzo. C'erano solo altri poli-
ziotti, bambini con cappellucci da compleanno, alcuni piccoli animali, pa-
pà e mamme a bocca aperta, increduli.
«Credo che Gary sia andato di sopra», disse infine uno dei papà. «Che
sta succedendo? Che diavolo succede?»
Craig e Reilly stavano già scendendo rumorosamente giù dalle scale nel
corridoio principale.
«Sopra non c'è», urlò Reilly.
Un bambino disse: «Credo che il signor Murphy sia sceso in cantina.
Che cos'ha fatto?»
Ritornammo di corsa in cucina e, poi, Scorse, Reilly e io scendemmo in
cantina. Sampson ritornò di sopra a fare un secondo controllo.
Non c'era nessuno nei due piccoli locali della cantina. C'era una porta
doppia che dava all'esterno. Era chiusa a chiave, non dall'interno.
Sampson scese un attimo dopo, a due gradini alla volta. «Ho controllato
tutto il piano superiore. Non c'è!»
Gary Soneji era sparito di nuovo.
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Il vecchio hotel Du Pont del centro di Wilmington era un posto adatto
per fare una dormita. Aveva un bar simpatico e tranquillo, dove Sampson e
io intendevamo starcene a bere in pace. Non pensavamo di avere compa-
gnia, quindi fummo sorpresi quando Jezzie Flanagan, Klepner e alcuni a-
genti dell'FBI si unirono a noi per il bicchiere della staffa.
Eravamo stanchi e frustrati dopo aver mancato per un pelo Gary Sone-
ji/Murphy. In poco tempo ci scolammo parecchia roba forte. A dire il vero
ci trovavamo benissimo insieme. «La squadra.» Cominciammo a parlare
ad alta voce, giocammo a poker, facemmo un po' di casino quella sera nel-
la compita Sala Delaware. Sampson parlò un po' con Jezzie. Anche lui la
considerava una brava poliziotta.
La bisboccia infine si spense e ci avviammo verso le nostre camere,
sparse per tutto l'hotel.
Io, Jeb Klepner e Jezzie salimmo insieme le scale ricoperte da uno spes-
so tappeto verso le nostre camere al secondo e al terzo piano. Alle tre me-
no un quarto di mattina il Du Pont era silenzioso come un mausoleo. Fuori,
la strada principale di Wilmington era completamente deserta.
La camera di Klepner era al secondo piano. «Mi guarderò qualche por-
nosoft», disse separandosi da noi. «Di solito riescono a farmi addormenta-
re.»
«Sogni d'oro», gli augurò Jezzie. «Appuntamento alle sette nella hall.»
Klepner gemette trascinandosi lungo il corridoio che conduceva alla sua
camera. Jezzie e io salimmo la scala tortuosa verso il nostro piano. C'era
un tale silenzio che si poteva udire lo scatto del semaforo sulla strada, che
passava dal rosso al giallo al verde.
«Mi sento ancora molto carico», le dissi. «Non riesco a togliermi dalla
testa Soneji/Murphy. Due volti. Si presentano nettamente distinti nella mia
mente.»
«Anch'io mi sento tesa. Fa parte del mio carattere. Che cosa faresti se
invece di essere qui fossi a casa tua?»
«Probabilmente andrei a suonare il piano sulla veranda. Sveglierei il vi-
cinato con qualche pezzo blues.»
Scoppiò a ridere. «Potremmo ritornare giù nella Sala Delaware. Là c'era
un vecchio piano verticale. Probabilmente apparteneva al signor Du Pont.
Tu suoni e io bevo ancora qualcosa.»
«Il barman se n'è andato dieci secondi dopo di noi. E già a letto a casa
sua.»
Avevamo raggiunto il terzo piano. Il corridoio presentava una leggera
curva. Un cartello indicava la direzione per raggiungere le varie camere.
Alcuni ospiti avevano messo le scarpe fuori della porta per farle lucidare.
«Sono alla 311.» Jezzie estrasse una chiave a scheda dalla tasca della
giacca.
«Sono alla 334. E ora di chiudere la serata. Così domattina si riparte fre-
schi e riposati.»
Sorrise e mi guardò negli occhi. Per quanto mi ricordassi, era la prima
volta che restavamo in silenzio.
La presi fra le braccia e la strinsi delicatamente. Ci baciammo in corri-
doio. Era un po' che non baciavo una donna a quel modo. A dire il vero
non so chi avesse cominciato quel bacio.
«Sei bellissima», le bisbigliai quando le nostre labbra si staccarono.
Quelle parole mi uscirono senza pensarci. Non era la cosa più brillante che
potessi dire, però era la verità.
Sorrise e scosse il capo. «Ho le labbra troppo grandi. Sembro un bambi-
no cascato a faccia in giù. Sei tu quello bello. Sembri Cassius Clay.»
«Certo che lo sembro. Dopo che ha preso un sacco di pugni.»
«Qualche pugno, forse. Che ti dà un'aria più vissuta. Il giusto numero di
colpi duri. Anche il tuo sorriso è bello. Sorridimi, Alex.»
Baciai di nuovo quelle labbra troppo grandi. A me sembravano perfette.
Ci sono molte leggende sugli uomini neri che desiderano le donne bian-
che, e sulle donne bianche che vogliono provarci con gli uomini neri. Jez-
zie Flanagan era una donna intelligente ed estremamente desiderabile. Era
una persona con cui potevo parlare, una persona di cui desideravo la com-
pagnia.
Eccoci lì, l'uno nelle braccia dell'altra verso le tre di notte. Avevamo en-
trambi bevuto un po', ma non troppo. Non c'entravano le leggende. Erava-
mo due persone sole, in una città sconosciuta, in una notte molto, molto
particolare.
In quel momento desideravo solo essere abbracciato. Penso che anche
Jezzie lo volesse. Il suo sguardo era dolce e sereno. Ma quella notte aveva
anche qualcosa di fragile. C'era un reticolo di venuzze rosse negli angoli
dei suoi occhi. Forse anche lei non riusciva a togliersi dalla testa l'immagi-
ne di Soneji/Murphy. Eravamo andati così vicini a catturarlo. Stavolta era-
vamo rimasti indietro solo di mezza casella.
Osservai il viso di Jezzie da una distanza che prima non avrei mai credu-
to possibile. Le passai delicatamente un dito sulle guance. La sua pelle era
morbida e liscia. I suoi capelli biondi parevano seta tra le mie dita. Il suo
profumo era penetrante come quello dei fiori di bosco.
In testa mi frullò una frase. Non iniziare una cosa che non puoi portare
a termine.
«Allora, Alex?» disse Jezzie sollevando le sopracciglia. «Questo è un
problema spinoso, vero?»
«Non per due poliziotti in gamba come noi.»
Seguimmo la leggera curva a sinistra del corridoio e ci dirigemmo verso
la stanza 311.
«Forse dovremmo pensarci sopra due volte», dissi mentre camminava-
mo.
«Forse io l'ho già fatto», mi sussurrò.
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Due poliziotti, Mick Fescoe e Bobby Hatfield, stavano per entrare nel
McDonald's quando risuonarono i colpi di pistola dalla sala. Colpi di pisto-
la? All'ora di pranzo al McDonald's? Che diavolo stava succedendo?
Fescoe era un quarantenne alto e corpulento. Hatfield era più giovane di
quasi vent'anni. Era in servizio solo da un anno. Nonostante la differenza
d'età, i due avevano in comune un certo humour nero. Avevano già stretto
una salda amicizia.
«Porca miseria», bisbigliò Hatfiled quando cominciarono i fuochi d'arti-
ficio. Adottò una posizione acquattata che aveva imparato non molto tem-
po prima, e che non aveva mai usato fuori del poligono di tiro.
«Ascoltami, Bobby», gli disse Fescoe. «Portati all'uscita laggiù.» Indicò
un'uscita vicino ai registratori di cassa. «Io girerò sul lato sinistro. Tu a-
spetta che sia io a cominciare. Non fare niente finché non gli salto addos-
so. Poi, se ti trovi in una buona posizione di tiro, non stare a pensarci,
Bobby, premi il grilletto.»
Bobby Hatfield annuì. «Ho capito.» Poi si separarono.
L'agente Mick Fescoe non prese fiato mentre girava di corsa verso l'altra
estremità del McDonald's. Si teneva così addossato al muro di mattoni che
vi sfregava contro la schiena. Erano mesi che diceva a se stesso che dove-
va perdere un po' di ciccia. Stava già ansimando. Si sentiva un po' stordito.
Proprio non ne aveva bisogno. Avere il capogiro e giocare a Mezzogiorno
di fuoco con un rapinatore non era proprio il massimo.
Si rialzò vicino alla porta. Poteva sentire all'interno il pazzo che urlava.
Però c'era qualcosa di strano, come se il rapinatore funzionasse con un
telecomando. I suoi movimenti erano discontinui. Si muoveva a scatti,
come un automa. Il tono della voce era molto acuto, come quello di un ra-
gazzino.
«Sono Gary Soneji. L'avete capito tutti? Sono proprio io. Diciamo pure
che mi avete trovato voi. Siete tutti degli eroi.»
Possibile? si chiese Fescoe in ascolto vicino alla porta. Soneji il mostro,
qui a Wilkinsburg? Chiunque fosse, quello aveva certamente una pistola.
Una persona era stata colpita. Un uomo giaceva sul pavimento a braccia
aperte. Non si muoveva più.
L'agente udì un altro colpo. Urla laceranti di terrore echeggiarono dal-
l'interno del locale affollato.
«Lei deve fare qualcosa!» gli urlò un tizio che indossava un giaccone
verde chiaro.
Proprio a me lo vieni a dire, mormorò Fescoe tra i denti. La gente era
sempre molto coraggiosa con la vita dei poliziotti. Prima lei, agente. E lei
quello che si mette in tasca duemilacinquecento bigliettoni al mese per far-
lo.
Cercò di controllare il respiro. Quando vi riuscì, si spostò verso la porta
a vetri. Disse in silenzio una preghiera e si buttò attraverso la porta.
Vide immediatamente l'uomo. Un bianco, già rivolto verso di lui. Come
se lo stesse aspettando. Come se ci contasse.
«Bum!» urlò Gary Soneji, e contemporaneamente premette il grilletto.
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Nessuno di noi aveva dormito più di un paio d'ore; alcuni anche meno.
Eravamo storditi e sfiniti mentre scendevamo lungo la Highway 22.
Gary Soneji era stato avvistato parecchie volte nella zona a sud della no-
stra posizione. Era diventato l'Uomo Nero per metà degli americani. Sape-
vo che si trovava a suo agio in quella parte.
Jezzie Flanagan, Jeb Klepner, Sampson e io viaggiavamo su una Lincoln
blu. Sampson cercava di dormire. Io ero stato prescelto per il primo turno
di guida.
Stavamo attraversando Murrysville, in Pennsylvania, quando, alle dodici
e dieci, la radio trasmise una chiamata d'emergenza.
«A tutte le unità, è in corso una sparatoria!» disse la voce del coordina-
tore della stazione di polizia, accompagnata da una serie di scariche elettri-
che. «Un uomo che afferma di essere Gary Soneji ha sparato ad almeno
due persone in un McDonald's a Wilkinsburg. Al momento tiene almeno
sessanta persone in ostaggio.»
Meno di trenta minuti dopo eravamo a Wilkinsburg, in Pennsylvania.
Sampson scosse il capo disgustato e stupefatto. «Quello stronzo sa come
organizzare una festa, vero?»
«Sta cercando di uccidersi? È scoccata l'ora del suicidio?» volle sapere
Jezzie Flanagan.
«Qualsiasi cosa faccia non mi sorprende più, ma la mossa del McDonal-
d's concorda col resto. Pensate a tutti quei bambini. È come la scuola, co-
me Disney World», dissi loro.
Dall'altra parte della strada rispetto al McDonald's vidi alcuni tiratori
scelti della polizia o dell'esercito sul tetto di un supermercato. Tenevano i
fucili puntati in direzione degli archi dorati sulla vetrina anteriore.
«Assomiglia proprio al massacro del McDonald's di qualche anno fa,
quello nella California meridionale», dissi a Sampson e a Jezzie.
«Non dirlo neppure per scherzo», bisbigliò Jezzie.
«Lo dico, e non per scherzo.»
Ci affrettammo verso il McDonald's. Dopo ciò che era successo non vo-
levamo che uccidessero Soneji.
Ci stavano filmando. I furgoni di tutte le televisioni nazionali erano par-
cheggiati dappertutto in doppia fila. Stavano filmando tutto quello che si
muoveva o parlava. La situazione si presentava veramente male. Mi ricor-
dava senza alcun dubbio quella sparatoria al McDonald's in cui un uomo
aveva ucciso ventuno persone.
Era quello che Soneji voleva farci venire in mente?
Un caposezione dell'FBI venne di corsa verso di noi. Era Kyle Craig,
che avevamo visto in casa Murphy a Wilmington. «Non sappiamo con cer-
tezza se si tratti di lui. È un tipo vestito da contadino. Capelli scuri, barba.
Dice di essere Soneji. Ma potrebbe trattarsi di un altro pazzo.»
«Fammi dare un'occhiata», dissi a Craig. «Ha chiesto di me in Florida.
Lui sa che io sono uno psicologo. Forse ora riesco a parlargli.»
Prima che Craig potesse rispondere, lo avevo superato dirigendomi ver-
so il McDonald's. Mi spinsi avanti a poco a poco a fianco di un paio di po-
liziotti acquattati vicino a una entrata laterale. Mostrai loro il distintivo e
dissi che venivo da Washington. Dall'interno del McDonald's non proveni-
va alcun rumore. Dovevo convincerlo a ritornare sulla terra, a non suici-
darsi, a non fare scoppiare l'inferno al McDonald's.
«Parla in modo sensato? In modo coerente?» chiesi a un poliziotto.
Il poliziotto era giovane, e aveva lo sguardo vitreo. «Ha sparato al mio
collega. Credo che sia morto, Dio santo!»
«Entreremo là dentro e aiuteremo il tuo collega. Quando parla, quel-
l'uomo dice cose sensate? Parla in modo coerente?»
«Dice di essere il rapitore dei bambini di Washington. Si riesce a seguire
il filo del suo discorso. Si vanta di essere il rapitore. Dice che vuole essere
qualcuno di importante.»
L'uomo con la pistola teneva a bada le sessanta persone all'interno del
McDonald's. Là dentro c'era silenzio. Era Soneji/Murphy? Tutto coincide-
va. I bambini e le loro mamme. Il sequestro degli ostaggi. Mi ricordavo le
foto sulla parete del bagno. Voleva diventare la foto che altri ragazzi soli-
tari appendevano alle pareti.
«Soneji!» gridai. «Sei Gary Soneji?»
«Chi diavolo sei?» fu l'urlo che giunse dall'interno. «Chi vuole saperlo?»
«Sono il detective Alex Cross. Da Washington. Credo che tu sappia tutto
riguardo alle più recenti norme sulla liberazione di ostaggi. Non tratteremo
con te. Così adesso sai anche quello che accadrà d'ora in poi.»
«Conosco tutti i regolamenti, detective Cross. Sono informazioni di
pubblico dominio, no? Ma non sempre i regolamenti vengono applicati»,
mi rispose urlando Gary Soneji. «Non per me, non valgono per me. Non è
mai accaduto.»
«Valgono qui», dissi con decisione. «Ci puoi scommettere la vita.»
«Vuoi scommetterci la vita di tutta questa gente, Cross? Io conosco u-
n'altra regola. Prima le donne e i bambini. Mi segui? Ho una speciale con-
siderazione per donne e bambini.»
Non mi piacque il suono della sua voce. Non mi piacque quello che di-
ceva.
Dovevo far capire a Soneji che in nessun caso l'avrebbe fatta franca.
Non ci sarebbero state trattative. Se ricominciava a sparare, l'avremmo ab-
battuto. Mi ricordavo di altre situazioni del genere in cui mi ero trovato
coinvolto. Soneji era più complicato, più intelligente. Sembrava che lui
non avesse niente da perdere.
«Non voglio che si faccia del male a nessuno! Non voglio che si faccia
del male a te!» gli dissi con voce chiara e forte. Stavo cominciando a suda-
re. Sentivo il sudore che colava sotto la giacca, su tutto il mio corpo.
«Molto commovente. Sono commosso per quello che hai appena detto.
Il mio cuore ha sussultato. Davvero», rispose.
«Tu capisci quello che intendo dire, Gary.» La mia voce si fece più
sommessa, come se parlassi a un paziente spaventato e ansioso.
«Certo che lo capisco.»
«C'è un sacco di gente armata qui fuori. Nessuno potrebbe controllarli se
la situazione si aggravasse. Io non posso. E neppure tu. Ci potrebbe essere
un incidente. Non vogliamo che accada.»
All'interno, di nuovo silenzio. Il pensiero che mi martellava in testa era
che, se Soneji era arrivato allo stadio suicida, l'avrebbe fatta finita lì. A-
vrebbe messo in atto la sua sparatoria finale proprio adesso, ottenendo che
tutti i riflettori della notorietà fossero puntati su di lui. Non avremmo mai
saputo che cos'aveva fatto scattare la molla dentro di lui. Non avremmo
mai saputo che cos'era accaduto a Maggie Rose Dunne.
«Salve, detective Cross.»
D'improvviso, me lo vidi sulla soglia della porta, a un metro e mezzo da
me. Era proprio lì. Uno sparo echeggiò da uno dei tetti. Soneji roteò su se
stesso stringendosi una spalla con la mano. Era stato colpito da un cecchi-
no.
Balzai in avanti e afferrai Soneji con entrambe le mani. La mia spalla si-
nistra affondò nel suo petto. Un placcaggio degno di un campione.
Cademmo pesantemente sul cemento. Non volevo che qualcuno lo am-
mazzasse ora. Dovevo parlargli. Dovevamo scoprire che ne era di Maggie
Rose.
Mentre lo tenevo a terra, si rigirò e mi guardò in volto. Il sangue uscito
dalla sua spalla ci aveva imbrattato tutti e due.
«Grazie per avermi salvato la vita», disse. «Un giorno ti ucciderò per
questo, detective Cross.»
PARTE TERZA
L'ULTIMO GENTILUOMO DEL SUD
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Due settimane più tardi, riuscii a strappare un'altra ora di colloquio con
Gary Soneji/Murphy. Avevo trascorso le due notti precedenti a documen-
tarmi sulla turba psichica nota come personalità multipla, e la mia sala da
pranzo sembrava una biblioteca specializzata. Sull'argomento è stato scrit-
to parecchio, ma le opinioni degli esperti non potrebbero essere più discor-
danti. Non mancano neppure voci autorevoli che negano l'esistenza di casi
autentici di personalità multipla.
Gary se ne stava seduto sul letto, lo sguardo perso nel vuoto, quando en-
trai. Non aveva più il braccio appeso al collo. Non era stato facile per me
tornare lì, a parlare con un sequestratore, un serial killer di bambini. Poi
rammentai le parole scritte tanto tempo fa da Spinoza: «Non sono tenuto a
ridere delle azioni degli uomini, né a piangere per esse e neppure ad abor-
rirle, ma sono tenuto a comprenderle». E io, almeno per il momento, ero
ben lontano dal comprendere.
«Salve, Gary», dissi piano, per non spaventarlo. «Se la sente di parlare?»
Lui girò la testa verso di me; sembrava contento di vedermi. Tirò una
sedia vicino al letto e mi fece cenno di sedere.
«Temevo che non l'avrebbero lasciata tornare. Sono felice che sia qui»,
disse.
«Che cosa le faceva credere che non me lo avrebbero permesso?»
«Oh, non lo so. Solo che avevo la sensazione che con lei sarei riuscito a
parlare. E poiché questo non è esattamente il mio periodo fortunato, pen-
savo che l'avrebbero tagliata fuori.»
C'era in lui un'ingenuità che mi turbava. Mi affascinava, quasi. Quello
era l'uomo che avevano descritto i suoi vicini di Wilmington.
«A che cosa stava pensando? Un momento fa, prima che arrivassi io a
interromperla.»
Lui sorrise e scosse la testa. «Non lo so neanch'io. A che cosa pensavo?
Ah, sì, ecco. Mi ero ricordato che il mio compleanno cade proprio in que-
sto mese. Continuo a pensare che prima o poi mi sveglierò e scoprirò che è
stato tutto un brutto sogno. È un pensiero ricorrente, sa, una specie di leit-
motiv.»
Decisi di cambiare discorso. «Vogliamo fare un passo indietro? Mi rac-
conti di nuovo del suo arresto.»
«Mi sono svegliato a bordo di un'autopattuglia, fuori di un McDonald's.»
Era esattamente quello che mi aveva detto due giorni prima. «Avevo i pol-
si ammanettati dietro la schiena. E più tardi mi hanno messo anche i ceppi
ai piedi.»
«Ma non sa come era arrivato su quell'autopattuglia?» insistetti. Acci-
denti, era davvero bravo. Affabile, gentile, credibile.
«No, e non so neppure che cosa ci facessi, in un McDonald's di Wilkin-
sburg. È la cosa più bizzarra che mi sia mai capitata.»
«Posso capirlo.»
Una nuova teoria aveva cominciato a prendere forma nella mia mente
durante il tragitto da Washington. Certo, era piuttosto azzardata, ma avreb-
be spiegato alcune cose che fino a quel momento sembravano del tutto pri-
ve di senso.
«Le era mai successo nulla del genere, prima? Qualcosa di anche solo
vagamente simile, Gary?»
«No. Non ero mai finito nei guai. E non ero mai stato arrestato. Lei può
verificare, no? Ma naturalmente, certo che può.»
«Intendevo dire se non le era mai capitato di svegliarsi da qualche parte
senza sapere come ci fosse arrivato.»
Mi guardò, la testa lievemente piegata di lato. «Perché me lo chiede?»
«Le era già successo, Gary?»
«Be'... sì.»
«Me ne parli. Mi racconti di tutte le volte che si è risvegliato in una loca-
lità sconosciuta.»
Aveva il vezzo di cincischiare la camicia: la tirava fra il secondo e il ter-
zo bottone, come per staccare il tessuto dalla pelle. Mi chiesi se quel tic
scaturisse dal timore di non riuscire a respirare e che cos'avesse generato
una simile paura.
Forse da bambino era stato ammalato. O si era trovato intrappolato in
uno spazio angusto, con poca aria da respirare. Oppure chiuso da qualche
parte. Proprio com'era successo a Maggie Rose e a Michael Goldberg.
«Da un anno a questa parte, forse un po' di più, soffro d'insonnia. Ne ho
parlato con uno dei dottori che mi hanno esaminato», disse.
Nelle relazioni mediche non si parlava d'insonnia. Ne aveva effettiva-
mente informato uno dei medici o aveva solo immaginato di farlo? In quel-
le relazioni si parlava delle irregolarità del profilo Wechsler, segno d'im-
pulsività. Dei due test per la determinazione del quoziente d'intelligenza,
uno verbale e uno pratico, in entrambi dei quali aveva ottenuto un punteg-
gio molto elevato. Del risultato del test di Rorschach, che indicava una
grave situazione di stress emotivo. Della reazione positiva alla scheda 14
del TAT, la cosiddetta «scheda di valutazione suicidio». Ma sull'insonnia
neppure una parola.
«Me ne parli, per favore. Mi aiuti a capire.» Avevamo già discusso del
fatto che, oltre a essere un detective, ero anche uno psicologo; si fidava
delle mie credenziali. Per il momento, almeno. Forse era per quello che mi
aveva voluto in Florida?
Gary mi fissò negli occhi. «Cercherà davvero di aiutarmi? Non di met-
termi in trappola, dottore, ma di aiutarmi?»
Gli assicurai che avrei ascoltato ciò che aveva da dire senza pregiudizi, e
lui replicò che non chiedeva altro.
«È già da un pezzo che non riesco a dormire. Da più di quanto non rie-
sca a ricordare. Stava diventando tutto molto confuso. Non mi era facile
distinguere tra lo stato di veglia e il sogno. Mi sono svegliato su quell'au-
topattuglia in Pennsylvania. Ignoro come ci fossi arrivato. Ecco quello che
è realmente successo. Mi crede? Qualcuno deve credermi.»
«Sono qui per ascoltarla, Gary. Quando avrà finito di parlare, le illustre-
rò la mia opinione. Ma ho bisogno di sapere tutto.»
Sembrò soddisfatto, perché riprese: «Mi ha chiesto se mi era già succes-
so in passato. Sì. Qualche volta. Mi svegliavo in posti sconosciuti. A volte
ero a bordo della mia auto, su strade che non avevo mai percorso, che non
avevo mai neppure sentito nominare. In un paio di occasioni in un motel.
O per la strada. Philadelphia, New York. Atlantic City, una volta. In tasca
avevo delle fiches del casinò e un biglietto omaggio per il parcheggio. Ma
proprio non so come me li fossi procurati».
«Le è mai successo di svegliarsi a Washington?»
«No. A Washington no. È da quando ero ragazzino che non ci vado. Di
recente, ho scoperto che posso tornare alla consapevolezza. Alla piena
consapevolezza, intendo. E scopro per esempio di trovarmi in un ristoran-
te, ma non ricordo affatto di esserci entrato.»
«Non ha mai chiesto aiuto a un medico?»
Chiuse gli occhi castano chiaro, che erano la sua caratteristica più salien-
te. Quando li riaprì, sorrideva.
«Non abbiamo soldi da spendere in psichiatri. Tiriamo avanti a fatica.
Ecco perché mi sento così depresso. Siamo sotto di trenta bigliettoni. La
mia famiglia ha un debito di trentamila dollari e io sono in carcere.»
Tacque e mi guardò di nuovo. Cercava di decifrare la mia espressione e
non si vergognava di farlo. Da parte mia, non potevo che giudicarlo colla-
borativo, stabile e, in linea generale, del tutto lucido.
D'altra parte, non dimenticavo che chiunque avesse rapporti con lui cor-
reva il rischio di venire manipolato da un sociopatico estremamente abile e
intelligente. Prima di me aveva ingannato un sacco di gente; ovviamente
ne aveva tutte le capacità.
«Fino a questo punto le credo», mi decisi a dire. «Quello che mi ha detto
sembra sensato, Gary. Sarò lieto di aiutarla, se mi sarà possibile.»
Lacrime improvvise gli gonfiarono gli occhi, gli rigarono le guance. Mi
tese le mani e io le presi. Presi le mani di Gary Soneji/Murphy. Erano gela-
te. Come se avesse paura.
«Sono innocente. So che può sembrare pazzesco, ma sono innocente.»
Era molto tardi quando tornai a casa, quella sera. Stavo entrando nel via-
letto quando una motocicletta mi si affiancò. Che diavolo c'era ancora?
«Mi segua per favore, signore», disse il centauro, nel più perfetto stile da
polizia autostradale. «Mi venga dietro.»
Era Jezzie. Rise e risi anch'io, perché capivo che stava cercando di ripor-
tarmi nel mondo dei vivi. Voleva dirmi che stavo dedicando troppe energie
a quel caso. Rammentarmi che dopotutto era stato risolto.
Parcheggiai la vecchia Porsche, scesi e mi avvicinai a lei.
«Ora di staccare», annunciò Jezzie. «Credi di farcela? Ti sembra abba-
stanza ragionevole staccare alle undici di sera?»
Entrai per controllare che i ragazzi stessero bene. Dormivano, e io non
avevo alcuna ragione per rifiutare l'offerta di Jezzie. Tornai fuori e salii in
moto.
«Non ho ancora capito se questa è la cosa peggiore o la migliore che ho
fatto in questi ultimi tempi», brontolai.
«È sicuramente la migliore. Sei in buone mani. Non hai nulla da temere,
se non una morte istantanea.»
Di lì a pochi secondi, la luce potente dell'unico faro inondava la 9th
Street. Scendemmo verso l'Independence, quindi lungo la Parkway, che in
certi punti è tortuosa fino all'assurdo. E a ogni curva Jezzie seguiva l'an-
damento della strada, sfrecciando accanto alle auto che sembravano im-
mobili. Ci sapeva fare, con la moto. Non era una dilettante. Mentre il pae-
saggio correva intorno a noi, e la linea tratteggiata si snodava sulla nostra
sinistra, a pochi centimetri dalla ruota anteriore, pensai che doveva averla
lanciata così centinaia di volte, e mi sentivo sorprendentemente tranquillo.
Non sapevo dove stessimo andando e non me ne importava. I ragazzi
dormivano. Con loro c'era Nana. E la corsa in moto faceva parte della te-
rapia. Sentivo l'aria fredda insinuarsi sotto i vestiti, approfittando di ogni
varco. Mi schiariva la mente e di certo avevo un gran bisogno di schiarir-
mela.
N Street era deserta. E una strada lunga e stretta, su cui si allineano case
vecchie di cent'anni. Graziosa, soprattutto in inverno. Tetti spioventi co-
perti di neve ghiacciata. Luci ammiccanti sulle verande.
Jezzie tirò al massimo l'acceleratore. Centodieci. Centotrenta. Centoses-
santa. Non so di preciso a che velocità procedessimo, ma mi sembrava di
volare. Alberi e case erano un'unica macchia indistinta. L'asfalto era una
macchia indistinta. Ma in un certo senso era piacevole. A condizione che
vivessimo abbastanza a lungo per raccontarlo.
La frenata fu lenta, senza scosse. Jezzie non si stava esibendo; sempli-
cemente, sapeva quello che faceva.
«Siamo a casa. L'ho appena presa», annunciò mentre smontavamo. «Sei
stato bravo. Hai gridato una volta soltanto, sul George Washington.»
«Dentro di me non ho smesso un solo istante.»
Resi euforici dalla corsa, entrammo. L'appartamento non era affatto co-
me lo avevo immaginato. Jezzie spiegò che non aveva avuto il tempo di si-
stemarlo, ma a me sembrò bello e pieno di gusto. Levigato e moderno, ma
non freddo. Vidi un'infinità di magnifiche foto artistiche, quasi tutte in
bianco e nero. Le aveva fatte lei, disse Jezzie. In cucina e in soggiorno c'e-
rano vasi colmi di fiori freschi. E poi libri da cui spuntavano segnapagine:
Il principe delle maree, Angelo custode, Lo Zen e l'arte della manutenzio-
ne della motocicletta. Una rastrelliera per il vino: Beringer, Rutherford. Un
gancio cui lei appese il casco.
«Così, dopotutto hai un'anima casalinga.»
«Scordatelo, Alex. Io sono una dura dei servizi segreti fatta e finita.»
La presi fra le braccia e ci baciammo con dolcezza. Scoprivo la tenerez-
za là dove non avevo previsto di trovarne; scoprivo una sensualità che mi
stupiva. Era esattamente tutto quello di cui andavo in cerca, con una sola
piccola pecca.
«Sono felice che tu mi abbia portato a casa tua. Parlo sul serio, Jezzie.
Sono commosso.»
«Anche se per riuscirci ho dovuto sequestrarti?»
«Una motocicletta che sfreccia nella notte. Un bell'appartamento acco-
gliente. Fotografie di gran classe. Quali altri segreti mi nascondi?»
Con un dito, seguì i contorni della mia mascella. «Non voglio avere se-
greti. Ecco quello che mi piacerebbe davvero. Va bene?»
Dissi di sì. Perché era quello che volevo anch'io. Era tempo che mi a-
prissi di nuovo con qualcuno. Probabilmente, anzi, era più che tempo per
entrambi. Forse non era così che apparivamo agli occhi del mondo, ma e-
ravamo stati soli troppo a lungo. Quella era la semplice verità che, recipro-
camente, ci stavamo aiutando a capire.
48
Per il resto della giornata me la presi comoda. Forse era un at-
teggiamento irresponsabile da parte mia, ma mi andava bene così. A volte
è giusto caricarsi sulle spalle il peso del mondo, a condizione che si sappia
come scrollarselo di dosso.
La temperatura era sotto lo zero mentre mi dirigevo verso il carcere di
Lorton, ma il sole splendeva e il cielo era di un azzurro quasi abbagliante.
Bello e carico di speranze. Fallaci illusioni degli anni '90.
Pensavo a Maggie Rose, quella mattina, e arrivai alla conclusione che
ormai doveva essere morta. Suo padre stava facendo il diavolo a quattro
sulla stampa e in TV e non mi sentivo di biasimarlo per quello. In un paio
di occasioni avevo parlato per telefono con Katherine Rose. Lei non aveva
rinunciato alla speranza. Mi aveva detto di sentire che la sua bambina era
ancora viva. Ascoltarla era una cosa tristissima.
Cercai di prepararmi psicologicamente all'incontro con Soneji/Murphy,
ma avevo difficoltà a concentrarmi. Davanti agli occhi continuavano a ba-
lenarmi immagini della notte appena trascorsa. Dovetti impegnarmi a fon-
do per rammentare a me stesso che ero al volante nel traffico di mezzo-
giorno di Washington, e che stavo lavorando.
Fu allora che mi venne l'idea: una teoria sul conto di Gary Sone-
ji/Murphy che, in un'ottica psichiatrica, sembrava avere una certa logica.
Il disporre di una nuova teoria mi aiutò a calarmi nel mio ruolo quando
arrivai al carcere. Soneji/Murphy mi aspettava nella sua cella al sesto pia-
no. Dall'aspetto, pareva che neppure lui avesse chiuso occhio. Ora toccava
a me prendere l'iniziativa.
Gli stetti addosso per un'ora buona, quel pomeriggio, forse anche un po'
più a lungo. Andai giù duro. Probabilmente più di quanto avessi mai fatto
con gli altri miei pazienti.
«Gary, si è mai trovato in tasca ricevute di hotel o ristoranti, oppure
scontrini fiscali di cui non rammentava nulla?»
Vidi i suoi occhi illuminarsi e un'espressione che forse era di sollievo
dipingersi sul viso. «Come fa a saperlo? Gliel'ho detto che volevo lei come
dottore. Non voglio più parlare col dottor Walsh. Non sa far altro che pre-
scrivere idrato di cloralio.»
«Non credo che sarebbe una buona idea. Io sono uno psicologo, non uno
psichiatra come il dottor Walsh. E inoltre faccio parte della squadra che ha
contribuito al suo arresto.»
Lui scosse la testa. «Tutto questo lo so. So anche che lei è stato l'unico
ad ascoltarmi prima di emettere un giudizio. So che mi odia: pensa ai due
bambini che ho sequestrato e a tutte le altre cose che avrei fatto... Ma, al-
meno, lei ascolta. Walsh finge soltanto di farlo.»
«È necessario che continui a vedere il dottor Walsh.»
«Oh, d'accordo. A questo punto credo di capire come funzionano le cose
qui dentro. La prego, però, non mi lasci solo in quest'inferno.»
«Non lo farò. Continuerò a seguirla. E continueremo a parlare come
stiamo facendo adesso.»
Poi gli chiesi di raccontarmi della sua infanzia.
«Non ricordo granché. Pensa che sia strano?» Lui era più che disposto a
parlare. Spettava a me decidere se ciò che ascoltavo era la verità o un ela-
borato castello di menzogne.
«Per alcuni è normale. Il fatto di non ricordare, intendo dire. Ma a volte,
se se ne parla, tornano in mente molte cose.»
«Ricordo i fatti, naturalmente. E le date. Va bene, cominciamo. Data di
nascita, 24 febbraio 1957. Luogo di nascita, Princeton, New Jersey. Queste
cose le so. Anche se a volte ho l'impressione di aver imparato tutto questo
via via che crescevo. Ho vissuto esperienze al cui riguardo non riesco a
scindere il sogno dalla realtà. Non sono certo di saper distinguere tra una
cosa e l'altra. Non ne sono affatto certo.»
«Vada a ruota libera, senza fermarsi troppo a pensare.»
«Be', di certo non sono mai stato una persona felice. Ho sempre sofferto
d'insonnia. Non sono mai riuscito a dormire più di un'ora o due di fila. E
non riesco a ricordare un momento in cui non fossi stanco. E depresso...
Come se per tutta la vita avessi cercato di tirarmi fuori di un buco nero.
Non voglio rubarle il lavoro, dottore, ma temo di non avere una grande o-
pinione di me stesso.»
Tutto quello che sapevo di Gary Soneji portava a un individuo diame-
tralmente opposto: dinamico, sicuro, con un'altissima concezione di sé.
Gary mi descrisse un'infanzia terrificante, completa di violenze fisiche
da parte della matrigna nei primi anni e di abusi sessuali da parte del padre
in seguito. Mi descrisse come fosse stato costretto a isolarsi dal clima d'an-
sia e di conflittualità in cui viveva. La matrigna era arrivata in casa nel
1961 in compagnia dei suoi due figli. A quell'epoca Gary aveva quattro
anni ed era già un bambino introverso e lunatico, ma da allora non aveva
fatto che peggiorare. Quanto fosse peggiorato, non era evidentemente an-
cora disposto a dirmelo.
Nell'ambito della terapia messa a punto dal dottor Walsh, Soneji/Murphy
era stato sottoposto al Wechsler Adult, al Minnesota Multiphasic Persona-
lity Inventory e al test di Rorschach. Negli esami concernenti la sfera della
creatività, era passato col vento in poppa, ottenendo punteggi molto alti
nelle risposte orali come in quelle scritte.
«Che altro, Gary? Cerchi di tornare indietro il più possibile. Si ricordi
che, più mi permetterà di capire, più mi sarà facile aiutarla.»
«Ci sono sempre state queste 'ore perdute'. Intervalli di tempo che non
riuscivo a ricostruire.» La sua espressione si andava facendo via via sem-
pre più tirata. Le vene del collo sporgevano. Una patina di sudore gli rico-
priva il viso.
«Loro mi punivano perché non riuscivo a ricordare...» mormorò.
«Chi? Chi la puniva?»
«Per lo più la mia matrigna.»
Il che significava che con tutta probabilità i danni più gravi si erano veri-
ficati quando lui era ancora molto piccolo e la sua educazione era affidata
alla matrigna.
«Una stanza buia», disse.
«Che cosa succedeva nella stanza buia? Che genere di stanza era?»
«Mi confinava laggiù, nello scantinato. Era la nostra cantina, e lei mi ci
chiudeva quasi ogni giorno.»
Aveva cominciato a respirare affannosamente. Sapevo, per averlo con-
statato in molte vittime di violenze infantili, che parlarne doveva risultargli
terribilmente arduo. Chiuse gli occhi per ricordare, per rivedere un passato
che non avrebbe mai più voluto affrontare.
«Che cosa succedeva nello scantinato?»
«Nulla... Non succedeva nulla. Era questa la punizione. Venivo lasciato
a me stesso.»
«Quanto duravano queste punizioni?»
«Non lo so. Non posso ricordare tutto!»
Aveva socchiuso gli occhi e mi guardava da sotto le palpebre abbassate
a metà.
Non sapevo per quanto tempo ancora avrebbe retto. Dovevo procedere
con cautela e aiutarlo a ricostruire le parti più dolorose del suo passato
senza mai privarlo della certezza che il suo benessere mi stava a cuore, che
poteva fidarsi di me, che lo stavo ascoltando.
«È possibile che in qualche occasione ci sia rimasto per tutto un giorno?
Per tutta una notte?»
«Oh, no. No. Era per molto, molto tempo. Perché non dimenticassi più.
Perché facessi il bravo bambino. Non il Bambino Cattivo.»
Mi guardò, ma senza aggiungere altro. Intuii che stava aspettando una
qualche reazione da parte mia.
Optai per l'elogio, e lui parve gradirlo. «Un ottimo inizio, Gary, davvero
ottimo. So quanto sia difficile per lei.»
E mentre guardavo l'adulto che mi stava davanti, immaginavo il ragazzi-
no chiuso in una cantina buia. Tutti i giorni. Per settimane che certo dove-
vano essergli sembrate più lunghe di quanto realmente fossero. Poi pensai
a Maggie Rose. Possibile che fosse ancora viva, e Gary la tenesse prigio-
niera da qualche parte? Avevo bisogno di estrarre dalla sua mente anche i
segreti più oscuri, e dovevo farlo più in fretta di quanto preveda una tera-
pia ortodossa. Katherine Rose e Thomas Dunne avevano il diritto di co-
noscere la sorte riservata alla loro bambina.
Che ne è stato di Maggie Rose, Gary? Ti ricordi di Maggie Rose?
Eravamo arrivati al momento più delicato. Gary avrebbe potuto spaven-
tarsi e rifiutare d'incontrarmi ancora, se avesse pensato che non ero più suo
«amico». Avrebbe potuto rinchiudersi in se stesso. C'era perfino la possibi-
lità di un crollo psicotico totale. Allora sarebbe precipitato nella catatonia e
tutto sarebbe stato perduto.
Dovevo continuare a lodarlo per i suoi sforzi. Era importante che aspet-
tasse con ansia le mie visite. «Quanto mi ha detto finora dovrebbe essermi
utilissimo. È stato molto bravo. Sono impressionato dall'impegno che ha
messo nel ricordare.»
«Alex», sussurrò lui quando mi alzai per andarmene. «Lo giuro su Dio,
non ho fatto nulla di orribile né di malvagio. Per favore, mi aiuti.»
Per quel pomeriggio era in programma il test della macchina della verità.
La prospettiva spaventava enormemente Gary, che tuttavia giurò di essere
contento di sottoporvisi.
Mi disse che avrei potuto aspettare i risultati, se lo desideravo. E io lo
desideravo moltissimo.
L'operatore, arrivato appositamente da Washington, era considerato uno
dei migliori. Al soggetto sarebbero state poste diciotto domande; quindici
di controllo e tre destinate alla valutazione effettiva.
Il dottor Campbell mi raggiunse quaranta minuti dopo che Sone-
ji/Murphy era stato portato via. Era rosso per l'eccitazione e aveva l'aria di
aver corso. Non mi fu difficile intuire che aveva da dirmi qualcosa d'im-
portante.
«Ha ottenuto il punteggio massimo», mi riferì. «È passato a vele spiega-
te. Potrebbe darsi che Gary Murphy stia davvero dicendo la verità!»
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Quella sera, Pittman, il capo, mi telefonò a casa. Sospettavo che non fos-
se per congratularsi del mio lavoro con Soneji/Murphy, e avevo ragione. Il
capo voleva che passassi nel suo ufficio l'indomani mattina.
«Che cosa c'è?» gli chiesi.
Non volle dirmelo per telefono e dubito che la sua reticenza fosse da at-
tribuirsi al timore di rovinarmi la sorpresa.
Al mattino, mi rasai con cura e per l'occasione misi la giacca di pelle.
Poi, prima di uscire, suonai qualcosa al piano della veranda. Suonai The
Man I Love, For All We Know e That's Life, I Guess. Dopodiché andai a
trovare il capo.
Per essere le otto meno un quarto del mattino, c'era troppa attività nel-
l'ufficio di Pittman. Per una volta anche l'assistente del capo sembrava im-
pegnatissimo.
Il vecchio Fred Cook è un detective fallito che ora si atteggia ad assi-
stente amministrativo. Ha l'aria di uno di quei reperti storici che scendono
in campo nelle partite di baseball tra vecchi compagni di scuola. Fred è un
essere abietto, meschino, e un politico fin nelle ossa. Averlo come referen-
te è come lasciare messaggi a uno degli ospiti fissi di un museo delle cere.
«Il capo ti sta aspettando», mi annunciò con uno dei suoi tipici sorrisetti
di superiorità. Fred Cook adora sapere le cose prima di tutti noi. E quelle
che non sa, fa finta di saperle.
«Che succede stamattina, Fred? Avanti, so che tu puoi dirmelo, se vuoi.»
Vidi nei suoi occhi un lampo di soddisfatta consapevolezza. «Entra e
scoprilo da solo. Sono sicuro che il capo non si farà pregare per metterti al
corrente delle sue intenzioni.»
«Sono fiero di te, Freddy. Sei la persona giusta cui affidare un segreto.
Sai, dovresti lavorare al Consiglio nazionale per la sicurezza.»
Ero pronto al peggio quando entrai, ma avevo sottovalutato il capo.
Nell'ufficio con Pittman c'era il sindaco Carl Monroe. Più il nostro capi-
tano di polizia Christopher Clouser e, meraviglia delle meraviglie, John
Sampson. A quanto pareva, nel sancta sanctorum del capo era in corso una
di quelle colazioni di lavoro tanto di moda a Washington.
«Non è poi così male», disse Sampson a bassa voce. Ma a dispetto delle
sue parole sembrava un grosso animale finito in una di quelle trappole a
doppia morsa usate dai cacciatori. Ebbi la sensazione che si sarebbe volen-
tieri tranciato un piede pur di lasciare la stanza.
«Per nulla, direi.» Carl Monroe sorrise gioviale nel vedere l'espressione
dipinta sul mio viso. «Abbiamo buone notizie per tutti e due. Notizie molto
buone. Devo...? Ma sì, credo di sì... Tu e Sampson siete stati promossi. Da
questo momento. Mi congratulo col nostro nuovo detective anziano e il
nuovo capodivisione.»
Applaudirono tutti e tre con aria d'approvazione, mentre Sampson e io ci
scambiavamo un'occhiata incredula. Che diavolo stava succedendo?
Se l'avessi saputo, avrei portato con me anche Nana e i bambini. Sem-
brava proprio una di quelle occasioni in cui il presidente distribuisce me-
daglie e ringraziamenti alle vedove di guerra. Solo che questa volta alla ce-
rimonia era stato invitato anche il morto. Perché, agli occhi di Pittman,
Sampson e io eravamo morti.
Rivolsi a Monroe un sorriso complice. «Sarebbe così gentile da spiegare
anche a noi che cosa bolle in pentola? Sa, quello che c'è sotto.»
Carl Monroe sfoderò il suo magnifico sorriso: caldo, personalissimo,
genuino. «Mi è stato chiesto di venire per la promozione tua e del detective
Sampson. Questo è tutto. E sono molto felice di trovarmi qui, Alex...» -
abbozzò una smorfia buffa -, «alle otto meno un quarto del mattino.»
Lo ammetto, a volte non è difficile provare simpatia per Carl. Sa per filo
e per segno chi e che cosa è diventato da quando si è messo in politica. Mi
ricorda le prostitute della 14th Street, che ti lanciano un paio di vecchie bat-
tute mentre le porti dentro per adescamento.
«Ci sarebbe da discutere un paio di altre questioni», intervenne Pittman,
ma subito si affrettò ad aggiungere: «Possiamo parlarne dopo. Ora dedi-
chiamoci al caffè e ai pasticcini».
«Io invece credo che dovremmo discuterne adesso», ribattei. Poi, pun-
tando gli occhi su Monroe: «Metta le sue questioni sul tavolo coi pasticci-
ni».
Lui scosse la testa. «Perché non te la prendi calma, una volta tanto?»
«Non potrei mai candidarmi a una carica pubblica, vero? Come politico
non valgo granché.»
Il sindaco strinse le spalle, ma senza smettere di sorridere. «Non lo so,
Alex. A volte, con l'esperienza, un uomo cambia e adotta uno stile più effi-
cace. Vede quello che funziona e quello che non funziona. La disponibilità
al confronto è decisamente più gratificante. Anche se non sempre si rivela
la scelta migliore.»
«È di questo che si tratta? Della scelta migliore?» saltò su Sampson. «È
questo l'argomento della colazione di stamattina?»
Monroe annuì. «Credo di sì. Sì, è questo.» E addentò un dolcetto.
Pittman riempì di caffè una costosa tazzina di porcellana che sembrava
troppo piccola e delicata nella sua grossa mano. Mi fece venire in mente le
tartine al salmone. Roba per palati ricchi.
«Per via di questo caso ci stiamo mettendo in urto con l'FBI e i servizi
segreti. Una situazione che non fa comodo a nessuno. Di conseguenza, ab-
biamo deciso di farci completamente da parte. Di sollevarvi dall'incarico.»
Tombola. E con questo avevamo fatto il paio. Era saltata fuori la verità
della nostra piccola colazione di lavoro.
Di colpo cominciammo a parlare tutti insieme. E almeno due di noi sta-
vano gridando.
«È una stronzata», ringhiò Sampson in faccia al sindaco. «E lei lo sa. Lo
sa, vero?»
«Ho iniziato le sedute di ipnosi con Soneji/Murphy», sbraitai io a Pit-
tman, Monroe e Clouser. «L'ho ipnotizzato ieri. Cristo santo, no. Non fate-
lo. Non ora.»
«Siamo al corrente dei tuoi progressi con Gary Soneji. Avevamo una de-
cisione da prendere e l'abbiamo presa.»
Improvvisa echeggiò la voce di Carl Monroe. «Vuoi la verità, Alex?
Vuoi sapere come stanno realmente le cose?»
Lo guardai. «Sempre.»
Monroe non mi staccava gli occhi di dosso. «Il procuratore generale ha
fatto pressioni su un bel po' di gente qui a Washington. Ben presto, fra non
più di sei settimane, avrà inizio un grossissimo processo. L'Orient Express
è già partito, Alex. E tu non sei a bordo. Io non sono a bordo. Questa fac-
cenda è diventata molto più grande di noi. Ora tocca a Soneji/Murphy... Il
procuratore, il ministero della Giustizia, ha deciso di sospendere le tue se-
dute con Soneji/Murphy. A seguirlo sarà un'equipe di psichiatri apposita-
mente formata. Ecco come funzioneranno le cose d'ora in poi. Il caso è en-
trato in una nuova fase e la nostra partecipazione non è più richiesta.»
Sampson e io piantammo in asso la festa. La nostra partecipazione non
era più richiesta.
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Fino a quel momento, fra me e Jezzie non c'era stato un solo momento di
stanchezza. Tutto il contrario, anzi. E perché stupirsene? Quello era il pa-
radiso, dopotutto.
Quella sera andammo a cena in un ristorante all'aperto giù in città.
Guardando la spensierata vita isolana che ci ferveva intorno, ci chiedemmo
perché mai non mollassimo tutto per cominciare finalmente a godercela
anche noi. Mangiammo gamberi e ostriche e parlammo per un paio d'ore di
fila. Ci aprimmo senza riserve, Jezzie soprattutto.
«Sono sempre stata ossessionata dal lavoro, Alex», mi confidò. «E non
mi riferisco solo al caso dei rapimenti. Ero sempre a esaminare rapporti, a
inseguire soluzioni impossibili. Avevo ingranato la quinta, e non riuscivo
più a fermarmi.»
Non feci commenti. Volevo ascoltarla. Volevo sapere tutto quello che
c'era da sapere.
Lei sollevò il boccale. «E ora eccomi qui, a bere birra alle Isole Vergini.
Be', i miei genitori erano alcolizzati. Tutti e due. Soffrivano di turbe del
comportamento prima ancora che queste diventassero di moda. Nessuno ha
mai saputo quanto grave fosse la situazione in casa nostra, ma urlavano e
litigavano in continuazione. Di solito mio padre perdeva conoscenza. Si
addormentava sulla sua poltrona. E mia madre restava fino a tarda notte
seduta al tavolo della sala da pranzo. Adorava i cocktail. Mi diceva: 'Pre-
parami un altro dei miei Manhattan, piccola Jezzie'. Io ero la loro piccola
addetta ai cocktail. È così che mi sono guadagnata la paglietta settimanale
dagli undici anni in poi.»
Tacque e mi guardò negli occhi. Non l'avevo mai vista così vulnerabile,
così insicura. E pensare che di solito emanava una tale fiducia in se stessa!
«Vuoi che smetta? Che parliamo di argomenti più allegri?»
Feci un cenno di diniego. «No, Jezzie. Voglio ascoltare tutto quello che
hai da dire. Voglio sapere tutto di te.»
«Siamo ancora in vacanza?»
«Sicuro, e desidero davvero che tu continui a parlare. Fidati di me. Se mi
annoierò, mi limiterò ad alzarmi e a lasciarti qui col conto da pagare.»
Allora sorrise e continuò. «Li amavo tutti e due, anche se forse in modo
strano. E credo che anche loro mi volessero bene. Ero la loro 'piccola Jez-
zie'. Credo di averti già detto una volta che non volevo diventare una bril-
lante fallita, come i miei genitori.»
«Forse in quell'occasione avevi leggermente sfumato i toni.» Sorrisi.
«Già. Be', comunque, lavoravo tutte le sere fino a tardi e anche il
weekend, i primi tempi che ero nei Servizi. Mi prefiggevo obiettivi impos-
sibili - supervisore a ventott'anni - e li raggiungevo sempre. Almeno in
parte, questo spiega perché il mio matrimonio si sia risolto in un tale disa-
stro. Vuoi sapere quando ho cominciato ad andare in moto?»
«Certo. E anche perché hai voluto che ci salissi.»
«Non riuscivo a staccare con la testa. Mai, neppure quando tornavo a ca-
sa la sera. Poi ho scoperto la moto. Quando fili a duecento all'ora, non puoi
non concentrarti sulla strada. E allora dimentichi finalmente il lavoro.»
«Questo è uno dei motivi per cui suono il piano», osservai. «Mi dispiace
per i tuoi genitori, Jezzie.»
«E io sono contenta di essere riuscita a parlartene. Non l'avevo mai fatto
prima. Nessun altro conosce la storia per intero.»
Ci prendemmo per mano in quel ristorante sull'isola. Non mi ero mai
sentito tanto vicino a lei. Dolce piccola Jezzie. Di tutti i momenti che ab-
biamo vissuto insieme, quello è uno che non scorderò mai. La nostra va-
canza in paradiso.
Di colpo, troppo di colpo, la vacanza finì.
Ci ritrovammo intrappolati a bordo del volo dell'American Airlines che
ci avrebbe riportato a Washington, alla pioggia e alla tetraggine, se i bol-
lettini meteorologici dicevano la verità. Al lavoro.
Durante il volo si creò tra noi una specie di barriera. Cominciavamo a
parlare contemporaneamente, ed eravamo costretti a logoranti minuetti a
base di prego, prima tu. Per la prima volta da quando eravamo partiti, ci
scoprimmo a parlare di lavoro.
«Credi davvero che si tratti di un caso di personalità multipla, Alex? Lui
sa che fine ha fatto Maggie Rose? Soneji lo sa. E Murphy lo sa?»
«A un certo livello, sì, indubbiamente. Era spaventato quando mi ha par-
lato di Soneji. Che si tratti o no di una personalità distinta, Soneji resta una
figura inquietante. Soneji sa quello che è accaduto a Maggie Rose.»
«E pensare che noi invece non lo sapremo mai con sicurezza. O almeno,
così sembra.»
«Già. Ma continuo a pensare che sarei riuscito a tirarglielo fuori. Era so-
lo questione di tempo.»
Eravamo in parecchie migliaia ad affrontare lo scenario da calamità na-
turale in cui il National Airport di Washington sembrava essersi trasforma-
to. Il traffico procedeva lentissimo. La coda davanti al posteggio dei taxi
cominciava all'interno del terminal. E tutti erano bagnati come pulcini.
Né io né Jezzie avevamo l'impermeabile e c'infradiciammo da capo a
piedi. Di colpo la vita divenne terribilmente deprimente e anche troppo re-
ale. Eravamo a Washington, dove le indagini stagnavano. L'inizio del pro-
cesso era imminente. Probabilmente sulla scrivania avrei trovato un mes-
saggio di Pittman.
«Torniamo indietro. Giriamo i tacchi e torniamocene da dove siamo ve-
nuti.» Jezzie mi prese per mano, mi trascinò fino alle porte di vetro della
Delta Shuttle.
Il suo corpo emanava un profumo e un calore familiari e piacevoli. In-
dugiava intorno a lei la fragranza del burro di cacao e dell'aloè.
La gente si voltava a guardarci. Ci scrutava. Ci giudicava. Quasi tutti,
passando, si giravano.
«Andiamocene di qui», dissi.
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Quando lavorava con gli altri a raccogliere frutta e verdura sul fianco
della montagna, Maggie Rose si sforzava di ricordare casa sua. All'inizio il
suo «elenco», l'elenco delle cose che rammentava, era generico ed elemen-
tare.
Più di ogni altra cosa, sentiva la mancanza dei genitori. Le mancavano
ogni momento della giornata.
Le mancavano i compagni di scuola, soprattutto il Tappo.
Le mancava Dukado, il suo gattino «nuovo».
E Angel, il suo gattino «dolce».
E i giochi Nintendo e il suo armadio.
E fare il bagno nella stanza al terzo piano che dava sul giardino.
Le feste dopo la scuola erano talmente divertenti.
Più ripensava a casa, più particolari ricordava, e il suo elenco continuava
ad allungarsi.
Le mancava il modo in cui a volte andava a infilarsi tra il papà e la
mamma quando si abbracciavano. «Noi tre» era il nome che aveva dato a
quel gioco.
Le mancavano i personaggi che suo padre inventava per lei, soprattutto
quando era ancora piccola. C'era Hank, un grosso papà dallo strascicato
accento del Sud, che le chiedeva sempre: «Con chiiii stai parlando?» E Su-
sie Wooderman. Susie era la protagonista di tutte le storie in cui Maggie
proiettava se stessa.
C'era l'immancabile rituale che aveva luogo quando dovevano uscire in
macchina nei giorni freddi. «Orribile, orribile! Brrr! Brrr! Brrr!» intona-
vano tutti e tre a pieni polmoni.
La sua mamma inventava canzoni e le cantava per lei. Non riusciva a
rammentare un tempo in cui non le cantasse una canzone. Cantava: «Ti
voglio bene, Maggie. Farei qualunque cosa per te, perché sei tutto per me».
E Maggie: «Mi porteresti a Disneyland?» Al che sua madre rispondeva:
«Qualunque cosa». «Daresti a Dukado un grosso bacio sulla bocca?» «Lo
farò per te, Maggie Rose. Farei qualunque cosa per te.»
Ora Maggie riusciva a ricordare intere giornate trascorse a scuola. Ri-
cordava le speciali «strizzatine d'occhio» che la signora Kim le rivolgeva.
Ricordava il modo in cui Angel si acciambellava su una sedia emettendo
un suono dolce che assomigliava a un uau.
«Farei qualunque cosa per te, perché sei tutto per me.» Le sembrava di
risentire la voce di sua madre.
Per favore, per favore, vieni a riportarmi a casa? cantava Maggie nella
sua mente. Vieni, vieni, per favore.
Ma nessuno cantava mai nulla. Non più. Nessuno cantava per Maggie
Rose. Nessuno si rammentava più di lei. O almeno così credeva, e questo
le spezzava il cuore.
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Nel corso delle due settimane successive rividi Soneji/Murphy una doz-
zina di volte. Sebbene affermasse il contrario, non mi permise più di avvi-
cinarglisi. Qualcosa era cambiato. L'avevo perduto.
Li avevo perduti entrambi.
Il 15 ottobre, un giudice federale ordinò una sospensione, rimandando
così l'inizio del processo. Doveva essere l'ultima applicazione della tecnica
dilatoria adottata dal difensore di Soneji/Murphy, Anthony Nathan.
Nel giro di una settimana, più o meno alla velocità della luce, se si pensa
ai tempi solitamente impiegati in queste manovre burocratiche, il giudice
Linda Kaplan aveva respinto le richieste della difesa. Stessa sorte toccò ai
ricorsi presentati alla Corte Suprema.
Su tutte e tre le reti televisive l'avvocato Nathan definì l'alto organo col-
legiale «una teppaglia organizzata dedita al linciaggio». I fuochi d'artificio
erano appena cominciati, dichiarò alla stampa. E in questo modo stabilì il
tono che contava di imprimere al dibattimento.
Il 27 ottobre ebbe inizio il processo: lo Stato contro Murphy. Quella
mattina, alle nove meno cinque, Sampson e io ci dirigemmo verso uno de-
gli ingressi di servizio del tribunale federale, in Indiana Avenue. Nei limiti
del possibile, eravamo in incognito.
«Ti va di perdere un po' di soldi?» mi chiese Sampson mentre giravamo
l'angolo.
«Spero con tutto il cuore che tu non abbia intenzione di scommettere
sull'esito del processo.»
«Certo che sì, tesoro. Così il tempo passerà più in fretta.»
«Su che cosa dovremmo scommettere?»
Sampson accese un Corona e con aria trionfante esalò il fumo. «Vedia-
mo... Io dico che lo spediranno in qualche manicomio criminale.»
«Quello che stai dicendo, in effetti, è che il nostro sistema giudiziario
non funziona.»
«Ne sono totalmente e irrevocabilmente convinto. Soprattutto di questi
tempi.»
«Molto bene... Io invece dico che verrà condannato per entrambi i se-
questri. E per omicidio di primo grado.»
Altro sbuffo trionfante da parte di Sampson. «Preferisci pagarmi subito?
Cinquanta dollari ti sembrano una cifra ragionevole da sganciare?»
«Cinquanta mi sta bene. Scommessa accettata.»
«Fantastico. Adoro portarti via quei pochi soldi che hai.»
Sulla 3rd Street, una folla di almeno duemila persone si assiepava davanti
all'entrata principale del tribunale. Altre duecento persone, fra cui sette file
di giornalisti, erano già in aula. La richiesta del pubblico ministero di proi-
bire l'ingresso alla stampa era stata respinta.
Dappertutto ondeggiavano cartelli con la scritta: MAGGIE ROSE È
VIVA.
Su e giù per Indiana Avenue si vedeva gente con rose fresche all'occhiel-
lo. Alcuni vendevano bandierine commemorative. Ma a incontrare il mag-
gior consenso erano le candeline che brillavano sul davanzale di molte fi-
nestre, in ricordo di Maggie Rose.
Una manciata di reporter stava in attesa all'ingresso secondario, riservato
ai fattorini e ai pochi magistrati e legali afflitti da timidezza. Anche molti
agenti veterani che non apprezzavano la ressa avevano scelto di passare da
lì.
Una selva di microfoni venne immediatamente spinta sotto il naso mio e
di Sampson. Gli obiettivi delle telecamere ci fissavano con aria sciocca.
Ma nulla di tutto questo aveva più il potere di turbarci.
«Detective Cross, è vero che l'FBI ha fatto in modo che il caso le venisse
tolto?»
«No. Sono in ottimi rapporti con l'FBI.»
«S'incontra ancora con Gary Murphy a Lorton?»
«Da come parla, si direbbe che lui e io andiamo regolarmente a cena in-
sieme. No, tra noi le cose non sono ancora così serie. Faccio parte di un'é-
quipe di medici che segue il detenuto.»
«Questo caso ha presentato risvolti di natura razziale, per quanto la ri-
guarda?»
«Di risvolti razziali ce ne sono in un sacco di circostanze, credo. Nella
fattispecie, non ho nulla di significativo da segnalare.»
«E lei, detective Sampson? È d'accordo?» chiese un tipetto azzimato col
farfallino.
«Be', caro signore, stiamo entrando dalla porta di servizio, giusto? Noi
siamo uomini da porta di servizio.» Sampson sogghignò rivolto verso la te-
lecamera. Non si era tolto gli occhiali da sole.
Finalmente riuscimmo a guadagnare uno degli ascensori, da cui cer-
cammo, senza troppo successo, di tener fuori i giornalisti.
«Ci è stato confermato che Anthony Nathan ha intenzione di chiedere
l'infermità mentale temporanea. Qualche commento?»
«Nessuno. Chiedetelo a Nathan.»
«Detective Cross, se la sentirebbe di affermare che Gary Murphy non è
pazzo?»
Finalmente le porte del vecchio ascensore si chiusero e iniziammo la
lenta salita verso il settimo piano: il «Settimo Cielo», come lo chiamavano.
Non era mai stato più tranquillo, né più sorvegliato. Il consueto scenario
da stazione ferroviaria - poliziotti, giovani malviventi con famiglia, truffa-
tori incalliti, avvocati e giudici - era stato arginato da un'ordinanza che de-
stinava l'intero piano a quell'unico dibattimento. Sarebbe stata una cosa
grossa. Il processo del secolo. Non era quello che Gary Soneji aveva sem-
pre voluto?
Senza il suo solito trambusto, il tribunale federale mostrava tutte le crepe
nella luce mattutina che entrava a fiotti dalle grandi finestre della facciata
orientale.
Arrivammo giusto in tempo per vedere il pubblico ministero entrare in
aula. Mary Warner era una minuta trentaseienne proveniente dalla Sesta
Giurisdizione e di lei si diceva che fosse perfettamente all'altezza del di-
fensore, Nathan. Come lui, non conosceva il sapore della sconfitta, perlo-
meno non in casi di rilievo. Aveva fama di essere preparatissima e alta-
mente convincente nell'arringa. Un avvocato che con lei aveva avuto la
peggio aveva detto: «È come giocare a tennis con un avversario che ri-
sponde a tutti i tuoi colpi. Il miglior diritto tagliato, te lo rimanda. La
schiacciata, te la rimanda. Prima o poi riesce a farti fuori; è inevitabile».
Presumibilmente, era stato Jerrold Goldberg a sceglierla, e Goldberg po-
teva permettersi il pubblico ministero migliore. L'aveva preferita a James
Dowd e ad altri iniziali favoriti.
Era presente anche Carl Monroe. Al sindaco era impossibile tenersi lon-
tano dalla folla. Mi vide ma non si avvicinò, limitandosi a lanciarmi da
lontano uno dei suoi sorrisi brevettati.
Se non avessi già saputo come sarebbe andata a finire con lui, lo avrei
capito in quel momento. Alla nomina a capodivisione non ne sarebbero se-
guite altre; mi avevano concesso la promozione al solo scopo di dimostrare
che ero stato una buona scelta per la squadra antisequestri, per giustificare
l'iniziativa presa e prevenire eventuali domande sul comportamento da me
tenuto a Miami.
Ad accrescere l'atmosfera generale d'attesa, contribuiva da giorni la noti-
zia che lo stesso ministro del Tesoro, Goldberg, stava collaborando con la
pubblica accusa. E, naturalmente, che la difesa era stata affidata ad An-
thony Nathan.
Il Post aveva descritto Nathan come «un guerriero ninja delle aule di tri-
bunale», e dal giorno in cui era stato assunto da Soneji/ Murphy la sua foto
compariva regolarmente in prima pagina. Di lui, Gary si era mostrato rilut-
tante a parlare. In un'occasione mi aveva detto: «Ho bisogno di un buon
avvocato, giusto? Con me il signor Nathan è stato molto convincente. Lo
sarà altrettanto con la giuria. È estremamente scaltro, Alex». Scaltro?
Quando gli avevo chiesto se Nathan fosse intelligente come lui, Gary
aveva sorriso. «Perché dice sempre che sono intelligente? Non lo sono. Mi
troverei qui, se lo fossi?»
Neppure una volta durante quelle settimane aveva abbandonato il ruolo
di Gary Murphy. E aveva rifiutato di farsi ipnotizzare di nuovo.
Guardai il superavvocato di Gary, Anthony Nathan, che con passo bal-
danzoso andava a occupare il proprio posto. Di sicuro era un maniaco, e la
sua abilità nel far infuriare i testimoni durante i controinterrogatori era ben
nota.
Perché Gary aveva scelto proprio lui? Che cosa li aveva spinti l'uno ver-
so l'altro?
Certo era che per un verso lo si sarebbe potuto definire un accostamento
logico: un semipazzo che difende un altro pazzo. Anthony Nathan aveva
già annunciato pubblicamente: «Sarà un vero e proprio zoo. Uno zoo, o
una rappresentazione sulla giustizia del selvaggio West. Ve lo prometto.
Potrebbero vendere i biglietti d'ingresso a mille dollari l'uno».
Avevo il cuore in gola quando l'ufficiale giudiziario annunciò l'ingresso
della corte.
Scorsi Jezzie all'altro capo della stanza. Era vestita come doveva esserlo
la persona importante che lei era: tailleur gessato, tacchi alti, lucida venti-
quattrore nera. Mi vide e alzò gli occhi al cielo.
Sulla destra stavano Katherine Rose e Thomas Dunne, e nel guardarli la
mia sensazione d'irrealtà si accentuò. Non potevo fare a meno di pensare a
Charles e Anne Lindbergh e al famosissimo processo che si era celebrato
sessant'anni prima.
Il giudice Linda Kaplan era noto per essere una donna eloquente ed e-
nergica che non permetteva mai ai legali di sopraffarla. Rivestiva quell'in-
carico da meno di cinque anni, ma aveva presieduto alcuni dei più impor-
tanti procedimenti della città. Spesso restava in piedi per tutta la durata
dell'udienza e dominava l'aula con indiscussa autorità.
Gary Soneji/Murphy era stato scortato al suo posto con discrezione, qua-
si furtivamente. Era già seduto e perfettamente composto, come sempre fa-
ceva Gary Murphy.
Erano presenti parecchi giornalisti di fama e almeno un paio di loro sta-
va preparando un libro sul rapimento.
I due pool di avvocati ostentavano un'assoluta sicurezza, quasi fossero
entrambi convinti dell'inattaccabilità delle rispettive posizioni.
L'udienza si aprì con una trovatina scenica. Missy Murphy, seduta in una
delle prime file, cominciò a singhiozzare mormorando con voce perfetta-
mente udibile: «Gary non ha fatto male a nessuno. Gary non farebbe mai
del male a un altro essere umano».
Qualcuno tra il pubblico gridò: «Oh, la smetta, signora».
Il giudice Kaplan batté col martelletto. «Silenzio!» intimò. «Di dichiara-
zioni ne sentiremo a sufficienza nei prossimi giorni.» E aveva senz'altro
ragione.
La grande corsa era cominciata. Gary Murphy/Soneji e il processo del
secolo.
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Anthony Nathan passeggiava su e giù per l'aula col suo consueto fare
baldanzoso. Non sembrava del tutto a suo agio nell'abito su misura da mil-
lecinquecento dollari. Il vestito era ottimamente tagliato, ma Nathan non
avrebbe potuto indossarlo peggio. Assomigliava straordinariamente a uno
scimmiotto in ghingheri.
«Non sono una persona simpatica.» Se ne stava piantato davanti alla giu-
ria composta da sette donne e cinque uomini, il lunedì della seconda setti-
mana. «Almeno non nelle aule di tribunale. Dicono che ho l'aria strafotten-
te. Che sono pomposo. Che sono egocentrico e insofferente. Che è impos-
sibile sopportarmi per più di un minuto di fila. È tutto vero», disse a un
pubblico affascinato. «È tutto vero.»
«Ed è proprio per questo che a volte finisco nei guai. Dico la verità. So-
no ossessionato dal bisogno di dire la verità. Non ho pazienza, neanche
una briciola, per le mezze verità. E non ho mai accettato un caso che non
mi consentisse di dire la verità.
«La mia difesa di Gary Murphy è semplice, forse la meno complessa e
controversa che abbia mai intrapreso. Riguarda la verità. O è bianco o è
nero, signore e signori. Ascoltatemi, vi prego.
«Il pubblico ministero Warner e i suoi collaboratori non sottovalutano la
fondatezza della mia difesa, ed è per questo che hanno voluto sottoporre
alla vostra attenzione più fatti di quanti ne abbia presentati la Commissio-
ne Warren per arrivare al medesimo risultato: il nulla più assoluto. Se po-
teste controinterrogare la signora Warner e lei fosse disposta a rispondervi
con onestà, è questo che vi direbbe. E allora potremmo andarcene tutti a
casa. Non sarebbe simpatico? Oh, sicuro che lo sarebbe.»
In aula si sentirono delle risatine. Alcuni membri della giuria, intanto, si
erano protesi in avanti per sentire meglio. Ogni volta che passava davanti
al loro banco, Nathan si avvicinava di mezzo passo.
«Qualcuno, più d'uno a essere sincero, mi ha chiesto perché ho accettato
di occuparmi di questo caso. Gli ho spiegato, proprio come lo sto spiegan-
do a voi, che le prove sono tali da rendere assolutamente certa la vittoria
della difesa. La verità è totalmente schierata dalla parte della difesa. So che
ora non mi crederete. Ma ci arriverete. Ci arriverete.
«Questa è un'enunciazione di fatti. Il pubblico ministero Warner non sa-
rebbe voluto arrivare al processo così presto. È stato il suo capo, il mini-
stro del Tesoro, a forzare la situazione; a fare in modo che il processo ve-
nisse allestito a tempo di record. Le ruote della giustizia non si sono mai
messe in movimento con tanta rapidità. Quelle stesse ruote che si sarebbe-
ro dimostrate infinitamente più lente se sul banco degli imputati ci foste
stati voi o i vostri cari. Questa è la verità.
«Ma in queste particolari circostanze, a causa cioè della sofferenza del
signor Goldberg e dei suoi familiari, le ruote si sono messe a girare molto
in fretta. E a causa di Katherine Rose Dunne e della sua famiglia, che è
ricca, famosa e molto potente e che, come i Goldberg, aspira a vedere la
fine dei suoi patimenti. Chi potrebbe biasimarli per questo? Certamente
non io.
«Ma non a spese di un innocente! Quest'uomo, Gary Murphy, non meri-
ta di soffrire ciò che loro hanno sofferto.»
A passi rapidi Nathan si accostò all'imputato, il biondo e atletico Gary
Murphy, con la sua aria da boy-scout troppo cresciuto. «Quest'uomo è una
persona per bene, esattamente come chiunque altro in quest'aula. E io ve lo
dimostrerò.
«Gary Murphy è un brav'uomo, non dimenticatelo. E questo è un fatto,
uno dei due, due soltanto, che voglio voi ricordiate. L'altro è che Gary So-
neji è pazzo.
«Ora, non posso non dirvelo, anch'io sono un po' pazzo, appena un po'. Il
pubblico ministero ha già attirato la vostra attenzione su questo particolare.
Ebbene, Gary Soneji è cento volte più pazzo di me. Gary Soneji è l'indivi-
duo più pazzo che io abbia mai incontrato. E l'ho incontrato. Lo incontrere-
te anche voi.
«Ve lo prometto. Tutti conoscerete Soneji, e una volta che l'avrete cono-
sciuto vi scoprirete incapaci di condannare Gary Murphy. Scoprirete che
Gary Murphy vi piace, e tiferete per lui e lo sosterrete nella sua battaglia
contro Soneji. Gary Murphy non può essere condannato per i sequestri e
gli omicidi commessi da Gary Soneji...»
Anthony Nathan sparò la sua prima bomba il venerdì della seconda set-
timana. Il suo fu un gesto tanto drammatico quanto inaspettato e cominciò
con una consultazione privata tra lui, Mary Warner e il giudice Kaplan.
Fu una delle poche occasioni in cui si sentì Mary Warner alzare la voce:
«Vostro Onore, mi oppongo! Non posso non oppormi a una simile brava-
ta. Perché di una bravata si tratta e di nient'altro!»
Già dal pubblico si levavano i primi mormoni. La stampa, seduta nelle
prime file, era all'erta. Il giudice Kaplan si era apparentemente pronunciato
a favore della difesa.
Quando Mary Warner tornò al suo posto, fu subito evidente che aveva
perduto un po' della sua abituale compostezza.
«Perché non siamo stati informati in tempo utile?» gridò quasi. «Perché
la proposta non è stata avanzata prima dell'apertura del processo?»
Anthony Nathan alzò le mani e il suo gesto fu sufficiente a tacitare l'au-
la. Poi annunciò: «Chiamo a testimoniare il dottor Alex Cross. Lo cito co-
me teste ostile e non collaborativo, ma comunque come teste per la dife-
sa».
Ero io la «bravata».
PARTE QUARTA
RICORDATE MAGGIE ROSE
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Quella sera avevo appuntamento con Jezzie e per tutta la giornata avevo
aspettato con ansia il momento di rivederla. C'incontrammo in un motel
Embassy Suite, ad Arlington. La città brulicava di giornalisti e noi sape-
vamo di dover stare particolarmente attenti.
Jezzie arrivò dopo di me, affascinante e terribilmente sexy nel suo tubi-
no nero scollato. Portava calze nere con la cucitura e scarpe a tacco alto. Si
era dipinta le labbra di un rosso scarlatto e tra i capelli aveva un pettinino
d'argento. Non tremare, cuor mio.
«Avevo una colazione importante», disse a mo' di spiegazione, mentre si
sfilava le scarpe. «Che te ne pare? Ho diritto oppure no a un posto fra la
gente che conta?»
«Be', una cosa è certa: aumenti decisamente la media delle mie frequen-
tazioni con la gente che conta», replicai.
«Arrivo tra un minuto, Alex. Un minuto solo.» Sparì in bagno.
Quando ne uscì, io ero già a letto. La tensione che m'irrigidiva il corpo si
stava pian piano scaricando nel materasso. La vita era di nuovo bella.
«Facciamo un bagno, vuoi?» propose lei. «Per toglierci di dosso la pol-
vere della strada.»
«Di polvere non ce n'è. Ci sono soltanto io.»
Ma mi alzai e passai in bagno. La vasca era quadrata e insolitamente
ampia; una distesa di lucide piastrelle bianche e azzurre, rialzata di almeno
una trentina di centimetri rispetto al pavimento. Gli indumenti di Jezzie e-
rano sparpagliati per terra.
«Hai fretta?» le chiesi.
«Proprio così.»
Aveva riempito la vasca fino all'orlo; qualche bolla di bagnoschiuma ve-
leggiava spensierata verso il soffitto. Dall'acqua si levava una nube densa
di vapore e l'aria aveva il profumo di un giardino di campagna.
Jezzie agitò l'acqua con la punta delle dita. Poi mi si avvicinò. Tra i suoi
capelli riluceva ancora il pettinino d'argento.
«Sono un po' tesa», disse.
«Lo immaginavo. Di queste cose me ne intendo.»
«Credo che sia l'occasione giusta per un po' di relax.»
Ero assolutamente d'accordo con lei. Le mani di Jezzie si af-
faccendavano intorno alla cerniera dei miei pantaloni. Le nostre bocche
s'incontrarono; con leggerezza prima, poi con forza.
Di colpo Jezzie mi attirò dentro di sé, lì, in piedi accanto alla vasca da
bagno. Uno, due, tre affondi, quindi si staccò. Aveva il viso, il collo e il
seno arrossati. Per un momento temetti che si sentisse male.
La subitaneità con cui mi aveva accolto nel suo corpo per poi respin-
germi mi aveva sorpreso. Mi aveva scioccato e riempito di piacere al tem-
po stesso. Era davvero tesa. Violenta, quasi.
«Che ti succede?»
«Sto per avere un attacco di cuore», bisbigliò lei. «Ti conviene inventare
una storia attendibile da raccontare alla polizia, Alex. Accidenti.»
Mi prese per mano e mi tirò nella vasca. L'acqua era calda al punto giu-
sto. E così tutto il resto.
Ridemmo. Io avevo ancora addosso i boxer, ma il vecchio Pete aveva
messo fuori la testa! Me li sfilai.
Nella vasca, ci dimenammo fino a trovarci l'uno di fronte all'altra. Jezzie
riuscì a montarmi sopra. Si appoggiò all'indietro, sostenendosi con le brac-
cia, e intanto mi scrutava con una sorta di strana intensità. Il rossore del
collo e del seno si era ulteriormente accentuato.
Fulminee, le sue gambe slanciate emersero dall'acqua e mi serrarono il
collo. Ebbe il tempo di spingere il bacino verso di me solo un paio di volte
prima che esplodessimo entrambi. Il suo corpo era teso fino allo spasimo.
Ci muovemmo e gememmo a lungo. L'acqua traboccava.
In qualche modo Jezzie riuscì a circondarmi con le braccia... braccia e
gambe. Io ormai avevo il naso a pelo dell'acqua.
Poi sprofondai sotto. Jezzie mi cavalcava. Un fremito violento mi per-
corse in tutto il corpo. Stavamo venendo insieme. E io stavo anche per an-
negare. Sentii Jezzie che gridava, un grido che mi giunse bizzarramente
deformato attraverso l'acqua.
Venni proprio nel momento in cui la mia riserva d'aria si stava esauren-
do. Ingoiai acqua e tossii.
Jezzie giunse in mio soccorso. Mi tirò su, mi prese il viso tra le mani.
Restammo abbracciati per un po'. Esausti. C'era più acqua sul pavimento
che nella vasca.
Ormai sapevo che mi stavo innamorando di lei. Di questo, e di questo
soltanto ero certo. Nella mia vita, tutto il resto era caos e mistero, ma al-
meno avevo trovato un punto fermo. Ed era Jezzie.
Era circa l'una quando mi alzai per tornare a casa. Volevo che i ragazzi
mi trovassero lì al loro risveglio. Jezzie si mostrò comprensiva. Da quando
era iniziato il processo, capirci era diventato molto più facile. Lei voleva
conoscere Damon e Janelle; entrambi pensavamo che fosse la cosa giusta.
«Mi manchi già», mormorò mentre io mi rivestivo. «Maledizione, non
andartene... Sì, lo so che devi andare.»
Si tolse il pettinino d'argento e me lo mise in mano.
Uscii nella notte con la sua voce che ancora mi rimbombava nella testa.
Il parcheggio era immerso in una fitta oscurità.
I due uomini mi comparvero di fronte all'improvviso, come spuntati dal
nulla. Automaticamente misi mano alla fondina, ma uno di loro accese una
luce abbagliante e l'altro mi puntò contro una macchina fotografica.
Gli sciacalli ci avevano scoperto. Merda! Il rapimento era un caso così
sensazionale che tutto quanto lo riguardava anche solo da lontano faceva
notizia. Era stato così fin dall'inizio.
Ai due uomini si accodò una ragazza. Aveva lunghi capelli neri e crespi
e sembrava appartenere a una troupe cinematografica di New York o Los
Angeles.
«Detective Alex Cross?» chiese uno dei due, mentre il suo collega scat-
tava in rapida successione. I lampi del flash laceravano l'oscurità del par-
cheggio.
«Siamo del National Star. Vogliamo parlare con lei, detective Cross.»
«Si può sapere che cosa c'entra questo col caso?» lo apostrofai, mentre
infilavo il pettinino di Jezzie nel taschino della giacca. «È una faccenda
privata. Nulla che possa fare notizia.»
«Lasci che questo lo decidiamo noi. È il nostro lavoro. Non so, amico,
un nuovo canale di comunicazione fra la polizia di Washington e i servizi
segreti. Consultazioni private e chissà che altro.»
La ragazza stava già bussando alla porta del bungalow. «Sono del Na-
tional Star», annunciò con voce non meno sonora dei suoi colpi.
«Non aprire», gridai a Jezzie.
La porta si spalancò. Vestita di tutto punto, Jezzie comparve sulla soglia:
fissava la donna dai capelli crespi senza curarsi di nascondere il proprio di-
sprezzo.
«Dev'essere un grande momento per voi», disse. «Probabilmente non ar-
riverete mai più vicini di così al Pulitzer.»
«No», ribatté pronta la giornalista. «Conosco Roxanne Pulitzer. E ora
conosco anche voi due.»
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Quel giorno cercai più volte di mettermi in contatto con Jezzie, ma era
fuori oppure preferiva non rispondere. Non aveva neppure inserito la se-
greteria telefonica. Ripensai alla nostra serata ad Arlington. A quanto mi
fosse sembrata tesa. Ancor prima che arrivassero quelli del National Star.
Mi baloccai con l'idea di andare a casa sua, ma non ne feci nulla. Il pro-
cesso non era ancora finito e l'ultima cosa di cui avevamo bisogno era un
altro articolo su un giornale scandalistico.
Sul lavoro nessuno fece il minimo accenno all'accaduto. Se avessi avuto
ancora qualche dubbio in proposito, quel silenzio mi avrebbe fatto capire
una volta per tutte l'entità del danno. Mi era piombata sulla testa una bella
tegola, sicuro come l'oro.
Finii col rintanarmi nel mio ufficio a bere caffè nero e a guardare le pa-
reti. Tutte e quattro erano coperte da «indizi» sul sequestro. Cominciavo a
sentirmi colpevole, furibondo e smanioso di ribellarmi. Con una gran vo-
glia di fracassare vetri, come avevo fatto un paio di volte dopo la morte di
Maria.
Me ne stavo lì, seduto alla scrivania grigia fornita dal governo, a guarda-
re senza vederla la tabella coi miei turni per la settimana.
«Ti ci sei messo da solo in questo casino, scemo.» La voce di Sampson
echeggiò alle mie spalle. «Sei solo soletto. Pronto per essere infilzato e ar-
rostito.»
Non mi girai neppure. «Non ti sembra che stai minimizzando un po' la
situazione?»
«Pensavo che prima o poi ti saresti deciso a parlarne», brontolò lui. «Sa-
pevi che io sapevo di voi due.»
Un paio di cerchi scuri lasciati sulla tabella da una tazza di caffè cattura-
rono il mio sguardo. Di recente tutto mi stava venendo meno, anche la
memoria. Finalmente mi voltai a guardarlo. Era insuperabile coi pantaloni
di pelle, un vecchio cappello Kangol e un gilet di nylon nero. Gli occhi e-
rano invisibili dietro gli occhiali scuri.
«Secondo te, che cosa succederà adesso?» domandai. «Che cosa dicono
loro?»
«Nessuno è troppo soddisfatto di come è stato condotto questo fottutis-
simo caso. Ai piani alti non sono esattamente entusiasti. La mia idea è che
stiano contando i potenziali agnelli sacrificali. E di sicuro tu sei uno di
quelli.»
«E Jezzie?»
«Anche lei. Se la fa coi negri. Mi sembra di capire che non sei al corren-
te delle ultime novità.»
«Novità? Quali?»
Sampson esalò un sospiro interminabile, poi fece esplodere l'ultima
bomba. «Ha chiesto un congedo, o forse ha lasciato i Servizi per sempre.
Più o meno un'ora fa. Nessuno sa se è stata lei ad andarsene, o se l'hanno
defenestrata.»
Chiamai subito l'ufficio di Jezzie. La segreteria m'informò che sarebbe
stata fuori per «tutto il giorno». La cercai a casa. Nessuna risposta.
Infransi almeno un paio di norme del codice stradale mentre mi dirigevo
a tutta velocità a casa sua.
A casa di Jezzie non c'era nessuno. Neppure fotografi, per fortuna. Pen-
sando al cottage sul lago, da un telefono pubblico chiamai il North Caroli-
na. L'operatore m'informò che il numero non era più operativo.
Ero sorpreso. «Da quando? Ieri sera funzionava.»
«Da stamattina. La linea è stata disattivata stamattina.»
Jezzie era scomparsa.
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La sentenza del processo Soneji/Murphy era imminente.
La giuria si ritirò l'11 novembre, per ricomparire tre giorni dopo, in
mezzo a un tumulto incontrollabile di voci che la volevano incapace di
prendere una decisione e di pronunciarsi per l'innocenza o la colpevolezza
dell'imputato. Sembrava che il mondo intero fosse in attesa.
Quel mattino Sampson venne a prendermi e andammo in tribunale in-
sieme. Dopo qualche giorno di freddo - breve anticipazione dell'inverno -
la temperatura era tornata a salire.
Durante il tragitto pensai a Jezzie. Ormai non la vedevo da più di una
settimana; chissà se l'annuncio della sentenza avrebbe avuto il potere di
portarla in aula. Mi aveva telefonato. Era nel North Carolina, mi aveva det-
to. E nient'altro. Ero di nuovo solo, e non mi piaceva.
Fuori del tribunale non vidi Jezzie, bensì Anthony Nathan che scendeva
da una Mercedes metallizzata. Era il suo grande momento. I giornalisti gli
piombarono addosso, come piccioni su un tozzo di pane vecchio.
Stampa e televisione cercarono di cavar fuori qualcosa anche da me e
Sampson prima che riuscissimo a infilare le scale. Nessuno dei due aveva
troppa voglia di farsi intervistare di nuovo.
«Dottor Cross! Dottor Cross!» gridò una voce stridula che riconobbi
come quella della giornalista di una TV locale.
Dovemmo fermarci. Erano dietro e davanti a noi, erano dappertutto.
«Dottor Cross, crede che la sua testimonianza aiuterà Gary Murphy a e-
vitare l'accusa di omicidio premeditato? Pensa di averlo involontariamente
aiutato a sfuggire all'imputazione più grave?»
Qualcosa si ruppe dentro di me. «Siamo felici di essere arrivati al Super
Bowl», ringhiai rivolto al balenio di innumerevoli microcamere. «Alex
Cross si concentrerà sul suo gioco. Il resto verrà da solo. Alex Cross si ac-
contenta di ringraziare Dio Onnipotente per l'opportunità che gli viene of-
ferta di giocare a questo livello.» Mi protesi verso la giornalista che aveva
posto la domanda. «Capisce quello che sto dicendo? Sono stato abbastanza
chiaro?»
Sampson sorrise. «Quanto a me, sono ancora disponibile a sponsorizza-
zioni redditizie per le scarpe e le bevande analcoliche.»
Riprendemmo a salire i ripidi gradini di pietra ed entrammo.
Nel grande atrio cavernoso del tribunale, il frastuono era tale da far dole-
re i timpani. Tutti urlavano e si muovevano senza sosta, ma con una certa
educazione, come fa la folla in abito da sera che ti sospinge all'interno del
Kennedy Center.
Soneji/Murphy non era il primo imputato la cui difesa s'imperniasse sul-
l'assunto della personalità multipla. Ma il suo era certo il caso più celebre.
Aveva suscitato ogni sorta di interrogativi sul significato dei termini «col-
pa» e «innocenza» ed erano proprio questi interrogativi a rendere incerto il
verdetto... Se Gary Murphy era innocente, come si poteva condannarlo per
rapimento e omicidio? Ecco la domanda che il suo difensore aveva fatto
germogliare nella mente di tutti.
Rividi Nathan in aula. «È evidente che nel mio assistito agiscono due
personalità in conflitto», aveva detto ai giurati nel corso della sua arringa.
«Una di queste non è meno innocente di voi. Non potete condannare Gary
Murphy per sequestro di persona od omicidio. Gary Murphy è un uomo
per bene, Gary Murphy è un marito e un padre. Gary Murphy è innocente!»
I giurati si trovavano di fronte a un grave dilemma. Gary Soneji/Murphy
era un sociopatico diabolicamente abile? Aveva la consapevolezza, e il
controllo, delle proprie azioni? Aveva potuto contare sull'aiuto di un com-
plice? O aveva agito da solo?
Nessuno conosceva la verità, tranne forse Gary stesso. Non la conosce-
vano gli esperti. Non la conosceva la polizia. Non la conosceva la stampa e
non la conoscevo io.
Quali elementi aveva la giuria composta da «pari» di Gary per decidere?
Il primo avvenimento della mattinata fu senz'altro la comparsa dell'im-
putato nell'aula affollatissima e rumorosa. Con indosso un sobrio abito blu,
aveva il suo solito aspetto da ragazzo per bene. Assomigliava più all'im-
piegato di una banca di provincia che a un uomo accusato di sequestro di
minore e omicidio.
Si levò qualche applauso, a dimostrazione del fatto che oggigiorno an-
che i rapitori possono contare su un certo seguito. Era indubbio che il pro-
cesso aveva attratto la solita quantità di stupidi, individui malati e veri e
propri psicopatici.
«Chi dice che l'America non ha più eroi?» sibilò Sampson. «A loro quel
maledetto stronzo piace. Ce l'hanno scritto nei loro occhietti lucidi. Lui è
Charlie Manson in versione aggiornata e ampliata. Invece di un hippie
sanguinario, uno yuppie sanguinario.»
«Il Figlio di Lindbergh», mormorai io. «Mi chiedo se era questo che vo-
leva. Era tutto parte del suo piano per conquistare la celebrità?»
Entrarono i giurati. Avevano facce tese e sbigottite. A quale decisione
erano giunti, con tutta probabilità solo poche ore prima, in piena notte?
Uno di loro inciampò mentre in fila indiana si dirigevano verso il banco di
mogano. Cadde su un ginocchio e per qualche istante la piccola processio-
ne s'interruppe. Un incidente insignificante, e tuttavia mi sembrò riassu-
messe tutta la fragilità e l'incertezza che fin dall'inizio avevano caratteriz-
zato il dibattimento.
Guardai Soneji/Murphy e mi parve d'intravedere l'ombra di un sorriso
sulle sue labbra. Un piccolo passo falso, forse? Quali erano i pensieri che
si affollavano nella sua mente? Quale verdetto aveva previsto?
In ogni caso, la persona nota come Gary Soneji, il Bambino Cattivo, a-
vrebbe senz'altro apprezzato la situazione. Tutto era pronto, ed era tutto in-
credibilmente bizzarro. Con lui al centro del palcoscenico. Qualunque fos-
se il prezzo da pagare, quello era certo il giorno più importante della sua
vita.
Voglio essere qualcuno!
«La giuria ha raggiunto un verdetto unanime?» chiese il presidente della
corte Kaplan quando i giurati ebbero preso posto.
Le venne porto un foglietto; la sua espressione non mutò mentre legge-
va. Quindi lo restituì al capo della giuria. Tutto secondo la procedura.
Il capo dei giurati, che le era rimasto accanto, lesse con voce chiara, ma
un po' tremante. Era un impiegato delle poste di nome James Heekin; ave-
va cinquantacinque anni e un colorito rubizzo, quasi paonazzo, segno forse
di pressione alta. A meno che non fosse da attribuirsi allo stress del pro-
cesso.
«In merito all'accusa di duplice sequestro di persona, dichiariamo l'im-
putato colpevole; in merito all'accusa di omicidio di primo grado dichia-
riamo l'imputato colpevole.» Neppure una volta James Heekin pronunciò il
nome di Gary Murphy.
In aula scoppiò il caos. Il clamore rimbalzava contro le colonne di pietra
e le pareti rivestite di marmo. I giornalisti si accalcavano verso l'uscita, di-
retti ai telefoni. Mary Warner, emozionata, si congratulava coi suoi giovani
collaboratori. Anthony Nathan e i suoi uscirono in tutta fretta per evitare le
domande.
Fuori dell'aula, ci fu un momento d'intensa emozione.
Missy Murphy e la figlioletta Roni corsero verso Gary, che gli agenti si
preparavano a condurre via. Singhiozzando, i tre si abbracciarono. Non a-
vevo mai visto Gary piangere. Se era una recita, non fu meno brillante di
quelle che l'avevano preceduta. Non c'era nulla di poco credibile in quella
scena di disperazione.
Io non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Poi un paio di agenti al-
lontanarono le due donne e portarono via il detenuto.
Se Gary stava fingendo, ebbene, non aveva commesso neanche un erro-
re. La moglie e la figlia assorbivano tutta la sua attenzione; neppure una
volta alzò lo sguardo per accertarsi di avere un pubblico.
Recitava alla perfezione.
Oppure Gary Murphy era un innocente che era stato appena condannato
per sequestro di persona e omicidio?
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PARTE QUINTA
LA SECONDA INDAGINE
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Jezzie e io passammo la giornata nel cottage sul lago. Lei aveva bisogno
di parlare. Di spiegarmi com'era cambiata, e raccontarmi quello che aveva
scoperto durante il suo volontario ritiro. Accaddero due cose molto, molto,
strane, lì, In Mezzo al Nulla, nel North Carolina.
Lasciammo Washington alle cinque del mattino e non erano ancora le
otto e mezzo quando arrivammo. Era il 3 dicembre, ma avrebbe potuto es-
sere il primo d'ottobre. L'aria si mantenne tiepida per tutto il pomeriggio e
dalle montagne soffiava una brezza dolce. Era piena del cinguettio e del
canto degli uccelli.
Ora che i villeggianti se n'erano andati, avevamo il lago tutto per noi.
Per un'oretta, un motoscafo solitario descrisse evoluzioni sull'acqua; il
rombo del motore era simile a quello di un'auto da corsa. Ma per il resto
del tempo rimanemmo soli.
Per tacito accordo, non affrontammo subito le questioni più spinose.
Non parlammo di Jezzie o di Devine e Chakely e neppure delle mie ultime
teorie sul rapimento.
Nel tardo pomeriggio facemmo una lunga passeggiata nel bosco, se-
guendo il percorso di un ruscello dall'acqua cristallina che si snodava tra le
montagne circostanti. Jezzie non era truccata e portava un paio di jeans ta-
gliati al ginocchio e una felpa dell'università della Virginia cui erano state
tolte le maniche. L'azzurro dei suoi occhi rivaleggiava con quello del cielo.
«Ti ho già detto di aver scoperto molte cose su me stessa», esordì mentre
c'inoltravamo sempre di più nella pineta. Parlava con voce bassa, quasi in-
fantile, e io ascoltavo attento. Volevo sapere tutto di lei.
«Vorrei raccontarti di me», riprese. «Ora mi sento pronta. Ho bisogno di
spiegarti il perché, il come e tutto il resto.»
Annuii in silenzio.
«Mio padre... mio padre era un fallito. O, almeno, lui si considerava tale.
Era furbo, con la gente ci sapeva fare... quando ne aveva voglia. Ma era
nato nella parte sbagliata della città, e non è mai riuscito a dimenticarlo.
Un atteggiamento negativo che gli ha procurato un'infinità di guai. Non si
curava dell'effetto che produceva su mia madre e su di me. Verso i quaran-
t'anni cominciò a bere forte e quando morì non aveva più un amico. E nep-
pure una famiglia. Immagino che sia stato questo a spingerlo a uccidersi...
Mio padre si è suicidato, Alex. A bordo della sua auto. Non c'è stato nes-
sun attacco cardiaco in Union Station. Questa è solo una menzogna che
racconto fin da quando ero alle superiori.»
Tacemmo entrambi. Solo in un paio di occasioni Jezzie mi aveva parlato
dei suoi e io non le avevo fatto alcuna pressione.
Non ci tenevo a fare lo psicologo con lei. Quando fosse stata pronta, mi
dicevo, sarebbe stata lei ad affrontare l'argomento.
«Non voglio diventare una fallita, come mio padre e mia madre. Perché
è così che si vedevano loro. Neppure un briciolo di autoconsiderazione.
No, non posso concepire di diventare come loro.»
«E tu, come li vedevi?»
«Come due falliti, credo.» L'ammissione fu accompagnata da un sorriso
pallido. Dolorosamente sincero.
«Erano tutti e due così incredibilmente brillanti, Alex. Sapevano tutto di
tutto. Leggevano tutti i libri del mondo. Erano in grado di parlare di qua-
lunque cosa. Sei mai stato in Irlanda?»
«Una volta sono stato in Inghilterra per lavoro. Quello è stato il mio uni-
co viaggio in Europa. Non ho mai avuto i soldi per tornarci.»
«Ci sono certi paesini in Irlanda... Ci vivono persone garbate, che sanno
esprimersi con proprietà, ma terribilmente povere. Dovresti vederli, questi
'ghetti per bianchi'. Ogni due negozi c'è un pub. Un Paese pieno di falliti
istruiti, l'Irlanda. Io non voglio diventare come loro. Sarebbe un inferno in
terra. A scuola m'impegnavo con tutta me stessa. Dovevo essere la numero
uno, a qualunque costo. Poi sono approdata al ministero del Tesoro. Sali-
vo, salivo, e mi piaceva. Quali che fossero i motivi che mi spingevano,
stavo cominciando ad apprezzare la mia carriera, e la vita in generale.»
«Ma tutto si è disintegrato col sequestro Dunne-Goldberg. Tu sei diven-
tata il capro espiatorio. Non eri più la ragazza prodigio.»
«Proprio così: ero finita. Gli agenti sparlavano di me e alla fine me ne
sono andata. Non avevo scelta. Era tutto talmente sporco e squallido. Sono
venuta qui. Per capire chi diavolo ero. E dovevo farlo da sola.»
Mi circondò con le braccia e quietamente cominciò a piangere. Era la
prima volta che la vedevo in lacrime. Mentre la tenevo stretta, pensavo che
non l'avevo mai sentita tanto vicina. Sapevo che mi aveva messo a parte di
alcune delle verità per lei più dolorose, e mi sentivo in dovere di fare al-
trettanto.
Eravamo lì, abbracciati, a sussurrare, quando mi resi conto che qualcuno
ci stava spiando. Senza che muovessi la testa, i miei occhi saettarono a de-
stra. C'era qualcuno tra gli alberi.
Qualcuno ci stava osservando.
Un altro osservatore.
«Abbiamo compagnia, Jezzie. Al di là della collinetta alla nostra destra»,
bisbigliai. Lei non si mosse. Era pur sempre un poliziotto.
«Ne sei sicuro?»
«Sicurissimo. Fidati. Dividiamoci, d'accordo? E se cerca di fuggire,
blocchiamolo.»
Ci separammo e andammo a metterci sui due lati del poggio. Probabil-
mente la nostra mossa dovette sconcertare l'intruso.
Cercò di fuggire.
Era un uomo; portava scarpe da tennis e una tuta scura col cappuccio che
lo rendeva quasi invisibile tra gli alberi. Non riuscii a stabilirne l'altezza né
la corporatura.
Lo inseguimmo per un buon mezzo chilometro, ma eravamo a piedi nudi
e sapevamo che non saremmo riusciti a raggiungerlo. Rami e spine ci fu-
stigavano il viso e le braccia. Finalmente emergemmo dal bosco per ritro-
varci su una stradina asfaltata. Appena in tempo per sentire il rumore di u-
n'auto che scompariva accelerando dietro la curva. Non la vedemmo.
«Che strana faccenda!» brontolò Jezzie quando ci fermammo a riprende-
re fiato. Il sudore ci rigava il viso e i nostri cuori pompavano all'unisono.
«Qualcuno sapeva che eri qui?» le domandai.
«Nessuno. Proprio non capisco. Chi diavolo poteva essere? Questa fac-
cenda non mi piace, Alex. Mi fa paura. Hai qualche idea?»
Io avevo già vagliato una dozzina di ipotesi a proposito dell'osservatore
notato da Nina Cerisier. La più attendibile era anche la più semplice: era
stata la polizia a tenere sotto sorveglianza Gary Soneji. Ma chi? Possibile
che si trattasse di qualcuno del mio dipartimento? O di quello di Jezzie?
Sì, era una faccenda che faceva paura.
Non era ancora buio quando tornammo al cottage. L'aria si stava raf-
freddando.
Accendemmo il fuoco e preparammo un'ottima cena che sarebbe stata
sufficiente per quattro: mais dolce, un'enorme insalata, una bistecca da
mezzo chilo a testa, il tutto accompagnato da un bianco secco la cui eti-
chetta diceva: CHASSAGNE-MONTRACHET, PREMIER CRU, MAR-
QUIS DE LAGUICHE.
Dopo cena parlammo di Mark Devine, di Charley Chakely e dell'osser-
vatore. Jezzie non mi fu di grande aiuto. Secondo lei, stavo sprecando
tempo dietro a una falsa pista. Dipinse Chakely come un tipo eccitabile
che avrebbe potuto benissimo dare in escandescenze per una telefonata;
uno di quelli che non sono mai soddisfatti di quello che hanno. A suo avvi-
so, Devine e Chakely erano stati buoni agenti, anche se non eccezionali. Se
nel corso della sorveglianza della famiglia Goldberg si fosse verificato
qualcosa d'insolito, non gli sarebbe certo sfuggito. I loro rapporti erano ac-
curati, e in ogni caso quei due non erano abbastanza intelligenti per fare il
doppio gioco. Ne era sicura.
Non dubitava che Nina Cerisier avesse visto un'auto parcheggiata nella
sua via, la sera prima dell'omicidio Sanders, ma non credeva che qualcuno
avesse spiato Soneji/Murphy. E non credeva neppure che Soneji fosse sta-
to là.
«Il caso non è più mio», concluse. «Non rappresento più il ministero del
Tesoro né nessun altro. Ti ho dato la mia sincera opinione, Alex. Perché
non lasci perdere? È finita. Dimenticatene.»
«Non posso», sospirai. «Non è così che ci comportiamo alla Tavola Ro-
tonda di re Artù. Non posso abbandonare questo caso. Ogni volta che ci
provo, salta fuori qualcosa che mi fa cambiare idea.»
Quella sera andammo a letto presto, verso le nove, nove e un quarto. Il
Chassagne-Montrachet, Premier Cru, fece il suo dovere. La passione non
mancò, ma conoscemmo anche la tenerezza e il calore.
Ci coccolammo, ridemmo e non era poi così presto quando finalmente
sprofondammo nel sonno. Jezzie mi chiamò «Sir Alex, il Cavaliere Nero
della Tavola Rotonda» e io replicai definendola la «Donna del Lago». Ci
addormentammo l'uno fra le braccia dell'altra.
Non so che ora fosse quando mi svegliai. Nel sonno avevo allontanato le
lenzuola e il piumino, e mi sentivo infreddolito. Mi stupii vagamente che
facesse tanto freddo, dato che il fuoco era ancora acceso.
Ma quello che i miei occhi vedevano non quadrava coi messaggi inviati
dal mio corpo. Ci rimuginai su per qualche secondo.
Recuperai le coperte e me le tirai fino al collo. La luce riflessa dai vetri
della finestra aveva una qualità insolita.
Era strano essere di nuovo lì, con Jezzie; lì, In Mezzo al Nulla. D'altro
canto, non riuscivo neppure a immaginare di non esserci.
Ero tentato di svegliarla. Per dirglielo. Per parlare di tutto, e di niente.
La Donna del Lago. E il Cavaliere Nero. Geoffrey Chaucer rivisitato negli
anni '90.
Di colpo mi resi conto che non era il fuoco nel camino a riverberarsi sui
vetri.
Saltai giù dal letto e corsi alla finestra. Davanti a me c'era qualcosa di
cui sentivo parlare da sempre; ma che mai avrei pensato di vedere coi miei
occhi.
Una croce ardeva sul prato di Jezzie.
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Era tardi quando rientrai dal lavoro, il lunedì sera. Il tempo di percorrere
i pochi metri che separavano la porta d'ingresso dalla cucina, e già Damon
e Janelle mi erano addosso.
«Telefono! Telefono! Telefono!» salmodiava mio figlio, marciando al
mio fianco.
Nana mi porse la cornetta; era Wallace Hart, dalla prigione di Fallston.
«Alex, mi dispiace disturbarti a casa, ma non potresti fare un salto qui?
Credo che sia importante.»
Io stavo cercando di sfilarmi la giacca e i bambini mi aiutavano. O, me-
glio, un po' mi aiutavano e un po' cercavano di spezzarmi la schiena.
«Che c'è, Wallace? Ho parecchie cosette da sbrigare, stasera.» Mostrai la
lingua a Damon e Janelle. «Qualche problemino domestico da risolvere.»
«Ha chiesto di te. Vuole parlarti; dice che parlerà solo con te. Dice che è
molto importante.»
«Non può aspettare fino a domattina?» Avevo avuto una giornata fatico-
sa; e comunque, che altro poteva dirmi d'interessante Gary Murphy?
«È Soneji», disse Wallace. «È Soneji che vuole parlarti.»
Ero senza fiato. A fatica riuscii a brontolare un: «Arrivo, Wallace».
Nel giro di un'ora ero a Fallston. Gary era alloggiato all'ultimo piano, nel
braccio che aveva ospitato criminali celebri come Squeaky Fromme e John
Hinckley. Un braccio per gente famosa. Proprio come piaceva a lui.
Lo trovai sdraiato supino su una branda che non aveva né lenzuola né
coperte. Con lui c'era un agente che non gli staccava gli occhi di dosso.
Gary era allo «speciale», dove per i detenuti era prevista la sorveglianza
non stop.
«Ho pensato di farlo trasferire in una cella tranquilla, per stanotte. E di
tenerlo sotto osservazione per un po'. Finché non sapremo che cosa gli sta
succedendo. Sta volando, Alex.»
«Uno di questi giorni volerà così alto che non riuscirà a tornare indie-
tro», dissi, e Wallace annuì.
Entrai nella cella e mi sedetti senza aspettare di essere invitato a farlo.
Ero stanco di chiedere il permesso per qualsiasi cosa. Gary teneva gli occhi
fissi al soffitto, ma sapevo che il mio arrivo non era passato inosservato.
Ehi, ragazzi, c'è Alex!
«Benvenuto nella mia psikhuška, dottore», disse alla fine. La sua voce
era strana, rasposa e monocorde. «Sa che cos'è una psikhuška?» Nessun
dubbio; era Soneji.
«È un ospedale sovietico per detenuti. Dove venivano mandati i prigio-
nieri politici.»
«Esatto. Molto bene.» Mi guardò. «Voglio fare un nuovo patto con lei.
Ripartire da zero.»
«Non mi risulta che avessimo stretto un patto.»
«Non ho intenzione di sprecare altro tempo. Non posso continuare a re-
citare la parte di Murphy. Non le piacerebbe scoprire qual è la molla che fa
funzionare Soneji? Oh, sì, che le piacerebbe, dottor Cross. Diventerebbe
famoso anche lei. E sarebbe ben accetto in qualunque ambiente.»
Non credevo che si trovasse in uno dei suoi stati di fuga. Sembrava ave-
re pieno controllo di sé.
Era sempre stato Gary Soneji? Il Bambino Cattivo? Fin dal nostro primo
incontro? Quella era stata la mia diagnosi iniziale e a quella mi attenevo
ancora.
«Riesce a seguirmi?» mi domandò. Si era messo comodo, con le gambe
allungate sulla brandina, e si stava sgranchendo le dita dei piedi nudi.
«Mi sta dicendo che è sempre stato consapevole delle sue azioni. Che
non c'è mai stata una personalità scissa. Nessuno stato di fuga. Ha sempli-
cemente interpretato due ruoli, e ora si è stancato di Gary Murphy.»
Gli occhi di Soneji erano attenti, magnetici. Il suo sguardo più freddo e
penetrante del solito. A volte, nei casi di schizofrenia grave, la vita vissuta
con la fantasia diventa più importante di quella reale.
«Proprio così. Sta cominciando a vederci chiaro, Alex. Lei è molto più
intelligente degli altri. Sono fiero di lei. È l'unico che riesce ancora a inte-
ressarmi alle cose. L'unico in grado di tener desta la mia attenzione per pe-
riodi prolungati.»
«E che cosa vuole da me?» Era importante tenerlo in carreggiata, impe-
dirgli di divagare. «Che cosa posso fare io per lei, Gary?»
«Ho bisogno di qualche cosetta. Ma, soprattutto, voglio essere me stes-
so. Voglio che le mie imprese mi vengano riconosciute.»
«E in cambio che cosa otterremo?»
Soneji mi sorrise. «Le racconterò quello che è successo. Dall'inizio alla
fine. La aiuterò a risolvere il suo importantissimo caso. Racconterò tutto a
lei, Alex.»
74
Quella mattina alle tre ero già in piedi. A suonare! A suonare Mozart e
Debussy e Billie Holiday sulla veranda. Probabilmente gli spacciatori si
sarebbero precipitati a chiamare la polizia per lamentarsi del rumore.
Più tardi tornai da Soneji. Dal Bambino Cattivo. Nella sua celletta senza
finestre. Tutt'a un tratto lui non voleva altro che parlare. Pensavo di sapere
dove voleva arrivare e che cosa si preparava a dirmi. Ma avevo bisogno di
una conferma da parte sua.
«Deve sforzarsi di capire qualcosa che è del tutto estraneo alla sua natu-
ra», esordì. «Ero sotto pressione quando spiavo quella fottuta ragazzina e
sua madre, l'attrice. Sono un cultore, un drogato del brivido facile. E avevo
bisogno di una dose.» Mentre raccontava le sue bizzarre, macabre espe-
rienze, non potei fare a meno di pensare ai miei pazienti che a loro volta
erano stati bambini seviziati. Era patetico ascoltare una vittima parlare del-
le sue innumerevoli vittime.
«Io conosco bene l'esperienza del brivido, dottore. La mia canzone è
Sympathy for the Devil. Dei Rolling Stones, mi pare. Ho sempre cercato di
prendere tutte le precauzioni necessarie, ma senza infrangere la magia.
Preparavo le vie di fuga, anche quelle di riserva, studiavo con cura i tragitti
per entrare e uscire da tutti i quartieri in cui operavo. Una di queste preve-
deva l'utilizzo di una galleria della rete fognaria che dal ghetto arriva al
Campidoglio. Nella galleria avevo lasciato un cambio di abiti completo, e
una parrucca. Avevo pensato a tutto. Non mi avrebbero preso. Ero estre-
mamente fiducioso nelle mie capacità. Credevo di essere onnipotente.»
«E lo crede ancora?» Glielo chiesi in perfetta serietà. Non pensavo che
mi avrebbe dato una risposta sincera, però m'interessava ugualmente.
«Quello che è accaduto, il mio errore, è stato di consentire ai successi,
all'applauso di milioni di ammiratori, di darmi alla testa. Gli applausi pos-
sono diventare una droga. Katherine Rose soffre della stessa malattia, sa. E
così gran parte degli attori cinematografici, e dei grandi dello sport. Milio-
ni di persone che tifano per te, che ti portano alle stelle. Che ti ripetono che
sei speciale, unico. E allora può succedere che si dimentichino i propri li-
miti, si dimentichi la fatica che ci è voluta per arrivare in cima. A me è
successo. Ecco perché mi hanno preso. Credevo che sarei riuscito a fuggi-
re dal McDonald's! Proprio come ero sempre riuscito a fuggire in prece-
denza. Tutto quello che volevo era concedermi una piccola 'orgia' di delitti,
e poi filarmela. Volevo sperimentare tutti gli aspetti del crimine, quelli che
ti fanno scorrere più rapido il sangue nelle vene, Alex.»
«Si sente onnipotente ora? Da quando è diventato più vecchio e più sag-
gio?» chiesi. Se aveva deciso di buttarla sull'ironico, potevo farlo anch'io.
«Io sono la cosa più vicina all'onnipotenza che le capiterà mai d'incon-
trare. Perché sono uno strumento per la comprensione del concetto, giu-
sto?»
Di nuovo quel suo sorriso vacuo da assassino. Avevo voglia di colpirlo,
di fargli male. Quella di Gary Murphy era stata una figura tragica, quasi
gradevole per certi versi. Soneji era odioso, era il male allo stato puro. Il
mostro umano, la bestia.
«Quando sorvegliava le case dei Goldberg e dei Dunne, era all'apice del-
la sua potenza?» Eri onnipotente in quel momento, stronzo?
«No, no, no. Come lei sa, dottore, mi stavo già rammollendo. Avevo let-
to troppi articoli sull'omicidio 'perfetto' di Condon Terrace. 'Nessuna trac-
cia, nessun indizio, l'assassino imprendibile!' Perfino io ne ero impressio-
nato.»
«Che cosa è andato storto a Potomac?» Pensavo di conoscere già la ri-
sposta, ma ancora una volta mi serviva la sua conferma.
Si strinse nelle spalle. «Ero seguito, ovviamente.»
Ci siamo, pensai. L'osservatore.
«A quell'epoca non lo sapeva?»
«Certo che no.» Lo vidi accigliarsi. «Me ne sono reso conto solo molto
più tardi. E durante il processo ne ho avuto la certezza.»
«Come andò? In che modo scoprì di essere pedinato?»
Soneji teneva gli occhi fissi su di me, quasi volesse trapanarmi fino alla
nuca. Mi considerava inferiore a lui, un semplice recipiente per i suoi sfo-
ghi. E tuttavia pensava che fossi un interlocutore più interessante degli al-
tri. Non sapevo se esserne lusingato od offeso. Oltre a ciò, Soneji era cu-
rioso di scoprire quanto sapevo io.
«Mi consenta di chiarire un punto», disse. «Per me è molto importante.
Ho dei segreti da svelarle. Un'infinità di segreti grandi e piccoli. Segreti
sporchi, segreti succosi. E voglio rivelargliene uno subito. Sa perché?»
«Elementare, mio caro Gary. Per lei è devastante dover sottostare ad al-
tri. Ha bisogno di avere il controllo della situazione.»
«Ottimo, Dottor Detective. Ma ho alcune cosettine utili da barattare. De-
litti che risalgono all'epoca in cui avevo dodici o tredici anni. Delitti im-
portanti rimasti insoluti. Mi creda sulla parola: ho una collezione di tesori
da dividere con lei.»
«Capisco», assentii. «E io ho una gran voglia di ascoltarli.»
«Lei ha sempre capito. Tutto quello che deve fare è convincere gli altri
zombi.»
Non potei non sorridere di quel passo falso. «Gli altri zombi?»
«Mi dispiace, mi dispiace, non volevo essere scortese. È in grado di
convincere gli zombi? Sa a chi mi riferisco. Lei li rispetta ancor meno di
quanto faccia io.»
Era abbastanza vero. Tanto per cominciare, avrei dovuto convincere Pit-
tman. «Mi aiuterà?» volli sapere. «Mi fornirà elementi concreti? Devo sa-
pere che fine ha fatto la ragazzina. Perché i suoi genitori abbiano finalmen-
te un po' di pace.»
«D'accordo. Lo farò», rispose lui. Tutto era diventato incredibilmente
semplice.
Si passa il tempo ad aspettare. E si aspetta. È quasi sempre così in un'in-
dagine di polizia. Si fanno migliaia, letteralmente migliaia, di domande. Si
riempiono interi schedari con cartacce inutili. E ancora domande. Si se-
guono miriadi di piste che non portano da nessuna parte. Poi succede qual-
cosa e la nebbia comincia a diradarsi. Succede, di tanto in tanto. E stava
succedendo in quell'istante. Il frutto di migliaia di ore di lavoro. La ricom-
pensa per gli interminabili colloqui avuti con Gary.
«Allora non mi accorsi che ero sorvegliato», continuò Gary Soneji. «E
nulla di quanto sto per raccontarle è avvenuto nei pressi di casa Sanders.
Bensì in Sorrell Avenue, a Potomac. Per la precisione, di fronte alla casa
dei Goldberg.»
Di colpo sentii di non poter più sopportare i suoi tira e molla. Dovevo
scoprire quello che sapeva. E c'ero quasi. Parla, piccolo bastardo.
«Coraggio», lo esortai. «Che cos'avvenne a Potomac? Che cosa vide dai
Goldberg? Chi vide?»
«Andai laggiù in macchina poche sere prima del sequestro. C'era un uo-
mo che camminava sul marciapiede. Al momento non ci feci caso. Non gli
attribuii alcuna importanza fino a quando non lo rividi durante il proces-
so.»
S'interruppe. Si stava nuovamente prendendo gioco di me? Ne dubitavo.
Mi guardava come per scandagliarmi l'anima. Sa chi sono. Mi conosce for-
se meglio di quanto non mi conosca io stesso.
Che cosa voleva da me? Ero forse un sostituto per qualcosa che era ve-
nuto a mancargli durante l'infanzia? Perché mi aveva scelto per quel terri-
bile compito?
«Chi era l'uomo che ha riconosciuto in aula?»
«Era l'agente dei servizi segreti. Era Devine. Lui e il suo compare, Cha-
kely, devono avermi notato mentre sorvegliavo le case dei Goldberg e dei
Dunne. Sono stati loro a seguirmi. Loro hanno preso la piccola preziosa
Maggie Rose! Loro hanno ritirato il riscatto in Florida. È ai poliziotti che
avrebbe dovuto star dietro fin dall'inizio. Due poliziotti hanno ammazzato
la bambina.»
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Così, dopotutto, avevo visto giusto sin dall'inizio sul conto di Devine e
Chakely. Soneji/Murphy era l'unico testimone oculare, e aveva confermato
l'esattezza delle mie supposizioni. Adesso era il momento di agire.
Dovevo riaprire il caso Dunne-Goldberg. Con novità che a Washington
nessuno avrebbe avuto voglia di ascoltare.
Decisi di parlare prima con l'FBI. Due poliziotti avevano assassinato
Maggie Rose. Bisognava ricominciare le indagini; il caso del rapimento
non era stato risolto e ora stava per esplodere un'altra bomba.
Feci un salto dal mio buon amico Gerry Scorse, al quartier generale del-
l'FBI. Dopo avermi lasciato a raffreddare i miei bollenti spiriti in anticame-
ra per quaranta minuti, mi portò un caffè e m'invitò a seguirlo nel suo uffi-
cio. «Accomodati, Alex. Grazie per aver aspettato.»
Mi ascoltò con cortesia, e con apparente interesse, mentre gli riferivo ciò
che io avevo scoperto - e Soneji confermato - sugli agenti Mike Devine e
Charles Chakely. Prese appunti, un sacco di appunti su foglietti gialli
sciolti.
«Devo fare una telefonata», annunciò quando tacqui. «Reggiti forte, A-
lex.»
Al suo ritorno, m'invitò ad accompagnarlo di sopra. Non fece commenti
di sorta, ma ritenni che fosse rimasto impressionato dalle rivelazioni di
Soneji.
Mi scortò nella sala riunioni privata di Kurt Weithas. Weithas è il vice-
direttore dell'FBI, il numero due. Insomma, volevano farmi capire che si
trattava di un incontro importante, e naturalmente a quel punto io l'avevo
capito.
La sala era comoda e imponente. Le pareti e buona parte dei mobili era-
no blu scuro, sobri e austeri; il soffitto mi rammentò l'abitacolo di un'auto
straniera. Sul tavolo erano stati preparati matite e blocchetti gialli per ap-
punti.
Fu Weithas a prendere in mano il gioco fin dal primo momento. «Vor-
remmo proporle uno scambio, detective Cross», fu la sua battuta d'apertu-
ra. Weithas parlava e si muoveva come un legale del Campidoglio, molto
quotato, molto abile. E, per un certo verso, è esattamente ciò che è. Sulla
camicia candida sfoggiava una cravatta di Hermès, ed entrando nella stan-
za lo vidi inforcare un paio di occhiali con la montatura d'oro. Sembrava di
pessimo umore.
«La metteremo a parte di tutte le informazioni in nostro possesso relati-
ve agli agenti Devine e Chakely. Da parte sua, lei s'impegnerà a collabora-
re per mantenere la massima segretezza su questa faccenda. Ciò che voglio
dirle è che sapevamo di loro già da un certo tempo. Abbiamo svolto un'in-
dagine parallela alla sua.»
«Vi garantisco la mia collaborazione», bofonchiai, sforzandomi di non
apparire troppo sorpreso. «Ma al dipartimento dovrò stendere un regolare
rapporto.»
Weithas liquidò l'obiezione con un cenno noncurante. «Ho già parlato
col suo capo. Nel corso delle indagini ci avete preceduto in un paio di oc-
casioni, ma forse questa volta siamo in leggero vantaggio. Mezzo passo
più avanti.»
«Disponete anche di un numero maggiore di uomini», replicai.
A questo punto subentrò Scorse. «Aprimmo un'indagine sugli agenti
Devine e Chakely all'epoca del sequestro. Era logico considerarli dei so-
spetti, anche se in effetti non li abbiamo mai presi seriamente in considera-
zione. Comunque, nel corso dell'indagine entrambi furono fatti oggetto di
pesanti pressioni. Dato che i Servizi rispondono direttamente al ministro
del Tesoro, può immaginare da solo quello che hanno passato.»
«In buona parte l'ho constatato di persona», replicai.
Scorse ne prese atto con un cenno e proseguì.
«L'agente Charles Chakely rassegnò le dimissioni il 4 gennaio; sostenne
che stava meditando quel passo da molto prima del rapimento. Disse anche
che non se la sentiva di sopportare le allusioni della gente e le attenzioni
dei giornalisti. Le dimissioni vennero accolte immediatamente. Più o meno
nello stesso periodo, scoprimmo un piccolo errore nei registri che gli agen-
ti aggiornano quotidianamente. Una data le cui cifre erano state involonta-
riamente invertite. Nulla di decisivo, ma avevamo per le mani un caso im-
portante e controllavamo ogni minimo particolare.»
«In ultimo le indagini arrivarono a impegnare, direttamente o indiretta-
mente, novecento dei nostri uomini», interloquì il vicedirettore. Ancora
non capivo a che cosa stesse mirando.
«In seguito, nei registri furono individuate altre irregolarità», seguitò
Scorse. «I nostri esperti arrivarono alla conclusione che due dei rapporti
individuali erano stati manipolati, vale a dire riscritti. E infine ci convin-
cemmo che erano stati eliminati i riferimenti al professor Gary Soneji.»
«Lo individuarono mentre sorvegliava la casa dei Goldberg, a Poto-
mac», dissi. «Ammesso che si possa prestar fede a quello che dice Soneji.»
«Su questo punto credo che si possa. Le sue informazioni collimano per-
fettamente con le nostre scoperte. Crediamo che i due agenti abbiano spia-
to Soneji che a sua volta studiava i movimenti di Michael Goldberg e
Maggie Rose Dunne. Crediamo che uno di loro abbia seguito Soneji e sco-
perto il nascondiglio di Crisfield, nel Maryland.»
«Li tenevate d'occhio fin da allora?» domandai guardando Scorse.
Efficiente e conciso come sempre, lui si limitò a un unico cenno d'assen-
so. «In aggiunta, abbiamo ragione di credere che loro sappiano di essere
sotto sorveglianza. Due settimane dopo le dimissioni di Chakely, anche
Devine lasciò i Servizi. Neppure lui e la sua famiglia, dichiarò, erano in
grado di sostenere la pressione. Si dà il caso, però, che Devine e sua mo-
glie sono separati.»
«Immagino che Chakely e Devine non si siano ancora azzardati a spen-
dere i soldi del riscatto.»
«A quanto ci risulta, no. Come ho già detto, sanno che nutriamo dei so-
spetti. E non sono degli sciocchi. Al contrario.»
«È un gioco basato sull'attesa, delicato e complesso», intervenne nuo-
vamente Weithas. «Per il momento non siamo ancora in grado di dimostra-
re nulla, ma possiamo distruggergli l'esistenza. E di certo possiamo impe-
dirgli di spendere il denaro del riscatto.»
«E il pilota della Florida? Non mi è stato possibile condurre un'indagine
sul posto. Avete scoperto la sua identità?»
Scorse annuì. L'FBI mi aveva tenuto nascoste molte cose. A me, come a
tutti. Non che mi sorprendesse. «Joseph Denyeau, uno spacciatore. Alcuni
dei nostri che operano in Florida lo conoscevano. Non è affatto improbabi-
le che lo conoscesse anche Devine, e che abbia deciso d'ingaggiarlo.»
«E che ne è stato di Joseph Denyeau?»
«Mettiamola così: se ancora non avessimo capito che Devine e Chakely
facevano sul serio, Deyneau ci avrebbe tolto gli ultimi dubbi. È stato as-
sassinato in Costa Rica. Gli hanno tagliato la gola. Se tutto fosse andato li-
scio, il cadavere non sarebbe mai stato trovato.»
«E ancora non vi decidete a mettere le mani su quei due?»
«Non abbiamo prove, Alex. Neppure uno straccio di prova. Nessuna,
almeno, che possa reggere in tribunale. Quello che ti ha raccontato Soneji
conferma le nostre conclusioni, ma non ci sarebbe di alcuna utilità in au-
la.»
«Che ne è stato della bambina? Che cos'è successo a Maggie Rose?»
Avevo rivolto la domanda a Weithas, che tuttavia non mi rispose. Lo vi-
di esalare un lungo sospiro e pensai che doveva avere avuto una giornata
lunga. E un anno ugualmente lungo.
«Non lo sappiamo», brontolò infine Scorse. «Ancora non abbiamo una
sola indicazione in merito alla sorte di Maggie Rose. Questa è la cosa più
sconcertante.»
«C'è un'altra complicazione», aggiunse il vicedirettore del Bureau. Lui e
Scorse erano seduti su un divano di pelle scura, chini su un tavolo da caffè
in vetro accanto a cui stavano un computer IBM e una stampante.
«Sono sicuro che ce ne saranno molte», sospirai. L'FBI non ha nulla da
imparare in fatto di bocche cucite. Avrebbero potuto aiutarmi fin dall'ini-
zio. Forse, se avessimo lavorato insieme, saremmo riusciti a rintracciare
Maggie Rose.
Weithas lanciò un'occhiata a Scorse, poi tornò a guardare me. «La com-
plicazione è Jezzie Flanagan», disse.
Lo guardai, stupefatto. Di colpo ero senza fiato, come se qualcuno mi
avesse sferrato un pugno nello stomaco. Già da qualche minuto presentivo
che si preparavano a rivelarmi qualcosa di molto speciale. Rimasi seduto
lì, sentendomi freddo e vuoto, sulla buona strada per non sentire nulla.
«Noi pensiamo che i due uomini abbiano potuto contare sulla sua colla-
borazione. Fin dall'inizio. Jezzie Flanagan e Mike Devine sono amanti da
anni.»
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Più di ogni altra cosa Maggie Rose desiderava vivere. Ora lo capiva.
Voleva che la sua vita tornasse quella di un tempo. Voleva di-
speratamente rivedere suo padre e sua madre. Rivedere tutti i suoi amici,
gli amici di Washington e di Los Angeles, ma soprattutto Michael. Che ne
era stato di Goldberg il Tappo? Lo avevano lasciato andare? I suoi genitori
avevano pagato il riscatto e lui era stato rilasciato, mentre per chissà quale
motivo le cose per lei erano andate diversamente?
Maggie passava le giornate a raccogliere la verdura, ed era un lavoro du-
ro; ancor peggio, era il lavoro più noioso che si potesse immaginare. Do-
veva concentrarsi su qualcos'altro durante le lunghe ore sotto il sole cocen-
te. Doveva evitare di pensare a quello che stava facendo e a dove si trova-
va.
Circa un anno e mezzo dopo il sequestro, Maggie Rose fuggì.
Si era imposta l'abitudine di destarsi molto presto al mattino. Prima di
chiunque altro. E aveva continuato a farlo per settimane intere prima di de-
cidersi a tentare la fuga. Quando si alzò, quella mattina, fuori era ancora
buio, ma lei sapeva che di lì a un'ora si sarebbe levato il sole. E avrebbe
cominciato a far caldo.
Scalza, tenendo in mano le scarpe che usava nei campi, scivolò in cuci-
na. Se l'avessero sorpresa, si sarebbe giustificata dicendo che doveva anda-
re in bagno. Per precauzione non ci era ancora andata.
Le avevano detto che non ce l'avrebbe mai fatta a fuggire, e neppure a
lasciare il villaggio. Distava più di settanta chilometri dagli altri centri abi-
tati, in qualunque direzione ci si muovesse. Questo le avevano detto.
Le montagne brulicavano di serpenti velenosi e gatti selvatici. A volte di
notte li sentiva urlare. Non ce l'avrebbe mai fatta a raggiungere una città.
Questo le avevano detto.
E, se l'avessero colta in flagrante, l'avrebbero rinchiusa sottoterra per
almeno un anno. Si ricordava che effetto faceva stare sottoterra? Senza ve-
dere la luce per giorni e giorni?
La porta della cucina era chiusa, ma lei aveva scoperto dove tenevano la
chiave: in una cassetta portautensili insieme con un mucchio di altre chiavi
arrugginite. La prese, e prese anche un piccolo martello da utilizzare come
arma. Lo infilò nell'elastico delle mutandine.
Aprì la porta e fu all'aperto. Per la prima volta dopo un'eternità, di nuovo
libera. Il suo cuore si librò alto come i falchi che a volte vedeva staccarsi
dai loro nidi nascosti.
Il semplice fatto di trovarsi sola era esaltante. Camminò per molti chi-
lometri. Aveva deciso di scendere a valle invece di salire verso le monta-
gne, benché uno dei bambini le avesse giurato e spergiurato che da quella
parte non c'erano città o villaggi.
Dalla cucina aveva prelevato due panini raffermi, con cui fece colazione.
Col levarsi del sole, la temperatura cominciò a salire e alle dieci faceva già
molto caldo. Ormai da parecchi chilometri costeggiava una strada sterrata,
attenta però a tenersi fuori della vista di eventuali passanti.
Camminò per tutto l'interminabile pomeriggio, sorpresa lei per prima
della propria resistenza. Forse il lavoro nei campi l'aveva irrobustita. Non
era mai stata così forte, tutti i suoi muscoli si erano sviluppati.
Era il crepuscolo quando arrivò in vista della città. La trovò più grande e
più moderna del villaggio in cui era stata segregata tanto a lungo.
Cominciò a correre sugli ultimi declivi. La strada sterrata s'immetteva
finalmente in una più grande, asfaltata. Una strada vera. Maggie la seguì
fino a una stazione di servizio. Era una stazione come tante altre - SHELL,
diceva l'insegna - e lei non aveva mai visto niente di più bello in tutta la
sua vita.
Maggie Rose alzò lo sguardo e vide l'uomo.
Lui le chiese se stava bene. La chiamava sempre Bobbi e lei sapeva di
stargli a cuore, almeno un pochino. Rispose che, sì, stava bene. Si era
semplicemente smarrita nei suoi pensieri.
Non gli rivelò che aveva ricominciato a inventare storie, meravigliose
fantasticherie che l'aiutavano a dimenticare il dolore.
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PARTE SESTA
LA CASA DI CROSS
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Eccola lì, la casa di Cross, sull'altro lato della strada, in tutta la sua glo-
ria dimessa.
Il Bambino Cattivo era affascinato dalle luci giallastre che ardevano al-
l'interno. I suoi occhi vagavano di finestra in finestra. In un paio di occa-
sioni, distinse la sagoma di una donna nera passare davanti a una di quelle
del piano terra. La nonna di Alex Cross, senza dubbio.
Ne conosceva il nome, Nana Mama. Sapeva che Alex l'aveva sopranno-
minata così da ragazzo. Nel corso di quelle ultime settimane, aveva scoper-
to tutto quello che c'era da scoprire sul conto della famiglia Cross. Aveva
un piano per loro. Una bella fantasia semplice e ben congegnata.
A volte, come in quel momento, al ragazzo piaceva avere paura. Paura
per sé; paura per la gente che abitava nella casa. Era una sensazione grade-
vole, a condizione di averne il pieno controllo.
Infine si costrinse a lasciare il suo nascondiglio, ad avvicinarsi ancora di
più alla casa dei Cross. Per essere la paura.
I suoi sensi erano molto più acuti quando aveva paura. Riusciva a man-
tenere la concentrazione per periodi di tempo più prolungati. Mentre attra-
versava la 5 Street, non c'era nulla nella sua mente se non la casa e i suoi
abitanti.
Il ragazzo scomparve nei cespugli che crescevano lungo la facciata della
casa. Adesso il cuore aveva preso a battergli forte e il suo respiro era af-
frettato.
Inspirò a fondo, poi espirò con lentezza. Attraverso l'intrico di rami i-
spezionava la strada del ghetto. Nella zona sud-est era sempre più buio che
altrove. Le lampadine fulminate dei lampioni non venivano mai sostituite.
Fu cauto. Si prese tutto il tempo necessario. Indugiò a esaminare la casa
per una decina di minuti almeno. Nessuno lo aveva visto. Quella volta non
c'era nessuno a spiarlo.
L'ultima stoccata, poi via, verso imprese sempre più grandi.
Pronunciò quelle parole a mezza voce. A volte, adesso, gli capitava di
non riuscire più a tracciare una linea di demarcazione netta fra le cose.
Tutto si confondeva e mescolava: i suoi pensieri, le sue parole, le sue azio-
ni, le mille storie che circolavano sul suo conto.
Aveva rivisto ogni dettaglio centinaia e centinaia di volte, ormai. Non
appena fosse stato certo che dormivano tutti, probabilmente verso le due,
le tre del mattino, avrebbe preso i due bambini, Damon e Janelle.
Li avrebbe narcotizzati, proprio lì, nella loro camera al secondo piano. E
nel frattempo il Dottor Detective Cross avrebbe continuato a dormire.
Doveva farlo. Il celebre dottor Cross doveva soffrire, e molto. Doveva
avere una parte nel nuovo capitolo della sua storia. Sì, era necessario.
Quella era l'unica conclusione degna. E in ultimo sarebbe stato lui a trion-
fare.
Non che Cross avesse bisogno di ulteriori sollecitazioni, ma il ragazzo
gliene avrebbe fornite comunque. Prima avrebbe ucciso la vecchia. Poi si
sarebbe occupato dei bambini.
E quel caso non sarebbe mai stato risolto. I piccoli Cross non sarebbero
stati mai ritrovati. Nessun riscatto sarebbe stato chiesto per il loro rilascio.
E dopo, lui avrebbe potuto dedicarsi ad altro.
Si sarebbe dimenticato del detective Cross. Ma Alex Cross non si sareb-
be mai dimenticato di lui. Né dei suoi bambini scomparsi.
Gary Soneji/Murphy mosse verso la casa.
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«Alex, c'è qualcuno in casa. Alex, c'è qualcuno qui con noi», mi bisbi-
gliava Nana all'orecchio.
Ero già in piedi prima ancora che finisse di parlare. Tanti anni per le
strade di Washington mi hanno insegnato a muovermi in fretta.
Da qualche parte risuonò un tonfo attutito. Sì, c'era un intruso in casa.
Quello non era uno dei rumori consueti del vecchio impianto di riscalda-
mento.
«Tu resta qui. Non uscire finché non ti chiamo, d'accordo?» sussurrai.
«Ti avviserò io quando sarà il momento.»
«Telefono alla polizia.»
«No, tu resti qui. Sono io la polizia. Rimani qui.»
«I bambini, Alex.»
«Vado a prenderli. Tu resta qui. Per favore, fa' come ti dico, una volta
tanto. Per favore.»
Non c'era nessuno sul pianerottolo buio. Io, perlomeno, non vidi nessu-
no. Il cuore mi batteva all'impazzata mentre mi affrettavo verso la camera
dei bambini.
Ora la casa era troppo silenziosa. Innaturalmente silenziosa.
Qualcuno si era introdotto nella nostra casa.
Il pensiero di quella terribile violazione mi ossessionava, ma dovevo
sforzarmi di allontanarlo. Dovevo concentrarmi su di lui. Conoscevo l'i-
dentità dell'intruso. Per settimane, dopo il ritorno dalla Bolivia, ero stato
sul chi vive, ma via via che i giorni passavano avevo cominciato a rilas-
sarmi. E allora lui era arrivato.
Percorsi a passi rapidi il corridoio, aprii la porta che cigolò sui cardini.
Janelle e Damon dormivano ancora. Dovevo svegliarli e portarli di là, da
Nana. A causa loro, preferivo lasciare la pistola di sotto, nel tinello.
Feci per accendere la lampada sul comodino. Nulla!
Mi tornarono alla mente le modalità degli omicidi Sanders e Turner. So-
neji amava l'oscurità; il buio era il suo biglietto da visita, la sua firma. Era
sua abitudine, quando voleva uccidere, disattivare l'impianto elettrico. Sì,
la Belva era lì con noi.
D'un tratto qualcosa mi colpì, con la violenza di un camion lanciato a
tutta velocità.
Soneji, compresi. Mi era balzato addosso e con un colpo solo mi aveva
quasi atterrato.
La sua forza era sorprendente. Tutta la forza che aveva compresso per
una vita intera, fin da quando, ancora ragazzino, veniva chiuso nel semin-
terrato di casa sua. Per quasi trent'anni si era preparato: tramando contro il
mondo, tramando per conquistare la fama che credeva di meritare.
Voglio essere qualcuno!
Caricò di nuovo. Rotolammo a terra con fragore. Tutta l'aria mi uscì di
colpo dai polmoni.
Urtai la tempia contro uno spigolo del cassettone e istantaneamente la
vista mi si annebbiò, le mie orecchie cominciarono a ronzare. Davanti a
me turbinavano miriadi di stelle.
«Sei tu, Cross? Sei tu? Hai dimenticato chi è il protagonista, qui?»
Vedevo a malapena il volto di Soneji, mentre lui urlava il mio nome,
quasi volesse ferirmi con l'intensità delle sue urla, la forza della sua voce.
«Non puoi toccarmi!» ringhiò ancora. «Non puoi farmi nulla! Lo capi-
sci? Lo capisci, finalmente? Sono io la star. Non tu!»
Aveva le mani e le braccia lorde di sangue. C'era sangue dappertutto.
Chi lo aveva ferito? Che cosa aveva fatto in casa nostra?
Intravedevo forme vaghe nella fluttuante oscurità della stanza. Lui aveva
in mano un coltello, lo brandiva contro di me.
«Sono io la star! Io sono Soneji! Murphy! Chiunque voglio essere!»
Compresi che il sangue che lo imbrattava era il mio. Quel primo colpo
che mi aveva inferto era stato una pugnalata.
Ringhiando come un animale, alzò il coltello una seconda volta. I bam-
bini si erano svegliati. «Papà!» gridò Damon. Janelle piangeva.
«Scappate, presto!» urlai, ma erano troppo terrorizzati per reagire.
Riuscii a schivare un fendente, ma il secondo, violentissimo, mi colpì al-
la spalla.
Questa volta sentii dolore, un dolore insopportabile.
Gridai. Ora tutti e due i bambini stavano piangendo. E io volevo uccider-
lo. Avevo la mente in fiamme; provavo una rabbia cieca, irrefrenabile per
quel mostro che si era insinuato nella mia casa.
Di nuovo Soneji/Murphy alzò il coltello. La lama era lunga e così affila-
ta che non avevo neppure avvertito il primo colpo.
Risuonò improvviso un grido feroce. Per una frazione di secondo, Soneji
parve raggelarsi.
Poi una figura turbinò verso di lui. Nana Mama.
«Questa è la nostra casa!» gridava a pieni polmoni. «Fuori di qui!»
Un bagliore attirò il mio sguardo. Allungai la mano a prendere le forbici
posate sull'album di figurine di Janelle. Le forbici che Nana usava in giar-
dino.
Il coltello di Soneji/Murphy calò di nuovo. Era lo stesso che aveva usato
nel ghetto e per uccidere Vivian Kim?
Mi avventai contro di lui impugnando le forbici e sentii un rumore di
carne che si lacerava. Lo avevo preso alla guancia. Il suo grido echeggiò
nella stanza. «Bastardo!»
«Un ricordino», lo provocai. «Chi è che sta sanguinando ora? Soneji o
Murphy?»
Sbraitò qualcosa d'incomprensibile. Poi si slanciò.
Questa volta lo colpii al collo. Si ritrasse con un balzo.
«Forza, bastardo!» urlai.
D'un tratto lo vidi indietreggiare verso la porta. Non fece alcun tentativo
di colpire Nana Mama, la figura materna. O forse soffriva troppo per pen-
sarci.
Si teneva la faccia con entrambe le mani e la sua voce era un urlo acuto
e penetrante mentre correva fuori. Possibile che fosse precipitato in uno
dei suoi presunti stati di fuga? Che si fosse improvvisamente perduto in
una delle sue fantasie?
Ero caduto su un ginocchio e avrei voluto non alzarmi più. Un fragore
sordo mi riempiva la testa. A fatica mi rimisi in piedi. Ero coperto di san-
gue, sulla camicia, sugli slip, sulle gambe nude. Il mio sangue e il suo.
L'adrenalina mi scorreva nelle vene. Afferrai qualcosa da mettermi ad-
dosso e corsi dietro a Soneji. Questa volta non sarebbe riuscito a fuggire.
Non gliel'avrei permesso.
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In tinello recuperai la pistola. Ero certo che si fosse preparato una via di
fuga, nell'eventualità che le cose volgessero al peggio. E di sicuro aveva
rivisto il suo piano passo dopo passo centinaia di volte. Viveva nelle sue
fantasie, non nella realtà.
Non credevo che sarebbe rimasto in casa. Voleva essere libero, per con-
tinuare la sua guerra. Stavo forse cominciando a pensare come lui? Proba-
bilmente sì, ed era una scoperta inquietante.
La porta d'ingresso era spalancata; sul tappeto, una scia di sangue. Ave-
va voluto lasciarmi una pista da seguire?
Dove aveva progettato di rifugiarsi, se il suo piano fosse fallito? Qual
era la mossa imprevedibile che doveva garantirgli la salvezza? Non era fa-
cile pensare con chiarezza, mentre il sangue mi gocciolava dalle ferite al
fianco e alla spalla.
Corsi fuori, nel gelo delle ore che precedono l'alba. Erano le quattro del
mattino e la nostra via non era mai stata tanto silenziosa.
Chissà se aveva previsto che lo avrei seguito. Mi stava già aspettando?
Ancora una volta era riuscito ad anticipare le mie mosse, a battermi sul
tempo? Era sempre stato così, ma sentivo che era arrivato il momento di
ribaltare la situazione.
La metropolitana distava un isolato da casa nostra, sulla 5 Street. La gal-
leria era ancora in costruzione, ma certi ragazzetti del quartiere avevano
preso l'abitudine di percorrere sottoterra i quattro isolati fino alla stazione
del Campidoglio.
Metà correndo, metà arrancando, raggiunsi l'entrata. Le ferite mi dole-
vano, ma non me ne curavo. Era entrato in casa mia. Aveva cercato di ag-
gredire i miei figli.
Con la pistola in pugno, scesi nel tunnel. A ogni passo una fitta mi tra-
passava il fianco. Procedevo a fatica, tenendomi curvo.
Forse mi stava osservando. Forse mi ero cacciato in una trappola. Lag-
giù i nascondigli non mancavano di certo.
Arrivai sino in fondo senza scorgere neppure una goccia di sangue. So-
neji/Murphy non era lì. Ancora una volta era riuscito a dileguarsi.
Ora che la tensione mi stava abbandonando, cominciavo a sentirmi de-
bole e disorientato. Salii i gradini di pietra che portavano in superficie.
I nottambuli entravano e uscivano dall'edicola e dal ristorante Fox, aper-
to tutta la notte. Dovevo essere uno spettacolo davvero pietoso, e tuttavia
nessuno mi fermò. Nella capitale del nostro Paese di scene da incubo se ne
vedono anche troppe.
In ultimo mi bloccai davanti all'autista di un furgone che stava scarican-
do un pacco di copie del Washington Post. Gli dissi che ero un agente di
polizia. L'emorragia mi rendeva leggermente euforico.
«Non ho fatto nulla di male», reagì subito lui.
«Non sei stato tu a spararmi, stronzo?»
«Nossignore. Che cos'è, matto? È davvero un poliziotto?»
Lo costrinsi ad accompagnarmi a casa col suo furgone, e per tutto il tra-
gitto lui non fece che imprecare, minacciando di denunciare il comune.
«Se la prenda col sindaco Monroe», replicai io. «È lui il bastardo.»
«È davvero un poliziotto?» insiste. «Non si direbbe.»
«Sì, sono un poliziotto.»
Davanti a casa mia, vidi parcheggiate autopattuglie e ambulanze. Era il
mio peggior incubo tradotto in realtà. Fino a quel momento, avevo sempre
fatto in modo che il lavoro non contaminasse assolutamente il luogo in cui
vivevo.
C'era anche Sampson, con un giubbotto di pelle nera infilato su una lo-
gora felpa dei Baltimore Orioles. Portava un berretto dell'agenzia di viag-
gio Hoodoo Gurus.
Mi guardava come se fossi ammattito. Alle sue spalle roteavano le luci
blu e rosse delle ambulanze. «Che è successo? Non sembri in gran forma.
Stai bene, amico?»
«Sono stato pugnalato due volte con un coltello da caccia. Niente di pa-
ragonabile alla sparatoria a Garfield.»
«Uh uh. Forse non è poi brutta come sembra. Meglio che ti sdrai sul pra-
to. Subito, Alex.»
Annuii mentre mi allontanavo. Toccava a me concludere quella faccen-
da. In un modo o nell'altro, bisognava metterci un punto fermo.
Gli infermieri cercarono di convincermi a sdraiarmi sul prato. Il nostro
minuscolo praticello. O forse a adagiarmi sulla lettiga.
Mi balenò nella mente un'idea nuova. La porta d'ingresso era aperta.
Soneji l'aveva lasciata così intenzionalmente? E se così era, per quale mo-
tivo?
«Restate qui», dissi agli infermieri. «Ma tenetevi pronti con quella letti-
ga.»
Sentii delle grida alle mie spalle, ma proseguii senza badarci.
In silenzio, attraversai il soggiorno e passai in cucina. Spalancai la porta
che si apre in diagonale rispetto a quella di servizio e mi affrettai di sotto.
Non vidi nulla nello scantinato. Nessun movimento. Tutto era come
sempre. E a quel punto ero rimasto a corto di buone idee.
Mi spinsi fino a un bidone, collocato vicino al vecchio forno, che Nana
usa come cesta della biancheria. È l'angolo più lontano dalle scale, ma So-
neji/Murphy non era neppure lì.
Arrivò correndo Sampson. «Non è qui! Qualcuno lo ha visto in centro.
Dalle parti di Dupont Circle.»
«Ha in mente un'altra grande rappresentazione», biascicai. «Figlio di
puttana.» Il Figlio di Lindbergh.
Sampson non cercò di dissuadermi dall'accompagnarlo. Sapeva che lo
avrei fatto comunque, glielo dicevano i miei occhi. Ci affrettammo verso
la sua auto. Sto bene, cercavo di convincermi. In caso contrario sarei già
crollato.
Un giovane punk del quartiere guardò il sangue vischioso che m'impre-
gnava la camicia. «Stai tirando le cuoia, Cross? Sarebbe una gran cosa.»
Quello doveva essere il mio elogio funebre.
Impiegammo dieci minuti circa per arrivare a Dupont Circle. C'erano au-
topattuglie parcheggiate un po' dappertutto. Le luci rosse e blu dardeggia-
vano bizzarramente nella luce fredda dell'alba.
Per buona parte degli agenti, il turno di notte era quasi finito, ma nessu-
no voleva un folle in libertà nel centro di Washington.
Un'altra grande rappresentazione.
Voglio essere qualcuno.
Nell'ora successiva non accadde nulla, a parte il fatto che fece giorno.
Comparvero i primi pedoni e all'approssimarsi dell'ora di apertura degli uf-
fici il traffico divenne più intenso.
Qualche curioso si fermò a indagare, ma nessuno di noi era disposto a
dire alcunché, se non: «Circolare, circolare, per favore. Non c'è nulla da
vedere». Grazie a Dio.
Fu un medico del pronto soccorso a medicarmi le ferite. Avevo perso
molto sangue, ma non erano gravi. Naturalmente, voleva che mi facessi ri-
coverare all'istante, ma io non ne volli sentir parlare. Un'altra grande rap-
presentazione. A Dupont Circle, nel centro di Washington? Gary Sone-
ji/Murphy amava esibirsi nella capitale.
Dissi al medico di tirarsi da parte, e lui obbedì. Prima però mi feci dare
un paio di Percodan, e per un po' funzionarono.
Sampson mi stava a fianco, succhiando una sigaretta. «Non ce la farai»,
profetizzò. «Piomberai a terra come uno straccio. Come un grande elefante
africano colpito da un attacco cardiaco.»
Io mi stavo godendo la sensazione di stordimento indotta dal Percodan.
«Nessun attacco cardiaco», dissi mentre mi avviavo verso la sua auto. «Il
grande elefante africano si è beccato un paio di coltellate. E comunque non
era un elefante, ma un'antilope africana. Un bell'animale, forte e aggrazia-
to.»
«Hai qualche idea?» mi gridò dietro. «Alex?»
«Sì. Muoviamoci, però. Non serve a nulla starsene piantati qui in Du-
pont Circle. Non ha nessuna intenzione di dare il via a una sparatoria nel-
l'ora di punta, lui.»
«Ne sei sicuro?»
«Ne sono sicuro.»
Vagammo per il centro fin quasi alle otto. Quella sorveglianza stava di-
ventando una gran perdita di tempo e io rischiavo di addormentarmi da un
momento all'altro.
La grande antilope africana era sul punto di cedere. Il sudore m'imperla-
va la fronte, scorreva lungo il naso. Ancora una volta mi sforzai d'immede-
simarmi in Gary Soneji/Murphy. Era lì intorno? O aveva già lasciato la cit-
tà?
Alle sette e cinquantotto arrivò una segnalazione via radio. «La persona
sospetta è stata individuata in Pennsylvania Avenue, nei pressi di Lafayette
Park. E in possesso di un'arma automatica. Si sta dirigendo verso la Casa
Bianca. Tutte le auto convergano sul posto!»
Voglio essere qualcuno.
EPILOGO
GIUSTIZIA DI FRONTIERA
(1994)
Alex,
ha singhiozzato, ha uggiolato, ha implorato pietà prima che la pungesse-
ro?
Ricordami alla tua famiglia. Ci tengo a essere ricordato.
Per sempre,
Il FIGLIO DI L.
Era ancora impegnato nei suoi atroci giochetti mentali. E sempre lo sa-
rebbe stato. Io avevo cercato di spiegarlo a chiunque si mostrasse disposto
ad ascoltarmi. Avevo tracciato un profilo psichiatrico di Soneji per le rivi-
ste specializzate. Ero persuaso che avrebbe dovuto venire processato per
gli omicidi commessi nella zona sud-est. Anche le famiglie delle sue vitti-
me di colore avevano diritto alla giustizia e alla vendetta. Se mai qualcuno
aveva meritato la pena di morte, quello era certamente Gary Soneji/
Murphy.
Il messaggio stava a indicare che aveva trovato il modo di raggirare uno
degli agenti di custodia. Che aveva tirato dalla sua parte qualcuno di Lor-
ton. Aveva un altro piano. Anche quello a dieci o vent'anni?
Mentre guidavo verso Washington, mi chiesi chi dei due fosse stato il
manipolatore più abile. Gary o Jezzie? Una cosa la sapevo per certa: erano
entrambi psicopatici. Questo Paese ne sforna più di qualunque altro del
pianeta. Di ogni forma e dimensione; di ogni razza, fede e sesso. È questa
la cosa che fa più paura.
Una volta a casa, suonai Rapsodia in blu sulla veranda. Suonai Let's
Give Them Something to Talk About di Bonnie Raitt. Damon e Janelle u-
scirono ad ascoltare il loro pianista preferito. Dopo Ray Charles, natural-
mente. Si sedettero sullo sgabello vicino a me. Per molto tempo ci bastò
restare così, ad ascoltare la musica, stretti l'uno all'altro.
Più tardi, andai a St. Anthony per il pranzo eccetera eccetera. L'uomo
del burro è vivo.
RINGRAZIAMENTI
Vorrei ringraziare Peter Barn per l'aiuto fornitomi per conoscere le vite
private, i segreti e i tabù che ancora esistono in tutta l'America. Anne
Pough-Campbell, Michael Ouweleen, Holly Tippett e Irene Markocki mi
hanno fatto capire meglio la psicologia di Alex e la sua esistenza nella zo-
na sud-est di Washington. Liz Delle e Barbara Groszewski hanno salva-
guardato la mia onestà, Maria Pugatch (la mia Lowenstein) e Mark e Mar-
yEllen Patterson mi hanno riportato alla memoria la mezza dozzina di anni
in cui ho lavorato come psichiatra al McLean Hospital. Carole e Brigid
Dwyer e Midgie Ford mi hanno dato un aiuto formidabile per Maggie Ro-
se. Richard e Artie Pine hanno grondato lacrime e sangue per questo mio
lavoro. E infine Fredrica Friedman è stata mia complice dall'inizio alla fi-
ne.
FINE