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JAMES PATTERSON

RICORDA MAGGIE ROSE


(Along Came A Spider, 1992)

PROLOGO
FACCIAMO FINTA CHE
(1932)

New Jersey, vicino a Princeton, marzo 1932

La fattoria di Charles Lindbergh era illuminata da vivaci luci arancione.


Sembrava un castello in fiamme, specialmente in quella cupa regione del
New Jersey coperta d'abeti. Lembi di nebbiolina sfioravano il ragazzo
mentre si avvicinava sempre più al suo primo momento di vera gloria, il
suo primo delitto.
Era buio pesto e il terreno era fradicio, fangoso e pieno di pozzanghere.
Aveva previsto tutto quanto, compreso il tempo.
Indossava stivali da lavoro da adulto. L'alluce e il tallone erano imbottiti
con pezzi di stoffa e strisce del Philadelphia Inquirer.
Voleva lasciare impronte, molte impronte. Impronte da uomo. Non le
impronte di un ragazzo di dodici anni. Sarebbero andate dalla strada pro-
vinciale, che collegava Stoutsburg a Wertsville, sino alla fattoria e ritorno.
Quando raggiunse un boschetto di pini, a meno di trenta metri dalla casa,
cominciò a rabbrividire. L'edificio signorile era grande quanto si era im-
maginato: sette camere da letto e quattro bagni solo al secondo piano. La
casa di campagna di Lindy il Fortunato e Anne Morrow.
Cavoli, pensò.
Il ragazzo si avvicinò a poco a poco alla finestra della sala da pranzo.
Era affascinato dalla fama. Ci pensava moltissimo, quasi sempre. Com'era
veramente la fama? Che odore aveva? Che sapore aveva? Che aspetto ave-
va la fama vista da vicino?
«L'uomo più affascinante e famoso del mondo» era proprio lì, seduto a
tavola. Charles Lindbergh era alto, elegante, aveva favolosi capelli biondo
oro e la pelle chiara. Lindy il Fortunato aveva davvero l'aria di chi è il mi-
gliore.
E anche sua moglie, Anne Morrow Lindbergh, dava la stessa impressio-
ne. Anne portava i capelli corti, neri e ricciuti, che per contrasto facevano
apparire la sua pelle bianca come la porcellana. La luce delle candele sul
tavolo da pranzo sembrava danzarle intorno.
Sedevano entrambi ritti sulle sedie. Sì, avevano certamente un'aria supe-
riore, quasi fossero doni speciali concessi da Dio al mondo. Tenevano la
testa alta, e mangiavano il cibo con delicatezza. Allungò il collo per vedere
che cosa c'era negli impeccabili piatti di porcellana. Sembravano costolette
d'agnello.
«Io diventerò più famoso di voi due poveri stronzi», bisbigliò infine il
ragazzo. Era una promessa che faceva a se stesso. Aveva ripassato ogni
singolo dettaglio almeno un migliaio di volte. Si mise metodicamente al
lavoro.
Recuperò una scala di legno abbandonata vicino al garage dagli operai.
Tenendosi stretta al fianco la scala, si avvicinò a un punto appena oltre le
finestre della libreria. Salì silenzioso fino alla camera del bambino. Il ritmo
del suo polso era velocissimo, e il cuore batteva così forte che gli rimbom-
bava negli orecchi.
La luce di una lampada in corridoio illuminava la stanza. Riuscì a scor-
gere il lettino e il principino che vi sonnecchiava. Charles Junior, «il bam-
bino più famoso del mondo». Accanto al letto, per ripararlo dalle correnti
d'aria, c'era un paravento coloratissimo con disegni di animali.
Si sentiva abile e astuto. «Sta arrivando la Volpe», bisbigliò mentre a-
priva silenziosamente la finestra.
Salì un altro scalino e finalmente fu dentro la stanza.
In piedi vicino al letto, guardava il principino. Aveva riccioli d'oro come
il padre, ma era grasso. Charles Junior era già grasso a soli venti mesi.
Il ragazzo non riuscì più a controllarsi. Calde lacrime gli scesero dagli
occhi. Il corpo prese a tremare per la frustrazione e la rabbia. Eppure pro-
vava la più incredibile gioia della sua vita.
«Bene, ometto di papà. Ora tocca a te», bisbigliò tra sé.
Prese dalla tasca una pallina di gomma attaccata a un elastico. Fece sci-
volare rapidamente quello strano aggeggio sopra la testa di Charles Junior,
proprio mentre i suoi occhietti azzurri si aprivano.
Quando il bambino attaccò a piangere, il ragazzo fece cadere la pallina
proprio dentro quella boccuccia bagnata di saliva. Si allungò verso il letti-
no, prese in braccio il piccolo Lindbergh e scese veloce per la scala. Tutto
andava secondo i piani.
Di nuovo attraversò di corsa i campi fangosi, col prezioso fagotto che si
dibatteva nelle sue braccia, e scomparve nel buio.
A meno di tre chilometri dalla fattoria, sotterrò il piccolo e viziatissimo
Lindbergh. Lo sotterrò vivo.
Quello fu solo l'inizio di quanto doveva accadere. D'altronde lui stesso
non era che un ragazzo.
Lui, non Bruno Richard Hauptmann, era il rapitore del piccolo Lin-
dbergh. Aveva fatto tutto da solo.
Cavoli!

PARTE PRIMA
MAGGIE ROSE E GOLDBERG IL TAPPO
(1992)

Quella mattina del 21 dicembre 1992 ero il ritratto della felicità. Mi tro-
vavo nella veranda della nostra casa sulla 5 Street a Washington. Quel lo-
cale piccolo e angusto era ingombro di cappotti ammuffiti, stivali da lavo-
ro e giocattoli rotti. Che importanza aveva? Era casa mia.
Stavo suonando Gershwin sul nostro pianoforte, un tempo superbo, ora
leggermente scordato. Erano appena passate le cinque e faceva un freddo
da ghiacciaia. Ero disposto a qualche sacrificio per amore di Un americano
a Parigi.
Il telefono strillò dalla cucina. Magari avevo vinto la lotteria del Distret-
to di Columbia, o della Virginia, o del Maryland, e si erano dimenticati di
chiamarmi la sera prima. Tento regolarmente la fortuna in tutte e tre queste
lotterie.
«Nana? Rispondi tu?» gridai dalla veranda.
«È per te. Potresti anche rispondere tu», mi rispose gridando la mia stiz-
zosa nonna. «Perché devo alzarmi anch'io?»
Non è esattamente ciò che ci dicemmo, ma il senso era quello. Come
sempre.
Entrai zoppicando in cucina, cercando di non calpestare altri giocattoli
con le gambe ancora irrigidite per l'ora mattutina. Avevo trentotto anni. Se
avessi immaginato di raggiungere quest'età avrei avuto più cura di me stes-
so.
La chiamata era del mio socio della omicidi, John Sampson; sapeva che
sarei stato già in piedi: mi conosce meglio dei miei figli.
«'giorno, cioccolatino. Sei alzato, vero?» mi salutò. Non erano necessa-
rie ulteriori presentazioni. Sampson e io siamo amici da quando, a nove
anni, cominciammo a fare piccoli furti nel negozio di Park vicino ai cantie-
ri. Allora non sapevamo che il vecchio Park era capace di spararci per il
furto di un pacchetto di Chesterfield. Nana Mama ci avrebbe fatto di peg-
gio se avesse saputo delle nostre attività criminose.
«Se non ero alzato, adesso lo sono», risposi. «Dimmi qualcosa di bello.»
«C'è stato un altro omicidio. Sembra che sia ancora il nostro ragazzo»,
m'informò. «Ci stanno aspettando. Ormai saranno già tutti là.»
«È ancora troppo presto per vedere il furgone dell'obitorio», borbottai.
Mi sembrava già di sentire le contrazioni del mio stomaco. Non era quello
il modo in cui volevo iniziare la giornata. «Oh, merda. Cazzo.»
Nana Mama sollevò gli occhi dal tè fumante e dalle uova in camicia. Mi
lanciò uno dei suoi sguardi sprezzanti da padrona di casa. Era già pronta
per andare a scuola, dove alla bella età di settantanove anni prestava servi-
zio volontario. Sampson continuava a snocciolare dettagli cruenti sui primi
omicidi della giornata.
«Modera il linguaggio, Alex», disse Nana. «Modera il linguaggio se
vuoi restare in questa casa.»
«Sarò lì tra una decina di minuti», congedai Sampson. «Sono io il pro-
prietario di questa casa», replicai a Nana.
Lei gemette come se udisse quella terribile notizia per la prima volta.
«C'è stato un altro omicidio a Langley Terrace. Sembrerebbe l'opera di
un maniaco omicida. Temo che lo sia», la informai.
«Che orrore», commentò Nana Mama. Puntò i suoi dolci occhi castani
nei miei. I capelli bianchi ricordavano i centrini che lei metteva su tutte le
seggiole del nostro soggiorno. «Questo orrore è solo una delle tante conse-
guenze di ciò che i politici han fatto a questa città! A volte penso che do-
vremmo andarcene da Washington, Alex.»
«A volte penso la stessa cosa», dissi, «ma probabilmente resisteremo.»
«Sì, i neri resistono sempre. Noi perseveriamo. Sopportiamo sempre in
silenzio.»
«Non sempre in silenzio», precisai.
Avevo già deciso d'indossare la mia vecchia giacca di tweed. Era un
giorno di omicidi, e questo significava che avrei visto dei bianchi. Sopra la
giacca sportiva misi il mio piumino stile Georgetown. E più adatto al mio
vicinato.
Sul cassettone, vicino al letto, c'era la foto di Maria Cross. Tre anni pri-
ma, mia moglie era stata assassinata nel mezzo di una sparatoria. Il caso,
come la maggior parte degli omicidi della zona sud-est della città, non era
mai stato risolto.
Baciai mia nonna avviandomi verso la porta della cucina. Lo facciamo
da quando avevo otto anni. Ci diciamo anche «addio», nel caso non doves-
simo rivederci. Va avanti così da quasi trent'anni, da quando Nana Mama
mi ha accolto e ha stabilito che avrebbe potuto cavare qualcosa di buono
da me.
Ne ha cavato un detective della omicidi, con un dottorato in psicologia,
che lavora e vive nei ghetti di Washington, nel Distretto di Columbia.

Ufficialmente ricopro la carica di vicecomandante della squadra omicidi:


una carica reboante, che non significa nulla. Tale titolo dovrebbe collo-
carmi alla sesta o settima posizione nel dipartimento di polizia di Washin-
gton. Non è così. Ma tutti si aspettano che mi faccia vedere sulla scena di
tutti i delitti nel Distretto di Columbia.
Un trio di auto biancazzurre della polizia metropolitana del Distretto di
Columbia era parcheggiato disordinatamente davanti al numero civico 41-
15 di Benning Road. Era arrivato un furgone della scientifica coi finestrini
oscurati, e un'ambulanza con allegramente scritto sulla portiera OBITO-
RIO.
Davanti alla casa del delitto si trovavano due camion dei pompieri. In-
torno bighellonavano i soliti patiti degli incidenti, che non mancano in o-
gni vicinato: per lo più, guardoni di sesso maschile. Alcune donne anziane,
con cappotti invernali sopra il pigiama o la camicia da notte e bigodini az-
zurri o rosa nei capelli, rabbrividivano per il freddo sui pianerottoli.
La casa a schiera aveva un rivestimento cadente di assicelle verniciate in
azzurro caraibico. Una vecchia Chevette con un finestrino rotto, riparato
con nastro adesivo, sembrava abbandonata sul vialetto di accesso.
«Al diavolo. Torniamocene a letto», sbottò Sampson. «Mi sono ricorda-
to di quello che ci aspetta. Da un po' di tempo detesto questo lavoro.»
«Io amo il mio lavoro, amo la omicidi», replicai sogghignando. «Ecco il
reperto medico nel suo bel vestito di plastica. E ci sono i ragazzi della
scientifica. E ora chi viene verso di noi?»
Un sergente bianco, infagottato in un eskimo blu e nero con collo di pel-
liccia, avanzava dondolando verso me e Sampson, mentre noi ci avvicina-
vamo alla casa. Teneva le mani ficcate in tasca per scaldarsele.
«Sampson? Uhm, detective Cross?» Il sergente fece schioccare la ma-
scella inferiore nel modo in cui certa gente in aereo compensa la pressione
nei timpani. Sapeva esattamente chi eravamo. Sapeva che eravamo della
squadra investigativa speciale. Ci stava scassando le palle.
«Che c'è, amico?» A Sampson non garba molto essere preso per i fon-
delli.
«Detective capo Sampson», risposi al sergente. «E io sono il viceco-
mandante Cross.»
Il sergente era un irlandese dalla pancetta a salvagente. Il suo viso asso-
migliava a una torta nuziale rimasta a lungo sotto la pioggia. Non sembrò
molto impressionato dalla mia giacca di tweed.
«C'è che stanno gelando le palle a tutti quanti», ribatté sibilando.
Io e Sampson siamo entrambi appassionati di culturismo e ci alleniamo
nella palestra attigua alla chiesa di St. Anthony. Messi insieme raggiun-
giamo i duecentoventi chili. Siamo in grado di intimidire chiunque, se lo
vogliamo, e a volte, nel nostro mestiere, bisogna farlo.
Io sono alto uno e novanta, mentre John supera i due metri. Porta sempre
gli occhiali da sole, e a volte ha in testa un berretto sdrucito o una fascia
gialla. Qualcuno lo chiama John-John, perché è così grosso da poterne
contenere due, di John.
Superammo il sergente dirigendoci verso la casa del delitto. La nostra
task force d'elite è al di sopra di questo genere di prove di forza. A volte.
Due agenti erano già stati dentro la casa. Una vicina nervosa aveva tele-
fonato al distretto verso le quattro e quaranta, perché pensava di aver indi-
viduato un ladruncolo. Era in piedi per via dell'insonnia. Sono cose che ca-
pitano in un quartiere.
I due uomini di pattuglia avevano scoperto tre corpi nella casa e, quando
avvisarono la centrale, fu ordinato loro di attendere la squadra investigati-
va speciale. La SIS è composta da otto agenti neri, evidentemente selezio-
nati per fare carriera nel dipartimento.
La porta esterna che dava accesso alla cucina era socchiusa. L'aprii
completamente. Le porte di tutte le case producono un loro rumore partico-
lare quando si aprono e si chiudono: quella gemeva come un vecchio.
Nella casa c'era buio pesto. Atmosfera lugubre. Il vento venne risucchia-
to attraverso la porta aperta. Riuscii a sentire qualcosa che sferragliava al-
l'interno.
«Non abbiamo acceso le luci, signore», disse uno degli agenti dietro di
me. «Lei è il dottor Cross, giusto?»
Annuii. «La porta della cucina era aperta quando siete arrivati?» Mi ri-
volsi all'uomo di pattuglia. Era un bianco dal volto infantile, che cercava di
compensare facendosi crescere dei baffetti. Probabilmente aveva ventitré o
ventiquattro anni, e quella mattina era proprio spaventato. Non potevo dar-
gli torto.
«Uhm. No. Nessuna traccia di effrazione. Non era chiusa a chiave, si-
gnore.»
L'agente era molto nervoso. «È veramente un macello là dentro, signore.
Si tratta di una famiglia.»
Uno degli agenti di pattuglia accese una potente torcia d'alluminio zigri-
nato e tutti noi buttammo l'occhio dentro la cucina.
C'era un tavolo di formica per la colazione con sedie di plastica verde.
Un orologio nero (col disegno di Bart Simpson) era appeso alla parete. Era
del tipo che si vede in tutte le vetrine degli empori. Gli odori del Lysol e
del grasso bruciato si fondevano producendo nel naso una sensazione stra-
na, anche se non del tutto spiacevole. Di solito c'erano odori ben peggiori
nei casi di omicidio.
Io e Sampson esitammo, comportandoci esattamente come avrebbe po-
tuto fare l'assassino poche ore prima.
«Lui era proprio qui», dissi. «È entrato dalla cucina. Era qui dove siamo
noi.»
Per quanto spesso si facciano queste cose, è come se fosse sempre la
prima volta. Non si vorrebbe mai entrare. Non si vorrebbero vedere altri
incubi nella propria vita.
«Sono di sopra», interloquì il poliziotto coi baffi. Ci comunicò chi erano
le vittime. Una famiglia di nome Sanders: due donne e un bambino.
Il suo collega, un nero basso e robusto, non aveva ancora spiccicato ver-
bo. Si chiamava Butchie Dykes. Era un poliziotto giovane e sensibile, che
avevo intravisto alla centrale.
Entrammo in quattro nella casa della morte. Ognuno di noi trasse un
profondo respiro. Sampson mi diede dei colpetti affettuosi sulla spalla. Sa-
peva che gli omicidi di bambini mi facevano un brutto effetto.
I tre cadaveri erano al piano superiore, nella camera da letto di fronte al-
le scale.
C'era la madre, Jean «Poo» Sanders, trentadue anni. Anche da morta, il
suo volto era sempre notevole: grandi occhi castani, zigomi sporgenti, lab-
bra carnose che avevano già preso un colore violaceo. La bocca era spa-
lancata come per gridare.
La figlia di Poo, Suzette Sanders, aveva quattordici anni. Era solo una
ragazzina, ma era ancor più carina della madre. Portava un nastro lilla tra i
capelli acconciati a treccine e un piccolo brillante al naso per dimostrare
più anni di quelli che aveva. Era stata imbavagliata con un collant blu.
Il bambino, Mustaf Sanders, di tre anni, giaceva col viso rivolto verso
l'alto, e le sue piccole guance sembravano rigate dalle lacrime. Indossava
un pigiama a sacco come quelli dei miei figli.
Proprio come aveva detto Nana Mama, questa era solo una delle tante
conseguenze di ciò che i politici han fatto a questa città. In questo nostro
brutto Paese. La madre e la figlia erano state legate a una colonna del letto
in falso ottone con biancheria di satin, calze a rete rosse e nere, e lenzuola
a disegni floreali.
Estrassi il registratore tascabile che porto sempre con me e cominciai a
dettare le mie prime osservazioni. «Casi di omicidio dal numero H234.914
al 916. Una madre, la figlia adolescente, un bambino. Le donne sono state
squarciate con qualcosa di molto tagliente. Forse un rasoio. I loro seni so-
no stati recisi. Non sono visibili in giro. Il pelo pubico è stato rasato. Vi
sono ferite multiple da coltello, che i patologi chiamano 'tipiche di com-
portamento furioso'. C'è una gran quantità di sangue e di materia fecale.
Ritengo che le due donne, sia la madre sia la figlia, fossero prostitute. Le
ho viste battere in giro.»
La mia voce era un cupo borbottio. Mi chiesi se dopo sarei riuscito a ca-
pire tutte le parole.
«Il corpo del bambino sembra essere stato buttato da parte. Mustaf San-
ders indossa un pigiamino con un motivo di orsacchiotti. Sembra un muc-
chietto abbandonato lì per caso.»
Non potei fare a meno di rattristarmi quando abbassai lo sguardo sul
bambino. I suoi occhi mi fissavano tristi e senza vita. Sentivo un gran fra-
stuono dentro la testa.
«Non credo che lui volesse uccidere il bambino», dissi a Sampson. «Lui
o lei che sia.»
«La Belva», aggiunse Sampson scuotendo la testa. «Propendo per la
Belva. Alex, è una belva. La stessa belva del delitto avvenuto al Condon
Terrace questa settimana.»

Da quando aveva tre o quattro anni, Maggie Rose Dunne era sempre sta-
ta osservata dalla gente. Adesso, a nove anni, era abituata a essere oggetto
di una speciale attenzione; non badava più agli estranei che la guardavano
con aria sciocca come se fosse Maggie Mani-di-Forbice o la figlia di Fran-
kenstein.
Quella mattina qualcuno la stava osservando, e lei non lo sapeva: ma
questa volta le sarebbe importato. In questo caso, era molto importante.
Maggie Rose si trovava alla Washington Day School di Georgetown,
dove tentava di confondersi con gli altri centotrenta studenti. In quel mo-
mento stavano cantando entusiasti tutti insieme.
Confondersi con gli altri non era facile per lei, benché lo desiderasse di-
speratamente. Del resto, era la figlia di Katherine Rose. Non poteva passa-
re davanti a un negozio di videocassette senza trovare esposta la foto di sua
madre. Sembrava che i film di sua madre fossero programmati in TV quasi
ogni sera. La mamma aveva ricevuto più nominations per l'Oscar di quanto
la maggior parte delle altre attrici vedesse la propria foto sulla rivista
People.
Per tutte queste ragioni, Maggie Rose tentava di mimetizzarsi il più pos-
sibile. Quella mattina indossava una maglietta Fido Dido in stato pietoso,
con buchi in posizione strategica davanti e sulla schiena. Aveva scelto dei
jeans Guess, consumati e sciupati. Ai piedi un paio di vecchie Reebok rosa
- le sue preferite - e i calzini Fido presi dal fondo dell'armadio. Di proposi-
to non si era lavata i lunghi capelli biondi prima di andare a scuola.
Quando la madre la vide in quella tenuta, per poco non le cascarono gli
occhi, ma la lasciò ugualmente andare a scuola conciata così. Era un tipo
che non perdeva la calma. Capiva quanto fosse duro per Maggie vivere
nella sua situazione.
I ragazzi di quell'affollato consesso, che comprendeva le classi dalla
prima alla sesta, stavano cantando Fast Car di Tracy Chapman.
Prima di suonare la canzone accompagnandosi al nero e lucente piano
Steinway dell'auditorium, la signora Kaminsky cercò di spiegare il mes-
saggio che conteneva.
«Questa commovente canzone scritta da una giovane nera del Massa-
chusetts parla della condizione dei miserabili nel Paese più ricco del mon-
do. Parla di che cosa significa essere neri negli anni '90.»
La minuscola e sottile insegnante di musica e arti visive dimostrava
sempre grande sensibilità; credeva che fosse dovere di un buon insegnante
non solo informare, ma dare delle convinzioni ai giovani e importanti vir-
gulti di quella scuola prestigiosa.
Ai bambini piaceva la signora Kaminsky, per cui essi si sforzarono
d'immaginare la triste condizione dei poveri e dei diseredati. Dato che la
retta della Washington Day School era di dodicimila dollari, occorreva da
parte loro una buona dose d'immaginazione.
«You got a fast car», cantavano insieme con la signora Kaminsky e il
suo piano.
«And I got a plan to get us out of here.»
Mentre cantava Fast Car, Maggie cercava davvero d'immaginarsi come
sarebbe stato essere così povera. Aveva visto abbastanza diseredati dormi-
re al freddo nelle strade di Washington e, concentrandosi, poteva raffigu-
rarsi scene terribili dalle parti di Georgetown e di Dupont Circle. Soprat-
tutto gli uomini che, a ogni semaforo, lavavano con gli stracci sporchi i pa-
rabrezza, e ai quali sua madre dava sempre un dollaro, a volte di più. Al-
cuni mendicanti la riconoscevano e sembravano impazzire dalla gioia: sor-
ridevano come se avessero vinto una scommessa, e Katherine trovava
sempre qualcosa di carino da dire.
«You got a fast car», cantava ad alta voce Maggie Rose. Aveva vera-
mente voglia di far salire in alto la sua voce.
«But is it fast enough so we can fly away? We gotta make a decision: we
leave tonight or live and die this way.»
La canzone terminò fra gli applausi e le grida di tutti i bambini radunati.
La signora Kaminsky accennò un buffo inchino verso il piano.
«Sai che fatica», borbottò Michael Goldberg, a fianco di Maggie. Era il
suo migliore amico a Washington, dove da meno di un anno lei si era tra-
sferita coi genitori. Venivano da Los Angeles.
Michael faceva dell'ironia, naturalmente. Come sempre. Era il suo modo
- tipico della gente della East Coast - di trattare la gente che non era in
gamba quanto lui, cioè praticamente tutto il resto dell'umanità.
Era un vero cervellone, Maggie lo sapeva bene: leggeva di tutto, colle-
zionava di tutto, sapeva fare un sacco di cose; riusciva anche a essere di-
vertente, con chi gli andava a genio. Però era nato con un soffio al cuore e,
non avendo ancora un fisico alto né molto robusto, si era guadagnato il so-
prannome di «Tappo», che in qualche modo lo strappava dal suo piedistal-
lo di piccolo genio.
Maggie e Michael andavano insieme a scuola in macchina, quasi tutti i
giorni, e quella mattina erano arrivati con un'auto dei servizi segreti. Il pa-
dre di Michael era il ministro del Tesoro. Nessun bambino era veramente
«normale» alla Washington Day, ma cercavano tutti di confondersi in
qualche modo con gli altri.
Mentre uscivano in fila dall'adunata del mattino, a ognuno di loro veniva
chiesto chi sarebbe venuto a prenderli nel pomeriggio: le misure di sicu-
rezza erano una cosa tremendamente importante in quella scuola.
«Il signor Devine...» cominciò a dire Maggie all'insegnante-sorvegliante
piazzato all'uscita dall'auditorium. Si chiamava Guestier ed era professore
di lingue, cioè francese, russo e cinese. Il suo soprannome era «Testa di
rapa».
«E Jolly Charlie Chakely», finì la frase per lei Michael Goldberg. «Ser-
vizi segreti reparto diciannove. Automobile Lincoln. Targa numero SC-59.
Uscita nord, Pelham Hall. Sono addetti a moi perché il cartello di Medellin
ha minacciato di morte mio padre. Au revoir, mon professeur.»
Sul registro della scuola, alla data del 22 dicembre, fu annotato: Michael
Goldberg e Maggie Rose Dunne - a cura dei servizi segreti. Uscita nord,
Pelham, alle tre.
«Dai, sapientona.» Michael Goldberg diede una gomitata nelle costole a
Maggie Rose. «Ho una macchina veloce. Uh huh, uh huh. E ho in mente di
andarcene via da qui.»
Non c'era da stupirsi che lui le piacesse, pensò Maggie. Chi altri l'avreb-
be chiamata «sapientona»? Chi altri se non Goldberg il Tappo?
Mentre uscivano dall'auditorium, qualcuno stava tenendo d'occhio i due
amici, ma essi non notarono nulla di strano o di anormale. Non se l'aspet-
tavano. L'idea era tutta lì. Era la parte principale del piano.

Alle nove di quella mattina, la signora Vivian Kim decise di ricostruire


il caso Watergate nella sua classe alla Washington Day School. Non se ne
sarebbe mai più dimenticata.
Era una donna intelligente e carina, nonché un'ottima insegnante di sto-
ria americana: il suo corso era fra quelli preferiti dagli alunni. Due volte al-
la settimana interpretava una scenetta storica e a volte ne faceva preparare
una dai bambini, che se la cavavano davvero bene. In tutta franchezza, po-
teva affermare che le sue lezioni non erano mai noiose.
Quella mattina, aveva scelto il Watergate. Nella sua terza c'erano Mag-
gie Rose Dunne e Michael Goldberg. Qualcuno sorvegliava l'aula.
La signora Kim interpretava ora il ruolo del generale Haig, ora quelli di
H.R. Haldeman, di Henry Kissinger, di G. Gordon Liddy, del presidente
Nixon, di John e Martha Mitchell, nonché di John e Maureen Dean. Era
una buona imitatrice e fece un eccellente lavoro con Liddy, Nixon, il gene-
rale Haig, e soprattutto i Mitchell e Mo Dean.
«Durante il suo messaggio annuale sullo stato dell'Unione, il presidente
Nixon si rivolse all'intera nazione in TV», disse ai bambini. «Molti riten-
gono che ci abbia mentito. Quando un funzionario del governo mente,
commette un crimine orribile, dal momento che noi, sulla base del suo giu-
ramento e della sua onestà, gli abbiamo accordato la nostra fiducia.»
«Fiii! Buu!» Un paio di bambini della classe prese parte attiva alla le-
zione, poiché l'insegnante, entro limiti ragionevoli, incoraggiava questo
genere di partecipazione.
«Fare buu va benissimo», disse. «E anche fischiare. Tuttavia, a questo
punto della nostra storia, il signor Nixon si trovava davanti alla nazione,
davanti a gente come voi e me.» Si sistemò come se stesse parlando da un
podio e cominciò a fornire alla classe la sua interpretazione di Richard Ni-
xon.
Assunse un'espressione scura e cupa. Scosse il capo da una parte all'al-
tra. «Voglio che sappiate... che non ho alcuna intenzione di abbandonare il
lavoro che gli americani mi hanno incaricato di svolgere per gli Stati Uni-
ti.» Fece una pausa mentre ripeteva le parole dell'infame discorso di Ni-
xon. Era come una nota tenuta in sospeso in un'opera lirica brutta ma di
grande effetto.
I ventiquattro bambini della classe erano in silenzio. Per il momento Vi-
vian Kim aveva completamente catturato la loro attenzione: era il nirvana
di ogni insegnante, per quanto breve potesse essere. Bello, pensò.
Si udì un incerto bussare al vetro della porta dell'aula. Quella magica
atmosfera venne interrotta.
«Buu! Fiii», borbottò Vivian Kim. «Sì? Chi è? Sì? Chi c'è?» chiese ad
alta voce.
La porta di vetro e mogano lucido si aprì lentamente. Uno degli alunni
abbozzò la colonna sonora di Nightmare on Elm Street e il signor Soneji,
con fare esitante, timido, mosse un passo dentro l'aula. Quasi tutti i bambi-
ni s'illuminarono in volto all'istante.
«C'è qualcuno in casa?» chiese il signor Soneji con voce stridula. I bam-
bini scoppiarono in una risata. «Ohh! Guarda, ci sono tutti», commentò.
Gary Soneji insegnava matematica, e anche informatica, materia ancor
più popolare delle lezioni di Vivian Kim. Aveva una calvizie incipiente, i
baffi e portava occhiali da studente inglese. Non aveva l'aspetto di un divo
dello schermo, ma a scuola lo era poiché, oltre a essere un insegnante ispi-
rato, era il gran maestro dei videogame Nintendo.
La sua popolarità e il fatto di essere un genio dei computer gli avevano
guadagnato il soprannome di «Mister Chips».
Salutò per nome un paio di studenti mentre si avvicinava rapidamente
alla scrivania della signora Kim.
I due insegnanti si misero a parlottare tra loro nei pressi del primo ban-
co. La signora Kim volgeva la schiena alla classe. Annuiva parecchio, e
non parlava molto. Sembrava minuscola accanto al signor Soneji, alto più
di un metro e ottanta.
Infine la signora Kim si rivolse ai bambini. «Maggie Rose e Michael
Goldberg? Potreste venire qui davanti? Portatevi le vostre cose, per favo-
re.»
Maggie Rose e Michael si scambiarono sguardi perplessi. Che cos'era
tutta quella storia? Raccolsero le loro cose, e quindi si diressero verso i
primi banchi per scoprirlo. Gli altri bambini avevano cominciato a bisbi-
gliare tra loro, e anche a parlare ad alta voce.
«Bene, smettiamola. Questo non è l'intervallo», la signora Kim li calmò.
«È ancora lezione. Vi invito a rispettare le regole che ci siamo dati.»
Quando arrivarono davanti, il signor Soneji si chinò per parlare con
Maggie e Michael senza farsi sentire dagli altri. Goldberg il Tappo era più
basso di Maggie Rose di almeno dieci centimetri.
«C'è un piccolo problema, ma niente di cui preoccuparsi.» Il signor So-
neji era calmo e molto gentile coi bambini. «Praticamente è tutto a posto.
C'è solo un piccolo intoppo, tutto qua. Però va tutto bene.»
«Non mi sembra», sbottò Michael Goldberg, scuotendo il capo. «Che
cosa sarebbe questo piccolo intoppo?»
Maggie Rose per il momento non disse nulla. Per una qualche ragione
aveva paura. Era successo qualcosa. C'era senz'altro qualcosa che non an-
dava. Se lo sentiva alla bocca dello stomaco. La mamma le diceva sempre
che aveva un'immaginazione troppo vivace, e lei quindi cercava di appari-
re calma, di agire con calma, di essere calma.
«Abbiamo appena ricevuto una telefonata dai servizi segreti», spiegò la
signora Kim. «Hanno ricevuto delle minacce. Riguardano sia te sia Mag-
gie. Probabilmente è la telefonata di un pazzo, ma intendiamo mandarvi
subito a casa come misura cautelare. È solo una precauzione: voi bambini
sapete come funziona la cosa.»
«Sono certo che sarete entrambi di ritorno prima di pranzo», le venne in
aiuto il signor Soneji, anche se il suo tono non risultò molto convincente.
«Che genere di minacce?» Maggie Rose chiese al signor Soneji. «Nei
confronti del padre di Michael? Oppure riguardano mia mamma?»
Il signor Soneji diede dei colpetti affettuosi sul braccio di Maggie. Spes-
so gli insegnanti della scuola privata si stupivano della maturità di molti di
quei bambini.
«Oh, del solito genere che riceviamo ogni tanto. Molte chiacchiere, ma
poi non succede niente. Solamente qualche svitato in cerca di celebrità, ne
sono sicuro. Sarà qualche stupido.» Il signor Soneji fece una gran boccac-
cia. Dimostrava preoccupazione, ma senza eccessi, e i bambini ne furono
rassicurati.
«E allora perché dobbiamo andare fino a casa sul Potomac, per metterci
a piangere come dei vitelli?» Michael Goldberg faceva smorfie e gesti co-
me un piccolo avvocato di tribunale. Sotto molti aspetti sembrava una ver-
sione da cartone animato del suo famoso padre, il ministro.
«È solo per non trascurare nessuna minima precauzione. D'accordo? Ba-
sta così, non intendo sostenere un dibattito con te, Michael. Sei pronto per
andare?» Il signor Soneji era gentile, ma deciso.
«No davvero.» Michael continuava ad aggrottare le sopracciglia e a
scuotere il capo. «Sul serio, signor Soneji. Non vale, non è giusto. Perché
non vengono qui i servizi segreti e non ci rimangono finché non è finita la
scuola?»
«Non è in questo modo che intendono procedere», replicò il signor So-
neji. «Non sono io che stabilisco le regole.»
«Credo che siamo pronti», intervenne Maggie. «Dai, Michael. Smettila
di discutere. La faccenda è chiusa.»
«La faccenda è chiusa.» La signora Kim intervenne in soccorso con un
sorriso. «Vi farò avere i compiti da fare a casa.»
Maggie Rose e Michael scoppiarono a ridere. «Grazie, signora Kim!»
dissero all'unisono. La donna trovava sempre la battuta adatta alla situa-
zione.
I corridoi erano quasi vuoti e molto silenziosi. Un portiere, un nero di
nome Emmett Everett, fu l'unica persona che vide il terzetto uscire dall'edi-
ficio scolastico.
Appoggiato alla sua scopa, Everett osservò Soneji e i due bambini per-
correre tutto il lungo corridoio. Fu l'ultima persona che li vide insieme.
Una volta fuori, attraversarono in fretta il parcheggio della scuola, cir-
condato da cespugli ed eleganti betulle. Le scarpe di Michael scricchiola-
vano sulle pietre.
«Scarpe da becchino.» Maggie gli si accostò per dirgli una spiritosaggi-
ne. «Sembrano scarpe da becchino, si muovono come scarpe da becchino,
fanno un rumore di scarpe da becchino.»
Michael non aveva argomenti per controbattere. Che poteva dire? Sua
madre e suo padre gli compravano ancora i vestiti in quello strambo nego-
zio dei Brooks Brothers. «Che cosa dovrei indossare, signorina Gloria
Vanderbilt? Delle scarpe da ginnastica rosa?» disse debolmente.
«Certo, scarpe da ginnastica rosa», confermò raggiante Maggie. «Oppu-
re delle Air-out verde acido. Ma non scarpe da funerale, Tappo.»
Il signor Soneji condusse i bambini verso un furgone blu ultimo model-
lo, parcheggiato sotto gli olmi e le querce che fiancheggiavano per tutta la
sua lunghezza l'edificio dell'amministrazione e della palestra; dall'interno
si udiva echeggiare il rumore alterno dei palloni da basket che rimbalzava-
no.
«Voi due potete salire dietro. Oplà. Ci siamo», disse mentre li aiutava a
montare nel retro del furgone. Gli occhiali continuavano a scivolargli giù
dal naso. Alla fine se li levò.
«Ci porta a casa?» chiese Michael.
«Lo so che non è una Mercedes limousine, ma devo farlo, signor Micha-
el. Sto solo seguendo le istruzioni che mi ha dato per telefono il signor
Chakely.»
Salì anche lui nel furgone, richiudendo la porta scorrevole con un forte
colpo.
«Un attimo. Vi faccio un po' di posto.»
Rovistò tra le scatole di cartone impilate verso la parte anteriore: in quel
furgone regnava il disordine più completo. Era l'antitesi dello stile usato a
scuola dall'insegnante di matematica, ordinato, quasi fanaticamente meto-
dico. «Sedetevi dove volete, ragazzi.» Continuava a parlare mentre cercava
qualcosa.
Quando si girò, indossava una paurosa maschera, nera e gommosa. Da-
vanti al petto teneva un aggeggio di metallo. Sembrava un estintore in mi-
niatura, ma il suo aspetto era più fantascientifico.
«Signor Soneji?» chiese Maggie Rose con voce sempre più acuta. «Si-
gnor Soneji!» Si mise d'impulso le mani davanti al viso. «Ci spaventa. La
smetta di scherzare!»
Soneji puntava il piccolo ugello metallico proprio su Maggie Rose e Mi-
chael. Mosse un passo rapido verso di loro piantandosi saldamente sugli
scarponi dalla suola di gomma.
«Che cos'è quella cosa?» disse Michael, senza sapere bene perché lo
chiedesse.
«Ehi, io ci rinuncio. Assaggiane un po', piccolo genio, e poi dimmelo
tu.»
Spruzzò addosso a loro una raffica di cloroformio, tenendo il dito sul
pulsante almeno dieci secondi. I bambini furono avvolti da una nebbiolina
e crollarono sul sedile posteriore.
«Dormite, bravi bambini», disse il signor Soneji con voce tranquillissi-
ma e tenerissima. «Nessuno lo saprà mai.» Questo era il bello. Nessuno
avrebbe mai saputo la verità.
Soneji si arrampicò sul sedile anteriore e accese il motore del furgone
blu. Mentre usciva dal parcheggio, cantava Magic Bus degli Who. Quel
giorno si sentiva di umore meraviglioso. Stava progettando, tra le altre co-
se, di diventare il primo rapitore seriale di bambini d'America.

Intorno alle undici meno un quarto ricevetti una telefonata di emergenza


a casa Sanders. Non volevo più parlare con nessuno di altre emergenze.
Ero reduce da un incontro di dieci minuti con la stampa. Al tempo degli
omicidi nei quartieri popolari alcuni giornalisti erano miei amici: ero un
loro beniamino, e il mio nome era apparso perfino sul supplemento dome-
nicale del Washington Post. Avevo parlato, ancora una volta, dell'alto nu-
mero di omicidi tra la gente di colore del Distretto di Columbia. L'anno
precedente erano state quasi cinquecento le vittime nella nostra capitale, di
cui solo diciotto bianche. Un paio di cronisti ne aveva preso nota. Face-
vamo progressi.
Presi il ricevitore da un giovane detective della SIS, Rakeem Powell.
Nel palmo della mano tenevo una vecchia palla da baseball che doveva es-
sere appartenuta a Mustaf. Quella palla mi procurava una strana sensazio-
ne. Perché mai uccidere un bel bambino come quello? Non sono riuscito a
trovare una risposta. Almeno finora.
«È il capo», m'informò Rakeem aggrottando le sopracciglia. «È preoc-
cupato.»
«Cross», mi annunciai all'apparecchio dei Sanders. Mi girava ancora la
testa, desideravo terminare quanto prima quella conversazione.
Il microfono odorava di scadente profumo al muschio: il profumo di Poo
o di Suzette, o magari di entrambe. Su un tavolo vicino al telefono c'erano
le foto di Mustaf in una cornice a forma di cuore. Pensai ai miei due figli.
«Sono il comandante Pittman. Com'è la situazione lì?»
«Credo che ci troviamo di fronte a un serial killer. Madre, figlia e un
bambino. È la seconda famiglia in meno di una settimana. Le luci di casa
erano spente: a quello piace lavorare al buio.» Gli propinai un paio di det-
tagli cruenti. Per Pittman, di solito, era sufficiente. Mi avrebbe lasciato la-
vorare da solo su quel caso, dal momento che gli omicidi della zona sud-
est non avevano un gran peso nel piano strategico generale.
Seguì qualche istante di teso silenzio. Vedevo l'albero di Natale della
famiglia Sanders nella sala della TV. Era stato decorato con grande cura:
luccicanti decorazioni acquistate al supermercato, strisce di mirtilli finti e
di popcorn. In cima era piazzato un angelo di stagnola fatto in casa.
«Mi hanno detto che la vittima è uno spacciatore. Uno spacciatore e due
prostitute», mi disse il capo.
«No, è falso», replicai a Pittman. «In casa avevano fatto un bell'albero di
Natale.»
«Certo. Per favore, non raccontarmi stronzate, Alex. Non oggi. Non o-
ra.»
Se stava cercando di farmi uscire dai gangheri, c'era riuscito. «Una delle
vittime è un bambino di tre anni in pigiama. Forse spacciava. Indagherò.»
Non avrei dovuto lasciarmi sfuggire quelle parole; non dovrei dire un
sacco di cose. Negli ultimi tempi mi sembrava di stare per esplodere. Negli
ultimi tempi significava da circa tre anni.
«Tu e John Sampson sbrigatevi a venire alla Washington Day School»,
proseguì Pittman. «Qui è scoppiato l'inferno. Parlo sul serio.»
«Anch'io parlo sul serio», ribattei. Cercai di mantenere basso il tono del-
la voce. «Sono sicuro che si tratta di un assassino che lascia la firma. Qui
la situazione è brutta: la gente piange per le strade, e manca poco a Nata-
le.»
Niente da fare: il comandante Pittman ci ordinò di recarci alla scuola di
Georgetown. Era scoppiato un inferno.
Prima di partire per la Washington Day, telefonai all'unità speciale
«serial killer» del nostro dipartimento, e poi alla «super unità» alla sede
FBI di Quantico. L'FBI possiede archivi computerizzati riguardanti tutti i
casi di omicidi seriali, completi dei profili psichiatrici che, a fronte di un
considerevole numero di particolari riservati relativi agli omicidi, analiz-
zano i vari comportamenti criminali. Cercavo una corrispondenza tra età,
sesso e tipo di ferite inflitte alle vittime.
Un tecnico della scientifica mi porse un rapporto da firmare mentre me
ne andavo via da casa Sanders. Firmai al solito modo, con una †.
Cross.
Un duro che viene dai quartieri duri della città.

I dintorni della scuola privata misero un po' in soggezione me e Sam-


pson: ci trovavamo su un altro pianeta rispetto alle scuole e alla gente della
zona sud-est.
Eravamo due dei pochi neri che si trovavano nell'atrio della Washington
Day School. Avevo sentito dire che ci dovevano essere dei ragazzi africa-
ni, figli di diplomatici, che frequentavano l'istituto, ma non ne vidi: c'erano
solo gruppetti di insegnanti, bambini e genitori sconvolti. La gente piange-
va senza ritegno sul prato davanti all'edificio e nell'atrio.
Due ragazzini, due bambini, erano stati rapiti in una delle più prestigiose
scuole private di Washington. Capii che era un giorno tragico per tutte le
persone coinvolte nella faccenda. Basta così! mi dissi. Fa' solo il tuo lavo-
ro.
Ci occupammo dei nostri compiti di polizia. Cercammo di soffocare l'ira
che provavamo, ma non fu cosa facile: continuavo a vedere gli occhi del
piccolo Mustaf Sanders. Un agente in uniforme ci disse che eravamo desi-
derati nell'ufficio del preside, dove ci aspettava il comandante Pittman.
«Non perdere la calma», mi consigliò Sampson.
Al lavoro, di solito, George Pittman indossa un completo grigio o blu.
Predilige le camicie a righine e le cravatte a strisce argento e blu, ed è un
fanatico di scarpe e cinture della Johnson & Murphy. I capelli grigi sono
sempre lisciati all'indietro e aderiscono alla sua testa rotonda quasi a dare
l'idea di un elmetto. È conosciuto col nome di Jefe, il Boss dei Boss, il Du-
ce, Pits, Georgie Porgie...
Penso di sapere quando sono cominciati i miei problemi col comandan-
te: è stato dopo la pubblicazione di quell'articolo su di me nel supplemento
domenicale del Washington Post. Dicevano che ero uno psicologo, che la-
voravo però nella squadra omicidi e reati gravi del Distretto di Columbia.
Avevo spiegato al cronista come mai continuavo ad abitare nella zona sud-
est: «Mi piace abitare dove sto ora. Nessuno mi caccerà da casa mia».
In effetti, credo che sia stato il titolo scelto per l'articolo ad aver fatto
saltare i nervi a Pittman (e a qualcun altro del dipartimento). Il giovane
giornalista aveva intervistato mia nonna per raccogliere del materiale. Na-
na era stata insegnante d'inglese, e l'impressionabile cronista prese nota
della cosa con grande entusiasmo. Gli aveva riempito la testa delle sue
convinzioni: secondo lei, i neri, fondamentalmente tradizionalisti, sarebbe-
ro logicamente stati gli ultimi nel Sud ad abbandonare la religione, la mo-
rale e addirittura le buone maniere. Disse che io ero un vero uomo del Sud,
visto che ero nato nel North Carolina, e illustrò anche le ragioni per cui noi
- nei film, in TV, nei libri e negli articoli di giornale - idolatriamo i detec-
tive quasi psicotici.
Il titolo del pezzo, sopra una foto che mi ritraeva in espressione medita-
bonda, era L'ULTIMO GENTILUOMO DEL SUD. L'articolo provocò
grossi problemi all'interno del mio dipartimento, che è molto formale. Il
comandante Pittman soprattutto se n'ebbe a male. Non potei dimostrarlo,
ma ero convinto che l'articolo fosse stato messo da qualcuno direttamente
sulla scrivania del sindaco.
Bussai, in una sequenza di tre colpi, alla porta dell'ufficio del preside,
poi Sampson e io entrammo. Prima che potessi dire qualcosa, Pittman sol-
levò la mano destra. «Cross, ascolta solamente quello che ho da dire»,
m'invitò avanzando verso di noi. «C'è stato un rapimento in questa scuola.
Un rapimento molto grave...»
«Veramente orribile», interloquii. «Sfortunatamente un assassino ha
colpito anche nel quartiere di Condon Terrace e di Langley. L'assassino ha
già colpito due volte. Finora sono morte sei persone. Sampson e io siamo i
responsabili delle indagini su quel caso. Praticamente, indaghiamo solo
noi.»
«Sono informato della situazione dei casi di Condon e Langley. Ho già
preso i provvedimenti necessari. Qualcuno se ne sta occupando», assicurò
il comandante.
«Hanno tagliato via i seni a due donne nere, stamattina. Gli hanno rasato
il pelo pubico mentre erano legate al letto. Di questo eri informato?» gli
chiesi. «Un bambino di tre anni è stato assassinato, con addosso il suo pi-
giamino.» Avevo ripreso a gridare. Lanciai un'occhiata verso Sampson e
vidi che stava scuotendo il capo.
Un gruppo di insegnanti presenti in ufficio rivolse lo sguardo verso di
noi.
«Hanno tagliato via i seni a due giovani donne nere», ripetei a loro bene-
ficio. «C'è qualcuno che ora passeggia per Washington con dei seni in ta-
sca.»
Pittman indicò un ripostiglio dell'ufficio del preside. Desiderava che noi
due entrassimo in quella stanza. Scossi il capo. Volevo dei testimoni quan-
do mi trovavo con lui.
«So che cosa stai pensando, Cross.» Abbassò la voce e parlò vicinissimo
al mio viso. L'odore stantio di sigaretta mi arrivò addosso a ondate. «Pensi
che sto cercando di prenderti in castagna, ma non è così. So che sei un
bravo poliziotto, so che solitamente prendi a cuore le cose.»
«No, tu non sai quello che penso. Ecco quello che penso! Sono già morti
sei neri. Là fuori c'è un maniaco omicida in calore. Si sta affilando i canini.
E adesso due bambini bianchi sono stati rapiti, ed è una cosa terribile. Ter-
ribile! Ma ho già un cazzo di caso di cui occuparmi!»
D'improvviso mi puntò contro l'indice. Il suo volto era paonazzo. «Lo
decido io di che caso ti occupi! Lo decido io! Tu sei esperto nel trattare la
liberazione degli ostaggi. Sei uno psicologo. Abbiamo altri detective per
seguire i casi di Langley e Condon. Inoltre, il sindaco Monroe ha chiesto
specificamente di te.»
Era dunque così che stavano le cose! Adesso mi era tutto chiaro. Era in-
tervenuto il nostro sindaco. Ero io l'oggetto del contendere.
«E Sampson? Almeno lui potrebbe continuare con quegli omicidi.»
«Se hai delle lamentele, falle al sindaco. Voi due lavorate a questo rapi-
mento. Questo è quanto ho da dirti al momento.»
Ci voltò le spalle e si allontanò. Ci avevano affidato il caso del rapimen-
to Dunne-Goldberg, che ci piacesse o no. A noi non piaceva.
«Forse non ci resta che tornarcene alla casa dei Sanders», suggerii a
Sampson.
«Tanto qui nessuno sentirà la nostra mancanza», convenne lui.

Una lucente moto BMW K-1 nera s'infilò sotto il basso portone in pietra
della Washington Day School. Il conducente si fece identificare, poi la
moto percorse a velocità elevata una stradina che portava verso un gruppo
di edifici scolastici grigi. Erano le undici.
La BMW K-1 raggiunse i novanta all'ora nei pochi secondi necessari ad
arrivare all'edificio dell'amministrazione. Poi frenò con dolcezza, senza
quasi sollevare la ghiaia, e il conducente la fece scivolare dietro una Mer-
cedes limousine grigio perla con targa diplomatica DP101.
Restando seduta sulla moto, Jezzie Flanagan si tolse il casco nero e sco-
prì i capelli biondi piuttosto lunghi. Dall'aspetto le si poteva attribuire un'e-
tà di circa trent'anni, e in effetti ne aveva compiuti trentadue l'estate prece-
dente. La vita minacciava di passare oltre e lei aveva la sensazione di esse-
re ormai una reliquia, storia antica. Veniva direttamente alla scuola dal cot-
tage che possedeva sul lago, dove aveva trascorso la sua prima vacanza
dopo ventinove mesi.
Questo spiegava il suo abbigliamento di quella mattina: la giacca in pel-
le da motociclista, i jeans neri scoloriti con scaldamuscoli, una grossa cin-
tura in pelle, la camicia a scacchi rossi e neri da boscaiolo, e gli scarponi
da cantiere consumati.
Due poliziotti si portarono di corsa ai suoi fianchi.
«Tutto a posto, agenti», disse la donna, «ecco il mio tesserino di ricono-
scimento.»
Dopo aver guardato il documento, i poliziotti indietreggiarono immedia-
tamente e divennero premurosi. «Può entrare», disse uno di loro, «c'è una
porta laterale proprio dietro quelle siepi, signora Flanagan.»
Jezzie riuscì a offrire un sorriso amichevole ai due poliziotti dall'aria co-
sì seria e impegnata. «Lo so che oggi non ho un'aria molto regolamentare.
Ero in vacanza. Corro in moto, e così sono venuta qui di corsa.»
Tagliò per un prato ricoperto di brina e sparì all'interno dell'edificio del-
l'amministrazione.
Nessuno dei due poliziotti le tolse gli occhi di dosso finché non fu
scomparsa. I suoi capelli biondi volavano come strisce di carta nel forte
vento invernale. Era senz'altro stupenda, anche con quei jeans sporchi e gli
scarponi da lavoro. Inoltre, come dichiarava il suo tesserino, faceva un la-
voro molto tosto. Era una figura di primo piano.
Mentre passava per il corridoio, qualcuno fece l'atto di afferrarla. Qual-
cuno agguantò un pezzo di Jezzie Flanagan, il che era una costante della
sua vita nel Distretto di Columbia.
Era Victor che si era agganciato al suo braccio. Una volta, e ormai face-
va fatica a immaginarselo, era stato il suo partner. Il primo, in effetti. Ora
lui era stato assegnato alla protezione di uno degli studenti della Day
School.
Basso e calvo, era un tipo che vestiva con molta ricercatezza, ed era
spocchioso pur senza avere alcun valido motivo. Le aveva sempre dato
l'impressione che nei servizi segreti lui fosse fuori posto; forse era più a-
datto per i gradi inferiori del corpo diplomatico.
«Jezzie, come va?» chiese a mezza voce, quasi bisbigliando. Dava l'im-
pressione di non fare mai niente per intero. Questo le era sempre seccato.
La donna esplose. In seguito capì che, quando Schmidt l'aveva fermata,
aveva già i nervi a fior di pelle. Non che avesse bisogno di una giustifica-
zione per quello scoppio d'ira. Non quella mattina, e non in quelle circo-
stanze.
«Vic, lo sai che due bambini sono stati portati via da questa scuola, e che
forse sono stati rapiti?» gli chiese bruscamente. «Uno è il figlio del mini-
stro del Tesoro. L'altra è la figlia di Katherine Rose. L'attrice Katherine
Rose Dunne. Come credi che mi senta? Ho un leggero mal di stomaco.
Sono arrabbiata. Sono anche sbalordita.»
«Volevo dirti solo ciao. Come va, Jezzie? Lo so che qui si è scatenato
l'inferno.»
Ma lei si era già allontanata, se non altro per risparmiarsi di dover parla-
re con Victor. Si sentiva davvero nervosa. E stava male. E soprattutto era
molto tesa. Non stava cercando volti familiari nell'atrio affollato della
scuola, bensì i volti giusti. In quel momento ce n'erano due.
Charlie Chakely e Mike Devine. I suoi agenti. I due uomini che lei ave-
va assegnato alla scorta del giovane Michael Goldberg e anche di Maggie
Rose Dunne, dato che andavano e tornavano insieme da scuola.
«Com'è potuto accadere?» domandò quasi gridando. Non le importò che
lì vicino avessero smesso di parlare e che la gente la guardasse. Poi abbas-
sò la voce quasi in un bisbiglio quando chiese ai suoi agenti un rapporto su
tutto quanto era avvenuto fino a quel momento.
Ascoltò tranquilla lasciando che spiegassero. Ma si vedeva che quello
che udiva non le andava a genio.
«Levatevi di torno», esplose di nuovo. «Fuori di qua subito. Non voglio
più vedervi!»
«Non potevamo farci niente», tentò di protestare Charlie Chakely. «Che
diavolo potevamo fare? Cristo!» Poi lui e Devine se la filarono quatti quat-
ti.
Chi conosceva Jezzie Flanagan avrebbe potuto comprendere la sua rea-
zione. Erano scomparsi due bambini. Era accaduto sotto la sua sorveglian-
za. Lei era il superiore diretto degli agenti dei servizi segreti, che proteg-
gevano quasi tutti a eccezione del presidente: membri chiave del governo e
le loro famiglie, una mezza dozzina di senatori, compreso Ted Kennedy.
Lei rispondeva al ministro del Tesoro stesso.
Aveva lavorato in modo incredibilmente duro per ottenere tutta quella
fiducia ed era una persona responsabile. Settimane di lavoro di cento ore;
nessuna vacanza per anni e anni; nessuna vita privata di cui valesse la pena
di parlare.
Sentiva già il rumore della tempesta in arrivo. Due dei suoi agenti ave-
vano combinato un tremendo pasticcio. Ci sarebbe stata un'inchiesta, una
caccia alle streghe del buon tempo antico. Jezzie Flanagan era seduta su
una sedia arroventata. Dato che era la prima donna a occupare quel posto,
l'eventuale caduta sarebbe stata rovinosa e dolorosa, e largamente pubbli-
cizzata.
Finalmente scorse l'unica persona che stava cercando in mezzo alla folla
(con la speranza di non trovarla): il ministro del Tesoro Jerrold Goldberg
era già arrivato alla scuola di suo figlio.
Insieme col ministro c'erano il sindaco Carl Monroe, un agente speciale
dell'FBI che conosceva, di nome Roger Graham, e due neri che non rico-
nobbe subito, entrambi alti, uno addirittura enorme.
La donna inspirò profondamente e si diresse con passo rapido verso il
ministro e gli altri.
«Mi spiace molto, Jerrold», sussurrò quando gli fu accanto. «Sono certa
che ritroveremo i bambini.»
«Un insegnante.» Fu tutto ciò che Jerrold Goldberg riuscì a proferire.
Scosse la testa. Aveva gli occhi umidi e luccicanti. «Un insegnante dei
bambini più piccoli. Com'è potuto accadere?»
Straziato dal dolore, dimostrava dieci anni di più dei suoi quarantanove.
Il suo viso era bianco come il gesso delle pareti della scuola.
Prima di venire a Washington, aveva lavorato alla Salomon Brothers di
Wall Street. Si era fatto un patrimonio di venti o trenta milioni di dollari
durante i ricchi e folli anni '80. Era brillante, accorto e assennato. Pragma-
tico quanto bastava.
Però quel giorno egli era solamente il padre di un ragazzino rapito, e a-
veva un'aria estremamente fragile.

Stavo parlando con Roger Graham dell'FBI quando il supervisore dei


servizi segreti, Jezzie Flanagan, si unì al nostro gruppo. Disse quello che
poteva per confortare il ministro Goldberg. Poi il discorso ritornò pacata-
mente al rapimento, e alle prime misure da prendere.
«Siamo sicuri al cento per cento che è stato questo insegnante di mate-
matica a prendere i bambini?» chiese Graham al gruppo. Io e lui avevamo
già lavorato a fianco a fianco. Era molto in gamba e da anni era considera-
to un asso nell'FBI. Aveva scritto con altri un libro sulla sconfitta del cri-
mine organizzato nel New Jersey, da cui era stato ricavato un film di suc-
cesso. Ci rispettavamo e ci apprezzavamo, cosa che accade raramente tra i
federali e la polizia locale. Quando mia moglie era stata uccisa a Washin-
gton, Roger si era fatto in quattro per interessare il Bureau alle indagini; mi
era stato di maggior aiuto del mio stesso dipartimento.
Decisi di tentare di rispondere alla sua domanda. Ormai mi ero calmato
abbastanza da poter parlare e riferii loro quello che Sampson e io avevamo
raccolto fino a quel momento. «Hanno senz'altro lasciato la scuola insie-
me: li ha visti un portiere. L'insegnante di matematica, un certo Soneji, si è
recato nell'aula della signora Kim e le ha raccontato una balla, dicendo che
c'erano state delle minacce telefoniche e che lui doveva portare i bambini
nell'ufficio del preside perché fossero condotti a casa. Ha detto che i servi-
zi segreti non avevano specificato se le minacce riguardavano il bambino o
la bambina. Poi ha semplicemente proseguito con loro due. I ragazzi ave-
vano abbastanza fiducia in lui da seguirlo senza problemi.»
«Com'è possibile che un potenziale rapitore di bambini possa entrare a
far parte del corpo insegnante di una scuola come questa?» chiese l'agente
speciale. Un paio di occhiali da sole faceva capolino dal taschino della sua
giacca. Occhiali invernali. Nel film tratto dal suo libro, Graham era stato
interpretato da Harrison Ford: una scelta davvero azzeccata. Sampson lo
chiamava «Hollywood».
«Questo non lo sappiamo ancora», risposi. «Presto lo sapremo.»
Finalmente il sindaco presentò me e Sampson al ministro Goldberg e,
recitando la scenetta dell'imbonitore, ci descrisse come la squadra più de-
corata del Distretto di Columbia eccetera eccetera. Poi fece entrare il mini-
stro nell'ufficio del preside. Graham si accodò, ruotando gli occhi verso me
e Sampson per far capire che in quella sceneggiata lui non c'entrava.
Jezzie Flanagan rimase indietro. «Ho sentito parlare di lei, detective
Cross, ora che ci penso: lei è lo psicologo. Mi ricordo un articolo sul Wa-
shington Post.» Fece un sorriso. Un mezzo sorriso per essere esatti.
Senza sorridere, ribattei: «Sa come sono gli articoli di giornale: il solito
mucchio di mezze verità. In quel caso, senz'altro esagerazioni».
«Non ne sono sicura. Comunque, è stato un piacere conoscerla.» Poi en-
trò nell'ufficio dietro il ministro Goldberg, il sindaco e l'asso dell'FBI. Nes-
suno invitò me, il detective-psicologo beniamino dei rotocalchi. Nessuno
invitò Sampson.
Monroe cacciò fuori la testa. «Voi due, restate nei dintorni. Non create
problemi. E cercate di non incazzarvi. Abbiamo bisogno di voi qui. Ho bi-
sogno di parlare con te, Alex. Restatene buono. Mi raccomando: non t'in-
cazzare.»
Sampson e io cercammo di fare i bravi poliziotti, restando nei paraggi
dell'ufficio del preside per altri dieci minuti. Infine abbandonammo il no-
stro posto. Ci sentivamo incazzati.
Continuavo a vedermi davanti agli occhi il viso del piccolo Mustaf San-
ders. Chi sarebbe andato alla ricerca del suo assassino? Nessuno. Mustaf
era già finito nel dimenticatoio. Sapevo che questo non sarebbe mai acca-
duto ai due bambini della scuola privata.

Un po' più tardi, quella stessa mattina, Sampson e io eravamo seduti sul
parquet di abete della sala giochi della Day School con alcuni bambini.
Eravamo lì con Luisa, Jonathan, Stuart, Mary-Berry e sua sorella Brigid:
non era ancora passato nessuno a prenderli e loro erano spaventati. Alcuni
bambini della scuola avevano bagnato le mutandine e uno aveva vomitato.
Dovevamo fare in modo che il trauma non avesse conseguenze troppo gra-
vi.
Sul liscio parquet c'era anche l'insegnante, Vivian Kim. Volevamo parla-
re con lei a proposito della visita di Soneji nella sua classe e, in generale,
di Soneji.
«Siamo nuovi bambini della vostra scuola», scherzò Sampson. Si era tol-
to gli occhiali da sole, anche se forse non era il caso: di solito i bambini lo
prendono in simpatia, perché s'inserisce bene nel loro drappello di «amici
mostri».
«No, non è vero!» replicò Mary-Berry. Sampson era già riuscito a farla
sorridere. Un buon segno.
«Esatto, in realtà siamo dei poliziotti», ammisi. «Siamo qui per assicu-
rarci che ora tutti stiano bene. Cioè... accidenti... dopo una mattinata del
genere.»
La signora Kim mi sorrise. Capì che stavo cercando di rassicurare i
bambini: c'era la polizia ed era tutto di nuovo sicuro, nessuno poteva far
loro del male. L'ordine era ristabilito.
«Sei un bravo poliziotto?» mi domandò Jonathan. Aveva un'aria seria e
convinta, pur essendo così piccolo.
«Sì. E anche il mio collega, il detective Sampson.»
«Tu sei grande. Tremendamente grande. Grande, grande, grande come
casa mia!» esclamò Luisa.
«Così possiamo proteggere meglio tutti voi», rispose Sampson alla pic-
cola. Aveva fatto presto a entrare nelle loro simpatie.
«Hai dei figli?» mi chiese Brigid. Prima di parlare ci aveva attentamente
studiato coi suoi occhi vivacissimi, e già mi piaceva.
«Ho due figli», le dissi. «Un bambino e una bambina.»
«E come si chiamano?» chiese Brigid. Aveva addirittura ribaltato i ruoli.
«Janelle e Damon», risposi. «Janelle ha quattro anni e Damon sei.»
«Come si chiama tua moglie?» chiese allora Stuart.
«Non ho una moglie.»
«Perbacco, perbacco», disse sottovoce Sampson.
«Sei divorziato?» mi chiese Mary-Berry. «È così, vero?»
La signora Kim rise. «Ma che domande fai al nostro simpatico amico,
Mary?»
«Faranno del male a Maggie Rose e a Michael Goldberg?» volle sapere
Jonathan il Serio. Era una buona domanda, e meritava una risposta.
«Spero di no, Jonathan. Ma ti dirò una cosa. Nessuno farà del male a te.
Io e il detective Sampson siamo qui proprio per impedirlo.»
«Siamo dei duri, nel caso non si veda», sogghignò Sampson. «Grrr!
Nessuno farà mai del male a questi bambini. Grrr!»
Alcuni minuti dopo, Luisa cominciò a piangere. Era una bambina carina
e avrei voluto stringermela tra le braccia, ma non potevo.
«Che c'è, Luisa?» chiese la signora Kim. «La mamma e il papà presto
saranno qui.»
«No, non verranno.» La ragazzina scuoteva il capo. «Non verranno. Non
vengono mai a prendermi a scuola.»
«Qualcuno verrà», dissi con voce calma. «E domani sarà di nuovo tutto
a posto.»
La porta della sala giochi si aprì lentamente, facendomi distogliere lo
sguardo dai bambini: era il sindaco, che veniva a far visita alla scuola dei
ragazzini privilegiati della città.
«Ti tieni lontano dai guai, Alex?» Fece un cenno col capo e sorrise nello
scorgere l'insolita scenetta. Monroe, sui quarantacinque anni, era dotato di
una rude bellezza. Aveva una bella chioma e folti baffi neri. Vestito blu,
camicia bianca e cravatta giallo acceso gli conferivano un'impressione di
efficienza.
«Ah, sì. Sto cercando di far qualcosa di buono nel mio tempo libero. Io e
Sampson.»
La risposta si meritò una risatina del sindaco. «Sembra che tu ci sia riu-
scito. Facciamo un giretto. Vieni con me, Alex. Dobbiamo parlare di alcu-
ne cosette.»

Salutai i bambini e la signora Kim e mi avviai con Monroe fuori dell'edi-


ficio scolastico. Forse ora avrei scoperto quel che stava succedendo e per-
ché mi era stato assegnato un caso di rapimento al posto di quelli di omici-
dio. E se potevo scegliere io.
«Sei venuto con la tua auto, Alex?» chiese mentre scendevamo la scali-
nata d'ingresso della scuola.
«Mia e del dipartimento.»
«Prenderemo la tua auto. Come sta lavorando la SIS, secondo te? L'idea
è forte», disse mentre proseguivamo verso il parcheggio. A quanto pareva
aveva già mandato avanti il suo autista con l'auto. Un vero uomo del popo-
lo, il nostro sindaco.
«Qual è esattamente l'idea alla base della SIS?» gli chiesi. Da un po' di
tempo mi ponevo domande riguardo alla mia attuale posizione di lavoro.
Carl Monroe esibì un largo sorriso. Sa essere molto astuto con la gente,
e in effetti è molto in gamba. Dà sempre l'impressione di essere premuroso
e di prendersela a cuore, e magari è anche vero. È capace perfino di stare
ad ascoltare, quando ne ha bisogno.
«L'idea fondamentale è fare in modo che il personale nero più capace
della polizia metropolitana salga ai vertici, come dovrebbe. E non solo i
leccapiedi, Alex. Nel passato non è sempre stato così.»
«Credo che andremmo benissimo anche senza programmi speciali a fa-
vore delle minoranze. Ha sentito parlare degli omicidi a Condon e Langley
Terrace?» domandai a Monroe.
Annuì, ma non disse altro degli omicidi nei quartieri popolari. Quel
giorno non erano in cima alla lista delle sue precedenze.
«La madre, la figlia e il figlioletto di tre anni», insistei, ricominciando ad
arrabbiarmi. «Di loro, non frega niente a nessuno.»
«E allora, è una novità, Alex? Non importava niente a nessuno da vivi,
perché dovrebbe importargli da morti?»
Eravamo arrivati alla mia auto, una Porsche del '74 che aveva visto gior-
ni migliori. Le portiere cigolavano e si sentiva il leggero odore dei panini
che vi avevo consumato. L'ho usata nei tre anni in cui avevo uno studio
privato. Vi salimmo tutti e due.
«Sai, Alex. Colin Powell ora è capo di stato maggiore. Louis Sullivan
era il nostro ministro della Sanità e dei Servizi sociali. Jesse Jackson mi ha
dato una mano per arrivare a questo incarico», mi disse mentre prendeva-
mo la Canai Road e ci dirigevamo verso il centro della città. Intanto fissa-
va il suo riflesso nel finestrino laterale.
«E adesso lei aiuta me?» chiesi. «Senza neppure averglielo richiesto.
Proprio gentile e premuroso, non c'è che dire.»
«Esattamente», convenne il sindaco. «Sei maledettamente svelto, Alex.»
«Allora mi aiuti adesso: voglio risolvere gli omicidi dei quartieri popola-
ri. Mi spiace moltissimo per quei due ragazzini bianchi, ma del loro rapi-
mento ci sarà sempre qualcuno pronto a occuparsi. Anzi ci sarà il problema
opposto: troppa gente che se ne occupa.»
«Certo che è così. Lo sappiamo entrambi.» Monroe annuì. «Quegli stu-
pidi bastardi s'intralceranno l'uno con l'altro. Ascoltami, Alex. Vuoi ascol-
tarmi?»
Quando Carl Monroe vuole qualcosa, non si dà per vinto facilmente. Lo
avevo già visto in azione e ora ricominciava con me.
«Alex, mi risulta che sei a terra.»
«A me va bene», protestai. «Ho un tetto sopra la testa e qualcosa da
mangiare in tavola.»
«Sei rimasto nella zona sud-est, quando avresti facilmente potuto andar-
tene», continuò col curriculum fallimentare che avevo già sentito. «Lavori
ancora alla parrocchia di St. Anthony?»
«Sì. Sono nella squadra della mensa. Qualche seduta terapeutica gratui-
ta. Il Samaritano Nero.»
«Ti ho visto in una commedia una volta a St. Anthony. Sai anche recita-
re: hai veramente presenza scenica.»
«Il nodo di sangue di Athol Fugard.» Mi ricordavo di quella volta. Maria
mi aveva convinto a entrare nel suo gruppo filodrammatico. «La comme-
dia è molto buona. Chiunque ci può fare bella figura.»
«Segui quello che sto dicendo? Mi stai ascoltando, almeno?»
«Lei vuole sposarmi.» Risi forte in faccia a Monroe. «Però prima vuole
uscire con me.»
«Una cosa del genere», rispose Monroe con una risata scrosciante.
«Lo sta facendo proprio bene, Carl. Mi piace sentire qualche parolina
dolce prima di essere scopato.»
Monroe rise ancora, un po' più fragorosamente del dovuto. Poteva com-
portarsi da amicone e poi trapassarti con lo sguardo quando lo reincontra-
vi. Qualcuno del dipartimento lo chiamava «Noce di cocco». Io ero fra lo-
ro. «Marrone fuori, bianco dentro.» Avevo la sensazione che in effetti fos-
se un uomo solo. Ancora mi chiedevo che cosa volesse da me.
Monroe se ne restò tranquillo per un attimo. Riprese a parlare quando
c'immettemmo sulla superstrada Whitehurst. Il traffico era intenso e le
strade viscide non miglioravano la situazione.
«Ci troviamo di fronte a una circostanza molto tragica. Questo rapimen-
to è importante anche per noi. E chiunque risolva il caso diventerà impor-
tante. Voglio che tu dia una mano a risolverlo, che partecipi al gioco. Vo-
glio che ti faccia un nome con questo caso.»
«Non voglio farmi un nome», risposi secco a Monroe. «Non voglio par-
tecipare a questo gioco del cazzo.»
«Lo so che non vuoi. E questa è una delle ragioni per cui dovresti. Ti di-
rò una cosa che è la pura verità. Tu sei più in gamba di noi, e diventerai un
pezzo grosso in questa città. Piantala di fare il maledetto testardo. Deciditi
a saltare il fosso: ora.»
«Non sono d'accordo. L'idea di farmi diventare una persona di successo
è sua, non mia. Le chiedo di lasciar perdere.»
«Be', lo so io qual è la cosa giusta, in questo momento. Per entrambi»,
disse. Stavolta Carl Monroe non sorrise per niente. «Mi terrai aggiornato
sui progressi di questo caso. Tu e io siamo insieme in questa faccenda. Qui
si farà carriera.»
Annuii. Questo è sicuro, pensai. «Chi farà carriera, Carl?»
Mi ero fermato davanti all'edificio del distretto. Monroe scivolò fuori
dell'auto. Dall'esterno guardò in basso verso di me. «Questo caso diventerà
tremendamente importante, Alex. È tuo.»
«No, grazie», risposi.
Ma Monroe se n'era già andato.

Alle dieci e venticinque, in perfetto orario rispetto alle prove che aveva
fatto, Gary Soneji svoltò col furgone in una stradina laterale, piena di bu-
che e coperta di erbacce, con rovi di more su ciascun lato.
Dopo essersi inoltrato per cinquanta metri, non riusciva a vedere altro
che la strada in terra battuta e un groviglio di cespugli sopra di lui. Dalla
strada principale nessuno poteva scorgere il suo furgone.
Il veicolo superò sobbalzando una bianca fattoria in rovina. L'edificio
sembrava sul punto di crollare su se stesso. A non più di quaranta metri
dalla casa c'era quanto restava di un granaio nelle stesse condizioni di de-
grado.
Soneji vi entrò col furgone. Era finita, ce l'aveva fatta.
Nel granaio era parcheggiata una Saab nera del 1985. A differenza del
resto di quella fattoria abbandonata, il granaio dava la sensazione di essere
abitato.
Il pavimento era in terra battuta. Tre finestre rotte erano chiuse in qual-
che modo con tela e nastro adesivo. Non c'erano trattori ad arrugginire né
altri macchinari agricoli. Il granaio odorava di terra umida e di benzina.
Gary prese due lattine di Coca-Cola da un contenitore sul sedile di fian-
co. Se le tracannò entrambe ed emise un rutto soddisfatto.
«Voi ragazzi volete una Coca?» gridò verso i due bambini drogati e as-
sonnati. «No? Va bene, presto però avrete molta sete.»
Non c'è alcuna certezza nella vita, pensava, ma non riusciva a immagi-
nare in che modo un poliziotto potesse sorprenderlo ora. Avere una tale fi-
ducia in se stesso era stupido e pericoloso? si chiese. Certo che no, perché
lui era anche realistico. Non c'era alcun modo di rintracciarlo ora. Non a-
vevano alcuna pista da seguire.
Progettava di rapire una persona famosa da... be', da sempre. Nei suoi
progetti, la vittima era cambiata parecchie volte, ma non l'obiettivo che a-
veva in mente. Aveva lavorato alla Washington Day School per mesi. Ora,
quel preciso momento dimostrava che ogni maledetto minuto che vi aveva
passato ne era valso la pena.
Mister Chips. Ripensava al suo nomignolo a scuola, Mister Chips! Che
deliziosa commedia aveva messo in scena. Roba da Oscar. Meglio di qual-
siasi altra cosa che aveva visto dopo Robert De Niro in Re per una notte. E
quell'interpretazione era un classico. Anche De Niro doveva essere uno
psicopatico, nella vita reale.
Infine Gary Soneji aprì la portiera scorrevole del furgone. Rimettiamoci
al lavoro, rituffiamoci a corpo morto nel lavoro.
Tirò fuori i due bambini, uno alla volta, e li sistemò nel granaio. La pri-
ma fu Maggie Rose Dunne. Poi il piccolo Goldberg. Li posò svenuti l'uno
accanto all'altra sul pavimento. Li spogliò, lasciandoli vestiti della sola
biancheria. Preparò con molta attenzione le dosi di sodio secobarbital. Ec-
co il vostro simpatico farmacista al lavoro. Si trattava di una dose a metà
tra la pillola di sonnifero e l'anestetico ospedaliero. Avrebbe fatto effetto
per circa dodici ore.
Tirò fuori delle siringhe monouso e i due lacci emostatici che aveva pre-
parato. Doveva stare molto attento: coi bambini non era facile azzeccare la
dose giusta.
Quindi spostò di due metri la Saab nera, in modo da scoprire una buca di
un metro e mezzo per un metro e venti nel pavimento del granaio.
Aveva scavato la fossa nel corso delle numerose visite precedenti nella
fattoria abbandonata. Dentro la cavità era sistemato uno scomparto in le-
gno di fattura artigianale, una specie di rifugio. C'era anche un serbatoio
con la riserva di ossigeno. Mancava solo un televisore a colori per riveder-
si i vecchi film.
Per primo sistemò Goldberg nello scomparto di legno. In braccio a lui
non pesava quasi niente; esattamente quello che provava nei suoi confron-
ti: niente. Poi toccò alla principessina, l'orgoglio e la gioia della mamma,
Maggie Rose Dunne. Direttamente dal paese delle favole.
Infilò gli aghi nel braccio di ciascuno. Fu attentissimo a somministrare
lentamente il liquido, impiegando tre minuti.
Le dosi erano calcolate secondo il peso: 25 milligrammi per chilo corpo-
reo. Controllò il respiro di entrambi. Dormite sodo, tesorucci miei da qual-
che milione di dollari.
Richiuse la botola con un tonfo, coprendola poi con una spanna di terra.
Dentro quel fienile abbandonato. Nel mezzo della campagna del Maryland
dimenticata da Dio. Proprio come era stato sotterrato il piccolo Lindbergh
sessant'anni prima.
Laggiù nessuno li avrebbe ritrovati. Finché non lo avesse voluto lui. Se
lui voleva farli ritrovare. Un grosso se.
Ripercorse stancamente il tratto di strada in terra battuta verso ciò che
restava della vecchia fattoria. Voleva darsi una lavata. Desiderava pure di-
vertirsi un po'. Si era addirittura portato un minitelevisore per vedersi in
TV.

10

I notiziari andavano in onda ogni quindici minuti circa. Gary Soneji era
proprio lì, nell'onnipotente televisione. Vide le foto di Mister Chips in ogni
notiziario. Però l'annunciatore non poteva fornire alcun indizio di quello
che stava realmente accadendo.
Era questa allora la fama! Era questa la sensazione che si prova a essere
famosi! Gli piacque moltissimo. Era per questo che si era allenato in tutti
quegli anni. «Ciao, mamma! Guarda chi c'è in TV. Il Bambino Cattivo!»
Una sola cosa andò storta in tutto il pomeriggio: la conferenza stampa
dell'FBI. Aveva parlato un agente di nome Roger Graham, che evidente-
mente si credeva un pezzo grosso. Anche lui voleva un po' di gloria. «Cre-
di di essere tu il protagonista del film, Graham? Ti sbagli, piccolo!» gridò
Soneji alla TV. «Qui di star ce n'è una sola, e sono io!»
Si era aggirato parecchie ore nella fattoria, a osservare la notte che scen-
deva lentamente. Distinse le varie sfumature di buio che avvolgevano quel
posto. Erano le sette, ed era ora di andare avanti col piano.
«Avanti, sbrighiamoci.» Camminava impettito per la fattoria come un
pugile professionista prima di un incontro. «Andiamo avanti.»
Per un po' pensò a Charles e Anne Morrow Lindbergh, la sua coppia pre-
ferita in senso assoluto. Questo lo calmò un po'. Pensò al piccolo Charles,
e a quel povero stupido di Bruno Hauptmann che, innocente, era stato evi-
dentemente incastrato per quel delitto progettato ed eseguito in modo così
brillante. Era convinto che il caso Lindbergh fosse il delitto più elegante
del secolo, non solo perché era rimasto insoluto - molti, moltissimi delitti
restavano insoluti -, ma perché era importante e insoluto.
Soneji aveva fiducia in se stesso, ma era anche realista nei confronti del
proprio capolavoro. Un colpo di fortuna era sempre possibile. Un caso for-
tunato da parte della polizia poteva accadere. La consegna dei soldi poteva
essere un momento critico. Implicava un contatto, e un contatto è sempre
una cosa molto pericolosa nella vita.
Per quanto ne sapeva - e la sua conoscenza era enciclopedica -, nessun
rapitore dei tempi moderni aveva risolto in modo soddisfacente il proble-
ma del pagamento del riscatto. Almeno se voleva essere pagato in modo
equo per le proprie fatiche (e lui aveva bisogno di un enorme compenso in
cambio dei suoi ragazzini multimiliardari).
Aspetta che sentano quanti soldi voglio.
Quel pensiero gli fece affiorare un sorriso sulle labbra. Naturalmente, i
famosissimi Dunne e i potentissimi Goldberg potevano pagare, e volevano
pagare. Non era un caso che avesse scelto quelle due famiglie, potenti e
ricche sfondate com'erano, coi loro mocciosi viziati.
Soneji accese una delle candele che teneva in una tasca della giacca e
aspirò l'odore piacevole di cera d'api. Poi si portò nel piccolo bagno che
dava sulla cucina.
Si ricordava una vecchia canzone dei Chambers Brothers, Time. Era ar-
rivata l'ora... l'ora di togliere il tappeto da sotto i piedi di tutti quanti. Era
arrivata l'ora... l'ora di fare la prima sorpresina, la prima di tante. L'ora...
l'ora di costruire la propria leggenda. Questo era il suo film.
In quel fine dicembre la stanza, l'intera casa, era gelida. Gary Soneji po-
teva vedere il proprio fiato uscirgli dalla bocca mentre s'installava in ba-
gno.
Fortunatamente la casa disponeva dell'acqua di un pozzo, che arrivava
ancora in bagno. L'acqua era gelida. Soneji accese alcune candele e si mise
al lavoro. Avrebbe impiegato almeno mezz'ora per finire.
Per prima cosa, si tolse la mezza parrucca scura da calvo. L'aveva acqui-
stata tre anni prima, in un negozio di costumi teatrali a New York. Era la
sera in cui aveva visto Il fantasma dell'Opera. Quel musical gli era piaciu-
to moltissimo. Si era identificato a tal punto col fantasma da esserne spa-
ventato. Aveva poi letto il romanzo originale, prima in francese poi in in-
glese.
«Bene, bene, che cosa abbiamo qui?» disse rivolto al viso nello spec-
chio.
Una volta tolta la colla e le altre porcherie, si scoprì una folta capigliatu-
ra bionda, lunga e ondulata.
«Signor Soneji? Mister Chips? Sei tu, amico?»
Era un tipo mica male. Aveva qualche speranza? Magari di trovare un
posto a stipendio fisso? Sì, certamente, a stipendio fisso...
Non era per nulla simile a Chips. Per nulla simile al nostro signor Sone-
ji!
Vennero via i folti baffi che aveva portato fin dal giorno in cui aveva so-
stenuto un colloquio alla Washington Day School. Poi si tolse le lenti a
contatto. Il colore degli occhi, da verde, ritornò marrone scuro.
«Ecco, guardati un po'. Guardati un po' ora. La genialità sta nei dettagli,
no?»
L'insulso topo di biblioteca della scuola privata era quasi completamente
scomparso. Quell'ingenuo imbecille di Mister Chips era morto e sepolto
per sempre.
Che stupenda messinscena. Che piano audace, e che impeccabile esecu-
zione. Peccato che nessuno avrebbe mai saputo quello che era veramente
successo. Ma a chi avrebbe potuto dirlo?
Lasciò la fattoria verso le undici e trenta della sera, come da tabella di
marcia, e s'incamminò verso il garage, a nord della casa.
In un posto speciale - molto speciale - del garage aveva nascosto i suoi
risparmi: cinquemila dollari. Era il nascondiglio segreto dei soldi rubati nel
corso degli anni. Anche quello faceva parte del piano. Un programma a
lungo respiro.
Poi si diresse verso il granaio dove c'era l'auto. Una volta entrato nel
granaio, diede un'occhiata per controllare i bambini.
Fino a quel momento andava tutto a gonfie vele. Nessuna lamentela da
parte dei ragazzini.
La Saab partì immediatamente. Si diresse verso la strada principale, con
le sole luci di posizione.
Quando vi arrivò accese i fari. Aveva ancora del lavoro da fare, quella
notte. Il suo capolavoro teatrale proseguiva.
Cavoli!

11

L'agente speciale Roger Graham abitava a Manassas Park, a metà strada


tra Washington e la scuola dell'FBI a Quantico. Aveva un fisico alto e im-
ponente e capelli corti color sabbia. Si era occupato di parecchi rapimenti
importanti, ma nulla somigliava a quell'incubo.
Era appena passata l'una di quella notte, quando giunse finalmente alla
sua casa in stile coloniale: sei camere da letto, tre bagni e un grande prato
elegante che si estendeva su una superficie di due acri.
Sfortunatamente, quella non era stata una giornata normale. Era esausto.
Spesso si chiedeva perché mai non si metteva tranquillo a scrivere un altro
libro. Lasciare il Bureau e andarsene in prepensionamento per conoscere
finalmente i suoi tre figli prima che se ne andassero da casa.
La strada nel Manassas Park era deserta. Le luci della veranda lungo la
strada erano una visione amica.
Nello specchietto retrovisore della Ford Bronco di Graham apparvero
delle luci.
Un'auto si era fermata dietro la sua, coi fari accesi. Ne uscì un uomo
sventolando un blocco per appunti.
«Agente Graham? Sono Martin Bayer del New York Times», disse ad al-
ta voce mentre saliva su per il vialetto. Gli fece vedere per un attimo le sue
credenziali di giornalista.
Oh, Cristo! Un figlio di buona donna del New York Times, pensò Gra-
ham. Il cronista indossava vestito scuro, camicia a righine, cravatta regi-
mental. L'immagine classica dello yuppie di New York che partiva a razzo
verso l'incarico che gli era stato affidato.
Quegli stronzi del Times e del Post erano tutti uguali, per Graham. Tra
loro non c'era più un vero cronista.
«Ne ha fatta di strada a quest'ora per sentirsi rispondere 'no comment',
signor Bayer. Mi spiace. Non posso fornirle alcuna informazione sul rapi-
mento. Sinceramente, non ho niente da dirle.»
In realtà non gli spiaceva affatto, ma perché farsi dei nemici al New York
Times? Quei bastardi potevano infilarti la loro penna intinta nel veleno in
un orecchio e fartela uscire dall'altro.
«Una domanda, una sola domanda. Capisco perfettamente che lei sia te-
nuto a non rispondere, ma per me è cosa di grande importanza. Proprio per
me personalmente. Tanto da farmi venire qui all'una di notte.»
«E va bene. La faccia. Qual è la sua domanda?» Chiuse a chiave la porta
della sua Bronco, tirò in aria le chiavi e le afferrò al volo.
«Siete tutti così insulsi e stupidi? Questa è la mia domanda, superuomo
di un Graham.»
Un lungo e affilato coltello balenò in avanti una volta, poi un'altra, per
colpire la gola dell'agente.
Il primo fendente lo inchiodò con le spalle alla Ford, il secondo gli reci-
se la carotide. Cadde morto sul vialetto di casa sua. Non aveva avuto il
tempo di parare il colpo, di scappare e neppure di dire una preghiera.
«Credevi di essere una star, Roger? Volevi fare il divo, vero? Che fine
ha fatto la star? Finita, zero. Mi aspettavo che fossi molto ma molto me-
glio. Ho bisogno di essere sfidato dal migliore e dal più in gamba di tutti.»
Si chinò, e fece scivolare una scheda nella tasca della camicia bianca di
Graham. Diede qualche colpetto compiaciuto sul petto del morto. «Allora,
cazzone, come farebbe un giornalista di New York a essere qui all'una di
notte? Prova un po' a chiedertelo, stronzo.»
Poi si allontanò dalla scena dell'omicidio. La morte dell'agente Graham
non aveva nessuna importanza per lui. Certo che no. Aveva già ucciso più
di duecento persone, prima. Con l'esercizio si diventa maestri.
E non sarebbe neppure stata l'ultima volta.
Questo omicidio avrebbe dato la sveglia a tutti. Lui sperava solo che
quelli avessero in serbo qualcuno di meglio, nascosto dietro le quinte.
Altrimenti, dov'era il divertimento? La sfida? Come sarebbe potuta quel-
l'impresa diventare più famosa del rapimento Lindbergh?

12

Cominciavo già a sentirmi coinvolto emotivamente nella faccenda dei


bambini rapiti. Il mio sonno fu inquieto e agitato fin da quella prima notte.
Nei sogni rividi alcune brutte scene della scuola. Continuavo a rivedermi
Mustaf Sanders. I suoi occhi tristi mi fissavano, implorando un aiuto che
non gli stavo dando.
Mi svegliai, e mi ritrovai coi miei figli nel letto. A una cert'ora del mat-
tino dovevano essersi intrufolati a bordo. È uno dei loro trucchi preferiti,
gli scherzetti che combinano al caro paparone.
Damon e Janelle erano addormentati come sassi sopra la trapunta a ri-
quadri: la sera prima ero troppo distrutto per toglierla dal letto. Dovevano
sembrare due angeli che riposavano accanto a un cavallo da tiro schiantato
dalla fatica.
Damon è un bellissimo ragazzino di sei anni, che mi ricorda sempre
quanto fosse speciale sua madre. Ha gli occhi di Maria. Jannie è l'altra pu-
pilla dei miei occhi. Ha quattro anni, va per i cinque. Le piace chiamarmi
«paparone», parola che sembra appartenere a un gergo tutto inventato da
lei.
Sul letto si trovava pure una copia del libro di William Styron sulla de-
pressione, che stavo leggendo. Speravo mi desse qualche aiuto per supera-
re la depressione che mi affligge da quando è morta Maria. Erano tre anni,
e mi sembravano venti.
Ciò che in effetti mi svegliò quella mattina furono i fari delle auto che
proiettavano la loro luce attraverso gli avvolgibili della finestra. Udii sbat-
tere la portiera di un'auto, poi lo scricchiolare rapido di passi sulla ghiaia
del vialetto. Facendo attenzione a non svegliare i bambini, scivolai verso la
finestra della camera.
Abbassai lo sguardo su due auto di pattuglia della polizia metropolitana
parcheggiate dietro la vecchia Porsche nel nostro vialetto. Doveva fare un
freddo maledetto là fuori. Stavamo proprio entrando nel cuore dell'inverno
del Distretto di Columbia.
«Fatemi respirare», borbottai dentro i gelidi avvolgibili della finestra.
«Andatevene.»
Sampson si stava dirigendo verso la porta posteriore della nostra cucina.
La sveglia vicino al letto segnava le cinque meno venti. Era ora di andare a
lavorare.

Quella mattina, poco prima delle cinque, Sampson e io accostammo con


l'auto a un decrepito edificio in arenaria di Georgetown, costruito prima
della guerra, un isolato a ovest della M Street. Avevamo deciso di perqui-
sire noi stessi l'appartamento di Soneji. L'unico modo per avere un lavoro
ben fatto è farlo da sé.
«Le luci sono tutte accese. Pare che in casa ci sia qualcuno», rilevò
Sampson mentre scendevamo dall'auto. «Chi potrebbe mai essere?»
«Hai a disposizione tre risposte, però le prime due non contano», borbot-
tai. Soffrivo di quel tipo di debolezza di stomaco tipica delle prime ore del
mattino. Una visita nella tana del mostro non mi avrebbe certo giovato.
«L'FBI. Forse c'è la televisione», tirò a indovinare. «Magari ci stanno gi-
rando Storie vere dell'FBI.»
«Andiamo a vedere.»
Entrammo nell'edificio e salimmo le scale, strette e tortuose. Al secondo
piano, il nastro giallo che si usa per le scene del delitto era stato fissato a
linee incrociate sulla porta che conduceva nell'appartamento di Soneji.
Non aveva l'aria del posto in cui poteva abitare un tipo come Mister Chips.
Era più adatto a un qualunque omicida da strapazzo di una qualsiasi crona-
ca nera di provincia.
La porta di legno piena di sfregi era aperta. Riuscii a scorgere due tecni-
ci dell'FBI che lavoravano all'interno. Un dee-jay locale chiamato «Il Mec-
canico» stava strillando da una radio posata sul pavimento.
«Ehi, Pete, come va?» gridai all'interno. Conoscevo uno dei due, Pete
Schweitzer. Alzò gli occhi quando udì la mia voce.
«Guarda chi c'è. Benvenuti nel sancta sanctorum.»
«Siamo venuti a disturbarvi. A vedere come lavorate», disse Sampson.
Avevamo già collaborato entrambi con Pete Schweitzer: lo trovavamo
simpatico e affidabile quanto poteva esserlo uno dell'FBI.
«Entrate e accomodatevi pure in casa Soneji. Questo è il mio collega ad-
detto alle caccole di mosca, Todd Toohey. La mattina a Todd piace ascol-
tare la radio. Toddie, questi sono due fantasmi di piedipiatti come me.»
«I migliori», dissi a Toddie Toohey. Avevo già cominciato a curiosare in
giro per l'appartamento. Di nuovo tutto ridiventava irreale. Sentivo una
specie di grumo freddo e umido dentro la testa. L'atmosfera era lugubre e
carica di mistero.
Il piccolo appartamento-studio era in completo disordine. Non vi erano
molti mobili: un materasso sul pavimento, un tavolino, una lampada e un
divano che aveva l'aria di essere stato raccolto per strada. Il pavimento pe-
rò era ricoperto di oggetti.
Lenzuola, asciugamani e biancheria spiegazzati costituivano la parte
principale di quella confusione: era sparso l'equivalente di due o tre carichi
di lavatrice. Parecchie centinaia di libri e un'analoga quantità di riviste era-
no ammucchiati in quell'unica stanzetta.
«Nulla d'interessante finora? Hai dato un'occhiata a questa biblioteca?»
domandai a Schweitzer.
Mi rispose senza sollevare lo sguardo dal mucchio di libri che stava
spolverando. «È tutto interessante. Verifica i libri lungo la parete. Tieni
pure presente il fatto che, prima di filarsela, il nostro caro amico ha elimi-
nato ogni impronta da tutto il maledetto appartamento.»
«Ha fatto un buon lavoro? È all'altezza dei vostri standard?»
«Un lavoro eccellente. Io stesso non avrei potuto fare di meglio. Non
abbiamo trovato da nessuna parte neppure mezza impronta. Nemmeno su
uno di quei maledetti libri.»
«Forse legge indossando guanti di plastica», suggerii.
«Potrebbe averlo fatto. Non scherzo. Questo posto è stato spolverato da
un professionista, Alex.»
Ero rannicchiato vicino ad alcune pile di libri. Lessi i titoli sulla costa.
La maggior parte di essi, pubblicati all'inarca negli ultimi cinque anni, non
era di narrativa.
«Un vero patito dei delitti», osservai.
«Un sacco di libri su rapimenti», aggiunse Schweitzer. Alzò lo sguardo e
indicò con la mano. «Il lato a destra del letto, vicino alla lampada. Lì c'è la
sezione rapimenti.»
Mi spostai laggiù e guardai i volumi. La maggior parte era stata rubata
alla biblioteca di Georgetown. Immaginai che doveva avere una carta d'i-
dentità per l'accesso a quegli scaffali. Che fosse un ex studente?
Parecchi fogli stampati al computer erano appesi alla parete sopra la bi-
blioteca sui rapimenti. Cominciai a leggere la lista.

• Aldo Moro, rapito a Roma. Cinque agenti della scorta uccisi durante il
sequestro. Il corpo di Moro ritrovato in un'auto parcheggiata.
• Jack Teich, liberato dopo il pagamento di 750.000 dollari.
• J. Reginald Murphy, direttore dell'Atlanta Constitution, liberato dopo il
pagamento di 700.000 dollari.
• J. Paul Getty III, liberato in Italia dopo il pagamento di un riscatto di
2.800.000 dollari.
• Virginia Piper di Minneapolis, liberata dopo che il marito ha pagato un
milione di dollari.
• Victor F. Samuelson, liberato in Argentina dopo il pagamento di
14.200.000 dollari.

Emisi un fischio quando scorsi le somme indicate nella lista. Quanto a-


vrebbe chiesto lui per Maggie Rose Dunne e Michael Goldberg?
Il luogo era piccolo e Soneji non aveva molti posti da controllare per
cancellare le impronte. Eppure, il fatto che avesse eseguito un lavoro im-
peccabile era inquietante. Mi chiesi se Soneji poteva essere stato un poli-
ziotto. Un accorgimento del genere dimostrava che il delitto era stato pro-
gettato a lungo, in modo da aumentare le possibilità di farla franca.
«Entra qui un momento», disse Sampson dal bagno.
Le pareti erano ricoperte di foto ritagliate da riviste, giornali, copertine
di dischi e di libri.
Ci aveva riservato una sorpresa finale. Non c'erano impronte digitali, ma
aveva scarabocchiato un messaggio.
Proprio sopra lo specchio, c'era una scritta in stampatello: VOGLIO ES-
SERE QUALCUNO!
Sulle pareti c'era una mostra. Vidi River Phoenix e Matt Dillon. C'erano
foto tratte dai libri di Helmut Newton. Riconobbi l'assassino di Lennon,
Mark David Chapman. E Axl Rose. Anche Pete Rose, il giocatore di base-
ball, era appiccicato alla parete. E Neon Deon Sanders. C'era Wayne Wil-
liams, e articoli di giornale. L'incendio dell'Happy Land Social Club a
New York City. Un articolo del New York Times sul rapimento Lindbergh.
Un articolo sul sequestro di Samuel Bronfman, l'erede dei Seagram, e un
articolo su un bambino scomparso, Etan Patz.
Pensai a Soneji, il rapitore, tutto solo nel suo appartamento desolato.
Aveva accuratamente cancellato le impronte da ogni centimetro di superfi-
cie. La stessa stanza era così piccola, quasi monacale. Era un lettore, o al-
meno gli piaceva essere circondato da libri. Poi c'era la sua galleria foto-
grafica. Che significato poteva avere per noi? Erano indizi o false piste?
Ero davanti allo specchio del lavabo, e lo fissai come sapevo che lui a-
veva fatto moltissime volte. Che cosa avrei dovuto scorgervi? Che cosa ci
aveva visto Gary Soneji?
«Questa era la sua foto alla parete: il viso nello specchio.» Proposi que-
sta teoria a Sampson. «È l'immagine chiave in questo contesto, quella cen-
trale. Vuole essere la star delle star.»
Sampson era appoggiato a una parete di foto e ritagli di giornale. «Per-
ché non ci sono impronte, dottor Freud?»
«Deve sapere che noi disponiamo delle sue impronte in qualche archi-
vio. Mi fa pensare che abbia indossato un qualche travestimento a scuola.
Forse si truccava proprio qui prima di andare a scuola. Potrebbe trattarsi di
un attore. Penso che non abbiamo ancora visto il suo vero volto.»
«Io credo che il ragazzo abbia in mente grossi progetti. Senz'altro vuole
diventare una star», concluse Sampson.
Voglio essere qualcuno!

13

Maggie Rose Dunne si era risvegliata dal più strano sonno della sua vita.
Aveva fatto brutti sogni, orribili e indescrivibili.
Le sembrava che intorno a lei tutto si muovesse al rallentatore. Aveva
sete e aveva un terribile bisogno di fare pipì.
Sono troppo stanca questa mattina, mamma. Per favore! Non voglio al-
zarmi. Non voglio andare a scuola oggi. Per favore, mamma. Non mi sento
bene. Veramente, non mi sento bene, mamma.
Maggie Rose aprì gli occhi. O almeno credette di aver aperto gli occhi,
ma non vide nulla. Ma proprio nulla.
«Mamma! Mamma! Mamma!» urlò infine Maggie, e non smise di urlare.
Dopo, per almeno un'ora, fluttuò tra coscienza e incoscienza. Si sentiva
addosso una gran debolezza. Galleggiava come una foglia sopra le acque
di un fiume immenso. Le correnti la portavano dove volevano.
Pensava alla mamma. Lo sapeva che Maggie era scomparsa? Ora la sta-
va cercando? Doveva essere già alla sua ricerca!
Forse qualcuno le aveva amputato braccia e gambe. Non le sentiva. Do-
veva essere successo molto tempo prima.
Era tutto nero. Doveva essere sepolta sottoterra. Doveva essere in de-
composizione e forse stava per diventare uno scheletro. Era quella la ra-
gione per cui non sentiva più le braccia e le gambe?
Sarebbe sempre stato così? Non poteva sopportare una cosa simile e si
mise di nuovo a piangere. Si sentiva così confusa. Non riusciva a pensare.
Però Maggie Rose riusciva ad aprire e chiudere gli occhi. O almeno
pensava di riuscirvi. Ma non vi era alcuna differenza tra il tenere gli occhi
chiusi o aperti. Era tutto buio, in entrambi i casi.
Se continuava ad aprire e chiudere gli occhi molto velocemente, vedeva
il colore.
Ora, in quel buio, vedeva striature e macchie di colore. Per lo più rosse e
giallo brillante.
Maggie si chiese se era immobilizzata o legata a qualcosa. Era quello
che ti facevano dentro una bara? Ti legavano giù? Perché avrebbero dovu-
to fare una cosa del genere? Per impedirti di uscire dalla terra? Per tenere il
tuo spirito sottoterra per sempre?
D'improvviso si ricordò di una cosa. Il signor Soneji. Per un attimo, un
po' della nebbia che vorticava intorno a lei si dissipò.
Il signor Soneji l'aveva portata via da scuola. Quando era accaduto? Per-
ché? Dov'era il signor Soneji ora?
E Michael? Che era accaduto a Michael? Erano usciti insieme dalla
scuola. Almeno quello se lo ricordava.
Allora si mosse, e accadde la cosa più stupefacente. Scoprì di poter roto-
lare su se stessa.
E fu ciò che fece Maggie Rose. Rotolò su se stessa, e d'improvviso urtò
contro qualcosa.
Riusciva a sentire di nuovo tutto il suo corpo. Aveva ancora un corpo da
sentire. Era assolutamente certa di avere il proprio corpo e di non essere
uno scheletro.
E Maggie urlò.
Rotolando aveva urtato contro qualcosa o qualcuno.
C'era qualcun altro lì al buio con lei.
Michael?
Doveva essere Michael.
«Michael?» La voce di Maggie era sommessa, quasi un sussurro. «Mi-
chael? Sei tu?»
Rimase in attesa di una risposta.
«Michael?» bisbigliò più forte. «Michael, su. Per favore, parlami.»
Chiunque fosse non rispose. Era ancora più spaventoso che essere lì da
sola.
«Michael... sono io... Non spaventarti... Sono Maggie... Michael, per fa-
vore, svegliati. Oh, Michael, per favore... Per favore, Tappo. Stavo solo
scherzando su quelle tue stupide scarpe. Su, Michael. Parlami, Tappo. So-
no la tua Sapientona.»

14

La casa della famiglia Dunne era del tipo che gli esperti delle agenzie
immobiliari locali definivano di stile neoelisabettiano. Né io né Sampson
ne avevamo viste molte del genere nella zona sud-est del Distretto di Co-
lumbia.
All'interno, dava quella sensazione di serenità e di varietà che credo sia
normale tra i ricchi. C'erano moltissime cose costose, incisioni in stile art
déco, paraventi orientali, una meridiana francese, un tappeto del Turkestan,
un affare che sembrava un tavolo d'altare cinese o giapponese. Mi ricordai
di una cosa che aveva detto una volta Picasso: «Datemi un museo, e io ve
lo riempirò».
C'era un bagnetto con accesso da una delle sale di soggiorno. Pochi mi-
nuti dopo il mio arrivo il comandante Pittman mi afferrò e mi ci spinse
dentro. Erano circa le otto: troppo presto per una cosa del genere.
«Che cosa credi di fare?» mi domandò. «Che cos'hai in mente di fare,
Cross?»
La stanza era veramente angusta, non c'era abbastanza posto per due a-
dulti della nostra stazza. Ma non era neppure la solita stanzetta da bagno. Il
pavimento era rivestito da un tappeto di William Morris. E in un angolo
era piazzata una sedia firmata.
«Pensavo di bermi un caffè. Poi intendevo partecipare alla riunione della
mattina», dissi a Pittman. Volevo con tutte le mie forze andarmene da quel
bagno.
«Non prendermi per il culo.» Cominciò ad alzare la voce. «Non provarti
a farlo con me.»
Hmm, non farlo, pensai. Non fare scenate qua dentro. Ebbi l'idea di met-
tergli la testa sott'acqua dentro la tazza del cesso, così, tanto per calmarlo.
«Abbassa la voce, o me ne vado», gli dissi. Io cerco quasi sempre di agi-
re in modo ponderato e ragionevole. È uno dei miei peggiori difetti.
«A me non lo dici di abbassare la voce. Chi cazzo ti ha detto di andarte-
ne a casa ieri sera? Tu e Sampson. Chi ti ha detto di andare nell'apparta-
mento di Soneji stamattina?»
«Tutta 'sta storia per questo? È per questo che ora noi due siamo qua
dentro?» gli chiesi.
«Ci puoi scommettere. Sono io che mi occupo di queste indagini. Ciò si-
gnifica che se voi due volete allacciarvi le scarpe, prima lo dovete chiedere
a me.»
Feci un largo sorriso, non potei farne a meno: «Dove l'hai presa questa
battuta? La diceva Lou Gossett in Ufficiale e gentiluomo».
«Pensi che stia scherzando o che mi diverta, Cross?»
«No. Non credo che sia divertente. Non venire più a rompermi le palle,
altrimenti rischi le tue», lo avvertii.
Uscii dal bagno. Pittman non mi seguì. Sì, quello stronzetto a volte può
irritarmi. Ma non riuscirà a fregarmi.

Poco dopo le otto, la squadra antisequestri era finalmente riunita in un


grande soggiorno stupendamente arredato. Subito avvertii che c'era qual-
cosa di storto. Senz'altro era successo qualcosa.
Jezzie Flanagan dei servizi segreti aveva preso la parola. Mi ricordavo di
lei per averla vista la mattina prima alla Day School. Stava davanti a un
caminetto acceso.
Sulla cappa del camino erano appesi rami di agrifoglio, minuscole lam-
padine e cartoline di auguri natalizi, parecchie delle quali, insolite, prove-
nivano evidentemente da amici californiani dei Dunne: foto di palme deco-
rate o di Babbo Natale in slitta nel cielo sopra Malibu. I Dunne si erano
trasferiti da poco a Washington, dopo che Thomas Dunne aveva accettato
il posto di direttore della Croce Rossa.
Jezzie Flanagan aveva un aspetto più formale di quello esibito a scuola.
Indossava un'ampia gonna grigia, un pullover girocollo nero e piccoli o-
recchini d'oro. Aveva l'aria di un avvocato di Washington, uno di quelli at-
traenti e di successo. «Soneji ci ha contattato a mezzanotte, la notte scorsa.
Poi di nuovo verso l'una. Non credevamo che l'avrebbe fatto così presto.
Nessuno di noi se lo aspettava. La prima telefonata proveniva dalla zona di
Arlington. Ha subito messo in chiaro che non aveva niente da dire sui
bambini, tranne che sia Maggie Dunne sia Michael Goldberg stavano bene.
Che altro poteva dire? Non ci ha permesso di comunicare con nessuno dei
due, e così non lo sappiamo con certezza. Parlava con lucidità e sembrava
pienamente padrone della situazione.»
«È già stata analizzata la registrazione della sua voce?» chiese Pittman
dal suo posto vicino alla prima fila. Se io e Sampson dovevamo starcene lì
in qualità di osservatori, faceva piacere sapere che Pittman era nelle nostre
stesse condizioni. A quanto pareva, nessuno parlava neppure con lui.
«Lo stiamo facendo», rispose la Flanagan educatamente. Diede alla do-
manda l'attenzione che si meritava, osservai, ma evitò di mostrarsi condi-
scendente. Era veramente in gamba a mantenere il controllo della faccen-
da.
«Quanto è rimasto all'apparecchio?» chiese poi il procuratore Richard
Galletta.
«Sfortunatamente non molto, trentaquattro secondi per essere precisi»,
rispose la Flanagan con la stessa cortese efficienza. Fredda, ma simpatica.
Era in gamba.
La studiai. Si trovava visibilmente a suo agio di fronte alla gente. Avevo
sentito dire che si era fatta una buona reputazione negli ultimi anni, il che
significava che era stata capace di far riconoscere i propri meriti.
«Se n'era andato da parecchio tempo quando siamo arrivati alla cabina
telefonica di Arlington. Non potevamo avere subito una fortuna così sfac-
ciata», aggiunse. Accennò un sorriso, e notai che parecchi degli uomini lì
presenti glielo ricambiarono.
«Per quale motivo crede che abbia telefonato?» chiese il capo del dipar-
timento di polizia dal fondo della stanza. Era un tipo con pochi capelli, una
bella pancia e fumava la pipa.
La Flanagan sospirò. «La prego, mi lasci continuare. Sfortunatamente c'è
dell'altro, oltre alla telefonata. Ieri notte Soneji ha assassinato l'agente del-
l'FBI Roger Graham. Il fatto è avvenuto davanti alla casa di Graham in
Virginia, sul vialetto del garage.» È una bella impresa impressionare un
gruppo di gente esperta come quella radunata in casa Dunne. Ma la notizia
dell'assassinio di Graham ci riuscì. Sentii le ginocchia che cedevano. Io e
Roger ci eravamo trovati a fianco a fianco nel corso degli ultimi anni.
Quando lavoravo con lui sapevo sempre che le mie spalle erano coperte.
Non che avessi bisogno di ulteriori ragioni per desiderare con tutto il cuore
di mettere le mani su Gary Soneji: in ogni caso, lui ne aveva fornita una
valida.
Mi chiesi se Soneji lo avesse previsto. E che cosa significava in tal caso?
Come psicologo, quell'assassinio mi riempì di una sensazione di paura. Mi
diceva che Soneji era un uomo organizzato, che aveva abbastanza fiducia
in se stesso da giocare addirittura con noi, ed era disposto a uccidere. Non
era di buon auspicio per Maggie Rose Dunne né per Michael Goldberg.
«Ci ha lasciato un chiaro messaggio», proseguì la Flanagan. «Il messag-
gio è stato battuto a macchina su una scheda, o quella che sembrava una
scheda di biblioteca. Il messaggio è diretto a tutti noi: 'Quel pallone gon-
fiato di Roger Graham pensava di essere un pezzo grosso. Be', è chiaro
che non lo era! Se vi occupate di questo caso, siete in grave pericolo!' Il
messaggio è firmato Il Figlio di Lindbergh.»

15

La stampa si buttò col solito cinismo sull'affare del sequestro. Il titolo di


prima pagina di uno dei quotidiani del mattino diceva: GLI UOMINI DEI
SERVIZI SEGRETI ERANO A PRENDERSI UN CAFFÈ. La notizia del-
la morte dell'agente Roger Graham non era ancora stata diramata. Cerca-
vamo di tenere la cosa nel cassetto.
I pettegolezzi giornalistici di quella mattina riguardavano il fatto che gli
agenti dei servizi segreti Charles Chakely e Michael Devine avevano ab-
bandonato il loro posto alla scuola privata. In effetti erano andati a fare co-
lazione nel corso delle lezioni. Ma era una cosa del tutto normale in questo
genere di servizio. La pausa per il caffè, tuttavia, sarebbe costata loro mol-
to cara. Per l'esattezza gli sarebbe costata la carriera.
Pittman, fino a quel momento, non stava utilizzando molto né me né
Sampson. Andò avanti così per due giorni. Abbandonati a noi stessi, ci
concentrammo sulla debole pista lasciata da Soneji. Io la seguii fino ai ne-
gozi della zona in cui si potevano acquistare articoli per trucco ed effetti
speciali. Sampson, invece, si recò alla biblioteca di Georgetown, ma lì nes-
suno lo aveva mai visto. Non si erano neppure accorti dei libri rubati dai
loro scaffali.
Soneji era riuscito a sparire. E, cosa ancor più seccante, sembrava non
essere mai esistito prima di venire assunto alla Washington Day School.
Non ci sorprese il fatto che avesse falsificato il suo curriculum e parec-
chi attestati di servizio. Si era comportato con la stessa perizia del truffato-
re più consumato. Non aveva lasciato alcuna pista.
Aveva dimostrato una sicurezza spinta fino alla temerarietà pur di otte-
nere quel posto a scuola. Un presunto datore di lavoro precedente aveva
contattato la Washington Day School e aveva caldamente raccomandato
Gary Soneji, in procinto di trasferirsi nella zona di Washington. Ulteriori
raccomandazioni erano pervenute via fax dall'università della Pennsylva-
nia. Dopo due colloqui che avevano fatto un grande effetto, la scuola era
stata tanto impaziente di accaparrarsi quell'insegnante così preparato e di
bella presenza che, per battere la concorrenza di altre scuole private del
Distretto di Columbia (ultimo tocco del truffatore), lo aveva assunto su due
piedi.
«E non ci siamo mai pentiti di averlo assunto. Fino a ora, naturalmente»,
ammise con me il vicepreside. «Era perfino migliore di quanto ci aspettas-
simo. Sarei veramente stupito se prima di venire qui non avesse mai inse-
gnato matematica. Vorrebbe dire che è un attore straordinario.»

Finalmente, nel tardo pomeriggio del terzo giorno, Don Manning, uno
dei luogotenenti di Pittman, mi assegnò un compito. Mi venne chiesto di
esaminare e valutare Katherine Rose Dunne e suo marito. Avevo già cerca-
to di farmi ricevere per conto mio dai Dunne, ma mi era stato opposto un
rifiuto.
Incontrai Katherine e Thomas Dunne nel cortile di casa loro. Un muro di
pietra grigia alto più di tre metri e una fila di enormi tigli lo separavano dal
mondo esterno. In effetti il cortile era costituito da parecchi giardini sepa-
rati da muri in pietra e da un ruscello serpeggiante. C'erano i giardinieri,
naturalmente, una giovane coppia che, a quanto si vedeva, guadagnava be-
ne con quel mestiere. Guadagnavano senz'altro più di me.
Katherine Rose si era messa un vecchio maglione di cammello sopra i
jeans e un pullover dal collo a V. Probabilmente stava bene con qualunque
straccio, pensai quando la vidi.
Veniva ancora considerata una delle più belle donne del mondo. Aveva
fatto solo pochi film da quando era nata Maggie Rose, ma non aveva per-
duto nulla della sua bellezza, almeno a quanto potevo vedere io. Neppure
in quel momento di angoscia.
Suo marito, Thomas Dunne, era stato un importante avvocato del mondo
dello spettacolo a Los Angeles, dove si erano conosciuti. Laggiù si era av-
vicinato a Greenpeace e ad altri movimenti di ecologisti. La famiglia si era
trasferita a Washington dopo che lui era diventato direttore della Croce
Rossa americana.
«Si è occupato di altri sequestri di bambini?» volle sapere Thomas Dun-
ne. Cercava di capire quale fosse la mia collocazione professionale. Ero
importante? Potevo essere di qualche aiuto alla loro bambina? Fu un po'
brusco, ma non lo biasimai, date le circostanze.
«Una dozzina circa», gli risposi. «Può parlarmi un po' di Maggie? Po-
trebbe servire. Più ne sappiamo, e maggiori saranno le nostre possibilità di
trovarla.»
Katherine Rose annuì. «Certo, signor Cross. Abbiamo cercato di cresce-
re Maggie nel modo più normale possibile», disse. «Questa è una delle ra-
gioni per cui ci siamo decisi a trasferirci sulla East Coast.»
«Non so se definirei Washington un posto normale in cui crescere. Non
è esattamente come abitare in una tranquilla cittadina svizzera.» Sorrisi.
Per una qualche ragione, quella frase iniziò a rompere il ghiaccio.
«A confronto con Beverly Hills è molto normale», ribatté Tom Dunne.
«Non sono neppure sicura di che cosa significhi 'normale', oggi come
oggi», osservò Katherine. Gli occhi di lei sembravano grigio-azzurri. Da
vicino il suo sguardo era molto penetrante. «Credo che 'normale' corri-
sponda a una qualche immagine antiquata rimasta nel ripostiglio della no-
stra mente, mia e di Tom. Maggie non è viziata. Non è una bambina del ti-
po 'Susy ha questo', oppure 'i genitori di Casey le hanno comprato questo'.
Non è presuntuosa. Ecco che cosa intendo per 'normale'. È semplicemente
una bambina, agente.»
Mentre parlava con affetto della figlia, mi ritrovai a pensare ai miei, di
figli, ma soprattutto a Janelle. Anche Jannie era «normale». Con questo in-
tendo dire che era equilibrata, senz'altro non viziata, adorabile in ogni sen-
so. Li ascoltai con attenzione ancora maggiore mentre parlavano di Maggie
Rose.
«Assomiglia moltissimo a Katherine.» Thomas Dunne propose un ar-
gomento che riteneva importante farmi conoscere. «Katherine è la persona
meno egocentrica che io abbia mai conosciuto. Mi creda, sopravvivere al-
l'adulazione e agli insulti odiosi che una stella del cinema può ricevere a
Hollywood, e rimanere una persona come lei, è molto difficile.»
«Come mai l'avete chiamata Maggie Rose?» chiesi a Katherine.
«Questo è opera mia.» Gli occhi di Thomas Dunne brillarono. Si capiva
che gli piaceva parlare a nome della moglie. «Era un soprannome che poi
ha attecchito subito. La cosa è cominciata quando ho visto loro due in o-
spedale.»
«Tom ci chiama 'le ragazze Rose', 'le sorelle Rose'», proseguì Katherine.
«Facciamo ginnastica e corriamo qui, nel 'Giardino delle Rose'. Quando io
e Maggie litighiamo, è 'la guerra delle Rose'. E via di seguito.»
Amavano molto la loro bambina. Lo avvertivo da ogni parola che dice-
vano su Maggie.
Soneji, o comunque si chiamasse in realtà, nel loro caso aveva fatto una
scelta oculata. Si trattava di un'altra mossa perfetta da parte sua. Si era
preparato bene. Una grande stella del cinema e un avvocato famoso. Geni-
tori molto affezionati. Soldi. Prestigio. Forse gli piacevano i film di lei.
Cercai di ricordare se Katherine Rose avesse interpretato un ruolo che po-
teva averlo spinto ad agire. Non ricordavo di aver visto foto sue nell'appar-
tamento di Soneji.
«Sapreste immaginare in che modo Maggie potrebbe reagire in una simi-
le circostanza?» domandai.
«Perché fa questa domanda?» mi chiese a sua volta Katherine.
«Da quanto ci hanno raccontato i suoi insegnanti, sappiamo che si com-
porta molto bene. Questa potrebbe essere una ragione per cui Soneji l'ha
scelta.» Ero schietto con loro. «Che altro vi può venire in mente? Esprime-
te ogni possibile associazione di idee.»
«Maggie oscilla tra un atteggiamento serio - è molto severa e ligia ai do-
veri - e uno molto fantasioso», disse Katherine. «Lei ha figli?» mi chiese.
Trasalii. Stavo pensando di nuovo a Jannie e Damon. «Due figli. E poi
lavoro per i ragazzi dei quartieri poveri», risposi. «Maggie ha molti amici a
scuola?»
«Decine e decine», disse suo padre. «A lei piacciono i ragazzi che hanno
tante idee, ma non sono troppo egocentrici. Salvo Michael, che è molto at-
tento alle esigenze del proprio io.»
«Mi racconti di loro due, Maggie e Michael.»
Katherine Rose sorrise per la prima volta da quando stavamo parlando.
Era così strano quel sorriso, che avevo visto in tanti film e ora vedevo di
persona. Ne fui ipnotizzato. Mi sentii intimidito, e anche imbarazzato dalla
mia stessa reazione.
«Sono inseparabili fin da quando ci siamo trasferiti qui. Sono una coppia
stranissima, ma non si lasciano mai. A volte li chiamiamo 'i fidanzati'.»
«Come pensa che Michael reagirebbe in queste circostanze?»
«Difficile a dirsi.» Thomas Dunne scosse il capo. Dava l'impressione di
essere un uomo molto impaziente. Probabilmente era abituato a ottenere
quello che voleva e quando lo voleva. «Michael ha la necessità di seguire
un piano. La sua vita è molto ordinata, ben organizzata.»
«Che cosa mi può dire dei suoi disturbi fisici?» Sapevo dei problemi che
aveva avuto alla nascita. Aveva ancora un soffio al cuore.
Katherine Rose scrollò le spalle. «Sembrava non fosse un grosso pro-
blema. A volte si stanca. È un po' piccolo per la sua età. Maggie è più alta
di Michael.»
«Lo chiamano 'Tappo', un nomignolo che credo gli piaccia. Lo fa sentire
parte del gruppo», aggiunse Tom Dunne. «È una specie di bambino super-
dotato. Maggie lo chiama 'cervellone'. Questa è una descrizione abbastanza
esauriente di Michael.»
«Michael è senz'altro un cervellone.»
«Com'è quando si stanca?» Ritornai su un punto sollevato da Katherine,
forse un punto importante. «Diventa irascibile?»
Soppesò la domanda prima di rispondere. «Si sente solamente stanco
morto. A volte, schiaccia un pisolino. Una volta... Mi ricordo che si sono
addormentati entrambi vicino alla piscina. Quella strana coppia era stesa
nell'erba. Proprio come due bambini.»
Mi fissò coi suoi grandi occhi grigi e cominciò a piangere. Ce l'aveva
messa tutta per controllarsi, ma alla fine aveva ceduto.
Per quanto fossi riluttante, ora mi sentivo tirato dentro fino al collo. Pro-
vavo compassione per i Dunne e i Goldberg. Se pensavo a Maggie Rose
mi venivano in mente i miei figli. Mi sentivo coinvolto in un modo che
non sempre è utile. La rabbia che provavo nei confronti dell'assassino di
Mustaf si stava trasferendo sul rapitore di questi due bambini innocenti: il
signor Soneji, Mister Chips.
Volevo arrischiarmi a dire loro che sarebbe andato tutto bene, convince-
re me stesso che sarebbe andato tutto bene. Ma non ne ero affatto sicuro.

16

Maggie Rose credeva ancora di trovarsi nella propria tomba. Era ben più
che raccapricciante e spaventoso. Era un milione di volte peggio di qua-
lunque altro incubo avesse mai avuto. E Maggie sapeva di avere un'imma-
ginazione molto fervida. Era capace di orripilare o sbalordire i suoi ami-
chetti, quasi a suo piacere.
Era notte? Oppure era giorno?
Emise un debole gemito: «Michael?» In bocca, soprattutto sulla lingua,
sentiva un forte sapore di tamponi di cotone. La sua bocca era incredibil-
mente secca. Aveva una gran sete. A volte si mordeva la lingua. Continua-
va a immaginarsi d'ingoiare la lingua. Nessuno aveva mai provato una tale
sete. Neppure nei deserti dell'Iraq e del Kuwait.
Maggie Rose continuava a fluttuare tra il sonno e la veglia. I sogni si
susseguivano l'uno dopo l'altro. Ne era appena iniziato uno nuovo.
Lì vicino qualcuno stava picchiando su una pesante porta di legno.
Chiunque fosse gridò il suo nome. «Maggie Rose... Maggie Rose, di'
qualcosa!»
Poi Maggie non fu più sicura che si trattasse di un sogno.
C'era davvero qualcuno.
Qualcuno voleva penetrare nella sua tomba? Erano forse la mamma e il
papà? O finalmente la polizia?
D'improvviso fu accecata da una luce che veniva dall'alto. Maggie Rose
era sicura che si trattava di luce.
Era come se davanti al suo viso si fosse acceso un centinaio di flash.
Il cuore le batteva così forte e veloce che Maggie Rose capì di essere vi-
va. Nel posto orribile in cui qualcuno l'aveva messa, ma viva.
Maggie Rose sussurrò verso l'alto, verso la luce: «Chi è? Chi c'è? Chi c'è
lassù? Vedo un viso!»
La luce era così violenta che Maggie Rose non riusciva a vedere niente.
Per la seconda - o terza - volta il buio completo si era trasformato in un
bianco accecante.
Poi la sagoma di qualcuno nascose alla vista gran parte della luce. Mag-
gie non riusciva a vedere chi c'era lì. La luce s'irradiava da dietro la perso-
na.
Maggie serrò forte gli occhi. Poi li aprì. Ripeté l'azione più volte.
Non riusciva a vedere niente. Non riusciva a mettere a fuoco chi o che
cosa ci fosse lì. Dovette continuare a strabuzzare gli occhi. Chiunque si
trovasse lassù doveva vedere che lei li strabuzzava, doveva capire che lei
era viva.
«Signor Soneji? Mi aiuti», cercò di urlare. La sua gola era così asciutta.
La sua voce era così stridula e irriconoscibile.
«Zitta! Zitta!» gridò una voce dall'alto.
C'era qualcuno là sopra! C'era davvero qualcuno là sopra che poteva ti-
rarla fuori. Sembrava la voce di una vecchia.
«Per favore, mi aiuti. La prego», implorò Maggie.
Una mano calò rapida e la colpì al volto con violenza.
Maggie scoppiò in pianto. Provò più spavento che dolore, ma lo schiaffo
le fece male. Non era mai stata schiaffeggiata prima. La testa le rimbom-
bava con violenza.
«Smettila-di-piangere!» Quella voce lugubre si era fatta più vicina.
Poi quella persona scese nella tomba, e fu proprio sopra di lei. Maggie
sentì una forte puzza di sudore e un alito cattivo. Qualcuno la teneva in-
chiodata al suolo, e lei era troppo debole per reagire.
«Non fare resistenza, piccola bastarda! Non fare mai resistenza! Chi cre-
di di essere, piccola bastarda?»
Dio, ti prego, che stava accadendo?
«Tu sei la famosa Maggie Rose, vero? Una marmocchia ricca e viziata!
Adesso ti dirò un segreto. Il nostro segreto. Ragazzina ricca, tu morirai. Tu
morirai!»

17

Il giorno seguente era la vigilia di Natale. Non si avvertiva il clima


gioioso delle festività. E prima di Natale la situazione sarebbe ancora peg-
giorata.
Nessuno di noi aveva potuto concedersi ai soliti preparativi festosi con
le proprie famiglie. Quella situazione si aggiungeva, aggravandola, alla
tensione della squadra antisequestri. Ingigantiva la sofferenza di quel com-
pito deprimente. Se Soneji aveva scelto il periodo natalizio per questo mo-
tivo, aveva avuto ragione. Aveva rovinato il Natale a tutti quanti.
Verso le dieci del mattino percorsi la Sorrell Avenue verso casa Gol-
dberg. Nel frattempo Sampson se l'era filata per fare qualche indagine su-
gli omicidi della zona sud-est. Avevamo concordato di ritrovarci verso
mezzogiorno a confrontare le nostre storie dell'orrore.
Parlai coi Goldberg per più di un'ora. Non stavano reagendo granché be-
ne alla situazione. Sotto molti aspetti erano ancor più disponibili di Kathe-
rine e Thomas Dunne. Erano genitori più rigidi dei Dunne, ma anche Jer-
rold e Laurie Goldberg nutrivano un grande amore per Michael. Undici
anni prima, i dottori avevano detto alla donna che non poteva avere figli.
Quando aveva scoperto di essere incinta di Michael, le era sembrato un mi-
racolo. Soneji ne era al corrente? mi chiesi. Con quale particolare cura a-
veva scelto le sue vittime? Perché Maggie Rose e Michael Goldberg?
I Goldberg mi permisero di vedere la cameretta di Michael e di restarci
un po' di tempo da solo. Chiusi la porta della camera e rimasi seduto im-
mobile per qualche minuto. Avevo fatto la stessa cosa nella stanza di
Maggie dai Dunne.
La camera del ragazzo era stupefacente. Era una vera e propria stanza
del tesoro piena di computer e di videogame: Macintosh, Nintendo,
Windows. I laboratori della AT&T non erano attrezzati quanto la stanza di
Michael Goldberg.
Manifesti dei film di Katherine Rose, Tabù e Luna di miele, erano attac-
cati alle pareti. Un manifesto di Sebastian Bach, il cantante degli Skid
Row, era piazzato sopra il letto. Una foto di Albert Einstein con un taglio
di capelli punk color lilla mi fissò dalla stanza da bagno privata di Micha-
el. C'era inoltre una copertina della rivista Rolling Stone che chiedeva:
«Chi ha ucciso Pee-Wee Herman?»
Una foto incorniciata di Michael e Maggie Rose era appoggiata sulla
scrivania. I due ragazzi in posa a braccetto sembravano grandissimi amici.
Che cosa aveva spinto ad agire Soneji? Qualcosa forse che c'entrava con
quella loro speciale amicizia?
Nessuno dei Goldberg aveva mai conosciuto Soneji, benché Michael a-
vesse parlato moltissimo di lui. Soneji era l'unico, bambino o adulto, che
avesse mai battuto Michael a giochi come Ultima e Super Mario Bros. Ciò
indicava che forse Soneji era anche lui un cervellone, un altro bambino
prodigio, che però non lasciava per una specie di puntiglio che un ragazzi-
no di nove anni lo sconfiggesse ai videogame. Non era disposto a perdere
in nessun gioco.

Ero di nuovo in biblioteca coi Goldberg, a guardare fuori di una finestra,


quando all'improvviso il caso prese per sempre una piega incontrollabile.
Vidi Sampson uscire di corsa dalla casa dei Dunne e, proprio mentre
raggiungeva il prato, uscii anch'io come un razzo da casa Goldberg. Si
bloccò come un attaccante di football nella zona di meta.
«Ha telefonato ancora?» chiesi.
Scosse la testa. «No. Però ci sono novità. È accaduto qualcosa, Alex, e
l'FBI se lo tiene per sé. Hanno in mano qualcosa. Su, andiamo.»

La polizia aveva istituito un blocco stradale in fondo a Plately Bridge


Lane, una traversa di Sorrell Avenue. I cavalli di Frisia impedirono ai
giornalisti di seguire le tre automobili che avevano lasciato casa Dunne
appena dopo le due del pomeriggio. Io e Sampson eravamo sulla terza au-
to.
Settanta minuti dopo, le tre berline percorrevano a tutta velocità la strada
che attraversava le colline intorno a Salisbury, nel Maryland. Scendevano
per una strada tortuosa verso la zona industriale, annidata tra fitti boschi di
conifere.
Essendo la vigilia di Natale, il moderno complesso industriale era deser-
to. Era un silenzio gravido di mistero. I prati ricoperti di neve circondava-
no tre distinte costruzioni per uffici in pietra calcarea. Una mezza dozzina
di auto della polizia e di ambulanze era già arrivata in quello scenario mi-
sterioso.
Un fiumiciattolo che finiva nella baia di Chesapeake scorreva dietro il
gruppo di costruzioni. L'acqua era color rosso-marrone e sembrava inqui-
nata. Alcuni cartelli indicatori blu sugli edifici dicevano: J. CAD
MANUFACTURING, THE RASER/BECTON GROUP, TECHNO-
SPHERE.
Fino a quel momento non ci avevano dato nessun indizio, non una sola
parola era stata pronunciata su quanto era accaduto nella zona industriale.
Sampson e io ci unimmo al gruppo che si dirigeva verso il ruscello. Sul
posto c'erano altri quattro agenti dell'FBI, che avevano un'aria corrucciata.
Tra la zona industriale e l'acqua si stendeva un terreno coperto di erbac-
ce giallastre. Poi, prima di giungere al fiume, c'era una striscia di trenta o
quaranta metri priva di vegetazione. Il cielo era color grigio cenere e mi-
nacciava altra neve.
Giù da un argine fangoso, gli aiutanti dello sceriffo stavano versando un
qualche composto in alcune impronte per prenderne il calco. Gary Soneji
era stato lì?
«Le hanno detto qualcosa?» chiesi a Jezzie Flanagan quando ci trovam-
mo a camminare affiancati giù per l'argine ripido e fangoso. Si stava rovi-
nando le scarpe, ma non sembrò farci caso.
«No. Non ancora. Niente di niente!» Era frustrata quanto me e Sampson.
Questa era la prima circostanza in cui la squadra non funzionava come una
cosa sola. L'FBI aveva avuto un'occasione per mostrare spirito di collabo-
razione. L'aveva bruciata. Non era un buon segno. Non era un inizio pro-
mettente.
«Speriamo che non siano quei bambini», bisbigliò quando raggiungem-
mo un terreno più piatto.
Due agenti dell'FBI, Reilly e Gerry Scorse, erano sulla riva del fiumi-
ciattolo. Ricominciò a nevicare. Un vento freddo soffiava sopra l'acqua co-
lor grigio ardesia, che aveva l'odore del linoleum bruciato.
Mi sentivo il cuore in gola. Non riuscivo a vedere niente lungo la riva.
L'agente Scorse fece un discorsetto, che credo avesse l'obiettivo di cal-
mare l'animo di noialtri. «L'atteggiamento cauto, quasi diffidente, che ab-
biamo adottato non era rivolto contro nessuno di voi. Visto il grande inte-
resse che questo caso ha suscitato nella stampa, ci è stato chiesto - meglio
ordinato - di non dire niente finché non fossimo arrivati tutti qui. Finché
non avessimo visto coi nostri occhi.»
«Visto che cosa?» chiese Sampson all'agente speciale dell'FBI. «Volete
dirci che diavolo sta succedendo? Piantiamola con questa logorrea.»
Scorse fece un segnale a uno degli agenti dell'FBI e gli disse qualcosa.
Si chiamava McGoey, ed era in forza all'ufficio direttivo di Washington.
L'avevo visto entrare e uscire dalla casa dei Dunne. Noi tutti pensavamo
che sostituisse Roger Graham, ma tale supposizione non era mai stata con-
fermata.
McGoey annuì a quanto Scorse gli andava dicendo, poi si fece avanti.
Era un uomo grasso dall'aspetto solenne, con grossi denti sporgenti e ca-
pelli bianchi tagliati a spazzola. Aveva l'aspetto di un militare vicino al
pensionamento.
«La polizia locale ha ripescato un bambino dal fiume verso le dieci di
oggi», annunciò. «Non sanno dire se si tratta di uno dei due bambini rapiti
oppure no.»
Ci fece camminare per una sessantina di metri lungo la riva fangosa del
fiume. Ci arrestammo oltre un cumulo di terra coperto di muschio. Non si
udiva alcun suono, eccetto il sibilo del vento sopra l'acqua.
Finalmente capimmo perché ci avevano fatto venire fin lì. Un corpicino
era avvolto in coperte di lana grigia, dotazione di un'ambulanza dell'obito-
rio. Era il fagotto più minuscolo e solo dell'intero universo.
Un agente della polizia locale cominciò a fornirci i dettagli necessari. I-
niziò a parlare con voce rauca e incerta. «Sono il tenente Edward Maho-
ney. Sono in forza alla polizia di Salisbury. Circa un'ora e venti minuti fa,
una guardia giurata della Raser/Becton ha scoperto quaggiù il corpo di un
bambino.»
Ci avvicinammo alle coperte. Il corpo giaceva su un tumulo erboso che
scendeva nell'acqua salmastra, vicino a un boschetto di salici.
Il tenente s'inginocchiò a fianco del corpicino. Il suo ginocchio ricoperto
dall'uniforme grigia sprofondò nel fango. I fiocchi di neve turbinavano in-
torno al suo volto, appiccicandosi ai capelli e alle guance.
Scostò le coperte quasi con reverenza. Sembrava un padre che sveglia
delicatamente il figlio per andare a pesca.
Appena poche ore prima avevo visto una foto dei due ragazzini rapiti.
Fui il primo a prendere la parola davanti al cadavere del bambino assassi-
nato.
«È Michael Goldberg», dichiarai con voce sommessa ma chiara. «Mi
rincresce dover dire che si tratta di Michael. E lui, il povero Tappo.»

18

Jezzie Flanagan ritornò a casa solo verso l'alba del giorno di Natale. Le
girava la testa, quasi le scoppiava sotto la spinta delle idee riguardo al se-
questro che le turbinavano dentro.
Doveva assolutamente far cessare quelle immagini ossessive.
Doveva spegnere i motori, altrimenti sarebbe esplosa. Doveva smetterla
di fare il poliziotto. La differenza tra lei e gli altri poliziotti era che lei sa-
peva staccare.
Jezzie viveva ad Arlington con la madre. Dividevano un piccolo appar-
tamento in un condominio vicino alla fermata della metropolitana di
Crystal City. Jezzie lo considerava un «appartamento da suicidi». Quella
sistemazione avrebbe dovuto essere provvisoria, solo che ormai abitava lì
da quasi un anno, da quando aveva divorziato da Dennis Kelleher.
Dennis, detto «la Peste», si trovava nel Jersey settentrionale in quel pe-
riodo, a cercare ancora di entrare al New York Times. Non sarebbe mai riu-
scito nell'impresa, Jezzie ne era profondamente convinta. L'unica cosa in
cui si era dimostrato bravo era stato il tentativo di scuotere la fiducia di
Jezzie in se stessa. Era un vero asso in quella specialità, ma alla fine lei
non gli aveva permesso di distruggerla.
Aveva lavorato troppo duro ai servizi segreti per trovare il tempo di tra-
slocare dall'appartamento di sua madre. O almeno questo era ciò che con-
tinuava a ripetersi. Non c'era stato il tempo di avere una vita privata. Stava
risparmiando in vista di qualcosa di grosso, di un importante cambiamento
nella sua vita. Faceva il computo dei suoi beni almeno un paio di volte alla
settimana, ogni settimana. Possedeva ventiquattromila dollari. Quello era
tutto. Aveva trentadue anni. Sapeva di essere carina, quasi bella, nella stes-
sa misura in cui Dennis Kelleher era un buono scrittore.
Poteva essere competitiva, pensava spesso. Ce l'aveva quasi fatta. Aveva
bisogno solo di un'occasione, e alla fine aveva capito che quell'occasione
doveva crearla lei. Si sentiva impegnata a fondo in quell'obiettivo.
Si bevve una Smithwich, una birra chiara veramente ottima, il veleno
preferito da suo padre. Mordicchiò una fetta di formaggio fresco. Poi si
bevve una seconda birra sotto la doccia, nella cupa scala numero uno a ca-
sa di sua madre. Il visino di Michael Goldberg le balenò di nuovo davanti
agli occhi.
Non avrebbe più permesso che l'immagine del piccolo Goldberg le guiz-
zasse nella mente. Non avrebbe avvertito alcun senso di colpa, anche se ne
era lacerata. Basta con quelle immagini! Basta con tutto, adesso.
Sua madre tossiva nel sonno. Aveva lavorato trentanove anni per l'a-
zienda dei telefoni. Era la proprietaria dell'appartamento di Crystal City ed
era una formidabile giocatrice di bridge. Nient'altro da dire su Irene Flana-
gan.
Il padre era stato poliziotto nel Distretto di Columbia per ventisette anni.
L'ultima partita la giocò sul suo amato posto di lavoro: un infarto aveva
colpito Terry Flanagan tra la folla di Union Station, con centinaia di estra-
nei a guardarlo morire, indifferenti. Perlomeno, quello era il resoconto che
lei dava dell'accaduto.
Jezzie decise, per la millesima volta, che doveva andarsene dalla casa di
sua madre. A qualunque costo. Basta coi pretesti. Sgomberare, sgombera-
re... sgombra da qui con la tua vita.
Aveva perso la nozione del tempo in cui era rimasta sotto la doccia, con
la bottiglia di birra mezza vuota al suo fianco, sfregandosi il vetro freddo
contro la coscia. «Drogata di disperazione», bisbigliò a se stessa. «Che pe-
na!» Era comunque rimasta sotto la doccia abbastanza da finire la Smi-
thwich e da avere di nuovo voglia di un'altra birra. Aveva voglia di qualco-
sa.
Era riuscita per un po' a evitare di pensare al piccolo Goldberg. Ma non
per davvero. Come avrebbe potuto? Il piccolo Michael Goldberg.
Però, nel corso degli ultimi anni, Jezzie era diventata brava a dimentica-
re, per evitare a qualunque costo di soffrire. Era stupido soffrire, se si po-
teva farne a meno.
Naturalmente ciò obbligava anche a evitare rapporti troppo stretti, evita-
re persino i dintorni dell'amore, evitare la maggior parte delle emozioni
umane. Bene. Poteva essere un baratto accettabile. Aveva scoperto di poter
sopravvivere senza amore. Sembrava una cosa terribile, ma era la verità.
Sì, al momento, soprattutto in quel momento, quel baratto era un buon
affare, pensò Jezzie. La aiutava a superare i giorni e le notti di crisi. E co-
munque riusciva in tal modo ad arrivare fino all'ora del cocktail.
Ci riusciva bene. Se ce la faceva come donna-poliziotto, poteva farcela
in qualsiasi cosa. Gli altri agenti dei servizi segreti dicevano che lei aveva i
cojones. Era il loro modo di farle un complimento, e quindi Jezzie lo ac-
cettava come tale. Poi precisavano che aveva dei cojones di ferro. E quan-
do non li aveva, era abbastanza in gamba da far finta di averli.
All'improvviso, sentì il bisogno di prendere la moto per fare un giro; do-
veva uscire dal minuscolo e soffocante appartamento di Arlington.
Doveva, doveva assolutamente, farlo.
Sua madre la chiamò. «Jezzie, dove vai così tardi? Jezzie, sei tu?»
«Vado qui vicino, mamma.» Una battuta cinica le rimbalzò dentro la te-
sta: vado a fare gli acquisti di Natale al centro commerciale. Come al soli-
to se la tenne dentro. Desiderava che il Natale se ne andasse via. Aveva
paura del giorno successivo.
Poi partì nella notte sulla sua BMW K-1, sfuggendo ai suoi incubi per-
sonali, oppure inseguendoli. Inseguendo i suoi demoni.
Era Natale. Michael Goldberg era morto per i nostri peccati? Era di que-
sto che si trattava?
Rifiutò di sentire su di sé tutta la colpa. Era Natale e Cristo era già morto
per i peccati di tutti. Anche per i peccati di Jezzie Flanagan. Si sentiva un
po' pazza. No, si sentiva molto pazza, ma poteva riprendere il controllo
della situazione. Sempre sotto controllo. Ecco quello che avrebbe fatto ora.
Cantava Winter Wonderland, mentre a centottanta chilometri all'ora per-
correva l'autostrada che usciva da Washington. Di solito non aveva paura,
ma quella volta sì.

19

In alcuni quartieri di Washington e delle vicine periferie del Maryland e


della Virginia, la mattina di Natale vennero effettuate perquisizioni casa
per casa. Le auto biancazzurre della polizia giravano per le strade del cen-
tro trasmettendo dagli altoparlanti un messaggio: «Stiamo cercando Mag-
gie Rose Dunne. Maggie ha nove anni. Ha lunghi capelli biondi. È alta un
metro e trenta e pesa trentadue chili. Una grossa ricompensa verrà data a
chi fornirà informazioni che le permetteranno di ritornare in seno alla sua
famiglia».
Dentro la casa, una mezza dozzina di agenti dell'FBI lavorava in modo
sempre più serrato insieme coi Dunne.
Sia Katherine Rose sia Tom Dunne furono terribilmente scossi dalla
morte di Michael. All'improvviso Katherine sembrò invecchiata di dieci
anni. Eravamo tutti in attesa della prossima telefonata di Soneji.
Mi ero messo in mente che avrebbe telefonato ai Dunne il giorno di Na-
tale. Cominciavo a provare la sensazione di conoscerlo un po'. Volevo che
chiamasse, volevo che cominciasse ad agire, in modo che facesse il suo
primo sbaglio. Volevo catturarlo.

Verso le undici della mattina di Natale, la squadra antisequestri venne


convocata d'urgenza nel soggiorno dei Dunne. Eravamo quasi una ventina
di poliziotti, tutti alla mercé dell'FBI per avere informazioni vitali. La casa
ronzava come un alveare. Che cos'aveva fatto il Figlio di Lindbergh?
Non ci avevano ancora dato molte informazioni. Sapevamo che era stato
consegnato un telegramma a casa Dunne, che non veniva considerato come
uno dei tanti messaggi di mitomani. Doveva essere Soneji.
Gli agenti dell'FBI avevano monopolizzato i telefoni di casa nel corso
degli ultimi quindici minuti. L'agente speciale Scorse tornò a casa Dunne
poco prima delle undici e mezzo, probabilmente reduce dai festeggiamenti
di Natale a casa sua. Il comandante Pittman entrò in scena cinque minuti
dopo. Era stato chiamato il comandante della polizia.
«Sta diventando una storia veramente brutta: ci lasciano sempre all'oscu-
ro.» Sampson si appoggiò al caminetto della stanza. «Quelli dell'FBI non
si fidano di noi. Noi ci fidiamo di loro ancor meno che all'inizio.»
«Noi abbiamo cominciato subito a non fidarci dell'FBI», gli ricordai.
«Hai ragione.» Fece un largo sorriso. Potevo vedere la mia immagine ri-
flessa nei suoi occhiali da sole e mi vedevo piccolo piccolo. Mi chiesi se
tutto il mondo sembrava così piccolo dal punto di vista privilegiato di
Sampson. «È stato il nostro uomo a mandare il telegramma?» mi chiese.
«Questo è ciò che pensa l'FBI. Probabilmente è il suo modo di fare gli
auguri di Natale. Forse vuole sentirsi parte di una famiglia.»
Sampson mi sbirciò da sopra i suoi occhiali scuri. «Grazie, dottor
Freud.»
L'agente Scorse si stava aprendo la strada per portarsi vicino a noi. Lun-
go il tragitto incocciò nel comandante Pittman. Si strinsero la mano. Un
esempio edificante di rapporti di buon vicinato.
«Abbiamo ricevuto un altro messaggio che sembra provenire da Gary
Soneji», annunciò Scorse non appena fu arrivato davanti a noi. Aveva uno
strano modo di stirarsi il collo e di girare la testa da una parte all'altra
quando era nervoso. Eseguì quel numero alcune volte quando cominciò a
parlare.
«Ve lo leggerò. È indirizzato alla famiglia Dunne... 'Cari Katherine e
Tom... Che ne pensate di dieci milioni di dollari? Due in contanti. Il resto
in titoli negoziabili e diamanti. A Miami Beach!... Maggie Rose finora sta
bene. Fidatevi di me. Domani è un gran giorno... Vi auguro un felice anno.
Il Figlio di L.'»
Dopo quindici minuti dal suo arrivo, era stata rintracciata la provenienza
del telegramma. Si trattava di un ufficio della Western Union sulla Collins
Avenue a Miami Beach. Gli agenti dell'FBI si fiondarono immediatamente
sul posto a interrogare il direttore e gli impiegati. Non si cavò un ragno dal
buco, proprio come stavano procedendo le indagini su tutti gli altri fronti.
Non ci restava altro da fare che partire immediatamente alla volta di
Miami.

20

La squadra antisequestri arrivò all'aeroporto di Tamiami in Florida alle


quattro e trenta del pomeriggio di Natale. Il ministro Jerrold Goldberg ci
aveva organizzato il viaggio a bordo di un jet speciale dell'aeronautica mi-
litare.
Una scorta della polizia di Miami ci accompagnò di gran carriera all'uf-
ficio dell'FBI sulla Collins Avenue, vicino al Fountainbleu e ad altri alber-
ghi della Gold Coast. L'FBI si trovava a soli sei isolati di distanza dall'uffi-
cio della Western Union da cui Soneji aveva inviato il telegramma.
Lo sapeva questo? Probabilmente sì. Sembrava che quello fosse il suo
procedimento mentale. Aveva la mania di tener tutto sotto controllo. Con-
tinuavo a prendere appunti su di lui. Avevo già riempito una ventina di pa-
gine di un taccuino che mi tenevo in tasca. Non potevo redigere un profilo
psicologico di Soneji, dato che non disponevo ancora di informazioni sul
suo passato. I miei appunti erano zeppi delle solite parole del gergo profes-
sionale: organizzato, sadico, metodico, controllato, forse ipomaniaco.
Ci stava osservando mentre correvamo per Miami? Molto probabile.
Magari sotto un altro travestimento. Aveva rimorsi per la morte di Michael
Goldberg? Oppure stava entrando in una fase maniacale?
Nell'ufficio dell'FBI erano già state installate le linee telefoniche sup-
plementari di emergenza. Non sapevamo in che modo Soneji avrebbe co-
municato da quel momento in poi. Parecchi agenti della polizia di Miami
ora integravano la squadra, come pure altri duecento agenti in forza all'FBI
nella zona meridionale della Florida. D'improvviso la parola d'ordine fu:
fare tutto molto in fretta. Spicciarsi e aspettare.
Mi chiesi se Gary Soneji avesse un'idea del caos che stava creando men-
tre si avvicinava lo scadere dell'ultimatum. Anche questo faceva parte del
piano? Stava veramente bene, Maggie Rose Dunne? Era ancora viva?
Avremmo avuto bisogno di qualche riscontro prima che lo scambio fina-
le fosse approvato. Avremmo chiesto a Soneji almeno una prova materiale.
Maggie Rose finora sta bene. Fidatevi di me, aveva scritto. Certo, Gary.
Le cattive notizie ci seguirono anche a Miami.
Il rapporto preliminare dell'autopsia di Michael Goldberg era stato invia-
to per fax all'ufficio dell'FBI di Miami. Ci fu immediatamente una riunio-
ne, nella sala emergenze dell'FBI. Sedevamo a scrivanie sistemate ad anfi-
teatro, ciascuna dotata di terminale e tastiera. La stanza era insolitamente
silenziosa. Nessuno di noi aveva voglia di ascoltare i dettagli della morte
del bambino.
Un tecnico dell'FBI di nome Harold Friedman venne scelto per spiegare
al gruppo i risultati dell'autopsia. Era un tipo quantomeno fuori del norma-
le per l'FBI. Era un ebreo ortodosso, ma col fisico e con l'aspetto di un ra-
gazzo da spiaggia di Miami. Portava in testa uno zucchetto multicolore.
«Siamo ragionevolmente convinti che la morte del piccolo Goldberg sia
stata accidentale», cominciò con voce chiara e profonda. «A quanto pare,
prima è stato stordito con uno spruzzo di cloroformio. C'erano tracce di
cloroformio nelle vie nasali e in gola. Poi gli è stata fatta un'iniezione di
sodio secobarbital, probabilmente due ore dopo. Il secobarbital è un poten-
te anestetico. Ha anche proprietà che possono inibire la respirazione. È
quanto sembra essere accaduto in questo caso. Probabilmente il respiro è
diventato irregolare, dopodiché il bambino ha cessato di respirare e ha avu-
to un arresto cardiaco. Non ha sofferto se era addormentato. Sospetto che
lo fosse, e che sia morto nel sonno... Presentava anche parecchie ossa frat-
turate», continuò Harold Friedman. Nonostante l'aspetto di ragazzo da
spiaggia, era un tipo pacato e dimostrava una certa intelligenza nel presen-
tare la sua relazione. «Riteniamo che il bambino sia stato colpito da molte
scariche di pugni e di calci. Però questo non ha niente a che vedere col de-
cesso. Le ossa rotte e le contusioni sull'epidermide sono state prodotte do-
po la sua morte. È giusto che sappiate che dopo il decesso ha anche subito
violenze sessuali: è stato sodomizzato, e presenta conseguenti lacerazioni.
Questo Soneji è un elemento molto malato.» Fu il primo commento di
Friedman.
Era uno dei pochi dettagli reali che possedevamo sulla patologia di Gary
Soneji. Evidentemente si era lasciato trasportare da un accesso di rabbia
scoprendo che Michael Goldberg era morto. O che qualcosa del suo piano
perfetto non era poi così perfetto.
Gli agenti e i poliziotti spostavano il peso sulle sedie da una natica all'al-
tra. Mi chiedevo se il parossismo sfogato su Michael Goldberg poteva ave-
re su Soneji un effetto calmante o eccitante. I miei dubbi sulla possibilità
che Maggie ne uscisse viva aumentavano sempre più.

Il nostro albergo era situato di fronte all'ufficio dell'FBI. Non era gran
che secondo i parametri di Miami Beach, ma disponeva di una grande pi-
scina sul lato rivolto verso l'oceano.
Intorno alle undici, la maggior parte di noi aveva staccato per andarsene
a dormire. La temperatura superava ancora i trenta gradi. Il cielo era tra-
punto di stelle lucenti e ogni tanto veniva solcato da qualche jet provenien-
te da nord.
Sampson e io attraversammo a passo da turisti la Collins Avenue.
«Vuoi mangiare oppure preferisci stordirti di whisky?» mi chiese a metà
strada.
«Sono già abbastanza stordito. Stavo pensando a una nuotatina. Quando
si è a Miami Beach...»
«Stasera non ti prenderai un'abbronzatura degna del luogo», disse roto-
landosi tra le labbra una sigaretta spenta.
«Una ragione in più a favore della nuotatina notturna.»
«Io mi piazzerò nella hall», disse Sampson quando svoltammo nell'atrio.
«A rimorchiare qualche bella ragazza.»
«Buona fortuna», gli gridai. «È Natale. Spero che ti facciano un regali-
no.»
Indossai un costume da bagno e mi avviai verso la piscina dell'albergo.
Sono giunto alla conclusione che il segreto per restare in salute è fare sport
e quindi mi alleno ogni giorno, ovunque mi trovi. Pratico molto assidua-
mente anche lo stretching, che si può fare a qualunque ora e in qualunque
posto.
La grande piscina era chiusa, ma non per questo mi scoraggiai. Noi poli-
ziotti siamo famosi per attraversare le strade senza guardare, parcheggiare
in doppia fila e, in generale, non osservare le regole. È la nostra unica for-
ma di tracotanza.
Qualcun altro aveva avuto la mia stessa idea e stava nuotando in modo
così silenzioso e tranquillo che non me ne accorsi finché non passai tra le
sedie a sdraio, avvertendo sotto i piedi una sensazione di freddo e umido.
Il nuotatore era una donna snella e atletica, con un costume blu e nero.
Aveva braccia lunghe e gambe ancora più lunghe. Era un bello spettacolo
in quel giorno non troppo bello. Le sue bracciate erano potenti, ritmiche e
senza sforzo. Sembrava che si trovasse nella sua piscina privata e non volli
disturbarla.
Quando virò, vidi che si trattava di Jezzie Flanagan. Questo mi sorprese.
Mi sembrava che nuotare non si addicesse a un supervisore dei servizi se-
greti.
Scesi rapidamente nell'estremità opposta della piscina e iniziai le mie
vasche. Non avevano niente di bello né di ritmico, ma le mie bracciate fa-
cevano un buon lavoro; di solito riesco a fare lunghe nuotate.
Portai facilmente a termine trentacinque vasche. Mi sentivo finalmente
sciolto come non mi capitava da alcuni giorni. Le ragnatele cominciavano
a cadere. Potrei farne un'altra ventina, e poi andare a coricarmi. Oppure
potrei prendermi una birra con Sampson per festeggiare il Natale.
Quando mi fermai per una rapida boccata d'aria, Jezzie Flanagan era se-
duta proprio lì, sull'orlo di una sedia a sdraio.
Teneva un morbido asciugamano gettato sulle spalle nude. Era molto ca-
rina al chiaro di luna di Miami: sottile, biondissima... I suoi luminosi occhi
azzurri mi fissavano.
«Venti vasche, detective Cross?»
Sorrise, in un modo che rivelava una persona diversa da quella che ave-
vo visto al lavoro nei giorni precedenti. Sembrava molto più rilassata.
«Trentacinque», la corressi. «Non appartengo esattamente alla sua stessa
categoria, e neppure a quella vicina. Ho imparato il mio stile nella piscina
della parrocchia.»
«Insista.» Conservò quel suo grazioso sorriso. «È in buona forma.»
«Comunque si definisca il mio stile, stasera si sta proprio bene. Dopo
tutte le ore passate al chiuso in quella stanza, con quelle finestrelle che non
si aprono mai.»
«Se avessero grandi finestre, tutti penserebbero di scappare in spiaggia.
Qui in Florida non si combinerebbe niente.»
«Perché, noi stiamo combinando qualcosa?» chiesi a Jezzie.
Rise. «Avevo un amico la cui teoria sul lavoro nella polizia era: 'fa' del
tuo meglio'. Io sto facendo del mio meglio. In circostanze impossibili. E
lei?»
«Anch'io faccio del mio meglio», confermai.
«Dio sia lodato.» Sollevò allegramente entrambe le braccia. La sua esu-
beranza mi sorprendeva. La scena era divertente, e faceva bene ridere, una
volta tanto. Faceva veramente bene. Era veramente necessario.
«Date le circostanze, sto facendo del mio meglio», aggiunsi.
«Date le circostanze, Dio sia lodato!» Alzò di nuovo la voce. Era diver-
tente, oppure era tardi, o entrambe le cose.
«Vuole fare uno spuntino?» le chiesi. Volevo sentire che cosa ne pensa-
va del caso. Non ne avevo ancora parlato con lei.
«Vorrei mangiare qualcosa», rispose. «Ho già saltato due pasti oggi.»
Concordammo di trovarci nella sala da pranzo dell'albergo, uno di quegli
affari all'ultimo piano che girano lentamente su se stessi.
Si cambiò in cinque minuti, altra cosa che m'impressionò. Calzoni beige
larghi. Una maglietta con collo a V, pantofole cinesi nere. I suoi capelli
biondi erano ancora umidi. Li aveva pettinati all'indietro e le stavano bene.
Non era truccata, ma non ne aveva bisogno. Sembrava così diversa da co-
me si presentava sul lavoro: molto più sciolta e a suo agio.
«In tutta franchezza e onestà, devo dirle una cosa.» Rideva.
«Quale cosa?»
«Be', lei è un forte nuotatore ma il suo stile è goffo. D'altra parte, in co-
stume da bagno fa la sua bella figura.»
Ridemmo tutti e due. Un po' della tensione di quella lunga giornata co-
minciava ad allentarsi.
Ci dimostrammo bravi entrambi a far parlare l'altro mentre bevevamo
una birra o mangiavamo qualcosa. Un fatto da mettere in rapporto alle cir-
costanze particolari e alla tensione dei giorni passati. E poi fa parte del mio
mestiere far parlare la gente, e la cosa mi stimola.
Riuscii a farle confessare che era stata eletta Miss Washington quando
aveva diciott'anni. Aveva fatto parte di un'associazione goliardica femmi-
nile all'università della Virginia, ma l'avevano buttata fuori per «compor-
tamento sconveniente», frase che mi piacque molto.
Però, mentre chiacchieravamo, fui sorpreso dal fatto che anch'io le stessi
raccontando più di quanto avessi messo in conto. Era un tipo con cui era
facile lasciarsi andare.
Jezzie m'interrogò sui miei primi tempi di psicologo a Washington.
«Più che altro è stato un brutto sbaglio», le dissi, senza riferirle la rabbia
che mi aveva procurato, e ancora mi procurava. «Un sacco di gente non
vuole saperne di uno strizzacervelli nero, e pochi neri possono permetter-
sene uno.» Mi fece parlare di Maria, ma solo un po'.
Lei mi raccontò come si sentiva una donna nei servizi segreti dove il no-
vantanove per cento sono uomini del genere macho. «A loro piace metter-
mi alla prova, oh, sì, almeno una volta al giorno. Mi chiamano 'l'Uomo'.»
Conosceva alcune divertenti storielle sulla Casa Bianca. Aveva conosciuto
i Bush e i Reagan. Tutto sommato fu un'ora piacevole che passò troppo ve-
locemente.
In effetti era passata più di un'ora. Forse addirittura due. Infine Jezzie
notò la nostra cameriera che si aggirava tutta sola vicino al bar. «Acciden-
ti. Siamo gli ultimi clienti del ristorante.»
Pagammo il conto e prendemmo l'ascensore per scendere dal ristorante
girevole. La stanza di Jezzie si trovava quattro piani sopra la mia. Proba-
bilmente dalla sua suite godeva anche della vista sull'oceano.
«È stata veramente una serata simpatica», le dissi quando l'ascensore si
arrestò al suo piano. Credo che si tratti di una battuta elegante di una
commedia di Noel Coward. «Grazie della compagnia e buon Natale.»
«Buon Natale, Alex», mi disse sorridendo. Si sistemò i capelli biondi
dietro l'orecchio. Era un tic che avevo già notato.
Mi diede un bacetto sulla guancia e si diresse verso la sua camera. «Ti
sognerò in costume da bagno», mi disse mentre si chiudevano le porte del-
l'ascensore.
Scesi quattro piani, e mi feci la mia doccia fredda di Natale, da solo nel-
la mia stanza d'albergo di Natale. Pensai a Jezzie Flanagan. Sciocche fan-
tasie in una solitaria stanza d'albergo di Miami Beach. Di certo tra noi due
non ci sarebbe mai stato niente di serio, però mi piaceva. Mi sembrava
quasi di poter parlare di qualunque cosa con lei. Lessi ancora un po' del
mio libro contro la depressione, finché non mi addormentai. Feci qualche
sogno in cui c'era la mia bella.

21

Attento, adesso stai molto attento, Gary.


Gary Soneji osservava con la coda dell'occhio sinistro la donna grassa.
Osservava quella massa informe e gonfia, come una lucertola osserva un
insetto poco prima del pasto. Lei non aveva il minimo sospetto che lui la
stesse studiando.
Era una donna-poliziotto, diciamo così, e anche un'addetta alla bigliette-
ria dell'autostrada all'uscita numero 12. Contò lentamente il suo resto. Era
enorme, nera come la notte, completamente ignara, e con la testa tra le nu-
vole.
Soneji pensò che aveva l'aspetto di Aretha Franklin se Aretha fosse stata
stonata e avesse dovuto sopravvivere nel mondo reale di tutti i giorni.
Lei non aveva la minima idea di chi le stava passando accanto nel fiume
monotono del traffico delle vacanze. Anche se lei e tutti i suoi colleghi a-
vrebbero dovuto cercarlo disperatamente. Con tanti saluti alla «massiccia
retata della polizia» e alla classica «caccia all'uomo su scala nazionale».
Che fottutissima delusione. Ma come potevano sperare di acchiapparlo
mettendogli gente simile alle calcagna? Potevano almeno cercare di non
fargli perdere l'interesse al gioco.
A volte, soprattutto in circostanze simili, Gary Soneji aveva voglia di
proclamare l'ineludibile verità dell'universo.
Proclama. Ascolta, puttanella sciatta di una piedipiatti! Non lo sai chi
sono io? Un travestimentuccio da nulla ti ha confuso? Sono quello che hai
visto in tutti i notiziari degli ultimi tre giorni. Tu e metà del mondo, Are-
tha, bambolina mia.
Proclama. Ho programmato e realizzato il Crimine del Secolo in modo
così perfetto che sono già più grande di molti serial killer, tipo John Wa-
yne Gacy o Juan Corona. È andato tutto bene finché quel ricco bambino
cianotico non si è ammalato.
Proclama. Guarda bene. Guardami proprio bene. Sii una maledetta eroi-
na almeno una volta nella vita. Sii qualcosa di diverso da una grassa nullità
nera sull'Autostrada dell'Amore. Guardami, per favore! E guardami!
Gli porse il resto. «Buon Natale, signore.»
Gary Soneji fece spallucce. «Buon Natale anche a lei.»
Mentre si allontanava dalle luci lampeggianti del casello, immaginò la
poliziotta con una di quelle facce sorridenti che ti danno il buongiorno.
S'immaginò un'intera nazione abitata da quelle sorridenti facce da luna
piena. Ed era proprio quello che stava accadendo.
Stava diventando davvero peggio dell'Invasione degli ultracorpi. Lo fa-
ceva impazzire se ci pensava, cosa che cercava di evitare. Una nazione di
facce da luna piena sorridenti. Amava Stephen King, s'identificava con la
sua misteriosa e bizzarra fantasia, e desiderava che King scrivesse qualco-
sa su tutti gli stupidi col sorriso stampato in faccia che ci sono in America.
Riusciva a vedere la copertina di quello che sarebbe stato il capolavoro di
King: Facce da luna piena.
Quaranta minuti dopo, Soneji con la sua fidata Saab abbandonò la Route
413 all'altezza di Crisfield, nel Maryland. Accelerò lungo la sconnessa
strada in terra battuta che conduceva alla vecchia fattoria. A questo punto
dovette sorridere, dovette ridere. Li aveva mandati completamente in con-
fusione.
Fino a quel momento, loro non avevano la minima idea di come stessero
le cose. Lui aveva già dato la polvere al caso Lindbergh, o no? Adesso era
arrivata l'ora di togliere di nuovo il tappeto da sotto i piedi di quelle facce
da luna piena.

22

Lo spettacolo era proprio cominciato! Un fattorino della Federal Express


era arrivato negli uffici dell'FBI poco prima delle dieci e trenta del mattino
del 26 dicembre. Aveva consegnato il nuovo messaggio del Figlio di Lin-
dbergh.
Fummo richiamati nella sala emergenze al secondo piano. Sembrava che
tutto il personale dell'FBI si trovasse lì. Si trattava del rapimento, questo fu
chiaro a tutti.
Qualche attimo dopo l'agente speciale Bill Thompson di Miami si preci-
pitò dentro. Brandiva una busta dall'aspetto familiare. Con cautela aprì la
busta arancio-blu davanti a tutto il gruppo.
«Ci farà vedere il messaggio. Però non ce lo leggerà», insinuò sottovoce
Jeb Klepner dei servizi segreti. Sampson e io stavamo in piedi insieme con
Klepner e Jezzie Flanagan.
«Oh, stavolta non se la terrà per sé», predisse Jezzie. «Dividerà la ten-
sione con noi.»
Thompson era pronto, davanti a tutti. «Ho un messaggio di Gary Soneji.
Ecco che cosa dice. C'è il numero uno. Poi: Dieci milioni. Sulla riga suc-
cessiva, il numero due. Poi le parole Disney World, Orlando - Il Regno
Magico. Sulla riga successiva il numero tre. Poi: Parcheggiare a Pluto 24.
Attraversare la Laguna dei Sette Mari sul traghetto, non con la monoro-
taia. Ore 12.50 di oggi. Sarà finita per le 13.15. Ultima riga: Il detective
Alex Cross consegnerà il riscatto. Da solo. È firmato: Il Figlio di Lin-
dbergh.»
Alzò subito lo sguardo. I suoi occhi frugarono la sala. Non fece fatica a
ritrovarmi tra i presenti. Posso assicurarvi che il suo sbigottimento non era
niente in confronto al mio. Un'ondata di adrenalina si era già immessa nel
mio sistema circolatorio. Che diavolo voleva Soneji da me? Che ne sapeva
di me? Sapeva quanto desideravo mettergli le mani addosso?
«Non fa alcun tentativo di trattare!» L'agente speciale Scorse cominciò a
scaldarsi. «Soneji dà per scontato che noi pagheremo i dieci milioni.»
«Proprio così», dissi ad alta voce. «E ha ragione. In definitiva è proprio
la famiglia che chiede di sapere come e quando pagare il riscatto.» I Dunne
ci avevano dato istruzioni di pagare Soneji. Senza condizioni. Soneji pro-
babilmente lo sapeva. E quella era di certo la ragione principale per cui a-
veva scelto Maggie Rose. Ma perché aveva scelto me?
Al mio fianco Sampson scosse il capo, e bisbigliò: «Lo sa il Signore.
Misteriose sono le sue vie».
Una mezza dozzina di auto ci aspettava nel parcheggio cotto dal sole
dietro il palazzo dell'FBI. Bill Thompson, Jezzie Flanagan, Klepner, Sam-
pson e io viaggiammo in una delle berline dell'FBI. Avevamo i titoli e i
soldi. Il detective Alex Cross consegnerà il riscatto.
Il denaro era stato raccolto la notte prima. Era stato un lavoro terribil-
mente complesso riuscire a farlo in modo così rapido, ma la Citibank e la
Morgan Stanley avevano collaborato. I Dunne e Jerrold Goldberg avevano
il potere di ottenere quello che volevano, e chiaramente avevano esercitato
grandi pressioni. Come richiesto da Soneji, due milioni del riscatto erano
in contanti. Il resto era in piccoli diamanti e in titoli. Era un tesoro nego-
ziabile, e anche molto facile da trasportare. Trovava facilmente posto in
una normale valigia.
Il tragitto dal centro di Miami all'aeroporto Opa Lock West durò circa
venticinque minuti. Ne avremmo impiegati altri quaranta per il volo. In tal
modo saremmo arrivati a Orlando intorno alle 11.45. Ci stavamo stretti.
«Potremmo tentare di mettere un apparecchio addosso a Cross.» Ascol-
tammo l'agente Scorse che parlava alla radio con Thompson. «Una radio-
trasmittente portatile. Ne abbiamo una a bordo dell'aereo.»
«Questo non mi piace troppo, Gerry», affermò Thompson.
«Non piace neppure a me», dissi dal sedile posteriore. Il mio era un eu-
femismo. «Niente microfoni. Non se ne parla.» Stavo ancora cercando di
capire perché Soneji avesse scelto me. Non aveva senso. Pensai che potes-
se aver letto qualcosa su di me in quel vecchio articolo di giornale a Wa-
shington. Ero certo che aveva qualche buona ragione. Non ci potevano es-
sere dubbi in proposito.
«Ci sarà tantissima gente nel parco», disse Thompson una volta saliti a
bordo del Cessna 310 diretto a Orlando. «Quella è la ragione evidente per
cui ha scelto Disney World. Un sacco di genitori e di bambini anche nel
Regno Magico. Può passare inosservato con Maggie Rose. Potrebbe aver
travestito anche lei.»
«Disney World si adatta bene alla sua propensione per gli scenari gran-
diosi e importanti», dissi. Una delle teorie che mi ero annotato sul taccuino
era che Soneji potesse essere stato lui stesso un bambino violentato. In tal
caso, non avrebbe provato che rabbia e disprezzo per un posto come Di-
sney World, dove i bambini bravi vanno con le loro mammine e i loro pa-
parini.
«Abbiamo provveduto alla sorveglianza del parco, sia aerea sia a terra»,
aggiunse Scorse. «Le immagini stanno già arrivando nella sala emergenze
a Washington. Stiamo anche filmando Epcot e l'Isola del Tesoro. Nel caso
che introduca un cambiamento all'ultimo minuto.»
Mi immaginavo la scena nella sala emergenze dell'FBI sulla 10th Street.
Una ventina di pezzi grossi che si accalcavano. Ognuno di loro con la sua
scrivania e un monitor della TV a circuito chiuso. Le foto aeree di Disney
World sarebbero apparse contemporaneamente su tutti gli schermi. La la-
vagna della stanza era piena di cifre: il numero esatto di agenti e altro per-
sonale che stava convergendo sul parco in quel momento. Il numero delle
uscite. Ogni strada in entrata o in uscita. Le condizioni del tempo. Il nume-
ro dei visitatori di quel giorno. Il numero degli addetti al servizio di sicu-
rezza della Disney. Ma probabilmente niente su Gary Soneji o Maggie Ro-
se, altrimenti ne avremmo saputo qualcosa.
L'idea di trovarsi con un pazzo e una bambina rapita non era molto allet-
tante. E neppure la cruda realtà della folla di vacanzieri che ci stava aspet-
tando a Disney World. Ci avevano detto che dentro il parco c'erano più di
settantamila persone. E tuttavia questa sarebbe stata la nostra carta miglio-
re per acciuffare Soneji. Forse era la nostra unica carta.
Fummo trasportati nel Regno Magico in un furgone speciale, con scorta
della polizia munita di lampeggianti e sirene spiegate. Prendemmo la cor-
sia di emergenza sulla I-4, superando il traffico normale che veniva dall'ae-
roporto.
La gente pigiata nelle station-wagon e nei furgoncini ci sbeffeggiava, in-
vidiosa della velocità con cui avanzavamo nel traffico. Nessuno aveva la
minima idea di chi fossimo, o del perché ci stessimo precipitando verso
Disney World. Per loro eravamo dei pezzi grossi che andavano a vedere
Topolino e Minnie.
Arrivammo tutti all'uscita 26-A, quindi proseguimmo per World Drive
verso il piazzale delle auto. Raggiungemmo il parcheggio poco dopo le
12.15. Eravamo arrivati al pelo, ma Soneji non ci aveva concesso il tempo
di organizzarci.
Perché Disney World? Continuavo a cercare di capire. Forse Gary Sone-
ji aveva sempre voluto andarci da bambino, e non gliel'avevano permesso?
Perché apprezzava l'efficienza quasi nevrotica di quel parco dei diverti-
menti?
Per Gary Soneji sarebbe stato relativamente facile entrare a Disney
World. Ma come avrebbe fatto a uscirne? Quella era la domanda più inte-
ressante di tutte.

23

Alcuni addetti della Disney parcheggiarono le nostre auto nel settore


Pluto, fila 24. Un tram in fiberglass ci aspettava per portarci al traghetto.
«Perché Soneji ha voluto te?» mi chiese Bill Thompson mentre scende-
vamo dall'auto. «Hai qualche idea in proposito, Alex?»
«Forse ha sentito parlare di me negli articoli pubblicati a Washington.
Forse sa che io sono uno psicologo e ciò ha attirato la sua attenzione. Co-
munque glielo chiederò di sicuro quando lo vedo.»
«Vacci piano con lui», mi consigliò. «Vogliamo solo che restituisca la
bambina.»
«È quello che voglio anch'io», replicai. Stavamo entrambi esagerando.
Volevamo Maggie Rose sana e salva, ma volevamo anche catturare Soneji.
Volevamo finirla con lui una volta per tutte, lì a Disney World.
Thompson mi mise il braccio intorno alle spalle mentre eravamo nel
parcheggio. Un po' di spirito cameratesco, tanto per cambiare. Sampson e
anche Jezzie Flanagan mi augurarono buona fortuna. Gli agenti dell'FBI si
dimostravano d'aiuto, almeno per il momento.
«Come ti senti?» Sampson mi tirò in disparte un attimo. «Ti sta bene tut-
ta questa faccenda? Lui ha chiesto di te, ma tu non sei obbligato ad andar-
ci.»
«Mi sta bene. Non mi farà alcun male. Sono abituato agli psicotici, ti ri-
cordi?»
«Tu sei uno psicotico, amico.»
Presi la valigia col riscatto. Salii da solo sul tram arancione. Aggrappato
a un sostegno di metallo, mi diressi verso il Regno Magico, dove dovevo
consegnare la valigia in cambio di Maggie Rose Dunne.
Erano le 12.44. Eravamo in anticipo di sei minuti.

Nessuno mi prestò molta attenzione mentre seguivo il flusso continuo di


persone verso le file di sportelli e di cancelletti d'entrata della biglietteria
centrale del Regno Magico. E perché mai avrebbero dovuto farlo?
Doveva essere quella l'idea che spingeva Soneji a scegliere posti affolla-
ti. Strinsi più forte la valigia. Sentivo che, finché avevo con me il riscatto,
disponevo di un salvagente per Maggie Rose.
Aveva osato portare la bambina con sé? C'era anche lui? Oppure era tut-
ta una messinscena per metterci alla prova? Ormai tutto era possibile.
La folla di Disney World era allegra e rilassata. Si trattava per lo più di
famiglie in vacanza, che si divertivano sotto il cielo luminoso color fiorda-
liso. La voce piacevole di un annunciatore cantilenava: «Tenete per mano i
bambini piccoli, non dimenticate gli effetti personali e godetevi il vostro
soggiorno».
Per quanto uno sia sfinito, ci si sente conquistati da quella terra della
fantasia. È tutto incredibilmente pulito e sicuro. Avevo la sensazione di es-
sere protetto, il che era maledettamente strano per me.
Topolino, Pippo e Biancaneve salutavano tutti ai cancelli principali. Il
parco era immacolato. Gli altoparlanti sapientemente nascosti nei cespugli
diffondevano Yankee Doodle Dandy.
Sentivo battere forte il cuore sotto la maglietta larga. In quel momento
ero completamente privo di contatti coi miei. Sarebbe stato così finché non
fossi arrivato nel Regno Magico.
Avevo le mani sudaticce, e me le asciugai nei pantaloni.
Stavo entrando in una zona di ombra fitta proiettata dalla biglietteria
centrale e dal centro trasporti. Si vedeva il traghetto, una minuscola nave
fluviale del Mississippi, senza la ruota a pale.
Un uomo con giacca sportiva e cappello a larga tesa scivolò al mio fian-
co. Non sapevo se si trattava di Soneji. La sensazione di sicurezza e prote-
zione che emanava da Disney World s'infranse immediatamente.
«Cambio di piani, Alex. Ora ti porto a vedere Maggie Rose. Per favore,
continua a guardare dritto avanti a te. Finora ti sei comportato magnifica-
mente. Continua così e finisce tutto bene.»
Una Cenerentola alta uno e ottanta ci superò, proseguendo nella direzio-
ne opposta. I bambini e gli adulti esplosero in un boato di meraviglia.
«Ora girati, Alex. Rifacciamo la stessa strada che hai percorso prima.
Può filare tutto liscio e tranquillo come in una giornata di vacanza al mare.
Tutto dipende da te, amico.»
Era perfettamente calmo e teneva sotto controllo la situazione, come del
resto aveva dimostrato di saper fare in tutta la vicenda del rapimento. Fino
a quel momento era avvolto da un'aura di invincibilità. Mi aveva chiamato
Alex. Cominciammo a tornare indietro camminando contro la corrente del-
la folla.
La chioma di riccioloni biondi di Cenerentola sobbalzava davanti a noi. I
bambini ridevano deliziati nel vedere la loro eroina del cinema e dei fu-
metti muoversi come una persona viva.
«Prima devo vedere Maggie Rose», fu l'unica cosa che dissi all'uomo col
cappello a tesa larga. Era Soneji travestito? Non potevo dirlo. Avevo biso-
gno di vederlo meglio.
«Va bene. Ma se qualcuno ci ferma, te lo dico subito, la bambina è mor-
ta.» Cappello a Tesa Larga parlava con indifferenza, come se dicesse l'ora
a uno sconosciuto.
«Non ci fermerà nessuno», gli assicurai. «La nostra unica preoccupazio-
ne è la salvezza della bambina.»
Sperai che quest'affermazione fosse vera per tutte le persone coinvolte
nell'operazione. Avevo avuto un breve incontro con Katherine e Tom
Dunne quella mattina. Sapevo che ciò che a loro importava era riavere la
bambina quella sera.
Il sudore aveva cominciato a scorrermi lungo il corpo. Non avevo modo
di controllarlo. La temperatura non superava i trenta gradi, ma c'era molta
umidità.
Cominciavo a preoccuparmi che involontariamente potesse succedere
qualche pasticcio. Adesso qualsiasi cosa poteva andare storta. Non aveva-
mo fatto nessuna prova, lì nel cuore di Disney World e della sua folla im-
prevedibile.
«Ascolta. Se l'FBI mi vede uscire, qualcuno potrebbe avvicinarsi», mi
decisi a dire.
«Spero di no», disse facendo schioccare la lingua tra i denti. Scosse il
capo avanti e indietro. «Sarebbe una grave infrazione dell'etichetta.»
Chiunque fosse, si comportava in un modo innaturalmente calmo per
una situazione così tesa. Aveva già fatto in precedenza una cosa simile? mi
chiesi. Avevo l'impressione che fossimo nuovamente diretti verso le file di
tram arancione. Uno dei tram ci avrebbe riportato al parcheggio? Era que-
sto il piano?
L'uomo aveva un fisico troppo robusto per essere Soneji, pensai. A me-
no che non indossasse un astuto travestimento con molte imbottiture. Mi
venne di nuovo in mente l'idea dell'attore. Sperai che non si trattasse di un
impostore. Di qualcuno che aveva scoperto quello che stava accadendo in
Florida, e che poi ci aveva contattato per impadronirsi del riscatto. Non sa-
rebbe stata la prima volta che accadeva in un caso di rapimento.
«FBI! Mani in alto!» udii all'improvviso. Era accaduto tutto in un bale-
no. Il cuore mi salì in gola. Che diavolo stavano facendo? Che cos'avevano
in mente?
«FBI!»
Una mezza dozzina di agenti ci aveva circondato nel parcheggio. Ave-
vano i revolver in pugno. Almeno un fucile era puntato sull'intermediario,
e quindi su di me.
L'agente Bill Thompson era lì con gli altri. Vogliamo solo che restituisca
la bambina, mi aveva detto alcuni minuti prima.
«Via! Andate via!» persi la pazienza e gridai. «Stateci lontani! Andate
fuori dei piedi!»
Ora guardai direttamente Cappello a Tesa Larga. Non poteva essere So-
neji. Ne ero quasi certo. Chiunque fosse non gli importava di essere rico-
nosciuto o persino fotografato a Orlando.
Come mai? Come faceva a essere così calmo?
«Se prendete me, la bambina è morta», disse agli agenti dell'FBI che ci
circondavano. Era freddo come il ghiaccio. I suoi occhi sembravano morti.
«Niente lo può impedire. Non posso farci niente. E neppure voi. Ormai è
spacciata.»
«Adesso è viva?» Thompson fece un passo verso di lui. Sembrava che
stesse per colpirlo, cosa che avremmo voluto fare tutti quanti.
«E viva. L'ho vista due ore fa. Sarebbe stata libera a casa sua se non
combinavate questo magnifico casino. Adesso sta' indietro, come ha detto
Cross. Indietro, cazzone.»
«Come facciamo a sapere che sei un socio di Soneji?» chiese Thompson.
«Uno. Dieci milioni. Due. Disney World, Orlando - Il Regno Magico.
Tre. Parcheggiare a Pluto 24.» Ci sciorinò le parole esatte del messaggio
del riscatto.
Thompson mantenne la sua posizione. «Tratteremo per la liberazione
della bambina. Tratteremo. Farai a modo nostro.»
«Che cosa? E far morire la bambina?» Era stata Jezzie Flanagan a parla-
re. Si era messa dietro Thompson e la squadra armata dell'FBI. «Abbassate
le armi», ordinò con fermezza. «Lasciate che sia Cross a fare lo scambio.
Se fai a modo tuo e la bambina muore, lo dirò a tutti i cronisti del Paese,
giuro che lo farò, Thompson. Giuro davanti a Dio che lo farò.»
«Lo farò anch'io», dissi all'agente speciale dell'FBI. «Ti do la mia paro-
la.»
«Non è lui. Non è Soneji», disse infine Thompson. Guardò l'agente
Scorse e scosse il capo nauseato. «Lasciateli andare», ordinò. «Cross e il
riscatto vanno da Soneji.»
Io e l'uomo di ghiaccio ci rimettemmo in cammino. Stavo tremando. La
gente ci guardava mentre proseguivamo verso i tram arancione. Mi sem-
brava di vivere una situazione completamente irreale. Qualche momento
dopo eravamo su uno dei tram. Ci sedemmo.
«Stronzi», borbottò l'uomo. Era il suo primo segno di emozione. «Per
poco non rovinavano tutto.»
Ci fermammo all'altezza di una Nissan Z nel settore Paperino, fila 6.
L'auto era color blu scuro, coi vetri colorati di grigio. Non c'era nessuno al-
l'interno della spider.
Cappello a Tesa Larga avviò l'auto e riprendemmo la I-4. Il traffico in
uscita dal parco era quasi nullo. Una giornata di vacanza al mare, aveva
detto.
Ci dirigemmo di nuovo verso l'aeroporto internazionale di Orlando, in
direzione est. Cercai di farlo parlare, ma non aveva niente da dirmi.
Forse non era così calmo e padrone di sé. Forse prima si era spaventato a
morte anche lui. L'FBI per poco non mandava a monte tutto quanto; non
sarebbe stata la prima volta. In effetti, quella mossa al parco era semplice-
mente un bluff. Ripensandoci, capii che quella era la loro ultima possibilità
di trattare la liberazione di Maggie Rose Dunne.
Era passata poco più di mezz'ora quando entrammo in un hangar privato
pochi chilometri oltre il terminal principale di Orlando. Erano le 13.30. Lo
scambio non sarebbe avvenuto a Disney World.
«Il messaggio prometteva che tutto sarebbe finito alle 13.15», dissi men-
tre scendevamo dalla Nissan. Una calda brezza tropicale proveniente dal-
l'aeroporto ci investì. L'odore del gasolio e dell'asfalto bollente era molto
pesante.
«Il biglietto mentiva», rispose. Era di nuovo freddo come il ghiaccio.
«Ecco il nostro aereo. Ora siamo tu e io soli. Cerca di essere più intelligen-
te dell'FBI, Alex. Non dovrebbe essere troppo difficile.»

24

«Mettiti comodo, rilassati e goditi il viaggio», m'invitò quando fummo a


bordo. «Sono il tuo simpatico pilota. Be', forse non proprio simpatico.» Mi
ammanettò al bracciolo di uno dei quattro posti per i passeggeri dell'aereo.
Un altro ostaggio, pensai. Forse potevo strappare via il bracciolo. Era di
plastica e metallo. Abbastanza fragile.
L'uomo era senza dubbio il pilota dell'aereo. Ottenuta l'autorizzazione al
decollo, il Cessna si avviò sobbalzando lungo la pista, aumentando gra-
dualmente la velocità. Infine si sollevò e rimase in aria, virando verso sud-
est e passando sopra la zona orientale di Orlando e St. Petersburg. Ero si-
curo che fino a quel momento eravamo sotto controllo. Da lì in poi, però,
tutto dipendeva dal nostro intermediario e dal piano di Soneji.
Restammo in silenzio durante i primi minuti di volo. Mi sistemai como-
do per osservarlo al lavoro, cercando di ricordare ogni dettaglio del volo.
Ai comandi si comportava in modo efficiente e rilassato. Non mostrava
segni di tensione. Un vero professionista.
Mi passò per la testa un possibile collegamento. Ora ci trovavamo in
Florida, volavamo in direzione sud. Un cartello della droga colombiano
aveva minacciato la famiglia del ministro Goldberg. Che fosse una coinci-
denza? Non credevo più alle coincidenze.
Una regola della polizia, soprattutto nel lavoro di polizia di cui avevo
esperienza, continuava a frullarmi in testa. Una regola importante. Un
buon novantacinque per cento dei delitti viene risolto grazie all'errore di
qualcuno. Fino a quel momento Soneji non aveva commesso errori. Non ci
aveva lasciato aperto alcun varco. Era arrivata l'ora di coglierlo in fallo. Lo
scambio sarebbe stato un momento pericoloso per lui.
«È stato tutto pianificato con molta precisione», dissi all'amico col cap-
pello. L'aereo si addentrava sempre più profondamente nell'Atlantico. Ver-
so quale destinazione? Per compiere lo scambio finale con Maggie Rose?
«Hai perfettamente ragione. È stato fatto tutto col massimo scrupolo.
Non hai idea della perfezione con cui sono state congegnate le cose.»
«Sta davvero bene la bambina?»
«Te l'ho detto, l'ho vista stamattina. Non ha subito danni», assicurò.
«Non le è stato torto un capello.»
«Mi risulta difficile crederti», replicai. Mi ricordai dello stato pietoso in
cui avevamo ritrovato Michael Goldberg.
Il pilota scrollò le larghe spalle. «Credi quello che vuoi.» Non gli impor-
tava assolutamente nulla di ciò che pensavo.
«Michael Goldberg ha subito una violenza sessuale. Perché dovremmo
credere che alla bambina non sia stato fatto del male?» contestai.
Mi guardò. Ebbi la sensazione che non sapesse niente delle condizioni
del piccolo Goldberg. Mi sembrava che non fosse un complice di Soneji,
che Gary Soneji non avrebbe voluto nessun vero complice. Il pilota doveva
essere un semplice mercenario, il che significava che avevamo una possi-
bilità di riavere Maggie Rose.
«Michael Goldberg è stato picchiato dopo che era morto», gli dissi. «È
stato sodomizzato. Così adesso sai con chi ti sei messo. Di chi sei compli-
ce.»
Per una qualche ragione, ciò fece sorridere l'intermediario. «Va bene.
Basta con le domande fastidiose e i consigli interessati. Apprezzo il tuo
coinvolgimento emotivo. Goditi il viaggio. La bambina non è stata pic-
chiata né violentata. Ti do la mia parola di gentiluomo.»
«Perché, tu saresti un gentiluomo? Comunque, non puoi saperlo. Non la
vedi da questa mattina. Non sai che cosa può aver combinato Soneji, la-
sciato da solo. Soneji, o comunque si chiami.»
«Be', si deve pur aver fiducia dei propri soci. Ora restatene ben appog-
giato al sedile con la cintura allacciata. Fidati di me. Dato che siamo a cor-
to di personale non potremo servire bevande o spuntini in volo.»
Come mai era così maledettamente calmo? Era troppo sicuro di se stes-
so.
Che ci fossero stati altri sequestri di bambini prima di quello? Forse a-
vevano fatto una prova altrove? Era perlomeno un sospetto da verificare.
Se solo avessi potuto verificare qualcosa alla fine di quella storia.
Mi appoggiai all'indietro per un momento e lasciai vagare lo sguardo al
di sotto. Eravamo in pieno oceano. Guardai il mio orologio: poco più di
trenta minuti di volo da Orlando. Il mare era mosso, nonostante la giornata
serena e luminosa. Ogni tanto una nuvola proiettava la sua ombra sulla su-
perficie grigiastra dell'acqua. La sagoma tremolante dell'aereo appariva e
spariva. L'FBI doveva seguire le nostre tracce sul radar, ma il pilota lo sa-
peva. Non sembrava preoccuparsene. Era un gioco terribile tra gatto e to-
po. Come avrebbe reagito l'intermediario? Dov'erano Soneji e Maggie Ro-
se? Dove avremmo effettuato lo scambio?
«Dove hai imparato a volare?» chiesi. «In Vietnam?» Era un po' che me
lo stavo chiedendo. Doveva avere l'età giusta, tra i quarantacinque e i cin-
quant'anni, anche se spesi male. Avevo avuto in cura alcuni veterani del
Vietnam abbastanza cinici da farsi coinvolgere in un sequestro di bambini.
La mia domanda non lo disturbò, ma neppure si diede la pena di rispon-
dere.
Strano, non sembrava nervoso né preoccupato. Uno dei bambini rapiti
era già morto. Come mai era così tracotante e rilassato? Che cosa sapeva
che io non sapevo? Chi era Gary Soneji? Chi era lui? Che rapporto c'era tra
loro?
Circa mezz'ora dopo, il Cessna iniziò la discesa verso un'isoletta circon-
data da spiagge di sabbia bianca. Non avevo alcuna idea di dove ci trovas-
simo. Forse in qualche punto delle Bahamas. L'FBI ci stava seguendo an-
cora? Seguiva le nostre tracce dal cielo? Oppure in qualche modo era riu-
scito a seminarli?
«Come si chiama quell'isola laggiù? Tanto, a questo punto non posso
farci più niente.»
«Si chiama Piccola Abaco», rispose infine. «Qualcuno sta seguendo le
nostre tracce? Quelli dell'FBI, voglio dire. Hai addosso qualche micro-
spia?»
«No. Niente microspie. Non ho nascosto niente nella manica.»
«Forse hanno messo qualcosa tra i soldi.» Sembrava al corrente di tutte
le possibilità esistenti. «Polvere fluorescente?»
«Niente che io sappia», dissi. Quello era vero. Però non potevo esserne
sicuro. Può darsi che l'FBI non mi avesse detto tutto.
«Spero proprio di no. È difficile aver fiducia in voi dopo ciò che è suc-
cesso a Disney World. Quel posto brulicava di poliziotti e di agenti del-
l'FBI. Dopo che vi era stato detto di non farlo. Di questi tempi non ci si
può più fidare di nessuno.»
Cercava di fare dello spirito. Non gli importava che io reagissi o no.
Sembrava una persona completamente rovinata, alla quale fosse stata of-
ferta un'ultima possibilità di fare dei soldi. Nel modo più sporco.
Sulla spiaggia c'era una stretta pista di atterraggio. La sabbia ben battuta
si stendeva per parecchie centinaia di metri. L'aereo atterrò con facilità. Il
pilota eseguì una rapida inversione a U, poi rullò direttamente verso una
macchia di palme. Tutto sembrava far parte di un piano. Ogni dettaglio e-
sattamente al suo posto. Finora era tutto perfetto.
Niente pittoresche capanne esotiche. Non si vedeva neppure una piccola
struttura adatta ad accogliere i passeggeri. Le colline dietro la spiaggia e-
rano ricoperte di una lussureggiante vegetazione tropicale.
Nessuna traccia di anima viva, da nessuna parte. Né Maggie Rose, né
Soneji.
«È qui la bambina?» gli chiesi.
«Ottima domanda», rispose. «Aspettiamo e vedremo. Farò io il primo
turno di guardia.»
Spense il motore e attese in silenzio, nel caldo soffocante. Comunque,
niente risposte alle mie domande. Volevo strappare il bracciolo e picchiar-
lo con quello. Digrignavo i denti così forte che mi era venuto mal di testa.
Tenne lo sguardo puntato sul cielo limpido al di sopra della pista di at-
terraggio. Rimase a guardare attraverso il parabrezza per parecchi minuti.
In quel caldo avevo problemi di respirazione.
È qui la bambina? È viva, Maggie Rose? Maledetto!
Gli insetti sbattevano con ritmo incessante contro il finestrino colorato.
Un pellicano passò in volo vicino a noi un paio di volte. Era un posto soli-
tario. Non accadde nient'altro.
Il caldo aumentò in modo insopportabile. Era il caldo che si sente in au-
tomobile quando si resta fermi al sole. Il pilota sembrava insensibile. Evi-
dentemente era abituato a quel clima.
I minuti divennero un'ora, poi due. Ero inzuppato di sudore e morivo di
sete. Cercai di non pensare al caldo, ma non mi fu possibile. Continuavo a
pensare che l'FBI doveva sorvegliarci dal cielo. Un'attesa senza fine. Che
cosa l'avrebbe interrotta?
«Maggie Rose si trova qui?» gli chiesi ancora, ogni tanto. Più la cosa si
protraeva, e più temevo per lei.
Nessuna risposta. Nessun segno che mi avesse udito. Non guardava mai
l'orologio. Non si spostava sul sedile, non si agitava. Che si trovasse in una
sorta di trance? Che diavolo aveva quel tipo?
Fissai per parecchio tempo il bracciolo cui mi aveva ammanettato. Lo
consideravo la cosa più vicina a un errore che avessero fatto sino a quel
momento. Era vecchio, e si smosse quando lo misi alla prova. Avrei potuto
strapparlo via. Se si arrivava a quel punto, sapevo che mi trovavo nei guai.
Ma dovevo provare. Era l'unica soluzione.
Poi, all'improvviso, il Cessna rullò all'indietro verso la pista della spiag-
gia. Decollammo di nuovo.
Volavamo a bassa quota, a meno di trecento metri. Nell'aereo entrò aria
fresca. Il rombo dell'elica iniziava a produrre su di me un effetto ipnotico.
Stava scendendo il buio. Osservavo il sole fare il suo solito numero di
sparizione notturna, scivolando completamente fuori dell'orizzonte di fron-
te a noi. Capii che era rimasto in attesa di quel momento. L'arrivo del buio.
Voleva lavorare di notte. A Soneji piaceva la notte.
Circa mezz'ora dopo il tramonto, l'aereo cominciò a scendere di nuovo.
Sotto di noi brillavano puntini e macchie di luce che dall'alto davano l'im-
pressione di una piccola città. Tutto lì. Era arrivata l'ora della verità. Stava
per aver luogo lo scambio di Maggie Rose.
«Non chiedere niente, tanto non risponderò», disse senza distogliere gli
occhi dai comandi.
«Guarda che l'avevo capito da solo», dissi. Cercando di dare l'impres-
sione di voler cambiare posizione nel sedile, diedi uno strattone al braccio-
lo, che cedette un po'. Avevo paura di fare maggiori danni.
La pista di atterraggio e l'aeroporto erano piccoli, ma almeno c'erano.
Riuscii a scorgere due altri piccoli aerei vicino a una baracca di legno non
verniciata. Il pilota non tentò di stabilire alcun contatto radio con la terra. Il
mio cuore batteva all'impazzata.
Un vecchio cartello con la scritta CAMPO DI AVIAZ era collocato in
equilibrio precario sul tetto dell'edificio. Nessuna traccia di anima viva
quando ci arrestammo con un sobbalzo. Né Gary Soneji, né Maggie Rose.
O comunque non ancora.
Qualcuno ha spento le luci, pensai. Ma allora dove diavolo sono?
«È qui che faremo lo scambio di Maggie Rose?» Aggredii di nuovo il
bracciolo. Un altro strattone con quasi tutta la mia forza.
L'altro si alzò dal sedile. Passò a fatica nello stretto spazio dietro il mio
sedile e iniziò a scendere dall'aereo. Aveva in mano la valigia coi dieci mi-
lioni di dollari.
«Addio, detective Cross», mi disse girandosi. «Spiacente, ma devo
scappare. Non disturbatevi a setacciare la zona. La bambina non è qui. E
neppure qui vicino. A proposito, siamo di nuovo negli Stati Uniti, nel
South Carolina.»
«Dov'è la bambina?» gli gridai dietro, facendo forza sulle manette attac-
cate al bracciolo. Dov'era l'FBI? A che distanza da noi si trovava?
Dovevo fare qualcosa, dovevo agire subito. Mi alzai per fare leva, poi ti-
rai con tutto il mio peso e la mia forza quel piccolo bracciolo. Lo strattonai
a più riprese. Il pezzo di plastica e di metallo si strappò per metà dal sedile.
Insistei. L'altra metà del bracciolo si ruppe staccandosi con un rumore si-
mile alla dolorosa e complicata estrazione di un dente.
Due passi di corsa e fui al portello aperto dell'aereo. L'intermediario era
già sceso a terra, e se la stava filando con la valigia. Mi buttai su di lui.
Dovevo trattenerlo finché non fossero arrivati quelli dell'FBI. Volevo an-
che stenderlo, quel bastardo, fargli vedere chi conduceva adesso la danza.
Piombai addosso all'uomo come un falco su un topo di campagna. Ca-
demmo pesantemente a terra. Il bracciolo pendeva ancora dalle mie manet-
te. Il metallo lo colpì al volto e lo fece sanguinare. Lo cinturai una volta
col braccio libero.
«Dov'è Maggie Rose? Dov'è?» urlai con tutta la forza dei miei polmoni.
Alla mia sinistra, sopra la lucente superficie nera del mare, potevo vede-
re delle luci avanzare fluttuando verso di noi, in rapido avvicinamento.
Dovevano essere gli uomini dell'FBI. I loro aerei di sorveglianza stavano
venendo in aiuto. Erano riusciti a seguirci.
Proprio allora venni colpito dietro il collo. Sembrava un tubo di piombo.
Non persi immediatamente i sensi. Soneji? urlò una voce dentro di me. Un
secondo colpo si abbatte sulla mia nuca. Stavolta andai al tappeto. Non vi-
di chi stava vibrando i colpi, o che cosa usava.
Quando rinvenni, il piccolo aeroporto del South Carolina brulicava di
luci abbaglianti e di movimento. L'FBI era arrivata in forze, accompagnata
dalla polizia locale. Ovunque, ambulanze e macchine dei pompieri.
L'intermediario però era sparito insieme col riscatto di dieci milioni. Una
fuga pulita. Una pianificazione perfetta da parte di Soneji. Un'altra mossa
impeccabile.
«La bambina? Maggie Rose?» chiesi a un dottore calvo del pronto soc-
corso che stava curando le mie ferite alla testa.
«Mi dispiace, signore», disse con voce lenta e strascicata. «La bambina è
sempre irreperibile. Maggie Rose non si è mai vista da queste parti.»

25

Crisfield, nel Maryland, si stendeva sotto un cielo plumbeo e cupo. La


pioggia era caduta a sprazzi per quasi tutto il giorno. Un'auto solitaria per-
correva veloce a sirena spiegata le strade di campagna sdrucciolevoli per la
pioggia.
Dentro l'auto c'erano Artie Marshall e Chester Dils. Dils aveva ventisei
anni, e quindi era di vent'anni più giovane di Marshall. Come molti poli-
ziotti giovani delle zone rurali, sognava di andarsene da lì: le stesse spe-
ranze e sogni che accarezzava quando frequentava la Wilde Lake High
School a Washington.
Ma ora eccolo lì a Crisfield. Twin Peaks II, come chiamava quella citta-
dina con meno di tremila abitanti.
Il desiderio di passare nella polizia dello Stato del Maryland gli provo-
cava quasi una sofferenza fisica. Era un passaggio difficoltoso a causa de-
gli esami severi, soprattutto quello di matematica. Ma diventando un poli-
ziotto dello Stato avrebbe potuto scappare dalla contea di Somerset. Maga-
ri poteva arrivare a Salisbury o Chestertown.
Né Dils né soprattutto il mite Artie Marshall erano pronti per l'improvvi-
sa notorietà di cui stavano per godere. Così stavano le cose in quel pome-
riggio del 30 dicembre. Era arrivata una telefonata alla loro stazione sulla
Old Hurley Road. Un paio di cacciatori aveva individuato qualcosa dall'a-
ria sospetta nella zona occidentale di Crisfield, sulla strada che conduceva
al campeggio di Tangier Island. I cacciatori avevano scoperto un veicolo
abbandonato. Un furgoncino blu.
Nei giorni immediatamente precedenti, qualsiasi cosa avesse un che di
sospetto veniva immediatamente messa in relazione col clamoroso rapi-
mento di Washington. Quell'ordine di servizio venne ben presto considera-
to superato. Comunque a Dils e a Marshall venne ordinato di controllare la
segnalazione. Un furgoncino blu era stato utilizzato per portare via i bam-
bini da scuola.
Era quasi sera quando arrivarono alla fattoria sulla Route 413. La strada
in terra battuta aveva un'aria spettrale.
«C'è una vecchia fattoria là dietro?» chiese Dils al suo collega. Dils era
al volante. Andava a venticinque chilometri all'ora.
«Sì. Ora non ci abita nessuno. Non credo che possa venirne fuori qual-
cosa di buono, Chesty.»
«È questo il bello del nostro lavoro. Non si può mai dire. C'è sempre
qualcosa di buono da qualche parte là fuori.» Aveva preso l'abitudine di
rendere tutto un po' più affascinante di quanto fosse in realtà. Aveva le sue
idee e i suoi grandi sogni, ma Artie Marshall li considerava solo un segno
d'immaturità.
Arrivarono al granaio cadente di cui avevano parlato i cacciatori nella te-
lefonata alla stazione di polizia. «Andiamo a dare un'occhiata», disse Mar-
shall, cercando di tener testa all'entusiasmo del giovane agente.
Chester Dils balzò fuori dell'auto di pattuglia. Artie Marshall lo seguì,
ma senza la stessa foga. Si avvicinarono a un granaio rosso dal colore mol-
to sbiadito, una costruzione bassa che sembrava essere sprofondata di al-
meno mezzo metro dai tempi del suo splendore. I cacciatori si erano fer-
mati al granaio per ripararsi dall'acquazzone del pomeriggio. Poi avevano
chiamato la polizia.
L'interno del granaio era piuttosto buio e lugubre. Le finestre erano state
coperte con della tela. Artie Marshall accese la sua torcia elettrica.
«Facciamo un po' di luce sull'argomento», sussurrò. Poi urlò: «Abbiamo
fatto tombola, perdio!»
Eccolo lì. Un gran buco nel mezzo del pavimento in terra battuta. E un
furgone blu scuro vicino al buco.
«Per la miseria, Artie!»
Chester Dils estrasse la pistola d'ordinanza. D'improvviso ebbe difficoltà
di respirazione. Aveva qualche problema a stare lì in piedi. A dire il vero
non aveva voglia di avvicinarsi a quella buca. Non voleva più rimanere
dentro il granaio. Dopotutto, forse non era pronto per entrare nella polizia
dello Stato.
«Chi è là?» chiese Artie Marshall con voce alta e chiara. «Vieni fuori,
subito. Siamo della polizia! Siamo della polizia di Crisfield.»
Cristo, Artie si stava comportando meglio di lui, pensò Dils. Si stava
mostrando all'altezza della situazione. L'idea gli fece muovere le gambe. Si
stava inoltrando nel granaio, per vedere se si trattava di ciò che lui arden-
temente sperava che non fosse.
«Punta quella torcia in basso dentro qua», disse al collega. Erano arrivati
proprio al bordo della buca nel terreno. Riusciva a malapena a respirare.
Gli sembrava che il petto fosse stretto da un laccio emostatico. Gli trema-
vano le ginocchia. «Tutto bene, Artie?»
Marshall abbassò la luce della torcia nella buca buia e profonda. Videro
ciò che i cacciatori avevano già visto.
C'era una piccola cassa nella fossa. Quasi una cassa da morto. La cassa
di legno - la cassa da morto - era completamente aperta, ed era vuota.
«Che diavolo è?» si chiese Dils quasi inconsciamente.
Artie Marshall si chinò di più. Puntò il fascio luminoso della torcia diret-
tamente nella buca. Istintivamente si guardò intorno. Si guardò alle spalle.
Poi la sua attenzione ritornò alla buca nera.
C'era qualcosa sul fondo. Qualcosa che sembrava color rosa vivace, o
rosso.
La mente di Marshall lavorava freneticamente. È una scarpa... Cristo,
dev'essere della bambina. Dev'essere qui che hanno tenuto Maggie Rose
Dunne.
«È qui che hanno tenuto quei due bambini», comunicò infine al collega.
«L'abbiamo trovato, Chesty.»
Ed era proprio così.
E avevano trovato anche una delle scarpe rosa da ginnastica di Maggie
Rose. Le vecchie Reebok, le sue scarpe preferite che avrebbero dovuto aiu-
tarla a confondersi con gli altri ragazzi alla Washington Day School. La
cosa veramente strana era che la scarpa sembrava abbandonata lì apposta
per essere ritrovata.

PARTE SECONDA
IL FIGLIO DI LINDBERGH

26

Quando Gary era molto agitato, si rifugiava nelle amate fantasie della
sua adolescenza. Ora era molto agitato. Il piano geniale che aveva concepi-
to sembrava sfuggito al suo controllo. Non voleva neppure pensarci.
Quasi sussurrando, ripeteva a memoria le parole magiche: «La fattoria
di Charles Lindbergh era illuminata da vivaci luci arancione. Sembrava
un castello in fiamme... Ma adesso il rapimento di Maggie Rose era il De-
litto del Secolo. Proprio così!»
Secondo una delle sue fantasticherie, era lui che aveva eseguito da ra-
gazzo il rapimento Lindbergh.
Era quello l'inizio di tutto: una storia che aveva inventato all'età di dodici
anni. Una storia che si ripeteva continuamente per non impazzire. Il sogno
a occhi aperti di un delitto commesso venticinque anni prima di nascere.
Ormai era buio pesto nel seminterrato di casa sua. Lui si era abituato al
buio. Ci si poteva vivere. Poteva perfino essere stupendo.
Erano le sei e un quarto di mercoledì 6 gennaio a Wilmington, nel De-
laware.
Ora Gary lasciava vagare la mente, la lasciava volare. Era in grado di
vedere ogni segreto particolare della fattoria di Lindy il Fortunato e di An-
ne Morrow Lindbergh a Hopewell.
Per tanto tempo era stato ossessionato da quel celebre rapimento. Fin da
quando la matrigna l'aveva mandato per la prima volta in cantina. «Dove i
bambini cattivi vanno a meditare su ciò che hanno fatto di sbagliato.»
Ne sapeva più di qualunque altra persona vivente su quel rapimento. Il
piccolo Lindbergh era stato ritrovato infine in una tomba poco profonda a
soli sei chilometri dalla casa del New Jersey. Ah, ma era davvero il piccolo
Lindbergh? Il cadavere che avevano trovato era troppo alto di statura: ot-
tantaquattro centimetri, invece dei settantaquattro di Charles Junior.
Nessuno aveva capito quel sensazionale sequestro irrisolto. A tutt'oggi.
E sarebbe andata così anche con Maggie Rose e Michael Goldberg.
Nessuno sarebbe mai riuscito ad arrivarne a capo. Era una promessa!
Nessuno era mai riuscito a risolvere neppure uno degli altri omicidi che
aveva commesso, no? Avevano catturato John Wayne Gacy Junior, dopo
più di trenta omicidi a Chitown. Jeffrey Dahmer fu beccato dopo diciasset-
te a Milwaukee. Gary ne aveva uccisi più di tutti e due messi insieme. Ma
nessuno sapeva chi fosse, o dove si trovasse, o che altro avesse in mente di
fare dopo.
Era buio in quella cantina, ma Gary c'era abituato. «La cantina è un'abi-
tudine acquisita», aveva detto una volta alla matrigna per farla arrabbiare.
La cantina era come la mente una volta che si è morti. Poteva essere una
cosa raffinata, se si possedeva una mente veramente grande, come la sua.
Gary stava pensando al piano operativo, e la sua idea era semplice: il
bello doveva ancora venire.
Era meglio che non chiudessero occhio.

Ai piani superiori della casa, Missy Murphy stava facendo del suo me-
glio per non arrabbiarsi troppo con Gary. Stava preparando i biscotti per la
loro figlia, Roni, e per gli altri ragazzi del vicinato. Missy cercava vera-
mente di essere comprensiva e costruttiva. Ancora una volta.
Aveva cercato di non pensare a Gary. Di solito quando cucinava al forno
ci riusciva. Ma stavolta no. Gary era incorreggibile. Era anche simpatico,
dolce e brillante come una lampadina da mille watt. Quella era la principa-
le ragione per cui lei si era sentita attratta da lui.
L'aveva conosciuto all'università del Delaware. Lui si era trasferito lì da
Princeton. Non aveva mai parlato con uno così in gamba in tutta la sua vi-
ta, neppure i suoi professori stavano alla pari con Gary.
La parte adorabile di lui era quella che l'aveva portata a sposarselo nel
1982. Contro il parere di tutti. La sua migliore amica, Michelle Lowe, cre-
deva nei tarocchi, nella reincarnazione, in tutta quella roba insomma. Lei
aveva fatto il loro oroscopo, quello di Gary e quello di Missy. «Mandalo
via, Missy», le aveva consigliato. «Non lo guardi mai negli occhi?» Ma
Missy era andata avanti, sposandolo contro il parere di tutti. Forse era per
quello che lei gli era rimasta attaccata nel bene, nel male e nel peggio.
Sopportò ben più di quanto chiunque si sarebbe aspettato da lei. A volte
era come se ci fossero due Gary da sopportare. Gary e i suoi incredibili
giochi mentali.
Doveva esserci sicuramente una brutta notizia in arrivo, pensava mentre
stava versando un sacchetto pieno di briciole. Uno di quei giorni lui le a-
vrebbe rivelato che l'avevano licenziato dal lavoro. La solita brutta storia
che ricominciava.
Gary le aveva già detto che era «più in gamba di chiunque altro» sul la-
voro (senza dubbio ciò era vero). Le aveva detto che lui stava superando
tutti quanti. Le aveva detto che piaceva ai suoi principali. (Questo proba-
bilmente era stato vero all'inizio.) Le aveva detto che tra breve intendevano
nominarlo direttore vendite. (Questa era senz'altro una delle storie di
Gary.) Poi, nacquero dei problemi. Gary le aveva raccontato che il suo ca-
po aveva cominciato a essere geloso di lui. L'orario di lavoro era im-
possibile. (Questo era abbastanza vero. Stava lontano da casa tutta la set-
timana e anche qualche weekend.) Il ciclo era avviato. La cosa penosa era
che se non ce la faceva in questo lavoro, con questo principale, come pote-
va farcela da qualunque altra parte?
Missy Murphy era sicura che uno di quei giorni Gary sarebbe venuto a
casa e le avrebbe detto che avevano chiesto le sue dimissioni. I suoi giorni
come commesso viaggiatore della Atlantic Heating Company erano conta-
ti. Dove avrebbe trovato lavoro, dopo? Chi poteva essere più comprensivo
del suo attuale principale, il fratello di lei, Marty?
Perché doveva essere tutto sempre così difficile? Come mai lei si faceva
sempre mettere nel sacco dai tipi come Gary Murphy?
Missy Murphy si chiese se quella sera sarebbe stata la sera del fattaccio.
Gary era stato di nuovo licenziato? Glielo avrebbe detto quella sera, torna-
to a casa dal lavoro? Come poteva una persona così intelligente essere un
fallito? si chiedeva. La prima lacrima le cadde nella pasta dei biscotti, poi
Missy si sfogò. Tutto il suo corpo prese a tremare e a sussultare.

27

Non avevo mai avuto difficoltà a ridere delle mie frustrazioni di poliziot-
to e di psicologo, ma stavolta era molto più dura. Soneji ci aveva sconfitto
giù nel Sud, in Florida e in Carolina. Non avevamo avuto indietro Maggie
Rose. Non sapevamo se era viva o morta.
Dopo essere stato interrogato per cinque ore dall'FBI, venni spedito in
aereo a Washington a rispondere alle stesse domande nel mio dipartimen-
to. Uno degli ultimi inquisitori fu il comandante Pittman. Il capo apparve a
mezzanotte. Era fresco di doccia e di rasatura, apposta per il nostro incon-
tro speciale.
«Hai un aspetto assolutamente spaventoso», esordì.
«Sono in piedi da ieri mattina. Lo so che aspetto ho. Dimmi qualcosa
che non so.»
Ancor prima che mi uscissero di bocca quelle parole capii che stavo
commettendo un errore. Di solito affronto le sconfitte con coraggio, ma
ormai ero intontito, stanco e completamente fuori di testa.
Il capo si chinò verso di me da una delle seggiole di metallo della sala
riunioni. Gli vedevo i denti d'oro mentre parlava. «Certo, Cross. Ti devo
sbattere fuori di questo caso di sequestro. Giusto o sbagliato che sia, la
stampa sta addossando gran parte della responsabilità di questo disastro a
te, e a noi. L'FBI non viene messo sotto accusa. Per giunta Thomas Dunne
sta facendo una gran cagnara. Il che mi sembra giusto. I soldi del riscatto
sono spariti, e non abbiamo recuperato sua figlia.»
«Sono tutte stronzate», obiettai al comandante Pittman. «Soneji ha chie-
sto di me come intermediario. Nessuno sa ancora perché. Forse non avrei
dovuto andarci, e invece ci sono andato. È stato l'FBI che non ha saputo
garantire la sorveglianza, non io.»
«Adesso dimmi qualcosa che io già non so», ricominciò Pittman. «In
ogni caso tu e Sampson ritornate a occuparvi degli omicidi Sanders e Tur-
ner. Proprio come volevate all'inizio. Non m'interessa se, non ufficialmen-
te, continuate a lavorare al sequestro. Questo è tutto.» Il capo, dopo aver
recitato la sua bella tirata, se ne andò. Passo e chiudo. Nessuna discussio-
ne.
Sampson e io eravamo stati rispediti al nostro posto: il settore sud-est di
Washington. Ora ognuno tornava a occuparsi del proprio orticello. L'omi-
cidio di sei neri diventava di nuovo importante.

28

Due giorni dopo il mio ritorno dal South Carolina, venni svegliato dal
baccano di una folla riunitasi all'esterno di casa nostra.
Ero apparentemente al sicuro fra le lenzuola, quando udii un ronzare di
voci. In testa mi rimbombava una frase: «Oh, no, è di nuovo domani».
Infine aprii gli occhi. Vidi altri occhi. Damon e Janelle mi stavano fis-
sando. Il fatto che stessi ancora dormendo a quell'ora pareva divertirli.
«Ragazzi, è la TV che fa tutto questo fracasso?»
«No, papà», rispose Damon. «La TV è spenta.»
«No, papà», ripeté Janelle. «È meglio della TV.»
Mi rizzai su un gomito. «Be', state facendo una festa coi vostri amici?»
Entrambi scossero il capo con serietà. Poi Damon sorrise, mentre la
bambina rimase seria e un po' timorosa.
«No, papà, non stiamo facendo una festa», assicurò Damon.
«Hmm. Non ditemi che sono ritornati i giornalisti e quelli della TV. So-
no appena stati qui... solo ieri sera.»
Damon se ne stava in piedi con le mani sopra la testa. Lo fa quando è
nervoso o eccitato.
«Sì, papà, sono di nuovo i giornalisti.»
«Smammate», borbottai tra me.
«Smamma tu», replicò Damon con sguardo torvo. In parte capiva quel
che stava accadendo.
Un pubblico linciaggio. Il mio.
Di nuovo quei maledetti giornalisti. Mi rigirai a fissare il soffitto. Aveva
bisogno di una mano di bianco. Quando si è proprietari di una casa, il lavo-
ro non finisce mai.
La notizia che ero stato io a combinare un gran casino al momento della
consegna del riscatto era arrivata ai giornali. Qualcuno, forse l'FBI, forse
George Pittman, aveva provveduto a sputtanarmi. Qualcuno della polizia
aveva lasciato trapelare l'informazione falsa secondo cui il nostro operato a
Miami derivava dalle mie valutazioni psicologiche su Soneji.
Un settimanale a diffusione nazionale intitolava: POLIZIOTTO DI
WASHINGTON HA PERSO MAGGIE ROSE! Thomas Dunne aveva det-
to in un'intervista in TV che mi riteneva personalmente responsabile della
mancata liberazione della figlia in Florida.
Da quel momento divenni l'oggetto di parecchi articoli e editoriali. Nes-
suno di essi era particolarmente positivo e neppure si avvicinava alla realtà
dei fatti.
Se fosse stato vero che in qualche modo avevo mandato a monte l'opera-
zione, avrei accettato le critiche. Riesco ad accettare una lavata di capo se
me la merito. Ma io non avevo affatto combinato pasticci. Avevo rischiato
la vita in Florida.
Avevo bisogno più che mai di sapere perché Gary Soneji aveva voluto
me per lo scambio in Florida. Perché mi aveva coinvolto nei suoi piani?
Finché non l'avessi scoperto non sarei riuscito a staccarmi dal sequestro.
Non importava ciò che il capo diceva, pensava o faceva di me.
«Damon, vai subito sulla veranda», dissi a mio figlio. «Di' ai cronisti di
andare a spasso. Di' loro di filarsela. D'accordo?»
«Sì. Di andare a spasso!» disse Damon.
Feci un largo sorriso a Damon, il quale capiva che stavo facendo del mio
meglio in quella situazione. Mi ricambiò il sorriso. Infine Janelle fece una
smorfia e prese Damon per mano. Mi stavo alzando. Avvertivano che sta-
vo per mettermi in azione. Potevano contarci.
Sbirciai all'esterno verso la veranda. Avrei parlato coi giornalisti.
Non mi curai di mettermi le scarpe, né la camicia. Mi vennero in mente
le immortali parole di Tarzan: Aaeeyaayaayaa!
«Come state in questa bella mattina d'inverno?» chiesi con indosso un
paio di pantaloni color kaki. «Qualcuno vuole un caffè o delle paste?»
«Detective Cross, Katherine Rose e Thomas Dunne danno a lei la colpa
per gli errori commessi in Florida. Il signor Dunne ha fatto un'altra dichia-
razione ieri sera.» In un certo senso mi stava fornendo le notizie del matti-
no, oltretutto gratis. Sì, ero ancora il capro espiatorio della settimana.
«Posso capire la delusione della famiglia Dunne per i risultati dell'opera-
zione in Florida», commentai con tono sereno. «Buttate pure i bicchierini
del caffè sul prato, come avete già fatto. Li raccoglierò dopo.»
«Allora lei riconosce di aver fatto un errore», disse qualcuno. «Passare i
soldi del riscatto senza prima vedere Maggie Rose?»
«Non riconosco un bel niente. Non ho avuto scelta né in Florida né nel
South Carolina. L'unica scelta che ho avuto era di non seguire l'intermedia-
rio. Vede, se uno è ammanettato, e l'altro ha una pistola, ci si trova in gros-
so svantaggio. Se poi i soccorsi arrivano in ritardo, quello è un altro pro-
blema ancora.»
Sembrava che non avessero ascoltato una sola parola di quello che avevo
detto. «Le nostre fonti dicono che è stato lei a prendere la decisione di pa-
gare il riscatto», disse qualcuno.
Cercai di ribattere a quelle sciocchezze.
«Perché avete piantato le tende sul mio prato? Perché venite qui a spa-
ventare la mia famiglia? A mettere sottosopra il quartiere? Non m'interessa
quello che stampate su di me, ma vi dico questo: non avete la minima idea
di quanto sta succedendo. Potreste mettere in pericolo la piccola Dunne.»
«È viva, Maggie Rose Dunne?» gridò qualcuno.
Mi voltai e ritornai in casa. Così imparavano. Ora sapevano che cosa si-
gnificava rispettare la privacy della gente.

«Ehi, uomo del burro. Che succede?»


Un'altra folla mi riconobbe un po' più tardi quella mattina. Erano uomini
e donne in fila per tre sulla 12 Street davanti alla chiesa di St. Anthony.
Avevano fame e freddo, e nessuno di loro aveva le Nikon o le Leica al col-
lo.
«Ehi, uomo del burro, ti ho visto in TV. Sei diventato un divo del cine-
ma?» mi gridò qualcuno.
«Come no? Non si vede?»
Nel corso degli ultimi anni Sampson e io abbiamo lavorato presso la
mensa della parrocchia di St. Anthony, due o tre volte alla settimana. Ho
cominciato grazie a Maria, che aveva svolto un po' del suo lavoro di assi-
stente sociale tramite la parrocchia. Ho continuato dopo la sua morte per il
più egoistico dei motivi: quel lavoro mi faceva sentire bene. Sampson ac-
coglie davanti alla porta principale le persone che vengono a mangiare.
Prende i biglietti numerati che ricevono quando si mettono in fila. Lui rap-
presenta un deterrente per quelli che danno in escandescenze.
Io sono il deterrente fisico all'interno del refettorio. Mi chiamano
l'«uomo del burro». Jimmy Moore, che manda avanti la cucina, crede nel
potere nutritivo del burro di arachidi. Insieme con un pasto completo - che
di solito consiste di pane, due tipi di verdure, stufato di carne o pesce, e
dessert -, chiunque lo desideri può avere un vasetto di burro di arachidi.
Ogni giorno.
«Ehi, uomo del burro. Oggi ce l'hai un po' di buon burro di arachidi per
noi? La solita marca o qualche altra schifezza?»
Sorrisi alle solite facce da cane bastonato che vedevo nella folla. Al mio
naso arrivava il consueto puzzo di sudore, alito cattivo e alcol stantio.
«Non conosco il menù di oggi.»
Gli habitué conoscono me e Sampson. La maggior parte di loro sa pure
che siamo della polizia. Alcuni sanno che sono uno strizzacervelli, dato
che ricevo i pazienti fuori della cucina in una roulotte con la scritta: AIU-
TATI CHE IL CIEL T'AIUTA, VIENI AVANTI!
Il posto di Jimmy Moore è bello ed efficiente. Lui sostiene che si tratta
della più grande mensa per poveri della zona orientale, e in media servia-
mo millecento pasti al giorno. La mensa inizia il servizio alle dieci e un
quarto, e il pranzo finisce alle dodici e trenta. Questo vuol dire che, se si
arriva un solo minuto dopo le dodici e trenta, quel giorno si resta a pancia
vuota. La disciplina ha un ruolo importante nel programma assistenziale
della parrocchia.
Non viene ammesso nessuno in preda all'alcol o alla droga. Durante il
pasto ci si deve comportare bene. Si hanno a disposizione dieci minuti per
mangiare: c'è altra gente affamata, fuori al freddo, a fare la fila. Tutti ven-
gono trattati con rispetto e dignità. Non si fanno domande agli ospiti. Se si
aspetta in fila, si mangia. Si viene chiamati «signore» o «signora» e il per-
sonale, in maggioranza volontario, è allenato ad avere un'aria ottimista. In
effetti, sui nuovi volontari, che scodellano o ritirano i piatti, vengono effet-
tuati i «controlli del sorriso».
Verso mezzogiorno successe qualcosa fuori. Sentivo Sampson che urla-
va. C'era qualche casino.
La gente in fila per il pasto urlava e imprecava ad alta voce. Poi sentii
Sampson chiedere aiuto. «Alex! Vieni fuori!»
Corsi all'esterno e capii immediatamente che cosa succedeva. Strinsi i
pugni: erano grossi e solidi come incudini. I giornalisti. Mi avevano scova-
to di nuovo.
Un paio di cameramen dei telegiornali, scattanti come scoiattoli, filma-
vano la gente che faceva la fila per la mensa. Non era un'azione molto po-
polare, evidentemente. Quella gente cercava di conservare gli ultimi bran-
delli di dignità: non desiderava essere vista in TV fare la fila a una mensa
per poveri.
Jimmy Moore è un irlandese duro e brusco che era stato con noi nella
polizia del Distretto di Columbia. Era già fuori, ed era proprio lui che fa-
ceva più baccano di tutti.
«Figli di puttana, bastardi, stronzi!» mi ritrovai a urlare. «Voi non siete
stati invitati qui! Non siete i benvenuti, bastardi! Lasciate in pace questa
gente. Lasciateci distribuire i pasti in pace.»
I fotografi smisero di scattare. Mi fissarono, come Samspon, Jimmy
Moore e quasi tutti quelli in fila per il pasto. I giornalisti non se ne andaro-
no, però indietreggiarono. La maggior parte di loro attraversò la 12th
Street, e così capii che mi avrebbero atteso all'uscita.
Noi lavoravamo per quella povera gente, pensavo mentre osservavo i
cronisti e i fotografi che m'aspettavano in un parcheggio sull'altro lato del-
la strada. In quei giorni, per chi diavolo lavorava la stampa se non per le
ricche famiglie da cui dipendeva?
Intorno a noi si levarono frasi sconnesse e adirate. «La gente ha fame e
freddo. Mangiamo. La gente ha il diritto di mangiare», gridò qualcuno dal-
la fila.
Tornai dentro al mio posto di lavoro. Cominciammo a servire il pranzo.
Ero di nuovo l'uomo del burro.

29

Nella città di Wilmington, nel Delaware, Gary Murphy stava spalando


uno strato di dieci centimetri di neve. Era mercoledì pomeriggio, 6 gen-
naio. Stava pensando al sequestro. Stava cercando di mantenere il control-
lo della situazione. Stava pensando a quella ricca piccola strega di Maggie
Rose Dunne, quando una lucente Cadillac blu si accostò al marciapiede
davanti alla sua casa in stile coloniale di Central Avenue. Gary imprecò
sottovoce emettendo pennacchi di vapore.
La figlia di Gary, Roni, di sei anni, faceva palle di neve, disponendole
poi in ordine sulla crosta gelata che ricopriva la neve. Emise uno strillo
quando vide lo zio Marty uscire dall'auto.
«Chi è questa bellissima bambina?» gridò a Roni dall'altra estremità del
prato. «Un'attrice del cinema? Sì! È Roniii? Sì, è lei!»
«Zio Marty! Zio Marty!» strillava Roni correndo verso l'auto.
Ogni volta che Gary vedeva Marty Kasajian pensava a un film schifoso,
con John Candy nel ruolo di uno spiacevole, sgradito e inverosimile zio
che capitava continuamente a torturare una modesta famiglia del Midwest.
Lo zio Marty era ricco e aveva successo, e parlava a voce più alta di John
Candy, ed era lì. Gary disprezzava il fratello di Missy per tutte quelle ra-
gioni, ma più di tutto perché era il suo principale.
Missy doveva aver udito l'agitazione prodotta dall'arrivo di Marty: e
come avrebbe potuto non udirla chiunque abitasse nella Central Avenue o
nella vicina North Street? Uscì dalla porta sul retro con lo strofinaccio dei
piatti ancora in mano. «Guarda chi c'è!» strillò. A Gary sembrava che lei e
Roni avessero la stessa voce da porcellino.
Una fottuta sorpresa, avrebbe voluto urlare Gary. Lo tenne per sé, come
per sé teneva tutti i suoi veri sentimenti quando era a casa. S'immaginava
di picchiare a morte Marty con la sua pala da neve, di assassinarlo per
davvero davanti a Missy e Roni. Di far vedere loro chi era veramente il
padrone di casa.
«La Divina Miss Missy!» continuò a declamare Marty, come una mitra-
glia. Infine salutò Gary. «Come va, vecchio Gar. Che cosa mi dici degli
Eagles? Li hai presi i biglietti per il Super Bowl?»
«Certo, Marty. Due posti all'altezza della linea di metà campo.»
Gary Murphy scagliò la sua pala d'alluminio sul mucchietto di neve. Ar-
rancò verso Missy e Roni che stavano vicino allo zio Marty.
Poi entrarono tutti quanti in casa. Missy mise in tavola uno zabaione e
pezzi di torta di mele e uva, con fette di formaggio sui lati. Il pezzo di
Marty era più grosso di tutti gli altri. Era lui il Padrone di Casa, no?
Marty porse una busta a Missy. Era la «gratifica» da parte del fratellone,
che lui voleva far vedere a Gary. Era come spargere sale sulle ferite.
«Mamma, zio Marty e papà devono parlare un paio di minuti, tesoro»,
disse Marty a Roni non appena ebbe finito la sua torta. «Credo di aver di-
menticato in auto qualcosa per te. Non so. Forse sul sedile posteriore. È
meglio che tu vada a vedere.»
«Prima mettiti il cappotto, tesoro», disse Missy alla figlia. «Non prende-
re freddo.»
Roni emise uno strillo, quasi una risata, mentre abbracciava lo zio. Poi si
allontanò di corsa.
«Che cosa le hai preso?» sussurrò Missy al fratello come una cospiratri-
ce. «Sei sempre esagerato.»
Marty scrollò le spalle come se non riuscisse a ricordare. Con tutti gli al-
tri Missy era normale. A Gary ricordava la sua vera madre. Aveva perfino
il suo aspetto. Era solo col fratello che lei cambiava in peggio. Cominciava
addirittura a imitare le sgradevoli abitudini e la cadenza di Marty.
«Ascoltate, ragazzi», disse lo zio chinandosi verso di loro. «C'è un pic-
colo problema. È rimediabile, purché lo affrontiamo in tempo, ma dob-
biamo fare qualcosa. Insomma, cerchiamo di comportarci da persone adul-
te.»
Missy si mise subito in guardia. «Di che si tratta, Marty? Qual è il pro-
blema?»
Marty ora appariva davvero preoccupato e a disagio. Gary aveva già vi-
sto un migliaio di volte quello sguardo da cane bastonato. Soprattutto
quando doveva affrontare un cliente che non aveva ancora pagato o doveva
licenziare qualcuno in ufficio.
«Gar!» Guardò Gary per chiedergli di aiutarlo in quel compito ingrato.
«Vuoi dire qualcosa tu?»
Gary scosse le spalle. Come se non capisse a che cosa si riferisse. Vaf-
fanculo, stronzo, stava pensando. Stavolta sei da solo.
Sentiva che sul suo viso si apriva un sorriso che veniva direttamente dal-
lo stomaco. Non voleva mostrarlo, ma infine gli si schiuse sulle labbra. Era
un momento quasi piacevole. L'essere colto in fallo aveva i suoi lati piace-
voli. Poteva essere una lezione da cui si poteva imparare qualcosa.
«Mi spiace, ma non credo che ci sia niente di divertente.» Marty scosse
il capo. «Non lo credo davvero.»
«Be', neanch'io», convenne Gary con una strana voce. Era acuta e da ra-
gazzo. Non sembrava affatto la sua voce.
Missy gli lanciò un'occhiata strana. «Che cosa succede? Volete farmi
capire qualcosa?»
Gary guardò sua moglie. Era molto arrabbiato anche con lei. Lei faceva
parte della trappola e lo sapeva.
«Le statistiche delle mie vendite all'Atlantic fanno veramente schifo
questo trimestre», disse infine Gary facendo spallucce. «È questo, Marty?»
Marty si accigliò e guardò le sue nuove Timberland. «Oh, è molto peg-
gio, Gar. Le tue statistiche di vendita sono quasi inesistenti. E, quel che è
peggio, quello che è molto peggio, è che hai in mano anticipi per trenta-
tremila dollari. Sei in rosso, Gary. Sei sottozero. Non voglio dire altro, al-
trimenti lo so che poi me ne pentirei. Sinceramente non so come affrontare
questa situazione. È molto difficile per me... imbarazzante. Mi spiace,
Missy. Sono cose che odio fare.»
Missy si coprì il volto con le mani e iniziò a piangere. Dapprima in si-
lenzio, come se non volesse. Poi i singhiozzi si fecero più forti.
Gli occhi del fratello luccicarono per le lacrime.
«Proprio quello che non volevo. Mi spiace, sorellina.» Fu Marty che al-
lungò una mano verso di lei per confortarla.
«Sto bene», disse Missy scostandosi dal fratello. Fissò il marito seduto
dall'altra parte del tavolo. I suoi occhi sembravano più piccoli e più scuri.
«Dove sei stato in giro tutti questi mesi, Gary? Che cos'hai fatto? Oh Gary,
Gary, a volte ho perfino l'impressione di non conoscerti. Di' qualcosa per
migliorare la situazione. Ti prego, di' qualcosa, Gary.»
Gary rifletté molto attentamente prima di dire una parola. Poi disse: «Ti
amo tanto, Missy. Amo te e Roni più di quanto non ami la mia stessa vita».
Gary mentiva, e sapeva che si trattava di una bugia molto buona. Detta e
recitata benissimo.
Ciò che desiderava era ridere in faccia a loro. Quello che più desiderava
era ucciderli tutti. Non c'era altro da fare. Bum. Bum. Bum. Era arrivata l'o-
ra di un bell'omicidio multiplo a Wilmington. L'ora di rimettere in moto il
suo piano.
Proprio in quel momento, Roni ritornò in casa di corsa. Stringendo in
mano una nuova videocassetta sorrideva con una faccia da luna piena.
«Guarda che cosa mi ha portato lo zio Marty.»
Gary si teneva la testa fra le mani. Non riusciva a fermare l'urlo che gli
rimbombava nel cervello.
Voglio essere qualcuno!

30

Nella zona sud-est del Distretto di Columbia la vita e la morte continua-


vano. Sampson e io eravamo tornati a occuparci degli omicidi Sanders e
Turner. Non rimasi sorpreso che nel frattempo fossero stati fatti ben pochi
progressi per risolverli. Non ero neppure sorpreso che di ciò non importas-
se niente a nessuno.
Domenica 10 gennaio capii che era ora di prendersi una giornata di ripo-
so, il mio primo giorno libero da quando era avvenuto il rapimento.
Iniziai la mattina commiserandomi un po', e restandomene a letto fin
verso le dieci a cercare di farmi passare il mal di testa, conseguenza dei
bagordi con Sampson la sera prima. Quasi tutti i pensieri che mi passavano
per la mente erano inconcludenti.
Tanto per cominciare sentivo terribilmente la mancanza di Maria. Mi
veniva in mente com'era bello starsene a letto insieme fino a tardi la do-
menica mattina. Poi m'infuriavo per il modo in cui mi avevano fatto diven-
tare il capro espiatorio. E, cosa più importante, ero abbattuto perché nessu-
no di noi aveva potuto aiutare Maggie Rose Dunne. Un'immagine della
piccola si era subito sovrapposta a quella dei miei due figli. Ogni volta che
pensavo a lei, che probabilmente ormai era morta, provavo una stretta allo
stomaco. Il che non è una cosa simpatica, soprattutto di mattina dopo una
notte di bagordi.
Stavo considerando l'idea di restarmene a letto fino alle sei di sera. Me
lo meritavo. Non avevo voglia di vedere Nana e sorbirmi le sue rampogne
su quello che avevo fatto la notte prima. Non avevo voglia neppure di ve-
dere i miei figli.
Continuavo a ripensare a Maria. Una volta, in un'altra vita, io e lei, e di
solito i bambini, passavamo tutte le nostre domeniche insieme. A volte ce
ne restavamo a letto fino a mezzogiorno, poi ci vestivamo e magari anda-
vamo al ristorante.
Non c'erano molte cose che io e Maria non facessimo insieme. Ogni sera
tornavo a casa prima che potevo. Maria si comportava allo stesso modo.
Era la cosa che desideravamo di più. Grazie a lei si erano rimarginate le fe-
rite aperte dal fallimento del mio studio privato di psicologo. Mi aveva fat-
to recuperare un certo equilibrio dopo un paio di anni di vita disordinata
insieme con Sampson e altri amici scapoli, compresi alcuni giocatori di
pallacanestro dei Washington Bullets.
Maria mi fece riacquistare la salute mentale, e gliene fui sempre grato.
Magari sarebbe continuato così per sempre. O magari ci saremmo separati.
Chi può dirlo? Non ci è stata concessa la possibilità di scoprirlo.
Una sera non tornò dal suo lavoro di assistente sociale. Infine arrivò la
telefonata e mi precipitai al Misericordia Hospital. Avevano sparato a Ma-
ria: era in condizioni molto critiche. Fu tutto quello che mi dissero al tele-
fono.
Arrivai all'ospedale poco dopo le otto. Un amico, un agente di pattuglia
che conoscevo, mi fece sedere e mi disse che Maria era morta durante il
trasporto in ospedale. Era successo durante una sparatoria da un'auto in
corsa nei quartieri popolari. Non potemmo neppure dirci addio. Accadde
tutto senza preavviso e senza spiegazioni.
Il dolore che provavo era una specie di palo d'acciaio che dal centro del
petto mi saliva sino alla fronte. Pensavo continuamente a Maria, giorno e
notte. Dopo tre anni, finalmente, cominciavo a dimenticare. Stavo impa-
rando.
Ero disteso a letto, tranquillo e rassegnato, quando Damon entrò in ca-
mera come se gli bruciassero i vestiti.
«Papà. Ehi, papà, sei sveglio?»
«Qualcosa non va?» chiesi. «Hai la faccia di uno che ha appena visto
Michael Jackson in giardino.»
«C'è una persona che vuole vederti, papà», mi annunciò Damon eccitato
e senza fiato. «C'è qui una persona!»
«Chi è? Kermit del Muppet Show?» chiesi. «Chi c'è qui? Cerca di essere
un po' più preciso. Non sarà un altro giornalista? Se è un giornalista...»
«Lei dice che il suo nome è Jezme. È una si-gno-ra, papà.»
Credo di essermi messo a sedere sul letto, ma la testa cominciò a girar-
mi, e così mi distesi di nuovo. «Dille che scendo subito. Non stare a dirle
che sono a letto. Dille che scendo subito.» Damon uscì dalla camera, e mi
chiesi come avrei potuto mantenere quella promessa.
Quando scesi le scale, Janelle, Damon e Jezzie Flanagan erano ancora lì
in piedi nell'atrio di casa nostra. Janelle sembrava un po' a disagio, però ul-
timamente svolgeva meglio il compito di rispondere al campanello della
porta di casa. Una volta era timidissima di fronte agli estranei. Per aiutarla
a superare l'imbarazzo, io e Nana abbiamo incoraggiato lei e Damon a ri-
spondere alla porta di casa durante le ore diurne.
Doveva essere qualcosa d'importante a spingere Jezzie Flanagan a venire
a casa mia. Sapevo che metà dell'FBI stava cercando il pilota che aveva
preso il riscatto. Fino a quel momento nessuna notizia da nessun fronte.
Indossava larghi calzoni neri, con una semplice camicetta bianca, e scar-
pe da tennis consumate. Mi ricordavo il suo modo di vestire casual dai
tempi di Miami. Mi faceva quasi dimenticare che razza di pezzo grosso lei
fosse nei servizi segreti.
«È successo qualcosa», dissi trasalendo. Sentii un dolore attraversarmi il
cranio e arrivarmi in viso. Non riuscivo a sopportare il suono della mia vo-
ce.
«No, Alex. Non abbiamo altre notizie su Maggie Rose. Qualche ulterio-
re avvistamento. Nient'altro.»
Gli «avvistamenti» erano, per l'FBI, le testimonianze oculari di persone
che «affermavano» di aver visto Maggie Rose o Gary Soneji. Fino a quel
momento, spaziavano da un appartamento vuoto a pochi isolati dalla Wa-
shington Day School fino alla California, dal reparto pediatrico del Belle-
vue Hospital di New York City al Sudafrica, per non parlare di una sonda
spaziale atterrata vicino a Sedona, in Arizona. Non passava giorno senza
notizie di avvistamenti da qualche parte. Questo è un grande Paese, con un
sacco di svitati in libertà.
«Non volevo disturbare», disse infine con un sorriso. «Solo che ci sono
rimasta male per quanto è successo, Alex. Quegli articoli su di te sono tut-
te sciocchezze. Inoltre sono pieni di bugie. Volevo dirti ciò che provavo e
allora sono venuta qui.»
«Be', ti ringrazio», dissi a Jezzie. Era una delle poche cose simpatiche
che mi erano capitate in quella settimana. Ne rimasi stranamente colpito.
«In Florida hai fatto tutto quello che potevi. Non lo dico solo per rincuo-
rarti.»
Cercai di mettere a fuoco la vista. Vedevo ancora un po' confuso. «Non
la definirei una delle migliori esperienze della mia vita lavorativa. D'altra
parte non ritenevo di meritare la prima pagina per quello che ho fatto.»
«Non te la meritavi. Qualcuno ti ha incastrato. Qualcuno ti ha montato
contro la stampa. Sono tutte fesserie.»
«Sono stronzate», sbottò Damon. «Giusto, paparone?»
«Lei è Jezzie», la presentai ai bambini. «A volte lavoriamo insieme.» I
bambini si stavano abituando a Jezzie, ma ne erano ancora un po' intimidi-
ti. Jannie cercava di nascondersi dietro il fratello. Damon teneva entrambe
le mani ficcate in tasca, come suo papà.
Jezzie si accosciò per portarsi alla loro altezza. Strinse la mano a Da-
mon, poi a Janelle. Fu una buona mossa.
«Il tuo papà è il miglior poliziotto che abbia mai conosciuto», confidò a
Damon.
«Lo so.» Damon accolse benevolmente quel complimento.
«Io sono Janelle.» Mi sorprese con quella sua presentazione così sponta-
nea.
Capii che desiderava essere abbracciata. A Janelle piace essere abbrac-
ciata più che a chiunque altro al mondo. Da lì deriva uno dei suoi numerosi
nomignoli: «Ventosa».
Anche Jezzie avvertì la sua esigenza. Allungò le braccia e strinse Jannie.
Era proprio una bella scenetta. Damon decise immediatamente di unirsi al
loro gruppo. Era la cosa giusta da fare. Era come se la loro migliore amica,
persa di vista da molto tempo, fosse d'improvviso ritornata dalla guerra.
Dopo circa un minuto, Jezzie si rialzò in piedi. In quel momento venni
colpito dall'idea che lei era una persona veramente simpatica, e che non ne
avevo conosciute molte durante le indagini. La sua visita a casa mia era
stata una mossa meditata, ma anche piuttosto coraggiosa. La zona sud-est
non è un quartiere dove le donne bianche possono inoltrarsi a cuor leggero,
neppure una che probabilmente portava una pistola.
«Be', mi sono fermata solo per un abbraccio.» Mi strizzò l'occhio. «A di-
re il vero, sto indagando su un caso non lontano da qui. Adesso devo ridi-
ventare la solita fanatica del lavoro.»
«Lo prendi un caffè?» le chiesi. Pensavo di poter mettere insieme un caf-
fè. Nana probabilmente ne aveva un po' in cucina, preparato da non più di
cinque o sei ore.
Mi lanciò un'occhiata furtiva e riprese a sorridere.
«Due bei bambini, una bella mattina di domenica a casa con loro. Tutto
sommato, non sei poi quel tipo duro che sembri.»
«No, sono anche un duro», dissi. «Sono semplicemente un duro che è
riuscito a trovare la strada di casa per la domenica mattina.»
«D'accordo, Alex.» Continuava a sorridere. «Solo, non farti abbattere
dalle assurdità che pubblicano i giornali. Tanto nessuno crede più a quelle
pagine di fumetti. Ora devo proprio andare. Mi prenoto per un caffè.»
Aprì la porta di casa e si mosse per uscire. Salutò con la mano i bambini
mentre la porta si richiudeva dietro di lei.
«Ciao, paparone», mi disse sorridendo.

31

Dopo che Jezzie Flanagan ebbe esaurito i suoi impegni nella zona sud-
est, si diresse verso la fattoria in cui Gary Soneji aveva sepolto i due bam-
bini. Era già stata lì un paio di volte, ma c'erano ancora molte cose in quel-
la fattoria del Maryland che non la convincevano. In ogni caso, lei era un
tipo maledettamente ostinato. Pensava che nessuno avesse voglia di cattu-
rare Soneji più di lei.
Ignorò il cartello con scritto LUOGO DEL DELITTO e s'inoltrò a tutta
velocità nella strada in terra battuta fino a un gruppo di costruzioni diroc-
cate. Ricordava con precisione tutti i particolari. C'erano la fattoria, un ga-
rage per le macchine e il granaio in cui erano stati nascosti i bambini.
Ma perché questo posto? si chiese. Perché qui, Soneji? Che cosa poteva
dirle quel posto riguardo alla sua vera identità?
Jezzie Flanagan si era rivelata un vero genio delle indagini fin dal primo
giorno in cui era entrata nei servizi segreti. Era uscita col massimo dei voti
e con la lode dalla facoltà di giurisprudenza dell'università della Virginia, e
il ministero del Tesoro aveva cercato di spingerla a entrare nell'FBI, dove
quasi la metà degli agenti erano laureati in legge. Ma Jezzie aveva esami-
nato la situazione e aveva scelto di entrare nei servizi segreti, dove comun-
que la laurea avrebbe costituito un titolo in più.
Fin dagli inizi aveva lavorato dalle ottanta alle cento ore alla settimana.
Era l'astro nascente del dipartimento perché era più intelligente e tenace
degli uomini con cui e per cui lavorava. Aveva più grinta. Ma Jezzie aveva
pure capito subito che al primo passo falso la sua stella sarebbe precipitata.
Lo aveva sempre saputo.
C'era una sola soluzione: trovare Gary Soneji. Doveva essere lei a tro-
varlo.
Percorse a palmo a palmo i campi intorno alla fattoria finché non so-
praggiunse il buio. Poi ricominciò con l'aiuto di una torcia elettrica. Prese
appunti, cercando di trovare l'anello mancante. Forse era qualcosa che a-
veva a che fare col vecchio caso Lindbergh, il cosiddetto delitto del secolo,
che risaliva agli anni '30.
Il Figlio di Lindbergh?
Anche la casa di Lindbergh a Hopewell, nel New Jersey, era una fatto-
ria.
Il piccolo Lindbergh era stato sepolto non lontano dal luogo del seque-
stro.
Bruno Hauptmann, il rapitore del piccolo Lindbergh, era originario di
New York City. Che il rapitore di Washington fosse un qualche lontano
parente? Che fosse di qualche località vicina a Hopewell? Magari Prince-
ton? Come mai non era ancora saltato fuori niente a proposito di Soneji?
Prima di lasciare la fattoria, Jezzie rimase seduta in auto. Avviò il moto-
re, accese il riscaldamento e se ne restò lì, ossessionata, persa nei suoi pen-
sieri.
Dov'era Gary Soneji? Come aveva fatto a sparire? Al giorno d'oggi nes-
suno può sparire così. Nessuno è così in gamba.
Poi pensò a Maggie Rose Dunne e a Goldberg il Tappo, e le lacrime
cominciarono a scenderle lungo le guance. Non riusciva a smettere di sin-
ghiozzare. Capì che era quella la vera ragione per cui era venuta alla fatto-
ria. Jezzie Flanagan doveva sfogarsi.

32

Maggie Rose era completamente al buio.


Non sapeva da quanto tempo si trovava lì, però era un periodo molto
lungo. Non riusciva a ricordarsi quando aveva mangiato l'ultima volta. O
quando aveva visto o parlato con qualcuno che non fossero le voci dentro
la sua testa.
Desiderava che arrivasse subito qualcuno. Aveva quel pensiero fisso in
testa, per ore intere.
Desiderava perfino che la vecchia ritornasse a sgridarla. Aveva comin-
ciato a chiedersi perché la stavano punendo: che cos'aveva fatto di così
sbagliato? Aveva fatto la cattiva e si meritava che tutto ciò le accadesse?
Sì, cominciava a pensare di essere stata cattiva, dato che le stavano acca-
dendo tutte quelle cose orribili.
Non riuscì a rimettersi a piangere, anche se lo voleva. Non riusciva più a
piangere.
Per gran parte del tempo pensava di essere morta. Maggie Rose, ormai,
quasi non sentiva più le cose. Allora si dava dei pizzicotti molto forti. Si
mordeva persino. Una volta si addentò il dito sino a farlo sanguinare. As-
saggiò il proprio sangue caldo e fu qualcosa di stranamente meraviglioso.
Aveva l'impressione di dover restare al buio in eterno. Il buio era un locale
piccolo come un ripostiglio. Lei...
Improvvisamente, Maggie Rose udì alcune voci all'esterno. Non riusciva
a capire quello che dicevano, ma erano senz'altro voci. La vecchia? Dove-
va essere lei. Maggie voleva chiamare ad alta voce, ma aveva paura della
vecchia. Delle sue urla spaventose, delle sue minacce, della sua voce stri-
dula che era peggiore dei film dell'orrore che sua madre non voleva che lei
guardasse. Era di gran lunga peggiore di Freddy Krueger.
Le voci cessarono. Non sentiva più nulla, neppure premendo l'orecchio
contro la porta del ripostiglio. Se n'erano andati via. La lasciavano lì dentro
per sempre.
Cercò di piangere, ma non le venne neppure una lacrima.
Poi Maggie Rose cominciò a urlare. La porta d'improvviso si spalancò e
lei venne accecata dalla luce più splendente.

33

La notte dell'11 gennaio, Gary Murphy se ne stava al sicuro nel suo se-
minterrato. Nessuno sapeva che si trovava laggiù, ma se quella ficcanaso
di Missy avesse aperto la porta, lui avrebbe semplicemente acceso la lam-
pada del suo banco di lavoro. Stava ripassando tutto il piano nella propria
mente. Ancora una volta per essere sicuro.
Era ossessionato dall'idea di assassinare Missy e Roni, ma pensava di
aspettare ancora. Eppure, quella fantasticheria era allettante. Uccidere la
propria famiglia aveva un certo sapore casereccio. Non richiedeva molta
immaginazione, ma l'effetto sarebbe stato molto chiaro: il gelo avrebbe
percorso quella comunità urbana così serena e perbene. E tutte le altre fa-
miglie si sarebbero messe a fare le cose più ridicole, come chiudere a chia-
ve la porta di casa e starsene barricati tutti insieme.
Verso mezzanotte si accorse che la sua famigliola era andata a letto sen-
za di lui. Nessuno si era neppure preoccupato di dargli una voce. Non glie-
ne fregava niente di lui. Un rombo sordo stava montando dentro la sua te-
sta. Aveva bisogno di una mezza dozzina di pastiglie di Nuprin per far ces-
sare per un po' quel rumore che lui solo sentiva.
Forse avrebbe incendiato quella casa così perfetta sulla Central Avenue.
Bruciare le case faceva bene all'anima. Lo aveva già fatto in precedenza, lo
avrebbe fatto di nuovo. Dio, gli doleva il cranio come se qualcuno lo aves-
se colpito con un martello. Che avesse qualche problema fisico? Possibile
che stavolta impazzisse?
Cercò di pensare all'Aquila Solitaria, Charles Lindbergh. Neppure quello
funzionò. Nella sua mente rivisitò la fattoria allo svincolo di Hopewell.
Niente. Anche quel viaggio mentale non funzionava più.
Anche lui aveva raggiunto una fama mondiale, Cristo! Adesso era famo-
so. Lo conoscevano nel mondo intero. Era un divo dei telegiornali in tutto
il pianeta Terra.
Infine uscì dalla cantina, e poi dalla casa di Wilmington. Erano le cinque
e mezzo di mattino. Mentre s'incamminava verso l'auto, si sentiva come un
animale che avesse riacquistato la libertà.
Ritornò in auto nel Distretto di Columbia. Là c'era altro lavoro da fare.
Non voleva deludere il suo pubblico, vero?
Avrebbero avuto pane per i loro denti. Non abbassate la guardia con
me!

Erano circa le undici di quel martedì mattina. Premette delicatamente il


campanello della porta di una casa in mattoni, dall'aria curata, ai margini
del quartiere di Capitol Hill. Un elegante rintocco, din don, risuonò all'in-
terno.
Il puro rischio di trovarsi di nuovo a Washington gli dava un piacevole
brivido. Era molto meglio che starsene nascosto. Si sentiva di nuovo vivo,
poteva respirare, aveva un suo spazio.
Vivian Kim teneva la catenella alla porta, ma l'aprì di una trentina di
centimetri. Aveva visto, attraverso lo spioncino, la familiare uniforme di
addetto dell'azienda elettrica municipalizzata di Washington.
Una signora carina, ricordava Gary dai tempi della Washington Day
School. Lunghe trecce nere. Un bel nasino all'insù. Lei chiaramente non lo
riconobbe dato che era biondo, senza baffi né rigonfiamenti posticci alle
guance e al mento.
«Sì? Posso aiutarla?» chiese all'uomo in piedi nella veranda. Dalla casa
proveniva musica jazz. Thelonious Monk.
«Spero sia il contrario.» Sorrise affabilmente. «Qualcuno ha chiamato
per una bolletta dell'elettricità troppo alta.»
Vivian aggrottò la fronte e scosse il capo. Aveva al collo un ciondolo
appeso a una striscia di cuoio. «Non ho chiamato nessuno. Non credo pro-
prio di aver chiamato l'azienda elettrica.»
«Be', qualcuno ci ha chiamato, signora.»
«Ritorni un'altra volta. Magari ha chiamato il mio fidanzato. Dovrà ri-
tornare, mi spiace.»
Gary fece spallucce. Era una cosa deliziosa. Non voleva che finisse.
«Credo di sì. Lei può richiamarci, se vuole. La rimetterò tra le chiamate. Si
tratta di una sovrafatturazione. Lei ha pagato troppo.»
«D'accordo, ho capito.»
Tolse lentamente la catena e aprì la porta. Gary entrò nell'appartamento.
Estrasse un lungo coltello da caccia dalla tasca del giubbotto e lo puntò in
viso all'insegnante. «Non gridare. Non gridare, Vivian.»
«Come fa a sapere il mio nome? Chi è lei?»
«Non alzare la voce, Vivian. Non c'è ragione di aver paura... L'ho già
fatto altre volte. Sono un semplice ladruncolo.»
«Che cosa vuole?» L'insegnante aveva cominciato a tremare.
Gary rifletté un attimo prima di rispondere alla sua domanda terrorizza-
ta. «Voglio mandare un altro messaggio alla TV. Voglio la fama che mi
merito», proclamò infine. «Voglio essere l'uomo di cui l'America ha più
paura. Ecco perché lavoro nella capitale. Sono Gary. Non ti ricordi di me,
Viv?»

34

Sampson e io scendemmo di corsa la C Street nel cuore di Capitol Hill.


Sentivo il respiro dentro il naso mentre correvo. Le braccia e le gambe
sembravano uscire dalle loro articolazioni.
Le auto di pattuglia del dipartimento e le ambulanze avevano bloccato
completamente la strada. Avevamo dovuto parcheggiare nella F Street e
percorrere di corsa gli ultimi due isolati. I cronisti della WJLA-TV erano
già sul posto. E anche la CNN. Ovunque urlavano le sirene.
Individuai davanti a me un gruppetto di cronisti. Videro che stavamo ar-
rivando. Era difficile che passassimo inosservati quanto gli Harlem Globe-
trotter a Tokyo.
«Detective Cross? Dottor Cross?» urlarono i cronisti, cercando di farci
rallentare.
«No comment», dissi facendo un gesto per allontanarli. «Neanche una
parola da nessuno dei due. Toglietevi dalle palle.»
All'interno dell'appartamento di Vivian Kim, Sampson e io ol-
trepassammo i soliti volti familiari: i tecnici della scientifica, i medici lega-
li, quelli della omicidi, tutti a sguazzare nel loro mostruoso elemento.
«Non voglio più fare questo lavoro», disse Sampson. «Il mondo intero
sta sprofondando nella fogna. È troppo.»
«Abbiamo la nausea», gli bisbigliai, «abbiamo tutti e due la nausea.»
Sampson mi afferrò la mano e me la tenne. Voleva dirmi che era arrivato
al limite. Entrammo nella prima camera da letto a sinistra del corridoio.
Cercai di restare immobile. Non vi riuscii.
La camera di Vivian Kim era arredata in modo molto elegante. Le pareti
erano coperte di foto di famiglia in bianco e nero e poster di mostre d'arte;
c'era pure un violino antico. Non volevo guardare la ragione per cui mi
trovavo lì. Infine fui costretto a farlo.
Vivian Kim era inchiodata al letto, trafitta da un lungo coltello da caccia,
che la trapassava all'altezza dello stomaco. Le erano stati tagliati i seni. Le
avevano rasato il pelo pubico. Aveva gli occhi rovesciati all'indietro, come
se avesse visto qualcosa di indicibile durante i suoi ultimi istanti.
Feci vagare lo sguardo per la camera. Non riuscivo a guardare il corpo
mutilato. Il mio sguardo si soffermò su una macchia di colore sul pavimen-
to. Trattenni il fiato. Nessuno ci aveva detto niente in proposito mentre ve-
nivamo lì. Nessuno aveva notato l'indizio più importante. Fortunatamente
nessuno l'aveva spostato. «Guarda qua», dissi indicandola a Sampson.
La seconda scarpetta di Maggie Rose Dunne giaceva sul pavimento della
camera da letto di Vivian Kim. L'omicida aveva lasciato quello che i pato-
logi chiamano un «tocco artistico». Stavolta aveva lasciato un messaggio
chiaro, una vera e propria firma. Tremai mentre mi chinavo sulla scarpetta.
Avevamo sotto gli occhi un esempio di humour sadico. L'assurdo contrasto
tra la scarpa rosa e l'atrocità del delitto.
Gary Soneji era stato in quella camera da letto. Soneji era anche l'assas-
sino dei quartieri popolari. Era lui la Belva. Ed era tornato a colpire.

35

Gary Soneji era ancora a Washington. Stava inviando messaggi speciali


ai suoi fan. Ma ora c'era una differenza. Ci buttava pure alcune esche.
Sampson e io ottenemmo una dispensa dal capo: potevamo occuparci del
sequestro dei bambini nella misura in cui esso era collegato alle indagini
per gli altri omicidi. Il che era fuor di dubbio.
«Questo è il nostro giorno libero, e quindi dobbiamo divertirci», mi dis-
se Sampson mentre camminavamo per le strade della zona sud-est. Era il
13 gennaio. Faceva un freddo cane. Avevano acceso vari falò nei bidoni
della spazzatura quasi a ogni angolo di strada. Un fratello nero si era fatto
scolpire a rasoio VAFFANCULO sulla nuca. Era esattamente quello che
pensavo io in quel momento.
«Il sindaco Monroe non telefona più. Non scrive più», dissi a Sampson.
Osservavo le nuvolette del mio fiato nell'aria gelida.
«Non tutto il male vien per nuocere», ribatté lui. «Salterà fuori quando
cattureremo la Belva. Sarà lì a prendersi tutti i complimenti al posto no-
stro.»
Continuammo a camminare scambiandoci altre battute stupide sulla si-
tuazione e su di noi. Stavamo passando al setaccio il quartiere di Vivian
Kim, che era ai margini della zona sud-est. Passare al setaccio un quartiere
è un lavoro che tira scemi. «Ieri ha visto qualcuno o qualcosa d'insolito?»
chiedevamo a tutti quelli abbastanza ottusi da aprirci la porta. «Ha notato
qualche persona, o qualche auto sconosciuta, qualche dettaglio che le è ri-
masto in mente? Lasci decidere a noi se è importante.»
Come al solito nessuno aveva visto niente. Nada de nada. E neppure uno
che fosse contento di vederci, soprattutto quando nella nostra operazione a
porta a porta ci spostammo nel cuore della zona sud-est.
Per soprammercato il vento gelido aveva fatto scendere la temperatura
ben sotto lo zero. Veniva giù del nevischio. Le strade e i marciapiedi erano
coperti di una poltiglia ghiacciata. Un paio di volte ci unimmo ai barboni
che si scaldavano vicino ai loro falò nei bidoni della spazzatura.
Infine verso le sei di sera tornammo arrancando alla nostra auto. Erava-
mo stremati. Avevamo completamente sprecato una lunga giornata. Non
ne avevamo cavato niente di buono. Gary Soneji era di nuovo sparito nel
nulla. Mi sembrava di vivere in un film dell'orrore.
«Vuoi farti ancora qualche isolato?» chiesi a Sampson. Mi sentivo abba-
stanza disperato da tentare la fortuna con le slot-machine di Atlantic City.
Soneji stava giocando con noi. Forse ci stava osservando. Forse quel fottu-
to bastardo era invisibile.
Sampson scosse il capo. «No mas, tesoro. Voglio bermi almeno una cas-
sa di birra. Poi magari passerei a qualche bevanda più seria.»
Si pulì gli occhiali dal nevischio. Poi se li rimise. È strano come conosco
bene ogni sua mossa. È dall'età di dodici anni che si pulisce gli occhiali a
quel modo, con la pioggia o con la neve.
«Facciamoci questi altri isolati», dissi. «Per la signora Vivian è il meno
che possiamo fare.»
«Lo sapevo che l'avresti detto.»

Entrammo nell'appartamento di una certa signora Quillie McBride verso


le sei e venti. Quillie e la sua amica, la signora Scott, erano sedute al tavo-
lo della cucina. La signora Scott aveva qualcosa da dirci che, a suo parere,
poteva esserci d'aiuto. Avremmo ascoltato qualunque cosa.
Se mai passate la domenica mattina per la zona sud-est del Distretto di
Columbia, o per il settore settentrionale di Philadelphia o per Harlem a
New York, vedrete signore come Quillie McBride e la sua amica Willie
Mae Randall Scott. Queste donne indossano camiciotti e gonne scolorite di
gabardine. Il loro equipaggiamento di solito comprende un cappello con
piume e scarpe dal tacco robusto con stringhe che rendono i piedi simili a
salsicce. Vanno o vengono da varie chiese. Willie Mae, che è una testimo-
ne di Geova, distribuisce la rivista Torre di guardia.
«Credo di potervi aiutare tutti», disse la signora Scott con voce sommes-
sa e sincera. Probabilmente aveva un'ottantina d'anni, ma parlava in modo
molto chiaro e preciso.
«Le saremmo grati», dissi. Sedevamo tutti e quattro intorno al tavolo
della cucina. Era stato preparato un piatto di biscotti d'avena in previsione
di una qualche visita. Un trittico di foto dei due Kennedy assassinati e di
Martin Luther Bang era in bella vista su una parete della cucina.
«Ho sentito parlare dell'assassinio dell'insegnante», disse la signora
Scott a beneficio mio e di Sampson. «Ebbene, ho visto un uomo aggirarsi
nel quartiere circa un mese prima degli omicidi Turner. Era un bianco. Ho
la fortuna di avere ancora una buona memoria. Io cerco di conservarla
concentrando l'attenzione su ciò che mi passa davanti agli occhi. Fra dieci
anni sarò in grado di ricordarmi di questo colloquio parola per parola, si-
gnor detective.»
La signora McBride aveva tirato la sua sedia vicino all'amica. Dapprima
non parlò, però appoggiò la mano sul braccio gonfio della signora Scott.
«È vero. È così», confermò.
«Una settimana prima degli omicidi Turner, lo stesso bianco è ripassato
di nuovo per il quartiere», proseguì la signora Scott. «Questa seconda vol-
ta, andava di porta in porta. Faceva il venditore.»
Sampson e io ci guardammo.
«Che tipo di venditore?» le chiese Sampson.
La signora Scott fece scivolare lo sguardo sul volto di Sampson prima di
rispondere alla domanda. Immaginai che si stesse concentrando, che si
stesse assicurando di ricordarsi tutto su di lui. «Vendeva apparecchi di ri-
scaldamento per l'inverno. Mi avvicinai alla sua auto e guardai dentro. Sul
sedile anteriore c'era una specie di opuscolo commerciale. La sua ditta si
chiamava Atlantic Hearing ed è di Wilmington, nel Delaware.»
La signora passava gli occhi da un viso all'altro per assicurarsi di essere
stata chiara, oppure che avessimo capito tutto ciò che aveva appena detto.
«Ieri ho visto la stessa auto attraversare il quartiere. Ho visto l'auto la
mattina in cui la donna della C Street è stata uccisa. Ho detto a questa mia
amica: 'Non può trattarsi di una semplice coincidenza, no?' Ora, non so se
lui sia quello che voi state cercando, ma penso che dovreste parlargli.»
Sampson mi guardò. Poi entrambi facemmo una cosa rara in quegli ul-
timi tempi. Sorridemmo. Perfino le signore si unirono a noi. Avevamo in
mano qualcosa. Uno squarcio nel buio, finalmente, il primo di questo caso.
«Parleremo col commesso viaggiatore», dissi alla signora Scott e a Quil-
lie McBride. «Andiamo a Wilmington, nel Delaware.»

36

Gary Murphy rientrò a casa poco dopo le cinque del pomeriggio succes-
sivo, il 14 gennaio. Era stato in ufficio, appena fuori Wilmington. C'erano
poche persone e aveva in mente di sbrigare alcune pratiche inutili. Doveva
cercare di far sembrare le cose in ordine ancora per un po'.
Aveva finito col pensare ad argomenti più vasti. Al piano generale. Gary
non riusciva proprio a prendere sul serio quel turbinio cartaceo di fatture e
conti che ricoprivano la sua scrivania. Continuò a raccogliere fatture spie-
gazzate di clienti, dando un'occhiata ai nomi, alle somme e agli indirizzi. A
quale persona sana di mente potevano mai interessare tutte quelle fatture?
pensava. Era tutto così banale, stupido e insignificante. E quella era la ra-
gione per cui quel lavoro e il Delaware costituivano un buon nascondiglio.
Quindi non concluse assolutamente nulla in ufficio, se non sprecare al-
cune ore. Se non altro, sulla via del ritorno, aveva preso un regalo per Ro-
ni. Aveva acquistato una bici rosa con le ruotine e le banderuole. Aggiunse
una Casa di Sogno di Barbie. La sua festa di compleanno era per le sei.
Missy lo accolse alla porta di casa con un abbraccio e un bacio. La tec-
nica dell'appoggio costruttivo era il suo punto forte. La festa le aveva dato
qualcosa cui pensare. Se l'era scrollata di dosso per qualche giorno.
«Giornata favolosa, tesoro. Non scherzo. Per la settimana prossima, ho
fissato tre visite a casa di clienti. Contale, tre», le disse Gary. Accidenti.
Sapeva essere affascinante, quando lo voleva. Mister Chips va nel Dela-
ware.
Seguì Missy nella sala da pranzo, dove stava preparando la tavola per la
festa con piatti colorati in plastica e tovaglioli di carta. Aveva già appeso
un lenzuolo dipinto alla parete, del tipo di quelli che vengono sollevati dai
tifosi alle partite di football dell'università degli Scemi. Questo diceva:
FORZA RONI - SETTE o SCHIATTA!
«È semplicemente geniale, tesoro. Riesci a far miracoli con niente. È tut-
to fantastico», esclamò Gary. «Le cose ora stanno senz'altro migliorando.»
In verità lui cominciava a sentirsi depresso. Era stufo e voleva schiaccia-
re un pisolino. L'idea della festa di compleanno di Roni d'improvviso gli
apparve spossante. Di certo non c'erano state festicciole quando lui era
bambino.
I vicini cominciarono ad arrivare alle sei in punto. Bene, pensò. Ciò si-
gnificava che i bambini volevano proprio venire. Trovavano Roni simpati-
ca. Lo si vedeva su tutte le loro facce da luna piena.
Parecchi genitori rimasero alla festa. Erano amici suoi e di Missy. Ligio
al dovere, ricoprì il ruolo di barman mentre Missy intratteneva i bambini
coi giochi.
Si divertivano tutti. Lui guardò Roni: sembrava una trottola.
Gary aveva una fantasia ricorrente: uccideva tutti quelli che partecipava-
no a una festa di compleanno. Una festa di compleanno, o magari una cac-
cia all'uovo di Pasqua per bambini. Questo lo fece sentire un po' meglio.

37
La casa a due piani, rivestita di mattoni verniciati di bianco, era situata
su un appezzamento alberato. Era già circondata da auto: station-wagon,
jeep, familiari.
«Non è possibile che sia casa sua», osservò Sampson mentre parcheg-
giava in una strada laterale. «La Belva non vive qui. Questo è un posto da
James Stewart.»
Avevamo trovato Gary Soneji, ma non provavamo la sensazione di aver
fatto centro. La casa del mostro era un perfetto esempio di casa suburbana,
una casa pretenziosa in una strada ben curata di Wilmington, nel Delaware.
Erano passate poco meno di ventiquattr'ore da quando avevamo parlato
con la signora Scott nel Distretto di Columbia. In quel lasso di tempo ave-
vamo rintracciato la Atlantic Heating di Wilmington e rimesso insieme la
squadra antisequestri originale.
Le luci erano accese in quasi tutte le stanze della casa. Un furgone della
Domino's Pizza arrivò più o meno contemporaneamente a noi. Un ragazzo
smilzo e biondo corse verso la casa portando sulle braccia quattro grandi
scatole. Il fattorino venne pagato, poi il furgone partì rapidamente come
era arrivato.
Il fatto che fosse una bella casa di un bel quartiere mi rendeva nervoso, e
persino più diffidente nei confronti dei prossimi minuti. Soneji, in un mo-
do o nell'altro, aveva sempre avuto due caselle di vantaggio rispetto a noi.
«Muoviamoci», dissi all'agente speciale Scorse. «Ci siamo. Ecco la porta
dell'inferno.»
Ci precipitammo nella casa in nove: Scorse, Reilly, Craig e altri due a-
genti dell'FBI, Sampson, io, Jeb Klepner e Jezzie Flanagan. Eravamo ar-
mati fino ai denti e indossavamo giubbotti antiproiettile. Volevamo farla
finita, lì e subito.
Entrai dalla porta della cucina. Io e Scorse arrivammo dentro insieme.
Sampson era un passo indietro. Neanche lui aveva l'aria di un papà del vi-
cinato che arrivava tardi alla festa.
«Chi siete voi? Che succede?» urlò una donna presso il bancone della
cucina quando irrompemmo.
«Dov'è Gary Murphy?» chiesi ad alta voce. E contemporaneamente tirai
fuori il mio distintivo. «Sono Alex Cross della polizia. Siamo qui per il se-
questro di Maggie Rose Dunne.»
«Gary si trova nella sala da pranzo», c'informò con voce tremante una
seconda donna in piedi davanti a un frullatore. «Per di qua», indicò con la
mano.
Percorremmo di corsa il corridoio. Alle pareti erano appese le foto di
famiglia. Una pila di regali ancora da aprire giaceva sul pavimento. Ave-
vamo i revolver in pugno.
Era un momento terribile. I bambini che ci vedevano erano spaventati. E
lo erano anche i loro padri e le loro madri. C'erano lì tante persone inno-
centi. Proprio come a Disney World, pensavo, proprio come alla Washin-
gton Day School.
Gary Soneji non si trovava nella sala da pranzo. C'erano solo altri poli-
ziotti, bambini con cappellucci da compleanno, alcuni piccoli animali, pa-
pà e mamme a bocca aperta, increduli.
«Credo che Gary sia andato di sopra», disse infine uno dei papà. «Che
sta succedendo? Che diavolo succede?»
Craig e Reilly stavano già scendendo rumorosamente giù dalle scale nel
corridoio principale.
«Sopra non c'è», urlò Reilly.
Un bambino disse: «Credo che il signor Murphy sia sceso in cantina.
Che cos'ha fatto?»
Ritornammo di corsa in cucina e, poi, Scorse, Reilly e io scendemmo in
cantina. Sampson ritornò di sopra a fare un secondo controllo.
Non c'era nessuno nei due piccoli locali della cantina. C'era una porta
doppia che dava all'esterno. Era chiusa a chiave, non dall'interno.
Sampson scese un attimo dopo, a due gradini alla volta. «Ho controllato
tutto il piano superiore. Non c'è!»
Gary Soneji era sparito di nuovo.

38

E va bene, alziamo il tiro! facciamo un po' di rock and roll. Facciamo


sul serio, pensava Gary mentre correva.
Aveva in serbo dei piani di fuga sin da quando aveva sedici o diciassette
anni. Lo sapeva che le cosiddette «autorità» sarebbero arrivate da lui un
giorno o l'altro, in qualche modo, in qualche posto. Aveva già visto tutto
nella sua mente, nei suoi elaborati sogni a occhi aperti. L'unico punto inter-
rogativo riguardava il «quando». E forse il «per che cosa». Per quale dei
suoi delitti?
E così erano arrivati in Central Avenue a Wilmington! La fine della fa-
mosa caccia all'uomo. Oppure l'inizio?
Dal momento in cui si era accorto della presenza della polizia, Gary a-
veva agito come una macchina programmata. Stentava a credere che ciò
che aveva fantasticato tante volte stesse effettivamente accadendo, però e-
rano arrivati. I sogni speciali si avverano. Se si è giovani nel cuore.
Con calma aveva pagato il ragazzo delle pizze. Poi aveva sceso le scale
ed era uscito attraverso la cantina. Da una porta seminascosta era arrivato
in garage. Aveva chiuso a chiave la porta dall'esterno. Un'altra porta latera-
le lo aveva condotto in una stradina che sboccava nel giardino dei Dwyer.
Si era chiuso alle spalle anche quella porta. Gli scarponi da neve di Jimmy
Dwyer erano sistemati sui gradini della veranda. Dato che per terra c'era la
neve, aveva preso gli scarponi del vicino.
Aveva fatto una sosta tra casa sua e quella dei Dwyer, pensando di farsi
catturare lì, subito (essere catturato, proprio come Bruno Hauptmann nel
caso Lindbergh). Gli andava a genio quell'idea. Ma non era ancora il mo-
mento, e non lì.
Poi si era messo a scappare, lungo la serie di vicoletti che separavano le
case. Nessuno, salvo i bambini, utilizzava quei vialetti, infestati da erbacce
e cosparsi di lattine vuote.
Gli sembrava di correre in un tunnel. Quello doveva essere l'effetto della
paura che sentiva in ogni centimetro del proprio corpo. Gary aveva paura.
Fu costretto ad ammettere di avere paura. Ammetti di essere sotto l'influsso
dell'adrenalina, amico mio.
Era passato di corsa da un giardino al successivo, lungo la vecchia cara
Central Avenue. Poi si era addentrato nel fitto bosco di Downing Park.
Non aveva incontrato anima viva in tutto il tragitto.
Solo lanciando un'occhiata all'indietro era riuscito a vederli; si muove-
vano verso la casa. Aveva visto quel grosso nero di Cross l'Africano e
Sampson. La caccia all'uomo in cinemascope. L'FBI in tutto il suo splen-
dore.
Ora procedeva a tutta velocità verso la stazione della metropolitana, a
quattro isolati da casa sua. Il collegamento con Philadelphia, Washington,
New York, il mondo esterno.
Doveva aver percorso i cento metri in dieci secondi netti, o poco più. Si
era tenuto in forma. Braccia e gambe poderose, uno stomaco piatto come
un'asse da stiro.
Alla stazione era parcheggiata una vecchia Volkswagen. Era sempre
parcheggiata lì, il fedele Maggiolino della sua dissoluta giovinezza. La
scena dei delitti passati, senza esagerazione. La usava quel tanto che basta-
va per tenere carica la batteria. Era giunta l'ora di divertirsi ancora, di fare
altri giochi. Il Figlio di Lindbergh era di nuovo in azione.

39

Sampson e io eravamo ancora in casa Murphy alle undici passate. La


stampa si affollava all'esterno, dietro un vistoso cordone giallo. C'erano al-
cune centinaia di vicini della comunità di Wilmington. La cittadina non
aveva mai vissuto una serata così importante.
Un'altra massiccia caccia all'uomo era già scattata lungo la Eastern Sea-
board, ma si spingeva anche verso ovest in Pennsylvania e Ohio. Sembra-
va impossibile che Gary Soneji/Murphy potesse farla franca una seconda
volta. Non credevamo che potesse aver preparato questa fuga così come
aveva programmato quella da Washington.
Uno dei ragazzi alla festa aveva visto un'auto della polizia locale nei din-
torni prima che arrivassimo nel quartiere. Il ragazzo aveva parlato dell'auto
della polizia al signor Murphy. Ci era sfuggito per pura fortuna! Avevamo
mancato di catturarlo per una questione di minuti.
Sampson e io interrogammo la moglie per più di un'ora. Finalmente a-
vremmo saputo qualcosa sul vero Soneji/Murphy.
Missy Murphy avrebbe potuto essere una delle madri dei bambini della
Georgetown Day School. Portava i capelli biondi pettinati in modo sem-
plice. Indossava una gonna blu marine, una camicetta bianca e scarpe da
barca. Aveva qualche chilo di troppo, ma era carina. «Nessuno di voi vuo-
le credermi, ma io conosco Gary. So chi è. Lui non è un rapitore di bambi-
ni.»
Mentre parlava, fumava una Marlboro Lights dopo l'altra. Quello era l'u-
nico gesto che tradiva ansia e paura. Parlammo con la signora Murphy in
cucina. Era ordinata e pulita, perfino nel giorno della festicciola. Notai un
paio di raccolte di libri di cucina e una copia di Meditazioni per donne che
hanno troppo da fare. Un'istantanea di Gary Soneji/Murphy in costume da
bagno era attaccata al frigo. Sembrava il tipico padre americano.
«Gary non è una persona violenta. Non riesce nemmeno a punire Roni»,
stava dicendo Missy Murphy.
Quello m'interessava. Si adattava al modello di comportamento che sta-
vo elaborando da anni, studiando i rapporti riguardanti i sociopatici e i loro
figli. I sociopatici hanno spesso difficoltà a punire i loro figli.
«Le ha detto perché non riusciva a punire vostra figlia?» le chiesi.
«Gary non ha avuto un'infanzia felice. Vuole solo il meglio per Roni.
Lui sa che lo fa per una specie di compensazione. È una persona molto in-
telligente. Potrebbe facilmente ottenere il dottorato in matematica.»
«Gary è cresciuto qui a Wilmington?» chiese Sampson. Parlava con
Missy con voce sommessa e tono semplice.
«No, è cresciuto a Princeton, nel New Jersey. Gary è vissuto là fino all'e-
tà di diciannove anni.»
Sampson si annotò un appunto, poi guardò nella mia direzione. Prince-
ton era vicino a Hopewell, dov'era avvenuto il rapimento Lindbergh, negli
anni '30. Il Figlio di Lindbergh era la firma adottata da Soneji sui biglietti
con cui aveva chiesto il riscatto. Non sapevamo ancora il perché.
«La sua famiglia abita ancora a Princeton?» chiesi alla signora Murphy.
«Possiamo entrare in contatto con lei?»
«Non ha più una famiglia. Un giorno scoppiò un incendio mentre Gary
si trovava a scuola. La matrigna, il padre, il fratellastro e la sorellastra mo-
rirono tutti in quel tragico incidente.»
Volevo andare a fondo di tutto quello che ci diceva Missy Murphy. Per
il momento mi trattenni. Però, un incendio nella casa di un giovane affetto
da turbe psichiche...
Un'altra famiglia distrutta. Era quello il vero obiettivo di Sone-
ji/Murphy? Le famiglie? E se così fosse, che c'entrava Vivian Kim? L'ave-
va uccisa solo per mettersi in mostra?
«Lei ha conosciuto qualcuno della famiglia?» domandai a Missy.
«No. Morirono prima che io e Gary ci conoscessimo. Ci siamo incontrati
all'ultimo anno di università. Io ero all'università del Delaware.»
«Che cosa le ha detto suo marito dei suoi anni a Princeton?»
«Non molto. Si tiene molte cose per sé. I Murphy vivevano parecchi chi-
lometri fuori città. I loro vicini più prossimi abitavano a tre o quattro chi-
lometri di distanza. Gary non ebbe amici finché non frequentò la scuola.
Anche allora era spesso un isolato. A volte è molto timido.»
«Che cosa mi può dire del fratello e della sorella?» domandò Sampson.
«In effetti, erano il fratellastro e la sorellastra. Questo rappresentava una
parte del problema di Gary. Non era in confidenza con loro.»
«Ha mai parlato del rapimento del piccolo Lindbergh? Possiede libri su
Lindbergh?» continuò Sampson. La sua tecnica d'interrogatorio è mirare
subito al cuore.
Missy Murphy scosse il capo. «No. Che io sappia, almeno. C'è un locale
pieno di libri giù in cantina. Potete andare a guardare.»
«Oh, lo faremo», le rispose Sampson.
C'era materiale in abbondanza, e fui sollevato nell'apprendere quelle no-
tizie. Prima non c'era niente, o molto poco, su cui lavorare.
«La sua vera madre è ancora viva?» le chiesi.
«Non so. Gary non vuole parlare di lei. È un argomento che assoluta-
mente non vuole affrontare.»
«E che mi dice della matrigna?»
«Gary non amava la matrigna. Apparentemente era molto attaccata ai
propri figli. Lui la chiamava 'la Meretrice di Babilonia'. Credo che fosse
originaria di West Babylon, vicino a New York. Penso che si trovi a Long
Island.»
Dopo mesi a digiuno di informazioni, non riuscivo a porre abbastanza
velocemente le domande. Tutto quello che finora avevo udito collimava
con le risultanze del caso. Mi spuntò in testa un'altra domanda. Gary Sone-
ji/Murphy aveva detto la verità alla moglie? Era capace di dire la verità a
un'altra persona?
«Signora Murphy, lei ha qualche idea su dove potrebbe essersene anda-
to?»
«C'era qualcosa che spaventava sul serio Gary», rispose. «Credo che ab-
bia a che fare in qualche modo col suo lavoro. E con mio fratello, che è il
suo principale. Non riesco a immaginare che sia andato a casa nel New
Jersey, ma forse l'ha fatto. Forse Gary è tornato a casa. È un tipo impulsi-
vo.»
Uno degli agenti dell'FBI, Marcus Connor, si affacciò alla cucina dove
stavamo parlando. «Posso parlare con voi due un momento? Mi scusi, si
tratta solo di un minuto», disse alla signora Murphy.
Connor ci accompagnò giù nel seminterrato della casa. Gerry Scorse,
Reilly e Kyle Craig dell'FBI si trovavano già là sotto, in attesa.
Scorse aveva in mano un paio di calze Fido Dido. Le riconobbi dalla de-
scrizione di ciò che Maggie Rose Dunne indossava il giorno del sequestro
e anche dalle visite nella camera della bambina, dove avevo visto la sua
collezione di vestiti.
«Allora che ne pensi, Alex?» mi chiese Scorse. Avevo notato che, quan-
do le cose prendevano una strana piega, chiedeva il mio parere.
«Esattamente quello che ho detto della scarpetta da ginnastica a Wa-
shington. L'ha lasciata perché la vedessimo. Ora sta giocando con noi.
Vuole che noi giochiamo con lui.»

40
Il vecchio hotel Du Pont del centro di Wilmington era un posto adatto
per fare una dormita. Aveva un bar simpatico e tranquillo, dove Sampson e
io intendevamo starcene a bere in pace. Non pensavamo di avere compa-
gnia, quindi fummo sorpresi quando Jezzie Flanagan, Klepner e alcuni a-
genti dell'FBI si unirono a noi per il bicchiere della staffa.
Eravamo stanchi e frustrati dopo aver mancato per un pelo Gary Sone-
ji/Murphy. In poco tempo ci scolammo parecchia roba forte. A dire il vero
ci trovavamo benissimo insieme. «La squadra.» Cominciammo a parlare
ad alta voce, giocammo a poker, facemmo un po' di casino quella sera nel-
la compita Sala Delaware. Sampson parlò un po' con Jezzie. Anche lui la
considerava una brava poliziotta.
La bisboccia infine si spense e ci avviammo verso le nostre camere,
sparse per tutto l'hotel.
Io, Jeb Klepner e Jezzie salimmo insieme le scale ricoperte da uno spes-
so tappeto verso le nostre camere al secondo e al terzo piano. Alle tre me-
no un quarto di mattina il Du Pont era silenzioso come un mausoleo. Fuori,
la strada principale di Wilmington era completamente deserta.
La camera di Klepner era al secondo piano. «Mi guarderò qualche por-
nosoft», disse separandosi da noi. «Di solito riescono a farmi addormenta-
re.»
«Sogni d'oro», gli augurò Jezzie. «Appuntamento alle sette nella hall.»
Klepner gemette trascinandosi lungo il corridoio che conduceva alla sua
camera. Jezzie e io salimmo la scala tortuosa verso il nostro piano. C'era
un tale silenzio che si poteva udire lo scatto del semaforo sulla strada, che
passava dal rosso al giallo al verde.
«Mi sento ancora molto carico», le dissi. «Non riesco a togliermi dalla
testa Soneji/Murphy. Due volti. Si presentano nettamente distinti nella mia
mente.»
«Anch'io mi sento tesa. Fa parte del mio carattere. Che cosa faresti se
invece di essere qui fossi a casa tua?»
«Probabilmente andrei a suonare il piano sulla veranda. Sveglierei il vi-
cinato con qualche pezzo blues.»
Scoppiò a ridere. «Potremmo ritornare giù nella Sala Delaware. Là c'era
un vecchio piano verticale. Probabilmente apparteneva al signor Du Pont.
Tu suoni e io bevo ancora qualcosa.»
«Il barman se n'è andato dieci secondi dopo di noi. E già a letto a casa
sua.»
Avevamo raggiunto il terzo piano. Il corridoio presentava una leggera
curva. Un cartello indicava la direzione per raggiungere le varie camere.
Alcuni ospiti avevano messo le scarpe fuori della porta per farle lucidare.
«Sono alla 311.» Jezzie estrasse una chiave a scheda dalla tasca della
giacca.
«Sono alla 334. E ora di chiudere la serata. Così domattina si riparte fre-
schi e riposati.»
Sorrise e mi guardò negli occhi. Per quanto mi ricordassi, era la prima
volta che restavamo in silenzio.
La presi fra le braccia e la strinsi delicatamente. Ci baciammo in corri-
doio. Era un po' che non baciavo una donna a quel modo. A dire il vero
non so chi avesse cominciato quel bacio.
«Sei bellissima», le bisbigliai quando le nostre labbra si staccarono.
Quelle parole mi uscirono senza pensarci. Non era la cosa più brillante che
potessi dire, però era la verità.
Sorrise e scosse il capo. «Ho le labbra troppo grandi. Sembro un bambi-
no cascato a faccia in giù. Sei tu quello bello. Sembri Cassius Clay.»
«Certo che lo sembro. Dopo che ha preso un sacco di pugni.»
«Qualche pugno, forse. Che ti dà un'aria più vissuta. Il giusto numero di
colpi duri. Anche il tuo sorriso è bello. Sorridimi, Alex.»
Baciai di nuovo quelle labbra troppo grandi. A me sembravano perfette.
Ci sono molte leggende sugli uomini neri che desiderano le donne bian-
che, e sulle donne bianche che vogliono provarci con gli uomini neri. Jez-
zie Flanagan era una donna intelligente ed estremamente desiderabile. Era
una persona con cui potevo parlare, una persona di cui desideravo la com-
pagnia.
Eccoci lì, l'uno nelle braccia dell'altra verso le tre di notte. Avevamo en-
trambi bevuto un po', ma non troppo. Non c'entravano le leggende. Erava-
mo due persone sole, in una città sconosciuta, in una notte molto, molto
particolare.
In quel momento desideravo solo essere abbracciato. Penso che anche
Jezzie lo volesse. Il suo sguardo era dolce e sereno. Ma quella notte aveva
anche qualcosa di fragile. C'era un reticolo di venuzze rosse negli angoli
dei suoi occhi. Forse anche lei non riusciva a togliersi dalla testa l'immagi-
ne di Soneji/Murphy. Eravamo andati così vicini a catturarlo. Stavolta era-
vamo rimasti indietro solo di mezza casella.
Osservai il viso di Jezzie da una distanza che prima non avrei mai credu-
to possibile. Le passai delicatamente un dito sulle guance. La sua pelle era
morbida e liscia. I suoi capelli biondi parevano seta tra le mie dita. Il suo
profumo era penetrante come quello dei fiori di bosco.
In testa mi frullò una frase. Non iniziare una cosa che non puoi portare
a termine.
«Allora, Alex?» disse Jezzie sollevando le sopracciglia. «Questo è un
problema spinoso, vero?»
«Non per due poliziotti in gamba come noi.»
Seguimmo la leggera curva a sinistra del corridoio e ci dirigemmo verso
la stanza 311.
«Forse dovremmo pensarci sopra due volte», dissi mentre camminava-
mo.
«Forse io l'ho già fatto», mi sussurrò.

41

All'una e trenta di notte, Gary Soneji/Murphy uscì dal Motel 6 di Reston,


in Virginia. Colse il proprio riflesso in una porta a vetri.
Il nuovo Gary - il Gary du jour - gli restituì lo sguardo. Aveva una zaz-
zera nera e una barba ispida, e vestiti polverosi da contadino. Sapeva di po-
ter recitare quella parte. Avrebbe parlato con l'accento strascicato del vec-
chio Sud. Per tutto il tempo necessario, comunque. Non per troppo tempo.
Che nessuno si distragga.
Gary salì sulla Volkswagen scassata e partì. Era molto eccitato. Quella
parte del piano lo entusiasmava. Era la parte più audace dell'intera avven-
tura, la più eccitante.
Come mai era così su di giri? si chiese mentre la sua mente divagava.
Solo perché metà della polizia e dei bastardi dell'FBI di tutto il continente
americano lo stavano cercando?
Perché aveva rapito due ricchi rampolli e uno di loro era morto? E l'altra,
Maggie Rose? Non voleva neppure pensare a quello che le era veramente
accaduto.
Il buio della notte virò verso un morbido colore grigio velluto. Non die-
de retta all'impulso di premere l'acceleratore e di tenerlo inchiodato a tavo-
letta. Una pennellata arancione infine illuminò il cielo del mattino mentre
passava per Johnstown, in Pennsylvania.
Si fermò a un bar, scese dall'auto e si sgranchì le gambe. Controllò il
proprio aspetto allo specchietto laterale del Maggiolino.
Un ossuto bracciante agricolo gli restituì lo sguardo dallo specchio. Un
altro Gary, irriconoscibile. Sembrava in tutto e per tutto uno zoticone di
campagna: camminata del cowboy che ha ricevuto un calcio da un cavallo,
mani in tasca o pollici infilati nelle bretelle. Si passava in continuazione
una mano fra i capelli. Sputava ovunque fosse possibile.
Bevve una tazza di caffè molto forte, il che era forse una mossa discuti-
bile. Panini raffermi ai semi di papavero con burro. Non erano ancora arri-
vati i giornali del mattino.
Lo serviva una cameriera stronza e boriosa. Voleva farle la festa. Tra-
scorse cinque minuti fantasticando sul modo di ucciderla proprio lì, in
mezzo al bar.
Tesoro, togliti quella camicetta bianca da scolaretta. Bene, ora proba-
bilmente ti dovrò uccidere. Ma forse no. Dimmi qualche parola dolce e
pregami di non farlo. Quanti anni hai? Ventuno, venti? Usalo come argo-
mento per commuovermi. Sei troppo giovane per morire, inappagata, in
questo bar lungo la strada.
Gary infine decise di lasciarla vivere. La cosa stupefacente era che lei
non si rese conto di quanto fosse andata vicino a essere uccisa.
«Buona giornata. Ritorni presto», disse lei.
«Preghi che non lo faccia.»
Mentre guidava lungo la Route 22 si lasciò prendere dalla collera come
da molto tempo non gli accadeva. Basta con quelle stronzate sentimentali.
Nessuno gli prestava attenzione, l'attenzione che meritava.
Quei grandissimi stupidi e incompetenti credevano di avere qualche pos-
sibilità di fermarlo? O di catturarlo da soli? O di processarlo in TV? Era il
momento di dargli una lezione; era arrivata l'ora della vera grandezza. Fare
una cosa quando il mondo se ne aspettava un'altra.
Gary Soneji/Murphy accostò a un McDonald's a Wilkinsburg, in Penn-
sylvania. I bambini di tutte le età amavano i McDonald's, giusto? Cibo,
gente e divertimento. Rispettava ancora la tabella di marcia. Il Bambino
Cattivo era molto affidabile da quel punto di vista, sulle sue mosse si pote-
va regolare l'orologio.
C'era la solita folla errabonda di tonti e di musoni dell'ora di pranzo che
entrava e usciva dal McDonald's. Erano tutti prigionieri del tran tran e del-
le fregole quotidiane, lì a ingoiarsi quegli hamburger e quelle bisunte pata-
tine a fiammifero.
Come diceva quella vecchia canzone su tutti gli zombi in giro per l'Ame-
rica? Siete tutti zombi? Camminate come zombi? Qualcosa sui milioni di
zombi in circolazione. Una stima largamente per difetto.
Era lui l'unico essere vivente che campava usando quasi tutto il proprio
potenziale? si chiese Soneji/Murphy. Sembrava proprio così. Nessuno era
speciale come lui. O almeno lui non aveva conosciuto nessun tipo speciale.
Entrò nel McDonald's. Stavano servendo un trilione di McBurger, e non
aveva ancora finito di contarli. C'erano intere mandrie di donne. Le donne
coi loro preziosi pargoletti. Le massaie indaffarate, che rendono tutto bana-
le, le stupide oche con le loro stupide tette cadenti.
C'era anche Ronald McDonald, sotto forma di una sagoma di cartone
che offriva biscotti raffermi ai bambini. Che giornata! Ronald McDonald
incontra Mister Chips.
Gary pagò due caffè e si voltò per tornare indietro, attraversando la folla.
Gli sembrava che la testa stesse per scoppiargli. Il viso e il collo erano av-
vampati. Respirava affannosamente. Aveva la gola secca e sudava troppo.
«Sta bene, signore?» chiese la ragazza alla cassa.
Non prese neppure in considerazione l'idea di risponderle. Dice a me?
Robert De Niro, giusto? Lui era il nuovo De Niro, solo che come attore era
perfino meglio. Disponeva di una gamma di personaggi più ampia. De Ni-
ro non correva rischi come lui. De Niro, Hoffman, Pacino... Nessuno di lo-
ro correva rischi per allargare la propria sfera d'azione. Almeno dal suo
punto di vista.
La sua mente era travolta da una quantità di pensieri e percezioni. Aveva
l'impressione di galleggiare in un mare di particelle leggere, fotoni e pro-
toni. Se quelle persone avessero potuto leggere per qualche secondo nella
sua mente, non avrebbero creduto ai loro occhi.
Andava a sbattere apposta contro la gente mentre si allontanava dal ban-
cone del McDonald's.
«Mi scusi», disse dopo un urto improvviso col fianco.
«Ehi, lei, stia attento!» sentì dire.
«Sta' attento tu, stupido», disse Soneji/Murphy rivolto al contadino
stempiato che aveva urtato. «Che cosa devo fare per avere un po' di rispet-
to? Devo spararti nell'occhio sinistro?»
Posò entrambi i caffè bollenti mentre proseguiva attraverso la sala risto-
rante. Attraverso la sala. Attraverso la gente che incrociava. Attraverso i
tavoli di formica. Attraverso le pareti, se solo l'avesse voluto.
Gary/Soneji estrasse da sotto la giacca a vento un revolver. Eccoci: era
l'inizio della sveglia dell'America. Uno spettacolo speciale per tutti i bam-
bini e tutte le mamme.
Ora lo guardavano tutti. Quelli le capivano, le pistole.
«Sveglia, suonati!» urlò dentro la sala del McDonald's. «Caffè bollente!
Ce n'è per tutti! Svegliatevi, lo sentite il profumo?»
«Quell'uomo ha una pistola!» disse uno dei fisici nucleari seduto a man-
giare un Big Mac gocciolante. Come faceva a vedere attraverso la grassa
nebbia che si levava dal suo piatto?
Gary fronteggiò la sala col revolver puntato. «Nessuno esca da qui!»
muggì. «Siete svegli ora? Vi siete svegliati? Penso di sì. Penso che ora sia-
te tutti sintonizzati. Qui comando io! Quindi fermi tutti. Guardate e ascol-
tate.»
Gary fece partire una pallottola in direzione del viso a un cliente che ma-
sticava un hamburger. L'uomo si portò le mani alla fronte e cadde sul pa-
vimento. Ecco una cosa che attira l'attenzione. Era una pistola vera, una
pallottola vera, una scena vera.
Una donna nera si mise a strillare e tentò di mettersi a correre. Soneji la
atterrò colpendola alla testa col calcio della pistola. Una mossa eseguita
con molta calma, pensò. Buona per un telefilm.
«Io sono Gary Soneji! Sono proprio io. Impressionante, vero? Siete alla
presenza del rapitore di bambini più famoso del mondo. Questa è una di-
mostrazione gratuita. Quindi osservate con attenzione. Può darsi che impa-
riate qualcosa. Gary Soneji è stato in molti posti, lui ha visto cose che voi
non vedrete mai in vita vostra. Fidatevi, se ve lo dico io.»
Finì uno dei suoi McCoffee e osservò da sopra l'orlo del bicchiere i patiti
del fast food che tremavano.
«Questa», disse infine pensieroso, «è quella che viene definita una 'si-
tuazione pericolosa con sequestro di ostaggi'. Ragazzi, Ronald McDonald
è stato sequestrato. Da questo momento fate ufficialmente parte della sto-
ria.»

42

Due poliziotti, Mick Fescoe e Bobby Hatfield, stavano per entrare nel
McDonald's quando risuonarono i colpi di pistola dalla sala. Colpi di pisto-
la? All'ora di pranzo al McDonald's? Che diavolo stava succedendo?
Fescoe era un quarantenne alto e corpulento. Hatfield era più giovane di
quasi vent'anni. Era in servizio solo da un anno. Nonostante la differenza
d'età, i due avevano in comune un certo humour nero. Avevano già stretto
una salda amicizia.
«Porca miseria», bisbigliò Hatfiled quando cominciarono i fuochi d'arti-
ficio. Adottò una posizione acquattata che aveva imparato non molto tem-
po prima, e che non aveva mai usato fuori del poligono di tiro.
«Ascoltami, Bobby», gli disse Fescoe. «Portati all'uscita laggiù.» Indicò
un'uscita vicino ai registratori di cassa. «Io girerò sul lato sinistro. Tu a-
spetta che sia io a cominciare. Non fare niente finché non gli salto addos-
so. Poi, se ti trovi in una buona posizione di tiro, non stare a pensarci,
Bobby, premi il grilletto.»
Bobby Hatfield annuì. «Ho capito.» Poi si separarono.
L'agente Mick Fescoe non prese fiato mentre girava di corsa verso l'altra
estremità del McDonald's. Si teneva così addossato al muro di mattoni che
vi sfregava contro la schiena. Erano mesi che diceva a se stesso che dove-
va perdere un po' di ciccia. Stava già ansimando. Si sentiva un po' stordito.
Proprio non ne aveva bisogno. Avere il capogiro e giocare a Mezzogiorno
di fuoco con un rapinatore non era proprio il massimo.
Si rialzò vicino alla porta. Poteva sentire all'interno il pazzo che urlava.
Però c'era qualcosa di strano, come se il rapinatore funzionasse con un
telecomando. I suoi movimenti erano discontinui. Si muoveva a scatti,
come un automa. Il tono della voce era molto acuto, come quello di un ra-
gazzino.
«Sono Gary Soneji. L'avete capito tutti? Sono proprio io. Diciamo pure
che mi avete trovato voi. Siete tutti degli eroi.»
Possibile? si chiese Fescoe in ascolto vicino alla porta. Soneji il mostro,
qui a Wilkinsburg? Chiunque fosse, quello aveva certamente una pistola.
Una persona era stata colpita. Un uomo giaceva sul pavimento a braccia
aperte. Non si muoveva più.
L'agente udì un altro colpo. Urla laceranti di terrore echeggiarono dal-
l'interno del locale affollato.
«Lei deve fare qualcosa!» gli urlò un tizio che indossava un giaccone
verde chiaro.
Proprio a me lo vieni a dire, mormorò Fescoe tra i denti. La gente era
sempre molto coraggiosa con la vita dei poliziotti. Prima lei, agente. E lei
quello che si mette in tasca duemilacinquecento bigliettoni al mese per far-
lo.
Cercò di controllare il respiro. Quando vi riuscì, si spostò verso la porta
a vetri. Disse in silenzio una preghiera e si buttò attraverso la porta.
Vide immediatamente l'uomo. Un bianco, già rivolto verso di lui. Come
se lo stesse aspettando. Come se ci contasse.
«Bum!» urlò Gary Soneji, e contemporaneamente premette il grilletto.
43

Nessuno di noi aveva dormito più di un paio d'ore; alcuni anche meno.
Eravamo storditi e sfiniti mentre scendevamo lungo la Highway 22.
Gary Soneji era stato avvistato parecchie volte nella zona a sud della no-
stra posizione. Era diventato l'Uomo Nero per metà degli americani. Sape-
vo che si trovava a suo agio in quella parte.
Jezzie Flanagan, Jeb Klepner, Sampson e io viaggiavamo su una Lincoln
blu. Sampson cercava di dormire. Io ero stato prescelto per il primo turno
di guida.
Stavamo attraversando Murrysville, in Pennsylvania, quando, alle dodici
e dieci, la radio trasmise una chiamata d'emergenza.
«A tutte le unità, è in corso una sparatoria!» disse la voce del coordina-
tore della stazione di polizia, accompagnata da una serie di scariche elettri-
che. «Un uomo che afferma di essere Gary Soneji ha sparato ad almeno
due persone in un McDonald's a Wilkinsburg. Al momento tiene almeno
sessanta persone in ostaggio.»
Meno di trenta minuti dopo eravamo a Wilkinsburg, in Pennsylvania.
Sampson scosse il capo disgustato e stupefatto. «Quello stronzo sa come
organizzare una festa, vero?»
«Sta cercando di uccidersi? È scoccata l'ora del suicidio?» volle sapere
Jezzie Flanagan.
«Qualsiasi cosa faccia non mi sorprende più, ma la mossa del McDonal-
d's concorda col resto. Pensate a tutti quei bambini. È come la scuola, co-
me Disney World», dissi loro.
Dall'altra parte della strada rispetto al McDonald's vidi alcuni tiratori
scelti della polizia o dell'esercito sul tetto di un supermercato. Tenevano i
fucili puntati in direzione degli archi dorati sulla vetrina anteriore.
«Assomiglia proprio al massacro del McDonald's di qualche anno fa,
quello nella California meridionale», dissi a Sampson e a Jezzie.
«Non dirlo neppure per scherzo», bisbigliò Jezzie.
«Lo dico, e non per scherzo.»
Ci affrettammo verso il McDonald's. Dopo ciò che era successo non vo-
levamo che uccidessero Soneji.
Ci stavano filmando. I furgoni di tutte le televisioni nazionali erano par-
cheggiati dappertutto in doppia fila. Stavano filmando tutto quello che si
muoveva o parlava. La situazione si presentava veramente male. Mi ricor-
dava senza alcun dubbio quella sparatoria al McDonald's in cui un uomo
aveva ucciso ventuno persone.
Era quello che Soneji voleva farci venire in mente?
Un caposezione dell'FBI venne di corsa verso di noi. Era Kyle Craig,
che avevamo visto in casa Murphy a Wilmington. «Non sappiamo con cer-
tezza se si tratti di lui. È un tipo vestito da contadino. Capelli scuri, barba.
Dice di essere Soneji. Ma potrebbe trattarsi di un altro pazzo.»
«Fammi dare un'occhiata», dissi a Craig. «Ha chiesto di me in Florida.
Lui sa che io sono uno psicologo. Forse ora riesco a parlargli.»
Prima che Craig potesse rispondere, lo avevo superato dirigendomi ver-
so il McDonald's. Mi spinsi avanti a poco a poco a fianco di un paio di po-
liziotti acquattati vicino a una entrata laterale. Mostrai loro il distintivo e
dissi che venivo da Washington. Dall'interno del McDonald's non proveni-
va alcun rumore. Dovevo convincerlo a ritornare sulla terra, a non suici-
darsi, a non fare scoppiare l'inferno al McDonald's.
«Parla in modo sensato? In modo coerente?» chiesi a un poliziotto.
Il poliziotto era giovane, e aveva lo sguardo vitreo. «Ha sparato al mio
collega. Credo che sia morto, Dio santo!»
«Entreremo là dentro e aiuteremo il tuo collega. Quando parla, quel-
l'uomo dice cose sensate? Parla in modo coerente?»
«Dice di essere il rapitore dei bambini di Washington. Si riesce a seguire
il filo del suo discorso. Si vanta di essere il rapitore. Dice che vuole essere
qualcuno di importante.»
L'uomo con la pistola teneva a bada le sessanta persone all'interno del
McDonald's. Là dentro c'era silenzio. Era Soneji/Murphy? Tutto coincide-
va. I bambini e le loro mamme. Il sequestro degli ostaggi. Mi ricordavo le
foto sulla parete del bagno. Voleva diventare la foto che altri ragazzi soli-
tari appendevano alle pareti.
«Soneji!» gridai. «Sei Gary Soneji?»
«Chi diavolo sei?» fu l'urlo che giunse dall'interno. «Chi vuole saperlo?»
«Sono il detective Alex Cross. Da Washington. Credo che tu sappia tutto
riguardo alle più recenti norme sulla liberazione di ostaggi. Non tratteremo
con te. Così adesso sai anche quello che accadrà d'ora in poi.»
«Conosco tutti i regolamenti, detective Cross. Sono informazioni di
pubblico dominio, no? Ma non sempre i regolamenti vengono applicati»,
mi rispose urlando Gary Soneji. «Non per me, non valgono per me. Non è
mai accaduto.»
«Valgono qui», dissi con decisione. «Ci puoi scommettere la vita.»
«Vuoi scommetterci la vita di tutta questa gente, Cross? Io conosco u-
n'altra regola. Prima le donne e i bambini. Mi segui? Ho una speciale con-
siderazione per donne e bambini.»
Non mi piacque il suono della sua voce. Non mi piacque quello che di-
ceva.
Dovevo far capire a Soneji che in nessun caso l'avrebbe fatta franca.
Non ci sarebbero state trattative. Se ricominciava a sparare, l'avremmo ab-
battuto. Mi ricordavo di altre situazioni del genere in cui mi ero trovato
coinvolto. Soneji era più complicato, più intelligente. Sembrava che lui
non avesse niente da perdere.
«Non voglio che si faccia del male a nessuno! Non voglio che si faccia
del male a te!» gli dissi con voce chiara e forte. Stavo cominciando a suda-
re. Sentivo il sudore che colava sotto la giacca, su tutto il mio corpo.
«Molto commovente. Sono commosso per quello che hai appena detto.
Il mio cuore ha sussultato. Davvero», rispose.
«Tu capisci quello che intendo dire, Gary.» La mia voce si fece più
sommessa, come se parlassi a un paziente spaventato e ansioso.
«Certo che lo capisco.»
«C'è un sacco di gente armata qui fuori. Nessuno potrebbe controllarli se
la situazione si aggravasse. Io non posso. E neppure tu. Ci potrebbe essere
un incidente. Non vogliamo che accada.»
All'interno, di nuovo silenzio. Il pensiero che mi martellava in testa era
che, se Soneji era arrivato allo stadio suicida, l'avrebbe fatta finita lì. A-
vrebbe messo in atto la sua sparatoria finale proprio adesso, ottenendo che
tutti i riflettori della notorietà fossero puntati su di lui. Non avremmo mai
saputo che cos'aveva fatto scattare la molla dentro di lui. Non avremmo
mai saputo che cos'era accaduto a Maggie Rose Dunne.
«Salve, detective Cross.»
D'improvviso, me lo vidi sulla soglia della porta, a un metro e mezzo da
me. Era proprio lì. Uno sparo echeggiò da uno dei tetti. Soneji roteò su se
stesso stringendosi una spalla con la mano. Era stato colpito da un cecchi-
no.
Balzai in avanti e afferrai Soneji con entrambe le mani. La mia spalla si-
nistra affondò nel suo petto. Un placcaggio degno di un campione.
Cademmo pesantemente sul cemento. Non volevo che qualcuno lo am-
mazzasse ora. Dovevo parlargli. Dovevamo scoprire che ne era di Maggie
Rose.
Mentre lo tenevo a terra, si rigirò e mi guardò in volto. Il sangue uscito
dalla sua spalla ci aveva imbrattato tutti e due.
«Grazie per avermi salvato la vita», disse. «Un giorno ti ucciderò per
questo, detective Cross.»

PARTE TERZA
L'ULTIMO GENTILUOMO DEL SUD

44

«Mi chiamo Bobbi», le avevano insegnato a dire. Sempre il suo nuovo


nome. Mai quello vecchio.
Mai, mai più Maggie Rose.
Era rinchiusa all'interno di un furgone buio, o di un camion. Non aveva
idea di dove si trovava ora. Se si trovava vicina o lontana da casa. Non sa-
peva da quanto tempo era stata portata via dalla sua scuola.
Ora pensava in modo più chiaro. Si sentiva di nuovo quasi in condizioni
normali. Qualcuno le aveva portato dei vestiti, il che significava che non le
avrebbero fatto subito del male. Altrimenti perché mai si sarebbero curati
di procurarglieli?
Il furgone, o camion che fosse, era sporchissimo. Non c'erano tappetini o
coperte sul pavimento. C'era un odore di cipolle. Dovevano averci tenuto
delle verdure. Dove coltivavano cipolle? Maggie Rose cercò di ricordare.
Nel New Jersey e nella zona settentrionale dello Stato di New York. Le
sembrava che ci fosse anche odore di patate. Forse rape o patate dolci.
Quando mise insieme tutto ciò, Maggie Rose concluse che probabilmen-
te la stavano portando in qualche posto verso sud.
Che altro sapeva? Che altro poteva capire?
Non la drogavano più, dopo la prima volta. Aveva l'impressione che il
signor Soneji non si vedesse da alcuni giorni. E neppure l'orribile vecchia.
Parlavano di rado con lei. Quando le parlavano, la chiamavano Bobbi.
Perché Bobbi?
Si comportava sempre bene, ma a volte aveva bisogno di piangere. Co-
me ora. Soffocava i singhiozzi. Non voleva che qualcuno la sentisse.
C'era una sola cosa che le dava forza. Era una cosa semplicissima, ma
così potente.
Lei era viva.
E voleva restare viva più di ogni altra cosa.
Maggie Rose non aveva notato che il camion stava rallentando. Per un
po' avanzò sobbalzando. Poi il veicolo si arrestò del tutto.
Udì qualcuno che scendeva dalla cabina. Sentì qualche parola smorzata.
Le era stato detto di non parlare nel camion, altrimenti l'avrebbero imba-
vagliata di nuovo.
Qualcuno aprì la porta scorrevole. La luce del sole l'assalì. Dapprima
non riuscì a vedere nulla.
Quando infine cominciò a distinguere qualcosa, Maggie Rose non cre-
deva ai suoi occhi. «Ciao», salutò con un sussurro, come se avesse perduto
la voce. «Mi chiamo Bobbi.»

45

Anche a Wilkinsburg la giornata sembrava non finire mai. Inter-


rogammo tutte le persone che erano state tenute in ostaggio dentro il
McDonald's. L'FBI, nel frattempo, aveva preso in custodia Soneji/Murphy.
Pernottai lì quella notte. E anche Jezzie Flanagan. Eravamo insieme per
la seconda notte di fila. Non potevo desiderare niente di meglio.
Non appena entrammo in una camera del Cheshire Inn, vicino a Millva-
le, Jezzie disse: «Tienimi tra le braccia per un paio di minuti, Alex. Proba-
bilmente ho un'aria più sicura di quanto mi sento veramente».
Mi piaceva tenerla tra le braccia, ed essere abbracciato. Mi piaceva il
suo odore. Mi piaceva il modo in cui la sua figura si adattava alle mie
braccia. Fra di noi tutto era ancora elettrizzante.
Ero eccitato al pensiero di trovarmi ancora con lei. C'era stato solo un
paio di persone con cui ero riuscito ad aprirmi. Nessuna donna dopo Ma-
ria. Avevo la sensazione che Jezzie potesse essere una di quelle. Inoltre
avevo bisogno di avere di nuovo un rapporto con qualcuno. C'era voluto
un po' di tempo per capirlo.
Non ero mai stato un tipo da una notte e via, e non volevo certo iniziare
adesso. Ciò tuttavia creava qualche problema e qualche questione teorica
che non ero ancora pronto ad affrontare.
Jezzie chiuse gli occhi. «Stringimi ancora per un altro minuto», bisbi-
gliò. «Sai che cos'è veramente bello? Stare con qualcuno che capisce quel-
lo che hai passato. Mio marito non ha mai capito questo lavoro.»
«Neanch'io. Infatti lo capisco ogni giorno di meno», dissi scherzando.
Ma in parte era la verità.
Tenni Jezzie tra le braccia molto più di un minuto. La sua bellezza era
sorprendente, senza età. Mi piaceva guardarla.
«È tutto così strano, Alex. Strano in modo piacevole, ma strano. Che sia
tutto un sogno?»
«Non può essere un sogno. Il mio secondo nome è Isaiah. Non lo sape-
vi?»
Jezzie annuì. «Lo sapevo che il tuo secondo nome era Isaia. L'ho visto
su un rapporto dell'FBI. Alexander Isaiah Cross.»
«Adesso capisco come hai fatto ad arrivare così in alto. Che altro sai di
me?»
«Tutto a suo tempo», rispose Jezzie. Mi toccò le labbra con un dito.
Il Cheshire era un pittoresco alberghetto di campagna a circa quindici
chilometri da Wilkinsburg. Jezzie era corsa dentro a prendere una camera
per noi. Fino a quel momento nessuno ci aveva visto insieme nell'albergo,
il che andava bene a tutti e due.
La nostra stanza era in una vecchia rimessa imbiancata, staccata dall'edi-
ficio principale dell'albergo. Era piena di autentici pezzi di antiquariato, tra
cui un telaio a mano e parecchie trapunte.
C'era un caminetto a legna, e così accendemmo un fuoco. Jezzie ordinò
dello champagne.
«Festeggiamo. Facciamo baldoria», disse mentre riattaccava il ricevito-
re. «Ci meritiamo qualcosa di speciale. Abbiamo preso il cattivo.»
L'albergo, quella stanza appartata, era tutto praticamente perfetto. Una
finestra ad arco si affacciava su un prato ricoperto di neve e su un lago
ghiacciato. Un'erta montagna si stagliava dietro il lago.
Sorseggiavamo lo champagne davanti al fuoco scoppiettante. Mi ero
preoccupato per le possibili conseguenze della nostra notte a Wilmington,
ma non ce n'erano state. Parlammo senza impacci, e filò tutto liscio anche
quando scese il silenzio.
Ordinammo la cena.
Il ragazzo del servizio in camera era chiaramente a disagio mentre si-
stemava i vassoi della cena davanti al caminetto. Non riusciva ad aprire lo
scaldavivande, e per poco non fece cadere un intero vassoio. Credo che
non avesse mai visto prima un tabù in carne e ossa.
«E tutto a posto», gli assicurò Jezzie. «Siamo due poliziotti ed è tutto
perfettamente legale. Si fidi di me.»
Parlammo per un'altra ora e mezzo. Pensai alle volte in cui, da ragazzo,
un amico restava a dormire da me. Ci mettemmo a parlare a ruota libera.
Non c'era imbarazzo tra noi. Mi fece parlare di Damon e Jannie e non vo-
leva che mi fermassi.
Il menù comprendeva roast beef con qualcosa di camuffato da Yorkshire
pudding. Non importava. Quando Jezzie finì l'ultimo boccone, cominciò a
ridere. Ci facemmo entrambi un sacco di risate.
«Perché mai mi sono mangiata tutta quella roba? Non mi piace nemme-
no, lo Yorkshire pudding. Mio Dio, tanto per cambiare ci si diverte.»
«Che facciamo ora? Per divertirci e festeggiare.»
«Non so. Tu che cos'hai voglia di fare? Scommetto che hanno bei giochi
di società alla reception. Io sono bravissima a Scarabeo.»
Allungò il collo in modo da guardare fuori della finestra. «Oppure po-
tremmo passeggiare lungo il lago, e cantare Winter Wonderland.»
«Sì. Potremmo pattinare. Io so pattinare, sono un mago sui pattini. Non
c'era sul mio rapporto dell'FBI?»
Jezzie sorrise e mi diede un colpo sulle ginocchia. «Mi piacerebbe ve-
derti. Pagherei per vederti pattinare.»
«Però ho dimenticato i miei pattini.»
«Oh, bene. Che altro? Voglio dire, tu mi piaci troppo, ti rispetto troppo
per farti credere di essere interessata al tuo corpo.»
«Per essere del tutto sincero, io sì che sono interessato al tuo corpo.» Ci
baciammo, e mi sembrò la cosa più bella del mondo. Il fuoco scoppiettava.
Lo champagne era ghiacciato. Il fuoco e il ghiaccio. Yin e yang. Gli oppo-
sti si attraggono.
Non andammo a dormire fino alle sette del mattino. Uscimmo persino a
fare una passeggiata. Ci mettemmo a pattinare al chiaro di luna con le no-
stre scarpe.
In mezzo al lago Jezzie si appoggiò a me e mi baciò. Un bacio serio, un
bacio da ragazza grande.
«Oh, Alex», mi bisbigliò contro la guancia, «penso proprio che finiremo
nei guai.»

46

Gary Soneji/Murphy venne condotto alla Lorton Federal Prison, nella


parte settentrionale della Virginia. Ben presto cominciò a circolare la voce
che gli era capitato qualcosa, ma nessun membro del dipartimento di poli-
zia di Washington fu autorizzato a vederlo. Lui apparteneva al ministero
della Giustizia e all'FBI e non lo avrebbero mollato tanto facilmente.
Non appena la sua presenza a Lorton venne resa pubblica, arrivarono i
manifestanti. Proprio com'era accaduto con Ted Bundy, in Florida. Uomi-
ni, donne e scolari se ne stavano giorno e notte all'esterno del parcheggio
del carcere a intonare slogan. Organizzavano marce, portavano candele e
striscioni.
DOV'È MAGGIE ROSE? MAGGIE ROSE È VIVA! LA BESTIA
DELL'EST DEVE MORIRE! SEDIA ELETTRICA PER LA BESTIA!
Una settimana e mezzo dopo la cattura, andai a incontrare So-
neji/Murphy. Avevo dovuto sfruttare sino in fondo il credito di cui godevo
a Washington, ma ce l'avevo fatta. Il dottor Marion Campbell, direttore di
Lorton, mi accolse al sesto piano, adibito a infermeria, davanti a una schie-
ra di ascensori grigio ferro. Era sulla sessantina, ben conservato e con una
massa fluente di capelli neri. Molto reaganiano.
«Il detective Cross?» Mi tese la mano con un sorriso educato.
«Proprio io. Sono anche psicologo legale.»
Parve sorpreso. Evidentemente nessuno gli aveva detto nulla. «Be', lei
deve aver messo in moto gli ingranaggi giusti. Non sono molti quelli auto-
rizzati a vederlo. I colloqui con lui sono merce rara.»
«Mi sto occupando di questo caso fin dal rapimento dei due bambini, a
Washington. E ho partecipato al suo arresto.»
«Sì! Be', non sono del tutto sicuro che stiamo parlando dello stesso uo-
mo.» Campbell non si preoccupò di chiarire quella sibillina dichiarazione.
«Preferisce che la chiami dottor Cross?»
«Dottor Cross, detective Cross, Alex. Faccia lei.»
«Mi segua, dottore. La aspetta un'esperienza molto interessante.»
Soneji, rimasto ferito nel corso della sparatoria al McDonald's, era rico-
verato in infermeria. Il dottor Campbell mi guidò lungo un ampio corridoio
su cui si aprivano due file di celle, tutte occupate. Lorton è un posto popo-
lare, davanti al suo portone c'è sempre la fila. I detenuti erano per lo più
neri e la loro età oscillava fra i diciannove e i cinquant'anni. Tutti si sfor-
zavano di apparire duri e decisi, ma non è un atteggiamento che funzioni
più di tanto in un carcere federale.
«Temo di aver sviluppato un certo senso di protezione nei suoi confron-
ti», disse Campbell. «E fra un momento ne capirà il motivo. Pare che tutti
vogliano vederlo, che ne abbiano assoluta necessità. Ho ricevuto telefonate
da tutto il mondo. Uno scrittore giapponese. Un medico di Francoforte. Un
altro di Londra. Cose così.»
«Ho la sensazione che non mi stia dicendo tutto sul suo conto, dottore»,
osservai. «Di che cosa si tratta?»
«Preferisco che tragga da solo le sue conclusioni, dottor Cross. Lo trove-
rà in questo reparto. Mi piacerebbe molto conoscere la sua opinione.»
Ci eravamo fermati davanti a una porta d'acciaio, sorvegliata da un agen-
te, oltre la quale cominciava l'ala di massima sicurezza dell'infermeria.
Una luce vivida illuminava la prima cella. Non era quella di Soneji. Lui
ne occupava una sulla sinistra, buia e vigilata da due guardie armate.
«Si è dimostrato violento?» domandai.
«No, nulla del genere. Non credo che debba preoccuparsi di eventuali
comportamenti violenti. Se ne renderà conto coi suoi occhi. Bene, vi lascio
soli.»
Gary Soneji/Murphy ci guardava dalla sua brandina. Se si escludeva il
braccio appeso al collo, non era affatto cambiato dall'ultima volta che l'a-
vevo visto. Mi stava studiando, ma nulla lasciava intuire che avesse rico-
nosciuto in me l'uomo che aveva tentato di uccidere.
Da un punto di vista professionale, la prima impressione fu che avesse
paura di restare solo con me. Il suo corpo mandava segnali ben diversi dal-
l'individuo che avevo atterrato nel McDonald's di Wilkinsburg.
«Lei chi è? Che cosa vuole da me?» chiese alla fine con un lieve tremo-
lio nella voce.
«Mi chiamo Alex Cross. Ci siamo già conosciuti.»
Sembrò confuso, e credo che chiunque sarebbe stato pronto a giurare
sulla sincerità della sua reazione. Scosse la testa e chiuse gli occhi. Fu un
momento stranissimo, sconcertante.
«Mi dispiace, ma non mi ricordo di lei.» Parlò in tono quasi di scusa. «In
quest'incubo circola talmente tanta gente. Inevitabilmente finisco per di-
menticarmi di qualcuno. Buongiorno, Alex Cross. La prego, avvicini una
sedia al letto. Come può vedere, ho avuto un'infinità di visitatori.»
«Lei ha chiesto di me durante le trattative in Florida. Sono della polizia
di Washington.»
Vidi un sorriso spuntargli sulle labbra. Distolse lo sguardo e scosse nuo-
vamente la testa. Ancora non capivo dove stesse lo scherzo, e glielo dissi.
«Non sono mai stato in Florida», spiegò allora. «Non ci ho mai messo
piede.»
Poi Gary Soneji/Murphy si alzò. Portava un pigiama da ospedale troppo
largo e la ferita al braccio pareva causargli una certa sofferenza.
Aveva un'aria abbandonata, vulnerabile. C'era qualcosa che non andava
in quella faccenda. Ma che cosa? Perché non ero stato avvertito? Eviden-
temente, al dottor Campbell stava davvero a cuore che traessi da solo le
mie conclusioni.
Soneji/Murphy andò a sedersi sull'altra sedia. Mi fissava con sguardo
addolorato.
Non assomigliava a un killer. Non assomigliava a un sequestratore. A un
insegnante, forse? A un Mister Chips? A un bambino sperduto?
«Questa è la prima volta che parlo con lei», disse. «E non avevo mai
sentito il nome Alex Cross. Non ho rapito nessun bambino. Conosce Ka-
fka?»
«Un po'. Perché?»
«Mi sento come il Gregor Samsa della Metamorfosi. Sono finito in un
incubo; niente di quello che sta succedendo ha senso per me. Io non ho se-
questrato i figli di nessuno. Qualcuno deve credermi. Io sono Gary
Murphy, e in tutta la mia vita non ho fatto male a una mosca.»
Se avevo capito bene, quell'uomo mi stava dicendo che mi trovavo da-
vanti a un caso di personalità multipla... Gary Soneji/Murphy a tutti gli ef-
fetti.

«Ma tu gli credi, Alex? Gesù, amico. Questo è il punto.»


Scorse, Craig e Reilly del Bureau, Klepner e Jezzie Flanagan dei servizi
segreti, Sampson e io ci eravamo riuniti in un'angusta sala riunioni al quar-
tier generale dell'FBI.
A fare la domanda era stato Gerry Scorse. Non del tutto sor-
prendentemente, non credeva a Gary Soneji/Murphy. La teoria della per-
sonalità multipla lui non la beveva.
«Che cosa ci guadagnerebbe, a raccontare menzogne tanto sfacciate?»
obiettai. «Dice di non aver rapito i bambini. Dice di non aver partecipato
allo scontro a fuoco da McDonald's.» Li guardai in faccia a uno a uno.
«Sostiene di essere questo educato signor nessuno del Delaware che ri-
sponde al nome di Gary Murphy.»
Reilly aveva la risposta pronta. «Sta tentando la carta dell'infermità men-
tale. Per farsi mandare in qualche confortevole manicomio nel Maryland o
in Virginia. E uscirne nel giro di sette od otto anni. Sa benissimo quello
che fa, Alex, ci puoi scommettere. Ma è abbastanza intelligente e abba-
stanza in gamba per sostenere il gioco sino in fondo?»
«Non dimenticate che l'ho incontrato una volta soltanto e che non siamo
rimasti insieme neppure un'ora. Però dico questo: è molto convincente nel-
la parte di Gary Murphy. La mia opinione è che sia un MP a tutti gli effet-
ti.»
«Che cosa diavolo vuoi dire MP?» brontolò Scorse. «Mai sentito.»
«È un termine psichiatrico molto usato», replicai. «Tutti noi strizzacer-
velli parliamo di MP quando ci ritroviamo. Maledettamente pazzo, Gerry.»
Risero tutti, tranne Scorse. Di lui, Sampson diceva che assomigliava a
un impresario di pompe funebri: Scorse il Becchino. Era un professionista
serio e zelante, ma gli mancava il senso dell'umorismo.
«Maledettamente divertente, Alex», brontolò alla fine. «Vale a dire
MD.»
«Pensi che ti permetteranno d'incontrarlo ancora?» domandò Jezzie.
Come professionista, non era meno seria di Scorse, ma averla intorno era
molto più piacevole.
«Sì, direi di sì. Lui vuole rivedermi. Forse riuscirò perfino a scoprire
perché diavolo aveva chiesto di me, in Florida. Perché proprio io sono l'e-
letto del suo incubo.»

47

Due settimane più tardi, riuscii a strappare un'altra ora di colloquio con
Gary Soneji/Murphy. Avevo trascorso le due notti precedenti a documen-
tarmi sulla turba psichica nota come personalità multipla, e la mia sala da
pranzo sembrava una biblioteca specializzata. Sull'argomento è stato scrit-
to parecchio, ma le opinioni degli esperti non potrebbero essere più discor-
danti. Non mancano neppure voci autorevoli che negano l'esistenza di casi
autentici di personalità multipla.
Gary se ne stava seduto sul letto, lo sguardo perso nel vuoto, quando en-
trai. Non aveva più il braccio appeso al collo. Non era stato facile per me
tornare lì, a parlare con un sequestratore, un serial killer di bambini. Poi
rammentai le parole scritte tanto tempo fa da Spinoza: «Non sono tenuto a
ridere delle azioni degli uomini, né a piangere per esse e neppure ad abor-
rirle, ma sono tenuto a comprenderle». E io, almeno per il momento, ero
ben lontano dal comprendere.
«Salve, Gary», dissi piano, per non spaventarlo. «Se la sente di parlare?»
Lui girò la testa verso di me; sembrava contento di vedermi. Tirò una
sedia vicino al letto e mi fece cenno di sedere.
«Temevo che non l'avrebbero lasciata tornare. Sono felice che sia qui»,
disse.
«Che cosa le faceva credere che non me lo avrebbero permesso?»
«Oh, non lo so. Solo che avevo la sensazione che con lei sarei riuscito a
parlare. E poiché questo non è esattamente il mio periodo fortunato, pen-
savo che l'avrebbero tagliata fuori.»
C'era in lui un'ingenuità che mi turbava. Mi affascinava, quasi. Quello
era l'uomo che avevano descritto i suoi vicini di Wilmington.
«A che cosa stava pensando? Un momento fa, prima che arrivassi io a
interromperla.»
Lui sorrise e scosse la testa. «Non lo so neanch'io. A che cosa pensavo?
Ah, sì, ecco. Mi ero ricordato che il mio compleanno cade proprio in que-
sto mese. Continuo a pensare che prima o poi mi sveglierò e scoprirò che è
stato tutto un brutto sogno. È un pensiero ricorrente, sa, una specie di leit-
motiv.»
Decisi di cambiare discorso. «Vogliamo fare un passo indietro? Mi rac-
conti di nuovo del suo arresto.»
«Mi sono svegliato a bordo di un'autopattuglia, fuori di un McDonald's.»
Era esattamente quello che mi aveva detto due giorni prima. «Avevo i pol-
si ammanettati dietro la schiena. E più tardi mi hanno messo anche i ceppi
ai piedi.»
«Ma non sa come era arrivato su quell'autopattuglia?» insistetti. Acci-
denti, era davvero bravo. Affabile, gentile, credibile.
«No, e non so neppure che cosa ci facessi, in un McDonald's di Wilkin-
sburg. È la cosa più bizzarra che mi sia mai capitata.»
«Posso capirlo.»
Una nuova teoria aveva cominciato a prendere forma nella mia mente
durante il tragitto da Washington. Certo, era piuttosto azzardata, ma avreb-
be spiegato alcune cose che fino a quel momento sembravano del tutto pri-
ve di senso.
«Le era mai successo nulla del genere, prima? Qualcosa di anche solo
vagamente simile, Gary?»
«No. Non ero mai finito nei guai. E non ero mai stato arrestato. Lei può
verificare, no? Ma naturalmente, certo che può.»
«Intendevo dire se non le era mai capitato di svegliarsi da qualche parte
senza sapere come ci fosse arrivato.»
Mi guardò, la testa lievemente piegata di lato. «Perché me lo chiede?»
«Le era già successo, Gary?»
«Be'... sì.»
«Me ne parli. Mi racconti di tutte le volte che si è risvegliato in una loca-
lità sconosciuta.»
Aveva il vezzo di cincischiare la camicia: la tirava fra il secondo e il ter-
zo bottone, come per staccare il tessuto dalla pelle. Mi chiesi se quel tic
scaturisse dal timore di non riuscire a respirare e che cos'avesse generato
una simile paura.
Forse da bambino era stato ammalato. O si era trovato intrappolato in
uno spazio angusto, con poca aria da respirare. Oppure chiuso da qualche
parte. Proprio com'era successo a Maggie Rose e a Michael Goldberg.
«Da un anno a questa parte, forse un po' di più, soffro d'insonnia. Ne ho
parlato con uno dei dottori che mi hanno esaminato», disse.
Nelle relazioni mediche non si parlava d'insonnia. Ne aveva effettiva-
mente informato uno dei medici o aveva solo immaginato di farlo? In quel-
le relazioni si parlava delle irregolarità del profilo Wechsler, segno d'im-
pulsività. Dei due test per la determinazione del quoziente d'intelligenza,
uno verbale e uno pratico, in entrambi dei quali aveva ottenuto un punteg-
gio molto elevato. Del risultato del test di Rorschach, che indicava una
grave situazione di stress emotivo. Della reazione positiva alla scheda 14
del TAT, la cosiddetta «scheda di valutazione suicidio». Ma sull'insonnia
neppure una parola.
«Me ne parli, per favore. Mi aiuti a capire.» Avevamo già discusso del
fatto che, oltre a essere un detective, ero anche uno psicologo; si fidava
delle mie credenziali. Per il momento, almeno. Forse era per quello che mi
aveva voluto in Florida?
Gary mi fissò negli occhi. «Cercherà davvero di aiutarmi? Non di met-
termi in trappola, dottore, ma di aiutarmi?»
Gli assicurai che avrei ascoltato ciò che aveva da dire senza pregiudizi, e
lui replicò che non chiedeva altro.
«È già da un pezzo che non riesco a dormire. Da più di quanto non rie-
sca a ricordare. Stava diventando tutto molto confuso. Non mi era facile
distinguere tra lo stato di veglia e il sogno. Mi sono svegliato su quell'au-
topattuglia in Pennsylvania. Ignoro come ci fossi arrivato. Ecco quello che
è realmente successo. Mi crede? Qualcuno deve credermi.»
«Sono qui per ascoltarla, Gary. Quando avrà finito di parlare, le illustre-
rò la mia opinione. Ma ho bisogno di sapere tutto.»
Sembrò soddisfatto, perché riprese: «Mi ha chiesto se mi era già succes-
so in passato. Sì. Qualche volta. Mi svegliavo in posti sconosciuti. A volte
ero a bordo della mia auto, su strade che non avevo mai percorso, che non
avevo mai neppure sentito nominare. In un paio di occasioni in un motel.
O per la strada. Philadelphia, New York. Atlantic City, una volta. In tasca
avevo delle fiches del casinò e un biglietto omaggio per il parcheggio. Ma
proprio non so come me li fossi procurati».
«Le è mai successo di svegliarsi a Washington?»
«No. A Washington no. È da quando ero ragazzino che non ci vado. Di
recente, ho scoperto che posso tornare alla consapevolezza. Alla piena
consapevolezza, intendo. E scopro per esempio di trovarmi in un ristoran-
te, ma non ricordo affatto di esserci entrato.»
«Non ha mai chiesto aiuto a un medico?»
Chiuse gli occhi castano chiaro, che erano la sua caratteristica più salien-
te. Quando li riaprì, sorrideva.
«Non abbiamo soldi da spendere in psichiatri. Tiriamo avanti a fatica.
Ecco perché mi sento così depresso. Siamo sotto di trenta bigliettoni. La
mia famiglia ha un debito di trentamila dollari e io sono in carcere.»
Tacque e mi guardò di nuovo. Cercava di decifrare la mia espressione e
non si vergognava di farlo. Da parte mia, non potevo che giudicarlo colla-
borativo, stabile e, in linea generale, del tutto lucido.
D'altra parte, non dimenticavo che chiunque avesse rapporti con lui cor-
reva il rischio di venire manipolato da un sociopatico estremamente abile e
intelligente. Prima di me aveva ingannato un sacco di gente; ovviamente
ne aveva tutte le capacità.
«Fino a questo punto le credo», mi decisi a dire. «Quello che mi ha detto
sembra sensato, Gary. Sarò lieto di aiutarla, se mi sarà possibile.»
Lacrime improvvise gli gonfiarono gli occhi, gli rigarono le guance. Mi
tese le mani e io le presi. Presi le mani di Gary Soneji/Murphy. Erano gela-
te. Come se avesse paura.
«Sono innocente. So che può sembrare pazzesco, ma sono innocente.»

Era molto tardi quando tornai a casa, quella sera. Stavo entrando nel via-
letto quando una motocicletta mi si affiancò. Che diavolo c'era ancora?
«Mi segua per favore, signore», disse il centauro, nel più perfetto stile da
polizia autostradale. «Mi venga dietro.»
Era Jezzie. Rise e risi anch'io, perché capivo che stava cercando di ripor-
tarmi nel mondo dei vivi. Voleva dirmi che stavo dedicando troppe energie
a quel caso. Rammentarmi che dopotutto era stato risolto.
Parcheggiai la vecchia Porsche, scesi e mi avvicinai a lei.
«Ora di staccare», annunciò Jezzie. «Credi di farcela? Ti sembra abba-
stanza ragionevole staccare alle undici di sera?»
Entrai per controllare che i ragazzi stessero bene. Dormivano, e io non
avevo alcuna ragione per rifiutare l'offerta di Jezzie. Tornai fuori e salii in
moto.
«Non ho ancora capito se questa è la cosa peggiore o la migliore che ho
fatto in questi ultimi tempi», brontolai.
«È sicuramente la migliore. Sei in buone mani. Non hai nulla da temere,
se non una morte istantanea.»
Di lì a pochi secondi, la luce potente dell'unico faro inondava la 9th
Street. Scendemmo verso l'Independence, quindi lungo la Parkway, che in
certi punti è tortuosa fino all'assurdo. E a ogni curva Jezzie seguiva l'an-
damento della strada, sfrecciando accanto alle auto che sembravano im-
mobili. Ci sapeva fare, con la moto. Non era una dilettante. Mentre il pae-
saggio correva intorno a noi, e la linea tratteggiata si snodava sulla nostra
sinistra, a pochi centimetri dalla ruota anteriore, pensai che doveva averla
lanciata così centinaia di volte, e mi sentivo sorprendentemente tranquillo.
Non sapevo dove stessimo andando e non me ne importava. I ragazzi
dormivano. Con loro c'era Nana. E la corsa in moto faceva parte della te-
rapia. Sentivo l'aria fredda insinuarsi sotto i vestiti, approfittando di ogni
varco. Mi schiariva la mente e di certo avevo un gran bisogno di schiarir-
mela.
N Street era deserta. E una strada lunga e stretta, su cui si allineano case
vecchie di cent'anni. Graziosa, soprattutto in inverno. Tetti spioventi co-
perti di neve ghiacciata. Luci ammiccanti sulle verande.
Jezzie tirò al massimo l'acceleratore. Centodieci. Centotrenta. Centoses-
santa. Non so di preciso a che velocità procedessimo, ma mi sembrava di
volare. Alberi e case erano un'unica macchia indistinta. L'asfalto era una
macchia indistinta. Ma in un certo senso era piacevole. A condizione che
vivessimo abbastanza a lungo per raccontarlo.
La frenata fu lenta, senza scosse. Jezzie non si stava esibendo; sempli-
cemente, sapeva quello che faceva.
«Siamo a casa. L'ho appena presa», annunciò mentre smontavamo. «Sei
stato bravo. Hai gridato una volta soltanto, sul George Washington.»
«Dentro di me non ho smesso un solo istante.»
Resi euforici dalla corsa, entrammo. L'appartamento non era affatto co-
me lo avevo immaginato. Jezzie spiegò che non aveva avuto il tempo di si-
stemarlo, ma a me sembrò bello e pieno di gusto. Levigato e moderno, ma
non freddo. Vidi un'infinità di magnifiche foto artistiche, quasi tutte in
bianco e nero. Le aveva fatte lei, disse Jezzie. In cucina e in soggiorno c'e-
rano vasi colmi di fiori freschi. E poi libri da cui spuntavano segnapagine:
Il principe delle maree, Angelo custode, Lo Zen e l'arte della manutenzio-
ne della motocicletta. Una rastrelliera per il vino: Beringer, Rutherford. Un
gancio cui lei appese il casco.
«Così, dopotutto hai un'anima casalinga.»
«Scordatelo, Alex. Io sono una dura dei servizi segreti fatta e finita.»
La presi fra le braccia e ci baciammo con dolcezza. Scoprivo la tenerez-
za là dove non avevo previsto di trovarne; scoprivo una sensualità che mi
stupiva. Era esattamente tutto quello di cui andavo in cerca, con una sola
piccola pecca.
«Sono felice che tu mi abbia portato a casa tua. Parlo sul serio, Jezzie.
Sono commosso.»
«Anche se per riuscirci ho dovuto sequestrarti?»
«Una motocicletta che sfreccia nella notte. Un bell'appartamento acco-
gliente. Fotografie di gran classe. Quali altri segreti mi nascondi?»
Con un dito, seguì i contorni della mia mascella. «Non voglio avere se-
greti. Ecco quello che mi piacerebbe davvero. Va bene?»
Dissi di sì. Perché era quello che volevo anch'io. Era tempo che mi a-
prissi di nuovo con qualcuno. Probabilmente, anzi, era più che tempo per
entrambi. Forse non era così che apparivamo agli occhi del mondo, ma e-
ravamo stati soli troppo a lungo. Quella era la semplice verità che, recipro-
camente, ci stavamo aiutando a capire.

Era mattino presto quando facemmo ritorno a casa mia, a Washington. Il


vento era freddo e sferzante contro i nostri volti. Mi tenni stretto a lei men-
tre galleggiavamo nell'indistinto chiarore grigio dell'alba. Le poche perso-
ne che incontrammo, e che a piedi o in auto si recavano al lavoro, ci guar-
darono incuriosite. Probabilmente al loro posto lo avrei fatto anch'io. Era-
vamo una coppia maledettamente attraente.
Jezzie mi lasciò nel punto esatto in cui mi aveva prelevato. Mi chinai su
di lei e sulla moto calda e vibrante e la baciai di nuovo. Sulle guance, sulla
gola, infine sulle labbra. Per me, avremmo potuto restare lì tutta la mattina.
Lì, abbracciati nello squallore della zona sud-est. Per un attimo pensai che
sarebbe stata la cosa più giusta.
«Devo andare», dissi.
Lei annuì. «Sì. Lo so, Va' a casa, Alex. E dai un bacio ai tuoi bambini da
parte mia.» Ma aveva un'aria triste mentre io le voltavo le spalle.
Non iniziare una cosa che non puoi portare a termine, rammentai a me
stesso.

48
Per il resto della giornata me la presi comoda. Forse era un at-
teggiamento irresponsabile da parte mia, ma mi andava bene così. A volte
è giusto caricarsi sulle spalle il peso del mondo, a condizione che si sappia
come scrollarselo di dosso.
La temperatura era sotto lo zero mentre mi dirigevo verso il carcere di
Lorton, ma il sole splendeva e il cielo era di un azzurro quasi abbagliante.
Bello e carico di speranze. Fallaci illusioni degli anni '90.
Pensavo a Maggie Rose, quella mattina, e arrivai alla conclusione che
ormai doveva essere morta. Suo padre stava facendo il diavolo a quattro
sulla stampa e in TV e non mi sentivo di biasimarlo per quello. In un paio
di occasioni avevo parlato per telefono con Katherine Rose. Lei non aveva
rinunciato alla speranza. Mi aveva detto di sentire che la sua bambina era
ancora viva. Ascoltarla era una cosa tristissima.
Cercai di prepararmi psicologicamente all'incontro con Soneji/Murphy,
ma avevo difficoltà a concentrarmi. Davanti agli occhi continuavano a ba-
lenarmi immagini della notte appena trascorsa. Dovetti impegnarmi a fon-
do per rammentare a me stesso che ero al volante nel traffico di mezzo-
giorno di Washington, e che stavo lavorando.
Fu allora che mi venne l'idea: una teoria sul conto di Gary Sone-
ji/Murphy che, in un'ottica psichiatrica, sembrava avere una certa logica.
Il disporre di una nuova teoria mi aiutò a calarmi nel mio ruolo quando
arrivai al carcere. Soneji/Murphy mi aspettava nella sua cella al sesto pia-
no. Dall'aspetto, pareva che neppure lui avesse chiuso occhio. Ora toccava
a me prendere l'iniziativa.
Gli stetti addosso per un'ora buona, quel pomeriggio, forse anche un po'
più a lungo. Andai giù duro. Probabilmente più di quanto avessi mai fatto
con gli altri miei pazienti.
«Gary, si è mai trovato in tasca ricevute di hotel o ristoranti, oppure
scontrini fiscali di cui non rammentava nulla?»
Vidi i suoi occhi illuminarsi e un'espressione che forse era di sollievo
dipingersi sul viso. «Come fa a saperlo? Gliel'ho detto che volevo lei come
dottore. Non voglio più parlare col dottor Walsh. Non sa far altro che pre-
scrivere idrato di cloralio.»
«Non credo che sarebbe una buona idea. Io sono uno psicologo, non uno
psichiatra come il dottor Walsh. E inoltre faccio parte della squadra che ha
contribuito al suo arresto.»
Lui scosse la testa. «Tutto questo lo so. So anche che lei è stato l'unico
ad ascoltarmi prima di emettere un giudizio. So che mi odia: pensa ai due
bambini che ho sequestrato e a tutte le altre cose che avrei fatto... Ma, al-
meno, lei ascolta. Walsh finge soltanto di farlo.»
«È necessario che continui a vedere il dottor Walsh.»
«Oh, d'accordo. A questo punto credo di capire come funzionano le cose
qui dentro. La prego, però, non mi lasci solo in quest'inferno.»
«Non lo farò. Continuerò a seguirla. E continueremo a parlare come
stiamo facendo adesso.»
Poi gli chiesi di raccontarmi della sua infanzia.
«Non ricordo granché. Pensa che sia strano?» Lui era più che disposto a
parlare. Spettava a me decidere se ciò che ascoltavo era la verità o un ela-
borato castello di menzogne.
«Per alcuni è normale. Il fatto di non ricordare, intendo dire. Ma a volte,
se se ne parla, tornano in mente molte cose.»
«Ricordo i fatti, naturalmente. E le date. Va bene, cominciamo. Data di
nascita, 24 febbraio 1957. Luogo di nascita, Princeton, New Jersey. Queste
cose le so. Anche se a volte ho l'impressione di aver imparato tutto questo
via via che crescevo. Ho vissuto esperienze al cui riguardo non riesco a
scindere il sogno dalla realtà. Non sono certo di saper distinguere tra una
cosa e l'altra. Non ne sono affatto certo.»
«Vada a ruota libera, senza fermarsi troppo a pensare.»
«Be', di certo non sono mai stato una persona felice. Ho sempre sofferto
d'insonnia. Non sono mai riuscito a dormire più di un'ora o due di fila. E
non riesco a ricordare un momento in cui non fossi stanco. E depresso...
Come se per tutta la vita avessi cercato di tirarmi fuori di un buco nero.
Non voglio rubarle il lavoro, dottore, ma temo di non avere una grande o-
pinione di me stesso.»
Tutto quello che sapevo di Gary Soneji portava a un individuo diame-
tralmente opposto: dinamico, sicuro, con un'altissima concezione di sé.
Gary mi descrisse un'infanzia terrificante, completa di violenze fisiche
da parte della matrigna nei primi anni e di abusi sessuali da parte del padre
in seguito. Mi descrisse come fosse stato costretto a isolarsi dal clima d'an-
sia e di conflittualità in cui viveva. La matrigna era arrivata in casa nel
1961 in compagnia dei suoi due figli. A quell'epoca Gary aveva quattro
anni ed era già un bambino introverso e lunatico, ma da allora non aveva
fatto che peggiorare. Quanto fosse peggiorato, non era evidentemente an-
cora disposto a dirmelo.
Nell'ambito della terapia messa a punto dal dottor Walsh, Soneji/Murphy
era stato sottoposto al Wechsler Adult, al Minnesota Multiphasic Persona-
lity Inventory e al test di Rorschach. Negli esami concernenti la sfera della
creatività, era passato col vento in poppa, ottenendo punteggi molto alti
nelle risposte orali come in quelle scritte.
«Che altro, Gary? Cerchi di tornare indietro il più possibile. Si ricordi
che, più mi permetterà di capire, più mi sarà facile aiutarla.»
«Ci sono sempre state queste 'ore perdute'. Intervalli di tempo che non
riuscivo a ricostruire.» La sua espressione si andava facendo via via sem-
pre più tirata. Le vene del collo sporgevano. Una patina di sudore gli rico-
priva il viso.
«Loro mi punivano perché non riuscivo a ricordare...» mormorò.
«Chi? Chi la puniva?»
«Per lo più la mia matrigna.»
Il che significava che con tutta probabilità i danni più gravi si erano veri-
ficati quando lui era ancora molto piccolo e la sua educazione era affidata
alla matrigna.
«Una stanza buia», disse.
«Che cosa succedeva nella stanza buia? Che genere di stanza era?»
«Mi confinava laggiù, nello scantinato. Era la nostra cantina, e lei mi ci
chiudeva quasi ogni giorno.»
Aveva cominciato a respirare affannosamente. Sapevo, per averlo con-
statato in molte vittime di violenze infantili, che parlarne doveva risultargli
terribilmente arduo. Chiuse gli occhi per ricordare, per rivedere un passato
che non avrebbe mai più voluto affrontare.
«Che cosa succedeva nello scantinato?»
«Nulla... Non succedeva nulla. Era questa la punizione. Venivo lasciato
a me stesso.»
«Quanto duravano queste punizioni?»
«Non lo so. Non posso ricordare tutto!»
Aveva socchiuso gli occhi e mi guardava da sotto le palpebre abbassate
a metà.
Non sapevo per quanto tempo ancora avrebbe retto. Dovevo procedere
con cautela e aiutarlo a ricostruire le parti più dolorose del suo passato
senza mai privarlo della certezza che il suo benessere mi stava a cuore, che
poteva fidarsi di me, che lo stavo ascoltando.
«È possibile che in qualche occasione ci sia rimasto per tutto un giorno?
Per tutta una notte?»
«Oh, no. No. Era per molto, molto tempo. Perché non dimenticassi più.
Perché facessi il bravo bambino. Non il Bambino Cattivo.»
Mi guardò, ma senza aggiungere altro. Intuii che stava aspettando una
qualche reazione da parte mia.
Optai per l'elogio, e lui parve gradirlo. «Un ottimo inizio, Gary, davvero
ottimo. So quanto sia difficile per lei.»
E mentre guardavo l'adulto che mi stava davanti, immaginavo il ragazzi-
no chiuso in una cantina buia. Tutti i giorni. Per settimane che certo dove-
vano essergli sembrate più lunghe di quanto realmente fossero. Poi pensai
a Maggie Rose. Possibile che fosse ancora viva, e Gary la tenesse prigio-
niera da qualche parte? Avevo bisogno di estrarre dalla sua mente anche i
segreti più oscuri, e dovevo farlo più in fretta di quanto preveda una tera-
pia ortodossa. Katherine Rose e Thomas Dunne avevano il diritto di co-
noscere la sorte riservata alla loro bambina.
Che ne è stato di Maggie Rose, Gary? Ti ricordi di Maggie Rose?
Eravamo arrivati al momento più delicato. Gary avrebbe potuto spaven-
tarsi e rifiutare d'incontrarmi ancora, se avesse pensato che non ero più suo
«amico». Avrebbe potuto rinchiudersi in se stesso. C'era perfino la possibi-
lità di un crollo psicotico totale. Allora sarebbe precipitato nella catatonia e
tutto sarebbe stato perduto.
Dovevo continuare a lodarlo per i suoi sforzi. Era importante che aspet-
tasse con ansia le mie visite. «Quanto mi ha detto finora dovrebbe essermi
utilissimo. È stato molto bravo. Sono impressionato dall'impegno che ha
messo nel ricordare.»
«Alex», sussurrò lui quando mi alzai per andarmene. «Lo giuro su Dio,
non ho fatto nulla di orribile né di malvagio. Per favore, mi aiuti.»
Per quel pomeriggio era in programma il test della macchina della verità.
La prospettiva spaventava enormemente Gary, che tuttavia giurò di essere
contento di sottoporvisi.
Mi disse che avrei potuto aspettare i risultati, se lo desideravo. E io lo
desideravo moltissimo.
L'operatore, arrivato appositamente da Washington, era considerato uno
dei migliori. Al soggetto sarebbero state poste diciotto domande; quindici
di controllo e tre destinate alla valutazione effettiva.
Il dottor Campbell mi raggiunse quaranta minuti dopo che Sone-
ji/Murphy era stato portato via. Era rosso per l'eccitazione e aveva l'aria di
aver corso. Non mi fu difficile intuire che aveva da dirmi qualcosa d'im-
portante.
«Ha ottenuto il punteggio massimo», mi riferì. «È passato a vele spiega-
te. Potrebbe darsi che Gary Murphy stia davvero dicendo la verità!»

49

Potrebbe darsi che Gary Murphy stia davvero dicendo la verità!


Il pomeriggio seguente misi in piedi una rappresentazione coi fiocchi
nella sala riunioni del carcere di Lorton. Avevo un pubblico importante: il
dottor Campbell, direttore della prigione, il procuratore distrettuale federa-
le James Dowd, un rappresentante dell'ufficio del governatore del Mar-
yland, altri due legali della procura generale di Washington e il dottor Ja-
mes Walsh, membro della commissione sanitaria di Stato e dello staff di
consulenti del carcere.
Riunirli tutti era stata un'impresa non da poco e ora che ce l'avevo fatta
non potevo lasciarmeli sfuggire. Non avrei avuto un'altra possibilità per
chiedere ciò di cui avevo bisogno.
Mi sembrava di essere tornato ai tempi degli esami alla Johns Hopkins.
Ero teso come una corda di violino e sapevo che stavo puntando alto. Per-
ché ero convinto che proprio lì, in quella stanza, si giocassero i destini del
caso Soneji/Murphy.
«Voglio tentare una regressione mediante ipnosi», annunciai al gruppo.
«I rischi sono pressoché inesistenti, e i risultati potrebbero essere di grande
importanza. Sono certo che Soneji/ Murphy si dimostrerà un soggetto al-
tamente ricettivo e che ci fornirà molti elementi utili. Forse scopriremo che
cos'è accaduto alla bambina scomparsa. E certo impareremo molte cose sul
conto dell'imputato.»
Il caso aveva già sollevato molti complessi interrogativi di carattere giu-
risdizionale. Uno degli avvocati mi aveva detto che c'erano tutti i presup-
posti per sollevare un conflitto di competenza. Poiché erano stati varcati i
confini di Stato, il sequestro e l'assassinio di Michael Goldberg erano di
competenza federale e sarebbe stato un tribunale federale a occuparsene.
Le uccisioni al McDonald's sarebbero invece state discusse da una corte
del Westmoreland. Inoltre, non era escluso che Soneji/Murphy venisse
giudicato anche a Washington per uno o più degli omicidi che apparente-
mente aveva compiuto nella zona sud-est.
«Che cosa spera di ottenere, con precisione?» mi domandò il dottor
Campbell, che continuava a offrirmi il suo appoggio. Come me, aveva col-
to l'espressione scettica di molti, compreso il dottor Walsh. Ora capivo
l'antipatia di Gary nei suoi confronti. Walsh mi dava l'impressione di un
uomo meschino, gretto, e fiero di esserlo.
«Molto di quanto ci ha detto finora sembra indicare una grave reazione
dissociativa. A quanto pare, il soggetto ha avuto un'infanzia terribile. Vio-
lenze fisiche e forse anche sessuali. Già da bambino potrebbe aver operato
una dissociazione psichica nel tentativo di sfuggire alla sofferenza e alla
paura. Non sto affermando che siamo davanti a un caso di scissione della
personalità, ma è una possibilità. L'infanzia del soggetto è senza dubbio di
quelle che possono produrre questa rara forma di psicosi.»
«Il dottor Cross e io abbiamo discusso l'ipotesi che Soneji/ Murphy sia
vittima del fenomeno comunemente noto come 'stato di fuga'», fu pronto a
raccogliere la palla il dottor Campbell. «Episodi psicotici attinenti sia all'i-
steria sia all'amnesia. Parla di giorni, di weekend, addirittura di settimane,
perduti. Nel corso di queste fughe, un paziente può destarsi in un luogo
sconosciuto ignorando completamente come ci sia arrivato o che cos'abbia
fatto in un lasso di tempo anche prolungato. In alcuni casi, nel soggetto si
palesano due personalità distinte, e a volte antitetiche. Un fenomeno ri-
scontrabile anche nell'epilessia del lobo temporale.»
«Che cos'è, viaggiate in coppia, voi due?» grugnì Walsh. «Epilessia del
lobo temporale. Fammi prendere fiato, Marion. Più teorie arzigogolate
mettete in piedi, più possibilità avrà quel tizio di farla franca in tribunale.»
«Non sto arzigogolando», replicai. «Non rientra nelle mie abitudini.»
Intervenne il procuratore distrettuale. James Dowd era un tipo serio sulla
quarantina. Se fosse riuscito a ottenere il caso Soneji/Murphy, nel giro di
poco tempo sarebbe diventato molto famoso. «Non c'è la possibilità che il
soggetto stia fingendo questa condizione psicotica a nostro uso e consu-
mo? In sostanza, che sia un semplice psicopatico e nient'altro?»
Mi guardai intorno prima di rispondergli. Era evidente che Dowd aveva
posto le sue domande in tutta serietà e che ci teneva ad accertare la verità.
Il rappresentante dell'ufficio del governatore sembrava scettico ma scevro
da pregiudizi. Per quanto riguardava la squadra del procuratore generale,
fino a quel momento si era mantenuta neutrale. Per il dottor Walsh, d'altra
parte, Campbell e io avevamo già parlato abbastanza.
«Naturalmente sì», mi decisi a dire. «È una delle ragioni per cui vorrei
tentare l'ipnosi regressiva. In questo modo potremo verificare la coerenza
della sua versione.»
«Se è un soggetto ricettivo», puntualizzò il dottor Walsh. «E a condizio-
ne che lei sia in grado di stabilire se è effettivamente sotto ipnosi o se sta
solo recitando.»
«Ho tutti i motivi di ritenere che sia ricettivo», mi affrettai a rispondere.
«Io invece ho i miei dubbi in proposito. E francamente ho qualche dub-
bio anche su di lei, Cross. Non m'importa se al paziente piace parlare con
lei. In psichiatria, la simpatia del paziente per il terapeuta non è una condi-
zione necessaria.»
Lo guardai con durezza. «Quello che piace al paziente è che io lo ascol-
to.» Avevo una gran voglia di dare una lezione a quel bastardo intrigante.
«Quali sono le altre ragioni per cui vorrebbe sottoporre a ipnosi il dete-
nuto?» Era stato il rappresentante dell'ufficio del governatore a parlare.
«In tutta franchezza, non sappiamo molto di quello che potrebbe aver
fatto durante queste sue fughe», rispose per me il dottor Campbell. «E lui
non ne sa di più. Altrettanto all'oscuro sono sua moglie e la sua famiglia,
che abbiamo già ascoltato molte volte.»
«Inoltre ignoriamo quante siano le personalità agenti», intervenni.
«Quanto all'altra ragione...» - feci una pausa a effetto -, «è che voglio in-
terrogarlo su Maggie Rose Dunne. Voglio cercare di scoprire che cosa le
ha fatto.»
«Bene, ci ha illustrato le sue argomentazioni, dottor Cross. Grazie per il
tempo e l'impegno che sta dedicando a questo caso», concluse James
Dowd. «Le faremo sapere.»

Quella sera decisi di prendere in mano le redini della faccenda.


Telefonai a un giornalista del Post che conoscevo e di cui mi fidavo e gli
chiesi di incontrarci al Pappy's Diner, un locale situato ai margini della zo-
na sud-est. Da Pappy's nessuno ci avrebbe riconosciuto, ed era esattamente
ciò che volevo: che nessuno sapesse del nostro incontro. Per il bene di en-
trambi.
Lee Kovel era uno yuppie sulla via del declino e per certi versi un imbe-
cille, ma a me piaceva. Non faceva mai mistero dei suoi sentimenti: le sue
piccole meschine gelosie, la sua amarezza per lo squallore in cui era preci-
pitato il giornalismo, il suo presunto cuor tenero, le sue occasionali impen-
nate conservatoci. Era tutto bene in vista, perché il mondo ne prendesse at-
to.
Mi raggiunse al banco. Portava un abito grigio e scarpe da tennis azzur-
re. Pappy's offre un illuminante spaccato sull'eterogeneità razziale del Pae-
se: i suoi clienti sono latinoamericani, neri, coreani, bianchi della classe
lavoratrice che per un verso o per l'altro provvedono ai bisogni della zona
sud-est. Ma Lee è unico.
«Qui dentro spicco come un occhio nero», si lamentò. «Sono troppo su
per questo posto.»
«E chi potrebbe vederti? Il tuo direttore? Evans e Novak?»
«Molto divertente, Alex. Che diavolo hai in mente? Perché non mi hai
chiamato quando questa storia era ancora fresca? Prima che beccassero
quell'imbecille?»
«Gli dia un caffè, nero e bollente», dissi al barman. «Ho bisogno che sia
ben sveglio.» Mi girai a guardare Lee. «Ipnotizzerò Soneji in carcere. Cer-
cherò Maggie Rose Dunne nel suo inconscio. Puoi avere l'esclusiva. Ma a
quel punto mi sarai debitore di un favore.»
«Stronzate!» sputò quasi lui. «Sentiamola tutta, Alex. Ho l'impressione
che tu abbia lasciato fuori qualcosa.»
«Indovinato. Sto cercando di ottenere l'autorizzazione a ipnotizzare So-
neji. Ci sono in mezzo un sacco di sporchi giochetti politici. Ma se farai in
modo che il Post ne parli, credo che mi accontenteranno. La teoria delle
profezie che trovano in se stesse il proprio adempimento, hai presente? Ot-
terrò l'autorizzazione. E tu avrai l'esclusiva.»
Il caffè arrivò in una bella tazza vecchio stile. Marrone chiaro con un
sottile bordo blu sotto l'orlo. Con aria più che mai meditabonda, Lee sor-
seggiò la bevanda. Sembrava divertito da quel mio tentativo di manipolare
l'ordine costituito di Washington. Faceva palpitare il suo tenero cuore.
«E se saprai qualcosa da Gary Soneji, io sarò il secondo a esserne infor-
mato. Subito dopo di te, Alex.»
«Pretendi molto. D'accordo, comunque. Pensaci su, Lee. È per una buo-
na causa. Si tratta di Maggie Rose. Per non parlare della tua carriera.»
Lo lasciai a finire il caffè di Pappy's e a dar forma al suo pezzo.
E fu davvero così, perché uscì nell'edizione del mattino del Post.

Nana Mama è sempre la prima ad alzarsi a casa nostra. Probabilmente è


la prima in tutto il mondo. O almeno così credevamo Sampson e io quando
avevamo dieci o undici anni e lei era vicepreside della Garfield North Ju-
nior High School.
Che mi svegli alle sette, alle sei o alle cinque, la luce in cucina è invaria-
bilmente accesa e Nana Mama è lì, intenta a fare colazione o a prepararse-
la. È quasi sempre la stessa: un uovo in camicia, un muffin, tè leggero con
latte e due cucchiaini di zucchero.
Di solito ha già cominciato a preparare la colazione anche per noi, nel
pieno rispetto delle nostre diversità di gusti. Di norma il menù della casa
comprende: frittelle e salsicce di maiale o pancetta; melone quando è la
stagione; fiocchi di riso o d'avena o porridge con un bel tocco di burro e
una generosa spolverata di zucchero; uova cucinate in tutti i modi possibi-
li.
Di tanto in tanto fa la sua comparsa anche un'omelette alla gelatina d'u-
va, l'unico dei suoi piatti che io non apprezzi. Le omelette di Nana sono
troppo bruciacchiate all'esterno e, come le ho detto più volte, uova e gela-
tina stanno bene insieme quanto le frittelle col ketchup. Lei non è d'accor-
do, anche se a dire la verità non l'ho mai vista assaggiare l'omelette con ge-
latina. I ragazzi invece la adorano.
Quella mattina di marzo Nana era seduta al tavolo di cucina e leggeva il
Washington Post, che, tra parentesi, ci viene consegnato da un uomo di
nome Washington. Il signor Washington fa colazione con Nana tutti i lu-
nedì mattina. Quel giorno però era mercoledì, e stavamo per entrare in una
fase importante delle indagini.
La scena che mi si parò davanti agli occhi al mio ingresso in cucina era
familiare, e tuttavia non potei fare a meno di trasalire. Ancora una volta mi
veniva mostrato in quale misura il rapimento Dunne-Goldberg era entrato
nella nostra vita privata, nella vita dei miei familiari.
Il titolo di testa del Washington Post recitava: SONEJI/MUEPHY IP-
NOTIZZATO.
Lessi l'articolo, corredato da una fotografia di Soneji e da una mia, men-
tre mangiavo le mie solite due prugne secche. Si parlava di certe non me-
glio precisate «fonti scettiche riguardo alle opinioni dei terapeuti incaricati
di seguire il sequestratore», di «riscontri medici che avrebbero potuto mo-
dificare il corso del processo»; si diceva che, «se fosse stato giudicato
mentalmente incapace, Soneji/Murphy avrebbe potuto cavarsela con una
condanna di tre anni da scontare in qualche istituto psichiatrico». Eviden-
temente, io non ero l'unica fonte di Lee.
«Perché non escono allo scoperto e non dicono quello che hanno in men-
te?» borbottò Nana, masticando il suo toast. Evidentemente non apprezza-
va più di tanto lo stile del mio amico.
«Dire che cosa, Nana?» indagai.
«Quello che salta agli occhi. C'è qualcuno che non vuole vederti frugare
nel suo piccolo caso tranquillo. Vogliono lavare la giustizia con lo Spic e
Span; non è essenziale che si arrivi alla verità. Anzi sembra che qui nessu-
no abbia grande interesse per la verità. Vogliono solo che cessi il dolore.
La gente ha una soglia di tolleranza al dolore molto bassa, soprattutto da
un po' di tempo a questa parte. Per la precisione, da quando il dottor Spock
ha cominciato ad allevare i bambini al posto nostro.»
«È su questo che stai macchinando mentre mangi il tuo uovo, Nana? Hai
un attacco di pessimismo mattutino?»
Mi versai una tazza di tè. Niente latte né zucchero. Presi un muffin e tra
le due fette infilai un paio di salsicce.
«Nessuna macchinazione. La verità è evidente come il naso che hai in
mezzo alla faccia, Alex.»
Abbozzai un cenno d'assenso. Forse aveva ragione, ma era un pensiero
troppo scoraggiante per affrontarlo alle sei del mattino. «Niente di meglio
delle prugne a quest'ora. Mmm, proprio buone.»
«Uhm.» Nana Mama si accigliò. «Sono contenta che ti piacciano perché
ho il sospetto che d'ora in poi dovrai ingoiare bocconi più amari. Spero non
ti secchi se ti parlo senza peli sulla lingua, Alex.»
«Grazie, Nana. Apprezzo la tua franchezza.»
«Non c'è di che. E insieme con la colazione voglio offrirti questo ottimo
consiglio: non fidarti dei bianchi.»
«La colazione è squisita.»
«Come sta la tua nuova ragazza?» fece mia nonna.
Non perde mai un colpo.

50

C'era nell'aria un ronzio acuto quando scesi dall'auto, e a produrlo era


una piccola folla di giornalisti e cronisti televisivi radunata all'esterno del
carcere. Aspettavano me. E mi aspettava anche Soneji/Murphy, che per
l'occasione aveva lasciato il reparto di massima sicurezza.
Uscii dal parcheggio sotto una pioggerellina sottile e subito mi trovai
circondato da una selva di telecamere e microfoni puntati verso di me da
una dozzina di diverse angolazioni. Ero lì per ipnotizzare Soneji/Murphy, e
i giornalisti lo sapevano. Ero l'uomo del giorno.
«Thomas Dunne sostiene che lei sta cercando di far ricoverare Soneji in
un istituto psichiatrico, perché possa tornare libero nel giro di un paio
d'anni. Qualche commento, detective Cross?»
«Per il momento nessuno.» Non potevo parlare coi giornalisti, anche se
quell'atteggiamento non mi avrebbe certo reso più popolare. Ma mi ero
impegnato in questo senso con l'ufficio del procuratore generale, in cambio
dell'autorizzazione a incontrare il detenuto.
Al giorno d'oggi l'ipnosi è molto usata in psichiatria, e spesso a praticar-
la è lo stesso terapeuta che segue il paziente, oppure uno psicologo. Ciò
che mi proponevo nel corso di una serie di sedute era scoprire che cosa
fosse accaduto a Gary Soneji/ Murphy durante i suoi «giorni perduti», le
sue fughe dalla realtà. Ovviamente non sapevo quanto tempo ci sarebbe
voluto e, quanto a questo, neppure se l'esperimento avrebbe avuto suc-
cesso.
Una volta nella cella di Gary, tutto si svolse senza il minimo intoppo. Lo
invitai a rilassarsi e a chiudere gli occhi. Dopodiché gli chiesi di inspirare
ed espirare con lentezza e regolarità. Lo esortai a sgomberare la mente e
quindi a contare lentamente da cento a uno.
Prometteva di essere un buon soggetto; non oppose resistenza e quasi
subito scivolò in un profondo stato di trance. Per quanto potevo vedere, era
sotto ipnosi e decisi di procedere come se non nutrissi alcun dubbio al ri-
guardo. Naturalmente stavo all'erta, pronto a cogliere eventuali segni che
rivelassero da parte sua la volontà d'ingannarmi, ma non ne rilevai nessu-
no.
La respirazione si era fatta considerevolmente più lenta. Non lo avevo
mai visto così tranquillo e per qualche minuto chiacchierammo del più e
del meno.
Dato che Gary era rinvenuto o tornato in sé nel parcheggio del McDo-
nald's, affrontai l'argomento non appena lo vidi completamente rilassato.
«Ricorda di essere stato arrestato nel McDonald's di Wilkinsburg?»
Una breve pausa, poi: «Oh, sì, naturalmente, lo ricordo».
«Ne sono lieto, perché ho un paio di domande da farle in proposito. Non
ho ben chiara l'esatta sequenza degli eventi. Per caso ricorda qualcosa di
quello che ha mangiato?»
Vedevo i bulbi oculari muoversi sotto le palpebre abbassate. Stava riflet-
tendo prima di rispondere. Il suo piede sinistro batteva ripetutamente e ra-
pidamente sul pavimento.
«No... no... Non mi sembra. Ho davvero mangiato lì? Non ricordo. Non
sono certo di averlo fatto.»
Almeno, non negava di essersi trovato all'interno del McDonald's.
«Si ricorda di aver notato qualcuno tra i presenti? Qualche cliente? Per
caso ha parlato con una delle ragazze al banco?»
«Mmm... Era affollato. Non mi viene in mente nessuno in particolare.
Ricordo di aver pensato che c'è gente che si veste tanto male da essere co-
mica. In posti come Hojo's o McDonald's se ne trovano sempre di persone
così.»
Nella sua mente, era di nuovo da McDonald's. Era arrivato fin là con me.
Continua così, Gary.
«Ha usato il bagno?» Sapevo già che lo aveva fatto. Nel verbale d'arre-
sto erano riportati nei dettagli quasi tutti i suoi movimenti.
«Sì, ho usato il bagno», confermò lui.
«Ha anche bevuto qualcosa? Mi porti con sé. Cerchi di ricollocarsi in
quel momento. Si sforzi più che può.»
Sorrise. «La prego. Non faccia il condiscendente.»
Aveva piegato la testa di lato, in un'inclinazione bizzarra. Poi cominciò a
ridere. Una risata strana, più profonda di quella che io conoscevo. Strana, e
tuttavia non del tutto allarmante. Le frasi si fecero più rapide, più staccate.
E il piede batteva per terra sempre più veloce.
«Non è abbastanza in gamba per farcela», disse.
L'improvviso mutamento mi colse di sorpresa. «Per fare che cosa? Si
spieghi, Gary. Non riesco a seguirla.»
«Per cercare d'imbrogliarmi. Ecco quello che intendo dire. È intelligente.
Ma non abbastanza.»
«Chi starei cercando d'imbrogliare?»
«Soneji, naturalmente. C'è lui da McDonald's. Lui sta fingendo di volere
un caffè, ma in realtà è incazzato nero. Sta per esplodere. Ha bisogno di at-
tirare l'attenzione. Subito.»
Mi protesi verso di lui. Non era quello che avevo previsto.
«Perché è arrabbiato? Lei lo sa?»
«È incazzato perché hanno avuto fortuna. Ecco perché.»
«Chi ha avuto fortuna?»
«La polizia. È incazzato perché quegli idioti potrebbero rovinare tutto,
mandare a puttane il grande piano.»
«Mi piacerebbe discuterne con lui», dissi, nel tono più disinvolto che
riuscii a trovare. Se Soneji era lì, forse avremmo potuto parlare.
«No! No. Lei non è sul suo stesso piano. Non capirebbe nulla di quanto
lui ha da dire. Lei non sa un bel nulla di Soneji.»
«È ancora arrabbiato? fi arrabbiato perché si trova in prigione? Che cosa
ne pensa Soneji del fatto di essere qui, in questa cella?»
«Lui dice... vaffanculo. VAFFANCULO!»
Mi si avventò addosso, abbrancandomi per il bavero della giacca sporti-
va.
Era forte, ma lo sono anch'io. Mi avvinghiai a lui e lui a me. Sembrava-
mo due grossi orsi abbracciati. Le nostre teste si scontrarono. Avrei potuto
divincolarmi, ma non lo feci. In realtà non mi stava facendo davvero male.
La sua aggressione era da intendersi soprattutto come una minaccia, quasi
avesse voluto ristabilire le distanze fra noi.
Campbell e le guardie arrivarono di corsa. Soneji/Murphy mi lasciò an-
dare e cominciò a scagliarsi contro la porta della cella. Aveva la bava alla
bocca. E urlava. Imprecava a pieni polmoni.
Solo a fatica gli agenti di custodia riuscirono ad atterrarlo e a immobiliz-
zarlo. Soneji era più robusto di quanto suggerisse la sua corporatura snella;
avevo appena avuto modo di scoprirlo.
Arrivò anche il medico, che gli somministrò un tranquillante. Di lì a po-
chi minuti, il detenuto dormiva accasciato sul pavimento.
Gli agenti lo issarono sulla brandina e lo imprigionarono in una camicia
di forza. Attesi finché non sentii girare la chiave nella serratura.
Chi c'era in quella cella?
Gary Soneji?
O Gary Murphy?
O tutti e due?

51

Quella sera, Pittman, il capo, mi telefonò a casa. Sospettavo che non fos-
se per congratularsi del mio lavoro con Soneji/Murphy, e avevo ragione. Il
capo voleva che passassi nel suo ufficio l'indomani mattina.
«Che cosa c'è?» gli chiesi.
Non volle dirmelo per telefono e dubito che la sua reticenza fosse da at-
tribuirsi al timore di rovinarmi la sorpresa.
Al mattino, mi rasai con cura e per l'occasione misi la giacca di pelle.
Poi, prima di uscire, suonai qualcosa al piano della veranda. Suonai The
Man I Love, For All We Know e That's Life, I Guess. Dopodiché andai a
trovare il capo.
Per essere le otto meno un quarto del mattino, c'era troppa attività nel-
l'ufficio di Pittman. Per una volta anche l'assistente del capo sembrava im-
pegnatissimo.
Il vecchio Fred Cook è un detective fallito che ora si atteggia ad assi-
stente amministrativo. Ha l'aria di uno di quei reperti storici che scendono
in campo nelle partite di baseball tra vecchi compagni di scuola. Fred è un
essere abietto, meschino, e un politico fin nelle ossa. Averlo come referen-
te è come lasciare messaggi a uno degli ospiti fissi di un museo delle cere.
«Il capo ti sta aspettando», mi annunciò con uno dei suoi tipici sorrisetti
di superiorità. Fred Cook adora sapere le cose prima di tutti noi. E quelle
che non sa, fa finta di saperle.
«Che succede stamattina, Fred? Avanti, so che tu puoi dirmelo, se vuoi.»
Vidi nei suoi occhi un lampo di soddisfatta consapevolezza. «Entra e
scoprilo da solo. Sono sicuro che il capo non si farà pregare per metterti al
corrente delle sue intenzioni.»
«Sono fiero di te, Freddy. Sei la persona giusta cui affidare un segreto.
Sai, dovresti lavorare al Consiglio nazionale per la sicurezza.»
Ero pronto al peggio quando entrai, ma avevo sottovalutato il capo.
Nell'ufficio con Pittman c'era il sindaco Carl Monroe. Più il nostro capi-
tano di polizia Christopher Clouser e, meraviglia delle meraviglie, John
Sampson. A quanto pareva, nel sancta sanctorum del capo era in corso una
di quelle colazioni di lavoro tanto di moda a Washington.
«Non è poi così male», disse Sampson a bassa voce. Ma a dispetto delle
sue parole sembrava un grosso animale finito in una di quelle trappole a
doppia morsa usate dai cacciatori. Ebbi la sensazione che si sarebbe volen-
tieri tranciato un piede pur di lasciare la stanza.
«Per nulla, direi.» Carl Monroe sorrise gioviale nel vedere l'espressione
dipinta sul mio viso. «Abbiamo buone notizie per tutti e due. Notizie molto
buone. Devo...? Ma sì, credo di sì... Tu e Sampson siete stati promossi. Da
questo momento. Mi congratulo col nostro nuovo detective anziano e il
nuovo capodivisione.»
Applaudirono tutti e tre con aria d'approvazione, mentre Sampson e io ci
scambiavamo un'occhiata incredula. Che diavolo stava succedendo?
Se l'avessi saputo, avrei portato con me anche Nana e i bambini. Sem-
brava proprio una di quelle occasioni in cui il presidente distribuisce me-
daglie e ringraziamenti alle vedove di guerra. Solo che questa volta alla ce-
rimonia era stato invitato anche il morto. Perché, agli occhi di Pittman,
Sampson e io eravamo morti.
Rivolsi a Monroe un sorriso complice. «Sarebbe così gentile da spiegare
anche a noi che cosa bolle in pentola? Sa, quello che c'è sotto.»
Carl Monroe sfoderò il suo magnifico sorriso: caldo, personalissimo,
genuino. «Mi è stato chiesto di venire per la promozione tua e del detective
Sampson. Questo è tutto. E sono molto felice di trovarmi qui, Alex...» -
abbozzò una smorfia buffa -, «alle otto meno un quarto del mattino.»
Lo ammetto, a volte non è difficile provare simpatia per Carl. Sa per filo
e per segno chi e che cosa è diventato da quando si è messo in politica. Mi
ricorda le prostitute della 14th Street, che ti lanciano un paio di vecchie bat-
tute mentre le porti dentro per adescamento.
«Ci sarebbe da discutere un paio di altre questioni», intervenne Pittman,
ma subito si affrettò ad aggiungere: «Possiamo parlarne dopo. Ora dedi-
chiamoci al caffè e ai pasticcini».
«Io invece credo che dovremmo discuterne adesso», ribattei. Poi, pun-
tando gli occhi su Monroe: «Metta le sue questioni sul tavolo coi pasticci-
ni».
Lui scosse la testa. «Perché non te la prendi calma, una volta tanto?»
«Non potrei mai candidarmi a una carica pubblica, vero? Come politico
non valgo granché.»
Il sindaco strinse le spalle, ma senza smettere di sorridere. «Non lo so,
Alex. A volte, con l'esperienza, un uomo cambia e adotta uno stile più effi-
cace. Vede quello che funziona e quello che non funziona. La disponibilità
al confronto è decisamente più gratificante. Anche se non sempre si rivela
la scelta migliore.»
«È di questo che si tratta? Della scelta migliore?» saltò su Sampson. «È
questo l'argomento della colazione di stamattina?»
Monroe annuì. «Credo di sì. Sì, è questo.» E addentò un dolcetto.
Pittman riempì di caffè una costosa tazzina di porcellana che sembrava
troppo piccola e delicata nella sua grossa mano. Mi fece venire in mente le
tartine al salmone. Roba per palati ricchi.
«Per via di questo caso ci stiamo mettendo in urto con l'FBI e i servizi
segreti. Una situazione che non fa comodo a nessuno. Di conseguenza, ab-
biamo deciso di farci completamente da parte. Di sollevarvi dall'incarico.»
Tombola. E con questo avevamo fatto il paio. Era saltata fuori la verità
della nostra piccola colazione di lavoro.
Di colpo cominciammo a parlare tutti insieme. E almeno due di noi sta-
vano gridando.
«È una stronzata», ringhiò Sampson in faccia al sindaco. «E lei lo sa. Lo
sa, vero?»
«Ho iniziato le sedute di ipnosi con Soneji/Murphy», sbraitai io a Pit-
tman, Monroe e Clouser. «L'ho ipnotizzato ieri. Cristo santo, no. Non fate-
lo. Non ora.»
«Siamo al corrente dei tuoi progressi con Gary Soneji. Avevamo una de-
cisione da prendere e l'abbiamo presa.»
Improvvisa echeggiò la voce di Carl Monroe. «Vuoi la verità, Alex?
Vuoi sapere come stanno realmente le cose?»
Lo guardai. «Sempre.»
Monroe non mi staccava gli occhi di dosso. «Il procuratore generale ha
fatto pressioni su un bel po' di gente qui a Washington. Ben presto, fra non
più di sei settimane, avrà inizio un grossissimo processo. L'Orient Express
è già partito, Alex. E tu non sei a bordo. Io non sono a bordo. Questa fac-
cenda è diventata molto più grande di noi. Ora tocca a Soneji/Murphy... Il
procuratore, il ministero della Giustizia, ha deciso di sospendere le tue se-
dute con Soneji/Murphy. A seguirlo sarà un'equipe di psichiatri apposita-
mente formata. Ecco come funzioneranno le cose d'ora in poi. Il caso è en-
trato in una nuova fase e la nostra partecipazione non è più richiesta.»
Sampson e io piantammo in asso la festa. La nostra partecipazione non
era più richiesta.

52

Nella settimana successiva presi l'abitudine di rientrare dal lavoro a orari


ragionevoli, di solito fra le sei e le sei e mezzo. Era passato il tempo delle
settimane lavorative di ottanta o cento ore. Damon e Janelle non sarebbero
stati più felici se mi avessero licenziato in tronco.
Noleggiammo videocassette di Walt Disney e delle Tartarughe Ninja,
ascoltavamo l'album triplo Billie Holiday: The Legacy 1933-1958 e ci ad-
dormentavamo tutti e tre sul divano. Insomma, ce la spassavamo alla gran-
de.
Un pomeriggio, andammo al cimitero da Maria. Né Damon né Janelle
avevano mai superato del tutto la perdita della madre.
Prima che lasciassimo il camposanto, mi fermai accanto a un'altra tom-
ba. Quella dove riposava per sempre Mustaf Sanders. Mi sembrava quasi
di vedere i suoi occhietti tristi fissi su di me. Occhi che domandavano:
perché? Non avevo ancora una risposta per Mustaf. Ma neppure ero dispo-
sto a rinunciare.
Un sabato, verso la fine dell'estate, Sampson e io affrontammo il lungo
viaggio fino a Princeton, nel New Jersey. Di Maggie Rose ancora nessuna
traccia. E neppure dei dieci milioni del riscatto. Così, noi approfittavamo
del tempo libero per ricontrollare tutto da cima a fondo.
Parlammo con parecchi vicini dei Murphy. Tutti i membri della sua fa-
miglia erano morti in un incendio, ma nessuno aveva mai sospettato di
Gary. Per quanto ne sapevano a Princeton, Gary Murphy era stato uno stu-
dente modello. Sebbene apparentemente non studiasse mai e non avesse
mai rivelato particolari ambizioni, si era diplomato quarto del suo corso. E
non si era mai cacciato nei guai, o almeno i suoi vicini di casa non ne era-
no al corrente. Il giovane che ci descrissero assomigliava straordinaria-
mente al Gary Murphy che avevo incontrato nel carcere di Lorton.
Erano tutti concordi, tranne un vecchio amico d'infanzia che penammo
non poco a rintracciare. Simon Conklin, fruttivendolo presso uno dei mer-
cati di zona, abitava a una ventina di chilometri da Princeton Village. An-
dammo a cercarlo perché di lui mi aveva parlato Missy Murphy e, benché
lo avesse interrogato, l'FBI non ne aveva cavato granché.
In un primo tempo Conklin si rifiutò di parlarci; era stufo dei poliziotti,
disse. Cedette solo quando lo minacciammo di trascinarlo a Washington
con noi.
«Gary ha sempre preso in giro tutti quanti», ci raccontò nello sciatto
soggiorno della sua casetta. Era un uomo alto, disordinato, con l'aria logora
e i vestiti irreparabilmente male assortiti. Ma era intelligente. Anche lui,
come il suo amico Gary Murphy, era stato un ottimo studente. «Diceva
sempre che i grandi sapevano come prendersi gioco di tutti. I Grandi con la
maiuscola, capite. Così parlò Gary!»
«Che cosa intendeva dire, parlando dei 'grandi'?» domandai. A condi-
zione che assecondassi il suo ego, pensavo, sarei riuscito a farlo parlare. A
tirargli fuori tutto il possibile.
«Lui li chiamava il Novantanovesimo Percentile», mi confidò Conklin.
«La crème de la crème. Il meglio del meglio. I signori del mondo, amico.»
«Il meglio di che?» interloquì Sampson. Mi ero già accorto che Conklin
non gli piaceva, ma fino a quel momento era stato al gioco e aveva recitato
la parte dell'ascoltatore attento.
L'altro ebbe un sorrisetto altezzoso. «Il meglio dei veri psicopatici. Quel-
li che sono sempre rimasti fuori, e sempre ci resteranno, perché nessuno li
beccherà mai. Quelli troppo furbi per farsi beccare. Che guardano gli altri
dalle loro infinite altezze. Non mostrano alcuna pietà, alcuna misericordia.
Sono gli unici artefici del loro destino.»
«E Gary Murphy era uno di loro?» domandai, comprendendo che adesso
era disposto a parlare. Di Gary, ma anche di se stesso. Intuivo che Conklin
si considerava parte di quel Novantanovesimo Percentile.
«No. Non secondo Gary, perlomeno.» Scosse la testa, senza rinunciare a
quel suo irritante sorrisetto. «Secondo Gary, lui era molto più in gamba del
Novantanovesimo Percentile. È sempre stato convinto di essere un model-
lo unico. L'originale. Amava definirsi una 'bizzarria della natura'.»
Lui e Gary, ci disse Simon Conklin, abitavano nella medesima strada, a
circa dieci chilometri dalla città. Prendevano l'autobus della scuola insieme
ed erano amici fin dall'età di nove o dieci anni. La strada era la stessa che
portava alla fattoria Lindbergh, a Hopewell.
Ci disse inoltre che era stato certamente Gary ad appiccare l'incendio in
cui era morta la sua famiglia, nell'intento di vendicarsi. Sapeva tutto delle
violenze di cui Gary era stato vittima. Non avrebbe mai potuto provarlo,
ma era certissimo che il colpevole dell'incendio fosse lui.
«Ora vi spiego come faccio a esserne certo. Fu lui stesso a dirmelo,
quando avevamo dodici anni. Mi disse che avrebbe fatto i conti con loro in
occasione del suo ventunesimo compleanno. Disse che in questo modo tut-
ti lo avrebbero creduto lontano, a scuola, e nessuno avrebbe mai sospettato
di lui. Ed è proprio così che è andata, giusto? Ha aspettato nove lunghi an-
ni. Ha avuto nove anni per mettere a punto il suo piano.»
Quel giorno restammo con Simon Conklin per tre ore, e altre cinque ne
trascorremmo insieme il giorno successivo. Ci raccontò un'infinità di storie
tristi e raccapriccianti. Gary chiuso nello scantinato di casa Murphy per
giorni e giorni, a volte per settimane. I suoi ossessivi progetti a lunga sca-
denza: a dieci anni, a quindici, a vita. La guerra segreta ingaggiata da
Gary contro i piccoli animali, soprattutto contro gli uccelli che svolazza-
vano nel giardino della matrigna. Di come strappava le zampe e le ali ai
pettirossi: una zampa, poi un'ala, quindi l'altra zampa e la seconda ala, per
farli morire il più lentamente possibile. Il suo considerarsi al di sopra per-
fino del Novantanovesimo Percentile, al di sopra di tutti. E, infine, la sua
abilità nel fingere e nel recitare qualsiasi parte.
Mi sarebbe piaciuto aver saputo tutto questo durante i miei incontri con
Gary Murphy, a Lorton. Mi sarebbe piaciuto dedicare parecchie sedute a
Gary, e all'esplorazione degli antichi fantasmi di Princeton. Mi sarebbe
piaciuto parlare con lui del suo vecchio amico Simon Conklin.
Sfortunatamente, non avevo più nulla a che fare con le indagini. Il caso
era ormai fuori della portata mia, di Sampson e di Simon Conklin.
Informai l'FBI di quanto avevamo appreso. Stesi un verbale di dodici
pagine su Simon Conklin, verbale cui non fece seguito nessuna iniziativa.
Ne scrissi un secondo e ne mandai una copia a tutti coloro che avevano fat-
to parte della prima squadra di ricerca. Vi era citata un'osservazione di Si-
mon Conklin a proposito del suo amico d'infanzia: «Gary diceva sempre
che avrebbe fatto cose importanti».
Non successe nulla. Simon Conklin non fu interrogato anche dall'FBI.
Loro non volevano seguire tracce nuove. La sola cosa che gli stesse a cuo-
re era chiudere il caso Maggie Rose Dunne.

53

Sul finire di settembre, Jezzie e io ce ne andammo alle Isole Vergini per


un lungo weekend. Lei e io soltanto. L'idea fu di Jezzie e a me sembrò
buona. Eravamo curiosi. Ansiosi. Eccitati dalla prospettiva di quattro gior-
ni da passare insieme, senz'altra compagnia. Forse non saremmo riusciti a
sopportarci tanto a lungo. Si trattava di scoprirlo.
Sulla Front Street di Virgin Gorda nessuno si girò a guardarci. Un cam-
biamento piacevole rispetto a Washington, dove solitamente la gente ci
fissava a bocca aperta.
Prendemmo lezioni d'immersione da una ragazza nera di diciassette an-
ni. Passeggiammo a cavallo lungo una spiaggia che si stendeva ininterrotta
per almeno sei chilometri. A bordo di una Range Rover c'inoltrammo nella
giungla dove ci smarrimmo per mezza giornata. L'esperienza più indimen-
ticabile fu la visita a una località troppo bella per essere vera, e che battez-
zammo «l'Isola Privata in Paradiso di Jezzie e Alex». Era stato l'albergo a
trovarla per noi. Ci portarono lì in barca e ci lasciarono soli.
«È il posto più straordinario che abbia mai visto», dichiarò Jezzie.
«Guarda che acqua, e che sabbia. E le scogliere che ci sovrastano...»
«Non è la 5th Street, ma non è male.» Sorridendo, mi guardai intorno.
La nostra isola privata era in pratica un lungo banco di sabbia bianca che
aveva la consistenza dello zucchero sotto i nostri piedi. Al di là di essa, si
stendeva la giungla più lussureggiante che avessimo mai visto, punteggiata
di rose bianche e buganvillee. Il mare verdazzurro era limpido come acqua
sorgiva.
La cucina ci aveva fornito la colazione al sacco: ottimo vino, formaggi
scelti, aragosta, polpa di granchio e insalate di vario tipo. In giro non si
vedeva anima viva. Facemmo quello che ci sembrò più naturale. Ci spo-
gliammo. Senza vergogna. Senza tabù. Eravamo soli in paradiso, quindi
perché no?
Risi forte mentre giacevo sulla sabbia con Jezzie. Un'altra delle cose che
di recente facevo molto più spesso: sorridere, sentirmi in pace con quanto
mi circondava. Sentire, e basta. Ero terribilmente felice di provare di nuo-
vo sentimenti ed emozioni. Tre anni e mezzo di lutto sono davvero troppo
lunghi.
«Lo sai, vero, di essere incredibilmente bella?» le dissi, sdraiato al suo
fianco.
«Non so se te ne sei accorto, ma in borsa ho sempre un portacipria. Con
lo specchietto.» Mi guardò negli occhi. «In effetti, da quando sono entrata
nei Servizi, ho sempre cercato di minimizzare il fattore avvenenza. Altri-
menti si rischia d'incasinare le cose, in una città dominata dai macho com'è
Washington.» Mi strizzò l'occhio. «Sai essere talmente serio, Alex. Ma an-
che infinitamente divertente. Scommetto che solo i tuoi figli conoscono
questo aspetto di te.»
«Non cambiare argomento. Stavamo parlando di te.»
«Tu stavi parlando di me. Di tanto in tanto vorrei passare un po' di tem-
po a farmi bella; ma di solito mi va bene andare a letto con la testa piena di
bigodini rosa e guardare vecchi film in televisione.»
«Sei stata bella per tutto il weekend. E non ho visto neppure l'ombra di
un bigodino. Solo nastri e fiori freschi tra i capelli. Costumi da bagno sen-
za spalline. A volte, niente costume del tutto.»
«Certo che ora, qui, ci tengo ad apparire carina. A Washington è diverso.
È solo un problema in più da risolvere. Vai dal tuo capo. C'è un caso im-
portante cui stai lavorando da mesi e la prima cosa che lui ti dice è: 'Teso-
ro, sei fantastica con quel vestito'. E a quel punto ti viene una gran voglia
di rispondere: 'Vaffanculo, stronzo'.»
Le presi le mani. «Grazie per essere come sei. Grazie per essere così bel-
la.»
«Lo faccio per te», sorrise lei. «Mi piacerebbe fare anche qualcos'altro
per te. E che tu facessi qualcosa per me.»
Lo facemmo.

Fino a quel momento, fra me e Jezzie non c'era stato un solo momento di
stanchezza. Tutto il contrario, anzi. E perché stupirsene? Quello era il pa-
radiso, dopotutto.
Quella sera andammo a cena in un ristorante all'aperto giù in città.
Guardando la spensierata vita isolana che ci ferveva intorno, ci chiedemmo
perché mai non mollassimo tutto per cominciare finalmente a godercela
anche noi. Mangiammo gamberi e ostriche e parlammo per un paio d'ore di
fila. Ci aprimmo senza riserve, Jezzie soprattutto.
«Sono sempre stata ossessionata dal lavoro, Alex», mi confidò. «E non
mi riferisco solo al caso dei rapimenti. Ero sempre a esaminare rapporti, a
inseguire soluzioni impossibili. Avevo ingranato la quinta, e non riuscivo
più a fermarmi.»
Non feci commenti. Volevo ascoltarla. Volevo sapere tutto quello che
c'era da sapere.
Lei sollevò il boccale. «E ora eccomi qui, a bere birra alle Isole Vergini.
Be', i miei genitori erano alcolizzati. Tutti e due. Soffrivano di turbe del
comportamento prima ancora che queste diventassero di moda. Nessuno ha
mai saputo quanto grave fosse la situazione in casa nostra, ma urlavano e
litigavano in continuazione. Di solito mio padre perdeva conoscenza. Si
addormentava sulla sua poltrona. E mia madre restava fino a tarda notte
seduta al tavolo della sala da pranzo. Adorava i cocktail. Mi diceva: 'Pre-
parami un altro dei miei Manhattan, piccola Jezzie'. Io ero la loro piccola
addetta ai cocktail. È così che mi sono guadagnata la paglietta settimanale
dagli undici anni in poi.»
Tacque e mi guardò negli occhi. Non l'avevo mai vista così vulnerabile,
così insicura. E pensare che di solito emanava una tale fiducia in se stessa!
«Vuoi che smetta? Che parliamo di argomenti più allegri?»
Feci un cenno di diniego. «No, Jezzie. Voglio ascoltare tutto quello che
hai da dire. Voglio sapere tutto di te.»
«Siamo ancora in vacanza?»
«Sicuro, e desidero davvero che tu continui a parlare. Fidati di me. Se mi
annoierò, mi limiterò ad alzarmi e a lasciarti qui col conto da pagare.»
Allora sorrise e continuò. «Li amavo tutti e due, anche se forse in modo
strano. E credo che anche loro mi volessero bene. Ero la loro 'piccola Jez-
zie'. Credo di averti già detto una volta che non volevo diventare una bril-
lante fallita, come i miei genitori.»
«Forse in quell'occasione avevi leggermente sfumato i toni.» Sorrisi.
«Già. Be', comunque, lavoravo tutte le sere fino a tardi e anche il
weekend, i primi tempi che ero nei Servizi. Mi prefiggevo obiettivi impos-
sibili - supervisore a ventott'anni - e li raggiungevo sempre. Almeno in
parte, questo spiega perché il mio matrimonio si sia risolto in un tale disa-
stro. Vuoi sapere quando ho cominciato ad andare in moto?»
«Certo. E anche perché hai voluto che ci salissi.»
«Non riuscivo a staccare con la testa. Mai, neppure quando tornavo a ca-
sa la sera. Poi ho scoperto la moto. Quando fili a duecento all'ora, non puoi
non concentrarti sulla strada. E allora dimentichi finalmente il lavoro.»
«Questo è uno dei motivi per cui suono il piano», osservai. «Mi dispiace
per i tuoi genitori, Jezzie.»
«E io sono contenta di essere riuscita a parlartene. Non l'avevo mai fatto
prima. Nessun altro conosce la storia per intero.»
Ci prendemmo per mano in quel ristorante sull'isola. Non mi ero mai
sentito tanto vicino a lei. Dolce piccola Jezzie. Di tutti i momenti che ab-
biamo vissuto insieme, quello è uno che non scorderò mai. La nostra va-
canza in paradiso.
Di colpo, troppo di colpo, la vacanza finì.
Ci ritrovammo intrappolati a bordo del volo dell'American Airlines che
ci avrebbe riportato a Washington, alla pioggia e alla tetraggine, se i bol-
lettini meteorologici dicevano la verità. Al lavoro.
Durante il volo si creò tra noi una specie di barriera. Cominciavamo a
parlare contemporaneamente, ed eravamo costretti a logoranti minuetti a
base di prego, prima tu. Per la prima volta da quando eravamo partiti, ci
scoprimmo a parlare di lavoro.
«Credi davvero che si tratti di un caso di personalità multipla, Alex? Lui
sa che fine ha fatto Maggie Rose? Soneji lo sa. E Murphy lo sa?»
«A un certo livello, sì, indubbiamente. Era spaventato quando mi ha par-
lato di Soneji. Che si tratti o no di una personalità distinta, Soneji resta una
figura inquietante. Soneji sa quello che è accaduto a Maggie Rose.»
«E pensare che noi invece non lo sapremo mai con sicurezza. O almeno,
così sembra.»
«Già. Ma continuo a pensare che sarei riuscito a tirarglielo fuori. Era so-
lo questione di tempo.»
Eravamo in parecchie migliaia ad affrontare lo scenario da calamità na-
turale in cui il National Airport di Washington sembrava essersi trasforma-
to. Il traffico procedeva lentissimo. La coda davanti al posteggio dei taxi
cominciava all'interno del terminal. E tutti erano bagnati come pulcini.
Né io né Jezzie avevamo l'impermeabile e c'infradiciammo da capo a
piedi. Di colpo la vita divenne terribilmente deprimente e anche troppo re-
ale. Eravamo a Washington, dove le indagini stagnavano. L'inizio del pro-
cesso era imminente. Probabilmente sulla scrivania avrei trovato un mes-
saggio di Pittman.
«Torniamo indietro. Giriamo i tacchi e torniamocene da dove siamo ve-
nuti.» Jezzie mi prese per mano, mi trascinò fino alle porte di vetro della
Delta Shuttle.
Il suo corpo emanava un profumo e un calore familiari e piacevoli. In-
dugiava intorno a lei la fragranza del burro di cacao e dell'aloè.
La gente si voltava a guardarci. Ci scrutava. Ci giudicava. Quasi tutti,
passando, si giravano.
«Andiamocene di qui», dissi.

54

Le cose ripresero a muoversi in fretta. Alle due e mezzo di martedì po-


meriggio (ero arrivato a Washington alle undici), ricevetti una telefonata di
Sampson. Voleva che ci trovassimo a casa Sanders; pensava di aver trova-
to un nuovo collegamento fra il sequestro e gli omicidi. Era talmente stra-
ripante d'eccitazione da minacciare di esplodere da un momento all'altro.
Una delle prime piste seguite stava finalmente dando i suoi frutti.
Erano mesi che non tornavo sulla scena della strage, e tuttavia mi appar-
ve tristemente familiare. Guardando i rettangoli scuri delle finestre, mi
chiesi se la casa sarebbe mai stata venduta o affittata di nuovo.
Seduto in auto sul viale dei Sanders, rilessi il rapporto degli agenti che
per primi si erano occupati del caso. Non c'era nulla in quelle pagine che
non sapessi già e che non avessi letto almeno una dozzina di volte.
Il mio sguardo tornava sempre alla casa. Le tapparelle gialle erano ab-
bassate, impedendomi di vedere all'interno. Dov'era Sampson, e perché mi
aveva chiamato lì?
La sua vecchia Nissan si fermò dietro la mia macchina alle tre in punto.
Sampson scese e salì sulla Porsche.
«Oh, hai il colore dello zucchero caramellato, ora. Sei dolce da mangiare
come sembri?»
«Tu invece sei rimasto grosso e brutto. Ah, l'immutabilità delle cose. Al-
lora, che cosa volevi farmi vedere?»
«Un esempio del meraviglioso lavoro che a volte sa compiere la poli-
zia.» Si accese un Corona. «Avevi avuto ragione a voler stare dietro a que-
sta faccenda.»
Fuori ululava il vento, gonfio di pioggia. C'erano stati tornado nel Ken-
tucky e nell'Ohio. Il tempo era stato pessimo durante il weekend che avevo
trascorso con Jezzie.
«Sei stato in vela, hai fatto immersioni e giocato a tennis nel tuo villag-
gio per bianchi?» domandò Sampson.
«Non ne abbiamo avuto il tempo. Da buoni vacanzieri, eravamo impe-
gnati a instaurare legami spirituali troppo difficili da capire per te.» Decisi
di darci un taglio. «Entriamo?»
Già da parecchi minuti le scene del passato continuavano a balenarmi
davanti agli occhi, e nessuna era piacevole. Rividi il viso della giovane
Sanders, quattordicenne. E quello di Mustaf, che di anni ne aveva solo tre.
Erano stati belli tutti e due, ricordai. E ricordai come a nessuno fosse im-
portato nulla della loro morte.
«A dire la verità, siamo qui per i vicini», si decise a spiegare Sampson.
«Qui è successo qualcosa d'importante, ma ancora non capisco che cosa.
Però è importante, Alex. E ho bisogno di te.»
Andammo a parlare coi vicini dei Sanders, i Cerisier. Era importante.
Catturò tutta la mia attenzione, all'istante.
Sapevo già che Nina Cerisier era stata la miglior amica di Suzette San-
ders fin da quando erano bambine. Nina, come suo padre e sua madre, non
si era ancora ripresa dal trauma. Se ne avessero avuto la possibilità, si sa-
rebbero trasferiti altrove.
La signora Cerisier ci fece entrare e chiamò la figlia, che era al piano di
sopra. Ci sedemmo al tavolo della cucina. Dalla parete ci sorrideva Magic
Johnson. Nell'aria aleggiavano fumo di sigaretta e odore di fritto.
Quando finalmente scese, Nina si mostrò fredda e scostante. Era una ra-
gazza del tutto normale, sui quindici, sedici anni, e saltava agli occhi che
non era per nulla contenta di vederci.
«La settimana scorsa», esordì Sampson a mio beneficio, «Nina ha confi-
dato a uno dei suoi assistenti scolastici della zona sud-est che credeva di
aver visto l'assassino, un paio di sere prima della strage. Fino a quel mo-
mento non aveva trovato il coraggio di parlarne.»
«Posso capirla», dissi. Era quasi impossibile convincere i testimoni ocu-
lari a parlare con la polizia a Condon, Langley e in tutti i quartieri neri di
Washington.
«Ho saputo che l'hanno preso», disse Nina in tono noncurante. Aveva
due magnifici occhi color ruggine, che in quel momento erano fissi su di
me. «Ora non ho più tanta paura. Un po' sì, però.»
«Come l'hai riconosciuto?» domandai.
«L'ho visto in televisione. È lui l'autore di quel grosso rapimento. Hanno
detto tutto in TV.»
Guardai Sampson. «Ha riconosciuto Gary Murphy.» Il che significava
che lo aveva visto senza il suo travestimento da insegnante.
Lui si concentrò su Nina. «Sei proprio sicura che fosse lo stesso uomo?»
«Sì. Stava sorvegliando la casa della mia amica Suzie. Mi era sembrato
strano. Qui in giro di bianchi non se ne vedono molti.»
«Era giorno o notte quando lo hai visto?» la incalzai.
«Notte. Ma so che era lui. La luce della veranda dei Sanders era forte. La
signora Sanders aveva paura di tutto e di tutti. Se le fai bu, scappa. Me lo
diceva sempre Suzette.»
Mi rivolsi a Sampson. «E questo lo colloca sulla scena del delitto.»
Lui assentì, poi tornò a guardare Nina. Lei aveva l'aria imbronciata, la
bocca stretta a formare una piccola O e con le mani si tormentava senza
sosta i capelli raccolti in trecce.
«Vorresti dire al detective Cross anche il resto?»
«Con lui c'era un altro bianco», raccontò Nina Cerisier. «Rimane in auto
mentre l'altro sorveglia la casa di Suzette. Rimane lì tutto il tempo. Due
uomini.»
Sampson girò la sedia per guardarmi in faccia. «Hanno una gran fretta di
portarlo in aula», brontolò. «Non hanno la minima idea di quello che sta
succedendo, ma vogliono chiudere il caso. Celebreranno il processo e in-
sabbieranno tutto. Ma forse noi abbiamo la risposta, Alex.»
«Fino a questo momento, siamo i soli ad averne una», replicai. Ci con-
gedammo dai Cerisier e tornammo in città, ciascuno con la sua auto. Nella
mia mente cominciava a delinearsi una mezza dozzina di possibili ipotesi.
È così che lavora la polizia: un passo alla volta.
E intanto pensavo a Bruno Hauptmann e al rapimento Lindbergh. Anche
Hauptmann era stato processato in tutta fretta dopo essere stato catturato. E
quindi condannato e rinchiuso in carcere, forse ingiustamente.
Questo, Gary Soneji/Murphy lo sapeva. Faceva tutto parte di uno dei
suoi piani macchinosi? Un piano a lunga scadenza, a dieci o dodici anni?
Chi era l'uomo che Nina aveva visto con lui? Il pilota della Florida? O ma-
gari qualcuno come Simon Conklin, l'amico d'infanzia di Gary?
Possibile che ci fosse stato un complice fin dall'inizio?

Quella sera mi trovai con Jezzie. Aveva insistito perché smontassi di


servizio alle otto; da più di un mese si era procurata i biglietti per una par-
tita di pallacanestro dell'università di Georgetown. Durante il tragitto fa-
cemmo una cosa insolita per noi: parlammo solo e unicamente di lavoro.
Io feci esplodere l'ultima bomba, la «teoria del complice».
«C'è un aspetto che mi lascia sconcertata», fu il suo commento quando
le ebbi raccontato tutto. Jezzie non era meno ossessionata di me dai due
sequestri. La sua ossessione al riguardo era più discreta, più sottile, ma non
le dava tregua.
«D'accordo. La ragazza era amica di Suzette Sanders, giusto? Era vicina
alla famiglia. Eppure non ha parlato. A causa dei pessimi rapporti fra abi-
tanti del quartiere e polizia? Non sono sicura di poterlo credere. Il fatto che
di colpo, ora, apra la bocca e spifferi tutto...»
«Dammi retta», replicai. «Per la maggior parte di quella gente i poliziotti
sono come veleno per topi. Io vivo lì, tutti mi conoscono, eppure mi tolle-
rano a malapena.»
«Mi sembra talmente strano, Alex. Troppo strano. Le ragazze erano mol-
to amiche, dopotutto.»
«Sicuro che è strano. Ma è più facile che l'OLP parli con l'esercito israe-
liano che certi residenti della zona sud-est si confidino con la polizia.»
«In sostanza, qual è la tua opinione ora che hai ascoltato le presunte ri-
velazioni della Cerisier? Dove lo collochi questo... complice?»
«Per il momento da nessuna parte», ammisi. «Il che significa che si col-
loca perfettamente nel quadro generale. Sono convinto che la Cerisier ab-
bia visto qualcuno. La domanda è: chi?»
«Be', devo proprio dirtelo, Alex: a me pare una storia campata in aria.
Spero tanto che tu non diventi il Jim Garrison di questo sequestro.»
Mancava poco alle otto quando arrivammo al Capital Centre di Lando-
ver, nel Maryland. Georgetown giocava contro St. John's di New York
City e i biglietti di Jezzie erano ottimi. Un'ulteriore dimostrazione del fatto
che in quella città conosceva tutti. È più facile farsi invitare a un ballo di
debuttanti che trovare i biglietti per certe partite.
Tenendoci per mano, attraversammo il parcheggio diretti verso le luci
del Cap Centre. Apprezzavo il gioco di Georgetown e ne ammiravo l'alle-
natore, un nero di nome John Thompson. In genere durante la stagione
Sampson e io assistevamo a un paio delle partite giocate in casa.
Stavo facendo qualche domanda a Jezzie per sondare le sue conoscenze
di pallacanestro universitaria, quando ci azzittimmo nello stesso momento.
Qualunque cosa stessi per dire, mi si fermò in gola.
«Ehi, fotti-negri!» aveva gridato qualcuno all'estremità opposta del par-
cheggio. «Ehi, sale e pepe!»
La stretta della mano di Jezzie si accentuò.
«Alex? Sta' calmo. Continua a camminare.»
«Certo», assentii. «Mai stato più calmo.»
«Lascia perdere. Entriamo e basta. Sono solo degli imbecilli. Non meri-
tano neppure una risposta.»
Le lasciai la mano e puntai verso tre uomini in piedi vicino a una mac-
china blu e argento. Non erano studenti di Georgetown. E neppure del St.
John's. Portavano parka e berretti col logo di una società, o forse di una
squadra. Erano bianchi e maggiorenni. Alla loro età, avrebbero dovuto sa-
perla più lunga.
«Chi è stato?» chiesi. Mi sembrava di essere diventato di legno e avver-
tivo una bizzarra sensazione d'irrealtà. «Chi ha detto: 'Ehi, fotti-negri?' Fa-
ceva ridere?»
Uno di loro si fece avanti, pronto ad accettare la sfida. Parlò da sotto un
berrettino rosso con scritto DAYGLO REDSKINS. «Che ti prende? Ti va
di metterti uno contro tre, Magic? Perché, se è così, hai trovato quelli giu-
sti.»
«Be', non siamo proprio pari, io contro voi tre, ma se sta bene a voi... O
preferite cercare un quarto, prima?»
«Alex?» disse Jezzie alle mie spalle. «Alex, ti prego, no. Lasciali perde-
re.»
«Vaffanculo, Alex», disse uno dei tre. «Dev'essere la tua donna a to-
glierti le castagne dal fuoco?»
«Ti piace Alex, tesoro? Alex è il tuo omaccione preferito?» sentii dire.
«Il tuo scimmione?»
Sentii uno schiocco dietro gli occhi. Mi sembrò del tutto reale. Come se
qualcosa si fosse spezzato dentro di me.
Il primo pugno fu per Cappello dei Redskins. Piroettai su me stesso e
colpii il secondo alla tempia.
Quando Redskins crollò, il suo berretto volò via come un frisbee. Il se-
condo vacillava; cadde su un ginocchio e restò così per un tempo che mi
parve infinito. La voglia di fare a pugni gli era passata del tutto.
«Sono così stufo di queste stronzate. Ho la nausea.» Stavo tremando.
«Ha bevuto troppo, signore», farfugliò l'unico rimasto in piedi. «Abbia-
mo bevuto troppo tutti quanti. Era teso, capisce. È stato parecchio sotto
pressione negli ultimi tempi. Che diavolo, abbiamo dei colleghi neri. Ami-
ci neri. Che posso dire? Mi dispiace, signore.»
Dispiaceva anche a me. Più di quanto m'interessasse spiegare a quegli
imbecilli. Mi girai e con Jezzie alle calcagna tornai verso la macchina. A-
vevo le braccia e le gambe di pietra e il cuore che infuriava come un mar-
tello pneumatico.
«Scusami», dissi. Avvertivo una leggera nausea. «Il fatto è che non ce la
faccio più a sopportare queste stronzate. E non sono più disposto a lasciar
perdere.»
In auto restammo abbracciati per un lungo momento. Poi andammo a ca-
sa insieme.

55

Avrei rivisto Gary Murphy il primo di ottobre. «Nuove prove sopravve-


nute» era la ragione addotta per quell'ulteriore incontro. A quel punto,
mezzo mondo aveva parlato con Nina Cerisier e la teoria del complice vi-
veva di vita propria.
Avvalendoci degli uomini della SIS passammo al setaccio i dintorni di
casa Cerisier. Con Nina le tentammo tutte: dalle foto segnaletiche agli i-
dentikit elaborati dal computer, ma il volto del «complice» non saltò fuori.
Sapevamo che era maschio, bianco e, credeva di ricordare la ragazza,
tarchiato. L'FBI sosteneva di avere intensificato le ricerche del pilota in
Florida; da parte nostra non saremmo stati certo con le mani in mano. Ero
di nuovo in gioco.
Il dottor Campbell mi precedette lungo il corridoio che attraversava il
reparto di massima sicurezza di Lorton. Dagli spioncini delle celle, i dete-
nuti ci osservavano con aria torva.
Infine arrivammo nel settore che ospitava Gary Murphy.
Come il corridoio, la sua cella era illuminata a giorno, ma io lo vidi sbat-
tere le palpebre mentre si alzava dalla branda, come se stesse emergendo
da una buia caverna.
Impiegò un istante a riconoscermi. Poi sorrise. Non era cambiato; era lo
stesso amabile giovane di provincia, e come sempre sembrava uscito da un
remake degli anni '90 della Vita è meravigliosa. Il suo amico Simon Con-
klin mi aveva detto che Gary sapeva recitare qualsiasi parte. Era un ele-
mento essenziale della sua appartenenza al Novantanovesimo Percentile.
«Perché ha smesso di venire, Alex?» I suoi occhi avevano un'e-
spressione quasi addolorata. «Non avevo più nessuno con cui parlare.
Quegli altri dottori, loro non ascoltano. Non sul serio.»
«Non me lo permettevano. Ma il problema è stato risolto, ed eccomi di
nuovo qui.»
Sembrava ferito. Si mordicchiava il labbro inferiore, guardandosi le pan-
tofole di tela.
Di colpo il suo viso si alterò e lui scoppiò in una fragorosa risata che e-
cheggiò a lungo nella piccola cella.
Soneji/Murphy mi si fece un po' più vicino. «Sa, dopotutto lei è solo un
altro ottuso bastardo. Fottutamente facile da manipolare; proprio come
quelli che l'hanno preceduta. Furbo, ma non abbastanza.»
Lo fissai sorpreso, forse anche un po' scioccato.
Il mio sconcerto non gli sfuggì. «Le luci sono accese, ma in casa non c'è
nessuno», sbuffò.
«Eccomi di nuovo qui», ripetei. «L'avevo semplicemente sottovalutata,
Gary. Faccio ammenda.»
«Finalmente ci vede chiaro, eh?» Aveva ancora quell'orribile smorfia sul
viso. «È proprio sicuro di capire? Sicuro sicuro?»
Ma certo che capivo. Avevo incontrato per la prima volta Gary Soneji.
Gary Murphy ci aveva appena presentato. Un fenomeno noto come avvi-
cendamento rapido.
Il sequestratore mi stava fissando, malignamente gongolante per essersi
finalmente rivelato.
Davanti a me sedeva l'assassino di bambini. L'abile mimo e attore. Il
Novantanovesimo Percentile. Il Figlio di Lindbergh. Tutto questo, e pro-
babilmente molto di più.
«Sta bene?» chiese, ed era me che stava imitando. «Tutto bene, dotto-
re?»
«Tutto a posto. Nessun problema.»
«Davvero? A me non sembra sia tutto a posto. Qualcosa non va, vero,
Alex?» Ora sembrava autenticamente in ansia.
L'irritazione ebbe la meglio. «Ehi, tu», ringhiai. «Vaffanculo, Soneji.»
«Un momento.» Stava scuotendo la testa; il ghigno di lupo si era dile-
guato con la stessa rapidità con cui era comparso. «Perché mi chiama So-
neji? Che cosa succede, dottore? Perché si comporta così?»
Lo guardai in faccia; non riuscivo a credere a quello che vedevo. Era di
nuovo cambiato. Tac. E Gary Soneji non c'era più. Nel giro di pochi minuti
era passato da una personalità all'altra per due, forse tre volte.
«Gary Murphy?» azzardai.
Lui annuì. «Chi altri? Dico sul serio, dottore, che succede? Se ne sta lon-
tano per settimane. Poi torna e...»
«Mi racconti quello che è accaduto.» Non riuscivo a smettere di guardar-
lo. «Mi dica quello che lei crede sia appena accaduto.»
Sembrò confuso, sconcertato dalla mia domanda. Se la sua era una reci-
ta, era la prestazione più brillante e convincente cui avessi assistito in tutta
la mia carriera di psicologo.
«Non capisco. Viene nella mia cella. Ha l'aria tesa. Forse si sente imba-
razzato perché per un po' non si è fatto vedere. Poi mi chiama Soneji. Così,
di punto in bianco. Dovrebbe essere divertente o che cosa?»
Stava parlando sul serio? Era davvero ignaro dell'incredibile metamorfo-
si che si era operata in lui non più di sessanta secondi prima? Oppure Gary
Soneji si stava ancora prendendo gioco di me? Possibile che potesse cam-
biare personalità con tanta facilità e senza nessuna apparente giustificazio-
ne? Era possibile, certo, ma improbabile. E se le cose stavano realmente
così, in che razza di beffa si sarebbe trasformato il processo?
Forse Soneji/Murphy sarebbe addirittura riuscito a farla franca.
Era questo il suo piano? Era questa la via d'uscita progettata fin dall'ini-
zio?

56

Quando lavorava con gli altri a raccogliere frutta e verdura sul fianco
della montagna, Maggie Rose si sforzava di ricordare casa sua. All'inizio il
suo «elenco», l'elenco delle cose che rammentava, era generico ed elemen-
tare.
Più di ogni altra cosa, sentiva la mancanza dei genitori. Le mancavano
ogni momento della giornata.
Le mancavano i compagni di scuola, soprattutto il Tappo.
Le mancava Dukado, il suo gattino «nuovo».
E Angel, il suo gattino «dolce».
E i giochi Nintendo e il suo armadio.
E fare il bagno nella stanza al terzo piano che dava sul giardino.
Le feste dopo la scuola erano talmente divertenti.
Più ripensava a casa, più particolari ricordava, e il suo elenco continuava
ad allungarsi.
Le mancava il modo in cui a volte andava a infilarsi tra il papà e la
mamma quando si abbracciavano. «Noi tre» era il nome che aveva dato a
quel gioco.
Le mancavano i personaggi che suo padre inventava per lei, soprattutto
quando era ancora piccola. C'era Hank, un grosso papà dallo strascicato
accento del Sud, che le chiedeva sempre: «Con chiiii stai parlando?» E Su-
sie Wooderman. Susie era la protagonista di tutte le storie in cui Maggie
proiettava se stessa.
C'era l'immancabile rituale che aveva luogo quando dovevano uscire in
macchina nei giorni freddi. «Orribile, orribile! Brrr! Brrr! Brrr!» intona-
vano tutti e tre a pieni polmoni.
La sua mamma inventava canzoni e le cantava per lei. Non riusciva a
rammentare un tempo in cui non le cantasse una canzone. Cantava: «Ti
voglio bene, Maggie. Farei qualunque cosa per te, perché sei tutto per me».
E Maggie: «Mi porteresti a Disneyland?» Al che sua madre rispondeva:
«Qualunque cosa». «Daresti a Dukado un grosso bacio sulla bocca?» «Lo
farò per te, Maggie Rose. Farei qualunque cosa per te.»
Ora Maggie riusciva a ricordare intere giornate trascorse a scuola. Ri-
cordava le speciali «strizzatine d'occhio» che la signora Kim le rivolgeva.
Ricordava il modo in cui Angel si acciambellava su una sedia emettendo
un suono dolce che assomigliava a un uau.
«Farei qualunque cosa per te, perché sei tutto per me.» Le sembrava di
risentire la voce di sua madre.
Per favore, per favore, vieni a riportarmi a casa? cantava Maggie nella
sua mente. Vieni, vieni, per favore.
Ma nessuno cantava mai nulla. Non più. Nessuno cantava per Maggie
Rose. Nessuno si rammentava più di lei. O almeno così credeva, e questo
le spezzava il cuore.

57

Nel corso delle due settimane successive rividi Soneji/Murphy una doz-
zina di volte. Sebbene affermasse il contrario, non mi permise più di avvi-
cinarglisi. Qualcosa era cambiato. L'avevo perduto.
Li avevo perduti entrambi.
Il 15 ottobre, un giudice federale ordinò una sospensione, rimandando
così l'inizio del processo. Doveva essere l'ultima applicazione della tecnica
dilatoria adottata dal difensore di Soneji/Murphy, Anthony Nathan.
Nel giro di una settimana, più o meno alla velocità della luce, se si pensa
ai tempi solitamente impiegati in queste manovre burocratiche, il giudice
Linda Kaplan aveva respinto le richieste della difesa. Stessa sorte toccò ai
ricorsi presentati alla Corte Suprema.
Su tutte e tre le reti televisive l'avvocato Nathan definì l'alto organo col-
legiale «una teppaglia organizzata dedita al linciaggio». I fuochi d'artificio
erano appena cominciati, dichiarò alla stampa. E in questo modo stabilì il
tono che contava di imprimere al dibattimento.
Il 27 ottobre ebbe inizio il processo: lo Stato contro Murphy. Quella
mattina, alle nove meno cinque, Sampson e io ci dirigemmo verso uno de-
gli ingressi di servizio del tribunale federale, in Indiana Avenue. Nei limiti
del possibile, eravamo in incognito.
«Ti va di perdere un po' di soldi?» mi chiese Sampson mentre giravamo
l'angolo.
«Spero con tutto il cuore che tu non abbia intenzione di scommettere
sull'esito del processo.»
«Certo che sì, tesoro. Così il tempo passerà più in fretta.»
«Su che cosa dovremmo scommettere?»
Sampson accese un Corona e con aria trionfante esalò il fumo. «Vedia-
mo... Io dico che lo spediranno in qualche manicomio criminale.»
«Quello che stai dicendo, in effetti, è che il nostro sistema giudiziario
non funziona.»
«Ne sono totalmente e irrevocabilmente convinto. Soprattutto di questi
tempi.»
«Molto bene... Io invece dico che verrà condannato per entrambi i se-
questri. E per omicidio di primo grado.»
Altro sbuffo trionfante da parte di Sampson. «Preferisci pagarmi subito?
Cinquanta dollari ti sembrano una cifra ragionevole da sganciare?»
«Cinquanta mi sta bene. Scommessa accettata.»
«Fantastico. Adoro portarti via quei pochi soldi che hai.»
Sulla 3rd Street, una folla di almeno duemila persone si assiepava davanti
all'entrata principale del tribunale. Altre duecento persone, fra cui sette file
di giornalisti, erano già in aula. La richiesta del pubblico ministero di proi-
bire l'ingresso alla stampa era stata respinta.
Dappertutto ondeggiavano cartelli con la scritta: MAGGIE ROSE È
VIVA.
Su e giù per Indiana Avenue si vedeva gente con rose fresche all'occhiel-
lo. Alcuni vendevano bandierine commemorative. Ma a incontrare il mag-
gior consenso erano le candeline che brillavano sul davanzale di molte fi-
nestre, in ricordo di Maggie Rose.
Una manciata di reporter stava in attesa all'ingresso secondario, riservato
ai fattorini e ai pochi magistrati e legali afflitti da timidezza. Anche molti
agenti veterani che non apprezzavano la ressa avevano scelto di passare da
lì.
Una selva di microfoni venne immediatamente spinta sotto il naso mio e
di Sampson. Gli obiettivi delle telecamere ci fissavano con aria sciocca.
Ma nulla di tutto questo aveva più il potere di turbarci.
«Detective Cross, è vero che l'FBI ha fatto in modo che il caso le venisse
tolto?»
«No. Sono in ottimi rapporti con l'FBI.»
«S'incontra ancora con Gary Murphy a Lorton?»
«Da come parla, si direbbe che lui e io andiamo regolarmente a cena in-
sieme. No, tra noi le cose non sono ancora così serie. Faccio parte di un'é-
quipe di medici che segue il detenuto.»
«Questo caso ha presentato risvolti di natura razziale, per quanto la ri-
guarda?»
«Di risvolti razziali ce ne sono in un sacco di circostanze, credo. Nella
fattispecie, non ho nulla di significativo da segnalare.»
«E lei, detective Sampson? È d'accordo?» chiese un tipetto azzimato col
farfallino.
«Be', caro signore, stiamo entrando dalla porta di servizio, giusto? Noi
siamo uomini da porta di servizio.» Sampson sogghignò rivolto verso la te-
lecamera. Non si era tolto gli occhiali da sole.
Finalmente riuscimmo a guadagnare uno degli ascensori, da cui cer-
cammo, senza troppo successo, di tener fuori i giornalisti.
«Ci è stato confermato che Anthony Nathan ha intenzione di chiedere
l'infermità mentale temporanea. Qualche commento?»
«Nessuno. Chiedetelo a Nathan.»
«Detective Cross, se la sentirebbe di affermare che Gary Murphy non è
pazzo?»
Finalmente le porte del vecchio ascensore si chiusero e iniziammo la
lenta salita verso il settimo piano: il «Settimo Cielo», come lo chiamavano.
Non era mai stato più tranquillo, né più sorvegliato. Il consueto scenario
da stazione ferroviaria - poliziotti, giovani malviventi con famiglia, truffa-
tori incalliti, avvocati e giudici - era stato arginato da un'ordinanza che de-
stinava l'intero piano a quell'unico dibattimento. Sarebbe stata una cosa
grossa. Il processo del secolo. Non era quello che Gary Soneji aveva sem-
pre voluto?
Senza il suo solito trambusto, il tribunale federale mostrava tutte le crepe
nella luce mattutina che entrava a fiotti dalle grandi finestre della facciata
orientale.
Arrivammo giusto in tempo per vedere il pubblico ministero entrare in
aula. Mary Warner era una minuta trentaseienne proveniente dalla Sesta
Giurisdizione e di lei si diceva che fosse perfettamente all'altezza del di-
fensore, Nathan. Come lui, non conosceva il sapore della sconfitta, perlo-
meno non in casi di rilievo. Aveva fama di essere preparatissima e alta-
mente convincente nell'arringa. Un avvocato che con lei aveva avuto la
peggio aveva detto: «È come giocare a tennis con un avversario che ri-
sponde a tutti i tuoi colpi. Il miglior diritto tagliato, te lo rimanda. La
schiacciata, te la rimanda. Prima o poi riesce a farti fuori; è inevitabile».
Presumibilmente, era stato Jerrold Goldberg a sceglierla, e Goldberg po-
teva permettersi il pubblico ministero migliore. L'aveva preferita a James
Dowd e ad altri iniziali favoriti.
Era presente anche Carl Monroe. Al sindaco era impossibile tenersi lon-
tano dalla folla. Mi vide ma non si avvicinò, limitandosi a lanciarmi da
lontano uno dei suoi sorrisi brevettati.
Se non avessi già saputo come sarebbe andata a finire con lui, lo avrei
capito in quel momento. Alla nomina a capodivisione non ne sarebbero se-
guite altre; mi avevano concesso la promozione al solo scopo di dimostrare
che ero stato una buona scelta per la squadra antisequestri, per giustificare
l'iniziativa presa e prevenire eventuali domande sul comportamento da me
tenuto a Miami.
Ad accrescere l'atmosfera generale d'attesa, contribuiva da giorni la noti-
zia che lo stesso ministro del Tesoro, Goldberg, stava collaborando con la
pubblica accusa. E, naturalmente, che la difesa era stata affidata ad An-
thony Nathan.
Il Post aveva descritto Nathan come «un guerriero ninja delle aule di tri-
bunale», e dal giorno in cui era stato assunto da Soneji/ Murphy la sua foto
compariva regolarmente in prima pagina. Di lui, Gary si era mostrato rilut-
tante a parlare. In un'occasione mi aveva detto: «Ho bisogno di un buon
avvocato, giusto? Con me il signor Nathan è stato molto convincente. Lo
sarà altrettanto con la giuria. È estremamente scaltro, Alex». Scaltro?
Quando gli avevo chiesto se Nathan fosse intelligente come lui, Gary
aveva sorriso. «Perché dice sempre che sono intelligente? Non lo sono. Mi
troverei qui, se lo fossi?»
Neppure una volta durante quelle settimane aveva abbandonato il ruolo
di Gary Murphy. E aveva rifiutato di farsi ipnotizzare di nuovo.
Guardai il superavvocato di Gary, Anthony Nathan, che con passo bal-
danzoso andava a occupare il proprio posto. Di sicuro era un maniaco, e la
sua abilità nel far infuriare i testimoni durante i controinterrogatori era ben
nota.
Perché Gary aveva scelto proprio lui? Che cosa li aveva spinti l'uno ver-
so l'altro?
Certo era che per un verso lo si sarebbe potuto definire un accostamento
logico: un semipazzo che difende un altro pazzo. Anthony Nathan aveva
già annunciato pubblicamente: «Sarà un vero e proprio zoo. Uno zoo, o
una rappresentazione sulla giustizia del selvaggio West. Ve lo prometto.
Potrebbero vendere i biglietti d'ingresso a mille dollari l'uno».
Avevo il cuore in gola quando l'ufficiale giudiziario annunciò l'ingresso
della corte.
Scorsi Jezzie all'altro capo della stanza. Era vestita come doveva esserlo
la persona importante che lei era: tailleur gessato, tacchi alti, lucida venti-
quattrore nera. Mi vide e alzò gli occhi al cielo.
Sulla destra stavano Katherine Rose e Thomas Dunne, e nel guardarli la
mia sensazione d'irrealtà si accentuò. Non potevo fare a meno di pensare a
Charles e Anne Lindbergh e al famosissimo processo che si era celebrato
sessant'anni prima.
Il giudice Linda Kaplan era noto per essere una donna eloquente ed e-
nergica che non permetteva mai ai legali di sopraffarla. Rivestiva quell'in-
carico da meno di cinque anni, ma aveva presieduto alcuni dei più impor-
tanti procedimenti della città. Spesso restava in piedi per tutta la durata
dell'udienza e dominava l'aula con indiscussa autorità.
Gary Soneji/Murphy era stato scortato al suo posto con discrezione, qua-
si furtivamente. Era già seduto e perfettamente composto, come sempre fa-
ceva Gary Murphy.
Erano presenti parecchi giornalisti di fama e almeno un paio di loro sta-
va preparando un libro sul rapimento.
I due pool di avvocati ostentavano un'assoluta sicurezza, quasi fossero
entrambi convinti dell'inattaccabilità delle rispettive posizioni.
L'udienza si aprì con una trovatina scenica. Missy Murphy, seduta in una
delle prime file, cominciò a singhiozzare mormorando con voce perfetta-
mente udibile: «Gary non ha fatto male a nessuno. Gary non farebbe mai
del male a un altro essere umano».
Qualcuno tra il pubblico gridò: «Oh, la smetta, signora».
Il giudice Kaplan batté col martelletto. «Silenzio!» intimò. «Di dichiara-
zioni ne sentiremo a sufficienza nei prossimi giorni.» E aveva senz'altro
ragione.
La grande corsa era cominciata. Gary Murphy/Soneji e il processo del
secolo.

58

Sembrava che tutto fosse caotico e in continua evoluzione, soprattutto i


miei sentimenti riguardo al caso: alle indagini prima e ora al processo.
Quel giorno, di ritorno dal tribunale, mi dedicai all'unica cosa che mi pare-
va avesse ancora un senso: giocai a football coi bambini.
Damon e Janelle erano dei vulcani di attività e per tutto il pomeriggio
lottarono per accaparrarsi la mia attenzione, soffocandomi con le loro ne-
cessità. Ma grazie a loro riuscii a non pensare troppo alle sgradevoli setti-
mane che mi aspettavano.
Quella sera, dopo cena, Nana e io ci attardammo a tavola davanti a una
seconda tazza di caffè di cicoria. Ci tenevo a conoscere le sue opinioni, e
comunque sapevo che avrei dovuto ascoltarle ugualmente. Per tutto il pa-
sto, lei aveva continuato a far turbinare mani e braccia come un lanciatore
di baseball.
«Alex, credo che dobbiamo parlare», disse alla fine. Quando ha qualcosa
di importante da dire, di solito Nana Mama se ne sta zitta a rimuginare per
un bel pezzo, poi attacca a parlare ed è capace di andare avanti per ore.
I ragazzi stavano guardando La ruota della fortuna nell'altra stanza. Le
grida e gli applausi creavano un gradevole sottofondo domestico.
«Di che cosa?» domandai. «Ehi, lo sapevi che negli Stati Uniti un ragaz-
zo su quattro vive in condizioni di povertà?»
Ma Nana era troppo assorta nei suoi pensieri per darmi retta. Era eviden-
te che si era preparata un discorsetto, me lo dicevano i suoi occhi, ridotti a
due capocchie di spillo scure.
«Alex, tu sai che nelle questioni importanti sono sempre dalla tua parte.»
«Da quando sono arrivato a Washington con una sacca da viaggio e,
credo, settantacinque cent in tasca», confermai. Ricordavo ancora con
chiarezza il giorno in cui ero stato spedito «su a Nord» a vivere con la
nonna; il giorno in cui ero sceso dal treno Winston-Salem alla Union
Station. Mia madre era appena morta di cancro ai polmoni, solo un anno
dopo la scomparsa di mio padre. Nana mi aveva portato a pranzo alla Ca-
feteria Morrison's. Era stata la prima volta che avevo mangiato in un risto-
rante.
Avevo nove anni quando Regina Hope mi aveva preso con sé. Allora era
soprannominata «la Regina della Speranza» e lavorava come insegnante a
Washington. Aveva già superato da un pezzo la cinquantina e mio nonno
era morto. Anche i miei fratelli si erano trasferiti nelle vicinanze della ca-
pitale più o meno nello stesso periodo, ospiti di questo o quel parente fino
al compimento dei diciott'anni. Ma io ero sempre rimasto con Nana.
Ero stato il più fortunato. A volte Nana Mama si comportava come la
regina delle stronze, ma solo perché sapeva quello che ci voleva per me. Di
tipi come suo nipote ne aveva già visti parecchi. Conosceva mio padre, nel
bene come nel male. E aveva molto amato mia madre. Nana Mama era - ed
è - un'abile psicologa. Avevo coniato quel soprannome per lei a dieci anni,
perché allora per me era già tata e madre a un tempo.
Ora teneva le braccia conserte sul petto, vera incarnazione della risolu-
tezza. «Alex, credo di non essere affatto contenta della relazione che hai in
corso.»
«Potresti spiegarmene il perché?»
«Certamente. Prima di tutto, Jezzie è bianca, e io non mi fido dei bian-
chi. Mi piacerebbe, ma non ci riesco. Quasi nessuno di loro ha rispetto per
noi. Ci mentono guardandoci negli occhi. È il loro modo di fare, almeno
con quelli che non ritengono loro pari.»
«Parli come un'estremista: sembri Farrakhan o Sonny Carson.» Mi alzai
e cominciai a sparecchiare la tavola, trasferendo piatti e stoviglie nel vec-
chio lavello di porcellana bianca.
«Non sono orgogliosa dei miei sentimenti, ma non posso neppure negar-
li.» Gli occhi di Nana Mama seguivano ogni mio gesto.
«È questo il crimine di Jezzie, dunque? Essere bianca?»
La vidi agitarsi sulla sedia. Si aggiustò gli occhiali, che portava al collo
appesi a una cordicella. «Il suo crimine è di essersi messa con te. Sembra
dispostissima a lasciarti buttare al vento la carriera e tutto ciò che di buono
fai qui nella zona sud-est. Tutto quello che di buono c'è nella tua vita. Da-
mon e Janelle.»
«Damon e Janelle non mi sembrano per nulla preoccupati, né tantomeno
feriti», ribattei. Avevo alzato la voce e mi ero bloccato a metà strada con
una pila di piatti sporchi fra le braccia.
Lei batté con forza la mano sul bracciolo della sedia. «Solo perché tu ti
sei messo i paraocchi, maledizione! Tu per loro sei il cielo e il sole. E Da-
mon ha paura che tu lo abbandoni.»
«Se sono turbati, è perché sei tu a turbarli con le tue maledette idee.» Era
ciò che pensavo, ciò che ritenevo fosse la verità.
Nana Mama si appoggiò all'indietro sullo schienale. Dalle sue labbra
scaturì un gemito di puro dolore.
«Non avresti potuto dire una cosa più ingiusta. Faccio il possibile per
proteggere quei bambini, proprio come un tempo ho protetto te. Ho passa-
to tutta la vita a prendermi cura degli altri, Alex. Non ho mai fatto del male
a nessuno.»
«Hai appena fatto male a me. E lo sai benissimo. Sai che cosa significa-
no per me i miei figli.»
Aveva le lacrime agli occhi, ma non cedette. Tenne lo sguardo fisso nel
mio. L'amore che ci lega è severo, incapace di mediazioni. Lo è sempre
stato.
«Non voglio che in seguito tu debba scusarti con me, Alex. Il fatto che ti
sentirai in colpa per quello che mi hai appena detto non è importante. Ciò
che conta è che sei colpevole. Stai rinunciando a tutto per una storia che
non potrà mai funzionare.»
Poi si alzò e lasciò la cucina. Fine della conversazione. Aveva preso la
sua decisione e questo era quanto.
Stavo davvero rinunciando a tutto per Jezzie? La nostra era una storia
che non avrebbe mai potuto funzionare? Per il momento lo ignoravo, ma
sapevo che avrei dovuto scoprirlo da solo.

59

Al processo Soneji/Murphy stava sfilando un vero e proprio corteo di


specialisti. Sul banco dei testimoni si avvicendavano senza sosta periti
medici, alcuni dei quali insolitamente coloriti e fantasiosi per essere degli
scienziati. Arrivarono esperti dal Walter Reed, dal carcere di Lorton, dal-
l'esercito e dall'FBI.
Vennero esibiti e spiegati fin troppo dettagliatamente fotografie e dia-
grammi; le scene del delitto furono visitate e rivisitate sui misteriosi grafici
che dominarono la prima settimana di udienze.
Otto fra psichiatri e psicologi furono chiamati a sostenere la tesi che
Gary Soneji/Murphy aveva il pieno controllo delle sue azioni; che era un
sociopatico; che era razionale, lucido e del tutto sano di mente.
Di lui si disse che era «un genio criminale» privo di coscienza come di
rimorsi; un attore «degno di Hollywood» che aveva manipolato e inganna-
to un'infinità di persone.
Ma Gary Soneji/Murphy aveva consapevolmente e deliberatamente rapi-
to due bambini; ne aveva ucciso uno o entrambi; aveva ucciso altre perso-
ne, almeno cinque e forse di più. Era l'incarnazione del mostro che popola
gli incubi di noi tutti... Questo sostennero gli esperti convocati dall'accusa.
Il primario del reparto di psichiatria del Walter Reed, la dottoressa Maria
Ruocco, rimase sul banco dei testimoni per quasi un intero pomeriggio. Si
era incontrata con Gary Murphy almeno una dozzina di volte. Dopo la
lunga descrizione di una tormentata infanzia a Princeton, nel New Jersey, e
di un'adolescenza improntata alla violenza contro esseri umani e animali,
alla dottoressa Ruocco venne chiesta una valutazione psichiatrica dell'im-
putato.
«Lo considero un sociopatico di grande pericolosità. Gary Murphy è
pienamente cosciente delle sue azioni. Non credo affatto alla tesi della
personalità multipla.»
Con estrema abilità, Mary Warner costruiva giorno dopo giorno il suo
caso. Ne ammiravo la preparazione e l'ottima comprensione dei procedi-
menti adottati in psichiatria. Stava allestendo per il giudice e la giuria un
puzzle di estrema complessità; l'avevo vista lavorare in numerose occasio-
ni e sapevo che era in gamba.
Alla fine, nella mente dei giurati sarebbe rimasto impresso un quadro
dettagliatissimo della mente di Gary Soneji/Murphy.
A ogni udienza, la Warner si concentrava su una nuova tessera del puz-
zle. La esibiva, la spiegava nei minimi particolari. Dopodiché passava a in-
serirla nel contesto generale.
Dimostrava alla giuria con quanta esattezza il nuovo pezzo s'incastrasse
con gli altri. In un paio di occasioni, gli spettatori arrivarono ad applaudire
quel pubblico ministero dalla voce soave e dalle impeccabili prestazioni.
Riuscì in tutto ciò a dispetto delle obiezioni presentate quasi continua-
mente da Anthony Nathan.
La linea di difesa di Nathan era piuttosto semplice, non discostandosi
mai dalla tesi che Gary Murphy era innocente per non aver commesso nes-
suno dei crimini di cui era imputato.
A commetterli era stato Gary Soneji.

Anthony Nathan passeggiava su e giù per l'aula col suo consueto fare
baldanzoso. Non sembrava del tutto a suo agio nell'abito su misura da mil-
lecinquecento dollari. Il vestito era ottimamente tagliato, ma Nathan non
avrebbe potuto indossarlo peggio. Assomigliava straordinariamente a uno
scimmiotto in ghingheri.
«Non sono una persona simpatica.» Se ne stava piantato davanti alla giu-
ria composta da sette donne e cinque uomini, il lunedì della seconda setti-
mana. «Almeno non nelle aule di tribunale. Dicono che ho l'aria strafotten-
te. Che sono pomposo. Che sono egocentrico e insofferente. Che è impos-
sibile sopportarmi per più di un minuto di fila. È tutto vero», disse a un
pubblico affascinato. «È tutto vero.»
«Ed è proprio per questo che a volte finisco nei guai. Dico la verità. So-
no ossessionato dal bisogno di dire la verità. Non ho pazienza, neanche
una briciola, per le mezze verità. E non ho mai accettato un caso che non
mi consentisse di dire la verità.
«La mia difesa di Gary Murphy è semplice, forse la meno complessa e
controversa che abbia mai intrapreso. Riguarda la verità. O è bianco o è
nero, signore e signori. Ascoltatemi, vi prego.
«Il pubblico ministero Warner e i suoi collaboratori non sottovalutano la
fondatezza della mia difesa, ed è per questo che hanno voluto sottoporre
alla vostra attenzione più fatti di quanti ne abbia presentati la Commissio-
ne Warren per arrivare al medesimo risultato: il nulla più assoluto. Se po-
teste controinterrogare la signora Warner e lei fosse disposta a rispondervi
con onestà, è questo che vi direbbe. E allora potremmo andarcene tutti a
casa. Non sarebbe simpatico? Oh, sicuro che lo sarebbe.»
In aula si sentirono delle risatine. Alcuni membri della giuria, intanto, si
erano protesi in avanti per sentire meglio. Ogni volta che passava davanti
al loro banco, Nathan si avvicinava di mezzo passo.
«Qualcuno, più d'uno a essere sincero, mi ha chiesto perché ho accettato
di occuparmi di questo caso. Gli ho spiegato, proprio come lo sto spiegan-
do a voi, che le prove sono tali da rendere assolutamente certa la vittoria
della difesa. La verità è totalmente schierata dalla parte della difesa. So che
ora non mi crederete. Ma ci arriverete. Ci arriverete.
«Questa è un'enunciazione di fatti. Il pubblico ministero Warner non sa-
rebbe voluto arrivare al processo così presto. È stato il suo capo, il mini-
stro del Tesoro, a forzare la situazione; a fare in modo che il processo ve-
nisse allestito a tempo di record. Le ruote della giustizia non si sono mai
messe in movimento con tanta rapidità. Quelle stesse ruote che si sarebbe-
ro dimostrate infinitamente più lente se sul banco degli imputati ci foste
stati voi o i vostri cari. Questa è la verità.
«Ma in queste particolari circostanze, a causa cioè della sofferenza del
signor Goldberg e dei suoi familiari, le ruote si sono messe a girare molto
in fretta. E a causa di Katherine Rose Dunne e della sua famiglia, che è
ricca, famosa e molto potente e che, come i Goldberg, aspira a vedere la
fine dei suoi patimenti. Chi potrebbe biasimarli per questo? Certamente
non io.
«Ma non a spese di un innocente! Quest'uomo, Gary Murphy, non meri-
ta di soffrire ciò che loro hanno sofferto.»
A passi rapidi Nathan si accostò all'imputato, il biondo e atletico Gary
Murphy, con la sua aria da boy-scout troppo cresciuto. «Quest'uomo è una
persona per bene, esattamente come chiunque altro in quest'aula. E io ve lo
dimostrerò.
«Gary Murphy è un brav'uomo, non dimenticatelo. E questo è un fatto,
uno dei due, due soltanto, che voglio voi ricordiate. L'altro è che Gary So-
neji è pazzo.
«Ora, non posso non dirvelo, anch'io sono un po' pazzo, appena un po'. Il
pubblico ministero ha già attirato la vostra attenzione su questo particolare.
Ebbene, Gary Soneji è cento volte più pazzo di me. Gary Soneji è l'indivi-
duo più pazzo che io abbia mai incontrato. E l'ho incontrato. Lo incontrere-
te anche voi.
«Ve lo prometto. Tutti conoscerete Soneji, e una volta che l'avrete cono-
sciuto vi scoprirete incapaci di condannare Gary Murphy. Scoprirete che
Gary Murphy vi piace, e tiferete per lui e lo sosterrete nella sua battaglia
contro Soneji. Gary Murphy non può essere condannato per i sequestri e
gli omicidi commessi da Gary Soneji...»

Toccò quindi ai testimoni della difesa. Sorprendentemente, tra loro figu-


ravano alcuni insegnanti e studenti della Washington Day School. Più i vi-
cini di casa dei Murphy, arrivati dal Delaware.
Nathan era sempre cortese, sempre esauriente coi testi, e loro sembrava-
no apprezzarlo e avere fiducia in lui.
«Vuol dirci per favore come si chiama?»
«Dottoressa Nancy Temkin.»
«La sua occupazione?»
«Insegno arte presso la Washington Day School.»
«Ha conosciuto Gary Soneji alla Washington School?»
«Sì.»
«Il signor Soneji era un buon insegnante? Ha mai notato qualcosa che
potesse farla dubitare della sua validità come docente?»
«No. Era un ottimo insegnante.»
«Su che cosa basa questa sua convinzione, dottoressa Temkin?»
«Amava la sua materia ed era chiaramente desideroso di trasmettere le
sue conoscenze agli studenti. Era l'insegnante più popolare della scuola. I
ragazzi lo avevano soprannominato 'Chips', da Mister Chips.»
«Lei ha ascoltato i periti che lo hanno definito non sano di mente e affet-
to da gravi turbe della personalità? Qual è il suo parere?»
«Francamente, solo in questo modo riesco a spiegarmi ciò che è accadu-
to.»
«Dottoressa Temkin, so che in queste circostanze la mia domanda non è
delle più gradevoli, ma l'imputato era suo amico?»
«Sì. Era mio amico.»
«E lo è ancora?»
«Voglio che Gary abbia tutto l'aiuto di cui ha bisogno.»
«Anch'io», concluse Nathan. «Anch'io.»

Anthony Nathan sparò la sua prima bomba il venerdì della seconda set-
timana. Il suo fu un gesto tanto drammatico quanto inaspettato e cominciò
con una consultazione privata tra lui, Mary Warner e il giudice Kaplan.
Fu una delle poche occasioni in cui si sentì Mary Warner alzare la voce:
«Vostro Onore, mi oppongo! Non posso non oppormi a una simile brava-
ta. Perché di una bravata si tratta e di nient'altro!»
Già dal pubblico si levavano i primi mormoni. La stampa, seduta nelle
prime file, era all'erta. Il giudice Kaplan si era apparentemente pronunciato
a favore della difesa.
Quando Mary Warner tornò al suo posto, fu subito evidente che aveva
perduto un po' della sua abituale compostezza.
«Perché non siamo stati informati in tempo utile?» gridò quasi. «Perché
la proposta non è stata avanzata prima dell'apertura del processo?»
Anthony Nathan alzò le mani e il suo gesto fu sufficiente a tacitare l'au-
la. Poi annunciò: «Chiamo a testimoniare il dottor Alex Cross. Lo cito co-
me teste ostile e non collaborativo, ma comunque come teste per la dife-
sa».
Ero io la «bravata».

PARTE QUARTA
RICORDATE MAGGIE ROSE

60

«Guardiamo di nuovo il film, papà», disse Damon. «Questa volta dico


sul serio.»
«Niente da fare. Guarderemo il telegiornale, invece. E forse imparerai
che nella vita non c'è soltanto Batman.»
«Ma il film è divertente.» Damon non rinunciava a cercare d'infondermi
un po' di buonsenso.
Decisi di rivelargli un piccolo segreto: «Anche il telegiornale».
Ciò che non rivelai fu l'estrema tensione che mi procurava il pensiero
della mia deposizione, fissata per il lunedì successivo. Avrei testimoniato
per la difesa.
Quella stessa sera avevo appreso dalla televisione che Thomas Dunne si
sarebbe probabilmente candidato al Senato per la California. Dunne stava
cercando di rimettere insieme i cocci della sua vita? O lui stesso era in
qualche modo coinvolto nei rapimenti? A questo punto non mi sentivo di
escludere più nulla, ma mi rendevo conto che il mio atteggiamento nei
confronti del caso stava rasentando la paranoia. In California era successo
più di quanto dicessero i verbali? Per due volte avevo chiesto l'autoriz-
zazione a recarmi laggiù per indagare, e in entrambi i casi mi era stato op-
posto un rifiuto. Jezzie, che in California aveva un contatto, mi stava aiu-
tando, ma per il momento senza risultati.
Seguii il telegiornale nel soggiorno a pianterreno, con Damon e Janelle
accoccolati al mio fianco. Prima, però, avevamo guardato la videocassetta
di Un poliziotto alle elementari, non so se per la decima, la dodicesima o
la ventesima volta.
I bambini erano dell'avviso che me la sarei cavata molto meglio di Ar-
nold Schwarzenegger. Quanto a me, pensavo che Arnold stesse diventando
un attore comico proprio in gamba. O, forse, preferivo Schwarzenegger a
un'ennesima visione di Lilli e il vagabondo.
Nana era rimasta in cucina a giocare a pinnacolo con zia Tia. Dal divano
vedevo il telefono fissato alla parete della cucina; l'avevo staccato per
sfuggire alle chiamate dei giornalisti.
Le telefonate che avevo ricevuto dalla stampa quella sera vertevano tutte
sulla stessa domanda: sarei stato in grado di ipnotizzare Soneji/Murphy in
un'aula affollata? Soneji ci avrebbe mai rivelato che fine aveva fatto Mag-
gie Rose? Lo ritenevo uno psicopatico o un sociopatico? Ovviamente io mi
ero rifiutato di rilasciare dichiarazioni.
Verso l'una di notte, suonò il campanello della porta d'ingresso. Nana si
era ritirata in camera sua da un pezzo, e io avevo messo a letto Damon e
Janelle intorno alle nove, non senza avergli letto qualche magica storia di
gnomi e folletti.
Mi trasferii nella sala da pranzo buia e scostai la tenda di cinz. Era Jez-
zie. Puntualissima.
Uscii sulla veranda per abbracciarla. «Andiamo, Alex», mi sussurrò.
Aveva un progetto. Lei lo definì un «non progetto», ma trattandosi di Jez-
zie dubitavo che fosse davvero così.

Quella sera la moto di Jezzie divorò letteralmente la strada. Le auto che


superavamo parevano immobili, congelate nel tempo e nello spazio. Oltre-
passammo case e prati immersi nell'oscurità, e tutto quanto d'altro c'era
sulla Terra. In terza. Velocità di crociera.
Aspettai che passasse in quarta e quindi in quinta. Il rombo della BMW
era regolare e costante sotto di noi; il suo unico faro perforava la notte.
Jezzie cambiò corsia spesso e con estrema disinvoltura mentre ingranava
la quarta e poi passava con decisione alla quinta. Procedemmo lungo la
George Washington Parkway a centonovanta chilometri all'ora, che diven-
tarono duecentodieci sulla 95. Una volta Jezzie mi aveva detto di non ave-
re mai inforcato la moto senza spingerla almeno a centosessanta. Le crede-
vo.
Continuammo a rotolare nel tempo e nello spazio per atterrare alla fine
in una malandata stazione di servizio Mobil a Lumberton, nel North Caro-
lina.
Erano quasi le sei del mattino e certo dovevamo essere uno spettacolo
quanto mai bizzarro: un nero, una bionda, una grossa moto.
Anche l'inserviente della stazione sembrava su di giri. I suoi jeans grigi
esibivano grosse toppe da skateboarder; sulla ventina, ostentava uno di
quei tagli da porcospino più frequenti sulle spiagge della California che da
questa parte del Paese. Come aveva fatto la moda ad arrivare così in fretta
fino a Lumberton, nel North Carolina? Il livello di follia nell'aria era au-
mentato? Le idee vi galleggiavano più liberamente?
«'giorno, Rory», lo salutò Jezzie con un sorriso. Andò a fermarsi tra due
pompe e mi fece l'occhiolino.
«Rory fa il turno undici-sette. L'unica stazione di servizio aperta in un
raggio di ottanta chilometri in tutte le direzioni. Non dirlo a nessuno di cui
non ti fidi al cento per cento.» Poi, a voce più bassa: «Rory vende pastic-
chette di tutti i tipi. Tutto il necessario per tirare mattina come Dio coman-
da. Diazepine, black beauties, anfetamine... basta chiedere».
Parlava con una leggera cadenza strascicata che mi piaceva. Come mi
piacevano i suoi capelli gonfiati dal vento. «Ecstasy, metanfetamine?»
Rory scosse la testa, come a dire che era tutta matta, ma si capiva che
Jezzie gli era simpatica. Si scostò dal viso un'immaginaria ciocca di capel-
li. «Che tipa, oh, che tipa», disse. Un giovanotto dal ricco vocabolario.
Jezzie gli lanciò un altro sorriso. Grazie alla pettinatura, Rory sembrava
più alto di sei centimetri buoni. «Non preoccuparti per Alex. È okay. Solo
un altro poliziotto di Washington.»
«Oh, Jezzie, maledizione! Gesù! Tu e i tuoi amici poliziotti.» Rory girò
sui tacchi con la rapidità di chi si è avvicinato troppo al fuoco. A fare il
turno di notte in una stazione di servizio, di svitati se ne vedevano parec-
chi, e svitati noi due lo eravamo di sicuro. Ma... un momento: quali altri
amici poliziotti?
Meno di un quarto d'ora dopo eravamo alla casa sul lago di Jezzie, un
piccolo cottage che dava direttamente sull'acqua, circondato da abeti e
faggi. L'estate indiana era arrivata più tardi del solito e il clima era quasi
perfetto.
«Non mi avevi detto di appartenere all'aristocrazia terriera», commentai
mentre sfrecciavamo lungo la pittoresca stradina tortuosa che portava al
cottage.
«E infatti non è così. È stato mio nonno a lasciare questo posto a mia
madre. Era una specie di ladro, un delinquentello di mezza tacca. Ma ai
suoi tempi tirò su un po' di soldi. L'unico della famiglia che ci sia riuscito.
A quanto pare, il crimine paga.»
«Così dicono.»
Saltai giù per sgranchiimi i muscoli della schiena e delle gambe. Mi sor-
prese scoprire che la porta non era chiusa a chiave.
Jezzie andò a dare un'occhiata nel frigorifero, che era ben fornito, mise
una cassetta di Bruce Springsteen, poi tornò fuori.
La seguii verso la distesa d'acqua scura e lucente. Il piccolo molo era
stato costruito da poco; attraverso una stretta passerella arrivammo a una
piattaforma attrezzata con sedie e un tavolo fissati a terra con bulloni. A-
leggiava fino a noi la musica dell'album Nebraska.
Jezzie si sfilò gli stivali e i calzettoni a righe blu, poi immerse un piede
nell'acqua immobile. Aveva gambe slanciate e atletiche e anche i suoi pie-
di erano lunghi e ben fatti, i più bei piedi del mondo. Guardandola, mi
venne da pensare alle ragazze che frequentavano le università della Flori-
da, del South Carolina, di Miami. Non avevo ancora trovato una parte del
suo corpo che non fosse piacevole a guardarsi.
«Che tu mi creda o no, quest'acqua ha una temperatura di almeno venti-
cinque gradi», annunciò con un sorriso.
«Vuoi dire due virgola cinque, vero?»
«Voglio dire due e cinque senza virgole in mezzo. Allora? Hai intenzio-
ne di fare il festaiolo o il guastafeste?»
«Che cosa penseranno i vicini? Non ho portato il costume da bagno.»
«Era questo il progetto, no? Nessun progetto. Pensa, un intero sabato
senza neppure l'ombra di un progetto. Niente processo. Niente interviste
con la stampa. Niente bombe sganciate dai Dunne. Come quella che Tho-
mas Dunne ha fatto esplodere questa settimana durante la trasmissione di
Larry King. Lamentandosi delle indagini e buttando lì il mio nome ogni
due secondi. Niente sequestri che fanno tremare il mondo scaricati sulle
tue spalle. Noi due soli, qui in mezzo al nulla.»
«Suona bene», commentai. «In mezzo al nulla.» Guardai in alto, verso il
punto in cui gli abeti s'incontravano col cielo limpido.
«Allora è così che chiameremo questo posto. In Mezzo al Nulla, nel
North Carolina.»
«Sul serio, Jezzie, e i vicini? Siamo nel Sud...»
Lei sorrise. «Non c'è nessuno nel raggio di quasi due chilometri. Neppu-
re una casa, Alex. È troppo presto per chiunque tranne che per i pescatori
di pesce persico.»
«Non mi va neanche d'incontrare un paio di pescatori pronti a menar le
mani. Potrebbero scambiarmi per un pesce persico nero.»
«I pescatori vanno tutti sulla sponda meridionale del lago. Fidati di me,
Alex. Lascia che ti spogli. Starai più comodo.»
«Spogliamoci a vicenda.» Mi arresi e mi abbandonai a lei e alla placidità
di quel mattino.
Ci svestimmo sul molo. Il sole era tiepido e la brezza del lago accarez-
zava la nostra pelle nuda.
Saggiai l'acqua col piede; Jezzie non aveva esagerato.
«Non ti ho mentito», osservò lei con un altro sorriso. «Finora non l'ho
mai fatto.»
Poi si gettò in acqua con un tuffo impeccabile che quasi non sollevò
schizzi.
La imitai gettandomi nella lieve scia di bollicine. E mentre sprofondavo
sott'acqua, pensai: un nero e una bella donna bianca che nuotano insieme.
In pieno Sud. Nell'anno del Signore 1993.
Ci stavamo comportando da incoscienti, se non da pazzi.
Era un errore? Alcuni avrebbero certamente detto di sì, o almeno lo a-
vrebbero pensato. Ma perché? Stando insieme non facevamo male a nes-
suno.
L'acqua, calda in superficie, si raffreddava considerevolmente a due me-
tri di profondità. Era di un intenso verdazzurro e con tutta probabilità c'era
una sorgente. Correnti impetuose mi sferzavano il petto e i genitali.
Mi colpì improvviso un pensiero: Jezzie e io ci stiamo forse in-
namorando? È amore quello che provo in questo momento? Tornai su.
«Hai toccato il fondo? Devi toccare il fondo col primo tuffo della gior-
nata.»
«Altrimenti?»
«Altrimenti sei un coniglio pauroso, e affogherai o ti perderai per sem-
pre nei boschi prima che il giorno finisca. È vero, sai. È successo molte,
molte volte qui, In Mezzo al Nulla.»
Giocammo come bambini nell'acqua. Stavamo lavorando troppo tutti e
due, da quasi un anno, ormai.
Per risalire sul molo era stata montata una scaletta di cedro. Era nuova: il
legno non era ancora scheggiato e profumava. Mi chiesi se fosse stata Jez-
zie a fabbricarla durante le vacanze, prima del rapimento. Ci afferrammo
alla scaletta, e l'uno all'altra. In lontananza sul lago echeggiavano le grida
di richiamo delle anatre. Era un suono buffo. L'acqua in cui eravamo im-
mersi era appena increspata; minuscole onde lambivano il mento di Jezzie.
«Ti amo quando sei così. Sembri talmente vulnerabile», disse. «Il tuo
vero io sta cominciando ad affiorare.»
«Mi sembra di aver vissuto in un mondo irreale per un tempo lunghissi-
mo. Il sequestro. La ricerca di Soneji. Il processo.»
«Per il momento la sola cosa reale è questa. D'accordo? Mi piace stare
con te, così.» Mi appoggiò la testa sul petto. «Vedi come può essere sem-
plice?» Con un gesto indicò il lago, l'anello scuro degli abeti. «Non vedi?
Ogni cosa è in perfetta armonia con la natura. Andrà tutto bene, te lo pro-
metto. Nessun pescatore di pesce persico si metterà mai tra di noi.»
Aveva ragione. Per la prima volta dopo molto tempo, avevo la sensazio-
ne che alla fine tutto si sarebbe risolto, tutto ciò che poteva succedere, da
quel momento in avanti. La vita non era mai stata tanto lenta e semplice e
bella. Avremmo voluto che quel weekend non finisse mai.

61

«Sono un detective della squadra omicidi della polizia di Washington


col grado di capodivisione. Mi occupo principalmente di reati in cui l'ele-
mento psicologico riveste un ruolo significativo.»
Avevo fatto la mia dichiarazione, preceduta dalla consueta formula del
giuramento, in un'aula affollata, silenziosa e crepitante di tensione. Era lu-
nedì mattina e il weekend mi sembrava lontano mille anni. Gocce di sudo-
re m'imperlavano il cuoio capelluto.
«Può spiegarci per quale motivo le vengono affidati i casi con implica-
zioni di natura psicologica?» domandò Anthony Nathan.
«Sono psicologo; prima di entrare nella polizia cittadina svolgevo la li-
bera professione. Prima ancora ho lavorato nel settore agricolo. Per un an-
no ho fatto il bracciante stagionale.»
«E si è laureato...» Nathan era ben deciso a descrivermi come un perso-
naggio di grande autorevolezza.
«Come lei già sa, avvocato Nathan, ho conseguito il dottorato presso la
Johns Hopkins.»
«Una delle facoltà di medicina più quotate del Paese, certamente di que-
sta parte del Paese.»
«Obiezione. Le opinioni personali dell'avvocato Nathan non hanno alcu-
na attinenza col nostro caso.» Mary Warner aveva i riflessi pronti.
L'obiezione venne accolta.
«Inoltre», continuò Nathan, con l'aria di considerare assolutamente futile
la presa di posizione del pubblico ministero e del giudice, «ha pubblicato
alcuni articoli su Psychiatric Archives e sull'American Journal of
Psychiatry.»
«Poca roba. Davvero nulla di speciale, avvocato Nathan. Moltissimi
miei colleghi collaborano a riviste.»
«Ma non al Journal e ad Archives, dottor Cross. Di che cosa trattavano i
suoi saggi?»
«Dei processi della mente criminale. Conosco abbastanza polisillabi per
venire preso in considerazione dalle cosiddette 'pubblicazioni specialisti-
che'.»
«Apprezzo la sua modestia, dottor Cross, la apprezzo davvero. Ora mi
dica una cosa. In queste ultime settimane lei ha avuto modo di osservarmi
con comodo. Come definirebbe la mia personalità?»
«Avrei bisogno di qualche incontro a quattr'occhi. E non so se lei sareb-
be disposto a pagare per ascoltare il mio giudizio.»
Scoppiò una risata generale. Perfino il giudice Kaplan si concesse un
momento di ilarità.
«Azzardi una valutazione», mi esortò Nathan. «Sono in grado di reggere
il colpo.»
Aveva una mente pronta e piena di risorse, Anthony Nathan. Non aveva
trascurato nulla per dipingermi come un esperto affidabile, non uno dei
tanti periti di parte che poteva manovrare come burattini.
«Lei è un nevrotico.» Sorrisi. «E probabilmente ha una mente tortuosa.»
Nathan si girò verso la giuria e alzò le mani coi palmi rivolti verso l'alto.
«Perlomeno è onesto. E, se non altro, stamattina mi sono fatto una seduta
con uno strizzacervelli senza sborsare un soldo.»
Altre risate. Ebbi l'impressione che alcuni giurati stessero cominciando a
modificare la loro opinione su Nathan... e forse anche sul suo cliente.
Di primo acchito lo avevano giudicato profondamente sgradevole, ma
ora si accorgevano che era affascinante e molto, molto brillante. E condu-
ceva la sua difesa con grande abilità, se non addirittura con genialità.
«Quanti colloqui ha avuto con Gary Murphy?» mi chiese. Murphy, non
Soneji.
«Quindici, distribuiti nell'arco di tre mesi e mezzo.»
«Sufficienti per una valutazione, immagino.»
«La psichiatria non è una scienza esatta. Avrei voluto effettuare altre se-
dute. Mi sono fatto un'opinione, ma è tutta da verificare.»
«E sarebbe?»
«Obiezione!» Mary Warner era di nuovo in piedi. «Il detective Cross ha
appena detto che per una valutazione definitiva avrebbe avuto bisogno di
ulteriori approfondimenti.»
«Obiezione respinta», decretò il giudice Kaplan. «Il detective Cross ha
anche dichiarato di essere comunque arrivato a un'opinione, seppure su-
scettibile di revisione. E io vorrei conoscerla.»
«Il dottor Cross», riprese Nathan, come se l'interruzione non avesse mai
avuto luogo, «a differenza degli altri terapeuti che hanno incontrato Gary
Murphy, è stato intimamente coinvolto in questo caso fin dall'inizio, in
qualità di funzionario di polizia e di psicologo.»
Ancora una volta il pubblico ministero lo interruppe. Stava cominciando
a perdere la pazienza. «Vostro Onore, l'avvocato Nathan ha una domanda
da fare oppure no?»
«Ce l'ha, avvocato?»
Facendo schioccare le dita, Nathan si voltò verso la Warner. «Se ho una
domanda da fare? Ma certo.» Tornò a rivolgersi a me. «Nella sua doppia
veste di funzionario di polizia che ha seguito il caso fin dalle prime battute
e di psicologo, può darci il suo giudizio professionale su Gary Murphy?»
Guardai l'imputato. In quel momento era certamente Gary Murphy, un
uomo buono e gentile precipitato nell'incubo più atroce che si potesse im-
maginare.
«Le mie prime impressioni sono state semplici e dettate soprattutto dal-
l'emotività. Il fatto che l'autore del sequestro fosse un insegnante mi aveva
turbato moltissimo», cominciai. «Lo vivevo come una grave lacerazione
nel tessuto sociale. In più, ho visto coi miei occhi il corpo torturato di Mi-
chael Goldberg; uno spettacolo che non dimenticherò mai. Ho parlato coi
signori Dunne della loro figlioletta e ormai ho quasi l'impressione di co-
noscerla personalmente. E ho visto le persone assassinate nelle case dei
Turner e dei Sanders.»
«Obiezione!» tuonò ancora una volta Mary Warner.
Il giudice Kaplan mi rivolse uno sguardo gelido. «Lei dovrebbe saperlo
meglio di chiunque altro. Che queste ultime dichiarazioni non vengano
messe a verbale. La giuria non ne tenga conto. Nulla prova che l'imputato
sia in qualche modo coinvolto nei fatti criminosi da lei menzionati.»
Mi rivolsi a Nathan. «Mi ha chiesto una risposta onesta. Voleva sapere
qual è la mia opinione. E io le sto rispondendo.»
Annuendo, l'avvocato si accostò al banco dei giurati e da lì si voltò a
guardarmi. «Abbastanza giusto, sì, abbastanza giusto. Sono certo che pos-
siamo contare su un comportamento assolutamente onesto da parte sua,
dottor Cross. Che questa onestà sia o no di mio gradimento. Che sia o no
di gradimento di Gary Murphy. Lei è un uomo di grande onestà e non sarò
io a interrompere le sue oneste dichiarazioni, se non lo fa il pubblico mi-
nistero. Continui pure.»
«Volevo catturare il sequestratore, lo volevo con tutte le mie forze. E la
pensavano così anche tutti gli altri componenti della squadra antisequestri.
In un certo senso era diventato un fatto personale.»
«Dunque lei odiava il sequestratore. Voleva che fosse punito nel modo
più severo, chiunque fosse?»
«Lo volevo. E lo voglio ancora.»
«Lei era presente, quando Gary Murphy fu arrestato. E dopo l'imputa-
zione formale, s'incontrò spesso con lui. Che cosa pensa ora di Gary
Murphy?»
«In tutta franchezza non so che cosa pensare.»
Anthony Nathan non era uomo da lasciarsi sfuggire un'occasione. «Dun-
que nella sua mente c'è un ragionevole dubbio?»
Mary Warner sembrava inchiodata all'antico pavimento dell'aula. «Obie-
zione. La difesa sta cercando di condizionare il teste.»
«La giuria non terrà conto dell'ultima domanda», disse il giudice Kaplan.
«Ci dica che cosa prova attualmente per Gary Murphy. Ci dia la sua opi-
nione professionale, dottor Cross», riprese Nathan.
«Al momento mi è impossibile sapere se è Gary Murphy o Gary Soneji.
Non sono sicuro che in quest'uomo coesistano due personalità diverse.
Credo che ci sia la possibilità di una scissione della personalità.»
«E se così fosse?»
«Se così fosse, Gary Murphy ignorerebbe del tutto o quasi le azioni di
Gary Soneji. Ma potrebbe anche essere vera l'altra ipotesi; Murphy potreb-
be essere un sociopatico particolarmente abile che sta ingannando tutti. Lei
compreso.»
«Molto bene. Accetto le limitazioni che ci ha indicato.» Nathan teneva
una mano sollevata davanti al petto, come se stringesse una pallina tra le
dita. Era ovvio che stava cercando il modo di indurmi a essere più preciso.
«Proprio questo dubbio, questa incertezza, sembra essere il perno intor-
no cui ruota l'intera questione, non crede?» osservò poi. «Di conseguenza,
vorrei che lei aiutasse la giuria a prendere l'importante decisione cui è
chiamata. Dottor Cross, voglio che lei ipnotizzi Gary Murphy! Qui, in que-
st'aula. Che i giurati traggano da soli le loro conclusioni. Nutro la massima
fiducia in questa giuria e nel fatto che, davanti a prove inoppugnabili, sa-
prà arrivare al giusto verdetto. E d'accordo, dottor Cross?»

62

Il mattino seguente furono portate in aula due semplici poltrone di pelle


rossa. Per favorire il rilassamento del soggetto, furono abbassate le luci. A
me e a Gary venne fornito un microfono. Queste furono le sole modifiche
autorizzate dal giudice Kaplan.
L'unica alternativa sarebbe stata una videocassetta registrata, ma Gary si
era detto disposto a tentare l'esperimento in aula. Voleva provarci. Il suo
avvocato voleva che ci provasse.
Da parte mia, avevo deciso di comportarmi come se Soneji/ Murphy e io
fossimo ancora nella sua cella. Era importante riuscire a escludere almeno
alcune delle sollecitazioni esterne che si sarebbero inevitabilmente presen-
tate. Ignoravo se la seduta avrebbe avuto successo, come ignoravo che co-
sa sarebbe accaduto; avevo una stretta allo stomaco mentre prendevo posto
sulla poltrona. Mi sforzavo di non guardare verso il pubblico: stare sul pal-
coscenico non mi piaceva, e quel giorno meno che mai.
In passato, con Gary avevo utilizzato semplici tecniche di suggestione
verbale, e a quelle mi attenni. A differenza di quanto si crede di solito,
l'ipnosi non è affatto una procedura complicata.
«Gary», esordii, «voglio che si appoggi allo schienale e cerchi di rilas-
sarsi, senza preoccuparsi di nulla.»
«Farò il possibile», rispose, e sembrava assolutamente sincero. Quel
giorno portava un vestito blu, camicia candida e cravatta a righe. Assomi-
gliava a un avvocato molto più del suo stesso avvocato.
«La ipnotizzerò nuovamente perché il suo legale è dell'avviso che questo
potrebbe aiutarla. Lei mi ha detto di voler collaborare. È giusto?»
«Sì, sì. Voglio dire la verità. Voglio conoscere la verità.»
«Molto bene. Ora vorrei che contasse da cento a uno. Lo ha già fatto, ri-
corda? A ogni numero si sentirà più rilassato. Cominci pure.»
Gary Murphy iniziò a contare.
«I suoi occhi si stanno chiudendo. Lei ora si sente molto più rilassato...
quasi sul punto di addormentarsi... e sta respirando profondamente.» La
mia voce si andava facendo via via sempre più monotona, quasi monocor-
de.
Nell'aula il silenzio era pressoché totale, rotto soltanto dal ronzio del
condizionatore.
Infine Gary smise di contare.
«Si sente bene? Tranquillo?» domandai.
I suoi occhi erano vitrei e umidi. Sembrava essere caduto in trance, ma
chi poteva dirlo con certezza?
«Sì, sto bene. Mi sento bene.»
«Se per qualunque motivo desiderasse mettere fine alla seduta, sa come
fare.»
«Sì. Ma sto bene.» Pareva ascoltarmi solo a metà e, considerate le pres-
sioni cui era sottoposto, mi sembrava improbabile che la sua fosse soltanto
una finzione.
«Durante una delle precedenti sedute, abbiamo parlato del momento in
cui riprese conoscenza da McDonald's. Mi disse che era stato come destar-
si da un sogno. Lo ricorda?»
«Certo. Certo che ricordo. Mi svegliai a bordo dell'autopattuglia fuori
del McDonald's. Tornai in me, e c'era la polizia. Mi stavano arrestando.»
«Che cosa provò in quel momento?»
«Pensai che era impossibile, che non poteva essere vero. Pensai che do-
veva trattarsi di un incubo. Spiegai che ero un rappresentante e che vivevo
nel Delaware. L'unica spiegazione accettabile era che mi avessero preso
per un altro. Non sono un criminale. Non ho mai avuto problemi con la
giustizia.»
«Abbiamo parlato anche di ciò che accadde prima del suo arresto. Quel
giorno. Quando entrò nel locale.»
«Non... non sono sicuro di riuscire a ricordare. Mi lasci pensare...» Gary
sembrava a disagio. Era una messinscena? O a metterlo a disagio erano i
ricordi che cominciavano a ridestarsi nella sua mente?
Ero rimasto stupefatto quando in carcere si era trasformato in Soneji e
dubitavo che in una situazione così poco favorevole il fenomeno si sarebbe
ripetuto.
«Si era fermato da McDonald's per andare in bagno. Voleva anche bere
un caffè, per tenersi sveglio e non addormentarsi al volante.»
«Rammento... rammento qualcosa, molto poco. Mi vedo all'interno del
McDonald's...»
«Non abbia fretta. Abbiamo tutto il tempo, Gary.»
«C'era molta gente. Il McDonald's era affollato. Mi ero diretto verso il
bagno. Ma per qualche ragione non sono entrato. Non so perché. È strano,
ma non riesco a ricordare.»
«Che cosa provava in quel momento? Mentre stava fuori del bagno? Lo
rammenta?»
«Ero agitato. Sempre di più. Sentivo il sangue che mi pulsava nella testa.
Ero sconvolto e non sapevo perché.»
Soneji/Murphy non guardava me, bensì un punto alla mia sinistra. Mi
stupì constatare quanto fosse facile dimenticare il pubblico che ci ascoltava
affascinato.
«C'era Soneji nel McDonald's?» lo incalzai.
Lui piegò lievemente la testa da un lato, in un gesto stranamente com-
movente.
«C'è Soneji, sì. Sì, c'è lui al McDonald's.» Si stava eccitando. «Finge di
bere il caffè, ma è arrabbiato. Lui è... credo che sia proprio furioso. Soneji
è un pazzo, un brutto tipo.»
«Perché è furioso? Lo sa? Che cosa ha fatto arrabbiare Soneji?»
«Tutto gli sta rovinando addosso. La polizia è stata incredibilmente for-
tunata. Il suo piano per diventare famoso è andato a farsi fottere. Comple-
tamente. Ora si sente come Bruno Richard Hauptmann. Solo un altro per-
dente, uno dei tanti.»
La bomba era esplosa. Prima d'allora non aveva fatto alcun riferimento
esplicito al rapimento. Ormai completamente dimentico di tutto il resto,
tenevo gli occhi fissi su Gary Soneji/Murphy.
Mi sforzai di parlare in tono rassicurante, privo di connotazioni minac-
ciose. Con calma. Era come camminare sull'orlo di un precipizio. O riusci-
vo ad aiutarlo, o saremmo precipitati entrambi. «Che cosa è andato storto
nel piano di Soneji?»
«Tutto», mi rispose, ed era ancora Gary Murphy, lo vedevo con chiarez-
za. Non si era tramutato in Soneji. Ma Gary Murphy sapeva ciò che aveva
fatto Gary Soneji: sotto ipnosi, Gary Murphy conosceva i pensieri di Sone-
ji.
L'aula era silenziosa. Era tutto immobile.
Gary fornì altri particolari. «Era andato a vedere come stava il piccolo
Goldberg, e l'aveva trovato morto. Aveva la faccia blu. Dovevano essere
stati i barbiturici... certo gliene aveva dati troppi... Soneji non riusciva a
credere di aver potuto commettere un errore simile. Non lui. Era stato così
preciso e attento. Si era preoccupato di parlare anche con degli anestesi-
sti.»
Era il momento di fare una delle domande chiave. «Perché il ragazzo era
coperto di lividi e di ferite? Che cosa gli successe, esattamente?»
«Soneji perse la testa. Non riusciva a credere a tanta sfortuna. Lo colpì
parecchie volte con un badile.»
Fino a quel momento era tutto estremamente credibile. Forse si trattava
davvero di un caso di scissione della personalità. E se così era, il processo,
e con tutta probabilità anche il verdetto, ne sarebbe stato stravolto.
«Quale badile?»
Stava parlando sempre più in fretta. «Quello che aveva usato per scava-
re. Li aveva sepolti nel granaio. Con una scorta d'aria sufficiente per un
paio di giorni. Una specie di rifugio antiatomico, capisce. Il sistema di
ventilazione funzionava perfettamente; come tutto il resto. L'aveva proget-
tato Soneji. E l'aveva installato con le sue stesse mani.»
Mi batteva il cuore e avevo la gola secca. «E la bambina? Che ne era di
Maggie Rose?»
«Stava bene. Soneji le diede un'altra dose di Valium e la rimise a dormi-
re. Lei era terrorizzata, urlava... Perché laggiù era buio. Buio pesto. Ma
non era poi così male. Soneji aveva visto di peggio. Lo scantinato.»
Dovevo procedere con estrema cautela; non potevo rischiare di lasciar-
melo sfuggire. Per il momento avrei accantonato la questione dello scanti-
nato.
«Dov'è ora Maggie Rose?» chiesi a Gary Murphy.
La risposta fu immediata, priva di esitazioni: «Non lo so».
Non: è morta. Non: è viva. Semplicemente: non lo so... Perché rifiutava
di darmi quell'informazione? Perché sapeva quanto fosse importante? Per-
ché tutti in quell'aula volevano conoscere il destino riservato a Maggie Ro-
se?
«Soneji tornò a prenderla», seguitò lui. «L'FBI aveva autorizzato il pa-
gamento dei dieci milioni di riscatto. Era tutto pronto. Ma lei era scompar-
sa! Maggie Rose non c'era più quando Soneji andò a prenderla. Era scom-
parsa! Qualcuno l'aveva portata via!»
Ora l'aula non era più silenziosa. Ma io continuai a concentrarmi su
Gary.
Il giudice Kaplan era riluttante a ricorrere al martelletto per riportare
l'ordine. Si alzò e fece un gesto per imporre il silenzio, ma con scarsi risul-
tati.
Qualcun altro aveva portato via la bambina. Ora qualcun altro la tene-
va prigioniera.
Riuscii a porre qualche altra domanda prima che l'eccitazione del pub-
blico esplodesse, contagiando forse anche il soggetto. La mia voce rimase
calma, pacata.
«È stato lei a portarla via, Gary? Lei ha salvatola bambina portandola via
a Soneji? Lei sa dov'è adesso Maggie Rose?»
Evidentemente non gli piaceva essere incalzato in quel modo, perché a-
veva preso a sudare abbondantemente. Le sue palpebre tremolavano. «Cer-
to che no. No, io in questa faccenda non c'entravo nulla. È sempre stato
Soneji. Io non posso controllarlo. Nessuno può. Perché non lo capisce?»
Mi protesi verso di lui. «Soneji è qui ora? È qui con noi?»
In nessun'altra circostanza mi sarei spinto tanto oltre. «Posso chiedere a
Soneji che cos'è successo a Maggie Rose?»
Gary Murphy scosse ripetutamente la testa da un lato all'altro. «È troppo
spaventoso adesso», bisbigliò; aveva il viso e i capelli madidi di sudore.
«Troppo spaventoso. Soneji è un brutto tipo! Non posso dire altro su di lui.
Non voglio. La prego, mi aiuti, dottor Cross. Mi aiuti!»
«D'accordo, Gary, basta così.» Mi affrettai a farlo uscire dalla trance.
Era l'unica cosa da fare, date le circostanze. Non avevo scelta.
Poi Gary Murphy fu di nuovo nell'aula con me. Mi guardava, ma nei
suoi occhi non lessi altro che paura.
Il pubblico rumoreggiava, ormai senza controllo. Cronisti e reporter si
accalcavano verso l'uscita per telefonare alle rispettive redazioni. Il giudice
Kaplan picchiava senza sosta col martelletto.
Qualcun altro aveva preso Maggie Rose Dunne... Possibile?
«Va tutto bene, Gary», sospirai. «Capisco perfettamente la sua paura.»
Mi fissò, poi gradualmente parve accorgersi del tumulto che regnava in-
torno a noi. «Che cos'è successo?» chiese allora. «Che cos'è successo qui
dentro?»

63

Ricordavo ancora qualcosa di Kafka; in particolare il raggelante inizio


del Processo: «Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K., perché, seb-
bene non avesse fatto alcunché di male, una mattina lo arrestarono». Era
questo che Gary Murphy voleva portarci a credere: era vittima di un incu-
bo. Era innocente, non meno di Joseph K.
Mi scattarono almeno una dozzina di foto mentre lasciavo l'aula. E tutti
avevano qualcosa da chiedermi. Io rifiutai di rilasciare dichiarazioni. Non
mi lascio mai sfuggire un'occasione per tenere la bocca chiusa.
Maggie Rose era ancora viva? voleva sapere la stampa. Non dissi quello
che pensavo, ossia che con tutta probabilità non lo era.
Fuori del tribunale, vidi Katherine e Thomas Dunne che mi venivano in-
contro, circondati da telecamere e giornalisti. Ero dispostissimo a parlare
con Katherine, ma non con Thomas.
«Perché lo sta aiutando?» gridò quasi lui. «Non lo sa che quell'uomo
mente? Che cosa c'è che non va in lei, Cross?»
Era tesissimo e rosso in faccia. Fuori di sé. Sulla sua fronte, le vene
sporgenti sembravano sul punto di scoppiare. Katherine Rose aveva un'e-
spressione di totale abbattimento.
«Sono stato citato come teste della difesa», replicai. «Sto facendo il mio
lavoro, tutto qui.»
«Be', lo sta facendo male.» Dunne non si lasciava smontare tanto facil-
mente. «Si è fatto sfuggire nostra figlia in Florida. E ora sta cercando di far
tornare in libertà il suo rapitore.»
Ne avevo abbastanza di lui. Mi aveva attaccato personalmente in televi-
sione e sui giornali e, per quanto desiderassi con tutto me stesso la salvez-
za di sua figlia, non ero disposto a sopportare ulteriormente le sue anghe-
rie.
«Un accidente!» sbraitai, mentre le telecamere ci ronzavano intorno.
«Ho le mani legate, lo capisce o no? Prima mi hanno tolto il caso, così, per
capriccio, poi me l'hanno riaffidato. E sono stato l'unico a ottenere dei ri-
sultati.»
Li piantai lì e affrontai a tutta velocità la scalinata. Comprendevo la loro
angoscia, ma erano mesi che Thomas Dunne non faceva che tormentarmi.
Ne aveva fatto una questione personale tra lui e me, e aveva torto. Sem-
brava che nessuno si rendesse conto di una cosa semplicissima: io ero l'u-
nico a cercare ancora la verità sul conto di Maggie Rose. L'unico.
In fondo alle scale venni raggiunto da Katherine, Mi era corsa dietro e
ovviamente i fotografi avevano fatto altrettanto. Erano dappertutto, e scat-
tavano come impazziti.
«Mi dispiace», sussurrò senza lasciarmi il tempo di parlare. «La perdita
di Maggie sta distruggendo Tom. Sta distruggendo il nostro matrimonio.
So che lei ha fatto tutto il possibile. E so quello che ha dovuto sopportare.
Mi dispiace, Alex. Mi dispiace per tutto quanto.»
Fu un momento molto, molto strano. Infine tesi la mano a prendere quel-
la di lei, la ringraziai e le assicurai che avrei continuato le ricerche. E in-
tanto i fotografi continuavano a scattare. Poi mi allontanai in fretta, e non
rivelai una sola parola di quello che Katherine e io ci eravamo detti. Il si-
lenzio era la miglior vendetta contro quegli sciacalli.
Tornai a casa. Ero ancora alla ricerca di Maggie Rose, ma ora la cercavo
nella mente di Soneji/Murphy. Possibile che qualcun altro l'avesse allonta-
nata dal luogo del rapimento? Perché Gary Murphy aveva voluto fornirci
quell'informazione? Mentre mi dirigevo verso la zona sud-est, riesaminai
mentalmente tutto ciò che aveva detto sotto ipnosi. Gary Soneji ci aveva
fregato tutti quanti, quel giorno? Era un'ipotesi inquietante, ed estrema-
mente reale. Ci aveva ancora coinvolto in uno dei suoi spaventevoli piani?
Il mattino seguente tentai d'ipnotizzare nuovamente l'imputato. L'incre-
dibile dottor/detective Cross ancora una volta sotto i riflettori! O almeno
così scrissero i giornali.
Quella volta fallimmo. Gary Murphy era troppo spaventato, fu la spiega-
zione del suo difensore. E l'aula era troppo rumorosa. Il giudice Kaplan la
fece sgomberare, ma neppure ciò servì.
Quello stesso giorno venni controinterrogato dal pubblico ministero ma,
a differenza di Nathan, Mary Warner era più interessata a trascinarmi giù
dal banco dei testimoni che ad avvalorare le mie credenziali. Ormai la mia
parte nel processo poteva dirsi conclusa. E io ne ero più che sollevato.
Né Sampson né io andammo in tribunale per il resto della settimana, che
fu dedicata a ulteriori testimonianze di esperti. Tornammo al lavoro. Ci
occupammo di nuovi casi. Cercammo anche di risolvere alcuni aspetti po-
co chiari relativi al giorno del rapimento. Chiusi in una sala riunioni stra-
colma di pratiche, rianalizzammo ogni particolare punto per punto. Se
Maggie Rose era stata prelevata dal luogo in cui era tenuta prigioniera, non
si poteva escludere che fosse ancora viva. Era una possibilità remota, ma
era pur sempre una possibilità.
Ancora una volta Sampson e io tornammo alla Washington Day School
per parlare con alcuni insegnanti. Non si mostrarono esattamente felici di
vederci. Ma a noi stava a cuore verificare la teoria del complice; dopotutto,
non era affatto impossibile che Gary Soneji avesse potuto contare fin dal-
l'inizio sull'aiuto di qualcun altro. Forse Simon Conklin, il suo amico di
Princeton? Oppure chi? Ma alla scuola nessuno fu in grado di fornirci ele-
menti utili.
Lasciammo l'istituto a mezzogiorno e ci fermammo a mangiare a Geor-
getown. Poi decidemmo di spingerci fino a Potomac, nel Maryland, dove
passammo il pomeriggio a perlustrare Sorrell Avenue e le vie circostanti.
Visitammo un paio di dozzine di abitazioni, dove l'accoglienza non fu mi-
gliore che alla scuola. Non che questo c'impedisse di continuare per la no-
stra strada.
Nessuno aveva notato persone o auto sospette. Né prima né dopo il ra-
pimento. Nessuno ricordava un furgone diverso da quelli che circolavano
abitualmente nella zona. Neppure del tipo più comune, quelli addetti alle
consegne per conto di fioristi, artigiani, negozi di alimentari.
Più tardi, da solo, puntai verso Crisfield, nel Maryland, dove Maggie
Rose e Michael Goldberg erano stati tenuti prigionieri i primi giorni. In
una cripta? In una cantina? Sotto ipnosi Gary Soneji/Murphy aveva men-
zionato lo scantinato. Da bambino era stato spesso rinchiuso in una cantina
buia. E per lunghi periodi della sua vita era stato solo e senza amici.
Ci tenevo a esaminare la fattoria da solo, con calma. C'erano troppi indi-
zi sconnessi in questo caso, e m'infastidivano enormemente. Erano come
razzi che mi saettavano dentro la testa.
Mentre mi aggiravo per la proprietà desolata, vagamente irreale, lasciai
che i miei pensieri vagassero liberamente. Ma finivano sempre per tornare
al Figlio di Lindbergh e al fatto che il piccolo Lindbergh era stato preleva-
to da una «fattoria».
Il presunto complice di Soneji. Ecco uno dei tanti problemi irrisolti.
Soneji era stato «individuato» anche nei pressi dell'abitazione dei San-
ders, se bisognava credere a Nina Cerisier. Un'altra circostanza tutta da
chiarire.
Ci trovavamo davvero davanti a un caso di doppia personalità? Da
sempre la comunità psichiatrica era divisa in merito all'esistenza di simili
turbe. I casi effettivi di personalità multipla sono rari.
Si trattava solo di una delle macchinose costruzioni di Gary Murphy?
Stava interpretando deliberatamente i due ruoli?
Che ne era di Maggie Rose? Gira e rigira, quello restava l'interrogativo
chiave. Che ne era di Maggie Rose?
Sul malconcio cruscotto della Porsche conservavo una delle candele di-
stribuite dai manifestanti davanti al tribunale di Washington. La accesi. Per
tutto il tragitto di ritorno la sua fiammella mi fece compagnia nell'oscurità
che si andava addensando. Ricordate Maggie Rose.

64

Quella sera avevo appuntamento con Jezzie e per tutta la giornata avevo
aspettato con ansia il momento di rivederla. C'incontrammo in un motel
Embassy Suite, ad Arlington. La città brulicava di giornalisti e noi sape-
vamo di dover stare particolarmente attenti.
Jezzie arrivò dopo di me, affascinante e terribilmente sexy nel suo tubi-
no nero scollato. Portava calze nere con la cucitura e scarpe a tacco alto. Si
era dipinta le labbra di un rosso scarlatto e tra i capelli aveva un pettinino
d'argento. Non tremare, cuor mio.
«Avevo una colazione importante», disse a mo' di spiegazione, mentre si
sfilava le scarpe. «Che te ne pare? Ho diritto oppure no a un posto fra la
gente che conta?»
«Be', una cosa è certa: aumenti decisamente la media delle mie frequen-
tazioni con la gente che conta», replicai.
«Arrivo tra un minuto, Alex. Un minuto solo.» Sparì in bagno.
Quando ne uscì, io ero già a letto. La tensione che m'irrigidiva il corpo si
stava pian piano scaricando nel materasso. La vita era di nuovo bella.
«Facciamo un bagno, vuoi?» propose lei. «Per toglierci di dosso la pol-
vere della strada.»
«Di polvere non ce n'è. Ci sono soltanto io.»
Ma mi alzai e passai in bagno. La vasca era quadrata e insolitamente
ampia; una distesa di lucide piastrelle bianche e azzurre, rialzata di almeno
una trentina di centimetri rispetto al pavimento. Gli indumenti di Jezzie e-
rano sparpagliati per terra.
«Hai fretta?» le chiesi.
«Proprio così.»
Aveva riempito la vasca fino all'orlo; qualche bolla di bagnoschiuma ve-
leggiava spensierata verso il soffitto. Dall'acqua si levava una nube densa
di vapore e l'aria aveva il profumo di un giardino di campagna.
Jezzie agitò l'acqua con la punta delle dita. Poi mi si avvicinò. Tra i suoi
capelli riluceva ancora il pettinino d'argento.
«Sono un po' tesa», disse.
«Lo immaginavo. Di queste cose me ne intendo.»
«Credo che sia l'occasione giusta per un po' di relax.»
Ero assolutamente d'accordo con lei. Le mani di Jezzie si af-
faccendavano intorno alla cerniera dei miei pantaloni. Le nostre bocche
s'incontrarono; con leggerezza prima, poi con forza.
Di colpo Jezzie mi attirò dentro di sé, lì, in piedi accanto alla vasca da
bagno. Uno, due, tre affondi, quindi si staccò. Aveva il viso, il collo e il
seno arrossati. Per un momento temetti che si sentisse male.
La subitaneità con cui mi aveva accolto nel suo corpo per poi respin-
germi mi aveva sorpreso. Mi aveva scioccato e riempito di piacere al tem-
po stesso. Era davvero tesa. Violenta, quasi.
«Che ti succede?»
«Sto per avere un attacco di cuore», bisbigliò lei. «Ti conviene inventare
una storia attendibile da raccontare alla polizia, Alex. Accidenti.»
Mi prese per mano e mi tirò nella vasca. L'acqua era calda al punto giu-
sto. E così tutto il resto.
Ridemmo. Io avevo ancora addosso i boxer, ma il vecchio Pete aveva
messo fuori la testa! Me li sfilai.
Nella vasca, ci dimenammo fino a trovarci l'uno di fronte all'altra. Jezzie
riuscì a montarmi sopra. Si appoggiò all'indietro, sostenendosi con le brac-
cia, e intanto mi scrutava con una sorta di strana intensità. Il rossore del
collo e del seno si era ulteriormente accentuato.
Fulminee, le sue gambe slanciate emersero dall'acqua e mi serrarono il
collo. Ebbe il tempo di spingere il bacino verso di me solo un paio di volte
prima che esplodessimo entrambi. Il suo corpo era teso fino allo spasimo.
Ci muovemmo e gememmo a lungo. L'acqua traboccava.
In qualche modo Jezzie riuscì a circondarmi con le braccia... braccia e
gambe. Io ormai avevo il naso a pelo dell'acqua.
Poi sprofondai sotto. Jezzie mi cavalcava. Un fremito violento mi per-
corse in tutto il corpo. Stavamo venendo insieme. E io stavo anche per an-
negare. Sentii Jezzie che gridava, un grido che mi giunse bizzarramente
deformato attraverso l'acqua.
Venni proprio nel momento in cui la mia riserva d'aria si stava esauren-
do. Ingoiai acqua e tossii.
Jezzie giunse in mio soccorso. Mi tirò su, mi prese il viso tra le mani.
Restammo abbracciati per un po'. Esausti. C'era più acqua sul pavimento
che nella vasca.
Ormai sapevo che mi stavo innamorando di lei. Di questo, e di questo
soltanto ero certo. Nella mia vita, tutto il resto era caos e mistero, ma al-
meno avevo trovato un punto fermo. Ed era Jezzie.
Era circa l'una quando mi alzai per tornare a casa. Volevo che i ragazzi
mi trovassero lì al loro risveglio. Jezzie si mostrò comprensiva. Da quando
era iniziato il processo, capirci era diventato molto più facile. Lei voleva
conoscere Damon e Janelle; entrambi pensavamo che fosse la cosa giusta.
«Mi manchi già», mormorò mentre io mi rivestivo. «Maledizione, non
andartene... Sì, lo so che devi andare.»
Si tolse il pettinino d'argento e me lo mise in mano.
Uscii nella notte con la sua voce che ancora mi rimbombava nella testa.
Il parcheggio era immerso in una fitta oscurità.
I due uomini mi comparvero di fronte all'improvviso, come spuntati dal
nulla. Automaticamente misi mano alla fondina, ma uno di loro accese una
luce abbagliante e l'altro mi puntò contro una macchina fotografica.
Gli sciacalli ci avevano scoperto. Merda! Il rapimento era un caso così
sensazionale che tutto quanto lo riguardava anche solo da lontano faceva
notizia. Era stato così fin dall'inizio.
Ai due uomini si accodò una ragazza. Aveva lunghi capelli neri e crespi
e sembrava appartenere a una troupe cinematografica di New York o Los
Angeles.
«Detective Alex Cross?» chiese uno dei due, mentre il suo collega scat-
tava in rapida successione. I lampi del flash laceravano l'oscurità del par-
cheggio.
«Siamo del National Star. Vogliamo parlare con lei, detective Cross.»
«Si può sapere che cosa c'entra questo col caso?» lo apostrofai, mentre
infilavo il pettinino di Jezzie nel taschino della giacca. «È una faccenda
privata. Nulla che possa fare notizia.»
«Lasci che questo lo decidiamo noi. È il nostro lavoro. Non so, amico,
un nuovo canale di comunicazione fra la polizia di Washington e i servizi
segreti. Consultazioni private e chissà che altro.»
La ragazza stava già bussando alla porta del bungalow. «Sono del Na-
tional Star», annunciò con voce non meno sonora dei suoi colpi.
«Non aprire», gridai a Jezzie.
La porta si spalancò. Vestita di tutto punto, Jezzie comparve sulla soglia:
fissava la donna dai capelli crespi senza curarsi di nascondere il proprio di-
sprezzo.
«Dev'essere un grande momento per voi», disse. «Probabilmente non ar-
riverete mai più vicini di così al Pulitzer.»
«No», ribatté pronta la giornalista. «Conosco Roxanne Pulitzer. E ora
conosco anche voi due.»

65

Mi misi al piano e suonai un medley di Keith Swat, Bell Biv Devoe,


Hammer e Public Enemy. Damon e Janelle mi fecero da pubblico sulla ve-
randa fin verso le otto del mattino. Era il mercoledì della settimana che ci
aveva riservato la piccola sensazionale sorpresa di Arlington.
Nana era in cucina, intenta a leggere la copia del National Star che ave-
vo acquistato per lei. Aspettavo che mi chiamasse.
Non sentendola, mi decisi ad abbandonare il piano ed entrai, pronto ad
affrontare tutt'altro genere di musica. Dissi a Damon e a Janelle di starsene
lì buoni buoni. «Non muovetevi.»
Come tutte le mattine, Nana stava bevendo il tè. Nel suo piatto c'erano
gli avanzi dell'uovo in camicia e del toast. Il giornale era sul tavolo, piega-
to alla bell'e meglio. Letto? Non letto? Impossibile stabilirlo.
Fui costretto a chiederglielo. «Hai letto l'articolo?»
«Quanto basta per coglierne il succo. E ho visto la tua foto in prima pa-
gina. Credo che sia così che si leggono i giornali di questo tipo. Mi mera-
vigliavo sempre quando vedevo qualcuno comprare roba del genere, la
domenica mattina dopo la messa.»
Sedetti di fronte a lei e immediatamente m'investì un'ondata di ricordi.
Quanti discorsi avevamo fatto, durante i pasti consumati insieme.
Nana prese un pezzettino di toast e lo intinse nella marmellata. Se gli
uccelli mangiassero come gli esseri umani, mangerebbero certamente co-
me lei. Guardarla è un piacere.
«Lei è una bella donna bianca e sono sicura che è anche molto interes-
sante. Tu sei un bell'uomo di colore e a volte il tuo cervello funziona in
modo egregio. A un sacco di gente questa storia non piacerà. Te ne rendi
conto, vero?»
«E a te, Nana? A te piace?»
Lei emise un piccolo sospiro. Posò la tazza sul piattino, facendola tintin-
nare. «Voglio dirti una cosa, Alex. Non conosco i termini clinici, ma è un
fatto che tu non hai mai superato del tutto la perdita di tua madre. Saltava
agli occhi quando eri un bambino e a volte è ancora evidente.»
«Si chiama sindrome post-traumatica», dissi. «Se t'interessa la definizio-
ne esatta.»
Quel mio tentativo di rifugiarmi dietro il gergo professionale le strappò
un sorriso. Me l'aveva già visto fare in passato. «Non mi permetterei mai
di emettere dei giudizi su quello che ti è successo, ma ti ha condizionato
fin dal tuo arrivo a Washington. Ricordo di aver notato che non sempre sa-
pevi come comportarti in mezzo alla gente. Non avevi la disinvoltura di al-
tri bambini, almeno. Facevi sport e rubacchiavi col tuo amico Sampson e
avevi l'aria perennemente strafottente. Ma leggevi, ed eri moderatamente
sensibile. Mi segui? Insomma, forse di fuori eri un duro, ma certo non lo
eri dentro.»
Non accettavo sempre come oro colato le conclusioni di Nana, ma non
per questo potevo negare che di solito colpivano nel segno. Da ragazzo a-
vevo fatto fatica ad ambientarmi nella zona sud-est di Washington, ma da
allora sapevo di essere migliorato parecchio. Adesso ero il Detective-
Dottor Cross.
«Non volevo ferirti, né deluderti.» Indicai il giornale.
«Non mi hai deluso, Alex. Tu sei il mio orgoglio e la mia gioia. Una
fonte costante di gioia. Quando ti vedo coi bambini, quando penso al lavo-
ro che svolgi qui nel quartiere e al fatto che ti sta ancora a cuore compiace-
re una vecchia...»
«Questo sì che è un lavoro ingrato», la interruppi. «Quanto alla cosiddet-
ta 'notizia', per una settimana o giù di lì sarà un inferno. Poi a nessuno im-
porterà più nulla.»
Nana stava scuotendo la testa, ma il suo ordinato caschetto di capelli
grigi non si scompose. «Ti sbagli. Alla gente continuerà a importare. Al-
cuni se ne ricorderanno per il resto della loro vita. D'altra parte, se non
vuoi patire le conseguenze del male che hai fatto...»
«E che male avrei fatto?»
Col manico del coltello, Nana cominciò a radunare le briciole.
«Questo devi dirmelo tu. Perché tu e Jezzie Flanagan vi comportate co-
me due ladri, se non avete nulla da nascondere? Se la ami, la ami, punto e
basta. La ami, Alex?»
Non le risposi subito. Naturalmente amavo Jezzie. Ma fino a che punto?
E dove ci stava portando tutto quello? Ancora: doveva necessariamente
portare da qualche parte?
«Non lo so con sicurezza, almeno non nel senso che intendi tu», dissi in
ultimo. «Sto cercando di scoprirlo. Siamo entrambi ben consapevoli delle
possibili conseguenze.»
«Se scoprirai di amarla», disse mia nonna, «ebbene, amala. Senza na-
sconderlo. Io ti voglio bene, Alex. Il fatto è che pensi sempre in grande. A
volte sei troppo intelligente, più di quanto sarebbe opportuno per te. E puoi
apparire molto strano; agli occhi dei bianchi, intendo dire.»
«Ed è per questo che ti piaccio tanto.»
«Questa è solo una delle tante ragioni, ragazzo mio.»
Quel mattino, mia nonna e io ci abbracciammo a lungo, seduti al tavolo
della colazione. Io sono grosso e forte; Nana è minuta e fragile, ma non
meno forte di me. Per certi versi, non si diventa mai del tutto adulti, alme-
no non nei confronti dei propri genitori o dei propri nonni. E certo non nei
confronti di Nana Mama.
«Grazie, vecchia», mormorai in ultimo.
«E fiera di esserlo.» Come sempre, l'ultima parola doveva essere la sua.

Quel giorno cercai più volte di mettermi in contatto con Jezzie, ma era
fuori oppure preferiva non rispondere. Non aveva neppure inserito la se-
greteria telefonica. Ripensai alla nostra serata ad Arlington. A quanto mi
fosse sembrata tesa. Ancor prima che arrivassero quelli del National Star.
Mi baloccai con l'idea di andare a casa sua, ma non ne feci nulla. Il pro-
cesso non era ancora finito e l'ultima cosa di cui avevamo bisogno era un
altro articolo su un giornale scandalistico.
Sul lavoro nessuno fece il minimo accenno all'accaduto. Se avessi avuto
ancora qualche dubbio in proposito, quel silenzio mi avrebbe fatto capire
una volta per tutte l'entità del danno. Mi era piombata sulla testa una bella
tegola, sicuro come l'oro.
Finii col rintanarmi nel mio ufficio a bere caffè nero e a guardare le pa-
reti. Tutte e quattro erano coperte da «indizi» sul sequestro. Cominciavo a
sentirmi colpevole, furibondo e smanioso di ribellarmi. Con una gran vo-
glia di fracassare vetri, come avevo fatto un paio di volte dopo la morte di
Maria.
Me ne stavo lì, seduto alla scrivania grigia fornita dal governo, a guarda-
re senza vederla la tabella coi miei turni per la settimana.
«Ti ci sei messo da solo in questo casino, scemo.» La voce di Sampson
echeggiò alle mie spalle. «Sei solo soletto. Pronto per essere infilzato e ar-
rostito.»
Non mi girai neppure. «Non ti sembra che stai minimizzando un po' la
situazione?»
«Pensavo che prima o poi ti saresti deciso a parlarne», brontolò lui. «Sa-
pevi che io sapevo di voi due.»
Un paio di cerchi scuri lasciati sulla tabella da una tazza di caffè cattura-
rono il mio sguardo. Di recente tutto mi stava venendo meno, anche la
memoria. Finalmente mi voltai a guardarlo. Era insuperabile coi pantaloni
di pelle, un vecchio cappello Kangol e un gilet di nylon nero. Gli occhi e-
rano invisibili dietro gli occhiali scuri.
«Secondo te, che cosa succederà adesso?» domandai. «Che cosa dicono
loro?»
«Nessuno è troppo soddisfatto di come è stato condotto questo fottutis-
simo caso. Ai piani alti non sono esattamente entusiasti. La mia idea è che
stiano contando i potenziali agnelli sacrificali. E di sicuro tu sei uno di
quelli.»
«E Jezzie?»
«Anche lei. Se la fa coi negri. Mi sembra di capire che non sei al corren-
te delle ultime novità.»
«Novità? Quali?»
Sampson esalò un sospiro interminabile, poi fece esplodere l'ultima
bomba. «Ha chiesto un congedo, o forse ha lasciato i Servizi per sempre.
Più o meno un'ora fa. Nessuno sa se è stata lei ad andarsene, o se l'hanno
defenestrata.»
Chiamai subito l'ufficio di Jezzie. La segreteria m'informò che sarebbe
stata fuori per «tutto il giorno». La cercai a casa. Nessuna risposta.
Infransi almeno un paio di norme del codice stradale mentre mi dirigevo
a tutta velocità a casa sua.
A casa di Jezzie non c'era nessuno. Neppure fotografi, per fortuna. Pen-
sando al cottage sul lago, da un telefono pubblico chiamai il North Caroli-
na. L'operatore m'informò che il numero non era più operativo.
Ero sorpreso. «Da quando? Ieri sera funzionava.»
«Da stamattina. La linea è stata disattivata stamattina.»
Jezzie era scomparsa.

66
La sentenza del processo Soneji/Murphy era imminente.
La giuria si ritirò l'11 novembre, per ricomparire tre giorni dopo, in
mezzo a un tumulto incontrollabile di voci che la volevano incapace di
prendere una decisione e di pronunciarsi per l'innocenza o la colpevolezza
dell'imputato. Sembrava che il mondo intero fosse in attesa.
Quel mattino Sampson venne a prendermi e andammo in tribunale in-
sieme. Dopo qualche giorno di freddo - breve anticipazione dell'inverno -
la temperatura era tornata a salire.
Durante il tragitto pensai a Jezzie. Ormai non la vedevo da più di una
settimana; chissà se l'annuncio della sentenza avrebbe avuto il potere di
portarla in aula. Mi aveva telefonato. Era nel North Carolina, mi aveva det-
to. E nient'altro. Ero di nuovo solo, e non mi piaceva.
Fuori del tribunale non vidi Jezzie, bensì Anthony Nathan che scendeva
da una Mercedes metallizzata. Era il suo grande momento. I giornalisti gli
piombarono addosso, come piccioni su un tozzo di pane vecchio.
Stampa e televisione cercarono di cavar fuori qualcosa anche da me e
Sampson prima che riuscissimo a infilare le scale. Nessuno dei due aveva
troppa voglia di farsi intervistare di nuovo.
«Dottor Cross! Dottor Cross!» gridò una voce stridula che riconobbi
come quella della giornalista di una TV locale.
Dovemmo fermarci. Erano dietro e davanti a noi, erano dappertutto.
«Dottor Cross, crede che la sua testimonianza aiuterà Gary Murphy a e-
vitare l'accusa di omicidio premeditato? Pensa di averlo involontariamente
aiutato a sfuggire all'imputazione più grave?»
Qualcosa si ruppe dentro di me. «Siamo felici di essere arrivati al Super
Bowl», ringhiai rivolto al balenio di innumerevoli microcamere. «Alex
Cross si concentrerà sul suo gioco. Il resto verrà da solo. Alex Cross si ac-
contenta di ringraziare Dio Onnipotente per l'opportunità che gli viene of-
ferta di giocare a questo livello.» Mi protesi verso la giornalista che aveva
posto la domanda. «Capisce quello che sto dicendo? Sono stato abbastanza
chiaro?»
Sampson sorrise. «Quanto a me, sono ancora disponibile a sponsorizza-
zioni redditizie per le scarpe e le bevande analcoliche.»
Riprendemmo a salire i ripidi gradini di pietra ed entrammo.
Nel grande atrio cavernoso del tribunale, il frastuono era tale da far dole-
re i timpani. Tutti urlavano e si muovevano senza sosta, ma con una certa
educazione, come fa la folla in abito da sera che ti sospinge all'interno del
Kennedy Center.
Soneji/Murphy non era il primo imputato la cui difesa s'imperniasse sul-
l'assunto della personalità multipla. Ma il suo era certo il caso più celebre.
Aveva suscitato ogni sorta di interrogativi sul significato dei termini «col-
pa» e «innocenza» ed erano proprio questi interrogativi a rendere incerto il
verdetto... Se Gary Murphy era innocente, come si poteva condannarlo per
rapimento e omicidio? Ecco la domanda che il suo difensore aveva fatto
germogliare nella mente di tutti.
Rividi Nathan in aula. «È evidente che nel mio assistito agiscono due
personalità in conflitto», aveva detto ai giurati nel corso della sua arringa.
«Una di queste non è meno innocente di voi. Non potete condannare Gary
Murphy per sequestro di persona od omicidio. Gary Murphy è un uomo
per bene, Gary Murphy è un marito e un padre. Gary Murphy è innocente!»
I giurati si trovavano di fronte a un grave dilemma. Gary Soneji/Murphy
era un sociopatico diabolicamente abile? Aveva la consapevolezza, e il
controllo, delle proprie azioni? Aveva potuto contare sull'aiuto di un com-
plice? O aveva agito da solo?
Nessuno conosceva la verità, tranne forse Gary stesso. Non la conosce-
vano gli esperti. Non la conosceva la polizia. Non la conosceva la stampa e
non la conoscevo io.
Quali elementi aveva la giuria composta da «pari» di Gary per decidere?
Il primo avvenimento della mattinata fu senz'altro la comparsa dell'im-
putato nell'aula affollatissima e rumorosa. Con indosso un sobrio abito blu,
aveva il suo solito aspetto da ragazzo per bene. Assomigliava più all'im-
piegato di una banca di provincia che a un uomo accusato di sequestro di
minore e omicidio.
Si levò qualche applauso, a dimostrazione del fatto che oggigiorno an-
che i rapitori possono contare su un certo seguito. Era indubbio che il pro-
cesso aveva attratto la solita quantità di stupidi, individui malati e veri e
propri psicopatici.
«Chi dice che l'America non ha più eroi?» sibilò Sampson. «A loro quel
maledetto stronzo piace. Ce l'hanno scritto nei loro occhietti lucidi. Lui è
Charlie Manson in versione aggiornata e ampliata. Invece di un hippie
sanguinario, uno yuppie sanguinario.»
«Il Figlio di Lindbergh», mormorai io. «Mi chiedo se era questo che vo-
leva. Era tutto parte del suo piano per conquistare la celebrità?»
Entrarono i giurati. Avevano facce tese e sbigottite. A quale decisione
erano giunti, con tutta probabilità solo poche ore prima, in piena notte?
Uno di loro inciampò mentre in fila indiana si dirigevano verso il banco di
mogano. Cadde su un ginocchio e per qualche istante la piccola processio-
ne s'interruppe. Un incidente insignificante, e tuttavia mi sembrò riassu-
messe tutta la fragilità e l'incertezza che fin dall'inizio avevano caratteriz-
zato il dibattimento.
Guardai Soneji/Murphy e mi parve d'intravedere l'ombra di un sorriso
sulle sue labbra. Un piccolo passo falso, forse? Quali erano i pensieri che
si affollavano nella sua mente? Quale verdetto aveva previsto?
In ogni caso, la persona nota come Gary Soneji, il Bambino Cattivo, a-
vrebbe senz'altro apprezzato la situazione. Tutto era pronto, ed era tutto in-
credibilmente bizzarro. Con lui al centro del palcoscenico. Qualunque fos-
se il prezzo da pagare, quello era certo il giorno più importante della sua
vita.
Voglio essere qualcuno!
«La giuria ha raggiunto un verdetto unanime?» chiese il presidente della
corte Kaplan quando i giurati ebbero preso posto.
Le venne porto un foglietto; la sua espressione non mutò mentre legge-
va. Quindi lo restituì al capo della giuria. Tutto secondo la procedura.
Il capo dei giurati, che le era rimasto accanto, lesse con voce chiara, ma
un po' tremante. Era un impiegato delle poste di nome James Heekin; ave-
va cinquantacinque anni e un colorito rubizzo, quasi paonazzo, segno forse
di pressione alta. A meno che non fosse da attribuirsi allo stress del pro-
cesso.
«In merito all'accusa di duplice sequestro di persona, dichiariamo l'im-
putato colpevole; in merito all'accusa di omicidio di primo grado dichia-
riamo l'imputato colpevole.» Neppure una volta James Heekin pronunciò il
nome di Gary Murphy.
In aula scoppiò il caos. Il clamore rimbalzava contro le colonne di pietra
e le pareti rivestite di marmo. I giornalisti si accalcavano verso l'uscita, di-
retti ai telefoni. Mary Warner, emozionata, si congratulava coi suoi giovani
collaboratori. Anthony Nathan e i suoi uscirono in tutta fretta per evitare le
domande.
Fuori dell'aula, ci fu un momento d'intensa emozione.
Missy Murphy e la figlioletta Roni corsero verso Gary, che gli agenti si
preparavano a condurre via. Singhiozzando, i tre si abbracciarono. Non a-
vevo mai visto Gary piangere. Se era una recita, non fu meno brillante di
quelle che l'avevano preceduta. Non c'era nulla di poco credibile in quella
scena di disperazione.
Io non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Poi un paio di agenti al-
lontanarono le due donne e portarono via il detenuto.
Se Gary stava fingendo, ebbene, non aveva commesso neanche un erro-
re. La moglie e la figlia assorbivano tutta la sua attenzione; neppure una
volta alzò lo sguardo per accertarsi di avere un pubblico.
Recitava alla perfezione.
Oppure Gary Murphy era un innocente che era stato appena condannato
per sequestro di persona e omicidio?

67

«Pressure, pressure», cantava Jezzie a tempo con la musica che le rim-


bombava nella testa.
La pelle le si tendeva sulla fronte mentre scendeva lungo la tortuosa
strada di montagna senza cautela né paura. A ogni curva si piegava per se-
guirne l'inclinazione e procedeva in quarta senza mai scalare. Abeti, maci-
gni e vecchi pali del telefono correvano rapidi ai lati della strada. Una
macchia confusa e ininterrotta. Da più di un anno, forse da tutta la vita, si
sentiva precipitare in caduta libera. Presto non ce l'avrebbe più fatta e sa-
rebbe esplosa.
Nessuno capiva che cosa significasse rimanere sotto pressione così a
lungo. Fin da bambina era vissuta nel costante timore di commettere uno
sbaglio, di non essere la piccola perfetta Jezzie, di non riuscire a guada-
gnarsi l'amore dei suoi genitori.
La piccola perfetta Jezzie.
«Far bene non basta», le ripeteva suo padre quasi ogni giorno. «Far bene
significa precludersi la possibilità di fare benissimo.» E così lei era diven-
tata la studentessa modello; era diventata Miss Simpatia; era diventata tut-
to quello che le riusciva di diventare. Qualche anno prima Billy Joel aveva
inciso una canzone intitolata Pressure. Pressione. Una parola che non era
sufficiente a descrivere il peso che le gravava da sempre sulle spalle. Do-
veva liberarsene, e forse aveva trovato il modo.
Arrivata in vista del cottage, scalò in terza. Le luci erano accese, ma per
il resto tutto era pace e tranquillità. Il lago era una tavola scura e lucente
che pareva fondersi con le montagne. Ma le luci erano accese. E non era
stata lei a lasciarle accese.
Scese ed entrò. La porta d'ingresso non era chiusa a chiave. Il soggiorno
era deserto. «Ehi», chiamò.
Passò in cucina, poi nelle due camere da letto. Nessuno. Nulla lì sugge-
riva una presenza. Tranne le luci. «Ehi, c'è qualcuno?»
In cucina, il gancio della porta a rete pendeva dalla catenella. Uscì e si
diresse verso il molo.
Nulla.
Nessuno.
Un improvviso battere d'ali alla sua sinistra. Un uccello volava sul pelo
dell'acqua.
Jezzie si fermò in fondo al molo e tirò un profondo sospiro. In testa le ri-
suonava ancora la canzone di Billy Joel. Beffarda e provocatoria. «Pressu-
re, pressure...» La sentiva in ogni fibra del suo essere.
Qualcuno l'afferrò. Braccia forti la strinsero in una morsa d'acciaio. Trat-
tenne a fatica un grido.
Poi le venne ficcato qualcosa in bocca.
Jezzie inspirò. Colombiana Oro. Erba di ottima qualità. Inspirò di nuovo.
Si rilassò fra le braccia che la imprigionavano.
«Mi sei mancata», disse una voce.
Billy Joel urlava nella sua testa.
«Che ci fai qui?» chiese alla fine.

PARTE QUINTA
LA SECONDA INDAGINE

68

Maggie Rose era di nuovo al buio.


Vedeva delle forme tutt'intorno a sé. Sapeva che cos'erano e dove si tro-
vava; sapeva perfino perché.
Stava pensando di nuovo alla fuga. Poi, come un lampo, ancora una vol-
ta, l'avvertimento.
Se cercherai di scappare, non sarai uccisa, Maggie Rose. Sarebbe trop-
po comodo. Finirai di nuovo sottoterra. Tornerai nella tua piccola tomba.
Quindi non provarci, Maggie Rose. Non pensarci neppure.
Ormai aveva dimenticato molte cose. A volte non riusciva neppure a ri-
cordare chi fosse. Era come un brutto sogno, come una successione inter-
minabile di incubi.
Maggie Rose si chiedeva se i suoi genitori la stessero ancora cercando.
Perché avrebbero dovuto? Era passato così tanto tempo dal suo rapimento.
Maggie sapeva che il signor Soneji l'aveva portata via dalla Day School.
Ma da allora non lo aveva più visto. C'era solo l'avvertimento.
A volte, aveva l'impressione di essere uno di quei personaggi fantastici
che un tempo si divertiva a inventare.
Gli occhi si riempirono di lacrime. L'oscurità si era diradata. L'alba era
vicina. Non avrebbe più cercato di scappare. Odiava stare lì, ma per nulla
al mondo sarebbe tornata sottoterra.
Maggie Rose sapeva che cos'erano quelle forme.
Erano bambini.
Tutti radunati in un'unica stanza della casa.
Da cui non c'era via di scampo.

69

Il processo si era concluso da una settimana quando Jezzie tornò a Wa-


shington. Sembrava un buon momento per ricominciare. Io ero pronto -
Dio solo sa se ero pronto - a rimettere insieme i cocci e ad andare avanti.
Ci sentimmo qualche volta per telefono. Non molte. Di ciò che provava,
Jezzie mi disse una cosa soltanto. Che era strano pensare a quanto avesse
investito in una carriera di cui ora non le importava più nulla.
Avevo sentito la sua mancanza ancor più di quanto avessi previsto. Era a
lei che pensavo mentre indagavo su un caso di duplice omicidio: due tredi-
cenni uccisi per un paio di scarpe da tennis Pump. Sampson e io arrestam-
mo l'assassino, un ragazzo di quindici anni proveniente dal «Buco Nero».
Quella stessa settimana mi venne offerto un posto di coordinatore tra il di-
partimento di polizia cittadino e l'FBI a Washington. Avrei guadagnato
molto di più, ma rifiutai. Carl Monroe stava cercando di comprarmi, e io
non ci stavo.
Quella notte non potei prendere sonno. La tempesta scoppiata nella mia
mente il giorno del rapimento non accennava a calmarsi. Non riuscivo a
dimenticare Maggie Rose e non riuscivo ad abbandonare il caso. Restavo
alzato a guardare la televisione fino alle tre o alle quattro del mattino. Re-
citavo la parte di Alex lo strizzacervelli nella vecchia roulotte a St. An-
thony. Con Sampson feci fuori intere cassette di birra. Poi cercavamo di
smaltirla in palestra. E negli intervalli lavoravamo sodo.
Il giorno del ritorno di Jezzie, andai da lei. Derek McGinty parlava dalle
onde della WAMU Radio. La voce del mio «fratello di radio» sedò il tu-
multo nel mio stomaco. Una volta lo avevo addirittura chiamato durante la
trasmissione. Con la voce contraffatta, gli avevo parlato di Maria, dei bam-
bini, della tensione cui ero sottoposto da troppo tempo.
L'aspetto di Jezzie mi lasciò stupefatto. Si era fatta crescere i capelli, che
ora le si allargavano a raggiera intorno al viso. Era abbronzata e vitale co-
me una bagnina californiana in agosto. Come se nella sua vita nulla fosse
mai andato storto.
«Sei in forma. Riposata eccetera eccetera», le dissi, ma avvertivo un cer-
to risentimento nei suoi confronti. Se n'era andata prima del termine del
processo. Senza una spiegazione. Senza una parola di saluto.
Era sempre stata snella, ma ora era più sottile e tonica. Le occhiaie che
le cerchiavano gli occhi durante le indagini erano scomparse. Portava un
paio di shorts di jeans e una maglietta con la scritta SE NON PUOI AB-
BAGLIARLI COL CERVELLO, FREGALI CON LE STRONZATE. Ma
lei non ne aveva bisogno; era abbagliante in tutti i sensi. Mi rivolse un sor-
riso gentile. «Sto molto meglio, Alex. Credo di essere quasi guarita.»
Uscì sulla veranda e venne tra le mie braccia, e anch'io cominciai a sen-
tirmi meglio. La tenni stretta, pensando che per un po' ero tornato a essere
solo su questo strano pianeta. Solo in una terra desolata. Ma avevo trovato
un'altra persona da amare, con cui condividere la mia vita.
«Raccontami tutto», la esortai. «Che cosa si prova a far fermare il mon-
do e a scendere?» I suoi capelli sapevano di pulito. Lei stessa pareva nuo-
va.
«Una sensazione piuttosto gradevole, direi. Era da quando avevo sedici
anni che non smettevo di lavorare. I primi giorni sono stati terribili. Poi pe-
rò è andato tutto bene.» Teneva ancora la testa appoggiata sulla mia spalla.
«Sentivo la mancanza di una cosa soltanto», bisbigliò. «Avrei voluto che
tu fossi con me. Può suonare stucchevole, ma è la verità.»
Era proprio una delle cose che mi aspettavo di sentirle dire. «Sarei venu-
to.»
«Ma al tempo stesso avevo bisogno di fare come ho fatto. Di pensare a
tutto da sola, senza interferenze. Non ho cercato nessun altro, Alex. E ho
scoperto molte cose sul conto di me stessa. Forse ho persino scoperto chi è
Jezzie Flanagan.»
Le sollevai il mento con le dita, per guardarla negli occhi. «Dimmi quel-
lo che hai scoperto. Dimmi chi è Jezzie.» Sottobraccio, entrammo in casa.

Ma Jezzie non parlò molto di se stessa, né di quello che aveva scoperto


durante il suo ritiro nel cottage sul lago. Ricademmo nelle vecchie abitudi-
ni, e devo riconoscere che ne avevo sentito la mancanza. Mi chiedevo se
mi amava ancora e in quale misura il nostro legame aveva giocato nella
sua decisione di tornare. Aspettavo un segno.
Jezzie cominciò a sbottonarmi la camicia, e non ci fu modo di fermarla.
«Mi sei mancato così tanto», sussurrò contro il mio petto. «E a te, Alex,
sono mancata?»
Dovetti sorridere. Non avrei potuto darle una risposta più eloquente del-
la mia eccitazione fisica. «Tu che ne dici?»
Fu un pomeriggio sfrenato. Da parte mia, non riuscivo a dimenticare la
notte in cui i giornalisti del National Star ci avevano sorpreso nel motel.
«Chi è più scuro, ora?» domandai con un sorriso.
«Certamente io. Bruna come una bacca, dicono sul lago.»
«Mi stai abbagliando.»
«Uh uh. Dobbiamo tirarla in lungo ancora per molto? Voglio dire, stare
qui a guardarci e a parlare senza toccarci. Sbottonati la camicia. Per favo-
re.»
«Ti eccita?» Avevo la voce roca.
«Uh uh. Anzi toglitela.»
«Devi parlarmi di te, e di quello che hai scoperto mentre eri via», le
rammentai. Confessore e amante. Un'idea altamente erotica.
«Ora puoi baciarmi. Se vuoi, Alex. Riesci a farlo in modo che solo le
nostre labbra si tocchino?»
«Uhm, non lo so. Aspetta, fammi girare da questa parte. Così. Per caso,
stai cercando di chiudermi la bocca?»
«Perché dovrei, Dottor Detective?»

70

Mi rituffai nel lavoro. Avevo giurato a me stesso che in un modo o nel-


l'altro avrei risolto il caso del rapimento; non si poteva fermare il Cavaliere
Nero.
In una lugubre serata piovosa, tornai da Nina Cerisier. Era ancora l'unica
ad aver visto il «complice» di Gary Soneji, e comunque mi trovavo già in
zona. Quindi perché no?
E, nondimeno, perché ero a Langley Terrace di notte, sotto una pioggia
fredda e fastidiosa? Perché ero diventato un paranoico, ossessivamente a
caccia di informazioni su un sequestro vecchio ormai di diciotto mesi. Per-
ché ero un perfezionista, e lo ero da trent'anni almeno. Perché sentivo la
necessità di sapere che cosa ne era stato di Maggie Rose Dunne. Perché
non riuscivo a dimenticare lo sguardo di Mustaf. Perché volevo la verità su
Soneji/Murphy. O almeno questo era quanto continuavo a ripetermi.
Glory Cerisier non parve troppo contenta nel vedermi accampato sulla
porta di casa sua. Aspettavo da dieci minuti buoni e avevo già bussato alla
malconcia porta di alluminio almeno una dozzina di volte prima che si de-
cidesse ad aprire.
«È tardi, detective Cross. Perché non ci lasciate in pace?» mi assalì.
«Non è facile per noi dimenticare i Sanders. Non abbiamo bisogno di
qualcuno che continui a ricordarceli.»
Guardai la donna alta, sui quarantacinque, che mi fissava. Occhi quasi a
mandorla. Begli occhi in un viso che non era nulla di speciale. «Lo so»,
assentii. «Ma stiamo parlando di omicidi, signora Cerisier. Di feroci omi-
cidi.»
«L'assassino è stato catturato. Non lo sa, detective Cross? Non li legge, i
giornali?»
Mi sentivo un vero idiota, lì sotto la pioggia. Probabilmente lei mi giudi-
cava pazzo. Era una donna in gamba.
«Oh, Gesù Cristo.» Scossi la testa e risi con fare imbarazzato. «Ma cer-
to, ha ragione. Sono un po' confuso. Mi dispiace, sul serio.»
Colta di sorpresa, Glory Cerisier ricambiò il sorriso. Un sorriso fatto di
gentilezza e denti storti, come spesso se ne vedono in certi quartieri.
«Non offrirebbe un caffè a questo povero negro? Sono pazzo, d'accordo,
ma almeno lo so. Mi faccia entrare.»
«D'accordo, d'accordo. Venga, detective. Ci faremo un'altra chiacchiera-
ta. Non ci sono alternative, immagino.»
«Immagina giusto.» L'avevo persuasa dicendole semplicemente la veri-
tà.
Bevemmo un cattivo caffè istantaneo nella minuscola cucina. Glory Ce-
risier, alla quale in realtà piaceva parlare, mi fece un sacco di domande sul
processo.
Voleva sapere che effetto facesse comparire in televisione.
Come molta gente, era incuriosita soprattutto da Katherine Rose. Aveva
perfino una sua teoria personale sul sequestro.
«Non è stato quell'uomo. Quel Gary Soneji o Murphy che sia. Qualcuno
l'ha incastrato.» Rise. Probabilmente trovava divertente confidare certe sue
idee folli a un poliziotto folle di Washington.
«Mi accontenti un'ultima volta», dissi, quando mi fui finalmente reso
conto di che cosa volessi discutere con lei. «Mi ripeta quello che Nina ha
detto di aver visto quella sera. Mi riferisca le sue parole. Con tutta la preci-
sione che le è possibile.»
«Perché si carica di tutto questo peso?» ribatté Glory. «Che ci fa qui, al-
le dieci di sera?»
«Non lo so.» Stringendo le spalle, sorseggiai il pessimo caffè. «Forse
perché sento il bisogno di capire per quale motivo venni scelto proprio io,
laggiù a Miami. Forse.»
«L'ha fatta impazzire, giusto? Il rapimento di quei due bambini?»
«Sì. Mi ha fatto impazzire. Mi ripeta quello che le disse Nina. Mi parli
dell'uomo che era in macchina con Gary Soneji.»
«Fin da piccola, a Nina è sempre piaciuto sedersi vicino alla finestra sul-
le scale. È la sua finestra sul mondo, lo è sempre stata. Si mette lì a leggere
o semplicemente a coccolare uno dei suoi gatti. A volte non fa proprio nul-
la, se non fissare il vuoto. Era lì la sera in cui ha visto quel bianco, quel
Gary Soneji. In questo quartiere non ne capitano molti, di bianchi. Neri, a
volte un latinoamericano. Per questo ha attirato la sua attenzione. E più
guardava, più la faccenda le sembrava strana. Proprio come ha detto a lei.
Lui stava sorvegliando la casa dei Sanders. La spiava, o qualcosa del gene-
re. E l'altro uomo, quello rimasto in auto, sorvegliava lui che sorvegliava la
casa.»
Tombola. In qualche modo, la mia mente affaticata riuscì a individuare
la frase chiave.
«Sta dicendo che l'uomo in macchina stava sorvegliando Soneji? Che lo
stava sorvegliando?»
«È questo che ho detto? E strano, ma avevo dimenticato tutto. In un
primo tempo, Nina mi ha raccontato che i due uomini erano insieme. Sa,
come i rappresentanti che vanno casa per casa in coppia. In seguito però
mi ha detto che l'uomo seduto in macchina stava sorvegliando l'altro. Sì,
ha detto proprio così. Ne sono quasi sicura. Ma è meglio che lo chiediamo
a Nina. Lei lo saprà.»
Esortata dalla madre, Nina si dimostrò disposta a collaborare. Sì, era cer-
ta che l'uomo in macchina stesse sorvegliando Gary Soneji. Non era arri-
vato lì con lui. Ricordava con sicurezza che lo stava sorvegliando.
Non era in grado di dire se fosse un bianco o un nero; non ne aveva par-
lato perché non sembrava importante e sapeva che, se lo avesse fatto, la
polizia l'avrebbe tempestata di domande. Come gran parte dei ragazzi della
zona sud-est, Nina odiava i poliziotti e ne aveva paura.
L'uomo in auto stava sorvegliando Gary Soneji.
Quindi forse non c'era mai stato un «complice», ma qualcuno intento a
sorvegliare Gary Soneji/Murphy che faceva la posta alle sue vittime? Ma
chi?

71

Fui autorizzato a incontrare Soneji/Murphy, ma soltanto in relazione alle


indagini sugli omicidi Sanders e Turner. Potevo parlare con lui di delitti
che probabilmente non sarebbero mai approdati in un'aula giudiziaria, ma
non di quello destinato forse a restare insoluto. È così che funziona la bu-
rocrazia.
Avevo un amico a Fallston, dov'era detenuto Gary. Conoscevo Wallace
Hart, responsabile del reparto psichiatrico di Fallston, da quando ero entra-
to in polizia. Quel giorno lo trovai ad aspettarmi nell'atrio del vecchio edi-
ficio.
«Adoro queste piccole attenzioni personali», esclamai stringendogli la
mano. «Ovviamente è la prima volta che mi capita di riceverne.»
«Ora sei una celebrità, Alex. Ti ho visto in televisione.»
Wallace è un nero di bassa statura con l'aria dello studioso; porta occhia-
li rotondi con lenti spesse e vestiti blu sempre spiegazzati. Per molti asso-
miglia a George Washington Carver, con un tocco di Woody Allen. Riesce
a sembrare a un tempo nero ed ebreo.
«Che opinione ti sei fatto di Gary?» gli chiesi mentre l'ascensore ci tra-
sportava al reparto di massima sicurezza. «Fa il detenuto modello?»
«Ho sempre avuto un debole per gli psicopatici, Alex. Sono loro a dar
sapore alla vita. Te l'immagini un mondo senza i cattivi? Noiosissimo.»
«Non la bevi, la tesi della personalità multipla, vero?»
«Diciamo che è una possibilità, ma molto esile. Comunque sia, il bam-
bino cattivo che è in lui è davvero cattivo. Mi stupisce che si sia fatto bec-
care.»
«Vuoi sentire una teoria bizzarra?» feci io. «È stato Gary Murphy a inca-
strare Soneji. Non riusciva più a tenerlo sotto controllo, e lo ha dato in pa-
sto ai leoni.»
Wallace m'indirizzò un sorriso pieno di denti, troppo largo per la sua
faccina. «Quel tuo cervello bislacco mi piace da morire, Alex. Ma ne sei
davvero convinto? Una parte che tradisce l'altra?»
«No. Volevo solo vedere se ci avresti creduto tu. Sto cominciando a
pensare che sia uno piscopatico fatto e finito. Ma ho bisogno di sapere fino
a che punto lo è. Nel corso dei nostri colloqui ho riscontrato una turba del-
la personalità di natura certamente paranoide.»
«Sono d'accordo. È diffidente, esigente, arrogante, ossessivo. Come ho
detto, lo adoro.»
Fu uno shock rivedere Gary dopo tanto tempo. Aveva gli occhi infossati
e cerchiati di rosso, come se soffrisse di congiuntivite. La pelle tirata sul
viso gli dava l'aspetto di un teschio. Era dimagrito molto, forse di una
quindicina di chili, e non era mai stato sovrappeso.
«Già, sono un po' giù. Salve, dottore.» Alzò gli occhi verso di me, ed era
di nuovo Gary Murphy. O almeno così sembrava.
«Salve, Gary. Come vede, non sono riuscito a stare lontano.»
«È passato molto tempo dalla sua ultima visita. Di certo vuole qualcosa.
Vediamo se indovino... Sta scrivendo un libro su di me?»
Scossi la testa. «Era da un po' che volevo venire a trovarla. Ma ho dovu-
to procurarmi un'autorizzazione del tribunale. In effetti, sono qui per parla-
re degli omicidi Sanders e Turner.»
«Davvero?» Aveva l'aria rassegnata; quell'atteggiamento indifferente,
passivo, non mi piaceva. Mi balenò alla mente il pensiero che la sua per-
sonalità fosse sul punto di disintegrarsi del tutto.
«Sono autorizzato a discutere con lei solo degli omicidi Sanders e Tur-
ner. Ma, se le va, possiamo parlare di Vivian Kim.»
«In questo caso, temo che non abbiamo molto da dirci. Non so nulla di
quegli omicidi. Non ho neppure letto i giornali, lo giuro sulla testa di mia
figlia. Forse il nostro amico Soneji ne sa di più. Ma io no, Alex.» Sembra-
va non avere più difficoltà a chiamarmi per nome. È bello, scoprire che ci
si può fare degli amici dappertutto.
«Ma indubbiamente il suo avvocato gliene avrà parlato. Non è escluso
che quest'anno venga istituito un altro processo.»
«Non lo vedo più. Né lui né nessun altro avvocato. Non serve a nulla, e
comunque quei casi non finiranno in tribunale. Troppo costoso.»
«Gary», dissi col tono che riservavo ai miei pazienti, «mi piacerebbe ip-
notizzarla di nuovo. Sarebbe disposto a firmare i documenti necessari, se
riuscissi a ottenere l'autorizzazione? Per me è importante parlare con Sone-
ji. Mi aiuti a parlare con lui.»
Mi ascoltò scrollando la testa, ma in ultimo sorrise e annuì. «A dire la
verità, parlargli piacerebbe anche a me. Se potessi, lo ucciderei. Ucciderei
Soneji. Proprio come, presumibilmente, ho ucciso gli altri.»
Quella sera andai a trovare l'ex agente dei servizi segreti Mike Devine.
Era stato uno dei due incaricati della protezione di Goldberg e della sua
famiglia e volevo sottoporgli la teoria del «complice».
Mike Devine si era volontariamente ritirato dal servizio un mese dopo il
sequestro, ma era appena sui quarantacinque e personalmente ritenevo che
quell'uscita di scena gli fosse stata imposta. Chiacchierammo per un paio
d'ore sulla terrazza del suo appartamento, con vista sul Potomac.
Era un appartamento insolitamente elegante e ben fornito, per un single
di ritorno quale era Devine. E lui era abbronzato e con l'aria distesa. La
prova vivente di quanto sia saggio abbandonare certe professioni finché si
è ancora in tempo.
Mi ricordava un po' Travis McGee, il protagonista della trilogia di John
MacDonald. Robusto, con un viso pieno di carattere. Se la cava bene come
pensionato, pensai: aspetto da eroe buono, un'infinità di riccioli castano
scuro, sorriso pronto e storie da raccontare in abbondanza.
«Il mio socio e io siamo stati buttati fuori», mi confidò dopo un paio di
Corona. «Un errore che si è trasformato in una specie di terza guerra mon-
diale, e coi Servizi noi due abbiamo chiuso. Neppure il nostro capo ci ha
dato una mano. Non più di tanto, almeno.»
Mi sforzai di parlare come avrebbe fatto un compagno di bevute occa-
sionale. «E un caso che ha fatto sensazione. Probabilmente era necessario
che venissero identificati buoni e cattivi.»
«Ma forse è stato meglio così», rifletté ad alta voce. «Lei non pensa mai
di ricominciare da capo, di provare qualcos'altro prima che arrivi il morbo
di Alzheimer a mettere fine a tutto?»
«Ho preso in considerazione la libera professione, sì. Sono psicologo. E
svolgo opera di volontariato nei quartieri neri.»
«Ma ama troppo il lavoro per mollarlo?» Sogghignò, poi ammiccò con-
tro il sole del tardo pomeriggio che si rifletteva sull'acqua. Intorno alla ter-
razza volavano grandi gabbiani dal petto bianco. Era davvero un bel posti-
cino.
«Senta, Mike, vorrei riesaminare con lei i due giorni precedenti il rapi-
mento.»
«Questa storia l'ha presa all'amo, eh, Alex? Io stesso ho ricostruito quel-
le giornate minuto per minuto e, mi creda, non ho trovato proprio nulla.
Terreno incolto. Non ci cresce niente. Ho tentato e ritentato, e alla fine ho
deciso che era arrivato il momento di accantonare i fantasmi.»
«Le credo. Ma continuo a pensare a una berlina di modello recente che
forse è stata vista a Potomac. Una Dodge, probabilmente. M'incuriosisce
molto.» Era l'auto che Nina Cerisier aveva visto a Langley Terrace. «Non
ha notato una berlina blu o nera in Sorrell Avenue? O magari nei paraggi
della Day School?»
«Come le ho detto, ho riesaminato riga dopo riga i nostri rapporti gior-
nalieri. Nessuna auto misteriosa. Può controllarli lei stesso, se vuole.»
«L'ho già fatto», dissi, e risi dell'apparente follia della mia ricerca.
Mi trattenni ancora un po' con Devine, ma non emersero fatti nuovi. Lo
ascoltai cantare le lodi della sua vita di pensionato: pesca, partite a golf.
Stava riprendendo a vivere. Aveva superato il rapimento Dunne-Goldberg
molto meglio di quanto stessi facendo io.
C'era qualcosa che continuava a tormentarmi, comunque. L'esistenza del
«complice», od osservatore che fosse. E per dirla tutta, la posizione di De-
vine e del suo ex collega non mi convinceva. Non mi convinceva per nulla.
Avevo la sensazione che sapessero molto più di quanto erano disposti a di-
re.
Mentre ero ancora carico, decisi di contattare anche Charles Chakely, il
compagno di Devine. Dopo le dimissioni, Chakely e la sua famiglia si era-
no trasferiti a Tempe, in Arizona.
Era mezzanotte, il che significava che a Tempe erano le dieci. Non trop-
po tardi. «Charles Chakely? Sono il detective Alex Cross: chiamo da Wa-
shington.»
Ci fu una pausa d'impacciato silenzio prima che mi rispondesse. L'ostili-
tà della sua reazione mi sorprese, e naturalmente rafforzò la convinzione
che ci fosse qualcosa di poco chiaro.
«Che diavolo vuole?» ringhiò Chakely. «Perché mi ha telefonato? Non
faccio più parte dei Servizi. Mi lasci in pace. Stia lontano da me e dalla
mia famiglia.»
«Senta, non voglio disturbarla...» cominciai, ma lui m'interruppe.
«Allora non lo faccia. Glielo dico una volta per tutte, Cross. Stia alla
larga.»
Avevo incontrato Chakely nei giorni immediatamente successivi al ra-
pimento e ora riuscivo quasi a vederlo mentre mi parlava. A soli cinquan-
tun anni, ne dimostrava sessanta. Grossa pancia da bevitore di birra. Quasi
calvo. Occhi gentili ma tristi. Era un ottimo esempio di come potevano ri-
durti i Servizi, se eri abbastanza sciocco da permetterglielo.
«Sfortunatamente, devo ancora occuparmi di un paio di omicidi», repli-
cai, augurandomi che capisse. «In cui è coinvolto anche Gary Sone-
ji/Murphy. Era tornato per uccidere una delle insegnanti della scuola. Vi-
vian Kim.»
«Credevo avesse detto che non voleva disturbarmi. Perché non fa finta
di non aver mai fatto questa telefonata? Io fingerò di non aver mai solleva-
to la cornetta. Sto diventando bravo nel gioco del 'fare finta', in questa spe-
cie di deserto.»
«Potrei ottenere un mandato. Lo sa che potrei. Potremmo parlare di tutto
questo a Washington. Oppure potrei fare un salto da lei. Organizzare un
barbecue una di queste sere.»
«Ehi, che cosa la rode, Cross? Quel maledetto caso è stato chiuso. Se lo
scordi. E si scordi pure di me.»
A giudicare dalla voce, sembrava sul punto di esplodere.
«Stasera ho parlato col suo ex collega.» Quello doveva interessargli.
«D'accordo. Ha parlato con Mike Devine. Ci parlo anch'io di tanto in
tanto.»
«Ne sono felice per voi. Non la seccherò a lungo. Il tempo di una do-
manda o due.»
Finalmente capitolò. «Una soltanto.»
«Ricorda di aver visto una berlina di modello recente parcheggiata in
Sorrell Avenue? Nei paraggi delle case dei Dunne e dei Goldberg? Magari
una settimana o giù di lì prima del rapimento?»
«Che diavolo, no. Qualunque circostanza insolita sarebbe finita a verba-
le. Il caso è chiuso. È chiuso per me. E anche per lei, detective Cross.»
Riappese. Ma era tutto troppo sconcertante. Il mistero del secondo uomo
mi stava facendo diventare matto. Era un aspetto ancora irrisolto, e troppo
importante perché un detective degno di questo nome potesse ignorarlo.
Decisi che avrei parlato a Jezzie di Devine e Chakely e dei loro rapporti.
C'era qualcosa che non quadrava in entrambi. Qualcosa che si rifiutava di
venire a galla.

72

Jezzie e io passammo la giornata nel cottage sul lago. Lei aveva bisogno
di parlare. Di spiegarmi com'era cambiata, e raccontarmi quello che aveva
scoperto durante il suo volontario ritiro. Accaddero due cose molto, molto,
strane, lì, In Mezzo al Nulla, nel North Carolina.
Lasciammo Washington alle cinque del mattino e non erano ancora le
otto e mezzo quando arrivammo. Era il 3 dicembre, ma avrebbe potuto es-
sere il primo d'ottobre. L'aria si mantenne tiepida per tutto il pomeriggio e
dalle montagne soffiava una brezza dolce. Era piena del cinguettio e del
canto degli uccelli.
Ora che i villeggianti se n'erano andati, avevamo il lago tutto per noi.
Per un'oretta, un motoscafo solitario descrisse evoluzioni sull'acqua; il
rombo del motore era simile a quello di un'auto da corsa. Ma per il resto
del tempo rimanemmo soli.
Per tacito accordo, non affrontammo subito le questioni più spinose.
Non parlammo di Jezzie o di Devine e Chakely e neppure delle mie ultime
teorie sul rapimento.
Nel tardo pomeriggio facemmo una lunga passeggiata nel bosco, se-
guendo il percorso di un ruscello dall'acqua cristallina che si snodava tra le
montagne circostanti. Jezzie non era truccata e portava un paio di jeans ta-
gliati al ginocchio e una felpa dell'università della Virginia cui erano state
tolte le maniche. L'azzurro dei suoi occhi rivaleggiava con quello del cielo.
«Ti ho già detto di aver scoperto molte cose su me stessa», esordì mentre
c'inoltravamo sempre di più nella pineta. Parlava con voce bassa, quasi in-
fantile, e io ascoltavo attento. Volevo sapere tutto di lei.
«Vorrei raccontarti di me», riprese. «Ora mi sento pronta. Ho bisogno di
spiegarti il perché, il come e tutto il resto.»
Annuii in silenzio.
«Mio padre... mio padre era un fallito. O, almeno, lui si considerava tale.
Era furbo, con la gente ci sapeva fare... quando ne aveva voglia. Ma era
nato nella parte sbagliata della città, e non è mai riuscito a dimenticarlo.
Un atteggiamento negativo che gli ha procurato un'infinità di guai. Non si
curava dell'effetto che produceva su mia madre e su di me. Verso i quaran-
t'anni cominciò a bere forte e quando morì non aveva più un amico. E nep-
pure una famiglia. Immagino che sia stato questo a spingerlo a uccidersi...
Mio padre si è suicidato, Alex. A bordo della sua auto. Non c'è stato nes-
sun attacco cardiaco in Union Station. Questa è solo una menzogna che
racconto fin da quando ero alle superiori.»
Tacemmo entrambi. Solo in un paio di occasioni Jezzie mi aveva parlato
dei suoi e io non le avevo fatto alcuna pressione.
Non ci tenevo a fare lo psicologo con lei. Quando fosse stata pronta, mi
dicevo, sarebbe stata lei ad affrontare l'argomento.
«Non voglio diventare una fallita, come mio padre e mia madre. Perché
è così che si vedevano loro. Neppure un briciolo di autoconsiderazione.
No, non posso concepire di diventare come loro.»
«E tu, come li vedevi?»
«Come due falliti, credo.» L'ammissione fu accompagnata da un sorriso
pallido. Dolorosamente sincero.
«Erano tutti e due così incredibilmente brillanti, Alex. Sapevano tutto di
tutto. Leggevano tutti i libri del mondo. Erano in grado di parlare di qua-
lunque cosa. Sei mai stato in Irlanda?»
«Una volta sono stato in Inghilterra per lavoro. Quello è stato il mio uni-
co viaggio in Europa. Non ho mai avuto i soldi per tornarci.»
«Ci sono certi paesini in Irlanda... Ci vivono persone garbate, che sanno
esprimersi con proprietà, ma terribilmente povere. Dovresti vederli, questi
'ghetti per bianchi'. Ogni due negozi c'è un pub. Un Paese pieno di falliti
istruiti, l'Irlanda. Io non voglio diventare come loro. Sarebbe un inferno in
terra. A scuola m'impegnavo con tutta me stessa. Dovevo essere la numero
uno, a qualunque costo. Poi sono approdata al ministero del Tesoro. Sali-
vo, salivo, e mi piaceva. Quali che fossero i motivi che mi spingevano,
stavo cominciando ad apprezzare la mia carriera, e la vita in generale.»
«Ma tutto si è disintegrato col sequestro Dunne-Goldberg. Tu sei diven-
tata il capro espiatorio. Non eri più la ragazza prodigio.»
«Proprio così: ero finita. Gli agenti sparlavano di me e alla fine me ne
sono andata. Non avevo scelta. Era tutto talmente sporco e squallido. Sono
venuta qui. Per capire chi diavolo ero. E dovevo farlo da sola.»
Mi circondò con le braccia e quietamente cominciò a piangere. Era la
prima volta che la vedevo in lacrime. Mentre la tenevo stretta, pensavo che
non l'avevo mai sentita tanto vicina. Sapevo che mi aveva messo a parte di
alcune delle verità per lei più dolorose, e mi sentivo in dovere di fare al-
trettanto.
Eravamo lì, abbracciati, a sussurrare, quando mi resi conto che qualcuno
ci stava spiando. Senza che muovessi la testa, i miei occhi saettarono a de-
stra. C'era qualcuno tra gli alberi.
Qualcuno ci stava osservando.
Un altro osservatore.
«Abbiamo compagnia, Jezzie. Al di là della collinetta alla nostra destra»,
bisbigliai. Lei non si mosse. Era pur sempre un poliziotto.
«Ne sei sicuro?»
«Sicurissimo. Fidati. Dividiamoci, d'accordo? E se cerca di fuggire,
blocchiamolo.»
Ci separammo e andammo a metterci sui due lati del poggio. Probabil-
mente la nostra mossa dovette sconcertare l'intruso.
Cercò di fuggire.
Era un uomo; portava scarpe da tennis e una tuta scura col cappuccio che
lo rendeva quasi invisibile tra gli alberi. Non riuscii a stabilirne l'altezza né
la corporatura.
Lo inseguimmo per un buon mezzo chilometro, ma eravamo a piedi nudi
e sapevamo che non saremmo riusciti a raggiungerlo. Rami e spine ci fu-
stigavano il viso e le braccia. Finalmente emergemmo dal bosco per ritro-
varci su una stradina asfaltata. Appena in tempo per sentire il rumore di u-
n'auto che scompariva accelerando dietro la curva. Non la vedemmo.
«Che strana faccenda!» brontolò Jezzie quando ci fermammo a riprende-
re fiato. Il sudore ci rigava il viso e i nostri cuori pompavano all'unisono.
«Qualcuno sapeva che eri qui?» le domandai.
«Nessuno. Proprio non capisco. Chi diavolo poteva essere? Questa fac-
cenda non mi piace, Alex. Mi fa paura. Hai qualche idea?»
Io avevo già vagliato una dozzina di ipotesi a proposito dell'osservatore
notato da Nina Cerisier. La più attendibile era anche la più semplice: era
stata la polizia a tenere sotto sorveglianza Gary Soneji. Ma chi? Possibile
che si trattasse di qualcuno del mio dipartimento? O di quello di Jezzie?
Sì, era una faccenda che faceva paura.
Non era ancora buio quando tornammo al cottage. L'aria si stava raf-
freddando.
Accendemmo il fuoco e preparammo un'ottima cena che sarebbe stata
sufficiente per quattro: mais dolce, un'enorme insalata, una bistecca da
mezzo chilo a testa, il tutto accompagnato da un bianco secco la cui eti-
chetta diceva: CHASSAGNE-MONTRACHET, PREMIER CRU, MAR-
QUIS DE LAGUICHE.
Dopo cena parlammo di Mark Devine, di Charley Chakely e dell'osser-
vatore. Jezzie non mi fu di grande aiuto. Secondo lei, stavo sprecando
tempo dietro a una falsa pista. Dipinse Chakely come un tipo eccitabile
che avrebbe potuto benissimo dare in escandescenze per una telefonata;
uno di quelli che non sono mai soddisfatti di quello che hanno. A suo avvi-
so, Devine e Chakely erano stati buoni agenti, anche se non eccezionali. Se
nel corso della sorveglianza della famiglia Goldberg si fosse verificato
qualcosa d'insolito, non gli sarebbe certo sfuggito. I loro rapporti erano ac-
curati, e in ogni caso quei due non erano abbastanza intelligenti per fare il
doppio gioco. Ne era sicura.
Non dubitava che Nina Cerisier avesse visto un'auto parcheggiata nella
sua via, la sera prima dell'omicidio Sanders, ma non credeva che qualcuno
avesse spiato Soneji/Murphy. E non credeva neppure che Soneji fosse sta-
to là.
«Il caso non è più mio», concluse. «Non rappresento più il ministero del
Tesoro né nessun altro. Ti ho dato la mia sincera opinione, Alex. Perché
non lasci perdere? È finita. Dimenticatene.»
«Non posso», sospirai. «Non è così che ci comportiamo alla Tavola Ro-
tonda di re Artù. Non posso abbandonare questo caso. Ogni volta che ci
provo, salta fuori qualcosa che mi fa cambiare idea.»
Quella sera andammo a letto presto, verso le nove, nove e un quarto. Il
Chassagne-Montrachet, Premier Cru, fece il suo dovere. La passione non
mancò, ma conoscemmo anche la tenerezza e il calore.
Ci coccolammo, ridemmo e non era poi così presto quando finalmente
sprofondammo nel sonno. Jezzie mi chiamò «Sir Alex, il Cavaliere Nero
della Tavola Rotonda» e io replicai definendola la «Donna del Lago». Ci
addormentammo l'uno fra le braccia dell'altra.
Non so che ora fosse quando mi svegliai. Nel sonno avevo allontanato le
lenzuola e il piumino, e mi sentivo infreddolito. Mi stupii vagamente che
facesse tanto freddo, dato che il fuoco era ancora acceso.
Ma quello che i miei occhi vedevano non quadrava coi messaggi inviati
dal mio corpo. Ci rimuginai su per qualche secondo.
Recuperai le coperte e me le tirai fino al collo. La luce riflessa dai vetri
della finestra aveva una qualità insolita.
Era strano essere di nuovo lì, con Jezzie; lì, In Mezzo al Nulla. D'altro
canto, non riuscivo neppure a immaginare di non esserci.
Ero tentato di svegliarla. Per dirglielo. Per parlare di tutto, e di niente.
La Donna del Lago. E il Cavaliere Nero. Geoffrey Chaucer rivisitato negli
anni '90.
Di colpo mi resi conto che non era il fuoco nel camino a riverberarsi sui
vetri.
Saltai giù dal letto e corsi alla finestra. Davanti a me c'era qualcosa di
cui sentivo parlare da sempre; ma che mai avrei pensato di vedere coi miei
occhi.
Una croce ardeva sul prato di Jezzie.

73

Una bambina scomparsa di nome Maggie Rose.


Assassinii nel ghetto. L'efferata uccisione di Vivian Kim.
Uno psicopatico. Gary Soneji/Murphy.
Un «complice». Un misterioso osservatore.
Una croce di fuoco nel North Carolina.
Quando avrebbero finalmente combaciato i pezzi? E sarebbe mai suc-
cesso? Dal momento in cui vidi la croce e sino alla fine di tutto, mi tor-
mentarono immagini tanto vivide quanto inquietanti. Non potevo abban-
donare il caso, come mi suggeriva di fare Jezzie. E la settimana successiva
nuovi eventi vennero ad accrescere la mia ossessione.

Era tardi quando rientrai dal lavoro, il lunedì sera. Il tempo di percorrere
i pochi metri che separavano la porta d'ingresso dalla cucina, e già Damon
e Janelle mi erano addosso.
«Telefono! Telefono! Telefono!» salmodiava mio figlio, marciando al
mio fianco.
Nana mi porse la cornetta; era Wallace Hart, dalla prigione di Fallston.
«Alex, mi dispiace disturbarti a casa, ma non potresti fare un salto qui?
Credo che sia importante.»
Io stavo cercando di sfilarmi la giacca e i bambini mi aiutavano. O, me-
glio, un po' mi aiutavano e un po' cercavano di spezzarmi la schiena.
«Che c'è, Wallace? Ho parecchie cosette da sbrigare, stasera.» Mostrai la
lingua a Damon e Janelle. «Qualche problemino domestico da risolvere.»
«Ha chiesto di te. Vuole parlarti; dice che parlerà solo con te. Dice che è
molto importante.»
«Non può aspettare fino a domattina?» Avevo avuto una giornata fatico-
sa; e comunque, che altro poteva dirmi d'interessante Gary Murphy?
«È Soneji», disse Wallace. «È Soneji che vuole parlarti.»
Ero senza fiato. A fatica riuscii a brontolare un: «Arrivo, Wallace».
Nel giro di un'ora ero a Fallston. Gary era alloggiato all'ultimo piano, nel
braccio che aveva ospitato criminali celebri come Squeaky Fromme e John
Hinckley. Un braccio per gente famosa. Proprio come piaceva a lui.
Lo trovai sdraiato supino su una branda che non aveva né lenzuola né
coperte. Con lui c'era un agente che non gli staccava gli occhi di dosso.
Gary era allo «speciale», dove per i detenuti era prevista la sorveglianza
non stop.
«Ho pensato di farlo trasferire in una cella tranquilla, per stanotte. E di
tenerlo sotto osservazione per un po'. Finché non sapremo che cosa gli sta
succedendo. Sta volando, Alex.»
«Uno di questi giorni volerà così alto che non riuscirà a tornare indie-
tro», dissi, e Wallace annuì.
Entrai nella cella e mi sedetti senza aspettare di essere invitato a farlo.
Ero stanco di chiedere il permesso per qualsiasi cosa. Gary teneva gli occhi
fissi al soffitto, ma sapevo che il mio arrivo non era passato inosservato.
Ehi, ragazzi, c'è Alex!
«Benvenuto nella mia psikhuška, dottore», disse alla fine. La sua voce
era strana, rasposa e monocorde. «Sa che cos'è una psikhuška?» Nessun
dubbio; era Soneji.
«È un ospedale sovietico per detenuti. Dove venivano mandati i prigio-
nieri politici.»
«Esatto. Molto bene.» Mi guardò. «Voglio fare un nuovo patto con lei.
Ripartire da zero.»
«Non mi risulta che avessimo stretto un patto.»
«Non ho intenzione di sprecare altro tempo. Non posso continuare a re-
citare la parte di Murphy. Non le piacerebbe scoprire qual è la molla che fa
funzionare Soneji? Oh, sì, che le piacerebbe, dottor Cross. Diventerebbe
famoso anche lei. E sarebbe ben accetto in qualunque ambiente.»
Non credevo che si trovasse in uno dei suoi stati di fuga. Sembrava ave-
re pieno controllo di sé.
Era sempre stato Gary Soneji? Il Bambino Cattivo? Fin dal nostro primo
incontro? Quella era stata la mia diagnosi iniziale e a quella mi attenevo
ancora.
«Riesce a seguirmi?» mi domandò. Si era messo comodo, con le gambe
allungate sulla brandina, e si stava sgranchendo le dita dei piedi nudi.
«Mi sta dicendo che è sempre stato consapevole delle sue azioni. Che
non c'è mai stata una personalità scissa. Nessuno stato di fuga. Ha sempli-
cemente interpretato due ruoli, e ora si è stancato di Gary Murphy.»
Gli occhi di Soneji erano attenti, magnetici. Il suo sguardo più freddo e
penetrante del solito. A volte, nei casi di schizofrenia grave, la vita vissuta
con la fantasia diventa più importante di quella reale.
«Proprio così. Sta cominciando a vederci chiaro, Alex. Lei è molto più
intelligente degli altri. Sono fiero di lei. È l'unico che riesce ancora a inte-
ressarmi alle cose. L'unico in grado di tener desta la mia attenzione per pe-
riodi prolungati.»
«E che cosa vuole da me?» Era importante tenerlo in carreggiata, impe-
dirgli di divagare. «Che cosa posso fare io per lei, Gary?»
«Ho bisogno di qualche cosetta. Ma, soprattutto, voglio essere me stes-
so. Voglio che le mie imprese mi vengano riconosciute.»
«E in cambio che cosa otterremo?»
Soneji mi sorrise. «Le racconterò quello che è successo. Dall'inizio alla
fine. La aiuterò a risolvere il suo importantissimo caso. Racconterò tutto a
lei, Alex.»

In silenzio, attesi che riprendesse a parlare, ma col pensiero continuavo a


tornare alle parole scarabocchiate sullo specchio del bagno, a casa di Gary
Soneji: VOGLIO ESSERE QUALCUNO! Con ogni probabilità, aveva a-
vuto intenzione di attribuirsi il merito di tutto fin dal principio.
«La mia idea era di uccidere entrambi i bambini. Non vedevo l'ora. Con
l'infanzia ho un rapporto di amore-odio, capisce. Tagliavo i seni e depilavo
i genitali delle mie vittime adulte perché assomigliassero di più ai bambini.
E, comunque, l'uccisione dei due marmocchi era la conclusione logica e
inevitabile di tutta la faccenda.» Sorrise di nuovo, un sorriso bizzarro e del
tutto inappropriato, quasi stesse confessando una bugia di poco conto. «Le
interessa ancora sapere che cosa mi ha spinto a optare per un sequestro, ve-
ro? E perché ho scelto proprio Maggie Bocciolo di Rosa e il suo amico
Goldberg il Tappo?»
Ricorreva ai soprannomi per provocare... e per innervosire. Amava reci-
tare la parte del Bambino Cattivo. E certo nel corso di quei mesi aveva ri-
velato una notevole inclinazione per l'umorismo nero.
«M'interessa tutto quello che ha da dirmi, Gary. Proceda pure.»
«Sa», riprese lui, «una volta ho calcolato di aver ammazzato più di due-
cento persone. Un sacco di bambini, anche. Faccio quello che mi sento di
fare. Quando mi coglie l'estro.»
Ecco di nuovo il sorrisetto automatico, untuoso. Non era più Gary
Murphy. Il marito e padre con l'aria da bravo ragazzo di Wilmington, nel
Delaware, era scomparso. Uccideva fin da quando era un ragazzino?
«È vero? O sta di nuovo cercando d'impressionarmi?»
Lo vidi stringersi nelle spalle. «Perché dovrei? Da ragazzo, ho letto tutto
quello che c'era da leggere sul rapimento Lindbergh. E su tutti gli altri
grandi delitti. Fotocopiavo tutti gli articoli che riuscivo a trovare nella bi-
blioteca di Princeton. In parte questo gliel'ho già raccontato, vero? Ero af-
fascinato, totalmente assorbito e ossessionato dall'idea di rapire dei bambi-
ni. Di averli completamente sotto il mio controllo, per torturarli come se
fossero uccellini inermi. Facevo pratica con un amico. Lei lo ha conosciu-
to, dottore. Simon Conklin. Uno psicopatico da quattro soldi, indegno della
sua attenzione, e certo non un socio per me. Non un complice. A solleti-
carmi è soprattutto il pensiero dell'angoscia dei genitori. Non si fanno
scrupolo di annientare un adulto, ma guai a chi tocca uno dei loro piccoli.
Un crimine impensabile!, inenarrabile! urlano. Stronzate. Pura ipocrisia.
Ma ci pensi. Nel Bangladesh, sta morendo un milione di bambini dalla pel-
le scura. E a nessuno importa un bel nulla. Nessuno si precipita a salvarli.»
«Perché ha ucciso le due famiglie di colore? Qual è il legame?»
«Chi dice che dev'essercene per forza uno? È questo che le hanno inse-
gnato alla Johns Hopkins? Forse quelle sono state le mie buone azioni.
Perché non dovrei avere anch'io una coscienza sociale, eh? Dev'esserci e-
quilibrio nella vita di ognuno. Io ne sono persuaso. Si legga l'I Ching. Ri-
fletta sulla mia scelta delle vittime. Tossici senza speranza di recupero.
Una ragazzina che faceva la prostituta. Un bambino condannato in parten-
za.»
Non sapevo se credergli o no. Stava volando alto. «Intende dire che ha
un debole per noi neri? Davvero commovente.»
Soneji preferì non raccogliere l'ironia. «A dire la verità avevo un'amica
di colore, sì. Una cameriera. La donna che si prese cura di me all'epoca del
divorzio fra i miei genitori, se proprio vuole saperlo. Laura Douglas, si
chiamava. Poi però se ne tornò a Detroit, mi abbandonò. Una grassa signo-
ra con una risata scrosciante che io adoravo. Fu dopo la sua partenza per
Detroit che Mamma Terrore cominciò a chiudere il bambino attaccabrighe
e ipercinetico che ero nel seminterrato.
«Lei sta guardando il ragazzo rinchiuso, l'originale, il prototipo. Nel frat-
tempo, i miei fratellastri e le mie sorellastre se ne stavano di sopra, nella
casa di mio padre! A giocare coi miei giocattoli. Mi prendevano in giro
parlandomi attraverso le assi del pavimento. Una volta sono rimasto chiuso
laggiù per settimane. O almeno questo è ciò che ricordo. Nella sua testa si
stanno accendendo tante belle lampadine, dottor Cross? Un ragazzetto con-
finato in cantina. Bambini sepolti in un granaio. Un'analogia perfetta, chia-
ra come il sole. I pezzi cominciano a combaciare? Il nostro Gary sta final-
mente dicendo la verità?»
«Me lo dica lei. Sta dicendo la verità?» Ma credevo di sì. Tutto quadra-
va.
«Oh, sì. Parola di scout. Gli omicidi nella zona sud-est. In effetti, mi
piaceva l'idea di passare alla storia come il primo serial killer di neri. Non
conto quell'imbecille di Atlanta, ammesso e non concesso che abbiano pre-
so l'uomo giusto. Wayne Williams era soltanto un dilettante.»
«Non ha ucciso Michael Goldberg?»
«No. La sua morte non è stata intenzionale. L'avrei ammazzato, certo.
Ma ogni cosa a suo tempo. Era un marmocchietto viziato. Mi ricordava
mio 'fratello', Donnie.»
«A che cosa si devono i lividi riscontrati sul corpo? Mi racconti che cosa
successe.»
«Tutto questo le piace, vero, dottore? Sarebbe interessante scoprire per-
ché. Comunque, quando mi accorsi che mi era morto fra le mani, m'infu-
riai. M'infuriai sul serio. Presi a calci quel fottuto cadavere non so quante
volte. Lo colpii con la pala. Non ricordo se feci altro; ero fuori di me. Poi
lo buttai in quel fiume lontano dall'abitato.»
«Ma non ha fatto nulla alla bambina? Non ha fatto del male a Maggie
Rose Dunne?»
«No, non ho fatto del male alla bambina.»
Stava imitando la mia voce preoccupata, e ci riusciva piuttosto bene. Sì,
era senza dubbio un bravo attore, capace d'interpretare più ruoli. Era in-
quietante guardarlo, e trovarsi nella stessa stanza con lui. Possibile che a-
vesse ucciso centinaia di volte? Ero incline a crederlo.
«Mi racconti di lei. Che ne è stato di Maggie Rose Dunne?»
«Va bene, va bene, va bene. La vera storia di Maggie Rose Dunne. Ac-
cendi una candela, canta un inno a Gesù per invocarne la misericordia.
Dopo il rapimento era piuttosto fuori forma. La prima volta che sono sceso
a verificare, perlomeno. Stava smaltendo gli effetti del secobarbital. Ho re-
citato la parte di Mamma Terrore a beneficio della piccola Maggie. Ho
parlato proprio come faceva lei, quando si metteva fuori della porta del
seminterrato. Smetti di piangere, chiudi il becco. Chiudi il becco, maledet-
to marmocchio viziato! L'ho spaventata un bel po', posso assicurarglielo.
Poi l'ho rimessa a dormire. Ho controllato il polso a tutti e due; ero sicuro
che i bastardi avrebbero preteso la prova che i bambini erano vivi e stava-
no bene.»
«Ed erano entrambi regolari?»
«Sì. Perfetti, Alex. Ho posato l'orecchio sul loro piccolo torace. Ho tenu-
to a freno il mio naturale impulso di arrestare il loro battito cardiaco inve-
ce di mantenerlo costante.»
«Perché una scelta così sensazionale? Perché tanta pubblicità? Perché
correre un rischio tanto grande?»
«Perché ero pronto. Mi stavo preparando da molto, molto tempo. Non
correvo alcun rischio. Inoltre, avevo bisogno dei soldi. Meritavo di diven-
tare miliardario. Tutti gli altri lo sono.»
«È tornato a vedere i bambini, l'indomani?»
«Sì, e lei stava bene. Ma il giorno dopo Michael Goldberg era morto e
Maggie Rose non c'era più! Entrai nel granaio, e nel punto in cui avevo se-
polto i bambini c'era la buca. Una grande buca! Vuota! Non le ho fatto nul-
la. E neppure sono stato io a ritirare i soldi del riscatto, in Florida. È stato
qualcun altro. Ora tocca a lei scoprire quello che è successo, detective. Io
credo di esserci riuscito! Credo di conoscere il grande segreto.»

74

Quella mattina alle tre ero già in piedi. A suonare! A suonare Mozart e
Debussy e Billie Holiday sulla veranda. Probabilmente gli spacciatori si
sarebbero precipitati a chiamare la polizia per lamentarsi del rumore.
Più tardi tornai da Soneji. Dal Bambino Cattivo. Nella sua celletta senza
finestre. Tutt'a un tratto lui non voleva altro che parlare. Pensavo di sapere
dove voleva arrivare e che cosa si preparava a dirmi. Ma avevo bisogno di
una conferma da parte sua.
«Deve sforzarsi di capire qualcosa che è del tutto estraneo alla sua natu-
ra», esordì. «Ero sotto pressione quando spiavo quella fottuta ragazzina e
sua madre, l'attrice. Sono un cultore, un drogato del brivido facile. E avevo
bisogno di una dose.» Mentre raccontava le sue bizzarre, macabre espe-
rienze, non potei fare a meno di pensare ai miei pazienti che a loro volta
erano stati bambini seviziati. Era patetico ascoltare una vittima parlare del-
le sue innumerevoli vittime.
«Io conosco bene l'esperienza del brivido, dottore. La mia canzone è
Sympathy for the Devil. Dei Rolling Stones, mi pare. Ho sempre cercato di
prendere tutte le precauzioni necessarie, ma senza infrangere la magia.
Preparavo le vie di fuga, anche quelle di riserva, studiavo con cura i tragitti
per entrare e uscire da tutti i quartieri in cui operavo. Una di queste preve-
deva l'utilizzo di una galleria della rete fognaria che dal ghetto arriva al
Campidoglio. Nella galleria avevo lasciato un cambio di abiti completo, e
una parrucca. Avevo pensato a tutto. Non mi avrebbero preso. Ero estre-
mamente fiducioso nelle mie capacità. Credevo di essere onnipotente.»
«E lo crede ancora?» Glielo chiesi in perfetta serietà. Non pensavo che
mi avrebbe dato una risposta sincera, però m'interessava ugualmente.
«Quello che è accaduto, il mio errore, è stato di consentire ai successi,
all'applauso di milioni di ammiratori, di darmi alla testa. Gli applausi pos-
sono diventare una droga. Katherine Rose soffre della stessa malattia, sa. E
così gran parte degli attori cinematografici, e dei grandi dello sport. Milio-
ni di persone che tifano per te, che ti portano alle stelle. Che ti ripetono che
sei speciale, unico. E allora può succedere che si dimentichino i propri li-
miti, si dimentichi la fatica che ci è voluta per arrivare in cima. A me è
successo. Ecco perché mi hanno preso. Credevo che sarei riuscito a fuggi-
re dal McDonald's! Proprio come ero sempre riuscito a fuggire in prece-
denza. Tutto quello che volevo era concedermi una piccola 'orgia' di delitti,
e poi filarmela. Volevo sperimentare tutti gli aspetti del crimine, quelli che
ti fanno scorrere più rapido il sangue nelle vene, Alex.»
«Si sente onnipotente ora? Da quando è diventato più vecchio e più sag-
gio?» chiesi. Se aveva deciso di buttarla sull'ironico, potevo farlo anch'io.
«Io sono la cosa più vicina all'onnipotenza che le capiterà mai d'incon-
trare. Perché sono uno strumento per la comprensione del concetto, giu-
sto?»
Di nuovo quel suo sorriso vacuo da assassino. Avevo voglia di colpirlo,
di fargli male. Quella di Gary Murphy era stata una figura tragica, quasi
gradevole per certi versi. Soneji era odioso, era il male allo stato puro. Il
mostro umano, la bestia.
«Quando sorvegliava le case dei Goldberg e dei Dunne, era all'apice del-
la sua potenza?» Eri onnipotente in quel momento, stronzo?
«No, no, no. Come lei sa, dottore, mi stavo già rammollendo. Avevo let-
to troppi articoli sull'omicidio 'perfetto' di Condon Terrace. 'Nessuna trac-
cia, nessun indizio, l'assassino imprendibile!' Perfino io ne ero impressio-
nato.»
«Che cosa è andato storto a Potomac?» Pensavo di conoscere già la ri-
sposta, ma ancora una volta mi serviva la sua conferma.
Si strinse nelle spalle. «Ero seguito, ovviamente.»
Ci siamo, pensai. L'osservatore.
«A quell'epoca non lo sapeva?»
«Certo che no.» Lo vidi accigliarsi. «Me ne sono reso conto solo molto
più tardi. E durante il processo ne ho avuto la certezza.»
«Come andò? In che modo scoprì di essere pedinato?»
Soneji teneva gli occhi fissi su di me, quasi volesse trapanarmi fino alla
nuca. Mi considerava inferiore a lui, un semplice recipiente per i suoi sfo-
ghi. E tuttavia pensava che fossi un interlocutore più interessante degli al-
tri. Non sapevo se esserne lusingato od offeso. Oltre a ciò, Soneji era cu-
rioso di scoprire quanto sapevo io.
«Mi consenta di chiarire un punto», disse. «Per me è molto importante.
Ho dei segreti da svelarle. Un'infinità di segreti grandi e piccoli. Segreti
sporchi, segreti succosi. E voglio rivelargliene uno subito. Sa perché?»
«Elementare, mio caro Gary. Per lei è devastante dover sottostare ad al-
tri. Ha bisogno di avere il controllo della situazione.»
«Ottimo, Dottor Detective. Ma ho alcune cosettine utili da barattare. De-
litti che risalgono all'epoca in cui avevo dodici o tredici anni. Delitti im-
portanti rimasti insoluti. Mi creda sulla parola: ho una collezione di tesori
da dividere con lei.»
«Capisco», assentii. «E io ho una gran voglia di ascoltarli.»
«Lei ha sempre capito. Tutto quello che deve fare è convincere gli altri
zombi.»
Non potei non sorridere di quel passo falso. «Gli altri zombi?»
«Mi dispiace, mi dispiace, non volevo essere scortese. È in grado di
convincere gli zombi? Sa a chi mi riferisco. Lei li rispetta ancor meno di
quanto faccia io.»
Era abbastanza vero. Tanto per cominciare, avrei dovuto convincere Pit-
tman. «Mi aiuterà?» volli sapere. «Mi fornirà elementi concreti? Devo sa-
pere che fine ha fatto la ragazzina. Perché i suoi genitori abbiano finalmen-
te un po' di pace.»
«D'accordo. Lo farò», rispose lui. Tutto era diventato incredibilmente
semplice.
Si passa il tempo ad aspettare. E si aspetta. È quasi sempre così in un'in-
dagine di polizia. Si fanno migliaia, letteralmente migliaia, di domande. Si
riempiono interi schedari con cartacce inutili. E ancora domande. Si se-
guono miriadi di piste che non portano da nessuna parte. Poi succede qual-
cosa e la nebbia comincia a diradarsi. Succede, di tanto in tanto. E stava
succedendo in quell'istante. Il frutto di migliaia di ore di lavoro. La ricom-
pensa per gli interminabili colloqui avuti con Gary.
«Allora non mi accorsi che ero sorvegliato», continuò Gary Soneji. «E
nulla di quanto sto per raccontarle è avvenuto nei pressi di casa Sanders.
Bensì in Sorrell Avenue, a Potomac. Per la precisione, di fronte alla casa
dei Goldberg.»
Di colpo sentii di non poter più sopportare i suoi tira e molla. Dovevo
scoprire quello che sapeva. E c'ero quasi. Parla, piccolo bastardo.
«Coraggio», lo esortai. «Che cos'avvenne a Potomac? Che cosa vide dai
Goldberg? Chi vide?»
«Andai laggiù in macchina poche sere prima del sequestro. C'era un uo-
mo che camminava sul marciapiede. Al momento non ci feci caso. Non gli
attribuii alcuna importanza fino a quando non lo rividi durante il proces-
so.»
S'interruppe. Si stava nuovamente prendendo gioco di me? Ne dubitavo.
Mi guardava come per scandagliarmi l'anima. Sa chi sono. Mi conosce for-
se meglio di quanto non mi conosca io stesso.
Che cosa voleva da me? Ero forse un sostituto per qualcosa che era ve-
nuto a mancargli durante l'infanzia? Perché mi aveva scelto per quel terri-
bile compito?
«Chi era l'uomo che ha riconosciuto in aula?»
«Era l'agente dei servizi segreti. Era Devine. Lui e il suo compare, Cha-
kely, devono avermi notato mentre sorvegliavo le case dei Goldberg e dei
Dunne. Sono stati loro a seguirmi. Loro hanno preso la piccola preziosa
Maggie Rose! Loro hanno ritirato il riscatto in Florida. È ai poliziotti che
avrebbe dovuto star dietro fin dall'inizio. Due poliziotti hanno ammazzato
la bambina.»

75

Così, dopotutto, avevo visto giusto sin dall'inizio sul conto di Devine e
Chakely. Soneji/Murphy era l'unico testimone oculare, e aveva confermato
l'esattezza delle mie supposizioni. Adesso era il momento di agire.
Dovevo riaprire il caso Dunne-Goldberg. Con novità che a Washington
nessuno avrebbe avuto voglia di ascoltare.
Decisi di parlare prima con l'FBI. Due poliziotti avevano assassinato
Maggie Rose. Bisognava ricominciare le indagini; il caso del rapimento
non era stato risolto e ora stava per esplodere un'altra bomba.
Feci un salto dal mio buon amico Gerry Scorse, al quartier generale del-
l'FBI. Dopo avermi lasciato a raffreddare i miei bollenti spiriti in anticame-
ra per quaranta minuti, mi portò un caffè e m'invitò a seguirlo nel suo uffi-
cio. «Accomodati, Alex. Grazie per aver aspettato.»
Mi ascoltò con cortesia, e con apparente interesse, mentre gli riferivo ciò
che io avevo scoperto - e Soneji confermato - sugli agenti Mike Devine e
Charles Chakely. Prese appunti, un sacco di appunti su foglietti gialli
sciolti.
«Devo fare una telefonata», annunciò quando tacqui. «Reggiti forte, A-
lex.»
Al suo ritorno, m'invitò ad accompagnarlo di sopra. Non fece commenti
di sorta, ma ritenni che fosse rimasto impressionato dalle rivelazioni di
Soneji.
Mi scortò nella sala riunioni privata di Kurt Weithas. Weithas è il vice-
direttore dell'FBI, il numero due. Insomma, volevano farmi capire che si
trattava di un incontro importante, e naturalmente a quel punto io l'avevo
capito.
La sala era comoda e imponente. Le pareti e buona parte dei mobili era-
no blu scuro, sobri e austeri; il soffitto mi rammentò l'abitacolo di un'auto
straniera. Sul tavolo erano stati preparati matite e blocchetti gialli per ap-
punti.
Fu Weithas a prendere in mano il gioco fin dal primo momento. «Vor-
remmo proporle uno scambio, detective Cross», fu la sua battuta d'apertu-
ra. Weithas parlava e si muoveva come un legale del Campidoglio, molto
quotato, molto abile. E, per un certo verso, è esattamente ciò che è. Sulla
camicia candida sfoggiava una cravatta di Hermès, ed entrando nella stan-
za lo vidi inforcare un paio di occhiali con la montatura d'oro. Sembrava di
pessimo umore.
«La metteremo a parte di tutte le informazioni in nostro possesso relati-
ve agli agenti Devine e Chakely. Da parte sua, lei s'impegnerà a collabora-
re per mantenere la massima segretezza su questa faccenda. Ciò che voglio
dirle è che sapevamo di loro già da un certo tempo. Abbiamo svolto un'in-
dagine parallela alla sua.»
«Vi garantisco la mia collaborazione», bofonchiai, sforzandomi di non
apparire troppo sorpreso. «Ma al dipartimento dovrò stendere un regolare
rapporto.»
Weithas liquidò l'obiezione con un cenno noncurante. «Ho già parlato
col suo capo. Nel corso delle indagini ci avete preceduto in un paio di oc-
casioni, ma forse questa volta siamo in leggero vantaggio. Mezzo passo
più avanti.»
«Disponete anche di un numero maggiore di uomini», replicai.
A questo punto subentrò Scorse. «Aprimmo un'indagine sugli agenti
Devine e Chakely all'epoca del sequestro. Era logico considerarli dei so-
spetti, anche se in effetti non li abbiamo mai presi seriamente in considera-
zione. Comunque, nel corso dell'indagine entrambi furono fatti oggetto di
pesanti pressioni. Dato che i Servizi rispondono direttamente al ministro
del Tesoro, può immaginare da solo quello che hanno passato.»
«In buona parte l'ho constatato di persona», replicai.
Scorse ne prese atto con un cenno e proseguì.
«L'agente Charles Chakely rassegnò le dimissioni il 4 gennaio; sostenne
che stava meditando quel passo da molto prima del rapimento. Disse anche
che non se la sentiva di sopportare le allusioni della gente e le attenzioni
dei giornalisti. Le dimissioni vennero accolte immediatamente. Più o meno
nello stesso periodo, scoprimmo un piccolo errore nei registri che gli agen-
ti aggiornano quotidianamente. Una data le cui cifre erano state involonta-
riamente invertite. Nulla di decisivo, ma avevamo per le mani un caso im-
portante e controllavamo ogni minimo particolare.»
«In ultimo le indagini arrivarono a impegnare, direttamente o indiretta-
mente, novecento dei nostri uomini», interloquì il vicedirettore. Ancora
non capivo a che cosa stesse mirando.
«In seguito, nei registri furono individuate altre irregolarità», seguitò
Scorse. «I nostri esperti arrivarono alla conclusione che due dei rapporti
individuali erano stati manipolati, vale a dire riscritti. E infine ci convin-
cemmo che erano stati eliminati i riferimenti al professor Gary Soneji.»
«Lo individuarono mentre sorvegliava la casa dei Goldberg, a Poto-
mac», dissi. «Ammesso che si possa prestar fede a quello che dice Soneji.»
«Su questo punto credo che si possa. Le sue informazioni collimano per-
fettamente con le nostre scoperte. Crediamo che i due agenti abbiano spia-
to Soneji che a sua volta studiava i movimenti di Michael Goldberg e
Maggie Rose Dunne. Crediamo che uno di loro abbia seguito Soneji e sco-
perto il nascondiglio di Crisfield, nel Maryland.»
«Li tenevate d'occhio fin da allora?» domandai guardando Scorse.
Efficiente e conciso come sempre, lui si limitò a un unico cenno d'assen-
so. «In aggiunta, abbiamo ragione di credere che loro sappiano di essere
sotto sorveglianza. Due settimane dopo le dimissioni di Chakely, anche
Devine lasciò i Servizi. Neppure lui e la sua famiglia, dichiarò, erano in
grado di sostenere la pressione. Si dà il caso, però, che Devine e sua mo-
glie sono separati.»
«Immagino che Chakely e Devine non si siano ancora azzardati a spen-
dere i soldi del riscatto.»
«A quanto ci risulta, no. Come ho già detto, sanno che nutriamo dei so-
spetti. E non sono degli sciocchi. Al contrario.»
«È un gioco basato sull'attesa, delicato e complesso», intervenne nuo-
vamente Weithas. «Per il momento non siamo ancora in grado di dimostra-
re nulla, ma possiamo distruggergli l'esistenza. E di certo possiamo impe-
dirgli di spendere il denaro del riscatto.»
«E il pilota della Florida? Non mi è stato possibile condurre un'indagine
sul posto. Avete scoperto la sua identità?»
Scorse annuì. L'FBI mi aveva tenuto nascoste molte cose. A me, come a
tutti. Non che mi sorprendesse. «Joseph Denyeau, uno spacciatore. Alcuni
dei nostri che operano in Florida lo conoscevano. Non è affatto improbabi-
le che lo conoscesse anche Devine, e che abbia deciso d'ingaggiarlo.»
«E che ne è stato di Joseph Denyeau?»
«Mettiamola così: se ancora non avessimo capito che Devine e Chakely
facevano sul serio, Deyneau ci avrebbe tolto gli ultimi dubbi. È stato as-
sassinato in Costa Rica. Gli hanno tagliato la gola. Se tutto fosse andato li-
scio, il cadavere non sarebbe mai stato trovato.»
«E ancora non vi decidete a mettere le mani su quei due?»
«Non abbiamo prove, Alex. Neppure uno straccio di prova. Nessuna,
almeno, che possa reggere in tribunale. Quello che ti ha raccontato Soneji
conferma le nostre conclusioni, ma non ci sarebbe di alcuna utilità in au-
la.»
«Che ne è stato della bambina? Che cos'è successo a Maggie Rose?»
Avevo rivolto la domanda a Weithas, che tuttavia non mi rispose. Lo vi-
di esalare un lungo sospiro e pensai che doveva avere avuto una giornata
lunga. E un anno ugualmente lungo.
«Non lo sappiamo», brontolò infine Scorse. «Ancora non abbiamo una
sola indicazione in merito alla sorte di Maggie Rose. Questa è la cosa più
sconcertante.»
«C'è un'altra complicazione», aggiunse il vicedirettore del Bureau. Lui e
Scorse erano seduti su un divano di pelle scura, chini su un tavolo da caffè
in vetro accanto a cui stavano un computer IBM e una stampante.
«Sono sicuro che ce ne saranno molte», sospirai. L'FBI non ha nulla da
imparare in fatto di bocche cucite. Avrebbero potuto aiutarmi fin dall'ini-
zio. Forse, se avessimo lavorato insieme, saremmo riusciti a rintracciare
Maggie Rose.
Weithas lanciò un'occhiata a Scorse, poi tornò a guardare me. «La com-
plicazione è Jezzie Flanagan», disse.
Lo guardai, stupefatto. Di colpo ero senza fiato, come se qualcuno mi
avesse sferrato un pugno nello stomaco. Già da qualche minuto presentivo
che si preparavano a rivelarmi qualcosa di molto speciale. Rimasi seduto
lì, sentendomi freddo e vuoto, sulla buona strada per non sentire nulla.
«Noi pensiamo che i due uomini abbiano potuto contare sulla sua colla-
borazione. Fin dall'inizio. Jezzie Flanagan e Mike Devine sono amanti da
anni.»
76

Quella sera, verso le otto e mezzo, Sampson e io camminavamo lungo


New York Avenue. E la zona malfamata dei ghetti di Washington ed è lì
che noi passiamo gran parte delle nostre serate. Siamo di casa.
Lui mi aveva appena chiesto come me la stessi cavando. «Non troppo
bene, grazie. E tu?» replicai io.
Sapeva di Jezzie. Gli avevo raccontato tutto. Il caso si faceva sempre più
intricato e io non avrei potuto sentirmi peggio. Scorse e Weithas mi ave-
vano disegnato uno scenario perfettamente logico, e Jezzie vi era coinvol-
ta. C'era dentro fino al collo, impossibile dubitarne. Una menzogna aveva
condotto a un'altra, e così via. E nel mentirmi non aveva mai mostrato il
minimo cedimento. Era stata perfino più brava di Soneji/Murphy. Lucida e
sicura di sé.
«Vuoi che me ne stia zitto? O preferisci che parliamo?» mi domandò an-
cora Sampson. «A me va bene comunque.»
Come sempre, il suo viso non tradiva nulla. Forse sono gli occhiali da
sole a dargli quell'aria di assoluta imperturbabilità, ma personalmente ne
dubito. Sampson era così già a dieci anni.
«Voglio parlare», dissi. «E non mi dispiacerebbe bere qualcosa. Ho bi-
sogno di parlare di bugiardi psicopatici.»
«Offro io», fece lui.
Puntammo verso Faces, un bar che frequentiamo fin dai tempi del nostro
arruolamento in polizia. Ai clienti abituali non dà fastidio sapere che siamo
due detective, e di quelli tosti. Alcuni arrivano addirittura a riconoscere
che per il quartiere siamo più un affare che una perdita.
Da Faces vanno soprattutto neri, ma non mancano i bianchi appassionati
di jazz. E desiderosi d'imparare a ballare e a vestirsi.
«È stata Jezzie a incaricare della sorveglianza Devine e Chakely?» Sam-
pson riesaminava i fatti mentre aspettavamo che scattasse il verde al sema-
foro della 5th Street.
Due punk della zona ci occhieggiavano dal loro osservatorio, di fronte al
Popeye's Fried Chicken. In tempi passati, sarebbero stati comunque lì, ma
non con tanti soldi - o armi - in tasca.
«Salve, fratelli», li salutò Sampson ammiccando. Sfotte sempre tutti, lui.
Ma nessuno gli risponde mai per le rime.
«Già, è così che è iniziato tutto. Devine e Chakely facevano parte della
squadra incaricata di proteggere il ministro Goldberg e la sua famiglia. La-
voravano agli ordini di Jezzie.»
«E nessuno ha mai sospettato di loro?»
«Non subito. L'FBI li ha passati al vaglio. Lo hanno fatto con tutti. C'e-
rano delle irregolarità nei loro rapporti. È stato questo a far insospettire il
Bureau. Qualche esperto dall'occhio lungo ha subodorato una falsificazio-
ne. Lo sai, loro hanno venti uomini per ciascuno di noi. E per di più, hanno
fatto sparire i verbali manipolati in modo che nessuno di noi ne venisse a
conoscenza.»
«Devine e Chakely hanno scoperto che Soneji spiava uno dei due bam-
bini. E così che è cominciato tutto? Con una doppia mossa?» Ormai anche
Sampson si era fatto un'idea sufficientemente chiara della situazione.
«Hanno seguito il furgone di Soneji fino alla fattoria nel Maryland. A-
vevano capito di avere a che fare con un potenziale sequestratore. Poi
qualcuno ha avuto l'idea di sottrargli i ragazzi con un secondo rapimento.»
Sampson era cupo in volto. «Un'idea da dieci milioni di dollari. E la si-
gnorina Jezzie c'era dentro fin dall'inizio?»
«Non lo so. Credo che questo dovremo chiederlo a lei, una volta o l'al-
tra.»
«Già. Come ti senti al momento, sopra o sotto il pelo dell'acqua?»
«Non so neppure questo. Incontrare una persona che ti mente come lei
ha mentito a me cambia inevitabilmente la prospettiva delle cose. È dura
da buttar giù, amico. Mi hai mai mentito, tu?»
Sampson scoprì i denti in una smorfia che era a metà fra il sorriso e il
ringhio. «A me sembra che tu abbia tutta la testa sotto l'acqua», brontolò.
«Sembra anche a me», riconobbi. «Diciamo che ho avuto momenti mi-
gliori. Ma anche peggiori. Forza, facciamoci questa birra.»
John puntò il dito contro i due punk, fingendo di sparare. Quelli risero e
risposero miniando un OK. Poliziotti e rapinatori in pieno idillio. Attraver-
sammo la strada diretti da Faces. Una dose di oblio era quel che ci voleva.
Il bar era affollato e lo sarebbe rimasto fino all'ora di chiusura. Qualcuno
ci lanciò un saluto. Seduta al banco vidi una donna con cui ero uscito qual-
che volta. Un'assistente sociale, davvero carina e in gamba, che era stata
collega di Maria.
Mi chiesi perché quei nostri incontri non fossero approdati a nulla. Forse
per colpa mia? Figurarsi.
Sampson agitò un braccio. «Hai visto Asahe laggiù?»
«Sono un detective, io. Vedo tutto. Non mi sfugge niente.»
«Ecco che cominci a piangerti addosso.» Si rivolse al barman. «Due bir-
re. No, quattro.»
«Ce la farò. Vedrai se non ci riesco. È solo che non mi era mai passato
per la testa d'inserire anche lei nell'elenco delle persone sospette. Colpa
mia.»
«Sei un duro, amico. Hai ereditato i geni cattivi di tua nonna. Ti faremo
come nuovo. E faremo il culo alla nostra signorina Jezzie.»
«Ti piaceva, John? Prima che saltasse fuori tutto questo, intendo.»
«Oh, sì. Non c'era nulla che non andasse in lei. È un'ottima bugiarda,
Alex. Un vero talento naturale». Poi aggiunse: «E no, non ti ho mai menti-
to, fratello mio. Neppure quando avrei dovuto».

Il momento peggiore fu quando lasciammo Faces, a tarda sera. Mi ero


fatto qualche birra, ma mi sentivo ancora abbastanza lucido ed ero riuscito
a smussare gli angoli della sofferenza. E tuttavia era talmente atroce pensa-
re che Jezzie c'era stata dentro fin dall'inizio. Rammentavo l'abilità con cui
aveva stornato i miei sospetti da Devine e Chakely. E con cui aveva saputo
tirarmi fuori tutto quello che scopriva la polizia di Washington. Era stata
una talpa eccezionale. Fredda e sicura. Perfetta nella sua parte.
Nana era ancora in piedi quando rientrai a casa. Non le avevo ancora
detto di Jezzie e pensai che un momento valeva l'altro. Sarebbe stato spia-
cevole comunque. La birra mi diede una mano, e così le molte cose che lei
e io avevamo condiviso. Le raccontai tutto. Nana mi ascoltò senza mai in-
terrompere, il che la diceva lunga sul suo modo di recepire la novità.
Quando tacqui, restammo a guardarci, seduti l'uno di fronte all'altra in
soggiorno. Io stavo sul poggiapiedi, le gambe allungate verso di lei. Il si-
lenzio urlava tutt'intorno a noi.
Nana se ne stava rannicchiata sulla sua poltrona, sotto una vecchia co-
perta color avena. Faceva piccoli cenni d'assenso, mordicchiandosi il lab-
bro inferiore, e intanto rifletteva.
«Da qualche parte devo pur cominciare», disse infine. «Quindi tanto va-
le che cominci da qui. Ti risparmio i 'te l'avevo detto', perché mai avrei
immaginato che la situazione fosse tanto brutta. Avevo paura per te, tutto
qui. Ma non pensavo a niente del genere. Non avrei neppure potuto conce-
pire un inganno tanto orribile. Ora per piacere abbracciami prima che salga
di sopra a recitare le mie preghiere. Pregherò per Jezzie Flanagan stasera.
E per noi tutti, Alex.»
«Tu sai quello che bisogna dire.» Era la verità. Nana sapeva quando era
il momento di metterti al tappeto e quando non avevi bisogno che di una
pacca sul sedere.
Ci abbracciammo, poi a passi lenti salì in camera sua. Io restai in sog-
giorno a pensare a qualcosa che aveva detto Sampson: faremo il culo alla
nostra signorina Jezzie. Ma non per quello che c'era stato fra noi. Bensì
per Michael Goldberg e Maggie Rose Dunne. Per Vivian Kim, che non
meritava di morire. Per Mustaf Sanders.
Avremmo inchiodato Jezzie, in un modo o nell'altro.

77

Robert Fishenauer era un agente di custodia della prigione di Fallston. E


non ne era mai stato contento come in quel momento, perché credeva di
sapere dov'erano nascosti i dieci milioni di dollari del riscatto. O almeno
una buona parte di essi. E contava di andare subito a dare una sbirciatala.
Era anche ragionevolmente sicuro che Gary Soneji/Murphy stava conti-
nuando a prendere per i fondelli tutti quanti. E che si divertiva un mondo.
Mentre a bordo della sua Pontiac Firebird percorreva la Route 50, nel
Maryland, aveva mille interrogativi che gli turbinavano per la mente. Era
Soneji/Murphy il rapitore? Diceva la verità quando sosteneva di conoscere
il nascondiglio del denaro? Oppure Gary Soneji/Murphy era solo un sacco
di merda? Uno dei tanti fuori di testa che capitavano a Fallston?
Contava di scoprirlo molto presto. Ancora pochi chilometri di statale e
ne avrebbe saputo più di chiunque altro, eccetto Soneji/ Murphy stesso.
La strada secondaria che portava alla vecchia fattoria non esisteva quasi
più; se ne accorse quando lasciò la statale per girare a destra. Era invasa
dal timo e dai girasole e sul fondo sterrato non si vedevano neppure i sol-
chi lasciati dalle auto di passaggio.
Tutt'intorno, la vegetazione mostrava i segni evidenti della devastazione.
Qualcuno aveva passato al setaccio l'intera zona nei mesi precedenti. L'FBI
o la polizia locale? Con tutta probabilità avevano perlustrato il terreno cir-
costante la fattoria almeno una dozzina di volte.
Ma erano stati sufficientemente meticolosi? Robert Fishenauer se lo
chiedeva. La sua era una domanda da dieci milioni di dollari.
Erano circa le tre e mezzo del pomeriggio quando la Firebird rossa si
fermò a fianco del garage in rovina situato a sinistra del corpo principale.
Fishenauer sentiva l'adrenalina scorrergli nelle vene. Niente di meglio di
una caccia al tesoro per tenersi in forma.
Gary aveva blaterato parecchio di Bruno Hauptmann e del fatto che a-
vesse nascosto parte del riscatto Lindbergh nel garage di casa sua, a New
York. Hauptmann, che era stato apprendista carpentiere, aveva costruito
uno scomparto segreto nella parete.
E, sosteneva Gary, lui aveva fatto qualcosa di simile nella vecchia fatto-
ria del Maryland. Giurava che era la verità, e che quelli dell'FBI non sa-
rebbero mai riusciti a recuperare il denaro.
Quando Fishenauer spense il motore della Firebird, un silenzio innatura-
le gli piombò addosso. La vecchia casa aveva un aspetto tetro, addirittura
inquietante. Gli faceva venire in mente La notte dei morti viventi. Solo che
in quella nuova versione lui faceva parte del cast.
Le erbacce avevano invaso tutto, persino il tetto del garage. I muri por-
tavano le tracce dell'acqua piovana.
«Allora, Gary, ragazzo mio, vediamo se sei solo un altro sacco di merda.
Io spero proprio di no.»
Inspirò profondamente e scese dall'auto. Si era già preparato ciò che a-
vrebbe detto se lo avessero sorpreso lì: Gary gli aveva rivelato dove aveva
sepolto il corpo di Maggie Rose Dunne. Naturalmente lui aveva pensato
che fosse un'altra delle sue frottole strampalate.
Ma quel pensiero aveva continuato a tormentarlo.
Ed eccolo lì, a Zombi City, nel Maryland, per verificare. Si sentiva come
inebetito. E anche a disagio, colpevole, ma deciso ad andare sino in fondo.
Quella era una lotteria da dieci milioni di dollari. E lui aveva il biglietto
vincente.
Forse stava per scoprire il cadavere della piccola Maggie Rose Dunne.
Santo cielo, sperava proprio di no. O forse avrebbe trovato il tesoro nasco-
sto.
In carcere, lui e Gary avevano parlato moltissimo, in un'occasione addi-
rittura per ore. Gary adorava vantarsi delle sue imprese. Il suo bambino,
così definiva il rapimento. Il suo delitto perfetto.
Già. Tanto perfetto da garantirgli la detenzione a vita in un manicomio
criminale.
Ed ecco Robert Fishenauer, davanti alla porta ammuffita di Zombi City.
La scena del delitto, come si dice. Prima di far scorrere il chiavistello ar-
rugginito, infilò un paio di guanti invernali da golf. Sarebbe stata dura
spiegare quelli, se l'avessero colto sul fatto. Dovette tirare con forza la por-
ta verso di sé, tanto era fitta l'erba che cresceva sulla soglia.
Era arrivato il momento di fare un po' di luce. Estrasse la torcia elettrica
e la accese regolandola al massimo della potenza. Gary gli aveva detto che
i soldi erano nascosti sul lato destro del garage, per l'esattezza nell'angolo
in fondo.
Sparpagliate qua e là scorse vecchie macchine agricole ormai fuori uso.
Sentì le ragnatele sfiorargli il viso e il collo mentre avanzava. L'odore della
decomposizione era ovunque.
Più o meno a metà strada, si fermò per guardarsi indietro. Fissando la
porta spalancata, rimase in ascolto per tre minuti buoni.
Sentì un jet rombare in lontananza. Poi più niente. E sul fatto che in giro
non ci fosse nessuno lui ci contava proprio.
Per quanto tempo l'FBI poteva permettersi di tenere sotto sorveglianza
una fattoria abbandonata? Erano passati quasi due anni dal rapimento.
Rassicurato, riprese ad avanzare verso il fondo del garage. Poi si mise al
lavoro.
Rovesciò un vecchio banco da lavoro - Gary gliene aveva parlato - e vi
salì sopra. A quel punto aveva ormai avuto modo di constatare la metico-
losità della descrizione fattagli da Gary. Lui aveva saputo indicargli con
precisione dove si trovavano tutti i vecchi attrezzi e l'esatta collocazione di
quasi tutte le assicelle di legno sulle pareti del vecchio garage.
In piedi sul banco da lavoro, cominciò a staccare le assi nel punto in cui
il muro si congiungeva al soffitto. C'era una cavità, lì dietro. Proprio come
gli aveva assicurato Gary.
Fishenauer puntò il fascio di luce verso la nicchia. Quasi non credeva ai
suoi occhi, eppure eccola lì: una grossa pila di banconote. Provenienti dal
riscatto che Gary Soneji/Murphy non avrebbe dovuto avere.

78

Alle tre e sedici del mattino seguente, Gary Soneji/Murphy premette la


fronte contro le grosse sbarre gelide che separavano la sua cella dal corri-
doio. Aveva un'altra parte importante da recitare. Hellzapoppin!
Vomitò sul lucidissimo pavimento di linoleum, proprio come aveva pro-
gettato. E fra un conato e l'altro, chiamava aiuto con voce strozzata.
I due agenti del turno di notte arrivarono di corsa. Gary era tenuto sotto
sorveglianza fin dal primo giorno, nel timore che cercasse di suicidarsi.
Laurence Volpi e Phillip Halyard erano due veterani, entrambi con molti
anni di servizio presso il carcere federale, e non amavano troppo venire di-
sturbati dai detenuti, soprattutto dopo mezzanotte.
«Che diavolo ti succede?» sbraitò Volpi, guardando la poltiglia verdastra
che si spandeva lentamente per terra. «Qualche problema, stronzo?»
«Qualcuno mi ha avvelenato», rantolò Soneji/Murphy. «Sto morendo.
Oh, Dio, sto morendo!»
«La migliore notizia che sento da un bel pezzo a questa parte.» Sogghi-
gnando, Halyard guardò il collega. «Mi dispiace non averci pensato per
primo. Una bella dose di veleno, e ci saremmo liberati del bastardo una
volta per tutte.»
Volpi si stava mettendo in contatto via radio col responsabile della sor-
veglianza notturna. Agli alti papaveri del carcere la sicurezza di Soneji
stava molto a cuore, e Volpi non aveva nessuna intenzione che tirasse le
cuoia durante il suo turno.
«Sto male di nuovo», gemette il detenuto, e crollò contro le sbarre vomi-
tando ancora, con violenza.
Il responsabile del piano arrivò quasi subito e ascoltò il rapporto di Vol-
pi, il classico discorsetto da «parati il culo».
«Dice di essere stato avvelenato, Bobby. Non so che cosa diavolo sia
successo. È possibile. Fra questi bastardi ce ne sono parecchi che lo odia-
no.»
«Lo accompagno io in infermeria», disse Robert Fishenauer. Era un tipo
sempre pronto ad accollarsi le responsabilità, e Volpi ci aveva contato.
«Gli faranno una bella lavanda gastrica. Ammanettatelo e mettetegli i cep-
pi. Anche se stanotte non mi sembra abbastanza in salute per causare
guai.»
Pochi istanti dopo i due uomini salirono sull'ascensore. Aveva le pareti
completamente imbottite ed era vecchio e penosamente lento. Gary sentiva
il cuore martellargli in petto come una grancassa. Una dose di sana paura,
finalmente. Aveva sentito la mancanza dell'adrenalina in circolo.
«Stai bene?» L'ascensore scendeva di un centimetro per volta, o almeno
così sembrava. Da un foro nell'imbottitura sporgeva un'unica lampadina
nuda che proiettava una luce smorta.
«Se sto bene? Tu che ne dici?» rispose Soneji/Murphy. «Dovevo fare in
modo di star male, no? E sto male. Questo maledetto affare non può anda-
re più svelto?»
«Stai per vomitare di nuovo?»
«È assolutamente possibile. Un prezzo insignificante da pagare.» Gary
Soneji/Murphy abbozzò un sorriso esangue. «Un prezzo davvero irrisorio,
Bobby.»
«Immagino di sì», grugnì l'altro. «Solo stammi lontano, se decidi di vo-
mitare ancora.»
L'ascensore non si fermò ai due piani sottostanti, bensì proseguì senza
soste verso il seminterrato, dove si bloccò con un tonfo sordo.
«Se ci vede qualcuno, stiamo andando in radiologia», ammonì Fishe-
nauer mentre le porte si aprivano. «Il reparto di radiologia è qua sotto.»
«Sì, conosco il piano», disse Soneji/Murphy. «Sono stato io a idearlo.»
Ma erano passate le tre del mattino e non incontrarono nessuno mentre
percorrevano il lungo corridoio. Più o meno a metà, la parete era interrotta
da una porta. Fishenauer l'aprì con la sua chiave.
Un altro breve corridoio. E in fondo un cancello d'acciaio. Era lì che
toccava a Soneji/Murphy; lì Fishenauer avrebbe visto se Gary era all'altez-
za della sua fama. Perché lui non aveva la chiave del cancello.
«Dammi la pistola, Bobby. Pensa ai dieci milioni di dollari. Da questo
momento in poi tocca a me, e tu non devi far altro che preoccuparti della
tua parte di soldi.»
Semplicissimo. Soneji faceva apparire tutto talmente facile. Fai questo,
fai quello. Prendi una fetta del malloppo. Riluttante, Fishenauer gli porse
il revolver. Non voleva più pensare a quello che stava facendo. Era la sua
possibilità di lasciare Fallston, la sua unica possibilità. Se avessero fallito,
sarebbe rimasto impantanato lì per tutta la vita.
«Non posso dire che sia un piano particolarmente ingegnoso, Bobby, ma
funzionerà. Tu punta tutto su Kessler. Fatti vedere spaventato.»
«Sono spaventato. Sono maledettamente spaventato.»
«E così dev'essere, Bobby. La tua pistola ce l'ho io.»
Al di là del cancello stavano di guardia due agenti. Da sopra il tramezzo
di plexiglas che gli arrivava alla vita, osservarono sbigottiti quanto stava
accadendo.
Videro Soneji/Murphy con una pistola puntata alla tempia di Bob Fishe-
nauer. Il detenuto era in ceppi e manette, ma era anche armato. I due agenti
balzarono in piedi e puntarono i fucili a canna corta al di sopra del vetro.
Non ebbero il tempo di fare altro.
«State guardando uno sbirro morto», latrò Soneji/Murphy, «a meno che
non apriate quel fottuto cancello in cinque secondi esatti. Non uno di più!»
«Per favore», squittì Fishenauer. Aveva paura; sentiva la bocca della pi-
stola premergli contro la tempia. «Ha ammazzato Volpi di sopra.»
La guardia più anziana, Stephen Kessler, impiegò meno di cinque se-
condi a decidere. Girò la chiave nella serratura. Era amico di Bobby e pro-
prio su quella circostanza aveva fatto affidamento Soneji. Soneji aveva
pensato a tutto. Sapeva che Fishenauer era un «ergastolano»: legato mani e
piedi al carcere come tutti i suoi colleghi. Aveva fatto leva sulla sua fru-
strazione e sul suo malcontento, e aveva colto nel segno. Era il bastardo
più in gamba che l'agente avesse mai incontrato. Avrebbe fatto di lui un
uomo ricco.
Si affrettarono verso l'auto di Fishenauer, parcheggiata nei pressi dell'in-
gresso principale. L'agente aveva lasciato la portiera aperta. In un lampo
furono dentro.
«Bella macchinina», disse Soneji/Murphy. «Ma ora potrai comprarti una
Lamborghini. O due o tre, se è per quello.»
Si sdraiò sul sedile posteriore, nascosto sotto la coperta su cui abitual-
mente dormiva il collie di Fishenauer. Puzzava di cane.
«E ora andiamocene da questa fogna», disse ancora, e l'agente mise in
moto.
A un chilometro circa dalla prigione, abbandonarono la Firebird per sali-
re su una Bronco parcheggiata in strada.
Di lì a pochi minuti erano in autostrada. Il traffico era scarso, ma suffi-
ciente per mimetizzarsi.
Non erano passate neppure tre ore quando la Bronco imboccò la strada
dissestata che conduceva alla vecchia fattoria. Durante il tragitto, Sone-
ji/Murphy si era concesso il piccolo ma squisito piacere di assaporare la
genialità del suo grande piano. Trovava esaltante il pensiero di aver effet-
tivamente nascosto del denaro nel garage, due anni prima. Non i soldi del
riscatto, naturalmente. Era stato davvero preveggente.
«Ancora non ci siamo?» chiese da sotto la coperta.
Fishenauer non rispose subito, ma dai sobbalzi Gary comprese che erano
quasi a destinazione. Si mise seduto sull'angusto sedile posteriore della
Bronco. Era quasi a casa, quasi libero. Era invincibile.
«È arrivata l'ora di vedere il colore dei soldi», esclamò ridendo forte.
«Non credi che a questo punto potresti anche togliermi i braccialetti?»
Bob Fishenauer non si curò neppure di voltarsi. Per quanto lo riguarda-
va, il rapporto fra lui e Soneji non era mutato: erano un agente di custodia
e un detenuto. «Non appena avrò la mia parte», brontolò alla fine. «Allora,
e solo allora, sarai libero.»
«Sei sicuro di avere le chiavi delle manette, Robert?» chiese Gary alle
sue spalle.
«Non preoccuparti per questo. Tu sei sicuro di sapere dov'è nascosto il
resto del denaro?»
«Certo.»
Soneji/Murphy aveva anche la certezza che l'agente avesse addosso le
chiavi. In quell'ultima ora e mezzo, era stato tormentato dalla claustrofo-
bia. Proprio per sfuggire all'angoscia aveva rivolto la sua mente a pensieri
più gradevoli. Il suo grande piano. Aveva rivissuto la sua infanzia in una
serie di flashback. Aveva rivisto la matrigna. E i suoi due marmocchi vi-
ziati. Era stato di nuovo ragazzino, e aveva rivissuto la gloriosa avventura
del Bambino Cattivo. Per un po', la fantasia aveva preso il sopravvento sul-
la realtà.
La Bronco accostò. In quel momento Gary Soneji/Murphy passò le mani
intorno alla testa di Fishenauer e gli serrò la gola. Il fattore sorpresa. Gli
premette con forza le manette sul pomo d'Adamo. «Quello che posso dirti,
Bobby... è che dopotutto sono un bugiardo psicopatico.»
Fishenauer si dibatteva freneticamente. Gli mancava il respiro, gli pare-
va di annegare. Con le ginocchia urtò il cruscotto e il volante. La notte era
piena dei grugniti animaleschi dei due uomini.
Le gambe dell'agente scattarono verso il sedile del passeggero e verso
l'alto. I suoi tacchi percuotevano il tettuccio della Bronco. Rantolava emet-
tendo versi bizzarri, simili ai crepitii del metallo su una stufa accesa.
Infine ogni resistenza cessò; solo qualche spasimo attraversava ancora le
membra di Fishenauer.
Gary era libero. Proprio come aveva previsto fin dall'inizio. Gary Sone-
ji/Murphy era di nuovo uccel di bosco.

79

Jezzie Flanagan percorse il corridoio del Marbury Hotel di Georgetown


fino alla camera 427. Si sentiva di nuovo sotto pressione. Tirata. Non era
troppo soddisfatta di essere lì e si chiedeva quale fosse lo scopo dell'incon-
tro. Jezzie credeva di saperlo e sperava di sbagliarsi. Sfortunatamente, le
capitava di rado.
Batté leggermente le nocche sulla porta, e intanto si guardava intorno.
La sua non era paranoia; metà degli abitanti di Washington era impegnata
a spiare l'altra metà.
«È aperto. Entra», disse una voce all'interno.
Jezzie entrò e lo vide sdraiato sul divano. Aveva preso una suite, e quel-
lo non era un buon segno. Aveva voglia di scialare.
«Una suite per la mia ragazza preferita», sorrise Mike Devine. Stava
guardando i Redskins alla TV. Calmo come non mai. Per molti versi, a
Jezzie ricordava suo padre. Forse era per questo che si era messa con lui.
Era stata l'ambiguità della situazione a eccitarla.
«Michael, lo sai che non dovremmo incontrarci. È pericoloso.» Jezzie
chiuse la porta e girò la chiave nella serratura, ma si sforzava di apparire
più ansiosa che arrabbiata. La dolce, cara Jezzie.
«Pericoloso o no, dobbiamo parlare. Sai, di recente è venuto a trovarmi
il tuo ragazzo. Stamattina la sua auto era parcheggiata davanti a casa mia.»
«Non è il mio ragazzo. Gli sto semplicemente pompando le informazioni
di cui noi abbiamo bisogno.»
Lui sorrise. «Oh, lo stai pompando, questo è sicuro. E lui pompa te. Tutti
contenti? Be', io non lo sono.»
Jezzie andò a sedersi al suo fianco. Devine era un uomo decisamente
sexy, e lo sapeva. Assomigliava a Paul Newman, anche se non aveva occhi
azzurri così intollerabilmente belli. Le donne gli piacevano, e non lo na-
scondeva.
«Non dovrei essere qui, Michael. Non possiamo correre il rischio di far-
ci vedere insieme.» Gli appoggiò la testa sulla spalla, lo baciò sulla guan-
cia, poi sul naso. Non aveva alcun desiderio di mostrarsi tenera con lui, ma
se era necessario poteva farcela. Poteva fare qualunque cosa.
«Oh, sì, invece. A che ci servono tutti quei soldi se non possiamo spen-
derli e neppure stare insieme?»
«Mi sembra di ricordare certi giorni passati al lago, di recente. O li ho
soltanto immaginati?»
«Al diavolo i momenti rubati. Vieni in Florida con me.»
Jezzie lo baciò sulla gola. Era ben rasato e come sempre sapeva di buo-
no. Gli sbottonò la camicia per accarezzargli il petto. Poi le dita scesero
più in basso. Aveva inserito il pilota automatico; adesso era in grado di an-
dare sino in fondo. Qualunque cosa.
«Potrebbe presentarsi la necessità di liberarci di Alex Cross», bisbigliò
lui. «Dico sul serio. Mi capisci, Jezzie?»
Lei sapeva che la stava mettendo alla prova, che voleva vedere la sua re-
azione. «Non è una cosa da poco. Lascia che ci rifletta su. Riuscirò a sco-
prire che cosa sa Alex, vedrai. Ma tu devi essere paziente.»
«Te lo stai scopando, Jezzie. Ecco perché tu sei tanto paziente.»
«No, non è vero.»
Goffamente, cominciò a slacciargli la cintura dei pantaloni. Doveva te-
nerlo in riga ancora per un po'.
«Come faccio a sapere che non ti sei innamorata di Alex Cross?» insi-
stette Devine.
«Perché amo te, Michael.» Gli si accostò un po' di più, lo abbracciò. Era
facile da imbrogliare. Erano tutti facili da imbrogliare. A quel punto, tutto
ciò che le restava da fare era anticipare le mosse dell'FBI. Perfetto. Il delit-
to del secolo.

80

Erano le quattro del mattino e stavo dormendo, quando arrivò la telefo-


nata. In linea c'era Wallace, ed era a pezzi. Chiamava da Fallston, dove era
alle prese con un problema maledettamente serio.
Un'ora dopo ero alla prigione. Uno dei quattro privilegiati ammessi nel-
l'ufficetto angusto e surriscaldato di Wallace.
La stampa non era ancora stata informata della sensazionale fuga di So-
neji, ma naturalmente non sarebbe stato possibile tenerla nascosta ancora
per molto. Per i cronisti, quella sarebbe stata una giornata campale.
Wallace Hart se ne stava semiaccasciato sulla scrivania ingombra di car-
te. Con lui c'erano il capo degli agenti di custodia e il legale del carcere.
«Che cosa si sa dell'agente che è con Soneji?» domandai a Wallace non
appena ne ebbi l'opportunità.
«Si chiama Fishenauer. Trentasei anni. È con noi da undici e il suo stato
di servizio è buono. Fino a oggi, ha sempre fatto il suo dovere.»
«Qual è la tua opinione? Gary l'ha preso in ostaggio?»
«Non credo. Credo che quel figlio di puttana abbia aiutato Soneji a
scappare.»

Quella stessa mattina, l'FBI istituì una sorveglianza di ventiquattr'ore su


ventiquattro su Michael Devine e Charles Chakely. Una delle ipotesi avan-
zate era che Soneji andasse a cercarli. Lui sapeva che erano stati loro a
mandare a monte il suo capolavoro.
Il cadavere dell'agente di custodia Robert Fishenauer fu rinvenuto nel
garage della fattoria di Crisfield, nel Maryland. Con un biglietto da venti
dollari ficcato in bocca. La banconota non faceva parte del riscatto trafuga-
to in Florida.
Per tutto il giorno continuarono ad arrivare le prevedibili telefonate di
«avvistamento». Ma nessuna si rivelò attendibile.
Soneji/Murphy era là fuori da qualche parte e rideva di noi, si spanciava
dalle risate in qualche cantina buia. Era di nuovo sulla prima pagina di tutti
i giornali nazionali. Proprio come piaceva a lui. Il numero uno dei Bambini
Cattivi.

Erano le sei del pomeriggio quando in macchina raggiunsi la casa di


Jezzie. Non volevo andarci. Lo stomaco mi dava qualche fastidio e la testa
era in condizioni perfino peggiori. Dovevo avvertirla che, se Sone-
ji/Murphy l'aveva collegata a Devine e Chakely, con tutta probabilità sulla
sua lista nera c'era anche lei. Dovevo metterla in guardia, senza però rive-
larle altro di quanto sapevo.
Mentre salivo i familiari gradini di mattoni rossi della veranda, fui inve-
stito da un frastuono di musica rock, così forte da far tremare i muri. Era
l'album Taking My Time di Bonnie Raitt. Bonnie stava lamentosamente
cantando I Gave My Love a Candle.
Al lago, Jezzie e io avevamo ascoltato quel disco un'infinità di volte.
Forse quella sera stava pensando a me. Di certo, negli ultimi giorni io ave-
vo pensato parecchio a lei.
Era vestita come sempre quando non era in servizio: T-shirt spiegazzata,
jeans tagliati al ginocchio, sandali. Sorrideva; sembrava felice di vedermi.
Così calma, sicura, composta. Io avevo lo stomaco stretto, ma per il resto
mi sentivo perfettamente lucido. Sapevo quello che dovevo fare. O almeno
pensavo di saperlo.
«Un'altra cosa», dissi, come se avessimo interrotto la conversazione non
più di un minuto prima.
Lei rise e spalancò la porta schermata. Non entrai. Rimasi inchiodato
dov'ero. Dalla casa vicina arrivava il tintinnio di campanelle agitate dal
vento. La spiavo, pronto a registrare il minimo passo falso, l'errore che a-
vrebbe guastato l'impeccabilità della sua recitazione. Nulla.
«Ti va un giro in campagna? Offro io.»
«Sicuro, Alex. Il tempo di mettere un paio di pantaloni lunghi.»
Pochi minuti dopo eravamo sulla moto e ci allontanavamo rombando. Io
canticchiavo ancora I Gave My Love a Candle, e intanto rivedevo le mie
battute, una per una.
Jezzie si voltò. «Possiamo andare in moto e parlare al tempo stesso»,
gridò nel vento.
Io mi tenevo stretto a lei. E quella vicinanza rendeva tutto un po' più dif-
ficile. «Mi sono preoccupato per te, quando ho saputo che Soneji se l'era
filata», sbraitai a mia volta.
Di nuovo lei si girò. «Perché? Perché preoccuparti per me? A casa c'è la
mia Smith & Wesson.»
Perché tu hai contribuito a rovinare il suo delitto perfetto, e forse lui lo
sa, avrei voluto dirle. Perché sei stata tu a portar via la bambina dalla fat-
toria. Tu hai preso Maggie Rose Dunne e dopo hai dovuto ucciderla, non è
così?
«Ha saputo di noi due dai giornali», dissi invece. «Potrebbe decidere di
vendicarsi di tutti quelli coinvolti nel caso. Soprattutto di chi, a suo avviso,
ha rovinato i suoi piccoli progetti.»
«E così che funziona il suo cervello, Alex? Nessuno può saperlo meglio
di te. Dopotutto sei tu l'esperto di psicologia criminale.»
«Quello che lui vuole è dimostrare al mondo la sua superiorità. Ha biso-
gno che questa storia sia sensazionale e complicata come ai suoi tempi lo
fu il rapimento Lindbergh. Credo che proprio questo sia lo scopo cui mira.
Vuole che il suo crimine sia il più grande, il migliore. E non ci è ancora
riuscito. Probabilmente pensa di cominciare adesso.»
«Chi è il Bruno Hauptmann di questo caso? Chi sta cercando d'incastrare
Soneji?»
Stava forse cercando di dirmi qualcosa? Forse Soneji era in qualche mo-
do riuscito a incastrare anche lei? Sarebbe stato il colmo. Ma come? E per
quale motivo?
«Gary Murphy è Bruno Hauptmann. È lui il capro espiatorio, quello che
Gary Soneji ha inchiodato con tanta abilità. È stato condannato e imprigio-
nato, e lui è innocente.»
Continuammo a parlarci al di sopra del vento per la prima mezz'ora. Poi
per chilometri e chilometri filammo sull'autostrada in perfetto silenzio.
Ciascuno di noi si era rinchiuso nel suo mondo privato. Stretto a lei, ri-
cordai tante cose di noi. Mi sentivo male dentro; desideravo non provare
più nessuna emozione. Sapevo che lei, non diversamente da Gary, era una
psicopatica. Priva di coscienza. Ero persuaso che il mondo degli affari e
della politica pullulasse di individui come loro. Che non provano mai ri-
morso, a meno che non vengano costretti a pagare per i loro delitti. Allora,
e solo allora, danno la stura alle lacrime di coccodrillo.
«E se ce la filassimo un'altra volta?» proposi a Jezzie. Era un po' che ci
rimuginavo su. «Se ce ne tornassimo alle Isole Vergini? Ne ho bisogno.»
Non ero sicuro che mi avesse udito. Poi la sentii dire: «Perché no? Non
mi dispiacerebbe crogiolarmi al sole. Vada per le Isole».
La moto correva. Era deciso, dunque. La campagna che stavamo attra-
versando era bella, ma gli scenari indistinti che si succedevano intorno a
noi, tutto quello che stava accadendo, mi facevano dolere la testa, ed era
un dolore che non sarebbe cessato.

81

Più di ogni altra cosa Maggie Rose desiderava vivere. Ora lo capiva.
Voleva che la sua vita tornasse quella di un tempo. Voleva di-
speratamente rivedere suo padre e sua madre. Rivedere tutti i suoi amici,
gli amici di Washington e di Los Angeles, ma soprattutto Michael. Che ne
era stato di Goldberg il Tappo? Lo avevano lasciato andare? I suoi genitori
avevano pagato il riscatto e lui era stato rilasciato, mentre per chissà quale
motivo le cose per lei erano andate diversamente?
Maggie passava le giornate a raccogliere la verdura, ed era un lavoro du-
ro; ancor peggio, era il lavoro più noioso che si potesse immaginare. Do-
veva concentrarsi su qualcos'altro durante le lunghe ore sotto il sole cocen-
te. Doveva evitare di pensare a quello che stava facendo e a dove si trova-
va.
Circa un anno e mezzo dopo il sequestro, Maggie Rose fuggì.
Si era imposta l'abitudine di destarsi molto presto al mattino. Prima di
chiunque altro. E aveva continuato a farlo per settimane intere prima di de-
cidersi a tentare la fuga. Quando si alzò, quella mattina, fuori era ancora
buio, ma lei sapeva che di lì a un'ora si sarebbe levato il sole. E avrebbe
cominciato a far caldo.
Scalza, tenendo in mano le scarpe che usava nei campi, scivolò in cuci-
na. Se l'avessero sorpresa, si sarebbe giustificata dicendo che doveva anda-
re in bagno. Per precauzione non ci era ancora andata.
Le avevano detto che non ce l'avrebbe mai fatta a fuggire, e neppure a
lasciare il villaggio. Distava più di settanta chilometri dagli altri centri abi-
tati, in qualunque direzione ci si muovesse. Questo le avevano detto.
Le montagne brulicavano di serpenti velenosi e gatti selvatici. A volte di
notte li sentiva urlare. Non ce l'avrebbe mai fatta a raggiungere una città.
Questo le avevano detto.
E, se l'avessero colta in flagrante, l'avrebbero rinchiusa sottoterra per
almeno un anno. Si ricordava che effetto faceva stare sottoterra? Senza ve-
dere la luce per giorni e giorni?
La porta della cucina era chiusa, ma lei aveva scoperto dove tenevano la
chiave: in una cassetta portautensili insieme con un mucchio di altre chiavi
arrugginite. La prese, e prese anche un piccolo martello da utilizzare come
arma. Lo infilò nell'elastico delle mutandine.
Aprì la porta e fu all'aperto. Per la prima volta dopo un'eternità, di nuovo
libera. Il suo cuore si librò alto come i falchi che a volte vedeva staccarsi
dai loro nidi nascosti.
Il semplice fatto di trovarsi sola era esaltante. Camminò per molti chi-
lometri. Aveva deciso di scendere a valle invece di salire verso le monta-
gne, benché uno dei bambini le avesse giurato e spergiurato che da quella
parte non c'erano città o villaggi.
Dalla cucina aveva prelevato due panini raffermi, con cui fece colazione.
Col levarsi del sole, la temperatura cominciò a salire e alle dieci faceva già
molto caldo. Ormai da parecchi chilometri costeggiava una strada sterrata,
attenta però a tenersi fuori della vista di eventuali passanti.
Camminò per tutto l'interminabile pomeriggio, sorpresa lei per prima
della propria resistenza. Forse il lavoro nei campi l'aveva irrobustita. Non
era mai stata così forte, tutti i suoi muscoli si erano sviluppati.
Era il crepuscolo quando arrivò in vista della città. La trovò più grande e
più moderna del villaggio in cui era stata segregata tanto a lungo.
Cominciò a correre sugli ultimi declivi. La strada sterrata s'immetteva
finalmente in una più grande, asfaltata. Una strada vera. Maggie la seguì
fino a una stazione di servizio. Era una stazione come tante altre - SHELL,
diceva l'insegna - e lei non aveva mai visto niente di più bello in tutta la
sua vita.
Maggie Rose alzò lo sguardo e vide l'uomo.
Lui le chiese se stava bene. La chiamava sempre Bobbi e lei sapeva di
stargli a cuore, almeno un pochino. Rispose che, sì, stava bene. Si era
semplicemente smarrita nei suoi pensieri.
Non gli rivelò che aveva ricominciato a inventare storie, meravigliose
fantasticherie che l'aiutavano a dimenticare il dolore.

82

Gary Soneji/Murphy aveva indubbiamente il suo grande piano, ma ora


anch'io avevo il mio. Il punto era: sarei riuscito ad attuarlo? La determina-
zione che mi animava sarebbe stata sufficiente a superare qualsiasi ostaco-
lo, qualunque fosse il prezzo da pagare? Fino a che punto ero disposto a
spingermi?
Il viaggio per Virgin Gorda da Washington ebbe inizio in un tetro ve-
nerdì di pioggia. In circostanze normali, non avrei potuto essere più felice
di andarmene.
In una Puerto Rico inondata di sole salimmo a bordo di un trimotore Tri-
slander, e alle tre del pomeriggio scendevamo senza scosse verso una
spiaggia candida, una striscia di sabbia delimitata da palme che ondeggia-
vano al vento.
«Eccolo là», disse lei, seduta al mio fianco. «Il nostro posto al sole. Non
mi dispiacerebbe rimanerci un mese intero.»
«Ha proprio l'aria di essere quello che ci ha prescritto il dottore», assen-
tii, e intanto pensavo: lo scopriremo presto. Scopriremo quanto durerà il
desiderio di restare soli insieme, io e lei.
«Questa stanca viaggiatrice ha una gran voglia di tuffarsi in acqua. Sen-
za pensare a niente. Vivendo di pesce e frutta. Nuotando fino a crollare e-
sausta.»
«È per questo che siamo venuti, no? Per spassarcela al sole. E dimenti-
care i cattivi della favola.»
«Può essere tutto perfetto, Alex. Dico sul serio. Basta lasciarsi andare un
po'.» Jezzie sembrava il ritratto della sincerità. Ero quasi tentato di creder-
le.
Quando lo sportello del Trislander si aprì, ci accolse una folata d'aria
tiepida, intrisa delle fragranze caraibiche.
Gli altri sette occupanti dell'aereo portavano occhiali scuri e magliette
colorate. E sorridevano. Mi costrinsi a stamparmi un sorriso sulla faccia.
Jezzie mi prese per mano. Era lì, eppure non c'era. Avevo la sensazione
di vivere in un sogno. Quello che stava accadendo era impossibile, e tutta-
via non potevo negare la realtà.
Alcuni funzionari neri con un marcato accento britannico ci scortarono
attraverso una serie di rilassati controlli doganali. I nostri bagagli non fu-
rono aperti. Io però sapevo che tutto era stato organizzato con la collabora-
zione del Dipartimento di Stato, e nella mia borsa avevo un revolver di
piccolo calibro, carico e pronto all'uso.
«Adoro questo posto», disse ancora Jezzie mentre ci univamo alla minu-
scola coda in attesa al posteggio dei taxi. La strada brulicava di motorini,
biciclette e furgoncini impolverati. Mi tornarono alla mente le nostre gite
in moto.
«Fermiamoci qui per sempre. Fingiamo di non dover più andare via.
Niente più orologi, né radio, né notiziari.»
Sorrisi. «L'idea mi piace. Giochiamo a fare finta, per un po'.»
Lei batté le mani con l'entusiasmo di una bambina. «Proprio quello che
volevo dire. Facciamo finta.»
L'isola non era cambiata dalla nostra ultima visita. Yacht e barche a vela
punteggiavano l'acqua scintillante. Oltrepassammo piccoli ristoranti e ne-
gozi di articoli per sub. Le case a un piano, tinteggiate in colori vivaci, esi-
bivano grandi antenne televisive. Il nostro posto al sole. Il paradiso.
C'era tempo per una nuotata, quando arrivammo all'albergo. Ci esibim-
mo un po'. Flettemmo ogni muscolo dei nostri corpi, facemmo a chi arri-
vava prima a una scogliera lontana. Io ripensavo al nostro primo bagno in-
sieme, nella piscina dell'albergo di Miami Beach. Quando era cominciata
la finzione.
Dopo ci sdraiammo sulla spiaggia, a guardare il sole che calava all'oriz-
zonte, si fondeva con esso e infine spariva.
«Siamo in pieno déjà-vu», sorrise Jezzie. «Tutto come la prima volta.
Oppure quella vacanza l'ho soltanto sognata?»
«Ora è diverso», replicai, e in fretta aggiunsi: «Allora non ci conosce-
vamo così bene».
A che cosa stava pensando? Di sicuro aveva fatto i suoi piani. Con tutta
probabilità sapeva che stavo ancora dietro a Devine e a Chakely, e aveva
bisogno di scoprire le mie intenzioni.
Uno stallone nero, snello e muscoloso, perfetto nel suo costume bianco,
ci portò la pirla colada.
Il gioco del fare finta continuava nell'atmosfera ideale.
«Siete in luna di miele?» ci domandò. Era disinvolto, rilassato.
«In seconda luna di miele», rispose Jezzie.
Il giovane cameriere sorrideva. «Sono sicuro che ve la godrete sino in
fondo.»
In ultimo, il ritmo lento dell'isola ebbe la meglio su di noi.
Cenammo nel ristorante all'aperto dell'hotel. Altre sconvolgenti sensa-
zioni di déjà-vu. In mezzo alla perfezione caraibica, mi sentivo sdoppiato,
o piuttosto spaccato in due.
Guardavo i vassoi carichi di molluschi e testuggini andare e venire. A-
scoltavo gli accordi del gruppo reggae che si preparava all'esibizione sera-
le. E neppure per un momento riuscii a dimenticare che la bella donna che
mi sedeva di fronte aveva lasciato morire Michael Goldberg. Per giunta,
ero certo che Jezzie avesse ucciso Maggie Rose Dunne, o che comunque
avesse offerto la sua complicità agli assassini. Non aveva mai mostrato il
minimo rimorso.
Da qualche parte degli Stati Uniti era nascosta la sua parte del riscatto.
Ma era stata abbastanza scaltra da lasciare che dividessimo le spese della
vacanza. «La metà esatta, Alex. Okay? Niente regali.»
A cena, mangiò aragosta isolana e un invitante piatto di bocconcini di
squalo. E bevve due birre. Tranquilla, sicura di sé. Per certi versi, era per-
sino più inquietante di Gary Soneji/Murphy.
Di che cosa si parla con un'assassina di cui si è innamorati, davanti a una
cena impeccabile seguita da qualche drink? Erano mille le cose che avrei
voluto conoscere, ma sapevo di non poterle rivolgere nessuna delle do-
mande che mi turbinavano nella mente. Invece, chiacchierammo delle
giornate che ci attendevano. Facemmo progetti per la nostra vacanza.
La guardavo, e pensavo che non l'avevo mai vista così bella. Continuava
a ravviarsi una ciocca bionda dietro un orecchio. Un gesto familiare, inti-
mo. Forse Jezzie era nervosa? Quanto sapeva?
«Va bene, Alex», disse alla fine. «Perché non ti decidi a dirmi che cosa
ci facciamo qui, a Virgin Gorda? Qual è l'ordine del giorno?»
Era una domanda che avevo previsto, e tuttavia mi colse di sorpresa. Era
stata una mossa abile, la sua, e naturalmente io ero preparato a mentire, ero
in grado di razionalizzare. Non per quello però mi sentivo meglio.
«Volevo che avessimo la possibilità di parlare, di parlare sul serio», dis-
si. «Forse per la prima volta, Jezzie.»
Le lacrime le salirono agli occhi, e scesero lentamente a rigarle le guan-
ce. Piccoli nastri che luccicavano nella luce morbida delle candele.
«Ti amo, Alex», bisbigliò. «È solo che... sarà sempre così difficile per
noi. È sempre stato difficile.»
«Stai dicendo che il mondo non è pronto per noi? O che noi non siamo
pronti per il mondo?»
«Non lo so... Che differenza fa, quando è comunque difficile?»
Dopo cena scendemmo sulla spiaggia, diretti al relitto di un galeone ab-
bandonato a circa mezzo chilometro dal ristorante. La spiaggia era deserta.
C'era un po' di luna, ma man mano che ci avvicinavamo al relitto il buio
si faceva sempre più fitto. Brandelli di nuvole veleggiavano sopra le nostre
teste. In ultimo, Jezzie non fu che un'ombra scura al mio fianco. Mi sentivo
a disagio, inquieto. Continuavo a pensare che avevo lasciato la pistola in
camera.
D'un tratto lei si fermò. «Alex.» Per un istante credetti che avesse sentito
qualcosa e mi voltai. Era impossibile che Soneji/ Murphy fosse arrivato fin
lì, e tuttavia per una frazione di secondo ebbi paura.
«Mi stavo chiedendo...» proseguì Jezzie, «mi sono accorta di pensare al-
le indagini e non voglio. Non qui.»
«Qualcosa ti preoccupa?» le domandai.
«Hai smesso di parlarmi del caso. Com'è finita con Devine e Chakely?»
«Be', dato che sei tu a parlarne, ti dirò una cosa: avevi ragione fin dall'i-
nizio a proposito di quei due. Un altro vicolo cieco. E ora basta. Siamo qui
per divertirci; questa è la nostra vacanza. Ce la siamo meritata.»

83

Gary Soneji/Murphy osservava, e la sua mente vagabondava in libertà.


Tornava indietro nel tempo, all'epoca del perfetto rapimento Lindbergh.
Rivedeva Lindy il Fortunato. La deliziosa Anne Morrow Lindbergh.
Baby Charles Junior nella sua culla della stanza dei bambini al secondo
piano della fattoria di Hopewell, nel New Jersey. Quelli erano giorni, ami-
co. I giorni della fantasia.
Che cosa stava osservando nel molto più banale presente?
Per prima cosa, i due babbei dell'FBI, di guardia a bordo della Buick
Skylark nera. Un babbeo e una babbea, per la precisione, incaricati della
sorveglianza. Innocui. Per lui non costituivano un problema. E certo nep-
pure una sfida.
Poi, c'era il moderno grattacielo in cui abitava l'agente Mike Devine.
Hawthorne, si chiamava. Piscina sul tetto e solarium, garage privato, servi-
zio di portineria ventiquattr'ore su ventiquattro. Non male, per un ex agen-
te. E i babbei dell'FBI che sorvegliavano l'edificio come se temessero di
vedergli mettere le ali e volare via.
Le dieci del mattino erano passate da poco quando un fattorino della Fe-
deral Express varcò il portone dell'elegante palazzo.
Pochi minuti dopo, con indosso la divisa dell'agenzia di recapiti e sotto il
braccio due pacchi indirizzati ad alcuni inquilini, Gary Soneji/Murphy
premeva il campanello dell'appartamento 17J.
Dimostrazione Avon!
Non appena Mike Devine comparve sulla soglia, gli spruzzò addosso lo
stesso preparato al cloroformio utilizzato per Michael Goldberg e Maggie
Rose Dunne. Quel che è giusto è giusto.
Proprio come i due bambini, Devine crollò sulla moquette dell'ingresso.
Da una delle stanze proveniva un fragore di musica rock: Let's Give Them
Something To Talk Ahout dell'inimitabile Bonnie Raitt.
L'agente Devine si svegliò parecchi minuti dopo, stordito e con la vista
annebbiata. Non aveva più un solo indumento addosso ed era seduto nella
vasca da bagno, piena fino all'orlo di acqua fredda, coi polsi ammanettati
ai rubinetti.
«Che cazzo è questa roba?» biascicò con la lingua spessa. Si sentiva co-
me se avesse fumato una dozzina di canne.
«Questa roba è un coltello estremamente affilato.» Chino su di lui, Gary
Soneji/Murphy gli mostrò il suo coltello Bowie. «Te ne darò una dimostra-
zione pratica. Metti a fuoco quei tuoi begli occhioni appannati. Metti a
fuoco, Michael.»
Con la punta della lama scalfì appena l'avambraccio del prigioniero,
strappandogli un grido. Dal taglio, lungo almeno sei centimetri, il sangue
sgorgò e si disperse turbinando nell'acqua.
«Non voglio sentire un suono», ammonì Soneji, brandendo l'arma con
fare minaccioso. «Questo non è esattamente il rasoio Sensor della Gillette.
Questo non si limita a graffiare. Quindi fa' attenzione, per favore.»
«Chi sei?» tentò di nuovo Devine, ma le parole gli uscivano di bocca a
fatica. Dense come gelatina. «Chi sei?»
«Non ti dispiace se mi presento da solo, vero? Sono un uomo ricco e dai
gusti raffinati.» Soneji/Murphy rise. Il successo lo rendeva euforico. Mai il
futuro gli era apparso più radioso.
Lo sconcerto di Devine cresceva di secondo in secondo.
«Non hai riconosciuto la citazione? Sympathy for the Devil, Rolling
Stones. Sono Gary Soneji/Murphy. Ti chiedo scusa per l'uniforme; un tra-
vestimento alquanto rozzo. Ed è un vero peccato, perché sono mesi che a-
spetto di conoscerti. Di fare la tua conoscenza, bastardo.»
«Che diavolo vuoi?» A dispetto delle circostanze, Devine lottava per
mantenere un'apparenza di autorità.
«Dritto al punto, eh? Meglio così, perché ho una gran fretta. Vediamo di
spiegarci, allora: hai due possibilità, una bella alternativa chiara come il
sole. Prima possibilità: ti taglio il pene senza stare troppo a pensarci, te lo
caccio in bocca e comincio a tagliuzzarti, tanti piccoli taglietti sul viso e
sul collo finché non mi dici quello che voglio sapere. Tutto chiaro? Ripeto,
possibilità numero uno: dolorosa tortura con successivo, inevitabile dissan-
guamento.»
Devine aveva gettato all'indietro la testa, cercando istintivamente di al-
lontanarsi dal folle che incombeva su di lui. La vista ormai gli si era schia-
rita. Gary Soneji/Murphy? A casa sua? Con un coltello da caccia?
«Seconda possibilità», riprese il folle. «Mi dici subito tutto. Io vado a
prendere i miei soldi, ovunque tu li abbia nascosti, poi torno e ti uccido,
ma in modo pulito, senza effetti speciali. Chissà, potresti anche riuscire a
filartela, mentre sono via. Personalmente ne dubito, ma la speranza è l'ul-
tima a morire. E se vuoi saperlo, Michael, io sceglierei questa seconda
possibilità.»
Anche Mike Devine si era ripreso a sufficienza per fare la scelta giusta.
Rivelò a Soneji/Murphy dove aveva nascosto la sua parte del riscatto. Pro-
prio lì, a Washington.
Gary Soneji/Murphy gli credette, anche se naturalmente non ci avrebbe
messo la mano sul fuoco. Dopotutto, il suo interlocutore era un agente di
polizia.
Sulla porta d'ingresso si fermò per declamare, in un'ottima imitazione di
Arnold Schwarzenegger/Terminator: «Tornerò!»
In effetti, quel giorno si sentiva straordinariamente ben disposto. Stava
risolvendo quel maledetto caso da solo. Stava giocando al poliziotto e tutto
sommato si divertiva.
Il piano avrebbe funzionato. Come aveva previsto fin dall'inizio.
Cavoli!

84

Dormii un sonno inquieto, destandomi quasi ogni ora. Niente tasti di


pianoforte su cui pestare. Niente Janelle e Damon. Solo l'assassina, pacifi-
camente addormentata al mio fianco.
Solo il piano che dovevo mettere in atto.
Quando finalmente si levò il sole, la cucina dell'albergo ci preparò una
colazione al sacco. Vini pregiati, acqua Perrier, costose specialità da
gourmet. Più un ombrellone a strisce bianche e gialle, attrezzatura da sub e
morbidi teli da spiaggia.
Era già tutto a bordo del motoscafo quando arrivammo sul molo, pochi
minuti dopo le otto. L'imbarcazione impiegò mezz'ora a raggiungere la no-
stra isola, splendida e solitaria. Il paradiso ritrovato.
L'idea era di restarci per tutto il giorno. Come noi, anche le altre coppie
di ospiti dell'albergo avevano i loro isolotti personali su cui appartarsi. La
nostra spiaggia era cinta da una scogliera corallina distante un centinaio di
metri dalla riva.
L'acqua, del più limpido verde bottiglia, lasciava vedere chiaramente la
sabbia del fondo. Pensai che avrei potuto contarne i granelli uno per uno.
Piccoli banchi di squatine mi saettavano tra le gambe. Una coppia di sorri-
denti barracuda, lunghi almeno un metro e mezzo, ci seguì fino alla spiag-
gia prima di perdere interesse e allontanarsi.
«A che ora volete che torni a prendervi?» domandò il barcaiolo. «Sta a
voi decidere.»
Era un pescatore robusto, un marinaio sulla quarantina dai modi cordiali
che durante il tragitto ci aveva intrattenuto con coloriti aneddoti di pesca e
vita indigena. Sembrava che vedere un nero e una bianca insieme non gli
facesse né caldo né freddo.
«Oh, verso le due, le tre.» Guardai Jezzie. «A che ora deve tornare il si-
gnor Richards?»
Lei stava stendendo sulla sabbia i nostri asciugamani. «Alle tre andrà
benissimo.»
Richards sorrise. «D'accordo, allora. E divertitevi. Non c'è nessun altro
qui, e credo che non abbiate più bisogno di me.»
Ci salutò e saltò di nuovo a bordo. Avviò il motore e poco dopo scom-
parve alla nostra vista.
Ed eccoci soli sulla nostra isola privata. Avevamo tutto il tempo di la-
sciarci alle spalle le preoccupazioni e di essere felici.
È certamente un'esperienza bizzarra, trovarsi sdraiati su un telo da
spiaggia a fianco di un'assassina. Interminabilmente riesaminavo i miei
sentimenti, il piano che avevo messo a punto, i passi che avrei dovuto
compiere.
E intanto mi sforzavo di tenere sotto controllo la collera e lo sconcerto.
Avevo amato quella donna e ora scoprivo in lei un'estranea. Chiusi gli oc-
chi e lasciai che il sole mi penetrasse nella pelle. Dovevo rilassarmi, se vo-
levo arrivare sino in fondo.
Dove hai trovato il coraggio di uccidere la bambina, Jezzie? Come hai
potuto farlo? Come hai potuto mentire a tutti fino a questo punto?
Di colpo arrivò Gary Soneji. Era emerso dal nulla e brandiva un coltello
da caccia lungo almeno trenta centimetri, identico a quello che aveva usato
per gli omicidi nel ghetto. La sua ombra incombeva su di me.
Era impossibile che fosse arrivato fin sull'isola. Impossibile.
«Alex. Alex, stai sognando», mi riscosse la voce di Jezzie. Mi aveva po-
sato una mano sulla spalla e con la punta delle dita mi sfiorava la guancia.
La notte quasi insonne, il sole tiepido e la fresca brezza di mare: mi ero
addormentato sulla spiaggia.
Alzai gli occhi su Jezzie. Era sua l'ombra che avevo visto torreggiare su
di me. Il cuore mi batteva forte. I sogni possono sconvolgere il sistema
nervoso non meno della realtà.
«Ho dormito molto?» brontolai.
«Solo un paio di minuti, tesoro.» E poi: «Abbracciami, Alex».
Mi si accostò, premendo i seni sul mio petto. Mentre dormivo si era sfi-
lata il reggiseno del costume e la sua pelle levigata, unta di olio solare,
scintillava. Qualche goccia di sudore le imperlava il labbro superiore. Non
poteva fare a meno di essere bella.
Mi alzai a sedere. «Facciamo un passeggiata, ti va?» proposi, indicando
un boschetto di buganvillee che crescevano fin quasi sull'acqua. «Voglio
parlare con te di alcune cose.»
«Quali cose?» Il mio rifiuto l'aveva delusa. Avrebbe voluto fare l'amore
lì, sulla spiaggia. Ma io no.
«Coraggio, vieni. Parleremo camminando. Questo sole è magnifico.»
L'aiutai ad alzarsi e, seppure riluttante, lei mi seguì. Non si preoccupò di
rimettere il reggisene
C'incamminammo sulla battigia, coi piedi nell'acqua calma e trasparente.
Solo pochi centimetri ci dividevano, ma non ci toccammo. Era tutto tal-
mente strano, talmente irreale, e certo fu uno dei momenti peggiori della
mia vita, se non addirittura il peggiore in assoluto.
«Sei troppo serio, Alex. Siamo venuti qui per divertirci, ricordi?»
«Io so quello che hai fatto, Jezzie. Ci ho messo un po' di tempo, ma alla
fine ci sono arrivato. So che sei stata tu a portare via Maggie Rose Dunne a
Soneji. So che sei stata tu a ucciderla.»

85

«Voglio che ne parliamo, Jezzie. E non temere, non ho registratori ad-


dosso. Non potresti non accorgertene, ti pare?»
Lei ebbe un mezzo sorriso. Un'attrice perfetta, come sempre. «No, non
potrei», disse.
Ora il mio cuore martellava come impazzito. «Raccontami quello che è
successo. Dimmi perché, Jezzie. Dimmi perché ho dovuto sprecare quasi
due anni per capire, mentre tu sapevi tutto fin dall'inizio. Dimmi qual è sta-
ta la tua parte in tutto questo.»
Finalmente quel sorriso che pareva indistruttibile scomparve. Ora sem-
brava rassegnata. «D'accordo. Ti dirò alcune delle cose che vuoi sapere,
quelle su cui continueresti a indagare per l'eternità.»
Fu così che mi raccontò la verità.
«Com'è accaduto? Be', all'inizio facevamo soltanto il nostro lavoro. È
vero, te lo giuro. Facevamo da baby-sitter alla famiglia del ministro. Jer-
rold Goldberg non era abituato a ricevere minacce, e i colombiani lo ave-
vano minacciato. Prevedibilmente, lui si comportò da quel borghese che è.
Reagì in modo spropositato. Pretese la protezione dei Servizi per tutti i
suoi familiari. Fu così che cominciò tutto. Con una sorveglianza capillare
che nessuno di noi reputava necessaria.»
«E tu affidasti l'incarico a due agenti mediocri.»
«A due amici, per la verità. E per nulla mediocri. Prevedevamo che sa-
rebbe stata una gran perdita di tempo. Poi Mike Devine individuò uno dei
docenti della scuola, un professore di matematica di nome Gary Soneji,
mentre gironzolava intorno alla casa dei Goldberg. In un primo momento
pensammo che avesse preso una cotta per il ragazzo, che fosse un omoses-
suale e nulla di più, ma naturalmente a quel punto non si poteva non ap-
profondire. Nei verbali originariamente redatti da Devine e Chakely era ri-
portato tutto.»
«Uno di loro si mise alle calcagna di Soneji?»
«Un paio di volte, sì. In un paio di posti diversi. Non eravamo ancora
preoccupati, ma che potevamo fare, se non andare sino in fondo? E una se-
ra Charlie Chakely lo seguì fino alla zona sud-est. Non avevamo collegato
Soneji agli omicidi che si erano verificati in quel quartiere, anche perché i
giornali non ne avevano quasi parlato. Solo due altri episodi di violenza
nel ghetto, sai.»
«Sì, lo so. Quando avete cominciato a sospettare che ci fosse sotto qual-
cosa di più?»
«Non prendemmo in considerazione l'ipotesi del sequestro finché i bam-
bini non vennero effettivamente rapiti. Due giorni prima, Chakely lo aveva
seguito alla fattoria nel Maryland, ma allora non sospettava quello che So-
neji aveva in mente. Non ce n'era motivo.
«A quel punto, però, conosceva l'ubicazione della fattoria. Subito dopo il
sequestro, Mike Devine mi chiamò dalla scuola. Capisci, allora ci propo-
nevamo semplicemente di beccare Soneji. Poi mi venne in mente che a-
vremmo potuto intascare noi il riscatto. Non so dirti con precisione come
sia successo. Forse era una possibilità che inconsciamente avevo già preso
in considerazione. Sembrava talmente facile, Alex. In tre o quattro giorni
sarebbe finito tutto. E nessuno ne avrebbe sofferto. Non più di quanto a-
vessero già fatto. E noi avremmo avuto il denaro del riscatto. Milioni di
dollari.»
C'era qualcosa di spaventoso nella disinvoltura con cui parlava del cri-
mine commesso. Aveva avuto cura di non sottolineare il particolare, ma
l'idea era partita da lei. Non da Devine o da Chakely, bensì da Jezzie. Era
lei il cervello.
«E i bambini?» domandai. «Michael Goldberg e Maggie Rose Dunne?»
«Erano già stati rapiti, no? Non si poteva cancellare ciò che era già ac-
caduto. Tenemmo la fattoria sotto sorveglianza. Eravamo certi che non gli
sarebbe successo nulla di male. Dopotutto, lui era un professore di mate-
matica. Lo giudicavamo un dilettante e credevamo di avere la situazione in
pugno.»
«Li ha nascosti sottoterra, Jezzie. E Michael Goldberg è morto.»
Jezzie guardava il mare. «Sì», annuì con lentezza. «Il bambino è morto.
E questo ha cambiato tutto, Alex. Definitivamente. Non so se avremmo po-
tuto impedirlo. Comunque sia, fu allora che decidemmo di portare via
Maggie Rose. E di chiedere il riscatto. Tutto il piano doveva essere rivi-
sto.»
Continuammo a camminare sul bordo dell'acqua lucente. Se qualcuno ci
avesse visto, probabilmente ci avrebbe preso per due amanti impegnati a
discutere del loro rapporto. E per certi versi era davvero così.
Finalmente Jezzie mi guardò. «Per quanto riguarda noi due... non è stato
come pensi.»
Non avevo nulla da dirle. Ero sul punto di esplodere. La mia mente urla-
va. La lasciai continuare. Ormai non aveva più molta importanza.
«Quando cominciò, laggiù in Florida, avevo bisogno di sapere quello
che avevate scoperto. Mi serviva un'entratura nella polizia di Washington.
Di te, sapevo che eri un ottimo detective. E che amavi lavorare per conto
tuo.»
«E così mi hai usato per proteggerti i fianchi. Mi hai scelto per la conse-
gna del riscatto; non potevi fidarti del Bureau. Professionista sino in fondo,
Jezzie.»
«Sapevo che non avresti fatto nulla che mettesse in pericolo l'incolumità
della piccola. E che avresti consegnato il riscatto senza tentare trucchi. Le
complicazioni cominciarono al ritorno da Miami. Non so con esattezza
quando. Ti giuro che è questa la verità.»
Avevo la mente vuota mentre l'ascoltavo, ed ero madido di sudore, ma
non per via del sole cocente.
Jezzie aveva portato un'arma con sé? Professionista sino in fondo, ram-
mentai.
«Per quello che può valere, posso dirti che mi sono innamorata di te, A-
lex. Davvero. Per molti versi eri esattamente quello che avevo sempre cer-
cato. Onesto e pieno di calore umano. Affettuoso. Comprensivo. Damon e
Janelle mi avevano commosso. Quando ero con te, mi sentivo di nuovo
tutta intera.»
Ero stordito, e avvertivo una vaga nausea. Stava descrivendo quello che
anch'io avevo provato per quasi un anno, dopo la morte di Maria. «Per
quello che può valere, anch'io mi ero innamorato di te, Jezzie. Ho cercato
di resistere, ma è successo ugualmente. Mai avrei potuto immaginare che
qualcuno potesse mentirmi come hai fatto tu. Menzogne e inganni, in con-
tinuazione. Ancora quasi non riesco a crederci.» Poi aggiunsi: «E Devi-
ne?»
Lei si strinse nelle spalle. Fu la sua unica risposta su quel punto.
«Sei stata tu a commettere il delitto perfetto. Un vero capolavoro», con-
tinuai. «Il grande delitto cui Gary Soneji ha sempre ambito.»
Mi lanciò un'occhiata rapida ma intensa, quasi volesse leggermi dentro.
Mancava ancora una tessera al puzzle, un'ultima cosa che dovevo sapere.
«Che ne è stato della bambina? Che cos'hai fatto, o che cosa hanno fatto
Devine e Chakely di Maggie Rose?»
Lei stava scuotendo la testa. «No, Alex. Questo non posso dirtelo. Lo
sai.»
Teneva le braccia incrociate sul petto, in un atteggiamento pieno di fer-
mezza.
«Come hai potuto uccidere una bambina? Come hai potuto, Jezzie? Co-
me hai potuto uccidere Maggie Rose Dunne?»
Di colpo si ritrasse, mi voltò le spalle. Era troppo, anche per lei. Fece per
tornare indietro, ma la fermai afferrandole il gomito.
«Toglimi le mani di dosso!» urlò, il viso stravolto.
«Forse potresti trattare le informazioni su Maggie Rose», gridai a mia
volta. «Potremmo fare uno scambio, Jezzie.»
«Non ti permetteranno di riaprire il caso, Alex. Non farti illusioni. Non
hanno nulla contro di me. E neppure tu. Non sono disposta a fare nessun
baratto.»
«Oh, sì, invece», dissi, e la mia voce era calata fino a diventare un bisbi-
glio. «Sì, che ci starai... non potrai farne a meno.»
Indicai la scogliera e gli alberi di palma che si facevano più fitti man
mano che ci si allontanava dalla spiaggia.
Sampson emerse dal suo nascondiglio fra la vegetazione; agitava qual-
cosa che da lontano sembrava un bastoncino argenteo, e che in realtà era
un microfono ad alta sensibilità.
Comparvero poi due agenti dell'FBI che andarono a fermarsi a fianco di
John. Avevano le braccia e il viso rosso aragosta.
«Il mio amico Sampson. Ha registrato tutta la nostra conversazione.»
Jezzie chiuse gli occhi e restò così per qualche secondo. Non aveva pre-
visto che sarei arrivato a tanto. Non pensava che ne avrei avuto la forza.
«Ora ci dirai come hai ucciso Maggie Rose», le intimai.
Riaprì gli occhi, che sembravano più piccoli e vuoti. «Non ci arrivi. Pro-
prio non ci arrivi, vero?»
«A che cosa non arrivo, Jezzie? Dimmelo tu.»
«Ti ostini a cercare il buono nella gente. Ma non ce n'è! Il tuo caso finirà
in una bolla di sapone; farai la figura dell'idiota, un idiota fatto e finito. Se
la prenderanno con te, sarai tu a pagare.»
«Forse hai ragione», ammisi. «Ma almeno mi resterà il ricordo di questo
momento.»
Fece per colpirmi, ma la fermai, afferrandola per il braccio. Lo slancio la
mandò a terra. Il suo viso si scompose in un'espressione attonita.
«Ottimo inizio, Alex», sussurrò. «Stai diventando un bastardo anche tu.
Congratulazioni.»
«No. Io sono quello di sempre. Non c'è niente che non vada in me.»
Lasciai che fossero gli uomini dell'FBI e Sampson a dichiararla formal-
mente in arresto. Poi, senza voltarmi, me ne tornai in albergo. Nel giro di
un'ora avevo fatto i bagagli e ripartivo per Washington.

86

Due giorni dopo, Sampson e io eravamo di nuovo in viaggio. Diretti a


Uyuni, in Bolivia. Avevamo ragione di credere che lì avremmo trovato
Maggie Rose Dunne.
Jezzie aveva parlato e parlato. Jezzie aveva fornito tutte le informazioni.
Solo che si era rifiutata di parlare col Bureau. Aveva trattato con me.
Uyuni è un villaggio andino, trecento chilometri a sud di Oruro. Per ar-
rivarci bisogna raggiungere in aereo Rio Mulato, quindi proseguire a bordo
di una jeep o di un furgone.
Eravamo in otto sul Ford Explorer che doveva condurci a destinazione.
Con me e Sampson c'erano due agenti speciali del Tesoro, l'ambasciatore
americano in Bolivia, l'autista e Thomas e Katherine Rose Dunne.
In quelle ultime, estenuanti trentasei ore, sia Charles Chakely sia Jezzie
si erano mostrati più che disposti a dirci quello che sapevano su Maggie
Rose. Quanto a Mike Devine, il cadavere massacrato era stato rinvenuto
nel suo appartamento di Washington.
Da quel momento, la caccia a Gary Soneji/Murphy era stata ulteriormen-
te intensificata, ma senza esito. Di certo Gary seguiva in televisione la cro-
naca del nostro viaggio in Bolivia. Quella era la sua storia, dopotutto.
Sostanzialmente, le versioni di Jezzie e di Chakely coincidevano. Si era-
no trovati davanti all'opportunità di mettere le mani su dieci milioni di dol-
lari facendola franca, e naturalmente ciò aveva comportato la necessità di
tenere prigioniera la bambina. Avevano bisogno che la responsabilità del
sequestro ricadesse interamente su Soneji e, se fosse stata rilasciata, Mag-
gie Rose avrebbe potuto smascherarli. O, almeno, fu ciò che ci dissero.
Nessuno parlava durante quegli ultimi chilometri tra le montagne.
Io tenevo d'occhio i Dunne. Sedevano in silenzio, leggermente discosti.
Come Katherine mi aveva detto, la perdita di Maggie Rose aveva quasi di-
strutto il loro matrimonio. Ricordai quanto mi fossero piaciuti, al tempo
della nostra conoscenza. Katherine mi piaceva ancora e durante il viaggio
avevamo parlato un po'. Era stata la sola a ringraziarmi con autentica grati-
tudine: non lo avrei mai dimenticato.
Speravo che al termine di quella lunga e atroce prova avrebbero ritrovato
la figlioletta sana e salva: Maggie Rose, che io non avevo mai incontrato e
che forse avrei conosciuto di lì a poco. Pensai a tutte le preghiere che erano
state recitate per lei, ai cartelli che ondeggiavano davanti al tribunale di
Washington, alle candele accese sul davanzale di tante finestre.
Sampson mi diede di gomito mentre attraversavamo il Paese. «Guarda
quelle cime lassù, Alex. Non dirò che da sole valgono il viaggio, ma qua-
si.»
Il furgone stava risalendo un ripido pendio. Baracche di legno e lamiera
si allineavano ai lati della strada principale di Uyuni, poco più di un sentie-
ro scavato nella roccia. Da un paio di comignoli si levava una spirale di
fumo. In lontananza, il viottolo sembrava perdersi fra le Ande.
Maggie Rose ci aspettava più o meno a metà strada.
Stava di fronte a una delle baracche, in compagnia di svariati componen-
ti di una certa famiglia Patino, quella presso cui aveva vissuto per quasi
due anni.
Maggie Rose era vestita come l'orda di ragazzini che l'attorniava: cami-
cia larga, pantaloncini di cotone e sandali, ma i suoi capelli biondi spicca-
vano fra tante teste brune. Abbronzata e apparentemente in buona salute,
assomigliava moltissimo alla sua bella madre.
La famiglia Patino ignorava la sua identità. A Uyuni, nessuno aveva mai
sentito parlare di Maggie Rose Dunne. E neppure nella vicina Pulacayo, né
a Ubina, una città andina a millesettecento metri d'altezza. Erano stati il
governo e la polizia boliviani a spiegarcelo.
La famiglia Patino era stata pagata per ospitare la bambina, per tenerla al
sicuro e in modo che non fuggisse. A Maggie Rose, Mike Devine aveva
detto che non c'era nessun posto in cui potesse scappare. Se avesse tentato,
sarebbe stata ripresa e torturata. Rinchiusa sottoterra per molto, molto
tempo.
Io non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Una bambina di undici anni
la cui esistenza era divenuta importante per così tante persone. Ripensai al-
le foto e ai poster che la ritraevano, e non riuscivo a credere di averla fi-
nalmente lì, davanti a me. Dopo tutto quel tempo.
Maggie Rose non sorrideva, non mostrava la minima reazione mentre il
furgone risaliva il pendio.
Non sembrava felice che alla fine qualcuno fosse venuto a salvarla, a
portarla via.
Pareva confusa, ferita e piena di paura. Fece un passo avanti, poi indie-
treggiò e si girò a guardare la sua «famiglia».
Mi chiesi se avesse piena consapevolezza di ciò che stava accadendo.
Aveva subito un trauma molto grave e forse era incapace di provare qual-
cosa. Quanto a me, ero felice di trovarmi lì, pronto a dare una mano se fos-
se stato necessario.
Il mio pensiero tornò a Jezzie, e involontariamente scossi la testa. La
tempesta che imperversava nella mia anima non accennava a calmarsi.
Dove aveva trovato il coraggio d'infliggere una simile prova a una bambi-
na? Per un paio di milioni di dollari? Neppure tutto il denaro del mondo
sarebbe stato una giustificazione sufficiente.
Katherine Rose fu la prima a scendere. Nell'attimo stesso in cui la vide,
Maggie Rose spalancò le braccia. «Mamma!» Esitò ancora un istante, poi
si slanciò. Corsero l'una nelle braccia dell'altra.
Avevo gli occhi appannati e per un minuto o giù di lì non riuscii a vede-
re nulla. Quando mi voltai verso Sampson, scorsi una lacrima spuntare da
sotto il bordo degli occhiali scuri.
«Due detective duri come l'acciaio», disse lui, e sogghignò.
«Già», replicai. «I migliori di Washington.»
Maggie Rose si preparava a tornare a casa. Il suo nome risuonava inter-
minabilmente nella mia testa, come le parole di un sortilegio... Maggie Ro-
se, Maggie Rose. Valeva la pena di sopportare qualsiasi cosa, per un mo-
mento come quello.
«La fine», dichiarò Sampson.

PARTE SESTA
LA CASA DI CROSS

87

Eccola lì, la casa di Cross, sull'altro lato della strada, in tutta la sua glo-
ria dimessa.
Il Bambino Cattivo era affascinato dalle luci giallastre che ardevano al-
l'interno. I suoi occhi vagavano di finestra in finestra. In un paio di occa-
sioni, distinse la sagoma di una donna nera passare davanti a una di quelle
del piano terra. La nonna di Alex Cross, senza dubbio.
Ne conosceva il nome, Nana Mama. Sapeva che Alex l'aveva sopranno-
minata così da ragazzo. Nel corso di quelle ultime settimane, aveva scoper-
to tutto quello che c'era da scoprire sul conto della famiglia Cross. Aveva
un piano per loro. Una bella fantasia semplice e ben congegnata.
A volte, come in quel momento, al ragazzo piaceva avere paura. Paura
per sé; paura per la gente che abitava nella casa. Era una sensazione grade-
vole, a condizione di averne il pieno controllo.
Infine si costrinse a lasciare il suo nascondiglio, ad avvicinarsi ancora di
più alla casa dei Cross. Per essere la paura.
I suoi sensi erano molto più acuti quando aveva paura. Riusciva a man-
tenere la concentrazione per periodi di tempo più prolungati. Mentre attra-
versava la 5 Street, non c'era nulla nella sua mente se non la casa e i suoi
abitanti.
Il ragazzo scomparve nei cespugli che crescevano lungo la facciata della
casa. Adesso il cuore aveva preso a battergli forte e il suo respiro era af-
frettato.
Inspirò a fondo, poi espirò con lentezza. Attraverso l'intrico di rami i-
spezionava la strada del ghetto. Nella zona sud-est era sempre più buio che
altrove. Le lampadine fulminate dei lampioni non venivano mai sostituite.
Fu cauto. Si prese tutto il tempo necessario. Indugiò a esaminare la casa
per una decina di minuti almeno. Nessuno lo aveva visto. Quella volta non
c'era nessuno a spiarlo.
L'ultima stoccata, poi via, verso imprese sempre più grandi.
Pronunciò quelle parole a mezza voce. A volte, adesso, gli capitava di
non riuscire più a tracciare una linea di demarcazione netta fra le cose.
Tutto si confondeva e mescolava: i suoi pensieri, le sue parole, le sue azio-
ni, le mille storie che circolavano sul suo conto.
Aveva rivisto ogni dettaglio centinaia e centinaia di volte, ormai. Non
appena fosse stato certo che dormivano tutti, probabilmente verso le due,
le tre del mattino, avrebbe preso i due bambini, Damon e Janelle.
Li avrebbe narcotizzati, proprio lì, nella loro camera al secondo piano. E
nel frattempo il Dottor Detective Cross avrebbe continuato a dormire.
Doveva farlo. Il celebre dottor Cross doveva soffrire, e molto. Doveva
avere una parte nel nuovo capitolo della sua storia. Sì, era necessario.
Quella era l'unica conclusione degna. E in ultimo sarebbe stato lui a trion-
fare.
Non che Cross avesse bisogno di ulteriori sollecitazioni, ma il ragazzo
gliene avrebbe fornite comunque. Prima avrebbe ucciso la vecchia. Poi si
sarebbe occupato dei bambini.
E quel caso non sarebbe mai stato risolto. I piccoli Cross non sarebbero
stati mai ritrovati. Nessun riscatto sarebbe stato chiesto per il loro rilascio.
E dopo, lui avrebbe potuto dedicarsi ad altro.
Si sarebbe dimenticato del detective Cross. Ma Alex Cross non si sareb-
be mai dimenticato di lui. Né dei suoi bambini scomparsi.
Gary Soneji/Murphy mosse verso la casa.

88

«Alex, c'è qualcuno in casa. Alex, c'è qualcuno qui con noi», mi bisbi-
gliava Nana all'orecchio.
Ero già in piedi prima ancora che finisse di parlare. Tanti anni per le
strade di Washington mi hanno insegnato a muovermi in fretta.
Da qualche parte risuonò un tonfo attutito. Sì, c'era un intruso in casa.
Quello non era uno dei rumori consueti del vecchio impianto di riscalda-
mento.
«Tu resta qui. Non uscire finché non ti chiamo, d'accordo?» sussurrai.
«Ti avviserò io quando sarà il momento.»
«Telefono alla polizia.»
«No, tu resti qui. Sono io la polizia. Rimani qui.»
«I bambini, Alex.»
«Vado a prenderli. Tu resta qui. Per favore, fa' come ti dico, una volta
tanto. Per favore.»
Non c'era nessuno sul pianerottolo buio. Io, perlomeno, non vidi nessu-
no. Il cuore mi batteva all'impazzata mentre mi affrettavo verso la camera
dei bambini.
Ora la casa era troppo silenziosa. Innaturalmente silenziosa.
Qualcuno si era introdotto nella nostra casa.
Il pensiero di quella terribile violazione mi ossessionava, ma dovevo
sforzarmi di allontanarlo. Dovevo concentrarmi su di lui. Conoscevo l'i-
dentità dell'intruso. Per settimane, dopo il ritorno dalla Bolivia, ero stato
sul chi vive, ma via via che i giorni passavano avevo cominciato a rilas-
sarmi. E allora lui era arrivato.
Percorsi a passi rapidi il corridoio, aprii la porta che cigolò sui cardini.
Janelle e Damon dormivano ancora. Dovevo svegliarli e portarli di là, da
Nana. A causa loro, preferivo lasciare la pistola di sotto, nel tinello.
Feci per accendere la lampada sul comodino. Nulla!
Mi tornarono alla mente le modalità degli omicidi Sanders e Turner. So-
neji amava l'oscurità; il buio era il suo biglietto da visita, la sua firma. Era
sua abitudine, quando voleva uccidere, disattivare l'impianto elettrico. Sì,
la Belva era lì con noi.
D'un tratto qualcosa mi colpì, con la violenza di un camion lanciato a
tutta velocità.
Soneji, compresi. Mi era balzato addosso e con un colpo solo mi aveva
quasi atterrato.
La sua forza era sorprendente. Tutta la forza che aveva compresso per
una vita intera, fin da quando, ancora ragazzino, veniva chiuso nel semin-
terrato di casa sua. Per quasi trent'anni si era preparato: tramando contro il
mondo, tramando per conquistare la fama che credeva di meritare.
Voglio essere qualcuno!
Caricò di nuovo. Rotolammo a terra con fragore. Tutta l'aria mi uscì di
colpo dai polmoni.
Urtai la tempia contro uno spigolo del cassettone e istantaneamente la
vista mi si annebbiò, le mie orecchie cominciarono a ronzare. Davanti a
me turbinavano miriadi di stelle.
«Sei tu, Cross? Sei tu? Hai dimenticato chi è il protagonista, qui?»
Vedevo a malapena il volto di Soneji, mentre lui urlava il mio nome,
quasi volesse ferirmi con l'intensità delle sue urla, la forza della sua voce.
«Non puoi toccarmi!» ringhiò ancora. «Non puoi farmi nulla! Lo capi-
sci? Lo capisci, finalmente? Sono io la star. Non tu!»
Aveva le mani e le braccia lorde di sangue. C'era sangue dappertutto.
Chi lo aveva ferito? Che cosa aveva fatto in casa nostra?
Intravedevo forme vaghe nella fluttuante oscurità della stanza. Lui aveva
in mano un coltello, lo brandiva contro di me.
«Sono io la star! Io sono Soneji! Murphy! Chiunque voglio essere!»
Compresi che il sangue che lo imbrattava era il mio. Quel primo colpo
che mi aveva inferto era stato una pugnalata.
Ringhiando come un animale, alzò il coltello una seconda volta. I bam-
bini si erano svegliati. «Papà!» gridò Damon. Janelle piangeva.
«Scappate, presto!» urlai, ma erano troppo terrorizzati per reagire.
Riuscii a schivare un fendente, ma il secondo, violentissimo, mi colpì al-
la spalla.
Questa volta sentii dolore, un dolore insopportabile.
Gridai. Ora tutti e due i bambini stavano piangendo. E io volevo uccider-
lo. Avevo la mente in fiamme; provavo una rabbia cieca, irrefrenabile per
quel mostro che si era insinuato nella mia casa.
Di nuovo Soneji/Murphy alzò il coltello. La lama era lunga e così affila-
ta che non avevo neppure avvertito il primo colpo.
Risuonò improvviso un grido feroce. Per una frazione di secondo, Soneji
parve raggelarsi.
Poi una figura turbinò verso di lui. Nana Mama.
«Questa è la nostra casa!» gridava a pieni polmoni. «Fuori di qui!»
Un bagliore attirò il mio sguardo. Allungai la mano a prendere le forbici
posate sull'album di figurine di Janelle. Le forbici che Nana usava in giar-
dino.
Il coltello di Soneji/Murphy calò di nuovo. Era lo stesso che aveva usato
nel ghetto e per uccidere Vivian Kim?
Mi avventai contro di lui impugnando le forbici e sentii un rumore di
carne che si lacerava. Lo avevo preso alla guancia. Il suo grido echeggiò
nella stanza. «Bastardo!»
«Un ricordino», lo provocai. «Chi è che sta sanguinando ora? Soneji o
Murphy?»
Sbraitò qualcosa d'incomprensibile. Poi si slanciò.
Questa volta lo colpii al collo. Si ritrasse con un balzo.
«Forza, bastardo!» urlai.
D'un tratto lo vidi indietreggiare verso la porta. Non fece alcun tentativo
di colpire Nana Mama, la figura materna. O forse soffriva troppo per pen-
sarci.
Si teneva la faccia con entrambe le mani e la sua voce era un urlo acuto
e penetrante mentre correva fuori. Possibile che fosse precipitato in uno
dei suoi presunti stati di fuga? Che si fosse improvvisamente perduto in
una delle sue fantasie?
Ero caduto su un ginocchio e avrei voluto non alzarmi più. Un fragore
sordo mi riempiva la testa. A fatica mi rimisi in piedi. Ero coperto di san-
gue, sulla camicia, sugli slip, sulle gambe nude. Il mio sangue e il suo.
L'adrenalina mi scorreva nelle vene. Afferrai qualcosa da mettermi ad-
dosso e corsi dietro a Soneji. Questa volta non sarebbe riuscito a fuggire.
Non gliel'avrei permesso.

89

In tinello recuperai la pistola. Ero certo che si fosse preparato una via di
fuga, nell'eventualità che le cose volgessero al peggio. E di sicuro aveva
rivisto il suo piano passo dopo passo centinaia di volte. Viveva nelle sue
fantasie, non nella realtà.
Non credevo che sarebbe rimasto in casa. Voleva essere libero, per con-
tinuare la sua guerra. Stavo forse cominciando a pensare come lui? Proba-
bilmente sì, ed era una scoperta inquietante.
La porta d'ingresso era spalancata; sul tappeto, una scia di sangue. Ave-
va voluto lasciarmi una pista da seguire?
Dove aveva progettato di rifugiarsi, se il suo piano fosse fallito? Qual
era la mossa imprevedibile che doveva garantirgli la salvezza? Non era fa-
cile pensare con chiarezza, mentre il sangue mi gocciolava dalle ferite al
fianco e alla spalla.
Corsi fuori, nel gelo delle ore che precedono l'alba. Erano le quattro del
mattino e la nostra via non era mai stata tanto silenziosa.
Chissà se aveva previsto che lo avrei seguito. Mi stava già aspettando?
Ancora una volta era riuscito ad anticipare le mie mosse, a battermi sul
tempo? Era sempre stato così, ma sentivo che era arrivato il momento di
ribaltare la situazione.
La metropolitana distava un isolato da casa nostra, sulla 5 Street. La gal-
leria era ancora in costruzione, ma certi ragazzetti del quartiere avevano
preso l'abitudine di percorrere sottoterra i quattro isolati fino alla stazione
del Campidoglio.
Metà correndo, metà arrancando, raggiunsi l'entrata. Le ferite mi dole-
vano, ma non me ne curavo. Era entrato in casa mia. Aveva cercato di ag-
gredire i miei figli.
Con la pistola in pugno, scesi nel tunnel. A ogni passo una fitta mi tra-
passava il fianco. Procedevo a fatica, tenendomi curvo.
Forse mi stava osservando. Forse mi ero cacciato in una trappola. Lag-
giù i nascondigli non mancavano di certo.
Arrivai sino in fondo senza scorgere neppure una goccia di sangue. So-
neji/Murphy non era lì. Ancora una volta era riuscito a dileguarsi.
Ora che la tensione mi stava abbandonando, cominciavo a sentirmi de-
bole e disorientato. Salii i gradini di pietra che portavano in superficie.
I nottambuli entravano e uscivano dall'edicola e dal ristorante Fox, aper-
to tutta la notte. Dovevo essere uno spettacolo davvero pietoso, e tuttavia
nessuno mi fermò. Nella capitale del nostro Paese di scene da incubo se ne
vedono anche troppe.
In ultimo mi bloccai davanti all'autista di un furgone che stava scarican-
do un pacco di copie del Washington Post. Gli dissi che ero un agente di
polizia. L'emorragia mi rendeva leggermente euforico.
«Non ho fatto nulla di male», reagì subito lui.
«Non sei stato tu a spararmi, stronzo?»
«Nossignore. Che cos'è, matto? È davvero un poliziotto?»
Lo costrinsi ad accompagnarmi a casa col suo furgone, e per tutto il tra-
gitto lui non fece che imprecare, minacciando di denunciare il comune.
«Se la prenda col sindaco Monroe», replicai io. «È lui il bastardo.»
«È davvero un poliziotto?» insiste. «Non si direbbe.»
«Sì, sono un poliziotto.»
Davanti a casa mia, vidi parcheggiate autopattuglie e ambulanze. Era il
mio peggior incubo tradotto in realtà. Fino a quel momento, avevo sempre
fatto in modo che il lavoro non contaminasse assolutamente il luogo in cui
vivevo.
C'era anche Sampson, con un giubbotto di pelle nera infilato su una lo-
gora felpa dei Baltimore Orioles. Portava un berretto dell'agenzia di viag-
gio Hoodoo Gurus.
Mi guardava come se fossi ammattito. Alle sue spalle roteavano le luci
blu e rosse delle ambulanze. «Che è successo? Non sembri in gran forma.
Stai bene, amico?»
«Sono stato pugnalato due volte con un coltello da caccia. Niente di pa-
ragonabile alla sparatoria a Garfield.»
«Uh uh. Forse non è poi brutta come sembra. Meglio che ti sdrai sul pra-
to. Subito, Alex.»
Annuii mentre mi allontanavo. Toccava a me concludere quella faccen-
da. In un modo o nell'altro, bisognava metterci un punto fermo.
Gli infermieri cercarono di convincermi a sdraiarmi sul prato. Il nostro
minuscolo praticello. O forse a adagiarmi sulla lettiga.
Mi balenò nella mente un'idea nuova. La porta d'ingresso era aperta.
Soneji l'aveva lasciata così intenzionalmente? E se così era, per quale mo-
tivo?
«Restate qui», dissi agli infermieri. «Ma tenetevi pronti con quella letti-
ga.»
Sentii delle grida alle mie spalle, ma proseguii senza badarci.
In silenzio, attraversai il soggiorno e passai in cucina. Spalancai la porta
che si apre in diagonale rispetto a quella di servizio e mi affrettai di sotto.
Non vidi nulla nello scantinato. Nessun movimento. Tutto era come
sempre. E a quel punto ero rimasto a corto di buone idee.
Mi spinsi fino a un bidone, collocato vicino al vecchio forno, che Nana
usa come cesta della biancheria. È l'angolo più lontano dalle scale, ma So-
neji/Murphy non era neppure lì.
Arrivò correndo Sampson. «Non è qui! Qualcuno lo ha visto in centro.
Dalle parti di Dupont Circle.»
«Ha in mente un'altra grande rappresentazione», biascicai. «Figlio di
puttana.» Il Figlio di Lindbergh.
Sampson non cercò di dissuadermi dall'accompagnarlo. Sapeva che lo
avrei fatto comunque, glielo dicevano i miei occhi. Ci affrettammo verso
la sua auto. Sto bene, cercavo di convincermi. In caso contrario sarei già
crollato.
Un giovane punk del quartiere guardò il sangue vischioso che m'impre-
gnava la camicia. «Stai tirando le cuoia, Cross? Sarebbe una gran cosa.»
Quello doveva essere il mio elogio funebre.
Impiegammo dieci minuti circa per arrivare a Dupont Circle. C'erano au-
topattuglie parcheggiate un po' dappertutto. Le luci rosse e blu dardeggia-
vano bizzarramente nella luce fredda dell'alba.
Per buona parte degli agenti, il turno di notte era quasi finito, ma nessu-
no voleva un folle in libertà nel centro di Washington.
Un'altra grande rappresentazione.
Voglio essere qualcuno.
Nell'ora successiva non accadde nulla, a parte il fatto che fece giorno.
Comparvero i primi pedoni e all'approssimarsi dell'ora di apertura degli uf-
fici il traffico divenne più intenso.
Qualche curioso si fermò a indagare, ma nessuno di noi era disposto a
dire alcunché, se non: «Circolare, circolare, per favore. Non c'è nulla da
vedere». Grazie a Dio.
Fu un medico del pronto soccorso a medicarmi le ferite. Avevo perso
molto sangue, ma non erano gravi. Naturalmente, voleva che mi facessi ri-
coverare all'istante, ma io non ne volli sentir parlare. Un'altra grande rap-
presentazione. A Dupont Circle, nel centro di Washington? Gary Sone-
ji/Murphy amava esibirsi nella capitale.
Dissi al medico di tirarsi da parte, e lui obbedì. Prima però mi feci dare
un paio di Percodan, e per un po' funzionarono.
Sampson mi stava a fianco, succhiando una sigaretta. «Non ce la farai»,
profetizzò. «Piomberai a terra come uno straccio. Come un grande elefante
africano colpito da un attacco cardiaco.»
Io mi stavo godendo la sensazione di stordimento indotta dal Percodan.
«Nessun attacco cardiaco», dissi mentre mi avviavo verso la sua auto. «Il
grande elefante africano si è beccato un paio di coltellate. E comunque non
era un elefante, ma un'antilope africana. Un bell'animale, forte e aggrazia-
to.»
«Hai qualche idea?» mi gridò dietro. «Alex?»
«Sì. Muoviamoci, però. Non serve a nulla starsene piantati qui in Du-
pont Circle. Non ha nessuna intenzione di dare il via a una sparatoria nel-
l'ora di punta, lui.»
«Ne sei sicuro?»
«Ne sono sicuro.»
Vagammo per il centro fin quasi alle otto. Quella sorveglianza stava di-
ventando una gran perdita di tempo e io rischiavo di addormentarmi da un
momento all'altro.
La grande antilope africana era sul punto di cedere. Il sudore m'imperla-
va la fronte, scorreva lungo il naso. Ancora una volta mi sforzai d'immede-
simarmi in Gary Soneji/Murphy. Era lì intorno? O aveva già lasciato la cit-
tà?
Alle sette e cinquantotto arrivò una segnalazione via radio. «La persona
sospetta è stata individuata in Pennsylvania Avenue, nei pressi di Lafayette
Park. E in possesso di un'arma automatica. Si sta dirigendo verso la Casa
Bianca. Tutte le auto convergano sul posto!»
Voglio essere qualcuno.

Lo avevano inchiodato tra una calzoleria e un edificio in arenaria che


ospitava quasi esclusivamente studi legali. Gli faceva da schermo una jeep
Cherokee.
E c'era un'altra complicazione: aveva preso degli ostaggi. Due ragazzini
usciti presto per andare a scuola. Non dovevano avere più di undici, dodici
anni; l'età che aveva avuto Gary quando la matrigna aveva cominciato a
chiuderlo in cantina. Erano un ragazzo e una ragazza, pallide ombre di
Maggie Rose e Michael Goldberg.
«Sono il capodivisione Cross», dissi per poter oltrepassare le transenne
che già sbarravano Pennsylvania Avenue.
In fondo, era chiaramente visibile la Casa Bianca. Mi chiesi se il presi-
dente ci stesse seguendo in televisione. Un furgone della CNN era già sul
posto.
Sopra di noi ronzavano due elicotteri della televisione. Dato che lo spa-
zio sopra la Casa Bianca è off limits, non potevano avvicinarsi più di tanto.
Qualcuno annunciò l'arrivo del sindaco Monroe. Ma Gary aveva obiettivi
più ambiziosi: aveva chiesto del presidente. Se non fosse stato accontenta-
to, avrebbe ucciso i due bambini.
Per quanto potevo vedere, Pennsylvania Avenue e le vie che la incrocia-
vano erano già ingorgate. Parecchi automobilisti avevano abbandonato i
loro mezzi per proseguire a piedi, ma molti si erano attardati per assistere
allo spettacolo. Di certo, milioni di telespettatori ci stavano osservando
dalle loro case.
Al capo della squadra SWAT spiegai che a mio avviso Gary Sone-
ji/Murphy era pronto a esplodere e lui rispose che avrebbe volentieri mes-
so a disposizione il fiammifero per dar fuoco alla miccia.
Le trattative erano già in corso, ma il capo della SWAT era più che lieto
di lasciare a me l'onore. C'eravamo arrivati, dunque: stavo per negoziare
con Soneji/Murphy.
«Questa è la nostra possibilità di beccarlo», disse Sampson scandendo
con cura le parole. «Niente trucchetti, Alex.»
«Dillo a lui. Comunque, se ne hai l'opportunità fallo fuori. Liquidalo
senza pensarci un secondo, John.»
Mi detersi il viso con la manica. Grondavo sudore e avevo la nausea. Mi
avevano dato un megafono ad alta potenza. Lo accesi.
Avevo il potere, ora. E anch'io volevo essere qualcuno. Era davvero co-
sì? Era a questo che si riduceva tutto?
«Sono Alex Cross», gridai, e qualche idiota tra la folla lanciò un ululato
d'approvazione. Ma, per il resto, il centro di Washington era relativamente
tranquillo.
Esplose improvvisa una raffica di proiettili. Parecchi finestrini delle auto
parcheggiate lungo la via saltarono in aria. Nel giro di una manciata di se-
condi Soneji aveva fatto un bel po' di danni, ma per quanto potevo vedere
non c'erano feriti. A te la palla, Gary.
Poi si udì una voce. La sua voce.
Mi stava gridando qualcosa. Eravamo lui e io soltanto, ancora una volta.
Era questo che voleva? Il suo Momento di Gloria nel bel mezzo della città?
Una copertura televisiva in diretta e su scala nazionale?
«Fatti vedere, Cross. Vieni fuori, Alex. Mostra a tutti la tua bella fac-
cia.»
«Perché dovrei?»
«Non stare tanto a discutere», sussurrò Sampson alle mie spalle. «Obbe-
disci, o sarò io a spararti.»
Un'altra salva di proiettili, questa volta più prolungata. Washington stava
cominciando ad assomigliare a Beirut. L'aria era piena del ronzio delle te-
lecamere.
Di colpo mi alzai e mi allontanai dalla berlina della polizia. Non troppo,
quanto bastava per farmi ammazzare. Altri idioti mi incitarono.
«Ci sono tutte le stazioni televisive, Gary», urlai nel megafono. «Stanno
riprendendo la scena. Stanno riprendendo me. Così alla fin fine sarò io la
star dello spettacolo. Sono partito piano, ma guarda che razza di finale.»
Soneji/Murphy scoppiò a ridere. Una risata che durò a lungo. Era in pie-
no delirio? O stava scivolando nella depressione?
«Pensi di avermi inquadrato, allora?» sbraitò. «Ne sei convinto? Sai chi
sono? Che cosa voglio?»
«Ne dubito. So che sei ferito. So che credi di stare morendo. Perché al-
trimenti...» - feci una pausa a effetto -, «altrimenti non ci avresti permesso
di beccarti di nuovo.»
Dall'altra parte di Pennsylvania Avenue, Soneji/Murphy emerse da die-
tro la jeep rosso fuoco. I bambini erano sdraiati sul marciapiede alle sue
spalle. Apparentemente illesi.
Gary mi rivolse un inchino teatrale. Era di nuovo il bravo ragazzo ame-
ricano, proprio come in tribunale.
«Bella mossa», si complimentò. «Ben detto. Ma la star sono io.»
Uno sparo echeggiò dietro di me.
Gary fu scaraventato all'indietro, in direzione della calzoleria.
Atterrò sul marciapiede e rotolò per qualche metro. Urlando, i due bam-
bini balzarono in piedi e corsero via.
Mi slanciai al di là della strada. «Non sparate!» gridavo.
Mi girai e vidi Sampson, la pistola d'ordinanza ancora puntata contro
Gary Murphy. Tenendomi gli occhi fissi addosso, la sollevò verso l'alto.
Gary era un mucchietto inerte sul marciapiede. Dalla bocca e dalla testa
sgorgava un fiotto costante di sangue. Stringeva ancora la pistola automa-
tica.
Mi chinai a togliergliela di mano. Le telecamere ronzavano e ronzavano.
Gli sfiorai la spalla. «Gary?»
Con gesti attenti lo rovesciai supino. Ancora nessun movimento, nessun
segno di vita. Eccolo di nuovo, il bravo ragazzo americano. A quell'ultima
festa era venuto Gary Murphy.
D'un tratto i suoi occhi si spalancarono, si rovesciarono all'indietro. Poi
si fermarono su di me. Lo vidi socchiudere le labbra.
«Mi aiuti», bisbigliò con voce soffocata. «Mi aiuti, dottor Cross. La pre-
go, mi aiuti.»
M'inginocchiai al suo fianco. «Chi sei?»
«Gary... Gary Murphy», sussurrò.
Scacco matto.

EPILOGO
GIUSTIZIA DI FRONTIERA
(1994)

La notte prima del giorno fatidico, non riuscii a dormire, neppure un


paio d'ore. E neppure riuscii a mettermi al piano, sulla veranda. Avevo
paura che qualcuno mi avvicinasse per parlare di quello che sarebbe acca-
duto di lì a poco. Alle due del mattino salii a baciare Damon e Janelle, poi
uscii.
Erano le tre quando arrivai alla prigione federale di Lorton. Erano tornati
i dimostranti, ed esibivano i loro cartelli fatti in casa sotto un cielo rischia-
rato dalla luna. Qualcuno cantava canzoni di protesta degli anni '60. C'era-
no suore e ministri di tutti i culti. Buona parte dei manifestanti, notai, era-
no donne.
La cella delle esecuzioni di Lorton era una stanzetta piccola, banale, con
tre finestre. Una era riservata alla stampa, una agli osservatori ufficiali e la
terza ad amici e parenti del giustiziato.
Tutte e tre erano protette da tende blu scuro, che alle tre e mezzo un fun-
zionario del carcere provvide a scostare. Si vide allora la detenuta, sdraiata
su una lettiga da ospedale, il braccio sinistro allungato su un supporto im-
provvisato.
Jezzie teneva gli occhi fissi al soffitto, ma si fece attenta e parve irrigi-
dirsi quando i due tecnici le si avvicinarono. Uno portava la siringa in una
vaschetta d'acciaio inossidabile. L'introduzione del catetere era l'unico ri-
svolto doloroso dell'esecuzione per iniezione letale, a patto che la procedu-
ra venisse espletata nel modo corretto.
In quei mesi mi ero recato spesso a Lorton per parlare con Jezzie e Gary
Murphy. Avevo ottenuto un lungo congedo dal servizio, e, sebbene fossi
impegnato nella stesura di questo libro, di tempo per le visite me ne resta-
va a iosa.
A quanto dicevano i rapporti, Gary stava andando a pezzi. Passava gran
parte del tempo perso nel suo mondo di fantasia e riportarlo alla realtà di-
ventava sempre più difficile.
O almeno così sembrava. Di certo, il suo stato gli aveva evitato un altro
processo, e il rischio di una condanna a morte. Da parte mia, ero certo che
stesse recitando, ma non c'era nessuno disposto a darmi retta. Io però sape-
vo che stava semplicemente tramando un altro dei suoi piani.
Jezzie aveva accettato di parlare con me. Non avevamo mai avuto diffi-
coltà a parlare, noi due. La condanna a morte comminata a lei e a Charles
Chakely non l'aveva colta di sorpresa. Dopotutto, lei e gli agenti dei servizi
segreti avevano rapito Maggie Rose Dunne. Erano responsabili della morte
di Michael Goldberg, il figlio del ministro del Tesoro, e di Vivian Kim.
Per giunta, Jezzie e Devine avevano assassinato il pilota della Florida, Jo-
seph Denyeau.
Mi rivelò che i rimorsi l'avevano tormentata fin dall'inizio. «Ma non al
punto di fare marcia indietro. Lungo la strada, qualcosa dev'essersi rotto
dentro di me. Credo che oggi lo rifarei. Per dieci milioni di dollari, accette-
rei di correre di nuovo gli stessi rischi. E così un sacco di altra gente, Alex.
Questa è l'era dell'avidità. Ma non per te.»
«Come fai a saperlo?» le chiesi.
«Lo so e basta. Tu sei il Cavaliere Nero.»
Disse che avrei dovuto sforzarmi di non prendermela troppo, una volta
che tutto fosse finito. Disse che i dimostranti la irritavano. «Se fossero stati
i loro figli a morire, si comporterebbero in modo molto diverso.»
Ma io stavo male. A dispetto delle esortazioni di Jezzie, stavo male. E
non sarei andato a Lorton quella mattina, se non fosse stata lei a chieder-
melo.
Non c'era nessun altro ad assistere alla morte di Jezzie. Sua madre era
morta poco dopo l'arresto e sei settimane prima Charles Chakely era stato
giustiziato alla presenza dei suoi familiari. Quel giorno il destino di Jezzie
era stato deciso in modo irrevocabile.
Lunghi tubi di plastica collegavano il suo braccio ad alcune flebo. La
prima, già in funzione, era un'innocua soluzione salina.
A un segnale dell'agente incaricato, vi sarebbe stato aggiunto del tiopen-
tal sodico, un barbiturico non troppo forte, e quindi il pancuronio. Nor-
malmente, quel farmaco provoca la morte in una decina di minuti, ma per
accelerare il processo si provvede a somministrare al condannato una dose
eguale di cloruro di potassio, una sostanza che rallenta il battito cardiaco.
Jezzie non avrebbe impiegato più di dieci secondi a morire.
Quando mi vide nella finestra riservata agli «amici», agitò debolmente le
dita e cercò perfino di sorridermi. Si era pettinata con cura e i suoi capelli,
ora tagliati molto corti, erano ancora bellissimi. Pensai a Maria, e al fatto
che lei e io non avevamo avuto la possibilità di dirci addio. Tutto quello
che desideravo era andarmene di lì, ma rimasi. Lo avevo promesso a Jez-
zie, e io mantengo sempre le promesse.
In realtà, non accadde nulla di particolarmente sensazionale. Jezzie chiu-
se gli occhi, ma non avrei saputo dire se le erano già stati somministrati i
farmaci letali.
Tirò un profondo sospiro, poi vidi la lingua sparire all'interno della boc-
ca. È così che nell'era moderna si giustizia un essere umano. E così morì
Jezzie Flanagan.
Mi affrettai a lasciare il carcere. Ero uno psicologo e un poliziotto, mi
ripetevo mentre andavo verso la macchina. Potevo sopportare anche quel-
lo. Potevo sopportare qualsiasi cosa. Ero più duro di chiunque altro. Lo ero
sempre stato.
Avevo le mani affondate nelle tasche del cappotto. Nella destra, stretta al
punto di dolermi, tenevo il pettinino d'argento che mi aveva dato Jezzie,
tanto tempo prima.
C'era una busta bianca infilata sotto il tergicristallo dalla parte del pas-
seggero. La misi in tasca, e non mi preoccupai di aprirla finché non fui sul-
la strada per Washington. Pensavo di sapere che cosa contenesse, e non mi
sbagliavo. La Belva mi aveva mandato un messaggio. Riservato personale.

Alex,
ha singhiozzato, ha uggiolato, ha implorato pietà prima che la pungesse-
ro?
Ricordami alla tua famiglia. Ci tengo a essere ricordato.
Per sempre,
Il FIGLIO DI L.

Era ancora impegnato nei suoi atroci giochetti mentali. E sempre lo sa-
rebbe stato. Io avevo cercato di spiegarlo a chiunque si mostrasse disposto
ad ascoltarmi. Avevo tracciato un profilo psichiatrico di Soneji per le rivi-
ste specializzate. Ero persuaso che avrebbe dovuto venire processato per
gli omicidi commessi nella zona sud-est. Anche le famiglie delle sue vitti-
me di colore avevano diritto alla giustizia e alla vendetta. Se mai qualcuno
aveva meritato la pena di morte, quello era certamente Gary Soneji/
Murphy.
Il messaggio stava a indicare che aveva trovato il modo di raggirare uno
degli agenti di custodia. Che aveva tirato dalla sua parte qualcuno di Lor-
ton. Aveva un altro piano. Anche quello a dieci o vent'anni?
Mentre guidavo verso Washington, mi chiesi chi dei due fosse stato il
manipolatore più abile. Gary o Jezzie? Una cosa la sapevo per certa: erano
entrambi psicopatici. Questo Paese ne sforna più di qualunque altro del
pianeta. Di ogni forma e dimensione; di ogni razza, fede e sesso. È questa
la cosa che fa più paura.
Una volta a casa, suonai Rapsodia in blu sulla veranda. Suonai Let's
Give Them Something to Talk About di Bonnie Raitt. Damon e Janelle u-
scirono ad ascoltare il loro pianista preferito. Dopo Ray Charles, natural-
mente. Si sedettero sullo sgabello vicino a me. Per molto tempo ci bastò
restare così, ad ascoltare la musica, stretti l'uno all'altro.
Più tardi, andai a St. Anthony per il pranzo eccetera eccetera. L'uomo
del burro è vivo.

RINGRAZIAMENTI

Vorrei ringraziare Peter Barn per l'aiuto fornitomi per conoscere le vite
private, i segreti e i tabù che ancora esistono in tutta l'America. Anne
Pough-Campbell, Michael Ouweleen, Holly Tippett e Irene Markocki mi
hanno fatto capire meglio la psicologia di Alex e la sua esistenza nella zo-
na sud-est di Washington. Liz Delle e Barbara Groszewski hanno salva-
guardato la mia onestà, Maria Pugatch (la mia Lowenstein) e Mark e Mar-
yEllen Patterson mi hanno riportato alla memoria la mezza dozzina di anni
in cui ho lavorato come psichiatra al McLean Hospital. Carole e Brigid
Dwyer e Midgie Ford mi hanno dato un aiuto formidabile per Maggie Ro-
se. Richard e Artie Pine hanno grondato lacrime e sangue per questo mio
lavoro. E infine Fredrica Friedman è stata mia complice dall'inizio alla fi-
ne.

FINE

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