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Paolo Grugni

LET IT BE

Colorado Noir
Questo libro è un'opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell'autore e
hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e
persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

ISBN 88-04-53716-7
© 2004 PAOLO GRUGNI
PUBBLICATO DA ARNOLDO MONDADORI EDITORE
TRAMITE NABU INTERNATIONAL LITERARY AGENCY
© 2004 ARNOLDO MONDADORI EDITORE S.P.A., MILANO
SU LICENZA ESCLUSIVA COLORADO NOIR
I EDIZIONE OTTOBRE 2004
LET IT BE

I limiti del mio linguaggio costituiscono


i limiti del mio mondo.
LUDWIG WITTGENSTEIN

Il libro è un mondo.
ROLAND BARTHES

Words are flowing out like endless rain into a paper cup,
They slither while they pass, they slip away across the universe.
JOHN LENNON
Prologo

Volate, giugno 2002

Dal centro di Volate sono circa cinque minuti. Prima un breve tratto lungo la provinciale
39, fino all'incrocio che a nord porta verso l'Iperfour, il nuovo centro commerciale tutto
luci e sorrisi incollati, a sud al lago di Borgobello dove a settembre si svolge il torneo di
pesca no-kill, a est a Trequerce e le sue cascate da foto ricordo con famiglia felice, a ovest a
Musco ma da lì, grazie a una deviazione seminascosta duecento metri più avanti, dritto
nei boschi fino alla villa color giallo.
Di solito preferivo però farmela a piedi per il giro opposto, prendevo la scorciatoia che
dalla piazza principale del paese sale al monumento in memoria dei caduti della Seconda
guerra mondiale, oltrepassa su un ponte di legno una gola profonda circa trenta metri nei
pressi della statale e arriva davanti a casa mia, la villa color giallo. In tutto un quarto d'ora
se il passo era indifferente a ciò che incontrava.
Nessuno viveva lì da parecchio tempo e quando decisi di affittarla, Alessandro Gatti, il
titolare della Purple immobiliare, mi disse «È un po' isolata, ma altre così belle non ce ne
sono».
Forse sarebbe stato meglio qualcosa di più moderno, la struttura non appariva nelle
migliori condizioni, in alcuni punti le pareti erano bolle gonfie di umido, il giardino
incolto era una rivolta di sterpi, generazioni di roditori ci trascorrevano i loro anni
migliori.
Ne ero però già innamorato, soprattutto di quelle persiane inclinate come pazienti
postencefalitici che tanto ricordavano i film horror ossessivamente visti da ragazzo.
Da poco più di un anno vivevo in quella villa, la sentivo parte di me, e la vendita dei
prodotti biologici della Bionat, la società in cui avevo investito il modesto capitale a mia
disposizione, andava meglio del previsto. Nella vicina Cantù, meno di dieci minuti di
strada con poche curve (ma con un punto dove la cattiva mescola dell'asfalto provoca
incidenti in caso di pioggia), gradivano ogni tipo di verdura coltivata senza sostanze
chimiche e così avevo messo in piedi un piccolo business con due agricoltori della zona.
Gavazzi e Berti mi fornivano la materia prima, l'Associazione italiana cibi biologici la
certificava, Patricia la cucinava nella sua cascina in fondo al paese, Lucy la invasettava
mentre io la spedivo ogni settimana tramite la ASAP Delivery, corriere che impiegava
dipendenti dai modi fastidiosi. In particolare non sopportavo "Big" Benito, il nipote del
titolare che caricava i pacchi come ti stesse facendo un favore, ma era l'unica ditta che
prestasse regolare servizio su Volate.
Gli ordini, tra i dieci e i quindici al giorno, li ricevevo via internet al sito www.bionat.it
per una somma intorno ai trecento euro che, detratte le spese per l'acquisto della merce, le
certificazioni, i contenitori di vetro, l'arte culinaria di Patricia, la paghetta di Lucy, l'ASAP,
il costo dei volantini e della loro distribuzione tra Como, Cantù e Lecco da parte di
Corrado e Giovanna, la parcella del commercialista consigliatomi dalla Purple, mi davano
di che vivere in maniera dignitosa ma senza follie.
L'unica preoccupazione era non comprare più verdura di quella che riuscissi a smaltire,
se un vasetto di peperoni o melanzane mi rimaneva in casa più di tre mesi ero obbligato a
consumarlo o a offrirlo a Winston, il mio labrador color miele già sovrappeso.
Era quello che volevo, niente più segni da interpretare, nessuno da sospettare, niente di
cui aver paura, ma solo l'acquietante sensazione di fare qualcosa che non implicasse del
male.
No, non era quello che volevo, era la cosa migliore da fare dopo che ero stato costretto a
cambiare casa, città, lavoro, donna, amici, idee, dopo che ero stato costretto a cambiare
vita.
Ma non avevo rinunciato ai Beatles.
Parte prima

Milano, maggio 2001

LA PARTENZA
1

Me ne andai con molte cose in meno, senza Matteo, rinchiuso in una cella di massima
sicurezza, senza la speranza in un mondo dove vivere al riparo da pazzi e maniaci, privo
di ogni forza psichica e fisica e alleggerito di parecchi vinili e CD.
Dal punk alla new wave e fino al brit pop, ho dato puntuale il mio sostegno ai negozi di
dischi indie della città, in particolare a Metropolis, quello di CD usati in via Procaccini che
stava, una volta sceso in strada, centocinquanta metri sulla destra senza cambiare
marciapiede.
Ci andavo quasi tutti i pomeriggi per parlare con Giorgio, il proprietario del negozio dal
passato inquieto, da ragazzino aveva rapinato un supermarket con una pistola giocattolo,
sei mesi di riformatorio e la cosa era finita lì, ma se lo fermavano a un posto di blocco lo
trattenevano almeno un'ora nonostante fossero trascorsi dodici anni.
Discutevamo di tutto, politica, donne, calcio, tifavamo Inter nonostante gli anni bui e
l'etichetta di perdenti, ma soprattutto parlavamo di musica e non so come, alla fine della
settimana, mi ritrovavo con un paio di CD in più che non avevo mai tempo di ascoltare.
Così, il giorno prima della partenza per Volate, gliene rivendetti una buona parte, di
sicuro non guadagnandoci. Ne contai più di quattrocento, tra questi anche alcuni promo
degli U2 che aveva corteggiato per anni, ma non gli lasciai ciò che più desiderava:
duecentodiciotto vinili dei Beatles tutti in perfette condizioni dentro buste di plastica
trasparente e provenienti da ogni parte del mondo, il pezzo più raro un 45 giri di Penny
Lane dei Los Beatles stampato in Perù nel 1967.
Avessi venduto in blocco la collezione a Giorgio avrei ricavato minimo diecimila euro
senza trattare sul prezzo. Mio padre si era comprato tutte le prime edizioni di 45 e 33 giri e
nonostante i trentun anni era stato tra i primi a iscriversi al Beatles fan-club di Liverpool,
tessera 741, ricevendo edizioni limitate, numerate e promo.
Giorgio cercò di convincermi a cedergliela offrendo centocinquanta euro per l'EP di All
My Loving del febbraio '64 e duecentosettanta per il promo del 45 di Twist and Shout, un
affare, ma un pessimo accordo con la mia coscienza e così gli dissi «Non posso farlo».
Giorgio ci rimase male, alcuni pezzi li avrebbe tenuti per sé, ma capì.
I Beatles, insieme alle troppe dorme per cui ho perso la testa, sono il grande amore della
mia vita, l'amore che non potevo tradire senza sentirmi di merda. Se avessi venduto quei
dischi sarebbe stato come andare a letto con un'altra mentre stavo con Valeria, lo dico
perché l'ho fatto, ingannando la donna che già una settimana dopo averla conosciuta
credevo quella giusta per tutte le vite possibili, ma poi non andò così. Io e Valeria ci
lasciammo, i Fab Four rimasero.
E dire che quando avevo sedici anni pensavo solo a pogare ai concerti punk, convinto
che Beatles e Rolling Stones fossero ormai superati dalla nuova musica operaia.
Non rinnego il passato, i Clash sono ancora una delle mie band preferite: se ascoltassi in
questo momento London Calling mi darebbe gli stessi brividi di allora. Ma un giorno
d'aprile del 1979, mi ero appena alzato e stavo pensando a quale scusa inventarmi per non
andare a scuola, mia madre non credeva più ai miei improvvisi malesseri, accesi la radio e
su Peter Flowers trasmettevano Let It Be.
La musica dei Beatles entrò così nella mia vita per non uscirne più.
2

Scelsi di trasferirmi a Volate. Scoprire la vera identità del Frantumaossa mi aveva


annichilito.
La decisione fu presa una notte di maggio. Non avevo bevuto, ma la stanza girava, il
letto vibrava, e io lì paralizzato al centro. Me ne dovevo andare, basta semiotica, basta
polizia e basta omicidi, basta Valeria, basta Milano e il suo soffocante odore di umido che
mi asmava ogni volta che uscivo per strada.
Sopravvissuto a una tempesta di neuroni tornò a galla quel nome: Volate. Mi chiesi
come facessi a conoscerlo, dove l'avessi letto o sentito, poi ricordai il dépliant stampato su
carta lucida che ogni settimana, da quasi un anno, ritrovavo nella cassetta della posta e che
ogni volta rileggevo. Forse perché non avevo niente da fare mentre l'ascensore saliva
all'ottavo piano, forse perché attirato da quelle immagini di serenità farmaceutica, bambini
multicolori che correvano nei prati, mamme denti bianchi e pettinature camomilla, papà
che sollevavano figli verso il cielo più azzurro mai visto, nonni senza pannoloni o
problemi di piorrea.
O forse sognavo la pensione in un posto del genere, dove non accade mai niente, una
rapina in banca, uno scippo all'ufficio postale, un impasticcato che ti buca le ruote o ti
vomita sulle scarpe, niente, mai un cazzo di niente.
Sarebbe stato meglio non avere un passato ambientalista, ma l'avevo. Così l'abitudine di
non gettare mai un pezzo di carta pensando di salvare l'Amazzonia dalla distruzione mi
tornò contro.
Rovistando tra quella destinata al macero, il dépliant saltò fuori. Lo afferrai come un
tesoro sepolto cercato per anni e trovato un attimo prima di Long John Silver. Il tesoro era
un viaggio premio di una settimana ai Caraibi per chiunque si fosse presentato in sede per
discutere le loro proposte. Al limite, se non mi fosse piaciuto, mi sarei fatto qualche giorno
di vacanza. Sempre che l'offerta non fosse un pacco.
Il mattino dopo, non appena fu orario d'apertura, telefonai. Una voce femminile rispose
«Purple Immobiliare, buongiorno, sono Lori».
Era la segretaria di Gatti, per nulla sorpresa che qualcuno chiamasse così presto per
affittare una casa da quelle parti. Fissai un appuntamento per il giorno successivo, a
mezzogiorno mi sarei dovuto trovare a Cantù. Quando chiese il mio nome risposi
«Tommaso».
Silenzio. Poi Lori continuò «Scusi, stavo aspettando il cognome, Tommaso e poi?».
«Tommaso può bastare.»
Sarebbe venuta alla stazione e mi avrebbe accompagnato alla Purple evitandomi
l'autobus.
Il treno fu puntuale e quando scesi lei era lì, una testa bionda che gocciolava strisce di
capelli arricciati, poche tette ma un viso che prometteva dispiaceri. Non diedi retta al mio
istinto e poco prima di arrivare le dissi «Se mi stabilisco da queste parti, una sera usciamo
a cena».
«Va bene, andiamo in un posto carino che conosco.»
Accettò senza guardare se avevo le unghie rotte, un cardigan a rombi o una fede
arrotolata all'anulare.
3

La Purple di Alessandro Gatti non aveva l'aria dell'agenzia immobiliare. La musica di


Lezioni di piano in sottofondo agiva in modo subliminale blandendo lo spirito critico dei
clienti, per il resto era come entrare in una beauty farm con ragazze in completo turchese
dalle quali mi sarei aspettato un asciugamano e una cuffia prima di vedere il capo. Lori mi
salutò con una promessa «Ci vediamo dopo».
Percorsi i corridoi guardando le foto sottovetro di colui che avrei scoperto essere Gatti
mentre stringeva mani o abbracciava coppie d'anziani al momento di consegnare loro le
chiavi del paradiso in versione discount. Sullo sfondo, immancabile, una villetta con
giardino, box e due piani di felicità.
Ogni foto riportava in basso a destra la data in cui era stata scattata, partivano dagli anni
Settanta e arrivavano fino a una settimana prima. Nelle prime Gatti era un trentenne
leggermente pingue e tendente alla calvizie, giacca a quadri e cravatte tovagliolo che lo
strangolavano alla camicia, sorriso da amicone che te lo sta mettendo nel culo e Breitling
da cinquemila euro al polso. Con gli anni la circonferenza del ventre era andata crescendo
con il benessere, le cravatte erano state progressivamente sostituite da camicie aperte sul
petto, i capelli erano però spariti in fretta e dopo un riportino unto di gel nel corso dei
primi anni Ottanta aveva optato per una rasatura stile marine. Gli anni Novanta lo
vedevano pressoché stabile, solo il mento aveva ceduto e sembrava ballare incerto.
Ma c'era chi negli anni non era cambiato, gli acquirenti delle sue case. A parte i vestiti e
il taglio dei capelli che si aggiornavano nel tempo, sempre al di sotto del costo di un
aspetto alla moda, aspetto che si sarebbe potuto facilmente ottenere facendo acquisti in
città almeno ogni tre anni, i suoi clienti appartenevano alla medesima tipologia umana.
Quello convinto di saper stare al mondo, che va sempre in vacanza nello stesso posto così
non trova brutte sorprese, che giudica il ristorante dalla quantità di cibo nel piatto, che non
ha mai tempo per leggere, che non compra mai un disco, tanto le canzoni più belle le
passano alla radio.
Non ci feci subito caso, ma appena entrai nell'ufficio di Gatti tappezzato di piante mi
resi conto che nella galleria fotozoologica della Purple non c'era nessuno che avesse meno
di cinquant'anni.
Potevo essere il primo e mi sentii come se stessi per affrontare la luce dell'aldilà.
4

Avevo giudicato male Gatti, ero stato troppo ottimista, come venditore era peggio di come
me lo aspettassi. Scivoloso sugli aggettivi, gorgogliante sui sostantivi, biascicante sui verbi,
mi illustrò quello che aveva da offrire in affitto a Volate, delle terribili villette a schiera,
bunker prefabbricati in attesa dell'ultimo assalto della vita, ossari dove i postini
depongono lettere come i parenti viole di plastica. Illustrandomele, disse «Nuova
fabbricazione, tutti i comfort, ampio angolo cottura, mutuo ventennale nel caso intenda
acquistare».
Mentre parlava, io guardavo fuori dalla vetrata alle sue spalle, Lori se ne stava andando
con un uomo infilato in un montone nonostante fosse quasi estate e il caldo sudasse la
pelle.
Ignorando i dettagli sui costosi infissi in alluminio e la possibilità dei doppi vetri, per il
bagno persino smerigliati, tornai su Gatti. «Purple è un nome particolare.»
«Cosa intende?»
«Qualcosa a che vedere con Prince?»
«No, ma ci è andato vicino.»
«In che senso?»
«La canzone cui ho dedicato la mia società non è Purple Rain ma Purple Haze di
Hendrix.»
«Ma guarda un po'.»
«Woodstock 1969, io c'ero, tutto quello che bisogna sapere sul sesso l'ho imparato lì,
impossibile metterlo in pratica da queste parti, ma così almeno mi ricordo di averlo
vissuto.»
Finito di parlare, la sua pancia ebbe un tremolio di soddisfazione. Però non ce lo vedevo
lo stesso scopare nel fango mentre si faceva una canna con Jimi iniettato di ero sul palco.
Senza darmi spiegazioni, soddisfatto del suo intuito disse «Tommaso, salti in macchina,
penso di avere quello che fa per lei, ma in questo caso, glielo dico subito, l'offerta del
viaggio non è valida».
Anche se sembrava un cameriere al momento di incularti con il piatto del giorno, era
evidente che non volesse portarmi a visitare l'allegra disperazione di una seconda casa di
provincia. Senza chiedere dove, lo seguii.
5

Ne! breve tragitto lungo la provinciale 39 parlò solo Gatti, di come si vivesse bene da
quelle parti, tutta gente a posto, che lavorava o si godeva la pensione, gli orti si
sprecavano. Dal finestrino guardai chi passava e chi passava mi osservò dietro il
finestrino, la loro curiosità non era però ricambiata. Alla fine disse «Mi creda, le piacerà».
Era la prima volta che evitava di mettere più saliva del necessario sui concetti e avvertii
che stavo per trovare ciò di cui avevo bisogno.
Dietro l'ultima curva, solitaria, soleggiata sulla facciata, ombrosa sul retro dove il bosco
quasi la inghiottiva, c'era una villa tardo Ottocento. Se ne stava lì in attesa che qualcuno
tornasse ad abitarla, che qualcuno, dopo averla lasciata, la cercasse.
Gatti spense il motore, il mio silenzio di pochi minuti era stato sufficiente per
raggiungerla. Percorremmo i trecento metri di strada sterrata che mancavano, poi ci
fermammo ad ammirarla dal vialetto che conduceva all'ingresso. Gatti tolse le chiavi di
tasca e le fece saltellare nella mano come dadi. «Entriamo, gliela mostro.»
«Non importa.»
Era la casa che volevo. Spaurita come me, incerta se crollare o tirare avanti. Gatti disse la
cifra che desiderava e aggiunse «È un prezzo di favore».
«Se lo dice lei.»
«È sfitta da cinque anni e anche se gli eredi non si sono più fatti sentire dopo l'apertura
del testamento della vecchia proprietaria, una fuori di testa ma innocua, mi sento in colpa
per non essermi dato abbastanza da fare.»
Era veramente un buon prezzo per una casa così grande, su due piani e con una soffitta
da dove guardare la valle e il torrente che scivolava lungo Volate perdendosi in un respiro
dietro la prima curva.
Al momento di andarcene Gatti mi indicò, in direzione opposta a quella da cui eravamo
venuti, la scorciatoia per arrivare in paese senza prendere l'auto. Tornammo alla Purple e,
giunti alla firma del contratto, trattenni in aria una penna con il tappo morsicato.
Gatti si fece premuroso. «Qualche problema?»
«No, direi di no.»
Il problema c'era, non volevo dargli il mio cognome per paura che capisse chi ero, però
non avevo scelta. Ma quando lesse "Matera" in calce non fece una piega e mi chiese di
riempire anche la riga che richiedeva la professione. Scrissi "insegnante", poi Gatti mi
passò il numero di chi poteva pulire la villa mentre sistemavo le ultime cose a Milano. Si
chiamava Patricia, le telefonai e dissi «Arrivo tra tre, quattro giorni».
«Non si preoccupi, troverà tutto in ordine.»
Stupito dalle mie scelte di vita, ma rilassato dall'aver definito tutto in così breve tempo,
mangiai in una trattoria del centro di Cantù, pesce ricoperto da una patina d'uovo e patate
al forno stracotte, poi Gatti, Lori non era ancora tornata, mi accompagnò alla stazione.
Milano mi aspettava, Valeria mi aspettava, a entrambe dovevo dire addio.
6

Avevo conosciuto Valeria casualmente, ma qualsiasi conoscenza avviene per caso. Nei fine
settimana vendeva porta a porta una specie di samizdat, nessuno le apriva e se qualcuno
lo faceva senza chiedere "chi è", richiudeva la porta ancora prima di farle aprire bocca.
Le comprai una copia senza guardarla bene in viso, mi faceva pena, ma nonostante la
mia buona volontà ci rimase male quando mi chiese «Sei un compagno?».
«No, la politica non mi interessa.»
Alzai lo sguardo e fu come aver vinto alla lotteria senza saper cosa fare di tutti quei
soldi. Andandosene disse «Ciao, se posso torno».
«Quando vuoi.»
Tornò una settimana dopo, con quei suoi occhi azzurri come finestre su un lago e il
nuovo numero di Avanguardia, sedici pagine su come il mondo sarebbe stato migliore se
Lenin fosse morto solo un anno dopo, su come la collettività avrebbe tratto vantaggio se la
classe operaia avesse potuto mangiare cibo migliore o se tutti avessero adottato un cane
come i punkabestia. Non ci stavano tanto con la testa, ma avevano ragione, in qualcosa
bisogna pur credere per non sentirsi soli a non credere in niente.
Le comprai una copia guardandole le tette, della misura giusta e coi capezzoli irrigiditi
sotto la maglietta dei Rage Against The Machine.
Ci rivedemmo il giorno dopo e tutti i giorni dopo per sedici mesi, ma lei era sempre un
po' distaccata, preoccupata che l'amore fosse un sentimento borghese, privo della libertà
mentale e sessuale che l'avvento del comunismo avrebbe portato. E quando accettai di
lavorare per la polizia, a suo giudizio servo prono del capitale, Valeria la prese come
un'offesa.
La decisione di cambiare vita coinvolse anche lei. Non potevo ricominciare con una
donna più esaltata da quello che il futuro avrebbe portato che coinvolta dal presente. E
quel presente ero o avrei dovuto essere io.
7

Al ritorno da Cantù, scesi dal treno che stava facendo buio fuori e dentro di me. La
chiamai più volte sul cellulare prima di sentire la sua voce che diceva «Sono due giorni che
non ti fai trovare».
«Hai ragione, mi spiace.»
«Forse è il caso di vederci.»
«Se ti va, vengo subito.»
Un'ora dopo ero in via Washington, a casa sua, la mia erano due stanze in disarmo dove
giacevano scatoloni mezzo pieni in attesa di un luogo dove traslocare, non il posto adatto
se si voleva tenere l'angoscia lontana per più di cinque minuti.
Chiunque avesse visto il suo monolocale avrebbe detto che lì il tempo si era fermato. Ma
avrebbe detto una cosa inesatta, il tempo lì non esisteva: un letto sfatto, un armadio dove
tutto veniva buttato, pulito o sporco che fosse, pareti del bagno alle quali mancavano da
sempre piastrelle nuove.
Quella notte parlammo di ciò che la vita ci aveva riservato fino a quel momento e di ciò
che probabilmente ci avrebbe preso e dato se avessimo vissuto in modo da accorgercene.
Ci salutammo all'alba, un bacio accompagnò il distacco, poi le dissi «Ti ho voluto bene».
«Anch'io.»
«Tanto.»
«Tanto vale anche per me.»
Milano prometteva una giornata di sole senza calore, in strada un uomo e una donna si
insultavano, poi il suono secco di uno schiaffo e la rabbiosa partenza di un'auto che
minacciava di non tornare più.
Senza tanto rumore stavo facendo lo stesso, il dolore era forte, ma una cosa positiva
c'era: lasciavo il lavoro di semiologo della morte.
Parte seconda

Milano, febbraio 2000 – maggio 2001

IL FRANTUMAOSSA
8

Mi chiamo Tommaso Matera, sono nato a Milano nel settembre del 1961, una settimana prima del
previsto, mia madre quella mattina pensava ancora se farsi i colpi di sole dalla sua amica Vanessa,
la parrucchiera che da dieci anni le storpiava i capelli in una composizione di Stockhausen, erano le
undici di sera quando venni al mondo e la prima cosa che feci fu pisciare in faccia all'infermiera che
mi raccolse, se abbia valore simbolico non so dire credo però di sì, comunque da piccolo stavo spesso
dai nonni materni che mi crescevano a colpi di feroce ignoranza, ricordo che ero mancino e che mi
costrinsero a usare la destra perché l'altra era la mano del demonio, si può mai essere più stupidi,
ma a parte questo mi piaceva lì da loro, un appartamento alla Bovisa raccolto in poche stanze
dall'odore di passato ancora presente, e poi in zona c'erano dei giardinetti dai quali volevo passare
ogni giorno pena pianti disperati, oggi il fortino dei soldati è stato bruciato non dagli indiani ma dai
pusher, evoluzione naturale degli umani che spingono verso la propria estinzione, noi invece
abitavamo in un appartamento poco più grande in viale Jenner, non era lontano, quattro fermate si
scendeva e si era arrivati, ricordo la collezione di bustine di zucchero di mia madre e le tende con gli
insetti stampati sopra che ricoprivano i vetri di ogni finestra ma non quella del bagno, era così
piccola e così in alto che ti portava a guardare il cielo nell'attesa di comunicazioni importanti, i
nonni sono poi morti nel 1964 per una fuga di gas, mia madre era convinta si fossero suicidati, se lo
sentiva che sarebbe finita in quel modo, eppure non stavano male, sì i soliti acciacchi e gli attacchi
di solitudine, ma qualche anno lo avrebbero tirato avanti, forse erano solo stufi o il nonno quella
sera aveva esagerato con il vino chissà, spesso ne versava un bicchiere anche nel minestrone, la
prima conseguenza fu che mia madre non ebbe più nessuno cui piazzarmi, i genitori di mio padre
non si erano mai mossi da Napoli, e dovette rinunciare a quei lavoretti da hostess che trovava ogni
tanto, solo quando iniziai ad andare a scuola lei tornò a sentirsi libera, le cose sembravano essersi
messe per il verso giusto, almeno fino a quando dovette cercarsi un lavoro stabile dopo che mio
padre incrociò quell'auto che sbandando lo uccise, ci trasferimmo in viale Certosa, mia madre non
se la sentiva di restare nella vecchia casa, in me il cambio di scuola e abitazione portò qualche
scompenso alla crescita e così, quando iniziai le medie, i miei compagni di classe mi sembrarono
tutti più svegli e capaci, sensazione che non passò nemmeno quando mi iscrissi alle superiori e
mentre io pensavo a giocare a calcio loro cercavano di fare sesso, questo all'inizio non creò difficoltà
ma col tempo non favorì i miei approcci che apparvero impacciati a delle ragazzine che li avevano
già vissuti e superati qualche anno prima con le prime seghe nei garage condominiali, la cosa non fu
poi così grave e crescendo recuperai, quando feci l'amore la prima volta avevo poco più di
diciannove anni, fu memorabile e accadde con Laura, una che conobbi al primo anno di università,
lei all'ultimo ma frequentavamo lo stesso corso di letteratura angloamericana alla Statale, successe
che un giorno mi chiese, così mentre entravamo in un bar, se volevo scopare, risposi che avevo già
un appuntamento e scappai a casa dando delle testate a ogni portone che incontravo, la rividi tre
giorni dopo e mi invitò da lei a studiare, ci andai con le gambe che tremavano e quando entrai lei
disse fammi quello che vuoi, io non sapevo da che parte iniziare, così finii legato e bendato mentre
lei me lo succhiava, poi con le donne non andò tutto allo stesso modo, arrivarono i primi tradimenti
fatti e subiti, le prime camminate nervose per la città a calmare le paure, intanto cresceva in me
l'amore per gli animali e l'odio per i vivisettori, e così le irruzioni nei laboratori, spaccare tutto,
aprire le gabbie e fuggire felici di aver liberato anche solo un topolino, una notte conobbi Eva,
un'animalista che la volta dopo mi seguì fino a casa dove mi disse ti amo, non era mai successo che
una donna usasse con me quelle parole e io l'avevo solo baciata, rimanemmo insieme tre anni,
quando ci lasciammo ne avevo ventiquattro, lei forse aveva trovato un altro e io ogni tanto scopavo
in giro anche se le volevo bene, avrei magari dovuto provare a trattenerla, non so, a quel tempo
avevo in testa solo una cosa, terminare l'università che mi stava sfinendo, l'anno dopo, nel luglio
del 1986, ce la feci, mi laureai in lettere con una specializzazione in semiotica, mi ero fatto il culo su
ogni tipo di segno linguistico, visivo o gestuale, prodotto in base a un codice accettato nell'ambito
della vita sociale, ma questi codici spesso vengono artefatti per occultare il reale significato di un
messaggio e allora, se tutto è un segno che deve essere interpretato, la semiotica è una forma di
destrutturazione semantica per arrivare al significalo primario, là dove magari ci accorgeremo che
non c'è più niente da capire, ovvero che le cose vanno così e non ci si può tare un cazzo, ma anche
se fosse stato vero sarei andato lo lesso fino in fondo e lo feci con una tesi sulla semantica disneyana
interpretata attraverso il metodo critico barthesiano, scelsi Barthes perché fu ucciso travolto da
un'auto come mio padre e se un genio poteva morire così la fine di mio padre mi appariva meno
stupida, però così morì anche la madre di John Lennon, Julia, travolta da un poliziotto fuori
servizio, già, mio padre, violino di spalla all'Orchestra Filarmonica della Scala, lo vedevo di rado, di
giorno provava, la sera si esibiva a teatro, talvolta prendeva un aereo e tornava dopo una settimana
portando regali da Tokyo, Parigi, Vienna e chissà dove altro, suonava Mozart, Brahms, Schubert,
ma mai in casa, la classica serviva per vivere, nutrire e vestire me e mia madre, lui amava il
rock'n'roll, Elvis lo aveva scosso quanto un cavo scoperto, ma da quando i Beatles pubblicarono
Love Me Do, non so mai se nella versione con Ringo o Andy White alla batteria ma di certo era il 5
ottobre del 1962, fu come se quel ragazzo che portava in fronte un culo d'anatra e che muoveva il
bacino facendo sesso con le onde radio non fosse mai esistito, nel 1962 io avevo un anno, quando i
Beatles si sciolsero ne avevo compiuti da poco nove e li avrei ignorati fino a quella mattina del 1979,
mio padre era morto otto anni prima, a giugno, la vigilia del suo quarantesimo compleanno, non mi
piacevano, trovavo infantile e piccolo borghese il loro yeah yeah yeah, io tifavo contro il perbenismo
che cercava di opporsi all'aggressione dei Sex Pistols, sputi, giubbotti di pelle strappata, spille da
balia infilate ovunque e bottigliate in fronte, e poi li associavo troppo a lui, uomo che non avevo mai
cercato di comprendere, inconsciamente lo accusavo di non essere mai presente quando lo
desideravo accanto, ma avrei dovuto provarci, magari una domenica mattina, quando mi preparava
la colazione con latte scremato freddo di frigorifero, pane, burro e marmellata di more, la mia
preferita ancora adesso, ma non l'ho fatto e pentirmene ora sarebbe da vigliacchi, come credere che
lui possa vedermi, cogliere il mio rimorso e perdonarmi, del titolo di studio non seppi poi cosa
farmene, quale strada prendere e come guadagnare di che vivere, cercai un lavoro e l'unico che
ottenni in breve tempo, mia madre non ce la faceva a reggere da sola con l'impiego di commessa in
profumeria, fu come insegnante di letteratura italiana, prima come supplente, poi a trent'anni ebbi
una cattedra all'Istituto tecnico commerciale Gino Zappa, e lì ci rimasi per dieci anni, bel
curriculum di merda, ma insegnare non era male, non che ci fosse qualcuno che impazzisse per
ascoltare le mie dissertazioni strutturaliste su Saba o Montale, ma lo facevo soprattutto per stare
coi ragazzi e vivere attraverso loro la sensazione di non invecchiare perché gli studenti hanno
sempre la stessa età, poi me ne fottevo se avevano capito o no, li promuovevo tutti e fanculo il
preside che me lo faceva notare, i ragazzi mi amavano e questa era la cosa importante, ma era ora di
dare una svolta alla mia esistenza, avrei presto compiuto quarant'anni, avevo pochi soldi, costruito
un cazzo e una situazione sentimentale che non portava da nessuna parte.
9

Nel febbraio del 2000, la salvezza sembrò arrivare con una telefonata dell'ispettore Grotti
della Sezione crimini violenti della polizia di Milano, era quasi mezzanotte e stavo
correggendo un tema su Calvino svolto in classe il giorno prima.
Crotti cercava un semiologo che collaborasse con la SCV, il loro consulente, il professor
Ferrini, stava per andare in pensione, voleva trasferirsi in Francia con la moglie e godersi
la barca ormeggiata in qualche porto della Bretagna prima che la salsedine la
cristallizzasse. Mi chiese «Se la sente di provare?».
«Direi di si.»
«Allora siamo d'accordo.»
«Come siete arrivati a me?»
«È stato Perrini a fare il suo nome, se non mi sbaglio lei era un suo allievo.»
«È così.»
Mi sottoposero alcuni enigmi semantici risolti in precedenza da Perrini per vedere a
quali conclusioni sarei arrivato e le risposte furono giudicate positivamente. Solo in un
caso, quello dello spazzino coprofago, mi dissero che li avrei portati fuori pista.
Anche se solo col tempo avremmo capito se ero tagliato per quel lavoro, decisi
comunque di rischiare, lo stipendio era superiore a quello di insegnante e preparai la
lettera di dimissioni dallo Zappa. Quando la consegnai, il preside, un omino così
striminzito neanche lo avessero dimenticato al sole, mi disse «Non ha l'aria di uno che può
fare quel lavoro».
«Grazie per l'incoraggiamento.»
«Lo dico per lei.»
«Non era così necessario.»
Mi presentai alla questura di via Fatebenefratelli due giorni dopo, per l'occasione misi
una cravatta trovata nell'armadio di mio padre domandandomi se fosse troppo evidente il
suo risalire agli anni Sessanta e mandasse un deprimente segnale di scarsa disponibilità
economica o, al contrario, un'eccessiva attenzione modaiola per il vintage.
Con un tic all'occhio sinistro e una giacca marrone slavato più grande di due taglie mi
ricevette il vicequestore Tosi, sul quale, come venni a sapere, giravano numerose storie, si
diceva persino avesse quasi ammazzato a calci un informatore.
Tosi mi spiegò che Milano era una città dove pazzi e omicidi erano in grado di produrre
deliranti messaggi da decrittare. Pensai esagerasse, mi sarei ricreduto.
10

All'inizio il mio apporto fu marginale, niente che richiedesse un'approfondita analisi


segnica, ma una notte di fine aprile Crotti mi chiamò sul cellulare.
Mi infilai in un taxi e in meno di venti minuti mi ritrovai in via della Spiga dove a una
donna di mezz'età era stata staccata la testa, come non me lo avevano detto e neanche mi
interessava.
Salii a piedi fino al decimo piano, gradini di marmo e corrimano di legno pregiato e
argento mi accompagnarono. Mi accolse un appartamento il cui lusso risplendeva grazie
alla povertà altrui, entrando la prima cosa che notai fu un Warhol, un autoritratto di trenta
per quaranta appeso poco sopra una macchia di sangue che si stava asciugando sulla
parete a sinistra dell'ingresso.
Crotti, un metro e sessanta con la faccia ricoperta da capillari pronti a esplodere e una
voce che ricordava quella di Darth Vader, era impaziente che arrivassi. Mi chiese «Sei
pronto?».
«Sono pronto.»
La scientifica aveva terminato il suo lavoro, attraversammo l'anticamera ed entrammo in
salotto, sempre pop art ma lì dominava un Lichtenstein di grandi dimensioni con in primo
piano il volto di una ragazza bionda che tra le lacrime stava forse dicendo addio al suo
ragazzo. Forse perché il testo originario del baloon era stato cancellato e sostituito con
delle pennellate di tempera da un'altra parola:

vacca

Crotti disse «Il complimento l'ho capito anch'io, se c'è sotto un altro significato tocca a te
scoprirlo».
Risposi con il tono professionale che avevo indossato per l'occasione. «Sono qui apposta,
dov'è il corpo?»
«Il corpo in cucina, la testa in bagno, lascia perdere che è meglio.»
«Prima o poi mi devo abituare.»
«E allora vai.»
La testa di Marta Rinaldi era infilata faccia in giù nella tazza del cesso. Quarantanove
anni, dirigente presso la Chem-Farm, un'azienda di solventi per l'edilizia, un figlio di
ventotto di nome Dario, ex studente di sociologia con due esami superati in quattro anni
ed ex tossico. Dario lavorava part-time all'Unione italiana ciechi di via Mozart dopo aver
mollato gli studi e la coca.
L'aveva trovata il marito, un anziano imprenditore con la passione per l'arte cui aveva
recentemente chiesto la separazione. Osservai la scena e dissi «Puro splatter».
Nemmeno Sam Raimi ai tempi de La casa, film cult della cui macabra bellezza cercavo
invano di convincere amici e fidanzate, avrebbe saputo fare di meglio.
Andandomene, rifiutai un passaggio offertomi da Crotti. Dissi «Grazie, vado a piedi, ho
bisogno d'aria».
«Sicuro di stare bene?»
«Per niente.»
Tornai a casa non perfettamente saldo sulle gambe, come quando si è bevuto troppo ma
ce la si fa ancora e prima di andare a letto è meglio camminare un po'.
Erano da poco passate le otto, il sole arrivava a sprazzi da nuvole in sosta al distributore
di pioggia, poi le prime gocce sembrarono farina da un setaccio. E io avevo il primo caso
da risolvere.
11

Lo risolsi quattro giorni dopo, quasi senza volerlo, anche se non volere una cosa che poi
accade è frutto di una casualità organizzata a ottenere lo scopo.
Sul foglio davanti a me scrissi il nome "Dario" sopra la parola "vacca" e mi accorsi che
erano formati da cinque lettere ciascuno. Se un segno è quella cosa che ci fa capire
qualcosa di più, due segni sono quella cosa che ci fa capire molto di più. E quello che mi
fecero capire è che potevo essere di fronte a una sovrapposizione semantica per cui una
parola assumeva il significato di un'altra. Dovevo provarlo, ma per riuscirci era necessario
capire la tecnica di traslitterazione usata.
Il mondo in cui lavorava Dario Rinaldi era quello dei segni tattili, rilievografici,
appartenenti alla tiflosemantica, dove piccoli punti sono occhi per sentire le parole. Provai
così a collegare l'omicidio all'impiego di Dario presso l'Unione italiana ciechi.
Tornai in via della Spiga accompagnato dal maestro Bratti, un tempo compositore di
colonne sonore che aveva perso la vista causa improvviso e doppio glaucoma acuto ad
angolo chiuso. Con quelle lenti nere a censurargli come pecette lo sguardo chiese «Cosa
posso fare per lei?».
«Passare la mano su una scritta apposta sopra la tela di un quadro, la scritta è "vacca".»
«Vuole sapere se c'è scritto qualcosa in Braille?»
«Esattamente.»
Bratti fece scorrere le dita rattrappite, che qualche osteosarcoma stava trasformando in
zampe d'uccello, su grumi di tempera che apparivano come puntini all'interno delle
lettere, poi disse «Dario, se non mi sbaglio».
«Non si sbaglia, grazie.»
Non servì a niente, la confessione di Dario Rinaldi precedette il mio arrivo in questura.
Aveva appena giurato di adorare la madre, ricordandosi persino quando, poco più che
bambino, lo portava al mare dimenticandolo in spiaggia, poi aveva ceduto: «Ho
conosciuto una ragazza, mi sono innamorato, è stata lei a farmi mettere la testa a posto,
avevamo deciso di sposarci, di comprare casa, il lavoro però non rendeva abbastanza, lo
dicevo a quella puttana, a quella vacca di mia madre, ma lei niente, non voleva darmi i
soldi con tutti quelli che aveva, sosteneva che non ero pronto, che me li sarei di nuovo
ballati con la coca, così ho smesso di farla pensare con quella sua inutile testa di cazzo».
Gli chiesi perché avesse lasciato il suo nome all'interno dell'epiteto diretto alla madre. La
risposta fu «Quale pittore non firma il proprio quadro?».
Nel pomeriggio il "Corriere della Sera" mi chiese un'intervista e io, sorpreso quanto
lusingato, accettai. Nel caffè di fronte a casa feci conoscenza con Mario Scalzi, il
capocronista, guance scavate dentro un fossato e un orologio che come nelle pubblicità
segnava sempre le dieci e dieci. Mi disse «Così è lei il semiologo che ha preso il posto di
Perrini».
«Non so se ne sarò all'altezza.»
«Era un mio vecchio amico.»
«Vi conoscevate da tanto?»
«Non proprio.»
«Cosa intende dire?»
«Che al momento giusto sapeva aiutarmi, lei potrebbe fare lo stesso.»
«Credo sia meglio procedere con l'intervista.»
«Certo, ma lei ci pensi.»
Mi fece un paio di scatti e molte domande. Gli parlai del mio amore per i libri, del mio
culto per i Beatles, infine gli raccontai come ero arrivato a lavorare per la SCV. A quel
punto chiese «Mi parli dell'omicidio Rinaldi».
Una volta detto ciò che sapevo, aggiunsi le mie deduzioni su come sarebbe stato
possibile risalire al figlio se non avesse confessato. Fu un errore, Scalzi manipolò
l'intervista e il giorno dopo sul "Corriere" mi presentò come colui che aveva risolto il caso
grazie a un colpo di genio.
Le urla di Tosi non ebbero pietà delle mie orecchie e del mio orgoglio ferito, ma non era
stata solo la mia ingenuità a renderlo così aggressivo. Quella notte Rinaldi si era tolto la
vita infilando la testa in un sacchetto di plastica e l'articolo di Scalzi rischiava di farmi
passare come colui che aveva provocato la sua morte.
Nelle settimane successive sperai che la tensione calasse, ma altri furono gli omicidi e fui
chiamato ogni volta che qualche megalomane credeva opportuno farci sapere quanto fosse
duro il suo cazzo e imbrattava la scena del delitto con frasi sull'anticristo copiate dal
Manuale del giovane satanista. Cliché da trash-movie che servivano più che altro a Matteo
per tracciare il profilo psicologico dell'assassino, ma che facevano crescere in me un senso
di malsano disagio così che camminando per strada o entrando in un negozio provavo a
indovinare chi tra quelli che incontravo sarebbe stato il prossimo morto ammazzato: la
baby-sitter minorenne dal maniaco, l'avvocato d'ufficio dal cliente condannato, il
carabiniere pauroso dallo sbandato, la panettiera con le ovaie cancerose dal marito geloso,
l'orologiaio pedofilo dal rapinatore, e se uno specchio mi inquadrava rimanevo a
osservarmi per capire se potevo essere io il predestinato.
Alla fine toccò a Matteo entrare in quella spirale.
12

Matteo era lo psicologo della Sezione crimini violenti della polizia di Milano, il criminal
profiler, colui che doveva tracciare il probabile profilo mentale degli assassini cui davamo
la caccia: età, sesso, gusti, disturbi, paranoie, deviazioni, incubi, colore dei sogni e se si
mettevano ancora le dita nel naso. Lo conobbi il primo giorno subito dopo il colloquio con
Tosi e allungando la mano disse «Matteo Orlandi».
Quarantacinque anni, occhi acquerellati, sguardo che metteva in soggezione e che lo
faceva sembrare più alto del suo metro e settantacinque, capelli biondi quasi bianchi che
tradivano ataviche origini nordiche, Matteo parlava formando delle bollicine di saliva tra
le labbra che emettevano un leggero fischio quando scoppiavano.
Subito dopo la laurea in psicologia all'università di Padova, aveva lavorato per una
decina di mesi come assistente presso il CAD di via Apollodoro, il centro accoglienza e
trattamento dipendenze per il recupero e il sostegno di tossici senza fissa dimora. Ogni
due settimane uno di loro si ribellava alla cura e cercava di prendere i suoi lineamenti
come soggetto per un ritratto stile Francis Bacon ma dal vivo. Non il posto di lavoro per
uno dell'alta borghesia milanese.
Il padre, Luigi Orlandi, era uno dei più noti avvocati della città, grasso da far invidia a
un pinguino e con uno studio cui si rivolgevano industriali vecchi e sfatti per sfuggire alle
pressioni del fisco o alle minacce della moglie una volta scoperti con qualche puttana sotto
la scrivania. Morto d'infarto alla cena organizzata per il suo compleanno: settantasei anni,
coronarie intasate di strutto, Jaguar parcheggiata fuori.
La madre, Tina Rastelli, era imparentata con la famiglia Falck, da ragazza la scelta di
diventare fotografa giusto per fare qualcosa, poi il matrimonio con Luigi e qualche mostra
pubblicizzata a forza tra i clienti dello studio del marito, parrucchiere ogni quarantotto
ore, opere di beneficenza a favore di qualche pozzo in Africa, vacanze a Garmisch
d'inverno e Capri d'estate, due figli, Cristina e Matteo. Morta di dolore il giorno in cui
scoprì che tutte le opere vendute gliele aveva comprate il marito per nasconderle nel box
dietro le gomme da neve: sessantotto anni, un certosino cui non aveva mai dato un nome,
la foto di Cartier-Bresson che ritrae Samuel Beckett sul comodino in camera da letto.
Cristina era più grande di diciotto mesi, qualche canna da ragazzina, poi sempre su
quella che viene chiamata retta via, laurea in economia e un posto da dirigente al Credito
Italiano, una che si sarebbe vestita in tailleur anche a letto. Viva, miope e primi occhiali a
cinque anni, trentacinque sigarette al giorno, sesso a sprazzi mensili, e una stretta allo
stomaco quando in strada si accendono le luci dei lampioni.
E così Matteo, per accontentare lo snobismo dei genitori, mollò il lavoro senza preavviso
e aprì uno studio suo, centoventi metri quadrati in via Spadari non lontano dalla Borsa,
dove ogni seduta era una specie di happy hour per sclerati dagli andamenti del listino.
Ma non era ancora quella la sua strada. Nel dicembre 1994 una sua paziente, Pamela
Maffei, giovane stilista con problemi psicosomatici, fu sgozzata per strada, un omicidio
passionale risolto in un paio di giorni. Lei era una specie di ninfomane, l'omicida il
fidanzato che la credeva immune da tentazioni per scoprire che frequentava locali
scambisti con tanto di mascherina veneziana sul volto.
Matteo fu interrogato da Tosi e fu in quella occasione che si conobbero. Non so se
Matteo avesse in mente quello che sarebbe andato a fare, ma è certo che quell'incontro
cambiò la sua storia di ragazzo di buona famiglia.
13

Diventammo amici nonostante vestisse con camicie a quadretti e golf dai colori pastello,
votasse a destra e mangiasse così lento da esasperarmi. Furono le scelte musicali e
letterarie a unirci riuscendo addirittura a stupirmi quando mi parlò di low-fi, di acid
house o di poesia sperimentale.
La cosa che più mi piaceva era il modo in cui sapeva catturare l'attenzione strutturando
e aggettivando le frasi in modo che la sua opinione sembrasse diversa e più elaborata delle
altre anche quando non lo era affatto. Aveva del talento a non dire nulla e a farsi passare
come uno che sapeva il fatto suo e degli altri.
Sul lavoro era l'esatto contrario, concreto, meticoloso, pignolo fino a risultare fastidioso,
dimostrava di saperci fare, ti metteva sempre nella direzione giusta per capire il tipo di
criminale che avevi di fronte.
Iniziammo a frequentarci nell'agosto del 2000, sei mesi dopo il mio ingresso in polizia.
Mi incrociò fuori dall'ascensore e disse «Ciao Tommy, come stai?».
«Un po' bene, un po' male, un po'.»
«Non credo di aver capito, ma direi che in questo momento ti stai ispirando a qualche
scrittore. Raymond Chandler?»
«Vada per Chandler.»
«Tanto quello che volevo sapere era altro.»
«Cioè?»
«Stasera mi sarei dovuto vedere con un amico e due tipe, solo che il mio amico è stato
blindato dalla moglie. Mi chiedevo se ti va di prendere il suo posto.»
«Non so.»
«Ho due fighe per le mani e ci stai a pensare?»
«Non ho mai amato questa sineddoche erotica.»
«Strutturalista anche quando si parla di sesso.»
«Mai perdere l'occasione.»
«Allora Tommy, ti va?»
Non mi andava tanto, a quel tempo stavo già con Valeria, ma mi attirava l'idea di uscire
con delle donne che non se la menavano tanto nel darla, e così, ignorando il senso di colpa,
dissi «Va bene».
«Ti passo a prendere alle otto, poi carichiamo le ragazze, ma che sia chiaro, quella
sciancata te la becchi tu.»
«Qual è delle due?»
«Guarda che era una battuta.»
«Non l'avevo capito.»
Matteo fu puntuale, Mercedes Kompressor appena lavato e una canzone di Sting che
usciva dai finestrini abbassati. Andammo a prendere le ragazze, Betty e Lina, due
commesse del Benetton in Vittorio Emanuele che ci aspettavano fumando davanti alla
fontana di San Babila. Betty, la più carina, guance da Biancaneve, aveva dei trascorsi nei
peepshow di St Pauli.
Da Amburgo si era trasferita a Milano in cerca di un nuovo passato, pizza da
consegnare, vecchi cui badare, il desiderio di diventare restauratrice, niente da fare, solo
commessa.
Anche Lina non era male, più vecchia ma non molto, il difetto erano i denti frastagliati
come quelli di un francobollo. Viveva a Gessate, trenta minuti di metropolitana da
trascorrere in piedi prima di arrivare in centro, ora vetrinista, prima parrucchiera ed
estetista.
Andammo a mangiare pesce al Sambuco, uno di quei posti dove non ci si può servire da
bere da soli e il menu coi prezzi lo portano solo agli uomini. Per fortuna pagò Matteo, poi
tutti a casa sua, un attico in Repubblica con vista panoramica. Lui incredibilmente si prese
Lina e mi lasciò con Betty in una sala grande il doppio del mio appartamento. Uscimmo in
terrazzo, faceva ancora caldo, Milano dall'alto bruciava di migliaia di piccoli roghi
intermittenti. Lei disse «Cosa vuoi fare?».
«Vedi tu.»
Scopammo fino alle sei, poi la luce del giorno.
Betty Handwerk e Lina Ferrari se ne andarono alle sette, ventiquattr'ore dopo sarebbero
state ritrovate morte. Delle ragazze non facemmo in tempo a occuparci subito, eravamo
già su un altro caso, era stato ucciso il figlio di un assessore.
14

Il figlio dell'assessore si chiamava Stefano, un nome come tanti, di cognome faceva però
Lastella, l'uomo più potente a Milano nella spartizione degli affari legati a immobili e piani
regolatori. Temuto più che rispettato per la capacità di pilotare gli appalti verso il suo
gruppo di imprese, Lorenzo Lastella sembrava in grado di ricattare chiunque avesse in
mente di lasciarlo ai margini della vita politica.
Stefano frequentava la scuola più esclusiva della città, l'International College of Milan,
nata da pochi mesi sul modello degli istituti inglesi. Matteo e io arrivammo davanti
all'opprimente portone, legno massiccio e chiodi da crocifissione, due ore dopo aver
salutato Betty e Lina. Un microcosmo dove già dire "buongiorno" a un estraneo violava la
spocchiosa riservatezza che vigeva dentro e fuori le mura. Peccato che Stefano fosse stato
ammazzato proprio dentro quelle mura e che noi fossimo lì per fargli fare la fine di casa
Usher. La SCV era già lì al completo e Tosi senza guardarci disse «Secondo piano».
Stefano Lastella, vent'anni, aria arrogante, vestito Prada, aveva come della neve sulle
labbra.
«Schiuma di insetticida.»
La voce di Crotti mi arrivò alle spalle filtrata dal vocoder naturale delle sue corde vocali
e per un attimo mi sentii come Luke Skywalker preso in trappola. Poi aggiunse «Questo
gli è stato trovato nel taschino della camicia».
Si trattava di un foglio piegato in due dove qualcuno aveva scritto: "il rosso era il tuo
colore". Riconobbi subito il sintagma. Era il primo verso di Rosso, componimento che Ted
Hughes aveva dedicato alla memoria della moglie, Sylvia Plath.
Matteo mi appoggiò una mano sulla spalla e disse «Mi sembra tocchi a te».
«Direi proprio di sì.»
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Il mattino successivo all'omicidio dell'International College of Milan seguii Crotti da


Lorenzo Lastella al diciottesimo piano della LLCompany, ascensori con telecamera interna
e cartelli no-smoking così grandi da far sospettare che Lastella fumasse un tempo quaranta
sigarette al giorno.
Crotti diede loro un'occhiata e disse «Ho smesso in tempo, almeno credo».
«In tempo per cosa?»
«Bella domanda.»
Ci fecero attendere venti minuti su divani di pelle bordeaux, le cuciture sui bordi
cominciavano a cedere e la segretaria personale, orecchie accartocciate da una
malformazione, controllava che nessuno si divertisse a tirare i fili danneggiando il
patrimonio aziendale.
Con la faccia incrostata di rughe, Lastella ci accolse infine nel suo ufficio, così grande
che non mi sarei stupito di trovare qualcuno a dirigere il traffico di mazzette. Ci fece
rimanere in piedi e rivolto a Crotti disse «Vi prego di fare presto, ho poco tempo».
«Saremo veloci.»
«Lo spero.»
«Ha un'idea su chi possa essere stato a spruzzare per tre minuti dell'insetticida nella
gola di suo figlio?»
Lastella ci squadrò alla maniera dei becchini nei film western, come prendesse le misure
per la nostra bara, poi rispose «Mio figlio rigava dritto e si impegnava nello studio, ma a
voi questo non interessa, volete sapere se faceva uso di stupefacenti, se aveva amicizie
strane, scordatevelo, era uno a posto, al massimo delle pazzie per qualche ragazza. È stato
ucciso dall'invidia, ma questa invidia ha un nome e un cognome ed è per questo che ho già
chiesto a qualcuno più in alto di voi di scoprire chi ha ucciso Stefano, voi della polizia siete
fuori».
Pensai "A posto un cazzo".
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Uscimmo dall'ufficio senza un saluto di accompagnamento. Avevo solo voglia di


caffellatte coi biscotti, tornare a casa e nonostante fosse mattina vedermi un film stupido
sbrandato davanti al televisore, tutto questo prima di pensare a quale messaggio celasse
l'assassino di Stefano Lastella in quella frase.
Crotti rispose al cellulare che da un paio di minuti vibrava nella tasca interna della sua
giacca. Chiuse la telefonata e disse «Dobbiamo andare».
«Dove?»
«Hanno trovato due donne nel Naviglio.»
«Quando?»
«Adesso.»
«Non ce la posso fare.»
«Non mi interessa.»
«Perfetto.»
E così andammo a vedere Betty e Lina galleggiare nella Darsena come due barchette cui
era finita la pila, ma non sapevamo ancora si trattasse di loro, o meglio io e Crotti non lo
sapevamo.
Quando l'agente Volpi, uno che portava in giro la pancia di Babbo Natale, mi disse i loro
nomi le ginocchia mi cedettero in un fruscio e il respiro si frantumò in sorsi d'aria.
Matteo arrivò una decina di minuti dopo, l'atteggiamento di quello che aveva altro da
fare ed era stato interrotto sul più bello, che non si sa quand'è ma quando ti rompono i
coglioni è sempre sul più bello. Lo presi in disparte e gli dissi «Sono loro».
«Loro chi?»
«Betty e Lina.»
Matteo socchiuse gli occhi come se ricordasse a fatica chi fossero, poi la pressione del
sangue fece vibrare una vena sotto quello destro.
Le ragazze erano lì, nel grigio scivolare dei reflui di fogna, i sommozzatori aspettavano
che ci fossimo tutti per tirarle fuori dalla corrente. Le guardai, gonfie come un salvagente e
con il volto così tumefatto che sembravano essersi scontrate con un ferro da stiro, ma non
sapevo bene chi fossero, non le conoscevo veramente, erano due, solo due, ma erano
proprio quelle due. Le ripescarono vestite d'acqua, delle alghe nerastre attorcigliate ai
capelli, la pelle più blu di quella di un atlantideo.
Un chilometro più a sud, sotto un ponte che allevava muschio, insieme agli effetti
personali furono ritrovati i vestiti ripiegati dentro un sacchetto della Rinascente, lì accanto
le scarpe. Nel portafoglio di Lina la foto della prima comunione, in quello di Betty una
lettera, scritta quattro mesi prima per il suo venticinquesimo compleanno, la firma aveva il
nome di Andrea.
17

Quella notte una squadra fece visita ad Andrea Marini nel suo monolocale in Porta
Venezia. Poeta sballato noto più che altro per i reading ai raduni no-global, aveva
pubblicato due raccolte rimaste invendute e finite sui banconi dei remainder's in attesa di
tornare pasta di cellulosa.
Io ero andato a casa, volevo stare solo, cercare di riposare, segni o messaggi da decifrare
nel caso di Betty e Lina non ce n'erano, rimaneva il caso Lastella, la cui difficoltà mi stava
mettendo sotto pressione.
Negli ultimi due giorni non avevo sentito nessuno, solo Valeria via SMS, lei non si
lamentava ma sapevo che le mie assenze le pesavano. Le telefonai dopo un lungo bagno.
«Vale, come stai?»
«Io bene, mi manchi.»
«Anche tu.»
«Casini sul lavoro?»
«Tre morti, uno è il figlio di quel faccendiere di Lastella.»
«L'ho sentito al telegiornale. Forse sono una stronza, ma non sono particolarmente
dispiaciuta.»
«Spero neanche contenta.» «Neanche, chi sono le altre vittime?»
«Due commesse di Benetton, quello in Vittorio Emanuele, ci siamo entrati una volta,
ricordi?»
«No, ma anche se l'ho fatto non ho comprato niente di sicuro.»
«Credo anch'io.»
«Come sono morte?»
«Non lo sappiamo, i risultati dell'autopsia devono ancora arrivare, ma sembravano
sbriciolate in ogni parte del corpo.»
«In giro c'è qualcuno davvero cattivo.»
«Cattivo e pericoloso.»
«Ti sento stanco, vai a dormire.»
«Finisco di asciugarmi i capelli e mi metto sotto le coperte.»
«Ciao.»
«Ciao, a domani.»
Fissai il vuoto, ripensai a Valeria, mi addormentai.
18

Andrea Marini fu scagionato nel giro di poche ore, le stesse che ci mise l'autopsia a
stabilire che Betty e Lina erano state stordite, strangolate e poi frantumate probabilmente a
colpi di mazza da baseball, sottili schegge di faggio erano rimaste sulla loro pelle. Nessun
segno di violenza sessuale, ma ossa ancora intatte sembrava non ne fossero rimaste.
Marini, al momento del delitto, stabilito alle cinque del mattino del giorno prima, stava
a letto con una fattona di novanta chili, Elena Blasi. L'aveva incontrata la sera precedente a
una conferenza stampa dove presentavano il nuovo romanzo di Irvine Welsh, poi erano
andati a bere un paio di margarita al Gasoline, discoteca per gay in punta o per coppie
improvvisate, e avevano proseguito a casa.
Quando la squadra mobile entrò nell'appartamento era di nuovo a letto con lei, ma era
così pieno d'alcol da non sapere neanche chi fosse quella mucca che pascolava tra le
lenzuola. La Blasi invece ricordava tutto e seppe dire con precisione come, dove e quando
si erano conosciuti. L'alibi resse, molti nel locale avevano notato quei due che si
ripromettevano scopate memorabili ad alta voce.
Io e Matteo non rivelammo che quarantotto ore prima eravamo in compagnia delle due
ragazze. Al ritorno dalla Darsena mi aveva seguito nei cessi della questura per dirmi «Non
credo sia il caso si sappia in giro».
«Non ne sono convinto, siamo ancora in tempo.»
«Entreremmo nella cerchia degli indagati e poi si sa come vanno queste cose, alla
pubblica opinione basta il sospetto per condannarti.»
«Spiegati meglio.»
«Pensa cosa direbbe la gente, due collaboratori della SCV coinvolti nell'omicidio di
altrettante ragazze che faranno passare per prostitute. Come prima conseguenza avremmo
l'immagine distrutta, e qui ci farebbero il culo. C'è il rischio di giocarsi posto e carriera, nel
tuo caso ti giochi anche la fidanzata.»
Matteo seppe lavorare bene dentro la mia testa e fui solo in grado di dargli ragione.
19

Nonostante Lastella ci avesse ordinato di non indagare sulla morte del figlio né io né
Grotti mollammo, anche se non ufficialmente.
Il mio compito era capire il significato di quella frase: "il rosso era il tuo colore".
Partendo da un'analisi sociologica del sintagma, questo rivelava, data l'estrapolazione
dalle Lettere di compleanno di Hughes, un possibile alto grado di cultura e una stretta
affinità con studi letterari: data l'età della vittima, uno studente o una studentessa di
letteratura inglese, per cui presumibilmente una persona all'interno del college,
considerando anche la difficile accessibilità all'istituto.
Per cogliere a quali significati rimandasse il colore rosso in relazione alla vittima,
bisognava invece differenziare l'interpretazione su due livelli per poi fonderli e ottenere il
reale significato. Il primo livello lo si aveva partendo dal presupposto che il significato di
una parola è il suo uso nella lingua comune, il secondo lo si aveva invece cercando il suo
valore idiolettizzato, cioè personale, all'interno del sistema comunicativo tra vittima e
assassino. Era necessario capire in che modo il significato lessicale, riletto però in chiave
simbolica o metaforica, si fondesse con quello del testo reinterpretandolo attraverso il loro
codice privato.
Allora, in che senso il rosso era il colore di Stefano Lastella? Era, seguendo il primo
livello interpretativo, semplicemente il suo colore preferito? Perché la vittima, come la
Plath secondo Hughes, amava avvolgervisi in quanto colore del sangue, dell'ematite,
dell'ocra, delle tende di velluto, dei cuscini, dei papaveri, del rossetto cremisi? Ma nulla di
rosso era presente nella sua stanza e la macchina trovata nel parcheggio era una Porsche
Boxter nero metallizzato. Oppure il rosso segnalava che Lastella era un pericolo per la
comunità, quindi da eliminare, o altrimenti, seguendo un ragionamento che astraeva dalla
simbologia semaforica, era solo uno che amava imporre la sua personalità attraverso
divieti, imposizioni, costrizioni?
O ancora, raggiungendo il secondo livello, indicava che era un fan dei Red Hot Chili
Peppers? O magari uno che amava travestirsi di rosso nei momenti intimi? O infine uno
che adorava guardare i tramonti seduto dentro una cartolina?
E i due livelli interpretativi, una volta concatenatisi, in che modo riformulavano il senso
del sintagma in questione? Domande corrette, molte ipotesi, ma risposte concrete non
seppi trovarne.
Crotti, da parte sua, una volta chiesto l'elenco di coloro che avevano seguito il corso di
letteratura inglese e allo stesso tempo frequentavano ancora l'istituto, volle saperne di più
sulle abitudini notturne degli studenti del college, controllati com'erano risultava
impossibile che durante il giorno avessero margini di movimento. Lavorò da solo fino a
quando chiese il mio aiuto, anche se questo non era contemplato tra i miei compiti.
Crotti era entrato in contatto con il figlio di un diplomatico cileno di nome Manuel al
secondo anno di college. Fermato un paio di volte ubriaco, non gli era stata ritirata la
patente grazie all'intervento del padre e Crotti ne aveva approfittato offrendosi di
accompagnarlo all'istituto accostando ogni cinque minuti per evitare di farlo vomitare in
macchina, ma non era riuscito a fargli dire qualcosa che permettesse alle indagini di
procedere.
Così, due mesi dopo l'omicidio, verso mezzanotte, eravamo a fine ottobre, ma faceva già
freddo come in inverno, mi presentai in una villetta di Baggio. Mi ci aveva portato
Manuel, vent'anni e grosse macchie bianche che gli pezzavano la pelle, sembrava fosse
caduto nella candeggina, intorno alle orecchie e sulla gola era persino stinto.
Lo avevo agganciato all'aperitivo dell'Hotel Diana grazie a Giusy Cardone, una
poliziotta dall'aspetto tramortente che si era fatta abbordare. Sotto gli occhi delle guardie
del corpo, Manuel ci stava già provando, la sua mano bicolore dalla schiena nuda stava
scendendo verso il culo in minigonna della Cardone quando mi misi in mezzo baciandola
sulla bocca. Manuel fece per andarsene, io lo bloccai e lo invitai a bere, lui accettò per non
mostrare di aver accusato il colpo.
«Dimmi, che fai?»
«Niente, stavo solo parlando, non sapevo che fosse la ragazza di qualcuno.»
«Intendevo nella vita.»
«Studio, ma non mi va tanto.»
«Allora come passi il tempo?»
Mi raccontò che il padre ogni due anni veniva trasferito in una città diversa, prima
Roma, poi Madrid e adesso Milano, e che era stufo di ricominciare ogni volta. Gli chiesi
«Che fate la sera?».
«Organizziamo feste, affittiamo delle ville a Milano o nei dintorni, ci divertiamo un po'.»
«In che modo?»
«Non è roba per gente della tua età.»
«E chi lo dice?»
«Perché, ti andrebbe di venire?»
«Sì, mi andrebbe.»
Passata una settimana ci muovevamo verso Baggio, Manuel guidava una Chrysler presa
a noleggio dopo essere uscito di nascosto dalla lavanderia che dava sul retro e che serviva
per portare dentro le ragazze.
Era senza scorta, baipassata da quell'espediente, ma in compenso a fargli compagnia
aveva un paio di mojito bevuti a stomaco vuoto: la traiettoria delle curve non era quella
che ti garantisce di arrivare.
Ma arrivammo, in giardino due tipi con cappotti di pelle nera facevano finta di
chiacchierare fumando una sigaretta. Un loro cenno d'assenso, poi dentro musica trance a
un volume letale, ragazze in piedi che dondolavano la testa con bottiglie di Ceres in mano,
ragazzi che rollavano canne grosse come stick di colla, altri già in viaggio che ballavano
mirando delle immaginarie puntine da disegno sul pavimento. Lobotomizzato dai decibel,
un rottweiler girava tremante da un angolo all'altro.
Presi una birra, la prima di sei, e mi misi ad attaccare discorso con una bionda tinta,
magra scarnificata, quella giusta per dare un senso alla serata. Con un aggancio non
memorabile le dissi «Ciao, come va?».
Lei, senza nemmeno guardarmi «Stai cercando qualcosa?».
«Se te lo dico, tu me lo dai?»
«Dipende.»
Parlammo per ore, il nome non lo ricordo, qualcosa come Debby, odiava sua madre,
niente di strano per una ragazza, ma qui c'era poco da andare alla ricerca di inconsce
motivazioni, la madre era direttrice marketing di una ditta di surgelati e si scopava Marco,
il suo fidanzato, come ritratto di famiglia ne avevo visti di migliori.
Manuel, che diventava strabico sotto l'effetto dell'alcol, arrivò a chiedermi «Tutto
bene?».
«Ehi, Manuel, mi hai detto che ci saremmo divertiti, qui non succede un cazzo.»
«Cosa ti aspettavi?»
«Qualcosa che valesse la pena, di trovare feste così sono capace anch'io.»
«Tra quattro giorni, oggi volevo capire che tipo eri, con la birra ci dai sotto, una puttana
te la sei trovata, sembri uno a posto.»
«Manuel, niente pacchi stavolta.»
«Vedrai, non ti deluderò.»
Tornammo a casa verso le cinque, Debby o come si chiamava era schiantata sul divano e
per svegliarla avrei dovuto prenderla a calci, persino da ubriaco mi sembrava esagerato,
così afferrai le chiavi dell'auto, spinsi Manuel sui sedili posteriori e guidai fino al college
coi finestrini aperti. L'aria era fatta di fantasmi che ti salutavano quando li investivi.
20

Il caso di Betty e Lina sembrava giunto al capolinea. Non una pista da seguire, nessun
nuovo indizio, solo due corpi seppelliti a Musocco annoiati dalla morte. Io ero rimasto
l'unico interessato a scoprire chi le avesse uccise, ma non volevo espormi per non destare
sospetti e mi lasciai assorbire dall'omicidio Lastella.
Quattro giorni dopo Manuel aveva il cellulare spento e due ore di ritardo, doveva
passare da me alle undici e non si era ancora fatto vedere. Poi il citofono. «Scendi, siamo in
ritardo.»
«Siamo?»
Una volta in strada vidi che la Chrysler presentava preoccupanti ammaccature sul
cofano e su tutta la fiancata destra, doveva averci picchiato dentro mica male. Manuel, con
le pupille già che prendevano due direzioni diverse, disse «Pronto?».
«Lo chiedo a te, problemi?»
«La festa è stata spostata all'ultimo momento.»
«Cos'hai fatto alla macchina?»
«Niente, ci sono un sacco di deficienti in giro che non sanno guidare.»
«Certo, dove stiamo andando?»
«Stasera vedrai cose che non hai mai visto, curioso?»
«Non sarei qui.»
Dopo un'ora di strada, Manuel ruppe il silenzio e per la prima volta mi chiese «Ma tu
che fai nella vita?».
«Insegno lettere.»
«Sei un merdoso professore.»
«Se ti piace il termine.»
Riprese a stare zitto, io ascoltavo alla radio la voce del solito deejay che non aveva niente
da dire, infine superammo i cancelli di una villa a Cernobbio. Alle spalle il lago di Como
era pronto per una descrizione del Manzoni mentre il giardino illuminato da fiaccole mi
apparve come un'anteprima della desertificazione.
Entrammo che erano da poco passate le due, ragazzi e ragazze affollavano un ampio
locale completamente spoglio, sulle pareti affreschi sbiaditi ricordavano scene di caccia al
fagiano, nell'angolo di sinistra un rasta, con così tanta cera nei capelli da poterlo
accendere, spacciava alcol davanti a un altoparlante, se era lì da più di cinque minuti
doveva già essere sordo. Io presi un gin tonic, Manuel una vodka col Red Bull e insieme si
calò una pasticca. La seconda me la porse piccola e bianca sulla palma della mano.
«Vuoi?»
«Cos'è?»
«Roba giusta, ti arriva dritta al cervello, ti disconnette da tutto e il cazzo ti rimane duro
per ore.»
«Me lo ricorderò.»
La festa prese presto un'altra piega. Una quindicina di ragazzi strafatti circondò un paio
di ragazze dalle grosse tette che ballavano mentre si passavano una bottiglia di Jack
Daniel's. Urla disumane accompagnarono il primo bacio tra le due, quando si tolsero
reciprocamente la maglietta quasi tutti i ragazzi tirarono fuori l'uccello e a turno le fecero
mettere in ginocchio. Un pompino di gruppo, inghiottii catarro e feci quello che le aveva
già viste tutte e invece non aveva visto niente. «Manuel, sai la novità.»
«Aspetta.»
Non c'era nulla da aspettare, bastava alzare lo sguardo, dietro il cerchio dei ragazzi coi
pantaloni calati erano spuntate delle mini-dv che riprendevano la scena da diverse
angolazioni.
«Cosa stanno facendo?»
«Non lo vedi?»
Manuel si tolse calzoni e slip, mi incitò a fare altrettanto, poi si mise in coda.
21

La tentazione fu forte, ma non partecipai.


Tra eccitazione e disgusto guardai quelle due ragazze scopate e filmate fino all'alba.
Erano come le Pringles, uno schifo terribilmente attraente.
In auto Manuel disse «Non vali un cazzo».
«Non sono ancora pronto a divertirmi umiliando qualcuno.»
«Non fare il moralista, le ragazze prendono un sacco di soldi, ma la cosa che me lo fa
tirare dì più è che non sono delle professioniste, le troviamo tra bariste, cameriere,
studentesse che hanno problemi a pagare l'affitto, che non si comprano un vestito decente
da mesi. Alcune rifiutano ma la maggior parte non sa dire di no davanti a mille euro.»
«Le troviamo chi?»
Non rispose e io non feci più domande, l'auto si era immessa nel traffico pendolare che
portava a Milano, padri di famiglia che si intruppavano verso il lavoro, ragazzi che
rotolavano a scuola, madri che spingevano bambini all'asilo mentre altre si chiedevano
cosa fare per cena. Su tutto le previsioni del tempo per il weekend, il bucato da fare e le
tende da mettere, ovvero la vita come ce la insegnano senza dirci cosa c'è dietro.
Ritornammo lentamente, dai finestrini entravano sospiri di nuovo giorno, infine sotto
casa. Manuel disse «Non so se ti chiamo ancora».
«Lo immaginavo, che fine fanno quei filmini?»
«Devo andare.»
«Che fine fanno quei filmini?»
«Sono ovunque, ciao stronzo.»
Scesi dalla Chrysler incidentata che erano da poco passate le nove. I negozi stavano
aprendo saracinesche di inutili speranze, un balordo reduce da una rissa si tamponava la
faccia con un fazzoletto bagnato, un autobus passava carico di bestiame, un piccione
morto davanti alle scale con la testa schiacciata dall'impronta di un anfibio, la mia mano
che tremava nel mettere la chiave nella serratura.
22

Il risveglio non fu come mi sarei aspettato. Volevo capire a cosa avessi assistito quella
notte, per trovare chi aveva ucciso Stefano Lastella dovevo solo mettere insieme ciò che
avevo. Non ci fu il tempo.
Erano passate meno di tre ore da quando mi ero sdraiato su un letto che aveva bisogno
di lenzuola pulite che già mi trovavo sul tetto di un magazzino di Cotogno Monzese, una
ragazza era stata uccisa. L'aveva trovata un elettricista con problemi d'udito salitovi per
lavori di manutenzione.
Nuda, capelli come petrolio, giovane, aveva il corpo completamente coperto di
ecchimosi iridate, sembrava uscita sconfitta da una battaglia shakespeariana. La scientifica
era già passata. Crotti, piegato sulle ginocchia davanti a lei, la osservava ancora prima che
la portassero via. Disse «Ti ricorda niente?».
«Mi ricorda tutto.»
I vestiti furono recuperati poco dopo sul tetto della palazzina di fronte dentro un
sacchetto della Rinascente ripiegati in perfetto ordine, le scarpe lì accanto. Chiunque fosse,
era tornato ed era tornato con la sua mazza da baseball.
La ragazza si chiamava Anna Liguori, nella foto sulla carta d'identità gli occhi erano così
spalancati che sembrava ti guardasse da qualche costellazione sconosciuta. Ventidue anni
da compiere, un diploma da operatrice turistica, lavorava alla Azzurra Travel, un'agenzia
specializzata in pacchetti vacanze over cinquanta comprensivi di sosta per fanghi e cure
idropiniche.
I genitori da compiangere erano le prime persone di cui Grotti doveva occuparsi. Andai
con lui.
Ci ricevettero in un appartamento dove la tappezzeria a righe gialle e verdi si
sconnetteva dalla parete. Grotti fece le condoglianze e chiese alla madre «Chi frequentava
sua figlia?»
«Quando usciva, usciva con Roberto, il suo fidanzato.»
Erano due ex lavoratori Alfa, il padre, Attilio Liguori, operaio al reparto verniciatura, la
madre, Maria Errante, impiegata in amministrazione. Si erano conosciuti in fabbrica sul
declino degli anni Settanta quando lui andò a reclamare per la detrazione in busta paga di
un permesso mai preso. Litigarono, Attilio per scusarsi le mandò un mazzo di margherite,
nacque l'amore, Anna però arrivò quasi subito, non era prevista, soldi non ce n'erano, ma
decisero di tenerla e di sposarsi. Se avessero saputo come sarebbe andata a finire
avrebbero fatto bene a spendere meglio i loro soldi, magari materassi più comodi e
vacanze in alberghi a tre stelle,
Quando uscimmo era ormai sera, eravamo stanchi, affamati e l'aria gelida di novembre
riassumeva i discorsi in piccoli banchi di nebbia davanti alla bocca, ma andammo dal
fidanzato di Anna, impiegato al supermercato della Stazione Centrale. Era il classico
ragazzo a posto, occhiali troppo grandi per occhi piccoli, capelli corti che non avevano mai
avuto il piacere di un taglio decente, il tipo che non viene mai a scoprire che la ragazza lo
tradisce da anni con il migliore amico, di lei o di lui non ha importanza.
Roberto stava attaccando il turno per riempire i bancali di fette biscottate e sabbia per
gatti e non sapeva ancora della morte di Anna. Ebbe un malore, la testa gli girò come un
frisbee, quando si riprese era più bianco di una cavia albina.
Grotti gli chiese «Dov'eri al momento dell'omicidio?».
«Stavo dormendo, chiedete ai miei.»
«Allora è uscita con qualcuno che non eri tu.»
«Non è da lei.»
«Vai a casa adesso.»
«Non c'è più una casa, non c'è più niente.»
Non sapevo come ci si comporta in quelle occasioni, mi sentivo uno scemo a guardare
un brufolo poco sotto il suo naso, così aggiunsi solo «Mi spiace».
23

Manuel mi aveva detto dove cercare, in quel mondo oscuro che è la casa di ciascuno di
noi, dove ogni aberrazione diventa legge privata, dove basta accendere un computer per
essere nel regno di teenager esibizioniste, di casalinghe eroticamente impazzite, di maniaci
attrezzati per sostenere un esame sulla tortura.
Rimasi in internet per ore e se si ha una concezione del sesso, qualsiasi essa sia, se ne
esce con un'altra, più vicina al delirio di quanto si possa supporre, più pericolosa di
quanto si possa immaginare.
La mia idea era che i ragazzi dell'International College of Milan si credessero
onnipotenti – avevano tutto, padri ricchi, insegnanti severi ma ossequiosi, donne in
abbondanza – e che avessero perso il senso della misura. Ma Stefano Lastella, ora ne ero
certo, lo aveva perso più di altri.
Centinaia di tentativi attraverso infiniti blind link per arrivare al sito che cercavo
sembravano non bastare, ma quando avevo smesso di crederci, lo trovai:
www.micoho.com, crasi di Milan College Hotties.
Dominio che non solo ricostruiva l'appartenenza semantica del colore rosso al concetto
di pornografia, ma racchiudeva probabilmente il movente dell'omicidio: i filmini delle
feste erano tutti lì, ordinati per data a partire da quattro mesi prima, circa uno alla
settimana, l'ultimo era quello cui avevo partecipato.
Dopo aver guardato dei demo di una decina di secondi, pagai quattro dollari e
novantacinque tramite carta di credito per accedere alle riprese in versione integrale, le
scaricai e il giorno dopo le portai a Giuseppe l'erri, l'agente scelto addetto
all'identificazione delle persone, baffi intirizziti dalla nicotina, un figlio piccolo e il
secondo in arrivo, una moglie che ogni sera gli faceva comprare tutte le cose che lei aveva
inesorabilmente dimenticato.
Volevo rintracciasse le ragazze nei video, una per una, più o meno una quindicina.
Giuseppe visionò il materiale e disse «Non credo a quello che ho visto».
«Credici.»
«Ma dove arriveremo?»
«Perché parli al futuro?»
Giuseppe ci credette, frugò negli archivi informatizzati delle università e nove giorni
dopo mi chiamò, sette di loro avevano già un nome. Il cognome era quello di padri e
madri che le avevano viste crescere nutrite col sugo delle loro speranze, che risparmiavano
per il matrimonio della figlia, che si emozionavano se le loro bambine ottenevano un
aumento di stipendio.
24

Giuseppe, sigaretta a fumargli tra le labbra, mi consegnò l'elenco, trattenendolo un attimo


prima di lasciarmelo. Poi disse «Vorrei darti un consiglio, se posso».
«Certo.»
«Stai attento, non lo dico per te, ma per le ragazze, se si sa in giro quello che hanno fatto,
sono rovinate.»
«Lo farò.»
Nessuna aveva più di ventisette anni. Tra queste tre erano iscritte a medicina e a
psicologia, una a scienze politiche e una a economia e commercio. Le ultime due erano
rispettivamente laureate in lettere e lingue e letterature straniere. Mi concentrai su queste
ultime, Francesca Varisco e Simona Ursi.
La prima lavorava nel Burger King di via Foscolo, ci andai non sapendo né cosa dire né
cosa fare, l'avrei imparato in quel momento.
Mi sedetti, la guardai servire, mani che scavavano veloci nelle patatine fritte, coca
grande o piccola, la bustina troppo larga che cadeva in continuazione sulla fronte, non
sembrava una che avesse accettato di essere messa al centro di un'orgia, gli occhi erano
quelli di Liz Taylor quando Lassie si allontanava per più di cinque minuti.
Passò del tempo, bevvi un milk-shake gusto calce, poi vidi Francesca togliersi la divisa e
sparire. Riapparve pochi minuti dopo, si infilò il cappotto mentre salutava i colleghi,
uscendo si mosse in direzione della fermata d'autobus, nervosa nel cercare l'accendino
dentro la borsetta.
L'affiancai. «Mi chiamo Matera e vorrei parlarle.»
«Io no.»
Non mi aspettavo una risposta del genere e non fui in grado di replicare. Fu lei a
salvarmi da quella situazione mentre una Marlboro le rimbalzava tra le dita. «Ti chiami
Matera, ma chi sei?»
«Stefano Lastella è stato ucciso.»
«L'ho letto sui giornali.»
«Io no, l'ho visto morto nel suo letto.»
«Te l'ho già chiesto, Matera, chi cazzo sei?»
Le dissi che ero un ex insegnante di lettere che lavorava come consulente per la polizia e
aggiunsi «Tranquilla, la mia indagine non è ufficiale, i tuoi non verranno a sapere di
questo colloquio».
Ci sedemmo sui gradini del Duomo, la gente camminava veloce verso casa, cibo caldo e
un film in cassetta, verso una linea di metropolitana, verso il prossimo amore o il prossimo
dolore, se c'è una differenza la devo ancora cogliere.
La luce della sera era una patina sul volto di Francesca. «Non so perché ho detto di sì, ce
l'avrei fatta anche senza quei mille euro, in quella proposta c'era però qualcosa che non mi
faceva dormire la notte, poi ho vomitato bile per una settimana, ma non l'ho ucciso io se è
questo che vuoi sapere».
«Sì, è questo.»
«A proposito, i miei sono morti l'anno scorso nel traforo del Monte Bianco, bruciati
vivi.»
«Scusa.»
«Mi sono accorta che non sei del mestiere.»
«E allora aiutami, sai chi possa essere stato?»
«No, ma è qualcuno cui sono riconoscente.»
«Mai sentito parlare di Ted Hughes?»
«È uno scrittore, se non sbaglio.»
«Più o meno.»
«Matera, allora ci vediamo.»
«Ci vediamo Francesca, prima posso dirti ancora una cosa?»
«Se credi sia importante.»
«Hai le dita sporche d'olio.»
«Adesso le pulisco.»
25

Non essendo direttamente coinvolto nelle indagini sul Frantumaossa, così


soprannominato da Scalzi che sulle pagine del "Corriere" per primo aveva fatto notare la
somiglianza tra gli omicidi di Betty e Lina e quello di Anna, ebbi qualche giorno di tempo
per conoscere altre ragazze. Erano piuttosto diverse l'una dall'altra, eppure mi sembrò di
avere a che fare sempre con la stessa, con lo sguardo basso che si scioglieva sul pavimento.
Ne incrociai tre, insabbiate nei loro tormenti, nessuna avrebbe avuto però la forza e il
coraggio di uccidere, ma quando riuscii a incontrare Simona fu diverso, lei aveva la giusta
carica d'odio. Ci voleva una donna che non la rivolgesse contro se stessa, ma che si sentisse
tradita dalla vita, che sentisse di non avercela fatta.
Simona Ursi, cicatrice sulla tempia segno di una caduta dalla bicicletta quando aveva
undici anni, lavorava in un centro fotocopie di viale Monza respirando azoto e polvere di
toner dieci ore al giorno, lo straordinario le serviva per comprarsi un vestito firmato
all'anno. Non abitava lontano, qualche angolo da svoltare, mi fece salire, poi dentro un
lungo corridoio, sulle pareti centinaia di polaroid in bianco e nero che scattava
continuamente e ovunque, senza prendere l'inquadratura. Sembrava di percorrere le
pareti di una mostra da cui emergevano squarci invisibili all'occhio umano, come se
vivessimo circondati dal nulla e ci costruissimo dentro case, strade, famiglie.
In fondo al corridoio, una camera e una finestra da dove la luce entrava come in visita a
un parente malato.
Simona aveva ventiquattro anni, la spallina del reggiseno rosa che spuntava dalla
scollatura della maglietta, un cane senza la zampa posteriore destra e qualche linea di
febbre, l'influenza le stava riscaldando il sangue da giorni. Tossì e disse «Ce l'ho da
quando mi hanno rubato il giubbotto in discoteca, sotto avevo solo un top e ho preso
freddo, ero andata al Tocqueville, lo conosci?».
«Mai stato.»
«È il mio locale preferito, ho un amico alla porta, mi fa entrare gratis, se vuoi ci metto
una buona parola.»
«Non serve.»
«Tu sei qui per sapere se l'ho ucciso io.»
«L'hai ucciso tu?»
«Sì.»
Un attimo di morte vissuta, poi dissi «Ti ascolto, Simona».
«Stefano è entrato un giorno in negozio con la scusa di fotocopiare un certificato, poi mi
ha chiesto se mi andava un panino con lui e gli ho detto di sì, mi ha aspettato al bar e mi
ha domandato se guadagnavo abbastanza, quando gli ho risposto "sempre troppo poco"
ha messo sul tavolo mille euro ed è stato zitto. Che ci fosse qualcosa che non andava l'ho
capito subito, con me avrebbe scopato gratis, non c'era bisogno di tirare fuori tutti quei
soldi.»
Simona si voltò, accarezzò il cane, dei peli si sollevarono, un raggio di sole li trasformò
in aghi sfuggiti alle mani di una sarta. Poi disse «Un tumore, non era possibile
salvargliela».
Lo osservai, lui ricambiò il mio sguardo e nei suoi occhi vidi che di notte, prima di
addormentarsi, soffriva per non avere più prati da correre.
Simona continuò «Il sesso mi piace, già una volta mi ero trovata a letto con un paio di
ragazzi, farlo con tre o quattro non sarebbe stato un problema, non sapevo che sarebbero
stati sette, ma non l'ho ucciso per questo».
«Allora perché?»
«Non mi aveva detto che sarei stata ripresa e che le immagini sarebbero finite su
internet.»
«Le ha viste qualcuno?»
«Sì.»
«Chi?»
«Un ragazzo, aveva perso la testa per me, glielo dicevo di non insistere, che non era il
mio tipo, ma lui niente, e un giorno si è presentato a casa mia e ha lasciato un CD, inutile
dire cosa contenesse. La sera stessa mi hanno buttata fuori di casa.»
«E poi cos'è successo?»
«Presumo tu sappia come si entra e si esce di notte dal college, il resto puoi immaginarlo
da solo.»
«Credo anch'io, ma dimmi solo perché hai scelto quella poesia di Hughes.»
«Come Hughes è stato l'assassino morale della Plath, Lastella lo è stato per me, così ho
pensato che il rosso fosse il colore della vergogna che avrebbe dovuto provare.»
«Già, rosso significa anche questo.»
«Mi denuncerai?» «Non lo so.»
«In ogni caso, non ho rimorsi.»
Il tempo di scendere in strada e avevo già deciso cosa fare. Tornai indietro, lei aprì e
senza astio nella voce disse «Cosa vuoi ancora?».
«Simona, vattene di qui.»
«Perché?»
«Non sono l'unico a cercarti e gli altri non saranno esattamente come me.»
«Non importa.»
26

«L'ho lasciata andare.»


Valeria mi guardò ammirata, era la seconda volta che accadeva, la prima quando le
avevo comprato il giornale. Da una settimana non ci vedevamo, le telefonate erano rapide,
c'era forse la paura di scoprire che avevamo poco da dirci, di sicuro sentivamo che le cose
non erano più come un tempo. Chiese «Che fine farà?».
«Spero nessuna.»
La fine ci fu e fu più rapida del previsto. Simona venne trovata morta sotto il suo
balcone cinque giorni dopo, spezzata contro la base di un lampione. La notizia era
riportata dai quotidiani tra le notizie locali di cronaca nera, giovane tossicodipendente si
butta dal sesto piano. Quando la lessi sentii lo stomaco tentare di uscire passando per la
gola, Simona non era una che si faceva e una che non ha rimorsi non si suicida, ma
Lorenzo Lastella non aveva mai saputo cos'era il perdono.
Camminai attraverso la città fino a casa sua, odori di spazzatura fermentata, fritto
stantio e gas di scarico, entrai in cortile, laggiù in un angolo un cane, un cazzo di cane
come ne vedi tanti, ma questo aveva una gamba in meno, occhi di neoprene, freddo tanto
freddo. Mi inginocchiai davanti a lui, lo abbracciai e gli dissi «Andiamo».
Gli diedi un biscotto, lo mangiò, lo vomitò. Stava morendo, il sogno di tornare a correre
non si era avverato e chi gli aveva voluto bene era un contorno di gesso sul marciapiede.
Lo portai dal veterinario, ai cani è concessa la grazia di andarsene al momento giusto.
27

A fine novembre Milano aveva l'aspetto di una mummia pronta a polverizzarsi. Così,
dopo la morte di Simona, mi diedi malato per una settimana, primo segno di un malessere
che sarebbe andato aggravandosi.
Furono giorni tranquilli, un paio di senzatetto cui era stato dato fuoco il caso più
eclatante, talvolta per distrarmi scendevo da Giorgio al negozio di dischi per dare
un'occhiata ai nuovi arrivi. Improvvisamente la quiete si ruppe come un lago ghiacciato
con l'arrivo del primo caldo, ma la luce dì quella mattina era priva di angoscia, era la
stessa che splende tra le pareti di un quadro al momento del trapasso di un santo.
Dentro quella luce c'era il parco Sempione, c'era il laghetto del parco Sempione, c'era
una ragazza spappolata nel laghetto del parco Sempione, c'era un sacchetto della
Rinascente con i suoi vestiti ripiegati, c'erano le sue scarpe appaiate sotto un albero. C'era
che il Frantumaossa era tornato.
Non fu facile identificare la ragazza, non aveva documenti e la mazza da baseball si era
particolarmente accanita contro la sua faccia, i denti erano ridotti a schegge per
masticazioni primordiali. La denuncia relativa alla scomparsa di Jessica Nisi permise di
dare un nome a quel volto frullato.
Jessica era nata a Chieti, si era trasferita a Milano a diciotto anni, era morta a diciannove
in una pozza d'acqua. In quell'anno di permanenza a Milano si era iscritta alla facoltà di
giurisprudenza, aveva iniziato a bere tornando a casa che era quasi mattina, un uomo fisso
non l'aveva ma in una tasca della borsa un preservativo stava a significare che non
rifiutava i rapporti occasionali.
«Era cambiata, ma non come avrei voluto.»
Parole del padre Salvatore, muratore, incisivi enormi e grigiastri come porte di un
sepolcro, sul viso il gonfiore di chi si nutre quasi esclusivamente di carne.
La stampa saltò sul caso come non avesse altro da scrivere, scavò nella vita privata delle
vittime facendole sembrare delle predestinate a una fine violenta, istigò la città alla paura.
28

In quel periodo avevo continuato a frequentare Matteo, lui mi telefonava se aveva delle
ragazze sottomano, ma quello non era l'unico motivo: la mia compagnia sembrava
piacergli e spesso ci trovavamo anche solo per bere qualcosa. Ero lontano dal sospettare
che Matteo e il Frantumaossa fossero la stessa persona, ma con lui non ero mai del tutto a
mio agio.
Due episodi mi fecero dubitare della sua personalità, due fatti che spalancarono una
porta sulla possibilità di capire chi fosse in realtà e quando una porta si apre, i cardini si
muovono sempre al buio.
Il primo accadde tra la morte di Anna e quella di Jessica. Eravamo nel suo
appartamento, stavamo bene, il vino bianco mi aveva trasmesso la giusta euforia anche se
il best dei Dire Straits che Matteo ascoltava ad alto volume stava cercando di farmela
passare.
Alla terza bottiglia mi dondolavo sulla sedia quando Matteo, passandomi alle spalle,
urtò una delle gambe e mi ritrovai steso sul pavimento dopo aver battuto la testa. Persi i
sensi per qualche secondo e mi ripresi per l'intenso dolore alla mano destra.
Largo almeno un centimetro, un frammento di vetro del bicchiere da cui stavo bevendo
si era conficcato al centro della palma, cosa che poteva essere accaduta senza nessun
intervento esterno, ma sembrava che Matteo cercasse di affondarlo ancora di più nella
carne, con un piede mi era salito sulla mano.
Mi alzai di scatto, ma rendendomi conto di essere quasi ubriaco e in più stordito dalla
botta allontanai quel pensiero. Le scuse di Matteo per aver spinto la sedia fecero il resto,
anche lui era annebbiato dall'alcol, e credetti di essermi immaginato tutto, tranne i punti di
sutura, nove, che il pronto soccorso mi cucì lungo la linea della vita.
Il secondo episodio accadde dopo l'omicidio di Jessica, eravamo a metà dicembre e
l'atmosfera natalizia intasava le strade. Matteo mi aveva portato all'Atlantic dove eravamo
entrati mostrando il tesserino della polizia. Prima, quando andava bene, rimanevo in coda
almeno mezz'ora e talvolta mi rimbalzavano anche, ma quel documento da sventolare
come passe-partout non mi faceva sentire uno importante, solo uno che, come tutti, sfrutta
il piccolo potere che ha.
Una volta dentro, la discoteca mi apparve come la Cappella Sistina vista da Lucifero,
centinaia di uomini e donne si muovevano in una solitudine immensa, quella in cui si
cerca qualcuno senza sapere chi.
Ci avvicinammo al bancone del bar, un gay dalle labbra rifatte che muoveva il collo
come un tacchino si voltò di scatto verso di noi e, scontrandosi con Matteo, gli rovesciò
sulla camicia qualcosa che assomigliava a un Singapore sling.
Matteo lo fissò, poi gli prese la faccia tra le mani e tenendolo fermo lo centrò con una
testata in pieno volto. Il naso si sbriciolò, una goccia di sangue andò a condire il liquido
nel bicchiere, poi il tipo cadde all'indietro urtando due modelle anoressiche alle sue spalle
che si spostarono continuando a parlare.
Mi misi in mezzo e dissi «Matteo, che cazzo fai?».
«Calmo, è tutto a posto.»
«Non direi.»
«Cosa bevi?»
«E quello lo lasci lì così?»
«Di chi parli?»
Scostai il braccio che Matteo aveva messo sul mio. Mi avvicinai al ragazzo per terra, i
suoi pantaloni di pelle nera con bande laterali di strass erano ributtanti ma la camicia finto
stropicciato non era male. Gli diedi dei fazzoletti di carta per tamponarsi il sangue. Mi
disse «Quello è pazzo».
«Se è vero, non me ne ero ancora accorto.»
«Lo denuncio.»
«Tempo perso, è della polizia.»
Quando mi voltai Matteo se n'era andato, lo cercai tra sudore e spinte, infine andai al
parcheggio per vedere se l'auto era ancora lì. Non c'era.
29

Il 2001 era vivo da pochi giorni quando trovai il coraggio di affrontare con Matteo
l'argomento del Frantumaossa. Fino allora tenuto lontano dai nostri discorsi, lui in attesa
che facessi il primo passo, io per il senso di colpa dovuto alla morte di Betty e Lina.
Successe davanti a una birra in un pub finto-irlandese-finto. Approfittai di una pausa e
dissi «Ci ho ripensato, credo sia meglio dire a Tosi che conoscevamo le ragazze».
«Sei impazzito.»
«Detto da uno psicologo dovrei preoccuparmi.»
«Te l'ho già spiegato cosa succederebbe, è quello che vuoi?»
«Voglio che il Frantumaossa venga trovato.»
«Frantumaossa, bel nome non credi?»
«Credo sia un nome che ha creato un personaggio e se diventi un personaggio c'è
sempre qualcuno pronto a difenderti.»
«La scientifica ha trovato tracce di vernice azzurra su alcune delle schegge di legno
rimaste nella pelle delle vittime, lo sapevi?»
«Sì, perché me lo dici?»
«Mi piacerebbe sapere cosa ne deduci.»
«Che ha usato una mazza colorata o che ha ambizioni artistiche.»
«Originale, e poi?»
«Che vuole lasciare una traccia e che come tutti i criminali desidera essere preso ed
espiare le sue colpe.»
«Dici sul serio?»
«No.»
«Sono cazzate da film thriller, nessuno vuol essere veramente catturato.»
«Dimmi tu cosa ne pensi.»
«Non teme nessuno e se ne fotte se dalle tracce di vernice possono risalire a lui.»
«Pensi di saperlo solo perché hai letto nel buco del culo di Freud?»
«Può essere.»
«E i vestiti ripiegati nei sacchetti della Rinascente?»
«Ha qualche problema irrisolto con la madre, si ricorda di quando lo rimproverava di
lasciare tutto in disordine o di quando lo costringeva a rifare il letto prima di andare a
dormire.»
Di birre ne bevemmo più di una, poco prima della chiusura del pub ci alzammo e
uscimmo nel traffico di Milano, auto in coda in qualsiasi direzione, direzione che è sempre
la stessa, qualsiasi svolta uno decida di prendere, e siamo morti prima di aver fatto l'amore
con tutte le persone di cui ci innamoriamo, prima di aver letto tutti i libri che sfogliamo,
prima di aver cantato tutte le canzoni che ascoltiamo, prima di aver vissuto tutte le felicità
che desideriamo, prima di aver camminato tutte le strade che incrociamo, in qualsiasi
modo prima, mai dopo. Accompagnai Matteo alla macchina e lo salutai «Vado a casa, ci
sentiamo domani».
«Tieni sempre gli occhi aperti.»
«Lo faccio sempre, non temere.»
Arrivato sotto casa, via Procaccini era una strada lunga e ventosa in fase REM, mi
sedetti sui gradini d'ingresso accanto a una giovane prostituta di colore che aspettava il
primo convinto di divertirsi e dissi «Non ti ho mai visto da queste parti».
«Sono qui da pochi giorni.»
«E prima scommetto pochi giorni da un'altra parte.»
«Proprio così.»
«Come ti chiami?»
«Candice.»
Fosse sinusite cronica o tic da cocaina, fatto sta che Candice tirava su col naso ogni
trenta secondi. A guardarla non dimostrava vent'anni. Poi le dissi «Mi sono sempre
chiesto cos'è l'amore per una puttana».
«Domanda difficile.»
«Provaci.»
«Nel mio paese diciamo che è qualcosa che tu non vuoi, ma non puoi stare senza.»
«Bella.»
«E per te?»
«È un processo di assoluzione, sai chi è la vittima, ma non c'è mai un colpevole.»
La lasciai sulle scale, con me al suo fianco i clienti non si sarebbero avvicinati, e andai a
letto pensando che Matteo avesse voluto dirmi qualcosa di cui era venuto a conoscenza,
ma che a me era sfuggito.
30

Il problema era capire cosa e perché lo avesse fatto. La traccia da seguire sembrava
obbligata, la vernice azzurra, così telefonai ad Arturo Ricordi, il chimico incaricato delle
analisi. Alla domanda quali fossero i risultati, rispose «Sulle mazze da baseball vengono
utilizzate solo vernici laccate, in questo caso si tratta di una comune tempera acquistabile
in qualsiasi colorificio. Sotto c'è ancora la laccatura originale».
«È stato quindi l'assassino a colorare la mazza.»
«È probabile.»
Poi capii: se Matteo aveva voluto dirmi qualcosa, me l'aveva detta attraverso la chiave di
interpretazione che mi apparteneva, quella semiotica. Quindi la soluzione non stava nella
vernice, stava nell'azzurro in quanto colore: prima il rosso dell'omicidio Lastella, ora
l'azzurro e già temevo quello che avrei potuto trovare.
Andai in questura e mi feci consegnare i rapporti sul ritrovamento dei corpi. Osservai le
foto dei cadaveri, tumescenti palloncini in attesa di esplodere, ma tutte le ragazze, come
già sapevo, erano nude. Passai a leggere l'elenco con la descrizione degli effetti personali
ritrovati nei sacchetti della Rinascente per ciascuna delle quattro vittime. Ognuna di loro
aveva qualcosa di azzurro.
Lina: un cardellino attaccato al portachiavi.
Betty: un paio di ali stampate sul retro della maglietta.
Anna: la sciarpa di seta.
Jessica: un anello di lapislazzuli.
La peggiore tra tutte le previsioni possibili si era avverata. I quattro oggetti azzurri
ritrovati erano gli stessi presenti nel finale della poesia di Hughes, pur con alcune varianti
terminologiche (uccellino, ali, sete, gemma), quando il rosso smette di essere il colore della
Plath per essere sostituito dall'azzurro in quanto "più benefico".
Poiché l'indagine non si era svolta in modo ufficiale, solo in due, oltre a Tosi, erano a
conoscenza del fatto che la Ursi avesse citato quel componimento poetico: Crotti e Matteo.
Ma dato che il primo, oltre a una preparazione culturale da cavernicolo, non aveva
avuto nulla a che fare con Betty e Lina, non rimaneva che il secondo.
Mi sembrò di far parte di una commedia dell'assurdo, ma l'evidenza era sotto i miei
occhi e non poteva essere un caso.
31

Non sapevo cosa fare, se dire tutto a Tosi, rischiando di perdere la faccia e il lavoro, o se
affrontare Matteo, ma già l'idea mi terrorizzava.
Così, alla sua prima telefonata, era marzo da una settimana, l'unica cosa che seppi
organizzare fu una scusa per non vederlo. «Ho qualche problema con Valeria, ti chiamo
nei prossimi giorni.»
«Mollala quella comunista.»
«Ci sto pensando.»
Sentivo di dover agire in fretta, prima che Matteo uccidesse ancora, ma era come vivere
uno di quei sogni in cui si deve correre a più non posso senza riuscire però a muovere un
passo.
Non ne fui capace. Stefania Palmieri, la quinta vittima del Frantumaossa, fu trovata il
mattino successivo dentro una Nissan familiare rubata e poi abbandonata in una piazzola
di sosta lungo la tangenziale est nei pressi del casello di Agrate. Nel bagagliaio dell'auto i
suoi vestiti ripiegati dentro un sacchetto della Rinascente, le scarpe ancora una volta lì
accanto.
Ora poltiglia di donna, la Palmieri fino a poche ore prima aveva trentun anni, un
matrimonio a rotoli e un figlio di tre anni cui badare. Lavorava come infermiera
all'Humanitas di Rozzano, era riuscita a entrarci da un paio di mesi dopo aver prestato a
lungo con la Vidas assistenza ai malati terminali. La sera prima, finito il turno, era uscita
per andare come tutti i mercoledì a cena dai suoi, poi li aveva chiamati dal cellulare
dicendo «Arrivo un'ora più tardi».
Non sarebbe mai arrivata e la telefonata dei genitori, due anziani edicolanti spaventati
dalle voci sul serial killer, aveva fatto scattare le ricerche.
Non avevo il coraggio di andare sul luogo del ritrovamento, ci saremmo stati tutti, io, la
vittima, la polizia, l'assassino. Ma ci andai, non so come, ma ci andai. Matteo mi accolse
come niente fosse. «Ciao Tommy, siamo alle solite.»
Per il breve tempo di quel saluto mi sentii pervadere dal calore della fiducia, poi quel
poco di razionalità che mi era rimasta prese il sopravvento e guardai se tra i vestiti della
ragazza ci fosse qualcosa di azzurro, ma non trovai niente. E niente, a parte i lividi, sul suo
corpo nudo.
Insieme a Crotti andai a parlare con l'infermiera che aveva condiviso con la Palmieri
l'ultimo turno. Si chiamava Caterina, sessant'anni e voglia di vivere in prepensionamento,
non avesse indossato camice e zoccoli l'avrei presa per una paziente in astinenza da
fleboclisi. Ci disse «Doveva vedere un uomo».
«Sa chi era?»
«No e nemmeno me lo ha detto, l'ho capito da sola.»
«Da cosa?»
«Stefania era una riservata, ma quando aveva un appuntamento si cambiava e si
truccava, altrimenti non lo faceva mai, prendeva e se ne andava, le volevo bene, era una
ragazza a posto.»
«Anche le altre lo erano.»
«Lo prenderete?»
«Lo prenderemo.»
«Promesso?»
«Promesso.»
32

Mi trovavo in un vicolo cieco e per uscirne ricorsi a una sua contraddizione. Matteo aveva
lasciato intendere che nessun assassino vuol essere veramente preso, però mi aveva dato il
modo di arrivare a lui. O mi sfidava credendo non ci sarei riuscito o voleva coinvolgermi.
La sesta vittima, quarantotto ore dopo, mi fece prendere una decisione.
Teresa Lolli, da nubile Ogliari, era una casalinga di ventinove anni che viveva a San
Donato, a sudest di Milano. Aveva un marito assicuratore, una bimba nata da poco e
nessun problema tranne ricordarsi di risparmiare sulla spesa e arrivare viva alla sera
pulendo il culo alla piccola. Ma era bella e questo certe volte non è di aiuto per arrivare
vive alla sera.
Il corpo o quello che ne rimaneva – ogni volta era peggio quasi ci fosse sempre più
furore nella violenza del Frantumaossa – fu scoperto da due ragazzini, tredici massimo
quattordici anni con l'atteggiamento da mafiosi italoamericani, presso un canale di scolo a
un paio di chilometri dall'abitazione della donna. Interrogati da Crotti, risposero «È
perfetto per nascondersi quando non abbiamo un cazzo di voglia di andare a scuola».
«Lo conoscete solo voi e i vostri amici?»
«Ci vengono le coppiette e noi veniamo qui a guardarle mentre scopano.»
«Complimenti, bel divertimento.»
I vestiti della Lolli erano ripiegati dentro un sacchetto della Rinascente, le scarpe lì a
fianco, ma leggermente distanti tra loro e rovesciate, come se il Frantumaossa non avesse
fatto in tempo a terminare la scenografia. Niente di colore azzurro, il gioco, se di gioco si
trattava, era finito.
Matteo era lì. Lo affiancai e gli dissi «Sono pronto».
«Pronto per cosa?»
«Lo sai per cosa.»
Me ne andai, se Matteo era il Frantumaossa avrebbe capito, inutile aspettare una replica.
33

La settima vittima fu trovata a metà aprile nel parcheggio de Il Gigante, l'ipermercato di


Villasanta a cinque chilometri da Monza.
Giungemmo tutti in pochi minuti, tranne Matteo. Arrivò mezz'ora dopo, muovendosi
come si stesse domandando in quale scomparto avessero spostato le saponette.
Davanti a lui c'era il corpo di una donna, nudo, violaceo, poco distante, dentro un
carrello della spesa, un sacchetto della Rinascente e un paio di scarpe. Quella scena però
non gli apparteneva, un copycat era entrato in azione.
Aspettai si guardasse in giro, poi lentamente mi avvicinai a lui e dissi «Sono qui».
Mi fissò incredulo, come bruciato da una spina difettosa, poi di scatto mi prese
sottobraccio e mi chiese «Chi era?».
«Elisabetta Cattaneo, venticinque anni, impiegata da un mese in un call center della
Lufthansa.»
«Preciso ed efficace.»
«Te l'avevo detto che ero pronto, pronto anche a superare il maestro.»
«Non sperarci, aspetta di vedermi all'opera.»
«Dimmi quando.»
«Dopodomani sera da me, ti faccio sapere a che ora.»
«Ci sarò.»
34

Erano le nove quando mi presentai sotto casa di Matteo. Mi perquisì in cerca di microfoni,
mentre lo lasciavo fare dissi «Che fai, non ti fidi?».
«Dovrei?»
«Dimmelo tu.»
«Ti dico invece che mi hai sorpreso.»
«Non era forse quello che volevi?»
«L'idea era di intrappolarti in una situazione da cui era impossibile uscire, sapere chi è
l'assassino ma non poterlo provare, non mi sarei immaginato tutto questo.»
«E adesso?»
«Andiamo, ciascuno con la sua auto.»
«Dove?»
«Dalla ragazza, ti sei portato da giocare?»
«Domanda retorica.»
«Fanne tu una giusta.»
«Chi è?»
«Barbara Balestra.»
Non era una celebrità, era il sesso come lo si immagina quando non si scopa da mesi.
Lavorava a Telenova e conduceva l'edizione notturna del telegiornale: letta da lei la notizia
dello scoppio della Terza guerra mondiale avrebbe avuto la stessa importanza della
scoperta di una necropoli etrusca. Non era però il momento di un'analisi critica e dissi «A
che ora ti aspetta?».
«Non mi aspetta, non è detto che sia per stasera.»
«Da cosa dipende?»
«Se torna a casa si fa, se ha un appuntamento dobbiamo rimandare.»
Fece un giro lunghissimo, lo seguii per quasi due ore tra strade congestionate, voleva
essere sicuro che nessuno lo controllasse, infine tornammo a non più di un paio di
chilometri da dove eravamo partiti e ci fermammo in piazza Piemonte di fronte a
Telenova. Rimanemmo in auto per una decina di minuti, poco dopo le ventitré la Balestra
uscì e salì su una Volvo col lunotto scheggiato.
Ancora un quarto d'ora di Milano di notte, i fari delle auto erano punture di luce, poi
Matteo scattò in avanti, superò la Volvo e se ne andò come se la cosa finisse lì. Parcheggiò
in via Vigevano, scese in fretta chiedendomi di fare altrettanto e con un gesto da battitore
mi ordinò di prendere la mazza da baseball, lui era a mani vuote. Dal sedile posteriore
presi la borsa da tennis dove l'avevo nascosta.
Entrammo al 23, salimmo al quarto piano e ci infilammo in un appartamento di cui
Matteo possedeva le chiavi. Rimanemmo al buio e in silenzio, poi la porta si aprì, una luce
si accese, Matteo scattò per colpire la Balestra, io feci lo stesso e gli appoggiai sul petto uno
sfollagente elettrico.
Mi guardò, una collisione tra pianeti attraversò i suoi occhi, poi la scossa fece effetto e
crollò sul pavimento di linoleum come fosse scivolato in un punto dove la cera era stata
tirata male.
35

Matteo si risvegliò in una cella del carcere di San Vittore e chiese di poter chiamare il suo
avvocato, Giovanni Melchiorri, famoso per aver fatto liberare un paio di strozzini che
avevano ucciso con un trapano il figlio di un commerciante di pellami.
Il mattino successivo Melchiorri gli portò copia dei quotidiani. Matteo vide due foto:
quella del suo volto cinque anni prima, la polizia aveva diffuso lo scatto sfocato della
patente, e quella di Elisabetta Cattaneo seguita da un'intervista dove dichiarava di essere
un'agente in forza alla polizia di Sondrio. Giovane e carina, era stata scelta per fingersi la
settima vittima e far cadere Matteo Orlandi nella trappola che gli era stata preparata.
C'erano volute quasi dieci ore di trucco per farla morire di una morte finta.
La prima mossa di Melchiorri fu richiedere l'immediata scarcerazione del suo assistito,
contro di lui non c'erano prove. Si trattava di uno scherzo di cattivo gusto.
36

Dopo l'omicidio di Teresa Lolli mi ero presentato nell'ufficio di Tosi, avevo chiuso la porta
e sedendomi avevo detto «Devo parlarti».
«Qualche problema?»
«Penso di sapere chi sia il Frantumaossa.»
«E me lo dici così?»
«Non conosco altro modo.»
«Di chi si tratta?»
«Matteo Orlandi.»
Silenzio, poi aggiunse «Attento a quello che dici».
Gli raccontai tutto, partendo da Betty e Lina. All'inizio Tosi s'incazzò da far paura, la
notizia che gli avessi taciuto di conoscere le due ragazze lo rese isterico, poi si dimostrò
scettico prima di infuriarsi un'altra volta per aver aspettato così a lungo prima di dirglielo.
Alla fine, forse perché non aveva nient'altro cui aggrapparsi, accettò di mettere in pratica il
mio piano.
Al momento di stringerci la mano Tosi mi minacciò «Se hai detto una stronzata, te la
faccio pagare».
«Ho fatto degli sbagli, mi sembra giusto.»
«E che Dio ce la mandi buona.»
«Dio ci ha già mandato Matteo, ora è meglio che stia fermo.»
Per fortuna, almeno quel giorno, si fece i cazzi suoi.
37

La figura patetica che temevo rischiava di diventare realtà. Di certo la carriera di Matteo
Orlandi come psicologo della Sezione crimini violenti era finita, ma su una cosa Melchiorri
aveva ragione: contro il suo cliente non c'erano prove.
Ovunque effettuate, le perquisizioni avevano dato risultato negativo, nessun
collegamento con le vittime, non un numero di telefono, non un'impronta, non un capello.
Ma soprattutto mancava l'arma del delitto, il suo marchio di fabbrica, la mazza da baseball
che lo avrebbe inchiodato. Eravamo tutti convinti fosse nella sua auto, ma nell'auto non
c'era.
Io lo sapevo che era lui, ma senza quella mazza era tutto inutile, e le cose si mettevano
sempre peggio. Matteo, in un'intervista rilasciata in carcere a Mario Scalzi, non solo
smentiva di essere il Frantumaossa ma attaccava la polizia ricordando che l'unica mazza
da baseball presente in casa della Balestra era stata portata da me.
Ma da qualche parte quella mazza doveva essere. O Matteo pensava di utilizzare la mia,
ma era difficile volesse rinunciare a mettere la sua firma sul delitto, o intendeva portare la
Balestra lontano dall'appartamento, recuperare la mazza e massacrarla nel luogo dove
sarebbe stata ritrovata.
Ma c'era una terza possibilità che, per una mente raffinata come quella di Matteo, era
l'unica.
38

Quando ci precipitammo a casa della Balestra non erano ancora le sei e il giorno doveva
ancora alzarsi. Stava dormendo con il suo uomo, dall'ampio volume dello stomaco lo avrei
visto bene come amministratore delegato, e credette che il Frantumaossa fosse evaso per
vendicarsi. Grotti, cui sembrava funzionasse solo un polmone, la tranquillizzò a fatica. La
scientifica mise a soqquadro quattro stanze e due bagni ispirati all'arredamento
minimalista: sotto il letto, incastrata tra le doghe di legno come un'escrescenza maligna,
una mazza da baseball di colore azzurro, la vernice in alcuni punti si era staccata lasciando
intravedere il legno chiaro di faggio.
Crotti mi guardò, io tornai a casa dove qualche ora più tardi ricevetti una telefonata da
Tosi. Disse «È finita».
«Grande notizia.»
«Mi prendi per il culo?»
«No, sono solo stanco.»
«Cosa pensi di fare?»
«Mollo tutto.»
«Non dire cazzate, ti fai quindici giorni di vacanza e poi torni a far parte del gruppo.»
«Adesso voglio solo dormire.»
«Okay, ti lascio.»
Chiusi la telefonata, gli occhi, la bocca. Dormii trentasei ore di fila, intanto il mondo fece
come tutti i giorni. Tranquillamente a meno di me.
39

Presi i quindici giorni di vacanza che Tosi mi aveva consigliato. Non servirono a nulla o,
meglio, non servirono a farmi cambiare idea: avrei lasciato il lavoro di semiologo per la
SCV, volevo che tra me e la morte non ci fosse più quella confidenza che ci aveva uniti fino
a quel momento.
All'inizio di maggio, era mattina e l'aria aveva già nel suo DNA il primo tepore, tornai in
questura per salutare tutti, prima Crotti, che mi strinse la mano come fossi tornato da un
funerale, poi Tosi.
Tosi capì che non ero un poliziotto in crisi ma solo un ex insegnante finito in qualcosa
più grande di lui e non forzò la situazione. Dopo un tentativo imposto dal suo ruolo, lasciò
perdere e disse «E sia».
«Grazie per non aver insistito.»
«È l'addio?»
«Lo è.»
«Che farai?»
«Imparerò di nuovo a vivere.»
«È un buon punto di partenza.»
Ci fu un lungo abbraccio e non so se per la forza profusa in quella stretta o per l'intensità
emotiva dell'evento che i miei occhi lasciarono uscire una lacrima prima di chiudersi
dietro le sue spalle.
Parte terza

Volate, maggio 2001 – marzo 2003

L'ESATTORE
40

Il giorno della mia partenza per Volate, ripensando agli avvenimenti in cui ero stato
coinvolto, avevo l'impressione che fossero accaduti ad altri, io ero stato uno spettatore e
non il protagonista, una specie di déjà-vu osservato da fuori.
Caricai tutto sulla mia Ford Fiesta acquistata nel 1985 o giù di lì e dal colore indefinibile,
a metà tra il ruggine e il grigio malattia, dopotutto non l'avevo lavata neanche una volta e
cosa potevo pretendere.
Quando terminai mi resi conto che tutta la mia vita poteva stare tra le due portiere di
una macchina, una vita priva di optional, tutta di serie, anche gli omicidi che negli ultimi
tempi l'avevano infestata fino a travolgerla.
I vestiti: cinque paia di jeans scoloriti dai troppi lavaggi a temperatura sbagliata,
magliette di band assurde sparite dopo un singolo neanche in classifica, un paio di Stan
Smith corrose dal sudore, dei Birkenstock consumati sui talloni, un giubbotto da
motociclista esaltato che sembrava piacere alle ragazze, una giacca di poliammide e resina
acrilica con scritto "polizia" sulla schiena che avevo buttato e poi recuperato dal sacchetto
dei rifiuti.
I dischi: l'universalità escatologica dei Beatles, la scossa elettrogay dei Soft Cell, la rabbia
operaia dei Big Country, l'angoscia innamorata degli Smiths, l'aggressività zingara di Patti
Smith, la paralisi facciale dei Kraftwerk, la nostalgia collegiale dei R.E.M., l'anima truccata
dei Cure, il malumore gotico dei Depeche Mode, la malinconia nervosa dei Suede, la droga
lenta degli Oasis, l'eroismo cataplasmatico degli U2, l'allucinazione psichedelica dei
Radiohead, l'amarezza tragica dei Placebo, la tristezza esasperata dei Coldplay.
I libri: gli erotomani di Bukowski, i tarati di Céline, i perversi di Roth, i depressi di
Bernhard, i senzaterra di Kerouac, i melomani di Hornby, gli irreali di Marquez, gli
ossessionati di Pynchon, i disumanizzati di Robbins, una bella scelta di perdenti.
Il resto: non c'era.
Partii e, se un viaggio prevede un ritorno, la mia fu una strada di sola andata che mi
tenne compagnia per cinquanta chilometri.
41

Nel primo pomeriggio, dopo quasi un'ora e mezzo, uscire da Milano era stato più
impegnativo del previsto, arrivai a Cantù. Venti minuti prima, una sosta per un panino in
un bar di Figino Serenza mi aveva fatto incontrare una coppia con cui avevo avuto a che
fare parecchio tempo prima.
Irene era una mia ex, eravamo stati insieme una settimana, avevo da poco comprato la
Fiesta e l'avevo inaugurata scopando in pieno giorno nel parcheggio sotterraneo di un
supermarket.
Una settimana dopo, forse qualcosa in più, a quel tempo notte e giorno sembravano la
fotografia in positivo e negativo della stessa ora visto che nella mia vita non succedeva mai
niente di così degno da essere messo nell'album delle figurine dei ricordi, Irene arriva e mi
dice «Ho conosciuto Massimo».
«Chi cazzo è Massimo?»
«Uno che mi piace.»
«Ah.»
Quel giorno a Figino Serenza scoprii chi era Massimo, bella, bellissima, faccia da
stronzo. Doppio mento da contenere una lattina in orizzontale, peli in fuga dal naso. Forse
in passato aveva un aspetto migliore, ma non credo, e mi venne da piangere pensando che
ero stato lasciato per quello. Li incrociai alla cassa e li lasciai sulla domanda di Irene.
«Non ti ho più visto da allora, be', adesso come va?»
«Devo andare.»
«Allora ciao.»
«Ciao.»
Salii in macchina, Volate era più vicina, Matteo solo poco più lontano.
42

Arrivato a Cantù passai dalla Purple a prendere le chiavi della villa, Lori era fuori, Gatti a
letto con l'influenza. Me le diede Martina, una ragazza tanto piatta che l'avrei potuta
scambiare per un disco volante.
Uscii telefonando a Patricia, volevo saldare il mio debito e non vedere nessuno fino a
quando non mi sarei di nuovo sentito in grado di rapportarmi con il prossimo. Quando
stavo per mettere giù, rispose affannata «Pronto, Parker».
«È inglese?»
«Scozzese.»
«Dall'accento non si direbbe.»
«Grazie, lei chi è?»
«Matera, la disturbo?»
«No, sono corsa a rispondere.»
«Vorrei darle i soldi che le devo, posso passare?»
«L'aspetto, la mia cascina è a Volate, in fondo alla via principale, non può sbagliare, è
l'unica coi fiori sui balconi, da queste parti sembra non usi.»
Percorsi gli ultimi chilometri lentamente, mentre le prime gocce di pioggia colpivano il
parabrezza pochi istanti prima di affrontare le spazzole Bosch, le più vigliacche nello
schiaffeggiarle. Citofonai, rispose «Entri che piove».
Mi aspettavo una chiatta e bonaria donna di paese, tutta saggezza contadina e proverbi,
due forme di sottomissione cerebrale, ma Patricia era l'esatto contrario. Sui cinquanta forse
meno, alta, muscolatura da atleta. Solo pupille malferme tra le ciglia cercavano senza sosta
un punto dove appoggiarsi tradendo insicurezze non vinte.
Si presentò vestita in modo semplice ma elegante, segno di un'abitudine all'agiatezza
prossima alla pensione ma con velleità di tornare grande, stonavano gli stivali da
pescatore che le davano un aspetto mascolino. Accortasi che li osservavo, disse «Mi scusi,
li ho messi per andare in giardino prima del temporale».
«Non si preoccupi.»
«Un caffè?»
«Sì, grazie.»
Mi sedetti in un salotto privo della speranza di invecchiare da un antiquario, Patricia mi
versò del caffè in una tazzina sbeccata e disse «Le ho pulito casa da cima a fondo, erano
cinque anni che non ci entrava nessuno, da quando la vecchia Ardemagni è morta».
«Grazie. E lei com'è finita qui dalla Scozia?»
«I casi della vita, sono nata a pochi chilometri da Edimburgo, in un paese dove c'erano
solo case di pietra, alberi e pub, nemmeno un cinema, quindi non molto per una
ragazzina. Però avevo un sogno, correre i quattrocento metri alle Olimpiadi e ogni
pomeriggio mi allenavo nei boschi. Nella regione di Lothian ero la più veloce, nessuno era
in grado di battermi. Ero pronta per il grande salto, poi mio padre, l'unico che credeva in
me e nelle mie gambe, è morto per un tutto.»
«Come mai?»
«Mia madre era di queste parti, figlia di un allevatore di cavalli di Mario Comense.
Aveva conosciuto mio padre in Scozia al matrimonio di un cugino non ricordo di chi, e
alla sua morte ha deciso di tornare a casa, dai suoi genitori. La mia vita è cambiata da un
giorno all'altro, solo scuola e studio, e niente più corse per i prati.»
«Quando accadde?»
«Nel 1971, avevo sedici anni.»
«E poi?»
«A diciotto anni mi sono innamorata del mio insegnante di ragioneria, l'ho sposato
quando ne avevo ventitré ma ci siamo separati dieci mesi dopo. Mia madre era contraria,
voleva perdonassi quella che chiamava una scappatella, ma non ce l'ho fatta e sono venuta
a vivere qui. Ho dato ripetizioni di inglese fin quando ho conosciuto Gatti e ho accettato di
fare le pulizie per la Purple. Non mi sono più sposata.»
«E l'Ardemagni?»
«L'ho conosciuta alla fine degli anni Ottanta. Le lavavo vetri e pavimenti una volta la
settimana, col tempo si è affezionata a me e due anni prima di morire mi ha raccontato la
sua vita. Credo le interesserebbe conoscerla, quella villa che era di Serena e adesso è sua
ha una storia e non una qualsiasi, ma questo glielo dico un'altra volta. Per oggi ho parlato
troppo.»
«Bene, ci vediamo presto.»
Le diedi i soldi che le spettavano, centottanta euro per venti ore di lavoro, e me ne andai
di nuovo sotto la pioggia. Prima di risalire in auto uno spruzzo d'acqua rimbalzato dal
tetto mi entrò nel colletto e mi scivolò lungo la schiena. Brividi per alcuni minuti.
43

Arrivai alla villa che il tempo aveva cambiato umore.


Entrando mi accolse un senso di oppressione morale e smarrimento spirituale, di giorni
vissuti senz'aria. E il sovrabbondante numero di specchi subito dopo l'ingresso rendeva
l'approccio ancora più inquietante. Erano disposti in modo che un gioco di riflessi
permettesse di vedere l'interno delle stanze che si aprivano su entrambi i lati del corridoio.
La camera da letto, al piano superiore, osservava Volate come un fortino in attesa di un
attacco nemico: sulla destra la valle si apriva nei suo paziente andamento di onda, mentre i
campi strisciavano su per la collina. Sul lato opposto, delle case leggermente più isolate
rispetto al resto del paese si scaldavano l'un l'altra attorno al torrente che si accostava a
Volate.
La sala a pianoterra era gremita di mobili, risalenti a un periodo che andava tra la fine
dell'Ottocento e la metà del Novecento, che stavano affiancati come nascondessero
qualcosa alle loro spalle, una macchia di umidità o un passaggio segreto. Non me ne
preoccupai e mi sdraiai su uno scomodissimo divano liberty ripromettendomi di
rilassarmi qualche minuto prima di disfare gli scatoloni e aprire le valigie. Promessa
mancata: mi addormentai fino a quando, il mattino dopo, alle dieci in punto, fui svegliato
da qualcuno che bussava alla porta.
44

«Ciao, vuoi un cane?»


Il sole splendeva disinibito su Volate e sulla ragazzina davanti a me con in braccio un
cucciolo di labrador. Non saprei dire chi dei due mi fece più tenerezza: lei sottile e coi
capelli così rossi da bruciare una fotografia, occhi così verdi da illuminare un fondale
marino, lui a pancia in su che sbadigliava un lamento. Gli feci una carezza sul muso
tiepido e chiesi «Chi sei?».
«Lucia, ma tutti mi chiamano Lucy.»
«Io sono Tommaso, ma tutti mi chiamano Tommy.»
«Allora Tommy, lo vuoi un cane sì o no?»
«Dove abiti?»
«Vicino al torrente, ma adesso tocca a te rispondere.»
«Lucy, sono arrivato solo ieri pomeriggio.»
«Lo so, sei quello che viene da Milano, in paese parlano di te già da qualche giorno.»
«E cosa possono dire? Non mi conoscono.»
«Che sarai uno antipatico visto che hai scelto di vivere qui da solo.»
«Sentivo il bisogno di un complimento, nient'altro?»
«Anche che sei un po' scemo.»
«Già che c'erano, e perché mai?»
«Perché solo uno scemo avrebbe preso in affitto questa villa.»
«Cos'ha questa villa che non va?»
«Quella che ci viveva prima non ci stava tanto con la testa e raccontava strane storie.»
«Quali?»
Lucy non rispose e alzò le spalle impiccata a una corda invisibile.
Ci sedemmo sui gradini che portavano in casa. Era fine maggio, l'estate andava a
iniziare e la gente da qualche parte in Sardegna faceva già il bagno, non ci ero mai stato
ma dalle foto ho sempre pensato che sarei dovuto andarci una volta o quella dopo.
«E tu che ne dici, sembro antipatico?»
«Non dico niente, voglio sapere se ti piacciono gli animali, il resto non mi interessa.»
«Mi piacciono molto.»
«Allora è tuo.»
«Quanti anni hai?»
«Quindici a gennaio, non vedo l'ora. Mia madre mi farà uscire di più la sera.»
«Dove hai trovato il cane?»
«È mio. Sua mamma si chiama Cleo è bellissima dovresti vederla l'abbiamo presa al
canile di Cantù. Ha avuto sei cuccioli ma non possiamo tenerli. Lui è l'ultimo, che nome
pensi di dargli?»
Adoravo i cani pur non avendone mai avuto uno, ma non ero ancora convinto di
tenerlo. Non sapendo badare a me stesso, pensavo mi sarei dimenticato di dargli da
mangiare e che una notte, accecato dalla fame, mi avrebbe azzannato i polpacci. Non me la
sentivo però di mandarlo indietro. «Che ne dici di Winston?» «Carino, come quello del
ciccione che si vede sui libri di storia?»
«Dici Winston Churchill?»
«Sì.»
«No, come John Winston Lennon.»
45

L'estate arrivò e se ne andò. Il nuovo autunno odorava di terra innervosita dai temporali
che frequentemente la lavavano verso il torrente.
I primi mesi a Volate trascorsero nell'inedia più assoluta, dovevo far defluire il veleno di
rabbia, paura e angoscia, non avevo le forze per pensare, per agire ancora meno. Mi alzavo
tardi e aspettavo che le ore roteassero. La via per uscirne furono proprio Winston e Lucy.
Winston cresceva nel modo in cui volevo, giocherellone e un po' tonto, Lucy si
avvicinava ai quindici anni, bella che questa parola non aveva più significato. Erano loro
la mia compagnia di ogni giorno, Winston mi stava sempre tra i piedi cercando di
mordermi le scarpe, tanto che decisi di girare per casa senza, ma nonostante questo mi
capitava di schiacciargli le zampe tra guaiti da operetta. Lucy mi passava a trovare subito
dopo la scuola, tranne nel pomeriggio in cui si allenava con la squadra di pallavolo. Era
un'alzatrice rapida ma aveva ancora bisogno di sensibilizzare la precisione del passaggio.
In quel caso si fermava a mangiare controvoglia passato di verdura e cotoletta di tacchino
alla mensa della scuola. Mi diceva «Fa schifo, sa tutto di muffa. Due anni fa dopo che metà
della mia classe si è beccata la salmonella c'è stata un'ispezione, era tutto scaduto. Un mese
è rimasta chiusa la mensa prima di riuscire a sostituire quel vecchio bavoso del Carlo, ma
per me non è cambiato niente, il cibo ha lo stesso sapore di merda di prima».
Si fermava pochi minuti, al massimo una decina, e mi raccontava che in paese non
avevano mai smesso di parlare di me. Alcuni dicevano che ero stato rinchiuso in una
clinica psichiatrica dopo che mia moglie mi aveva lasciato, altri che ero uno scrittore di
libri per bambini venuto a cercare pace, tranquillità e l'ispirazione perduta. Oppure che
ero l'ex direttore della Ecoplastic, lo stabilimento chimico per la fabbricazione di bottiglie
in PVC sorto sul calare degli anni Settanta a due chilometri da Volate nonostante
l'opposizione degli abitanti, licenziato perché presentatosi ubriaco in ufficio.
Dato che Gatti non sembrava aver colto chi fossi, non era presumibilmente andato in
giro a fare il mio nome, quindi anche per gli altri doveva essere impossibile saperlo. E
questo aveva scatenato la fantasia morbosa e pettegola della gente. Chiesi a Lucy «E tu
cosa rispondi?».
«Che non è vero.»
«E cosa è vero?»
«Non lo so, ma quello che dicono non lo è.»
«Come fai a saperlo, tu non mi hai mai chiesto chi sono.»
«Me l'avresti detto?»
«Forse ci avrei provato, ma penso di no.»
«Lo immaginavo.»
«Chi sono secondo te?» «Uno che ha bisogno di stare in pace.»
Una risposta che mi stupì per la sua esattezza, ma quella non fu l'unica volta in cui Lucy
mi sorprese. L'argomento sesso era rimasto sempre fuori dai nostri discorsi, ma in un
attimo di particolare sollevazione ormonale mi disse che i ragazzi diventavano ogni giorno
più pressanti e più grevi nei complimenti e lei faceva finta di offendersi voltando loro le
spalle. Ma la verità era che le piaceva vivere quella popolarità che la trasformava in una
star delle masturbazioni collettive.
Le risposi «È inevitabile, dove arrivi l'aria si ferma per un attimo, poi te ne vai e rimane
quel vuoto da riempire, Lucy, tu sei una che fa male».
«Cosa vuoi dire?»
«Che ci saranno uomini che s'innamoreranno di te e tu nemmeno ti accorgerai di loro.»
46

Il giorno del compleanno di Lucy, il 18 gennaio 2002, conobbi Paola, sua madre. Lucy mi
aveva detto «Devi venire, non puoi sempre rimanere chiuso qua dentro».
«Lo sai, non ho voglia di vedere nessuno.»
«Ti aspetto alle sei.»
«Devo proprio?»
«Sì.»
Mi presentai mezz'ora in anticipo, volevo dirle auguri e andarmene prima che
arrivassero tutti, regali non ne avevo e poi non faceva per me una festa di ragazzini.
«Ciao, Lucy quindicenne.»
«Entra.» Mi guardò le mani e aggiunse. «Non mi hai portato niente?»
«Se non mi sono mai mosso da casa, dove potevo comprarti qualcosa?»
«Hai ragione, sarà per un'altra volta.»
«Promesso.»
Rimasi fin verso mezzanotte a parlare con Paola, noi in cucina, Lucy e gli altri in sala,
musica dance e come sballo coca-cola corretta con il rum portato di nascosto dall'unico
maggiorenne presente alla festa. Un tale Federico che si credeva figo mentre tutte le
ragazze lo sfottevano per la balbuzie che lo inceppava come una fotocopiatrice.
Bella senza volertelo far sapere con quegli occhi come stagni dove gettare un sasso ad
allargare i cerchi dell'iride, Paola aveva quattro anni meno di me. Lucy era nata quando ne
aveva venti, il padre era una foto, conosciuto un giorno che era andata a Cantù a
comprarsi delle scarpe, poi qualche mese insieme, ma era già sposato e non lavorava
nemmeno in banca. Manovale con un terzo dello stipendio che vantava, quando rimase
incinta lui non si fece più trovare. Poi aggiunse «Ma Enrico una cosa giusta l'aveva».
«Quale?»
«I capelli rossi, Lucy è così bella anche per merito suo.»
«Ma è al mondo per merito tuo.»
«Adesso basta parlare di me, dimmi di te.»
«Magari un'altra volta.»
47

Cinque giorni dopo la festa di Lucy scesi in paese per la prima volta, erano passati più di
sette mesi dal mio arrivo a Volate. Dovevo la mia sopravvivenza alla carta di credito, la
usavo per pagare la spesa ordinata col cellulare, acceso solo a quello scopo e spento subito
dopo. Surgelati, birra e vino, ma zero superalcolici e zero caffè come mi ero ripromesso,
arrivavano a casa ogni venerdì grazie ai fattorini dell'unico minimarket in paese,
suonavano e lasciavano i sacchetti davanti alla porta.
Ci andai a piedi, era un lunedì mattina, poca gente in giro, quasi tutti a casa o in ufficio.
Solo gli addetti alle consegne scaricavano dai camion carcasse di animali fatti a pezzi la
sera prima e destinate alla macelleria in piazza. Sul lato opposto vidi Lori, stava lasciando
un cliente. Le andai incontro, lei mi aspettò e disse «Mi stavo domandando quando ti
saresti fatto vedere».
«Proprio in questo momento?»
«Perché no?»
«Giusto, perché no?»
«Tommy, che cosa fai in quella villa tutto solo?»
«Niente, dormo, leggo, ingrasso Winston.»
«Hai trovato i vecchi libri della Ardemagni?»
«Non sapevo nemmeno ci fossero.»
«Da qualche parte in cantina o in soffitta, non ricordo, ci sono parecchi romanzi.»
«Li cerco, la cosa mi incuriosisce.»
«E poi che altro fai?»
«Ascolto i Beatles.»
«Piacciono anche a me, ma non credi sia un po' poco? Forse è ora di cambiare.»
«Ci sto pensando, ma per adesso è sufficiente.»
«Fa' come ti senti.»
«Canzone preferita?»
«Di tutti i tempi?»
«No, dei Beatles.»
«Happiness Is a Warm Gun.»
Entrammo in un bar, Lori faceva dei piccoli passi come misurasse le distanze, si sedette
a un tavolino e disse «Il lavoro procede a rilento, sembrano finiti i tempi in cui la Brianza
era una specie di scelta obbligata dove possedere una seconda casa o concludere i propri
giorni».
«Ammesso che siano iniziati.»
«Come?»
«Non ha importanza.»
«Okay, come vuoi.»
«Lori, sei di qui?»
«No, di Como.»
«E a Cantù come ci sei arrivata?»
«Avevo un ragazzo a Milano, stavo per trasferirmi da lui, dovevo sposarmi e avevo già
chiuso la mia piccola agenzia immobiliare. Poi la cosa è andata molto male, ho perso il
figlio che aspettavo e mi sono ritrovata senza un lavoro. Ho preso il primo posto senza
pensarci troppo, Gatti è un buon capo, poteva andare peggio.»
«Davvero?»
«No.»
«Perché è finita così male con il tuo fidanzato?»
«È finita male e basta.»
«Scusa.»
«Niente, solo che non ho fatto nemmeno in tempo a dirgli che ero incinta, forse le cose
sarebbero andate in modo diverso. Tu invece come mai da queste parti?»
«Sensi di colpa.»
«Per cosa?»
«Sensi di colpa e basta.»
Un po' di silenzio imbarazzato, lei guardò due uomini col giubbotto da aviatore che
uscivano dopo aver raccontato una barzelletta, io con l'indice giocavo con la spuma della
birra colata lungo il boccale ed espandevo parole attraverso il tavolo. Poi aggiunsi «Mi
avevi promesso che saremmo usciti a cena, allora, quando?».
«Ti faccio sapere.»
«Frase già sentita.»
«Sei tu quello che è sparito.»
«Hai ragione.»
«Comunque fidati, mi faccio viva.»
«E come?»
«Uno di questi giorni passo da te.»
«Hai un nuovo fidanzato?»
«Una specie.»
Lori doveva tornare al lavoro, era in ritardo all'appuntamento con una giovane coppia,
la donna era al quarto mese di gravidanza e avevano bisogno di un appartamento più
grande. Ci salutammo, lei aggiunse «È una vita come la loro quella che avrei voluto. La
vita di tutti gli altri».
«Un giorno l'avrai.»
«Tempo scaduto per i sogni.»
Rimasi seduto a leggere i titoli del "Giornale di Cantù", finalmente una nuova proteina
contro il cancro, rubato osso preistorico dal Museo della scienza e della tecnica di Milano,
due specie animali si estinguono ogni ora, vittoria della Juventus uno a zero con goal in
fuorigioco nei minuti di recupero. In fondo, le pagine di cronaca locale riportavano che il
vicesindaco di Volate, tale Fantoni, era uscito di strada in seguito all'impatto con un
gruppo di oche, sfuggite all'allevamento dei fratelli Rigotti, che procedevano contromano
sulla statale. In quel momento si trovava in ospedale in prognosi riservata, i medici erano
però ottimisti, certo, come no. Delle oche nessuna notizia, ma pensai non stessero
particolarmente bene.
48

Il ritorno alla vita fu faticoso ma costante. A febbraio mi convinsi che l'atarassia in cui mi
ero costretto aveva esaurito la sua carica positiva e decisi che era giunto il momento di
cambiare numero di cellulare, di riattivare la linea fissa e di installare la TV satellitare.
La prima telefonata fu per mia madre. Non la sentivo da quando avevo lasciato Milano,
le avevo scritto solo tre o quattro brevi lettere che Lucy aveva imbucato per mio conto e
nelle quali non parlavo di nulla tranne del tempo e del paio di chili che avevo messo su,
ma testimoniavano che appartenevo ancora a questo mondo.
La sua voce era sempre quella, densamente popolata di paure, ma con gli anni si era
avvicinata alla consistenza della carta velina. La salutai «Ciao mamma».
«Ciao Tommy.»
«Come stai?»
«Bene, mi sei mancato.»
Le dissi che anch'io stavo bene, che mi stavo riprendendo e che ne ero quasi fuori, lei
rispose di non avere fretta, poi, preoccupata dal dovermelo far sapere, aggiunse «Ho
conosciuto un uomo, un brav'uomo».
Espressione che stava a significare che era un coglione ma innocuo. Ci stava bene e non
aveva dimenticato mio padre, però stava invecchiando e aveva bisogno di qualcuno che
condividesse con lei sul divano i quiz della sera, non era divertente provare a dare le
soluzioni da sola. Poi disse «Come stai a soldi?».
«Ne ho ancora un po'.»
«Vengo a trovarti.»
«Non subito.»
«Come vuoi.»
«Ciao mamma.»
«Ciao Tommy, riguardati.»
La casa in quei mesi aveva ripreso l'antica trasandatezza e la telefonata successiva fu per
Patricia. La mia chiamata non la sorprese, quasi ci fossimo sentiti poche ore prima. Ci
mettemmo d'accordo per il mattino successivo.
49

Patricia arrivò presto, ero sveglio da poco, le note di Dear Prudence mi nutrivano insieme a
un bicchiere di succo d'arancia. Entrò in cucina, si sedette davanti a me e disse «Beatles».
«Le piacciono?»
«A colazione preferisco un buon caffè, me ne offre uno?»
«Non ne bevo più, un tè va bene lo stesso?»
«In mancanza di meglio.»
Mi voltai e mentre accendevo il gas per un tè verde (ne bevevo in grande quantità da
quando avevo letto che protegge dai tumori alla prostata) disse «La vuole conoscere la
storia di questa casa?».
«Mi piacerebbe.»
Mi narrò che era stata edificata alla fine dell'Ottocento dal padre di Serena, Antonio
Ardemagni, figlio di un nobile, che nacque per comandare e ci riuscì comprando i terreni
dei proprietari confinanti rovinati dalla grande siccità del 1892. Li portò via a poco e nel
giro di qualche anno ebbe il monopolio sul commercio agricolo della zona, poi conobbe
Isa, una contadina, diciotto anni, le guance come frutti di bosco, e se ne innamorò. La
costrinse a sposarlo ma lei lo odiò dal giorno del matrimonio fino a quando, molti anni
dopo, lui morì cadendo da un muretto dove era salito per strappare un frutto da un albero
di cachi. Il primo figlio non arrivava, così Antonio decise di costruire una casa tutta loro, ci
mise quattro anni, nel 1903 era pronta, il giallo della facciata brillava su tutta la valle, dai
paesi vicini arrivavano per vederla, simbolo di ricchezza ma non di prosperità: Corinna
sarebbe nata solo due anni dopo, Antonio ne aveva trentacinque, Isa ventisette, furono
però in molti a dubitare che il figlio fosse veramente di Antonio. Troppo tempo era
passato dal matrimonio per non pensare fosse sterile, per cui si cominciò a parlare del
maniscalco siciliano dalla pelle olivastra che passava a ferrare i cavalli due volte al mese.
Corinna crebbe tra le dicerie, aveva sei anni, la carnagione scura e un vestitino verde
quando cadde nel torrente in piena, l'acqua la restituì una settimana dopo. Il primo a
vederne il corpo incastrato tra gli arbusti fu un pescatore, segni di putrefazione non ce
n'erano, solo qualche taglio sulle mani per aver cercato di fermare le rocce, tutti gridarono
al miracolo, ma quel fatto stupefacente non fu l'unico.
Chiesi cosa ci fosse d'altro, lei rispose «In attesa del funerale, Corinna è stata riportata a
casa, ma quando il prete è venuto a benedirla il corpo era sparito e non c'è stato modo di
ritrovarlo. Nessuno si era avvicinato alla villa, nessuno se ne era allontanato, dicevano che
non era morta e che la tenevano segregata in casa, perché la sua pelle si scuriva ogni
giorno di più, e il tradimento sarebbe stato sotto gli occhi di tutti. Fatto sta che un anno
dopo è nata Serena, era il 1912, noi ci siamo conosciute che aveva già settantasei anni, ma
questo devo averglielo già detto».
50

Patricia si alzò e si avvicinò al lavandino. L'andatura non aveva incertezze ma i piedi


curvavano leggermente verso l'interno prima di spostarsi in avanti e mi chiesi come faceva
a correre con quella deambulazione macchinosa. Prese un bicchiere d'acqua, ne bevve un
sorso, una goccia uscì dal lato sinistro della bocca e scivolando arrivò alla camicia dove fu
assorbita dalle righe verticali. Poi disse «Serena crebbe e nessuno le disse mai di Corinna,
nata e morta tra le maldicenze. Ma un giorno, il nono anniversario dalla morte della
sorella, Serena si presentò a cena per chiedere se poteva giocare con Corinna, le sarebbe
piaciuto, sembrava simpatica».
«L'amico immaginario che si creano molti bambini.»
«Non solo, Corinna è diventata la sua migliore amica, la sua confidente e fin qui tutto
normale o quasi. Il dramma sta nel fatto che a lei Serena ha dedicato la vita, non si è mai
sposata. I pretendenti non le mancavano, ma lei niente, diceva che non poteva
abbandonare Corinna.»
«Quali furono le conseguenze?»
«All'inizio gli uomini ci scherzavano sopra, poi hanno creduto alla presenza non so se di
uno spirito o di una disgraziata rinchiusa a vita. Alla fine l'hanno presa per pazza, così
Serena è invecchiata accudendo la sorella mai avuta fin quando è rimasta sola. Antonio,
come le ho detto, è morto scivolando da quel muretto che si vede da qui, Isa è vissuta
ancora qualche anno poi Serena l'ha trovata seduta davanti al camino.»
«Spenti entrambi.»
«Proprio così.»
«E poi cosa successe?»
«Serena ha sempre vissuto qui senza allontanarsi mai dal paese, al massimo la domenica
mattina faceva una passeggiata fino alla fiera del bestiame.»
«Le ha mai chiesto dove fosse Corinna quando andava a trovarla?»
«Più volte, ma la risposta era sempre la stessa, nella sua stanza a giocare per cui era
meglio non disturbarla.»
«Chi è a conoscenza di questa storia?»
«Da queste parti, tutti.»
«Ma nessuno si è premurato di farmela conoscere prima di affittarmi la casa.»
«L'avrebbe presa lo stesso.»
«Probabilmente.»
«Sembra fatta per lei.»
«Perché lo dice?»
«Avete lo stesso tipo di tristezza.»
Sorvolando, chiesi «Come è morta la Ardemagni?».
«Una mattina non si è svegliata, tutto qui.»
«Dopo questa storia una non può morire così.»
«Lo penso anch'io.»
Rimase indecisa se iniziare le pulizie, poi si avvicinò al sacchetto di plastica che aveva
portato con sé e ne tirò fuori un mucchio di stracci denutriti, detersivi per pavimenti,
anticalcari, disinfettanti. Oltre a dare un aspetto decente al luogo in cui vivevo, Patricia
fece anche qualcosa che non mi aspettavo: cucinò per me. Aveva portato verdure fresche,
riso e salmone: il piatto si basava su una tradizionale ricetta scozzese cui lei aggiungeva
un'erba amara che raccoglieva nei prati.
Fu in quell'occasione che notai la particolare abilità di Patricia in cucina. Passando al tu,
le proposi «Che ne dici di aprire insieme un ristorante?».
«Non credo sia il caso, sono una dilettante.»
«Non importa, hai talento.»
«Credi possa bastare?»
«Non lo so, proviamoci.»
L'idea di vendere prodotti biologici via internet mi venne qualche tempo dopo, un paio
di settimane circa, ma fu nel tardo pomeriggio di quel giorno che il progetto cominciò a
prendere forma.
Lori, come era stato facile immaginare, non si era fatta sentire. Così, dopo che Patricia se
ne andò, feci un giro a Cantù sperando di incontrarla. Non la vidi, nel parcheggio della
Purple la sua auto non c'era. Stavo tornando a casa quando Winston si annusò con una
femmina di setter di suo gradimento. All'altro capo del guinzaglio un uomo con il braccio
sinistro più corto del destro e delle borse sotto gli occhi gonfie come la gola di un rospo.
Un sorriso e disse «Si chiama Benny, il suo?».
«Winston.»
«Come Winston Churchill.»
«E chi se no?»
Yorgo Anathopoulos risultò un tipo piacevole, suo padre era un greco che per finire da
quelle parti aveva evidentemente perso la strada molti anni prima e non l'aveva più
ritrovata, la cartina geografica dell'amore è stampata su percorsi imprevedibili.
Si presentò come web engineer, progettava e metteva on line siti internet per le aziende
della zona, non si stava arricchendo ma non poteva neanche lamentarsi, poi disse
«Vienimi a trovare, quando vuoi, sono sempre in ufficio, anche il sabato». La domenica no,
se ne stava in casa soprattutto se c'era la Formula Uno.
Ci salutammo, Winston fece qualche resistenza ma, come tutti quelli che non si
innamorano, dopo pochi metri stava già guardando da un'altra parte. Avrei voluto essere
come lui, uno per cui la vita ricomincia dopo ogni pisciata.
51

Passate due settimane, eravamo a marzo, sentii il bisogno di riprendere ad agire. L'idea di
aprire un ristorante o una tavola calda in società con Patricia, a meno che lei avesse potuto
disporre del settanta per cento del capitale necessario, era affascinante quanto
irrealizzabile.
Decisi di ripiegare su una mia passione, i prodotti biologici, e di aprire una società in
grado di commercializzare una nuova linea. Non era una novità, ma da snob qual era
considerata negli anni Ottanta, l'alimentazione biologica si era trasformata in fenomeno di
massa sul finire degli anni Novanta. Poteva perciò ancora funzionare, soprattutto se avessi
saputo tenere bassi i costi di gestione e investito qualcosa in pubblicità su "Sai che c'è",
settimanale a diffusione gratuita su quanto accadeva in Brianza.
Patricia si mostrò entusiasta, a lei il compito di cucinare, a me quello di provvedere agli
acquisti, rispettando la severa normativa igienica, i permessi non sarebbero stati un
problema, e andai da Anathopoulos.
Mi ricevette nel suo ufficio, un open space sfavillante di monitor accesi, dappertutto
magazine con in copertina computer dalle prestazioni eccezionali. Dopo averne sfogliati
un paio, mentre Yorgo litigava al telefono con una che si tirava indietro all'ultimo
momento, mi sentii come nella sala di attesa di un dentista dove ci sono solo riviste tipo
"Odontoiatria oggi". Stavo ammirando la foto di un microchip quando mi sentii dire
«Posso fare qualcosa per te?».
«Credo di sì.»
Anathopoulos era uno svelto, conosceva il lavoro e mi sottopose il progetto per un sito
che in una ventina di giorni poteva essere on line e che sarei stato in grado di gestire da
casa.
Anche se avevo già deciso, mi presi quarantotto ore per dare una risposta. Era quasi
tutto a posto, mancava solo un aiuto per preparare i vasetti e imballare i pacchi da spedire.
Pensai che Lucy fosse la persona giusta e andai a parlarne con Paola.
52

Trovai Paola sul retro del giardino, il torrente vi scorreva a fianco sbavando schizzi che
talvolta superavano gli argini. Stava raccogliendo le foglie rimaste sul terreno a fine
inverno, una lunga gonna grigia le copriva le gambe arrivando a toccare terra, sembrava
una bambolina cui avessero mozzato i piedi. Sospese quello che stava facendo e disse «Per
me va bene purché la scuola non ne risenta, a lei lo hai già detto?».
«Non ancora, lo farò domani.»
«Sei venuto solo per Lucy?»
«Paola, se capisco quello che intendi dire, voglio che tu sappia che in questo momento
non posso dare niente a nessuno.»
«Le solite storie.»
Non potevo negarlo, stavo mentendo, ma non poi tanto. Mi capitava di pensare a Lori,
ma non facevo nulla per cercare di combinarci qualcosa. Non era il caso di precisarlo e così
dissi «Hai ragione».
«Qual è il problema?»
«Ho detto che te lo avrei raccontato, lo farò presto, promesso.»
Lucy arrivò il giorno dopo al termine delle lezioni, jeans stinti e maialini di pezza che
pendevano dallo zaino, collanina etnica bicolore, i capelli rossi così spettinati da sembrare
mattoni frantumati. Entrò in casa e disse «Okay, ci sto».
«Sai già tutto.»
«No, mamma mi ha detto solo che volevi tirarmi dentro in qualcosa che hai in mente.»
«E allora come fai a dire che ci stai?»
«Non importa, mi fido.»
«È già qualcosa.»
«Quanto mi dai?»
Ci mettemmo d'accordo per quindici euro al giorno, avrebbe lavorato il giovedì e il
sabato pomeriggio, io l'avrei pagata l'ultimo giorno del mese, la vita così sembrava
normale persino ai miei occhi. Andandosene Lucy chiese «Dimmi di Corinna, l'hai mai
vista?».
«Mi era sembrato di capire che non ne sapevi niente.»
«Mi sono informata.»
«E cosa hai scoperto?»
«Che vive ancora in questa casa, nascosta da qualche parte.»
«Patricia è una chiacchierona, non devi dar retta a tutto quello che dice.»
«Te ne accorgerai.»
«Ciao Lucy, torna a casa, Paola ti sta aspettando.»
«Mi stai scaricando?»
«Proprio così.»
53

Patricia, Lucy e io formavamo uno strano terzetto per iniziare un'attività commerciale che
puntasse non dico ad avere successo, ma almeno a dare un senso alla mia economia
personale. Ci pensai al momento di prendere contatto con gli agricoltori della zona, ma
anche se avessi voluto cercarmi altri compagni non avrei saputo a chi rivolgermi e di loro
mi potevo fidare.
Le aree coltivate intorno a Volate erano medi appezzamenti di terreno, in tutto una
decina sparsi a macchia sulle colline, i cui possidenti non sapevano che cosa fosse il
biologico, ma che non facevano uso di fertilizzanti, antiparassitari o anticrittogamici, dato
che non era previsto lo sfruttamento intensivo dell'ambiente. Alcuni antichi rimedi contro
gli insetti dannosi, come seguire il calendario lunare per le semine, erano ritenuti
sufficienti.
In pochi giorni feci conoscenza con ognuno di loro ma presi accordi solo con un paio.
Alcuni si mostrarono diffidenti nei confronti di un forestiero dal passato ignoto, altri mi
apparvero troppo avidi pensando di avere l'occasione giusta per un guadagno extra, gli
ultimi due, nonostante lo sguardo facesse sospettare simpatie leghiste, si mostrarono
interessati al progetto.
Il primo, Fernando Gavazzi, aveva i capelli scolpiti come la Sfinge, un linguaggio degno
dello studio di un antropologo e cinquant'anni passati a rifornire settimanalmente un paio
di supermercati tra Cantù e Como. La merce gliela portava il mercoledì mattina, la
caricava sul suo Bedford, poi rimaneva fuori fino a tardi, nessuno sapeva cosa facesse, ma
la sera era più felice del solito.
L'altro, Augusto Berti, una sessantina d'anni, coi capelli non andava meglio,
sembravano radici emerse da una palude, ma con la grammatica aveva avuto dei contatti.
Era nato a Genova, qualche anno a soffrire nelle acciaierie di Cornigliano prima di
ereditare un appezzamento di otto ettari dal nonno materno. Venuto a Volate per venderlo
ci era rimasto a lavorare la terra e per mettere al mondo due figli fuggiti a Milano non
appena maggiorenni, uno a fare lo speaker a Radio Reporter, l'altro a spacciare marijuana,
ogni tre mesi finiva arrestato in qualche retata.
Con Gavazzi e Berti le trattative procedettero senza che nessuno si sentisse messo alle
strette e decisi che sarebbero stati i miei fornitori.
54

La storia di Corinna e del suo fantasma, al massimo non poteva che trattarsi di quello, non
mi aveva lasciato indifferente. Mi ero fatto suggestionare, soprattutto la sera, quando la
solitudine aveva facile gioco nell'acuire le mie debolezze e fuori stava per arrivare un
temporale. Se il mio udito percepiva qualche scricchiolio inatteso, sentivo un tremore
fuggirmi lungo la spina dorsale. Una porta che sbatteva, una finestra che si apriva, un
oggetto che cadeva spinto dal vento mi facevano rimpiangere di aver visto troppi film
horror e di aver pensato che i protagonisti fossero degli imbecilli che si spaventavano per
nulla.
Una mattina di inizio maggio, il sole era così accecante da far confondere i confini tra le
cose, ricordandomi delle parole di Lori sui libri di Serena pensai di scoprire a quali letture
si dedicasse la precedente inquilina.
Non ero mai stato in soffitta né in cantina. Non possedevo nulla da metterci per cui
poteva sembrare logico, invece non lo era perché ho sempre avuto un timore irrazionale di
entrambi i luoghi.
Non ricordavo dove Patricia tenesse i mazzi di chiavi ma li trovai nel ripostiglio sotto le
scale che portavano al piano superiore. Anche se lo spesso strato di polvere che li ricopriva
dava l'idea che occultassero antichi e indicibili segreti, decisi di proseguire.
Per andare in cantina la prima porta da aprire era sul lato destro della cucina. Da lì
discesi, pressoché al buio, una ventina di scalini certo di finire in qualche trappola dove
pareti semoventi mi avrebbero schiacciato senza che nessuno potesse udire le mie grida.
Trovato l'interruttore, accesi la luce e subito rimasi come marmorizzato. Su un enorme
tavolo di legno, in mezzo a vecchie bambole, lampade a petrolio, candele consumate a
metà, bottiglie vuote, c'era una piccola bara bianca.
Feci un salto indietro e il ginocchio andò a sfregare contro un chiodo arrugginito che
sporgeva dal muro alla mia sinistra. Pantaloni strappati, una riga di sangue che strisciava
tra i peli verso la calza e io che mi vedevo già circondato da medici incapaci di curarmi il
tetano. Mandai tutto a fare in culo e tornai in fretta di sopra.
55

Il giorno dopo non mi ero ancora ripreso dallo spavento, per tutta la notte avevo sognato
di essere inseguito da una coppia di vampiri malati di Aids.
Finito di lavare una decina di piatti che per giorni avevano atteso fiduciosi un mio
intervento sgrassante, stavo pensando che nemmeno Ed Wood avrebbe girato una scena
così scadente, quando Lucy arrivò da scuola dentro casa. Disse «C'è uno stronzo, un mio
compagno di classe, che da qualche giorno mi segue fino a qui, quando entro se ne va».
«Come si chiama?»
«Francesco.»
«Sarà innamorato.»
«Credo anch'io.»
«Ti piace?»
«Un po'.»
«Un po' quanto?»
«Non lo so, geloso?»
«Un po'.»
«Anche questa cosa mi piace.»
«A me non tanto.»
«E perché?» «Lascia perdere, ti devo fare una domanda.»
«Avanti.»
«Dove è sepolta Serena?»
«Perché lo vuoi sapere?»
«E perché tu vuoi sapere perché io lo voglio sapere?»
«Hai visto Corinna?»
«Non ho visto nessuno perché non c'è nessuno da vedere.»
«Dai, a me puoi dirlo.»
«Piantala con queste…»
«Cazzate, lo so, stavi per dire cazzate.»
«Lucy, per favore.»
«Permaloso, comunque te lo dico. Volate è troppo piccola, non ha un cimitero tutto suo,
è stata sepolta a Trequerce, sette chilometri da qui, prendi per Cantù ma poi devi seguire
le indicazioni per le cascate. È un posto bellissimo, ci sei già stato?»
«Non ancora.»
«Vacci.»
«Lo farò, grazie.»
«Quando iniziamo con il lavoro?»
«Presto, sto aspettando i permessi.»
Appena Lucy se ne andò saltai in macchina, il tempo non invogliava una visita al
cimitero, il silenzio vibrava di foglie, poi il silenzio si coprì di nuvole, mucchi di nuvole
blu in attesa dell'ordine di attacco.
In meno di venti minuti, nonostante non avessi visto la deviazione e fossi stato costretto
a tornare indietro, arrivai al cimitero di Trequerce.
Lasciai la macchina nel parcheggio distante qualche centinaio di metri, sullo sfondo
mura grigie e un paio di angeli di gesso con le ali spezzate e gli occhi tra il languido e il
minaccioso che sovrastavano i lati del cancello.
Entrai e percorsi i vialetti fino a quando non arrivai al campo dove erano sepolte le
persone decedute tra il 1996 e il 1997, nomi volti date di gente sconosciuta anche a se
stessa. Mi fermai davanti a una tomba di marmo rosso e lessi:

Serena e Corinna Ardemagni


giacciono qui sepolte
inseparabili nella vita, unite nella morte
17 agosto 1996

Qualcuno aveva messo in atto le ultime volontà di Serena oppure aveva voluto fare
della macabra ironia.
Le nubi blu cominciarono a perdere inchiostro macchiandomi la camicia. Sotto
l'acquazzone più forte che ricordassi dal mio arrivo a Volate corsi all'auto pensando che da
qualche parte il corpo di Corinna doveva pur essere. Forse in quella tomba o forse nella
bara abbandonata nella cantina di casa.
56

Il pensiero di Corinna e di dove fosse il suo corpo cominciava a ossessionarmi. Il ricordo


dello spavento preso in cantina era un freno che entrava in automatico, insufficiente però a
farmi desistere: non c'era giorno che non pensassi di tornare laggiù ad aprire quella bara
bianca. Poi arrivarono i permessi e mi concentrai sulla nascita della società.
La battezzai con il nome di Bionat, poco fantasioso ma efficace nel presentare in modo
immediato quanto intendevo proporre. Il logo per le etichette lo realizzai io stesso
cercando nella rete qualche simbolo riconducibile al concetto di rustico: alla fine scelsi e
scaricai la foto di una vecchia cascina che assomigliava a quella di Patricia.
Mancava ancora la scelta definitiva di cosa mettere sul mercato e così, dopo un breve
consulto con Patricia, decisi di iniziare con alcune semplici ricette, da preparare in base
alle stagioni, evitando il più possibile di ricorrere alle coltivazioni in serra.
Ritiravo la merce in giorni prestabiliti, il martedì da Berti, il giovedì da Gavazzi, sulla
mia Fiesta più di tanto non ci stava e sulla strada del ritorno la sentivo arrancare carica
com'era dai bagagliaio ai portapacchi. Scaricavo le cassette sul retro della cascina di
Patricia, da lì le portavo in cucina, uno stanzone di una ventina di metri quadrati con ai
centro numerosi fuochi, segno di un gravoso impegno culinario nei confronti di una
famiglia oggi dispersa chissà dove. Sulla parete di fondo avevo fatto collocare un paio di
enormi frigoriferi, presi in leasing, necessari per la conservazione delle materie prime e del
prodotto finito.
Patricia lavorava le verdure il giorno successivo, ovvero mercoledì e venerdì. Il giovedì
e il sabato pomeriggio, con l'aiuto di Lucy, le mettevamo nei vasetti sterilizzati che facevo
arrivare da Como.
Nonostante le indubbie capacità, Patricia non aveva esperienza ed ebbe più di un
problema nel realizzare cibi dal sapore ottimale e dalla cottura perfetta. Temevo il tracollo,
ma alla fine ci riuscì e mi sentii felice come un ragazzino al primo bacio.
57

Verso la metà di maggio, quel giorno il sole si era insabbiato tra dune di nuvole, Yorgo
arrivò alla villa per installare il PC che avevo acquistato e per insegnarmi a usare il
programma di gestione del sito.
Nonostante l'handicap del braccio più corto, a occhio almeno cinque centimetri,
lavorava veloce e sicuro. Mi spiegò le cose intasandole di dettagli tecnici di cui avrei fatto
volentieri a meno, sembrava appartenesse ai dianetici del web, fin quando il suo sguardo
cadde sulla collezione di vinili dei Beatles. Si avvicinò alla mensola di fronte alla libreria e
si mise a farli passare a uno a uno senza aprire bocca. Visto l'ultimo, disse «Incredibile».
«Cosa?»
«Ci sono dei promo, delle edizioni che ho cercato ovunque, come questa francese di Hey
Jude, alla fine credevo che non esistessero neanche, che fossero una leggenda, e ci ho
rinunciato.»
«Cosa sono per te i Beatles?»
«Quello che avrei voluto e non sono stato capace di essere.»
Parlammo a lungo dei quattro ragazzi di Liverpool e di come cancellarono, in meno di
otto anni, i valori vittoriani che la Gran Bretagna cercava di difendere, impaurita da tutto
ciò che avesse la possibilità di essere definito nuovo. Poi aggiunse «Nessuno oggi può
capire quanto dobbiamo loro».
«E a Mary Quant.»
«E ai catsuits di Emma Peel.»
Se qualcuno avesse ascoltato i nostri discorsi, ci avrebbe preso per dei nostalgici degli
anni Sessanta. Nessuno dei due li aveva vissuti se non da bambino, solo che qualsiasi cosa
andasse dal 1962 al 1970 ci sembrava degna di essere ricordata.
58

Yorgo se ne era andato da poco, mettendo sotto l'ascella del braccio più corto la borsa di
plastica con la quale era arrivato, quando il telefono squillò.
Fino a quel momento non era mai accaduto, mia madre aspettava mi facessi vivo io, e
per un attimo mi chiesi cosa fosse e da dove provenisse quel suono con cui avevo perso
familiarità. Stavo cercando di effettuare un'operazione delicata, togliere una spiga che si
era infilata nella narice destra di Winston prima che venisse aspirata completamente, la
sorpresa mi fece tremare la mano e rischiai di peggiorare la situazione. Ma ce la feci e
risposi «Pronto».
«Ciao.»
«Ciao, chi sei?»
«Lori, ti ricordi di me vero?»
«Mi sembra. Chi ti ha dato il mio numero?»
«Sei sull'elenco "Como e provincia".»
«Domanda stupida, come stai?»
«Bene, avevo voglia di sentirti, e tu?»
«Bene.»
«Intendevo se avevi voglia di sentirmi.»
«Sì, ma adesso che lo sai, non credere di essere tornata in vantaggio.»
Decidemmo di vederci il giorno dopo. Era sabato, lei il mattino aveva un appuntamento
con la signora Fantoni, vedova del vicesindaco che non era sopravvissuto al frontale con le
oche, in cerca di un bilocale con cucina abitabile, la casa in cui aveva sempre vissuto era
diventata di colpo troppo grande e piena di giacche e cravatte da regalare ai poveri. Dopo
Lori avrebbe avuto ancora un paio di faccende da sbrigare, scarpe da portare a rifare il
tacco e il frigorifero da riempire.
Sarebbe passata a prendermi nel primo pomeriggio. Poi domandò «Dove vuoi andare?».
«Mi hanno consigliato le cascate di Trequerce.»
«Chi?»
«Lucy.»
«Chi è?»
«Una ragazzina che mi aiuta in una piccola attività che sto mettendo in piedi.»
«Quella di prodotti biologici?»
«E tu che ne sai?»
«Me l'ha detto Patricia, passa da noi quasi tutti i giorni.»
«Mai che tenga una cosa per sé.»
«Comunque questa Lucy ha ragione, le cascate sono uno spettacolo straordinario.»
«Ci andiamo?»
«Vada per le cascate.»
«A domani.»
«Ti aspetto.»
59

Lori arrivò qualche minuto in anticipo. Non ero ancora pronto, mi stavo infilando una
maglia logora sui gomiti che credevo portasse fortuna con le donne e nella fretta me la
misi al contrario. Lei trovò la cosa ridicola e per tutto il tragitto non smise di prendermi in
giro per quanto ero imbranato. "Iniziamo bene" pensai.
Lasciammo l'auto, un vecchio Cherokee che bruciava olio, nel parcheggio del cimitero.
Camminammo in leggera salita per oltre un'ora tra i sentieri, lecci e castagni al nostro
fianco. Lori mi precedeva raccontandomi senza voltarsi di quando i suoi genitori la
portarono a vedere le cascate per la prima volta. Disse «Avevo sette anni e le efelidi
sembravano ingrandirsi quando sorridevo».
Poi ce le trovammo davanti. L'acqua scendeva sfiorando le cime degli alberi, si
immergeva dentro un'ampia pozza a forma di foglia di frassino, affogava e risaliva fino a
uno strapiombo prima di cadere lasciando avanzi di umidità sulle rocce. Avevo voglia di
baciarla. «Lori, girati.»
«Non posso.»
«Qualcosa non va?»
Silenzio. Tornai indietro, lei rimase, lecci e castagni se ne erano andati, il tempo era lo
spazio che mi separava dall'auto.
L'aspettai seduto sul cofano, arrivò dieci minuti dopo. Rientrammo senza dire una
parola, lei ogni tanto mi osservava distogliendo lo sguardo dalla strada, io facevo finta di
non accorgermene, se voleva succedesse qualcosa, toccava a lei agire. Non fece nulla,
quando arrivammo alla villa disse «Ci sentiamo presto».
«Certo.»
Entrai in casa, il Cherokee si allontanò cercando un'autostrada dove poter correre,
sentirsi ancora giovane, inchiodare di colpo ed evaporare benzina.
60

Con Lori era andata male, con qualcun'altra sarebbe andata meglio, non che ci credessi
davvero. Donne carine adatte a uno di quarant'anni come me non ne avevo viste, in paese
erano tutte sposate o assomigliavano ad animali mitologici.
Mi dedicai alla Bionat, dovevo fissare prezzi concorrenziali, trovare il modo per farmi
conoscere, calcolare il break-even e stabilire quanto tempo potevo reggere se le cose non si
fossero messe per il meglio. Il risultato non fu incoraggiante: sei mesi, altrimenti mi sarei
ritrovato con dei debiti cui non avrei saputo far fronte.
Riuscivo a concentrarmi qualche ora al giorno, ma puntuale tornava il desiderio di
scendere in cantina per vedere che cosa contenesse la bara e a fatica riuscivo a scacciarlo
fino al mattino dopo, quando si ripresentava in forma blanda per scatenarsi di nuovo
verso sera. Rimaneva ancora la soffitta che mi ero ripromesso di visitare in cerca dei libri
di Serena, ma l'avevo trascurata immaginando che se la cantina era in un modo, il solaio
poteva essere peggio.
Una settimana dopo il no incassato da Lori afferrai le chiavi e salii le scale per nulla
convinto di ciò che stavo facendo. Speravo fossero sbagliate o che la serratura fosse
arrugginita, avrei rinunciato senza sentirmi una mezza sega.
La chiave funzionò perfettamente, aprii la porta che già vedevo scheletri ballare, pronto
alla fuga più precipitosa mai vista, ma il solaio si presentò vuoto e immenso, raggi di luce
pomeridiana battezzavano il suo abbandono.
Lo attraversai respirando di sollievo, ma in un angolo buio un telo grigio copriva
qualcosa le cui forme apparvero a un primo sguardo indecifrabili. Mi feci coraggio e senza
pensarci troppo tolsi quel pezzo di stoffa cui gli anni avevano addormentato le pieghe. I
libri che avevano accompagnato Serena nel corso della vita erano lì sotto, ad aspettare che
qualcuno tornasse da loro.
Trasportai i volumi a pianterreno, un centinaio circa, cavandomela con pochi viaggi e
minuscoli ragni gialli e neri tra le dita, disturbati dopo anni di trappole intessute a insetti
in cerca di letture.
Oltre a una raccolta di poesie di Emily Dickinson, molti erano i romanzi di autori vissuti
a cavallo tra Otto e Novecento, da Emily Brontë a Elizabeth von Arnim, da Edith Wharton
a Giovanni Verga. Tra questi spiccava però Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mister Hyde.
Mi chiesi se lo sdoppiamento di personalità del protagonista avesse influenzato Serena.
61

All'inizio di giugno, un giugno così caldo in paese non lo ricordavano da vent'anni, gli
alberi tremavano nel controluce e i fiori si scioglievano nei campi, fu tutto pronto e andai
on line con la vendita dei prodotti.
La mattina mi recai a Como per una passeggiata e feci le fototessera per la carta
d'identità scaduta in un negozio del centro.
Ritirate le orribili foto, mi sedetti al sole su una panchina sdraiata davanti al lago. Era la
prima volta che ci tornavo dopo due anni, c'ero stato all'addio al celibato di un amico, festa
della quale ricordo poco, a un certo punto ero così ubriaco che dicevo a tutti di voler
tornare a Milano a nuoto.
Sulla panchina di fianco, intenti ad avvolgersi le mani ai reciproci glutei, una coppia a
metà strada tra il grunge e l'hippie. Attaccammo discorso quando mi offrirono di fare un
tiro al chilum che stavano preparando, mi dissero che stavano insieme da sei mesi e che
erano innamorati, io raccontai cosa mi ero messo in testa di fare e loro si offrirono di
distribuire un volantino con le offerte Bionat a Como, Cantù e Lecco, in particolare nei
giorni di mercato quando vi affluiva gente anche dai paesi limitrofi.
Lui si chiamava Corrado, aveva ventidue anni e un naso così grosso che poteva ospitare
una terza narice, lei Giovanna e di anni ne aveva compiuti da poco venti nonostante la
piccola tempesta di raggi solari vicino agli occhi la facesse sembrare più vecchia. Insieme
frequentavano i corsi dell'Istituto superiore grafica moda design di Lecco e si arrangiavano
con dei lavoretti. Ci mettemmo d'accordo, ogni mese avrei spedito tremila volantini, nel
sesto e ultimo pacco da cinquecento avrei nascosto i quaranta euro la settimana che
pattuimmo.
Le cose, almeno all'inizio, non andarono bene. La prima e unica vendita arrivò dieci
giorni dopo e mi sentii come se mi avessero gettato un salvagente sgonfio. Per qualche ora
tornai ad avere fiducia, ma mentre io mi esaurivo a controllare l'e-mail del sito, nei quattro
giorni successivi non ci fu nemmeno un ordine. Senza dimenticare che Patricia telefonava
in continuazione e mi angosciava chiedendo «Allora?».
Ciò che più mi dava fastidio era non sapere cosa dire a Lucy quando passava di ritorno
da scuola, avrei voluto essere il suo eroe e invece mi facevo vedere nervoso e in preda al
panico.
Il quindicesimo giorno successe qualcosa. Arrivarono due ordini la mattina e tre nel
pomeriggio, ne ero talmente stupito che credetti avessero sbagliato a digitare indirizzo.
Cercai di non esaltarmi, ma anche il giorno dopo ne arrivarono tre e così per una
settimana. Poi il deludente stop di una domenica, ma subito il lavoro riprese costante
arrivando a stabilizzarsi su una media quotidiana tra i dieci e i quindici ordini.
E così, un giorno di particolare buonumore, trovai il coraggio che fino a quel momento
era mancato e tornai in cantina.
62

Nonostante mi muovessi in maniera lievemente ipercinetica, come se dovessi dimostrare a


me stesso di non avere paura, discesi i gradini senza incertezze. Di colpo la tentazione di
lasciar perdere tornò a farsi pressante, ma non potevo fare marcia indietro e così, dopo
aver acceso la luce, mi ritrovai in quella stanza macabra.
Mi aggirai fingendo indifferenza dando un'occhiata agli oggetti che giacevano, oltre alla
bara, abbandonati sul tavolo, ma a parte una vecchia cartina di Volate risalente agli anni
Trenta, da cui risultava che le case vicino al torrente non erano ancora state costruite,
niente suscitò il mio interesse.
Con la palma della mano, la stessa che Matteo si era divertito a seviziare, diedi un colpo
al coperchio della bara sperando si spostasse. Non accadde nulla, sembrava sigillata, viti
visibili esternamente però non ce n'erano e pensai che le due parti fossero semplicemente
incastrate.
Afferrai con ribrezzo una spatola lì accanto e cercai di usarla come leva. Non feci in
tempo ad appoggiarmi al tavolo che questo cedette di schianto, roso dal lavoro decennale
dei tarli, trascinando con sé tutto quanto vi stava sopra, mentre io assistevo impotente al
disastro.
Anche se in modo involontario, lo scopo era stato ottenuto, il feretro si era spaccato
aprendosi parzialmente su un fianco. Vincent Price si sarebbe fatto una risata, gocce del
mio sudore caddero invece a pioggia sul pavimento. Mi avvicinai e con un calcio scostai il
coperchio, ma la bara, o quel che ne rimaneva, era vuota.
Tornai di sopra più tranquillo, ma allo stesso tempo più dubbioso su quanto avessi
recuperato delle mie capacità mentali.
63

Il giorno dopo, avevo appena finito di aggiornare il sito con un'offerta del cinque per cento
di sconto per chi avesse effettuato acquisti per una somma superiore ai quaranta euro, mi
guardavo i piedi scalzi appoggiati sulla pancia di Winston pensando di chiedere a Patricia
di lucidare il parquet del salone, quando il telefono squillò. Risposi, dall'altra parte Paola.
«Ciao Tommaso, Lucy è lì da te?»
«No, oggi non è passata.»
«Strano, come mai?»
«Non ne ho idea, qualche problema?»
«Non credo, ma di solito a quest'ora è già a casa da un pezzo.»
«Sarà in giro con qualche ragazzo.»
«Quando è fuori e fa tardi mi avverte, sempre.»
«Hai provato sul cellulare?»
«Staccato.»
«Richiamami tra mezz'ora e se non è ancora tornata vengo lì.»
«A tra poco.»
Meno di venti minuti dopo Paola richiamò, la voce leggermente alterata dalla tensione.
«Scusa se ti chiamo prima, Lucy non si è ancora vista.»
«Hai già chiamato la scuola?»
«No, non ancora.»
«Fallo subito.»
«Sì.»
«Vengo da te, ma prima faccio la scorciatoia che porta qui.»
Misi le Stan Smith e uscii, erano circa le tre del pomeriggio, Lucy di solito verso l'una e
mezzo si sedeva a tavola dopo essere stata da me cinque o dieci minuti.
Fuori si stava meglio che in casa, la luce aveva il profumo dei giorni migliori, mentre le
nuvole voltavano pagina ai colori, ma dentro di me si stava aprendo il catalogo dei
dispiaceri.
Arrivai al ponte di legno, proseguii per il monumento in bronzo dedicato ai caduti di
Volate durante la Seconda guerra mondiale, sette in tutto, Renato Cardona era il primo,
vittima di un cecchino, poi a seguire gli altri in ordine alfabetico, tutti morti a El-Alamein.
Giunto fin quasi in paese mi fermai. Lucy non arrivava, poteva aver preso un'altra strada,
altrimenti qualcosa o qualcuno le stava impedendo di farlo.
Da Paola andai a piedi, la trovai fuori dalla porta ad aspettarmi, un albero senza fronde
piantato lì a impedire l'ingresso. Disse «Niente ancora».
«Cosa dicono a scuola?»
«Ho parlato con la professoressa di latino, dice che l'ha vista uscire alla solita ora.»
«Sola?»
«Sembra di sì.» «Chiama la polizia, è inutile attendere oltre.»
Entrammo in casa. Paola senza più saliva compose il numero della polizia di Trequerce.
«Mi chiamo Paola Casiraghi, abito a Volate, e mia figlia non è tornata a casa.»
«Quanto ha di ritardo?»
«Due ore.»
«Signora Casiraghi, una denuncia di scomparsa è prematura.»
«Non era mai successo prima.»
«Come si chiama?»
«Lucia.»
«Anni?»
«Quindici, uno e sessantacinque, capelli rossi, lunghi.»
L'agente Berselli si fece lasciare il numero di casa di Paola e aggiunse «Segnalo sua figlia
alle due pattuglie fuori in questo momento».
L'avrebbe richiamata appena saputo qualcosa, altrimenti si sarebbero risentiti passate
altre due ore. Presi Paola per un braccio e dissi «Muoviamoci».
«Cosa vuoi fare?»
«Un giro in macchina, prendiamo la tua, guido io.»
«D'accordo.»
«Non dimenticare il cellulare.»
Nessuno telefonò e tutti quelli che incontravamo dicevano la stessa cosa, che non
l'avevano vista o che l'avevano salutata dopo l'ultima ora di lezione. In piazza parlammo
con Fabio, il postino che da oltre vent'anni prestava servizio a Volate. Tornava dal suo giro
e l'aveva notata prendere il sentiero. Lui stava andando in municipio a consegnare la posta
e si erano salutati. Poco dopo l'una.
Osservai il volto di quell'uomo, così anonimo da sembrare la stanza di un albergo a ore.
«Come le sembrava?» chiesi.
«Tranquilla, come al solito.»
A ogni risposta Paola scoppiava a piangere, poi cercava di calmarsi senza riuscirci, le
mani impastavano l'aria. Aspettò che Fabio finisse di parlare, mi guardò e disse
«Torniamo».
Tornammo in una casa che sembrava diversa, ristretta negli angoli, dove le voci
risuonavano come in una caverna. Lucy non era lì, aspettammo qualche minuto, io andai
in bagno domandandomi se era lecito farlo in quel momento, poi Paola compose il numero
della polizia. «Sono Paola Casiraghi, avete notizie di mia figlia?»
«No signora, nessuna.»
«Iniziate le ricerche, per favore.»
«Venga qui per la denuncia di scomparsa, intanto avvisiamo la questura di Cantù, sono
loro a occuparsi di casi come questo, noi non abbiamo né uomini, né mezzi sufficienti.»
Prima di uscire, Paola lasciò sul tavolo in cucina, sopra un cerchio di umidità disegnato
dal fondo di un bicchiere, un biglietto, tre parole, di cui una sbagliata: "Chiamami apena
arrivi".
Vedere quell'errore, scoprire tracce di analfabetismo nella madre di Lucy, fu doloroso
come un pugno.
Paola disse «Nel caso tornasse quando non ci siamo».
«Hai fatto bene.»
Risalimmo in auto, guidai più lentamente del solito, avevo paura che se avessi causato
un incidente in quel momento avrei impedito a Lucy di tornare a casa. La conferma che
aveva preso regolarmente la scorciatoia non era un buon segno, sarebbe stato meglio
scoprire qualche imprevisto.
Entrammo a Trequerce, cittadina che sopravviveva grazie a una fabbrica di componenti
per computer, ottomila abitanti dai quali giungeva talvolta un ordine per la Bionat, Volate
non arrivava invece a farne milleottocento. Sulla destra della piazza principale, tra Pronto
Pizza e la Banca Rurale, c'era il posto di polizia. Un volantino per prestiti immediati a
operai e agenti di commercio rimbalzò sul parabrezza e portato dal vento ci seguì fin
dentro l'atrio.
Rimanemmo in piedi, Paola aspirava una sigaretta dopo l'altra, fin quando da Cantù
arrivò un pitbull dalle fattezze umane.
Si presentò «Commissario Nicola Donati, Sezione omicidi».
Paola rimase a bocca aperta come un nastro messo in pausa. «Perché la omicidi?»
«È la prassi, signora Casiraghi.»
Donati raccolse la denuncia di scomparsa, infine chiese «Sua figlia fa uso di
stupefacenti?».
«Lo escludo.»
«Ha un fidanzato?»
«Credo di no, ma i genitori sono gli ultimi a sapere queste cose.»
«Quando esce la sera dove va?»
«Esce poco, al massimo va a mangiare una pizza con le amiche, più di tanto non si
allontana, nessuno dei compagni di classe ha ancora la macchina.»
«Controlleremo ogni cosa.»
Donati si girò verso di me dicendo «E lei chi è?».
«Un amico.» «Mi dice il suo nome?»
«Tommaso Matera.»
«Quel Tommaso Matera?»
«Quel Tommaso Matera.»
«Cosa ci fa da queste parti?»
«Ci vivo.»
«Davvero?»
«Davvero.»
«Qualche idea?»
«Ogni giorno un ragazzino la segue da scuola fino a casa mia, spero siano a fare sesso da
qualche parte ma è poco probabile.»
«Come mai?»
«Lucy vive ancora un sesso immaginato.»
Donati diramò l'ordine di ricerca, questa volta in forma ufficiale, poi entrò nell'ufficio di
Berselli da dove chiamò il professor Gentili, preside della scuoia di Volate, chiedendo di
un certo Francesco, in classe con Lucia Casiraghi.
Gentili rispose «Ce ne sono due, Francesco Damele e Francesco Zamboni».
«Si ricorda il loro indirizzo?»
«No, devo consultare gli archivi, ma entrambi vivono in paese.»
«Li trovi, noi stiamo arrivando.»
Tornammo a Volate, passando prima da casa di Paola per vedere se Lucy era tornata ma
niente. Paola si afflosciò sul divano come una tenda caduta da una riioga e mi chiese
«Donati come fa a conoscerti?».
«A Milano lavoravo come consulente per la Sezione crimini violenti della polizia.»
«Allora aiutami.» «Ci sto provando.»
Salutandola le diedi un bacio sui capelli, petali di forfora caddero sul pavimento.
64

Arrivammo alla scuola che mancavano pochi minuti alle sette, le giornate si erano
allungate e la sera aspettava il suo turno.
Ci facemmo aprire da Beppe, il custode mezzo scemo e con una mostruosa cateratta
all'occhio sinistro, gli chiedemmo di Lucy ma non ricordava nemmeno chi fosse. A Gentili
spiegammo sbrigativamente cosa stava succedendo, recuperammo gli indirizzi e pochi
minuti dopo suonavamo alla porta di Francesco Zamboni. Era solo in casa e quando
Donati gli domandò di Lucy, rispose «Non sono io a seguirla, non ci caghiamo tanto, lei
con me fa un po' la figa, è Francesco Damele quello che cercate, è fuori di testa per quella
ragazza, per lei potrebbe fare qualsiasi cosa».
«Meglio per te se non scopro che vai dicendo cazzate.»
Ci spostammo a piedi per meno di trecento metri lungo la via principale che tagliava in
due il paese, i negozi stavano chiudendo un'altra giornata.
Una sedia a dondolo e la sirenetta Ariel sopra una finta fontana arredavano il giardino
della villetta dove abitava Damele. Ci aprì il padre, ansimante come un soffio al cuore,
canottiera e calzoncini corti, peli sotto le ascelle lunghi quindici centimetri. Rispose
«Francesco è di sopra, qualche problema?».
«Vedremo.»
«Ve lo chiamo.»
«Andiamo noi.»
Francesco era nella sua stanza davanti al PC, il quarto livello di Tomb Raider era appena
iniziato e Lara Croft, tette e culo di marmo, stava per polverizzare un mostro cornuto che
si nascondeva dentro le sabbie mobili. Entrammo senza bussare, Francesco si distrasse, il
mostro fece in tempo a scappare dietro una colonna dove simboli alieni indicavano il
passaggio per mondi ultraterreni. Donati disse «Francesco?».
«Sì?»
«Sono il commissario Donati della polizia di Cantù, dobbiamo farti qualche domanda a
proposito di Lucia Casiraghi.»
«È successo qualcosa?»
«L'hai seguita anche oggi?»
«Come?»
«Non fare lo stronzo e rispondi veloce.»
Con gli occhi stupefatti di Buster Keaton Francesco rispose «No, oggi no, il lunedì mi
fermo a scuola, ho allenamento con la squadra di calcio».
«Hai visto se si è allontanata con qualcuno?»
«Non lo so, dopo l'ultima ora lei è uscita per tornare a casa e io sono andato a mangiare
in mensa.»
«Perché la segui?»
«Mi piace.»
«Tutto qui?»
«Vorrei stesse con me.»
«E lei ti respinge?»
«Certe volte sì, altre sembra ci stia.»
Lasciammo Francesco, Lara Croft era stata colpita e agonizzava sopra un altare. Chiamai
Paola, di Lucy nessuna notizia. Le chiesi «Come stai?».
«Lo sai come sto.»
«Male.»
«E allora perché me lo chiedi?»
«Non so che altro dire.»
«Scusami.»
«Non hai niente di cui scusarti.»
Chiusi la telefonata, guardai l'orologio, erano le nove.
65

Era successo qualcosa, qualcosa di grave, la speranza che si trattasse di una ragazzata ci
aveva abbandonato.
La questura di Cantù mise a disposizione venti agenti coordinati da Donati e coi cani
iniziò a battere le aree boschive intorno a Volate, io mostrai il percorso che dalla scuola
portava alla villa e poi, proseguendo, a casa di Paola.
Ci muovevamo alla luce delle torce elettriche, bolle luminose che si allargavano sul
fondale della notte. Donati, lo sentivo, lottava contro l'impulso di interrogarmi. Il mio
passato gli impediva di farlo, negli ultimi tempi avevo però avuto a che fare con Lucy più
di chiunque altro. Gli dissi «Nicola, fai quello che devi».
«Okay, dov'eri al momento della scomparsa della ragazza?»
«A casa, stavo lavorando al computer.»
«Passava da te tutti i giorni?»
«Il martedì no, si fermava a scuola, aveva gli allenamenti di pallavolo.»
«Oggi è lunedì.»
«Lo so.»
«E allora?» «E allora non ci ho fatto caso.»
«Non è cosa per uno come te.»
«Ti ricordo che non sono un poliziotto.»
«Dimmelo tu chi sei.»
«Uno che vende prodotti biologici via internet.»
«Scherzi.»
«Non vedo il motivo.»
«Hai perso la mano.»
«Mai avuta.»
Verso le tre di notte Donati ricevette una chiamata sul cellulare, un Nokia attraversato
da delfini volteggianti sulle onde del mare. Si accorse che lo stavo osservando e prima di
rispondere disse «Un regalo di mia figlia». Seguì un breve colloquio con la centrale che si
concluse con una bestemmia. Mi guardò e disse «Hanno trovato lo zaino».
«E il cellulare?»
«È dentro, insieme ai libri di scuola.»
«Dove?»
«Lungo la provinciale da Volate a Trequerce, ha delle abrasioni dietro e sul lato destro,
come fosse stato buttato da un'auto in corsa.»
«Digli di non toccarlo, di lasciarlo esattamente dov'è.»
«Non credo tu possa dare ordini.»
«Scusa, hai ragione, ma per favore diglielo.»
«L'hanno già portato in questura.»
66

Alle cinque lasciai Donati e andai da Paola che non si era mossa da casa, dal divano, dalla
posizione in cui l'avevo lasciata. Le dissi dello zaino, lei chiese «Dimmi la verità».
«Si mette male.»
«Grazie per essere stato sincero.»
«Vorrei dare un'occhiata alla stanza di Lucy.»
«In fondo al corridoio, sopra c'è un cartello con scritto "accesso vietato ai non
residenti".»
«Accompagnami.»
«No.»
«Ti prego.»
«Non ce la faccio.»
Entrando vidi il letto non ancora rifatto dal giorno prima, tra le coperte un pigiama
bianco dove papere grasse prendevano il sole aspirando bibite da enormi cannucce, sulla
parete di destra il poster di Brad Pitt in Fight Club, di fronte l'armadio. Lo spalancai, dentro
vestiti di stagioni finite, sulla scrivania una penna trasparente al cui interno si agitavano
vermi fosforescenti.
Aprii i due cassetti della scrivania, nel primo caramelle sparse, un pezzo di cioccolato
avvolto nella stagnola, il biglietto di un cinema di Como, una molletta per capelli, un paio
vi erano rimasti impigliati, li presi e li infilai nel portafoglio. Nel secondo il suo diario,
incollata sulla copertina una foto di quando aveva cinque o sei anni, un cespuglio di
bambagia rossa che mostrava con orgoglio mani sporche di terra, le ginocchia erano verdi
d'erba.
Iniziava nell'aprile di tre anni prima, la scrittura aveva il simbolo infantile di lettere
grosse e tonde, lo sfogliai e ne cadde un biglietto piegato in due. Era di Francesco Damele,
una settimana prima le scriveva "Non importa se dici di non essere innamorata di me, io ti
aspetterò e, lo giuro, non morirò fino al giorno in cui farai l'amore con me".
Lo rimisi dove stava, chiusi il diario e lo portai da Paola. «Leggilo tu, qualsiasi cosa ti
insospettisca chiamami.»
«Perché lo dai a me?»
«Non voglio leggerlo, non voglio sapere niente, soprattutto non voglio sapere quello che
pensava di me.»
«Cosa hai paura di scoprire, che non ti voleva bene?»
«Direi il contrario.»
Passai da casa per farmi una doccia, era quasi mattina, poi sarei andato a parlare con chi
aveva ritrovato lo zaino di Lucy.
67

«Facciamo il punto della situazione.»


Lo disse il questore Venuti nel momento in cui entrai nel suo ufficio a Cantù. Era stato
promosso a tale carica dopo l'infarto che, senza troppo dispiacere per la comunità, aveva
seppellito il precedente, un certo Bellavita. Un paio di ex mogli e tre figli maschi che in
città facevano il cazzo che volevano, girava voce prendessero il pizzo sulle concessioni
edilizie.
Venuti, espressivo come un sasso, triste come se fosse nato prima dell'avvento del
sorriso, continuò «L'area di ricerca è stata estesa da Volate a Trequerce e dintorni, ma della
Casiraghi non c'è traccia, nessuno l'ha più vista una volta uscita da scuola. Che abbia preso
la solita strada è stato confermato dal Brolli, il postino. Probabilmente ha incontrato
qualcuno sul sentiero, poi, viva o morta, è stata portata dove si trova in questo momento».
Una volta ricostruiti i fatti, Donati mi presentò. Quando Venuti seppe chi ero, mi strinse
la mano troppo convinto. La sua era pelosa e aveva un'unghia nera di sangue rappreso,
probabilmente la portiera di un'auto chiusa troppo in fretta. Mi chiese «Ti va di aiutarci?».
«Posso essere sincero?»
«Certo.»
«No, ma lo farò.»
Con lui andai da Gerardi, l'agente che aveva raccolto lo zaino di Lucy sul ciglio della
strada. Chiesi «Dove stava esattamente?».
«Sulla statale che collega Volate a Trequerce.»
«Questo lo so, può essere più preciso?»
«All'altezza del chilometro ventotto.»
«C'è qualcosa di particolare in quel punto?»
«No.»
«Lì vicino?»
«A cinquecento metri c'è la deviazione che porta alle cascate.»
Le cascate. Come avevo fatto a non pensarci prima, uno più sveglio di me ci sarebbe
arrivato da solo e più velocemente. Chiesi a Gerardi «Le avete già controllate?».
«Non ancora, siamo in pochi.»
Corsi da Donati e gli dissi «Nicola, andiamo alle cascate, sono il luogo preferito di
Lucy».
In pochi minuti arrivammo davanti al cimitero. Gli angeli di gesso aspettavano ordini
dal capo e intanto vegliavano insonni su Serena e Corinna. Scendemmo dall'auto, io
cominciai a correre, Donati lo stesso dietro di me, un pitbull cinquantenne col colesterolo
oltre i limiti di legge.
Ero fuori forma e ogni due o trecento metri dovevo rallentare e camminare per qualche
secondo prima di un altro scatto, per arrivare alle cascate ci misi quasi mezz'ora. Donati ce
la fece cinque minuti dopo e come me rimase in silenzio davanti a Lucy. Era lì, sul margine
destro della pozza a forma di foglia di frassino, dove la cascata si distendeva prima di
riprendere il suo corso. Galleggiava come una bottiglia di plastica, in verticale, con la testa
che affiorava e il resto del corpo sott'acqua. Tutto il buio che c'è nella paura colò su di me,
tolse il rosso del cuore, il blu delle vene e rimase quello della morte, il bianco.
Lucy era diafana, si poteva attraversarla con lo sguardo, il rame dei capelli cromava la
superficie, gli occhi come quelli di un peluche cui nessuno vuole più bene.
Guardai Donati e lui, dopo un tremore, parlò dentro il cellulare azzurro. «Sono Donati,
tutti gli uomini alle cascate.»
Sarei voluto scappare, andare lontano fino a vedere dove si trova questo lontano, invece
mi sedetti a osservare Lucy dondolare la testa sotto la spinta seriale delle onde.
Arrivarono il sostituto procuratore Cattaneo e la scientifica. Dopo che ebbero rilevato
ogni impronta e fotografato la scena da ogni possibile angolazione, cominciarono a
recuperare il corpo ma la collanina non era da nessuna parte. Alla fine non ressi alla
tensione e vomitai.
68

Per toglierla dall'acqua ci volle oltre un'ora, i piedi di Lucy erano stati legati a un vecchio
televisore Philips, sfondato e senza più tubo catodico, databile intorno alla metà degli anni
Sessanta, che l'assassino, o qualcuno che aveva utilizzato quel posto come discarica, aveva
appoggiato sul fondo, a un metro e sessanta centimetri dalla superficie, in modo che il
corpo non si sdraiasse sull'acqua e non cadesse nello strapiombo.
Come i piedi, anche le mani di Lucy erano state legate, le dita intrecciate, i polsi
ravvicinati. E quando l'agente Barbera, faccia da bancario umile, coperta dalla mascherina
bianca, tagliò con un coltello da caccia la corda che le univa, le mani si aprirono come una
valva d'ostrica e la perla che contenevano era un oggetto biancastro come una scheggia di
marmo.
Il corpo di Lucy fu imbragato, caricato su un elicottero atterrato in una radura a un
chilometro di distanza e trasportato davanti al cimitero di Trequerce dove un'ambulanza
lo avrebbe portato all'ospedale di Cantù per l'autopsia.
A me spettò un altro compito: andare a dire a Paola che sua figlia era morta. E che era
morta in modo orribile.
69

Paola mi stava aspettando. Dal divano si era trascinata sul letto dove guardava rami
d'ombra che si muovevano sul soffitto. Dissi «È morta, è stata uccisa».
Piccoli frammenti di ghiaccio si staccarono dai suoi occhi. Alla fine uscirono delle parole
«Dimmi che non è vero, ti prego dimmelo».
«Non posso.»
«Come è successo?»
«Non lo sappiamo ancora.»
«Dov'era?»
«Alle cascate di Trequerce.»
«Voglio vederla.»
«Devi. Purtroppo devi riconoscerla.»
«Com'è?»
«Sempre bellissima, sembra che l'assassino non l'abbia nemmeno toccata.»
«Secondo te lo conosceva?»
«Qui non vi conoscete tutti?»
«Non può essere stato qualcuno di fuori?»
«È possibile, ma solo uno di qui poteva essere ai corrente dei movimenti di Lucy senza
destare sospetti, a un altro sarebbero stati necessari giorni di appostamento e da queste
parti un forestiero si nota subito.»
«Può essere.»
«Paola, perdonami, ma adesso devo fare quello che non sono, il poliziotto.»
«È giusto.»
«Lucy era senza collanina, quella blu e rossa. Non l'abbiamo trovata. L'hai vista in giro
per casa?»
«No.»
«Cercala per favore.»
«Va bene.»
«Hai trovato qualcosa sul diario?»
«Parla della scuola, delle sue compagne, di come le chiedessero sempre di copiare i
compiti, dei ragazzi che le andavano dietro, di come aspettasse la prima volta.»
«Persone adulte?»
«Ci sei solo tu, di te scriveva quasi ogni giorno, era felice di poterti aiutare.»
«Basta così Paola, ti prego, dimmi solo se c'è qualcosa che non torna e poi fallo avere a
Donati.»
«Non c'è niente che non debba esserci sul diario di una ragazza di quindici anni.»
«Povera Lucy.»
«Piccola Lucy.»
Mi sedetti accanto a lei sul letto, sul bordo una macchia di caffè vecchia di mesi. Paola
ritirò le gambe in posizione fetale e rimanemmo a guardarci per del tempo in cui di solito
avremmo fatto altro, rotto il salvadanaio, incollato un francobollo, perso le chiavi di casa,
comprato una mela, spolverato vecchi concetti, non so. Trovai la forza per alzarmi e dissi
«Vado, è ora».
«Ora per cosa?» «Ora di trovare chi l'ha uccisa.»
«Non tornerà in vita.»
«Nemmeno io finché non ci riuscirò.»
La portai all'obitorio dell'ospedale di Cantù, per il riconoscimento. Poi la riaccompagnai
e la lasciai pensando che la mia fuga da Milano non era servita a nulla, il male sapeva
esattamente dove trovarmi. Arrivai a casa e dormii come svenuto per dodici ore.
70

Il mattino dopo andai a Cantù. Seduto di fronte a Venuti, sentivo l'ansia di sapere
viaggiare tra stomaco e gola, ma i risultati dell'autopsia non erano ancora arrivati e
nemmeno l'analisi chimica dell'oggetto ritrovato tra le mani di Lucy. Chiesi «Come mai
questo ritardo?».
«Servono esami accurati, per l'autopsia è questione di momenti.»
«Cosa ne pensi?»
«Da queste parti non siamo abituati a cose del genere, qualche balordo che rapina una
banca, risse al bar, incidenti stradali con e senza il morto, i suicidi dell'ultimo dell'anno.»
«Tutto qui?»
«Una volta nell'84 un ferroviere ha scoperto la moglie a letto con un altro, li ha uccisi e si
è sparato. Un po' poco per dirti cosa ne penso.»
«Non credo sia il caso di lamentarsene.»
Rimanemmo ad ascoltare il nostro silenzio, un calabrone rimbalzava contro il vetro della
finestra spalmato di sporco, quello che non vedeva per lui non poteva esistere, noi invece
trasformiamo quello che non esiste nella realtà alternativa che desideriamo. Poi la porta si
aprì, Donati e Barbera erano arrivati e con loro i risultati dell'autopsia.
Lucy era stata uccisa dal punzone a molla di una pistola per la macellazione. Il cuneo
d'acciaio le era stato sparato nella nuca. Nessun altro segno di violenza era presente, solo
un livido giallo cirrotico e un graffio superficiale, entrambi sulla gamba destra, causati dal
probabile trascinamento del cadavere in prossimità della pozza d'acqua.
L'ora del delitto fu stabilita tra le tredici e le quindici di lunedì, il giorno della
scomparsa, il che voleva dire che Lucy era stata uccisa subito dopo la scuola e trasportata
in pieno giorno dal sentiero in un altro luogo, ma non subito alle cascate, dove invece
stava da non più di otto-dodici ore. Aveva subito un secondo trasferimento per essere
messa in acqua durante la notte.
Fatti incontrovertibili, ma qualcosa ancora non quadrava. Se Lucy era stata uccisa lungo
il sentiero, il corpo, per raggiungere un mezzo in grado di trasportarlo, avrebbe dovuto
passare davanti alla villa, oppure essere riportato all'inizio della scorciatoia. Mosse
entrambe ad alto rischio: l'assassino avrebbe potuto incontrare qualcuno, ma altre vie in
apparenza non c'erano.
71

Il vento aveva il ricordo di essere passato su Como prima di arrivare a Volate, ma questo
sentore lacustre nell'aria non fu l'unica sorpresa. Non erano ancora le sette quando Donati
suonò alla porta. Aprii con sotto un paio di boxer e sopra due occhiaie cresciute come
funghi. Entrò e disse «Sei riuscito a dormire?».
«Pochissimo, novità?»
Nicola tossì della roba verde in un fazzoletto coi bordi di pizzo, poi mi porse una
cartellina cui era stata strappata la vecchia etichetta per far posto a quella nuova: "Lucia
Casiraghi". Aspettando che la prendessi aggiunse «Sono i risultati dell'analisi chimica
effettuata sull'oggetto ritrovato nelle mani di Lucy».
Feci finta di non aver notato il gesto e chiesi «Cosa dicono?».
«Si tratta di un fossile risalente a tre milioni e mezzo di anni fa, per essere più precisi si
tratta dell'osso del cranio di un australopiteco.»
«E dall'Africa come è arrivato fin qui?»
«Rubato a gennaio in occasione della mostra antropologica al Museo della scienza e
della tecnica di Milano.»
«Me lo ricordo, era sui giornali.»
«Il giorno dopo la chiusura, l'assicurazione si è accorta che mancava uno dei
cinquantadue reperti che componevano lo scheletro.»
«Come hanno fatto a sottrarlo?»
«Se lo domandano ancora adesso, ma la vera notizia non è questa.»
«E sarebbe?»
«Il nome dell'australopiteco.»
«E cioè?»
«Lucy.»
«Lucy?»
«Lucy, hai capito bene.»
72

Lo scheletro dell'australopiteco Lucy era stato ritrovato il 30 novembre 1974 da Donald


Johanson e Tom Gray, due paleoantropologi americani, in Etiopia, nel deserto dancalo,
sulle rive di un antico lago oggi scomparso, dettaglio fondamentale per capire perché
Lucia Casiraghi fosse stata immersa in una pozza d'acqua.
Ma fu solo quando scoprii il motivo per cui quel fossile portava il suo stesso nome che
arrivai a far combaciare tutti i dettagli.
Dalla conformazione delle ossa del bacino i due ricercatori avevano dedotto che lo
scheletro era appartenuto a una femmina di scimmia australe, e quando la radio, durante
la festa che accompagnò la scoperta del più antico antenato diretto dell'uomo, trasmise
Lucy in the Sky with Diamonds, canzone incisa dai Beatles il 1° marzo 1967, a quel mucchio
d'ossa disseppellite non poté essere dato che un nome: Lucy.
Lucy in the Sky with Diamonds era il terzo brano del lato A di Sgt Pepper's Lonely Hearts
Club Band, probabilmente il più importante album pop di tutti i tempi. Una canzone che fu
bandita da diverse radio con l'accusa di incitare all'uso di sostanze stupefacenti, era stato
individuato l'acronimo LSD nelle parole Lucy, Sky, Diamonds, il trip creato nel 1962 da
Timothy Leary e che John Lennon aveva ammesso di aver provato.
C'era materiale sufficiente, la direzione in cui cercare era stata data, l'assassino doveva
essere qualcuno che aveva la mia passione per i Beatles. Difficile fosse solo un caso. Anche
il televisore anni Sessanta legato ai piedi di Lucy lo confermava.
A Donati non dissi dei miei sospetti sul possibile collegamento che avevo trovato tra
Lucy e i Beatles, volevo prima decrittare il testo della canzone e poi dargli qualcosa di
concreto su cui lavorare.
73

Le parole di una canzone di successo entrano in testa a milioni di persone. Molte di queste,
oltre al ritornello, ne sanno cantare alcune strofe ma pochissime o forse nessuna ne sa
spiegare il significato. Questo perché una canzone raramente viene presa nel suo valore
complessivo, ma solo per quella frase in grado di creare in noi una palialia dimenticando il
resto. Come intonare il ritornello di Borri in the U.S.A. di Bruce Springsteen scambiandolo
per un inno patriottico, peccato sia un attacco alla politica militarista americana.
L'ermetismo di Lucy in the Sky with Diamonds si fondava però su diverse sovrastrutture
semantiche. La canzone fu ispirata da un disegno che Julian Lennon, primogenito che John
ebbe da Cynthia Powell, portò a casa dall'asilo all'età di quattro anni. Il testo che John ne
trasse fu fortemente influenzato da una delle sue letture preferite: Alice nel paese delle
meraviglie di Lewis Carroll. Un difficile intreccio di simbolismi. Ma prima di poterlo
affrontare sentii arrivare dal giardino la voce di Lori «Tommy, sei in casa?».
Alzando il tono più di quanto avrei voluto risposi «Entra».
Lori aveva con sé una confezione di gelato decorata con un adesivo dove un bambino
strabico leccava un cono. Me la porse e disse «Panna e cioccolato, lo so, sembra scemo in
questo momento».
«Non ti preoccupare, è tutto a posto.»
«Temevo mi prendessi per un'insensibile.»
«Dove hai lasciato l'auto?»
«In piazza e ho preso la scorciatoia.»
«È un rischio girare da sola.»
«Avevo voglia di camminare.»
«Sono sorpreso di vederti qui.»
«Ti disturbo?»
«No, anche se dovrei finire una cosa.»
«Ho pensato avessi bisogno di parlare.»
«Rimani, hai pensato bene.»
Era di nuovo sera e il mondo aveva una Lucy in meno e un assassino in più, nel cambio
ci aveva perso ma sembrava non essersene accorto. Poi Lori, cucchiaino in bocca e macchie
di cacao sui denti, chiese «Gira voce che tu non sia quello che hai detto di essere».
«Io non ho mai detto di essere qualcuno.»
«A noi hai detto di essere un insegnante.»
«Lo ero.»
«Ma nessuno potrebbe partecipare alle indagini nel modo in cui fai tu.»
«Facevo il consulente per la polizia.»
Lori spalancò gli occhi come un personaggio di Beautiful quando gli viene rivelata
l'identità dei suoi genitori. Poi disse «Perché non me l'hai mai detto, perché ho dovuto
scoprirlo solo adesso?».
«Sarebbe cambiato poco, nessuno è in grado di dire chi è veramente se gli altri danno di
lui un giudizio diverso.»
«Tu fai della filosofia e io non ti seguo più.»
«Devi diffidare di chi ti dice "sii te stesso", noi non esistiamo come noi stessi ma solo in
funzione della persona con cui ci rapportiamo in quel momento.»
«E quando sei da solo?»
«Esisto per lo spazio che occupo.»
«Non ci arrivo.»
«Non importa.»
«Ti va di raccontarmi di Milano?»
«Se hai voglia di ascoltarmi.»
«Certo che ho voglia.»
«Tutto è andato male, fin dall'inizio, prima hanno cercato di farmi sentire in colpa per il
suicidio di uno che aveva ghigliottinato la madre, un certo Rinaldi, te lo ricordi?»
«Non mi dice niente.»
«Fatto sta che ci sono riusciti, poi ho scoperto che il Frantumaossa era un collega, una
persona che frequentavo quasi ogni giorno, alla quale mi stavo affezionando, ho vissuto
per mesi in un incubo. Adesso sai perché mi sono recluso in casa per tutto quel tempo.»
«Hai paura?»
«Sì.»
«Novità sull'omicidio di Lucy?»
«Nessuna, ma ci stiamo dando da fare.»
«Un'idea su chi possa essere stato?»
«Scusa, non te ne posso parlare.»
«E allora di cosa vuoi parlare?»
«Di noi.»
Non parlammo tanto, la voglia di fare sesso fu più forte. Con lei avvinghiata alla
schiena, mi trascinai sul letto al piano di sopra strappandole i bottoni della camicetta.
Rimanemmo fino al mattino nella fossa creatasi tra i due materassi, i testicoli e le labbra
mi facevano male, l'orecchio sinistro di Lori portava i segni di un morso sul lobo, particelle
di umidità sospesa si appiattivano contro la pelle. Era l'alba quando, girandosi in modo da
darmi le spalle, disse «Devo tornare a casa».
«Adesso?»
«È tardi, Gatti passa a prendermi alle otto e trenta ogni mattina.»
«Stai con lui?»
«No, non con lui.»
«Con chi?»
«Non lo conosci.»
«Dammi un'idea.»
«Impossibile, è di Lecco.»
«Ti accompagno, questo sentiero non è sicuro per una ragazza sola.»
Lori si alzò lamentando dei dolori alla schiena, poi si vestì in fretta e raccolse i capelli in
una punta di pennello. Winston arrivò con la coda che batteva i rintocchi di un'ora
immaginaria, si sdraiò davanti a me, infine si girò sull'altro fianco come se da quel punto
la sua visione del mondo cambiasse completamente. Gli tirai le orecchie, lui tornò a
guardarmi e mi leccò la mano. Il suo tentativo non ebbe però l'effetto sperato, uscimmo
chiudendolo in casa, un mugolio di dispiacere fu il suo commento.
Fuori, aria appena nata ci spinse a camminare accelerando il respiro, ci separammo
quando da lontano vidi la piazza di Volate. «Ciao Lori.»
«Ciao Tommy, grazie per la bella serata.»
«È stata bella anche per me, sono stato bene.» «Cosa fai adesso?»
«Devo tornare ad ascoltare una canzone.»
«Una canzone?»
«Sì, ma non chiedermi altro.»
«Okay, se trovi il tempo uno dei prossimi giorni vieni a cena da me.»
«Ci provo.»
Non appena Lori se ne andò salendo sul suo Cherokee, ripresi la via di casa e tornando
mi accorsi di quanto mi mancasse Lucy. Mi misi a piangere, forte sempre più forte,
quando capii come era stato possibile allontanare il corpo di Lucy dal sentiero senza che
nessuno se ne accorgesse. L'ultima lacrima si fermò tra le ciglia, poi cadde giù dal ponte.
74

Non c'era che una via e quella via era davanti ai miei occhi. La gola si apriva sotto il ponte
e terminava tra gli alberi, una trentina di metri, forse trentacinque, il dislivello.
Lucy, quarantadue chili di peso, doveva essere stata calata in quel punto, così scavalcai
il parapetto dove si congiungeva al terreno e cominciai la discesa. Dopo qualche
escoriazione alle mani e un paio di frammenti di legno nei polpastrelli, arrivai dove il
bosco si diradava congiungendosi a un'area per picnic domenicali. Un paio di bottiglie in
plastica di Evian e una lattina di Sprite presa a calci erano lì come segno di frequentazione
recente. Su un tavolo di legno, incisa con la punta di un coltellino, la promessa baby I love
you M&F forever 12 7 79, chissà come è andata a finire tra quei due e se ogni tanto
ripensano ai tempi in cui.
Il rumore della statale rimaneva ancora in parte assorbito dalla barriera di pini che la
affiancavano nei due sensi di marcia, quando vi sbucai erano da poco passate le otto e il
traffico dei pendolari aveva la lucidità di un tossico in cerca.
Per tornare a Volate si prendeva a destra, per Trequerce e le cascate a sinistra, l'assassino
era passato da questo punto con Lucy nel bagagliaio di un'auto o nel retro di un furgone
mentre la morte la truccava con il suo eyeliner.
75

Cogliere tutte le possibili connessioni simboliche nonché tutte le diramazioni semantiche


di Lucy in the Sky with Diamonds, quello era il periodo lisergico dei Beatles, si rivelò subito
quasi impossibile, soprattutto nel contesto di un album come Sgt Pepper's, strutturalmente
complesso a partire dal collage di copertina.
L'unica era cogliere in che modo la fantasia dell'assassino avesse trasformato il testo
della canzone non tanto in sottotesto quanto in ipertesto, come le pagine di internet, ma in
questo caso non elettronico.
Un ipertesto consente di linkare liberamente informazioni poste in punti diversi dello
stesso documento lasciandosi guidare soltanto dalla logica del pensiero. L'ipertesto, ai
contrario del testo tradizionale, ci costringe a una lettura non sequenziale ma per centri di
interesse.
La conferma che per arrivare all'assassino sarei dovuto passare attraverso le parole della
canzone, arrivò da questa frase:

Cerca la ragazza con il sole negli occhi


e scopri che è andata via

Qui veniva detto che dovevamo cercare Lucy e scoprire che era stata uccisa. E poi:

Seguila fino a un ponte presso una fontana

Il ponte era quello sul sentiero tra la scuola e la villa, per la fontana il riferimento era
senza dubbio alle cascate.
Ma questo era il passato e il testo, oltre che da conferma alle mie supposizioni, pensai
dovesse servire ad anticipare le mosse dell'assassino, sempre avesse intenzione di tornare
a uccidere.
Raggiunsi Donati alla questura di Cantù e gli dissi che il corpo di Lucy era stato calato
dal sentiero all'area picnic alla base del ponte. Lui, stizzito per non esserci arrivato, tagliò
corto e rispose «Mando la scientifica, le impronte saranno tante e tali da renderlo un
lavoro inutile».
«Cosa sai di quelle alle cascate?»
«Sono impronte di Timberland, è come dire che uno porta le mutande, da queste parti se
appena hai due soldi le hai ai piedi.»
Salutai Donati, aveva una piccola macchia rosso scuro sul collo, o la rasatura era stata
difficoltosa o si era dimenticato di comprare il dopobarba. Tornando chiamai Paola dal
cellulare «La domanda è la solita, come stai?».
«Sto.»
«Se vuoi ci vediamo.»
«Tra poco al funerale.»
«Intendevo dire che se hai bisogno, io ci sono.»
«Meglio di no per adesso, magari tra qualche giorno.»
«Va bene, come preferisci.» «Tommy?»
«Sì?»
«Grazie.»
«Non sono così altruista, lo faccio anche per me.»
Entrai in casa, il testo di Lucy in the Sky with Diamonds era un foglio sulla scrivania, lo
ignorai, accesi il computer e scaricai la posta. Dal giorno dell'omicidio c'erano ventitré
ordini inevasi. Mi sentii male a pensare al mio piccolo business, ma chiamai Patricia
ugualmente e glielo dissi. Rispose «Tommy, sei sicuro di voler continuare?».
«Sì.»
Non aggiunse nulla, ne approfittai per leggerle gli ordini, poi dissi «Mi vergogno, ma tu
non dire la solita frase».
«Quale?»
«Se me lo chiedi, allora la fai dire a me, sai cosa intendo.»
«Che la vita va avanti.»
«È una menzogna.»
«Non ti capisco.»
«La vita va verso la sua fine, la morte. E se la vita è un count-down, la vita va indietro.»
«Se la pensi così, ogni secondo è un secondo di vita in meno.»
«Se riesci, dimmi che sto sbagliando.»
«Ciao Tommy, io vado al funerale.»
«Ciao Patricia, ci vediamo lì.»
Mi cambiai e uscii di nuovo.
76

A un funerale ci si veste di scuro, si sta fermi guardando attraverso il nulla, le mani


aggrappate a se stesse, il cuore che batte piano per non fare il rumore della vita, la voglia
di essere altrove.
A quello di Lucy c'era l'intera Volate, ma anche gente in arrivo da Trequerce,
Borgobello, Musco e Cantù, tutti tra sussurri e fazzoletto d'ordinanza. Alla sepoltura
l'accompagnarono un carro funebre e un prete con la sua omelia, lo stesso pastone di
parole già dette per ogni defunto di tutti gli ieri.
Andammo al cimitero di Trequerce. E lì parlai con Lucy, stava sotto di me e ascoltò
quello che avevo da dire, di tempo ne aveva. «Ciao piccola Lucy, ti voglio bene, ricordati
di me e se avrai voglia di tornare mentre dormo fallo pure, dammi quelle immagini di te
che non ho potuto avere perché tu finisci adesso. Dimmi chi saresti stata un giorno, di chi
ti saresti innamorata, quali sarebbero stati i tuoi figli, quante sarebbero state le tue rughe.
Dimmi quello che vuoi, ma non lasciarmi qui da solo, non ce la posso fare.»
Terra su terra e Lucy fu coperta da milioni di anni senza storia, un sasso scivolò dalla
pala in cerca di un'altra fossa. Guardai Paola, aveva gli occhi chiusi, rivolti verso il basso e
aspettava quel miracolo che non sarebbe arrivato né ora né alla fine dei giorni. La presi
sottobraccio e dissi «Andiamo».
«Dove?»
«Non lo so.»
«Dai un senso a tutto questo.»
«Non posso, non c'è e non ci sarà.»
Uscendo dal cimitero vidi Francesco Damele trascinarsi come un condannato verso il
patibolo. Poco più avanti Gatti, Yorgo, Lori e Patricia parlavano tra loro, ci salutammo con
un gesto a metà, sentendosi di troppo l'altra metà rimase intenzione inespressa.
77

Non ebbi il tempo necessario o non fui bravo abbastanza da capire cosa celasse Lucy in the
Sky with Diamonds. La seconda vittima fu trovata il mattino dopo, a Como, poco prima
delle cinque e trenta, da Gabriele Botta, un netturbino sofferente d'insonnia sceso in strada
a fare due passi.
Una ragazza stava sdraiata sui sedili anteriori di un taxi abbandonato sul lungolago con
le portiere aperte, con le mani sembrava cercare qualcosa scivolato tra i tappetini.
Quando arrivai sulla scena del delitto, in un attimo mi tornò alla mente il testo del brano
di Lennon:

Un taxi fatto di giornali si avvicina lungo la spiaggia


e aspetta di caricarti
ci sei salita con la testa tra le nuvole
e sei andata via

Sulle fiancate del taxi la pubblicità del quotidiano locale, "La Provincia di Como", il
tettuccio interno imbrattato con il sangue a formare una parola: pig, porco. Mi avvicinai a
Donati e chiesi «Come è stata uccisa?».
«Come Lucy, ha un foro identico alla base del collo.»
Poi Donati mi guardò come dentro a un mirino e aggiunse «Siamo a due, che cazzo sta
succedendo?».
«Vorrei tanto avere la risposta.»
«Te lo dico io: pig, la solita parola, il solito maniaco sessuale.»
«Lucy non è stata toccata e non credo troveremo tracce di violenza nemmeno su questa
ragazza.»
«Come fai a dirlo?»
«Te lo spiegherò.»
«Forse è meglio se lo fai adesso.»
«No, potrei sbagliarmi, devo prima controllare un paio di cose.»
«D'accordo, ma in fretta.»
«Chi è la ragazza?»
«Nora Conte, ventidue anni, studentessa.»
«Oltre a scoprire le solite cose, amanti, amici, vizi, precedenti, dovreste fare una cosa
anche per me.»
«Quale?»
«Farmi avere un elenco dei dischi che aveva in casa.»
«Dei dischi?»
«Vinili, CD, tutto.»
«Tommy, niente cazzate di cui pentirci.»
«Fidati.»
«Okay, avviso Barbera che sta andando a casa della vittima.»
78

La parola pig mi aveva immediatamente ricordato Piggies, un brano dei Fab Four presente
nell'album The Beatles meglio conosciuto come The White Album. Ma, soprattutto, era la
stessa utilizzata dagli adepti di Charles Manson per firmare i loro omicidi. E Charles
Manson, oltre a essere un fanatico di troppe cose, era un fanatico dei Beatles, a metà strada
tra la convinzione di essere il quinto "scarafaggio" e la reincarnazione di Gesù Cristo.
Ricostruii quanto accaduto sul finire degli anni Sessanta a Los Angeles: lo staging era
identico in molti particolari a quello che gli agenti di polizia Jerry DeRosa e William
Whisenhunt descrissero nel loro rapporto il 10 agosto 1969 dopo essere tornati dalla villa
di Roman Polanski e Sharon Tate a Cielo Drive, sulle colline di Beverly Hills.
Oltre a trovare il corpo di cinque persone uccise il giorno precedente dai colpi di una
calibro 22 o dalle ferite provocate da un coltello simile a una baionetta, sulla parte inferiore
della porta d'ingresso la parola pig era stata scritta con il sangue. Dei cinque, un ragazzo di
nome Steve Parent, in visita al guardiano della villa, era stato ritrovato morto su un'auto.
Ma la morte di Sharon Tate e dei suoi amici non fu l'unico atto di violenza commesso
dai seguaci di Manson. Il 10 agosto 1969, sempre nell'area di Los Angeles, uccisero anche
Leno e Rosemary LaBianca nel loro appartamento.
Due le scritte: in sala death to pigs, sulla porta del frigorifero healter skelter, entrambe
tracciate con il sangue delle vittime. Se la prima, pur con qualche incertezza, si poteva
ancora una volta ricollegare a Piggies dei Beatles, per la seconda, nonostante l'errore di
grafia, non c'era alcun dubbio e veniva nuovamente coinvolto l'album bianco, dove era
presente la canzone Helter Skelter, il cui testo secondo Manson annunciava l'approssimarsi
della fine del mondo.
Cose note, ma in più Piggies era la canzone numero dodici del primo dei due dischi,
mentre Helter Skelter era la canzone numero sei del secondo disco. Dodici era due volte sei,
quindi il numero che si poteva formare attraverso le due canzoni era 666, il numero che
l'Apocalisse di Giovanni indicava come il numero della bestia, il demonio.
Donati mi richiamò in quel momento. «È arrivato l'elenco dei dischi della Conte, te lo
giro subito.»
«Lo leggo e ti raggiungo.»
79

Pochi istanti dopo, insieme a un ordine di otto vasetti di pomodoro al basilico, arrivò l'e-
mail di Donati. Una lista di una cinquantina di album di artisti i cui nomi andavano da
Santana a Jamiroquai quando andava bene, da Mariah Carey a Jennifer Lopez quando
andava peggio. Solo Rattle and Hum degli U2, che si apre con una cover in versione live di
Helter Skelter, suscitò il mio interesse, ma era troppo poco per sostenere un collegamento
con l'omicidio.
Una volta in auto chiamai Donati. Rispose «Sento più te di mia moglie».
«Anelli non ne ho visti, sei sposato?»
«Divorziato, era solo un modo di dire.»
«Nicola, troviamoci sotto casa della Conte, vorrei fare un sopralluogo, a Barbera
potrebbe essere sfuggito qualcosa.»
«D'accordo, dammi mezz'ora.»
Un tamponamento poco prima dell'ingresso in città, nel solito punto dove l'asfalto con
la mescola sbagliata non permetteva di frenare in tempo, mi impedì di arrivare puntuale.
Donati era già lì e salimmo al terzo piano di una palazzina con macchie di muffa vicino
alle finestre, sull'ascensore puzza di urina stanziale. Nicola disse «L'appartamento è di
proprietà dei genitori, loro però sono tornati a vivere a Milano due anni fa».
«Come l'hanno presa?»
«Male, la madre ha avuto un infarto, forse non ce la fa.»
«La Conte viveva da sola?»
«L'anno scorso ha affittato per sei mesi una stanza a una ragazza di nome Sandra
Grimaldi, operaia in una fabbrica di intimo, poi la Grimaldi si è trovata un uomo ed è
andata a vivere da lui.»
«Chi ha preso il suo posto?»
«Nessuno, la Conte era intenzionata a vendere l'appartamento, aveva già fatto
pubblicare delle inserzioni e non cercava più coinquiline.»
«E coi fidanzati o presunti tali ci avete parlato?»
«Ci sta pensando Barbera.»
«Novità sul taxi?»
«Rubato la sera prima, il proprietario se ne sarebbe accorto al mattino, al momento di
iniziare il turno.»
«Secondo te perché era seduta davanti?»
«Forse conosceva il conducente.»
«La Conte si poteva permettere di spendere soldi in taxi?»
«No, ma ci sono casi in cui non puoi farne a meno.»
«E questo lo era?»
«Stava tornando da una cena a casa di amici, li ha lasciati poco dopo le due. Normale
che a quell'ora una ragazza da sola salti su un taxi, soprattutto se alla guida c'è qualcuno
di familiare.»
«Impronte sul volante?»
«Solo quelle del proprietario, l'abbiamo interrogato, quella sera è stato tutto il tempo al
bar a giocare a carte, l'hanno visto decine di persone.»
Sulla porta due cagnolini in un ovale di ceramica agitavano la coda felici. Entrammo, i
colori che ci accolsero erano il bianco e l'arancione, psichedelia di mobili anni Settanta, a
destra la camera da letto con Amori ridicoli di Kundera sul comodino, a sinistra la cucina
con moka su uno dei fuochi, poi il bagno con una saponetta sul pavimento, infine la sala,
ovvero una poltrona sfondata e una libreria la cui vetrinetta imprigionava decine di
bottigliette mignon. Sulla parete di fronte ciò che speravo di trovare. Chiesi a Donati «E
quello cos'è?».
«Un disco, credo.»
«Giusto e poi?»
Donati si avvicinò alla parete, poi si voltò verso di me e disse «Un disco dei Beatles
incorniciato».
Mi infilai i guanti di lattice e staccai il quadro dalla parete. Era una copia di A Hard
Day's Night, terzo album dei Beatles nonché colonna sonora del film omonimo, e la
copertina era stata autografata da John, George, Paul e Ringo in corrispondenza della serie
orizzontale di scatti stile Bauhaus che li ritraeva singolarmente. Tolsi il cartone sul retro e
prima di estrarre il disco dalla cornice mi accorsi che si trattava dell'edizione americana,
quella per cui la George Martin Orchestra aveva inciso la versione strumentale di alcuni
brani. Chiesi a Donati «Tu che ne sai dei Beatles?».
«Che si sono arricchiti con le canzonette.»
«Direi non molto.»
Mi allontanai e dal cellulare chiamai Crotti a Milano. Non riconobbe subito la mia voce,
poi fece tintinnare il metallo delle sue corde vocali e disse «È un pezzo che non ti fai
sentire».
«È vero e non posso dire di avere avuto da fare.»
«Come stai, Tommy?»
«Potrebbe andare meglio.»
«Cosa succede?»
«Da queste parti hanno ucciso una ragazzina.»
«A Trequerce?»
«Sì.»
«Non sei fuggito poi così lontano.»
«Pensavo bastasse, non è stato così.»
Raccontai tutto a Crotti, lui disse «Brutta storia».
«Terribile, com'è andata a finire con Matteo?»
«Non lo sai?»
«Non ho letto i giornali e non ho più guardato la TV. Per me il processo è terminato con
la mia deposizione.»
«È durato ancora sei mesi, è stata dura, ma la sentenza è stata quella che volevamo:
ergastolo.»
«E Matteo?»
«Ha cercato di metterti in cattiva luce ogni volta che poteva, ma perché mi chiedi di
lui?»
«Credo possa essere coinvolto in questa storia.»
«Scordatelo, è in una cella di massima sicurezza.»
«Ascolta Crotti, per quarant'anni non ho visto un morto poi di colpo la gente intorno a
me ha cominciato a essere uccisa nei modi più assurdi, almeno tu non suggerirmi che
potrei essere paranoico.»
«Pensala come vuoi.»
«Chiedo solo che tu mi tenga informato su qualsiasi novità riguardi Matteo Orlandi.»
Ci salutammo affettuosamente ripromettendoci le solite cose del tipo "appena ho un
attimo ti vengo a trovare".
80

Tornammo in questura, le strade di Cantù erano quasi vuote, sembrava avessero bisogno
di un trapianto d'auto. Mi sedetti nell'ufficio di Donati e tirai fuori quello che mi stava
tormentando: «Nicola, il porco della scritta sul taxi, il pig, sono io».
«Cosa vuoi dire?»
«L'assassino mi sta sfidando e mi ha dato pubblicamente del maiale.»
«Per quale motivo?»
«Ancora non lo so, ma è possibile che i due delitti siano da ricollegare ai fatti di Milano.»
«In che modo?»
«Ho una passione per i Beatles e per tutto ciò che li riguarda e gli omicidi delle due
ragazze sono ispirati ai testi delle loro canzoni.»
«Credo di essermi perso qualche passaggio.»
Gli raccontai ogni cosa, partendo dall'australopiteco e arrivando a Charles Manson e alla
sua setta. Non del tutto convinto di quanto aveva appena ascoltato, Donati chiese «E la
prossima canzone quale sarebbe?».
«Se Piggies si riferisce a me, non rimane che Helter Skelter.»
«Non potrebbe essere una canzone di A Hard Day's Night?»
«Non credo, il fatto che avesse in casa quel disco è il motivo per cui la Conte è stata
designata come vittima, è un gioco a incastro, fatto di rimandi.»
«Come ci muoviamo?»
«Cerca di scoprire se Matteo Orlandi, meglio noto come il Frantumaossa, ha dei nuovi
seguaci che uccidono ispirandosi alle sue gesta, se c'è qualcuno che gli scrive in carcere, se
ci sono invasati che lo osannano come un dio, se ci sono siti internet a lui dedicati.
Insomma, qualsiasi cosa riguardi quel pazzo.»
«D'accordo.»
«Nicola, un'ultima cosa.»
«Dimmi.»
«Quello che ha messo in piedi il sito internet della mia società si chiama Yorgo
Anathopoulos, vive a Volate ed è un fan dei Beatles.»
«Ricevuto.»
Barbera tornò in quel momento dopo aver parlato con gli uomini che scopavano con la
Conte. Stanchissimo, sembrava aver consumato più grassi di una marmotta dopo il
letargo, ma da quanto aveva raccolto ricostruimmo la vita della ragazza.
Nora Conte era nata a Milano, ma già all'età di un anno stava coi genitori a Como, il
padre Cristiano aveva trovato posto come capocontabile alla Fluido, ditta di preservativi.
Era cresciuta senza particolari agiatezze o problemi anche se la madre si lasciava talvolta
prendere la mano dalle carte e non sempre era stato facile saldarne i debiti. All'età di
diciotto anni si era iscritta all'Accademia di Brera dove aveva studiato francese e italiano e
dove aveva conosciuto due dei tre uomini con cui aveva intrecciato una relazione. Il primo
era un suo pari corso, Walter Pozzi, ventisei anni e affetto da alopecia areata, l'altro era il
professore di storia dell'arte, Saverio Zingale, cinquantaquattro anni, da poco risposatosi
con la prima moglie. Oltre a questi due uomini e al volontariato una volta alla settimana
alla mensa dei poveri c'era il fidanzato ufficiale, Daniele Ferruzzi, trentun anni, postino e
una rara malattia nel sangue che ogni mese lo costringeva a una trasfusione che lo lasciava
tramortito per ventiquattr'ore.
Barbera li aveva individuati grazie all'amica del cuore della Conte, Susanna Marzorati,
anche lei impiegata alle poste ma come addetta ai vaglia, che prima le aveva fatto
conoscere Daniele e poi l'aveva coperta nei suoi tradimenti, i giorni post-trasfusione erano
perfetti.
I tre uomini, oltre ad avere un alibi, erano parsi sconvolti alla notizia della morte di
Nora, in particolare Zingale, terrorizzato che potesse emergere la sua relazione
extraconiugale.
Donati chiese a Barbera «Cosa ne pensi?».
«Difficile possa essere uno di loro.»
«Tienili comunque sotto pressione e controlla ogni loro movimento.»
81

Il termine helter skelter indica uno scivolo a spirale tipico dei luna park britannici. Nella
zona tra Volate, Trequerce, Cantù e Como dello stesso tipo non ce n'erano, ma gli scivoli,
compresi quelli all'interno dei parchi giochi per bambini, erano decine, senza contare
quelli nelle aree limitrofe.
Donati mise un agente in borghese di giorno e delle pattuglie di ronda di notte nei dieci
più frequentati, di più non se la sentì di fare.
La sua razionalità lo portava inconsciamente a rifiutare lo scontro con una mente
omicida per lui troppo raffinata. Me ne accorsi due giorni dopo quando arrivò col
rapporto su quanto si muoveva intorno a Matteo Orlandi. Inghiottì del catarro e disse
«Voglio essere sincero».
«Dimmi.»
«I capi pensano che la storia dei Beatles sia una grande cazzata.»
«Può essere, e tu?»
«Faccio questo mestiere da trent'anni e non ho mai visto niente di simile.»
«Lo terrò presente, avete trovato qualcosa su Orlandi?»
«Sì, riceve ogni giorno decine di lettere che lo osannano come un messia ma tutta la
posta viene aperta e letta da agenti che cercano di scoprire se nasconde messaggi cifrati.»
«E ne hanno trovati?»
«Niente di importante, ma controllando i timbri postali è risultato che c'è un noto
erotomane, che da un anno gli scrive tutte le settimane, indovina da dove?»
«Trequerce.»
«Quasi, Como.»
«Gli avete parlato?»
«Non ancora, non riusciamo a trovarlo, sembra sparito da quando sono iniziati gli
omicidi.»
«Chi è?»
«Si chiama Pietro De Cesari e ha uno studio fotografico in centro, fototessere e poco
altro.»
«Cazzo.»
«Lo conosci?»
«È probabile, descrivimelo.»
«Basso, tozzo, completamente calvo.»
Ci pensai un attimo. «È lui. All'inizio di giugno mi servivano delle foto nuove e sono
entrato nel primo posto che ho trovato.»
«Ma non era in grado di riconoscerti.»
«Ai tempi le mie foto sono finite spesso sui giornali e uno come lui ha l'occhio allenato.»
«Dimenticavo.»
«De Cesari parla mai di me?»
«In ogni lettera.»
«E cosa dice?»
«Che ti vorrebbe vedere morto.»
«Fantastico, e Orlandi cosa risponde?» «Niente.»
«Fammi sapere, io vado a casa.»
«Prendi questa.»
Donati mi porse una pistola, una Beretta calibro 9 e disse «Non andare in giro a
raccontarlo, la pistola non è in carico alla polizia, è mia».
«Non so nemmeno come si usa.»
«Come nei film, si toglie la sicura e poi si preme il grilletto, solo che questa fa male.»
«Nicola, lascia perdere.»
«Insisto e non mi farai cambiare idea.»
«Va bene.»
Presi la pistola e tenendola in mano cercai di immaginarmi come si sentisse Clint
Eastwood con quella specie di cazzo di metallo in mano.
82

Misi la Beretta nel cassetto del cruscotto della Fiesta. Sulla via del ritorno mi fermai a
prendere pane, frutta, acqua minerale e un osso per Winston, poi andai da Patricia. Con
una voce che aveva il sonoro di un borborigmo mi disse «Si sono fatti vivi Gavazzi e
Berti».
Erano entrambi innervositi, da qualche giorno non passavo a ritirare la merce, capivano
la situazione ma fosse successo un'altra volta mi avrebbero ugualmente addebitato il costo.
Risposi «Ci vado domani, diglielo».
«Sicuro?»
«Lo devo fare, non posso permettermi di non guadagnare.»
«Fatti pagare la consulenza dalla polizia.»
«Non scherzare, si direbbe che ne abbia approfittato per speculare sulla morte delle
ragazze.»
«Come vuoi, a domani allora.»
«Passo prima da loro, compro qualcosa e poi vengo da te, in tarda mattinata.»
Entrai in casa pochi minuti dopo, Winston stranamente non era dietro la porta, agitai i
sacchetti della spesa per fargli sentire il richiamo, ma Winston non arrivo a infilarci il
muso e li deposi per terra. Rialzandomi vidi nel primo specchio alla mia sinistra un'ombra
che non avrebbe dovuto essere lì, l'ombra si staccò dal muro e prese forma umana, bassa e
quadrata, un fuoristrada passato dalla pressa della demolizione.
De Cesari non poteva sapere di quel rimando tra specchi che impediva agli angoli di
nascondersi e si era posizionato dietro l'ingresso del salone che si apriva sulla destra. Feci
appena in tempo ad abbassarmi che una mazza da baseball mi passò sopra la testa. Non
facevo a botte dai tempi della scuola e già in quelle occasioni me l'ero cavata a malapena,
al massimo ne uscivo con una vittoria ai punti, mai per kappaò.
Non sapendo fare a pugni, rialzandomi lo allontanai dandogli una spinta sul petto con
entrambe le mani e scattai verso la cucina. Inciampai nelle borse della spesa, De Cesari mi
fu subito addosso, la mazza calò verso di me, rotolai sul pavimento per evitare il colpo ma
non fui così veloce. Mi raggiunse sulla spalla destra, da terra gli mollai un calcio nei
coglioni che lo piegò in due lasciandolo senza fiato, mi rialzai e raggiunsi la cucina. Alle
mie spalle sentii De Cesari urlare «Pezzo di merda, ti ammazzo».
Scavalcai con un salto il tavolo e aprii il cassetto delle posate, afferrai la prima cosa
affilata che trovai, un trinciapollo arrugginito. De Cesari mi era già vicino, sollevai di
colpo una sedia e provai a lanciargliela contro, il movimento si bloccò a metà, De Cesari la
colpì come se cercasse di battere un fuoricampo, poi si avvicinò dicendo «Te la sei
cercata».
Per la prima volta ebbi il tempo di guardarlo, aveva la taccia così cicatrizzata dall'acne
da assomigliare a un risotto mantecato, gli occhi da rana pronta a saltare. Gli tirai il
trinciapollo e gli affilai il naso, una delle lame gli tolse parte della cartilagine sulla punta e
cominciò a sanguinare.
De Cesari allentò la presa sulla mazza e si toccò il naso, un attimo di distrazione, ne
approfittai. Gli spinsi contro il tavolo e mi lanciai verso l'ingresso, spalancai la porta e
senza voltarmi corsi verso l'auto, trecento metri come fossero tre, mi ci infilai cercando di
aprire il cassetto, le mani tremavano talmente che non riuscivo a farlo scattare.
Mi sentii afferrare per i piedi, De Cesari stava cercando di trascinarmi fuori. Il cassetto si
aprì, con la mano destra afferrai la pistola, con la sinistra mi aggrappai al volante, tolsi la
sicura, mi voltai. Esplosi il primo colpo mentre De Cesari mi dava un altro strattone, il
braccio si spostò verso l'alto, la pallottola bucò il tetto.
De Cesari mi mollò e cercò di colpirmi sulle gambe, le tirai indietro in tempo, la mazza
calò sulla carrozzeria, premetti il grilletto per la seconda volta. Al centro di quella fronte
bassa come una tessera telefonica si aprì un terzo occhio che spruzzava sangue, De Cesari
diede uno strattone alla portiera come volesse portarla con sé, si fermò, guardò il cielo
sgranarsi, lasciò che la mazza gli scivolasse dalle mani, poi cadde in avanti, picchiò la testa
sul cofano, rimbalzò e si sdraiò sul prato a prendere fiato, l'ultimo.
Scesi dall'auto, De Cesari giaceva a terra morto, sembrava avesse appena finito di
cambiare una ruota. Mi allontanai buttando la pistola nell'erba.
Il dolore alla spalla arrivò come un morso, non riuscivo a stare eretto, ma non sapevo
dove fosse Winston e muovendomi come un maratoneta a pochi metri dall'arrivo tornai in
casa gridando il suo nome. Lo trovai dietro al divano, sdraiato e immobile, provai ad
accarezzarlo e sentii che era gelato. Lo sollevai e lo adagiai sulla sua branda, poi gli sedetti
accanto dicendogli «Svegliati e facciamo finta non sia successo niente».
Alla fine mi alzai e telefonai a Donati.
83

Pietro De Cesari aveva cinquantadue anni e una fedina penale per molestie sessuali che
sembrava un bigino per apprendisti stupratori. Da Monza, dove era nato, si era trasferito a
Como cercando apparentemente di rifarsi una vita, ma nonostante fossero passati undici
anni dall'ultima denuncia correva voce che attirasse le ragazze nel suo studio col pretesto
dei nudi artistici e masturbarsi. Me lo raccontò il sostituto procuratore Cattaneo durante il
lungo interrogatorio cui mi sottopose il mattino dopo all'ospedale di Cantù. Mi garantì che
sarebbe stato mantenuto il segreto istruttorio sull'andamento dei fatti e di rimanere a
disposizione nonostante la convinzione che De Cesari fosse l'uomo cui davano la caccia.
Tutto era contro di lui, il suo passato, l'aver scelto il Frantumaossa come guida spirituale, il
tentativo di uccidermi imitandone le gesta da serial killer.
Mentre un infermiere finiva di fasciarmi una spalla color melanzana, Donati mi disse
«Te la sei cavata bene».
«Sono vivo. Come è morto Winston?»
«Ha preso un paio di colpi piuttosto forti, uno in testa l'altro sulla schiena. La paura gli
ha provocato un infarto, aveva una disfunzione alla valvola mitralica. Il veterinario che ha
effettuato l'autopsia sostiene che non sarebbe comunque vissuto a lungo.»
Avevo paura di dirgli ciò che pensavo veramente su quanto accaduto, così prima gli
chiesi «Avete trovato la pistola pneumatica?».
«No, le perquisizioni sono ancora in corso.»
«Nicola, non credo sia De Cesari l'assassino che cerchiamo, avrebbe provato a uccidermi
sparandomi un chiodo nel collo invece si è presentato con una mazza da baseball. Quella
pistola non salterà fuori.»
«Vedremo. Piuttosto è saltata fuori un'altra cosa.»
«Cosa?»
«La collanina di Lucy. L'ha trovata la scientifica a casa tua.»
«A casa mia?»
«In cantina, appoggiata insieme a un fiocco rosa sul raso di una piccola bara.»
«Non penserai che io abbia qualcosa a che fare.»
«Per adesso non penso niente, so solo che se De Cesari è il nostro uomo ce l'ha messa lui,
altrimenti dovremo capire chi. In ogni caso da oggi hai un agente davanti casa
ventiquattr'ore su ventiquattro. Non dire niente, ti stiamo solo proteggendo. E come vedi
non ti metto nessuno alle costole.»
«D'accordo. Con le indagini come intendi procedere?»
«Sui Beatles ti ho seguito, non chiedermi di andare oltre.»
«Quindi?»
«Ho dato ordine di sospendere il pattugliamento dei parchi giochi.»
«Il poliziotto sei tu, ma ti voglio comunque chiedere un favore.»
«Quale?»
«Fammi avere un colloquio con Orlandi.»
«È una follia, ma ti accontenterò.»
Fui dimesso con la raccomandazione di muovere la spalla il meno possibile. Passai a
riprendere Winston, chiuso in un sacchetto nero di tela cerata, e lo riportai a casa. Lo
seppellii tra gli alberi dietro la villa, dove si sdraiava nelle ore più calde. Gli dissi «Ciao
Winston, quando vedi Lucy dille che le voglio bene, lei lo sa già, ma tu fallo lo stesso, è
sempre bello sentirselo dire».
A Milano era mancato poco che impazzissi, adesso mancava ancora meno e non mi fece
stare meglio notare la macchina ferma davanti al vialetto. Dentro un tipo con lo sguardo
inchiodato su di me.
Entrai in casa, telefonai a Paola e la informai del ritrovamento della collanina in casa
mia. «Qualcuno ce l'ha messa, ma volevo essere io a dirtelo.»
«Lo so che non sei stato tu a ucciderla.»
«Insieme alla collanina c'era un fiocco rosa, di quelli che si appendono ai portoni
quando nasce una bambina, hai un'idea anche vaga di come si possa ricollegare a Lucy?»
La sentii singhiozzare lacrime, poi rispose «L'assassino si sta divertendo alle spalle di
mia figlia».
«Credo invece mi voglia dire qualcosa, ma cosa non so.»
84

Donati avrebbe fatto meglio a non mollare su Helter Skelter, forse non sarebbe bastato a
evitare il terzo omicidio, ma avrebbe dimostrato che la polizia era sulla pista giusta.
E così, due giorni dopo, quando il corpo di Alessia Galbiati, pittrice, fu ritrovato sulle
montagne russe del luna park di Arosio, cittadina di villeggiatura estiva e fabbriche di
mobili in direzione Lecco, nessuno dubitò più del legame tra gli omicidi e le canzoni dei
Beatles. Helter Skelter recitava così:

Quando arrivo in fondo, torno in cima allo scivolo


e lì mi fermo, mi giro e faccio un'altra corsa

Ad avvertire la polizia fu il guardiano notturno che alle quattro e venti di un mattino


ancora da dormire aveva sentito mettersi in moto le macchine. Precipitatosi per capire cosa
stesse succedendo, aveva visto una ragazza seduta dentro un carrello. Fermata la corsa, si
era reso conto che era morta. Barbera, spostato il cadavere, aveva visto che aveva un foro
alla base del collo.
Donati mi telefonò qualche ora più tardi, le parole gli uscivano masticate. Disse «C'è una
terza vittima, dove lo puoi immaginare da solo, come è stata uccisa anche».
«Altri particolari?»
«Sotto le palpebre aveva due monetine da un centesimo, qualcosa a che vedere coi
Beatles?»
«Sì. L'assassino sta citando Taxman, il brano che George Harrison ha scritto nel 1966 per
l'album Revolver. Adesso cosa fare lo sai già.»
«Controllare quali dischi dei Beatles avesse a casa, come vedi ho imparato la lezione.»
«Cosa dice il mio guardiano qua fuori?»
«Che non ti sei mai mosso.»
Poi Donati aggiunse «Avrei dovuto credere di più in te».
«Non sarebbe cambiato niente.»
85

La conferenza stampa per rendere noto ciò che stava accadendo non poteva più essere
rimandata. Fu indetta tre giorni dopo alle dodici nella questura di Cantù.
Iniziò con un'ora di ritardo, una fuga di gas nei pressi della pompa di benzina di fronte
alla piscina comunale aveva bloccato le strade e impedito a Donati di essere puntuale. I
giornalisti, in particolare quelli dei quotidiani, sembravano già nervosi.
Donati prese la parola, descrisse i tre omicidi, lo stato delle indagini, evitando di
collegare le morti.
Uscendo dalla questura incontrai Mario Scalzi. Non lo avevo riconosciuto seduto tra gli
altri cronisti, si era fatto crescere la barba e sembrava invecchiato dentro un salto
temporale, rivederlo fu come cancellare l'ultimo anno di vita.
«Cosa fai da queste parti?» mi chiese.
«Vendo prodotti biologici.»
«E poi?»
«E poi basta.»
«Sei tornato in forza alla SCV?»
«No.»
«Ne devo dedurre che sei qui per caso?» «Sì.»
«Poco credibile, non trovi?»
«No, non trovo.»
«In procura gira voce che ci sia un serial killer attivo da queste parti. E sembra che
abbiate delle passioni in comune.»
«Non so di cosa stai parlando.»
«Che qualcuno sta giocando con te, non credere mi sia dimenticato della tua passione
per i Beatles.»
«Perché non l'hai detto in conferenza?»
«Su questa cosa domani voglio essere il primo a uscire.»
«Vedo che non sei migliorato.»
«Possiamo fare grandi cose insieme.»
«Scordatelo, già una volta hai avuto la mia fiducia e a quanto ricordo non ne hai fatto
l'uso che mi sarei aspettato.»
Scalzi mi fissò e chiese «Hai una spalla bendata, cosa ti sei fatto?».
«Sono caduto dalle scale.»
«Non me la racconti.»
Ci separammo e raggiunsi Donati, io mi diressi verso Volate, lui a interrogare la madre
della Galbiati, Renata, ex modella che aveva aperto a Como un negozio per taglie forti.
Prima mi disse «Oggi pomeriggio ti aspettano a San Vittore per il colloquio con Orlandi,
ma sei in tempo a rinunciare».
«Ci devo andare, lo sai.»
«Non ti farà bene.»
«Ormai che importanza vuoi che abbia?»
«Un'altra cosa: nessun disco pop o rock a casa della ragazza, solo qualche CD di musica
classica.»
Salutandomi aggiunse «La vuoi ancora la Beretta?».
«Meglio di no.»
«La prima volta ti ha salvato la vita.»
«È stata solo fortuna e De Cesari era un povero sfigato, poteva uccidere solo un labrador
malato di cuore.»
86

Quando arrivai a San Vittore avevo qualche linea di febbre dovuta all'agitazione. Mi
ricevette il direttore, poi due secondini mi accompagnarono da Orlandi dentro la stanza
dei colloqui.
Matteo era seduto su una sedia, le manette lo facevano sembrare Houdini prima di
immergersi nella pagoda della tortura. Di fronte a lui un'altra sedia dove mi fecero
accomodare. Per un minuto rimanemmo a guardarci, poi dissi «Ciao Matteo».
«Ciao Tommaso, non ti aspettavo.»
«O forse sì.»
«Voglia di ricordare i bei tempi andati?»
«Non proprio.»
«Allora ti sono mancato.»
«Nemmeno.»
«Sei sparito dal processo.»
«Avevo delle cose da fare.»
«Ti trovo pallido, dormi la notte?»
«Da quando ti preoccupi per me?»
«Mi domando quale motivo ti abbia portato qui.»
«De Cesari ha cercato di uccidermi.»
«Vedo che ha avuto la peggio, un vero peccato.» «Non per me.»
«Ma non sei venuto per dirmi questo.»
«C'è un nuovo serial killer in circolazione.»
Nessuna reazione. Matteo rimase immobile. Continuai «Hai qualcosa da dirmi in
proposito?».
«Cosa te lo fa pensare?»
«Mi sta dando la caccia.»
«Secondo te sarei io il mandante?»
«È una possibilità.»
«Già, e le altre quali sarebbero?»
«Che si stia ispirando alle tue gesta.»
«E da me cosa vorresti sapere?»
«In che modo.»
Aspettai aggiungesse qualcosa, invece chiese di poter uscire. Era stato un viaggio a
vuoto, così tornai a casa con il primo treno. Strade, fabbriche, case, alberi, campi, uccelli
rimbalzavano accelerati dentro il finestrino come in un film degli anni Venti.
Arrivato a Volate, trascorsi la sera analizzando il testo di Taxman e alla fine mi convinsi
che la soluzione doveva celarsi nelle prime righe:

Lascia che ti dica come avviene


uno per te, diciannove per me
perché io sono l'Esattore
sì, sono l'esattore
se il cinque per cento ti sembra troppo poco
ringrazia che non ti prendo tutto

Tre i numeri citati, nel gioco degli incastri semantici entrava il significato del segno
matematico:

1 19 5

In relazione ai Beatles potevano indicare un'infinità di cose, una data di nascita, il


numero civico di una strada, il giorno di registrazione di una canzone, potevo sommarli e
trovare 25, sottrarre gli altri a 19 e trovare 13. Provai anche ad accoppiarli in modo diverso
e trovare così la data dell'11 settembre, ma senza pensare più di tanto al crollo delle Twin
Towers intuii che potesse riferirsi al giorno in cui vennero chiusi gli studi di Abbey Road,
l'11 settembre 1983. Ma non era questa la soluzione, mancava ancora come collocare il
numero 5.
Quella notte non riuscii a addormentarmi, il sonno mi voleva inerme ma se chiudevo gli
occhi temevo non sarei più stato in grado di riaprirli. Ero preda di ogni forma di paura.
Così mi alzai e camminai per casa, infine mi sedetti sul pavimento del salone, appoggiai
la schiena al divano e col telecomando accesi il mondo al di là dello schermo, uno scatto
dietro l'altro, dove un cowboy sparava a un cavallo moribondo che gli diceva grazie con la
coda, dove il mostro di Frankenstein dondolava sull'altalena una bambina che non aveva
nemmeno un ricciolo spaventato, dove un'ex cicciona mostrava esaltata quanto era
dimagrita nelle ultime due settimane, dove pentole tute dimagranti scarpiere coltelli
arricciacapelli erano pronti a dare un senso al nostro futuro, e così avanti fino a dove due
tette immense si accoppiavano a un numero di telefono delle Bahamas mentre una voce
chiedeva "cosa aspetti io sono qui e non voglio che te", dove un dottore infilava uno
stetoscopio nel culo di un'infermiera che sembrava ne avesse finalmente scoperto il vero
utilizzo, dove la ricetta della settimana era fatta con gli avanzi di vita del giorno prima,
dove c'era tutto questo e molto altro. Spensi il televisore e rimasi a guardare lo schermo
nero.
87

Il mattino dopo il "Corriere" parlava del nuovo serial killer: l'Esattore. Scalzi era riuscito a
leggere la mia relazione o a parlare con qualcuno in questura o in procura che l'aveva
avuta tra le mani. Traducendo Taxman aveva trovato il nome per l'assassino, e in più dava
come certa la strada che da Milano e dal Frantumaossa arrivava dritta a Volate e
all'Esattore. E a fare da collante tra gli avvenimenti c'ero solo io con la mia collezione di
dischi dei Beatles.
Innervosito, cercai nuovamente di concentrarmi sul testo di Taxman, il cellulare non
smetteva però di suonare, così alla terza richiesta di intervista che rifiutai lo spensi e uscii
di casa per andare da Gavazzi e Berti con tre giorni di ritardo.
Aspirando la nebbia di una sigaretta, Yorgo mi aspettava appoggiato alla Fiesta. Dissi
«Perché non sei entrato?».
«Volevo finire di fumare.»
«Come mai qui?»
«Vorrei parlarti.»
«Di cosa penso di saperlo.»
«Tu sai del mio amore per i Beatles e non penso te ne sia dimenticato.»
«È così.»
«Oggi ho finalmente capito perché la polizia mi sta sempre addosso, interrogatori,
perquisizioni, pressioni.»
«Mi spiace, non c'era altro da fare.»
«Sono tra i sospettati?»
«Come tutte le centinaia di persone in zona che come te e come me amano i Beatles, ma
tu di sicuro sapevi dell'esistenza di Lucy.»
«Grazie per la franchezza.»
«Niente, ma adesso devo andare.»
Con Gavazzi prima e con Berti poi non ci fu bisogno di spiegare più di tanto la
situazione, il mio nome e la mia faccia erano ovunque. Entrambi furono comprensivi, ma
chiedevano garanzie sul futuro, non potevano rischiare di tenermi da parte della merce
che nessuno sarebbe passato a ritirare.
Gavazzi aveva il labbro inferiore così gonfio da sembrare quello di un orango.
Chiesi «Qualche problema?».
«Sa come sono le donne.»
«No, non lo so, me lo dica lei.»
«In certe situazioni piace mordere.»
«E a quale donna si riferisce?»
«A mia moglie e a chi se no?»
Berti fece qualche problema in più sui soldi, ma alla fine anche lui volle darmi una
mano. Commentò «Si dice che l'assassino sia uno di qui».
«Possibile.»
«Da queste parti per il sesso stanno fuori.»
«Non solo da queste parti, ma perché mi dice questo?» «Chi altri ucciderebbe delle
ragazze se non un maniaco?»
«È quello che stiamo cercando di scoprire.»
Da entrambi comprai quanto bastava per non fermare di colpo l'attività e recuperare
qualche ordine inevaso.
Controvoglia andai da Patricia.
88

Entrai a Volate che iniziava il pomeriggio, un paio d'ore in ritardo su quanto previsto. Il
sole calava adattando la sua luce alla forma dei cortili, ai piani più alti pieghe di tapparella
lo trasformavano in lame di spade. Per il paese poca gente e quei pochi non si guardavano
per paura che lo sguardo incrociasse quello dell'assassino, libero di camminare tra loro.
Faceva molto caldo e solo un vento lento passava tra case letargiche. Quella di Patricia
era la più fresca, gli spessi muri di pietra abbassavano la temperatura e nel giardino un
attimo di riposo sembrava giustificato anche in momenti di grande affanno.
Scaricai come sempre la merce sul retro, non sentendola arrivare la chiamai prima a
bassa voce, poi, non avendo risposta, con un grido. Alla fine rispose «Che hai, Tommy?».
«Patricia, mi hai fatto spaventare.»
«Scusa, ho litigato tutta la mattina con Bruno.»
«Chi è?»
«Il mio vicino, ha sempre qualcosa da ridire, oggi non voleva che ascoltassi la radio con
le finestre aperte. Per calmarmi mi sono sdraiata sui letto e mi sono addormentata.»
«Scusa tu, ho i nervi a fior di pelle.»
Parlammo di come procedeva il lavoro e di come rischiavamo di chiudere se non
avessimo dato la giusta considerazione alle richieste dei clienti. Poi Patricia «Penso sempre
a Lucy».
«Anch'io, solo non vorrei.»
«Perché?»
«Fa troppo male.»
Le chiesi di poter fare due telefonate, non volevo riaccendere il cellulare. La prima fu
per Donati. «Sono Tommaso, novità?»
«Abbiamo trovato il collegamento tra la vittima e i Beatles.»
«In che modo?»
«Grazie alla madre della Galbiati. Dopo aver messo su trenta chili dopo un'operazione
alla tiroide non ci sta più tanto, ma ci ha detto di aver avuto a che fare con la band quando
si esibì nel 1965 al Vigorelli, sesso libero, droghe e cose del genere.»
«Il rock e i suoi cliché.»
«E tu, qualcosa da dirmi?»
«Stamattina ho visto Fernando Gavazzi, un coltivatore di Volate, in località Boscobuio,
ha il labbro tumefatto come se avesse avuto una colluttazione. Al mercoledì va sempre a
Como per consegnare la verdura e mercoledì è stata uccisa la Galbiati.»
«Faccio fare un controllo.»
Chiusi la telefonata, poi composi il numero di Lori, tre quattro squilli, infine «Purple
Immobiliare, sono Lori».
«Lori, sono Tommaso.»
«Ciao Tommy, come stai?»
«Come puoi immaginare.»
«Non mi sono fatta sentire apposta, aspettavo fossi tu a farti vivo.»
«Ho voglia di vederti.»
«Facciamo stasera?»
«Va bene, dove stai?»
Stava a metà strada tra Volate e Cantù, poi aggiunse «Allora da me alle otto, cucino io
qualcosa».
«Perfetto, a dopo, ciao Lori.»
«Ciao.»
89

Il testo di Taxman sembrava inviolabile. Stanco, depresso, demotivato da ore di infruttuosa


analisi, verso le sei mollai tutto e iniziai a prepararmi per andare da Lori, doccia e tutto il
resto. Alle sette ero pronto, senza la fasciatura alla spalla mi sentivo un altro, i bermuda
neri sembravano donarmi, sopra una T-shirt stropicciata dello stesso colore.
Per partire era presto, mi sedetti sui gradini di casa e mi immaginai Winston
all'inseguimento di invisibili uccelli mentre nugoli di moscerini formavano spirali di
infinitesimo esistere. Rientrai in casa, dal frigorifero presi una bottiglia di vino bianco,
controllai la temperatura, era quella giusta, una volta in auto nel mettere la prima mi
accorsi di essere già eccitato.
Arrivai puntuale, luce ce n'era ancora e ricopriva il giorno di pellicola trasparente.
Quando suonai il campanello di Lori Dagnese mi resi conto che non avevo mai saputo il
suo cognome.
Lori abitava in una villetta impacchettata su due piani e databile anni Cinquanta. Per
arrivarci avevo dovuto imboccare la strada che portava all'Iperfour, un chilometro prima
una stradina mi aveva condotto a un gruppo di case con vecchiette alle finestre come
vetrofanie, se tiravano le tende era come spegnessero la loro webcam.
Lori apri la porta, non ancora pronta a ricevermi con quel grembiule trapuntato di
orsacchiotti travestiti da cuochi e guanti da forno infilati sulle mani. Vide il mio sguardo
deluso e disse «Scusa, sono uscita tardi dall'ufficio, avevo per le mani un direttore di banca
che non si decideva a firmare».
«Ha firmato?»
«No, quello stronzo.»
«Intanto che lo insulti fammi entrare.»
«Accomodati, ma dammi ancora dieci minuti.»
«Non c'è problema.»
«Passami il vino.»
Mi diede un bacio con un frammento di lingua, prese la bottiglia, guardò di sfuggita
l'etichetta, annuì con la testa fingendo di approvare la scelta, poi scappò in sala e da lì in
quella che doveva essere la cucina. Provai a seguirla, ma lei cacciò un urlo tale che dovetti
rinunciare a scoprire a quali piatti corrispondessero gli odori che arrivavano alle mie
narici. Ne uscì subito dopo con due bicchieri di vino e disse «Non c'è giornale che non
parli di te, tra poco saprò anche se hai fatto la scarlattina o la varicella».
«Né l'una né l'altra.»
«Come vanno le indagini?»
«Ci sono in mezzo e lo sarò finché non sarà finita.»
«Finirà?»
«In qualche modo finirà, non so quando, ma finirà.»
«Lo spero per te.»
«Lasciamo perdere, beviamo?»
«Beviamo.»
Lori fece come per brindare ma si trattenne, bevve un sorso e depose il bicchiere sul
tavolo di noce apparecchiato con due candele quadrate di cera rosa. Le avevo viste in
offerta all'Iperfour due settimane prima domandandomi chi potesse avere il cattivo gusto
di comprarle. Poi tornò in cucina dicendo «Prima che si bruci tutto».
Una volta solo, mi guardai attorno, pochi libri tra cui un paio di Stephen King, diversi
poster alle pareti, il più bello riproduceva il Chain Pier a Brighton in un dipinto di John
Constable, in giro almeno una decina di peluche dei Peanuts (uno Snoopy gigantesco in un
angolo aveva delle orecchie lunghe come sciarpe), di CD almeno il doppio impilati sopra
un masterizzatore color oro. Alzando la voce per farmi sentire oltre le porte a spinta, chiesi
«Posso mettere un disco?».
«Metti quello che vuoi, tranne i Beatles.»
«E perché?»
«Li hai già ascoltati abbastanza.»
Non ero dell'umore di discutere di scelte musicali, in altre occasioni non avrei avuto
pietà, non feci quindi commenti nel vedere due album di Celine Dion, uno di Phil Collins e
un altro di Celentano in mezzo alle tre Beatles Anthology. Fui salvato da Play di Moby,
ritrovandomi però a pensare che anche lui come Queequeg aveva un tatuaggio alla base
del collo, nello stesso punto in cui l'assassino appoggiava la pistola pneumatica prima di
uccidere le sue vittime.
Mangiammo, buono e abbondante, spaghetti con scorfano e capperi seguiti da una
crema catalana, ma la mia mente era già rivolta al dopo. La sua non ancora, lo capii
quando, finito il dolce, chiese «Parlami della Galbiati».
«Non mi va.»
«Ti prego.»
«Perché ti interessa?»
«Voglio capire anch'io cosa sta succedendo.»
«Alessia aveva le dita dell'anulare e del mignolo della mano sinistra unite da una
membrana come quella di un essere marino fantastico. È forse per merito di questa
malformazione se aveva un talento straordinario per la pittura, sbocchi di colore, slanci di
visioni, schizzi di premonizioni, c'erano già un paio di galleristi che se la stavano
contendendo, uomini un po' meno. Era bruttina e quella mano da pesce non l'aiutava.»
«E i Beatles come entrano in tutto questo?»
«Sembra che sua madre nel giugno del '65 abbia avuto un contatto ravvicinato con
George Harrison in un albergo di Milano e che lei si vanti ancora adesso delle sue
esperienze da groupie.»
«Storia affascinante.»
«Tu trovi?»
Non la lasciai rispondere, mi alzai, mi avvicinai e la presi tra le braccia baciandola sul
collo sotto capelli profumati da essenze indecifrabili. Mi lasciò fare, poi quando cercai di
tirarle giù la zip dei pantaloni disse «Meglio di no».
«Qualcosa non va?»
«Niente.»
«Una cosa che mi irrita è quando una donna risponde niente mentre dovrebbe dire il
contrario.»
«Adesso non me la sento, non mi puoi forzare.»
«Qual è il problema?»
«Lo sai, non sono libera.»
«Okay, io però me ne vado, non c'è motivo per cui debba rimanere.»
«Mi spiace.»
«Non è vero.»
«Pensala come vuoi.»
90

Mancavano una ventina di minuti a mezzanotte e mi ritrovavo a casa dopo essermi fatto i
film su una notte di sesso. Non era la prima volta che vivevo questo tipo di situazione, in
passato mi domandavo dove avevo sbagliato, quale gesto, quale parola, quale approccio e
alla fine mi dicevo che ero un incapace. Solo dopo molti anni capii che è tutto sempre già
deciso dall'inizio.
Tirai fuori un paio di bottiglie di vino rosso, stappai la prima e ne bevvi metà senza
fermarmi e mentre mi esplodeva nello stomaco feci lo stesso con la seconda. Misi un CD
dei Red Hot Chili Peppers a un volume assurdo, tranne all'agente fuori dalla porta vicini
cui bruciare il sonno non ce n'erano, e iniziai a danzare come un ballerino di capoeira. Non
credo di essere arrivato alla fine della seconda traccia.
Il giorno dopo, erano circa le due del pomeriggio, mi svegliai nel mio letto. Accanto a
me Paola leggeva il "Corriere" seduta su una sedia della cucina trasportata lì per
l'occasione. Mi vide con gli occhi aperti e disse «Ti sei ripreso finalmente».
«Che cazzo è successo?»
«Stamattina non rispondevi né a casa né sul cellulare. Ho chiamato Donati che mi ha
fatto entrare grazie alla tua scorta.»
«E dove mi avete trovato?»
«Sul pavimento, temevamo fossi morto, per fortuna eri solo sbronzo. Ti abbiamo preso e
messo a letto.»
«Cosa dice il "Corriere"?»
«C'è un'intervista rilasciata da Paul McCartney a proposito degli omicidi dell'Esattore.»
«Interessante?»
«Quello che mi aspettavo.»
«Ossia?»
«Difende le canzoni, ricorda che lui e John non hanno mai lanciato messaggi di morte.»
«E poi?»
«Spera che l'assassino venga trovato al più presto.»
Feci per alzarmi ma ricaddi immediatamente sul cuscino. La testa faceva così male che
cacciai un urlo, mi toccai la fronte e la trovai ispessita da una benda. Paola disse «Hai un
taglio lungo più di quattro centimetri, ma non è profondo, stai a letto un paio di giorni e
torni come nuovo».
«Non posso, non ho tempo.»
«Non serve fare l'eroe.»
«È un eroe chi cerca di salvare se stesso?»
«Almeno fino a stasera.»
«D'accordo.»
91

Mi riaddormentai quasi subito, sognai e, nonostante le buone intenzioni, dormii fino al


mattino dopo. Nel sogno mi trovavo a Milano, ma questa aveva l'aspetto di Londra con
ragazzine bionde slavate che giravano in shorts e alimentari indiani a ogni angolo, tra le
mani la bolletta del telefono così l'ufficio postale si spostò e venne verso di me, all'uscita
avevo sete e un cameriere saltò fuori da un bar portandomi un bicchiere d'acqua con dei
piccoli pesci tropicali fluorescenti da bere, la finale della coppa d'Inghilterra aveva già la
palla al centro e mentre un widiwall veniva calato dall'alto Owen alla prima azione faceva
sedere il portiere e metteva la palla in rete, lo stadio però era vuoto, era notte e nessuno
esultò, pensai "ma che ora è" e un passante rispose la millecentonovantacinquesima, poi si
voltò e mi mostrò lo spartito di una canzone che un uomo sandwich al suo fianco portava
al collo, c'erano solo note, non il titolo, non le parole, lo pregai di cantarmela, lui lo fece ma
non sentivo niente e alla fine, quando mi chiese l'elemosina, mi mostrò un cartello con
scritto "Muto dalla nascita".
Quando mi risvegliai Paola se n'era andata, la testa faceva ancora male ma il dolore era
sopportabile, allo specchio sembravo appena uscito da una trincea. Mi sbendai per fare
prendere aria alla ferita, una crosta di sangue rappreso mi attraversava la fronte in
verticale come una zona di frattura tra due blocchi di roccia, ma non avevo né tempo né
voglia di compatirmi. Avevo invece la sensazione che il sogno fosse importante. Per prima
cosa chiamai Donati. «Nicola, sono di nuovo in piedi.»
«Come stai?»
«Meglio, sviluppi?»
«Stiamo cercando di scoprire se le ultime due vittime avessero delle conoscenze in
comune.»
«Risultato?»
«Per ora nessuno, a parte Mauro Pellizzari, un barman del Black Crow, un pub di
Cermenate.»
«Come avete fatto a trovarlo?»
«Abbiamo battuto tutti i locali per trovare qualcuno che avesse visto di recente le
ragazze. Lui si ricorda di aver scambiato qualche parola con entrambe.»
«Con chi erano?»
«Non sa dirlo.»
«Lo ritieni un possibile sospetto?»
«Direi di no, ci ha tenuto a precisare che è frocio.»
«Di Gavazzi cosa mi dici?»
«Lo abbiamo interrogato, al mercoledì consegna la merce poi va da una prostituta,
sempre la stessa, pare sottometta i clienti con fruste e catene e che quel labbro sia frutto di
un eccesso erotico, lei ha confermato che quel giorno ha esagerato un po'.»
«E sul greco, Anathopoulos, hai scoperto qualcosa?»
«Niente, sembra pulito, anche se…»
«Anche se?»
«Anche se sembra l'abbiano visto qualche volta fuori dalla scuola quando escono i
ragazzi.»
«Non mi sembra abbia figli.»
«Appunto.»
«Cos'ha detto in proposito?»
«Che passava di lì per caso, il che non è da escludere a priori date le dimensioni di
Volate.»
«Siamo al punto di prima.»
«E tu con il testo di Taxman?»
«Ci sto lavorando.»
Chiusi la telefonata, accesi il computer e trovai la posta intasata da decine di e-mail,
mitomani, fanatici, schizzati, frustrati mi avevano individuato. Alcuni suggerivano come
catturare l'assassino rivelando quali messaggi giacevano occulti nelle canzoni dei Beatles.
Yellow Submarine sembrava la loro principale fonte di ispirazione, altri mi insultavano
stando dalla parte dell'Esattore, molte donne mi volevano scopare, altrettanti uomini
avrebbero voluto sodomizzarmi, un delirio che smisi di leggere dopo pochi minuti
andando velocemente alla ricerca di ordini per la Bionat.
Il risultato fu deludente, gli ordini erano calati di colpo. O i clienti avevano paura di
venire in qualche modo ricollegati agli avvenimenti, oppure non si fidavano più dei
prodotti di quel cacciatore di serial killer che in molti, sbagliando, credevano fossi.
Le vendite andarono ulteriormente scemando nei giorni successivi, quando andava
bene, nonostante avessi chiesto a Corrado e Giovanna di raddoppiare l'impegno, al
massimo ne arrivavano un paio e di poco conto ogni ventiquattr'ore.
Chiamai Gavazzi e Berti e chiesi loro di ridurre la fornitura di verdura del cinquanta per
cento, forse avrei fatto meglio a rinunciare e a chiudere la società, ma non me la sentivo
ancora di mollare.
92

Per Volate e le aree interessate dagli omicidi iniziò un periodo di calma. L'Esattore aveva
ucciso tre volte in dieci giorni, così il suo silenzio prolungato, prima una settimana, poi
due, infine un mese, fece ritenere a molti di essere usciti dall'incubo.
La gente tornò a uscire la sera, i locali ripresero a spillare birra e nei cinema la gente
stava meno attenta a chi si sedeva nel buio del film già iniziato.
La vita tornò anche per me a quella che viene ritenuta la normalità e le vendite, dopo il
crollo iniziale, ripresero lentamente il loro corso anche se non ai livelli precedenti.
Mi abituai persino a non aspettare più che Lucy entrasse dalla porta, ma non trovavo
ancora la forza per andarla a trovare al cimitero di Trequerce, pensare a lei era la scolorina
del mio coraggio.
Anche la stampa si tranquillizzò, smise di cercarmi e dalla prima pagina passai in
quinta, solo Scalzi mi chiamava talvolta dalla redazione e mi chiedeva «Ancora tra noi?».
«Sì, ti spiace?»
«Figurati.»
A novembre comprai all'Iperfour una mountain bike color verde radioattivo e in
quell'occasione conobbi Alice, commessa per vocazione che per farmi uno sconto del dieci
per cento su duecentotrenta euro dovette ricorrere alla calcolatrice. Alice era una che
rideva per niente, mentre le tette della quarta le sobbalzavano come singhiozzi, anche se le
dicevo semplicemente «Stai bene vestita così». Oppure se le chiedevo «Da quanto lavori in
questo posto?».
La portai a cena fuori, lei contava le calorie di qualsiasi cosa prima di assaggiarla e le
sommava a quelle della portata precedente, alla fine il dolce risultò di troppo.
Proseguimmo a casa sua, una mansarda con sei gatti e il frigorifero intasato di surgelati
dietetici, sembrava un po' emozionata all'idea di fare sesso con uno visto al telegiornale.
Lori non l'avevo più chiamata, lei non si era fatta sentire, non volevo mostrarmi più duro
di quanto fossi, ma vaffanculo.
Quando pedalavo nei boschi mi sembrava di essere l'amica di E.T. inseguita dai cattivi.
Tornavo a casa distrutto, polpacci rigidi, muscoli degli avambracci infiammati dalle
continue frenate. Non amavo fare sport, ma fungeva da anestetico.
Una mattina di metà dicembre, neve per fortuna non ne era ancora caduta anche se le
previsioni la davano per imminente, ero già sul sellino della bicicletta pronto a partire
quando vidi, sulla strada sterrata che portava alla villa arrivando dalla statale, mia madre
che camminava sguardo a terra. La chiamai «Mamma!».
Lei alzò la testa sorpresa che qualcuno la cercasse ancora. Rispose «Tommy!».
«Cosa fai qui?»
«Non ti fai mai vivo, così sono andata alla stazione e sono salita sul primo treno, se te lo
avessi detto non avresti voluto.»
«Hai ragione, ma sono felice tu sia qui.»
Entrammo in casa, gliela mostrai, dal piano superiore la valle sembrava si fosse
rimpicciolita per il freddo, poi disse «Bella, un po' grande per uno da solo». Tradotto "Ma
quando ti trovi una donna e metti la testa a posto?".
Ignorai l'osservazione, tornammo dì sotto, ci sedemmo in quella sala invasa dai mobili e
la guardai. Non succedeva da quando avevo lasciato Milano, era passato più di un anno, il
suo volto era gonfio e molle, il tempo che sembrava averla dimenticata ora gliela faceva
pagare tutta in una volta, le rughe assomigliavano a tratturi.
Antonia Desideri era rimasta incinta presto, ventun anni e un paio di settimane. Mio
padre l'aveva conosciuta al pronto soccorso del Policlinico, lei aveva fatto indigestione, lui
si era ustionato la coscia destra con una pentola d'acqua bollente. Lei fu dimessa dopo
poche ore, lui una settimana più tardi, quando uscì lei era lì ad aspettarlo. Le chiesi «Come
va con il tuo uomo?».
«Si chiama Daniele.»
«Come va con Daniele?»
«Mi vuole bene, è un po' stupido, ma cosa vuoi pretendere a questa età?»
«Lo saprò quando ci arriverò, se ci arriverò.»
«Cosa vuoi dire?»
«Scherzavo.»
«Ti ho portato un regalo.»
Era il momento che temevo, quello della consegna del regalo di Natale. Dalla borsa tirò
fuori un pacchetto avvolto in carta color oro, il fiocchetto si era schiacciato durante il
viaggio. Me lo diede e disse «Ti ho preso un maglioncino».
Ci sono delle cose che non possono cambiare. E il maglioncino era una di queste, già a
partire dal diminutivo, perché bambino ero e bambino sono rimasto, per proseguire con il
colore, di solito verde o blu o giallo, quando più che nero o grigio non ho mai indossato.
Aggiunse «Provalo».
«A Natale. Quando pensi di ripartire?»
«Nel pomeriggio c'è un diretto verso le quattro.»
«Ti accompagno in stazione.»
Quando salì sul treno mi immaginai dicesse "Copriti che fa freddo". Invece mi guardò
come se leggesse nel futuro e disse «Come finirà?».
«Ti faccio sapere anche questo, vai adesso.»
«Stai perdendo i capelli.»
«È solo un'impressione.»
Uscii dalla stazione e andai a riflettermi nelle vetrine dei negozi. E mi chiesi se
dopotutto era meglio morto piuttosto che calvo.
93

Chissà se la stessa cosa se l'era mai chiesta Joe Strummer. Probabilmente no, nelle ultime
foto i capelli sembravano ancora quelli di un tempo. Ma saperlo non mi avrebbe consolato.
Morì pochi giorni dopo, era il 22 dicembre e la notizia mi colpì come un lutto familiare:
l'ultimo vero punk se ne era andato e con lui il disordine mentale che i Clash avevano
portato dando Londra alle fiamme. La prima neve cadde quel pomeriggio, allegra come
un sorriso forzato.
Nevicò anche l'ultimo giorno del 2002. Cenai in compagnia di Paola, poi rimanemmo
seduti in silenzio a guardare feste preconfezionate fuori dal vetro del televisore. Il segno
fortunato sarebbe stato quello del Leone, ma soldi e amore per tutti, nessuno sarebbe stato
schiacciato dal trattore della vita, il 31 dicembre gli sfigati non esistono. Passate le undici e
mezzo le dissi «Vado».
«Divertiti.»
Una carezza di cotone mi accompagnò all'uscita. In venti minuti raggiunsi Alice e la sua
compagnia a Cantù in un appartamento del centro. Alice mi diede un bacio, dello
champagne e disse «Abbracciami».
«In che modo?»
«Come se fosse per sempre.»
La presi per la nuca, appoggiai il suo viso al petto, capelli appena lavati, il balsamo era
quello alla mela. Risposi «Non sono l'uomo giusto per te».
«Lo dici tu.»
Rimanemmo insieme fino al mattino, la luce in arrivo era l'ecografia dell'anno che
nasceva. Poi dissi «Adesso vado, devo fare una cosa».
Per le strade gente che si abbracciava, che barcollava, che scivolava su lastre di ghiaccio,
che saltava sui tetti delle auto in sosta. Guidai fino al cimitero di Trequerce, scavalcai il
muretto, Lucy stava nel campo G fila 14, una lastra di marmo grigio appesantiva la terra
sopra di lei.
Alla fine c'ero riuscito, ero andato a trovarla, il fiore che deposi sulla tomba rotolò al
vento e si appoggiò alla lapide cercando riparo.
94

Nei due mesi che seguirono tornai più volte sul testo di Taxman, poi lo scagliavo lontano
irritato dalle mie mediocri capacità intuitive. Un giorno andò a colpire il mio giradischi e
mi ricordai di averne visto uno molto più vecchio in cantina.
E se c'era un giradischi, da qualche parte dovevano esserci anche dei vinili.
Dovevo tornare laggiù, ne avrei fatto volentieri a meno, ma ridiscesi quella scala senza
starci a pensare e mi misi a rovistare dentro vecchi bauli che in precedenza avevo preferito
ignorare.
Non saltò fuori nulla, solo vecchi quadri dalle cornici contorte e dai soggetti bucolici
come barchette su un lago tra monti innevati di biacca, uomini a pesca su fiumi che
continuavano a scorrere al di là delle sponde della tela, donne ad arco in campi di riso e
sanguisughe.
Non mi diedi per vinto e guardai in ogni angolo della villa, aprii ogni anta, ogni
cassetto, spostai mobili, sollevai tappeti in cerca di botole, tornai in soffitta, ma nemmeno
un disco. Qualcuno se li era portati via, probabilmente dopo la morte di Serena
Ardemagni.
Pensare agli eredi fu immediato ma, senza ricorrere all'aiuto di Donati al quale non
volevo ancora far sapere di aver ripreso a indagare, l'unico modo per rintracciarli era
chiedere alla Purple.
Esitai, poi digitai il numero, una voce diceva "attendere prego", poi «Purple
Immobiliare, sono Lori».
«Ciao Lori.»
«Tommy?»
«Sono io, come stai?»
«Sto bene, o almeno credo, e tu?»
«Meglio.»
«Non ci sentiamo da giugno.»
«Non per colpa mia.»
«Non farmi sentire peggio di quanto già mi senta.»
«Scusa.»
«Lascia perdere, ti capisco.»
«Senti Lori, ho bisogno del tuo aiuto, sto cercando di rintracciare gli eredi di Serena
Ardemagni.»
«Intendi gli attuali proprietari della villa dove abiti?»
«Esatto.»
«Come mai?»
«Sto seguendo un'intuizione, quasi certamente non porterà da nessuna parte, ma voglio
provarci.»
«Non ti dai per vinto.»
«Dovrei?»
«Dammi mezz'ora che cerco in archivio.»
«Grazie.»
«A qualcosa dovrò pur servire.»
«Già.»
Dopo cinquanta minuti Lori mi richiamò sul cellulare, immerso nei miei pensieri scattai
in piedi col batticuore. Lori disse «Ho quello che mi hai chiesto».
Elio e Lorena Ardemagni vivevano a Lomazzo, quattordici chilometri a ovest di Cantù.
Trent'anni, architetto, Elio era il figlio del figlio del fratello di Antonio Ardemagni. Lo
chiamai la sera stessa, mi presentai e gli dissi «Ho bisogno di alcune informazioni».
«Su chi?»
«Su sua zia Serena.»
«Qualcosa a che vedere con gli omicidi dell'Esattore?»
«Può essere.»
«Non credo di poterle essere utile.»
Insistetti e ci mettemmo d'accordo per il giorno dopo alle sei, sarei passato a prenderlo
al lavoro e avremmo cenato a casa sua.
95

Non conoscendo la strada mi misi in viaggio per tempo e alle quattro e mezzo di un mite
pomeriggio di marzo ero già in auto.
Riuscii a perdermi nonostante le indicazioni di Ardemagni, un cartello stradale, puntato
verso non si sa cazzo dove, era riuscito a farmi sbagliare strada. Ma pur avendo allungato
il percorso di un paio di chilometri, alle sei meno venti mi trovai ad aspettarlo sotto il suo
ufficio.
Lomazzo, al contrario di Volate, spirava ancora di un vento gelido e mi misi a
camminare su e giù per riscaldarmi. Un ragazzo, vent'anni più o meno e due lame di
basette che gli tagliavano il volto, mi sbatté contro e mi chiese «Hai una sigaretta?».
«Non fumo.»
«Non vivrai più a lungo.»
«Credo anch'io.»
Alle sei e una corsa d'ascensore dall'ultimo piano a terra, ecco Ardemagni davanti a me.
Guardandolo in faccia per la prima volta mi sembrò strano che qualcuno si fosse
accoppiato con quell'aspetto da "casa lavoro casa lavoro casa cimitero addio non ci
ricorderemo di te". Ci stringemmo la mano, la sua un saluto di carta vetrata. Disse
«Andiamo a piedi, abito qui vicino, dieci minuti al massimo, mia moglie ha preparato per
le sette».
«Mi spiace averla disturbata, vorrei solo mi dicesse cosa si ricorda di Serena.»
«Ho avuto a che fare con lei solo un paio di volte, da piccolo. Poi non ha voluto
incontrare più nessuno di noi. Sono tornato in quella casa solo sette anni fa per il suo
funerale e per l'apertura del testamento.»
«Cosa avete portato via dalla villa?»
«Non ricordo, bisogna chiedere a mia moglie. Sta cercando qualcosa in particolare?»
«Sì.»
Lorena Cestari, sposata Ardemagni, si prendeva cura di un appartamento cento metri e
rotti al secondo piano di una villetta bifamiliare, arredamento da mobilificio di provincia.
Un toporagno nella sua tana, giovane ma con l'aria di aver vissuto mille anni su un
inginocchiatoio in inascoltata preghiera, me la vedevo mentre contava i centesimi sulla
palma della mano ogni volta che le davano il resto.
Ci sedemmo a tavola, la tristezza di un colpo di pistola alla tempia. Qualsiasi cosa
avessero portato via non erano certo dei dischi, in quella casa il pop e il rock avevano la
stessa possibilità di circolare di un coniglio in una macelleria. Sorseggiai del vino viola e
dissi «Bella casa, signora, come mai avete deciso di abitare a Lomazzo?».
«Ho ereditato questo appartamento dai nonni e Elio si è trasferito da me.»
«E come mai non a Volate nella villa di Serena?»
«Troppo isolata e poi tutte quelle storie a me facevano paura.»
«Si riferisce al fatto che Serena sosteneva di vivere in quella casa con la sorella
Corinna?»
«Sì.»
«Lei ci ha mai creduto?»
«No, ma un conto è non credere ai fantasmi, un altro è stare in un posto dove la gente ha
paura di venire. È per questo che Elio non è mai riuscito a venderla e l'ha affittata solo a
lei.»
«Sono più stupido degli altri?»
«Mi scusi, non intendevo questo. Solo che lei, arrivando da Milano, non poteva saperlo.»
«Non importa. Si ricorda se ha portato via qualcosa dopo la morte di Serena?»
«Poco o niente. Dei servizi di piatti e bicchieri di inizio Novecento e delle bellissime
tovaglie ricamate a mano.»
«Immagino, non ricorda se c'erano anche dei dischi in vinile?»
«Non glielo so dire, ma potrebbe chiedere a Patricia, le abbiamo detto di prendere tutto
quello che voleva.»
«Patricia?»
«Sì, Patricia, la donna delle pulizie. Era l'unica persona che Serena faceva entrare in casa,
la conosce?»
«La conosco bene.»
«Una brava donna, è stata con lei fino alla fine.»
«Ancora una domanda, signora Ardemagni, perché avete fatto incidere quell'epitaffio
sulla tomba di Serena?»
«Quale epitaffio?»
«Quello in cui si dice che Serena e Corinna sono state sepolte insieme.»
«Non siamo stati noi. Se l'avessimo saputo non l'avremmo permesso.»
Un crampo mi ingrippò lo stomaco.
Iniziammo e finimmo di mangiare, con la scusa di non essere a posto di stomaco
assaggiai solo dell'insalata, il resto del cibo odorava di refettorio, poi salutai.
All'uscita di Lomazzo imboccai nuovamente la direzione sbagliata ma me ne accorsi
subito e con un'inversione da ritiro patente occupai la carreggiata che mi avrebbe riportato
a Volate.
Guidando tra auto frettolose, mi chiesi se Patricia, proprio Patricia, mi stesse
nascondendo qualcosa. Patricia era l'unica che avesse accesso alla villa, aveva di certo un
duplicato delle chiavi anche prima che la Purple gliele riaffidasse in attesa del mio arrivo e
avrebbe potuto mettere nella bara la collanina di Lucy e quel misterioso fiocco rosa in
qualsiasi momento.
Non solo, Patricia conosceva esattamente i movimenti di Lucy e aveva scoperto il mio
amore per i Beatles la prima volta che ci eravamo visti alla villa.
96

Erano da poco passate le undici quando le citofonai, l'ingresso sul retro era chiuso. Rispose
«Chi è?».
«Patricia, sono Tommaso.»
«A quest'ora? Non è un po' tardi?»
«Apri, devo parlarti.»
Entrai in casa, Patricia indossava una vestaglia infilata in fretta e strappata in alcuni
punti. «Tommy, cosa succede?»
«Quando Serena è morta, cos'hai portato via dalla villa?»
«Poche cose.» Esitò, poi «Non possiamo parlarne domani?».
«Te lo ricordi e te lo ricordi adesso.»
«Basta che tu stia calmo.»
«Okay, ma non perdiamo tempo.»
«Una radio d'epoca, quella che vedi lì. Funziona ancora.»
«Chi se ne frega.»
«Tutti i vestiti di Serena, che ho consegnato alla parrocchia di Volate.»
«E poi?»
«Una collana di giada e onice che metto solo la domenica, due braccialetti d'oro e una
decina di anelli di poco valore.»
«Vai avanti.»
«Una cinquantina di dischi, ma li ho spediti tutti, un paio di settimane dopo, alla
biblioteca di Cantù.»
«Quali dischi?»
«Non lo so.»
«Cazzo, quali dischi?»
«Non lo so, Tommy, non lo so te lo giuro, non li ho neanche guardati.»
«Mi stai dicendo la verità?»
«Faccio finta di non aver sentito la domanda.»
«Tu sei l'unica che può avere qualcosa a che fare con tutto questo delirio.»
«Sei impazzito?»
«Ti ricordi almeno se Serena ascoltava i Beatles?»
«Credo di sì, diceva che Corinna andava matta per la musica e che i Beatles erano i suoi
preferiti.»
«E non me l'hai mai detto?»
«Mezzo mondo andava e va matto per i Beatles.»
«Hai spedito i dischi a qualcuno in particolare?»
«Sì, ma ora il nome mi sfugge.»
«Hai fatto incidere tu l'epitaffio sulla tomba di Serena?»
«Sì.»
«Perché?»
«Me lo fece promettere.»
«E la bara in cantina come ci è finita?»
«Quale bara in cantina?»
Me ne andai senza rispondere.
97

Padre e madre seppelliti in una fossa comune a Dachau, Enrico Levi lavorava da
trentacinque anni alla Biblioteca comunale di Cantù e gli mancavano due mesi prima di
trovarsi da solo davanti a un piatto di pastina a godersi la pensione. Sua moglie era morta
l'anno prima, una rara forma di sclerosi multipla se l'era mangiata in otto mesi e poi era
stata cremata con lei.
Spruzzi di capelli invecchiati male gli spuntavano sulle tempie, le guance che cadevano
come piste da sci, gli occhi che pulsavano come woofer. Gli strinsi la mano dolcemente,
avevo paura di staccargli le dita, poi chiesi «All'inizio di settembre del 1996 ricevette da
Volate una cinquantina di dischi che Patricia Parker decise di donarvi, se lo ricorda?».
«Vagamente.»
«Appartenevano alla signora Serena Ardemagni, morta pochi giorni prima. È possibile
sapere quali erano?»
«Credo proprio di sì.»
Il 14 settembre di quell'anno quarantatré vinili erano stati aggiunti alla discoteca
comunale, per lo più 45 giri a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, ma altro era quello
che mi interessava trovare e lo trovai nel numero previsto. Sotto la lettera B erano presenti
sei album dei Beatles: Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band (1967), The Beatles (1968),
Revolver (1966), Help! (1965), Abbey Road (1969), Let It Be (1970), catalogati nello stesso
ordine in cui stava colpendo l'Esattore.
Era un'altra prova che l'Esattore mi stava dando la caccia e per essere certo che non ne
dubitassi, avevo scelto i dischi che una volta erano in casa mia. Se aveva ragione, la
prossima canzone di cui si sarebbe servito per uccidere sarebbe stata contenuta in Help!
98

Mancava ancora una cosa da fare. Scoprire quando era nata e morta Corinna, ricostruire a
ritroso gli eventi legati a quella bara e capire perché l'assassino se ne fosse servito.
Preceduto da un fax della polizia che mi autorizzava all'indagine, nel pomeriggio mi
presentai all'anagrafe di Trequerce, sotto la quale venivano registrati i cicli esistenziali di
Volate. A ricevermi Mia Franchini, cinquant'anni spesi cash e una spilla in oro bianco
ornata di diamanti taglio baguette a fermarle una sciarpa intorno al collo. Di sicuro non se
l'era comprata con lo stipendio da dipendente comunale, forse un'eredità, ma avrei
scommesso su un grande amore. Come scusandosi disse: «Ho l'influenza». Poi chiese
«Cosa posso fare per lei?».
«Vorrei l'albero genealogico della famiglia Ardemagni di Volate, a partire da Antonio e
Isa, sposi nel 1896.»
La Franchini se ne andò come per prendersi una camomilla e tornare a letto, ma in meno
di un'ora mi portò la documentazione. Uno sguardo bastò perché il mio cuore si prendesse
una pausa di riflessione per decidere se continuare a pompare o no. Chiesi «Non manca
niente?».
«Cosa intende?»
«Mi ha consegnato tutti gli atti di nascita?»
«Certamente.»
Antonio e Isa Ardemagni avevano avuto solo una figlia, Serena, nata il 29 gennaio del
1905. Corinna non era mai nata, non era mai morta, non era mai sparita e tutte quelle
storie su di lei erano solo frutto della fantasia sdoppiata di Serena. La bara non potevano
quindi averla comprata i genitori per il funerale e poi averla abbandonata là sotto, ma
poteva averlo fatto Serena. Per esserne certo dovevo fare una telefonata, ma andandomene
la curiosità fu più forte del turbamento e dissi alla Franchini «Ha una spilla bellissima».
«Questa è rimasta, il suo amore no.»
«Ci pensa mai?»
«Tutti i giorni.»
Come la collanina e il fiocco rosa, la bara era stata messa lì da qualcuno. Se avessi
scoperto da chi e perché, avrei scoperto l'Esattore.
Una volta fuori chiamai la scientifica e chiesi a che epoca risalisse la bara che si erano
portati via dalla cantina. Non l'avevo fatto prima, dando per scontato che fosse lì da
sempre. Invece era di fabbricazione recente, e non l'avevano mai comunicato supponendo
lo sapessi.
99

Il mattino dopo, 5 marzo 2003, ebbi la certezza di essere vicino alla verità, ma non nel
modo in cui avrei voluto.
La prima telefonata che ricevetti mi avvertì che Giovanna Castoldi era stata ritrovata
uccisa nel suo appartamento alla periferia di Cantù, un chiodo le aveva perforato la nuca.
Giovanna, la ragazza che insieme a Corrado Rota distribuiva da quasi un anno i volantini
della Bionat. Gli ultimi sei pacchi da cinquecento si trovavano ancora imballati nello
sgabuzzino a metà del corridoio.
A trovarla era stato Corrado, Giovanna non rispondeva né a casa né sul cellulare e dopo
venticinque minuti di attesa alla stazione, dove si erano dati appuntamento per prendere il
treno delle 7.52 per Lecco, era andato da lei.
Quando era entrato dopo aver spinto la porta socchiusa, l'aveva vista a faccia in giù sul
tavolo Ikea piazzato al centro della cucina, sul lato opposto una tazza con la faccia di
Homer Simpson era stata rovesciata e il latte era colato fino a terra. Dal collo usciva un
piccolo flusso di sangue.
Spaventato ma lucido, Corrado aveva chiamato la polizia senza accorgersi che sul vetro
della finestra era stata sprayata una data: 4 marzo. E non aveva nemmeno notato che
Giovanna, nonostante fosse pronta per uscire, stava facendo colazione a piedi nudi. E che i
piedi erano stati uniti e avvolti in un film in polietilene.
Nessun altro segno di effrazione o di violenza stava a indicare il passaggio dell'Esattore,
ma proprio per questo Corrado, mentre il sudore gli spalmava i capelli sulla fronte, fu
subito messo sotto pressione da Donati. Gli chiese «Perché non l'hai aspettata alla
stazione?».
«Giovanna era puntuale, al massimo cinque minuti di ritardo, mi sono preoccupato».
«Ho sentito dire che tra voi le cose non funzionavano più.»
«Litigavamo, ma per delle scemenze, in periodo di esami si è più tesi del solito.»
«E questo lo è?»
«Ne stavamo preparando un paio tutti e due.»
«Che tu sappia poteva esserci un altro uomo nella sua vita?»
«Credo di no, ma non si sa mai veramente quale vita conduca una persona quando è
lontana.»
«Vero.»
«A cosa sta pensando?»
«Semplice, o sei stato tu o Giovanna ha aperto la porta al suo assassino, il che vuol dire
che lo conosceva.»
100

Giovanna, ragazza dai silenzi prolungati e dagli sguardi incerti, la mamma alcolizzata dal
Martini dry, il padre tra i fondatori del Beatles Fan Club di Cantù, una collezione di
tartarughe di legno, una coppia di canarini e tutti i libri di Paulo Coelho, era stata uccisa
verso le tre di mattina del 5 marzo, ma la scritta riportava quella del giorno prima.
Rimosso il cadavere, Donati mi disse «L'Esattore è di nuovo tra noi, Corrado non può
essere stato, lo sappiamo».
«Nicola, ti devo dire una cosa.»
«Ti ascolto.»
«Poche ore fa ho scoperto che l'Esattore per uccidere ha scelto di ispirarsi a sei canzoni
dei Beatles tratte da altrettanti album, con oggi siamo a quattro, ne mancano due.»
«E per la Castoldi a quale cazzo di canzone si è ispirato?»
«Il 4 marzo era ieri.»
«E allora?»
«Yesterday, ieri, ti dice niente?»
«Mi dice che è la più famosa canzone dei Beatles.»
«Risposta esatta.» «E il fatto che la ragazza fosse a piedi nudi?»
«Ci porta dritto a Abbey Road.»
«Cosa dice il testo?»
«Non esiste un brano con quel titolo, solo un album.»
«E allora quale esiste?»
«Polythene Pam.»
«E di cosa parla?»
«Di una donna vestita con un sacco di polietilene.»
«Come ci sei arrivato?»
«Serena Ardemagni, la vecchia proprietaria della villa in cui vivo, possedeva sei album
dei Beatles, album che adesso sono nella Biblioteca comunale di Cantù e che contengono le
canzoni finora incriminate. La loro catalogazione rispetta l'ordine cronologico degli
omicidi.»
«Credi che l'Esattore abbia capito che gli stai arrivando vicino?»
«Non ne ho idea, forse sì e l'ho costretto a muoversi. Oppure questa era la data che si era
prefissato.»
101

Era la data prestabilita.


Per arrivare a intuirlo, il sogno seguito al mio collasso alcolico avrebbe potuto essere un
aiuto decisivo, ma non avevo saputo interpretarlo.
Il passante, alla mia richiesta di conoscere l'ora, aveva risposto "la
millecentonovantacinquesima", ovvero gli stessi numeri che apparivano in Taxman: 1195.
Avevo cercato di scomporli e ricomporli in tutti i modi, ma qualsiasi risultato avessi
ottenuto non mi aveva portato da nessuna parte. Non avrei dovuto fare nulla, nessun
calcolo, solo leggere quei numeri in fila così com'erano e ci sarei arrivato.
Yesterday era la canzone che al mondo vantava il maggior numero di cover: esattamente
millecentonovantacinque. Fu pubblicata la prima volta il 6 agosto del 1965 nell'album
Help!, colonna sonora del film omonimo, come penultima canzone del lato B, il che
significava che nella pellicola non era effettivamente presente, in quanto solo le canzoni
del lato A fungevano da accompagnamento alle immagini. La cosa fece il gioco della
Capitol, la casa discografica dei Beatles negli Stati Uniti, che la settimana successiva, il 13
agosto, pubblicò l'album eliminando le sette canzoni che non apparivano nel film, tra cui
Yesterday, e sostituendole con sette brani strumentali eseguiti dalla George Martin
Orchestra.
La data che mi interessava era però un'altra: il 4 marzo 1966 Yesterday fu pubblicata
come undicesimo EP dei Beatles. E visto che il titolo della canzone conteneva
un'indicazione temporale, quel giorno, quel "ieri" per l'Esattore non poteva essere che a
cavallo tra il 4 e il 5 marzo.
102

Immediato invece capire il passaggio tra Yesterday e Abbey Road, i piedi nudi di Giovanna
erano un simbolo inequivocabile.
L'8 agosto 1969 a Ian McMillan, il fotografo della band, furono concessi solo dieci minuti
per realizzare il servizio di copertina per Abbey Road, l'ultimo album in studio dei Beatles.
Let It Be sarebbe uscito otto mesi dopo, nel maggio del 1970, ma era stato registrato in
precedenza.
Gli scatti riprendevano, da sinistra a destra, John, Ringo, Paul e George, mentre
attraversavano le strisce pedonali davanti agli studi di registrazione di Abbey Road. Molti
gli indizi che fecero ritenere ai fan che Paul McCartney fosse morto.
I quattro erano in fila come in una processione funebre e dal loro look fu stabilito anche
il relativo ruolo. John, che apriva il corteo, sembrava in quel periodo il ritratto di Gesù
Cristo, Ringo, vestito di nero, era il prete incaricato per l'omelia funebre, Paul, senza
scarpe come i cadaveri nelle sepolture orientali, era la salma che veniva accompagnata al
cimitero, George, trasandato nell'aspetto e nell'abbigliamento, non poteva essere che il
becchino dato anche che chiudeva la fila e quindi il ciclo vitale di una persona. Il fatto che
Paul avesse nella mano destra una sigaretta, quando il mondo intero sapeva che era
mancino, fece pensare che fosse già stato sostituito da un sosia, un certo William
Campbell. Anche le strisce pedonali potevano essere lette in chiave funebre, come
passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti.
Polythene Pam era il sesto brano del lato B di Abbey Road e fu incisa in due diverse
sessioni tra il 25 e il 28 luglio 1969. E il polietilene che avvolgeva i piedi di Giovanna era da
ricollegare a questa canzone.

Dovreste vedere Polythene Pam


ha un così bell'aspetto ma sembra un uomo
be', la dovreste vedere travestita
con il suo sacco di politene
sì, dovreste vedere Polythene Pam
prendetela in stivaloni e kilt
è un'assassina quando si veste di tutto punto

Ogni cosa sembrava andarsi a incastrare perfettamente con quanto sospettato in


precedenza su Patricia: Polythene Pam era una donna che calzava stivaloni di gomma,
come Patricia quando si fece vedere per la prima volta da me, se indossava il kilt era di
origine scozzese e Patricia arrivava da un paesino poco fuori Edimburgo.
Ma non era tutto: prendendo le iniziali di Polythene Pam, il monogramma che si
formava, ovvero "PP", mi portava dritto a Patricia Parker.
Nessuno aveva pensato, almeno per un attimo, che l'assassino potesse essere una donna,
e poi quel colpo di genio, farsi chiamare taxman, "l'uomo delle tasse", che aveva portato
tutti nella direzione sbagliata.
Ora Patricia mi sfidava ad andarla a prendere, a impedirle il quinto omicidio, quello
ispirato a Polythene Pam. Mancava ancora il movente, ma capire il perché di tutto questo
non era così urgente, ci sarebbe stato tempo dopo, tutto il tempo che volevamo.
103

Nonostante glielo avessi promesso, a Donati non dissi niente, adesso era tra me e Patricia.
Troppe cose ci avevano legato, troppe volte mi aveva tradito. Era tempo di riscattare gli
errori commessi, senza assalti a sorpresa, solo andando a parlarle. Sapevo di rischiare e
rimpiansi di non avere più la Beretta, ma non volevo più uccidere nessuno, nemmeno per
legittima difesa.
Quando arrivai da Patricia si era fatta sera. Citofonai più volte, in cambio nessuna
risposta. Andai sul retro e vidi che il cancello era aperto, un paio di galline incredule di
poter fare vita notturna si stavano avventurando fuori dei loro confini, e aprii la porta che
dava sulla cucina.
Un soffocante odore di marcio invadeva l'aria, sulla tavola piramidi di verdura si
arrendevano alla decomposizione, provai ad accendere la luce ma la corrente era staccata.
Preso dal panico, sentii la mia voce dire: «Patricia, sono Tommaso».
Come non lo sapesse. E poi dire ancora «Lo sai perché sono qui, non sono armato, sono
solo e non ti voglio fare del male».
Come ci potessi riuscire. E poi dire ancora «Patricia, è finita».
Come ci potesse credere.
Non dissi più niente. Attraversai la cucina ed entrai in sala, avanzi di luce arrivavano
dalle finestre ma il buio cominciava a uniformare la mia visione e non distinguevo più con
esattezza le forme degli oggetti.
Feci ancora qualche passo nella semioscurità. Subito inciampai in qualcosa davanti al
divano, caddi sulle ginocchia nel punto in cui mi trovavo, per rialzarmi premetti la mano
destra su qualcosa di molle. Con le dita schiacciai prima un occhio, poi il polso scivolò per
un attimo in una bocca spalancata.
Era Patricia. Male non gliene feci, lamentele non ne avrei avute comunque mai, era
morta.
Tornai a inginocchiarmi, la girai faccia a terra, alla base della nuca usciva un calore
denso che mi bagnò la mano, sembrava un calorifero che stesse sfiatando. L'impulso di
uscire, di correre fuori di lì arrivò bruciante, ma non feci in tempo, parole sbocciarono
come flash alle mie spalle. «Piaciuta la sorpresa?»
Inattesa come un TIR dietro un tornante, una voce contraffatta mi colpì come se mi
avesse rivolto la parola Hal 9000. Risposi «Chi sei?».
«Non sperare te lo dica.»
«Ero certo che Polythene Pam nascondesse il nome dell'Esattore, mentre indicava solo
quale sarebbe stata la prossima vittima.»
«Ho fatto in modo che tutto ti portasse da lei. La semiologia inganna, qualche volta.»
«Cosa vuoi dire?»
«Volevo dimostrarti che non sei così furbo come pensi.»
«Mai pensato.»
«Con quel tuo modo di fare?»
«E qual è?»
«Quello per cui tutte le cose che dici sono sempre e comunque le migliori.»
«Forse hai ragione, ma non mi vorrai uccidere solo per questo.»
«Mi hai fatto del male, tanto, troppo male.»
«Posso sapere in che modo?»
«No, non lo puoi sapere.»
«Vivevo ancora a Milano?»
«Sì.»
«Ti manda Orlandi?»
«Rimarrai con questo dubbio.»
«E le donne che hai ucciso cosa c'entravano?»
«Niente, assolutamente niente.»
«Adesso mi dirai che ti dispiace.»
«No, sono state solo un mezzo.»
«E adesso cosa succede?»
«Lo sai, la sesta canzone è per te, e non provare a cercare una via d'uscita, non c'è.»
«Allora so anche quello che stai per dire.»
«Let it be, lascia che sia.»
Un colpo gelido alla base del collo.
Il colore nero.
Morto.
Parte quarta

Cantù, marzo-ottobre 2003

IL COMA
104

Così è il coma: quello che sarà è già, ogni giorno per sempre notte, tutti i colori senza rumore,
l'udito senza sapore, il tatto senza immaginazione, tutto scorre senza movimento, non c'è parola
che abbia un oggetto, non c'è frase che abbia un soggetto, non c'è verbo che abbia un'azione, fruscii
di senso si staccano e volano dentro di me. Significati e significanti si sciolgono gli uni dentro gli
altri, contorcono l'etimologia dell'essere, io vivo in uno schermo piatto, parlo il verbo del silenzio,
boccheggio in cerca di un amo d'aria, galleggio tra onde di lenzuola, sono una boa per le infezioni,
sono anima con corpo, sono una cartolina rimasta nella buca delle lettere, sono tubi e fili. La flebo
mi droga di speranza, sulle braccia crateri dove sono caduti piccoli meteoriti viola, la schiena che si
fonde di piaghe. Al mio fianco infermiere di peluche, le vedo, un refresh ogni trenta secondi, ecco un
dottore che scuote la testa come un cane di pezza, poi saliva di sabbia mi avvolge la bocca, fulmini
disegnati arrivano per elettrizzare il cervello, ma la scintilla non fiorisce, non c'è più niente da
collegare a massa. Una nuvola di montagna passa nel cielo della mente, si ferma per nevicare poi se
ne va, la inseguo, lei si volta e mi soffia via. Mi ritrovo lontano da me stesso e nella nebbia che
evapora ecco il mattino, la luce cresce come schiuma in un boccale di birra, un sorso ed è già buio, il
domani che mi aspetta è uguale all'ieri di oggi, un altro giro di vite sull'asse terrestre, il sole sale, la
luna zucchero.
105

Mi risvegliai dal coma dopo centodiciannove giorni e qualche ora: il 2 luglio, sette e cinque
del mattino.
In camera ero da solo, le tapparelle erano già state alzate e dalla finestra la luce entrava
di rimbalzo ossidata dal riflesso dei vetri del palazzo di fronte. Intorno a me odore di
medicinali e bende canforate.
Provai a muovere prima le braccia, poi le gambe, ma non ci fu alcuna reazione. Ci
riprovai con la testa, un leggero scatto verso destra mi fece capire che non ero del tutto
immobilizzato. Rimasi così qualche minuto, il tempo di riprendere coscienza del mondo,
poi una voce entrò e disse «Buongiorno Tommaso, come andiamo oggi?».
Balbettai dei rumori senza senso, ma una risposta non era prevista, la domanda era stata
posta alle pareti color caffellatte. L'infermiera si fermò stupita, mi guardò come se vedesse
Belfagor, le cadde la padella di mano, il rumore di metallo rotolò fin sotto il letto, poi lei
corse fuori dalla stanza gridando «Il signor Matera si è svegliato, il signor Matera si è
svegliato».
L'aria mi era passata in gola come carta vetrata, i polmoni si erano gonfiati come
salvagenti, il naso colava muco.
Otto, dieci, dodici persone entrarono nella stanza, le facce sorridenti come una zucca il
giorno di Halloween, le frasi di saluto prestampate su un biglietto da visita. Poi un dottore
con degli occhiali a coprire due fosse biologiche si avvicinò al letto, mi toccò la fronte e
chiese «Riesce a sentirmi?».
Battei le palpebre.
«Si ricorda come si chiama?»
Battei le palpebre di nuovo.
«Si ricorda anche cosa le è successo?»
Rimasi immobile.
«Lei è un uomo fortunato. È stato a un passo dalla morte, ma siamo riusciti a salvarla.
Non è paralizzato, ma non sarà uno scherzo tornare come prima.»
Avrei voluto fargli un milione di domande, sapere quanto tempo era passato, un'ora un
giorno o diecimila mesi, quando avrei potuto alzarmi, quando sarei riuscito a mangiare un
piatto di pasta, se il campionato di calcio era finito e chi lo aveva vinto, magari l'Inter
mentre io ero dall'altra parte della luce, se "Rolling Stone" aveva già deciso qual era il
disco dell'anno, ma non ebbi nemmeno il tempo di provare a parlare che il dottore disse
«Adesso deve riposare, intanto avvisiamo sua madre».
L'infermiera fece uscire tutti, poi si chinò su di me, mi diede un bacio sulla fronte e disse
«Bentornato». Il suo nome, Bice, stampato sul tesserino appeso alla tasca del camice, mi
sembrò il più bello del mondo.
Dormii altre quarantott'ore, quando mi svegliai era tardo pomeriggio e mia madre mi
stava rimboccando le coperte. Non appena mi vide con gli occhi aperti si mise a piangere,
poi abbracciandomi con la paura di sbriciolarmi disse «Sono così emozionata che non so
cosa fare o cosa dire».
Finalmente riuscii a rispondere «Va bene così, mamma».
«Non ci speravo quasi più, i dottori erano ottimisti ma i giorni passavano e tu rimanevi
immobile.»
«Quanto tempo è passato?»
Mia madre non sapeva mentire, non era in grado, quando ci provava si grattava la testa.
Attorcigliandosi i capelli in grovigli d'edera, rispose «Un paio di settimane».
«Mamma, la verità.»
«È meglio se non lo sai, dicono potresti avvertire un senso di distacco dalla realtà.»
«Lascia perdere quello che dicono gli altri.»
«Quattro mesi.»
Se non fossi stato sdraiato, avrei sentito il bisogno di distendermi, poi chiesi «Come va
con Daniele?».
«Ci siamo lasciati.»
«Mi spiace.»
«Anche a me, ma non avevamo niente da dirci.»
«Dove sei stata in questo periodo?»
«A casa tua, non potevo chiederti il permesso, ma ho pensato non ti dispiacesse, l'ho
anche sistemata in attesa del tuo ritorno, sapessi quanta polvere ho trovato sotto il letto.»
«Hai fatto bene.»
«Alice viene tutte le settimane a trovarti, è carina, mi piace, mi ha detto che siete
qualcosa più che amici.»
«Le hai già detto del mio risveglio?»
«No, non ancora, volevo prima sentire la tua voce.»
«Fallo per favore.»
«Le telefono stasera quando vado a casa.» «Chi è venuto ancora?»
«Valeria, un paio di volte, mi ha detto che si è trovata un lavoro.»
«Nessun altro?»
«Paola passa tutti i mesi, poi quel poliziotto, Donati.»
«E Lori?»
«Una volta subito dopo il fatto, ogni tanto mi telefona per sapere come va.»
«Lavora ancora alla Purple?»
«Sì, l'ho vista pochi giorni fa quando sono andata a portarle i soldi dell'affitto.»
«Devi farmi un favore.»
«Quale?»
«Non fare venire nessuna di loro finché non mi sono ripreso, non voglio mi vedano in
queste condizioni.»
«Va bene, io però adesso vado, i dottori mi hanno dato solo qualche minuto.»
«Mamma, ancora una cosa.»
«Sì?»
«Come faccio a essere ancora vivo?»
«Il punzone non è entrato in profondità come negli altri casi, è stato deviato da un osso,
non chiedermi quale. Dicono che forse la cartuccia era difettosa. A un certo punto
sembravi fuori pericolo, ma al termine dell'operazione sei entrato in coma.»
106

Nella settimana successiva dormii sedici-diciotto ore al giorno, più di tre ore al mattino e
altrettante nel pomeriggio non riuscivo a stare sveglio. Durante un momento di lucidità mi
feci portare uno specchio da Bice, me lo mise davanti e in un primo momento pensai che
stesse riflettendo qualcuno alle mie spalle.
Dovevo aver perso almeno venti chili, rasato quasi a zero, le labbra crepe in un muro, gli
occhi due pozzi assetati, la lingua un puntaspilli, complessivamente avevo l'aspetto di uno
zerbino consumato. Le dissi «Un disastro».
«C'è chi è messo peggio.»
«Non so che farci.»
Bice, un crocifisso le dondolava lungo il collo arrivando fino a un seno più piccolo
dell'altro, era la suora più carina che avessi mai visto. Mi stavo già immaginando di essere
il protagonista di un film hard dove religiose infoiate sfogavano i loro istinti su pazienti
inermi quando Donati entrò. Lo salutai «Ehi Nicola».
«Ciao Tommy, come stai?»
«Orizzontale.»
«Battuta fiacca, sai fare di meglio.»
Trascorremmo qualche minuto prendendoci in giro, a Volate e dintorni tutto era tornato
normale, nessuno ammazzava più nessuno. Il fatto più grave era stato un incendio che se
fosse divampato ancora un paio di giorni sarebbe arrivato dritto alla villa. Poi Donati disse
«Non sono qui solo per salutarti».
«Lo so, non ti preoccupare.»
«Dimmi cosa ricordi.»
«Sono andato da Patricia, credevo fosse lei l'Esattore, ho sbagliato a non dirti niente, lo
so, avrei dovuto, ma pensavo fosse una cosa da risolvere prima tra me e lei.»
«Non immaginavo sospettassi di lei.»
«L'Esattore ha fatto di tutto per farmelo credere. Non ha mai lasciato delle tracce per
farsi prendere, ha lasciato dei segni per prendere me.»
«Cos'è successo esattamente?»
«Quando sono arrivato Patricia era già cadavere, sono inciampato nel corpo, ho provato
a rialzarmi ma sono stato colpito alla nuca.»
«Tutto qui?»
«Sì, tutto qui.»
«Qualche idea su chi possa essere l'Esattore?»
«Nessuna.»
«Tommy, non so se fidarmi di te, non sarebbe la prima volta che nascondi qualcosa.»
«Non è così.»
«Lo spero per te, fuori dalla porta c'è un poliziotto notte e giorno, l'Esattore sa che sei
ancora vivo e potrebbe tornare per finire il lavoro, se ci aiuti a prenderlo è meglio per
tutti.»
«Come avete fatto a trovarmi a casa di Patricia?»
«A poche decine di metri abita Bruno Colombo, un impiegato della compagnia del gas.»
«Patricia ci litigava sempre.»
«Quando si è visto arrivare delle galline in casa ha capito che potevano essere solo della
Parker, così le ha recuperate e le ha portate indietro, non vedendo segno di vita si è
insospettito. Il cancello aperto e la corrente staccata lo hanno convinto a chiamarci.»
«Quando esco gli vado a dire grazie.»
«Per primo è arrivato l'agente di turno alla villa, poi io e l'autoambulanza, ti abbiamo
preso in tempo. Ancora qualche minuto e non ci sarebbe stato più niente da fare.»
107

Durante i momenti di veglia, ogni giorno sempre più lunghi, i due fisioterapisti
dell'ospedale, Claudio e Lucio, mi massaggiavano in ogni parte del corpo per riattivare la
circolazione e ridare tono muscolare agli arti. I dolori erano terribili, le ossa gracidavano.
Mia madre passava tutti i giorni e mi imboccava di pastine, purè e passati di verdura, i
medici dicevano che l'apparato digerente stava riprendendo a funzionare e riducevano i
momenti di fleboclisi. Ma se chiedevo quando sarei potuto tornare a camminare, loro
rispondevano «Presto».
Quel presto arrivò due mesi dopo il risveglio. Claudio e Lucio mi sollevarono e mi
misero seduto sul letto, sembravo un sacchetto svuotato. Con le braccia appoggiate sulle
loro spalle cominciai a muovere i primi passi, le mie gambe due stecchini.
Ci vollero ancora cinquanta giorni di trascinamenti sul tapisroulant, di lunghe
passeggiate con le stampelle e di pesi applicati su gambe e braccia prima che il dottor
Piazza, primario dell'ospedale di Cantù, al posto del mento aveva un rifugio per nei,
dicesse «Se se la sente, tra una settimana la dimettiamo».
«Me la sento.»
Dopo sette mesi toccava di nuovo a me.
Parte quinta

Volate, ottobre 2003

LA CATTURA
108

Poco dopo la metà di ottobre lasciai l'ospedale, l'aria del mattino profumava di mele cotte,
ma forse era solo l'abitudine a cogliere l'odore di pasti che puntavano a mortificare corpo e
anima. Salutai Bice e le dissi «Spero di rivederti, ma fuori di qui».
«Sono sposata con Gesù.»
«Tradiscilo, sono sicuro che non ci fa caso, lui è l'unico concubino che conosca.»
Il suo sorriso si fece rosso, poi disse «È meglio se lasciamo perdere».
«Stavo scherzando.»
«Chi lo sa.»
I primi passi si mossero incerti, non ero più abituato a camminare senza che nessuno ci
facesse caso e fosse pronto a sorreggermi in caso di difficoltà, poi mi domandai se la
seconda vita che stavo per vivere mi appartenesse davvero e mi accorsi di non avere una
risposta convincente.
Là fuori due persone ad aspettarmi, la prima mi affiancò mentre camminavo tra i vialetti
che portavano all'uscita. «Chi non muore si rivede, vero Tommy?»
«Questa l'ho già sentita, una nuova no?»
Mario Scalzi, barba sempre più lunga, la stessa camicia da almeno cinque giorni,
orologio che come un tempo segnava le dieci e dieci. Gli chiesi «La cosa non doveva
trapelare, come hai fatto a sapere che sarei uscito oggi?».
«Non c'è nessuno che rifiuti di guadagnare qualche euro extra.»
«Stai perdendo tempo, non ho niente da dirti.»
«Io credo di sì.»
«Ti sbagli.»
«Se mi riveli in anteprima il nome dell'Esattore il mio giornale è pronto a versarti
centomila euro.»
«Diventerei quasi ricco.»
«Vedo che hai colto il senso dell'offerta.»
«Peccato che non sappia come aiutarti.»
«Dimmi chi è.»
«Vai a fare in culo.»
«Come preferisci.»
Superammo il cancello d'ingresso mentre una donna con la testa sbucciata dalla chemio
faceva il contrario. In strada Scalzi mi mise in tasca il suo biglietto da visita, lo lasciai fare,
poi aggiunse «Sai come trovarmi, pensaci».
Al di là della carreggiata, stanco di sovrastare la solita scena, un palo si appoggiava ad
Alice. Si era messa d'accordo con mia madre per passarmi a prendere e portarmi a casa. La
raggiunsi e quando le fui di fronte dissi «Avrei bisogno di una bicicletta nuova, non è che
sai dove posso comprarne una?».
Senza dire una parola mi strinse a sé, ci baciammo, ma l'avvertii «Vacci piano, non sono
ancora quello di un tempo».
Prese la mia valigia, spazzolino, ciabatte e due pigiami per ciechi, solo non vedendoli si
sarebbero potuti acquistare ma mia madre c'era riuscita lo stesso, e la mise sui sedili
posteriori. Disse «La serratura del bagagliaio si è rotta qualche giorno fa».
Salimmo in auto, probabilmente l'ultima Opel Kadett rimasta in circolazione. Sul
cruscotto una multa non pagata di tre anni prima, un ovetto di Pasqua dimenticato lì da
chissà quale resurrezione, mozziconi di sigaretta con giarrettiere di rossetto intorno al
filtro. Dallo specchietto penzolava un Arbre Magique alla vaniglia, lo staccai e lo buttai
fuori dal finestrino. Lei fece finta di nulla e disse «Ti trovo bene».
«Grazie, ma non è vero.»
«Sei carino coi capelli corti.»
«Forse li lascio così.»
«So che non è il momento, ma vorrei dirti una cosa importante, almeno per me.»
«Coraggio.»
«Non rido più per niente.»
«Ma questo non te l'ho mai detto.»
«Però lo pensavi.»
«Hai ragione.»
«In sette mesi possono cambiare molte cose.»
«E ne cambieranno altre.»
Mi lasciò a Volate, alla fine della deviazione che terminava con la strada sterrata.
Rivedere la villa fu come tornare a far parte di un mondo dal quale mi ero assentato senza
aver messo il cartello "Torno subito".
«Ciao Alice, grazie per il bene che mi vuoi.»
«Si ringrazia qualcuno che ti fa un favore e questo non è il caso.»
«Hai ragione. A presto.»
Mia madre mi aspettava sulla soglia, impaziente di esercitare per qualche ora ancora il
ruolo di depositaria dei diritti e doveri del focolare.
Anche se non lo ricordava nel sapore, mangiammo qualcosa che assomigliava a del cibo,
poi si alzò e disse «Non capisco perché hai così fretta che io me ne vada».
Mentendo risposi «Ho chiesto ad Alice di trasferirsi qui e lei ha accettato».
Non essendo in grado di accompagnarla, mia madre si fece venire a prendere da un taxi,
erano da poco passate le tre quando la salutai «Ciao mamma».
«Chiama se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa.»
«Non temere, lo farò.»
109

Rientrai in casa, guardai quel gioco di specchi che mi aveva salvato la vita e ripensai a
Lucy e a Winston, poi telefonai a Valeria. «Ciao Vale, come stai?»
Un attimo di niente, le mie parole le erano come giunte dalle catacombe del tempo.
Ripetei «Ciao Vale, sono Tommy, come stai?».
«Lo so chi sei, solo che non ero pronta a sentire la tua voce, ma non importa come sto io,
voglio sapere di te.»
«Meglio, molto meglio.»
«Sono felice di sentirlo, non sai quanto.»
«So che hai trovato un lavoro.»
«Come freelance per il sito di Greenpeace, guadagno poco, è vero, ma per la prima volta
sento di far parte di qualcosa che abbia un senso.»
«È ciò che volevi.»
«E tu di cosa vivrai?»
«Non ne ho idea, da domani ci penserò.»
«Spero che prendano presto l'Esattore.»
«Non preoccuparti, non c'è motivo.»
«Non è così facile.»
«Vale, adesso ti devo salutare, sono uscito stamattina dall'ospedale e ho delle cose da
fare.»
«Okay Tommy ti lascio.»
«Ti voglio bene.»
«Anch'io.»
Tutte quelle cose da fare non c'erano, o meglio ce n'era solo una.
110

Poco tempo dopo il risveglio, folgorato da un'illuminazione, avevo capito chi era
l'Esattore, e da allora non c'era stato giorno in cui non mi immaginavo come sarebbe stato
l'incontro. Mi chiedevo se avrei avuto paura, se il ricordo di quello che era successo mi
avrebbe bloccato, se avrei trovato le parole giuste, se.
Quel momento stava per arrivare e io non pensavo a nulla, dentro di me non c'era alcun
tipo di emozione, nemmeno la voglia di chiudere quella storia una volta per tutte. Avevo
un appuntamento cui non potevo mancare e ci stavo andando, tutto qui.
La Fiesta giaceva inutilizzata da mesi, una foglia davanti casa cui erano spuntate le
ruote, ma non l'avrei potuta prendere comunque, i miei riflessi reagivano come una
moviola. Ci sarei dovuto andare a piedi e non mi dispiaceva, avevo voglia di camminare.
Impiegai poco più di un'ora, poi mi trovai di fronte a casa sua, guardandola sembrava in
stato di abbandono, come se spiriti maligni ne avessero preso possesso. Suonai il
campanello, una voce, la sua, rispose «Entra, è aperto».
Spinsi la porta e la vidi in mezzo al corridoio, il biondo dei capelli le arrivava ora fino
alle spalle.
«Ciao Lori» dissi.
Truccata d'ombra, lei rispose «Ti stavo aspettando».
«Lo so.»
La seguii in sala, ogni cosa era stata sommersa da teli di cotone bianco, solo due
poltrone e lo Snoopy gigante non erano travestiti da cadavere. Disse «Non so perché
queste lenzuola, non tornerò mai più da queste parti».
Lori infiammò una sigaretta, la prima che le vedevo fumare, si sedette, poi mi guardò
negli occhi e disse «Eccoti qua, vivo».
«A quanto pare.»
«Ero certa avresti capito che ero io. Come ci sei arrivato?»
«Ricordi quel giorno che ci incontrammo in piazza? Era gennaio. Fosti tu a mandarmi in
cantina e in soffitta alla ricerca di libri, un pretesto per farmi trovare la bara. Mi dicesti
persino che la tua canzone preferita dei Beatles era Happiness is a Warm Gun, la felicità è
una pistola calda. Hai anche aggiunto il dettaglio fondamentale: che era finita male con il
tuo fidanzato e che hai perso il figlio che aspettavi. È il collegamento che mancava con la
bara bianca che hai portato in cantina e che non ha nulla a che fare con la leggenda di
Serena Ardemagni. E il fiocco rosa che vi hai deposto simboleggia la morte di una
bambina mai nata. Ma non sono arrivato a capire una cosa, la più importante: cosa ho a
che fare io con tutto questo.»
«Avresti dovuto cercare meglio tra le parole, la risposta è sempre stata lì. Ti ricordi di
Dario Rinaldi e di come uccise sua madre? Io ho fatto lo stesso: ho ucciso cinque donne
con una pistola a bolzone, come se anche loro fossero delle vacche.»
Nel ripensare al primo caso in cui ero stato coinvolto, mi sentii come uno scoglio che
passa i suoi giorni davanti al mare, ovvero il nulla davanti all'infinito. Risposi «Sì, mi
ricordo di lui».
«Era con Dario che mi stavo per sposare, ma tu l'hai ucciso.»
«Rinaldi si è suicidato in carcere.»
«Ma sei tu quello che l'ha fatto arrestare e te ne sei anche vantato. Ti ricordi l'intervista
al "Corriere" in cui dichiaravi il tuo amore per i Beatles?»
Non le dissi che quell'affermazione era frutto della fantasia di Scalzi, non mi avrebbe
creduto. Come a me in quel momento, le sarebbe apparso tutto troppo assurdo per essere
vero. Le chiesi solo come avesse intessuto la sua trappola.
«Un mese dopo la morte di Dario, nel giugno del 2000, ho trovato un posto alla Purple e
da quel giorno ho cominciato a spedirti regolarmente il dépliant con il viaggio omaggio ai
Caraibi. Sapevo sarebbe arrivato il momento in cui avresti chiamato, prima o poi lo fanno
tutti, nell'attesa mi sono preparata ad accoglierti. Poi, la prima volta che hai telefonato,
anche se hai evitato di dire il cognome, ho capito immediatamente chi eri. Per esserne
sicura sono venuta alla stazione, quando ti ho visto fu come se si aprissero le porte di un
mondo parallelo, quello in cui sarei stata l'Esattore, Gatti infine si è preso il compito di
affittarti la villa.»
«Gatti è tuo complice?»
«No, l'ho solo convinto a proportela a una cifra fuori mercato. Era difficile che qualcuno
potesse rifiutare un prezzo così basso per un posto così bello.»
«E Serena Ardemagni come entra in tutto questo?»
«Chiunque viva tra Cantù, Como e Lecco conosce la storia della villa infestata dal
fantasma di Corinna Ardemagni, ma nonostante questo la Purple si è presa in carico di
gestire la villa subito dopo la sua morte e con Patricia stilò un inventario di ciò che vi
avevano abbandonato gli eredi. Il caso ha voluto che me lo sia ritrovato tra le mani, dentro
c'erano i sei dischi dei Beatles. Poi, mentre eri a Milano a recuperare le tue cose, l'ho
portato alla villa insieme alla bara. Solo non sapevo ancora chi avrei ucciso, ci è voluto del
tempo per scegliere le vittime, anche se ho sempre saputo che Lucy sarebbe stata la
prima.»
«E come sei arrivata alle altre?»
«Attraverso il mio lavoro di agente immobiliare.»
«Tutto questo solo per fare del male a me, non potevi uccidermi e basta?»
«No.»
«Ho ancora una cosa da chiederti.»
«Sono qui.»
«Perché hai fatto l'amore con me?»
«Volevo ti fidassi di me, ma quel momento non è stato solo calcolo.»
«Non mi consola.»
«Pensi di avere vinto?»
«Mai presa come una gara.»
Lori si rannicchiò dentro la poltrona, era una pozzanghera prosciugata. Poi disse
«Adesso cosa succede?».
«Faccio una telefonata.»
Uscii di casa, dalla tasca presi il numero di telefono di Scalzi e lo composi. «Scalzi, sono
Matera.»
«Non mi aspettavo questa chiamata, hai cambiato idea in fretta.» «Il mondo è diverso da
sveglio, ma le cose non stanno comunque come pensi.»
«E come stanno?»
«Fai versare immediatamente i centomila euro sul conto corrente di Greenpeace, in
cambio devono solo assumere una ragazza.»
«Di chi si tratta?»
«Valeria Marchesi, loro sanno chi è.»
«Uomo nobile e generoso, in cambio cosa mi dai?»
«Il nome dell'assassino e un'intervista in esclusiva nella quale ti rivelo tutti i particolari,
hai in mano lo scoop della vita, quello per cui corri ancora.»
«Si può fare, quando e dove?»
«Tra due ore a casa mia.»
«Ci sarò.»
«Porta la ricevuta di versamento e un'impegnativa scritta di Greenpeace.»
Chiusi la telefonata e chiamai Donati. «Nicola, ci ho ripensato.»
«Su cosa?»
«Vorrei dirti il nome dell'Esattore.»
«Stai scherzando?»
«No.»
«Chi è?»
«Lori Dagnese, segretaria della Purple Immobiliare di Cantù.»
Vincendo un attacco di afasia, domandò «Sei sicuro di quello che dici, vero?».
«Lo sono.»
«E per quale motivo avrebbe ucciso cinque donne?»
«Te lo dirà lei stessa, la troverai a casa.»
«Tu sei lì con lei?»
Gli diedi l'indirizzo, poi chiesi «Tra quanto sarete qui?».
«Venti, venticinque minuti al massimo.»
«Non mi troverai.»
«Capisco, ma avremo bisogno di una tua deposizione.»
«Domani mattina.»
«Ti aspetto in ufficio.»
«Ciao Nicola, non posso dire che è stato bello avere a che fare con te, ma in qualche
modo sono contento di averti conosciuto.»
«Lo stesso per me.»
«Adesso non chiedermi cosa farò.»
«Non te lo chiedo, ma fatti almeno dire buona fortuna.»
«Buona fortuna anche a te.»
Era finita, la sera era pronta per la muta e a diventare notte. Sentii un rumore alle mie
spalle, mi voltai, Lori era un passo dietro di me, in mano la pistola pneumatica,
istintivamente feci per colpirla, poi mi bloccai quando mi accorsi che me la stava
consegnando. La presi e la buttai lontano. Con il cuore che schizzava sangue al cervello, le
dissi: «Stanno venendo a prenderti».
«Ho sentito.»
«Addio Lori.»
«Addio Tommy.»
Ripresi la strada di casa, ero così stanco che avrei potuto pietrificarmi dov'ero, ma non
avevo fretta mentre mi domandavo chi sono dentro questo involucro di pelle che si sfoglia
in lamine necrotiche. Guardando nello specchio dei ricordi non c'è che una risposta, sono
un volto che attraversa le età della vita rimanendo fedele al ruolo che mi è stato assegnato,
vita che impantano dentro l'inadeguatezza delle mie metafore, vita di cui devo
risemantizzare il significato per non riciclarla ogni giorno uguale, vita che ho preso in
pegno e prima o poi dovrò restituire mentre il tempo non smette di fuggire visto che è
l'unico assassino che non saprò prendere.
Arrivai alla villa, davanti, seduta sui gradini, Alice. Tra le gambe una cagnolina, razza
bastarda, un ammasso di pelo tutto coda e orecchie. Lei disse «È per te».
«Come si chiama?»
«Non lo so, decidi tu.»
«Michelle.» Le osservai il muso e dissi «È il nome giusto».
Un fiocco di sole cadde illuminando per un attimo il mio piccolo mondo. Era l'ultimo di
quel giorno, il primo del giorno dopo.
RINGRAZIAMENTI

Un grazie speciale a: Silvia Brunelli (per il lavoro di agente, straordinario nella costanza,
nei risultati, nei consigli e nell'impegno, ma anche per l'intelligenza, cultura e umanità),
Sonia Cavenago (per la dolcezza e l'infinita pazienza), Alberto e Maria Grugni (per il
sostegno e la costante presenza), Adriano Ciccioni (per essere da sempre illuminante, per
dare ancora una speranza alla politica e per la severità dei giudizi), Luigi Albertelli (per
aver sempre creduto in me, per la poeticità delle valutazioni critiche e per aver scritto
canzoni con parole così belle), Roberto Pedretti (per aver letto e riletto, per i consigli e per
aver ispirato uno dei personaggi del romanzo), Tigre (per essersi sorbito tutte le urla senza
mai ribellarsi).
E poi grazie a: Paola Bozzolo (per averci creduto e provato), Massimo Bruno (per essere
stato il mio primo lettore), Giovanna Carboni (per avermi prestato una parola dal suo
romanzo), Tobia Dell'Olio (per l'affetto, il sostegno e il lavoro che ogni giorno svolgiamo
insieme; e con lui sua moglie Stefania), Rolando Giambelli (presidente dei Beatlesiani
d'Italia Associati, per il supporto), Luca Martini (per la colta e stimolante amicizia),
Antonio Orlando (per l'aiuto prima, durante e dopo la stesura), Ringo (per essere sempre
disposto ad aiutarmi e per farmi capire ogni volta come funziona la vita), Igor Longo (per
avermi aiutato a rivedere la trama), Antonella Tagliaferri (per rappresentare sotto ogni
aspetto così degnamente la Nabu), Stefano Tettamanti (per il prezioso lavoro di revisione).

Questo libro è dedicato alla memoria di Margherita, di Alex e della paperina.

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