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La sfida del Negromante (The Beacon

Hill Sorcerer Vol. 3) (Italian Edition) Sj


Himes
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3-italian-edition-sj-himes/
LA SFIDA DEL NEGROMANTE
SJ HIMES
ISBN: 978-88-5490-259-6

EDIZIONE EBOOK: 21 settembre 2020

Pubblicato da:

QUIXOTE EDIZIONI – Via Risorgimento, 11 – 10022 Busca CN

Titolo originale: The Necromancer's Reckoning – The Beacon Hill Sorcerer #3

© 2018 SJ Himes

Titolo: La Sfida del Negromante – The Beacon Hill Sorcerer #3

©2020 by QUIXOTE EDIZIONI

Progetto Grafico: Angelice Graphics

Photo Credit: Mykola Khoroshkov /Bigstockphotos.com

Traduzione dall’inglese a cura di: Emma Donati

Edizione italiana a cura di: Alessandra Magagnato

www.quixoteedizioni.it

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto


dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio e ogni somiglianza con persone
reali, vive o morte, imprese commerciali, eventi o località è da considerarsi puramente
casuale.

La riproduzione e/o distribuzione non autorizzata di questo prodotto, protetto dal diritto
d’autore, è illegale.

Tutti i diritti riservati. Per ogni informazione contattare Quixote Edizioni


www.quixoteedizioni.it info@quixoteedizioni.it

Prima edizione settembre 2020


INDICE

Avvertimenti
Nota dell’autrice
Ringraziamenti

Uno stregone entra in un bar


Posso fare il drago oggi?
Quando i guai arrivano a sorpresa
Sembra proprio un ordine di detenzione
Ribellione
Quando la giustizia cede
Un mostro in meno
A caccia di fantasmi
Margini spezzati
Lo dicono le carte
Esca per la prigione
Morto, ma non proprio andato
Ululati e follia
Rinunciare ai beni
Il sesso è il meglio
Un patto e brutti ricordi
Corpi… corpi ovunque
Caos nei dormitori
Vicolo cieco
Persistente pazzia
L’Agnello
Magica Duellum
Epilogo

Riguardo all’autrice
Catalogo Quixote Edizioni
Catalogo Quixote Edizioni
Catalogo Quixote Edizioni
Quixote Edizioni
AVVERTIMENTI

Menzione di abusi sessuali passati e stupro. Violenza e splatter.


Abuso di alcol e alcolismo.
NOTA DELL’AUTRICE

Ho fatto del mio meglio per mantenere la geografia di Boston e del


quartiere di Beacon Hill il più precisa possibile, anche se la Torre,
l’annesso quartier generale dei vampiri e il Consolato dell’Alto
Consiglio sono al cento percento inventati. Mentre il resto dei luoghi
è reale, nessuna delle imprese o degli occupanti di questi posti
hanno alcuna connessione con il mondo fittizio che ho creato.
In questo libro è affrontato il problema dell’alcolismo, e il modo
in cui l’ho gestito è basato sulle esperienze di persone che conosco e
su ricerche su un’ampia gamma di cure e terapie. Vi prego di tenere
a mente che siamo nella finzione e, anche se ho fatto assolutamente
del mio meglio per affrontare il problema con rispetto e realismo, ho
preso delle decisioni artistiche che facilitassero il progredire della
storia e lo sviluppo dei personaggi. Nessuna esperienza di vita è
uguale a quella di qualcun altro, nemmeno per i personaggi di
fantasia: tutti portiamo le nostre cicatrici in modo diverso, proviamo
dolore in modo diverso e guariamo in modo diverso. Non esiste
nessuna perfetta intersezione universale delle esperienze di vita.
RINGRAZIAMENTI

Voglio ringraziare le seguenti persone:


Un grazie speciale ad Amanda, Janessa e Jennifer per avermi
lasciato uccidervi in modi spettacolari. Spero che vi siate divertite
tanto quanto me.
Grazie, Susan H., per i solleciti a casa e per avermi aiutata a
trovare i luoghi migliori in cui mandare all’avventura i nostri ragazzi.
Grazie alla mia editor, Miranda Vescio, per la sua pazienza e
l’amore che porta ai miei personaggi.
Grazie, Sloan Johnson e Heather C Leigh, per avermi prestato i
vostri nomi per i miei personaggi.
Grazie a Caer Jones per avermi lasciato spulciare il tuo cervello
riguardo ai tarocchi e alla lettura delle carte.
E un grazie speciale a Nicholas L. La tua magia ha aiutato a
portare alla luce la storia.
Un altro grazie speciale alla mia Star. Mi hai lasciata buttarmi sul
tuo futon per una settimana. Sei la ragione per cui questo libro è
stato finito.
E una menzione d’onore ad Anu H, per aver vinto la gara «Dai
un nome al Segugio Infernale» nel mio gruppo Facebook. Ben fatto!
A tutti quelli che mi tengono motivata, in funzione: grazie.
Non arriverei in fretta da nessuna parte senza i miei amici e la mia
famiglia.

“Se il matto persistesse nella sua follia, andrebbe incontro alla


saggezza.”
William Blake
UNO STREGONE ENTRA IN UN BAR

«Sto avendo un serio déjà-vu,» borbottò Angel, aprendo la porta


del bar con una spallata, abbandonando l’aria umida e carica di
smog della fine dell’inverno per passare al puzzo di sudore stantio e
alcolici da quattro soldi.
Il bar era un posto per umani, l’unica differenza rispetto ai
ricordi passati che stavano affiorando. La squallida bettola era scura,
fumosa e piena degli insoddisfatti della zona sud di Boston; Angel
lasciò che gli ombrosi clienti avessero modo di dargli una bella
occhiata prima che la porta si chiudesse, bloccando fuori la luce della
strada. Meglio che sapessero chi era, così da non avere una replica
dell’ultima volta che era andato in un bar in cerca di suo fratello.
Pensava che ci fossero buone probabilità che qualcuno, là dentro, lo
riconoscesse.
Tirò fuori il cellulare, tenendo d’occhio le poche persone
abbastanza coraggiose da osservarlo con disapprovazione mentre
chiamava Isaac. Aspettò un momento e, quando udì un brontolio e
un basso rintocco di campane da chiesa, si diresse da quella parte.
Riattaccò arrivato a metà bancone, dove Isaac era stravaccato
sull’ampia superficie rovistandosi nella tasca per cercare di tirare
fuori il cellulare.
«Oh! Angie, sei venuto,» biascicò, lasciando cadere la mano sul
ripiano, urtandola contro il suo bicchiere; era quasi vuoto e puzzava
di luppolo scadente e birra annacquata. «Vuoi un drink?»
«Nah, sto bene così,» disse Angel piano, tenendo d’occhio suo
fratello e la folla lì vicino. Fece un cenno al barista che gironzolava là
accanto. «Il conto di mio fratello, per favore.»
«Certamente.» L’uomo si affrettò verso la cassa, senza dubbio
aumentando il conto di Isaac adesso che Angel era lì. Isaac tendeva
a scomparire del tutto quando andava a sbronzarsi così, portandosi
solo il cellulare e il portafoglio, anche se spesso si dimenticava
convenientemente quest’ultimo. Non che Isaac fosse a corto di
contanti: Angel era certo che lo facesse per avere un motivo per
chiamarlo alla fine di una lunga, solitaria notte a ubriacarsi.
«È un posto nuovo, questo,» disse Angel, tirando fuori il
portafoglio e buttando sul bancone qualche pezzo da venti. Se lo
rimise in tasca rivolgendo un’altra rapida ispezione al bar. «Non è il
tuo solito.»
«I miei soliti posti li hanno i vampiri,» sbuffò Isaac, gli occhi
impastati di stanchezza e annebbiati. Era bellissimo anche quando
era ubriaco e scontroso. «Mi hanno buttato fuori presto. Ho dovuto
trovare qualcosa di nuovo.»
«Succede, quando decidi di andare a bere nei bar di tuo
cognato,» si accigliò Angel, trattenendo la propria esasperazione e il
sospiro che l’avrebbe accompagnata.
Un uomo seduto su uno sgabello dall’altro lato di Isaac
occhieggiò Angel, valutando la sua statura più bassa della media e il
taglio costoso dei suoi vestiti. Non era un patito della moda come
Simeon o Daniel, ma comprava abiti di qualità e si assicurava di
essere pulito quando usciva dal suo appartamento. Rivolse
all’avventore un sorriso arrogante e sostenne il suo sguardo finché
lui non si girò, borbottando nella sua birra. Il barista prese i soldi di
Angel e, dal momento che lui non si aspettava che un posto del
genere desse il resto, fece girare Isaac sulla sedia e gli mise un
braccio attorno alle spalle. «Forza, ragazzo. Andiamo a casa.»
Isaac era più alto di lui di quasi tutta la testa, smilzo e dai
muscoli slanciati, ma l’ubriachezza lo rendeva molle e scoordinato,
quindi Angel lo tenne ben saldo prima che capitombolassero
entrambi sul pavimento. Anche se erano passati diversi mesi
dall’ultima volta in cui aveva trascinato via Isaac da un bar, ormai era
ancora un riflesso incondizionato. Un passo barcollante dopo l’altro,
riuscì a portarlo fino alla porta, aprendola con un giudizioso uso di
magia cinetica.
Uno stridio di gambe di sedie di legno contro il pavimento di
cemento gli disse che qualcuno li stava seguendo, ma non era
preoccupato. C’erano state volte in cui era finito a liquidare una
prostituta scocciata che aveva pensato che Isaac fosse un bersaglio
facile, o a disperdere un turbolento gruppo di ubriachi che trovava il
suo marchio distintivo di sarcasmo troppo piacevole per separarsene
finché l’alcol scorreva ancora in loro. Non sarebbe stata la sua prima
rissa da bar, men che meno mentre salvava Isaac da se stesso. Era
la prima volta in cui lo trascinava fuori da un locale esclusivamente
per umani, però, il che era il motivo per cui gli idioti alle loro
calcagna li stavano seguendo. Se si fosse trattato di un locale
soltanto per incantatori o creature soprannaturali, Angel sarebbe
stato riconosciuto e anche Isaac. Non si sarebbe preoccupato di
venire assalito cercando di portare Isaac a casa da solo.
Anche se quella volta non era nemmeno da solo.
Arrivarono in strada qualche secondo prima che il cliente curioso
e altri due uomini li seguissero fuori dalla porta. Isaac tentò di
avvertirlo, ma gemette e si piegò in due, vomitando sul marciapiede
bagnato. Angel schivò la mistura di birra e bile, girandosi allo stesso
tempo per fronteggiare i tre che avanzavano verso di loro. Tenne
una mano infilata nel colletto della giacca di pelle di Isaac e lanciò
un’occhiata ai loro nuovi amici.
«Pessima idea, ragazzi,» cercò di avvisarli, ma ricevette in
risposta fragorose risate e ampi, avidi sogghigni. Uno di loro, quello
che era stato seduto accanto a Isaac, esaminò Angel in modo
nauseante con i suoi occhi umidi, facendogli venire voglia di
vomitare a sua volta. Sapeva cosa vedeva l’ubriacone: un tizio basso
e snello con vestiti costosi, che se non fosse stato per la corta barba
sulla mascella sarebbe sembrato un giovane studente sui vent’anni.
Non ne mostrava trenta e, se ciò era fantastico nella vita di tutti i
giorni, era uno svantaggio in situazioni come quella. «Sul serio,
ragazzi. Un altro passo e questa finirà per essere la notte peggiore
delle vostre vite.»
«Una cosina carina come te? Pff. Le tue labbra saranno
bellissime col mio grosso cazzo infilato dentro. Ragazzi, io mi prendo
il più piccolo per primo. Girate l’ubriaco, vediamo cosa offre.»
Angel sospirò, senza nemmeno prendersi il disturbo di sembrare
preoccupato, e quasi prima ancora di pensarlo innalzò uno scudo tra
loro e i tre idioti.
Sullo stretto marciapiede esplose il caos.
Il sangue volò descrivendo un lungo arco, sibilando e bruciando
dove collideva con il verde delle fiamme infernali del suo scudo.
Angel strattonò Isaac all’indietro, facendolo appoggiare insieme a lui
contro il retro di quello schianto della Jaguar di Simeon.
Isaac sbirciò nel buio e ruttò di nuovo. «È veloce.»
«Di solito i vampiri lo sono,» concordò Angel, assicurandosi di
mantenere la presa su Isaac per non mandarlo a dare una testata
sull’asfalto. Grida e preghiere riempivano la stradina in cui il bar era
infilato tra vetrine dalle serrande abbassate. Una forma sfuocata
gettò un ubriaco sanguinante e pesto dietro l’altro di nuovo dentro al
bar; strillavano entrambi come gatti bagnati quando atterrarono uno
sopra l’altro appena oltre la porta. Angel colse di sfuggita delle facce
scioccate e terrorizzate all’interno prima che la porta si richiudesse
con un tonfo. Il terzo uomo pregava e singhiozzava chiedendo pietà
in ginocchio, viscido di moccolo e lacrime. C’era uno strappo nella
sua maglietta che mostrava carne cerea e segni di artigli; il sangue
scorreva a rivoli lungo il suo addome flaccido.
«Devo rompere il collo di questo qui, amore mio? Era
incredibilmente sgarbato,» ringhiò Simeon, l’accento irlandese più
forte del solito, le zanne abbassate e bianche al punto da brillare
nella pallida luce della luna. I suoi vividi occhi verde smeraldo
scintillavano riflettendola in un bagliore intenso. Avvolto dal suo
solito completo blu scuro e con lucide scarpe di pelle, Simeon era
qualche migliaio di gradini al di sopra della clientela di quello
squallido bar.
«Hai fame?» chiamò Angel, abbastanza forte perché lo stronzo
lo sentisse malgrado i propri singhiozzi. Fece sparire lo scudo, che si
dissipò con un guizzo di luce verde e fumo.
«Non gradisco bere da quelli della sua specie,» rifiutò Simeon, e
l’idiota ai suoi piedi sembrò sollevato per un breve secondo prima
che il vampiro parlasse di nuovo. «Preferirei piuttosto rompergli il
collo e gettare la sua fetida carcassa nelle fogne.»
«Non mi sono portato i soldi per la cauzione,» dichiarò Angel, e
Isaac grugnì una risata. Non che Simeon sarebbe stato arrestato per
aver ucciso un umano. Il suo grado gli offriva più privilegi della
maggior parte delle persone. «Lascio la sua eliminazione nelle tue
mani.»
«No! Vi prego! Mi dispiace!» implorò il tizio, le lacrime che
sgorgavano dagli occhi iniettati di sangue. Simeon alzò una mano e i
suoi artigli affilati come bisturi si allungarono, le dita trasformate
dall’eleganza della manicure alla letalità di un predatore nel tempo di
un pensiero. Taglienti abbastanza da scalfire la roccia e sviscerare
anche la fata più resistente, gli artigli di Simeon attirarono e
trattennero lo sguardo terrorizzato dell’uomo ai suoi piedi.
Un pungente odore di urina riempì l’aria ed Angel arricciò il naso
per il disgusto. Isaac si lamentò, ebbe un conato e si chinò,
sputando sul pavimento. Simeon sospirò e fece un discreto passo
indietro dalla sua vittima. Un sottile movimento delle dita portò gli
artigli a ritrarsi; i suoi occhi si spensero a poco a poco e le zanne
rientrarono nelle sue gengive, mascherate di nuovo come candidi
canini umani.
Angel si rilassò, ben disposto ad accettare qualsiasi decisione
Simeon avesse preso. In teoria, la sua posizione di Anziano nell’unico
Clan di vampiri di Boston gli dava l’impunità e l’autorità di usare la
forza per uccidere in difesa del suo gruppo o del suo compagno.
Ed Angel era il suo compagno.
«Avresti stuprato il mio amato,» affermò Simeon, con aria
tranquilla, sistemandosi i polsini. «E anche il cucciolo, se ne avessi
avuto la possibilità, e li avresti derubati. Cioè, se fossero stati
normali mortali. Se io non fossi stato qui, penso che saresti già stato
ridotto a calde ceneri disperse nel vento.»
L’uomo in ginocchio sull’asfalto lanciò un’occhiata nervosa in
direzione di Angel, senza considerare il corpo floscio di Isaac. Gli
occhi iniettati di sangue tornarono a fissare Simeon dal basso, con
chiara aria di dubbio. Simeon si chinò e sussurrò con aria
cospiratoria: «Di certo li riconosci. No? Allora forse sai il loro nome.
Salvatore?»
Isaac emise una risata distorta quando gli occhi dell’umano si
sgranarono e il suo corpo iniziò a tremare con violenza. L’espressione
sul suo viso sarebbe stata lusinghiera se Isaac non fosse stato
sbronzo come un marinaio, e la pazienza di Angel evaporava quando
aveva a che fare con gli idioti.
«Non l’avevo riconosciuta, signor Salvatore! Non mi trasformi in
un rospo!»
Umani.
Angel roteò gli occhi, staccandosi dalla Jaguar e aprendo la
portiera posteriore con uno schiocco. «Su, entra, ragazzo.»
Isaac obbedì con un borbottio ed Angel chiuse la portiera,
cercando di non sbatterla. Simeon lo chiamò: «Cosa dovrei fare con
il nostro amico, a ghra?»
«Sono incline alla castrazione, ma scegli tu. Io voglio tornare a
casa,» rispose Angel da sopra la propria spalla mentre si sistemava
sul sedile del passeggero davanti, chiudendo la portiera dietro di sé
con un forte tonfo.
Essere in quel lussuoso interno ovattava la maggior parte dei
rumori all’esterno; Angel guardò nello specchietto Simeon chinarsi,
costringendo l’umano terrorizzato ai suoi piedi a fissarlo negli occhi.
Un breve momento dopo, il suo sguardo si appannò e l’uomo annuì
lentamente. Si afflosciò sull’asfalto e Simeon si alzò. Diede le spalle
all’umano e aggirò la Jaguar per arrivare al lato del guidatore.
Entrò e un secondo più tardi stavano viaggiando verso nord, in
direzione di Beacon Hill.
«Cosa… uhm, hai fatto? È… m… morto?» biascicò Isaac,
sforzandosi al massimo per rimanere cosciente.
Simeon rimase in silenzio per un lungo momento, ed Angel
poteva vedere le sue mani stringersi sul volante. Poi, il vampiro
lanciò un’occhiata nello specchietto retrovisore. «Gli ho detto di
andare alla stazione di polizia più vicina e ammettere tutti gli stupri
che potrebbe aver commesso o a cui potrebbe aver preso parte. Ha
annuito e, quando sarà capace di alzarsi in piedi, dovrebbe dirigersi
verso la polizia.»
«L’hai ammaliato?»
«Sì.»
«Va… va bene,» mormorò Isaac tra sé e sé, prima di zittirsi.
Una rapida occhiata confermò che si era infine addormentato.
Angel guardava dritto davanti a sé senza vedere nulla, troppo
nervoso per notare le strade o il traffico che passavano loro accanto.
La mano forte e fresca di Simeon si avvolse attorno alla sua,
unendole sopra il vano portaoggetti e stringendo forte. Quel viaggio
verso casa sembrava durare per sempre, anche se erano meno di
trenta minuti a un’ora così tarda.
«Mo ghra?»
«Sì?» Angel era più silenzioso del solito, perché stava facendo
del proprio meglio per trattenere le emozioni.
«Ha bisogno di aiuto.» Simeon fu secco, ma il suo tono era
gentile. C’era qualcosa che bruciava nel petto di Angel, frustrazione e
rabbia insieme a dolore, e tutto combatteva per uscire fuori. Si
rifiutava di crollare. Non ora, non in macchina con il suo fratellino
ubriaco sul sedile posteriore che puzzava di alcolici scadenti e fumo.
I primi erano ovvi, ma il fumo non veniva dal bar: il controllo di Isaac
era debole e la sua affinità con il fuoco stava trapelando.
«Lo so,» rispose, una solitaria, bollente lacrima che gli sfuggiva
lungo la guancia fredda, e lui la scacciò con rabbia. «Ho provato a
non giudicarlo. Ho provato a non dire nulla, a esserci e basta per lui,
lasciandogli sistemare le cose per conto suo. Ho cercato di dirgli che
non gli do la colpa per la nostra famiglia. Era solo un bambino di
tredici anni, in nessun modo responsabile per il loro massacro. Le
barriere della villa potranno anche essere state compromesse, ma
tutto quello che ha fatto è stato affrettare una fine che avremmo
comunque affrontato in ogni caso. Invece di combattere una
battaglia inutile per alcune ore, è stata ridotta a meno di una.»
«Che cosa ha risposto?»
«Ha detto che se non avesse compromesso le barriere,
avrebbero resistito abbastanza perché la magia dell’incantesimo di
coercizione avvelenasse i vampiri, uccidendone abbastanza perché la
nostra famiglia potesse distruggere il resto.»
Angel si morse l’interno della guancia, stringendo la mano a
pugno nella presa di Simeon, l’intero corpo teso e pronto a scattare.
A volte la logica era una stronza: come ribattere a
quell’argomentazione? La distruzione della famiglia Salvatore poteva
essere ridotta a un unico fatto di base: erano stati schiacciati, in
minoranza numerica, e forse, se le barriere avessero resistito di più,
qualcun altro avrebbe potuto sopravvivere.
Forse; ma i “forse” non bastavano mai.
L’esperienza e le conoscenze di Angel battevano il suo dolore, e
riusciva a vedere le cose con più chiarezza di Isaac.
Il massacro dei Salvatore poteva essere stato affrettato
dall’infantile manomissione delle barriere da parte di Isaac, ma suo
fratello non aveva ucciso la loro famiglia. Le loro morti non erano
sulle sue mani. Le barriere erano antiquate e, anche se venivano
controllate regolarmente, non venivano sistemate abbastanza spesso
né migliorate. Erano state collocate secoli prima dal loro antenato
quando aveva costruito la Villa, e la sua famiglia aveva la cattiva
abitudine di pensare che qualsiasi cosa fatta dall’illustre fondatore
del ramo americano dei Salvatore fosse perfetta. In breve, le barriere
erano vecchie ed erano collassate sotto il peso magico di più di cento
vampiri impazziti, molti dei quali erano eccezionalmente potenti, e
resi privi di volontà dall’incantesimo di coercizione, il che significava
che si erano scagliati contro le barriere di continuo, ignorando i
propri danni e le proprie ferite. L’intero Clan, eccetto un singolo
vampiro, era piombato sulla Villa, dal Signore ai novellini. L’esercito
di vampiri mandato a ucciderli aveva infranto le barriere ed era
sciamato nella casa, tutto in una questione di minuti.
Sarebbe successo. Era inevitabile. E che Isaac avesse passato gli
ultimi dieci anni intrappolato in un circolo vizioso di senso di colpa e
dolore spezzava il cuore di Angel. L’aveva cresciuto: come aveva
potuto non vedere le ferite che la vergogna e il lutto avevano
impresso nella sua anima? Sapeva che anche il suo stesso senso di
colpa era inutile, ma lo provava comunque.

Simeon portò un Isaac privo di sensi su per le scale sul retro


dell’edificio del loro appartamento; il ragazzo era abbastanza grosso
da passarci appena quando giravano sui pianerottoli a ogni piano.
Angel si trascinava stancamente dietro di loro, pensando e
ripensando a cosa avrebbe dovuto fare. Sapeva quello che voleva,
mettere Isaac sotto chiave e costringerlo ad andare da uno
psicologo, ma non era logico e avrebbe solo peggiorato le cose.
Aveva cresciuto Isaac dopo la morte della loro famiglia e, a
parte l’ultimo periodo della pessima influenza di Greg Doyle, non
aveva mai davvero avuto bisogno di essere severo nella loro
relazione. Isaac era andato a una scuola pubblica con bambini umani
non-magici, faceva i compiti, prendeva lezioni di stregoneria da
Angel con aria scontrosa ma con giudizio e, in generale, non faceva i
capricci… eccetto che per le sbronze.
Dall’età di circa sedici anni in poi, Isaac si era ubriacato in modo
tremendo una volta ogni tre o cinque mesi circa, recuperando quello
che avrebbe potuto bere in tutto quel tempo in una singola notte. Di
rado beveva in modo occasionale. Angel lo vedeva ubriaco solo
quando lo pescava da un qualche bar. Dopo le prime volte in cui
aveva provato senza successo a tenere Isaac lontano dal suo
ragazzo Greg, che gli forniva sempre l’alcol e lo metteva nei guai,
Angel si era ridotto a tenere traccia del fratello con la magia.
Neanche quello era durato a lungo. Isaac non usava attivamente i
propri doni al livello di Angel, ma era comunque uno stregone
capace e notevole, e gli incantesimi e gli amuleti che Angel gli
metteva addosso di rado duravano. Ovviamente, una volta che aveva
compiuto diciotto anni, Angel aveva smesso di cercare di seguire
ogni sua mossa.
Si era rifiutato di lasciar entrare Greg Doyle nel proprio
appartamento dopo aver beccato l’uomo a rubare alcuni cimeli di
famiglia; ci erano volute diverse grida di Isaac perché rinunciasse a
eviscerare quel perdente di botto dopo la notte in cui era stato
costretto a pagare la cauzione per entrambi dalla prigione per
ubriachezza molesta. Greg Doyle era stato un ladro, un ubriacone,
uno stronzo bellicoso e la cosa peggiore che potesse capitare a
Isaac, ma lo aveva amato. O almeno così Angel sperava, per il bene
di Isaac. Temeva che si fosse affezionato ad averlo tanto quanto
all’idea di possedere i fondi fiduciari dei Salvatore fin nei loro
meandri. Aveva evitato di dirlo a Isaac, però: aveva imparato ben
presto che cercare di separare Isaac e Greg Doyle con la forza
significava chiedere altre ribellioni.
Dispiaciuto che l’uomo fosse morto, ma lieto che fosse uscito
dalla vita di Isaac, Angel aprì la porta dell’appartamento e la tenne
ben spalancata, permettendo a Simeon di entrare con il suo carico
russante.
«Sta bene?» chiese una voce incerta.
Il giovane biondo che esitava ansioso sull’apertura ad arco che
portava in cucina agitò gli istinti protettivi di Angel. Trattenne
l’impulso di dargli conforto e disse la verità. «È ubriaco e ha perso i
sensi tornando a casa. Era in una bettola, piena di umani pronti a
farsi pestare da Simeon.»
Daniel si morse il suo sensuale labbro inferiore, gli occhi scuri
che scintillavano di preoccupazione mentre guardava Simeon portare
Isaac nel bagno del corridoio. «Devo aiutare?»
Angel alzò le spalle, lasciando decidere a lui. Picchiettò sulla
parete e le barriere si attivarono al massimo, dal momento che non
aveva alcuna intenzione di andarsene di nuovo finché non fosse
stata ora di andare al lavoro. «Simeon può gestirlo. Tu e Isaac siete
più o meno della stessa taglia e maneggiare uno stregone ubriaco e
irascibile è già abbastanza difficile. Inoltre, Simeon non ha problemi
a farsi una doccia fredda.»
Un brusco guaito e una valanga di parolacce percorsero il
corridoio a partire dal bagno, dove Isaac era ovviamente sveglio e la
doccia in funzione. Il ragazzo gridò contro Simeon, che rispose con
un basso brontolio che non tollerava questioni. Angel si fece strada
pian piano fino alla cucina, lasciandosi cadere su uno sgabello
accanto all’isola al centro della stanza. Si chinò sul ripiano,
stiracchiandosi la schiena e appoggiando la testa sugli avambracci.
Una mano gentile si posò sui suoi capelli, separandone le
ciocche più lunghe mentre Daniel gli offriva silenzioso sostegno e
conforto. Il ragazzo, o giovane uomo, era molto più delicato di
entrambi i fratelli Salvatore o di Simeon, ed Angel non avrebbe
accettato un tocco così informale da chiunque. Il suo apprendista
non era chiunque, però. Riusciva a calmare Angel semplicemente
con la propria presenza, proprio come Simeon. Se quest’ultimo gli
permetteva di rilassarsi perché poteva prendersi sulle ampie spalle i
suoi fardelli, Daniel gli ricordava che non tutto era un fardello:
alcune cose potevano essere gioiose. Era timido e dolce, un’anima
gentile.
«Questa volta è peggio, vero?» Le sue parole erano morbide, ed
Angel annuì appena con la faccia ancora seppellita tra le braccia.
«Cosa farai?»
«Non so se ci sia qualcosa che posso fare.» Un brusco, breve
strattone ai suoi capelli lo fece imprecare, prima che ricominciassero
le carezze più tenere.
«Tu non ti arrendi mai, Angel. Non cominciare ora.»
Angel sollevò la testa e rivolse all’apprendista un sorriso
sardonico, prima di gemere e tirarsi a sedere dritto sullo sgabello.
«C’è un posto dove vorrei mandarlo.»
«Riabilitazione?» Daniel non era lento o stupido: ormai
conosceva Angel abbastanza bene da indovinare. Lui annuì e Daniel
lasciò in pace i suoi capelli, aggirando l’isola per sedersi sullo
sgabello di fronte a lui.
«È un centro di riabilitazione e recupero specializzato per gli
incantatori. Si occupano di dipendenze pesanti, come da polvere di
fate o magia del sangue.» Daniel sbiancò ed Angel sbuffò una breve
risatina. «In qualche modo, l’abuso di alcol e le sbronze compulsive
sono compresi tra le condizioni che curano, insieme alle dipendenze
più mortali come alcolismo avanzato e l’eroina, cose del genere.»
«Cos’è questo posto? Non sapevo che fosse possibile curare
cose come la dipendenza dalla magia del sangue.»
Angel pescò una mela rossa dalla terrina di vetro al centro del
ripiano, prendendone un morso prima di rispondere. «In verità,
salvare un incantatore umano dalla magia del sangue ha una
percentuale di successo bassa, meno del dieci percento, ma questo
ha comunque il più alto tasso di successo di tutte le cliniche su cui
ho fatto ricerche. In media, è attorno al venti percento. È vicina,
anche. La Clinica e Centro di Riabilitazione Nevermore.»
Daniel sbatté le palpebre, sorpreso. «Venti percento di successi?
È meglio dello zero che ho sempre immaginato. Se riescono a curare
la dipendenza da magia del sangue, il bere di Isaac non dovrebbe
essere un problema per loro.»
Un grido e un tonfo sordo li interruppero, poi la porta del bagno
si aprì con uno schianto contro il muro. Angel sospirò e si massaggiò
la fronte mentre sentiva Isaac uscire come una furia dal bagno e
percorrere il corridoio. La porta di una camera da letto sbatté e il
silenzio discese sull’appartamento. Daniel gli rivolse un debole
sorriso e un’alzata di spalle, agitandosi un po’, chiaramente a disagio.
«Riposati, ragazzo. Buonanotte.» Angel si allungò sull’isola e
strinse le mani di Daniel in ringraziamento, poi tirò giù il suo corpo
stanco dallo sgabello. Prese un altro morso dalla mela e lanciò il
torsolo nella spazzatura mentre lasciava la cucina.
«Buonanotte, Angel.» Il saluto di Daniel lo seguì fino alla
biforcazione tra il corridoio e il salotto.
Il bagno del corridoio era vuoto, la luce spenta. Angel si sporse
e poté vedere che nessuna luce filtrava da sotto la porta di Isaac.
Forse il suo fratellino sarebbe andato a letto e si sarebbe svegliato
sobrio.
Si diresse verso la propria camera, sgattaiolando oltre la porta
prima di chiuderla a chiave dietro di sé. La doccia era aperta nel
bagno interno ed Angel si spogliò andando da quella parte. Dopo
aver messo il suo maglione incantato nell’armadio, il resto dei vestiti
finirono disseminati sul pavimento e il suo pugnale su una sedia
accanto alla porta del bagno. Era nudo quando aprì la cabina della
doccia e si unì a Simeon sotto al getto caldo.
I capelli ramati del vampiro erano scuriti dall’acqua, le lunghe
ciocche pettinate all’indietro con le dita ad arricciarsi lungo il suo
collo, nascondendo le linee scure verde-blu dei tatuaggi che si
diramavano verso l’alto in motivi casuali dalle clavicole e scapole.
Angel si premette contro il suo petto, l’acqua che si infrangeva sulla
sua testa, e chiuse gli occhi per un momento, appoggiandosi con
tutto il peso sul corpo tiepido di Simeon. Sbatté le palpebre per
riaprirli, rivolgendo all’altro un piccolo sorriso e un minuscolo bacio
sotto al suo mento.
Simeon assorbiva e rifletteva il calore, come metallo animato, e
il freddo che avrebbe potuto esserci nelle mattonelle circostanti era
bandito dalla magia intrinseca del suo amante. Angel leccò una
spessa cicatrice rosata che correva in una linea frastagliata
attraverso uno degli antichi motivi al di sopra del cuore di Simeon,
una ferita risanata più vecchia della città in cui vivevano. Simeon era
del tutto congelato al picco della sua vita mortale, e i tatuaggi e le
cicatrici erano i resti del suo brutale e violento passato umano. Erano
disposti a strati su una pelle pallida e chiara e muscoli scolpiti che
non potevano non attirare lo sguardo e far scalpitare il cuore.
Le sue mani avvolsero i fianchi di Angel, attirandolo vicino. Il
suo grosso uccello già indurito si premette contro gli addominali di
Angel, che mugolò di apprezzamento mentre lasciava una scia di
baci e piccoli morsi lungo il suo petto. Un lieve mormorio in gaelico
irlandese fu a malapena udibile al di sopra dello scroscio della
doccia, ma la lussuria che stava trasformando gli occhi smeraldo di
Simeon in gemme infuocate diceva a Angel che le sue premure
erano le benvenute.
Si inginocchiò sulle piastrelle, con l’acqua che gli mulinava
attorno alle gambe. Sbatté le palpebre per scacciare le gocce finché
Simeon non si mosse per bloccare la maggior parte del getto.
Chinandosi in avanti, leccò l’ampia cappella del suo uccello. La
grossa asta si levava da un ciuffo ben curato di riccioli rosso scuro; la
pelle era arrossata fino a essere un rosa profondo e il prepuzio era
ritratto dalla cappella. Una goccia chiara di liquido preseminale
brillava come una perla sulla fessura ed Angel la leccò via, con un
mugolio di delizia al sapore salato. Simeon sibilò ed Angel accettò le
mani che si intrecciarono ai suoi capelli, sospingendolo in avanti. Con
lentezza e grande cura, inghiottì il grosso uccello del suo amante
finché non lo ebbe tutto affondato nella bocca, fino a invadergli la
gola.
Simeon imprecò piano, le dita che si stringevano sui suoi capelli.
Angel gemette, facendolo ringhiare, un suono che si mescolava allo
scroscio dell’acqua. Cercò di ritrarsi, ma Simeon lo tenne immobile,
incapace di respirare, gli occhi che lacrimavano. Attese con i polmoni
che si lamentavano finché Simeon non lo lasciò andare. Lo ripagò
facendo scivolare il suo cazzo dentro e fuori dalla sua bocca con
lunghi, profondi movimenti, lavorando con la lingua sul lato inferiore.
Simeon gli riempiva la bocca con denso e salato liquido preseminale
ed Angel stimolava la fessura, volendone di più. Avvolse una mano
attorno alle palle piene e pesanti di Simeon e fece scivolare un
singolo dito dietro di esse, spingendo verso l’alto, massaggiando
quella carne sensibile mentre continuava a succhiare e leccare,
alternando gemiti e momenti in cui l’uccello duro che lo riempiva
arrivava fino in gola.
Non ci volle molto prima che Simeon sibilasse attraverso le
zanne serrate e i suoi artigli graffiassero le pareti di piastrelle; Angel
era più che soddisfatto di fargli perdere il controllo. Si toccò il proprio
cazzo mentre ingoiava l’orgasmo di Simeon, e presto raggiunse il suo
amante nella beatitudine, ansimando forte appoggiato a una solida
coscia muscolosa. I loro liquidi furono lavati via dal getto che andava
raffreddandosi.
Angel piegò la testa all’indietro e rivolse a Simeon un sorriso
incerto, respirando con forza. Simeon passò le dita sulle sue labbra,
un tocco delicato che in qualche modo trasmetteva quanto gli fosse
grato, la pelle pallida arrossata di rosa, le zanne che scintillavano alla
luce sopra di loro.
«Adhair mé tú,» sussurrò.
Ti adoro.
POSSO FARE IL DRAGO OGGI?

Angel strofinò un asciugamano sul suo famiglio, le cui scaglie color


smeraldo erano scintillanti e tirate a lucido. «Ho comprato uno
shampoo da parrucchiere super-costoso come regalo di compleanno
per Simeon, e tu usi l’intera bottiglia per farti un bagno con le bolle.
Nel lavandino del bagno, per di più. Sai di pino e caramelle alla
menta piperita.»
Eroch si rotolò sulla schiena, la lunga coda che si arrotolava
attorno all’avambraccio di Angel mentre lui gli accarezzava la pancia.
Della taglia di un piccolo gatto domestico, Eroch era un draghetto sia
adorabile che fastidioso. E pericoloso, anche se la bestiolina stava
facendo del suo meglio per sembrare carina e innocua, sbattendo
lentamente gli occhi gialli come denti di leone e brontolando delle
fusa cinguettanti che avrebbero fatto vergognare dei veri gatti. Angel
ridacchiò, facendo il solletico alle scaglie di un verde più chiaro sul
ventre di Eroch, assicurandosi di asciugare tutta l’acqua, visto che il
draghetto aveva la cattiva abitudine di scuotersi e schizzarla in tutte
le direzioni.
La luce del mattino riempiva la stanza; la giornata stava
sorgendo più tiepida di quella prima. Il sole danzava sul suo letto, le
lenzuola in disordine e per metà sul pavimento. La doccia scrosciava
ancora, perché Simeon stava risciacquando il sapone in eccesso che
un Eroch entusiasta aveva deciso di sgocciolare su di lui dopo il
proprio bagno mattutino. Era vero che si erano fatti la doccia la notte
prima, ma dopo ore di sudore e orgasmi avevano entrambi bisogno
di ripulirsi.
Angel fece un gran sorriso e lottò con Eroch per farlo rimettere
in piedi, in modo da poter passare l’asciugamano sulle ali coriacee
della bestiolina. Eroch cinguettò e le tenne aperte, del tutto
spianate, una alla volta, cogliendo la luce e riflettendola come pietre
preziose. Il piccoletto aveva un posto speciale nel cuore di Angel ed
era in momenti come quello che si rendeva conto di quanto surreale
fosse la sua vita: per quanto ne sapeva, Eroch era l’unico drago
rimasto in quell’universo. Era stato evocato da una diversa
dimensione e, quando Angel l’aveva liberato dai gea che lo
costringevano a essere un demone schiavo, aveva scelto di rimanere
invece di tornare a casa.
Angel gettò l’asciugamano umido nel cesto per la biancheria e
grattò Eroch in cima alla testa, mentre lui si spingeva contro la sua
mano. Gli occhi chiusi, minuscoli scoppi di fumo che gli sfuggivano
mentre emetteva un’adorabile combinazione di fusa e cinguettii,
Eroch assorbiva le coccole. «Ti manca casa tua, bestiolina? Ormai sei
qui da molto tempo.»
Eroch aprì uno dei suoi brillanti occhi gialli, piegando la testa
all’indietro come per guardare meglio il viso di Angel. Lui smise di
grattarlo ed Eroch gli diede una piccola testata, facendolo
continuare. «È un sì o un no?»
Eroch sospirò come solo un drago poteva fare, esprimendo
l’esasperazione con il fumo. Angel ridacchiò e si tirò in piedi da dove
era stato in ginocchio, accanto al letto. Eroch balzò, senza nemmeno
aver bisogno di sbattere le ali prima di atterrare sulla sua spalla. La
risatina di Angel si trasformò in una vera risata: lasciò che il suo
famiglio si sistemasse nella sua abituale posizione vicino al suo collo,
sembrando in tutto e per tutto un’antica, sproporzionata collana da
mago.
«Immagino sia un no. O forse sei già a casa?» rifletté Angel,
andandosene dalla camera per dirigersi in cucina. Eroch vibrò
attorno al suo collo, la coda che gli faceva il solletico sotto al mento.
Angel era lieto che qualcuno in quell’appartamento fosse felice di
come andavano le cose.
«Danny, amico, devi per forza fare così tanto rumore?» borbottò
Isaac, la testa tra le mani e una tazza di tè fumante non ancora
toccata di fronte a lui sull’isola della cucina. Daniel stava
armeggiando ai fornelli, sbattendo le uova mentre la pancetta
friggeva. Lanciò un’occhiata stanca a Angel quando lui entrò,
afferrando i piatti dalla credenza e preparando il ripiano per la
colazione. Isaac emise un lamento, ma si trattenne quando vide che
Angel era nella stanza.
«Ti chiederei come va la testa, ma vedo che sei in forma
smagliante,» dichiarò lui, spostando lo sgabello di Isaac con un
colpetto in modo da avere spazio. Lo stridio delle gambe di legno sul
pavimento fece gemere Isaac più forte e lo fece diventare di una
nuova sfumatura di verde. «Se devi vomitare, trattieniti fino al
bagno.»
«Che schifo,» sussurrò Daniel, che aveva a propria volta un
colorito verdognolo mentre Isaac scattava su dalla sedia e barcollava
verso il bagno. La porta si chiuse e i suoni soffocati dei conati si
fecero sentire anche sopra i lamenti di sconcerto di Daniel.
L’apprendista si lasciava contagiare dal vomito.
Angel si sedette, strofinandosi con allegria le mani mentre
Daniel accumulava sul suo piatto uova strapazzate al formaggio e
fette di bacon. Eroch scivolò via dal suo collo e si sedette con grazia
accanto al piatto, occhieggiando la pancetta. «È il mio bacon, signor
scroccone. Trovati il tuo.»
Eroch tirò su col naso, gli occhi giallo dente di leone sgranati e
all’improvviso tristi, e Daniel ridacchiò. Angel mantenne il proprio
sguardo severo, cercando di non cedere. «No, non ci casco. Vai a
mangiarti dei piccioni.» Altri sbuffi tristi. Un piccolo piegarsi della
testolina, poi un commovente, ben costruito lamento da bestiolina si
levò, ed Angel si arrese. «Va bene! Per Ecate, sei viziato marcio.»
Prese una fetta intera di delizioso bacon e la porse al draghetto, che
passò con prontezza dal patetico al compiaciuto. «Dannata
bestiolina.»
Angel si immerse nelle proprie uova, ignorando la risata di
Daniel dall’altra parte dell’isola. Il ragazzo spense i fornelli,
sistemando un piatto con circa metà del cibo sopra al posto di Isaac
prima di sedersi a sua volta e iniziare a mangiare.
«Cosa l’ha provocato?» chiese Angel a Daniel, tenendo gli occhi
su Eroch, che mangiava la pancetta con cinguettii di contentezza.
«Mi ha chiamato mentre eravamo alla Torre.»
Daniel mescolò il proprio tè, mordendosi il labbro e guardando
ovunque eccetto che verso Angel. Lui continuò a mangiare, ben
disposto ad attendere. Daniel reagiva meglio alla pazienza.
«Gli ho chiesto cosa non andava,» rispose alla fine, tenendo
d’occhio l’entrata della cucina. Parlava piano, forse timoroso della
rabbia di Isaac. «Ormai è passato un po’ dagli omicidi seriali della
fata e poi da quello strano caso dei saccheggiatori di tombe e degli
zombie. È da allora che Isaac si comporta in modo caotico, e non
potevo più sopportare di vederlo comportarsi in modo… così… così
ferito.»
«Te l’ha detto?» Angel sgranocchiò l’ultimo pezzo di bacon
nell’appartamento silenzioso. Non riusciva a sentire nulla, ma non
significava che Isaac non stesse ascoltando, o che Simeon non fosse
vicino. Gli unici incantesimi insonorizzanti erano nelle camere da
letto.
Daniel annuì, i bellissimi occhi scuri pieni di preoccupazione. «Mi
dispiace così tanto.»
«Per Isaac? Si porta dietro il senso di colpa da solo. Più di
quanto non meriti. Anche io ne ho, ma lui lo prova in modo più
acuto.»
«Non dovrebbe sentirsi affatto responsabile per gli omicidi della
vostra famiglia!» esalò Daniel, mentre una lacrima solitaria gli
sfuggiva prima che si sforzasse di ricomporsi. Angel spinse via il
piatto e gli rivolse la sua piena attenzione. «E nemmeno tu!»
«Daniel?» Quello scoppio era strano. Daniel era di
temperamento mite e gentile, fin troppo timido, e una simile
reazione suggeriva emozioni più profonde di quelle che di solito il
suo apprendista mostrava al mondo.
Una spessa ciocca di capelli biondi ricadde sulla fronte di Daniel,
brillante nella luce del mattino che filtrava dalle finestre del salotto.
Daniel giocherellava col cucchiaino, spargendo qualche goccia di Earl
Gray sul legno graffiato del ripiano.
«Non ti capisco. Non capisco nessuno dei due,» sussurrò. Eroch
alzò la testa e lo fissò con insistenza, mentre Angel tratteneva il
respiro. «Perché vi sentite in colpa? Come? È stata…»
«È stata cosa, Daniel?»
«La mia famiglia ha assassinato la vostra.» Gli occhi scuri e
inquieti si risollevarono su Angel, e la confusione nel tono del
giovane era dolorosa da sentire. «Mio padre, mia mamma, i miei zii…
loro hanno ucciso la vostra famiglia. Insieme a un intero clan di
vampiri, anche. Se qualcuno deve sentirsi in colpa, dovrei essere io.»
Angel aprì la bocca per negare anche solo il pensiero di una
cosa simile, perché Daniel aveva avuto solo dieci anni all’epoca. La
comparsa di una figura alta e smilza sull’arcata li interruppe e Daniel
sussultò quando Isaac si stravaccò con un gemito sentito sul suo
sgabello.
«Danny,» biascicò roco; in qualche modo sembrava che si
sentisse ancora peggio di prima che corresse via dalla stanza per
vomitare. I lunghi capelli di suo fratello, col loro taglio ribelle,
penzolavano come un animale morto, la sua pelle era pallida, i
numerosi tatuaggi risaltavano con ancora più chiarezza sulle sue
braccia nude. «Danny, è una stupidaggine e basta.»
Le guance di Daniel si arrossarono e il ragazzo lanciò
un’occhiataccia a Isaac. Lui si limitò a fargli un cenno e spiluccò sul
proprio piatto; Eroch si tirò su mentre altre fette di bacon apparivano
sul suo radar. Angel prese un sorso di tè, tenendo d’occhio suo
fratello e il suo apprendista. Alla fine Daniel parlò, con una
convinzione che fece cadere le sue parole come rocce in uno stagno.
«Non più stupida di te che ti senti in colpa per il Massacro.»
Il tè andò di traverso a Angel e gli gocciolò sul mento. Afferrò
un tovagliolo e guardò sbalordito il suo apprendista. Daniel era
arrossito ancora di più, ma non abbassò lo sguardo quando un
accenno di fumo si radunò sulle dita di Isaac. La sua rabbia scaldava
lo spazio tra loro, facendo tremolare l’aria. Il cuore di Angel accelerò
mentre osservava con attenzione il fratello, che però trattenne il
proprio potere. Uno schiocco dovuto all’unto bollente sul piatto di
Isaac ruppe lo stallo e il ragazzo chiuse gli occhi, attirando di nuovo
dentro di sé la sua magia ribelle. L’aroma di pancetta calda riempiva
la stanza ed Eroch strisciò tra i piatti e le tazze nella sua missione
per ottenerne dell’altra. Isaac spinse via la sua colazione e il
draghetto ci cadde sopra come un mostro affamato; tutti e tre si
misero a guardarlo anziché affrontare la conversazione che pendeva
sopra le loro teste come la proverbiale spada di Damocle.
Isaac non diceva nulla, assisteva solo a Eroch che divorava il
suo cibo. Anche con una doccia e un cambio di vestiti, l’alcol che
aveva consumato la notte prima trasudava dai suoi pori. Birra stantia
e liquore di bassa qualità combattevano contro l’Earl Gray e il bacon,
facendo rivoltare lo stomaco di Angel. Isaac ruttò piano contro la
propria mano, scusandosi con una smorfia.
«Non possiamo continuare così, Isaac.»
Suo fratello non rispose. Non che lui se lo aspettasse, non
davvero. Provò di nuovo. «Isaac, io ti voglio bene.»
Quello scatenò una reazione, un sussulto dell’intero corpo che
riportò un po’ di vita negli occhi del ragazzo per una frazione di
secondo. Poi Isaac si accasciò, passandosi una mano tra i capelli in
un gesto pesante. Fu solo un sussurro, ma rispose. «Anche io ti
voglio bene, Angie.»
«Pensi di dover smettere?» si arrischiò a chiedere lui, il cuore
che martellava. «Puoi riuscirci?»
«Io non… forse?» mormorò Isaac, ma Angel si aggrappò con
forza al proprio ottimismo per tenerlo a bada. «È difficile.»
Angel annuì, anche se il fratello non stava guardando altro che
Eroch. Daniel era silenzioso, immobile, osservava la scena con gli
occhi sgranati e mordendosi il labbro inferiore per il nervosismo.
«Non so cosa dirti, Isaac. Non sono preparato, non ho idea di come
aiutarti, tranne dirti che ti voglio bene, che ti perdono, e che voglio
che tu ti faccia aiutare.»
Isaac annuì, un piccolo abbassamento del mento che,
nondimeno, gli fece fare una smorfia per essersi mosso.
«L’aiuto non funzionerà a meno che tu non ci metta del tuo.»
Perfino Angel lo sapeva. Non avrebbe definito Isaac un alcolista, o
almeno non ancora, ma di certo lo sarebbe stato presto; i
comportamenti autodistruttivi erano lì, e non aveva dubbi che Isaac
ci stesse arrivando a poco a poco. Sbronze occasionali potevano
essere tanto letali quanto l’abuso cronico. Isaac non sarebbe
cambiato a meno che non lo volesse.
«Che cosa vuoi da me?» scattò, un breve lampo di rabbia
estinto in fretta.
«Voglio quello che ho sempre voluto,» disse Angel,
arrischiandosi a mettere una mano sul polso di Isaac, stringendo.
«Voglio che tu sia felice e in salute e al sicuro.»
La prima lacrima gli ruppe il cuore, la seconda e la terza la
determinazione. Afferrò Isaac, attirandoselo al petto e premendosi la
sua faccia sulla spalla. Daniel si alzò, prendendo dal tavolo Eroch,
che si era calmato, prima di scivolare in silenzio via dalla cucina.
Isaac singhiozzò, un suono umido pieno di frustrazione come di
dolore, ed Angel seppellì il viso tra i capelli del fratello, tenendolo
stretto.
Mantenne l’abbraccio abbastanza a lungo perché gli si
inzuppasse la maglietta di lacrime. Sospirò, accarezzandogli la
schiena su e giù, percependo le sporgenze delle sue vertebre. Suo
fratello stava perdendo del peso che non poteva permettersi. Faceva
finta di stare bene, sorridendo quando doveva, ridendo e facendo
battute. Prendendo in giro Milly per la sua ossessione per le fate,
sgattaiolando nella stanza di Daniel durante la notte per guardare
dei porno coi lupi mannari. Il normale comportamento di un
ventenne. Poi c’erano le notti in cui scattava, afferrava una bottiglia
e andava a mettersi nei guai per far smettere il dolore. Eppure,
chiamava sempre Angel in tempo perché potesse salvarlo.
Temeva che arrivasse la notte in cui non l’avrebbe chiamato. In
cui, invece, avrebbe ricevuto una visita inaspettata da O’Malley una
mattina presto, il lutto negli occhi e la voce roca per il whisky e il
rimpianto, dicendogli che il suo fratellino era morto.
«Mi sento rotto,» sussurrò Isaac, ancora raggomitolato, le dita
aggrappate ai fianchi di Angel.
«Siamo un po’ rotti entrambi, Isaac.» Gli baciò i capelli,
lasciando cadere anche le proprie lacrime.
«Non posso… non voglio più essere… così.»
Angel lo sospinse con gentilezza a tirarsi su, prendendolo per le
spalle e guardandolo negli occhi. Il viso di Isaac era rosso e
chiazzato, con le guance bagnate e il naso che colava. Gli occhi
erano scuri e così pieni di dolore che Angel ricacciò indietro un
singhiozzo. Le parole gli uscirono aspre per le lacrime. «Dimmi cosa
vuoi, Isaac.»
«Voglio…» Inciampò sulle parole. Chiuse gli occhi stringendoli
forte, mentre nuove lacrime gli scorrevano sul viso, le labbra
contorte in una smorfia. «Voglio non sentirmi più così. Voglio che
finisca.»
«Vuoi che finisca abbastanza da accettare un aiuto?» chiese
Angel. «Vuoi aiuto? Devi fare qualcosa, o non avrai mai la possibilità
di lasciare andare questo senso di colpa e questa tristezza prima che
ti divorino.»
Strinse la presa sulle spalle di Isaac, speranzoso. Il ragazzo
abbassò la testa, asciugandosi con rabbia la faccia. «Sì.»
«Guardami e dillo più forte,» gli ordinò Angel piano. Isaac lanciò
un gemito di frustrazione da spezzare il cuore, ma sollevò la testa e
incontrò i suoi occhi.
«Sì. Voglio aiuto,» rispose.
«Grazie,» esalò Angel, attirando di nuovo Isaac a sé e
abbracciandolo più forte che poteva. «Grazie.»

La Clinica e Centro di Riabilitazione Nevermore era astutamente


mascherata da vecchia villa in stile georgiano, annidata in un lotto
recintato e boscoso a Revere. Era stato un tragitto piuttosto lungo
verso nord e oltre il fiume, con una fermata a un caffè che era finita
prima che Angel fosse pronto. Simeon parcheggiò la macchina nel
posteggio dei visitatori e spense il motore.
Isaac era sul sedile posteriore; l’unica cosa che aveva con sé era
un piccolo borsone pieno di vestiti. Angel osservò l’ingresso rivestito
di pietra con alte porte di vetro e ampie finestre, diffidente e ansioso
di farla finita allo stesso tempo. Non era nemmeno il futuro paziente,
non riusciva neanche a immaginare come dovesse sentirsi Isaac.
«Usciamo?» chiese il fratello, tranquillo, ma con una piccola
traccia del suo solito sarcasmo. Angel sospirò, ma slacciò la cintura e
aprì la portiera; gli altri lo seguirono.
Il sole era tramontato un’ora prima e Simeon era stato libero di
accompagnarli, e per fortuna, dal momento che Angel barcollava sul
confine tra disperazione e speranza. Non sapeva se sarebbe stato in
grado di portare Isaac in riabilitazione in un taxi. Simeon non aveva
nemmeno preso in considerazione l’ipotesi; aveva soltanto aspettato
vicino alla porta dell’appartamento, le chiavi in mano, parlando piano
con Daniel mentre Angel aiutava Isaac a fare i bagagli. Eroch, che di
solito andava dappertutto insieme a Angel, quella volta era rimasto
indietro con Daniel, visto che l’apprendista sarebbe stato da solo
nell’appartamento. Isaac non gli aveva chiesto di accompagnarlo e
Daniel, più perspicace di quanto la gente non pensasse, non aveva
chiesto di andare. Aveva dato a Isaac un forte, rapido abbraccio sulla
porta, versando lacrime, ma per la maggior parte gli aveva rivolto
sorrisi e promesse di andare a trovarlo quando Isaac avrebbe avuto
il permesso di avere la compagnia di esterni. Il ragazzo aveva a
malapena annuito e se n’era andato senza una parola, con Angel e
Simeon che camminavano a passi pesanti sulla sua scia lungo le
scale sul retro.
Si avvicinarono alle porte d’ingresso: sul vetro erano intagliati
un corvo stilizzato e un albero di quercia. Delle barriere ronzavano
giusto ai margini dei suoi sensi e l’aria scoppiettò quando le
protezioni reagirono alla sua magia. Erano incredibilmente potenti se
erano così reattive benché spente. Angel dedicò loro una veloce
occhiata interna mentre Simeon apriva la porta.
Le barriere erano a due strati e contenevano una serie di rune
che impedivano l’accesso e altre che prevenivano l’uscita, la quale
era una distinzione sottile e difficoltosa, l’opposto di molte protezioni
usate su proprietà private e luoghi ad alto rischio. Molti posti con
barriere potenti le avevano solo programmate per tenere fuori le
persone, non per tenerle dentro. Tuttavia, per Angel aveva senso,
considerato che la Clinica Nevermore era specializzata nella
dipendenza da magia del sangue. I maghi che ne erano soggetti,
negli stati intermedi fino a quelli più gravi, diventavano predatori e
violenti quando cercavano magia da rubare, anche da donatori non
consenzienti; piuttosto spesso delle persone venivano uccise, e in
modi orribili. La magia del sangue, se lasciata agire troppo a lungo
fino all’ultimo stadio, era fatale. I comportamenti violenti apparivano
in modo poco frequente, in esplosioni sporadiche, nelle prime fasi e
in quelle intermedie.
L’atrio era luminoso di neutri toni di grigio, bianchi spenti e
dettagli di un morbido color pietra di fiume sulle pareti e il
pavimento. C’era un’atmosfera silenziosa, quasi da chiesa, e l’ampio,
alto spazio era pieno di dipinti che ritraevano spiagge del New
England e cittadine pittoresche, nonché di grandi poltrone
dall’aspetto comodo.
Una donna alta e magra, con un sobrio completo giacca e
pantaloni beige, si affrettò quasi immediatamente verso di loro; le
uniche macchie di colore su di lei erano una sciarpa di seta rosa
scuro attorno al collo e una targhetta dorata col suo nome. I capelli
biondo scuro erano tirati indietro in uno stretto chignon sulla nuca, e
non aveva gioielli.
«Signori Salvatore,» disse con un cerimonioso, stretto sorriso,
accennando prima a Angel e poi a Isaac, prima di rivolgersi a
Simeon. I suoi occhi azzurri per un secondo scintillarono di interesse,
ma nulla di esso trapelò nel suo tono professionale, «e Anziano Ò
Daimhín, è un piacere.»
Le sopracciglia di Angel si alzarono di botto quando la donna
chiamò Simeon per il suo cognome, usato assai raramente; non
l’aveva mai sentito pronunciare da nessun altro a parte Simeon e lo
sapeva solo perché l’aveva chiesto, una notte dopo una maratona di
sesso durante la conversazione post-coito. Non riusciva nemmeno a
pronunciarlo nel modo corretto, e questa sconosciuta l’aveva sparato
a macchinetta come se stesse recitando l’ordine per il suo caffè
preferito.
Chiunque facesse la raccolta dei dati per la Nevermore meritava
un aumento.
«Il mio nome è Nadine Masters,» proseguì, sorridendo senza
mostrare i denti. «Sono la coordinatrice per l’accoglienza delle
famiglie e dei pazienti qui alla Clinica Nevermore. Seguirò il processo
di Isaac per l’ammissione e potrò rispondere a tutte le domande che
tu e la tua famiglia potreste avere.» Nadine rivolse a Angel una
rapida occhiata e un breve cenno, ma rimase concentrata soprattutto
su Isaac, il che le fece guadagnare qualche punto bonus ai suoi
occhi. Voleva che Isaac si sentisse al comando della propria
guarigione, e la maggior parte della gente tendeva a ignorarlo
quando Angel era nella stanza. «Se volete seguirmi nel mio ufficio,
inizieremo a firmare le carte e vedremo di riuscire a rendere le cose
il più semplici possibile.»
Angel fece un passo di lato e lasciò che Nadine guidasse con
gentilezza Isaac attraverso l’atrio, seguendoli insieme a Simeon. Lui
lo prese per mano, le dita fredde finché il calore corporeo di Angel
non le scaldò. Strinse quella mano con gratitudine, aggrappandovisi
stretto.
L’ufficio di Nadine aveva gli stessi colori dell’atrio e dava su un
ampio cortile illuminato da alte torce di ferro. Angel riusciva a vedere
qualche accenno di siepi e di ordinati sentieri in cemento che
serpeggiavano tra aiuole ben curate che aspettavano giornate più
calde.
Isaac fu fatto accomodare su un soffice divanetto e, invece di
sistemarsi alla scrivania, Nadine prese una grossa cartellina e gli si
sedette vicino, girando il proprio corpo per essere faccia a faccia col
giovane Salvatore, che la fissò disorientato. Non interagiva con molte
persone, a parte i baristi. Se non era in un pub o trascinato di peso
all’ufficio di Angel per aiutarlo con le sessioni private di lezioni, il suo
tempo con le persone normali era limitato.
Angel si sedette lì vicino su una sedia che era un vero pezzo di
antiquariato; la sua educazione privilegiata mostrava qualche utilità.
Quel pezzo di scintillante legno tirato a lucido e velluto blu scuro era
probabilmente più vecchio della maggior parte degli edifici di Boston.
Simeon rimase in piedi vicino a lui, un’ampia mano come peso
rassicurante sulla sua spalla.
Nadine era efficiente. Riempì e fece firmare i documenti in un
tempo eccezionale; la reticenza di Isaac cedette abbastanza da fargli
mostrare un barlume di interesse nei procedimenti. Passò alcuni dei
moduli anche a Angel, facendo apparire dal nulla una sottile penna
stilografica d’osso e acciaio.
«Isaac.» Nadine gli rivolse un piccolo sorriso, appoggiandosi le
mani l’una sull’altra e rivolgendosi a lui direttamente. «Dal momento
che questa è considerata una struttura medica, e tu sei qui per
essere curato, tuo fratello è iscritto come il tuo parente più prossimo.
Non prevedo che ci sarà alcun problema durante il tuo soggiorno,
ma potrebbe esserci qualche motivo per cui tu non voglia che tuo
fratello maggiore sia responsabile per te se non puoi decidere per te
stesso?» chiese la donna, facendolo suonare come se chiedesse cose
simili ogni giorno.
Angel lesse il modulo, una notifica standard di parentela più
prossima, molto simile a quelle che già aveva negli ospedali locali
per il suo compagno, il suo apprendista e suo fratello. Firmò senza
esitazione: aveva cresciuto Isaac e questa era soltanto una nuova
parte del processo. Lui scosse la testa una singola volta e firmò il
documento quando Angel glielo porse.
«Ottimo,» disse Nadine con uno stretto sorriso, anche se i suoi
occhi azzurri erano ammorbiditi dalla comprensione. «Giusto per
ripetere quello che abbiamo considerato con tuo fratello al telefono,
starai qui per un primo programma iniziale di trenta giorni. A
seconda di come reagirai alle cure e alle tue sessioni di terapia,
potresti andartene il trentesimo giorno oppure registrarti per un altro
mese. Se succederà, non sarà un marchio contro di te. Non si fallisce
mai a curarsi, a meno che non ci si applichi in partenza. Restare di
più significa soltanto che hai riconosciuto di averne bisogno e hai
deciso di continuare. Non ti faremo pressioni per restare o
andartene: questo programma è del tutto rivolto ad aiutarti a
tornare in salute, emotivamente, mentalmente e fisicamente.
Domande?»
«Non direi,» rispose Isaac piano, passando un polpastrello sui
documenti sulle sue ginocchia. Lanciò a Angel una rapida occhiata
prima di guardare Nadine, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Se
decidessi di andarmene, potrei? Non mi fermerete?»
Angel aprì la bocca per dire qualcosa, ma Simeon strinse la
presa sulla sua spalla e lui richiuse le labbra con un piccolo schiocco.
Nadine non sembrava affatto spiazzata o turbata dalla domanda;
scosse la testa prima di rispondere. «Isaac, questa non è una
prigione. Abbiamo un coprifuoco, rigide regole su visitatori e simili e
una sezione di restrizione, ma tu sei qui di tua volontà, senza un
ordine da parte di una giuria o un referto medico, il che significa che
puoi andartene quando vuoi. Spero che deciderai di rimanere per
l’intero periodo, ma non ti costringeremo. Le cure avranno successo
solo se tu le vorrai.»
«Le barriere che abbiamo attraversato,» replicò Isaac,
stringendo gli occhi. «Sono roba piuttosto seria.»
«Sì,» rispose Nadine, senza negarlo. «Come sono sicura che tu
sappia, curiamo la dipendenza da magia del sangue qui alla
Nevermore. Tutti i pazienti che sono qui per questa ragione sono
tenuti in un’ala di sicurezza, lontana dagli altri pazienti, ma le
barriere ci sono in caso di emergenza. Crediamo sia meglio avere più
precauzioni possibili piuttosto che trovarcene a corto se succede
qualcosa. Ti saranno date delle istruzioni sulla routine del dormitorio
e simili prima di sistemarti nella tua stanza. La quale, tra l’altro, tuo
fratello,» sorrise a Angel prima di girarsi di nuovo verso Isaac, «ha
pagato perché sia una suite privata con il tuo bagno personale. Sei
in quella sul giardino dalla parte opposta della residenza dall’ala di
sicurezza, quindi non hai motivo di preoccuparti per potenziali
emergenze.»
«Niente vasca idromassaggio?» scherzò Isaac, ma Angel poté
vedere l’emozione che gli nuotava negli occhi prima che stringesse
forte le palpebre.
«Nella tua stanza, no, ma ce ne sono un paio nell’area piscina,»
disse Nadine con un sorriso, e Isaac sospirò, la tensione che lo
abbandonava a poco a poco, ma con costanza.
«Una piscina? Posso restare anche io?» parlò infine Angel e
Isaac roteò gli occhi alla sua volta. Da adolescente Angel era nella
squadra di nuoto della scuola e passava un paio di sere a settimana
alla piscina dell’associazione giovanile a qualche isolato di distanza
dall’appartamento.
«Trovati la tua riabilitazione,» disse Isaac con un sorriso
sghembo. Angel ricambiò, combattendo con tutte le proprie forze per
non piangere.
Nadine si alzò, raccogliendo i documenti firmati nella cartellina e
portandola alla sua scrivania. La chiuse a chiave in un cassetto e
tornò da Isaac con in mano una chiave attaccata con una catenella a
una targhetta di legno a forma di piuma. La diede a Isaac, che la
accettò con un breve cenno, gettandosi in spalla il borsone. Angel si
alzò in piedi e, all’improvviso, era arrivato il momento.
Simeon, senza una parola, gli diede una carezza sulla spalla e
poi andò alla porta, chiamando Nadine con un’occhiata. Lei capì in
fretta e lasciò la stanza con un piccolo sorriso, seguendo Simeon
nell’atrio.
Isaac strinse la presa sul borsone, le nocche bianche attorno
alla tracolla. Angel esalò un respiro, resistendo all’impulso di mettersi
le mani in tasca.
«Non è per sempre.»
Angel sbatté le palpebre, sorpreso. «Cosa non è per sempre?»
Isaac sorrise, un ghigno storto che gli sollevava un angolo della
bocca, gli occhi che si piegavano nel primo vero segno di ilarità da
ore, o, diamine, da mesi. «Non me ne sto andando per non tornare
mai più. Non è un addio. È un “Ci vediamo”.»
«Giusto.» Angel annuì, le mani che tutto d’un tratto tremavano.
«Quindi… ci vediamo?» Gli uscì più come una domanda di quanto
non avesse voluto e Isaac ridacchiò, chinando la testa, i capelli scuri
che gli ricadevano sulla fronte.
Angel non riusciva a capire cosa fare. I suoi piedi si rifiutavano
di muoversi, le sue gambe erano un peso morto. Fu perfino più
sorpreso quando Isaac lasciò cadere il borsone sul tavolino, fece
qualche passo verso di lui e, senza nessun imbarazzo, lo abbracciò.
Angel ricambiò, più forte che poté, e non lasciò la presa. Anche
Isaac gli si aggrappò ed Angel strinse il suo fratellino, serrando gli
occhi che gli bruciavano, rifiutandosi di piangere o di mostrare
preoccupazione.
«Starò bene,» gli sussurrò Isaac all’orecchio. «Promesso.»
«Sarà meglio,» disse Angel con voce strozzata, visto quanto si
stava sforzando di tenere a bada il brulicare delle sue emozioni. «Se
hai bisogno di me, chiamami. Non importa cosa starò facendo,
arriverò subito.»
Isaac annuì, un paio di affondi del suo mento nella spalla di
Angel. Di nascosto, si asciugò gli occhi umidi mentre si ritraeva,
sottraendosi con gentilezza dall’abbraccio.
«A presto, ragazzo,» disse Angel con un piccolo sorriso,
indietreggiando nella stanza. Isaac si infilò le mani in tasca,
dondolandosi sui talloni e rivolgendogli un breve cenno con gli occhi
che luccicavano.
Angel afferrò la maniglia, aprendo la porta e andando dritto tra
le pronte braccia di Simeon.
Non ricordava come se n’erano andati dalla Nevermore o come
erano entrati in macchina. Simeon lo tenne per mano per tutto il
tragitto verso casa, mentre le lacrime gli scorrevano libere sul viso.
La speranza era dolorosa. Tutto il suo corpo ne era straziato.
QUANDO I GUAI ARRIVANO A SORPRESA

«Cosa vuol dire che mi è arrivata una lettera?» Angel teneva il


cellulare tra l’orecchio e la spalla, armeggiando con le chiavi del suo
ufficio. Era ancora buio e sbuffò d’impazienza, facendo apparire in
un lampo una piccola sfera di fuoco infernale sopra le sue mani in
modo da poter trovare la chiave giusta. Inserendola nella serratura,
aprì la porta e fece sparire il fuoco, accendendo la luce con
l’interruttore vicino alla porta.
«È stata portata da un corriere circa dieci minuti fa,» rispose
Daniel, con la bocca piena di cibo. «Ho dovuto firmare. Il corriere
stava quasi per non lasciarmela finché non gli ho detto che sono il
tuo apprendista.»
Angel brontolò tra sé e sé, gettando le chiavi sulla scrivania e
afferrando il telefono, strofinandosi la nuca. Aveva lasciato il suo
appartamento nemmeno dieci minuti prima, a qualche isolato di
distanza, quindi il corriere doveva essere comparso proprio mentre
lui se ne stava andando. Aggrottò la fronte, ripensando alla strada
nella luce prima dell’alba, senza ricordare di aver visto nessuno,
nemmeno una macchina o un taxi.
«Beh, avanti, aprila,» disse, picchiettando sul cellulare per
metterlo in vivavoce. Daniel emise un suono felice al di là di qualsiasi
cosa stesse masticando ed Angel grugnì una risata. Avviò il portatile,
cercando l’appuntamento che aveva quella mattina al cazzo di
spuntare del sole. Perché mai avesse pensato che sarebbe stata una
buona idea avere una consultazione privata così presto di lunedì era
oltre la sua comprensione. Il che era il motivo per cui aveva deciso di
svegliare tutti quelli con cui viveva in modo da poter condividere la
miseria. Anche se si trattava solo di Daniel, visto che Isaac era alla
Nevermore e Simeon alla Torre.
Un guaito acuto e un’imprecazione arrivarono dal cellulare ed
Angel rise. «Ti sei tagliato con la carta?»
«No! Mi ha dato la scossa!» ansimò Daniel, maledicendo la
lettera sottovoce. «Non posso aprirla!»
«Cosa vuol dire che non puoi aprirla? Strappala e basta.»
«Ci sto provando! Ahia!» Daniel gemette di nuovo; i suoni che
stavano arrivando erano in parte esilaranti e in parte allarmanti.
«Non metto più a rischio le mie dita. Puoi aprirtela tu.»
«Chi l’ha mandata? Potrebbe essere protetta, se l’ha portata un
corriere.»
«E me lo dici adesso,» borbottò Daniel, ed Angel fece un gran
sorriso trovando l’orario dell’appuntamento. Daniel stava trovando il
proprio coraggio e imparando dalle lezioni di sarcasmo di Isaac. Il
timido apprendista aveva degli ottimi maestri di ironia nella dimora
dei Salvatore. L’appuntamento era circa cinque minuti più tardi. Non
aveva il tempo di correre a casa e prendere la lettera che stava
bruciacchiando le dita del ragazzo. Daniel recitò l’indirizzo sulla
busta. «Dice, “Per Angelus Raine Salvatore, Negromante di Beacon
Hill, Boston, Massachusetts. Da”, Oh, wow.»
«Da chi?»
«L’Alto Consiglio di Stregoneria, Bucarest, Romania.»
Angel si rizzò, le mani che si allontanavano dal computer. Fissò il
telefono; il silenzio nell’ufficio era in qualche modo rumoroso, il
cuore gli martellava nelle orecchie. Alzò lo sguardo sulla porta come
se da un momento all’altro uno degli sgherri del Consiglio potesse
abbattere la porta, pronto a metterlo in prigione per crimini contro le
leggi internazionali della stregoneria. Fece un respiro tremante e
piegò le dita. Estese la propria mente, esaminando con cautela le
barriere attorno all’ufficio, e non trovò nulla.
«Angel? Angel!» strillò Daniel al telefono, riscuotendolo di scatto
dalla tensione che l’aveva congelato e facendogli prendere in mano il
cellulare.
«Daniel, ho un appuntamento da un momento all’altro. Puoi
portarmi la lettera qui? Rimani nella sala d’attesa finché non ho
finito, se avrò iniziato quando arrivi. Sveglia Eroch e portalo con te.»
«Uhm, okay… sveglia la lucertola sputa-fuoco, dice lui.»
«Prendilo e portalo in spalla se non si sveglia. Era sul mio
cuscino quando me ne sono andato. Non venire qui da solo. Ti direi
di aspettare finché non torno a casa, ma ho la sensazione di dover
leggere quella lettera il prima possibile.»
«Okay. Posso farmi una doccia prima?»
«Sarà meglio,» ridacchiò Angel, poi riattaccò. I ragazzi di
vent’anni avevano bisogno di docce per il bene di tutti.
Un colpo alla porta arrivò dall’ingresso dell’ufficio ed Angel prese
un profondo respiro, calmando i suoi nervi destabilizzati prima di
andare ad aprire. Era ancora cauto ed espandeva la propria
coscienza, le barriere che ronzavano nei recessi della sua mente,
intoccate. C’erano due persone sul piccolo pianerottolo fuori dalla
porta; le loro aure erano attutite dal legno, ma erano entrambi
incantatori.
Angel aprì con un sorriso educato sulla faccia.
«Angelus Salvatore?» chiese un uomo alto e robusto con un
cappotto scuro, il viso bloccato in un’espressione torva. Angel inarcò
un sopracciglio, non riuscendo a vedere la persona dietro al grosso
tizio. Scorse solo un lampo di capelli rossi e un po’ di pelle color
alabastro prima che l’altro si spostasse.
«Sono io,» rispose, aprendo di più la porta, facendo un passo
indietro e invitandoli a entrare. Le sue barriere erano programmate
per permettere agli sconosciuti di accedere, ma avrebbero smorzato
qualsiasi magia lanciata in quello spazio da ignoti o da persone che
lui bloccava. Era utile quando c’erano da gestire giovani stregoni e
ospiti inaspettati. Potevano comunque fare incantesimi, ma la sua
magia permeava il luogo, appropriandosi anche delle energie
ambientali e irrigidendo ciò che veniva fatto dagli intrusi. Non serviva
a molto contro stregoni che usavano le proprie riserve, ma gli
incantatori più pericolosi e di rango più alto tendevano a cercare al
di fuori di sé come prima cosa prima di compiere magie.
Dietro il tipo grosso c’era una donna alta, snella e coperta da
capo a piedi di nero, dagli stivali di pelle a tacco alto e il cappotto
lungo fino alle caviglie fino alla sciarpa di seta e a un elegante,
piccolo cappellino in cima ai suoi capelli rosso Tiziano. Gli era
familiare, ma le ombre erano ancora abbastanza scure da rendergli
difficile determinare la sua identità. Li guidò nel suo ufficio,
indicando le sedie di fronte alla sua scrivania. La donna si sedette,
srotolando la sciarpa, mentre il suo accompagnatore si metteva
accanto alla porta. Angel accese le lampade, visto che l’alba se la
stava prendendo comoda e la stanza era buia in posti che non
andavano bene.
La donna si tolse la sciarpa, mettendosela sulle ginocchia prima
di scuotersi via il cappotto. L’uomo si fece avanti per prenderlo prima
di tornare al suo posto. Lei, vestita con uno stretto abito nero
aderente che evidenziava ogni snella curva e lunga linea del suo
corpo, sorrise a Angel. Era bella, in un modo molto umano, senza
nulla di fatato nel suo viso o nelle sue forme. Occhi verde scuro,
niente affatto simili al brillante smeraldo di Simeon ma comunque
mozzafiato a loro modo, lo fissavano di rimando, scintillando di
ironico divertimento.
«Lady Kensington,» la riconobbe Angel dopo un momento di
pausa, sorpreso. La recente vedova era una maga e un’abile speziale
che possedeva e gestiva la Farmacia Nightshade a Beacon Hill, non
lontano da dove si trovavano. Angel la vedeva di tanto in tanto nel
quartiere o quando aveva bisogno di rifornimenti tra una spedizione
programmata e l’altra. Suo marito, Lord Greyson Kensington, era
morto di un attacco di cuore tre mesi prima, spalando via la neve dai
gradini di fronte al loro negozio una fredda mattina d’inverno.
«Mi chiami Heather, per favore,» disse lei, con una voce
melodiosa e ricca, vellutata come cioccolata calda insieme a un
bicchiere di whisky. Sollevò il mento come se si aspettasse di venire
contraddetta. Per quello che Angel ricordava di suo marito, era molto
pedante con l’etichetta e pretendeva che gli si rivolgesse con il suo
titolo, anche dagli amici.
A Angel non era mai piaciuto.
«Heather,» acconsentì con un gran sorriso, sorprendendola
abbastanza da farglielo ricambiare. «Cosa posso fare per lei? E come
mai così presto? Sarei venuto al negozio.»
«Temo che questa faccenda richieda un po’ di discrezione,»
replicò Lady Heather, attorcigliandosi la sciarpa tra le dita. «Riguarda
il mio defunto marito.»
Angel rimase in silenzio, pensando. Di solito, quando dei
familiari in lutto arrivavano alla sua porta, volevano o l’impossibile,
come una resurrezione, o più di frequente un colloquio con lo spirito
del dipartito. Acconsentiva di rado, poiché non veniva mai niente di
buono dal chiamare a ripetizione l’Altro Lato. Impediva ai vivi di
andare oltre e tormentava le anime che avrebbe richiamato su quel
piano.
Lei dovette vedere alcuni di questi pensieri sul suo viso, perché
alzò una delle sue graziose mani, bloccando il suo rifiuto imminente.
«Non voglio che lo richiami dall’Altro Lato,» disse, mentre le lacrime
si raccoglievano sulle sue ciglia. Angel aspettò, curioso malgrado
tutto. «Voglio che lei lo trovi per me.»
«Chiedo scusa, non la sto seguendo,» disse Angel, cauto,
sperando che non piangesse. Se Isaac o Daniel cedevano lui lo
odiava, ma sapeva cosa fare; una pressoché sconosciuta lo avrebbe
messo in imbarazzo.
«Sono entrati nel negozio tre notti fa,» disse in fretta Lady
Heather, le parole che inciampavano l’una sull’altra mentre si
affrettava a spiegare. «Ho sentito i rumori dal mio appartamento di
sopra, ma quando è arrivata la polizia era già troppo tardi.»
«Cosa hanno rubato?» Angel stava cercando di seguirla,
davvero, ma non aveva idea di cosa un furto potesse avere a che
fare con il marito morto.
«Hanno rubato lui,» disse Lady Heather, tirando fuori un
fazzoletto dalla sua piccola borsetta nera. Si tamponò gli occhi,
senza sbavare il suo mascara come per miracolo.
Angel aggrottò la fronte. «Ho bisogno che mi chiarisca la
situazione.»
«I ladri hanno rubato il fantasma di Greyson. Ho bisogno che lei
lo ritrovi.»
Le sopracciglia di Angel si alzarono mentre lui si godeva la
scarica di entusiasmo che corse lungo i suoi nervi. «I ladri hanno
rubato il fantasma di suo marito?»
«Esatto,» rispose Lady Heather, stringendo il suo fazzoletto così
forte che per un momento le tremarono le mani. «Hanno messo
tutto a soqquadro finché non l’hanno trovato, poi se ne sono andati.
Anche qualche oggetto costoso è stato preso, insieme a pochi
contanti che tenevamo in una piccola cassaforte nel retro. Ma hanno
preso Greyson e se ne sono andati subito dopo.»
Angel si mise le mani in tasca, riflettendo. Rivolse un’occhiata
d’esame al grosso uomo nell’angolo, poi tornò a Lady Heather. Era
più magra dell’ultima volta in cui l’aveva vista, anche se poteva
essere per via del lutto. Che fosse su quel piano come uno spirito
fuori posto o no, Greyson Kensington era comunque morto, e la
moglie stava di certo piangendo la sua perdita. «Greyson ha avuto
un infarto, giusto? Aveva problemi di cuore?»
«No,» disse lei tirando su col naso, riuscendo a sembrare
immacolata anche versando qualche altra lacrima. «Cosa importa?
Qualche canaglia è scappata con Greyson. Voglio che lei lo riporti
indietro.»
«Ci sono cose che devo sapere prima di poter fare qualsiasi
cosa,» rispose Angel; il lutto di Lady Heather lo spingeva a un grado
di cautela che altrimenti non avrebbe impiegato, anche con contratti
privati. Non era una vera e propria amica, ma vivevano a Beacon Hill
da circa lo stesso ammontare di tempo e lui non poteva allungare le
mani in quella parte di città senza toccare qualcuno che conosceva
qualcun altro. Reclamava Beacon Hill come sua, al di là di quanto
legittimo questo fosse: il quartiere e Boston erano sotto la sua
protezione e Lady Heather aveva bisogno di aiuto. «Di solito, quando
gli umani, compresi gli incantatori, muoiono per cause naturali come
un infarto o un aneurisma, l’anima del deceduto se ne va quasi
all’istante. È solo in casi di trauma o estremo stress e conflitto che
un’anima rimane, manifestandosi alla fine come fantasma. È per
questo che Boston è così infestata, ci sono fantasmi dalla Rivoluzione
e da altri conflitti ovunque. Quindi, devo chiederlo di nuovo: come è
morto Greyson?»
Lady Heather lo sbirciò da sotto la falda sbarazzina del suo
cappello nero e dovette vedere la sua determinazione nel ricevere
una risposta, perché sospirò e si abbandonò sulla sedia,
sprofondandovi un po’ e strofinandosi gli occhi.
«È stato un infarto, secondo il medico legale. Se n’è andato in
fretta, il dottore ha detto che è stato così rapido che Greyson non
deve aver nemmeno capito cosa stava succedendo.»
L’uomo sulla porta si agitò ed Angel sentì la porta d’ingresso
dell’ufficio aprirsi e chiudersi. Una rapida spazzata con la mente
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yit. Well’m, I must be er goin’ now. Hit’s late an’ I mus’ git my res’ fer
I got to do a lot er bossin’ termorrer an dat’s allers ha’d fer me. Lucy,
I’ll fetch you de deeds ter de house befo’ nine termorrer an’,
Madison, you kin repo’t to me at eight o’clock sha’p an’ give my little
boy a lesson on de guitar. You’ll be dah, won’t you?
Madison
[Meekly.] Yassuh.
Williams
Ready to whu’l in an’ scratch.
Madison
Yassuh.
Williams
Well den, les’ all shek han’s on de noo nes’ an’ de noo aig. [They
shake hands. He puts on his hat and turns to the door.] An’ dat
remin’s me, Lucy, you better tell Madison to play on dat guitar a
plenty tonight because he’ll need music fer to stan’ up undeh all de
lessons I’m goin’ to lay onto him. Well, I wish you good night. I’m er
gittin’ kin’er ole an’ I cain’ stay up late no mo’ without bein’ crosser in
de mornin’. Good night den an’ far’ you well bofe. Eight o’clock,
Madison. Good night.

[He goes, closing the door after him. The pair stand
silent for a moment, Madison with hanging head
and in deep dejection.]

Lucy
[Throwing her arms around him.] Oh, my husban’, I’ll pray fer you.
Don’ sorrer now. Git youah res’ tonight. We kin be hones’ now.
We’ve got de house at las’ an heah’s de guitar.
Madison
Yassuh, heah’s de guitar. [He plays it and fondles it. Then his face
assumes again its melancholy look.]
Lucy
What’s de trouble?
Madison
I don’ undehstan’ dis worl’. If I wants to make music why cain’t
folks lemme alone to make music? If I dream a fine dream why is it I
always wake up? Looks to me like somebody’s always tryin’ to crowd
me out an’ git me in a tight place.
Lucy
You wuz doin’ all right till you got mix up wif dat white man an’ his
tricks. De trouble wuz dat dis dream of youahs wuzn’t a good dream.
Madison
Yes, but not all of my dreams is bad ones. All, I wants is room to
dream my good dreams an’ make my own music.

CURTAIN
SIMON THE CYRENIAN
Note.—Although Cyrene was in northern Africa, the wall-paintings in the vast
Cyrenian tombs depict black people instead of brown.
That Jesus’ cross-bearer was a black man, as the early painters represented
him, is a fact that holds a certain suggestion bearing upon a phase of modern
society.
It has been the author’s design that all the characters in this play should be
represented by persons entirely or partly of Negro blood; and this intention has
been carried out in the original stage production. Simon is a full-blooded Negro,
Battus is a little less dark, Acte is a mulatto as were most Egyptians of the later
dynasties. Her attendants comprise both mulattoes and Negroes. The Roman
characters are played by persons of slighter negroid strain.
SIMON THE CYRENIAN
And as they led him away they laid hold upon one Simon, a
Cyrenian, ... and on him they laid the cross that he might bear it after
Jesus.
Luke 23, 26.

PERSONS OF THE PLAY


Procula, the wife of Pilate
Drusus, a young Roman
Acte, Princess of Egypt
Battus, a Libyan prince, a boy
Simon
Pilate, governor of Judea
Barabbas, an insurrectionist
The Mocker with the Scourge
The Mocker with the Scarlet Robe
The Mocker with the Crown of Thorns
A Centurion
Longinus, a soldier
Procula’s Attendants
Acte’s Attendants
Soldiers

Time—The day of the Crucifixion of Jesus of Nazareth

Scene: A garden of Pilate’s house at Jerusalem. The whole scene is


strictly Roman, softened by its eastern location and by the
beginnings of Rome’s decadence, but there is no trace of
Judean influence. At the back there is a gallery or raised portico
reaching entirely across the garden. It is roofed but open and
beyond it the morning sky is seen. This passageway, which will
be called the portico, leads from the Praetorium on the left to
other buildings on the right. The garden has entrances toward
the back at both left and right. At the left, near the front, a
narrow portion of the façade of Pilate’s house is seen, with a
doorway reached by three steps. At the right of the garden, near
the front, there is a wall fountain. There is a marble seat at back
centre. All the architecture is of mellow marble as dark as
alabaster.

[As the curtain rises Procula is discovered upon the


steps of her house. She is in an extreme state of
agitation. Her attendants are in the garden. The
sound of a mob, with cries of “Crucify him,” “To the
Place of the Skull,” “On to Golgotha,” etc. is heard
at the rise of the curtain and at intervals
throughout the play.]

Procula
Go! Go, send more messengers. Ah, Hera, help me.

[A Messenger runs into the garden from the right and


kneels before her, breathless.]

Procula
Has Simon the Cyrenian been found?
Messenger
The swiftest horseman reached him. He is nearing the city.
Procula
Hasten him. Bring him. Your freedom for it. [The Messenger
hurries out.]
Procula
[To Attendants.] Is there no news yet?
Attendant
One messenger has not returned. He who was sent to the royal
woman of Egypt.
Procula
Send others after him, take wings. [Drusus enters the garden
from the left.] Drusus! Help me draw him swiftly.
Drusus
The wife of Pilate speaks. Whom shall I send to her?
Procula
Too late, too late. I speak foolishly. I have already sent.
Drusus
You are tormented.
Procula
Are mine the only eyes that see the doom unrolling?
Drusus
You speak strangely.
Procula
The Furies whip me.
Drusus
Tell me your secret.
Procula
This Jesus the Nazarene—
Drusus
You need not fear him. He is in Pilate’s hands.
Procula
Out of that is my agony. Ah, my dream.
Drusus
Dreams?—
Procula
Did you feel the earth heave last night?
Drusus
I was drinking at Herod’s palace.
Procula
Trees groaned, the statues shuddered, the fountains dried, the
walls sweated, a red dew fell in the gardens.
Drusus
I felt nothing. I saw nothing.
Procula
I saw—I cannot tell it. Horror was heaped on horror.
Drusus
You dreamed of this Nazarene?
Procula
Of him. He must not die. I begged his life of Pilate but he fears the
Jews. Help me.
Drusus
Help you? How?
Procula
Bring Simon the Cyrenian.
Drusus
That tiger?
Procula
I heard many voices in my dream and one voice cried, “Simon the
African shall bear the burden.”
Drusus
You have not felt his claws.
Procula
Then you too believe him dangerous?
Drusus
The most dangerous man in the empire.
Procula
Dangerous to Romans, it may be, but—
Drusus
[Scornfully.] The friend of slaves! Wherever he goes insurrection
follows him. He was the secret leader of last year’s armed uprising in
Rome when thirty thousand perished. He hollows out the empire with
sedition.
Procula
A stronger man than Rome.
Drusus
His influence spreads through the provinces. He plans world
empire, undermining Rome. Cæsar has been warned of him, but is
afraid or listless.
Procula
[Half to herself.] Surely such power should avail to save one life.
Drusus
There is a rumour that he was here two nights ago to renew the
insurrection of Barabbas. We had spies set upon him.
Procula
Does he fear spies? I have sent for this man. If the Nazarene is
condemned Simon must kindle riot and take him from the soldiers.
Drusus
Will the wife of Pilate breed rebellion to Rome?
Procula
It is for Rome’s sake and in my extremity. What singing is that? I
heard it in my dream.

[During the last few speeches a marching song by


men’s and women’s voices is heard off left, at first
faintly then, growing louder; the words are
indistinguishable.]

Drusus
The air is African.
Procula
May it be Simon.
Drusus
[Looking off left.] A litter with Ethiopian bearers.
Procula
Ethiopians! It is the Egyptian. [Drusus starts to go off right.]
Procula
Though I sent for her I fear her. Stay with me.
Drusus
I cannot. I bear word from Pilate to Herod. [He goes off right. A
Herald in Egyptian dress enters from left.]
The Herald
Acte of Egypt to the wife of Pilate.

[The voices off left are heard approaching and singing


the tune that today is known as the Negro spiritual
“Walk Together, Children.” Acte enters from left
walking with her litter-bearers and women. With
her is Battus, a boy of ten.]

Acte
The wife of Pilate sent to me?
Procula
For Simon the Cyrenian. Men say you are his friend.
Acte
I have come here to find him.
Procula
He is not here.
Acte
If his mood holds he will not fail to come since you have sent for
him. Your men have told me that he nears the city.
Procula
Oh, help me rouse him when he comes.
Acte
What is your need?
Procula
A hidden service.
Acte
You ask my aid? Then trust me.
Procula
[Coming down close to Acte and speaking in a low voice.] Jesus
the Nazarene must not die.
Acte
Has he been doomed?
Procula
Not yet. But if—
Acte
Are you not Pilate’s wife?
Procula
He fears the Jews.
Acte
And Simon?
Procula
If Jesus is condemned Simon must seize him.
Acte
Never.
Procula
It must be done. I beg you help me.
Acte
This Nazarene has no friend in me.
Procula
And you have never seen him.
Acte
No, but I suffer much because of him.
Procula
And I. Jesus must live. Oh, move Simon to strike.
Acte
More lives than this magician’s wait on Simon. [An Attendant of
Procula enters from left.]
Attendant
[Calling.] Pilate has gone up toward the Judgment Hall.
Procula
Beg him to stay for me, for one word more. I’ll follow. [Attendant
goes out left. To Acte.] Command my household, wait here for
Simon. [Seizing Acte and pointing toward the Judgment Hall.] In
there and at this hour the fate of earth and heaven dangles in the
hands of blind men. Tell Simon this, see that his eyes are open.

[Procula hastens into her house. During Procula’s


words one of Acte’s Attendants, who has
strayed off right has reëntered, looking off.]

Attendant
Lord Simon rushes toward this place.
Acte
Make ready all.

[Her tire-women attend her and her men stand looking


expectantly off right. Simon enters from right. He
is a Negro of majestic bearing, with a sad, severe
countenance. He is dressed as a soldier.]

Simon
Egypt!
Battus
[Rushing joyfully toward Simon.] Simon, Simon.
Simon
Battus, Royal Battus. [He embraces the boy.]
Battus
You have been long away.
Simon
Not so long as to have forgotten Battus.
Battus
And have you forgotten Cyrene and Egypt and our kingdom of the
free? [Acte hushes the boy, looking apprehensively about.]
Simon
No, Battus.
Acte
[To her Attendants.] Take the boy deeper in the garden. Wait
there till I call him. [The Attendants lead Battus off left.]
Acte
[Moving swiftly to Simon.] You are in danger here. What sorcery
called you back?
Simon
Where is the wife of Pilate?
Acte
She is asleep—or she listens to the harp.
Simon
Why are you here?
Acte
I came to meet you. Why did you return?
Simon
Messengers from the wife of Pilate reached me.
Acte
What spell is on you, you who were never trapped? This is the
wolf’s own mouth. You tempt it to close upon you.
Simon
The tiger’s blood is never lapped by wolves.
Acte
Many can pull down one. Go back.
Simon
When is the Nazarene to be tried by Pilate?
Acte
So, I have found the hunter that has snared you.
Simon
When is he to be tried?
Acte
Who knows? Tomorrow. Perhaps never.
Simon
Today, the message said.
Acte
Perhaps this afternoon. Oh, Simon, wake. Shake off this net of
dreams. How were you taken in it?
Simon
I am not taken.
Acte
You have seen this Nazarene?
Simon
I saw him.
Acte
When?
Simon
Two nights ago.
Acte
After you left me.
Simon
Afterward. I had summoned to a garden
The bravest of the slaves to help them plan
A new sedition that would free Barabbas.
There as I roused the jungles against Rome
I saw lights in another part of the garden,
I saw men come with torches and seize a man.
I hurried near and through the olive leaves
His eyes looked into mine,
His eyes burned into mine. I have seen them since,
Waking or sleeping.
Acte
You followed him?
Simon
No, and none saw me. I turned back through
the shadows and joined my men.
Acte
And did you plot again that night?
Simon
My thoughts went wide. My words were broken.
I told the slaves to wait till my next coming.
Then, before dawn, I set out for the sea.
Acte
Oh, my Cyrenian, where is that fierce blood
That poured out from your heart fires to burn Rome?
Simon
My spirit is fiercer than it was before,
The groans of the oppressed louder than ever.
Acte
Then why have you turned back?
Simon
I have seen the whole world’s sorrow in one man’s eyes.
Acte
What does it mean? You are changed.
Simon
There as I looked upon him in the garden
A wound came in my side like a spear’s thrust,
Bleeding for him.
Acte
Is this all you know of him?
Simon
As I went seaward
I met men coming to the yearly feast.
These told me of his works, they spoke of marvels,
Of healings and of resurrections.
He suffers the old wrong of the downtrodden.
Acte
Are there no wrongs then in our Africa?
Simon
The whole earth groans beneath the persecuted;
The outcast, the despised cry out to me.
Acte
And you whom they trust to save them turn aside
To this one man.
Simon
I have not turned aside, yet I may help him.
Acte
Go back. Your peril grows. You will be trapped.
Simon
Rome cannot take me.
Acte
It is not Rome I fear but this Judean.
Simon

[Moving toward the doorway of Pilate’s house.]


Why does the wife of Pilate stay,
Having summoned me with horsemen?
Acte
[Going with him.] Doubtless she forgets.
Her whims are many.
Simon
I must hear from her
What they have done with him.
Acte
[Placing herself before him.] Simon!
Mists are before your eyes,
Mists of forgetting.
You have forgotten Battus and all your holy vows before the
priests of Libya and Egypt to bring him back to Africa Rome’s
conqueror.

[She calls off left to Battus. The Attendants enter


with him.]

Come, lad, sit here. [She leads him to a seat at centre.] Let’s play
at worlds for Simon. Who are you?
Battus
I am Battus.
Acte
And who is Battus?
Battus
Son of Cyrenian kings and kings of Egypt,
Son of all Africa.
Acte
Who shall be your army?
Battus
The slaves of Rome.
Acte
Who shall lead them up to victory?
Battus
Simon and I.
Acte
And then?
Battus
They shall be free. All wrongs shall be righted.
The great shall be brought low, the lowly raised.
Acte
How shall we reach our own?
Battus
Through blood and fire.
Acte
Who shall be our own?
Battus
All those who suffer wrongs, the poor, the captives.
Acte
[To Simon.] What do you say, now you have heard the faith he
lives by?
Simon
Oh, I have not forgotten. We shall go forward.
Acte
To triumph.
Simon
Yes, to triumph.
Acte
Through fire and blood.
Simon
Through fire and blood.
Acte
Ah, I have never doubted the fierce heart in you. Never be tamed.

[Procula appears in her doorway. Acte sees her and


moves apprehensively aside. Procula sees
Simon.]

Procula
You are the Libyan captain?

[Acte waves Battus and her attendants off left.]

Simon
The wife of Pilate sees him.
Procula
[Going swiftly to him.] You have seen Jesus the Nazarene?
Simon
I have seen him.
Procula
Save him.
Simon
When is he to be tried?
Procula
He has been tried.
Simon

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