Sei sulla pagina 1di 67

Dance of thieves. Danza dei ladri.

La
dilogia Mary E. Pearson
Visit to download the full and correct content document:
https://ebookmass.com/product/dance-of-thieves-danza-dei-ladri-la-dilogia-mary-e-pe
arson/
Il libro

U
na guardia, un tempo ladra leggendaria, che vuole dare
prova di sé.
Un giovane, erede di una dinastia di fuorilegge, che si
ritrova improvvisamente al comando.
Una danza pericolosa che potrebbe costare loro la vita e il cuore.
Mary E. Pearson

DANCE OF THIEVES
contiene i romanzi:
Danza dei Ladri
Giuramento dei Ladri
A cura di Alessia Merlo e Rossella Pinto
Traduzione di Sofi Hakobyan
DANCE OF THIEVES
DANZA DEI LADRI - LA DILOGIA
Cari lettori italiani,

sono felicissima di condividere con voi questa meravigliosa edizione


Mondadori di Danza dei ladri e Giuramento dei ladri.

È stato divertente, inesplicabile, sorprendente e, talvolta, anche straziante


per me scrivere questa storia e nutrirò per sempre un amore profondo per Jase e
Kazi.

Gli ostinati e forti membri della numerosa famiglia di Jase sono stati una
sfida stupenda per me, mentre la relazione di Kazi con i propri commilitoni ha
dato inizio a una delle mie sorellanze preferite di sempre.

Tenetevi pronti: Jase e Kazi vi accompagneranno in una corsa sfrenata.

Con i migliori ringraziamenti per aver partecipato a questo viaggio,

Mary
DANZA DEI LADRI

Per le mie incrollabili e irrefrenabili ragazze,


Ava, Emily e Leah
«Annotale» mi aveva detto.
«Annota ogni parola appena arrivi lì,
Prima che la verità sia dimenticata.»
E ora, lo facciamo, se non altro, ciò che ricordiamo.

Greyson Ballenger, 14
CAPITOLO UNO
KAZIMYRAH DI LUMIBRUMA

“GLI SPIRITI SONO ANCORA QUI .”


Le parole aleggiavano nell’aria, ognuna uno spirito luccicante, un
gelido sussurro d’avvertimento, ma io non avevo paura.
Io lo sapevo già.
Gli spiriti non se ne vanno mai. Ti visitano nei momenti più
inaspettati, intrecciano le loro mani con le tue e ti trascinano lungo
sentieri che conducono verso l’ignoto. “Per di qua.” Perlopiù avevo
imparato a tenerli fuori.
Cavalcammo attraverso la Valle Sentinella dove le rovine
dell’antichità ci guardavano dall’alto. Il mio cavallo tese guardingo le
orecchie e un nitrito lamentoso gli uscì dal profondo della gola.
Anche lui lo sapeva. Gli accarezzai il collo per calmarlo. Erano
passati sei anni dalla Grande Battaglia, ma le cicatrici erano ancora
visibili: carri rovesciati e inghiottiti dall’erba, ossa dissotterrate e
sparpagliate dalle bestie affamate, scheletri di giganti brezaloti che si
allungavano verso il cielo, uccelli appollaiati sulle eleganti gabbie
scolorite.
Sentivo gli spiriti fluttuare, guardare, curiosare. Uno di questi mi
fece scivolare un gelido polpastrello lungo la mascella, stampandomi
l’avvertimento sulle labbra. “Silenzio, Kazi, non dire una parola.”
Impavida, Natiya ci condusse nel cuore della valle.
Scandagliammo le scogliere frastagliate e le rovine rimaste dalla
devastazione della guerra che venivano lentamente divorate dalla
terra, dal tempo e dai ricordi come quando un serpente ingoia con
calma una grassa lepre. Molto presto, tutta la devastazione sarebbe
finita nelle viscere della terra. Chi se lo sarebbe ricordato?
A metà strada, quando la valle cominciò a restringersi, Natiya si
fermò, scivolò giù dalla sella e tirò fuori dalla bisaccia un pezzo
ripiegato di stoffa bianca. Anche Wren smontò e scivolò piano per
terra, leggera come un uccello. Synové esitò e mi guardò incerta. Era
la più forte di tutti noi, ma tenne i fianchi rotondi ben appoggiati
sulla sella. Delle voci degli spiriti non le importava, nemmeno sotto
il sole splendente. La visitavano troppo spesso nei sogni. Annuii per
rassicurarla, ed entrambe scivolammo giù dai nostri cavalli unendoci
alle altre. Natiya si fermò davanti a un grande cumulo verde quasi
sapesse cosa c’era sotto il tappeto erboso. Distratta, sfregò la stoffa
fra le brune dita delicate. Pochi secondi che sembrarono un’eternità.
Natiya aveva diciannove anni, solo due più di noi, ma tutto d’un
tratto sembrò molto più vecchia. Aveva visto davvero le cose di cui
noi avevamo solo sentito parlare. Scosse lievemente la testa e
camminò verso un mucchio di sassi sparpagliati. Cominciò a
raccogliere le pietre cadute e a rimetterle nel loro posto sul modesto
monumento.
«Chi era?» chiesi.
Strinse le labbra. «Si chiamava Jeb. È stato arso sulla pira funeraria
secondo l’usanza dei dalbretch, ma io ho sepolto qui i suoi pochi
averi.»
“Secondo l’usanza dei nomadi” pensai, ma non dissi nulla. Natiya
non parlava molto della sua vita prima di diventare vendana e
Rahtan, ma nemmeno io parlavo molto della mia vita precedente.
Alcune cose era meglio lasciarle nel passato. Wren e Synové, a
disagio, schiacciavano l’erba a piccoli cerchi piatti sotto gli stivali.
Natiya non era incline a esternare le emozioni, nemmeno quelle
pacate, come in questo caso, tanto meno se scombinavano i suoi
programmi. Ma ora indugiava, proprio come le sue parole che ci
avevano portato nella valle. “Loro sono ancora qui.”
«Era speciale?» chiesi.
Annuì. «Tutti quanti lo erano. Ma Jeb mi insegnava delle cose.
Cose che mi hanno aiutato a sopravvivere.» Si voltò lanciando su di
noi uno sguardo penetrante. «Cose che io ho insegnato a tutte voi.
Spero.» Il suo sguardo scrutatore si ammorbidì e le folte ciglia nere le
gettarono un’ombra sotto gli occhi scuri. Osservò noi tre come un
g g
generale navigato osserva i soldati indisciplinati. In un certo senso,
lo eravamo. Eravamo le più giovani tra i Rahtan, ma eravamo Rahtan.
Questo significava qualcosa. Significava molto. Eravamo le guardie
più importanti della regina. Le sciocche maldestre non
raggiungevano quella posizione. In ogni caso, non sempre. Eravamo
state addestrate e avevamo talento. Lo sguardo di Natiya indugiò
soprattutto su di me. Ero a capo di quella missione, avevo il compito
di prendere decisioni giuste, anzi perfette. Questo significava non
solo avere successo, ma anche tenere tutte al sicuro.
«Staremo bene» promisi.
«Bene» acconsentì Wren, e con impazienza si soffiò via un ricciolo
scuro dalla fronte. Voleva partire. L’attesa dava sui nervi a tutti
quanti.
Ansiosa, Synové torceva una delle lunghe trecce color caco fra le
dita. «Staremo benissimo. Siamo…»
«Lo so» disse Natiya alzando la mano per fermare la lunga
delucidazione che Synové stava per dare. «Bene. Prima ricordatevi
solo di passare un po’ di tempo all’insediamento. Dopo viene la
Bocca dell’Inferno. Fate molte domande. Raccogliete informazioni.
Trovate l’attrezzatura che vi serve. Mantenete un basso profilo finché
non arriviamo.»
Wren sbuffò. Mantenere un basso profilo era di sicuro una delle
mie specialità, ma non stavolta. Finire nei guai era il mio traguardo
per il cambiamento.
Il rumore della galoppata troncò lo scambio teso. «Natiya!»
Ci girammo verso Eben, in groppa al cavallo che con gli zoccoli
sollevava soffici zolle d’erba. Gli occhi di Synové si illuminarono
come se il sole le avesse appena ammiccato da dietro una nuvola. Il
cavallo lo fece girare su se stesso, ma lo sguardo si mantenne su
Natiya.
«Griz si lamenta. Vuole partire.»
«Arrivo» rispose lei e poi agitò il pezzo di stoffa che teneva in
mano. Era una camicia molto bella. Si sfiorò la guancia con la stoffa,
poi la posò sul monumento di pietra. «Lino di Cruvas, Jeb» sussurrò.
«Il migliore.»
Arrivammo allo sbocco della valle e Natiya si fermò gettando uno
sguardo indietro per l’ultima volta. «Tienilo a mente» disse lei.
«Ventimila. Ecco quante persone sono morte qui in un solo giorno.
Vendani, morrighesi e dalbretch. Io non li conoscevo tutti, ma
qualcuno sì. Qualcuno che, se avesse potuto, avrebbe portato loro
fiori di campo.»
Oppure una camicia di lino di Cruvas.
Ora capivo perché Natiya ci aveva portati lì. Aveva seguito
l’ordine della regina. “Guarda. Guarda bene e rammenta le vite
perdute. Persone vere a cui qualcuno voleva bene. Prima che tu
svolga il compito che ti ho assegnato, osserva la devastazione e
ricorda cos’hanno fatto. Quello che potrebbe accadere di nuovo.
Sappi qual è la posta in gioco. Alla fine, i draghi si svegliano e
sgusciano fuori dalle loro tane oscure.”
Avevo letto l’urgenza negli occhi della regina. L’avevo avvertita
nella sua voce. Non c’entrava soltanto il passato. Temeva per il
futuro. Qualcosa era in fermento e lei voleva a tutti i costi fermarlo.
Scandagliai la valle. Da lontano, le ossa e i carri si fondevano in un
placido mare verdeggiante che celava la verità.
Niente era come sembrava.

Le lamentele di Griz di levare le tende non erano una novità. Gli


piaceva accamparsi presto e partire presto, qualche volta persino col
buio, quasi fosse una sorta di vittoria sul sole. Quando tornammo, il
suo cavallo era già sellato e il falò spento. Osservava con impazienza,
mentre noi sistemavamo sacchi a pelo e borse.
A un’ora di viaggio da lì, ci saremmo separati. Griz era diretto a
Civica in Morrighan. La regina era in possesso di notizie che voleva
condividere con il re, suo fratello, e non si fidava di nessuno per
fargliele recapitare, nemmeno del valsprey che usava per inviare
altri messaggi. Altri volatili potevano attaccare il valsprey o
abbatterlo e i messaggi sarebbero stati intercettati, invece Griz non
gg
poteva essere fermato da nulla. Tranne forse che da una rapida
deviazione a Terravin, il motivo probabilmente di tanta fretta.
Synové lo prendeva in giro dicendo che aveva una fidanzatina lì, al
che lui prorompeva in smentite. Griz era un Rahtan della vecchia
scuola, ma i Rahtan non erano più dieci ligi d’élite. Ora eravamo in
venti. Molte cose erano cambiate da quando la regina era salita al
potere, inclusa me.
Quando iniziai a piegare la mia tenda, Griz mi si fermò alle spalle
a guardare. Ero l’unica a usare una tenda. Era piccola e non
occupava tanto spazio. La prima volta quando mi aveva visto usarla,
durante una missione nella provincia meridionale, si era mostrato
riluttante. “Non usiamo tende” aveva detto con mera ripugnanza.
Ricordo il senso di vergogna che provai. Nelle settimane che
seguirono trasformai quell’umiliazione in determinazione. La
debolezza ti rendeva un bersaglio e, molto tempo prima, mi ero
promessa che non sarei mai più stata una vittima. Seppellii il mio
senso di vergogna sotto una corazza accuratamente lavorata. Le
offese non erano in grado di scalfirla.
Griz gettò un’immane ombra su di me con la sua statura
minacciosa. «La mia tecnica di piegarla non incontra la tua
approvazione?» chiesi.
Non disse nulla.
Mi voltai e lo guardai. «Cosa c’è, Griz?» sbottai.
Lui si sfregò il mento ispido. «Il territorio tra qui e la Bocca
dell’Inferno è un vasto spazio aperto. Deserto, piatto.»
«Arriva al punto.»
«Starai… bene?»
Mi alzai, colpendolo sulla pancia con la tenda. Incassò il colpo.
«Ho tutto sotto controllo, Griz. Rilassati.»
Inclinò il capo con espressione perplessa.
«La vera domanda è se tu starai bene» aggiunsi, sottolineando il
“tu” per un effetto maggiore.
Mi guardò, corrugò la fronte in segno di domanda, poi si accigliò
e si portò la mano al fianco.
Sorrisi e gli restituii il pugnale corto.
La sua espressione severa mutò in un sorriso riluttante mentre
sistemava il pugnale nel fodero vuoto. Alzò le sopracciglia folte e
scosse la testa in segno d’approvazione. «Segui il vento, Ten.»
Ten, il soprannome che mi ero guadagnata con fatica. Era il suo
atto di fiducia. Mi torsi le dita con riconoscenza.
Nessuno, soprattutto Griz, si sarebbe scordato di come me l’ero
guadagnato.
«Intendi controvento, vero?» gridò Eben.
Gli lanciai uno sguardo truce. E nessuno, specie Eben, avrebbe
mai scordato che la mia vita da Rahtan era cominciata il giorno in cui
avevo sputato in faccia alla regina.
CAPITOLO DUE
KAZI

NOTAI LA REGINA MENTRE CAMMINAVA LUNGO LE STRETTE E sporche


strade del quartiere di Lumibruma. Non l’avevo pianificato, ma
persino gli eventi non pianificati possono scagliarci lungo sentieri
che mai ci saremmo aspettati di percorrere, cambiando il nostro
destino e ciò che ci definisce. Kazimyrah: orfana, invisibile ratto di
strada, ragazza che sfidò la regina, Rahtan.
La mia strada era segnata già all’età di sei anni, ma il giorno in cui
sputai in faccia alla regina fui spinta barcollante a percorrerne
un’altra. In quel momento, la risposta inaspettata della regina, un
sorriso, non aveva solo definito il mio futuro, ma anche il suo regno.
La sua spada era nel fodero al suo fianco. La folla aspettava con il
fiato sospeso di vedere cosa sarebbe successo. Sapevano quello che
era accaduto in precedenza. Fosse stata lei la Komizar, mi sarei trovata
riversa a terra senza la testa. Il suo sorriso mi aveva terrorizzato più
che se avesse sguainato la spada. In quel momento capii che la
vecchia Venda, dove sapevo come muovermi, non esisteva più e che
non l’avrei mai riavuta. La odiavo per questo.
Quando scoprì che non avevo una famiglia a cui appellarmi, disse
alle guardie che mi avevano catturata di portarmi al palazzo di
Sanctum. All’epoca credevo di essere molto furba. Troppo furba per
quella giovane regina. A quel tempo, alle spalle avevo ormai undici
anni di coraggio e umiliazioni e nulla poteva scalfirmi. L’avrei
superata in astuzia proprio come facevo con chiunque altro.
Dopotutto, era il mio regno. Tutti i miei polpastrelli erano al loro
posto e mi ero fatta una reputazione. Tra le strade di Venda mi
chiamavano Ten con un sussurro deferente.
Il possesso di tutte le dita era proverbiale per un ladro o per un
presunto ladro dato che, semmai fossi stata beccata con della merce
rubata, il soprannome sarebbe diventato Nine. Gli otto signori di
quartiere che amministravano il sistema di punizioni nei casi di furto
mi chiamavano con un altro nome: per loro, io ero l’Evocatrice
d’ombre perché giuravano che persino in pieno giorno ero capace di
far salire le tenebre e di farmi inghiottire. Alcuni toccavano persino
amuleti nascosti quando mi vedevano arrivare. Ma non meno utile
delle tenebre era conoscere i personaggi e le tecniche della vita da
strada. Perfezionavo le mie abilità ingannando i signori di quartiere
e i mercanti quasi fossi una musicista e loro dei tamburi grezzi che
rullavano sotto le mie mani, facendo sì che si vantassero l’uno con
l’altro perché io non ero riuscita a ingannarli, che si sentissero molto
intelligenti persino quando portavo loro via degli oggetti di cui avrei
fatto buon uso altrove. I loro ego erano i miei sodali, i vicoli tortuosi,
i cunicoli e le passerelle i luoghi dove ho imparato il mio mestiere, e
il mio stomaco un implacabile tiranno. C’era, però, un altro genere di
fame che mi guidava: la fame per le risposte che difficilmente si
ottenevano dalle merci di un borioso signore. Questo bisogno era il
mio tiranno maggiore, più oscuro.
Ma, a causa della regina, praticamente in una notte assistetti alla
dissoluzione del mio mondo. Avevo patito la fame per farmi strada e
arrivare a quella posizione. Nessuno me l’avrebbe tolta. Le vie
anguste e tortuose di Venda erano tutto quanto avessi mai
conosciuto e il suo mondo criminale era l’unica cosa che
comprendevo. I suoi membri formavano un’alleanza pronta a tutto
che d’inverno gradiva il calore dello sterco dei cavalli, il coltello nel
sacco di iuta e la scia del grano che si lasciava dietro, il cipiglio di un
mercante raggirato che si rendeva conto di non avere più uova nel
cestino oppure, se mi sentivo particolarmente incline alla punizione,
l’intera gallina che le aveva deposte. Mi ero allontanata con cose
ancora più grandi e chiassose.
Mi piaceva dire che era la fame a spingermi a rubare, ma non era
vero. Delle volte, derubavo i signori di quartiere per il solo piacere di
rendere le loro miserabili vite ancora più miserabili. Mi chiedevo, nel
caso fossi diventata una di loro, se avrei mai staccato dita per
p
assicurarmi un posto al potere. Perché, come avevo già imparato, il
potere poteva essere attraente quanto una pagnotta calda, e quel
poco potere che io esercitavo su di loro era alle volte l’unico cibo di
cui avevo bisogno.
Con i nuovi accordi firmati tra i regni che consentivano il diritto
d’insediamento nel Cam Lanteux, uno dopo l’altro tutti coloro per
cui o con cui avevo rapinato andarono a stabilirsi in grandi spazi
aperti per cominciare una nuova vita. Diventai un uccello spennato
che sbatteva le ali spiumate, di colpo inutile. Eppure, non mi sarei
mai spostata in un insediamento agricolo in mezzo al nulla. Era
qualcosa che non sarei stata in grado di fare. L’avevo capito all’età di
nove anni quando mi ero spinta poco lontano le mura del Sanctum
in cerca di risposte che mi sfuggivano. Quando guardai indietro
verso la città cha svaniva e mi accorsi di essere un mero puntino in
un paesaggio deserto, mi mancò il respiro. Il cielo vorticò in correnti
vertiginose e mi travolse come un’onda soffocante. Non c’erano posti
dove nascondersi, ombre in cui dissolversi, tende dietro cui
rannicchiarsi, scale sotto cui scomparire e nemmeno letti sotto cui
nascondersi nel caso qualcuno fosse venuto a prendermi. Non c’era
assolutamente un posto dove scappare. La trama del mio mondo,
pavimenti, soffitti, pareti, si era dissolta e io fluttuavo libera, senza
freni. A fatica tornai in città e non l’abbandonai mai più.
Sapevo che non sarei sopravvissuta in un mondo a cielo aperto.
Sputare in faccia alla regina era stato il mio futile tentativo di
conservare lo spazio che mi ero ritagliata. La mia vita mi era già stata
sottratta una volta. Non avrei lasciato che accadesse di nuovo, e
invece accadde. Le alte maree non si possono bloccare e il nuovo
mondo mi scivolò intorno alle caviglie come l’acqua sulla spiaggia e
fui trascinata dalla corrente.
I miei primi mesi al palazzo di Sanctum furono turbolenti. Ancora
mi chiedevo perché nessuno mi avesse strangolata. Io l’avrei fatto.
Rubavo ogni cosa, in bella vista o di nascosto, e le accumulavo in un
passaggio segreto sotto la scalinata della Torre Est. Nessun alloggio
privato si salvava. La sciarpa preferita di Natiya, gli stivali di Eben, i
cucchiai di legno del cuoco, spade, cinture, libri, alabarde
dell’armeria, la spazzola per i capelli della regina. Qualche volta li
p p p g
restituivo, altre volte no, concedendo la grazia come una regina
volubile. Griz mi corse dietro urlando da un salone all’altro quando
per la terza volta gli rubai il rasoio.
Infine, una mattina, quando entrai nella galleria del Consiglio, la
regina mi applaudì e disse che senza dubbio padroneggiavo l’arte
del furto, ma era giunto il momento di acquisire altre competenze.
Si alzò e mi porse una spada da me rubata.
I nostri sguardi si incrociarono e mi chiesi come fosse venuta in
possesso dell’arma. «Anch’io conosco molto bene quel passaggio,
Kazimyrah. Non sei l’unica a intrufolarti negli angoli del Sanctum.
Sfruttiamola, invece di lasciarla arrugginire nell’oscura, umida
tromba delle scale, cosa ne dici?»
Per la prima volta, non opposi resistenza.
Volevo imparare di più. Non volevo solo possedere le spade, i
coltelli e le mazze che mi ero procurata. Volevo sapere anche come
usarli e farlo bene.

Il paesaggio diventava ormai più pianeggiante come se enormi mani


ci avessero preceduti, levigando le pieghe delle colline. Le stesse
mani dovevano averle ripulite dalle macerie. Era strano non vedere
nulla. Non avevo mai percorso lunghi tratti senza alcuna traccia del
mondo precedente. Le antiche rovine abbondavano, ma lì c’era
soltanto una parete pericolante a gettare una misera ombra.
Nient’altro che cielo aperto e vento sfrenato che mi comprimeva il
petto. Mi sforzai di fare respiri profondi, a pieni polmoni,
concentrata su un punto all’orizzonte, immaginandomi che lì ci fosse
una magica città ombreggiata ad aspettarmi a braccia aperte.
Griz si era fermato a consultarsi con Eben e Natiya sui punti di
ritrovo. Era arrivato il momento di separarci. Quando ebbe finito, si
voltò e gettò un’occhiata diffidente allo spazio infinito di fronte a
noi, quasi cercasse qualcosa. Il suo sguardo si posò su di me. Mi
stiracchiai e sorrisi come durante una piacevole giornata di gita
estiva. Il sole era alto e gli gettava ombre taglienti su tutto il volto
sfregiato. Le linee intorno ai suoi occhi diventarono più marcate.
g p
«Un’altra cosa. Guardatevi le spalle lungo questo tratto. Ho perso
due anni di vita qui vicino perché non sono stato attento.» Ci
raccontò di come lui e un ufficiale di Dalbreck erano stati aggrediti
da trafficanti di manodopera e portati con forza a lavorare in una
miniera.
«Siamo armati fino ai denti» gli rammentò Wren.
«E c’è Synové» aggiunsi. «Hai tutto sotto controllo, vero, Syn?»
Lei batté gli occhi come se avesse avuto una visione, e annuì.
«Certo.» Poi mosse le dita in un ampio gesto. «Adesso vai a divertirti
con la tua fidanzatina» sussurrò felice.
Griz grugnì e gettò le mani in aria, allontanando il suggerimento.
Biascicò un’imprecazione e si allontanò a cavallo.
Riuscimmo a metterci in cammino senza ulteriori istruzioni da
parte di Natiya. Era già stata organizzata ogni cosa, manovre e tutto.
Eben e Natiya erano dirette a sud verso Parsuss, la sede
dell’Eislandia, per parlare al re e informarlo che avremmo operato
sul suo territorio. In primo luogo era un agricoltore, come gran parte
degli eislandiani, e il suo esercito consisteva di poche decine di
guardie che lavoravano anche i suoi campi. Non aveva i mezzi per
far fronte ai tumulti. Inoltre, Griz aveva descritto il re come una
persona mite che, invece di torcere colli, si torceva le mani ed era in
difficoltà a controllare i territori settentrionali. La regina era certa che
non avrebbe obiettato, ma era vincolata dal protocollo e doveva
tenerlo informato. Era per precauzione diplomatica nel caso
qualcosa fosse andato storto.
Ma nulla sarebbe andato storto. Gliel’avevo promesso.
Comunque, quello che avremmo raccontato al re eislandiano era
un pretesto, non la nostra vera missione. Quella era un segreto che
veniva gelosamente custodito e non poteva essere condiviso
nemmeno con il monarca al potere.
Misi via la mappa e spronai il cavallo in direzione della Bocca
dell’Inferno. Synové si voltò verso Eben e Natiya, che andavano per
la loro strada, valutando quanto distanti cavalcavano l’uno dall’altra
e se si scambiavano qualche parola. Non capivo la sua cotta per lui,
ma ce n’erano stati altri. Synové era innamorata dell’amore.
«Pensi che l’abbiano fatto?» chiese appena furono abbastanza
distanti da non sentire.
Wren gemette.
Speravo intendesse qualcos’altro, ma chiesi comunque. «Chi ha
fatto cosa?»
«Eben e Natiya. Lo sai, quello.»
«Sei tu quella che sa tutto» disse Wren. «Dovresti saperlo.»
«Io faccio dei sogni» la corresse lei. «E se voi due ci aveste provato
un po’ di più, anche voi avreste potuto farli.» Le tremarono le spalle
dal disgusto. «Ma non ci tengo a rifare quel sogno.»
«Non ha tutti i torti» dissi a Wren. «Alcune cose non si
dovrebbero immaginare, né sognare.»
Wren scrollò le spalle. «Non li ho mai visti baciarsi.»
«E nemmeno tenersi per mano» aggiunse Synové.
«Ma nessuno dei due è particolarmente affettuoso» le ricordai io.
Synové aggrottò meditabonda le sopracciglia e nessuna di noi
disse quanto sapeva. Eben e Natiya erano molto affezionati l’uno
all’altra, in un modo molto passionale. Benché non fosse qualcosa su
cui mi fossi soffermata, avevo il sospetto che si fossero spinti molto
oltre i baci. In realtà, non mi importava, né interessava. In un certo
senso, pensavo di essere come Griz. Prima di tutto eravamo Rahtan,
quindi c’era poco tempo per pensare ad altro. Complicava solo le
cose. Le mie poche avventure con i soldati avevano solo comportato
distrazioni di cui decisi di non avere più bisogno, distrazioni
rischiose che risvegliavano in me un senso di nostalgia per un futuro
su cui non potevo fare affidamento.
Continuammo a cavalcare e, come sempre, Synové parlò per gran
parte del tempo, riempiendo le ore con numerosi commenti sull’erba
ondeggiante che accarezzava il nodello dei cavalli o sulla zuppa di
porro salata che preparava sua zia. Sapevo che in parte lo faceva per
distrarmi da un mondo piatto e vuoto che alle volte incombeva
fluttuante, minacciando di inghiottirmi con le sue fauci spalancate.
Qualche volta funzionava. Altre, mi distraevo in qualche altra
maniera.
Di colpo, Wren allungò la mano in segno d’avvertimento e fece
segno di fermarci. «Cavalieri. Terza campana» disse. Estrasse il suo
g p
ziethe, lo agitò e fendé l’aria con la lama affilata, pronta all’azione.
Synové stava già incoccando la freccia.
In lontananza, una nuvola tenebrosa accarezzava la pianura,
sempre più grande man mano che si avvicinava. Estrassi la spada,
ma tutto d’un tratto la nuvola virò in alto, verso il cielo. Volò sopra le
nostre teste stringendo fra gli artigli un’antilope che si contorceva. Ci
rannicchiammo per istinto quando il vento che la creatura sollevava
con le ali ci scompigliò i capelli. I cavalli si impennarono. In una
frazione di secondo, la creatura era svanita.
«Jabavé!» ruggì Wren, mentre noi cercavamo di calmare i cavalli.
«Che diavolo era quello?»
Griz si era scordato di avvertirci. Avevo già sentito delle voci su
quelle creature ma pensavo che esistessero soltanto nell’estremo
Nord, sopra Infernaterr. A quanto pareva, non quel giorno.
«Racaa» rispose Synové. «Uno degli uccelli che mangia i valsprey.
Non credo che mangino umani.»
«Non credi?» gridò Wren. Le sue guance scure si accesero dalla
rabbia. «Non sei sicura? Un’antilope ha un sapore tanto diverso da
noi?»
Riposi la spada nel fodero. «Abbastanza, speriamo.»
Wren si ricompose, mettendo via lo ziethe. Ne portava due,
sempre affilati come un rasoio, uno a ogni fianco. Era più che in
grado di sfidare aggressori a due zampe, ma un attacco dal cielo
richiedeva una seconda valutazione. La vidi concentrata in calcoli
mentali. «Avrei potuto ucciderlo.»
Non c’era dubbio. Wren aveva la tenacia di un tasso alle strette.
I demoni che la guidavano erano esigenti quanto i miei e lei aveva
affinato le sue abilità portandole a livelli altissimi, implacabili. Aveva
assistito al massacro della propria famiglia sulla Piazza Roccianera
dopo che avevano fatto l’errore di esultare per una principessa
rapita. La stessa cosa era successa a Synové e, sebbene fingesse di
essere un’allegra ingenua, in lei ribollivano emozioni letali. Aveva
ucciso più predoni rispetto a Wren e me messe assieme. Sette
dall’ultima volta.
Dopo aver riposto la freccia nella faretra, Synové riprese il
chiacchiericcio. Se non altro, per il resto della nostra cavalcata
p
avrebbe avuto qualcosa di cui parlare. I racaa erano una distrazione
del tutto nuova.
Tuttavia, l’ombra del racaa scatenò in me pensieri di tutt’altro
genere. La settimana seguente a quell’ora avremmo potuto essere noi
a fare una retata sulla Bocca dell’Inferno, gettandovi la nostra stessa
ombra e, se tutto fosse andato per il verso giusto, in poco tempo io
mi sarei allontanata con qualcosa di molto più importante di
un’antilope fra le grinfie.
Sei anni prima era iniziata la guerra più sanguinosa che il
continente avesse mai visto. Erano morte migliaia di persone per
colpa di un manipolo di uomini. Uno di loro, il capitano di guardia
alla fortezza di Morrighan, era ancora vivo e, secondo alcuni, era il
peggiore di tutti. Aveva tradito il regno che aveva giurato di
proteggere e aveva pian piano fatto entrare nella fortezza soldati
nemici con l’intento di indebolire Morrighan e far cadere la fortezza.
Alcuni di quei soldati erano semplicemente svaniti nel nulla, con
tutta probabilità perché avevano destato sospetti. I loro corpi non
furono mai ritrovati. I suoi crimini erano numerosi, tra cui
adoperarsi ad avvelenare il re e uccidere il principe ereditario
assieme ai due dei suoi compagni. Da allora, il capitano era stato il
fuggiasco più ricercato nel continente.
Era sfuggito due volte alle grinfie dei regni, dopodiché sembrava
svanito nel nulla. Nessuno l’aveva più rivisto in cinque anni, ma ora
un possibile avvistamento e un mercante ansioso di condividere
informazioni avevano alimentato di nuovo le speranze. “Ha
sacrificato il suo regno e la vita di migliaia di persone per saziare la
sua sete di potere” mi aveva detto la regina. “I draghi famelici
possono rimanere in letargo per anni, ma non cambiano il loro stile
alimentare. Dobbiamo trovarlo. I defunti esigono giustizia, proprio
come i vivi.”
Già prima di arrivare nella valle dei morti avevo avuto a che fare
con mostri in agguato, quelli che strisciano attraverso la notte, si
buttano addosso al mondo e divorano tutto ciò che è di loro
gradimento. Il fuggiasco della regina avrebbe pagato perché aveva
privato le persone dei sogni e delle vite senza mai voltarsi indietro,
senza curarsi della devastazione che si lasciava alle spalle. Alcuni
p
mostri avrebbero potuto svanire per sempre, ma se il capitano
Ilarion, che aveva tradito i suoi compatrioti e provocato la morte di
migliaia di persone, si fosse trovato alla Ronda di Tor, nessuno
sarebbe riuscito a nasconderlo. Io l’avrei catturato e lui avrebbe
pagato per tutto ciò che aveva fatto, prima che uccidesse altre
persone per saziare la sua sete.
“Mi servi, Kazimyrah. Io credo in te.” La fede della regina in me
significava tutto.
Era l’unico lavoro che ero capace di fare e quella missione era la
mia immeritata occasione di fare ammenda. Un anno prima, avevo
commesso un errore che per poco non mi era costato la vita e che
aveva compromesso la pressoché immacolata immagine della
guardia scelta della regina. Rahtan significava “non fallire mai”, ma
io avevo fallito miseramente. Non passava un giorno senza che io ci
pensassi.
L’aver scambiato un ambasciatore arrivato da Reux Lau con
qualcun altro aveva scatenato in me un che di selvaggio e ferale, cosa
della cui esistenza neanche sapevo, o forse era un animale ferito che
a lungo avevo di nascosto nutrito. Le mie mani e le gambe che mi
spingevano avanti sembravano di un altro. Non avevo intenzione di
pugnalarlo, perlomeno non subito, ma lui era scattato
all’improvviso. Sopravvisse alla mia aggressione. Per fortuna, la
coltellata non era profonda ed erano stati necessari soltanto pochi
punti. Tutta la nostra squadra era stata arrestata e gettata dietro le
sbarre. Una volta accertato che avevo agito da sola, gli altri furono
rilasciati, ma io rimasi in una prigione di una provincia del Sud per
due mesi. Ci volle addirittura l’intervento della regina per sistemare
la faccenda e ottenere il mio rilascio.
In quei mesi avevo avuto molto tempo per riflettere. In una
frazione di secondo avevo perso il controllo e la pazienza, le sole
cose di cui ero fiera e che mi avevano aiutato a salvarmi la pelle nel
corso degli anni. E la cosa peggiore era che quell’errore mi aveva
fatto mettere in dubbio la mia stessa memoria. Forse non ricordavo
più la sua faccia, svanita assieme ad altri ricordi che si erano dissolti,
e quell’eventualità mi terrorizzava ancora di più. Non fossi riuscita a
ricordarlo, lui avrebbe potuto andare ovunque e diventare chiunque.
p q q
Al nostro ritorno, fu Eben a parlare alla regina del mio passato.
Nemmeno sapevo come l’avesse scoperto. Non ne avevo mai parlato
con nessuno e a nessuno davvero importava da dove venisse un
ratto di fogna. Eravamo in tanti.
La regina mi aveva convocato nel suo alloggio privato. «Perché
non mi hai parlato di tua madre, Kazimyrah?»
Il cuore mi batteva all’impazzata e un disgustoso sapore salato mi
salì lungo la gola. Lo mandai giù e mi drizzai sulle ginocchia nel
timore che mi cedessero.
«Non c’è nulla di cui parlare. Mia madre è morta.»
«Ne sei certa?»
In cuor mio ne ero sicura, e ogni giorno pregavo gli dèi che fosse
così.
«Mi auguro che gli dèi siano stati misericordiosi.»
La regina chiese se potessimo parlarne. Sapevo che cercava solo di
essere d’aiuto e io le dovevo una spiegazione esaustiva dopo tutto
quanto aveva fatto per me, ma si trattava di un groviglio confuso di
ricordi e di rabbia che nemmeno io ero ancora riuscita a districare.
Mi congedai senza darle una risposta.
Quando lasciai i suoi alloggi, misi Eben con le spalle al muro nella
tromba delle scale e gli inveii contro. «Fatti gli affari tuoi, Eben! Hai
capito? Non impicciarti!»
«Del tuo passato? Non c’è nulla di cui vergognarsi, Kazi. Avevi sei
anni. Non è colpa tua se tua…»
«Chiudi il becco, Eben! Non nominare mia madre, altrimenti ti
taglio la gola e succederà così in fretta e in silenzio che non ti
accorgerai nemmeno di essere morto.»
Tese il braccio e mi bloccò la strada impedendomi di passare.
«Devi affrontare i tuoi demoni, Kazi.»
Mi scagliai addosso a lui, ma io ero fuori di testa e lui no. Aveva
previsto il mio attacco: mi fece girare su me stessa e mi immobilizzò
contro il suo petto e, benché mi dibattessi, mi strinse così forte da
lasciarmi senza fiato.
«Capisco, Kazi. Credimi, capisco quello che provi» mi sussurrò
all’orecchio.
Montai su tutte le furie. Gridai. Nessuno poteva capire. Specie
Eben. Ancora non ero venuta a patti con i ricordi che lui agitava.
Come faceva a sapere che ogni volta mentre guardavo il groviglio
nero dei suoi lunghi capelli davanti agli occhi, la pelle chiara e
pallida o il suo sguardo truce, vedevo solo il carovaniere previzi che,
nel bel mezzo della notte, si era intrufolato nella mia stamberga
avvolta dalle tenebre e, con in mano una lanterna, aveva chiesto
dove fosse la ragazzina. Vedevo solo me stessa, rannicchiata nella
pozza dei miei stessi escrementi, troppo spaventata per muovermi.
Non avevo più paura.
«Hai ottenuto una seconda occasione, Kazi. Non gettarla via. La
regina ha rischiato la pelle per te. Non può farlo sempre. Non sei più
debole. Puoi sistemare le cose.»
Mi tenne stretta finché non smisi di combattere. Quando
finalmente mi liberai ero debole, arrabbiata e sgusciai via per
nascondermi in qualche passaggio oscuro del Sanctum dove nessuno
poteva trovarmi.
Solo dopo appresi da Natiya che Eben forse capiva davvero tutto.
A cinque anni aveva visto piantare un’ascia nel petto della madre e
aveva guardato il padre venire arso vivo. La sua famiglia aveva
cercato di stabilirsi nel Cam Lanteux prima degli accordi di
protezione. Era stato troppo giovane per accertare l’identità o
persino il regno di provenienza di chi aveva commesso quegli atti.
Gli era impossibile fare giustizia, ciononostante la morte dei suoi
genitori gli rimaneva impressa nella mente. Dopo aver conosciuto
meglio Eben e lavoratoci di più assieme, smisi di vedere in lui il
carovaniere previzi. Scorgevo soltanto Eben con le sue manie e le
abitudini, anche il suo passato segnato da cicatrici.
“Puoi sistemare le cose.”
Per me, fu un punto di svolta, ma anche l’ennesima ripartenza.
Più di ogni altra cosa volevo dimostrare la mia lealtà a qualcuno che
non solo aveva dato una seconda occasione a me, ma a tutta Venda.
Alla regina.
C’era una sola cosa che non sarei riuscita a risistemare.
Ma forse ce n’erano altre che avrei potuto rimettere a posto.
Radunatevi, fratelli e sorelle.
Abbiamo toccato le stelle,
Ed è nostro il vortice delle possibilità.
Ma mai il lavoro finisce.
Il tempo ruota. Si ripete.
Vigili dobbiam sempre essere.
Sebbene ora il Drago riposi,
Di nuovo si desterà
E vagherà sulla terra,
Sofferente e famelico.
E così sarà,
Per sempre.

Il canto di Jezelia
CAPITOLO TRE
JASE BALLENGER

“DOVUNQUE GUARDI, QUESTA TERRA È NOSTRA. NON DIMENTICARLO


mai. Apparteneva a mio padre e a suo padre prima di lui. Sono le
terre dei Ballenger e lo sono sempre state sin dai tempi dei nostri avi.
Siamo la prima famiglia e ogni uccello che vola sopra di noi, ogni
respiro, ogni goccia d’acqua che cade appartiene a noi. Stabiliamo
noi le leggi qui. Possediamo ogni cosa che vedi. Non lasciarti mai
sfuggire dalle mani neanche una manciata di terra, altrimenti la
perderai tutta.”
Appoggiai la mano di mio padre al suo fianco. Aveva la pelle
fredda, le dita rigide. Era morto da ore. Sembrava impossibile. Solo
quattro giorni prima era stato forte e in salute e poi, quando era
montato sul cavallo, si era stretto il petto e si era accasciato a terra.
La veggente disse che era stato per un sortilegio nemico. La
guaritrice disse che era stato il cuore e che non c’era nulla da fare.
Qualunque cosa fosse stato, nel giro di pochi giorni, lui non c’era
più.
Al termine della veglia, il suo letto era ancora circondato da una
dozzina di sedie vuote. Il rumore dei lunghi addii si era trasformato
in un perplesso silenzio. Spinsi indietro la sedia, uscii sul balcone e
feci un respiro profondo. Le colline si congiungevano all’orizzonte
con smerlature caliginose. “Neanche una manciata” gli avevo
promesso.
Gli altri si aspettavano di vedermi uscire dalla stanza con l’anello
al dito. Ora era il mio anello. Le sue ultime parole mi scorrevano
dentro, pesanti, potenti e determinate come il sangue dei Ballenger.
Sondai l’immenso paesaggio che ci apparteneva. Conoscevo ogni
collina, ogni gola, ogni scogliera e fiume. “Dovunque guardi.” Ora
tutto sembrava diverso. Mi allontanai dal balcone. Presto sarebbero
iniziate le sfide. Era sempre così quando moriva un Ballenger, come
se essere in meno potesse dare loro la possibilità di rovesciarci. La
notizia sarebbe giunta alle molte leghe sparpagliate oltre i confini. La
sua morte era arrivata in un brutto momento. Dovevamo partire con
il primo raccolto, i Previzi esigevano maggiori incassi per i loro
carichi e Fertig aveva chiesto la mano di mia sorella. Lei era ancora
indecisa. Scossi la testa e mi allontanai dalla ringhiera. Patrei. Adesso
toccava a me. Avrei mantenuto fede al mio giuramento. La famiglia
sarebbe rimasta unita, come sempre.
Estrassi il coltello dal fodero e tornai al capezzale di mio padre.
Gli tagliai il dito gonfio, presi l’anello, me lo infilai e uscii nel
corridoio gremito di volti in attesa.
Guardarono la mia mano ancora sporca del sangue di mio padre.
Era fatta.
Si alzò un boato di solenne riconoscenza.
«Avanti» dissi. «È il momento di sbronzarci.»

I nostri passi echeggiarono sicuri nella sala principale quando, in più


di una dozzina, ci dirigemmo verso la porta. Mia madre uscì
dall’anticamera ovest e mi chiese dove andassi.
«In osteria. Prima che la notizia trapeli.»
Mi schiaffeggiò sul lato della testa. «La notizia è trapelata da
giorni, sciocco. Gli avvoltoi annusano la morte prima che arrivi e
iniziano altrettanto in fretta a volteggiare. Entro una settimana ci
staranno già becchettando le ossa. Ora vai! Ma prima, l’elemosina al
tempio. Dopo puoi andare a bere fino a esplodere. E non lasciar
allontanare i tuoi straza. Sono tempi incerti!» Lanciò un torvo
sguardo d’ammonimento anche ai miei fratelli, che annuirono
deferenti. Il suo sguardo tornò su di me, ancora d’acciaio, tagliente,
ardente, limpido, ma sapevo che dietro quegli occhi si era
gravosamente alzato un muro. Anche dopo la morte di mio fratello e
di mia sorella non aveva versato una lacrima: le convogliò, invece, in
un pozzo per il tempio. Guardò l’anello sul mio dito. Oscillò
p p p
lievemente la testa. Sapevo che la turbava vederlo sulla mia mano
dopo che per venticinque anni era stato su quella di mio padre.
Assieme i due avevano consolidato la dinastia dei Ballenger.
Avevano avuto undici figli, nove dei quali ancora in vita, e uno
adottivo: la speranza che il loro mondo sarebbe diventato soltanto
più forte. Si concentrava su questo e non su ciò che aveva
prematuramente perso. Si portò la mia mano alle labbra, baciò
l’anello e mi spinse fuori dalla porta.
«Prima di tutto, l’elemosina, sciocco!» sussurrò Titus mentre
scendevamo i gradini del portico. Lo urtai con la spalla, e gli altri
scoppiarono a ridere quando lui capitombolò giù dalle scale. Non
vedevano l’ora di iniziare una notte di disordini. Una notte di oblio.
Veder morire qualcuno così pieno di vita come mio padre, che
avrebbe potuto vivere ancora a lungo, era un monito che la morte
era sempre in agguato.
Mentre raggiungevamo i nostri cavalli in attesa, mio fratello
maggiore, Gunner, avanzò furtivo. «Verrà Paxton.»
Annuii. «Ma ci metterà tanto.»
«Ha paura di te.»
«Non abbastanza.»
Mason mi diede una pacca sulla spalla. «Al diavolo Paxton. Non
arriverà prima della sepoltura, ammesso che venga. Adesso,
dobbiamo solo vederti ubriaco fradicio, Patrei.»
Ero pronto. Ne avevo bisogno tanto quanto Mason e chiunque
altro. Volevo che finisse e che tutti noi voltassimo pagina. Per quanto
debole fosse stato prima di esalare l’ultimo respiro, mio padre era
riuscito a dire molte cose. Era mio dovere ascoltare ogni parola e
giurare lealtà benché fossero cose che mi aveva già detto… e lui
l’aveva fatto. Mi aveva raccontato tutto nei particolari. Era tutto
inciso dentro di me come il sigillo dei Ballenger impresso sulla mia
spalla. La linea dinastica, sia di sangue sia adottiva, era al sicuro. Le
sue ultime istruzioni elaborate erano ancora radicate dentro di me.
Non si sentiva pronto a cedere il timone tanto presto. «I Ballenger
non si chinano davanti a nessuno. Falla venire. Gli altri se ne
accorgeranno.» Quella parte della storia si sarebbe forse rivelata più
difficile da realizzare.
Era necessario che annientassi subito gli altri avvoltoi che
arrivavano in gruppo nella speranza di prendere il controllo sui
nostri territori, primo tra tutti Paxton. Poco importava che fosse mio
cugino: discendeva comunque dalla stirpe illegittima di un mio
lontano zio che aveva tradito la sua famiglia. Paxton comandava il
piccolo territorio di Ráj Nivad, a sud, ma non gli bastava. Proprio
come gli altri della sua stirpe, era divorato dall’invidia e dalla
cupidigia. Ciononostante, in lui scorreva lo stesso sangue, quindi
sarebbe venuto a rendere omaggio a mio padre… e a fare una stima
delle nostre forze. Ráj Nivad si trovava a quattro giorni di cavalcata
da lì. Paxton probabilmente non aveva ancora saputo nulla e, se
anche fosse, ci avrebbe messo comunque tanto ad arrivare. Avevo
tempo per prepararmi.
I nostri straza gridarono in direzione della torre, che a sua volta
chiamò le guardie al portone in modo che ci aprissero. Le pesanti
porte di metallo si spalancarono con un cigolio e noi ci passammo
attraverso. Sentivo gli sguardi su di me, sulla mia testa. Patrei.
La Bocca dell’Inferno si trovava nella valle, proprio sotto la Ronda
di Tor, visibile solo in parte attraverso la canopea di alberi di tembris
che la cingevano a mo’ di una corona. Una volta avevo detto a mio
padre che mi sarei arrampicato in cima a tutti quanti. Avevo otto
anni e non mi rendevo conto di quanto svettassero alti nel cielo,
neanche quando mio padre mi disse che in cima ai tembris si trovava
il regno degli dèi, non degli uomini. Non arrivai molto in alto, di
certo non fino in cima. Nessuno l’aveva mai fatto. Più gli alberi si
stagliavano verso l’alto, più le radici scendevano in profondità, fino
alle viscere della terra. Erano le uniche cose su questa terra radicate
meglio dei Ballenger.
Appena arrivammo ai piedi della collina, Gunner cacciò un urlo e
partì, mettendosi alla testa del gruppo. Lo seguimmo, con il calpestio
degli zoccoli che ci martellava nelle ossa. Ci piaceva annunciare il
nostro arrivo in città con grande fasto.
La campana batté dolcemente, delicata come i calici di cristallo che
tintinnano per un brindisi. La scampanellata riecheggiò incontrastata
tra gli archi di pietra del tempio. Per quanto in disordine e a gran
voce ci fossimo precipitati nella città e per quanto le carte da gioco,
gli occhi rossi e i barili di birra ci offuscassero la vista, la casata
onorava la sacralità del tempio. Altri cinque rintocchi e sarebbe finito
tutto. Gunner, Priya e Titus si inginocchiarono da un lato, Jalaine,
Samuel, Aram e Mason dall’altro. Occupammo tutta la fila davanti. I
nostri straza, Drake, Tiago e Chorus, si inginocchiarono dietro di noi.
Il sacerdote parlò nell’antica lingua, rimestando le ceneri con del
sangue di vitello, poi appoggiò la punta del dito bagnata e coperta di
cenere sulla fronte di ognuno di noi. I bussolanti dai volti seri
sistemarono le nostre offerte, ritenute accettabili dagli dèi, negli
scrigni. Più che accettabili, a mio parere. Erano sufficienti per
mantenere un’altra guaritrice all’infermeria. Altri tre rintocchi. Due.
Uno. Ci alzammo, accogliendo la benedizione del sacerdote, e
uscimmo dalla sala buia in una solenne fila. Da sopra le alte colonne
ci guardavano le statue dei santi e la benedizione cantilenante del
sacerdote ci fluttuò dietro come un angelo custode.
Una volta fuori, Titus aspettò di arrivare in fondo alle scale prima
di mandare un fischio stridulo, l’appello alla locanda. Si brindava al
nuovo Patrei. Il senso della dignità davanti alla morte fece trasparire
le emozioni anche in Titus. Forse in tutti noi.
Sentii uno strattone al mantello. La veggente era rannicchiata
all’ombra di una colonna, con il cappuccio abbassato sul viso. Gettai
alcune monete nel suo cestino.
«Novità?» chiesi.
Mi tirò il mantello finché non m’inginocchiai e non la guardai
negli occhi, due pietre di un azzurro acceso che sembrarono
fluttuare, incorporei nell’ombra nera sotto il cappuccio. Incrociò il
mio sguardo, la testa inclinata di lato quasi cercasse di leggermi in
fondo agli occhi. «Patrei» sussurrò.
«L’hai sentito.»
Scosse la testa. «Non da fuori. Da dentro. Il tuo spirito mi parla.
Da fuori… sento altre cose.»
«Tipo?»
p
Si avvicinò, abbassò la voce come se temesse che qualcun altro
potesse sentirla. «Il vento sussurra che stanno arrivando, Patrei.
Vengono per te.»
Mi strinse la mano tra le sue dita nodose e mi baciò l’anello. «Che
gli dèi veglino su di te.»
Mi liberai piano e mi alzai, gli occhi ancora fissi su di lei. «E su di
te.»
Le sue parole non erano proprio una novità, ma non rimpiansi le
monete che le avevo gettato. Tutti sapevano che avremmo affrontato
delle sfide.
Neanche ero arrivato in fondo alle scale quando Lothar e Rancell,
due dei nostri capisquadra, trascinarono un uomo e lo gettarono in
ginocchio di fronte a me. Riconobbi Hagur dall’asta di bestiame.
«Stava rubando» disse Lothar. «Proprio come sospettavi.»
Lo fissai. Nei suoi occhi non c’era traccia di smentita, solo paura.
Estrassi il mio coltello.
«Non davanti al tempio» supplicò con le lacrime che gli rigavano
le guance. «Vi prego, Patrei. Non mi disonorate di fronte agli dèi.»
Mi cinse le gambe, chinò la testa e scoppiò in singhiozzi.
«Sei già disonorato. Pensavi davvero che non l’avremmo
scoperto?»
Non rispose. Piangeva solo per destare pietà, il volto premuto sui
miei stivali. Lo spinsi via, e lui mi fissò dritto negli occhi.
«Nessuno inganna la famiglia.»
Hagur annuì con ostinazione.
«Ma gli dèi hanno mostrato misericordia verso di noi» dissi. «Una
volta. Allo stesso modo fanno i Ballenger.» Rimisi il coltello nel
fodero. «Alzati, fratello. Se vivi nella Bocca dell’Inferno, fai parte
della mia famiglia.» Tesi la mano. Mi guardò sospettando un
inganno, troppo terrorizzato per muoversi. Feci un passo, lo tirai su
e lo abbracciai. «Una volta» gli sussurrai nell’orecchio. «Ricordatelo.
L’anno prossimo, pagherai il doppio della decima.»
Si allontanò con un cenno e indietreggiò barcollante,
ringraziandomi a ogni passo finché non si girò e non si mise a
correre. Non ci avrebbe più imbrogliati. Avrebbe ricordato di far
parte della famiglia, pertanto non avrebbe raggirato i membri della
sua stessa famiglia.
Perlomeno, doveva andare così.
Ripensai a Paxton e alle parole della veggente. “Vengono per te.”
Paxton era una seccatura, una sanguisuga che aveva sviluppato il
gusto per il vino. Ci saremmo occupati di lui, proprio come ci
occupavamo di tutto il resto.
Gli avvoltoi sono fuggiti, assieme alle nostre scorte.
«Spariti?» chiede lui.
Annuisco.
Giace morente fra le mie braccia, ormai ridotto in polvere, cenere e nel
fantasma del passato splendore.
Mi preme la mappa nella mano.
«È questo il vero tesoro. Portali là. Ora tocca a te. Proteggili.»
Assicura che c’è cibo lì. Sicurezza. Lo promette sin dai tempi delle prime
stelle cadenti. Ormai non so più cosa sia la sicurezza. Risale a
prima che nascessi. Stringe la mia mano con le ultime forze.
«Tieni duro, non importa cosa devi fare. Non arrenderti mai. Non
stavolta.»
«Sì» rispondo, perché voglio che negli ultimi istanti della vita creda che
tutti i suoi sforzi e i sacrifici siano serviti a qualcosa. La sua ricerca
ci salverà tutti.
«Prendi il mio dito» dice. «È la tua unica via d’accesso.»
Tira fuori un rasoio dal panciotto e me lo porge. Scuoto la testa. Non
posso fare questo al mio stesso nonno.
«Ora» ordina. «Sarai costretto a fare cose ben peggiori per sopravvivere.
Certe volte dovrai uccidere. Questo è niente» dice, guardandosi la
mano.
Come posso disubbidire? Lui è il comandante in capo di ogni cosa.
Guardo chi ci circonda: occhi infossati, volti striati di fango e
paura. A malapena li riconosco.
Mi spinge il rasoio nella mano.
«Uno dei tanti, ora sei solo. Sei una stirpe. La stirpe dei Ballenger.
Proteggetevi l’un l’altro. Sopravvivete. Sei tu il sopravvissuto per
cui la Ronda di Tor è stata eretta.»
Ho solo quattordici anni e gli altri sono ancora più giovani. Come
possiamo essere forti e opporci agli avvoltoi, ai venti, alla fame?
Come possiamo farcela da soli?
«Ora» ripete.
E io faccio come mi ordina.
Non fa alcun rumore.
Semplicemente sorride, chiude gli occhi ed esala l’ultimo respiro. E io
faccio il mio primo respiro a capo di chi è rimasto, incaricato dal
nonno e dal comandante di non perdere la speranza.
Non sono certo di riuscirci.

Greyson Ballenger, 14
CAPITOLO QUATTRO
KAZI

I RECINTI PER IL BESTIAME ERANO SFONDATI E SPARPAGLIATI in giro


come stoppaccio. La puzza dell’erba striata ci bruciò i polmoni. La
rabbia mi divampò sotto la pelle mentre osservavo la distruzione.
Wren e Synové brontolavano piene di sdegno. Di colpo il nostro
compito si scisse e si moltiplicò come un’immagine su uno specchio
frantumato. Alla fine, la rabbia ci sarebbe stata d’aiuto. Lo sapevamo
tutte. La nostra scusa per andare lì e indagare sulle violazioni degli
accordi si era all’improvviso ingigantita, diventando massiccia,
acuta, tutta denti, artigli e veleno.
L’insediamento consisteva di quattro case: un’abitazione lunga, un
fienile e vari capannoni. Tutti avevano subito danni. Il fienile era
completamente distrutto. Scorgemmo un uomo curvo che zappava il
giardino con molta foga, apparentemente dimentico della strage
intorno. Quando ci vide arrivare, alzò la zappa come un’arma, poi la
abbassò quando riconobbe il mantello di Wren realizzato con la
stoffa rattoppata della famiglia dei Meurasi. Il mio panciotto di pelle
era goffrato con l’apprezzatissimo thannis, recuperato dallo scudo
vendano, mentre il cavallo di Synové aveva una capezza decorata
con nappe delle famiglie che abitavano negli acquitrini orientali.
Tutti spiccatamente vendani, per chi sapeva cosa cercare.
«Chi è stato?» chiesi quando ci avvicinammo a lui, sebbene lo
sapessi già.
Si raddrizzò, allungando la schiena ricurva. Il volto era segnato da
anni di sole, gli zigomi come colline appassite in un paesaggio
avvallato. Dalle porte e attraverso le persiane incrinate delle
abitazioni alle sue spalle sbirciavano altri abitanti, troppo spaventati
per uscire. Si chiamava Caemus e ci raccontò che i predatori erano
arrivati nel bel mezzo della notte. Era buio e nessuno era riuscito a
vedere i loro volti, ma sapeva che erano stati i Ballenger. La
settimana precedente avevano avvertito i coloni di tenere il bestiame
lontano dalle loro terre. Se n’erano presi uno come tributo.
Wren si guardò intorno. «Le loro terre? Quaggiù? Nel cuore del
Cam Lanteux?»
«Possiedono tutto» rispose lui. «Come dicono loro, fin dove
riescono a vedere. Ogni stelo d’erba appartiene a loro.»
Le nocche di Synové si sbiancarono dalla rabbia.
«Dov’è il vostro bestiame?» chiesi.
«Andato. Si sono presi quello che ne rimaneva. Credo come
tributo per l’aria che respiriamo.»
Notai che non c’erano nemmeno cavalli. «E i raviani che i
Morrighan vi avevano donato?»
«Non ci sono più, tranne un unico cavallo da tiro vecchio con il
carro. Alcuni sono andati in città a comprare più scorte. Non
riusciranno a ottenerne tante. I vendani pagano un sovrapprezzo.»
Teneva la mascella rigida, le dita strette intorno al manico della
zappa. I vendani non si spaventavano facilmente, ma lui disse di
temere che alcuni avrebbero potuto essere troppo terrorizzati per
tornare all’insediamento.
«Non dovrai pagare un sovrapprezzo a nessuno, né un tributo per
l’aria che respiri» dissi. Gettai un’ultima occhiata alla devastazione.
«Ci vorrà un po’, forse, ma sarete risarciti.»
«Non vogliamo altri problemi da…»
«Gli altri coloni torneranno, e sarete voi a ricevere il tributo.»
Mi guardò esitante. «Non conoscete i Ballenger.»
«Vero» risposi. «Tuttavia nemmeno loro ci conoscono.»
Ma presto l’avrebbero fatto.

La Bocca dell’Inferno era distante trentadue chilometri. Era una città


sperduta, misteriosa, lontana dal centro dell’Eislandia su cui si
sapeva poco, oltre al fatto che era un centro commerciale in
espansione. Fino a pochi mesi prima, non ne avevo mai sentito
p p p
parlare. Ma, a quanto pareva, era una città abbastanza grande e
permetteva ai coloni di fare compravendita. Ero stanca e irritabile
mentre cavalcavamo. Non avevo dormito bene la notte passata,
nemmeno nella mia tenda. Quella penosa pianura selvaggia mi
becchettava come un implacabile e stizzoso uccello e pareva
impossibile che in un simile posto sperduto potesse esistere una città
di considerevoli dimensioni. Era come se non respirassi bene da
giorni. Synové chiacchierava senza tregua, e io me la presi con lei
come una cornacchia petulante quando nominò di nuovo il racaa.
«Mi dispiace» dissi dopo una lunga pausa. «Non avrei dovuto
saltarti addosso.»
«Ho paura di aver esaurito i nuovi argomenti» rispose Synové.
Ero stata veramente meschina. E lei aveva ragione… lei lo sapeva.
A me non piaceva il silenzio, e lei provava solo a colmarlo per me.
Ero abituata al fracasso della città, all’incessante brusio, alle botte,
alle urla, al rumore delle persone e degli animali, al ticchettio della
pioggia sui tetti e al chiasso dei carri che sguazzavano nelle
pozzanghere torbide, alla cantilena dei venditori ambulanti che
cercavano di convincere le persone a comprare un piccione, un
amuleto o una tazza di thannis fumante. Bramavo lo scroscio del
fiume, il clangore dei soldati mentre marciavano lungo il sentiero, i
sospiri di centinaia di uomini che tiravano il grosso ponte in
posizione, il suono delle ossa evocative che ticchettavano appese da
mille cinture. Tutto quanto brulicava quasi fosse un organismo che
godeva di vita propria.
Tutte queste cose mi aiutavano a nascondermi. Erano la mia
corazza. Il silenzio spazzato dal vento mi lasciava inerme. «Per
favore, dimmi come si riproducono» chiesi.
«Uova, Kazi» la interruppe Wren. «Non stavi ascoltando.»
Synové si schiarì la gola, il suo segnale per noi di fare silenzio. «Vi
racconterò, invece, una storia.»
Wren e io alzammo le sopracciglia, incerte, ma ne ero comunque
felice.
Era una storia che aveva raccontato molte volte in passato, ma
spesso c’era un colpo di scena che ci faceva ridere. Raccontò la storia
della devastazione, nel modo in cui la raccontavano gli abitanti delle
g
paludi. Ne riprese la stretta, nitida pronuncia. In questa versione,
l’angelo Aster giocava un ruolo importante. Gli dèi si erano impigriti
e non si prendevano cura del mondo come dovevano. Gli Antenati si
erano elevati a una posizione divina: si libravano tra le nuvole, avidi
di potere ma poveri di saggezza, schiacciando tutto sul loro
cammino, e così Aster, la guardiana dei cieli, agitò la mano nella
galassia, raccolse una manciata di stelle e le scagliò sulla Terra per
cancellare la malvagità che vi albergava. Tuttavia, c’era un Superstite
sulla Terra che si scoprì essere puro di cuore cui lei mostrò pietà,
conducendolo lontano dalla devastazione verso un luogo sicuro
dietro i cancelli di Venda. «E agli abitanti delle paludi, naturalmente,
donò un grasso maiale arrostito con una stella scintillante in bocca.»
Ogni volta, quando raccontava quella storia, Aster elargiva agli
abitanti delle paludi un regalo diverso, di solito uno grasso e
succoso, a seconda di quanto affamata era Synové in quel momento.
Anche Wren fece un tentativo e raccontò quella storia,
abbellendola con dei particolari della sua tradizione familiare. Nella
sua versione mancavano i maiali arrostiti, ma c’erano parecchie lame
affilate. Io non avevo alcuna storia tutta mia, non appartenevo a
nessuna famiglia, persino tra i vendani ero una senza radici. La cosa
però invariata in tutte le versioni raccontate erano gli dèi e gli angeli
che avevano distrutto il mondo quando gli uomini aspirarono a
diventare dèi e la misericordia abbandonò i loro cuori.
Nessuno venne risparmiato a eccezione di un umile Superstite che
trovò la grazia, e fu così che tutti i regni ebbero inizio. «Il lavoro non
finisce mai. Il tempo gira. Si ripete. Dobbiamo sempre tenere gli
occhi aperti» intimava spesso la regina.
Ora sembrava che dovessimo tenere gli occhi puntati sui
Ballenger.
Wren aveva la vista di un falco ed esclamò per prima. «Eccolo!»
In lontananza, dove le colline increspavano la pianura, finalmente
spuntarono rovine sparpagliate sul paesaggio che lo chiazzavano
con ombre vaste e lussureggianti. Tuttavia, molto oltre, ai piedi di
una montagna avvolta nella foschia, si allargava una macchia scura.
Più ci avvicinavamo, più la macchia prendeva forma e colore e si
espandeva a mo’ di una bestia gigante che giace ai piedi del
p gg g p
malinconico padrone. Che tipo di bestia era la Bocca dell’Inferno e,
cosa forse più importante, chi era il padrone? Un ovale di un verde
intenso sembrava svettare in alto come un inquietante diadema con
punte. Alberi? Alberi strani, ultraterreni. Mai avevo visto nulla di
simile prima.
Synové trattenne il respiro. «È quella la Bocca dell’Inferno?»
Il battito del mio cuore accelerò, e io spinsi i piedi nelle staffe con
più forza. Mije nitrì, pronto a partire al galoppo. “Non ancora, bello.
Non ancora.”
Cominciammo a vedere sprazzi di strade antiche come dorsi di
serpenti sotterranei che affioravano, quasi si spostassero sotto di noi.
«Per gli dèi» disse Wren. «È grande quanto la città di Sanctum.»
Feci un respiro profondo e rilassato e mi adagiai sulla sella.
Sarebbe stata una cosa semplice.

La città si trovava proprio dentro i confini dell’Eislandia, un regno


minore a forma di una grossa lacrima, e la Bocca dell’Inferno era in
cima, distante e isolata dal resto del regno. Proprio oltre il confine, la
roccaforte dei Ballenger sovrastava su tutto, una fortezza
impenetrabile, secondo un rapporto ricevuto dalla regina. Era ancora
da vedere.
A differenza del Sanctum, a Venda, non era circondata da mura
né imprigionata dal Fiume Grande. Avanzava con la baldanza di un
signore della guerra, inarrestabile. Le sue case e i borghi si
protendevano come forti dita ricurve, e tutta la città sembrava essere
circondata dagli alberi che svettavano in alto a mo’ di una corona
mistica. Esistevano numerosi punti d’accesso e da lontano riuscimmo
a vedere molti altri viaggiatori che facevano il loro ingresso nella
città. Quando eravamo ancora molto distanti, Wren scelse un rudere
abbandonato e ripose assieme a Synové un po’ di bagagli prima di
proseguire.
Sebbene fossero molti i viaggiatori che accedevano alla città, il
nostro ingresso attirò degli sguardi. Poteva essere a causa dello
stemma vendano sui finimenti dei cavalli o forse notarono qualcosa
q
sui nostri volti. Noi non ci trovavamo lì né per comprare né per
vendere alcuna merce. Non eravamo lì per alcuna ragione che loro
potessero ritenere buona. Non avevano torto.
Wren fischiò. Scosse la testa. Brontolò. «Non mi piace.» Estrasse il
suo ziethe, lo agitò e lo rimise nel fodero, facendo schioccare l’elsa
sulla pelle.
Synové e io ci scambiammo uno sguardo. Ne percepivamo
l’imminenza. Era l’abitudine di Wren quando calcolava i rischi negli
istanti prima che corressimo davvero il rischio. «Sicura? Sono una
famiglia potente. Se ti mettono in prigione…»
«Sì» risposi prima che avesse tempo di proporre qualcos’altro. Era
l’unico modo. «Come ho detto a Griz, ho tutto sotto controllo. E
anche tu» dissi guardandola negli occhi.
Annuì. «Resisti.»
«Sempre» confermai.
Esistevano tanti tipi di legge che si rispettavano per strada. Wren
sapeva che quella era la mia. Resistere non era soltanto un consiglio
del mestiere per raggiungere un obiettivo. Era un’ambizione di
sopravvivenza.
Procedemmo, guardando la strana città a bocca aperta, indicando
a turno le cose inaspettate, come il groviglio delle strutture irregolari
che incombevano dall’alto dov’erano sorrette saldamente dalle
spesse braccia muscolose degli alberi, i ponti sospesi alle corde che le
collegavano ad altre strutture – case, negozi, persino una grande e
disordinata locanda che saliva tra gli alberi –, ombre su ombre e
infiniti sentieri da percorrere. L’architettura della città era un
miscuglio di nuovo e vecchio, ruderi riconvertiti in case e negozi. Le
antiche pietre bucherellate erano state installate assieme al nuovo
marmo levigato. In alcuni punti gli enormi alberi, dai tronchi larghi
quanto due carri, ricordavano una schiera leale di sentinelle
rannicchiate una vicina all’altra attraverso le cui chiome slanciate
danzava solo la luce screziata. Nel cuore della città, le sentinelle
fecero un passo indietro lasciando un varco perché il sole potesse
brillare incontrastato, illuminando la Bocca dell’Inferno che
splendeva sopra un edificio di marmo bianco di fronte, donandogli
un bagliore etereo.
g
Un tempio.
Era il punto focale di un’ampia piazza circolare in fermento,
rumorosa, gremita di gente e… e di tutto ciò che amavo. Mi fermai,
assorbendo ogni cosa, e trattenni il respiro per una manciata di
secondi. Era una vana abitudine di cui non ero in grado di liberarmi,
ed esaminai la folla in cerca di un viso che mi ossessionava, ma che
non scorgevo mai. Sospirai allo stesso tempo per il sollievo e per un
senso di disappunto quando non lo vidi. Dopo aver fatto un giro, mi
accorsi che i viali erano disposti intorno alla piazza a mo’ dei raggi
di una ruota. Trovammo uno stallaggio per nutrire e abbeverare i
cavalli e, mentre Wren e Synové sistemavano i cavalli in stalla, io
chiesi al capo stalliere alcune indicazioni per raggiungere l’ufficio
del magistrato.
«Qui in persona. Lo state guardando.»
I magistrati che avevo incontrato a Reux Lau non spalavano
letame nelle stalle. «Fate anche rispettare la legge qui?»
«Vigilo. Siamo in dieci.» Raddrizzò le spalle e socchiuse un
occhio. «Di cosa si tratta?»
Gli dissi chi ero e che mi trovavo lì a nome del re dell’Eislandia, in
effetti una minuscola parte della verità, e anche a nome della regina
di Venda per indagare sulle violazioni degli accordi.
Non provò a celare il suo sguardo indagatore che adagio salì dagli
stivali alla spada fino ai coltelli appesi al mio fianco. Indugiò lì. «Non
so nulla delle violazioni.»
“Ma certo.”
Mi avvicinai e lui indietreggiò prudentemente di un passo. A
quanto pareva, persino lui aveva sentito dei Rahtan. «Da difensora
della legge a nome del vostro re, vi ordino di dirmi tutto ciò che
sapete.»
Scosse la testa e fece spallucce. Niente. Ero pronta a torcere il
furbastrello come un pezzo di corda, ma non era ancora il momento.
Avevo pesci più grossi da pescare. «Qui in città ci sono vendani che
fanno provviste. Li avete visti?»
Parve sollevato a vedere che cambiavo direzione. «Certo» rispose,
stavolta felice di parlare. «Li ho visti diretti da quella parte,
Another random document with
no related content on Scribd:
CHAPTER VI

Arrival in London. Conditions I found there. Preparations and Start.

reached London very early next morning, and drove


directly to the lodgings of my friend, Mr. Wellington
Lee, the only American resident in London whom I
knew. These were on a short street extending from the
Strand down to the river, a short distance west of
Temple Bar, the ancient city gate, which was then
standing. Who was Mr. Lee and what was he doing in London?
These were questions in which I had an interest of which I was as
yet entirely ignorant. The firm of Lee & Larned were the first
successful designers of steam fire-engines in this country. More than
seventy of these steamers had been built from their plans and under
their direction by the Novelty Iron Works in New York, and the fire
department of that city was completely equipped with them. One of
their engines had been sold to the city of Havre, and Mr. Lee had
gone over with it to test it publicly on its guaranteed performance. Mr.
Amos, one of the senior members of the great London engineering
firm of Easton, Amos & Sons, went over to Havre to witness this trial,
with a view to the manufacture of these steam fire-engines in
London. He was so much pleased that he determined to make the
fire-engines, and engaged Mr. Lee to take the direction of their
manufacture. So it came to pass that at this particular time Mr. Lee
was in London superintending the first manufacture of his steam fire-
engines by this firm.
After our salutations Mr. Lee said: “First of all I have something to
tell you.” Before relating this, I must mention something that I knew
before I sailed. About the time when the cargo of United States
exhibits started, the well-known Mason and Slidell incident occurred.
These gentlemen, commissioners sent by the Confederacy to
represent their cause before European governments, had sailed on a
British vessel flying the British flag. This vessel was overhauled on
the high seas by one of our cruisers, and the commissioners were
taken off and brought prisoners to New York. Mr. Lincoln made haste
to disavow this illegal proceeding, so singularly inconsistent with our
own principles of international law, and to make all the reparation in
his power. But a bitter feeling towards England was then growing in
the Northern States, and in a moment of resentment Congress
hastily passed a resolution repealing the law creating the Exhibition
Commission and making an appropriation for its expenses, and
Secretary Seward issued a proclamation dissolving the commission.
The vessel carrying the exhibits had been gone scarcely more than a
day when this action of Congress and Mr. Seward surprised the
country.
I now take up Mr. Lee’s narrative. The news of this action, carried
by a mail steamer, had reached London several days before the
arrival of the exhibits. Under the pressure of an urgent demand the
Royal Commission confiscated the space allotted to the United
States and parceled it out to British exhibitors. Mr. Holmes on his
arrival found not a spot in the Exhibition buildings on which to set his
foot. But he was a man of resources. He went before the
commission with an eminent Queen’s counsel, who made the point
that they had received no official notification of any such action by
the United States Government, but had proceeded on a mere
newspaper rumor, which they had no right to do; and there was the
United States assistant commissioner with his credentials and a
shipload of exhibits, and they must admit him.
The commissioners yielded most gracefully. They said: “Now, Mr.
Holmes, the American space is gone; we cannot restore that to you,
but there are unoccupied spots all over the Exhibition, and you may
take up any of these, and we will undertake that your whole exhibit
shall be well placed.” Upon this Mr. Holmes had gone to work and
had been able to find locations for every exhibit, except my engine.
Wellington Lee

“But only yesterday,” said Mr. Lee, “Mr. Holmes learned that an
engine ordered by the commission to drive the British exhibit of
looms, of which there were thirty-three exhibitors, had been
condemned by the superintendent of machinery, Mr. Daniel Kinnear
Clark, and ordered out of the building.” He added that Mr. Holmes
went directly to Mr. Clark and applied for the place for my engine, the
bedplate of which, thanks to my precipitate action, had arrived and
was then on a truck, in England called a lurry, waiting to be
unloaded. In answer to Mr. Clark’s questions, Mr. Holmes had given
him his personal assurance that I would be there, and the rest of the
engine would be there in ample time, and it would be all that he
could possibly desire; and on that assurance he had got the place for
me.
I informed Mr. Lee that I also had something to tell him. I then
gave him the situation as already related. He looked very grave.
When I had finished he said: “Well, you are in a hole, sure enough;
but come, let us get some breakfast, and then we will see what
Easton & Amos can do for you.” After eating my first English mutton-
chop in a chop-house on the Strand, I accompanied Mr. Lee to their
works in the Borough, a long distance away, on the south or Surrey
side of the Thames, to reach which we crossed the Southwark
bridge.
None of the partners had yet reached the office. Very soon Mr.
James Easton arrived. He was a young man about my own age. Mr.
Lee introduced me and told my story. The instant he finished Mr.
Easton came across the room and grasped my hand most cordially.
“That’s the kind of pluck I like,” said he; “we will see you through, Mr.
Porter; we will build this engine for you, whatever else may have to
wait.” Directly he added: “We have a good deal of ‘red tape’ here, but
it won’t do in this case. There will be no time to lose. Come with me.”
He then took me through the shops and introduced me to every
foreman, telling them what he had undertaken to do, and gave each
of them the same instruction, as follows: “Mr. Porter will come
directly to you with his orders. Whatever he wants done, you are to
leave everything else so far as may be necessary, and do his work
as rapidly as possible.”
As I listened to these orders, I could hardly believe my senses or
keep back the tears. Coming on top of the devotion of Mr. Holmes
they nearly overcame me. The sudden relief from the pressure of
anxiety was almost too much. It seemed to me to beat all the fairy
stories I had ever heard. This whole-hearted cordiality of the first
Englishman I had met gave me a high idea of the people as a whole,
which, I am happy to say, a residence of over six years in England
served only to increase.
Returning to the office, we found Mr. Lee, who said, “Now, Mr.
Porter, I think Mr. Holmes would like to see you.” Getting the
necessary directions, in due time I found myself in the Exhibition
building on Cromwell Road and in the presence of Mr. Holmes, who
received me joyfully and led me at once to Mr. Clark’s office. As he
opened the door, Mr. Clark looked up from his desk and exclaimed,
“Good morning, Mr. Holmes; where is that engine?” “Well,” replied
Mr. Holmes, “here is Mr. Porter, and the engine is here or on the
way.” Mr. Clark asked me a number of questions about the engine,
and finally how many revolutions per minute it was intended to make.
I replied, “One hundred and fifty.” I thought it would take his breath
away. With an expression of the greatest amazement he exclaimed:
“What! a hundred and fifty! B—b—b—but, Mr. Porter, have you had
any experience with such a speed as that?” I told him my experience
with the little engine, which did not seem to satisfy him at all. Finally
he closed the matter, or supposed he had done so, by saying: “I
cannot allow such a speed here; I consider it dangerous.” I decided
instantly in my own mind not to throw away all that I had come for;
but I made no sign, but humbly asked what speed I might employ.
After a little consideration Mr. Clark replied: “One hundred and
twenty revolutions; that must not be exceeded.” This he considered a
great concession, the usual speed of stationary engines being from
fifty to sixty revolutions. I meekly acquiesced, then made my plans
for one hundred and fifty revolutions, and said nothing to anybody. I
had no idea of the gravity of my offence. It was the first time since I
was a child that I had been ordered to do or not to do anything, and I
had no conception of orders except as given by myself. If there was
any risk, I assumed it gaily, quite unconscious how such a daredevil
defiance of authority would appear to an Englishman. Mr. Clark
showed me my location, and gave me an order for my engine-bed to
be brought in immediately, and also other parts of the engine as
soon as they arrived. Trucks generally, I was told, had to wait in the
crowd about ten days for their turn to be unloaded.
Charles T. Porter
A.D. 1862

I hurry over the time of erection. Everything arrived promptly and


the whole came together without a hitch, as I knew it would. The fly-
wheel and pulley and cylinder lagging I had left to be made in
England. I was at the works of Easton, Amos & Sons every morning
at 6 o’clock, and laid out the work for the day. I made the gauges for
boring the fly-wheel and pulley, which I had now learned how to do,
and adjusted everything about the engine myself, and knew it was
right.
I had a talk with the foreman of the pattern-shop about the best
thickness of felt on the cylinder to be covered by the mahogany
lagging, in the course of which I remarked, “It is the air that is the
real non-conductor.” “Yes,” he replied, “and felt, you know, is ‘air’.”
I learned several things I did not know before, among others how
the English made a steam-pipe joint, using parallel threads and a
backing-up nut, packed with long hemp which was filled with a putty
made of red and white lead rubbed together dry.
I had great luck in the way of a driving-belt. An American exhibitor
of india-rubber belting asked the privilege of exhibiting a belt in use
on my engine, which I was glad enough to have him do. Otherwise I
hardly know what I should have done. The widest English belts were
12 inches wide, double, and sewn together from end to end with five
rows of sheepskin lacing. The belt ran on the knobs of this lacing.
English machinists then knew nothing of the hold of belts by
excluding the air. The ends of all belts were united by lapping them
about two feet and sewing them through and through with this same
lacing. Fine pounding these joints would have made on the pulleys. I
got a governor belt from him also. Both belts were united by butt-
joints laced in the American fashion. I did this job myself, and,
indeed, I put the whole engine together mostly with my own hands,
although Easton, Amos & Sons sent two of their best fitters to help
me. I learned afterwards that I should have had a sorry time driving
my governor by a belt laced in the English way.
In spite of all efforts and all our good luck, we were not ready to
start until a week after the opening day, May 1, and the exhibitors
were in despair, for none of them believed that this new-fangled
American trap would work when it did start at the frightful speed of a
hundred and twenty revolutions per minute, which they had learned
from Mr. Clark it was to make. Finally one day after our noon dinner I
turned on the steam, and the governor rose at the speed of one
hundred and fifty revolutions precisely. It was immediately
surrounded by a dense crowd, every man of whom looked as if he
expected the engine to fly in pieces any instant.
It was not more than two minutes after it started when I saw Mr.
Clark coming with his watch in his hand. Some one had rushed to his
office and told him the Yankee engine was running away. The crowd
opened for him, and he came up to the engine and watched it for
some time, walking leisurely around it and observing everything
carefully from all points of view. He then counted it through a full
minute. At its close he turned to me and exclaimed, “Ah, Porter—
but,” slapping me cordially on the shoulder, “it’s all right. If you will
run as smoothly as this you may run at any speed you like.”
And so the high-speed engine was born, but neither Mr. Clark, nor
I, nor any human being then knew what it was that made it run so
smoothly.
I have since realized more and more what a grand man Mr. Clark
then showed himself to be. A small souled man might have regarded
the matter entirely from a personal point of view, and been furious at
my defiance of his authority. There are such men. I will show one to
the reader by and by. Officialism is liable to produce them. I was
quite unconscious of the risk in this respect that I was running. I have
always felt that I could not be too thankful that at this critical point I
fell into the hands of so noble a man as Daniel Kinnear Clark.
Mr. Porter’s Exhibit at the London International Exhibition, 1862
CHAPTER VII

My London Exhibit, its Success, but what was the matter? Remarkable Sale of the
Engine.

hus, as the result of a remarkable combination of


circumstances, upon which I look back with feelings
more of awe than of wonder, the high-speed system
made its appearance in the London International
Exhibition of 1862, installed in the midst of the British
machinery exhibit, under conditions more
advantageous than any which I could have imagined.
But the engine had a weak feature: it was wanting in an essential
respect, of which I was, and remained to the end, quite unconscious,
as will presently appear. Before entering on this subject I will give the
reader an idea of what the exhibit was like. The accompanying half-
tone from a photograph will, with the help of a little explanation,
make this quite real.
The location was in a narrow space between a side aisle and the
wall of the temporary wooden structure, 300 feet wide by nearly
1000 feet long, which formed the machinery hall. The engine was
crowded closely by looms on both sides. Here were shown together
the first high-speed engine, the first high-speed governor, and the
first high-speed indicator. My marine governor could not be
accommodated there, and had to be shown elsewhere. I was so
much afraid of deflection or vibration of the shaft that I shortened up
the length between the bearings and placed the driving-pulley on the
overhanging end of the shaft, which for the light work to be done
there answered sufficiently well. I showed also the largest and the
smallest sizes of my stationary-engine governors. These were belted
from the shaft to revolve so as to stand always in positions
coincident with those of the governor which regulated the engine.
On a table between the railing and the head of the engine I
showed mahogany sectional models of the valves at one end of the
cylinder in the engine exhibited, and of the now well-known Allen
slide valve, with double opening for admission made by a passage
over the exhaust-cup.
The Richards indicator is seen placed on the cylinder midway of its
length, and connected by pipes with the ends over the clearances,
so that in the familiar manner by means of a three-way cock the
opposite diagrams could be taken on the same sheet. After a few
days’ use I mistrusted that the lead lines were not correctly drawn,
and I took away these pipes, placing the indicator on the cylinder
itself, at the opposite ends alternately. The diagrams then taken
showed that the error from transmission through these pipes had
been even greater than I had feared. I have, of course, employed the
close connection ever since.
This identifies the time when the photograph was taken. It must
have been within a few days after starting.
The center of the eccentric coinciding with the crank, as already
stated, and the center line of the link being in the same horizontal
plane with that of the engine, I was able to take the motion of the
paper drum from the sustaining arms of the link instead of from the
cross-head. This was very convenient.
During the first two or three weeks the steam pressure was kept
up to 75 pounds, as intended, and I was able to get diagrams cutting
off quite early, which were then erroneously supposed to show
superior economy. But when all the steam-eaters had got in their
work the pressure could not be maintained much above 40 pounds,
and for that exhibition the day of fancy diagrams was over. Gwynne
& Co. showed a large centrifugal pump driven by a pair of engines
which always brought the pressure down at the rate of a pound a
minute. They were not allowed to run longer than fifteen minutes at a
time, but it took a long time after they stopped before the pressure
could be got up again even to 40 pounds. Whenever I took a
diagram somebody was always standing ready to take it away, and
so among my mementoes I have been able to find none cutting off
earlier than the one here represented. On the wall at the back I hung
the largest United States flag I could find, with a portrait of President
Lincoln. This seems all that needs to be said about the photograph
and the diagram.

INTERNATIONAL EXHIBITION, UNITED STATES DEPARTMENT


1862 DIAGRAM TAKEN FROM 1862
THE ALLEN ENGINE BY THE RICHARDS INDICATOR.
ENGINE, 8 INCHES BY 24 INCHES, REVOLUTIONS PER MINUTE, 150.
SCALE, 40 LBS. TO THE INCH.

But what was the matter? I will clear the way to answering this
question by relating the following incident: Six months later, with a
feeling of bitter disappointment, I contemplated my engine standing
alone where the place had been thronged with surging life. All the
other exhibits had been removed. This was left in stillness and
desolation, and I was making up my mind to the necessity of
shipping it home again, its exhibition to all appearance absolutely
fruitless—a failure, which I was utterly at a loss to comprehend,
when I had a call from Mr. James Easton, the same man who had
first welcomed me in England. His firm had perhaps the largest
exhibit in the Machinery Hall, of a waterfall supplied by a centrifugal
pump, and they had been frequent observers of the running of my
engine, which was quite near them. Mr. Easton bluntly asked me if I
thought my engine could be run 50 per cent. faster or at 225
revolutions per minute, because they had concluded that it could be,
and if I agreed with them they had a use for it themselves. Under the
circumstances I did not hesitate long about agreeing with them in
respect to both ability and price, and the sale was quickly concluded.
I noted an entire absence of any disposition to take an undue
advantage. Mr. Easton then told me that they were troubled with lack
of power every afternoon when the foundry blower was on, and had
long wanted to drive this blower independently. It needed to make
2025 revolutions per minute to give the blast they required, and they
had planned to drive it by a frictional gearing, nine to one, if my
engine could run at the necessary speed. So this most peculiar and
exceptional opportunity for its application, absolutely the only chance
for its sale that had appeared, and that at the very last moment,
prevented my returning home in disappointment. It is hardly
necessary to add that the engine proved completely successful. I
shall refer to it again.
The point of the incident is this: It established the fact, the
statement of which otherwise no one from the result would credit for
an instant, that, from the afternoon when the black and averted looks
of my loom exhibitors were changed to smiling congratulations down
to the close of the exhibition, the engine never once had a warm
bearing or was interrupted for a single moment. It was visited by
every engineer in England, and by a multitude of engine users, was
admired by every one, and won the entire confidence of all
observers in its speed, its regulation, and the perfection of its
diagrams; and yet in all that six months not a builder ever said a
word about building it, nor a user said a word about using it; and, as
week after week and month after month passed without a sign, I
became almost stupefied with astonishment and distress.
The explanation of this phenomenon was entirely simple, but I did
not know it, and there was no one to even hint it to me. I was among
a people whose fundamental ideas respecting steam-engines were
entirely different from those to which I had been accustomed, and I
knew nothing about them, and so could not address myself to them.
In the view of every Englishman a non-condensing engine was
rubbish. Those which were made were small, cheap affairs, mostly
for export. Neither a builder nor a user could regard a non-
condensing engine with the slightest interest.
Now I do not think that in my limited sphere of observation at
home I had ever seen a condensing stationary engine, except the
engine which pumped out the dry-dock at the Brooklyn Navy Yard. In
my mind condensing engines were associated with ships and
steamboats. At this exhibition also there were shown only non-
condensing engines. I did not think of the reason for this, that in this
part of London, far away from the Thames, no water could be had for
condensing purposes. I took it all as a matter of course, though I was
astonished at the queer lot of engines in the company of which I
found myself.
I was, of course, familiar with the development of the stationary
engine in England from the original type, in which the pressure of
steam below that of the atmosphere, and sometimes the pressure of
the atmosphere itself furnished the larger proportion of the power
exerted; but after all I carried with me my American ideas, which
were limited to non-condensing engines, and had no conception of
the gulf that separated my thoughts from those of the men about me.
My visitors always wound up with the same question, “How do you
drive your air-pump?” And in my innocence I uniformly replied, “The
engine is a non-condensing engine; it has no air-pump”; all
unconscious that every time I said that I was consigning the engine
to the rubbish heap. This reply was taken necessarily as a frank
admission that the high-speed engine was not adapted for
condensing. Of course, then, it had no interest for them. No doubt
many wondered why I should have troubled myself to show it there
at all. If I had thought more deeply I must have been struck by the
unvarying form of this question, always assuming the air-pump to be
a part of the engine, but which, of course, could not be used there,
and only inquiring how I worked it; and also by the fact that after
getting my answer the questioner soon departed, and I scarcely ever
saw the same visitor again. But I did not think deeply. Perhaps the
conditions of excitement were not favorable to reflection. All I thought
was that this same everlasting question, which at home I would
never have heard, was getting awfully monotonous. After a while this
annoying question came to be asked less and less frequently, and
also the engine attracted less and less attention. The engine had
failed in a vital respect, and I did not know it. That the fact of the
engine being non-condensing should have been an objection to it
never once entered my mind.
But I doubt if I could have bettered the matter, however alive to
this difficulty I might have been. I showed all I had yet accomplished.
In the minds of my visitors it no doubt appeared impossible to run an
air-pump successfully at such a speed; the water and air would be
churned into foam, and the valves would not close in time. This
objection I was not prepared to meet, for I had not thought on the
subject at all. Moreover, it could not have been met in any way
except by a practical demonstration. For that demonstration I had yet
to wait five years.
There were many things connected with this season which were
well worth remembering. One of these was the visit of the jury. It was
the only time I ever met Professor Rankine. There were two or three
Frenchmen on the jury, and they engaged in an animated discussion
of the question whether the steam could follow the piston at so great
a speed. I well remember the sharp exclamation with which
Professor Rankine put an end to this nonsense, when he had got
tired of it. “There is no limit to the speed at which steam will follow a
piston.”
One day I had a call from Mr. John Penn, Mr. William Fairbairn,
and Mr. Robert Napier, who came together on a visit of ceremony,
and presented me their cards. In return I presented to them the
cards of the engine. But their visit, like most others, closed with the
same inevitable question.
It was a delightful hour that Mr. F. W. Webb spent with me. He was
then assistant engineer of the London & Northwestern Railway under
Mr. Ramsbottom, afterwards Mr. Ramsbottom’s successor, and the
pioneer builder of compound-cylinder locomotives. He told me about
the new form of traveling-crane invented by Mr. Ramsbottom for the
shops at Crewe, which was driven by a flying-rope, a ³⁄₄-inch cotton
cord, and also of other inventions of Mr. Ramsbottom—among these
the automatic cylinder lubricator, in which the condensation of the
steam was so rapid, from the locomotive rushing through the
atmosphere, that only the water formed on the conical end of a bolt
was permitted to drop into the oil, other condensation running into a
circular trough and back through an external gooseneck pipe to the
steam-chest; and of their experiments to observe the rate of this
condensation. For this purpose they used soda-water bottles, which
they found capable of resisting a pressure of 200 pounds on the
square inch, and in which they could see the rapidity with which the
condensed water displaced the oil, thus leading to the above device
for limiting this action; also about the Ramsbottom piston rings,
which came to be, and still are, so largely used. These consist, as is
well known, of square wrought-iron rods, say ¹⁄₂ inch square, two for
each piston, sprung into grooves. What is not so generally known is
the way in which these rings were originated, which Mr. Webb then
described to me. As sold, these are not circular rings, but when
compressed in the cylinder they become truly circular and exert the
same pressure at every point. The original form was found for each
size in this way: A circular iron table was prepared, provided with a
large number of pulleys located radially and equidistant around its
edge. A ring having the section of the proposed rings, turned to the
size of the cylinder, and cut on one side, was laid on this table, and
cords were attached to it at equal distances passing over these
pulleys. Equal weights were hung on these cords, sufficient to
expand this ring to the extent desired. The form of the expanded ring
was then marked on the table, and to the lines thus obtained the
rings were then rolled. He told me also of the trough and scoop
invented by Mr. Ramsbottom, and now used the world over, for
refilling locomotive tanks while running at full speed. Being a
locomotive man, Mr. Webb did not ask about the way I drove my air-
pump.
Mr. Clark formed a scheme to indicate all the engines in the
exhibition, twenty-four in number, all English except mine, so far as I
remember, and employed my indicator for the purpose, the diagrams
being taken by myself. Only two exhibitors declined to have their
engines indicated. As I afterwards learned, most of the engines were
bought for use there, as exhibitors would not exhibit non-condensing
engines.
One of those who refused permission were Gwynne & Co., the
principal partner a nephew of my centrifugal-force friend of earlier
days. They exhibited a centrifugal pump supplying a waterfall. They
employed Mr. Zerah Colburn, then editor of The Engineer, to
investigate their pair of non-condensing engines and find out why
they used so much steam. He borrowed my indicator to make a
private test. Of course, I never saw the diagrams, but Mr. Colburn
informed me that by making some changes he had reduced the back
pressure to 7 pounds above the atmosphere, which he claimed to be
as good as could be expected. No material improvement in the
engines was to be observed, however.
Some of the diagrams taken on these tests exhibited almost
incredible faults. The only really good ones were from a pair of
engines made by Easton, Amos & Sons, also to drive a large
centrifugal pump, built for drainage purposes in Demerara, and
sustaining another waterfall. These showed the steam cut off sharply
at one third of the stroke by separately driven valves on the back of
the main slides. A mortifying feature of this work for myself was that
on testing the indicator Mr. Clark found that the area of the piston,
which was represented to be one quarter of a square inch, was really
considerably less than this, showing lamentable inaccuracy on the
part of the makers, as well as my own neglect to discover it. This
rendered the instrument valueless for measuring power, but it
showed the character of the diagrams all right.
The finest mechanical drawing I ever saw—or any one else, I think
—was shown in this exhibition. It was a drawing of the steamship
“Persia,” then the pride of the Cunard fleet, and was the only
mechanical drawing ever admitted to the walls of the National
Gallery, where it had appeared the year before. It represented side
and end elevations and plan, as well as longitudinal and cross-
sections, was painted and shaded in water-colors, and involved an
almost incredible amount of work. It was made by Mr. Kirkaldy, then
a draftsman in the employ of the Napiers, of Glasgow, the builders of
the vessel. I am tempted to refer to this, as it forms a prominent
datum point from which to measure the development of steam
navigation in the brief space of forty years. The vessel did not
possess a single feature, large or small, that now exists. It was of
only about 3000 tons burden. It was an iron ship built in the days of
the rapid transition from wood to steel. It was propelled by paddle-
wheels. These were driven by a pair of side-lever engines. The
engines had each a single cylinder. The steam pressure carried was
nominally 25 pounds above the atmosphere, but practically only from
15 to 20 pounds. Full pressure was not pretended to be maintained.
They had jet condensers. All forged work was of iron. The vessel
was steered by hand. The rigging, standing as well as running, was
of hemp. It was full bark-rigged.
Frederick E. Sickels

Potrebbero piacerti anche