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Laura Pariani

Questo viaggio chiamavamo amore


Einaudi
[...] Questo viaggio
chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle
nostre lagrime facevamo le
rose
Che brillavano un momento
al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il
sole tra i rovi
Le rose che non erano le
nostre rose
e mie rose le sue rose
P.S. E cosí dimenticammo le
rose.

, In un momento.
DINO CAMPANA
Uno
L’uomo o il viaggio, il resto o l’incidente
Messaggio per l’aldilà
Caro Regolo,
non prendertela se non ti ho piú scritto. Dall’ultima volta che ci siamo
visti son successe cosí tante cose, che mi ci vorrebbe troppa fatica e almeno
un centinaio di fogli anche solo per contarti la meccanica di superficie degli
avvenimenti suddetti – e nella villa di Castel Pulci, in cui soggiorno
forzatamente, a noi reclusi centellinano la carta, manco fosse oro zecchino.
Vedi, oggi pomeriggio stavo qui nel «salone giallo», come lo chiamano gli
inservienti – in realtà si tratta dello stanzone in cui ci riuniscono, noi
degenerati, perennemente in penombra anche nella bella stagione; chi lo sa,
forse nei tempòribus sfoggiò un’elegante tinta dorata, ora è di un moscio
color «merdarella di malato», slavato scagazzo tipico della magra dieta che
l’istituzione benevolmente ci elargisce... Insomma, com’è come non è, inizia
a girarmi attorno un moscone nero, zzz... zzz, insistente sopra la testa, zzz,
come voce lontana in torbido affanno.
Subito, in un vivamaría, ecco tutti i ricoverati a strillare:
«Chiàppalo! Càttalo! Prendilo! No, lascialo a me ché l’è mio!» Uno si
sbracciava, un altro dava zompi per afferrarlo, un terzo mugolava per
l’eccitazione... Ma il giocar di mani dispiace fino ai cani, sicché i
sorveglianti, che non sopportano il minimo gesto fuoriposto, si metton subito
in agitazione con un paio di stracci per scacciarlo via o, peggio, per
ammazzarlo.
A quel punto non mi restava che mettermi a salto e gridare: «Fermi tutti!
Che nessuno tocchi sta bestia, che calabrone non è, neppure vespa, soltanto
un semplice moscone nero! Dunque mica un insetto pericoloso! Perché
allora volete ucciderlo? Una mosca a volte l’è la sola compagnia che
teniamo, noi reclusi. Misero spasso. L’unico segno di vita che in questa
gattabúja riesce a non farci troppo rimpiangere i begli anni in cui
inseguivamo i cani randagi che trascinavano la loro ombra rasente i muri
nelle ore piú calde delle domeniche estive; oppure le cocorite giallazzurre
che alle fiere pescavano per noi il responso della fortuna; o le lucertole
acquattate nelle fessure dei muretti a secco, all’epoca in cui da pivelli
percorrevamo gli stradellini di campagna per andare a rubar ciliegie nell’orto
del curato... Vi ricordate o no, il piacere che si provava a catturarne una?
Sentivamo nel pugno chiuso il cuoricino della bestiola battere all’impazzata,
allora aprivamo molto lentamente uno spiraglio nella gabbia delle dita,
finché spuntava fuori la testolina con la linguetta tremante. E alla fine la
lasciavamo andare, perché la caccia ricominciasse... Cos’è rimasto di quei
bei giocarelli che ci allettarono nel sabato della vita? Ve lo dico io: un fico
secco, e ognun sel becca. Qui a Castel Pulci, al massimo, nei giorni di
grassa, ci possiamo invaghire di un ragno nell’angolo piú alto del soffitto, di
uno scarafaggio che vagola per l’orinatoio... Insomma adesso, se non fosse
per questa mosca, che ne sarebbe stato di codesto pomeriggio malinconioso?
Epperciò, signori sorveglianti, lasciate in pace sto povero moscone!»
Intorno a me, gli altri ricoverati si erano tutti irrigiditi. Mi ascoltavano?
Mi chiedo se capissero le mie parole o se perlomeno riuscissero a intendere
che la mia voce era amica. Anche gli infermieri si son fermati di botto e uno
di loro, il Tarcisio, che è il piú umano tra quelli addetti alla nostra
sorveglianza, si è congratulato con me: «E bravo il nostro Campèna che l’è
riuscito a farci gustare un pizzico della sua poesia...»
Un suo collega, un bestione bassitalia che dentro di me chiamo Calibàn, si
è messo a battermi le mani per voglia di sfottimento, berciando: «Viva il
poeta dei mosconi!»
Una villanata da far drizzar le gambe ai cani, Regolo mio. Ma io zitto,
neanche una piega, mi guardo bene dal manifestare la benché minima
reazione, quella soddisfazione non gliela do alla stupida grandígia di quel tal
Calibàn. Che mi prendano per uno svitato capace solo di strologare
fantasticaggini è ormai faccenda che non mi importa da tanto di quel
tempo...
L’unica cosa che comunque mi premeva era che non ammazzassero il
moscone nero, perché io sapevo bene che non era mica una bestia ma il mio
amico Regolo Orlandelli, venuto a trovarmi sotto forma personale di insetto.
Ma di questa verità, se l’avessi spiegata a alta voce raccontando la nostra
storia per filo e per segno, tutti avrebbero sghignazzato, o peggio. Meglio
retícere.
Zzz... la mosca continuava a ronzare, sbatteva contro i vetri, e non mi
stancavo di rimirarla. Di rimirarti.
Calibàn ha di nuovo gracchiato: «Ohé, Campana, cosa fai lí con quella
faccia da pesce lesso?»
E io avrei voluto rispondere qualcosa, ma non mi veniva nemmeno una
quisquilia. Un vuoto nel cervello. Del resto, che mi importava? Che ridesse
pure alle mie spalle, quella zucca. Il cuore mi pulsava nelle tempie e sentivo
in gola un’ànsima, come quando ci si accorge di essere in ritardo. Ma perché
dico «in ritardo»? Non era ancora suonata l’ora di scendere nel refettorio, e
l’orologio di Castel Pulci non sgarra mai di un minuto: dunque il mondo del
reclusorio procedeva in orario, epperciò anch’io. Eppure eppure. Da dove
mai mi nasceva quella strana sensazione di sfasamento rispetto al tempo,
come se avessi superato la frontiera del conosciuto? Poi d’un lampo ho
capito: non ero io in ritardo, eri tu a essere arrivato con un anticipo a cui non
ero preparato.

Perché il moscone eri proprio tu, non potevi essere che tu. Me l’avevi
contato la prima volta che il diavolo aveva incrociato le nostre strade.
Cominciasti a narrarmi di tuo padre che aveva campato la vita in riva al Po,
ricavando tutto il necessario dal fiume, pesce e legna; ché, quando poi
veniva la piena, autunno o primavera che fosse, si rallegrava come di una
vendemmia: con la barca affrontava le grosse piante trascinate dalla corrente,
le allacciava con una specie di lazo, a mo’ dei gauchos argentini, eppoi,
vogando a tutta forza, le tirava a riva. Dicevi che ciò che la piena regalava
gli bastava per una stagione di sbevazzi all’osteria. E spiegavi: «Quand’ero
piccolo e stavo al capanno dove mepà accomodava le trappole per i pesci,
cresceva sull’arenile un giovane salice che lui aveva piantato affianco della
sò baracca. A quel riguardo non finiva mai di ripetere: “Sto salice dura
quanto la mia vita”, e non sbagliò: la pianta campò sei anni, poi cominciò
all’imprevista a perdere foglie. Vuoi credere che, due settimane dopo, anche
mepà si ammala? Andavo tutte le sere a trovarlo allo spedalino dei poveri; la
prima cosa che mi chiedeva, appena arrivavo, era: “Come va il mio salice?”,
ma io non osavo dirgli che si era completamente seccato. Lui però capiva lo
stesso, come se mi leggesse nel pensiero, e sospirava: “Eh, caro il mè
Regolo, mi resta poco da campare”. Siamo cosí, noi gente nata sulla riva del
Po: conosciamo la lingua antica dei boschi, le entràgne della natura, gli
enigmi del vento...»
Quando contavi la storia del salice, scuotevo la testa, non proprio
ridacchiavo ma quasi, insomma credevo e non credevo, la buttavo
sull’esagerato: «Sono soltanto coincidenze».
Ti inalberavi: «Coincidenze del menga. La mente ha da camminare nella
notte, nel buio delle cose... Sei tu che non capisci, crapón. Da parte mia,
avendo visto coi miei propri occhi la fine di quel salice, che come predisse
mepà si avverò, ti dico che la verità sta nel pozzo. E siccome, da degno figlio
del Po, sono bastante strión anch’io, fa’ attenzione a quel che ti dico: quando
per me la verrà l’ora di lasciare sta lagrimarumvàlle, io mica muoio davvero,
io rinasco, ma non in forma umana bensí di moscone nero, di quelli che
ronzano sempre vicino all’acqua. Eccosí verrò a trovarti, ma mi raccomando:
non mi ammazzare quando mi vedrai, perché sono e sarò sempre il tuo
amico».
Me ne sono ricordato d’un botto appena il moscone è entrato nel nostro
stanzone. Ho pensato: accidenti, Regolo è morto, si è trasformato come
aveva predetto. Epperciò non ho permesso che ti uccidessero un’altra volta.
Cosí adesso mi sono rintanato in quest’angolino aspettando che suoni la
campanella della cena, in modo da scriverti a mio agio sta lettera mentale,
intingendo la dritta penna del mio affetto nel mio negrissimo inchiostro
interiore. E intanto mi do una calmata. Ché l’emozione imprevista di questo
nostro ritrovarci mi martella il cuore in gola.

Con te è successo sempre cosí: incontri strani, per puro caso. Come quella
prima volta che tu andavi a Pavia col biroccio. Io per strada tiravo dritto
nella nebbiolina della Bassa, quando sento dietro di me il tintinnio della
sonagliera di un cavallone, all’usanza dei carrettieri di Cremona. Tu,
infagottato nel tabarro, col collettone agli orecchi, mi fai cenno di montare,
spiegandomi: «Vado a vendere cappelli e berretti alla fiera di Bereguardo.
Non c’è in giro un cane e ho una voglia bastarda di un po’ di compagnia».
La ricordo come una giornata memorabile: tu ne sapevi una piú di
Bertoldo e mi spiegavi i trucchetti micamale che usano i «trabucchi» per
fingersi storpi quando chiedono la carità; e il gergo della teppa; e qualche
cautela volpina per accomodarsi a dormire nei fienili senza spendere un
centesimo. Io a quell’epoca, a tuo confronto, ero uno scolaretto che ancora
compitava l’abbecedario della vita, mentre tu facevi parte a pieno titolo della
«leggera che mai non trema». Ricordi? Mi insegnasti l’inno di quelli che non
si piegavano alla mostruosa assurda ragione della fabbrica e dei padroni:
Il lunedí la testa mi vacilla:
Oi che meraviglia non voglio lavorar.
Il martedí che l’è il giorno seguente,
Non me la sento di andare a lavorar.
Il mercoledí l’è giorno di baruffa:
Io ci ho della ciucca, non posso lavorar.
Il giovedí l’è giorno di mercato:
Io non ci ho tempo di andare a lavorar.
Il venerdí l’è morto Gesú Cristo:
Non s’è mai visto qualcuno a lavorar.
Il sabato poi mi siedo sul portone,
Spetto il mio padrone che mi venga a pagar...
Oh Regolo, quanto tempo... Tutto inghiottito dagli anni: le sbronze, gli
scherzi ai riga-rossa, le risate da scompisciarsi, i nostri vent’anni.

Ti ricordi poi quell’altra volta che ci incontrammo al porto, laggiú


dall’altra parte del mondo? Ghignavi proprio come un matto: «Guarda un
po’ chi si ritrova! Il Campana! Come la va? Ma la Mérica l’è proprio
piscinína»...
Con abbracci e brindisi a quel diavolo misericordioso che ancora una
volta ci aveva riuniti. Per quale motivo, non ce lo chiedemmo. Avevamo un
cuore lieve quella sera, prendevamo la vita come la viene:
Oh leggera, dove vai?
Io ti vengo, io ti vengo a ritrovar...
L’ultima volta ci incrociammo sulla spiaggia nei pressi di Genova: di
nuovo la sorpresa e la festa di rivederci quando non ce l’aspettavamo... Un
intero pomeriggio di nubi terree che facevano presagire un temporale; noi
due stesi sui ciottoli della riva a riassumerci gli ultimi anni: una polacca ti
aveva ben bene impestato, poveretto. E io che speravo che non mi toccasse
mai la stessa malasorte. Proprio vero che chi vive di speranze muore
all’ospedale...
Ho qui davanti agli occhi, quasi la stessi vedendo, l’immagine dei
galleggianti di sughero ammonticchiati affianco a noi, lo scheletro di una
barca arenata e capovolta; mi pare perfino di risentire nelle narici
l’amarognolo dei mucchi di alghe buttati a riva dalla mareggiata: nauseante
odore d’infinito, cosí forte da stordirmi. Dietro una scogliera il vento
scarmigliava un polverio grigioverde di spruzzi. A te era venuta d’un tratto
una sorta di paralisi alla parte destra della faccia, sulla guancia atona rimase
il segno di una lagrima involontaria. Borbottasti a boccastorta: «Che
fenomeno, neh. Piango eppure non sono triste».
Eh, caro mio, come ti capisco, lasciatelo dire da uno che da tanti anni vive
nel travaglio.
Non so se ti ricordi... Il mare dopo la burrasca del mattino era ancora
abbastanza grosso, ma d’un tratto si affacciò un solicello pallido e, da un
nonsoché di torpido stagnante nell’aria, si intuiva che la mareggiata ormai si
baloccava, come invecchiata. Spiegavi che volevi partire di nuovo: cosa
resta a fare un giovane in questa Europa decrepita, meglio l’America col suo
azzardo dell’ignoto: quando piove, chi non ha casa se la trova... Nelle tue
frasi smozzicate vibrava un’urgenza piú forte del solito. Insistevi perché
anch’io partissi con te, ti dava fastidio che i tuoi discorsi non attecchissero in
me come un tempo. Mugugnavi: «Ma che ci hai, Dino? Come mai ti trovo
cosí cambiato? Ti sei pantofolato? Sei cosí vecchio da non voler piú cercare
un’altra possibilità? Scuotiti: tutti i giorni passa il meglio».
Io tentennavo, ripetevo: devo pensarci, sono mica pronto, partire per
l’America di punto in bianco come se si prendesse un tram, mica ha un
senso.
E tu, tagliando corto: «Ma perché, le cose hanno mai avuto un senso?»
Ho riso. Non so come, ma tu riuscivi sempre alla fine a strapparmi una
risata: non sapevo resisterti davvero. Le tue parole agivano come il vento
che, batti e batti, alla fine dispiega la vela. Ma il mare saliva smangiando la
poca spiaggia, si era fatto tardi. Promisi di pensarci, di venirti a trovare
l’indomani: in fin dei salmi la nave salpava tre giorni dopo, c’era ancora
tempo per decidersi. Tu, nuovamente contento, levasti la faccia al sole rosso
che tramontava e mostrasti il pugno a ringraziare il mio diavolo custode che
finalmente mi stava rimettendo sulla cattiva strada, l’unica vera... Come
abbagliava il mare. Ché la mia ultima immagine di te fu quel gesto a braccio
levato, come in quei quadri che ritraggono gli adoratori del sole sulla riva dei
sacri fiumi indiani. Una sorta di punto supremo di tutti i nostri incontri.
Cosí ci lasciammo senza sapere che non ci saremmo piú rivisti. Tornando
infatti quella sera dov’ero alloggiato, incrociai una guardia che mi squadrò
con malevolenza. Mi parve l’avviso reale che per me non c’era scampo:
corri corri ma in manicomio finirai... Questione di un attimo: la fantasia di
partire con te si sgonfiò, come un pallone bucato dalla punta di uno spillo.
Scappai nella mia stanza. Avevo bisogno di una tana dove difendermi
dall’orrore – non quello dello sguardo truce del gendarme, ma
l’avvertimento che non avevo piú numeri. Nel buio non feci altro che
rigirarmi tra le coperte per ore, quasi su un letto da fachiro. Dal caos
allucinato dei miei incubi emergeva il ghigno beffardo di mia madre che
sentenziava: «Dove vuoi scappare, Dino? Tanto sei matto!»
Nella vita di ogni essere umano esiste un momento che gli scrittori di
romanzi chiamano «fatale». Quella notte lo fu per me: il giorno dopo
dall’affittacamere ritirai il mio sacco da viaggio e subito presi il treno per
tornare a Marradi; dove in effetti ebbi una crisi e mi rinchiusero.
C’è un senso in quello che feci? Forse sí, forse no, forse il senso delle
cose è un mistero che si intende molto piú tardi, magari alla fine della vita,
almeno spero. So soltanto che non ti vidi piú. Fino a oggi.

Sono sceso in refettorio quando è suonata la campanella. Ti ho guardato


ronzare sul riquadro piú alto del finestrone rigato dalla pioggia:
Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,
Sorgenti, sorgenti che sanno
Sorgenti che sanno che spiriti stanno
Che spiriti stanno a ascoltare...
Con ilarità clandestina ti ho raccomandato di restare lí, che sarei presto
stato di ritorno. Tu hai ammiccato col tuo zzz, che in modo arduo ho voluto
intendere come risposta di conferma. Ma nel momento in cui, dopo la
sbobba, son corso di sopra, non ti ho piú trovato.
Stavo per andarmene in camerata, quando mi si è avvicinato il
Vincenzino, che sta qui dall’estate scorsa: un pisciallètto storto di undici
anni, con una faccia da cadaverino, «crapapelada» avresti detto tu, ché sul
cranio gli cresce solo una leggera peluria bianchiccia. Mi viene affianco e,
con quel suo mezzosorriso smorfiato, mi porge un pezzetto sudicio di carta,
balbettando qualcosa che al di là dell’impaccio linguistico si poteva
interpretare come «poesia della mosca».
Appena l’ho preso in mano, ho intuito cosa ci avrei trovato. Ho aperto il
foglietto doppiato: al suo interno si era formato il disegno simmetrico del
moscone schiacciato e sanguinolento, ripetuto sulle due facciate.
Un’infiorescenza rossiccia che mi ha lasciato pensoso, scombussolato, a
denti digrignati.
Epperciò adesso, seppure dalla zerità in cui sono precipitato, alzo il mio
lamento, ché qui giace un mantovano «de siete ofícios», come amavi dire in
America. Uno che fece un po’ di tutto nella vita, «tranne rubare e il
militare». Uno che tentò di vivere fino all’estremo limite. Quando si ha un
amico, si sa: uno dei due vedrà l’altro morire. Dunque è toccato a me
sopravviverti.
Comunque non credere che il fatto che io ancora respiri sia segno di vita
reale: appassito come sono in questo inospito Regio Manicomio, quasi morto
in un certo senso, proclamo ringhiando la mia quasimente invidia verso la
tua sorte di essere con semplicità terminato stasera in un frusto brandello di
foglio forse destinato a involto di immondizia o a nettezza di pudende.
Due
Regio Manicomio di Castel Pulci
Novembre 1926

Fa freddo stasera. Non è ancora ora di andare a cena, ma è già buio da un


pezzo: piove fitto, i vetri della finestra sono rigati da un’acqua da diluvio
universale. Nella stanza che è stata assegnata al dottor Pariani per i colloqui
con i pazienti, Dino Campana va su e giú battendo i piedi sul pavimento; la
schiena un po’ curva, la testa infossata nelle spalle. Si stringe addosso con
un brivido il colletto della divisa manicomiale di lanetta marrone. Alla fine,
dopo che per la terza volta il medico l’ha invitato a sedersi, si accomoda
sulla sedia davanti alla scrivania. Per un paio di minuti resta comunque in
silenzio, con aria contrariata, tentando di tirarsi fin sugli orecchi il berretto
tondo fornito dall’ospedale. Alla fine le parole gli escono affannose: «Vede,
signor dottore, io non intendo il senso di codesto colloquio che lei si è
ostinato a volere. E non capisco neppure chi le abbia suggerito di venire a
stanarmi a Castel Pulci. O meglio, sospetto che a mandarla sia stato il
governo, per sapere se voglio uscire o meno da qui. Ma come glielo devo
dire? Io non desidero tornare nel mondo esterno dove tutti mi rinnegano.
Preferisco restarmene qua dentro, tranquillo, passare qui la notte, ogni mia
notte...»
Si blocca senza terminare la frase. Davanti agli occhi gli sfilano per un
attimo immagini di un Dino diverso: il ragazzino che saltava i muretti degli
orti per rubare la frutta e poi se la filava inseguito dai cani da guardia; il
quindicenne che rampicava nei prati di Campigno rincorrendo una volpicina;
il giovanotto incapace di stare in un posto per piú di qualche settimana; il
vagabondo alla maniera della «leggera»
– e una stazione la faremo a piedi
e quell’altra cammineremo –
sempre a giramondare, su per il valico del Sempione giú per quello del
Gottardo, e vai in Belgio, e vai a Parigi, pedibus calcantibus senza un soldo
in saccoccia, ché bastava una parola perché l’entusiasmo gli deviasse in rissa
o in fuga. Capace perfino di imbarcarsi per il Sudamerica come fosse la cosa
piú semplice del mondo, quasi come prendere un tram... Ma sono stato
davvero io a fare queste cose oppure ho soltanto sognato? si chiede
passandosi una mano davanti agli occhi. A cambiarlo cosí tanto sono stati i
sedativi che gli propinano? Oppure le immagini di vagabondaggio che a
volte gli fiammeggiano nella mente sono soltanto sogni? Forse non ha mai
fatto altro che stare seduto su una panca di manicomio, in attesa di niente,
con la sensazione che il cervello, organo primario di riflessione a detta di
filosofi e scienziati, in lui sappia soltanto ascoltare voci diaboliche.
La metà sinistra del viso ha una specie di spasmo che gli rialza l’angolo
della bocca. Tira un lungo sospiro: «Se mi obbligassero a uscire, dottor
Pariani, dove mai potrei andare? Sarei come un rettangolo scolorito, di quelli
che lasciano i quadri sul muro, quando qualcuno li porta via. Non saprei che
fare. Sarei come un romanzo da cui hanno strappato la pagina piú
importante, quella con la scena madre, senza la quale il finale resta
incomprensibile».
Chissà perché gli affiorano alle labbra i versi di Omero, che raccontano
dello scudo dell’eroe dei Greci, forgiato dal divino Efesto:
Cinque dell’ampio scudo eran le zone,
e gl’intervalli, con divin sapere,
d’ammiranda scultura avea ripieni...
Partendo dal centro eppoi allargandosi verso l’esterno, il divino fabbro ci
aveva messo cielo e mare, sole e stelle, città vigneti greggi e perfino un
circolo di giovani danzanti: insomma l’universo tutto, ma si era dimenticato
– pure gli dèi possono dimenticare? – di disegnarci il giavellotto di Paride
che vola verso il tallone dell’eroe: insomma il destino finale, mica un
dettaglio come un altro. Ma forse lo fece per pietà, perché se un uomo non sa
cosa l’aspetta l’indomani, può arrivare magari a pensarsi felice...
Gira lo sguardo sugli oggetti posati sulla scrivania del medico. Gli occhi
azzurri hanno uno strano brillio malizioso: «E soprattutto le voci
ricomincerebbero a parlarmi negli orecchi». Nel dir questo si punta l’indice
verso la testa: «Ché io sento sempre delle voci, dottor Pariani, i fili del
telefono risucchiano i miei pensieri, sono il telefonista del mondo intero.
Non lo sapeva che la polizia marconiana ce l’ha a morte con me? Una volta
hanno cercato di spaccarmi il capo a furia di scosse elettriche».
Tre
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume
Lettera a un garzoncello della Valle Maggia

Da tanto tempo mi chiedo dove tu sia andato a finire, Poletto... Veramente


dovrei chiamarti col tuo nome intero, Ippolito, e non con quel fiacco
diminutivo che tuo fratello Gottardo ti aveva appioppato. Tanto piú che
Ippolito è un gran bel nome di maschio. Inoltre ormai sarai cresciuto. Eppure
non riesco a immaginarti diverso dallo sbarbatello foruncoloso che eri – che
eravamo – all’epoca del nostro viaggio verso l’America. Noi due sul ponte a
seguire le evoluzioni dei pesci volanti sull’oceano nero, avvertendo fin
dentro le viscere il tonfo della prora quando sprofondava nell’onda; oppure
in quell’angolino tra i sacchi di patate – il «nasconditoio», lo chiamavamo –
a raccontarci vicendevolmente dei prati della valle Maggia e dei boschi di
Campigno. Ci siamo fatti buona compagnia, no? Guardavamo gli albatri:
uccelli lontani dal nido e noi pure – ma senza gioia, perlomeno io. Ché è
duro avere poco piú di vent’anni, sentirsi straniero a casa propria, essere
costretto a lasciarsi tutto alle spalle... Comunque la nave dirigeva verso
Atlantide, i sogni brillavano oltre la porta d’oro, i tuoi discorsi erano la mia
cura disintossicante.
Ci siamo lumàti fin dal primo momento a Genova, in mezzo al babelico
ambaradàn di valigie e fagotti, tra quella folla che si accalcava ai parapetti
della nave per guardare con rabbia i lumi della città che si allontanava e
maledire la patria matrigna e le pulci che già cominciavano a pizzicare.
Eppoi nei giorni successivi abbiamo condiviso quel mostruoso odore del
mare, la sua vastità spaventevole. Tre settimane di malori, vomito, tanfo di
stiva, incubi che il bastimento affondasse e si finisse tutti in bocca ai
pescicane. A me facevano soprattutto impressione le facce livide e
immalinconite dei viaggiatori quando scendeva la sera – l’ora che volge il
disio – con le confidenze borbottate, le speranze vaghe, la sensazione che
nessuno sapesse cosa lo aspettasse una volta sbarcato: dicono, degli amici mi
han scritto, ho sentito raccontare che... Nessuno tranne te, Poletto. Ché tu
avevi un fratello maggiore che ti attendeva a Montevideo, con una casa e una
carriera già prefissata nel negozio di un parente. Anche se, con la tua
testardaggine svizzera, proclamavi ridendo: «Io laggiú ci resto cinque anni e
basta. Poi me ne torno al paese e mi sposo la Carlotta. Giuro».
Io però non ci credevo mica tanto al fatto che tu, garzoncello con la faccia
costellata di pustole rosse – quel sorriso largo come una smorfia e un
incisivo rotto – avessi conquistato la bionda montagnina di cui portavi al
collo il ritratto a medaglione. Comunque stavo al gioco e, facendo la parte
del diavolo, ribattevo: «Va’ là che nelle lunghe promesse ci pisciano i cani...
Scommettiamo che ti trovi un’americana polposa e che la Carlotta te la
scordi?»
Come ti inalberavi... Mi rispondevi, piccato: «Piú facile che un cammello
passi nella cruna di un ago!»
Che però fosse difficile sapere quale vita ci aspettasse in un posto dove
chiamano río un mare di acqua gialla e torbida, cominciammo a intuirlo fin
dal primo momento, mentre la nave attraccava alla banchina di Montevideo
e noi, coi gomiti sul parapetto, seguivamo attentamente le manovre sotto una
pioggerella fina fina che dava alle luci del porto un’aria sporca e triste. C’era
nell’aria una febbre d’ansia che pareva contagiare tutti quanti: le donne che
si stringevano nei loro scialli neri, i giovanotti spavaldi col fazzoletto al
collo e addosso la camicia della festa conservata sotto la materassa durante
tutta la traversata oceanica, i padri di famiglia accigliati. Un groviglio di
grida concitate, lagrime, abbracci reciproci per farsi coraggio. Il frastuono di
un argano e il fischietto di un poliziotto sono i miei primi ricordi
dell’America. Ordini gridati nella pioggia e nel vento. L’umidità era forte,
l’acqua del bacino picchiettata da piccole creste bianche.
Ci siam guardati dicendo all’unisono, quasi delusi: «Dunque è questa
l’America...»
Eggià: quella pioggia sottile, le nuvole basse della sera, il fiume
limaccioso, le fredde luci elettriche in cima ai magazzini doganali... Mi
ravviavo i capelli con le dita della mano a mo’ di pettine, mi passavo la
lingua sulle labbra e assaporavo il salmastro, ché mi aveva preso lo
sconforto. Tu comunque aguzzavi la vista tra la folla che si assiepava sulla
banchina, per individuare tuo fratello Gottardo, a cui per lettera avevi dato
un appuntamento. Finché, con gli occhi brillanti di eccitazione, mi facesti
segno di seguirti e, afferrata la valigia, iniziasti a scendere lungo la
passerella traballante. Non eravamo ancora giunti a metà, che si sentí
chiamare dalla folla: «Poletto! Son qui!»
Era proprio il tuo fratellone, un giovanotto riccioluto che sul molo si
sbracciava in saluti, facendosi largo a gomitate nella calca. Dovetti assistere
ai vostri abbracci – non vi vedevate da quattro anni – e ai baci rumorosi sulle
guance – tre, alla moda elvetica.
Mi presentasti a Gottardo: «Un ragazzo italiano... Ci siamo fatti
compagnia durante il viaggio».
Lui accennò un saluto cortese, poi ci fece strada nel bailàmme del molo.
Cento metri piú in là c’era effettivamente uno strano silenzio. Montevideo
brillava di luci lontane, tentatora come ogni città sembra quando la si guarda
dalle banchine di un porto. Sotto un lampione tuo fratello osservò i miei
panni spiegazzati, i tuoi calzoni corti, i calzettoni che ti erano scivolati giú
dai polpacci arrotolandosi sulle caviglie. Chiese con aria preoccupata:
«Com’è che siete cosí magri? Siete stati malati? O sulla nave non vi davano
da mangiare?»
E noi a ridere: «Ma no, è solo che abbiamo vomitato parecchio durante il
viaggio. Ventidue giorni son lunghi e, quando la nave balla, sono infiniti».
Ci sospinse verso un muretto basso, ci impose di sederci: «Siete stanchi?
Ho portato con me qualcosa da mangiare e da bere, perché stanotte dovrete
passare un po’ di ore negli uffici dell’Immigrazione a fare la fila per i
documenti». Nel contempo estraeva da una borsa a tracolla un involto con
pane e bistecche panate, insieme a una fiaschetta di vino. Insisteva:
«Mangiate, bevete, ché il viaggio è finito. Siete a terra. Niente piú onde che
vi faranno ballare. Ah, vedrete...»
Masticavo in silenzio, quasi imbarazzato per essermi intromesso nel
reincontro tra due fratelli. Ma avevo comunque deciso che mi conveniva
fermarmi a Montevideo: in Argentina mi aspettavano controlli severi, ché
sulla nave qualcuno mi aveva informato che laggiú era appena stata emanata
una legge restrittiva contro chi non aveva la documentazione in regola; e io
con la dicitura «necessita di tutela», come potevo sperare di rifarmi una vita?
Anche se mi avessero concesso di sbarcare, mi avrebbero per sempre tenuto
il fiato sul collo. Allora non sarebbe valsa la pena essermene fuggito
dall’Italia... Meglio dunque fermarmi a Montevideo, insieme a te: gli
orientali – cosí venivano chiamati gli abitanti di quella regione – non
rompevano le balle a nessuno.
Vi guardavo di sottecchi: tu smunto, col viso chiazzato di foruncoli;
Gottardo, grassoccio e piú vecchio di dieci anni, con occhi pungenti come
due spilli e capelli color pagnotta. Ogni tanto sollevavo la testa dallo
scartozzo col cibo e lanciavo intorno uno sguardo frastornato. Provavo uno
strano bruciore d’occhi. Come spiegarmi? Mi aspettavo di sentire, quando
fossi finalmente arrivato in America, un sollievo: dopo la lunga traversata
dell’Atlantico, tante miglia interposte tra me e i ricoveri ospedalieri o i fogli
di via dei commissariati. Invece un vuoto nel cervello... D’un tratto il mio
sguardo fu attratto da una sorta di piccolo corteo che veniva verso di noi: due
donne ne reggevano un’altra che a stento si trascinava, scossa dai singhiozzi;
dietro di loro il marito della poveretta. La coppia l’avevo vista piú volte sulla
nave: avevano una piccolina, due anni o tre, con le treccine e il visetto da
topo, che nell’ultima settimana di viaggio non aveva fatto altro che smaniare
per la febbre e tossire. L’uomo aveva il cappello calcato sulla fronte, un
toscano in bocca e ogni tanto si fermava a sputare per terra. Teneva una
piccola cassa di legno sottobraccio: bianca e inequivocabilmente della forma
delle bare. Capii in un lampo che dentro c’era quello sputino di bambina.
Dovetti girare in tutta fretta la testa di lato, rigettai. Tal quale a una donna
incinta. Apparentemente non c’era un rapporto di causa-effetto, dato che
della bambina neanche sapevo il nome. Credo che la ragione del mio malore
sia stata l’eccitazione delle ore precedenti, lo sa il diavolo. Del resto anche tu
e tuo fratello poco prima avevate pianto, tu dicevi «di gioia»... Essendo io
completamente all’oscuro di questioni di fisiologia, non ho mai capito bene
cosa smuova i sacchi lagrimali, né all’università mi avevano insegnato le
differenze chimiche sostanziali tra lagrime di dolore o di felicità.
CERTO CI SONO IMMAGINI CHE VANNO
piú lontano delle altre,
che arrivano alla regione del silenzio dove sono gelosamente custoditi quei
ricordi inquietanti che di solito una persona tiene a bada; che stanano
memorie dubbiose e le fanno entrare magari in una poesia... Cosí la pioggia
di quella sera di tanti anni fa sul porto di Montevideo e il mio spaesamento
di allora – quasi un terremoto interiore, un disagio che montava in nausea –
possono rispuntarmi all’imprevista tra le pieghe del cervello,
«CHI SCRIVE È UN MENTITORE!»
sbraitava mia madre,
eccosí io mento e fingo di essere altrove, mentre sdraiato nel mio letto
ascolto il ronfare dei miei compagni di camerata. Il vento sta battendo sui
vetri, nel cortile di Castel Pulci gli alberi si agitano. Ho sollevato la testa dal
cuscino, contento di essermi distolto dal peso di quei ricordi. Via dalle mie
paure, ora, subito. Ché la memoria va usata con cautela.
Ma non c’è niente da fare: prepotentemente mi risuona nel cervello la
voce di tuo fratello che mi offrí perfino da fumare, al fine di togliermi di
bocca il saporaccio del vomito. Avessi qui adesso quel bel sigarino, nel buio
la piccola brace rossa brillerebbe a ogni boccata... Guarda un po’ di cosa mi
viene voglia, Poletto, quando la mente torna al mio arrivo in America...
Alla fine della fumata tuo fratello mi chiede, sollecito, se va meglio, poi
mi tende un biglietto su cui aveva segnato il suo indirizzo, per quando
l’impiegato della dogana mi avrebbe chiesto se conoscevo qualcuno in città
che facesse da garante per me; altrimenti, mi spiegò, mi toccava pure pagare
una sovrattassa. Quanto all’alloggio, si scusò che a casa sua per me non
c’era posto: la presenza di una moglie che aveva appena partorito balenò per
un attimo nel discorso. Ché Gottardo era maritato. Una fede gli stringeva il
dito sposalino, cosí forte che due rigonfiamenti carnosi minacciavano
continuamente di nascondere del tutto il segno del sacro legame. Comunque
gentilmente si offrí di trovarmi da dormire in una «fonda» di amici ticinesi, a
quattro scudi al giorno di pensione.
L’orologio della torre del porto rintoccava la mezzanotte quando ci
mettemmo in fila per la regolarizzazione dei documenti.

In questo modo cominciò la nostra vita americana. Tu in un negozio di


tessuti, io con piccoli lavori di traduzione per una ditta che importava
biciclette. Ci vedevamo poco durante la settimana, tu insistevi che venissi a
cena da voi, ma io mi sentivo in imbarazzo con tua cognata, mica potevo
scroccare il pranzo tutte le sere. Cercavo di spiegarti che il saluto senza
canestro non lo volle neppure Cristo, come si dice dalle mie parti.
Comunque avevamo preso l’abitudine di passare insieme il giorno libero:
domenica per festa, ogni villan s’appresta... Gottardo con noi si mostrava un
po’ impacciato – qualche anno di troppo, qualche chilo di troppo; e di
soprassello anche un certo compiacimento di persona arrivata – e non ci
accompagnava, ché nei giorni festivi era impegnato in riunioni con una
associazione di liberali o con la Società Svizzera di Mutuo Soccorso. Solo
nei primissimi tempi si limitò a darci cauti consigli di comportamento.
D’altra parte, noi due la domenica preferivamo stare alla larga dai locali
che il tuo fratellone frequentava: dove la gente sfogliando il giornale con
modi tartarugheschi centellinava un cafecito patetico, come se prendesse una
medicina. Ci andammo forse una volta sola, ci offrirono una copita di Medio
y medio. Il cameriere precisò: «Sin ser champagne, sentirete che bontà».
«Senza essere champagne»: c’era tutta un’ontologia in questa frase, un
condensato di non-essere che tu amavi prendere in giro. Non proprio
un’aperta risata, eri uno svizzero troppo beneducato: solo un accenno di
burla, un minimo increspamento del labbro, peraltro senza sarcasmo.
Soltanto quando avevamo sbevazzato una birretta piú del solito, giú al porto,
ti sentivi forte abbastanza da sfidare le regole della buona creanza e ti
consentivi il permesso di prendere in giro l’ambiente di tuo fratello: e nel
ridere l’incisivo rotto ti sfigurava tutto il viso.
Comunque gli stavamo alla larga, ce la squagliavamo lungo le dune del
río, tra cactus e agavi.
Eri insofferente del padrone del negozio che ti stava sempre a vigilare, ma
tuo fratello insisteva che non si sputa nel piatto in cui si mangia; anzi
raccomandava: «Sta’ zitto, bastrücch, almeno nei primi mesi sbassa la cresta,
ché per ogni cosa arriva la sua ora».
Una volta che gli rispondesti a tono, Gottardo prese lo slancio per mollarti
una sberla da fratello maggiore, ma tu che avevi visto la mano arrivare
schivasti il colpo.
Come smaniavamo. A te quell’ira impotente faceva addirittura nascere
una furia di pustole rosse che sotto il flusso del sangue diventavano sempre
piú evidenti... Prendevamo in giro il mondo dei «vecchi» – Gottardo ci
appariva cosí a quell’epoca – con la loro logica di puri numeri: due piú due
fa quattro, e quattro diviso due fa due, claro, e due meno due risulta zero,
claro, e il capitale porta i dividendi, claro, e i dividendi portano il capitale di
esercizio a un guadagno sempre maggiore, claro... Abbasso i matusalemme,
proclamavamo. Eravamo stizzosi, pensavamo che nessuno potesse capirci.
Come potevamo sapere allora che stavamo vivendo giorni felici?... E
parlavamo a lungo d’amore. «Dino, secondo te, la Carlotta mi aspetterà?»
chiedevi; e nel tremito delle labbra, nella smorfia che ti tirava giú le guance,
mostravi fin troppo ingenuamente il dubbio che ti divorava.
Ci sentivamo pesare addosso la strana concezione del tempo che si
respirava a Montevideo: «Vivir nomás ya da trabajo», già il solo vivere costa
fatica, stava scritto sul carretto dell’acquaiolo ambulante: la fatica come
condizione irrimediabile che nasce con noi, non occorre altro che essere vivi
per subirla... Eravamo sbalorditi dalla tortuosità di certi modi di dire di
laggiú: «Si le digo la verdad, le miento. Se le dicessi la verità, mentirei...» Al
posto di un netto «Non lo so», da quella parte del mondo la gente si
esprimeva con questa contraddizione discreta: nella nostra legnosità di
ventenni ne eravamo fortemente infastiditi. Eppoi quel paesaggio piatto che
si estendeva all’infinito oltre la città ci dava sui nervi, i nostri occhi
anelavano a montagne. Per non parlare della tua nostalgia di quella tal
morosetta. Ripetevi: «Cinque anni e basta. Figurarsi se resto in questo posto.
Piú facile che un cammello passi nella cruna di un ago!»
Le parole come sassi sulla lingua, da sputare per schifo. I foruncoli ti
brillavano sul viso grossi come fragole. La crema contro le pustole che ogni
mattino, a dosi sempre maggiori, ti spalmavi in faccia prima di andare al
negozio sembrava proprio non sortire alcun effetto.
Caro Poletto, chissà se ci sei potuto tornare dalla tua Carlotta, o se il tuo
cammello ha passato la cruna. Da parte mia, ho capitolato tante di quelle
volte rinunciando ai miei progetti di ragazzo, che di cammelli ne ho visti
passare una sfilza lunghissima.

A furia di figurarmi la sfilata nella cruna del famoso ago, mi sono


appisolato. A strapparmi dal sonno è stato il rumore familiare di una stufa
che viene accesa. Dev’essere mattino, ho pensato, l’ora di alzarmi per andare
a scuola. Il ciabattare di mia madre sull’impiantito di mattoni. I colpi
dell’attizzatoio sulla grata, il raschiare della paletta per sgombrare la cenere
di ieri sera. Lo stropiccio della carta, i pezzi di legno ammonticchiati, il
fregamento di uno zolfanello. Altri rumori piú indecifrabili: mia madre al
macinino per preparare il caffè?... Ma no, c’è il solito odore di muffo, di
sudore vecchio, di cartacce bruciate: sono a Castel Pulci, un inserviente sta
pulendo la stufa che sta in cima al corridoio, sotto il crocifisso. Tra poco
aprirà la porta e ci darà il segnale di sveglia. Ma è bello star qui ancora un
po’ sotto la coperta a occhi chiusi, nel mio letto.

Ho detto «mio» letto, eppure non c’è niente che possa davvero rivendicare
come mio in questo manicomio... E pensare che allora, a Montevideo, mi
pareva cosí mancante di privatezza l’angoletto che mi era stato assegnato
nella fonda dei tuoi conoscenti ticinesi: con un tavolo verniciato di verde e
rosso, in un angolo il cesto della biancheria su cui perennemente
sonnecchiava un gatto magro, il secchio per tenere in fresco la birra, due
panche accostate a un muro grigio su cui stavano appesi un calendario,
un’immaginetta di san Cristoforo e il testo della legge sulla vendita degli
alcolici; il tutto separato dal resto della locanda soltanto da una tenda che
faceva da porta. Adesso mi manca anche la luce esagerata che dal patio
invadeva la stanza svegliandomi, perfino il terribile raglio dei somari, il
fracasso delle pedine di domino rovesciate sui tavoli del patio, quel vasto
brusio indistinto di mosche, i fischi delle navi... Chissà quante navi solcano i
mari in questo momento con il loro carico di gente che va dove la chiama il
destino.
Questa memoria mi punge gli occhi. So infatti che il tempo delle
avventure americane per me è irrimediabilmente finito, perché sento arrivare
dal fondo del corridoio l’infermiere Calibàn che chiama alla sveglia. Suona
una campanella da qualche parte. Forse è quella del portoncino d’ingresso
che però dalla finestra della camerata non si può vedere. È ancora buio pesto
là fuori. Chi può essere a quest’ora?... Ma perché mi stupisco? Tutte le ore
son buone perché cada sulle nostre teste il verdetto
MANE, TEKEL, FARES,
condannati, pesati e trovati mancanti di qualche rotella: insomma pronti
perché le porte del Regio Manicomio si spalanchino a accoglierci.
Sí, sí, sí,
que esta noche me toca a mí.
No, no, no,
que mañana te toca a vos.
Comunque avverto chiaramente il dan dan ripetuto, me lo immagino come
lo scampanare proveniente dalla cattedrale sommersa di cui a Montevideo
favoleggiavamo... Ecco sono ricascato nel mondo delle storie sognate.
Sono sempre stato un SOGNATORE
e la parola Sognatore la scrivo a tutte maiuscole. Quasi un titolo onorifico.
Perché, Poletto, anche se non le si foran tutte diritte, qualcuno deve pur
sognare a questo mondo.
Quattro
Tra la turba delle signorine elastiche
Memoriale di un ex bicicletero

Da quando il sorvegliante è arrivato nel «salone giallo», col dito ho


cominciato a riempire il muro di segni stenografici. Perché a quest’ora,
prima di fare la conta notturna e portarci in camerata, lui fa correre noi
ricoverati in circolo, per una decina di volte lungo le pareti della stanza, e a
braccia alzate: cosí ci stanchiamo e dopo dormiamo meglio, sostiene lui. Ma
a me non piace correre. Cosí gli ho detto che sono occupato a prendere
appunti per il prossimo colloquio col dottor Pariani. Ha fatto una smorfia:
«Te, Campèna, ti vuoi sempre distinguere!»
La qual cosa non è assolutamente vera. Anzi, vorrei che nessuno mi
notasse. Per questo non corro, perché oggi ho le gambe stanche, e anche la
faccia e pure l’anima. Sono sopraffatto dall’angoscia celeste e universale.
Però, scrivendo in maniera stenografica, mi riposo un po’, mi allontano da
questo salone rimbombante di voci, lascio qui soltanto il mio braccio che
scrive sul muro e posso venire a trovarvi.
Vi ricordate di me, signorine elastiche di Montevideo? Ero il ragazzo che
faceva il bicicletero. Fu il primo impiego che trovai in America. Da qualche
tempo infatti era arrivata anche lí questa novità europea e un negozio
svizzero che importava velocipedi a Montevideo cercava persone esperte per
fare propaganda al proprio articolo. Cosí da un giorno all’altro diventai
dimostratore dell’arte ciclistica, avanti indietro per le vie del centro.
Frenando spettacolarmente e saltando a terra, sollevando la gamba
all’indietro, scivolando giú con qualcosa che somigliava a un sospiro.
Naturalmente con tanto di uniforme: berretto grigioperla a visiera,
maglioncino a strisce orizzontali verdi e nere, pantaloni alla zuava e
scarpette con suola leggera. Faceva parte della divisa anche un frustino di
strisce di cuoio intrecciate che, al montare in bici, si appendeva al manubrio,
dietro al fanalino. All’inizio confesso che non riuscivo a capirne la funzione,
pensavo fosse solo per bellezza: in effetti, la prima volta che mi guardai in
divisa allo specchio, trovai che il frustino mi conferiva una splendida aria da
fantino. Poi però mi dovetti ricredere: bastò allontanarmi di poco dalle vie
centrali per essere costretto a fare i conti con branchi di cani randagi: appena
sentivano squillare il campanello, ne arrivavano a decine, e allora sí che il
frustino serviva, eccome se serviva.

Il lavoro consisteva nel prestare assistenza ai novizi che avevano appena


acquistato una bicicletta. Epperciò portavo con me una scorta di camere
d’aria, col necessario per toppe e rammendi, una piccola chiave inglese,
pompa e valvole di ricambio. Quanti mi fermavano!... Ma soprattutto a
esigere il mio aiuto eravate voi señoritas, che smaniavate per le novità del
Vecchio Mondo.
Eseguivo con diligenza le riparazioni che mi venivano richieste. Chino
sulla ruota, gli occhi all’altezza dei vostri polpacci, ogni tanto un’occhiata
saliva verso i vostri fianchi rotondi sognando l’Origine du monde: lunghe
gambe vibranti di femmine robuste abituate a mangiare bistecche fin
dall’infanzia – quanto diverse dalle madonnine di porcellana che
passeggiavano per Firenze. Mi pareva che un preciso messaggio scaturisse
dal vostro ventre, e me ne sentivo tutto infiammato: il vento vi avvolgeva le
vesti leggere intorno al corpo, facendovi assomigliare alle veneri antiche,
nude. Onde radiomagnetiche di eccitazione mi colpivano: sempre piú
lunghe, piú ampie, addirittura fuori scala... Voi però sembravate impassibili,
cinguettavate di sciocchezze con le vostre boccucce molli inconsciamente
feroci; vi sistemavate una ciocca dei capelli a onda che nella corsa in
bicicletta vi era fuoriuscita dalle due bande regolari che vi incorniciavano il
viso; vi lisciavate sul didietro il vestito a fiorellini azzurri.
Alla fine tendevo la mano con noncuranza, aspettando un ringraziamento
cospicuo. Ricevuta la mancia, facevo un breve cenno rispettoso col capo. Voi
non sospettavate neppur lontanamente i sogni del ringhioso adolescente che
ero, i desideri che mai avevo potuto soddisfare se non in misera parte negli
acidi letti delle puttane di Bologna.
Pigiavo sul pedale e via. Lagrime di rabbia cadevano sfrigolando sul
selciato rovente.

Poco fa stavo pensando a voi cosí intensamente da scivolare fatalmente in


rapporti carnali che, seppur nella forma telepatica, si sono rivelati per me
molto debilitanti. Alla fine ero cosí stanco che mi sono addormentato in
piedi.
Dopo qualche minuto, è apparsa improvvisamente nel mio campo visivo
una grande figura di cui scorgevo solo il busto. Era un altro sorvegliante che
mi scuoteva con fare irritato: «Ohé, Campèna, cosa fai cosí intronato?
Dormi?»
Gli ho risposto che no, che solo stavo meditando se sono i pazzi a essere
fatti per il manicomio o se non è il manicomio che è fatto per i pazzi.
Mi ha guardato storto e ha detto: «Non fare lo stronzo, Campèna. Se no,
prima che venga l’ora di andare a dormire, ti becchi un marcione!»
Cinque
Regio Manicomio di Castel Pulci
Dicembre 1926

Carlo Pariani ha aperto uno scatolino d’argento: offre a Dino Campana


una sigaretta, perché sa che al suo paziente piace fumare ma soffre della
mancanza di soldi per acquistare il tabacco. Una certa resistenza alla
tentazione il malato la sente, però dopo un attimo allunga la mano,
arrossendo.
L’esitazione e il rossore non sfuggono al medico che sorride con fare
rassicurante: «Stia tranquillo, signor Campana: come le ho detto la volta
scorsa, non sono venuto per mandarla via da qui. Lei può rimanere a Castel
Pulci finché vorrà. A me interessa soltanto capire la sua situazione, trovare
una cura che le possa essere utile».
Si sente un po’ in imbarazzo Carlo Pariani: questo paziente gli sfugge. Un
poeta di qualche fama. In ogni caso, una persona istruita, un intellettuale.
Già nel colloquio precedente ha tentato di farlo parlare riguardo al libro che
ha pubblicato, ma non c’è stato modo: raccontava di sé come se tentasse di
ricordare una storia capitata a qualcun altro... Perciò stasera si è preparato
una poesia di Dino, perché lui gliela commenti. Quei versi che dicono:
Laggiú sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune.
Legge a voce alta, si interrompe, guarda il malato. Chiede: «Perché non
mi racconta qualcosa dei suoi ricordi di questo suo viaggio in America?... Ci
sono espressioni, frasi intere che non capisco... Perciò mi farebbe tanto
piacere se lei me le spiegasse».
Dino ha una smorfia di scherno: «Guardi che rischia grosso se afferma di
non capire... Mi ricordo che una volta, con le copie del mio librino in tasca,
arrivai in un caffè di Firenze dove si riunivano quelli che i giornali
definivano “le piú eccelse menti”, ma in effetti erano perlopiú chacals...
Passai tra i clienti chiedendo chi ne volesse comprare una copia. Andavo di
tavolino in tavolino a offrire il mio “articolo”, ma se qualcuno apriva una
pagina e, dopo aver scorso qualche riga, mostrava il mezzosorrisino di chi
non intende ciò che ha letto, gli strappavo seduta stante la pagina
incriminata: ché un cànchero non era degno di profanarla col suo sguardo.
Seppoi mi avvedevo che era un assoluto filisteo estraneo ai miei discorsi,
strappavo di fronte a lui gran parte dei fogli, consegnandogli solo la
copertina e qualcuna delle pagine meno riuscite: le sole adatte per simili
cervellini senza sale. Quindi, dottor Pariani, stia bene attento a quel che
dice». Sospira, alza gli occhi al soffitto. Che stanchezza. «Comunque perché
rivangare in quelle faccende lontane? Son passate decine di stagioni. Faccia
finta che non abbia mai scritto questi versi».
«Si è pentito di averli scritti?»
«Che cos’è il pentimento, me lo sa dire lei? Io credo che quando uno
dichiara di essere pentito di qualcosa, dice il falso: alla fin fine ognuno di noi
le sue colpe le stima... No, sto solo pensando che mi sento cosí stanco che mi
sembra già tanto se hanno un senso compiuto le frasi che lei insiste a tirarmi
fuori di bocca col rampino. Ne ho a basta della poesia».
Libri, fama, roba di qualcun altro, per esempio di Rimbaud:
Sur l’onde calme et noire où dorment les étoiles
la blanche Ophélia flotte comme un grand lys...
Ma perché sto dottore non lo lascia in pace?
Spegne la sigaretta consumata a metà e infila il mozzicone in tasca.
Spiega che la conserva per piú tardi.

Un lungo minuto di silenzio, in cui il medico si limita a fissarlo.


A Dino viene in mente la gabbia di un pitone ai tempi in cui lavorava in
uno zoo. Era terribile il momento del pasto, quando aveva il compito di
scaraventare nella gabbia un porcellino d’India vivo. Una bestiola morbida,
mezzo topo mezzo coniglio, con il naso fremente e gli occhi allucinati dalla
paura, ché capiva subito la sorte che l’attendeva. Ricorda che per lunghi
minuti il pitone e la sua vittima rimanevano immobili a fissarsi: il rettile a
occhi assolutamente tondi e rigidi, come pregustando la certezza di divorare;
l’altro, paralizzato dall’orrore di non avere scampo, ruotando all’impazzata
lo sguardo, forse rivolgendo una preghiera al dio dei porcellini d’India... È
stato davvero lui a fare l’inserviente allo zoo di La Plata o è stato il suo
amico Regolo a contargli questa esperienza? Chi lo sa. Eppoi che importa.
L’essenziale è che quando il pitone Pariani lo fissa a sto modo, lui si sente
topino, coniglietto spaurito.
Il medico tossicchia, poi per la seconda volta porge al malato il
portasigarette. Con la testa Dino fa segno di no, sussurrando: «Chiedere non
devo, ché da dare non ho...»
Carlo Pariani tentenna il capo, ha un attimo di leggera irritazione. Come
se gli desse fastidio tutto, la sigaretta rifiutata, le contorsioni d’umore di
questo paziente riottoso, la serata fredda e umida, i piedi gelati, l’odore
d’aglio e porri che si insinua dalle cucine fino in questa stanza, segno che
anche stasera ci sarà minestra, perfino sti versi che parlano di mare giallo e
di dune che si sciolgono... Però no, questi versi sono importanti, sarà anche
solo per il gusto di salvar qualcosa dal fallimento di questo colloquio, come
quando in uno spiazzo incolto e sporco di calcinacci la nostra mano
raccoglie meccanicamente un frammento di piastrella, chissà, è il colore o la
forma ad attrarci, e lo mettiamo in tasca senza una vera ragione. O sarà
perché queste poesie sono l’unico elemento che leghino il malato al suo
passato. Perciò lo psichiatra riprende i fogli in mano e continua imperterrito:
«Nell’agosto di quest’anno ho letto su “La Fiera letteraria” un articolo molto
interessante su di lei: s’intitolava Poeta Campana».
Il malato ha un attimo di sbalordimento: qualcuno fuori da questo
manicomio ancora si ricorda di lui? Sente affiorare sul proprio viso un
sorriso condiscendente e al contempo se ne irrita.
La voce di Carlo Pariani prosegue: «Inoltre il mese scorso Paolo Toschi su
“Il Resto del Carlino” ha scritto un pezzo dal titolo Il Rimbaud della
Romagna. Ma io credo che l’argomento non fosse messo a fuoco con
precisione... Comunque sarebbe per me molto piú interessante sapere dalla
sua bocca il senso di certi suoi versi... Mi piacerebbe davvero che lei mi
raccontasse qualcosa dei viaggi a cui alcune delle sue poesie accennano. Se
lei me li commentasse, potrebbe essere molto importante per la sua storia
clinica che sto ricostruendo...»
Sei
Commenta secco
E sordo un revolver che annuncia
Ultimo avviso alla cricca dei Signori Critici
Esimio Direttore della rivista «La Fiera letteraria»,
non La conosco personalmente, eppure ho la certezza che la fata che
svolazza sopra la culla di ogni neonato profetizzò che Lei sarebbe stato
Magnificus Direttore di riviste letterarie, oratore in commemorazioni funebri
e in occasione di inaugurazioni di monumenti di bronzo nei parchi cittadini.
Sono ugualmente persuaso che sia convenevolmente sposato con una distinta
Signora che, subito nella prima notte di nozze, Lei ha reso madre di un
futuro Signor Critico, seguendo obbedientemente il comandamento divino:
riproducetevi, Signori Critici, poiché a questo scopo è stato messo in moto
l’universo: perché crescessero e si moltiplicassero i Critici Letterari.
Per anni ho guardato al mondo delle Riviste Letterarie come a un
tremendo serraglio di belve. Ma io, timido agnello, piccolo poeta vagabondo,
ho rifiutato di salire sul palcoscenico per essere spettacolo alla gente –
tamburo rullante sotto il trapezio, oplà, tutto è commedia... – e recitare con
scimmiesca impudenza la parte dell’allievo delle Muse. Eppure questa era
l’unica maniera per avere dalla propria parte uno dei Signori Critici che
stabilivano gerarchie di dannati e eletti, come se l’arte fosse un erbario.
Ma non voglio rivangare codeste questioni: per me sono ormai acqua
passata. Mi hanno però riferito che sulla Rivista di cui Lei è responsabile è
comparso un articolo a commento di uno dei miei testi. Chi le ha dato
l’autorizzazione di parlare di una faccenda cosí privata come i miei
sentimenti? Come può il sedicente Signor Critico, che scrive per la Sua
rivista, arrogarsi il diritto di interpretare ciò che io ho confessato alla pagina
in dolore e solitudine? Pensava forse che il fatto che io sia in questo
momento trattenuto nell’inferno di una prigionia ignobile gli rendesse lecito
spargere su di me schiamazzi da gallina a piacimento? Rifletta, Direttore
Esimio: non sarebbe questo il motivo sufficiente per un duello?
Badi bene: io non sono adirato, piú in generale non ho piú motivo di
adirarmi nell’angolo di mondo in cui adesso vivo, io sono calmissimo, anzi
la prego di prendere nota che tutte le dicerie su una mia presunta condizione
nervosa minata dalla malattia sono del tutto infondate: ché se io sono qui
recluso ciò non è avvenuto a causa dei nervi, ma a causa della mia logica
superiore!
Con tutta calma perciò esigo, e stia bene attento alle mie parole, che d’ora
in avanti Lei non pubblichi piú neanche una riga su di me.
La avviso dunque che, se la mia legittima richiesta sarà ignorata, se alle
mie orecchie dovesse giungere di nuovo notizia dell’impudica esposizione di
pensieri a me attribuiti, mi farò giustizia da solo. Come minimo, una
rivoltellata a Lei e all’ignorante che si spaccia come Signor Critico, non la
leva nessuno.
Con i migliori omaggi,
Din Don Dan
Sette
L’ora che l’illustre somiero rampa
Comunicazione radiotelefonica al professor Loco

Oggi non c’è stata tregua nel «salone giallo». Prima il Bombolo è venuto a
gridarmi nell’orecchio il suo solito refrain – «Tutto il mondo è polvere» –,
poi il vecchio Godi s’è cagato addosso, con la conseguenza che Calibàn l’ha
preso a calci. Ma quando ne succede una, ne succedon tante: trotta cavallo,
che la biada non manca. Epperciò il Grattarola ha preso a strillare di paura e
il Vincenzino gli ha fatto coro. Il salone era pura topografia del caos.
Meglio non impicciarsi: inutile farsi bruciare gli occhi con le cipolle degli
altri. Epperciò mi sono tappato le orecchie concentrandomi nella suggestione
radiotelefonica, altrimenti le smanie prendevano anche me. Per fortuna,
nonostante sia incatenato nel profondo di questa fossa di leoni, ho una
calamita nella testa e col magnetismo posso allontanarmi ad líbitum da
questo miserevole covo. Ascolto messaggi da tutto il mondo, certi giorni ho
il sangue alle tempie dal tanto daffare.
Pronto pronto, qui Castel Pulci, chi è in linea? Ah, una comunicazione da
Montevideo?
Ma come faccio a telefonarti se non so neppure il tuo nome? Tutti ti
chiamavano semplicemente «el Loco». Come il mio povero zio, che nessuno
in casa nominava, era soltanto «lo Zio Matto». Allo stesso modo tu eri «el
Loco romano». Chissà perché poi romano, visto che eri nato dalle parti di
Busto Arsizio. Ma in America imperava una gran confusione geografica e
storica: Tanos, ovverossia Napolitanos, erano tutti gli Italiani, non importa
da che regione provenissero; come Gallegos, galiziani, erano tutti gli
Spagnoli, anche se magari nati in Castiglia o Andalusia; quelli cresciuti
nell’impero austroungarico li chiamavano Rusos, i levantini erano tutti
Turcos... Forse il fatto che tu, da vecchio professore di lingue morte, usassi
spesso citazioni latine ti rendeva «romano» d’ufficio.
Ti ricordo cosí: di età indefinita, un feltro sdrucito su una folta
capigliatura bianca, una lunga palandrana che quasi arrivava a strusciare per
terra; in mano agitavi una canna d’India di buona fattura, mentre zigzagavi
sulle tue gambette malferme, sventagliando i lembi di quell’informe
giaccone; parlavi in latino, declamavi Marziale:
Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyiasque
invenies...
La gente che si era radunata sul marciapiede mi spiegò con distratto
sgomento che eri matto e ubriacone, medio y medio, epperciò sotto la tutela
di Nostro Signore... Ero incantato. Ché io fin da ragazzo sono sempre stato
un po’ strano, lo ammetto – naturalmente lascio al dottor Pariani il compito
di fissare con esattezza non solo il netto confine tra sanità e il suo contrario,
ma anche il preciso significato della parola «strano» che io uso in modo
approssimativo, da profano qual sono... Tornando a bomba, in che consisteva
la mia stranezza? Nella convinzione che della cosiddetta realtà non posso
saper altro che il mio modo di percepirla, ragion per cui ogni cosa esige la
mia massima attenzione: che si tratti della smorfia di un viso o del volo di
una farfalla o dell’incerta traiettoria di una goccia d’acqua sul vetro di una
finestra, posso cadere in adorante contemplazione di cose a cui gli altri
neanche badano. Ho sempre avuto il senso del raro e dell’effimero. E se la
parola stupido viene da «stupor», io sono il massimo concentrato di
stupidità.
Eccosí fu anche quella volta: appena ti vidi, mi bloccai a guardarti
boccaperta. C’è infatti un nonsoché che filtra dalle persone, quasi un odore,
un maelström di impressioni da cui io deduco subito quando val la pena di
approfondire una conoscenza. Epperciò ho sempre goduto dei momenti in
cui davanti a certe persone cadevano le barriere che da sempre ho imparato a
innalzare tra me e gli altri – come le siepi spinose che si usano dalle mie
parti, sull’Appennino, per delimitare i campetti in parcelle ben chiuse.
Sei ancora lí a ascoltarmi? Posso continuare? Io, figurati, qui a Castel
Pulci ho tutto il tempo che voglio.

Ecco. Un ronzare di voci basse, la pace è finalmente tornata nel salone. La


quiete dopo la tempesta. Per un po’ di godimento, quanto patimento.
Purtroppo il riposo mentale l’ho incontrato raramente nella mia vita,
eppure «Todos tenemos derecho al descanso» hai scritto una volta su un
muro a Montevideo.
All’imprevista mi viene in mente un ricordo di tanti anni fa: rivedo un
chiostro ombroso di un antico monastero, le colonnine ritorte, le pietre
levigate dai piedi di generazioni di frati. Mi ero seduto su un muretto sotto
un cipresso: avevo la nitida impressione che il tempo fosse diventato cosí
fluido, che sarebbe stata una gioia restare là immobile per sempre.
E sai, Loco romano, qual è il motivo per cui ti ricordo con particolare
riconoscenza? Perché mi insegnasti che tutto ciò che è interessante avviene
nell’ombra. Mi portasti infatti a fare un giro nei cunicoli che perforavano il
sottosuolo della vecchia Montevideo: là sotto avevi organizzato il tuo
rifugio, ingombro di vecchi oggetti raccattati per strada. Sostenevi: «Amo
star solo in questo buio, fuori c’è troppo sole, la qual cosa rovina i pensieri: è
come la luce che entra nelle macchine fotografiche quando le immagini non
sono ancora fissate... Quando scendo nei tunnel sotto questa città, perfino il
ricordo della luce mi fa male. Ché forse sono nato nel secolo sbagliato...»
Ho nella memoria il freddo delle gallerie, una mancanza d’aria
opprimente, scalette e cunicoli tortuosi, gambe molli per l’insicurezza di non
sapere dove mettevo i piedi nell’oscurità, zuccate nel soffitto bassissimo,
l’odore che mi ricordava quando da piccolo scendevo in cantina dove mio
padre teneva vino e patate. Mi sentivo come un topo sotto vecchi mobili.
Quel giro nelle viscere di Montevideo mi diede la coscienza, nelle
settimane successive, che oltre alla pasta sonnacchiosa della città visibile
esisteva un mondo ignoto, o forse piú d’uno. La conseguenza fu che,
sedendo al caffè La Giralda per ascoltare uno di quei tanghi che allora
stavano diventando di moda, cominciai a provare brividi perché sapevo che
sotto i miei piedi si apriva un abisso di topi ragni millepiedi gelida sostanza
di fogna. Quel pensiero vertiginoso mi provocava ogni tanto crisi di panico,
finché che una sera un tipo che stava seduto al caffè a un tavolo vicino,
vedendomi scosso dai singhiozzi, si accostò, dichiarò di essere un medico e
prese a scrutarmi con occhi da carabiniere. Mi chiese perché piangessi, non
so piú cosa farfugliai. Dopo avermi tastato il polso, diagnosticò
sbrigativamente che si trattava di anemia, consigliandomi di mangiare
bistecche al sangue. Mi sentii ancora piú sventurato.

Certo ne è passato di tempo. Poco a poco con quella sensazione oscura mi


sono familiarizzato: l’abisso non è piú esterno, è dentro di me, proprio qui in
mezzo alla mia mente. Ma non ne piango quasi piú. Se capita, lo faccio di
nascosto, di notte: sento i miei occhi gocciare, le lagrime scivolare lungo il
naso e bagnare il cuscino.
Sapessi, Loco, come mi fa bene parlartene. Ché, vedi, la cosa che piú mi
pesa qui a Castel Pulci è che non posso contare a nessuno i mondi ignoti che
mi sfiorano o mi traversano o premono sotto i miei piedi. Con gli infermieri
meglio star zitti; coi medici lo stesso: fingono interesse con volto schivo e
distratto, ma si capisce lontano un miglio che giudicano le mie parole
sintomo di tenebrore psichico. Siamo su piani differenti. Dicono che sono
matto, ma loro? Se dovessi giudicare la saggezza degli uomini dalla quantità
del tempo che dedicano alle poche cose veramente importanti, sarei costretto
a tirar la conclusione che medici e infermieri sono pazzi sul serio e che
questo è un mondo alla rovescia. Mi sembra vera follia sprecare ore e ore in
scartoffie, timbrature, relazioni sulle varianti della temperatura corporea di
un ricoverato, verifiche sulla solidità delle sbarre dei nostri letti nichelati, e
non dedicare neanche un minuto al fondamentale interrogativo:
CI SONO ALTRI MONDI SOTTO I NOSTRI PIEDI?
Non li tocca questo dubbio, che invece a me rode interamente la catena
dei discorsi. Come pure le altre due domande:
SE ESISTONO COSE CHE NON VEDO, È ALTRETTANTO VERO CHE LE COSE CHE
VEDO ESISTONO?
EPPOI SIAMO SICURI CHE QUESTO GIORNO PIENO DI LUCE
NON DEBBA ESSERE CHIAMATO OSCURITÀ?
Vuoi che ti dica la verità, Loco? Non sono che somari che rampano in
cattedra pieni del vento della propria negra scienza catalogale.

Nelle onde dell’etere, oltre le frontiere spaziali e temporali, risento la tua


voce che mi sussurrava: «Non arrenderti al giudizio sprezzantesco di tua
madre e al pocolume di tuo padre! Sveglia il poeta che dorme in te!»
Ti assicuro, Loco: ho tentato di seguire i tuoi consigli. Fino a quell’epoca
avevo tentennato alternando rivolte e tentativi di obbedienza; agendo come
quegli elementi chimici che – me l’avevano insegnato a scuola – si
comportano a volte come metalli e altre volte come non-metalli, a seconda
delle condizioni in cui vengono a trovarsi. Il viaggio in America segnò una
svolta insegnandomi che ogni persona ha il dovere di creare una poesia dalla
sua vita. Da allora ho cercato di cantare la mia personale canzone:
malinconica, certamente, buia quanto lo sono gli inferni a cui mi sono
affacciato... Questa canzone, io la chiamavo amore oppure poesia, i miei la
definivano pazzia perché, come proclamava mia madre, «l’amore e la poesia
non si mangiano!»
Per me era indifferente il nome con cui sta canzone veniva chiamata, mi
bastava il fatto che mi facesse sentire vivo: ché non valeva di meno solo per
il fatto che non si lasciava mangiare come una salsiccia.
E se adesso, dal reclusorio di Castel Pulci, il dottor Pariani ti contattasse
per raccontarti che quella tal canzone della mia vita è stata solo un
fallimento, non credergli, Loco. Io continuo a cantare sull’abisso, anche se
da solo, è vero, ma l’isolamento non è ancora la dimostrazione che uno sia
un fallito. E non rinuncio a difendermi: perché io lo so che ciò che è
avvenuto finora – dolore reclusione solitudine – è stato soltanto un’ouverture
prima della battaglia finale che ormai si approssima.
Anzi, a questo proposito, ti annuncio che stasera voglio comandare
magneticamente che capiti un terremoto o un’inondazione, che sopraggiunga
una pestilenza, che una schiera di angeli sterminatori appaia sopra Castel
Pulci in guisa di cometa a cancellare gli sciacalli che mi hanno tradito; e non
si salvi nessuno, o magari soltanto tu in veste di giullare strullarello, per
continuare a ricordare con benevola severità al povero Dino il dovere di
cantare.
Otto
Passano l’ore, vengono i prodigi
Scambio di dati col Direttore Istat
Esimio Direttore dell’Istituto nazionale di Statistica,
sono ASSOLUTAMENTE consapevole dell’importanza dell’Istituto che Lei si
pregia di dirigere. Raccogliere e pettinare su libroni grandi cosí i numeri
precisi sullo smaltimento dei liquami domestici, sulla produzione di armi e
sulla vendita di dolciumi dalle Alpi a Scilla, mi pare opera altamente
meritoria in vista del progresso scientifico della nazione intera: gli Italiani
sicuramente vivranno meglio sapendo che gabinetti, cannoni e caramelle
sono in crescita. Inoltre trovo sommamente stimolante sapere con precisione
il numero dei miei compatrioti becchini, borsaioli, questurini e creatori di
visioni del mondo: può sempre venir utile, mi ripeto la notte, stando sdraiato
nella camerata dove l’unico rumore è ogni tanto il grido inarticolato emesso
da qualche mio compagno.
Epperciò mi rivolgo a Lei per risolvere alcune questioni che mi tengono
sveglio.
1) Se presso gli storici si può commmissionare una Storia su misura,
presso i medici si può comprare un certificato, presso i critici una
recensione, presso le donne l’amore, dove posso trovare in vendita un
po’ di felicità, naturalmente a prezzi accettabili?
2) Esiste qualche informazione rigorosamente matematica sul
fenomeno del pianto? Quante lagrime sono versate al giorno, al mese,
all’anno da un italiano? Ci sono variazioni sensibili da città a città?
Mi risponda al piú presto, perché per me sono questioni di vita o di morte.
Naturalmente, in contropartita, spero di farLe cosa gradita riferendoLe
dati che il Suo Istituto non ha ancora contabilizzato, ma che negli ultimi
mesi mi sono preso la briga di riunire. Sappia dunque che:
1) Il 75% delle volte che ebbi una crisi di panico avevo le tasche vuote.
2) Solo il 2% delle parole pronunciate in una giornata vengono
ascoltate dagli altri con attenzione.
3) La percentuale degli stronzi nella categoria degli infermieri è del
99,6%.
4) Se un uomo, incrociando le mani, tiene il pollice sinistro in su, al
95% ha gli occhi azzurri; viceversa, se in su tiene il pollice destro, ha
gli occhi scuri.
RingraziandoLa anticipatamente, aspetto Sue notizie,
Un appassionato di statistica

P.S. Mi può trovare nella rubrica dei degenerati: tanti e tanti piú uno, e
quell’uno sono io.
Nove
Regio Manicomio di Castel Pulci
Marzo 1927

L’ennesima sera di pioggia. Insopportabilmente umida questa primavera.


Il dottor Carlo Pariani apre l’armadio del suo studio. In una cassettiera sono
raccolte tutte le cartelle cliniche del Regio Manicomio di Castel Pulci: ogni
malato con la sua scheda, le date della nascita e dei ricoveri, le diagnosi, le
terapie messe in atto con i rispettivi risultati, le sentenze lapidarie:
nevrastenia, isteria, paranoia, psicopatia dissociativa catatonica... Ogni
fascicolo, un destino.
Ecco la cartella dell’internato Campana Dino. Il medico rilegge
lentamente. Primo ricovero, Manicomio di Imola, 1906: esaltazione psichica
e abuso di caffè; probabile demenza precoce. Firma del medico illeggibile...
Faenza, Dottor Alberigo Testi: psiche pervertita, antipatia verso la madre; si
prescrive una cura di ioduro di sodio. Professor Giovanni Vitali: impulsi
errabondi; si dispone l’isolamento affettivo e morale, uso di preparati
bromici... Dottor Brugia: diagnosi di psicopatia grave. Clinica fiorentina
delle malattie nervose e mentali: ricovero per abuso di bevande spiritose...
Ospedale militare di Maglio: disordine psichico. Regio Manicomio di Castel
Pulci, 28 gennaio 1918, anni trentadue (ma «il soggetto è già entrato qui a
ventiquattro anni, il 9 aprile 1909, per uscirne dopo giorni 18»): ricovero per
delirio e fantasticherie morbose; «l’espressione della fisionomia è piuttosto
malinconica; gli occhi sono perlopiú lucenti e fissi in lontananza»; «si
presenta lucido e ben orientato sia nel luogo che nel tempo e nello spazio»;
«se lo si fa parlare piú a lungo dimostra idee fisse, non lasciandosene mai
distrarre»...
Di sicuro è un caso interessante di psicopatia dissociativa, probabilmente
ebefrenica, pensa il dottor Pariani: un malato che ha perfino i suoi lati
simpatici, cosí rassegnato nei confronti delle terapie proposte, obbediente
agli infermieri, generalmente di indole distratta e serena. Ha certo vissuto da
scapestrato in gioventú, riflette il medico: ma di sicuro non era un fanciullo
vizioso come il Rimbaud, dedito a cannabis e oppio; no, il Campana dalla
sua ha semplici abusi di Bacco Tabacco e Venere, relazioni bizzarre, vita
eccentrica... Bisogna dargli atto che ora rinnega gli stravizi passati, ma
com’è che in tale sconfessione sto malato mette anche la poesia? Non si
riesce quasi a farlo parlare su questo argomento. Sordo. Quando si accenna
ai suoi componimenti, non ascolta. Impossibile poi forzarlo a scrivere la
minima riga, pur offrendogli carta penna e l’agio di comporre versi.
Il medico scorre per la seconda volta la cartelletta in cui è riassunto il
destino di pazzia e di poesia del ricoverato. Chissà, forse non c’è poi una
gran differenza tra l’essere poeta e l’essere matto, pensa il medico
deponendo il fascicolo sulla scrivania. Sulle labbra gli passa l’ombra di un
sorriso, mentre gli sfilano davanti i casi di Tasso, Poe, Maupassant,
Nietzsche, Donizetti, Schumann, Severino Ferrari, Vincenzo Gemito... Già
nell’aprile del 1907, sulla «Rivista di patologia nervosa e mentale» ha
pubblicato un Saggio sopra le modificazioni dell’arte nella pazzia e, sei anni
dopo, un articolo intitolato Nuove ricerche sui rapporti dell’arte e della
pazzia. Gli piacerebbe scrivere un libro importante sulla sua esperienza
clinica, in cui ha assistito al disfacimento di begli ingegni, a esistenze buttate
via senza apparente motivo... Anzi ha già pronto un titolo: Nel dominio della
follia. Studi e ricerche di Carlo Pariani nonché la sequenza in nove capitoli:
«Personalità umana, Pazzia e sue forme, Irregolarità non pazzia, Genio e
pazzia, Attività varie nei pazzi, Infelicità nei pazzi, Communia tra pazzi e
savi, Antichità della pazzia, Descrizione della pazzia nei poeti. Campana,
Boncinelli e Galeffi».
Un forte scroscio di pioggia sui vetri lo riscuote. Suona il campanello.

Dietro i vetri annotta. Il malato è seduto sulla panca fuori dallo studio del
medico. Gli hanno detto di aspettare. In piedi, appoggiato al davanzale di un
finestrone del corridoio, sta l’infermiere, un po’ imbronciato perché è quasi
ora di cena, in questo momento dovrebbe già essere seduto nel refettorio:
mangerebbe in santa pace prima che arrivino i clienti – cosí al Regio
Manicomio di Castel Pulci i guardiani sono soliti chiamare i ricoverati –
invece no, gli tocca tirar tardi con sto degenerato.
Lo squillo di un campanello. Il malato avverte una sorta di contrazione
allo stomaco – in fondo all’anima? – e si dice: speriamo che tutto finisca
presto. Lo snerva l’essere stato convocato dal dottor Pariani per un nuovo
colloquio; non gli è piaciuto, la volta precedente, quel suo insistente
ritornello sul «recupero della salute»... Ma di che salute, di che vita ciancia
sto medico? Ci sono questioni che per Dino sono definitivamente chiuse.
Perché continuano a tormentarlo? Vogliono che dia fuori di matto un’altra
volta?
L’infermiere è scattato in piedi con un moto di sollievo. Ora bussa
lievemente alla porta, la apre, ci infila la testa, poi fa un cenno al malato
ordinandogli di entrare.

Dino Campana non ha quasi fatto in tempo a sedersi che già stringe i
pugni e investe il medico con i pensieri che ha rigirato tra di sé durante
l’attesa del colloquio: «Io non ho nessunissima intenzione di sentirla
sproloquiare sul mio eventuale “recupero della salute”, dottor Pariani:
possibile che nessuno lo capisca? Non desidero cambiare, ricevere visite
ancor meno». Sente un doloroso palpito sanguigno alle tempie e quasi un
prurito nelle dita.
«Lungi da me, signor Campana, il volerla allontanare da Castel Pulci. Mi
sembrava di essere stato chiaro nel nostro incontro precedente. Comunque
glielo ripeto: quella che cerco per lei è semplicemente una vita piú decente,
meno oziosa. Lo ammetta: l’essere segregato in una camerata con
degenerati, a volte anche gravissimi, non è la migliore delle vite possibili...»
Dino scuote la testa. Come spiegare a sto zuccone di Carlo Pariani che
ogni vita crea legami, stabilisce un’inerzia di accomodamenti forse poco
comprensibili per un osservatore esterno; epperò quel trantràn – l’essere un
anello anonimo nella lista dei reclusi di Castel Pulci – seppur tristo e
monotono è una sicurezza di cui uno come Dino non può fare a meno.
Uscire? Epperché? Chi esce da un manicomio resta poi sempre in balía del
primo stronzo che gli sbatte la porta in faccia, della prima guardia sospettosa
che gli chiede di esibire i documenti, dell’insofferenza dei parenti. Basta un
niente e si torna in manicomio, dritti filati. Non c’è scampo per chi una volta
è stato bollato come matto... Chiede: «Lei, dottor Pariani, l’ha mai letto il
Werther?»
«In che senso?»
«Nel senso letterale: di leggerlo... Verso la fine del romanzo, in una
giornata fredda come quella di oggi, Werther incontra un povero mentecatto
che farnetica di fiori, finendo poi per confessare mestamente di rimpiangere
un periodo non meglio precisato in cui era stato bene... E sa a che cosa si
riferisce quell’infelice? Ai mesi passati in manicomio, legato mani e piedi,
quando quasi non sapeva di stare al mondo».
Come se non lo avesse ascoltato, lo psichiatra insiste: «Mi stupisce che lei
un tempo cosí... vivace... si accontenti di questi giorni al chiuso, monotoni,
grigi, tutti di un’uguale pesantezza». E nel dir questo sorride, benevolo.
Dieci
Venere passa in barroccio
Chiacchierata con Bellabionda

Colpa del Luiso se ti ho sognata, cara Ludò. Per tutto il pomeriggio,


mentre sotto la sorveglianza di Calibàn raccoglievamo le foglie secche nel
cortile – cosa non si fa per avere un paio di sigarette... – non ha fatto altro
che cantare a squarciagola:
... mi diceva: Marietta, vien grande,
ché ti voglio maritar!
Bionda, oj bellabionda,
oj biondinella d’amor...
E nel pronunciare l’ultima parola del ritornello, il Luiso, che è un
omiciattolo dalle labbra pendule e le orecchie a sventola, afferrava uno dei
rametti secchi che trovava per terra e cominciava a marciare come un
soldatino: un-dué, un-dué, passo, bum!... Quasi ci tira scemi tutti. E figurarsi
se Calibàn non ne profittava per prenderlo in giro: «Guarda là in fondo,
Luiso, ché sta arrivando la biondinella d’amor...»
Allora mi sono ricordato che tutti nella carovana, per le tue fattezze di
splendida svizzerina con guance da mela, ti chiamavano «Bellabionda»...
O forse ti ho sognata perché l’altro giorno il medico insistentemente mi ha
domandato ragguagli sul mio viaggio in Sudamerica. Non so. Naturalmente
con il dottor Pariani sono stato sulle mie, poi una volta a letto ho rivisto certi
particolari bizzarri di quel viaggio.
Non ho ancora finito di meravigliarmi, sbarro gli occhi nel buio e rivedo
tutto con precisione. In sogno salivo su uno dei carri a ruotone piene, che
lasciavano Montevideo per inoltrarsi nella pampa. Scavalcavo valigie fagotti
pentolame accatastato, guardavo stupefatto l’alto tendone con travatura di
canniccio, sotto il quale si raggrumava uno strano odore di menta. Degli
uomini stavano coricati in una delle tre file di cuccette sovrapposte; altri
seduti in fondo mangiavano e bevevano.
Qualcuno, facendomi posto, annunciava: «Abbiamo un nuovo arrivato».
Intorno era un coro di saluti e strette di mano: il conducente Heber, tre
ticinesi, due svizzerofrancesi con le rispettive mogli e tre bimbetti di cui uno
ancora attaccato al seno della mamma, un paio di giovanotti con lunghe
barbe e riccioli alla giudea provenienti dall’Impero Austroungarico, tuo
fratello Leonardo e te. Ludovica Ludò... Nel sogno una delle donne mi
offriva come benvenuto del pane e l’invito a bagnare la gola con una
«goutte» di un liquore casereccio...
Fin qui, potrebbe essere soltanto un ricordo, in fondo avvenne piú o meno
cosí, ma alcuni particolari non quadrano. Per esempio, nel sogno tu
indossavi un abbigliamento incongruo: vestito a quadrettoni scozzesi di lana
pesante, guanti, stivaletti. Rammento di aver notato che uno dei bottoni, che
ti chiudevano il vestito alla nuca, era slacciato. Quel piccolo particolare mi
ha commosso in maniera singolare; aggiungeva qualcosa di dolce alla tua
innocenza. Tenevi in mano una gabbietta d’oro, a forma di lira con le sbarre
decorate: dentro ci dondolava una campanella legata con un nastro azzurro...
Non ricordo altro del sogno, ridicolo e senza senso, benché ci siano dottoroni
che sostengono che tutti i sogni abbiano un significato. Mi son svegliato in
un sudore freddo. Ero intontito e per un attimo sul muro di fronte a me ho
visto graffito l’urlo che non avevo emesso: ho pensato di essere appena
morto e che, se qualcuno avesse aperto la finestra, la mia anima se ne
sarebbe volata via.

Sai, Ludò, io di quel viaggio ricordo ogni minimo particolare: per


esempio, il fatto che all’inizio ero imbarazzato, come mi capita spesso di
fronte a estranei. Tanto piú che il caldo mi prostrava, sudavo per ogni poro.
Sdraiato nel posto che mi era stato assegnato, ciondolavo di stanchezza,
senza però riuscire a dormire davvero. Mi sforzavo nel contempo di ritrovare
dentro di me la lieta aspettativa di novità che fino a qualche ora prima mi
rendeva entusiasta della decisione di lasciare Montevideo per inoltrarmi
nella pampa orientale. Mi sentivo in preda a una singolare ansietà, mentre
ascoltavo distrattamente gli uomini confabulare sottovoce.
Uno dei giovani ebrei, che si era presentato come commerciante, spiegava
che era diretto in Argentina: «Mi hanno detto che laggiú le città crescono e i
dindi ci corrono, mica come qui nella Banda Oriental».
Per alcuni quel viaggio non era una novità e sembrava provassero gusto a
contare storie truci di gauchos violenti, di scontri con indios: «Trent’anni fa
in certe zone la vita non valeva niente... Una terra di assassini. Il duello era
la legge e, se perdevi, la pagavi cara: ti tagliavano le orecchie, la lingua, il
naso e i coglioni. Senza contare gli indios: se ti prendevano...», e a quel
punto con la mano facevano un gesto sulla gola, sotto il mento, a indicare
l’atto di sgozzare. Poi ridevano. Dicevano sul serio? Un fiasco di vino
correva di bocca in bocca.
I due ebrei comunque tendevano a minimizzare i pericoli; della pampa
sottolineavano il fatto che era un posto cosí vasto e vuoto che c’era per forza
possibilità di lavorare per tutti: «Una terra come una vergine, la cui carne
non ha mai provato cosa sia il desiderio».

Nel sogno di stanotte tutto si svolgeva però in modo leggermente diverso.


Io ascoltavo gli altri chiacchierare, eppoi frugavo nelle tasche per cercare del
tabacco da ciccare, finché trovavo un’immaginetta della Madonnina
dell’Impruneta che mia zia mi aveva nascosto all’interno della giacca prima
che partissi dal paese, perché mi proteggesse. D’un tratto tutti si sporgevano
incuriositi a guardare, ma io non potevo mostrare il santino perché, chissà
come, all’imprevista si era trasformato nella tua fotografia da cui sorridevi in
completa nudità... Cosa avrebbe potuto pensare tuo fratello, se l’avesse
vista?
Non puoi immaginare quanto Leonardo mi risultasse antipatico. Quella
smorfia di sorriso con cui mi tenne d’occhio per tutto il tempo: gli tirava la
bocca, appiattendogli le labbra finché nell’angolo usciva fuori un canino.
Chiaramente io, essendo in quella carovana l’unico maschio non sposato e
neppure fidanzato, rappresentavo un potenziale pericolo per la sua bella
sorellina sedicenne... Nel sogno lo sentivo avvicinarsi alle mie spalle. L’ala
del suo cappello mi sfiorava; attraverso il buco nel feltro, che gli serviva per
appenderlo, riuscivo a vedere di scorcio un pezzetto di cielo, azzurro e tutto
sfrangiato. Pieno d’angoscia, strappavo l’immaginetta dalla tasca, e poi le
bucavo gli occhi con una forcina da capelli perché lui non ti riconoscesse. È
proprio a questo punto che mi sono svegliato.

Ci ho ripensato, ma non riesco a trovarci un senso. Che c’entri tu con un


santino? Al massimo tu potresti essere Venere in fiore, certamente non una
Madonnina... Tra l’altro non ho mai venerato immagini di sante. O meglio,
solo da bambino. A quell’epoca, ricordo, giocavo spesso con Lidia, la figlia
del sacrista. Anche lei aveva treccine bionde come le tue... In un ripostiglio
vicino al campanile, c’erano tante cianfrusaglie che un tempo avevan fatto
parte di arredi delle cappelle: braccini di statuette del presepio, testoline
d’angelo di gesso con la pittura delle guance screpolata, resti di ceri. In un
angolo del cortile io e Lidia costruivamo i nostri altarini, con mucchi di
sabbia a cui davamo forma mescolandola con acqua. Era un gran correre
affannato dal pozzo al nostro angolo di giochi, con un secchio che perdeva
da un buchino: non facevamo in tempo a trasportare con la stessa velocità
con cui la sabbia assorbiva il liquido. Rammento che eravamo però riusciti a
ricostruire un angiolotto quasi per intero, mettendo insieme tanti avanzi di
statuette: perfino con le ali e una manina con l’indice alzato: sai, quei gesti
che hanno certi santi, a imporre attenzione o a rimproverare... Poi si
intromise suo fratello Emanuele. Si era piantato davanti a noi con una
smorfia di disgusto sulle labbra.
«Cos’è sta storia?» domandò.
«Stiamo giocando alla messa», cercai di spiegare.
«E che ci fa quello sgorbio?»
«Quale sgorbio?»
«Quella specie di mostricino sbilenco, a che vi serve?»
«Per l’altare... Sempre ci vuole una statua sull’altare... Poi ci metteremo
anche i fiori», spiegò Lidia che aveva raccolto un mazzetto di margherite e
soffioni.
«Ah ah, e allora state ben attenti!» Si chinò ancora di piú in avanti, le
narici pelose gli vibravano, la sua giacca mi sfiorava il viso e sentii l’odore
delle cicche tabaccose che teneva in tasca. Allungò la mano e, afferrata la
statuina che avevamo rabberciato, la buttò a terra. Andò in frantumi. Un
mucchio di briciole bianche.
«Siete state attenti?» domandò, chinandosi nuovamente tra me e Lidia,
con quel suo odioso puzzo di cicche spente. Poi all’imprevista con una
pedata spianò l’altarino, riducendolo a un mucchio di sabbia informe. Quel
gran figlio di buona mamma.
So che piansi a lungo. Io e Lidia non giocammo piú.

Comunque in quel viaggio in carro attraverso la pampa uruguayana non


avevo bisogno di protezione di Madonne. Cosa avrei dovuto temere?
Gauchos? Indios selvaggi? Naa. Ero convinto che i nemici piú pericolosi me
li fossi lasciati alle spalle, in Italia, nei fogli di via delle questure, nelle
cartelle cliniche dei manicomi, nella mestizia gridòna di mia madre...
Piuttosto quella terra incognita e mai domata mi faceva sognare. Una distesa
di collinette dolcissime come le curve morbide di una donna sdraiata. Pampa
vergine, mai graffiata dal segno di una strada.
Non che quella situazione fosse un idillio. Anzi, fu davvero una fatica
bestia, tra il calore e le nuvole di polvere sollevate dalla fila di carri. Ché la
siccità aveva reso la terra cosí secca da sembrare sabbia. Oltre a ciò non una
vera e propria strada, ma solo i solchi scavati dai carri passati in precedenza,
una specie di sentiero a scoscendimenti, con tane di talponi che franavano
all’improvviso mettendo in pericolo le ruote. Rarissimo imbattersi in una
casa abitata. Qualche volta dall’immobilità della pianura spuntavano coppie
di struzzi che, all’avvicinarsi del carro, stendevano le ali e fuggivano a tutta
velocità. Oppure lo scheletro di qualche cavallo morto sul ciglio del sentiero:
in uno, tra le costole completamente spolpate, vidi un chimango che
becchettava. Pare un uccello in gabbia, pensai. Qualcosa di inconcepibile,
appena afferrabile col pensiero.
Anni dopo, tornato in Italia, mi scappava da ridere ogni volta che d’estate
gli altri smaniavano per la calura: si vede che non avevano mai provato l’aria
rovente della Banda Oriental... Quando a Marradi le persiane erano chiuse
dappertutto e la gente boccheggiava scolandosi litrozzi di bevande fresche,
prendevo in giro gli altri; dicevo: «Voi non sapete cosa sia il caldo! Provate a
andare nella pampa, allora sí che capirete cosa significa!» Poi mi stendevo
nudo su un prato e, quando la sera tornavo a casa, mi annusavo la spalla e
sentivo con piacere che la mia pelle era calda e sapeva di sole... Adesso
purtroppo non è ancora estate. Del resto, anche se lo fosse, non avrei piú
prati a mia disposizione.

Il vento mi stroncava. Mi venne uno dei miei potenti mal di testa. Una
donna mi diede da annusare una foglia d’arancio. Tu approntasti uno strano
rimedio con un grosso fagiolo spaccato in due: inumidisti le due metà con la
saliva e me le posasti sulle tempie dove aderirono facilmente. Spiegasti che
non dovevo staccarle: quando fossero cadute da sole, il mal di testa sarebbe
bell’e passato. E fu cosí. Eri un po’ streghetta, non è vero?
Ti guardavo: occhi azzurro chiaro, riccioli biondi che sfuggivano alle
trecce. Se non ci fosse stato tuo fratello Leonardo, ti avrei baciata. O forse
no: mi era d’impaccio la piccola serie avvilente di esperienze nei bordelli,
epperciò mi rendevo conto che con una ragazzina come te dovevo affrontare
un approccio in tutt’altro modo. Ma come parlartene, Bellabionda, se
nessuno ci lasciava mai soli? Quell’agrodolce rompicapo mi ronzava nella
testa rendendo il mio umore oscillante.
Fu quel giorno che la carovana si divise? Una lunga litania di carri prese
verso nord; invece il veicolo su cui stavamo noi due si diresse a ovest. Credo
di aver scelto di seguire il vostro tragitto essenzialmente per rimanere con te.
Mi intrigavi.

Comunque, piú ci rimugino, piú mi sembra strano l’aver rivissuto nel


sogno quelle nostre lontane conversazioni riguardo ai pericoli nella pampa.
Macché gauchos, macché indios. L’unica cosa che in quel viaggio mi
impressionò fu la sensazione da brivido che la terra vivesse una vita propria,
possente e completamente indifferente all’uomo. Ti ricordi, Ludò, la volta
delle cavallette? Non c’è stato niente che abbia scosso la carovana allo stesso
modo.
All’inizio i cani presero a abbaiare. Sicuramente per la paura: le bestie
presentono le disgrazie. Ululavano cosí forte che sollevai il telo di copertura
per capire di cosa diavolo si trattasse. Inutile cercare di zittire la cagnara.
Tendevo l’orecchio, inquieto, intuendo che stava per succedere qualcosa.
Tutti insieme alzammo gli occhi e vedemmo all’improvviso una nuvola
scura che si avvicinava, bassa sull’orizzonte. Da rimanere boccaperta: che ci
faceva una nube nera se il cielo era cosí azzurro?... In pochissimi minuti
l’orizzonte si oscurò, diventando completamente buio. In un santiàmen
migliaia di cavallette scesero sul nostro carro, investendolo come se fossero
cieche; il loro picchiettare sulla tela della copertura sembrava una bufera di
pioggia. Eppoi il rumore pazzesco di quelle millanta mandibole che
trituravano, masticavano, divoravano... Ognuno di noi cercava di
rannicchiarsi proteggendosi come poteva occhi e bocca. Ti buttasti tra le mie
braccia piangendo. Sentivo con ripugnanza le bestiacce camminarmi
frenetiche giú per la schiena, infilarsi sotto la camicia e tra i capelli, frugarmi
fin dentro l’anima. Mi pareva di annegare, ma il fatto di doverti proteggere
mi dava forza. Tutto, pentole sacchi vestiti, ogni cosa coperta di uno strato
verdenero brulicante, alto qualche centimetro.
D’un tratto aprii gli occhi e vidi di nuovo il sole brillare. La nuvola si
alzava e svolava via. Solo poche di quelle bastarde si attardavano a mordere,
ne trovai alcune impigliate nelle tue trecce. Con le mani le gettai lontano per
poi pestarle. I cani si grattavano il dorso rivoltolandosi per terra, i buoi che
tiravano il carro sanguinavano. Delle cavallette rimaste sul terreno facemmo
un mucchio alto cosí. E ancora non volevano morire: tentavano di volar via,
ma non ce la facevano a staccarsi da terra, stordite dai nostri colpi. Poi
demmo loro fuoco. Ne venne una puzza terribile che ti fece vomitare. Avevi
un faccino bianco che faceva tenerezza. Mia Bellabionda. Mia Venere
Bambina.
Probabilmente fu un’esperienza cosí forte perché io e te conoscevamo
soltanto le cavallette della nostra infanzia europea: di un verde quasi
trasparente, alcune piú grosse col dorso disegnato di linee leggermente piú
scure, in immobile tensione quando se ne afferrava una per le lunghe zampe.
Tanto è vero che, quando da piccolo leggevo sulla Bibbia le pagine sulle
piaghe d’Egitto e sul flagello delle cavallette, non immaginavo che si
trattasse di un pericolo reale; pensavo fosse semplicemente un modo
favoloso per significare l’ira divina.
Comunque quella volta non provai terrore. La cosa piú difficile da
spiegare agli altri è proprio questo: che il passare attraverso minacce reali
calmava le mie angosce: quello che per te e per gli altri componenti della
nostra comitiva era tremendo, spaventoso e disperante, per me era quasi
indifferente. Non avevo niente da perdere, la mia situazione già allora era
cosí pazzesca che l’affrontare pericoli non mi sconvolgeva.
Vedi, Bellabionda, sono qui a rigirarmi nel letto e a ricostruire
mentalmente il suono della tua voce, il battito dei tuoi trasalimenti, il nostro
breve abbracciarci nel caos delle cavallette, i tuoi tremori che per un attimo
sognai fossero brividi di uno spirito amante... Conto nel buio gli anni che
sono passati, tutti qui schiacciati dentro la testa.

L’immagine della nuvola di cavallette, la portammo con noi fino alla sera.
Ci rimaneva ancora negli occhi, quando scucchiaiavamo nella solita
fagiolata che le donne avevano condito con sale, aceto e aglio, senza
dimenticare le patate lesse tagliate a dadini, quasi sfarinate. Era buona
quell’insalata – oggi, dopo vent’anni, so che nel suo profumo di aglio e aceto
si condensa la memoria piú gradevole del mio viaggio americano... – ma
quella sera le tue labbra tremavano e il cucchiaio si muoveva lento, grattava
sul fondo della gavetta eppoi risaliva esitante verso la bocca, senza che ti
decidessi a ingollare. Certo il ricordo delle cavallette ti rovinava il gusto del
mangiare. Di modo che finisti per sminuzzare il cibo in bocconi sempre piú
piccoli e infine lo lasciasti nel piatto.
«Non mangi? Non ti piace?» chiese una delle donne che avevano
cucinato.
Tu rispondesti seccamente: «Noo!»
«Perché?»
«Perché no. Nooo, no e poi no!» gridasti. Eri già in piedi e scappasti via.
Tuo fratello Leonardo disse: «Scusatela! È solo una bambina capricciosa.
Sapete com’è: ha sedici anni, non le è ancora passata l’età della stupidéra!»
Avrei dovuto prendere le tue difese, ché ti capivo: in fondo non ero tanto
piú grande di te. E le tue lagrime mi facevano tenerezza. Eppure ebbi paura
di reagire e contrariare Leonardo, mi adeguai ai suoi criteri di adulto sensato,
restai immobile. Spesso a quell’epoca mi riducevo a vivere nei vuoti spazi
bianchi ai margini del Libro della vita...
Quella mia mancanza di reazione comunque mi fece sentire allora come
un vecchio barbagianni. Da un’enorme distanza ti guardai correre via con le
trecce dondolanti sulle spalle. Mia irraggiungibile Venere.
Undici
Regio Manicomio di Castel Pulci
Marzo 1927

Di nuovo a colloquio col dottor Pariani. Ecco, pensa Dino: ricomincia la


solfa, sono il misterioso oggetto dei suoi studi, il circo delle sue sette
allegrezze... Guarda come slunga la testa verso me, quasi a volermi dire: «La
smetta di negare la realtà. Io so cos’è il suo bene. Lo sa pure lei. Lo
ammetta. Confessi che desidera essere fuori da qui». Mi vorrebbe ai suoi
piedi a supplicarlo di farlo uscire, studia la mia fisionomia per stanare i miei
pensieri piú nascosti: «Allora? Su, signor Campana, mi racconti cosa
avrebbe voglia di fare se fosse libero...»
Ma si può sapere cos’è la libertà? Fare quel che desidero? Evasione del
burattino Pinocchio dal carcere del tempo e dello spazio... Mi lasci in pace,
dottor Pariani! Non ho niente da dichiarare. Eppoi non sono un soggetto
interessante. Chi sono io?... Lo confesso: ho bisogno di queste sbarre per
vivere. Scavarmi un buco nella terra per toccare il buio piú sprofondo,
lontano da tutti, irraggiungibile: questo vorrei, questo solo mi consolerebbe.

Una vecchia immagine sbuca dal vortice dei pensieri: un burattino


attaccato a fili che lo tirano spietatamente. Si potrà mai distruggere la rete
dei ricordi?
Per un attimo Dino Campana si rivede alunno di collegio: lo studio in aule
solitarie, l’odore pungente della cera per pavimenti, il crocifisso incombente
dai muri, i vetri polverosi, il suono della campanella serale. Che gusto
provava a quel tempo a infrangere la disciplina e la regola. E i sogni davanti
al mappamondo con fiumi azzurri e confini rossi che traversavano terre
ricoperte da nomi esotici e da cui pareva alzarsi un romorío di lingue
sconosciute: quasi un invito alla fuga. Ricorda che a quell’epoca spesso
piombava in uno strano stato d’animo, per cui si andava a infrattare per ore
nei boschi che costeggiavano la ferrovia. Passavano convogli la cui semplice
vista gli dava un dolore sordo nel petto. La loro meta: Roma, Milano,
Ventimiglia... Bastava il nome per farne un poema di sogni. A volte, se le
vetture erano illuminate, gli pareva di scorgervi viaggiatori seduti a tavolini
sovrastati da piccole lampade con paralumi rosati.
Il malato sospira, gli sembra di non aver fatto altro che fuggire per anni:
ogni volta che suo padre gli proponeva una qualunque sistemazione di
lavoro, aveva l’impressione che la vita vera non fosse lí dove si trovava.
Epperciò sua madre si stracciava le vesti rabbiosamente: «Tu che parevi un
bambino cosí buono, cosí dotato... guarda cosa sei diventato: un vagabondo
guitto e sbrício!»

Tossisce, annusa nell’aria l’odore della sigaretta mal spenta del medico.
Sembra indeciso. In parte gli piacerebbe rispondere al dottor Pariani
tirandogli fuori il ricordo della derisione che da adolescente ha sofferto al
paese, le maldicenze di cornacchioni e serpenti a sonagli, i rimbrotti che in
casa s’è sentito piovere addosso per anni; per esempio, spiegargli: «Mia
madre mi esasperava. Una volta frugando tra le mie cose – ché lei era fatta
cosí, aveva qualcosa del gendarme – trovò un quadernetto di versi, li lesse e
li giudicò cosí disgustosi da buttarli nella stufa. Capisce, dottore? Se avessi
scritto poesie su fiori e violini, lei sarebbe stata disposta a chiudere un
occhio; siccome però i miei componimenti parlavano di porti e bettole e
puttane, ero un depravato! Va’ a spiegarle che un animo veramente cattivo
non sceglierebbe termini spietati, ma si ammanterebbe di dolci paroline su
lillà che fan rima con felicità. Da parte mia, ogni volta che mi sono trovato
in mano libri che si sdilinquivano sulla bontà umana, ho sempre provato
parecchio disagio o perlomeno il sospetto che l’autore, nel migliore dei casi,
non avesse tutte le rotelle al posto giusto... Ma con mia madre sarebbe stato
un discorso inutile. Si figuri, dottore, che quando mi disperavo perché un
cretino di Firenze aveva perso il mio manoscritto, mi disse: “Ne ho proprio
piacere! Adesso finalmente la pianterai di sprecare il tempo in baggianate e
di rovinare la nostra reputazione. Ma guardatelo! S’era messo in testa di fare
il poeta. Non ne vogliamo di matti e buonanulla nella nostra famiglia!”
Proprio cosí mi disse».
Con tali sfuriate sua madre aveva cercato di smontare la sua passione.
Indignato per quel primo quadernino svanito nel fuoco, lui allora era
diventato vagabondo: ogni volta che si imbarcava in un nuovo viaggio, non
era guidato da piacere o curiosità, ma dal ricordo di quelle pagine che
bruciavano. Il dolore delle sue parole perdute... Ah, quante cose potrebbe
raccontare. Con sguardo malinconico carezza quel che resta del Dino
ragazzo: briciole, pagliuzze rilucenti come lampi. Alla fine sorride
misteriosamente tra sé borbottando: «Lo so, dottore, prima ero diverso, un
vagabondo che cercava di fuggire dal pesante groviglio della stupidità
locale. Sapesse quanti viaggi ho mai fatto: percorrevo strade sconosciute, ma
ovunque andassi mi portavo dietro Marradi; sempre nella mente qualcosa di
nuovo ma anche pieno di antica mestizia. Cammina cammina, sentivo i miei
occhi dilatarsi e mi tornavano alla mente persone e voci del mio paese. Mi
successe perfino in America, dove decisi di andare perché dicevano che
laggiú la gente era piú libera, lo spazio grande, e nessuno a soffocarti di
domande indiscrete. Di sicuro in America non desta nessuna curiosità chi
viaggia, tutti arrivano o partono. Ché nell’idioma che parlano in quei paesi la
meta di un viaggio si chiama DESTINO... Che bella lingua, vero?»
Nella foga del parlare il malato si è perfino leggermente sollevato dalla
sedia; gli è caduto il berretto che, quando è entrato nella stanza, si era tolto
poggiandolo sulle ginocchia. Per un attimo si sente ridicolo: perché sta
dando spiegazioni al suo nemico? Ché il dottor Pariani è di certo un
avversario.
Rabbrividisce. A volte gli basta semplicemente un paio di parole per
impizzarsi. Quali parole? Che razza di parole? Quelle che scavano dentro,
che si conficcano profondamente nel cervello come uno spino. Bisogna
cercare di estirparle dall’osso duro del dolore, prima che ci marciscano nella
testa, altrimenti... Sí, certe parole. O un particolare modo di pronunciarle.
Dodici
Quiere Usted Mate?
Lettera a una guardiana di tacchini
Cara Peau d’âne,
se non fossi salito su quel carro che lasciava Montevideo, non ti avrei mai
conosciuta e, adesso che ho bisogno di qualcuno con cui ripercorrere quel
viaggio, non saprei dove sbattere la testa. Fortuna che invece so che esisti e
che sicuramente di tempo per leggere le mie lettere ne hai a iosa, quasi
quanto me.
Come piove. Un’ariaccia fa sbattere le imposte. Molti miei compagni di
camerata stanotte sono nervosi per il vibrare dei vetri, ché le porte e le
finestre non chiudono bene. Anche il lume che viene lasciato acceso tutta la
notte sopra l’ingresso della camerata sembra dare una luce piú fioca e
tremolante del solito. Alcuni gemono, il Grattarola si è coperto la faccia col
lenzuolo e singhiozza. L’agitazione si va propagando per la camerata, tra
poco ci sarà un bel coro di lamentazioni. Il Mangiamòccoli – uno dei piú
antipatici dei miei compagni, perché fa il lecchino e la spia con i sorveglianti
– è sceso dal letto e si aggira tra di noi tremando e piangendo. Quando è
arrivato vicino al mio letto, ho tirato fuori il braccio dalla coperta e gli ho
detto calmissimo: «Allora come va?»
Mi ha fissato con occhi lucidi, quasi non mi avesse riconosciuto. Allora
gli ho toccato la spalla come per una pacca d’incoraggiamento, ma lui s’è
messo a caragnare ancor di piú, mentre io storcevo la bocca imitando le sue
smorfie.
Come si fa a avere paura del vento? A me è sempre piaciuto. Anche la
pioggia, il fuoco, perfino il fango. Spesso, ai tempi dell’università, quando
c’era temporale andavo volentieri alla finestra a gridare ingiurie e parole di
scherno al mondo, alla maniera di Cecco Angiolieri. Appena vedevo che le
strade si svuotavano – gente che correva nei caffè e sotto i portoni, donne
che si tenevano strette le gonne o evitavano a passettini le pozzanghere – mi
veniva da urlare di soddisfazione. Se poi uno scroscio mi sorprendeva in
montagna, mi piaceva il formicolio dei piedi negli scarponcini bagnati. A
volte perfino preferivo camminare scalzo nel fango, sguazzando nei ruscelli
di pioggia che scrosciavano a valle.
Sono un selvatico, epperciò non sono mai riuscito a rassegnarmi al chiuso
di Castel Pulci. Di conseguenza la notte scappo fuori da qui, col ricordo di
viaggi lontani. Quella volta, per esempio, che il nostro carro si imbatté in
una pioggia diluviosa che faceva schioccare il telone di copertura... Non
volendo rischiare di impantanarci, ci accampammo di fianco a un cimiterino
abbandonato, sperando di sistemarci alla bell’e meglio nella vecchia
cappella.
Fu proprio lí che ti trovammo, insieme a un cane da pastore e a un folto
branco di tacchini. Restammo tutti basíti. Vestivi da uomo, con pantaloni
larghi e stivali coi bordi arrotolati sulle caviglie. Avevi una pesante
capigliatura che ti ricadeva fino alle reni, piena di spini e di odori selvaggi; il
volto di una bellezza ispida, occhi arditi. L’immagine di una sudicia Peau
d’âne.
Anche tu avevi cercato un riparo dal diluvio, ma non perdesti tempo a
darci spiegazioni: ci aiutasti a togliere il giogo ai buoi, per poi armare una
sorta di tettoia con una lamiera trovata nella capanna degli attrezzi dei
becchini. Eri forte quanto un uomo, come un maschio imprecavi a denti
stretti. Le donne della compagnia si misero subito a cucinare patate e fagioli
su un fuocherello di sterpaglie e di pezzi di legno marcio ritrovati in un
angolo. Ti sedesti in mezzo a noi maschi a fumare, dimostrando subito la
distanza delle tue scelte di vita.
In due parole spiegasti che pascolavi tacchini, portando il tuo «gregge» da
una fiera all’altra. Ero stupito: mai visto qualcosa del genere. Tu ridevi con
un’alzata di spalle; dicevi che era come pasturare le pecore: «Il tacchino è
una bestia docile. Se si possiede un buon cane da pastore, è fatta».
Nient’altro, quasi fosse la cosa piú naturale del mondo.
Ricordo che, quando verso sera il cielo rischiarò, tutti tirarono un sospiro
di sollievo, ché l’indomani si sarebbe potuto ripartire. Ognuno stese la
propria coperta umida a asciugare sul muretto che circondava il cimitero. I
tacchini – saranno stati almeno trecento – si sparpagliarono tra le tombe a
becchettare. I bambini si misero allegramente a rincorrersi, tra un saltare di
rane minuscole spuntate da chissà dove.

Strano, la pietra acquista odore quando il sole ci batte. E ogni lapide


raccontava storie di gente venuta fin lí a morire da tante parti del mondo:
Joseph Meyer 11 anni, Catherine Comte 34 anni, Maurizio Colombo,
Antonio Bonetto 39 anni, Amadeo Rusca, Franz Sübber, Raquel Schalom 14
anni...
Insoliti solchi per terra, come se qualcuno avesse arato. Spiegasti che
erano i segni delle zanne dei maiali selvatici, che annusano la carne dei morti
e la cercano. Ma il peggio, aggiungesti, sono i peludos, gli armadilli: capaci
davvero di scavare in profondità, non c’è cadavere che si salvi.
Ci spingemmo di là dal muro del cimitero: a perdita d’occhio un
paesaggio piatto e assolutamente senza alberi; finite ormai le colline dei
primi giorni. Il cielo grigio sembrava piú basso del solito, quasi appiccicato
alla terra.
Rivedo il tuo aprire la borsa che portavi alla cintura, tirar fuori una foglia
di grano, pressarla tra pollice e indice; eppoi, dopo averci messo del tabacco
sbriciolato, inumidirla cominciando a arrotolarla. Non mi perdevo neanche
uno dei movimenti saltasalta delle tue dita. Raccontasti che nei tempi antichi
il popolo della pampa chiese agli dèi, che stavano abbandonando la terra, di
tornare sulla loro decisione, ma essi non vollero saperne; tuttavia per
consolazione regalarono agli uomini il tabacco, di modo che fumando
patissero meno la lontananza divina.
Fumammo con piacere, seduti sul muretto, mentre scendeva la sera. Avevi
offerto alla nostra comitiva un paio di tacchini per la cena e sotto la tettoia,
circondate dai bambini che strillavano curiosi, le donne avevano tirato il
collo alle bestie: dopo averle spennate e bruciacchiate per levare anche la
cima delle piumette sotto le ali e la coda, tagliavano i pezzi da infilare su uno
spiedo.
Due avvoltoi si appollaiarono in cima al tetto cadente della cappella;
guardavano interessati il branco di tacchini, ruotando torvi gli occhi gialli,
con un verso minaccioso: grrr... Solo quando tirasti fuori una pistola e
sparasti, si allontanarono con volo pesante e impacciato.

Ricordo di averti chiesto se non ti stancava quell’andare solitario.


Hai sorriso: «Vado lenta, essendo da sola».
«Appunto per questo. Girando per settimane senza incontrare anima viva
con cui parlare...»
«Se non hai la malattia del solengo, si sta bene. Si ha tempo per pensare
alle proprie faccende. Eppoi in fin dei salmi faccio quel che voglio, quando
mi gira di fermarmi mi fermo; se mi viene da dormire, dormo. Non c’è
nessuno che mi dia ordini».
La giovane Ludò – te la ricordi vero? – aveva raccolto da terra delle penne
strappate ai tacchini e ne stava intrecciando una specie di corona che poi,
sorridendo con uno sfavillio delle pupille chiarissime, aveva infilato sulle
trecce. Quella sera io non riuscivo a staccare gli occhi da quella creatura:
aveva l’aria di una puledrina, sarà stato per la sottigliezza delle lunghe
gambe tutte muscoli nervosi che le sporgevano da un sottanino troppo corto.
Ti sei accorta di come la mangiavo con gli occhi. Aggrottando le
sopracciglia, hai detto: «La faranno sposare con qualche cugino che, a
quanto ho capito, l’aspetta in una colonia dell’Entre Ríos: partorirà una sfilza
di pupi biondi e, se non creperà durante un parto, le verranno manone da
contadina a furia di mungere vacche».
Vedi che di quella sera ricordo tutto per filo e per segno?
Faceva una strana impressione cenare in un cimitero, tra frammenti di
lapidi storte e resti di croci metalliche.
Non bisogna badarci, sosteneva il fratello di Ludò, perché i vivi devono
continuare a vivere: ai morti la terra, ai vivi la scodella. Requiemmeterna a
loro, ché il tacchino lo mangiamo noi. Ognuno dei commensali aveva il suo
proverbio all’uopo: Il piangere puzza ai morti. Chi muore giace, chi vive si
dà pace. Comedamus et bibamus.
Poi – ti ricordi? – degli inspiegabili suoni nasali provenienti da sottoterra e
ripetuti in rapida successione, come se si trattasse di una malefica risatella,
misero in allarme le donne. Niente paura, spiegasti: è il verso del tucotuco,
un talpone che scava gallerie ovunque, figurarsi quanti ce ne dovevano
essere lí al cimitero.
Eppure sembrava proprio che qualcuno là sotto stesse ridendo di noi. Le
donne avevano visi bianchi di paura. A dir la verità, nel silenzio che
improvvisamente s’era fatto intorno al fuoco, i suoni provenienti da
sottoterra mettevano il tremolízio: come voci di potenze invisibili. Si
intromise un ticinese che di mestiere faceva il maestro: «Di certo non si
tratta di risate, ché i morti non ridono... Sarà semplicemente l’eco delle
nostre parole che rimbomba nelle cavità che i talponi hanno scavato».
Queste parole diedero la stura alle storie piú varie su fantasmi e fuochi
fatui. Heber, il conducente del carro, raccontò che all’epoca in cui lavorava
come dipendente di una estancia, percorrendo in sulky un sentiero tra le
colline, aveva visto levarsi al margine della strada una fiammella pallida che
oscillava avvicinandosi: sto fenomeno, lo chiamavano «luz mala»... Si era
spaventato e messo a frustare il cavallo per fuggire. Ma la luz mala s’era
data a inseguirlo: alitando fiammeggiante proprio a fianco d’una ruota, quasi
volesse montare sopra il sulky. Solo quando lui aveva fatto il segno della
croce, la luz mala era svanita. Sosteneva che si trattava di spiriti maligni che
portano sventura a chi li incontra. Infatti pochi giorni dopo aveva rotto un
fidanzamento che durava da dieci anni.
Il maestro tentò di convincere tutti che si trattava di un semplice fuoco
fatuo, una fiammella tra il verdolino e il grigio che si dondola leggera a fior
di terra. Niente a che vedere con anime dei morti malintenzionati a
perseguitare i vivi: soltanto il normale prodotto dei gas che emanano dalle
carcasse degli innumerevoli morti – uomini e animali – abbandonati in
decomposizione nella pampa. Parlava lento, proprio come fanno i maestri
quando si rivolgono ai bambini di prima elementare: P come palla e la Palla
è rotonda...
Ma Heber non era per nulla convinto: «Ma allora perché inseguono la
gente? E perché i cavalli imbizziscono?»
Chi lo sa se aveva ragione il maestro che sosteneva che la fuga di chi ne è
spaventato apre un varco d’aria in cui il fuoco fatuo si incanala; e che i
cavalli, da bestie sensibili quali sono, intuiscono il nervosismo del guidatore,
epperciò perdono la trebisònda. Altri, no, no, non ci credevano. Io pensavo a
quello che mi narravano da piccolo sui cimiteri: che il diavolo può far
spuntare dalla fossa il braccio di un morto. Ché, a furia di sentirlo contare, io
da bambino mi immaginavo le mani dei dannati levate in alto a coppa, in
modo da formare una sputacchiera...
Intanto però il mate, delle dimensioni e della forma di uno zucchetto di
pellegrin romeo, passava da una mano all’altra e tutti succhiavamo alla
stessa bombilla. Bollente da scottarsi la lingua. Sai, cara, le prime volte il
gusto asprigno di quella bevanda mi sgomentava un po’, ma cominciavo a
abituarmi, mi era diventato quasi piacevole.
Finalmente qualcuno tirò fuori dal carro una chitarra e cantò una canzone
delle sue valli montagnine. Tutti avevano gli occhi umidi: la memoria
ricollegava quella musica agli affetti lontani, con profumo di pascoli alpini e
di latte appena munto. Ci dimenticammo di morti e di fantasmi.

Ecco, Peau d’âne, se mi metto quieto, girandomi dall’altra parte per non
schiacciare il cuore, risento le sensazioni di quella strana notte... Mi tornano
alle labbra i versi di La Fontaine:
Si Peau d’âne m’était conté
J’y prendrais un plaisir extrême...
Mi dava un po’ di inquietudine stare tra quelle tombe, pensare che intorno
avevo resti di gente che come me aveva traversato il mare con una speranza,
e che qui era morta, lasciando come segno del proprio passaggio attraverso
questa vita soltanto una lapide meschina in un posto sperduto in culo a
Giuda. Qualcuno ricorderà questi poveretti? Chi lo sa, la memoria dura tanto
poco, al massimo il tempo di una generazione, già i nipoti parlano di un
defunto come di un’ombra lontana, alla terza generazione nessuno ti conosce
piú né ha tempo di dedicarti un pensiero; tanto piú se sei finito in un
cimiterino tanto distante dalla terra in cui sei nato.
Risento le tue considerazioni su quelle lapidi: ché le pietre inerti, beate
loro, non conoscevano emozioni, albe tramonti o compleanni; non soffrivano
né si riproducevano, eppure partecipavano dell’idea di eternità molto piú di
noi ometti, che ci consideriamo capoccioni di settebellezze.

Vedi, ho sempre avuto coscienza di quanto quel viaggio fosse importante


per me. Sentivo che era finito il tempo di fare il bambino e di stare seduto
sulla «seggiolina d’oro dell’anima», come nelle favole che mi contavano da
piccolo. Beata l’infanzia, quando ancora non ci si è resi conto
dell’ingranaggio che stritola e si può credere che ci aspetti il miracolo del
giorno dopo. Poi però, crescendo, uno comincia a sentirsi come un passero
preso nel vischio, quella sostanza piccicosa che paralizza le ali e impedisce
di muoversi. Leggi, regole del «qui comando io!»... tutte situazioni
impossibili da cambiare, se uno non si mette a dar pugni e alzare la voce. E
gli altri, il branco dei perbene, allora a indignarsi: «Perché ti agiti? Domani
andrà meglio».
Eppure perfino gli scemi sanno che il mondo rimane sempre uguale. E
quando uno si rende conto della propria fragilità, di quanto sia vulnerabile la
sua anima, prende la porta e se ne va: cosí avevo fatto io partendo per
l’America.
Ma cosa sto qui a raccontare proprio a te, Peau d’âne, che conosci
perfettamente la necessità di andartene lontano da ciò che fa male.
Quand’ero piccolo e leggevo le favole di Perrault, mi incantavano i tuoi
tentativi di ingannare la mostruosità dei tuoi genitori con le richieste dei tre
vestiti – color del Tempo, color della Luna, color del Sole – fino alla
decisione chirurgica di lasciarti tutto alle spalle.
Ci eravamo coricati fianco a fianco, un po’ discosti dagli altri: gli svizzeri
se ne stavano sempre tutti uniti e, soprattutto le donne, sembravano molto
guardinghi nei confronti di una femmina che viaggiava alla ventura. Da parte
tua, avevi ricambiato quell’ombrosità con una sorta di sprezzante distanza,
come se loro fossero una razza serva delle abitudini e delle convenzioni:
quasi un disprezzo d’ordine spirituale per gente impastata nella gleba. No, io
non provavo verso di te nessuna diffidenza, anzi, mi piaceva la tua forza, la
capacità che per tutta la sera avevi dimostrato di stare zitta a fumare bere e
ridere di quanto dicevamo. La tua diversità di non essere fatta per avere né
terra né figli. Tipi come me e te, l’unica cosa a cui teniamo è la strada.
Sopra di noi il cielo si era fatto stellato e rotondo. Mi hai chiesto a
bruciapelo perché me n’ero andato dall’Europa: se avevo bisogno di
cambiare aria per qualche problema con la polizia; intuii che per te doveva
essere successo qualcosa di simile. Cercai di spiegarti che no, non c’era stato
un motivo preciso, ma non sono stato sincero con te, perché non parlo mai di
niente che non sia necessario. Ero un ragazzo che aveva taciuto per tanti
anni, ed era ormai troppo tardi per imparare a parlare... Eggià, non sono stato
sincero. Ma non per volontà di contare balle, come faccio per esempio col
dottor Pariani – che poi in quel caso ho una scusante: lui vuole sentire da me
delle belle storie, e io gliele conto...
Vedi, Peau d’âne, io sono uno di quei tipi che non si trovano bene da
nessuna parte, nomadi di spirito, costantemente devastati da una
scontentezza feroce che li spinge a cercare nuovi paesaggi e incontri. Per
questo gli altri, fin da quand’ero piccolo, mi hanno segnato a dito, come lo
svitato, il matto. Mi sono sempre risentito per quella parolina inquietante:
follia. Di proposito, quando allora mi sentivo attaccato dagli altri, tra me e
me mormoravo questa parola, una volta, dieci, cinquanta volte, come per
privarla della sua forza. Effettivamente dopo un po’ cominciavo a sentirla
come vuota e insipida, e alla fine non era piú che una casuale successione di
suoni, uno dopo l’altro, senza maggior significanza dello sbattere della
persiana lí fuori.

Sei scivolata nel mio giaciglio tra le mie braccia: all’improvviso non eri
piú la stracciona sudicia ma una bella ragazza, calda, tenera, pura.
Mi spiacque il mattino dopo, quando ci separammo. Era un’alba con
molte brume. Non pioveva, dovevamo proseguire. Ognuno per la sua strada.
Le donne preparavano il mate e tagliavano le ruote di pane; gli uomini
aggiogavano i buoi e si avvicinavano al fuoco per scrollarsi l’umido di
dosso. Soffiava un vento frizzante, come un anticipo di autunno.
Dalla tasca levasti la borsa del tabacco offrendomi da ciccare. Poi
sfoderasti una strana bacchetta a cui era attaccata una girandola di carta, di
quelle che da bambino vedevo alle fiere di paese: la facesti prillare al vento
con solennità, quasi fosse simbolo di un arcano potere sul tuo insolito gregge
che subito, come per magia, ti si radunò intorno. Eri pronta per partire.
Senza particolari affettuosità per quello che era avvenuto tra noi la notte
precedente. Un addio mattutino non da amanti, ma da compagni di strada.
Uno spino ti punse, mentre raccoglievi il cappello che ti era caduto a terra.
Sacramentasti. Ti afferrai la mano e, come si fa ai bambini che hanno un
dolore, ti posai un piccolo bacio sul palmo ferito. Sul mio piccolo dono le
tue dita si richiusero.
Un fischio, poi il tuo «gregge» si mise in marcia con svogliatezza
becchettando sui bordi del sentiero, ma sotto l’occhio vigile del cane che, se
qualche tacchino se ne allontanava troppo, partiva al suo inseguimento e lo
costringeva a tornare nel branco. Ti guardai perderti nella pianura che
vaporava umidità. La girandola mandava luccichii: sembrava che tu tenessi
in mano una stella. Dopo un po’ tu e i tacchini eravate solo una macchia
grigioscuro che si allontanava lentamente sul sentiero scavato dal passaggio
delle carovane. Un ultimo brillio, eppoi scomparisti. Per sempre.
Tredici
L’ombra delle selvagge nell’ombra
Confessione e supplica a Nausicaa dalle negre braccia

Se ritorno col pensiero all’epoca di quel viaggio in America, nulla mi


sembra cosí opprimente, cosí torbido, come i giorni passati lungo il Paraná.
Mi ero separato dal resto della comitiva degli Svizzeri, per fermarmi alla
fattoria dei Buttaroni. Poi, conclusi i lavori per cui ero stato contrattato, ero
ripartito a piedi per l’Entre Ríos chiedendo un passaggio ai carri che
incontravo per strada, ma spesso erano ore di marcia solitaria. A volte quasi
mi addormentavo camminando, col cervello pieno di sogni. Finalmente, un
tardo pomeriggio, raggiunsi una pulpería in un agglomerato di casupole su
una barranca del fiume: era un piccolo luogo di ristoro dove i viaggiatori
potevano sostare e, nel caso, passare la notte.
Nonostante il nome pomposo di El Progreso, il locale era un antro buio:
un tavolone, delle pancacce e un palo che reggeva una lanterna; vi stagnava
un tanfo di malapulizia, cattivo tabacco e sudore. Il proprietario, don Alviso,
sfoderò un sorriso amabile:
«Qué se va a servir?» Cantilenando mi informò che quella sera ci sarebbe
stata carne, ma la cottura era solo all’inizio. Per ora poteva darmi solo dei
pezzi di jacaré catturato all’alba; poteva servirmelo con un po’ di polenta.
L’idea dell’abbinamento di carne di coccodrillo con la polenta mi fece
sorridere. Assaggiai il piatto con diffidenza: sembrava pollo, anche se con
qualche osso di troppo.
La pulpería era senza finestre ma aveva due porte, una sul davanti e una
su un patio polveroso, dove stava seduta una vecchia che si riparava dal sole
sotto un tettuccio di latta arrugginita su cui stava scritto a grandi lettere
rosse: «Acá te espero». Se poi stesse effettivamente aspettando qualcuno – e
da quanto tempo – chi lo sa, pensai: in quel viaggio stavo cominciando a
imparare la virtú di non avere fretta. Ché la pampa traversata dal río Paraná è
terra di Zenone e gloria delle tartarughe.
Don Alviso aveva la lingua lunga, ti si attaccava addosso con le sue
chiacchiere. Gli chiesi informazioni su qualcuno che fosse disponibile a
traghettarmi dall’altra parte del Paraná, oltre il labirinto delle isole. Mi
suggerí un tale Nepomuceno, detto Rococò: uomo «a posto», secondo don
Alviso, anche se aveva «una moglie loca». E visto che in quel momento ero
l’unico cliente di quel pomeriggio vuoto, si buttò a raccontare: «Una
forestiera... Le donne che non sono nate qui non si abituano mai al río. Per
gli uomini è diverso. Il maschio ha una vita varia: va per isole, pascola le
vacche nelle lagune, mette trappole per i pesci, cattura jacaré. La donna
invece se ne sta in casa, con l’unica compagnia di polli e maiali. La notte,
quando l’uomo torna, si mangia in fretta e ci si mette a letto. La mattina
presto, di nuovo l’uomo se ne va e lei rimane con la testa persa a sfantasiare.
Allora una donna comincia a vedere e sentire cose strane, parla da sola,
ascolta i discorsi degli spiriti. Cosí per mesi e anni, finché un giorno... Un
giorno vedo da lontano la moglie di Nepomuceno che se ne esce da casa:
trascina per mano sua figlia, una bambinetta, e la porta sulla riva del río; la
butta dentro e le tiene la testa sott’acqua. Insomma, la annega prima che
qualcuno riesca a intervenire e strappargliela dalle mani. E vedesse la donna
come rideva: completamente fuori di zucca».
«E poi?»
«Si sarebbe dovuto portarla via, chiuderla in un reclusorio di matti. Ma la
città è lontana e il dottore passò di qui solo tre mesi dopo, quando lei
sembrava ormai essersi calmata... Adesso pare sempre addormentata, non
cucina neanche piú. Ché nelle donne i pensieri sono tutti legati in treccia e
appena un ragionamento si incrina, tutta la maglia si disfà... Cosí lui,
Nepomuceno, è stato costretto cinque anni fa a comprarsi una servetta per i
lavori di casa e per tutti i bisogni che ci ha un maschio».
Rise. Poi mi suggerí di andare da lui prima di cena: l’avrei trovato
facilmente, era l’ultima casa della via. Dicessi pure che mi mandava cumpa’
Alviso.
Mi stupí che il paese si riducesse a una strada di sabbia fina che scendeva
al fiume. In alto, nell’azzurro, un avvoltoio solitario. L’ombra meschina dei
fichi d’India e quattro casupole imbiancate di calce. Senza finestre, per non
fare entrare il sole che picchiava forte. Nient’altro.
Arrivai all’ultima abitazione. Oltre il recinto sgangherato che cingeva il
terreno sporgeva un immenso albero di iberá-pitá, carico di grandi fiori
gialli. Nel cortiletto, tra galline e maiali, mi venne incontro un uomo che
doveva essere giovane, a giudicare dai capelli neri e ricci e dalla vivacità dei
muscoli; una faccia sensuale, il naso largo con narici dilatate; unica nota che
lo imbruttiva erano la dentatura gialla, mancante degli incisivi, e la voce
rauca. Non sapevo bene come chiamarlo: Nepomuceno mi suonava
altisonante, Rococò ridicolo. Spiegai che volevo passare il río. Parve
contento, disse che sarebbe stato pronto all’alba.
Sotto il portico, in un angolo in ombra, una donna coi capelli grigi e
arruffati stava seduta su un seggiolone di vimini, tenendo tra le braccia un
gallo che ogni tanto allungava il collo per catturare una delle mosche che
ronzavano intorno. Senz’altro era la moglie pazza che mi aveva
preannunciato don Alviso. La donna guardava fisso davanti a sé con occhi
vuoti; la bocca carnosa e sdentata, semiaperta. Alto nel cielo, l’avvoltoio
quasi immobile.
Ho sbagliato a dire seduta: era legata... Sentii pena vedendo quella sua
vitalità sotto controllo; pensavo agli ospedali che purtroppo ho imparato a
conoscere fin dalla adolescenza, alle sbarre, alle cinghie di contenzione.
Mi sentivo turbato, annaspavo. Come se la mia condizione di matto mi
inseguisse fin lí. Lanciai intorno a me uno sguardo disperato. Ma in
quell’istante un’apparizione: tu, Nausicaa, sbucasti da dietro i cespugli della
riva con una grande cesta di panni sulla testa. Cantavi sottovoce. Per la
sorpresa di trovare uno sconosciuto davanti a casa, ti fermasti di botto. Eri tu
la vicemoglie che Nepomuceno si era preso cinque anni prima? Sembravi
poco piú di una bimba: capelli di un blu inchiostro che luccicavano al sole...
Dopo aver depositato il cesto su una panca, ti ritraesti in un angolo del
cortile, dietro la carcassa vuota di una vacca. Un improvviso colpo di vento
iniziò a spargere sulla tua testa una pioggia di petali gialli.
Quanti anni potevi avere? Giovanissima, esile... Una Nausicaa dalla pelle
scuretta...
Ferma innanzi gli stette. Ed egli, Ulisse,
pur dubitava: se implorar la bella
vergine ed abbracciarla alle ginocchia,
o se cosí pregarla di lontano
con blande voci, sí che sol volesse
dargli una veste e la città mostrargli...
Nepomuceno mi riscosse da quell’incanto offrendomi un mate con
cedrón: «Gusta un verde?»
A un suo cenno corresti a prepararmelo. Avevi qualcosa di svelto nella
figura, e nello stesso tempo di indefinibilmente sospeso. Mentre mi tendevi
lo zuccotto del mate, un’acutezza improvvisa, piuttosto che un sorriso, ti si
fissò per un istante nelle pupille, come se le avesse sfiorate una punta sottile.
Il mattino seguente la barca di Nepomuceno si inoltrò tra isole selvagge e
lagune fiorite di grandi ninfee. Un vero labirinto d’acqua. Mandrie di
mucche nere, immerse nelle onde fino ai fianchi, pascolavano tra i canneti;
di alcune emergevano soltanto la testa e le lunghe corna scure. L’uomo mi
spiegò che stavano nell’acqua perché pativano il caldo. E poi aironi, garze,
anatre, rane, serpenti d’acqua... C’era da rimanere abbagliati per la ricchezza
di colori: oltre a tutti i toni possibili del verde della boscaglia, il giallo scuro
dell’acqua, la magnificenza d’oro degli iberá-pitá, il rosso violento dei
ceibos, le enormi corolle biancorosa di irupé. Respiravo acqua,
profondamente. Anche i pesci erano straordinari: il dorado, color giallo
brillante con pinne arancioni; il surubí grigio a macchie nere, con muso a
spatola e lunghi baffi carnosi; l’armado chancho tondeggiante e rosa, con
una bocca arcuata sottopancia come i pescecani.
E tu Nausicaa – veramente ti chiamavi Clarita, ma non mi viene naturale
usare questo nome, lo trovo assolutamente bizzarro per una come te dalla
pelle cosí negretta – te ne stavi seduta tranquilla sul fondo della barca, le
mani immerse nel secchio dove nuotavano le murene che il tuo padrone
usava abitualmente come esca. Immobile come una brava bambina, il volto
quasi nascosto dalla massa di capelli; un seno semiscoperto, qualche
gocciolina di sudore si accendeva sulla piega del collo. In una laguna,
l’uomo ti fece scendere in acqua a disincagliare la barca che stentava a farsi
largo tra i grovigli di radici delle piante acquatiche. Ero inquieto per te, vista
la dentatura temibile di tutti i pesci che abboccavano, e gli chiesi se non
fosse pericoloso che tu stessi a lungo nell’acqua. Lui rise con la sua bocca
sdentata: non si capacitava che io mi dessi pensiero per una femmina. Ti
aveva portato con sé proprio perché gli servivi nei punti dove il fondale era
basso. Eppoi i grossi pesci, sosteneva, non attaccano l’essere umano; l’unico
pericolo – ma solo se si sta immobili o si sanguina – era costituito dalle
palometas, voraci e aggressive; quanto agli jacaré, stavano nelle lagune piú a
nord, lí arrivavano di rado. Rideva alle mie paure: che tu fossi in pericolo
non gli importava: ti aveva comprata, eri soltanto una serva tuttofare.
Sorrideva mostruosamente, in un modo che mi diede mal di stomaco.
Insistetti con Nepomuceno, perché tu tornassi sulla barca. Quando ti porsi
la mano per aiutarti a risalire sulla lanchita, alzasti su di me due occhi
sbalorditi, cosí nudi e tesi come quelli di un coniglio sollevato per le
orecchie.
Finalmente sbucammo nella parte centrale del Paraná e restai senza fiato
per l’immensità del río. Dalle onde color mattone spuntavano tronchi di
alberi divelti: rivoltolandosi sporgevano all’aria a volte i rami, a volte le
radici nere, e di nuovo scomparivano sotto la superficie dell’acqua. Morse
dal fiume, le sponde di terra rossa si sfaldavano precipitando nell’acqua e
sollevando forti spruzzi.
Piú avanti ancora isole. In un tratto secondario vedemmo venire incontro
alla barca un blocco di terra di una decina di metri di lunghezza: la corrente
l’aveva appena staccata dalla sponda. Un’isola vera e propria, che correva a
tutta velocità: lo strato di terra e erba era ancora compatto intorno alle radici
di un albero di ubajay i cui rami brulicavano di chiocciole scure; l’isola era
inseguita da un nugolo di uccellini azzurri, che a beccate cercavano di
rompere il guscio delle chiocciole. L’isola ci sorpassò scivolando silenziosa
verso sud.
Quando negli anni successivi, tornato in Italia, ho cercato di raccontare
l’esperienza di quell’isola galleggiante, nessuno ci ha creduto. Piuttosto
l’hanno presa come una prova dei miei deliri. Ma tu sai, Nausicaa. Tu eri là.
Anche tu l’hai vista.

A un certo punto scrissi il tuo nome sul quaderno che tenevo aperto sulle
ginocchia per appuntare le mie emozioni di viaggio. Rimanesti a osservare la
pagina, perplessa tra timidezza e sconcerto, facendo segno di no con la testa.
Nepomuceno commentò che non sapevi leggere: «Es brutita. Una
selvaggia... Qui scuole non ce ne sono, e poi per una femmina non vale certo
la pena».
Brutita: selvaggia senza nessuna forma di educazione... Ti domandai se
conoscevi storie. Volevo a tutti i costi farti parlare. La tua risposta fu un
sussurro: conoscevi la favola degli spiriti del fiume, che – dicevi – hanno
una mano di lana e un’altra di ferro.
Mentre stavo riflettendo un po’ perplesso sullo strano particolare di quelle
mani cosí differenti, il tuo grido: «Adesso escono, mírelos!»
Non vedevo niente, però feci segno di sí col capo come se avessi capito.
Tu insistevi indicando col dito dei grossi buchi nella riva di terra rossa: «Ahí
están: José y, al ladito, María».
Solo allora scoprii due gamberoni color mattone: le antenne tremavano
guardando la barca, dondolavano come se seguissero il ritmo delle nostre
voci. Sussurrasti: «Sono bestie a cui non piace la luce. Escono con la fresca,
andan por la noche. Anche a me piace la notte. Y yo, solita mi alma...»
Avevi lo sguardo perso, in piedi sulla barca dondolavi le anche.
Accennasti un ballo canticchiando:
Cuando cae el sol yo canto...
Traversammo una laguna coperta quasi interamente da un tappeto
grandioso di Victoria regia. Dalle isole saliva una nebbiolina di calura, color
grigio perla.

Piú tardi quella sera, sbarcati finalmente sulla sponda occidentale,


trovammo da riposare presso una pulpería, al riparo dalle zanzare.
L’annottare fu un sollievo, anche se non sempre è veritiera l’impressione
di frescura che dà il buio. Dal río comunque veniva una fragranza che sapeva
di miele. Grilli e rane piangevano in coro, la notte avanzava, la luna si alzò
enorme e gialla. Nella radura gli iberá-pitá si duplicavano in nero per la luce
che li inondava di fianco. Pareva addirittura di sentire frusciare i raggi della
luna attraverso i rami.
Arrostimmo uno dei dorados che Nepomuceno aveva pescato. Tu
mangiavi in silenzio ciò che era rimasto dopo che io e il tuo padrone ci
eravamo serviti. La fiamma che finiva di crepitare dava al tuo sguardo
un’espressione curiosamente ardente. Poi lui se ne andò a bere alla pulpería.
Io ero cotto dal sole, preferii rimanere. Ricordo la tua voce – un filo – che mi
chiedeva se volevo un mate. Forse la brace che si andava spegnendo faceva
abbassare istintivamente il tono della voce. Ero colpito dalla musicalità
velata e sensuale delle tue parole. I monosillabi piú semplici prendevano
nella tua bocca un significato pesante e quasi carnale. Mi porgesti il mate,
sorridemmo un istante, col viso chino, come quando si fa un brindisi prima
di bere.
Ti allontanasti verso il fiume. Mi sdraiai sotto un albero, accorgendomi di
essere in attesa di chissà cosa, con la gola stretta in un nodo. Ben di rado ho
aspettato qualcuno con un’impazienza e un’incertezza cosí intense. Ti
guardai risalire il sentiero, eri un pezzo di notte nera, ti sdraiasti vicino a me.
Come mi batteva il cuore quando ti posai le mani sulle spalle. Erano nude.
Piegasti la testa, la massa dei capelli si rovesciò in avanti coprendoti il volto.
Il tuo viso nascosto mi intimidiva; non osai cercare la tua bocca, baciai
soltanto le spalle. Tu immobile, senza dimostrare sorpresa o desiderio.
Semplicemente stavi lí, forse è cosí che ti aveva abituata il tuo padrone.
All’improvviso un rumore. La mia mano smette di carezzarti... Qualcuno
si avvicina. Voci di uomini ubriachi che sghignazzano. Questo non me
l’aspettavo. In un attimo sono in piedi, corro via. Con te, tenendoti per mano,
spingendoti, trascinandoti nel fitto della boscaglia. Mi sorprende un rumore
di rami spaccati di netto: sono spari. Sento una voce che grida: «Cuidado,
sta’ giú»: è solo una voce dentro la mia testa o la mia vera voce? Il cuore
martella, come un disperato bussare alla porta di un rifugio. Ma tu piangi di
terrore, non riesci a correre veloce, da solo farei molto piú in fretta, nella
corsa sono bravo. Un altro sparo. Crolli, ti chiamo, non rispondi, ti hanno
colpita? Vorrei portarti via in braccio, ma sei troppo pesante. E allora
scappo, d’un balzo, occhi chiusi, orecchie chiuse, tutto chiuso, soltanto le
gambe con una volontà precisa. Incespico in una buca, la testa nel fango.
Fuggo di nuovo.
Di tutti gli incubi che faccio con regolarità, questo è il peggiore.

Guardo il buio della camerata. Mi ronzano nella testa lampi di immagini.


Per esempio quella di un surubí pescato nel Paraná: uno dei pescioni che con
astuzia selezionata spadroneggiano nelle acque limacciose di quel fiume, ma
che poi si fa stupidamente catturare per l’ingordigia di un’esca. Nepomuceno
lo staccò dall’amo e lo buttò sul fondo della barca: il surubí si guardava
intorno con occhi sbarrati, saltando col corpo inarcato per fuggire la schifosa
durezza del legno, pompando il veleno dell’aria con la bocca dilatata da cui
usciva una specie di lamento... Che impressione mi fece: non avrei mai
immaginato che un pesce potesse emettere suoni... Non posso non sentirmi
affratellato a quel povero surubí: mi sento cosí simile a lui stanotte,
nell’ingenuità con cui a vent’anni pensavo di poter sfuggire all’amo della
realtà, nelle scosse che ora mi agitano in questo letto, nel boccheggiare per
mancanza di respiro, nell’agitarsi inutile dei rimpianti.

Tutto quello che non si è fatto, un giorno – in un’altra vita – lo si potrà


fare? Qualcuno me lo sa dire?

Adesso, Nausicaa, tutta la storia mi si sta ricomponendo nella testa: tu coi


capelli blunotte, la moglie loca e quel maschio che vi considerava entrambe
sua proprietà. Ti vedo in questo momento sulla barca che scivola sull’acqua
fangosa del Paraná, mentre dondoli le anche accennando un passo di danza:
il disordine dei capelli sulle spalle seminude, il velo di sudore sul collo.
Dimmi un po’: quei gamberi del río ballavano davvero, seguendo il ritmo
della tua canzone, o li ho solo sognati?
Ricordo una frase di Nietzsche, letta tanto tempo fa:
Bisogna congedarsi come Ulisse da Nausicaa: non innamorato, ma bene
augurando.
Eccosí faccio, chiedendoti scusa se non ho saputo difenderti. Sperando
che non sia finita anche tu legata a un seggiolone di vimini – come l’altra
selvaggia, la moglie loca – a occhi spenti e bocca sdentata; magari
soppiantata da un’altra servetta-vicemoglie piú obbediente.
Quattordici
Regio Manicomio di Castel Pulci
Aprile 1927

Carlo Pariani è curvo sulla macchina da scrivere, impegnato a redigere il


suo resoconto, frase dopo frase, particolare dopo particolare. Si ferma, pensa
al suo interlocutore – il malato Campana Dino – che recalcitra a parlare di
sé: quando accenna al passato, è come se si riferisse a un’altra persona che
un tempo portava il suo stesso nome... Il rullo della macchina da scrivere
gira lentamente, il campanello indica la fine della riga. Punto a capo. Via di
nuovo. Per poi bloccarsi improvvisamente al sorgere di una domanda: come
sarà mai la pampa che dà il titolo a uno dei testi del malato?
Per questo, appena Dino viene introdotto dall’infermiere per il colloquio,
il medico gli espone un quesito sul viaggio in America.

Il malato scuote debolmente la testa. Avrebbe molto da raccontare su quel


capitolo della sua vita. Potrebbe spiegare al dottor Pariani, per esempio, che
la pampa è l’infinito di alfalfa, il vuoto, notti luminose sotto una Via Lattea
che attraversa il cielo come una larga strada di luce; è profumo d’erba, solo
odori, senza esseri umani, senza parole: pura fragranza di madreterra.
Insomma tutt’altra cosa dal puzzo di disinfettanti e di chiuso che stagna
questa sera nella stanza del medico... Ma Dino non ha granché voglia di
addentrarsi nei ricordi. Eppure sa che non può eludere la domanda: questo
professorone è comunque uno che ha il coltello dalla parte del manico:
moderno inquisitore pronto a sezionarti in nome del «pensiero positivo»,
come ti scannava ieri in nome di un imperativo diverso... Mai fare il
mettibòcca contro un medico o un infermiere, tanti anni di manicomio
gliel’hanno ben insegnato. Meglio fingere, contenersi. Cosí comincia a
parlare di quel viaggio, prendendo l’argomento alla lontana: «Vede, dottore,
in America uno può fare quello che vuole, scegliere il lavoro che preferisce.
Sa quanti mestieri ho fatto io? Provi a indovinare...»
Il medico gli offre un foglio di carta e una penna: «Mi scriva qui l’elenco
dei suoi lavori».
Dino non si ritrae, impugna la penna stilografica del dottor Pariani:
elegante, nera e lucida, ornata di arabeschi dorati. Le dita si muovono
lentamente, con concentrazione, le parole si allineano una riga dopo l’altra.
Che succede? Un ritmo nella testa? Dei versi? Il silenzio che regna nella
stanza è rotto soltanto dal raspare del pennino sul foglio e dal respiro pesante
di Dino.

Il medico quasi trattiene il fiato, concentrato sulla mano del malato: è la


prima volta che Dino non rifiuta carta e penna. Ancora e ancora. Il foglio si
infittisce di parole. Miracolo. Com’è possibile? A cosa si deve il
cambiamento? Si è forse aperto uno spiraglio per la sua inchiesta? Tende la
mano a prendere il foglio che l’altro gli porge e per poco non lancia un
«oh!» di meraviglia: si tratta di un elenco in perfetto ordine alfabetico:
aiuto-cuoco,
ciclista,
commesso in un negozio di biancheria per signore,
fattorino di un panificio,
fuochista sul treno,
guardiano allo zoo,
mietitore,
mozzo di bordo,
pescatore sul Paraná,
pianista di café chantant,
pulitore di trippe al macello,
sterratore ferroviario,
suonatore di tamburo,
venditore ambulante di almanacchi,
zingaro.
Quasi una poesia... Col viso rammollito dal compiacimento, il dottor
Pariani posa lentamente sul tavolo l’elenco ancora umido di inchiostro e
meccanicamente ci passa il tampone di carta assorbente. Che fare adesso?
Lasciar perdere le domande che aveva predisposto e contentarsi di questa
piccola vittoria? Oppure profittare dell’occasione, di questa straordinaria
breccia che per un attimo si è aperta nel muro che il malato ha costruito da
anni tra sé e la scrittura?
Si sporge verso Dino: «Mi fa piacere che oggi lei sia cosí disponibile a...»,
vorrebbe dire «collaborare», ma si blocca: forse è un termine troppo forte,
che potrebbe ingenerare nel paziente meccanismi di rifiuto. Si frena: «... a
rispondere alle mie richieste».
Scruta Dino che però non ha battuto ciglio... La fortuna arride agli audaci,
pensa lo psichiatra aprendo un quaderno che aveva preparato in vista di
questo colloquio. Sfoglia velocemente e, trovata la pagina, legge ad alta voce
dei versi:
... nel café chantant
D’America
Sul piano martellato tre
Fiammelle rosse si sono accese da sé.
«Quindi quando lei parla del pianista che suona tanghi nei locali da ballo
americani, si riferisce veramente a una sua esperienza personale?...»

Dino ha chiuso gli occhi, pare gravato da una grande stanchezza. Come
quando, dopo una sbornia notturna, ci si sforza di ricordare quanto si è detto
o fatto nelle ore precedenti, e ci si spaventa di non riuscire a analizzare ciò
che è avvenuto. Gli sembra di non aver detto sostanzialmente cose diverse
dal solito. Ma è profondamente consapevole che le parole a volte giocano
brutti scherzi; ché, quando vengono enunciati, anche i brandelli, le briciole
dei fatti acquistano importanza, un’imprevista crudezza che sa di realtà...
Neppure per un momento ha pensato di stare collaborando, ma
evidentemente è questa l’interpretazione che il dottore ha dato al suo elenco.
Mi ha teso un tranello, borbotta tra sé digrignando i denti... Il mondo si
divide in due: quelli che se ne stanno seduti impietriti sospirando e quelli che
balzano in piedi, strappano un elenco, ne gettano i pezzetti per aria,
prendono la porta e via, se ne scappano sul tetto urlando, con gli occhi
sbarrati sulla notte.

Le raffiche di vento sembrano essersi placate, ma la pioggia continua a


sgocciolare monotona sui vetri. Un mondo liquido là fuori, il pianeta Terra
vaga per lo spazio siderale con un fruscio scuro d’acqua notturna. Il tempo
corre verso la fine, vola intorno al Regio Manicomio di Castel Pulci, corvo
che gira in cerchi sempre piú stretti, il suo battito d’ali forza le fessure degli
infissi con tale violenza che il paralume della lampada da tavolo ha un
tremolio e le ombre ondeggiano sui muri.
Dino si appoggia stancamente allo schienale di questa sedia alla deriva in
un sogno acqueo e nero. Guarda fissamente l’elenco dei mestieri che poco fa
ha scritto e ora sta posato sulla scrivania. Gli sembra di sdoppiarsi, di vedere
dall’esterno se stesso che si china a guardare il foglio. Come se entrasse in
una pellicola da cinematografo, in cui la mano del protagonista compíla un
elenco e lo tende a uno sconosciuto con un sorriso... Quella piega che le
labbra assumono davanti alle catastrofi inevitabili. Quella smorfia di una
certa donna mentre snocciola bugie affinché l’assurdo riesca a sembrare
logico; e ti racconta la storiella che lei non ce ne può, che le dispiace tanto di
averti fatto del male...
Ma insomma cosa vuole ancora il dottor Pariani? Chiedeva un elenco e lui
l’ha contentato. Ma adesso pretende pure la verità. Possibile che, col
mestiere che fa, non abbia imparato che nella vita tanto vale quel che siamo
stati quanto ciò che avremmo desiderato essere?
Quindici
Era la notte
Di fiera della perfida Babele
Conversazione con un Ghignagatto

Ti trovai dove non avrei mai pensato. Del resto è proprio della tua natura
il comparire magicamente... Era un posto selvaggio nella boscaglia, sotto un
diluvio di fulmini rossi. Nella capanna in cui mi ero rifugiato sgocciolava
acqua dal tetto, perciò lí dove l’acqua penetrava piú abbondante misi una
vecchia latta scovata in un angolo. Sul metallo rugginoso c’erano i resti di
un’immagine vaga: appena brandelli di colore che accennavano a un grosso
gatto dal viso ghignante. Cosí mezzo cancellata, mi rammentò
un’illustrazione di Alice nel paese delle meraviglie che avevo letto da
piccolo. Non c’era nient’altro là dentro, a parte il teschio spolpato di un
grosso animale con le corna. Solo tu, caro Ghignagatto, a farmi da legame
con il Vecchio Mondo da cui venivo. Tu cosí lontano e antico come i
capitelli fronzuti che ornano certe chiese romaniche; vecchio come i libri di
mio padre, come il buco scavato nella quercia del bosco dietro casa per
nasconderci messaggi, come un carme di Orazio da mandare a memoria.
Mi sistemai alla meglio, riuscendo perfino a improvvisare un piccolo lume
con il bottiglino di grasso che portavo nella bisaccia: ci infilai a mo’ di
lucignolo un brandello di stoffa: faceva fumo e dava solo uno sprazzo di
luce, il che rendeva ancora piú spettrale l’ambiente. Avevo quasi
l’impressione che da un momento all’altro dalla porta potessero comparire
spiriti o animali fantastici... Qua e là nella capanna tremolavano piccole
ombre all’ondeggiare del lucignolo fumante. Scarafaggi, zanzare e farfalle
piú grandi di una mano entravano dal vano della porta. Volavano intorno al
piccolo lume e invece di ravvivare l’ambiente ne aumentavano la spettralità.

Finalmente smise di piovere. Mi resi conto di trovarmi in uno di quei


luoghi in cui di sicuro non sarei piú ritornato: mi bastò questo pensiero per
sentire già una sorprendente nostalgia mentre raccoglievo la coperta e la
infilavo nel sacco da spalla. Ti chiesi: «Ghignagatto, mi diresti per favore
che strada devo prendere per andarmene da qui?»
Tirasti fuori una voce furbescamente gattesca: «Dipende molto da dove
vuoi andare».
«Non so dove voglio andare».
«Allora non importa quale strada prendi».
Dal terreno emanava una tonica frescura. La boscaglia dopo la pioggia
aveva una sua riposante nitidezza di verditeneri, verdirosa, verdirossi. Né
una nube né un filo di vento.
Davanti a una strada che si biforcava, scelsi quella che si allontanava dal
fiume. Vai e vai, dopo tre ore di camminata dell’umido del fiume non c’era
piú traccia. Una pianura secca. In fondo in fondo, lontanissimo, un filo di
fumo. Presi quella direzione.
Adesso qui, vent’anni piú tardi, sospeso nel vuoto tra l’emisfero boreale e
quello australe, davanti al muro verdolino di questo corridoio e alla strana
architettura di nuvole dietro al finestrone, basta che mi concentri per rivedere
la scena di nuovo: la piana leggermente ondulata, il caldo, l’odore di
escrementi che un cavallo aveva lasciato sul sentiero.
La sensazione di avere qualcuno che invisibilmente procedesse al mio
fianco mi seguí tutto il giorno e di tanto in tanto arrivavo a discutere con te,
mio fantastico compagno. Parecchie volte ridendo ti mostrai la lingua.

A un certo punto, cammina cammina, mi trovai davanti un gran folto di


cardi giganteschi. Dire folto è un eufemismo: una vera selva di cardi, una
macchia verdescuro alta piú di due metri, che si tingeva d’argento al minimo
soffio del vento. Infilarsi là dentro era sicuramente un’imprudenza, lo capii
subito. «Attento, Dino! – mi disse una vocetta che pareva nascere dal mio
interno. – Attento all’orco, alla casetta di zucchero, al lupo, al drago dalle
sette teste...!» Sí, se ben ricordo, credo che minacciosamente menzionò
perfino il drago tra i pericoli che potevano essere in agguato nelle selve
oscure. Ma io non ho mai badato a quel tipo di avvertimento. Eppoi l’idea di
girare intorno a quella strana boscaglia allungando il cammino di molti
chilometri, mi sembrò insopportabile. Tanto piú che avevo un fucile con me.
Mi inoltrai quindi baldanzoso. Era proprio una giungla alla Salgari, densa
e caliente, gli steli dei cardi sembravano emanare calore, manco fossero tubi
di caldaia. Cercando di evitare gli aculei delle foglie spinosissime e
incespicando nel tentativo di difendere il viso con un braccio, ma serbando
l’altra mano libera per reggere il fucile, nel giro di dieci minuti avevo perso
completamente l’orientamento. Impossibile vedere a distanza di due metri.
Poiché mi agitavo, sfondando le buche dei talponi che crivellavano il
terreno, anche la foresta di cardi cominciò a muoversi. Gli steli presero a
ballarmi davanti agli occhi. E quanto piú smaniavo, tanto piú alti e forti si
facevano quei fiori di lanugine che parevano teste di vecchi, pompavano la
mia fantasia con quei loro steli che parevano gonfi di latte e in mezzo alle
foglie spinose formavano dozzine di occhi, di nasi, di bocche che si
contorcevano smorfiando. Stavo già lasciandomi prendere da una crisi di
disperazione, quando mi sembrò di intravedere un sentiero. Di lí qualcuno
era passato da poco, c’erano grossi cardi piegati. Seguii la traccia con
cautela. C’era un silenzio come non ne ho sentito mai piú. Provavo paura di
qualcosa che non ero in grado di precisare.
Poi ti vidi.
Forse furono le mie gambe per prime a sapere che eri tu. Comunque di
colpo smisero di muoversi. Ancor prima che io potessi dirmi: «Alt!»,
qualcosa in me aveva già capito. Probabilmente avevo intuito fin da subito
quale fosse l’origine di quell’aria sospesa che non era silenzio, ma un
mutismo quatto, appiattato, che sapeva di incontro fatale. Ma quando arrivai
a comprenderlo pienamente, quando potei dirmi quello che le mie gambe
avevano già fatto da un pezzo e cioè: «Non un passo in piú!»... ecco che
chissà perché il mio corpo si spinge avanti e il cuore pompa fin nella gola.
Tu eri lí, grosso e spaventoso. Con un ghigno da avido divoratore di
uomini. Altro non riuscivo a pensare: oddio, un vero Ghignagatto... Il sudore
mi colava giú dalle ascelle, freddo, inzuppandomi la camicia. Sentivo nelle
dita il fucile bagnato.
C’erano soltanto la mia agitazione, la macchina del cuore e quel battito in
gola. Solo il mio terrore attendendo che tu girassi da un’altra parte i tuoi
occhi magnetici. Soltanto tu e io, il tuo sguardo scaltro e il mio terrore
disumano, nient’altro.
Mentre mi sforzavo di rimanere immobile, assolutamente impassibile di
fronte al tuo ghigno da vera tigre, durante quell’attimo infinito, non
misurabile da nessun orologio, ricordai Alice, piccola e indifesa davanti al
tuo mistero.
Per quanto tempo rimanemmo a lumarci? Non so. Chiusi gli occhi,
consapevole che il mio braccio non avrebbe retto il fucile, il mio dito non
sarebbe riuscito a premere il grilletto. Rassegnato a morire tra i tuoi artigli.
Mi sentivo le ginocchia molli. Riaprii gli occhi, intravidi la punta della lunga
coda che spariva tra le foglie dei cardi. Per un momento ancora udii il tuo
passo che si allontanava felpato; rimasi a lungo a ascoltarlo, finché mi resi
conto che era il cuore che mi batteva nelle tempie.
Mi venne in mente che in realtà tu potevi anche non esserci mai stato e,
riflettendoci, mi convinsi di averti sognato. Del resto, non so come feci a
uscire da quella foresta di cardi. Era quasi il tramonto quando ritrovai
l’orizzonte arido delle collinette della pampa.

Quando ormai era sera, raggiunsi sfinito un gruppo di case. Vidi molti
cavalli legati a una staccionata. Benché il sole fosse tramontato, l’aria era
ancora rovente. Sentii da lontano il vociare allegro di tante persone. Mi
rassettai e avanzai verso uno spiazzo dove alcuni uomini stavano preparando
dei quarti di vacca alla brace.
Erano tutti gauchos con cappellacci a larghe falde, baffi, lunghi capelli
neri che ricadevano in disordine sulle spalle, cinture colorate a cui erano
appesi coltelli affilati, grossi speroni tintinnanti.
Nei miei confronti ci furono brevi cenni di cortesia, piú vicini alla
diffidenza che alla voglia vera di fare amicizia. Piú volte nei giorni
precedenti ero stato avvertito di stare in guardia, che nella pampa regnava
solo la legge del piú forte: c’era gente che, dopo un inchino elegante, se
veniva l’occasione, era pronta a tagliarti la gola.
Lí affianco sorgeva una pulpería con un’insegna che mi fece sobbalzare:
rappresentava un personaggio piantato a gambe larghe, vestito alla
gauchesca, con una grande testa decisamente da gatto. Ecco dunque che ti
ritrovavo, Ghignagatto, di nuovo in un posto dove non mi aspettavo che
comparissi. Mi parve un segno del destino e provai un vago formicolio al
cuoio capelluto – forse è questo che significa sentirsi drizzare i capelli?
Entrai, mi sedetti a un tavolo. L’aria era piacevolmente mossa da una
tenda che sbatteva a una corrente d’aria che, non so come, s’era levata. Sugli
scaffali stava mercanzia di ogni tipo, accoppiamenti sontuosi di barattoli di
latta, ma soprattutto una gran quantità di machetes, lampade e candele. Mi
avvicinai a una mappa piuttosto scolorita che stava appesa alla parete di
fronte. Cercai di decifrarla, ma la maggior parte dello spazio non aveva
nomi. Terra incognita.
Il proprietario mi osservava con tale attenzione che avrei giurato che
volesse farmi una domanda sui massimi sistemi. Invece venne a sedersi al
mio tavolo. Sui settant’anni, capelli radi, occhi di un indefinito colore chiaro.
Gli chiesi il perché dell’insegna gattesca. Rispose che suo padre veniva dal
Veneto e la sua famiglia di soprannome faceva «Magnagatti». Mi parve poco
educato indagare oltre; mi limitai a domandargli se avesse nostalgia
dell’Italia. Fece spallucce: «Mi vida es como todas las vidas».
Domandai se era successo qualcosa di notevole, vista la quantità di gente
che stava assembrata fuori dal locale. Scosse di nuovo la testa: «Usted crede
che en la vida succeda qualcosa? No pasa nada».
Annunciò comunque che la sua grappa era ottima, se gradivo. Non dissi di
no. Versò, attese che io bevessi prima di buttar giú il suo bicchiere. Poi
spiegò che era Carnevale e quella notte ci sarebbe stata una gran festa.

Uscii a fumare. Mi voltai verso di te e di nuovo ti chiesi dove potessi


andare.
Rispondesti indicando tutto intorno con un movimento della zampa destra:
«In quella direzione stanno dei matti».
Risposi che non volevo avere a che fare con matti. Ghignasti e con la
zampa sinistra facesti segno nella direzione opposta: «Dall’altra parte stanno
altri matti... In questo posto siamo tutti matti, del resto anch’io sono matto, e
pure tu sei matto».
«Come fai a saperlo?»
«Altrimenti non saresti arrivato qui».
Veramente non mi sembrava una grande prova, comunque smisi di
discutere con la bocca che ghignava sull’insegna e mi inoltrai tra i gruppetti
di persone che riempivano il grande spiazzo intorno alla pulpería.
La cena consisteva in vari pezzi di vacca arrostita e tranci di zucca.
L’unica cosa di cui sentivo la mancanza era un semplice pezzo di pane, per
accompagnare l’asado. Da bere in una grossa brocca di terracotta c’era del
vino leggero quasi acetoso. Ma i piú sorbivano mate bollente.
Il caldo di tutta l’estate sembrava essersi concentrato su quel pezzo di
pampa. Le donne rimanevano in un angolo a guardare gli uomini cenare.
Tutte con una corona di grosse trecce nere su cui stava infilzato un pettine
alto e pesante.
Avevano portato all’aperto un tavolo dove alcuni vecchi giocavano a
domino. Gran frastuono di risate, rumore di tessere che cadevano, voci che
sapevano di acquavite: molti dei presenti erano già ubriachi. In un angolo
due suonatori strimpellavano un paio di violini, in preparazione del ballo di
Carnevale che sarebbe cominciato a breve.
Mi ritrovai dietro la pulpería dove un uomo stava preparando il clou della
festa: l’accensione di piccole mongolfiere colorate. Era basso e tarchiato, la
faccia arrossata dal calore di un gran falò di sterpi. Le gocce di sudore gli
cadevano dalla fronte sui grandi baffi biondi alla Kaiser. Si chiamava Maso.
Mi offrii di dargli una mano. Bisognava gonfiare col fumo i palloni ovali di
stoffa colorata. Io incendiavo il groppo di stoppa legata alla base del pallone
che lui sosteneva con entrambe le braccia; le pareti di tela si gonfiavano
poco a poco, emettendo una sorta di gemito scricchiolante... Quando l’aria
calda aveva riempito a sufficienza il pallone, lui lo sollevava sopra la sua
testa, gli imprimeva un movimento circolare e lo lasciava andare. Schizzava
subito verso l’alto. Era bello stare a guardare all’insú le traiettorie bizzarre
che le palle luminose prendevano. Zigzagavano rimpicciolendo, finché
sparivano alla vista.
Ne facemmo partire sei. Il pallone piú grande Maso lo tenne per piú tardi,
quando i festeggiamenti avrebbero raggiunto l’apice.

Continuai a girare tra i gruppetti festaioli. Ognuno mi offriva da bere,


sorridendo. Sentivo la testa leggera. Uno strano stato di eccitazione e di
stupore mi obbligava a contemplare ogni cosa come se appartenesse a un
mondo di misteri. Finii dall’altra parte del paesino. Tra un capannello di
gente un vecchio scavava una buca. Poco discosto, una donna stringeva un
sacco che si agitava debolmente.
L’ebbrezza delle tante bevute mi svaporò improvvisamente. Il vecchio
terminò la fossa e fece un cenno perché si slegasse il sacco: ne venne estratto
un grosso gatto soriano che si contorceva impastoiato strettamente a una
canna. Nonostante gli sforzi la bestia non poteva divincolarsi. Il vecchio
infisse il ramo sul fondo della buca e cominciò a coprire il gatto di terra,
lasciandone fuori solo la testa. Intorno l’uomo appiattí la terra a badilate,
sicché il risultato pareva una strana aiola con il mostruoso germoglio di
velluto scuro che era un muso miagolante.
Intanto risate e grida sommergevano i versi del gatto che girava intorno a
sé occhi impazziti dalla paura.
Un ragazzone venne bendato con un fazzoletto, qualcuno gli mise in mano
un bastone lungo un paio di metri. Altri lo presero per le spalle e lo fecero
girare piú di una volta su se stesso, recitando una cantilena lugubre di cui
compresi soltanto le parole «Gatto Maimone» piú volte ripetute. Poi lo
lasciarono andare.
Il ragazzo barcollava, faticava a orientarsi. Agitava il braccio come se
nuotasse. Il cerchio di persone si teneva alla larga da lui, commentando con
risatelle i suoi movimenti. Ogni tanto dava un gran pestone verso terra, ma il
colpo falliva sempre il bersaglio. Si capiva che tendeva l’orecchio ai
miagolii... Finché un colpo va a segno, ma non del tutto. E allora dàgli e
dàgli, tra gli incitamenti della gente: una vera savoia... Non riuscivo a
crederci. Tutti matti in quella folla! Vuoi uccidere una povera bestia?
Tàgliale la gola, ma non cosí a colpi di bastone, neanche in modo da farla
morire subito, che razza di porcheria.
La luna piena inondava di luce il paese, mi parve di sentirla ridere, ebbi
voglia di gridarle di smetterla. Poi mi accorsi che qualcosa mi veniva su
dallo stomaco. Un attimo dopo vomitavo.
La gente rideva eccitata. Un uomo si avvicinò al gattone semisepolto con
la testa fracassata. Tirò fuori dalla buca l’animale morto. Poi, tenendo la
bestia stecchita per la coda, rise sgangheratamente e prese a muovere il
braccio come un pendolo. Piú in alto, piú veloce, piú in alto... finché lo tirò
lontano.

Le voci si spensero di colpo come i ceri di una chiesa, quando il sacrista ci


appoggia sopra lo spengitoio. No, io avevo già smesso di guardare quella
gente. Non mi interessavano piú le loro boccacce malvagie, mi affascinava il
gran silenzio calato su di noi. Un urlo lontano: «Va a fuoco la pulpería».
Ci fu un brusio di sgomento. Poi tutti si misero a correre verso il lato
opposto del paese, dove l’ultimo dei palloni, il piú grande, invece di salire
deciso verso l’alto, aveva ondeggiato sopra le baracche, finché era caduto
dando fuoco a un tetto di canne.
Mi diressi barcollando verso il luogo dell’incendio. Il cielo notturno
risplendeva di riflessi aranciati che facevano impallidire la luna piena. Le
fiamme avvolgevano la baracca con un crepitío allegro, anche perché aveva
cominciato a soffiare il vento. Attraverso le porte e le finestre aperte, i
paesani guardavano l’interno andare in fumo senza muovere un dito, come
inebetiti. D’altra parte non c’era acqua a disposizione, solo quella di un
pozzo – il fiume era lontano almeno tre ore di cammino. Si capí subito che
non c’era niente da fare. Il padrone della pulpería sembrava di sasso. Delle
donne in ginocchio invocavano santa Rita, reclamando uno dei suoi miracoli
impossibili. Vampate calde aggredivano le nostre facce.
Poco a poco il fuoco finí per esaurirsi, avendo distrutto quanto poteva
essere bruciato. Tutto era fumo, cenere, resti carbonizzati, macerie annerite.
L’unica cosa rimasta riconoscibile era l’insegna. Il tuo corpo, Ghignagatto,
era stato parzialmente cancellato dalle fiamme, ma il viso aperto su una
smorfia mostruosa rimaneva intatto. Ci scoprii una pungente somiglianza
con le smorfie della bestia che un’ora prima era stata massacrata. Come non
pensare alla tua vendetta?
Bevvi ancora, non mi sentivo sicuro di nulla: tutto aveva un’aria cosí
fantastica.

Cos’è la realtà, mio caro Ghignagatto? Me lo sai dire tu? C’è qualcosa, nel
mio cervello, che pare cotto bruciato e che non riesce piú a connettersi col
resto del mondo.
Questa sera a letto, assolutamente sveglio, mentre ripensavo a quel
lontano incontro con te, ho avuto la sensazione improvvisa e del tutto
automatica di sentire l’andirivieni di oceaniche maree, il crollare di
montagne chissà dove, il ribollire di pozzi di fuoco, come la Ghe-ènna di cui
predicavano in chiesa quand’ero bambino; e ho provato il corrispondente
spavento.
Sedici
Regio Manicomio di Castel Pulci
Aprile 1927

Il malato siede davanti al medico sentendosi invadere dalla paura. Gli


torna vivido il ricordo di quando scappò di casa la prima volta, dopo che sua
madre aveva fatto una sfuriata: vagò fino a sera per la città che aveva
raggiunto in treno, tutto quello che incrociava – targhe di vie, insegne di
botteghe, fanali, passanti – gli sembrava strano, addirittura privo della
consueta solidità. Ma certo dipendeva dal fatto che lui – con la sua febbre di
novità, il sapore rugginoso delle lagrime che gli impastava la bocca,
l’angoscia dei precipizi del desiderio – in quel momento non si sentiva la
terra sotto i piedi.
Come si potrebbe spiegare, pensa, quella sensazione che mi eccitava e nel
contempo mi faceva sentire smarrito? Allora non ne conoscevo ancora un
nome, piú tardi nella vita l’avrei chiamata: consapevolezza di diventare
adulti... Crescere è dunque una malattia insanabile?

Mi va stretto il mondo, e perfino il mio corpo, rimugina il malato. Sillaba


mentalmente i versi di Baudelaire:
E-xi-lé-sur-le-sol-au-mi-lieu-des-hu-ées,
Ses-ai-les-de-gé-ant-l’em-pê-chent-de-mar-cher...
La voce del medico, suadente: «È stanco, signor Campana? Perché non si
sdraia sulla mia chaise-longue?»
Dino sente a occhi chiusi che la mano del medico lo prende sotto
un’ascella, lo guida verso sta cislonga, l’aiuta a stendersi... Ancora uno
scrosciare di pioggia nera che cola su di lui, su questa stanza, sulla sua divisa
manicomiale, sull’orlo scuro dei suoi nervi, sul quaderno di appunti del
medico. Ma forse non è vero che stia piovendo: semplicemente ha gli occhi
appannati di lagrime. Contempla i guizzi delle ombre sul soffitto, gli
vengono in mente certi quadri antichi con le fiammelle dello Spirito Santo
che tremolano sulle teste dei segnati da Domineddío. Se potesse
imbozzolarsi in un sonno di cent’anni:
Ecco la notte: ed ecco vigilarmi
E luci e luci: ed io lontano e solo
sussurra tra sé questi versi che ha scritto tanti anni fa, altri tempi, e scuote
la testa vagamente scontento, perché ha la netta sensazione che non
esprimano la profondità della disperazione, la sfiorino soltanto. Ma le parole
davvero possono dire la realtà del dolore?
Di nuovo la voce del dottor Pariani: «Si abbandoni. Ricordi che io sto
dalla sua parte. Stringa i pugni piú forte che può; adesso li apra, cosí da
bravo. Di nuovo. Lasci cadere le braccia lungo i fianchi. Ascolti: lei adesso
si sta rilassando. Le mie parole le entrano negli orecchi e poi scivolano giú,
sempre piú giú, nello stomaco, nelle gambe, fino a arrivare ai piedi. Non è
vero che adesso sta meglio?... Bene. Sa, ho riletto l’elenco dei lavori da lei
svolti in Sudamerica... si ricorda? quello che lei la volta scorsa mi ha
redatto... Ecco, perché adesso non me ne parla piú diffusamente?»
Diciassette
Una testa spasmodica, una barba rossastra
Messaggio telepatico al compagno Barbarossa

Oggi, durante l’ora d’aria in cortile, sono stato a osservare un gruppo di


piccioni: zampette rosse, piume arruffate, gole oscure, petti striati di verde.
Inclinavano il capino e i becchi, osservando con gli occhietti tondi noi due
intrusi, io e il Manuele, come se fossero intenti a confidarsi sul nostro conto
qualche considerazione critica. Mi conoscono bene perché sono solito gettar
loro le briciole del mio pane. Ma oggi avevo le tasche vuote, epperciò i
piccioni hanno cominciato a lagnarsi di me nel loro malevolo mormorio di
proletari. Eccosí, nel mentre mi avvicinavo per salutarli, hanno preso il volo
– non tanto per la diffidenza, credo, quanto per una lodevole cautela –
andandosi a posare sul muro d’angolo: di certo discutevano l’accaduto,
perché agitavano le code con gran tremolízio.
Comunque il Manuele aveva un suo piano alternativo: ha liberato dalla
ghiaia un quadrato di terreno, un metro circa di lato, e posso assicurare che
detta ghiaia non ha opposto alcuna resistenza, anzi cedeva docile alle
strusciate delle pantofole. Io ho applaudito, perché i movimenti del Manuele
mi parevano proprio saltelli passeriformi. Mi son limitato a aiutarlo con un
paio di pedate, ma soltanto sugli orli del quadrato, naturalmente con
prudenza, perché non sono esperto del linguaggio dei piccioni, epperciò
dubitavo di essere mal interpretato. Alla fine però il quadrato di terreno era
ben sgombro di ghiaia.
A quel punto il Manuele ha tratto di tasca degli avanzi raccolti nel
refettorio e con gesto magnanimo li ha distribuiti. Largo, rapido e furioso è
stato il banchetto che non ha lasciato nemmeno un granellino. E lui, il
Manuele, da zar del popolo degli uccelli, tra quella confusione di alucce
grigioverdi e gole rosse e nuove manciate, godeva davvero. Ma la
beneficenza dei despoti, anche dei piú illuminati, si esaurisce in fretta, tanto
piú quando in realtà manca il contenuto del borsino. Finis!!! Appena
capovolte le tasche e mostrato l’interno vuoto all’esagitata adunanza
piccionesca, i beneficati gli han rivolto uno sberleffo e se ne son volati via
gridando:
MARA
MEO
Perfino i piccioni, ho pensato, sono piú svegli degli uomini che a volte si
fanno infinocchiare con panem et circenses. O no?

Piú tardi, mentre ero alla finestra del «salone giallo» con tutte le antenne
dritte dopo il messaggio dei piccioni, è apparso il postino con il sacco delle
lettere. Mi ha strizzato l’occhio, eccosí mi sono chiesto il significato di quel
gesto, finendo col mettermi in allerta. Poi, mentre mi allontanavo dalla
finestra, mi sono accorto di un pezzetto di carta sul pavimento. L’ho raccolto
con noncuranza, senza farmi notare dai sorveglianti. C’era scritto:
M
AB
Ho subito capito che si trattava di un tuo telegramma cifrato:
MONDO
ABBIETTO
Dunque è cosí: attraverso la dimensione delle «parole d’ordine» che ti era
propria, il tuo messaggio può raggiungermi ancora, caro compagno
Barbarossa.
Se devo dirti la verità, in qualche modo presentivo che ti saresti fatto vivo.
Ché stanotte, durante il solito intermezzo di insonnia, il mio cervello
ripeteva continuamente un paio di versi di una canzone che mi avevi
insegnato:
Y tienen una güena cachiporra:
la farsa vil d’este corral moderno...
Eri davvero tu che ti volevi mettere in collegamento con me? Il mio
cervello eseguiva sta canzoncina come un organetto automatico, e io mi
ritrovavo in una certa strada di Rosario... Si è trattato di una visione mentale
cosí intensa che me ne sono quasi spaventato. Vedevo distintamente l’angolo
della calle dove stava il panificio in cui sudai per tre settimane. Un
lavoraccio da bruti, per dodici ore: al mattino presto a consegnare il pane ai
clienti, la schiena piegata sotto il gerlo pesantissimo; piú tardi a scaricare
sacchi di farina. Ricordo che barcollavo sotto balle da un quintale. Ché il
peggio era quando arrivava la legna da ammassare nello scantinato: dovevo
afferrare le fascine al volo, una dopo l’altra, mentre cadevano giú da uno
sportello situato a livello della strada: mi si riempivano i polmoni di
polverume. Chissà poi perché accettai sto lavoro? Non so, ero uno
sbruffoncello che in Argentina aveva assorbito la mentalità degli americani,
adoratori della forza e del coraggio e spregiatori delle professioni sedentarie.
Ma non era mai finita. Chi lo sa, se avessi potuto dormire a suffício,
probabilmente quel ritmo l’avrei sopportato; in fondo ci si può abituare a
tutto, no? Ma in quel periodo non riuscivo a prender sonno: troppo poche le
ore di riposo, avevo i nervi sovreccitati. Solo la notte del sabato mi era
lasciata intera, ma allora veniva il momento delle bevute, della compagnia di
una ragazza, delle tue conferenze sull’organizzazione sindacale. Ché tu,
Barbarossa, infervorato, in piedi sulla spalletta del río, parlavi come una
frusta: «Perché voi che siete emigrati dall’Italia cercando una vita piú libera,
una volta arrivati qui in America sbassate la testa come pecoroni? Perché
sotto tutti i soli chi nasce ricco si fa venire lucidi i gomiti e i fondelli a furia
di fare il pascià sull’ottomana di velluto, mentre voi poveracci, venuti via dai
vostri paeselli al seguito dei negrieri dell’emigrazione, state qui a farvi
sfruttare? Finché farete i sudditi, finché vi lascerete mettere i piedi in testa e
non vi renderete conto che l’è venuto il momento di spazzar via con la
ramazza del socialismo, zim zum zam, l’ingiustizia del mondo, il ricco se la
riderà! Ché io una cosa ve la garantisco: la vita è come un gioco di carte: ti
va bene se puoi mostrare tanti punti, ma se ammetti di non avere nulla in
mano ti buttan fuori dall’osteria con una pedata in quel posto che anche il re
fa vedere nudo quando sta sul buco!»
Fu allora che, impizzàti dai tuoi discorsi, noi quattro gatti del panificio
organizzammo un piccolo sciopero per chiedere le otto ore. Ovviamente il
padrone chiamò la polizia. Non opponemmo alcuna resistenza, eppure ci
fecero il timbro sulla mano – quell’umiliante timbraccio indelebile che anche
di lontano significava a tutti che avevi avuto a che fare con l’Ordine
Costituito – e venimmo licenziati in tronco.
M
AB
Ci venne anche l’impulso di reagire; da parte mia avevo voglia di farla
pagare a quello stronzo sfruttatore, ero rabbioso e disgustato, ma per fortuna
mi contenni: sarei sicuramente finito in carcere. La quantità di gente che
cercava lavoro era tale che fummo tutti sostituiti in un paio d’ore. Epperciò,
visto che per me tirava una brutta aria, me ne scappai.
Fuggire, sempre fuggire: questo solo facevo a quell’epoca.

Caro il mio Barbarossa, anche nel corso degli anni successivi sono finito
in gattabúja tante volte perché protestavo contro le ingiustizie, o anche solo
per vagabondaggio. Ho conosciuto le prigioni di mezza Europa. Mi tenevano
le prime ore in uno stanzino, in piedi, mi era proibito sedermi per terra,
guardato a vista come se fossi pericoloso; provavo uno sfrizzo di fastidio che
mi scendeva giú per la cannetta della schiena vedendomi squadrato a quel
modo, tanto piú che ero nudo bruco, mi avevano tolto tutti i vestiti... Solo
verso sera mi gettavano una divisa, non nuova, anzi piuttosto lisa sui gomiti
e sul sedere, appartenuta a chissà chi, forse morto: puzzava di quell’odore
acido e nauseabondo che si annida non solo alla superficie della stoffa, ma
anche nelle cuciture, in ogni filo, in ogni fibra. Inutile fare rimostranze,
ghignavano e mi dicevano di non fare tante storie.
Davvero a quell’epoca pretendevo di spiegare tutto attraverso la politica?
Ritenevo sul serio che l’umanità potesse diventare felice?... Non so se tu ci
credi ancora ai bei discorsi che a quei tempi ci snocciolavi sulla spalletta del
río. Da parte mia, mi sono disilluso, anzi ho acquisito la convinzione
opposta: che nessuna attività politica potrà mai eliminare la tristezza,
liberare gli uomini dal timore di non essere amati, dalla paura della vecchiaia
della morte dell’oscurità che ci attende, dalla nostra brama di assoluto.

Ecco, vedi? La memoria di quei lontani guai con la polizia mi ha causato


un senso di ingombro doloroso alle meningi. Tanto piú che Calibàn si aggira
nei paraggi, lanciandomi una massa enorme di messaggi negativi.
Hai notato, Barbarossa, come nei posti di potere prevalgano i figli di
buona mamma? È la regola scientifica della selezione naturale: a tenere il
coltello dalla parte del manico sono sempre i peggiori. Ché la prepotenza
umana ha la stessa funzione che nel regno animale ha il ruggito, l’erezione
del pelo, l’esibizione del pungiglione scorpionico. E Calibàn ne è l’esempio
perfetto col suo rendermi la giornata irta di spine: perché io non lo liscio
come fanno gli altri ricoverati che lo temono, andandogli dietro come stupidi
cagnolini.
La sua voce mentale di serpente velenoso è scoccata: «Il Campana mi
sfugge, se ne sta lontano da me perché ha vergogna di se stesso!»
Il che non è assolutamente vero. La nefasta gramigna dei suoi giudizi, che
mi giungono per via telepatica, non mi causa alcuna forma di rossore:
semplicemente mi ripugna. Ma la necessità di mettere un argine mentale alla
sua influenza mi sta lasciando spossato.
Mi rimane perciò solo la forza di mandarti un saluto per telegramma
cifrato:
P D T I M,
U!
Diciotto
Chiudiamo gli occhi o squarciamo il pavone bastardo
Informativa al marchese De Sade
Caro Donatien-Alphonse-François, fratello nel dolore,
avendo lo psichiatra Pariani preteso da me un diario «delle percezioni
esterne e corporee nell’ultima settimana», sto qui seduto nella stanzetta
«della meditazione» – in verità è un camerino di punizione – davanti a un
foglio che non ho voglia di riempire di inutili parole. So soltanto che il mio
corpo, il Gran Solitario, è qui ben presente, attendendo la sua razione
giornaliera di pastiglie. Mi limito a contemplare il rettangolo di cielo che si
intravede dalla finestra. E so che soltanto tu, Divino Marchese, potresti
concordare con me su quanto l’azzurro infinito, visto attraverso
un’inferriata, sia infinitamente stupido.
Tu e io siamo stati cacciati dal paradiso senza aver commesso nessun
delitto. Per te, il forte di Miolans, la fortezza di Vincennes, la Bastiglia, le
Madelonettes, la prigione di Saint-Lazare, di Sainte-Pélagie, l’ospizio di
Picpus, Bicêtre, fino al manicomio di Charenton dove scrivevi pièces teatrali
che facevi recitare ai tuoi compagni di sventura. Per me, una litania di
ospedali e prigioni che neppure ricordo piú, fino a questa villa di Castel
Pulci dove finirò i miei giorni.
Strano: di te so tutto, di me quasi nulla. Dunque chi sono io? Sono forse
te?
«Come si sente, signor Campana?» mi domanda il dottore quando viene a
trovarmi. Con la voce monotona che sempre usa con me. E le sue parole
sembrano arrivarmi molto da lontano.
Io al solito rispondo: «Non mi sento». E anche se lui storce la bocca in un
falso sorriso, io ribatto che è la pura verità. Non è infatti questione di
sentirmi bene o male. Non sento me stesso. Quel «signor Campana» a cui
allude, non so chi sia.

Ho cominciato a pensare a te fin dal primo mattino, quando è passato il


carrello dell’infermiere di turno, incaricato delle «attenzioni speciali»: cosí
chiamiamo la terapia a cui vengono sottoposti i degenerati violenti, che
durante la notte sono legati al letto con cinghie di contenzione. Infatti,
proprio quando sopraggiunge il buio, le malattie si aggravano; non so
perché, ma nell’oscurità torniamo tutti un po’ bambini: come quando la
mamma ci metteva in castigo nello sgabuzzino dietro la dispensa, senza luce
– «Visto che sei stato cosí cattivo, adesso verrà il diavolo da te!» – e l’esame
di coscienza ci si svegliava dentro, urgeva, serpenteggiava nei meandri del
cervello per ergersi contro di noi come il peggior nemico.
Che cosa ti stavo dicendo? Ah, sí, parlavo del carrello delle «attenzioni
speciali». Mi ha fatto venire in mente proprio te, perché il macchinario in
dotazione ai manicomi attuali ha crudeltà grandiose di fronte alle quali le
torture di cui parli nei tuoi libri non possono essere considerate altro che
giochini. Il carrello con cui Calibàn fa il giro delle camerate ha infatti
imbuti, cateteri, manopole, divaricatori, tubi, nonché tutto un armamentario
di ferri minuscoli e pericolosi, che sembrano gridare che qui dentro il
crimine è la regola. Niente però di mostruoso o contro natura: qui tutto è
umano, basato su positive statistiche irrevocabili e sull’alieno silenzio di
guanti gommati. Poi, se il carrello delle «attenzioni speciali» non è
sufficiente, si passa all’idroterapia, alla meccanoterapia, agli splendori
dell’elettroterapia, abbinando docce gelate a veleni, la prostrazione
all’esaltazione della sensibilità. Fino alla suprema cura, che neppure tu avevi
saputo immaginare: quella dell’asportazione delle coscienze, con la quale
resti vivo ma non lo sai.

A volte domando al dottor Pariani: «Perché sono malato? Che cosa mi ha


fatto impazzire?»
Non lo chiedo con patetismo, ma con sincera curiosità, quasi con
indifferenza. Perché se qualcosa mi ha fatto ammalare, non è su me che ha
agito, ma su quell’altro che ero prima di entrare a Castel Pulci.
«Io non sono quel Dino Campana di cui lei parla», gli ho spiegato l’ultima
volta che l’ho incontrato.
E lui, fresco come una rosa: «Non si preoccupi. Non si agiti. Conosco
bene il suo caso. La sua identità non è andata perduta».
Sono arrossito, sentendomi spossessato di me. Non so chi io sia, ma che
un estraneo dica che di me conosce tutto mi dà un enorme fastidio.
È stato allora che mi ha ordinato di fare una lista delle mie attuali
«percezioni esterne e corporee». Ma butterei volentieri il lapis dalla finestra,
anche perché non ha il buon odore di legno delle matite numero due di
quando noi si andava a scuola; eppoi è tutto mordicchiato, quasi senza punta.
Ti annoiavi, Divino Marchese, quando stavi chiuso a Charenton? Credo di
no. Io, quando mi chiudono in una stanza, non mi annoio mai. Un uomo
senza memoria non ha tempo di tediarsi. Ha tutto il mondo da scoprire.
Per esempio, guardandomi allo specchio che sta nella stanza dei colloqui
col dottor Pariani mi sono abituato all’idea di avere una certa faccia. Anche
se in certi momenti mi dico che ho le fattezze di un altro, quello sconosciuto
che ero prima: una delle poche cose che io e il «signor Dino Campana»
abbiamo in comune.
Figurati che lo psichiatra mi ha mostrato una mia vecchia fotografia,
scovata nell’archivio dell’ospedale: sostiene che mi fu scattata all’inizio di
uno dei miei tanti internamenti. L’ho osservata a lungo e con attenzione,
compiacendomi del sorriso altero e divertito che la persona raffigurata aveva
saputo conservare di fronte all’apparecchio fotografico, che in genere ha
effetti gorgoneschi. Era la foto di un giovanotto che sapeva sfantasiàre e, da
dentro il suo sogno, guardava il mondo dei suoi simili con qualche speranza.
Eppure ho provato un leggero brivido: forse lo sfondo nero dava
all’immagine un nonsoché di funerario, l’ultima posa del caro estinto, di cui
non si rammenta molto oltre il nome.
Allora mi ha preso una sorta di compassione per quella giovinezza
dileguatasi troppo presto, per gli anni che di sicuro quel povero diavolo ha
trascorso lottando contro ogni genere di ostacoli, e per i versi che ha scritto
strappandosi qualcosa dal cuore, e che adesso non appartengono piú a lui ma
a sconosciuti lettori.

Mi sono addormentato di colpo e ho sognato che stavo in America. Ché


c’è stata un’epoca in cui, secondo il dottor Pariani, me ne ero andato laggiú
inseguendo il gusto di un altro spazio.
Ho sognato che stavo in un posto della provincia di Santa Fe, che si
chiamava Bellasperanza, o Lietoavvenire, o Albaradiosa, un nome cosí...
Un’enorme piazza attorniata da case basse, odore disgustoso di conceria, la
chiesa di San Isidro Labrador, il teatro filodrammatico con il busto di
Garibaldi e di Mazzini... Scatto fotografie a un folto gruppo di emigranti
baffuti che masticano tabacco e dialetti dell’Italia settentrionale, tutti peones
nella cosecha; ricevo applausi e pacche sulla spalla. Appena termino il
lavoro, mi avvicina un vecchietto con un sorriso cordiale da anfitrione.
Ammiccando con le rade sopracciglia, proclama: «Mi chiamo Alfonso. A
nome dell’amministratrice di questa città, la señora Justina, la invito a
presenziare alla pubblica esecuzione di tre elementi di disturbo della nostra
società». E nel dir questo alza gli occhi al cielo nuvoloso, commentando che
oggi il tempo è proprio adatto per una fucilazione. «La señora Justina ci
tiene che tutti i particolari di un evento siano perfetti. La scenografia è
importante», aggiunge.
Poco dopo vengono portati in piazza tre condannati. Si dà lettura dei capi
d’accusa per due di loro: insubordinazione. Delle colpe del terzo non viene
spiegato nulla. Poi una serie di colpi di fucile, i tre corpi cascano a terra con
movimenti scomposti da marionette. Piú che un’esecuzione ho l’impressione
che sia la rappresentazione teatrale di un’esecuzione.
Chiedo al signor Alfonso: «Il terzo di che cosa era colpevole?»
«Di niente. Era innocente».
Accorgendosi del mio sbigottimento, il vecchio ride: «E allora? Tre è un
numero perfetto. Come le ho già detto, per un’esecuzione tutti i dettagli
vanno curati. Con due condannati soltanto si fa una pessima figura».
Osservo timidamente che non mi sembra un gran criterio di giustizia. Ma
lui ribatte che, essendo in definitiva arbitrari tutti i concetti di giustizia,
quello utilizzato dalla señora Justina è esteticamente il migliore. «La smetta
di giudicare, – mi consiglia accigliandosi, – si limiti a fotografare ciò che
vede».

Strano sogno. Senza capo né coda. Un che di spugnoso mi avvolge il


cervello.
Intanto è venuto l’infermiere Tarcisio a controllare come procede il mio
lavoro di scrittura. Ha visto il foglio bianco e ha scrollato la testa:
«Campèna, perché non ti impegni un po’?»
E io: «Non ho sensazioni, né ricordi. Non so chi sono».
E lui: «Beato te. L’è una fortuna non sapere chi sei».

Quando l’infermiere se ne è andato, ho preso il lapis e ho tentato di fare la


mia firma. Non ci sono riuscito. Come se le dita si fossero impastate e il
cervello avesse perso del tutto la capacità di imporsi sui nervi. Il mio io è
dunque svanito per sempre? Liquidato? So che non sono morto, il cuore mi
batte, eppure è come se lo fossi.
La qual cosa non è comunque il destino che per me vorrei. Io appartengo
alla razza degli estinti: pertanto prediligo il reame della morte vera.
Di nuovo ho dormicchiato in una sorta di continuazione del sogno
precedente... Mi reco al palazzo della señora Justina. All’interno una greve
penombra, il silenzio in cui si conservano i defunti. Il vecchio Alfonso mi
accoglie con un profondo inchino, eppoi mi tira per la manica fino a un
salottino vuoto; quindi si volatilizza. Finalmente compare la señora: scarna,
pelleossa, con due nei baffuti sul mento aguzzo e una terrificante dentatura
lupesca sottolineata dalla fessura a V rovesciata tra i grandi incisivi. Mi fa
accomodare e mi confessa in francese che vuole contrattarmi come fottitore
ufficiale: «Ho voglia di qualcosa di esotico. I maschi della nostra città li
conosco ormai tutti», mi spiega, traendo lunghi sospiri. Con mano tremante,
avvicina un fiammifero a una sigaretta male arrotolata, aspira il fumo, poi
nervosamente spezza il fiammifero in due e lo butta nel camino... Indossa un
abito nero di lutto, pure la dalmàtica è dello stesso colore; nere le tende alle
finestre, che non fanno entrare neanche un raggio di sole. D’altra parte che
c’è da vedere là fuori? dico tra me e me, con quegli strani e lucidi pensieri
che si hanno a volte quando si sogna. Là fuori non c’è nulla. Il mondo non
esiste o al massimo è un immenso scenario teatrale.

Mi hanno portato il pranzo, ho mangiato, l’infermiere è tornato a ritirare la


scodella e mi ha spronato nuovamente a mettermi a scrivere.
«Sono un matto piú grave degli altri, signor Tarcisio?» gli ho domandato.
«Sei un matto, Campèna. Né piú né meno. Tutti qui dentro sono matti».
Osservo le mie mani che impugnano il lapis, mi sembra di vedermi da
fuori: finora ero riuscito a farlo soltanto in sogno, oggi invece per la prima
volta lo sperimento da sveglio, se è vero che non sto sognando, ma
supponiamo di no. Forse, se l’infermiere tornasse qui adesso, questa
singolare sensazione svanirebbe, ma non lo chiamerò, poiché non è cosa di
poco conto osservarsi dall’esterno cogliendo nitidamente tutti i particolari
dei propri gesti.

Ho cercato di dormire ancora. Ché nello stanzino «della meditazione» mi


sento sgradevolmente stretto, mentre il mondo dei sogni è sconfinato; inoltre
volevo sapere come l’andava a finire... Faccio una serie di fotografie alla
señora Justina. Lei non guarda né me né l’obiettivo, segue piuttosto il
saltellare di una ranocchietta sulla zanzariera.
Quando mi ripete la sua precedente proposta, le faccio presente che non
ha chiesto il mio parere. Lei mi volge uno sguardo sbalordito: a che serve il
mio parere, visto che lei ha deciso cosí?... I suoi occhi sembrano vetri
brillanti. Mi fa capire che non ho scampo, con minacce di morte neanche
troppo velate. «La materia di cui sono fatta è la violenza», dice ghignando
storto.
Ma perché vuole proprio me? Io sono malato.
«È cosí che ti voglio. Non mi interessano gli uomini sani!»

Per ore – questo pomeriggio non vuol proprio finire – vado avanti
chiudendo gli occhi e continuando a vivere l’incubo del palazzo della señora
Justina. Ché i dettagli della stanza in cui io e lei ci affrontiamo sono sempre
piú ricchi: il tulle nero della zanzariera, il gracidio della ranocchietta dal
ventre rosso a macchie gialline, la finestra sbarrata, il grande pendolo dai
rintocchi lugubri. A tratti intervengono altri personaggi che hanno un’aria
stranamente familiare: somigliano al Luiso, al Vincenzino, al Bonzo;
sfoggiano gli stessi modi di annichilita contemplazione di sé che ho visto
tante volte nei degenerati che affollano Castel Pulci... Mi fa paura questa
Justina indicibilmente pallida: porta dietro l’orecchio una flor de
buenasnoches infilato nello chignon. Mi ordina di indossare i vestiti di uno
dei tre fucilati di questa mattina... Perché obbedisco? Non so. Comunque mi
bardo come il terzo condannato.

Ho gridato, è accorso l’infermiere seguito dal Dolfo, che oggi gli fa da


aiutante. Mi ha lasciato il vecchio Dolfo come compagnia. È uno strano
ometto, sempre tranquillo e ridente, con enormi orecchie a sventola. Non ho
mai capito perché stia qui a Castel Pulci da trent’anni. Gli ho chiesto se non
gli dia fastidio vivere per sempre rinchiuso: «Non ti viene mai voglia di
uscire?»
«No. Epperché?»
«Per vedere il mondo, per conoscere qualcos’altro».
Mi ha risposto che fuori è uguale a Castel Pulci. Una grande Castel Pulci
che contiene tante piccole Castel Pulci.
Non c’è verso di fargli ammettere che esista qualcosa d’altro.
Se avesse ragione? Mi fermo a pensarci, come ci si arresta quando ci
troviamo davanti un muro al termine di una strada. Guardo le lancette
dell’orologio a muro, pensando che tra poco sarà sera. Ci penso come se
fosse la prima volta, come se il finire di una giornata fosse un evento
eccezionale.

Chiedo al Dolfo che mi racconti qualcosa. E lui accondiscende col solito


sorriso: «Una volta c’era un pecoraio, che l’andò col suo gregge in
campagna; e si trovò a dover passare un riàle. Allora prese le bestie, una a
una, per portarle dall’altra parte. E le pecore eran tante, ma tante».
Ride di gusto stringendo la fronte fino a ridurla a una sola ruga.
Per un po’ aspetto il finale che però non viene: «E che cosa accadde
dopo?» chiedo spazientito.
«Le bestie che devon passare sono ancora tante, quando saran passate
tutte, andrò avanti pure io», conclude il Dolfo.
Un enigma.

Il vuoto nel quale la favola del pecoraio mi ha lasciato ha aumentato ancor


di piú il mio sgomento. Cosí quando torna l’infermiere per accompagnarmi
di nuovo dal medico, sono agitatissimo. Quasi assalgo il dottor Pariani
raccontandogli i frammenti di sogno di oggi pomeriggio. Ma all’improvviso
ho una specie di illuminazione folgorante: «Sul camino della vedova Justine
c’era un calendario che segnava il 2 dicembre 1814. Ma io a quell’epoca non
potevo essere ancora nato!» dico, quasi grido.
«Il tempo nei sogni non esiste», ribatte il dottor Pariani.
Sento la sua frase come una sfida. Il tempo non esiste. Ma allora da dove
vengono i sogni, se non li ricaviamo dai nostri ricordi?
Il medico sorride, fa spallucce. Non sa. Oppure non vuole rivelarmelo? Si
limita a dire, con la sua voce come al solito piana, quasi monotona, che il
tempo e la memoria sono semplicemente una convenzione che tutti gli
uomini condividono.
Convenzioni? Illusioni?... Cosí dice lui che è non-pazzo, lui che avendo
tutta la ragione ha la maggioranza con sé, ed è la maggioranza che decreta su
pazzia e normalità...
Sento la mia mente fluttuare nella stanza quasi dentro una corrente
impetuosa, in cui cerco di afferrarmi a qualcosa che abbia solidità e certezza.
Proseguo: «Epperò il 2 dicembre 1814 è il giorno in cui morí il marchese De
Sade. Stava chiuso a Charenton, recitando dei pezzi teatrali di sua
invenzione con altri matti come lui».

Mi hanno somministrato un calmante. Epperciò eccomi qui, Divino


Marchese, seduto nel «salone giallo» a parlarti dell’unica voglia che sento:
quella di dormire senza sogni. Ché alla fine l’ho capito come va il mondo.
Non l’ho compreso in una successione ordinata di pensieri, ma di botto in
una cascata di immagini che mi è caduta addosso mentre parlavo col dottor
Pariani. Tutto ciò che mi circonda è un girotondo di maschere. E tu, Divino
Marchese, sei la Justine del mio sogno, il dottor Pariani è me, il Dolfo è il
medico. E io? Sicuramente sono uno di voi. Siamo tutti gioppini legati in un
intreccio ingarbugliato di fili, non c’è verso di strapparceli di dosso: è una
farsa recitata sul palcoscenico del Manicomio Universale in cui ci si scambia
le parti a turno, insieme ai sogni e ai ricordi. Epperciò ormai nessuno può
sapere chi è veramente... Questo però non l’ho detto al dottor Pariani: primo,
credo che ben conosca la verità; secondo, nel caso in cui ancora non lo
sapesse, che lo scopra da solo! Non voglio rendergli piú facile questo
orrendo giochetto.

Bene bene. Mi hanno portato a dormire. Penso a te, Marchese di nome


Justine, rigirandomi tra le lenzuola stropicciate e sporche. Adesso sí che
sono calmo. Una parte della mia anima se ne è andata per conto suo,
irrecuperabile. Ma non era in fondo quel che volevo?... Che nessuno creda
che sono ammattito. Stamattina forse lo ero un po’, ma quello che qualche
ora fa mi sembrava cosí complicato e insolubile è d’un tratto diventato una
sciocchezzuola da bambini, come nella favola del pecoraio e delle sue bestie.
Cosicché mi verrebbe perfino da sorriderne.
Un rispettoso saluto dal tuo devoto

Dino Ciascuno
Diciannove
Regio Manicomio di Castel Pulci
Ottobre 1927

È la settima volta che lo psichiatra incontra Dino Campana. Si sente


insoddisfatto, ancora non è riuscito a scalfire la corazza che il malato si è
costruito, a smontare questa sua sensibilità di principessa sul pisello che lo
chiude nel mutismo appena Carlo Pariani accenna ai suoi versi.
Si siede davanti al malato e gli sorride, riprendendo il discorso dal punto
in cui si erano interrotti mesi prima: «Dunque, signor Campana, oggi vorrei
esaminare insieme a lei un brano:
La matrona selvaggia mi aveva preso: il mio sangue tiepido era certo
bevuto dalla terra...
Lo trovo davvero molto interessante...»

Dino fissa a lungo Carlo Pariani: il medico, da dietro la sua scrivania, gli
ha lanciato la solita esca e ora sta attendendo la sua reazione. Gli torna in
mente un professore, ai tempi del collegio: alto, magro, impassibile, con un
modo tutto suo di affrontare gli alunni indisciplinati. Quando sorprendeva
qualche ragazzo a chiacchierare o a distrarsi, non batteva ciglio limitandosi a
scagliargli il cancellino in testa: con mira infallibile. Meglio per il
malcapitato non tentare di schivare il colpo, perché allora gli sarebbe piovuta
addosso una punizione piú seria. Cosí, dopo essere stato «centrato», l’allievo
in questione doveva assumere un’aria pentita, raccogliere il cancellino senza
replicare e riportarlo alla cattedra dove il professore lo attendeva con un
ghignetto di soddisfazione.
La voce dello psichiatra, dopo aver terminato di leggere quei versi, si
conclude in una domanda: «Cosa intendeva dire quando parla della matrona
selvaggia che le offre il tesoro fiorente di una fanciulla in sogno?»
Dino chiude gli occhi. Che altro raccontare a sto dottor Pariani? le fiabe, i
paesi delle meraviglie? le donne, i cavallier, l’arme, gli amori? gli esploratori
che discendono sulle zattere i fiumi infestati da coccodrilli zannuti, nelle
giungle dove li spiano i selvaggi con le piume in testa, con il volto dipinto?
Gli piacerebbe confessargli che la prima volta che traversò l’Argentina a
cavallo avvenne a nove anni: era a letto per un’infreddatura e leggeva I figli
del Capitano Grant, di Jules Verne. Ma probabilmente al dottor Pariani non
è mai capitata la stessa esperienza, epperciò sarebbe difficile spiegargli cosa
può provare un bambino di nove anni a montare a pelo un magnifico cavallo
nero, in compagnia di un giovane indio a torso nudo il cui ritratto, a pagina
90, gli provocava un certo turbamento; eppoi traversare a guado fiumi
impetuosi e quebradas scoscese, nella solitudine dei deserti andini. Sulle tre
cartine geografiche di quel libro, costretto a letto con un gran febbrone, lui
ha passato due settimane, che a quell’età sono un sacco di tempo: era
affascinato da quei paesaggi di spazi sterminati, ostacoli, terremoti. E non
poteva che essere cosí per un bambino che viveva nel chiuso di Marradi. Che
dire poi quando un condor l’aveva rapito e portato con sé in volo per tre
giorni? Sull’incisione di pagina 115 Dino ha sognato a lungo a occhi aperti,
sospeso nel vento a quelle ali immense, i deserti sotto di lui... Gli è sempre
successo cosí, fin da quando era piccolo: si è sempre sentito dentro un
mondo piú vasto rispetto a quello in cui vivevano gli altri.

Riapre gli occhi. Come si copre di sale una brutta macchia di vino sulla
tovaglia bianca, il malato si affretta a gettare sulla curiosità del medico
parole che, spera, la placheranno: «Girai l’America, sempre correndo da un
posto all’altro. Ché mi aveva preso il demone della novità».
Potrebbe dire ben altro: certe volte, la sera, con i nervi ancora tutti svegli,
mentre nel letto aspetta l’infermiere per il sedativo, rivive come al cinema
quel suo passato vagabondo in un carosello di facce spettrali vicino a falò
accesi in improvvisati accampamenti, le marce solitarie, gli incontri ai
crocicchi, le ubriacature: un tempo lunghissimo e come screpolato in
centinaia di periodi incastrati l’uno nell’altro, quasi sognati.
Ha l’impressione che il tempo abbia smesso di pulsare.
Ma sto medico non demorde: eccolo consultare il quadernino nero e
rivolgergli nuovamente una domanda che si era appuntato: «Che cosa mi
vuol dire della bella selvaggia di cui descrive il danzare nella notte della
Pampa? ... la fanciulla liberata esalò la sua giovinezza... E della megera che
gliela offrí?»
Dino si passa una mano sugli occhi. Gli pare di vedere l’immagine di un
ritrovo per uomini. Nella pampa? Forse. Con le poche donne avvolte in
scialli neri, ammassate sul fondo. Come in un grande pollaio in cui, quando
entra il padrone, le galline scappano tutte in un angolo. Il colore rosso del
riverbero delle lampade sulla pelle cotta dal sole. E in piedi su una sedia una
bambina balla per gioco, forse la figlia del padrone: si esibisce davanti alla
madre e alle zie. Le gambine nude attirano gli sguardi: non passano la
spalliera della sedia, per smontare dovranno senz’altro aiutarla. E al collo
grassottello le pende una catenina con la croce.
Certo che lui si era avvicinato... l’immagine della grazia e della purezza,
sí... Se avesse voluto sensualità si sarebbe accostato a una di quelle donne.
No, no, che razza di idea. Quelle galline intente a starnazzare intorno alla
bambina. Si sarebbero precipitate su di lui sbattendo le alacce.
Completamente circondato e prigioniero, baciato o anche peggio da quelle
zitelle maritate, oh che bel divertimento marcondíron dirondà.

Il colloquio procede come al solito a salti. L’orecchio di Carlo Pariani è


teso: ascolta ma soprattutto gioca a indovinare. Nella stanza il ronzio
elettrico della lampadina. Un’occhiata all’orologio. Com’è tardi. Tra poco
dovrà mandare il malato al refettorio. Il tempo si disfà velocemente. Lo
psichiatra sbuffa, gli pesa la distanza infinita tra le laconiche spiegazioni del
malato e la ricchezza di immagini dei versi del poeta. Cerca di aggirare le
sue resistenze prendendo l’argomento da un altro lato: «Quando ha scritto la
sua prima poesia?»

Dino si sente stringere lo stomaco. Aveva sette anni o poco piú, alla fine
della seconda elementare. Una poesia di un filo d’acqua che cantava
traversando un prato di margherite. In rime zoppicanti. Sua madre gli
domandò cosa mai gli fosse saltato in mente: che strana idea, scrivere una
poesia. E Dino a cercare di spiegarle che aveva sentito le parole
nell’orecchio, come se qualcuno gliele avesse sussurrate... Dopodiché per
mesi sua madre preoccupatissima aveva continuato a chiedergli: «Dimmelo,
hai di nuovo quelle ideuzze per la testa? Senti ancora quelle “voci”?»
Eppure erano soltanto un gioco innocente... Non risponde.
Il medico insiste: «Ho l’impressione che le mie domande le diano
fastidio».
Ah, finalmente se n’è accorto.
«Ma perché?... Insomma le dovrebbe fare piacere il fatto che la scienza
medica si interessi alla sua poesia... Non se ne sente lusingato?»
Lusingato? Chi? Io? Ma neanche per sogno. Lei proprio non capisce
un’acca, caro dottor Pariani... Naturalmente Dino non ha parlato, ha solo
pensato queste parole, ma ha le guance in fiamme, abbassa gli occhi.
Balbetta: «Era l’epoca in cui correvo e correvo, cosí in fretta che caddi in
una rete. Sferravo colpi, ma sotto i pugni incontravo solo aria. Era il vuoto.
Sentivo gli altri ridere, una risata che pareva uno sfregamento d’ali, come di
grilli o cicale. Ché tutti ridevano di me a Marradi: per prendermi in giro,
appoggiavano il dito qui sulla tempia, e lo muovevano cosí, a indicare che
mi mancava una rotella. Sghignazzavano, mi facevano diventare
nevrastenico».
Ma sí, dottore, cosa rimane da fare a un giovane nato in un buco rognoso,
quando arrivano gli anni molli in cui il disgusto e l’impazienza di essere
adulti salgono nel corpo come accessi di febbre? Abituarsi alle fanfaronate
degli accademici, alla violenza dei poliziotti? Adeguarsi alle prediche sul
Bene e sul Male, alle furbizie dei giochi di borsa, allo squallore dei
matrimoni di convenienza?... No. Gli resta il suicidio o la fuga. E lui è
fuggito.

Il medico è soddisfatto dall’immagine delle ali di grilli e cicale;


tranquillizzato come quando chi compone un puzzle trova il posto di un
frammento da incastrare. Sfodera la sua voce piú tranquillizzante e
persuasiva: «Se si sdraia, signor Campana, potrà rilassarsi».

Lo tratta come un bambino. Un bimbo buono deve stendersi sul lettino e


chiudere gli occhi... Coi figli piccoli, diceva sua madre, bisogna essere duri:
evitare di incoraggiarli, mai dirgli che sono bravi, i bambini sono cosí furbi,
percepiscono cosí bene l’ammirazione degli adulti, sono dei commedianti,
sanno colpire al cuore con le storie che si inventano: ti squadrano e in un
attimo – come alla luce di un lampo – scovano i tuoi punti deboli e ti
spiattellano una bugia. E il piccolo Dino è cosí strano, parla da solo per ore,
sogna a occhi aperti, è svagato, indolente... Eppoi, zac, uno scorpione: «Sono
proprio contenta che ti abbiano perso il manoscritto!»
La mano del medico accompagna il malato fino al lettino. Dino si stende
aspettando l’iniezione di sedativo. Ha la sensazione di essere Lazzaro nella
tomba. Perché il dottor Pariani lo guarda cosí, senza timore? Non gli dà
neanche un brivido il cadavere di Dino?
Farfuglia: «Lei esiste, dottore. Lei è vivo. Io no. La mia unica forza è che
non sono piú vivo... Per mia fortuna, non è poi cosí difficile essere morti».
Venti
O Regina o Regina adolescente
Miserere per Maria Bebè

Non posso raccontare la tua storia al mio medico. Primo, perché di te non
conosco quasi nulla; o meglio, non capisco se ciò che so l’ho vissuto
realmente o l’ho soltanto immaginato. Secondo, perché sono fatti miei. O
no?
Dovrei dirgli dei tuoi vestitini leggeri, del nastro rosa tra i riccioli, del
rossetto quasi nero che ti mettevi per sembrare piú grande. Magari dovrei
contargli di quando ti vidi la prima volta: tuo fratello Alfredo fumava
appoggiato a uno dei muri del patio e, davanti a lui, seduta sulla soglia della
pensione, tu eri intenta con una pinzetta a strapparti le sopracciglia,
guardandoti in un frammento di specchio. Se mi concentro, rivedo con
nitidezza il tuo gesto, mentre soffi via dalla pinzetta i peluzzi strappati e ti
lisci le palpebre col dito bagnato di saliva; eppoi tuo fratello che ti sbuffa
fumo sul viso per prenderti in giro.
Lo so che di nome facevi Maria, ma io ti chiamavo Bebè, perché eri poco
piú che una bambina... Insomma di te posso solo raccontare questi
particolari, non era la nostra una conoscenza approfondita. Neppure conosco
per intero la tua storia, cosa ti aveva portato a finire in quel postaccio di
malamorte a Sunchales. Ricordo il tuo strano sorriso mentre mi dicevi, quasi
con aria di sussiegosa importanza: «Io so cosa piace ai maschi».
Sostenevi di avere quindici anni. Può anche essere che fosse vero, ma
certo ne dimostravi al massimo undici o dodici. Di sicuro eri una delle tante
figlioline di immigrati, cresciute per strada e troppo in fretta.
Anch’io comunque baravo con te. Ma che ce ne potevo? In quel sudicio
barrio di Rosario, tra la noia e la fatica del lavoro, non c’era che una
distrazione per noi ragazzi: fare il duro picchiando qualcuno oppure contar
balle. Eccosí una volta – non so nemmeno io perché, dovevo essere ubriaco
– mi misi a sproloquiare su Marradi, sulla severità di mia madre, su come
m’avevano cacciato dal paese. Vedi un po’ com’ero pappamolla: io stesso mi
compiangevo, le lagrime mi colavano dagli occhi e dal naso, tremavo
proprio, mentre ti contavo la mia infanzia dolorosa, l’animo inasprito, le
carezze mai ricevute. Finché anche tu, stellina, cominciasti a piangere per «il
povero Dino», tutta commossa.
Da quel giorno prendesti a smaniare per me. Ti trovavo sempre appostata
all’angolo del cortile, quando rientravo dal lavoro nel panificio. Fischiettavi
una canzoncina:
Ya viene la noche triste
para mí que ando penando
duerman los que sueños tienen
yo la velaré llorando.
Via via che i giorni passavano, gli incontri con te sembravano sempre
meno casuali, anzi ogni volta avevo la sensazione che tu mi aspettassi al
varco. Se ero in compagnia, non ti avvicinavi, ma mi lanciavi occhiate
languide, sempre dando l’impressione di non volere da me nient’altro che la
consapevolezza che tu mi stavi rimirando. Tanto che il Pieraldo, che
condivideva con me la stanza alla locanda Lago di Como, un giorno mi
disse: «Scemo, non vedi che la Maria l’è innamorata come una gatta? Basta
che le fai un segno e quella lí ti salta nel letto!»
Io però non ci volevo credere.

Eppure una volta che stavo fumando al buio sulle scale, mi sei comparsa
davanti. «Non ti fermi mai a parlare con me, – mi hai rimproverato con una
voce che suonava pianto, – ma stanotte te lo voglio dire chiaro: che yo te
quiero».
Accesi uno zolfanello per guardarti in faccia: sudavi, avevi le guance in
fiamme, gli occhi ti si erano velati di lagrime. Ti risposi secco secco:
«Lasciami perdere, Bebè. Ché sono uno stronzo».
Ma tu continuavi a ripetere che mi amavi, mi afferrasti addirittura la mano
per mettertela sul petto, proprio sotto il tuo seno minuscolo: «Senti come mi
batte il cuore?»
Ritirai la mano, ma mi sembrava ancora di sentire il calore che emanavi.
Cercai di buttarla sul ridere, di spiegarti che eri troppo piccola. Volevo
proprio che te ne andassi e non trovai nient’altro da dirti se non che in Italia
avevo già una morosa. Non era mia intenzione compatirti o deriderti, lo
giuro, Bebè. Solo che eri davvero piccina picciò.

...Vedo la scena. Tu che dici: «Se non mi ami, non mi resta che
ammazzarmi». E io ribatto sorridendo: «Fa’ pure, il diritto al suicidio è
sacrosanto». Ché non ti ho preso sul serio.
Mi guardasti fissamente, le labbra sottili ti tremavano. Allora accadde
qualcosa che non potrei né spiegare né dimenticare. Perché mi sembrò che i
tuoi occhi si allargassero a dismisura. Come se si spalancasse una porta. Mi
ci affacciai a guardar dentro e vidi una terra piatta e vuota per miglia e
miglia. E la desolata e fredda solitudine di quel paesaggio mi fece
rabbrividire. Chiusi gli occhi, per non vedere. Quando li riaprii te ne stavi
andando e cantavi al tuo solito, sommessamente:
Ya viene la noche triste
para mí que ando penando...
Eri tornata a essere la ragazzina di sempre. Perlomeno cosí mi parve.

Strano destino il mio: le amiche dei momenti piú bui sono sempre state le
puttane con le loro eterne stupende porcherie. Ché a quell’epoca, il quartiere
dietro la stazione ferroviaria di Rosario era un ambaradàn di bordelli a poco
prezzo aperti a tutte le ore per noi tanos. Nelle serate di sabato sgambettavo
da un locale all’altro, da una ragazza all’altra, per trovare quello di cui tutti
gli uomini hanno bisogno: il caldo contatto con una mano femminile e il
sentimento di una segreta intesa.
Cosí feci anche quella notte, dopo la tua impossibile dichiarazione
d’amore. «Facciamo in fretta», dissi alla puttana che mi faceva strada su per
le scale di una delle case di piacere. Poi, una volta in camera, mi spogliai con
rabbia, mentre uno strano incandescente prurito mi rimescolava: avevo i
nervi a fascio. In un attimo le fui addosso, la rivoltai sul fianco, la presi. Ma
dopo l’appagamento non mi si spense l’agitazione, anzi mi parve di scoprire
dentro la mente una piega del tutto opposta, una vasta ineffabile melanconia.
Quando rientrai nella mia stanzuccia, mi tolsi i pantaloni, li misi sotto la
materassa perché non perdessero il garbo, eppoi mi addormentai come se
fossi ubriaco.

Il giorno seguente era una domenica di calura soffocante. Dormii fino a


tardi. Al mio risveglio era già pomeriggio inoltrato. Mi dissero che in fondo
al patio era pronta una veglia funebre. Però, caldo ancora di sonno, ci misi
un po’ a capire che la defuntita Maria di cui parlavano eri proprio tu.
Traversai il cortile. In un recinto con una tettoia di zinco, dove
normalmente chiudevano le capre, avevano preparato un rozzo catafalco. Ti
avevano adagiata su un tavolo, il viso ti era stato pietosamente coperto con
un fazzoletto. Anche se probabilmente non avevi lo sguardo rivolto verso
nessuno dei presenti, meglio non vedere il tuo faccino. Sopra quel quadrato
di cotone bianco, posato sulla fronte, avevano posto un mezzo mattone, forse
per evitare che un soffio di vento o il gesto involontario di qualcuno potesse
far cadere il fazzoletto mostrandoci l’Indicibile. Sui tuoi piedini nudi e
violacei stavano chinate un paio di donne, sforzandosi di infilarti due
calzette, ma alla fine desistettero: erano troppo strette, le estremità ti si erano
gonfiate, forse per il caldo.
Mi contarono che ti eri annegata nel río. Come avevi fatto a andare a
fondo? Tu che avresti potuto camminare sulle acque tanto era leggero il tuo
corpicino... Ti contemplai con emozione. Mi commosse il modo in cui tenevi
le mani incrociate sul ventre. Avevi una ferita ai polsi. Un lungo taglio.
L’avevano coperto con le maniche lunghe, ma tuo fratello me lo volle
mostrare.
«Questa è una vita da matti, o meglio è la vita che ci rende tutti matti... A
te son bastati quindici anni, io ci sto mettendo di piú», ti sussurrai mentre mi
chinavo per sfiorare con le labbra le tue dita gelate; e con un brivido mi
ricordai la sera precedente, quando mi avevi afferrato la mano per posartela
sul seno.

La gente intorno chiacchierava: che eri orfana, che tuo fratello era senza
lavoro, che eri molto dimagrita ultimamente. Io solo mi rendevo conto che la
verità era un’altra, che il mio rifiuto era probabilmente stato l’ultima mossa
di un gioco cui da mesi ti dedicavi all’insaputa di tutti in quella pensione per
poveracci. Una puntata che aveva come giocatrice solitaria una ragazzina,
anche se con la pazzia amorosa come unica compagna. Ultima mossa, ho
detto, ma non per questo la meno importante.
Ai lati della tua testa avevano deposto una rozza ghirlanda di fiori di poco
prezzo, su cui era stata spruzzata dell’acqua perché non appassissero. Forse
per questo il fazzoletto posato sul tuo viso si era inumidito, aderendo al naso
e alle guance, evidenziando l’incavo degli occhi, proprio come nelle
maschere funebri delle regine del c’erauna-volta. Cominciai a chiedermi se
sotto il fazzoletto non avessi per caso gli occhi aperti su quella terra desolata
che ci avevo intravisto qualche ora prima. Epperciò mi prese un gran
batticuore. Me ne tornai agitato nella mia stanza.
Quella notte di nuovo cercai un bordello. E quando l’appagamento
sopraggiunse, sentii che dall’anima scaturiva un’accecante voglia di lagrime.
Poi mi lasciai andare come se fossi morto.

Oggi pomeriggio, ripensando a te, mi è tornato in mente uno dei primi


ricordi della mia infanzia: si riferisce a una bambola. Non so dove l’avessi
trovata, a chi fosse appartenuta. Era una pupazza che serrava gli occhi
quando la si metteva in posizione orizzontale. Mi incantava; o per meglio
dire: mi ossessionava il problema del funzionamento di quel meccanismo.
Epperciò presi la decisione di spaccarle la testa. Mi trovai davanti un
dispositivo assolutamente semplice, direi perfino rozzo: tutto dipendeva da
un minuscolo peso all’estremo di un’asticciola metallica fissata agli occhi
che giravano su un pernio.
Chissà come mai ho messo insieme il tuo cadaverino e la testa spaccata di
quella bambola. All’inizio non ho fatto caso a come l’immagine di quegli
occhi da pupattola affiorava dentro di me: quando me ne sono reso conto, era
già lí da un bel pezzo e la mia mente non smetteva di girarci attorno,
concatenandolo con la memoria del tuo catafalco. Eppoi d’improvviso mi
sono accorto che nel ricordo di quel Dino che tiene tra le mani la bambola
squarciata c’era anche un’altra persona: mia madre. La rivedo squadrarmi
dall’altro angolo della stanza con uno sguardo da giudizio universale. Un dio
severo, che non ammette scampo, mi grida: «Assassino!»
La sua condanna è assolutamente ingiusta: come si può collocare sulla
stessa bilancia il gesto di un bambino curioso e il suicidio di una ragazzina di
Rosario? Io cosa c’entro? Non so. Ma forse anche questa impossibilità di
rispondere fa parte del mio castigo.

Mi torna in mente una donna con cui ho scambiato la frase «ti amo».
Come ci siamo tormentati a vicenda, io e lei, quantunque senza dubbio io
l’amassi, ma l’odiavo anche, in fondo non so neppure che nome dare a
quello che provavo allora... Ero sull’altalena: un attimo insú e l’amavo, un
momento dopo ingiú e l’odio tornava a fluirmi alla testa insieme col sangue,
facendomi scoppiare la scatola cranica, venendo come a ondate, flusso e
riflusso: potevo arrivare anche a farle del male e poi l’onda si ritirava, e lei
tornava a essere per me la bellezza in persona, e io a credere di amarla e a
coccolarmi il ricordo anche di una sola carezza come se fosse una gran luce.
Mia piccola morticina Bebè,
tu non sai com’è bello e riposante per me pensare al silenzio in cui sei
immersa per l’eternità: mi permette di ricamare in questa lettera piú belle
parole d’amore, che tu non potrai smentire come di solito succede tra due
amanti. Epperciò tra tutte le innamorate che ho sognato – e che ora, per
riempire il vuoto di queste mie giornate, distribuisco nei tanti paesi dei miei
vagabondaggi – sei una di quelle a me piú care. Ci sono giorni che la tua
figura si fa piú confusa. Perché la mia testa di questi tempi, sai, è molto
stanca. Ma ci sono altri momenti in cui mi pare di conoscerti davvero molto
bene. E allora mi dico che, chi lo sa, forse ti ho davvero incontrata.
Ventuno
Púm, mamma quell’omo lassú!
Lettera alla Signora Madre
Madre,
ti rammenti la pentola che stavi sorvegliando quel giorno in cucina?
Riscaldavi il minestrone curando che la fiamma si mantenesse bassa, eppure
ogni tanto veniva alla superficie uno sbuffo di bollore da cui dovevi ritrarti,
altrimenti ti saresti scottata. Ti fingevi occupatissima, come se non avessi
tempo per ascoltare me e Padre, mentre si discuteva del mio passaggio
dall’Università di Bologna alla Facoltà di Chimica farmaceutica a Firenze.
Men che meno saresti stata disposta a prestare orecchio ai miei discorsi sulle
lezioni di Lettere che avevo già frequentato o sulle poesie pubblicate su
alcuni fogli bolognesi.
O forse il momento era diverso, qualche anno piú tardi, e la discussione
verteva sul mio possibile viaggio in Argentina, che Padre caldeggiava,
mentre tu parevi decisamente ostile, anche se non mi rivolgevi la parola, la
testa china sulla pentola.
Tuttavia oggi, che pure sono passati vent’anni, posso bene immaginarmi
come deve essere stato difficile per te fingere quel daffare indifferente: sono
anzi assolutamente sicuro che una gran rabbia ti ribolliva dentro e
semplicemente meditavi se fosse davvero il momento giusto di scagliarti
contro di me. Avevi solo bisogno di una spinta di qualsiasi tipo – un mio
sorrisetto, una parola detta in tono piú alto – e avresti rovesciato fuori come
un torrente in piena la tua collera, senza farti riguardo se ero in grado di
capire ciò che dicevi scagliando con furia le parole nel vapore della
minestra.
Credo che non ti importasse affatto se ti stessi a ascoltare o addirittura
fossi ancora in cucina; avresti parlato semplicemente perché era ora e, una
volta cominciato, avresti parlato anche da sola o almeno a quella pappa
verde che avevi davanti nel caldàro. Ché la litania dei tuoi rimproveri io la
so a memoria, Signora Madre, perché esplodeva ciclicamente, sempre
uguale, in un’escandescenza isterica; e si riassumeva in una sentenza: che,
non avendo io profittato della buona educazione che mi era stata impartita,
tutta tesa a sviluppare in me i piú nobili impulsi, ma anzi, dato che avevo
preferito abbandonarmi al vizio del vagabondaggio, il mio destino non
poteva essere che la galera o il manicomio. Pronunciavi il verdetto con
espressione arcigna come se tenessi ancora minacciosamente in mano quel
righello di ferro, pesante, con cui mi picchiavi sulle nocche da piccolo,
quando sbagliavo le tabelline.
Per te la nobiltà d’animo era qualcosa che si eredita dai lombi dei propri
genitori e che si concretizza in un’azione altisonante: «Con tutto quello che
ti ho insegnato... Guardatelo come raglia! Sentite come puzza di sigarette: ha
il fegato marcio!... Ma come hai fatto a uscire un tale buonaniente?! Perché
non sei come tuo fratello Manlio?»
Che fosse intervenuta un’anomalia nella trasmissione di quei celestiali
caratteri che tu mi portavi in dote, era un pensiero per te insoffribile:
purtroppo c’era già stato in famiglia lo Zio Matto...

Non sai com’è terribile, Madre, non avere la piú pallida idea di quando
possa scoppiare la rabbia della persona con cui si abita sotto lo stesso tetto,
che dorme nella stanza accanto, che si siede a pranzare con te; sentirla
pronunciare mezze frasi che dicono e smentiscono; insomma, ascoltare tutto,
dai mugugni ai borbottii del ventre, e tuttavia non sapere mai cosa pensavi,
ma veramente, perché le tue parole servivano soltanto a mascherare i tuoi
pensieri. Mi prende la furia se ci rifletto davvero. Com’è potuto avvenire?
Com’è che fino a pochi anni prima, quando avevo addosso l’odore fresco del
sapone dell’infanzia, ti davo la mano con fiducia e allegria e da te mi sarei
lasciato portare in capo al mondo?

Non ho mai capito cosa pretendessi da me, Madre. Salire sulla torre
campanaria gridando una frase altisonante e tirarmi teatralmente un colpo in
testa?... Baldanzosamente bruciare i campi di grano dei filistei alla maniera
di Sansone? Andare in guerra e, nello slancio crociatesco di un gesto eroico,
immolarmi per la patria? Probabilmente immaginavi la scena come in una di
quelle opere teatrali della compagnia amatoriale di Faenza che tanto ti
piaceva, con musica straziante in sottofondo, porpora di incendi e sventolio
di bandiere.
Se mi fossi platealmente sacrificato sull’altare della tua boria, Madre,
saresti stata un po’ piú contenta? Mi avresti dato un bacio e i confetti del
buon Gesú?
Ho tentato di agire sensatamente, sottraendomi, allontanandomi. Ché, se
la natura ha dato le ali a certi esseri perché si salvassero dagli attacchi delle
specie piú forti, ci sarà bene una ragione. E io nel mio animo ho sviluppato
le ali del sogno per diventare leggero e sfuggire a chi mi faceva del male.
Volar via, star lontano da te. Tutta qui la mia vita... Che strano, capire solo
dopo tanti anni dove la mia smania di viaggiare è cominciata, che cosa ha
dato forma al mio destino.
Ma tu non hai compreso. Per te la leggerezza era soltanto lazzaronaggine,
e io un disertore della vita.
Mi hai strappato le ali. Perché?

Non ce l’ho con te, Madre. Perlomeno non piú. In fondo a Castel Pulci
non sto peggio che a Marradi. E quando di notte a sorvegliare è una brava
persona come il Tarcisio, si può perfino chiedergli tranquillamente di andare
fino al bagno. Ché i primi freddi fanno correre alla latrina piú spesso. La
luce della lampada di chi mi accompagna scivola sulla parete del corridoio,
come un battito d’ali, e cancella i ricordi sporchi. Il resto dell’edificio è
avvolto dalla scurità, tal quale lo sprofondo di una miniera. La tromba delle
scale si perde dritta sopra di me in un foro d’ombra.
Inquieti spiriti, sia dolce la tenebra...
Soltanto freddo e silenzio mentre torno indietro piacevolmente alleggerito.
Che bello rintanarsi nel letto e giacere cosí bene, cosí bene, come le nevi
giacciono nei campi d’inverno, tutte bianche, per discendere per le gambe,
avvolgersi sulle ginocchia e correre via coi fiumi taciturni e addormentati –
vera acqua viva – verso i mari, gli oceani.
Nella lucina gialla del fanale che trapela dal finestrino accanto al mio
letto, l’armadio delle medicine sbadiglia con i suoi cassetti che qualcuno ha
dimenticato aperti.

Allora senti, Madre, apri bene le orecchie, ascolta quel che sta per dirti tuo
figlio. Il tuo figliolo cattivo. Non l’altro, il buon Manlio, che fa sempre bene
ogni cosa e dice parole che non bruciano; che non ha bisogno del ricordo di
una passeggiata alla fiera, mano nella mano con te a cinque anni, per
continuare a volerti bene; perché lui ha avuto da te l’affetto di tutte le sere e
tutti i giorni e tutti i minuti. E, quando morirà, potrà sgranare il rosario di
memorie della sua vita, seduto alla destra di Domineddío.
Guardami, Madre, domandami perché tremo parlandoti, e mi imbroglio,
perfino tartaglio.
Sento che la mia vita è qualcosa che gli altri non possono capire. Perché io
ho visto le notti dall’altra parte del mondo, con i silenzi gravi delle mandrie
addormentate, lo sbadiglio degli struzzi, nell’immensità della pampa in
riposo. Allora, vicino al falò del Campamento del Mapa, enumeravo per
l’Alvaro il nome delle costellazioni, gli mostravo la Cruz del Sur e gli
spiegavo: «Quelle quattro stelle in Italia non si vedono».
Lui mi guardava sbalordito, non capiva, ribatteva che la Cruz lui l’aveva
vista sempre lí, fin da bambino: «Se il cielo esiste in tutte le parti del mondo,
por qué razón in Italia queste stelle non ci sono?»

Ero qui cosí vuoto, che la memoria mi ha fatto un brutto scherzo,


riportando a galla un ricordo lontanissimo: di me, bambinetto, che strappo le
alucce a una farfalla notturna. Subito, zac, ecco un pensiero che mi travolge:
«Nessun male in questo mondo va perduto!»... Questo eri solita predicarmi,
Madre.
Allora, se io da piccolino ho strappato ali a un essere innocente, questo mi
è stato messo in conto e imputato. Ché Domineddío, nell’alto dei cieli, tiene
partita doppia per ognuno di noi: dare e avere, da lui tutto è portato in conto.
E se io ho strappato ali, giustamente qualcun altro – tu, Madre – le ha
strappate a me.
OCCHIO PER OCCHIO,
DENTE PER DENTE,
ALA PER ALA.
Ventidue
Una goccia di luce sanguigna
Richiesta urgente di brevetto
Gentile dottor professor scienziato Edison,
avrebbe dovuto sentire come suonavo bene un tempo, all’epoca in cui
facevo il pianista nei caffè dell’Argentina, quando non avevo denaro per
comprarmi da fumare: mi chiamava una maîtresse dei bordelli di Sunchales,
perché facessi l’accompagnamento musicale. Era un posto sinistro, alto
come una torre. Le ragazze si innamoravano pazze di me, dicevano che
avevo occhi da fauno. Tutte bugiarde patentate, facce da pagliaccio,
sopracciglia disegnate con la matita nera, grandi bocche rosse sdentate. La
vita forse le aveva rese cattive.
Ma a me non la si faceva: stavo bene in guardia, ché a quell’epoca già
conoscevo le onde magnetiche e ne sapevo usare la potenza per smascherare
chi volesse imbrogliarmi: eccosí scoprivo gli artigli che certe signorine
tenevano nascosti nelle tasche e con cui, le porcaccione, volevano frugarmi
qui nel cervello per farmi perdere la vena poetica.
La notte, dopo il lavoro, la maîtresse cadeva ipnotizzata: la coprivo di
lenzuola bianche, ci camminavo sopra, a volte la calpestavo, lasciava fare
con la faccia rivolta verso terra. Vedevo le sue braccia staccarsi, rotolare via.
C’era una Bellabambina che viveva in quel bordello: la risparmiai, perché
si capiva che era una solitaria come me.

Non so bene spiegarmi perché in questo momento vengo tormentato da un


certo dottor Pariani che tramite suggestione vuole trasformarmi in un uomo
diverso. Anche se è inutile che lui ci provi. Ché al manicomio di Reggio
Emilia, già incontrai un tale, il professor Bruggia, intenzionato a fare
esperimenti su di me con la calamita, dato che io sono ipnotico in alto grado,
pieno di correnti magnetiche... Stia in guardia sto Pariani, ché sarò io a farlo
cadere addormentato la prossima volta che viene qui a Castel Pulci. Con uno
schiocco delle dita posso perfino costringerlo a ballare. Ci ho le onde che mi
escono dalla testa, io.
Deve infatti sapere, egregio professor Edison, che qui dove attualmente
risiedo ho inventato la macchina per l’esplorazione della mente. Soprattutto
con le donne funzionerebbe a meraviglia, dato che le fibre carnose delle
femmine sono positivamente deboli. Cosí le si può suggestionare facendole
cadere innamorate – con una piaga rossa nel petto – in particolare le
principesse; eppoi, zàcchete, basta azionare la leva e quelle sono obbligate a
fare dei figli a macchina. Anche quelle sterili. Nessuna ce ne può con questo
mio apparecchio che, se Lei avesse la compiacenza di visitarmi, Le potrei
illustrare.
Il problema è che sono circondato da gente invidiosa. So per certo che
alcuni agenti segreti sono stati sguinzagliati dalle regine madri: la cricca dei
pretendenti regali infatti mi vuole morto, per rubarmi la suddetta macchina.
Per questo sto nascosto a Castel Pulci: un manicomio è l’ultimo posto dove a
quella gentaglia verrebbe in mente di cercarmi, Le assicuro. Epperciò Lei
dovrebbe venire qui in incognito, magari facendosi passare per folle... Non
mi dica che non sa come diventare pazzo... Se vuole Le mando un manuale
con le istruzioni per impararlo.

Non è comunque questo il motivo principale del mio messaggio. Volevo


segnatamente raccontarLe uno strano fenomeno a cui sono soggetto, che
credo sia conseguenza dell’elettroterapia a cui da molto tempo vengo
sottoposto.
Non so se Lei conosce questo sistema. La prima volta mi fece venire in
mente una notte di tanti anni fa, in cui vidi bruciare la pampa secca: il cielo
si era fatto tutto rosso e si udiva un crepitare spaventevole di faville bianche
dilagare per la pianura, spinte dal vento. Serpeggiavano rivoli di fiamme,
sollevando fumo, cenere e odore di carne bruciata... Capisce, professor
Edison? Attraverso l’intelligenza misteriosa di cavi e cavetti, l’elettroterapia
mi ha iniettato dentro – pelle, nuca, schiena, braccia, dita – un’enorme carica
di energia sfavillante che in qualche modo deve trovare sfogo. Ragion per
cui, un paio di mesi fa, mi sveglio una notte nel buio della camerata e sulla
parete opposta al mio letto vedo una gran luce sanguigna circondata da un
contorno giallo-acido. Comincio a muovere gli occhi a destra e a sinistra e la
luce segue la stessa direzione... Sembrava una di quelle grandi macchie
colorate che si intravedono dietro le palpebre quando, dopo aver guardato il
sole, si serrano gli occhi. L’unica differenza era che tale luce rossa non
spariva. Posso anzi dirLe che, quando abbassai gli occhi, vidi con chiarezza
sul pavimento le ciabatte mie e quelle del Vincenzino, che è mio vicino di
letto.
All’inizio ne rimasi turbato, perché il fenomeno sembrava cozzare col
senso comune, e tuttavia la sua presenza era indubitabile: trattavasi, anzi
trattasi, dato che il fenomeno persiste, di un chiarore che al buio esce dai
miei occhi in una sorta di lampi rossi, e ogni notte aumenta di intensità: è
come un fiume di luce che sgorga dalla mia testa, mi corre lungo le guance,
scende per tutto il corpo fino ai piedi e si disperde sul pavimento in direzione
del polo magnetico.

La mia è una capacità straordinaria: quale altro essere umano al mondo


può illuminare il buio con i propri occhi?... Epperciò Le scrivo: per
venderLe il brevetto. Ma deve sbrigarsi, ché ho paura che spie internazionali,
soprattutto russe, vogliano rapirmi.
Mi risponda al piú presto,
suo Dino Edison
Ventitre
Regio Manicomio di Castel Pulci
Ottobre 1929

A Dino pare che il fanale nel cortile, scosso dal vento disegni cerchi
ondeggianti di luce acquosa sul soffitto. Gli sembra di udire un
chiacchiericcio di voci malevole e insistenti. Eppure sa che nella camerata
non c’è nessuno. A parte il dottor Pariani. Ché, anche se chiude gli occhi o
nasconde la testa sotto il lenzuolo, la faccia dello psichiatra è lí, accanto al
suo letto.
Una porta sbatte nel corridoio, la macchia di luce, come un occhio
sensibile, scivola giú per il muro, sfiora la tenda e da lí torna al solito posto.
Ma proprio tranquilla non continua a esserlo piú. Come se fosse viva e
pensasse. Chissà mai se una luce può pensare, ma supponiamo che pensi...

Il malato è coperto di sudore: da qualche ora ha la febbre. Per tutta la


giornata non ha fatto altro che alzarsi dal letto e dirigersi a passi vacillanti
verso l’angolo in cui stanno un catino sul treppiedi e una brocca metallica.
Avanti e indietro per ore. Vuotando l’acqua nel recipiente; poi, con le mani a
conca, versandosi l’acqua sul viso e sui capelli. Ritornando poi a letto senza
asciugarsi.
Il dottor Pariani l’ha trovato cosí debilitato che ha avuto la tentazione di
partirsene da Castel Pulci senza interrogarlo. Poi però si è seduto a fianco del
suo letto nella camerata vuota. Aveva preparato alcune domande e tira fuori
come al solito il suo taccuino: «Mi ha colpito questa sua insistenza del
paragonare la luna a un teschio: Un disco livido spettrale spuntò
all’orizzonte lontano profumato irraggiando riflessi gelidi d’acciaio sopra
la prateria. Il teschio che si levava lentamente...»

Ecco, pensa il malato: il dottor Pariani mi ha lanciato quest’osso rotondo


liscio nudo, privo del piú piccolo brandello commestibile da poter strappare
e leccare. Fa una smorfia. Borbotta: «In America ho visto tante teste mozzate
e rinsecchite...»
Perché lo guarda cosí? Le cose che Dino racconta gli danno turbativa?
Questa è la vita, dottor Pariani mio bello, e chi ha paura di pungersi non
raccolga le rose... Il malato rammenta che una volta ha visto alcune teste
umane, tagliate e rinsecchite dai selvaggi di non si ricorda piú quale regione
sudamericana. Ridotte alla grandezza che ha la testa di un bambino nel
ventre della madre. Gli hanno fatto impressione... Non ne ha mai viste, il
dottore? Sí? E non si è stupito di quegli occhietti da gattino, nonostante la
barba e i baffi? Badi, non teste imbalsamate, ché quando si fa
un’imbalsamazione con l’imbottitura di paglia e stoppa si ridà alla pelle la
forma naturale del corpo vivo. Invece si vedeva proprio che le teste erano
state svuotate e seccate al sole. E quegli occhi, le assicuro, dottore,
sembravano davvero avere un’espressione da prenderci in giro. Come se
dicessero che la vita è una succhiata di lumachina.

Nulla, soltanto parole.

Non è vero. Quando a Dino si nomina la parola teschio, pensa a un’altra


cosa. O meglio, al Peppino Bucci che stava a Bahía. Non vecchio, ma
profondamente marcio, avendo alle spalle una vita intera di fatiche come
peón, e almeno trent’anni di grappe e puttane. La sifilide l’aveva ridotto a
uno scheletro. Stava sdraiato in uno stanzino in fondo al patio, senza dire
una parola, ché ormai la lingua era solo un pezzo di carne lessa. Il volto si
era ridotto a una maschera di cuoio rinsecchito: vero teschio vivente.
Una volta Dino e Regolo avevano tentato di cambiarlo di letto, perché il
suo materasso s’era riempito di vermi. Allora, sarà stato per il
sommovimento o va’ a sapere cos’altro, il Peppino aveva sollevato appena
appena la sua testina mostruosa e – con un suono impressionante che non
usciva dalle corde vocali della bocca chiusa, ma direttamente dall’interno del
teschio – aveva sibilato: «Déjenme en paz, hijos de puta!»

Il malato si lamenta perché l’infermiere ultimamente ha rifiutato di


lasciare accesa la luce durante la notte. Ha il respiro agitato, la voce quasi
piagnucolosa: «Siamo o non siamo moderni qui in Italia? E, se siamo
moderni, la notte deve essere chiara come il giorno. Altrimenti faccio sogni
corti, di rovine e terrore. Ché a volte non so dove mi trovo e riacquisto la
coscienza a fatica. Oggi però mi ricordo di tutto, perfino della mia vicina di
casa di Bahía Blanca. Era figlia di un notaio, Manuelita è il nome che le
davo io, suonava bene il pianoforte. Ah, dottore, se bastasse amare, sarebbe
troppo semplice. Piú si ama, piú il mondo perde il suo senso, e in America le
notti erano proprio buie... Una volta la vidi in camicia da notte. Aveva un
sorriso da strega, di quelle che dicono: “Verrò a mangiarti il cuore quando
rintoccheranno le dodici!” Infatti, a notte fonda, scoprii che usciva di casa
volando come una colomba. Allora, anche se nel cuore portavo la
disarmonia, mi misi a studiare il piano per lei. Quando avevo denaro
spendevo quanto guadagnavo per comprarle dei garofani. Un po’ scrivevo e
un po’ suonavo, sissignore. Mi piace Beethoven, Mozart, Schumann. In
Argentina eseguivo soprattutto gli italiani, Verdi, Rossini, ché là sono molto
di moda... Perché mi guarda cosí? Fa parte anche lei della cricca di chi non
mi crede? Tappi quella maledetta finestra! Non sente quanti uccelli là fuori,
a ridere di me? Maledetti! Un giorno costruirò un muro coperto di veleno e
le colombe moriranno tutte, appena andranno a beccarci le briciole di pane».
«La finestra è ben chiusa. Non si agiti, signor Campana. Non sente? Gli
uccelli se ne stanno andando. Viene sera. Perché adesso non prova a
rispondermi? Poi le darò qualcosa per rilassarsi».

Il malato passa le dita sulle labbra riarse dalla febbre. Dice tra sé, a voce
alta: «Sono un animale triste... O forse questa frase l’ho letta in qualche
libro. Ché io, prima di ammalarmi, leggevo tantissimo: Carducci, Pascoli,
D’Annunzio, Poe. Molto Poe. Una volta entrai nella biblioteca Rivadavia.
Ero seduto di fronte a un leggio. Le lampade elettriche oscillavano
lentamente. Su da le pagine risuscitava un mondo defunto. Eravamo in tanti
e tutti morti. La faccenda mi stupiva un po’, ma ho imparato che sono strane
le faccende di questo nostro mondo. In America ancora di piú. Ché laggiú la
gente è senza passato. Il futuro è l’unica cosa che ti rimane, quando scendi
da un bastimento».
Ventiquattro
Era una melodia, era un alito?
Sfida musicale ma non troppo a un villanzone del Nuovo Mondo
Estimado caballero de fina estampa,
spesso ho notato che il ripensare a offese subite mi è causa di intensificata
sofferenza. Ma è piú forte di me: ogni volta ci ricasco e, appena mi torni in
mente, la mente mi ribolle di rancore.
Ci incontrammo all’estancia Etchegarray, una domenica di fine estate.
Ricordi? Io comunque ci ero arrivato la prima volta qualche settimana prima,
in occasione di una spedizioncella di lavoro: l’ingegner Grenacher infatti
aveva mandato me e Alvaro in cerca di latte e uova, all’epoca in cui tutti e
due lavoravamo come aiutocuochi per l’accampamento della ferrovia nei
pressi di Bahía Blanca. Vedemmo che in cima al tetto dell’estancia era issata
la tradizionale bandiera di benvenuto, segno che qualsiasi persona di
passaggio poteva essere ammessa alla tavola dei proprietari, all’ora di
pranzo. Ci accolse festevolmente la giovane padrona di casa, doña Manuelita
Etchegarray. Ché, se chiudo gli occhi, posso ancora farne il ritratto preciso:
esile e nervosa nei pantaloni da amazzone, l’ovale del viso risaltava tra due
bande di capelli lisci fissate in una lunga e foltissima treccia della grossezza
del mio braccio... Saputo che ero italiano, mi intrattenne con affabilità,
parlandomi di ciò che definí il suo «massimo sogno»: andare in Europa a
visitare i tesori d’arte di Firenze e Roma.
Mentre Alvaro stava in disparte, quasi annoiato da quei discorsi, io non
riuscivo a dissimulare il mio stupore: primo, perché non mi capacitavo di
ritrovarmi in un posto sperduto a parlare di arte italiana; secondo, perché
quella ragazza emanava un fascino speciale. Se al paese dove sono cresciuto
si dice che la donna bionda è meno peccato, quella Manuelita dalla trecciona
nerissima era tinta dal peccato originale del desiderio. E mi sentivo debole di
fronte a lei, quasi fossi malato.
Se ne accorse Alvaro che, in un momento che doña Manuelita si era
allontanata per dare ordini ai peones, interruppe il mio incanto amoroso
offrendomi da bere da una caraffa di clericó di cui si era appropriato mentre
io ero intento a parlare con la padrona di casa. «Bevi, Campana, – mi disse.
– Vino bianco ghiacciato con frutta di stagione. Col caldo che fa, è una
delizia». Poi, vedendo il persistere della mia aria distratta, mi diede di
gomito: «Si può sapere cos’hai? È per la padrona di casa? Non ti facevo
cosí... sensibile di cuore. Non dico che non sia bella. Ma è meglio che gente
come te o come me non ci facciamo una malattia: lei è una ricachona e noi
abbiamo le tasche vuote; e senza denaro non ci sono paternostri che
tengano».
Saggio Alvaro... Perché non gli diedi retta?
A fine pranzo – sopa de mondongo con ensalada de papas, huevo duro y
ajo picado – mentre ci apprestavamo a andarcene, doña Manuelita mi
annunciò che l’ultima domenica del mese avrebbe organizzato una festa: si
sarebbe fatta della musica, parlato di poesia e di libri. Lo disse per puro
sfoggio di mostrare il suo tenore di vita? O era un invito? Non riuscii a
capire.

Comunque l’incontro con quella ragazza fu per me come una di quelle


luci al magnesio che usano i fotografi: accendono il buio per un attimo e,
anche dopo che si sono spente, danzano ancora per molto tempo negli occhi
in forma di cerchi sfolgoranti. Eccosí nei giorni successivi non smisi di
riandarci con la memoria.
Alvaro però non mi stava a ascoltare: quando cominciavo a parlarne, mi
mandava a quel paese. Invece il cuoco, un ticinese di nome Matteo, mi dava
corda e non si stancava di farmi ripetere per filo e per segno tutti i particolari
di quell’incontro, fino alle minime inezie: reali o create dall’immaginazione,
non so piú.
«Beato te, Campana, – mi diceva. – Quella l’è una vera dama scicche.
Senza contare le parole che ha usato: “Faremo una festa”... See. Ascoltami
bene, Campana, ché io le donne le conosco: non dicono mai niente senza un
fine preciso. Epperciò lei ti ha lanciato l’amo, se intendi il bergamo».
Musica per le mie orecchie. Ché lo ascoltavo sorridendo beato, ma facevo
finta di schermirmi: «Ma dài, Matteo, cosa dici?! Che amo vuoi che sia!»
«Un messaggio, Campana! Che significa chiaro e tondo: “Voglio che tu
venga alla mia festa!” Piú lampante di cosí!»

Tira-e-molla, molla-e-tira, l’ultima domenica del mese mi presentai


all’estancia Etchegarray col miglior vestito che ero riuscito a procurarmi: di
lanetta azzurrina, un po’ stinto sui gomiti e soprattutto sotto le ascelle; mi
stava un po’ stretto, perché sono sempre stato grosso di spalle, e mi faceva
sudare, tanto piú che dal deserto soffiava un vento caldo che prosciugava
perfino i pensieri.
C’era molta gente, e abbaiare di cani, nitriti, chiacchiericcio di troppe
voci. Si mangiò asado e si bevve birra. Io non facevo che seguire con gli
occhi doña Manuelita mentre passava da un gruppetto all’altro distribuendo
sorrisi, e tutti le giravano intorno come galletti nell’aia. Notai come spesso si
fermasse a parlare con un giovanotto della mia stessa età – capelli lunghi,
due basettone folte e rossicce, mani con anelli che scintillavano
sfacciatamente, sigaro in bocca. Sí, eri proprio tu, caballero dei miei stivali:
della razza di quelli che passano gli anni sulla groppa di diverse cavalle e
che, a eccezione del callo che gli è venuto sul sedere, non potrebbe
dimostrare di aver mai compiuto nella vita una qualsiasi piú nobile fatica.
«Permettete che vi presenti, – disse doña Manuelita rivolgendosi a
entrambi. – El señor Campana, de Italia...»
Il tuo nome però me lo sono scordato: qualcosa di incomprensibile, una
parola francese con molte erre, che pronunciasti tirando indietro il petto e
lisciandoti con la mano la scriminatura dei capelli. Quasi fossi in un brutto
sogno, udii la mia voce, assolutamente irriconoscibile, rispondere alle
presentazioni, mentre tentavo di trasformare in sorriso convinto la smorfia
che mi sentivo sulle labbra.
Doña Manuelita invece brillava piú che mai. Ti sedesti mollemente su un
divanetto di stile francese che era stato portato all’aperto, sotto un grande
tendone steso a riparare dal sole pomeridiano. Pendevo dalle labbra della
padrona di casa, incantato dal fascino sensuale che emanava dalle sue
braccia nude, perché per il soffio caldo del vento la señorita si era tolta il
corto giubbetto di velluto, coprendosi poi le spalle con un leggero scialle di
seta rossa. La sentivo parlare di poesia, degli ultimi libri pubblicati in
Francia.
Poi qualcuno chiese a gran voce che si aprissero le danze. Detto fatto, ci
spostammo nel salone dell’estancia, dove organetti chitarre e violini si
misero all’opera.
Io ricordo tutto di quel pomeriggio. E tu?

Mi colpí il fatto che in molti balli i criollos danzassero come se fossero


soli, senza toccare le loro compagne: lo sguardo perso nel vuoto, la mano
sinistra dietro la schiena e la destra ficcata nella giacca all’altezza del cuore,
strascicando i piedi sul parquet, in un tintinnare di speroni d’argento. Pure le
donne sfoggiavano una perfetta indifferenza e, sul viso, un’aria di fredda
altezzosità: parevano di legno, non di carne.
Invece tu, da perfetto damerino francese, volavi conducendo con
spigliatezza doña Manuelita; i riccioli biondi ti ondeggiavano sulle spalle a
tempo di musica. Ti vedevo ogni tanto lasciarla a un capo della stanza e
piroettare agilmente intorno a te stesso; poi, una volta raggiunta l’altra
estremità del salone, eseguivi un assolo zapateando sui tacchi; finché, di
giravolta in giravolta, tornavi di slancio al suo fianco.
Fosti tu a comandare la quadriglia gridando a piena voce: «Grand rond...
Balancez. Chevaliers... Rond de dames. Pistolette. Pas de zéphire. Changez
la dame. À gauche. Chaîne de dames. Merci...»
Non riuscivo a staccare gli occhi da lei: come civettava, come gonfiava le
labbra, come ti prendeva a braccetto o si rovesciava all’indietro per
guardarti. La sua grossa treccia, con una rosellina rossa all’estremità, ti
colpiva ogni tanto sulla spalla durante quel turbinío di inchini.
Non ballai che una polka, era l’unica danza che conoscevo; ma senza la
tua disinvoltura, anzi drizzandomi sulle punte dei piedi a passettini, senza
osare inoltrarmi nella calca, per timore di inciampare nelle lunghe gonne
delle ballerine; epperciò mi contentavo di rimanere a girare piú o meno su
me stesso in un angolo. Sudavo e mi spazientivo. Quella vampa di caldo
intorno a me.

Alla fine gli uomini uscirono tutti a fumare sulle gradinate dell’estancia,
mentre le donne agitavano ventagli per rinfrescarsi. Mentre ti chinavi a
baciarle la mano, le sussurrasti parole galanti che mi rimescolarono di
gelosia. Una specie di nausea al brusio al vino alle sciocchezze alle risate.
Uscii dalla veranda in cerca d’aria. Era ormai notte fonda, neanche una luce
nella pianura, ma il vento caldo non cessava di soffiare. Mi allontanai di un
centinaio di metri, buttandomi poi sul prato. Come un cane ferito.

Ecco come ti ricordo, caballero: con odio. Guardo il soffitto del refettorio
di Castel Pulci e ho un bel dirmi: «Dino, lascia perdere quello stronzo!» No,
soffro acutamente, proprio come allora. Credo sia faccenda di meccanica
psicologica. Come succede nei circuiti elettrici e magnetici, sui punti di
maggior resistenza si concentra l’energia.
Eccosí ripensando a te, la sofferenza si intensifica. Non smetto di
rivangare quella sera, la tua danza teatrale, l’aria di sufficienza con cui mi
squadravi dall’alto in basso. E come stortasti la bocchina a culo di galletto
quando dissi che avrei voluto avere un pianoforte a disposizione per suonare
un pezzo classico in onore di doña Manuelita. Ogni volta che ci trovammo
vicini, sottolineasti in ogni modo la distanza di classe. Quando tentai di
rompere il ghiaccio parlando di musica, mi zittisti seccamente: «In certi casi
la musica migliore è il silenzio!»
Chinandoti verso di me con degnazione, le basettone che ti incorniciavano
il viso mi fecero il solletico: era troppo!

Fin dal primo momento, quando mi fosti presentato e vidi sulle tue guance
quelle straordinarie basette rossicce, ebbi la sensazione che la mano mi
prudesse: una specie di voglia piú o meno giocosa di toccarle e palparle.
Come quella tentazione si sia concretizzata in un’azione reale, per quanto mi
rompa il capo non riesco a chiarirlo.
So che tesi la mano acchiappandone una con forza, cercando di stringerla
tutta quanta nel pugno.
«Qué pasa? Mi lasci! – sussurrasti confuso, agitando le mani nell’aria, ché
ancora sembrava che tu danzassi. – Mi lasci, hombre!»
Qualcuno balzò su di me con l’intenzione di separarci. Ma io non mollavo
la presa. Tu gridavi, barcollavi, cercavi disperatamente di afferrarti al
fazzoletto che portavo legato al collo.
Quando mi staccarono da te, digrignavo i denti: «Vi detesto! Siete tutti
quanti dei mostri!» urlavo. Quindi aprii la mano destra: un ciuffo di peli
rossi cadde a terra. Solo allora compresi ciò che avevo fatto. Scappai.

Questo ricordo mi è rimasto in cuore con un senso di schifo. Mi spiace,


caballero, non valeva la pena scaldarsi cosí tanto. Ma vedi, mi risultasti
odioso quando sottovoce, ma non cosí tanto da non poterti sentire,
commentasti con doña Manuelita che era impossibile che un «pianista da
caffè», come avevo dichiarato di essere stato, potesse suonare a memoria il
signor Chopin. E lo dicevi perché tu, fino caballero, non sai niente della vita:
neppure che può capitare anche il contrario e peggio ancora.
Perché ostentavi tanto disprezzo nei miei confronti? Guarda che io potevo
anche indossare un vestituccio prestato, ma non ero senza istruzione: «Se voi
suonerete le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane», rispose Pier
Capponi a quel prepotentone di Carlo VIII d’Angiò; il gerundivo concorda
in genere numero e caso col sostantivo a cui si riferisce; Pericle nacque nel
495 a.C. nel demo di Cholargos... E avrei potuto recitarti con perfetto
accento francese quel Bateau ivre che certo uno stupido come te non capirà
mai:
J’ai vu fermenter les marais énormes, nasses
Où pourrit dans les joncs tout un Léviathan!
Col coltello da cucina che portavo legato alla cintura ti avrei cavato
volentieri le trippe quella sera. Ma non lo feci, in fondo ho un cuore
magnanimo. E ancor piú tenerello sono diventato nel corso degli anni.
Epperciò adesso, se avessi la magica bacchetta delle fatine del c’era-una-
volta e una-volta-non-c’era, mi piacerebbe semplicemente ricambiarti la
cortesia: ti inviterei a una cena musicale nella villa di Castel Pulci dove
attualmente soggiorno...

Vieni, caballero. Noi ospiti del reparto cronici siamo già tutti entrati nella
sala con la lentezza degli artisti consumati, abbiamo ripassato la partitura per
una decina di minuti e adesso accordiamo gli strumenti: strisciare le gambe
delle sedie, pestare i piedi nervosi, picchiettare le dita sul tavolo, trombettare
di culo, sbadigliare. Ci tormentiamo, presi dall’assillo di ricordare le note di
un passaggio particolarmente difficile. Quando finalmente saremo pronti,
alle sette in punto, si apriranno i battenti della porta bianca della cucina e
farà la sua entrata in abito nero elegantissimo il Tonio, nostro direttore
emerito. Allora tutte le facce di noi orchestrali si volteranno a guardarlo, la
testa piegata da una parte in atteggiamento reverenziale, mentre lui
comincerà a dirigere col mestolo il nostro silenzio. Tutti i rumori voleranno
via verso il soffitto e avremo l’impressione di portare dentro di noi un
segreto prezioso. All’unisono rivolgeremo gli occhi alle nostre scodelle,
aspettando che l’ispirazione delle muse ci entri nel sangue, faccia vibrare i
nostri nervi, poi ci abbandoneremo alla sinfonia per cucchiai, sentendo le
tempie pulsare fragorosamente, la testa riempirsi di lava incandescente;
dimenticando per qualche momento la nostra condizione di degenerati.
Sapremo che il pezzo musicale è finito quando l’inserviente verrà a
sparecchiare...
Oggi andrà tutto per il meglio, lo sento. Ieri invece purtroppo il concerto
si è interrotto prima del solito. Un nostro compagno d’orchestra ha infranto
il silenzio con un grido strozzato, cadendo poi con la testa dentro la scodella,
quasi avesse voglia di bersi la minestra a lappàte. Sono corsi i sorveglianti,
ho sentito il rumore del corpo trascinato e uno squillare lungo di campanelli
lungo i corridoi e i pestoni degli infermieri per tenerci calmi.

Certo se, come un tempo, io riuscissi a occupare la mia mente con la


fantasticheria di inebrianti amplessi con doña Manuelita, forse l’ossessione
di odio nei tuoi confronti si sgonfierebbe. Ma la carne in questo momento
non è per me attrattiva sufficiente. Non mi resta dunque che rinfocolare il
rancore nei tuoi confronti, caballero, pur nella coscienza che questo mi
legherà a te in eterno. Quasi fossimo due atomi complementari.
Venticinque
Un disco livido spettrale
Lettera di scuse all’ingegner Grenacher
Gentile ingegnere,
i miei poveri nervi soffrono quando prendo in mano una penna, perciò
preferisco indirizzarle una lettera mentale per esprimerle tutta la mia
riconoscenza riguardo alle cinque settimane in cui lavorai per la sua
Compagnia, al Campamento del Mapa. Si ricorda? Era l’epoca in cui si
misuravano le terre in vista della costruzione di una linea ferroviaria che,
partendo da Puerto San Antonio, vicino a Bahía Blanca, doveva arrivare fino
a Puerto Deseado nell’estremo sud... Io ci venni perché era l’occasione per
vedere la Patagonia di cui tanto avevo sentito favoleggiare.
Una babele quel campamento. Gente di ogni parte, ché bastava
l’argomento di conversazione per capire da dove venissero quei manovali:
gli spagnoli parlavano solo dello strapotere dei preti, i portoghesi della
trasformazione del regno in repubblica, gli svizzeri di montagne, gli
argentini di duelli al coltello. Si fumava molto e si bevevano litri di mate.
Lei mi destinò a fare l’aiutante cuoco. Il mio compito consisteva nel
piantare sugli spiedi pezzi d’agnello per l’asado, nel sorvegliare il fuoco per
difenderlo dal vento e nel mescolare con un ramo il pentolone del puchero.
Ché il cuoco Matteo preparava l’arrosto al mattino per colazione, insieme al
mate e alle gallette, e la sera il bollito, ma sempre di pecora si trattava.
Ventun persone eravamo, ma non avanzava mai niente: solo mucchietti di
costoline spolpate. L’unico problema in cucina era la scarsità di acqua, non
per niente quella zona la chiamavano «desierto». Alberi pochissimi, struzzi,
volpi puzzone e greggi. Mangiavamo in circolo, ciascuno teneva il suo
coltello alla cintura, cosí almeno non c’erano posate da lavare. Quando non
arrivava il treno cisterna con l’acqua, bisognava andare fino al río che
scorreva a un paio di chilometri. Però stoviglie e strofinacci non diventavano
mai puliti: l’acqua era rossastra, torbida come quella dei fagioli. Io e l’altro
aiuto cuoco, Alvaro, ci recavamo a prenderla con le mule, brutte bestie, veri
diavoli in carne e ossa.
C’erano anche incombenze piú gradevoli. Per esempio, andare alla
stazione a ritirare la posta, quando arrivava il treno. Spesso ero io
l’incaricato, ché me la cavavo bene con i moduli del correo. L’impiegato
addetto sapeva leggere a stento, epperciò era di una lentezza esasperante; e
per soprassello commetteva un mucchio di errori. Se poi capitavo nel
momento in cui aveva deciso di prepararsi un mate, dovevo armarmi di santa
pazienza e aspettare almeno un’ora prima che mi desse retta.

Insomma del Campamento del Mapa non ho un brutto ricordo, nonostante


il vento patagonico con le sue tempeste di polvere mi mettesse addosso
spesso una strana patúrnia. Comunque nel giorno di riposo filavo a Bahía
Blanca. Città la chiamavamo, ma era solo un ammucchiarsi di costruzioni
basse col tetto piatto, pareti di mattone o legno, capannucce di argilla e
paglia, vie perpendicolari, negozi di Ramos generales agli incroci.
Pochissime le vie con palazzi veri.
Ci andavo soprattutto per la Biblioteca Rivadavia. Ché per me stare in
mezzo ai libri e passarci qualche ora ha sempre significato isolarmi dalla vita
opaca, dai conoscenti noiosi che bivaccano al caffè tra chiacchiere inutili, dai
sorrisini di compatimento e dalle domande stupide sulla mia aria svagata.
Per questo, appena arrivavo a Bahía, sbrigavo in fretta le commissioni che
mi erano state affidate, eppoi correvo in biblioteca. Sul piano inclinato del
tavolo ponevo una pila di libri da sfogliare. Poi aprivo il mio quadernetto, ci
scrivevo una parola, mi interrompevo mettendomi la matita nell’angolo delle
labbra; tornavo a scrivere. Eccosí poco a poco mi calmavo.
Capisce, ingegnere? Tra i libri che stanno sugli scaffali di una biblioteca,
alcuni potrebbero precipitarti nel dubbio, ma altri possono cantarti
nell’orecchio. Libri che forse pochi prenderanno tra le mani. Avvolti nel loro
silenzio finché rimarranno chiusi, coi loro segreti a cui nessuno accede. Ché
anche le parole muoiono... Pensi un po’: ho passato i miei anni piú belli a
scrivere poesie, a consolarmi con un verso, il fulgore improvviso di una
parola, un frammento di vetro scuro che pulivo e ripulivo, a volte
intravedendoci il volto feroce di qualche donna. Ho scritto forse per chi in un
altro tempo, magari tra cent’anni, leggerà queste mie frasi e avrà pietà di me.
Che follia, vero?... Perché poi tutti credono di avere un messaggio da
lasciare? Perché quest’ansia di durare, di brillare attraverso i secoli? Perché
non l’intensità e la passione di un solo istante?
Quel mio quadernetto non mi è sopravvissuto: in un momento di rabbia
l’ho distrutto, trasformando le sue pagine in cenere. Non volevo che uno
sconosciuto, toccandolo, potesse trovarvi il segno della mia angoscia e della
mia sfortuna.
Ma questo avvenne dopo la morte dell’albatro.
Le conto l’episodio, perché allora non ebbi il coraggio di parlargliene.
Successe nella penultima settimana che lavorai nel Campamento. Ero
andato al río per il carico d’acqua. Da solo... Trovai un albatro riverso sulla
riva, fradicio: di uccelli con ali tanto grandi non ne avevo mai visti. E subito
mi vennero in mente i versi di Baudelaire:
Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.
Che ci faceva un simile uccello cosí lontano dal mare? Mi chinai su di lui
scrutandolo, ma non osavo allungare la mano a toccarlo. Di sicuro era vivo:
le palpebre sbattevano debolmente e le lunghe ali ogni tanto sussultavano...
Presi coraggio, lo spostai dalla riva. Lasciò fare. Mi avvidi che sotto un’ala
aveva una ferita da fucile. Probabilmente i pallini gli erano rimasti in corpo.
Feci quel che potevo: bagnai il fazzoletto con il contenuto della mia
borraccia e gli ripulii la ferita. Poi scavai una lunga buca asciutta lontano dal
río e ce lo deposi, coprendolo con le frasche di un cespuglio spinoso, perché
non volevo che qualche volpe bastarda lo attaccasse.
Tornai al campo, ma mi tormentavo. Avevo paura a parlarne: l’avessi
detto a Matteo o a Alvaro, sarebbe finito in pentola come un diversivo, ché
tutti eravamo stufi di mangiar pecora. Ma come potevo permettere che
qualcuno tirasse il collo al prince des nuées?...
Non mi sfiorò neppure l’idea di abbandonare l’albatro alla sua malasorte:
che morisse e fosse divorato da un predatore, neanche pensarci. Fin dal
primo momento, quando ero rimasto a osservare in silenzio il suo ansioso e
tremolante batter d’ali, avevo deciso di soccorrerlo, perché riprendesse a
volare libero.
Quella notte, quando il Campamento fu immerso nel sonno, tornai sulla
riva con un grande cesto. Vedevo a malapena il sentiero illuminato da una
luna che pareva un teschio, ma non mi persi d’animo neppure per un istante.
Traevo coraggio dal pensiero dell’uccello ferito che mi aspettava, dalla paura
che morisse da solo e senza aiuto.
Lo portai al Campamento nascondendolo in uno dei due casotti dove
tenevamo la dispensa: siccome ero io a avere le chiavi, pensai fosse il posto
piú sicuro.
Ci andavo appena avevo un momento libero: bagnavo una galletta, lo
imbeccavo a forza, versavo nel lungo becco a uncino acqua pulita attraverso
uno stretto imbutino che avevo approntato con un cartone. Avevo paura che
scappasse, che si lamentasse facendosi notare, ma lui era straordinariamente
tranquillo: ogni volta che mi vedeva sollevava il capo, mi fissava rassegnato:
non cercava piú di sfuggire alle mie mani quando gli pulivo la ferita... Andò
avanti cosí per tre giorni. Con disperazione notavo che non migliorava. E
allora, caro ingegnere, mi venne l’idea dell’etere.

Qui sono costretto a fare una digressione... Il dottorino del Campamento –


se lo ricorda? Si chiamava Willis, un inglesino miope dal cuore tenero –
aveva nella sua tenda una bottiglia di etere, che usava con gli uomini quando
si ferivano, e con gli animali quando doveva estirpare le zecche. Ci fu una
settimana in cui la depressione mi tormentava, ché io ciclicamente mi
ritrovavo in quella situazione, con insonnia, dimagrimento e incubi. Ero
agitato, i miei occhi si facevano enormi, vitrei; le occhiaie profondamente
nere. Le mani mi tremavano: che fosse colpa del vento o di Manuelita
Etchegarray, non lo so piú... Vedendomi in quelle condizioni il dottor Willis
mi propose di provare l’etere: mi spiegò che poteva rasserenarmi: «C’è solo
una difficoltà iniziale da superare con uno sforzo di volontà, ché al principio
brucia la gola»... Decisi di tentare e mi sdraiai sulla brandina. Con ovatta
imbevuta di etere, Willis mi tappò bocca e naso... Ricordo ancora la
sensazione sgradevole e dolciastra: gola e polmoni parevano soffocare. Già
avevo afferrato quel pezzo d’ovatta con le mani per strapparmelo via, ma il
dottor Willis cominciò a premere con forza ancora maggiore sulla mia
faccia. Per qualche istante credetti di morire asfissiato, poi di colpo
l’angoscia sparí: sentii che mi calava addosso una grande calma, qualcosa di
gioioso cominciò a vibrarmi dentro, una specie di onda di luce mi cantava
nel cervello. Intorno a me tutto pareva mutato: il misero ambulatorio del
Campamento aveva colori vividi e perfino l’angolo di desierto che vedevo
dall’ingresso aperto verdeggiava allegro. Per piú di un’ora ebbi
l’impressione che il mio corpo fosse piuma. Andai nella mia tenda e dormii
come un angioletto.

Adesso però torno all’albatro. Vedendolo soffrire, mi ricordai della mia


esperienza con l’etere. Andai a prendere la bottiglia nella tenda del medico,
in un momento in cui lui era assente. Misi dell’ovatta sul becco dell’albatro,
premendo premendo... Se doveva crepare, che morisse felice. All’inizio
sbatteva le ali, nervosamente, di sicuro l’aveva preso il panico; poi però si
rilassò: mi guardava con occhi brillanti che mi parvero esprimere
beatitudine. Rifeci l’operazione tre volte. Poi riportai il contenitore al suo
posto. Quando però tornai al casotto della dispensa, l’albatro non c’era piú.
Era volato via? L’etere gli aveva ridato energia? Non lo saprò mai. Mi piace
comunque immaginare che, ritrovando le forze, si librò in volo. A volte me
lo sogno che, grazie a me, ancora sorvola libero gli oceani.

Tre giorni dopo il medico doveva estrarre un dente e trovò la bottiglia


vuota. Ci fu un gran subbuglio. Mi sentii in colpa. Gli confessai che l’avevo
usato, anche se non gli spiegai il motivo. Disse che non mi faceva rapporto
solo perché aveva pena di me. Naturalmente mi diede del matto e tirò
moccoli. Per questo lasciai il Campamento in fretta e furia, senza
congedarmi da nessuno. Ché ancora adesso mi sembra di risentire gli urli di
rabbia del dottor Willis, mentre gridava che il mio comportamento era senza
senso.
Che potevo rispondergli? Da tempo avevo smesso di credere che la vita
avesse un senso. Per me oramai era solo questione di resistere nello scorrere
dei giorni.

Il mèt Campèna, cosí mi chiama l’infermiere Tarcisio... Certo che sono


matto. Sono andato troppo avanti nel pensare. È una malattia dello spirito
che né i medicamenti né il ragionamento possono curare. Vede, ingegnere,
qui nella mia testa, sotto la scatola cranica, si è aperta una finestra da cui
guardo un mondo che gli altri non vedono; anzi, che nemmeno sospettano.
Una finestra a cui sono condannato a affacciarmi, epperò quel che vedo è
dolore. Non si può tapparla o murarla; solo velarla, qualche volta, per
rendere piú sopportabile la vista: i libri e l’amore un tempo mi sono serviti
per questo; pure l’etere quando stavo al Campamento.
Ora però non ne ho piú bisogno. Sono in pace. Quasi.
Ventisei
Colle nostre lagrime facevamo le rose
Telefonata al dottor Sigmund Freud

Che piacere trovarvi in casa, dottor Freud. Era da tempo che volevo
chiamarvi per complimentarmi con voi. Avete infatti detto una cosa
sacrosanta: essere normali è la cosa piú difficile di tutte... Io non ci sono
riuscito, ragion per cui ora striscio cosí in basso. Sapete cosa dissero i medici
quando mi chiusero qui dentro? «Un esempio lampante di degenerazione
dovuta agli stravizi di alcol e caffè, di cattiva alimentazione, di poco dormire
e di male frequentazioni».
Queste parole me le sono annotate nel mio taccuino mentale. Perché devo
confessarlo: avrò perduto l’immagine e la somiglianza d’un uomo
intelligente, ma ho grande apprezzamento per le definizioni scientifiche.
Anche se, in fin della fiera, non so che pensare di una società che chiude
dietro alti muri chi non si adegua alla cosiddetta sanità. Alla maniera del
gatto che sotterra i propri escrementi.

Mi scuso per queste mie frasi forse un po’ confuse, ma stasera sono
stanco, oggi è stata una giornata di quelle difficili, come sempre succede
quando i nostri sorveglianti hanno piú malumore del solito. Comunque son
contento che non abbiano ancora inventato un telefono che oltre alla voce
trasmetta anche l’immagine di chi sta all’apparecchio, perché se voi mi
vedeste in questo momento, con la divisa marroncina di Castel Pulci
macchiata di sangue e la ferita che mi sbrega la faccia, non direste
certamente che questa stessa persona che vi sta parlando sia stata a suo
tempo un soggetto d’intelligenza brillante, una testa fina davanti a cui si
apriva una luminosa carriera artistica.
Ché adesso vi spiego la faccenda della mia attuale ferita. Stamattina mi
affaccio allo stanzino degli infermieri per chiedere se io e il Vincenzino
potevamo giocare a mondo. Ché, qui dove sto, bisogna chiedere il permesso
per qualsiasi stupidata. Ora dovete sapere che là dentro, sopra la sedia del
sorvegliante, stanno appese due grandi stampe, credo a mo’ di promemoria
per noi degenerati. La prima è divisa in tre parti uguali. Rettangolo numero
uno: un bambinetto in piedi su un seggiolino ruba la marmellata dalla
credenza; numero due: lo stesso personaggio divenuto un giovanotto
benvestito, tipo impiegato di banca, mette le mani dentro una cassaforte e
ruba del denaro; numero tre: il giovane è diventato ormai un cinquantenne
avvizzito che indossa la divisa di carcerato. In basso corre questa scritta:
Sarebbe stato un altro uomo se qualcuno l’avesse corretto! col punto
esclamativo finale. Insomma una di quelle stampe di poco prezzo che si
possono anche trovare nei libretti di catechismo, che ci mettevano in mano
da bambinetti: la storia di un fallimento tale da lasciare storditi; soprattutto a
causa di quell’uguaglianza – marmellata = banconote – che fa una certa
impressione. Non siete d’accordo, dottor Freud?
Ma non è finita. Sulla parete opposta c’è un altro quadro, stavolta
bipartito. Nella prima metà c’è un poveraccio – viso smunto, calzoni
sbrindellati, piedi nudi – che si tiene lo stomaco, perché evidentemente ha i
crampi a causa della fame. Il titolo è: Cosí finisce sua vita chi spreca. Nella
seconda metà c’è invece un borghesone pasciuto davanti a una tavola
riccamente imbandita, alle cui spalle si può vedere una cassaforte aperta e
strapiena di monete. La indovinate già la scritta?... Ovviamente proclama:
Cosí finisce sua vita chi risparmia.
Vedete, egregio dottore, ogni volta che metto la testa là dentro, non posso
evitare che l’occhio mi cada su quei due quadri. Robaccia pretesca, certo, ma
per me molto significativi: mi sembra che in un certo senso alludano alla mia
vita, ai rimproveri di mia madre che ripeteva: «Sei come la malerba! Se
persisti a fare il vagabondo, finirai in gattabúja un giorno o l’altro!»
Non voglio farla lunga, epperciò non starò a ripetere altre amenità che mia
madre mi snocciolava quando aveva i suoi cinque minuti di nervoso... Io
comunque ogni volta facevo spallucce, come Rimbaud
Je m’en allais, les poings dans mes poches crevées
Eccosí stamattina davanti a quelle immagini non sono riuscito a
trattenermi e ho detto al sorvegliante: «Siccome non c’è il due senza il tre, io
qui ci vedrei bene un terzo quadro: con codesto poveraccio che prende per il
collo il riccastro cicciuto e gli fa sputar sangue. E sotto la scritta: Cosí
finisce. Punto e basta. Senza aggiunte ulteriori».
Purtroppo il sorvegliante di oggi, che si chiama Calibàn, è uno zoticone
che i motti di spirito non li capisce. Figuratevi che si è alzato dalla sedia e
col manganello che tiene sempre sottomano mi ha dato un colpo in testa e mi
ha chiuso le mani dietro la schiena con il solito bracciale di contenzione. Al
medico che è accorso, il suddetto Calibàn ha poi dichiarato che io ho tentato
di prenderlo per il collo. Come se minacciassi lui stesso di un gesto che io
avevo proposto solo per metafora.

Siete ancora lí a ascoltarmi, dottor Freud? Sí? Bene. Volevo spiegarvi che,
riguardo a codesto terzo ipotetico quadro, di pura fantasia, non è senza
ragione che vi ho parlato. Perché io stesso una volta cercai di applicare una
tal pratica di ribellione con i miei genitori, ma la conseguenza fu che
entrambi mi radiarono dal registro della vita familiare.
Vedete, mi piacerebbe contarvi tutta la mia storia con ordine, ché forse la
potreste mettere in uno dei vostri interessanti libroni. Per me sarebbe un vero
piacere. Potreste, per esempio, intitolarlo: Il caso del poeta stamburato.
Ma poiché da un momento all’altro verrà a prendermi il sorvegliante per
accompagnarmi dal dottor Pariani, mi affretto a riferirvi solo l’essenziale,
confidando nel vostro intuito.

Ben sapendo dunque quanto vi interessino i sogni, ve ne offro uno, fresco


fresco di una notte fa. Ché ieri sera ho faticato a addormentarmi. Il pungente
mal di testa che mi aveva tormentato per ore non si acquietava, lo sentivo in
agguato sopra di me come la pesante scure di un carnefice. Son riuscito a
chiudere gli occhi soltanto verso il mattino. Non un riposo ristoratore, ma un
febbrile dormiveglia.
Ho sognato allora di essere in un grande giardino fiorito... Quand’ecco
vedo venire verso di me una figura gigantesca, una specie di orchessa dal
petto enorme. Non so come faccio a saperlo, ma intuisco che si tratta di mia
madre. Infatti, poco dopo sento la sua voce lamentarsi, al suo solito: «Da
piccolo eri un bocciolo di rose, adesso sei il mio spino!»
Intanto comincio a distinguere la sua faccia tetra e l’espressione losca
degli occhi. Ché via via mi si avvicina lentamente, ondeggiando. A quel
punto mi accorgo che, appena sfiora il terreno, l’erba e le rose deflagrano in
minuti frammenti di vetro, eppoi spariscono come se fossero stati ricoperti
da una fitta nevicata. Il giardino fiorito non è che un ammasso livido di gelo.
Cerco di gridare, mi sforzo, ma ho la gola serrata e chiusa da grumi di
sangue rappreso. Voglio raggiungere le rose, immergo le braccia nella neve
fino al gomito e sento freddo, un pungente terribile mortale gelo nelle vene,
nel petto e nel cuore.
Siete ancora all’ascolto, Herr Freud? Scusate l’interruzione, ma ho dovuto
recarmi a colloquio col dottor Carlo Pariani. Ho cercato di sbrigarmela il piú
presto possibile, però ci siamo infervorati in una discussione che vorrei
riassumervi, dal momento che mi pare significativa dell’incomprensione che
il suddetto dottore ha nei miei confronti.
Vedete, per andare a colloquio dallo psichiatra, devo passare per un
corridoio in fondo al quale si apre un finestrone con una bella vista sul
giardino: lí infatti posso gettare l’occhio su un vecchio rosaio rampicante.
Cosí ho fatto anche oggi. Epperò, mentre già ero quasi arrivato alla porta
dello studio dello psichiatra, mi sono bloccato: ho fatto dietrofront e sono
tornato indietro di corsa a dare un’ulteriore occhiatina alle rose dal
finestrone. Col risultato che l’infermiere sbraitava che stavo perdendo tempo
e facevo aspettare il signor dottore.
Confesso che, avendo parlato col suddetto dottor Pariani riguardo a
codesta mia esigenza di tornare indietro, mi sono sentito rispondere che si
tratta di un tipico sintomo ansioso: come quando, per esempio, uno esce di
casa, è già sulle scale, torna sui suoi passi per verificare se la porta sia ben
chiusa. So che esistono simili casi sventurati in cui i piú assurdi timori
aderiscono come polipi a un cervello malato, diventando infine ossessioni.
Invece no, nel mio caso non si tratta assolutamente di questo. Ché se sono
tornato sui miei passi a riguardare il rosaio appena lasciato, non è stato certo
per debolezza nervosa, ma semplicemente per un maelström, un gonfio di
sensazioni che con meraviglia è rimbalzato dai fiori fino a me. Capite, dottor
Freud? Per me era semplicemente una gran soddisfazione constatare che il
bel disegno di quei rami fioriti continuasse a esistere nonostante gli intrighi
di mia madre che ha sempre sostenuto che le rose cascano.
Non è vero.
Le rose esistono,
persistono,
non cascano.
Solo quando mia madre si mette di mezzo, possono sfiorire. L’anno
scorso, per esempio, mandò alcuni suoi scagnozzi vestiti da giardinieri a
sottrarmi le rose, per poi venderle al mercato di Faenza. Il mio cuore ancora
mi ribolle di rabbia, se ci penso.
Ma per oggi non voglio piú tormentarmi. Ché adesso io schiocco le dita,
faccio un minaccioso ringhio di denti per intimidire il mondo – «Che
nessuno si azzardi a toccare ciò che io reputo bello!» – eppoi,
tranquillamente posso darvi un allegro addio. Le rose esistono, dottor Freud:
ESISTONO,
PERSISTONO,
NON CASCANO.
Ventisette
Regio Manicomio di Castel Pulci
Aprile 1930

Il dottore questa volta ha cambiato strategia. Appena il malato è entrato


nella sala dei colloqui, l’ha fatto sedere davanti a una macchina da scrivere
in cui era infilato un foglio bianco. «Scriva, signor Campana... quello che
vuole: le sue rimostranze, le sue lamentele, ciò che oggi sente o che le
preme, insomma la verità del suo io... Come se fosse una lettera al mondo».
Poi l’ha lasciato solo, davanti a un quaderno dove sta annotato un brano
dei Canti Orfici:
dove un atomo lottava nel turbine assordante nel lugubre fracasso della
corrente irresistibile.
Carlo Pariani si è ritirato nella stanza attigua. Dalla porta aperta, il malato
lo vede darsi da fare a scartabellare un incartamento voluminoso.

Ma cosa vuole che scriva, dottore? pensa Dino Campana: lo sa o no che a


me riesce sempre piú difficile spremermi dalla testa anche solo una
frasettina?... Si torce le mani, sente passargli nella mente qualche parola
smozzicata, il frammento di un dialogo ascoltato stamattina tra due
infermieri che parlavano del tempo. Ansima, si alza per respirare meglio. È
cosí che ci si sente quando si è alla fine?... Eppure non sono finito, non è
possibile, è ancora troppo presto, eh no, bello mio, qualcosa so ancora
pensare, in certi momenti mi sento addirittura traboccare di immagini, ma
subito mi riprende l’apatia. Per quale motivo compiere la fatica di metterle
insieme, raccoglierle e fissarle sulla carta, renderle concrete?
Raccontare la verità del mio io? rimugina il malato. Cos’è l’io? Si fa
presto a dire io... Sono anni, da quando sta a Castel Pulci, che Dino non fa
altro che pensare a questo: ha sezionato il contenuto di tale concetto in tutte
le parti possibili, accorgendosi ogni volta di stringere un pugno di mosche,
perché la verità non l’ha neanche sfiorata... Quello che da giovane gli
rendeva la vita sopportabile era la libertà. Quando si annoiava in una città,
lesto si metteva in viaggio. A piedi perlopiú. Senza preoccuparsi del domani,
di stringere la cinghia o di dormire alla bell’aria o in un asilo notturno delle
dame di carità. Perché non si è fermato mai da nessuna parte? Starsene al
sole in panciolle, che altro può desiderare un uomo? Perché ripartire?... Non
lo sa. Ha sempre preteso qualcosa di piú di ciò che concretamente era
possibile ottenere, è sempre corso dietro a qualche fantastica lucina che,
attraente, balenava nel buio. Come quella volta da bambinetto, quando aveva
inseguito una lucciola che l’aveva incantato col suo tremolio; però,
acchiappatala, s’era reso conto con ribrezzo che era tutt’altro da quello che
lui cercava.

Il medico si è affacciato dalla porta, constatando che il malato è immobile


davanti al foglio ancora bianco. «Stia tranquillo, signor Campana, – dice
sorridendo, – non c’è fretta. Le frasi non scappano via. Si rilassi: vedrà che
le verranno fuori fluidamente».
È proprio questo a esasperare Dino: non esce niente dalla sua testa. Eppoi
che cosa grama essere l’oggetto dell’altrui premura, o magari pietà, va’ a
sapere!... Gli è mai piaciuto fare pena. Per esempio, anche quando la vita era
piú grama, mai ha mendicato facendo appello alla carità del prossimo,
limitandosi magari, se gli passava davanti un’allegra brigata di signorini, a
sbarrare loro la strada: «Mi appello a codesta gentile compagnia: voi avete la
possibilità di cogliere le rose della vita e a me toccano soltanto le spine. Voi
avete la pancia piena e io sono affamato. Voi bevete champagne e la mia
gola è secca. Aiutate un poeta, oggidí cavaliere del verde in bolletta!»
Sbottavano a ridere e sganciavano...
D’altra parte Dino non ha molta dimestichezza con i gesti caritatevoli nei
suoi confronti. Ché quando girava il mondo con la pancia che brontolava per
la fame, fantasticando di trovare per terra un portafogli gonfio perso da un
nababbo, non gli è mai capitato di incontrare un filantropo che amabilmente
gli dicesse: «Perché, bel giovane, avete una cera cosí mesta? C’è qualcosa
che vi tormenta? Vi posso aiutare in qualche maniera?»
Un tempo, dicono, certe persone, col borsellino pieno di písis epperò prive
di talento, pagavano un tributo agli uomini geniali ma poveri, sperando di
essere immortalati dagli artisti o di guadagnarsi almeno il regno dei cieli.
Oggi non c’è piú in circolazione gente di tal fatta.
Nessuno ormai fa niente per niente. Epperciò non si capisce perché sto
dottore non abbia ancora smesso di interessarsi a lui, che cosa lo spinga a
venire ogni tanto a trovarlo, che sentimenti provi nei suoi confronti. Ché, a
giudicare dalle manifestazioni esterne dello psichiatra Pariani, Dino non sa
proprio cosa pensare: quello strano modo di guardar dritto negli occhi,
fissamente e a lungo, quell’insistere sull’atto dello scrivere... Lei non sa,
dottore, quanto sia facile smettere di scrivere. Un tempo non avrei mai capito
perché Rimbaud abbia di punto in bianco buttato via la penna, invece adesso
lo so: si voltano le spalle alla pagina perché il mondo intorno a noi non si
lascia spiegare, la vita non può essere definita e racchiusa in una frase, ma
allora bisognerebbe fare un passo avanti e trarre delle conclusioni, e queste
sono sempre terrificanti.

Il medico gli sta chiedendo se non abbia bisogno di piú luce.


Sí, dottore, ha ragione: piú luce. Il buio non mi è mai piaciuto, lo trovo
opprimente, ché nella scurità la testa mi si affolla di pensieri molesti... Che
brutto la notte starsene sdraiato nel letto come un pezzo di carne inerte, con
le lenzuola che gli si appiccicano addosso. Suda spesso, forse perché
ultimamente è ingrassato, la pancia non ha ancora assunto proporzioni
esagerate, la salda muscolatura di un tempo continua a reggere, ma per
quanto ancora?
«È stanco, signor Campana?» chiede il medico sentendo i rintocchi delle
cinque del pomeriggio.
Il malato non risponde, si limita a far segno di no con la testa. Stanco?
Niente affatto. Anzi, è abbastanza gradevole starsene seduto a guardar fuori
da questa finestra, senza pensare a nulla in particolare. Il foglio infilato nella
macchina da scrivere è ancora bianco, e Dino sa – e anche il dottor Pariani sa
– che non ci verrà scritto niente. Meglio contemplare questo rettangolo di
cortile e non avere la mente turbata da alcunché, non letteralmente, certo,
perché poi a qualcosa si pensa sempre, ma cosí, senza impegno, come
scivolando sulla superficie delle cose.
Basta. All’imprevista Dino è stanchissimo, sfinito. La calma con cui poco
fa stava guardando fuori dalla finestra si è dileguata, la seggiola lo angustia e
gli sembra oltremodo scomoda, no, non poi tanto, ma toglie i piedi dalle
pantofole di pezza senza lacci che i malati hanno in dotazione, strofina un
piede contro l’altro, è sudato; forse emana anche cattivo odore, lui in effetti
non sente niente, ma non è detto, e non ci sarebbe da stupirsi se il dottore che
adesso si sta avvicinando gli dicesse: «Campana, puzzi da far schifo», come
sostiene certe sere quel porco di Calibàn. Ma sto dottor Pariani non dirà
niente, il malato ha imparato a conoscerlo ormai: se deve fargli notare
qualcosa, lo fa sempre per vie traverse.
«Consiglierò l’infermiere di darle una divisa pulita», dice infatti lo
psichiatra col solito sorriso.
Ventotto
Piú di qualunque altra donna... dei due mondi
Colloquio telefonico con Manuelita Etchegarray

Tante volte ho sentito gente discutere se noi esseri umani siamo viscere
dominate dal cervello o cervelli dominati dalle viscere. La carne è il nostro
terribile motore, tuonano i preti dai pulpiti. Ma, secondo me, non è la carne a
determinare i nostri comportamenti, bensí l’immaginazione: qui sta la
tentazione dell’assoluto, qui ha origine la febbre. È l’immaginazione che ci
rende schiavi...
Ho sempre odiato le barriere. Per questo venni in Argentina: volevo la
pampa infinita, senza termine tranne che il cielo. E come chiave della mia
voglia di immaginare senza limiti misi te, Manuelita, unica e irripetibile: mio
desiderio, mia seduzione, mia brutale sofferenza, mio castigo, furia che mi
brucia senza rimedio. Ché amarti, Manuelita, non è stata mai una cura per
me, piuttosto l’acutizzarsi della mia eccitazione,
Dolorosa palomita
Clavelito de ilusión...

¡Dino, no cantes eso! No cantes más, que las canciones me dan ganas de
llorar.

Che dolcezza sentire la tua voce, Manuelita... Chissà se qualche volta mi


hai pensato degno del tuo ricordo. Di certo la mia immagine è impallidita in
te, come una vecchia fotografia. Forse non ricordi piú con precisione i miei
occhi, in fondo li hai guardati cosí poco... Ma devo assolutamente dirti una
cosa: che l’ultima sera che passai a Bahía Blanca andai come al solito a
suonare il piano nel café chantant del mio amico Regolo Orlandelli. Lí ti
aspettai fino all’una di notte, ma quando al termine dello spettacolo alzai gli
occhi dalla tastiera, non c’era nessuno: non eri venuta pur avendomelo
promesso. Ricordo di essere scoppiato in lagrime senza riuscire a
dominarmi. Tutti mi guardavano con riprovazione, pure Regolo. Mi rendevo
conto di stare facendo una figuraccia, ma lasciavo che la mia testa si
chinasse in avanti, che le braccia mi penzolassero inerti lungo i fianchi, che
le lagrime cadessero sulla tastiera.
Hoy es un día en el que puedo pensar con claridad a nuestro amor y me
siento cansada.

Anch’io sono mortalmente stanco, Manuelita, nella vastità del silenzio di


questa cella di punizione che non è pampa, sotto questo soffitto buio che non
è cielo. Castel Pulci è il termine della mia corsa, finale e limite, espulsione
dal mondo, pura assenza. Qui niente può ricordarmi te, Manuelita, epperciò
proprio questo mi garantisce l’impossibilità di dimenticarti. Non posso dire:
quest’ippocastano fiorito mi rammenta la piazza di Bahía Blanca dove tu
sedevi a chiacchierare con le tue amiche, mentre i bambini correvano col
monopattino tra i vialetti piastrellati. E neppure dire: questo caffè mi ricorda
il locale dove ci demmo appuntamento la prima volta, col vecchio indio, cosí
bello nei suoi pantaloni di tela bianca e l’enorme arpa andina, seduto in un
angolo a suonare. Niente di tutto questo, perché intorno a me ci sono
soltanto muri grigi e muffosi. Non mi è data neppure la possibilità di
pensare: i capelli o il seno di questa donna rassomigliano alla pettinatura o
alle curve di Manuelita, perché da ore sono qui tutto solo. Nessun particolare
qui mi può ricordare te, carissima, epperciò tu sei presente in tutto.

Encontré debajo de un paraíso una paloma blanca que parecía muerta,


bien muerta. Me la puse en el pecho hasta que la palomita, por el calor de mi
cuerpo, revivió.

Mi dà pena pensare che, quando quella sera ci salutammo davanti alla


pasticceria La Piedad, nessuno dei due sapeva che non ci saremmo piú
rivisti. Tu non facevi che sistemarti le trecce rimettendo al suo posto un
ricciolo, per non sentirti a disagio col nervosismo delle tue mani. Da parte
mia, avevo l’impressione che le parole mi si asciugassero in bocca, la lingua
si faceva pesante, la saliva mi intoppava, il cuore impazziva. Pallido e
scosso, balzai sul predellino della carrozza che ti portava via, in qualche
modo presentendo che non avrei avuto piú occasione di vederti: epperciò
volevo parlarti della mia piccola nera sfortuna, temendo che in seguito
l’avrei dovuta tacere per l’eternità. Il cocchiere frustò i cavalli che partirono
di furia, non ce la feci: caddi, rimasi sul selciato della piazza a contemplare il
monumento al generale San Martín e le nuvole vaghe che correvano verso
ignote costellazioni.

Lo de la paloma es un sueño que hice la semana pasada. Me duele, porque


el final non fue bueno: vino una gran perra negra y se comió la paloma que
mi calorcito había sanado.

Come posso dimenticare la mia mano sul tuo braccio: sotto la seta della
camicia sentivo la levigatezza della tua spalla tremare sempre di piú. Il
formicolio dalle dita mi si spandeva per tutto il corpo... «Por favor, no, ahora
no, ahora no», dicevi, sempre piú debolmente. Che incanto le tue intimità
umide e scure che avevano il sapore dell’origine del mondo.
Dolorosa palomita,
Clavelito de ilusión.
El amor crece nel mundo
Durante todito el año.
Era una canzone cosí inesorabilmente triste, quella che cantava il vecchio
con l’arpa andina: a me sembrava dire che ognuno sta solo sospirando, e che
la natura – cielo, fiori, colombelle – non può che confermarci che l’amore è
sempre febbre, dubbio, vanità, crudeltà. Ché anche tu soffrivi, eri pazza di
gelosia.

Hize un mal sueño.

Manuelita, non sono i sogni a essere terribili, ma ciò che li provoca, e in te


agiva la paura che io amassi un’altra Bellabambina, solo perché una volta mi
avevi visto chiacchierare con una delle serventi morettine del negozio di
biancheria dove lavoravo; una povera bambolina di Hoffmann fatta in casa
con gli stracci, che stava tutto il giorno rattrappita sotto la lampada, a
eseguire rammendi... Non avevi proprio motivo di inquietarti.

¿Cómo? Se oye mal...


Stavo cercando di spiegarti che esistono in ciascuno di noi dubbi
tormentosi che nessun ragionamento può eliminare: risuonano all’infinito
nella mente, come dischi su un grammofono implacabile: sovente per ore,
addirittura per giorni interi, continuano a ripeterne il motivo. Qualsiasi cosa
allora – anche l’aprirsi di una porta, la caduta di un oggetto, lo spostarsi di
una sedia – diventa parte di quella musica infernale... Adesso però lascia
finalmente che ti racconti ciò che successe veramente. Ché ogni uomo ha dei
diritti su ciò per cui ha rischiato. E, pur con tutte le mie esitazioni e sbagli, io
mi misi interamente in gioco per te. Vedi, oso dire tutto, parlo come quelli
che stanno per morire, e non per una buona causa; vergognosamente, con
una sentenza di pazzia... Epperciò tu adesso devi stare a ascoltare la mia
storia fino in fondo. Ché se io mi ero fatto assumere come commesso in quel
negozio di lingerie, era soltanto per avere qualche soldo di piú in tasca, in
modo da offrirti ogni tanto un regalino... Sembra facile e leggero, quel
lavoro, ma provaci tu. Prima di tutto per l’intera giornata uno se ne sta in
piedi, senza nemmeno il tempo di andare alla latrina. Del resto i commessi
anziani mi spiegarono fin dal principio che è meglio non sedersi, altrimenti
ci si infiacchisce. I primi tempi, quando andavo a letto, la schiena e le gambe
mi facevano cosí male che avrei gridato. Eppoi ci vuole una memoria
particolare: che taglia ha richiesto la cliente, che colore, perfino quale
sfumatura; e non scordarsi il materiale: cotone, seta, organza, pizzo... Poi,
quando al commesso tocca preparare il conto, bisogna rammentare tutto: se
uno si imbroglia, l’acquirente si stizzisce.
Senza tralasciare la questione dei séparé dietro cui signore e signorine si
svestivano per le prove... Io mantenevo un contegno discreto e disinvolto,
come se le clienti non fossero state di carnesangue ma manichini di gesso.
Magari qualche spiatina la facevo, ma uguale ai miei colleghi, da un buchino
del tramezzo, per guardare le donne che facevano le prove davanti a un
grande specchio. Però mica per malizia. Solo per dovere professionale. Ché
forse le signorine di Bahía Blanca pensavano che noi commessi fossimo tutti
dei bietoloni che non capivano nulla. Invece noi sapevamo tutto: chi non
aveva polpe ma si comprava biancheria imbottita, chi si infilava in borsa un
paio di indumenti per non pagarli, chi spettegolava sulla cliente precedente,
chi lasciava debiti, chi era tirchia nel dare mance. Se poi una signora veniva
al negozio con accompagnatori diversi, puoi star certa che a noi commessi
bastava un’occhiata per capire quale fosse il marito e quale l’amante.
Certo tu adesso dirai che la faccenda dello spiare fu un fatto grave... Solo
in apparenza. Prova a leggere quel tal racconto di Hoffmann e, oltre la
pagina, vedrai me chinato davanti al buchino del tramezzo, intento a
indagare sull’altro lato della vita, quello del mondo muliebre, perturbante e
febbrile, ma anche stravagante e perfino comico. Epperciò il mio fu solo un
gesto infantile che non meritava una condanna cosí dura come il
licenziamento e la gogna della riprovazione universale.
Dicono al mio paese: invàn si pesca, se l’amo non ha esca... E io di esche
con te non ne avevo proprio.
Eccosí dovetti andarmene anche da Bahía.

Sería mejor el olvido...

Te l’ho già detto, Manuelita: non cerco la dimenticanza, ma la


sublimazione della mia febbre per te, che cresce comprendendo ogni
molecola d’aria, ogni granello di polvere di Castel Pulci, ogni mio pensiero.
Ché io sono qui rinchiuso, ma per fortuna l’immaginazione è ciò che mi fa
sentire libero.

Antes dijiste que la imaginación esclaviza.

Quello che ci rende schiavi può anche liberarci.

Y lo mismo que nos libera puede esclavizarnos...

Lo vedi, Manuelita, come ci capiamo al volo?... L’immaginazione in ogni


caso è una ferita, ma diversa da tutte le altre. Mi hai fatto perdere la testa,
epperciò ti ho amata di un sentimento unilaterale che si ancorava al dolore
che mi provocavi. E forse, proprio perché nel giraruota della vita il mio
amore per te l’ho vissuto solo nel chiuso della mia fantasia, possiede
un’assolutezza e un ermetismo – una statica grandezza? – che mi fa ancora
tremare e affermare che ti ho amata piú di qualunque altra donna dei due
mondi.
Ventinove
Regio Manicomio di Castel Pulci
Aprile 1930

Dal letto, dove sta sdraiato, il malato gira lentamente lo sguardo verso il
dottor Pariani. Alza una mano tremante, la riabbassa. Torna a guardare il
soffitto parlando come per sé solo: «Ci sono troppi topi qui a Castel Pulci. Li
sento ogni notte: corrono nei muri, si fermano quando si accorgono che mi
metto in allarme, attendono che io torni a sdraiarmi, annusano il silenzio
eppoi ripartono al galoppo». Guarda fuori dalla finestra. «Nel cortile c’è un
cavallo. E sopra il cavallo, un can barbone. Sopra il cane un gatto, sopra il
gatto un gallo... Tra un po’ vedrà sbucare la testa del gallo dalla inferriata...
Mi spiano», aggiunge sottovoce.
«Le fa ancora male la testa?» domanda il medico.
Il malato fa segno di sí col capo. Spiega che è colpa delle energie che sta
sprecando a causa della politica sovietica: «Ché il cadavere di Lenin sono io
che lo mantengo intatto con le onde del mio cervello. Per questo la polizia
marconiana è venuta a pestarmi, mi ha dato una scarica fortissima e mi ha
consigliato di sparire. Ma non saprei dove andare: sono cosí stanco, non ho
piú voglia di cambiare. Un tempo era diverso, saltavo su un treno e via. Ho
girato il mondo, ho conosciuto russi, americani, francesi, molti erano del tipo
suggestivo, ci andavo d’accordo perfettamente. Però non voglio che si
disturbino a venire a trovarmi. Ora sto bene qui con la mia macchina per far
andare indietro il tempo. Anche se a volte mi dico: perché mi do tanto da
fare per creare ste macchine?... Dottore, c’è qualcosa di fondamentalmente
sbagliato nella razza umana, non crede? – alza l’indice con l’aria ispirata,
come se dicesse una profonda verità. – Ché vi sono dei matti saggi e dei
saggi matti. Non lo sapeva, dottor Pariani?»
«Andiamo, signor Campana, è tardi: è l’ora di spegnere le luci. Se tutti i
pazienti fossero come lei...»
«C’è qualcosa di terribile nella parola “paziente”. Non crede, dottor
Pariani? Paziente... Suppongo che venga da pazienza. Essere malati è una
faccenda noiosa e i pazienti sono persone che devono avere pazienza... “La
pazienza vince la scienza”, diceva mia zia», ride il malato, come se
pronunciasse la battuta piú divertente del mondo.
Trenta
Sulla pampa nella corsa dei venti
Commento per l’Ipocrita Lettore

Il dottor Carlo Pariani mi ha messo davanti un testo che si intitola Pampa.


Mi ha chiesto di glossarlo per un ipotetico lettore.
Epperciò,
Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!
ti racconterò come mi ritrovai a fare il fuochista su un treno che traversava
l’America.
La mia vita dopo il fallimento di Bahía aveva perso di nuovo la sua
traiettoria. Che mi restava da fare? Il dente va cavato quando duole. Eccosí
andai al porto. Alla stazione, c’era un convoglio che partiva; non ci pensai
due volte, chiesi se avessero bisogno di braccia. Sí, volevano un peón,
giovane e saldo sulle gambe, per la condotta della caldaia. Fui ingaggiato nel
giro di un paio d’ore.
Imparai in fretta: mi affiancarono a uno scozzese che era già al decimo
viaggio.
Un lavoro faticoso... Quando la macchina è spenta, bisogna prima
accendere il forno con legna e stoppacci, poi controllare che la caldaia sia
riempita d’acqua al punto giusto. Una volta che il fuoco ha preso bene, si
comincia a aggiungere carbone per preparare il cosiddetto «stazionamento»,
facendo attenzione che la pressione salga lentamente. Il tutto per tre ore.
Finché la locomotiva è ferma, è un lavoro che saprebbero fare tutti: devi
soltanto lanciare bene la palata di carbone nel portello aperto e rastrellare le
scorie coi ganci oppure stuzzicare il fuoco quando sta per spegnersi. Una
volta che però il treno si mette in marcia, la musica cambia. Ché devi passare
di continuo dalla locomotiva al carro di appoggio, dove stanno l’acqua e il
carbone. Il gancio di trazione è solo una catena che oscilla e tu stai in
equilibrio con un piede sul tender e l’altro sulla piattaforma della cabina.
Eppoi devi tenere sempre d’occhio la caldaia, perché l’acqua non manchi
mai. Apri la valvola, ma guai se il forno si raffredda: e allora, dàgli e dàgli a
spalare... Alla fine del servizio non sai piú quante tonnellate hai buttato in
quel maledetto forno. E ovviamente sei nero di polvere, da capo a piedi.
Anche quando il treno si ferma a una cisterna o una carboniera, ci hai il
tuo bel daffare. Però nel turno di riposo te la godi intera: con le mani
incrociate dietro la nuca, sdraiato su un bancale, il vento del desierto tra i
capelli... Ti senti vivo. Ché mentre la macchina trasporta il suo carico
puzzolente – Sangre seca de vaca, molida para fertilizante. Cueros.
Costillares descarnados... – tu ti rendi conto di essere diverso da tutti: non
hai casa o campo a cui restare abbarbicato, sei libero come un uccello. Le
stelle fuggono sopra la tua testa, la pampa nera e selvaggia ti abbraccia.

Tale sensazione di assoluta libertà durò una settimana intera. La macchina


via via s’impossessò di me, facendomi dimenticare me stesso: mi sembrava
quasi di non sapere piú chi ero stato un tempo e dove. Cancellate di colpo
tutte le pene dell’anima... Perché adesso parlo di anima? Parola preistorica
che sa di muffa. La adopero per convenzione, ma sappiamo bene entrambi –
io e te, lettore – che l’uomo non possiede anima, è semplicemente un
composto di muscoli, vene, ossa... Certo il funzionamento del cervello anche
a detta dei medici ha un meccanismo estremamente sofisticato. Chi lo sa,
forse è meglio non toccarli, certi argomenti, non approfondirli, una persona
se si mette a pensare a ste cose si perde completamente, dà fuori di matto.
Comunque io quella settimana non rimuginai, né sognai. La notte mi
sdraiavo sul bancale, guardavo la Via Lattea e sentivo dentro di me il
movimento del treno: lo sferragliare rotondo delle ruote, il vampare del
fuoco, lo sbuffare del camino, lo stridere sabbiato dei freni: tutto un
vorticoso romorío che mi avvolgeva come in una nebbia sonora. Brandelli di
paesaggio comparivano d’un tratto, deboli e smorzati, e subito sparivano
come vane ombre:
che la corsa penetrava, penetrava con la velocità di un cataclisma: dove
un atomo lottava nel turbine assordante nel lugubre fracasso della corrente
irresistibile...
Ogni mattino tornavo dunque al lavoro con vigore, spalavo con infinita
cura, provando un’immensa tenerezza per la macchina che facevo muovere.
Non badavo alla terra selvaggia che il treno traversava, agli uomini che
accorrevano alla locomotiva durante le soste alle torri d’acqua: san Treno –
potente e terribile – comandava, e tutti noi dovevamo obbedirgli.

Poi avvenne l’incidente. Un pomeriggio di caldo sfinente, col sole che


abbagliava. Il macchinista in cabina non vide – o forse vide ma non se ne
curò – un carro che si accingeva a traversare le rotaie. Fischiò, ma il carro
non si mosse. La locomotiva lo investí in pieno, eppoi deragliò. Fummo
costretti a spegnere tutto.

Sul carro c’era un uomo. Doveva avere una cinquantina d’anni, ché già i
capelli gli erano tutti ingrigiti. I suoi occhi serrati dal dolore e dalla
coscienza di stare morendo si aprirono per guardarci. Le labbra gli
tremarono in un ultimo pensiero: «Italia... Giovanna...» Poi si irrigidí
boccaperta.
Un cavallo era morto, l’altro no, ma era rimasto incastrato sotto il carro.
Lo vedemmo girarsi verso il compagno e il padrone, annusare la morte e
dare un balzo, cercando di strapparsi via dal carro sfasciato, a scossoni
terrorizzati, come sotto una pioggia di frustate. Aveva occhi iniettati di
sangue e sul collo la criniera gli si agitava selvaggiamente: impossibile per
noi avvicinarsi, ché batteva disperatamente gli zoccoli sferrando calci in
tutte le direzioni. Cercò di sganciarsi dall’attacco, con furia tale che la zampa
posteriore andò a incastrarsi tra i raggi di una ruota. Sentimmo il rumore di
un osso che si spezzava. Di sicuro soffriva terribilmente, ciò nonostante non
smetteva di dare balzi rabbiosi. Quando il suo furore cominciò a diminuire,
lo scozzese gli si avvicinò e constatò che si era azzoppato: sopra lo zoccolo
un osso aguzzo della pastoia sporgeva e, a causa del frenetico dibattersi della
bestia, aveva reciso la pelle.
Eravamo tutti sbigottiti, il macchinista piangeva e non si dava pace.
Nessuno di noi sapeva spiegarsi come mai il carro fosse rimasto fermo,
come aspettando il treno. Forse l’uomo dormiva, o non era capace di
calcolare le distanze.
L’unica cosa da fare era togliere il carro di traverso sulle rotaie e rimettere
la locomotiva sul binario. Ma prima di tutto bisognava seppellire il morto,
perché sopra di noi aveva cominciato a roteare uno stormo di avvoltoi
carognoni. Scavammo una buca abbastanza profonda e ci buttammo il
cadavere che poi ricoprimmo accuratamente perché non fosse pastura per i
rapaci. Qualcuno si inginocchiò, tutti ci togliemmo i berretti, un piemontese
che lavorava come lampista recitò una preghiera a alta voce: «Deh, buon
Gesú, non perdete quest’anima che voi avete creata col vostro soffio...»
Le parole risuonarono nel desierto calcinato che ci circondava. Il cavallo
ancora vivo nitrí, quasi a commentare il requiemmeterna. Di certo era
spaventato dai mangiacadaveri che si erano posati a una ventina di metri da
noi e saltellando lentamente andavano avvicinandosi, piegando curiosi la
testa come per studiare la situazione. Il nostro affaccendarci intorno alla
locomotiva non sembrava affatto preoccuparli, né erano intenzionati a
desistere: ma forse succede cosí anche per gli esseri umani, perché
l’imperativo dello stomaco è sempre piú forte di qualsiasi paura.
Il piú intraprendente degli avvoltoi giunse a pochissima distanza dalla
testa del cavallo già morto. Allungò il collo sulle narici della sua preda, da
cui spenzolava un coagulo di sangue. Poi, con spavalderia, saltò sul muso
del cavallo e diede una beccata a quegli occhi ormai spenti. Fu il segnale per
gli altri avvoltoi che si avventarono sulla povera bestia. Costole, zampe,
cranio: tutto fu metodicamente spolpato. E ciò avvenne sotto lo sguardo
terrorizzato dell’altro cavallo che smaniava per liberarsi.

Finalmente qualcuno riuscí a sganciare dal carro la bestia azzoppata.


Purtroppo non c’era piú niente da fare. Eppure quell’animale tentò di
scappar via, sbilenco su tre zampe, scuotendo la criniera e nitrendo. Dopo un
breve tratto però cadde in avanti restando in ginocchio sulle zampe anteriori.
Da lontano, nel crepuscolo che avanzava sulla pietraia grigia del desierto,
vedevo gli avvoltoi roteare lentamente su quel semicadavere, che presto
sarebbe stato polvere, nulla.
Mangiai di malavoglia, bevvi birra calda. Il giorno si spegneva
velocemente e su me precipitò la notte insieme allo sconforto.

Mi allontanai dal treno, inoltrandomi nel buio. Corsi, mi buttai a terra


ansimando, ché in mezzo a un disastro l’immobilità è il piú intelligente stato
di natura... L’esaltato senso di libertà – corsa cieca fantastica irrefrenabile –
che mi aveva pervaso nei giorni precedenti sembrava essersi completamente
dissolto... Alla luce della luna, che intanto si era alzata come un’enorme
polenta gialla sull’orizzonte, intravidi tra l’erba secca un teschio spolpato
dalle cui orbite vuote fuorusciva un ramo spinoso carico di fiorellini. Lo
carezzai, come da bambini al buio si stringe tra le mani un pupazzo, per
trovare un appoggio nel mistero della notte. Qualcuno lí era morto, ma
qualcosa era rimasto, atomi di ciò che era stato il suo corpo continuavano a
vivere e fiorire...
Poi qualcuno dal treno chiamò: «Campana! Campanaaa!!»
La voce dello scozzese correva raso terra fino a me, si apriva un varco tra
l’erba secca del desierto, mi raggiungeva, mi colpiva come uno schiaffo o
una raffica di vento selvaggio. Quasi un cataclisma. Inutile tapparsi le
orecchie per non udire.
Una voce potente piena di rabbia. Non era lo scozzese. Per un attimo mi
parve l’urlo di mia madre, di quel dio tuttopoderoso della mia infanzia
sormontato dal suo triangolo di luce: «Campanaaa!!»
Dove credi di andare, Campana? Recita pure il teatrino della fuga, ma non
sarai mai libero. Un avvoltoio o tua madre o un orribile occhio divino verrà a
scovarti. E ti ucciderà!... Non c’è scampo per te. Non c’è possibilità di fuga
per nessun essere vivente, umano o animale che sia.

Cercai di tirarmi su da terra, di mettermi seduto nell’ovatta di luce che


pareva circondarmi. Il desierto aveva l’aspetto di un pavimento a losanghe
bianche e blu. Perché mi sentivo cosí debole? Forse sto sognando, mi dissi:
sto certamente sognando... Fu allora che ricordai il momento in cui il vento
si era abbattuto su di me, spezzandomi. Ero inciampato, caduto, avevo
l’impressione di una certa ferrosità sulla lingua. Probabile che avessi battuto
la faccia, mi doleva orribilmente.
«Campana, cosa fai lí per terra?» gridò qualcuno alle mie spalle.
Mi voltai e il gesto mi provocò dolore in tutto il corpo.

«Campana, ti decidi o no a alzarti?»


La faccia di Calibàn china sopra di me mi riempie di disgusto.
«Io... io...», le parole non mi escono.
«Dategli un po’ d’aria, – sento dire. – Dev’essere svenuto».
Mi circonda una selva di gambe fasciate nell’uniforme manicomiale.
«Allora, cosa ti è successo, Campana?»
Oh, se lo sapessi. Cerco di raccontare: «Correvo col treno, nella pampa...
Abbiamo investito un cavallo... Com’è possibile che un minuto fa fossi in
America e ora mi ritrovi qui?»
Calibàn fa un mezzosorriso maligno. Guardo in alto. Volti smunti e
scimmieschi di degenerati. Il Vincenzino dondola il suo testone pelato e pare
sul punto di piangere.
«Ti sbrighi o no? Alzati, che mi spaventi gli altri!» urla una voce
minacciosa.
«Ero in America, avevo vent’anni, correvo...»
«Te la do io l’America, se non ti alzi subito!»
Un braccio mi strattona in piedi con violenza.
Allora capisco dove sono.
Trentuno
Tutto tutto si annega nel dolce rumore dell’ali
Lettera a voi, o forse a nessuno

L’impacco freddo che ti hanno messo sulla fronte per calmare la febbre
sembra darti un po’ di sollievo. Ogni tanto farfugli qualche parola sul buio:
forse ti dà fastidio che la pezzuola bagnata ti impedisca di vedere la
stanza?... E allora? Meglio cosí, Dino, tanto cosa ci sarebbe da vedere? il
soffitto dell’infermeria? le grate alla finestra?
Réstatene lí tranquillo al buio, come in una tana segreta, dove pensare e
scrivere lettere al mondo, senza che nessuno ti disturbi.

Scurità completa. I miei occhi cercano un punto di riferimento, il pezzetto


di cielo quadrettato che normalmente vedo nella finestrella di fronte al mio
letto. Invece niente. Forse sto dormendo, mi sembra di essere immerso in un
liquido denso buio vischioso, da cui non so uscire. Devo svegliarmi, alzarmi,
risalire alla superficie di questa schifosa sostanza che mi soffoca. Mi proietto
verso l’alto e alla fine, come un nuotatore che dal profondo risale in apnea e
finalmente riesce a tirar fuori dal mare la testa, tiro un lungo respiro di
sollievo e apro gli occhi: scurità completa. Ma cosa sta succedendo? Dove
sono? Come mai queste tenebre? Non capisco.
E di chi è questa voce incerta e remota che chiede: «Mi senti, Campana?»
Fatico a respirare, le parole non mi escono. Dottor Pariani, è Lei? Tanto
tempo che non veniva a trovarmi... Anni, mesi, non so piú, ho in testa una
tale confusione. Dove mi trovo? Mi sforzo di ricordare dov’ero quando mi
sono addormentato, sicuro che prima o poi troverò una spiegazione per
questa scurità totale. Tante volte nella mia vita ho provato lo sconcerto di
svegliarmi in un luogo irriconoscibile: dopo una sbronza, per esempio, o un
imprevisto incontro notturno che mi aveva portato a casa di uno sconosciuto.
Ma adesso mi sembra che sia diverso. Sono a Castel Pulci, non è vero?
Qualche giorno fa mi hanno trasferito in infermeria per la febbre, quindi...
Che quei bastardi mi abbiano dimesso all’imprevista, abbandonandomi da
solo nel buio del mondo?
Mi metto in piedi, ho male dappertutto, che freddo, incontro la parete, a
tastoni, a piccoli passi cerco una finestra, una porta, la chiavetta della luce
elettrica. Mi ci vuole un po’, il muro è lungo e nudo, nessun mobile,
l’angoscia mi divora, ecco finalmente una porta, abbasso la maniglia.
Niente: altro buio e altro freddo.
«Oggi sarai con me in paradiso», chi sta dicendo questa frase? Sono forse
in una chiesa? Ne ho viste di cappelle scure tetre ghiacciate, quando da
piccolo seguivo mia madre nelle sue noiose novene. Ma da adulto non ho
mai piú voluto avere a che fare coi preti, io. Il paradiso poi mi ha sempre
fatto un po’ ridere: tutto quel darsi da fare in sacrifici e in luccicori di virtú,
per poi finire a cantare per l’eternità infilato dentro un bianco camicione
svolazzante... Sai che divertimento marcondíron dirondèro: già da piccolo
l’idea di passare un’ora a cantare in coro con i compagni di classe mi
metteva i brividi, figurarsi doverlo fare per un tempo infinito. No, non ce n’è
di paradisi per me. Chiunque sia, se ne vada! Via, sciò!
Procedo di nuovo a tastoni lungo un’altra parete completamente spoglia
fino a arrivare a una seconda porta, ma quando l’apro la situazione non
cambia: buio e freddo. Mi lascio scivolare a terra tremando, sono
decisamente spaventato. Dove sono finiti tutti? Sto male. E non c’è nessuno
che mi aiuti. Un brivido di silenzio stagnante, sensazione straziante di
abbandono... Ma perché mi succede di rimpiangere la presenza altrui? Forse
che c’è a questo mondo qualcuno che mi ami? Per anni sono passato in
mezzo agli altri, disorientato, nauseato anche, nel migliore dei casi
indifferente. Tremo, vorrei una coperta, una borsa dell’acqua calda, un
materasso confortevole come un dolce tranquillissimo morbido seno su cui
poggiare il capo e addormentarmi.
No, devo farmi forza, cercare un’uscita. Avanti, nuova stanza, altra parete
nuda, terza porta. Da quanto tempo dura la mia ricerca? Ore? Tutto somiglia
a qualcosa che ho già provato e conosciuto, in un luogo lontano da qui; ma
quale? Da piccolo mia madre mi insegnava che l’inferno era buio, lagrime e
stridor di denti. Sono nell’aldilà tra i demòni? Davvero l’inferno è questa
miseria in cui mi dibatto?
«Buio, pianto e stridor di denti è soltanto una metafora del morire: una
semplice espressione per indicare il momento del passaggio da uno stato
all’altro, la porta stretta che da questa vita mortale porta a quella eterna».
Chi parla? Accidenti a te, fatti vedere!
Mi sento sfinito, non posso piú continuare. Ho ghiaccioli sulle dita delle
mani.
L’infermiere ti si avvicina per provarti il polso. Il viso aggrottato,
insofferente. Uno sbadiglio. Scuote la testa con aria scontenta: la febbre non
è calata, e per soprassello sei molto agitato. Si rimette a sedere a capo del
letto riprendendo la pagina del giornale che stava leggiucchiando nello
sforzo di rimanere sveglio. Con un sospiro dà un’occhiata all’orologio:
com’è lunga sta notte di fine inverno, e fredda.

Dietro la quarta porta intravedo una striscia di luce. Era ora!!!


Ecco, lo sapevo che non dovevo gridare: mi è tornato il sangue dal naso.
Spingo la porta con ansia.
«Oggi sarai con me in paradiso».
Ebbàsta con sta storia del paradiso!
«Il paradiso è dove uno è stato piú felice».
Insomma chi parla?
«Il paradiso è dove uno è stato piú felice».
Se davvero è cosí, il paradiso è sulla strada. Sempre mi sono sentito
leggero e col cuore puro appena uscivo da Marradi e, al contrario, mi si
strizzava lo stomaco quando ero costretto a tornare a casa. Marradi non era
la patria, ma piuttosto l’esilio dalla vita vera. Benedetto l’anno 1907 quando
mi imbarcai per l’America: mi piace ripetermi adesso quella data, come se
fosse un oggetto prezioso e fragile, tutto mio.

«Campana, riesci a sentirmi?»


Adesso ricordo dove ho sentito la tua voce: sul ponte di Berna guerriera,
quando una signora bionda si innamorò dei miei occhi da fauno, e a me
venne la voglia improvvisa di buttarmi giú nell’abisso dell’Aar.
Oppure no, l’ho sentita nell’ardore catastrofico della Banda Oriental,
quando non trovavo neanche un goccio d’acqua da bere e mi lasciai cadere
sulle dune rassegnato a morire di sete, finché dal nulla sbucò uno
sconosciuto a cavallo, che mi offrí un lungo sorso alle sorgenti dell’Oblio.
Sei angelo o diavolo? E io chi sono? Io sono me?

Luce, luce... Pulsare fortissimo nelle tempie, sbattere di ali di albatri, la


sera fumosa d’estate che nel cuore ti lascia un suggello ardente, ma alla
Madonnina del Ponte chi ha acceso la lampada?
«Oggi sarai con me in paradiso. Vieni...»
Smettila. Non voglio andare da nessuna parte io, o forse semplicemente
sotto terra, una volta ho visto un teschio nel deserto, ci aveva attecchito una
piantina stenta con un piccolo fiore rosso in cima. Si muore, si va a
ingrassare la terra da cui spunterà un fiorellino. Questo mi basta. La vita
eterna non mi seduce. Figurarsi: dover reincontrare dall’altra parte i caproni
e i maramaldi che mi hanno rovinato la vita.
«In paradiso non ci sono critici».
Be’, è già qualcosa.

«Il paradiso è dove uno è stato piú felice».


Allora ci ritroverò quello che ho amato: i prati di maggio quando il sogno
e il profumo velavano le stelle, il sapore delle fragole appena colte, i denti di
perla di Olimpia, la voce commovente di un ubriaco che cantava amore a
una persiana chiusa, lo splendore del Monte Rosa intravisto una sera dal
treno lungo il lago d’Orta, lo sfolgorio di un incendio nella pampa, il
terribile odore del mare, la voce di un prigioniero russo che recita una poesia
sulla chimera, lo sferragliare delle giostre di Faenza, lo sfrigolio della
pastasciutta in padella alla fine di una giornata di lavoro, il fresco di una
stanzuccia bolognese mentre fuori soffia scirocco, il papavero che mi regalò
una bambina dagli occhi impavidi – la piaga delle sue labbra ardeva nel suo
viso pallido –, le foglie secche del platano che scricchiano sotto le papuzze
quando scendo in cortile, la rosa che sta per sbocciare dietro l’inferriata
dell’infermeria.
Tra poco sarà primavera, è già marzo o no? da quanti giorni ho la febbre?
Mi piacerebbe credere che sto raccontando una storia. Ho bisogno di
crederci. Se uno crede in quel che dice, forse ha qualche possibilità di
cavarsela. Se è una storia che sto raccontando, posso scegliere il finale. È
vero che non ho nulla con cui scrivere, ma anche se questa vicenda sta solo
nella mia testa, è destinata a essere narrata e ascoltata da qualcun altro.
«Memoria de uno solo no sirve para nada», mi ha detto una volta qualcuno
in Sudamerica... Non puoi raccontare una storia soltanto a te stesso, e
nemmeno a nessuno. Una storia è come una lettera... A chi?
Potrei intestare sta lettera scrivendo: A voi. Ché voi significa piú d’uno,
migliaia, milioni... Facendo finta che voi mi possiate udire, leggere.
Ma è inutile, so bene che non potete.
«Vieni, vieni!»
No, non ancora.
«Vieni!»

Basta. Perché aspettare? Meglio uscire da questa stanzetta angusta. Via da


qui. Il soffitto si è aperto, che luce vertiginosa. Vedo laggiú nell’angolo il
mio letto di ferro, minuscolo, e sopra di me il cielo puro e deserto, senza
ombra alcuna. Eppoi sento suonare il campanello. Il grido: «È andato!»
Avverto con gioia il tenue fruscio del bocciolo di rosa che si sta schiudendo
nel cortile di Castel Pulci, dietro l’inferriata dell’infermeria.
Noterelle.
Della tragica vicenda di Dino Campana (Marradi, 20 agosto 1885 - Castel Pulci, 1 o marzo 1932) è
stato raccontato molto. Questo romanzo si occupa di un grande buco nero che tutte le biografie
sottolineano. Infatti nel 1907 Dino Campana vista il proprio passaporto per l’espatrio in Argentina, poi
per molti mesi scompare. In nessun archivio sudamericano esiste però una traccia precisa di quel
viaggio, anche se in alcune sue pagine splendide restano visioni di un Sudamerica sognato /
immaginato / sentito raccontare – vissuto? – con un desiderio febbrile di libertà.
Forse, la vera testimonianza del viaggio è la dichiarazione di una zia secondo la quale, quando
Dino l’anno successivo ritornò a Marradi, portava legata alla vita «una lunga fascia colorata», uguale
alle cinture che usavano i gauchos.

Piú nell’ombra è la vita dello psichiatra Carlo Pariani, nato sul lago Maggiore, a Intra, l’8
novembre 1876. Appassionato d’arte e di poesia, visitò Dino Campana internato nell’Asilo di Castel
Pulci per una decina di volte. Degli incontri, che vanno dal novembre del 1926 all’aprile del 1930,
rimane testimonianza nel testo Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli
scultore, pubblicato da Vallecchi nel 1938. Su tale libro l’ambiente letterario ha dato giudizi molto
severi, derivanti forse da un senso di colpa diffuso verso Dino Campana, cosí spesso maltrattato e
dimenticato dai critici. Mario Luzi ne dirà che soltanto «un senso di sincera commiserazione e di
disgrazia salva la grettezza di questo documentario» («Il Bargello», 28 maggio 1938). Unico effetto
della pubblicazione di Carlo Pariani sembra essere l’iniziativa promossa da Bargellini su
«Frontespizio» per dare una tomba al poeta, che finalmente fu sepolto a Badia a Settimo nel marzo del
1942.
Carlo Pariani però non fece in tempo a vedere quella lapide: era morto a Laveno Mombello, sul suo
lago, il 12 agosto 1941.
Il libro
«Cosa resta a fare un giovane in questa
Europa decrepita? Meglio l’America col suo
azzardo dell’ignoto: quando piove, chi non ha
casa se la trova...»

Un intensissimo romanzo su Dino Campana,


negli anni di reclusione nel cronicario di Castel
Pulci. Al centro la follia, il genio, il viaggio (mai
provato) del poeta in Argentina. Un libro in cui il
ricordo diventa visione, racconto reale o
fantastico di un mondo piú vero del vero.

È il 1907 quando Dino Campana fugge da


Marradi alla volta di Montevideo e poi
dell’Argentina. Dato che di quel viaggio non
esistono fonti certe, Laura Pariani ipotizza un
percorso che dalle rive del Paraná lo porta ai
bordelli di Rosario fino ai cantieri ferroviari di
Bahía Blanca.
Come succederà mezzo secolo dopo al
giovanissimo Che Guevara partito a conquistare
il mondo su una motocicletta, per il ventenne
Dino il vagabondaggio attraverso il Sudamerica
– a piedi o su mezzi di fortuna – sarà
un’occasione per conoscersi e sentire «con
delizia l’uomo nuovo nascere».
Una ventina d’anni dopo, durante la reclusione a
Castel Pulci – tra le angherie dell’infermiere
Calibàn, i pasti insipidi e le notti insonni – le
domande dello psichiatra Carlo Pariani
innescano nel poeta vivide memorie, lettere o
telefonate mentali a compagni di viaggio,
resoconti di ubriacature e feste selvagge nella
pampa, in mezzo a una «natura ineffabilmente
dolce e terribile».
Con una scrittura densa di atmosfere
sudamericane, mescolando echi dei Canti Orfici
con la lingua degli emigranti italiani, Laura
Pariani tratteggia il contrasto tra la
fiammeggiante vitalità di quella fuga giovanile e
l’oscurità dell’ultima tappa del viaggio terreno di
Campana.
L’autore
Laura Pariani è nata a Busto Arsizio nel 1951.
Ha esordito nel 1993 con la raccolta di racconti
Di corno o d’oro, ha poi pubblicato, per Sellerio,
Il pettine e La spada e la luna; e presso Rizzoli
La perfezione degli elastici (e del cinema), La
signora dei porci, La foto di Orta, Quando Dio
ballava il tango, L’uovo di Gertrudina e La
straduzione. Negli ultimi anni sono usciti per
Interlinea Le montagne di Don Patagonia, per
Giunti Il piatto dell’angelo e per Sellerio, con
Nicola Fantini, Nostra signora degli scorpioni.
Ha scritto anche alcuni testi teatrali: Suor
Transito, La voladora, Senza mai levar la
schiena, Giorni migliori. Il racconto delle
partenze. Per Einaudi ha pubblicato Dio non ama
i bambini (2007), Milano è una selva oscura
(2010, finalista al Premio Campiello) e La valle
delle donne lupo (2011).
Dello stesso autore

Dio non ama i bambini


Milano è una selva oscura
La valle delle donne lupo
© 2015 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Edizione pubblicata in accordo con
PNLA/Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency,
Milano
In copertina: foto vam / Getty Images.

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www.einaudi.it
Ebook ISBN 9788858417805
Table of Contents
Copertina
L’immagine
Questo viaggio chiamavamo amore
1. L’uomo o il viaggio, il resto o l’incidente. Messaggio per l’aldilà
2. Regio Manicomio di Castel Pulci. Novembre 1926
3. Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume. Lettera a un
garzoncello della Valle Maggia
4. Tra la turba delle signorine elastiche. Memoriale di un ex bicicletero
5. Regio Manicomio di Castel Pulci. Dicembre 1926
6. Commenta secco | E sordo un revolver che annuncia. Ultimo avviso alla
cricca dei Signori Critici
7. L’ora che l’illustre somiero rampa. Comunicazione radiotelefonica al
professor Loco
8. Passano l’ore, vengono i prodigi. Scambio di dati col Direttore Istat
9. Regio Manicomio di Castel Pulci. Marzo 1927
10. Venere passa in barroccio. Chiacchierata con Bellabionda
11. Regio Manicomio di Castel Pulci. Marzo 1927
12. Quiere Usted Mate? Lettera a una guardiana di tacchini
13. L’ombra delle selvagge nell’ombra. Confessione e supplica a Nausicaa
dalle negre braccia
14. Regio Manicomio di Castel Pulci. Aprile 1927
15. Era la notte | Di fiera della perfida Babele. Conversazione con un
Ghignagatto
16. Regio Manicomio di Castel Pulci. Aprile 1927
17. Una testa spasmodica, una barba rossastra. Messaggio telepatico al
compagno Barbarossa
18. Chiudiamo gli occhi o squarciamo il pavone bastardo. Informativa al
marchese De Sade
19. Regio Manicomio di Castel Pulci. Ottobre 1927
20. O Regina o Regina adolescente. Miserere per Maria Bebè
21. Púm, mamma quell’omo lassú! Lettera alla Signora Madre
22. Una goccia di luce sanguigna. Richiesta urgente di brevetto
23. Regio Manicomio di Castel Pulci. Ottobre 1929
24. Era una melodia, era un alito? Sfida musicale ma non troppo a un
villanzone del Nuovo Mondo
25. Un disco livido spettrale. Lettera di scuse all’ingegner Grenacher
26. Colle nostre lagrime facevamo le rose. Telefonata al dottor Sigmund
Freud
27. Regio Manicomio di Castel Pulci. Aprile 1930
28. Piú di qualunque altra donna... dei due mondi. Colloquio telefonico con
Manuelita Etchegarray
29. Regio Manicomio di Castel Pulci. Aprile 1930
30. Sulla pampa nella corsa dei venti. Commento per l’Ipocrita Lettore
31. Tutto tutto si annega nel dolce rumore dell’ali. Lettera a voi, o forse a
nessuno
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