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, In un momento.
DINO CAMPANA
Uno
L’uomo o il viaggio, il resto o l’incidente
Messaggio per l’aldilà
Caro Regolo,
non prendertela se non ti ho piú scritto. Dall’ultima volta che ci siamo
visti son successe cosí tante cose, che mi ci vorrebbe troppa fatica e almeno
un centinaio di fogli anche solo per contarti la meccanica di superficie degli
avvenimenti suddetti – e nella villa di Castel Pulci, in cui soggiorno
forzatamente, a noi reclusi centellinano la carta, manco fosse oro zecchino.
Vedi, oggi pomeriggio stavo qui nel «salone giallo», come lo chiamano gli
inservienti – in realtà si tratta dello stanzone in cui ci riuniscono, noi
degenerati, perennemente in penombra anche nella bella stagione; chi lo sa,
forse nei tempòribus sfoggiò un’elegante tinta dorata, ora è di un moscio
color «merdarella di malato», slavato scagazzo tipico della magra dieta che
l’istituzione benevolmente ci elargisce... Insomma, com’è come non è, inizia
a girarmi attorno un moscone nero, zzz... zzz, insistente sopra la testa, zzz,
come voce lontana in torbido affanno.
Subito, in un vivamaría, ecco tutti i ricoverati a strillare:
«Chiàppalo! Càttalo! Prendilo! No, lascialo a me ché l’è mio!» Uno si
sbracciava, un altro dava zompi per afferrarlo, un terzo mugolava per
l’eccitazione... Ma il giocar di mani dispiace fino ai cani, sicché i
sorveglianti, che non sopportano il minimo gesto fuoriposto, si metton subito
in agitazione con un paio di stracci per scacciarlo via o, peggio, per
ammazzarlo.
A quel punto non mi restava che mettermi a salto e gridare: «Fermi tutti!
Che nessuno tocchi sta bestia, che calabrone non è, neppure vespa, soltanto
un semplice moscone nero! Dunque mica un insetto pericoloso! Perché
allora volete ucciderlo? Una mosca a volte l’è la sola compagnia che
teniamo, noi reclusi. Misero spasso. L’unico segno di vita che in questa
gattabúja riesce a non farci troppo rimpiangere i begli anni in cui
inseguivamo i cani randagi che trascinavano la loro ombra rasente i muri
nelle ore piú calde delle domeniche estive; oppure le cocorite giallazzurre
che alle fiere pescavano per noi il responso della fortuna; o le lucertole
acquattate nelle fessure dei muretti a secco, all’epoca in cui da pivelli
percorrevamo gli stradellini di campagna per andare a rubar ciliegie nell’orto
del curato... Vi ricordate o no, il piacere che si provava a catturarne una?
Sentivamo nel pugno chiuso il cuoricino della bestiola battere all’impazzata,
allora aprivamo molto lentamente uno spiraglio nella gabbia delle dita,
finché spuntava fuori la testolina con la linguetta tremante. E alla fine la
lasciavamo andare, perché la caccia ricominciasse... Cos’è rimasto di quei
bei giocarelli che ci allettarono nel sabato della vita? Ve lo dico io: un fico
secco, e ognun sel becca. Qui a Castel Pulci, al massimo, nei giorni di
grassa, ci possiamo invaghire di un ragno nell’angolo piú alto del soffitto, di
uno scarafaggio che vagola per l’orinatoio... Insomma adesso, se non fosse
per questa mosca, che ne sarebbe stato di codesto pomeriggio malinconioso?
Epperciò, signori sorveglianti, lasciate in pace sto povero moscone!»
Intorno a me, gli altri ricoverati si erano tutti irrigiditi. Mi ascoltavano?
Mi chiedo se capissero le mie parole o se perlomeno riuscissero a intendere
che la mia voce era amica. Anche gli infermieri si son fermati di botto e uno
di loro, il Tarcisio, che è il piú umano tra quelli addetti alla nostra
sorveglianza, si è congratulato con me: «E bravo il nostro Campèna che l’è
riuscito a farci gustare un pizzico della sua poesia...»
Un suo collega, un bestione bassitalia che dentro di me chiamo Calibàn, si
è messo a battermi le mani per voglia di sfottimento, berciando: «Viva il
poeta dei mosconi!»
Una villanata da far drizzar le gambe ai cani, Regolo mio. Ma io zitto,
neanche una piega, mi guardo bene dal manifestare la benché minima
reazione, quella soddisfazione non gliela do alla stupida grandígia di quel tal
Calibàn. Che mi prendano per uno svitato capace solo di strologare
fantasticaggini è ormai faccenda che non mi importa da tanto di quel
tempo...
L’unica cosa che comunque mi premeva era che non ammazzassero il
moscone nero, perché io sapevo bene che non era mica una bestia ma il mio
amico Regolo Orlandelli, venuto a trovarmi sotto forma personale di insetto.
Ma di questa verità, se l’avessi spiegata a alta voce raccontando la nostra
storia per filo e per segno, tutti avrebbero sghignazzato, o peggio. Meglio
retícere.
Zzz... la mosca continuava a ronzare, sbatteva contro i vetri, e non mi
stancavo di rimirarla. Di rimirarti.
Calibàn ha di nuovo gracchiato: «Ohé, Campana, cosa fai lí con quella
faccia da pesce lesso?»
E io avrei voluto rispondere qualcosa, ma non mi veniva nemmeno una
quisquilia. Un vuoto nel cervello. Del resto, che mi importava? Che ridesse
pure alle mie spalle, quella zucca. Il cuore mi pulsava nelle tempie e sentivo
in gola un’ànsima, come quando ci si accorge di essere in ritardo. Ma perché
dico «in ritardo»? Non era ancora suonata l’ora di scendere nel refettorio, e
l’orologio di Castel Pulci non sgarra mai di un minuto: dunque il mondo del
reclusorio procedeva in orario, epperciò anch’io. Eppure eppure. Da dove
mai mi nasceva quella strana sensazione di sfasamento rispetto al tempo,
come se avessi superato la frontiera del conosciuto? Poi d’un lampo ho
capito: non ero io in ritardo, eri tu a essere arrivato con un anticipo a cui non
ero preparato.
Perché il moscone eri proprio tu, non potevi essere che tu. Me l’avevi
contato la prima volta che il diavolo aveva incrociato le nostre strade.
Cominciasti a narrarmi di tuo padre che aveva campato la vita in riva al Po,
ricavando tutto il necessario dal fiume, pesce e legna; ché, quando poi
veniva la piena, autunno o primavera che fosse, si rallegrava come di una
vendemmia: con la barca affrontava le grosse piante trascinate dalla corrente,
le allacciava con una specie di lazo, a mo’ dei gauchos argentini, eppoi,
vogando a tutta forza, le tirava a riva. Dicevi che ciò che la piena regalava
gli bastava per una stagione di sbevazzi all’osteria. E spiegavi: «Quand’ero
piccolo e stavo al capanno dove mepà accomodava le trappole per i pesci,
cresceva sull’arenile un giovane salice che lui aveva piantato affianco della
sò baracca. A quel riguardo non finiva mai di ripetere: “Sto salice dura
quanto la mia vita”, e non sbagliò: la pianta campò sei anni, poi cominciò
all’imprevista a perdere foglie. Vuoi credere che, due settimane dopo, anche
mepà si ammala? Andavo tutte le sere a trovarlo allo spedalino dei poveri; la
prima cosa che mi chiedeva, appena arrivavo, era: “Come va il mio salice?”,
ma io non osavo dirgli che si era completamente seccato. Lui però capiva lo
stesso, come se mi leggesse nel pensiero, e sospirava: “Eh, caro il mè
Regolo, mi resta poco da campare”. Siamo cosí, noi gente nata sulla riva del
Po: conosciamo la lingua antica dei boschi, le entràgne della natura, gli
enigmi del vento...»
Quando contavi la storia del salice, scuotevo la testa, non proprio
ridacchiavo ma quasi, insomma credevo e non credevo, la buttavo
sull’esagerato: «Sono soltanto coincidenze».
Ti inalberavi: «Coincidenze del menga. La mente ha da camminare nella
notte, nel buio delle cose... Sei tu che non capisci, crapón. Da parte mia,
avendo visto coi miei propri occhi la fine di quel salice, che come predisse
mepà si avverò, ti dico che la verità sta nel pozzo. E siccome, da degno figlio
del Po, sono bastante strión anch’io, fa’ attenzione a quel che ti dico: quando
per me la verrà l’ora di lasciare sta lagrimarumvàlle, io mica muoio davvero,
io rinasco, ma non in forma umana bensí di moscone nero, di quelli che
ronzano sempre vicino all’acqua. Eccosí verrò a trovarti, ma mi raccomando:
non mi ammazzare quando mi vedrai, perché sono e sarò sempre il tuo
amico».
Me ne sono ricordato d’un botto appena il moscone è entrato nel nostro
stanzone. Ho pensato: accidenti, Regolo è morto, si è trasformato come
aveva predetto. Epperciò non ho permesso che ti uccidessero un’altra volta.
Cosí adesso mi sono rintanato in quest’angolino aspettando che suoni la
campanella della cena, in modo da scriverti a mio agio sta lettera mentale,
intingendo la dritta penna del mio affetto nel mio negrissimo inchiostro
interiore. E intanto mi do una calmata. Ché l’emozione imprevista di questo
nostro ritrovarci mi martella il cuore in gola.
Con te è successo sempre cosí: incontri strani, per puro caso. Come quella
prima volta che tu andavi a Pavia col biroccio. Io per strada tiravo dritto
nella nebbiolina della Bassa, quando sento dietro di me il tintinnio della
sonagliera di un cavallone, all’usanza dei carrettieri di Cremona. Tu,
infagottato nel tabarro, col collettone agli orecchi, mi fai cenno di montare,
spiegandomi: «Vado a vendere cappelli e berretti alla fiera di Bereguardo.
Non c’è in giro un cane e ho una voglia bastarda di un po’ di compagnia».
La ricordo come una giornata memorabile: tu ne sapevi una piú di
Bertoldo e mi spiegavi i trucchetti micamale che usano i «trabucchi» per
fingersi storpi quando chiedono la carità; e il gergo della teppa; e qualche
cautela volpina per accomodarsi a dormire nei fienili senza spendere un
centesimo. Io a quell’epoca, a tuo confronto, ero uno scolaretto che ancora
compitava l’abbecedario della vita, mentre tu facevi parte a pieno titolo della
«leggera che mai non trema». Ricordi? Mi insegnasti l’inno di quelli che non
si piegavano alla mostruosa assurda ragione della fabbrica e dei padroni:
Il lunedí la testa mi vacilla:
Oi che meraviglia non voglio lavorar.
Il martedí che l’è il giorno seguente,
Non me la sento di andare a lavorar.
Il mercoledí l’è giorno di baruffa:
Io ci ho della ciucca, non posso lavorar.
Il giovedí l’è giorno di mercato:
Io non ci ho tempo di andare a lavorar.
Il venerdí l’è morto Gesú Cristo:
Non s’è mai visto qualcuno a lavorar.
Il sabato poi mi siedo sul portone,
Spetto il mio padrone che mi venga a pagar...
Oh Regolo, quanto tempo... Tutto inghiottito dagli anni: le sbronze, gli
scherzi ai riga-rossa, le risate da scompisciarsi, i nostri vent’anni.
Ho detto «mio» letto, eppure non c’è niente che possa davvero rivendicare
come mio in questo manicomio... E pensare che allora, a Montevideo, mi
pareva cosí mancante di privatezza l’angoletto che mi era stato assegnato
nella fonda dei tuoi conoscenti ticinesi: con un tavolo verniciato di verde e
rosso, in un angolo il cesto della biancheria su cui perennemente
sonnecchiava un gatto magro, il secchio per tenere in fresco la birra, due
panche accostate a un muro grigio su cui stavano appesi un calendario,
un’immaginetta di san Cristoforo e il testo della legge sulla vendita degli
alcolici; il tutto separato dal resto della locanda soltanto da una tenda che
faceva da porta. Adesso mi manca anche la luce esagerata che dal patio
invadeva la stanza svegliandomi, perfino il terribile raglio dei somari, il
fracasso delle pedine di domino rovesciate sui tavoli del patio, quel vasto
brusio indistinto di mosche, i fischi delle navi... Chissà quante navi solcano i
mari in questo momento con il loro carico di gente che va dove la chiama il
destino.
Questa memoria mi punge gli occhi. So infatti che il tempo delle
avventure americane per me è irrimediabilmente finito, perché sento arrivare
dal fondo del corridoio l’infermiere Calibàn che chiama alla sveglia. Suona
una campanella da qualche parte. Forse è quella del portoncino d’ingresso
che però dalla finestra della camerata non si può vedere. È ancora buio pesto
là fuori. Chi può essere a quest’ora?... Ma perché mi stupisco? Tutte le ore
son buone perché cada sulle nostre teste il verdetto
MANE, TEKEL, FARES,
condannati, pesati e trovati mancanti di qualche rotella: insomma pronti
perché le porte del Regio Manicomio si spalanchino a accoglierci.
Sí, sí, sí,
que esta noche me toca a mí.
No, no, no,
que mañana te toca a vos.
Comunque avverto chiaramente il dan dan ripetuto, me lo immagino come
lo scampanare proveniente dalla cattedrale sommersa di cui a Montevideo
favoleggiavamo... Ecco sono ricascato nel mondo delle storie sognate.
Sono sempre stato un SOGNATORE
e la parola Sognatore la scrivo a tutte maiuscole. Quasi un titolo onorifico.
Perché, Poletto, anche se non le si foran tutte diritte, qualcuno deve pur
sognare a questo mondo.
Quattro
Tra la turba delle signorine elastiche
Memoriale di un ex bicicletero
Oggi non c’è stata tregua nel «salone giallo». Prima il Bombolo è venuto a
gridarmi nell’orecchio il suo solito refrain – «Tutto il mondo è polvere» –,
poi il vecchio Godi s’è cagato addosso, con la conseguenza che Calibàn l’ha
preso a calci. Ma quando ne succede una, ne succedon tante: trotta cavallo,
che la biada non manca. Epperciò il Grattarola ha preso a strillare di paura e
il Vincenzino gli ha fatto coro. Il salone era pura topografia del caos.
Meglio non impicciarsi: inutile farsi bruciare gli occhi con le cipolle degli
altri. Epperciò mi sono tappato le orecchie concentrandomi nella suggestione
radiotelefonica, altrimenti le smanie prendevano anche me. Per fortuna,
nonostante sia incatenato nel profondo di questa fossa di leoni, ho una
calamita nella testa e col magnetismo posso allontanarmi ad líbitum da
questo miserevole covo. Ascolto messaggi da tutto il mondo, certi giorni ho
il sangue alle tempie dal tanto daffare.
Pronto pronto, qui Castel Pulci, chi è in linea? Ah, una comunicazione da
Montevideo?
Ma come faccio a telefonarti se non so neppure il tuo nome? Tutti ti
chiamavano semplicemente «el Loco». Come il mio povero zio, che nessuno
in casa nominava, era soltanto «lo Zio Matto». Allo stesso modo tu eri «el
Loco romano». Chissà perché poi romano, visto che eri nato dalle parti di
Busto Arsizio. Ma in America imperava una gran confusione geografica e
storica: Tanos, ovverossia Napolitanos, erano tutti gli Italiani, non importa
da che regione provenissero; come Gallegos, galiziani, erano tutti gli
Spagnoli, anche se magari nati in Castiglia o Andalusia; quelli cresciuti
nell’impero austroungarico li chiamavano Rusos, i levantini erano tutti
Turcos... Forse il fatto che tu, da vecchio professore di lingue morte, usassi
spesso citazioni latine ti rendeva «romano» d’ufficio.
Ti ricordo cosí: di età indefinita, un feltro sdrucito su una folta
capigliatura bianca, una lunga palandrana che quasi arrivava a strusciare per
terra; in mano agitavi una canna d’India di buona fattura, mentre zigzagavi
sulle tue gambette malferme, sventagliando i lembi di quell’informe
giaccone; parlavi in latino, declamavi Marziale:
Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyiasque
invenies...
La gente che si era radunata sul marciapiede mi spiegò con distratto
sgomento che eri matto e ubriacone, medio y medio, epperciò sotto la tutela
di Nostro Signore... Ero incantato. Ché io fin da ragazzo sono sempre stato
un po’ strano, lo ammetto – naturalmente lascio al dottor Pariani il compito
di fissare con esattezza non solo il netto confine tra sanità e il suo contrario,
ma anche il preciso significato della parola «strano» che io uso in modo
approssimativo, da profano qual sono... Tornando a bomba, in che consisteva
la mia stranezza? Nella convinzione che della cosiddetta realtà non posso
saper altro che il mio modo di percepirla, ragion per cui ogni cosa esige la
mia massima attenzione: che si tratti della smorfia di un viso o del volo di
una farfalla o dell’incerta traiettoria di una goccia d’acqua sul vetro di una
finestra, posso cadere in adorante contemplazione di cose a cui gli altri
neanche badano. Ho sempre avuto il senso del raro e dell’effimero. E se la
parola stupido viene da «stupor», io sono il massimo concentrato di
stupidità.
Eccosí fu anche quella volta: appena ti vidi, mi bloccai a guardarti
boccaperta. C’è infatti un nonsoché che filtra dalle persone, quasi un odore,
un maelström di impressioni da cui io deduco subito quando val la pena di
approfondire una conoscenza. Epperciò ho sempre goduto dei momenti in
cui davanti a certe persone cadevano le barriere che da sempre ho imparato a
innalzare tra me e gli altri – come le siepi spinose che si usano dalle mie
parti, sull’Appennino, per delimitare i campetti in parcelle ben chiuse.
Sei ancora lí a ascoltarmi? Posso continuare? Io, figurati, qui a Castel
Pulci ho tutto il tempo che voglio.
P.S. Mi può trovare nella rubrica dei degenerati: tanti e tanti piú uno, e
quell’uno sono io.
Nove
Regio Manicomio di Castel Pulci
Marzo 1927
Dietro i vetri annotta. Il malato è seduto sulla panca fuori dallo studio del
medico. Gli hanno detto di aspettare. In piedi, appoggiato al davanzale di un
finestrone del corridoio, sta l’infermiere, un po’ imbronciato perché è quasi
ora di cena, in questo momento dovrebbe già essere seduto nel refettorio:
mangerebbe in santa pace prima che arrivino i clienti – cosí al Regio
Manicomio di Castel Pulci i guardiani sono soliti chiamare i ricoverati –
invece no, gli tocca tirar tardi con sto degenerato.
Lo squillo di un campanello. Il malato avverte una sorta di contrazione
allo stomaco – in fondo all’anima? – e si dice: speriamo che tutto finisca
presto. Lo snerva l’essere stato convocato dal dottor Pariani per un nuovo
colloquio; non gli è piaciuto, la volta precedente, quel suo insistente
ritornello sul «recupero della salute»... Ma di che salute, di che vita ciancia
sto medico? Ci sono questioni che per Dino sono definitivamente chiuse.
Perché continuano a tormentarlo? Vogliono che dia fuori di matto un’altra
volta?
L’infermiere è scattato in piedi con un moto di sollievo. Ora bussa
lievemente alla porta, la apre, ci infila la testa, poi fa un cenno al malato
ordinandogli di entrare.
Dino Campana non ha quasi fatto in tempo a sedersi che già stringe i
pugni e investe il medico con i pensieri che ha rigirato tra di sé durante
l’attesa del colloquio: «Io non ho nessunissima intenzione di sentirla
sproloquiare sul mio eventuale “recupero della salute”, dottor Pariani:
possibile che nessuno lo capisca? Non desidero cambiare, ricevere visite
ancor meno». Sente un doloroso palpito sanguigno alle tempie e quasi un
prurito nelle dita.
«Lungi da me, signor Campana, il volerla allontanare da Castel Pulci. Mi
sembrava di essere stato chiaro nel nostro incontro precedente. Comunque
glielo ripeto: quella che cerco per lei è semplicemente una vita piú decente,
meno oziosa. Lo ammetta: l’essere segregato in una camerata con
degenerati, a volte anche gravissimi, non è la migliore delle vite possibili...»
Dino scuote la testa. Come spiegare a sto zuccone di Carlo Pariani che
ogni vita crea legami, stabilisce un’inerzia di accomodamenti forse poco
comprensibili per un osservatore esterno; epperò quel trantràn – l’essere un
anello anonimo nella lista dei reclusi di Castel Pulci – seppur tristo e
monotono è una sicurezza di cui uno come Dino non può fare a meno.
Uscire? Epperché? Chi esce da un manicomio resta poi sempre in balía del
primo stronzo che gli sbatte la porta in faccia, della prima guardia sospettosa
che gli chiede di esibire i documenti, dell’insofferenza dei parenti. Basta un
niente e si torna in manicomio, dritti filati. Non c’è scampo per chi una volta
è stato bollato come matto... Chiede: «Lei, dottor Pariani, l’ha mai letto il
Werther?»
«In che senso?»
«Nel senso letterale: di leggerlo... Verso la fine del romanzo, in una
giornata fredda come quella di oggi, Werther incontra un povero mentecatto
che farnetica di fiori, finendo poi per confessare mestamente di rimpiangere
un periodo non meglio precisato in cui era stato bene... E sa a che cosa si
riferisce quell’infelice? Ai mesi passati in manicomio, legato mani e piedi,
quando quasi non sapeva di stare al mondo».
Come se non lo avesse ascoltato, lo psichiatra insiste: «Mi stupisce che lei
un tempo cosí... vivace... si accontenti di questi giorni al chiuso, monotoni,
grigi, tutti di un’uguale pesantezza». E nel dir questo sorride, benevolo.
Dieci
Venere passa in barroccio
Chiacchierata con Bellabionda
Il vento mi stroncava. Mi venne uno dei miei potenti mal di testa. Una
donna mi diede da annusare una foglia d’arancio. Tu approntasti uno strano
rimedio con un grosso fagiolo spaccato in due: inumidisti le due metà con la
saliva e me le posasti sulle tempie dove aderirono facilmente. Spiegasti che
non dovevo staccarle: quando fossero cadute da sole, il mal di testa sarebbe
bell’e passato. E fu cosí. Eri un po’ streghetta, non è vero?
Ti guardavo: occhi azzurro chiaro, riccioli biondi che sfuggivano alle
trecce. Se non ci fosse stato tuo fratello Leonardo, ti avrei baciata. O forse
no: mi era d’impaccio la piccola serie avvilente di esperienze nei bordelli,
epperciò mi rendevo conto che con una ragazzina come te dovevo affrontare
un approccio in tutt’altro modo. Ma come parlartene, Bellabionda, se
nessuno ci lasciava mai soli? Quell’agrodolce rompicapo mi ronzava nella
testa rendendo il mio umore oscillante.
Fu quel giorno che la carovana si divise? Una lunga litania di carri prese
verso nord; invece il veicolo su cui stavamo noi due si diresse a ovest. Credo
di aver scelto di seguire il vostro tragitto essenzialmente per rimanere con te.
Mi intrigavi.
L’immagine della nuvola di cavallette, la portammo con noi fino alla sera.
Ci rimaneva ancora negli occhi, quando scucchiaiavamo nella solita
fagiolata che le donne avevano condito con sale, aceto e aglio, senza
dimenticare le patate lesse tagliate a dadini, quasi sfarinate. Era buona
quell’insalata – oggi, dopo vent’anni, so che nel suo profumo di aglio e aceto
si condensa la memoria piú gradevole del mio viaggio americano... – ma
quella sera le tue labbra tremavano e il cucchiaio si muoveva lento, grattava
sul fondo della gavetta eppoi risaliva esitante verso la bocca, senza che ti
decidessi a ingollare. Certo il ricordo delle cavallette ti rovinava il gusto del
mangiare. Di modo che finisti per sminuzzare il cibo in bocconi sempre piú
piccoli e infine lo lasciasti nel piatto.
«Non mangi? Non ti piace?» chiese una delle donne che avevano
cucinato.
Tu rispondesti seccamente: «Noo!»
«Perché?»
«Perché no. Nooo, no e poi no!» gridasti. Eri già in piedi e scappasti via.
Tuo fratello Leonardo disse: «Scusatela! È solo una bambina capricciosa.
Sapete com’è: ha sedici anni, non le è ancora passata l’età della stupidéra!»
Avrei dovuto prendere le tue difese, ché ti capivo: in fondo non ero tanto
piú grande di te. E le tue lagrime mi facevano tenerezza. Eppure ebbi paura
di reagire e contrariare Leonardo, mi adeguai ai suoi criteri di adulto sensato,
restai immobile. Spesso a quell’epoca mi riducevo a vivere nei vuoti spazi
bianchi ai margini del Libro della vita...
Quella mia mancanza di reazione comunque mi fece sentire allora come
un vecchio barbagianni. Da un’enorme distanza ti guardai correre via con le
trecce dondolanti sulle spalle. Mia irraggiungibile Venere.
Undici
Regio Manicomio di Castel Pulci
Marzo 1927
Tossisce, annusa nell’aria l’odore della sigaretta mal spenta del medico.
Sembra indeciso. In parte gli piacerebbe rispondere al dottor Pariani
tirandogli fuori il ricordo della derisione che da adolescente ha sofferto al
paese, le maldicenze di cornacchioni e serpenti a sonagli, i rimbrotti che in
casa s’è sentito piovere addosso per anni; per esempio, spiegargli: «Mia
madre mi esasperava. Una volta frugando tra le mie cose – ché lei era fatta
cosí, aveva qualcosa del gendarme – trovò un quadernetto di versi, li lesse e
li giudicò cosí disgustosi da buttarli nella stufa. Capisce, dottore? Se avessi
scritto poesie su fiori e violini, lei sarebbe stata disposta a chiudere un
occhio; siccome però i miei componimenti parlavano di porti e bettole e
puttane, ero un depravato! Va’ a spiegarle che un animo veramente cattivo
non sceglierebbe termini spietati, ma si ammanterebbe di dolci paroline su
lillà che fan rima con felicità. Da parte mia, ogni volta che mi sono trovato
in mano libri che si sdilinquivano sulla bontà umana, ho sempre provato
parecchio disagio o perlomeno il sospetto che l’autore, nel migliore dei casi,
non avesse tutte le rotelle al posto giusto... Ma con mia madre sarebbe stato
un discorso inutile. Si figuri, dottore, che quando mi disperavo perché un
cretino di Firenze aveva perso il mio manoscritto, mi disse: “Ne ho proprio
piacere! Adesso finalmente la pianterai di sprecare il tempo in baggianate e
di rovinare la nostra reputazione. Ma guardatelo! S’era messo in testa di fare
il poeta. Non ne vogliamo di matti e buonanulla nella nostra famiglia!”
Proprio cosí mi disse».
Con tali sfuriate sua madre aveva cercato di smontare la sua passione.
Indignato per quel primo quadernino svanito nel fuoco, lui allora era
diventato vagabondo: ogni volta che si imbarcava in un nuovo viaggio, non
era guidato da piacere o curiosità, ma dal ricordo di quelle pagine che
bruciavano. Il dolore delle sue parole perdute... Ah, quante cose potrebbe
raccontare. Con sguardo malinconico carezza quel che resta del Dino
ragazzo: briciole, pagliuzze rilucenti come lampi. Alla fine sorride
misteriosamente tra sé borbottando: «Lo so, dottore, prima ero diverso, un
vagabondo che cercava di fuggire dal pesante groviglio della stupidità
locale. Sapesse quanti viaggi ho mai fatto: percorrevo strade sconosciute, ma
ovunque andassi mi portavo dietro Marradi; sempre nella mente qualcosa di
nuovo ma anche pieno di antica mestizia. Cammina cammina, sentivo i miei
occhi dilatarsi e mi tornavano alla mente persone e voci del mio paese. Mi
successe perfino in America, dove decisi di andare perché dicevano che
laggiú la gente era piú libera, lo spazio grande, e nessuno a soffocarti di
domande indiscrete. Di sicuro in America non desta nessuna curiosità chi
viaggia, tutti arrivano o partono. Ché nell’idioma che parlano in quei paesi la
meta di un viaggio si chiama DESTINO... Che bella lingua, vero?»
Nella foga del parlare il malato si è perfino leggermente sollevato dalla
sedia; gli è caduto il berretto che, quando è entrato nella stanza, si era tolto
poggiandolo sulle ginocchia. Per un attimo si sente ridicolo: perché sta
dando spiegazioni al suo nemico? Ché il dottor Pariani è di certo un
avversario.
Rabbrividisce. A volte gli basta semplicemente un paio di parole per
impizzarsi. Quali parole? Che razza di parole? Quelle che scavano dentro,
che si conficcano profondamente nel cervello come uno spino. Bisogna
cercare di estirparle dall’osso duro del dolore, prima che ci marciscano nella
testa, altrimenti... Sí, certe parole. O un particolare modo di pronunciarle.
Dodici
Quiere Usted Mate?
Lettera a una guardiana di tacchini
Cara Peau d’âne,
se non fossi salito su quel carro che lasciava Montevideo, non ti avrei mai
conosciuta e, adesso che ho bisogno di qualcuno con cui ripercorrere quel
viaggio, non saprei dove sbattere la testa. Fortuna che invece so che esisti e
che sicuramente di tempo per leggere le mie lettere ne hai a iosa, quasi
quanto me.
Come piove. Un’ariaccia fa sbattere le imposte. Molti miei compagni di
camerata stanotte sono nervosi per il vibrare dei vetri, ché le porte e le
finestre non chiudono bene. Anche il lume che viene lasciato acceso tutta la
notte sopra l’ingresso della camerata sembra dare una luce piú fioca e
tremolante del solito. Alcuni gemono, il Grattarola si è coperto la faccia col
lenzuolo e singhiozza. L’agitazione si va propagando per la camerata, tra
poco ci sarà un bel coro di lamentazioni. Il Mangiamòccoli – uno dei piú
antipatici dei miei compagni, perché fa il lecchino e la spia con i sorveglianti
– è sceso dal letto e si aggira tra di noi tremando e piangendo. Quando è
arrivato vicino al mio letto, ho tirato fuori il braccio dalla coperta e gli ho
detto calmissimo: «Allora come va?»
Mi ha fissato con occhi lucidi, quasi non mi avesse riconosciuto. Allora
gli ho toccato la spalla come per una pacca d’incoraggiamento, ma lui s’è
messo a caragnare ancor di piú, mentre io storcevo la bocca imitando le sue
smorfie.
Come si fa a avere paura del vento? A me è sempre piaciuto. Anche la
pioggia, il fuoco, perfino il fango. Spesso, ai tempi dell’università, quando
c’era temporale andavo volentieri alla finestra a gridare ingiurie e parole di
scherno al mondo, alla maniera di Cecco Angiolieri. Appena vedevo che le
strade si svuotavano – gente che correva nei caffè e sotto i portoni, donne
che si tenevano strette le gonne o evitavano a passettini le pozzanghere – mi
veniva da urlare di soddisfazione. Se poi uno scroscio mi sorprendeva in
montagna, mi piaceva il formicolio dei piedi negli scarponcini bagnati. A
volte perfino preferivo camminare scalzo nel fango, sguazzando nei ruscelli
di pioggia che scrosciavano a valle.
Sono un selvatico, epperciò non sono mai riuscito a rassegnarmi al chiuso
di Castel Pulci. Di conseguenza la notte scappo fuori da qui, col ricordo di
viaggi lontani. Quella volta, per esempio, che il nostro carro si imbatté in
una pioggia diluviosa che faceva schioccare il telone di copertura... Non
volendo rischiare di impantanarci, ci accampammo di fianco a un cimiterino
abbandonato, sperando di sistemarci alla bell’e meglio nella vecchia
cappella.
Fu proprio lí che ti trovammo, insieme a un cane da pastore e a un folto
branco di tacchini. Restammo tutti basíti. Vestivi da uomo, con pantaloni
larghi e stivali coi bordi arrotolati sulle caviglie. Avevi una pesante
capigliatura che ti ricadeva fino alle reni, piena di spini e di odori selvaggi; il
volto di una bellezza ispida, occhi arditi. L’immagine di una sudicia Peau
d’âne.
Anche tu avevi cercato un riparo dal diluvio, ma non perdesti tempo a
darci spiegazioni: ci aiutasti a togliere il giogo ai buoi, per poi armare una
sorta di tettoia con una lamiera trovata nella capanna degli attrezzi dei
becchini. Eri forte quanto un uomo, come un maschio imprecavi a denti
stretti. Le donne della compagnia si misero subito a cucinare patate e fagioli
su un fuocherello di sterpaglie e di pezzi di legno marcio ritrovati in un
angolo. Ti sedesti in mezzo a noi maschi a fumare, dimostrando subito la
distanza delle tue scelte di vita.
In due parole spiegasti che pascolavi tacchini, portando il tuo «gregge» da
una fiera all’altra. Ero stupito: mai visto qualcosa del genere. Tu ridevi con
un’alzata di spalle; dicevi che era come pasturare le pecore: «Il tacchino è
una bestia docile. Se si possiede un buon cane da pastore, è fatta».
Nient’altro, quasi fosse la cosa piú naturale del mondo.
Ricordo che, quando verso sera il cielo rischiarò, tutti tirarono un sospiro
di sollievo, ché l’indomani si sarebbe potuto ripartire. Ognuno stese la
propria coperta umida a asciugare sul muretto che circondava il cimitero. I
tacchini – saranno stati almeno trecento – si sparpagliarono tra le tombe a
becchettare. I bambini si misero allegramente a rincorrersi, tra un saltare di
rane minuscole spuntate da chissà dove.
Ecco, Peau d’âne, se mi metto quieto, girandomi dall’altra parte per non
schiacciare il cuore, risento le sensazioni di quella strana notte... Mi tornano
alle labbra i versi di La Fontaine:
Si Peau d’âne m’était conté
J’y prendrais un plaisir extrême...
Mi dava un po’ di inquietudine stare tra quelle tombe, pensare che intorno
avevo resti di gente che come me aveva traversato il mare con una speranza,
e che qui era morta, lasciando come segno del proprio passaggio attraverso
questa vita soltanto una lapide meschina in un posto sperduto in culo a
Giuda. Qualcuno ricorderà questi poveretti? Chi lo sa, la memoria dura tanto
poco, al massimo il tempo di una generazione, già i nipoti parlano di un
defunto come di un’ombra lontana, alla terza generazione nessuno ti conosce
piú né ha tempo di dedicarti un pensiero; tanto piú se sei finito in un
cimiterino tanto distante dalla terra in cui sei nato.
Risento le tue considerazioni su quelle lapidi: ché le pietre inerti, beate
loro, non conoscevano emozioni, albe tramonti o compleanni; non soffrivano
né si riproducevano, eppure partecipavano dell’idea di eternità molto piú di
noi ometti, che ci consideriamo capoccioni di settebellezze.
Sei scivolata nel mio giaciglio tra le mie braccia: all’improvviso non eri
piú la stracciona sudicia ma una bella ragazza, calda, tenera, pura.
Mi spiacque il mattino dopo, quando ci separammo. Era un’alba con
molte brume. Non pioveva, dovevamo proseguire. Ognuno per la sua strada.
Le donne preparavano il mate e tagliavano le ruote di pane; gli uomini
aggiogavano i buoi e si avvicinavano al fuoco per scrollarsi l’umido di
dosso. Soffiava un vento frizzante, come un anticipo di autunno.
Dalla tasca levasti la borsa del tabacco offrendomi da ciccare. Poi
sfoderasti una strana bacchetta a cui era attaccata una girandola di carta, di
quelle che da bambino vedevo alle fiere di paese: la facesti prillare al vento
con solennità, quasi fosse simbolo di un arcano potere sul tuo insolito gregge
che subito, come per magia, ti si radunò intorno. Eri pronta per partire.
Senza particolari affettuosità per quello che era avvenuto tra noi la notte
precedente. Un addio mattutino non da amanti, ma da compagni di strada.
Uno spino ti punse, mentre raccoglievi il cappello che ti era caduto a terra.
Sacramentasti. Ti afferrai la mano e, come si fa ai bambini che hanno un
dolore, ti posai un piccolo bacio sul palmo ferito. Sul mio piccolo dono le
tue dita si richiusero.
Un fischio, poi il tuo «gregge» si mise in marcia con svogliatezza
becchettando sui bordi del sentiero, ma sotto l’occhio vigile del cane che, se
qualche tacchino se ne allontanava troppo, partiva al suo inseguimento e lo
costringeva a tornare nel branco. Ti guardai perderti nella pianura che
vaporava umidità. La girandola mandava luccichii: sembrava che tu tenessi
in mano una stella. Dopo un po’ tu e i tacchini eravate solo una macchia
grigioscuro che si allontanava lentamente sul sentiero scavato dal passaggio
delle carovane. Un ultimo brillio, eppoi scomparisti. Per sempre.
Tredici
L’ombra delle selvagge nell’ombra
Confessione e supplica a Nausicaa dalle negre braccia
A un certo punto scrissi il tuo nome sul quaderno che tenevo aperto sulle
ginocchia per appuntare le mie emozioni di viaggio. Rimanesti a osservare la
pagina, perplessa tra timidezza e sconcerto, facendo segno di no con la testa.
Nepomuceno commentò che non sapevi leggere: «Es brutita. Una
selvaggia... Qui scuole non ce ne sono, e poi per una femmina non vale certo
la pena».
Brutita: selvaggia senza nessuna forma di educazione... Ti domandai se
conoscevi storie. Volevo a tutti i costi farti parlare. La tua risposta fu un
sussurro: conoscevi la favola degli spiriti del fiume, che – dicevi – hanno
una mano di lana e un’altra di ferro.
Mentre stavo riflettendo un po’ perplesso sullo strano particolare di quelle
mani cosí differenti, il tuo grido: «Adesso escono, mírelos!»
Non vedevo niente, però feci segno di sí col capo come se avessi capito.
Tu insistevi indicando col dito dei grossi buchi nella riva di terra rossa: «Ahí
están: José y, al ladito, María».
Solo allora scoprii due gamberoni color mattone: le antenne tremavano
guardando la barca, dondolavano come se seguissero il ritmo delle nostre
voci. Sussurrasti: «Sono bestie a cui non piace la luce. Escono con la fresca,
andan por la noche. Anche a me piace la notte. Y yo, solita mi alma...»
Avevi lo sguardo perso, in piedi sulla barca dondolavi le anche.
Accennasti un ballo canticchiando:
Cuando cae el sol yo canto...
Traversammo una laguna coperta quasi interamente da un tappeto
grandioso di Victoria regia. Dalle isole saliva una nebbiolina di calura, color
grigio perla.
Dino ha chiuso gli occhi, pare gravato da una grande stanchezza. Come
quando, dopo una sbornia notturna, ci si sforza di ricordare quanto si è detto
o fatto nelle ore precedenti, e ci si spaventa di non riuscire a analizzare ciò
che è avvenuto. Gli sembra di non aver detto sostanzialmente cose diverse
dal solito. Ma è profondamente consapevole che le parole a volte giocano
brutti scherzi; ché, quando vengono enunciati, anche i brandelli, le briciole
dei fatti acquistano importanza, un’imprevista crudezza che sa di realtà...
Neppure per un momento ha pensato di stare collaborando, ma
evidentemente è questa l’interpretazione che il dottore ha dato al suo elenco.
Mi ha teso un tranello, borbotta tra sé digrignando i denti... Il mondo si
divide in due: quelli che se ne stanno seduti impietriti sospirando e quelli che
balzano in piedi, strappano un elenco, ne gettano i pezzetti per aria,
prendono la porta e via, se ne scappano sul tetto urlando, con gli occhi
sbarrati sulla notte.
Ti trovai dove non avrei mai pensato. Del resto è proprio della tua natura
il comparire magicamente... Era un posto selvaggio nella boscaglia, sotto un
diluvio di fulmini rossi. Nella capanna in cui mi ero rifugiato sgocciolava
acqua dal tetto, perciò lí dove l’acqua penetrava piú abbondante misi una
vecchia latta scovata in un angolo. Sul metallo rugginoso c’erano i resti di
un’immagine vaga: appena brandelli di colore che accennavano a un grosso
gatto dal viso ghignante. Cosí mezzo cancellata, mi rammentò
un’illustrazione di Alice nel paese delle meraviglie che avevo letto da
piccolo. Non c’era nient’altro là dentro, a parte il teschio spolpato di un
grosso animale con le corna. Solo tu, caro Ghignagatto, a farmi da legame
con il Vecchio Mondo da cui venivo. Tu cosí lontano e antico come i
capitelli fronzuti che ornano certe chiese romaniche; vecchio come i libri di
mio padre, come il buco scavato nella quercia del bosco dietro casa per
nasconderci messaggi, come un carme di Orazio da mandare a memoria.
Mi sistemai alla meglio, riuscendo perfino a improvvisare un piccolo lume
con il bottiglino di grasso che portavo nella bisaccia: ci infilai a mo’ di
lucignolo un brandello di stoffa: faceva fumo e dava solo uno sprazzo di
luce, il che rendeva ancora piú spettrale l’ambiente. Avevo quasi
l’impressione che da un momento all’altro dalla porta potessero comparire
spiriti o animali fantastici... Qua e là nella capanna tremolavano piccole
ombre all’ondeggiare del lucignolo fumante. Scarafaggi, zanzare e farfalle
piú grandi di una mano entravano dal vano della porta. Volavano intorno al
piccolo lume e invece di ravvivare l’ambiente ne aumentavano la spettralità.
Quando ormai era sera, raggiunsi sfinito un gruppo di case. Vidi molti
cavalli legati a una staccionata. Benché il sole fosse tramontato, l’aria era
ancora rovente. Sentii da lontano il vociare allegro di tante persone. Mi
rassettai e avanzai verso uno spiazzo dove alcuni uomini stavano preparando
dei quarti di vacca alla brace.
Erano tutti gauchos con cappellacci a larghe falde, baffi, lunghi capelli
neri che ricadevano in disordine sulle spalle, cinture colorate a cui erano
appesi coltelli affilati, grossi speroni tintinnanti.
Nei miei confronti ci furono brevi cenni di cortesia, piú vicini alla
diffidenza che alla voglia vera di fare amicizia. Piú volte nei giorni
precedenti ero stato avvertito di stare in guardia, che nella pampa regnava
solo la legge del piú forte: c’era gente che, dopo un inchino elegante, se
veniva l’occasione, era pronta a tagliarti la gola.
Lí affianco sorgeva una pulpería con un’insegna che mi fece sobbalzare:
rappresentava un personaggio piantato a gambe larghe, vestito alla
gauchesca, con una grande testa decisamente da gatto. Ecco dunque che ti
ritrovavo, Ghignagatto, di nuovo in un posto dove non mi aspettavo che
comparissi. Mi parve un segno del destino e provai un vago formicolio al
cuoio capelluto – forse è questo che significa sentirsi drizzare i capelli?
Entrai, mi sedetti a un tavolo. L’aria era piacevolmente mossa da una
tenda che sbatteva a una corrente d’aria che, non so come, s’era levata. Sugli
scaffali stava mercanzia di ogni tipo, accoppiamenti sontuosi di barattoli di
latta, ma soprattutto una gran quantità di machetes, lampade e candele. Mi
avvicinai a una mappa piuttosto scolorita che stava appesa alla parete di
fronte. Cercai di decifrarla, ma la maggior parte dello spazio non aveva
nomi. Terra incognita.
Il proprietario mi osservava con tale attenzione che avrei giurato che
volesse farmi una domanda sui massimi sistemi. Invece venne a sedersi al
mio tavolo. Sui settant’anni, capelli radi, occhi di un indefinito colore chiaro.
Gli chiesi il perché dell’insegna gattesca. Rispose che suo padre veniva dal
Veneto e la sua famiglia di soprannome faceva «Magnagatti». Mi parve poco
educato indagare oltre; mi limitai a domandargli se avesse nostalgia
dell’Italia. Fece spallucce: «Mi vida es como todas las vidas».
Domandai se era successo qualcosa di notevole, vista la quantità di gente
che stava assembrata fuori dal locale. Scosse di nuovo la testa: «Usted crede
che en la vida succeda qualcosa? No pasa nada».
Annunciò comunque che la sua grappa era ottima, se gradivo. Non dissi di
no. Versò, attese che io bevessi prima di buttar giú il suo bicchiere. Poi
spiegò che era Carnevale e quella notte ci sarebbe stata una gran festa.
Cos’è la realtà, mio caro Ghignagatto? Me lo sai dire tu? C’è qualcosa, nel
mio cervello, che pare cotto bruciato e che non riesce piú a connettersi col
resto del mondo.
Questa sera a letto, assolutamente sveglio, mentre ripensavo a quel
lontano incontro con te, ho avuto la sensazione improvvisa e del tutto
automatica di sentire l’andirivieni di oceaniche maree, il crollare di
montagne chissà dove, il ribollire di pozzi di fuoco, come la Ghe-ènna di cui
predicavano in chiesa quand’ero bambino; e ho provato il corrispondente
spavento.
Sedici
Regio Manicomio di Castel Pulci
Aprile 1927
Piú tardi, mentre ero alla finestra del «salone giallo» con tutte le antenne
dritte dopo il messaggio dei piccioni, è apparso il postino con il sacco delle
lettere. Mi ha strizzato l’occhio, eccosí mi sono chiesto il significato di quel
gesto, finendo col mettermi in allerta. Poi, mentre mi allontanavo dalla
finestra, mi sono accorto di un pezzetto di carta sul pavimento. L’ho raccolto
con noncuranza, senza farmi notare dai sorveglianti. C’era scritto:
M
AB
Ho subito capito che si trattava di un tuo telegramma cifrato:
MONDO
ABBIETTO
Dunque è cosí: attraverso la dimensione delle «parole d’ordine» che ti era
propria, il tuo messaggio può raggiungermi ancora, caro compagno
Barbarossa.
Se devo dirti la verità, in qualche modo presentivo che ti saresti fatto vivo.
Ché stanotte, durante il solito intermezzo di insonnia, il mio cervello
ripeteva continuamente un paio di versi di una canzone che mi avevi
insegnato:
Y tienen una güena cachiporra:
la farsa vil d’este corral moderno...
Eri davvero tu che ti volevi mettere in collegamento con me? Il mio
cervello eseguiva sta canzoncina come un organetto automatico, e io mi
ritrovavo in una certa strada di Rosario... Si è trattato di una visione mentale
cosí intensa che me ne sono quasi spaventato. Vedevo distintamente l’angolo
della calle dove stava il panificio in cui sudai per tre settimane. Un
lavoraccio da bruti, per dodici ore: al mattino presto a consegnare il pane ai
clienti, la schiena piegata sotto il gerlo pesantissimo; piú tardi a scaricare
sacchi di farina. Ricordo che barcollavo sotto balle da un quintale. Ché il
peggio era quando arrivava la legna da ammassare nello scantinato: dovevo
afferrare le fascine al volo, una dopo l’altra, mentre cadevano giú da uno
sportello situato a livello della strada: mi si riempivano i polmoni di
polverume. Chissà poi perché accettai sto lavoro? Non so, ero uno
sbruffoncello che in Argentina aveva assorbito la mentalità degli americani,
adoratori della forza e del coraggio e spregiatori delle professioni sedentarie.
Ma non era mai finita. Chi lo sa, se avessi potuto dormire a suffício,
probabilmente quel ritmo l’avrei sopportato; in fondo ci si può abituare a
tutto, no? Ma in quel periodo non riuscivo a prender sonno: troppo poche le
ore di riposo, avevo i nervi sovreccitati. Solo la notte del sabato mi era
lasciata intera, ma allora veniva il momento delle bevute, della compagnia di
una ragazza, delle tue conferenze sull’organizzazione sindacale. Ché tu,
Barbarossa, infervorato, in piedi sulla spalletta del río, parlavi come una
frusta: «Perché voi che siete emigrati dall’Italia cercando una vita piú libera,
una volta arrivati qui in America sbassate la testa come pecoroni? Perché
sotto tutti i soli chi nasce ricco si fa venire lucidi i gomiti e i fondelli a furia
di fare il pascià sull’ottomana di velluto, mentre voi poveracci, venuti via dai
vostri paeselli al seguito dei negrieri dell’emigrazione, state qui a farvi
sfruttare? Finché farete i sudditi, finché vi lascerete mettere i piedi in testa e
non vi renderete conto che l’è venuto il momento di spazzar via con la
ramazza del socialismo, zim zum zam, l’ingiustizia del mondo, il ricco se la
riderà! Ché io una cosa ve la garantisco: la vita è come un gioco di carte: ti
va bene se puoi mostrare tanti punti, ma se ammetti di non avere nulla in
mano ti buttan fuori dall’osteria con una pedata in quel posto che anche il re
fa vedere nudo quando sta sul buco!»
Fu allora che, impizzàti dai tuoi discorsi, noi quattro gatti del panificio
organizzammo un piccolo sciopero per chiedere le otto ore. Ovviamente il
padrone chiamò la polizia. Non opponemmo alcuna resistenza, eppure ci
fecero il timbro sulla mano – quell’umiliante timbraccio indelebile che anche
di lontano significava a tutti che avevi avuto a che fare con l’Ordine
Costituito – e venimmo licenziati in tronco.
M
AB
Ci venne anche l’impulso di reagire; da parte mia avevo voglia di farla
pagare a quello stronzo sfruttatore, ero rabbioso e disgustato, ma per fortuna
mi contenni: sarei sicuramente finito in carcere. La quantità di gente che
cercava lavoro era tale che fummo tutti sostituiti in un paio d’ore. Epperciò,
visto che per me tirava una brutta aria, me ne scappai.
Fuggire, sempre fuggire: questo solo facevo a quell’epoca.
Caro il mio Barbarossa, anche nel corso degli anni successivi sono finito
in gattabúja tante volte perché protestavo contro le ingiustizie, o anche solo
per vagabondaggio. Ho conosciuto le prigioni di mezza Europa. Mi tenevano
le prime ore in uno stanzino, in piedi, mi era proibito sedermi per terra,
guardato a vista come se fossi pericoloso; provavo uno sfrizzo di fastidio che
mi scendeva giú per la cannetta della schiena vedendomi squadrato a quel
modo, tanto piú che ero nudo bruco, mi avevano tolto tutti i vestiti... Solo
verso sera mi gettavano una divisa, non nuova, anzi piuttosto lisa sui gomiti
e sul sedere, appartenuta a chissà chi, forse morto: puzzava di quell’odore
acido e nauseabondo che si annida non solo alla superficie della stoffa, ma
anche nelle cuciture, in ogni filo, in ogni fibra. Inutile fare rimostranze,
ghignavano e mi dicevano di non fare tante storie.
Davvero a quell’epoca pretendevo di spiegare tutto attraverso la politica?
Ritenevo sul serio che l’umanità potesse diventare felice?... Non so se tu ci
credi ancora ai bei discorsi che a quei tempi ci snocciolavi sulla spalletta del
río. Da parte mia, mi sono disilluso, anzi ho acquisito la convinzione
opposta: che nessuna attività politica potrà mai eliminare la tristezza,
liberare gli uomini dal timore di non essere amati, dalla paura della vecchiaia
della morte dell’oscurità che ci attende, dalla nostra brama di assoluto.
Per ore – questo pomeriggio non vuol proprio finire – vado avanti
chiudendo gli occhi e continuando a vivere l’incubo del palazzo della señora
Justina. Ché i dettagli della stanza in cui io e lei ci affrontiamo sono sempre
piú ricchi: il tulle nero della zanzariera, il gracidio della ranocchietta dal
ventre rosso a macchie gialline, la finestra sbarrata, il grande pendolo dai
rintocchi lugubri. A tratti intervengono altri personaggi che hanno un’aria
stranamente familiare: somigliano al Luiso, al Vincenzino, al Bonzo;
sfoggiano gli stessi modi di annichilita contemplazione di sé che ho visto
tante volte nei degenerati che affollano Castel Pulci... Mi fa paura questa
Justina indicibilmente pallida: porta dietro l’orecchio una flor de
buenasnoches infilato nello chignon. Mi ordina di indossare i vestiti di uno
dei tre fucilati di questa mattina... Perché obbedisco? Non so. Comunque mi
bardo come il terzo condannato.
Dino Ciascuno
Diciannove
Regio Manicomio di Castel Pulci
Ottobre 1927
Dino fissa a lungo Carlo Pariani: il medico, da dietro la sua scrivania, gli
ha lanciato la solita esca e ora sta attendendo la sua reazione. Gli torna in
mente un professore, ai tempi del collegio: alto, magro, impassibile, con un
modo tutto suo di affrontare gli alunni indisciplinati. Quando sorprendeva
qualche ragazzo a chiacchierare o a distrarsi, non batteva ciglio limitandosi a
scagliargli il cancellino in testa: con mira infallibile. Meglio per il
malcapitato non tentare di schivare il colpo, perché allora gli sarebbe piovuta
addosso una punizione piú seria. Cosí, dopo essere stato «centrato», l’allievo
in questione doveva assumere un’aria pentita, raccogliere il cancellino senza
replicare e riportarlo alla cattedra dove il professore lo attendeva con un
ghignetto di soddisfazione.
La voce dello psichiatra, dopo aver terminato di leggere quei versi, si
conclude in una domanda: «Cosa intendeva dire quando parla della matrona
selvaggia che le offre il tesoro fiorente di una fanciulla in sogno?»
Dino chiude gli occhi. Che altro raccontare a sto dottor Pariani? le fiabe, i
paesi delle meraviglie? le donne, i cavallier, l’arme, gli amori? gli esploratori
che discendono sulle zattere i fiumi infestati da coccodrilli zannuti, nelle
giungle dove li spiano i selvaggi con le piume in testa, con il volto dipinto?
Gli piacerebbe confessargli che la prima volta che traversò l’Argentina a
cavallo avvenne a nove anni: era a letto per un’infreddatura e leggeva I figli
del Capitano Grant, di Jules Verne. Ma probabilmente al dottor Pariani non
è mai capitata la stessa esperienza, epperciò sarebbe difficile spiegargli cosa
può provare un bambino di nove anni a montare a pelo un magnifico cavallo
nero, in compagnia di un giovane indio a torso nudo il cui ritratto, a pagina
90, gli provocava un certo turbamento; eppoi traversare a guado fiumi
impetuosi e quebradas scoscese, nella solitudine dei deserti andini. Sulle tre
cartine geografiche di quel libro, costretto a letto con un gran febbrone, lui
ha passato due settimane, che a quell’età sono un sacco di tempo: era
affascinato da quei paesaggi di spazi sterminati, ostacoli, terremoti. E non
poteva che essere cosí per un bambino che viveva nel chiuso di Marradi. Che
dire poi quando un condor l’aveva rapito e portato con sé in volo per tre
giorni? Sull’incisione di pagina 115 Dino ha sognato a lungo a occhi aperti,
sospeso nel vento a quelle ali immense, i deserti sotto di lui... Gli è sempre
successo cosí, fin da quando era piccolo: si è sempre sentito dentro un
mondo piú vasto rispetto a quello in cui vivevano gli altri.
Riapre gli occhi. Come si copre di sale una brutta macchia di vino sulla
tovaglia bianca, il malato si affretta a gettare sulla curiosità del medico
parole che, spera, la placheranno: «Girai l’America, sempre correndo da un
posto all’altro. Ché mi aveva preso il demone della novità».
Potrebbe dire ben altro: certe volte, la sera, con i nervi ancora tutti svegli,
mentre nel letto aspetta l’infermiere per il sedativo, rivive come al cinema
quel suo passato vagabondo in un carosello di facce spettrali vicino a falò
accesi in improvvisati accampamenti, le marce solitarie, gli incontri ai
crocicchi, le ubriacature: un tempo lunghissimo e come screpolato in
centinaia di periodi incastrati l’uno nell’altro, quasi sognati.
Ha l’impressione che il tempo abbia smesso di pulsare.
Ma sto medico non demorde: eccolo consultare il quadernino nero e
rivolgergli nuovamente una domanda che si era appuntato: «Che cosa mi
vuol dire della bella selvaggia di cui descrive il danzare nella notte della
Pampa? ... la fanciulla liberata esalò la sua giovinezza... E della megera che
gliela offrí?»
Dino si passa una mano sugli occhi. Gli pare di vedere l’immagine di un
ritrovo per uomini. Nella pampa? Forse. Con le poche donne avvolte in
scialli neri, ammassate sul fondo. Come in un grande pollaio in cui, quando
entra il padrone, le galline scappano tutte in un angolo. Il colore rosso del
riverbero delle lampade sulla pelle cotta dal sole. E in piedi su una sedia una
bambina balla per gioco, forse la figlia del padrone: si esibisce davanti alla
madre e alle zie. Le gambine nude attirano gli sguardi: non passano la
spalliera della sedia, per smontare dovranno senz’altro aiutarla. E al collo
grassottello le pende una catenina con la croce.
Certo che lui si era avvicinato... l’immagine della grazia e della purezza,
sí... Se avesse voluto sensualità si sarebbe accostato a una di quelle donne.
No, no, che razza di idea. Quelle galline intente a starnazzare intorno alla
bambina. Si sarebbero precipitate su di lui sbattendo le alacce.
Completamente circondato e prigioniero, baciato o anche peggio da quelle
zitelle maritate, oh che bel divertimento marcondíron dirondà.
Dino si sente stringere lo stomaco. Aveva sette anni o poco piú, alla fine
della seconda elementare. Una poesia di un filo d’acqua che cantava
traversando un prato di margherite. In rime zoppicanti. Sua madre gli
domandò cosa mai gli fosse saltato in mente: che strana idea, scrivere una
poesia. E Dino a cercare di spiegarle che aveva sentito le parole
nell’orecchio, come se qualcuno gliele avesse sussurrate... Dopodiché per
mesi sua madre preoccupatissima aveva continuato a chiedergli: «Dimmelo,
hai di nuovo quelle ideuzze per la testa? Senti ancora quelle “voci”?»
Eppure erano soltanto un gioco innocente... Non risponde.
Il medico insiste: «Ho l’impressione che le mie domande le diano
fastidio».
Ah, finalmente se n’è accorto.
«Ma perché?... Insomma le dovrebbe fare piacere il fatto che la scienza
medica si interessi alla sua poesia... Non se ne sente lusingato?»
Lusingato? Chi? Io? Ma neanche per sogno. Lei proprio non capisce
un’acca, caro dottor Pariani... Naturalmente Dino non ha parlato, ha solo
pensato queste parole, ma ha le guance in fiamme, abbassa gli occhi.
Balbetta: «Era l’epoca in cui correvo e correvo, cosí in fretta che caddi in
una rete. Sferravo colpi, ma sotto i pugni incontravo solo aria. Era il vuoto.
Sentivo gli altri ridere, una risata che pareva uno sfregamento d’ali, come di
grilli o cicale. Ché tutti ridevano di me a Marradi: per prendermi in giro,
appoggiavano il dito qui sulla tempia, e lo muovevano cosí, a indicare che
mi mancava una rotella. Sghignazzavano, mi facevano diventare
nevrastenico».
Ma sí, dottore, cosa rimane da fare a un giovane nato in un buco rognoso,
quando arrivano gli anni molli in cui il disgusto e l’impazienza di essere
adulti salgono nel corpo come accessi di febbre? Abituarsi alle fanfaronate
degli accademici, alla violenza dei poliziotti? Adeguarsi alle prediche sul
Bene e sul Male, alle furbizie dei giochi di borsa, allo squallore dei
matrimoni di convenienza?... No. Gli resta il suicidio o la fuga. E lui è
fuggito.
Non posso raccontare la tua storia al mio medico. Primo, perché di te non
conosco quasi nulla; o meglio, non capisco se ciò che so l’ho vissuto
realmente o l’ho soltanto immaginato. Secondo, perché sono fatti miei. O
no?
Dovrei dirgli dei tuoi vestitini leggeri, del nastro rosa tra i riccioli, del
rossetto quasi nero che ti mettevi per sembrare piú grande. Magari dovrei
contargli di quando ti vidi la prima volta: tuo fratello Alfredo fumava
appoggiato a uno dei muri del patio e, davanti a lui, seduta sulla soglia della
pensione, tu eri intenta con una pinzetta a strapparti le sopracciglia,
guardandoti in un frammento di specchio. Se mi concentro, rivedo con
nitidezza il tuo gesto, mentre soffi via dalla pinzetta i peluzzi strappati e ti
lisci le palpebre col dito bagnato di saliva; eppoi tuo fratello che ti sbuffa
fumo sul viso per prenderti in giro.
Lo so che di nome facevi Maria, ma io ti chiamavo Bebè, perché eri poco
piú che una bambina... Insomma di te posso solo raccontare questi
particolari, non era la nostra una conoscenza approfondita. Neppure conosco
per intero la tua storia, cosa ti aveva portato a finire in quel postaccio di
malamorte a Sunchales. Ricordo il tuo strano sorriso mentre mi dicevi, quasi
con aria di sussiegosa importanza: «Io so cosa piace ai maschi».
Sostenevi di avere quindici anni. Può anche essere che fosse vero, ma
certo ne dimostravi al massimo undici o dodici. Di sicuro eri una delle tante
figlioline di immigrati, cresciute per strada e troppo in fretta.
Anch’io comunque baravo con te. Ma che ce ne potevo? In quel sudicio
barrio di Rosario, tra la noia e la fatica del lavoro, non c’era che una
distrazione per noi ragazzi: fare il duro picchiando qualcuno oppure contar
balle. Eccosí una volta – non so nemmeno io perché, dovevo essere ubriaco
– mi misi a sproloquiare su Marradi, sulla severità di mia madre, su come
m’avevano cacciato dal paese. Vedi un po’ com’ero pappamolla: io stesso mi
compiangevo, le lagrime mi colavano dagli occhi e dal naso, tremavo
proprio, mentre ti contavo la mia infanzia dolorosa, l’animo inasprito, le
carezze mai ricevute. Finché anche tu, stellina, cominciasti a piangere per «il
povero Dino», tutta commossa.
Da quel giorno prendesti a smaniare per me. Ti trovavo sempre appostata
all’angolo del cortile, quando rientravo dal lavoro nel panificio. Fischiettavi
una canzoncina:
Ya viene la noche triste
para mí que ando penando
duerman los que sueños tienen
yo la velaré llorando.
Via via che i giorni passavano, gli incontri con te sembravano sempre
meno casuali, anzi ogni volta avevo la sensazione che tu mi aspettassi al
varco. Se ero in compagnia, non ti avvicinavi, ma mi lanciavi occhiate
languide, sempre dando l’impressione di non volere da me nient’altro che la
consapevolezza che tu mi stavi rimirando. Tanto che il Pieraldo, che
condivideva con me la stanza alla locanda Lago di Como, un giorno mi
disse: «Scemo, non vedi che la Maria l’è innamorata come una gatta? Basta
che le fai un segno e quella lí ti salta nel letto!»
Io però non ci volevo credere.
Eppure una volta che stavo fumando al buio sulle scale, mi sei comparsa
davanti. «Non ti fermi mai a parlare con me, – mi hai rimproverato con una
voce che suonava pianto, – ma stanotte te lo voglio dire chiaro: che yo te
quiero».
Accesi uno zolfanello per guardarti in faccia: sudavi, avevi le guance in
fiamme, gli occhi ti si erano velati di lagrime. Ti risposi secco secco:
«Lasciami perdere, Bebè. Ché sono uno stronzo».
Ma tu continuavi a ripetere che mi amavi, mi afferrasti addirittura la mano
per mettertela sul petto, proprio sotto il tuo seno minuscolo: «Senti come mi
batte il cuore?»
Ritirai la mano, ma mi sembrava ancora di sentire il calore che emanavi.
Cercai di buttarla sul ridere, di spiegarti che eri troppo piccola. Volevo
proprio che te ne andassi e non trovai nient’altro da dirti se non che in Italia
avevo già una morosa. Non era mia intenzione compatirti o deriderti, lo
giuro, Bebè. Solo che eri davvero piccina picciò.
...Vedo la scena. Tu che dici: «Se non mi ami, non mi resta che
ammazzarmi». E io ribatto sorridendo: «Fa’ pure, il diritto al suicidio è
sacrosanto». Ché non ti ho preso sul serio.
Mi guardasti fissamente, le labbra sottili ti tremavano. Allora accadde
qualcosa che non potrei né spiegare né dimenticare. Perché mi sembrò che i
tuoi occhi si allargassero a dismisura. Come se si spalancasse una porta. Mi
ci affacciai a guardar dentro e vidi una terra piatta e vuota per miglia e
miglia. E la desolata e fredda solitudine di quel paesaggio mi fece
rabbrividire. Chiusi gli occhi, per non vedere. Quando li riaprii te ne stavi
andando e cantavi al tuo solito, sommessamente:
Ya viene la noche triste
para mí que ando penando...
Eri tornata a essere la ragazzina di sempre. Perlomeno cosí mi parve.
Strano destino il mio: le amiche dei momenti piú bui sono sempre state le
puttane con le loro eterne stupende porcherie. Ché a quell’epoca, il quartiere
dietro la stazione ferroviaria di Rosario era un ambaradàn di bordelli a poco
prezzo aperti a tutte le ore per noi tanos. Nelle serate di sabato sgambettavo
da un locale all’altro, da una ragazza all’altra, per trovare quello di cui tutti
gli uomini hanno bisogno: il caldo contatto con una mano femminile e il
sentimento di una segreta intesa.
Cosí feci anche quella notte, dopo la tua impossibile dichiarazione
d’amore. «Facciamo in fretta», dissi alla puttana che mi faceva strada su per
le scale di una delle case di piacere. Poi, una volta in camera, mi spogliai con
rabbia, mentre uno strano incandescente prurito mi rimescolava: avevo i
nervi a fascio. In un attimo le fui addosso, la rivoltai sul fianco, la presi. Ma
dopo l’appagamento non mi si spense l’agitazione, anzi mi parve di scoprire
dentro la mente una piega del tutto opposta, una vasta ineffabile melanconia.
Quando rientrai nella mia stanzuccia, mi tolsi i pantaloni, li misi sotto la
materassa perché non perdessero il garbo, eppoi mi addormentai come se
fossi ubriaco.
La gente intorno chiacchierava: che eri orfana, che tuo fratello era senza
lavoro, che eri molto dimagrita ultimamente. Io solo mi rendevo conto che la
verità era un’altra, che il mio rifiuto era probabilmente stato l’ultima mossa
di un gioco cui da mesi ti dedicavi all’insaputa di tutti in quella pensione per
poveracci. Una puntata che aveva come giocatrice solitaria una ragazzina,
anche se con la pazzia amorosa come unica compagna. Ultima mossa, ho
detto, ma non per questo la meno importante.
Ai lati della tua testa avevano deposto una rozza ghirlanda di fiori di poco
prezzo, su cui era stata spruzzata dell’acqua perché non appassissero. Forse
per questo il fazzoletto posato sul tuo viso si era inumidito, aderendo al naso
e alle guance, evidenziando l’incavo degli occhi, proprio come nelle
maschere funebri delle regine del c’erauna-volta. Cominciai a chiedermi se
sotto il fazzoletto non avessi per caso gli occhi aperti su quella terra desolata
che ci avevo intravisto qualche ora prima. Epperciò mi prese un gran
batticuore. Me ne tornai agitato nella mia stanza.
Quella notte di nuovo cercai un bordello. E quando l’appagamento
sopraggiunse, sentii che dall’anima scaturiva un’accecante voglia di lagrime.
Poi mi lasciai andare come se fossi morto.
Mi torna in mente una donna con cui ho scambiato la frase «ti amo».
Come ci siamo tormentati a vicenda, io e lei, quantunque senza dubbio io
l’amassi, ma l’odiavo anche, in fondo non so neppure che nome dare a
quello che provavo allora... Ero sull’altalena: un attimo insú e l’amavo, un
momento dopo ingiú e l’odio tornava a fluirmi alla testa insieme col sangue,
facendomi scoppiare la scatola cranica, venendo come a ondate, flusso e
riflusso: potevo arrivare anche a farle del male e poi l’onda si ritirava, e lei
tornava a essere per me la bellezza in persona, e io a credere di amarla e a
coccolarmi il ricordo anche di una sola carezza come se fosse una gran luce.
Mia piccola morticina Bebè,
tu non sai com’è bello e riposante per me pensare al silenzio in cui sei
immersa per l’eternità: mi permette di ricamare in questa lettera piú belle
parole d’amore, che tu non potrai smentire come di solito succede tra due
amanti. Epperciò tra tutte le innamorate che ho sognato – e che ora, per
riempire il vuoto di queste mie giornate, distribuisco nei tanti paesi dei miei
vagabondaggi – sei una di quelle a me piú care. Ci sono giorni che la tua
figura si fa piú confusa. Perché la mia testa di questi tempi, sai, è molto
stanca. Ma ci sono altri momenti in cui mi pare di conoscerti davvero molto
bene. E allora mi dico che, chi lo sa, forse ti ho davvero incontrata.
Ventuno
Púm, mamma quell’omo lassú!
Lettera alla Signora Madre
Madre,
ti rammenti la pentola che stavi sorvegliando quel giorno in cucina?
Riscaldavi il minestrone curando che la fiamma si mantenesse bassa, eppure
ogni tanto veniva alla superficie uno sbuffo di bollore da cui dovevi ritrarti,
altrimenti ti saresti scottata. Ti fingevi occupatissima, come se non avessi
tempo per ascoltare me e Padre, mentre si discuteva del mio passaggio
dall’Università di Bologna alla Facoltà di Chimica farmaceutica a Firenze.
Men che meno saresti stata disposta a prestare orecchio ai miei discorsi sulle
lezioni di Lettere che avevo già frequentato o sulle poesie pubblicate su
alcuni fogli bolognesi.
O forse il momento era diverso, qualche anno piú tardi, e la discussione
verteva sul mio possibile viaggio in Argentina, che Padre caldeggiava,
mentre tu parevi decisamente ostile, anche se non mi rivolgevi la parola, la
testa china sulla pentola.
Tuttavia oggi, che pure sono passati vent’anni, posso bene immaginarmi
come deve essere stato difficile per te fingere quel daffare indifferente: sono
anzi assolutamente sicuro che una gran rabbia ti ribolliva dentro e
semplicemente meditavi se fosse davvero il momento giusto di scagliarti
contro di me. Avevi solo bisogno di una spinta di qualsiasi tipo – un mio
sorrisetto, una parola detta in tono piú alto – e avresti rovesciato fuori come
un torrente in piena la tua collera, senza farti riguardo se ero in grado di
capire ciò che dicevi scagliando con furia le parole nel vapore della
minestra.
Credo che non ti importasse affatto se ti stessi a ascoltare o addirittura
fossi ancora in cucina; avresti parlato semplicemente perché era ora e, una
volta cominciato, avresti parlato anche da sola o almeno a quella pappa
verde che avevi davanti nel caldàro. Ché la litania dei tuoi rimproveri io la
so a memoria, Signora Madre, perché esplodeva ciclicamente, sempre
uguale, in un’escandescenza isterica; e si riassumeva in una sentenza: che,
non avendo io profittato della buona educazione che mi era stata impartita,
tutta tesa a sviluppare in me i piú nobili impulsi, ma anzi, dato che avevo
preferito abbandonarmi al vizio del vagabondaggio, il mio destino non
poteva essere che la galera o il manicomio. Pronunciavi il verdetto con
espressione arcigna come se tenessi ancora minacciosamente in mano quel
righello di ferro, pesante, con cui mi picchiavi sulle nocche da piccolo,
quando sbagliavo le tabelline.
Per te la nobiltà d’animo era qualcosa che si eredita dai lombi dei propri
genitori e che si concretizza in un’azione altisonante: «Con tutto quello che
ti ho insegnato... Guardatelo come raglia! Sentite come puzza di sigarette: ha
il fegato marcio!... Ma come hai fatto a uscire un tale buonaniente?! Perché
non sei come tuo fratello Manlio?»
Che fosse intervenuta un’anomalia nella trasmissione di quei celestiali
caratteri che tu mi portavi in dote, era un pensiero per te insoffribile:
purtroppo c’era già stato in famiglia lo Zio Matto...
Non sai com’è terribile, Madre, non avere la piú pallida idea di quando
possa scoppiare la rabbia della persona con cui si abita sotto lo stesso tetto,
che dorme nella stanza accanto, che si siede a pranzare con te; sentirla
pronunciare mezze frasi che dicono e smentiscono; insomma, ascoltare tutto,
dai mugugni ai borbottii del ventre, e tuttavia non sapere mai cosa pensavi,
ma veramente, perché le tue parole servivano soltanto a mascherare i tuoi
pensieri. Mi prende la furia se ci rifletto davvero. Com’è potuto avvenire?
Com’è che fino a pochi anni prima, quando avevo addosso l’odore fresco del
sapone dell’infanzia, ti davo la mano con fiducia e allegria e da te mi sarei
lasciato portare in capo al mondo?
Non ho mai capito cosa pretendessi da me, Madre. Salire sulla torre
campanaria gridando una frase altisonante e tirarmi teatralmente un colpo in
testa?... Baldanzosamente bruciare i campi di grano dei filistei alla maniera
di Sansone? Andare in guerra e, nello slancio crociatesco di un gesto eroico,
immolarmi per la patria? Probabilmente immaginavi la scena come in una di
quelle opere teatrali della compagnia amatoriale di Faenza che tanto ti
piaceva, con musica straziante in sottofondo, porpora di incendi e sventolio
di bandiere.
Se mi fossi platealmente sacrificato sull’altare della tua boria, Madre,
saresti stata un po’ piú contenta? Mi avresti dato un bacio e i confetti del
buon Gesú?
Ho tentato di agire sensatamente, sottraendomi, allontanandomi. Ché, se
la natura ha dato le ali a certi esseri perché si salvassero dagli attacchi delle
specie piú forti, ci sarà bene una ragione. E io nel mio animo ho sviluppato
le ali del sogno per diventare leggero e sfuggire a chi mi faceva del male.
Volar via, star lontano da te. Tutta qui la mia vita... Che strano, capire solo
dopo tanti anni dove la mia smania di viaggiare è cominciata, che cosa ha
dato forma al mio destino.
Ma tu non hai compreso. Per te la leggerezza era soltanto lazzaronaggine,
e io un disertore della vita.
Mi hai strappato le ali. Perché?
Non ce l’ho con te, Madre. Perlomeno non piú. In fondo a Castel Pulci
non sto peggio che a Marradi. E quando di notte a sorvegliare è una brava
persona come il Tarcisio, si può perfino chiedergli tranquillamente di andare
fino al bagno. Ché i primi freddi fanno correre alla latrina piú spesso. La
luce della lampada di chi mi accompagna scivola sulla parete del corridoio,
come un battito d’ali, e cancella i ricordi sporchi. Il resto dell’edificio è
avvolto dalla scurità, tal quale lo sprofondo di una miniera. La tromba delle
scale si perde dritta sopra di me in un foro d’ombra.
Inquieti spiriti, sia dolce la tenebra...
Soltanto freddo e silenzio mentre torno indietro piacevolmente alleggerito.
Che bello rintanarsi nel letto e giacere cosí bene, cosí bene, come le nevi
giacciono nei campi d’inverno, tutte bianche, per discendere per le gambe,
avvolgersi sulle ginocchia e correre via coi fiumi taciturni e addormentati –
vera acqua viva – verso i mari, gli oceani.
Nella lucina gialla del fanale che trapela dal finestrino accanto al mio
letto, l’armadio delle medicine sbadiglia con i suoi cassetti che qualcuno ha
dimenticato aperti.
Allora senti, Madre, apri bene le orecchie, ascolta quel che sta per dirti tuo
figlio. Il tuo figliolo cattivo. Non l’altro, il buon Manlio, che fa sempre bene
ogni cosa e dice parole che non bruciano; che non ha bisogno del ricordo di
una passeggiata alla fiera, mano nella mano con te a cinque anni, per
continuare a volerti bene; perché lui ha avuto da te l’affetto di tutte le sere e
tutti i giorni e tutti i minuti. E, quando morirà, potrà sgranare il rosario di
memorie della sua vita, seduto alla destra di Domineddío.
Guardami, Madre, domandami perché tremo parlandoti, e mi imbroglio,
perfino tartaglio.
Sento che la mia vita è qualcosa che gli altri non possono capire. Perché io
ho visto le notti dall’altra parte del mondo, con i silenzi gravi delle mandrie
addormentate, lo sbadiglio degli struzzi, nell’immensità della pampa in
riposo. Allora, vicino al falò del Campamento del Mapa, enumeravo per
l’Alvaro il nome delle costellazioni, gli mostravo la Cruz del Sur e gli
spiegavo: «Quelle quattro stelle in Italia non si vedono».
Lui mi guardava sbalordito, non capiva, ribatteva che la Cruz lui l’aveva
vista sempre lí, fin da bambino: «Se il cielo esiste in tutte le parti del mondo,
por qué razón in Italia queste stelle non ci sono?»
A Dino pare che il fanale nel cortile, scosso dal vento disegni cerchi
ondeggianti di luce acquosa sul soffitto. Gli sembra di udire un
chiacchiericcio di voci malevole e insistenti. Eppure sa che nella camerata
non c’è nessuno. A parte il dottor Pariani. Ché, anche se chiude gli occhi o
nasconde la testa sotto il lenzuolo, la faccia dello psichiatra è lí, accanto al
suo letto.
Una porta sbatte nel corridoio, la macchia di luce, come un occhio
sensibile, scivola giú per il muro, sfiora la tenda e da lí torna al solito posto.
Ma proprio tranquilla non continua a esserlo piú. Come se fosse viva e
pensasse. Chissà mai se una luce può pensare, ma supponiamo che pensi...
Il malato passa le dita sulle labbra riarse dalla febbre. Dice tra sé, a voce
alta: «Sono un animale triste... O forse questa frase l’ho letta in qualche
libro. Ché io, prima di ammalarmi, leggevo tantissimo: Carducci, Pascoli,
D’Annunzio, Poe. Molto Poe. Una volta entrai nella biblioteca Rivadavia.
Ero seduto di fronte a un leggio. Le lampade elettriche oscillavano
lentamente. Su da le pagine risuscitava un mondo defunto. Eravamo in tanti
e tutti morti. La faccenda mi stupiva un po’, ma ho imparato che sono strane
le faccende di questo nostro mondo. In America ancora di piú. Ché laggiú la
gente è senza passato. Il futuro è l’unica cosa che ti rimane, quando scendi
da un bastimento».
Ventiquattro
Era una melodia, era un alito?
Sfida musicale ma non troppo a un villanzone del Nuovo Mondo
Estimado caballero de fina estampa,
spesso ho notato che il ripensare a offese subite mi è causa di intensificata
sofferenza. Ma è piú forte di me: ogni volta ci ricasco e, appena mi torni in
mente, la mente mi ribolle di rancore.
Ci incontrammo all’estancia Etchegarray, una domenica di fine estate.
Ricordi? Io comunque ci ero arrivato la prima volta qualche settimana prima,
in occasione di una spedizioncella di lavoro: l’ingegner Grenacher infatti
aveva mandato me e Alvaro in cerca di latte e uova, all’epoca in cui tutti e
due lavoravamo come aiutocuochi per l’accampamento della ferrovia nei
pressi di Bahía Blanca. Vedemmo che in cima al tetto dell’estancia era issata
la tradizionale bandiera di benvenuto, segno che qualsiasi persona di
passaggio poteva essere ammessa alla tavola dei proprietari, all’ora di
pranzo. Ci accolse festevolmente la giovane padrona di casa, doña Manuelita
Etchegarray. Ché, se chiudo gli occhi, posso ancora farne il ritratto preciso:
esile e nervosa nei pantaloni da amazzone, l’ovale del viso risaltava tra due
bande di capelli lisci fissate in una lunga e foltissima treccia della grossezza
del mio braccio... Saputo che ero italiano, mi intrattenne con affabilità,
parlandomi di ciò che definí il suo «massimo sogno»: andare in Europa a
visitare i tesori d’arte di Firenze e Roma.
Mentre Alvaro stava in disparte, quasi annoiato da quei discorsi, io non
riuscivo a dissimulare il mio stupore: primo, perché non mi capacitavo di
ritrovarmi in un posto sperduto a parlare di arte italiana; secondo, perché
quella ragazza emanava un fascino speciale. Se al paese dove sono cresciuto
si dice che la donna bionda è meno peccato, quella Manuelita dalla trecciona
nerissima era tinta dal peccato originale del desiderio. E mi sentivo debole di
fronte a lei, quasi fossi malato.
Se ne accorse Alvaro che, in un momento che doña Manuelita si era
allontanata per dare ordini ai peones, interruppe il mio incanto amoroso
offrendomi da bere da una caraffa di clericó di cui si era appropriato mentre
io ero intento a parlare con la padrona di casa. «Bevi, Campana, – mi disse.
– Vino bianco ghiacciato con frutta di stagione. Col caldo che fa, è una
delizia». Poi, vedendo il persistere della mia aria distratta, mi diede di
gomito: «Si può sapere cos’hai? È per la padrona di casa? Non ti facevo
cosí... sensibile di cuore. Non dico che non sia bella. Ma è meglio che gente
come te o come me non ci facciamo una malattia: lei è una ricachona e noi
abbiamo le tasche vuote; e senza denaro non ci sono paternostri che
tengano».
Saggio Alvaro... Perché non gli diedi retta?
A fine pranzo – sopa de mondongo con ensalada de papas, huevo duro y
ajo picado – mentre ci apprestavamo a andarcene, doña Manuelita mi
annunciò che l’ultima domenica del mese avrebbe organizzato una festa: si
sarebbe fatta della musica, parlato di poesia e di libri. Lo disse per puro
sfoggio di mostrare il suo tenore di vita? O era un invito? Non riuscii a
capire.
Alla fine gli uomini uscirono tutti a fumare sulle gradinate dell’estancia,
mentre le donne agitavano ventagli per rinfrescarsi. Mentre ti chinavi a
baciarle la mano, le sussurrasti parole galanti che mi rimescolarono di
gelosia. Una specie di nausea al brusio al vino alle sciocchezze alle risate.
Uscii dalla veranda in cerca d’aria. Era ormai notte fonda, neanche una luce
nella pianura, ma il vento caldo non cessava di soffiare. Mi allontanai di un
centinaio di metri, buttandomi poi sul prato. Come un cane ferito.
Ecco come ti ricordo, caballero: con odio. Guardo il soffitto del refettorio
di Castel Pulci e ho un bel dirmi: «Dino, lascia perdere quello stronzo!» No,
soffro acutamente, proprio come allora. Credo sia faccenda di meccanica
psicologica. Come succede nei circuiti elettrici e magnetici, sui punti di
maggior resistenza si concentra l’energia.
Eccosí ripensando a te, la sofferenza si intensifica. Non smetto di
rivangare quella sera, la tua danza teatrale, l’aria di sufficienza con cui mi
squadravi dall’alto in basso. E come stortasti la bocchina a culo di galletto
quando dissi che avrei voluto avere un pianoforte a disposizione per suonare
un pezzo classico in onore di doña Manuelita. Ogni volta che ci trovammo
vicini, sottolineasti in ogni modo la distanza di classe. Quando tentai di
rompere il ghiaccio parlando di musica, mi zittisti seccamente: «In certi casi
la musica migliore è il silenzio!»
Chinandoti verso di me con degnazione, le basettone che ti incorniciavano
il viso mi fecero il solletico: era troppo!
Fin dal primo momento, quando mi fosti presentato e vidi sulle tue guance
quelle straordinarie basette rossicce, ebbi la sensazione che la mano mi
prudesse: una specie di voglia piú o meno giocosa di toccarle e palparle.
Come quella tentazione si sia concretizzata in un’azione reale, per quanto mi
rompa il capo non riesco a chiarirlo.
So che tesi la mano acchiappandone una con forza, cercando di stringerla
tutta quanta nel pugno.
«Qué pasa? Mi lasci! – sussurrasti confuso, agitando le mani nell’aria, ché
ancora sembrava che tu danzassi. – Mi lasci, hombre!»
Qualcuno balzò su di me con l’intenzione di separarci. Ma io non mollavo
la presa. Tu gridavi, barcollavi, cercavi disperatamente di afferrarti al
fazzoletto che portavo legato al collo.
Quando mi staccarono da te, digrignavo i denti: «Vi detesto! Siete tutti
quanti dei mostri!» urlavo. Quindi aprii la mano destra: un ciuffo di peli
rossi cadde a terra. Solo allora compresi ciò che avevo fatto. Scappai.
Vieni, caballero. Noi ospiti del reparto cronici siamo già tutti entrati nella
sala con la lentezza degli artisti consumati, abbiamo ripassato la partitura per
una decina di minuti e adesso accordiamo gli strumenti: strisciare le gambe
delle sedie, pestare i piedi nervosi, picchiettare le dita sul tavolo, trombettare
di culo, sbadigliare. Ci tormentiamo, presi dall’assillo di ricordare le note di
un passaggio particolarmente difficile. Quando finalmente saremo pronti,
alle sette in punto, si apriranno i battenti della porta bianca della cucina e
farà la sua entrata in abito nero elegantissimo il Tonio, nostro direttore
emerito. Allora tutte le facce di noi orchestrali si volteranno a guardarlo, la
testa piegata da una parte in atteggiamento reverenziale, mentre lui
comincerà a dirigere col mestolo il nostro silenzio. Tutti i rumori voleranno
via verso il soffitto e avremo l’impressione di portare dentro di noi un
segreto prezioso. All’unisono rivolgeremo gli occhi alle nostre scodelle,
aspettando che l’ispirazione delle muse ci entri nel sangue, faccia vibrare i
nostri nervi, poi ci abbandoneremo alla sinfonia per cucchiai, sentendo le
tempie pulsare fragorosamente, la testa riempirsi di lava incandescente;
dimenticando per qualche momento la nostra condizione di degenerati.
Sapremo che il pezzo musicale è finito quando l’inserviente verrà a
sparecchiare...
Oggi andrà tutto per il meglio, lo sento. Ieri invece purtroppo il concerto
si è interrotto prima del solito. Un nostro compagno d’orchestra ha infranto
il silenzio con un grido strozzato, cadendo poi con la testa dentro la scodella,
quasi avesse voglia di bersi la minestra a lappàte. Sono corsi i sorveglianti,
ho sentito il rumore del corpo trascinato e uno squillare lungo di campanelli
lungo i corridoi e i pestoni degli infermieri per tenerci calmi.
Che piacere trovarvi in casa, dottor Freud. Era da tempo che volevo
chiamarvi per complimentarmi con voi. Avete infatti detto una cosa
sacrosanta: essere normali è la cosa piú difficile di tutte... Io non ci sono
riuscito, ragion per cui ora striscio cosí in basso. Sapete cosa dissero i medici
quando mi chiusero qui dentro? «Un esempio lampante di degenerazione
dovuta agli stravizi di alcol e caffè, di cattiva alimentazione, di poco dormire
e di male frequentazioni».
Queste parole me le sono annotate nel mio taccuino mentale. Perché devo
confessarlo: avrò perduto l’immagine e la somiglianza d’un uomo
intelligente, ma ho grande apprezzamento per le definizioni scientifiche.
Anche se, in fin della fiera, non so che pensare di una società che chiude
dietro alti muri chi non si adegua alla cosiddetta sanità. Alla maniera del
gatto che sotterra i propri escrementi.
Mi scuso per queste mie frasi forse un po’ confuse, ma stasera sono
stanco, oggi è stata una giornata di quelle difficili, come sempre succede
quando i nostri sorveglianti hanno piú malumore del solito. Comunque son
contento che non abbiano ancora inventato un telefono che oltre alla voce
trasmetta anche l’immagine di chi sta all’apparecchio, perché se voi mi
vedeste in questo momento, con la divisa marroncina di Castel Pulci
macchiata di sangue e la ferita che mi sbrega la faccia, non direste
certamente che questa stessa persona che vi sta parlando sia stata a suo
tempo un soggetto d’intelligenza brillante, una testa fina davanti a cui si
apriva una luminosa carriera artistica.
Ché adesso vi spiego la faccenda della mia attuale ferita. Stamattina mi
affaccio allo stanzino degli infermieri per chiedere se io e il Vincenzino
potevamo giocare a mondo. Ché, qui dove sto, bisogna chiedere il permesso
per qualsiasi stupidata. Ora dovete sapere che là dentro, sopra la sedia del
sorvegliante, stanno appese due grandi stampe, credo a mo’ di promemoria
per noi degenerati. La prima è divisa in tre parti uguali. Rettangolo numero
uno: un bambinetto in piedi su un seggiolino ruba la marmellata dalla
credenza; numero due: lo stesso personaggio divenuto un giovanotto
benvestito, tipo impiegato di banca, mette le mani dentro una cassaforte e
ruba del denaro; numero tre: il giovane è diventato ormai un cinquantenne
avvizzito che indossa la divisa di carcerato. In basso corre questa scritta:
Sarebbe stato un altro uomo se qualcuno l’avesse corretto! col punto
esclamativo finale. Insomma una di quelle stampe di poco prezzo che si
possono anche trovare nei libretti di catechismo, che ci mettevano in mano
da bambinetti: la storia di un fallimento tale da lasciare storditi; soprattutto a
causa di quell’uguaglianza – marmellata = banconote – che fa una certa
impressione. Non siete d’accordo, dottor Freud?
Ma non è finita. Sulla parete opposta c’è un altro quadro, stavolta
bipartito. Nella prima metà c’è un poveraccio – viso smunto, calzoni
sbrindellati, piedi nudi – che si tiene lo stomaco, perché evidentemente ha i
crampi a causa della fame. Il titolo è: Cosí finisce sua vita chi spreca. Nella
seconda metà c’è invece un borghesone pasciuto davanti a una tavola
riccamente imbandita, alle cui spalle si può vedere una cassaforte aperta e
strapiena di monete. La indovinate già la scritta?... Ovviamente proclama:
Cosí finisce sua vita chi risparmia.
Vedete, egregio dottore, ogni volta che metto la testa là dentro, non posso
evitare che l’occhio mi cada su quei due quadri. Robaccia pretesca, certo, ma
per me molto significativi: mi sembra che in un certo senso alludano alla mia
vita, ai rimproveri di mia madre che ripeteva: «Sei come la malerba! Se
persisti a fare il vagabondo, finirai in gattabúja un giorno o l’altro!»
Non voglio farla lunga, epperciò non starò a ripetere altre amenità che mia
madre mi snocciolava quando aveva i suoi cinque minuti di nervoso... Io
comunque ogni volta facevo spallucce, come Rimbaud
Je m’en allais, les poings dans mes poches crevées
Eccosí stamattina davanti a quelle immagini non sono riuscito a
trattenermi e ho detto al sorvegliante: «Siccome non c’è il due senza il tre, io
qui ci vedrei bene un terzo quadro: con codesto poveraccio che prende per il
collo il riccastro cicciuto e gli fa sputar sangue. E sotto la scritta: Cosí
finisce. Punto e basta. Senza aggiunte ulteriori».
Purtroppo il sorvegliante di oggi, che si chiama Calibàn, è uno zoticone
che i motti di spirito non li capisce. Figuratevi che si è alzato dalla sedia e
col manganello che tiene sempre sottomano mi ha dato un colpo in testa e mi
ha chiuso le mani dietro la schiena con il solito bracciale di contenzione. Al
medico che è accorso, il suddetto Calibàn ha poi dichiarato che io ho tentato
di prenderlo per il collo. Come se minacciassi lui stesso di un gesto che io
avevo proposto solo per metafora.
Siete ancora lí a ascoltarmi, dottor Freud? Sí? Bene. Volevo spiegarvi che,
riguardo a codesto terzo ipotetico quadro, di pura fantasia, non è senza
ragione che vi ho parlato. Perché io stesso una volta cercai di applicare una
tal pratica di ribellione con i miei genitori, ma la conseguenza fu che
entrambi mi radiarono dal registro della vita familiare.
Vedete, mi piacerebbe contarvi tutta la mia storia con ordine, ché forse la
potreste mettere in uno dei vostri interessanti libroni. Per me sarebbe un vero
piacere. Potreste, per esempio, intitolarlo: Il caso del poeta stamburato.
Ma poiché da un momento all’altro verrà a prendermi il sorvegliante per
accompagnarmi dal dottor Pariani, mi affretto a riferirvi solo l’essenziale,
confidando nel vostro intuito.
Tante volte ho sentito gente discutere se noi esseri umani siamo viscere
dominate dal cervello o cervelli dominati dalle viscere. La carne è il nostro
terribile motore, tuonano i preti dai pulpiti. Ma, secondo me, non è la carne a
determinare i nostri comportamenti, bensí l’immaginazione: qui sta la
tentazione dell’assoluto, qui ha origine la febbre. È l’immaginazione che ci
rende schiavi...
Ho sempre odiato le barriere. Per questo venni in Argentina: volevo la
pampa infinita, senza termine tranne che il cielo. E come chiave della mia
voglia di immaginare senza limiti misi te, Manuelita, unica e irripetibile: mio
desiderio, mia seduzione, mia brutale sofferenza, mio castigo, furia che mi
brucia senza rimedio. Ché amarti, Manuelita, non è stata mai una cura per
me, piuttosto l’acutizzarsi della mia eccitazione,
Dolorosa palomita
Clavelito de ilusión...
¡Dino, no cantes eso! No cantes más, que las canciones me dan ganas de
llorar.
Come posso dimenticare la mia mano sul tuo braccio: sotto la seta della
camicia sentivo la levigatezza della tua spalla tremare sempre di piú. Il
formicolio dalle dita mi si spandeva per tutto il corpo... «Por favor, no, ahora
no, ahora no», dicevi, sempre piú debolmente. Che incanto le tue intimità
umide e scure che avevano il sapore dell’origine del mondo.
Dolorosa palomita,
Clavelito de ilusión.
El amor crece nel mundo
Durante todito el año.
Era una canzone cosí inesorabilmente triste, quella che cantava il vecchio
con l’arpa andina: a me sembrava dire che ognuno sta solo sospirando, e che
la natura – cielo, fiori, colombelle – non può che confermarci che l’amore è
sempre febbre, dubbio, vanità, crudeltà. Ché anche tu soffrivi, eri pazza di
gelosia.
Dal letto, dove sta sdraiato, il malato gira lentamente lo sguardo verso il
dottor Pariani. Alza una mano tremante, la riabbassa. Torna a guardare il
soffitto parlando come per sé solo: «Ci sono troppi topi qui a Castel Pulci. Li
sento ogni notte: corrono nei muri, si fermano quando si accorgono che mi
metto in allarme, attendono che io torni a sdraiarmi, annusano il silenzio
eppoi ripartono al galoppo». Guarda fuori dalla finestra. «Nel cortile c’è un
cavallo. E sopra il cavallo, un can barbone. Sopra il cane un gatto, sopra il
gatto un gallo... Tra un po’ vedrà sbucare la testa del gallo dalla inferriata...
Mi spiano», aggiunge sottovoce.
«Le fa ancora male la testa?» domanda il medico.
Il malato fa segno di sí col capo. Spiega che è colpa delle energie che sta
sprecando a causa della politica sovietica: «Ché il cadavere di Lenin sono io
che lo mantengo intatto con le onde del mio cervello. Per questo la polizia
marconiana è venuta a pestarmi, mi ha dato una scarica fortissima e mi ha
consigliato di sparire. Ma non saprei dove andare: sono cosí stanco, non ho
piú voglia di cambiare. Un tempo era diverso, saltavo su un treno e via. Ho
girato il mondo, ho conosciuto russi, americani, francesi, molti erano del tipo
suggestivo, ci andavo d’accordo perfettamente. Però non voglio che si
disturbino a venire a trovarmi. Ora sto bene qui con la mia macchina per far
andare indietro il tempo. Anche se a volte mi dico: perché mi do tanto da
fare per creare ste macchine?... Dottore, c’è qualcosa di fondamentalmente
sbagliato nella razza umana, non crede? – alza l’indice con l’aria ispirata,
come se dicesse una profonda verità. – Ché vi sono dei matti saggi e dei
saggi matti. Non lo sapeva, dottor Pariani?»
«Andiamo, signor Campana, è tardi: è l’ora di spegnere le luci. Se tutti i
pazienti fossero come lei...»
«C’è qualcosa di terribile nella parola “paziente”. Non crede, dottor
Pariani? Paziente... Suppongo che venga da pazienza. Essere malati è una
faccenda noiosa e i pazienti sono persone che devono avere pazienza... “La
pazienza vince la scienza”, diceva mia zia», ride il malato, come se
pronunciasse la battuta piú divertente del mondo.
Trenta
Sulla pampa nella corsa dei venti
Commento per l’Ipocrita Lettore
Sul carro c’era un uomo. Doveva avere una cinquantina d’anni, ché già i
capelli gli erano tutti ingrigiti. I suoi occhi serrati dal dolore e dalla
coscienza di stare morendo si aprirono per guardarci. Le labbra gli
tremarono in un ultimo pensiero: «Italia... Giovanna...» Poi si irrigidí
boccaperta.
Un cavallo era morto, l’altro no, ma era rimasto incastrato sotto il carro.
Lo vedemmo girarsi verso il compagno e il padrone, annusare la morte e
dare un balzo, cercando di strapparsi via dal carro sfasciato, a scossoni
terrorizzati, come sotto una pioggia di frustate. Aveva occhi iniettati di
sangue e sul collo la criniera gli si agitava selvaggiamente: impossibile per
noi avvicinarsi, ché batteva disperatamente gli zoccoli sferrando calci in
tutte le direzioni. Cercò di sganciarsi dall’attacco, con furia tale che la zampa
posteriore andò a incastrarsi tra i raggi di una ruota. Sentimmo il rumore di
un osso che si spezzava. Di sicuro soffriva terribilmente, ciò nonostante non
smetteva di dare balzi rabbiosi. Quando il suo furore cominciò a diminuire,
lo scozzese gli si avvicinò e constatò che si era azzoppato: sopra lo zoccolo
un osso aguzzo della pastoia sporgeva e, a causa del frenetico dibattersi della
bestia, aveva reciso la pelle.
Eravamo tutti sbigottiti, il macchinista piangeva e non si dava pace.
Nessuno di noi sapeva spiegarsi come mai il carro fosse rimasto fermo,
come aspettando il treno. Forse l’uomo dormiva, o non era capace di
calcolare le distanze.
L’unica cosa da fare era togliere il carro di traverso sulle rotaie e rimettere
la locomotiva sul binario. Ma prima di tutto bisognava seppellire il morto,
perché sopra di noi aveva cominciato a roteare uno stormo di avvoltoi
carognoni. Scavammo una buca abbastanza profonda e ci buttammo il
cadavere che poi ricoprimmo accuratamente perché non fosse pastura per i
rapaci. Qualcuno si inginocchiò, tutti ci togliemmo i berretti, un piemontese
che lavorava come lampista recitò una preghiera a alta voce: «Deh, buon
Gesú, non perdete quest’anima che voi avete creata col vostro soffio...»
Le parole risuonarono nel desierto calcinato che ci circondava. Il cavallo
ancora vivo nitrí, quasi a commentare il requiemmeterna. Di certo era
spaventato dai mangiacadaveri che si erano posati a una ventina di metri da
noi e saltellando lentamente andavano avvicinandosi, piegando curiosi la
testa come per studiare la situazione. Il nostro affaccendarci intorno alla
locomotiva non sembrava affatto preoccuparli, né erano intenzionati a
desistere: ma forse succede cosí anche per gli esseri umani, perché
l’imperativo dello stomaco è sempre piú forte di qualsiasi paura.
Il piú intraprendente degli avvoltoi giunse a pochissima distanza dalla
testa del cavallo già morto. Allungò il collo sulle narici della sua preda, da
cui spenzolava un coagulo di sangue. Poi, con spavalderia, saltò sul muso
del cavallo e diede una beccata a quegli occhi ormai spenti. Fu il segnale per
gli altri avvoltoi che si avventarono sulla povera bestia. Costole, zampe,
cranio: tutto fu metodicamente spolpato. E ciò avvenne sotto lo sguardo
terrorizzato dell’altro cavallo che smaniava per liberarsi.
L’impacco freddo che ti hanno messo sulla fronte per calmare la febbre
sembra darti un po’ di sollievo. Ogni tanto farfugli qualche parola sul buio:
forse ti dà fastidio che la pezzuola bagnata ti impedisca di vedere la
stanza?... E allora? Meglio cosí, Dino, tanto cosa ci sarebbe da vedere? il
soffitto dell’infermeria? le grate alla finestra?
Réstatene lí tranquillo al buio, come in una tana segreta, dove pensare e
scrivere lettere al mondo, senza che nessuno ti disturbi.
Piú nell’ombra è la vita dello psichiatra Carlo Pariani, nato sul lago Maggiore, a Intra, l’8
novembre 1876. Appassionato d’arte e di poesia, visitò Dino Campana internato nell’Asilo di Castel
Pulci per una decina di volte. Degli incontri, che vanno dal novembre del 1926 all’aprile del 1930,
rimane testimonianza nel testo Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli
scultore, pubblicato da Vallecchi nel 1938. Su tale libro l’ambiente letterario ha dato giudizi molto
severi, derivanti forse da un senso di colpa diffuso verso Dino Campana, cosí spesso maltrattato e
dimenticato dai critici. Mario Luzi ne dirà che soltanto «un senso di sincera commiserazione e di
disgrazia salva la grettezza di questo documentario» («Il Bargello», 28 maggio 1938). Unico effetto
della pubblicazione di Carlo Pariani sembra essere l’iniziativa promossa da Bargellini su
«Frontespizio» per dare una tomba al poeta, che finalmente fu sepolto a Badia a Settimo nel marzo del
1942.
Carlo Pariani però non fece in tempo a vedere quella lapide: era morto a Laveno Mombello, sul suo
lago, il 12 agosto 1941.
Il libro
«Cosa resta a fare un giovane in questa
Europa decrepita? Meglio l’America col suo
azzardo dell’ignoto: quando piove, chi non ha
casa se la trova...»