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Scrive Leopardi in un luogo della

sua Storia del genere umano: «E


Giove seguitò dicendo: avranno tut-
tavia qualche mediocre conforto da
quel fantasma che chiamano Amo-
re». Non diversamente il protagoni-
sta di queste pagine (lo stesso auto-
re, forse; ma forse no, a dispetto
delle coincidenza onomastica), asse-
diato dall’inverno in un albergo ro-
mano, rievoca, per medicina dei suoi
accessi d’angoscia, antiche venture di
cuore nel Sud, al tempo della gioven-
tù. Ne risulta uno sdoppiarsi dell’io
parlante in due città ed età diverse
sotto due maschere alterne, in alta-
lena perpetua fra abbandono e impo-
stura, sfogo ingenuo e farnetico astu-
to. Un diario-romanzo, insomma, che
via via può leggersi come ballata del-
le dame del tempo che fu, o come
Mea Culpa di un vecchio che vana-
mente si ostina a promuovere in leg-
genda, attraverso ilarotragici ingra-
naggi di parole, la sua povera «vita
nova».
g.b.III

In copertina:
Fleurs étranges di Alberto Savinio (parti-
colare). Collezione privata, Roma..
La memoria

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Gesualdo Bufalino

Argo il cieco
ovvero
I sogni della memoria

Sellerio editore
Palermo
1984 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo
Argo il cieco
ovvero
I sogni della memoria

Arge, iaces, quodque in tot lumina lumen habebas


extinctum est, centumque oculos nox occupat una.
OVIDIO, Met., I
A G.
alla sua salvezza
O
Locandina delle intenzioni. Capitolo zero.

Perduta per timidezza l’occasione di morire, uno


scrittore infelice decide di curarsi scrivendo un libro
felice. Ne chiede l’argomento, secondo l’uso, ai cento
occhi della memoria e ai solluccheri di gioventù.
Sennonché, più il racconto va avanti, e si trucca di
fiabe, e formicola di luminarie, più lascia varchi fra le
righe al soffio del nero presente. Non resta allo
scrittore che differire sine die la salute, pago d’aver
cavato dall’avventura qualche momentanea lusinga ad
amare l’inverosimile vita.
Partire da questa ipotesi. Poi si vedrà che succede.

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I
L’autore, per rallegrarsi la mente, ripensa antiche letizie e pene
d’amor perdute in un paese che non c’è più.

Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno.


Né prima né dopo: quell’estate. E forse fu grazia del
luogo dove abitavo, un paese in figura di melagrana
spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà
ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai
suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da
pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all’altro,
trafelate come staffette dei Cavalleggeri del Re…
Che sventolare, a quel tempo, di percalli da corredo e
lenzuola di tela di lino per tutti i vicoli delle due
Modiche, la Bassa e la Alta; e che angele ragazze si
spenzolavano dai davanzali, tutte brune. Quella che
amavo io era la più bruna.

Ballavo male, nel cinquantuno. Non che avessi


ballato mai bene sin dal principio. Tuttavia coi tanghi
figurati e le polche qualche confidenza me la pigliavo,
sbagliavo solo le giravolte. Mentre ora che da
entrambe le Americhe sbarcavano ogni giorno a decine
i nuovi passi e nomi di danze, avevo voglia di
esercitarmi davanti allo specchio della pensione,
accompagnandomi sfiduciatamente col fischio, avevo
voglia… Sulle piste, nelle sale, dovunque mi capitasse
di aprire e chiudere a vanvera la forbice delle mie

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gambe, tutti i sorrisi e gli applausi d’agosto erano per
un altro, Liborio Galfo, il virtuoso del bughivù.
Poco male, ero sui trent’anni, allora, uno più uno
meno; e, per un motivo che so io, non avevo mai avuto
vent’anni. Li ebbi allora all’impensata in regalo da
quell’estate, dopotutto m’erano dovuti.
Ora io non permetterò a nessun sapientone di
Francia di venirmi a dire che non si è felici a vent’anni,
per tardivi e posticci che siano. Anche se si ama, e non
ci ama, una bruna dal viso d’uliva, dal corpo di
serpentello, con la voce che fa glu glu nelle canne della
gola; anche se lei non ha che disprezzi per il miope
bleso poeta e riserva il lampo degli occhi solamente
alla concorrenza. No, non si è infelici, sebbene si
proclami a gran voce di esserlo, e si pianga volentieri
un sabato sì e un sabato sì, di ritorno dalle veglie di
Cava d’Aliga, prima di prendere sonno e dormire
dodici ore di fila… Si piange, si dorme, si sogna. E in
un sogno uno i rivali se li mangia vivi, gli disordina a
volontà i riccioletti del capo e i baffetti moschettieri,
gli guasta la piega del calzone sulla gamba trottolina.
In sogno non ci vuol niente, nel bel mezzo d’una
piroetta, a collocare sotto quei tacchetti, come una
mina di Pietro Micca, l’irresistibile buccia d’una
banana…

Gli amori non corrisposti, credetemi, sono i più


comodi. Senza nessuno dei sapori di cenere e aceto che
accompagnano gli effimeri unisoni. Io, un po’ l’avevo
imparato dai libri, un po’ mi faceva gioco
persuadermene, per ritegno, musoneria, superbetta
sufficienza di me. Sicché, con la ragazza, mai che
cercassi un buon incontro, un’intimità. «L’amo, ma lei

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che c’entra, la cosa riguarda me» avevo pensato a voce
alta una domenica, mentre mi radevo nel bagno, e la
frase m’era piaciuta, l’avevo scritta col dito sul
cristallo appannato dal fiato, ripetendomela volentieri
da allora, come un contravveleno che m’aiutasse a
salvarmi dalle vipere della gelosia. Maria Venera non
provava niente per me? Tanto meglio: me ne veniva
una libertà senza limiti, i miei moti per lei non
appartenevano a nessun altro che a me, potevo nella
fantasia giocarmela e vincerla a gusto mio. Barando,
magari: si sa, non c’è piacere più raro di barare in un
solitario… Ché se poi m’avessero chiesto quante volte
avevo tentato di pungerne l’indifferenza, avrei risposto
con un’alzata di spalle. O forse avrei ammesso che
l’avevo invitata una volta a un Danubio blu vorticoso
ma le ero passato e ripassato sui piedi come un aratro;
e che al buffè, mentre sorbiva un liquore, le avevo
balbettato, dei suoi capelli, ch’erano belli, ottenendo in
contraccambio un’ironica riverenza; e avrei confessato
che per un mese l’avevo attesa e pedinata ogni sera per
poi nascondermi dentro un portone; e che, insomma,
per lei avevo scritto dei versi. Li declamavo adagio,
all’imbrunire, prima di scendere in strada, mentre
attraverso le stecche della persiana indugiavo a
sogguardare nel Corso (lo chiamavano il «Salone», era
un maestoso fiume di basole fra due lontanissimi
marciapiedi), in attesa che s’accendessero i fanali
municipali ed esordisse, coi riti d’una nobile Corte
d’Amore, la pubblica passeggiata. Sapevo già, per
l’annunzio d’una sveglia misteriosa dietro la fronte – la
stessa che ai tempi del ginnasio ogni mattina mi faceva
aprire gli occhi alle sette meno un minuto – a che ora,
e all’altezza di quale vetrina, l’avrei incontrata e

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salutata, avvampando, con gli occhi. Indovinavo che
abito avrebbe portato addosso, se il nero coi passamani
e il baverino di pizzo; se il nero con le baschine sotto
la vita; se il nero imperlinato, attillato sul busto da far
paura. Indovinavo, che ci voleva? Maria Venera
vestiva sempre di nero, tranne che nelle occasioni di
gala, quando la vedevamo avanzare sotto i lampioni,
fasciata di plissé bianco, e sbiancata lei stessa in faccia
da mille attese di chissà cosa che le gonfiavano il
cuore…

Gli amori non corrisposti, Dio ce ne liberi! Bestia


chi dice che sono i più comodi. Uno rumina fiele,
s’accanisce su fisime, su fantasime, parla a casaccio,
diventa suscettibile ai bacilli più miti. E lode al cielo
quando tutto non finisce con uno sproposito. Perché
l’amore è uno strano augello, è un monello zingarello,
che non si può, non si può… Ah Maria Venera, quando
cantava l’Habanera, accompagnandosi al piano, e mi
piantava a uno a uno sette spilloni nel cuore! Aveva il
piano, Maria Venera, ed era uno dei pochi rimasugli
del lusso antico, visto che lei era povera, ormai, figlia
unica orfana, ridotta a vivere sola col nonno e a fidare,
per la villeggiatura, nella bontà delle zie materne
Trubia. Per questo non vedeva l’ora che giungesse
l’estate: per far fagotto e lasciarsi alle spalle i battenti
del vecchio palazzo, un edificio in dissesto, che
tuttavia intimidiva, tanto era coperto di fronzoli
gentilizi, dal fastigio scalpellato ai mascheroni
barocchi sotto le mensole dei ballatoi. Io ci passavo
sotto tutti i giorni e la mia tattica era di fermarmi con
un notes e un lapis in mano, come chi disegna o prende
un appunto. Ogni tanto assentivo col capo a me stesso,

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dandomi arie di studioso o di studente, mentre
osservavo le smorfie del sasso: ceffi buffi musi goffi di
diavolacci arrabbiati, che avevo soprannominato con
nomi di scuola, Barbariccia, Calcabrina, Alichino, e fra
le cui labbra un muschio rigogliosamente cresceva. In
verità la fabbrica intera muoveva a pietà, mortificata
dal tempo, dall’incuria. Solo la pietra, dovunque
l’intonaco era scomparso, appariva bella nella sua
magrezza e nudità di conchiglia. Lesta, se il tramonto
ci batteva sopra, a invermigliarsi come una guancia.
Era un calcare da cave illustri, per case di blasonati. E
blasonata era Maria Venera, una di quelle che nei
nostri paesi si mandano a studiare in conservatorio a
Palermo. Donde era tornata precocemente, dopo la
morte dei suoi e il subbisso della proprietà,
conservando di quegli studi un’indebolita e dolce
memoria, di cui sentivamo gli effetti certe sere di
scirocco, quando dal balcone aperto s’udiva spargersi a
fiotti giù verso il Carmine, e San Giorgio, e i dodici
santi apostoli della scalea di San Pietro, quel collegiale
pot-pourri della Carmen (Maria Venera, dovunque tu
sia, che il tuo nome sia benedetto!).
Alvise era il nonno, don Alvise Salibba, e andava
verso i novanta. Uno splendore d’uomo, era stato, e in
qualche modo era ancora. Della stravaganza del nome
dava allegramente la colpa a un remoto viaggio di
miele a Venezia, durante il quale sua madre avrebbe
barattato una notte il marito, sconfitto da un reuma,
con un Alvise gondoliere dagli occhi celesti;
ripetendone dopo nove mesi l’anagrafe per
riconoscenza e memoria… Una delle molte fandonie di
divertente cinismo con cui il vecchio amava allocchire
i passanti, seduto sulla seggiolina pieghevole che si

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portava appresso sottobraccio, lì sotto un’acacia del
viale, dirimpetto al Circolo dei Civili, dove aveva
giurato di non metter più piede dopo aver perduto
l’ultimo podere a un tavolo di zecchinetta. Sedeva in
panama e ghette, inverno o estate che fosse, e col
manico del suo bastone di noce uncinava qualunque
caviglia in transito, di amico o conoscente o turista, e
la tirava avidamente a sé, imponendo la sosta e
l’udienza. Piano piano un crocchio si formava, Alvise
sapeva parlare e i giorni erano tanto pigri, a quel tempo,
c’era tanta luce nell’aria, era bello stare in piedi nella
luce ad ascoltare un vegliardo dalla canizie solenne che
parlava di Lina Cavalieri e della Bella Otero. Alvise le
aveva conosciute, asseriva, nei suoi giovani anni,
quando girava l’Europa in Hispano, con uno chauffeur
di Ragusa Ibla e un monsù poliglotta, rapito a suon di
quattrini alla corte dei Grimaldi di Monaco. Entravano
nelle sue parole, odorose di colonia e di zigaro, tutti i
lumi e le leggende d’una vita per noi meno
raggiungibile che se fosse stata d’un abitante di
Samarcanda o Golconda, e soavemente
c’imbambolavano. Lui stesso, del resto, garriva al
vento da onorata bandiera, se era vera la ciarla che
sussurravano, che fino a ieri pretendesse nell’alcova, e
non per solo scaldino, la sessantenne serva di casa…
Parlava, Alvise, e la sua voce insaporava la luce fra
le grandi pietre bionde e bianche dei palazzi e delle
chiese, diventava un persuasivo responso che il secolo
andato aveva lealmente tenuto in serbo per noi. Era
d’una qualità rara, la luce, a Modica, in quei giugni e
lugli del cinquantuno: un pulviscolo lucente che non
ho più rivisto uguale da allora e che ricordo in soffici
spifferi, a mo’ di Spirito Santo, attraversare i fili

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penduli della moschiera, nella trattoria di don Cesare, e
venire a curvare un’aureola d’oro attorno ai fianchi dei
fiaschi. Qui, sul disegno dell’incerata, perfino le
macchie e gli unti acconsentivano a comporsi in
alfabeti di affabile lingua, borbottavano una cosa cara.
Sebbene il luogo vero dell’incantesimo si nascondesse
più in là, in un angolo della cucina, su un trespolo nero
nero, dov’era la boccia del pesce. Qui l’attenzione
degli avventori tornava ogni cinque minuti, tanto i
guizzi del carcerato parevano, nel loro apparente
capriccio, eseguire un intreccio di mutole melodie,
svelando, a vicenda, e velando la celeste cabala della
stagione.
Insensibile ad ogni sofisma, cieco ad ogni mistero,
don Cesare si occupava di spargere nell’acquario le
briciole raccolte fra piatto e piatto, senza scordarsi
d’intonare frattanto una militaresca «zuppa ch’è cotta»,
che pretendeva familiare ad ogni creatura di mare,
dalla sirena alla triglia. Gli rispondeva a eco la cuoca,
Mariccia o Amapola, secondo che preferissimo il nome
di battesimo o l’altro, di battaglia, dei tempi suoi più
gloriosi, quando era finita a Bengasi mercenaria
galante al séguito delle truppe, trovandosi perfino a
vivere in un’alhambra di trenta sale, con azulejos in
ciascuna dal pavimento al soffitto, e al centro un
baldacchino gigante, circondato da zampilli d’acqua
balsamica. Fu in un tale teatro da Mille e una notte che
l’era toccato una volta affrontare, soccorsa da un’araba
impubere, un violento congresso a tre con un gerarca
in divisa, il quale pretese (un millantatore barbuto,
probabilmente) di chiamarsi Italo e che entrambe lo
picchiassero a turno con la cinghia del cinturone.
Altri tempi. Mariccia era ormai querula, stanca,

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aveva i denti vacillanti, i vapori. E delle scorse giostre
carnali conservava appena una rimembranza nebbiosa,
come dei naufragi di gioventù un nostromo in pensione,
seduto su una panchina del porto. Ma era buona,
Amapola, e le restava, per i maneggi del cuore e dei
sensi, un trasporto partecipe e pio, che le bisognava a
tutti i costi sfogare, con palpiti, meraviglie, paure, ora
sulle pagine dei Salani d’anteguerra che conservava in
dispense nei suoi bauli dalle molte vite; ora (molto
meglio) ascoltando le mie effusioni in onore di Maria
Venera. Poiché io della ragazza parlavo tutti i giorni
dirottamente. A voce con Mariccia; a casa, nero su
bianco, in giubilanti giaculatorie, che appendevo al
muro con quattro puntine e mi studiavo a memoria,
come fanno con le topografie delle banche gli
apprendisti scassinatori.
Insegnavo in una scuola di ragazze, allora. In un
paese che non era il mio, a pigione di un’Amalia
vedova, con figlia in collegio, usufruttuario settimanale
delle sue vogliose pinguedini. Dalle quali mi staccavo
ogni volta più contrito, ansioso di correre in camera a
pagar penitenza scrivendo dell’altra. E tanto peggio se
mi scordavo di chiudere a chiave e la vedova, salendo
quatta dalla sua botteguccia di libri del piano terra, mi
sorprendeva in flagrante, col pennino Perry in resta, la
mente e il cuore in bollore, e le guance lacrimose
(lacrimavo sempre copiosamente quando scrivevo
versi d’amore).
Finivo allora con l’andarmene al bar, a sedere
dietro un tavolo tutto mio, donde, alzando gli occhi, mi
si spiegasse davanti, servizievole e multiplo, il cinema
della città. Non c’era per me migliore scrittoio, e palco,
e salotto, e occasione di sodalizi; nessuna migliore

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distrazione dal mal d’amore. Una volta veniva a
trovarmi il cornettista della banda municipale, che
amava esibirsi anche fuori servizio, e, incoraggiato
dalle mie pantomime d’applauso, muovere con
l’ardore d’un fante all’assalto dei più imprendibili
acuti… Un’altra volta sopraggiungevano gli alienati
del luogo, tutti pacifici e dolci, ciascuno con un’ubbia
solitaria nel cuore, a cui io solo prestavo fede e
conforto… Oppure passavano a braccetto, salutandomi
da lontano, le due maghe rivali e amiche, donna
Tònchila Canigiula e ’gna Ninfa Scacciaguerra, alle
cui dimore avrei bussato più tardi, meno curioso di
suffumigi e fatture che dei loro motteggi
giocondamente funerei…
Ma più ancora mi piaceva accompagnarmi (degli
amici ordinari parlerò oltre) coi titolari dei mestieri
meno frequenti, da Carmine ’u ciarmavermi, venditore
di alghe marine contro i vermi dei bambini, a Cicirè,
sensale di matrimoni, ai fratelli Malanova, cacciatori di
voti e robivecchi ambulanti…
Un teatro era il paese, un proscenio di pietre rosa,
una festa di mirabilia. E come odorava di gelsomino
sul far della sera! Non finirei mai di parlarne, di
ritornare a specchiarmi in un così tenero miraggio di
lontananze; di rivedermici quando la mattina uscivo
incontro alle peripezie della vita, offerto alla vita intera,
ai suoi colpi di dadi e profusioni di risa e pianti, e
concerti di campane. Quante campane c’erano a
Modica allora, per nozze, battesimi, compiete, angelus,
ma soprattutto per funerali, quanto si moriva a Modica,
si sentiva ogni mezz’ora senza che nessuno riuscisse a
turbarsene, scoppiare come un tuono nell’aria
l’argentino incoraggiante din don della morte…

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Non finirei, ero un bambino vecchio allora,
invecchiato dalla vita e dai libri, ma sempre bambino.
Quanto può esserlo chi sulle cose spalanca, appena si
sveglia, due pupille grandi che si sorprendono.

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II
Litania delle belle notti. E come fu che si giunse a quell’estate
attraverso varie stagioni e varie corrugazioni del sentimento.

Felicità, mio cielo antico; notti, mio paradiso…


Silenzi blu della notte neonata, quando, varcando il
debole paravento dei muri, sale dalla strada al nostro
cuscino, ma subito s’attutisce e si spegne, il passo d’un
solitario (ubriaco a zonzo, mammana che rincasa,
accalappiacani zelante, adultero del giovedì), e quel
sigillo termina il giorno come una mano abbassa
morbidamente un sipario…
Cappa nera dell’una di notte, dove s’imbucano le
serenate… E dove, se si levano voci, sembra fasciarle
un bavaglio di delicate sordine; o che sia conciliabolo
d’ombre da una panchina laggiù, fra le aiole del solito
Monumento ai Caduti…
(Avete fatto caso come nella distanza ogni parola si
disincarna e confonde coi più diversi rumori? Il brusìo
delle fontanelle, le tranquille opre dei servi, un po’ di
vento fra le case…).
Allora ci si leva dal letto, si tende l’orecchio: sotto
le piante scalze dei piedi le rughe dell’ammattonato
sono d’una toccante frescura. Non si fa in tempo a
socchiudere l’imposta ed è già troppo tardi, a basso
non è rimasto che nerofumo e pace, altissima pace;
sporgendosi, solamente una bestiola, un Mefisto
peloso, s’intravvede attraversare la strada con zampe di

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felpa, e ne rimane per qualche istante a fil di terreno un
fosforo nomade d’occhi, un volatile zig zag…
Notti, notti colme d’estate, mentre si torna dalla
Sorda dopo la veglia; e sulla campagna d’ulivi e
carrubi pende ancora un’adunca luna, seminandola di
toppe bianche come cotte di monacelle; e le coppie di
ragazze a braccetto coi cavalieri prolungano fra siepe e
siepe inusitate figure di ballo, e si allacciano, si
slacciano, secondo un viavai tenero e sazio che alle
soglie del paese si sfrangia in cicalecci, saluti, moine
di mano furtive; e le terribili madri che aspettano alla
finestra sentono una blanda spuma di sonno
illanguidirle al perdono…
Ragazze, vi amavo. Maria Venera, Angela, Ines.
Ancora oggi, talvolta, basta una sosta a un passaggio a
livello, mentre piove e il treno sembra essersi perso nel
buio, dopo che un paio di fischi me l’aveva fatto
sperare imminente, e il minuscolo lucente ghigno
dell’Autovox m’assopisce, mi dondola, m’incantesima
in una delle mie ricorrenti estasi del pensare… basta
una sosta di dieci minuti; più i ruffiani polpastrelli
della pioggia sul parabrezza; più la liquirizia di quel
sassofono fra Hilversum e Monteceneri; ecco, e dentro
la poltiglia dei suoni io mi ritaglio un oblò di fumo, da
cui una dopo l’altra s’affacciano le ragazze della mia
vita… Estati di una volta, pergole in collina, sentieri
fra i peri nani, arenili di Pietranera… Una mano scuote
nell’aria un sandalo sudicio di sabbia gialla. Una nube
di fuoco immensa si leva. Poi la invadono zattere
oscure. Oh veramente ha ragione quel tizio: la palla
che lanciai ragazzo, mentre giocavo nel parco, non ha
ancora toccato il suolo. E di nuovo segreti da nulla si
nascondono sul rovescio d’un francobollo; un ciondolo

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si strappa, rotola sotto un comò… Falci esangui di
labbra, motivi di vecchie pavane… Venera, Assunta,
Isolina: frotte rosee, capolinea del batticuore! Chissà
dove siete, chissà dove sono le belle d’antan, Flora la
bella romana, e Taide, e la cassiera Adalgisa del
cinema Splendor, sdegnosa, chissà dov’è, quanti figli
ha, e zampe di gallina sul collo, e varici
sull’indimenticabile poplite!… E chissà in che
strofinaccio di cucina o tappo per botti s’è tramutata la
mia cravatta di seta, a elefanti verdi e pagode… Eheu,
fugaces, Postume, Postume licealmente mi lagno, e
accanto a Postumo mi viene in mente Marcel. Poiché
veramente tutte le voci e i visi delle mie donne non
pesano, sommati insieme, che un grammo scarso di
polvere, e le cravatte e le cassiere sono fuggitive,
ahimè, come gli anni…
Sì, e tuttavia com’è bello, qui dal mio posto di
guida, mentre l’afa del riscaldamento mi consola i
poveri stinchi, com’è inutile e bello, Venera, Ada,
Corrada, invitarvi a concilio davanti a me! Vedervi su
questo video appannato fiorire, sfiorire, tornare a
fiorire, ad ogni impulso di tergicristallo… Finché il
convoglio che sopraggiunge, corpulento e cieco, non vi
disperda in fuga per la campagna, lasciandosi dietro,
nel suo grigio odore di cane, soltanto una spruzzaglia
di gocce, e quel baluginìo d’un istante, quasi d’un
lume di Luna-park che si spenga, o d’una lucciola che
il calcagno involontariamente sfarini…

Le altre tre stagioni, prima di quell’estate, erano


volate via presto, né tristi né liete. L’autunno recò
qualche garza di nebbia dietro i vetri dell’aula, e la
mosca più cavallina a spirare, zampettando, fra due

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pagine di registro. L’ultimo fico d’ottobre si raggrinzì
di dolcezza, non colto, su uno stecco di ramo irrigidito
dal freddo, rimasero nei campi i fiori di cardo soltanto,
in piedi, come un gramo plotone di scheletri
cappuccini. Poi i gelsi nei cortili cominciarono a
perdere foglia, prese a piovere ogni giorno, dalle otto e
mezza alle nove, di proposito, come per un’invidia
delle stelle contro la prima, sempre promessa e sempre
differita, passeggiata dell’anno di scuola. Le ragazze
giungevano con uno smilzo fagotto di libri appeso al
mignolo destro, speranzose di poterlo lasciare sul
banco dentro la nativa cinghietta, per avviarsi alla
buon’ora in colonna su per le rampe di Monserrato.
Illusioni. Erano appena in vista del portone d’ingresso
che udivano dalla voce del preside Biscari il vecchio
proverbio ch’egli s’era inventato contro di loro a mo’
d’affettuoso e inalterabile scherno: «Cielo a pecorelle,
scuola a catinelle». Ancora più furenti se in quello
stesso momento, mentre levavano come velenosi
rinfacci le pupille alle minacce del cielo, uno sbuffo di
tramontana le coglieva alla sprovvista, senza
risparmiarne, è doloroso dirlo, il pudore. Si issavano
ad alzabandiera, e sbalordivano il mondo, le sottane
tenebrose dei diciott’anni; e quel lampo dissotterrava
lembi di carne imprevedibilmente paffuta, pubblicava
gloriosi golfi d’ombra, dessous talvolta non
precisamente illibati…
Infine Gertrude appariva in cima alle scale, e
pareva Pallade Atena. La bidella Gertrude, alta, grande,
sovrana e cupa, faceva segno al suo popolo,
imperiosamente, di entrare. Sotto l’acqua che ormai
veniva giù a scrosci, in fila indiana, coi seni a disagio
fra due schiere di gomiti astuti, entravano le riottose,

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versando sul mio timido indomito cuore la pecegreca
delle loro occhiate
Oh potess’eo venire a voi amorosa
como larrone ascoso e non paresse…

cominciavo, subito dopo l’appello, profittando del


momentaneo silenzio, ma nessuna sembrava, nonché
intendermi, ascoltarmi neppure: sbirciavo dietro le
vetrate, rabbiosamente, l’aria schiarirsi al sole delle
nove e un quarto, e da uno squarcio di maltempo
irrompere nell’aula e danzare un raggio ironico d’oro.
«Scuola a catinelle», dunque; ma le distraeva, dalla
via, qualunque inezia: la strombettata galante d’un
autobus, più o meno perentoria secondo la petulanza e
la gioventù dell’autista; oppure alla finestra, dopo il
picchio della pioggia, l’altro, poco diverso, dei passeri,
più bisognosi d’asilo che curiosi di Pier delle Vigne;
oppure il disegno della mia cravatta, e se da una spalla,
fra antiche seminagioni di forfora, un capello mi
pendesse, liscio e lungo, che poteva, s’insospettivano,
essere d’altri che mio. Allora pensavo che presto
sarebbero cominciate per loro le solfe stagionali delle
lacrime, col viso e la chioma d’un tratto calati
nell’incurvatura del braccio: lacrime di ogni recente
abbandonata di Ferragosto; d’ogni fidanzata ottobrina
novella, che già però s’imbronciava di malintesi e di
stizze; d’ogni sgobbona brutta, condannata alla
solitudine di prima della classe; d’ogni bella senza dote,
senza abiti da incignare la prossima notte di San
Silvestro; delle altre tutte che singhiozzavano per
semplice emulazione e abbondanza di cuore…
E pensavo, per confronto, ai miei tanto più adulti

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sensi d’amore, contento di averli addomesticati in
quella condizione di dormiveglia: io di qua, dentro di
me, con chimere e arzigogoli miei; lei, Maria Venera,
remota dietro la sua salvaguardia di intransitivo
sussiego e di nobilissime pietre. Pensavo, e gli
endecasillabi dei poeti mi morivano da sé fra le labbra.
La pausa mi consentiva di cogliere al volo, nel
bisbiglio di due chiacchierine sorprese dall’inatteso
armistizio, lo strascico d’una sillaba che non avevano
fatto in tempo a troncare, d’un aggettivo la cui
desinenza, inevitabilmente maschile, lasciava solo il
dubbio se pertinesse a un giovanotto o a un vestito.
Così via via, una settimana dopo l’altra, mentre il
tempo a vista d’occhio s’abbuiava, s’infreddoliva.
Termometro me n’era il bavero sempre più alto sulla
collottola, ogni volta che nell’intervallo m’avveniva di
fare un salto per una bevanda al Caffè Bonaiuto, e mi
ferivano i refoli che saettava da monte a valle lo sprone
di sasso lassù, calvo uccello dalle ali spase, appollaiato a
custodire le cerimonie invariabili della città. D’ora in
poi avremmo atteso con fiducia l’odore delle caldarroste
serali, avremmo chiesto il sonno al fruscìo delle gomme
sopra l’asfalto bagnato, ci saremmo abituati a osservare
dalla sala dei professori sul marciapiedi di fronte il
chiosco dei giornali infradiciarsi e grondare sotto la
pioggia, e, due passi più in là, il vespasiano gigante sul
marciapiedi offrirsi alle scorribande del vento, non
altrimenti che un rudere a cielo aperto d’Ercolano e
Pompei. Forse solo io, forestiero, avrei resistito, la sera
della fiera, io e nessun altro, a giocare un «m’ama, non
m’ama» a colpi di flobert contro le pipe di gesso d’un
tirassegno deserto.

28
Novembre, dicembre: sgoccioli umidi del
millenovecentocinquanta. L’inverno è al suo culmine,
ora, malinconicissimo di geli, alluvioni, gatti dagli
occhi nocciola… Ebbi un compleanno senza regali,
benché non li avrei pretesi dai colleghi amici, anche
loro esuli da casa, costretti a lesinare lo stipendio
miserello. E tuttavia disposti a inventarsi vacanze e
spassi goliardici e risorse di San Miniato con due
centesimi scarsi d’immaginativa. Io gli volevo bene,
ma preferivo il cinema tutti i pomeriggi, quelle belle
ammazzatine nei films dei fratelli Warner, con le
attrici del mio cuore, amorose di serie B: Ann Sheridan,
Ida Lupino… oppure, la sera, i concerti alla Società
Filarmonica, tutto uno Chopin lacrimoso, specie quel
pezzo dove si sente la goccia che cade, sotto le
imperterrite dita della maestra Tuvè, gialle di nicotina
e nocchiute come bacchette di tamburmaggiore.
Non ne mancavo uno, di quei raduni, perfino nelle
sere di pioggia e di vento, quando m’era giocoforza
esporre al pubblico calosce informi e labbra crepate
dal freddo, ridicolmente unte di burro cacao (ho
sempre patito molto il minimo freddo). Ma c’era lì
davanti, in prima fila, sulla sedia di finocchietto, una
certa Maria Venera, con le ginocchia strette strette
sotto la gonna a plissé, e le mani incrociate sul
grembo, rigida dalla vita in su, nel suo broncio
d’intenditrice presunta, come sullo zoccolo d’un
museo il busto di Nefertiti.
Uscendo, se aveva smesso di piovere,
m’aspettavano fuori, sogghignando, i miei melofobi
amici. Non mi restava che seguirli nei rioni fuori mano,
all’avventura. S’andava, imbacuccati e girovaghi nei
nostri paltò rivoltati, io brontolando, riluttante ad

29
assecondarli nelle più opache fatuità: imbrattare di
malo imbratto i chiavistelli delle case patrizie;
camminare lemme lemme dietro le péste degli
attacchini elettorali, per mischiargli nella borsa,
lasciata un momento al cantone, le due metà dei
manifesti rivali, sicché ne risultasse sui muri una zuppa
di falci, croci, torchietti, martelli eteroclitamente
incollati. Scappando poi a cascare fra le braccia
esterrefatte («Come, vossia, professore!») del
guardiano notturno Miciacio. Quando non provavamo
a spacciarci geometri di Palermo, venuti a far
censimento di fatiscenze edilizie. C’inoltravamo nei
bosfori meno facili, via Sant’Acconsio, ronco
Albanese, dove lo spazio fra due dammusi è più esiguo
d’un corridoio, e dai fornelli accesi un odore di sarde
mafiosamente si leva. Millantavamo impegni di
fognature, restauri; andandocene, ci seguiva un coro di
stupori e benedizioni maschili, qualche occhiata
invogliante di donna…
Così fatti erano gli amici, erano freschi di guerra e
per scordarsene bambineggiavano con crudeltà. Saro
Licausi, Pietro Iaccarino… Ombre, ora.

Persi una scommessa romantica con Saro Licausi,


chi avrebbe scoperto e colto il primo fiore di mandorlo
su per la costa dell’Idria, escursione nostra di ogni
domenica. A costo di rovinarsi le scarpe voleva
vincere lui, e s’arrampicava con prudenze di
bracconiere là dove da lontano gli era parso di
distinguere l’albero più voglioso. Finché fra i fogliami
e le cortecce un’impalpabile perla gli si svelò, una
brina rosea, una vanessa esitante, sbocciata appena sul
ramo dopo una fulminea cova notturna.

30
Persi la scommessa ma non la pagai.
Scommettevamo su tutto, a quel tempo, ma nessuno
pagava mai le scommesse perdute. Ora che il tempo
volgeva al bello, facevamo passeggiate da floricultori,
loro mi insegnavano i nomi: quello è un anemone,
questa è un’azalea. Ma io battezzavo ogni specie di
fiore con un nome della Quarta B, mentre a scuola
viceversa, con un nome di fiore ogni ragazza dei
banchi, nel bocciuolo gonfio del suo grembiule. Ora
sui tetti i piccioni si moltiplicavano dall’oggi al
domani, le sassate del sacrestano li coglievano senza
fatica. Già il cielo era un’altra cosa, un cielo di
porcellana che ridondava di luce come un vaso troppo
pieno e pareva volersene sgrondare, buttandola a
casaccio in ogni buca o bocca vicina, gola d’allodola o
cella campanaria. Erano più o meno cento le chiese di
Modica e altrettanti i campanili, da San Pietro a San
Giuseppe, al Gesù, cento chiese, ognuna col suo alito
di devote impastato nella calce come s’attacca a una
tuta l’odore d’un sudore operaio. Chiese d’un bel
barocco carnale, con tonde dritte colonne, le gambe
sputate di Maria Venera; chiese con cupole, cupolette,
che, se ai miei amici ricordavano forme di mostarda
calda nelle crete di Caltagirone, in me sobillavano
un’altra più commovente similitudine: dei luminosi
seni di lei, dietro il bottone del corpetto, allacciato solo
a metà…

Pasqua cadde bassa, quell’anno. Per preparare le


cassate occorse provvedersi in tempo di cacio e ricotta
nelle masserie dell’altopiano. Ci andò di malanimo il
trattore don Cesare su un calessino. Riportandone sotto
le scarpe una rimembranza di fatte ovine e bovine e

31
(recriminò) nelle narici l’afrore della ’gna Tura,
un’arsiccia mandriana di cui erano famosi nel
circondario i pedaggi amorosi imposti a qualunque
viandante maschio la sorte le conducesse.
Infine dai costoni di monte Tabbuto, dalle grotte di
Pantalica e d’Ispica, tutta la terra, miocene e pliocene,
schisti, faglie, semenze e tane, vene d’acqua e crepacci
da sisma, tutta la terra del Val di Noto tremò,
socchiuse impercettibilmente le calcaree labbra a un
sorriso. Uno scorpione fra due sassi strofinò languido
le due chele fra loro, una madamina lucertola dalla
trincea d’un filo d’erba sporse un attimo il muso, lo
ritrasse, lo sporse ancora. Don Alvise si tolse le
mutande lunghe di lana e fu primavera.

32
III
Fuga della ragazza e commedione del ritrovamento.

Primavera per modo di dire, qui la primavera


diventa subito estate, qui non è terra di tepori. Non si
fa in tempo a svezzare il sole che già ruggisce
cresciuto. La stessa cosa con le ragazze: ieri le vedevi,
le accarezzavi bambine, ma oggi due capezzoli di ferro
gli sforzano la vesticciola, sotto la fronte gli splendono
due occhi cupi.
D’ora in avanti, a Modica, chi dormiva più? Una
sera si seguivano le serenate a fior di balcone, di
chitarre e mandolini; un’altra, tutti a Donnalucata, a
comprare il pesce appena pescato sui banconi dei
paranzieri; un’altra, ahimè, con gli occhi rossi e le dita
deluse, a sfilare gl’ingannevoli assi d’un poker… E
meno male che le notti duravano un fiat, sembravano
brevi fumacchi neri fra il tizzo del tramonto, viola, e la
torcia bianca dell’alba…
In una notte così Maria Venera scappò di casa, e a
mezzanotte della stessa notte ebbe storicamente inizio
la fiaba della mia stagione felice.

Eravamo dunque seduti, un dopocena, io e


Iaccarino, alla damiera (niente carte, quella sera,
meno male). Noi due soli, ormai, dato che donna
Amalia era salita da un pezzo a dormire, lasciandosi

33
dietro un odore di zampironi antizanzara. Iaccarino
strologava al suo solito, un po’ per non annoiarsi, un
po’ per disturbarmi mentre meditavo le mosse.
«Arrenditi, Gano!» diceva. «Chiedi pietà!» Oppure,
pensosamente: «Mi sento superfluo, stasera.
Un’orzaiola, un bruscolo nell’occhio del Creatore. Ti
soffio una pedina…».
Era il mio amico più amico, dei due colleghi che ho
detto, il già quarantenne poeta e filosofo Pietro
Iaccarino. Forse qualcosa di meno e di più d’un amico:
una specie d’infedelissimo doppio. Ché, se per un
verso egli ricalcava certi miei scoppi d’umore e
repentine catatonie, non c’era per il resto società che
stridesse più della nostra, fra lui, uomo di testa,
ciarlatano e pasquino di compagnia, e me,
sentimentoso, ligio al vizio solitario del sognare e del
trasognare. Né avremmo avuto modo di conciliarci
l’uno con l’altro, se non avessimo scelto tacitamente di
far leva sulla comune bibliofilia, e il gusto dei bisticci,
dei nonsensi, dei gerghi e scherzi eruditi, da carbonari
e certosini della lettura quali entrambi ci professavamo.
Non per niente eravamo finiti pigionanti di Madama
(Licausi preferiva l’albergo): quasi più per consumare
le seggiole del pianterreno librario che i materassi del
piano nobile. Iaccarino, specialmente, da quando lo
avevano promosso di ruolo e smesso di sballottare da
una sede all’altra fra Brennero e Lilibeo, s’era eletto
domicilio nella bottega e vi faceva flanella fissa, senza
averci speso, a mia memoria, più di poche lire per un
poliziesco da viaggio. E anche allora, dopo averlo
amputato – zac! – dell’ultimo sedicesimo, sì da
lasciare in sospeso e senza nome il colpevole. Per
garantirgli – furono le sue parole – in un mondo dove

34
tutto s’espia, dal crimenlese alla sosta vietata,
un’uscita di sicurezza…
Con Madama s’era subito preso, fu simpatia a
prima vista: benché insidiata da strambotti a dispetto e
ripicchi senza numero. Rimproverandogli lei di bere e
parlare tanto; giustificandosi lui che lo faceva per
evitare d’ascoltare lei. Col risultato che certe volte, nei
periodi di malumore, lo vedevo temporeggiare fuori
per strada e rincasare solo quando la vedova fosse
salita nel suo quartiere, lasciando libero il campo.
Allora lui si decideva a spingere l’uscio, sporgendo il
naso in avanscoperta, per venirmi a proporre, come
avrebbe fatto col più sfaticato garzone, una partita a
dama sul tavolo della buonanima. Mi sedeva di fronte,
secco, ulivigno, inforcando spesse lenti di miope a
cavalcioni d’un naso da pugilatore, di cui non si seppe
mai chi fosse più responsabile, se una levatrice
inesperta o il pugno d’un marito manesco. Un naso
ch’era la sua croce, non finiva di lamentarsene («Che
è una faccia, questa? È una maschera antigas!»), e al
quale faceva carico, fra una mossa e l’altra, se non era
riuscito attore di cine o brillante con Cimara, ma più
assai delle poche sconfitte patite nella sua lunga
milizia di farfallone amoroso. Suonava, questa, nelle
sue parole più epica d’una Campagna d’Italia, ma in
verità doveva essersi consumata in pochi corpo a
corpo veloci dentro sgabuzzini di comodo, a danno di
questa o quella segretaria zitella o stagionata collega o
supplente lentigginosa. Ma ne recitava il catalogo
senza curarsi della mia risoluta disattenzione, salvo a
ricambiarmela, dirupando col capo sonnacchioso fra le
pedine, quando era il mio turno di dargli la replica e
ricantare a mia volta la mia salmodia del mal-aimé.

35
Che quella sera mi rimase a metà fra le labbra: quella
sera, mentre eravamo a metà partita, don Alvise
irruppe nella stanza, spalancandone la bussola col
piglio d’un basso che sorprende soprano e tenore. Non
occorsero spiegazioni: fu subito chiaro che, se il
vecchio era fuori a quell’ora senza né cappello né
mazza, e in faccia mostrava un brutto colore minerale
di gres o lavagna, e alle nostre occhiate investigative
rispondeva solo con un’epilessia delle mani, una cosa
grossa doveva essergli capitata, da S.O.S. immediato.
Talché fummo in un balzo ai suoi fianchi, Iaccarino e
io, in tempo per sorreggerlo, mentre Madama,
chiamata a gran voce, accorreva con la boccetta dei
sali e vispamente discinta, ad assisterlo, a deporlo
sulla seggiola più vicina, non senza prima avergli
slacciato sulle grinze del collo la cravattona di seta
nera.
Quando poté parlare, Alvise ci sbalordì. Poiché
nella voce, insieme alla indignazione che ne svisava i
toni fino al falsetto, inequivocabilmente un gorgoglìo
di riso squittiva. Da far pensare che quanto ci veniva
raccontando non lo facesse soffrire più di quanto lo
divertiva. E che comunque la disgrazia, cascandogli
addosso di punt’in bianco, lo avesse, sì, sulle prime
accasciato, ma trasformandolo subito dopo in elettrica
marionetta.
«Liborio Galfo!» esordì. «Quell’acciuga sott’olio,
quella minchia menata! E non dico di più per rispetto
della signora…».
Qui Madama, sospettando un’ironia, già
s’inviperiva, ma lui la zittì con impazienza.
«Uno che non ha niente dentro le brache» continuò,
movendo a destra e a manca gli stagni mollicci e ceruli

36
che aveva al posto degli occhi. «Uno di Modica Bassa»
ripeté, come se non potesse crederci o avessimo messo
in dubbio la sua parola. S’arrestò, inopinatamente cavò
dal taschino un enorme Roskorpf e si mise a dargli la
corda.
«Che vi ha fatto?» domandai con prudenza,
incerto se fosse questa la battuta che s’aspettava. La
replica fu immediata e mi buttò nella desolazione più
nera: «Che m’ha fatto? Che m’hanno fatto!! Sono
scappati, ih ih!» e ricominciò coi suoi borborigmi di
riso stizzoso, protraendoli al punto che gli altri (non
io) si sentirono in obbligo cortese di parteciparvi.
Sull’abbrivo eccolo a raccontarci della scoperta, e che
gli era avvenuto di svegliarsi per il caldo, dopo un
paio d’ore di sonno, lui che andava a letto alle nove e
dormiva come una pietra, e che s’era affacciato a
prendere fresco sulla terrazza, col raccapriccio di
scorgere, giù davanti al portone, la Topolino di quello,
del ballerino, col motore acceso e lo sportello aperto,
e un istante dopo, prima che lui capisse e potesse
urlare, la ragazza entrare nella vettura, portando due
valigie nelle due mani, indi fragorosamente nella
tenebra involarsi. Urgeva ora inseguirli, evitare lo
scandalo, salvare (benché lui dubitava che corresse
pericolo con un Giufà come quello) una famosa
verginità.
Io, ascoltando, una caldana di gelosia m’aveva
preso alle gote. Avevo un bel ripetermi che non doveva
importarmi, ma mi faceva specie lo stesso pensare
Maria Venera in mano a quell’impomatato, a quel
saltafinestre. Una cosa era ricordarla salterina e
raggiante fra le sue braccia nel giro d’un valzer,
un’altra immaginarla a tu per tu con lui nella nicchia di

37
un’alcova, fra calori e ovatte nuziali. Sicché, in un
soprassalto invidioso dei nervi, fui io il primo, pecora
eroe quale sono, a cercare l’azione. Il vicino di casa
che aveva portato giù Alvise se n’era andato, ma la
macchinetta di Iacca stava lì fuori; dato che la fuga
correva verosimilmente a Nord, imboccammo,
sperando in Dio, la Nazionale per Noto.

L’inseguimento alla cieca, lungo i rapidi rettifili,


non ci regalò altre emozioni che di scambiare per il
fanalino dei fuggitivi ogni punto rosso che apparisse o
sparisse davanti a noi, lume di carro nottambulo o
bivacco di ladro di passo. Ero io a guidare, con l’intesa
che al ritorno m’avrebbe dato il cambio Iaccarino, e
correvo senza criterio. Fu una curva a tradirmi.
Sbandando, la macchina fece due giri su sé, tornando
poi miracolosamente in piedi, ma bloccata contro un
paracarro all’inerzia. Non me n’accorsi. Subito al
primo urto una montagna (Tambernicchi, ma
probabilmente anche Pietrapana), m’era cascata sopra
la testa.
Quando rinvenni ed ebbi imparato, visitando con la
mano alla cieca l’opus incertum della mia faccia, che
guasti grossi non erano intervenuti, avvertii, prima di
schiudere gli occhi, il solidale e indenne fiato dei due
compagni sopra la fronte e feci in tempo a ricacciarmi
in gola l’invocazione che già mi sforzava le labbra,
«Venera, Venera!»…
Provai col loro aiuto ad alzarmi, le giunture
reggevano, e allora Eia Eia, Avanti Savoia! Tuttavia
non fu necessario, Iaccarino già mostrava col dito, a
pochi metri, l’insegna d’una locanda, e a fianco, sotto
una pergola di frasche con pretese di parcheggio, il

38
posteriore immobile della Topolino inseguita. Grazie a
Dio, dunque, per l’incidente, senza il quale saremmo
passati oltre di corsa.
Le forze mi tornarono a quella vista, ma anche una
spina d’apprensione in fondo al petto per la scena
madre che m’aspettava, il consummatum est di quei
due dentro la casa, il moscone sulla camelia.
Avvicinandoci, tuttavia, mi rassicurò al secondo piano
una finestra accesa e la musica da ballo che ne
scendeva, salterio d’angelo per le mie orecchie: se
lassù non avevano spento la luce, e anzi ascoltavano
canzonette alla radio, il peggio forse non era ancora
successo. Così non senza fiducia attesi che i battenti
s’aprissero sotto il nostro bussare e ne spuntasse il viso
del locandiere. Mi bastò un’occhiata per riconoscerlo,
l’avevo incontrato quand’ero ragazzo nelle
illustrazioni di un’Isola del tesoro. Solo che allora si
chiamava John Silver e aggiungeva una benda nera a
quello sfregio sul labbro e alla zoppia piratesca… Lo
travolgemmo, eravamo già per le scale, verso il
Surriente d’e’ ’nnamurate che fluiva dall’uscio chiuso,
e… quale spettacolo, appena esso cedette alle spallate
di Iacca e mie, la Teano fra Venera e Alvise: Venera
ancora vestita, in atto di far le fusa contro il petto
spogliato del rapitore, seduto sul canapè; anelante,
Alvise, di fatica e di collera, con una cinghia furiosa
nel pugno e un rantolo di riso dentro la strozza…
Sgravatosi del quale, roteando occhiacci da comica
muta, marciò su di loro che parve una betoniera.
Galfo s’era levato sotto i colpi, senza contrastarli,
ma rinculando verso la porta, dove però Iaccarino gli
sbarrava la strada, lapidario e prode come Leonida alle
Termopili. Serse lo scansò con un braccio,

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mandandolo ruzzoloni, poi, senza dire parola, con la
camicia in mano, avanti-marsch, esce dalla comune.
Restava la ragazza in piedi, barricata e fiera dietro il
mobile della radio che, come se niente fosse, cantava
ancora. Ma io a questo punto feci il gesto, m’interposi
fra lei e il frustino, assorbendone sul naso l’ultimo
colpo, e la cinsi d’abbraccio, la trascinai con me
d’improvviso lacrimosa.
Ripassando dinanzi allo zoppo, interdetto ma non
per ciò meno sollecito a esigere il conto dei danni,
m’impressionò vedergli sull’omero, ulteriormente
stevensoniana, una cocorita loquace, il cui insulto
d’addio preferimmo tutti per educazione ignorare.

Al ritorno, mentre Alvise taceva, seduto accanto a


Iaccarino, ebbi in sorte di godermi, standomene alle
loro spalle, il tepore della ragazza contro il mio fianco
sinistro. Sentivo come messaggi di spia i saltuari
bemolle del suo pianto parlare alla mia pelle attraverso
il doppio minimo muro dei nostri vestiti d’estate, né
avevo orecchio, lungo la strada, che a quel singulto
intermesso. Alvise taceva, io guardavo i pali di luce
venirci incontro e schizzare subito via, sembrava di
correre una nostra privata Targa Florio, come se ne
correvano un tempo, di notte, sotto l’unica luce della
Via Lattea, per terre battute e scomode mulattiere
d’anteguerra. Ogni cunetta, ce n’erano tante, mi
buttava la pettorina di lei sopra il cuore, mussola
contro alpagà; e l’umido delle sue lacrime, i ciclamini
del suo respiro. Allora non potei che cominciare a
carezzarle i capelli, piano, come si fa con l’anziana
micia di casa, e quindi tutto il viso, secondo che lo
indovinavo al buio e me lo ripassavo a memoria: la

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fronte larga, bianca, su d’una coppia d’occhi callidi e
misteriosi, con un’aria, nel guardare, di cocciutaggine
e sazietà, come di chi abbia un pensiero solo e non
voglia dividerlo con nessuno; poi quel naso così
perfidamente affilato, le labbra che sembravano fare
all’amore fra loro… Me ne veniva, devo dirlo?, una
languidezza, un rimescolìo… Gesualdo, ma che
succede?
Alvise si voltava ogni tanto, per pura formalità, con
quello scuro. Del resto, dopo tanto putiferio, era
tornato tranquillo, non fosse il consueto sghignazzare
che ripullulava ogni tanto nella tenebra dell’abitacolo.
Semmai s’era fatto vigile e fosco Iaccarino: un alano di
guardia, una sentinella di polveriera. E pareva con la
sua nuca percepire il mio tremito dietro,
insospettirsene, preoccuparsene. Tanto più forte
pigiava sull’acceleratore, se potesse rincasare presto,
magari, come il vecchio pretendeva, prima dell’alba.
Niente da fare, già intempestivamente il giorno
sorgeva, sarebbe stato inevitabile offrirsi al petulante
occhio del lattivendolo, alla presbite curiosità di donna
Rosa Pitoncia, che lavava il suo pezzo di marciapiedi
davanti alla porta.
Non m’importò, io guardavo l’alba, da quanti anni
non la guardavo. Cingendo la vita di Maria Venera che
mi dormiva fanciullinamente sul petto, facendomi
strada col naso fra i suoi capelli, m’ero voltato a
guardare attraverso il lunotto, dopo le prime
scaramucce di luce, nascere a oriente e crescere un’ala
d’immenso papilio. Correvamo ormai fra le case, che
resistevano ancora notturne; ma dietro le nostre spalle
il sole illuminava dal miglior punto di vista un bel
Monet giovanile, una radiosa pianura in una mattina

41
d’estate. E quell’ampia farfalla vi si spiegava sopra, da
un capo all’altro dell’orizzonte; pozze d’acqua vi
brillavano come pupille; fra marine e vigne un torto
lampo d’asfalto correva, che sotto la luce sembrava
intenerirsi in vezzi di fiume. Tutt’intorno pini, cipressi,
gobbe e declivi di terra, cerulei monconi di pietra
antica; a sinistra la baia verde di Punta Scalambra. Un
minuto ancora e avrei pianto.

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III bis
Primo dubbio dell’autore sul libro che sta scrivendo.

Al tempo, dove sto andando? La favola mi scappa


via dalle mani, la memoria mi fa la buffona dietro le
spalle. Altrettanto le parole: vengono fuori storte,
bistrate, beffarde; agrodolciumi volti a corrompere,
come si corrompe un ragazzo, un ricordo minorenne
dentro di me… Bella forza, ora che sono vecchio,
farmi gioco di me ragazzo; da furbo mago di pioggia
farmi pagare le previsioni del tempo ascoltate un
minuto prima alla radio. Bella forza… Ora so tutto di
me, dove tendevano le linee oblique della mia sorte,
gl’impulsi innamorati del sangue. Ma perché fare
carico delle mie presunzioni odierne all’apprendista di
allora? D’altra parte, che può fare un topo in trappola?
Mangiare l’esca, m’ha consigliato un signore in treno,
fra Sapri e Salento, nel settembre dell’ottantuno. E
dunque?
Dunque, lettore, lasciami camminare così,
spingendo avanti il mio corpo a caso, questo juke-box
di ricordi programmato a disubbidire. E non aspettarti
da me niente che somigli a qualunque lettura ti sia mai
piaciuta finora. Niente il romanzo violino o piffero,
frottola di Tusitala, specchio portato a spasso per il
Corso, specchio d’Alice, speculum in aenigmate;
niente il romanzo pipata d’oppio, menzogna bella,

43
annunciazione dell’angelo, solitario di Sant’Elena,
foglia lieve di Sibilla… No, ma il segreto di un re
pagliaccio sussurrato alle canne di un fosso,
un’Operetta morale con la musica di Offenbach, il
dialogo di un fisico e di un metafisico arbitrato da un
patafisico… un’impostura, insomma, una bagatella
comica, che faccia velo fra me e quella tentazione
antica che sai; e mi svogli l’animo dall’arcinero,
dall’arcizero, dall’arciniente; e mi dissuada la fatica di
tagliarmi i polsi, debolmente, ogni quattro mesi… O
chiamala Sceneggiata, chiamala come vuoi, purché
sappia farmi vece di vita. L’arte arto, che ne pensi? Un
arto artificiale, s’intende, e non solo per rendere più
ghiotto lo scioglilingua, ma perché questo a me
veramente serve: un surrogato di vita durante il giorno
e un surrogato di sonno, quando non posso prendere
sonno, la sera. Tu lo sai, basta un’inezia per non farmi
addormentare, la sera. Mentre, se mi abituo a contare,
invece che pecore, personaggi; se ad ogni regola e
metrica e rettorica, che faccia da vigile urbano e diriga
il traffico, riesco a consegnarmi in forma di schiavo
beato, chissà che…
Continuo, allora? Continuo.

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IV
Amor mentale dell’avventura. ‘Impromptu’ di Iaccarino filosofo
e rapporto sulla prima visita a Venera.

All’avventura e ai suoi movimenti ho sempre


attribuito nella mia vita virtù di ginnastica igienica.
Quanto più salutari, i batticuori, dei malincuori, dei
crepacuori! Ricordo che da bambino, per andare a
rubare nelle vigne, sceglievo le notti di luna piena e le
viti più vicine al campiere addormentato: e che
spavento, che delizia, mentre poppavo con le labbra i
grappoli come grosse e brune mammelle!
Più tardi amai i chiassuoli sospetti, i compagni di
mala condotta, i racconti di sgarro e coltello. Mi
piacque sfogliare in soffitta le appendici dei vecchi
giornali, se mai vi udissi suonare l’allarme d’una
ghironda di cieco, messo all’angolo a fare da palo; e
avrei voluto vivere in carne e ossa un mistero di Parigi;
giocare una volta alla roulette russa; ricevere una
lettera di Mano Nera, firmata con una croce. Ancora
oggi tutto quanto contiene una minaccia m’attira.
Persino il gusto del fantasticare, questo spasso mio del
teatro ad occhi chiusi, sono felice ogni volta che posso
pervertirlo in un rischio della mente. Quasi volessi
emulare da fermo il sonnambulo che passeggia su un
davanzale largo due palmi e ripeterne nel pensiero le
fatali anestesie…
Così si spiega perché in tutti gli accidenti, anche

45
mediocri, di quella notte io mi sforzassi d’inseguire
una possibilità romanzesca e tuttora me li rigoda,
scrivendone, con una sorta di sedentario entusiasmo, se
così posso chiamare l’impasto di passione e distanza di
cui si compone il mio sentimento. Che se poi
s’aggiunga il piacere di muovermi in un intreccio poco
o molto falsificato, in un vizio e ironia di parole, in
un’acquaforte morsa appena dall’acido del possibile; il
piacere, cioè, di apparire pupo e puparo insieme in una
delle tante Opre di Pupi dell’odiosamabile vita…

Quel giorno giunsi a scuola in ritardo. Rincasando


all’alba m’ero alloppiato un poco sul desco della
cucina, al centro di un’assemblea di caraffe e bottiglie
vuote, ch’erano quasi una malacopia da un maestro
bolognese del Novecento. A rimettermi in sesto non
valse il doppio caffè di Madama, quindi entrai in classe
con un passo da carro funebre, benché con l’aria
intellettuale che la stanchezza regala anche alla più
insipida fisionomia.
Era una delle ultime lezioni dell’anno e gli esami
urgevano vicini, per cui dalle ragazze m’aspettavo
silenzio e qualche attenzione. Mi furono riservati,
viceversa, sorrisini, risolini. Sulle prime non capii, mi
ci volle tempo per accorgermi che mi guardavano in
modo speciale, come se mi vedessero passeggiare su
una nuvola, librato sulle loro teste al modo d’un
aquilone. Vidi allora ch’erano inorgoglite di me,
affiliate con me in un segreto d’amore. Vero è che la
notizia della brutta notte, e della parte che vi avevo
avuto recuperando la pecorella all’ovile, s’era sparsa in
un baleno e, accresciuta di inesistenti eroismi, aveva
raggiunto i bar dove usavano fermarsi a mangiare un

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panino, le cartolerie dove avevano comperato un
pennino. Sicché mi guardavano di sottecchi,
compiaciute, complici, improvvisamente e dolcemente
servili. Tanto poteva su quelle fantasie malaccorte il
profumo di scandalo che dalla cattedra era piovuto su
loro, dissipando istantaneamente ogni solidarietà con la
fuggiasca e promuovendomi paladino sul campo. Io, da
parte mia, con quelle viole sotto gli occhi, quel cerotto
intrepido sulla tempia, là dove avevo battuto, con la
camicia stazzonata e ancora pregna di lei, mi sentivo
affrancato da ogni timidezza passata, un San Giorgio
invincibile non meno di quello di Ibla, scolpito nella
pietra, che infilza con una lunga lancia il dragone.
Ebbi cuore, nonostante l’animo lieto, di seviziare
una Catalfamo Esther, una Vacirca Lucia dell’ultimo
banco, sostituendo al Paradiso che reggevano in mano,
gremito di segni a matita, il mio Dantino rosso
sprovvisto di note. Per magnanimità non diedi voto,
ma le licenziai coi modi d’un re che firma la grazia.
Facendo seguire, riguardo ai doveri della gioventù, una
tirata a soggetto, che però, non so come, mi diventò
Carpe diem ed ebbe un successo mai visto. Assolte dal
gioco di parole con cui la conclusi: «Bocca bocciata
non perde ventura», risero a gola spiegata: le avevo nel
pugno.
Altra musica col preside, quando ci volle insieme,
me e Pietro Iaccarino, a rapporto. Nulla, beninteso, da
rimproverarci, avevamo aiutato una causa santa,
evitato una mal’azione. E tuttavia al nome della scuola
bisognava badare. Non sta bene ai medici d’anime
mischiarsi nelle cose del mondo. Anche con le migliori
intenzioni. Anche riportandone le mani nette. Che
un’altra volta ci pensassimo, dunque.

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Non obiettammo, il preside Biscari era un
galantuomo di molte matematiche e poco umanesimo,
semplice come un’avemaria. Malato d’ittero, con una
cera gialla da venditore di clavatte cinese, non
meritava che gl’infliggessimo arrabbiature. Né
meritava, siamo giusti, le malversazioni di Iaccarino, al
quale non pareva vero di poterlo inondare a man salva
di citazioni e autorità menzognere. Così ora, volgendo
il discorso su Galfo e le sue presunte (Alvise dixerat)
insufficienze: «Gli manca qualcosa» commentò,
mentre Biscari annuiva perplesso, «e si tratta di una
lacuna importante. La medesima di cui con Abelardo
discorre suor Marianna Alcoforado nelle Lettere di una
novizia».
Finsi uno sbadiglio per mascherare il riso, e fu
peggio. «Errando discitur» commentò Iaccarino e
tradusse subito: «Sbadigliando s’impara», provocando
da parte del preside un’intimidita protesta.
Uscimmo quindi, ma io sentivo che, sbollita
l’effervescenza, Iaccarino non era contento. Gli
succedeva sempre più spesso di sfarfallare con le
parole e d’incupirsi subito dopo. Per distrarlo, gli
chiesi dei danni alla macchina, mi offersi di risarcirli a
rate, ma non parve avermi inteso, si rintanò più ancora
dentro le sue quattr’ossa celibi e magre. «C’è un
sentimento» mi disse alfine «un sentimento che mi
stringe il cuore: quando faccio una cosa abituale,
fumare una sigaretta, dire ciao, ascoltare una canzone,
e mi viene in mente che, chissà, forse è l’ultima volta
che fumo, ascolto, saluto… e che stiamo tutti morendo;
e che morire è un verbo altrettanto incoativo che
vivere…».
Tacque un momento, si accese una sigaretta, la

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buttò dopo la prima boccata: «Invecchio, vecchio mio,
non lo vedi?» proruppe. «Dov’è il Pietro di una volta,
il bel paggio del duca di Norfolk? Ho perso una
nottata e mi pesa; ho mandato a male un bel ratto e ne
sono pentito. Liborio, credimi, lo calunniano. Credimi,
lui e Venera, sciocco lui sciocca lei, sarebbero stati
felici. No, non dire di no, tu non sei meno sciocco di
loro». Alzò gli occhi al cielo: «Credo nell’ordine»
disse «e il tuo amore è un disordine. Cioè una pura
fata morgana. Poiché ogni disordine sulla terra è
menzogna, polvere negli occhi per frastornarci. Il
prestigiatore Dio Padre, vedi, non solo è bravo ma
bara. Pietrino, però, non ci casca, Pietrino ha il naso
cernieco, riconosce al fiuto le péste Sue sulla rena,
anche se Lui si difende calzando le scarpe al
contrario…».
Si soffiò il naso con forza: «Tutto è ordine» gridò.
«Non c’è in natura ghiribizzo o cacofonia, di cui non si
possano disciplinare i contegni attraverso alfabeti,
scale Mercalli, grammatiche del Gandino. Perfino il
mio naso, vedi, questo torso di cavolo, questa
emorroide in fiamme, ebbene, non è un tal naso per
caso, non è l’infortunio ortografico d’un copista che
aveva bevuto; ma una didascalia del mio spirito,
un’eruzione esemplificativa di me: quel che ci vuole
per disingannare i miopi, i guerci, gli strabici, i
ciechi…».
«Sì, ma io che c’entro?» mi spazientii. «C’entri
perché sei sciocco» disse con poca logica. «Sciocco e
innamorato, una confusione fra le tante del cosmo,
appariscenti e fittizie, che mi rifiuto di omologare.
Nuvole siete voi tutti, gl’innamorati. Nuvole che
mettono disordine in cielo… Vedi quelle due nuvole

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bianche, schiumose e sciocche, sulla cima di
Monserrato? Vedi la terza, scura e sciocca, che le
disturba, gli passa e abbaia davanti, fa il botolo davanti
a loro? Le due lassù sono Liborio e Venera, la terza in
basso sei tu: un batuffolo di sciocca bambagia, basta
un solo colpo di vento per sparpagliarti…».
Feci uno sforzo per adeguarmi, ma la celia mi si
corruppe in irritazione: «Essere sciocchi, mio caro, è
uno dei più pubblicati diritti dell’uomo, se ne parla
nelle Dodici Tavole…».
Non mi lasciò finire: «Neonato, un neonato sei. È
da un inverno che le muori dietro senza profitto e ora
a quello sono bastati due baffetti, due piedi snelli…».
Gli volsi le spalle, mi rincorse affettuosamente.
«Non farci caso» mi disse. «È per affetto che parlo, e
certe volte straparlo. Ma t’ho visto in macchina così
sdilinquito, e la ragazza mi sembra di testa così
confusa che dal tuo trasporto non m’aspetto nulla di
buono. Era meglio prima, quando le scrivevi in
silenzio le canzonette. Del resto, che speri, che
vuoi?».
Io gli strinsi il braccio con inattesa gratitudine, mi
piaceva che dopo tanto baccano su caos e legge
l’amico discendesse a parlarmi pianamente un poco,
che per un poco s’interessasse umilmente di me. Era,
sia pure non duraturo, un indennizzo dei mancati
abbandoni di adolescenza, delle malgodute confidenze
fra sodali, passeggiando senza fine dall’uscio dell’uno
all’uscio dell’altro e tornando a salutarsi ogni volta.
D’altronde, non fosse stato un così umano giullare,
Iaccarino, gli avrei voluto quel bene?
«Ora l’amo in un’altra maniera» confessai. «Ora io
e lei abbiamo da spartire un ricordo».

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«Una vergogna, vuoi dire. Non ti perdonerà
d’averla sorpresa a quel modo».
«Al contrario» sostenni. «Molti amori cominciano
da un segreto di vergogna comune».
Fece una smorfia: «Vedrai, vedrai se non tornerà a
scappare con l’altro».
«Figurarsi, ora che l’ha visto in mutande e
calzini».
Lo presi sottobraccio, passeggiavamo sotto le logge
del Corso ch’erano quasi le due, e il paese sembrava
disabitato, tutti stavano già mangiando o dormendo, il
sole era come sospeso, non andava né avanti né
indietro.
Com’è caldo e buono, pensai, questo minuto di
gioventù. Come voglio sorseggiarlo adagio. Com’è
calda e buona, la vita.

Salii al palazzo d’Alvise la domenica pomeriggio,


dopo ch’era venuto a cercarmi da parte sua il caruso
Vincenzo, un trovatello di pelle saracena, ch’era stato
nei tempi grassi a servizio in casa del vecchio e ora
sbarcava la vita facendo il corriere pedone fra le due
Modiche, in concorrenza coi costosi tassì. Vincenzo
era il suo nome, ma con l’incremento di almeno tre
soprannomi: Zichitiniellu, che non so cosa voglia dire;
Scappalegghia ovvero Scarpa leggera; infine, più
dottamente, proposto da noi professori, Puck: sia per i
ricci folletti attorno a un viso che più malizioso e
fantastico non si può; sia per il suo naturale ch’era
appunto di apparire, sparire, tessere inganni,
scambiare messaggi. Ridendo ogni volta un riso a
gorgheggi, che pareva sforzato e non era, nasceva
veramente dalla letizia di poter vincere ogni paura

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della fortuna con la semplice emissione d’un
gorgheggio di cristallo.
Ora Vincenzo venne a dirmi che al palazzo mi
aspettavano, e guizzò via ridendo con la mancia nel
pugno, mentre io titubavo immobile all’angolo
dell’antico Passo Carrafa, ch’era la svolta per salire.
Ce ne volle di scale e fiato per arrivare al palazzo
grande, dove resisteva appena una larva dell’antico
intonaco, sotto i cornicioni di pietra molle che gli anni
s’erano quasi interamente mangiati. Calcabrina,
Barbariccia, Alichino non mi degnarono d’un cenno,
quando alzai lo sguardo verso di loro, né potevo
giurare che fosse d’abito o di tendina il lembo di stoffa
fulmineamente intravvisto dietro un vetro di lassù.
Certo non occorse picchiare, il portone s’aprì
rumorosamente da solo.
Al sommo dei ventisette gradini, sul pianerottolo,
non la serva Anita ma Alvise in persona m’aspettava:
emaciato, con la pelle stirata e cerea sulle mandibole
come un velo di cipolla; un inerme stinco di santo
pronto per la promozione a reliquia. Tutt’un’altra cosa
dal templare fornito di mazza e fiore all’occhiello che
ci arringava fino a ieri dai marciapiedi. E non mi chiesi
se fosse la pena per l’accaduto o la mancanza della
dentiera a degradarlo così; ma fui certo ch’era il
contagio della casa, di quello scheletro di casa, a
rendere uguali a sé gli abitanti e padroni. Tanto da
farmi temere che da un momento all’altro la stessa
Venera dovesse apparirmi fra due battenti, sporgendo
di sé un teschio o altra simile effigie scarnificata e
camusa…
Manco per sogno: Venera mi smentì
immediatamente, e il suo teschio, per così dirlo, esibì

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gote e labbra più innamoranti che mai, sbocciando
come un fiore roseo dal collettino di plissé bianco.

Era la prima volta che potevo osservarla veramente.


Le altre volte, al ballo, al concerto, nell’episodio della
flagranza all’albergo, durante il ritorno in macchina,
c’era stato sempre un impedimento, una luce di troppo
o di meno, una fretta o paralisi del mio cuore, a
disturbarmene la visione. Mai ero stato nella
condizione dello spettatore e del giudice, sempre in
quella, meno tranquilla, dello spione o dell’imputato.
Mentre stavolta era diverso: il colloquio m’era stato
sollecitato, era lei che stava dalla parte del debito, a me
spettavano i privilegi del creditore. Per cui la guardavo
come da una poltrona di prima fila, centimetro per
centimetro, dalla chioma raccolta indietro nel grande
pugno d’uno chignon, fino alla fronte color uliva, agli
zigomi duri, alle alette del naso che un tic nervoso
scoteva. Glu glu fece la sua voce nelle canne della gola.
Glu glu. E tuttavia fu Alvise a parlare per primo,
mentre la nipote ogni tanto approvava col mento, senza
che si potesse capire quanto nei suoi modi fosse
espressione d’un sentimento di dentro e quanto effetto
delle medicine con cui l’avevano corroborata. Come
che sia, era una Venera nuova, decisa e docile insieme,
quella che acconsentiva alle parole di Alvise,
dissimulando sotto i pallori della disonorata l’antico
cipiglio di Giuditta in armi, che più d’ogni altro m’era
parso rassomigliarle. Una Venera nuova,
assennatissima, benché due bizzose pupille ogni tanto
le scalpitassero sotto la fronte e il ghiaccio della sua
fronte ne scricchiolasse.
Il vecchio parlava con voce fioca, tormentando con

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le dita la nappa della berretta che s’era levata. Non
gl’importava dei commenti in città – disse –
gl’importava solamente di pochi, della stima di
pochi… Mi guardò con allusione, costringendomi ad
un grazie sussurrato che percepì solo Venera. Sì, era
stato un colpo di testa, una vacanza di ragazzi,
aggiunse. Ma questo solo contava: la ragazza non
aveva patito offesa.
Io elusi gli occhi di lei, mi concentrai con
ostinazione su una campana di vetro, di quelle che sui
canterani del Sud custodivano un tempo i Gesù
Bambini di cera. Qui, in verità, una più frivola
panoplia era chiusa: un paio di calze muliebri avvolte
attorno a un paio di scarpette di pelle nera.
Alvise segui il mio sguardo, ghignò il suo solito
riso: «Un ricordo» disse, mentre Venera avvampava.
«Sai, quella storia di Baden Baden, ne parlarono tutti i
giornali di mezzo secolo fa». Finsi di aver capito,
stupefatto comunque della scissura che mi sembrava di
scorgere nel suo contegno: più egli posava, circa il suo
passato, a disinvolto viveur europeo, più, riguardo alla
nipote, si umiliava in figura di timorato tutore indegno,
tanto da informarmi ch’era sua intenzione farle
riprendere gli studi troncati, non quelli di conservatorio,
che non importavano più, ma i più modesti e spicci di
liceo, privatamente. Chissà che non potesse, studiando
tre mesi, guadagnarsi una licenza negli esami
d’autunno, e così sperare un impiego, lejos, muy lejos
de aquí. E allora se io con qualche lezione, remunerata,
s’intende…
Consentii effusivamente, respingendo, come lui
s’aspettava, l’idea del compenso e ricevendo in cambio
ringraziamenti e garbi gentili, mentre Maria Venera

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taceva e guardava con ciglia compunte. Se ne stava
seduta di fronte a me, ma sembrava inginocchiata e in
preghiera, tanto era di compunzione lo sguardo che
dalla sua seggiola bassa saliva a me.
«Potete cominciare domani» fece don Alvise. «Ora
prendete pure gli accordi, io sono già in ritardo col mio
pisolino». E strizzandomi inaspettatamente l’occhio,
unica movenza di vita in un viso che sembrava un
calzascarpe di corno, con passo strascicato se ne andò.

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V
Segue duetto con Venera. L’ambasciatore che porta pena.
Indiscrezioni su casa Trubia. Da Venera, ancora: ‘Partenìa,
partenìa’…

Solo con Maria Venera. Con un tavolino in mezzo,


su cui posano libri, un quaderno bianco, un calamaio
d’inchiostro verde. Un tavolino: una lontananza.
Simile a quella che i duellanti usano contare a passo a
passo prima di voltarsi. Benché i nostri comportamenti
non siano di guerra ma di etichetta, nessuno sparerà
per primo.
Io mi sento la voce strana, come sempre con una
donna. Lei pare uno zucchero ipocrito, un’ospite infida
o malfida. «Un liquore, un nocino? Lo facciamo in
casa». Mai più, con queste vampe che mi vanno e
vengono su e giù per le guance. Piuttosto, non so se
darle del lei o del tu. Decise lei per il tu.

Solo con Maria Venera: allieva mia nuova nuova,


contegnosa, santarella. E discorreva a modino di
programmi, di testi che aveva, che non aveva… Data
la fretta, non sarebbe bastato un Bignami? Quanto al
classico di greco… e patatì patatà. «Per ottobre posso
farcela» concluse in un soffio, quasi consegnasse al
mio orecchio un’ammissione di colpa o la parola
d’ordine d’una congiura.
Mah, non capisco. Questa, la rivoltosa che poc’anzi
in braccio al ballerino s’accingeva al paso doble

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decisivo della sua vita? E perché, qualunque cosa dica,
ci mette un’untuosità di carezza insidiosa? Me ne viene
uno sconcerto, ma sta ancora nella memoria, incarnito
come un’unghia, lo spettacolo della coppia sorpresa
nella locanda, né mi riesce credibile una resipiscenza
tanto veloce. Galfo, lo calunniano, aveva affermato
Iaccarino. Un po’ femmineo, forse, ma quanti lo sono
che poi fanno figli come conigli! Del resto nei paesi di
quaggiù ogni delicatino che non ostenti una maiuscola
virilità è esposto a sospetti del genere che quasi sempre
la vita s’incaricherà di smentire. Ma lei, lei che lo ha
scelto, dopotutto, com’è che ora sembra non pensarci
più e se ne sta a discorrere di programmi e domande
con modi pacifici, con faccia liscia, senza né un
tremito né un rimorso…
Ero così punto da queste spine che non seppi
trattenermi dall’incalzarla:
«E allora, non hai niente da dirmi?».
Taceva con gli occhi a terra, giocava a togliersi e a
rimettersi un anellino dal dito.
«Io posso aiutarti, ti voglio bene».
Lo dissi con un inciampo, una lisca fra i denti,
cercando di contrabbandare la dichiarazione d’amore
come un innocuo motto fraterno. Ma lei mi sbalordì,
fece tre cose l’una subito dopo l’altra: scoppiò a
piangere: lacrime ch’erano chicchi grossi di grandine;
indi mi si buttò contro a testa bassa, alla cieca, come
una che si vuole ammazzare, cercandomi con le labbra
aperte le labbra; infine, dopo un contatto di lingue
umido e fuggitivo, mi sfuggì, mi fermò le labbra con
una mano, mentre con l’altra si schiaffeggiava
selvaggiamente la guancia destra. «Disgraziata me,
disgraziata!» gemeva, e intanto tornava ad accostarsi,

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mi profumava di sé, inarcandosi indietro, però, a
resistermi, appena tentavo di assecondarne lo slancio, e
nel contempo, fra successive lacrime, sorridendomi.
Quel pianto, quell’abbandono frenato (ma non al
punto che il freno potesse apparire ripulsa) finirono col
frastornarmi. Possibile che fosse un’astuzia per
disarmarmi e avermi socio delle sue intenzioni? O non
era piuttosto intrinseco alla sua natura gattesca
intridere ogni moto delle membra e del cuore d’una
tale cipria di lascivia innocente? Questo il dubbio che
mi mulinava dentro ed era come se lei me lo sentisse
urlare.
«Domani ti spiegherò tutto» fece, e si ricompose,
obbligandomi a rientrare nei miei panni di precettore.
Tanto più che nella porta di fronte avevo visto una
maniglia lentamente girare…
«Manzoni» declamai dunque surrettiziamente
«nella Lettera a Monsieur Chauvet…» ed ecco Alvise
entrò nella stanza, in tempo perché le sillabe di quel
nome straniero gli accendessero un lume liquido dietro
le palpebre, risuscitandogli innanzi, come in uno
specchio ovale di maga, memorie d’acque e terme
lontane, parasoli, giardini, velette, aigrettes, promesse
d’amore immortale scambiate dietro un ventaglio…
«Sciovè, hai detto? Io nel ventuno, no, nel
ventidue…».
Quando chiarii che doveva trattarsi di semplice
omonimia, mi guardò con un minuscolo astio,
troncando a mezzo il racconto incominciato. Sicché
non seppi allora, né forse avrei saputo mai più, chi era
e che cosa aveva avuto a spartire con lui, nel giugno
del ventidue o ventuno, passando insieme le acque a
Vichy, la signorina Marie-Edvige Chauvet…

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Andandomene, Venera m’accompagnò fino alla
porta. «C’è l’indirizzo» mi sussurrò, facendomi
scivolare in tasca una busta munita di ceralacche,
senza darmi tempo di chiedere che sorta di missione
intendesse affidarmi. Il duello durò pochissimo, fra il
campanello d’allarme che prese a trillarmi dentro un
orecchio e lo scampanìo d’alleluia che mi trionfava
nell’altro. Bastò la pressione, nell’atto del salutare,
della sua mano contro la mia, e l’alleluia mi empì di sé,
mi tenne compagnia gloriosa mentre scendevo quasi di
corsa da San Giovanni a Modica Bassa, giù giù lungo
il vecchio serpente di scale.
Appena mi trovai nel «Salone», illuminato a giorno
da un doppio filare di globi accesi, e cominciavo a
smaltire l’esaltazione, fu un colpo al cuore, l’indirizzo
che decifrai sul pacchetto: m’aspettavo Liborio Galfo e
trovai Rosario Trubia. Trubia, nientemeno, il cugino di
Maria Venera, il donnaiolo Sasà Trubia! Allora la
befana cominciò a bruciarmi fra le dita. Non restituiva,
ahi ahi, come avevo sperato, le lettere della rapita al
rapitore, bensì… bensì, che cosa? Non fossi stato il
galantuomo che ero, sarei corso ad esplorare
artificiosamente l’involucro, come per assaggio
d’anguria, carota del minatore, biopsia d’onco sospetto.
Invece rimasi a torturarmici sopra, senza decidermi né
a forzarlo né ad imbucarlo.
«Col nonno Alvise omertà» s’era raccomandata lei
sulla soglia, stringendomi forte la mano. Ragione di
più per sospettare che alla reclusa questo commercio
postale dovesse premere molto, visto che non osava
ricorrere al ragazzo Zichitiniellu, ma solo a un adulto
babbeo, un vassallo innamorato di lei. Se pensavo poi
che in Sicilia il primo indimenticabile amore d’ogni

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cugina è il cugino… Basta, tutto portava a credere che
i miei rivali fossero due, e il secondo di gran lunga più
minaccioso del primo.

Sasà Trubia, lo conoscevo bene. Era uno dei molti


cugini di Venera, tutti maschi, tutti di cognome Trubia,
figli delle zie Severa e Prudenzia, che ogni estate
ospitavano la ragazza nelle loro villeggiature. Brutte e
ricche, avevano sposato nello stesso giorno, ch’era poi
risultato quello del trattato di Versaglia, i due ricchi e
imboscati fratelli Trubia, lasciando che la sorella
minore, Grazia, corresse dietro innamoratamente a un
legionario fiumano. Costui, prima di morire, aveva
collaborato con foga alla nascita di Maria Venera e con
foga maggiore provveduto a dilapidarle ogni dote
presente e futura, in sodalizio con don Alvise. Durava
a Modica su suocero e genero, e io feci in tempo dopo
anni a raccoglierne il bagliore, una leggenda di
baldorie transalpine, fughe senza bagagli, rimpatri
obbligati, secondo una scadenza più o meno stagionale,
scandita ogni volta dall’immagine derelitta di donna
Grazia su una panchetta, nella sala d’attesa d’uno
strozzino o d’un giudice cacasentenze. Così se n’erano
andate le proprietà, così se n’era andata anche lei,
Grazia, una soave garçonne dai capelli corti, che mi
guardava da una cornice povera sul tavolo di Maria
Venera.
Severa e Prudenzia avevano avuto altra sorte: una
quantità di figli, salute, agiatezza. I due mariti Trubia
erano stati a lungo, da industriose formiche, in affari
di cemento; avevano costruito strade, scuole, case
rurali. Non senza l’aiuto dei Fasci, di cui si
professavano zelatori, e di altre più occulte eminenze,

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su a Roma, dove pellegrinavano ogni primo dell’anno,
portando in tasca la «caraffa dell’olio» o la «palla»,
come la chiamavano, cioè un gonfio portafoglio a
mantice, ottimo a lubrificare ogni lubrificabile ruota.
Morto, ora, l’uno dei due fratelli, e scimunito l’altro,
la vedova e la semivedova, a dispetto dei loro prudenti
e severi battesimi, avevano preso a speculare
malamente, a spendere da dissennate. Tanto che, ogni
estate bandivano corte alla Sorda con la speranza, si
diceva, di accasare al meglio i figliuoli scapoli, che in
verità non mostravano fretta ma davano piuttosto
mano a guastare le ultime possidenze della famiglia.
Sasà era il meno bello dei quattro cugini, ma il più
rapace, con quella barba dura e nera sull’osso della
mascella, il naso fiero, rampante, gli occhi come
araldiche belve. Con in più un tocco di eccentricità,
che gli veniva dal vestirsi pittore, sì da arrampicarsi
spesso in vespa su per i viottoli di Ammazzanuvole,
con basco di velluto e cravatta Lavallière, offrendo
allo stupore muggente delle mandrie uscite a
passeggio lo spettacolo d’un cavalletto sopra le spalle
e d’una cassetta di colori nel portabagagli, ch’era tutta
un arcobaleno. Messinscena, probabilmente, dal
momento che nessuno aveva mai visto una tela finita,
bensì si malignava d’incontri con una figlia d’orefice
che aveva villa da quelle parti…
Ora io col giovanotto ero in simpatia: per essere
entrambi patiti di musica negra e prestarci dischi ogni
giorno e scambiarci entusiasmi. Non mi andò dunque
di ritrovarmelo davanti in figura di sfuggente
avversario, a malapena visibile dietro lo schermo di
Galfo; e con la prospettiva di fargli io stesso da
Mercurio galante. L’involto fra le dita mi divenne di

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piombo, né mi stancavo di palpeggiarlo, di odorarlo,
chiedendomi quali eterei aloni, come succede spesso
agli oggetti, lo impregnassero di pensiero e passione, e
se mi fosse possibile interpretarli. Il timore, inutile
dirlo, era che contenesse pegni d’amore, collusioni
novelle alle spalle di Alvise e mie da parte della
prigioniera (tale era Maria Venera, ora che stava
serrata in casa con sette sigilli, aspettando che
s’illanguidisse lo scandalo). Mi sentivo escluso,
umiliato che lei, per mandare a dire non so che cosa a
un probabile damo, non si facesse scrupolo di
adoperarmi, senza badare ai miei sentimenti, con
indifferente insolenza. E infine, in tal caso, la fuga con
Galfo, che diavolo significava? Un rancore – lo stesso
che mi suscita ogni mistero – venne a pungermi il
cuore. E alla voce che in me giorno e notte diceva:
«Venera, t’amo», un’altra si sovrappose: «Venera, va
in convento!».
In tale imbarazzo Licausi non m’aiutò, che trovai
ciondoloni davanti alla farmacia dei coniugi
Fratantonio, con un occhio rivolto per finta ai
cartelloni del cine e l’altro, più aguzzo, a cercare se,
fra una boccia e l’altra esposta in vetrina,
s’intravvedesse all’interno il viso bello della figliola di
quelli, Isolina. Non soffrendo di entrare in concorrenza
con le sue contemplazioni, preferii portare a spasso la
mia discordia, finché risolsi di spingere, con un gesto
di ladro, la busta nella buca all’angolo del municipio.
Ma quando, tornato a casa e sottrattomi alle
premure di donna Amalia, mi fui chiuso l’uscio alle
spalle, ecco, dalla solita lavagna di carta appuntata al
muro, salutarmi ironicamente alla voce il mio più
recente carme in lode di Venera. A MARIA VENERA era

62
il titolo scritto in cima, in grandi lettere stampatello. E
io, per impulsivo atto di fede, dove il lenzuolo del
foglio serbava ancora uno spazio bianco, un A MARIA
VERGINE aggiunsi, cubitale altrettanto, e parallelo,
come quando dal notaio due contadini allineano le
proprie firme, l’una sotto dell’altra, in calce a un
impegno d’onore.
Subito dopo il sonno mi portò via.

Quel mandato di fiducia, dovetti revocarlo con un


frego di penna ventiquattr’ore più tardi, dopo il
secondo abboccamento con la ragazza, davanti a una
antologia dei primi secoli, che avevo aperto per buon
augurio di seduzione alla pagina di Cielo d’Alcamo.
«Aspetto un bambino» esordì senza pietà. Poi,
tutto d’un fiato: «Non è di Galfo, è di un altro. Che
non mi vuole, che non lo sa, che non voglio più. Lui,
se lo sapesse, mi sposerebbe, ma io non lo sposerei».
«Dio mio» balbettai, secondo le migliori tradizioni
dei romanzi che leggeva Mariccia. E in un lampo
pensai quanto si sarebbe commossa la linda Amapola,
si fosse trovata a origliare dietro la tenda di broccato
consunto. Balbettai, ma sentivo al mio dispiacere
mescolarsi una curiosa soddisfazione. Non solo
perché una certezza mi pareva meglio di mille dubbi,
ma per avere io stesso parte, anche se da semplice
spalla, in un intreccio di così esuberante commedia.
Fino a tal punto era vero – lo dico ora col senno del
vecchio – che di un teatro d’amore sentivo allora
bisogno assai più che di una sostanza d’amore…
«Galfo, che dice?» chiesi, accettando con
disciplina l’ufficio di confidente. «Galfo sa tutto, è
stato il solo a sapere, e m’ha proposto subito di

63
scappare insieme e sposarci». Una brace delicata le
aveva colorato le guance. «Questa paternità che non
gli compete, se l’assumeva contento. Per bontà verso
di me, soprattutto; ma anche, penso, per una rivincita
e una smentita a certe cose che gli dicono dietro…».
«Vere?».
La domanda mi sfuggì, futile, e me ne vergognai
sull’istante. Ma lei alzò le spalle: «Non importa se vere,
anzi meglio». Poi, tornata in viso placida e bianca,
con un filo di boria che le faceva risoluta la voce: «È
un uomo buono, Galfo, e io gli voglio bene. Inoltre, a
me serviva un padre per questo qui – e si batté il ventre
col pugno – e un marito per me, da passeggiarci
insieme a braccetto uscendo di messa, sotto il balcone
dell’altro…».
Si nascose la bocca col rovescio della mano, ma
ormai la parola era andata, non ci voleva niente a
capire di quale balcone potesse trattarsi, di fronte alla
chiesa c’era solo quello dei suoi parenti Trubia.
Quella pantomima di reticenza mi fece comunque
sorridere: quasi che l’intestazione del pacchetto non
fosse già stata una testimonianza lampante… E
dopotutto, se lei mi esibiva l’evento, a che scopo tanti
silenzi sul responsabile? Ma Maria Venera era così
fatta, l’avrei capito in séguito praticandola da vicino:
un garbuglio di spudoratezze e pudori, menzogne
superflue e confessioni impulsive, calcoli regolati col
tic tac d’una bomba a tempo e imprudenze corrive
della parola e del gesto. Una ragazza babele, dove
cento lingue facevano chiasso insieme, e l’una veniva
dai sensi ch’erano infrenabili, l’altra dall’intelletto
cupido e ardente, l’altra dalla vanità, l’altra
dall’orgoglio, l’altra dalla paura…

64
So ora, è una voce che gira da queste parti, che nel
luogo dove vive, lejos, muy lejos de aquí, s’è data alle
pratiche pie e, se una voce ascolta è quella del cielo.
Ma allora, come apparteneva soavemente al diavolo,
con quanti lacci di volpina e colombina malizia gli era
legata!
Da assolvere, tuttavia. Da assolvere, qualunque
cosa dicesse o facesse. Per quel regalo di bellezza
spropositata che spargeva sul mondo; e il disarmo del
cuore, il modo di porgersi volenterosa e innamorata
alla luce. Come me, come ognuno. Chi non assolverei
sulla terra, quale Giuda o Caino, se ognuno è così
misero, inerme, innamorato di sé sotto la luce, così
sospeso e vicino a cadere (fra un anno, fra un
minuto…) dalla sua cornice di luce nel buio! In verità
morire, dover morire, redime qualunque colpa, né c’è
nessuno fra i vivi, anche il più innocente, a cui venga
alla fine graziata la pena del capo!
Assolsi Maria Venera, dunque; anzi le offersi
un’esca.
«Galfo, se vuoi, puoi ancora sposarlo».
Mi guardò sconsolatamente: «Non posso più, non
voglio più. M’ero già pentita dopo mezz’ora di
macchina, ho proseguito la fuga per sola lealtà. Ora
voglio liberarmi di questo figlio e di tutti. L’altro, l’ho
licenziato scrivendogli. A Liborio lo dirai tu». Assunse
un’aria così spadaccina che non mi sentii di fiatare.
Benché avrei voluto dirle che non le credevo, che di
Trubia era pazza ancora.
Ma ormai lei dilagava:
«Liberarmi. Ammazzarlo, questo seme che m’è
cascato dentro. Sarà come ammazzare il padre».
«Che dici!» insorsi blandamente. «E, a parte tutto,

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come farai?».
«Per pagarmi le spese ho i gioielli antichi di
mamma. Per il resto l’aiuto tuo, tu sei un nobile cuore.
So di una donna che fa queste cose. Basta andare a
Catania, a un indirizzo che so».
Abbassò gli occhi sul testo che avevamo davanti:
Esto fatto far pòtesi innanti scalfi un uovo le venne per
caso di leggere e scoppiò in una risata così veemente
da spaventare Alvise laggiù, nel suo studiolo, dov’era
intento, suppongo, a sfogliare i suoi albi Paris s’amuse,
Ludovic Baschet, éditeur.
Bussò, s’affacciò: «Che succede?».
«Nulla» risposi. «Solo che uno di questi giorni
devo fare un salto a Catania e Venera, dopo tanta
clausura, vorrebbe venire con me a guardare le vetrine.
Possiamo?».

66
VI
Spionaggi da un alto balcone. Lettera all’Angelo Arcangelo. Galfo
padrino di sé medesimo. Cicalata sulle lettere anonime.

Al principio del Niente


fu la luce e l’idea,
palinsesto, cibreo
oscuro della mente,
creato che si crea
ininterrottamente…

Stavo sul letto a ponzare il séguito, quando


Madama:
Mimosa, Mimosa,
quanta malinconia nel tuo sorriso…

intonò con voce di gola, e si pettinava frattanto,


specchiandosi negli inattendibili vetri della mia
finestra. Abitudine con la quale ero stato in guerra sin
dal principio, ma che a lei consentiva di soddisfare
nello stesso tempo due eterogenei doveri e piaceri: la
mattutina cura della persona e la curiosità per le
faccende del prossimo attraverso un occhio di bue
naturale fra due graste di petrosello. Bersaglio ne era il
caseggiato di fronte, un palazzo dalle molte viste, dove
si dava spettacolo gratis non all’alba soltanto ma per
tutte le ventiquattr’ore dell’orologio. Vi si potevano
seguire dal mio belvedere i più vari e privati
svolgimenti del vivere, bisticci e paci, avarizie e

67
dissipazioni; contare i capi e cambi di biancheria;
spiare mille e un segreto goloso, arrivi e partenze di
fornitori, debitori, creditori, la carriera d’una morte e
l’inizio d’una pubertà. Devo confessare che io stesso,
certe mattine, quando Amalia con la scusa di venirmi a
svegliare m’invadeva il domicilio, mi lasciavo
trascinare a farmi suo complice di spionaggi? Per
documento dei libri che avrei scritto un giorno,
protestavo; sebbene fosse difficile far rientrare nella
suddetta esigenza l’attenzione che dedicavo alle
impalpabili trine, alle libellule di seta nera, pendule
alla ringhiera della giovinetta Isolina. Costei
cominciava, appena alzata, in pantofoline e vestaglia, a
battere con un battipanni un tappeto e già con questa
sua musica a introdursi nel mio dormiveglia. Levatomi,
davo mano a un binocolo di marina, estorto alla gelosia
di Madama, e pedinavo la ragazza di stanza in stanza,
la vedevo andare e venire dal bagno al tinello, con
mosse insieme furtive e fiacche, sbucciare con flemma
un frutto, farsi con flemma un caffè, fumare,
sbadigliare. Infine, eccola alle otto e ventotto, non si sa
come, già pronta, col grembiule scolastico attillato
sulle selvatiche membra di capra, balzare fuori a
precipizio, scomparire fulminea dietro l’angolo dello
Stretto, dove il «Salone» s’impenna a salire.
Isolina studiava da maestra nella mia stessa scuola,
ma in una sezione diversa. Licausi, che aveva un
debole per le studentesse, se n’era preso a poco a poco,
a forza di incontrarla nel corridoio, limitandosi finora,
per rivederla nel pomeriggio, a recarsi più spesso del
debito nella farmacia dei genitori, dove volentieri
tergiversava in attesa, facendosi scavalcare nei turni,
finché era costretto a richiedere almeno una bustina di

68
bicarbonato, senza il più delle volte aver visto neanche
l’ombra della ragazza. Non faceva drammi per questo,
essendone preso per ora tiepidamente. Perché Licausi
era, o sembrava, uomo tiepido e cauto, nel cui cuore i
sentimenti giungevano in punta di piedi e impiegavano
molti mesi per divampare.
Quanto a me, questa Isolina dirimpettaia, l’avevo
notata da un pezzo, le avevo anche sorriso, quella
domenica che il gatto di Madama, di nome Quo Vadis?,
era rimasto prigioniero, fra alti lai, di una strettissima
gronda, e i vicini se ne stavano da terrazze e logge a
guardare. Incapace di rigirarsi, Quo Vadis? aveva
esitato a lungo sul vuoto, soffiando, sbuffando; poi
aveva risolto animosamente di buttarsi, si era
precipitato come un’incudine in mare. Per levarsi
subito, tuttavia, senza un graffio e, scossa un poco la
polvere dalla pelliccia, placido rincasare. Fu allora che
le sorrisi, mentre, tenendolo per la collottola,
presentavo l’animale agli applausi della platea. E lei
m’aveva restituito il sorriso.

Madama, dunque, chiarì a domanda che Mimosa


era una canzone di trent’anni prima, la cantava suo
padre al tempo che lei era ancora bambina. Bambina?
Non potei che sogghignare, coltivavo troppi pregiudizi
sulla sua età per darle buono quel calcolo. D’altra parte,
visto l’uso che ne facevo, la floridezza e maturità di lei
non guastava, sarebbe stato pericoloso delegare
l’incarico di svuotarmi le vene ad attrattive più acerbe.
Ero allora, nelle cose della carne, contentabile e
difficile insieme. E nelle sale di periferia dove mi
conducevano a forza gli amici, le rare volte che
succedeva, sceglievo a colpo sicuro la più dimessa, la

69
più anziana e umiliata, timoroso che ogni altra
m’avrebbe in qualche modo frenato. Rifiutando
perfino la invogliante vicepadrona, Zoe, esclusa dai
consumi del volgo, ma disponibile sempre per la
clientela più fine. Io no, la venustà di Zoe, sebbene
gualcita dall’uso professionale, non finiva di mettermi
soggezione, e mi contentavo perciò delle vagabonde
lucciole quindicinali. Salvo a ripiegare alla fine, tana,
tumulo e tempio, nel sacrosanto talamo di Madama. La
quale ora, senza smettere di apostrofare a gran voce
Mimosa, m’indicò col pettine che brandiva, intasato di
capelli, giù nella via l’invariabile staffetta d’ogni
mattina: fra un marito in tronchetta rurale che se ne
andava; e l’ex onorevole Scillieri, Uomo Qualunque,
che subentrava…
M’attardai poco a sorriderne, avevo fretta, mi
aspettava l’uovo pieno d’una giornata: l’ultima lezione
a scuola, e la visita a Maria Venera, per concertare il
da farsi riguardo alla sua emergenza; senza contare, fra
una cosa e l’altra, il pranzo da don Cesare con le
previste interpellanze dell’opposizione… Mi precipitai,
dunque, ma sulla soglia dell’aula Gertrude mi porse
insieme il registro e una lettera profumata, arrivata col
corriere della mattina.

Amo ricevere posta, una moderata ebbrezza mi


prende, quando posso sprofondarmi in una poltrona,
con un plaid sulle gambe e un tagliacarte nel pugno,
accanto a una sporta di belle e gravide buste. Tanto
belle, prima d’essere alleviate del loro portato, quanto
laide e lacere dopo, appena esso ha finito di rivelarsi,
quasi sempre, insolente cartella delle tasse, circolare
condominiale, anello di trasmissione d’una stupida

70
catena di sant’Antonio… Finché, una o due volte
l’anno, dal ventre bianco germina un fiore: questo
foglio, per esempio, profumato di violetta, vergatino,
color rosa, che comincia senza preamboli: «O Angelo,
Arcangelo mio!».
Arcangelo, capite! Con la maiuscola! Uno dei
Troni, delle Dominazioni! Uno di Quelli che Volano
fra le Nuvole! Non c’erano dubbi, si trattava proprio di
me, l’intestazione era lì davanti, tutta in muliebri
svolazzi, e tuttavia risoluta, come il passo della legione
tebana!
Sarà uno scherzo, pensai, è uno scherzo. Ma
leggiamo prima che dice. E subito volai con gli occhi
alla firma. Trovandoci, ahimè, una specie di nodo
gordiano, un ghirigoro premeditato, la firma, insomma,
d’una lettera anonima.
Quando potei leggerla, mentre le ragazze tenevano
il capo curvo sul tema, la lettera recitava:

O Angelo, Arcangelo mio! Bisogna dirtelo, dunque:


ti amo! E non giudicarmi sfrontata, non saprai mai chi
sono. Benché, anche con questa impunità
dell’anonimo, tremo. Ho preso la penna in mano dieci
volte prima di decidermi. Infine ho dovuto farlo, era
troppo pesante questo segreto. Inoltre l’anno finisce, è
tempo di salutarsi, è tempo di lavarsi il cuore. O
Angelo, Arcangelo mio! Prima di conoscerti temevo la
felicità. Tu mi hai fatta un’altra, mi hai tolto il lutto
dall’anima. Questo devi sapere, amore mio bello. E
devi sapere che nel mio diario, fra le pagine 21 e 22
giugno, fra san Paolino di Nola e san Luigi Gonzaga,
che ti proteggano entrambi, tengo la foto tua, quella
collettiva, fatta in palestra, dove stai in piedi col

71
preside accanto. E dove io non ci sono, m’ero nascosta
a guardarti la nuca, la voglia piccola e bruna che hai
sulla nuca. Bello, marito mio bello, so che scrivi da
poeta. Scrivi un poema per me, per la sconosciuta
bella (sono bella!) che t’ama! Ti bacio su tutt’e due gli
occhi.

Uno scherzo, si capisce. Di Iaccarino. Solo lui


avrebbe saputo imbastire una simile cantafavola,
magari per distrarmi da Maria Venera. Pur tuttavia,
anche nell’improbabilità che quelle righe fossero
autentiche, me ne sentivo stranamente intenerire, ero
grato a chiunque le avesse scritte di avermele scritte.
Dirò di più: giungevano al momento giusto, mentre mi
accingevo a umiliarmi complice di Maria Venera,
senza poterne sperare che un grazie. Se un gioco era,
speravo che non finisse, che il carteggio continuasse:
tanto, in quei giorni, il mio sentimento provava
bisogno di un’illusione amorosa. Spargesse pure
Venera, l’idolo Venera, da un turibolo pieno di buchi i
suoi incensi su altri che me, poco importava, oramai!
Se non il suo, un altro profumo di donna, genuino o
bugiardo che fosse, era venuto a stuzzicare le mie
narici!
Scesi dunque a passeggiare fra i banchi, guardando
a destra e a sinistra, non si sa mai. E ogni tanto facevo
di sì col mento a una domanda immaginaria, messo di
buonumore da quei propizi sorteggi e lievi sorrisi della
fortuna, che stavano portando nella mia vita un
inatteso e graziosissimo parapiglia.
Poiché bisogna sapere che io avevo molto viaggiato,
anni prima, fra sangue e pianto, e le gambe mi
dolevano ancora. Avevo perso la giovinezza come si

72
perde un treno, e m’era restata nella mente, al suo
posto, una crepa profonda e nera, che inutilmente
bendavo di frasche e mascheravo di fiori. Sapevo che
stava sempre lì, cicatrice d’inaccaduto, squarcio di non
vissuto, che mi sentivo bruciare ogni sera sopra la
guancia più d’uno sfregio di Zorro. Ebbene, ora la
ruota pareva muoversi all’incontrario. A cavallo dei
trent’anni mi sorprendevo ragazzo fra ragazzi a
sperimentare i mai giocati giochi dell’amore e del caso
in una luce di meraviglia.

Non era finita. Quando uscii dall’aula con la borsa


dei compiti in mano, e dovevo avere una faccia fra
ilare e frastornata, Galfo m’aspettava torvamente nel
corridoio. Ero stato io a convocarlo, telefonandogli
nell’intervallo. Dovevo dirgli, per mandato di Venera,
che si mettesse l’animo in pace, ma lui mi precedette,
sapeva che insegnavo alla ragazza e le facevo, disse, il
cascamorto, dovevo smettere. «Devi smettere tu» feci.
«Venera non vuole né me né te. Quanto al bambino, in
qualche modo si rimedierà». Divenne pallido, rosso,
mi venne coi pugni sul naso. La mia risata non lo
scalfì, mi bisbigliò che intendeva sfidarmi. A pugni
nudi, stasera, sulla spianata del Pizzo, se non osavo
accettare altre armi con lui ch’era mattatore infallibile
di colombacci e beccacce. Lo guardai mentre parlava,
mi fece pietà. Era furioso e insieme triste, indeciso,
bisognoso d’aiuto. Alla fine, non sapendo che
rispondere, obiettai che non volevo né spari né pugni,
per me erano arabo, potevo accettare al massimo una
partita a dama, chi perde paga il caffè. Non si
trattenne, la mano che alzò di scatto, e con cui tentava
press’a poco di schiaffeggiarmi, gli s’impigliò per

73
fortuna fra borsa e registro, da me levati a difesa; né ci
volle molto a Gertrude, rapidamente accorsa, per
dividerci e portarselo via sottobraccio, in bidelleria.
Dove mi recai subito anch’io a consolarlo, ad
asciugare col fazzoletto le larghe profuse lacrime della
sua desolazione.

Feci tardi a pranzo, ma in trattoria Iaccarino e


Licausi s’erano fermati ad aspettarmi, li vidi,
entrando, fissarmi con occhi festosi nei visi caldi di
digestione e di vino. Un’animazione palpabile li
teneva, e perfino il pesce sembrava parteciparvi,
raddoppiando capocciate e colpi di coda contro i
vetri della sua galera. Era chiaro che si pretendevano
da me i ragguagli più ampi, così sul mio incontro di
ieri con Venera come sullo scontro odierno con
Galfo, di cui s’era già sparsa, e m’aveva preceduto,
la voce. Io li tenni in sospeso, volli prima
quietamente mangiare non senza scegliere per mia
privata allusione quegli spaghetti fini fini che son
detti «capelli d’angelo». Poi, chiamata anche
Mariccia a consulto, ora che l’ultimo cliente se n’era
andato, raccontai tutto dall’A alla V, tacendo solo la
Zeta dell’incipiente maternità.
Com’era da prevedere, le sofferenze del ballerino
non commossero nessuno, sulla vertenza cavalleresca
l’uditorio scherzò senza sale. E le proposte furono
molte: che io gli andassi incontro su al Pizzo con
bacinella di Mambrino e durlindana di legno,
intimando da lontano un Tìrati ’n panza da recitazione
mafiosa; che loro mi seguissero vestiti di lenzuoli
bianchi e ci comparissero d’un tratto davanti gridando
«Uh uh!»; che, come si fa per le nozze, un invito di

74
partecipazione alla sfida venisse stampato nella
tipografia di Matteo Baglieri e distribuito a fanti e
dame, pubblicamente…
Frivolezze, che mi smontarono un poco. Ero stato il
primo a ridere della intimazione di Galfo e tuttavia mi
sarebbe piaciuto, sotto sotto, che gli amici la
prendessero sul serio. Sentivo bisogno attorno a me di
un tempo sforzato, di qualche fanfara. Vivere sopra il
rigo, per qualche giorno, volevo. Una vita cantabile,
più opera buffa che seria, ma da tenore, comunque. E
invece mi toccava quel siparietto di barzellette. Con in
più il rodimento, riguardo al mio amore per Venera, di
non trovare negli amici l’alleanza e la considerazione
dovute. Loro erano sicuri, non sarei stato che lo
zimbello di lei, peggio ancora, il fattorino galante.
Sostennero ch’era una furbetta senza sale, vogliosa
d’uomini, ma confusa e disordinata di mente. Così
dicevano, e io per un minuto gli davo ragione, poi
Venera tornava a essere agli occhi miei uguale alla
Madonna di Gulfi, venuta di là dal mare, che neanche
tre paia di buoi erano valsi a smuovere dal sito dove
aveva deciso di fermarsi e avere un altare. Un sito, non
c’era da dubitarne, che per lei sarebbe stato il mio
cuore!
Ancora di più mi pungeva che nessuno di loro mi
giudicasse degno di suscitare un affetto. La stessa
lettera all’Angelo Arcangelo, se era (e non poteva
non essere) una burla, ne costituiva la prova: non si
fanno burle così a don Giovanni, ma a Leporello
soltanto…
Per sincerarmi del tutto, tirai fuori la pagina
inzuppata di violetta, ne feci due volte lettura, non
senza averla fatta prima annusare a ciascuno, come ai

75
cani poliziotti si strofina sul muso la mutanda della
donzella scomparsa. Il commento, alla fine, fu
un’interiezione, fra meraviglia e dileggio. Non la
raccolsi e attaccai deciso verso Iaccarino che volevo
provocare a svelarsi: «L’hai scritta tu?».
Non m’aspettavo una risposta diretta, Iaccarino era
incapace di intrattenere colloqui che non diventassero
subito sulle sue labbra sproloqui. Specialmente a
tavola, quando aveva pescato troppe volte nel boccale
di Cerasuolo, la consuetudine era che, offertogli
l’argomento, egli si tirasse sulle ginocchia la cuoca e,
scarruffandole con la mano la stoppa dei vecchi capelli,
se n’andasse a spasso con le parole. Così anche
stavolta, e fu questa, più o meno, la cicalata che
improvvisò:
«Vi sono molte maniere, orali e manuali, di
trasmettere il pensiero, ma il più antico e rispettabile è
la lettera senza nome. Immune d’ogni ambizione
d’autore, veridica voce d’abisso, essa rappresenta
quanto di più simile esiste alla parola di Dio».
«Dimentichi il tuono» obiettai. «Coelo
tonantem…», mentre Licausi che nei nostri concerti
s’era assunta la parte di controcanto plebeo e che
quindi Iaccarino chiamava «il mio Sancio», fece
soltanto con le labbra: «Bum!».
Mariccia rise senza capire, tanto che Iaccarino si
spazientì, la scosse con bruschezza da sé. Poi,
pedagogicamente:
«Non lo dimentico. E concordo che la creazione è
soltanto un «Bum!», un crepito spaventoso del ventre
di Chissà chi. Un crepito, ma al mio naso piuttosto una
vescia clandestina, una loffa, una cataloffa, un codice
adespoto, un delitto non firmato, come quelli che i

76
vostri Sherlocchi s’affannano rozzamente a decifrare.
Insomma, non meno delle pitture d’ignoto e dei
trovatelli alla ruota, la lettera senza padre è una
bastardaggine relativamente sublime, di cui
converrebbe classificare le specie…».
Fece una pausa spavalda, in attesa che provassimo
a contraddirlo. Io, invece: «Come parli bene» lo adulai
e gli porsi un ulteriore bicchiere.
«Distinguerai» continuò «negli scritti anonimi tre
maniere diverse, benché fra loro sorelle. Delle quali
la prima è volta a intimidire, a incriminare e procede
da secca bile. Assertiva, sbrigativa, adopera frugali
parole, MANE THECEL PHARES, oppure ASINO CHI
LEGGE. L’altra si pasce di tremoli, propala desideri e
speranze, stilla prolissi e sospirosi umori. Un esempio
l’hai fra le mani e odora di violetta. Ma la terza, ch’è
la più meritoria, bandisce amari e salutiferi veri, apre
gli occhi ai giudici e soprattutto ai mariti…».
Assecondando la sua mania citatoria e le bizze del
linguaggio, che sapevo bene quanta agrezza e tristizia
di cuore coprissero: «Otello!» declamai «Otello! Sai tu
che faceva Desdemona mentre nell’arzanà t’impeciavi
di pece tenace?».
Gli davo corda così perché si scoprisse da solo.
Senza perciò rinunziare nelle pause ad assalirlo: «L’hai
scritta tu?».
Non mi badò, aveva preso il largo: «O dispaccio
che giungi all’alba col passo soffice del postino, e
odori di essenze rare, e ombrosamente ti celi, non
gracidi ma bisbigli, non proclami ma insinui…
benemerita pulce all’orecchio, lucerna del minatore,
soccorrevole baculo al cieco! Sei tu che scoperchi la
pietra pulita e sotto vi sveli le torme dei pallidi

77
millepiedi; sei tu che, inascoltata, denunzi a Cesare le
Idi di Marzo, tu che… Insomma, c’è una ragione se per
tuo genitore viene lodato Monsignor Corvo, ch’è il più
savio degli animali!».
«Obiezione, Vostro Onore» interruppi.
«Rammentati di quei versetti del nostro Ginnasio:
Maître Corbeau sur un arbre perché…».
«Obiezione respinta» rispose. «Per un corvo
scimunito che mangia a bocca aperta su un albero,
mille più savi digiunano su busti di dee e si fanno
chiamare Mai più…».
Mariccia, che in questi frangenti si stufava dopo tre
minuti (tre minuti esatti dopo di me), tentò
d’interrompere il fiume: «Io non so di che corvi parlate,
lasciatemi dire però che a me questa lettera puzza.
Possibile che una donna, per scervellata che sia, prenda
per un Arcangelo questo qui» e m’indicò con lieto
disprezzo. «Se poi, ma non ci credo, è sincera, sfido io
che si vergogna di confessare con nome e cognome
una così singolare affezione…».
«Le donne» sogghignò Licausi «quando devono
comprare cipolle al mercato, si nascondono con la
veletta».
Li avevo tutti contro e allora scossi per il braccio il
cieco che era entrato or ora e ogni giorno aiutava con
la sua fisarmonica le peristalsi dei commensali. Ma
Iaccarino non aveva cessato di fiammeggiare.
Terrorizzò con un urlo il poveretto che aveva attaccato
Sciuri sciuriddu e gli comandò di tacere. Poi:
«Se finissi in un’isola» pontificò «non vorrei altro
libro che un dizionario. Tante sono le grida e le
musiche ch’è possibile udire nelle sue viscere
vertiginose. Allo stesso modo è probabile che tutte le

78
lettere anonime sparpagliate per il mondo siano i
vocaboli sciolti di una sola gigantesca lettera anonima
e che le scriva un’unica mano, un solo Corvo nascosto,
per chiudervi un significato assoluto. Questo tuo
biglietto non conta, da solo, più d’uno dei millanta
cocci in cui si ruppe lo Zeus di Fidia, ma se tu provi a
metterlo insieme con gli altri, con le loro membra
spaiate, vedrai che risponderà. Poiché la Risposta
esiste, ombra del Verbo sopravvissuta fra le sillabe di
Babele. Oppure solo momentanea incarnazione di
Proteo… Sai tu quante sono le facce di Proteo?
Incalcolabili, e ognuna rinnega l’altra, è Proteo e non è.
Allora io mi chiedo, ti chiedo: il vero, indiviso Proteo
dov’è?».
Malgrado la passione che pareva metterci, era
chiaro a questo punto che parlava a caso, per
ubbriachezza e malinconia. Sicché mi volsi in fuga
verso la porta, ero atteso da Venera e dalle sue ansie
d’incinta. Ma prima, per scarico di coscienza: «Lo so,
lo so, l’hai scritta tu!» bluffai dalla soglia. Dopo di
che si decise finalmente a sibilare, facendomi il verso:
«Ma sì, ma sì, Copyright by Iaccarino», ch’era forse
un’ammissione, forse solamente un supremo sfottò.

79
VI bis
Ritratto dell’artista come giovane zufolo.

Un’altra pausa, prego. A questo punto bisogna


ch’io mi presenti com’ero allora, forse finora non l’ho
fatto abbastanza. Ero uno zufolo capace di due note
sole, allora. Facile da suonare, ma bisognava
impararmi. Erano due, le note, una d’afflizione, uì uì uì,
come quando bastonano un cane; l’altra di letizia,
trallallà trallallera, che veniva da una violenza di
fame per ogni fumante e rosso ragù della vita (questa,
nemmeno trent’anni di tenaglie e unghie strappate
hanno saputo mortificarla). Due note: e me le sentivo
fischiare fra le labbra a vicenda, a seconda delle
stagioni. Nei mesi equinoziali pensavo a morire, mi
soprannominavo da me Gingolph l’abbandonato, che
era il titolo d’un vecchio romanzo Sonzogno di chissà
chi, e mi chiedevo ogni mattina, svegliandomi, che
cosa mai fossi se non verme solitario, cartuccia vuota,
immondizia alla deriva sul profluvio dei millenni.
Cosa poteva importare e a chi il minimo bene o male
che facevo o pensavo o soffrivo, l’infinitesimo tremito
di vizio o virtù che mi faceva vibrare i nervi un
istante… Ché, se fosse stato possibile calcolare, e con
immensa approssimazione credevo che si potesse,
quanti miliardi d’uomini avevano finora abitato la terra,
e le innumeri specie delle loro morti: per etisia, mal

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caduco, anofele, lue, peste, canchero, lebbra; morsicati
da un topo, un dragone, un corbaccio, una iena; per
arma di taglio, di punta, da fuoco; per trangugio
d’acqua salata, arsione di fascine, tomboli da rupi,
trapezi di circo, finestre di Praga; per apoplessia,
cachessia, malsania; per spacco improvviso del
cuore… se si fosse potuto contare il numero, di tanto
più grande, dei palpiti e moti di sentimento di ciascuno
dei viventi vissuti: le invidie, le brame, gli strazi, le
paure, le pietà… se si fosse fatto il registro delle
copule umane e dei sussurri amorosi in grotte, alcove,
separè, automobili con ribaltabile… concludendo che
tutto s’era fatto nel tempo niente e niente di niente,
mentre tornava in me senza scopo a ripetersi dentro un
lampo di rapida luce…
Su quest’ultima pensata ecco giungere al mio
soccorso la forza e la bontà del solstizio, la sua gloria,
l’agrume delle sue brezze di mare. Era la volta che
uscivo cantando trallallà trallallera, e mi sentivo
pizzicare il naso e le vene. Dov’erano le dimissioni, le
scurità di ieri? Mi ritrovavo tutt’un altr’uomo da sera a
mattina né c’erano mura che potessero tenermi quieto.
Un esorcisma era bastato a sanarmi, una paroletta che
il sole m’aveva sussurrato all’orecchio. E, al modo
d’un serpente che rinviene nella quarantena del suo
quartiere d’inverno, trovavo stretto ogni imbuto di tana
per il volume delle mie spire.

Se mi osservo nelle foto di allora (cartoncini 6 x 9,


da Kodacchine economiche), ho nello sguardo un
allarme gioviale, dove le due indoli, le due note
fischiano insieme, la schizzinosa e la facile, la
piagnucolosa e la canterina. Ricordo che Iaccarino mi

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disse una volta: «Un giorno uno di noi due verrà a
sapere della morte dell’altro. Allora questo minuto che
stiamo vivendo insieme, e che insieme ricorderemo
entrambi finché vivremo, risulterà dimezzato, biffato al
cinquanta per cento. Più tardi l’onda nera finirà di
coprire quel ch’è rimasto. E nessuno saprà più che
davanti all’edicola Turco-Colosi, il 13 luglio del
cinquantuno, alle ore tredici e trenta, abbiamo acceso
due Serraglio con lo stesso cerino…».
La prendeva da così lontano per scroccarmi una
sigaretta, ma io rimasi turbato lo stesso, imparai la
prima volta a distinguere le memorie plurali da quelle
d’un solo, e come moriamo ogni giorno nella morte di
chi ci ricorda, e come uccidiamo ogni giorno gli altri
dimenticandoli.

Tanto tempo è passato. Ora, se provo a fischiare, il


sibilo che mi nasce da questo buco fra i denti, qui dove
due incisivi mi fanno difetto, non significa nulla. Non
ho più amici né favole, solo compongo cabale e
cabalette di parole, beffe e baruffe di parole per
ingannare la morte. Scrivo a te, desocupado lector,
viso afono e cieco, nebbia bianca davanti alla mia
portatile, ma in verità non ti amo, non vorrei nessuno a
spiarmi mentre dimeno sempre più straccamente le
gambe nel mio ballo di Sfessania. Fricasso,
Scaramucia, Frittellino, fratelli in Cristo… sono io lo
zanni in trampoli sullo sfondo, che minaccia di cascare,
fra qualche attimo cascherà.
Proviamo ancora una volta: uì uì, trallallà…
Ancora una volta tutto finisce in un accesso di tosse, il
Papageno che fui gonfia invano puerilmente le gote.
Scrivo, come no, ma non vivo. Scrivo inizi di libri che

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non scriverò. Rumino attacchi da Hellzapoppin’,
ghiribizzi da disperato: «Ignazio Sanchez uscì alle
cinque per andare a prendere il tè», «La marchesa uscì
alle cinque per andare alla corrida», «Alle cinque della
sera la marchesa uscì con Ignazio»… Scrivo frigidi
elogi alla macchia d’inchiostro che mi sporca il pollice
destro; scrivo a Dio, non rivelo per discrezione che
cosa; scrivo a Cesare: «Divo Cesare, il tuo reziario ti
scrive. Ave, Caesar, scripturus te salutat»… Scrivo
alle nuvole di Ammazzanuvole, al vento che se le
portò…
Ma scrivere mi piacesse, almeno! Invece trascino la
penna come una gamba zoppa, aro la carta per amaro
farmaco e penitenza. Questo miracolo di creare con un
po’ di suoni e segni una bolla d’inesistenze ciarliere,
come non finisce di apparirmi un’azione losca, una
colpa. E sebbene cerchi di volgerlo in scherzo, in
passatempo, sì da far scorrere svelti i minuti di futuro
che mi sono stati irrogati; sebbene al posto d’ogni
ricordo mi ritrovi a narrare un sogno o una fanfaluca,
sempre il gusto che me ne resta è di tossico. Come in
quel dialogo di Grock col dottore: «Mi guarisca,
dottore, sono infelice», «Vada al circo a vedere Grock»,
«Non posso, Grock sono io»…
Alas, poor Grock! Ahi, povero Gesualdo! Forse
dovrei dichiarare solo nome e matricola, rifiutare di
aprire oltre le labbra, invocare la convenzione di
Ginevra sui prigionieri di guerra…

Eppure no. In campagna un gran noce mi cresce a


dispetto e con le sue barbe minaccia le mura della casa
vicina. Tempo fa l’ho circondato di calcestruzzo, l’ho
rinserrato in una profonda e larga camicia di forza, ho

83
isolato il vecchio tronco per tenerlo buono. Stamani un
rigonfio del cemento, una crepa sospetta, m’ha detto
che la radice non s’è arresa, non ha smesso di
camminare…
Allora, trallallà trallallera, soffia so’, Papageno!

84
VII
I Circoli del Far Sud. Pomeriggio e serata con Sasà Trubia.

Avevamo concertato il giorno, io e Venera, ma la


spedizione a Catania non fu necessaria. Un’ora prima
di partire, nell’atto (orribile a dirsi!) di scopare il
pianerottolo in cambio di Anita, Maria Venera
ruzzolò, più o meno, apposta, per tutti i ventisette
gradini di casa e si ritrovò, senza bisogno di forcipe,
sconciata e contenta. Me ne fece partecipe
dall’ottomana dov’era distesa a guarire delle
contusioni e del resto. Una benedetta caduta, mi
confidò, che, quand’anche la dovesse tenere storpia
due settimane, era venuta in buon punto a supplire per
vie naturali una pericolosa incombenza. Io fui
contento altrettanto, se non altro per i soldi che
risparmiavo, visto che avevo deciso di pagare il
fabbricante d’angeli con la mia magrissima borsa.
Meno contento fui della freddezza repentina della
ragazza, ora che non aveva più bisogno di me. Si
dichiarò riluttante a riprendere gli studi, con ciò
minacciando le mie occasioni di incontri quotidiani e
legittimi; inoltre, fosse distrazione o malizia, in
mezzo a tanti tu, ormai sanciti dall’uso, frammischiò
senza correggerlo un lei. E continuò, sì, a chiamarmi
per nome ma come se le tre sillabe fra le labbra le
facessero schifo. Devo dirla tutta? Si fece trovare un

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pomeriggio in vestaglia coi capelli inanellati di
bigodini.
A parte ciò, tutto nel suo contegno sembrava
mutato, e con tale estemporanea disinvoltura, senza,
cioè, nessun preparativo del voltafaccia, che mi venne
di dare ragione a Iaccarino: che fosse una furbetta
qualunque, una testa piena d’aria, incapace di vedere al
di là delle proprie urgenze, e non intelligente
abbastanza per essere un’egoista di classe.
Che dovevo fare? Restituii gelo per gelo, le dissi
che avevo impostato il pacchetto, ma che un’altra volta
provvedesse altrimenti; quanto alle lezioni, pazienza,
erano affari suoi, tanto di guadagnato per i miei ozi.
Infine, nel cavare le sigarette di tasca, lasciai con
indifferenza cadere a terra la lettera all’Angelo
Arcangelo, e subito mi congedai.
Trucchi da collegiale, si capisce. Come se una
ragazza quale Venera potesse ingelosirsi di uno che
non amava. Tuttavia una mesta vanità mi veniva dal
pensare che avrebbe letto tante parole di fuoco dirette a
me. Senza dire che la lettera smarrita sarebbe stata
buon pretesto per ritornare…

Sceso in città l’uggia spinse i miei passi verso il


Circolo dei Civili. Era un Circolo di notabili, questo,
dove noi professori avevamo accesso solo in virtù
della franchigia che in tali casi suole accordarsi agli
ospiti forestieri. Noi tre, e io specialmente, ci
andavamo volentieri, per le ragioni che qui di séguito
spiegherò.
I Circoli del Far Sud godono cattiva fama. Luoghi
d’accidia e d’uggia, si dice, dove, fra rimpalli di
carambole, fruscii di giornali inchiavardati nelle

86
bacchette di legno, ragionamenti di lagnosa
meteorologia proprietaria, si consumano pantaloni, si
consumano anni, ammuffiscono vite in interminabili
repliche…
È una mezza verità. Poiché essi rappresentano
altresì spazi di pantomima e di chiacchiera creativa.
Qualcosa di simile ai marmi delle chiese al tempo dei
Medici, gremiti di novellanti, o alle veglie nelle
cascine padane, lungo le due sponde del fiume, dove
fino a pochi anni or sono s’intrecciavano girotondi di
orale comicità. Non diversamente il Circolo dei Civili
di Modica s’era costituito in perpetuo palcoscenico
cittadino, mancava solo il botteghino all’ingresso e una
bigliettaia che facesse pagare il visitatore. Tanti erano i
lazzi che i soci improvvisavano a turno, spinti da un
invisibile buttafuori, dalle tre del pomeriggio alle nove
della sera; ora stentorei, seduti nella saletta del baccarà,
dove fortune di secoli andavano a precipizio nel tempo
d’una smazzata; ora sottovoce, in piedi dietro le
persiane, occupati a osservare non visti le sfilate serali
del Corso, e ad ascoltarci il battito infaticabile
dell’esistenza.
Era quello il momento di sboccio di certe
indiscrezioni e calunnie grandiose, primi fondamenti
dell’impalcatura fantastica su cui veniva crescendo la
commedia giornaliera della città, una recita in
movimento, di cui ciascuno era insieme spettatore,
attore, autore, impresario…
Una cosa, infatti, saltava all’occhio di chi venisse
da fuori: la facilità con cui lì dentro ogni rispettabile
Tizio e Caio per quanto stabilmente allogato nel guscio
della sua identità municipale e sociale, ne veniva
subito espulso per consegnarsi a una parte di pinocchio

87
parlante e aereo pulcinella di se stesso. Bastava una
singolarità appena accennata nel gestire o nel dire, uno
specifico anche irrisorio dell’indole, del costume,
dell’abito; ed ecco quel vezzo, esaltato dalla loquace
chiaroveggenza degli altri, mutarsi immediatamente in
stemma, in fulminante connotato d’una mania. Non
solo: ma era come se le persone, a furia di specchiarsi
nelle presunzioni del prossimo, si sentissero in dovere
di adeguarsi alla sembianza imposta, ilare o funebre, o
di cucirsela sulla pelle al modo d’una anagrafe seconda
e più veritiera. Con gli effetti di comica angoscia ch’è
possibile immaginare.
In un tale luogo di maschere, entrandoci la prima
volta, a me ne era stata sortita una che m’aveva un
poco mortificato le ali: di professorino studioso, solito
ambulare a piedi con le braccia ingombre di scartafacci;
forse socialista, anarchico addirittura!… ma, in fin
dei conti, uno spaventapasseri timido.
A classificarmi così non è che avessero torto. Erano
tempi, quelli, in cui arrossivo spesso, vampate mi
correvano improvvise da un orecchio all’altro,
maledizione! E mi facevano sentire come alla visita di
leva, nudo davanti a un muro di calce. Una rivincita,
dunque, ora che la mia recente impresa alla rincorsa di
Maria Venera pareva avermi cambiato la faccia e tutti i
riflettori della città s’erano accesi a cercare sotto
l’empiastro del mio cerone il cipiglio d’un matamoro.
Una rivincita era stata, e faceva fiorire miti orgogli e
speranze dentro il mio cuore. Forse, non dico Venera,
su cui non contavo molto oramai, ma le altre mille che
avrei amato a momenti, innominate nell’ombra,
aspettavano solamente di sentirsi riempire l’orecchio
del mio giovane chicchirichì. Oppure no, non ci

88
pensavano affatto, ma sarebbe stato ugualmente bello
per me crederci tutta l’estate. Poiché non è solo bello
viverla, la vita. È bello quasi altrettanto fingere e
mentirsi di viverla.
In ogni caso a me bisognava per le imminenti
festività una specie di lasciapassare. Grandi manovre si
preparavano per il luglio e l’agosto nei parlatorii delle
case patrizie, il calendario ne traboccava. E si sapeva
di modiste messe in croce dalle nubili più nubili, di
tolette di spuma di mare fatte venire da Parigi, di
pendenti d’età borbonica disseppelliti dai cofani di
famiglia. Si sarebbe ballato a lungo sulle terrazze delle
grandi ville alla Sorda, negli châlets di Sampieri, nel
gran giardino di Chiaramonte, requisito da un comitato
di dame per la grande Veglia a numero chiuso. Nella
quale, io che finora avevo partecipato a qualche
trattenimento natalizio di borghesi e di benestanti,
dubitavo d’essere ammesso, se non m’aiutava
qualcuno. Dubitavo, dubitavo assai, che lumi e
musiche, alabastri di lune e seni, piume di cigni neri
attorno a colli preziosi di gioie, sussurri e tremuli deliri
d’amore, sarebbero rimasti intatti sulla guantiera
davanti alle mie labbra di famelico nullatenente.
Ora so, e sapevo allora, di corteggiare una fantasia.
La nobiltà locale era solo lo sgorbio di quella che
m’incantava nelle mie letture. E tuttavia, come su un
marciapiedi nella copia d’un madonnaro un barlume di
Raffaello vittoriosamente resiste, o un’ombra di
Mozart nell’esecuzione peggiore, così vedendo
scendere dalla Balilla paterna, che guidava con mani
guantate, Giuliana di Giardinello o donna Matilde
Tuscano girarsi dal palco di proscenio a guardare con
l’occhialino in platea, non dico che mi tremasse il

89
cuore, ma un turbamento mi coglieva, come se ai
Campi Elisi o all’Opera avessi visto spuntare da
lontano i cappelli piumati della baronessa Nucingen o
della duchessa Guermantes.
Ora poi che con Venera stavo a mal punto, e il mio
amore per lei era come un fuoco indeciso se farsi
incendio o languire, il rapporto con la città diventava
di più arguta belligeranza; era essa la lizza dove avrei
vinto o perduto, non solo il mio cimento con le donne
e l’amore, ma le guerre, fondamentali, con me stesso e
col mondo.
Sicché: «Modica, a noi due!» dissi semiserio
battendo con forza la scarpa sul suolo, e, mandato a
dire a Madama che sarei tornato tardi o mai più, con
passo bersagliere m’avviai a varcare la soglia del
Circolo dei Civili.

L’intenzione era, per il momento, di usare qualche


modesta diplomazia. Non tutti i trionfi militari
cominciano da un’invasione; e a me importava
intrecciare prima di tutto qualche alleanza e complicità
mondana. Sapevo che il maestro di cerimonie delle
prossime occasioni, il doge dei piaceri leciti e illeciti di
Modica, colui, insomma, che disponeva a suo grado gli
inviti, era don Nitto Barreca, festaiolo e giocatore
matricolato, sempre pronto a far notte, benché
camminasse sorreggendo la scoliosi del collo con una
gorgiera di gesso. A lui, che si piccava d’arte antica e
che accusavano di scavi clandestini e di peggio, avevo
una volta spiegato la differenza fra la ceramica a figure
nere e la ceramica a figure rosse, e me n’era rimasto
grato. Speravo quindi nella sua protezione, ma lo
cercai senza esito nella saletta interna, la seduta di

90
baccarà era stata rinviata a domani. Mi salutò, invece,
Trubia, con un curioso sorriso, levando il capo dal
biliardo e dalla partita che conduceva contro un
giovanotto d’abito e accento straniero. Un francese, di
nome Michel, venuto fra noi, nientemeno, per conto di
Jean Renoir, a cercare luoghi e scene per un film da
girare, da un racconto di Mérimée. M’eccitai, che
diamine. E Renoir, Anna Magnani, verranno? Il
francese la faceva cadere dall’alto, con supponenza:
«Ça dépend, ça dépend», e giù a rovesciare birilli.
Finché Trubia alzò le mani in segno di resa e c’invitò
su da lui, a due passi, a bere un liquore ascoltando i
suoi nuovi dischi di jazz.
Fu una bella sera. Dal balcone aperto giungeva il
brusìo del «Salone», e pareva un blando sottofondo
d’applausi al concerto che ascoltavamo. «Turù turù
turù turù» ritornellava la tromba di Cootie, e a me
veniva un groppo sotto il pomo d’Adamo, che non
andava né avanti né indietro.
Al francese piacque per patriottismo Careless love
di Bechet, perché vi suonava Claude Luter, che
conosceva, disse, avevano avuto una ragazza insieme,
ma io volli ascoltare tre volte un Parker, Relaxin’ at
Camarillo, di cui Sasà m’aveva detto ch’era stato
composto in un sanatorio di nevrastenici. Subito dopo,
St. James Infirmary, dove si piangevano mali più
poveri, mi diede l’occasione d’un confronto fra
ospedali e cliniche, miserie carnali e disgrazie della
mente, che sarebbe piaciuto a Pietro Iaccarino.
Trubia seduto accanto al grammofono, badava a
cambiare i dischi, le puntine. Indaffarato, ospitale. Io
mi alzavo negl’intervalli per osservare da vicino i
mobili d’epoca, i graziosi soprammobili sul comò, le

91
porcellane in biscuit, l’incongrua spinetta in un angolo.
Non fu intenzione ma caso se nel cestino dei rifiuti
intravvidi fra altre cartacce la busta di Venera, vuota e
con le ceralacche dissuggellate; ma non fu caso se,
ritto davanti alla scrivania, mentre Sasà e Michel si
bevevano a occhi chiusi un assolo d’umoresco
trombone, sporsi le mani a frugare fra gli apporti della
posta recente, scoprendovi, non senza un pizzicato di
riso nascosto, una fotografia di Sasà, riccioluto e
barbuto, sulla cui fronte un inchiostro verde che
conoscevo aveva aggiunto due corna. Un insulto
retrospettivo? Una minacciosa promessa? «Turù turù
turù turù» risi a fior di labbro, disimpegnandomi e
tornando vicino ai due, pronto a lasciarmi commuovere
ancora da quella musica il cuore. Così sono i giovani:
immediati e cangianti nel loro sentire.
Poiché Michel, per gusto suo, voleva conoscere
robe indigene di magaria e superstizione, mi toccò
fargli da guida fino alla casa-grotta di donna Tònchila,
la fattucchiera. Era una vecchiaccia gagliarda e allegra,
che m’aveva in simpatia da quando m’ero messo a
praticarla per impararne vita e miracoli. Tante volte
s’era offerta di farmi la manteca d’amore a carico di
chi volessi, rifiutandosi solo quando io motteggiavo
che avrei voluto innamorare di me non una creatura di
carne, ma uno spirito dei suoi, qualche figlia del
diavolo che abitasse sul lucernario di casa sua. «Con i
padroni del luogo non mi ci metto» diceva Tònchila,
seria, e si faceva la croce. Ma a Michel, che per celia
oppure credendoci, le aveva chiesto soccorso contro
una fotografa della troupe troppo ritrosa, fece pagare
salata la polverina e la ricetta di parole utile a ridurre la
bisbetica alla ragione.

92
S’era fatto tardi, frattanto. Il francese se ne dovette
andare. Allora Trubia m’invitò a cena in un locale di
ghiottoni, a Modica Alta. «Glielo dico, non glielo
dico» facevo io fra me e me. Che cosa, poi, non sapevo.
Volevo solo confusamente portare il discorso su
Venera e dalle reazioni di lui interpretare i moti veri
della ragazza e, perché no, anche i miei: capire cosa io
veramente sentissi. Fatto sta che non aprii bocca
durante il pasto né lui pareva intenzionato a parlare se
non della sua scalogna ultima al gioco e della rivincita
che si sarebbe presa, infallibilmente, domani. «Verrò
anch’io» promisi, pensando che avrei visto don Nitto, e
lo accompagnai volentieri a cinema, per un film
napoleonico digestivo.
La bella Adalgisa sorrise a lui solo, mentre
staccava i biglietti. Io lo precedetti, restai in piedi
dietro l’ultima fila, al riparo della tenda color granato,
mentre gli occhi mi si venivano abituando alle tenebre
della sala. Quando infine potei sedermi nel primo
posto vuoto, e abbandonare sulla spalliera di velluto
una nuca condiscendente, ecco laggiù sullo schermo
crepitii di mitraglia e vecchie guardie in quadrato entro
un nembo glorioso di polvere… Gli occhi non mi
ressero allora, mi si chiusero a calcolare una volta di
più i contrattempi della mia vita. Quanti disguidi, mi
dico, e malecreanze della cronaca e della storia!
Quell’io che sognavo, col cannocchiale a tracolla e la
destra in finto riposo fra la terza e la quarta asola della
redingote turchina, di veder spuntare fra due campanili
di Austerlitz il sole, com’è che mi ritrovo qui a
stomaco pieno, attento solo al coire che fanno in me
salse, enzimi e papille, dopo un pasto abbondante:
melenso finale d’orchestra, dove il basso continuo è

93
l’Avana di concia secca offertomi da Sasà, reiette in un
canto le insipide mie Serraglio… Ecco, è bastata una
siesta da ricco e non penso più alle mie guerre,
nemmeno all’ingrata Venera penso!
La luce mi ruppe le palpebre, il primo tempo era
giunto in porto. Feci in tempo a riconoscere, in una
delle prime file, accanto ai boccoli neri di una
compagna, la chioma di Isolina, più nera, e dietro di lei
Licausi che fumava come un treno e fingeva
d’osservare in aria un volo di mosche.

94
VIII
Parole sulla felicità. Presentazione di don Nitto. Partita di carte
al Circolo dei Civili.

«Licausi ha un cuore à la coque: incapace di amori


estremi». Così sentenziò Iaccarino, quando gliene
parlai.
Eppure i segni del contrario si andavano
moltiplicando, Licausi si faceva vedere ormai solo
all’ora dei pasti, volta a volta taciturno o ciarliero, ma
sempre a sproposito. Posto che il suo cuore fosse un
uovo, era evidente ch’era un uovo cotto e stracotto, io
me n’intendevo. Mariccia mi diede ragione, mentre mi
porgeva un biglietto che Puck aveva portato, da parte
di Venera.
S’era pentita, la pazza, voleva di nuovo studiare.
M’arrabbiai, m’illanguidii, ci tornai. Si mise a fare sul
serio, stavolta, e accoglieva avidamente le spiegazioni;
benché frattanto la penna le andasse a spasso sul foglio,
meno per prendere appunti che per tracciare in verde
pupazzetti caudati e cornuti, con sotto scritto SASÀ.
Finimmo col riderne insieme, ormai mi si confidava:
«L’ammazzo? M’ammazzo? Che mi consigli?».
«Perché non fare le due cose insieme, prima l’una e
poi l’altra» scherzavo io, non senza sentire un morso in
mezzo al petto, di ansia per lei e mortificazione per me
e invidia per Trubia. Era in quei momenti che mi
veniva di pensare al menabò confuso del mio futuro.

95
Voglio la felicità, avevo deciso dentro di me il primo
gennaio di quell’anno. Per un mese o per un’ora la
voglio. E che era mai, in fondo, la felicità? Avevo
pensato un tempo che nascesse dall’amare. Poi
dall’essere amati. Ora mi convincevo che il suo fiore
fosse vicino a sbocciare, pronto a essere colto dalle
mie dita, come il primo fiore di mandorlo, quel mattino
della scommessa, dalla mano di Saro Licausi… O non
era forse, la felicità, il sentimento d’un tempo
immobile e d’oro? L’inganno, cioè, che il sole
s’impietri dov’è, e la luna; che nel nostro sangue
nessuna cellula invecchi di un attimo in questo attimo
stesso che sembra passare e non passa, sembra non
passare ed è già passato. Oh interromperlo,
sospenderlo, il tempo: sicché tutto, pietre, pesci,
uccelli, foglie, frutti, e io e tu, Maria Venera, siano e
siamo fulminati dalla luce in un radioso e incorruttibile
«ora»: immobili, senza più la risacca dei nostri ieri a
sommergerci, a crescerci fin sopra le labbra; senza più
la scogliera dei domani, irta di punte e coltelli, a
minacciarci malanno e morte; niente passato, niente
futuro, ma solamente presente, con noi tutti beati, belli
e addormentati nel bosco, re, regina, cortigiani,
principessa, lo stesso principe… in un presente
invariabile ch’è la stessa dorata festa di questo giugno
del cinquantuno…
La felicità, dunque. E che importa se non mi sarà
pagata in dobloni di Spagna ma in marchi di Weimar?
Il Reno, l’ho letto in un libro, finisce in sabbia prima di
sboccare nel mare. Ma corre, prima, come corre,
vagabondo e lieto, per campi e selve, fra rocce e alberi,
specchiando nuvole, stelle, trecce di Ondine intirizzite
e ridenti!…

96
Scorrere in un tempo fermo, tuttavia, è possibile
mai? E, viceversa, ricchi solo di parole, armati solo di
parole, come sospendere il tempo? Scrivendolo, forse?
Parole mi servivano, dunque: magari più aggettivi che
sostantivi. Per contrastare l’ossificazione del mondo,
gli oggetti senza qualità, i gesti senza passione…
Come già da bambino, quando le cercavo nel
vocabolario e ciascuna sembrava una dea che nasce dal
mare. Parole inventate e tempo sospeso: questa la mia
ricetta per esser felici. Del resto sin da prima, al tempo
delle elementari, l’avevo scoperto ogni lunedì in una
pagina del Corriere dei Piccoli, a un chioschetto di
fronte alla scuola. Qui m’incantavo a guardare dietro
Mio Mao i verdi prati, l’azzurro cielo, i rossi tetti, tutto
un paese angelico dove il tempo era morto ma morire
non si poteva. Da allora ogni sillaba mia cerca Arcadie
dipinte, senza un grumo d’umano, con una cascata
ferma a mezz’aria, un mulino dalle pale immobili, un
ramarro fra due pietre, addomesticato dal sole: una
pace. In un mattino che non diventerà mai
mezzogiorno. Con ondulate colline, laggiù, dove
l’orizzonte s’arrende timidamente alla luce, e un
campanile incide nell’aria il suo dito levato, e un
branco bruca in silenzio una siepe, e l’invasione del
sole nei pertugi del fogliame, secondo lunghe colonne
oblique, sveglia puri colori, diacci e stillanti colori, blu
di Prussia, gialli Vermeer, ombre di suono, profumi
d’erba in amore…
Bene, bene, era un sentimento simile che speravo,
per un mese o una settimana, e lo attendevo da una
Venera, da una vice Venera, da un incontro con una
ignota durante una festa da ballo…
Che cosa curiosa: sono ciechi entrambi, amore e

97
felicità, però non stanno bene insieme. L’amore non
è certo una pace, né vale a sospendere il tempo, bensì
lo accorcia e dilata. Inoltre introduce nella mente un
ingombro di larve eloquenti, un cinema pubblicitario
e farnetico, con una voce che grida in perpetuo: tu, tu,
tu!; e un’altra che replica colpo su colpo: io, io, io…
Non ha nulla da spartire, l’amore, con un’idea di
felicità. Salvo quando non è ancora giunto e lo
aspettiamo dietro i vetri, coltivandone il vizio nella
mente, e fiutandone da lontano il fiato come un
allarme di primavera. Ora dunque, se volevo essere
felice, che c’entrava, l’amore? Forse nulla ma forse a
me piaceva chiedere entrambe le cecità, e mi
rifiutavo di scompagnarle, le mischiavo insieme sotto
uno stesso nome contrabbandiere. Molto più tardi
avrei saputo da un savio orientale che la felicità può
essere questo: ascoltare di notte il canto di una
bambina che se ne va dopo averci chiesto la strada.
Per intanto i miei denti di lupo giovane non
avrebbero permesso a nessun Cappuccetto Rosso di
allontanarsi cantando…
Aggiungo ch’era estate, un giugno già quasi luglio:
mediterraneo. Con un fragore di sole sul capo, e
cespugli neri sotto le scarpe, come moncherini in
cancrena. Sarebbe stato difficile dirigere a dovere
un’orchestra di sensi tanto furiosa, di violoncelli in
calore e timpani cupi, vogliosi di morte. Che triste,
balenante destino, in Sicilia, avere tanto sangue da
spendere per vene così povere e pigre, e una forza di
nani per una superbia di numi… E sia pure che tutto
questo non c’entra, ho divagato, ma non è detto che
non serva a spiegare perché quella sera, uscendo dalla
casa di Maria Venera, una sola cosa desiderassi:

98
essere eletto nella rosa privilegiata, fra i trecento
nomi segreti degli invitati che il cavaliere don Nitto
Barreca conservava manoscritti nella tasca posteriore
del pantalone.

Don Nitto Barreca, detto Bàzzica, era l’unico


superstite d’una famiglia di ricchi che avevano
proprietà qui, nella nostra contea, ma vivevano a
Palermo. Morti genitori, zii e zie, nel giro di poche
stagioni, e non sempre senza sangue, lui era venuto
intenzionato a fermarsi una settimana per contare
l’abbondante eredità, ma aveva finito per mettere tenda
e radice nella villa della Sorda. Qui intratteneva
secondo rigidi turni semestrali ora l’una ora l’altra
femmina domineddio, tigri da leccarsi le labbra, che
importava da serragli molto lontani, scendendo in
paese solo le sere che al Circolo si puntava d’azzardo,
tanto ne era vizioso. Lui avrebbe in verità preferito i
giochi di bravura, ma dopo qualche tentativo nei primi
tempi aveva licenziato un giorno i volenterosi
compagni di bridge, solo disposto a far da quarto –
disse – al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. Dopo di
che s’era volto al baccarà, tanto più in uso quaggiù. Io
ne avevo soggezione ma lo ammiravo anche
confusamente, don Nitto, benché mi facesse specie
vederlo ogni volta accompagnarsi a un guardaspalle
forestiero, una specie di grande bue vestito di velluto a
coste. Né è questa l’unica ragione che me lo rendeva
lontano, lo avevo visto a Natale tenere un banco di
milioni con una freddezza insultante, facendo ad ogni
battuta seguire, non per bisogno naturale ma per
iattanza, una sparatoria di sbadigli che gli sformava
ancor di più la faccia insigne di pelosissimi nei. La

99
bassa statura, il mento smussato, l’abito a righe chiare,
il cui occhiello portava però, meridionalmente cucito,
un caparbio bottone di lutto, la balbuzie intermittente
chiamata in soccorso a dissimulare non so che occulti
propositi, l’armatura deforme che gli faceva colletto al
capo, tutto congiurava a disegnargli un sembiante di
losco, arricciato attorno a se stesso, per acquistare la
cui confidenza ci sarebbe voluto più spirito che a
scassinare la banca di Londra. In realtà si sussurrava a
quattr’occhi che il paravento del gioco nascondesse
strani commerci, contrabbando di anticaglie e d’altro,
ma io non ci credevo, non riuscivo a credere che si
potesse delinquere senza bisogno. Né ci credeva,
bisogna pensare, nessun notabile, gli stavano così
sottomessi, lo corteggiavano, lo ammettevano in casa,
dopo essersi detti ottimisticamente che la mantenuta
era solo un’ospite continentale. Questo l’uomo che
avrei dovuto ingraziarmi se volevo entrare nel giro
mondano.
Per cominciare andai a prendere posto nell’antisala,
dove i giocatori si trattenevano a bere il caffè, fino a
quando la compagnia si fosse radunata al completo per
la sfida del dopocena. Questa aveva inizio intorno alle
nove, protraendosi poi fino a notte, ed esordiva con
un’asta del banco ch’era una pura formalità, risultando
sempre don Nitto colui che offriva di più. L’atto
successivo consisteva nella chiamata di un volenteroso
contabile che aiutasse il banchiere a controllare le
puntate, a riscuotere e a pagare. Ora la scelta di don
Nitto cadeva di regola su un avvocato scrignuto,
grande inventore di sistemi vincenti, il quale, per
essere andato a sperimentarli di persona al Casinò di
Sanremo, non aveva più un soldo suo da rischiare e si

100
contentava di partecipare platonicamente alla passione
di tutti, felice del semplice maneggio di banconote e
gettoni, e del lezzo di sudori mortali alitante e quasi
palpabile sotto il gran lampadario a gocce, tutt’intorno
al tavolo verde.
Di lui intendevo sbarazzarmi per prendergli il posto.
Cosa che ottenni urtandogli come per caso il braccio
che reggeva la tazzina e versandogli a bruciapelo un
doppio caffè sulla giacca. Ustionato, furioso, il giurista
scappò dalla moglie a cambiarsi, non senza incrociare
per strada don Nitto in arrivo. Il quale, in mancanza
d’altri, bisognò che pregasse me. E io spinsi la faccia
tosta fino a mostrar riluttanza, accettai solo per fargli
un piacere.

Spiegato su tre tavoli messi in fila il solito panno


verde, la partita cominciò. Don Nitto al banco, io
cassiere, Ciccio Calafiore e Sasà Trubia ai due tablò,
come li chiamano. Con tanti altri a puntare, si
capisce, a rimorchio dei due contro il banco. Era,
Calafiore, un malignetto malpelo, baciapile e avaro,
che sfilava le carte con una pigrizia irritante, poi
chiudeva il gioco o domandava carta usando
monosillabi radi. Capace, se si trovava in guadagno,
di imboscarsi nel bagno per un fittizio bisogno, indi
alla chetichella dileguare. Ma Sasà era un giocatore
di specie più nobile, guardava le carte con
sprezzatura, perdeva sorridendo o ridendo. Salvo
stavolta, e la cosa mi fece riflettere. Con tale tetro
amore di distruzione insisteva a sbagliare puntata,
raddoppiando o triplicando la posta quando tutto
consigliava il contrario. La sorte gli era del resto
meticolosamente nemica, tanto che a poco a poco i

101
soci della sua «ala» lo abbandonarono per trasferire
le proprie fiches all’altro lato del tavolo dove
Calafiore in qualche modo si difendeva. Dopo un
ennesimo colpo perdente (uno zero rotondo, in gergo
«pupa su pupa», cioè figura sopra figura) Sasà
cominciò a puntare sulla parola: «Cadono mille,
mille a cadere»… Due volte, tre volte, e aggrottava
sempre più la fronte. Finché «Non vedo la gloria»
dice don Nitto e Sasà di scatto si alza, scrive un
assegno per il suo debito e me lo porge, poi saluta
tutti e va via. Lasciandomi una sorta di pungolo nella
mente: se l’umore suo dipendesse dalla mala posta
ricevuta da parte di Venera, o se addirittura da essa
dipendesse la sua sfortuna. Non essendo raro il caso
che taluno riesca a farsi iettatore di sé medesimo.
«Si è spenta una candela» gli disse dietro don Nitto,
che non conosceva soltanto tutti i giochi ma le orali
liturgie relative. Il gioco continuò ore ancora; sempre
con quel corso stregato: il banchiere batteva colpi su
colpi, io raccoglievo meccanicamente le vincite.
Astratto, fra tante fronti accese d’estasi furibonda, a
chiedermi quale fra quelle dame di carta somigliasse
più a Venera. Né m’accorsi ch’eravamo all’epilogo, se
non quando: «Zerilò!» esclamò don Nitto, mostrando
fra indice e pollice un nove ed una figura. Erano le due
di notte e io avevo davanti una montagna di titoli e
contante, sotto cui faticavo a rintracciare il portacenere,
quando volevo schiacciarvi una cicca.
La parola Zerilò, arcano scongiuro che don Nitto
era solito pronunziare per istigare la sorte, come il
fantino sollecita con lo sprone il berbero sulla dirittura
del palio, risuonò nel silenzio pieno di fumo con
l’accento di un De Profundis. Le altre che vennero,

102
«C’è un séguito», con cui lui intendeva passare la
mano, parvero una firma ironica sotto un certificato di
morte. Il «séguito» era impensabile, a nessuno era
rimasto di che dar fuoco alla legna, la partita era finita
e cominciava la notte.
Sulle soglie del Circolo ci fermammo a odorare la
notte. C’era nell’aria un tanfo, gradevole però, come di
fascina che arde. Quasi che l’incarbonito cuore del sole,
sparendo, avesse lasciato di sé un’ostinata fumigazione.
Oppure nei campi qualcuno stava bruciando qualcosa.
Aspirammo a grandi boccate. Poi, mentre gli altri
senza voltarsi rasente i muri s’allontanavano, don Nitto
mi ringraziò brevemente, alzò il ciglio quando rifiutai
con umiltà la provvigione del due per cento che il
vincitore per costume antico suole offrire all’aiutante
non giocatore. «Capisco» disse. «Non c’era cattiva
intenzione» aggiunse. E prendendomi a braccetto si
fece accompagnare fino alla sua vettura. Poi mi chiese
l’età. «Ti credevo più giovane» fece. «Meglio così.
Non li sopporto, i meno di trent’anni. A me piace gente
che ha i calli nel cuore».
Feci di sì col mento, ma pensavo dentro di me,
romantico come credevo di essere, che stava
positivamente scambiando una lucciola per un callo…
Nel salutarmi dal finestrino: «Fatti fare un abito
nuovo» mi disse. «Fra qualche giorno ti servirà».

103
VIII bis
Provvisorio benessere e variazioni su un vecchio tema.

Che devo dirti, lettore? Sarà una coincidenza, e lo


ammetto controvoglia, ma in questi giorni mi sento
meglio, né più mi pullula dentro gli occhi, appena li
chiudo, quello stormo di cavallette notturne. Dormo
sempre poco, si sa, e non è un bene, in questa Roma
deserta di luna.
Qui la mia luna non giunge, la mia iblea, agricola
luna. La cerco senza speranza, scalzo sul parquet, fra
gli spiragli dell’avvolgibile, mentre tutte le ortiche
della veglia a venire mi pungono già sulle palpebre.
Ipotalamo, ipotalamo senza pace. E con quante
migliaia di fantastico ieri mi assedi, come patisco
l’ingombro enorme d’ogni ieri, mio e degli altri, mio e
della storia, d’ogni nascita, morte e destino…
Immagino una sentinella antica, seduta presso le
braci del suo bivacco, con gli occhi e orecchi d’essa
aspetto il macedone o trace che m’ucciderà; poi
subito, e duemila anni dopo, sporgo da un davanzale
austriache malinconie, mi chiamo Hans, Peter, mi
riparo dal nevischio in uno stube del lungofiume, mi
commuovo quando gli ottoni della Marescialla
intonano una certa frase che amo. Sono i miei
carnevali di mezzanotte, il mio cinema di Babele.
Ma basterebbero pochi grammi di… (copiamo)

104
diidronitrofenilbenzodiazepin, sillabe di preghiera,
nome segreto di Dio; basterebbero poche capsule tonde,
pestate e sciolte per bene, non senza prima un biglietto
di scuse per te, lettore, sei stato così gentile…
E invece, meravigliosamente, da qualche giorno
non ci penso più, oppure una volta appena, di straforo,
quando fa scuro e devo uscire e non so dove andare, se
in un cinema a Prati, se a girare la città con la
Circolare più lenta.
Dormire, barbituricamente dormire. Sognare;
morire, forse! Ma un tempo erano veglie che non
finivano mai. Terribili. Mentre ora mi giovano, così
folte di visite e visi, pronta sempre la mano a
ghermirli per incatenarli al guanciale. Non faccio che
accendere e spegnere, ed è come giocare una partita
allegra col buio, un allegro nasconderello. Né smetto
un attimo, frattanto, con colori grassi e magri,
gabellando le bugie per ricordi, scambiando i ricordi
per sogni, di raccontarmi. Amanuense di me stesso,
amanuense a vita, che felicità. Anche stamani,
nell’anticamera dei raggi, nel breve intervallo
d’inerzia, in attesa del check-up. Appoggiando il
foglio, per scrivere, su un sodo fascicolo di
Nevropathics news; cercando con le narici l’odore di
una volta, di emulsione e cripta, dietro la tenda scura;
deluso un po’ quando, al posto della testa del Magro,
un’altra, altri occhiali, ne ho visto sporgere, e un’altra
voce ho udito dirmi: «Si spogli».

M’addormento, e finalmente, dopo tanto tempo


che non ne facevo, faccio un sogno di cose d’amore.
Con una carne senza volto, lei su me, io sottomesso e
invaso da lei, risucchiato da una pianta mangiacarne,

105
la drosera rotundifolia del mio Pierantoni e Zirpoli di
liceo, io mangiato, bevuto dalle valve delle sue intime
labbra, febbricitante corolla che sfiorisce e fiorisce
attorno a me senza fine. Non è facile, dopo il piacere,
trovare a tastoni, e con gli occhi desti solo a metà, il
ricambio di biancheria. Ma ormai è fatta, non saprò
più riprendere sonno, aspetterò l’alba come sempre,
origliando i concerti del buio, tarli, passi d’ombre nel
corridoio, bla bla di vento nell’imbuto del
caminetto… e quelle voci di lamento nelle pallottole
di giornale che ho buttato a terra ieri sera via via che
leggevo, prima di spegnere la luce, e che per un moto
di dentro (non saprò mai se volontà di assestamento o
squilibrio) tornano di quando in quando e
inesplicabilmente a scricchiolare dentro la notte.
Ripenso ai discorsi di Iacca. Lui aveva scelto, o
credeva, fra il paradigma e lo sgarro. Ma io? Certe
mattine, alzandomi, il disegno d’una simmetria mi
possiede, mi ci subordino intero, quasi fossi l’ultimo
anello di crescita nel tronco d’un grande albero o in
una ligia catena una molecola. Non dubito in quei
momenti che, anche ad accozzarle e a sposarle
casualmente fra loro, dalle sillabe d’un dizionario una
mano di bambino saprebbe comporre un’Iliade, il
vento almeno una sentenza cumana. Perché dunque
ieri, in filobus, quel sentimento di sinistra letizia
quando il pungiglione all’ipocondrio destro mi disse
che nel gregge delle mie fibre qualcuna disobbediva?
E perché un disappunto, e quasi rancore, ogni volta
che davanti a me un congegno qualunque funziona?
La fedeltà della vite alla madrevite, la puntualità delle
comete, la regola del tre semplice, nulla in tali
momenti mi disturba di più. Penso allora a quel punto

106
dell’oceano che fa impazzire le bussole, e mi chiedo
se il rebus che mi riguarda non valga più una cecità
che una veggenza a scoprirlo.

Pardon, lettore, ritorno a te. Devo ben presentarti


Cecilia, raccontartela… Poi seguirà la scena del ballo,
poi farò piovere, farò cominciare un’altra stagione, me
n’andrò via, ti saluterò…

107
IX
Epifania di Cecilia. Mariccia barbiera. Varie proposte di
matrimonio a uno scapolo.

Erano le otto di sera, una sera di fine giugno, quando


apparve al Corso la prima volta la bellissima Cecilia.
Nessuno se ne accorse, tutti stavano col mento in aria a
guardare il funambolo in bicicletta che pedalava lungo
un filo fra due palazzi lontani. Io stesso, che tornavo da
una lezione a Venera (con Alvise, chissà perché,
serissimo a fare da palo), m’ero invaghito all’istante
d’un così nuovo spettacolo. Nel quale, più che
spaventarmi l’esito d’una caduta – tanto c’era la rete –
m’allettava il presentimento d’un’assunzione, d’una
fuga verso l’alto, miracolosa, totale. Sicché abbassavo
volentieri gli occhi, aspettandomi, quando fossi tornato
a levarli, di veder tremare nel cielo solamente un filo
deserto, senza più né ciclista né velocipede: scomparsi
entrambi, inghiottiti per sempre da un crepaccio
subitaneo di lassù.
Fu così, in una di tali soste del visibilio, mentre ero
occupato a fissarmi prudentemente le scarpe, che
m’avvenne di sorprendere accanto alle mie di povera
pelle due altre, femminili, di chagrin bianco, che
sembravano due piccoline, amorose colombe. Di lì,
salendo su su e adagio con gli occhi, ecco le belle
caviglie coperte di eterea seta, e una gonna di satin
nero, e una camicetta d’organza bianca, e una mano

108
nuda lungo un fianco, e, d’un colpo, tutt’insieme, l’alto
seno e la melliflua gola e il profilo d’altera, difeso
dietro, e premuto, da una rotonda crocchia corvina:
Cecilia.
Me ne colpì all’istante la mescolanza di protervia e
dolcezza, con un’ombra, in tanta ubertà di carni, di
spontanea malinconia, quella malinconia, intendo, che
non si genera da memorie cattive, libri, malanni dei
nervi, ma circola per vizio d’origine come una pigra
vena nera entro i rossi circuiti del sangue. Cecilia. E
quando le cadde il foulard e ci chinammo entrambi a
raccoglierlo e le sfiorai in quel tanto le dita, capii
ch’era bell’e fatta, per una settimana l’avrei amata
d’amore eterno, per quindici giorni almeno l’avrei
amata per tutta la vita!
Devo dire che feci presto a chiamarla Cecilia
dentro di me, non senza motivo. Da tempo era notizia
comune in città che alla Sorda, nella villa guardata da
cani mastini, don Nitto ospitava la solita forestiera
semestrale. Bella, diceva il postino, ch’era l’unico ad
averla intravvista, come una subretta di Valdemaro, il
massimo, insomma. E aveva nome, il postino sapeva
leggere, Marconi, Cecilia Marconi. Ora eccola qui,
non poteva che essere lei, e se mi portavo al naso la
mano che aveva toccato la sua, la sentivo olezzare
come la mano d’un parrucchiere. La folla ci divise
presto, ma che contava, ormai? Nel mio largo cuore
era entrata e s’era seduta (c’era posto accanto a Maria
Venera, c’era posto ancora per cento) una regina dalle
scarpe bianche, venuta con l’ultimo treno da Saba,
che si chiamava Cecilia Marconi.
Me ne aprii con Mariccia, l’indomani, prima del
pranzo, mentre mi faceva la barba in uno stanzino da

109
sgombero. Non era la prima volta, Mariccia aveva la
mano soave e alle spalle un tirocinio professionale,
sin dai tempi della vita in colonia, quando ai pelosi
sergenti in licenza-premio da Forte Capuzzo il suo
Ostello del Passeggero prometteva servizio completo
e una vacanza da ricordare. Io m’affidavo a lei
volentieri, col permesso di don Cesare, anche per il
gusto di ragionare con lei, intanto che m’insaponava,
delle sue sciatiche antiche e dei miei giovani amori.
Questa volta, però, la trovai ostile, indignata, dai miei
sciali di cuore, come uno spilorcio da una spesa
superflua, anche se fatta da un altro. Non le andava
che mi fossi attaccato a un secondo uncino, lei s’era
affezionata a Maria Venera, e alle mie conseguenti
querimonie d’innamorato infelice. Sicché le sembrava
un doppio spergiuro che da un lato mi fossi, con la
ragazza, deciso all’azione, dopo tanti mesi d’inerzia
loquace; e che dall’altro meditassi addirittura di
soppiantarla con una fiamma novella. Le apparvi, a
questo punto, in una tale luce inopinata e nefanda di
libertino che il rasoio le tremò nella mano. Poi, fosse
rimorso, fosse impulso della sua natura, ch’era di
sensitiva rozzezza, non resisté alla voglia di dirmi la
sua sui fuggiaschi, che le stava sullo stomaco. Ci
sono cose, bisbigliò, che conviene fare il pesce anche
con le persone più care, ma, insomma, il ballerino
non era quel difettoso che si diceva. «E se lo so, lo
so!» affermò con malizia, sommando un monosillabo
all’altro velocissimamente. D’altra parte, continuò,
quella fuga di Venera, così strampalata, così
strabiliante, c’era sotto qualcosa di grosso, forse era
solo, come i colpi di sponda a biliardo, una mossa di
seconda intenzione, una risposta bambinesca a

110
qualcuno. A meno che…
Si chiuse, non aprì bocca, né io con la mia,
schiumosa di saponata, potei strapparle il séguito
dell’ipotesi.
Più tardi, asciugato, incerottato, odoroso d’una
micidiale lavanda, cliente unico e prematuro delle
dodici e un quarto, sedevo pensosamente al tavolo del
ristorante, mentre lei andava e veniva con le mani
ingombre di piatti.
Minestra di fave, passato di verdura… Io mangiavo,
lei andava e veniva con le pietanze cicalando ancora,
non più di Venera ma di me, com’ero incostante, che
aspettavo a sposarmi?
«Mula tinta, muggheri tinta – tintu cu nun l’ha né
bona né tinta» fece sibillinamente, ma non tanto,
visto che senza soluzione riferì degli sparlamenti che
cominciavano a circolare in città su di me, che
pensavo troppo alle donne, ci pensavo ad alta voce,
mi facevo sentire da tutti. Mentre, se mi fossi
sistemato una buona volta… E attaccò a decantare le
proprietà di don Cesare, case a Ispica e terreni
sott’acqua, con una figlia unica, bella forse no, ma
quant’era intelligente, che studiava, studiava forse
con me? E al mio diniego «Tanto peggio per tutt’e
due» sentenziò e arrancò, claudicando per l’artrite,
verso la cucina. Non attesi che tornasse a
snocciolarmi altri proverbi, più o meno inventati,
Mariccia s’inventava sempre i proverbi, faceva dire
loro a distanza di ventiquattr’ore due cose contrarie, e
io stesso fino a pochi giorni prima me n’ero sorbiti
(«Sulità santità») che persuadevano, invece che a
nozze, a un celibato perpetuo. Allora approfittai
ch’era scomparsa nella cucina e sgusciai, senza

111
impigliarmici, tra i fili della moschiera, lasciandomi
dietro le spalle, intonsa dentro il piattino, la solitaria
pesca che m’era stata servita per frutta.
Gli amici non furono più comprensivi. Lo stesso
Iaccarino, da cui m’aspettavo rallegramenti per questo
mio cambio di marcia, lui ch’era contrarissimo a Maria
Venera, s’indispettì vedendo sovrabbondare e
sdoppiarsi il mio travaso d’amore; con pregiudizio
d’ogni mia partecipazione futura ai giochi e alle
passeggiate comuni. Al punto che, sentendosi
abbandonato da entrambi, da Licausi e da me, prese a
perorare (proprio lui) il partito della fedeltà: «Odio le
bigamie» disse. «Specie quando sono platoniche e tutte
mentali».
Non me la presi. Bigamo, e perché no? Venera,
infatti, dopo un’eclissi d’un giorno, m’era tornata
nella fantasia e vi stava accampata, sebbene ormai la
vedessi ogni pomeriggio, con una sola grammatica tra
noi due, irta d’aoristi e duali, e non avessi più
bisogno di origliarne notizie, la sera, sotto il balcone
del suo Bizet. M’era sempre nel pensiero, Maria
Venera, né cessava d’intrigarmi il dolcissimo
manicomio dei suoi contegni, il beccheggio
ininterrotto del suo cuore farfarello. Avevo un bel
cercare di mantenermi quieto quando le stavo vicino;
di parlarle, quando le parlavo, come uno parla alla
luna, sentendola assente e gelata. Bastava un niente,
un moto d’occhi o di membra, e tornavo ad avvertirne
la presenza sul fianco come un peso di pietra focaia,
come un fuoco nascosto di carne accucciata contro di
me. Ciò in memoria, forse, della notte del ratto, e del
viaggio di ritorno col suo capo sulla mia spalla, tutta
una voluttà che non cessavo di ripassarmi per filo e

112
per segno, e che bevevo, ribevevo, usando occhi,
orecchi, polpastrelli, narici; finché ogni effluvio di lei,
inflessione di voce, bagliore di gota, mi si fosse
iniettato e confuso interamente nel sangue. In questo
modo, al pari d’uno spirito di defunto nelle sedute di
tavolino, lei si veniva facendo da idolo nominale un
ectoplasma palpabile, un imperioso luccichìo nella
tenebra…
Lo strano è poi che a questa sua rafforzata autorità
sul mio cuore non pareva contrastare a nessun patto la
recente Cecilia. La quale, al contrario, era come se
fosse nata da una costola della rivale per propaggine o
gemmazione e le si fosse incollata addosso, crescendo,
in forma di coppia siamese: una coppia che avrebbe
potuto addirittura prolificare per nuovi apporti
all’infinito… Amore? Era dunque questo, l’amore?
Un’idra a due, a tre, a tante teste? M’affacciavo a
domandarne risposta, chino sulla mezzanotte del Corso,
coi gomiti premuti sulla fresca lastra del davanzale. Sì,
l’amore era questo: Venera, Cecilia, e con loro
qualunque altra creatura di tenere membra, soffice da
toccare, cavillosa e inspiegabile come una musica.
Della quale non si capisce che cosa dice, ma uno se ne
colma come un secchio si colma di latte. Venera,
Cecilia, Isolina… Scoprii a un tratto ch’erano una sola
immagine del mio desiderio, una sola larva di carne
rosea che riempiva esattamente lo spazio vuoto fra le
mie braccia.

La finestra di Isolina era buia, di fronte a me, ma


sembrava nel buio odorare del suo sonno e contenerlo
affettuosamente, come una bomboniera un confetto. Io
aspettavo, prima d’andare a dormire, la ronda dei

113
musicanti barbieri che sarebbe passata fra poco e che
non si poneva domande ma dedicava, con
professionale equanimità, ad ogni sonno di bella lo
stesso sospiro di serenata.
Bigamo, trigamo, poligamo anch’io come loro.
Innamorato multiplo e imparziale di tutte. Anche se
non abbastanza della signora Amalia, su cui sempre
più distrattamente e raramente incombevo, la notte,
arrivando a soffiarle fra i capelli ora un nome ora un
altro, senza che lei mostrasse di risentirsene. Solo che
al risveglio, una mattina, fu questo il discorso che mi
rivolse in camicia da notte lillà:
«Professore, qui dobbiamo spiegarci. Io ti vedo
dimagrire, sei diventato una sarda, un crocifisso da
cucina. E so che non è colpa mia, di queste pochezze
che facciamo. Diceva buonanima mia che chi fa
l’amore s’ingrassa, chi lo vede fare si scassa. E aveva
ragione, queste cose mettono sangue. Ma tu, la tua
quartara è da un’altra parte che perde. Tu hai la mente
sparpagliata, a questo punto ti conviene sposarti».
«E due!» dico io. «Dopo Mariccia, ecco il bis!».
«Io parlo contro il mio interesse» riprende lei. «Io ti
voglio bene, ma devo pensare al tuo bene. E il tuo bene
è una famiglia. Tu sei buono, giovane, stipendiato. Hai
gli occhiali. A me personalmente qualche consolazione
l’hai data. Dove potrei trovare un genero meglio di
te…».
Un genero?! Oh Dio! Le tappo la bocca con una
mano, interrompo le trattative, scappo a scuola per i
commiati dell’ultimo giorno. Questi una ricorrenza di
feste e fiori fecero presto a mutarsi in minuscolo
carnevale, tante furono le occasioni di licenza,
d’intimità trasgressiva. Lasciato in guardaroba il

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grembiule, le ragazze avvolsero da ogni parte la
cattedra, multicolori, e turbinavano, ridevano. Me ne
liberai con una punta di strazio, m’incamminai
malvolentieri verso la porta: ecco l’anno è finito, un
altro pezzo di gioventù se ne va.

Sono ora in piedi sul marciapiedi del Caffè


Orientale, con in mano un interminabile bicchiere di
granita da sorseggiare. Incerto fra due cibi, professore
Buridano. M’aspetta Maria Venera a Modica Alta, con
l’Anabasi sul tavolo, sotto il paralume arancione, la
pagina da tradurre è quando Clearco s’accampa
accanto a un grande giardino, engùs paradèisu
megàlu…
Ma qui sul marciapiedi di fronte è passato or ora
Michele, l’autista del cavaliere Barreca, e dice che don
Nitto mi vuole in villa per farmi vedere un paniere di
cocci antichi, scavati dai suoi fittavoli dalle parti di
Monte Tabbuto. Penso subito che vedrò Cecilia, la
conoscerò… Allora, fra i due paradisi, fra i due
giardini, che fare?
In quell’istante mi volò a fianco e trascorse via,
staccandosi da due coetanee, accaldata, risolente,
Isolina, con occhi che facevano a nascondersi sotto un
elmetto di capelli neri. Non sembrò vedermi, mentre
mi stringevo al muro per darle spazio; e tuttavia
credetti d’ascoltare nel suo riso sgranato, qualche
metro più in là, una minima stonatura, una nota tenuta
più a lungo del giusto. Come se avesse voluto far
sapere all’universo, e a me specialmente, ch’era viva e
che voleva che la invidiassimo tutti.
Quasi quasi la seguo, la fermo. Ho addosso la
lettera anonima che Venera m’ha ridato l’altrieri senza

115
fare una piega, come si restituisce un fazzoletto o un
pettine caduto di tasca. Impassibile, come se non
l’avesse letta. E impassibile io me la sono ripresa.
Ho addosso questa lettera. Magari fosse sua, di
Isolina! Quasi quasi la seguo, la fermo: «Studentessa, è
tua questa lettera? L’ho vista a terra, dopo che mi sei
passata davanti, è cascata a te?». Chissà che rossori,
che deliqui. Potrei, del resto dopo le sue proteste,
battere in ritirata: «M’era parso, ho visto la busta a
terra… Se non è tua, me la tengo…». Troppo tardi,
Isolina è già dietro l’angolo, non si vede più. Che
peccato.

Ma Michele: «Allora, si va?». Non ha perso tempo


a tornare, i dadi hanno scelto Cecilia.

116
X
Gita a Donnalucata. Pesca con lampade e notte amorosa.

La villa di don Nitto era stata costruita con


abbondanza. Il viale d’accesso in garbato pendio,
fiancheggiato da pitosfori e pini, era largo quanto
bastava per tre vetture, e la vasca, appiè del doppio
scalone, doveva sembrare un oceano al solitario
papero che vi nuotava. Era una villa dell’altro secolo,
con le comodità d’una volta, compresa la «camera
dello scirocco», un padiglione dalle mura ciclopiche
armato a fronteggiare le forze della canicola. Qui mi
aspettava don Nitto, vestitissimo di bianco,
rusticamente seduto su una panchetta, con un
mucchio di cocci davanti, sporchi di fango e di tempo,
roba da poco, visibilmente. Sennonché, strofinata da
un dito, una pancia d’anfora lasciò trasparire un
profilo, la semiluna d’un viso di donna, negro sul
rossobruno del fondo, una dea, forse.
Alzai gli occhi: «Persefone» azzardai, tanto per dire
qualcosa e giustificare la consulenza. Ma don Nitto:
«Bene alzata» disse con rispetto a qualcuno dietro di
me. Mi voltai, Cecilia s’avanzava pianamente verso di
noi, e aveva, sì e no, un fazzoletto di seta sopra la pelle.
Lui mi presentò, come fossimo in un salotto. Ci
guardammo: lei con pacifica curiosità, come sulla

117
spiaggia si guarda un signore con la cravatta; io, perso
per perso, con sfacciataggine.
Era certo la donna più bella che avessi mai visto.
Con ogni parte del corpo così esatta da far pensare che
non tutto fosse natura ma che un lapicida assai bravo,
le avesse qui tolto, lì aggiunto un milligrammo di
carne, e tirato a pomice il seno, e affusolato la gamba,
e dato allo sguardo quella luce fantastica e mesta, e
insinuato nel mento l’impercettibile perfidia d’una
fossetta… Ogni attributo era in lei valoroso, di qualità
cittadina. La stessa voglia marrone che le segnava la
spalla, appena visibile nel rame dell’abbronzatura,
pareva meno una macchia che un fiordaliso regale.
Benché io, facendone paragone con le più fresche
vaghezze di Venera, una cosa vedessi certa: che quello
era lo zenit d’una maturità, fra un anno o un giorno
sarebbe incominciato il declino. Tanto minacciavano ai
due lati degli occhi le grinze minute, che il sole
ribadiva sopra la fronte, là dove l’attacco dei capelli
prende lo slancio; altrettanto l’andatura che ad ogni
passo chiedeva il sostegno d’un irrisorio colpo di reni;
e il lampo di rancore ironico e adulto che le socchiuse
la bocca, mentre la porgeva chinandosi al bacio del
cavaliere.
La voce, quando parlò, suonò d’un colore violetto.

S’era messa così per andare al mare, disse con


risolutezza. Per fare un bagno prima dell’imminente
partenza. Allora mi tornò in mente quel che si diceva
di don Nitto e delle sue due mantenute annuali, con
doppio avvicendamento, a luglio e a gennaio. E
guardai con pietà la donna, pensando che bel po’
d’infelicità doveva aver tesoreggiato nella sua vita, se

118
s’era indotta a legarsi in quei termini di esoso
contratto. Lauto, forse, ma esoso. Tanto da non
consentire sortite se non negli ultimi giorni di
segregazione, quando don Nitto all’improvviso
smetteva i rigori gelosi, forse per prendere fiato prima
di rovesciarli sulla successiva inquilina. Bizzarro don
Nitto! Che, mentre pretendeva la clausura delle sue
prigioniere, era poi sempre il primo a organizzare
mondanità, non tanto per godersele di persona quanto
per deliziarsi del potere di selezione che
l’incombenza comportava e che costituiva, insieme
allo svago delle donne e del giuoco, il piacere
singolare della sua vita.
«Perché non andiamo al mare anche noi?» sparai
coraggiosamente, ma imporporandomi come non mai e
facendomi indi subito smorto come uno studente; ma
don Nitto: «Andateci voi due» disse, e a me: «Te la
passo, è tua, professore». Poi, siccome io protestavo, e
Cecilia s’irrigidiva, quasi parlando a se stesso: «Che
m’importa? Non mi posso stimare ingannato da una
che pago. E ho sempre pagato, io. Mai nessuna per
amore». Sospirò. Poi aggiunse, fissando un punto dove
non c’era nessuno: «Bei tempi, quando per andare al
casino venivo dalla campagna in bicicletta, pedalando
sotto la luna. Dopo mangiavo i meloni sul ciglione
della strada, facevo acqua contro il muro della casa
cantoniera. Era bella, la gioventù».

Michele, una specie di atletico analfabeta, si mise


obbediente al volante. Si andava per Donnalucata, al
mare. E noi, io e Cecilia, sedevamo insieme dietro ma
silenziosi. Lei, quel discorso di don Nitto pareva
l’avesse scalfita appena, l’era restato sul labbro un

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corruccio indifferente: offesa, sì, ma senza che io
potessi lusingarmi che si sentisse offesa da me o per
causa mia. Quanto a me, mi sentivo per metà
stomacato, ma per l’altra metà screanzato nei miei
pensieri. Al punto da sospettare che quel corruccio
fosse una finta, e che, insomma, se conviveva per soldi
con un riccone, lei potesse senza scrupolo festeggiarsi
gratis con un giovane povero, in una giornata d’ozio e
di mare.
Per il viaggio non aveva mutato molto
l’abbigliamento, era ancora vestita di zoccoli e niente:
solo aveva indossato a modo d’accappatoio una
risicata vestaglia e s’era portato, collocandolo come
una pietra fra le sue membra e le mie, uno zaino di
cianfrusaglie balneari e cosmetiche, che mi premeva
contro l’osso dell’anca e fu il pretesto per fare amicizia.
Le dissi che potevamo bene deporlo a terra, non avrei
profittato della vicinanza. E che dell’invito del
cavaliere facevo il conto che una tale celia sboccata si
meritava.
Ribatté, sebbene con tono addolcito: «Questo,
professore, raccontalo ai tuoi scolari». E restava
diffidente, mi chiese notizie di me, della mia vita, che
pensavo di lei. Fui sincero, lei rimase zitta. Dopo un
po’ «La vita è una materia difficile, professore» mi
disse. Infine, piano: «Ho quarant’anni, fra poco» e
appariva turbata.
Un istante dopo rideva: «Voglio farmi un bagno
d’igiene. Voglio lavarmi don Nitto. Don Nitto, e
Modica, e te, e voi, e lui» e col dito indicava le spalle
dell’autista. Michele, che osservava nel retrovisore,
brontolò qualcosa fra lingua e palato; mentre io dissi:
«Sta bene» e le presi una mano, le sfilai, per guardarlo

120
meglio, l’amuleto strano e ricco che portava al polso.
Alla mia domanda rispose con una menzogna
qualunque che non ricordo.
Sulla spiaggia stette poco, si rintanò subito in
mare. Io l’aspettavo sotto un ombrellone abbandonato,
restio a sporcarmi di sale, a seguirla, con le mie carni
pallide, nella baraonda di corpi e sciacquii. Il
tramonto, che volgeva in giù, l’avvolse d’un nimbo
d’oro; per un istante, mentre usciva dall’acqua, parve
una divinità di quelle d’un tempo, incoronata da un
barbaglio di raggi.
«Persefone, sono qua» chiamai a gran voce,
facendo voltare di curiosità dieci cuffie di donne. Ma
lei non mi badò, s’era curvata, placida e bella, a
guardarsi sull’alluce una goccia di sangue che le aveva
procurato uno scoglio.
Poiché Michele ci sollecitava di ritornare, io di
colpo divenni audace, gli dissi d’andarsene, saremmo
andati con la lampara, stanotte, a veder pescare:
venisse dunque a riprenderci domani sera, don Nitto
sarebbe stato d’accordo.
Così dissi, sicuro dell’avallo di Nitto, visto che i
tradimenti gli piacevano tanto, quando poteva benedirli
in anticipo dal suo seggio di minotauro pasciuto.
Del resto la gita in sé mi appassionava, l’avevo
fatta altre volte, pagando al capobarca una semplice
mancia di sigarette e bottiglie. E la sera s’annunziava
benigna, avremmo avuto un mare forza zero sotto il
cielo più propizio possibile, senza un filo solo di
chiaro; il contrario, cioè, di quanto s’augurava il turista,
ma la miglior congiuntura per l’esito della pesca.
Fu una notte da ricordare: giacevamo sul ponte, al
buio, spiando davanti a noi, laggiù, a fior d’acqua, i

121
viaggi del battello satellite – labirinti di scie fra i
grovigli di reti buttate – o indovinandoli dalla piccola
luna d’acetilene che gli pendeva dal fianco e pareva
raccogliere i nostri cuori nel suo canestro di luce gialla.
Lei aveva freddo, s’era avvolta dentro una grossa
coperta da marinaio. Presto ebbi freddo anch’io, le
chiesi di spartirla con me. Il capobarca andava e veniva,
non badava a noi. Lei taceva e fumava, guardava i
pesci venire su: un concilio gorgogliante di sgombri,
sarde, saraghi, alici. E fiutavano un momento la luce,
la barca, riaffondavano, riaffioravano.
Ora l’acqua prese a respirare adagio, come
respirava adagio l’immane mare! Con quel suo sangue
pastoso e scuro, attorno al nostro fuscello di legno, alla
nostra setta di omuncoli indaffarati, all’arroganza del
nostro pensare. Mentre lui non pensava, non pensa,
solo fiotta e su e giù senza confini, secondo l’altalena
delle sue voglie, scuro scosceso mare sotto il felze
curvo del cielo!
Questo io bisbigliavo a Cecilia per impressionarla
con la mia parlantina, con labbra che le cercavano
trepidamente fra le ciocche l’orecchio. E intanto la
notte si sfogliava sopra di noi come una cascata di
petali neri, un innumerevole fiore. Presto all’afrore del
pesce pescato, che ancora ci guizzava fra i piedi, si
mischiò l’odore del pesce arrosto, i marinai stavano
cuocendo la cena, cavandola dal proprio viaggio e
lavoro, come una volta da selve e deserti i pellegrini di
solitudini. Mangiammo con loro, bevemmo, io mi
sentivo sfibrato e contento, un convalescente.
Allora cominciai a dirle la storia dell’isola Giulia
ovvero Ferdinandea, emersa da queste acque fra
Sciacca e Pantelleria un secolo addietro e passa. Di

122
sabbia fina, nera e pesante, con un monticello nel
mezzo, e un laghetto d’acqua bollente nella pianura. Il
mare la circondava, un mare color celeste ma untuoso
come d’olio. E l’isola visse qualche tempo, poi il mare
se la riprese. Un giorno riemergerà.
«La troveremo un giorno di questi nel nostro
strascico» rise il capobarca che aveva ascoltato.
«Insieme alle sarde, ai merluzzi». E ordinò mezz’ora di
sosta. Gli uomini s’ammucchiarono a poppa, chiusero
gli occhi. Solo il battellino rimase a muoversi
luminoso lungo le corsie fra le reti… E io mi volsi a
Cecilia: «Giulia» la chiamai. «Ovvero Ferdinandea!» E
lei sorrise, mi strinse la mano.
Quando s’addormentò, non me ne accorsi, continuavo
a parlarle, a cantarle la mia ninnananna professionale.
Finché i suoi occhi chiusi m’insospettirono e mi curvai
sul suo sonno in sembianza di sentinella amorosa.
Eccola addormentata. Avvolta in una coperta, sul
tavolato. Col petto che si alza e si abbassa secondo
una metrica scorretta, come i tempi deboli e i forti
s’inseguono in un primo momento precipitosi, ma poi
subentra un silenzio lungo, una specie di morte, che
sia morta? Solo che il respiro le torna subito,
pacificato, una musica di bordone, una tenerezza
uguale di vento lungo l’erba di primavera. È viva,
dunque, è viva. Inespugnabile nel nascosto circolo del
suo sangue, propria e viva nel suo corpo, dal roccolo
di capelli neri appuntato sulla nuca alle unghie dei
piedi laccate di rosa. Viva, sì, ma dov’era ora, dove la
porta il sonno? Somiglia di profilo a quella dea del
vaso disseppellito, Persefone o come si chiama.
Anche lei, come quella, a correre il mondo con balzi
di selvaggina, mentre il rombo di sotterra le fiacca i

123
ginocchi, un labbro di dio le invade la nuca.
Persefone, e come no? Lei, la povera lodigiana in
trasferta, coi suoi quarant’anni ammaccati e bellissimi,
il suo profumo d’anima persa. Col medesimo nodo di
esterrefatto piacere che le cresce dentro, la medesima
perversa delizia di soccombere, d’immolarsi… Oh
dove sono i cinti, le ghirlande cadute nel sottobosco?
I pettini si sono sciolti, che le tenevano fermi i capelli.
Solo uno stelo resiste stretto nel pugno, lo stelo d’un
asfodelo. Ma già la poiana stride malaugurio sopra le
ancelle. Loro scappano qua e là, la signorina padrona
non torna più. Signorina Persefone, dove corri? Che
antichi guadi calpesti sotto i freddi calcagni; che
corrente ti ruba via? A me, nel buio che sorge da
questo pozzo di mare, solo il tuo volto addormentato
risplende fra le braccia e la barba del dio: ècate d’oro,
immagine lucifera…
Bene, la mia barcarola, io l’avevo suonata, ma lei
non mi udiva, dal suo sonno contadino. Altri echi
udiva e corni di caccia d’Adda o d’Olona, da
un’infanzia lontana, fra giubili di galli e platani, in una
pianura ricciuta di meno negre fiumane…
Allora m’accostai al suo corpo, vi aderii, non
c’erano fra me e lei che le falde cedevoli d’una
vestaglia. Lei mormorò nel sonno, rispose vagamente
al mio bacio. La districai con dolcezza dai suoi viluppi,
la notte era piena, dormivano tutti.
Dormivano? Fingevano? E lei? «Dormi?» le chiesi.
«Dormi» le comandai. E m’insinuai come un
serpentello caldo dentro di lei, gemetti amore, piovvi
amore dentro di lei. Non aprì gli occhi, non si mosse,
volle scambiarmi per un sogno e ci riuscì.
All’alba, mentre la ciurma sbrogliava

124
rumorosamente le reti, il primo suo moto fu di
protendere le braccia, le mani a difesa degli occhi.
Quasi volesse salvare dai ribrezzi della luce il suo
bottino notturno. Quando mi guardò mi parve
veramente una straniera, venuta o tornata da erebi, da
fosse cimmerie, sconcertata d’essere viva.
Un’emissaria di chissà dove, che di chissà dove pareva
ancora origliare le lontananze sommesse. Persefone
ovvero isola Giulia: ormai nel mio pensiero così, o con
nessun altro nome, avrei chiamata Cecilia.

Lei non ne seppe nulla, l’impostura valse a me solo.


S’era lavata con acqua di mare e ora andava e veniva
fra le reti appese, prendeva in mano i chili di pesce per
soppesarli, come una moglie di pescatore, stonava
canzoni di moda, Arrivederci dunque, Amado mio. Io
mi sentivo nelle mani l’impaccio d’un inabile dio,
dicevo al giorno «buongiorno», approvavo sorridendo i
miei sbagli.
Finché il sole non spuntò dalla linea del mare,
arricciando le onde di spume e trucioli d’oro. Nuvole
basse gli corsero incontro, vaporose e fuggiasche lo
avvolsero, grandi bende crivellate e bianche, attraverso
cui sanguinò. A questo punto fu chiaro a tutti che io e
lei volevamo amarci, ch’eravamo ciechi e muti di
desiderio, non sapevamo che fare. I pescatori si misero
a ridere, prima timidamente, poi più forte, con
innocenza. Infine il capobarca stese fra due pali una
vela, ci nascose ridendo. «Orbu nun vidi, surdu nun
senti» disse e ci volse le spalle, tornò a stivare il pesce
nelle cassette.

125
XI
Ozi cittadini e marini. Sensi materni di un’infanticida. Partenza
di Cecilia e mischia notturna Iacca-Madama.

Giuntole alla Sorda il cambio in persona d’una


calabrese di Longobucco, Cecilia accettò di restare a
Modica ancora una settimana, in albergo, per far
vacanza un poco con me. Una vacanza di cui usò con
ingordigia bambina, senza negarsi lo sfizio, la sera,
quando incontrava don Nitto davanti al Circolo dei
Civili, di mandargli placidamente il fumo della
sigaretta sul naso. Scadendo così in parte dal suo trono
di madreterna, ma facendomisi, se possibile, più
umana e più cara.
Cara Cecilia! E che amabili notti passammo!
Pomeriggi, dovrei dire, ma sembravano notti, per via
di quelle tapparelle abbassate e la luce stagnante degli
abat-jours sui due comodini, nella camera del
«Trinacria» dove l’accompagnavo di ritorno dal mare.
Cecilia era veramente una soave persona, né le
bastonate degli anni erano valse a toglierle una
pellicola d’innocenza che la proteggeva, come la
buccia un frutto, e si mischiava nei suoi atti a un’aria
di gentile malinconia. D’indole arrendevole, poi:
tanto da secondare con ogni zelo quell’alone di miti
celesti di cui le avevo cinto sin dal principio le tempie,
e che lei si adoperava come poteva a ribadire, ora col
chiedermi, nientemeno, di raccontarle Nausiche e

126
Circi, ora col pretendere da me che le leggessi i miei
versi.
Più naturale nel piacere, nelle abilità spicciole del
piacere. Dove metteva un impegno timoroso,
pedagogico e soffice, una grazia da intenerire.
Io, confesso, la esibivo con vanità, la portavo al
mare ogni giorno. Non trascurando per ciò di salire la
sera al palazzo di Venera, a propinarle in compendi
fulminei la mia personale scienza della letteratura
italiana. Davanti al grande balcone, lasciato aperto per
la calura, accanto alla ragazza in ascolto, sfiorando col
mio braccio nudo e bruno, febbricitante ancora di sole,
il braccio nudo, niveo e fresco di lei, scrollavo ad uno
ad uno dal loro letargo i poeti defunti e ne cantavo i
canti alla notte come romanze di Vincenzo Bellini;
oppure, quando speravo di farle effetto, sillabandoli
con un distacco che mi sembrava sublime…
La studentessa ai miei assoli non abboccava.
Contegnosa fin troppo, piena di finte premure; capace,
se arrivavo in ritardo, con le caldane del piacere pittate
ancora sul viso, di pungermi con cortesia: lasciassi
pure di venire a farle lezione, dal momento che ormai
mi mancava il tempo, fra tanti pensieri. «Che
pensieri?» protestavo io, benché a Modica e al mare in
compagnia di Cecilia m’avessero visto tutti. «Di che
pensieri, di che tempo parli? Ne ho, di tempo!»
m’arrabbiavo blandamente, col desiderio vendicativo
che non mi credesse.
In realtà ne avevo assai poco, di tempo. Le mattine
mi si squagliavano fra le dita, diventavano in un attimo
mezzogiorni. Un caldo, poi. Modica odorava di carne
strinata, di copertone che brucia, stormi di blatte alate
l’avevano invasa e facevano mulinello fra l’uno e

127
l’altro palazzo scartavetrato dal vento. L’unico modo
per liberarsene era correre al mare: bastava avvicinarsi
alla riva e si sentiva, prima ancora che l’orizzonte
sbucasse dalla siepe di canne, l’aria diventare acqua
attorno a noi, una tinozza d’acqua penetrabile e tersa,
un’ondosa amaca di luce e d’acqua, colore del
lapislazzuli. Incrociavamo lungo la via macchine e
carri che tornavano. I conducenti ci facevano con le
dita un segno convenzionale che voleva dire «via
libera» e, cioè, che dietro la curva non c’erano
poliziotti stradali alla posta. Cecilia non capiva queste
congiure di sconosciuti contro la legge. «Siete pazzi,
voi siciliani» diceva e io le davo ragione. «è vero» le
dicevo «ma c’è un metodo nella nostra pazzia. Un
giorno ti dirò quale…».
Ma ecco le onde turchine, dove fra sugheri e boe la
barca più rattoppata caracolla con la spocchia d’una
bissona ducale; ecco sulla sabbia bibula, gialla pigiarsi
la folla spogliata delle ferie, tutt’un arazzo di costumi
rossi e verdi. Fra cui spicca la sola nerezza dell’asino
dei rinfreschi, pellegrino di capanno in capanno; e, sul
carro che gli viene dietro, il bianco dei lingotti di
ghiaccio di fabbrica, avvolti nella paglia e madidi
d’umore come caciocavalli…
Noi, io e Cecilia, al mare arrivavamo prestissimo,
ci piaceva visitare più posti. Sull’auto di Iacca, prestata
di malavoglia, ma più spesso in bicicletta, incipriati di
polvere dai capelli ai calcagni, giravamo il litorale ad
agio, turisticamente, da Mazzarelli alle Aguglie,
fermandoci ogni volta dov’era più gremito, più
vociferante, tanta era la voglia di tutt’e due di dividere
con altri corpi compagni la cerimonia e il teatro della
nostra beatitudine.

128
In altomare, dopo quella notte della lampara, non
avevamo più osato andare. C’era guerra (a Brúcoli
era finita a legnate) fra pescatori legali e di frodo,
muniti, questi, di lumi e ordigni esplosivi. Sarebbe
stato imprudente ripetere l’avventura. Mentre era
altrettanto bello farci bagnanti da cartolina illustrata:
con un ombrellone preso a prestito da configgere ogni
giorno nello stesso punto di ieri, dov’era rimasto il
buco; con giocate di tamburello; e gare di nuoto fino
al faraglione lontano; e baci scambiati di nascosto da
labbra a labbra sabbiose, provando un tremito da
finimondo nei sensi ciechi. Stanchi, infine, sulla via
del ritorno, spento l’estremo lucignolo di entusiasmo
carnale; ma lietamente satolli della giornata: avendola
mangiata e bevuta tutta, senza perderne una sola
briciola e stilla.
La prima domenica di luglio vennero al mare anche
le mie ragazze di scuola, a distrarsi dagli esami già in
corso. Non si fecero scrupolo di circondarmi, garrule,
scandalizzate, pavoncelle, innamorate. Mentre Cecilia
al mio fianco, gambe doriche e testa corinzia, gettava
loro benevolmente negli occhi lo scalpore nudo della
sua carne, l’orifiamma di possedermi e di appartenermi.
Io allora mi sentii un gallo fagiano dalle piume d’oro,
crestato e idolatra di sé. E tale dovetti apparire a tutti,
se Iaccarino, che aveva accompagnato al mare
Madama, venne a godersi da vicino la vista e a
guastarmi l’apoteosi con risate impertinenti, di sotto il
barracano che lo faceva somigliare a un carovaniere.
Madama, sdegnosetta, era rimasta laggiù, sotto una
tenda di amiche, con me non parlava da molti giorni,
limitandosi a deplorare insieme al filosofo le mie
latitanze, vedovi entrambi di me e rancorosi. Le feci da

129
lontano un vago inutile cenno di saluto che s’incrociò
con un altro, rivolto a me, d’un mingherlino e
bianchiccio tritone, emerso nei miei paraggi, in cui
riconobbi a fatica l’onorevole Scillieri. «Professore, ci
vediamo!» mi salutò misteriosamente e sparì,
spruzzandomi addosso una pioggia di gocciole salse e
lasciandomi l’apprensione che quella gentilezza fosse
un’antifona.
Più tardi, in piedi nella cabina, amai con furia
Cecilia, serrai fra le braccia la sua musica, la prigione
d’ossa, muscoli e sangue donde la sua melodia si
formava, il suo numero beato. Una compatta chiesa di
carne, ma anche un giacinto, uno smeraldo oscuro.
Con quel gonfio morso di ragno all’inguine, l’incisione
notturna d’una tarantola d’oro…

Cinque luglio, sei luglio, sette luglio… Torno a


cercare quei giorni in una collezione di vecchi giornali,
accarezzo la carta appassita. I titoli dicono di Pisciotta
a Viterbo, dicono di Mister Kinley, il mago delle
fiamme, che spegne a Ragusa il pozzo di petrolio
numero nove e si fa fotografare vestito da salamandra.
Va bene, ma le incandescenze del mio cuore, chi le
ventila, chi le estingue? Dicono, i giornali, di guerre,
paci, nascite, morti… Non dicono di Cecilia e di me,
sebbene, finché sarò vivo, il suo gran corpo contro il
mio, il vigore commovente del suo corpo sul mio, non
me lo scordo…
Finché vivo, ripeto: custode unico e sbigottito di lei
e di me, di quei nostri minuti ormai niente. Mi
sbigottisce sempre, a pensarci, il cimitero
innumerevole dei minuti: ognuno simile a un moto
d’onda, a un’ondulazione d’onde nel mare. Che muore,

130
rinasce, di cui non rimane memoria. Allora mi viene
in mente mio padre. «Ho il cuore scuro» mi diceva
certe mattine. E io: «Perché?». «Per niente» mi
rispondeva. Ma poi si correggeva: «Per i ricordi,
sono stato a cinema, stanotte». E intendeva dire, dei
ricordi, come aveva combattuto con essi nel sonno
tutta la notte. Diceva proprio così: «combattere», che
nel nostro dialetto non riguarda soltanto le persone,
ma le cose, gli eventi, le urgenze della cronaca e
della storia. Fino a tal punto è vero che per noi, in
Sicilia, ogni spicciolo atto di vita è un improbo corpo
a corpo, un cimento e combattimento mortale.
Dunque io che posso dire, io figlio di mio padre? Se
coi ricordi, con le loro menzogne, malizie, disguidi,
combatto e perdo da sempre, sanguino e perdo,
sanguino e combatto?… Uno spettro s’aggira per le
strade della Sicilia ed è la mia gioventù. Mi siano
perdonate le imboscate che gli tendo, quasi sempre a
vuoto, del resto, come si conviene a un pescatore di
nuvole, a un fanfarone…

Otto luglio, nove luglio, dieci luglio… In cambio


degli scarafaggi volanti lo scirocco portò calabroni
azzurri che battevano a tutti i vetri. Sotto il sole il
paese parve infocarsi come il toro di Falaride, ce ne
volevano di granite per impietosire l’estate, i suoi
bronzi, le sue aste di fuoco vermiglio. Cecilia, che
aveva ripudiato la Coca Cola, faceva alt ogni volta,
prima di partire per la marina, alla pasticceria Rizza,
aspirava con la cannuccia l’elisire gelato, dipingendosi
in viso d’una delizia quasi impudica.
Io l’aspettavo fuori, nello slargo dei Mercedari,
assistendo all’alzarsi delle prime saracinesche,

131
guardando di fronte a me l’osso bianco di Monserrato,
simile lassù a una fronte d’uomo cogitabondo. E mi
credevo netto, per un momento, della volgarità ch’è la
dote fondamentale della mia natura, pulito nel mio
metro cubo d’aria, fatto simile alla città che amavo,
con gli stessi spigoli e le stesse mollezze, lo stesso
muggire di piena fra i calanchi del Lavinaro e le stesse
rondini fra i capelli.
Lo spiegai a Venera, una sera, quanto mi sentissi il
cuore copioso d’amore per lei, per Modica, per tutto il
mondo; glielo dissi che avevo il suo paese fin dentro le
unghie, e quanto sentissi di somigliargli, e come
amassi lei per il suo paese e il suo paese per lei,
ch’erano la medesima cosa.
«E Cecilia?» rise, chiudendo il libro che leggevamo.
«È un paese anche lei? Ne ami, tu, di paesi! Un atlante
intero!».
Lo disse pensando ad altro, era evidente che i miei
amori la divertivano, non gliene importava niente.
Tuttavia quella stessa sera mi mostrò un segreto. E
sulle prime mi parve un gesto sfrontato, poi mi
convinsi ch’era un rito di pietà. «Guarda» mi disse, e
trasse con circospezione da un cassetto profondo un
involto. Lo svolse, conteneva un panno intriso di
sanguinolenze grumose e secche. «Mio figlio» disse
solennemente, trattenendosi male dal piangere e
lasciandomi interdetto di fronte a così tardivi rimorsi.
Un sorcio solitario che le corse improvviso fra i piedi
la distrasse senza stupirla, c’era abituata a furia di
vivere nella vecchia bicocca. Inutilmente con le molle
del camino tentai di colpirlo, si salvò sotto l’imponente
macigno della mobilia di noce.

132
Undici luglio… Cecilia dovette partire, tornarsene
al Nord. Mi feci per l’ultima volta prestare la macchina,
volli accompagnare la donna fino a Catania. Alla
stazione, come in un film di cose russe, il fumo le
avvolse il viso. La chiamai fra il fumo «Addio, dea,
Persefone, fata! Addio, isola Giulia!».
Lei mi fece eco con la sua voce violetta, già lontana:
«Ovvero Ferdinandea!».

Avevo detto a Iacca che sarei tornato l’indomani,


l’idea era di convincere Cecilia a concedermi ancora
una notte, prorogando la partenza di ventiquattr’ore.
Non era stato possibile e io rifeci indietro la strada,
lentamente, suonando il clacson ogni tanto per tenermi
compagnia. Procedevo piano pensando ai miei amori,
dicendomi ch’erano infatuazioni, prima che per una
donna, per me stesso; e che potevano essere tanti nel
medesimo tempo, perché, appunto, in ognuna amavo
me solo. Bisogna prima innamorarsi di sé, pensavo,
per potersi innamorare di un’altra. Sicché ora a Venera
sarei naturalmente tornato, e ad amarmi in lei. Avrei,
come un domatore, richiamato con un fischio il mio
cuore dalla licenza, lo avrei rimesso nella solita gabbia
di Venera e della città…
Passavo intanto paesi, campagne; davanti mi
traballavano lanterne, stelle. Se non era la luna e la
sua morfina, certo era un velo di sonno a disturbarmi
la vista. E mi sentivo bene, però, contento di rientrare
fra le consuete e care lenzuola, anche se non avevo
voglia di parlare con nessuno di casa e m’auguravo
che Iacca e Madama fossero già nelle rispettive
camere, lei a parlare nel sonno, lui poderosamente a
russare. Ad ogni buon conto, appena arrivato, già

133
sulla soglia mi tolsi le scarpe, salii al piano nobile
con passo furtivo. E fu precauzione superflua, come
subito vidi: né l’uno né l’altra avrebbero fatto caso
comunque al rumore del mio ritorno. Poiché,
passando davanti alla porta di lei un miagolìo mi
colpì, che non era di Quo Vadis? ma di cui conoscevo
le voluttuose ottave a memoria. Sarebbe stato tempo
perso a questo punto picchiare alla camera di
Iaccarino, sapevo già che il suo letto era intatto, e che
fra poco, bastava attendere, lo avrei visto nelle sue
nudità pelose involarsi lungo i muri del corridoio…
M’avvicino all’uscio di Amalia ch’è appena
accostato, secondo abitudini sue di negligenza e
fiducia. Mi ci appoggio: cede come un paravento di
pezza. Entro, accendo di botto la luce, e che diavolo…
Lo spettacolo che mi si offre è secondo copione,
sebbene con una variante. Posto che il filosofo non fa,
per così dire, ordinaria amministrazione ma a bisdosso
della martire e complice ovinamente s’affanna, con
tanto acrobatico zelo da non intendere sulle prime la
mia presenza. Io rimango indeciso un istante se debba
tossire, fare una scenata, andarmene in punta di piedi,
disarcionare il rampante con le mie mani… Loro si
ricompongono, strillano, finiamo col darci di gomito,
isterici, tutt’e tre, mentre un nitrito di riso ci scoppia
dentro, ci espandiamo in una risata dei visceri, lunga,
libera, senza una goccia sola di amaro, che attraverso
la porta rimasta aperta guadagna le alcove più remote
del condominio e ne disturba i coniugali sapori, e dalla
guardiola del portinaio all’attico dell’ingegnere
deflagra per entro le svegliate orecchie non altrimenti
che il 24 maggio ai Fori Imperiali la fanfara dei
bersaglieri.

134
XI bis
Intermezzo di risa e sbadigli.

Che sgarbato scarto di tono, che frigido crescendo;


hai visto, lettore? Sfido che non t’è piaciuto, non piace
nemmeno a me. Ma vedi, lettore, io non faccio nessuno
sforzo per piacerti o piacermi, e tu mi devi capire: la
mia passione divorante è la noia, mai mi diverto tanto
come quando do fastidio e muoio di noia. Vogliamo
mettere le carte in tavola? Troppo tempo ho trascorso a
circondarmi il cuore di filo spinato, a vulcanizzarlo, a
biodegradarlo; troppo tempo a leggere il mio passato
col carbonio quattordici, il futuro nei fondi di caffè, il
presente nelle macchie di Rorschach… Ritrovandomi
addosso ogni volta il bollo d’una sentenza d’ignoti, io
Joseph Kappa secondo, messo kappaò da un’assise
d’incappucciati, inquisito, martirizzato da una giuria di
probiviri ciechi…
Divago? Si capisce. Sconnetto? Chi dice di no? I
francesi chiamano «piccola morte» il mancamento
dopo l’amore… Io scrivo in uno stato di perpetua
«piccola morte», con soprassalti d’isterica esilarazione.
E so bene d’avere sbagliato tutto sin dal principio, e
che l’incipit giusto era un altro, una spionata di me da
imbucare di soppiatto nella bussola delle denunzie,
come in quel lamento di un sottosuolo, press’a poco un
secolo fa: «Sono un uomo solo, sono un uomo

135
malato…». Qualcuno m’ha preceduto, sempre
qualcuno mi precede. Benché malato io sia a maggior
diritto di lui, una metastasi da capo a piedi; ma inetto a
crescere in persona tragica, in uomo. Ché se così è,
perché non cercare di salvarmi con l’allegria? Una cura
m’hanno promesso d’insegnarmi, non so esattamente
cos’è, ma mi piace il nome: training autogeno. Ebbene,
ho idea che somigli un poco a quello che già sto
facendo: scrivere una cosa più buffa che no, da
referendario bugiardo, con tutte le luci sulla mia faccia
e farmene eroe vincitore. Allo stesso modo, anni fa,
nell’imminenza d’ogni notte bianca, io mi fingevo,
giacendo sul fianco destro, una Pau-Luchon da
fantaciclismo, con gli arrampicatori eccelsi di tutti i
tempi, Trueba, Bottecchia, Gaul, Bartali, Binda, Coppi,
Robic, Vietto, Bahamontes, e io con loro, che li
battevo tutti sull’ultima salita, nel fango.
Una rivalsa da bambino, non c’è che dire, ma
abbastanza efficace per avere ragione di me contro di
me, e mettermi ogni notte sulla testa una corona.
Allora a me gli occhi, terapeuta lettore, mio
solitario socio e nemico. Forza, ripeti con me: «Che
noia, che spasso, che sbadigli, che risate da morire!».

136
XII
Luglio e i suoi svaghi. Passeggiata nella cava antica.

Così passò luglio. Ogni giorno una favilla di fuoco,


tutti e trentuno un roveto ardente. Lingue liquide mi
guizzavano, mi salivano lungo le vene. Uscendo di
casa barcollavo come un ubriaco; bruciavo, attizzato
dal sole, e mi pensavo immortale.
Mi scrissero i miei dal paese. Perché non tornavo?
Risposi che sarei rimasto ancora un poco, per seguire
da vicino gli esami delle mie alunne. Questa, almeno,
la scusa. In verità m’ero cucita ormai sottopelle la
nuova città, galleggiavo nell’acqua delle sue pupille,
m’assopivo nella culla delle sue mani. Che dire di più?
Ogni strada era mia, nei pomeriggi d’afa, quando ero
l’unico, con Iaccarino, a battere i marciapiedi di
pietra bionda; ogni filo di cielo, fra le cimase dei tetti,
m’apparteneva per diritto d’usucapione.
Correvano i giorni. La mattina facevo un salto a
scuola, mi mescolavo ai crocchi delle candidate in
attesa, per consigliarle, rasserenarle prima dell’esame.
Loro tremavano, sbarravano occhi d’angoscia sulla
tombola delle domande: «Come, il terzo
romanticismo?!» .
Una volta Isolina mi venne vicino, odorava di torta,
un neo di crema l’era rimasto appiccicato sul labbro e
tremolava con le parole. «Ma questo presidente

137
Cataudella, com’è?» fece impersonalmente
chiedendolo più all’aria che a me, ch’ero l’unico ad
ascoltarla. Ma io la vidi così ragazzina, con quegli
orecchini di strass, e la coccarda rossa annodata fra i
capelli, e la frangetta in tanti filini spartiti uno per uno
sulla fronte col pettine; così recondita e astrusa nel
ripostiglio delle sue membra, che non le risposi
nemmeno, le soffiai solo da vicino un po’ di respiro
mio sulla bocca, finché il frustolo di torta se ne
staccasse. Mi guardò furibonda, con pupille che
parevano intinte nell’aglio come coltelli, parve volermi
gridare non so che, ma la voce le s’ingorgò nella gola.
Fu Licausi, che le sorse d’incantesimo accanto, a
portarsela via, s’allontanarono…
Poi, con Alvise, ecco Maria Venera. Non
impegnata di persona in questa sessione ma curiosa di
far pratica e mente locale in vista del prossimo esame
d’ottobre. Era forse la prima volta che usciva dopo la
notte del ratto e sembrava così bianca fra tante
abbronzature snudate. I professori giovani le furono
attorno come una turba di proci, cominciarono attorno
al suo fiore una danza d’api. E la incalzavano, le
chiedevano se almeno per ferragosto sarebbe venuta a
ballare.
Tacque, delegò con gli occhi il nonno a rispondere,
ma lui esitava, non gradiva l’interpellanza. Infine
mormorò: «Vedremo, vedremo», frastornato dalla
ressa donnesca, laggiù – attuzzi, cicalecci, risa,
ondulazioni di membra affettuose – di cui durava il
tumulto fin nell’atrio dell’Istituto e che gli molceva il
sensorio, come ai suoi tempi, dietro le quinte di un
cabaret transalpino, i fruscii delle sciantose.
Quando partirono li accompagnai per un po’, il

138
vecchio in mezzo, io a est, lei a ovest, e la sbirciavo
come potevo, mi contentavo della sola sporgenza
visibile, il colmo del petto nella guaina nera che lo
frenava. Ma istintivamente mi ricomposi, quando
alzando il capo sotto la raffica dei rintocchi di
mezzogiorno, mi parve che una figuretta ci spiasse, dal
terrazzino di casa sua, la figuretta di Liborio Galfo…

Vi furono belle chiacchiere serali di sport e varia


letteratura sotto le quattro palme dello Stretto, dispute
vespertine sul socialismo nei retrobottega dei caffè,
nelle farmacie semichiuse. Il volume del cielo si
sciorinò nella valle come un immenso lenzuolo, i
crepacci d’ore vuote si colmarono di parole. Io gridai
come gli altri, battendo il pugno sul tavolo, divisi il
bene e il male con una sommaria bipenne. E litigai
con Iaccarino che, per insipienza o sapienza, non
prevedeva amnistie nella caienna terrena e rifiutava,
com’era solito dire, di corteggiare fantasmi
attendendo le prossime calende greche… Poiché
contro di lui io prendevo le parti dell’utopia,
comprendendoci anche Venera e le mie mire su lei,
Iaccarino mi redarguiva: «Zero in politica, doppio
zero in amore». E aggiungeva: «È il prezzo naturale
che costa l’amore. Non si ama impunemente, che
credi?».
Io: «Senti chi parla» facevo, ma senza insistere,
per paura che finisse col restituirmi Madama nel
letto…

Cominciarono i balli alla Sorda, a rotazione, in una


villa dopo l’altra: villa Tasca, villa De Leva, villa
Salmè… Con una luna via via crescente, da gracile a

139
obesa, e che prendeva colori diversi: di fradicio giglio
lacustre, di rubicondo tarì…
Io ero invitato ogni volta per l’autorità di don Nitto.
Lui, prima di consegnarmi l’invito, mi chiedeva di
Cecilia con simpatia, voleva sapere se ero rimasto
contento, mi regalò perfino, in ricordo di lei, il vaso
antico rossonero, che avrei ancora, se, istigato da chi
so io, Quo Vadis? non ci avesse giocato a gatto e topo
un mattino, sparpagliandone i cocci ai quattro canti
dell’universo.
In occasione dei balli vedevo spesso Trubia,
chiedevamo un ballo alle stesse dame, ci disputavamo
le precedenze nei più ambiti carnets. Ricordo notti
eccitate, innaturali, con orchestrine da mezzeluci, e noi
a trottare convinti torno torno alle piste rotonde, fra le
vasche, le aiole, i tavolini colmi di bibite. Con una
persuasione in tutti d’essere nella gioia, nella gloria di
una gioia, tutti a un culmine irripetibile di gioventù,
tutti noi giovanotti e giovanotte, nelle nostre membra
obbedienti, nelle guance avvampate, nel lampo e nel
trionfo degli occhi, noi tutti dei e dee, a dispetto dei
nostri borghesi Marzotto di popelin e sete lunghe da
sera, dei nostri poveri motti cerimoniali: «Permette
questo ballo?», «Come si chiama questa canzone»,
«Facciamoci un whisky al buffè»…
All’alba tutti dal «Sorcio» a mangiare la
pastasciutta nel locale appena aperto, si aspettava il
sole per andare a dormire… Venera non venne mai, e
ne ero contento. Preferivo andarla a trovare a casa per
le lezioni. Dopo la partenza di Cecilia ero tornato
assiduo; soddisfatto, non potendo altro, di guardarmela
da vicino ogni giorno, come un fanatico rimette ogni
giorno sul giradischi lo stesso disco. Lei, dopo

140
quell’abbozzo d’effusione della sindone esibita, s’era
fatta guardinga, quasi ostile; né pareva ricordarsi
ch’ero il suo unico complice, l’unico a conoscenza
delle sue miserie private. La mia divagazione con
Cecilia non le aveva fatto impressione, purtroppo, e mi
ascoltava, ogni volta che vi accennavo, con blanda
neutralità. Solo mi chiese, dopo una veglia nel giardino
di Ibla, com’erano vestite le debuttanti più belle, le
sorelle Mormina, la Scichilone, la D’Angelo… con
quali cavalieri avevano ballato di più… Ascoltò senza
batter ciglio il nome del cugino Sasà.
Io avevo ben visto che non era andata in
villeggiatura dalle zie, quest’estate, ma riluttavo a
credere che fosse per non incontrare il cugino. Non
era da lei dargli la soddisfazione di sentirsi scansato,
temuto. Doveva essere piuttosto l’orgoglio a tenerla
in paese, uno strenuo orgoglio di povera, accanto
all’avvilimento di dover opporre sempre gli stessi
vestitini neri alle rutilanti divise delle rivali.
Oltretutto Alvise non stava bene, si svegliava ogni
notte col cardiopalmo e la chiamava in aiuto. Lei lo
accudiva con coscienza, era cresciuta di colpo dopo la
fuga, s’era indurita, capiva di più. Aveva smesso di
suonare dolcezze al cembalo, rimaneva a studiare fino
a tardi. Una volta mi stupì con una citazione in
francese, un’altra volta le vidi in mano un arduo
Landolfi, diventava brava. Tanto più me ne tornavo a
infervorare, io professore, abituato a trovare belle le
brave anche quando belle non erano. Me ne riaccesi,
dunque, ma senza cambiare i miei modi, permalosi e
frenati. Certo non erano stati sufficienti quei pochi
giorni di successo carnale a smaliziarmi, a
inorgoglirmi, ero subito tornato al mio solito succube

141
sentimento: pronto ad alterarmi, ma senza farlo capire;
contento e scontento di starle vicino; portato a
desiderarla ma spaventato di possederla; rassegnato
che non mi amasse ma rabbioso che amasse un
altro… Tutto, insomma, lettore, come nel primo
capitolo, lo stesso saliscendi di umori, secondo che la
sentissi più o meno propensa a recitare la sua parte
nel mio copione d’amore infelice: lei di nessuno,
sazia, godibile, nello spettacolo di gesti, voce,
andatura e profumo, di cui si componeva la
memorabile, inconfondibile, sovrana Lei; io a
guardare dal mio palchetto buio, spellandomi le mani
per l’eternità.

Una domenica che Alvise si sentì meglio volle


venire con noi a Ispica, a visitare la Cava, una valle
lunga e magra, bucherellata di grotte antiche e sacelli.
Aveva preteso troppo, si stancò subito, non si mosse
più da un sedile di sasso, ma ci lasciò procedere oltre a
esplorare il luogo più addentro. Noi ci spingemmo
avanti, catecumeni di un felice e verde Al di là. Senza i
rumori di catene, i lamenti, i flosci voli di pipistrelli
che accompagnano i viaggi sotterra d’ogni Enea o Vas
d’elezione. Mentre qui, lungo le diserbate muraglie, un
intreccio si svolgeva di tunnel e oblò offerti alle
allegrie della luce; né c’era veduta o figura che non
persuadesse quietamente di vivere.
Cercai il braccio di Venera, l’aiutavo a venir fuori
dai cunicoli dove s’era cacciata in cerca di fresco, tanto
era duro il sole, ma più ancora per un impulso
fanciullesco di nascondersi, di giocare. Fatto sta ch’è
difficile, quando si è fanciulli, resistere a lungo nella
finzione d’essere grandi.

142
Dentro la necropoli più capace il lezzo era opaco
come in un’antica cantina, rabbrividimmo nelle nostre
membra sudate. Ci muovevamo a piccoli balzi,
scansando i loculi vuoti. Uno la sedusse, minore,
accanto a un altro maggiore. «Una bambina e suo
padre» supposi io. «La sposa bambina di un re» mi
corresse. Guardammo ancora, ci perdevamo, ci
ritrovavamo, andando fra i colonnati che l’artificio
degli uomini o i crolli naturali avevano creato. Una
scolopendra provò a seguirci, non ce la fece, rincasò
rapidamente quando si sentì sovrastare da una scarpa
minacciosa. Lei con coraggio atterrito volle rivoltare la
pietra.
Un rumore di voci si avvicinò. Molte. Di donne,
uomini. Per gioco ci nascondemmo dietro un pilastro
di tufo, aspettammo che passassero. La comitiva non
cercava tombe, capimmo, ma erbe lungo i pendii della
valle. Erano persone alla buona, i discorsi erano umani,
in vernacolo. Noi rimanemmo immobili, il gioco del
nascondersi è fra i più amorosi del mondo, se si pratica
in due: due soli contro tutti, più soli e amorosi che nudi
in un letto.
Dal nostro nascondiglio vedevamo una striscia
assolata di viottolo, d’un bagliore accecante. Sagome
d’ombre vi apparvero, titubarono, passarono oltre. Io
avevo l’alito di lei sulla nuca, ora era tornato il silenzio,
i cercatori dovevano essere già a fondovalle, non si
udivano più. Lei si sciolse, emozionata, forse, ma
sorridente, s’avvicinò all’ingresso. Qui una bambina,
poteva avere cinque anni, appoggiata a una scheggia di
roccia, ci guardava. Senza paura, ma seria. Una
sbandata, una ritardataria del gruppo, pensammo.
Oppure… Maria Venera guardò la fossa minuscola e

143
vuota davanti a noi e rise con gli occhi verso di me.
Lei, la bambina, rimase seria, ci scambiava, immagino
per i padroni di casa. Specie quando Venera la fissò e
si mise un dito sul labbro, come per segno di
un’alleanza segreta. Lei fece altrettanto, col suo indice
piccino si premette con forza la bocca, indi
camminando a ritroso piano piano se ne andò.

Ora andavamo a braccetto nella verzura. Un orto di


Esperidi fra due coste di latomie. Vita in morte, morte
in vita eccetera eccetera. Venera non parve interessata
al concetto, ma volò su leggera per un sentiero da
rocciatori fino a una grotta sospesa sul vuoto, mi si
mostrò ridendo da una sorta di balcone, mimò Giulietta,
poi ridiscese.
Era vestita di nero, come sempre. Il solito abitino
liso, una mussola da rigattiere. Ma come le stava bene,
la faceva sembrare un uccello. Con le gambe sottili e
snelle e un aire naturale di volo. Una cicogna, una gru.
Se non un’allodola, per come cantava. Perché ora s’era
messa a cantare, canterina anche lei come Cecilia, ma
con un repertorio di melodie meno andanti: «È l’amore
uno strano augello…». Ma sì, ma sì, Maria Venera!
chi lo potrà addomesticare?
Quindi, mentre era curva a cogliere origano e
capperi, a emulazione delle contadine di or ora, «Non
vuoi proprio?» mi venne di dirle alle spalle. «Io ti
voglio sposare». Si voltò sorpresa, com’ero sorpreso io
stesso d’aver pensato e detto queste parole. «Ma
come?» chiese, squilibrata dal colpo, era chiaro che
voleva prendere tempo, che stava calcolando in fretta
qualcosa. «Nonostante tutto?». «Nonostante tutto»
dissi io.

144
Ma lei s’era messa a correre. Per un guizzo di
lucertola o vipera, disse da lontano, che l’aveva
spaventata. Non le credetti, naturalmente. Stava
pensando alla risposta, era fuggita a pensare una
risposta. Quando mi ritornò vicino mi disse
bruscamente di no: «No, non ti sposo. Galfo sì, l’avrei
sposato, mi avrebbe servita tutta la vita. E io ho
bisogno di un uomo oppure d’un servitore. Mentre tu
non sei bene né questo né quello… Inoltre sei senza età,
né giovane, né bambino, né vecchio. Anche se presto,
fra poco, pochissimo, diventerai tutto vecchio».
Non risposi, forse aveva ragione, forse no, come
faceva a essere così sicura? «Insomma, vattene via»
fece lei. E mi attirò con le braccia la testa contro la sua,
brevemente mi baciò.
Così fatta era: curiose perfidie, secondi pensieri,
abbandoni sconclusionati…
Era mezzogiorno, raggiungemmo Alvise al riparo
d’una siepe d’ibisco. Aveva in mano un fiore, ci
mostrò i cinque cunei d’ombra annidati nel cuore dei
cinque petali rossi. «Non durerà» ci disse. «Fra
qualche ora si chiuderà, sarà solo un cappuccio di
rughe. Dura poco, l’ibisco». Poi mangiò giovialmente
con noi le focacce al sacco che avevamo portato, ci
raccontò finalmente per intero la storia sua d’amore,
acidi urici e morte, nel ventidue o ventuno, a Vichy,
con una madamigella Colombe o Marie-Edvige o
Vattelappesca Chauvet.

145
XII bis
Ennesimo ‘a parte’ dell’autore, incerto fra arsi e tesi, dritto e
rovescio.

Fui dunque giovane e felice, quell’estate del


cinquantuno. Giovane e felice. Giovane e…
Macché, non è vero, mi sono vantato.

Lettore, non è che io ti voglia piantare in asso, ci


mancherebbe. So bene d’essere sulla terra un inquilino
moroso, e che per saldare il mio debito ho solo le
chiacchiere. So anche, salta agli occhi, che questi
solfeggi di gemiti che intercalo fra una chiacchiera e
l’altra non m’aiutano a guarire. Ma che dovrei fare?
Aspettare un’estate felice per scrivere d’un’estate
felice? E che mi passi quest’autunno, quest’angustia di
cuore, che mi passi questa città? Qui avrei voluto
giungere un tempo col passo di Brenno. Per metterla a
sacco, sfondare gli usci a calci, abbeverare il mio
cavallo sauro alla Barcaccia di Piazza di Spagna. E
invece ci vengo in incognito, da postulante pagante,
per sedermi ogni volta in un’anticamera nuova di
specialista, con una busta d’analisi sulle ginocchia. A
ottobre, per giunta, ci pensi? Dicono, lettore, delle
crudeltà d’aprile, ma quelle d’ottobre, dove le metti?
Un ottobre saturnino che abbia fatto combutta con tutte
le peggiori isoterme e isobare e isocavolo di bassa
pressione; e non la smetta più coi suoi sgocci di

146
grondaie sulle incerate dei caldarrostari; e il lamento
dei galli segnavento; e quel ciof ciof del Tevere sotto le
arcate di Ponte Sisto. Tutta roba che fa venire una
voglia, un’acquolina, non ho il coraggio di dirti
quale… E magari sarà che io sono un pata di mille
cose, e perciò anche delle meteore, ma a me non solo
aprile fa male, bensì ciascuno dei dodici mesi, sia
torrido o gelido o tiepido, e ciascun giorno dell’anno,
non escluso il soprannumerario dei bisestili.
Evidentemente ero nato per vivere in un’età senza
stagioni. O, quanto meno, se maltempo aveva da essere,
nel secolo dei loden e delle ghette. Le quali, quanto mi
farebbero comodo, ora che sento i risvolti delle braghe
pesare come spugne di piombo sulle caviglie, e
l’umido piangermi dentro la scarpa destra e la manca,
mentre torno dopo l’una di notte a suonare il
campanello dell’Hotel Sole.

Coi nervi d’improvviso in rotta, svegliandomi


all’Hotel Sole, dalle parti di Campo dei Fiori.
Sulle prime non mi raccapezzo, allargo a vuoto la
mano in cerca della solita, rassicurante presenza d’un
sonno amico al mio fianco. E subito mi ritrovo seduto
in mutande sulla sponda del letto, con le gambe
penzoloni, mentre sento, come sbucasse dal fondo
d’una canna fumaria, un filino di luce fra le cucite
palpebre dirmi buongiorno. Ecco: ora so dove sono,
chi sono; so cosa vuol dire questa riga grigiotopo,
d’una mestizia già novembrina, che da un minuto è
apparsa fra le lamelle della veneziana; e lo strepito, in
lontananza, dei primi bus; e l’odore d’anice, di paglia
fradicia, della città che si sveglia sotto la pioggia.
Albeggia, e io me ne sto così, in questo magro chiarore,

147
a commiserarmi, a chiamarmi piano per nome. Che
schifo, il mio cuore di Sèvres, FRAGILISSIMO NON
TOCCARE, se basta un segnale d’autunno come quando
ero ragazzo, per farmi venire il sentimento dello
smacco perpetuo, della bancarotta senza rimedio; per
farmi chiedere che ci faccio qui, in questa
matrimoniale senza bagno, coi calzini di ieri a rotoli
dentro le scarpe; e il vaso da notte coperto con un
giornale, e sul comodino una boccetta di Gardenal.
Gesualdo, pover’uomo. Perché, diciamolo chiaro, sono
al punto. Potrei cascare a terra fra un minuto e morire
senza averci capito nulla. Del perché sono vissuto e
muoio, e di tutto. Senza capire nemmeno se in questo
guazzabuglio apocrifo sono stato la vittima o il boia, se
ho recitato a dovere, se l’esecuzione è stata decente, da
non doversene vergognare. Il che poi sarebbe il meno.
Benché io continui a chiedermi, in nome di Dio, cos’è
il più… Se è l’atrabile dei sessant’anni, e le inutili
eccezioni della difesa nella penultima udienza,
Universo versus G.B.; se è l’addio delle giovinette in
fiore, le quali, quando mi guardano, è come se
guardassero un mobile da scansare; o il sentirsi simile
a un Pied Noir attardato, senza né chepì né fucile, che
arranca di duna in duna, ma ormai è solo, c’è odore
d’arabi in giro, la bandera non si vede più… Ma è
questo? Oppure è una scena madre che m’hanno rubata
e avrei voluta tutta per me, un ermellino di monarca al
posto di questi stracci di figurante… O è la salute, è un
problema di salute? Insomma, per la seconda volta in
due giorni, senza preavviso ma dolcemente, mi
conquisto il difficile orgasmo delle lacrime.

148
XIII
Il gran ballo, dalle dieci all’una di notte.

Venne il giorno del gran ballo all’aperto, un


martedì sera, ch’era il ferragosto del cinquantuno. A
Chiaramonte Gulfi, nel giardino di sempreverdi pensile
sulla valle. Con in cielo, all’inizio, una luna da circo
equestre, ma subito grandi nuvole la nascosero.

(Imbalsamato album di quella sera nella mia mente,


fantasma dai molti visi, sfregiati ad uno ad uno con
una croce… Sapessi la formula, ti sveglierei… E
invece ogni volta è un malinteso diverso, ti manco per
un soffio, per un soffio e mezzo…). (… Sempre così,
io: sull’orlo d’una grazia fallita, d’un miracolo
traditore. Come quando un motivo ci mulina nel capo,
e ne sappiamo ogni curva, ma le labbra
disobbediscono…).

Eccomi, pieno di capelli, vestito d’un lieve azzurro,


a tavolo con Sasà Trubia, quasi irriconoscibile, ora
che s’è tagliato la barba. Io sorseggio per galateo il
liquore che m’ha offerto e tossisco subito nel
fazzoletto. La notte è color fumo di Londra attorno
alla pista lucente. Penso come parrebbe, visto da una
navicella di dirigibile, questo concavo cerchio di luce
e suono, questo rosso cratere di fiducioso brusìo:

149
fiammeggiante cerchio, a vederlo di lassù, ma così
esiguo, insidiato da tanta tenebra, intorno! Mi alzo,
m’affaccio dalla ringhiera sulla tenebra della valle.
C’è un silenzio! Benché, voltandomi, turbina il
girotondo di commovente illusione, girano dame con
cavalieri, sorridono, ridono i futuri defunti, le future
buonanime del millenovecentonovantanove… Ignari
che un’orda invisibile di neonati e neonate, chiusa per
ora nei loro lombi, nelle loro pance fasciate di seta, li
avrà presto respinti nel fosso; ignari che l’orda stupida
del futuro galoppa invisibile dietro di loro, incalza alle
reni con una lancia questo minuto di volatile, inutile
felicità…

Siamo arrivati fra i primi, io e i miei due soliti


amici. Parcheggiata la macchinetta in salita, nei
paraggi del cancello, a piedi e scioltamente fumando,
siamo passati a esibire i biglietti, dove c’era, insieme
ad altre vallette, Isolina.
«Promossa con otto di media» si pavoneggiò con
Licausi, guardando me. E promise che sarebbe venuta
fra poco a ballare. Per ora badava ai tagliandi
d’ingresso, al meccanismo di gare e lotterie di
beneficenza predisposto per il séguito della serata.
Rosea, lieta; le graziose spalle nude sotto uno scialletto
di ciniglia; un minimo solco d’ombra a segnare
l’acerbo imbocco dei seni… Entriamo, la ghiaia dei
viali scricchiola sotto le suole, una trombetta prova per
esercizio un accordo. È presto ancora, nessuna coppia
in pista, ai tavoli le consuete facce di scapoli, sempre i
primi ad arrivare, facce toste che siamo. Mentre non
sta bene a una zitella mostrarsi impaziente.
A questo punto mi chiama al suo tavolo Sasà

150
Trubia. Me solo, per parlarmi da solo. Di Venera,
penso, e il sangue mi trema. Perché anch’io vorrei
parlarne finalmente con lui, sfogarmi il cuore. Invece
mi prega di chiedere a don Nitto che non incassi
l’assegno, per ora. Non che sia scoperto, ma… non lo
incassi, per ora, c’è un certo progetto in cammino…
D’accordo, perorerò. Quindi mi faccio coraggio:
«Sasà, sono innamorato d’una donna che non mi
vuole».
M’intende a fatica con quel do re mi di tromba
dietro l’orecchio. Quando m’intende, ci scherza sopra:
«Le dirò io una buona parola, chi è?».
«Tua cugina, Maria Venera».
Si turba, la voce non gli funziona. In quel punto ci
raggiunge Iaccarino, un mostro d’indiscrezione, e se ne
rimane davanti a noi, a far tarantella su un piede per
volta, con atti di sofferenza, come per effetto cogente
di callo cipollino o premuroso emuntorio.
Naturalmente la conversazione si gela.
Intanto le famiglie arrivano a frotte, il ballo prende
lo slancio. Suonano Tico Tico, passa davanti a noi
saltellando con serietà il baronello Puleo con la
notaressa Virzì. Isolina, smessa la sua mansione di
portinaia, balla senza riposo, osso di tanti cani,
fissando criticamente la cravatta del cavaliere di turno.
Licausi, in agguato dietro una pianta, non la lascia un
momento con gli occhi, aspetta che lei si liberi e torni
al tavolo di famiglia. Indi le piomba alle spalle,
travolge seggiole e lumi sotto lo sguardo benevolo di
mamma e papà, invocando la clausola del paese più
favorito. Lei sembra bendisposta, si alza di nuovo,
ballano senza parlare.
«S’è scaldato, Licausi, ch’era così marmotta» fa

151
Iaccarino, con un piede sulla pista e uno sul mio,
mentre osserva gli svolgimenti del ballo.
«Non c’è più religione» acconsente distrattamente
Sasà e, sottovoce, a me: «Venera non ti vuole, dici?».
Annuisco ma non continuo. Iaccarino, fra una
bibita spiritosa e l’altra, ha dato inizio a uno dei
numeri suoi. È quello che temevo, m’ero tanto
raccomandato. Che non bevesse, che parlasse poco,
so io quanto m’è costato strappare a don Nitto un
invito anche per lui. Invece, quando la notte è ancora
ai primi vagiti, eccolo bell’e andato. S’è fissato a
descrivere la festa come un araldo di giostre antiche o
un Filogamo annunciatore: «Uno due tre… Ecco da
destra s’avanza donna Letizia Mistretta, e il marito la
segue a due passi: cornu petit ille, caveto! Da
sinistra uno squillo risponde: la coppia
Gangemi-Nicita, che fende la folla come i flutti la
prora d’uno sciabecco corsaro. Lui, dove posa il piede,
non cresce filo d’erba; lei s’adegua, monumentale.
Che pacchia per gli affamati, su una zattera della
‘Medusa’!…».
«So di voi due» faccio io in un orecchio a Sasà:
«L’ami? La vuoi sposare anche tu?».
Ma Iaccarino, rivolto a me: «Come, non ridi?»
s’arrabbiò. Poi, avendo scorto sotto un lampione una
solitaria opulenta: «Signorina Varcadipane» invocava.
«Oh meraviglia, oh mistero! O vago mio tulipano, o tu
che avrei amato, o tu che lo saprai. Seduta quieta al tuo
posto, madonna che nessuno cerca, Iaccarino ti
cercherà».
Sbuffammo, non s’arrese: «Falsa, non può essere
che falsa, è troppo bella per essere vera. Già immagino
un dialogo fra cinquant’anni: ‘Nonna, eri bella ai tuoi

152
tempi?’. ‘Una volta lo fui’ risponderà. ‘Una sera di
ferragosto’».
Si alzò, andò maestosamente a inchinarsele, parlò a
lungo al suo busto grande, spampanato, sui cui tremoli
d’onda una camicetta gialla abbagliava.
«Accidenti a lui» esplose finalmente Trubia, e a me,
secco secco: «Che sposare e sposare, le cugine non si
sposano. I sangui non quagliano, i figli vengono
difettosi…».
«Già, i figli» feci io con qualche malizia.
Mi guardò con sincera perplessità, non doveva
saper nulla del bambino andato a male, Venera doveva
averne taciuto. Del resto lui subito s’impappinò,
vedendo avvicinarsi e puntare su noi una basilissa
miope, ingioiellata come la Begum, la figlia, credo,
dell’orefice Virgadauro. «Non è questo il momento»
mi disse. «E dài, balla, che aspetti a ballare?» mi
licenziò, tirandomi su con le mani, spingendomi sulla
pista, sì da restar solo con quella.
Ballare… già, in fondo non sono venuto per altro.
Ho scordato così presto, dunque, i miei propositi di
guerra al mondo? Far coppia con la prima che passa,
gridare al mondo: «Mondo, sei mio!» Che, se Venera
non si degna, resta in cambio l’intera bandita. Non una,
ma due, ma tre prede saprà il buon cacciatore, come
l’unico Orazio i Curiazi, domare!
La festa andava animandosi. Subito la pista risultò
gremita. Non mi dispiacque. Non serviva più molto
tenere il passo, bastava ciondolare insieme sul proprio
mattone, in un’aria di partecipe carnalità. Besame,
besame mucho… Addormentarmi così… Quanti occhi
lucidi, che visi creduli, a galla sul gorgo di brillantine,
dopobarba, unguenti muliebri! Un’ambrosia multipla

153
ciondolava negli interstizi superstiti fra corpo e corpo,
e pareva facile nuotarvi, come al pesce di don Cesare
nell’acqua della sua boccia.
Ora eseguivano Le foglie morte. Non volevo
perderlo, invitai Giuliana Martoglio. La conoscevo di
vista, di faccia era così così, ma ghiotta e sinuosa di
corpo come un violino, e due seni la precedevano che
parevano ambe del Tigrai. Inoltre m’intrigava per
come era solita ascoltare sorridendo e tacendo
chiunque si provasse a parlarle.
Misi le mani avanti: «Può esprimere un ultimo
desiderio, prima di ballare con me». Sorrise. Io
cominciai subito male, andando addosso a un pensoso
surplace di due, guancia a guancia. «L’ho fatto
apposta» finsi, per giustificarmi. «Scalcio sempre le
coppie più tenere, gli ricordo che il tempo esiste».
Sorrise ancora, m’accorsi con spavento che il suo
sorriso era un coperchio sul vuoto e che, quanto a
ballare, ballava peggio di me. «Lei è uno stradivario»
mentii «ma io non sono, ahimè, Paganini». Come non
detto, sorrideva sempre. «Il primo ballo con una
donna m’emoziona sempre» svariai. «È come arrivare
alla stazione d’una città sconosciuta». Non sorrise
nemmeno, stavolta, mi guardò inebetita. Senza più
fiducia tentai uno dei miei manierismi di riserva: «Su,
mi dica qualcosa: nome, cognome, fiore preferito…
Vediamo se la voce è graziosa come il resto». Obbedì:
«Martoglio Giuliana». Aveva una voce di adenoidea e
santa semplicità. Poiché cercavo di rubarle almeno un
momentaneo tepore: «S’abbandoni a me come una
foglia al vento» proposi inutilmente, sentendola
rigida fra le mie braccia come un palo telegrafico…
Ma il pezzo volgeva alla fine, le foglie erano tutte

154
morte. «La riporto sul suo ramo, signorina Martoglio
Giuliana» m’arresi.
Fu meglio e peggio dopo, quando invitai
Non-ricordo-come-si-chiama. Erano tempi, quelli, in
cui si ballava in due, vicini, e si parlava molto,
ballando. Lei era ironica, spinosa e bella, di una
minatoria bellezza; e avevamo ballato insieme, sere
prima, un charleston catastrofico. Se ne ricordava,
come no, avrebbero mai potuto i suoi piedi dimenticare
i miei?
«Ci unisce dunque un passato» le dissi. «Troppo
doloroso, inventiamocene un altro» decise con allegria.
M’invitò a nozze. Cominciai a inventare e lei stava al
gioco, soffiandosi spessissimo il naso con l’eleganza
d’una regina. Costipata e regale, mi mandò un bacio
con le dita, quando le dissi che i bacilli non avrebbero
potuto scegliere un naso più bello. Poi, d’improvviso,
passando al tu con naturalezza: «Rammenti il nostro
primo incontro in treno quattr’anni fa?». «E il bacio»,
recitai a mia volta «quel bacio nel penultimo tunnel, te
lo rammenti?».
«Come, non fu nell’ultimo? Ho ceduto tanto
presto?».
E così via, finché ci stancammo. «Giochiamo a
inventarci il futuro, piuttosto» suggerii. Ma giunse in
quel punto Michel, il francese del cinema, mi batté la
mano sulla spalla, ora toccava a lui, filarono via come
due cervi.

«Nome, cognome e fiore preferito» ripetei un


minuto dopo a una sconosciuta dai capelli lionati.
Risultò la fotografa di Michel e costui, che aveva l’aria
di pedinarmi, dopo un solo ballo me la rapì. «La fattura

155
di Tònchila agisce» pensai, lasciando la pista. Non
senza dire a Isolina, nel passarle accanto, che mi
sembrava un laghetto alpino. Si fece di bragia, parve
rifugiarsi sul petto di Licausi che la stringeva. «Che
vuol dire?» protestò. «Che sono di ghiaccio?».
S’era offesa, inutilmente soggiunsi che in quel
laghetto avrei voluto buttare una pietra…
Esilarato ma stanco. Avvertivo (era una delle prime
volte, più tardi ci avrei fatto l’abitudine) un bizzarro
sapore d’inesistenza: in me, negli altri, nel pulsare
comico di vitamorte in quell’istante e in quel luogo.
Come già nella cava, ogni fiore e frutto cresceva sul
niente. Erano miliardi – miliardi di miliardi – le cellule
nostre in marcia verso lo sfacelo finale, la cinerea
perfezione del niente. Col sospetto che i giochi veri si
giocassero dietro il sipario, che qualcuno ci guardasse
senza farsi vedere e battesse per finta senza suono le
mani. Oppure a meravigliarmi era solo l’insensatezza
che tante macchinette umane, adibite a pensare,
stessero al mondo senza una ragione di esserci,
supremamente facoltative. Quando ragione esigeva che
al loro posto ci fosse soltanto il vacuum sterminato del
non essere…
Cos’altro ci voleva per dedurne che io stesso, il mio
stesso incredibile io, fossi, fosse, soltanto un travestito
non essere? «Io inesisto» mi dissi. «La mia con gli altri
è soltanto una società di apparenze, una lega di mutuo
soccorso, dove ciascuno è mallevadore per gli altri,
tutti ci garantiamo vita, dolorosamente, a vicenda.
Videor, ergo non sum… O magari: Sum, ergo non
sum…».
A smorfiare queste sofie ci sarebbe voluto,
familiare dei presocratici, il professore Iaccarino. Ma il

156
figuro, a braccetto del suo tulipano, s’era dato a
vendere biglietti per l’elezione della più bella. E
pretese con petulanza che ne comprassi.

Cominciarono i fuochi di mezzanotte. L’artificiere


aveva piazzato i mortai nella parte più bassa del
giardino, dove i vialetti affondavano nel buio.
Smettemmo di ballare, si spensero le candele sui tavoli,
e sui muretti del giardino le lanterne alla veneziana,
solo un lume rimase a pendere fra le fronde di
un’araucaria, poi soffiarono anche su quello. Il buio
cadde allora su noi col peso d’una coltre di contadino.
Scomparso a terra l’anello di fuoco, dalla navicella
d’aerostato qualcuno se ne stupì…
L’orchestra suonava valzerini veloci, in sordina; le
coppie nell’oscurità, strette e vicine, non si baciavano
ma pensavano di baciarsi… Finché il primo razzo non
sorse in cielo e a seguirlo, inseguirlo, altri cento
sorsero, sciogliendosi infine in fontane e zampilli d’oro,
il cui gioco di frangersi e risbocciare ribadiva nota per
nota la musica e pareva, anziché esserne diretta,
dirigerla.
Isolina e Licausi, inseparabili, m’erano finiti
accanto per caso. Ogni volta che un razzo scoppiava
lassù, e la corolla ne franava poi piano in ombrelle di
rosea luce, mi veniva di osservarne l’effetto sulla gola
di lei: un bagliore di tramonto su un marmo di Massa o
Carrara.
«Tu, otto in italiano» la sfidai a bassa voce. «Sai
chi ha immaginato una casa pensile, attaccata con una
fune a due stelle?». Non lo sapeva, e io, in uno
slancio d’audacia, cercai con le mie dita le sue.
Fermandomi un millimetro prima, quando avvertii

157
attorno a quelle, vasta esclusiva e irsuta, la mano di
Saro Licausi.
M’immalinconii. «Cecilia» pensai. «Venera»
pensai. Dov’erano, ora? Che echi udiva l’una, e corni
di caccia d’Adda o d’Olona, ai guadi della sua infanzia
lontana? Se non dormiva, più ovviamente, nell’alcova
d’un commendatore…
E l’altra, la Mariavenera mia, la Carmencita
pianista, che amore zingarello la dondolava nel sonno?
Stava dormendo, stava sognando? Non seppi mai la
risposta al mio dubbio quanto a Cecilia. Per Maria
Venera fu diverso: appena l’ultimo scoppio e la musica
cessarono a un tempo, coincidendo l’ultima scheggia
di fuoco con lo smorzato dell’ultima nota; e i lampioni
tornarono a splenderci attorno, rassicurando lassù ogni
vigile occhio d’aeronauta vagabondo; ecco in mezzo
alla pista, al braccio di don Alvise, con addosso l’abito
bianco materno di vecchi pizzi di Villarmosa e i capelli
sciolti sulle spalle, «all’annegata», Maria Venera
sfolgorò.

158
XIV
Il gran ballo, dall’una alle tre.

Era l’una di notte e il cuore della festa batté con


forza radiosa. Maria Venera era entrata al buio, durante
l’intermezzo dei fuochi, e ora, tornata la luce,
sembrava aver raccolto di colpo nelle sue mani i cento
cuori dei giovanotti presenti, come quando don Nitto
dopo un nove di banco tirava a sé con entrambe le
braccia tutto il mucchio delle puntate. Perfino
Iaccarino, fra i suoi fumi, parve sedotto: «Mane
nobiscum, Domina, quia enim vesperascit» declamò
dal suo tavolo, tanto che il tulipano, ch’era poi la
maestra Incallina, mise su muso, indignata
dall’empietà, e finì con l’andarsene via lasciandolo
solo.
Ma io, intruppato con gli altri della giovine guardia,
cercai a lungo gli occhi della fanciulla, ottenendone
infine appena l’obolo d’un sorriso distratto. In
compenso Alvise, che aveva rimediato una seggiola
vicino alla pista, mi occupò a volo col bastone una
gamba e m’impose la compagnia. Sembrava
trasfigurato, il vecchio. Tornato agli umori briosi d’un
tempo: fosse il successo visibile della nipote, che
poteva fargli credere dimenticato l’episodio del
rapimento e reintegrato l’onore di lei con tutti gli onori;
fosse il contagio della festa, quel familiare lezzo di

159
cipria, liquori e polvere di pavimento sotto i tacchi dei
ballerini. Dovetti dunque fermarmi in piedi accanto a
lui, quanto meno risparmiandomi di partecipare alla
«tarantella del treno»: una sorta di processione ballata,
ciascuno con le braccia sulle spalle dell’altro,
sinuosamente, fra tavoli e alberi. Un gioco, e tuttavia
Maria Venera, che faceva da capintesta, guidava le
evoluzioni con un piglio di serietà prepotente,
giungendo a disturbare fin nelle loro specole più
riposte genitori e vicemadri. Finché insieme alla turba
invase lo stesso podio, impose alla trombetta un assolo
di all’erta, s’impadronì del microfono e a gran voce
chiamò: «Sasà Trubia!».
Mi scossi, c’era poco da ridere, eravamo arrivati
alla notte del giudizio, e confesso d’aver temuto che
dopo quel nome suonasse il mio. Mi guardai attorno:
un lampo d’occhi m’informò che Trubia non era più al
suo posto. Già prima, appena Maria Venera s’era
mostrata, io lo aveva intravisto fra il pubblico degli
ammiranti, al braccio della Virgadauro, in atto di
fissare la nuova venuta con un’aria di scherno triste nel
volto, e la fessura d’un sorriso che gli sforzava le
labbra. Tornando ora a cercarlo, era ancora con la
gioielliera, ma isolato, i ballerini avevano preso da lui
timorose distanze, come da un lebbroso o da un
accattone. Lo confrontai con Maria Venera, che bella
coppia sarebbe stata. Solo che stavolta era una sfida a
unirli, comicotragica: dov’erano in questione
sentimenti d’orgoglio, rivalsa, desiderio, rancore, tutti
ingredienti d’una vicenda classica, ma qui misti a una
turgidezza di sagra, incapace d’accordarsi con le veraci
sublimità dell’amore.
«Sasà, cugino Sasà!».

160
Ahi, perché, Maria Venera? Che vuoi da lui, non
t’accorgi di me? Lui coi suoi assegni dubbiosi,
disposto a vendere l’anima a quella, ai suoi gioielli,
non vedi? O non sono meglio io, con le scarpe da
risuolare, l’abito nuovo da pagare insegnando l’abbicì
ai figli del sarto? Io coi miei stupidi nervi, cani da
pastore che abbaiano ad ogni luna, ma con un cuore
così largo, così poeta, un cuore a due piazze!
Maria Venera non dovette udire il mio appello,
sbocciava dai veli altera, come da un peplo, pareva
davanti al microfono una virtuosa in attesa del la.
Tacendo, intanto, ridendo e guardando Trubia.
Lui s’avanzò, sempre a braccetto della Begum,
venne fin sotto il palco.
«Cugina Venera», disse, «a vostra disposizione».
Lei dal microfono: «Cugino Sasà», e rideva ancora,
«cugino Sasà, non lo dite dunque nemmeno ai parenti?
Le belle notizie, le tenete sottoterra?». E poi: «Figli e
figlie, mamme e papà», proclamò al popolo in dialetto
«preparatevi ai confetti grassi, Sasà Trubia presto si
sposa».
Tutti si misero a battere le mani, mentre Trubia
sbiancava e la Virgadauro avvampava. Michel, che
non aveva capito molto, mi venne accanto, la mia
faccia gli era ormai familiare, a domandarmi:
«Qu’est-ce que c’est que ça?». Non gli risposi, come
gli altri stavo in attesa, imparzialmente diviso fra
eccitazione, contentezza e ansietà. Sentendomi
chiamato non più a una semplice parte di testimonio,
bensì a un dovere di connivente corista; né potendo
ancora intuire di quale epilogo o prologo.
Dopo un attimo d’intontimento, mentre tutti
guardavano lui, Trubia si mosse verso il podio, da

161
solo. Nessuno seppe mai se per smentire o
confermare l’annunzio, o che altro. Poiché a mezza
strada, sulla scaletta d’accesso, s’imbatté in Venera
che scendeva, e lei, passandogli accanto, gli stampò
sulla faccia cinque bellissime dita con uno schiocco
che inutilmente il batterista, intervenuto in extremis,
cercò di confondere coi suoi strepiti di piatti e
tamburi. Sasà levò la mano a ribattere, l’abbassò sul
viso di Venera, parve per un momento addolcire
l’intenzione di vendetta in una carezza. Sennonché un
avvampo di sangue dovette insorgere in lui, la
carezza tornò a mutarsi in ceffone, scatenando a sua
volta la replica d’uno sputo, solenne come un
verdetto. Tutto questo nello spazio d’un secondo: al
punto che le gambe dei due non fecero in tempo a
contraddire gli ordini precedenti, ma continuarono a
smaltirli con fedeltà, queste di lei muovendosi verso
il basso, quelle di lui avviandosi al gradino più alto,
sebbene subito, richiamate a dovere, precipitosamente
ne discendessero.
Il cielo volle dire la sua, gocce caddero da una
nuvoletta vagante, un tuono solitario si udì: «C’è Dio
al telefono» fece alle mie spalle Iaccarino. «La linea è
caduta» aggiunse quando fu chiaro che il rombo
sarebbe rimasto inevaso. Si trovava nel terzo stadio
dell’ebrietà, quello metafisico-umido, e mi s’attaccava
al braccio, voleva conforto.
«Dio» mi disse, mentre Trubia ci passava davanti
pulendosi il volto con un fazzoletto, «batte troppo la
grancassa, si fa troppa pubblicità. Sai quanto gli
gioverebbe qualche tremuoto e fulmine in meno! Ma
la discrezione non è mai stata il suo forte…».
Sia pure, avevo ben altro da fare che dargli spago

162
nel generale subbuglio. Io volevo trovare Venera,
essere il primo a parlarle. Non fu possibile, tutti
s’erano rimessi a ballare, lei con gli altri, come se nulla
fosse accaduto, e bastasse raddoppiar vigore alla veglia
per distruggere ogni imbarazzo. Dell’episodio restava
appena nell’aria un’ombra d’eco sognata: di quello
schiocco di schiaffi (o tenda sbattuta dal vento?),
sommerso ora nel frastuono della musica successiva.
L’orchestra ci dava dentro, infatti, con tutti i muscoli:
come quando nei film, dopo la sparatoria, un pianista
negro picchia alla rinfusa sui tasti. Attorno ai tavoli
degli anziani il brusìo durò più a lungo. Era stato
bucato un foruncolo e la pelle voleva tempo per
rimarginarsi. Fra i giovani nessun rimasuglio, solo
sorrisi d’intesa, pacati, da gente che si trova
istantaneamente d’accordo senza dirselo. Capii così
che di Venera e Sasà da un pezzo a Modica tutti
sapevano tutto, io solo e don Alvise eravamo
all’oscuro di tutto.

Don Alvise, ecco, che ne era di don Alvise? Andai


a frugare nell’angolo dove l’avevo lasciato, per
consolarlo. Non era il caso. Non s’era accorto di nulla,
la folla in piedi gli aveva sottratto la vista e i
novant’anni sordastri rubato o distorto le parole di
Venera, benché pronunziate al microfono. Del resto
lui era indaffarato a tenere in ostaggio l’onorevole
Scillieri, gli parlava con disprezzo del monocolo di
Guglielmo Giannini, il monocolo d’un parvenu che
vuol posare a signore. Scillieri non gradiva, si capisce,
ma non ottenne di svincolarsi, lo lasciai nell’impiccio,
scappai via subito alla ricerca di Maria Venera.
Non era facile, i cavalieri dopo l’incidente

163
facevano ancora di più a gara nell’impegnarla, il mio
turno saltava sempre. Lei rideva risa vistose,
volteggiava bianca e fiera fra le coppie minori, senza
evitare, cercando anzi, nei suoi giri attorno alla pista,
il tavolo dove torvamente e fittamente Sasà parlava
alla presunta promessa. Solo la vidi turbarsi quando
Galfo apparì sulla scena. Non pensavo che sarebbe
venuto, doveva aver esitato a lungo se arrivava così
tardi. Era vestito di lino e camicia bianca, un figurino.
E subito si tuffò nelle danze, fece il vuoto attorno a sé.
Aveva portato, si vide, le scarpette professionali, con
la plaquette sonora, da tip tap. Presto tutti gli fecero
corona, nessuno ballò più, l’orchestra suonava solo
per lui i pezzi d’anteguerra di Cappello a cilindro, di
Seguendo la flotta. Sicché io profittai ch’era rimasta
disoccupata per battere con un dito sulla spalla di
Maria Venera.
Mi sentivo molto confuso fra tanti splendori e suoni
e moti buffi e patetici della vita, la testa mi faceva la
giostra. Nell’ultima ora erano poi successe tante cose:
uno svelamento, senza dubbio, sebbene non fosse
chiaro di che. In fondo non avevo appreso molto di
nuovo. Maria Venera amava Trubia fino allo scandalo.
E come no? Ci aveva fatto insieme perfino un bambino;
o quello che sarebbe stato un bambino. Era scappata
con Galfo, sta bene, ma per un feroce puntiglio, un
bisogno di beffa dove sfogare la negrezza del cuore. E
io? Io ero giunto in tempo per chiudere il quadrilatero,
da truppa ausiliaria, da succube salmeria. Un
portalettere da usare e dimenticare, un precettore da
blandire, da pagare con qualche bacio; un forestiero,
soprattutto, al quale si dovevano pochi riguardi. Poiché,
sebbene mi fossi ormai radicato nella città con le due

164
radici dei piedi, io non cessavo di sentirmi alitare
attorno un’aura di sottile incorporea alienità, che
m’impregnava abiti, lessico, accento, contegno, e mi
rendeva imparagonabile con chiunque altro fosse
conterraneo e familiare di Venera. Ero venuto da
altrove, e questa macchia innocente nemmeno l’amore
avrebbe potuto sbiadirla. D’altronde Venera non mi
amava.
Si voltò: «Beh, professore. Hai visto, hai sentito?».
Mi prese sottobraccio, mi condusse dove il giardino
precipitava sulla valle nera, volse le spalle alla luce.
Dopo un po’ mi accorsi che stava piangendo, col busto
sporto oltre la ringhiera, come quando uno vomita
dalla spalletta di un ponte.
«Che ragazza difficile sei» dissi dietro di lei. Lei,
senza voltarsi: «Macché, sono facile, ti sei fatta
un’idea sbagliata di me». Finsi di equivocare: «Facile?
Buono a sapersi». Si rabbuiò, e io: «Sposami» tornai a
chiederle, posandole una mano sull’omero, nel punto
dove la spallina s’affondava debolmente nella polpa
rosea del corpo.
Fece di no due volte col capo, poi mi chiese una
sigaretta.
Ma già la richiamavano, cominciava il ballo ad
escludere e lei non poteva mancare. Era un gioco, un
pretesto per ridere addosso a qualcuno. Si sceglievano
sette cavalieri e sei dame, consegnando al cavaliere in
esubero lo scettro derisorio d’una candela, ch’egli
avrebbe dovuto via via trasmettere a un altro,
rubandogli la dama. Finché, troncata di colpo la
musica, uno dei sette rimanesse, senza dama lui solo, a
reggere il cero spento nel pugno. C’è bisogno di dire
che toccò a me lo zimbello? Per quanto mi parve

165
d’aver quasi voluto cercare io stesso il finale più
svantaggioso, d’aver quasi esitato apposta a liberarmi
della mia staffetta…
Un emblema? La traduzione in spiccioli della mia
sconfitta? Ora agosto finisce, fra poco viene
settembre, ottobre… Dovrò forse cambiare scuola,
città, invecchio d’un anno e mi ritrovo con le mani
deserte.
M’aiutò la compassione, finalmente affettuosa, di
Maria Venera. La quale volle ballare con me uno
slow, uno dei balli dove avrei combinato meno
disastri. Galfo guidava una tizia abile quanto lui,
facevano spettacolo. Quando ci venne vicino, supposi
per un momento che volesse tornare a mandarmi i
padrini. Invece salutò Venera, e lei rispose. Finimmo
insieme al buffè, a firmare il trattato di pace sotto
specie di tre bicchierini, che diventarono cinque,
quando sopraggiunse Iaccarino, fumante ancora dei
suoi filosofici fumi. «Se esistesse, si saprebbe in
giro» ripeteva, più che a noi, a se stesso, per
volersene persuadere, indi dileguò fra la folla.
Era la prima volta, credo, che Venera e Galfo si
rivedevano. Ed era anche una rivoluzione, per i
costumi della nostra provincia, che tornassero
pubblicamente a parlarsi. Eppure, non so come, tutti
sembravano trovare giusta la cosa. Si vede che la
guerra aveva cominciato a mutarci, noi dell’isola, se
una fuga, anche ridotta a incruenta gita notturna,
poteva rubricarsi ormai come una scappatella
dimenticabile… Anche se, nel caso di Venera, le
circostanze erano rare: lei s’era issata da sé su uno
spazioso e legittimo piedistallo, per lei non valevano i
pregiudizi comuni, lei era lo stemma superbo della

166
città, un’Angelica da poema, che pareva ogni volta
scendere sulla terra, reggendo in mano le briglie d’un
Ippogrifo.
Così i suoi trascorsi amorosi (seppi, dopo, ch’erano
stati diversi, più che non sospettassi o temessi)
ricadevano agli occhi di ognuno in una sorta di
plausibile intreccio, un doveroso e già scritto scenario,
a cui lei non avrebbe potuto sottrarsi. Essendo nel
destino della sua bellezza contenuti tutti gli articoli di
assoluzione civile e penale, a noi spettava solo
applicarli.
Fu quanto cercò di spiegarmi con parole ingenue
Liborio Galfo, appena Venera s’involò con un terzo e
restammo soli. E fu allora, avendolo ascoltato per
dieci minuti, che capii di che dolce pasta fosse
quell’uomo: bisognoso di servire come un cieco d’un
bastone; e, più che innamorato di Venera, suo
vassallo e fanatico, dal fatidico minuto che avevano
ricevuto insieme su un podio una coppa di similoro
dopo una gara di ballo… Sicché la seguiva ora fra la
folla con occhi tifosi, riconciliato con me dalla
militanza e dalla soggezione comune. «Come balla
bene» mi mormorò devotamente all’orecchio
vedendola eseguire uno scambietto e subito luminosa
sorridere al cavaliere.
C’era poco da compatirlo. Valeva forse meno la
sua cecità della mia? Né io immaginavo allora che
trent’anni dopo lo avrei rivisto, mutato in pingue,
agevole nonno, sotto il busto di Carlo Papa, con la
mano nella mano di due molesti mocciosi. Incapace di
riconoscermi: tanto che, dopo poche cerimonie, gli
dissi addio con sollievo (e dire che io, le rimpatriate, i
posti delle fragole, c’inzuppo il cuore…). Assai più

167
magro, quella notte di ferragosto, nella divisa di lino,
mentre versava generosamente i fiotti della sua
passione. E se n’accorse Iaccarino, che gli ronzava
attorno da un pezzo per farsi offrire un altro
bicchierino al buffè. Li sorpresi più tardi vicino
all’uscita, che s’abbracciavano piangendo e,
reggendosi a vicenda, lasciavano la festa prima del
tempo.

168
XV
Conclusione del ballo e quadriglia funebre.

Isolina, come mi sarebbe piaciuto parlarle un po’.


Mi capitava ogni tanto d’intravvederne un pezzetto
nella baraonda di corpi e facce, un lembo di veste, un
confidente sorriso, un bagliore di visetto interrogativo,
che subito la nuca di Licausi mi nascondeva. Otto in
italiano, non si scherza. E sapevo che leggeva tanto.
Nella biblioteca dell’Istituto avevo sorpreso molte
volte la sua firma sopra la mia, sul registro dei prestiti,
e occhieggiato le sue scelte, incerte fra poesia eccelsa
e prosetta ricreativa. Ora appariva chiaro che pendeva
verso quest’ultima: nella fattispecie, Saro Licausi.
Gradevole individuo, da quando s’era indotto
umanamente a bruciare, ma non abbastanza per
accendere in nessuna quel miscuglio di spavento,
abbandono e stupore che suole essere indizio d’amore.
Sicché mi faceva senso l’acquiescenza della
giovinetta alle sue premure, e me ne nasceva una
specie d’assillo, una puntura di vespa nel cuore, da
cui appresi ch’ero geloso. Un geloso senza diritti, si
capisce, e nemmeno innamorato. Diciamo meglio, un
invidioso. Poiché la mia giovinezza, quella sera, io
l’impugnavo come una spada, la sentivo mia, qui, nel
giro del mio sangue, nella cubatura delle mie membra,
nell’intermittente balenare del mio pensiero, ma non

169
sapevo che farmene, a chi offrirla, era una merce
inservibile, una refurtiva che scotta. Sapevo che
quella sera era l’occasione sovrana dell’anno,
dell’estate, della mia vita, per potermi ricordare
domani, da vecchio, ch’ero stato giovane e vivo.
Sapevo che domani l’avrei comunque detto e creduto,
ma che avrei mentito, non era vero, non ero vivo, e
lui invece, Licausi lo era…
Stavo in mezzo alla pista, con in mano ancora il
mio stendardo di cenere, quel mozzicone di candela
spenta: solo, mentre tutti erano due. Mi feci coraggio.
Licausi ammutolì quando chiesi un ballo a Isolina.
Ammutolì ma respirò sollevato quando mi vide fare
uno dei miei soliti ammicchi di giocatore. Col quale
volevo significargli, ma ero sincero solo a metà, che il
mio era un invito leale, che non volevo fargli le scarpe,
bensì solo documentarmi sull’indole della ragazza in
vista dell’inevitabile prossimo consultorio d’amici, alla
mensa di Mariccia.
Quindi cominciai con Isolina a ballare Quizas,
quizas, quizas.
Era tesa, non capii perché. La punzecchiai: «Bei
voti, sì, ma sfido, con quella commissione galante!».
Lei guardava di sott’in su, bassina com’era, e
l’atto le disegnava la flessione soave del collo fin
verso l’altorilievo del mento. Poi subito inchinava la
fronte, m’ascoltava senza guardare, e la vicenda, su e
giù, del capo glielo faceva ondulare armoniosamente,
come una barchetta di lago a dondolo presso la riva.
Io credevo di tenere prigioniera fra le braccia una
farfallina di velo, più una veste che una fanciulla,
anche se mi bastava premerle con forza la mano sul
fianco per sentire sotto lo schermo della stoffa un

170
tepore di flessuosa, vicinissima, irraggiungibile carne.
Ballammo un poco in silenzio. Io osservavo
l’incarnato delle sue guance, la nerezza dei capelli, le
larghe ingenue pupille blu. E cercavo di sprangare
dentro di me ogni chiusa, prima che cedesse alle
sovrabbondanti piene del cuore… Lei stava sulle sue,
difensiva, diffidente, aggiustandosi ogni tanto la
bretellina destra, che tendeva a scivolare. Infine:
«Dunque, sarei un lago?» chiese senza guardare. E
poi, fresca di studi: «Come l’Iseo o come il lago di
Garda?». Aggiungendo subito: «E Venera, che lago
è?». «Quella? Quella è un mare» svicolai con finta
disinvoltura, continuando però a mungere la mite
metafora se mai potessi cavarne un succo. Non ebbi
successo; alla fine, per disperazione: «Nelle tue acque,
però, i pescatori non mancano» feci, accennando a
Licausi che dal bordo della pista ci seguiva con occhi
selvaggi. Isolina sorrise avaramente, s’immusonì. Le
chiesi dove avrebbe studiato e che cosa. Lettere a
Catania. L’immaginavo. Peccato non averla avuta nel
mio corso. Assentì, sarebbe piaciuto anche a lei,
dicevano ch’ero bravo a spiegare i poeti. Leopardi? Il
suo preferito, lo trovava anche bello fisicamente, nel
ritratto dell’antologia del Pedrina. Più bello del
Foscolo, quel brigante, quel casanova.
Aveva una voce colpevole, con sorde inflessioni
carnali che contraddicevano il pudore degli occhi, il
sigillo innocente delle membra nello scrigno della
veste a mongolfiera. Certo, se non avessi avuto
scrupolo di fare una carognata a Licausi…
«Devo confessare una cosa» disse ad un tratto.
Poi, impaurita, si negò: «No, no!» E poiché insistevo:
«Niente, niente, un pettegolezzo» concluse e volse il

171
discorso sulla canzone che un falso spagnolo stava
cantando. Tesi l’orecchio, la musica insisteva con
gentilezza, sovrastava lo scalpiccìo dei piedi sul
pavimento di mattonelle. Io avevo le labbra a fiore
dei suoi capelli, una tenerezza mi sobillava verso di
lei, l’alberello del suo corpo mi oscillava fra le mani.
Siempre que te pregunto
que cuando, como y donde,
tú siempre me respondes
quizas, quizas, quizas…

Quizas, questa Isolina, se l’amo un poco. Chissà


se m’ama un poco. Chissà cosa vuol dire amore.
Eccoci qui, noi due, a domandarcelo senza risposta,
vecchiogiovane con giovinetta, entrambi in corsa
verso una medesima Ics, ma sparigliati come due
parallele. Chissà se possono amarsi, due parallele.
Innamorato di carriera, io, ma specialista in amori
sbagliati, ogni parola, gesto o sentimento mi si
trasforma in parodia di parola, di gesto, di sentimento;
lei, dentro i suoi insondabili diciott’anni, le labbra dei
suoi occhi mi dicono inutilmente di sì… Avessi
magari la vocazione, è un dono, dell’avvelenatore di
fontane! Come mi piacerebbe convincerla a questo
vizio di desiderarsi, con quanto agio la sbuccerei
dalla veste, che sillabe inventerei per appassionarle la
mente!
O molli arsenali della bellezza, facili scudi di
chiffon che ardito lacera un dito, babbucce color
granato, vestaglie color tanè; mani, guance, clementi
braccia; caschi di chiome nere su fronti di tiepido
marmo… Come puoi, professore, non lasciartene
intenerire? Oppure sai un rimedio migliore per distrarti

172
dalla pietra che ci macìna? Una mola di mulino è la
vita: ora tarda, ora precipitosa… E macìna alla rinfusa
destino e caso, smanie e paci del sangue e della natura,
farragini di morte e rigoglio; alberi, acque, meteore…
e uomini. Colpevoli tutti, tutti dal primo all’ultimo in
attesa d’esecuzione. Finché non rimanga nessuno, né
piccoli indiani né grandi. E neanche tu, professore, che
scalpiti tanto. Come se non sapessi che i suicidi sono
solo degl’impazienti…
Estas perdiendo el tiempo
pensando, pensando
por lo que más tu quieras
hasta quando, hasta quando…

Hasta quando, Isolina? Quousque tandem, Cecilia,


Venera? Donne, donne, eterni dei, fino a quando?
Ho saputo tardi, Venera, della tua festa, il 25 luglio,
ad Acireale, per la santa che porta il tuo nome.
L’avessi saputo in tempo, sarei andato a chiedere
grazia. Dice che portano in giro un fercolo tutto
d’argento, cesellato e sbalzato, col tuo simulacro sopra,
che esaudisce i fedeli… O Santa Venera, fammi la
grazia!
Maria Venera, ohibò, non sapeva dei miei pensieri
più che non li indovinasse Isolina. Parlava con Michel,
fitto fitto, ebbi appena la consolazione di accorgermi
che l’orlo della veste, dove confinava col bianco della
pelle sotto l’ascella, le s’era imperlato d’umido, santa
Venera sudava, forse non odorava soltanto di zibetto e
pasciulì…
Lei, a quattro metri da me, vide che stavo con
Isolina, approvò col mento, come se volesse erogarmi
l’elemosina e il disprezzo d’una provvisoria libera

173
uscita. Tanto più mi convinsi che non le importava
niente di me, cercai di schivare quell’inutile dialogo
d’occhi. Mi dimenavo fra le coppie, come al solito,
goffamente, ma senza inciampi di rilievo, un
invisibile angelo guidava i miei passi. E tacevo, perso
in ulteriori querimonie sull’esistenza, su me, su come
m’ero intruso e da dove fra gli uomini, un allogeno
sulla terra, un alloglotta. Altro che il pirata all’assalto
del galeone da re che sarebbe la vita. Un povero
Uscocco, invece, un bucaniere senza ingaggio, ridotto
a cabotaggi di fortuna lungo isole senza tesori. Isolina,
lei sì ch’è un’isola, nomina numina, una isoletta del
tesoro. Ma mi toccherebbe, volendoci mettere piede,
non solo usurpare la bandiera che ci sta sopra, ma
spossessarmi altresì d’una dottrina di dolore mia,
rifarmi istantaneo e spoglio, un ragazzo. Bucato
troppo difficile per un cuore di trama vecchia. E
magari ci riuscirei, se osassi, se la fantasia mi
assistesse… Solo che ora agosto è al suo colmo, un
tuono è rimbombato poc’anzi lassù, l’hanno udito
tutti. È il gong, come dubitarne, che annunzia la fine
delle vacanze. E non solo di quelle, non solo di
quelle…
Riportai Isolina a Licausi. Le dita che mi porse per
commiato erano aride, fra le labbra non le sarebbe
passato uno spillo. Non seppi interpretare lo sguardo
che mi lanciò, mentre tornava a volteggiare con lui.
Diceva insieme una desolazione e un sollievo,
conteneva un’altera domanda d’aiuto, una mite
rimostranza, un insulto…
Rimasi solo di nuovo, contro una siepe. Pensavo e
fumavo, guardavo gli altri ballare. Finché don Alvise
mi bussò col pugno alle reni. Aveva un bisogno e non

174
sapeva dov’era la ritirata. «Comment pissez-vous?»
disse in francese tornando. «Moi je pisse très mal».

Alle quattro in punto incominciò la quadriglia. Era


da parte dei giovani una concessione tenera e ironica ai
vecchi, una risorsa per ammansire le mareggiate degli
anni. Sapevano, loro, che anche i samba e i mambo del
proprio tempo sarebbero fra poco divenuti i balli dei
vecchi, e allora? Quindi, coscienziose e sorridenti, le
coppie si misero al passo. La quadriglia è un tipo di
ballo figurato, una specie di contraddanza, che
abbisogna d’un direttore: i comandi si danno in
francese, la truppa esegue, l’orchestra soffia con
passione negli strumenti.
Presto fu chiaro che il ragioniere Ficicchia non era
all’altezza, il suo francese era ipotetico («oblàs»,
«turdumè»), i suoi scherzi di traduzione in dialetto
non entusiasmarono: «Senza fari parapigghia – l’unu
lassa e l’autru pigghia». Oppure: «Se ’a vostra
fimmina è siddiata – facitici fari ’na caminata»…
No, nessuno sorrise, né i figli né i padri, e il
parapiglia che s’intendeva scongiurare si fece. Così
grande che a me, per suggestione professionale,
venne in mente Niccolò Machiavelli al campo di
Giovanni dei Medici. Licausi mi raggiunse, dopo aver
riportato infine la ragazza al tavolo di famiglia, e
ansiosamente m’interrogava. Che ne pensavo, mi
pareva sposabile? «A domani» lo elusi. «Da
Mariccia». E fuggii, nel baccano, con la scusa che
dovevo custodire don Alvise. Ma il vecchio, chi lo
teneva più. Sin dalle prime battute dei prediletti
Lancieri, s’era levato in piedi, scotendosi dal sopore
che nell’ultima ora l’aveva restituito infante alla culla

175
della sua sedia. Stava in piedi e beveva l’aria con nari
cupide e bellicose. Non potei trattenerlo, quando sulle
labbra del ragioniere un ordine più rimbambito degli
altri imbrogliò inestricabilmente sulla pista i ballerini.
Alvise irruppe allora sul colpevole, lo scostò,
proclamandosi da sé, tanto più che aveva il bastone,
«bastoniere» della serata, e con due soli motti ridusse
sotto i santi segni gli erranti. Era salito su una
modesta pedana, donde come da un trono tuonava:
«Tournoyez», «Balancez», «Changez les dames»…
Cavalieri e dame rientrarono quindi precipitosamente
nel gioco, pedine veloci e beate, innamorate delle
geometrie che venivan creando, come se potessero
vederle da fuori e assaporarne la consumabile grazia.
Ciascun movimento periva e si rinnovava,
s’incastonava nel successivo o ne scaturiva, era libero
e schiavo, simile nei suoi ricominciamenti
all’innumerevole ricominciare del mare.
«Chacun à sa place»… Don Alvise vinse con la
sua voce il rumore della musica e dell’esercito di
scarpe sul pavimento. «Dansez»: le coppie ballarono.
«Tournoyez»: le coppie si snodarono, girarono su se
stesse e intorno alla pista. «Balancez»: si dondolarono,
ondeggiarono. «Grande scène»: si allacciarono, si
slacciarono, scivolando ciascuno con le mani lungo il
corpo dell’altro. «En avant, en arrière»: divisi in due
schiere maschi e femmine simularono l’eterno
andirivieni amoroso.
«Changez les dames»… Al comando ogni cavaliere
lasciò la sua dama e con morbida mossa avviluppò la
seguente. Ma don Alvise colse quell’attimo per
rapinare al passaggio la prima che occorse alla sua
portata e la sottrasse al legittimo damo, si tuffò nella

176
lizza lui stesso. Non resse che qualche istante, diede
subito l’ordine della Promenade che gli avrebbe
concesso respiro e si fermò anelante al centro della
pista. Maria Venera che passava vicino gli fece
coraggio con un sorriso. Aveva in testa il diadema di
fiori dell’elezione recente. Sebbene reginetta fosse
stata per burla nominata un’altra, una brutta, a Venera
era stato assegnato il premio floreale, ch’era il più
ambito, e lei portava con modestia sui bruni crini una
profusione odorosa.
Ma don Alvise non si placava. Puntò ancora le
braccia al cielo e parvero due ali di spaventacchio;
poi fece un segno all’orchestra, che accennava a voler
concludere, e il ballo ricominciò. Passi su passi si
svolsero, figure su figure, a tessere un mobile
labirinto sul terreno, con una contentezza di tutti,
frattanto, un sorriso di facce accaldate e buone, sì,
una bontà, un perdono di tutti a tutti, un’amicizia, una
fedele pietà…
«Balancez», «Balancez», «Balancez»… La voce
di don Alvise parve incantarsi, come in un disco
incrinato una nota. Il viso da cereo gli s’era fatto
color di terra, poi una porpora fosca lo invase. Non se
ne accorsero i ballerini, nemmeno quando l’orchestra
tacque di colpo, ma continuarono meccanicamente a
far passi, mentre vedevano il vecchio remare con le
braccia, cercando l’aria vuota davanti a sé, quasi
volesse aggrapparsi a una dama inesistente, e con lo
schianto d’un albero alto stramazzare.

177
XVI
Commiato da don Alvise. Visita in via Carreri. Visita
involontaria a don Nitto.

Lo sgombero di don Alvise avvenne con qualche


stento, si dovette ricorrere alla vettura più capace per
allogarvi il corpo squinternato e sbieco. Lo
accompagnammo in tre: io che con la morte sono di
casa, più i due nipoti nemici, nei quali l’emergenza
dell’accidente pareva aver sopito ogni contenzioso e
rinfocolato il patriottismo domestico. Sasà, alla guida,
mostrava a fior di labbro una commozione frenata;
Venera, viceversa, singhiozzava senza remissione,
stringeva nelle sue mani le mani del vecchio,
interrogava i suoi occhi chiusi, il filo irrilevante del
respiro fra le labbra semiaperte. Appariva spacciato, il
vecchio, e tanto più svelti, perciò, correvamo verso il
prossimo soccorso notturno. Pensai, guardando la
ragazza, quanto dovesse impressionarla l’imminente
solitudine nel palazzo vuoto, ma più ancora sospettavo
che nel suo piangere si sfogassero il rovello covato a
lungo durante le ultime settimane e la passione di
questa notte recente. Una notte che ormai avvizziva a
vista d’occhio, chiazze rosee la maculavano, si
muovevano, come se le spingesse un vento, da oriente
verso il cielo color perla della marina.
Superammo una jeep, era quella, insonne, dei
parigini a caccia di luoghi da film. Attraverso il

178
finestrino, un attimo prima che la polvere se li
mangiasse, gli occhi celesti di Michel si sbarrarono di
meraviglia, cogliendo il gruppo Madonna-Cristo, che
facevano Venera con don Alvise…
Quando fummo all’ingresso dell’ospedale, non
occorrevano più mani umane, don Alvise era morto. E
ci convenne riportarcelo a casa, al palazzo di Modica
Alta, fargli risalire l’ultima volta le vecchie scale,
tenendolo per il capo e i piedi, io e Sasà, come un
mobile rigido e lungo. Le vicine, le due figlie accorse,
gli altri nipoti se ne impadronirono, infine, scomparve
nelle sue stanze per la vestizione e la veglia di rito.
S’era fatto giorno, intanto, la luce delle lampade
elettriche, sopraffatta da quella della natura, appariva
sudicia, invereconda, la spensi. Restammo in un
livore di crepuscolo, noi tre, io in piedi e i due cugini
seduti, guardando sul muro la striscia di scialbo
mattino ordire pronostici oscuri. Io pensavo alla
morte, al mio cuore che s’ostinava a battere ancora,
testardo come un mulo, benché mi sentissi in ogni
fibra così vocato a morire. E pensavo a don Alvise,
alla massa di ricordi perduti dietro la lapide dura della
sua fronte.
Venera e Sasà Trubia se ne rimanevano zitti, l’uno
di fronte all’altra, parevano aspettare che me n’andassi.
Mi sbagliavo: quando mi mossi per uscire, Venera mi
richiamò, mi volle vicino a sé. Poi da un cassetto che
conoscevo, trasse il cencio di sangue secco, lo mise in
mano a Trubia:
«Questo v’appartiene», disse «cugino mio».

Il funerale fu di qualità, vi accorse tutta Modica.


Alvise, che la terra ti sia leggera!

179
Venera aveva voluto nella cassa il bottino di oggetti
di donna che il vecchio conservava sotto la custodia di
vetro; e gli aveva messo fra le mani, per acchiappare
sotterra le ombre col manico, il suo bastone di noce.
Puck, che gli voleva bene, seguiva al mio fianco
insieme alla serva Anita, dietro il corteo dei
consanguinei. Dove la nipote spiccava, sporgendo
dalle gramaglie un viso esangue, bellissimo; alta, in
mezzo alle due zie, e a braccetto di Sasà, con un’aria di
feroce doloroso trionfo, da far pensare che in
compagnia del cugino si avviasse a un altare. Nessuno
nella folla osò fare un commento. Lo scontro, schiaffi
e sputo compresi, di due sere prima, sarebbe stato
domani, certamente, occasione di leggenda comica fra
le mura del Circolo dei Civili, ma per intanto Venera
recitava la morte e le toccavano i battimani.
Fu in quel minuto, guardandola, mentre
conformavo il mio passo alle meste cadenze della
banda accompagnatrice, che mi accorsi di avere già
pronunziato tutte le mie battute e di ritrovarmi di
nuovo seduto con tutti gli altri nell’antico loggione di
spettatore. L’amore per Maria Venera era caduto
come una vela, mi sentivo scarcerato, sciolto da lei e
da chicchessia, seppure ne avevo veramente amata
mai una. Finora, me ne venivo convincendo, non
avevo veramente amato, ma soltanto voluto amare. E,
per giunta, scegliendo solo immagini falsificate: una
Venera Sulamita, la quale era ancora incerto se dietro
il suo sentire fantastico celasse un futile o un
orgoglioso mistero: una Cecilia Persefone, cui solo il
parlare malinconico e rado aveva concesso di serbarsi
deiforme nel mio pensiero, e di cui m’arrivavano ora
ogni giorno cartoline da posti che non erano i Campi

180
Elisi, ma appena Peschiera, Verona, Custoza, doveva
essersi messa con un piazzista lombardo-veneto o uno
studioso del Risorgimento… E questa Isolina, infine,
promessa sposa e pluripara predestinata, che già
immaginavo sbottonare e offrire a molti urlanti
gemelli un’infantile mammella. Teatro, niente di più.
Non avevo che recitato l’amore, mimato l’inevitabile
amore, nel canovaccio dell’inevitabile vita. Esposto da
solo al ludibrio dei riflettori, coi miei versi zuppi di
lacrime, i sensi in allarme, le delizie e croci del cuore.
Io prim’attore di passaggio fra tante affettuose
comparse. A cominciare da Iaccarino a Madama, ah
fedifraghi!, con pozzanghere nere sotto gli occhi e
segnacci di morsibaci sul collo; per finire con le varie
Colombine, Rosaure, Zanette, innamoranti, innamorate,
compagne d’una stagione di giro, durante la mia prima,
fatidica, assolutoria e ultima tournée nella
giovinezza…
Pochi anni dopo la guerra, pensate. Ma come
sembrava lontana un secolo, quanto sembrava remota,
la sozza guerra, la sozza morte! Rinascevamo
convalescenti al sole; più ancora: incapaci di morire,
invulnerabili nell’uno e nell’altro tallone. E tu anche,
Sicilia, isola mia, ti davi il rosso alle labbra, tornavi a
civettare con la vita di nuovo. Sotto il sole che non s’è
mai accorto di niente, non sa d’invasioni, grandini,
mafie, alleva solo imparzialmente vespe su questa
cesta di fichi e mosche su quell’ucciso, sotto un ulivo
sciancato. A Palermo si ricomincia a pregare nelle
chiese, dietro i portoni dei potenti: «Padre nostro che
sei nei cieli», «Padrino nostro che in terra stai»…
Questi, ora e domani, i paternostri della Conca
d’Oro… Ma dunque? Io che dovevo fare, io Gingolph

181
l’Abbandonato, io Guerino detto il Meschino? Io,
inetto, febbrile, pleonastico, moribondissimo io? Un
pazzariello, un pupo d’amore. Di cui si dovrebbe
parlare nei cartelloni dei Pupi: «Nel primo quadro si
contempla Gesualdo detto il Meschino, che incontra
l’orco e gli bacia le mani. L’orco Amore che se lo
mangia. Se lo mangia ma lo risputa. Come fa la balena
con Giona». E poi?… Che avete da batter le mani?
Andate al diavolo.

Bene, scendiamo d’un rigo. Anzi di due. Fatto sta


che dopo il funerale me n’andai solo soletto fra le
ombre di via Carreri, dov’era il locale più popolare di
Modica, con ragazze di prim’ordine, lavate,
profumate, professioniste. C’ero stato un paio di volte
per accompagnare Iaccarino, cliente regolare, press’a
poco abbonato; restandomene però ad aspettarlo nel
parlatorio e salvandomi con educazione dalle
insistenze di rito: «Se mi vuoi, Dolores», «Se mi vuoi,
Bologna», «Facciamo l’ultima, la sanguinosa!»…
Sapevo a memoria il desinit dell’Educazione
sentimentale e lo ripetevo spesso agli amici, per
contraddirlo: «Non abbiamo avuto tempo migliore,
dopo». No, per me non era così, e ci voleva un turgore
di vene irresistibile per indurmi a superare riluttante
quelle soglie.
Pure stavolta mi ci recai deciso, come uno va a
comprare un revolver. E con una bassa e quieta voglia,
dentro, senza nessun rimorso dei nervi.
La stanza era densa di essenze, in penombra, quasi
buia, non fosse quel limone giallo in un vaso, con la
sua campagnola furiosa luce. Lei era magra, ancora
bella, sotto le ciprie pesanti. Di Portici. «Si vede che

182
sei un signore, i cafoni scelgono le grasse» mi adulò
con un accento misto di Napoli e di tutti i Nord e Sud
del suo ventenne vagabondaggio peninsulare. Mi
ricordo uno scatto di chiusura lampo, e quella visione
d’indumento che cade, espulso da un semplice ma
tecnico movimento delle ginocchia, rapidamente. Non
potei fare a meno di vomitare, alla fine, nel lavandino,
non per nausea, era stato bello, ma per sola
sovversione meccanica in un corpo troppo scosso.
Indugiai, tuttavia, a osservare le bazzecole femminili
sullo stipo, i soprammobili sistemati con cura, a
simulazione di una duratura intimità proprietaria.
Come noi, pensai, noi qui sulla terra, nella nostra
frettolosa quindicina…
Scendendo le scale, tanto per dire qualcosa: «Siamo
stati al Settimo Cielo» feci, e indicavo le molte rampe.
Ma lei, senza metterci nessuna evidenza tragica:
«Vorrai dire all’inferno» rispose e, consegnata a Zoe,
dietro il banco, la marchetta, risalì.

In città mi colse la pioggia: gocce rade, grosse,


calde, una burrasca di passaggio. Dovetti riparare al
Caffè Bonaiuto, dove sul marmo d’un tavolo un
giornale prometteva pace in Corea e il ritorno di
Einaudi e De Gasperi dai posti di villeggiatura. L’uno
da Ponte San Martino, l’altro dalla Val Sugana.
Dovevano avere avuto fresco, lassù, svegliati di
buonora dal corriere diplomatico o come si chiama.
Senza sapere che…
Il tempo, come corrompe non solo i corpi ma gli
eventi, i come e i perché d’ogni agire umano! Bastano
poche stagioni e ogni evento si sfata, si svuota di
senso, si copre d’un luttuoso lebbroso salnitro, si

183
screpola al pari della pelle d’un muro. Né c’è
speranza che quanto accade in questo stesso
istantaneo presente abbia ad avere domani più forza
che qualunque accaduto di ieri: le stragi sacre della
Valtellina, le spallate sull’Isonzo, il diciottesimo
parallelo… Sangue, febbre e stridore di denti, ieri;
oggi, titoletti in un libro…
Il cameriere Santo approvò. Non era la prima volta
che, bevendo il caffè, lo intrattenevo coi miei uì uì e di
solito li approvava, li assumeva come cogitazioni
profonde. Regalandomi, come a un cane, una zolletta
di zucchero in più e un servizio amoroso in cambio
dell’istruzione che gli fornivo.
Stavolta però aggiunse allo zucchero un messaggio.
Di don Nitto, che m’aspettava con urgenza alla Sorda.
Michele sarebbe venuto ogni mezz’ora al caffè, per
vedere se c’ero.
Salii dunque alla villa, sebbene senza entusiasmo.
Era tempo di concludere, ormai, quella pioggia era
stata un avviso. Sarebbero tornati presto i giorni di
scuola, con frusciare di pagine, grani di polvere su e
giù dentro il medesimo raggio di pulviscolo obliquo.
E tanti grembiuli neri, occhi blu, neri, castani, sotto
fronti corrugate e bambine… Avrei riletto gli antichi
versi, le antiche sillabe belle; ricominciato coi
provenzali, coi provenzaleggianti: Ai, las! tal cuidava
saber – d’amor e tant petit en sai!… Tutto uguale,
ma con un anno in più, il cinquantuno non sarebbe
tornato più. E nemmeno Modica: un trasferimento mi
minacciava. Quand’anche, inviti e feste non mi
servivano più, la mia breve gloria mondana non
desiderava futuro, il ballo di Chiaramonte era stato
l’ultimo della mia vita. D’ora in poi avrei sempre

184
preferito una quieta infelicità a una felicità
minacciata.

Nel suo solito gazebo, quasi una Camera Regis,


don Nitto, senza alzarsi, mi porse le cinque verghe di
selce ch’erano la sua mano. Accanto a lui in piedi
l’onorevole Scillieri si contentò di presentarmi due
pendule dita, con l’aria di offrirmi l’assaggio di
un’ostia o d’un bicchiere di manna. Non erano soli,
alle due estremità d’una panca vidi sedere i due uomini
del cavaliere, che conoscevo di vista: palermitani,
venuti con lui dalla Vicaria e rimasti a popolare la villa
in società con l’autista Michele. Uno di testa
minuscola, appesa al trampolo d’un collo lungo, che
pareva tremare a ogni emissione di fiato, ma come
trema un filo d’acciaio; il secondo di faccia glabra e
scura, con brevi basette frescamente passate al rasoio.
Ed entrambi spalmavano marmellata su due mezze
forme di pane con un coltello di lama larga, di quelli
che chiamano «leccasapone». Al centro della scena su
un tavolo una risma di carta bianca, un calamaio e una
penna – una stilografica d’oro – sembravano aspettare
qualcuno. Fui certo immediatamente che aspettavano
me.
Nitto mi fece un discorso scandito e didascalico,
come in una classe degli asini. L’onorevole Scillieri
era in un grave imbarazzo: avrebbe dovuto tenere un
comizio importante fra due settimane, maturavano
cose serie, un patto nasceva fra monarchici e antichi
Uomini Qualunque, capace di rigenerare l’Italia, non
potevo tirarmi indietro. Indietro da che? Io che c’entro?
Che vogliono, questi, da me?
Guardai l’onorevole, aveva un’aria subdola e

185
stupida, occhi piccini e vicini. Io non gli avevo mai
parlato, avevo solo spiato in compagnia di Madama i
suoi commerci d’amore, dalla mia specola, fra due
graste di petrosello. Vero è che da qualche tempo
m’aveva onorato senza ragione di scappellate e
baciolemani…
Gli chiesi con lo sguardo che volesse da me, con lo
sguardo m’indicò il foglio sul tavolo, col labbro
profferì infine: «Due tre concetti, ma di sostanza. Sulla
patria, sul lavoro, la libertà. La libertà, soprattutto».
Mi volsi a don Nitto, protestai che non potevo, che
non sapevo. Parve addolorarsene sinceramente: «Se
non puoi, se non sai…». Ma aggiunse, soave e triste:
«Non avrei creduto: anche tu come tanti: mangiapane
a tradimento…». Non capivo. «Ti sei scordato
Cecilia?» disse, accarezzandosi con la mano la
minerva di gesso che gli chiudeva la gola. «Brava
ragazza. Fidata. Obbediente agli ordini di papà. Se
vuoi, le telegrafo e torna» disse, e m’insinuò con ciò
nell’orecchio una brutta pulce che non ho più saputo
sloggiare…
I due lanzafame, intanto, s’erano alzati dalla
panchetta, passeggiavano sotto gli alberi, lanciandomi
ogni tanto un’occhiata di bonaria curiosità, come
quando il macellaio studia sul banco di marmo un
taglio nuovo di manzo. Non mi parve d’aver scampo,
mi sedetti a scrivere.

Ci misi qualche malizia, l’onorevole Scillieri si


giocò la carriera, io sto scappando ancora.

186
XVII
Ultimi giorni nella città. Pranzo d’addio e ragionamenti d’amore.
Pranzo di nozze con rivelazione dubbiosa. Iaccarino al Pizzo e
pioggia finale.

Seppi da Liborio Galfo che Venera se n’era andata


da Modica. Aveva osservato i tre giorni di clausura,
accettato il «consolo», le visite di lutto e il resto. Poi se
n’era andata senza dir niente a nessuno, tranne che a
lui, con un bigliettino di tre righe. Mi sentii ferito: non
solo nell’amore ma nella confidenza, mi aveva ancora
una volta posposto a qualcuno. E dire che avrebbe
potuto farmene parola, quando ero andato a
condolermi in casa anch’io come gli altri, e Anita
m’aveva introdotto nel camerone di rappresentanza,
odoroso di mele cotogne, dove non ero mai entrato.
Dall’alto soffitto, gonfiati dall’umido, amorini e
marine lasciavano cadere ogni tanto qualche scaglia di
pittura stanca sulle mattonelle slabbrate. Qui s’era
ballato molto un secolo addietro, perfino una loggetta
c’era, per gli orchestrali del tempo, una sorta di golfo
mistico di paese, mutato ora in altana e deposito di
provviste. Su seggioloni pericolanti tre o quattro
consolatrici anonime sedevano; e lei in mezzo,
compunta, una dolente esemplare. Fra i visitatori che
sopravvennero a darmi il cambio, mi colpì la presenza
inspiegabile del cineasta Michel. L’avevo già notato,
durante il funerale, su una terrazza del «Salone»,
intento a scattare fotografie, ma non mi capacitavo a

187
che titolo fosse venuto qui, lui straniero, sconosciuto.
Capii più tardi, quando Galfo mi rivelò che Venera era
partita con lui. Non per un colpo di testa, una fuga
seconda, che credevo?, ma pianamente, con tanto di
contratto firmato a garanzia d’una particina nel film
che si preparava. Galfo parlava con convinzione,
sembrava soddisfatto. «Si vede che il suo destino era
questo» disse. «Meglio anche per me, non ero il marito
giusto. Fortuna che siete arrivati voi, quella notte!».
Che potevo dire? Avevo sull’argomento un’idea
che non dissi, anche se per scrupolo cercai mesi dopo
in un cinema il nome di Maria Venera fra le comparse
di Carrozza d’oro. Senza trovarlo, beninteso, ero
sicuro di non trovarlo.
A Galfo non obiettai nulla, dunque. Anzi, poiché
s’era venuto affezionando a me, non fosse che per
parlarmi della ragazza, di cui restava candidamente
patito, lo invitai una domenica a pranzo. Licausi da
qualche tempo mangiava in casa dei futuri suoceri e ne
sentivamo la mancanza, io e Iacca, ridotti a far
terziglio col pesce. Tanto più che a me piaceva ora
temporeggiare a tavola, per la siesta, e addirittura
sedermici in anticipo, prima assai che Mariccia fosse
pronta con le portate. Sono frequenti queste rivalse di
gola e pigrizia, quando non si può altro, e a me piaceva,
ora che il cuore mi s’era ammutinato nel petto,
starmene così sedentario, servito a tavola come un
papa, senza più tremori né lacrime al vento, lasciando
al filosofo, che ne profittava, il monopolio della
conversazione. Mancava solo un terzo uomo alla
nostra contentezza, e Galfo faceva al caso, col suo
umor tenero, le perpetue meraviglie.
Quella domenica, peraltro, il mio invito fu a un

188
banchetto di commiato. Sarei dovuto partire, la notizia
era apparsa, nero su bianco, sulla Gazzetta Ufficiale, e
il preside s’era affrettato a comunicarmela, non so se
più triste o più contento di sbarazzarsi d’un simile
acchiappanuvole…
Salute a Modica, dunque! E al lembo d’isola ionica
che la contiene, signorile e rusticano. Ai portoni delle
sue chiese, dove maree di scale s’avventano. Al tepore
dei suoi cortili, ai suoi carrubi affettuosi. Ai suoi muri
di sasso, lampanti come verbi di Dio. Al suo dialetto
pacifico. Alle sue feste, ai suoi lutti, al suo frumento, al
suo miele…
Salute agli amici, infine, com’è d’uso, intorno a
una mensa rotonda…

Per l’occasione Mariccia si fece in quattro, benché


senza troppa fortuna. Il riso col nero di seppia avrebbe
forse richiesto un minuto in più d’attenzione. Senza
parlare del mediocre caffè. Ciò valse a scatenare
Iaccarino, il quale, come tutti i Socrati, preferiva a un
cattivo caffè una tazza di sostanziosa cicuta; e che
inoltre, di dover mangiare male, se l’era perfino
sognato, lui sognava sempre in anticipo le evenienze
della giornata.
Galfo si associò, la stessa cosa capitava anche a lui.
Non poteva dire di peggio per indignare il mio amico
che non tollerava di dividere nessun privilegio; al punto
che si spinse a tacciare di vanteria le premonizioni
dell’altro: scarabocchi e larve del dormiveglia,
immondizie della coscienza. «Per me è diverso»
sostenne. «Io sono un mezzo fattucchiere, ce l’ho nel
sangue. Mio nonno andava sull’Etna a cogliere l’erba
mandragora». E via di seguito, le solite stravaganze.

189
Ci eravamo alzati, finalmente, ci avviammo verso il
«Salone». Ma giunti sotto il Monumento ai Caduti, il
discorso cadde su Venera, sul personaggio di Venera, e
Iacca le dedicò qualche eccesso di linguaggio, che la
faccia di bronzo del Milite Ignoto accolse senza fiatare.
Altrettanto io, per amor di pace; non così Galfo, per
mite che fosse. Alle cui proteste: «Venera» spiegò
Iaccarino «è una parossistica, come tanti siciliani sono.
Noi amiamo fabbricarci valori e onorarli al posto di
Dio. Valori e controvalori. Quando un valore ci fa
cilecca, ci buttiamo su quello contrario, ne facciamo
idolo e merce. Così in ogni coppia d’estremi il mezzo
non ci sta bene, ci piacciono l’uno e l’altro: la
devozione e il rancore, la fede e il sospetto, la
chiacchiera e l’omertà, la norma e lo scandalo, l’onore
e il disonore. Sì, il disonore. E Venera lo ha scelto per
superbia, per protervia, con entusiasmo. Volendo
vendicarsi d’essere povera e incapace d’amare. Poiché
di questo non dubito: che non ha amato nemmeno
Trubia…».
Galfo non aveva la lingua facile nel contraddire,
s’era diplomato a fatica e faceva vita di proprietario.
Tuttavia sentiva che gli argomenti dell’altro
difettavano in qualche punto, e soffiava come un gatto.
Intervenni io a placarlo, volsi il discorso sul
sentimento d’amore. Me n’ero fatta un’idea in quei
mesi, e mi piaceva parlarne, sebbene fossi convinto
che ciascuno, nel farsi un’idea dell’amore, si lasci
persuadere dal suo sperimentare privato, sì da
scambiare per legge dell’universo qualche regola
singolare che abbia guidato i suoi passi; diversa da
quella degli altri come un naso è diverso da un naso.
Ora, per quello che a me era accaduto, l’amore mi

190
sembrava un sentimento trasversale, che intersecasse
obliquamente ogni strada regia nel cuore dell’uomo.
Mai, contro ogni apparenza, un corso principale, ma
sempre una via traversa che taglia il cuore dell’uomo
come una sciabola sghemba, aprendosi un varco fra
sensi, nervi, immaginazione, fino al traguardo ch’è la
costruzione d’una vanità e d’una maschera. Un
sentimento storto, basato sul malinteso, sugli scambi di
persona, e vicino quindi alle ipocrisie e alle truffe degli
attori e dei poeti. Sicché, tornando a Venera e cercando
di giudicarla senza passione, il mio giudizio era che
non fosse la furibonda che diceva Iaccarino, ma una
macchinetta di umori improvvisi, curiosamente cuciti a
una cupidigia di frode. Un giudizio forse di parte,
come ho detto, applicabile anche a me, soprattutto a
me, al mio divagare in bilico fra sensi di codardia e
vocazione teatrale, destinato a soffrire ogni amore
come una primadonna soffre i fischi e gli applausi.
Questo confusamente dissi a Iaccarino che con
saccenteria predicò a sua volta: «L’amore è quello che
dici, e altro ancora. Un po’ guerra di sterminio, un po’
alleanza di vittime e di aguzzini. Consistendo il suo
culmine nell’invasione dell’altro, nel travaso di sé
nell’altro, per quei tre secondi che dura, l’amore
somiglia veramente all’eucaristia, è uguale pietosa
empietà…».
Galfo voleva dire la sua, Iaccarino lo zittì, fu
d’accordo con me che dovessimo riparlarne, scrivere a
quattro mani un galateo dell’amore, una deontologia
dell’amore, convenimmo che l’amore fa soffrire
perché non possiede un codice di leggi riconosciute,
come al tempo di Andrea Cappellano.
A questo punto non ci fu ragione plausibile per

191
ritardare la nostra quotidiana sfida al biliardo, sotto
l’occhio del cameriere Santo, pace all’anima sua.

Fu ancora Iaccarino a tenere banco, mesi dopo,


durante il pranzo di nozze di Licausi e Isolina. Cadde
sotto Natale e io giunsi da un’altra città, col
doppiopetto grigiofumo nella valigia di finta pelle e il
regalo d’un piattino d’argento in un pacchetto a mano,
legato coi fiocchi. Prima del rito a San Giorgio salii da
Madama a salutarla e a chiedere un’ospitalità di
mezz’ora per cambiarmi. Lei non c’era, e nemmeno
Iaccarino, ch’era rimasto il solo inquilino. Mi aprì una
ragazza alta, con gli occhiali, dai capelli neri a bande,
dal pallore di suora, con Quo Vadis? in braccio, il
quale non sembrò riconoscermi.
Mi presentai, seria si presentò. Era la figlia di
Madama, tornata dal collegio, e occupava la mia stanza di
un tempo. Di nome si chiamava Luisa. Lo sguardo che
mi buttò era famelico e tranquillo, la sua mano rimase
nella mia un secondo di più, morbida, dura, lusinghiera.
Ne riparleremo, mi dissi, e con la valigia mi chiusi nel
bagno a cambiarmi. Poi, sopraggiunto il mio amico, che
ritrovai sempre più fosco e infelice e parabolano, in abito
di testimoni affrontammo la cerimonia.
Ho qui dinanzi, dopo trent’anni, il menu del pranzo
in casa della sposa, su cartoncino Caran d’Ache, e i
versi scritti da Iacca per l’occasione, copiati in verità
da un epitalamio del diciottesimo secolo, di castigato
tenore. Mentre altri ritrovo, su un insolito papiro,
sboccati, che il filosofo mi regalò, dopo esser tornato
dal bagno dove li aveva improvvisati a matita e
avermeli snocciolati all’orecchio, fra un cibo e l’altro,
mentre io guardavo Isolina:

192
Molle rotolo, serica velina,
che assisti la toletta d’Isolina,
quando, emersa dagli antri aurei del sogno,
si concede all’igienico bisogno…

Isolina: nella foto di gruppo di quella giornata che


conservo nella memoria, lei sola appare sfocata. Come
se la memoria l’avesse censurata apposta, messa in
castigo, circondata d’un cordone di sanità. Forse coi
minuti la memoria procede come il corpo davanti alle
invasioni dei microbi. Appena l’infezione avvenga,
saltano subito al contrattacco milioni, miliardi di
globuli amici e fanno ressa attorno al punto cruciale, lo
isolano, lo sommergono, ispessiscono i tessuti fino a
fargli attorno una crosta di calcare invincibile. Devo
aver letto di polmoni dove, incapsulato, un focolaio
resiste, muore, rinasce, praticamente eterno e
praticamente impotente, dentro la muraglia cinese che
lo costringe. Così per i ricordi, dico. Una forza di
difesa isola i più micidiali e li lascia disarmati a
dormire dentro di noi. Inattivi ma vivi. Immortali ma
inerti. Isolina è così nel mio pensiero una veste senza
viso, una voce senza suono, fra scintillii di bottiglie e
acciottolii di posate sul desco, mentre Iaccarino, col
suo foglietto canagliesco in mano, prima adagio al mio
orecchio sinistro, poi più forte a tutti, recita senza
pudore, opponendo alle mie proteste la scusa che,
anche nei più gloriosi trionfi, qualcuno bisogna che
ricordi al console la mortalità della carne:
… perch’io non spero di odorar giammai
l’ambrosia di quei floridi rosai,
siimi tu galante messaggera
nel segreto ricetto dell’altera…

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Isolina, Isolina… E quando, già alticcio anch’io,
mi diedi con Iaccarino a brindiseggiare e lui insisteva
in quei suoi couplets senza scandalizzare nessuno,
tanto poco trapelava il senso fecale sotto la veletta di
parole rare che si perdevano nel baccano universale:
Quivi vedrai con voluttuoso gelo
le dive membra sciogliersi dal velo,
e al candido alabastro i negri ricci
contrapposti in amabili bisticci.
Che s’ella poi, com’ape che s’infiora
colà dove il suo miele s’insapora,
dedichi ai baci teneri del vaso
le prominenze sue di roseo raso,
cantate, flauti, e osannate, tube,
l’onda sommossa dall’etereo pube…

finché il novello sposo che conosceva il suo pollo e


origliava da lontano non venne a puntargli ferocemente
le dita negli occhi…
E quando lo speziale Fratantonio volle ballare con
la spezialessa la mazurca di Migliavacca e fecero
entrambi patapunfete in mezzo alla sala e il fotografo
Santo Spagnuolo li fulminò con la sua sparaluce e tutti
gridavano «Viva i suoceri, viva gli sposi», salvo io,
salvo io…
E quando chiesi di Venera e tutti risposero
«Mah»… E quando don Nitto che sedeva a capotavola,
e si ventilava con un ventaglio, venne l’autista a
chiamarlo e lui se ne andò con un viso
improvvisamente di cera, e non tornò più, e qualcuno
dalla finestra disse che lo aveva visto alla porta fra due
carabinieri, in vincoli come san Pietro…
E quando ci mandarono via, alla spicciolata, con
una bomboniera in mano, e sulla soglia c’erano i due

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sposi che salutavano e «Un bacio alla sposa» gridava
ogni volta il canonico padre Ciulla, e Licausi mi spinse
fra le braccia di lei, e Isolina si sporse, accostò ai miei
occhi le sue larghe attonite pupille blu, e alle mie le
sue labbra odorose di torta, e mi baciò goffamente,
sussurrando in un soffio, o mi parve: «Angelo,
Arcangelo mio»…

Come finisce? Finisce che più tardi, ch’era quasi


notte, salimmo in auto, io e Iaccarino, sulla spianata
del Pizzo. Modica stava sotto di noi, abbaini e luci, un
formicaio di formichine lontane. Non pioveva ancora,
ma il vetro del cielo s’era come affumicato, una
malanotte si preparava. Perfino a Licausi, suppongo.
Noi, senza cappello, esaltati dal vino, guardavamo
la valle, le minuscole case, laggiù, i minuscoli uomini,
ognuno con la sua pace, la sua guerra, il borbottare
del sangue entro le arterie ad ogni istante più dure…
Che succede laggiù in questo momento? Sasà
Trubia ha mangiato troppo, inghiotte calomelano e si
lamenta debolmente col capo sul seno della signora
Virgadauro in Trubia; Mariccia rilegge sillabando La
portatrice di pane e non sa che nel grembo un fibroma
le sta fiorendo come un pargolo intempestivo o un
fiore di zucca barucca; Anita, come ogni sera,
s’affaccia a guardare la stanza deserta di Venera; il
vigile Miciacio, detto Cantalanotti, trascorre di porta
in porta, fermandosi a insinuare fra i due battenti una
cartuccella piegata a testimonianza della sua ronda
fedele; Enza Aloini batte a macchina con un dito la sua
tesi sul Ricciardetto; Peppino Papaleo, mentre affronta
l’ultimo piano di scale, pensa che questo dolorino nel
petto, nel posto del cuore, questa cimice che morde,

195
via, non sarà nulla, è solamente nervoso; Isolina e
Licausi…
Tutti, eccoli tutti laggiù, occupatissimi a vivere in
un deperibile Qui, in un effimero Ora, in un inesistito
dicembre del cinquantuno, fiduciosi che ne valga la
pena, che vivere significhi qualche cosa… Mentre io…
piagnucoloso al solito, uì uì, sbronzo per giunta, quasi
quanto Iaccarino… Al quale vorrei rinfacciare di aver
millantato per sua quella lettera anonima; quando
invece… Isolina, Isolina, tu dunque m’amavi? Ero io
l’Arcangelo tuo? Oppure, ancora una volta, è
solamente uno scherzo? E, dopotutto, che importa?
m’importa?
Questo volevo dire al filosofo e cominciai a
dirglielo, da sbronzo a sbronzo, è allora che si è più
seri. Mi guardava con occhi irati e furfanti, chissà
come si sarebbe difeso, ma in quel tanto le campane
scoppiarono sopra e sotto di noi, le cento, mille
campane di Modica, che cento, mille campanari
suonavano, un pandemonio a martello, l’annunzio
specifico della fine del mondo.
Allora, incredibilmente, fra le prime strisce di
pioggia vedemmo uccelli dai tetti scappare, le statue
scesero dalle nicchie, si misero a camminare. E un
rombo pareva inseguirle, che partiva da quassù, da noi
due, e si spandeva, si spandeva, come s’allargano i
cerchi d’un mulinello, fino agli estremi confini della
contea, a Frigintini, a Mussomeli, a Scornavacche, a
Pozzallo, in mare lo udirono le paranze, sul ponte
dell’Irminio un carrettiere si fermò sotto una nuvola
scura: Ahimè, la tempesta è vicina, Signore, che sarà di
me?
Quando tornò il silenzio vidi Iaccarino in ginocchio,

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finiva sempre in ginocchio, quando aveva bevuto
troppo. Né avrebbe avuto tanta umiltà, diceva, senza
l’aiuto del vino. La pioggia cadeva a dirotto, ora, e lui
stava in ginocchio, ingobbita animula spaventata,
infilata nelle sue membra come nel pastrano d’un altro,
e mi volgeva le spalle, lo vedevo stampare sul fondo
corrusco del cielo, una sagoma di Giobbe, di
lamentoso Mosè, che in ginocchio arringasse Dio.
«Andiamocene» gli dissi, in piedi dietro di lui,
proteggendolo con l’ombrello di Madama, che per
previdenza m’ero portato. Non mi rispose, parlava con
Dio, ora, e a me pareva di assistere a un battibecco di
civitoti in pretura, lo udivo che supplicava,
sacramentava, suonava verso i quattro canti del cielo il
suo debole corno di postiglione:
«Ehi tu, t’ho visto, non fare il furbo, non fingere di
non esistere! Dio, esisti, ti prego! Esisti, te lo ordino!».
Nessuno gli rispose, a meno che non fosse risposta
il telegrafo Morse della pioggia sul tetto della vettura.
Dovetti portarlo via con la forza.

197
XVII bis
Exit.

Lettore, estate, diciamoci addio. C’era una volta


un ragazzo che credeva d’essere un vecchio, ora le
parti si sono scambiate, il vecchio s’è finto ragazzo e
per ingannare meglio se stesso ha velato con un
panno tutti gli specchi di casa. Sono espedienti leciti,
se non necessari. Io ho scritto a scopo geriatrico,
dopotutto, la mia mozione d’affetti non era rivolta ad
altri che a me. Ma vorrà dire qualcosa se quelle
antiche giornate piovono ancora nella memoria una
bionda polvere d’oro. Mi sembra certe volte
d’invecchiare incatenato alla mia memoria, come
invecchiano nelle caverne i draghi custodi accanto al
tesoro. Senza che mai sopraggiunga da fuori un solo
paladino a sfidarli. Poveri, rugosi draghi, dal corpo a
scaglie come stipiti d’ulivo, incarcerati nel buio, in
attesa che una durlindana gli luccichi innanzi e paghi
la loro pazienza! Mentre gli anni passano e una
ruggine verde cresce sulle borchie dei forzieri, e uno
stillicidio dal tetto di roccia misura a lunghi intervalli
il tempo e il silenzio.
Io ho un punto, qui sulla fronte, di un miliardesimo
di millimetro, dove dormiva con altre sessanta estati
quell’estate, e dove ora tornerà a dormire. Insieme ai
suoi labari di finta gloria; alle sue esultanze abortite di

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nuvole e fiori; alle sue salme medicate d’aromi,
bendate come giovani faraoni. Lazzari indocili, tutti,
giovani e vecchi, compreso Alvise che non si stanca di
redarguirmi, indifferente all’evidenza d’essere stato
sepolto a pagina 179: «Sei tu padrone e domino»
insiste, e minimizza le mie ragioni. «Che ti costa? Ci
vuole niente a risuscitarmi». Come potrei rispondere
no a una così fondata querela? «Inventiamoci un
passato» proposi a Non-so-come-si-chiama quella
notte di ferragosto. «Inventiamoci un futuro» propose.
È possibile rinnegare qualcuno nell’atto stesso di
amarlo? Qualche santo l’ha fatto, prima che il gallo
cantasse… Ma io?
«Un ingranaggio che sia vece di vita» dicevo.
Eccolo qui: non funziona. Eppure…

Per qualche mese ha funzionato. In fondo era come


se ripetessi a mio pro’ il famoso sotterfugio di
Shéhérazade: raccontare per non morire. E per un po’
ha funzionato. Dormivo cinque ore di fila, un miracolo.
E sognavo sogni gremiti di voli, a fiore di spume rosa
dove nuotavo con lievi e lente bracciate. Donne,
camminando sulle acque, mi venivano incontro
sorridendo. Avevo amici, infine, e sudditi, e complici:
una patria. Ogni personaggio che inventassi o copiassi
dalla mia mente mi mandava sul volto un alito caldo,
umido, come di parvola bestia che nasce; poi mi si
sedeva al capezzale, mi consolava, lo consolavo.
Ricominciai perfino a parlare da solo, ch’è la mia
massima felicità.
M’ero organizzato con la pignola previdenza d’un
turista, d’uno stratega, d’un seduttore, d’un assassino.
Disegnando, prima di tutto, per le mie supposizioni,

199
una città reale di nome e di sito, dove però dalle due
decumane in croce vicoli ciechi si dipartissero, culi di
sacco, passi perduti. Popolandola poi di presenze, un
catasto ambulante: con foto segnaletiche di ciascuno,
inventari di passato e presente, oroscopi, pròtesi
dentarie, colore delle cravatte, vezzi comici del
linguaggio…
Per l’intreccio una rubrica a parte. E veniva su
bene, una storiella balocco, con altrettanta coda che
capo, naturale e sforzata come la vita. Mille graziose
mine sepolte avrebbero assicurato la festa: trappole
per topi, paretai per allodole, ami per pesci-pagliacci.
Che devo dirti? Una rara salsapariglia, ottenuta
mischiando vaudeville con grand-opéra, canto scat
con belcanto. Secondo le mie forze di polso e risorse
d’umore, ma prendendo specialmente a modello
l’oprante del Teatro dei Pupi. Tutto ciò in un tempo
storicamente succulento, ma non più certo d’una
visione. Con maschere intercambiabili, ciascuna delle
quali fosse tanto sfacciata quanto sfuggente: come i
corpi nudi alle Folies Bergères nelle intermittenze dei
riflettori. Una scrittura con falsetti, maniere, rugiade,
citazioni occulte, goliarderie; ma non senza note
sfogate, abbandoni, magari lacrime. Qualcosa che
somigliasse alla mia stessa condizione di ora, di me
sicofante e baro, di me bibliotecario del nulla,
guardiano a spasso d’una incenerita Alessandria;
supino qui, stanotte, a sessant’anni, ragionevole età
per morire, non altrettanto per scrivere, in una
matrimoniale d’albergo, dove aspetto l’alba
sommando, come monete d’avaro, parole, con una
penna esausta, sul rovescio bianchissimo d’una pianta
di città. Parole, e dovrei dire paralipomeni del mio

200
disastro, spurghi e fecce della memoria, ambascerie
che portano pena e che domani l’inquisitore ascolterà
con un orecchio murato di cerume e l’altro di cera.
Parole, sì. E me n’ero costruito un glossario, quasi i
ruoli d’un esercito: depravate, timide, tracotanti,
dolorose; tutte ugualmente disciplinate fino alla
nausea. In un luogo, non sto ora a dirti la pagina, ho
combattuto alla loro testa in una variante della
battaglia di Zama: dopo averle scelte in anticipo,
metà a caso metà per calcolo; e averle disposte a
quadrato, a testuggine; e averle stancate in evoluzioni
da Grande Manovra. Manipolando i fatti a servizio
d’esse, da esse facendo sprigionare i fatti. Tanto poco
importano i fatti. Così, per la conclusione, non avevo
già pronto un dossier di verbi, avverbi, deverbali,
proverbi? Te ne offro, lettore, un estratto, tanto per
ridere, chissà che non possa servirti: cartastraccia,
disturbo, ex aequo, fiducia, lunario, peluria, persiana,
piccione, placca, puntura, raggiro, rappezzare, ratifica,
ravviare, rimembranza, riottoso, salasso,
scacciapensieri, scalfittura, scandaglio, scorpione,
sezione aurea, sibilo, sgargiante, sleale, snebbiato,
sottana, sperperare, spiccio, spurio, staffato,
stanghetta, stenografa, strige, sudare, svernare,
tappezzeria, tarlatana, tetano, thermos, tosone,
tradotta, Tucca, Vario, Via crucis, virgolette…

Lo scopo era di scaricare su me, controfigura e


cascatore di me stesso, i debiti di me narrante e
liberarmene giocando. E per un po’ ha funzionato. Un
giorno che m’ero divertito, nel pensiero, te, voi, a
travestirvi da plauditores m’addormentai col capo sul
tavolo, non mi succedeva da quand’ero bambino. Oh sì,

201
scrivere è stato un’innocenza e una tana, un trono
dentro una tana, non mi dirò grazie abbastanza per aver
avuto il coraggio di farlo.
Finché non s’infiltrarono talune figure bizzarre:
come i nostri musi quando si schiacciano
nell’anamorfosi di uno specchio. E parlavano per la
mia bocca, ma dicevano le parole d’un altro: d’un
nemico, d’un buffone nano, d’un menante stridulo,
acido. Ne troverai le bave dappertutto, non ho
nemmeno provato a lavarle.
Dietro di lui l’invasione. E se devo confessare tutto,
non senza colpa da parte mia. Poiché io stesso, io che
dico «io», Ego scriptor, Ego scriba, Ego es, Ego ego,
ho allevato dentro di me una turba di traditori, che
complottavano contro di me, che, appena mi giravo,
già con la chiave in mano aprivano la porta al cavallo.
Per dirla chiara, un mattino trovai nere a metà le
pagine d’un capitolo nuovo (scritto quando? nel
dormiveglia? e da chi se non da lui, da loro?) dove
all’eroe s’adombrava un esito doloroso. Peggio:
micidiale e volontario. Né mancava l’epitaffio nobile,
desunto da una raccolta di Pietro Giordani…
L’alternativa fu, ovviamente, di bruciare il foglio e
lo feci. Del resto sin da ragazzo m’aveva tentato l’idea
d’un libro tutto bianco, da intitolare Omissis, firmato
Enne Enne. E a chi mi burlava di presunzione e
mallarmeismo, ribattevo che no, non vagheggiavo il
Nulla ne varietur, l’Immacolata Concezione spiegata
al popolo; no, era un modo, il mio, di lamentarmi
senza suono, di alzare un dito in silenzio per dire che la
vita mi doleva ma che non avevo la forza di
prendermela con nessuno. Seppure non fosse una
chiamata di soccorso, una resa non patteggiata…

202
Come quando vediamo l’ambulanza a sirene spiegate e
dal finestrino una mano chiede strada pietosamente;
oppure da una trincea s’affaccia un fucile, e, legato alla
canna, c’è il bianco d’un fazzoletto.
Bruciai quel foglio, dunque. Ma non gli altri, le
precedenti cere Grévin della mia vetrina. Benché
aspirassi da tanto alla cremazione senza residui,
pulita come pulisce la morte; benché credessi che sia
la morte, appunto, il ragioniere e revisore supremo, a
cui spetta di mettere in pari le incontinenze del
destino e gli sparigli delle sue giocate. Non c’è
malleveria che valga la sua, per mettere pace fra me e
te, lettore, fra noi due soli, gli unhappy few, i due soli
me e te…

Cos’è avvenuto non so, ma non giocai questa fiche.


Accampato nel mio manoscritto come sotto una tenda
bucata; glaciato da innumerevoli addiacci;
betabloccato dai farmaci come un’auto dal freno a
mano; inetto a espellere, salvo che col forcone, gli
erotikà, gli iupnotikà patémata, mi diedi, in odio a me
stesso, a riscrivere ogni pagina dieci volte, cento volte,
sforzandomi ogni volta di farcirla di più, io che ho
cenato stasera con un bicchiere di latte. C’era una
ragione se cercavo di emulare con le parole la coda
d’un occhiuto pavone e le sue vanità nell’aria, e quale
se non il bisogno di accendere coi bengala le fiumane
della tenebra, quel nero cruore ch’empie le fosse di
Stige e su cui, senza berlo, mi sono chinato; quel bigio
di lave dove, se ho perduto il mio sandalo, è stato solo
per tornare alla luce, io Empedocle timido, ridicola
Cenerentola…

203
Ricapitoliamo. Una sessantina d’anni, una
settantina di chili, la vecchiezza dietro la porta;
biancheria che odora di creolina. Stasera, in più, di Eau
de Rochas e di sperma. Nel portafoglio la carta di
credito, la carta d’identità, la prenotazione 0034/B sul
treno dell’Etna. A sinistra, sul materasso, un incavo
ancora tiepido, è poco che se n’è andata. A destra, su
uno sgabello, i pacchetti degli acquisti: un dopobarba,
Christ lag con Fischer-Dieskau, il tubetto di Gardenal,
me l’hanno dato senza ricetta. Mi guardo, mi palpo il
corpo, mi origlio. Polso lento, senile (massima e
minima, ieri, spiando con la coda dell’occhio il
mercurio, minacciosamente vicine); cartilagini di
nottola esangue; una carie, là in alto, che pulsa in
sincrono con la grossa pompa del cuore. Mi osservo le
mani: sul dorso di ciascuna due tre macchie brune,
grandi quanto un cece, che l’altro giorno non c’erano.
Dentro l’orecchio un fruscìo di pioggia che non cessa
mai, scalpiccìo di minuscole zampe, orda di termiti che
innalza – con pazienza, con indifferenza – l’edifizio
della mia morte. Provo a spegnere la luce. Puntini
senza numero mi ballano davanti nel buio. L’altro, l’al
di là da me? Quale alfabeto da cieco a cieco, quante
rune da interpretare! Mi dicessero il mio nome,
m’insegnassero chi sono, che vuol dire questa
chiocciola di tempo e luogo che abito e non riesco a
censire coi miei goniometri falsi. Io e il mio fascio
d’arterie dure, i denti in rovina, le chiazze di fungo sul
collo, le varici, la mente che non ha più smanie né
forza… E soprattutto, giorno e notte, quel dolore,
quella volpe qui, dove premo la mano.
Questo è ora, guardatelo, il ragazzo di cento pagine
fa.

204
E tuttavia il regalo era un altro, che avrei voluto
dagli anni: dopo tanto soffrire fioco una settimana di
strazio sublime, un’altezza da cui cadere. E che
m’accompagnasse la Missa in angustiis per il Delfino
morente, non questo piagnisteo di poveruomo buttato
fuori dai bar. Invece mi toccarono solo iliadi da un
soldo, tutta una piazza d’armi irrisoria, dove stasera
contendo, recidivo e stroppio guerriero, a un falso dio
vestito da nuvola il possesso d’un cadavere.
Le parole, dici… Non sono bastate, non bastano.
Se ogni terrore, il più vero, il più nero, mi prolifica
sotto la penna in anguille di vocalizzi, in infami
trinità di aggettivi; se ogni tozzo di cuore, ogni
brandello di viscere mi si traduce, venendo alla luce,
in uno strepito di Coribante. Ahi ahi, lettore mio,
solitario archiatra e uditore, eppure tu l’avevi
indovinato sin dal principio, mio sosia e fedele caino
a cui imploro da queste grinze di cartapecora! Perché
non confessartelo, dunque? Scrivere è stato per me
solamente un simulacro del vivere, una pròtesi del
vivere. E ogni tropo ripeteva, ripete un tafferuglio di
mercenari, un vizio da consumare nel segreto d’un
gabinetto.
Menzogna, gogna, vergogna… Eccoti, lettore, la
mia testa sopra una picca. Pourtant j’avais quelque
chose là-dedans…

205
XVII ter
Preghiera, dietro le quinte.

Tu, poca, misteriosa vita, che posso dire di te? Se


m’hai sempre esibito quest’aria di bambolina truccata;
se non hai fatto mai nulla per persuadermi d’essere
vera… Odiabile, amabile vita! Crudele, misericordiosa.
Che cammini, cammini. E sei ora fra le mie mani: una
spada, un’arancia, una rosa. Ci sei, non ci sei più: una
nube, un vento, un profumo…
Vita, più il tuo fuoco langue più l’amo. Gocciola di
miele, non cadere. Minuto d’oro, non te ne andare.

206
Indice
Argo il cieco ovvero I sogni della memoria
O Locandina delle intenzioni. Capitolo zero 11
I L’autore, per rallegrarsi la mente, ripensa antiche
letizie e pene d’amor perdute in un paese che non
c’è più 13
II Litania delle belle notti. E come fu che si giunse
a quell’estate attraverso varie stagioni e varie
corrugazioni del sentimento 23
III Fuga della ragazza e commedione del
ritrovamento 33
III bis Primo dubbio dell’autore sul libro che sta
scrivendo 43
IV Amor mentale dell’avventura. ‘Impromptu’
di Iaccarino filosofo e rapporto sulla prima
visita a Venera 45
V Segue duetto con Venera. L’ambasciatore che
porta pena. Indiscrezioni su casa Trubia. Da
Venera, ancora: ‘Partenìa, partenìa’… 56
VI Spionaggi da un alto balcone. Lettera all’Angelo
Arcangelo. Galfo padrino di sé medesimo.
Cicalata sulle lettere anonime 67
VI bis Ritratto dell’artista come giovane zufolo 80
VII I Circoli del Far Sud. Pomeriggio e serata
con Sasà Trubia 85
VIII Parole sulla felicità. Presentazione di don
Nitto. Partita di carte al Circolo dei Civili 95
VIII bis Provvisorio benessere e variazioni su un
vecchio tema
104
IX Epifania di Cecilia. Mariccia barbiera. Varie
proposte di matrimonio a uno scapolo 108
X Gita a Donnalucata. Pesca con lampade e notte
amorosa 117
XI Ozi cittadini e marini. Sensi materni di
un’infanticida. Partenza di Cecilia e mischia
notturna Iacca-Madama 126
XI bis Intermezzo di risa e sbadigli 135
XII Luglio e i suoi svaghi. Passeggiata nella cava
antica 137
XII bis Ennesimo ‘a parte’ dell’autore, incerto
fra arsi e tesi, dritto e rovescio 146
XIII Il gran ballo, dalle dieci all’una di notte 149
XIV Il gran ballo, dall’una alle tre 159
XV Conclusione del ballo e quadriglia funebre 169
XVI Commiato da don Alvise. Visita in via Carreri.
Visita involontaria a don Nitto 178
XVII Ultimi giorni nella città. Pranzo d’addio e
ragionamenti d’amore. Pranzo di nozze con
rivelazione dubbiosa. Iaccarino al Pizzo e
pioggia finale 187
XVII bis Exit 198
XVII ter Preghiera, dietro le quinte 206
Stampato presso la Tipografia Luxograph
Palermo, dicembre 1984
La memoria

0 1 Leonardo Sciascia. Dalle parti degli infedeli


002 Robert L. Stevenson. Il diamante del Rajà
003 Lidia Storoni Mazzolani. Il ragionamento del principe di Bi-
scari a Madama N.N.
004 Anatole France. Il procuratore della Giudea
005 Voltaire. Memorie
006 Ivàn Turghèniev. Lo spadaccino
007 Il romanzo della volpe
008 Alberto Moravia. Cosma e i briganti
009 Napoleone Bonaparte. Clisson ed Eugénie
010 Leonardo Sciascia. Atti relativi alla morte di Raymond Roussel
011 Daniel Defoe. La vera storia di Jonathan Wild
012 Joseph S. Le Fanu. Carmilla
013 Héctor Bianciotti. La ricerca del giardino
014 Le avventure di Giuseppe Pignata fuggito dalle carceri del-
l’Inquisizione di Roma
015 Edmondo De Amicis. Il “Re delle bambole”
016 John M. Synge. Le isole Aran
017 Jean Giraudoux. Susanna e il Pacifico
018 Augusto Monterroso. La pecora nera e altre favole
019 André Gide. Il viaggio d’Urien
020 Madame de La Fayette. L’amor geloso
021 Rex Stout. Due rampe per l’abisso
022 Fiòdor Dostojevskij. Il villaggio di Stepàncikovo
023 Gesualdo Bufalino. Diceria dell’untore
024 Laurence Sterne. Per Eliza
025 Wolfgang Goethe. Incomincia la novella storia
026 Arrigo Boito. Il pugno chiuso
027 Alessandro Manzoni. Storia della Colonna Infame
028 Max Aub. Delitti esemplari
029 Irene Brin. Usi e costumi 1920-1940
030 Maria Messina. Casa paterna
031 Nikolàj Gògol. Il Vij
032 Andrzej Kuśniewicz. Il Re delle due Sicilie
033 Francisco Vàsquez. La veridica istoria di Lope de Aguirre
034 Neera. L’indomani
035 Sofia Guglielmina margravia di Bareith. Il rosso e il rosa
036 Giuseppe Vannicola. Il veleno
037 Marco Ramperti. L’alfabeto delle stelle
038 Massimo Bontempelli. La scacchiera davanti allo specchio
039 Leonardo Sciascia. Kermesse
040 Gesualdo Bufalino. Museo d’ombre
041 Max Beerbohm. Storie fantastiche per uomini stanchi
042 Anonimo ateniese. La democrazia come violenza
043 Michele Amari. Racconto popolare del Vespro siciliano
044 Vernon Lee. Possessioni
045 Teresa d’Avila. Libro delle relazioni e delle grazie
046 Annie Messina (Gamîla Ghâli). Il mirto e la rosa
047 Narciso Feliciano Pelosini. Maestro Domenico
048 Sebastiano Addamo. Le abitudini e l’assenza
049 Crébillon fils. La notte e il momento
050 Alfredo Panzini. Grammatica italiana
051 Maria Messina. La casa nel vicolo
052 Lidia Storoni Mazzolani. Una moglie
053 Martín Luis Guzmán. ¡Que Viva Villa!
054 Joseph-Arthur de Gobineau. Mademoiselle Irnois
055 Henry James. Il patto col fantasma
056 Leonardo Sciascia. La sentenza memorabile
057 Cesare Greppi. I testimoni
058 Giovanni Verga. Le storie del castello di Trezza
059 Henryk Sienkiewicz. Quo vadis?
060 Benedetto Croce. Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro
061 Diodoro Siculo. La rivolta degli schiavi in Sicilia
062 George Meredith. La vicenda del generale Ople e di Lady
Camper
063 Bernardino de Sahagún. Storia indiana della conquista di Mes-
sico
064 Andrzej Kuśniewicz. Lezione di lingua morta
065 Maria Luisa Aguirre D’Amico. Paesi lontani
066 Giuseppe Antonio Borgese. Le belle
067 Luisa Adorno. L’ultima provincia
068 Charles e Mary Lamb. Cinque racconti da Shakespeare
069 Prosper Mérimée. Lokis
070 Charles-Louis de Montesquieu. Storia vera
071 Antonio Tabucchi. Donna di Porto Pim
072 Luciano Canfora. Storie di oligarchi
073 Giani Stuparich. Donne nella vita di Stefano Premuda
074 Wladislaw Terlecki. In fondo alla strada
075 Antonio Fogazzaro. Eden Anto
076 Anonimo. Storia del bellissimo Giuseppe e della sua sposa
Aseneth
077 Vanni e Gian Mario Beltrami. Una breve illusione
078 Giorgio Pecorini. Il milite noto
079 Giuseppe Bonaviri. L’incominciamento
080 Leonardo Sciascia. L’affaire Moro
081 Ivàn Turghèniev. Primo amore
082 Nikolàj Leskòv. L’artista del toupet
083 Aleksàndr Puskin. La solitaria casetta sull’isola di Vasilij
084 Michaìl Čulkòv. La cuoca avvenente
085 Anita Loos. I signori preferiscono le bionde
086 Anita Loos. Ma… i signori sposano le brune
087 Angelo Morino. La donna marina
088 Guglielmo Negri. Il risveglio
089 Héctor Bianciotti. L’amore non è amato
090 Joris-Karl Huysmans. Il pensionato signor Bougran
091 André Chénier. Gli altari della paura
092 Luciano Canfora. Il comunista senza partito
093 Antonio Tabucchi. Notturno indiano
094 Jules Verne. L’eterno Adamo
095 Manuel Vázquez Montalbán. Assassinio al Comitato Centrale
096 Julian Stryjkowski. Il sogno di Asril
097 Manuel Puig. Agonia di un decennio, New York ’78
098 Victor Zaslavsky. Il dottor Petrov parapsicologo
CL 17-0289-0

Prezzo Lire 8.000

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